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Title: Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi Author: Guerrazzi, Francesco Domenico Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi" *** [Illustrazione: F. D. Guerrazzi — Da un ritratto in Fotografia — Luglio 1851.] APOLOGIA DELLA VITA POLITICA DI F.-D. GUERRAZZI SCRITTA DA LUI MEDESIMO. FIRENZE. FELICE LE MONNIER. 1851. AVVERTENZA. Le agitazioni popolari trasmodando in Italia nel 1848, siccome avviene in tutti i movimenti politici, tenevano inquieti gli animi delle classi più agiate, tanto più insofferenti di tumulti quanto meno abituate alla vita politica degli Stati liberi. La Toscana, agitata anch'essa, sperò maggior quiete nel Ministero del 26 ottobre; e comunque il desiderio si spingesse oltre il possibile, tuttavia la parte più intelligente e spassionata riconobbe singolarmente in F.-D. Guerrazzi l'uomo che il ristabilimento dell'ordine voleva e si adoprava per conseguirlo. Penetrato dei suoi doveri di Ministro Costituzionale, egli pose rara solerzia nel conciliare lo elemento democratico con il Principato Rappresentativo, al quale ebbe l'ossequio e l'affetto che quei doveri e la sua coscienza gl'imponevano. Penetrato del bisogno di dare alla Italia la sua Nazionalità, secondò con ogni sforzo in questo fine santissimo i chiari voleri del Principe, e si adoprò ad un ingrandimento dei singoli Stati entro i limiti del possibile. Lasciati varii Stati, ed il nostro fra questi, a loro stessi nel 1849, in un momento nel quale sarebbe stato forse più che in altri tempi necessario ogni sforzo dei Poteri costituiti a risparmiare disastri, tutti gli uomini intelligenti e spassionati si congratularono che vi fosse al Governo cotesto Uomo, il quale, lottando vivamente con le irrompenti moltitudini, e gl'impeti furiosissimi degli estremi Partiti, impedisse i gravissimi danni che minacciavano. Ad esso, al suo non comune coraggio, alla non comune intelligenza sua nelle cose politiche, si attribuiva la salvezza del Paese. Ed invero, riavutosi dallo stupore del non aspettato abbandono del Principe, egli non risparmiò nè fatiche nè vigilie, nè schivò pericoli, per salvare il Paese dalla guerra civile e dall'anarchia, nelle quali cotesto avvenimento fu per gettarlo. Venne restaurato l'antico Governo, e la Commissione Municipale sembrò che per un momento riconoscesse i benefizii da lui resi al Paese e allo stesso Governo ch'essa restaurava: se non che, fatto di poco più stabile l'antico ordine politico, i benefizii andarono dimenticati, anzi furono compensati con un Carcere di Stato, e poi con una accusa di Perduellione! Alla voce della coscienza pubblica fu anteposta la querela di certo officiale di polizia, oscuro e peggio (ora processato per falsità, e dichiarato di perdutissima fama[1]), il quale divenne l'attivo agente nella compilazione di un Processo giunto ormai alla mostruosa mole di dieci grosse filze e varie migliaia di pagine. Così l'Uomo di chiara fama letteraria, e del quale Italia, non che Toscana, si onora; l'Uomo che con esporre vita e salute riuscì a salvare il suo Paese, era costretto a difendersi ed a lottare nella fangosa arena dei Processi Criminali; conflitto diseguale, sostenuto per una parte dall'Accusato chiuso in strettissimo carcere con la smarrita o confusa memoria dei molti fatti che in mezzo al trambusto popolare erano avvenuti nell'Amministrazione Governativa, costretto a rendere conto dei mezzi esaminati singolarmente, senza che gli venisse apprezzato il fine raggiunto; dall'altra, dal tristo Accusatore libero, e forte di mille braccia che facevano a gara per sovvenirlo. Venuti a fine, dopo ben 25 mesi, la immane mole del Processo ed i lavori dell'Accusa, fu il tempo del difendersi. Comunque lo intiero Processo dovesse compilarsi per gli ordini del Senato, era almeno a sperarsi che, se ciò non era stato osservato, almeno il giudizio dovesse rinviarsi a quella suprema Magistratura. Ma non fu così: fin qui i veri Giudici sono stati negati, e conviene rispondere ad atto di Autorità incompetente. Primo elemento della Difesa dovevano essere i Documenti degli Archivii Ministeriali, dai quali agevolmente si sarebbe conosciuto come il Prevenuto si fosse comportato nella sua amministrazione. Conveniva esaminarli e fare, siccome l'Accusa aveva fatto, la scelta degli utili allo assunto. Quei Documenti sono stati fino a qui negati: speriamo non lo saranno in avvenire, se pure le armi dovranno essere pari tra l'Accusa e la Difesa. Intanto l'Accusa non potendo dissimulare a sè stessa qual fosse la generale opinione in questo Processo, pubblicava il frutto delle sue peregrinazioni agli Archivii ed alle case dell'Imputato, in un grosso Volume a stampa. Fin qui non era avvenuto in Toscana che si rendessero di pubblica ragione Atti dei Processi Criminali prima della Sentenza; nè trovo che altrove cotesto sistema costumasse. Convenne quindi contrapporre alcun lavoro che stesse a distruggere le idee inesatte che il confuso Volume potesse far nascere. E questo parve al Prevenuto diritto e debito fare da sè stesso in rispetto della Patria, degli amici, e di sè: ond'egli dette mano al presente lavoro, aiutato dai Documenti medesimi dell'Accusa e da altri pochi raccolti. Comunque io vada persuaso che questa Memoria soverchi all'uopo di ribattere l'Accusa, tuttavia io credo per obbligo di ufficio dovere apprestare sollecitamente altri lavori sui deposti testimoniali, e preparare poi nuove prove (e tra queste i Documenti degli Archivii che ci verranno concessi) per il pubblico dibattimento, affinchè l'alta Magistratura, sola legittima a giudicare di questo Processo, possa con maggior sicurezza, se non riparare i danni di una carcerazione spinta ormai al ventinovesimo mese, rendere almeno allo Accusato quel compenso di lode, al quale la rettitudine delle sue intenzioni, i sacrifizii e le pene consumate pel pubblico bene, la evidenza dei fatti e delle prove che li accertano, gli danno inoppugnabile diritto. _Settembre 1851._ AVV. TOMMASO CORSI INTRODUZIONE. E chi oserà rispondere NO alla ribellione nei primi momenti di furore, fra i saturnali della non isperata onnipotenza? BYRON. _La Isola_, § V. Me accusano di tradimento: e tale apposero accusa anche a Focione; e condottolo a bere la cicuta, i suoi nemici non riputarono averne vittoria intera, finchè non fecero decretare, che il suo corpo fosse gittato fuori dei confini dell'Attica, e nessuno Ateniese si attentasse a somministrare fuoco pei suoi funerali. Per la quale cosa non vi fu alcuno dei suoi amici che ardisse di pur toccare il cadavere infelice: solo un certo Conopione, uomo plebeo, notte tempo, recatoselo sulle spalle, lo trasportò al disopra di Eleusina, e tolto il fuoco dal territorio di Megara, abbruciollo. Una donna megarese, assistendo ai funerali, formò un tumulo vuoto, e versovvi sopra i libamenti, e postesi le ossa in seno portossele a casa, e le seppellì accanto del focolare, dicendo: «_O lari amici, io depongo appo voi queste reliquie di un uomo dabbene. Voi restituitele poscia ai sepolcri dei di lui antenati, quando gli Ateniesi fatto abbiano senno_.» Per verità, non andò guari che le loro faccende medesime fecero conoscere agli Ateniesi quale sopraintendente, e custode della temperanza e della giustizia avessero perduto, e gl'innalzarono una statua di rame, e ne seppellirono le ossa a pubbliche spese.[2] In due cose soltanto io presumo paragonarmi a Focione: nello amore della temperanza e della giustizia, e nei patimenti di persecuzione acerbissima; anzi, se bene io considero, nei patimenti, parmi superarlo di assai, imperciocchè la morte sia termine di tutta angoscia, e rivendicazione di vera libertà; ma io sento da oltre due anni il sepolcro, e nonostante vivo. Vivo per vedere le miserie della patria dolcissima; vivo per udire il lamento dei travagliati, che mi percote fin qua; vivo per considerare la mia famiglia dispersa come foglie di un arbore maledetto, e i miei nepoti orfani per la seconda volta, senza consiglio e senza guida nel più arduo periodo della vita, lontani dalla patria e da me; vivo per sentirmi consumare viscere e cervello da una lima, che lenta e continua sperpera la mia esistenza in minutissime particole come limatura di ferro. — Orribile strazio d'intelligenza non nata a intisichire nel carcere! Io quando mi volto a dietro per considerare lo spazio di tempo percorso durante la mia prigionia, mi spavento meno della sua lunghezza, che della inerzia alla quale ebbe ad accostumarsi la mia anima per sopportarla. Nè questo è tutto: comunque sepolto, io ho udito convenire sopra la lapide, che mi hanno messo sul capo, gente di ogni maniera a scagliarmi anatemi di calunnie atroci e codarde. Quanto le fazioni raccolgono di più frenetico, la ignoranza di più insensato, la perfidia di più velenoso, il truce furore di parte ha fatto bollire nella empia caldaia delle streghe di Machbetto per consumarmi non pure la vita del corpo, ma eziandio la fama, ch'è la vita dell'anima. Oh! certo colui che primo impiegava il ferro a fabbricare le penne ebbe il tristo presagio che farebbero obliare un giorno gli stessi pugnali; ed io l'ho provato! Veramente nella rabbia della persecuzione _i bravi della penna_ avventando colpi vennero a percotersi di mutue ferite; ma chi ha rilevato i turpi assurdi, o le sanguinose contradizioni? Nessuno. Nuovo esempio del come gli uomini si mostrino troppo più operosi nel male che nel bene. Però, assai meglio dello iloto ubriaco a persuadere nel fanciullo spartano lo amore della temperanza, gli odierni saturnali delle fazioni varranno a confermare nei nostri figliuoli lo abborrimento della calunnia codarda. Se così avverrà, come spero, non mi dorrò, che il mio capo sia stato segno di scellerate imprecazioni, quasi vittima espiatoria consacrata agli Dei infernali. Se le furie politiche, dopo avermi strascinato nel tempio della Giustizia, si fermeranno sopra la soglia, io entrerò pieno di speranza, e toccherò l'altare, e l'altare mi proteggerà: se all'opposto, e Dio disperda lo augurio, invadendo esse occupassero il seggio dello Accusatore e dei Giudici, io sarei perduto, è vero, ma andrebbe meco perduto il sociale consorzio, imperciocchè quando la procella delle passioni sconvolge anche i Tribunali, un secondo diluvio allagherebbe la terra; — e per questa volta senz'arca di Noè. Vi furono giorni sopra la terra, nei quali il più forte ascoltò per non credere, e il debole parlò per non persuadere.... Ma in quei giorni la Giustizia nel vedersi percossa dai suoi sacerdoti si velò la faccia, e cadde ai piedi del simulacro della Vendetta! Leggo nei libri triste sentenze, che dicono, come sopra la porta dei processi politici, del pari che su quella dello Inferno, stia scritta la minaccia: _uscite di speranza, voi che entrate_. Gravi scrittori ammoniscono, i giudizii politici proporsi a scopo non già la investigazione del vero, ma la condanna del prevenuto. Non mancano persone, che visitandomi nel carcere si studiarono persuadermi essere ogni difesa vana, ormai il mio destino fissato; dovermi rassegnare ad ottenere giustizia dopo la morte. La storia di Giobbe mi ha accostumato a sopportare in pace siffatta ragione di confortatori. — Io non li credo: costoro oltraggiano la natura umana: gli uomini commossi dallo spettacolo di molte iniquità hanno talora espresso una sentenza generale, ma cotesto fu impeto di passione, non discorso della mente. La ira di Dio non può tanto essersi accesa contro di noi, da toglierci ogni anima onesta, ed amica di virtù. In qualche orecchio si fa sentire ancora il divino precetto: _diligite justitiam qui judicatis terram_. Che io poi creda così, lo provo con lo accingermi, malgrado i vani terrori, a dettare con animo tranquillo questa mia difesa. La Legge, o il costume forense, indulgendo alla umana debolezza, consentono al condannato da una sentenza di maladirla tre giorni. Questo privilegio dato dalla pietà al dolore, comecchè ingiusto, è misera cosa, ed io lo disprezzo. Intendo a scopo più nobile, ed uso del diritto di agitare la mia causa davanti al tribunale della pubblica opinione. Nessuno, per potente che sia, o si estimi tale, può opporre la declinatoria a questa suprema magistratura: nessuno può mandare satelliti a chiuderne le sale, però che essa tenga le sue sedute nella coscienza degli uomini; non abbia uscieri, nè cancellieri, nè soprastanti, ma commetta lo adempimento dei suoi decreti nelle mani della Provvidenza; e questa, lenta talora, inevitabile sempre, gli manda ad esecuzione. CONSIDERAZIONI GENERALI. I. Metodo adoperato dall'Accusa. Con maraviglia pari al dolore io vidi praticato dal Decreto della Camera di Consiglio del 10 giugno 1850 un metodo apertamente nemico agli acquisti della civiltà, agli insegnamenti della scienza, e ai dettati di pubblicisti gravissimi. Mi confortarono a meglio sperare in giudici più esperti, ed io sperai; ma il Decreto della Camera delle Accuse del 7 gennaio 1851, per _ammenda_ ai falli commessi, aggiunse dottrine ricavate dalle leggi imperiali, quando la tirannide, spenta la libertà, sospettò dei cenni, convertì in delitto i sospiri, e, credendo gittare eterne le fondamenta alla _mala signoria_, scavò la fossa alla virtù latina, e apparecchiò la strada al trionfo dei Barbari. Il Decreto cita autori del secolo di oro dei carnefici, che salutavano la tortura regina delle prove; allega voti di tempi per ispietata ira di parte maledetti nei quali (orribile a dirsi!) qui.... in Toscana furono visti cannibali usciti dallo Inferno lacerare umane carni, arrostirle, e divorarle!! Io per me ho fede che se i gentili Toscani hanno letto cotesto Decreto, devono essere corsi sbigottiti al lunario, per consultare se nel 1851 dalla nascita di Cristo noi fossimo, o in quale altro secolo ci trovassimo stornati. L'Atto di Accusa del 29 gennaio 1851 per _ammenda_ ha raccolto le briciole cadute al Decreto del 7 gennaio, quando mi spartiva il pane dell'amarezza, e me le ha riposte sopra la mensa. Insomma, io vedo a prova, che questo solco quanto più si produce più si fa dolente. E poichè le mie parole, trattandosi di causa propria, non si concilierebbero autorità, e come dettate da passione, non da ragione, andrebbero screditate, così a me giovi mettere il metodo tenuto in cotesti documenti a confronto delle dottrine di tale uomo, che la Europa stima, ed è rigido cultore del governo costituzionale stretto. I Decreti e l'Atto di Accusa tessono una storia di fatti generali (quanto veri essi sieno ed esatti, qui non importa discorrere), e composta così la cornice v'incastrano dentro uomini diversi, anzi contrarii, e perfino sconosciuti fra loro, e opere disparate, independenti l'una dall'altra, e cospiranti a fini profondamente disuguali. Poi scendono a fatti speciali, senza però abbandonare i generali, imperciocchè i primi si dichiarino _più culminanti_, lasciandone incerti da cui ti debba guardare, da cui no. Così la Difesa procede incerta, non sapendo da quale parte pararsi; e mentre adopera le sue forze in un punto, corre pericolo di trovarsi assalita al fianco e alle spalle. Arti di duellista paiono coteste, non di giudice. II. Giudizio del Guizot sul metodo adoperato dall'Accusa. «Questo sistema, scrive il Guizot,[3] fu adoperato nel 1678, e fino di allora venne _meritamente aborrito_, nella Inghilterra contro i cattolici dietro le denunzie di Tito Oates di cui parla a lungo lo storico Hume.» Hume poi discorrendo di cotesti tempi così racconta: «Proseguirono i processi ai pretesi colpevoli, e le Corti di Giustizia, luoghi che dovrebbero andare scevri da ingiustizia più che le stesse assemblee nazionali, si fecero conoscere elleno pure contaminate dalla rabbia dello spirito di parte, e da prevenzioni.»[4] «E sono accuse fabbricate sopra fatti generali quelle che comprendono ora lo stato di un paese, e il cumulo delle pubbliche disposizioni in certi tempi, e ora una serie determinata di casi che spaventarono il potere, o svelarono un pericolo urgente: qui si trattengono sul contegno e sui fini di un partito, altrove su la tendenza di tale o tale altra opinione, che conta maggiore o minore copia di amici e difensori. In Inghilterra sotto Carlo II erano fatti generali i partiti repubblicano e cattolico, la paura del popolo pel papismo del duca di York, gli sforzi della opposizione parlamentaria; in Francia sotto Enrico IV le diffidenze della Lega e del protestantismo, e lo agitarsi dei gesuiti.» Fatti generali sono da noi le cospirazioni manifeste o palesi del partito repubblicano per ridurre a forma repubblicana la massima parte della Europa, e tutta potendo; le mene bene altramente minacciose di sovvertire lo intero ordine sociale. «Non è giustizia (sempre il Guizot favella), ma persecuzione politica, quella che immagina una congiura indipendentemente da ciò che si referisce agli accusati, che prova con una moltitudine di fatti ai quali gl'imputati sono estranei del tutto, di cui non hanno cognizione, e in cui essi non si trovarono. Non è giustizia, ma politica persecuzione, la raccolta dei fatti fuori dell'accusa speciale intesa a costruirne uno edifizio capace di percuotere la immaginazione, e mostrare fra mezzo un dedalo di confusione e di oscurità il delitto sprovveduto di forme individuali e precise, e poi dire: _ecco, il fatto è certo, congiura vi fu; adesso predico, che questi uomini se ne resero colpevoli_. — Ecco come la tirannide (parla sempre il Guizot) adopera i fatti generali, quando non potendo trovare il delitto negli uomini va a cercarlo da ogni lato per metterveli dentro. — Questa pratica equivale _al gettare lunga rete, e a strascinarla per largo tratto di mare pescando tutti i mezzi per nuocere_. In questa guisa tutte le tristi passioni, tutte le vecchie diffidenze dei partiti, tutti i ciechi errori sono evocati, e diretti contro un punto solo. Ed è arte iniqua prendere uomini onorati, e di chiara fama, e metterli a canto di uomini perduti nella pubblica estimazione, quasi per fare riflettere sopra loro la luce sinistra che emana da questi ultimi. Pervertimento deplorabile, conciossiachè avvenga per lo appunto il contrario, che i buoni non iscemino di reputazione, e i cattivi al confronto dei buoni vengano ad acquistare una importanza, che non avrebbero mai posseduto, nè dovrebbero possedere.» Presago forse che i suoi precetti poco sarebbero attesi, e per avventura nemmeno letti, con più gravi parole insiste il pubblicista della Monarchia Costituzionale, «che fra tutte le pesti di cui la empia virtù contamina la giustizia quella dei _fatti generali_ è la più pericolosa: per lei considerazioni vaghe vengono sostituite ai motivi legali; per lei la condizione dei prevenuti è snaturata così, che si trovano immersi dentro una atmosfera oscura e dubbia, _indizio certo_ della invasione della politica sopra la giustizia, della presenza del dispotismo, e dello approssimarsi delle rivoluzioni. — Fra tutti i sentieri, per mezzo dei quali la giustizia entra nella via della _iniquità_, _i fatti generali_ sono il più largo e il più fatale, però che esso si chiuda irrevocabilmente dietro a coloro che l'hanno passato.» Pellegrino Rossi dettando il suo Trattato del Diritto Penale ammaestra, che l'Accusa incolpando di tradimento i Ministri può fondarsi sopra fatti _generali_, a differenza dei privati, pei quali forza è che adduca fatti _speciali_. Ma, considerato quanto sia dura la condizione del Ministro in simile caso, aggiunge ch'egli ne trova compensamento nelle maggiori garanzie offertegli dalle _forme dell'accusa e del giudizio, e dal tribunale eccezionale e politico dei Pari_. Pei privati, il giudizio è più legale che politico; pei Ministri, più politico che legale. Ora, mercè i miei Giudici, non si concede il mio Tribunale naturale ch'è il Senato, e si costruisce l'accusa di fatti generali. Ministro sono pel modo della incolpazione; per quello del giudizio, privato. La offesa è politica, la difesa deve procedere dentro le angustie delle prove forensi. Lo Accusatore per sè usurpa la Tribuna dei Parlamenti, me poi costringe a rispondere dallo sgabello dei comuni imputati: per sè egli reclama le licenze della fantasia, me condanna al rigore dell'abbaco. No, questa non è giustizia: accusa politica mi apponeste, datemi ancora il mio Tribunale politico, — il Senato. — III. Esposizione dei fatti generali composta dall'Accusa. I documenti dell'Accusa ben possono andare contenti Di questa digression, che a lor non tocca!... Onde non cadesse dubbio intorno al modo, ecco che il Decreto del 7 gennaio 1851 apertamente intitola _la sua rete lunga strascinata per largo spazio di mare_ ESPOSIZIONE DEL FATTO IN GENERE (p. 2). e poi passa agli _Addebiti speciali_ (p. 19). E, perchè il fatto risponda alle parole, così racconta: «La Toscana non andò del tutto esente dalle commozioni che negli anni 1820, 1821, 1832 agitarono alcune provincie italiane, ma dalle riforme introdotte negli Stati Romani dopo l'assunzione al pontificato di _Pio Nono_, molti Toscani presero argomento per desiderare che si convenisse in _diritto_ il _fatto_ delle libertà toscane. Il Principe, mosso da considerazioni generali e speciali, largiva al paese la rappresentanza nazionale; ma la rivoluzione francese del 24 febbraio 1848 suscitò smoderate voglie in coloro che reputavano impossibile conseguire la indipendenza nazionale senza accettare la _forma repubblicana_; le quali voglie sempre più si accesero dopo lo infortunio delle armi italiane, e allora si dette opera a congreghe politiche per superare ogni ostacolo che alla instituzione della _Repubblica_ si opponesse. I maggiori sforzi in Toscana si manifestarono nel 1848; _giunsero al sommo dopo la sconfitta di Novara_. Però fino _sul cadere_ del 1848 una grave e profonda agitazione fra noi turbò _la pace e la floridezza toscane_, e ne condusse sotto il dominio di _fazione cospirante contro la Monarchia_; e la plebe spinta dalla fazione irrompeva allora ogni momento nelle piazze, resisteva alle leggi, disprezzava le Autorità. I circoli si facevano _centri di violenze_ e disordini. La stampa, tranne poche eccezioni, travolgeva i più santi principii dell'onesto vivere civile. Il ministero Capponi, per _ricondurre in calma la sconvolta Livorno_, vi mandava governatore Montanelli, reputato in cotesti tempi uomo di fede candida, e conciliatore; se non che Montanelli, _obliando il mandato_, cresceva legna al fuoco col pubblicare la Costituente italiana. Il ministero Capponi ebbe a dimettersi, e incaricato il Montanelli di formare un nuovo ministero, mentre protestava devozione alla Monarchia Costituzionale, e prometteva tenere lontano dal governo il Guerrazzi (_creduto autore principale dei moti livornesi_), propose tosto a suo collega quel Guerrazzi di cui _poco addietro aveva consigliato lo arresto per fatti delittuosi, che asseriva a lui noti, e che aveva schernito e vilipeso nei suoi scritti_. La fazione esulta del nuovo ministero appellato _democratico_. Animata principalmente dal Programma ministeriale del 28 ottobre 1848, che dichiarava _preferire al silenzio per paura il trasmodamento per licenza_, l'anarchia si fa _sempre più temuta e irresistibile_, come ne somministrano testimonianza la violenta occupazione dei forti di Portoferraio; la barbara orgia di Livorno per la strage del conte Rossi, assistente il Governatore; le violenze elettorali; le offese contro alcuni giornalisti e deputati avversi, o tali creduti, al Ministero; la invasione del palazzo dello Arcivescovo di Firenze costretto a esulare; le furie di una stampa empia e sovvertitrice. — In tanto sconvolgimento, il Governo, _o complice, o impotente_, se non rimaneva affatto inoperoso, restringeva la sua azione a _parole e provvidenze ingannevoli_; quindi il presagio della prossima rovina della Monarchia e dello Statuto appena se ne fosse presentata la occasione. La Costituente proclamata dal Montanelli dava la pinta, perigliosa com'era pel suo indefinito concetto alle Monarchie italiane, sicchè la demagogia della Penisola l'accolse esultando e mescendo l'acclamazione della Costituente alla strage del Rossi, e alle violenze esercitate contro il Pontefice costretto ad abbandonare i suoi Stati. Al quale successo deplorabile non rimase estraneo il Ministero democratico, e particolarmente Montanelli, il quale favorì esecrabili articoli sul _Papato_, mentre domandava affettuoso la benedizione dal _Papa_, e spediva La Cecilia a Roma per tenere accordi con parte repubblicana, e sovvertire la pontificale monarchia. I faziosi, udita la notizia della romana Costituente, si commuovono e si agitano perchè _il Ministero ne ricavi argomento_ per chiedere, ed ottenere dal Principe l'approvazione al progetto di legge della Costituente. Invero, nel 21 gennaio 1849 il Circolo fiorentino sotto le Logge dell'Orgagna proclama la necessità della Costituente instituita mercè il suffragio universale; e tumultuante trae alla Cattedrale, e al Palazzo Arcivescovile, dove, dolenti i buoni, _inerte il Governo_, accaddero le violenze esaltate a cielo dai giornali del tempo; nel successivo giorno lo stesso Circolo presentava al Consiglio indirizzo col quale chiedevasi _minacciosamente_, che per via di suffragio universale i deputati _alla Costituente italiana_ sollecitamente si eleggessero; e ad arte si sparsero per la città rumori, che il Consiglio avrebbe patito violenza se la proposta del Circolo non fosse stata senza porre tempo di mezzo discussa ed accolta. Così disposte le cose, alcuni ministri _si condussero_ presso il Principe, e _adducendo (arte del tempo) il pericolo d'imminenti subbugli_, e dopo molte _ore di combattimento_, ottennero l'assenso sovrano per la presentazione della legge del 22 gennaio 1849; nè però lo assenso fu dato assoluto, _sibbene con riserva_ circa allo esercizio del _veto_, come si ricava dalla lettera del Principe scritta in Siena il 7 febbraio 1849, dove dice, che egli manifestò il dubbio del pericolo della censura, la quale sarebbe dipesa principalmente dal mandato da conferirsi ai deputati della Costituente. La legge fu presentata per urgenza: la Commissione proponeva l'ammenda — che le attribuzioni dei deputati alla Costituente italiana, e il luogo, e il tempo della convocazione dovessero determinarsi per via di una legge successiva, — _ammenda che se fosse stata accettata salvava i dubbii dal Principe manifestati ai Ministri_, ma conflittata gagliardamente dal Montanelli, sostenuto _dal tumulto delle tribune, che quasi soffocarono la discussione_, riuscì ad ottenere il mandato illimitato sopra le cose e le persone. _La Camera dei Senatori approva anch'essa la legge_. Il Granduca partiva per Siena, dove la sua famiglia reale godeva _ospizio affettuoso e fedele_, e quivi egli avrebbe potuto esercitare la regia prerogativa, se i faziosi _non ne avessero turbata la quiete_, mal sofferendo le accoglienze e i plausi fatti al Principe, non disgiunti da gridi contro la Costituente. _In quei giorni la demagogia macchinava la distruzione del Principato_, come si ricava da certa lettera del Mordini, la quale dichiara: avrebbe provocata la dimissione del Ministero toscano tra il _primo_ e il _cinque febbraio_, proclamato la dittatura nelle persone di Montanelli, Mazzini, e Guerrazzi, e inviatili a Roma per _domandare la immediata unificazione_ di fatto fra gli Stati Romani, Veneziani, e Toscani; e quindi i Faziosi e i Partigiani della rivoluzione per mezzo dei loro giornali, _non escluso il Monitore_, presero a prorompere in obbrobrii e minaccie contro la fedele città: il Circolo di Grosseto denunzia le dimostranze di affetto dei Senesi al Granduca come mene aristocratiche, e chiede l'abolizione dell'Articolo 70 dello Statuto: quello di Arezzo dice deplorabili i casi di Siena, impreca la vendetta del cielo contro il partito degli Aristocratici, _propone sostenere armata mano i liberali di cotesta città_: l'altro di Firenze per le notizie di Siena _si dichiara in permanenza_, nomina Commissarii per opporsi alle mene dei Retrogradi, scrive al Circolo di Siena chiedente soccorso; stesse di buono animo, recarsi costà Montanelli, Marmocchi, e Niccolini, i quali avrebbero posto il capo a partito ai malvagi e agli stolti; e Montanelli infatti partiva in compagnia degli altri mentovati, recando seco lire 1400, e Siena per la infausta presenza loro, improvvisamente mutata, tumultuava, sicchè il Principe temendo gravi calamità dall'approvazione della Legge, e diffidando in tanta esaltazione del libero esercizio del veto nella Capitale e in Siena, si allontana da questo luogo cercando altrove un asilo contro alle violenze, protestando però di non volere abbandonare il suo diletto paese, come apparisce dalle sue lettere ai ministri. Niccolini torna frettoloso a Firenze a recare notizia del caso al Guerrazzi, e seco lui si rimane _gran parte della notte_; poco dopo sopraggiunge Montanelli _lieto in vista_, e, convocati i Ministri, deliberano adunare per urgenza il Consiglio generale, e rassegnare lo ufficio; nè i soli Ministri convennero nella notte del 7 all'8 febbraio in Palazzo Vecchio, ma, invitati, ancora, Mordini, Dragomanni, e i fratelli Mori, che usciti di là col Niccolini si conducono al convento di Santa Trinita, e adunano il Circolo, il quale _in preferenza delle Camere riceveva primo le partecipazioni ministeriali_; agli adunati i Faziosi palesano la partenza del Principe, e lo vituperano; invitano il popolo, promettendo pagamento, a intervenire pel giorno successivo a pubblica adunanza sotto le Logge dell'Orgagna. A tutte queste operazioni non dovè rimanere estraneo il Ministero, o _almeno alcuni di coloro i quali lo componevano_, sì perchè lo allontanamento del Principe da Siena, qualificato abbandono, presentava opportunità a operare la rivoluzione per cupide o ambiziose voglie meditata da tempo remoto; sì perchè Niccolini disse a Montazio, intenzione di Montanelli e Mazzoni essere che il Circolo prendesse la iniziativa per la formazione del Governo provvisorio; sì perchè il Mazzoni dichiarò, che la riunione dei Circoli venne provocata dal Governo; sì perchè gli agitatori del Circolo furono dal Governo confessati suoi commessi, e pagati, secondo che si ricava dal biglietto del Mazzoni dell'8 febbraio 1849. — Gli Agitatori per mandare a compimento i disegni macchinati nella notte, traggono tumultuanti sotto le Logge dell'Orgagna; Mordini apre la seduta con apparato di bandiere e di cartelli, in mezzo a curiosi e tristi pagati poi coi danari dello Stato; quivi notificano la partenza del Principe, la sua condotta calunniano, il suo nome vituperano, _la sua decadenza decretano_, il Governo provvisorio proclamano, una mano di plebe è spinta contro l'Assemblea per imporle la sua volontà. In questa i Deputati si adunavano per udire le comunicazioni del Ministero. Invano il Presidente Vanni, avvertito poche ore innanzi, prevedendo saviamente i pericoli della seduta, propose la riunione del Comitato segreto; Guerrazzi si oppone, _dicendo volere seduta pubblica; non temesse il Presidente, perchè le disposizioni erano prese per tutelare la libertà della discussione_; invano alcuni Deputati la proposta del Vanni rinnuovano; invano il Presidente torna ad invitare il Ministero a condursi nella sala delle Conferenze per tenere _tranquillamente_ una discussione preparatoria; Guerrazzi e Montanelli vi si ricusano pertinaci. Si apre alfine la seduta pubblica. Montanelli salito in tribuna annunzia la partenza del Principe da Siena, e legge le granducali lettere. Non era terminata la lettura, quando il _Popolo_ da un lato irrompe _minaccioso e fremente_ nelle tribune, dall'altro 13 o 20 forsennati invadono l'emiciclo, preceduti da un cartello, dove a grandi caratteri stava scritto: _Governo provvisorio — Guerrazzi — Mazzoni — Montanelli_. Niccolini antesignano degl'invasori presa la parola bandisce: _decaduto_ il Principe, le Camere _sciolte_, il Governo provvisorio deliberato dal popolo padrone; _l'Assemblea vi aggiunga per formalità il suo voto_: altramente guai! — Il Presidente alla strana intimazione risponde: vietata la parola ai non Deputati; se il popolo ha petizioni da presentare, le depositi, la Camera si ritirerebbe, e le prenderebbe in considerazione; al che fieramente Niccolini soggiunge: non essere quella petizione, ma comando del popolo al quale la Camera deve obbedire. Plaudono i tristi con minaccie e con urli; il Presidente seguito da alcuni Deputati si ritira nella sala delle Conferenze; il tumulto continua; Niccolini salito in tribuna legge il decreto del Circolo intorno alla decadenza del Principe. Guerrazzi invitato per la terza volta a recarsi nella sala delle Conferenze risponde: «_Io non mi muovo di qui perchè non ho paura del Popolo_.» Montanelli pregato dal Tabarrini a sedare il tumulto replica: «non è più in mia mano farlo.» Si sentono minaccie di morte ai Deputati che si assentassero. Vanni ritorna nella pubblica sala cedendo al timore, incussogli dal Montanelli, di guerra civile e di strage. — Riapertasi la seduta, Guerrazzi legge il Processo verbale dettato nella notte dai Ministri, concludendo deporre il potere _per lasciare il paese a sè stesso_. Incomincia un simulacro di discussione alla presenza degl'Invasori e dei Tumultuanti, dopo la quale, _sotto la coazione evidente della forza maggiore_, la Camera delibera un Governo provvisorio, senza determinarne lo scopo nè le attribuzioni, nominando a comporlo le persone indicate dagli agitatori che lo avevano imposto, e finalmente si scioglie al grido del Montanelli: «Se Leopoldo di Austria ci ha abbandonato, Dio non ci abbandonerà!» I Faziosi, conseguito lo intento, _conducono_ gli eletti sotto le Logge dell'Orgagna, dove, per attestare fiducia al popolo, e confermarlo nella presa deliberazione, arringando dicono: — fuggito il Principe, — falso pretesto lo scrupolo di coscienza allegato, — motivo vero il desiderio di dare luogo all'anarchia e alla guerra civile.... — rammentasse il Popolo i suoi diritti.... Dio avere scritto sotto i merli del ballatoio di Palazzo Vecchio la parola _Libertas_, perchè il Popolo dopo tanti secoli vi rientrasse padrone. Ciò fatto, i Triumviri salgono in palazzo, il Circolo _si ritira_ a Santa Trinita imprecando a Leopoldo secondo, e _acclamando la repubblica_. Il Governo, per mostrarsi grato ai suoi partigiani, invita per mezzo del Guerrazzi il Circolo a tenere la sua adunanza nel salone del Palazzo Vecchio nella sera del 9 febbraio, come di fatto avvenne, e a spese dello Erario vi fu festeggiata la partenza del Principe, vilipeso il nome, applaudito il Governo provvisorio, preparata la instituzione della Repubblica; nè qui si ristette, chè, ricompensando coloro che avevano violentato il Consiglio generale, promosse Mordini a ministro degli Esteri, Ciofi gestatore del cartello nell'emiciclo mandato a Siena, Dragomanni cancelliere della legazione toscana a Costantinopoli; Niccolini ricompensato con danari (da Guerrazzi ebbe _dieci scudi_!). Da questi fatti emergono fino di ora bastanti argomenti a convincere, che il Governo dell'8 febbraio ed i suoi principali aderenti avevano artificiosamente _preparata_, o per _lo meno accettata_ coi suoi criminosi caratteri la rivoluzione, considerando abolito lo Statuto da essi giurato, e reputandosi commessi non già a mantenere il potere conferito alla persona del Principe secondo il _diritto universale in casi analoghi_, ma sì a consolidare le basi della Rivoluzione.» — Per ora basti fin qui, chè il rimanente sarà tema doloroso della speciale Difesa. IV. Confronto del metodo praticato dall'Accusa con le dottrine del Guizot. Questo metodo presenta i caratteri indicati dal Guizot? Furono accumulati fatti a me estranei? Fui immerso dentro una atmosfera vaga e indefinita dove non si trova la strada per uscirne? Si espose la storia, o piuttosto la novella dello stato del paese, e delle pubbliche disposizioni, per appuntarmela al petto? Fuori dei fatti dell'accusa speciale non fu egli costruito uno edifizio per rovesciarmelo sul capo? Ebrei con Sammaritani mescolaronsi o no? La Chimera favolosa non si doveva vedere ridotta a verità nei Documenti della Accusa? La lunga rete non si strascinava per tratto largo di mare onde pescare di tutto un po' ai miei danni; fatti estranei, induzioni, rumori plebei, calunnie, rabbia di partiti, sofismi, per invilupparmici dentro? Non si è prima tentato di stabilire una cospirazione diretta a distruggere la Monarchia Costituzionale, e poi si è detto: _ecco il colpevole_? È stato fatto anche più; dopo avere con faticosa solerzia raccolto un cumulo di pietre destinate a lapidarmi, ad un tratto me lo hanno mostrato, e incominciando a gittarmele contro la persona soggiunsero: difendetevi! — Al punto stesso però mi negarono gli atti della mia Amministrazione[5] capaci a chiarire le condizioni toscane in cotesti tempi quali erano, e gli sforzi supremi da me adoperati per mantenere i popoli alla devozione della Monarchia Costituzionale, che l'Accusa pretende da me insidiata mai sempre, e la ragione, anzi pure la necessità, delle opere incriminate. — Difendetevi! — Ma in mezzo alla bufera rivoluzionaria, fra tremende perplessità, e incessanti terrori, che da un punto all'altro subbissasse la società, per ispossatezza, e per vigilia febbricitante, avevo io modo di notare i singoli casi? Quando si apre una via all'acqua nel corpo della nave, bada egli il pilota quale delle sartie le schianti la tempesta? — Come rammentarsi di tutti i successi, che varii, moltiplici, infiniti, si tenevano dietro con ispaventevole rapidità? Chi conosce a nome le migliaia delle persone che mi passavano davanti, in ispecie se si consideri che da tempo breve io avevo stanza a Firenze? E conoscendole ancora, come ricordarmene dopo spazio sì lungo di tempo? Perchè non concedermi le conferenze co' segretarii miei, e con le persone che mi circondavano, onde potere instituire ricerche a difesa, come l'Accusa le instituiva laboriosamente e per anni ben lunghi ad offesa? — Difendetevi! — Ma se mi legate le mani, se mi chiudete la bocca, se da due anni e più mi tenete iniquissimamente in carcere segreta, come ho a fare per difendermi io? — Difendetevi! — Ma se le testimonianze avverse al concetto, che vi tramandate dall'uno all'altro _stereotipato_, non curate; se, giudicando della mia amministrazione, gli archivj della mia amministrazione a voi e ad altrui chiudete; se invece di dissetarvi a cotesta fonte viva, correte dietro a rigagnoli di acqua fangosa; se i documenti e i riscontri non leggete; se le deduzioni rigorose di logica aborrite, a che e come mi difenderei io davanti a voi? Invece di distinguere confondete, vero a falso mescolate, la progressione dei tempi invertite; gli stessi errori, le medesime enormezze, anzi pure le stesse parole da un Decreto all'altro (funesto augurio di non possibile difesa) trasportate; e con quale cuore poi voi mi dite: — Difendetevi? — Invocherò il diritto, che m'insegna il Guizot nella opera citata, ma nessuno mi ascolterà. Questo diritto consiste «nel pretendere, che la mia colpa sia cercata là dove io mi trovo, e fabbricata con le mie proprie azioni; si esaminino i fatti che a me si referiscono, e nei quali sostengo una parte.» Il Pubblico Ministero con l'Atto di Accusa del 29 gennaio 1851, come di già notava, seguitò lo esempio dei Decreti che lo hanno preceduto, anzi intristiva quello che già appariva tristissimo, e sarà dimostrato. Anche al Ministero Pubblico, anzi a lui principalmente, rivolgendo il Guizot la sua grave parola, scriveva nella opera citata: «ma che il Ministero Pubblico a cagione di un uomo o di un fatto stabilisca la presenza di una fazione, ve lo inviluppi dentro, declami contro i _tristi_, e i desiderii, e i disegni loro; che in appoggio di accusa speciale svolga tutte le considerazioni generali, che possono addursi in favore di una misura del Governo....... questo è sovvertimento di giustizia, è introdurre le procelle della tribuna nel Santuario della Legge.» L'Atto di Accusa del 27 gennaio 1851 non ha fatto altro che questo. — Oh! Il Ministero Pubblico pensando unicamente sostenere l'interesse dell'Accusa, s'inganna intorno alla nobiltà del suo ufficio: non sono, no, i soli interessi dell'Accusa quelli che vengono confidati nelle sue mani, ma eziandio quelli più santi della innocenza perseguitata, della morale pubblica, della intera civiltà. — Chi cerca lo errore confonde, chi indaga il vero distingue. Ora a me pare che, volendo instituire diritta indagine intorno alle ragioni della mia vita politica, debbansi nella seguente maniera determinare le ricerche: 1º Origine, progresso, e motivi della forza rivoluzionaria fuori di Toscana, e in casa. 2º Lo Incolpato, prima e durante il suo Ministero, fu aiutatore, complice, o docile arnese di questa forza rivoluzionaria? 3º Come agisse questa forza, e a quale intento. Condizione dello Imputato di contro alla forza rivoluzionaria. 4º Come vi si opponesse lo Imputato, e in che cosa riuscisse; in che no. 5º Come lo Imputato provvedesse alla società minacciata; — primario scopo del mandato ricevuto dalle Camere, dal Popolo, dalla sua Coscienza, da Dio. 6º Come lo Imputato intendesse alla restaurazione della forma politica; — secondario scopo del mandato medesimo. 7º Se sia vero, che lo Imputato si opponesse alla Restaurazione. Io entro nella difesa a mani ignude, come lo schiavo romano gittato nel circo alle belve: non ho esaminato il processo; ignoro il deposto dei testimoni; non ho conferito con persone che portino alla mia travagliata memoria il soccorso delle loro reminiscenze; non parlerò di Diritto, e nonostante confido disarmare l'Accusa. Esporrò una serie di fatti e di raziocinii, non perchè i primi sieno tutti, e molto più stringenti non possano argomentarsi i secondi; ma perchè mi è parso, che in causa propria io dovessi, parlando, somministrare alcuna guida alla Difesa, e tema al Pubblico, onde se dico il vero, e la mia causa gli sembri giusta, egli mi approvi, e mi ami; se invece trova la mia _lingua dolosa_, e la mia causa ingiusta, allora si chiuda le orecchie e il cuore, e mi scagli la pietra. V. Origine, progresso, e motivi della forza rivoluzionaria fuori e in casa. La Storia male si accomoda sempre con le Accuse; e forse, anche ad uomini che accusatori per indole e per instituto non sieno, riesce, per non dire impossibile, male agevole assai dettare storie contemporanee, chè la passione guida la mano a chi tiene la penna, e versa nel calamaio i suoi colori, e troppo spesso la rabbia: — comunque sia favellerò, per quanto possa, imparziale. — Varii sono i sistemi immaginati intorno alle origini della Società; ma o tu vogli credere (ed è questa la più dannata ipotesi) che un violento avendo legato per forza o per inganno i suoi simili abbia detto loro: io non vi sciorrò se prima non promettete servirmi; o si reputi più dirittamente, che gli uomini convenendo in sociale consorzio abbiano pattuito cedere tanta parte di naturale libertà quanta era necessaria al vivere civile: fatto sta, che torna nell'uomo irrevocabile il desiderio di rivendicare la sua alienata libertà, o perchè la Società gliel'abbia sottratta tutta, o perchè, come sembra più consentaneo al vero, gliene abbia tolta troppa. Carissima è poi la libertà nella estimazione di coloro che la dispensano, e di quelli che la ricevono, conciossiachè i primi sogliono concederla o per cuore magnanimo, o per molta paura, e i secondi l'accolgono con allegrezza, che talora è delirio. Invano la libertà viene duramente respinta, perseguitata, e sepolta; essa vive anche nei sepolcri, e, quando vengono i tempi, rompe la lapide, e torna a chiedere la sua giustizia. Lord Brougham l'ha paragonata alla Sibilla di Tarquinio, la quale quante volte era ributtata, altrettante tornava offrendo numero di libri più scarso, prezzo maggiore. La libertà gira perpetuamente pel mondo: poserà ella mai? Questo non so: solo io conosco, che dove ella non trovi la compagnia della religione, dei costumi onesti, del temperato vivere, e della concordia fraterna, passa senza fermarsi, o breve soggiorna. La libertà poi non arriva come ladro notturno, ma invia davanti a sè nunzii precursori a prepararle la stanza per potersi presentare pacata col saluto su i labbri: _la pace sia con voi_; ma la gente che l'odia, invece di accogliere i nunzii festosamente, mostra loro il viso dell'arme, li perseguita come _liberali_, — più tardi come _demagoghi_, — più tardi ancora come _rossi_, e gli uccide, o gl'imprigiona. Intanto la libertà sopraggiunge, e non trovando albergo apparecchiato ad ospitarla, si ferma dove si trova, e prende più che non bisogna, donde poi nascono disordini, e perturbamenti grandissimi attribuiti alla sua presenza, mentre da un lato hassene ad incolpare la incauta trascuraggine dei suoi avversarii, e dall'altro le giunterie dei _trecconi_ e degli _zingani_, che in difetto dei veri e buoni rappresentanti della libertà, cacciati in prigione, ne usurpano il titolo di gestori di negozii. Giuseppe II e Leopoldo I, imperatori (ai tempi che corrono lasciati mordere poco meno che per eretici), furono prudenti reggitori dei popoli, e gli avrebbero condotti, a prova di arte, a lido amico di libertà duratura, se la Francia non era. Sia detto senza ira come senza disprezzo, la Libertà di questa nobilissima nazione, che si vanta _battistrada_ dei Popoli, troppo spesso porta in mano una torcia che incendia, invece di fiaccola che illumini il cammino; precipitando negli orrori del 93, spaventò Principi, sbigottì Popoli; sè stessa spossò nei delirii di sangue, e rifinita cadde fra le braccia di Napoleone che la uccise con uno amplesso da soldato. Napoleone barattò alla Francia la sua libertà in tanta moneta falsa di gloria bugiarda; però, che egli imprendesse la perpetua guerra in benefizio della umanità, poco è da credersi; la monarchia universale di Carlo Magno, di Carlo V, e di Filippo II, nella vasta mente mulinava, o piuttosto il sospetto che i Francesi quietando, la libertà smarrita cominciassero a desiderare. Intanto i Popoli, distinguendo a prova i vizii degli uomini dalla bontà della dottrina, tornarono ad amare i benefizii della onesta libertà, e ad infastidire il superbo giogo del soldato imperiale. I Principi vennero fomentando con sommo studio siffatti umori dei Popoli, e gli adoperarono come leva potentissima a sovvertire la buonapartiana onnipotenza; nè la tirannide di Napoleone, nè la libertà dei Popoli essi amavano; però la prima allora maggiormente temevano. Sortito il fine desiderato, le promesse fatte ricusarono mantenere. Di qui, e unicamente di qui, la lotta talora violenta, più spesso di parola, eterna di desiderio, fra governanti e governati. I Governi si logorarono nella contesa, e l'aborrita pianta stancava le braccia a tagliare piuttosto che ella si stancasse a mettere fronde; e sradicarsi non si poteva, nè si può. La passione, compagna infallibile di principii perseguitati, sorgeva a fare più veemente il cordoglio. Da per tutto alla fine straripò torrente, che mena in volta sassi e fango; rovina dei luoghi coltivali. Nè il ciclo infelice di questo avvicendarsi di successi sembra completo fin qui, mercè i consigli di una gente improvvida, che non comprende, come la fede mancata assai più nuoccia alla causa delle Monarchie, che le grida insensate pel socialismo. «Quando la buona fede fosse bandita da tutta la terra, dovrebbe ricoverarsi nel cuore dei Re,» il senno antico ammaestrò; la quale sentenza io non so bene se più corrisponda co' precetti della morale, o con quelli della politica (seppure questa distinzione può farsi), comecchè sappia, che con entrambi necessariamente la lealtà si mantenga. VI. Agitazione in Toscana. Ma inopportuno ragionamento sarebbe qui discorrere le vicende di Europa; mi ristringo in più modesto confine; parlo di Toscana. La lunga amministrazione precedente al Ministero Ridolfi aveva, da una parte, aumentato fra noi universale disgusto: delle cause non tratto, nè mi gioverebbe trattarle: accenno un fatto, che male può revocarsi in dubbio: dall'altra, si disfacevano nel disprezzo e nell'odio gli agenti dell'autorità, utili in Istato che goda la pubblica opinione, necessarii negli Stati che dalla pubblica opinione si scompagnano, perchè, se essi difettano di credito e di forza, chi gli sosterrà? Certo la forza poco dura; ma finchè dura, costringe. Così il Popolo, un giorno commosso dal medesimo impulso (e a torto si affaticano qui a rintracciare instigazioni di sètte), prese a imprigionare e a manomettere tutti gli ufficiali superiori e subalterni della Polizia. Io non assumo di certo la difesa della vecchia Polizia: troppo bene conosco che i Governi la nutrivano e l'accarezzavano allora, come si sopportano i gatti in casa, per prendere i topi: oggi poi, mi dicono, che non è più così; _amen_! — ma nel giorno che il Popolo incomincia a fare da sè, mi sembra che pel Governo sia finita, là dove egli non sappia adoperare i mezzi acconci pel restauro della smarrita autorità. Nè si obietti, che in Inghilterra costrinsero Giovanni Senza-terra a segnare la magna carta, e nonostante la Monarchia si resse; conciossiachè non il Popolo, ma i baroni gli usarono violenza, pei quali, quanto importava circoscrivere l'autorità regia per estendere il proprio dominio, altrettanto poi premeva conservarla in piede, come quella che era fondamento dell'ordine feudale. E di vero, indi a poco, qui fra noi, ebbero a cansarsi tutte o la massima parte delle Autorità governative partecipi della medesima animavversione. Allora corse un plauso generale, ed io udii battere le palme con gli altri a Magistrati gravissimi, che mi avevano garbo del folle che menava trionfo nel contemplare lo incendio di casa sua. Il Governo non osò difendere (e nemmeno lo avrebbe potuto) la Polizia, e la lasciò, come la mignatta, morire dentro al sangue ch'ella aveva succhiato. Così rimase in un subito disarmato di forza per farsi rispettare, e soli avanzarono i partiti di sapienza e di conciliante composizione, i quali si reputarono allora, e tuttavia dovrebbero reputarsi, meglio alla toscana civiltà convenevoli. Però che la mente che considera quanto sia arduo revocare gli uomini dalla naturale ferocia alla mansuetudine, e quanto, per lo contrario, facile farli trascorrere ai bestiali istinti, trema ogni volta che vede gittare a piene mani la semenza dell'odio nei cuori che Cristo destinava ad amarsi. Dalla parte del Vaticano soffiava un vento, che non pure in Toscana, ma in Italia, in Europa, anzi, per tutto il mondo, alzava le menti a incredibile aspettativa. Allora _uomini_, che io voglio credere inspirati da puro amore di patria, allo scopo di condurre Toscana a migliore governo, e alle riforme troppo ritardate, _impresero a far circolare_ per le vene del Popolo stampe clandestine eccitatrici a desiderarle, ed a chiederle. La Legge sopra la stampa si promulgava: egli è evidente, che il Popolo minuto, il quale poco legge o punto, non poteva poi fare le stimate per cosiffatta Legge: nonostante _invitato_ ad applaudire, si rese _allo invito_, ed applause. Coloro, che primi lo invitarono, per certo a fine di bene, non avvertirono come sia più agevole sprigionare i venti dall'otre di Ulisse, che ricacciarveli dentro, e come, _appellato_ il Popolo una volta in piazza ad _approvare_, bisognava sopportarlo quando _spontaneo avrebbe disapprovato più tardi_. Fu in quel tempo, che considerando io come il Popolo ricevuto cotesto impulso non si sarebbe rimasto soddisfatto alla Legge della stampa, ma avrebbe richiesto cose maggiori mano a mano che gliene fosse venuto il desiderio; nè essere senza grandissimo pericolo per l'Autorità esporsi a lasciarsi svellere ora questa concessione, ora quell'altra, imperciocchè, così operando, il potere non acquista il merito del pronto concedere, e il Popolo si educa a crescere più intemperante nelle domande; fu, dico, in quel tempo ed in questo concetto, che dettai il libro _Del Principe e del Popolo_, il quale prima di stampare sottoposi allo esame di Magistrato per altezza di mente distinto, e fu tenuto allora non indegno dei casi consigliere discreto di quelli ai quali m'indirizzavo, presago poi delle sopravvenute vicende. Era mio conforto al Governo ritirarsi indietro dallo immediato contatto del Popolo minuto, concedendo subito quanto reputava prudente, riacquistare credito, e temprato per nuova opinione, prendere tempo a ricostruire gli arnesi necessarii di Governo. Questo non volle fare il Ministero; lasciò che gli eventi lo strascinassero legato dietro il carro. Di qui gratitudine poca, esitanza a concedere crescente, su le labbra concordia, in cuore sospetto. Gli _agitatori_, i quali dapprima non furono i _demagoghi_, chè questi vennero in fondo, ma sì uomini chiari per fama, e per condizione cospicui, ottennero le riforme da loro reputate sufficienti. Giusta il costume antico di quelli che commuovono le moltitudini, pretesero allora, ch'esse posassero; contenti loro, contenti tutti. Il Popolo minuto, poco soddisfatto della Legge sopra la stampa perchè non legge, nè della Guardia Civica perchè n'era escluso, _continuò ad agitarsi per conto proprio_. Giuseppe Mazzoni deputato, con molta verità accennava a questo con le parole profferite nella Seduta del Consiglio Generale toscano del 16 ottobre 1848: «Però le agitazioni anteriori al settembre dell'anno passato, le quali non _si disapprovavano nemmeno da certi alti personaggi_, furono generalmente riguardate come politiche necessità; e s'esse non erano, l'antica Babele della Polizia non sarebbe espugnata, e le libertà dello Statuto, che tutti stimiamo carissime, sarebbero tuttora un sogno.»[6] Io però non dubito punto affermare, che i Toscani di natura contentabile, acquistate le libertà costituzionali, sarebbonsi tenuti soddisfatti, se anche sopra di loro non fosse passato il vento che sconvolse l'Europa intera dal Mediterraneo al Baltico, dall'Atlantico al Mar Nero, e minacciò portar via, come la polvere di una strada maestra, i troni di Vienna, di Berlino, di Roma, di gran parte della Germania, e d'Italia, nella guisa stessa che disperse quello di Francia; ed in ispecie poi il prossimo incendio di Sicilia, di Milano, e di Venezia, la guerra della Indipendenza prima, poi i disastri della guerra. Per la rivoluzione di Francia si diffuse la idea della Repubblica, e parecchi fra noi presero a coltivarla, non perchè ve ne fosse bisogno, ma per fare qualche cosa; e poi corre sciaguratamente nelle contrade nostre antico il vezzo di ricavare dalla Francia pensieri e voglie, e begli e fatti i vestiti. Le moltitudini rimasero un cotal poco spruzzate di _comunismo_ e di _socialismo_, di cui però non conobbero le dottrine, e giova che le ignorino. Imprudenti, a mio parere, suonarono le parole del Lamartine nel suo Manifesto alla Europa, affermando essere la Repubblica il punto estremo dove giunge la civiltà di un Popolo per mezzo di reggimenti costituzionali, imperciocchè somministrassero a molti motivo di non posare, finchè non avessero toccato il vertice, e nei Principi mettessero sospetto di confidarsi intieri sopra una via sdrucciolevole; nè lo avere raccomandato, com'egli fece, ai Popoli i quali non fossero peranche giunti alla maturità dei Francesi, rimanessero indietro ad ammaestrarsi, assicurava punto, avvegnadio facesse comprendere ai Principi, che potevano sperare tregua, pace non mai. E come imprudenti, se male non mi appongo, furono coteste parole non vere, però che nella Inghilterra le libertà costituzionali durino dal 19 giugno 1214 in poi, nè mostrino per ora di volere cessare, e la Repubblica v'ebbe vita brevissima dal 1649 al 1660; per la quale cosa evidentemente apparisce, come nella formula costituzionale i destini dei popoli possano quietarsi, almeno per tempo lunghissimo.[7] Nè danno minore, io penso, ci ridondò dal proclamare che fece il Lamartine, non avrebbe sofferto in pace la Francia, che alcuna Potenza si fosse mossa contro i Popoli rivendicantisi in libertà; imperciocchè questa sicurezza rese baldanzose a insorgere nazioni, le quali forse diversamente ci avrebbero pensato due volte. So bene, che non si ha sperare che un Popolo metta in avventura la propria libertà per sovvenire all'altrui; ma mi sembra, ed è disonesto, spingere i creduli nel pericolo con promesse, che non si vogliono mantenere. Quante volte accadde rivoluzione in Francia, tante i Francesi eccitarono a sollevarsi Popoli confinanti per metterli come sentinelle perdute fra loro e le Potenze settentrionali di Europa; passata poi la burrasca, con ingenerosa politica dichiararono non potere sopportare, che i Popoli insorti si facciano gagliardi, onde i negozii politici non si complichino, i commerci loro non iscemino, l'autorità non diminuisca, ed abbiano a dividere con molti quella potenza, che gli Stati, quantunque liberissimi, attendono possedere in pochi. Questo vedemmo praticare dalla Monarchia Costituzionale di Francia del 1830, questo aspettavamo vedere dalla Repubblica, e lo vedemmo. Lamartine stesso, autore del Manifesto alla Europa, nella sua Storia della Rivoluzione del 1848 ci ammonisce essere cosa contraria agl'interessi di Francia acconsentire che qui in Italia si componga uno Stato potente. Politica di Enrico IV e del successore Richelieu, fu mantenere Italia e Germania deboli, epperò divise. Da Richelieu in poi, sembra agli uomini di Stato francesi, che nè sia mutato nulla, nè nulla sia da mutarsi, e poi si vantano non pure amanti, ma promotori del progresso. Da questo tengansi avvertiti i corrivi ad abbandonarsi alle lusinghe francesi. Di Lamartine ho parlato; mi sono taciuto degli altri, perchè temeva che lo inchiostro nero mi diventasse sopra la carta rosso per la vergogna. Intanto in Germania di Francia non curano, e in Italia così bene si adopera, che essa vi perde ogni giorno autorità, vi acquista odio. Molti mali ci vennero dalla Monarchia francese, ma spettava alla Repubblica, dopo avere sospinte le voglie dei Popoli oltre ai confini del giusto, affaticarsi ardentemente a spengere anche i sospiri della libertà. Qui vi è progresso d'iniquità, e nessuno può impugnarlo. Ma questo non è tema da svolgersi qui; a me basti avere indicato, che la rivoluzione francese fu causa di commovimento in Toscana. Le rivoluzioni lombarda e veneta nei petti già infiammati raddoppiarono l'ardore della guerra. Fra tutte le nobili imprese nobilissima, fra le sante santissima, la guerra della Indipendenza. I Germani, discendenti generosi dello antico Ermano, certo non condannano in altrui i sensi che gli han resi nelle pagine della storia immortali. Seme di guerra perpetua è dominio di Popolo sopra un altro Popolo: allora la necessità rende il dominatore ingiusto, il soggetto violento; la pace, togliendo, si perde: la storia è lì con le sue tavole di bronzo per insegnare come le conquiste costino troppo più del guadagno che procacciano, e all'ultimo si perdono: una sola maniera ci presenta la storia capace di occupare permanentemente il paese vinto, ed è la conquista normanna. I vincitori si fermano nella Inghilterra, e a mano a mano distruggendo gli Anglo-sassoni, si sostituiscono al Popolo disperso. In altro modo non pare che si possa; però che neppure i Romani durassero a tenere la rapina del mondo, nè i Longobardi la Italia, nè i Saraceni la Spagna, nè i Greci l'Asia, e degli altri popoli conquistatori chi vivrà loderà il fine. Nonostante, se come Italiani a noi riusciva impossibile rifuggire dalla guerra, come Toscani ci appariva piena di eventi dubbiosi. Vincendo Austria, era da aspettarci la sorte che ci è capitata addosso: vincendo Piemonte, poteva forse credersi che saremmo stati assorbiti. A compimento di rovina sopraggiunsero i disastri della guerra italiana. Nella sventura l'uomo diventa maligno. I Lombardi, e con essi parecchi Italiani, dubitarono della fede di Carlo Alberto; di tradimento sospettarono; inaspriti pensarono non aversi a riporre speranza nel Principato. Napoli, mormoravano, ritirare i soldati dal campo, Toscana procedere con fiacchi provvedimenti, Torino farsi rompere in battaglia a disegno. Mostruosa opinione era questa ultima, eppure propagata, e creduta nei ciechi impeti di passione smaniosa. Allora ottenne seguito nell'universale il disegno d'invertire il concetto politico: _invece di giungere per mezzo della guerra allo assetto federativo della Italia, vollero con la istituzione dell'unica Repubblica arrivare al conseguimento della Indipendenza._ Qui pertanto in Toscana convennero infiniti Lombardi, e li premeva cocente la cura di ricuperare la patria diletta; cagione legittima ad ogni più arrisicato consiglio. Nè si creda, che facinorosi essi fossero: all'opposto erano uomini distinti per dottrina, per natali, e per ricchezze, benvoluti come fratelli, come infelici compianti, da per tutto ammirati a modo di magnanimi propugnatori delle patrie libertà. La Emigrazione lombarda dimorava in Firenze come corpo organizzato sotto il governo di un _Consiglio dirigente_;[8] possedeva pubblicisti, ingegneri, e ufficiali superiori del Genio; fondò un Giornale _La Costituente_, e lo pubblicava, come si diceva, a scapito; divenne padrona di parecchi altri, che indirizzava al medesimo fine; acquistò aderenze, partigiani, ed amici; finalmente propose armare ed armò compagnie di Bersaglieri.[9] E' fu forza accettare la offerta concepita in termini dittatoriali, e accomodarsi a comprare un padrone, secondo ch'è fama gridasse Diogene, esposto in vendita sul mercato; per l'appunto come al Ministero Capponi fu mestieri arruolare _720 prodi componenti la legione della Indipendenza Italiana_, e più se ne venivano;[10] e, trapassando a cose maggiori, come fu mestieri a Carlo Alberto condurre generali a modo altrui, rompere lo armistizio inopportunamente, e combattere battaglia intempestiva. Alla Emigrazione lombarda aggiungi parecchi uomini calati giù dalla vicina Romagna, gente manesca, arrisicata molto, alle baruffe avvezza, ed al sangue, Siciliani, Napoletani, Polacchi, ed altri cultori ardentissimi di sconfinata libertà; privi di patria, cupidi di ricuperarla. VII. Tumulti quando incominciassero. Contro al vero manifesto è supposto dal Decreto, che l'agitazione apparisse sul declinare del 1848. Ufficio solenne di ogni storico è scrivere la verità, massime poi s'egli ordisca storie per gli effetti criminali. L'agitazione precede lo Statuto; crebbe dopo per le ragioni già discorse; finalmente diventò irresistibile quando il Principe partendo le lasciava libero il campo. Chi mi sa dire in qual giorno preciso fu rotta la guerra contro l'Austria? Se io non erro, incominciava, non declinava con l'anno 1848. — Crede egli il Decreto, che il Principe nostro adoperasse spontaneo il diritto che gli appartiene per l'Articolo 13 dello Statuto di dichiarare la guerra? No, egli nol crede. Taccio dei titoli dimessi, facile sacrifizio; ma non si renunziano spontaneamente gli affetti della propria famiglia, non le si muove nemico mentre ella versa nel massimo pericolo, non le si porge la spada per ferirla invece della mano per soccorrerla, non si distrugge un appoggio sicuro per andare in traccia di fortune minaccievoli, o per lo meno dubbiose. Prova ella è questa di agitazione veementissima contro la quale consiglio non vale; prova di forza, che strascinava, ineluttabile, conosciuta da quanti vivono al mondo: forza, che travolse antichi reami, e re, e Popoli come paglie davanti al turbine; alla quale, si pretende, che io solo potessi, dovessi, e in tutto, resistere, e sempre. Ora questa guerra, sopra ogni altra causa, fu motivo di sconvolgimento nel Popolo, così che fra i tumulti guerreschi, la confusione degli apparecchi, e gli animi concitati a tremenda febbre, tacevano le leggi, sbigottivano i Magistrati, disfacevasi lo Stato. Io troppo bene mi accorgo che sorriderà la gente di questo mio affaticarmi a portare acqua al mare; ma poichè l'Accusa, contro la verità, nel fine riposto di sostenere che l'agitazione sorse nel declivo del 1848, per potermene dichiarare benignamente fomentatore, dissimula i fatti, importa restituirli alla genuina loro cronologia. Nell'ottobre 1847 fu distrutta la Polizia. Il Municipio fiorentino, con la Notificazione del 28 ottobre 1847, deplora il fatto del giorno innanzi, suscitato dalla brutalità dello sbirro Paolini, e dichiara che il Popolo mutò un _nobile sentimento di compassione in atti violenti_. Tumulto in Firenze per la occupazione e atroci atti commessi a Fivizzano. Popolo vuol correre in massa in Lunigiana. Il Ministro Ridolfi, coartato a scendere in piazza, promette che il Governo si farebbe rendere conto delle commesse iniquità. La _Patria_ dell'11 novembre 1847, per questa volta anch'essa trova «_che cotesti fatti atroci avevano commosso tutte le anime oneste_.» Il Governo, costretto dalla volontà del Popolo, manda gente a Pietrasanta per cagione di Fivizzano. Compagnia di Granatieri, accolta dal Popolo ai cancelli della Fortezza, è scortata dal Popolo fuori di Porta. La _Patria_ nobilita il Popolo accorso, «quella parte di Popolo, che certuni male chiamano _minuta_, mentre è parte _operaia_, nè grossa o minuta come ogni altra parte di Popolo, il quale nome comprende tutti quanti, eccetto il Principe; la parte _operaia_ del Popolo spontaneamente empì le vie della Fortezza: altra gente pure accorse spontanea.» _Patria_, 15 novembre 1847. Nel novembre del 1847, per la strage di un caporale, il Popolo a Livorno tumultua; vuole in sue mani lo uccisore per istracciarlo; il Delegato Zannetti è bistrattato; più tardi percosso, spinto in carcere, e cacciato via. Sommosse popolari a Livorno nel mese di decembre successivo, di cui terrò altrove ragionamento. La _Patria_ nel 18 gennaio 1848 annunzia: «che una forte agitazione, e _potente e irresistibile commuove tutta la Italia_.» E nel 23 dello stesso mese, alla ricisa bandisce: «_Toscana tutta quanta_ ha bisogno di essere riordinata _incominciando dal Governo_.» Sul declinare del febbraio 1848 la _Patria_ ricorda le riunioni tumultuarie in Firenze, pei fitti delle case. Nel 20 aprile 1848 predica il Giornale stesso: «il pericolo della Repubblica imminente però non potersi evitare adulando i Principi, e con atti arbitrarii e dittatorii di Ministri adulatori.... le forze _politiche stanno ormai nelle mani al popolo_.» Nel 26 maggio 1848 i Fiorentini ardono la carrozza del napoletano Statella, donde la Patria ricava argomento di ammonire i buoni e il Governo, che i _tempi si fanno grossi_. Turbolenze lesive la proprietà. In Empoli si fa violenza al mercato per acquistare grano a prezzo basso; lo stesso accade a Fucecchio, lo stesso a Pistoia, a San Piero in Bagno, a Siena. I possidenti se ne commuovono; la _Patria_ del 14 luglio 1848 solleva desolate grida esclamando: «è necessario provvedere subito e fortemente per reprimere e impedire questi disordini. Non vi è contagio peggiore di questo.» Lo incubo del _comunismo_ già appuntella le ginocchia sul petto dei possidenti! Nel luglio del 1848, alle adunanze pubbliche del Consiglio Generale dolevansi di mene _austro-gesuitiche_ turbatrici dello Stato, e il Ministro dello Interno parlandone come di cosa vecchia, rispondeva, pur troppo _non ignorarle_ il Governo, ed _importare che riescano indarno_. «Il Governo fa quanto può, ma per riuscire completamente, converrebbe ch'ei non fosse disarmato, e da questo lato, bisogna _pur dirlo, gli manca la forza_. Fu distrutta la _Polizia, e non fu ancora ristabilita_. In questo stato di cose è facile vedere che molte volte mancò il mezzo per fare eseguire le misure governative, altre per provvedere. _Manca la forza necessaria al potere esecutivo_.» Nonostante, l'Accusa me solo incolpa per non avere voluto, o saputo Ministro prevenire e reprimere i tumulti; mi chiama _impotente per vizio di origine, o forse_ anche _complice_! Nel 30 luglio, grande sorse il tumulto in Firenze: la forza fu respinta, il Popolo scese ad agitarsi con insoliti indizii. Sopra la stessa Piazza Granducale, a piè del Palazzo Vecchio erano scritti e letti Decreti pei quali _la decadenza del Principe dichiaravasi, un governo provvisorio instituivasi_. Di ciò fanno prova il processo compilato in quel tempo, e il proclama del Governo comparso il 31 luglio seguente: «La tranquillità pubblica fu _gravemente compromessa_ in Firenze per opera di perturbatori, che in gran parte non appartengono nemmeno a questa città, e che manifestavano la _intenzione di rovesciare l'attuale ordinamento politico del paese_, e avvolgerlo nei disastri, che sono sempre la conseguenza delle commozioni violente.[11]» In molti cagione, in altri pretesto del tumulto i disastri della guerra italiana, e il sospetto dei sottili provvedimenti fatti dal Ministero. La Guardia Civica, chiamata più volte, si aduna scarsa e repugnante a sostenere un Ministero caduto nell'odio universale. _I soliti agitatori declamano, ed eccitano i Popoli su pei canti delle strade_. Alle ore sette comparve un proclama firmato _Ridolfi_, col quale si promettevano per _domani la legge per muovere la Guardia Civica, ed altri apparecchi di guerra_. Così con queste ed altre più efficaci parole raccontava i successi della giornata la _Patria_ del 31 luglio 1848. Onde a ragione potè esclamare il Ministro Ridolfi, vedendo la _Patria_ fra i suoi avversarii: «_Saul anche esso è tra i profeti_?»[12] Tumulti gravissimi nei _pressi_ di Massa Ducale, con _collisione di contadini e soldati, non senza morti e feriti_.[13] Tumulti contemporanei succedono a Lucca, a Pisa, a Livorno, e si temono a Firenze.[14] Tumulti di contraria indole a _Laterina_, dove in mezzo a scariche di fucile gridasi dai campagnuoli: _Viva i Tedeschi! Morte alla Guardia Civica_.[15] Conflitto sanguinoso, e aperta rivolta a Livorno nel 2 settembre 1848. Fortezze assalite dal Popolo, capitolano col Generale Torres. _Si tratta di eleggere un governo provvisorio. Il Governo perde ogni autorità sul paese_.[16] E mentre, come sarà in breve chiarito, io mi conduco a Livorno per salvare, quasi malgrado il Ministero, cotesta mia Patria dall'anarchia, e ricondurla, già già tracollante nella Repubblica, sotto la obbedienza del Principe Costituzionale, la _Patria_ in data del 22 settembre 1848 narra, che a Lucca, a Pistoia, a Prato (e a Firenze non mancano) gli agitatori indefessamente travagliansi; nel 28 settembre afferma, che uno _spirito di vertigine_ ha suscitato agitatori _da per tutto_; e già fino dal 7 settembre cotesto Giornale, i fini, le occasioni, e i motivi del tremendo agitare adduceva nelle seguenti parole: «Il _partito repubblicano_ in Italia _non ha dimenticato_ il suo disegno dopo il fatale armistizio. Esso allegando, che i _Principi Costituzionali_ d'Italia non potessero più sostenere la causa della Indipendenza con una guerra ordinata, ha detto non esservi altro scampo che una guerra insurrezionale dei Popoli, e per muovere i Popoli ha creduto espediente di prendere, e creare tutte le occasioni di agitare lo interno degli Stati, a fine di potere in queste commozioni sostituire la _Repubblica_ al _Principato Costituzionale_, e allora con tutte le eccitazioni possibili alzare le moltitudini, e precipitarle furiose e infierite contro gli eserciti austriaci.» E quanto diceva era vero. Tumulti in Firenze nei giorni 3 e 4 di ottobre, tendenti a offendere la pubblica tranquillità, e la personale sicurezza.[17] Tumulti a Pisa il 7 ottobre, qualificati _perfidi tentativi di anarchisti_.[18] Tumulti a Livorno nel 19 ottobre 1848, per quanto avverte la _Gazzetta di Firenze_ del giorno 20. Il Consiglio Generale ebbe a sospendere la seduta del 23 settembre 1848 come nell'8 febbraio 1849. Il Presidente in _quel giorno si cuopriva, e si allontanava; dopo un'ora riapriva la seduta appunto come nell'8 febbraio 1849_.[19] La Guardia Civica lucchese, per sottrarre il conte De Laugier alle ingiurie della plebe ammutinata, ebbe a tenerlo custodito nella caserma nello agosto 1848.[20] La milizia, già sul cadere del luglio 1848, dava lo esempio pessimo di cacciare via gli Ufficiali.[21] E con più infame delitto le palle avanzate dalla guerra lombarda sparava nel collo al Capitano, uccidendolo a Pecorile nel 9 agosto 1848.[22] Gregarii eccitati all'odio dei superiori; superiori disprezzanti i gregarii: ogni vincolo infranto, milizia diventata ormai terrore non difesa. Questi erano i soldati, che si ha coraggio sostenere corrotti da me! Di ciò pure sarà ragionato altrove. — La mancanza delle carte necessarie non mi concede di tessere racconto più esatto dei tumulti che agitarono la Toscana dal 1846 in poi; ma basterà tanto per dire apertamente, ch'è falso si manifestasse l'agitazione fra noi sul declinare del 1848 soltanto: da più lontana origine essa muove; più antichi di quello che i Giudici dissimulano, sono gli attentati per rovesciare la forma governativa dello Stato; più vecchio che i Giudici non fingono, il disfacimento di ogni mezzo governativo per prevenire, e per reprimere; prima assai del febbraio 1849 il Popolo aveva imparato a turbare le sedute del Consiglio Generale. Chi per vaghezza, o per obbligo si accinge a raccontare fatti, o dopo lungo studio giunse a conoscerli, oppure non vi giunse: nel primo caso gli esponga ingenuo; nell'altro taccia verecondo. Qualunque poi o per fatuo, o per servile, o per altro più pravo consiglio opera diversamente, non compone storie, ma commette infamie: e quale seminò, tale raccoglie. — Le quali cose condurranno a confessare, che non inutile fu la mia chiamata al Ministero. Me posero a lottare, non a governare; _io fui la barriera ultima intorno allo abisso_; e se i miei concittadini andranno persuasi di questo, che se io non era, deplorabili giorni avrebbe veduto la Toscana, terrò siffatta persuasione per conforto del mio indegno patire. Perchè poi ne vadano meglio convinti, esporrò in quali stremi fosse ridotto il paese. Ho riportato qui sopra le parole gravissime del Ministro Ridolfi. Se esaminiamo gli atti dell'autorità, i discorsi pronunziati nelle Camere legislative, e le confessioni degli stessi Ministri, troveremo sempre il medesimo lamento. Nella seduta del Consiglio Generale del 16 ottobre 1848 il deputato Mazzoni domanda «se sia o no vero, che dal _settembre del decorso anno_ la Toscana sia stata senza Polizia, e a confessione dello stesso Governo senza forza?» Odaldi deputato, risponde distinguendo l'azione della Polizia sul senso morale e sul senso politico, ma di leggieri concede, la Toscana essere rimasta da lungo tempo priva di forze governative. Replicando io al collegio onorandissimo dei Negozianti livornesi, che mi compartiva lode (dolce al mio cuore) «di avere ricomposto l'ordine, e data tranquillità al paese, indispensabili per la prosperità del Commercio e della Industria,» diceva: «il Governo della Toscana è ben lontano da possedere i mezzi governativi, che assicurando e confermando ogni maniera di onesto vivere civile comprimano i conati delittuosi di gente che ardisce profanare il nome di libertà per procedere poi impunemente da infame........ Ma se la Toscana non possiede ancora mezzi permanenti e duraturi necessarii a governare gagliardamente, supplisce adesso il Ministero con _operosità straordinaria, con l'autorità personale, con le aderenze d'individuo, con lo entusiasta consenso di voi, e di quanti appartengono al Popolo buono_.»[23] E con parole supreme ammoniva per via telegrafica il Governatore di Livorno il 16 novembre 1848: «_energia, Governatore, energia, o fra un mese Toscana diventa un mucchio di cenere_.» Il Prefetto di Firenze volgendosi al corpo dei Veliti, Pompieri, e Portieri, così favellava: «È vero, che i tempi e gli eventi produssero un pregiudicevole indebolimento alla forza che assicura la esecuzione della legge; ma se voi volete, potrete con la opera vostra e col vostro zelo rilevare le forze indebolite, ed ottenere plauso dal Governo.»[24] Ne porge eziandio splendida testimonianza il mio Rapporto al Principe per la instituzione della Guardia Municipale; io confido che i buoni, a cui mi volgo, vorranno ritornare col pensiero sopra quel documento uscito da me, e che ebbe lode nei tempi. Il Senatore Corsini, per cagione della violenza usata contro l'Arcivescovo di Firenze interpellando il Ministero intorno ai mezzi di cui il Governo intendeva servirsi per impedire che i disordini si rinnovassero, tale si ebbe risposta dal Ministro Mazzoni: «Il Governo si propone usare la maggiore vigilanza che gli è dato adoperare; porrà in opera tutti i mezzi possibili per prevenire disordini, _ma avendo ricevuto dagli antecedenti Ministri la somma del Governo toscano nello stato più deplorabile, non è da aspettarsi da lui più di quello che umanamente sia abilitato a fare secondo LE FORZE, che vengono accumulandosegli intorno._» E nella stessa tornata, non dissentendo nessuno, egli aggiungeva: «_Pur troppo al Governo si è fatto carico delle circostanze in cui si trova; ma, oso dirlo senza superbia, se noi non fossimo stati, più gravi — gravissimi inconvenienti avrebbero funestato la patria nostra_.» Le parole del Mazzoni, quantunque sieno testimonianza di cose conosciute universalmente, e pronunziate davanti a Collegio dove molti dei Ministri precedenti sedevano, oggi, come di uomo esule ed incolpato, non si vorrebbero attendere. Ma si oda in grazia quale ricevessero immediatamente conferma dalla bocca del Senatore Capponi, poco anzi Presidente del Consiglio dei Ministri: «Intorno alle parole dell'onorevole Ministro di Grazia e Giustizia, che concernono il passato Ministero cui ebbi l'onore di partecipare, intorno a queste io sono fortunato di non potere altro che usare lo stesso linguaggio, che intorno alle interpellazioni ha usato l'onorevole Ministro. _Le condizioni dei tempi, il pubblico stato delle cose, il movimento degli animi_ produssero tali cose, che quella medesima insufficienza, che ha trovato nel reprimere ogni atto in sè biasimevole, quella stessa insufficienza fu da noi sperimentata.»[25] Nel Programma ministeriale del 19 agosto 1848, il Ministero Capponi aveva dichiarato espressamente: «correre tempi difficili abbastanza da _sgomentare i più esperti_.» Il Senatore Baldasseroni in cotesta seduta dava al Ministero molto solenni insegnamenti: voleva che le cause del disordine investigassimo, voleva che il Governo combattendo per l'ordine perisse. Se la infermità non mi avesse impedito di assistere a cotesta seduta, io gli avrei risposto: — assolutismo improvidamente antico, e libertà impetuosamente nuova, sono cagioni del male; in quanto a perire per la salvezza comune, non lo togliete di grazia per rinfacciamento, ma io mi vi sono esposto, quando mi gittai fra l'onda infuriata del Popolo per salvarvi il figliuolo..... E, se non è grave, odasi un poco come in proposito favellassi io all'Adunanza del 29 gennaio 1849: «Le parole del vostro Indirizzo in risposta al Discorso della Corona accennano ai disastri e ai _tumulti passati_, e indicano speranza di repressione pei futuri. In questa maniera voi non dite del presente, e non favellando del presente venite implicitamente a dichiarare, come nulla sia stato operato adesso per riparare a questi tumulti che voi deplorate, e che _avete ben ragione di deplorare_. Ciò può sembrare al Ministero un rimprovero: egli non crede averlo meritato: imperciocchè, o Signori, voi rammenterete come abbiamo noi ricevuto lo Stato. Noi lo abbiamo ricevuto, perdonatemi la immagine, _come si consegna una casa incendiata in mano ai Pompieri_. Voi lo avete veduto, la finanza era esanime: _in quali lacrimevoli condizioni fosse l'esercito_, voi lo sapete. Vi parlerò di quello che spetta più specialmente al mio Ministero. _Qui niuno ordinamento; i vecchi istrumenti non si potevano adoperare, i nuovi sono tuttavia un desiderio. Gli ufficiali mancavano affatto di vigore; non restava che un simulacro di forza, il quale non corrispondeva alla chiamata_. O Signori, quando ebbi l'onore di essere assunto al Governo dello Stato, io cercai se o poche o molte vi fossero le forze per potere governare. I passati Ministri si sono allontanati dal Governo, com'essi dicevano, di faccia alla pubblica disapprovazione: essi così affermarono, ed io non ho verun motivo per dubitare di questa loro asserzione: ma devo dirvi eziandio che a me parve non solo il Governo abbandonasse il Ministero per virtù della opinione, ma assai più perchè era impossibile il governare. Io dissi a me stesso: qui lo Stato fu consegnato a noi, come _un cadavere in mano ai preti per seppellirlo e cantargli l'esequie_. Ma no, io non ho creduto mai nè credo che uno Stato possa perire. Credo che, per malignità dei tempi, e per pessima amministrazione di uomini, forse uno Stato possa cadere in morte apparente, in asfissia; ma la vita resulterà, quando un uomo voglia veramente trovarla, e liberare lo Stato dalla misera condizione in cui egli è stato condotto. Privo di forze, privo di ordini governativi, privo perfino del mezzo di sapere in che cosa le piaghe dello Stato consistessero, io non trovai nessuno dei miei antecessori che m'indicasse in quali condizioni era lo Stato, e in che cosa le sue forze consistessero. — Ordinai a tutti i Prefetti, Sotto-Prefetti e Gonfalonieri delle diverse Comunità, che immediatamente, o nel più breve spazio di tempo possibile, mandassero rapporti intorno allo stato politico, economico e morale delle provincie e delle città che reggevano. Vennero questi rapporti, quali più presto, quali più tardi, e furono elementi già ordinati, ma non sufficienti ancora per formarmi uno esatto concetto dello stato in cui attualmente si trova il nostro Paese. Tuttavolta ho ordinato e in parte effettuato questo lavoro. Egli è bene lontano dall'essere peranche perfetto, nè lo sarà mai, perchè tutti i giorni devono succedere casi che valgano a modificarlo, e speriamo in meglio, ma io lo lascerò sul banco del Ministero dello Interno come un Breviario, affinchè quelli che mi succederanno, con senno migliore, e con migliore fortuna forse, ma non con maggiore fede di certo, al Governo dello Stato, lo abbiano sempre dinanzi agli occhi, e per regolarsi con cognizione di causa. Mentre pertanto il Ministero vostro, per rendersi degno del Popolo e di Voi, suoi rappresentanti, si accingeva a conseguire precisa cognizione dello stato del Paese; mentr'egli si accingeva a conoscere la sua malattia per applicargli quei rimedii che reputava migliori; mentre il Governo sta preparandovi le leggi, che nel senno vostro esaminerete e delibererete, per portare rimedii alle malattie che accennava; pensate, o Signori, come cadesse fra mezzo uno stato di transizione per noi deplorabile. Questo stato, che come una via di fuoco sarebbe bene che noi potessimo percorrere correndo, non è passato ancora, quantunque a me tardi che cessi, e il Paese rimanga guarito di questa ferita di dolore. — Ma, frattanto, il Governo non si è trovato e non si trova _in mezzo all'enormezze di due partiti_? Io non voglio definire quale dei due sia o no progressivo. In tutti gli Stati, e specialmente in quelli ove, come nel nostro, la vita politica si è iniziata, due partiti devono agitarsi, e non è male, come ho sentito deplorare in questa Assemblea, ma invece è un bene che si agitino; perchè dal cozzo dei partiti nasce quella cognizione esatta delle cose che unica giova a ben condurre lo Stato. Però, a tutti i partiti onorevoli e plausibili, purchè nascano da convinzioni, non mancano coloro che suscitano mille voglie, mille cupidigie tutto altro che plausibili; e i Capi dei diversi partiti si trovano sovente a vergognare di quelli che fanno bandiera dei loro nomi onorati a queste intemperanze ed a queste enormezze. A cosiffatti disordini accennavano le parole della Commissione nel compilare lo Indirizzo al Principe. Ora, che cosa ha fatto il Ministero vostro nell'assenza di mezzi, e nella mancanza delle persone? I Ministri hanno sentito, come altro non potessero fare che dare allo Stato una cura indefessa, sottrarre le ore al sonno, dimenticare, non dirò ogni diletto, ma perfino ogni sollievo della vita....» Così io orava al cospetto di quattro Ministri che mi avevano preceduto; nè alcuno sorgeva a confutarmi. Dopo alquante parole, io conchiudeva domandando una dichiarazione di fiducia. E il Consiglio, — _non obliando la miserabile condizione nella quale, per effetto dei mutamenti politici, era caduta la Toscana_, — deliberava unanime questa dichiarazione di fiducia, formulandola così: «_Siamo grati agli espedienti che il Governo si affrettò di adottare_.» — Non era anche venuta l'ora della ingratitudine! Nè meglio potrei dimostrare qual fosse Toscana quanto allegando una parte del mio Dispaccio telegrafico del 16 novembre 1848 mandato al Governatore di Livorno, più che ad altro somiglievole ad un grido di allarme: «Energia, Governatore, energia, o fra un mese Toscana diventa un _mucchio di cenere_!» In questo modo si confessava da ogni maniera di gente, così negli atti pubblici come nei privati, ed era vero, lo Stato ridotto agli estremi. Io lo trovai incapace a resistere a qualunque tenuissimo urto, pure lo sostenni in guisa, che i tumulti decrebbero, la fiducia pubblica incominciò a ridestarsi, e se il fatalissimo 8 febbraio non era, da quanti mali, da quanto lutto non mi sarebbe stato concesso preservare il paese! Forze governative pertanto affatto disperse, Polizia investigatrice distrutta, m'ingegnai fra gli antichi ufficiali scegliere alquanti che aveva sperimentato onesti e capaci; ma per quante istanze e raccomandazioni facessi loro, non vollero saperne: mi si mostravano invincibilmente repugnanti, _perchè nell'ora del pericolo il Governo gli avesse lasciati in balía dell'ira popolare_.[26] I Veliti, come si ricava dal mio Rapporto della _Guardia municipale_ al Granduca, ormai chiamati ad altro destino, odiavano, e a ragione, il servizio di Polizia. La milizia, da quei medesimi che la capitanavano, era chiamata infamia, non tutela del paese. La Guardia Municipale non ancora composta.[27] Il Senatore Capponi, lo abbiamo non ha guari veduto, dichiarava in Senato la condizione del suo Ministero essere identica a quella del mio. Confesso di leggieri, che nè anch'egli sedeva sopra letto di rose; ma con sua pace, il divario appariva grandissimo fra il suo Ministero ed il nostro, però ch'egli possedesse la forza dei Carabinieri intera, e a me la consegnasse odiatrice ed odiata, percuotente e percossa. Sventura lacrimevole, che poteva essere risparmiata! No, le condizioni non apparivano uguali; tra il mio Ministero e il suo correva la guerra civile rotta, una sconfitta toccata dall'Autorità, un Popolo reso audacissimo per miserabile vittoria. Noi a mani giunte imploravamo lo aiuto di tutti, anche degli emuli nostri, per isvellere fino dalle radici la mala pianta del disordine; — gli supplicavamo a uscire dalle case loro, a scendere con noi fra la moltitudine per ammaestrarla, e ammonirla.[28] — Le preghiere nostre secondarono? Il soccorso supplicato compartirono? — Ah! no; secondo l'usanza pessima ed antica, a parole protestavano volerci aiutare, ma in fatto nè brogli, nè conventicole, nè qualunque argomento preterivano nello intento di rovesciare il nostro Ministero. Taluno, ponendosi la mano sul petto, sentirà che io dico il vero. In quanto a me, sappiate che conosco assai più cose di quelle che dico: _potrei citare nomi, e disegni a me noti, e da me per longanimità lasciati inavvertiti_; — ma la prudenza, che mai deve scompagnarsi da chi tenne officio supremo, desidera che alle provocazioni dell'Accusa io mi taccia. Tanto può la cieca ira di parte, che gl'incauti si affaccendavano ad abbattere il dicco estremo, che sosteneva la piena minacciante di sommergerli tutti. Queste cose sa il Principe, che deplorandone gl'imprudenti conati interpose l'autorità sua, perchè cessassero e forse glielo promisero; io però ebbi a provare che non lo attennero troppo. In questa parte concludendo, è lecito dire, che i Giudici, e l'Accusa non affermarono il vero, anzi esposero il falso, quando narrarono l'agitazione essersi manifestata sul declinare del 1848 soltanto. Nè ciò si creda che entrambi facessero senza consiglio, imperciocchè lo studio loro intenda, come ho avvertito, a mostrare che una forza rivoluzionaria fosse eccitata da me, crescesse, crescesse irresistibile fino all'8 febbraio 1849; nell'8 febbraio poi cessasse ad un tratto per ripigliare più tardi: così i fatti altrui fino all'8 febbraio s'imputano a me, perchè da me _costretti_; i fatti posteriori all'8 febbraio s'imputano parimente a me, perchè in me _spontanei_. A senso dell'Accusa, le forze rivoluzionarie stavano in potestà mia, come le cannelle dell'acqua fredda e dell'acqua calda quando entro nel bagno. Io però fui _complice_, o _impotente per vizio di origine_; nato in peccato mortale, non basta a salvarmi agli occhi dei miei Accusatori _il battesimo_ della scelta sovrana; però importa osservare come i Ministeri precedenti, usciti al mondo immacolati, o immersi del bel Giordano nelle chiare acque, non riuscissero meglio a vincere la forza rivoluzionaria fino dai primordii. Eglino stessi lo confessarono, e ne addussero cause plausibili. La _confessione_, lo avvertano i miei Accusatori, è cosa che merita reverenza grandissima, perchè innalzata anch'essa alla santità di _sacramento_. Ora considerino, di grazia, se in tempi più grossi mi venisse fatto di adoperarmi con qualche vantaggio in benefizio del Paese. Quando mi giunse a notizia, come l'autore del _Decreto della decadenza del Principe_, scritto e proclamato sopra la Piazza Granducale _il 30 luglio 1848 sotto il Ministero Ridolfi_, continuasse la sua dimora in Firenze, irremissibilmente lo esiliai.[29] Preti, seminatori di scandali, pervertenti lo spirito dei campagnuoli, insinuanti che il Granduca costretto aveva consentito allo Statuto, non già di cuore e spontaneo, chiamai, ammonii, e corressi.[30] Torres, espugnatore delle Fortezze livornesi sotto il _Ministero Capponi_, ardito uomo, fu da me parimente bandito, e ritornato con manifesto spreto dell'Autorità, ordinai lo arrestassero e lo conducessero ai confini.[31] Alle censure acerbissime della stampa, per questo fatto, risposi: «Renda conto il Torres della sua passata condotta a Livorno, giustifichi il suo ritorno a Firenze, allora apparirà se la misura presa a suo riguardo fu arbitraria e vessatoria, o piuttosto opportuna e giusta.»[32] E qui giovi notare, _di scancio_, contro alla benevola insinuazione gittata là dal Decreto in mezzo a parentesi (Guerrazzi creduto autore principale dei moti livornesi), che se io fossi stato tale, non lo avrebbe ignorato il Torres; e alla mia invereconda provocazione non avrebbe egli risposto col verso di Clitennestra: «Chi mi vi ha spinto or mi rimorde il fallo?» Livorno ridussi in potere del Principe, quantunque, come attestava il Presidente Capponi, _stesse in procinto di eleggere il governo provvisorio_.[33] A moderare il passo continuo di gente nemica naturalmente di pace, il chiarissimo Mariano D'Ayala ed io osammo proporre al Principe il Decreto del 27 novembre 1848, dove si ordinava, che tutti quelli i quali presentandosi alle frontiere non si arruolassero soldati fossero respinti. Preposto a scrivere il Rapporto del Decreto, adoperai parole audaci,[34] che m'inimicarono coteste turbe, dove a poco bene s'incontrava mescolato parecchio male: però che i Popoli creduli reputassero profeti tutti quelli che paltoneggiando pel mondo si facevano le spese a nome della patria; e guai a colui che avesse ardito con parole o con fatti torcere pure un capello di quelle teste reputate sante. E solo _osai_ ancora di più: gl'ingenerosi insulti (tollerati dai precedenti Ministri) contro i nemici repressi; tanto ebbi a schifo qualunque cosa, che magnanima veramente non fosse, tanto studiai di sollevare il cuore del Popolo ad alti concetti. Le parole che io dissi sul terminare del 1848, quando gli Austriaci erano lontani, posso ripetere adesso che sono in casa: «Non così (scriveva al Prefetto di Firenze), non così si educa un Popolo, nè se ne ritempra il carattere. Nè m'incresce meno considerare come si espongano al pubblico dileggio i nostri nemici. I nemici vanno vinti, Signor Prefetto, e non oltraggiati, imperciocchè lo insulto, prima della vittoria, sia stolta jattanza; dopo, bassezza codarda. E un altro male fanno eziandio simili scede, che inducendo il Popolo in falso concetto sopra la potenza del nemico, dorme sicuro poterlo vincere agevolmente, mentre avrebbe mestieri di supremi conati per superarlo.»[35] Ah! non era io quegli, che lusingando assicurava il Popolo potersi vincere il nemico co' bastoni e co' sassi..... non io..... non io promisi andargli incontro co' figli; ma quando strinse il bisogno, mandai semplice soldato quell'unico, che mi tiene luogo di figlio! Ma l'Accusa, dissimulando la condizione dello Stato, e come se incominciasse sotto il mio Ministero l'agitazione in Toscana, va a raccogliere i fatti successi per gittarmeli in faccia; essa rammenta: 1º Lo assembramento in Livorno nel 29 e 30 ottobre 1848 per bruciare la _Patria_, e l'uscita delle milizie a dimesticarsi col Popolo. 2º La occupazione violenta delle Fortezze di Portoferraio. 3º Le minacce contro i proprietarii della sega a vapore a Livorno. 4º Le violenze alla tenuta di Limone dei fratelli Bartolomei. 5º La esultanza in Livorno per lo assassinio del Conte Rossi, assistente il Governatore. 6º La opposizione al richiamo in Firenze del Capitano Roberti. 7º Le violenze elettorali, quantunque l'Autorità avesse _avuto il tempo e i mezzi per prevenirle_. 8º Le violenze contro il giornale _La Vespa_, onde ridurlo a tacersi, _comecchè avesse avuto coraggio di farsi opponente al Ministero_. 9º I disordini in piazza, e al Palazzo dell'Arcivescovo, per cui il venerando Prelato ebbe a cercare sicurezza fuori di Firenze. 10º L'esorbitanze della stampa ec. E fatta questa raccolta conclude, che il Ministero restringeva i provvedimenti ad apparenze di preparativi, a frasi di disapprovazione, al _rinvio degli avvenimenti più scandalosi all'ordinarie vie di giustizia_![36] Davvero, per poco non mi cade l'animo sconfortato, però che i fatti che in parte io stesso allegava in testimonio di riordinato reggimento, mi si ritorcono contro, o come _eccitati da me_, o come _da me reo di peccato originale_ non potuti _reprimere_. Esaminiamo in qual modo io adoperassi contro i fatti dall'Accusa allegati, avuto sempre riguardo alle condizioni del paese e dei tempi. — Pervenuta al Ministero la notizia dell'arsione in Livorno del Nº 120 della _Patria_, e del come non volesse il Popolo consentire alla consegna di cotesto Giornale, ecco quello che feci stampare nel N. 270 della _Gazzetta di Firenze_: «Il Governo, fermo nel suo intendimento di mantenere il suo Programma, comunicò al Direttore della Posta di Livorno, per mezzo del Ministro dello Interno, le istruzioni che noi riproduciamo. — Illº. Sig. Il sottoscritto Ministro dello Interno, in unione dei suoi Colleghi, _intende e vuole_ che sia pubblicato secondo l'ordinario il Giornale detto _La Patria_. Libertà di parole a tutti. Questo principio professerebbe sempre lo attuale Ministero in altrui; _molto più lo deve, trattandosi di sè_. Dove i miei concittadini nel proponimento loro persistessero, gli avverta che scapiterebbero assai nell'onorato concetto che il mondo si è formato di loro, e che a tutti noi apporterebbero grandissimo cordoglio. Il proverbio antico diceva, che nè anche Giove piace a tutti; come possiamo pretendere _piacere a tutti noi, che per certo Giove non siamo_?» Ancora nel giorno 29 ottobre 1848, a ore 9, mi mandavano il seguente Dispaccio telegrafico: «_Questa sera_ a ore 11 fu bruciato lo infame e tristo Giornale _La Patria_. Il medesimo urtava il nuovo Ministero, e quindi la intera popolazione livornese. Fu condannato ad essere bruciato in mezzo di Piazza; poscia il Popolo ha proibito al Direttore della Posta, pena la _morte_, di farlo introdurre in questa valorosa città di Livorno. A scanso d'inconvenienze rimetto a lei giudicare chi ha torto o ragione.» Ed io subito, dopo men di due ore, rispondeva per la medesima via al Consigliere Isolani: «Male, male. La _Patria_ è ostile a noi. _Motivo di più per rispettarla_. Se la pubblica opinione ci sostiene, perchè mai violenze? Scriva la _Patria_; quanto più scrive, più mostra la bassa invidia a cui manca perfino la decenza. Questo dispaccio si parte dal Guerrazzi, e non dal ministro Guerrazzi.» Così io raccomandava un Giornale piuttosto mio persecutore che avverso; Giornale, che non aveva aborrito di rovesciare sopra di me la calunnia, quando oppresso e imprigionato non poteva rispondere, ed ogni sua parola pesava nella bilancia della Giustizia a mio danno; Giornale, che più di ogni altro si affaticò a spargere le triste voci, che adesso raccoglie diligentemente l'Accusa per tessermene una corona di spine; — Giornale, che dettato, per non dire altro, da chi una volta fu amico, doveva per pudore tacere; però che, secondo la greca sentenza, l'amicizia cessata sia un Tempio di cui, remosso il Dio, voglionsi venerare le pareti mai sempre in memoria della Divinità. E la raccomandazione bastava, sicchè il Giornale poteva essere distribuito liberamente di poi. Peccati veniali erano quelli pei tempi che correvano, nè avrei potuto finalmente volere, che agl'incendiatori di un foglio fosse applicata la pena del taglione! Siccome non fui vile, perseguitato; non conobbi vendetta, potente. — A sedare i tumulti di Portoferraio, di concerto di S. A. e del Ministro D'Ayala, presi le determinazioni opportune _illico et immediate_; nelle stanze stesse del Granduca, lui presente, dettai la commissione; mandammo pel Sig. Giorgio Manganaro, e senza perdita di tempo, lo spedimmo subito subito alla Isola dell'Elba.[37] Andò, sedò, arrestò i supposti autori, e li tradusse davanti ai Tribunali ordinarii. I Tribunali _assolverono_.[38] È mia la colpa, dite, se i _Tribunali allora_ erano facili a scusare, come _adesso_ lo sono a punire? È mia la colpa, se gli uomini, diventati barometri, ad ogni lieve impressione di caldo e di freddo abbassano od alzano il loro mercurio? È mia colpa se, istrioni sopra la scena del mondo, talora essi sostengono la parte di Tito, tal altra quella di Dracone? Volete sapere come scriveva all'ottimo Giorgio Manganaro a schiarimento di certi suoi quesiti? «Signore Giorgio Manganaro. Firenze 21 novembre 1848. Io odio le vie eccezionali: sono da deboli. Il Granduca ha fatta l'amnistia: vedasi se G...... vi sia compreso; ciò spetta ai Tribunali. Dove non sia compreso, procedasi con rigore apertamente, e giustamente. In ogni caso, da qui innanzi chi rompe paga senza paura. Addio.» Io dunque al mio dovere adempiva; perchè non lo adempirono tutti? Il tripudio per la morte del Rossi non fu opera del Governatore; pure lo appuntai di essersi presentato al Popolo; barbara cosa lo reputammo, ed era; fin da quel momento desiderai occasione di rimuovere il Pigli da Livorno, e quando capitò senza timore di resistenze tumultuarie, lo rimossi. Ma in questo modo parlando di Carlo Pigli, io non posso astenermi, nè devo, da aggiungere che non cuore malvagio, il quale anzi io gli conobbi compassionevole e buono, ma difetto di sufficiente costanza a resistere alle improntitudini altrui lo indusse a dire parole di cui egli ebbe a pentirsi amaramente poi.[39] Io so come un visconte D'Arlincourt abbia scritto, che il conte Mamiani, il principe di Canino, Sterbini ed io deliberammo a Livorno la strage del Rossi. Pare che questa prima deliberazione non bastasse, perchè, secondo lo egregio Visconte, lo atroce omicidio fu messo di nuovo a partito a Firenze in Via _Santa Apollina_ (com'egli dice), e fu tratto a sorte chi dovesse fare il colpo fra Montanelli, Sterbini, Galletti e Canino; e la sorte ad arte si operò che cadesse su l'ultimo di loro. Ma nè anche queste deliberazioni bastarono; perchè il negozio succedesse col mistero necessario alle opere di sangue, decisione uguale fu presa a Genova nell'Albergo Feder, e a Torino nel Circolo Gioberti (_Italia rossa_, pag. 82). — Tali e siffatti gesti per me si operarono, finchè, secondo che ci ammaestra il pro' Visconte, il Popolo tornava a sventolare l'_antica bandiera toscana turchina e rossa invece della tricolore_ (_Ivi_, pag. 87). Io deploro col profondo del cuore, che altri siasi reputato offeso da cotesto sciaurato; e troppo più deploro, che per le costui ribalderie nobile sangue italiano sia stato in procinto di versarsi. Lasciate andare; cotesto è fango, e del peggiore, che schizza mentre passa a rompicollo la treggia della reazione. — Oh! antica nobiltà di Francia quanto basso caduta..... Se le violenze elettorali non furono potute prevenire, furono però represse in Firenze _dalla mia stessa presenza, recandomi di persona ad ogni_ Collegio Elettorale in compagnia del Sig. Baldini maggiore della Guardia Civica, nè mi ritrassi, finchè non rimasi sicuro che ogni cosa andasse in ordine.[40] Passando da Pisa, per una parola che profferii, venni sottoposto a processo! — E la parola fu questa. Antonio Dell'Hoste, uomo egregio, aspettatomi alla Stazione della Strada Ferrata, mi diceva: «Grande essere in Pisa il perturbamento per l'elezioni; dolergli nel profondo che avessero tolto il nome suo a pretesto di sommossa; avere dichiarato invano non potere accettare ufficio di Deputato; provvedessi, perchè forte temeva che in cotesto giorno avrebbero rotto o urne, o teste.» Io gli rispondeva, mancare di autorità per provvedere; ciò spettare ai Magistrati locali, che avrebbero fatto buono ufficio ricorrendo alla Guardia Civica; e siccome egli sembrava dubitare della energia di quelli, della efficacia di questa, io replicava: «E allora, o come pensi che potrei provvedere io? Ho forse meco uno esercito? Confido che non avverrà cosa da deplorarsi; in ogni evento, _meglio sarà che rompano le urne, che le teste_.» E questo favellai nel senso proverbiale di chi dovendo scegliere fra due partiti tristi accetta il men peggio. Meglio è cascare dalle scale che dalla finestra, costuma dire il Popolo; nè per questo si pensa, che uomo desideri rotolare le scale; e nonostante fui accusato! Vedi se incominciò a soffiare rigido il vento davvero! Manco male, che mi posero fuori di accusa senz'altro danno; altrimenti avrei imparato quanto sia pericoloso discorrere per proverbii. — Nei Paesi Costituzionali, anche in tempi ordinarii, il periodo delle elezioni non passa senza disturbi più o meno gravi;[41] e quello che merita considerazione fra noi si è, che, nonostante lo agitarsi della gente, poterono essere eletti quelli che intendeva escludere, e l'elezioni furono lasciate libere per modo, che uno Scrittore ebbe a dire, che il nostro Ministero contava nel Consiglio Generale _tre voti_ soltanto;[42] avesse almeno detto sei, manco male! Sei eravamo Ministri, e tutti deputati; e che avessimo a fare come Licurgo, il quale piantando la vite si tagliò le gambe, non è poi da credersi, nonostante la pesa autorità dello Scrittore allegato. Ad ogni modo, l'elezioni allora e poi furono liberissime per la parte del Ministero; nessuno ardì rimproverarlo di brogli o di arti consuete pur troppo ad usarsi dal Potere per procacciarsi la maggiorità. Intorno alla insinuazione benevola, che tempo avessi e modo di prevenire, accennerò, che dei giorni elettorali, uno e mezzo, cioè _quello preciso_ in cui avvenne la rottura delle urne a Firenze, passai in viaggio e a Livorno per esercitare lo ufficio di elettore, donde a gran fretta venni richiamato per ovviare al rinnuovarsi del tumulto; e che avendo voluto libere sempre l'elezioni, e vigilato di persona perchè uscissero libere siccome veramente elle uscirono, se avessi potuto immaginare che per un momento fossero state disturbate, avrei fino dal _primo_ giorno provveduto, come feci il _terzo_.[43] E qui mi gode l'animo di riportare una parte di lettera che scrissi nel 27 novembre 1848 al signore Andrea Padovani gentiluomo livornese, in risposta di certa sua nella quale tenevami proposito di Ridolfo Castinelli, non voluto da un partito deputato a Pisa, e non pertanto eletto a Pisa e a Castelfranco, patria dei miei padri, per opera in ispecie dei miei parenti ed amici: «Il Ministero è deciso a fare rispettare la Legge, e ha preso le sue disposizioni in proposito: spera che non sarà condotto ad estremità; se lo fosse, con meno jattanza di altri, ma più costanza assai, dichiara, che saprà morire al suo posto. Però supplica che i prudenti non accrescano difficoltà alle già tante che lo tengono oppresso: prudenza dunque e gravità. Tutti si uniscano a noi per creare un governo, una amministrazione, una qualche cosa che difenda e assicuri, e poi ci mandino al diavolo. Se altri ha mezza voglia di mandarci, noi l'abbiamo intera per tornarcene a casa. Per me mi sento sbigottito dalla fatica e dalle rinascenti difficoltà. Questa lettera potrà sembrarti severa, ma ti dimostrerà parimente che io ti stimo e che sono degno della tua amicizia. Addio.» Confido, che quanti leggeranno questa Apologia, con voglie pronte si affretteranno a mandarmi le lettere che posseggono di mio, le quali valgano ad allontanare da me le turpi imputazioni dell'Accusa. — Certo non mancherà essa di persistere che le mie parole sono astuzie di chi doppio ha il cuore per mostrarsi alla occasione o topo o uccello, come il vipistrello del Padre Moneti. — Facile è insultare l'uomo oppresso e in carcere.... e se verecondia e giustizia non fanno inciampo a questa facile a un punto ed infelice potenza, davvero non posso farcelo io. Tra i miei Giudici e me giudichi il Paese. Le violenze voglionsi sempre prevenire, e, quando non si può, almeno reprimere; però biasimati come meritano coloro che oltraggiarono gli scrittori della _Vespa_, è forza che io apra l'animo mio intero intorno alle parole dell'Accusa: essa loda cotesto Giornale come quello _che aveva avuto il coraggio di farsi oppositore al Ministero_. Calunnia perfida, insinuazioni iniquissime, vituperii senza fine erano le arti della _Vespa_, e l'Accusa trova parole di lode per lei! — Quando ogni altro riscontro mancasse per dimostrare con quale e quanta stemperatezza proceda l'Accusa, basterebbe questo uno. Dunque animosi erano tutti i calunniatori del Ministero? Egregi uomini quanti lo vituperavano? L'Accusa, nello infinito odio contro il mio Ministero, non è contenta di averlo maledetto, Nella ira del Signore ingenerato, Figliuolo della morte e del peccato; non le basta, che pesi su lui la condanna di Caino, però che alla fin fine Dio vietò che uccidessero il fratricida: adesso ella mi mette a pari del lupo, e sembra avere desiderato che dessero la taglia dei dieci scudi a chi portava la testa mozza di questo Ministero licantropo. Il torto non è di coloro che mi correvano addosso: egli è evidente; il torto era tutto mio, per non essermi rassegnato di buona grazia a farmi lacerare. Cecità di partiti! Vogliono ricostruire l'Autorità, e commendano coloro che l'Autorità distruggevano! Nè vale opporre: ma voi ci eravate esosi; — non importa; — se consentanei a voi stessi, noi eravamo Autorità, e tanto bastava perchè ci aveste dovuto rispettare, e difendere. Vedete David: egli odiava Saul; grande era il comodo che risentiva dalla sua morte; e nonostante, in venerazione dell'Autorità, ordina sia tolto di vita lo Amalechita che mise la mano su l'unto del Signore. Certo capitano Côrso, che io ho conosciuto, dopo essersi arricchito seguendo le fortune della prima rivoluzione di Francia, professavasi adesso sviscerato dell'Autorità. Nel 1830 i suoi figli travagliandosi nei nuovi sconvolgimenti, toccarono da lui un fiero rabbuffo: e siccome essi per iscusarsi gli rammentavano le sue geste operate nella rivoluzione, egli rispose: _Tacete! cotesta rivoluzione era giusta perchè c'era io_! — Così l'Accusa a me: _Tacete! cotesta non era Autorità perchè ci eravate voi_. — Le stesse premesse di passione conducono alle medesime conseguenze di errore. Un Giornale _onesto_, non _parziale_ del Ministero, _amico_ dello Statuto, ecco come qualificava _allora_ a viso aperto i libelli che all'Accusa _basta il cuore adesso_ salutare col nome di GENEROSI OPPOSITORI AL MINISTERO. «Quello che oggi è accaduto in Firenze potrebbe però dalla sola malevolenza attribuirsi al Popolo, o anche ad un Partito. Un attruppamento di forse 20 persone si è recato alla tipografia Passigli, si è impadronito delle _forme_ del giornale _la Vespa_ ec... Noi non troviamo parole sufficienti per flagellare certi VITUPEROSI giornali di tutti i colori, che mercano oro bruttando di fango quanti sono loro avversarii, e che alla discussione calorosa, ma urbana e ragionata, sostituiscono la CONTUMELIA VILLANA E LA CALUNNIA. Questi DEPRAVATORI della Morale pubblica, questi BASTARDI PARASITI della libertà della stampa, dovrebbero trovare degna punizione _nel disprezzo e nell'abbandono delle oneste persone_, se molti cui piace ridere delle ferite fatte altrui, tenerissimi poi della propria pelle, non gettassero, a nutrire tanta bruttura, un soldo per comprare un minuto di stupido passatempo, per non dir peggio. E sì, per Dio! che son tempi questi da ridere e da scherzare leggiadramente, e da cercare sollazzo frugando nel santuario delle pareti domestiche, o alzando il velo che cuopre i segreti, che dovrebbero essere inviolabili, della vita privata! Un bel Popolo degno di libertà veramente saremmo noi se dovessimo essere giudicati dalle sozzure che si vanno stampando e affiggendo pei canti della città! La cosa non va per questo modo, la Dio mercè; ma neppure dev'essere lecito in un Popolo ordinato civilmente, che ha leggi e Governo, ai primi venuti d'andare a farsi di proprio moto vendicatori della Morale pubblica.» — (_Nazionale_, 3 gen. 1849.) _I vituperosi, i villani, i calunniatori, i sozzi depravatori, i contennendi da quante sono oneste persone_ nel 1849, nel 1851 diventano _generosi oppositori per l'Accusa_! In verità, siffatte considerazioni talora mi spingono in volto il rosso della vergogna di essere nato uomo, e nell'anima uno sgomento, che poco più è morte. — O Patria mia! Fra le quotidiane calunnie, la _Vespa_ diffuse quella, che io avessi ordinato il Palazzo del Marchese Ridolfi si manomettesse, e, fedele poi al mio programma, gli avessi fatto pagare il guasto!! Per chiunque intende gentilezza che sia, il mio ufficio m'imponeva tutelare tutti, particolarmente poi il signor Cosimo Ridolfi, che mi era proceduto infesto senza ragione. Si rimproverava un fatto falso, e mi pareva che costituisse vera calunnia. Chiamai il Magistrato, e gli dissi adoperasse per noi la difesa che avrebbe usata a favore di ogni altro cittadino: nella repressione dei delitti rammentasse che il Governo non proteggeva la Magistratura, ma all'opposto la Magistratura il Governo. Esaminasse, e vedesse quello che in sua coscienza era da farsi.[44] Il Magistrato esaminò e referì: non correre tempi propizii per questa sorta accuse; la difesa avrebbe saputo togliere di mezzo ogni ombra d'imputabilità: non persuadergli la coscienza d'instituire processo. Davanti alla coscienza del Magistrato tacqui: però con profondo sconforto notai, che il tempo governava cose che non avrebbero dovuto governare ragioni di tempo. A Lucca parimente non omisi provocare l'azione dei Magistrati contro i delitti della stampa, ma il Prefetto avvisava: «Il Pubblico Ministero non crede incriminabili gli articoli della _Riforma_, e così _l'Autorità Governativa non può agire contro essa!» — Heu Hector quantum mutatus ab illo_! A reprimere le sfrenatezze della stampa, occorrevano due mezzi legali, e vennero praticati: i Tribunali; e assolverono, trovando i _tempi poco favorevoli_ a simili accuse: il richiamo dei Direttori dei Giornali; e dissero avere vinta la mano dagli scrittori. Io, e _il Processo lo attesta_, esortai qualche Direttore a smettere la veemente polemica, offerendomi pronto a fargli toccare con mano come il suo Giornale proseguisse uno scopo ad ottenersi impossibile. Il Prefetto di Firenze ai Direttori di Giornali di varia opinione raccomandava reciproca cortesia e temperanza.[45] Ad ogni evento vi erano leggi repressive; eranvi Magistrati a posta per invigilare; nè l'Autorità governativa può, nè deve, senza sconvolgere ogni diritto ordine di reggimento, mescersi da per tutto: in siffatte faccende il _Governo attende soccorso dalla Magistratura, non glielo partecipa_. Avvertasi per ultimo se _complice_ o _impotente_ repressore di violenze fossi io! — Arrestati alcuni prevenuti di guasti alle campagne dei signori Bartolomei, così ordinava col Dispaccio telegrafico del 16 novembre 1848: «Bene, benissimo: adesso procedura immediata: si sospenda ogni altro negozio al Tribunale: pena la indignazione sovrana se i Magistrati, nel più breve tempo possibile, non terminano questo negozio: impieghino giorno e notte; si dia pubblicità alla discussione: prenda parola il Procuratore Regio; energia, o _fra un mese la Toscana diventa un mucchio di cenere_.» Grave fatto fu quello dello Arcivescovado; ma simili successi, come inopinati e improvvisi, male possonsi prevenire. Bene si possono, anzi si devono castigare. È colpa mia, se gli Ufficiali non sapevano, o aborrivano dal proprio dovere? Le inquisizioni furono ordinate; perchè non proseguite? Il Governo ha da fare tutto? Può provvedere a tutto? Di tutte le paure, di tutte l'esitanze, di tutte le negligenze ha da essere becco emissario il mio Ministero? — Il _Monitore_ del 23 gennaio 1849 così manifestava l'animo suo vituperando il fatto: «Pochi facinorosi e un branco di ragazzi tentarono violare la santità dello asilo (dello Arcivescovo), con generale reprobazione di tutti i buoni Fiorentini, dei quali non pochi si adoperarono onde desistessero dallo spingere più oltre le violenze. Il Governo non può nè deve tollerare qualunque trascorso che tenda a turbare la pubblica tranquillità o infrangere l'autorità delle leggi. Sono già state prese le misure opportune, e _la Giustizia sta in traccia dei colpevoli, che saranno puniti con tutto il rigore_.»[46] L'Accusa poteva rammentarsi che mercè le mie premurose istanze l'Arcivescovo fu richiamato in Firenze, che egli a me si affidò, e che io, con sommo studio, correndo pericolo grande, attesa la malvagità dei tempi, lo assicurai nello esercizio liberissimo delle sue funzioni ecclesiastiche. La opposizione del Roberti a presentarsi a Firenze, era ella cosa da rammentarsi nemmeno? _Dat veniam corvis, vexat censura columbas_! E nonostante, col Dispaccio telegrafico del 13 novembre 1848, ore 6, fu mandato: «Se Roberti (Giorgio) vuole dimettersi, accettisi la dimissione.» E nel 18 detto: «Roberti obbedisca e venga a Firenze; se disobbedisce, si cassi dai ruoli.» Roberti obbedì. Le violenze contro i signori Bartolomei ed Henderson furono con alacre operosità represse. «Sono state prese le opportune disposizioni perchè non si rinnuovino violenze a carico dei proprietarii della sega a vapore.» (Dispaccio telegrafico dell'8 novembre.) — «Ma avvertasi, che nulla accadde di _violento; vi furono solo minaccie_.» (Dispaccio telegrafico Isolani del 7 novembre.) — Rispettivamente ai sigg. Bartolomei, ecco come io ordinava a ore 4, min. 55, del giorno 11 novembre col telegrafo: «Si proteggano ancora i Bartolomei. _Appunto perchè mi hanno fatto male, debbono essere protetti_. Se fosse diversamente, ridonderebbe in infamia per noi.» — Alle ore 6, min. 43, del medesimo giorno, mi rispondeva il telegrafo: «La dimostrazione contro i Bartolomei era incominciata col suono di un tamburo; l'ottimo Petracchi l'ha dissipata.» — Perchè mi appone l'Accusa disordini che furono prevenuti? Nel giorno 13 novembre, a ore 6 pom., per via telegrafica comando al Governatore di Livorno: «Si proceda _subito_ allo arresto dei violatori delle proprietà Bartolomei; _subito_, fossero anche miei fratelli.» Perchè mi appone l'Accusa disordini che così acremente repressi? — Più benigni a me dell'Accusa i pretesi ingiuriati, della ottima mente loro mi dettero poi prove tali, che a me duole non poterle riportare in questo Scritto, però che onorino la umana natura e riposino l'animo stanco dalla vista di tante iniquità.[47] Non so se io debba continuare nella storia delle sommosse accadute durante il mio Ministero e degli sforzi operati per sedarle, perchè io vedo con paura che tutto mi si ritorce contro. L'Accusa, intorno ai fatti riportati fin qui, mi dichiara _complice, o impotente per vizio di origine_; riguardo ad altri fatti che mi riusciva impedire, l'Accusa ne trae argomento a ragionare nella seguente maniera: poichè l'Accusato _potè_ impedire molte intemperanze, segno è certo che alle altre che accaddero egli _non volle_. Così non salva tenere nè lasciare; così perde ugualmente fermarmi e fuggire. Se non riesco resistere, sono complice; se riesco, sono reo per non essere riuscito di più. Un cammello può portare il carico di mille libbre; ma perchè non ne portava due mila, sia condannato a morte. Tale è la legge dell'Accusa: — fiera legge invero! Ma la Storia non giudica così, e tale registra splendido elogio del Lafayette, a cui pure non venne fatto riparare tutto quello ch'ei volle: «Lafayette adoravano le milizie, quantunque il vincolo della vittoria non le legasse a lui; pacato uomo egli era, e ricco di partiti in mezzo ai furori popolari; — però, malgrado la sua operosa vigilanza, non sempre giunse a capo di vincere i tumulti delle moltitudini, imperciocchè, per quanto sia spedita la forza, non può trovarsi presente da per tutto contro un Popolo da per tutto sollevato: — spesso lottava contro le fazioni senza fiducia, ma con la costanza del cittadino, il quale non deve disertare mai la cosa pubblica, quando anche disperi di poterla salvare!»[48] Una frase _scoperta_ dal Decreto del 10 giugno 1850 viene accolta con amore e accarezzata dal Decreto del 7 gennaio 1851: il Ministero fu _complice, o impotente_. Ora come in suprema accusa possono queste due parole congiungersi in virtù dell'alternativa? Immenso è lo spazio che passa dall'uno stato all'altro. Nella misura della imputazione, alla _impotenza_ corrisponde venia e favore; alla _complicità_, odio e castigo. O Ministri, che adesso reggete le sorti toscane, e che, credendo in me l'uomo soltanto flagellato, di me non curate; attendete e avvertite, che con l'uomo va a stracci la prerogativa ministeriale. La via di Palazzo Vecchio per me insegna, che può diventare quella del Calvario, e di ora innanzi metterà ribrezzo percorrerla, perchè se un Tribunale potrà intorno al Ministro caduto aggrappare non solo i proprii fatti, ma anche gli altrui, e di tutti chiedere al medesimo ragione, e, nulla intendendo delle necessità politiche, lo porrà nelle consuete condizioni della vita di uomo che può volere e disvolere a suo senno: — se di pratiche dilicate, condotte con opportuno mistero, egli pretenderà prove _luminosissime e chiarissime_; — se il concetto di atti operati con la discretezza imposta dai tempi, ed anche con dissimulazione, presumerà dimostrato con riscontri, e dirò quasi con _istrumenti_ e _chirografi univoci_ e non _equivoci_; — se di più, questo Tribunale andrà a pescare gli elementi dell'Accusa nelle parole della Tribuna, e nei Giornali, che ne sono l'eco; — se l'ora della lotta penserà che sia l'ora della Giustizia, e le furie dei Partiti pacate consigliere del giudicare, quale Ministro mai, quale Ministero si salverà? L'Accusa me incolpa, _per essermi limitato a rinviare gli avvenimenti più scandalosi alle ordinarie vie di giustizia_. Io temo comprendere troppo, o troppo poco. O dove aveva a rinviarli io? Forse come Mario reduce a Roma, col negare o col rendere il saluto, dovevo indicare ai satelliti i cittadini da trucidarsi? Agendo come l'Accusa rimprovera, io adempiva al mio dovere; lo hanno tutti ugualmente adempito? O piuttosto talora con pusillanime oscitanza, tal altra con quello _zelo serotino e importuno_ (_che fu il terrore del Talleyrand_) non abbandonarono o imbarazzarono il Governo?[49] Ma sia che vuolsi, io continuerò nella narrativa di quanto mi fu dato, come Ministro, operare in benefizio del Paese, onde il Paese giudichi me e i miei Giudici, e veda se io mi merito lo insulto (e non è il solo) che essi mi gettano in faccia: «_va, tu fosti un complice tristo, o uno imbecille impotente_!» La Plebe Castagnetana insorge con moti comunisti. È repressa energicamente con lo invio di Commissione speciale.[50] Attentati contro le foreste dello Stato repressi, nonostante il pericolo di sloggiare gli scarpatori armati di pianta in pianta.[51] Guasti di palazzi, attentati d'incendii prevenuti, o repressi. Aggressioni e latrocinii prevenuti parimente o repressi.[52] Plebe Pratese tumultua e minaccia ardere le fabbriche dei cappelli di paglia; con pronti rimedii è frenata.[53] Plebe di Campi irrompente contro le proprietà dei cittadini tenuta in rispetto.[54] Campagnuoli infestanti le vie maestre e i pubblici passeggi, estorcenti danari ai passeggeri, sorpresi e arrestati.[55] Contadini e Plebe Fiorentina invadono il negozio Peratoner sotto pretesto di cambiare i _Buoni del Tesoro_, e minaccianti pel medesimo motivo la banca Fenzi, repressi, nella deficienza di pronta forza, con la mia stessa persona.[56] Plebe e contadini di Firenze, nella notte del 27 gennaio 1849, percorrono la città, gridando: «Morte ai codini, fuoco alle case;» insultano Veliti e Guardia Civica; invadono i corpi di guardia delle Delegazioni, infrangono porte, e minacciano di morte il Delegato Carli. Cresce il tumulto in Borgo degli Albizzi e in Via Calzaioli. Eduardo Ricci muore di coltello. Un Campigiano è arrestato; gli altri fuggono. Cotesta fu notte in cui più di uno tremò nel suo letto, e le pattuglie esitavano di mettersi a sbaraglio in mezzo al tumulto. Io era per le strade improvvido di me, attendendo al dovere di tutelare la pubblica sicurezza. Sì certo, il mio dovere; ma è pur forza dirlo, egli è più facile assai dare il consiglio, che lo esempio di avventurare la vita per mantenere l'ordine della città: e la città fu quieta; i facinorosi posti in mano alla Giustizia. I Giornali della Opposizione sbigottivano pei nuovi mostri; il Governo deprecavano a tentare i _supremi sforzi_ per ritrarre il Paese dal fatale sentiero dove precipitava; avvertivano come il Ministro dello Interno nella risposta allo Indirizzo della Corona, prendendo le parti della Commissione, intendesse che lo inciso relativo ai disordini si conservasse, e ciò feci non solo perchè fosse richiamo costante alle cure mie, quanto perchè durasse ammonimento ai Deputati, che male l'ordine si consiglia, e peggio si spera conseguire, se i facili consiglieri non sovvengono con pronte voglie la opera governativa. — Infine, a fronte scoperta annunziavano comparire sintomi quotidiani di potente _reazione_, e gente perversa che, sotto sembianza di difendere la libertà, per via di tumulti e di scandali cospirava ad opprimerla.[57] Troppo fastidiosa opera sarebbe ricordare tutti i casi di simile natura, successi durante il mio Ministero: bastino gli esposti per chiarire, come la plebe cittadina si rimescolasse con la rustica; e come, peggiorata la indole, cotesti moti incominciassero a manifestarsi attentatorii alla vita e alla sostanza dei cittadini. Io vegliava quando la città si dava in balía del sonno; e con l'animo sospeso tendeva l'orecchio se alcun rumore sorgesse, per correre sul luogo del pericolo. Al difetto di ordinamenti e di forze, suppliva con operosità, che mi ridusse in breve a comparire l'ombra di me stesso.[58] In quei giorni pochi erano i labbri di ogni maniera di gente, che non pronunziassero lode al mio nome. — L'ora della ingratitudine non era peranche arrivata! E fermamente credo, che dove ogni barriera non si fosse, per così dire, abbassata spontanea davanti allo impeto della fazione politica e dei tumultuanti, a fine ancora più pravo, non senza lotta forse, ma certissimamente con buon successo, sariasi potuto resistere, ed ordinare lo Stato. — Lasciando alla coscienza pubblica decidere se dirittamente e cristianamente operassero i Giudici, quando mi gittarono in faccia il vituperio di _complice_, o _impotente frenatore_ di turbolenze, io penso potere concludere con queste proposizioni. 1º Forza rivoluzionaria sorse in Toscana fino dal 1847. 2º Ordini governativi furono fino da quel tempo manomessi da prepotente impeto di forza rivoluzionaria. 3º Nel settembre del 1848, rimasero affatto distrutti. 4º Stato alla mia chiamata al Ministero era stremo di qualunque difesa. 5º Non ignavo, non codardo, non infedele custode della pubblica sicurezza fui io. VIII. Di una insinuazione dell'Atto di Accusa, che mi dà luogo a chiarire le sofferte ingiurie per la parte della Polizia. All'_Atto di Accusa_ bastò l'animo toccare la storia delle disoneste persecuzioni da me sofferte nei tempi trascorsi. Poco tempo addietro non s'incontrava anima viva, che volesse accettare la trista eredità del _Potere Economico_; la ricusavano tutti, anzi aborrivanla; però che a così fare persuadessero alcuni pudore, altri la usanza. Adesso, sembra che si pentano della improvvida renunzia, e mettono innanzi non so quali _restituzioni in integrum_, come pei pupilli si costuma fare! Io mi era astenuto favellarne; parevami decoroso per la fama della nostra civiltà non ridestare memorie, che a tutti noi dovrebbe essere grato lasciare nell'oblio: ed io, a cui avrebbe dovuto tornare più ardua la dimenticanza, dimenticava mosso da patria carità. Pensava, che evocare coteste memorie deplorabili si uguagliasse allo agitare che fece Marcantonio, davanti agli occhi del Popolo, la camicia insanguinata di Cesare! Quantunque io considerassi qual tesoro di pietà mi schiuderebbe appo l'universale la esposizione dei patiti dolori, io non ardiva discorrerne, — mi vergognava..... in verità mi vergognava....! Temeva mi si dicesse: tu vuoi commuovere le nostre menti con gli affetti per mancanza di ragioni. Adesso, mercè l'Atto di Accusa, mi è fatta abilità di favellarne, e di ciò grazie gli sieno, imperciocchè io deva credere, ch'egli in bel modo mi abbia voluto porgere occasione di rivelare anche in questa parte le vicende della mia vita. Ecco pertanto le parole_ dell'Atto di Accusa. «Questo imputato ha interessato altre volte, e sempre per cause politiche, ora l'Autorità Governativa, ora la Giustizia, ora la Grazia_.[59]» Cinque sono le piaghe di cui porto le stimate, ed è questa la sesta. Nel 1821, fanciullo di _quattordici anni_, attendevo agli studii forensi nella Università Pisana. Cotesto anno andò famoso per rivoluzioni italiane, specialmente di Napoli. Da cotesto Regno erano mandate Gazzette, le quali, oltre al racconto dei casi, che alla giornata vi succedevano, referivano i discorsi tenuti nel Parlamento da personaggi per chiarezza di fama prestantissimi. La lettura delle Gazzette si permetteva nei Caffè, ed è facile immaginare se la curiosità od altro più nobile affetto le menti giovanili invogliassero a sapere di cotesti successi e di coteste orazioni. Non bastando però una sola copia a soddisfare la impazienza degli scolari, fu stabilito che a turno uno di noi salisse sopra luogo eminente e leggesse. A me toccò la mia volta come agli altri, e voglio confessare più spesso che agli altri, forse perchè avessi o migliore voce, o migliore garbo nel leggere. — Questo fatto mi fruttò la perdita di un anno accademico per _Risoluzione Economica del Buon Governo_. — Se cotesta era colpa, perchè consentire che le Gazzette si esponessero alla lettura nei Caffè? Non pareva insidia tesa a inesperti fanciulli? E se non era colpa, perchè punirci? E chiunque pensi che coteste pene cadevano sopra famiglie numerose, la più parte scarse di averi, e come a molti giovani venissero ad essere rotti per sempre gli studii, ad altri con inestimabile danno ritardati, non dubiterà affermare, che potevano reputarsi _veri omicidii intellettuali_. Ho narrato altrove[60] come, venuto a Firenze, reclamassi della ingiustizia presso il Presidente del Buon Governo, il quale mi disse: _A lui non appartenere la facoltà di graziare; egli non potere fare altro che punire. Alla quale proposta risposi: Io vi compiango, Signore, se occupando un posto dove anche senza volere fate del male, e al mal fatto non potete riparare nè anche volendo, la vostra coscienza vi consente rimanervi_. — Come si chiama questa _Grazia_ o _Giustizia_? Lo dica l'_Atto di Accusa_, chè per me io me ne lavo le mani. Ci era una volta..... e forse vi è ancora, in Livorno un'Accademia dall'antico Ercole Labrone appellata Labronica. Me vollero ascritto alla medesima, e, quantunque non mi sentissi troppo tagliato a diventare Accademico, per non comparire scortese mi lasciai fare. Tenevano allora in cotesto collegio il primato uomini antichi e presuntuosi, usi a convocare una o due volte l'anno i cittadini, perchè ascoltassero i vieti sospiri in rima di qualche pastorello di sessant'anni suonati. Pazze cose invero, ma innocenti fin qui. — Certa sera, ch'era caduta copia di neve, mi chiamavano a consulta per urgenza; andai, e trovai che mandavano a voti certo partito per fissare se di ora in avanti il candidato accademico dovesse proporsi da dodici o piuttosto da tredici Accademici. Aspettai udire cose di maggiore importanza e rimasi deluso, imperciocchè col voto del partito ogni negozio cessasse. Allora io mi attentai avvertire modestamente, ma francamente, che sarebbe stato bene indirizzare l'Accademia a più utile scopo, come a modo di esempio, allo studio della patria amatissima, sia per provvedere alla educazione del Popolo affatto abbandonata, sia per promuovere i commerci e le comodità capaci ad ampliare la floridezza del nostro emporio. — Risposero acerbi, si tennero per ingiuriati, e in brevi accenti dissero, avere fin lì durato in quel modo, ed aborrire da ogni novità. Deliberai congedarmi dall'Accademia; e lo faceva senza porre tempo fra mezzo, se Giuseppe Vivoli, adesso per meriti diuturni eletto Cavaliere, non mi avesse invitato caldamente a dettare lo Elogio di Cosimo Del Fante, valoroso soldato livornese, e a leggerlo nell'Adunanza solenne solita a tenersi nel 19 marzo di ogni anno. Studiosissimo di tutto quanto può ridondare a decoro della patria comune, il signor Vivoli mi conduceva a vedere i vecchi genitori di Cosimo, i quali a cagione della morte dell'unico figliuolo traevano desolati gli estremi giorni verso il sepolcro. Piangeva il padre mostrandomi i documenti delle rapide promozioni del figlio, le insegne e il ritratto; non piangeva la madre, perchè la sventura le aveva offeso il bene dello intelletto. Composi lo Elogio e lo lessi, plaudenti i cittadini benevoli, alla presenza dello stesso Governatore Venturi. I Regolamenti dell'Accademia ordinavano, il manoscritto della composizione letta nelle mani del Segretario si depositasse, ed io trasgredii a questa disciplina, conciossiachè, essendo determinato a licenziarmi, non mi paresse essere più tenuto ad osservarla: e qui fu il danno. Tre Accademici, il nome dei quali taccio, però che uno sia morto e due vivano acciaccati dalle infermità e dagli anni, presi, dirò, da tentazione del Demonio, mandarono scritto al Presidente del Buon Governo, com'io recitando lo Elogio di Cosimo del Fante ne avessi tolto pretesto a predicare massime sovversive _al trono e all'altare_ (allora correva la usanza di coteste parole); a tanto ardire farmi audace lo affetto, che con bontà grande, ma prudenza poca, mi aveva mostrato il Governatore Venturi. Dal Presidente vennero istruzioni per informare segretamente della cosa; e subietto della indagine fu ancora il contegno del Governatore, il quale avendolo subodorato ne sentì inestimabile cordoglio. Egli primieramente, col mezzo del signor Direttore Pistolesi, mi richiese del manoscritto, che subito gli consegnai, e riscontratolo prima, lo inviava a Firenze, affinchè esaminassero la verità, e della calunnia si persuadessero. Tanto poteva bastare; ma sopportando acerbamente la ingiuria che gli pareva avere ricevuta, il Marchese Venturi scrisse lettere minatorie al Presidente, non ostante il mio consiglio a rimanersene, però che le minaccie destituite di effetto, anzichè tutelare dalle ingiurie, le provochino; e gli presagiva ancora, che la burrasca, passando di sopra ai suoi poderi, sarebbe scoppiata sul campicello mio. E fui profeta. Trascorsi parecchi mesi, allo improvviso, senza essere udito nè citato, senza che fatto alcuno mi contestassero, ecco giungere dalla Presidenza ordine al _Governatore stesso_, che m'intimasse la relegazione per sei mesi a Montepulciano. Mio era il danno, la umiliazione del Marchese. Giovane allora e del futuro improvvidissimo, manifestai volontà di ridurmi in Inghilterra; ma il Governatore, baciandomi con molte lacrime e profferendomi quanti desiderassi danari, mi scongiurò ad obbedire; lasciassi a lui la cura del resto; essersi prevalsi dell'assenza del Principe, allora recatosi a Dresda, per dargli quel colpo; dove abbisognasse, si sarebbe deciso corrergli dietro fino a cotesta città per chiarirlo del fatto; stessi di buono animo, chè tutto questo aveva a ridondare in mio maggiore benefizio. Comecchè dubitassi forte dello esito presagito alla trista ventura, pure andai a Montepulciano, repugnando rincrescere all'ottimo vecchio, che mi si era mostrato tanto benevolo. Egli poi non istette saldo nel suo proponimento, e a me toccò consumare i sei mesi nella relegazione di Montepulciano. Il Vicario di cotesta città, se non isbaglio chiamato Marini, mi veniva persuadendo a fare istanza onde la relegazione cessasse; si assumeva egli indirizzarla e raccomandarla, mi assicurava il fine felice: fui grato al buon volere, non accettai il consiglio, e dopo sei mesi tornai a Livorno.[61] Prima che passi ad altro, mi giovi ricordare come arrivato in patria mi s'ingiungesse di non partirmi senza licenza; così nel giro di sei mesi io era _cacciato_ prima, poi _confinato_ in Livorno! — Ora è da sapersi come i promotori del mio infortunio non rifinissero da sussurrare, che il manoscritto da me consegnato fosse tutt'altra cosa da quello letto; ma il tempo ha chiarita la menzogna, imperciocchè da prima fosse stampato a mia insaputa a Marsilia, poi liberissimamente in Toscana _mentre durava la Censura preventiva_; le quali due edizioni, dove si collazionino col manoscritto, che so trovarsi negli Archivii della cessata Presidenza, si conoscerà essere uguali per l'appuntino. Uno dei miei segreti denunziatori prima di morire commise al Cavaliere Vivoli d'impetrargli perdono da me, ed io lo concessi di cuore; pregato inoltre a dettargli lo epitaffio, lo feci senza adulazione, perchè invero egli era stato uomo di molta scienza e benemerito della mia città nella moría del 1804. Un altro non aspettò cotesto estremo punto per acquietare la sua coscienza, ma venne cristianamente per mercede, e cristianamente fu accolto; e ci baciammo in bocca, dannando all'oblio la ingiuria fatta e patita. Il terzo, un giorno pretese giustificarsi appo me, profferendo mostrarmi lettere donde resultava la pressura fattagli di unirsi agli altri due. Fosse vero o no il suo dire, cotesta era ignobile ricerca: la ricusai, invitandolo a dare al fuoco le carte, come io avevo dato alla dimenticanza il caso. — «Bruciate cotesti fogli, raccomandavagli istantemente, onde i nostri figliuoli non li trovino e si vergognino di noi.» — Durante il Governo Provvisorio, il Presidente del Buon Governo, che di questi e di altri travagli aveva contristato la mia giovanezza, fu il _primo_ che a scadenza di mese mandò la ricevuta per riscuotere la paga. I miei orecchi sono stati saziati di encomii, e non gli ho avvertiti; ma questa fiducia posta nell'animo mio mi toccò nel profondo: grande era dunque la opinione della mia generosità! I miei compatriotti giudichino se io l'abbia meritata. Che cosa fosse questa o _Grazia_ o _Giustizia_, lo dica l'Accusa, perchè io mi professo incapace a chiarirlo. — E passo alla _terza piaga_. Talvolta, non sempre, per sollevare l'animo e il corpo stanchi dalle continue fatiche, mi recava per qualche ora la notte in certa compagnevole brigata dove cenavamo, fumavamo e novellavamo a nostro agio. Convenivano quivi giovani appartenenti alle principali famiglie della città, ora uomini che il Governo annovera meritamente tra i fidatissimi suoi. Un bel giorno siamo chiamati davanti il Commissario di Polizia io e Domenico Orsini, persona dimostratasi sempre amica di quiete, onorata d'impieghi, tenuta anch'essa in conto di devota alla Monarchia Costituzionale; e ad ambedue noi il Commissario di Polizia fece motto di cospirazioni, di sètte e di simili altre fatuità. Rovello della Polizia a quei tempi era volere da per tutto cercare congiure: sentii dire, che gliele pagassero quando le aveva trovate, sicchè i bracchi tenevano sempre il muso a terra, e, non volendo tornarsi mesti ed anelanti a casa, quando non levavano congiure abbaiavano per far credere ch'elle fossero nel macchione. Fummo ritenuti due mesi in carcere: per questa volta vidi un Decreto, ma invano cercai il motivo della condanna; se ben ricordo, la breve scrittura conteneva una frase equivalente al _causis nobis cognitis_. — E se vuolsi aver saggio del caso che a quei tempi facevasi della libertà dell'uomo, si sappia come mio fratello Temistocle venisse a visitarci quasi quotidianamente. Certo giorno, su l'andarsene, il soprastante alle carceri gli diceva che bisognava si trattenesse là dentro; e il mio fratello rispondeva: rimarrei volentieri, ma i miei negozii mi chiamano altrove; — e l'altro: ho ricevuto poco anzi l'ordine di non lasciarla partire. — Oh! allora è differente la cosa. — Insomma anche il fratello un mese in prigione per colpa di visitare il fratello. _Male incoglieva a quei tempi praticare le opere di misericordia corporale_! — Ho udito raccontare come nei tempi antichi corresse usanza di allevare al fianco di regio alunno un fanciullo di piccolo stato, onde quante volte il primo cadesse in colpa, tante potessero bussare il secondo, onde quegli con la sola vista della pena si emendasse, e questi il dolore (ch'è retaggio plebeo) sofferisse. La Polizia, sospettosa del consorzio innocentissimo degli spettabili giovani, io penso che percuotesse sopra di me, come persona di minore importanza, per incutere negli altri _salutare terrore_. — Intanto un senso di molestia per tutta la Toscana diffondevasi; in ogni classe di cittadini era ansietà affannosa, sgomento crescente, e un domandare quando cotesti incomportabili arbitrii avrebbero fine, e uno instare continuo affinchè il mostruoso instituto cessasse. Fu reputato colpa dell'uomo quello che era vizio del maestrato, e il primo dimisero, il secondo conservarono. Noi uscimmo di carcere punto lieti della caduta del Presidente, poichè si manteneva in piedi la Presidenza.[62] Se questa fosse _Grazia_ o _Giustizia_, l'Accusa avrebbe potuto informarsene da qualcheduno di quelli che porsero grazie pubbliche al Principe di avere affrancata la Toscana dal turpe giogo della Potestà Economica. Eccomi alla _quarta piaga_. La Polizia non aveva punto deposto lo antico sospetto, dacchè ella appartenesse a quella maniera di bestie, delle quali si dice che perdono il pelo, il vizio mai. Erano suoi fantasimi le sètte segrete. La svegliatezza degl'ingegni, la pratica degli umani negozii, la indole espansiva, non meno che certo costume antichissimo, ormai fra noi diventato natura, di aprire l'animo nostro a libera indagine intorno agli atti governativi, hanno impedito sempre che siffatte congiure allignassero in questa terra;[63] nè altrove abbiamo potuto intendere di che cosa sieno state capaci. Eranvi in Francia sètte segrete nel 1830, ma senza le ordinanze di Carlo X nulla avrebbero potuto operare; eranvi anche nel 1848, ma se Luigi Filippo consentiva ad alcuna modificazione su la Legge Elettorale, o più tempestivamente rassegnava il potere a favore del nipote, le sètte rimanevano impotenti. Le sètte, e la esperienza lo ha chiarito, non sono mai da tanto di rivoluzionare gli Stati. — Le rivoluzioni nascono dagli errori dei Governi, dallo scontento dei Popoli, e dal cumulo di molte cause che troppo lungo sarebbe discorrere. _Fiorenza non si muove, se tutta non si duole_, dicevano i nostri antichi, e con ciò vollero significare che il Popolo non è portato, ma porta, nè corre dietro alle voglie o alle passioni altrui, ma per le proprie unicamente si agita; e dissero bene. Le sètte, nello scompiglio universale, possedendo il vantaggio di un tal quale organamento, s'impadroniscono, su quel subito, delle faccende pubbliche; ma scemata la improvvisa caldezza, non corrispondendo quasi mai ai desiderii comuni, forza è che cadano come, senza andare tanto oltre, osservammo espressamente in Francia nel 1848. Se ai Governi importa, pei loro fini, mostrarsi atterriti di queste congiure, sì il facciano; ma che uomini politici se ne preoccupino, davvero non è cosa facile darsi ad intendere a chi conosce queste arti. Io di segrete congiure non ebbi mai paura, però temei moltissimo l'universale accoramento[64] del Popolo. Insomma, per me le sètte sono la jena che seguita da lontano le traccie, ma non precede mai il leone della rivoluzione. — Però la Polizia toscana non guardava tanto pel sottile; e perlustrando ogni cosa col microscopio alla mano, le venne fatto di scuoprire una sètta. Davvero, senza microscopio la non si sarebbe potuta vedere; andava composta di poche persone di stato piuttosto misero che mediocre, senza reputazione, senza seguito, prive d'ingegno, destituite di aderenze; la Polizia riputò che elle fossero comparse, e i veri attori stessero dietro le scene. Senza porre tempo fra mezzo, stese le immani braccia, e fatto fascio di gente, la gittò in carcere; tutta lieta di avere trovato il bandolo, già si augurava dipanare la matassa; e che così fosse, si manifesta dalla confusione delle persone arrestate. Infatti all'Elba fummo mandati il Conte Agostini, l'Avvocato Angiolini, Carlo Bini, io, e Carlo Guitera. Incominciate le procedure, alla prima scossa di vaglio e' fu mestieri scevrare gli Ebrei dai Sammaritani. Guitera rinvenuto colpevole con altri di sètta segreta, presto ricondotto in terraferma, subì giudizio, e fu condannato con altri parecchi. A noi rimasti, per la parte della Presidenza, dichiaravano: non essersi trovato fatto capace di appuntarci; però, reputarsi minacciato il Governo, ed ogni Governo minacciato avere diritto di provvedere alla propria sicurezza; noi poi conoscere uomini di mente a lui avversa, e tanto bastargli perchè in tempi difficili dovesse assicurarsi delle nostre persone: nonostante stessimo di buona voglia, chè appena cessati i torbidi, saremmo rimandati alle nostre case. Credete voi novella quanto io vi dico? Dei molti, che ebbi a compagni in cotesto infortunio, mi basti rammentare uno solo, l'Avvocato Generale di Cassazione, Venturi; egli non è capace di mentire, ed egli vi chiarirà se io abbia detto il vero. — Eccomi alla _quinta piaga_. — Quantunque scrittori consapevoli del pericolo in cui io verso del diuturno carcere, e della colpa appostami, abbiano profferite deliberatamente a mio danno parole peggiori delle _siche_ romane; quantunque vaghi della opera e della infamia del vile Maramaldo, essi non abbiano aborrito da ammazzare un uomo morto; quantunque io mi trovi inseguito da oscena caccia, che a cane arrabbiato non si farebbe più atroce; quantunque tremendi diritti mi desse la difesa, e sentissi anima da gittarvi nella faccia il mio sangue innocente onde fosse di maledizione nuova ed aperta a voi, ai vostri figli e ai figli dei vostri figli, pure mi rimango, e desidero tôrre ogni amarezza al mio Scritto, onde alle tante miserie della patria non si aggiunga quella suprema di presentare lo spettacolo turpe di morti che non sanno posare in pace neanche dentro il sepolcro! — Io parlo al mio Paese come davanti un Tribunale di Giurati; io non recuso a giudicarmi nessuno, nè anche i miei nemici, purchè non codardi nè venduti, nè ciechi per la smania di avvantaggiare uno Stato _italiano_ a cui nuocciono pur troppo; questi io gli ho provati senza coscienza, come senza pietà. I generosi, comunque nemici; si rendono giustizia, ed anche questi ho provato. Nella esposizione di questa quinta piaga mi studierò non offendere persona: comprendo sarebbe stato meglio tacere; e che così credessi, lo provi avere taciuto fin qui; ma adesso il silenzio non giova più, dacchè l'Accusa pubblicava la storia da me scritta dei casi dell'8 gennaio 1848, e da me per amore di patria lasciata inedita. L'Accusa non ha voluto rispettare nemmeno il sacrifizio del mio silenzio! Uscito dal carcere di Portoferraio (il quale duole a taluno dei benevoli scrittori ricordati qui sopra che non fosse più lungo), attesi allo esercizio della mia professione con assiduità maggiore di quello che avessi fatto fino a quel punto, inducendomi a prendere questo partito lo abbandono degli amici, l'amara povertà, e poco dopo il retaggio dei miei orfani nepoti. Dio eterno! Parevami questo esercizio di virtù; e nonostante a coro sento attribuirmelo a vizio di cupidigia, di avarizia, e ad altro peggiore. E bene m'incolse essermi armato di provvidenza, perchè una angosciosa infermità mi sorprese, tenendomi travagliato, ora più, ora meno, per bene tre anni. Schivo di compagnia, chiuso, ai miei studii tutto, pervenni al 1847. In cotesto anno principiarono le Riforme, e i moti delle Riforme; vedeva i successi, e tacito considerava; non era cercato, e mi stava da parte. Allo improvviso gli emuli miei (e poi furono nemici), che fin lì avevano posto una tal quale ostentazione ad obliarmi, ecco cercarmi premurosi, e volere anzi costringermi che seco loro mi accompagnassi. Biasimo o laude che ne ridondi, questo s'intenda bene, e si riponga in mente, che altri, non io, anzi me inconsapevole e repugnante, prese ad agitare il Popolo livornese; e le prove abbondano più che non si crede, e le direi se una cosa sola non si opponesse, ed è l'alto, invincibile aborrimento che sente in sè ogni anima, che non sia fango affatto, di adoperare anche a necessaria difesa le arti usate dagli emuli miei per offesa spontanea. — Che cosa gli muovesse, e perchè? Poco importa indagarlo; il fatto sta che vennero in casa mia, mi obbligarono a vestirmi, mi presero per le braccia e pel petto, e a forza mi trassero ad arringare il Popolo nella Piazza di Arme, a forza mi trassero a Pisa. Passate le prime effervescenze, pensai, e scrissi quello di cui tenni proposito nella pagina 21 di questa Apologia. Intanto fu chiesta la Guardia Civica a Firenze, e Guardia Civica si volle immediatamente a Livorno. Mi sia permesso dirlo: il modo col quale essa venne composta in Livorno seminò la discordia nel Popolo, e fu origine di tutti i mali. Alcuni individui, certamente rispettabili, ma allora per inesperienza più che non conviene in simili congiunture imperiosi, stesero una nota di loro amici, o aderenti, disegnarono i gradi, distribuirono gli ufficii; poi recatisi al Governatore Don Neri Corsini, la fecero firmare; il Gonfaloniere Conte de Larderel costrinsero (secondo ch'egli stesso mi referì) a sottoscriverla senza pur leggerla. Di qui nacque che la Guardia Civica in Livorno sorse opera non dirò di un Partito, ma piuttosto di una consorteria, ed anzichè istrumento di concordia fosse motivo d'ingiuria da un lato, di offesa dall'altro, di litigio per tutti. Chiunque più tardi (non ora che la rabbia di parte non lo consente) si farà a dettare storie meritevoli della dignità del nome, troverà come _il modo_ della istituzione della Guardia Civica in Livorno partorisse guai, che altri va stortamente attribuendo a cause diverse. — Ora avvenne che il Popolo escluso dalla Guardia concepisse maraviglioso rammarico, e togliendo pretesto dalla guerra imminente si facesse a domandare armi. Qui è da sapersi come parecchi cittadini, e della Guardia Civica la massima parte, opinassero dovesse il Popolo contentarsi delle ottenute Riforme, e della guerra avesse a deporre il pensiero; opinione, che, a quanto sembra, seguitò poi il conte Pellegrino Rossi, e come ottima viene in questi ultimi tempi sostenuta dal Cousin: altri all'opposto dichiaravano insufficienti le Riforme, inevitabile la guerra; e consigliare prudenza che le prime si estendessero con animo spontaneo fin dove pareva convenevole, ovviando al pericolo che il Popolo si spingesse a quel termine, e nell'impeto sregolato lo trapassasse, e alla seconda si facessero per tempo gli opportuni apparecchi. Devo per verità confessare come taluno dei Civici che procedeva allora schivo d'ingaggiare la guerra, fosse poi dei meglio animosi a combatterla, e per sagrificii di ogni maniera sofferti, e pel valore singolare dimostrato su i campi di battaglia, non si mostrasse a nessuno dei commilitoni toscani secondo. Al Governo si paravano davanti due strade: la prima consisteva nel negare le armi risolutamente, dicendo: «Le armi si domandano e si danno per due motivi, per la difesa interna od esterna dello Stato. In quanto allo interno non ci minaccia alcuno; moti contrarii alle Riforme non sono a temersi; coazioni al Governo, oltrechè non si sopporterebbero, non sarebbero giuste, come quello che volentieri è disposto di compiacere ai diritti desiderii dei Popoli. In quanto alla difesa esterna, non ci potrebbe offendere che Austria; ma avendo essa dichiarato astenersi da prendere parte nelle faccenda altrui, possiamo starcene in pace: dove poi s'intendesse dichiararle la guerra, il Governo al tutto si opporrebbe per questi motivi: — sono i soldati nostri pochi, non bene addestrati negli esercizii militari, della disciplina impazienti; i Popoli miti, repugnanti dalla guerra; e mentre di lieve momento sarebbe il soccorso nostro, troppo grande avventureremmo la posta nel giuoco periglioso, conciossiachè vincendo guadagneremmo nulla o poco, restando vinti perderemmo del tutto indipendenza e libertà.» — Io però confesso di leggieri che in tanta esaltazione di animi, cotesto partito sarebbe stato a praticarsi impossibile. Ma il Governo, procedendo nell'opposto concetto della guerra, a liberarsi da ogni improntitudine poteva dire: «Volete guerra, e guerra sia; e Dio protegga la causa migliore. Però voi tutti, che chiedete armi, nè soldati siete, nè volete diventarlo; ora, le armi sono sempre arnesi di costo grande, oggi poi pel bisogno preziose, per l'uso sante; noi sì le daremo, ma a chiunque voglia adoperarle davvero in benefizio della patria, non già a pompa vana, o ad altro uso più reo. Pertanto chi intende essere armato e vestito soldato per la Indipendenza, venga, e si arruoli per tutto il tempo che durerà la guerra. Gli arruolati saranno spediti senza indugio ai campi disegnati, onde si addestrino negli esercizii, alla soldatesca vita si accostumino, e così portino negli scontri che si apparecchiano, non solo lo ardore che fa i martiri, ma ancora la disciplina che fa i vittoriosi.» Per questo modo i millantatori avrebbero cagliato, i generosi rinvenuto la via a soddisfare gli spiriti bollenti, ai tumulti tolto il pretesto. Il Governo non seppe abbracciare speditamente alcuno di questi partiti; più tardi disse non avere potuto riporre fiducia nei toscani uomini, e ben per loro; però che la molta civiltà acquistata gli rendesse inetti al combattere;[65] parole, che fecero parere bella la stessa barbarie, avvegnadio, che cosa possa essere un Popolo incapace a rivendicare la propria independenza non sappiamo vedere, dove non sia il somaro che porta, lo schiavo che diletta, il buffone che percosso ringrazia per fare ridere il suo signore: tra i flagelli di Dio bisognerebbe allora annoverare la civiltà. Intanto i provvedimenti del Governo parevano scarsi ed erano; la fiducia del Ministero nella vittoria, giovanile jattanza; la sfida di guerreggiare una Potenza famosa in armi, e pertinace nei propositi, con sassi e bastoni, fanciullesco vanto. Le armi promettevansi prima senza prefiggimento di tempo, poi a giorno designato e le promesse riuscivano invano; sicchè alla impazienza si aggiungeva il sospetto, al sospetto il furore, e rendevano procellosi tempi già abbastanza turbati. Sopra la fede di commissioni date e di solleciti arrivi, il Generale Sproni livornese, governatore provvisorio di Livorno, e Celso Marzucchi, assessore, promisero le armi a posta fissa più volte, e più volte, loro malgrado, mancarono. Il Popolo notte tempo circonda il Palazzo del Governo, e prorompe in contumelie bruttissime, e in minaccie: tentano ogni via per placarlo, ma il furore vince ogni riguardo; già molto era cotesto, e si temeva peggio: fatto sta, che il Popolo, occupate le porte, impediva la uscita. In tale estremo, o interrogato o spontaneo, chè io non so questo, il Popolo domanda una Commissione di cittadini, affinchè esamini se le incette delle armi sieno vere, ed essendo, ne solleciti lo invio; il conte Larderel, me, ed altri parecchi nominano membri di cotesta Commissione; se il Governo locale assentisse in quel punto ignoro, — chè io stavo giacente in letto per abituale infermità intestinale, inaspritasi, come suole, nella rigida stagione; — quello che so, è, che il Popolo impetuoso mosse in traccia del conte e di me. Percossa duramente la porta, e referitomi quello che da me si volesse, sorgo tosto in piedi, mi getto addosso una pelle, e mi sottraggo per le scale segrete; il Popolo ricusando fede ai servi, che mi dicevano assente, invade la casa, e fruga camere e sale; parte del Popolo stanziava giù nel cortile, sicchè a me era preclusa la via di uscire, nè la condizione delle vesti lo consentiva. Vedendo che il Popolo non se ne andava, e incominciando a travagliarmi il freddo, deliberai tornare in casa, dove arrivato domandai che cosa volessero da me; e uditolo, significai ai circostanti apertamente: la mia salute inferma non concedermi poterli soddisfare; e schivo di subugli, non volere che il mio nome fosse tolto per segno di opposizione al Governo. Allora essi risposero essere appunto il Governo quello che mandava per me, perchè bloccato in Palazzo non rinveniva la via di uscirne. «Se così è, soggiunsi, il Governo scriva, o invii qualche ufficiale, e potendo mi renderò alla chiamata.» Infatti, non andò guari che lo Aiutante Baldanzi venne a invitarmi per parte del Governatore di condurmi al Palazzo, ed io andai. Quivi erano il Governatore, Marzucchi assessore, Bernardi colonnello, ed altri moltissimi, i quali, se io non erro, mi parvero più che mediocremente pensosi di cotesta tempesta popolare. Salutato il Governatore, lo richiesi di quello che da me desiderasse, ed egli non senza qualche commozione rispose: «Io nulla; il Popolo è quello che la vuole.» — «Non è così, risposi; io mi mossi, dacchè ebbi il suo invito, e venni per farle piacere; stando diversamente la faccenda, permetta che io mi ritiri.» Allora egli ed altri con modi cordiali mi esposero la condizione in cui si trovavano, riusciti vuoti di effetto i tentativi per allontanare le turbe tumultuanti; e poichè sembrava che in me ponessero fiducia, mi adoperassi a sovvenirli in quel duro frangente. E con tutto il cuore lo feci. Infermo, curante il freddo che m'inacerbisce i nervi, nel mezzo di una notte d'inverno, forte soffiando il rovaio, vado sul terrazzo, e parlo in questa sentenza: «Il Popolo avere ragione delle armi tante volte promesse, e non mai consegnate, ma non avere ragione di trascorrere a vilipendii, se il mare e i venti contrarii tenevano il naviglio vettore lontano dal porto. Dio dominare gli elementi; non gli uomini. Tutto il momento della lite consistere a verificare se gli ordini per comprare fossero stati dati ed eseguiti. Questo affermare il Governo, e di questo non potersi dubitare; nonostante, la Commissione riscontrerebbe, profferendo il Governo ogni schiarimento desiderabile, e darebbe fedele ragguaglio il giorno prossimo. Per ora non rimanere altro che ritirarci nelle nostre case, obliando gli avvenimenti deplorabili della serata.» Il giorno veniente mi condussi, per tempo, appo il Generale Sproni, al quale mi legavano vincoli di cittadinanza e di benevolenza (e come i primi non si possono, così confido che neanche i secondi siasi voluto sciogliere in questa procella), e con parole aperte gli favellai: la sera innanzi essermi mosso unicamente per aiutarlo a tôrsi dalla difficoltà nella quale versava; la mia salute, le condizioni di famiglia, il desiderio, e il bisogno di vita pacata dissuadermi da prender parte in cotesti ravvolgimenti. Ma il Governatore, a grande istanza, mi pregava a non ritirarmi dalla Commissione: stessi sicuro; del mio buon volere informerebbe il Governo; lo aiutassi a ricomporre in quiete l'agitata città. Sopraggiunse il Venturi assessore, e mi animava con simili conforti a rimanermi con loro; ogni dubbio deponessi dall'animo: «Ed io, egli dicevami, mi pregio di onestà, e tu da molti anni mi conosci; sicchè non vorrei nè potrei indurti a cosa che ti scemasse reputazione o ti arrecasse danno.» Persuaso a non dimettermi, esposi loro i miei pensieri per trovare modo che la città posasse; e prima di tutto si voleva mettere a parte della Commissione certe persone, che, da qualche tempo, procedevansi piuttosto che poco amorevoli, avverse; e così togliere a un punto le gozzaie tra spettabili cittadini, e lo esempio al Popolo della discordia.[66] — Inoltre, ad impedire il rinnuovarsi dei tumulti, appellati _dimostrazioni_, che precidendo ogni nervo allo Stato facevano il governo impossibile, la Commissione i desiderii del Popolo ascoltasse, e ne riferisse al Governo in forma di supplica o di petizione. Il Popolo poi avrei desiderato che non si presentasse tumultuante alla Commissione, ma col mezzo di deputati eletti a conferire. Sembravami questa medicina acconcia al male, perchè considerava come il Popolo avesse preso il costume di assembrarsi in moltitudine, ed una volta raunato, gli agitatori ci soffiavano dentro, commuovendolo a modo di venti contrarii, per cui ne usciva un domandare discorde, spesso assurdo, sempre violento. Deviare cotesta tribolazione dal Governo per attirarla addosso a noi, non sarebbe stato rimedio plausibile; lo importante stava in sopprimere affatto il subuglio. Insinuando, come io suggeriva, al Popolo di radunarsi nelle chiese per discorrere delle loro faccende, si toglieva di piazza, e questo era primieramente un bene grande; poi l'assembramento diventava minore per la capacità del luogo, lo univoco impulso era remosso, lo equilibrio di varii centri stabilito. Inoltre, la santità della chiesa avrebbe raffrenato la violenza degli atti e le disoneste parole. Molte esigenze popolari sottoposte a discussione sarebbero comparse assurde. Uomini probi in adunanza di simile sorta, avrebbero adoperati a fine lodevole l'autorità del nome, il credito della condizione, la efficacia delle parole. Gl'impronti agitatori non si sarebbero mostrati, conciossiachè sia facile a comprendersi quanta differenza corra tra aizzare il Popolo passionato e inesperto durante la notte, e sostenere una opinione alla luce del giorno con bontà di discorso. — Quando si possa chiamare la gente in parte dove sia costretta a vergognarsi delle sue enormezze, ella, se eccettui pochi perdutissimi, tace. La Commissione ancora avrebbe avuto a trattare con uomini dabbene, padri di famiglia, conduttori di negozii, per indole e per interesse amanti di riposato vivere; nè intemperanze dalla parte loro erano da temersi; in ogni caso agevole adoperare con essi gli argomenti medesimi ch'eglino avrebbero impiegato con gli altri. Insomma, intendeva convertire il tumulto in sistema regolare di petizione. Le carte perquisite fecero fede di cotesto mio concetto; il quale forse sarà stato intempestivo, ma non disacconcio; ed anzi, neppure intempestivo, dove si avverta, che contro il Popolo non si voleva, nè si sarebbe potuto, senza pericolo, ricorrere alla forza.[67] Dei due partiti, reprimere o concedere, bisogna pure valerci di uno nelle perturbazioni politiche; peggio di tutto è la inerzia, che, come non ti sottrae ai danni di chi combatte, neanche ti acquista la benignità solita praticarsi verso chi cede a tempo. _In ogni caso ell'erano proposte le quali potevano accettarsi o ricusarsi, non già leggi che per me si volessero imporre. All'Autorità locale parve avessero a sospendersi, e rimasero senza effetto_. — A me non giova suscitare adesso tristi memorie, nè, adoperando io quello che in altrui massimamente detesto, staccherò serpi dal capo della Discordia, per gittarli a turbare la comunanza solenne della sventura. A me basti dire, che fui vilmente calunniato, che (stupendo a narrarsi!) Livorno intero mi suscitarono contro con l'accusa di macchinati incendii, di rapine e di stragi! Ben quattromila cittadini armati vennero ad arrestare e a incatenare la bestia feroce. Predicazioni acerbissime, stampe infami, governative insanie cospirarono ad alienarmi in un punto tutta la mia patria che ho amato sempre come la pupilla degli occhi, per cui mi piacque la fama, offerendo a lei, in tributo filiale, quel poco di onore che mi veniva procurando con i miei scritti! Allora, come adesso, perfide parole mi filtravano dall'alto del carcere sopra il corpo e sull'anima come stille di pece infiammata. Allora, come adesso, smarrito ogni senso di morale, di religione e di pudore, uomini (che se ne pentiranno amaramente un giorno) si fecero _cagne studiose e conte_ per latrare e per mordere. _E adesso, come allora, la mia maladizione saprà perdonarvi_. Lo egregio uomo Scipione Bargagli, venuto Governatore a Livorno, presto si accôrse della oscena persecuzione: i miei concittadini, pieni d'inestimabile rammarico, per essersi lasciati così stupidamente ingarbugliare, domandavano ammenda della commessa ingiustizia. Alla Catilinaria era mancato il Catilina; nè Marco Tullio aveva potuto ripetere il verso famoso: O fortunata nata, me consule, Roma! I Giornali erano rientrati nell'otre di Ulisse. I Municipii, che simili ai montoni di Panurgo furono uditi uno dopo l'altro belare Indirizzi di congratulazioni, per la patria liberata dagli Unni, tacevano; solo si dibatteva il Partito a me avverso, e agitato da molte passioni, cresceva di violenza. Questo Partito, che aveva proceduto ardentissimo contro la Commissione, la quale si era proposta di secondare il Governo, col pretesto che creava uno Stato dentro lo Stato, adesso sorgeva tra il Governo e me; e al Governo diceva: «Guai se egli si attentasse a farmi tornare!» Da me ardiva pretendere un _atto di contrizione_ delle colpe commesse, poi si contentava di _un atto di fede_, che gli servisse di modello per confrontarvi in ogni tempo la mia futura condotta; altrimenti minacciava mi avrebbe fatto durare fino a dieci anni in carcere. Artificiosa era cotesta improntitudine del pari che temeraria; però che il Partito intendesse strapparmi uno scritto qualunque, che poi, interpretato con la solita carità, gli servisse a dimostrare che _non senza motivo_ si era mosso ai miei danni. Intanto il Governo, liberati i compagni della mia prigionia, riteneva me, che avevo dichiarato non volere uscire, dove alla mia fama non si desse convenevole riparazione; e il Principe nel 22 marzo 1848 dichiarava, che _gli atti a me obiettati si riducevano ad una preordinazione per ispingere possibilmente verso una meta, cui le sopravvenute mutazioni politiche in Italia hanno a noi permesso di pervenire senza pericolo del nostro Popolo; aggiungendo che la loro illegalità era sparita dopo che lo Statuto ne aveva assicurato il conseguimento con letizia comune del Governo e dei governati_. Onoratissime parole, almeno in cotesti tempi, ma non meritate affatto, imperciocchè, come ho avvertito, le mie erano proposte da accettarsi o da ricusarsi, non già leggi da imporsi; pure tacqui, avendo promesso non suscitare imbarazzi al Governo con importuni reclami. Forse per questo il Partito quietavasi? No. Persone non vili andavano dal Governatore Bargagli, e lo ammonivano che della quiete di Livorno non gli rispondevano, se io vi fossi comparso; e siccome il Bargagli, ormai infastidito, disse loro: «che gli ringraziava dei consigli, e che io sarei tornato ad ogni modo,» poco dopo egli si vide comparire davanti una persona vile, che minacciò mi avrebbero ucciso a furore di Popolo, se avessi posto piede a terra. Queste cose confidò poi lo egregio conte Bargagli a me e a Giovanni Bertani, ed io le riporto con la maggiore discretezza che posso, e per necessità di difesa; onde io spero ch'egli, gentilissimo com'è, non solo vorrà compatirmi, ma deplorare lo estremo in cui mi trovo di doverle rendere palesi. Alla fine il Governo spediva il piroscafo _Giglio_ a riprendermi con onore, e venivano con esso taluni autori od esecutori del mio non degno arresto. Io gli accolsi come se mai mi avessero fatto oltraggio: arrivammo di notte; il Comandante del Porto attendevami per accompagnarmi a casa; io gli chiesi in grazia di accompagnare lui, e mi ridussi solo alla mia stanza. Gli autori del mio arresto, in parte si erano allontanati; in parte, dubitando della loro sicurezza, si tenevano nascosti; nei loro cervelli balzani già già le proscrizioni sillane attendevano. — Io fui Ministro, e _non volli leggere cotesto Processo_ per non avere motivo di concepire rancore contro coloro che per avventura avessero deposto a mio pregiudizio. Io ebbi il potere, e lo adoperai a difendere, a beneficare, e perfino impiegare quelli che avevano cospirato a mio danno. Se motivo alcuno di ambizione mi fece desiderare il potere, fu questo: trovarmi in parte ove io avessi facoltà di mostrare quanto fossi diverso da quello che gli emuli per vizio di parte mi avevano calunniato.[68] — Prima di usare parole di obbrobrio contro di me, perchè non gittava l'Accusa uno sguardo sopra cotesto Processo? Essa avrebbe veduto che non fu grazia il Decreto del 22 marzo 1848 in quanto a me, ma benigno risguardo all'onore di un uomo atrocemente, quanto indegnamente, offeso. Essa avrebbe appreso, che non fu _esatta_ quando le piacque designarmi come: _individuo, che altre volte ha INTERESSATO la Grazia_... e le Accuse quando posseggono tanta copia di carte, e di occhi, che le leggono, e di bocche, che referiscono, avrebbero l'obbligo di essere _esatte_. Se l'Accusa avesse udito gli scorticatori di San Bartolommeo muovere querela contro il povero Santo per averlo scorticato, che cos'avrebb'ella detto? In verità, a me sentendo rimproverarmi le sofferte piaghe, parve essere San Bartolommeo accusato di crimenlese per non avere più pelle..... IX. Esame dei §§ VI, VII, VIII dell'Atto di Accusa, e Comento alle parole del Decreto del 7 gennaio 1851: «_che con mezzi riprovevoli ero giunto a impossessarmi del potere_.» Investigando con intenzione nemica la passata mia vita, l'Accusa mi porge occasione ad esporta, fondandomi sopra Documenti e sopra la testimonianza dei miei concittadini. Reduce a Livorno, io trassi vita più solinga che prima non aveva fatto, non cruccioso, ma mesto della ingiuria patita; chè la nuova benevolenza non toglieva l'amarezza dello strazio passato: Piaga per allentar d'arco non sana. Gli emuli miei, vedendo tanta mansuetudine, la reputarono viltà, e tornarono più baldanzosi che mai a procedermi avversi nelle prossime elezioni, continuando nelle calunnie, che vorrei dire infami, se non fossero state ridicole.[69] Per la quale cosa schivando diventare argomento di litigio, e maledicendo in cuor mio lo infame seme della discordia, che mai non quieta nei petti umani, deliberai di un tratto abbandonare la città e ricovrarmi in qualche appartato asilo.[70] E rallegrato dall'amicizia, splendido delle bellezze della Natura e dell'Arte, io mi ebbi queto asilo nella villa di Scornio. Colà io riposava all'ombra delle antichissime piante, e leniva con gli affetti domestici, le cortesie dell'amico e i cari studii, l'animo offeso, quando lo egregio Niccolò Puccini mi avvisava come la banda cittadina avesse deliberato venire a farmi festa, e come la banda del Borgo non sembrasse disposta a patirla, correndo fra loro emulazione grande, e quasi nemica. Conobbi invidiarmi la fortuna anche cotesto ricovero, onde senza por tempo fra mezzo io mi partii, pauroso sempre che il mio nome diventasse soggetto di contesa, e mi condussi a Firenze. — Intanto accaddero le elezioni in Livorno, e quantunque sommando i voti dei quattro Collegi io ottenessi numero di gran lunga superiore a quello degli altri candidati, pure singolarmente in ogni Collegio lo ebbi minore, e non rimasi eletto. — La operosità non contrariata degli emuli conseguiva un fine per loro desideratissimo, e poichè vedevo che tanto gli soddisfaceva, anche io ne godevo. Adesso la Curia Fiorentina mi scriveva su l'Albo dei suoi Avvocati; e questa larghezza non mi ha ritolto finora, almeno credo. Più tardi l'Accademia della Crusca mi creò Accademico; ma altri pensando forse che in me si avesse a rinnuovare lo esempio di Nabuccodonosor, voglio dire che cadendo di seggio diventassi bestia, mi ha radiato dal ruolo degli Accademici. _Deus dedit, Deus abstulit, fiat voluntas Dei_! Intanto tre Collegi, San Frediano in Firenze, Dicomano e Rosignano, mi elessero Deputato: estratto a sorte rimasi di Rosignano; nè dal maggio in poi misi più piede in Livorno. Fra la mia patria e me, rimaneva non dirò rancore, ma un cotal poco di ruggine a cagione dei fatti del gennaio; e partendo, io la lasciava in balía degli emuli, i quali la dominavano intera con la Guardia Civica, di cui erano principali e caporioni. Correva il 22 agosto 1848, quando i destini condussero a bordo del Piroscafo l'_Achille_ il Padre Gavazzi a Livorno. Altre volte soggiornò in Toscana. Uomo di spiriti accesissimi era egli, per professione del sacerdozio, per impeto di eloquio e per vasta corporatura potente sopra le turbe, molesto ospite al Ministero nostro. Il Ministero, che si perdeva dietro ai bruscoli e non avvertiva le travi, dapprima volle impedire lo sbarco al Barnabita tribuno; quando il Popolo lo volle in terra, gli concesse e sbarco e transito traverso Toscana per Firenze. La mattina del 23 agosto giungeva col mezzo del telegrafo cotesto Dispaccio a Livorno, e in quella mattina stessa a mezzogiorno il Padre partiva alla volta indicata. Dodici Livornesi lo accompagnavano per fargli onore. Arrivati a Signa, trovarono apparato di Guardia Civica e di Carabinieri commessi a non permettergli il passo per Firenze: andasse a Pistoia, quinci a Bologna. Con la milizia venivano ancora contadini armati. Non sembra che succedessero accoglienze oneste nè liete, conciossiachè vi fossero ingiurie e percosse ricambiate; si disse ancora di una bandiera tricolore arsa; degli accompagnatori, dieci andarono a Firenze, due proseguirono il viaggio per a Bologna col Frate. Il Popolo per queste notizie montò su le furie, ruppe il telegrafo, corse ad armarsi; il Governatore L. Guinigi relegò in Fortezza Nuova, i Dispacci governativi sorprese. Artatamente o a caso, si sparse rumore una mano di soldati muovere contro Livorno; a crescere il tumulto, le sentinelle avanzate scaricano gli schioppi; allora presero a suonare le campane a stormo, il Popolo corse ad armarsi, la Civica occupò le porte; gli Artiglieri disposero in battaglia tre pezzi di artiglieria; ma il Governatore mandava ordine nessun corpo armato s'inoltrasse contro la città, la bandiera supposta arsa tornava sventolante a Livorno, deputati spediti al Principe ne riportavano parole benigne: «Rincrescergli si dubitasse della sua fede e del suo affetto verso Livorno, del quale aveva dato sempre prove non dubbie; non avere mai avuto pensiero di mandare forze contro la città.» Pegni certi di restaurata pace erano quelli: se non che quando ormai pareva sicura, come il destino volle, ecco prorompere più tremendo motivo di guerra. Cadde in alcuni il pensiero malaugurato di dispensare fucili alla Guardia Civica attiva in Porta Murata; il Popolo minuto, che avea sempre sopportato a malincuore trovarsi escluso dalla Guardia, accorre e pretende le armi pur egli. — Una sezione di Civici muove a comporre il subuglio, e vi riusciva, quando il comandante della sezione ordinava facessero fuoco; lo fecero, e tre rimasero morti, quattro feriti, di cui uno dopo poche ore spirava. Il Popolo adesso inferocisce a mille doppii più terribile di prima; i Civici tutti correvano pericolo presentissimo di vita, se molti di loro non si nascondevano, e se l'esortazioni di sacerdoti e di spettabili cittadini non avessero placato gl'incrudeliti animi, persuadendoli a deporre ogni proponimento di privata vendetta, e aspettare il fine del processo, che ormai s'iniziava contro i colpevoli di cotesta immanità. Fu in quella occasione, che me, assente e inconsapevole, posero a formare parte di una Commissione intenta a mansuefare il Popolo e a condurlo a miti consigli,[71] e furono anche spediti uomini a posta in Firenze per far prova di menarmi a Livorno; alla quale istanza _io mi ricusai_, sì perchè temei la calunnia di provocare coteste turbolenze a danno del Governo, sì perchè seppi formare parte della Commissione uomini i quali io reputava largamente bastevoli di provvedere al bene della patria comune.[72] Mentre però ricusava andare, confidando nell'antica amicizia del Presidente Capponi, seco lui mi restringeva, scongiurandolo a palesarmi quali deliberazioni intendesse prendere riguardo alla mia patria; ed egli dicevami, avrebbe mandato Leone Cipriani Commissario straordinario; alla quale notizia io mi turbai e risposi: Leone Cipriani essermi amicissimo, conoscerlo uomo risoluto, capace d'immaginare od eseguire forti proponimenti, ma appunto per queste sue ottime qualità disacconcio alle parti di conciliatore. Leone Cipriani non dissimula nè sopporta uno insulto, e siccome prevedo probabilissimo che qualche oltraggio gli facciano, così riesce agevole del pari il presagio, che simile negozio non possa sortire lieto fine. — Queste cose ho voluto dire, perchè so che a Leone Cipriani furono riportate diversamente; dal 1848 in poi noi non ci siamo più visti: egli andando in California, io rimanendo prigione, forse in questo mondo noi non ci rivedremo: ma desidero che di me conservi quel buon concetto, che io (tranne la sua infelice commissione livornese) serberò, vada certo, finchè io viva, di lui. — Altre pratiche feci presso il Presidente Capponi e i suoi Colleghi per impedire la sciagura imminente; sopraggiunse S. A., ed io mi allontanai con la promessa, che se taluna delle mie proposte avessero accettato, me ne avrebbero porto avviso prima del mezzogiorno a casa. — Venne mezzogiorno; aspettai fino al tocco; allora uscii disperato di ogni buono esito delle mie premure. Incontrando il signor avvocato Menichelli, mi domandava perchè non assistessi alla Tornata straordinaria del Consiglio Generale tenuta in cotesta mattina per discutere intorno ai poteri eccezionali da conferirsi al Ministero per ridurre a partito la città di Livorno: accorsi sollecito alle Camere, ma trovai discussi e votati due Articoli della Legge del 27 agosto 1848; allora discutevasi il terzo, e se non erro, orava il Trinci.[73] Mi ritirai col cuore chiuso da funesti presentimenti. Mi sia permesso trapassare correndo sopra i casi del 2 settembre. Sangue fraterno versavasi e da mani fraterne! Dopo la scellerata battaglia, ecco come rimaneva una città floridissima, emporio unico del commercio toscano: Autorità fuggite, uffizii vuoti, Municipio disperso, cittadini trepidanti, milizie incerte del proprio destino, Fortezze rese, avventurieri audacissimi a capo del Popolo; plebe insanguinata, e orribilmente sospinta agli estremi delitti. Orribili detti si udivano, ma peggiori fatti si temevano; da per tutto affanno e paura; gl'incendii, le rapine e le stragi immaginate nel gennaio, adesso paventavano davvero. In tanto stremo, la Camera di Commercio mandava J. Moore, O. Lloyd, P. Pate e G. Nesi, a scongiurare il Ministero inviasse a Livorno Don Neri Corsini e me, per impedire la rovina della città.[74] Il Ministero rispose acerbamente, non accogliendo la istanza. Allora si volsero a Don Neri Corsini. Io non ricordo bene se questo signore non reperissero, ossiovvero si recusasse; però se lo rinvennero, ed ei rifiutò, io non lo biasimo: disperata impresa era quella di andare a gettarsi nella fossa dei leoni, e per di più, col Governo non bene disposto.[75] Finalmente, smaniosi si fecero alla mia dimora, e grandi e reiterati furono gli scongiuri perchè non consentissi che la mia patria, il luogo della mia nascita, sobbissasse; la Provvidenza apprestarmi prodigiosa occasione di potere salvarla da quei danni medesimi, che indegnissimamente l'odio di parte mi aveva imputato; afferrassi la occasione, la benevolenza degli amici mi confermassi, quella degli avversarii conquistassi, benemeritassi della Patria e della Umanità. Cotesti scongiuri bastavano, anzi erano troppi, non però vincevano le difficoltà che andavo loro esponendo: — temere grandemente ch'essi esagerassero il mio credito sul Popolo di Livorno; ignota la plebe a me, io alla plebe, e, se ricordavano, averla io provata più di una volta contraria: non sapere come venire a capo di superare gli avventurieri armati, che soffiavano in cotesto incendio: pericoloso sempre darsi in balía del Popolo commosso, insania adesso, ch'era montato in delirio. Dall'altra parte, non isperimentare il Governo benevolo, e la opera mia non pure egli non seconderebbe, ma l'avrebbe forse aborrita. — In questa condizione di cose prevedere la perdita della fama certa; forse della vita, e benefizio nessuno per la patria. — Ma per queste ragioni non si ristavano, e tanto meno consentivano lasciarmi andare, in quanto me tenevano suprema tavola nel naufragio, onde fervorosamente incalzavano: «non essere sagrifizio quello che calcola così sottile; vederlo pur troppo, covarmi riposto nell'anima il rancore contro la patria per la memoria dell'antica offesa; bene altro concetto avere essi formato di me; adesso a prova trovarmi non generoso, non magnanimo siccome mi avevano tenuto.» Non vi ha cosa al mondo che tanto mi ponga paura, quanto il sospetto che altri mi abbia a trovare inferiore alla estimazione che mi onora; non so se a caso o ad arte coteste parole adoperassero, ma certo elleno erano tali a cui non poteva e non potrò mai resistere io; però, tronco a mezzo ogni ragionamento, uscii in questo discorso, il quale sarà sempre, io non ne dubito, presente a quei Signori: — A Dio non piaccia, che io non abbia a meritarmi la vostra stima: verrò, come volete; e se mi accadrà sventura, farete testimonianza che non fui cieco nè imprudente, ma che prevedendola io mi vi sottoposi, perchè voi reputaste che per me si potesse avvantaggiare la patria. — E partimmo; fra Pisa e Livorno rovesciò la carrozza e andammo sottosopra dentro una fossa: quale più quale meno, rimanemmo ammaccati tutti. Mentre versavamo in cotesto pencolo io dissi: — questa è la prima, non la più grave delle disgrazie che mi attendono. — Venuti alla meglio in prossimità di Livorno, trovammo sentinelle avanzate che ne circondarono, e per un laberinto di barricate dopo lunga ora ci fecero pervenire nel centro della città. Sporsi il capo dallo sportello della carrozza, e vidi con apprensione non piccola, come moltissimi degli armati camminassero senza scarpe e in capelli; eravamo arrivati in fondo davvero! La mattina per tempo, consigliai uno dei due Priori rimasti a mandare inviti al Clero, ai Collegi Legale e Medico, alla Camera di Commercio, alla Guardia Civica, alla Milizia di linea, ai Possidenti e a parecchi del Popolo minuto, perchè intervenissero ad una adunanza nella sala terrena del Municipio; intanto io facevo opera perchè i buoni cittadini gli smarriti spiriti ricuperassero; mostrassero buon viso alla fortuna; si aiutassero insomma se volevano che Dio gli aiutasse;[76] pubblicai proclami, adoperando parole di lode verso il Principe per deliberato consiglio.[77] Io mi era accorto presto che la grandissima maggiorità del Paese, affezionata al Principe Costituzionale, da una parte deplorava la inettezza del Ministero che l'aveva condotta a questo estremo; dall'altra stava paurosa della plebe armata, indigente, infellonita, e dei capi che si era messi alla testa. Invero non era affare di lieve momento cotesto. Torres, che si chiamava Generale, uomo rotto ad imprese arditissime, il quale mescendosi fra il Popolo, fino dal 3 settembre si era fatto dichiarare Comandante della forza armata di Livorno, aveva costretto la Commissione di sicurezza a dimettersi; capitolò per la resa del Forte di Porta Murata;[78] seguíto da una turba di gente sinistra svillaneggiava, minacciava, incuteva terrore. A questa gente non tornava conto la pace; usa a pescare nel torbido, voleva permanente la tempesta e la provocava. — Due cose erano da farsi, e presto: dare animo alle menti sbigottite di manifestare voto solenne di volere stare congiunte alla famiglia toscana e rifuggire da ogni mutamento politico; togliere al Torres la male usurpata autorità: così veniva a spuntarsi la speranza alla turba del Torres di sopraffare la maggioranza dei cittadini con violenti partiti. Aperta la seduta, io incominciai, e lo ricordano tutti, proclamando _essere intenzione universale, starci uniti alla Toscana e al Principe Costituzionale_, imperciocchè volere diversamente sarebbe stato non pure _empio_, ma _assurdo_. Unanime consenso approvò la proposta, e i pochissimi che sentivano diversamente ebbero a tacere. Poi trapassando a discutere intorno alle cose necessarie per ricondurre stabilmente la pace nella città, furono con buone ragioni respinte le intemperanti richieste e ridotte a queste quattro: 1º Oblio per tutti, e di tutto. 2º Cambiamento dello Stato-maggiore e dei primi Capitani della Civica. 3º Organizzazione e armamento della Riserva. 4º Revoca dei poteri eccezionali. E finalmente fu deliberato una Deputazione di 20 Cittadini si recasse a Firenze a esporre le domande dei Livornesi al Ministero; un'altra di 12 governasse provvisoriamente la città: il comando della forza armata si confidasse all'ufficiale Ghilardi giunto in Livorno in quella stessa mattina. Prima di proseguire nella narrativa, giovi trattenermi un momento su quelle operazioni. I due fini erano conseguíti; impedire sommosse repubblicane e violenze, remuovere il comando delle armi dal Torres. — E qui importa sapere, che il Ghilardi, come soldato agli stipendii toscani, e spedito dal Ministero Ridolfi con una colonna dei nostri alla guerra lombarda, inspirava fiducia. Le domande dei Livornesi non parevano esorbitanti, considerati i tempi, e paragonate con quelle di cui si fecero portatori nei giorni decorsi, in meno difficili congiunture, il Deputato Malenchini e il Prete Zacchi, e che pure il Ministero aveva promesso esaudire.[79] L'organizzazione e l'armamento della Riserva fu concertato per questo motivo: impossibile appariva levare le armi al Popolo; tanto era strappare i denti al leone! E le armi indisciplinate atterrivano; col partito proposto incominciava ad operarsi lo scevramento fra Popolo e plebe, piaga vergognosa di ordinata città; e amicato il primo, poteva ricorrersi alla forza per disarmare la seconda; le armi composte in mano al Popolo cessavano apparire pericolose; nei regolamenti erami avviso determinare per pena ai falli di disciplina la perdita temporaria o perpetua delle armi; pel quale ordinamento ne veniva di due cose l'una: o il Popolo si disciplinava, e meglio che mai; o non si disciplinava, e perdeva le armi. Nè mi sembrava impossibile riuscire a questo, perchè costringere la universalità a rispettare il comando, massime in tempi torbidi, è arduo, ma agire partitamente sopra i singoli diventa agevole. L'Atto di Accusa, nel § VI, riporta certe espressioni di un Manifesto che nel 25 settembre m'indirizzarono i cittadini: «È incontrastabile, che voi avete diritto alla riconoscenza dei Livornesi, _ed è pure incontrastabile che con la vostra influenza ne potete dirigere ogni movimento_; compite dunque l'opera, e fate deporre le armi.» Ahimè! In mano dell'Accusa le fronde di alloro diventano cipresso; non dubitate, no, che cotesto elogio ella saprà bene convertire in ronciglio, e ne trarrà la benevola conseguenza, che a senso dei miei stessi concittadini potendo io dirigere a mia posta ogni moto del Popolo, segno è certo che tutto quanto successe di reprensibile fu da me provocato, o da me non impedito; e stringendo in brevi termini, fui _complice_ o _impotente_, però adesso non per _peccato originale_, ma per volontà![80] — O miei concittadini, il fato vuole che voi mi abbiate a nuocere e quando mi lodate e quando mi redarguite! E sì che l'Accusa doveva sapere che lo elogio non corrisponde quasi mai alla _vera verità_; che difficile è sempre potere ciò che si vuole, e che la fortuna del favore popolare è color d'erba, Che viene e va, e quei la discolora Per cui ell'esce della terra acerba. Ad ogni modo, in quanto alle armi, io aveva provvisto prudentemente e con partito possibile; se questo non avvenne, l'Accusa ne incolpi il Ministero, che ad ogni punto che io cuciva per rammendare i suoi strappi, mi cresceva la mercede di avversione. Necessaria mi pareva la rassegna dei poteri eccezionali, perchè essendo stati provati e riusciti male, ormai bisognava ricorrere alle provvisioni conciliatorie; e così essendo, a che convocare Popoli di Toscana a Pisa come i Sette incontro a Tebe? Perchè, desiderando che il tumulto cessasse, le cause del tumulto mantenevansi? Era, non dirò savio, ma cristiano, educare figli della famiglia medesima ad odiarsi fra loro? Lo so che fu detto, tale non essere il fine dell'adunata, e voglio crederlo: ma intanto appariva così, e le apparenze bastavano perchè effetti pessimi partorissero. — Ora proseguo la storia. Difficile cosa era che i partiti deliberati non si disfacessero per opera degli agitatori; e la fortuna ne porse loro terribile occasione. Ad un tratto corre voce di agguati tesi ai cittadini per le campagne adiacenti, di vie solcate di polvere, di mine, di feriti, di morti. Ribollono le ire, i persuasi rompono i patti, gli agitatori si scatenano. Accorsi su la ringhiera del Palazzo Municipale, e vidi un mare di capi in tempesta, e la mia voce appunto si udiva come se io l'avessi alzata su la costiera quando vi si rompono i frangenti. Alle ore cinque circa, alcuni barrocci sboccando dalla Via Ferdinanda lenti lenti, traversano diagonalmente la Piazza di Arme piegando all'ospedale; le ruote segnavano traccia sanguinosa sopra il terreno.... portavano undici feriti nella esplosione delle polveri al Calambrone.[81] — Sorse un grido immenso: _tradimento! tradimento!_ E gli agitatori prevalendosi del caso, con feroce consiglio, aggiungevano: _anch'egli è traditore_.... e mi segnavano a dito, e qui vidi numero grande di archibugi prendere la mira alla ringhiera dove io mi stava in compagnia di Ufficiali e cittadini: chiusi gli occhi, feci delle braccia croce raccomandandomi a Dio. Poco dopo mi avventurai a riguardare, e conobbi come i migliori cittadini con mani e con bastoni stornassero i fucili gridando: _non fate.... non fate_! — Accanto a me notai un solo Ufficiale rimasto, il maggiore Ghilardi, pallido in faccia; come io mi apparissi non so: veramente fu un tristo quarto d'ora cotesto. Tememmo in quel tempo che gente nemica questi successi apparecchiasse, onde il Popolo rompendo le deliberazioni prese, ella potesse del continuato tumulto raccogliere il mal frutto;[82] forse non era vero, e si ha a credere piuttosto che si prevalesse della occasione. Immensi sforzi usarono i buoni cittadini a placare il nuovo furore: ad ogni patto intendevano le genti prorompere fuori delle porte, e portarsi al Calambrone; si acquietavano appena su la promessa del Maggiore Ghilardi gli avrebbe egli medesimo condotti all'alba del giorno venturo. La mia opera diventava più ardua assai; tuttavolta esposi con le parole che seppi più acconce, le deliberazioni fermate la mattina, e scongiurai il Popolo ad accettarle; ma le migliaia della gente raccolta tentennavano; di tratto in tratto scoppiavano urli di rabbia: allora infervorandomi nel dire, mostrai la empietà della separazione di Livorno dalla Toscana, ricordai la fiorentina origine del Popolo livornese, il mutuo affetto di Firenze con Livorno, il motto _fides_ dato per impresa dalla Signoria fiorentina alla mia patria in mercede della costanza e della fedeltà sue; separai la causa del Principe umanissimo da quella del Ministero; invocai la religione e lo esempio di Cristo per perdonare, e comporsi in fratellevole concordia col Governo e con la rimanente Toscana; conclusi dicendo: «porteremo le proposte vostre al Governo; dov'ei le rigettasse ritorneremo fra voi, e voi farete quello che la vostra coscienza v'ispirerà.»[83] Le mie parole toccarono il cuore degli adunati, e dichiararono contentarsene; di più promisero, sotto parola _di onore_ della città, fino al nostro ritorno avrebbero obbedito alla Commissione governativa, posando da qualunque tumulto. Però cotesta vittoria non mi assicurava; io aveva notato fremere parecchia gente, e temeva non prorompesse; gran parte della notte spesi a blandire cuori esacerbati, a raumiliarli con parole affettuose; alla fine, estenuato, mi ridussi a casa per riposarmi qualche ora. La partenza della Commissione era appuntata alle 4 del mattino. Appena posato il capo sul guanciale, domandano alcuni Ufficiali, a grande istanza, favellarmi: introdotti nella mia stanza da letto, conosco il Colonnello Costa Reghini, in compagnia di due Tenenti. Il Colonnello, commosso, mi diceva: «per le passate vicende, e per quelle che prevedeva imminenti, dubitare della sua vita: avere contemplata sul campo di battaglia la morte e non averla temuta, nè temerla adesso; solo stringergli il cuore un'angoscia insopportabile pei figli suoi, che paventava vittime, e soprattutto per la madre loro che giacente inferma non si dava pace, e travagliata da convulsioni lo scongiurava a sottrarre i cari capi alle furie del Popolo; invitarmi pertanto in nome della umanità a dargli un foglio di _lascia passare_ alle porte, che certo lo avrebbero rispettato.» Inoltre aggiungeva: «Io vi propongo di mandare con essi loro uno di questi Ufficiali travestito, con lettere pel Generale Ferrari, ammonendolo, che non inoltri milizie verso Livorno, per ovviare qualunque scontro che sarebbe fatale.» Io rispondeva dichiarandomi pronto a sollevare le sue paterne ansietà, e quelle della povera madre; lodai la proposta delle lettere al Generale Ferrari; ma gli faceva osservare che la mia autorità non era tanta quanta egli immaginava; pendere attaccata ad un capello, e averlo veduto poche ore prima; per paura di un male rimoto e incerto ci guardassimo da incappare in male prossimo e sicuro. Intanto, chi dice a lui che sarà conosciuta la mia firma? Ed ancorchè la conoscano, se ravvisano i suoi figliuoli, se il generoso Ufficiale,[84] se frugandolo gli trovassero la lettera addosso, chi sa che cosa mai fantasticherebbero quei cervelli sospettosi? Se mai venissero a dubitare di tradimento.... guai a tutti noi! In mezzo a così fiera concitazione non bastarmi la mente, su quel subito, a considerare qual fosse il partito migliore; mi lasciassero un'ora tranquillo; più riposato, in breve, avrei pensato a dargli risposta. — Il Colonnello profferiva ritirarsi ad aspettare nelle prossime stanze; ma io, per fortuna, insisteva perchè partisse di casa, non mi parendo essere libero col pensiero se qualcheduno aspettava. Dieci minuti dopo la sua partenza, le porte risuonano di colpi: aperte dal servo, invade le stanze una torma di gente invelenita, e circondatomi il letto, me chiama a morte come traditore, con baionette spianate e sciabole brandite. Balzai a sedere sul letto, e domandai risoluto chi fossero — e che volessero. _Nega_, gridavano, _che sono venuti qui poco anzi Ufficiali di linea; che cosa ci sono venuti a fare_? — Voi lo sapete. — No, non lo sappiamo. — Come no? Voi lo dovete sapere, perchè dite che io sono traditore; e se temevate che fossi tale, perchè mi avete mandato a chiamare? Voi siete peggio del vento; ora vi fidate troppo, ed ora diffidate di tutto. Volete sapere che cosa sono venuti a fare cotesti Ufficiali da me? Ve lo dirò, ascoltatemi. — E qui a parte a parte narrava loro il colloquio tenuto col Colonnello Reghini.[85] — Si ritirarono confusi domandando perdono. — Da questo apprenda l'Accusa quanto sia facile il Popolo a sospettare, e come vigili inquieto anche coloro nei quali sembra riporre sconfinata fiducia. Giunse la Deputazione a Firenze, e tenne due consulte col Ministero. Fino dal principio insorse ostacolo impreveduto, e mi sia lecito aggiungere strano, per la parte del Governo: pareva a lui indecoroso inviare le Autorità in paese sconvolto; a me all'opposto pareva, lasciamo da parte il decoro, dovere del Governo cogliere ogni occasione per impedire che il disordine aumentasse, e una floridissima città si perdesse; nè sapevo comprendere come l'ordine in paese abbandonato a sè medesimo potesse ristabilirsi. Da questo fatto erano da aspettarsi due conseguenze: o la confusione aumentava, e troppo biasimo ne veniva al Governo non avendola, come poteva, impedita con mandarvi Autorità acconcie all'uopo; o si riordinava mercè Collegio o persona extra-legale con provvedimenti di compenso, e si correva rischio che il fatto riuscisse difficile, e forse impossibile a disfarsi. Per quanto i Deputati si affaticassero a chiarire cotesto errore manifesto, non ne vennero a capo; il Ministero proponeva reggesse il Municipio, ma i due Priori municipali osservarono essere il Municipio disperso, non trovarsi in numero da deliberare secondo i regolamenti, nè sentirsi capaci da tanto. Allora il Ministero propose ne assumesse lo incarico la _Camera di Commercio_! ma i Deputati della Camera dimostrarono non avere attitudine, nè autorità per farlo. Dopo molti dibattiti, nei quali alternativamente fu offerto lo incarico di eleggere una Commissione governativa al Municipio, e alla Camera di Commercio, venne alla perfine stabilito che si cercasse raccogliere il Municipio onde eleggesse una Commissione per governare in assenza delle Autorità; e la sera del 6 settembre 1848 rimasero approvate le seguenti Convenzioni fra il Ministero e i 20 Deputati livornesi: 1º Oblio di tutto a tutti, militari, forestieri e cittadini. 2º Il Municipio elegga la Commissione la quale governi nell'assenza delle ordinarie Autorità, allo scopo di ricondurre la quiete, e riorganizzare la Civica provvisoria, che rimane sciolta per Decreto del Principe. 3º Sta bene, che, rientrato l'ordine, la Costituzione riprenda il suo vigore normale.[86] Il Ministero inoltre invitava i Deputati a condursi nella notte alla Stazione della strada ferrata, dove avrebbero trovato i Dispacci convenuti, e treno speciale per tornare a Livorno; e così fu. Aperto il Dispaccio, non mi parve corrispondere con le cose stabilite, imperciocchè mi sembra che vi fosse scritto, governerebbe il Municipio autorizzato ad aggiungersi quel numero di cittadini che meglio credesse; ma i Deputati mi osservarono, che non faceva differenza. Il 7 settembre era dato ragguaglio del trattato a cinque e più mila persone, stipate sotto la ringhiera del Palazzo Municipale; la Commissione governativa era acclamata dal Popolo, a patto che la sanzionasse il Municipio, nelle persone del conte Larderel, del popolano Petracchi, e di me; ma in mezzo alle acclamazioni, sorgeva mal represso il grido di vendetta, che chiamava a morte Cipriani e Cappellini, ed io rispondeva: — vendetta essere urlo da lupi, giustizia da uomini. — E instando quella parte cui doleva la pace a gridare vendetta, replicava: — «Le famiglie degli uccisi intenteranno processo, e avranno restauro a norma delle leggi.» Non per questo la turba lasciava presa, e accennava più specialmente al Cappellini, di cui sono prossime le case alla Piazza, pruno quasi posto su gli occhi per sospingere il Popolo agli eccessi. Allora gittava questa parola audace per riabilitare il Cappellini, e confortare la milizia: «Egli è soldato, ed adempiendo gli ordini ha fatto il suo dovere.» Ma questo era troppo, e di fatti la gente incominciò a fremere, onde riputai convenevole aggiungere: — «Ebbene, se anch'egli è colpevole i Tribunali provvederanno.»[87] Prima però che per me si esponga quello che in Livorno operai, mi giovi rammentare le difficoltà che mi circondavano. Le più gravi mi vennero dalla parte del Governo. Geloso egli che esercitassi autorità a pro del Principato Costituzionale, incomincia a bisticciare intorno alla origine e allo esercizio di cotesta autorità; nè solo rimansi a bisticciare, ma con isfrontatezza di cui le pagine più ignobili della storia parlamentaria non somministrano esempio alla ricisa le cose pattuite negò. Cotesta curiosa Accusa, che volle ficcare le mani dove non importava, e dove importava non le ha ficcate, fra le mie carte trovò l'originale della Dichiarazione emessa nel 19 settembre 1848 da ben quattordici testimoni presenti alle convenzioni, e poichè essa la stampò a pag. 52 dei suoi Documenti, anche io la stampo. _Nota di Convenzioni approvate tra il Ministero e la Deputazione Livornese._ «1. — Oblio di tutto a tutti, militari, forestieri e cittadini. «2. — Il Municipio elegga la Commissione la quale governi nell'assenza delle ordinarie autorità allo scopo di ricondurre la quiete, e riorganizzare la Civica provvisoria, che rimane sciolta per Decreto del Principe. — La _Civica_ riorganizzata sarà sottoposta alla sanzione del Principe. «3. — Sta bene che rientrato l'ordine la Costituzione riprenderà il suo vigore normale. «Noi sottoscritti Deputati della città di Livorno dichiariamo come quanto sta scritto di sopra è l'appunto di quello che rimase stabilito tra noi e il Ministero Toscano la sera del 6 settembre 1848, e si trova registrato in un foglio preso sopra la tavola del Ministero che porta in margine la intitolazione: _R. Segreteria di Finanze_. Il Signor Ministro Marzucchi ne fece copia di sua mano. La facoltà di eleggere la Commissione Governativa voleva dal Ministero darsi alla Camera di Commercio di Livorno, ma dietro le osservazioni del signor Benedetto Errera venne trasferita nel Municipio, e fummo licenziati con promessa che avremmo trovato il Dispaccio analogo allo appuntamento preso alla Stazione della Strada Ferrata; — ove veramente trovammo un Dispaccio chiuso diretto al Municipio di Livorno. «Questa è la verità, null'altro che la verità. «_Livorno, 19 settembre 1848._ «Primicerio Can. Angiolo Del Sere, _Sacerdote_. «Dott. Raffaello Marubini Varnacci, _Presidente della Camera di Disciplina_. «Dott. Guglielmo Pensa, — Dott. G. Gavazzeni, _Medici_. «Antonio Venzi, — Andrea Sgarallino, _Ufficiali della Guardia Civica_. «Benedetto Errera. — Francesco Contessini, _Negozianti_. «Gaetano Terrieri, — Cesare Castelli, _Del Municipio_. «Felice Cordiviola, — Luigi Secchi, — Lorenzo Bargellini, — Filippo Salucci, — F. D. Guerrazzi, _Cittadini_.» Secondo le leggi, e la pellegrina sapienza del Ministero, non doveva reggere il Municipio mercè la Commissione, ma egli stesso in suo nome; come se il Municipio, che il Ministero consentiva, fosse Autorità più costituzionale della Commissione eletta dal Municipio; come se il Ministero costituzionale potesse di proprio arbitrio, secondo ch'ei proponeva, conferire potestà governativa ad una Camera di Commercio; e finalmente, come se quando ti brucia la casa, sia tempo di tribolare chi ti porta acqua da spegnere. — Il Ministero, stretto alla Camera dei Senatori, negò la convenzione sopra trascritta, e non usò rettitudine; e tanto peggio fece, in quanto che anche l'unico Documento da lui approvato non gli giovava; imperciocchè sia vero che, rovesciate le Autorità costituite, il Municipio abbia a provvedere alla comune salvezza; ma non vero che il Ministero costituzionale, rifiutando i Magistrati alla città che li chiede, autorizzi, anzi costringa il Municipio a governare. Il Ministero poteva addurre la legge della necessità, e questa giustificava il governo tanto del Municipio quanto della Commissione eletta da lui, o non giustificava nessuno. Inoltre, il silenzio ostinato mantenuto alle mie domande, nè punto meglio instruito o consigliato il Municipio; rade anche a questo le lettere, e sempre imbarazzanti; sicchè riusciva difficile a indovinare se il riordinamento della città piacesse al Ministero o piuttosto lo turbasse. Volle la Commissione governativa abolita, e il Municipio la soppresse.[88] Il Municipio mi eleggeva Priore, aggiungendomi al Collegio; il Ministero ordinò che mi cassassero, ed io non fui neanche Priore![89] E' pare proprio che io sia destinato a non essere nulla, nè Accademico nè Priore. Allora a scanso di disgusti mossi istanza al Municipio, che con sua Deliberazione determinasse i limiti entro i quali avrei dovuto esercitare la mia autorità; ma nè anche questa fu dal geloso Ministero rispettata.[90] — L'adunata dei Civici a Pisa, la quale ormai sembrava non avere altro scopo che quello d'irritare gli animi, non volle omettere. La nuova organizzazione della Civica contrariò, comecchè instituita provvisoriamente, e da _sottoporsi sempre alla sanzione del Principe_.[91] La strada ferrata tardi ristabilita.[92] Gli ufficiali di Polizia, anche subalterni, negati. Con le Dogane ed altre amministrazioni, corrispondenza continua; e s'impennava perfino se dallo Uffizio della Sanità richiedevamo notizie intorno alla salute pubblica, per assicurare gli animi dei cittadini. Nel maggiore uopo nessuna somma stanziata per le spese; dalla Camera di Commercio ebbi da principio lire settemila, che portai al Municipio.[93] Io, che pure attendevo alla polizia della città, non disposi _neppure di un danaro_. Commissioni per provvedere all'annona, ai lavori, alla sicurezza pubblica, alle armi, soppresse. — Che più? Continue l'angustie e le sofisticherie per la Guardia Municipale, che pure era stata approvata. Le stesse provvidenze di Polizia sotto pretesto d'illegalità riprendevansi, e per ismania di biasimare il Ministro o non curava o dissimulava sapere le leggi.[94] Le leggi tacevano; dei Magistrati la più parte lontani; alcuni però, aborrito cotesto esempio, magnanimamente al posto loro; fra i quali a causa di onore ricordo Francesco Billi presidente del Tribunale di Prima Istanza. Popolo vivente alla giornata, povero e instigato a guardare con cupidi occhi la roba altrui. _Eccitamenti alla repubblica_ dentro e fuori, che le notizie delle rivoluzioni ora di Ungheria, ora di Vienna, ora di altri paesi germanici, una dietro l'altra si succedevano come colpi di ariete ad atterrare un muro già crollato. La notizia di occupazione dei Piemontesi aspreggiava gli animi, dubbiosi più che mai, che le assicurazioni di pace fossero tranelli per coglierli alla sprovvista. Questi, ed altri molti, furono i travagli che mi circondavano, ai quali ripensando forza è che confessi, come senza lo aiuto di Dio non sarei potuto uscire a bene da cotesto inviluppo. Intanto le barricate si disfacevano; ogni traccia di perturbamento remossa; Commissioni di lavori, di beneficenza, di annona, di armi, di sicurezza instituivansi; prestanti cittadini, messi da parte i proprii negozii, notte e giorno alacremente attendevano a prevenire delitti; preghiere pubbliche bandivansi; feste per distrarre il Popolo si provocavano, distribuzioni di 30,000 e di 50,000 libbre di pane al giorno sì facevano; i lavori interrotti proseguivansi, nuovi ordinavansi, si attendeva ad organizzare le Guardie Civica e Municipale; l'esplosione delle armi, i canti sediziosi, i giuochi perfino, peste della gioventù, si vietavano; i cittadini guardavano i cittadini, e (stupendo a dirsi) la delazione fin lì reputata infame, poichè spontanea adesso, e aperta, e in pro del bene comune, si faceva come pubblico ufficio; ai sospetti rinascenti io provvedeva accogliendoli tutti, e profferendomi così di notte come di giorno pronto a verificarli da me stesso: ora temevano di polveri e di armi alla bruna sottratte di Porta Murata per via marina; ora di assalti improvvisi; erano perfidi soffii su fuoco latente onde tornassero a divampare le fiamme. Di quieto in piccola compagnia andavo a perlustrare, e sempre tornavamo con la prova, che a fine iniquo abusavano della popolare credulità; liti domestiche componevamo, e negozii contenziosi e vecchie discordie; in un mese la città sciolta da ogni freno, o piuttosto da sè stessa frenata, contò cinque ferimenti e ventun furto, pel valore cumulato di lire 1112, numero di gran lunga inferiore a quello di ogni altro mese antecedente; le carceri rimasero parecchi giorni vuote.[95] La stampa, finchè io stetti a Livorno, _reverente al Principe; in ogni occasione lodato e raccomandato allo amore del Popolo_.[96] _E dello stesso Presidente Capponi discorso con ossequio_.[97] Città insomma non pure ordinata a riposato vivere civile, ma disposta a ricevere le Autorità governative, che richiedeva fiduciarie del Governo e di sè. — Lascio della stampa della Capitale a me avversa: _se raggranellata una masnada di grassatori, avessi a capo di quella rotte le strade, io penso che non si sarebbe avvisata vituperarmi con obbrobrii sì spessi, nè sì abbominevoli_. La opera mia era compita, nè il provvisorio poteva prolungarsi senza danno dello Stato, della città e mio; nel 28 settembre, piegando finalmente alle _domande giustissime del Gonfaloniere_, e per _soddisfare le premure di alcuni cittadini livornesi_,[98] il Governo mandava a Livorno il sig. cav. Ferdinando Tartini. Il Gonfaloniere e i Cittadini aggiunti al Municipio avevano fatto stampare un Manifesto, per disporre il Popolo a riceverlo gratamente, quando vennero avvertiti che il Manifesto sarebbe sfregiato; non essere persona di fiducia del Popolo il cav. Tartini. La repugnanza del Popolo persuase il Gonfaloniere e il primo Priore a muovere per Firenze onde trattenere il Governatore eletto; ma essendo occorsi in lui alla Stazione della strada ferrata di Livorno, gli esponevano che la sua presenza avrebbe cagionato tumulto. Mandarono per me, ed io, per verità, confermai lo esposto dai prelodati signori Gonfaloniere e Priore; ma aggiunsi cosa, che il sig. cav. Tartini dimenticò forse scrivendo il Rapporto dell'avvenimento, e fu, che io mi proffersi accompagnarlo, e difenderlo con la mia stessa persona.[99] Rinviati il Gonfaloniere e il primo Priore in città ad assicurarsi meglio dello spirito pubblico, rimasi col sig. cav. Tartini: dopo lunga ora tornarono il Gonfaloniere e il Priore, e nuovamente gli dichiararono inevitabile la sommossa, dov'egli si fosse inoltrato. — Per questo successo le cose si facevano più torbide che mai; le relazioni officiali con Firenze si dichiaravano interrotte. — In questa Giuseppe Montanelli tornava d'Inspruck: appena messo piede nel Parlamento, propose un ordine del giorno universalmente approvato, col quale si persuadeva al Governo di sopire i dissidii livornesi, restituendo le Autorità governative al travagliato paese; nel tempo stesso egli mi scriveva lettera con la quale confortavami a governare Livorno: di questo facessero istanza il Municipio e la Camera di Commercio; egli avrebbe appoggiato la domanda.[100] Il Municipio e la Camera partivano per Firenze, ma non ottenevano lo intento;[101] invece il Ministero proponeva loro Montanelli per Governatore; ed essi accettavanlo.[102] Allora egli scrivevami di nuovo adducendo le ragioni per le quali non aveva potuto ricusare.[103] Appena io ebbi udito questo, malgrado che il Municipio e la Camera di Commercio instassero fervorosamente a rimanermi, non lo aspettai; ma pubblicato un Manifesto,[104] col quale invitava i miei concittadini a ricevere con lieto animo il Governatore inviato dal Ministero Toscano, mi partiva, ritornando a Firenze, sazio dei passati travagli, senza disegno, come senza voglia di uscire più mai dai riposi della vita privata. Io partiva, privo perfino del conforto di una parola amica per la parte del Governo; e sì che avevo corso pericoli presentissimi di vita, durato fatiche inestimabili, ricondotta alla devozione della Monarchia Costituzionale una città agitata da violenti passioni e istigazioni perverse, inferocita per fresca strage, commossa dallo sfracellarsi della massima parte degli Stati di Europa, flagellata da un lato dalle furie dell'anarchia, dall'altra tratta pei capelli dai partigiani della repubblica. Non importa; mi bastò allora, e mi basterà sempre la benevolenza degli amici, e la stima degli stessi emuli. — Sorga adesso pertanto la religione dei miei concittadini tutti, così amici come emuli, ed anche nemici, se io pur ne ho nella dolce terra che mi diè vita, e dica se composi o sconvolsi la patria mia, e mi salvi dalla disonesta persecuzione dell'Accusa! Ma che dico io, sorga? Ella sorse, ed in cotesti tempi Municipio, Collegio dei Curiali e Camera di Commercio grazie amplissime mi profferivano; e privati cittadini, per farmi scolpire marmorea immagine in pubblica testimonianza di onore, si collettavano.[105] Non sembra ella strana cosa all'Accusa, che i livornesi uomini per siffatto modo gratificassero colui che ne turbava la quiete, ne ingiuriava i commerci, di scandali empiva la patria terra e di sangue? Qual consiglio, o qual coscienza persuade l'Accusa a desumere le sue infelici imputazioni dalle calunnie di sciagurati e dalle voci sparse da lingue appassionate e dolose? I cittadini miei, che convivendo meco, vigilandomi al fianco, le opere mie di ora in ora contemplavano e soccorrevano, non par egli al senno e anche al pudore dell'Accusa che dovessero, come testimoni più degni di fede, preferirsi a tutti altri? — E sì, e sì che anche l'Accusa, fra i suoi Documenti, raccolse una carta da lei intitolata: _Indirizzo dei Livornesi a Guerrazzi_, nella quale si leggono le seguenti parole: «Signore. È incontrastabile che voi avete diritto alla riconoscenza di tutta Livorno; ed è pure incontrastabile che con la vostra influenza ne potete dirigere ogni movimento. Compite dunque l'opera, e fate deporre le armi. Lo Stato nostro è unico, ed il Popolo armato vuol dire ribellione permanente; ciò non è naturale che deva durare, perchè il firmamento stesso, se non fosse ordinato, si disfarebbe. La parte essenziale della popolazione non rientra di certo fino al compimento di questo voto universale, ed _è un voto di fiducia in voi, che tutti oggi ammiriamo ed amiamo, pregandovi caldamente ec_. — Livorno. — Signor Avv. F. D. Guerrazzi aggiunto al Municipio di Livorno. — I Livornesi, che aveste amici sempre, e quei pure che lo sono, e lo saranno da ora in poi per sempre.»[106] All'Accusa, e in altri parte l'ho avvertito, bastò il cuore per convertire questo voto, che forma una delle poche consolazioni dei miei non degni martirii, in offesa nemica, e disse: Vedete, per confessione dei vostri stessi concittadini, voi volgevate e rivolgevate a senno vostro Livorno; dunque tutto quanto successe e' fu per colpa vostra.... — Siffatti argomenti vincono qualunque pazienza, — il pensiero sbigottisce. — cascano le braccia.... E l'Accusa eziandio riporta la minuta di lettera da me indirizzata al Municipio, che bene a ragione io qualifico sfogo. Certo, quando basta la coscienza per insultare con turpe oltraggio un uomo _come doppio di cuore a pravo intento_, quando si nega pudore, probità, gentilezza, tutto infine si nega, e la mano non trema nel mettere me — a stregua di un vile paltoniere, che visse, se pure può dirsi visse, 51 anno addietro.... queste dimostrazioni di animo non solo non si credono, ma si scherniscono. Diversamente poi giudica la coscienza pubblica, ed a questa volgendomi domando se, perturbatore io dei moti di Livorno, avrei potuto, senza fasciarmi la sfrontata faccia di bronzo, scrivere e mandare le seguenti parole al Magistrato della mia città, compagno, testimone e aiutatore delle opere mie, per ridurla da tutto sconvolta per cittadina battaglia, in comportabile assetto! «Signori ed amici onorandissimi, «Voi sapete, che quattro volte chiamato dalla Commissione, dal Municipio e dalla Camera di Commercio, mi astenni dal venire in Livorno, parendomi che la città nostra contenesse copia di ottimi cittadini capaci di condurla traverso ogni più duro caso. Non potei resistere alla ultima, imperciocchè avrei dimostrato ostinazione somma e poco affetto a chi mi ama. «Pertanto io venni e feci il mio dovere; null'altro più che il mio dovere. Esaminando lo stato della città, mi parve che la sua commozione derivasse da un subito esasperamento per ingiuria che il Popolo reputava aver patita. Mi persuasi di due cose importantissime: la prima che durava perenne l'amore per il Principe costituzionale; la seconda che di Comunismo e Socialismo il Popolo non sapeva nè anche il nome. Ciò posto, e l'evento dimostrò che non mi ingannai, mi parve facile ridurre Livorno in quiete, e Dio aiutando, e gli egregi cittadini suoi, vi fu ridotto. «Ma Livorno non ha mestiero soltanto di quiete, ha ben bisogno di sollecito e vigoroso riordinamento. La prima cosa derivava da credito e da mutua benevolenza, e presto venne conseguita. La seconda poi ha da emanare dall'azione governativa energica, unisona, libera, secondo la gravità dei casi, in tutti i suoi moti. «Mancava una guardia di Polizia, e fu creata. «Mancavano Magistrati di sicurezza, e furono istituiti. «Mancavano opere pei braccianti, e procurammo che una Commissione le apparecchiasse. «Mancavano denari al Municipio, e pensammo a una Commissione che li provvedesse. «Insomma, onde io non vi trattenga in troppo lunghe parole, fu provveduto a tutto, per quanto un volere fermo a procurare il pubblico bene può suggerire. «Ma al Governo molte cose increbbero, e bisognò disfarle: così perdemmo il benefizio delle nuove istituzioni, e delle vecchie non ci potemmo valere, perchè guasti gli ordini, gli impiegati assenti, manchevoli i denari. «Se il Governo aveva per iscopo renderci impotenti, egli lo ha conseguito; se intendeva che noi riordinassimo la città, non ha adoprato gli argomenti necessarii. «Ora questo stato di cose non può durare, perchè il disordine diverrebbe malattia cronica, e la mia coscienza non mi permette autorizzare con la persona un sistema che reputo rovina dello Stato. «Inoltre io comprendo essere inviso al Ministero, e non è possibile che procedano vigorosamente insieme uomini tra i quali il sospetto si e insinuato. Io da più parti ho notizia piena, che il Ministero mi reputa autore dei casi di Livorno: quanto sia giusta questa supposizione lascio considerarlo a Voi; ma nonostante egli nutre simile sentimento, e mi parrebbe vergogna scendere a giustificazioni. «Aggiungete ancora che il mio congedo dalla Camera domani o domani l'altro spira. A me tarda andare alle Camere e render conto alla Nazione del mio operato. Vedremo se mi condannerà o mi approverà. «Io però nè posso nè devo lasciarvi all'improvviso: sarebbe un tradire la benevolenza vostra, e la fiducia che avete in me riposta, ma lo faccio per avvertirvi che o V. S. poniate l'occhio in persona che possa surrogarmi nel posto che adesso occupo, o avvisiate il Governo che mandi l'Autorità con capacità e attribuzioni di governare. I tempi si apparecchiano neri, perchè io temo la minaccia del Cholera, la fame prossima che è qualche cosa peggio di minaccia, le finanze esauste, il malcontento dello imprestito coatto, le armi straniere, sieno pure piemontesi, introdotte in Toscana, e soprattutto temo ogni autorità caduta, ogni vincolo sciolto, perpetuato il disordine, e il tremendo ribollire dei bassi fondi della società. «Io vorrei essere falso profeta, ma vi ripeto che dolorose vicende si accostano. Non che io mi reputi da tanto da riparare al flagello di Dio; ma richiesto da voi, mi era offerto a fare quanto è possibile all'uomo pel bene del proprio paese: lascio la ingiuria, lo insulto e lo avvilimento, — queste cose non mi toccano; — ma il sospetto in cui sono tenuto mi toglie adito a imprendere qualunque provvedimento. «Considerate questa lettera come uno sfogo, perchè il mio cuore trabocca, e in ogni evento, per quel poco che valgo, tenetemi per amico, fratello, o quale altra cosa più caramente a Voi congiunta vi piaccia. Addio.» E il Municipio nell'8 ottobre 1848 mi rispondeva: «Comunità di Livorno. «_Dal Palazzo Pubblico, li 8 ottobre 1848_. «Illustrissimo Signore, «La Civica Magistratura di Livorno riconoscente delle molte cose, che V. S. Ill. ha operato _isolatamente_, ed in unione della medesima per il riordinamento di questa Città, nella sua seduta del dì 6 corrente ha deliberato un Voto di ringraziamento, e mi ha conferito l'onorevole incarico di parteciparglielo, siccome faccio con il presente foglio, protestando i puri sentimenti di riconoscenza, non tanto per la detta efficace cooperazione, quanto per la saggia instituzione della Guardia Municipale, di cui la Città tutta è alla S. V. Illustrissima intieramente obbligata. «Profitto di questa fortunata occasione per professarle la mia alta stima e rispetto, dichiarandomi «Di V. S. Illustr. «Dev. Servo «AVV. LUIGI FABBRI _Gonf_.» La città universa qualche giorno prima mi compartiva i lieti onori, che l'Accusa ha saputo tornare in tristi lutti. «Al nostro concittadino F.-D. Guerrazzi, Deputato al Consiglio Generale Toscano. «Concittadino! «Vostra mercè Livorno, questa città, che è vivace per giovinezza di età, lo che è un pregio, non irrequieta, e turbulenta per effetto di malo costume, ha sostenuto dignitosamente durissime prove. «Vostra mercè il Popolo illuminato sulla giustizia del chiedere, ha con inalterabile fermezza tranquillamente aspettato ciò ch'era giustizia concedergli. «Vostra mercè infine, utili quanto opportune disposizioni governative hanno mantenuto fra noi come supremi e insperati vantaggi l'ordine interno, la sicurezza pubblica, la libertà delle industrie, la prosperità dei commerci. «E tuttociò in un tempo in cui il Governo superiore, passionatamente reagendo, credeva che anarchici fossimo e ostinatamente e disordinatamente ribelli. Onde finiva coll'abbandonarci a noi stessi... Fatalissimo errore!!! «Dopo aver compiuto l'altissimo ufficio, ecco che già tornaste là dove la vostra voce come rappresentante del Popolo è organo de' suoi diritti, è oracolo delle sue libertà. Tale modesto contegno, come vale meglio di ogni altro argomento a uccidere la calunnia o l'invidia, quando percuotervi osassero, svela sempre meglio la grandezza dell'animo vostro. Voi col fatto approvate quel detto di Catone, il più grande degli antichi Romani, quando condolendosi alcuno con esso lui perchè i suoi concittadini non gli avessero posto una statua nel Campidoglio, rispose: essere meglio meritare un onore che conseguirlo, _meruisse satis_. «Ciò però non toglie a noi Livornesi un debito sacro, ch'è quello di offrirvi pubblico e solenne attestato di patria riconoscenza. Accoglietelo, illustre Concittadino, come parola di ringraziamento, come pegno di confidenza non peritura in noi per voi, come senso di sincera stima e perenne affezione. «_Livorno, 5 ottobre 1848_. «I VOSTRI CONCITTADINI.» Il Collegio amplissimo dei Negozianti livornesi, poco uso a lasciarsi andare dietro le immagini false delle cose; per indole e per costume studioso a ben calcolare i fatti e i detti; quasi per me vinta la natura, mi mandava splendida testimonianza di affetto: «Cittadino Ministro. «A Voi piacque mostrarvi grato insieme agli onorandissimi Colleghi vostri, verso i Negozianti di questa Piazza, per quanto essi hanno fatto a pro del Governo, e non fecero se non quello che era debito di ogni leale cittadino. A loro posta i Negozianti di Livorno vogliono mostrarsi grati verso di voi, e ben più a ragione. «Il modo come già sapeste ricomporre l'ordine, e donare la tranquillità al nostro paese indispensabili pella prosperità del commercio e delle industrie, l'alacrità vostra istancabile, il senno col quale scioglieste animoso complicati problemi della Politica contemporanea, e finalmente il sagrifizio per cui non risparmiate veglie, patimenti, e disagi a pro nostro, vi hanno ormai collocato fra gli uomini i più benemeriti della Patria, e la riconoscenza delle popolazioni, poste sotto il vostro Governo, è divenuta per tutti un debito sacro. Noi sottoscritti ci affrettiamo a dimostrarvela intiera, e queste nostre espressioni saranno in ogni occorrenza confermate dai fatti, perchè convinti che Voi al Ministero formerete e consoliderete la felicità della Toscana Famiglia.» — (_Monitore Toscano_ del 15 dicembre.) Nè, come per sè stesso poco è vago di parole il Commercio, così egli si era rimasto a dimostrarmi la sua benevolenza con vuoto suono di favella, chè mi aveva profferto largamente qualunque somma pei bisogni della patria avessi riputata necessaria; ed anzi, miracolo nuovo del secolo avaro, ricusavano ostinati lo interesse del sei per cento sul danaro, chiamandosi del solo quattro contentissimi. «Carissimo Amico «T'includo lettera Zocchi: prendi nota, e raccomandalo. La lettera sta per giustificazione. «Il Commercio soddisfatto di noi mi fa sapere mediante alcuni miei amici che se vogliamo 50 o 60 mila lire ce le darà. «Altra buona nuova: i sovventori delle 30 o 40 mila lire, ricusano il sei e vogliono il quattro. Coraggio dunque e avanti. Partecipa queste buone notizie alle E. LL.; io le farò mettere nel Giornale. Fa fare la deliberazione per emettere pagherò, e mandamene uno di lire 15 mila, sei mesi data, che ti porterò in giornata il danaro. Attivate lavori; la città sia in festa, e chi ci vuole male, male si abbia. Addio. «_27 settembre 1848_. «Firmato: F. D. GUERRAZZI. «P. S. Firma e manda le accluse. «All'Illmo. sig. Avv. Luigi Fabbri Gonfaloniere di Livorno.» E la Curia Livornese, che sempre mi tornerà nella mente grata ed onorata memoria, all'antico confratello si compiacque tributare alcuna parola di lode, che gli tempera di alcun poco il fiele di cui adesso lo abbevera l'Accusa. «Cittadino Ministro, «Interpreti dei sentimenti della Curia e della Camera di Disciplina di Livorno, noi vi rechiamo le congratulazioni loro per lo inalzamento vostro al Ministero. E l'una e l'altra, orgogliose di avervi avuto nel proprio seno, hanno sentito con gioia che il Principe ha reso giustizia ai vostri meriti e li ha ricompensati con la sua fiducia. In questo avvenimento, esse hanno considerato, non il vantaggio Vostro, non il lustro che proviene dalla carica, ma sì il vantaggio della Patria, il bisogno che ella ha di Voi e la gloria che saprete guadagnare in servirla. Epperò, come di un avvenimento felice, hanno creduto loro debito di rallegrarsene con Voi, come se ne erano prime rallegrate seco stesse. «E certe che il mezzo onde più degnamente onorarvi e meglio incontrare il Vostro gradimento quello è di porgervi nuova occasione a ben meritare della Patria, esse hanno voluto che vi fosse fatto manifesto e subordinato e raccomandato un loro desiderio, sorto al seguito delle nobili parole proferite nella mattina del dì undici stante dal Regio Procuratore di Livorno, ed inspirato loro dall'amore ardentissimo che nutrono verso la terra natale e la scienza.» L'Accusa (parmi sentirla) considerate tutte queste carte esclamerà: «Le sono giunterie di chi ha perfido il cuore per andare a' versi di chi tiene il timone dello Stato e buscarsi un po' di croce o una pensione...., o piuttosto schifezze di gente sprofondata nella sozzura della servitù.... non furono uditi gli schiavi salutare Claudio, quando andavano a sgozzarsi, per tenerlo un po' sollevato? — Ed anche, chi sa, che tutti i lodatori non fossero stati, di presente sieno, e saranno di generazione in generazione perfidi quanto il lodato!» O dignitosa Accusa, sii, ti scongiuro, cortese a notare, come la ode e i danari i concittadini miei mi profferissero assai più mentre io stava lontano dal Ministero e dalle sue speranze, che dopo; nè l'abiezione è naturale peccato nella città che mi diè viti. Motivi dello studio da me posto nello evitare il Montanelli erano due; il primo, per un tal quale risentimento che nutriva contro di lui, essendomisi scoperto anch'egli contrario nei casi del trascorso gennaio, sopportando che stampassero gravi cose a mio carico nel suo Giornale _La Italia_; il secondo, perchè ognuno portasse il merito delle opere sue, e quando mai egli fosse riuscito a male, non si dicesse, che per libidine del medesimo officio io lo avessi attraversato. Venne il Governatore Montanelli, e il primo atto del suo maestrato fu proclamare solennemente la Costituente italiana. Lo incolpa l'Accusa avere tradito il mandato così operando. Io non devo assumere la difesa del signor Montanelli: pure, per un senso di convenienza e di giustizia, forza è che dichiari parermi questa imputazione assurda. Montanelli giungeva in Livorno il giorno 7 ottobre, e il giorno 8 manifestava al Pubblico il suo disegno; ora non è verosimile che col primo suo atto, poche ore dopo la sua elezione, volesse così apertamente contrariare il Ministero che lo aveva creato. Inoltre il Ministero _non lo disapprovò mai ora nè poi_; ancora egli rimase, come prima, amico del Capponi, e il Capponi di lui, e _queste siffatte paionmi gherminelle da guastare ogni più salda amicizia_. Finalmente nella seduta del Consiglio Generale del 31 gennaio 1849,[107] egli con risentite parole si esprimeva così: «Fu detto che io proclamando la Costituente a Livorno tradiva il mandato che mi era stato affidato dal Ministero. Quando le accuse cadono su persona privata io le disprezzo...; ma quando cadono su persona pubblica è dovere smentirle. Ora, Signori, io dirò, che prima di andare a Livorno manifestai qual era il mio programma. Il capo del Ministero, _il venerabile Gino Capponi può rendere testimonianza di questa mia schiettezza_. Io gli diceva come credessi la Costituente solo rimedio alla divisione degli animi, bandiera sola di nazionalità. Io diceva, che _se fossi andato a Livorno ove mi richiamava l'acclamazione del Popolo, non avrei potuto non manifestare questo mio programma_; ed il Presidente del Consiglio al quale faceva queste dichiarazioni, mi rispondeva: _andassi, facessi quello che la coscienza m'inspirava. Qui sono persone che possono testimoniarlo_. Così rispondo a queste indegne accuse che mi pesano sul cuore.» A sostenere queste cose in modo siffatto, in occasione tanto solenne, quando non fossero vere, si vorrebbe avere faccia di granito nero; nè la impudentissima audacia gli avrebbe bastato, avvegnachè alle sue parole si trovassero presenti tre Ministri, i signori Mazzei, Samminiatelli e Marzucchi, i quali lo avrebbero certamente (se bugiardo) smentito; e supposto ancora ch'eglino avessero per peritanza su quel subito taciuto, soccorreva la stampa liberissima per protestare contro la calunnia. Adesso poi protestare contro allo esule sarebbe non pur facile, ma meritorio; e nonostante si tacciono.... Finalmente l'Accusa, a pagina 899 dei Documenti, riporta questa risposta di Giuseppe Montanelli al signor Massari. «È _menzogna_ che io, nominato Governatore a Livorno, ritorcessi il mandato contro chi me lo aveva dato. La mia condotta fu conforme alle spiegazioni avute col Ministero e col Granduca. Quando avrò fatto conoscere i precedenti di quella nomina, si vedrà la delicatezza estrema con la quale procedei prima di accettare quel difficile incarico, di cui previdi e dimostrai tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate.» Ma io che conosco a prova come le Accuse tutte in generale, e la mia in particolare, troppo meglio del popolo ebreo meritino il titolo di dura cervice, neanche a ciò mi rimango, e per chiarire l'Accusa che bisogna andare adagio ai ma' passi, le dirò, che io possiedo nelle mie mani, e gliela porrò negli atti del processo, proprio la minuta del Proclama del signor Montanelli ai Livornesi, letto ai signori Capponi, Giorgini e Samminiatelli prima ch'ei partisse per Livorno, emendato, a dettatura di uno di loro, nella frase: «Le condizioni che proponeste alla vostra riconciliazione col Potere;» cui con evidente convenienza surrogò quest'altra: «i desiderii che esponeste al Potere.» Donde, per conseguenza inesorata, deriva che tutte le altre espressioni di quel Programma, su le quali l'Accusa perfidia con malevola sofisticheria, come quello che furono lasciate stare, o non contengano tutta la nicotina che immagina, o, se venefiche sono, ne abbia a chiedere conto principalmente a coloro ai quali incombeva l'alto ufficio di sopprimerle, e non le soppressero. — Però io metto l'alternativa, così per guisa di discorso, che so troppo bene essere parole innocentissime coteste, e so eziandio, che, ora che io gliel'ho detto, l'Accusa anch'essa quasi le reputa tali. A me rincresce supporre che il Ministero _scegliesse piuttosto dannarsi col Montanelli che salvarsi con me_:[108] almeno per quanto concerne Gino Capponi, che un giorno fu amico! Io credo che questo personaggio, speculatore arguto delle vicende politiche, e per genio studioso non solo delle passate storie, ma eziandio di quanto accade alla giornata, avesse considerato, come dal corso impetuoso che precipitava la più parte di Europa alle forme repubblicane, lo Stato nostro, per le sue condizioni altra volta discorse, sarebbesi trovato stravolto nel turbinío prodigioso a modo di una foglia secca; e però la Costituente montanelliana accettasse, come quella che gli dava comodo a soffermarsi sul pendío, e stare a vedere dove le mondiali sorti piegassero, onde preservare il paese da moti ciechi e irreparabili. Queste speculazioni poi o non sa fare l'Accusa, e dimostra la incapacità sua a giudicare dei negozii politici; o sapendole fare non le ha fatte, e dimostra la stemperatezza con la quale procede a immaginare colpe là dove i tempi grossi persuadevano provvedimenti straordinarii. Comunque sia, io mi chiamo estraneo al bando della Costituente. Il Ministero Capponi si dimetteva, e doveva costituzionalmente dimettersi, perchè la sua Legge intorno alle adunanze politiche gli era stata _mutata affatto dalla Commissione_. Altre cause concorsero senza dubbio, come suole avvenire in qualsivoglia altra rassegna ministeriale, ma la causa parlamentaria fu quella. In Inghilterra, a modo di esempio, è regola di Parlamento, che il Ministero non si dimetta mai dall'ufficio apparentemente per motivi di politica esterna, e non pertanto questi motivi determinano spesso la sua renunzia. Allora si promuove qualche incidente di politica interna, e da quello si ricava argomento per rassegnare i portafogli. Questa pratica, c'insegnano i pubblicisti, è dovuta all'orgoglio inglese, che non consente confessare che le faccende altrui possano avere virtù di sconcertare le proprie. Narra l'Accusa, ed è vero, che in varie città della Toscana (essa rammenta Livorno, Arezzo e Lucca) avvennero manifestazioni, affinchè S. A., Montanelli e me chiamasse al Ministero. S. A. però, secondo che ne corse fama, commetteva lo incarico di comporre il Ministero al barone Bettino Ricasoli, il quale dopo varii tentativi rassegnò al Principe il mandato. Però ella è cosa sopra modo notabile, e dall'Accusa punto avvertita, come i Toscani prendessero a commuoversi fieramente allora soltanto che corse pubblica la fama avere S. A. incumbensato il Barone Bettino Ricasoli a comporre un Ministero. Ora predicava la gente, e voglio credere a torto, il Barone zelasse caldissimo per le parti di Carlo Alberto; nel quale concetto veniva per avventura confermata dal _piemonteggiare_, che pareva allora soverchio, del giornale _La Patria_, mantenuto a sue spese; e dalla presenza di 3, o 4000 (che io non bene ricordo il numero) soldati sardi in Toscana. Nel falso immaginare, il Popolo temeva che il Principe non desse dentro in qualche tranello, e il suo commuoversi non mirò già a comporgli un Ministero, sibbene a salvarlo da quello che reputava rovina. Di questo l'Accusa, se avesse voluto, poteva raccogliere copia di prove: a me non è lecito farlo: solo mi basti dimostrare che in Livorno il Popolo si acquietò, quando seppe non anche composto il Ministero: «Atteso una lettera che assicura non essere ancora composto il _nuovo Ministero_, e in seguito di un discorso analogo del Governatore, il Popolo ha riaperto le porte, e se ne andò nell'aspettativa che i suoi voti sieno adempiti.»[109] Fallito il disegno del Ministero Ricasoli, si chiamava il Governatore di Livorno a Firenze. Il signor Montanelli, giunto alla Capitale, nè venne a cercarmi, nè si concertò meco, ed invano si sforzerebbe provarlo l'Accusa, e non lo tenta nemmeno. Una Deputazione della Guardia Civica si presentò al Principe per supplicarlo a incaricare il signor Montanelli per la formazione del Ministero. Grande fu la mia maraviglia quando leggeva il Dispaccio telegrafico del 22 ottobre 1848, del signor Montanelli, annunziatore della mia partecipazione al Ministero; e maggiore quando egli _improvviso, per la prima volta dopo il suo ritorno da Inspruck_, circondato da numerosa e onorevole comitiva, mi si presentava davanti per confermarmelo a voce. Qui importa notare come l'Accusa ritenga con molta persistenza una cosa, quasi tornasse a sommo disdoro del signor Montanelli e mio, ed è: che quantunque _egli assicurasse una Deputazione di cittadini di tenermi lontano dal Potere_, — malgrado lo _scherno_ prodigatomi con i suoi detti e nei _suoi scritti_, e il consigliato arresto per _delitti a lui noti_, egli mi proponesse al Principe per Ministro. Lascio per ora della pretesa promessa di tenermi lontano dal Potere perchè a me ignota; dirò delle parole profferite dal signor Montanelli appena mi vide, e furono queste: «Confessare essere stato indotto in errore per le altrui calunnie sul conto mio; chiedermene scusa alla presenza di quei rispettabili cittadini; _non egli avere dettato gli articoli a me ingiuriosi_, pure meritare rimprovero per non averli reietti dal suo Giornale;[110] dovermi una splendida riparazione; averlo sentito nell'anima, e intendere farmela adesso con lo invitarmi ad essergli compagno nel Ministero.» Così mi favellava persona da me lungamente riverita ed amata; tornava dalla guerra italiana dove aveva sparso il suo sangue; era soffrente per la ricevuta ferita; una mano teneva fasciata al collo; sporgeva la sana in traccia della mia per pegno di pace.... Mi era parso fin qui che l'oblio delle ingiurie fosse insegnamento di Cristo; adesso al precetto di religione si aggiungeva carità di Patria.... io lo abbracciai con tenerezza, e lo baciai. Ora poi imparo dall'Accusa, che in questo modo procedendo Montanelli ed io, commettevamo infamie. — Anche questa mi toccava a sentire in Paese cristiano! Le politiche emulazioni forte commovendo gli spiriti, avviene che questi nello ardore del contrasto sovente trascorrano fin dove non vorrebbero andare, e fu veduto una volta gli odii di parte perpetuarsi feroci. I Partiti, pur troppo, non serbano modo nelle accuse perchè contendono per avere ad ogni costo ragione, e questo so e provo. La parola scocca come saetta dalle labbra adoperate a modo di arco, e lo stesso furore agita tutte le guerre, sieno di armi, di scritti o di discorso; nè finchè bolle la zuffa, alla ragione delle offese si abbada; anzi più piacciono quanto meglio mortali, come quelle che affidano di sollecita vittoria. Nella Inghilterra, paese nella pratica della libertà antichissimo, i convizii parlamentari giungono a tale, che nessuno, per quanto si senta tremare ii cuore in corpo, può sopportare, ed io ne lessi di quelli avventati da O'Connell contro lord Brougham, che mi cacciavano i brividi addosso. Ora anche mettendo la religione a parte, che raccomanda il perdono della ingiuria, come debito principalissimo del Cristiano, la prudenza umana persuadeva, che là dove i motivi della ingiuria moltiplicavansi, quivi si apparecchiasse eziandio copia proporzionata di placamenti. Però in Inghilterra, quando due Deputati accesi d'ira si avvicendano ingiurie che a gentiluomo non è dato dissimulare, officiosi amici interponendosi operano in guisa, che comunque suoni la sconcia favella, purchè dichiarino, che non intesero denigrare la buona estimazione scambievole, ciò si ritiene per soddisfazione sufficiente ed onorata. Ora il sig. Montanelli mi profferiva scuse non già di avere scritto, ma di avere patito che altri stampasse nella Italia gli articoli che mi avevano offeso, e me ne domandava perdono. Doveva rifiutarglielo io? Pare che l'Accusa creda che abbia ad essere _qualche grave scandalo_ conoscere il proprio torto, confessarlo ingenuo, con parole oneste raumiliare l'animo inacerbito, e dall'odio, che pesa così grave al cuore dell'uomo, ritornare benigni a quella pace per cui . . . . . . . quaggiù si gode, E la strada del ciel si trova aperta. Intanto il Montanelli protesta: _essere menzogna, che nel gennaio del 1848 contribuisse al mio arresto, ed afferma averne dissuaso il Ridolfi, predicendogli che da uno arresto fatto senza elementi di vera colpabilità ne sarebbe avvenuto quello che realmente avvenne_.[111] So che Monsignore Buoninsegni assicura, il signor Montanelli avere parlato ben diverse parole in cotesta occasione; ma vorrà, in grazia, Monsignore Buoninsegni essermi cortese di non sapermi mal grado se io credo più che a lui al signor Montanelli quantunque Monsignore non sia? Rispetto poi al signor Massari ed alla sua trista opinione, io mi permetterò domandargli se si rammenta quando egli, e per sè e mandato dal sig. Gioberti, venne a invitarmi a casa per conferire col Filosofo italiano?[112] E se ricorda quando il Ministro Gioberti con lettera pressantissima m'invitava a consiglio diplomatico a Torino? Certo io non ebbi la fortuna di trovarmi d'accordo col suo Maestro; conosco l'attaccamento ch'egli ha per lui, e di questo lo lodo; so ancora come il signor Massari sia amico di coloro che non sono amici miei; ma tutto questo ed altro ancora, non mi pare che gli dia abilità a dire che il sig. Montanelli fece molto per la rovina d'Italia, quando mi scelse collega nel Ministero: io vorrei provargli per filo e per segno tutto il contrario: ma il sig. Massari, che imploro non meno cortese di Monsignor Buoninsegni, persuadendosi che il carcere ov'io giaccio, appena vivo, non è il luogo più acconcio per sostenere simile controversia, senta vergogna di avere provocato chi non gli può rispondere, senta vergogna di avere vergato sconsigliatamente carte che meritarono essere raccolte dall'Accusa a danno nostro; — nè peggiore pena, potendo, io vorrei dargli di questa. Ma in quanto alla offerta del Montanelli per formar secolui parte del Ministero, mi schermiva adducendo di varia sorta ragioni, imperciocchè tanto più mi sembrasse dovermi ostinare nel rifiuto, in quanto che riputava il suo disegno esorbitante. Però egli e gli altri mi stavano attorno con preghiere, e con parole che stringono più veementi delle preghiere, intendo dire il dubbio della sincerità della riconciliazione, se a ricusargli il mio consenso persistessi: tuttavolta nemmeno per queste fervorose istanze accettai; mi riservai dare risposta dopo avere conferito col Principe, che mi fu detto aspettarmi.[113] Infatti S. A. mi aspettava. Di questo colloquio basti adesso riferire, che innanzi tutto supplicai il Principe a dichiararmi s'egli intendeva eleggermi Ministro di sua piena ed assoluta volontà; alla quale richiesta sotto la sua fede mi assicurava _eleggermi di sua piena e liberissima volontà alla carica di Ministro_. In altra occasione, pregandolo io ad essermi più largo della sua fiducia, il Principe in suono di mite rimprovero: «E non le detti prova di fiducia, rispose, quando l'assunsi all'alto grado che occupa?» E penso non ingannarmi affermando, che S. A. mi dicesse eziandio il marchese Gino Capponi essere stato mio promotore presso di lui, e Lord Giorgio Hamilton avere proposto con istanza, che a me la presidenza del Consiglio affidasse, la quale cosa mi venne confermata più tardi dallo stesso onorevole Lord. Ora come può sostenersi, non dico criminalmente ma onestamente, che io _pervenissi al Potere con mezzi riprovevoli_, e più ancora che il Principe mi eleggesse _sforzato_ dal timore della guerra civile? L'Accusa dunque intende smentire la parola del Granduca? Chi di noi due è il temerario? Io, che su la fede data dal Principe mi appoggio, o l'Accusa che questa fede disprezza? — E poniamo pur vere le manifestazioni a mio favore di Livorno, di Arezzo e di Lucca; forse non accade sovente nei liberi paesi acclamare o disapprovare il Ministero, e tale chiedere che sia innalzato, e tale altro dimesso? Intanto si prova come le dimostrazioni livornesi, che per certo dovevano apprendersi come le più stringenti, fossero esposte al Principe dentro i limiti costituzionali di semplici espressioni di desiderio;[114] quelle poi di Lucca e di Arezzo tanto avevano virtù di muovere gli animi a Firenze, quanto la nebbia dell'anno passato: e stando all'Accusa, la Deputazione fiorentina non pure non instò per avermi Ministro, all'opposto pose quasi per patto al Montanelli, che da me più che da viperino sangue aborrisse. Dunque come io arrivassi con mezzi riprovevoli al Potere, se l'Accusa non ce lo spiega, riuscirà davvero malagevole intendere; — finalmente il Principe, anzichè patire violenza, avrebbe potuto e saputo allontanarsi[115].... Ma io mi vergogno andare in cerca di argomenti là dove la fede del Principe mi assicura. Anche una volta lo intenda l'Accusa, dalle labbra reali uscì la parola, che mi diceva eletto con grato e libero volere; questa parola rispetti. E se l'Accusa non mi fosse proceduta così acerbamente nemica, forse poteva conoscere, che se io alla fine accettai, e' fu per salvare chi incauto troppo si avventurava a perigliose fortune! — Altra parte importantissima del mio colloquio con S. A. riferirò più tardi. Avendo acconsentito a formare parte del Ministero Montanelli, considerando la ragione dei tempi e gli umori dei Popoli, conobbi come noi fossimo eletti quasi argine estremo allo irrompente precipitare della Europa verso la Repubblica. Disposto a combattere pel Principato Costituzionale _come quello che sapevo essere unico desiderio della massima parte del Popolo toscano_, m'ingegnai formare un Ministero capace a sostenere la tempesta, raccogliendo gli uomini meglio cospicui del Partito Costituzionale. A questo scopo con buoni argomenti, che menerebbe troppo in lungo esporre, persuasi il Sig. Montanelli _a offrire la presidenza del Consiglio al marchese Gino Capponi_; nè la pratica si rimase sterile consiglio, chè egli andò a farne ufficio presso il Marchese; se non che riuscite vane le premure, Montanelli tornava riportando a me, e a parecchi onorevoli cittadini, che con non mediocre ansietà attendevamo: «con grato animo _avere accolto il Sig. Capponi_ questa dimostrazione di stima per lui; doversi però astenere dallo accettare per cagione di salute; promettere ad ogni modo il suo appoggio al nuovo Ministero;» e questa promessa veramente mantenne. Del marchese Ridolfi per essere assente, e per altri rispetti, non era a parlare. Il barone Ricasoli aveva poco anzi fallito nella composizione di un Ministero, nè ci procedeva favorevole; con tristo presagio mi convenne deporre il pensiero di guadagnarci persona la quale rappresentasse a un punto la nobiltà fiorentina e la parte più conservatrice della Camera. Tentammo il Professore Eliseo Regny per la Finanza, ma anch'egli allegando la incerta salute ricusava. D'Ayala, onoratissimo personaggio e di virtù antica, era ed è illustre in Italia per fama di dottrina, e per moderati consigli. Franchini, gentiluomo di buone lettere, zelante della patria, probo, e mite. Mazzoni, piuttosto rigido osservatore della onestà che ordinariamente onesto. Adami, dal braccio traboccante dell'Accusa fu misurato, e rinvenuto giusto di misura! E credo che cotesto egregio uomo, anche in questo momento, Uscito fuor del _pelago_ alla riva Si volga _all'acqua perigliosa_, e guati. Egli, compiacendo ai miei desiderii, sagrificava alla patria non poco, lasciando i negozii floridissimi della sua Banca, reputata meritamente sostegno del Commercio livornese. Ed ecco come fu composto il Ministero contro il quale la dignitosa Accusa e schietta avventa il torchio di cera gialla acceso in fuoco di maladizione gridando: _anathema sit_![116] Pertanto io penso potere con sicurezza concludere, che legittimamente ascesi al Potere al pari di ogni altro Ministro venuto al mondo con la grazia di Dio, essendovi stato chiamato in virtù dello esercizio liberissimo della prerogativa reale.[117] X. Costituente. Parliamo della Costituente. Innanzi tutto fa di mestieri sapere come nella prima conferenza che ebbi con S. A. io le domandassi quali dovevano essere le condizioni del Ministero. Il Granduca rispondeva interrogando: «E non gliele ha esposte il sig. Montanelli?» — «Sì certo, replicai, me le ha esposte; ma io desidero udirle confermare dalla bocca dell'A. V.» Allora il Granduca stesso, con le sue labbra, mi dichiarò, programma del nuovo Ministero sarebbe stata la Costituente del sig. Montanelli, — e questo mi disse senza ambagi, assoluto, non parlando punto di condizioni, o di riserve. — Rimasi percosso; e mi ricordo avere soggiunto: «Altezza, io soprattutto mi studio essere onesto.» E il Granduca: «Ed io pure sono tale.» — «Non vi ha dubbio, ripresi, e quindi non devo astenermi dal cerziorarla che l'A. V. può correre eventualmente il risico di perdere la corona con la Costituente del sig. Montanelli; ora mi permetta, Altezza, che io le domandi se ella ha bene pensato a queste accidentalità.» — «Io ci ho pensato, replicò S. A., e quantunque io fossi parato anche a questo per benefizio del mio Popolo, pure, a parlare schietto, non lo temo, perchè la mia famiglia ha bene meritato della Toscana, ed io penso, ai meriti paterni avere aggiunto qualche cosa di mio; laonde _il Popolo consultato non vorrà scambiarmi per un altro, e credo che voterà pel Principato Costituzionale e per me_.» — «Lo credo ancora io, ripresi; ma era mio dovere avvertirla;» e ammirando la fiducia del Principe, e volendo come per me si poteva corrispondervi in quel punto stesso, continuai: «Non era da aspettarsi meno dal suo cuore; ma se (e qui con l'atto della mano accompagnai le parole), _ma se per mutate vicende V. A. avesse a pentirsi della consentita Costituente, ora per allora la prego a volermelo confidare, chè io le prometto industriarmi in maniera, che spero V. A. potrà dimettere il nuovo Ministero piuttosto con aumento che con iscapito della sua reputazione._» Qui l'Accusa, secondo il suo stile, aggruppa insieme varie circostanze a me estranee, per lo intento (secondo la egregia espressione del Guizot) d'immergermi dentro una atmosfera di preordinazione criminosa. Parla primieramente d'invio ordinato da Giuseppe Montanelli di Giovanni La Cecilia a Roma, _dopo la partenza del Pontefice da cotesta città_, allo scopo di procurare che il dominio temporale cessasse, una Costituente si bandisse, _Leopoldo Secondo a presidente si eleggesse_, la unione di Toscana con gli Stati Romani si operasse, senza fare per _allora_ quistione di _dinastia_ o di _repubblica_. Inoltre, l'Accusa espone, come, proclamata la Costituente a Roma, il Montanelli scrivendo al Ministro Bargagli la combattesse, come quella che imponeva limite ai poteri dei Deputati, e rispettava _la personalità e le condizioni organiche dei singoli Stati italiani_. Intorno a questo particolare rispondo, che di rado il signore Montanelli mi partecipava gli atti del suo Ministero, ed io immaginando che li concertasse col Principe, taceva; ond'ebbi a maravigliarmi non poco certo giorno, che S. A. mi domandava, che cosa vi fosse di nuovo. Alla quale domanda risposi: «Chi meglio informato di V. A., che avrà ricevuto in giornata le partecipazioni del Ministro degli Esteri?» Ed egli a me: «Io non so nulla; mi si fanno mancare le necessarie notizie.» Mi permisi rispettosamente osservargli, che di me non poteva lamentarsi, perchè non mancavo di giorno in giorno tenerlo informato di tutto, _anzi pure di ora in ora così di giorno come di notte_, quando ce n'era il bisogno; in quanto agli altri Ministri avrei provveduto; ed infatti tornato allo Uffizio, mi dolsi col sig. Montanelli, che tanta poca diligenza ponesse a compire non pure un riguardo verso persona tanto autorevole, ma un dovere costituzionale verso il Capo dello Stato. Queste lettere, questi trattati a cui accenna l'Accusa, io non conosco; non mi furono esibiti; ignoro qual carattere rivestano; non sono chiamato a rispondere di loro. Con questa riserva esaminandoli, osservo che egli spediva lo Incaricato segreto quando _già il Papa si era allontanato_, e quando le cose romane versavano manifestamente alla Repubblica, onde impedire che questa fiamma in paese confinante si accendesse e su noi si avventasse, procurare che aderisse a Governo ordinato, promuovere, in qualunque vicenda (e tutte erano temibili o sperabili allora), gl'interessi del Principe nostro colà; frattanto nè di principato, nè di repubblica si favellasse. Se io non isbaglio, mi sembra che il Montanelli in questo modo operando, mettesse in pratica lo ammaestramento del sommo Politico, che nelle improvvise e non riparabili fortune, il meglio è, potendo, aspettare: _da cosa nasce cosa, e tempo la governa_. Ed anche acconsentendo che il Montanelli si affaticasse in prevenzione a volgere a pro del suo paese lo esito probabile di cotesti tramutamenti, io non so come e in che lo si voglia incolpare. Nel volume dei Documenti, a pag. 543, trovo lettera particolare del sig. Montanelli al conte Bargagli Ministro Toscano a Roma: «_Se Roma convoca immediatamente la Costituente, e vota la Presidenza di Leopoldo, noi avremo ottenuto un doppio effetto: 1º Fusione dei due Stati dell'Italia Centrale. 2º Centro italiano, al quale il Piemonte e certo anche Napoli dovranno concorrere._» (28 novembre 1848.) — Più sotto, a pag. 544: «Colla Costituente sarebbe tutto rimediato (ogni padre ama i suoi figliuoli).... _I Repubblicani non farebbero colpi di mano. Gli Albertiani sarebbero temperati nelle loro ambizioni dinastiche ecc._» (Senza data.) — «_Tocca agli Stati a decidere se convenga meglio Deputati con mandato senza limiti o con limiti._» (pag. 545). — «_Sebbene, qual è stata proclamata, la Costituente romana non sia d'accordo con quella proposta in Toscana, pur non ostante è sentita la necessità di astenerci da tutto ciò che può essere causa di discordia, e l'adesione Toscana, alla Costituente non mancherà._» (Senza data.) — «Sterbini...... assentì molto volentieri, che la Costituente fosse proclamata a Roma sotto la _Presidenza di Leopoldo Secondo_.» (Rapporto di La Cecilia del 30 novembre 1848, pag. 547.) — Di qui scendono le conseguenze: 1º Che Montanelli trattava comporre uno Stato della Italia Centrale, che servisse nelle prevedibili eventualità di equilibrio fra Napoli e Torino. 2º Che si adoperava a prevenire la _Repubblica_. 3º Che s'ingegnava di comporlo a benefizio di Leopoldo II. Io comprendo ottimamente che al Governo Pontificio questo possa e debba riuscire amarissimo; ma in che, e come possa essere argomento di crimenlese di faccia alla Toscana, io non veggo. E neppure mi persuado in che guisa questi trattati offendano la pietà cristiana del signor Montanelli. — Carlo V imperatore teneva imprigionato il papa Clemente VII in Castel S. Angiolo, e faceva nei suoi Stati esporre il SS. per lui; di più, egli fu persecutore acerrimo della Riforma Luterana, e morì santamente da frate nel convento di S. Giusto. Nè tacciarono il Bossuet di empietà per avere composto nel 1682 gli articoli della Libertà della Chiesa gallicana sotto Luigi XIV; nè empio chiamarono Napoleone quando elesse suo figlio Re di Roma. Chi conosce le conferenze dei trattati di Vienna, sa come i sovrani più religiosi e cattolici stessero per tôrre al Pontefice lo Stato, il quale gli fu salvo mercè la destrezza del cardinale Consalvi, e l'appoggio della Inghilterra, ma non sì che in qualche parte non gli venisse tarpato. La premura del sig. Montanelli per impedire la limitazione del mandato dei Deputati alla Costituente, sia intorno alle cose, sia intorno alle persone, era conseguenza del suo Programma accettato dalla Corona come condizione del Ministero; ma non si opponeva che gli altri Stati conferissero mandato limitato; nè ricusava aderire alla Costituente comunque fosse. Qui non vi è delitto; o se vi fosse, sarebbe delitto da essere accusato dalla Camera dei Deputati, giudicato dai Senatori; ma nè Deputati accuserebbero, nè Senatori giudicherebbero, però che essi alla unanimità votassero la Legge della Costituente. Strano suona poi lo addebito al Montanelli di avere difeso energicamente il suo progetto, avvegnadio pei Ministri Costituzionali questo è dovere, come quello delle Camere, se non piace, disapprovarlo con le orazioni, rigettarlo co' voti, e costringere il Ministero a ritirarsi; nè gioverebbe punto la violenza (comodo arnese in mano dell'Accusa, la quale per iscusare i fatti altrui, lo ha sempre in pronto; per iscusare i miei, o non lo crede, o lo pretende provato _luminosamente_), dacchè vedremo in breve i Deputati stessi attestare averla votata spontanei, e i Senatori poi non venissero neppure disturbati dagli schiamazzi delle tribune. Secondariamente, l'Accusa s'ingegna cercare un nesso relativo fra le dimostrazioni del Circolo e la presentazione della Legge della Costituente; ma insinuazioni siffatte cadono, quante volte tu consideri, che la Costituente formando la sostanza del Programma ministeriale, il Montanelli, senza mestiero pretesti e senza sollecitazioni, doveva proporla, difenderla, vincere, o ritirarsi.[118] Aggruppare intorno al Ministero le intemperanze, e di straforo perfino _le stragi_, condirle di benevole insinuazioni d'_inerzia_, o di _complicità_, e allacciarle con i suoi atti, come se tutto cotesto turpe, stolto, e insidioso mosaico fosse fattura ministeriale, non è ufficio da Giudici. L'Accusa intemperantissima, penetrando con le sue supposizioni fin dentro le secrete stanze dei Consigli del Principe, mi costringe a rivelare le consulte. Se davanti le Camere fossi stato interpellato intorno a siffatte materie, io, seguitando le tradizioni costituzionali, mi sarei schermito da rispondere senza previa facoltà della Corona: ma qui si tratta di Accusa, qui si tratta di Accusatore che mi muove incontro co' ferri arroventati; egli è pel diritto chiamato _moderamen inculpatæ tutelæ_, che mi devo difendere; ed io potrei consentire tacendo alla offesa della persona, ma a quella della fama non mai.[119] Da parecchi giorni il signor Montanelli aveva presentato il Decreto della Costituente alla firma del Principe, e questi andava differendo a restituirglielo. La trattativa di questo negozio, come di cosa a lui spettante, aveva assunto sopra di sè il sig. Presidente; solo ci dichiarava la sua dimissione sicura, là dove il Principe non gli avesse firmato il progetto. Certo giorno, il Presidente si recò per questo motivo al regio palazzo, ma anche allora egli ebbe a partirsi sconclusionato, chè il Principe lo rimandò ordinandogli gl'inviasse il Ministro dello Interno; io pure per negozii del mio ufficio ero andato a Pitti, e il Principe si restrinse immediatamente meco a consulta. — Ecco le considerazioni, che sottoposi al giudizio della Corona: «Piemonte è in guerra con Austria; nè deve supporsi che lo armistizio si converta in pace, perchè a romperlo lo persuaderanno il dolore della sconfitta, il cruciare della vendetta, l'antica cupidità dello acquisto, tanto più intensa adesso in quanto per un momento appagata, il desiderio di gloria, la irresistibile violenza delle cose; e questa forza avrebbe strascinato anche noi, quantunque, discorrendo strettamente degl'interessi della Toscana, questi ci consigliassero a posare; poco il nostro soccorso a vincere, e troppo per provocare lo sdegno del nemico; pericolosa forse la vittoria piemontese, esiziale certamente la perdita. Due essere naturali vicende della impresa contro Austria, vincere o perdere. Vincendo Piemonte, venivamo ad acquistare per confinante uno Stato di 10 milioni di uomini all'incirca, orgoglioso per vittoria, e intento sempre a dilatarsi; noi piccoli, deboli e senza frontiere difendibili dalla parte del Piemonte. Ora non era da supporsi, che Piemonte, in mezzo alla petulanza compagna ordinaria della buona fortuna, si mostrasse più temperato verso di noi di quello che fosse prima di vincere. Invero, avemmo a provare dalla parte di cotesto Regno una lotta difficile, per cagione dei confini; voleva tôrci l'Avenza, la quale perduta, era forza le tenesse dietro Carrara; e se ottenemmo che i Lavenzini tutti votassero per Toscana, ciò devesi agli sforzi supremi da me stesso operati: nè qui si rimase; chè continuava a bisticciarci per Panicale, Mulazzo, Calice e Parana, come altrove sarà con più lungo ragionamento dimostrato. Il Governo Sardo, mentre da un lato esigeva ogni maniera di sagrifizii da noi per impresa dove raccoglieva principalissimo vantaggio vincendo, perchè riuniva sotto di sè Lombardia, Venezia, Modena e Parma, e correva minore pericolo perdendo, perchè la Francia non avrebbe sofferto mai la invasione austriaca in provincia confinante; dall'altro si mostrava per modo tenace, che io, scrivendo lettere confidenziali al Ministro Gioberti, ebbi ad usare le seguenti espressioni: «Con quale coraggio potremo noi _consigliare la Corona a persistere nel proponimento di correre le vostre fortune_, se voi vi mostrate sì fervidi a contenderci frammenti di terra più che ad altro somiglievoli a pezzi di pan secco co' quali si fa la zuppa ai cani?» Si scusavano con lo incolpare di coteste improntitudini lo zelo importuno dei Sarzanesi. Certo _di che cosa sia capace lo zelo importuno, conosco ancora io, ed ho provato, e provo_; ma però non cessarono punto i lamentati maneggi. Vinta pertanto dal Piemonte la guerra, ponendo ancora che lo acquisto della Toscana non lo tentasse, noi dovevamo aspettarci ad essere ridotti in istato di assoluta subiezione. Infatti la Toscana, se lasciata durare, diventava provincia piemontese: ogni posta ci avrebbe portato ordini da eseguire: la Corona Toscana avrebbe dovuto scadere alla ignobile parte di vassalla tremante della Corona Sarda, e stenderle supplichevole la mano quotidianamente, — anzi di ora in ora, — anzi di minuto in minuto, per limosinare il misero vanto di parer padrona, — ludibrio a un punto, e agonia di Sovranità! A questo evento, che cosa avrebbe opposto uno Stato di un milione e mezzo, contro Stato di dieci milioni? Armi non avevamo o poche, e in guerra nazionale non si sarebbe voluto nè potuto adoperarle. La protezione delle Potenze estere forse? Ma di che cosa sappiano queste estere protezioni conosce il mondo; il cavallo, che cercò l'uomo per combattere il cervo, è favola antica di applicazione sempre moderna; nè la durata della Toscana avrebbe formato mai quistione di equilibrio europeo. Arrogi a questo, che le trasformazioni minacciate dai tempi portentosi non avrebbero permesso alle Potenze di badare tanto pel sottile, se in condizioni tranquille noi le avevamo vedute accomodarsi con la paziente dottrina dei fatti compiti. Bisognava pertanto cercare un freno da imporgli, e questo freno a me pareva vedere nella Costituente italiana; la quale, a senso mio, avrebbe dovuto consistere in un Congresso di Stati Italiani, dove si determinassero i diritti, gli obblighi e le guarentigie del patto federativo, non meno che le riforme, per quanto era possibile uguali, da estendersi alla universa Italia. Annullate le condizioni e le sicurezze dei Trattati del 1815, era pur forza crearne nuove. La necessità di riordinare uno equilibrio italiano tanto più stringeva, in quanto diventava maggiore il disequilibrio dello Stato convicino. In qual parte trovare un freno immediato ed efficace di opinione a un punto e di forza, se la Costituente italiana non lo somministrava? «Nè il Piemonte dissentiva punto da aderirvi: a condurre le trattative veniva mandato da Torino, negoziatore straordinario, il Deputato Ferdinando Rosellini, uomo di mente sveglia e di arguti consigli. Sola obiezione mossa da lui era il mandato che egli pretendeva limitato non solo ai Commissarii piemontesi, ma bene anche ai toscani; questa limitazione poi consisteva in due cose: 1º nel tenere per accetto il Regno della Italia Superiore composto di Piemonte, Lombardia, Venezia, Modena e Parma, e casa di Savoia sovrana; 2º nel conservare Pontefice, Granduca, Re di Napoli in Italia. Per questo modo il limite del mandato, in quanto concerneva Carlo Alberto, riguardava due scopi, il reame e il regnante; rispetto agli altri Principi accennava alle persone soltanto; per gli Stati poi non dissentiva che potessero eventualmente stringersi od allargarsi. Breve, non voleva mettere in compromesso quanto si augurava conquistare, anzi prima della conquista esigeva la ratifica degli altri Stati Italiani. Il sig. Montanelli, fermo nel suo sistema, procedeva onninamente contrario; mandato illimitato pretendeva, e per tutti i Deputati e per tutto, così per le cose come per le persone. Conciliando io, nella impossibilità di far cedere il sig. Montanelli sul punto del mandato illimitato, lo richiamava a considerare quanto esorbitante fosse la pretensione d'imporre per parte sua le norme del mandato agli altri Principi italiani; come questi non avrebbero mai consentito la Costituente, se vi avessero ravvisato minaccia o pericolo; e per siffatto modo chiudere egli la porta alla possibilità di vedere attuata quella Costituente, che pure era stata bandita da lui; correrci anzi tutto il dovere di essere coerenti al programma, il quale aveva promesso che la Costituente non sarebbe stata causa di lite, ma sì all'opposto di concordia fra gli Stati Italiani: gli bastasse il mandato illimitato pei nostri Commissarii; questo egli avere promesso; questo solo avere potuto promettere, però che gli altri non dipendessero da lui: il suo onore essere salvo, e doversene stare pienamente tranquillo. Dall'altra parte richiamavo il Negoziatore sardo ad avvertire che, com'egli trovava strano che Montanelli presumesse dettare le condizioni del mandato ai Commissarii piemontesi, così al Montanelli dovesse sembrare nuovo ch'egli ai nostri le assegnasse; il sig. Montanelli persistere a credere il suo onore impegnato in questa promessione, nè rinvenire modo di recederne, se non dimettendosi dal suo Ministero, avvenimento che il Negoziatore stesso non pareva desiderare; ora le cose del mondo, quando e' non si possono fare come si vorrebbe, si hanno a fare come le si possono; ed io mi sarei ingegnato a piegare il Montanelli a questo, che mantenendo il mandato libero ai Commissarii toscani si contentasse che agli altri fosse conferito limitato. Inoltre, io mi legava per fede a dare istruzione ai Commissarii nostri, che al partito della maggiorità senza obietto alcuno immediatamente aderissero. Così, aggiungeva io, si concilia ogni differenza; il sig. Montanelli mantiene la promessa, e i Commissarii riuniti esibendo prima di tutto i mandati, circoscrivono i limiti e pongono le basi sopra le quali hanno ad aggirarsi le trattative. Un'altra considerazione mi muoveva a consigliare così, ed era, che quantunque andassi persuaso, che il mandato illimitato non fosse mai per nuocere all'A. S., ma piuttosto giovarle, pure questa mia persuasione studiava assicurare con quelle guarentigie che mi era dato conseguire maggiori. «Lo Inviato sardo parve penetrarsi di queste mie considerazioni, e dichiarò scriverne al suo Governo. Io ho motivo di credere che ci saremmo trovati d'accordo, sebbene rimanesse a spianare la difficoltà relativa al Regno della Italia Superiore, la quale avevo lasciato sospesa onde sembrasse che in qualche punto cedessimo, ma disposto a consentirlo per due ragioni, una migliore dell'altra; la prima, perchè al contatto di due Potenze principali era necessario per la indipendenza d'Italia porre uno Stato forte; la seconda, perchè quando Carlo Alberto se lo fosse acquistato, chi sarebbe stato quegli che glielo avrebbe potuto contrastare? Certamente non noi. «Considerando la seconda ipotesi della vittoria austriaca, la quale si è verificata, nemmeno mi pareva inutile nel futuro interesse del Trono Costituzionale toscano il merito di avere proclamato primo la Costituente italiana. Se la vita umana è breve, brevissima è la ministeriale; quindi non parrà cosa strana nè forte che i Ministri, secondo le facoltà dello ingegno loro, si addentrino nei tempi che verranno, e su gli eventi probabili discorrano. «Vincendo Austria, era a credersi che i Trattati del 1815 sarebbono stati mantenuti in Italia, se pure se ne contentava. Ma pensando così diceva: le durerà eterna la buona fortuna? Dopo la vittoria rimarranno spente le cagioni della guerra in Italia? Non credo; anzi sorgeranno maggiori: mutabilissime sempre le vicende umane; le battaglie sono un giuoco di zara dove invece di dadi gittiamo anime umane, e il chiodo alla ruota della Fortuna nè uomo nè Popolo hanno posto fin qui. A noi, che vedemmo il tremendo tramutare delle sorti da Napoleone in poi, e non siamo vecchi, nessuno venga a sostenere immortale la opera degli uomini. Propone l'uomo, Dio dispone. — Pongasi Austria trionfante delle angustie nelle quali adesso si trova, e delle guerre italica ed ungherese; poserà forse tranquilla? È da dubitarsi. I Magiari parteggiarono in prima per lo Impero a danno dei Popoli slavi; se ne divisero quando alla superbia loro volle imporsi un freno; allora, côlto il destro, gli Slavi sostennero lo Impero vacillante, per odio della preponderanza magiara, e per amore di libertà: gli uni e gli altri a vicenda presero la bandiera dello Impero per ingagliardirsi agli scambievoli danni. Gli Slavi vittoriosi, estimandosi salvatori, non diventeranno più importuni e più difficili a contentarsi dei vinti? L'aiuto russo non riuscirà più tardi molesto, però che la memoria del male presto passi e il fastidio della subiezione duri? Concesso ancora che per la parte dei Russi non si operi cosa che valga a fomentare negli Slavi sentimenti di origine, di religione e di lingua comune,[120] per cui desiderino un giorno collegarsi in una sola famiglia, non è da credersi che questi sentimenti si svilupperanno spontanei? Gli stessi Stati ereditarii non sono travagliati da umori _socialisti_ troppo più pericolosi dei _repubblicani_? Questo contagio non si estende nella intera Germania? Non dura e si prolunga, tela penelopea della alemanna politica, l'assettamento della Germania? Cesserà l'antagonismo fra Austria e Prussia? Il bisogno di tenere in piedi eserciti enormi per guardare Ungheria, Italia, Boemia, Germania, non sopravviverà alla vittoria, seme nuovo di guerra? Le sue finanze non sono disastrate, i Popoli non si esauriscono anch'essi? E posto ancora che la buona fortuna e il senno dei Ministri austriaci vincano prodigiosamente queste ed altre difficoltà, forse tutte le cose nostre non hanno la morte? Non si spengono i reami come gl'individui? È questa una verità, che nè anche la superbia potrebbe smentire: Cadono le città, cadono i regni.... Per le quali considerazioni mi parve consiglio buono mettere il nostro Stato in vantaggiosa condizione per qualsivoglia eventualità. — Se mai vorrà il destino che Austria debba un giorno abbandonare la Italia, allora avrebbe potuto valere alla Toscana riprodurre la Costituente italica, per nuovi eventi celata sotto il moggio, onde tornare più tardi a splendere sul candelabro. «Per quello poi che riguardava il tempo attuale, la Costituente ci salvava dallo impeto repubblicano, come ho scritto di sopra discorrendo dei motivi probabili che persuasero il Presidente Capponi a consentirne il bando al signor Montanelli.» — Il Principe, ascoltate le mie riflessioni attentissimamente, si degnò favellare queste parole: «In quanto dice vi è del vero, ma Lord Hamilton sente in modo contrario.» — «Lord Hamilton, risposi, è uomo peritissimo nelle faccende politiche; mi permette l'A. V. che io lo consulti su questo proposito?» — «Ella può farlo, il Principe soggiunse; anzi lo può fare immediatamente, perchè è qui in Palazzo.» — «Altezza, dove?» — «In salotto giallo.» — «Mi concede l'A. V. che io vada?» — «Sì, volentieri.» Nel luogo indicato, rinvenni Sir Carlo Hamilton, fratello dell'onorevole signore Ministro che adesso deploriamo defunto, col quale tenni lungo e grave colloquio, di cui conclusione fu cadere insieme intorno alla convenienza di presentare il progetto di Legge della Costituente alle Camere nel modo indicato da me. Tornai nelle stanze di S. A., e le detti ragguaglio dell'esito della conferenza; parve maravigliarsene, e desiderò udirlo confermare dal prelodato Sir Carlo; la quale cosa fece, lasciando me solo nella sua stanza: dopo lunga ora tornò, e firmando il progetto, a me lo consegnava piuttosto premuroso, che repugnante, affinchè il Ministero lo sostenesse alle Camere. Io mi sarei vergognato adoperare parole capaci a diminuire nel Principe il libero esercizio della regia prerogativa; nè la dignità di S. A. lo avrebbe sofferto; e lascio poi considerare se di questa maniera argomenti avrebbero sortito effetto con un Ministro di tale Potenza quale Inghilterra si è. Chi vorrà, con alquanto meno disprezzo di quello che l'Accusa sapientissima si faccia, avvertire il modo col quale io sostenni la discussione della Costituente, penserà che le ragioni, trovate plausibili dalla Corona e da Sir Carlo Hamilton, non dovessero presentare poi tutte quelle stupidezze che l'Accusa si compiace immaginare. Se questo fosse caso di dannazione, bisognerebbe dire che mi sarei dannato in ottima compagnia! E se non ho perduto il bene dello intelletto, il Documento donde l'Accusa ricava indizio di violenza usata alla Corona, la esclude del tutto. Questo Documento è il Dispaccio telegrafico del 22 gennaio 1849 al Governatore di Livorno: «Dopo molte ore di _combattimento_, avemmo il Decreto Regio per la Costituente italiana.» Qui, innanzi tratto, è chiaro come la parola _combattimento_ fosse scambiata con l'altra più acconcia di _dibattimento_; ma via, lasciamo combattimento, chè la contesa di raziocinii si risolverà in dibattimento pur sempre. Ora io dico, che chi la violenza sostituisce alla ragione non ha mestieri di formule prolisse; il ragionare che giova? Porgete il collo alla dura necessità. La impressione del meto è cosa breve per colui che l'adopera e per quello che la subisce: non si discute mica la paura; e il dibattimento di molte ore non può referirsi alle conseguenze di un subito moto dell'animo, sibbene alle avvisate e lente operazioni del pensiero. — La quale intelligenza anche più si manifesta leggendo il rimanente Dispaccio: «_bisognerebbe mostrarci grati al Principe_ con una grandissima dimostrazione.» Se avessi usata forza alla volontà di S. A., queste parole sarebbero a un punto vituperevole scherno per lui, immane atrocità per me..... Se non che all'Accusa costa tanto poco pensare atrocità, che scarso frutto questi argomenti ponno fare con lei! L'Accusa, che andò a rifrustare mostruosi motivi d'insinuazioni pessime, perchè non considerò il voto unanime della Camera dei Deputati? Perchè non pose mente alle parole pronunziate dal Deputato signor Socci, nell'adunanza del Consiglio Generale del 25 gennaio 1849? «Questa immensa fiducia gliel'ha dimostrata anche la Camera, quando _alla unanimità_ approvava la Legge sulla Costituente italiana, _e credo che tutti la votassero di gran cuore_.»[121] Ma all'Accusa non basta la testimonianza del Socci, che nell'ardua sua virtù ella forse come cagnotto del Potere disprezza; onde, la mano sempre sul petto, Da quella parte ove il cuore ha la gente, e gli occhi al cielo, l'Accusa attesta andare nei precordii della sua coscienza convinta, che _soffocata quasi la discussione della Camera, in virtù del tumulto delle tribune, riuscisse al Montanelli di ottenere il mandato illimitato_[122] — Deh! abbassa, o coscienziosa Accusa, cotesta mano, e quegli occhi, e prendi il _Monitore_, e leggi ciò che arringando dichiarava Ridolfo Castinelli, uomo per fermezza di carattere, ai tempi che corrono, piuttosto singolare che raro; e bada, Accusa, ch'egli è quel desso che i libertini più accesi pretendevano escluso dalla deputazione pisana: e avverso al Ministero reputavasi, e certo egli professava dottrine conservatrici, e sopra i banchi dell'Opposizione sedeva; — e avverti ancora (dacchè tutte le Accuse sogliano talvolta disgradare nella memoria Magliabechi, e tal altra, quando lor torna, superare in ismemoraggine Messala), che il sig. Castinelli queste parole profferiva il 25 gennaio 1849, discutendo la Legge su i _Buoni del Tesoro_, e però spontaneo così e liberissimo, che neanche l'argomento del discorso, o lo impeto della improvvisa orazione gli facesse violenza. «.... E ciò prova che è veramente insussistente l'accusa, pure pronunciata in questa Assemblea, che il Ministero abbia a combattere una Opposizione sistematica. — Il voto unanime che il Consiglio Generale dei Deputati diede alla Legge di convocazione della Costituente Italiana, non prova luminosamente ciò che ho affermato? — _Se alcuni onorevoli nostri Colleghi amarono sentire dalla bocca stessa dei Ministri, quanto era spontaneo il desiderio del Principe che lo portava a sottoscrivere l'atto d'inaugurazione per il Popolo Toscano alla vita rappresentativa italiana, non resultava dalla discussione e dallo sviluppamento degl'intimi moventi dei Ministri, se fosse bello e rifulgente il serto col quale tutti concordi incoronammo questo grande Atto_?» Forse, chi sa, potrebbe darsi che alcun poco dolesse all'Accusa di trovarsi perpetuamente in tutto quanto ella afferma smentita; ma considerando dall'altro canto, che il renunziare a questa parte della truce novella sconcerebbe l'architettura della fabbrica, delibererà nella sua coscienza dovere persistere a ritenere e dare ad intendere violentata la Camera dei Deputati nel voto della Legge intorno alla Costituente. — Rispetto a ciò, confesso non sapere che cosa rispondere; ed auguro all'Accusa su le piume della coscienza un sonno d'oro. Che se non le talenta la Camera dei Deputati, almeno tenga in pregio il Senato, corpo creato dal Principe e conservatore per eccellenza. Tenga in pregio lo scrutinio _segreto_, dove ognuno poteva deporre nell'urna, senza sospetto, il voto riprovatore. Tenga in pregio le parole dello illustre senatore Bufalini: «Non avrei altre considerazioni a soggiungere in questo proposito, sopra il quale _non mi pare sia occorsa divergenza di opinione_. Dirò solo che, come il Senato fu sempre penetrato della grande importanza di riacquistare la nazionale Indipendenza, e fu sempre sollecito altresì, per quanto era in lui, di provvedere a tutto ciò che potesse meglio conferire allo acquisto di quella; _così se dall'adozione della proposta Legge avesse egli potuto temere nocumento per lo acquisto della Indipendenza nazionale, certo che il Senato avrebbe avuto il coraggio, inspirato dal dovere, di palesare francamente non essere ancora venuta la opportunità di approvare una Legge, che invece di partorire i benefici frutti che si desiderano, avrebbe anzi attirato sopra la Italia le calamità che più si vogliono fuggire. Così non temendo il Senato questi mali, si conduceva più facilmente a servire al principio che lo aveva condotto alla unanime persuasione di dovere adottare la Legge proposta_; e quando la Commissione esprimeva al Senato questo pensiero, esprimeva appunto il pensiero che _unanimemente le Sezioni avevano accolto_.» Ma il voto unanime non giova, il voto segreto neppure, molto meno la mancanza di qualsivoglia obietto nel seno delle Sezioni; non giova il silenzio delle tribune assistenti alla discussione del Senato, non giova la solenne dichiarazione, che i Senatori avrebbero avuto il coraggio di rigettare la Legge dove l'avessero reputata dannosa: l'Accusa li pretende ad ogni modo costretti a votarla sotto la impressione del terrore; e se essi lo impugnano, l'Accusa predicherà, che non sanno quello che dicono, e che ella lo sa per loro, e meglio di loro, ed anche contro a loro, perchè così le fa comodo di sapere; e badino a stare cheti, che nel Senato han favellato assai. O Accusa!.... Accusa!.... Accusa!.... L'Accusa, non ci ha rimedio, è ferocissimamente incaponita a pretendere violati i Senatori, come a volere me non tocco, negli atti _co' quali, e nei quali venne a consumarsi la perduellione_. Io per volere del Principe dettai il Programma ministeriale e il Discorso della Corona. In questi Documenti, afferrato il concetto avventuroso della Costituente, badai a renderlo benefico con le dichiarazioni solenni: «La Costituente ha da essere pegno di amicizia, non offesa ai Popoli amici, molto meno impedimento a conseguire la suprema delle necessità nostre, la Indipendenza Italiana. Quindi preparandola noi, non vogliamo togliere che venga convocata in città più inclita della nostra, comecchè nobilissima ella sia; e neppure vogliamo proseguirla in guisa, che non riesca per poca autorità del nostro Stato, o _turbi le relazioni fraterne co' Popoli vicini_.» — (§ 12 del Programma ministeriale.) Prima gettai il principio che la Costituente avesse ad essere motivo di unione con gli altri Stati; la quale cosa importava che non si dovesse turbare la Italia con proposte importune di mutamenti politici: quindi, per ovviare ad acerbe censure, posi la suprema necessità della concordia per la guerra della Indipendenza: più tardi, persuasi che le quistioni governative si aggiornassero: infine, che la Costituente avesse a presentare due stadii; il primo di difesa, il secondo di forme; nè si muovesse parola intorno al secondo finchè non fosse conseguito il grande scopo della Indipendenza italiana; e, quantunque non senza molta difficoltà, indussi il Presidente del Consiglio ad abbracciare questo partito, conforme apparisce dalla Circolare ai Rappresentanti del Governo toscano presso i Governi italiani del dì 8 novembre 1848.[123] L'Accusa, che si mostra così curiosa a ricercare sui Giornali cose che valgano a danneggiarmi, o perchè non lesse le acerbe polemiche dirette principalmente contro me, rimproverando la falsata indole della Costituente, la fede pessima di attenuarla, e ridurla in fumo?[124] In quanto a me, suonavano coteste accuse ingiuste, imperciocchè io avessi bene aderito alla Costituente, ma a patto che non fruttasse seme di discordia fra gli Stati Italiani. Intanto si ritenga che mercè gli sforzi miei, cui aderì la maggioranza del Consiglio ministeriale, la Costituente doveva presentare due stadii: 1º la guerra; 2º gli ordinamenti interni aggiornati dopo lo acquisto della Indipendenza. — Domando in grazia di bene avvertire questo fatto a cagione della importanza delle conseguenze che ne scaturiscono. Rimaneva a discorrere del _tempo_, del _luogo_, delle condizioni del mandato. Tutto questo rimase indeterminato, e non senza consiglio. La stampa chiedeva il luogo fosse _Roma_, il tempo il _5 febbraio_, giorno della convocazione della Costituente romana, il mandato _illimitato_; dei due stadii non si voleva sentire parlare, — perchè, nei concetti del Partito repubblicano, senza ordinamenti nuovi non si poteva acquistare la forza necessaria per combattere la guerra della Indipendenza. Riguardo al _luogo_, io m'ingegnavo non impegnarmi per iscegliere il più conveniente, e di Roma (se non vado errato) sempre si astenne favellare il Ministero. Procurai rimanesse incerto il _tempo_, per evitare la coincidenza del _5 febbraio_ richiesta dalle pretensioni popolari; e a questo preciso scopo nella seduta del 22 gennaio 1849 mi sforzai a fare discutere la Legge sul Bilancio del 1849 prima della Costituente, richiamando l'attenzione della Camera sopra la prima Legge, e confortandola a deliberare con pacato consiglio. Ecco le mie parole: «Crede il Ministro dello Interno fare atto di coraggio, quando profferisce parole che sieno argomento a temperare la bella, ma soverchia, voglia del Popolo. Sta al Popolo concepire le nobili passioni, ma sta al Ministero il grave carico di attuarle e renderle possibili. Ora dunque desidererei che l'ordine presentatovi dal meritissimo Presidente fosse mantenuto, imperciocchè non solamente è vero, nella guerra, quello che diceva il Maresciallo Montecuccoli, cioè, che ci vogliono: danari, danari, danari, — ma anche in ogni altro ramo di pubblica amministrazione. Ora pregovi considerare che forse la Costituente aumenterà i bisogni della guerra; quindi io vorrei che innanzi tutto si discutesse quella Legge che somministrasse i mezzi pei quali questa Costituente non riuscisse parola morta. Concludo perchè piaccia alla Camera tenere fermo l'ordine del giorno proposto dal nostro Presidente.» — (Seduta del Consiglio Generale del 22 gennaio 1849.) Io pertanto proponevo che l'ordine del giorno si estendesse non pure alla _lettura_, ma ancora alla _discussione_ della Legge sul Bilancio; la Camera non comprese la mia proposta, nè il motivo che la dettava. Alla inchiesta che fosse discussa immediatamente la Legge intorno alla Costituente io opponeva: «Riguardo alla proposizione, che domani deve essere discussa la Legge intorno alla Costituente italiana, a me, come Deputato, siffatta coartazione non piace, e l'Assemblea non la deve per niente subire. La Legge della Costituente è d'importanza così grave e solenne, così ella può mettere il paese in condizione perigliosissima, ch'è bene che tutti i Deputati ci portino quella maggiore considerazione che si desidera e che la importanza della cosa vuole.» — (Seduta medesima.) L'Assemblea, malgrado la dilazione da me insinuata e la causa grave per motivarla, _non attese gli avvertimenti del Ministero, anzi li contrariò, e volle nel giorno successivo discutere e votare la Legge nello insieme e nei suoi articoli_.[125] Nè si dica che la Camera patisse violenza; imperciocchè io stesso, e lo ricordano tutti, io stesso la confortai ad usare animosamente dei suoi diritti, e infastidito a un punto dello schiamazzare delle tribune e della pazienza del Presidente, uscii in queste avventate parole: «Poichè, per le regole parlamentarie, a me non è lecito in questo recinto favellare al Popolo, prego il signor Presidente indirizzargli una parola formulata così: «_Dichiaro traditore della Patria chiunque con intempestiva e indegna perturbazione fa sì che in questo momento la discussione non proceda solenne e liberissima_.» — (Detta Seduta.) Veda dunque l'Accusa, che per me si fece anche troppo per mantenere la libertà e la dignità della Camera; ragione le porsi e modo di aggiornare a tempo ben lungo la Costituente, dacchè la discussione del Bilancio suole occupare parecchie Sedute. L'Accusa dirà: e' sono parole; — ma coteste parole corrispondono a' fatti, e si persuada che non era piccolo cimento profferirle allora.... oh! riesce molto più facile dissimularle adesso. Ancora: per evitare il domandato invio dei Deputati alla Costituente romana il giorno 5 febbraio, dava spazio lo adempimento dello articolo 6 della Legge. Poco mancò che anche questo benefizio andasse perduto, per la proposta di un Deputato diretta a invitare il Ministero «a presentare il Regolamento per l'elezioni _entro tre giorni_ da quello in cui la presente Legge avrà ricevuto la finale sanzione.» — (Detta Seduta.) Un'altra considerazione. La petizione del Circolo intendeva che la Costituente italiana _subito, a tutti i fini_, sia ordinamento interno, sia apparecchio di guerra, si stabilisse a _Roma_, allegando la promessa del Ministero, che l'avrebbe convocata tostochè vi aderissero due Stati d'Italia. — (Detta Seduta.) I petizionarii erravano, perocchè il Ministero avesse promesso unicamente: «Che la Costituente comincerebbe le sue operazioni appena due Stati si fossero intesi ad iniziarla, ma al _solo ed unico scopo di provvedere alla guerra della Indipendenza_, ch'è quanto dire al primo stadio: rispetto al secondo, non potersene parlare finchè non concorresse il voto di tutto il Popolo italiano, gran parte del quale non potrà eleggere i suoi rappresentanti finchè geme nel dolore della straniera servitù.» — (Circolare dell'8 novembre 1848, Art. 12.) Così ho inteso dimostrare: 1º quali fossero i motivi pei quali a me importava rimanessero incerti il _tempo_ e il _luogo_ della Costituente; 2º come la petizione del Circolo non s'accordasse col progetto ministeriale pel _tempo_, nè per il _luogo_, nè per lo _scopo_ che la Costituente si proponeva; e questo serva a confutare il nesso che l'Accusa (con intento trucidatore del vero) pensa discernere tra la petizione del Circolo e la presentazione della Legge: anzi, dicasi senza ambage, il concertato di me Ministro col Circolo.... — Faccia pure l'estreme prove l'Accusa, ella non giungerà mai a conseguire il sospirato disegno di trovarmi cospiratore contro la fede di Ministro del Principe. Adesso favellerò del mandato e dei motivi che me lo fecero lasciare _indefinito_. Quali discussioni sostenessi col signor Montanelli su questo proposito, in parte esposi. Ai ragionamenti riferiti aggiungeva: — «supposto che Carlo Alberto esca vittorioso dalla guerra italiana, egli è verosimile che voglia deporre la sua Corona davanti ai Commissarii della Costituente, rassegnandosi a portarla quando essi glielo avranno concesso? E quando, per vano simulacro, adoperasse così, chi avrebbe osato disdire a lui trionfante e gagliardo su le armi? Il Re di Napoli gli pareva egli uomo da cacciarsi a chiusi occhi in questi ginepraj? Voglionsi le cose o le immagini delle cose?» — Montanelli andava pensoso, ma diceva assai avere sofferto sbocconcellato il suo progetto; nè potere senza scapito di reputazione consentirlo più oltre; e poichè gli riusciva difficile sostenere il suo programma politico, probità di uomo e dovere di Ministro consigliarlo a dimettersi. _Il signor Montanelli propose alla Corona espressamente, esplicitamente, la sua dimissione, e per dimostrare la parzialità sua pel Ministero, accettava la rappresentanza toscana presso la Corte di Torino_. Alla Corona piacque farmi l'onore di consultarmi su questo negozio, ed io le osservai: «Vuolsi o no conservare il signor Montanelli al Ministero? Se no, accettisi la dimissione; in quanto a me, riduco volentieri la Costituente in termini più limitati. Se sì, egli non può moralmente nè politicamente tirarsi indietro.» Ho motivo di credere che il Ministro d'Inghilterra consigliasse accettarsi la dimissione del Montanelli. Alla Corona non parve prudente accettare, _almeno per ora_, il congedo del Presidente del Consiglio, nè inviarlo a Torino; in quanto a me, è agevole sentire per quali motivi di convenienza dovessi rimanermi da insistere. _Invitato dal Principe a ricondurgli il Montanelli, lo feci, e fu accolto con modi più che cortesi, affettuosissimi_. Adesso pertanto bisognava mettere d'accordo il progetto del sig. Montanelli con l'esitanze della Corona, ed anche co' dettami di buona politica. Proposi si lasciasse nella Legge _indefinito il mandato_, e le ragioni, per così fare, furono queste. La Costituente deve validare la concordia degli Stati Italiani; ora la maggiorità di questi, se avessero inviato (come era da aspettarci) Commissarii con mandato diverso da quello dei nostri, dovevamo noi porre questi al duro passo di partire dal Congresso, con danno e scandalo del Paese? La Costituente non rigettava verun progredimento razionale e possibile; questo aveva proclamato il Ministero nel programma, la Corona nel discorso di apertura; dovevamo noi ostinarci adesso a volere _Cesare o nulla_? Il Popolo non pure poteva, ma doveva dare mandato _generico_, imperciocchè sia chiaro che egli in anticipazione non avrebbe saputo nè come, nè quando, nè su che cosa sarebbesi adoperato, specialmente nel possibile progresso verso lo scopo della Costituente. La cognizione di tutto ciò apparteneva al Potere Esecutivo; e a questo solo spettava per necessità (essendo egli ottimamente informato delle condizioni mutabilissime dei tempi) ampliare o restringere il mandato adattandolo alle contingenze. — Intanto fino d'ora, come istruzione fondamentale, si doveva annunziare che i Commissarii _nella preliminare verificazione dei poteri si uniformassero alle condizioni del mandato della maggiorità_. Per questo modo il suffragio universale eleggeva i Commissarii _con mandato generico_; ma il Potere Esecutivo _ne formulava le condizioni a norma del suo discernimento_ per darne conto a suo tempo alla Rappresentanza del Paese. Questo non fu avvertito dall'Accusa, anzi dissimulato affatto: non importa; basta che bene lo avvertano coloro cui piace lo studio della verità. Ora io sostengo, che questa facoltà posta in mano del Potere Esecutivo, oltre all'essere razionale per le ragioni discorse, riusciva _favorevole alla sicurezza della Corona, e al conseguimento dei suoi giusti desiderii, più di qualunque mandato, comunque strettamente formulato._ Infatti, applicabile così a tutti i casi contingibili, avrebbe il Potere Esecutivo avvertito, che il mandato non riuscisse mai inane; — commesso al suo discreto giudizio, il Potere Esecutivo n'era assoluto moderatore ed arbitro, onde nè ai danni proprii nè agli altrui si traducesse.[126] Intanto, e giova ripeterlo, per le dichiarazioni esposte, il Potere Esecutivo doveva ordinare preliminarmente il mandato generico a questi tre fini: 1º Le trattative di ordinamento interno fino a guerra vinta si sospendano; 2º i Commissarii si occupino ad assicurare la Indipendenza italiana; 3º trascorso questo periodo, i Commissarii toscani per riordinare la Italia, aderiscano a trattare dentro i limiti prescritti dalla maggiorità dei mandati dei Commissarii italiani. La Costituente Montanelli veniva per questo modo ridotta dentro confini possibili, e giusti: la quistione dello interno ordinamento prorogata a _tale termine_, dove ricorrere alla Costituente sarebbe stato rifugio desiderabile e accettissimo: — quantunque dubito se efficace, pure l'estremo, che avrebbero concesso le contingenze future di fronte alle cupide voglie di un Regno forte su le armi, baldanzoso per fresca vittoria. La diversità dei pareri e i faticosi dibattimenti col Presidente dei Ministri di tanto non poterono celarsi, che traspirati nel pubblico non si qualificassero come dissentimenti profondi fra i Membri del Consiglio,[127] per cui il _Monitore_ del 25 gennaio 1849 ebbe ad avvertire: «Siamo autorizzati a dichiarare _per la seconda volta_, che le voci di men che perfetta concordia fra i membri componenti il Ministero, sono senza fondamento.» I Giornali avversi al Ministero, intesi a screditarlo per ogni via, e gli altri di parte esaltata, me denunziavano al Pubblico come ligio alla Corte[128] e nemico alla Costituente. Di qui ebbe origine la diffidenza dei Repubblicani, e il sospettoso sorvegliarmi più tardi. Prove dello assunto fino ad ora discorso si ricavano evidenti negli atti pubblici. Si ponderino le espressioni della Circolare del 12 decembre dettata in questo spirito: «La limitazione proposta dal Ministero romano, non è in alcun modo necessaria quanto al primo stadio della Costituente. Trattandosi in questo d'indirizzare tutte le forze armate italiane alla cacciata dello straniero, la Costituente assume il vero e proprio carattere di Federazione militare, con un centro unico di direzione; e nessuno degli Stati Confederati può temere, che la propria esistenza sia posta neppure in problema. Quanto poi al secondo stadio, la limitazione riesce affatto superflua per altra ragione. L'opinione nazionale italiana, resultante dalla contemperanza di tutti i pareri e di tutti gl'interessi, sarà quella che farà legge, qualunque sia il limite col quale oggi si presuma signoreggiarla. Ora dal nuovo rimescolamento di tutte le forze italiane agitate nella guerra della Indipendenza, o questa opinione uscirà favorevole alla unità federale, o alla unità assoluta. Se alla unità federale, sarà superfluo avere imposta questa forma alla Costituente, come la sola possibile, essendochè proromperà dal libero voto della stessa Nazione solennemente interrogata. Se alla unità assoluta, le restrizioni attuali non potranno impedire di acquistarla alla Nazione che la vorrà.» Da queste parole si ricava come _eventuale riuscirebbe e lontanassimo_ trattare degli ordinamenti interni, e come ogni pensiero dovesse volgersi adesso alla guerra; da queste altre si dedurrà, che, venuto ancora il tempo di provvedere alle forme governative, il Ministero toscano annunziava rimettersi al volere dei più. «Gelosi della Costituente autonoma, noi ci guarderemo dal fare di essa una bandiera di scisma. E poichè qualunque passo sì faccia verso la Unità lo riguardiamo come un progresso, se il voto di altri poderosi Governi si manifesti per la limitazione che noi respingiamo, ci uniremo a loro, contenti del non imporla ai rappresentanti inviati da noi.» — (Circolare suddetta.) Così lo stesso signor Montanelli esprimeva il concetto della maggiorità del Ministero, comecchè non consentanea affatto al primitivo suo. Invero, confrontato il Programma della Costituente pubblicato dal signor Montanelli a Livorno, _consentito_ dal Ministero Capponi, troveremo come il concetto della Costituente ministeriale fosse non pure _diverso_, ma _contrario_, dal suo. La Costituente del Montanelli proclamata a Livorno _esclude i due stadii, nega che l'ordinamento governativo deva posporsi alla guerra_; all'opposto intende che la preceda, poichè per esso egli crede che la guerra potrà condursi gagliardamente: «Ma questo gran fatto di un Governo nazionale dovrà precedere o seguitare la conquista della Indipendenza italiana? Noi abbiamo creduto che avesse a susseguire alla espulsione dello straniero, e questo fu il nostro errore fatale!!! — Ma che cosa mancò alle forze insorte per compiere l'opera della Indipendenza? Mancò l'unità della direzione. Quindi il non avere un Governo nazionale, il combattere come Piemontesi, come Toscani, come Napoletani, come Romani, e non come Italiani, fu la causa prima per cui questa grande impresa mancava. La fondazione dunque di un Governo nazionale è necessaria per effettuare la stessa impresa della Indipendenza italiana.» — (Vedi _Corriere Livornese_ del 9 ottobre 1848.) Mi sembra, che la dimostrazione non possa essere più evidente. Il Conte Mamiani alla lettura di cotesta Circolare ebbe a dire che l'apprendeva come adesione alla Costituente romana, e la annunziò alla Camera dei Deputati romani.[129] D'altronde io aveva promesso secondarlo nella conferenza ch'ebbi seco nel novembre a Livorno,[130] e mantenevo la promessa. Ma sopra tutto, di simili discrepanze, di tali compromessi, e cautele, appariscono traccie nella Seduta del 23 gennaio 1849. Noi vediamo uscirne quattro opinioni. _Una_, che per sospetto del poco intende sia specificato immediatamente il mandato; _un'altra_, che per paura del _troppo_ vuole sia determinato in seguito da una Legge; _una terza_, che sostiene il Progetto abbia a lasciarsi _incerto_, nel modo col quale fu proposto, sperando ogni sconfinata conseguenza; _la quarta_, che lo pretende _preciso_ perchè lo teme. Il signor Montanelli modificando, in virtù di più maturo consiglio, la sua dottrina, sostiene la necessità dei due stadii; dichiara il principio della Nazionalità non doversi discutere se non intervengono due condizioni di fatto: _la prima, che tutta la Nazione Italiana possa essere rappresentata; la seconda, che da ogni parte a lei accorrano gli eletti dal suffragio universale_. (Seduta della Camera dei Deputati, 23 gennaio 1849.) — Per ora dovere accordarci per combattere non come Piemontesi, Toscani, Romani o Napoletani, ma come Italiani. — Non parla di _luogo_, ed esprime il desiderio, che la Costituente potesse tenere la sua _prima seduta sotto la tenda nelle pianure lombarde_. — Non potere essere il mandato limitato nel secondo stadio della Costituente, perchè davanti il voto della universa Nazione non era dato imporre limiti; se però i _Deputati delle altre parti d'Italia avranno un limite, essi renderanno impossibile l'applicazione del principio_. A me parvero assurde le proposte, 1º di specificare adesso il mandato; 2º di aspettare a specificarlo poi con Legge. Adesso, non si poteva sapere come rimarrebbe la Italia, compita fortunatamente la guerra della Indipendenza; e il mandato avrebbe potuto non essere applicabile allora. Questo caso successo, una Legge che avesse anche in seguito determinato tassativamente il modo del trattare, avrebbe potuto rendere vani o difficili i negoziati. — _Essendo commessa al Potere Esecutivo la facoltà di formulare il mandato, rimaneva in suo arbitrio adoperarlo nel modo il più utile alla Patria comune_. E in me era convincimento assoluto, che fosse benefizio della Patria mantenere il Governo Costituzionale di Leopoldo II. Quindi più volte arringando, io mi sforzava di bene inculcare:[131] § 1º Come la Costituente si dividesse in due stadii: «il primo, di concorrere con tutti i Potentati italiani alla guerra della Indipendenza; il secondo, di determinare le forme della nostra Nazionalità. § 2. Come ai fini della Costituente da me sostenuta, bastasse questo solo primo scopo: «Se i Rappresentanti degli altri Stati italiani non vorranno subire questa larga formula, e se consentiranno all'Assemblea Costituente al solo scopo di proseguire la guerra per la Indipendenza, vorremo noi imitare lo improvvido padre di famiglia, che ricusa porzione di pagamento perchè non gli saldano il debito intero? No, noi accetteremo.» E successivamente: «Nella verificazione dei poteri vedranno quanti sono Deputati dal mandato limitato, quanti dal mandato illimitato; e là dove il numero dei primi soverchiasse il numero dei secondi, egli è certo che determinata allora la periferia delle trattative, rimarrebbe impedita agli altri perfino _l'aperizione della bocca sopra materie le quali oltrepassassero il termine stabilito_.» E poco dopo: «I Deputati nostri mossi da spirito di concordia, e da carità patria, lo restringano, se così il bene della Italia desidera, unicamente allo scopo di conseguire la sua Indipendenza.» Ancora: «Se fin qui non vogliono giungere gli altri Stati Italiani, in ogni caso diremo sempre ai Deputati: non tornate, ma fermatevi, e concertatevi con tutti, a patto che la Italia sia libera. _Agli altri fini provvederanno il tempo e la buona fortuna_.» Finalmente: «E però stando a conferire (_il mandato_) al Popolo ai termini della Legge, non può definirsene lo esercizio, _dovendoci prima mettere in conveniente relazione con gli altri Stati Italiani, affinchè la nostra Costituente non sia motivo di discordia, ma di unione e di forza_.» Insomma, mercè i miei sforzi in Consiglio e fuori, l'avventurosa Costituente montanelliana corrispondeva _sostanzialmente_ alla proposta mossa nel 14 agosto 1848 alla Romana Assemblea: «Preghisi il Ministero a scrivere a tutti i Governi italiani, invitandoli ed esortandoli, uditi ciascuno i suoi Parlamenti, a spedire subito in Roma dei Deputati per discutere e deliberare in comune e sotto l'alto patrocinio di Pio IX, intorno al modo migliore di difendere la Italia e assicurare la sua Indipendenza.»[132] § 3. Come questo mandato avesse a esercitarsi conforme alle istruzioni, le quali sarebbero date dal POTERE ESECUTIVO al momento della partenza dei Deputati: «_In questo concetto i Deputati ricevono il mandato AL MOMENTO DELLA ELEZIONE, e la NORMA DI ESERCITARLO AL MOMENTO DELLA PARTENZA._» — E in altra parte: «IL POTERE ESECUTIVO HA DA INDICARE LE ISTRUZIONI PER ESEGUIRE IL MANDATO UN MOMENTO PRIMA DELLA PARTENZA.» § 4. Come allorquando il signor Montanelli, stretto dalla Opposizione, emetteva proposizioni conformi al suo concetto primitivo pubblicato in Livorno, e discordi dal mio, pronto accorressi a fare palese che la Costituente non doveva fare ingiuria al Principe, che il mandato non poteva neppure in pensiero credersi esteso alla sua esclusione, e finalmente che l'ora della Repubblica non era suonata in Italia: «_Quando un Principe generoso e magnanimo, come mi gode l'animo dichiarare Leopoldo II, non ha aborrito sottoporsi al Consesso universale d'Italia, il Ministero ha fermamente creduto che il Popolo si mantenga, come sempre fu, grato e leale; ha sentito che il POPOLO AVREBBE PAGATO DI GENEROSITÀ LA GENEROSITÀ DI LEOPOLDO II; il Ministero HA SENTITO ED È PERSUASO CHE L'ORA DELLA REPUBBLICA IN ITALIA NON È SUONATA; il Ministero ha sentito ed ha creduto che Italia voglia e debba conservare la forma della Monarchia Costituzionale, e VERUN ALTRO PRINCIPE MERITASSE PIÙ DI LEOPOLDO II LA CORONA DAL LIBERO CONSENTIMENTO DEL POPOLO._ Il Ministero pertanto, quando ha proposto a Leopoldo II questa Legge, _ha creduto, crede, e crederà sempre_ avergli persuaso un atto di gloria e di benevolenza capace a procacciargli l'amore e la eterna riconoscenza di tutta la Italia.»[133] — (Applausi vivissimi e prolungati, con evviva a Leopoldo II.) Pareva a me che in questo modo adoperando avessi bene meritato della Patria e del Principe, conciossiachè il principio avventuroso della Costituente montanelliana per le mie cure ridotto a plausibile disciplina ponesse la Corona in grado di scegliere quattro vie, per una piena di dubbiezze ch'ella _medesima_ mi aveva imposta. _Prima via_. La Corona poteva accettare la dimissione del signor Presidente, inviarlo ministro a Torino, e modificare, secondo che io consentiva, il progetto della Costituente. _Seconda via_. La Corona poteva, della Legge intorno alla Costituente, accettare quella parte che si referiva al primo stadio; negando per ora formulare il mandato e dare istruzioni circa al secondo. _Terza via_. La Corona poteva accettare, in genere, tutto il progetto della Costituente per valersene poi a tempo opportuno e secondo la contingenza dei casi, o come difesa contro le cupidità di potente vicino, o come istrumento per fondare la Confederazione Italiana, giovando alle stesse condizioni del Pontefice (il quale è da credersi che meglio informato non l'avrebbe reietta), o come mezzo di allargare lo Stato, se tale era la mente della Provvidenza, suprema ordinatrice delle cose. _Quarta via_. La Corona, se tutto questo non le andava a grado, poteva chiamarmi e dirmi: «Mantenete la promessa di potervi licenziare senza scapito della mia reputazione, perchè la Costituente mi è diventata incresciosa.» Ed io avrei, con gli espedienti che mi sarebbero parsi più acconci, mantenuta la fede. La Costituente promossa dal Ministero toscano poteva, anzi doveva, restringersi allo acquisto della italiana Indipendenza. E se questo proponimento nobilissimo, con tanto fervore, con tanta necessità di conato, con tanta immortale agonia dell'anima, e perfino con pericolo della propria persona promosso da famosi Pontefici, meritava la scomunica del Papa, io non so più vedere che cosa avrebbe meritato la sua benedizione!...[134] L'Atto di Accusa afferma che se fosse stata accolta l'ammenda proposta dalla Commissione, si sarebbero _forse_ salvati o rispettati almeno i dubbii e le riserve del Principe, note allora al _Ministero_. — Esaminando con rispetto le parole della Corona che mi oppone l'Accusa, avvertirò come quella non affermi punto di avere dichiarato al Ministero le sue riserve, bensì essere consiglio riposto nell'animo suo il riservarsi ad osservare lo andamento della discussione. La Corona parla di dubbio manifestato ad alcuni dei Ministri, non al Ministero: in quanto a me, non mi sembra avere udito di questi dubbii mai: dove gli avessi conosciuti, mi sarei ingegnato come poteva meglio chiarirli. E confido, che io glieli avrei molto agevolmente chiariti con queste proposizioni che trovano largo comento nelle cose discorse nel presente Capitolo. — I mandatarii non possono informare il mandato ai mandanti. — Importa e giova lasciare indeterminato il mandato, perchè, discutendolo, potrebbero uscirne norme rigorose, cagione di gravissime difficoltà alla Corona. — Basti avere proclamato alla faccia della Toscana, della Italia e della Europa: 1º questa Costituente tendere a due scopi; 2º non doversi trattare del secondo che ad epoca eventuale e lontana;[135] 3º adesso restringersi a promuovere la guerra per la Indipendenza italiana; 4º non potere cospirare mai a danno altrui; 5º proporsi la comune concordia; 6º quantunque il mandato indeterminato, stare in potestà della Corona e del suo Consiglio determinarlo prudentemente a norma della contingenza dei casi; 7º fin d'ora essere stato annunziato, che al parere della maggioranza degli Stati Italiani avremmo, _senza pure aprire bocca, aderito_; 8º finalmente avere io (discorde in questo dal Presidente) espresso che intendevo impiegare la Costituente in benefizio del mio Paese e del mio Principe e del Principato Costituzionale in Italia.[136] Poichè l'Accusa crede discreto allegare il regio scritto, voglia non fargli dire quello che non dice: questo non è decente nè giusto. Ora l'ammenda proposta dalla Commissione suonava così: «I poteri dei Deputati, le forme della elezione, e la epoca della convocazione dei Collegi elettorali dovranno stabilirsi da Legge a parte.» Ciò posto, io non dubito dichiarare come la osservazione dell'Accusa apparisca evidentemente erronea. Immaginiamo accolta la ammenda, quale effetto avrebbe ella partorito? Forse lo scioglimento della quistione? No per certo; sibbene lo aggiornamento accompagnato co' pericoli dell'ansietà delusa, e dal sospetto di fede mancata. È manifesto errore supporre che l'Assemblea legislativa possa conferire mandato alla Costituente nominata dal Paese. Questa dottrina leggemmo professata in questo punto stesso dal signor Moulin negli Ufficii dell'Assemblea di Francia, in proposito della discrepanza insorta intorno a convocare la nuova Costituente, per rivedere tutta o parte la Costituzione, e vediamo oggi avere prevalso negli Ufficii, che a maggiorità di voti si pronunziarono per la revisione totale, o piuttosto per la necessità del non imporre alcun mandato. La ragione per tutti, ma specialmente pei giurisperiti, apparisce chiarissima. Le Camere, o Assemblee, rappresentano la parte di _mandatarie_; ora quando, per gravità di casi sopravvenuti, è forza ricorrere al _mandante_, con quale diritto può il primo imporre al secondo l'obbligo di formulare, pel seguito, il mandato nella guisa che meglio desidera? E, come di diritto, egli manca di autorità e di forza. Assurda cosa pertanto. Però sento obiettarmi: E se il Popolo, a cui si aveva ricorso col suffragio universale, avesse conferito mandato illimitato, come avreste saputo limitarlo voi? Per necessità, rispondo, della natura e dello esercizio di questo mandato. Per necessità della natura del mandato illimitato, che appunto, perchè generico, ha bisogno di norme e istruzioni successive; e se queste non prescriveva la Corona, non si conosce chi altri avesse potuto indicarle, ponendo mente che l'azione del suffragio universale versava unicamente sul voto elettorale, e quindi cessava; — per necessità dello esercizio, essendo il mandato nostro di natura complessa, e tale che senza consenso e concorso degli altri Stati rimaneva inane. E supposto eziandio che le istruzioni del Ministero per esercitare il mandato fossero parse a taluno, o a molti degli Elettori, diverse dal suo concetto, egli avrebbe chiesto e agevolmente ottenuto la conferma dell'operato, o, come si dice con parole inglesi, un _bill d'indennità_; conciossiachè costretto dal voto maggiore di Stati più potenti del nostro, non avesse potuto estenderlo agli scopi desiderati; e averlo speso nella opera della Indipendenza italiana lealmente ed efficacemente, non sarebbe stato piccolo merito. Il Montanelli avrebbe dovuto, dopo pochi giorni, presentare nuova Legge alla Corona intorno al mandato dei Commissarii ch'egli avrebbe richiesto illimitato, a norma della sua dottrina. La Corona avrebbe concessa o negata la discussione della Legge; se negata, il Presidente si dimetteva, e tanto era accettare la sua dimissione pochi giorni prima che pochi giorni dopo; anzi, meglio prima, perchè allora spontanea, e con promessa di sostenere la politica del Ministero riformato; se conceduta, la Camera naturalmente votava o rigettava la Legge: rigettavala, ed ecco ritornare la necessità della ritirata del Ministero, e in questo modo con clamore e scandalo, mentre poteva congedarsi di quieto; la votava, ed allora per tortuoso avviluppamento si replicavano le condizioni medesime del voto della Costituente. Nonostante, piacemi di esaminare le fortune probabili della Legge sul mandato. Se s'intendeva formulare come quello del Piemonte, voglio dire la persona e gli Stati della A. S. si rispettassero, e in quanto agli altri Principi italiani la conservazione unicamente delle persone loro in grado principesco qui in Italia si raccomandasse, è certo che a questa maniera di mandato non avrebbero acconsentito il Papa nè il Re di Napoli; il primo, perchè fuori dei suoi Stati, e poco davvero gli sarebbe premuto restarsi principe di Pontecorvo o di Benevento; il secondo, perchè in quel punto privo di Sicilia. Se invece fosse stato espresso nel mandato, che il Papa e Ferdinando di Napoli avessero ad essere restituiti nelle provincie perdute, e queste allora avrebbero repugnato da una guerra, di cui il fine sarebbe stato costringerle a sottostare nello antico dominio; quindi, invece di concordia per combattere la guerra straniera, avrebbe la Costituente partorito la guerra civile. Di qui veda l'Accusa quanto sia avventata la sua considerazione, messa fuori solo per ismania molta e senno poco di trovare ottimo quanto avversava il Ministero. Nel mare politico del 1849, pieno di súbite procelle e di non prevedibili fortune, era mestieri avventurarci fidando nella propria rettitudine e nello aiuto di Dio; e il mandato indefinito, anzichè nuocere a verun disegno, stava apparecchiato come vela buona ad ogni vento. Se ne persuada l'Accusa; la politica contiene tante latébre così profondamente misteriose, così portentosamente improvvise, che il suo risoluto sentenziare non sembra cosa _umana_, ma piuttosto _divina_;[137] però che presagire il futuro e penetrare nei cuori si è di Dio. E finalmente, se io avessi consigliato la Costituente (mentre all'opposto, già concertata fra la Corona e il Presidente del Consiglio, a me fu imposta come una croce da portare), se io l'avessi, ripeto, consigliata, ed avessi commesso errore, con quanta giustizia l'Accusa vorrebbe oggi incolparmene? — Odasi un po' quello che scrive David Hume nel Cap. 64 della sua _Storia della Inghilterra_, intorno al processo di Lord Clarendon, _ministro sagrificato da Carlo II alla rabbia dei suoi nemici, i quali non paghi della caduta del Cancelliere ne vollero la totale rovina_.... — «Molti degli articoli dell'Accusa erano _frivoli o falsi_.... — Lo avere consigliato la vendita di Dunkerque sembra l'articolo di accusa più importante e più vero; ma sarebbe dura cosa dar colpa ad un Ministro di uno sbaglio di giudizio (se pure fu tale), ove non apparisca segno di corruttela, o di cattiva intenzione.» Comprendo che adesso, per questa esposizione, io dovrò sperimentare avverse due maniere di gente che già ho provato duramente moleste, voglio dire, i partigiani del Piemonte, e quelli della Repubblica: a entrambi questi (comecchè invano) risponderò breve: «_Ministro costituzionale di Leopoldo II, io doveva curare la sicurezza e la grandezza del mio Paese, e del Principe_.» XI. Di una proposizione contenuta nel § IX del Decreto della Camera delle Accuse. Il Decreto della Camera delle Accuse, nel membro 5º del § IX, contiene questa proposizione: «La fazione.... si mostrò..... più ardita nei suoi piani sovversivi e criminosi, incoraggiata dal Programma ministeriale del dì 28, il quale preferiva _al silenzio per paura il trasmodamento per licenza_.» Confrontisi la citazione del Decreto col § del Programma: «Zelatori della libertà di stampa, noi non ismentiremo i nostri principii mai. Fra i _due mali_, che essa trasmodi per licenza, o taccia per paura, noi scerremo il primo, _persuasi che le tristi parole, se calunniose, non reggono, e fidenti ancora nella civiltà del Popolo toscano, presso cui ogni maniera d'intemperanza è febbre effimera, non condizione normale di vita_.» Così il Programma non esprime sentenza generale, _ma unicamente relativa alla stampa_; tanto la licenza, quanto il silenzio per paura, dichiara _mali_; confida che le parole _calunniose_ non reggano, e il Popolo sappia guarire di cotesta infermità. E sapete voi a che cosa accennasse il Programma con coteste parole? Alle calunnie che i Giornali avversi al Ministero si sbracciavano profferire contro di lui. E sapete voi che cosa avessi in mente io quando dettava cotesto periodo? Le calunnie che emuli ingenerosi (non conosceva ancora le giudiciali) non cessavano avventarmi; e mi studiavo con l'altezza dell'animo richiamarli a un senso di pudore gentile. Le mie vecchie e nuove ingiurie rimettevo, e non le altrui; però che in quel momento mi corresse al pensiero Socrate santissimo, levato in piedi nel teatro di Atene, vincere, con la virtù della mansuetudine, il perfido motteggiare di Aristofane. Invero, nelle precedenti pagine ho narrato e provato come il libero spaccio della _Patria_, giornale al Ministero infestissimo, io assicurassi;[138] ho rammentato come S. A. si compiacesse interporre l'alto suo ufficio presso taluno, affinchè la febbre maligna del suo Giornale alcun poco curasse. Il _Conciliatore_, il _Nazionale_ e gli altri tutti Giornali di Opposizione ministeriale non ebbero a lamentare offesa; anzi qui, nella stamperia di questo carcere delle Murate, consenziente il Ministero, rimborsate le semplici spese, imprimevasi, ostile a lui, un Giornale, e fu lungamente sofferto, — perchè instituito a benefizio di Venezia. Credeva essere magnanimo, e mi trovo ad avere commesso misfatto!.... Almeno così redarguisce l'Accusa. Però, stupendo a dirsi! mentre l'Accusa ascrive a delitto il parlare di taluni Giornali, appunta come colpa il tacere di tali altri; e pei cipressi dell'Arno durerà famoso il suono delle flebili Elegie dell'Accusa per la figlia della sua predilezione, _la Vespa, propugnatrice generosa dell'ordine_. — E di più osa: perchè, che cosa non ardiscono le Accuse? Osa tuffare ambe le mani nei vituperii giornalistici, nelle enormezze dell'odio invelenito, nelle bave dell'astio deluso, e spruzzarmi addosso l'empio liquore come una benedizione di acido di vetriolo. — Sta bene. Ma donando le mie ingiurie, nè donavo, nè potevo donare le altrui. L'adito dei Tribunali era aperto a chiunque si sentiva leso: solo correva rischio, che gli dicessero: _non correre tempi propizii per siffatti negozii_. Donando le mie ingiurie, non potevo con una frase di Programma dettare nuove leggi, le quali, impari l'Accusa, nei Governi Rappresentativi si fanno col consenso dei tre Poteri dello Stato. Donando le mie ingiurie, non intendevo, nè potevo intendere, che le Leggi vigenti non si eseguissero; solo che non avrei proposto Leggi nuove repressive della stampa. La esecuzione della Legge promulgata appartiene ai Magistrati, non ai Ministri. «In questo il Magistrato non riceve forza dal Governo, ma al Governo la partecipa.»[139] Forse ordinai io ai Magistrati che lo ufficio loro non esercitassero? Certo che no; anzi io, vedendo o credendo vedere rilassatezza straordinaria, gli richiamai alla più esatta osservanza del dovere loro; ma correvano allora tempi di sprone, e non bastava; come adesso correrebbero tempi di freno, e chi sa se bastassero! _Omnia tempus habent_! dice il Predicatore, e ce lo dimostra l'Accusa. Pare egli ai miei Giudici, che se lo parole del Programma fossero state pregnanti della figliuolanza bruttissima immaginata da loro, la Corona, la quale riposatamente lo considerò, di propria mano lo corresse, e mi fece l'onore di meco discuterlo a parte a parte, arrendendomi io alle savie osservazioni di quella; — pare, dico, ai miei Giudici, che la dignità del Principe avrebbe lasciato inaugurare il suo Ministero con turpitudini siffatte? La infedeltà delle citazioni, il modo col quale vengono trasportate a cose diverse da quelle che esse contemplano, le induzioni malevole che se ne deducono, non danno opinione che nella presente procedura siasi voluto fin qui trovare la verità, ma un uomo da sagrificare. XII. Notte del 7 all'8 Febbraio 1849. Il Granduca lasciava improvvisamente Firenze per Siena, e il Ministero ne aveva notizia dal signor Adami, il quale conferendo nella notte con S. A. lo apprese dalla sua propria bocca. Alcuni dei colleghi maravigliarono di cotesto annunzio casuale, ma io facevo notare come il Granduca ci aspettasse verosimilmente al Circolo, che in cotesta sera correva, e non doveva punto stupirci, se, essendo per mala sorte mancati tutti, ne avesse avvertito quell'unico Ministro che gli era occorso vedere: d'altronde, non doversi guardare tanto pel sottile, dacchè non eravamo mica in Inghilterra, dove la Corona non può uscire nè entrare in città senza certi riti convenuti. Si acquietarono, ma indi a breve presero a correre voci sinistre: il Principe essersi partito per non tornare più; licenziati i servi; questi andarlo propalando pubblicamente. Feci verificare la cosa, e pur troppo trovai che di questa sorta discorsi erano stati tenuti dai regii servitori per le botteghe della via Guicciardini.[140] Avvertasi, che il Partito desideroso del vecchio sistema non rifiniva sussurrare dentro città e fuori: il Principe tenuto prigioniero in Palazzo, a forza costretto di firmare le Leggi; gli andrebbero a genio tutti coloro che alle nuove Leggi non obbedissero, il Ministero avversassero; — ed altri cotali discorsi, che le ultime fibre del Governo tagliando, lo facevano impossibile. Forse _erano anch'essi generosi propugnatori dell'ordine_? Io non lo dirò, lo dica l'Accusa. Allora fu che scrivemmo a S. A., essere urgente la sua tornata in Firenze; e dove le piacesse prolungare il suo soggiorno a Siena, noi, come inabilitati a reggere il Ministero, lo pregavamo a degnarsi accettare la nostra dimissione. Promise sollecito ritorno: e a me particolarmente mandava gli tenessi tranquillo il paese. Differendo la tornata, parve ai colleghi non dovere trattenersi più oltre a inviare la dimissione: nel presagio di agitazioni, ne avvisai gli egregi uomini Generale della Civica Corradino Chigi, e Gonfaloniere del Municipio fiorentino Ubaldino Peruzzi; i quali partecipando le mie apprensioni, non dubitarono mettersi in viaggio nella malvagia stagione, conducendo seco il Priore Luigi Cantagalli per supplicare S. A. a restituirsi alla Capitale. Andarono; e tornati referirono il Principe trovarsi veramente infermo, sarebbe venuto appena la salute glielo concedesse; sentire anch'egli la sconvenienza della separazione della Corona dal Ministero; desiderare che almeno qualcheduno dei Ministri andasse a Siena. Voleva partire io stesso; ma offerendosi il Presidente dei Ministri, io m'ebbi a restare; in data del 5 febbraio, S. A. mi mandava il Decreto col quale al Ministero dello Interno riuniva provvisoriamente quello degli Esteri. — Partiva il signor Montanelli il 5 febbraio; giungeva a Siena il 6: tornava a Firenze il 7. L'Accusa aveva sostenuto prima, più sommessamente ha insistito poi, che Siena era tranquilla, e quivi il Principe in pace avrebbe potuto esercitare la regia prerogativa del veto, se il riposato vivere di cotesta città, se le oneste e liete accoglienze non fossero state sconvolte dalla presenza dei signori Montanelli, Marmocchi e compagni. Questo fatto non è vero, nè può esserlo, imperciocchè appaia fuori della ragione delle cose, che da un punto all'altro un Popolo cangi genio e costume; e in altra parte di questo Scritto mi sarà forza tornare intorno a simile argomento. Ora importa rilevare, che la mancata sicurezza in Siena, dovuta, come si dice, alla presenza dei mentovati individui, non sembra essere stato il motivo dello allontanamento del Principe. Non fu timore di sicurezza perduta, ma timore di _reazioni ostili_ che lo persuase a fare così: «Ed abbandono anche Siena, onde non sia detto che per mia causa questa città fu campo di ostili reazioni.»[141] — (Lettera di S. A. del 7 febbraio 1849.) — E queste frasi, se io non vado errato, significano: «Siccome un Partito fa del mio nome bandiera, e siccome io non vo' che si dica avere fomentato conflitti sanguinosi, così cedo al tempo, e mi conduco altrove.» Questa illustrazione poi ho creduto dover fare, _perchè è vera_, e perchè è _onorevole al Principe_. Dicono, che il romano Niccolini precedesse il sig. Montanelli nel portarmi notizia della partenza di S. A. da Siena; e questo sarà. Montanelli è certo che venne più tardi al Consiglio. Le tremende e moltiplici commozioni di cotesta notte, e del giorno successivo, non mi lasciarono distintissima la memoria dei casi, ma io mi ricordo che alla malaugurata notizia io rimasi tutto sbigottito. Niccolini con accese parole instava dicendo: doversi ormai proclamare la Repubblica e la decadenza del Principe; me avrebbe fatto eleggere Dittatore e Capo; di qui non potersi uscire. E siccome, recandomi coteste proposte incomportabile gravezza, io proruppi in acerbi rimproveri contra di lui; egli diventato a un tratto, di carezzevole, minaccioso e protervo, gridò: _noi ti costringeremo_! Questo fatto, che avrebbe forse schernito l'Accusa se riposasse sopra la mia semplice affermativa, come alla Provvidenza piacque, viene provato largamente in processo dagli stessi testimoni ricercati da lei. Rimasi sbigottito, pensando alle condizioni del Paese e alle mie. Lo Stato derelitto come cadavere sopra la strada pubblica; ogni ordine sciolto; cessata tutta autorità; nessun mezzo da fare riparo... nessuno; su la forza materiale, inferma e poca, non era da contare; la forza morale aveva dato vinto il campo. Nei politici sconvolgimenti, abbiamo veduto sempre afferrare il Potere quel Partito che dura un po' meno disorganizzato; e quantunque più tardi, come già notai, se non si accorda al voto universale, forza è che cada, nonostante in quella prima confusione vince, e domina. Il Partito repubblicano, composto per la massima parte di gente non toscana (chè per essere italiana io non m'indurrò mai a chiamare straniera), appariva poderoso fra noi di armi, di danaro, di uomini prestanti, ed osservava gli ordini di un _Consiglio dirigente_. Questo Partito, era facile a prevedersi, avrebbe sospinto subito, con estremi conati, la Toscana alla Repubblica e alla Unione con Roma, che già da parecchio tempo con ardentissime voglie provocava. Nè i pericoli di questo avvenimento, comunque gravi, erano i gravissimi; bene altramente mi spaventava vedere dietro ai Repubblicani le turbe inferocite, sferzate dal bisogno e dalla cupida brutalità, che in breve, soperchiati i Repubblicani, avrebbero allagato il Paese come fiume di fuoco. Io per vaghezza di frasi, o per arte di difesa, non annerisco le tinte: i furti cresciuti a dismisura; certe industrie diminuite, altre cessate;[142] e la pertinacia di non volersi ingegnare per altra via; la elemosina pretesa con incussione di paura allo stesso passeggio delle Cascine; i guasti tentati ed anche eseguiti a qualche palazzo, altri minacciati; lavoro improntamente richiesto, più che per altro, a colore di esigere non meritata mercede; miseria così veramente profonda, che poco più poteva esagerarla la menzogna; operaj pretendenti aumento di salario, proletarii in città, _pigionali_ in campagna; Campi, Prato, ed altri paesi tumultuanti non per libertà, ma per fame, — mi empivano di dolorosa ansietà. Nel breve Ministero, non indulgendo a fatica, e quotidianamente interrogando centinaia di persone, avevo tastato la piaga, e rinvenuta troppo più profonda che io non temevo. Questa piaga dura tuttavia, e forse diventa maggiore; vi badi a cui spetta. — Ecco in quali condizioni mi trovava alla presenza di questa gente diventata padrona. Non già, come piace all'Accusa, per tardo pentimento dovuto alle sorti mutate della guerra, od ai consigli altrui, ma per instituto antico mi ero mostrato avverso alla Repubblica; e me falsatore della Costituente incolpavano; il mio nome a segno di amare invettive ponevano; me quotidiane lettere anonime, come traditore, di mala morte minacciavano; persone altra volta benevole mi fuggivano, anzi con ostentazione fingevano non ravvisarmi per via; uomo ligio affatto agl'interessi del Principe predicavano, e non mancava gente usa in Corte che lo affermasse; di ciò andavano attorno le novelle; ciò nei Giornali stampavasi: onde io più volte in quella notte, e dopo, ebbi spesso a prorompere: «Ah! perchè fui gettato come uno schiavo alle bestie del circo?» Queste, e bene altre cose pensai: ore di passione sono quelle; pure deliberai, potendo, provvedere. I Documenti dell'Accusa, pare che reputino colpa la rassegna dei poteri; ma sembra che essa non abbia avuto tempo o voglia d'informarsi, come, secondo le forme costituzionali, la partenza della Corona, senza lasciare luogotenente che la rappresenti, senza indicare il luogo della sua dimora temporaria o permanente, rompa la macchina governativa. Decreti senza firma del Principe non valgono; le Leggi senza la sua sanzione nemmeno; gli atti governativi, quantunque per la finzione costituzionale non si attribuiscano alla Corona, e ne rispondano i Ministri, pure è forza concertarli con lei: mancata la Corona, mancano il principio e la origine donde i Ministri ricavano autorità: i Ministri, cessata o interrotta la corrispondenza col Capo del Potere Esecutivo, sono morti; mandatarii del Principe per la specialità del mandato ministeriale, si vieta loro esercitarlo nella sua assenza; e tutto questo è ovvio: ora come continuava ad essere Ministro io, con la Corona lontana, in isconosciuta dimora, e per di più disapprovato col _veto_ apposto alla legge della Costituente? — La dimissione per questi motivi era cosa inutile, perchè accaduta, per così dire, _ipso jure_, appena verificato il fatto in discorso; anzi, conosciute le lettere della Corona, veniva a mancarmi perfino la facoltà di prendere qualunque provvedimento; e se in me cessavano questo diritto ed obbligo, come vorrebbe incolparmi l'Accusa per non averlo preso? Però non mancai al dovere di cittadino, comecchè potesse essermi venuta meno la facoltà di Ministro. Ne porga testimonianza il Proclama del Gonfaloniere di Firenze: «Concittadini! Nella gravità delle circostanze, dalle quali può dipendere la sorte della nostra Patria, il Municipio si affretta a confortarvi, _assicurandovi_, che le Autorità e le Assemblee provvedono ai bisogni dello Stato, mentre alla brava Guardia Civica ed alla vostra saviezza, è affidata la pubblica tranquillità in questi _supremi momenti_ più che mai necessaria.» Il Cavaliere Peruzzi, che mi stette al fianco in cotesta notte, può attestare meglio di ogni altro, quali cose lo confortassero ad assicurare così apertamente la città. Lo stesso dicasi delle Camere. Elleno cessavano di pieno diritto, imperciocchè essendo inviate ad esercitare il mandato dentro ai termini dello Statuto, e di concerto con gli altri Poteri dello Stato, il mandato cadeva mancando taluna delle condizioni necessarie allo esercizio di quello; tra le quali, la presenza della Corona appariva suprema. La volontà annunziata dalla Corona di rimanersi in Toscana, non è affatto capace di screditare la bontà del ragionamento discorso, avvegnachè o abbandonarla affatto, o ridarsi in parte ignota, per gli effetti di tôrre ai Ministri il potere, alle Camere l'autorità, torna il medesimo. Breve; a cagione di questo accidente, il Paese, lasciato a sè stesso, era dominato dalla necessità di provvedere alla sua salute, come gli sarebbe riuscito più acconcio. Nè giova all'Accusa obiettare, che la latitanza della Corona avrebbe durato brevissima, perchè alle Rivoluzioni basta un'ora, e il Governo cessava sciaguratamente nel punto, in cui urgeva più veemente lo sforzo dei Repubblicani per conquistare il fine agognato, più paurosa la minaccia delle moltitudini contro la pubblica sicurezza. La Difesa forense addurrà copia di Scrittori di Diritto costituzionale, che confermino questo assunto: a me basti l'autorità del Senatore Capponi, cui tributano lode i Documenti dell'Accusa. Egli, dopo la semplice lettura delle lettere granducali, fatta dal signor Montanelli, nella tornata del Senato dell'8 febbraio, arringando favellava così: «_In quanto a me dichiaro essere questo mio voto dato con pieno convincimento, e con sicurezza di coscienza_. Il Decreto che viene a noi proposto è una stretta necessità, _quando ci manca ogni mezzo di comunicazione col Potere Esecutivo_: al quale difetto è d'uopo surrogare quei Poteri costituiti, che tuttavia rimangono.» Io poi crederei fare ingiuria ad uomo tanto reputato, se dopo la solenne protesta di favellare con pieno convincimento e sicurezza di coscienza, mi affaticassi a prevenire il dubbio altrui che egli così orasse per paura, nè la lingua corrispondesse al sentimento riposto del cuore, adoperando come quei perfidi di cui è arte apparecchiarsi ad ogni evento per gittarsi al Partito che trionfa. Cose vili sono queste, e non possono supporsi che da uomini vili. Ma qui odo obiettarmi: e se presumevate venuto meno il mandato nei Rappresentanti della Nazione, se sciolte le Camere, se cessati i poteri dei Ministri, a quale scopo convocaste voi le Camere? Perchè le chiamaste a spenderlo in cosa alla quale non poteva essere esteso, nè per la indole sua, nè per la intenzione dei mandanti? Perchè voleste che la Legislativa diventasse Costituente? Perchè deponeste nel seno della Camera dei Deputati un Potere del quale vi credevate già privo? Io feci questo, e meco uomini spettabilissimi si accordarono a farlo, appunto perchè la fazione repubblicana, prevalendosi di tale deplorabile stato, e instando sopra la cessazione di qualsivoglia Governo, non si arrogasse prepotente il diritto di creare a tumulto quello che meglio le talentasse; — perchè le Provincie _agitate_ dai Partiti municipali, non avessero motivo di repugnare;[143] — perchè le deliberazioni prese, se difettose di legalità, presentassero carattere del maggiore consenso in quel momento possibile; — perchè un simulacro di autorità costituita rimanesse; — perchè nel naufragio quanto si poteva di ordine si conservasse; — perchè il Popolo non riducesse in atto il vantato diritto di essere padrone di ogni cosa; — perchè la fazione non precipitasse irrevocabilmente il Paese al passo al quale con tutti i nervi tendeva; — perchè uscisse un Governo, che di tutelare _dall'imminente pericolo vite e sostanze assicurasse_; — perchè il Paese per delitti infami, o per guerre civili non s'insanguinasse; — perchè i Partiti alle ingiurie estreme non irrompessero, — perchè voi stessi, cui basta il cuore accusarmi, foste dalla procella imminente protetti.... — Quali potessero essere le azioni della plebe e dei contendenti Partiti, ignoravasi; temevansi tristissime. Nonostante il mio affaticarmi a far credere le Camere tuttavia costituite, vedremo come i Repubblicani, e parecchi Deputati dichiarassero omai cessato nelle medesime il deposito della Rappresentanza Nazionale, la Sovranità del Paese ricaduta nel Popolo. Chiamai i signori Generale della Civica e Gonfaloniere, e tutta notte circondato da frequente avvicendarsi di persone, conferii ad alta voce provvedendo alla pubblica sicurezza. Come supporre che mentre da un lato, con persone dabbene e principali, prendevansi misure di ordine, dall'altro con facinorosi plebei apparecchiassi il disordine? E avvertite, che io non mi mossi mai dalla stanza. La nequizia immaginata dall'Accusa supera ogni segno, e arriva alla follia. Difficilmente si cercherebbe nella storia personaggio più perfettamente grottesco, di quello che mi fanno sostenere i miei Giudici: bisognerebbe andarlo a cercare in qualche goffa _Atellana_, — delizia di fiera. Certamente previdi, facile presagio davvero, che nello abbandono del Governo costituito, avrebbero eletto un Governo Provvisorio. Così imponeva la necessità. Il Decreto della Camera di Accuse afferma che Niccolini rimase con me gran parte della notte (§ 18). Questo non possono avere detto i testimoni, e d'altronde gli osterebbe il fatto, avvegnachè, durante la intera notte, io stessi circondato da moltissime persone che lo attesteranno. Niccolini si sarà per avventura aggirato nel Palazzo, come sovente usava, frugando ora quella, ora quell'altra stanza; ma, che si restringesse meco _gran parte della notte_, è impossibile materialmente, e per discorso di ragione. Taluno osservò, sarebbe stato salutare consiglio avere a noi i Capi dei Circoli, esortarli a restarsi tranquilli, e contenti a quello che il Parlamento avrebbe deliberato in pro della Patria travagliata; non rendessero disperata con tumulti intempestivi una condizione di cose già di per sè stessa gravissima. Mi parve savio partito, e tale sarebbe apparso, io credo, a chiunque abbia fiore di senno. Non conoscevano il domicilio di Antonio Mordini: dicono che io commettessi a Emilio Torelli di chiamare Francesco Dragomanni: io non lo ricordo, ma sarà; e se ciò è vero, devo averlo fatto richiesto da coloro che vollero adunati i Capi dei Circoli, e perchè egli indicasse, se lo sapeva, il domicilio del Mordini. Vennero eglino, i chiamati, o no? L'Accusa dice che vennero; però vuolsi notare, e credo che dal Processo si ricavi, che io non conosceva i chiamati, se togli Dragomanni, nè li vidi, nè loro parlai: altri conferiva con essi, e dovei ritenere che l'esortazioni fatte ai medesimi fossero conformi al convenuto. Insisto ad affermare, che io rimasi sempre nella mia stanza, circondato dai signori Gonfaloniere di Firenze, Generale Chigi, e, _se io non erro_, dal R. Delegato Beverinotti, dal Prefetto Buoninsegni, dall'Avvocato Dell'Hoste, con altri moltissimi, che io non rammento, che prego per amore della santa verità, ricordarselo per me, — e spero che lo rammenteranno. Io già discorsi di questi fatti, perchè il Decreto del 10 giugno 1850, quantunque non mi accusasse, pure diceva, che non vi fu estraneo il Ministero, _o taluno dei componenti il medesimo_. Strano linguaggio sempre; nelle cose criminali, dove la vita e l'onore degli incolpati pericolano, peggio che strano, avvegnachè fra _tutti_ e _qualcheduno_ la differenza appaia grandissima; nello spazio che passa tra l'una e l'altra frase, cape la innocenza; e trovarci tutti accatastati, presunti colpevoli e presunti innocenti, come legna da ardere in un medesimo falò, non sembra precisamente quella che gli uomini _solevano un giorno salutare_ col nome di Giustizia. I lettori giudichino. Il Decreto del 7 gennaio pareva avermi escluso (§ 59) dalla partecipazione dei fatti, qualunque eglino sieno stati, della notte del 7 all'8 febbraio; ma l'Accusa, paurosa che per questo strappo uscisse lo improvvido tonno dalla rete, eccola pronta a raccattare la maglia, e nel § 83 dichiara, _che ebbi parte, e non secondaria, mentre era Ministro e Deputato, nelle conferenze tenute nella notte dal 7 all'8 febbraio, con i Capi del Circolo ed altri agitatori_. Di qui si fa manifesto il bisogno, che i Decreti e le Accuse specifichino esattamente gli addebiti pei quali deve lo imputato rispondere, perchè la Difesa, in diversa guisa, non sa da che parte badare, e mentre attende di faccia, si sente alla sprovvista presa alle spalle. Cotesti sono agguati buoni in guerra, ma io non ho inteso mai dire che i Magistrati abbiano ad apprendere il gravissimo ufficio dell'accusa negli Strattagemmi di Polieno... Volete vedere come io di lunga mano col Partito repubblicano cospirassi? Come io scavassi la fossa per precipitarvi dentro il Trono Costituzionale? Come io macchinassi cacciare il Principe di Toscana? — Costretto dal rimorso, allegherò per ora alcuni brevi Documenti che daranno, senz'altra ricerca, vinta la causa all'Accusa. Desideroso di ravvivare con la presenza lo affetto, che pur conosceva portare il Popolo livornese al suo Principe, con queste espressioni io consultava il Consigliere Isolani: «La città è tranquilla così, che si possa presentare a S. A. _come una famiglia concorde ed unita ad un padre_?» — (Dispaccio telegrafico, 1 novembre 1848.) — E fu risposto: _Sì_. Promuovendo Carlo Massei amico mio, e non della ventura, in modo confidenziale nel 9 novembre io gli scriveva: «A. C. «Sei Prefetto di Grosseto. Vieni per istruzioni; mando costà Buoninsegni egregio amico mio, e persona degnissima. Gli saranno Consiglieri Corsini e Raff. Dal Poggetto. Non jattanze, non millanterie: assumete dignità pari alla imponenza dei casi, e al concetto che ho dei Democratici lucchesi. Non inasprite gli emuli, fate loro desiderare di tornarvi amici. Fate festa. _Consolate il Principe che vive sempre alquanto abbattuto_.» E tuttavia nel desiderio di procacciare amore al Sovrano, che mi aveva assunto ai suoi consigli, mandava al Governatore di Livorno, con Dispaccio telegrafico del 19 novembre 1848: «Adoperati a mantenere la quiete; o se volete esultare, _fatelo per la generosa amnistia concessa dal Principe_.» Allo scopo di rendere vane le voci, che si spargevano ad arte di prorogata apertura del Parlamento toscano, a motivo di dissidii intervenuti fra il Principe e il Ministero, nel _Monitore_ dell'8 gennaio 1849 così annunziava: «Possiamo assicurare, che tra Principe e Ministero è pieno lo accordo; che fermo sta il giorno per l'apertura del Parlamento toscano, e che se apparenza alcuna d'incertezza vi è stata per alcun ritardo, notato nelle disposizioni necessarie innanzi a questa patria solennità, non nel dissenso del Principe, ma nella lontananza del medesimo dalla Capitale, se ne deve trovar la cagione. _Del resto, noi bene ci augureremmo se in tutti gli Stati Costituzionali, Principato e Governo si accordassero così mirabilmente, come tra noi ne veggiamo lo esempio_.» A Gio. Battista Alberti, alla persona del Granduca attaccatissimo, in guisa riservata mandava: «A. C. Probabilissimamente S. A. _verrà solo in Arezzo per ismentire con la sua presenza le triste insinuazioni sul conto suo, e nostro_. Io ti raccomando, che le Deputazioni, le quali si presenteranno certamente da lui, _lo tengano sollevato_, e lo persuadano che la quiete in Toscana non può durare che continuando nel sistema governativo iniziato.[144]» Nel giorno ultimo di gennaio 1849, avvertito del prossimo sbarco di Giuseppe Mazzini, mandavo al Governatore di Livorno il seguente _Dispaccio telegrafico_: «Sento che verrà Mazzini. Il Governo avverte il Governatore ad usare ogni possibile prudenza. Il Granduca è lontano dalla Capitale. Un moto in senso repubblicano basterebbe a non farlo tornare, _e questo sarebbe il peggiore dei mali. Qui non si vuole affatto la Repubblica da tutti_.» Avvisato che Mazzini sarebbe andato a Civitavecchia sotto mentito nome, senza toccare Livorno, rispondo: _Sta bene_. Allo annunzio delle voci sparse di fuga del Principe, io ammonisco, con Dispaccio telegrafico del _4 febbraio 1849_, il Governatore di Livorno: «S. A. è a Siena, ove cadde ammalato. Firenze è tranquillissima; _noi pure lo siamo, e continuiamo a stare in perfetta relazione col Principe. Diffidi dei rumori sparsi dai speculatori di torbidi_.» Nel 5 febbraio, onde tôrre via il sinistro effetto delle insinuazioni di scissura fra la Corona e il Ministero, pei casi successi a Siena, annunzio nel _Monitore_: «Cessi ogni trepidazione; la città si rassicuri; _la stretta armonia fra il Principe e il suo Ministero, anzichè soffrire alterazione, ogni dì più si conferma_.» Per isbaldanzire i maneggi dei Repubblicani, e levare loro ogni male concepita speranza, che il Governo potesse sopportarli pazientemente, io componeva e faceva stampare nel Giornale Officiale il seguente articoletto in forma di lettera, che immaginava pervenuta da Roma _il 7 febbraio 1849_. «I buoni Italiani convenuti qui in Roma, pare che abbiano deposto il pensiero di proclamare la Repubblica. Tutti i frutti, in ispecie i politici, quando sono immaturi, guastano la salute. Piemonte si chiuderebbe in politica isolata, seppure non irrompesse manifestamente ostile. Toscana, _noi lo sappiamo, vuole il Principato democratico e repugna dalla Repubblica_; — non parlo già del Governo, che io non conosco, ma del _Popolo nella sua maggiorità_. Così invece di stringerci per la guerra della Indipendenza, avremmo la guerra civile, madre infelicissima di servitù interna ed esterna. A questo pensino tutti quelli che si dicono amanti della Patria. Se vuolsi avvantaggiare la veneranda madre Italia, è un conto; se pescare nel torbido, incendiare un pagliaio per riscaldarsi le mani, è un altro. Ma siccome io reputo coloro che professano concetti repubblicani, uomini di ottima fede, almeno la massima parte, così _richiamino la mente alla grave considerazione degli elementi che ci stanno sotto mano_, e giudichino nella rettitudine del cuore. Gli uomini sono uomini, e si dispongono con le persuasioni e col tempo; con l'esorbitanze si rovesciano, e inferociscono.[145]» Ma l'Accusa, che sospetta sempre in me trattato doppio, insorge, e dice: tutte queste sono «_lustre, finte, e mostre per parere_;» voi tenevate due corde al vostro arco; voi siete l'uomo _vafer, atque callidissimus_, dei Latini; nella composizione del vostro corpo, per tre quarti almeno, ci entra carne di volpe. Bene! Grazie! La fortuna, fra tante acerbità, mi fu cortese di amici, fra i quali dilettissimo e venerato il signor Giovanni Bertani, che, intrinseco già del padre mio, me lo rappresenta adesso per affetto, per cura, per ogni altra cosa più dolce; e la Istruzione lo sa. Ora può credersi sincero, almeno quello che confidavo a lui: non era destinato a sapersi; dovevano rimanere le mie espressioni riposte nello animo suo. E quando io gli facevo la confidenza dei miei pensieri? Poche ore prima che Niccolini mi annunziasse il successo di Siena, e mi aprisse il disegno di proclamare la Repubblica, e me volere a forza Dittatore. — E come? — Oh! non dubiti l'Accusa: in guisa, che i suoi stessi sospetti rimarranno placati: con lettera, che porta il doppio marchio delle Poste di Firenze e di Livorno. — E che dic'ella cotesta lettera? — Giovanni Bertani, con lettera del 6 febbraio, mi ragguagliava come la città andasse turbata nelle decorse notti con le grida di — _Viva la Repubblica_! e giorni innanzi un certo tale avere tenuto parlamento al Popolo dalla terrazza della Comunità, in senso _repubblicano e comunista_. Io così gli rispondeva la sera del _7 febbraio 1849_: «Tutto andrà pel meglio, purchè costà non avvengano disordini. Screditate questi mestieranti torbidi e sviscerati della Repubblica per aver pane dal Principato. S... va fischiato. Lo stesso sacramento in bocca sua diventa sacrilegio: vergogna al Popolo che sopporta simili Apostolati.»[146] Ma l'Accusa (per adoperare il suo linguaggio) dirà: non sono questi _atti univoci_, non _prove limpidissime_; gli è forza che vi scolpiate _luminosamente, splendidamente_; bisognerebbe conoscere proprio quello che ruminavate tra voi altri Ministri, quello che tenevate giù dentro al profondo del cuore. — Ahimè! _Facilis descensus Averni._ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . _Sed revocare gradum, superasque evadere ad auras,_ _Hoc opus, hic labor est._ Ebbene, voi lo volete sapere? Ve lo dirò. Quando il Presidente del Consiglio partiva per Siena, io gli spediva dietro una lettera in data del _6 febbraio 1849_, nella quale, dopo avere dettato al Segretario le notizie pervenute in giornata, di mia mano aggiungevo per poscritto: «P. S. Con Marmocchi e CC. bisogna dare prova sensibile a S. A., che la sua sicurezza impone ch'egli e la sua famiglia tornino subito a Firenze. _Bisogna salvarlo anche suo malgrado_.» L'Accusa ringhia, ma non lascia presa, e pretende la prova della mia incolpabilità avere ad essere sfolgorante come la faccia di Giove quando comparve a Semele. Cotesto fu mal consiglio; troppo volle costei, e diventò cenere... pur va, Accusa, e cenere diventa. — Avvisato dalla signora Laura Parra, che nella notte del 7 febbraio od ella sarebbe andata, o avrebbe mandato (chè ciò non bene ricordo), a Siena, le confidava, breve ora e forse pochi momenti innanzi che giungesse lo annunzio della partenza del Granduca, la lettera qui oltre impressa. Depositata presso persona di fiducia del presente Governo, mi viene ora restituita, affinchè me ne valga a confondere la impronta Accusa, che arreca ribrezzo e accoramento a quei medesimi, i quali nella mia vita politica mi procederono più avversi. — Pubblicando questa lettera dichiaro, che il giudizio quivi espresso da me intorno alcuni individui, come formato sopra notizie altrui, non già sopra osservazioni proprie, è erroneo, ed ebbi a doverlo riformare più tardi. — «A. C. «_Modena_. — Non si verifica, nè si conferma la notizia. «_Civica_. — Bisognerebbe ricorrere alle Camere per Legge speciale. Concerto con D'Ayala se può farsi altrimenti; ingaggierei Volontarii per un anno. Stasera conferiremo. I Circoli si offrono pronti a secondarmi. «_Mordini_. — Anche per le notizie della signora Laura è un cupo ambizioso che ci mina sotto. Credi potertene servire con sicurezza, o vuoi rovesciarlo nella polvere? Pensaci: dimmelo, e fa come vuoi. «_Andreozzi_. — Rimandatemelo subito: ora è necessario a me: nulla giova a voi. «_Roma. — Non hanno proclamato la Repubblica; ed è bene._ «_Torino_. — Gioberti prevale adesso; ma vuole accostarsi: _per me, sempre nei limiti omai stabiliti_, accolgo qualunque comunicazione. «_Saracini_. — Pensate a sostituire persona democratica, energica, cittadina sanese: se no, vedremo se va Del Medico; ma lo credo difficile. Tenta Dell'Hoste. Io pure lo tenterò. «_Marmocchi_. — Avrà quanto chiede: forse no la montura; per domani certamente sì. «_Se non crepo, reggerò ogni cosa. Retrogradi e Rossi mi tengono in subuglio il Paese: bisogna dare una zampata ad ambedue._ «Saluta il Granduca, e digli da mia parte che oggi non gli scrivo, perchè proprio non posso. Non mi muovo più di Palazzo. Abbia coraggio e fede in noi, come noi ne abbiamo in Lui. Cacci via da sè gente che non sa altro che atterrirlo e lasciarlo indifeso; e siccome io non ho mezze misure, — se credi, leggigli anche questo periodo, ed anche tutta la lettera. — Quando può, torni con la famiglia, conquisti e si mantenga i cuori. Diavolo! Vuol egli acquistare fiducia mostrando sospetto? — Alla Granduchessa soprattutto insinua questo; — si ricordi del proverbio: Il Diavolo non è brutto come si dipinge; — e noi non siamo orsi. La mostra (e sei tu) val meglio della balla (che sono io), e questo succede sempre; ma non si offrono angioli per campioni di demonii. «Saluti a Marmocchi; riguardati; addio. «Firenze, 7 febbraio 1849. «Am.o GUERRAZZI.» Adesso che cosa dirà l'Accusa? L'Accusa dice, ch'è evidente come di lunga mano, avanti il 7 febbraio e nel 7, cospirassi a instituire la Repubblica, e a rovesciare il Principato Costituzionale, e a cacciare via il Principe dalla Toscana; — e tale sia dell'Accusa! XIII. Mio concetto intorno alla Repubblica. L'Accusa nel § 85 dichiara non importare nulla indagare se io riputassi sempre od in massima la _Repubblica_ forma buona ed accettabile per la Toscana, quando si sa[147] che fui elemento _disorganizzatore_. — A me pare all'opposto che importi moltissimo, imperciocchè nelle criminali disquisizioni, se io male non appresi nelle scuole, hassi principalmente a ricercare lo _affetto_ che lo imputato può avere avuto a commettere la colpa; ed invero quando non occorra veruna delle cause che i legisti chiamano di _delinquere_, ed anzi ne occorrano contrarie, viene la coscienza dei Giudici facilmente condotta ad escludere il dolo dall'azione incriminata. L'Accusa da sè stessa discorda, dacchè nel § 83 la vediamo registrare la notizia «che ho _interessato_ altre volte, e sempre per cause politiche, or la Giustizia, or la Grazia;» quasi per dedurre l'abito vecchio a questa maniera di falli; e ciò sta bene, perchè nel suo concetto cotesta sciagurata memoria poteva nuocere. Nel § 85 poi quale sia stata la mia professione politica non importa conoscere; e sta bene, perchè può giovare. E questa ricerca gioverà ad un'altra cosa, voglio dire, a mostrare quale potesse essere il motivo pel quale i Repubblicani me volessero piuttosto Mancipio, che Capo, in potestà di loro. La insipienza non cessa ingiuriare la Repubblica, come se non fosse e non fosse stata forma governativa di Popoli incliti nella Storia, ma sì piuttosto modo di vivere di gente usa alle rapine ed al sangue. Da parte siffatte stupidezze; e giovi ripetere col signor Guizot: «La Repubblica è in sè forma nobilissima di governo: suscita inclite virtù, ha presieduto al destino e alla gloria di Popoli grandi.»[148] Chiunque dia opera allo studio delle umane lettere facilmente della Repubblica s'innamora, però che i precipui scrittori così greci come latini appartengano al periodo repubblicano; i capitani famosi, le geste sublimi per eccellenza si vedano apparire ed imprendere nelle Repubbliche antiche; nè le Repubbliche del medio evo aggradiscono meno per la vita feconda che le commuove; piacciono le vittorie contro la barbarie; piacciono gli uomini che vi si agitano dentro, i quali, portentosi per certa loro salvatica grandezza, dominano il pensiero. Ancora: filosofi, per istituto di vita o per virtù di fantasia appartatisi dalle condizioni effettuali degli uomini, si dettero a speculare intorno al migliore governo della società, e astrattamente parlando immaginarono ottimo essere quello dove le fortune fossero pari o comuni, uguali le persone nelle prerogative, nei diritti e nei doveri; non doversi fare inciampo alla volontà liberissima col vincolo ingiurioso delle Leggi, conciossiachè lo spirito umano, memore della sua origine divina, avrebbe inteso, senza posa, spontaneo, Al decente, al gentile, al buono e al bello. _Saturnia regna_! — In cosiffatte Repubbliche Tommaso Moro propone che la pena capitale abbia a consistere nello appiccare un cerchio di oro, io non ricordo bene se al naso o in quale altra parte del delinquente. Sogni di Angioli sono cotesti, e Dio faccia tristo colui che desta i sognatori! Ma gli uomini non dormono tutti, nè sempre; la massima parte di loro uscendo dalle astrattezze forza è che si travagli per la dura esperienza della vita. I poeti non hanno a tenere la mano al timone, ma dalla prua del naviglio contemplare lo emisfero interminato, dove è fede che troverà pace l'ansia irrequieta che affatica i petti mortali. Meditando su le Storie, conosciamo come le Repubbliche abbiano durato fra procelle, e poco; lo esercizio smodato delle virtù che pure le alimentano, averle condotte in rovina; la uguaglianza immaginata, fine a conseguirsi impossibile; se tace la smania di superarsi in ricchezze, subentra più intensa l'agonia di vincersi con le ambizioni, co' brogli ed anche con lo splendore di gesti famosi; per cui Aristide un giorno dirà agli Ateniesi, che, se desiderano pace, lui e l'emulo Temistocle gittino giù nello _Apotete_. Ella cammina così la bisogna; se togliete via le passioni, e l'uomo è fatto pietra; ma voi non le volete, nè potete tôrre, e allora nelle società corrotte esse partoriranno turpi gare di viltà, e di delitti; nelle sane, emulazioni di studii, ed anche di gloria; nobilissime invero, e non pertanto seme immortale di disuguaglianza fra gli uomini, nè meno delle altre dannose alla Repubblica. Considerate le Storie, vediamo che virtù fa forza, forza superbia, superbia corruttela; e l'ambita grandezza consuma i popoli come macina molare; non mancano però uomini di peregrino intelletto, i quali ostinati in certe loro immaginazioni si voltano alle Storie, e le contemplano non come elleno sono, ma come loro talenta. Io non gli maledico; mestiere plebeo è questo; ma gli assomiglio a quel Don Pietro di Portogallo, che, acceso di amore per la morta moglie, la vestiva di vesti magnifiche, le poneva in testa corona, al collo e agli orecchi monili e gioie, e delirando la volea pur viva. — Essi vi diranno presentare le Storie due periodi, quello dell'_autorità_ e quello della _personalità_, per mettere capo al terzo, che è il Messia, quello della _fratellanza_; ma la faccenda procede altrimenti, e troviamo bene spesso, troppo spesso, Stati che invece di progredire verso il periodo ultimo, stornano verso l'autorità; anzi, verso la barbarie; anzi, verso lo assoluto potere della spada. Intendono volere distrutte le disuguaglianze degli averi, della prestanza personale e perfino degli intelletti, e predicano questo quando le disparità appaiono più disperate. Nel secolo che vide Napoleone, Cuvier, Berzelius, e Goethe, e Byron, e Alfieri, andate a parlare di uguaglianza d'ingegni! E quando si arrivasse alla divisione degli averi, io vorrei un po' sapere quanto ella avrebbe a durare, e come farebbero a impedire che nascesse il prodigo e l'avaro, il cupido e il trascurato, lo industrioso e lo infingardo. La società umana non può nè vuole uscire da uno stato che conosce, e che spera migliorare mercè progressive riforme, per precipitarsi dentro un abisso che non conosce, e che teme: _omne ignotum terribile_. E almeno gli arditi riformatori andassero d'accordo fra loro! Ma no; quegli vuole moneta e proprietà soppresse, questi risparmia la moneta; uno pretende la donna libera, un altro chiusa; chi lascia stare il matrimonio, chi lo abolisce; vi ha chi reputa il suffragio universale ingiuria alla proprietà; non manca chi sostiene la libertà di commercio tirannide commerciale; vi ha perfino chi immagina pagare il debito pubblico della Inghilterra con le uova.[149] Mentre però procurano rovesciare Dio, religione, matrimonio, famiglia, eredità, proprietà, potenza individuale, tutto quanto insomma fin qui venerammo e rispettammo, non sanno dove andremo a cascare. Qualche esperimento hanno fatto, e capitò male: nonostante si ostinano, e forse può darsi, ma non lo credo, che a sciogliere la società pervengano; a riordinarla non mai. Non ragioniamo di siffatte dottrine che, _con molta imprudenza e senno poco_, vedo formare perpetuo argomento di qualche Giornale fra noi; certo per imitazione francese, come se noi avessimo comuni con Francia travagli e dolori. Torniamo a favellare delle forme del Governo. I dottori della Repubblica di leggieri concedono vera la sentenza del Montesquieu, che la Repubblica democratica si fondi sopra la virtù; ma aggiungono subito, ch'egli ha confuso la causa con lo effetto; la virtù dovere essere figlia, non madre di libertà; e questo diceva anche Alfieri: — però aspettare, per vendicarci in libertà, ad avere fatto procaccio, durante il servaggio, delle virtù necessarie per mantenerci liberi, torna lo stesso che condannarci a catena perpetua. Nè siffatto ragionamento è destituito di verità, se non che, invece di giovare alla conseguenza che ne deducono, le nuoce. Di vero, invece di precipitare la umanità a corsa, dove non le basteranno le piante, vediamo un po' se ci fosse verso d'incamminarla mano a mano verso il meglio: se fu cieca e brancolò per tenebre, perchè volere che duri cieca a brancolare per non sopportabile luce? Quando lo schiavo rompe la catena, la sua libertà appare vendetta e delirio;[150] l'adopera in usi pessimi, finalmente si spossa, e allora di leggieri è restituito al pristino stato. I governi costituzionali pertanto, _purchè sinceri_ (e qui, secondo me, è dove giace nocco), si adattano meravigliosamente alle attuali condizioni della società, nè virtuose tutte, nè corrotte tutte, e piuttosto penzolanti di qua che di là; eglino somministrano forme abbastanza late, dove si può, senza scosse, camminare al meglio; impresa non superiore alle nostre spalle, e però non disperata; sistema nel quale capendo democrazia, aristocrazia e monarchia, l'azione popolare nel progredire vi si afforza con la pratica dei negozj pubblici, con le virtù, e soprattutto col diminuire l'amore per sè, ed estendere l'amore per la patria. In questo modo si evitano le cadute, più dure che non è soave il salire; quello che si acquista si mantiene; delle riforme sociali si promuove quel tanto che i costumi sono apparecchiati a ricevere. La umanità è corpo grave, disacconcia a moti repentini; e quando tu la costringi a saltare, corre rischio che si rompa le gambe o che affranta si accasci. Che qualcheduno la preceda con la torcia accesa a schiarirle il cammino, bene sta; ma non le vada tanto innanzi, che, fissa in quel lume lontanissimo, non veda i pericoli che le si parano sotto i piedi. Essendo pertanto avvenuto, che uomini, i quali speculativamente si mostrarono parziali a forme di governo latissime, fossero assunti al Potere, nè si trovassero abilitati a ridurre in pratica le teorie manifestate, si ebbero, senz'altro, _rimprovero di mutata fede_, e di peggio. Accusa, a mio parere, ingiusta; imperciocchè a comporre un trattato e a scrivere un libro basti poca carta e inchiostro e il proprio cervello, ma per condurre un Popolo sia forza consultare i suoi desiderii, i suoi bisogni e la sua potenza. Nè si deve, senza le solite stemperatezze dei Partiti, biasimare chi, vedendo che tutto non si può nè ad un tratto, e forse alcune cose mai, con lealtà di cuore e fede intemerata si mette a raccogliere le possibili. Così non si biasimava Platone, se, avendo scritto il _Trattato della Repubblica_, si conduceva a Siracusa per mansuefare lo efferato animo del tiranno Dionigi; nè Tommaso Moro, il quale, comecchè dettasse il _Libro della Utopia_, consentiva a tenere ufficio di Gran-Cancelliere d'Inghilterra sotto Enrico VIII; nè il Moro perciò vendeva la sua coscienza a cotesto re, e lo mostrò con la morte. — E Cocceio Nerva compiacque piuttosto al suo fiero talento, che al bene della umanità, quando, pria che vivere sotto Tiberio, sostenne morire, conciossiachè è da credersi che con l'autorità, la quale esercitava grandissima, e l'amicizia che l'Imperatore gli professava, avrebbe potuto, per avventura, temperare la truce indole di quello. Migliaia e migliaia di persone, tinte in chermisi fino alla radice dei capelli, presero a impallidire da un lato dopo la battaglia di Novara, e di tanto progredirono, che, svanito anche il verde, dopo il 12 aprile si trovarono perfettamente partiti di rosso e di bianco. Cotesti esempj non fanno per me: prima che la dignità umana abbia a ricevere offesa per mia viltà, prego Dio a ritirarmi la vita. Io non aspettai questo infortunio a chiarire come pensassi della Repubblica, e mi mostrai avverso alla medesima prima dello Statuto, dopo lo Statuto, semplice Deputato, e Deputato e Ministro, libero, e prigioniero. Pei tempi che corrono, o non pare ella all'Accusa siffatta costanza mostruosa quasi? Nel 19 novembre 1847 ragionando per lettera col marchese Gino Capponi (che in quel tempo erami amico, e potrebbe essermi ancora, se fosse rimasto sempre solo coll'anima sua) intorno ai miei concetti politici, gli scriveva in questa sentenza: «Io vedo, e vedo certo, disordine e impossibilità di scopo a cui tendiamo, per difetto di razionale organismo. Per me la questione è semplice: il Governo cerca forza; hanno a dargliela i cittadini? Se il Governo si mantiene assoluto, _no_; — se modifica il suo principio convenientemente, _sì_. Io, perdurante la mia vita, ho combattuto il primo, e certo non posso nè devo sovvenire che al secondo. Nonostante, se questo mio fosse errore, se dovesse contristare i migliori e più sicuri amici miei, io non rinunzierò alla mia opinione, ma la chiuderò nel mio seno, e romperò la penna, — pregando Dio che voglia abbreviare il termine prefisso alla mia vita.»[151] Nel _decembre del 1847_, scrivendo certe mie _Memorie_, m'indirizzava a Giuseppe Mazzini con queste parole: «Molta terra e molto mare ci dividono adesso: corrono _anni ben lunghi che noi non ci mandiamo neppure un saluto: le opinioni diverse ci separarono_. Tu inebriato di amore, e confidando troppo nella umana natura, nella casta ed ardente fantasia immaginavi non possibili destini ai tuoi fratelli, e li volevi ad un tratto felici e vendicati dal servaggio che è offesa a Dio ed onta alla dignità dell'uomo. _Io, più provato alla dolorosa esperienza, quel tuo soverchio volere non consentiva; e pretendere fuori di misura, mi pareva tornasse il medesimo che non profittar nulla_. Ed in questo ancora differivamo, che il bene divisavi _imporre ai popoli repugnanti e ignoranti; io poi, forse di soverchio studioso dell'altrui libera volontà, ricusava costringerla anche a quello che per avventura era ottimo_.»[152] E favellando, a pagine 25, delle varie tirannidi che contristano la terra, dichiarava: «Ho provato nella vita occorrere di molte generazioni di tirannidi; nè sempre cingono corona di oro, _ma bene spesso berretto frigio_; nè sempre muovono dai potenti, ma bene spesso _dalla miseria importuna, dalla querula presunzione e dalla cieca ignoranza_.» Così nei tempi in cui potevasi non solo impunemente confessare, ma anzi tôrre argomento di popolarità dalla confessione di avere promosso o partecipato a sètte politiche, io volli manifestare come avessi mai sempre rifuggito da quelle, e ne dissi il perchè; chiarii dividermi da Mazzini antica e profonda diversità di opinione; lamentai la sua corrispondenza da moltissimi anni interrotta; la tirannide del berretto rosso stimatizzai. Nel medesimo anno pubblicai il libro _Al Principe e al Popolo_, di cui ho favellato altrove. Della libertà così vi ragiono: «Della libertà che per esercitarsi offende la Legge, non è da godere: la libertà non iscambiamo con la licenza: quella è vita, questa è morte dei Popoli. — «Di più ragioni io conosco libertà, diceva il Parini: libertà vanitosa, libertà soverchiatrice, libertà ciarliera, con tante altre specie ch'è più onesto tacere: amo la libertà anche io, ma non la libertà fescennina.» — Ed io consento con quel santissimo petto.»[153] Avvertiva i pericoli dello essere andati prima troppo tardi, e dello andare adesso troppo presto: «Sventura grande nelle società umane è quella, che il tempo non procede mai equabilmente; prima noi camminavamo un'ora dentro un anno: adesso in un'ora precipitiamo un secolo: però, quello che parve ottimo ieri, apparisce disadatto oggi, forse pessimo domani: una grandissima vertigine ci offusca tutti, ed io non maraviglio se alcuno perde la bussola.»[154] Ma soverchio sarebbe allegare citazioni; solo io prego i lettori esaminare come a pagine 42 prevedessi i moti toscani, ne indicassi le cause, e secondo il mio corto intelletto ne proponessi i rimedj, fra i quali mi pareva efficace quello che il Governo precorresse le voglie del Popolo discretissime allora, riprendesse forza ed autorità, inspirasse fiducia co' fatti, la meritasse, e concedendo anche più di quello che portavano i desiderii presenti, togliesse motivo al nascere dei futuri.[155] Scendendo alle specialità, persuadevo una Rappresentanza di uomini eletti e pagati dalle città, i quali cooperassero alla formazione della Legge.[156] E la forma della consigliata Rappresentanza desiderava non fosse inglese, o francese, o spagnuola, ma italiana, confacente alla indole, ai costumi e alle condizioni nostre, ed in modo che alcuno dei Potentati di Europa potesse con la forza sì, ma non col diritto perseguitare.[157] Non intendevo pertanto che al Principe s'imponessero leggi intorno alla forma della Rappresentanza, pago di quello che suggeriva egregiamente il signor marchese Daniele Zappi in certo suo libro intorno alle condizioni della Toscana: «Se non che tanto ci avanzammo nella carriera politica, che non più risponderebbe alla presente situazione delle cose lo appello fatto ai provveditori delle Camere, e a pochi altri: in quella vece si rende ora indispensabile, che dalle provincie toscane, e in modo alquanto più largo della Romana Deputazione, sieno convocati probi e savii cittadini, che a riformare le Comuni si adoperino col Governo, e che innanzi di disciogliersi sappiano ottenere dalla clemenza sovrana una forma di nazionale Deputazione, come istituzione dello Stato, la quale concorra a coadiuvare il Governo, e valga a sostenere gl'interessi del Popolo, vera ed unica base di nuovo ordinamento politico dello Stato.» Questa Rappresentanza, come al prelodato Marchese, sembrava anco a me capace di salvare il Ministero dal popolare commovimento, ponendosi fra Governo e Popolo: essa raccoglierebbe le speculazioni degli scrittori politici, e dopo averle ponderate le presenterebbe al Governo; riterrebbe il Popolo da seguitare dottrine diverse, e varii capi, potendo riposare nei suoi Deputati; e finalmente, tra gli eccellentissimi, ottimo il vantaggio che partorirebbe questa istituzione: «guarentendo stabilmente il Popolo dagli abusi del potere; non si potendo godere il bene della giustizia, se assicurata non sia per lo avvenire: e come gli uomini, per buoni che sieno, mutabili e mortali sono, così la continuata e salda guarentigia della opera governativa non può venire dalle persone, ma deve essenzialmente risiedere nelle instituzioni dello Stato.»[158] Parole poi piene di reverenza adoperavo verso il Principe, e di preghiera,[159] e finalmente concludevo col dire, che: «principio unico e fondamento vero di riforma, consisteva nella rappresentanza popolare cooperatrice alla formazione della legge.»[160] Ho detto come, chiuso in carcere a Portoferraio, io stendessi una scrittura, che lasciai inedita; perquisita dall'Accusa, si legge adesso, con mio rammarico (però che dei fatti del gennaio 1848 avrei voluto non rimanesse memoria, per onore di quelli che vi parteciparono), nel Volume dei Documenti a pag. 60. Quivi nella parte finale, indirizzandomi al Popolo, lo ammonisco: «Terminerò col darti uno avvertimento, non inopportuno ai tempi che corrono. _Le cose di Francia non t'illudano_; gli Stati _non vivono d'imitazione_. Ogni Popolo _ha le sue età_. Non bene riscosso dal lungo letargo, male imprenderesti a correre. _Sta queto_. Fortificati. Sviluppa il tuo ingegno con lo studio del reggimento degli Stati. _La forma costituzionale presenta campo abbastanza per questi_...» E continuo col concetto, e quasi con le parole che stampai nello aprile, e che si leggono qui oltre. Nello aprile del 1848, dopo cotesta prigionia essendo già pubblicato lo Statuto, dichiarando i principii di varii reggimenti, e cercando quello che, giusta la opinione mia, meglio si confacesse al Paese scriveva: _Corriere livornese, 6 aprile 1848_: «Dopo lui (Luigi Filippo), sembrò il Governo costituzionale, menzogna: ma si confortino i diffidenti: il vizio fu dell'uomo, _non già dell'istituto_; e ricercando per le Storie, non mancano esempj di Principi e di Popoli, osservatori religiosi degli scambievoli doveri. — La lode di Agesilao, dice Senofonte, non può andare separata da quella della patria, conciossiachè Lacedemone fedele ai suoi Re, non imprese mai a spogliarli della loro potestà, e i Re non desiderarono mai poteri più estesi di quelli che dalle leggi venissero loro consentiti.» _Nel No dell'8 aprile_, trattando della Repubblica, termino: «Ora sono eglino in noi animo e costume capaci a conseguire la Repubblica, e, conseguita, a mantenerla? Noi ne dubitiamo grandemente, ed esporremo le cagioni del dubbio.» _E nei N. 13 e 19 di aprile_ espongo i motivi, pei quali non reputo la Repubblica governo adattato al nostro Paese. _Nel Nº del 15 aprile_, dico: «La monarchia costituzionale offrirci palestra bastevole a istruirci nella scienza dei Governi.» Capitale poi apparisce la dichiarazione diretta agli elettori, stampata nel _Nº 2 maggio del medesimo Giornale_: «Qualunque sieno i pensieri individuali, verun cittadino può imporre a forza la sua opinione al Popolo, arbitro supremo del modo col quale intende reggersi. La tirannide non porta sempre corona di oro; qualche volta la vidi col berretto frigio: la sfidai sotto il primo sembiante; saprò combatterla, alla occasione, sotto il secondo. Per me, il migliore Stato è il meglio governato secondo i desiderii, i bisogni, e le condizioni attuali del Popolo. Però, ove il Popolo si accomodi al governo costituzionale, e prosegua di affetto il suo Principe benemerente, a me non repugna, mandatario fedele, sostenere la Monarchia, purchè Costituzionale davvero.» Eletto Deputato, fra le infinite allegazioni basti una sola, quella raccolta dalla medesima Istruzione, allegata dalla stessa Accusa, la quale prescelgo per la data, che appartiene al tempo in cui tornava da avere composto la scompigliata Livorno, e per la dimostrazione dei principii politici, che me legavano allora allo scrivente; ed è la lettera direttami nell'_11 ottobre_ dal Deputato Pigli. «Assisti con attenzione al gran dramma; e quando sarai chiamato, sii presente. _Noi vogliamo la Costituzione sincera, e la strada di ogni civile progresso, sgombra da ogni impaccio di vile egoismo_. — Se occorre, scrivimi. — Io ti assicuro di tutto ciò che uomo virtuoso può desiderare, e non già per me te ne faccio fede, ma pel Paese mio.» Vedasi in quella la non sospetta manifestazione degl'intimi sensi di tale, che mi sedeva al fianco nella Camera dei Deputati, e militava allora con me sotto la medesima bandiera, e si comprenda se io fossi lealmente, interamente partigiano della Monarchia Costituzionale. Tale era il mio domma politico; io vi ho persistito sempre, e fu nella fiducia che anche Carlo Pigli vi persistesse che lo proposi al Governo di Livorno, Assunto al Ministero, tanto più mi approfondai in quello, in quanto che per copia maggiore di fatti venni confermato nella osservazione, che la massima parte dei Toscani fosse alla Monarchia Costituzionale attaccatissima. Invero, primo mio studio come Ministro fu provocare da tutte le Autorità governative, e da tutti i Gonfalonieri del Granducato, rapporti quanto meglio potessero esatti, intorno lo stato politico, economico e morale delle Provincie e Città che reggevano. Commisi, tutti questi rapporti riducessero in quadro sinottico (come proverò in seguito), e dal libro che mostrai a S. A., e rimasto forse allo Ufficio del Ministero, venne a risultare in modo esatto la verità della osservazione intorno ai desiderii del Popolo toscano. Io per me ho sempre inteso, che per governare quanto meglio si può, bisogna porre accuratamente studio a ricercare i fatti. I Governanti, che ai fatti non guardano, o non li curano, o li dispettano, si rassomigliano ai fanciulli, che corrono a nascondere il viso nel cantone, credendo non essere veduti. — Però questo mio sistema mi ha fruttato taccia d'ignorante e di gretto, dal Partito repubblicano.[161] Io posso abbandonare intera alla censura altrui la mia mente, mi salvino il cuore; ma davvero con idee preconcepite, e discordi dal voto universale, io non comprendo a che cosa si riesca, tranne a sobbissare i paesi per soverchia presunzione di sè. Però nella Circolare del 12 novembre 1848, indirizzata ai Prefetti, dopo avere parlato del periodo procelloso che percorrevamo, dichiaro: «I principii monarchico e democratico possono vivere in pace fra loro, a patto però, che il primo si mantenga _leale_, il secondo proceda _temperato_. I re durarono nella Repubblica di Sparta, e progenie inclita di Ercole eroe furono Codro, Agide e Agesilao, onore della umanità. Se il presente Ministero fosse andato persuaso, _che Principe e Popolo camminino contrarii disperatamente, non sarebbe salito ai Consigli del Capo Supremo dello Stato_.» Più oltre: «Alle persone senza consiglio stemperate, dite che noi siamo antichi amici della Libertà, che la nostra fede non può tornare sospetta, che ci ascoltino come fratelli, e sappiano essere _più onorato del desiderare nuove libertà, mostrarci capaci di adoperare dirittamente quelle che abbiamo ricevuto_.» E nella seduta della Camera dei Deputati, come di sopra ho avvertito, bandii solennemente non esser suonata l'ora della Repubblica in Italia; e la generosità del Principe e i suoi meriti presso il Popolo, e l'obbligo di questo a mostrarsi grato, per lo insigne beneficio ricevuto.[162] Al quale cumulo di fatti vogliansi di grazia aggiungere gli altri riferiti in altra parte di questa Memoria, e si vedrà come io mi fossi pronunziato apertamente contrario alla Repubblica, per calcolo rigoroso di giudizio, e per probità politica; e come esatti manifestassi i principii, guida costante del mio operato, secondo che sarà chiarito in appresso. Io non posso concludere questa parte del mio ragionamento senza difendermi da un'accusa... ma per questa volta è _repubblicana_! — Comprendo benissimo, che difenderci di dietro e davanti ella è impossibile cosa; nonostante non consente l'animo, quantunque presago della difesa disperata, abbassare vinto le mani. Come nell'Appendice sarà manifesto, uno scrittore di setta repubblicana con molta querimonia mi appunta che nei destini della Italia io non avessi fede, nè nella virtù dello entusiasmo; freddo calcolatore essere io, e nel respingere il concetto repubblicano mi consigliassi con le dottrine del Machiavello e del Guicciardino. Aborrente, come ogni onesto dev'essere, a giudicare le intenzioni altrui, io raccomando al signor Rusconi leggere e meditare queste parole di Ugo Foscolo, che per certo non fu cuore freddo, nè tepido amatore della Patria e di quanto potesse ridondare in augumento di lei, ond'egli giudichi se in parte potesse farne ragione pei suoi amici, o per sè: «Quando il Popolo torna a precipitare nella corruzione, allora ad alcuni bennati le teorie sono stimolo a nobile vita, a sublimi speculazioni, a generosissime imprese; ma alla universalità de' cittadini necessitano rimedj desunti dalla esperienza, e consentiti dalla natura dell'uomo. Catone fu d'onore a sè; ma di che pro alla Repubblica? La sua virtù pareva ostentazione, e fu alle volte derisa; però infruttuosa: non doveva piegare i costumi, bensì lo ingegno, alla condizione de' tempi; e se non fosse temerità giudicare di tanto uomo, direi ch'egli era più filosofo che cittadino romano; perchè s'ei non avesse inteso a procurare alla Patria il _bene assoluto_, avrebbe per avventura, col valersi dello stato d'allora, potuto procurarle _quel più di bene che si poteva_.»[163] Che se il sig. Rusconi e gli amici suoi mi vorranno essere benigni di proseguire nella lettura del libro, che cotesto austero intelletto scriveva proprio per noi, troveranno, spero, argomento di spiegare la mia mente, senza attribuirmi le brutte intenzioni che lo infelicissimo non dirò amore, bensì furore di parte, gli mette in pensiero. «Ma io adorando la sapienza e la onnipotenza di Dio, e senza arrogarmi di giudicarla, o di bilanciare il meglio ed il peggio di quanto poteva fare o non fare, nè interpretare i suoi fini, _mi rassegno ai fatti, benchè discordino dai miei desiderii_, e m'ingegno di osservare le prove perpetue, che le cose e gli uomini, come stanno, mi somministrano; e _con l'unico lume della esperienza, dirigo fra tante tenebre le mie opinioni a quel poco che io posso in utilità della Patria_.»[164] E che io poi non meriti anatema, per essermi mostrato difensore e custode del Principato Costituzionale, avverso a scapigliata, debole, e non possibile Repubblica, mi giovi per ultimo citare un'altra volta Ugo Foscolo, che la Italia nostra con le armi difese, con gli scritti onorò, e che morì esule mandando l'ultimo sospiro, lo estremo suo desiderio a lei, e per lei. «Alcuni _esaltando principii di perfezione politica ardono le menti_; ma gli animi sono corrotti; quindi ogni tentativo verso lo impossibile, prorompe a corruzione maggiore: testimonio la _Rivoluzione di Francia_. Non tutti i Popoli, nè tutti i tempi possono tutto: l'esempio degli Stati Uniti di America, popolo nuovo, suscitò il desiderio di libertà nei Francesi, che avevano inveterata depravazione; _lo esempio della Inghilterra, che tanti anni addietro aveva per più di un secolo patito le stesse carnificine_, dovea limitare i loro desiderii ad ottenere un Monarca, ed una Costituzione....»[165] E tanto basti per ora. XIV. Concetto dei Repubblicani. L'Accusa lo sa, — quando allega la petizione del Circolo fiorentino del 21 gennaio 1849, che domanda i Deputati Toscani sieno presenti a Roma il 5 febbraio per la Costituente italiana: lo sa, — quando riporta la lettera, che afferma emanata dal Presidente del Circolo fiorentino: lo sa, — quando allega il Decreto deliberato nell'8 febbraio sotto le Logge dell'Orgagna, che proclamava la decadenza del Principe: lo sa, — quando narra che il Niccolini in nome del Popolo gridava nella sala del Consiglio Generale _decaduto il Granduca dal trono, e sciolte le Camere_: lo sa, — quando accenna alla stampa quotidiana, di cui insistente, perpetuo, fu grido fino dal 9 febbraio 1849: (_Alba_ dal Nº 453 al Nº 456, e dal 463 al 470; — 15 febbraio — 4 marzo 1849.) «Unione con Roma! Unione con Roma! «Domani forse sarebbe troppo tardi. Una nota diplomatica potrebbe barricarci il cammino, distruggere con un tratto di penna i nostri voti, i voti di Roma, e le comuni speranze. «Unione con Roma! Unione con Roma! «Domani forse lo annunzio della invasione nemica potrebbe chiamarci tutti alla frontiera, potrebbe impedirci di convocare la nostra Costituente, e così obbligarci a rimettere la Unione ad epoca indefinita. «Un Governo solo di Roma e Toscana; uno scopo solo a quel Governo: la guerra; — una patria sola ai governanti e ai governati: l'Italia.» Dal Nº 473 al Nº 500 (7 marzo — 3 aprile 1849) diventò più acre. «Fino a tanto che la Toscana non sia unita in uno Stato solo con Roma; fino a tanto, che il Popolo non sappia su quale principio si fonda il Governo voluto da lui, ed a quel Popolo non si dieno armi, non s'ispiri fiducia; fino a che si lasci sbollire lo entusiasmo, nascondersi infruttuoso il danaro, e gli elementi di esso; insomma fino a tanto che si edifichi sul passato, senza prevedere l'avvenire, — la rivoluzione di Toscana sarà un'amara ironia.» E ciò in quanto a concetto; in quanto a persone, il Partito piuttosto demagogico che repubblicano, nel timore di non avermi favorevole, nè di potermi dominare con la forza, già da gran tempo s'industriava a scalzarmi sotto, me affermando incapace a rappresentare il vero governo democratico, e a tenermi come un mezzo, come un gradino, e niente più.[166] Qui si accennava chiaramente ad una rivoluzione, e si predicava volerla fare in onta mia. Perchè non proteggevano i Magistrati, non dirò me o il Ministero, ma lo Stato? E sì che in simili faccende «_il Governo ricava forza dalla Magistratura, non gliene partecipa!_» Nè il Ministro poteva assumere, senza ingiuria della giustizia, le parti di offeso, di accusatore e di giudice. E il Giornale _La Costituente_ non era qui in Firenze fondato a posta perchè la Toscana con Roma in reggimento repubblicano si congiungesse? E gli alberi della libertà piantati per tutta Toscana, invito il Governo, che cosa volevano dire? E le petizioni dei Circoli, e le deliberazioni dei Municipii, dal febbraio fino allo aprile, che cosa domandavano esse? Non furono compilati perfino processi pei petizionarii della proclamazione della Repubblica, e della Unione immediata con Roma? — A questo modo predicavano cittadini, e stranieri, e Municipii, e Circoli, su per le piazze, e pei convegni. Chi meno era repubblicano più si fingeva; e il nastro rosso crebbe di prezzo due cotanti il braccio pel gran consumo che ne facevano: chi poi fossero quelli che più lo adoperavano, io non lo voglio dire.[167] Dov'erano allora gli sviscerati pel Principe, e pel Principato? — Quali voci d'improbazione si udirono? — Una sola! — e questa voce fu la mia.[168] XV. Motivo dei Repubblicani nel nominarmi membro del Governo Provvisorio. È chiarito pertanto per prove manifeste, come io esperto del voto della massima parte dei Toscani, e reverente a quello, mi fossi dichiarato contrario alla Repubblica. Questo sapevano da tempo remoto i nemici del Principato; e non potevano ignorare neppure come questo mio concetto scendesse da esame diligente di fatti, non da mutata voglia, compiacendo a cupidità di potere o a comodo privato. La voce pubblica, come già avvertiva, diceva con particolare benevolenza proseguirmi il Principe, nè mancavano persone intime in Corte, che siffatta voce confermassero. Non vedevano i partigiani cosa che potesse farmi vago di mutamenti; all'opposto ne vedevano moltissime che me dovevano rendere affezionato al Governo Costituzionale. Considerando tutto questo, pensarono, che, lasciatomi andare libero, prima di tutto non piccolo discredito avrebbero toccato i loro disegni; e poi temerono che i Costituzionali facilmente si sarebbero riuniti intorno a me come a centro, ed io, rilevando lo smarrito coraggio di questi, disciplinassi la Opposizione, e quanto macchinavano rendessi impossibile, o almeno pieno di ostacoli. Io non voglio dire che si apponessero al vero nello attribuirmi tanto credito nel Paese; imperciocchè le passioni riscaldino i cerebri, e, secondo il consueto, vedano gli oggetti troppo più grossi di quello che veramente essi sieno; nonostante non andavano errati del tutto: ed invero, il sentimento universale, impressionato da serie continua di dichiarazioni, me reputò sempre amico del Governo Costituzionale. Malgrado le perfide arti di lunga mano apparecchiate per farmi venire in odio alla gente,[169] e malgrado gli atti estorti da prepotenza ineluttabile di uomini e di casi, vedremo i _buoni Cittadini_ riporre in me fino negli ultimi tempi piena fiducia, che reprimendo ogni eccesso, preservando da eventi luttuosi il Paese, senza sangue, senza vergogna, senza scosse violente l'antico ordinamento restaurassi.[170] Il Partito repubblicano, diretto non mica da gente grossa, ma sì invece acuta e arrisichevole, non consentì mai, che le uscissi di mano, disegnò ridurmi in sua potestà per adoprarmi a modo suo, separarmi da tutti, circondarmi, sorvegliarmi, spingermi a suo senno, coartarmi... Dove io fuorviassi... guai a me! Io non mi sento abbastanza _Visconte_ per usurparmi il privilegio di assassinare senza coscienza come senza pudore la fama altrui. Guardimi il cielo da pensare, che i Capi di parte repubblicana macchinassero disegni di sangue. No. Ma ogni fazione ha la sua morchia, e da questo fondaccio si è visto sorgere sempre qualche uomo perverso; e le minacce suonavano feroci; e le parole ardenti accendono gli spiriti a cose immani, e le passioni politiche pervertono ogni sentimento morale. Il fato di Pellegrino Rossi stava lì a spaventare i più arditi. Il partito preso dai Repubblicani a mio riguardo apparisce dal volermi Capo o Membro del Governo Provvisorio, non pure inconsulto, ma repugnante e contendente. Niccolini, che fu gran parte delle deliberazioni del Circolo nella notte dell'8 febbraio, può egli supporsi che non abbia informato i convenuti del mio aborrimento dalle macchinazioni loro? Può credersi che loro tacesse i miei rimproveri e l'acerba repulsa? Certo non è da credersi; e allora egli deve avere proposto lo espediente che a me medesimo, con fronte aperta, manifestò, di costringermi a viva forza. D'altronde la violenza ormai era sistema del Circolo, e vedremo più tardi come le fosse lasciata per regola di condotta. — Se, falsando i fatti, si voglia sostenere che me ne andassi volenteroso a concionare il Popolo in piazza, certamente queste verità non si potranno conoscere; ma se si ritenga, come è vero, che il Popolo invadente le Camere, il Popolo giù per le vie me solo chiedeva, a me imperiosamente di mostrarmi ordinava, ed avvisato che ricusava obbedire, e dell'audace risposta — io sto nell'Assemblea, mandava per la seconda volta una turba molto, più numerosa della prima a rinnuovare il comando con tanto furore, che il Vice-Presidente Zannetti, Pensoso più d'altrui che di sè stesso, prorompeva negli accenti: «Il Popolo non si frena; andate e predicate rispetto alla vita, rispetto alle proprietà;» se si ritenga, dico, che mi trovai portato di peso giù in piazza, sbattuto e abbattuto; se si ritenga, che sospettosi inquisitori mi si cinsero alla vita, e che furibondi ordinatori mi tennero in perpetua pressura, allora si comprenderà che i Repubblicani mi portarono al Campidoglio sì, ma per precipitarmi dalla Rupe Tarpea. Chiunque sia, comecchè mediocremente versato nella storia delle commozioni popolari, conosce che i Partiti, allora quando scelgono un Capo, nol fanno già per darsi padrone, ma sì per avere un servo;[171] e dove niente niente e' baleni ad eseguire i comandamenti loro, lo spezzano. Di qui avviene che uomini reputati onnipotenti, inciampando in un filo di paglia, stramazzino: ora, siccome di casi siffatti non fu penuria ai dì nostri, non importa addurre esempj. L'Accusa non ha cercato, e non gl'importava trovare, cosa che io conosco, ed è: che se il 12 aprile non sopraggiungeva, una cospirazione, che si chiamava repubblicana, _si era formata per rovesciarmi e per trucidarmi_.[172] Da questa parte io mi guardava, ma la rovina venne dall'altra parte dalla quale non mi badava, o nella quale riponeva fiducia di conforto e di aiuto. E di ciò, a suo tempo, saranno addotti i motivi. XVI. Giorno 8 Febbraio 1849. L'Accusa insiste, che per bene tre volte, invitato dal Presidente Vanni, io ricusassi restringermi a segreta conferenza. Di questo triplicato invito nè so, nè ricordo, nè mi venne contestato. — So, e ricordo, che alcuni Deputati mi confortavano uscire di sala pubblica, e condurmi a quella delle Conferenze. — Nel Decreto del 10 giugno 1850, il signor Montanelli, che _andò_ a pregare i Deputati onde tornassero nella pubblica sala, è incolpato di averli esposti alla violenza del Popolo; e me, _che non volli andare_, accusano del medesimo disegno. Sicchè, sia che si andasse, sia che si stesse fermi, al cospetto dell'Accusa, che _mi scuoia e mi squatra_, non ci è via di salvazione. Se io pongo mente al tempo e alla cagione delle parole, ricordo che quei tali onorevoli colleghi mi animassero a procurare il ritorno dei Deputati partiti, e che io rispondessi: «È andato Montanelli; basta.» Riprova di questa verità occorre nel considerare, che i colleghi conferenti meco, trascurato lo esempio altrui, restavano fermi nella sala, nè facevano sembiante di volersene andare, la quale cosa dimostra come la Seduta fosse incominciata, e come di conferenze segrete non fosse più a parlare. L'Accusa non sembra che fra i suoi studii si dilettasse molto di quello dello Statuto; o se le piacque un tempo, poco se lo rammenta adesso; imperciocchè, se fosse altramente, saprebbe che l'Articolo 44 dello Statuto dichiara: «Le adunanze delle Assemblee avere ad essere pubbliche; soltanto su la domanda di _cinque_ Membri potersi il Consiglio costituire in adunanza segreta.» — Il verbale dell'Assemblea non dice che questo rito fosse praticato, e veramente nol fu; e nemmeno dice il verbale che i Ministri ricevessero lo invito di cui parla l'Articolo 61 dello Statuto medesimo. Per altra parte, l'Assemblea quale ha mestieri di consenso ministeriale per costituirsi in conferenza segreta? Di quali informazioni abbisognava per parte dei Ministri? Forse non erano istruiti del successo e del tenore delle granducali lettere il Presidente e parecchi Deputati? Sì certo lo erano, e il Signor Vanni era stato chiamato in Palazzo appunto per questo: oggimai dello infausto evento correva pubblico il grido. E se le Camere non abbisognano del consenso dei Ministri per costituirsi in conferenza segreta, molto meno hanno d'uopo della presenza loro per deliberare i partiti. Il Ministero non costituisce per niente membro necessario del Parlamento; — or fanno pochi giorni l'Assemblea di Francia, non ostante l'assenza del Ministro del Commercio, discusse e votò la proposta su le tariffe commerciali, instando Thiers; — e fu nella Camera nostra dichiarato, in occasione della Legge su l'arruolamento, discussa in parte e deliberata assente il Ministro della Guerra, nella Seduta de 17 agosto 1848. Io ben ricordo avere in cotesta Tornata fatto osservare se non la necessità, almeno la dicevolezza, ed anche il vantaggio della presenza del Ministro per attingerne opportuni schiarimenti; se non che il Deputato Salvagnoli tanto seppe dire intorno alle facoltà della Camera di discutere, e votare senza bisogno di Ministri, che non fu tenuta in conto alcuno la mia osservazione. Non _invito legale_ pertanto, ma _consiglio semplice_ fu dato di conferire in segreto, nè dal mio non seguirlo era tolto alla Camera di prendere quel partito, che le fosse parso più profittevole. Me poi a non seguitare cotesto consiglio persuadeva copia di ottime ragioni. In prima, la commissione del Principe, il quale con lettera del 7 febbraio ordinava: «Prego il Ministero a dare _pubblicità a tutta_ la presente dichiarazione, onde sia manifesto _a tutti_ come e perchè fu mossa la negativa che io do alla sanzione della Legge per la elezione dei Rappresentanti toscani alla Costituente italiana; che se tale pubblicazione non fosse fatta nella sua integrità e con _sollecitudine_, mi troverò costretto a farla io stesso dal luogo ove la Provvidenza vorrà che io mi trasferisca.» Da questo il bisogno della _urgenza_ e della _pubblicità_ della Seduta. Inoltre, nella agitazione certissima del Popolo in quei momenti supremi, in affare di tanta importanza, ogni ombra di mistero avrebbe accresciuto le ansietà e inacerbito i sospetti: ogni uomo che abbia senno, di leggieri andrà persuaso che la conferenza segreta, invece di diminuire, avrebbe a mille doppj accresciuto i pericoli del frangente. Ancora, io vorrei che l'Accusa, in cortesia, m'istruisse in che e come la sala privata avesse, meglio della pubblica, difeso l'Assemblea dal Popolo irrompente. Forse la sala privata ha in sè virtù repulsiva, od è munita di ridotti e cinta da bastioni? Forse il mago Atlante vi pose sotto la soglia le _incantate olle_ come al Castello di Carena?[173] Se la sicurezza poteva consistere nella diversità delle stanze sotto un medesimo tetto, l'Accusa avrà ragione; ma finchè non venga dimostrato in che la camera delle conferenze avesse maggior virtù della sala pubblica, egli è certo che i Deputati sarebbero stati esposti ugualmente nell'uno come nell'altro locale. Ed anzi peggio, perchè le angustie del luogo avrebbero, ad ogni evento, impedito l'uscire, aumentati i pericoli. Finalmente, a tutelare l'Assemblea erano state prese le provvidenze necessarie. Il Decreto del 10 giugno 1850 argomentava il _reo disegno_ dal trascurato invio di ordini al Capitano della Guardia Civica stanziata alla porta di sotto, per opporsi allo ingresso della moltitudine tumultuante; ma in qual punto avrei dovuto trasmettergli io ordini siffatti? Prima o dopo l'apertura della Seduta? Se prima, ordini speciali per cosa che s'ignora non se ne possono dare; inoltre il Capitano non riceve ordini dal Ministro, ma dal suo Superiore; e poi il Capitano posto a guardia ha ordine generale di difendere la sicurezza dell'Assemblea; nella quale generalità, naturalmente, rimane compresa la specialità di operare quanto reputa convenevole per adempire il fine della consegna. Lo intento della moltitudine non poteva essere dubbio se, come narra l'Accusa, infuriava tumultuante e schiamazzante, con cartelloni che dicevano, a lettere da speziali, quello che volesse fare. Che cosa altro si domanda per conoscere che l'Assemblea sta per essere violata? Che più si aspetta per sapere venuto il momento della difesa? Se le Guardie, spesso collocate a distanza grande dai Superiori, avessero ad aspettare, via via che la occasione si presenta, ordine speciale per agire, verrebbero a portare sempre il soccorso di Pisa. Ora, nel caso in discorso, io non poteva conoscere quello che si faceva per di sotto, stando nell'Assemblea; e sarebbe riuscito festoso che per me si mandassero ordini per impedire lo ingresso della moltitudine tumultuante, quando la vedeva già entrata! Non so di cose guerresche; ma parmi evidente, che se la Guardia si fosse disposta su per gli scaglioni con le armi abbassate, la posizione sarebbe stata insuperabile. Però io ho detto tutto questo per tenere dietro alle aberrazioni dell'Accusa; ma ella, che poco sapere le Istituzioni Costituzionali, o ricordare si cura, importa che avverta come il comando della forza armata di guardia all'Assemblea dipenda unicamente dal Presidente di questa. I Ministri, usurpando simile prerogativa, non solo commetterebbero sconvenienza massima, ma colpa. Infatti, nella Seduta del 30 marzo 1849, mentre una mano di Popolo con urli e minacce assai più veementi che quelle dell'8 febbraio intendeva violentare l'Assemblea a proclamare la Repubblica, io mi trovai, o credei trovarmi, forte abbastanza per indirizzare al Presidente queste parole: «Come Capo del Potere Esecutivo, in cui il Popolo intero ha riposto la sua fiducia, io credo dovergli rispondere con atto di coraggio. Se il signor Presidente domanda gente per disperdere gl'iniqui e perfidi perturbatori, io stesso monterò a cavallo.» — E nella Seduta, non meno procellosa, del 2 aprile, il Ministro dello Interno interrogava il Presidente dell'Assemblea dicendo: «Io le ho mandato 180 uomini; che ne fa ella?» E il Presidente rispondeva: «Io ho trasmesso gli ordini opportuni al Capitano del distaccamento della Guardia Nazionale che in questo momento forma il presidio dell'Assemblea.»[174] Se il Ministro della Guerra raccolse i Comandanti dei Corpi militari per provvedere più particolarmente alla città di Firenze; e fu messo all'Ordine del Giorno, che tutte le milizie starebbero consegnate nelle rispettive caserme; e stabilito, che le milizie, stanziali e cittadine, avrebbero agito promiscuamente dietro ordini firmati dal Comandante di Piazza e dal Prefetto (Atto di Accusa § 53); si persuaderà di leggieri la gente, che alle provvidenze fu pensato. Ma l'Accusa, che prima aveva rimproverato la omissione delle misure, ora che le trova prese, ci sofistica sopra, e dice, che le milizie dovevano agire soltanto in caso di _vera e propria_ sommossa popolare, e critica quel dovere agire dietro ordine di due autorità _dissociate_; non si contenta che la Civica fosse mandata alle Camere con numero, mezzi, e istruzioni consuete; bisticcia perchè non avesse posto le baionette in asta, come se tutte queste cose dipendessero da me; gavilla perchè la Stato-Maggiore, e il Generale in Palazzo Vecchio stanziassero, come se potessero stare in migliore luogo per difendere il Senato che sedeva in quel medesimo Palazzo, e il Consiglio Generale che sedeva nella fabbrica accanto!! Il Ministro D'Ayala fu sempre di parere, che i soldati non si avessero a mescolare nelle popolari sommosse: per queste doveva bastare la Guardia Civica. Se la Guardia Civica non mantiene l'ordine interno, o che cosa ci sta a fare? La milizia stanziale combatte le guerre della patria. Di tale suo concetto espose buone ragioni alle Camere; per questo motivo non fu piccola impresa ottenere i suoi soldati nel supremo accidente; e la doppia firma ha da essere stata regolare, e necessaria secondo la sua superiore esperienza.[175] Che cosa si voglia inferire dalla firma simultanea delle due Autorità _dissociate_, io non so comprendere; molto più, che per non essere parola italiana l'aggettivo dissociato, non capisco per l'appuntino che cosa significhi; ma indovinando che corrisponda a _disgregato_, o che forse, domando io, una dimorava in Firenze, e l'altra al Capo di Buona-Speranza? Sentiamo un po': che grande ostacolo faceva questo, o in che le operazioni necessarie avrebbero incontrato impedimento o ritardo? Il Comando di Piazza stanzia in Palazzo Vecchio; il Prefetto come Deputato sedeva alla Camera: distavano dunque forse trenta passi, e tre scale! Che insinuazioni cavillose, che sofisticherie sono elleno queste? E crede l'Accusa, che il Generale Chigi, personaggio chiaro per valore e per ingegno, si sarebbe prestato docilmente a lasciarsi aggirare come un gaglioffo? Riprenda l'Accusa gli aggiunti di _vera e propria_, che ce li mette di suo, — e fa ufficio di _barbaro, gittando nella bilancia iniqui pesi_, — e lasci unicamente la _sommossa popolare_,[176] e veda se fosse venuto tempo di agire (se è vero quello che dice il Decreto del 10 giugno 1850), alloraquando gli agitatori _deliberavano_, sotto la Loggia dell'Orgagna, _imporre_ un Governo Provvisorio alle Camere, e (se è vero l'altro che referisce il Decreto del 7 gennaio 1851) quando vi si conducevano _tumultuanti_. Se non presenta carattere di sommossa una _turba tumultuante_ che delibera in pubblico d'_imporre un Governo nuovo al Paese_, davvero che cosa sia sommossa io non saprei vedere. In quanto alle baionette non messe in asta, le Guardie ce le avevano a mettere; e credo che non le avessero lontane, perchè, se non isbaglio, se le tenevano al fianco. Se anche questo sembra all'Accusa un _crimenlese_, non ha fare altro ch'estendere la requisitoria, e mettervi dentro anche le Guardie. Sarebbe per avventura anche questa una _disassociazione pregna di maligni disegni_? Or via; i provvedimenti furono presi, e se rimasero inadempiti, non è mia la colpa. I Circoli invitati a stare fermi, _si vollero muovere_; le milizie invitate a muoversi, _scelsero di stare ferme_; ma che, per avventura, devo io portare il peso dei falli di tutto il genere umano? Nè qui si fermano le insinuazioni; e si trova a ridire perchè fossero chiamati i Capi dei Circoli, e non il Presidente Vanni; perchè nella notte fossero avvertiti i Circoli, e non le Camere. Trattandosi d'impedire turbolenze, era razionale convocare chi potesse reprimerle, e chi provocarle; i primi, perchè alla occasione si mostrassero, i secondi, perchè dal dare questa occasione si astenessero; ed ordinando, o pregando, che i Capi dei Circoli stessero tranquilli, ne veniva per necessità che fosse loro partecipato il motivo della chiamata e dell'ordine. Forse si volle tenere celato il successo della partenza del Principe? Ma non erano il cavaliere Peruzzi Capo del Municipio, e il cav. Chigi Generale della Guardia Civica e Senatore, che ne furono primamente instruiti? Perchè malignare se non fu chiamato il Presidente della Camera? Da questa parte non poteva venire danno davvero, e soccorso materiale nemmeno. Fintantochè non ci dica l'Accusa quale rovina irreparabile abbia cagionato chiamare il Presidente della Camera la mattina per tempo, qual soccorso di forza ci avrebbe apportato l'ottimo e mansueto Cosimo Vanni, che Dio nella sua misericordia dallo aspetto delle odierne miserie in buon punto ha salvato, sarà difficile che la gente trovi, come l'Accusa fa, criminoso un lieve ritardo del tutto fortuito ed innocuo. Rifinito dalla fatica, agitato da commozione profonda, e da presentimenti tristissimi, dopo avere vegliato tutta la notte, io mi conduco alla Camera deliberato a rassegnare la carica appena il signor Montanelli avesse letto il suo Rapporto. Questa intenzione aveva manifestato ai miei familiari, e a parecchie persone che mi circondavano; sicchè prima di uscire dalle stanze di Ufficio fatto fascio di corrispondenze, e di altre carte private, gittandole sul fuoco, esclamai: «poichè non tornerò più qui, non vo' che alcuno legga i miei negozii!» Mi sentiva preso da sazievolezza, e di salute infievolito non poco; rivolgendomi nell'Assemblea al Popolo sorvegnente, diceva loro: «Rammentatevi, cittadini, che abbiamo vegliato tutta notte: — per conseguenza state tranquilli.[177]» Il signor Montanelli, appena letti i documenti di S. A., viene interrotto da turba di Popolo guidata dal Niccolini, il quale si annunzia latore di _ordini_ popolari; e poi aggiunge: _che il Popolo abbandonato dal Sovrano, il quale è fuggito vilmente, mancando alla sua fede e al suo onore, è rientrato nei suoi diritti._[178] Sorge fiero tumulto. _Il Presidente si è coperto il capo, ha dichiarata sciolta la Seduta, e si è ritirato seguito da molti Deputati._[179] Di faccia alla rivoluzione che irrompeva, deh! senza ingiuria di alcuno, mi sia concesso dichiarare, che non mi parve quello contegno di bene avvisati Deputati. Chi lascia il campo, si dichiara vinto. Padroni della sala e del Governo già già diventavano il Niccolini e la plebe; — sì, _lo avvertano bene tutti coloro che fanno le viste di obbliarlo adesso_, — plebe, e quella dessa, che dopo avere innalzato gli alberi della libertà, in onta mia, per estorcere danari, gli abbatteva più tardi per estorcere danari; plebe, che minacciosamente proterva domandava elemosina alla foggia del povero del Gilblas, e ruppe strade, e incendiò case, e manomise le persone, e gli averi; plebe, che anelava gli ultimi orrori; plebe, che, implorando lo aiuto dello stesso Circolo _armato_, fu forza contenere perchè non isbranasse gli arrestati nella notte del 22 febbraio; Ciompi senza Michele Lando. Bene altra cura stringeva adesso, che di forme politiche: _si trattava salvare la società,... la vita di quelli che ora il beneficio ricevuto disprezzano, — anzi pure vituperano, e rampognano, o accusano!_ Si legge il terrore sopra i volti dei circostanti, e i prudenti comprendono a prova il fallo commesso dal Presidente, per avere disertato il seggio. Non così Boissy-D'Anglas e Thibaudeau presiedevano all'Assemblea di Francia in giorni bene altramente terribili! Tacevano tutti. Fra gli schiamazzi del Niccolini, che dall'audacia fortunata reso audacissimo bandisce _decaduto il Principe_, _sciolte le Camere_, e il _Governo Provvisorio_, ed ostenta il mio nome scritto di _rosso_, che cosa faccio io? Gli ammicco forse degli occhi, gli sorrido facile? Con la voce e co' cenni gli applaudo? Lo abbraccio, lo bacio? Mando al Popolo i baciamani? — Queste cose si costumano fare fra gente indettata nella esultanza dei conseguiti disegni. Ah! io sentii pur troppo in cotesto punto la insidia della fazione repubblicana per tenermi stretto nelle sue tanaglie. Io solo salgo alla tribuna, rilevo la dignità avvilita dei Deputati, ed esclamo: «non potere vedere, che essi sieno stati cacciati così a vergogna. — Qualunque sia la opinione che ci divide fra noi in questa sala, noi siamo tutti fermi e uniti a tutelare con l'ultima stilla del nostro sangue la patria minacciata dai nemici interni ed esterni. Io pertanto mentre rimprovero al Popolo le sue esorbitanze, non posso astenermi di rimproverare anche i Deputati che hanno disertato i loro scanni[180]..... Figli di una stessa famiglia, pensiamo a prendere provvedimenti valevoli e salutari nel supremo pericolo dell'amatissima patria.» Tutto questo, assai più che con le parole, col gesto concitato, e col guardo torvo, era diretto contro il Niccolini, che si smarriva, rimettendo alquanto della consueta petulanza, e, mal per rabbia sapendo quello che si facesse, si mise a sedere su la pedana del banco ministeriale. Ora, Dio eterno, si può egli supporre, che un uomo il quale avesse eccitato queste enormezze in segreto, ardisse rinfacciarle così aspramente in palese? E si può egli credere, che o Niccolini, o tale altro della Congiura si fosse tolto in pace vituperio siffatto? La mia sfrontatezza avrebbe toccato il termine della insania; la pazienza altrui quello della stupidità. Intanto Niccolini, ripreso animo, a cagione degl'imperiosi messaggi che il Popolo mandava per invitarmi (e voleva dire ordinarmi) a scendere in piazza, per le apprensioni del Vice-Presidente, pei clamori delle tribune, ed anche per certa imprudente proposta mossa da un Deputato rivolto a me, che tenevo sempre la tribuna, grida: «chiedere la parola in nome del Popolo; avere il Popolo riassunto i suoi diritti, dopo che si era radunato in piazza, ed aveva dichiarato decaduto il Potere; avere di più nominato tre persone per reggere la Toscana, e con Decreto sciolti gli altri poteri.» Quindi cruccioso conclude: — «O voi accettate, e non esiste altro Potere che il vostro conferitovi dal Popolo; o non accettate, e il Popolo penserà a quello che deve fare....[181]» La turba applaudiva frenetica: difficilmente può significarsi per parole l'amarezza con la quale il Niccolini urlava: «Il Popolo penserà a quello che deve fare.» Per coteste minaccie gli animi degli astanti sbigottivano. Ed a ragione sbigottivano; perchè, sapete voi che cosa voleva dire «_Il Popolo farà da sè_?» Voleva dire: il Principe decaduto, le sue case saccheggiate, i servitori manomessi. Voleva dire: chiese espilate, cittadini multati, pubbliche casse vuotate. Voleva dire: leggi dei sospetti, tribunali rivoluzionarii, sentenze scritte col fiele della vendetta e col sangue del furore. Voleva dire: antichi impiegati condotti alla miseria (forse a peggiori destini), e famiglie disperse. Voleva dire tutto quello che una plebe arrabbiata sa fare quando la sferzano le furie della necessità, della cupidigia, e della paura, ed uomini perversi la inebbriano di odio. — Se questa poi sia esagerazione o verità, vedremo tra poco. Io avevo impegnato un duello col Niccolini, che pure l'Accusa designa audacissimo, ed è vero; pur troppo mi accôrsi che mi poteva tornare fatale; nonostante sperando, che di valido aiuto i miei colleghi mi sovvenissero, me gli rivolgo incontra da capo, ingegnandomi blandire il Popolo, e separarlo per questa via dal suo Condottiere; e così lo interpello: «Perchè pretende egli esclusa dallo aderire alle deliberazioni la parte del Popolo elettissima, che siede in questa sala? Le Provincie non devono essere rappresentate? Non importare ch'elle stieno unite? Se mai le persone indicate accettassero, perchè vorrebbe togliere loro il voto, e l'adozione dei colleghi, per conforto a procedere in una via da ora in poi piena di supremi pericoli, e forse di morte sicura?[182]» Questo era impedire la dissoluzione del Paese, e dirò quasi un porgere una cima di canapo alla Camera affinchè l'afferrasse, e, diventata padrona della occasione, ardire pari agli eventi mostrasse. Alcuni più ragionevoli del Popolo si lasciano persuadere, e favellano miti parole. Allo improvviso si ascolta nuovo Popolo accorrente con immenso fragore: la sala intronata, pareva che sobbissasse: per questa volta mi sentii cadere il coraggio: temei della mia, ma più assai della vita altrui. In quel momento mi appiglio (ogni altra difesa mancando) alla parte del Popolo, che, prima venuta, si era mostrata proclive alla persuasione, e dirò quasi mansuefatta; la invoco a supremo riparo, e supplicando grido: «_Il Popolo guardi il Popolo: non venga introdotta persona_.[183]» Ma il Popolo prorompe furibondo, ed intima con altissimi urli che scendiamo in piazza. Allora fu, che sempre combattendo, e riparando alle parole promettitrici del Vice-Presidente, in atto ortatorio dissi: «Prego ad ascoltare la lettura del Rapporto, e lasciare che l'Assemblea sul medesimo deliberi.» Niccolini inquieto, avvertendo che il Popolo alla lettura di cotesto Rapporto si calmava, teme la seconda disfatta, onde mi taglia le parole in bocca, e proclama lo scioglimento delle Camere. Ora qui, da chiunque goda del bene dello intelletto, o per istudio infelice di parte non chiuda gli orecchi alla coscienza, o per turpe consiglio, o per altra qualunque più malnata passione non rinneghi il vero, sarà agevolmente concesso, che se Niccolini ed io andavamo d'accordo non ci potevamo intendere di peggio, conciossiachè Niccolini pretendesse la Camera sciolta; io mi sforzassi a tenerla unita: Niccolini il Principe decaduto proclamasse; io cotesto plebiscito deludessi: Niccolini sovrani i Decreti del Popolo in piazza a sostenere si ostinasse; io a dire che nessuno, tranne la Camera, avesse diritto di proclamare leggi persistessi: per lui decadenza del Principe, e reggimento mutato fossero fatti compíti, e non vi fosse più luogo a deliberare: per me tutto da farsi, e l'Assemblea a risolvere liberissima: il Popolo di scendere in piazza m'imponesse; io dichiarassi non mi volere muovere dall'Assemblea. Credo che non mi rifiuteranno fede gli onesti, quando dico che, ordinariamente di salute mal fermo, adesso per la veglia durata e le angoscie dell'animo, io mi sentissi prossimo a mancare; pure non volli rimanermi da profferire parole le quali indicassero come per me veruna cosa fosse ancora decisa, e tutto rimanesse a deliberare, vituperassero i tristi, minacciassero gli audaci. «Da questo momento i Ministri cessano essere Ministri di Leopoldo II, e divengono semplici cittadini. L'Assemblea e il Popolo deliberino il resto. Frattanto abbiamo spedito in tutte le parti della Toscana; abbiamo preso provvedimenti necessarii affinchè un Governo immediato, pronto e vigoroso, possa erigersi per reprimere i disordini che potessero insorgere così per le fazioni infami dei retrogradi, come per le fazioni non meno infami degli anarchici.[184]» Queste ultime parole erano per quattro quinti dirette alle persone che mi stavano davanti. Errano le carte dell'Accusa (e vorrei credere per inavvertenza) quando affermano che Niccolini intimasse alla Camera di aderire alla nomina del Popolo, però che egli mai disse questo. Il suo concetto era troppo bene disegnato diversamente: egli pretendeva decaduto il Principe a cagione della sua partenza, il Popolo padrone di disporre di sè, ed in fatti disporre sciogliendo tutti i poteri costituiti, e nominando un Governo Provvisorio. Niccolini, latore degli ordini popolari, non poteva fare contro al mandato contenuto nel Decreto del Popolo, che l'Accusa male finge ignorare. Quando per le mie parole Niccolini tacque, incominciò veramente la discussione. La stessa Accusa dichiara, ed io mi maraviglio come questa confessione le sia caduta dalla bocca, _che io solo riuscii a far tacere il Niccolini_ (§ 77). Io ho sostenuto, che i Deputati potevano uscire, e usciti non tornare, perchè invero molti uscirono, e parecchi non tornarono, e perchè Niccolini latore degli ordini popolari intimava sciolte le Camere. Dicono che vi furono alcune minaccie di morte, e vi saranno state, ma scarse, e rade così che io non le udii; comunque sia ciò, non toglie efficacia alla mia osservazione, confermata dal fatto dei molti Deputati usciti incolumi dalla sala, e dallo essere andati immuni da offesa tutti coloro cui non piacque tornare. Il Decreto del 10 giugno parlava sempre dell'assenza del Presidente, taceva quella dei molti Deputati. Se il Presidente tornava, lo faceva coartato dalla minaccia della guerra civile, ed anche qui dei Deputati persistenti a rimanere lontani non si profferiva parola, e ciò a bella posta, perchè non si voleva credere che la minaccia della guerra civile non fu _coartazione_, ma _presagio_ al quale rimasero indifferenti tutti coloro che vollero, e che i pertinaci a stare fuora non corsero danno o pericolo di sorta alcuna. Invano si nega; se violenza avvenne, e' fu per cacciar via i Deputati, non già per ritenerli. Dopo che, ridotto al silenzio il Niccolini, s'incominciò la discussione, Cosimo Vanni Presidente con molto grave sentenza impegnava il nazionale orgoglio, affinchè la turba raccolta tacesse, e lasciasse «tranquilli in cotesto luogo i Rappresentanti del Popolo a deliberare quello che deva farsi in così grave e solenne circostanza.» Il _Monitore_, il processo verbale della Seduta, non notano che d'ora in poi il Popolo interrompesse. La storia della Seduta raccolta dagli stenografi, e compilata dai segretarii presenti, deve preferirsi a reminiscenze talora inesatte, qualche volta sleali. Questi Documenti diranno come il Popolo due sole volte disapprovasse il signor Viviani, Deputato di molto seguito, e tutti gli oratori, compreso il signor Corsini, applaudisse. Io non apersi più bocca; assai e troppo l'avevo aperta per mettere in compromesso la mia sicurezza; e quando avessi voluto, non lo avrei potuto, tanto mi sentiva rifinito di forze. Il Deputato Socci fa la _proposta_ che venga eletto un Governo Provvisorio, nel modo che domanda il Popolo di Firenze. Il Deputato Trinci censura il Popolo per avere preoccupato il voto della Camera venendo a proclamare il Governo Provvisorio, ma conforta a rispettarlo: ambedue questi Deputati dichiarano il Paese _senza Governo, la necessità di crearlo, l'ordine pubblico gravemente minacciato_. Il Deputato Corsini conviene _della gravissima condizione del Paese, e della necessità di supplire al suo Governo con un Governo Provvisorio; aderisce con intero e libero suffragio_ alla elezione degli uomini distinti che _si vorrebbero nominare_, solo desidera aggiungervi il Gonfaloniere di Firenze, e Ferdinando Zannetti. Trinci replica che gli eletti potranno aggiungersi coloro che meglio penseranno, non volendo imbarazzare con nomi la libertà che intendeva _lasciare pienissima, come pienissima era la sua fiducia_, ai tre membri del Governo Provvisorio. Il Deputato Cioni rigidamente pone la quistione che si voleva lasciare velata: _Ai termini delle Leggi costituzionali, mancato un Potere, gli altri cessano. Noi non siamo rappresentanti, ma potremo votare come semplici cittadini. Un Governo di 3 o di 5 è cosa indifferente, purchè questo Governo assuma sopra di sè il Governo di tutto il Paese, e_ PENSI A CONVOCARE I COMIZJ, _affinchè un'Assemblea nazionale provvegga a' destini del Paese_. Viviani combatte il Cioni, e sostiene la mia opinione, che i Deputati rappresentano tutta Toscana, non il solo Popolo di Firenze, il quale non può presumere di rappresentare Toscana intera; però conviene che, _mancato un Potere, cessino gli altri_; solo restringe _la rappresentanza dei Deputati alla facoltà d'istituire un Governo Provvisorio. Insiste su la necessità_ che i Deputati concorrano col voto a confermare il Governo Provvisorio, affinchè le Provincie lo accettino, _e non rimproverino i loro Deputati, reduci a casa senza avervi cooperato_. «Non dire questo (egli professava) per amore alla Deputazione perpetua, ma perchè ognuno deve, con _freddo coraggio_, eseguire il mandato del Paese, e non disertarne la causa, _anche_ sotto _lo impero della forza_. Quando il Governo sarà _consolidato col voto indipendente di tutti noi, io sono il primo a dire_ CHE LA CAMERA È SCIOLTA, E CHE OGNUNO DEVE TORNARE ALLA VITA PRIVATA.» Chi pone fine alla discussione? forse il Popolo? No: il _Monitore_ non lo dice; dice, all'opposto, che la proposizione di troncarla venne dal Trinci, il quale, per _amore del Popolo e per la imponenza dei casi_, vuole si scenda a deliberare. «Il Governo Provvisorio scioglierà la Camera, se lo reputerà convenevole, e allora lo _scioglimento sarà legale_; non s'imbarazzino le sue _attribuzioni_; la Camera ha dato ai tre individui, che _vogliamo_ al Governo Provvisorio, segni non dubbii di fiducia: riposiamoci _nelle loro braccia_.» Zannetti aderisce a Trinci, e invoca solleciti provvedimenti. «_Urge_, egli dice, una circostanza che non bisogna nasconderci. _Il Popolo, in piazza, attende vedere i membri del Governo Provvisorio_. Il Popolo _non si frena_; però _questi tre componenti_ il Governo Provvisorio, _approvati dalla Camera, discendano_ a mostrarsi al Popolo, e gli dicano: _Popolo, unione, rispetto alla proprietà, rispetto agli uomini_.» Tre Deputati insistono per la immediata votazione. Il Corsini aderisce anch'egli. Allora soltanto, il Popolo, plaudente, grida: _ai voti, ai voti. — Però quattro Deputati energicamente insistono a dichiarare che ogni Potere è sciolto, che non sono più rappresentanti, e tali diventeranno quando eletti dal Suffragio Universale; — tre votano come cittadini, uno ricusò votare_. Segue la votazione; nessun voto è contrario. Io taccio sempre, e, prima di accorgermene, vengo preso, aggirato, passato di braccia in braccia, fino in piazza, rovesciato a terra, e in pericolo di essere calpestato dalla folla delirante, se molti, con furia di spinte e di gomiti, non mi salvavano. Il _Monitore_ dell'8 febbraio, narrando il fatto, dice che fummo portati, e dichiara la verità. Ora, può egli ritenersi in coscienza che io col Niccolini e co' suoi compagni mi fossi indettato? È egli vero o no che la Seduta dell'8 febbraio ebbe due periodi, procellosissimo il primo, per mia virtù composto, il secondo tranquillo? I miei conati furono diretti a esporre i miei Colleghi alla violenza, o non piuttosto a confortarli e metterli in condizione di opporsi alla furia irrompente del Popolo? Alla discussione pose termine il tumulto, o veramente il consiglio gravissimo di non lasciare il Popolo senza freno, ed il timore, ch'egli, riputandosi sciolto da qualunque governo, non precipitasse in enormezze contro le proprietà e le vite dei cittadini? Chi dirà che i Deputati furono costretti a votare, se molti ebbero facoltà di uscire, dei quali taluno tornava e tale altro no? Chi dirà i Deputati costretti a votare, se la volontà del Popolo era _che non votassero, e dalla sala partissero_? Chi dirà i Deputati costretti, se alcuni protestarono votare come semplici cittadini, e tali altri si astennero? Chi si assume il tristo diritto di deturpare, alla faccia del mondo, nomi chiarissimi e strascinarli nel fango come di uomini senza fede, sostenendo che mentirono quando ultronei dichiararono di dare il voto con _intero e libero suffragio, e non volere disertare la causa pubblica neanche sotto lo impero della forza, e intendere far prova di freddo coraggio_? Come può con pudore affermarsi che le attribuzioni del Governo Provvisorio dall'Assemblea s'intendessero limitate, quando non si volle appunto _con limiti importuni imbarazzarlo_, quando gli concessero _libertà pienissima_, quando di riporsi _affatto nelle sue braccia_ protestarono? Come, che non gli si commettesse di consultare il Paese col suffragio universale, quando si legge che _politicamente fu eletto appunto per questo_? — Quanti foste presenti allora, benevoli o malevoli, venite e attestate con la mano sul cuore, se, il Paese stava o no in procinto di sobbissare: attestate s'era pericolo raccattare il Potere caduto in piazza, e se fu merito contenere le turbe furibonde! Attestate se pochi cenciosi fanciulli vi spaventarono, oppure moltitudini imperversanti e diverse! Dite, onesti colleghi: è vero o no, che temendo la ultima ora venuta della società, mi prendeste a mezza vita e mi gettaste in piazza dicendomi: «salvaci o muori?» Havvi tale che suppone tutti i miei sforzi tendessero a circondare la violenza popolana con sembianze di legalità. Questa supposizione, comecchè ispirata da sensi a me punto benigni, è vera. Il Popolo era padrone quel giorno; ora, se da lui solo muoveva la elezione del Governo Provvisorio, questo avrebbe dovuto, per necessità, eseguire in tutto e per tutto il plebiscito decretato sotto le Loggie dell'Orgagna, e la rivoluzione si compiva. All'opposto, il Governo Provvisorio, appoggiandosi ad altra origine, e sopra un altro mandato fondandosi, non ristretto al Popolo fiorentino, ma esteso a tutta Toscana, rappresentata dai suoi Deputati, creava lo impedimento giuridico di sottostare al plebiscito. Più tardi vedremo i pubblicisti della rivoluzione sostenere acremente questo tema, e il Governo, opponendogli sempre la doppia origine e il mandato della Rappresentanza Nazionale, dichiarare che niente dovesse innovarsi senza il consenso di tutto il Paese. — La Costituente salvò la Toscana dalla Repubblica, o, a meglio dire, dalla Demagogia. Ogni altro concetto a chiara prova è assurdo, e dimostra stupido e bieco ingegno tanto in cui lo esprime quanto in chi lo crede, o piuttosto finge di crederlo. Invero, dove non fosse stato pel fine poi oltre avvertito, da quando in qua la rivoluzione, che consiste nel sovvertimento delle forme legali, implora il battesimo della legalità? La rivoluzione nasce dalla forza, e in quella si appoggia. Se la forza si mantiene per essa, dura, e si costituisce una legalità nuova; o la forza l'abbandona, e allora, che le giovano non solo le forme più o meno legali di cui seppe circondarsi, ma le promesse eziandio, le convenzioni e i trattati? La rivoluzione dal conservare tutte o parte le istituzioni che ha osteggiato, tutti o parte gli ufficiali del Governo caduto, non ricava forza; all'opposto debolezza, e questo è facile ad intendersi. Il Decreto del 10 giugno 1850 affermava che io mi condussi ad arringare: osservai, ch'egli era il bel sollazzo davvero buttarsi là, per le angustie di scale lunghissime, in mezzo alla folla imperversata, la quale, se nemica, ti opprime per odio; se amica, ti soffoca per tenerezza. Il nuovo Decreto e l'Atto di Accusa si compiacquero introdurre nella storia una lieve variante: non _mi condussi_, ma _vi fui condotto_. Ma perchè non dire a dirittura il vero, che vi fui _portato_? O che fa tanta paura il vero ai Giudici miei? Perchè non rammentare, che intimato a scendere in piazza recusai apertamente? Tanto sagaci i Giudici, perchè non avvertirono che il Popolo a me solo appellava? Nè anche notarono, che una seconda mano di Popolo, troppo più numerosa della prima, venne per istrascinarmi in piazza? Perchè sfuggì loro, come alla forza fisica si aggiungesse la forza morale dei Colleghi, e segnatamente quella del Vice-Presidente Zannetti, che acceso, come sempre, di amore pel pubblico bene, con fervorose parole scongiurava andassi, e alla pericolante società con ogni supremo sforzo sovvenissi? Esposta la storia della Seduta come resulta dal _Monitore_, e com'è vera, a che montano le inesattezze, gli artificii e le insinuazioni nemiche dell'Accusa? — Quello che avevamo a pubblicare a tutti non potevamo comunicare segretamente. Con noi, in qualità di Ministri, non v'erano misure da prendere, perchè, pel fatto dell'assenza del Principe, cessavamo dal Ministero. Più ancora: il Parlamento, se si sentiva capace a provvedere, non aveva mestieri affatto del Ministero nè giuridicamente nè materialmente. Il segreto, impossibile e forse fatale. Popolo, ora composto di ragazzi, di cenciosi e di poca plebaglia; ora minaccioso, fremente, operante irresistibile violenza; ma prima composto e poco; poi nelle Camere si estende e costringe; la quale contradizione grossolana è così apparecchiata a modo di fantasmagoria con fine sinistro, ed è questo: le milizie non si mossero a reprimere, perchè, ordinate contro la _vera e propria sommossa_, non ravvisarono siffatto carattere nella scarsa, cenciosa e ben composta plebaglia che si condusse a deliberare il suo plebiscito sotto le Logge dell'Orgagna; ma quel medesimo Popolo come uscito fuori del sacco del prestigiatore giganteggia dentro la Camera per giustificare la violenza fatta ai Deputati: però vi era da calafatare un'altra fessura, e per questa trapela l'acqua nella barca storica dell'Accusa, così che minaccia passare per occhio; invero, se poca, di ragazzi e cenciosa era la turba, tanto doveva riuscire più agevole alla Guardia Civica repulsarla dalla Camera. Le pretese minaccie di morte a cui fra i Deputati si assentasse, non impedirono che molti partissero incolumi, e taluno non ritornasse. La discussione vi fu, e obiettiva, non terminata da violenza popolare, ma per volontà dei Deputati pensosi non tanto del Popolo presente, quanto del Popolo rimasto senza freno a imperversare per la città. Al Governo Provvisorio furono date amplissime le facoltà di provvedere alla salute della Patria, e per convocare i comizii, onde il Paese sopra le sue sorti si consultasse. Se in quel giorno, e nei successivi, e sempre, il partito d'interpellare il consenso universale alla prepotente violenza della fazione non si opponeva, io vorrei che mi dicesse l'Accusa che cosa mai avrebbe saputo ella opporre? Il mio detto, che _non temevo del Popolo_, riportato con tanta ostentazione, che cosa poteva significare se non che fiducia che il Popolo non trascorresse a iniqui fatti; fiducia, che, onorandolo, giovasse a confortarlo e a persuaderlo di frenarsi? Forse egli importa che l'atteggiamento del Popolo non fosse pauroso, o forse, che sempre uguali si mantenessero le condizioni dell'animo mio? Riguardo allo avere accettato favellerò fra poco. Intanto giovi riportare la opinione di un Giornale a me infestissimo, organo del Partito avverso al mio Ministero, la quale varrà a chiarire come i Deputati, senza la spinta del Popolo, avrebbero eletto un Governo Provvisorio: «La fuga del Capo dello Stato e la dimissione del suo Ministero, alteravano sostanzialmente la economia del Governo Costituzionale, e imponevano la necessità alle Assemblee legislative di provvedere per qualche modo straordinario ed eccezionale al reggimento dello Stato. Questa necessità _era nella mente di tutti_; e dove il Circolo politico non avesse invasa l'Assemblea ed imposto il suo voto, il Consiglio _avrebbe deliberato un Governo Provvisorio_.[185]» Ma via, sopra tutto questo diamo di spugna; — frego, e da capo. Immagini l'Accusa di essere a sua volta tradotta davanti un Tribunale (e non deve riuscirle a immaginarlo difficile, imperciocchè al cospetto della coscienza pubblica ella stia quanto me, e forse più di me), e risponda. Se l'uomo che ora è segno a scellerata ingratitudine, nel giorno ottavo di febbraio 1849 non aveva cuore per voi altri tutti, che cosa sarebbe accaduto della Toscana? — Dirà ella, che la parte repubblicana, la fazione demagogica e le plebi cupide e feroci avrebbero quietato? Da quando in poi i leoni posano prima della preda? E chi avrebbe tutte queste forze contenuto? Per propria loro deliberazione sarebbono per avventura quietate? Questo, io penso, comecchè ne abbia dette delle marchiane davvero, non voglia affermare l'Accusa. Dunque: i Deputati? Ma se l'Accusa ce li dipinge sbigottiti disertare il campo! Noi Ministri? Ma se l'Accusa c'incolpa per non essere fuggiti ancora noi! La Corona? Ma se in quel giorno errava incerta del luogo dove l'avrebbe condotta la Provvidenza! La Guardia Civica? Ma se l'Accusa ci racconta, ch'ella riponeva la baionetta nel fodero! La Milizia stanziale? Ma se senza ordini non si muove; e chi glieli potesse dare mancava, per non dirne altro! I Cittadini di parte avversa? Ma se il Governo nel 22 febbraio non gli salvava dal furore della moltitudine, questa gli avrebbe sbranati! — Chi dunque ha impedito che nel giorno ottavo di febbraio la rivoluzione allagasse tutte le terre della Toscana nella pienezza del suo trionfo? O Giudici, con quella mano stessa con la quale ora vi basta l'animo scrivere accuse contro la mia costanza, quali non avreste vergato improperii al mio nome, se per viltà fuggendo vi avessi lasciato in balía alle furie rivoluzionarie? O Giudici, ditemi, la mano con la quale tracciate le accuse disoneste, non è quella dessa che scrisse per me uno dei trentamila e più voti, co' quali il Compartimento Fiorentino volle onorare i miei travagli sofferti in pro del pubblico ordine? Ah! voi sfondate gli ombrelli adesso ch'è passata la pioggia? Come padri di famiglia, io vi tenea più provvidi. Stupendo a dirsi, quanto a considerarsi angoscioso! Giustizia mi viene donde io non l'aspettava. Nel Giornale intitolato _La Civiltà Cattolica_, fascicolo 27, a pag. 366 leggo: «Dal 12 aprile 1849, che il Guerrazzi venne arrestato nel Palazzo Vecchio, e chiuso poi nel Forte di Belvedere, ha passato i suoi giorni prima nella _Casa di Forza di Volterra_; quindi nel _Carcere penitenziario delle Murate di Firenze_, ed ivi tuttora si trova. _Grande sarà la curiosità pubblica di questi dibattimenti. È forza però convenire, che a lui ed alla sua stessa ambizione_,» (se ambizione di far del bene, forse non crederò mi disconvenga la parola), «_non che alla penetrazione dello ingegno, dovè la Toscana non essere caduta allo estremo dei disordini e delle rovine demagogiche. Ed egli ben lo sa; anzi è fama avere detto, nell'atto che fu preso: — Se i Fiorentini avessero due dita di cervello, e mezza oncia di gratitudine, mi dovrebbero alzare una statua_.» (Questo già non dissi, ma nulla in sè contiene, che con alquanto più di modestia non senta avere potuto dire io.) Per siffatto modo _i Gesuiti_ rendono a me quella giustizia, che _Magistrati Toscani_ mi hanno acerbissimamente negata fin qui. E sì che i primi, davvero, non mi vanno debitori di nulla, mentre i secondi, io penso, mi dovrebbero pure qualche cosa! Io quante volte ho posto l'articolo dei Reverendi Padri a confronto con gli atti dell'Accusa, non senza riso mesto ho ricordato quel detto romano che andò su per le bocche degli uomini, quando Urbano VIII dei Barberini spogliava del metallo corintio la vôlta della Basilica di Agrippa rispettata dagli Unni e dai Goti: QUOD NON FECERUNT BARBARI FECERE BARBERINI! Dopo questa storia di fatti, desunta dai Documenti autentici, diventa più chiara la quistione, imperciocchè ella deva formularsi così: fui io provocatore o complice delle macchinazioni della parte repubblicana precedenti il giorno 8 febbraio? Il _Giurì_ della pubblica coscienza, io confido, dirà: no. Allora ne scende per necessità questa deduzione: che se non fui complice, ne fui oppositore a un punto e bersaglio. XVII. Mia situazione in Piazza. Vi rammentate di Mazzeppa legato sul dorso del cavallo indomito? Tale io era fatto, per opera dei faziosi, di faccia al Popolo, ed anche per gli scongiuri della stessa Camera dei Deputati. La rivoluzione mi stava davanti con le sue mille teste, con le sue mille braccia, palpitante e smaniosa. Quanto possano il sospetto e la paura sopra le moltitudini agitate ogni uomo che legge storia conosce. Plaudivano adesso le genti, ma da un punto all'altro disposte a diventarmi prima carnefici che giudici. Intanto inquisitori, a modo dei Veneziani, mi si stringevano al fianco. Dirò cosa non credibile e vera, che, avendo retto il Popolo di Livorno e quello di Firenze, mi è sembrato il primo, quando imperversa, a trattarsi più agevole del secondo; della quale cosa ricercando sottilmente la ragione, mi parve trovarla in questo: che il Popolo di Livorno, per natura impetuoso, trascorre in escandescenza per motivi lievissimi e con molta facilità; ma o tu lo lasci sfuriare, e quel fuoco per difetto di alimento si estingue subito; o ti riesce gittarvi dentro una parola di senno autorevole, e, non altrimenti che per acqua, si spegne del pari: il Popolo fiorentino, all'opposto, è mite d'indole, arduo a muoversi, però causa grande ed eccitamento potentissimo si richiedono a spingerlo; ma spinto che sia, la difficoltà di acchetarlo sta in proporzione della difficoltà di agitarlo: le parole non bastano; procede concentrato e feroce. Considerai la insidia dei Repubblicani che mi si tenevano come vincitori davanti, quasi volessero dirmi: «ti faremo noi Repubblicano per forza.» Niccolini allora comandava onnipotente; una sua accusa poteva perdermi; ed io lo aveva, in pubblico, mortificato e costretto a tacere. L'accusa veniva spontanea; chè a colorarla bastavano, e ce ne avanzava, le circostanze dell'essermi io sempre mostrato avverso alla Repubblica, parzialissimo del Principato Costituzionale; le voci sparse della benevolenza singolare del Principe; i perfidi sospetti, non senza frutto, insinuati tanto a Livorno che qui; finalmente il contrasto pertinace opposto ai voleri del Popolo nella Seduta della Camera. Reputano i miei Giudici subdolo trovato di difesa, se, mentre tanti e poi tanti appena curati, o non curati affatto, addussero a giustificazione dell'operato, e loro valse, il pensiero di provvedere alla propria sicurezza, affermo che ancora io badai un poco a me, io che mi ero posto a duro cimento e mi vedevo circondato da gente nemica e da Popolo sospettoso. Io aveva detto: «Chi si sente capace di operare in guisa diversa, sorga e mi accusi.» I Giudici sono sorti e mi hanno accusato: io devo confessare che ammiro il più che spartano coraggio di loro. In quanto a me, sono uomo, nè cose sopra natura so fare: non temo la morte, imperciocchè tosto o tardi, e tutti, e in breve, dobbiamo morire; pure, da morte sanguinosa e senza onore repugno; nè per leggere che io abbia fatto storie mi venne fin qui incontrato uomo cui dilettasse cadere sotto ignobile ferro. Io ero solo. Il Municipio, rappresentato dall'egregio Gonfaloniere, pregavami a non abbandonare in quel pericolo la Patria, e prometteva valido aiuto. Così pregava eziandio la Guardia Civica per l'organo del suo degno Generale, che si affrettò, in Senato, di aderire al voto del Popolo. Il personaggio tenuto come Capo della Commissione governativa del 12 aprile, nell'8 febbraio pronunziava parole gravissime per giustificare quello che il Popolo esigeva. — Io non incolpo nessuno; solo vorrei che quello che bastò ad altri o non costretti, o poco, potesse bastare a me, sottoposto a ineluttabile pressura. Nè si trattava di me solo, ma, nell'universale sbigottimento, meco dovevano salvarsi i miei compatriotti tutti, la pericolante società. Qui cade in acconcio favellare dell'accusa appostami nel § 52 del Decreto del 7 gennaio 1851, e ripetuta in seguito, di non avere abbandonato la posizione che poteva strascinarmi o farmi perseverare nella via del _delitto_. Non vi era luogo a renunzia: non si offeriva lo ufficio come cosa che potesse rifiutarsi o accettarsi. La moltitudine imponeva, e fu dimostrato. Guardia Civica, Municipio, Deputati instavano a salvare la vita e le sostanze dei cittadini. Quando il naufrago chiede soccorso, possiamo ricusarlo per debito di coscienza? Se curando il mio proprio interesse avessi duramente respinta la preghiera, e se questa durezza avesse partorito i mali che pur si temevano, e che sarebbero stati inevitabili, in qual parte di mondo potrei sollevare io adesso la faccia svergognata? — Dove sarebbero andati i familiari del Principe, ai quali, con Decreto del 10 febbraio 1849, d'accordo con P. A. Adami, riuscii a mantenere le pensioni? Dove gl'impiegati? dove voi stessi, o Giudici che mi accusate? Ma lascio della ingratitudine atroce: e in qual modo potevo sottrarmi io? E non avete saputo che nè notte nè giorno mi abbandonavano? Che, pieni di sospetto, specialmente nei primi tempi, mi seguitavano come ombra? Voi lo avete saputo, ma lo dissimulate. E dove fuggire? A Livorno forse? Sì certo, perchè, come traditore, mi ponessero a morte! A Roma...? In tempi di rivoluzione, difficile e piena di pericoli è la fuga, anche apparecchiata da lunga mano. Il Decreto dovrebbe sapere qual maniera di gente stanziasse allora in Firenze; Romagnoli e Romani, che a rinnuovare la strage di un supposto Rossi avrebbero reputato ottenerne merito presso gli uomini e presso Dio: e senza uscire di Toscana, il Frisiani, caduto in sospetto, quale acerbissimo fine non ebbe egli a patire! Egli è impossibile giudicare di cose politiche, senza lo studio o la pratica degli avvenimenti politici. Un uomo, comecchè mediocremente versato nelle storie, consapevole del come il Popolo commosso proceda inesorabile nella sua vigilanza, non avrebbe domandato: Perchè non fuggiste? E molto meno poi della omessa fuga avrebbe fatto accusa. Questo uomo si sarebbe sovvenuto, che non riuscì la fuga a Carlo I, nè a Giacomo II, nè a Luigi XVI. Carlo II si salvò per miracolo nascosto nella quercia reale: delle regie, e pontificali fughe dei più recenti tempi a me non importa discorrere; basti rammentare che non vennero operate senza difficoltà, e precauzioni grandissime. Nella prima rivoluzione di Francia (e correva sempre l'anno 1789), il barone de Bechman, maggiore del reggimento Guardie svizzere, era strascinato alla Comune solo perchè la sua carrozza, scendendo il Ponte Reale, volse a sinistra dalla parte di Versaglia. Bonseval dal Municipio di Villenasso è sostenuto prigione; Cazalès, fuggendo l'Assemblea nazionale, si trova arrestato a Caussade; l'abate Maury, quantunque travestito, viene fermato a Peronna; all'Aura di Grazia traducono in carcere il duca de la Vauguyon e il suo giovine figliuolo, che pure mentivano abito, professione e nome. Delle fughe tentate e capitate male più tardi, basti accennare appena: Roland costretto a trapassarsi il cuore con la propria spada, e Condorcet a prendere il veleno; dei profughi Girondini ve ne furono perfino taluni divorati dai lupi; al solo Louvet riuscì lo scampo mercè le cure portentose di amantissima donna. Ecco come si riesce a fuggire dalle rivoluzioni. Veramente, se i Giudici pensano che per me si potesse abbandonare lo ufficio con la medesima comodità con la quale, giunti gli ozii autunnali, mandasi pel fattore onde ne aspetti col calesse alla Stazione della strada ferrata, e ci conduca in villa a far vendemmia, hanno ragione di appuntarmi per la mia permanenza: ma la cosa non è così; e la storia ammaestra come nè anche ai Principi, potenti di danari e di aderenze, sia riuscito talvolta fuggire; sempre poi con pericolo. Il cittadino privato, in cosiffatte fughe, perde o la vita o la fama, e sovente ambedue. Pietro Augusto Adami dal Decreto del 10 giugno 1850 venne a ragione scusato della sua permanenza in ufficio per le mie insinuazioni, che lo impressionavano di vedere ridotta a mal partito la casa e famiglia sue per l'enormezze dei faziosi: ora questi timori non partecipava io, e bene altramente gravi per me? Forse si dirà (e così mi bisogna procedere, perchè quale vituperosa supposizione ha risparmiato l'Accusa a mio danno?) che senza sentirle simulava io coteste paure per inspirarle in altrui? Or come, anche all'amico, anche all'uomo che conviveva meco? E quantunque io glielo indicassi, non aveva egli senno, non aveva occhi ed orecchi per conoscere se io gli dicessi il vero? Queste insidie noi, la Dio grazia, non siamo usi a concepire nemmeno, e tanta pravità supererebbe perfino la immaginazione infelice di chi per mestiere maligna su la natura umana; nè il Decreto la suppone nemmeno. Dunque si ha da ritenere, che siffatte apprensioni palesate fra amici, nella intimità delle domestiche mura, dovessero essere troppo bene sentite, e pur troppo vere. Ed io non avevo casa allora, non avevo famiglia _allora_ (ahimè! adesso mi sono state spietatamente rovinate, e disperse), _non ho cuore io come l'Adami? La mia forza è ella come la forza delle pietre? la mia carne è ella di rame_?[186] — Oh! non è questo il solo punto dove con inestimabile amarezza ho veduto che i medesimi Giudici adoperano due pesi e due misure. Pietro Augusto Adami è scolpato per essere rimasto in ufficio, dietro le istanze che gli muovevano spettabili persone, timorose che la Finanza cadesse in mani pessime. E me non pregarono? No? Me la cittadinanza àncora ultima di speranza chiamava; a me i servitori stessi di S. A. come a rifugio estremo ricorrevano; me impiegati principalissimi, _mantenuti tuttavia in carica_, scongiuravano a non disertare lo ufficio con rovina sicura del Paese e di loro; nè questo già mi dicevano in faccia per piaggeria, ma nelle private lettere lo predicavano ai lontani, ma nei penetrali della famiglia, ma nei fidati colloquii con gli amici non rifinivano ripetere; e quando più tardi, indignato degl'improperii di parte repubblicana, dichiarai volermi dimettere, la grande maggiorità dell'Assemblea per lunghissima ora non supplicò, che io non volessi mancare nel maggiore uopo al bisogno della Patria?[187] — Del Municipio, della Guardia Civica e dei Deputati, ho detto qui sopra. Oh! chi sa, che quelle mani... — ma che dico io, chi sa? — quelle mani stesse, che vergarono la ingrata Accusa, scrissero il voto di fiducia a mio favore, volendo allora tributarmi l'onorevole approvazione pel mio operato! — Ma ahimè! il sentimento della gratitudine s'inaridisce più presto della lacrima dell'erede... Io, invitato ad usare le mie scarse facoltà in benefizio del mio Paese, non ho mai rifuggito, comecchè con mio carico grande; e se nel 12 aprile io non lasciai Firenze, e' fu perchè mi pregarono interpormi, onde Livorno aderisse di quieto alla restaurazione del Principato Costituzionale: poi si scoperse essere un tranello cotesto; ma il mondo dirà da qual parte stia la vergogna, se dalla parte dei venerabili personaggi che dello amore di Patria fecero insidia, o dalla mia, che mi lasciai prendere a quell'amo! I Giudici commendano Adami per avere conservato gl'impiegati: ma io feci di più; un segretario antico e benemerito del Ministero dello Interno, Ambrogio Piovacari, me istante, fu promosso a Consigliere di Stato, e nel suo ufficio posi la persona ch'egli stesso mi designava. Frequenti lettere anonime mi confortavano, ed anche _minacciavano_, a dimettere un altro Segretario, il Signore Allegretti. Io gli mostrai le lettere, gli dissi reputarlo, qual è, onesto, e, per quanto stesse in me, volerlo conservare in ufficio. Altra lettera anonima mi notiziava agitarsi ai miei danni Ferdinando Fortini; io gli mandai per suo governo il foglio accusatore, certificandolo della mia perenne amicizia. E la mia lettera suonava in questa sentenza: «Amico. Se io credessi vero quanto nell'acclusa lettera si legge, io non te la manderei. Da quella vedrai come in questi tempi infelici la calunnia non risparmia te nè la tua famiglia. Se puoi argomentare da quale mano nemica muove cotesto foglio, badati. In quanto a me è inutile dirti che simili infamie non valgono a farmi mutare opinione intorno ai probi uomini, fra i quali novero meritamente te. Fammi grazia salutare il Sig. Duchoqué, il quale ebbi l'onore di conoscere in circostanza non troppo piacevole, ma non per cagione sua. Addio. «Firenze, 20 ottobre, 1848. «Aff. GUERRAZZI. «_Al Sig. Avv. Ferdinando Fortini Regio Procuratore Firenze_.[188]» A certo altro facevano guerra (Stefano Stefanini Commissario degli Ospedali di Livorno) e n'era pretesto l'affezione al Governo passato, gli onori ricevuti da quello; motivo vero la cupidità della sua carica onoratissimamente esercitata. L'egregio uomo tra le angoscie della iniqua persecuzione smarriva l'animo, e a me per aiuto scriveva. Ecco come io lo confortava: «Amico carissimo. — A questa ora _avrai pace_, lo spero, e poi _lo voglio_. Ed ho potuto, e voluto, quando ero nulla; pensa se adesso! — La mia amministrazione sarà breve o lunga, poco importa, ma sarà di _giustizia. Dunque rispondimi se ti lasciano tranquillo_. — Eccoti una supplica. Se merita, ti offro modo di fare un bene, e conciliarti favore; — se non merita, — nulla: Addio.» Dirò altrove del giovane Boiti per sospetto degli Arrabbiati dovuto allontanare, e poi da me restituito in ufficio. A tutti i servitori del Principe curai si mantenessero gli stipendii, e fu già detto, col Decreto del 10 febbraio 1849. I sussidii alle molte famiglie povere elargiti dalla Corte di S. A. ordinai si continuassero.[189] Finalmente provvidi affinchè in modo stabile le sorti degl'impiegati della Corte si determinassero.[190] Membro del Governo Provvisorio, impiegai perfino Pretore al Porto Santo Stefano chi venne ad arrestarmi un anno avanti! — E basti..... perchè è pure ignobile, Dio mio! — è pure infelice la condizione ove la necessità della difesa mi costringe a spogliare il benefizio del suo divino pudore.[191] Lodano i Giudici meritamente Emilio Torelli, il quale per lungo tempo mi servì con zelo come guardia del corpo aspettandomi spesso nelle tarde ore di notte, per iscortarmi a casa; lo lodano, dico, per essersi adoperato a salvare dalle mani dei faziosi oggetti di regia proprietà, e non sanno compartire merito alcuno a me, che rientrato appena in Palazzo, sbigottito della mente, e indolenzito della persona, firmai tre Decreti, e primo fra questi, quello che instituisce la Commissione dei Signori Generale Chigi, Gonfaloniere Peruzzi, Deputato Fabbri, e Professore Emilio Cipriani _per prendere in consegna immediatamente tutti i palazzi regii, e oggetti di qualunque natura nei medesimi esistenti_,[192] onde salvarli dalla dispersione. I Giudici e l'Accusa non hanno avuto occhi per leggere la risposta, che di mia commissione mandava il Segretario del Governo Chiarini al sig. Poggi, custode del Palazzo della Crocetta, il quale mi avvisava come una mano d'individui, _nel 23 marzo 1849_, minacciasse convertire cotesto Palazzo in Quartieri, e lo annesso giardino ridurre a orto, per seminarvi _carote, cavoli_ e _patate_ ad uso delle milizie. «Sig. Poggi. Sono incaricato dal Governo Esecutivo di rispondere alla sua del 23 spirante. Avanti tutto le faccio sapere che le di lei osservazioni, in essa manifestate, sono ritrovate non giuste, ma _giustissime_. Nel tempo stesso rendo a sua piena cognizione, che il Governo mai ebbe in _animo di ridurre il Palazzo della Crocetta ad uso di Quartieri, nè per ora soggetto a nessuna innovazione_. Il Governo conosce benissimo le _convenienze_, e molto più sa rispettare le opere di Arte: mai è stato vandalo. Si rassicuri, caro sig. Poggi; usi il _solito attaccamento alle cose affidatele_, e vada persuaso che comunque girino gli eventi, i galantuomini sono sempre rispettati, e riveriti.» (Così allora credevo.) «_Se il Governo non ha potuto in tutto e per tutto ostare alle esorbitanze e agli arbitrii dei molti intemperanti, non è stato suo volere, ma sola mancanza di cooperazione, e di forza_. Dove non è ordine, non è legge. Però mai sotto il suo Governo (cioè del Guerrazzi) saranno compiti atti _di violenza, nè contro le cose, nè contro le persone, di qualunque condizione si sieno_.[193]» A me da tempo remotissimo era noto il signor Poggi, che fu amico di mio padre, e sovente me lo era venuto ricordando con affetto, sicchè quando lo rividi, lo accolsi come conoscenza antica: però questa lettera, oltre lo scopo pel quale adesso è citata, giova maravigliosamente a provare quante esorbitanze avessi a subire, e a quante, con mio sommo dolore, non mi trovai capace di riparare per difetto di forza e di sussidio! I Giudici non trovano parola di lode alla discretezza mia di fare apporre sigilli al gabinetto particolare di S. A., onde le sue carte non andassero rovistate; nessuna pel Proclama scritto da me nella notte dell'8 al 9, e pubblicato nel _Monitore_ del 9 con la data dell'8, dove s'incontrano le parole: «Custodi per volere del Popolo della civiltà, della probità, della giustizia, noi siamo determinati a reprimere acerbamente le inique mene dei _violenti_ e dei _retrogradi_;» nessuna alla perigliosa minaccia da me diretta al Niccolini e alla turba seguace, che intendeva irrompere nel Palazzo Corsini, e trambustarlo da cima in fondo, per trarne un supposto tesoro appartenente a S. A., di che eglino erano (come asserivano) informati da un servo di casa. I Giudici lodano il Prefetto Guidi Rontani, per avere fatto abbattere gli alberi nella corte del Liceo Imperiale; e me, che davanti le moltitudini affollate ostai al piantare dell'albero sopra la piazza, non ricordano nemmeno. Che più! quello che in altrui dai Giudici si scusa, in me s'incolpa: così si approva il medesimo Prefetto per avere fatto remuovere i granducali stemmi a scanso di oltraggi plebei; io poi che condotto dagli stessi motivi trasmettevo ordini uguali, al parere dei Giudici commettevo delitto. Dovevo io sopportare che si rinnuovasse la turpitudine di vederli da Fiesole strascinati a Firenze?[194] XVIII. Cause di delinquere. Toccai sopra di quanta importanza sia investigare le cause per le quali l'uomo può essersi diretto ad agire, imperciocchè ogni atto che si parte da mente supposta sana, se manchi di causa proporzionata e razionale, deve per necessità ritenersi involontario o costretto; i Giuristi dicono: non informato da dolo. Qui vuolsi considerare come due motivi soli potessero persuadermi a cospirare per la rivoluzione; o personali od opinativi. Personali sono, cupidigia di averi e di onorificenze. Quanto io fossi vago di pecunia lo mostrai, quando abbandonati floridissimi negozii, consentii a tenere tale carica di cui l'onorario bastava alla _metà sola_ delle spese del dignitoso vivere di mia famiglia, e mio. Scrittori no, ma arpie, di cui instituto è contaminare tutto quello che toccano, non mancarono appormi cupido ingegno, anzi avaro. I libri della mia domestica economia ricercati, dimostrarono quanto sia poca cosa la mia sostanza, quali le vie per acquistarla, quali le spese, e i motivi delle spese. Se coloro che scrivono facessero studio di onestà come e' professano, porrebbero cura a bene informarsi prima di asserire cosa che leda la estimazione altrui; nè a sfuggire la taccia bruttissima di calunniosi, può loro giovare punto la protesta di ritrattarsi subito che venga dimostrato lo errore in cui sono caduti, avvegnadio non si comprenda con quale autorità essi citino al proprio tribunale uomini dabbene, per colpe che mai non furono, tranne nella loro matta fantasia; tribunale per di più spregevole, come quello che già si mostrò o leggiero o maligno; — e finalmente domando io che cosa si penserebbe di un uomo il quale ti dicesse: lascia che io ti ferisca, nè richiamarti che io ti faccia torto, perchè tengo in pronto balsamo e fila per medicarti la piaga? Tali sono quei moderati scrittori, che dopo averti calunniato si protestano dispostissimi a ritrattarsi. Ipocriti! Il vostro dovere è quello di bene esaminare prima di gittare la pietra; e di coteste ipocrisie oggimai logoro è il conio.[195] In quanto a vaghezza di onori, io prego prima di tutto di non attribuire a immodestia quanto sono per dire. Io veramente non credo che ad acquistarmi un po' di fama nel mio paese, mi abbisognasse la carica ministeriale; nè per uomo travagliato da libidine di ambizione può bastare il Ministero Toscano, di cui la fatica è pari a qualunque Ministero del mondo, superiori le ansietà perchè ogni acqua ci bagna, e ogni vento ci muove; infinitamente minore la fama. — Ma via, posto che questa febbre ambiziosa mi fosse caduta addosso, o non doveva essere sazia con la promozione alla carica di Ministro, e forse, in breve, a quella di Presidente del Consiglio? Lo intento che aveva potuto proporsi il mio cuore era già conseguito, e consisteva nel fare palese, col perdono, con la tutela, col beneficio di coloro che non pure mi erano proceduti avversi, ma nemici, quanto io fossi diverso da quello che mi avevano dipinto. E se dico questo, non faccio per rimbrottarlo, no, — o per suscitare memorie oggimai date all'oblio; io lo faccio costretto a difendermi, perchè la mia vita non è stata altro che affanno; — compatitemi, e non rimettete della vostra benevolenza che mi ridonaste. Continuiamo amici, dacchè siamo miseri assai. Intanto corse un grido che diceva: «Chiunque vuole aver bene dal Guerrazzi, bisogna che gli faccia del male.» Esagerava questo, ma la esagerazione stessa prova la verità delle cose. Possano dunque le ambizioni altrui proporsi sempre uno scopo non diverso dal mio! Forse, avvertirà l'Accusa sottilissima, v'increbbe il Governo Costituzionale, perchè vedeste durarvi _instabili_ i Ministeri. Certo, i Ministeri vi sono instabili e pericolosi, ma nelle Repubbliche appaiono instabilissimi e pericolosissimi; sicchè il sospetto non ha luogo. Ma l'Accusa insisterà dicendo: Forse vi prese cupidità di più alto seggio. — Vennero da Roma, una volta, deputazione di uomini distinti per natali e per condizione, ed un'altra, di messi speciali nelle ore più tarde della notte, a offerirmi carica suprema, ed io la rifiutai; e prova di quanto affermo occorre nel Decreto proposto dal Principe C. G. Bonaparte all'Assemblea della Repubblica Romana, che suona così: «Visto che il Popolo tanto della Toscana quanto della Repubblica Romana, hanno più che bastantemente dimostrato che vogliono la unificazione sotto un regime repubblicano; l'Assemblea sovrana della Repubblica Romana: «1º Invita i 120 Deputati, componenti la Costituente Toscana, a venire a sedere fra noi per formare la Costituente della Repubblica della Italia Centrale. «2º Offre al Guerrazzi un seggio nel Triumvirato della Repubblica complessiva ec.»[196] Dunque nè anche la supposta cupidità mi mosse. — Intorno ai fini opinativi è chiarito come io, dall'incominciare delle Riforme, speculando sul genio del Paese, mi scoprissi contrario alla Repubblica. Se per me si fosse voluta, nell'8 febbraio sarebbe stata proclamata in Toscana, come si vedrà più largamente in seguito; se con giudizio o no, se per durare o passare a modo di spettro, se a sostegno o a rovina del Paese, è diversa ricerca: nessuno si opponeva; i dissidenti vi erano, ma non avevano coraggio di fiatare; anzi si spenzolavano, smaniosi più degli altri, a proclamare la Repubblica; mani e piedi pestavano per volerla, e subito: per poco me non accusavano di traditore opponendomi ai legittimi voti del Popolo, al _desiderio eterno riposto nell'intimo del loro cuore repubblicano_. Io contemplava la nuova viltà, e sorrideva. Udite un po' come si esprimeva il _Conciliatore_ del 28 febbraio 1849: «Che cosa possiamo sperare da coloro che s'inchinano a tutti i poteri, che stancarono le anticamere delle Corti e dei Ministeri, e che _oggi proclamano svisceratissimi la Repubblica? O Libertà.... quando il tuo culto era proscritto, tu conoscevi a nome i tuoi addetti; oggi, che hai altari su le piazze e su i trivii, anche i tuoi_ più crudeli ed antichi nemici _ti portano pubbliche offerte fra le acclamazioni delle immemori turbe_.» Non ti pare quasi sentire un lamento del _Conciliatore_ che altri gli abbia vinta la mano, e possa essere reputato più amante della Repubblica di lui? Bassa voglia poi sarebbe indicare chi questi svisceratissimi della Repubblica si fossero: la morale pubblica ne scapiterebbe; e poi picchiandosi il petto, essi si confessarono pentiti e dichiararono di non peccare mai più.... fino alla prima occasione. Io non mi prevalsi nè della ebbrezza, nè del furore, nè della pazienza, nè della viltà. Eletto tutore del Popolo, e consapevole dei suoi veri desiderii, mi sarebbe parso fare opera di ladro, che carpisce la firma ad una cambiale dall'uomo preso dal vino, sospingendolo al Partito della Repubblica. I Repubblicani in questo fanno appunto consistere la mia colpa; io la mia probità. A me piace proporre al Popolo, dopo pranzo, le risoluzioni ch'egli confermerà anche la mattina a digiuno: perfida mi è parsa sempre la dottrina di mettere a repentaglio così moltitudini, come individui: più tardi, risensati, lacerano lo ingannatore, ne maledicono la fama. Io di altri Popoli nè so, nè parlo; ma affermo, che non ostante la ebbrezza e il furore di molti, gli eccitamenti interni ed esterni, la viltà e la pazienza, — la grande maggioranza dei Toscani, finchè vissi nel mondo politico, non era repubblicana; il Partito compariva, più che non bisognava, gagliardo a violentare e a distruggere, ma per creare cosa durevole, non sarebbe bastato. Questa gente, infervorata nella sua idea, non vuole comprendere come con uomini, che al vedere bandiere, udire tamburi, gridi e simili altre diavolerie, guardano trasognati, poi si ritirano in casa chiudendo le finestre, non si può creare Repubbliche. La grandissima maggioranza delle persone educate in Toscana, stando al Ministero e prima, conobbi appassionata delle vere libertà costituzionali, e non delle bugiarde che si gittano alle genti come un osso da rodere, e poi non si vogliono o non si possono mantenere; agli altri, in ispecie ai campagnuoli, bisognava dare ad intendere la Libertà come la dottrina cristiana. Io certa volta dissi alla Corona, che il Governo doveva essere educatore di libertà in Toscana, e mi parve dire bene; se i tempi sono mutati dopo due e più anni di carcere, non so, nè m'importa conoscere; ma allora era così. Intanto i Repubblicani mi regalano il titolo di _stolto_, e sarò; mi basta quello di onesto: ma quello che parrà più strano a credersi, si è che mentre i miei Giudici mi tengono in prigione per avere cospirato contro il Principato, e promossa la Repubblica, i Repubblicani protestano che mi ci avrebbero messo eglino medesimi, per averla attraversata: «La Repubblica Romana era divenuta per esso come uno spino, e quello spino vie più gli era infesto, allorchè gli si parlava di Unione.»[197] E poco oltre, a pagina 174, così si esprime il signor Rusconi: «Una Commissione fu istituita, che disse governare in nome del Principe, e gli amici del Principato toscano cominciarono dal retribuire Guerrazzi dei servigi fatti loro, con quella _carcere che da tutti altri che da essi avrebbe dovuto meritare_.» Sicchè, a quanto pare, non ci è rimedio; io nacqui proprio nel mondo sotto la costellazione della prigione!!! — _Pericula in mare, pericula in terra_, — diceva S. Paolo. Sembra pertanto che io non avessi motivo alcuno a sovvertire il Principato Costituzionale; all'opposto lo avessi grandissimo a mantenerlo. XIX. Della contradizione notata dai Documenti dell'Accusa fra la potenza e la impotenza di resistere alle pretensioni del Partito repubblicano. Or come, dice l'Accusa, potete voi sostenere a un punto la potenza e la impotenza a reprimere? Questo suona contradittorio: anzi, deve dirsi, che siccome a parecchie enormità opponendovi le impediste, così a tutte le altre successe voi non vi opponeste, nè le voleste impedire. (Decreti del 10 giugno 1850 § 54, e del 7 gennaio 1851 § 53.) Due erano, come ho detto, i fini che io pensai essermi affidati, e mi affidarono certo gli onesti cittadini e il Parlamento: la salute della società, e questo principalissimo; l'altro di preservare il Paese da avventurosi esperimenti; o, se si vuole più chiaro, di consultare con pacatezza i Toscani intorno al modo col quale intendevano essere governati. Al primo scopo provvidi, e corrisposi, confido almeno, alla aspettativa universale; ma in questa parte ebbi a compagni anche gli onesti Repubblicani, i quali pure aborrivano dalle violenze, dalle rapine, e dal sangue; la coscienza pubblica mi sovvenne con la sua grande voce; e una tal quale esitanza provavano ancora quelli che procedevano più rotti, sicchè, comunque aspra lotta durassi, pure, Dio aiutando, mi venne fatto conservare illesa, anche in mezzo ai trambusti, l'antica fama di civiltà, di cui, meritamente, godeva, e dovrebbe continuare a godere il nostro Paese. Ma se a tutto non avessi potuto riparare, come sarebbe giusto imputarmelo? Se portai le mille libbre e non potei le due mila, i miei Giudici non solo mi negheranno la mercede per le mille libbre portate, ma pretenderanno multarmi per le mille che non ho potuto portare? Egli è invano, che i miei Giudici rigetterebbero questo paragone e questa conseguenza; i loro argomenti procedono sempre così. In quanto poi al secondo scopo che mi era proposto, ecco come riuscii a salvare la somma delle cose. Vuolsi principalmente avvertire, come principio emesso dai Repubblicani, in ispecie quando si agitò la questione se la Lombardia dovesse unificarsi al Piemonte, fu consultare il voto universale, _imperciocchè, abolita ogni idea di diritto divino, reputino il Popolo origine di tutta sovranità_. Il quale principio oggi non pure è dei Repubblicani, ma vi si accostano eziandio quelli che si mostrano caldi promotori delle regie prerogative. «Io credo che la sovranità, secondo la teoria costituzionale, risieda esclusivamente nel Popolo, il quale delega a questo il potere legislativo, a quell'altro il potere esecutivo;» diceva il Montalembert (il quale, credo che non importi avvertire che non è Repubblicano) nell'Assemblea di Francia il 10 febbraio 1851. Il Governatore di Livorno con Dispaccio dell'8 febbraio avvisava, come Giuseppe Mazzini arrivato (al mal fagli male), su l'alba di quello stesso giorno, a bordo dell'_Ellesponto_, arringando al Popolo avesse concluso: «che la Toscana doveva aspettare le determinazioni della Costituente — e di Roma.»[198] E sue precise parole furono: «La nazione, per mezzo dei rappresentanti del Popolo, eletti col suffragio universale e con libero mandato, _farà conoscere le sue volontà, e noi c'inchineremo al sovrano_.»[199] Questo stava bene in teoria; ma in pratica non istava più bene; anzi, secondo le contingenze, aveva ad esser tutto a rovescio. Là dove il Popolo propende alla Repubblica, si consulti col voto universale; dove no, cotesto diventa fastidioso puritanismo, e bastano le petizioni dei Circoli, gl'indirizzi dei Municipii (che oggimai noi conosciamo a prova di che cosa essi sappiano), e i clamori di piazza. Logica è questa di ogni Partito di cui lo scopo consiste nel riuscire a qualsivoglia costo. — In Toscana il Popolo, non ostante la vertigine che lo agitava, consultato a cose quiete, non avrebbe risposto nella maggioranza alla Repubblica: questo aveva subodorato Giuseppe Mazzini, ed invero, informando l'Assemblea romana su le condizioni della Toscana, spiega chiaro: «che le tendenze della parte più _energica_, più importante della popolazione, sono altamente unificatrici, e dicendo unificatrici intendo escludere il dubbio vocabolo di unione. Tutti i Giornali sono unanimi in questa espressione.... tutti i Circoli, — molti Municipii, — parecchi Comandi della Guardia Nazionale, dichiararono nella _penultima domenica del mese scorso_, con una manifestazione solenne seguita da altre adesioni nei giorni seguenti, che il voto della Toscana era la forma repubblicana e la unificazione con Roma.»[200] Le quali parole lasciano pur troppo intendere, che la parte più _energica_ era per la Repubblica, ma lo stesso non poteva dirsi della più numerosa. Però Mazzini _intende_, ma non _approva_ più che sia consultato il Popolo.... «perchè l'unica legalità nelle rivoluzioni sta nello interrogare.... _nello indovinare_ il volere del Popolo, e nello attuarlo.»[201] Tra _interrogare_ e _indovinare_ passa divario grande, quasi quanto tra il _complice_ e lo _impotente_, o tra _tutti_ e _taluno_ dell'Accusa. Ma egli è così: là dove lo spirito di parte detta i giudizii, si affacciano sempre le medesime formule di sofisma. Fatto sta, che si voleva commuovere, rimescolare il Popolo, e, s'era ebbro d'acqua arzente, dargli a bere olio di vetriolo. Così s'incendiano gli Stati, non si costituiscono, ed io non ho voluto rovine. E poi neanche poteva conseguirsi quello a cui tendeva, perchè ai deliranti non faceva mestieri aumentare delirio, e pei repugnanti ogni argomento tornava inutile, per la ragione dichiarata poco anzi dello starsi a vedere e poi chiudere le finestre. — Abbiamo veduto altrove Popoli interi muoversi e insorgere al nome di Repubblica: ma io credo che vadano grandemente errati coloro che immaginano le moltitudini si muovessero unicamente per forma di governo, che neppure intendevano; parte si mossero per fame, parte per ingiurie patite, parte per odio di feudali istituti, parte per amore di libertà: altri per altre cose. La formula delle rivoluzioni somministrano gl'intelligenti, le passioni, il Popolo: donde avviene che tutte le tendenze unite a distruggere, disaccordino poi sul modo di fabbricare. La ragione, per la quale i Partiti compaiono a prova prodigiosamente deboli a governare, si è questa, che il fascio, stretto durante la battaglia, si scioglie dopo la vittoria. Or qui in Toscana mancavano (e prego Dio che abbiano sempre a mancare) ingiurie sanguinose a vendicare, odii antichi a sbramarsi; solo in molti, ma non nei più, Toscani, era vaghezza di forme repubblicane; molti ancora, non può negarsi, si agitavano per cupidigie o per bisogni, e, non frenati, stavano per partorire deplorabili lutti; piantatrice e spiantatrice degli alberi della Libertà, per la massima parte, era di questa sorta gente, che ama le baruffe e le provoca solo per pescare nel torbido; taccio di quelli che non erano di qui. Ma per amore della Repubblica, per quante ne sapessero fare, non si muovevano davvero i mezzaioli in campagna, nè i borghesi in città, i proprietarii grandi, la nobiltà, il clero. — Agitate, agitate, perchè le minorità vincono le maggiorità; — le vincono, è vero, o piuttosto le stupefanno, ma per durare ci vogliono gli annegamenti nella Loira, le mitraglie di Lione; e questi estremi rendono spaventevole la Libertà, e la fanno precipitare alla tirannide soldatesca. Tuttavolta, questo volevasi, intendetelo bene, signori Giudici, e questo sarebbesi fatto: e poichè la vostra coscienza non ve lo ha saputo dire, vi dica il Paese intero, cui mi giova sperare non ingrato, chi impedì questo, e a qual prezzo. — Agitate, agitate, e troveremo cannoni, armi ed armati; — ahimè! la esperienza ha dimostrato non succedere così; e senza un buon nervo di esercito disciplinato, i volontarii o fuggono, come i Francesi a _Grand Pré,_ o muoiono, come i Toscani a Montanara — gloriosamente, sì, ma non vincono.... Finchè pertanto i Repubblicani si stavano ai ragionamenti, che erano: inutile consultare il Popolo, dacchè per le petizioni dei Circoli, dei Municipii, della Guardia Civica, e per le acclamazioni delle genti, il voto si dimostrava patente; io rispondeva: tanto meglio: s'è vero come supponete, apparirà solennemente manifesta la propensione dell'universale per la Repubblica; ma non falsiamo il principio del suffragio da voi stessi predicato: guardate a non comparire apostoli bugiardi: parmi, ed è indegno di uomini che si vantano creatori di nuovo ordine di cose, incominciare con la menzogna, ch'è vizio della viltà. Così non ho mai veduto incominciare i reggimenti gagliardi. Romolo inizia il suo regno con un atto di ferocia, ma non di bassezza. Ora con quale fronte vorrete adoperare voi le medesime arti, che più diceste aborrire negli avversarii vostri? Voi sostiene la opinione di lealtà; di amici sinceri del Popolo, voi diventate sopraffattori e tiranni. Voi, Mazzini, avversaste Vincenzo Gioberti, quando, prima che la vittoria decidesse le fortune italiane, voleva che Lombardia si aggiungesse al Piemonte, e dicevate non essere quello il momento di sturbare con importune trattative il pensiero dei Popoli, che unico doveva concentrarsi nella guerra della Indipendenza; ed io vi detti ragione.[202] Ed ora quello ch'era buono per Lombardia e Piemonte, non è più vero per Toscana e per Roma? Ma lasciamo questo da parte: come potete pretendere onestamente proclamata la Repubblica a tumulto, mentre l'aria dura commossa dalla vibrazione della vostra voce, che diceva: «che la nazione deve dichiarare la sua volontà per mezzo dei rappresentanti eletti col suffragio universale?...» E fino dal 16 febbraio a Mazzini opponeva Mazzini, gittandogli in volto le sue dichiarazioni predicate a Livorno; «ecco le parole piene di fede, e di senno, che Mazzini rispondeva al Popolo di Livorno, che saputa la fuga del Granduca domandava ad alte grida la Repubblica: — Io repubblicano per tutta la mia vita, vi esorto ad attenderne la iniziativa da Roma; sono là i veri rappresentanti del Popolo, e noi dobbiamo inchinarci a quel potere sovrano.»[203] — L'Accusa io qui l'ascolto esultare dicendo: dunque, vedi, anche tu accennavi aderire all'Assemblea Costituente di Roma, — ed io le rispondo: tu non capisci niente; — allora importava non irrompesse la Repubblica a furia, e non era a guardarsi la natura del rimedio, purchè salvasse dal male presente: poi cosa fa cosa, e tempo la governa. Mazzini pertanto, ed i seguaci suoi non potevano replicarmi in viso senza inverecondia, _imperciocchè adoperava a combatterli le loro stesse parole_. Allora furono tentate altre vie. Imitate, dicevano i Repubblicani, il Governo Provvisorio di Francia; ordinate provvisoriamente la Repubblica, salva la sanzione del Popolo, come fece Lamartine. Per questo modo, proseguivano essi giovandosi degli argomenti di lui, farete cosa a un punto rivoluzionaria, e conservatrice; imperciocchè da un lato lo sperimento della Repubblica, durante certo spazio più o meno lungo di tempo, sarà sempre tanto guadagno fatto pei governi liberali, e pei vantaggi del Popolo; dall'altro, dove anche più tardi l'Assemblea disfacesse la Repubblica, partorirà adesso entusiasmo nel Popolo, soddisfazione agli animi agitati, maraviglia alla Europa, impulso e forza per traversare lo abisso senza fine cupo della rivoluzione.[204] E questo era intoppo duro davvero. Se non che, ripreso animo, io rispondeva: di grazia, ascoltatemi; voi altri sapete come il Cormenin, favellando del Lamartine, abbia detto che un castaldo avvezzo alle faccende di villa mostrerebbe facilmente a prova, anche in quelle della politica, più giudizio del Lamartine; ed io del Lamartine, del Cormenin, e degli altri uomini di Stato francesi non ripeterò, chè non sarebbe giusto, quello che già scrisse il Machiavelli di loro, cioè, che i mali orditi del cervello sanno rinforzare con le mani; e nè anche quello che ei disse al Cardinale di Ambosa: «di Stato, voi altri Francesi, non intendete niente;» ma è certo, che tutti quelli i quali in Francia fanno professione di politica, non intendono troppo. Però posto questo da parte, e stringendoci a ragionare del Lamartine, vi pare egli discorso cotesto suo di mettere in cimento la Repubblica, come si farebbe, a modo di esempio, nelle scuole, di un calcolo, o di una dimostrazione geometrica? A questo ufficio bastano una lavagna e un pezzo di pietra da sarto; e se il calcolo non riesce, si strofina col ruotolo della cimosa, e da capo. Volendo sperimentare la Repubblica, se ti attieni al metterne fuori unicamente il nome, converti il Governo in bersaglio, onde tutti i Partiti contrarii gli tirino addosso di punto in bianco; ma al nome solo non puoi attenerti, nè devi; quindi per durare anche una settimana ti trovi condotto a imprimere nel Governo e nel Popolo un moto corrispondente al fine proposto, accomodarvi i provvedimenti e le leggi, scansare gli uomini disadatti o contrarii, altri sostituirne amorevoli e acconci, distruggere antichi interessi, altri crearne,... e tutto questo per prova? E tutto questo, incerti se la Repubblica possa sostenersi? Bel giudizio davvero, moltiplicare le cause di perturbazioni e di contrasti, allorchè vi proponete ricomporre l'ordine sociale sconvolto! Poi, Francia è Francia, e Toscana è Toscana: la Repubblica in Francia può dare argomento di maraviglia alla Europa; in Toscana, di riso: costà fra 36 milioni di uomini, qualche milione può sorgere a sostenere con le armi la opinione del Governo, e propria; ma qui fra noi conviene starci contenti alle migliaia, ed anche poche. Nè mi parlate di Roma, di Sicilia e di Venezia: queste ultime due, male si reggono in vita; e invece di trasmettere altrui, chiedono forza per loro. Roma e Toscana, sommate insieme fanno una debolezza, perchè non possiedono armi, nè pecunia, nè eserciti addestrati, i quali da un punto all'altro non si arriva a formare. Ancora: Francia, per lunghi anni educata nella vita politica, per avventura potè credersi giunta al grado convenevole di maturità per adattarsi alla nuova forma di Governo, quantunque voi sappiate come grave sia il subuglio dei Partiti colà, perfidiandosi intorno alla libera scelta della Repubblica, con danno inestimabile alla reputazione di questa: ma Toscana si leva adesso, e non ha ben desti gli occhi; gli animi vi sono rimessi, inerti a molti gli spiriti, i partiti estremi impossibili; speculatori arguti sono per la più parte i Toscani, e più facili a fare per consiglio della mente che per subitezza del cuore; anzi quel continuo rombo di parole superlative, e di concetti esorbitanti, gl'inquieta come api che fuggono dai bugni, se odano rumore di lebeti percossi; e sopra tutto vi raccomando a considerare, che la Toscana delle libertà costituzionali si chiamava non ha guari soddisfatta; nè ella operò rivoluzione alcuna; nè credo che la voglia operare: lo scettro è in mano al Popolo, non perchè ei volesse strapparlo, o lo strappasse, ma perchè gli fu lasciato. Questo abisso di mandare in perdizione la Società, noi da vicino non minaccia; di comunismo per ora, se spruzzate, non paionmi contaminate le moltitudini; la Repubblica, anzichè diminuire le perturbazioni, avrebbe virtù di aumentarle, e rendere forse disperato un male di per sè stesso gravissimo. Ad ogni modo, che il Popolo universo a decidere delle sue sorti consentisse, questo prometteste, questo promisi, e questo hassi a mantenere: leali vi chiamaste, e leali perdurate, chè bene v'incorrà della conservata rettitudine. — E alle ragioni, che procrastinando si sfiduciavano gli animi, i malfermi alienavansi, sfocavansi gli ardenti, e si dava luogo a insinuare che il Governo procedesse avverso alla Repubblica, io replicava: questo non essere da temersi, imperciocchè il Governo fino dai suoi primordii aveva dichiarato, che per pronunziare la decadenza del Principe e la Repubblica, dovesse aspettarsi che lo universo Popolo toscano emettesse liberissimo il voto. La _requisitoria_ del Pubblico Ministero Regio dichiara francamente,_ che tutto il mio sforzo si ridusse a persuadere, ed agire in qualche contingenza, perchè non venisse la Repubblica attuata troppo sollecitamente_: la _requisitoria_ del Pubblico Ministero Repubblicano, rappresentato dal sig. Carlo Rusconi, mi accusa: «Che giunto al Potere, ebbi modo di fare proclamare la Repubblica, e non volli. — Che quando mi fu dato unificare due provincie _assecondando_ i voti del Popolo, comecchè unitario ed entusiasta del Popolo mi fossi detto, bramai persistere in una disunione _insensata_. — Il dottore Maestri inviato da Roma instava perchè — il desiderio di unificazione, che _nel Popolo si manifestava_, fosse appagato. _Lottando quotidianamente_ col toscano Triumviro, a cui tutti quegli argomenti adduceva che sogliono far forza in chi non ha preconcetta opinione ec.» Chi ci era, racconta che _quotidiane_ erano le istanze, (e istanze di gente arrabbiata, fanatica, e forte su le armi, si sa che cosa vogliano dire); chi non ci era sostiene che furono rade; chi ci era mi accusa che procrastinando rovinai il concetto repubblicano, chi non ci era, sprezza cotesta opera come di piccolo momento. I Repubblicani, i quali di rivoluzioni s'intendono più assai del Regio Procuratore Generale (e spero che questi non me lo vorrà contrastare) dicono, che _occasione passata è occasione perduta_; ed hanno ragione: la Repubblica poteva instituirsi in Toscana, ma nel modo che nelle antecedenti carte ho avvertito; ed io ripeto, fui tutore del Paese, non capo delirante di fazione. Anche quando fosse vero, come non è, che il mio sforzo tendesse unicamente a procrastinare, l'Accusa dovrebbe sapere che ciò sarebbe più che non bisogna nelle rivoluzioni. Una notte di pensiero cangia le tendenze dell'animo, il quale senza impulso veemente ed attuale schiva, almeno nei più, precipitare a partiti disperati. Devo confessare come fra le infinite umiliazioni con le quali fu saziato il mio cuore, nessuna tanto profondamente mi tocca quanto quella del trovarmi condotto a esporre la mia ragione a tale, che le verità volgarissime della Storia s'infinge ignorare; e dico s'infinge, conciossiachè riesca duro a credere, che abbia animo per giudicare di politica chi di politica si senta siffattamente inesperto. Il sig. De Barante, uomo di senno antico, e per pratica di negozii pubblici rinomato assai, dettando il suo libro della _Storia della Convenzione di Francia_, assicura che tutto il male della Rivoluzione venne dal non trovarsi persona capace a resistere allo impeto dei primi moti, onde si componesse una opinione giusta delle cose, una bandiera sorgesse dove i cittadini sbigottiti si assembrassero; — all'opposto, persuasi fino dai primi giorni che ogni Governo era cessato, si trovarono in balía di tutte le autorità imposte di mano in mano dalla violenza, _le quali comandavano in virtù del meccanismo delle sètte, mentre l'ordine nella Società era venuto meno. — Tutto il mio sforzo si ridusse ad agire perchè la Repubblica non venisse attuata troppo sollecitamente_! — Fatto sta, che la non venne proclamata mai; pur sia come vuole lo Accusatore: ma sa egli, che cosa importi un giorno, una notte nelle rivoluzioni? Lo vuole egli sapere? Se di una notte sola avesse potuto ottenere indugio il virtuoso Malesherbes, per presentare le sue osservazioni sul modo di contare i voti, la vita di Luigi XVI era salva; e certamente poi, se nella giornata del 19 gennaio fosse stato vinto il partito dello aggiornamento alla esecuzione della sentenza: «car (nota Thiers) _un délai était pour Louis XVI_ la vie mème.[205]» Vuol egli sapere, che cosa giovi un'ora? La mattina dell'_8 termidoro_ cadde reciso il gentil capo di Andrea Chènier, a cui, poveretto! doleva morire così giovane, e con tanta potenza di poesia nell'anima... Un poco più tardi, nel sangue che aveva fatto versare, affoga Robespierre, e seco va disperso il regno del terrore.[206] Infatti il _Regio_ Procuratore _Repubblicano_ afferma, che non mi mancavano gli avvertimenti: «come nulla vi fosse di peggio in politica, specialmente in tempi di rivoluzione, che il non far nulla, e lo aspettare gli avvenimenti con la stolta lusinga di dominarli.»[207] Ma i condottieri della fazione repubblicana erano oltre ogni credere tenacissimi, e vedendo che le parole non bastavano, fecero prova di operare una nuova rivoluzione nel giorno 18 febbraio. Nel giorno 18 febbraio una immensa moltitudine conveniva in Piazza; nel 18 febbraio Niccolini arringando diceva con parole aperte: «Il Popolo ingannarsi sul conto mio, avversare io la Repubblica, intendermela col Granduca; entrasse il Popolo in palazzo, mi costringesse a proclamare la Repubblica: se assentissi, bene; se no, giù dai balconi!» Questa minaccia fu ripetuta più volte: si aizzava il Popolo a trucidarmi. Quanti tremavano allora per la mia vita, che ora non dirò lieti, ma in parte certo profondamente indifferenti, del mio non degno infortunio! Ma allora ero una trincera dietro la quale riparavano sbigottiti; adesso sono diventato documento increscioso d'ingratitudine. Però fu detto dei nostri vecchi: mala bestia è quella, che dà di calcio al vaglio dopo avere mangiato la biada... Poco dopo, il fatto tenne dietro alla minaccia. Il Popolo allagò imperante e furioso. Che cosa fare? A qual Santo votarmi? In mezzo al tumulto era difficile farmi intendere, e folle il parlare quello che sentivo; ridotto allo estremo, dicevo: «Ora via, Cittadini, dacchè volete la Repubblica ad ogni costo, e Repubblica sia; a patto però, che mi mostriate domani duemila giovani fiorentini armati, e disposti a combattere per la Repubblica.» Risposero urlando: «trentamila ne condurremo!» Ed io di nuovo: «Bastano duemila.» Era cotesto un ripiego che il mio buon genio mi suggeriva per ischermirmi dalla tremenda violenza che faceva una moltitudine capace d'ingombrare sale, scale e piazza; e al punto stesso era prova, con la quale intendevo certificare il Partito repubblicano della vanità dei suoi conati a strascinare il Popolo intero. Firenze non ebbe i duemila soldati per la Repubblica, mentre gli aveva avuti, e generosissimi, per la guerra della Indipendenza italiana, bandita dal Principe Costituzionale. Così preservai in quello accidente il Paese, la opinione del Partito repubblicano fu indebolita, e _cresciuta a dismisura la sua rabbia contro di me_. Questo io operava con pericolo mio contro la moltitudine arrabbiata il 18 febbraio, _non già dopo la disfatta di Novara_, come con offesa manifesta del vero non aborrisce affermare l'Accusa.[208] Nè per questo i Repubblicani si davano punto per vinti: mediante il Ministro romano sig. Maestri presentano una Nota contenente diversi articoli per approvarsi subito dal Governo toscano. Se le cose richieste fossero state ammesse, non lasciavano più il Paese in potestà di deliberare. Io mi professai incapace a discernere la importanza della proposta, e dissi, il mio dovere impormi mandarla al Consiglio di Stato; sperare che il Consiglio l'accoglierebbe; lo avrei sollecitato a rimettermi il suo parere. — Nello inviarla al Consiglio, gli commisi scevrasse nelle cose richieste quelle che avrebbero pregiudicato la libera votazione, dalle altre che la lasciavano illesa. Così fece il Consiglio: grandissimi si elevarono i clamori per questo, e tuttavia durano. Io giunsi appena a sedarli, facendo notare, che la imminente votazione dell'Assemblea avrebbe reso inutile qualunque restrizione.[209] Ecco in qual modo pervenni a impedire le urgenti molestie per la proclamazione della Repubblica, e gli attentati contro la sicurezza dei cittadini. Le altre improntitudini, per la loro natura non somministravano uguali rimedii; non pativano dimora; erano cose da farsi su l'atto; non potevo dei loro stessi principii comporre un freno per ritenerle; e non avevo meco la opinione pubblica, che mi sorreggesse: tacevano, tremavano i dabbene cittadini, e si contentavano a pregare Dio che mi desse forza a resistere. Riguardo a destrezze, nè sempre giovano, nè sempre si affacciano alla mente nella subitaneità dei casi che succedono. — Ora, senza distinguere il modo della resistenza, e confondendo la ragione delle cose, ricavare dai conati riusciti a bene argomento per accusare dei fatti che non poterono ripararsi l'uomo che si sagrificò alla salvezza comune, parmi tanto crudelmente assurdo, quanto iniquamente ingrato. XX. Forza. L'Accusa confessa questa forza; ma ammettendola facilissimamente a benefizio altrui, per me poi mostra il viso dell'uomo di arme. L'antico Pirrone e San Tommaso, a petto suo, sono credenzoni. Così anche in questa parte, nell'Accusa, si osserva da un lato rilassatezza, dallo altro incredibile rigore; da una parte miscredenza, dall'altra superstizione.[210] Nel volume degli _Scritti varii_ recai in volgare certo canto illirico,[211] il quale dice di un Bano di Croazia, che era cieco da un occhio; e sordo da un orecchio; e con l'occhio cieco guardava le miserie dei derelitti; con l'orecchio sordo intendeva il pianto dei disperati. Ora non vi par egli, che l'Accusa legga con l'occhio cieco del Bano di Croazia le carte che mi discolpano, e ascolti con l'orecchio sordo di quello le testimonianze a me favorevoli? Altrove addussi ragioni di questa diversità manifesta: la violenza patita dagli altri mi accusa; la violenza, non patita da me, mi condanna; ma poichè io credo avere dimostrato abbastanza, che di cotesta forza non fui provocatore nè complice, bisogna, per necessità, concedere che io sopra gli altri fui esposto a subirne l'azione. Il Decreto del 10 giugno 1850, da capo in fondo, è pieno di questa prova di forza che domanda da me; così nello _Attesochè_ 3º racconta: «che sul finire del 1848 sorse una fazione» (io ho provato che vi era anche innanzi) «cospirante contro la Monarchia, eccitatrice di plebe a incomposti disordini, recalcitrante alle Leggi, sprezzante di ogni autorità, forte d'improntitudini e di audacia per il pervertimento dei Circoli e lo imperversare della stampa:» — nello _Attesochè_ 8º, in conferma della opinione emessa, rammenta i Forti occupati di Portoferraio; gli Ufficiali prigioni; il plauso feroce allo assassinio del Rossi; le violenze elettorali, ai giornalisti, al domicilio dell'Arcivescovo; la stampa repubblicana: — nello _Attesochè_ 9º con parole, che invano c'ingegneremmo trovare più truci, infama «cotesto sconvolgimento, come quello che elevava il _furore a virtù_, la moderazione a delitto, segni certissimi di prossima rovina per la parte dei faziosi della Monarchia e dello Statuto, i quali aspettavano la opportunità, e la ebbero nello allontanamento del Granduca da Siena:» — nello _Attesochè_ 11º parla dello assembramento all'Arcivescovado, che commise violenze deplorate dai buoni, dai pessimi giornali celebrate: — nel 12º rammenta lo Indirizzo minaccioso mandato alle Camere, affinchè, per via del suffragio universale, si eleggessero sollecitamente i Deputati alla Costituente italiana, onde pel 5 febbraio potessero assistere alla prima seduta di Roma. — nel 16º e 17º dichiara Siena turbata pel cruccio e per lo arti della Demagogia, che si augurava prossimo il rovesciamento del Principato; la rivoluzione imminente per colpa della stampa, senza limite licenziosa, e del concorso dei Circoli diventati, nel pervertimento, fratelli; l'anarchia provocata in Siena, la _città sconvolta dopo_ l'arrivo di Montanelli, Marmocchi e Niccolini: — nel 18º afferma, per _violenza_, avere il Principe abbandonata Siena; per _violenza_ le Camere avere eletto il Governo Provvisorio: — nel 21º espone: «l'audacia di pochi tristi prevalsa sopra la moltitudine illusa, sconfortata, indifferente, i quali, vituperato in ogni maniera l'augusto Principe, proclamarono la sua decadenza dal Trono, e il Governo Provvisorio:» — nel 25º certifica il Presidente Vanni tornato a presiedere l'Assemblea per concepito timore di guerra civile e di sangue: — nell'84º racconta dei faziosi esigenti a forza lo abbassamento delle armi: — nel 32º palesa «come i Circoli, coadiuvati dalle furiose declamazioni della stampa, _si dierono a presentare petizioni per la cacciata dello stesso Principe toscano_:» — nell'88º nota gli sforzi per instituire la Repubblica e inalzare l'albero della Libertà il 18 febbraio, e le pubbliche ardentissime arringhe di rovesciare tutte le monarchie italiane: — nel 94º ci fa conoscere che una fazione, fuori del Governo, proseguente un fine suo proprio, esercitava solertissima sorveglianza: — nel 104º insegna quali e quanti fossero gli sforzi a spingere i Popoli alla Repubblica in provincia, non meno gagliardi di quelli che si facevano in Firenze, e gli eccitamenti della stampa per _armare_ il Popolo a sostenere la rivoluzione, la Repubblica, _e a cacciare il Principe da Santo Stefano_: — finalmente nello _Attesochè_ 32º dichiara la sorpresa, le violenze adoperate, e le furiose declamazioni della stampa, capaci a imporre il Potere alla Toscana. Accorda col Decreto del 10 giugno del 1850 il secondo Decreto del 7 gennaio 1851 ai § 5, 7, 8, 10. L'Atto di Accusa del 29 gennaio 1851, ampliando il quadro nei § 4 e 5, dalla rivoluzione siciliana precedente, e dalla milanese susseguente lo Statuto, dalla Repubblica proclamata in Francia, dalla guerra lombarda, dai suoi infortunii ricava argomento, ed è vero, per mostrarci una maniera di gente, mal paga delle riforme costituzionali, aspirare alla Repubblica, e scuotere profondamente nelle viscere la Italia. E l'Accusa poteva aggiungere la rivoluzione di Vienna, la ungherese, la badese, le zuffe sanguinosissime di Berlino, tutta la Germania avvolta in giro dal turbine rivoluzionario; — la prossima Roma: _proximus ardet Ucalegon_.... Europa tutta in fiamme! L'Accusa poi, dando saggio delle opere di questa fazione, rammenta le declamazioni per le piazze e pei Circoli, e la licenza della stampa; — rammenta l'ardire del nizzardo Trucchi di decretare, nel _30 luglio_, sotto Palazzo Vecchio, la decadenza della Monarchia, lo scioglimento delle Camere, e la istallazione di un Governo Provvisorio, di cui chiamava a far parte Guerrazzi e Pigli (ma non rammenta che con noi erano indicati Gino Capponi, Neri Corsini, e Giuseppe Giusti;[212] e molto meno rammenta _che, lasciato stare liberissimamente dai Ministri precedenti, fu, da me assunto al Potere, e per quel fatto, esiliato di Toscana il signor Trucchi_); non tace dello incendio della carrozza del Generale Statella; e i fatti livornesi del 25 agosto, e la _orribile sventura_ del 2 settembre. XXI. Conseguenze della Forza ammessa dai Documenti dall'Accusa. Se l'Accusa presta fede alle proposizioni che dai suoi Documenti medesimi ha desunto fin qui (ed io devo ritenere ch'ella ci creda), e allora come domandano i miei Giudici a me la prova di quello che eglino stessi hanno provato? Infatti, come si può sostenere «che la violenza coattiva, sia all'individuo, sia al collegio, non è provata, anzi esclusa, dai primi atti co' quali _e nei quali_ venne a consumarsi il delitto» (Atto di Accusa § 85), quando mi confessate agitarsi da lungo tempo fra noi una fazione capace a imporre al Paese intero? Se questa fazione insorse, voi dite, fino dal declinare del 1848, mentre durava la Monarchia Costituzionale, e con essa si mantenevano gli ordinamenti, comecchè indeboliti per tutelarla; o come pensate che si fosse rimasta inerte ad un tratto? Come di audace diventata paurosa; di sprezzante ogni freno di autorità, umilmente arrendevole; di cospirante alla distruzione della Monarchia, facile ascoltatrice dei miei sermoni? Anfione e Orfeo, che a suono di lira ammansirono belve, e trassero a seguitarli le pietre, sono racconti da storia in paragone della potenza favolosa che da me pretende l'Accusa. Se plausero gli arrabbiati ferocemente alla strage del Rossi, perchè non mi concedono i Giudici che potessi andare pensoso pel mio stesso destino? Se Dionisio Pinelli chiamavano _traditore_, e il fato infelicissimo di cotest'uomo gli minacciavano, perchè di simili minaccie non dovevo far senno ancora io?[213] Se cittadini e deputati temerono della propria vita, perchè non dovei temerne io, esposto al terribile sospettare dei faziosi, quotidianamente minacciato, e delle loro accesissime voglie oppositore importuno? E badi l'Accusa, che per venire in fama di traditore non importa fare tanto; basta solo sostare; così ammonisce lo infortunato Silvano Bailly nelle sue Memorie, là dove favellando di Mounier, e di Malouet, i quali apprensioniti dalla piega che prendevano le cose pubbliche in Francia nel 1790 vollero scansarsi, racconta:[214] «allora corse l'accusa solita a percuotere chiunque si ferma in mezzo a un Popolo che cammina: la tremenda parola di _tradimento_ fu pronunziata.» In tempi di rivoluzione l'accusa di _traditore_ è quasi un saluto ordinario su le bocche dei venduti e dei fanatici. Se violarono lo Arcivescovo difeso dalla reverenza della religione, perchè pensano che volessero trattenersi da violentare me non difeso? Se, durante tempi che in paragone dei posteriori all'8 febbraio potevano dirsi ordinati, la furia del Popolo assalta ed occupa Fortezze, imprigiona Ufficiali, perchè negano fede i miei Giudici che la mia stanza invadessero, e, armati, minacciassero? Se dichiarano altri percosso dal pensiero della guerra civile, della tremenda anarchia, e della strage imminente, e perchè non doveva io pure spaventarmene? Qui si vorrà forse rinfacciarmi che io dissi talora non temere il Popolo? Certo avrei fatto bella prova a mostrarmi codardo! Nè quello che si dice in una occasione vale per un'altra; e spesso, come notai, si lusinga il Popolo perchè o si trattenga dal male, od operi il bene; artifizii sono questi che la stessa morale non disapprova. E se la forza di cui parlate valse, a parere vostro, a violentare Principe e Camere e collegi e individui e terre e città e Popoli interi, perchè volete poi reputarla insufficiente a violentare me per piegarmi ai suoi comandi? Se i faziosi pretendevano violentemente che gli stemmi granducali si abbassassero, perchè imputarmi l'ordine trasmesso di remuoverli per preservarli da oltraggio? Se il Principe proclamarono decaduto, o come pensare che me non coartassero a scrivere i Dispacci relativi alle Spedizioni Elbana, di Porto Santo Stefano e Laugeriana? Quando voi stessi raccontate che i _Circoli, coadiuvati dalle furiose declamazioni della stampa, si diedero a presentare petizioni per la cacciata dello stesso Principe dal suolo toscano_, con quale coscienza sostenete poi, e, lasciando la coscienza, con qual fronte, con quanto senno, con qual pudore, che la _violenza è esclusa dai primi atti con i quali e nei quali venne a consumarsi il delitto?_ Forse le petizioni della moltitudine, coadiuvata dai Circoli e dalle furiose declamazioni della stampa, reputate piccola pressura per me? Ma voi, voi stessi, queste petizioni reputaste sufficienti a costringere la Camera dei Deputati quando decretarono la Legge sopra la Costituente! Non sono questi due pesi, non sono due misure? E presumereste paragonare la condizione del 21 gennaio con quella dell'8 febbraio 1849? Una fazione che si era proposta _il rovesciamento di tutte le monarchie italiane_, è da supporsi che si rimanesse da usare ogni partito estremo per conseguire il suo fine, precisamente sul punto di cogliere il frutto dei lunghi e travagliosi conati? Gente, _che eleva il furore a virtù_, si pretende credere che, con mansuetudine pastorale, le istanze per le mentovate spedizioni mi presentasse, o non piuttosto con tal garbo che non dava campo alla scelta? Se i Giudici sanno che il Popolo irrompente il 18 febbraio in Piazza, malgrado che io, secondo le mie forze, mi opponessi, e nonostante le mie dimostranze, quasi in onta di me, volle inalzarmi sotto gli occhi l'_albero della Libertà_, perchè ricusano fede alla mia impotenza a resistere a tutto? Perchè non vi curaste, non dirò nello imparziale animo librare le parole dirette all'egregio uomo signor Poggi amico del padre mio: «_Se il Governo non ha potuto in tutto e per tutto ostare alle esorbitanze ed agli arbitrii dei molti intemperanti, non è stato suo volere, ma solo la mancanza di cooperazione e di forza_,» ma almeno leggerle? Perchè mi chiedete ragione se il vento mi ha portato via qualche vela; tronco qualche albero, e non mi tenete conto del corpo della nave che, Dio aiutando, vi ho preservato dal naufragio? Voi mi siete, Signori, scarsi e crudeli. E badate, comecchè le mie parole adesso sieno argomento di scherno appo voi, che tra i più brutti vizii che offendano il Signore io ho sentito come principalissimo annoverare sempre quello della ingratitudine: anzi in certo solenne Maestro di divinità ricordo aver letto una volta: «_la ingratitudine essere vento crescente, che dissecca la fonte della pietà, e la rugiada della misericordia_.» E queste fonti dovrebbero mantenersi del continuo aperte a dissetare i cuori spasimanti di rabbia, e queste rugiade divine implorarsi perenni a temperare le fronti riarse dal furore. Oltre a dichiarare non provato quello che eglino stessi si sono affaticati a provare, i Giudici esprimono due altre proposizioni, e sono: I. Il Decreto del 7 gennaio 1851, § 53, intorno alla violenza dedotta dice, _che i fatti allegati non gli paiono d'importanza tale da stabilire la violenza irresistibile e continuata_; e qui importa notare, che e' sono della medesima natura, e di molto maggiore intensità di quelli che il Decreto medesimo e gli Accusatori tutti hanno ritenuto valevoli a coartare Principe e Camere! — II. L'Atto di Accusa poi, a § 85, non solo non vuole provata la violenza, _ma la esclude_: qui la contradizione mi sembra palese, perchè il primo non nega i fatti ma non gli apprezza, il secondo del tutto gli nega. Il Decreto del 7 gennaio continua che, in ogni caso, cotesti fatti di violenza non varrebbero a scolparmi, perchè dal Processo resulta l'autorità che io aveva su le turbe tumultuanti, la mia protesta di non temerle, e la frequente riuscita a contenerle per vantaggio di privati cittadini! Di questo modo di argomentare ho ragionato abbastanza; ma il cuore degli onesti tornerà a sollevarsi per me a cagione di questi implacabili sofismi. Ed è pur qui che l'Atto di Accusa, § 85, dopo avere ammessa la forza, anzi dopo averne accennato le origini, ampliato il quadro dell'azione, ad un tratto la fa cessare; e quando? Nel giorno 8 di febbraio. E perchè? Per accusare come liberissimi gli atti pei quali _venne a consumarsi il delitto_. Poi, egli stesso, di leggieri confessa che insistenze, esigenze, improntitudini vi furono; ma invano; ormai il fatto era consumato, nè esse potevano giustificare il delitto già completo.... Se questo sia vero e verosimile, chiunque ha fior di senno a colpo di occhio il conosce;.... ma che favello io di vero e di verosimile, quando neppure l'Accusa crede a quello che dice! — _La Fazione_, ella dice, _per rovesciare Monarchia e Statuto attendeva occasione opportuna, e la ebbe, nello allontanamento del Granduca da Siena_. Dunque non istettero con le mani alla cintola i Faziosi nell'8 febbraio. Essi operarono la rivoluzione in quel giorno, ed è l'Accusa che un po' lo confessa, e un po' lo nega; che modo di ragionare è mai questo suo? E svarioni siffatti, che in una scuola di Logica basterebbero a mettere a pane e acqua il tristo scolare che gli scrisse, hanno potuto avere in Toscana la virtù di logorarmi in carcere ventotto mesi di vita? Le febbri delle fazioni non sono intermittenti, ma continue; e questo andare, fermarsi, rimettersi in cammino, bene sta deplorabilmente nella fantasia dell'Accusa, non già nella natura umana. _Motus in fine velocior_. E dico deplorabilmente, imperciocchè se il Pubblico Ministero penserà che alla sua religione non sieno «confidati gl'interessi della verità, della innocenza, della civiltà, della coscienza pubblica e della giustizia, ma unicamente quelli della pena,» che cosa diventerebbe mai il Pubblico Ministero?... Tutto è qui: fui complice, o no, _con la fazione, che attendeva occasione opportuna a proclamare la Repubblica, la decadenza del Principe, e la Unione con Roma, e la ebbe nell'8 febbraio?_ Se fui, le sue colpe sono le mie; se non fui, perchè mi disfate anima e corpo prolungando la iniquissima prigionia? Il sistema di violenza era dai Circoli degenerati abbracciato e praticato come regolamento organico. Nel principiare del novembre 1848, nella solenne Adunanza del Circolo Fiorentino, tenuta nel teatro Goldoni, trovo che fu proposto di _sospingere_ il Ministero; ma questo parve poco, chè sorse Oratore di maraviglioso seguito in quel tempo, il quale espressamente dichiarò: «essere di opinione che non solamente si avesse a _sospingere_ il Ministero, ma _violentarlo_ se fosse necessario, e portarlo più lontano.... Se il Popolo conosce la necessità di agire prontamente, io ripeto, che non solamente deve _spingere_ il Ministero, ma _violentarlo_, quando vi sia, ciò facendo, la convinzione del bene d'Italia, quando vi sia la convinzione di un fatto di urgenza ec.» È vero che l'Oratore protesta, che le violenze intende abbiano ad essere morali; ma, scendendo agli esempj, suggerisce le dimostrazioni pubbliche e gli eccitamenti del Popolo in massa, sicchè quanto sapessero di morale cotesti partiti ognuno sel vede. Quasi poi che il detto fosse poco, insisteva l'Oratore affermando: «Oggi mi pare che la Italia sia in una alternativa co' suoi Reggitori; nell'alternativa cioè di _rovesciarli_, o di _strascinarli_. Non ci è via di mezzo; una delle due.»[215] Cotesti erudimenti facevano effetto di zolfo su carboni accesi, e già troppo bene gli avevano posti in pratica senza conforti; ora poi che vi si trovavano eccitati, non è da dirsi se volessero fare a risparmio, e se (come l'Accusa immagina contrariamente a quello che narra il Decreto del 10 giugno) se ne rimanessero proprio nel punto in cui per assicurare i loro disegni ne avevano maggiormente bisogno. Intanto l'Accusa, se avesse amato conoscere come i Repubblicani fossero contenti, poteva leggere la requisitoria repubblicana del signor Rusconi, il quale narra che il Partito minacciava irrompere da un punto all'altro contro di me; e poteva anche informarsi come una congiura repubblicana si andasse preparando per rovesciarmi. Se per difendere me dovessi offendere altrui, è naturale che il mio debito sarebbe di restare indifeso, ma le cose a cui accenno sono note a tutti, e resultano da atti pubblici. In breve somministrerò prove più speciali ancora della violenza subíta; adesso giovi ricercare qui, se a questa procella avesse potuto resistersi. Io penso di sì quante volte il Principe non avesse abbandonato il Governo. Bene altramente gravi, così per gli uomini come per le cose, erano le circostanze che accompagnarono in Inghilterra la rivoluzione del 1688; nonostante tra quelle che davvantaggio la favorirono, Hallam pone la fuga di Giacomo II;[216] ed Hume, narrando come il Re dopo avere inviato la Regina e il figlio in Francia, egli pure, secretamente, si muovesse verso la foce del Tamigi dove l'aspettava un vascello, considera che questo passo ebbe a riuscire grato ai suoi nemici più di ogni altro suo procedimento. Questo storico gravissimo espone, come gli emissarii di Francia, fra i quali l'ambasciatore Barillon, erano affaccendati attorno al Re suggerendogli, male a proposito, nessuna cosa potere operare più acconcia a sconvolgere il paese quanto la sua partenza. E che così opinassi ancora io pel nostro Paese ne porgono testimonianza il Dispaccio diretto al Governatore di Livorno, dove dichiaro che lo allontanamento del Principe sarebbe il peggiore dei mali; e gli altri al Presidente del Consiglio, dove gli raccomando a fare ogni prova per ricondurre il Principe e la sua famiglia a Firenze, e di salvarlo anche suo malgrado. Prevalsero altri consigli, dei quali ebbi prima dolore e pericolo, ed ora ho il danno. Giacomo II, abbandonando il Governo, non destinava persona a reggere durante la sua assenza, per lo che grande fu in Londra la sorpresa dello evento, e «ognuno vide le redini del Governo abbandonate ad un tratto da chi le teneva, senza che nessuno apparisse il quale potesse avere il diritto, e neppure _la pretensione d'impadronirsene_. — Allora avvenne a Londra che nella temporaria dissoluzione del Governo, alla plebe fu sciolto il freno; nè vi fu disordine, che in tanto scompiglio non si potesse temere: insorse tumultuante, ed atterrò tutte le cappelle dove si celebrava messa: assalì e pose a ruba le case dello Inviato di Firenze e dello Ambasciatore di Spagna, ove molti cattolici avevano riposte le loro più preziose suppellettili. Il Cancelliere Jefferies, che si era travestito per fuggire, caduto nelle mani della plebe, ne rimase talmente malconcio, che poco dopo morì. Temevasi che lo esercito contribuisse ad accrescere il tumulto. I Vescovi e i Pari, in tanto stremo, si riuniscono per provvedere alla comune salvezza; al gonfaloniere e agli aldermani danno ordini convenienti per reprimere l'anarchia; mandano comandi alla armata, allo esercito, e ai presidii; finalmente s'indirizzano al Principe di Orange. _Giacomo II non era partito d'Inghilterra_, anzi fu ricondotto a Londra, e ricevuto con grida di acclamazione dalla plebe, _seguendo la sua natura versatile_; invano però, chè la rivoluzione per quel breve abbandono del Governo era stata operata. Orange, genero al re, e la figlia Maria, avevano supplantato il suocero e il padre.»[217] Così fra noi, abbandonato il Governo, trionfa il Partito repubblicano; e fu mestieri provvedere innanzi tratto a salvare la società; poi a ricondurre il Paese nelle condizioni politiche che gli erano naturali, traverso il travaglio rivoluzionario, e senza sangue.... XXII. Atti Speciali. § 1. _Fatti di Siena._ Siena sopra ogni altra città toscana presenta se non antiche le cagioni del tumulto, almeno gli spiriti pronti a trascendere in contenzioni di parti. Io ho sentito dire come ad un Santo riuscisse persuadere, che ai coltelli surrogassero sassi nelle pugne, costumate dalla gioventù per vaghezza nelle novene natalizie: e gli parve avere fatto un bel guadagno! Simili gare di origine vecchia si perpetuarono in cotesta città per futili motivi, e s'invelenirono per dissidii politici. Io, davvero, vorrei tacere per affetto alla nobilissima terra; ma considerando la causa che mi fa parlare, non dubito che torrà in pace se io ricordo le contese per la morte del Petronici, il pericolo dei Carabinieri, e Giovanni Manganaro costretto a salvarsi notte tempo con la fuga. Non senza mistura politica furono i tumulti a cagione dei grani, per quanto almeno me ne assicurava la Deputazione, che venne a intercedere a pro dei colpevoli, i quali tutti ottennero amplissima remissione di pena dalla clemenza sovrana. Però studiando comporre in pace la travagliata città, proposi, accettandolo il Principe con lieta fronte, a Prefetto di Siena il signore A. Saracini. Considerando lo inclito lignaggio, l'onore acquistato combattendo per la Indipendenza Italiana, la indole egregia e la mitezza dei modi, pensai essere questo personaggio acconcissimo per ridurre i partiti a concordia.[218] Il Proclama del sig. Saracini, che si legge stampato nel _Monitore_ del 10 decembre 1848, chiarisce _come le maledette parti già tenessero Siena divisa_, e quanto premurose fossero le cure del Governo di pur comporle in pace. — Ah! che per somma sventura di noi, troppo più agevole riesce predicare pace, che conseguirla! — A mano a mano che io m'inoltro in questa Procedura, la mia maraviglia diventa maggiore; imperciocchè l'Accusa invece di ricorrere ai Rapporti ufficiali del Governo, se veramente voleva formarsi giusto concetto dei casi di Siena, vada raccogliendo articoli di Giornali, e corrispondenze dei Circoli, e carte altre cotali meno adatte all'uopo. E tuttavolta anche con gli elementi che scelse mettersi fra mano, no, non si poteva, senza ingiuria manifesta del vero, tessere storia uguale a quella dell'Accusa. Cotesta mala peste delle parti sembra essersi ingenerata fino dall'agosto dell'anno 1848, quando i reduci dalla guerra lombarda trovarono in Patria ai patimenti e al dolore un rimerito di scherno.[219] I quali umori pessimi, inacerbiti dai fatti del 24 ottobre 1848,[220] crebbero così, _che una deplorabil divisione di opinioni politiche radicata nelle menti dei Cittadini, rendeva la guerra civile inevitabile_;[221] onde nel 24 novembre 1848 per opera di cittadini dabbene, fra i quali il colonnello Saracini e il professore Corbani primeggiavano, fu fatta pace fra i capi di parte con universale allegrezza. Quantunque non tutte le cose in cotesta occasione avvenute meritassero pari lode, pure per confermare la pace che sperava durevole, e per premiare la dichiarazione _concorde_ che _in Toscana volevasi la libertà costituzionale, la conservazione di Leopoldo_, e i _plausi fatti alla libertà, al Principe e alla sua reale Famiglia_, io reputai prudente non istarmi tanto sul sottile, e concedere il perdono ai condannati pei tumulti del grano nell'anno precedente, secondo me ne fece ressa la Deputazione mossa da Siena.[222] Nel giorno 30 gennaio 1849, il Granduca giunge a Siena nelle ore vespertine. Fattasi notte, la Banda, preceduta da bandiera bianca e rossa e seguíta da molto Popolo, si recò suonando sotto il palazzo regio; quivi s'inalzano gridi di: _Abbasso la Costituente! Morte agli Scolari! Viva il Regno di Napoli!_ Chi leva diverso grido, come: _viva la Costituente! viva il Ministero!_ è battuto, e inseguito. Il Principe, per ben due volte costretto di affacciarsi al balcone, ringrazia i Sanesi dell'accoglienza fatta a lui e alla famiglia. Il giorno seguente, 31 gennaio, su pei cantoni si lessero appiccati cedoloni, che dicevano: «_Avviso salutare ai Sanesi_. La Costituente italiana è una invenzione del Montanelli toscano, la quale spinge il Popolo ignorante al macello della guerra ed alla miseria. O Popolo, non cedere alla violenza dei pochi tristi, o pazzi, che te la lodano. Roma non la vuole; il Piemonte non l'approva; tu solo vuoi rimanere ingannato? Lo Stato è in miseria, e questa crescerà per la guerra, perchè il ricco dovrà alimentarla con quel danaro, che serviva a darti lavoro, e tu dovrai sostenerla con gli stenti e i pericoli della vita.»[223] A mezzogiorno gli Scolari si radunarono, e deliberarono abbandonare Siena riducendosi a studio nella Università di Pisa. I _Documenti dell'Accusa_ narrano, come si tenesse per _certo_ che il Granduca, per tôrre via ogni pretesto di scissura, si fosse determinato a ricondurre la sua famiglia alla Capitale, e come di cotesti avvenimenti gravissimi andassero incolpati — _i ricchi di Siena, superbi e ignoranti, che temono dovere sborsare qualche soldo di più per la guerra della Indipendenza, e gridano morte ai liberali chiamandoli Repubblicani al solito. Il male è cominciato dallo agosto passato_. Gli animi si accalorano, e già nel 3 febbraio taluno narrando i casi del giorno antecedente, ammonisce: «Il Partito liberale si è risvegliato, credimi, per Dio, che si è svegliato, e lavora energicamente, _e le prime lezioni sono state date_.» E nel 2 febbraio questo Partito, fatto per provocazione furioso,[224] si aduna sul prato della Lizza, e manda pel Prefetto onde spieghi al Popolo, Costituente che sia; e il Prefetto, come vollero, fece: richiesto inoltre persuadere a S. A. di concionare alla moltitudine, promette adoperarvisi, e lo invita a convenire nell'ora prefissa in piazza. Intanto da una parte si grida: Viva Leopoldo solo; e basta; — dall'altra: Viva Leopoldo e Viva la Costituente;[225] — e per allora dividonsi; la sera si trovano puntuali al convegno. «Venne l'ora» (io cito i Documenti dell'Accusa) «in cui si muta la guardia; ed ecco, che la canaglia pagata, tutti armati, si mettono davanti a noi e incominciano a gridare: Viva Leopoldo secondo solo! e noi: Viva la Costituente! e quelli: no; — e noi: sì! — Si affaccia il Granduca, ringrazia e si ritira; si ripetè: — Viva Leopoldo! viva la Costituente! — e quelli di nuovo: — Viva Leopoldo solo! e chi ha coraggio venga avanti. — Allora cominciò la zuffa, ma durò poco, e vi furono soltanto tre feriti dalla parte dei retrogradi.» I giorni seguenti temevasi peggio; bande di gente armata vagano per la città pronte alle offese. Quei dessi, che provocando avevano suscitata la tempesta, ora ne rimangono atterriti. Da un punto all'altro un conflitto sanguinoso aspettavasi, e i provocati dichiaravano: «Noi siamo preparati, e non si avrà più misericordia per nessuno d'ora in avanti.»[226] Intanto per le terre toscane correva un grido, cresciuto, come suole, dalla fama, che sacrilega guerra si combatteva in Siena; sangue cittadino, e da cittadine mani versato, correre le strade: «Che più manca a voi, Guelfi e Ghibellini? Alla riscossa, Bianchi e Neri....» si esclamava dintorno. — E fiere minaccie si indirizzavano al Ministero, ora perchè non avesse provveduto, ora perchè non avesse seguíto il Granduca a Siena, ora perchè non _ne procurasse il ritorno_;[227] tale altra perchè, nonostante gli avvisi, favorisse il Governatore amico e sostegno dei nobili, nobilissimo anch'esso; finalmente tennero dietro le proteste degli Scolari, che _di consenso dei Professori_, si erano rifugiati alle loro case; e i rimproveri di facile, sofferente le perfide trame, sollecitandolo a procedere severamente contro gli svergognati promotori della dimostrazione del 30 gennaio.[228] Questi miserabili casi, pei quali la mente travagliata considera come dopo cinque secoli duri fra noi la maladizione, che costrinse la grande anima dell'Alighieri a lamentare: «Ed ora in te non stanno senza guerra «Li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode «Di quei che un muro, ed una fossa serra;» non hanno virtù alcuna per commuovere le ardue viscere dell'Accusa. A noi il pianto nasconde la dolentissima storia.... ed anche all'Accusa questi fatti nasconde.... il pianto no.... ch'ella non piange mai, — ma il fiero talento di nuocere a torto, in onta al vero, e con angoscia della innocenza; — che cosa dunque rappresenta fra noi questa Accusa? I Rapporti governativi depositati negli Archivii del Ministero, fin qui non concessi, mi davano abilità di fare stampare quanto segue nel _Monitore_ del 5 febbraio 1849: «S. A. il Granduca si condusse, secondo il solito, a Siena per visitare la Reale Famiglia che sverna costà. Un Partito di pochi, e, piuttostochè tristi, stupidi retrogradi, si valse della presenza dell'_Ottimo Principe_ per fare una dimostrazione avversa alla Costituente, coonestando lo stolto intento con _acclamazioni al suo Nome, le quali non potevano essere se non che universali_. — Di qui avvenne la reazione; e i retrogradi ebbero la peggio, rilevando alcuni di loro parecchie ferite. La Giustizia informa: molti arresti sono stati operati; alcuni arrestati confessarono, a un tratto, essere stati pagati: a vero dire, sottilmente pagati, perchè i retrogradi hanno copia di generosità come d'intelletto. — Intanto il Principe, per queste angustie dell'animo e per disposizione di corpo, è caduto infermo. Sebbene obbligato a tenersi giacente, non ha febbre, ma sonnolenza e gravezza, dolore di capo, e gli altri segni tutti di forte reuma. Il Consiglio dei Ministri, ieri sera, aveva deliberato mandargli qualche Ministro per circondarlo della responsabilità ministeriale, e _il Presidente Montanelli si chiamò pronto a partire_. Nella notte sono arrivate notizie da Siena, le quali istruiscono che il Principe desidera e chiama intorno a sè parte del Ministero, o per lo meno un Ministro. Così il pensiero ministeriale si è trovato d'accordo co' desiderii del Principe. Il Presidente Montanelli è partito in compagnia del Segretario Marmocchi di patria sanese. Queste notizie, della verità delle quali non è dato dubitare, abbiamo voluto rendere palesi, affinchè ogni trepidazione cessi, e la città si rassicuri. _La stretta armonia tra il Principe e il suo Ministero, anzichè soffrire alterazione, ogni dì più si conferma_.» Ora, comecchè coteste cose non mi tocchino, tuttavolta in omaggio del vero, esaminiamo se il Granduca statuisse la partenza da Siena prima o dopo l'arrivo del signor Montanelli. Già fu avvertito che il Presidente lasciava Firenze il 5 febbraio, ed arrivava il 6 a Siena nella mattinata. Ora, dai Documenti pubblicati dal Ministero degli Affari Esteri Inglese, intorno ai casi d'Italia, per essere presentati alle Camere del Parlamento, s'impara come Lord Hamilton avverta il Visconte Palmerston, _nel 7 febbraio, che il Granduca desiderava uno dei vapori inglesi stanziati in Livorno per imbarcarsi il giorno 8 a Porto Santo Stefano_.[229] — Dunque, se si calcola il tempo che un messaggio impiegava allora, per difetto di strada ferrata, da Siena a Firenze, il tempo per mandare a Livorno e ottenere risposta dai Comandante Inglese, il tempo per riscontrare S. A., il tempo finalmente perchè il piroscafo giungesse nel prefisso giorno a San Stefano per imbarcare S. A., non sarà indiscreto supporre che, o nella notte del 5 febbraio, o almeno nelle prossime ore matutine del giorno 6 pervenisse al Ministro Inglese la richiesta di S. A. per imbarcarsi il giorno 8 a Porto Santo Stefano. — Però ci persuaderemo che la risoluzione presa di partirsi da noi, precedeva, non susseguiva, l'arrivo del signor Montanelli a Siena: e ci persuaderemo eziandio, che infausti consiglieri di quella furono i successi accaduti dal 30 gennaio al 5 febbraio, non già la presenza del Montanelli e dei seguaci suoi. I Documenti dell'Accusa si sbracciano a volere trovare un concertato fra i disegni dei Repubblicani, le agitazioni di Siena e la presenza dei signori Montanelli e Marmocchi in cotesta città: in prova di ciò allegano certa lettera di Antonio Mordini a Lorenzo Corsi ingegnere di Arezzo; ma è di evidenza intuitiva che il concetto di quella non accorda per nulla con quanto avvenne, nè con quanto il Ministero operò. Infatti la lettera si basa sul caso possibile della dimissione del Ministero toscano che il Partito provocherà fra il 1o e il 5 febbraio. Ora questa dimissione non solo non avvenne, ma in quel medesimo giorno 5 il _Monitore_ annunziava, per mia diligenza, che _l'armonia fra il Principe e il suo Ministero, invece di soffrire alterazione, ogni dì più si confermava_. — E chi, Dio mio, non lo avrebbe creduto al pari di me? Da Siena, lettere confidenziali di persona intima all'A. S. me ne assicuravano sollecito il ritorno; delle notizie, pervenutemi per via particolare e colà trasmesse, mi ringraziavano; di usare solerte opera onde la città rimanesse tranquilla mi raccomandavano. Lusinghiere, amorevoli erano coteste lettere, ed io mi vi affidavo intero. Nè andava di tanta benignità immeritevole la mia fede, perchè ogni mio riposto consiglio manifestava al Principe, _e perfino la mia corrispondenza privata_. — E non avvenne la Dittatura immaginata dal Mordini, nè il nostro invio a Roma; e gli sforzi miei erano diretti a conseguire il ritorno del Granduca, _la sua partenza non già_, e fatti e scritti il dimostrano; nè la unificazione con gli Stati Romani, Toscani e Veneti, nè alcuna delle cose quivi indicate successero. Io non so pertanto che consiglio sia questo di andare a trovare un nesso tra il fatto mio e le infinite fantasie uscite dagli accesi cervelli di quei tempi; molto più quando fra loro appariscono siffattamente disformi. Il Decreto del 7 gennaio 1851, nel § 16, dice espresso, che Montanelli andò a Siena _seguíto_ da Marmocchi, e più tardi da Niccolini: l'Accusa del 29 gennaio 1851 ostenta ignorare se eglino con Montanelli andassero, _o innanzi o dopo esso_. Nè questa esitanza si creda priva della sua buona ragione, imperciocchè tutti i Documenti vorrebbero trovare che il subuglio in Siena avvenisse _dopo_, non _prima_ la giunta loro a Siena. Ma no; anche il Lunario è inesorabile: il gennaio nell'ordine dei mesi viene innanzi al febbraio, e nel processo dei numeri il 5 tiene dietro al 4. Molte cose possono fare e molte ne hanno fatte i Giudici, ma porre febbraio prima di gennaio, e il 4 dopo il 5, non possono: però, se non lo possono fare, lo possono dire; e lo dicono, e certamente non si risparmiano da scriverlo. Il Decreto del 7, § 17, imperturbato afferma che _i movimenti anarchici_ accaddero dopo il _5 febbraio_, pei quali _cessò la sicurezza della reale famiglia_; l'Accusa, § 54, anch'essa sostiene, che Siena, _bastantemente tranquilla.... fino ai primi di febbraio, cambiò tosto aspetto e trascese alla rivolta_. Il Lunario dice che i moti _anarchici_ avvennero dal 30 gennaio 1849 al 5 febbraio 1849. Il Lunario dice che la deliberazione presa di abbandonare Siena, e imbarcarsi l'8 a Santo Stefano, ebbe a precedere, per necessità, l'arrivo del Montanelli; ed il Lunario intende avere ragione, ed il Lunario l'ha, perchè per mostrare che il torto è del Lunario questo non si tribola, e non può tribolarsi col carcere. Felice Lunario! Leggendo attentamente l'Atto d'Accusa, § 45, non trovo che dopo lo arrivo del Montanelli altro abbia saputo raccogliere che _conferenze_ con pretesi _demagoghi_, _dimostrazioni_ apprestate, _voce_ di danaro sparso, _opinioni_ di mutate condizioni della città; ma gli assembramenti, le grida in senso opposto, le percosse, le ferite, il Granduca costretto a presentarsi alle moltitudini, le minaccie: «uccisi prima i Repubblicani, daremo addosso ai Signori;»[230] gli Scolari deliberati ad abbandonare Siena, e il fatto dello abbandono; le bande armate per la città; il proponimento di non usare d'ora innanzi misericordia; il Lunario inesorabile dice che successero dal 31 gennaio al 5 febbraio, e non _dopo_ il 5 febbraio 1849; anzi dall'agosto del 1848, quando vi fu chi ebbe cuore d'irridere i reduci dalla infelice guerra lombarda! I Documenti dell'Accusa talvolta capiscono troppo, e talora troppo poco: se volessero leggere meco i Rapporti di polizia, troverebbero questi fatti semplicissimi che loro racconto. Due Partiti da molto tempo travagliavano Siena: uno smanioso del Principato assoluto, _nemico naturalmente di guerra_, avverso alle dubbie fortune, il quale alla patria, alla gloria, alla voce stessa del Principe, che pur ci chiamava ad impresa ch'era e che fu detta santa, la tenace conservazione, e lo ignavo godimento del paterno censo anteponeva; l'altro, promotore del Principato Costituzionale, della Costituente, e di quanto altro in quei _tempi antichi_ andava per le bocche (chè per i cuori mal saprei dire davvero) dello universale; conciossiachè vuolsi notare da cui fa studio della verità, come dalle stesse carte dell'Accusa non ricavo che in Siena si acclamasse la Repubblica nè prima, nè quando giunse il signor Montanelli. Il primo provocò il secondo, questi raccolse le forze, e andò a combatterlo; quindi scontri deplorabili e timore di peggio. — L'Accusa sembra che lealissimi, degni di onore, amici veri del Principato reputi quelli che acclamavano: — al Principe solo, e basta; — che urlavano: — Morte agli scolari! — che spiegavan bandiera bianca e rossa; che imprecavano alla guerra della Indipendenza, che insultavano la gente, che in piazza si presentavano armati, e a cui non gridava come loro davano di buone coltellate pel mezzo della faccia: — demagoghi (dacchè oggi di questa parola è gran consumo nelle scritture, specialmente nelle curiali), e meritevoli di perpetua infamia gli altri che spiegavano bandiera tricolore, e alla Costituente applaudivano. Ma la guerra della Indipendenza avevano bandita i Ministeri tutti, il Parlamento, e il Principe stesso; ma la bandiera tricolore era stata dichiarata bandiera nazionale; e tutti, badate bene, tutti, o di seta al cappello, o di smalto fra i ciondoli dell'orologio, ne portavano il segnale; ma tricolore fu dato il nastro ai Deputati donde pendeva la medaglia, tricolore la sciarpa che ricingeva il collo ai Senatori, tricolore il nastro della medaglia che, mostrando la effigie del Principe, consolava i suoi sudditi dell'angoscia per la guerra dove li tradì la fortuna, non l'animò; tricolori le bandiere giurate, tricolori le bandiere agitate dalla sovrana destra dai balconi della regale dimora; ma i padri mandavano i figliuoli a studio in Siena, perchè vi venissero istruiti e non ammazzati; ma la Costituente proposta alle Camere con Decreto del Principe e votata dal Parlamento, finchè non era reietta col _veto_, doveva rispettarsi. Ai fatti narrati io vedo opporre la testimonianza di alquante persone, intorno al deposto delle quali una cosa sola dirò: che nè anche l'Onnipotente può fare che il fatto non sia. A che questi testimoni di cose che l'Accusa stessa, co' suoi Documenti, smentisce? Perchè ricorrere a così torbida sorgente? _Non tali auxilio_.... doveva esclamare l'Accusa, come Ecuba quando vide Priamo barcollante sotto il peso delle armi; ma l'Accusa accolse Priamo e mi ha preso anche Tancredi. Purchè mordano, l'Accusa accetterebbe gli orsi, non che gli eroi dei poemi epici! O non vi sono dentro gli Archivii i Dispacci del Prefetto, i Rapporti dei Delegati, le informazioni del Provveditore della Università di Siena, le Procedure incominciate o concluse? E mentre l'Accusa tiene queste lucerne sotto il moggio, o come fa ella a mettere sul candelabro un Misuri copista, un Baldassini tappezziere, un Fedeli sarto, un Corsi falegname, e un Tancredi (senza avvertirci se sia diverso dallo amante di Clorinda), i quali vi dichiarano (e l'Accusa par che lo creda) _che Siena era tranquilla, ma che venuto il Montanelli venne il diavolo?_... L'Accusa non dice se qui il testimone si sia fatto il segno della santa croce. — È notabile una lettera confidenziale di Niccolini al Circolo di Firenze, dove gli si dà ragguaglio di quanto egli operò a Siena il 6 febbraio 1849: in quella egli non ispaccia il nome del Governo, nè se ne dice incombensato, nè propone, o fa cose che gli si possano riprendere.[231] Io per me, quando considero i Documenti dell'Accusa e li confronto con quello che so, ed è vero, e si trova nelle carte officiali del Governo, non posso impedire alla mia mente di meditare sopra la tremenda sentenza del signor Thiers: «Nei tempi in cui si agita la discordia civile, si vedono quei vergognosi processi dove il più forte ascolta per non credere, il debole parla per non persuadere.»[232] § 2. _Invito al Circolo Fiorentino di tenere le sedute in Palazzo Vecchio._ I Documenti dell'Accusa ritengono che io _invitassi_ il Circolo fiorentino a tenere una _orgia rivoluzionaria_ nella Sala di Palazzo Vecchio, che per mio ordine fu illuminata a festa, dopo avere rimproverato il signor Lanari, perchè non concedesse il suo Teatro per celebrare _cotesta solennità_ di Popolo. Ora io dichiaro siffatto _invito_ apertamente _falso_. Nel giorno 8 febbraio, tra le altre pretensioni del Popolo, dei Repubblicani, dei Demagoghi (chiamateli come meglio vi piace, ma di quella gente insomma a cui _nessuno di quanti mi accusano avrebbe saputo dire di no in nulla_, — assolutamente in _nulla_), vi fu quella di volere tenere Circolo nella Sala di Palazzo Vecchio. Tanto poco io lo invitai, che il Circolo volle la Sala quasi in sussidio per non essere stato accolto nel Teatro Nuovo. Tanto poco io lo invitai, che scrissi parole acerbe al signor Lanari per rimproverargli il suo rifiuto, nello scopo appunto, che cotesta vicinanza molestissima non venisse ad annidarsi in Palazzo Vecchio; e se adoperai la espressione di _solennità popolare_, ciò feci perchè, come costumava a quei tempi, ebbi a scrivere il biglietto sotto gli occhi dei petizionarii. Comecchè io primo confessi che sarebbe stato un impossibile, tuttavolta, immaginiamo che l'onorevole Magistrato, che sostiene adesso le parti di Regio Procuratore, nell'8 febbraio si fosse trovato nei miei piedi, ed avesse creduto per lo meno reo consiglio scrivere il biglietto al signor Lanari onde allontanare il Circolo da Palazzo Vecchio, e di questo biglietto avesse dovuto fare portatori i petizionarii; io mi attenterei domandargli, così per mia istruzione, se avrebbe scritto sotto ai loro occhi: _vi raccomando accomodare questa geldra di ribaldi degna di corda, del vostro Teatro, per certa orgia rivoluzionaria con la quale intende deturparvelo materialmente, e moralmente....?_ Ecco, io sono uno di quelli, che credo che l'onorevole Magistrato non avrebbe scritto precisamente così; e mi ha da essere cortese, che tra scrivere queste parole il giorno 8 febbraio 1849, sotto gli occhi dei rappresentanti il Circolo fiorentino, e scriverle nel 29 gennaio 1851, nel § 73 della sua Requisitoria, un qualche divario vi potrebbe pur correre![233] Andate a vuoto le preghiere, le offerte di pagamento, ed anche le minaccie, se così si vuole, per allontanare il Circolo, onnipotente in quei giorni, i suoi rappresentanti tornarono più imperiosi che mai a volere il salone di Palazzo Vecchio; e questa verità di per sè si comprende, imperciocchè, se avessi inteso invitare il Circolo nel salone, non avrei adoperato tutte le vie perchè non ci entrasse. Ricordo come, per ischermirmi, osservassi non convenire che una sala deturpata con le pitture rappresentanti il Trionfo di Cosimo I sopra città innocentissima, udisse la eloquenza di uomini liberi: ma non mi valse, perchè risposero che il Savonarola l'aveva fatta fabbricare a posta per favellarvi di libertà, e che il Popolo voleva usare liberamente degli edifizii fabbricati da lui, nè più nè meno come disse il Circolo sanese quando volle occupare il salone delle _Alabarde_; per lo che lascio considerare a chi legge, se tanto pretendeva nel 30 gennaio del 1849 a Siena il Circolo sanese, che cosa dovesse pretendere l'8 febbraio il Circolo fiorentino a Firenze![234] — Con simile ripiego mi riuscì, più tardi, salvare la campana del Bargello, venerabile monumento di patria antichità, minacciata anch'essa della _fusione_: tanta era la smania del _fondere_ a quei tempi! Allora posi loro sott'occhio la spesa della illuminazione, grave sempre, adesso gravissima pei bisogni della guerra: non la potei spuntare: ridotto a piè del muro, non nego avere detto al signor Giuseppe Nardi: _bisogna contentarli_; — ma _tardi, verso sera_, tornato invano ogni schermo, ogni pratica venuta meno per mandare il Circolo altrove; ed anzi parmi ricordare avergli detto, com'era vero, «_lo vogliono_;» ma se io male non appresi la mia lingua, mi sembra che il termine _bisognare_ corrisponda _ad essere di necessità_; ed è scrivendo o parlando il più usitato, quantunque, per vaghezza di variare, si muti talora con la frase — _è forza_, tal altra con quella — _fa di mestieri_, e simili. Però, se fui costretto codesta sera a cedere, mi adoperai, facendo tenerne proposito a parecchi caporioni del Circolo, perchè andassero altrove a piantare i loro tabernacoli, principalmente insistendo sopra la improvvida spesa. Voglio aggiungere un altro fatto, ed è, che se avessi invitato il Circolo, non mi sarei mostrato di tanto scortese a non accoglierlo di persona, o almeno, per breve ora, visitarlo: ma no, io non lo accolsi, neanche per un istante mi vi affacciai. Questi fatti bene poteva attestare il signor Nardi archivista del Ministero dello Interno, e poteva attestare altresì se io, repugnante, come quello che patisce forza, o volenteroso, come chi invita, lasciassi entrare il Circolo nel Palazzo Vecchio. Se il signor Giuseppe Nardi (la quale cosa non credo, però che egli mi parve onestissimo uomo, e mi dorrebbe più per lui che per me se dovessi persuadermi adesso di essermi ingannato) per peritanza che spesso, e a torto, sente uno impiegato a deporre in favore del caduto in disgrazia, non avesse somministrato testimonianza del vero, non mancano testimoni che sappiano e vogliano attestarne, conciossiachè lo espediente a cui mi appresi, per sottrarmi, si sparse per la città, dando luogo, siccome avviene, a novelle. Intanto l'Accusa si acquieti di questo, che, per quanto cercare ella faccia, ella non troverà che prima e dopo l'8 febbraio il Circolo fiorentino procedesse d'accordo con me; io con lui.[235] § 3. _Impieghi dati in ricompensa a Mordini, a Ciofi, a Dragomanni; danari a Niccolini._ Antonio Mordini erami, come ho detto altrove, e qui confermo, non pure non legato in amicizia, ma[236] perfino ignoto di persona. Giuseppe Montanelli lo mise in sua vece al Ministero degli Esteri, ed io non poteva contrastare. Da prima furono le mie relazioni poche con esso, se non che nell'udirlo ragionare parendomi, come veramente egli è, uomo d'ingegno non ordinario, incominciai di mano in mano ad aprirmi seco, e di leggieri, ponendogli sott'occhio le ricerche coscienziose, ed i fatti dai quali resultava evidente la repugnanza del Popolo toscano dalla Repubblica, lo ebbi persuaso della necessità della restaurazione del Governo Costituzionale. Di questo egli somministrò non dubbie prove, e lo vedremo più tardi nell'Assemblea della Costituente combattere i suoi antichi amici politici. Dalla parte repubblicana sono stato acerbamente ripreso di avere assiderato i cuori delle persone che mi stavano attorno; e fu posto in dileggio quello che chiamano _positivismo_.[237] Non è così: io non ho assiderato come non ho inebriato nessuno: ho pregato di bene esaminare i documenti raccolti, e decidere con coscienza, posto da parte qualunque privato desiderio. Quando si tratta delle cose di questo mondo, mi sembra che dare loro una occhiata non sia poi irragionevole affatto, nè _scandaloso_ tanto quanto il _Regio_ Procuratore della _Repubblica_ sig. Rusconi presume; però che spesso mi tornasse alla memoria quel filosofo, che per fissare sempre le stelle cadde nel pozzo. Ora, in quanto al signor Mordini concludo, che non lo conoscendo non lo avrei impiegato, come invero io non lo impiegai; ma dopo averlo conosciuto io lo avrei impiegato, perchè di mente giusta, capacissimo a tenere uno officio, e di vuote astrattezze troppo meno vago, che altri non immagina. Consentii che il signore Demetrio Ciofi, anzi ebbi caro che ad ogni modo si allontanasse da Firenze. Le carte del Processo attestano com'egli fosse persona di moltissimo seguito nel Popolo minuto, capo del Circolo di San Niccolò, parlatore facondo e potente a tirarsi dietro la moltitudine devota. Siccome per ordinario le provincie prendono norma dalla Capitale, così rimuovere da Firenze le persone che forse avrebbero mantenuta accesa l'agitazione, mi parve diritto consiglio; altri propose, ed io approvai, _quantunque a vero dire non vi fosse luogo a repulsa_; e certo non è senza riso questa accusa, imperciocchè conoscendo l'autorità grandissima in quei giorni del Ciofi e dei compagni suoi, vuolsi maravigliare, che di sì lieve ufficio si contentasse, e ad assentarsi da Firenze acconsentisse, e non piuttosto rovesciato il Governo in luogo suo si surrogasse; il quale avvenimento quanto potesse essere desiderato da quei medesimi che adesso m'incolpano, lascio a loro considerare. Dragomanni poi proposi io stesso: egli non era temibile affatto; mal destro a discorrere; di poco credito in guisa, che mai gli riuscì farsi eleggere Deputato: o di fortuna poco bene in arnese. Quando mi capitò il destro di mandarlo lontano, io lo afferrai, e così adoperando intesi dare sussistenza ad uomo di chiara stirpe, cultore delle lettere, e mostratomisi parziale fino da quando egli, Presidente dell'Accademia della Valle Tiberina, me immeritevole e non chiedente, anzi repugnante, volle ascritto nell'albo dei socii della medesima.[238] L'Accusa da prima sospettò, che cotesto impiego fosse mercede della opera prestata nell'8 febbraio; io feci avvertire che soltanto nel _10 aprile_ egli era promosso: ricompensa un po' troppo remota; — allora gavillando l'Accusa ha trovato che si volesse allontanare perchè, più che di vantaggio, fatto impedimento; e nè anche questo è vero. Il signor Lemmi era stato eletto Segretario allo Incaricato di affari a Costantinopoli: ricusando egli, gli subentrava il sig. Dragomanni quasi fortuitamente.[239] Quantunque, come il proverbio dice, l'asino non valga la cavezza, chè materia di piccolo momento ella è questa, pure anche qui mi piace ripigliarti senza rancore, o Accusa, e condurti a toccare con mano che non ne imberci una. Fammiti qui appresso, e vediamo un po' se mettendo tutto il nostro in comune (poichè di comunità oggi corre la usanza), ci riuscisse fabbricare qualche cosa che avesse garbo di ragionamento. A che miravo io? Su, dillo, via. — L'Accusa, che teme esporre il suo a compromesso, mi sbircia alla trista, e tiene i labbri stretti. Lo dirò io per te; io non risico nulla: tanto in prigione ci sto. Miravo forse alla restaurazione del Principato Costituzionale? L'Accusa, scattando il capo, si tocca col mento la manca e la diritta spalla. No, eh! Ma potevi fare più adagio a negare, che per poco non hai preso una storta nel collo. Mulinando contro il Principato Costituzionale, un Repubblicano (e accordo, di lieve importanza) doveva pure tornarmi più vantaggioso a Firenze che a Costantinopoli; perchè anche tu, o Accusa, devi andare persuasa che indurre il Sultano a mandare Turchi in soccorso della Repubblica toscana, neanche al Dragomanni sarebbe potuto riuscire. Bisognerebbe credere che io mirassi al _provvisorio eterno_. Come provvisorio eterno? Non ci è rimedio: a considerare questa ipotesi io mi sento tratto pei capelli proprio da te, o Accusa mia; avendo tra i gratissimi testimoni a carico del Romanelli accettato quello che depone avergli udito dire: — _Viva il Governo Provvisorio eterno_, — e' pare che anche tu abbi fede nella eternità provvisoria. Lasciamo, chè di questo avrai a rendere conto a Dio, perchè gli è un peccato grosso. Come non devo credere io così, quando di queste antitesi, o come le si abbiano a chiamare, io ti vedo innamorata? Difatti, con mio non mediocre insegnamento venni notando l'_uno o taluno_, il _complice o impotente_, e fino dalle prime carte la mia scienza del _veleno nascosto che si nascondeva_ nella montanelliana Costituente, con altre più _taccherelle che si tacciono per lo migliore_, come di _Guccio Imbratta_ diceva Messer Giovanni Boccaccio. Ma dacchè _provvisorio eterno_, o eterno provvisorio, anche a rifarsi di capo al mondo non si trova se non su i labbri del tuo testimone, così mi sia lecito passare questo punto sotto silenzio. Avanza pertanto una cosa sola; la Repubblica. Ora come, quando si agita di Repubblica, cacciansi via i Repubblicani? La vigilia di vendemmia si licenziano eglino gli operaj della vigna, o piuttosto, in qualunque ora del giorno si presentino, si fermano e mettono alle faccende? E se mi si oppone che ancora io confesso che piccolo frutto poteva cavarsi dal Dragomanni, rispondo che è vero, ma che ogni pruno fa siepe, ed al bisogno da ogni legno schiappa si cava; sicchè convien dire che l'Accusa, gittando la rete al motivo della spedizione del Dragomanni presso il Gran Turco, non è giunta a pescarlo. — Certo, Dragomanni visitava spesso la mia casa, ma non per questo godeva davvero la mia confidenza: al contrario, nel cospetto di tutti, si manifestava di principii opposti ai miei, ed io sovente lo riprendeva alla presenza di familiari ed amici con parole acerbe della sua irrequietezza, e delle pratiche che teneva con persone troppo diverse da lui, per educazione e per nascita. Ancora: dalle sue parole profferite nel calore della disputa ricavava lume per conoscere i disegni del Circolo e degli apparecchi repubblicani, per cui talvolta mi fu data abilità di prevenirli. _S. A. un giorno ebbe la bontà d'interrogarmi su questa pratica; io le ne dissi la origine e il motivo, ed essa mi parve approvarla_.[240] D'altronde, prudenza così ammaestra operare. Gli uomini diventati o pericolosi o potenti negli Stati bisogna opprimere, o amicarseli; il primo partito è dei tempi del Borgia, la religione lo riprova, non lo consente la indole toscana; molto meno la mia; importava dunque li gratificando allontanarli. In questa guisa pertanto operai Ministro, _e palesandone le ragioni alla Corona, ella mi parve andarne persuasa_. Finchè il Governo starà nelle mani di gente esclusiva, agirà e sarà odiato come fazione. — È intendimento elementare dei Governi Costituzionali, accogliere negl'impieghi persone di varii Partiti, onde l'uno all'altro non prevalga, e l'Autorità della Corona regga entrambi equilibrandoli. Maestro di cosiffatto equilibrio fu Luigi XVIII, e morì re. Carlo X e Luigi Filippo l'obbliarono, e morirono esuli. La storia rammenta come egregia arte di regno la promozione che fece Napoleone, ad ufficj supremi, degli stessi _Convenzionali_. Però, e l'Accusa lo prova, pochi furono dal Governo conferiti impieghi a cui parve procedere infesto al Principato, e con qual mira, e da quale necessità costretto, già esposi; e che il disegno non fallisse dimostrò il successo, dacchè tolto dal Circolo il Mordini, e dei più capaci alcuni amicati al Governo, altri espulsi, andò di giorno in giorno declinando, agitandosi alfine con rabbiosi, ma disperati conati. In breve vedremo come i Demagoghi contro me si sbracciassero, perchè alla mensa degl'impieghi non convitassi i puri Repubblicani; ed anche in questa parte mi trovo fra incudine e martello. L'Accusa afferma avere goduto il Niccolini la mia confidenza, e avergli io pagato nel 13 febbraio dieci monete. Si è veduto se Niccolini potesse essermi amico: egli mi fu soverchiatore, esploratore, e nemico, ora coperto, ora palese. Quando potei lo bandii, nè egli si richiamò della offesa, come altrove esporrò con larghezza maggiore. In quanto alle dieci monete che ordinai pagassersi al Niccolini, e' fu appunto per non serbare obblighi seco, il quale per insinuarsi nell'animo del mio giovane nepote, o per altra causa che il muovesse, volle donargli una carabina, e questi vago di armi accettò. Io come prima lo vidi, instai a che, o si riprendesse la carabina, o ne accettasse il prezzo: dopo averlo rifiutato, egli alla fine accettollo; ed io, che non avevo la moneta addosso, gliela feci pagare in dieci francesconi dallo Adami, perchè convivendo meco egli mi andava debitore della sua quota di spese di casa. — La carabina deve essere stata rinvenuta nella stanza di Palazzo Vecchio abitata dal giovane. I conti col signore Adami nè anche adesso sono fatti, nè si fecero mai, onde io non potei accorgermi se mi avesse portato a debito, come doveva, le L. 66. 13. 4. A confermare questa spiegazione agevole e piana, concorrono il modo confidenziale del biglietto: — _Adami. Paga dieci scudi a Niccolini. Guerrazzi_; — che dimostra come io m'indirizzassi all'amico, non al Ministro, e la omessa indicazione dello uso della moneta, il quale è costume specificare quando si tratta di pubbliche spese; e finalmente io credo, che non sieno mancate testimonianze validissime intorno alla verità del fatto: nonostante l'Accusa tiene in tutto e per tutto le pugna strette, quasi paurosa che schiudendole un poco si volino via le raccolte incolpazioni. Dieci scudi? E in questa somma l'Accusa presume vedere la giusta mercede di una rivoluzione? — Per amore del cielo, non faccia credere queste cose l'Accusa, imperciocchè se le rivoluzioni fossero a tanto buon mercato, correremmo pericolo pei tempi che volgono che se ne aumentasse prodigiosamente il numero dei _consumatori_! § 4. _Lettera al Sig. Giovan-Batista Alberti Prefetto di Arezzo._ Questa lettera è riportata nel § 25 del Decreto del 7 gennaio 1851; e dice così: «Il Granduca è fuggito da Siena: ignorasi dove si sia ridotto. Prima di partire ha dichiarato annullare la Legge intorno alla Costituente. Il Ministero convoca le Camere e dà la sua dimissione. Sarà instituito _necessariamente un Governo Provvisorio_. Si circondi dei Patriotti più caldi dello amore del Paese. Prenda i provvedimenti che in simili casi straordinarii persuade la necessità. Se avvengono _reazioni_, si comprimano ad ogni costo, sotto la sua personale responsabilità. Crei una Commissione di salute pubblica; energia, e vigore; viva la _Patria_. I Principi se ne vanno, ma i Popoli restano ec. — Firenze, 8 febbraio 1849, — 5 di mattina.» Il Decreto afferma che per questa lettera si dichiara come per me si reputasse ormai la Monarchia cessata in Toscana. A me pare che questa lettera non dimostri altro, tranne la mia ansietà e la mia diligenza che in tanto sconvolgimento la Patria non s'infamasse con azioni scellerate. In che e come nuoce cotesta lettera? Forse, perchè porgevo avviso al Prefetto dell'operato della Corona? Ma la stessa Corona voleva si rendesse palese, e presto. Forse perchè presagivo la elezione del Governo Provvisorio? Ma questa ormai era diventata politica necessità; e il Giornale dei _Conservatori Costituzionali_ annunziava essere _nella mente di tutti_. Forse per la notizia dello allontanamento della Corona? Ma se si era allontanata! Forse perchè non indicavo il luogo dove si era ridotto il Principe? Ma nè il Principe lo diceva, nè sembrava egli stesso saperlo. Forse per la raccomandazione di circondarsi di Patriotti caldi dello amore del Paese? O di chi doveva circondarsi? Di quelli che gli volevano male? E ci erano. Forse per le pressanti istanze onde i moti reazionarii non avvenissero, o avvenuti si comprimessero? — Qui giova fermarci alquanto, e chiarire per bene questa materia. I Documenti dell'Accusa, noi lo vedemmo, ritengono il Ministero nostro come uno di quei parti mostruosi a cui le balie devono lasciare sciolto il bellíco: egli ebbe prima il torto di vivere; poi subito quello di non farsi ammazzare di buona grazia, persuaso, come doveva essere, di nascere in peccato originale: però anche allora, agli occhi dell'Accusa, fu colpa opporsi ai moti reazionarii; bisognava non impedirli, anzi dar loro comodo di operare con sicurezza piena. Se l'Accusa così pensa di me mentre fui Ministro, immaginate un po' voi che cosa pensi quando mi vollero parte del Governo Provvisorio! Ed io apertamente dico all'Accusa, che pessimo argomentare è cotesto suo. — Non si dissimulino le cose, ch'è vano e non plausibile conato: la verità si ricerchi, e si dica. Il Principe parte da Siena, aborrendo _reazioni e sanguinosi conflitti_; e l'Accusa invece non vuole che le reazioni, i conflitti sanguinosi, nè la guerra civile s'impediscano; e perchè? Perchè crede che tutte queste cose la causa del Principato favorissero. Dio ci liberi dalle offese, — ma ed anche dalle difese dell'Accusa! Dunque il Principe, a mente dell'Accusa, sta con la reazione? La Corona (e lo dovrebbero sapere i Magistrati) non istà con i reazionarii, nè con i Repubblicani; sta con la Costituzione. Ma i Giudici sanno eglino reazione che sia? Sanno eglino come proceda? La reazione è ripristinamento dell'odioso dispotismo, e del suo tristo corteggio, co' modi che la umanità aborrisce, e la morale condanna. Ora in Toscana, per la Dio grazia, non erano soltanto due Partiti estremi, ma prevaleva, mentre io vivea nel mondo, il terzo Partito degli amici delle Libertà Costituzionali _più o meno largamente intese_. Ricordano i Giudici come la reazione operasse nell'Aretino nei tempi passati? Forse lo hanno dimenticato; mi concedano che lo richiami loro alla memoria. «Nella vigilia dei santi Apostoli Pietro e Paolo (28 giugno 1799), allo incessante rimbombo dei colpi da fuoco e dei _Viva Maria_, il Popolo _sanese_ accorre in folla; e si unisce co' suoi _vendicatori aretini_; nei suoi primi slanci si scaglia contro coloro che stimava non semplicemente avversi alla religione cattolica, ma occulti cospiratori per abbatterla, quali sono i _giudei_; pone quindi a _sacco_ qualche bottega, e qualche casa di essa; _alcuni ne uccide e gli aborriti cadaveri getta sul fuoco_!....» Sanno i miei Giudici, che fece la reazione nella inclita città di Siena nel medesimo tempo? A Siena furono gettati _cinque ebrei vivi_ ad ardere sul rogo acceso su la piazza maggiore davanti alla immagine della Madonna, che sta a piè della Torre, e allo Arcivescovo Zondadari!! Questi fatti i Giudici possono ritenere per veri pur troppo, imperciocchè vengano narrati dal Canonico Giovanni Battista Chrisolino dei Conti di Valdoppio, parroco della Cattedrale aretina, a _gloria_ (com'egli dice) di _Maria Santissima del Conforto_, stampati in Città di Castello nel 1799. Cotesti immani uomini, siffatte nefandità commettendo, invocavano il nome della _Consolatrice degli afflitti_; sarebbesi dovuto lasciarli fare, nella fede che ciò operassero a maggiore gloria della Madre di Dio? — Anzi imparo, fremendo, come nell'Agro aretino fare _Viva Maria!_ significhi portare le mani ladre nella roba altrui. Ora i ladri e i violenti sol perchè gridino _Viva Maria_, o _Viva Leopoldo II_, voglionsi venerare per santi, o lodare per leali?... Vergogna per tutti queste cose, non che dire, pensare; per Magistrati poi enormezza! Sanno i miei Giudici, che cosa operasse la reazione nel 1849 a Empoli, a Lucca, nell'Aretino e altrove? Certo prendevano a pretesto il nome del Principe, ma le case incendiavano, le strade rompevano, le imposte ricusavano, dalla patria difesa aborrivano, straniere dominazioni macchinavano, ruberie e ferimenti commettevano, terre e castelli di assaltare tentavano. — Io non ho gli Archivii, ma se giustizia vive nel mondo mi verranno finalmente concessi, e allora si conosceranno le mene delle Provincie, e chi le suscitasse, a qual fine tendessero, non meno che gli sforzi dei Giusdicenti a reprimerle. In tanta deficienza giovi non ostante favellare di alcuno. «Nella sera del 12 febbraio, un piccolo pugno di scioperati, e avversi al Paese, non che al proprio interesse (non però dimoranti a S. Miniato, o appena 8 o 10), concepito il vandalico disegno di troncare e _guastare la linea ferrata in quel tratto di pianura, che giace fra l'Arno e il posto della Scala_, si recarono alla Parrocchia di S. Piero alle Fonti; ove di prepotenza vollero suonare la campana a martello, nella speranza che i contadini, ed altri popolani accorsi al suono, gli avrebbero secondati. Ma gl'intervenuti, comunque numerosi.... altamente biasimarono, e, protestando non volere dare mano a opera tanto nefanda, si dileguarono. I pochi facinorosi, vedutisi delusi, si dettero con _forsennate grida, e con fiaccole_, a fare proseliti lungo la strada nel punto che passa la parrocchia della Isolata, quando per l'unione di altri male intenzionati si lusingarono potere dare principio; gl'Isolani in numero di circa 60 si fanno loro incontro a passo di carica, e fatto alto al cancello della strada ferrata, esplodono in aria i fucili. Ciò bastò, perchè i perversi e i faziosi estinte le fiaccole si disperdessero, dandosi a fuggire per le vie traverse, temendo essere inseguiti. A S. Miniato appena ebbesi contezza dell'accaduto, la indignazione dei cittadini contra questi perturbatori dell'ordine, fu universale; e già molti volenterosi avevano preso le armi per discendere al piano ec.» — (Lettera del signor Carlo Taddei al prof. Giovacchino Taddei. — Vedi _Monitore_ del 17 febbraio 1849.) Tutti i Documenti dell'Accusa riportano lo incarceramento dei Parrochi, e di altra gente, ordinata dai signori Montanelli e Mazzoni in premio, essi dicono, _della gioia che le popolazioni circostanti a Firenze, nella purezza dell'animo, mostrarono con innocenti e festive dimostrazioni_ allo annunzio del ritorno del Granduca. Di questo incarceramento io non so; ma so, che un Lally Tolendal viene celebrato per le storie, come quello che nelle prime commozioni di Francia ebbe il coraggio di proporre un proclama col quale esortavasi il Popolo a non insanguinare le mani, e lasciare libero il corso alla giustizia. Il Bailly intendendo a salvare la vita al Bertier, ordinava che lo trasportassero alla Badia, e quivi lo custodissero prigione; se non che fece tronco quel disegno la plebe, la quale avventandosi in Piazza della Greve contro cotesto sciagurato lo ridusse a morte. Assai più notabile è il caso del Foullon. Lafayette, di cui certamente non vorrà negare alcuno la nobiltà del carattere, e lo amore degli uomini, per sottrarre dalle mani del Popolo furibondo il Foullon, trovò il consiglio di mostrarglisi acerbamente crudele: «Ed io, diceva arringando la moltitudine, lodo il furor vostro; sempre ebbi in odio costui; lo reputo perdutissimo uomo, e non credo che possa immaginarsi pena che uguagli al suo fallire.... Però badate; egli ha da avere complici, e non pochi: importa conoscerli; intanto io farò trasportarlo alla Badia: quindi lo processeremo, e condanneremo alla morte infame che si è meritata pur troppo.» Il Popolo persuaso applaudiva, quando il Foullon, indovinando il segreto concetto del Lafayette, ebbe la inavvertenza di fare plauso anch'egli. Allora il Popolo si ravvisava, una voce sinistra sorse a gridare: «sono d'accordo!» e il pietoso trovato del Lafayette riuscì invano. — Inoltre, cosa nè singolare, nè inusitata presso i Governi, è schiudere la carcere come asilo supremo ai perseguitati... e me pure pretesero dal fiorentino Popolo.... Ma di questo più tardi. Che tale poi fosse lo scopo del Montanelli, me ne persuadono e la indole mite di lui, e il nessuno aumento, per quanto io sappia, del martirologio in Toscana.... e i successi che stiamo per esporre. Intanto, è mestieri affermare apertamente, che le tinte, di cui l'Accusa colora il tumulto del 21 febbraio, sono false e smontano al sole. Se cotesto moto avesse presentato il carattere che immaginano, o come la città di Firenze sarebbesi tutta levata a reprimerlo? Nè il tumulto si rimase a così tenere dimostrazioni; però che io leggo, egli acclamasse ai nemici della nostra Patria, e seppi con certezza come gli ammotinati s'indirizzassero contro la città con urli di minaccia, e spari di schioppo. La Guardia Civica non pare che andasse persuasa troppo della purezza dell'animo di cotesti innocentissimi, dacchè accorse _spontanea a ributtarli_ con le armi, e accorse ancora spontaneo e furibondo il Popolo fiorentino. L'azione del Governo non fu di eccitare, ma di risparmiare la effusione del sangue, trattenendo la moltitudine da mettere le mani violente nella vita altrui, ed ostando che gli arrestati a furia di Popolo si manomettessero.[241] Il Montanelli, comunque infermo, sorse dal letto e vi si adoperò, oltre quello che parevano consentirgli le forze. Funesta notte poteva essere quella, e madre di assai più terribile giorno: quando il sig. Montanelli non avesse altro merito, parmi che Firenze dovrebbe benedire il suo nome. Adesso corre il tempo della ingratitudine; ma i tempi non vanno sempre ad un modo; e chi ha bene operato può aspettare nella tranquillità dell'animo, che gli sia resa giustizia un giorno, e da tutti. — Ora, considerati i Rapporti di Polizia, il consenso spontaneo ed universale della Civica e del Popolo fiorentino, nello avventarsi contro i campagnoli tumultuanti, parmi che si possa concludere con una di queste due cose; o che il moto del 21 febbraio non presentava i caratteri attribuitigli dall'Accusa, o che nè i tempi erano quelli, nè i modi per operare la restaurazione del Principato Costituzionale. E anche ad Empoli, negli avvenimenti del 12 febbraio, i facinorosi gridavano: _Viva Leopoldo II!_ e intanto la Stazione bruciavano, e la strada ferrata rompevano. Ho sentito dire che si scusassero col timore che i Livornesi sopraggiungessero, ed hanno accettato la scusa; ma, in grazia, la Stazione con la strada come ci entrava ella? E nel 23 febbraio, quando gli Empolesi, minacciando rinnuovare gli attentati medesimi, vi fecero accorrere pronta e spontanea la brigata delle Guardie di Finanza di Firenze, avevano sempre paura dei Livornesi? No. La verità è che uomini avversi più che al Governo alle persone di quelli che lo tenevano, eccitarono le passioni delle moltitudini, e queste, fiduciose della impunità per la dissoluzione del Paese, non pure trascorsero al guasto della strada ferrata e allo incendio della Stazione, ma posero in compromesso la proprietà degli agitatori medesimi. Il Popolo di Empoli, dedito al commercio dei trasporti più di ogni altro, ebbe a patire danni per la costruzione della strada ferrata, e l'odiò allora, e forse l'odia anche adesso; solito effetto della nuova industria che disagia o rovina l'antica. — Tutte queste cose sapeva, e le dissi apertamente in faccia agli Empolesi; però nessuno si dolse di asprezze per parte mia, nè fu ricercato per negozii politici, e tutto a tutti rimisi, salvo delitti comuni; ed ecco come favellai ai Deputati di Empoli venuti a Firenze per condannare le grida _non consentanee_ ai tempi levate dalla gente empolese, e per _respingere da sè_ il fatto della strada ferrata: «I fatti di Empoli commossero a dolore il Governo Provvisorio, a sdegno la Toscana tutta. L'essere usciti in parole non consentanee ai tempi, e in atti di ferocia contro le cose e le persone nella sera del decorso venerdì, affligge non solo quanti amano _le istituzioni e i governi liberali_, ma quanti hanno _senso di umanità_. Lo incendio della Stazione è siffatto eccesso, che parrebbe incredibile, se non fosse avvenuto alla distanza di poche miglia da noi. Ben fa il Paese a respingerlo da sè. Così si mette d'accordo con la pubblica opinione che lo ha fulminato con la sua disapprovazione.» E continuavo confidando che gli uomini più autorevoli di cotesta illustre terra «raccomanderanno al Popolo di quella e delle adiacenti campagne l'_amore all'ordine_, che ogni Partito dee rispettare; _la tolleranza delle opinioni_, che i soli illiberali possono respingere; la _concordia_, che i soli fautori degli Austriaci possono odiare; il _rispetto_ alla _proprietà, e soprattutto alla strada ferrata_, che solo l'uomo nomade può _guardare di mal occhio; la quiete e la sicurezza_, che sole possono mantenere la floridezza di quel Paese ec.» — (Vedi _Monitore_, 16 febbraio 1849.) A Castelfranco-di-sopra le _turbolenze_ presentarono tale carattere da indurre il Gonfaloniere e la Guardia Civica a interporre le loro premure affinchè cessassero. Colà il Governo non mandò forza; _i Cittadini stessi compresero la necessità di prevenire disordini, e vi si adoperarono con frutto_. — (_Monitore_, del 26 febbraio 1849.) A Castelfranco-di-sotto, nel 9 febbraio, successero moti così gravi che la Guardia Civica ebbe a impugnare le armi e combattere; alcuni Civici rimasero feriti. I Rapporti di Polizia autorizzarono il Governo a pubblicare la seguente notizia nel _Monitore_ del 14 febbraio 1849: «In Castelfranco avvenne un movimento in senso _retrogrado_. La Guardia cittadina accorse numerosa a reprimere il disordine, sebbene ne _patisse danno_. — Il sangue uscito dalle vene dei Civici di Castelfranco è una offerta fatta alla causa della _nazione e dell'ordine_. Perchè i buoni cittadini non si affrettano a respingere questi movimenti? Qui non si tratta di quistione di _forma governativa. Il nome di Leopoldo è un pretesto per violare la proprietà, per saccheggiare le case, e per uccidere i migliori cittadini!_ — Il movimento non è politico, ma anarchico: non si combatte per un Governo contro un altro, ma per non averne nessuno. Il Governo vuole l'ordine, perchè la Legge abbia forza e sia salva la Patria. I cittadini devono volere l'ordine per la sicurezza della Patria non solo, ma ancora per quella dei proprii giorni e delle proprie sostanze. — Vogliono i cittadini che la Toscana sia invasa da continui ladronecci? Vogliono che Austria speri nelle nostre contese le sue vittorie? — _Morire per l'ordine è morire per la Patria_. Ritenga i poveri dall'anarchia il pensiero che il Governo si adopera per diminuire la miseria; muova i ricchi a resistere alla _reazione_, il senso dell'onesto, l'amor patrio, il proprio interesse.» In Prato si tentavano disordini contro la strada ferrata Maria Antonia, della specie di quelli di Empoli. Le Autorità e la Commissione Governativa seppero prevenirli con prontissimi e gagliardi provvedimenti. (Vedi _Monitore_, 16 febbraio 1849.) A Cascina incendiavano la Stazione della strada ferrata. «Nel mio passare ho trovato la Stazione di Cascina in fiamme. Spegnere lo incendio era impossibile, perchè la Stazione era presso che distrutta. Io seguito il mio viaggio, appena avrò preso alcuni concerti col Pretore di Pontedera. — Al Ministro dello Interno. — PAOLI.[242]» Finalmente a Lucca la strada ferrata a furia di Popolo disfacevano. Del contado di Arezzo più tardi. Dovevano dunque lasciarsi fare? Stare a vedere le genti sbranarsi, battere le mani agl'incendii, plaudire ai saccheggi, con sempiterna infamia assistere, neghittosi, al sobbissare del Paese? E queste cose con serena fronte profferiscono Magistrati toscani? E, nel pretenderle, il loro cuore nei loro petti sta saldo? Dunque, a mente di loro, la bandiera cuopre sempre comecchè perfidissimo il carico? La marca basta per garantire la merce falsata? Non così, per onore del nostro Paese, la intendono tutti i Magistrati toscani. La Corte Regia di Lucca, con Sentenza del 4 giugno 1850, decidendo intorno alla spedizione di Capannori e di Porcari, ha dichiarato che: «Essendo diretta a ricomporre in quiete e all'ordine la provincia.... di comprimere ogni reazione che minacciasse disorganizzare lo Stato, e di risparmiare, allontanandone il pericolo, le calamità di mutue stragi.... e non tendente a rafforzare il Governo nel male acquistato potere.... comparisca ragionevole ritenere che il Governo stesso non si allontanò da quella linea di condotta che la necessità della precauzione e le regole della prudenza consigliano, e che in pariforme caso un Governo, anche legale, avrebbe, senza esitazione, abbracciata.» Perchè la Verità dorrebbe preferire le sponde del Serchio a quelle dell'Arno? — Così è: come a Lucca, accadeva da per tutto. Le agitazioni politiche già già destavano le furie socialistiche. Commosso da apprensioni terribili, oppresso da fatiche, a cui sembrava impossibile che uomo potesse durare, io mandava un grido di desolazione col Proclama del 16 febbraio 1849: «La nostra bella contrada si disfà, se quanti hanno cuore italiano non sorgono animosi a salvarla. Bande di facinorosi, col pretesto della _fuga di Leopoldo II_, ed anche senza pretesto, irrompono al saccheggio e allo incendio. Il Governo ha represso gli scellerati, e saranno puniti.» In cotesti tempi, per così vigile provvedere, persone onorevolissime mi levarono a cielo; nè fra queste mancavano parecchi membri del Municipio fiorentino, e il suo egregio Capo. Alle mie dichiarazioni che la mia natura, vinta dal travaglio, stava per soccombere, allibivano; e primi fra gli altri, gli antichi impiegati, gli stessi servi della granducale famiglia, a mani giunte, mi supplicavano a non gli abbandonare. Sapevano ben essi quali sorti gli aspettassero! Ahimè! Come mai tutte queste fatiche, cure e pericoli adesso, a un tratto, diventarono delitti? Fra tante, e solennissime tutte, testimonianze, mi giovi allegare quella del signore Allegretti, e ciò per due ragioni; la prima, perchè, preposto allora, e credo anche adesso, nel Ministero dello Interno alla Sezione della Polizia, giudicava dei tempi con esattissima cognizione delle cose; la seconda, perchè dall'attuale Governo adoperato e promosso non può neanche dalla ombrosa Accusa reputarsi sospetto. Almeno così parrebbe che da costei si potesse sperare. Scrivendo pertanto il sig. Cav. Segretario Allegretti al sig. Biavati di Lucca lettera confidenziale sul principiare del marzo 1849 così si esprimeva: «_essere io stanco di cotesto stato di cose, avere minacciato andarmene, e laddove questo avvenisse, grandi guai sarebbero caduti addosso alla Toscana_.» Io poi non dubito nella onestà del signore Segretario Allegretti, che egli non sia per commentare largamente a voce quanto scrisse, e credo che come compiacenza all'animo, gliene verrà lode dai suoi Superiori, cui certo non può piacere la selvaggia e veramente smodata persecuzione dell'Accusa. Nella lettera scritta al signor Prefetto di Arezzo si avverta, all'opposto, che non vi si parla di decadenza del Principe, nè di Repubblica; anzi, non vi si adopera espressione offensiva alla Corona; le quali cose stanno a dimostrare che io la dettai quando mi trovava abbastanza libero di me, nè mi si teneva accalcata e furiosa dintorno la fazione a impormi frase e concetto di quanto, prepotentissima, ella ordinava di poi. Che se fa amarezza la frase: «i Principi se ne vanno, il Popolo resta,» hassi a riflettere in prima, ch'ella suona piuttosto cruccio o dolore, che esultanza per la partita del Granduca; e poi, che essendo quel Dispaccio dettato, lo scrivente poteva avervi messo coteste parole che furono dette in quella notte, e ripetute il giorno successivo nel Parlamento; e in quanto a leggere prima di firmare, davvero, mancava il tempo e la voglia. — Però se l'Accusa intendeva a penetrare l'animo mio in cotesta occasione, sembra che avesse dovuto fondarsi in preferenza sopra gli _autografi miei_. «Il Consiglio dei Ministri al Governatore di Livorno. — Il Granduca ha abbandonato Firenze e Siena. Non _si sa_ dove si sia ritirato con la famiglia. Scrive non volere approvare la Legge della Costituente. Il Ministero convoca le Camere, e si dimette. Si _prevede_ la elezione di un Governo Provvisorio. Raddoppi le guardie alle porte. Chiami a sè gli Ufficiali della Civica e della Linea. Si assicuri delle Fortezze. Appello ai cittadini di stare uniti per prevenire qualunque _avvenimento doloroso_. Energia, attività, e si _salvi ad ogni costo il Paese_. — GUERRAZZI.» Al Maggiore Fortini nel giorno _8 febbraio 1849, ore 7 antimeridiane_: «Soldato e Cittadino, come ella è, farà in modo che col Governatore e il Comandante la Piazza sieno religiosamente mantenuti tranquillità e ordine. — GUERRAZZI.» Altro Dispaccio parimente autografo: «Il Consiglio dei Ministri al Prefetto di Pisa. — Il Granduca è fuggito da Siena; non _si sa_ dove siasi ritirato con la sua famiglia. Scrive disapprovare quanto ha consentito circa alla Costituente italiana. Il Ministero convoca le Camere, e si dimette. Si _prevede_ la elezione del Governo Provvisorio. Chiami intorno a sè gli Ufficiali della Linea e della Civica. Appello dei cittadini di stare uniti onde prevenire _qualunque catastrofe_. Circondarsi dei migliori patriotti. _Si salvi il Paese_. — GUERRAZZI.» Ho peccato io se fra tanto sbigottimento, mentre trepidavano tutti sul giorno che stava per sorgere, mi affaticai ad operare in guisa che il Paese non si disfacesse con sanguinosa rovina? Merita questo che mi si mandi un Profeta Natan onde io scelga, per pena, fra peste, fame e guerra? O Giudici, che fino ad ora osaste reputarmi colpevole, ditemi in grazia se tali fatti voi considerate delitti.... ditemelo, onde, insegnandomelo voi, impari anche io quali sarebbero state in cotesto fiero caso le vostre virtù! § 5. _L'Accusa non vuole leggere._ L'Accusa asserisce come dalla Segreteria del Ministero dello Interno fu, nell'8 febbraio, mandata notizia ai Prefetti e alle altre Autorità, _contro il vero_, che Leopoldo aveva _abbandonata la Toscana_; _cosa_, ella aggiunge, ch'era _pure inserita nel Proclama affisso nel medesimo giorno_. Adesso che l'Accusa non voglia leggere si manifesta primieramente dal Proclama allegato, dove io sfido l'Accusa a trovarmi lo annunzio che il Granduca avesse abbandonato la Toscana.[243] Inoltre, l'Accusa a che intende ella con la sua proposizione? Per avventura a provare, in mio danno, che la falsità della notizia circolata fu, senza dubbio, la causa del commuoversi della Toscana contro, o piuttosto del non commuoversi in favore del Principato? Venga l'Accusa, legga meco i suoi Documenti, e conoscerà chi sostiene il falso. A pagine 236 del suo Volume occorre la prova che alle ore 7 ⅔ _antimeridiane_ partirono Staffette per Massa e Carrara, Arezzo, Montepulciano, e Grosseto. Il Dispaccio al Prefetto di Arezzo dichiara: «_Il Granduca è fuggito da Siena: ignorasi dove si sia ridotto_.» (pag. 279.) Alla pagina 231 leggiamo: «Qui ricorrerebbe il Dispaccio del Guerrazzi al Prefetto di Grosseto _del preciso tenore di quello diretto alla Prefettura di Arezzo_.»[244] Alle ore _cinque_ antimeridiane al Governatore di Livorno e al Prefetto di Pisa facevo sapere: «Il Granduca ha abbandonato Firenze e Siena, e non si sa dove siasi ritirato con la sua famiglia.» (pag. 235.) E così erano avvertiti il Comandante di Piazza e il Maggior Fortini a Livorno. Dunque nelle prime ore pomeridiane del giorno 8 febbraio Firenze, Pisa, Lucca, Livorno, Massa, Arezzo, Montepulciano, Grosseto e Siena con tutti i paesi circostanti erano per me informati precisamente del vero stato delle cose; cioè, che il Principe aveva abbandonato Siena, e che ignoravamo il luogo dov'egli con la sua famiglia erasi riparato. Ma qui opporrà l'Accusa: dì pure quanto sai; al Governatore di Portoferraio fu mandata lettera nell'8 febbraio che spiegava: «Leopoldo di Austria ha _abbandonato la Toscana_;[245]» e il Segretario Allegretti _scrive_, che egli la compose dietro le traccie somministrategli da te _verbalmente_, e che lettere di uguale tenore furono mandate alle Superiori Autorità del Granducato; ed in fine, il Segretario _scrive_, che quantunque esse non appariscano firmate da te, l'Archivista «cui secondo il costume incumbeva procurarne la firma, non ti trovando accessibile, perchè in conclave co' tuoi Colleghi, non potè farlo, — e di fronte alla commissione ricevuta fosse stabilito spedirla anche senza firma di te.» Altrove insisto su questa dichiarazione. Qui importa notare come nel medesimo giorno 8 febbraio fosse scritto al Governatore di Portoferraio in due maniere. Il Governatore di Livorno lo avvisava così: «il Granduca _ha abbandonato_ improvvisamente _Siena_.»[246] Il Segretario Allegretti: «Leopoldo di Austria ha _abbandonato la Toscana_.» Il primo, dietro _ingiunzioni scritte autografe mie_. Il secondo, sopra _asserte traccie verbali_. Ancora: prima delle ore tre pomeridiane del giorno 8 era nominato il nuovo Ministero, e per via telegrafica venne annunziato al Governatore di Livorno alle ore _5_ e _10_ minuti pom. del giorno stesso:[247] quindi la firma del Dispaccio in discorso, secondo le attribuzioni ordinarie del Ministro dello Interno, a lui propriamente apparteneva, e non a me. Di più, gli Ufficiali del mio Ministero avevano sempre liberamente accesso, anche non chiamati, a me. Il sig. Segretario Allegretti pieno di riguardi soleva aspettare fuori; ma io spesso ne lo riprendeva, confortandolo a entrare senza esitazione alcuna nella mia stanza. Inoltre, o io aveva ordinato che i Dispacci senza la mia firma si mandassero, o no; se ordinai, che senza la firma mia si spedissero, e allora che cosa importava, che io fossi _inaccessibile_? Non mi dovevano venire a cercare. Se tale non ordinai, perchè _stabilirono_ spedire senza la mia firma i Dispacci? E quando si asserisce, che le traccie verbali somministrai nelle ore pomeridiane, come poteva io indovinare, che sarei stato impedito al punto di dovere firmare? Finalmente, tra le ore _5_ e le _6_ pomeridiane del giorno _8_, apprendevo, e mi era forza annunziare, che, per notizia datami dal Ministro Inglese, il Granduca era andato con la sua famiglia a Portoferraio:[248] come avrei patito io che più tardi (poichè la Posta pel Ministero, credo non andare errato se affermo, che nell'8 febbraio 1849 partì più tardi delle ore 6), si spedissero informazioni declarative lo abbandono assoluto della Toscana per la parte del Principe? Quando pure avessi di cotesto tenore ordinati Dispacci, io gli avrei fatti abolire. Anzi (singolare riscontro!) trovo, che il Prefetto di Firenze diramava il giorno 9 febbraio la Circolare compilata dal Segretario Allegretti, mentre io pubblicava notizie, e tutto il mondo le sapeva contrarie al tenore di quella. Per le quali considerazioni si farà manifesto, in primo luogo, quale e quanta fosse la perturbazione in quel giorno, e con quale confusa e disordinata ansietà procedessimo tutti così nei più umili come nei più alti ufficj; e secondariamente, che, salvo il debito onore che alla probità del sig. Allegretti sempre mi piacque professare e piace, dubito non del tutto esatte le sue reminiscenze. Non ostante però queste avvertenze, rimane provato, che rispetto a me l'Accusa non vuol leggere, avvegnadio ponessi cura d'informare fino dalle prime ore del giorno 8 la massima parte della Toscana del vero stato delle cose, voglio dire il funesto caso della partenza del Granduca da Siena, noi ignoranti del luogo dove si fosse diretto, nè egli consapevole troppo per le cose altra volta discorse. § 6. _Ordine per abbassare gli stemmi._ Altrove toccai di questo addebito, sicchè mi occorre adesso spendervi più poche parole dintorno. Il Decreto del 10 giugno 1850 somministra di questo fatto tale difesa, che io non saprei desiderare nè addurre migliore: «La furia dei faziosi esigeva violentemente lo abbassamento degli stemmi, e l'ottemperare in ciò a un ordine del Popolo non può non apprendersi che come lo effetto di un desiderio di evitare i danni alle cose e alle persone, e così animato dalla veduta di proteggere la sicurezza e l'ordine pubblico.» (_Attesochè_ 84.) Quindi io non ricorderò per quante guise questi stemmi fossero, in molte parti della Toscana, vilipesi ed arsi. — Non era meglio risparmiarli all'onta? Poteva e doveva patire io che venissero strascinati per le strade, come a Fiesole avvenne? Infatti, dove l'azione del Governo si estese, furono risparmiati e custoditi; e fu lodata la prudenza del Vice-Prefetto Zannetti, il quale, informando il Governo, così scriveva il 10 febbraio: «Nella perduta sera volevansi atterrare e distruggere tutte le armi granducali. Bastò qualche rilievo a trattenere le dimostrazioni che a colto e ben civilizzato Popolo non si addicessero. E le armi furono, a sera inoltrata, scese e calate dai posti e depositate in una stanza del Municipio.»[249] Vuolsi avvertire che in taluni luoghi, non solo di onta, diventavano eziandio materia di furore e di offesa. «Ma la prudenza è al colmo, la licenza dei retrogradi e dei tristi sfrenata, il contegno nostro moderato, ma già diventa furore vedendo fra noi esistere il monumento di derisione, l'arme di quel Principe.»[250] Non era meglio remuovere il motivo di furore, che permettere lo spargimento del sangue? Certo era meglio; i Giudici lo dicono, e in questa parte siamo d'accordo. E badate che non solo gli stemmi granducali lorenesi, ma eziandio i medicei vollero remossi, _perchè quando s'innalza l'Albero della Repubblica debbono cadere i monumenti della oppressione_.[251] Invano però fu scissa dall'Accusa la mia dalla causa dei signori Guidi ed Adami, onorandissimi amici; o fummo violentati tutti, o nessuno. Se da me emanò copia maggiore di ordini, questo naturalmente vuolsi attribuire agli ufficj diversi che occupavo. Nella loro carica avrei dovuto fare quanto essi fecero; nella mia avrebbero fatto quanto feci io. Ma le parole riferite che proruppero dalle labbra dei Giudici meritano esame profondo. Ecco, per esse, vengono a stabilirsi due fatti ed un principio importantissimi. Primo Fatto. Furia di Faziosi. Secondo Fatto. Azione _violenta e imperante del Popolo_. 3. Principio. Adesione a cotesti ordini violenti persuasa dal consiglio di proteggere la pubblica e privata sicurezza. Ora questi fatti e principio di propria loro natura non ponno limitarsi a un caso, ma devono, per necessità, estendersi al periodo del tempo percorso ed alla serie dei casi avvenuti sotto la impressione delle condizioni medesime; non possono restringersi ad uno o due individui, ma referirsi a tutti coloro che negli stessi accidenti versarono: sintomi permanenti sono eglino della infermità, che travagliava tutto il corpo sociale; e comparisce insania, o perfidia, che le medesime cause non abbiano virtù per partorire i medesimi effetti per tutti. Se, pertanto, questa furia di Faziosi esercitò la sua violenza contro il Prefetto, perchè avrebbe rispettato il Presidente del Governo Provvisorio? Se la forza si confessa tale da imporre al Prefetto, ragion vuole che più intensa si adoperasse sopra di me, avvegnadio troppo più gravi fossero le cause che la spingevano contro il Presidente del Governo Provvisorio, che contro il Prefetto, e di molto maggiore importanza i resultati che attendeva estorcere da lui: e se valse, nella coscienza dei Giudici, a scusare il Prefetto, davvero rimane arduo a comprendersi come e perchè la reputassero pel Presidente inefficace. Se questa _furia_ premeva, e lo dicono i Giudici, così irresistibile a cagione de' segni delle cose, ma certo più gagliarda (e mi basta uguale) deve essersi razionalmente avventata per volere eseguito il Decreto risoluto sotto le Logge dell'Orgagna, che le cose aboliva. Se alla _furia_ dei Faziosi e' fu forza cedere in un punto, per evitare danni alle sostanze e alle persone dei cittadini, e nella veduta di proteggere la sicurezza e l'ordine pubblico (e i Giudici approvano, ma non per me!), pari concetto ebbe a muovermi sopra altri punti, nei quali concentrandosi principalmente le loro antiche mire, i diuturni conati e le attuali necessità, è troppo naturale che con prepotenza maggiore li pretendessero. — I Giudici dunque hanno rasentato la verità, anzi si erano posti sul cammino di conoscerla intera: pochi più passi sopra la via ch'eglino stessi tracciarono, e la luce si sarebbe fatta loro manifesta. Ma giunti a me, essi tornarono a calarsi la benda su gli occhi, che si erano in tanto buon punto sollevata: per me non bagna la pioggia, il fuoco non brucia; per me non fa buio la notte, la luce non illumina; per me il sale le cose sciocche non sala; queste, ed altre più strane sentenze dicono coloro che giù la benda su gli occhi si calano. E se l'Accusa, invece di rovistare gli Archivii per ricavarne soltanto armi da offendere, vi avesse avuto ricorso per trarne luce a illuminare la verità, quivi avrebbe trovato documento di bene altra importanza, ed io lo ricordo, sicuro di non rimanere smentito. — Certo giusdicente del Granducato chiese ordini precisi per la esecuzione del Decreto intorno allo abbassamento delle armi granducali, avvisando che il Popolo nella sua giurisdizione sarebbe per avventura sceso alla violenza per impedirlo: io, per l'organo del sig. Segretario Cav. Allegretti, feci rispondere: _la misura presa dal Governo circa l'abbassamento delle armi essere stata appunto diretta a risparmiare loro sfregi plebei e ad impedire luttuosi conflitti: se il Popolo costà desiderava le armi, lasciassersi stare, avvegnachè il Granduca non avesse perduto i suoi diritti su la Toscana_. Non sarebbe stato di qualche utilità riporre in Processo un simile documento? Ahimè! Gli esaminatori degli Archivii carte siffatte hanno guardato con l'occhio cieco del Bano di Croazia. E poichè l'Accusa incominciò a interrogare i Segretarii del Ministero, non poteva e doveva udire tutto quanto essi avrebbero saputo deporre in proposito? L'Accusa ha ascoltato i _temuti_ testimoni del vero con l'orecchio sordo del Bano di Croazia. XXIII. Dichiarazioni in Senato ostili al Granduca. L'Accusa, sotto il titolo di Atti Speciali, incomincia dal porre il mio discorso in Senato. Io non devo biasimare il metodo ch'ella ha creduto bene, in questa parte, seguire; passo passo le tengo faticosamente dietro nei suoi meandri. — L'Accusa preoccupata dalla idea singolarissima che il Circolo e le turbe concomitanti, dopo pronunziato il Plebiscito e commessi i fatti narrati, _mi lasciassero nella piena facoltà di agire a mio talento_, ci narra come esse sparissero tornando alle proprie stanze dove, a modo dei vipistrelli allo accostarsi dello inverno, si addormentassero, finchè, avendo io compíto libero, spontaneo, gli atti incriminati, tornassero a riprendere l'usato costume. Ora questa idea è contraria alla ragione come al fatto, e i testimoni devono avere deposto che da quel punto in poi non venni mai più abbandonato, e fui fatto segno di sospettosa vigilanza.[252] Il Circolo non si ridusse a Santa Trinità per dormire, ma per sedere in _permanenza_, dove così stava fino dal 5 febbraio, e di là spediva i suoi Popilii che assediavano le anticamere, e penetravano, non annunziati, nelle segrete stanze, per imporre ordini e referirne al Circolo, in quei primi giorni troppo più poderoso del Governo, costretto a cedere sopra una parte per conservarne un'altra: di là muovevano di ora in ora Deputazioni per sindacare i nostri atti, e dirci, scrollando il capo amaramente, le parole riportate dal Nº 13, febbraio 1849, del _Popolano_: «Il Governo vorrà sì o no accorgersi di essere un governo rivoluzionario, e persuadersi che le rivoluzioni vere vanno avanti soltanto a colpi di cannone?» E' fu pertanto a cagione di questa non vincibile pressura, che il _Nazionale_ del 9 febbraio predicava: «L'azione del Governo può essere vigilata, ma non attraversata; nè senza disordine grandissimo _potrebbe altra azione estranea al Governo sostituirsi alla sua_.» Le quali cose significano per lo appunto il contrario del dormire, cioè stare sveglio notte e giorno senza interruzione per invadere ed usurpare ogni cosa: parte dei principali agitatori mi accompagnò nelle stanze di Ufficio levando a cielo l'operato di quel giorno; e siccome io di tanto non potei contenermi che per me non si favellasse a costoro qualche acerba parola, ebbi a vedere tali gesti, e a udire tali minaccie, che dovei risolvermi di mettere capo a partito, studiare, non che le opere, gli accenti, se pure non ero deliberato in tutto di capitare a fine infelice. Nelle parole del signor Montanelli, profferite davanti al Senato, occorre la prova del difetto di _libertà_ in cui ci trovammo tutti appena rientrati in Palazzo: «Credemmo nostro debito, appena avemmo un _momento di libertà_, di portarci in mezzo di voi ec.» Di vero non ci potevamo sviluppare dalla turba dei Faziosi, che, urgentissima, ci si stringeva alla vita. Pensai alla mia condizione, come meglio mi fu dato in mezzo a tanto trambusto. Come mai, considerava, me, che pure sapevano contrario allo scopo a cui gli agitatori tendevano con tanta ostinazione, vollero preso? Era evidente ch'essi mi apparecchiavano insidie per perdermi, come contumace ai voleri del Popolo. La resistenza da me dimostrata alla Camera dei Deputati, che, nel Decreto del 10 giugno 1850, si qualifica _pravo consiglio_, dagli organi repubblicani allora si accusava come _colpevole opposizione_. L'_Alba_, moderatissima in quel giorno, narrando il fatto diceva: «Vi tornarono i Deputati nel mentre che taluno chiedeva la dissoluzione della Camera, opinione combattuta dal pertinace coraggio di F. D. Guerrazzi, e _in quel momento per lo meno importuna_.» (Nº 9. feb. 1849.) — Molto mi teneva sospeso il contrasto col Niccolini, e la umiliazione alla quale io lo aveva ridotto; mi occorse al pensiero, che sovente i Deputati dell'Assemblea di Francia ebbero a pagare amara una parola di rimprovero detta contro taluno dei Caporioni dei Circoli. Il silenzio nell'Assemblea fu spesso stemperato in fiele nelle scapigliate adunanze di Popolo, che chiamavano _Clubs_, ed aguzzò la scure del carnefice. Cose volgari io narro, e dal comune degli uomini conosciutissime; dai miei Accusatori soltanto ignorate, o volute ignorare. Quanto sia assurdo intento volere dimostrare che poca mano di Popolo allora insanisse, ho chiarito altrove. Il _Nazionale_ dell'8 febbraio raccontando ora per ora i fatti della giornata attesta: «Ore 11. La piazza è _stivata_ di Popolo.» — La _Costituente_ del medesimo _giorno_: «Il Circolo popolare è radunato in piazza. — Molti _distinti cittadini_ prendono la parola, e conchiudono nella necessità di costituire un Governo Provvisorio.» — Gli elementi che operarono il 12 aprile, operarono eziandio l'8 febbraio. Se Guardia Civica, se Popolo, se plebe così urbana come rustica, se milizie non avessero acconsentito, chi le poteva costringere? Dov'era la forza capace a violentarle a quello da cui aborrivano? Questo è manifesto, e non vi ha sofisticheria che valga a metterlo in dubbio: — è manifesto. L'Accusa si arrabatta smaniosa a persuadere, che una mano di gente stracciata operò i fatti dell'8 febbraio; presentendo l'obietto, che allora mal poteva fare violenza alla Camera, ci dice che il luogo chiuso e la sorpresa non lasciarono campo a misurarne la estensione. — Bene: ma la guardia custode della Camera composta di 60 uomini? — Non avendo ordine, non sapeva che pesci pigliare. — Meglio: ma la Guardia civica apparecchiata? — Consegnata nei quartieri, uscì fuori a cose fatte. — Egregiamente: ma le cose fatte si potevano disfare; e il Popolo, la Guardia Civica, e tutti gli altri rimasti fedeli, malgrado la tristezza, o tristizia (chè nell'uno e nell'altro modo corre egualmente bene il discorso nella famosa Accusa) dei tempi, usciti fuori, e vista la scarsa mano di gente cenciosa, potevano in un attimo depositarla al Bargello.[253] Se si trattava di pochi ribaldacci, oh! che mi vengono adesso i Documenti dell'Accusa a contare di _ora di riscatto suonata_, di _slancio_, di eroici fatti operati il 12 aprile, e di simili altre novelle? Se ella volesse nulla nulla essere coerente a sè stessa, dovrebbe rampognare con arrabbiato cipiglio la poltroneria delle migliaia dei fedeli cittadini, e sopra tutto la codardia delle migliaia degl'impiegati fedelissimi, che si lasciarono mettere i piedi sul collo da un cento di ragazzacci sbracati. A disperderli sarebbero state sufficienti una voce sola e una frusta; or come dunque, essa dovrebbe dire, gente _paucæ fidei_, non trovaste valore in petto, nè lena in gola, che bastasse ad inalzare un grido? Non una frusta, che servisse a frustare quel branco di ragazzacci sbracati? Tanto è, migliaia e migliaia d'impiegati fedelissimi non ebbero una voce, una frusta sola. _Extra jocum_, chè la dolente materia nol comporta: _laddove il Popolo si raccoglie in gran numero padroneggia sempre_, attestava Silvano Bailly, il quale verosimilmente doveva intendersene.[254] Io era stato trabalzato in piazza dalla moltitudine carezzevole, e atterrato, e per poco non pesto. Le mie orecchie erano intronate di _morte ai traditori_, e a cui non importa dire. Aveva conosciuto il Plebiscito decretato sotto le Logge dell'Orgagna, che dichiarava così: «Il Popolo di Firenze. «Considerando, che la fuga di Leopoldo di Austria infrange la Costituzione e lascia senza Governo lo Stato; «Considerando, che il primo dovere del Popolo, solo Sovrano di sè stesso, è di provvedere a questa urgenza; «Facendosi anche interpetre del voto delle Provincie sorelle, nomina un Governo Provvisorio nelle persone dei Cittadini Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni, che a turno assumeranno la Presidenza, e loro affida la somma delle cose per la Italia, e per l'onore toscano, _a condizione_: «Che la forma politica definitiva della Toscana si rimetta alla decisione della Costituente _Italiana_; e «Che frattanto il Governo Provvisorio deva unirsi e stringersi con quello di Roma, in guisa che i due Stati agli occhi del mondo ne compongano uno solo.»[255] Rigoroso il mandato; palese il tranello, però che in quel medesimo giorno l'Assemblea Romana votava la decadenza del Pontefice, e la Repubblica, ed è da credersi che di ciò fossero troppo bene informati i Caporali del Circolo quaggiù; per la qual cosa quello che la immediata Unione con Roma volesse dire, ognuno sel vede. Infatti, il Plebiscito del Popolo fiorentino non era presentato mica come un voto o un consiglio: al contrario, come ingiunzione, che equivale «all'_obbligo espresso_ di percorrere la strada tracciata _intieramente senza riposo_.»[256] Ed io per parare il colpo, e tutelare il mio capo, ormai mi vedeva abbandonato da tutti. Il Municipio si opponeva forse? Protestava egli? Si dimise? No. Egli prese parte agli atti governativi. Finchè il terreno apparve ingombro di spine, stette dietro al Governo: quando seppe da lui, che la Toscana si mostrava aliena alla Unione con Roma e alla Repubblica; quando conobbe gli ostacoli remossi; e sopra tutto quando non ci era pericolo; allora spiccò bravamente la corsa, e vinse il palio. Sì, io non serbo amarezza; ma, o voi del Municipio, che a tale orribile passo, con arti di cui la pubblica coscienza raccapriccia, mi avete condotto, ditemi: non mi deste conforto e soccorso nella universale trepidanza a preservare da ruina il Paese? Ah! Voi lo neghereste invano; ne menavate vanto allora, e con Deliberazione del 12 febbraio bandivate, ed era vero: «che dopo avere speso ogni cura a remuovere dall'animo del Principe il pensiero di uno allontanamento, _lealmente offriste il vostro concorso_ agli uomini, che di necessità assumevano _il grave carico_ di reggere provvisoriamente il Paese in sì _difficili momenti_.» In che cosa peccai? dite. Forse per essere proceduto parziale ai Repubblicani? Ma io solo mi opponeva al precipitare della fazione, mentre voi mostravate volerle ormai dare vinte le mani.[257] Forse per avere convocato i comizii universali? Ma con un Giornale protetto da una parte di voi, questo provvedimento consigliavate e pretendevate![258] Forse perchè alla difesa delle patrie frontiere con tutta l'anima attendeva?... — Forse perchè alla restaurazione del Principato Costituzionale io ostava?... E qualcheduno di voi lo ha detto per onestare _la tradita fede_, che non si onesta mai. Ma di questo più tardi. Urgeva pertanto, che io mi atteggiassi in modo, che le insinuazioni dei malevoli, i rancori delle vanità offese, i sospetti di parte non facessero breccia nell'animo del Popolo maravigliosamente commosso: e, molto più importante ancora, urgeva che le esterne turbe non passassero sul capo al Governo e ai suoi conduttori stessi; salvare insomma la città. Però, andando in Senato, alla proposta del Senatore Corsini, che il Governo Provvisorio conservasse le forme attuali governative dello Stato, e il potere devoluto alla persona del Principe, risposi a un di presso nei termini seguenti; e dico a un di presso, perchè tutti conoscono che la nostra _stenografia_ lasciava molto a desiderare, in fatto di esattezza. _Ministro dell'Interno_, «Sento il bisogno di manifestare l'animo mio intero. Signori! Io, con quella maggior fede che un uomo del Popolo può esercitare, ho servito fedelmente Leopoldo Secondo; e debbo dirvi, o Signori, francamente, era offuscato da un gravissimo errore; imperocchè io credeva che libertà di Popolo e Principe potessero stare insieme. Mi confortava in questa mia speranza il considerare Leopoldo Secondo, per quanto egli mi diceva, onestissimo e dabbene. «Oggi questa speranza è caduta; questo velo si è squarciato, ed io devo solennemente dichiarare che Leopoldo Secondo non ha corrisposto per niente alla fede con la quale noi lo abbiamo servito. Per conseguenza, io sono stato chiamato al Governo Provvisorio dal Popolo; sono stato confermato dalla Camera dei Deputati toscani; chè altrimenti io non accetterei questo mandato; intendo esercitarlo a benefizio del Popolo, non intendo esercitarlo a benefizio di Leopoldo Secondo, che giusta la mia opinione ci ha traditi.» L'Accusa, ad escludere la difesa, oppone che io non poteva essere dominato da timore, imperciocchè poco innanzi avessi esposto, che io non aveva _paura del Popolo_. Della malevola quanto irragionevole induzione, che ricavasi da queste parole, altrove ho discorso, e a quel punto rimando. Qui aggiungo (e chiedo venia al lettore se lo trattengo di studii filologici, dacchè io nol faccio per vana saccenteria: mi compianga piuttosto vedendomi, con Toscani Giudici, ridotto perfino a raddrizzare il significato di parola toscana), qui aggiungo, che dove mai avessi dichiarato nell'Assemblea non avere _paura_, questo non esclude che più tardi dovessi concepire _timore_. Paura è codardia di animo, che aombra o per immaginativa, o per cose, che non abbiano potenza far male: timore denota la giusta estimazione che gli uomini, comecchè fortissimi, fanno del pericolo sovrastante: Temer si dee di sole quelle cose, Che hanno potenza di fare altrui male; Delle altre no.... avverte Dante nostro; e la distinzione fra timore e paura fu notata dal Grassi, confermandola con esempii elegantissimi.[259] Ora, quando prima venne il Popolo nell'Assemblea, bene sta che io non ne avessi _paura_; conosciuta poi la sua furia, e considerate le arti pessime, che altri poteva adoperare per indirizzarla a mio danno, sarebbe stata stupidezza non raccogliere dentro di me il prudente _timore_. E, se male non iscorgo, parmi sul futile argomento dell'Accusa avere adoperate parole già troppe. Io per me ho tanta opinione nella intelligenza del Senatore Corsini, che non dubito punto asserire ch'egli si sarebbe astenuto dal suo discorso, dove lo avessero informato della deliberazione presa dal Popolo, e dello impeto col quale la pretendeva eseguita, minacciando chiunque, anche con parole, gli si fosse opposto. — Supponiamo che la proposta del Senatore Corsini fosse stata accettata, che cosa ne sarebbe avvenuto? La fazione, il Popolo, la turba insomma, che comandava sovrana, incitata dall'ostacolo, chiamando me e il Senato traditori, ci avrebbe condotto a fiero passo. La proposta Corsini pareva ed era una sfida contro al Plebiscito decretato in piazza dalla moltitudine onnipotente; così saremmo andati incontro ai danni che più c'importava evitare; la società si perdeva. Me atterrato, chi saliva in Palazzo? Domandatelo agl'impiegati più alti, a cui le labbra diventavano pagonazze discorrendo fra loro di cotesto pericolo. Supponiamo, che vedendo impossibile mandare ad esecuzione la proposta Corsini, io ne avessi tolto pretesto a rassegnare lo ufficio, e si fosse sparsa in quel giorno fra le turbe commosse la voce, che io mi era dimesso per la insorta opposizione; avete mai pensato a quello che stava per nascere? Certo non ci avete pensato. Sì, ripeto; se il Senatore Corsini fosse stato informato della condizione delle cose, pensando quanto grave posta giuocava con le sue parole, si sarebbe taciuto. Invero gli avvisati colleghi del Senatore con cenni lo ammonivano a desistere, sicchè egli ebbe luogo a correggere il detto, e il Senatore Capponi, sempre più confermando la grave sentenza riportata altrove, aggiungeva: «Questo è _certo_. Il Paese è in una di quelle necessità supreme dove il Potere mancando, il Paese provvede a sè stesso. In questa _necessità_ di cose, il Senato vota per quel Decreto ch'è stato proposto. Il Senato non può fare altro, e intende di farlo come _rappresentante della Nazione, o del Popolo_, giacchè Popolo e Nazione sono sinonimi.» Il Senatore Fenzi dichiarava unirsi alle parole del Senatore Capponi. Donde si conosce, che il Senato sentiva la necessità di esprimere il suo voto, non più come uno dei poteri costituiti nel reggimento costituzionale, ma come rappresentante di Popolo, e in virtù del presuntivo mandato, che la parte eletta della Nazione conferisce sempre agli uomini insigni per dottrina, per costumi distinti. Se pertanto io e il Senato, ed io più assai di lui, ci trovavamo nella dura necessità di esprimere il concetto medesimo, perchè solo è scusato il Senato, e perchè solo accusato sono io? I Senatori egregi, consapevoli delle ragioni che ci fecero parlare, non m'incolperebbero per questo: di qui pure il diritto sacrosanto e per ora negato, che eglino soli, come miei Giudici naturali, intorno alle mie sorti pronunzino. Nè già si creda, che come le parole del Senatore Corsini (certo senza avvertirlo) posero in quel giorno a grave cimento la pubblica salute, a lui non fossero per partorire danno. Egli forse ignorò quanto furore si concitasse contro, e quanti sforzi tutto il Governo Provvisorio adoperasse, perchè incolume passasse la tempesta; e non rifinivamo dire ai più accesi: «Come così intendete voi libertà? Invitate gli Oratori ad aprire schiettamente l'animo loro, e poi se non favellano a modo vostro vi adirate? Allora voi li fate liberi di pensare e dire come piace a voi.» E così il Senatore Corsini scampò per questa volta la mala parata. Più tardi però, come altrove ho detto, vollero invadere il paterno palazzo, e rovistarglielo tutto; con quanto e quale pericolo ogni uomo comprende. Inoltre, quando le intemperanze dei Faziosi stringevano il Governo a creare il Comitato di Salute Pubblica con poteri rivoluzionarii, e impadronirsi delle persone sospette, il Senatore Corsini fu designato fra le principali. E forse lo stesso Senatore io penso che si accorgesse del danno che poteva uscire dallo incauto discorso, imperciocchè, oltre le parole aggiunte da lui, come lenitivo alle prime, fu visto, in certe occasioni, mettere prontissimo tappeti alle finestre, mentre gli altri cittadini non reputavano opportuno mostrare al Governo Provvisorio tanta svisceratezza. Mi conferma nel mio proposito la visita del padre suo Principe Don Tommaso, sollecitatore della protezione del Governo, per circolare liberamente nel Granducato e recarsi fino a Genova senza sospetto, adducendo lui essere capo di famiglia e non tenuto pel fatto dei figli; in quanto a sè, tutto il mondo sapere quello che a benefizio di Roma avesse adoperato, e potermi mostrare altresì la patente amplissima rilasciatagli dal Popolo romano in guiderdone, non meno che un consulto di solenni Teologhi declarativo la erronea opinione di coloro che supponevano i Rappresentanti della Costituente italiana o romana meritevoli di scomunica. Ed io, mentre della esibizione di questi documenti lo ringraziava, penso avergli detto parole cortesemente idonee a rassicurarlo da qualunque dubbio avesse potuto concepire. Sarebbe giusta cosa ricavare adesso da simili ripieghi, che ogni prudente cittadino pratica in tempi difficili per uscirne illeso, argomento di accusa e _d'ingiuria_ contro cotesti signori, dicendo loro: «Quei vostri furono atti e parole di chi ha doppio il cuore per gettarsi a quel Partito che avesse trionfato?» Ci pensi l'Accusa. Non basta ancora: imperciocchè quando l'Accusa crederà, ch'io mi abbia vuoto il sacco, spero ritrovarci frugando qualche altra cosa che valga, non dico a farla vergognare, che questa è da altri omeri soma, che dai miei, ma almeno a confonderla. Sappia pertanto l'Accusa, che il Senatore Corsini, il quale siede adesso nei Consigli della Corona, scrivendomi privatamente mi si professò parziale, ed in fine adoperando parole di affetto disse essere rimasto, non che contento, edificato della mia _cara politica_. Nelle _incursioni_ della Polizia questa lettera andò dispersa; parecchi testimoni però l'hanno veduta e la rammentano, ma io confido nella lealtà del signor Duca di Casigliano per sentirmela affermare vera. I gentiluomini non negano le proprie parole, non le smentiscono, non sanno tradire, e se fra loro qualcheduno si trova bugiardo, o fedifrago, o traditore, si deve credere che in mezzo ad essi stia come _Pilato nel Credo_, o come _Barabba nel Passio_. L'Accusa invece di ponderare a qual tremendo repentaglio fosse posta la pubblica e la privata sicurezza; quanto fiere apprensioni agitassero i cittadini a cotesti giorni; il mancato governo; la macchina costituzionale caduta, perchè colpita nella sua sostanza; la plebe minacciante, e male raffrenantesi; me sbilanciato e in pericolo; irritante la proposizione Corsini; fatale provocare l'ira della moltitudine accesissima; attaccata a un filo la comune salvezza; me ultimo argine della società trepidante; invece, dico, di ponderare tutte queste cose, pensa che io libero e spontaneo, senz'altro motivo che pel piacere di mostrare animo ostile al Principe che a supremo ufficio avevami assunto, e che lealissimamente aveva servito nel mio Ministero, favellassi in cotesta sentenza. Sicuramente che, in questo modo argomentando, non ci sarebbe a fare altro che declinare il capo e dire: percuotete! — E voi, Giudici, ponendo una mano sul cuore, senza sentirvelo trasalire nel petto, vi reputereste capaci a percuotere? _Poche ore_ innanzi di cotesto discorso, vi avreste dovuto rammentare, signori Giudici, con quanto _zelo_, con quanta _calda affezione_ io raccomandava il Granduca con lettere confidenziali dirette allo stesso Montanelli; sarebbe stata religione che voi non metteste in oblio come scrivendo ad amico intimo io m'ingegnassi confermare la fede della mia Patria al Principato Costituzionale: dovevate pure avvertire con quante diuturne dichiarazioni mi fossi mostrato alla Costituzione devoto; lo studio posto a compiacere ai desiderii del Principe; insomma avreste dovuto considerare tutto quanto non avete voluto considerare, e allora avreste compreso che necessaria fu la risposta al Senatore Corsini, e ch'è follia risguardare alle parole profferite in simili angustie. Più tardi sarete chiariti come uomini di Stato, politici e storici, giudichino le parole e i fatti di tale che, circondato da esercito devoto, non nutriva timore alcuno di sè, poco della Patria! Mi giovi qui pure riportare la pittura, comunque _sfumata_, che di cotesti tempi fece il _Conciliatore_, non sospetto di parzialità col Governo; e chiunque ha mente giudichi della verità delle mie parole: «Questo commuoversi continuo delle moltitudini; questo accorrere su le piazze levando a rumore il Paese; questo _gridare di popolo minuto contro i popolani grassi che rappresentano la defunta aristocrazia_; questo _fare scendere sovente il Governo di Palazzo e condurlo a deliberare sotto la Loggia dell'Orgagna_, ci rende immagine viva dei tempi dell'antica Repubblica di Firenze, la quale ebbe vita continua di tumulti, di fazioni e di commuovimenti.» Considerando il riguardo che non si scompagnava allora dal cauto Giornale, parmi che possiamo comprendere le apprensioni dei cittadini, lo impeto delle moltitudini, e il pericolo continuo nel quale versava il Governo. XXIV. Spedizione di Portoferraio, e di Santo Stefano. Desumo la storia di queste due accuse dal Decreto del 10 giugno, facendovi le aggiunte e correzioni opportune dietro il confronto del Decreto del 7 gennaio e l'Atto di Accusa del 25 detto 1851. «È luogo a ritenersi che a questo punto non si arrestasse la Rivoluzione, ma che, presentendo prossima l'ora del riscatto, i Circoli, coadiuvati dalle furiose declamazioni della stampa, _si dessero a presentare petizioni per la cacciata dello stesso Principe dal suolo toscano_. «_Nel concetto di accoglierle_, così scrisse il Guerrazzi nel dì 8 febbraio 1849 (6 ore pom.) al Governatore Pigli: «Il Ministro Inglese assicura essere andato il Granduca con la sua famiglia a Portoferraio; si faccia tornare il _Giglio_. Si mandino barche e navigli con Livornesi ed uomini arrisicati a cacciarnelo. Leopoldo non merita ospitalità sopra il suolo toscano, dopo che, con tanta ingratitudine e nera perfidia, ha corrisposto alla fede del suo Popolo. — E la raccomanda il 9 al Governatore di Portoferraio sotto minaccia di destituzione: «_Può supporsi_ che sia diretto costà, e già si trovi in cotesta Isola, Leopoldo Secondo. — Quando ciò fosse sicuro, egli ha abbandonato la Toscana, il Governo Provvisorio non può permettergli di rimanere in una parte di essa. La sua presenza potrebbe divenire causa di perturbazione, e forse di guerra civile. Ella perciò deve in quel caso invitarlo ad assentarsi anche da cotesta Isola, e fare in modo che la presente disposizione abbia il suo pieno ed immediato compimento. — A ciò mancando non potrebbe da lei evitarsi la destituzione dallo impiego. — «Fallito il disegno di cotesta Spedizione, e dietro notizia che il Principe era a Santo Stefano, si rinnuovarono dal Guerrazzi al Pigli gli ordini per una seconda Spedizione militare contro il Granduca, chiamando a soccorso le truppe e i talenti del Generale D'Apice che vi si ricusò.» — Perchè, dice il Decreto del 7 gennaio, fosse nelle _ferme intenzioni_ della Rivoluzione procacciare ad ogni costo la partenza del Principe dalla Toscana. La lettera al Pigli è così concepita: «Dalle _annesse lettere_ che mi ritornerete, e che per difetto di tempo mando nell'originale, vedrete il pericolo che ci minaccia. Colla massima sollecitudine _apparecchiate gente scelta che s'indirizzi verso Santo Stefano_ per la via del Littorale, ma per paese amico, e per ingrossarsi come palla di neve. _D'Apice vi scriverà, e vi terrete ai suoi consigli._ — 14 febbraio 1849.» La dichiarazione del Generale D'Apice suona nel modo seguente: «Dirò con tutta verità, che allorquando mi trovava in Empoli ricevei lettera per parte del signor Guerrazzi, nella quale mi diceva lasciassi in Empoli porzione della truppa che io aveva sotto i miei ordini, e con altra mi dirigessi in Maremma, e mi pare precisamente a Grosseto. Ma poichè si trattava che cotesta Spedizione doveva farsi contro il Granduca, che allora era in Maremma, io ricusai incaricarmene.» E raccomandando io scriveva al Paoli: «Scrivo a lei perchè capace d'intendere e di eseguire. Qui poco si fa, molto si parla. Cornacchie, non uomini. Leopoldo austriaco sta in Santo Stefano, organizza la reazione coll'empio pensiero di convertire Maremma in Vandea. Bisogna fare due cose: riunire quanta più forza si può: parte offrirne al Prefetto di Lucca, parte tenerne _a disposizione del Governatore di Livorno_. La causa della Toscana, e forse della Italia, dipende da queste misure, perchè da ogni buco può entrare acqua, cagione di naufragio. _Rendete ragguaglio, per Dio, di quello che fate. Il Potere centrale deve essere informato di tutto_.» «Pigli (continua il Decreto del 10 giugno) raduna gente di ogni arma. _La Cecilia_ la conduce; sparge proclami, ma non ottiene seguito, nè riunisce gente ai ribelli. «Questi apparecchi si accelerano, ma rimangono interrotti per dirigere il tumultuario armamento a Pietrasanta a comprimere un tentativo di restaurazione del Generale Laugier che dicevasi avere rialzato a Massa la bandiera del Principato, senza però abbandonare il disegno della cacciata del Principe.» § 1. _Spedizione a Portoferraio._ L'Accusa stessa, poichè ha posto che i Circoli, _coadiuvati dalle furiose declamazioni della stampa, presero a presentare petizioni per la cacciata del Principe_, perchè m'imputa questi fatti? Perchè, come ha proceduto con altri meno di me pressurati, non mi scusa per quello che non mi riuscì impedire, e non mi ricompensa di una parola che non sia disprezzo per quanto operai? L'Accusa non può, e non lo tenta, attenuare il carattere della forza rivoluzionaria, adesso che nel pieno suo impeto punta sopra di me. La ritenga pertanto, com'ella medesima la qualificava, _audace, impronta, sprezzante di ogni autorità, che leva il furore a virtù, la moderazione a delitto_; la ritenga, com'ella stessa ce la racconta, _cospirante in Toscana, anzi per tutta Italia, a rovesciare Monarchia e Statuto; in agguato di opportunità per invadere ogni cosa; opportunità che le venne offerta nello allontanamento del Granduca da Siena_; la ritenga, come ella dice, _ferocemente esultante per la strage di un Ministro reputato contumace ai voleri del Popolo_: e tanto, se giusta, avrebbe dovuto bastarmi presso di lei. Ma l'Atto di Accusa trova che gli eccitamenti, le improntitudini e l'esigenze (e si guarda di pronunziare violenze, perchè quando si volta a me la Fazione cangia natura) furono adoperate, a coartarmi _dopo_ l'8 febbraio, e, senza precisare il tempo in cui ripresero, crede potere affermare in coscienza che non intervennero nel giorno 8, nè durante lo spazio necessario a commettere gli atti che, a suo parere, costituiscono il delitto di lesa maestà. In più parti di questa Memoria a chiara prova dimostrai lo assurdo di siffatto supposto: aggiungansi nuovi fatti e nuove considerazioni. L'Accusa stessa confessa che il Circolo, nel giorno 8, si costituiva _in permanenza armato_: e se meglio avesse voluto cercare pei Documenti da lei medesima raccolti, avrebbe trovato che il Circolo fiorentino si era costituito _in permanenza_ fino dal 5, ed aveva creato una Commissione, per mantenersi in corrispondenza continua col Ministero.[260] È naturale pertanto che non se ne stesse con le mani alla cintola; che, se non dormiva il 5, molto meno si addormentasse l'8 febbraio, ma sì attendesse alacre e ardente a conseguire lo estremo suo fine. Ritenuto quello che dicono i Giudici del Decreto del 7 gennaio 1851, che fosse nelle _ferme intenzioni della Rivoluzione procacciare ad ogni costo la partenza del Principe dalla Toscana_, non può razionalmente negarsi che questi conati urgessero più veementi al primo scoppio che dopo. — Io leggo talora che _mancano prove_ della coartazione; tale altra, che anzi la coartazione _è esclusa_; finalmente che le _prove ci sono_, ma non bastevoli. Questo linguaggio non solo perplesso, ma contradittorio, dei Documenti dell'Accusa, mentre gli scredita tutti, mi toglie abilità di conoscere lo stato della procedura; dacchè ognuno comprende che tra il provare poco e lo escludere la contrarietà è grande, come fra la luce e le tenebre. Non sarà privo di ammaestramento, e forse somministrerà subietto di amare riflessioni, esaminare per lo appunto il progresso in peggio degli Atti della Accusa. Il Decreto del 10 giugno 1850 _andante_: «Attesochè, _comunque il processo manifesti avere il Guerrazzi fatto sforzo_ di contenere in questa parte le sfrenate voglie della Demagogia (Processo a c. 69, 767, 2220, 2245, 2418.; Som. a c. 2498, 2510, 2513, 2615, 2761), ciò non pertanto, a perimere ogni elemento di civile imputazione, converrebbe giungere a provare _luminosamente_ che _tutti_ gli atti ostili, dei quali si fece autore, furono influenzati da una forza tale da impedire il retto uso della ragione e della libertà, almeno riguardo alla esecuzione dei malvagi disegni che inspiravano, e da coartarlo a non abbandonare quella posizione che poteva strascinarlo al delitto, ec. ec. ec.» Qui sembra che prove ve ne sieno, ma non per _tutti_ gli atti; come se la violenza politica che nasce da un Popolo in rivoluzione, sempre in atto, o in potenza, presente, e sempre delirante, sospettosa e furiosa, sia di natura transitoria, e instantanea, uguale alla violenza ordinaria che può usarsi da uno o più individui contro lo individuo; e come se non torni lo stesso aver la mano di un uomo sul collo, o udire il ruggito delle moltitudini giù in piazza. Il Decreto del 7 gennaio 1851 _crescendo_: «Considerando — che comunque il Processo dimostri che il Guerrazzi, una volta salito al Supremo Potere, si adoperò, _in qualche circostanza_, a distogliere _le più accese voglie_ della Demagogia; — ciò non pertanto _il complesso degli atti autorizzava a ritenere che tutto ciò egli facesse per tenere fermo nelle sue mani il Potere di che, per modi riprovevoli, era giunto a impossessarsi_; — e in ogni ipotesi, a perimere la civile imputazione degli atti criminosi dei quali certamente fu autore, dovrebbe esso provare _luminosamente_...» e segue come nel primo Decreto. «Considerando che molti sono i fatti allegati dal Guerrazzi per far sentire il predominio assoluto e costante sopra di lui della Fazione; _ma oltrechè questi fatti non sono d'importanza_ da stabilire una violenza irresistibile e continuata, il Processo somministra altri fatti, dai quali emerge _la influenza personale su le turbe tumultuanti_! — essendosi notato ch'egli dichiarò non _averne timore_! (pei Giudici di cotesto Decreto _timore e paura_ sono tutta una cosa!) ed essendo egli riuscito, _come racconta_, a contenerle e comprimerle a vantaggio di privati cittadini....» Qui i miei sforzi spariscono, e, in certo modo, si neutralizzano in virtù dei prodigiosi ragionamenti del Decreto. Ora ecco l'Atto dell'Accusa del 29 gennaio 1851 _che dà la stretta_: «Ma la violenza coattiva, sia allo Individuo, sia al Collegio, non è provata, e _resta anzi esclusa in quei primi giorni, e da quei primi atti NEI QUALI E CO' QUALI venne o consumarsi il delitto_. Le posteriori improntitudini, insistenze, esigenze ec.» — E qui non solo vi sono piccole prove, non solo cessano o si neutralizzano le prove, ma vi sono prove in contrario. Davvero in questo modo io non ho veduto giuocare nè anche agli aliossi, non che con anime che pensano e sentono, e delle umane miserie profondamente si contristano. Ben dovrebb'esser la tua man più pia, Se state fossimo anime di serpi. Io ignoro il deposto dei testimoni; vi furono, vi hanno ad essere, e mostreranno quanto singolare sia la nuova infermità trovata dall'Accusa della _intermittenza rivoluzionaria_. Ridotto ai miei soli ricordi, rammento che la Fazione dichiarò essersi arrogata il diritto di vigilare «fino dal 5 febbraio ogni mia azione, d'interpellarmi con la stampa, co' Circoli e co' petizionarii, di chiamarmi a severo rendimento di conto ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.»[261] Il Circolo nella sua protesta liberamente espose, che la decadenza del Principe e l'abolizione della monarchia _fino dall'8 febbraio era stata nel voto, e nel grido_ di tutti.[262] Dai Giornali si ricava, come nel giorno 13 il Circolo mi mandasse una Deputazione per informarsi _di quanto io sapeva, e di quanto operava_.[263] Il Governo è dichiarato impotente a salvare il Popolo; s'egli non si muove alla cacciata del Principe, il Popolo _farà da sè_.[264] Il Circolo fiorentino propone spedire armati da tutta la Toscana contro il Granduca: Firenze si dispone _a mandare 1000 uomini_.[265] A tutto questo si aggiungano uomini _sempre al mio fianco armati, fino dal giorno otto febbraio_, nell'anticamera e pei corridoj, sicchè si rendeva difficile il passare; più _spessi nei primi giorni_, che dopo; _commissarii_ dalla città, _commissarii_ dalle Provincie;[266] _individui_ ancora, che con brusca cera, così nelle sale, come per le vie, senza distinzione, di giorno o di notte mi fermavano, e m'interpellavano. Con gli scarsi Documenti che ho per le mani, mostrai pocanzi, essere state rammentate le deputazioni dei Circoli di Livorno, Arezzo, Prato e Pistoia: ho mostrato gli eccitamenti alle Provincie di accorrere per coartare il Governo, ma prima passassero nell'aula del Circolo fiorentino, per dare e ricevere conforto, per concertare istruzioni; ho esposto le lagnanze amare, le minaccie e le accuse contro il Governo, perchè per lo appuntino, e subito, non obbedisse; fu detto delle trame contro di me, della dichiarazione di tradurmi in giudizio, dell'aperta rampogna di traditore, della strage più e più volte minacciata. Quello, che Popolo e soldati facessero nei primi giorni del febbraio, esaminatelo nei Giornali del tempo. E tutto questo pare poco alla Accusa! Di triplice acciaio deve avere ricinto il petto l'Accusa! Cotesto suo non è umano coraggio, o almeno di cotesti uomini antidiluviani, che potevano dire: «Col leone lottai mentre era fanciullo, e sebbene scherzassi, egli fuggì ruggendo dalle mie mani co' denti rotti.»[267] Io trovo prova di quanto affermo in certo tentativo avventurato dal signor Marmocchi, per allontanare da sè il nugolo delle moleste deputazioni, e il nugolo più tristo degli sciagurati, che o per malizia propria, o aizzati da altri, accorrevano delatori di sospetti per istrascinare il Governo nelle vie rivoluzionarie, e porre le mani addosso ai designati cittadini. «Firenze, 28 febbraio 1849. — Il Ministro dello Interno rende noto, ch'egli non riceve deputazioni di verun Circolo, od altro corpo morale, se non sono munite di speciale mandato in iscritto, che indichi chi le spedisce, e l'oggetto della missione.»[268] Imperciocchè gente nefanda, nefande cose voleva; e, parve che ordinandole scritte, il pudore dovesse trattenere da porle in discussione, e ridarle in iscrittura. L'Accusa ha da essermi cortese di questo, che ordinando nel 28 febbraio cessassero, ciò significa che avevano incominciato innanzi; e se il Circolo, anzi i Circoli fino dall'8 febbraio si costituirono _in permanenza_ per invigilare e dominare il Governo, dica nella sua coscienza chi legge, con quale verità si possano asserire queste tre cose a un punto, — che non ci sono prove, — che ve ne sono, ma non bastevoli, — che ci sono prove che escludono l'allegata violenza. Come queste tre cose possano stare insieme, non bisogna domandarlo a me; a me tocca udirle, e commentarle co' mesti giorni di carcere troppo più che bienne; e' vuolsi chiederne ai Magistrati, che le seppero accozzare insieme. E come le referite cose precederono il 28 febbraio 1849, così lo susseguirono, non essendo mai riuscito di allontanare dal Governo le fervide istanze e i più fervidi petenti, per conseguire lo scopo che stava in cima di ogni loro pensiero. Nel giorno stesso, e nel medesimo _Monitore_, il Ministro dello Interno rende noto pubblicamente: «che i Rapporti di Polizia, che i privati cittadini si degnano trasmettere per il pubblico bene, sieno inviati invece ai rispettivi Prefetti, ai quali soltanto spetta questo incarico, perchè, mentre è compreso di gratitudine per le premure che in tal modo i Cittadini mostrano pel Governo, non potrebbe convenevolmente corrispondervi.» Nè per questo cessarono le denunzie segrete, e le intimazioni ad arrestare i cittadini sospetti, che io con mille espedienti attesi ad eludere. I Rapporti di Polizia lo proveranno, e verrà dichiarato chi sieno coloro, che mi devono libertà, sicurezza; forse anche la vita. Di tanti mi basti allegarne uno, non per vana jattanza, molto meno per rimprovero, ma perchè di questo fatto si hanno a trovare negli Archivii le prove. Spesse e insistenti Deputazioni del Circolo pretendevano che l'attuale Presidente del Consiglio dei Ministri signor Baldasseroni della pensione si privasse, e come cospiratore contro il Governo si traducesse in carcere. Stretto da tanta pressura, risposi stessero sicuri, avrei provveduto senz'altro. Rimasto solo col mio Segretario sig. Chiarini, lo interrogai intorno alla sua opinione, che a me non conviene riferire, perchè, trovandomi adesso ridotto in misero stato, parebbe viltà; basti che io la seppi tale da dovere esclamare: «Non sarà mai detto che io dia mano a perseguitare gente dabbene.» Però, onde oppormi con buon successo alla Fazione, scrissi lettere particolari al Prefetto Martini, onde segretamente s'informasse e con lealtà referisse. Di queste ricerche occorre traccia a pag. 501 dei Documenti dell'Accusa: «La persona spedita ieri a Usigliano di Palaia è tornata. Riferisce, che Baldasseroni è con la famiglia in villa Bertolla, e conduce vita ritirata, senza apparenza da ingerire sospetto di cospirazione. Domani con la posta dirò qualche cosa di più in particolare.» Non piacquero le notizie Martini; il Partito mandò suoi emissarii sul luogo a invigilare, è comecchè non ricavassero costrutto, pure tornarono ad assalirmi; onde io di nuovo mi rivolsi al Prefetto di Pisa; e questi sempre più confermando i suoi Rapporti, io mi adoperai così efficacemente, che giunsi a rimuovere cotesti arrabbiati dalla disonesta persecuzione. Le lettere responsive dell'ottimo signor Martini, tutte di suo carattere, furono, se non erro, dal Segretario Chiarini consegnate al Segretario Allegretti, affinchè le depositasse nello Archivio. — Il signor Barone Bettino Ricasoli volevasi ad ogni costo arrestato e processato; lui accusavano di cospirazione, eccitatore di sommosse, ricoglitore nel suo castello di Broglio di moschetti, e perfino di cannoni.[269] Questo signore aveva provato avverso, e però doveva essermi raccomandato maggiormente: almeno io penso, e sento così!.... Mandai persona a posta, fidata e discreta, e trovai che moschetti ne aveva, ma per la Guardia Civica, ed anche cannoni, ma di legno, innocente minaccia un giorno su i merli del Castello, adesso confinati in cantina, come vediamo tutto giorno accadere anche ad oggetti che cannoni di legno non sono, e lo hanno per bazza; e lui inconsapevole difesi da fastidii, e forse da gravi pericoli. Detenuto nel Forte San Giorgio per ordine della Commissione Governativa, di cui il Barone Ricasoli faceva parte, io volli contestargli questo fatto: pare che poco, anzi punto lo muovesse. Io ho reso bene per male, altri resero male per bene: certo i Signori della Commissione mi hanno fatto perdere tutto.... tutto, tranne la fama: essi poi non hanno perduto nulla!.... Ma io aveva promesso allegare uno esempio solo, e ne ho citati due.... troppo si produrrebbe lunga la storia, e tanto mi basti. Rimane adesso ad esaminare, che cosa potessero i Circoli in quei tempi. I Circoli, nientemeno, si reputavano, ed erano padroni; il Governo aveva ad essere arnese passivo, ed esecutore docilissimo; altrimenti, _fuori_; oppure _avrebbero fatto da loro_. Avvi una testimonianza gravissima di quello che potesse allora il Governo, ed è del Ministro Inglese. Se fossero pubblicati i Dispacci di Benoît Champy Ministro di Francia, ne avremmo altra solenne conferma. Lord Hamilton scrive a Lord Palmerston, con lo scrupolo di fidato mandatario e con l'accortezza del diplomatico, affinchè il superiore si regoli nella sua politica. — Tanto meglio voglionsi ritenere esatte coteste informazioni, in quanto che, come ho avvertito, Sir Carlo Hamilton ne riferiva di vista. Ecco pertanto in quali termini egli si esprimeva: «Il _Governo Provvisorio_ è obbligato però di sottomettersi a padrone supremamente dispotico, il quale _ad ogni ora_ gli rammenta le catene con le quali lo _tiene stretto_, cioè il _potere dei Circoli_ (_clubs_). QUESTE FORMIDABILI ASSEMBLEE GOVERNANO IL GOVERNO. È impossibile esagerare il _terrore_ e la _desolazione di questa bella città_.»[270] Il Ministro Hamilton, comecchè così vedesse e sentisse, pure non rifiniva raccomandarmi: «resistete, resistete; salvate il vostro Paese.» Benoît Champy dava simili conforti; entrambi promettevano scrivere ai loro Governi lettere amplissime in lode degli sforzi da me sostenuti; il primo anzi assunse di fare rettificare in certi Giornali esteri, segnatamente nel _Débats_, gli erronei giudizii: entrambi offerivano, in qualsivoglia evento, protezione dei loro Governi, asilo nelle proprie dimore. In Toscana, Giudici miei concittadini, presenti, scienti forse più degli Esteri Ministri, mi rampognano e mi accusano, e non solo mi accusano, ma mi oltraggiano con insulti fabbricati nel 1800! Un'altra persona domiciliata qui a Firenze, scrivendo nell'8 marzo a certo suo amico di Parigi, tale gli dava ragguaglio delle nostre condizioni: «I Ministri e il Comitato esecutivo — tutti sono obbligati a sottomettersi alla tirannide di una mano di Faziosi, che si fecero padroni di Firenze, quantunque la più parte non sia neppure nativa del Paese. Firenze è fatta convegno di _tutti_ i seminatori di zizzanie della Penisola. Ridotti in _Club_, che porta nome di Circolo del Popolo, _dettano leggi, promulgano decreti, ai quali il Governo ha da sottomettersi docilmente_.»[271] Infatti il Giornale del Circolo così con parole ingenue ne raccontava la importanza e lo istituto: «Essi sono un vero Magistrato (i Circoli) del Popolo, cui egli corre per tutti i suoi interessi, per tutti i suoi reclami e lagnanze, e vi trova tutte le simpatie per ottenere protezione. — (_Popolano_, 17 febbraio 1849.) E quando in cotesto modo scrivevano, ero pur giunto a impedire che i Circoli dominassero interi; e la potenza loro scemava: si pensi un po' quanto potessero allora che mandavano commissarii in Provincia, e sopra ogni canto gli Oratori loro con accese parole aggiungevano legna al fuoco, le armi in pugno brandite tenevano. Ora sotto la impressione di questi fatti si prendano a considerare i Dispacci dell'8 febbraio. — Il primo delle 2 e ½, strappato a forza, porta seco evidentemente la prova della violenza immediata, avvegnachè vi si legga perfino la dichiarazione della _decadenza_ del Principe, che sempre ho combattuta e impedita. Nel secondo delle 5 e 10 minuti, è gittata la parola che accenna l'áncora di speranza, con la quale in quei fortunosi frangenti immaginava salvare il Paese: «_Si rammentino tutti, che sarà proclamata presto la Costituente_ TOSCANA.» Quando non occorressero altre prove, per conoscere che il Dispaccio dell'8 febbraio 1849, ore 6 p. m., fu imposto dalla violenza della Fazione trionfante, basterebbe questa sola, ed è che facendo scrivere il 14 febbraio 1849 (giorno della Spedizione a Santo Stefano) al Governatore di Portoferraio, lo ammoniva: «Se il Principe è _partito_, non è _decaduto_; lo Stato non è perciò venuto a mancare; le leggi non sono abolite ec.»[272] Ma importa inoltre riflettere alla inanità del medesimo. Generalmente, me non reputano stupido affatto: però, se la condizione mia non fosse stata in quel punto pericolosa così da farmi temere ogni obiettare fatale, se io avessi sperato, che tra i furibondi schiamazzi dei comandatori la Spedizione di Portoferraio potesse _avere luogo consiglio_, come non richiamarli a considerare «che ritenuta certa la partenza del Principe per Portoferraio, di due cose dovevano ammetterne una, o che il Principe vi fosse arrivato, o no? Se arrivato, o gli Elbani nol vogliono accogliere, e allora qual forza possono aggiungere a loro cento o duecento persone? Se lo hanno accolto, e quale urto mai vi augurate che facciano poche barche, contro fortezze giudicate insuperabili, e difese da molte centinaia di cannoni di grosso calibro? Non poche barche, ma intere armate male si avventurerebbero sotto le batterie del Falcone e della Stella. Dove poi non fosse arrivato, come si sosterranno le vostre barche, se venissero ad incontrarsi contro le fregate a vapore il _Porco-Spino_ e il _Cane Mastino_, rinforzate dalla fregata a vela la _Teti_, e il vascello di primo ordine il _Bellerofonte_?[273] Ma nè queste, nè altre, erano riflessioni da potersi avventurare a quel tempo, nè alcuna. «A Portoferraio! a Portoferraio!» urlava la turba infellonita, e bisognò darle aperto il Dispaccio, che vollero portare alcuni di quella allo Ufficio del telegrafo. Come ci hanno testimoni i quali attestano, che nella mattina dell'8 febbraio il Niccolini diceva: «Noi siamo d'accordo, tranne col Guerrazzi... ma...», così non ne mancano altri co' quali egli confidandosi, nei primi giorni di cotesto mese infaustissimo, palesava: «andrebbe bene ogni cosa; solo resistere Francesco Domenico alle loro mire, ma gli avrebbero messo il cervello a partito.» La storia moderna mi somministrerebbe esempii in copia per mostrare come in simili casi si comportassero uomini incanutiti fra guerreschi pericoli. Vi rammentate il 17 marzo del 1848 a Milano? Quando i deputati del Popolo lombardo si presentarono al conte O'Donell capo del Governo, per esigere da lui la sanzione di atti ostili all'Austria, negava forse? No; diceva: «_Farò quello che voi volete, quello che voi volete. Sì, avete ragione, giù polizia, giù tutto_!»[274] E fu appuntato perchè non avesse resistito? Lo accusarono forse, perchè avesse acconsentito a buttare giù _tutto_? Ed io _tutto_ non dissi che gittassero, e mi adoperai che ciò non facessero. Non incontrò tanto crudeli e poco assennati sindacatori, imperciocchè la sua resistenza, come di certo esizio per lui, così non avrebbe apportato profitto alcuno alla fortuna austriaca in quei giorni. Il sagrifizio della persona allora è lodevole, che, come nello esempio del Cavaliere d'Assas, gridando all'erta, ad onta della morte minacciata, si dà la sveglia al campo e si preserva dalla sorpresa: altrimenti è giudicato follia. La discretezza, di cui per certo non mi dà norma l'Accusa, mi trattiene dallo esaminare la condizione di tutti coloro che si dichiararono coartati, e dal confrontare se le scuse che addussero e furono tenute buone, a paragone delle mie, dovessero più o meno gravi considerarsi: forse lo dovrò fare più tardi; — mi basti per ora uno esempio domestico. Ferdinando Zannetti procedè sempre zelante delle libertà costituzionali: nel 12 aprile, io penso che più efficacemente degli altri alla restaurazione del Principato Costituzionale desse opera; e fu dei primi, che il Decreto a questo scopo tendente firmò: era Generale della Guardia Civica, e quindi stava in lui il comando della forza capace a schermirsi; egli conosceva i pericoli della Unione con Roma; egli sentiva quanto poco il Popolo, pure allora chiamato a libertà, fosse disposto a reggimento repubblicano; assennato com'è, prevedeva eziandio che il suo pronunziarsi per la Repubblica avrebbe potuto strascinare irreparabilmente il Governo; egli era stato testimone del mio rammarico espresso agli Ufficiali della Guardia Civica per la partenza del Principe, e dell'aspra lotta da me sostenuta perchè la Repubblica a furia dai violenti non si pronunziasse; e nondimeno, _invitato dal Popolo_, ebbe a gridare: _Viva la Repubblica! Viva la Unione con Roma_![275] Quando il Popolo è preso da una passione, e i più fervidi di quello ti fanno cerchio dintorno, e schiamazzano, e gridano, chi mai resiste? Chi può resistere? Me poi il Popolo non calcava festoso, ma torbido; non invitava, ma minacciava; non arrendevole trovava, ma in quanto mi era dato con industria opponente. Gli arrabbiati della Fazione trionfante, padroni nei primi giorni di tutto, non si muovono dalle mie stanze, notte e giorno spiano gli atti, le parole e i pensieri. E tutto questo sembra poco all'Accusa; anzi, ella, _proprio in coscienza, crede che, invece di provare, escluda la prova della coartazione_! Io mi ricordo avere letto nei Giornali dei tempi certo discorso, o lettera di Giuseppe Mazzini ai suoi amici di Roma, nella quale gli ammoniva non volersi partire di Toscana, prima di avere conseguíto il suo intento. Ora (e spero che l'Accusa non mi vorrà smentire almeno in questo), io affermo che il concetto mazziniano fosse repubblicano.[276] — L'Accusa avverte, che la presenza del Principe in Toscana era pruno negli occhi ai Rivoluzionarii.[277] Qui dentro, Romani, che la Unione con Roma e la Repubblica agognavano; qui Lombardi, che nella Repubblica vedevano l'unica via per ritornare alla patria, ai domestici focolari, e alle gioie di famiglia; qui il lombardo signor Maestri, Inviato straordinario romano, forte del soccorso del Circolo, il quale, come il signor Rusconi si esprime, _lottava quotidianamente_ per portare via di assalto la Unione con Roma. All'Accusa sembra che tutti questi elementi qui condensati _escludano perfino la possibilità_, che io mi trovassi nei primi giorni costretto a consentire quelle cose a cui non trovavo riparo, nè con la forza, nè con la opinione, nè con lo ingegno. Che Dio benedica l'Accusa! Se si confronteranno i varii Dispacci scritti nel giorno 8 febbraio, dalla forma stessa del linguaggio, chiunque imparziale consideri, argomenterà la maggiore o minore coazione, che in quel momento pativo. Infatti nei Dispacci telegrafici scritti a dettatura sotto la immediata pressione, tu leggi d'_ingratitudine_ e di _nera perfidia_: nel Dispaccio scritto al Governatore di Portoferraio si dice, che il Governo _non può_ permettere al Granduca di rimanere in una parte della Toscana; che la sua presenza _potrebbe_ causare perturbazione, e _forse guerra civile_; la _cacciata_ diventa _invito_ di assentarsi. Qui per avventura si obietterà: — e non potevate mandare contr'ordine segreto al Governatore di Livorno? — In qual modo spedirlo perchè giungesse a tempo? Per telegrafo forse? Allo Ufficio di Livorno era preposto tale, che prima di recapitare i Dispacci al Governo ne faceva copia alla Fazione. Tentai rimuoverlo, ma il Popolo tumultuante volle stesse fermo in Livorno; di vero egli serviva meglio lui, che il Governo. — Potevate mandare le lettere per la posta. — E chi se ne fidava? — Per messo particolare. — Non era agevole sottrarmi, nei primi giorni, alla incessante sorveglianza; e avrei trovato chi avesse voluto incaricarsene? E trovatolo, in quale estremo pericolo non avventurava lui con me stesso? Adesso non doveva trattenermi il medesimo dubbio, che in buon punto mi persuase a resistere alle sollecitazioni del Colonnello Reghini a Livorno? Più tardi, e quando credei poterlo fare senza danno, mandai persona a Livorno a chiarire i miei amici delle mie intenzioni, ma allora era impossibile. Pure via, tutto questo doveva arrischiarsi in negozio sì grave; arrisichiamo.... perchè? Per far pervenire il Dispaccio in mano di gente che lo avrebbero letto in piazza, alla presenza del Popolo! Intanto, è vero che una frotta di furiosi intronava le orecchie gridando: «Bisogna cacciare il Granduca; Portoferraio sta per diventare la Terceyra di Toscana; di là muoveranno trame, cospirazioni e guerra civile: egli è evidente: qui non vi ha mestiero indugio; bisogna provvedere, e subito; scrivasi al Governatore di Livorno, a quello di Portoferraio; da tutta Toscana si muovano gente. Il Popolo comanda questo e questo altro, e vuole essere obbedito, e subito: ora non hanno luogo discorsi, e guai a chi esita.» Lo sguardo torvo, lo scrollare minatorio del capo, le pugna percosse sopra la tavola non si rammentano; tacere allora, e obbedire, fu la mia parte, senza potere nemmeno fare osservare la inanità degli ordini. Nè meno insensata parevami la lettera, ch'ebbi a mostrare scritta, al Governatore di Portoferraio, con minaccia di destituzione; avvegnadio se il Principe fosse sbarcato, protetto da quattro legni da guerra, non il Granduca era in potestà del Governatore, ma il Governatore del Granduca; e supposto che il Governatore si mantenesse parziale al Principe, la minaccia di destituzione avrebbe destato la sua ilarità.[278] § 2. _Dimostrazione._ Aveva pensato in prima di porre a piè di pagina a guisa di note, e per ordine di data, i fatti narrati quotidianamente dai Giornali, onde confutare lo strano concetto dell'Accusa, che la violenza dei Faziosi mi lasciasse libero di operare tutti gli atti _nei quali e pei quali_ venne a consumarsi la perduellione: ma considerando come questo partito genererebbe confusione e stanchezza, mi è parso bene raccoglierli tutti in un punto, affinchè servano come di Appendice al paragrafo della Spedizione all'Elba, e d'Introduzione a quella di Porto Santo Stefano. Però vuolsi avvertire una cosa, che molti fatti non occorrono rammentati dai Giornali, avvegnadio le violenze, i soprusi e le soperchierie non si raccontino; e rifletterne un'altra, che nei primi giorni i Faziosi, troppo più occupati a operare che a scrivere, nè tempo avevano nè modo di registrare per lo appuntino i gesti loro: sicchè operavano più, scrivevano meno. A questo, in parte, devono avere supplito i testimoni uditi dall'Accusa, e meglio suppliranno questi stessi più diligentemente ricercati, e i nuovi che saprà addurre la Difesa. Nel giorno _8 febbraio_ abbiamo dai testimoni, ricercati dalla stessa Accusa, che il Niccolini, eccitando la gente a unirsi a lui per mandare a fine i suoi disegni, affermava: «ostare io solo.... ma!...» Ancora: che poco prima, o poco dopo di quel giorno stesso, ad altro testimone Niccolini medesimo confidava: «trovare resistenza in me.... ma che mi avrebbero messo giudizio.» Ora dai Documenti dell'Accusa resulta che il Circolo di Firenze stette in permanenza fino dal _5 febbraio_ 1849. (pag. 193.) E questa permanenza venne di nuovo decretata, e con più rigore mantenuta nel giorno 8, nè il _20 febbraio_ era per anche sospesa. «Il Circolo... sempre in permanenza _fino dal dì_ 8 corrente.» — (_Popolano_ del 20 febbraio 1849.) — Che cosa potessero i Circoli non importa ripetere. Della sospettosa Polizia del Circolo l'Accusa stessa raccolse prova, e la citerò più tardi; intanto osservate come fino dal declinare del gennaio egli procedesse a investigare sottilmente le cose, e le persone: «Il Circolo del Popolo nella sua seduta ordinaria del 28 gennaio deliberò di stabilire una inchiesta su i fatti avvenuti la notte del 27, e nominò una commissione composta di cinque membri del Circolo, a cui dirittamente furono porti i più estesi e precisi ragguagli intorno agli avvenimenti in discorso.» — (_Frusta Repubblicana_, 1 febbraio 1849.) Quello che il Partito trionfante faceva e ordinava al Governo che facesse, si ricava dalla _Costituente Italiana_ del 9 febbraio, organo, come sappiamo, della Emigrazione armata, fra gli accesi accesissima a precipitare lo Stato a Repubblica, per le ragioni chiarite in più parti di questa Apologia. «Non lasciate ricadere il Paese in un fatale letargo, non lasciate ch'ei si addormenti. Agitatelo, tenetene sempre desta e viva la vita! In ogni momento colla parola, colla presenza, cogli atti mantenetevi innanzi alla sua attenzione, ponetevi con esso in continua, incessante comunicazione di spiriti e di idee! Che da tutto e dovunque il Popolo conosca ch'ei non versa nelle condizioni ordinarie, bensì tra vicende agitate e pericolose, e anzichè cullarlo con facili lusinghe, gridategli sempre: all'erta! all'erta! Rammentatevi l'artefice che ha bisogno di aver sempre rovente il ferro per foggiarlo secondo la propria intenzione. Solo in questa intimità tra il Popolo e voi, solo dentro a _quest'aura di rivoluzione_ e di entusiasmo sono possibili le forti cose, a operare le quali oggi voi foste chiamati.» Padroni di tutto, è da credersi che non si rimanessero ai soli consigli commessi alle pagine infiammate del loro Giornale, ma sì alle parole aggiungessero lo esempio. Se nel primo giorno il Circolo fiorentino facesse forza, e poi, uditelo un po' dal Giornale che ne registrava gli atti e i concetti: «Armi al Circolo del Popolo, legione sacra che stette sempre al primo posto ogni qualvolta occorse combattere i nemici del Paese, ogni qualvolta occorse _spingere la bilancia delle nostre sorti che pendeva incerta_....»[279] I vecchi consigli di _violentare_ il Governo praticavansi. — Voi desumete prova che nei primi giorni non mi era dato oppormi apertamente in nulla, dal rimprovero che mi muovono, il 15 febbraio, «di non volere dichiarare la Repubblica, perchè la Repubblica bandisce decaduto Leopoldo, e di ostare alla Unione con Roma per amore della autonomia toscana, della quale _dieci giorni indietro vi mostravate poco curante_.» Il giorno 8 mostrarsi poco curante era tutto quel più, ed anche non senza molto pericolo, che potesse farsi.[280] «Voi non volete dichiarare Repubblica, perchè la Repubblica dichiara decaduto Leopoldo, e la decadenza di Leopoldo porterebbe intervento, invasione, abbassamento di stemmi inglesi e francesi, e tutte le diavolerie immaginabili. Voi non volete per ora l'Unione con Roma, perchè l'Unione con Roma ci toglie l'autonomia toscana, di cui oggi vi mostrate tanto passionati, _quando dieci giorni fa ve ne mostravate non curanti_; e la distruzione di autonomia importando infrazione dei trattati di Vienna, importerebbe anch'essa intervento austriaco, invasione straniera e tutta la solita litania. Ma dunque che cosa volete?» — (_Frusta repubblicana_, 15 febbraio 1849) Gli Emigrati Lombardi amaramente mi rampognavano nel _14 febbraio_, che da _sei_ giorni io non adémpia le grandi misure nè adoperi lo impeto di azione che mi avevano _inculcato dalla prima ora della mia chiamata al governo_. Consigli di gente armata, accesa di passione politica, smaniosa di ricuperare la Patria, convinta profondamente che per altra via non vi si ritorni, che sieno, dacchè l'Accusa non vuol capire, capite voi tutti che leggete queste pagine, e vedete con quanta giustizia di me si faccia lo _strazio disonesto_. «_Sei giorni sono trascorsi_, e noi cercavamo indarno negli Atti del Governo quella coscienza delle grandi misure, quello impeto di azione, che _dalla prima ora della sua esistenza gli avevamo inculcato_.» — (_Costituente Italiana_ del 16 febbraio 1849.) E se l'Accusa volesse sapere quali ammonimenti mi dessero i Settarii, e come facessero a fidanza, e se mi lasciassero libero, altro non ha che fare, che leggere queste poche righe: «Fino dall'8 febbraio abbiamo detto agli uomini che le speranze del Popolo avevano inalzato al Governo: noi vi richiederemo conto strettissimo _giorno per giorno, ora per ora, della opera vostra, e un minuto sprecato, è una colpa; e noi conteremo i vostri minuti_.»[281] Vero è bene che chi scriveva dichiarava essersene astenuto, e in quanto a sè forse non profferiva bugia; però lo aveva fatto fare dalle Deputazioni incessanti dei Circoli, e dagli Assembramenti popolari. E se all'Accusa prendesse così per genio vaghezza di conoscere quale potere i Giornali e i Circoli si fossero arrogato sul Governo, può, a tempo avanzato, vederlo in queste parole: «Noi però abbiamo conservato sopra _tutti i vostri atti_ un diritto e un dovere; il _dovere_ di vegliare su di _voi_; il _diritto_ di _provvedere a noi_, se voi stessi nol fate.»[282] Oda un po' l'Accusa che cosa il Circolo del Popolo, onnipotente, allora, intendesse istituita fino dal 10 febbraio; e neghi che se io non ero, ella avrebbe veduto il Tribunale rivoluzionario, e feroce, e insensato, e spietato, come.... come vediamo essere tutti i Tribunali nei giorni dell'ira di Dio. «Un Comitato straordinario di Salute Pubblica sia immediatamente instituito. Sieno uomini provati a libertà, ad energia di cuore e di mente; abbiano pieni i poteri; sia rapido, estremo il giudizio: vigilino a vicenda il giorno e la notte; dispongano sempre di forze determinate e sicure. Sia lor cura scuoprire le fila intricate e lunghissime della reazione; e scoperte, con lo esempio della pena prevengano colpe e pene ulteriori. _Tutto ciò noi domandiamo al Governo Provvisorio di Toscana, — lo domandiamo col linguaggio della necessità, con la coscienza ferma del diritto, con la volontà irremovibile del Popolo libero_.» — (_Popolano_ dell'11 febbraio 1849.) E che la Unione con Roma, e per conseguenza, la Monarchia abolita, il Principe decaduto, la Repubblica proclamata, fossero non pure desiderii o voti, ma _ordini imposti dalla Fazione trionfante, fino dal giorno otto febbraio_, voi lo vedete a prova. «La Unione con Roma era per noi condizione della esistenza del Governo Provvisorio fino dal giorno _otto_ febbraio; fino dal giorno in cui il Popolo restituito nel pieno possesso dei suoi diritti _rovesciava per sempre un ordine di cose impossibile ormai_.» — (_Alba_, 25 febbraio 1849.) «Ieri abbiam detto al Governo Provvisorio di Toscana diritti e doveri. — Con franchezza gli abbiamo accennati: diremo con franchezza se verranno compiti. — Una verità oggi ripetiamo, una suprema verità: — il tempo preme, fate tesoro del tempo. «Abbiam detto ieri _uniti con Roma_, — oggi diciamo _immediatamente uniti_. I bisogni vincano le forme. — Cittadini! quando vi abbiamo affidati poteri assoluti, abbiamo ad essi posto il suggello di una _condizione: l'Unione con Roma_: avete accettati gli uni, avete dunque accettata l'altra; compitela. «Gli avvenimenti mutarono. La Repubblica Romana è proclamata. A voi incombe inviare tosto un plenipotenziario che rechi il saluto e l'omaggio di Toscana alla gloriosa sorella. A quest'ora l'avrete fatto: se no, perchè il ritardo? «L'Unione con Roma fu decretata, acclamata dal Popolo: restano a stabilirla nodi di legalità: stringeteli. «Trentasette Deputati erano già destinati alla Costituente nazionale. Questi si raccolgano prima in Costituente Toscana, — compiano la volontà del Popolo, sanzionino il patto di _Unione_, costituiscano lo Stato della _Italia Centrale_. Poi vadano a Roma rappresentanti nostri alla Costituente Italiana, e dal Campidoglio dettino a noi i decreti, comunichino a noi le speranze e i bisogni. «Ciò vi domanda il Popolo, — ciò _vuole il Popolo_. Poichè se dai bisogni, dalle speranze e dai fatti fu il tempo prevenuto, l'opera deve eguagliarlo non solo, ma superarlo eziandio. Meglio con l'opera d'oggi affrettare il domani, anzichè affaticarci a ricostruire sui frantumi di ieri.»[283] E badate, che nè soli, nè più temibili erano i Lombardi, condotti in parte dallo stesso Ministero Capponi, ma Napoletani, Romani, e Romagnuoli crescevano l'ansietà, e la paura. Fino dall'_8 febbraio_ la Fazione organizzò una Legione _Romana_; nel _12_ del medesimo mese ne apparecchiò un'altra; il Popolo anch'esso si armò: «Questa sera una _nuova_ Legione di Romani sta organizzandosi per offerire i suoi servigi al Governo. Anche il Circolo del Popolo sta _ordinandosi in legione armata, per mettersi a disposizione delle autorità_.» E mettersi a disposizione del Governo significava: attendesse a fare a modo del Partito Repubblicano; se no, guai! Che cosa si proponesse fino dall'_8 febbraio 1849_, e che cosa _gridasse_ tutto il Circolo del Popolo in permanenza, lo si legge nel Nº 16 febbraio del _Popolano_: «Nell'adunanza di ieri sera il Circolo del Popolo fu invitato da un socio a _ripetere con solenne dichiarazione quello che fino dal dì 8 febbraio era stato nel cuore e nel grido di tutti_: la decadenza del Despota, e l'abolizione della Monarchia.» «Qual bisogno ha oggi la Toscana di rimettere ad una Assemblea la decisione di un voto, il quale _fu già deciso dal Popolo?_... Il Popolo ha già deciso di essere unito con Roma, e Roma ha proclamato la Repubblica _il giorno stesso di tale decisione_.» — (_Popolano_ del 15 febbraio 1849.) E fino da Roma venivano le congratulazioni al Giornalismo toscano per avere _insistito_ presso il Governo Provvisorio affinchè indissolubilmente si unisse con Roma. Altrove notammo, e qui giovi ripetere, Giornalismo di partito trionfante, che sia; e che cosa importassero le parole e le insistenze della Emigrazione Lombarda organizzata a corpo militare, e del Circolo armato. Di buon grado riproduciamo le seguenti osservazioni del Giornale romano l'_Epoca_ intorno alla pronta Unione della Toscana agli Stati Romani: «Noi facciamo plauso al Giornalismo liberale di Toscana, il _quale fin dal giorno di partenza del Granduca Leopoldo insistè presso il Governo Provvisorio, perchè si unisse subitamente e indissolubilmente col Governo della Costituente Romana. E questo fatto, se così vogliam chiamarlo, questo diritto, se meglio intendiamo di esprimerlo, era implicito nel mandato consegnato dal Popolo ai tre rappresentanti del Governo Provvisorio medesimo_.... «La Toscana in qual senso potrebbe ella adunare la sua Costituente? O a meglio dire, cosa potrebbe decidere questa Costituente che nel fatto non sia già deciso? O ella sceglie il Governo di Roma per effettuare la sua Unione; ed allora una parola, un atto fraterno non basta nei momenti attuali di tanta vitalità? O ella recede dalla Repubblica.... e in qual modo tanto trionfo avrebbe ottenuto colà il principio democratico? «No, non è possibile giammai. La Toscana è democratica, è repubblicana, e non da adesso. Lo è per tradizioni, lo è per sentimento. — Coraggio, uomini del potere! Tempo è di unione e di concordia _una_. Affrettando la fusione dei popoli delle due famiglie, voi affretterete la _Costituente italiana e la Guerra_.» — (La _Costituente Italiana_, 19 febbraio 1849.) In quel medesimo giorno istituiscono Circoli parrocchiali per agire di concerto col Circolo generale: «E per accendere lo spirito pubblico, fu notato non essere via migliore che istituire subito, in ogni Parrocchia, Circoli parrocchiali da agire tutti di concerto col Circolo generale del Popolo fiorentino.»[284] Sicchè nel giorno 10 poterono armarsi i Faziosi in centurie per _istimolarmi_, dicevano essi; ma in fatti per dominare tiranni. «La mattina di sabato (10) fu vero scopo d'eseguire immediatamente la ordinata classazione in centurie e decurie, e _di stimolare il Governo a volere lo armamento dei patriotti italiani_. Fin d'allora fu aperto nel suo seno un corpo di guardia fisso, ove furono tenute esposte note di soscrizione per tutti i patriotti che, nei pericoli della patria, volessero impugnare le armi. Il sabato sera il Circolo era diviso in due parti: _una parte discuteva, l'altra era sotto le armi_.... Il Circolo e il corpo di guardia _non si sono più chiusi. L'azione del Circolo ha dato un moto alla popolazione_, che oggi è accorsa in folla a sottoporsi alle armi per sicurezza dell'ordine pubblico.... Tutti i Fiorentini in armonia hanno oggi mostrato che il Popolo poteva sfidare qualunque pericolo.»[285] La continua guardia, la indefessa pressura si prova dai Documenti stessi dell'Accusa: «Fino dal _5 febbraio_ il Circolo fiorentino si è costituito in permanenza, ed ha creato una Commissione perchè _stia in continua corrispondenza col Ministero_.»[286] — Gl'inquisitori non si staccavano mai dal fianco, ordinavano, investigavano, riferivano, sospettosi sempre, pronti all'accusa. Dal Circolo armato la città, in cotesti giorni, si perlustrava. «La perlustrazione della città non era neppure trascurata.»[287] e coteste armi sbigottimento e terrore nei cittadini incutevano, cosicchè al Governo, smarriti, si raccomandavano esigendo misure che avrebbero precipitato alla rovina, condizioni già piene di difficoltà, dalle quali, se prudenza e senno non giovavano a salvare, niente altro poteva. Pretesto a parecchi, motivo vero in molti di quel tremendo ribollire, era trovare modo efficace di combattere la guerra italiana; perciò tanto più arduo contrastarli, quanto meglio ne appariva lo scopo all'universale accettissimo; e nella seduta dell'11 febbraio, nel Circolo Popolare si dichiarava che: «.... la divisione dell'Italia avendo fatto finora il nostro infortunio, anche nell'ultima guerra di Lombardia contro gli Austriaci, la sola unione di tutte le forze italiane in un solo Governo, può scacciare il nemico straniero di seno alla patria. — I Principi non sono stati da tanto. L'Italia unita sola il potrà. — Nè a ciò poter recare impedimento, notavano alcuni degnissimi sacerdoti, le minaccianti scomuniche di Pio IX.»[288] Nè il Circolo fiorentino si contentava, _fino dai primi giorni del febbraio_, raccogliere le proprie forze, ma eziandio riuniva quelle degli altri Circoli per _difendere l'ordine repubblicano_; il che agevolmente s'intende per imporre la Repubblica. «Il Circolo armato non potea fare a meno di ricercare agli altri Circoli, nel presente stato di cose, il numero di quelli Italiani, che, socii o non socii, fossero pronti a porgere il loro braccio alla _difesa dell'ordine repubblicano_. Il perchè fu ordinato di tosto scrivere in proposito.»[289] E grande fu e penoso lo schermirsi dalle pretensioni di tôrre via i beni e i tesori sacri alle chiese, sopprimere gli ordini cavallereschi, e incamerarne la sostanza. Di ciò tu trovi traccia nei Giornali, fievolissimo eco di quanto a voce burbanzosamente ordinavano: «_Secolarizzati tutti i beni ecclesiastici_. Il monacume è tempo ormai che cessi da impinguarsi a spese della nazione.... Le chiese siano private di tutto il superfluo. Li antichi credenti onoravano Dio con altari di pietra e calici di legno, ec. «_Soppressi tutti li ordini cavallereschi_, ed incamerarne i tesori.»[290] E vedete com'era libero io, quando, _tutto giorno_, i rappresentanti della Emigrazione Lombarda venivano a _rammentarmi_ i loro proponimenti, e, le armi brandendo, mostravano come intendessero sostenerli: «Noi ci troviamo in momenti di supremo pericolo; non bisogna nè esitare nè oscillare sulla via che abbiamo eletta a percorrere, poichè _la nostra salute è sola nell'azione rapida e vigorosa. — Lo verremo tutto giorno rammentando agli uomini a cui è fidato reggere i destini della Patria_. «La reazione tenta qua e là sollevare la testa; non rifugge da nissuna arte feroce e sovversiva, _da nessuna passione, per quantunque bassa e antisociale, per giungere al suo scopo_. Ella ha deciso riconquistare il potere fuggitole di mano _attraverso al caos della anarchia, attraverso alla guerra civile_: ella non rifuggirà dal comparirvi innanzi come vanguardia ed alleata alla invasione straniera. «La reazione stimola i ciechi istinti delle popolazioni più ignare della campagna, mette in atto la molla segreta della superstizione, si rafforza della influenza dei vasti possessi, della colleganza con un clero che abusa il facile dominio delle coscienze. _Ella ha sospinto il Granduca a Siena, lo ha consigliato alla fuga_. Il Principe, docile alle sue insinuazioni, ha assunto di rappresentare la sua parte nel dramma sanguinoso della ricostruzione del dispotismo; ora tocca ai vecchi suoi sostenitori a sottentrare alla riscossa ed adempire alla propria. «_Ma noi siamo preparati a riceverli e a rintuzzare_ convenientemente questa perfidia nuova, che lavora e cospira nel secreto, che getta i germi della divisione nel momento in cui l'Austriaco minaccia alle porte, che vuol renderci all'Austria, anzichè arrendersi a questa forza rinnovatrice e _irresistibile_, che avvia l'Italia verso un nuovo destino. «Stoltezza troppa ci hanno supposta i nostri nemici, e semplicità inaudita, se credettero persuaderci causa vera della fuga di Leopoldo essere state le paure della sua timorata coscienza.»[291] E già fino dal giorno _dieci febbraio_ 1849, se non adempio gli ordini imposti della fusione, mi si minaccia la vita: «In qualunque Governo è sacramento, ma in un Governo che fu decretato dal Popolo, _e che solo per suo volere sussiste e comanda, è condizione di vita, è necessità ineluttabile_. Nè si dee, nè si può dire — Domani — a chi oggi non ha da vivere. — Domani, o _non sarebbe più vivo lui, o nol sareste voi_.»[292] I soldati che rifiutavano prendere il giuramento, comecchè da me lasciati liberissimi di prestarlo o no, e di tornare, volendo, alle proprie case, sono vilipesi e percossi; avviso ai renitenti: «I pochi soldati che stamani si rifiutavano di prestare giuramento, uscendo di Fortezza, _venivano accolti a fischi e sassate dal Popolo_: essi tornano tutti contriti a domandare di prestarlo; ma non lo si concedeva loro, e, posti in luogo appartato, si dava loro agio di riflettere affinchè il voto fosse spontaneo e non estorto dalla paura.»[293] «Ieri, 12 stante, le truppe prestarono giuramento al Governo Provvisorio toscano, salvo poche eccezioni. Coloro che recalcitrarono _furono respinti in fortezza a furia di Popolo, ed i loro commilitoni ricusarono riceverli_.»[294] Avanti: perchè ogni uomo, anche a me più fieramente avverso, si persuada come potessi operare spontaneo io in mezzo al turbine rivoluzionario. E se si obiettasse che i Livornesi erano chiamati a Firenze dal Governo, risponderei ch'è vero, ma che, innanzi di partire da Livorno ammoniti come a Firenze si chiamassero contro i nemici interni, non già per dimostrazione politica,[295] essi avrebbero osservato il precetto, dove non fossero stati provocati dal Popolo e dal Circolo accorrenti. «Ogni discussione del Circolo fu interrotta quando fu fatto il lietissimo annunzio del pronto arrivo dei Livornesi per la strada ferrata, con cinque cannoni, sessanta artiglieri e seicento uomini. Fra i clamorosi applausi fu scelta una deputazione per andare ad attenderli. Erano le 9 ¼ di sera (11); ma ad un tratto altre voci annunziarono un _moto di Popolo che andava ad incontrarli_; ed allora il Circolo tutto, tranne gli obbligati al seggio e gli armati, con moto spontaneo, si volse incontro ai Livornesi che furono salutati, in Borgo Ognissanti, col sublime grido di unione, di _Viva la Repubblica italiana_, a cui i fieri Livornesi non furono tardi a rispondere col medesimo grido. _È indicibile la gioia di questo minuto popolo fiorentino al nome di Repubblica!_ Ciò mostra come in esso non si sieno mai spente le abitudini repubblicane, come dalle due infami dinastie dei Medici e degli Austriaci non se ne sono potute distruggere, in tre secoli, le memorie. E ciò porge la più salda speranza che in tutte le città italiane, vissute a Repubblica, i medesimi spiriti repubblicani abbiano, con egual forza e vigore, a risorgere. È però vero che se alcuno gridava semplicemente: _Viva la Repubblica_, non mancava chi subito avvertisse di aggiungere un altro grido: _Italiana_. Ciò mostra che se noi Italiani vogliamo la libertà municipale delle passate Repubbliche, fatti accorti che l'Italia non può vivere di fronte ai grandi Stati europei se non è unita in un solo Stato con Roma per sua metropoli, la Repubblica Italiana deve regolare le libertà municipali. Allora ogni città sarà libera, e l'Italia sarà un solo Stato con leggi a tutti gli Italiani comuni. «Nel suo passaggio in Piazza del Popolo, di faccia alla linea, fu notato il grido: _Abbasso li Uffiziali codini_, alludendo chiaramente a quelli che nelle Fortezze avevano tentato di spingere alla diserzione i soldati e di sciogliere l'esercito; al quale grido i _nostri bravi italianissimi soldati prontamente risposero: Abbasso_!»[296] Il Circolo fiorentino fino dal giorno _11 febbraio 1849_, col pretesto di avvantaggiare la opera del Governo Provvisorio, tira a sè le milizie; così togliendogli ogni mezzo di resistenza si apparecchia a proclamare la Unione con Roma e la Repubblica: «Fino dalla mattina dell'11 il Circolo aveva mandato un proclama a stampa nelle due Fortezze, da Basso e di Belvedere, per avvertire i soldati delle _mene traditrici_ di alcuni loro Uffiziali. Nè ciò fu senza effetto; perchè, nella sera, appena il Circolo, _adunato in permanenza e armato_, aperse la ordinaria discussione, molti militi, da bravi e buoni Italiani, sì dell'artiglieria che della linea, presentarono al Circolo una dichiarazione firmata ove proclamavano i loro patrii e italianissimi sensi, e la piena fede che avevano nel nuovo Governo, mostrandosi pronti a spargere il loro sangue per l'amatissima patria, l'Italia. Gli amplessi e i baci fraterni coronarono l'opera. Quindi fu fatto, discusso e dato loro un altro Indirizzo da recarsi in Fortezza agli altri fratelli della milizia, per sempre più riaffratellare tutti i cuori in un desiderio comune: la salvezza d'Italia.»[297] L'Accusa m'incolpa (e si è veduto) di avere conferito impieghi ai rivoluzionarii; i rivoluzionarii fino dal 12 febbraio mi rampognano all'opposto per non averli ricevuti. Chi di loro ha torto, chi ragione? Ambedue torto, imperciocchè la passione ingombri la mente, e alla pacata disquisizione del giudizio sostituisca l'astiosa agonia di nuocere. «Noi crediamo fermamente e con religione professiamo la massima che il nuovo Governo sia per dovere obbligato a collocare tutta l'autorità governativa e tutta l'autorità militare _negli uomini che hanno saputo fare la rivoluzione_, perchè altronde la rivoluzione repubblicana non è sicura. Tanto per loro massima.»[298] L'Accusa sostiene, ch'e' fu un nonnulla combattere quotidiana battaglia, e spesso quasi vinto tornare a pertinace difesa, affinchè la Toscana nella Unione romana non precipitasse, e il Popolo prima intorno alle sue sorti, come padrone di sè, s'interrogasse, e decidesse. Gli Esuli Lombardi all'opposto non la pensavano così; tengono essere questo negozio supremo, e vi si affaticano intorno con tutti i nervi; di Assemblea non vogliono sentire parlare; àncora di salute ultima la Unione con Roma, donde uscirebbero la guerra, e le forze per poterla vincere. Quanto questo partito potesse avvantaggiare i loro disegni, io non compresi allora, e nè anche adesso giunsi a capirlo: non importa: essi lo pensavano, oltremisura smaniosi a conseguirlo. «Lasciate dormire in pace le Assemblee Legislative; non evocatele adesso nel momento del pericolo, alla vigilia della guerra. A che mai un'Assemblea convocata a 34 giorni d'intervallo, un'Assemblea che dovrà precedere la Costituente, perchè chiamata a sanzionare la legge? Fate tesoro del tempo, non rimettete la vita del Paese a così lontana epoca; non date agio alla reazione di diffondere le malvagie influenze, non fate disperdere con lunghi conflitti elettorali quella forza che dovete tutta concentrare nella difesa dello Stato. Funesto esempio di debolezza potrebbe essere questo procrastinare, questo invocare una remota sanzione legale al potere, che il Popolo diede intero nelle vostre mani. Ben è dritto che l'Unione della Toscana colla Romagna, _che voi ora proclamerete per impeto di volontà popolare_, per suprema necessità di circostanza, abbia a risultare, anche qual forma temporaria, voto legalmente espresso dal Popolo. Ma in tal caso basterà promulgare all'atto dell'Unione la legge sulla Costituente Italiana, fare eleggere i 37 Deputati, spedirli a Roma, e ottenere dai Deputati Romani e Toscani insieme raccolti la prima sanzione di quella forma, che poscia dovrà essere sottoposta al supremo giudizio della Costituente di tutta Italia. E le elezioni devono essere compite in 10, in 8 giorni, in meno se pur si può, giacchè il tempo urge, e per poco che aspettiamo, i registri elettorali dovranno cambiarsi in ruoli di combattenti.»[299] E poco più oltre sentite con quali _insistenze_ c'intronavano le orecchie, e ce le facevano intronare dal Popolo; e nonostante, tutto questo parrà poco all'Accusa. Ma che dico io, parrà poco? Sembrerà al contrario, che sia nulla, anzi che sia prova di piena libertà, — se non superiore, almeno uguale a quella di cui nelle appartate stanze godevano i Giudici alloraquando bastava loro il cuore per dettare le pagine, che di me, della mia fama, e delle mie opere, fanno così acerbo governo! «Noi rammentiamo con insistenza sempre più forte il debito che ha il Governo Provvisorio di rispondere con alacrità, con energia, ai supremi bisogni del Paese. La patria è in pericolo; questo è il grido che vogliamo risuoni continuamente alle orecchie dei governanti, questo sia il pensiero consigliatore d'ogni loro provvedimento. Gli avvenimenti incalzano, il tempo fugge rapidissimo; è d'uopo prevenire gli uni, economizzare, moltiplicare l'altro. Le rivoluzioni si compiono solo per virtù di ardimenti: osiamo, osiamo; affrettiamoci; l'avvenire è dei confidenti e degli audaci. «Una potenza somma d'attività è nel Popolo, l'entusiasmo. Non lasciamo che dorma inoperoso nei cuori, risuscitiamolo, facciamo che alla prima sua ebbrezza sottentri il coraggio dei forti propositi... è solo dalle intime fonti dell'anima commossa, agitata, che si traggono le virtù che fanno le nazioni. «Osate, osate, noi ripetiamo ai cittadini del Governo Provvisorio; siate quali il Popolo vi ha fatto, dittatori nell'ora del pericolo; abbiate la coscienza di questa forza ond'egli vi riveste e vi sorregge, non vi arrestate davanti alle temerità consacrate dalle estreme circostanze. Ogni titubanza, ogni indugio può tornare fatale, e _la Patria ve ne chiederà un giorno strettissimo conto_... Siate veramente governo di rivoluzione, organizzate a rivoluzione il Paese, non impedite con larve pericolose di legalità la vostra azione, bisognosa di prontezza e di vigore. Troppo furono finora funeste le lentezze ai poteri emanati dalle rivoluzioni; vi giovi, per Dio! l'esempio degli errori passati ad evitarne la prova. «Il voto del Popolo, la forza irresistibile delle cose, il bisogno di concentrazione e di potenza, chiedono oggi imperiosamente l'Unione della Toscana colla Romagna. Lo chiede l'Assemblea Romana... Non esitate, non indugiate a risolvere; Romagna e Toscana non debbono da questo punto formare che uno Stato solo, nucleo della futura unità... I Toscani vogliono essere uniti in un solo Stato co' Romani... Dite dunque la solenne parola... È il Popolo che ve lo chiede; non temete d'usurpare sulla sua sovranità... «Noi lo ripetiamo ancora una volta ai cittadini del Governo Provvisorio: osate, osate; la salute della Toscana sta tutta da queste parole: Unione con Roma e convocazione della Costituente. L'istinto popolare, nel suo squisito buon senso, ha già precorso il vostro giudizio, e domanda questa Unione. Voi avete udito le sue grida di gioia e il suo saluto a quella Repubblica, nel cui nome ei vuol combattere e morire; voi potete e dovete sanzionare quel saluto e quelle grida. In nome dell'Italia, non esitate. L'ardimento vi renderà gloriosi; il dubbio potrebbe perdere la patria.»[300] E non è tutto ancora: nel _12 febbraio_ Popolo e Soldati invadono i cortili di Palazzo Vecchio e urlano: _Repubblica_! Per l'Accusa questa pure è prova _esclusiva di coazione_... Ma è di pietra, è di ferro, o di che cosa è mai cotesta Accusa? Veramente ella in durezza disgrada le sfingi di granito dello antico Egitto; non v'ha metallo, che possa rassomigliarsi a lei; io rimango sbalordito a tanta sovrumana costanza... Solo mi rassicuro alquanto pensando, che ella tale argomentava nel _gennaio del 1851_; posso io venirle senza tremore innanzi, e domandarle se nel _febbraio 1849_ ella avrebbe voluto, o potuto procedere come insegna nel _gennaio del 1851_? — No; ella non lo avrebbe potuto, nè voluto, perchè se le fosse bastato il cuore avrebbe pensato sopra tutto a salvare (in Dio confidando e nella sua coscienza) la Società che agonizzante le stava abbandonata fra le braccia. «Alle ore tre pomeridiane, il Circolo accoglieva un numeroso drappello di militi d'ogni arma, che venivano ad affratellarsi. Poco appresso, dopo le calde accoglienze e gli applausi, il Circolo, con bandiere alla testa portate dai militi, moveva incontro ad altra schiera di militi, che attendeva da Santa Maria Maggiore; e tutti uniti al sublime grido di: _Viva la Repubblica Italiana_! e sempre ingrossando, si sono condotti fino nei cortili del Palazzo della Signoria, ad applaudire al Governo della nostra Repubblica. Poi sono andati con grande ilarità a cantare il _De profundis_ all'aborrita dinastia, innanzi alla porta del Palazzo Pitti, fra le risa e gli applausi fino degli Anziani. Tre soldati, arrampicatisi ad una finestra, vi hanno collocato una bandierina rossa, fra le acclamazioni d'immenso Popolo. Quindi il corteggio ha salutato a Santo Spirito i Livornesi,[301] poi si è recato fuori di Porta San Frediano; e dal ponte di ferro e dalle Cascine è rientrato, per Porta al Prato, in mezzo alle faci, in città, ove percorrendo Borgo Ognissanti, Lung'Arno, Piazza del Popolo, Via Calzaioli e altre principali vie, si è, dopo tre ore di gioia repubblicana, sciolto tranquillamente.»[302] — Questi fatti, notati dai Giornali nel giorno _13 febbraio_, accadevano _il 12_; per la quale cosa, irridendomi (e l'ho notato anche altrove) il _Popolano_ intorno alla mia lettera inserita nel _Monitore_ gridava: «La Toscana, e il suo Governo Provvisorio, hanno sentito questa sera la voce del Popolo, _fragorosa e terribile_ come il tuono, empiere l'aria del grido: _Viva la Repubblica_! — La Toscana, e il suo Governo Provvisorio, hanno veduto come il Popolo sia maturo per la libertà, e quanto andassero errati coloro che lo dicevano ligio troppo ancora alle tradizioni del principato (e fra questi eranvi ancora gli oracoli del Giornale officiale il _Monitore_). — Toscana decida, e il Governo Provvisorio _sanzioni_ tale decisione.»[303] Vediamo adesso i fatti successi nel _13_, e raccontati il _14_. — Una Deputazione di Circoli fiorentini, ed un'altra di Popolo livornese, vengono tumultuariamente a impormi la Repubblica; io con le ragioni più efficaci che seppi mi schermiva, e li conforto ad aspettare. I Giornali subito mi pongono segno al feroce sospettare del Popolo commosso. «Firenze, 13. — Una deputazione dei Circoli e del Popolo livornese, recatasi a Firenze, si presentò stamattina a Palazzo Vecchio, esponendo al Governo Provvisorio i desiderii di tutta la popolazione: venisse cioè proclamata la Repubblica, e tosto si unisse la Toscana a Roma, atterrandosi tutti i segnali di separazione fra le due Repubbliche. La Deputazione venne accolta dall'attuale Presidente del Governo, Guerrazzi, molto freddamente, e non potè ricavarne parola di promessa, essendo a suo dire da aspettarsi l'Assemblea, che viene convocata pel 15 marzo.»[304] Il Circolo fiorentino manda Deputazioni al Governo, per essere ragguagliato intorno alle condizioni delle cose; intanto spedisce _uomini armati_ di _sua autorità_ contro Empoli. «... Riferirono notizie che spinsero ad inviare deputazioni al Governo. Intanto fu reso pubblico, come una piccola spedizione del Circolo, composta di soli 20 uomini, guidati dal socio Spinazzi, avesse la prima e sola avuto l'ardire, frammezzo le voci minacciose che si spargevano, di spingersi verso Empoli.... La Deputazione ottenne dal Governo conferma delle cose già note, e migliori speranze pel dì seguente.»[305] Inviando la seguente circolare a tutti i Circoli della Toscana, l'_Alba_ apparecchia la rivoluzione repubblicana; il _Popolano_ si leva con l'_Alba_, e la promuove caldamente. «A voi che vi siete addossata una sì nobile missione nel regolare e manifestare i desiderii del Popolo da voi rappresentato, a voi spetta una generosa iniziativa in questi momenti, nei quali la patria nostra attende ansiosamente la salute invocata. A voi, giovani e forti creature del Popolo, sostenitori de' suoi dritti, ammaestratori de' suoi doveri, a voi il compiere al più presto l'opera di rigenerazione che incominciaste sì bene. Sollecitate lo invio delle Deputazioni vostre a Firenze. Tutte abbiano uno scopo solo, una voce sola: _Unione immediata con Roma_. — A questo patto sta il Governo Provvisorio in Toscana. Il Popolo appose questa condizione, la consacrarono nell'Assemblea i Rappresentanti di tutta Toscana con unanime voto; altro non grida, altro non domanda Firenze: _Unione con Roma_. Questa è la calda preghiera, la volontà irremovibile di quanti amano Italia e lei vogliono prima che Toscana e Romagna e Sardegna, nomi di un tempo. — Voi, o membri dei Circoli Toscani, questo dovete ripetere, con la energia di uomini maturi a libertà, al Governo Provvisorio che accettaste con noi. — Questo unicamente voi dovete ripetere. — E le invocate legalità, che non basterebbero a salvarci dalla possibile e probabile invasione dell'Austria, cadano davanti all'urgenza del pericolo, alla volontà del Popolo toscano, al fremito che irrompe dal cuore di quanti vogliono che _Italia sia_. — Roma ci ha chiamati con una suprema parola, con una parola di fede schietta, d'amore ineffabile. — Toscani! Come vorrete rispondere a Roma? Le direte voi: per renderti lo addio, per stringerci a te, noi aspettiamo il 15 marzo? Ed allora quale sarà il giorno che attenderete voi, o Toscani, per assistere alla Costituente nazionale? — Deh, correte, o Rappresentanti dei Circoli, correte in nome di Dio! e presto, a Firenze! — Noi vi attendiamo con ansia indicibile, con inenarrabile affetto; noi vi apriremo le braccia, noi vostri confratelli nel sostenere pubblicamente i diritti del Popolo. E vi accoglieremo col giubbilo, con la riconoscenza di chi vede rifiorire una cara vita e minacciata e soffrente.»[306] E per ben tre volte questo Proclama mandavasi per tutta Toscana, e con tali comenti lo accompagnavano: «Questo indirizzo noi ripetiamo anche quest'oggi, e lo ripeteremo sempre finchè ne sia mestieri. — Preghiamo i Circoli Toscani a fare noto all'Uffizio dell'_Alba_ lo INVIO delle loro deputazioni, o di spedirci copia dei loro Indirizzi al Governo Provvisorio in proposito della Unione con Roma. Noi li pubblicheremo immediatamente, ed avremo uno incoraggiamento di più a non ismettere in quella perseveranza, che, se ci suscita le velleità dei pochi, ci frutta d'altronde la simpatia di ogni buono Italiano, e il soddisfacimento della nostra propria coscienza.»[307] Così un Governo fuori del Governo avevano creato i Settarii, e tutti infiammati in quei loro smaniosi spiriti, per venire a capo dei concepiti disegni, non badavano con accuse di ogni maniera, ed insinuazioni di tradimento a mettermi in mala voce del Popolo, ed anche, poichè docile benchè nelle mani loro non mi trovarono, a farmi capitare sinistramente. I Comitati di pubblica sicurezza eletti dal Governo, screditati: «Creansi Comitati di pubblica sicurezza, ma si compongono di elementi eterogenei, impossibili; ove al buono fa contrasto insormontabile il tristo, l'inerte allo energico, al liberale repubblicano il codino-tricolore.»[308] Accusano il Governo, e perchè? Perchè la decadenza della Casa di Lorena non dichiara, un sospettoso timore per la Repubblica diffonde; perchè _il Granduca e la sua famiglia lasciò fuggirsi dalle mani_, e mandò a Empoli un uomo egregio, di temperato consiglio, ad assettare le cose. La _maggiore colpa_ è per Empoli per avere tumultuato, _il restante per noi_ per non avere spento il tumulto nel sangue. Il Popolo deve reprimere da sè gli _eccessi del Popolo malvagio_ (e questo mena diritto allo scannare per le piazze); ma al Governo corre obbligo di mostrarsi rivoluzionario _rovinando innanzi a suon di cannonate e moschettate_. A mente riposata, e in tempi tranquilli, coteste più che vane jattanze sarebbero festevoli smargiasserie, ma non era così quando servivano a gittare olio e zolfo sur un fuoco che minacciava divorarne tutti. «Ma il democratico Ministero, ma il Provvisorio Governo, volendo contentar tutti, non contenteranno nessuno: _volendo salvar tutto, non salveranno nulla_. «Non sono questi i tempi, nè sono i governi rivoluzionarii, i governi a Popolo, che permettere debbono alle fazioni politiche di avvalorarsi, di diffondersi col mezzo della impunità, e di far causa comune coi ladri e coi briganti. — _Non è più la stagione di lasciare pazientemente perorare la causa della Dinastia Sabauda ad un Massimo D'Azeglio a Lucca, ad altri in altri luoghi_. «Non vi basta, o_ uomini del Governo Provvisorio_, non vi basta _non volere proclamata la decadenza della Dinastia di Lorena, non vi basta lo insinuare un sospettoso timore per la parola Repubblica, non vi basta lo esservi lasciato sfuggire di mano l'ostaggio prezioso del Reale Arciduca e della sua famiglia che voleva oggi prestar mano, non ispegnendola in tempo, ad accendere la reazione_? «Quando a voi si presentò una Deputazione empolese per invocare l'assistenza vostra contro l'impeto di una turba di masnadieri, che cosa faceste voi?... Inviaste _uno dei più tiepidi fra gli amici vostri, il Manganaro, ottimo conciliatore di cose conciliabili, ma inetto a far marciare ad un passo disordine e tranquillità, moderazione di gastigo ed esorbitanza di colpa_. «E il tumulto divenne aperta rivolta; la masnada, esercito; il danno che lieve saria stato riparare, divenne danno difficilmente riparabile. «A Empoli la maggior copia della colpa; — _a voi il restante_; giacchè se il vero Popolo deve sapere, occorrendo, da per sè stesso reprimere gli eccessi del Popolo malvagio, _un Governo che vuol nome di democratico non deve aborrire da quello di rivoluzionario; e le rivoluzioni, per Dio, non si fanno a furia di sermoncini in piazza, ma coi fucili e coi cannoni_.»[309] Si mandano Deputazioni in Fortezza per giustificare i soldati che non erano comparsi allo appello; e _ciò per onore della disciplina_! E agli ufficiali trasognati, per cotesti singolari onori renduti alla soldatesca disciplina, invece di cacciare la gente contumace in prigione, toccava a farle di berretta e a dirle: brava! Nuovo argomento della forza che a quei giorni esercitavano i Circoli, e della necessità di obbedirli. Nel Circolo si parla della mia opposizione allo inalzamento dell'Albero; coteste brevi parole somigliano la nuvola nera pregna del fulmine: «Nella pubblica discussione di ieri sera (13) _fu risoluto di spedire, per espresso desiderio dei militi e per onore della disciplina_, una Deputazione ai comandanti delle due Fortezze di Firenze, perchè fossero giustificati tutti quei militi i quali non poterono rispondere all'appello serale per far parte delle pubbliche dimostrazioni in favore della libertà e della unità italiana, che occuparono il Popolo fiorentino nella giornata. «Dipoi, per la tanta affluenza di Popolo, convenne trasferire il Circolo negli ampii corridori del Convento di Santa Trinita. — Il soggetto che più trattenne la discussione fu l'Unione da farsi con Roma. Su di che non poteva esservi pensiero discorde. Solo parlossi di varii modi, ed ogni conclusione fu differita. «_Fu ragionato ancora della erezione di un Albero della Libertà che nella sera era stato portato in Piazza del Popolo per piantarvelo. Fu udito come il Guerrazzi avesse dissuaso il Popolo_.»[310] Il Circolo tratta comporre una schiera repubblicana di 1,000 uomini, seguita da un tribunale, per iscorrere il Paese e giudicare i colpevoli; se ne rimane, _per ora_, a cagione dei tumulti empolesi repressi. Voi da ciò lo vedete; il Circolo si affatica a procedere come Governo separato: sola via a trattenerlo, e sventare le insidie per farmi segno ai sospetti e alle ire popolari, sta nel preoccupargli il passo su quanto egli minaccia imprendere fra mezzo agli orrori rivoluzionarii. «Visti i presenti casi della Patria, il Circolo si occupò della formazione intanto di una schiera di _1000 uomini eletti, di puro sangue repubblicano_, da percorrere in tutti i sensi il Paese ovunque si manifestassero accidentalmente macchinazioni tedesche; _schiera seguita da un tribunale per giudicare i colpevoli_. Ma l'ultimazione dei ladronecci e degli scandali d'Empoli ne fece respingere, almeno per ora, la proposta.»[311] Comecchè dei fatti che seguono occorra traccia nei Giornali posteriori al 14 febbraio, io gli riporto perchè appartengono ad epoca anteriore. Il Circolo fiorentino, avvisando i modi di cacciare il Granduca da Porto Santo Stefano, delibera: «Quindi fu trattato dei mezzi di scacciare il Despota dall'ultimo suo nido di Santo Stefano, e di avviare spedizioni popolari da tutte le città del presente Stato provvisorio, a fare una crociata verso quel punto, e percorrere il Paese affine d'infiammarlo e muoverlo tutto per la santa causa; _e fu proposto che Firenze desse cominciamento a queste patrie spedizioni coll'inviare intanto 1000 uomini a Siena, italiani e repubblicani_.»[312] I Lombardi, uomini intendenti assai delle faccende politiche, a quanto il Governo in quei giorni operava costretto, non si acquietavano punto; non pareva loro che ei desse sicurezza di compimento finale; nulla per essi era fatto, se con la decadenza del Principe e la proclamata Repubblica non si varcava il Rubicone; appunto come adesso per l'Accusa è nulla non averlo passato, ed avere impedito che altri lo passasse! Ma la Emigrazione Lombarda, è da credersi che dei suoi interessi intendesse meglio nel febbraio del 1849 che non l'Accusa nel gennaio del 1851; quindi, mentre questa reputa lo accaduto fra l'_8_ e il _14 febbraio_ completo elemento di colpa, quella rampogna non lo contare niente, e dai sei giorni, cioè dal _9 febbraio_ in poi, cercare invano negli atti del Governo eseguito quanto essa era venuta ordinando. Finora dunque stetti in mano a Faziosi? — E ardite giudicare voi? Guardi tutto il Paese, e consideri se sono io, o se sono i miei Giudici quelli che devono essere giudicati. «Questa è la condotta, questa è la missione che vi è tracciata, o cittadini del Governo Provvisorio? Adempitela, adempitela, per Dio! prima che i giorni fuggano, e con essi l'occasione e l'entusiasmo e la forza. Non siam noi sorti nel nome della Italiana Costituente, nel nome del dogma della sovranità nazionale? L'agitazione lunga non fu desiderio di unità, sforzo a ravvicinarsi delle diverse membra della Italia divisa? «Ebbene, che più tardare si doveva ad attuare questo principio di legalità incontestata, a convocare i Rappresentanti della Toscana alla nazionale Assemblea di Roma, e dichiararci solidarii e indivisibili della nuova vita proclamata dal Campidoglio? Perchè se tutte le fatiche della nostra Rivoluzione han per fine ultimo la compenetrazione ed unificazione assoluta di tutto il Paese che Appennin parte e l'Alpe e il mare circonda, perchè forti di questa missione salvatrice e italiana che vi fu confidata, non realizzare, non tradurre voi medesimi in fatto questo voto infallibile e universale? Ora che la legge d'oggi ha proclamato il principio della unità italiana, consacrandolo nella convocazione dei Deputati alla Costituente, perchè non lo iniziate e preparate nel fatto, proclamando l'_Unione con Roma_? «La legittimità del mandato da accordarsi ai rappresentanti italiani non avea bisogno della giustificazione di nessun atto precedente di provinciale pretesa sovranità. I Governi delle diverse provincie non hanno altro incarico che, proclamato il principio, assicurarne l'esercizio nella libertà e verità più intera: i Governi non possono che pubblicare una legge elettorale, la quale emana dal potere esecutivo ad essi provvisoriamente delegato. Imperocchè non fa d'uopo di nessuna legge per decretare il diritto che ha l'Italia di essere sovrana di sè stessa. «Voi dunque siete nella più stretta legalità, o cittadini del Governo Provvisorio, promulgando voi stessi la legge che chiami il Popolo a nominare i suoi mandatarii alla Costituente Italiana. E voi dovevate farlo, noi ne abbiamo ferma convinzione, voi lo dovevate sotto pena di apparire fiacchi e derisi in faccia a tutti coloro che vi hanno sfidato all'attuazione della vostra dottrina, in faccia a tutti quelli che, credenti in essa, vi hanno promesso il concorso della propria opera e delle proprie simpatie. Voi lo dovevate, perchè tra Leopoldo e l'Italia non è possibile l'alternativa, e la decisione s'impone invincibile da sè stessa. «Il Popolo, nel suo desiderio, si spinge innanzi alle lente e tranquille deliberazioni; esso attesta altamente le sue simpatie, vuol rompere le barriere municipali che lo dividono, e domanda con grido irresistibile universale: _Unione con Roma_. L'entusiasmo cresce e si propaga come generosa manifestazione del nuovo spirito italiano; questo voto incarnato nella convinzione di tutti, diventa istintivo, urgente bisogno. L'_Unione con Roma_ è già in tutti i cuori, è già un fatto compiuto, una rivoluzione vittoriosa; al Governo Provvisorio di Toscana forse non resta che consacrare questo fatto, e, accettandolo, farsi interprete del pensiero comune. Ma al di sopra di questo movimento inconsapevole delle masse vi ha l'intelligente e sovrana Rappresentanza Nazionale. L'_Unione con Roma_, l'obbietto di questa commozione viva ed infiammata, non può essere che espressione temporanea del voto dei Popoli toscani, che essi sommettono docili e reverenti alla sentenza della Italiana Assemblea. «Sei giorni sono trascorsi dacchè Leopoldo è fuggito, la Toscana libera, il Governo investito della suprema dittatura.... L'entusiasmo, cagion prima ed unica dei miracoli, si diffondeva, affratellando gli animi, preparando la forza.... _sei giorni sono trascorsi_, e noi cercavamo indarno negli atti del Governo quella coscienza delle grandi misure, quell'impeto d'azione che dalla prima ora della sua esistenza gli avevamo inculcato.»[313] Le mura di Firenze, nei giorni _14 e 15 febbraio_, andavano coperte di questo avviso, che i Circoli bolognesi mandavano ai Toscani: «Fratelli Toscani! «Il senno, l'ordine e l'energia che nel momento il più difficile della vita de' popoli voi dimostraste, ci hanno compresi di tanta maraviglia ed in uno di tanto entusiasmo, che non potemmo frenare più a lungo l'impeto dei nostri affetti, e palesarvi quanta sia la stima e quanto l'amore che a voi possentemente ci legano. «Fratelli! Se Leopoldo di Lorena vi abbandonava vilmente, il Dio, proteggitore de' Popoli, vi rimaneva e rimane a tutela; e, senza dubbio, un Nume misericordioso è coll'Italia nostra, perocchè è piuttosto unico che singolare l'esempio di genti, a cui tolto ogni freno di governo, siensi nullameno comportate con così alta sapienza da esterrefare perfino i più avversi e increduli al loro valore, al loro progresso. «Roma e Firenze subirono le medesime crisi; Roma e Firenze le attraversarono del pari impavide; Roma e Firenze si stringono fraternamente la mano associandosi ad un medesimo destino: adunque onore a Roma, onore a Firenze! «Fratelli! concordia e perseveranza, speme nel futuro, attività e non avventatezza, e trionferemo de' nostri nemici. «Prepariamoci alla pugna; e il primo nostro pensiero sia il riscatto delle misere terre lombardo-venete che piovono sangue, e della infelice Napoli che risuona lugubre di gemiti e di catene. «Già le Aquile latine dispiegano i loro vanni sul Campidoglio; già la spada di Ferruccio ruota sul capo dei tiranni: il Dio delle vendette sarà colla Italia nel giorno della lotta finale, ed Italia si erigerà alla perfine in Nazione. «La Costituente Italiana giudichi del nostro futuro. Viva la Costituente Italiana!»[314] Eccitamento a muovere contro il Granduca: «Guardatevi un po' in seno. Il male più grave, quello che per ora fa d'uopo estirpare, per ora sta lì, e non altrove. Lì sta Leopoldo d'Austria, e finchè esso sta in Toscana non vi può stare ordine, nè regime, nè libertà stabile e vera. «Che mi parlate voi d'austriaco intervento ai confini, quando l'intervento austriaco è sempre in casa?...»[315] Nella citazione che segue leggiamo cose che male ci basterebbe l'animo compendiare; solo io prego chi legge ad avvertire la favella ebbra di superbia e di minaccia, foriera della rivoluzione, che già si spera trionfante, e la urgenza dei provvedimenti proposti da mandarsi ad esecuzione. Il Popolo in armi aveva ad ordinare, il Governo ad obbedire. Ecco, il dado è tratto; adesso staremo a vedere se meco si salva la civiltà, o se, me sopraffatto, la Rivoluzione allaga con la sua barbarie. — O voi, uomini di ordine, nudriti sempre dallo Stato, promossi alle cariche, insigniti di onori, voi osate domandarmi perchè io non fuggiva? Rispondete piuttosto a vostra posta voi: Perchè non vi stringevate animosi intorno a me per salvare la Patria e per impedire la decadenza del Principe? Perchè, dite, me lasciaste solo a lottare contro tanto sforzo rivoluzionario? Amici del Principe voi? Ah! voi lo abbandonaste allora; e voi adesso, con persecuzione che egli non vi comanda, che invano sperate gli possa essere accetta, senza verità, senza convinzione, senza coscienza, non dettando carte, ma tendendo agguati, con gelato furore, con l'astio della ingratitudine, con passioni malnate, che enumerare è ribrezzo, avventandovi contro cui dovreste rispettare, voi, — se dipendesse da voi, — lo rendereste odioso e crudele.... Ah! la pazienza ha un confine, e perdonate, o miei compatriotti, questo sfogo a chi si sente da ventotto mesi avvelenare il sangue più puro del suo cuore dai morsi di schifosi scorpioni. «Salviamo la Patria, cittadini del Governo Provvisorio!... E per salvarla incominciamo dal proclamare in diritto, dal consumare in fatto la decadenza della Famiglia di Lorena dal trono di Toscana. Questa decadenza, _questo diritto, questo fatto, se ne persuadano i Toscani, non è ancora consumato_. «Cittadini del Governo Provvisorio, grande errore voi commetteste nel trascurare di proclamare il regime repubblicano e la Unione immediata con Roma _il giorno stesso_ in che saliste al Potere. Cotesta vostra diffidenza nel senno e nella virtù del Popolo vi ha _ora reso impotenti_ a salvarlo, giacchè ora a lui fa d'uopo _salvarsi da sè stesso_, proclamando ciò che voi, _per ritegno o per paura_, trascuraste di proclamare. «_E il Popolo si salverà, il Popolo salverà la Patria_! «Senza attendere la convocazione di troppo remota e lontana della toscana Assemblea Costituente, i rappresentanti di tutti i Circoli toscani, quelli dei principali Municipii, quelli della Guardia Cittadina e di qualunque altro corpo morale e politico toscano, accorreranno solleciti in Firenze allo invito che loro sarà mosso dal Circolo del Popolo. Quivi _essi faranno di gran cuore_ ciò che voi non faceste, e _il Circolo del Popolo_ avrà la gloria di avere, _per la seconda volta_, salvato la Patria pericolante.... «Il Popolo provveda alla salute della Patria, _scacciando il tiranno_. «Il Governo provveda per parte sua, _a riparare in parte al grave fallo_ commesso, richiamando nella Capitale sotto severe comminatorie tutti li aristocratici che se ne allontanarono allo allontanarsene di Leopoldo: — e ove essi ricusino, _a gravi imposte sieno condannati, le quali, sparse nel Popolo bisognoso, lo riconfortino e lo aiutino a durare nella quiete e nell'ordine necessario in sì gravi momenti_. Sia _dal Popolo_ cacciata dall'ultimo suo nido _la belva boema_, e così appaia manifesta la volontà popolare anche in questo: e tutti i pretesti vengano rimossi ad una restaurazione principesca, che sarebbe distruzione di ogni conquista della democrazia. «_Cacciata di Leopoldo d'Austria, per opera del Popolo_. «Unione immediata con Roma, e promulgazione della Repubblica per opera dei suoi rappresentanti. «Questi sono i provvedimenti, cui è indispensabile il compiere _entro il giro di poche ore_. «Governo, all'opera! Popolo, alle armi!»[316] Io ripeto, e lo ripeterò dieci volte e cento, che sono privo di Documenti officiali: pare a me, e parrà a tutti coloro che hanno senso di giustizia, atrocissima cosa essere, che mi si domandi conto dell'operato e mi si neghi la via di mostrare le ragioni dell'operato; e tanto più empirà il rifiuto di ribrezzo, quante volte si pensi che l'Accusa con mille occhi e con mille mani ha svolto, letto e riletto negli Archivii del Governo, per ricavarne argomento al suo assunto; e a me, ridotto ai miei soli occhi infermi, si ricusi desumerne quel tanto che valga a giustificarmi: e poi con serena fronte ardiscono dirmi: — difenditi! — E confidano, che altri creda la difesa concessa liberissima! Non pertanto ridotto in tali angustie, ecco io ho spigolato, in campo che non è mio, prove che bastano per ismentire l'Accusa. Signore! ma perchè muovermi addosso con tante arti per farmi comparire colpevole? O come potè affermare l'Accusa, che non occorrono prove di coartazione nei primi giorni successivi all'infausto otto febbraio? Come sostenere, che all'opposto si trovano prove che ogni violenza escludono? Come la mano le resse scrivere, che alla decadenza del Principe, e alla proclamazione della Repubblica io non mi opposi, tranne che dopo la notizia della disfatta di Novara? Perchè l'Accusa dei testimoni cita quelli, che reputa dannosi, e scarta i favorevoli ricercati dalla Procedura? O a che mira l'Accusa? A qual mai fine tende? Per conto di cui ella lavora? Pel Principe no... dunque per cui? — Io tremo investigare... io raccapriccio indovinare per conto di chi lavora l'Accusa. — Certo questo pervertimento nello ufficio del Custode della Legge svela una infermità profonda nel corpo sociale, conciossiachè i Magistrati oggimai nulla più abbiano ad invidiare ai Sacerdoti di Teute. Importa poi intorno alle allegazioni di questa parte dell'Apologia avvertire, che alcune narrano fatti i quali non si possono revocare in dubbio, corrette in qua e in là di qualche inesattezza; altre parlano di dottrine, d'impulsi, e di provvidenze da prendersi. In quanto esse emanano dalla _Costituente_ o dai _Circoli_, facilmente s'intende che equivalevano ad ordini da eseguirsi senza fiatare, però che venissero appoggiate con le armi da gente accesissima e disposta al mettere a sbaraglio la vita, pure di riconquistare la patria, e le paterne case, e tutto quanto all'uomo è più dolce quaggiù: in quanto si partono poi da altri Giornali, si consideri che se non coartavano direttamente, tanto più comparivano terribili suscitando sospetti, infiammando ire, e spingendo la plebe cieca a disfarsi con qualunque mezzi, e i violenti accettatissimi, del Governo costituito. Un po' più tardi mostrerò a prova come io fossi in grido di traditore, posto segno alla rabbia del Popolo. § 3. _Spedizione al Porto Santo Stefano._ Delle cose fin qui discorse sommerò unicamente quelle che allo scopo di questo paragrafo si riferiscono. Nei giorni antecedenti al quattordici febbraio fu chiarito come due cose si facessero: 1a _eccitamenti_ urgentissimi al Popolo e al Governo; 2a _coazione_ a quest'ultimo, affinchè intorno al dimorare del Principe nel Porto Santo Stefano senza indugio alcuno provvedesse. Accusavasi il Governo ora di non avere seguíto il Granduca a Siena; ora di esserselo lasciato fuggire dalle mani; per ultimo, il Governo _nemico espresso_ del Popolo predicavano, e fu qualificato perfino uguale a quelli con cui allora tenevamo guerra: nemici in Toscana, non fuori, dicevano, dovevansi cercare, finchè ci fermava stanza il Principe. Ma quello che mi pareva troppo più grave era lo eccitamento quotidiano, o piuttosto continuo, impresso al Popolo per ispingersi in massa contro Porto Santo Stefano; erano gli apparecchi dei Circoli a chiara prova raccolti non pure _fuori_ del Governo, ma _contro_ il Governo. Ben poco intendimento ci vuole a conoscere la opera indefessa dei Circoli per usurpare l'autorità e adoperarla in concetti diversi ai governativi, anzi in danno manifesto di quelli. Proseguendo a trattare il doloroso tema, esporrò altre prove speciali in proposito, che sono venuto estraendo dai Documenti stessi dell'Accusa.... prugnole acerbe e scarse date dalle spine della siepe! — E qui si consideri la mia miseria, e si giudichi se è cosa non dico consentanea a giustizia, ma ai sentimenti primi di umanità, che dalla officina del nemico io abbia a prendere quelle sole armi ch'ella crede potermi concedere della difesa. — Le difese si compongono di fatti; ma se mi togliete il mezzo di poterli rintracciare, ordinare e accompagnare dei necessarii commenti, si rende manifesto che la difesa è negata. Le cose sono come elle sono, non quali si vorrebbero fare apparire, quantunque verso me neanche le apparenze si abbia voluto adoperare: avvilire e opprimere fu il truce programma di chi mi perseguita; miserabili furono i conati nell'uno intento e nell'altro; ma il secondo sta in loro potere, il primo no. Intanto rimarrà, e me ne dolgo, come uno sfregio in faccia alla civiltà toscana la memoria dello avermi posto senza pudore a canto di assassini e di ladri.... Ma io ho bisogno di mantenermi pacato; quindi, tronca a mezzo ogni amara considerazione, riprendo lo interrotto lavoro. Nel _Corriere Livornese_ del 12 febbraio trovo un documento in data dell'8-9-10 febbraio, dal quale si ricava che il Circolo Grossetano «adunatosi per urgenza, inviò una Commissione all'Alberese per invitare il Granduca a ridursi in Grosseto, nel caso si fosse allontanato da Siena per timore di Partiti, dove avrebbe goduto perfetta tranquillità, e consigliarlo al tempo stesso a tornare alla Capitale. La Commissione giunse all'Alberese dopo la partenza di S. A. per Santo Stefano, e allora colà si diresse. La Commissione di ritorno a Grosseto dichiara non avere potuto rilevare la intenzione del Principe di restare o di partire, e non sapere se a quella ora si fosse o no imbarcato. Il Circolo avvertito _che si trattava di fuga, manda sollecitamente al Comitato di pubblica sicurezza di Grosseto due petizioni, richiedendo con la prima una continua vigilanza della persona del Principe, onde sapere se partiva, per dove, e con quali intenzioni; — con la seconda venisse stabilita una continua corrispondenza col Governo centrale di Firenze_. — Il Circolo popolare avendo fondati sospetti che nei reali Presidii si tenti uno sbarco per una reazione, e verificato che tutto il littorale, non che i Forti di Porto Ercole, Santo Stefano e Palmanuova, sieno sprovvisti della guarnigione necessaria, — fu stabilito dirigersi al Comitato di pubblica sicurezza, affinchè di concerto con le Autorità governative _stabilisca il pronto armamento del littorale, e dei Forti dei reali Presidii_.» Nel giorno _dieci febbraio_ troppo più fiera notizia mi perviene da Livorno: i Deputati Grossetani essersi collegati con quei di Orbetello, Porto Ercole, Magliano, Talamone, e di altri luoghi, e tutti insieme avere deliberato, il Principe non _potesse_ nè _dovesse partire, al Vapore di prendere il largo s'intimasse, la reale famiglia a Monte Filippo si sostenesse_.[317] Alle ore 3 del giorno 11 febbraio, da Grosseto scrivono a Livorno: «L'attitudine di Grosseto è imponente per reprimere qualunque reazione da chiunque e da qualunque parte si manifestasse. Il voto dei patriotti, che tanti ne albergano qui, quanti in una grande città, è la indipendenza d'Italia. Il già Principe trovasi a Santo Stefano; tenta il vile di fare suscitare la guerra civile: è impossibile. La Maremma non sarà la _Vandea_, nè l'antica _Valdichiana. La Maremma, e specialmente Grosseto, darà esempio luminosissimo di amore per la Italia_: lo vedrete. Si _attendono_ truppe per terra e per mare all'oggetto di snidare quel covo di uccelli rapaci dal Porto Santo Stefano.»[318] E quattro ore prima, dallo stesso Porto Santo Stefano, mandavano: «Questo codardo Principe ex-Granduca di Toscana ha impedito al Pretore di pubblicare i Proclami del Governo Provvisorio, ed ha minacciato il paese con dire, che ha a sua disposizione cento pezzi di cannone. Egli tenta di far nascere la reazione, ma non ci riuscirà, per Dio! Questo è il tempo di fargli conoscere qual destino serbi la Italia ai Principi traditori come lui.... _Noi confidiamo nel soccorso dei nostri fratelli di Grosseto, e nel Governo Provvisorio_.»[319] Intorno alle disposizioni delle genti maremmane, possiamo ricavarne conoscenza dalla lettera pubblicata dall'Accusa a pagine 833: «_Gli animi sono ardenti, e vogliono finirla una volta per sempre con un ex-Principe traditore_;»[320] e dall'altra pubblicata a cura dell'Accusa medesima a pagine 835 del volume citato: «_Presto presto la Maremma si leverà come un solo uomo contro chi ha vilmente tradito la Italia_.» I Giornali andavano propagando: «Leopoldo d'Austria non ebbe vergogna di dire alla Deputazione del Circolo popolare di Grosseto — che _Egli in questi ultimi tempi aveva ricevuto molti dispiaceri dai Grossetani_. Quando la Commissione in adunanza solenne riferiva tali parole, il Popolo fremeva d'indignazione, e decretava fino d'allora che lo ex-Granduca era uno dei membri della Camarilla di Gaeta.»[321] Dal Porto Santo Stefano, asilo periglioso del Granduca, ai Circoli corrispondenti scrivevano: «Sarebbe necessario, che il Governo adottasse pronta ed energica risoluzione, tentando un colpo ardito in quel nido di reali vipere, onde cacciarle lungi dalle nostre terre.»[322] E perchè alla richiesta tenesse dietro lo effetto, muovevansi da Grosseto Deputazioni a Firenze, le quali ingrossate da quanti Faziosi stanziavano qui, armate di prepotenza e di audacia in virtù degli erudimenti del Circolo fiorentino, venivano a costringermi con ineluttabile pressura. Chi sia, che revochi al pensiero quale e quanta fosse la veemenza dei partigiani a cotesti giorni, e la Toscana fin dentro le viscere commossa da speranza, da terrore, e da furore di mettere le mani nel sangue, non reputerà esagerate le tinte colle quali ce li dipinge il Decreto del 10 giugno 1850. Narrava taluno di Grosseto, il _16 febbraio_, come: «La deputazione inviata al Governo Provvisorio...... fosse tornata con le più liete assicurazioni per parte del Governo, che la Maremma _sarebbe coadiuvata nei suoi generosi sforzi di patriottismo con tutti i mezzi_. — Molti egregi Maremmani si uniranno al D'Apice, e lo seguiranno nella sua importante missione.»[323] Ed altra testimonianza di queste Deputazioni ce la porge il _Corriere Livornese_ del _23 febbraio_: «Il Circolo popolare (di Grosseto) ha tenuto la sua seduta straordinaria per udire la relazione dei Deputati cittadini.... di ritorno dall'Assemblea tenuta dal Circolo Popolare di Firenze il 18!....» Già fu chiarito a prova, i Circoli fatti omai governo distinto, e aspirando a diventare il solo, corrispondere inquieti e sospettosi fra loro; non pertanto occorre traccia nei Giornali del tempo come in questa occasione più operosi che mai si restringessero a operare. Il Circolo di Orbetello, l'altro di Grosseto, corrispondono non pure col Circolo centrale di Firenze, ma con quello ancora di Livorno. A comprendere la tremenda attività del Partito, che urgeva stringentissimo a prendere immediati provvedimenti, importa riferire parte della corrispondenza dei Circoli. Nessun Governo mai si auguri trovarsi tanto bene servito come i Circoli erano: io poi sovente all'oscuro di tutto; sicchè venendo a me i più impronti faccendieri di quello, smaniosi per notizie più fresche, e trovatomi ignaro perfino di quelle ch'essi sapevano, trascorrevano in rampogne acerbe di colpevole negligenza, e di peggio. Da Santo Stefano, nel giorno _8 febbraio_, all'_Alba_ e agli altri Giornali mandano: _a ore 2 p. m._, l'arrivo del Granduca con parte della sua famiglia, e dei signori Sproni e Conticelli, su di una barca peschereccia partita da Talamone a mezzogiorno. _A ore 4 e ½_, arrivo della Granduchessa col resto della famiglia. Albergo in casa _Sordini_, magazziniere del sale e tabacco. Sospetti di fuga. _Ore 8 e 9 p. m._, arrivo di due _staffette con dispacci_. _9 febbraio, 9 ore p. m._, arrivo della fregata inglese. Da altra corrispondenza pervennero ai Circoli i minimi particolari, come: L'aspirante inglese posto a guardia del Granduca; la tristezza dei membri componenti la R. Famiglia; il cibarsi di S. A. di alcune gallette navigando da Talamone; l'arrivo di carrozze, equipaggi, segretarii e servi. _13 febbraio 1849_. Il Granduca è sempre in Santo Stefano. Sparge danaro. _Grossetani hanno rotto la strada che conduce a Santo Stefano. Le popolazioni maremmane tutte in armi, avverse al Granduca_. _15 febbraio 1849, ore 12 m._ Partenza del Ministro inglese. — Il _Virgilio_ va a Ponente con due compagni di Sir Carlo Hamilton. _Ore 3 p. m._ Istruttore dei Principini s'imbarca per l'_isola del Giglio_ o per _Gaeta_, come sembra, _per fissare un palazzo di dimora_. _Ore 4 p. m._ Visita delle LL. AA. al _Can Mastino_; voce che sieno partite, ma tornano a terra; pure si accerta, _che poco più si trattengano_. _16 febbraio, ore 7 a. m._ Nella notte è arrivato dall'Alberese un Bestiaio con _dispaccio pel Granduca_. _Ore 9 a. m._ Arrivo dell'Agente dall'Alberese con venti starne e un capriolo. _Ore 2 p. m._ Fregata mette segnali. _Ore 4 p. m._ Il Granduca va a bordo della Fregata _Teti_ in compagnia del Comandante. _Ore 5 p. m._ Arrivo di un _espresso_ a spron battuto con dispacci pel Principe. _17 febbraio, ore 6 ½ a. m._ Leopoldo è sempre in Santo Stefano. _Ore 7 a. m._ Arrivo del _Porcospino_. _Ore 6 p. m._ Sembra che il Granduca _voglia partire. Imbarca sul Can Mastino bauli, valigie ec._ _Ore 10 p. m._ Seguita lo imbarco. _18 febbraio, ore 12 ½ di mattina_. Arrivano i Ministri di Francia e Spagna. Sono presenti quelli di Piemonte, Roma, Svezia, Prussia: si attende il Russo. — Stanno ancorati in porto Teti_, Porcospino, Can Mastino_. Sordini e Lambardi al fianco del Granduca. — Prete Baldacconi _mandato a Siena per motivo segreto_. Dama Palagi sviene alla lettura di certa lettera. Frequente convocare del Corpo Diplomatico. _Imbarco e disbarco di arnesi. Incertezza di atti_. Paese tranquillo. Da altra corrispondenza: _Porto Santo Stefano, 14 febbraio. Porco-Spino parte per Napoli col carico dei danari l'11_; torna il _12 col Can Mastino_. Staffette in questo giorno non sono arrivate. _Ore 6 p. m. Sul Virgilio_ arriva il Ministro Sardo. Servitore supposto del Ministro Inglese, è napoletano. _Bellerofonte_ dicesi navigare per questi paraggi. _15 febbraio, ore 7 a. m._ La notte senza staffette. Altrove si troverà più completa e continua questa corrispondenza, dalla quale risulta quanto grandi fossero il sospetto della Fazione, ed anche la paura generatrice di partiti disperati; e quindi la vigilanza mantenuta su tutti e su tutto, alla quale riusciva impossibile che potessi sottrarmi io. Ciò posto, ricerchiamo prima quali potevano essere, e quali di fatti erano le mie apprensioni, e poi esamineremo il contegno tenuto. Primieramente, io opinava che S. A. avesse in animo di partire aspettando il benefizio del tempo, il quale, come dimostrerò a suo luogo, doveva riuscirgli favorevole, e somministrava l'unica via per conseguire lo intento in quella guisa ch'egli pure desiderava; mi confortavano a credere così le informazioni ricevute, di cui trovasi testimonianza nel Dispaccio diretto da lord Hamilton a lord Palmerston in data del _7 febbraio 1849_: «Il Granduca.... mi chiede, che io voglia ordinare ad uno dei Vapori di S. M. di essere nel Porto di Santo Stefano _domani sera, per ricevere esso e la sua famiglia sul bordo_.... Non conosco se la intenzione del Granduca sia andare alla Elba, o no.» — (Collezione di Documenti citata). — Il Piroscafo tardò un giorno; invece della sera dell'8 arrivò in quella del 9. — Opinione universale fu che l'A. S. in Inghilterra o a Gaeta riparasse. Lo imbarco e lo sbarco delle masserizie dimostra l'animo perplesso a stare o a partire. Il Porto Santo Stefano poi non poteva essere lungamente stanza pel Principe e la sua R. Famiglia, atteso i disagi del luogo; i cariaggi, mancando locali capaci a ricettarli, stettero al sereno; nè casa Sordini era atta a tanti ospiti. Nella notte dell'_8 febbraio_ pervennero al Principe due staffette, in virtù delle quali io pensai che egli fosse consigliato a restare, nel presagio che la Toscana commossa con universale dimostrazione, Governo Provvisorio e Costituente rovesciando, lo richiamasse al trono. In quanto ai disegni della Fazione, non vi era dubbio da accogliere; ad uno di questi due scopi ella tendeva con tutte le forze, o cacciare il Principe, o impadronirsene. L'animo mio ondeggiava combattuto da pensieri angosciosi. — Nonostante io esitava, e vinto dalla gravità dei casi rimanevami inerte. Ma quando da un lato i Circoli, le Deputazioni e il Popolo frementi d'ira, vennero ad accusarmi dicendo: «Che avete voi fatto da sei giorni a questa parte? Nulla. Voi ve la intendete co' nostri nemici; voi la rovina del Paese preparate e la vostra;» e dall'altro udivo: «Il Popolo _farà da sè_, il Governo è ormai impotente a salvarlo: egli nulla vuole conoscere, nulla sapere: si manderanno frattanto mille uomini armati a Siena; il Popolo sorgerà come un uomo solo: presto la Maremma sarà tutta in armi; gli animi ribollono ardenti e vogliono finirla....» con le altre più cose, che prego i lettori di rammentare, e dispensarmi dal travaglio di riferire da capo; coartato allora in guisa, che nessuno io penso abbia patito violenza pari alla mia, nel curvarmi sotto il giogo provvedo ai fieri eventi che presagivo probabili; e tale fu il mio consiglio: dissuadere i Popoli Maremmani da muoversi senza ordine del Governo, e indurli a sottoporsi al comando del Generale D'Apice; nel mentre che la imposta leva in massa sembro assentire, prescrivere che si adunasse gente eletta, usa alla disciplina, e sempre al Generale D'Apice nei suoi moti si sottomettesse; raccolta così una colonna di milizie ordinate, contenere le Popolazioni nei moti impetuosi, e impedire che la Fazione senza o contra il Governo si agitasse; intanto fare comprendere a S. A. che lasciasse tempo al tempo, e in altra parte attendesse quello che pure stava in cima dei suoi pensieri, ritornare senza spargimento di sangue a reggere mite popoli miti; in qualunque caso tenere apparecchiata una forza per tutelare la persona del Principe, e la sua famiglia, dal minacciato attentato d'impadronirsi di loro. Rammentisi che le Deputazioni maremmane non intendevano già _coadiuvare_, bensì essere _coadiuvate_; la quale cosa importa, che i Maremmani volevano formare la parte principale della impresa; rammentisi la strada grossetana tronca, e l'accusa di essermi lasciato sfuggire il Granduca dalle mani, e la deliberazione presa di ridurlo a Monte Filippo: rammentisi eziandio le popolazioni in arme avverse al Granduca, e la notizia che si leverebbero in breve come un uomo solo, e l'ardore di cui si mostravano prese, e il proponimento di _finirla una volta per sempre con lui_... E ritenuto tutto questo, ed altro ancora che non ricordo, domando s'egli era bene lasciare che cotesto assembramento di uomini esaltati si operasse? — I miei Giudici dunque non avrebbero pensato ad alcuna provvidenza al fine d'impedirne o reggerne i moti? Hanno mai avvertito i miei Giudici alle sventure, che dovevano temersi possibili dal mescersi di tante generazioni di uomini senza freno, e senza guida? — Balenò mai loro alla mente il fiero caso, ch'esse giungessero a impedire la partenza del Principe.... e quello, che è anche a imaginarsi più orribile, che lo sostenessero? Accusa, Giudici, — che fin qui non mi avete giudicato, ma calunniato, — non parlo a voi. Voi irridete le mie parole, e a mezza voce mormorate il ritornello: _Lustre, mostre, ed arti per parere;_ _arti solite di chi doppio ha il cuore_, con quello che seguita: — io parlo al Paese, che mi sarà più pio. Consideriamo il Dispaccio al Governatore di Livorno: la sua data è del _14_ febbraio; — _dunque molto tempo_ dopo le coartazioni e le minaccie perigliose della stampa, dei Faziosi, del Circolo fiorentino e delle Deputazioni maremmane. Il Dispaccio parla di _lettere che mi vengono poste sotto gli occhi_; dalle quali espressioni si ricava, che una gente estranea, desumendone necessità di misure immediate, non mi lasciava neanche tempo a copiarle, _onde senza dilazione si spedissero gli ordini_. Dall'_8_ al _14_ febbraio corre pure un bel tratto! _Sei giorni_: quanti appunto mi rinfacciavano essermi rimasto inerte. Nei tempi di rivoluzione sei giorni paiono, e veramente sono, una eternità. La stanza del Granduca al Porto Santo Stefano si conobbe presto; _dunque finchè non mi violentarono, io stetti inoperoso_. Anche qui occorre il caso, che parrebbe a un punto miserabile e festoso, ove non si conoscesse come tutti i Partiti giudichino con le mani su gli orecchi, e la benda su gli occhi: che i Repubblicani mi riprendono da una parte di _non fare_; l'Accusa dall'altra mi rimbrotta di _aver fatto_. Per questo i primi mi avrebbero _tolta la libertà_; la seconda mi _mantiene prigione_! Il Dispaccio del _14 febbraio_ trascrive, come quello dell'_8 febbraio, taluna_ delle parole stesse che i Faziosi venuti ad estorcerlo vedemmo avere già adoperate: _si apparecchi gente da ingrossarsi per via_; ma però avverto che sia SCELTA; il quale avviso fu introdotto con intenzione di far comprendere che la gente buona fosse, e ad obbedire disposta. La frase però più meritevole di essere specialmente notata è la seguente, posta con cautela, come mi era concesso in quelle strette: _D'Apice scriverà, e attenetevi ai consigli di lui_; e questo importa: _nessuno si muova senza ordine del Generale_. — Lasciate, di grazia, lo inviluppo delle parole, che la temperie del giorno rendeva necessario, oppure ritenetele tutte, ma sotto la scorza ricercate il vero, e troverete prudente consiglio, non potendo fare a meno, essere stato quello di apprestare buona e cappata gente, che sotto gli ordini di Domenico D'Apice (soldato a cui per la sua temperanza nemmeno rifiuta lode l'Accusa) si tenesse pronta a fare riparo ai temuti infortunii. E mio concetto fu, qualora il presagito assembramento si avverasse, spingere D'Apice a presidiare Grosseto, e quivi, recatasi in mano la somma del comando, reprimere le masse popolari dal trascorrere contro Porto Santo Stefano, e tenere fermo il Paese fino alla pronunzia del voto dell'Assemblea toscana. Il Generale D'Apice, oppone l'Accusa, dichiara avere ricevuto lettera di mio, onde con parte della truppa _si dirigesse a Grosseto_; «_ma poichè_, egli aggiunge, _si trattava che cotesta Spedizione doveva farsi contro il Granduca, che allora era in Maremma, io ricusai incaricarmene_.» — A vero dire, richiamando la mia memoria su questo punto, posso affermare risolutamente senza timore di essere smentito, che tale non fu il dubbio esternato a me dall'onorevole Generale; sibbene la ripugnanza di trovarsi con poca truppa e male ordinata fra Popoli tumultuanti. Questo però non toglie punto, che dentro l'animo suo accogliesse anche l'altro che accenna; solo dico che si astenne da parteciparmelo; e dov'egli mi avesse aperto l'animo suo, conoscendo la fede dell'uomo, lo avrei chiarito del congetturare suo falso; per tutela, non per offesa del Principe, volerlo io incamminare a Grosseto, e commettergli in quella città si fermasse, ogni aggressione contro Porto Santo Stefano sventasse, i moti tumultuarii prevenisse, il Paese quieto fino alla pronunzia dell'Assemblea toscana, che malgrado le opposizioni intendevo convocare, mantenesse. Dell'ordine dato, e della raccomandazione che nessuno senza comando del Generale si avesse a muovere, oltre al Dispaccio mandato il _14 febbraio_ al Governatore di Livorno; oltre alle parole della Deputazione Grossetana, che la gente si sarebbe _aggiunta seguitando_ il D'Apice; oltre alla dichiarazione, che per muoversi _attendevano_ le milizie ordinate, ne fanno aperta testimonianza questi Documenti che ricavo dal Volume stampato dall'Accusa: _ex ore leonis_, come Sansone, il mele. — «Al Governatore di Livorno — Petracchi. «La mia colonna è sottoposta al Generale D'Apice, _nè posso muovermi senza suo ordine_.» — Pontedera, _13 febbraio 1849_.[324] Il medesimo al medesimo: «Ieri sera circa le ore 11 arrivai a Pontedera, donde avvisai il Generale D'Apice del nostro arrivo, avvertendolo che sarei partito col treno delle 12 di questa mattina. Ero con la colonna sotto la Stazione PRONTO A PARTIRE quando un Dispaccio del Generale D'Apice MI ORDINAVA DI RESTARE QUAGGIÙ.» — Pontedera, _14 febbraio 1849_.[325] Dove gli ordini per la Spedizione del Porto Santo Stefano fossero stati spontanei, io non avrei certo aspettato dal giorno _9 febbraio_, in cui seppi l'arrivo di S. A. in quel Porto, al _diciassettesimo a sopportare mossa_ la colonna Guarducci per Rosignano. Gli ostacoli frapposti perchè non fosse mandato ad esecuzione quanto i Faziosi imponevano, appariscono evidenti da questo: la colonna Guarducci nel _16 febbraio_ si trovava in Empoli:[326] «La colonna Guarducci era già partita prima del mio arrivo a Empoli.» Il giorno _17_, rimandata a Livorno, s'incamminava per la via littorale verso Maremma; e non ha guari ho detto: _io non l'avrei sopportata mossa il 17 febbraio_; _imperciocchè senza ordine del Generale D'Apice, a cui era sottoposta, nè mio, nè di veruno altro Membro del Governo Provvisorio, si fosse posta in marcia_. Il _Popolano_, che da sè stesso s'intitolava _Monitore del Circolo Fiorentino_,[327] ed era informatissimo di quanto accadeva, annunzia la partenza del battaglione Guarducci per Maremma, ma non sa avvertire per comando di cui, nè a qual fine.[328] Riscontro sicuro che Guarducci non ebbe comando nè dal Generale nè da me, è questo: che da Empoli non lo avremmo respinto a Livorno, ma sì da Pisa su per la Via Emilia incamminato a Grosseto. — Altra prova che di arbitrio del Governatore era lo invio del Maggiore Guarducci in Maremma, è considerare come questi non trasmetta i suoi rapporti al Generale D'Apice o al Governo superiore, ma renda ragguaglio dell'operato unicamente al Governatore.[329] Ancora: il Governo non poteva intendere col Dispaccio del 14 al Governatore di Livorno, che questi spedisse il Battaglione Guarducci, però che lo avrebbe fatto direttamente da sè. Con questo ho voluto dimostrare che, per me, il Battaglione fu trattenuto fino al _17_ febbraio; che da noi non fu comandato di marciare alla volta di Maremma; e che il Governo di Livorno, il quale volle, seppe eziandio incamminarlo immediatamente là dove il Governo superiore non lo incamminava. Altra prova che eravamo andati trattenendo la gente dallo accorrere in Maremma, è l'ordine trasmesso il _14 stesso_, al Battaglione Petracchi, di stare fermo a Pontedera, ed incontrarvelo sempre nel _17_ febbraio. In cotesto giorno il suo Comandante non corrisponde più col Generale come gli correva obbligo, bensì col Governatore di Livorno, a cui manifesta il suo _pensiero_ di partire il giorno appresso per Maremma, non già in virtù di ordine ricevuto;[330] il Governatore di Livorno, usurpando le funzioni del Generale D'Apice, comanda senza superiore concerto, e di sua autorità, il ritorno del Battaglione Petracchi.[331] _Dunque rimane provato che D'Apice non mosse_ per Maremma, anzi _rifiutò_ muoversi; che il Battaglione Guarducci, trattenuto fino al _17_ in Empoli, e nel giorno stesso rimandato a Livorno, si avviò per Maremma non pure _senza_ ordine del Governo, ma _contro_ la volontà del Governo; e finalmente che il Battaglione Petracchi tenuto da noi fermo fino al _17_ in Pontedera è richiamato a Livorno dal Governatore, che ormai si arroga autorità a disporre le cose a suo senno. Altro riscontro di consigliato impedimento occorre confrontando la seguente corrispondenza. Il Governatore Pigli domanda con Dispaccio telegrafico del _17 febbraio_ 1849, ore 11, m. 5 pom., al Maggiore Petracchi: «Per ordine del Governo Superiore _domattina circa le 11_» (e non era punto vero) «deve essere eseguita una spedizione di Militi cittadini per oggetto importante. Se ella, senza nuocere alla missione che l'è meritamente affidata, credesse far parte con la sua colonna di detta spedizione, o di mandarne almeno porzione, la prego prevenirmi col mezzo del telegrafo nel caso affermativo.» Parmi pressochè inutile notare come, se il Governo avesse voluto servirsi di questa forza, avrebbe trasmesso direttamente gli ordini, non già pel mezzo del Governatore: infatti, se non per altro, per economia di tempo, era ragionevole che il Dispaccio restasse a Pontedera, e non si spingesse a Livorno per ritornare poi a Pontedera: parmi del pari superfluo ricordare come per avviarsi verso Grosseto il Petracchi da Pontedera non avesse mestieri di condursi a Livorno: finalmente nemmeno mi tratterrò ad avvertire una cosa, che, come troppo ovvia, salta agli occhi dei più idioti; ed è, che avendo voluto spingere gente in Maremma, poco importava la condotta del Generale D'Apice, dacchè più tardi il Governatore Pigli, quando ebbe sotto la sua potestà il Battaglione Guarducci, ve lo diresse. Solo mi giovi richiamare l'attenzione di chi legge su questo, che nel fine di rendere frustraneo l'ordine estorto, nei giorni _14_ e _15_ febbraio, come dimostrano gli stessi Documenti dell'Accusa,[332] fu comandato al Petracchi di non si muovere senza ordine del Generale D'Apice, e, _otto_ ore dopo lo invito a lui fatto dal Governatore Pigli, io sospettando di qualche trama, fui cauto di richiamarlo a Firenze. «Il Presidente del Governo Provvisorio al Comandante Antonio Petracchi. — Firenze, 15 febbraio 1849, ore 8 a. m. — Venga subito a Firenze. Prenda una carrozza. Risposta subito.»[333] Sicchè, ritenuti nelle nostre mani i battaglioni Petracchi e Guarducci, il primo a Pontedera, il secondo a Empoli, di gente scelta e disciplinata, o che presentasse almeno simulacro di disciplina, donde e chi potesse raccogliere il Governatore di Livorno, in verità non si comprende. L'Accusa insiste allegando lo invio dei _12_ Municipali a Grosseto, e degli Artiglieri _nazionali e di linea_, i quali dalla lettera del Prefetto Massei, riportata nei Documenti dell'Accusa a pag. 321, ricaviamo sommare a _14_, e così in tutti a _26_! — Ma io non ho trovato ordine alcuno da me, nè da altri, trasmesso al Governatore Pigli perchè muovesse di arbitrio neppure una persona; e questo Governatore molte cose faceva a modo suo, più molte si accingeva a farne; e moltissime poi ne dava ad intendere. Poco sopra avete osservato come egli avvisasse Petracchi della Spedizione che doveva essere eseguita la mattina del giorno _15_, prima delle ore _11_, e _non fu vero_; nella lettera del 14, riportata in nota qui sotto, annunzia al Prefetto di Grosseto lo invio dei 26 uomini; aggiunge, che nel veniente giorno partirebbero da Livorno due compagnie di Guardie Nazionali, e _non fu vero_; nello stesso giorno 15 afferma altre forze militari provenienti da Firenze capitanate dal Generale D'Apice costà sarebbonsi dirette, e _non fu vero_: da Firenze per lo contrario partì l'ordine che stessero ferme.[334] Il disegno di formare in Livorno un centro di Governo Repubblicano, nello intento di rovesciare il Governo Provvisorio, vedremo farsi mano a mano più chiaro che c'inoltreremo a discutere le imputazioni dell'Accusa. Essa dice: ma voi impediste le corrispondenze al Principe, e mandaste persone armate a Cecina per intraprenderle. Io nulla impedii. Il Circolo Grossetano ricorrendo co' suoi emissarii al Governatore di Livorno, presso cui trovava più facile ascolto, insisteva per questo provvedimento. Il Governatore, sempre più emancipandosi, prende le misure che reputa convenienti, e poi ne avvisa il Governo: «Signor Ministro. Persone autorevoli di questa città mi hanno fiduciariamente fatto supporre che dal Fitto della Cecina, villaggio posto sopra la strada maremmana, transitino di frequente degl'individui diretti a Porto Santo Stefano, i quali, per la loro indole sospetta, sarebbero meritevoli di tutta la sorveglianza governativa. Essendomi sembrata cosa di somma importanza lo attivare senza indugio questa sorveglianza, la quale può condurci ad utilissimi resultati, sono sceso nella determinazione di fare la Spedizione per quella località di venti cittadini armati, i quali, di fatti, nelle ore pomeridiane di oggi partono a quella volta capitanati e diretti dal nominato Giovanni Scotto. L'ufficio che eglino debbono esercitare quello si è di vigilare e tenere di occhio le persone transitanti per detta ubicazione, spingendo le loro indagini, nei casi di dubbio e sospetto, fino alla perquisizione, ed effettuandone, occorrendo, anche l'arresto. Per fare fronte alle spese necessarie al mantenimento dei componenti la detta Spedizione, è stata, per mio ordine, prelevata dalla Cassa di questa Dogana la somma di L. 500, su le quali ho fatto una anticipazione di zecchini 12 al rammentato Giovanni Scotto. Affrettandomi a renderle conto, signor Ministro, di questa misura, che ho creduto dover prendere per urgenza, starò in attenzione delle sue istruzioni in proposito ec. — _13 febbraio 1849_. — C. PIGLI.» Dall'altra parte il Prefetto di Grosseto avvisava il Circolo di Grosseto, avere deliberato di operare in guisa che i Dispacci attinenti alla Corte Granducale si fermassero. In simili angustie ai signori Marmocchi e Allegretti non era dato disfare, senza manifesto pericolo, quello che ormai aveva il Governatore compíto; e per altra parte, considerando le sciagure a cui sarebbero andate sottoposte le persone partecipi della corrispondenza se le lettere fossero pervenute in mano degli arrabbiati, mi sembra che dirittamente si consigliasse dai predetti Signori, ordinando al Prefetto di Grosseto procedere _con prudenza e saviezza per l'adozione delle misure necessarie ad assicurare la esecuzione del divisato progetto_.[335] E che tale dovesse essere la intenzione dei signori Marmocchi e Allegretti nessuno potrà negare, e forse, se interrogato, lo avrà già detto il signor Segretario Allegretti compilatore dei Dispacci allegati. A me giovi affermare che io, non pure non concorsi a impedire la libera corrispondenza a S. A., ma all'opposto, per quanto stette in me, gliela schiusi. A Sir Carlo Hamilton, che me ne fece istanza, detti carta amplissima perchè lo lasciassero passare liberamente; e non solo questa carta io gli affidai, ma consenso espresso a quanto intendeva proporre. Ed ecco quanto egli aveva in mente proporre, e mi affermò avere proposto. Spontaneo, o, come credo piuttosto, di concerto con personaggi cospicui della città nostra, egli restringendosi meco mi confessava volere tentare l'animo dell'A. S. a deporre i fastidii del molesto Governo, rassegnandolo al suo reale Primogenito; e mi ricercava, nel caso che il suo consiglio venisse accolto, se avrebbe potuto ripromettersi la mia adesione. Io risposi quello che ora non dubito manifestare: parermi il Popolo troppo acceso adesso; essere di mestieri liberarlo prima dagli stimoli urgenti e incessanti; poi dargli tempo a riaversi dal delirio; per questi argomenti egli sarebbe tornato per certo alla devozione antica; in quanto a me, tranne la momentanea esaltazione, crederlo, _anzi saperlo_ bene affetto al Principato; la più parte dei Toscani desiderare le libertà costituzionali, e di queste chiamarsi contenta; per siffatta mia convinzione, confermata dai Rapporti officiali e da particolari notizie, potere egli ritenere per fermo, che avrei di buon grado aderito a tutto quanto tornasse _di vantaggio al Paese, onorevole per me_. Sir Carlo tornando mi riferiva bene avere del suo proponimento tenuto motto a S. A., ma, rinvenuto il terreno poco arrendevole, essersi trattenuto dallo insistervi sopra. Motivi di convenienza, che anche in mezzo ai pericoli e alle provocazioni della intemperantissima Accusa reputai mio dovere osservare, mi persuasero ad astenermi da esporre questi fatti, finchè Lord Giorgio Hamilton visse, e Sir Carlo dimorò in Firenze. Adesso poi che il Signore ha richiamato alla sua pace l'onorevole ed egregio Lord Giorgio, e Sir Carlo si condusse altrove, penso potere, senza offesa della delicatezza, manifestare simili trattati, e prego con fervorosa istanza il nobile Baronetto, dovunque si trovi, se mai gli perverranno nelle mani queste dolenti pagine, a rendere pubblica testimonianza in faccia della Europa se sieno i miei labbri mendaci, o se anche in questa parte esprimano la verità.[336] Altro esempio, che il Governatore Pigli faceva da sè, lo troviamo nello avere pagato lire diecimila al Petracchi per la Spedizione a Portoferraio, senza ordine del Governo, anzi senza pure avvisarlo. Di vero, agevole cosa è comprendere come cotesta Spedizione per diffalta di danaro non avrebbe avuto luogo, e il Governatore per certo doveva avvertire, che non gli essendo provvisti i mezzi necessarii, non poteva mandarla ad esecuzione, nè le facoltà sue estendersi a disporre dei pubblici danari; e questo per lui potevasi avvertire subito per telegrafo, non già aspettare al 10 febbraio quando le cose erano fatte. — Così tra il mandare Dispacci, e rispondervi, sarebbe scorso tempo sufficiente a sedare gli spiriti accesi, persuaderli della inanità di cotesto moto, e indurli forse a desistere.[337] Altro esempio dello arbitrario operare del Governatore Pigli ci viene offerto dalla Spedizione fatta dal medesimo, fino dall'_11_ febbraio, alla Isola del Giglio, della Spronara, per vigilare persone sospette, e pubblicare Proclami, della quale avvisa il Governo unicamente nel giorno tredici successivo;[338] e sì, che anche su questo, se per via telegrafica non poteva informarci intorno ai particolari delle cose, gli era agevole notificarcene la somma. Nel maggiore uopo ci lasciava per taluni giorni senza avviso delle operazioni che gl'importava palesarci ormai compíte, comecchè di altre per minuto ci ragguagliasse; ed egli medesimo il confessa: «La rapida e incessante successione degli eventi, e le cure che ne conseguitano, assorbono così il mio tempo da non lasciarmi agio a quell'ordinato e quotidiano ragguaglio che avevo impreso, e che riannoderò come prima mi sia concesso, limitandomi di presente a darle conto dei casi più gravi, e delle più importanti misure.»[339] Il Rapporto del 14 febbraio incomincia con la protesta medesima: «Neppure oggi mi è dato riprendere la interrotta narrazione degli avvenimenti attuali, bastandomi appena il tempo e le forze di accennare di volo i più notevoli ed importanti.»[340] L'Accusa sostiene che, ricusato dal Generale D'Apice il comando della Spedizione pel Porto Santo Stefano, il Governo lo confidava al Pigli, il quale tosto incamminò La Cecilia per la Maremma verso Porto Santo Stefano. Contradizioni, e peggio: nè l'una cosa, nè l'altra. La Cecilia per ordine del Governatore di Livorno, non già spedito dal Governo o da me, precede la Colonna Livornese, e va per mettersi a capo delle Guardie Nazionali della Maremma; poi fa una giravolta, pubblica Proclami, nessuno gli dà retta, e torna maledicendo ai Maremmani. Il Governatore non ebbe mai altra commissione, tranne quella di adunare gente scelta, e dipendere dagli ordini del Generale D'Apice. A D'Apice fu proposto il comando delle forze nel caso che si avesse dovuto spedirle a Grosseto; egli non accettò lo incarico, e _a nessuno altro venne conferito giammai_. Chi sostiene diversamente, a chiare note si sappia ch'ei calunnia, all'atroce intento di nuocere contro la verità manifesta. Infatti, quando ebbe questo ordine il Pigli, che l'Accusa fabbrica nella sua officina? prima, o dopo il _14_ febbraio? Prima no, conciossiachè pel Dispaccio incriminato del 14 la _gente scelta doveva apparecchiarsi, e dipendere_ dal Generale D'Apice, e per le prove superiormente addotte ne dipendeva; dopo nemmeno, dacchè, oltre il Dispaccio del 14, per frugare che abbia fatto, l'Accusa non ha potuto rinvenirne altro. Qui dunque si tratta, io lo ripeto, di calunnia, non già di accusa.[341] Ma la presente materia merita di essere più sottilmente considerata, onde si faccia luce maggiore nella ragione degli uomini e dei tempi. Coloro che volevano strascinare il Paese al compimento della rivoluzione, sfiduciati d'incontrare nel Governo arrendevolezza, si volsero a quelli che meglio parvero disposti a secondarli; e fra questi venne lor fatto incontrare, più accesi degli altri, Carlo Pigli e La Cecilia; noi li vedremo collegati avversare il Governo, tentare ogni via di usurpare il Potere per promuovere la Repubblica, e per altra parte noteremo indirizzarsi a loro uomini perversi con orribili proposte. Alfine l'uno è deposto dall'ufficio, l'altro avviato fuori del Paese. La Cecilia crebbe avverso a me: delle sue qualità morali non parlo, chè a me nulla è noto che onorevole non gli sia; favello dell'uomo politico. Io presto ebbi a conoscerlo irrequieto e dominato, più che da altro, da certo spirito torbido che lo agitava a fare e a disfare.[342] I Livornesi, i quali, più che altri non estima, aborrono i commuovimenti inani o pericolosi, spesso venivano o mandavano a lamentarsi meco di lui, e mi pregavano trovare modo ad accomiatarlo onestamente. La corrispondenza officiale ha da porgere di questo piena testimonianza; in suo difetto, ne occorre traccia nel _mio_ Dispaccio telegrafico al Governatore di Livorno del 19 novembre 1848: «I reclami contro La Cecilia crescono di momento in momento. Invitisi venire a Firenze per conferire col Ministero.» Egli prima mi tenne caro; quando poi mi conobbe avverso alla Repubblica, prese a inimicarmi con molta acerbezza nel _Corriere Livornese_ che tolse a dirigere: però nel _7 marzo_ stampa su l'_Alba_, Giornale devoto a parte repubblicana, essersi ritirato da cotesta Direzione per _la stupida servilità dei tipografi proprietarii del Giornale_. I tipografi gli rispondevano: «Non essersi già ritirato, ma averlo essi licenziato, e averne avuto motivo non dalla stupida servilità loro, ma dalle sue continue incoerenze, avendo fatto subire in breve tempo al Giornale cento variazioni e colori diversi: ora adulando il Governo in cose che nessuno lodò, anzi biasimò (come nel Discorso della Corona per l'apertura delle Camere!), ora _facendogli una opposizione alla quale la opinione pubblica ripugnava_.»[343] Mandato a Roma da Montanelli come Console toscano, in breve renunzia e torna in Livorno. Qui domina Pigli, e lo governa a suo senno: va, viene, capovolge ogni cosa; si accompagna a tutti i conati per istrascinare il Governo a proclamare la Repubblica, ed unirsi, senza indugio, con Roma. Quando mi verranno consegnate le carte della mia amministrazione, confido potere ordire più completa storia; — costretto a valermi delle carte dell'Accusa, a _nuocere copiose, a salvare parche_, mi si presenta nel primo di marzo 1849 un Dispaccio, dal quale si argomenta come La Cecilia si affaticasse a conseguire qualche grado superiore nello esercito, ed io rispondo: «Gli ufficiali delle milizie sono destinati, e La Cecilia guasterebbe ogni cosa. A Pistoia lo Ufficiale superiore sarà Melani colonnello, a San Marcello Razzetti maggiore; _non facciamo confusione_. Riguardo ai mezzi, bisogna regolare le cose in maniera _che lo impiego della fortuna pubblica si faccia rigorosamente, e possa darsene sempre esatto conto. Entrerà nelle previsioni del Governo mandare un quartier-mastro pagatore_.» Pigli risponde: La Cecilia non essere eletto _a comandare truppe, solo a precederle fino a Lucca, onde provvedere ai bisogni delle nostre colonne, e averlo inviato i Maggiori Guarducci e Petracchi; stasera o domattina aspettarsi reduce in Livorno_.[344] All'opposto ricaviamo dai Documenti che La Cecilia il Generale comandante le Milizie toscane non cura, molto meno il Governo, bensì col Governatore di Livorno unicamente corrisponde; in quel giorno stesso egli lo avvisa non avere trovato cavalli da treno, e fra le altre cose, che alle due partirà per Lucca. Un poco più tardi: _avere passato in rivista la compagnia di Pisa_, e, dopo altre notizie, domanda l'approvazione del Governatore. Barli, comandante di Piazza a Pisa, per telegrafo avverte: essersi presentato il signor Colonnello La Cecilia _con una Circolare del Governatore di Livorno, che lo autorizza a presentarsi alle Autorità Civili e Militari, per essere assistito in ogni sua operazione a reclutare Volontarii, e cavalli per l'artiglieria nazionale_; avergli domandato quanta cavalleria fosse disponibile in questa Piazza; domandare istruzioni per non intralciare le operazioni di cotesto Dipartimento.[345] Sicchè quanto fosse vero, che Petracchi e Guarducci avessero inviato la Cecilia, e non il Governatore, di qui apparisce espresso. Per queste notizie accorgendomi come ormai volesse stabilirsi un Governo di fatto Repubblicano a Livorno, di cui Pigli avesse ad essere la mente, e La Cecilia la spada, mando al Governatore: «Lo invio del La Cecilia è uno dei _soliti spropositi_; domanda artiglieria, cavalleria, e altro da Pisa. Tu hai azione _dentro_ il tuo Dipartimento, _fuori_ no; non puoi farlo senza mandare sottosopra ogni cosa. Per Dio, così rovina la impresa. Dite il vostro bisogno. Dite come potete provvedere per voi, e come deve aiutarvi il Governo centrale. — Manderemo ufficiali a posta. Il Comandante di Pisa, come è naturale, non sa che fare. _Si richiami La Cecilia con bel garbo_.[346] Pigli per gratificarsi i Volontarii livornesi, promette di propria autorità venti crazie al giorno di paga. Avverto, che questo negozio sconvolge da cima in fondo lo esercito, imperciocchè tutti pretendono paga uguale; per rimediare, suggerisco far credere che la differenza della paga ricevano dal Municipio; _scongiuro non prendano misure senza concerto nostro_; altrimenti, quando più la disciplina e la organizzazione abbisognano, ci casca addosso il caos.[347] La Cecilia, apprendendo che l'ordine del Pigli intorno alla cavalleria non verrà eseguito, gli scrive parole concitate contro il Governo superiore.[348] Pigli risponde insistendo non avere egli inviato La Cecilia... «Che debbo farci?» egli aggiungeva: «gl'imbarazzi sono molti!»[349] Questa parevami, ed era, duplicità manifesta. Da lunga pezza io era informato delle disposizioni di Carlo Pigli ostili al Governo, dello studio posto da lui a radunare un partito gagliardo in Livorno, della sua professione nuovamente repubblicana, del suo accontarsi co' più ardenti di cotesta parte, non meno che dello agitarsi perpetuo del La Cecilia. Certo mio parente, che di me, troppo spesso fiducioso più che non conviene, prendeva amorevole cura, sorprende e mi reca lettere, inviate da un Frugoni di Lerici, capitano di mare, e proprietario di bastimenti, a La Cecilia, con le quali gli proponeva alla ricisa di ammazzarmi come traditore, e surrogare lui a me, Pigli a Mazzoni come uomo inetto; si lasciasse Montanelli, finchè non si trovasse meglio. Dai Documenti raccolti per opera dell'Accusa resultano le prove di questi fatti, i quali vengono per altri riscontri confermati in processo. Spedito Marmocchi a Livorno a investigare le cose, così riferisce nel 5 marzo: «Non ho scritto fino ad ora, perchè ora solamente ho un concetto preciso delle cose in questa città. Ho sentito molte persone di opinione diversa. Vado per la diagonale e vado bene. La cosa principale per la quale sono qua è una ridicolezza. Pigli è lo stesso amico di prima, sincero e ardente. La differenza è nella salute, perchè io l'ho trovato veramente decaduto. Si regge mercè lo spirito, e considererebbe siccome gran favore la sua licenza, o almeno una gita di riposo nel suo paese per un mese. Bisogna dare un collocamento conveniente a La Cecilia. In tutti i modi, subito. Non ha il seguito che credete, no, _ma manca l'antica amicizia_, e di gran cuore se ne andrebbe. Quel di Lerici è un fatuo; non è nulla; vorrebbe vendere al Governo Provvisorio alcuni bastimenti, ecco la chiave di tutto. Il Popolo livornese è sempre eroico e grande; è anche moderato. _La Repubblica non è proclamata_. Siamo qui come a Firenze su questo proposito, con la differenza, _che Firenze è una selva di alberi, e qui non ve ne sono che tre o quattro soli_. Volete si tolgano di Piazza, e si portino in Chiesa fino al giorno che l'Assemblea decreti definitivamente la Repubblica? Livorno aderisce, e Firenze non sarebbe così docile. Vedete dunque che cosa è Livorno.»[350] Il Rapporto del Marmocchi non poteva persuadermi: comunque vogliasi tenere in poco conto la vita, pure sentirti dire, che il disegno di ammazzarti è cosa da nulla, non garba ad un tratto; e il successo venne dimostrando, che Marmocchi per soverchio di dolcezza neanche nelle altre cose si era apposto al vero. Ad ogni modo risposi: non potere offerire altro ufficio, che di secondo segretario a Parigi; però poco dopo aggiungevo, _che se l'uomo meritava congedo, non capivo perchè si avesse a impiegare; ed avvertisse che la mansuetudine, quando è troppa, rovina_.[351] Marmocchi replica: La Cecilia accettare; egli essermi ancora molto amico, ma _disgraziato_; non potere dirmi tutto per telegrafo; venire La Cecilia a Firenze: pregarmi riceverlo, in considerazione della lunga amicizia; nessuno credere a tradimento; _quel di Lerici essere fatuo come lo scrittore della Frusta repubblicana_; la passata intrinsechezza con La Cecilia avrebbe fatto vedere con dolore la presente severità; esultare gli amici ch'egli partisse, ma non derelitto da me; bene altri nemici avere il Governo; _trovarsi chi traendo argomento dalla miseria corrompe la plebe; mi manderebbe nella notte uno di questi facinorosi incatenato a Firenze_.[352] Qualche ora più tardi nello stesso giorno, aggiungeva avere veduto il Gonfaloniere, il quale si rallegrava col Governo per la misura presa relativamente a La Cecilia, e la opinione pubblica commendarla.[353] Nonostante scrissi per via telegrafica: «_desiderare non vederlo; fosse trattenuto, potendo, in Livorno_;»[354] pure egli venne, ed io lo accolsi con volto sereno e mente pacata; e dopo avergli posta davanti gli occhi la lettera del Frugoni, lo interrogai, che cosa avrebbe fatto nel caso mio. Rispose non essere in sua potestà impedire _allo stolto che favellasse secondo la sua stoltezza_; e siccome questa mi parve convenevole scusa, tacqui; non ugualmente bene poteva scolparsi intorno alla guerra mossa contro il Governo per istrascinarlo di viva forza alla Unione con Roma, e a proclamare la Repubblica, o rovesciarlo. «Orsù via, partiti di Toscana,» gli dissi. «e tutto è posto in oblio.» Partì per Livorno menando a lungo la partenza, finchè crescendo le manifestazioni di anarchia, aombrate dal pretesto della Repubblica nel 14 marzo, contemporaneamente al richiamo del Governatore a Firenze per via telegrafica, scrissi a Livorno: «S'inviti La Cecilia a partire _subito_, anche per terra, per Genova, _donde recarsi al suo destino_. Qualora non volesse appagare questi nostri desiderii, noi l'avremmo per tradita amicizia. Gli si partecipi il Dispaccio.»[355] Allora si condusse a Genova; e quivi si andò indugiando sotto vario colore, finchè i successi della guerra gli dettero campo di presentarsi come utile alla difesa del Paese. Da Genova nel 27 marzo mi scrisse La Cecilia la lettera che leggiamo a pagine 222 dei Documenti dell'Accusa; in questa ei parla di errori commessi dai Comandanti piemontesi nella battaglia di Novara; poi propone due mezzi di difesa, di cui il primo sarebbe stato plausibile per quello che in tempi antichi e moderni ne hanno scritto peritissimi uomini di guerra; il secondo avventuroso e impossibile. Di questa lettera giova riportare la frase che accenna al pertinace proposito di fare sempre a suo modo: «Insomma se nulla si conclude qui tra oggi e domani, io torno; mi metterai in prigione, ma devo, ma voglio dividere le vostre sorti.» _Non tali auxilio, nec defensoribus istis_ _Tempus eget! —_ La Cecilia non era uomo da dire le cose e non farle; piuttosto prima le compiva, poi le diceva. Di vero il giorno seguente eccolo a Massa, donde m'invia la lettera in data del 28 marzo 1849, nella quale si propongono tre progetti: il 1º contenuto in altra lettera, che io non ricordo, ove non fosse taluno degl'indicati nella lettera del 27; il 2º di seppellirci tutti sotto le rovine delle nostre città; il 3º di fare offrire la corona al figlio del Granduca; _questo ultimo mezzo repugna di molto_, egli scrive, _ma il Paese vorrà difendersi?_ E tanto basti per dimostrare come io provassi contrario La Cecilia nel periodo del Governo Provvisorio, da quando mi mostrai reluttante ad appagare i desiderii di parte repubblicana. Ora continuo esponendo i fatti attinenti a Carlo Pigli Governatore di Livorno; diventato, più che capitano, mancipio della Fazione demagogica, ormai egli non ha più potenza di fare il bene e d'impedire il male. Cotesta egregia Patria di cima in fondo compariva guasta. Il Governo, assentendo ai consigli del signor Marmocchi, pensa scambiare la Guardia Municipale di Livorno con quella di Firenze; e chiamata qui la prima, purgarla e spartirla in altre compagnie. Inoltre, ai suggerimenti del Ministro della Guerra Tommi compiacendo, accorda che il primo Battaglione di Linea si spedisca a Livorno, e quivi si riordini mediante un campo da stabilirsi nelle campagne littorane.[356] Annunziando io queste provvidenze a Livorno, aggiungo: «Il Popolo attenda vigilante le disposizioni del Governo _ormai disposto a procedere con severa giustizia contro tutti i perturbatori, e nemici delle libertà, sia civili che militari_.»[357] Queste parole ai caporali della Fazione erano _savor di forte agrume_; nell'anarchia confidando, per soverchiare il Governo, ecco s'industriano a lavorarlo di straforo, mettendo male biette tra il Popolo. «Badate, dicevano, a non lasciare partire la Guardia Municipale Livornese, e sostituirla dalla Fiorentina, però che questa sia qua mandata per opprimere la libertà.»[358] In quanto al Battaglione di Linea avviato a Livorno, si guardassero dal Colonnello Reghini, a cui avevano commesso di trarre a palla sul Popolo, come già aveva fatto sul Popolo pistoiese.[359] Il Popolo si commuove, e circondato il Palazzo del Governatore in numero di 4,000 persone, domanda a morte il Colonnello; altri urlano che si cacci in carcere. «Il Governatore, narra il signor Reghini nel suo Rapporto, si addimostrò sgomento, varii dei suoi spaventati, perchè circuito il Palazzo, e l'anticamera invasa da turbe, che esaltate chiedevano la mia persona in loro possesso, e _i moderati gridavano venissi posto alle segrete_.[360] Ed io, ben contento di secondare la volontà del Popolo indignato (non so perchè), esortai ad essere dal Popolo stesso condotto in segrete, dove giunsi molto a stento: ma coadiuvato dai buoni che mi fecero corona, mi restò lontano lo stiletto, nè si ottenne di gettarmi a terra.» Io rimasi fieramente percosso per tanto vituperio, imperciocchè il Governatore dovesse nel suo Palazzo, come in asilo inviolabile, custodirlo, nè mai consentire, se non che calpestando il proprio petto, cotesti furibondi giungessero al petto del Colonnello. Avvertito per telegrafo, adoperando la destrezza persuasa dalla gravità dello accidente, senza intermissione rispondo: «Importa grandemente sia fatto il processo ai soldati di cotesto reggimento che si ribellarono. A ciò è necessario il Rapporto del Reghini. Bisogna mettere il Reghini in libertà onde faccia cotesto Rapporto. _Non accendasi il Popolo già acceso. Si lasci fare al Governo_; ha i suoi fini, e vuole essere libero per il bene della libertà. Dicasi al Reghini, che il Governo penserà a lui. Si risponda subito.»[361] Il giorno seguente, soccorrendo al mal capitato Colonnello, insisto: «Esatte informazioni ci persuadono a conservare Costa-Reghini; però non si vorrebbe urtare la Popolazione. Il Governo vorrebbe formare un campo in prossimità di Livorno, e quindi riordinare il reggimento. Reghini rimarrebbe a riorganizzarlo, e sembra essere adattatissimo per questo. _Procuri che la Popolazione applauda a questo progetto, e ci renda intesi dello effetto delle sue premure. Comprende la necessità della prestezza_.»[362] Ancora nel medesimo giorno 10 marzo: «Intorno al Reghini, sarà collocato. Del reggimento sarà fatto un campo. Forza, tranquillità, coraggio e gravità; — e forse riusciremo.... forse, perchè i tempi ingrossano; e _disfacendo tutto, nulla si fabbrica_.»[363] Il Generale D'Apice, giunto a Firenze, scriveva al Governo Provvisorio la seguente lettera, la quale non abbisogna di comento: «Ieri al mio arrivo in questa città, seppi che il signor Costa-Reghini Colonnello del 1º Reggimento Infanteria di Linea, fu immeritamente insultato dal Popolo di Livorno, e poi vilmente abbandonato ai suoi persecutori, dalla prima Autorità costituita in quella città, dal Governatore, presso cui il detto signor Colonnello si era rifugiato. — Un tal fatto è talmente grave, che io lo considero come una vera offesa fatta allo esercito, che ho in questo momento l'onore di comandare. Come capo dunque di questo esercito, e nell'interesse del servizio, credo mio stretto dovere dirigermi alla giustizia del Governo, perchè un'ampia e pubblica soddisfazione sia data allo esercito, e al signor Colonnello Costa-Reghini, elevando questo al posto di Generale di Brigata, e dimettendo dal suo posto il signor Governatore di Livorno. Qualora il Governo non credesse a proposito di accedere alla mia richiesta, lo prego in risposta di volere degnarsi spedirmi la mia dimissione dal servizio.»[364] In tutto questo negozio io procedeva d'accordo col Generale, parendomi fosse pur giunta occasione di potere alla fine allontanare Carlo Pigli da Livorno, e precidere i disegni di coloro che agognavano alla estrema demagogia. — Invano il Colonnello Reghini scrive, averlo voluto libero il Popolo livornese, e accompagnato dal Governatore, e da parecchi Uffiziali della Guardia Nazionale, fra plausi e banda essere stato condotto al Palazzo Governativo; invano _dichiara, per questo modo adempirsi l'ordine del Governo che lo voleva fino da ieri l'altro posto in libertà, ordine non ancora eseguito per timore di collisioni, non tutti i Circoli andando d'accordo nella mia liberazione_;[365] invano informa per via telegrafica il Ministro della guerra: «Sono in libertà per acclamazione popolare e generalissima. La mia confusione è grande: vorrei dimostrare al Popolo la mia gratitudine, al Governo la mia devozione; supplico la di lei ministeriale autorità, essermi interpetre, come lo è stato, a mio sommo vantaggio, il signor Governatore Pigli.»[366] Io ben conobbi cotesta essere mala toppa allo strappato, e conoscevo a prova di che cosa sapessero cotesti Dispacci imposti dai presenti, e da loro prima letti, e poi mandati; però nel 13 marzo 1849, allo intento di superare le resistenze, conforto il Generale D'Apice a tenere il fermo nel domandato congedo: finalmente nel Consiglio le provvidenze da me proposte si mettono a partito, e si vincono; allora senza porre tempo fra mezzo, nel giorno 13 marzo, alla ora prima pomeridiana, mando per telegrafo a Livorno: «Il Governo invita il Governatore di Livorno a venire in giornata a Firenze, per conferire insieme su cose importantissime.»[367] Arrivato a Firenze alle _7 pomeridiane_, alle 9 si ordina al Colonnello Costa-Reghini: «È pregato a portarsi domani col primo treno a Firenze. Il Generale D'Apice lo vedrà appena arrivato;»[368] e alquante ore trascorse, di nuovo, alle _3 antimeridiane del giorno 14 marzo_, intímo a La Cecilia la partenza immediata, sotto minaccia, che avremmo lo indugio per tradita amicizia, come già in altro luogo opportuno fu debitamente notato. A ben comprendere quanta industria fosse posta da me per indebolire la parte che strascinava il Paese alla demagogia, e quanta difficoltà incontrassi nella perigliosa impresa, prezzo della opera è sospendere alquanto questo racconto, e continuare quello che spetta alla Guardia Municipale. La Guardia Municipale corrotta e governata da taluni che trovavano il proprio conto a mostrarsi smaniosi libertini, mercè la diligenza fatta, viene a Firenze, ed è stanziata a Santa Maria Novella. Qui noi attendevamo a mandare ad esecuzione il disegno di cui già tenni proposito, allorchè, avendolo i più audaci subodorato, si ribellano con minaccie di morte: ordinai si trasportassero due cannoni, e al Quartiere, intimati prima i pacifici a separarsi dai rivoltosi, si appuntassero. Però essi non ne aspettarono la vista, e più che di passo trassero alla Porta San Frediano incamminandosi verso Livorno, dove tolleravansi o di leggieri erano scusati. Il Dispaccio del 10 marzo così ammonisce il Governatore: «Accade un fatto gravissimo che dev'essere ad ogni costo, intenda bene, ad ogni costo represso. _Una parte_ della Municipale di Livorno si è ribellata. Prima, nel Convento di Santa Maria Novella, aveva fatto mostra di difendersi; poi è uscita da Porta San Frediano, e non si sa dove siasi diretta. Verrà forse a Livorno. Prenda, con la massima segretezza e con vigore, le misure onde venga arrestata. Si concerti con _Frisiani_ e con altri Ufficiali di testa. L'avviso a tempo, onde a tempo provveda. Non intende il Governo mezzi termini nè pietà. Se mostriamo mollezza per la Guardia Municipale, è finita: _invece di difensori avremo un branco di assassini_.»[369] Il Maggiore Frisiani raggiunge le Guardie ribellate a Pisa, con ordine di tradurle da capo a Firenze sotto scorta; si sottomettono, ma implorano andare a Livorno, _e non tornare alla Capitale presso il Governo Provvisorio_. Frisiani non si reputando facultato (come invero non era) ad arbitrare, viene per ordini.[370] Le Guardie promettono aspettarne arrestate il ritorno; i Maggiori Frisiani e Magagnini mallevano per loro; fa lo stesso Mastacchi; se non che le Guardie, mutato consiglio, dai Quartieri di San Martino si recano, nella sera del giorno 12 marzo, alla Stazione della strada ferrata, e quivi _per amore o per forza intendono volere essere trasportate a Livorno_.[371] Il Governo, sentinella perduta dell'ordine, alacremente commette al Governatore: «L'arrivo dei Municipali a Livorno è fatto gravissimo, e tale da cimentare la pubblica sicurezza. _Se forza non rimane alla Legge, il Governo è d'uopo che si dimetta, e con esso cadano tutti i funzionarii pubblici per dare luogo ad uomini facinorosi che condurrebbero a irreparabile ruina il Paese_.[372] È necessario pertanto che cotesti ribelli sieno per forza o per arte arrestati e disarmati. Procurate con ogni mezzo che ciò si ottenga, il Governo penserà in giornata a darvi le istruzioni in proposito. Se in un corpo, che tutto deve imporre con la forza morale, si lasciano introdurre germi d'immorale dissoluzione, io non so più qual forza resti al Governo per fare eseguire le Leggi; qual tutela resti al Popolo della propria sicurezza. Uno esempio è necessario. I cinquanta militi municipali venuti costà non appartengono più al corpo. Restituite con un atto di coraggio la fiducia che deesi avere dal Popolo nella Guardia Municipale, e che le mancherebbe, qualora questi sciagurati, indegni di appartenervi, andassero anche questa volta impuniti. I Maggiori Magagnini, il Frisiani, e il Mastacchi hanno cimentato la loro parola in questo affare. Agiscano; chè altrimenti ne va del loro onore. Ogni buon Livornese deve vergognarsi di convivere nelle stesse cerchia e di chiamarsi concittadino di uomini così indisciplinati e ribelli come sono cotesti Municipali.»[373] La pubblica indignazione levandosi a danno loro, altri non potè assumerne le parti di protettore e avvocato; figli di predilezione erano essi, ma sul momento fu mestieri abbandonarli, bensì con fiducia poterli restaurare dello smacco largamente ed in breve. Il Governatore, verso le ore due pomeridiane del giorno 13, annunzia i Municipali disarmati essere stati tradotti in Fortezza; «chiedere intanto essere autorizzato a inviarli a Pisa per essere ivi custoditi e giudicati; implora _molta indulgenza e sollecita_, non senza però il più ampio apparato di Giustizia.»[374] Fu il richiamarlo risposta. La Fazione sentendosi percossa, prorompe in aperte minaccie; Pigli torna a Livorno; una parte del Popolo tumultua, e intende impedirne la partenza;[375] ma egli ormai privato del comando, increscioso a molti per le sue avventate parole, a parecchi ancora dei suoi partigiani caduto novellamente in fastidio pel non degno abbandono del Colonnello Reghini, comprende essere migliore partito per lui abbandonare Livorno riducendosi a Firenze: quello che vi venisse a fare lo dichiarano i Documenti officiali dell'Accusa; egli venne a osteggiare il Governo, nelle Assemblee e fuori, istando ardentissimo perchè la Repubblica e la Unione con Roma si proclamassero. Nel giorno _14 marzo_ stavano radunati nella mia stanza i signori Montanelli, Mazzoni, Pigli, Reghini, e D'Apice, a cui Reghini su la prima giunta aveva esposto per filo e per segno com'erano andate le cose. Io invitai il Colonnello a contestarle in presenza al Governatore; ma egli, si peritasse per gentilezza, o per altro motivo, si andava tuttavia schermendo: allora lo confortai a favellare senza ritegno; poichè la sua sentenza adesso suonava diversa dalla manifestata testè.... nella stessa mattina al suo Superiore. Egli, fattosi animo, confessava essere stato abbandonato pur troppo alla furia popolare dal signor Pigli, e nel venire tratto giù per le scale avere creduto arrivata la estrema ora per lui. Il Pigli si scusava affermando avere adempito a quanto era in potestà sua di fare. Congedati il Generale e il Colonnello, gli palesai aperto non lo potere più oltre conservare in Livorno; e siccome i miei Colleghi assentivano al detto, egli si piegò a dimettersi ponendo innanzi certe sue pretensioni di pecunia, le quali lasciai che altri regolasse con lui, contento ch'egli dal governo di Livorno ad ogni modo cessasse. La Guardia Municipale ebbe a venire in Firenze e sottomettersi; a Livorno proposi una Commissione governativa composta dei signori Fabbri, Pappudoff, e Manganaro.[376] Certo, Luigi Fabbri fu soldato prestantissimo, e dei primi della guerra della Indipendenza; e spesso (chè spessissime volte col fine di bene inculcarlo nella mente degl'ignavi ascoltatori ei lo disse) con l'orgoglio che ogni concittadino sente in cuore pei forti detti e pei generosi gesti dei suoi compatriotti, lo udii, e ben mille altri meco lo udirono ripetere le parole con le quali, tutto infiammato, usciva nella Seduta del 23 gennaio 1849: «Tra questi v'è un uomo, e sono io, che, all'istante nel quale fu dichiarata la guerra, prese le armi, e, senza diffondersi in vane parole o in semplici grida sulle pubbliche piazze, o in esagerati concetti per istrappare l'applauso dal sentire generoso del Popolo, ha pugnato nella guerra della Indipendenza, ed ha affrontato la morte; e non solo ha affrontato la morte lasciando teneri figli ed amata consorte, ma adesso dichiara, in presenza a tutto questo onorevole Consesso, che ritornando le armi nostre su i campi lombardi, sarà pronto di nuovo a cingere la spada.»[377] — Ma non per questo nè allora nè poi fu Repubblicano il Fabbri, e, se ne avesse bisogno, gliene potrei far fede; e il signor Pappudoff nemmeno, comecchè amico delle oneste libertà. In quanto a Giorgio Manganaro, basti dirne questo: che la parte faziosa lo ebbe ad oltraggiare con la brutta minaccia: «_Devi fare come il Pigli, o ti butteremo dalla finestra_.»[378] Tutte queste cose io volli dire seguitatamente, affinchè si comprendesse come, amici Pigli e La Cecilia una volta, meco una volta concordi per sostenere e promuovere gl'interessi del Principato Costituzionale toscano,[379] poco oltre l'8 febbraio, acconsentendo ad altre persuasioni, gli avessi prima segreti, poi alla scoperta avversarii. Da Firenze in prima si estorcono commissioni onde al Governatore di Livorno sia fatta abilità di eseguire, con nome e credito governativi, ufficii contrarii alla mente del Governo; a suo arbitrio estenderli; a norma degli ordini di tale che in quei giorni troppo più di me poteva, ed era obbedito, applicarli; indi a breve, nemmeno gli ordini si aspettano o si cercano; e già in Livorno spunta costituito il Governo, che, passandomi sul corpo, si augura la Repubblica, la Unione con Roma, e la Decadenza del Principe proclamate. Così vedremo con quanta diligenza e pertinace volere da una parte, difficoltà e pericolo dall'altra, pervenni di mano in mano a contenere la Setta, che dello intero Popolo toscano piccola parte, ma prepotente di audacia e di gagliardía, mentre attende cupidissima a sospingere il Paese nella Repubblica, non si accorge precipitarlo fra gli orrori rivoluzionarii nell'anarchia. Secondo l'ordine dell'Accusa succede la lettera scritta nello stesso giorno _14 febbraio_ a Tommaso Paoli, consigliere della Prefettura di Pisa, la quale, comecchè dettata nelle condizioni medesime di tempo e di luogo, forza è che si giustifichi con le ragioni addotte in proposito del Dispaccio al Governatore Carlo Pigli. E dove si ricerchi argutamente la materia, tu vedi in cotesta lettera espressa la traccia di pressura attuale. Invero, ricordisi quanto nel § della _Dimostrazione_ provai con la testimonianza dei Giornali, voglio dire le Deputazioni dei Circoli una succedentesi all'altra nel giorno 13 febbraio, e con quanta mansuetudine oggimai è manifesto, _per essere ragguagliate di quanto sapeva e operava_; e allora si comprenderà come, per ischermirmi dall'accusa di negligenza (e insinuavasi tradimento), rimproverato, rimprovero di essere lasciato privo di novità. Ancora: il linguaggio che correva su per le bocche degli uomini in quei tempi, ed usavasi nelle scritture, nelle petizioni dei Circoli, ed in quel punto si favellava dalle persone che mi stavano al fianco, forza è che trapassi nel Dispaccio, siccome nel Dispaccio dell'8 febbraio fecero passaggio le parole: «il Principe è decaduto;» e oggimai per mille documenti è provato com'io questa decadenza conflittassi e impedissi. Finalmente, quantunque commosso dalla presenta perturbazione, bene ordino radunarsi uomini, ma parte inviarsi a Lucca, e parte tenerne _a disposizione_ del Governatore di Livorno, il quale a sua volta aveva a dipendere dal Generale D'Apice, come fu dimostrato di sopra. Ora l'Accusa (ma di siffatti studii non si occupano le Accuse) se avesse desiderato chiarirsi, poteva mettere a parallelo degli atti che incolpa, altri atti che pure ella raccolse nel suo Volume, e confrontando avrebbe acquistato la conferma (dove facesse mestieri) della patita coazione. E innanzi tratto io pongo il Dispaccio mandato allo stesso Consigliere Paoli, dove lo avviso della infermità sopraggiuntami, ed in bel modo lo conforto a procedere prudentemente e con temperanza grandissima, a impedire ingiurie ed offese, a rendere amabile la libertà proteggendo tutti, e conservando il diritto ordine fecondatore del vivere civile.[380] — Di molto maggiore importanza apparisce l'altro Dispaccio del pari indirizzato al Consigliere Paoli: «A BUONO INTENDITORE POCHE PAROLE. — Armatevi — armatevi — armatevi. — Esaltate i soldati; — NON ABBIAMO BISOGNO DEL GIURAMENTO, — ma pure se lo prestano meglio che mai. «Bisogna che diate forza al Partito democratico di Lucca. «NON SI PRECIPITI NULLA IN QUANTO A REPUBBLICA. «_1º Perchè tutta Toscana ha da esprimere il suo voto._ «_2º Perchè Francia e Inghilterra, stando così, proteggono da invasione straniera_; — se no, abbassano le armi, e abbandonano il Paese: giudizio dunque. _Partecipi agli amici, non che al Prefetto, se crede_.» E sapete voi quando io dettava cotesto Dispaccio? Il 13 FEBBRAIO 1849 nelle ore pomeridiane, e per tal modo poco tempo innanzi che per me si scrivesse il Dispaccio incriminato. Voi lo vedete adunque: intorno al giuramento non metto sollecitazione veruna, anzi dichiaro non averne bisogno; raccomando impedirsi la Repubblica; ammonisco intorno ai pericoli non mica transeunti, bensì permanenti, e tali da non iscomparire da un giorno all'altro dove sconsigliatamente si proclamasse; tra siffatte disposizioni dell'animo mio manifestate nel _13_ febbraio, ponete le strette e le violenze, che in parte vennero raccolte nel § della _Dimostrazione_; e si abbiano anche i più diffidenti prova non dubbia della sofferta pressura. Le discrepanze, o meglio le contradizioni fra il Dispaccio del _13_ e l'altro del _14_ febbraio, somministrerebbero di leggieri materia a lungo discorso: io però amo il lettore di per sè stesso le senta, piuttosto che andargliele ad una ad una enumerando partitamente io. Per quanto in queste angustie mi è dato, ricorderò alcuni pochi atti, onde il paragone sempre più riesca convincente. Nel giorno _8 di febbraio 1849_, instituisco una Commissione, perchè provveda alla custodia dei mobili tutti appartenenti al Granduca, ond'egli (se la fama mi porge il vero) ebbe a dire a Sir Carlo Hamilton, delle cose sue non avere perduto la più piccola; nel _9_, alla domanda (ed era minaccia): «nasce dubbio nel _Pubblico_, che la proclamazione del Governo Provvisorio Toscano abbia fatto cessare le attribuzioni dei pubblici funzionarii,» rispondo sollecito dopo _pochi minuti_: «il dubbio non è fondato; stieno al posto; chè il mandato dura finchè non sia revocato.»[381] Chiunque attende a mutare forma di Governo, non ne conserva la organizzazione e gli ufficiali; ma quella immediatamente disfa, questi licenzia. Nel _10_, riavutomi alcun poco dallo sbigottimento, malgrado la decadenza del Principe proclamata dal Popolo l'_8 febbraio_, e malgrado che io pure fossi costretto a scrivere quella parola in quel giorno, annunzio: «Cittadini. — Abbandonato il Paese a sè stesso, noi fummo dal Parlamento toscano e dal Popolo eletti custodi della pubblica sicurezza. Fermo proponimento nostro è mantenerla, e difenderla. I Cittadini cui preme la Patria si stringano intorno a noi. Chiunque con fatti o detti attenta alla salute pubblica, commette scandali, ed eccita la guerra civile, sarà considerato traditore della Patria, e come tale punito. — Firenze, _10 febbraio 1849_.» Il giorno seguente, osando di più, il Governo dichiara: suo primo dovere consistere nel mantenere la pubblica sicurezza; in quanto alle sorti toscane, aversi queste a decidere dalla intera Nazione col mezzo dei suoi Deputati; rispetterebbe allora il Governo le volontà del Popolo sovrano: — con le quali sentenze davo ad intendere senza ambage, che tutto quanto era stato deliberato da parte del Popolo a Firenze io riteneva per irrito, e come a cosa di nessun valore ricusavo sottopormi: la universa Toscana, debitamente interrogata, disponesse di sè: «Dopo che la Toscana fu priva di uno dei tre Poteri dello Stato, fu eletto dal Popolo, e confermato dal libero voto delle Assemblee, un Governo Provvisorio. Primo ed ultimo dei doveri di questo doveva essere la tutela dell'ordine pubblico. A tanto dovere non mancherà mai questo Governo, finchè gli bastino tutte le sue cure, e tutto sè stesso. «Ai Toscani poi tutto il diritto, e il dovere insieme di decretare la forma che ha da prendere lo Stato. _Quando i Deputati eletti liberamente per universale suffragio avranno espresso la volontà loro, il Governo Provvisorio darà primo lo esempio della più perfetta obbedienza ai voleri del Popolo Sovrano_. — Firenze _11 febbraio_.»[382] Finalmente il giorno _14 di febbraio_, il giorno stesso del Dispaccio incriminato, faceva scrivere dal Segretario Marmocchi al Governatore di Portoferraio: «SA PERALTRO CHE SE IL PRINCIPE È PARTITO, NON È DECADUTO.»[383] Nel giorno _10 febbraio_, considerando la miseria a cui la partenza del Principe riduceva i suoi familiari, e compiacendo ai desiderii di lui, decreto: «Tutti i Cittadini che fin qui appartenevano al servizio del Principe, riceveranno provvisoriamente la loro pensione a carico della Depositeria Generale, finchè il Governo non abbia trovato il modo di sistemarli convenientemente.» Nel giorno _11 febbraio_, così imponendo i proconsolari ordini della Setta, decreto, che il regio Palazzo della Crocetta sia destinato ad ospedale degl'Invalidi; più tardi, si è veduto, i novelli Municipali vanno di proprio arbitrio a rinnuovare ai Custodi la minaccia dei veterani di Augusto ai possessori degli agri italici: _veteres migrate coloni_; ma segretamente dispongo non s'innuovi.[384] Nel giorno _11 febbraio_, ricercato il Governo dal Governatore di Livorno, se i soldati mossi da quella città per Firenze avessero a proclamare la Repubblica, risponde: chiamarsi pel mantenimento dell'ordine, non già per dimostrazioni politiche, le quali dovevano all'opposto con ogni studio prevenirsi.[385] E qui mi sia concesso notare, onde si conosca quanta sia stata la umanità mia, e la cura indefessa, perchè nefande discordie tra la famiglia toscana non insorgessero, o insorte appena posassero, la esortazione rivolta nel medesimo giorno al Governatore Pigli: «Si raccomanda la buona condotta passando per Empoli. Si rammentino, che gli Empolesi, momentaneamente traviati, sono fratelli.»[386] Nè, quantunque poco faccia alla materia in questo punto discorsa, io mi asterrò da riportare un Dispaccio telegrafico da me dettato il _16 febbraio_, relativo ai Veliti. — O voi non degni soldati di questo corpo onorevole, e da me onorato, che veniste a inacerbirmi il carcere di San Giorgio dicendomi improperii sotto le cieche finestre, o minacciando traverso le porte, io non voglio rammentarvi, che per me, assentendo ai desiderii vostri, dagl'ingratissimi ufficii di Polizia foste rilevati; e neppure, che sopra ogni altra milizia Toscana otteneste prerogative, e soldo; queste cose accennerebbero, per avventura, a provocare la vostra riconoscenza; ed io ve ne dispenso. Leggete, vi scongiuro, più che con gli occhi col cuore, il mio Dispaccio del _16 febbraio_, ed imparate che cosa sieno amore di cittadino e carità di Cristiano. — Avvertito, da Pontedera, come alcuni Veliti per timore di minaccia fuggissero via, così gravemente ammoniva: «Invece di accomodare, arruffate. Qui i Livornesi hanno fatto pace co' Veliti; a Pontedera gli minacciano; sicchè questi fuggono. I Veliti sono il miglior corpo che abbiamo. Bisogna che voi gli richiamiate, e subito fate pace, e sincera. Con questi modi prevedo guai grandi. Siamo tutti fratelli; se non l'amore, ci stringa il pericolo comune.»[387] Quando lo insulto si posa sopra le labbra del soldato, il valore leva le tende dall'anima sua. Correva il giorno 12 febbraio, quando una moltitudine di Popolo, traendo a furia su la Piazza del Granduca, si accinse a piantare l'Albero della Libertà, e con infiniti schiamazzi chiedeva il Governo, affinchè l'atto approvasse, e lodasse. Mi presentai solo, e solo mi attentai a contrastarlo, e lo chiamai prepotenza diretta a costringere gli altri Toscani, i quali _forse_ lo avrebbero consentito, ma non erano presenti per farlo: appartenere al libero voto di tutto il Popolo toscano, radunato in Assemblea il 15 del futuro marzo, _decidere su la forma del Governo_.[388] — Quale concepisse rancore la Fazione assai dimostrammo, e più dimostreremo, se Dio ci aiuta; però nonostante le mie parole, tornava più tardi, e lo volle piantato sotto i miei occhi, quasi in dispregio di me. Siete chiariti adesso, che nè sempre, nè tutto quello che desiderava non fatto, mi riusciva impedire? L'Accusa impenitente sussurra: _lustre per parere_; opere volpine per istare apparecchiato ai successi futuri. Sta bene; ma egli è forza convenire, che mentre provvedevo alle probabilità future, correvo temerario il pericolo di rimanere oppresso nelle contenzioni presenti: e questo io non vorrei rinfacciare l'Accusa per non avere fatto, ma vorrei, che un cotal poco più onesta ella fosse nel darmi merito per averlo fatto io. Nè meno importa allegare in mia difesa il Decreto dei Commissarii da inviarsi nelle Provincie, che compilato dal sig. Mordini, firmai il _14 febbraio_, avvegnachè in esso non si faccia pur motto di Repubblica, nè di altro attenente a forma di Governo, bensì di risvegliare i sensi generosi della Nazione, mettere a profitto i mezzi sparsi in tutto il Paese, facilitare il fornimento delle Guardie Nazionali, lo scriversi dei Volontarii alla milizia; raccogliere insomma in uomini, in bestie, in danari, e in arnesi, quel più che la diligenza loro avesse potuto ottenere dai Municipii toscani. Ora tutte queste paionmi prove evidentissime della mia reluttanza a operare cosa che tornasse ostile al Principato Costituzionale, però che da me pendesse unicamente consumarne l'abolizione; e se questa allora e poi contrastai, stupido concetto è pretendere, che al punto stesso io la provocassi e volessi. Nè pentere e volere insieme puossi, Per la contraddizion che nol consente. (DANTE, _Purg._, III.) Lo dice anche il Diavolo, ch'è pure il Procuratore Regio nell'altro mondo! Appartiene, per ordine di data, a questa sede del nostro discorso la lettera che l'Accusa senza altro impaccio afferma da me spedita al conte Del Medico; ne favellerò in altra parte: intanto importa fino d'ora avvertire, ch'ella non è punto una lettera mandata, bensì semplice nota posta sotto la missiva di cotesto Delegato: il che suona troppo diverso. E qui pure, se non per ragione di data, per connessità di materia, dovrei esporre i motivi delle note, che si afferma di mio carattere scritto sotto le lettere del 12 e 17 febbraio 1849, la prima del Consigliere di Prefettura, la seconda del Prefetto di Grosseto; ma poichè esse vengono governate da altra serie di fatti, io penso con migliore consiglio favellarne là dove di questi fatti terrò ragionamento. Chiuderò piuttosto, prima di passare ad altro, col proseguire la storia dei sospetti e degli eccitamenti contro la mia persona, mossi dalla Fazione dei demagoghi dai primordii del Governo Provvisorio fino a questi tempi, e poi purgandomi dall'accusa della persecuzione esercitata contro i Sacerdoti. Nel 9 febbraio, a nome della Fazione, intimasi il Governo a spogliare gli abbienti del _superfluo_, e a distribuirlo fra il Popolo; ai colligiani, alle femmine, agl'impiegati tolga le pensioni mal date e peggio ricevute, e subito, perchè già in qualunque Governo sarebbe sacramentale dovere, ma in quello che regge, dura, vive e respira per volontà di Popolo, è condizione di vita, necessità. Nè dica domani, no: domani _potreste non essere più vivi_...[389] Della inquieta polizia dei Circoli somministrano prova i Documenti dell'Accusa in data dell'_11_ febbraio, con l'ordine di vigilare i palazzi, e la taberna di alcuni cittadini.[390] Nel giorno _13_ febbraio, la Emigrazione Lombarda minaccia prossima l'accusa davanti il Popolo, per la colpevole inerzia con la quale avevo poltroneggiato fin lì.[391] Nel _14_ il _Monitore_ del Circolo, me e i miei colleghi bandisce _Governo austriaco_, se, dubitando, indugiamo più oltre a proclamare la _decadenza del Principe_.[392] Nel giorno stesso, pel medesimo _Monitore_ rimango avvertito che il mio _mal sonno_ di tre giorni (la Emigrazione Lombarda vedemmo, che lo calcola di _sei_) mi tornerebbe fatale, avvegnachè io _giuocassi della mia testa_.[393] La mia opposizione al piantare l'Albero è denunziata al Circolo, da quello con parole crucciose avvertita, e minacciosamente dal suo _Monitore_ propalata.[394] Con pari cruccio, e pericolo anche maggiore, la Emigrazione Lombarda avvisa il collegio repubblicano essere stata da me freddamente accolta la Deputazione venuta a instare, affinchè la Repubblica senz'altro indugio si proclamasse.[395] Scellerata cagione di sangue, me furibondi designano alla pubblica vendetta, perchè relutto a dichiarare la Repubblica, la decadenza del Principe, e la Unione con Roma.[396] Questi, ed altri tali, erano dardi avventati _ad hominem_, dacchè, bene o male che il credessero, demagoghi e Repubblicani pensavano essere io impedimento unico a conseguire il termine estremo degli sforzi loro,[397] senza il quale, assai più esperti dell'Accusa, tenevano non avere conquistato nulla, e riposta ogni cosa in compromesso. L'Accusa, tetragona ai colpi di paura, scriveva, dentro la sua stanza, nel gennaio del 1851, a canto al fuoco, gli usci diligentemente serrati: — lievi prove di coazione sono coteste, anzi non sono prove, e, meglio meditandovi sopra, piuttosto sono prove escludenti qualsivoglia violenza! — Ma, Dio eterno, che cosa pretenderebbe l'Accusa? che io, in prova della violenza patita, le portassi davanti la mia testa mozza come Beltramo da Bornio?[398] Atroce patto ella pone alla sua fede, se non si contenta di altro che di gole squarciate, e di cuori fessi! L'Accusa non tace che alla prova del cataletto... Le manifestazioni di animosità della parte repubblicana, a me particolari, sono venuto con prove espresse raccontando durante il mio Ministero, e nei primi giorni del Governo Provvisorio; vedremo a mano a mano crescere in breve, e prorompere alfine in manifesta accusa di traditore. Da me altri non aspetta (e non mi sento tale da farne) proteste di devozione serotina: io parlo piuttosto con la coscienza del testimone, che con lo zelo del difensore. Però, innanzi tratto, dichiaro, ch'eletto a tutela della pubblica sicurezza, io non solo non mi reputerei colpevole di avere adoperato contro i Sacerdoti, secondo i meriti loro, ma all'opposto mi terrei colpevole per essermene astenuto. Forse i Sacerdoti presumono esercitare il privilegio del delitto? Chi questo crede, gl'insulta. La santità del carattere e lo istituto sublime impongono loro augumento di carichi, ed essi lo sanno, non già dagli assunti doveri gli assolvono. Nè Cristo senza sacrilegio può essere tolto a segnacolo di fazioni contrarie; egli sente misericordia di tutti; per chi piange, ed anche per chi fa piangere. Monsignore D'Affre, inclito martire della fede cristiana, quando si avventurò tra i furori della battaglia cittadina, non andava già a rafforzare questa parte o quella; finchè cristiani uomini gli uni contro gli altri combatterono, egli gridò: — «forsennati! forsennati!» e li conteneva; quando cadevano, egli gemè: — «infelici!» e gli andava soccorrendo; quando fu piagato di mortale ferita, ei li chiamò: — «figliuoli!» e li benedicea. — Chi davanti a Sacerdoti siffatti non s'inchina? — I Sacerdoti commettitori di scandali e di risse, già più Sacerdoti non sono; la Chiesa, pel carattere che rivestono, bene domanda sia proceduto contro loro con certi riguardi, ma essa prima e più severa di tutti acerbamente gli accusa. Ciò premesso, io dichiaro, non avere mai dato ordine che si arrestassero Sacerdoti. Mentre fui Ministro dello Interno, feci chiamare, come altrove ho notato, alcuni Preti ed alcuni Frati, e gli ripresi del poco amore che portavano alla Patria, del costume pessimo, e dello sviarsi dietro a cose umane che non ispettavano loro, con iscapito grande delle divine a cui erano unicamente commessi; non però gli arrestai, nè in altro li volli mortificati. Durante il Governo Provvisorio non adoprai modi diversi; anzi, ricordo come certa volta presentatisi avanti il Ministro dello Interno alcuni Sacerdoti, udii riprenderli, perchè si mostrassero avversi alla Costituente, e andassero dissuadendo la difesa del Paese; e dico averli uditi riprendere, dacchè non erano stati punto chiamati per ordine mio, e nello ufficio del Ministro io penetrava a caso. Senza profferire parole, in disparte ascoltai le discolpe loro; poi fattomi presso ad uno che al sembiante mi parve più giovane degli altri: — «Io non so, Reverendo, incominciai ponendogli la mano destra sul braccio, io non so, Reverendo, perchè voi non dobbiate amare la Patria; anzi non so perchè voi non la dobbiate amare più di noi.» E il degno Sacerdote con atti e parole vivaci rispose: «Io amo il mio Paese al pari di ogni altro. Rispetto alla Costituente Italiana, la mia coscienza mi vieta aderirvi; ma in quanto a difendere la mia Terra dalle invasioni straniere, da Sacerdote le affermo, che prenderei l'arme, e verrei a farlo io stesso.» — Allora gli strinsi la mano, e conchiusi: «E tanto basta, mio degno Sacerdote,... tanto basta.» — Quando mi verrà concesso esaminare gli Archivii, ritroverò il nome e la condizione del Prete.[399] — Superiormente alla tristizia dei tempi, trovarono in me i Sacerdoti continua ed efficace tutela. Di ciò provare mi porge abilità la cortesia dell'Arcivescovo di Firenze, il quale, da me richiesto, mi rimetteva la copia autentica della lettera che io gl'indirizzava il 2 aprile 1849: «Monsignore. «Io vorrei pregarla, Monsignore, ad avere la compiacenza di significarmi se V. S. Rev.ma intende per le imminenti solennità celebrare in Firenze. «Nel mentre che io vado persuaso che V. S. Rev.ma si penetrerà di quanta pace e di quanta consolazione sarebbe la sua presenza in mezzo al suo ovile, mi permetterei aggiungere le mie preghiere caldissime onde ciò abbia effetto. «So bene che V. S. Rev.ma non si tratterrebbe punto nello esercizio delle sue sacre funzioni per sospetto che potesse concepire; pure vada convinto, che finchè duri nello arduo uffizio che mi fu confidato, saprò e vorrò mantenere severamente la reverenza che si deve a tutti gli Ecclesiastici in generale, e in particolare alla sua degna persona. «Di Lei, Mons.re Reverend.mo «(L. S.) Li 2 aprile 1849.» «Devot.mo «GUERRAZZI.» E già io gli aveva dirette altre due lettere in risposta alle sue, con le quali mi domandava protezione per lo esercizio delle sue episcopali prerogative. Quantunque egli abbia smarriti gli originali, non ha mancato il degno Arcivescovo, con esempio di rettitudine generoso, _non per anche imitato da tutti quelli nei quali io maggiormente confidava_, di sovvenirmi nelle dure strette in cui mi trovo con lo aiuto delle sue reminiscenze, come si conosce dal seguente attestato: «Attesto per la pura verità, che nel tempo da me trascorso alla Badia di Passignano, dopo le tristi vicende che mi costrinsero ad abbandonare questa Capitale, oltre una terza lettera già da me rilasciata dietro richiesta delle Autorità Giudiciarie, io ne ricevei pure altre due direttemi dallo stesso signor Avv. F. D. Guerrazzi, in allora Capo di quel Governo Toscano, nelle quali, con espressioni le più ossequiose e rispettose, mi diceva ch'egli approvava pienamente le misure da me prese di relegare all'Alvernia i due Sacerdoti *** *** come propagandisti di dottrine eterodosse, e mi protestava che sarebbe stato sempre deferente all'Autorità Episcopale, promettendo, fintantochè egli fosse stato a capo del Governo, favore, protezione e sostegno pel libero esercizio della medesima. «Non avendo io tenuto conto di dette due lettere, e venendomi esse richieste dallo stesso signor Avv. F. D. Guerrazzi per interesse della sua difesa, ho stimato _mio dovere_ di manifestarne il sentimento, e rilasciarne il presente certificato. «In fede ec. «Dal Palazzo Arcivescovile di Firenze, «(L. S.) Li 11 marzo 1851. «FERDINANDO Arcivescovo di Firenze.» E queste sono nobili parole: in prigione non posso nè devo fare più lungo sermone. Allora la lode è turpe per cui la profferisce, e senza onore per cui la riceve, quando possa sospettarsi che muova da viltà o da paura. Miseria non ultima del carcere, dove il biasimo ti viene ascritto a furore, la lode ad abiezione. La virtù nella comune estimativa del mondo sta abbracciata con la fortuna. E, non diverso dall'Arcivescovo di Firenze, il Vescovo di Milto Ordinario a Livorno, con lodevole premura porgeva anch'egli testimonianza di averlo io sostenuto, affinchè in negozio dilicato l'autorità sua fosse obbedita. «I Signori *** *** presentandosi come incaricati del signor Avvocato F.-D. Guerrazzi mi richiedono di uno attestato, che stia a constatare qualmente il medesimo mentre dirigeva il Ministero dello Interno si prestò ad appoggiare la mia Autorità di Ordinario in emergente dilicato, interessante la moralità e la coscienza, ed io non posso ricusare un tale attestato, in quanto che è vero, che in circostanza come sopra fui dal suddetto signor Guerrazzi utilmente coadiuvato. Ed in fede «(L. S.) Livorno, 26 luglio 1851. «GIROLAMO, _Vescovo di Milto_.» Nè già si creda, che senza mio sommo pericolo fossero i soccorsi, che, secondo l'obbligo mio, dava allo Episcopato per lo esercizio delle sue legittime prerogative, e la preghiera al fiorentino Arcivescovo, che con la presenza e i riti la religione commossa confermasse. Un cartello infame fu affisso nel giorno terzo o quarto di aprile all'Albero della Libertà, piantato in Piazza del Duomo, e fatto remuovere vi ricomparve più volte, il quale diceva così: «Due traditori (il primo era io, il secondo Monsignore Arcivescovo) si sono dati la mano per tradire il Paese; si muova il Popolo, e si dia la meritata pena, prima che gli scellerati disegni sieno compiti.» A vero dire io non ebbi mai l'onore di favellare con lo Arcivescovo; ma non importa; noi cospiravamo insieme per tradire il Paese. In quanto al soggetto cui accenna l'attestato di Monsignore Vescovo di Milto, mi dichiarò mortalissima guerra; scriveva lettere ortatorie perchè mi si spingessero contro come a un verro di macchia, perchè traditore della Patria, venduto ai tiranni, col corredo delle consuete ribalderie, che i ribaldi costumano. La Polizia sorprese una di queste lettere, e svelò come anch'egli partecipasse alle trame del Frugoni di cui ho parlato a pag. 369 di questa Apologia. Longanime come è mia natura, non uso a tremare, e per paura offendere, tardo a muovermi quanto più in grado di accompagnare il baleno del volere col fulmine del fare, io mi restrinsi a spedire la lettera intrapresa del tristo Prete a Manganaro, ordinandogli di depositarla negli Archivii della Polizia, e sorvegliare, e sfrattare il Frugoni.[400] Ma tornava al benevolo disegno della Accusa raccontare di Preti imprigionati e di Arcivescovo offeso, me annuente o impotente. Ciò non pensava il Vescovo di Livorno, e molto meno lo Arcivescovo di Firenze, che a me ricorrevano per protezione in tempi anche più torbidi, e la ebbero, però che io con tutti i nervi mi vi adoperassi. Ma che importa questo? Ciò che si dimostra lo Arcivescovo non avere mai pensato, pensa l'Accusa; e non solo lo pensa, ma lo rimprovera, e ne forma subietto d'imputazione. L'Accusa fonda il rimprovero: 1º sopra taluni ordini spediti l'8 febbraio 1849, dove leggonsi l'espressioni: «Si vuole ovunque mantenuta la pubblica tranquillità, ed energicamente represso ogni _tentativo_ reazionario contro lo attuale ordinamento, se vi fosse tanta stoltezza da _tentarlo_. I Parrochi in ispecie, e Preti in generale, debbono rigorosamente guardarsi, e ove costoro, o chiunque altro, si cogliessero in fallo, sieno irremissibilmente carcerati e processati;» 2º sopra una lettera del 19 febbraio che dice: «Se trova Preti renitenti o traditori, è tempo finirla; si arrestino questi indegnissimi figli della Patria e di Cristo, e si mandino legati a Firenze. Non ammettiamo esitanza, dubbio, od osservazione in contrario: sotto la responsabilità sua, si leghino e mandino in Firenze.» Mi rifarò dal documento secondo. Le osservazioni, che questa lettera ignoravasi 1º a cui fosse mandata; 2º se spedita; 3º da cui scritta; 4º e da cui firmata, — conciossiachè le firme del signor Montanelli e mia non appaiono di nostro carattere, e il corpo della lettera neppure, come neanche di persone addette alle Segreterie, nè di familiari nostri; tutte queste osservazioni, almeno per quello che sembra, hanno persuaso l'Accusa a dubitare un tantinetto intorno alla autenticità di cotesto documento: però io mi stringerò a dichiarare in _istil breve e succinto_, che di questa carta io non devo dire nulla. Per qual motivo poi, con mille altre di pari natura, l'abbiano stampata nel _Volume_, pende il giudizio incerto. Alcuni sostengono, che la Istruzione dapprima si avvisasse apparecchiare il caos, onde i Giudici poi, quasi divini, dicessero: «si faccia luce,» e luce si facesse; — altri opinano, che ella intendesse fornire un saggio della intelligenza e della prestanza di taluni impiegati toscani; e si maravigliarono perchè il _Volume dei Documenti_ non fosse spedito, con tante altre rarità, alla Esposizione di Londra.... ma, spicciandosi, sarebbero sempre a tempo; — altri, altra cosa dichiarano. Intanto stampano lo Indice, ottima giunta alla buona derrata, perchè accuratamente compilato, con diligenza elzeviriana corretto, sicuro nelle indicazioni; per sugosi sommarii, e soprattutto precisi, veramente esemplare;... questa opera inclita in ogni parte armonizza![401] — Favelliamo di altro. E quanto espressi sul documento secondo dovrebbe giovarmi anche pel documento primo, dacchè non sia scritto nè firmato da me, sibbene dal solo Segretario signor Allegretti. Ma il Segretario Allegretti, ricercato con lettera intorno alle ragioni del Dispaccio, risponde per lettera quello, che già abbiamo letto a pag. 289 di questa Apologia. Quando il signor Segretario sarà richiamato, come diritto vuole, non dubito punto nella rettitudine sua, ch'egli vorrà rammentarsi come mostrando nel volto dolore, gli domandassi che avesse, ed avendomi manifestato la repugnanza sua a scrivere disposizione siffatta intorno ai Parrochi, io gli rispondessi: «ed ella non la metta.» Se non che altri intervenne, e disse con impeto: «che importa a lei? Faccia il suo dovere, e obbedisca.» Ma queste cose non importa sapere all'Accusa. Il Manifesto alla Europa afferma che il Governo non mandò armati a cacciare S. A. da Porto Santo Stefano, e, tranne alcuni pochi Municipali, nessuno; e dichiarò eziandio non essere mai stato instaurato in Toscana il Governo Repubblicano. Questo trovammo a prova essere vero esattamente, se ai Municipali aggiungi i quattordici artiglieri, quantunque rispetto a me non sapessi degli uni nè degli altri. Però non vuolsi revocare in dubbio che le voci corressero diverse dal vero, siccome vediamo per ordinario accadere; se per _forte mano_ vogliasi intendere la colonna Guarducci, nè ella, come chiarii, era spedita da me, nè da altri del Governo, e veniva nel giorno 18 richiamata a Livorno, e rivolta verso il contado lucchese; se per capi stranieri D'Apice e La Cecilia, il primo non si mosse da Empoli, e ricusò il comando; a La Cecilia non fu commesso dal Governo ufficio di sorta, nè leggo avere operato cosa alcuna, tranne bandire proclami, proporsi di capitanare le milizie civiche della Maremma, e, non rinvenuto il terreno molle, data una gira-volta, tornarsi a Livorno prima del 20 febbraio. Il cannone di Orbetello bene salutò la Repubblica, ma la Repubblica in Toscana non era; per la quale cosa il Manifesto alla Europa non ismentendo (come inesattamente scrive il Procuratore Regio del Tribunale di Prima Istanza di Firenze, a pag. 23 della sua Requisitoria) le cannonate di Orbetello, disse a ragione erroneo il supposto, che la Toscana, decretata la decadenza del suo Principe, si fosse costituita a reggimento repubblicano. E perchè si conosca a prova quanto il mal genio dello errore abbia presieduto a questa opera infelice della Magistratura toscana, noterò come il Regio Procuratore rammentato adduca a conferma di un fatto vero una prova falsa. Veri gli spari di cannone ad Orbetello il giorno 20 di febbraio; non vero, che ne faccia fede il Dispaccio, allegato dalla Requisitoria, di Carlo Pigli; ed è evidente. Il Dispaccio del Pigli apparisce dettato il 22 febbraio a ore 5, m. 45 pom., e dice: «_ieri_ a Grosseto e a Orbetello fu grandemente festeggiata la Repubblica con sparo di artiglierie ec.;» lo _ieri_ del _22_ pare quasi sicuro (a meno, che non lo voglia contrastare il signore Paoli) che sia il _21_: però, stando a questa prova, il Procuratore Regio del Tribunale di Prima Istanza di Firenze ci vorrebbe dare ad intendere, che S. A. sentisse nel _20 febbraio_ i colpi di cannone sparati il _21_!!! Ma queste le sono baie. _Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis_ _Offendar maculis....._ Nonostante, quando si agita del sangue e della fama di un uomo, uno scrupolo più di coscienza non parrebbe che potesse guastare la ricetta. Onde sieno completi gli schiarimenti sul Manifesto alla Europa, dirò che fu composto sul principiare del marzo. Ora, mantenendo viva (come sarà provato fra poco) la Legge Stataria in Firenze per prevenire uno sconvolgimento in senso repubblicano, _chi scrisse cotesta carta_, la quale comparisce vergata da mano non mia, per certo reputò nella sua prudenza necessario, e lo era, insinuarvi qualche parola vaga la quale trattenesse gli arrabbiati da darsi alla disperazione; imperciocchè i disperati tutti sieno temibili; i politici poi, tremendi: e questo vedemmo, e tutto giorno vediamo. Niccolò nostro lasciò ai Partiti un buono insegnamento, di cui, se volessero seguitarlo, questi potrebbono avvantaggiarsi non poco; ed è: — che bisogna contentarci del vincere, e schivare lo stravincere. — Nè io avrei potuto contrastare coteste frasi senza venire ad aperta rottura coi Colleghi, mettendo da capo a repentaglio ogni cosa; molto più se si avverta, che il Partito Repubblicano durava sempre abbastanza gagliardo da consigliare il mantenimento della Legge Stataria per contenerlo; e dall'altra parte, che incominciando a stringere il tempo della convocazione dell'Assemblea, urgeva per me tentare il provvedimento supremo di riporre in mani toscane la sorte della Toscana; il quale con buona fortuna (altri dirà, se con senno ed ardire) mi venne fatto operare col Decreto del 6 marzo. Io non mi sentiva uomo, per poche parole senza costrutto, mettermi in avventura di sconciare le cose. Come poi devansi giudicare la parole espresse in simili angustie, vedremo nella ultima parte di questa Apologia, dove riporterò la opinione di uomini di Stato, e di Storici reputatissimi, intorno a casi non pure somiglievoli, ma quasi identici. Più tardi della Spedizione di Lucca: — frattanto importa notare come la colonna Guarducci, la quale non oltrepassò Rosignano, fosse richiamata, e celeremente spedita verso il contado lucchese. Nè si opponga, come l'Accusa fa, ciò non essere stato spontaneo, bensì per ovviare a maggiore pericolo; no: dicasi piuttosto, che dopo avere in cento modi attraversate le Spedizioni maremmane, io colsi il primo pretesto per mandarle a vuoto. So bene, e a mie spese, che con le Accuse non si fa a fidanza; però intendo dimostrare quanto dico. — La commissione di apparecchiare gente scelta per Maremma, io dava sforzato il _14_ febbraio, e la colonna Guarducci senza ordine o avviso del generale D'Apice, nè mio, potè incamminarsi per Rosignano il giorno _17_ di febbraio; ma per tornare e volgersi verso il contado lucchese, non le si concede mettere tempo fra mezzo; richiamata il 18 a Livorno, da Livorno nel 18 parte.[402] Ancora: — io dai Volontarii indisciplinati aborrivo, e _precisamente in questa occasione, così scrivevo nel 22 febbraio da Lucca al signor Mazzoni, presidente di settimana_: «Volontarii, non importa; se prendono ingaggio, va bene, perchè allora si disciplinano, e possono partire; sciolti da qualunque freno, mandano sottosopra ogni cosa,[403] e _lo vedo a prova_.» Sicchè di loro, così com'erano indisciplinati, non sapeva che farmi. Infatti, parte furono inviati in Val di Serchio, perchè lungo il littorale giungessero a Viareggio; parte, senza ordine, sceso il Colle di Chiesa, si spinsero fino al ponte del Macellarino, con presentissimo pericolo di rimanere tagliati fuori;[404] finalmente, con ispreto degli ordini del Generale, vollero trascorrere fino a Pietrasanta; sicchè D'Apice protestò, che se non indietreggiavano essi, egli non avanzava, per la quale cosa mi avventurai solo fino costà, ingegnandomi con parole ora di preghiera, ora di rimprovero, a farli retrocedere.[405] I Volontarii che vogliono operare a modo loro, sono impedimento, non forza; le popolazioni li temono ed odiano; le milizie ordinate li disprezzano, ed essi rendono a tutti pan per focaccia, con ingiurie e soprusi. Però di Volontarii a Lucca non vi era bisogno; e se fu detto, e' si fece per istornarli dalla Maremma; il maggiore uopo di forze, almeno per testimonianza di persona autorevole, era colà, e non altrove; dacchè, partito il Principe, cessava il pretesto di agitarsi in suo nome. Infatti Cesare Laugier, malgrado che il Granduca sul partire da Porto Santo Stefano lo nominasse suo Commissario in Toscana, a cagione della sua partenza, ritenne cotesto Decreto di nessun valore; e le parole contenute nel chirografo, che nel 22 febbraio 1849 egli mi dirigeva da Massa, lo dichiarano espresso: «La partenza del Principe in terra straniera sciolse il Laugier da ogni scrupolo. Credutosi svincolato dal giuramento, pensò il miglior mezzo, per evitare lo spargimento di sangue, retrocedere nelle posizioni da cui era partito.» XXV. Spedizione di Lucca. § 1. _Dimostrazione storica._ Dove io indirizzassi la parola ai benevoli soltanto, mi sarebbe avviso procedere a modo di storico, risparmiando loro il tedio di leggere una serie di allegazioni non sempre piacenti, qualche volta tristissime; ma essendo io accusato, e favellando ad uomini che meco certo non vogliono fare a fidanza, è pur mestieri che io vada piuttosto compilando documenti, che dettando storie. Per ora mi aiuto con le notizie che mi somministrano taluni libri e giornali e qualche persona dabbene a cui duole questo mio strazio, e il Volume dell'Accusa a cui questo mio strazio punto non duole; anzi le piace. Quando mi saranno consegnati gli Archivii, potrò confermare lo esposto ed ampliarlo a maggiore edificazione dei cultori della giustizia; nonostante, anche quello che mi è venuto fatto raccogliere basterà al mio assunto presso gli onesti: e forse, o io erro a partito, ce ne sarà di avanzo. Continuando pertanto la Dimostrazione storica impresa nelle precedenti pagine, metterò prima di tutto un Proclama che fu diffuso a migliaia di esemplari. Di questa sorta pubblicazioni avrebbe potuto adunare l'Accusa copia bene altramente abbondevole; contentiamoci di quello che ci dà. A caval donato non riguardiamo in bocca. Dallo stile e dai modi parmi fattura lombarda; in molte guise, e, per la temperie, efficacissime, egli intende provocare la Unione della Toscana allo Stato Romano: «Popoli di Toscana! «Nella lunga e travagliata vita delle Nazioni Dio suscita un pensiero che debbe rinnovarle; quei Popoli che non l'intendono e lasciano trascorrere il tempo prefisso, soscrivono di per sè la loro sentenza di morte politica e civile. «Toscani! Ora noi ci troviamo in questa condizione. Colui che per molti anni tenemmo a Principe, l'uomo che la intera Toscana a furia di affettuose dimostranze s'ingegnò di persuadere a farsi iniziatore della nostra nazionalità, è fuggito; fuggito non per lasciare una terra che ne lo cacciava, ma sì per farsi simulacro di guerra civile, per infiammare tutte le malvagie passioni che il senno del Popolo aveva saputo spengere; fuggito per disgregare gli animi, sperando, a cotesto modo, di sostituire alla suprema guerra di principio la guerra de' fratelli. «E fuggendo, esso ha fronte di scrivere che in ciò obbediva alla sua coscienza. Questa gli acconsentiva pure di sottoscrivere liberamente al Programma del Ministero Guerrazzi-Montanelli e alla Legge fondamentale per la Costituente; lo raffreddava in altri tempi, allorchè la intera Toscana, credendo alla possibile colleganza fra i suoi interessi e quelli del Principe, chiedeva la Guardia Nazionale, e con la sola forza dell'affetto lo poneva sulla via di fortificare il suo potere. Ma allorchè le libere istituzioni, per la logica conseguenza, gli mostrarono come bisognasse romper guerra allo straniero, allorchè, per comunione di dolori, Italia chiese di tornar Nazione, la coscienza di quest'uomo si ribellava, gli permetteva di dire e disdire, ed anzi gl'imponeva di farsi segnacolo di dissidii civili. Dal Porto di Santo Stefano cotesta sua coscienza attende che batta l'ora della nostra sventura. «Toscani! Facciamo per modo che esso attenda invano. Il nostro maraviglioso passato, il nostro senno, la nostra dignità c'ispirino; maestri di civiltà in altri tempi, mostriamo all'Europa che le libere tradizioni vivono intiere negli animi nostri, che in noi non vi ha ira di parte, ma sì febbre di riscatto nazionale, e che se fummo infelici e divisi per le congiurate previsioni di Principi, liberi ora, sapremo volere e tornar grandi. Considerate di qual sorte sia la coscienza di quest'uomo. Essa gl'impone ora di lasciare così gli amici come i nemici in balía della incertezza; lo forza di aderirsi allo scomunicatore di Gaeta e di assistere dalla lunga alle soffiate vampe di Empoli; lo mette d'accordo coi consigli dell'Austria che ne concertava la fuga, e lo fa rinnegare il proprio Popolo, la propria parola. Circondato da arme, e vinto da interessi stranieri, quest'uomo si confida di seminar paure, di suscitare stragi e rapine nel suo nome. Disperato per la prevalenza d'un principio, esso si appiglia ad una fazione ingannata, specola sulla ignoranza dei Popoli della campagna, e pone così il suggello al proprio decadimento. Nell'ora della fuga i Principi tutti si somigliano, e interamente si palesano: e questa è opera di Dio. «Cacciato non da noi, ma dalle sue fallaci promesse e dai fatti arcani e dai vincoli di sangue che l'uniscono all'Austriaco, Leopoldo di Lorena non intende il Popolo nè l'Italia. Toscani, mostriamo ad esso che la Libertà, l'Ordine, le Leggi non s'incarnano in un uomo, non riposano sopra una volontà. Il Principe può andarsene, ma il Popolo rimane, e con esso il sentimento della propria dignità e de' suoi diritti. Col Principe adunque gli errori del passato, con noi le salde speranze di un riposato futuro, la gloria del combattuto presente. «I Martiri di Curtatone, il fiore più eletto della giovine Toscana non debbono essere caduti indarno. Se non giovarono alla causa dei Principi, essi tuttavia rimangono sacri a quella più schietta de' Popoli. Percossi in terra tornata a servitù, attendono che la Toscana con sapiente ardimento raccolga il frutto del loro sacrifizio. Fortifichiamo i nostri liberi ordinamenti politici, acciocchè l'Europa li rispetti e vegga in essi la unanime volontà di un Popolo al quale tutte le classi hanno diritto e debito di appartenere, il saldo proposito di una Nazione ridesta. Imperocchè le Potenze non si attentano di combattere i Popoli che vegliano concordi, ma sì quelli che, divisi in fazioni, guastano il concetto nazionale. Ricordiamo che la guerra civile è il più valido aiuto alla oppressione straniera, che i Potenti la soffiano, che i Principi la incitano. Essa è la loro arma, quindi non può esser mai quella dei Popoli. «E poichè la veneranda Roma, scossa la vergogna secolare, impaura i nostri eterni nemici col supremo grido di libertà, e li fa maravigliare del suo senno; adoperiamoci per metterci in grado di partecipare all'ineffabile amplesso. Affrettiamo senza esorbitanza l'adempimento delle nostre promesse; smessa ogni gara di Municipio, le città sorelle della Toscana aiutino la impresa, e stretti in una benedetta comunanza d'interessi e d'intendimenti, vegga il nimico d'Italia che i Popoli non si vincono quando fra essi riescono ad intendersi. «Firenze 15 febbraio 1849.» Il Governo Provvisorio attendeva a chiamare la gioventù alle armi; i Circoli, nello scopo di soverchiare il Governo, ecco si recano in mano questo mezzo di forza per adoperarlo contro me, o piuttosto a vantaggio dei loro disegni. Una cosa essi promettono, un'altra ne fanno: danno ad intendere, _a cui ci voleva credere_, avere decretato spedire in Provincia Commissarii onde prestare opera vantaggiosa al Governo in questo negozio, per cui ottengono che il Ministro dello Interno lasci stampare sul Giornale Ufficiale una specie di avviso concepito così: «Il Circolo del Popolo di Firenze, nelle gravi circostanze nelle quali è costituita la Patria, ha decretato inviarsi in tutte le Provincie dei Commissarii muniti di apposita credenziale per organizzare Circoli, per eccitare lo spirito pubblico, per promuovere il più generale armamento delle popolazioni in difesa della Patria. Restano perciò invitati tutti i buoni cittadini di accoglierli ed aiutarli nella sacra loro missione.» — (_Monitore_, 17 febbraio 1849.) E per inspirare maggiore fiducia al Governo scopertamente si affaticano a questo ufficio: «_Ieri_ il Circolo del Popolo teneva una pubblica seduta in Piazza, sotto alla Loggia de' Lanzi, ad oggetto di eccitare questa popolazione _ad accorrere in gran numero alla difesa della Patria, facendosi inscrivere nei ruoli dei Volontarii aperti a quest'uopo dal Governo Provvisorio toscano_. Un numero considerevole di cittadini assisteva all'adunanza ec.» — (Supplem. al _Nazionale_, 17 febbraio 1849.) Ma il Giornale che si annunziava _Monitore del Circolo di Firenze_, se poi gradito banditore o mal gradito io non so, il segreto fine subito dopo palesava: «La pronta Unione con Roma fu argomento principale, anche ieri sera, alla discussione nel Circolo. E questa volta fu coronato da un voto. Il Circolo decise, a unanimità, di spedire 25 Commissarii, cinque per compartimento dello Stato Provvisorio, per invitare tutti i Circoli, corpi morali e Guardie Nazionali ad esprimere i voti, o mandare deputati a Firenze, per chiedere al Governo Provvisorio la solenne dichiarazione di unirsi a Roma.» — (_Popolano_, 17 febbraio 1849.) Per questi indizii, e più per gli avvisi tanto ufficiali come amichevoli, io ottimamente comprendeva quale bufera stesse per iscoppiare. Con molta industria, di lunga mano, si erano indettati i Circoli provinciali col Circolo fiorentino d'inviare a Firenze, pel giorno 18 di febbraio, gente più accesa in forma di Deputazioni, affinchè forzassero il Governo a dichiarare la Repubblica. «Circolo politico popolare di Barga. «Cittadino. «Con deliberazione di questo Circolo nell'adunanza straordinaria del 16 corrente fu creata, alla unanimità ed acclamazione, una Commissione nei cittadini Avv. C. B., Avv. D. C., Dott. A. M., affinchè nel giorno di domenica, 18 stante, si presenti a cotesto Circolo del Popolo, e, di concerto con quello, domandi, a nome del Popolo di Barga, al Governo Provvisorio toscano la immediata unificazione e fusione con la Repubblica Romana, senza attendere l'apertura delle Camere. «Ha fiducia questo Circolo che accetterete di buon grado un tale incarico, essendo ben noti i vostri sentimenti politici, democratici, italiani. «Salute e fratellanza. «Dalla residenza del Circolo Popolare, li 16 febbraio 1849. «Al Cittadino Avv. C. B., Firenze. «Il VICE-PRESIDENTE.»[406] Da Lucca il Prefetto avverte il Governo nel 17 febbraio: «Il Prefetto di Lucca al Ministro dello Interno. «Alle ore tre e mezzo pomeridiane, dal Circolo politico di questa città è stata inviata al Governo Provvisorio una Deputazione il di cui mandato si è di manifestargli il desiderio della unificazione dello Stato Toscano a quello di Roma. La Deputazione è composta degli appresso cittadini. (Seguono i nomi.) «Il Prefetto LANDI.»[407] Il Governatore di Livorno, il medesimo giorno, manda: «Poco fa ha avuto luogo una dimostrazione numerosissima, con cartelli e bandiere, per chiedere la pronta Unione con Roma. Sono stato costretto a parlare. Ho promesso d'informare il Governo, e, senza promettere niente, mi sono limitato a lodare la Repubblica Romana. Credo di sapere che domani si portino costà deputazioni di tutti i Circoli per chiedere quanto sopra. «17 febbraio 1849. «PIGLI.»[408] E quando mai l'Accusa desiderasse imparare se manifestazioni siffatte avessero o no potenza per costringere, può considerarlo da sè stessa, leggendone il racconto nel _Corriere Livornese_ del 17 febbraio 1849: «Al mezzogiorno il Popolo, muovendo da tutte le Associazioni Parrocchiali con bandiere e cartelli esprimenti i suoi alti desiderj, si è diretto sulla Piazza del Popolo, da dove con le bande musicali ha poi mosso verso il Palazzo del Municipio. Immensa era la folla; e le grida di _viva la Repubblica Italiana, viva l'immediata Unione con Roma, viva la guerra_, riempivano l'aria; giunta la moltitudine in Piazza Grande, ha fatto sosta presso la Comunità, ove si è recata una Deputazione. Il _Gonfaloniere ha esternato ai deputati, confortanti e ragionate parole, le quali poi ha ripetute al Popolo festante dalla terrazza, ricambiate coi più fragorosi evviva_. La folla ha voluto poi salutare l'egregio cittadino Governatore, che ha dette al Popolo calde e generose parole. Quindi la moltitudine pacificamente si è sciolta, nel pensiero di riunirsi dimani alla Capitale coi fratelli di tutta la Provincia Toscana e concorrere uniti a compiere un atto, al quale oggi sono più che mai rivolti tutti i nostri pensieri, come àncora della salvezza d'Italia. «La sera, nel Teatro Rossini, vi fu adunanza del Circolo Nazionale e di tutte le Associazioni Parrocchiali della città. Il concorso fu straordinario; la platea, i palchi, l'orchestra ed il palco scenico rigurgitavano di Popolo. Fu discusso intorno allo inviare domenica (dimani) al Governo Provvisorio una Deputazione di tutti i Circoli, del Municipio, della Guardia Nazionale e di Popolo, per dimandargli la immediata unificazione della Toscana con la Repubblica Romana; e la deliberazione in proposito avvenne tra le assordanti ripetute e generali grida di _viva la Repubblica, viva l'Unione immediata con Roma repubblicana_. «Fu deliberata pure per l'indomani una solenne dimostrazione al nostro Municipio, onde invitarlo a concorrere per parte sua ad appoggiare le dimande del Popolo.» Io riporto, senza farvi osservazioni, le storie dei Partigiani della Repubblica; in breve ne rileverò gli errori, che artatamente essi v'insinuavano. Venne il giorno 18; e quale egli fosse, uditelo ora descritto dalla _Costituente Italiana_, Giornale compilato da scrittori lombardi, i quali, per adoperare la penna, posavano un momento la spada: «Ogni giorno, ogni ora il Popolo chiede sollecito al Governo la parola che sanzioni e che compia la sua rivoluzione, che dia un significato a _questa agitazione perenne_, la quale è desiderio, bisogno di vita italiana: esso sventola innanzi al viso dei suoi rappresentanti la bandiera della patria, e mostra loro la nappa di unione, onde scrivasi il patto fraterno, si tolgano i confini segnati colla spada, si decretino i nostri destini. — E quest'_oggi anche Livorno, Pisa, Lucca e altre città toscane avevano inviate le loro Deputazioni, affinchè il Governo, rafforzato innanzi ad una Rappresentanza Toscana_, potesse coscienziosamente rispondere ai voti comuni, e il Paese passasse nella tranquillità di una determinata situazione. «_Un programma del generale Laugier_ palesava vie più la necessità della Unione immediata. Vedevasi, per esso, come Leopoldo restasse ancora a Porto Santo Stefano con una speranza nel cuore, con un pensiero alla bella Firenze e al magnifico Pitti, con un piè sulla nave che lo tragga lungi dai popoli che lo sdegnano, e l'altro sulla terra ove fu re. — Vedevasi come, esso Laugier, nel di lui nome, innalzasse il vessillo della ribellione, e si preparasse a marciare su Palazzo Vecchio, Zucchi del Granduca, spacciandosi avanguardia di 20 mila Piemontesi, Spagnuoli della Toscana; _quindi maggiore la necessità di gettare un fatto compiuto in faccia a queste speranze_, di opporre a questi tentativi una forte posizione militare. «Recavansi le Deputazioni accennate, unitamente a una rappresentanza fiorentina, unitamente ai Volontarii accorsi all'appello della Patria, _per presentare un'altra volta al Governo la volontà del Paese_. Chiedeva tempo il Governo a rispondere, fino dopo il banchetto che imbandivasi dal Circolo del Popolo alle Deputazioni delle Provincie e ai Volontarii, fra le Loggie del Palazzo degli Ufizii. — Bello ed utile pensiero degli uomini del Circolo di adunare questi prodi al desco fraterno, di mostrare ai cittadini i primogeniti della Patria, di offrir loro questo tributo di affetto e di riconoscenza, questo plauso universale. — Era uno spettacolo gaio, commovente, questo convito modesto, ove officiali e soldati si alternavano i bicchieri, ove ai _Viva la Repubblica_ succedevano i cantici della libertà, ove, nella fratellanza della città repubblicana, si iniziava l'intima domestichezza del campo! — E Francesco Ferruccio impalmava la bandiera tricolore, e portava il _berretto frigio_ sul capo;» — (Ah! Francesco Ferruccio si copriva il capo di celata di ferro, non già di berretto frigio; e quando minacciava il nemico, beveva un sorso di vino in piedi, ed anche Dio glielo annacquava![409]) — «era il connubio della Repubblica del Savonarola colla moderna Repubblica nell'ultimo martire repubblicano caduto sul campo. «Finito il banchetto presentavansi sotto la Loggia dell'Orgagna il presidente del Circolo del Popolo, del Comitato Italiano, e _Giuseppe Mazzini_ venerato apostolo di libertà. — Parlava Mazzini; e provato come le nazioni nei momenti supremi non si salvino che per audacia ed _abnegazione_, chiedeva se volessero proclamare l'Unione con Roma e la Repubblica, e votarsi tutti alla difesa delle frontiere. Un grido di approvazione copriva la voce dell'oratore, e le bandiere di tutta Toscana ondeggiavano salutando la Repubblica Italiana. _Allora leggevasi una formula di Decreto col quale era stabilita l'Unione a Roma; era proclamata la Repubblica; nominando frattanto un Comitato di difesa composto di Guerrazzi, Montanelli e Zannetti_, coll'aggiunta di una Commissione di altri benemeriti cittadini, _dichiarando definitivamente decaduto Leopoldo Austriaco, e traditore della patria il generale Laugier_. Ad ogni parola interminate acclamazioni, ovazioni sincere, ed in fine la richiesta che _tutto subito si presentasse all'accettazione del Governo Provvisorio_. — Il Governo _ricevette con giubilo_ le attestazioni di fiducia, dichiarò che la voce del Popolo interpretava il cuore anche de' suoi rappresentanti, e ch'esso aderiva ai voti e alla volontà sì costantemente e generalmente manifestati; che però la proclamazione definitiva dell'Unione Repubblicana rimetterla all'indomani, _affinchè avesse luogo con quella solennità e in quell'apparato di forza che esige un atto nazionale_.» — (Questo era falso, ma la menzogna è necessità nei Faziosi.) — «L'ebbrezza del Popolo fu quale l'abbiamo conosciuta nei primi giorni di questa rivoluzione; a un tratto s'illuminarono le vie, suonarono a festa le campane, e Firenze echeggiò dei canti di guerra. Il Popolo _volle innalzato l'Albero_ della giovine Libertà, a simbolo di quella libertà che palpita nei nostri petti, a promessa di quella libertà che pianteremo nelle nostre istituzioni.»[410] Il _Popolano, fidus Achates_, del pari nel foglio del 20 febbraio 1849: «A ore 2 pomeridiane i Volontarii, già riuniti presso il Circolo, mossero con bandiere e tamburi, unitamente a molti socj, _Deputazioni e gran folla di Popolo ec_. «Finite le mense fra la letizia e i cantici, cominciossi a gridare: _La Repubblica_; e poi, convenuta la maggior parte del Popolo sulla Piazza del Popolo, gli oratori, fra' quali _primeggiò Giuseppe Mazzini_, cominciarono ad arringarlo. Ivi, innanzi al grande uditorio del Popolo, quanto la gran piazza ne poteva capire, _fu proclamata la Repubblica e la riunione con Roma_, e lette varie risoluzioni che il Popolo approvò. _Tutto ciò in risposta e dopo pubblica lettura del bugiardo proclama di Cesare De Laugier_. Non mancò chi promise di subito pubblicare la biografia di tanto infame, degno imitatore di Zucchi. Quindi _da una Deputazione furono portate le risoluzioni al Governo Provvisorio_, come esprimenti il desiderio di tante migliaia di Popolo e di tante Deputazioni. _Il Governo Provvisorio gridò, come sempre, i voti del Popolo, confermò la ridicola ribellione del Lorenese Laugier, e disse che il Popolo mostrasse di volere difendere la Repubblica con dare 2,000 reclute per la mattina seguente_. «Nella serata, in mezzo al generale tripudio fu innalzato l'Albero della Libertà con bandiera in cima, sulla Piazza del Popolo, tutto all'intorno illuminata dalla gioia dei cittadini.» E già nel foglio antecedente del 19 febbraio 1849, per meglio imprimere la memoria del fatto nella mente del Popolo, aveva raccontato: «18-19 febbraio. — Ieri aveva luogo sotto le Loggie degli Ufizii un grande banchetto pei Volontarii ascrittisi nei ruoli aperti nel Palazzo dei Priori e al Circolo del Popolo. «Più di 1,000 erano i banchettanti. E il Popolo tutto prese parte al convito. «_Intanto giungevano le Deputazioni dei Circoli di Livorno, di Lucca e di altre principali città toscane._ «Udivasi la nuova della defezione del generale De Laugier, ed _unanime fremito suscitavasi in ognuno, unanime imprecazione contro il traditore della Patria_. «_Il Circolo del Popolo di Firenze decretava una sentenza di cui più oltre diamo il contesto_.[411] «Intanto lo spirito pubblico animavasi ognor più: gran numero di Livornesi, uniti al Popolo fiorentino, al Circolo del Popolo ed agli altri Circoli, convenivano nel concetto esser venuto il giorno del solenne riscatto, nè potersi più oltre indugiare l'atto formale di Unione alla Repubblica di Roma. «_La Repubblica veniva così proclamata e di diritto e di fatto in Toscana_. «Fino da ieri sera, _l'Albero della Libertà era piantato sulla Piazza del Popolo e salutato da rumorose salve di applausi e dal suono di tutte le campane di Firenze_. Grandi processioni di Popolo festeggiante, con faci e cantici patriottici, percorsero per tutta notte la città. «Invitavansi intanto i Volontarii inscritti a recarsi, alle 8, nella mattina del 19, sulla Piazza del Popolo per partire immediatamente alla volta dei confini.» Il _Nazionale_, non amico mio, pure narrando i casi della giornata del 18, sovveniva allo sforzo del Governo: «Oggi fino a ora tarda della sera, _Firenze_ ha risuonato di suoni e canti, e sulla piazza che ora si chiama del Popolo ha stazionato continuamente un folto gruppo di persone a udire discorsi e proposizioni che si facevano dalla Loggia dell'Orgagna. — Fu letto un Proclama del generale Laugier, comandante la truppa ai confini di Massa e Carrara. — Il Proclama in nome del Granduca esortava i Toscani a tornare all'obbedienza; prometteva amnistia generale, quelli eccettuati che prendessero le armi dopo la promulgazione del Proclama. — _A grida generali si dichiara il Laugier traditore della patria_. — Sulla sera in faccia al Palazzo Vecchio _era piantato l'Albero della Libertà_. — Noi siamo avversi a ogni sorta di violenza, da qualunque parte si eserciti. — Noi c'inchiniamo alla sovranità del Popolo tuttoquanto chiamato a libere elezioni; da sè medesimo crei la sua rappresentanza, alla quale confidi le sue volontà, e la cura di provvedere allo eseguimento.»[412] E meglio ancora nel numero del 19: «Il principio di autorità fu rappresentato sinora dalla dinastia; la dinastia lo ha abbandonato; il Popolo deve raccoglierlo e con la sua libera volontà ricostruirlo. Ma noi, rispettando sempre i suoi decreti, non lo loderemmo se lasciasse forzarsi la mano, e si acquietasse a premature determinazioni uscite dai clamori incomposti della piazza: non lo loderemmo se tornasse ad affidare le sue sorti alle dinastie, che sono un fatto transitorio e perituro, senza prima circondarsi di forti e inespugnabili guarentigie. — Il Popolo sappia con ordine e dignità esercitare la libertà, che gli tornò piena ed intera, ec.» Intanto che cosa faceva il _Conciliatore_? Appesa l'arpa al salice _super flumina Babilonis_ piangeva; e nello incendio, che consumava il Paese, salilo in pulpito gravemente ammoniva i Popoli dicendo: il fuoco scotta; e se sarete bruciati, io non so proprio che farci. «Ai tempi che corrono, il cercare rimedj adeguati alla gravità del male, sarebbe impresa soverchiante le forze umane. Pio IX forse lo poteva, iniziando i nuovi moti pubblici col principio religioso. Ma oggi sventuratamente anche questo salutare freno è tolto, e la corrente straripa a sua posta, secondo gl'impeti delle acque che già ruppero ogni argine. — Però noi contempliamo dolenti questo crescere continuo di rovine, questo stravolgimento d'intelligenze ognora più terribile.»[413] Ben fastidiosa prefica è quella che imprende a cantare l'esequie all'uomo che non è anche morto! Il giorno dopo questo Giornale, riavutosi, raccomanda al Governo la sicurezza dei cittadini, l'ordine della città; ma considerando la desolazione predicata nel giorno diciotto, non si sa come avesse il coraggio di farlo da vero; molto più che con rugiadosa insinuazione andava sussurrando, che il Governo non aveva preso parte ostensibile negli avvenimenti del 18 febbraio, tirando per così dire l'orecchio al sospetto, affinchè dubitasse che egli forse ve l'aveva presa segreta facendo fuoco nell'orcio. Il qual contegno quanto in sì estremo pericolo fosse, non dirò onesto, ma savio, lascerò che altri consideri. «Ieri mattina giunse in Firenze una numerosa Deputazione dei Circoli di Livorno, con bandiere, cartelli e berretto rosso. Alle ore due ebbe luogo un banchetto pubblico sotto gli Ufizii, dato dal Circolo popolare ai Livornesi, ed ai Volontarii che sono inscritti per difendere la Patria. Alle ore sei, il Niccolini di Roma, Presidente del Circolo popolare, proclamò la Repubblica sotto la Loggia dell'Orgagna a nome del Popolo Fiorentino. Sulla sera fu piantato l'Albero della Libertà sulla Piazza del Popolo. — Nella sera suonavano a distesa tutte le campane delle chiese, e si sparavano fucili in segno di gioia. — Il Governo Provvisorio non ha preso parte alcuna, _almeno ostensibilmente_, a questi diversi atti. — In tanta incertezza di avvenimenti ed in tanto pericolo, noi non possiamo far altro che raccomandare a chi tiene il Governo di provvedere alla sicurezza pubblica, ed a tutti gli onesti cittadini di adoperarsi per mantenere l'ordine nella città.»[414] Il Popolano del 19 febbraio accusa il Governo _di frode_, quasi le promesse fatte ieri non volesse più mantenere oggi: «Oggi noi pubblichiamo un documento e un articolo intorno ad un fatto che forse, fra qualche anno, a chi non ha la chiave che schiude i misteri di Stato, apparirà enigma indecifrabile. «L'articolo che togliamo dalla _Costituente Italiana_ è lo esatto ragguaglio di quanto ieri accadeva sulla Piazza del Popolo di Firenze e dentro il Palazzo della Signoria. «Il documento è un Proclama che va sfornito di taluni adempimenti di voti nostri e del Popolo, di cui cotesti fatti eran promessa, di cui le misure iniziate dal Governo eran garanzia, ma va per altro arricchito da una grata e lieta novella, cosicchè lo acquisto per l'una parte compensa la mancanza che appare dall'altro lato. «Mancanza è, e per la _Costituente_ (giornale) e per noi, _la proclamazione definitiva della Unione Repubblicana_, che il Governo aveva detto di rimettere allo indomani (cioè oggi), _affinchè avesse luogo con quella solennità e in quello apparato di forza che esige un atto nazionale_.» (Sono parole della _Costituente_.) «Acquisto prezioso si è la certezza pervenuta nel corso della notte al Governo, che stolta e infame invenzione del traditore De Laugier era la nuova starsi pronti 20,000 Piemontesi ad invader la Toscana, per riporre l'ultimo Leopoldo sopra un trono cui volontariamente egli aveva rinunciato fuggendo e lasciando senza timone la nave sdrucita dello Stato. «I Piemontesi protestavano solennemente contro la taccia che dar gli voleva _l'uomo del 29 maggio_ di satelliti di tirannia, di degeneri Italiani, di uomini che per passività di obbedienza fosser pronti a mostrarsi fratricidi; e insanguinare la sacra terra d'Italia di italiano sangue. I Piemontesi protestavano, giammai voler porre ostacolo al riordinamento della Toscana, e intendere lasciarla libera di reggersi secondo la forma politica che più fosse per piacerle: volerci Toscani fratelli e compagni nella guerra contro il comune nemico — l'Austriaco: ma giammai volerci nemici e combattenti sovra limiti di provincia che un dì o l'altro debbono esser totalmente remossi, per dar luogo ad un solo e potente Stato: — la Italia Una e Repubblicana. «Ed altra notizia, ella pure aggraditissima e inaspettata, era lo appoggio e l'amicizia di una grande e formidabile potenza, alla cui ombra è oggi lecito alla Repubblica della Italia Centrale il metter salde radici e con minor precipitazione che non li avvenimenti minacciati dall'imminente avvenire ci facessero ieri parere indispensabile. «In grazia di tali rassicuranti novelle, noi consentiamo a subire in santa pace quella specie (ci si perdoni la inconvenienza della espressione) di giuoco di bussolotti accaduto fra ieri ed oggi nel Palazzo della Signoria. «Ad onta di tutto ciò, ad onta di sentirci coll'animo più libero, e colla mente meno angustiata da funesti pensieri, noi non cessiamo però, nè cesseremo giammai, dal deplorare i danni del _provvisorio_, dallo invocarne il pronto e definitivo termine. Noi non cessiamo nè cesseremo di deplorare, come una perpetua e feconda sorgente di discordia e di guerra civile, la presenza di Leopoldo di Austria in Toscana.» L'aria dintorno diventa densa, e infuocata; già si scrivono e già si leggono parole somiglievoli alle grosse goccie di pioggia precorritrici della tempesta; e tempesta di sangue temevasi: nel Popolano del 21 febbraio si dichiara, che la seguente scrittura era dettata fino dal giorno 19: «La grande tela ordita dai Principi è compiuta. Tocca ora ai Popoli il metterla in brani colla punta delle loro baionette e colla mitraglia dei loro cannoni. «La condotta dei Regnanti Italiani si svela oggimai ed apparisce nella sua piena luce. «Pio IX, Carlo Alberto, Re Bomba e Leopoldo d'Austria van perfettamente d'accordo, e congiurano ad un sol fine, ad operare dietro un solo impulso, in un medesimo momento. «Se sulla infamia e sul tradimento di tutti costoro restasse alcun dubbio in qualche credula mente, basterebbe a dissiparlo il vedere, il riflettere come contemporaneamente Radetzky occupi Ferrara, Re Bomba ingrossi le sue truppe ai confini romani, Carlo Alberto le sue spedisca in gran furia a quei di Toscana, e Pio IX, senz'armi e senza eserciti, per far qualcosa, fulmini nuove proteste colla affiochita sua voce dalle spiaggie di Gaeta. «Noi siamo lieti, grandemente lieti di questa potente congiura, perocchè essa è il segnale del definitivo scioglimento della grande questione italiana. «Noi siamo lieti, grandemente lieti nello udire che i Tedeschi sono vicini; e a noi par quasi sentire il nitrito dei loro feroci destrieri, già ci par vedere lo sperpero delle campagne e la fuga de' nobili signori ch'eransi iti a rintanare nei loro aristocratici covi per congiurare contro la patria e contro la libertà. «Nobili infami!... A che cosa vi sarà valso il congiurare, e il seminare reazioni, divisioni, disordini? il far gridare: _Viva il Tedesco, Viva Leopoldo II_? «Oh vedrete, vedrete, insensati quanto iniqui, se il vostro Leopoldo II vi salverà lo scrigno dall'artiglio croato; vedrete, vedrete, codardi, se vi varrà plaudirne lo arrivo per risparmiare le vostre figlie all'oltraggio, i vostri campi e le vostre ville al saccheggio, le vostre fortune al forzato tributo!... «Noi siamo lieti, grandemente lieti, che l'ora della strage, l'ora del sangue sia venuta: ora vedremo, per Dio, quanti siamo d'Italiani in Italia, ora ci conteremo tutti, e il sangue dei traditori bagnerà, insiem con quello del Tedesco, le nostre vie che han d'uopo di un battesimo di sangue acciò lavarne l'onta delle passate ignominie per i corsi romorosi, per le sciocche dimostrazioni, per le festose processioni; per avere, insomma, sostenuto tanti e tanti anni i passi oziosi e lenti di tanti e tanti cittadini inerti, baloccheggianti, perduti dietro puerili vaneggiamenti, immersi in discussioni ozjose, parolaj senza fatti e senza azioni. * * * * * «Si fondano in cannoni le campane, si spoglino le chiese dei vani ori e dei male spesi argenti: si reclutino, marcino, combattano e frati e monaci e preti, come in altri paesi fu fatto; si costringa i contadini a marciare per la difesa comune, e i recalcitranti si pongano dinanzi ai cannoni o ci servano di mitraglia ai nemici: ogni pezzo di ferro, ogni pezzo di bastone sia messo a profitto: ai pali si aggiunga una ferrea punta, e servano ad armar lancieri: si riempiano pure le carceri, purchè si vuoti di nemici lo interno dello Stato. In quanto a noi, ne facciamo sacramento a Dio ed alla Patria, appena la campana del Popolo suonerà a stormo, getteremo a terra la penna, e, impugnando il fucile, sdegneremo riprenderla finchè l'ultimo dei Tedeschi non abbia sgombrato l'Italia, — finchè l'Italia non sia più un nome, ma una nazione libera e vincitrice. «E se questo momento sarà domani, i lettori nostri si tengano per avvertiti, — il nostro Giornale non apparirà che col riapparire del vittorioso vessillo repubblicano fralle mura della redenta Firenze. «Queste nostre parole erano scritte 24 ore innanzi degli avvenimenti di ieri sera.» Più cauta in parole, ma di partiti violenti punto meno bramosa, la _Costituente_ del 21 febbraio predicava: «Cittadini del Governo Provvisorio di Toscana. — Il Paese è minacciato, l'Italia ci domanda soccorso; voi pure avete un debito da adempire, un debito grave e solenne verso la gran madre comune. Gridammo armi ed armati, gridammo denari, energia, impeto di rivoluzione, e di patria carità ardente ed efficace; or come fummo ascoltati? «Battete a dritta ed a manca, _sospingete, sforzate_. Le risorse vi sono, la buona volontà vi corrisponda; l'ardimento dei più vi sorregge; camminate adunque, camminate adunque, camminate liberi e forti. _I ricchi paghino il proprio debito di oro_, come il Popolo generoso offre il proprio sangue; non ismarritevi nell'inestricabile labirinto di minute preoccupazioni, ma seguite la via larga delle misure vaste e risolute. I giorni passano, i giorni sono preziosi e numerati; — che non trascorrano più lungamente senza frutto! — * * * * * «Debbe (il Governo) agire fortemente a reprimere qualunque rinnovazione di minaccie così inique, qualunque possibilità e principio di tumulti. Versiamo in circostanze straordinarie, in mezzo a pericoli supremi; — si adoprino misure straordinarie, mezzi supremi. — L'esempio di Romagna non è da disprezzarsi: si proclami la Legge Eccezionale; essa emana dalla legge normale della salute della patria. «Debbe agire fortemente, per raccogliere denaro, subito e molto. _Prenderlo dov'è, senza troppa esitanza_, poichè ogni altra trafila finanziera non corrisponde alla gravezza istantanea del bisogno. Ori e argenti di tutti, prestito forzato. I Croati a Ferrara, mentre porgono l'esempio, danno stimolo a tutti a concorrere per non subire con vergogna e paura una simile sorte. «E soldati, per Dio! soldati vogliamo. La Guardia Nazionale riorganizzata si offre, anela forse a una mobilizzazione. Ma per questo ha bisogno di esser educata, di avere quel corredo di istituzioni e di armi speciali che possano farla entrare in campagna; si provveda a tutto questo, — si incominci almeno a provvedere. Poi fa d'uopo anche pensare alle armi, di cui vi ha visibile scarsezza. Noi siam ben lontani dall'avere in pronto i mezzi per l'armamento universale del Popolo, qual è nella nostra mente, e qual è _forse_ nel pensiero dello stesso Governo; si procurino dunque le armi, e possibilmente da Venezia, o altrove, nel minore spazio di tempo che può essere concesso. _Armi, soldati e danaro_: è la nostra parola d'ordine, il nostro grido giornaliero, il ritornello incessante a cui siamo legati per coscienza. _Armi, soldati, danaro; Unione con Roma di diritto e di fatto immediata_, è il nostro programma, il codice della nostra politica nelle circostanze presenti. Noi lo verremo sempre ripetendo e insegnando, ec.»[415] Per questi successi ed eccitamenti, Toscana agitavasi tutta. Il Governatore Pigli, non curata la condizione apposta dal Governo al proclama della Repubblica, la bandisce assolutamente: «La Repubblica è proclamata. Il Popolo è Re. — Guai a chi tentasse strapparti lo scettro pagato per lunghi secoli con le lacrime, e il sangue, e le opere della più sublime virtù, della quale ti conserverai, ne sono certo, indefettibil campione. «Popolo, compi i tuoi gloriosi destini! Pensa, che la tua capitale è Roma, che la tua patria è la Italia; chi ti conferisce lo imperio è il tuo diritto! Chi ti consacra è Dio. Viva l'Italia. Viva la Repubblica. «Livorno, 19 febbraio 1849. — C. PIGLI.» E senza neppure consultare il Governo, nella ebbrezza del trionfo, ed ormai considerandosi dei Capi, o prossimo a diventarlo, della bandita Repubblica, ecco istituire un giorno di feriato, con tutte le sue sequele; al quale scopo è necessaria una legge, che per certo non istà nelle attribuzioni di un Governatore promulgare. «Cittadini! «Per festeggiare il presente memorabile giorno, viene disposto che il medesimo a tutti gli effetti di ragione debba considerarsi come feriato solenne, e che non si possa quindi procedere al protesto delle cambiali, ed altri recapiti mercantili. «Livorno, 19 febbraio 1849. «C. PIGLI.» E in altro Proclama affermava: «La Repubblica è stata proclamata ieri in Firenze con l'adesione del Governo, _il quale ha bensì impegnato quella città_ a dare in questo stesso giorno 2000 uomini.»[416] Questo non era vero. Il Governo aveva mandato: «La Repubblica è stata proclamata. _Il Governo l'ha accettata a patto, che il Popolo fiorentino dia per domani 2000 uomini armati_.»[417] Ma al Pigli, ed ai suoi nuovi amici, importava far credere diversamente. Su l'ora della mezzanotte _le Deputazioni_, forse unite in gran parte, e certo indettate con i partigiani di Firenze, piuttosto stizzite che vinte, volendo sgarare chela Repubblica andasse innanzi ad ogni modo, con bande, gridi e schiamazzo infinito, destano la città, e abbindolati i cittadini piantano l'Albero della Libertà, e proclamano la Repubblica. «Tutto era calma e tranquillità per la fiducia degli uomini che reggevano il Governo: quando alla mezza notte il ritorno improvviso delle Deputazioni da Firenze spargeva la lieta novella della proclamazione della Repubblica in Toscana, dell'adesione di quei Tribuni generosi alle volontà manifeste di un Popolo ivi raccolto da tutte le Provincie. Livorno sebbene a quell'ora tarda prendeva immediatamente un aspetto festivo: bande musicali percorrevano le vie, ed il Popolo acclamava con mille evviva a quell'atto solenne d'italiana rigenerazione. Un Albero della Libertà contornato di bandiere tricolori era piantato come per incanto nel mezzo della piazza, fra il suono a festa di tutte le campane e le grida alla Repubblica, a Roma, a Venezia, a Sicilia, a tutti i fratelli d'Italia: il nuovo sole sorgeva ad illuminare il più gran fatto nel nostro risorgimento.»[418] Il Governatore di Livorno intanto, come colui che guarda per vedere se il tiro ha colto nel segno, scrive a ore tre pomeridiane del 19 febbraio al Ministro dello Interno: «Qui è stata fatta una solenne manifestazione per festeggiare la Repubblica _Toscana_. Oggi alle quattro si canterà il _Te Deum_. È necessario bensì smentire immediatamente una voce, che comincia a circolare _intorno la dimissione del Guerrazzi_ e del Montanelli, e la istallazione al Governo di soggetti che non sarebbero graditi. È di assoluta necessità pronta risposta.»[419] Che cosa fu risposto? L'Accusa dagli Archivii Governativi ha tolto quello che le piacque, poi chiudendoli si è posta la chiave in tasca, e ha detto a me che li voleva esaminare per conto mio: «Concedertelo non dipende da me, figliuolo; e quando dipendesse da me, tu devi indovinare prima, o rammentare quello che contengono, ed esporne il contenuto: allora giudicherò io quali delle carte possono fare al caso tuo, e quali no; lasciati governare da me, rimettiti nelle mie braccia: vieni, addormentati sul mio seno; se le mie mammelle contenessero latte, te le porgerei a poppare. Ad ogni modo, avendo me per tutrice, sto per dire che tu se' nato vestito, io provvedo a tutto, e credi che lo _todo lo que hazo, lo hazo per to bien_.» Tenerissima Accusa! Da Pisa il Prefetto Martini, a ore 1 pomeridiana, avvisa il Ministro dello Interno, per via telegrafica: «Il Popolo è adunato numeroso volendo proclamare la Repubblica, sia _vera_ o _falsa_ la notizia che lo stesso è avvenuto a Firenze. _Molti cittadini s'interesseranno per trattenere questo atto_, ma ormai pare inevitabile. Batte la generale. Si dice fatto altrettanto a Livorno, quindi la mossa di Pisa.»[420] Il tenore di questo Dispaccio dimostra chiaro, che il Prefetto Martini, corrispondendo alle istruzioni del Governo, s'ingegnava con altri a parare quel colpo, ma che disperava venirne a capo. A Siena già nel giorno 20 febbraio, erano tutti Repubblicani per convinzione o per paura.[421] Grosseto nel 20 febbraio bandiva anch'essa la Repubblica, e piantava l'Albero.[422] Partito appena S. A. da Porto Santo Stefano, fu nel giorno 22 di febbraio salutata la Repubblica.[423] Intanto in Firenze si agitava segreta la cospirazione, che scoppiò nella notte del 21 febbraio 1849; infaustissima fu quella notte, ma più infausto giorno le poteva tenere dietro. Il _Monitore_ ne dava ragguaglio nella guisa che già fu detto a pagine 279-282 di questa Apologia. Ho esposto altrove, e con documenti provato, come Giuseppe Montanelli facesse opera veramente cristiana salvando dal furore del Popolo la gente arrestata, e come in tanto stremo il Governo con provvido consiglio ricorresse al Circolo medesimo, impegnandolo a mandare taluno dei suoi concionatori tanto efficaci a rimescolare le moltitudini, perchè inspirasse loro sensi di carità e di mansuetudine. Se poi mi domandassero perchè io affermi essere stato cotesto savio consiglio, mi parrebbe dovere rispondere, che gli uomini i quali non sieno del tutto perduti ordinariamente s'ingegnano mostrarsi meritevoli della fiducia, che in essi viene riposta, e quantunque ai giorni nostri i traditori non sieno appesi, e molto meno s'impicchino da sè, pure quel brutto nome di Scariotte a nessuno accomoda. Così Lamartine condotto dal medesimo concetto, che animò (ne sono convinto) i miei Colleghi, creava la _Guardia mobile_ a Parigi togliendo al disordine le forze per conservare l'ordine: egli se ne loda, e credo, che in questa parte abbia ragione.[424] E qui faccio tregua con le citazioni, osservando, che se lo edifizio non riuscì come avrei desiderato completo, non è mia la colpa; però desiderando, piuttosto che sperando, non essere tratto a compirlo, basterà quello che fu detto per somministrare notizia dei tempi; imperciocchè Ogni erba si conosce per lo seme. Ora io voglio un poco confrontare questi nostri successi con altri, i quali, a un punto più celebri e più terribili, hanno dato al mondo una lezione di spavento. § 2. _Confronto storico._ Nel 1792 erano in Francia uomini infiammati nei cerebri dai vapori delle speculazioni astratte, i quali reputando, che il male degli uomini derivasse non già dalle ree passioni che gli agitano, bensì dalla forma della Società, come se non fossero essi e le opere loro che gli hanno ridotti nello stato in cui sono, drizzarono la mente a capovolgerla di cima in fondo. Però non tutti accordavano su i fini, nè penso, come allora, in futuro saranno per accordarsi giammai; e questo è sommo bene. Alcuni di loro intendevano, mercè le riforme politiche, arrivare alle sociali; altri alla rovescia, nè tutti volevano trascorrere fino al punto di abolire la fede di Dio; e quelli che pur volevano cassato Dio, più che altro sembravano Titani ciechi brancolanti in cerca di scogli per avventarli contro il cielo; e negli scritti e nei ragionamenti loro manifestavano piuttosto la convulsione della rabbia, che un discorso considerato della mente. Spettava ai giorni nostri sopportare la vista di uomini, che lontani dai ravvolgimenti politici, con la pacatezza del filosofo, e la soavità dell'uomo dabbene, si affaticano a dimostrarti per filo e per segno, che tu non sarai felice mai là dove tutta questa macchina morale, civile, religiosa e politica, non vada in fascio. Certo, chi dette simile impulso ai moti rivoluzionarii del tempo, sortì grande la potenza dello ingegno. Lo spirito del male lo deve avere baciato proprio su la fronte dicendogli: tu sei il figliuolo della mia predilezione. La grande maggiorità dei diseredati, che forma la base della piramide sociale, gl'infiniti figliuoli della Natura, che dalla madre loro credono essere stati benedetti con uno schiaffo, poco si commuovono per Repubblica o per Monarchia; imbestiati dal miserabile costume i grossolani appetiti è forza gratificare dapprima; più tardi verranno i bisogni dello spirito, e il desiderio di razionale reggimento, tanto più duraturo quanto meglio gli uomini saranno ad apprezzarlo capaci. Lasciamo che questo avviso assai si rassomigli a quello di dar fuoco alla casa, nella speranza che ci venga rifabbricata più bella; egli è certo che per isconvolgere la Società non si poteva inventare leva più pericolosa, nè più sicura di questa. — Noi vediamo ordinariamente i Partiti intenti a distruggere, venire a capo dei concetti disegni per due precipui motivi: primo, perchè su le mosse vanno di accordo, quantunque più tardi pieghino chi a destra, e chi a sinistra, chi di loro vuole trascorrere, e chi stare fermo; tuttavolta siffatte discrepanze lo Stato già sconvolto rendono infermissimo: secondo, perchè l'assalto procede sempre più fervido della difesa, nè lo assalito può in un punto da tante parti salvarsi, e l'assalto gli sopraggiunge addosso continuo, impreveduto, e difficilmente prevedibile. Un rimedio ci è, o almeno, se non basta questo, agli altri è inutile pensare; ma lo vedo respinto, però che come tutti i farmachi sappia un po' di ostico a cui ha il gusto avvezzato a malsani dolciumi. Gli umori rivoluzionarii tengono della natura di quelle infermità, che, per ispogliarle del maligno, bisogna inocularle. Il reggimento costituzionale, da senno praticato, sarebbe la vaccina salutare; ma tanto è, le vecchie balie non ne vogliono sapere, e gli armano contro tutti gli errori per questa volta non popolari, ma signorili; intanto il male cova, e a tempo debito se non ucciderà il fanciullo, te lo lascerà concio, che Dio ve lo dica per me. Le grandi Assemblee di rado trascendono ad enormezze, o, se pure irrompono in quelle, durano poco; e là dove per istituto si ragiona, se qualche volta la passione accieca, anche a tastoni, la via diritta smarrita io ho veduto ritrovare sempre; però i Rivoluzionarii di professione le Assemblee e i Poteri costituiti detestano, o se gli sopportano, vogliono ad ogni patto dominarli. I Rivoluzionarii in Francia avevano, a vero dire, seguito grande nell'Assemblea legislativa in virtù dei Deputati che per sedere sopra i più eccelsi scanni si chiamavano Montanari, e per la pressione delle conventicole; e nonostante questo, non pareva loro essere sicuri a bastanza, ove del tutto non la riducevano in servitù. Se l'Assemblea voleva vivere, doveva rassegnarsi, ed essere nelle costoro mani quasi un suggello, per legalizzare le immanità che si accingevano a commettere. Così, per siffatto disegno, la Comune accanto all'Assemblea a poco a poco diventò Governo; in seguito più che Governo. Nel Palazzo Municipale si radunarono i più violenti; di là spaventarono, quivi usurparono, là ordirono in segreto quanto in palese non avrebbero mai osato, non che fare, dire. Qui fra noi mancava l'Assemblea. La eletta con l'antica legge elettorale, oltre all'essere stata disciolta per volere del Popolo, nè si sarebbe attentata di adunarsi, e se adunata, avrebbe fornito materia allo infuriare della moltitudine, che pure si voleva attutire. Ora io ho veduto che per placare il toro, non gli si agita mica davanti gli occhi la bandiera vermiglia che odia, e trema; ed è eziandio così da avvertirsi, come da evitarsi che le prime offese chiamino le seconde; imperciocchè la vittoria insuperbisca, e quello che ti riesce ottenere dalla paura, che poca o molta accompagna sempre la prima esperienza della forza, invano chiederai dopo la prova riuscita prosperosa per coloro che intendi reprimere. Però di questo a suo luogo più copiosamente. Intanto reggeva il Governo Provvisorio; per sua natura debole; sostenitore degli ufficiali governativi piuttosto, che sostenuto da quelli. A questo gli ufficiali tutti, a questo i cittadini, amorevoli o no, pongano mente, poichè all'Accusa non preme badarvi: che il Governo Provvisorio potè salvare uomini e cose, fondato appunto sul transitorio, che gli serviva di pretesto a non imprendere mutamenti; — uscendo nel definitivo per impeto di passioni rivoluzionarie, pensate un po' voi dove vi avrebbe balestrato cotesto turbine. La Fazione violenta riusciva a sforzarmi in molte cose, non in tutte, nè nella suprema in ispecie, presso cui le altre erano nulla: di qui l'agonia di volere ad ogni patto imposta la Repubblica a tumulto, e di qui, trovatomi oppositore e custode dei diritti dell'universo Popolo, il proponimento palese in molti, segreto in taluno, di sostituire al Governo Provvisorio un Governo che la desiderata Repubblica proclamasse. In Francia la stampa della Opposizione, spaventata, tace; dei tipi e dei torchj si spoglia, e ai propagatori delle opinioni rivoluzionarie si donano: qui pure alla stampa, nemica della violenza, voleva imporsi silenzio. In Francia i Rivoluzionarii intendono impadronirsi di quella facoltà, la quale mentre dura la tempesta degli sconvolgimenti politici non merita più essere chiamata Giustizia, e neppure diritto di punire, ma sì piuttosto potenza di mal fare, conciossiachè, ottimamente avverte il Thiers,[425] arrestare e perseguitare i supposti nemici formi per i Faziosi principalissima e ambitissima libidine. — Quale e quanta poi sia la tristizia e la rabbia delle persecuzioni politiche, non importa discorrere! — Donde nascesse la prima radice dei Tribunali rivoluzionarii di Francia, insieme con gli altri Storici lo dichiara Luigi Blanc: «La mollezza e la esitanza dei Poteri governativi da una parte, e dall'altra il sospetto e la paura fanno nascere la prima idea del Tribunale rivoluzionario. Dupont di Nemours fu che il propose; e per questo modo dalle mani di un Consigliere di Parlamento furono poste le basi del Tribunale rivoluzionario.»[426] La Storia, non senza che le tremi nella destra lo stilo, registra nelle sue tavole, come a sbramare le rabbie della scapigliata licenza e del bilioso assolutismo non fecero mai difetto uomini tristi; i quali comecchè vestissero toga nè nome di Magistrati meritarono, nè Magistrati furono; come per vetro traverso a loro si vedeva il carnefice. E che cosa importarono quei luridi scartafacci curialeschi, martirio della ragione umana, e scuola di calunnia? Chi ingannarono? Dio forse, o la coscienza propria, o gli uomini? Ah! nessuno, nessuno ingannarono; avrebbero operato più presto e più lealmente, a prendere una pietra e mettersi ad affilare il taglio della mannaia. Deve essere profonda davvero la satanica voluttà di abbracciare il male, e dirgli: «Tu sei il mio bene!» se la vendetta umana spesso, e la divina sempre, il disprezzo presente, la esecrazione dei posteri, e le visioni della notte e i terrori del giorno, non bastarono a rattenere dal truce mestiere. Ahimè! Che importa che Fouquier-Tinville, giudice carnefice della tirannide libertina, muoia come Ciro nel sangue che ha versato? Che giova che Jefferies, giudice carnefice della tirannide regia, spiri ammaccato dai colpi come un lupo? La morte loro non richiamerà dal sepolcro l'illustre Bailly, la egregia Madama Roland, le pie Granut e Lady Lisle, e Cornish innocentissimo. Io non ardisco interrogarlo, — ma è ben profondo, ben soverchiante la ragione nostra, il consiglio — per cui vedemmo per le Storie la nequissima stirpe di cotesti due togati carnefici rinnovellarsi copiosa, mentre fu scarsa quella di Papiniano che osò guardare in volto Caracalla, e dirgli: «essere più facile commettere il fratricidio che scusarlo.» E qui non pure tra noi si pretendeva che il Governo instituisse Tribunali rivoluzionarii; ma i Faziosi, già già diventati Governo da per sè stessi, siffatti Tribunali creavano, i loro Giudici carnefici eleggevano, uno esercito di mille cagnotti ad accompagnarli disegnavano. Il Governo Provvisorio queste infamie impediva, e, fingendo adempire egli alle sformate voglie della Fazione, mutava in comune salvezza quello che nelle mani altrui sarebbe stato esizio universale. Lo impugnate voi? Su, vengano innanzi le vedove che abbiamo fatto, escano fuori gli orfani per causa nostra, e ci pongano accusa. La pena più lunga, che fu applicata dal Romanelli, questo nuovo Carrier del contado aretino, non arriva al terzo della nostra carcere di custodia! In Francia, a Parigi segnatamente, spaventavano le persone, solite a trovarsi in tutte le Capitali, per costume depravate, d'istinto feroci, per abitudine di trambusto fatte convulse, perpetuamente oscillanti fra lo ergastolo e la taverna; tanto più rese terribili adesso, che sciagurati predicatori le ammaestravano a colorire le inique passioni con la politica. — Fra noi terribili erano gli scherani nostri, e non pochi, ma non sì, che, come in numero, in ferocia non venissero superati da quelli che ci mandava la vicina Romagna, cui pure adesso con molta fatica contiene grossa mano di armati, vigilanti ai confini. Vedete in Francia uomini improvidi del domani, non aborrire accendere oggi uno incendio, che non sapranno più spegnere, e dal quale eglino stessi rimarranno a posta loro distrutti; e Cammillo Desmoulins, stracciando lo ingegno bellissimo, gittarne i brani al Popolo feroce, per vie più inferocirlo. «Abbiamo uno esercito, egli diceva, latente sì, ma ordinato e in procinto. Nè causa al mondo fu della nostra più sacra per combattere; nè premio maggiore destinato alla vittoria. Quarantamila palazzi, case, castelli, due quinti delle terre di Francia, ecco il bottino di guerra. Chi presumeva conquistare sarà conquistato, chi vincere vinto. Il Popolo andrà mondato dagli stranieri, e dai mali cittadini; e tutti quelli che il bene proprio al bene comune preferiscono, saranno sterminati.» E qui tra noi si urlava: «I danari si piglino dove si trovano, le Chiese dei sacri arredi si saccheggino, a viva forza i signori si spoglino, e le spoglie si dividano fra il Popolo, caparra e saggio di più abbondante raccolta.» E' furono giorni pieni di pericolo cotesti; e chiunque comprende quanto efficace maestro sia il bisogno, e quanto la cupidigia docile scolara, ne andrà persuaso di leggieri. I miei Colleghi furono stretti a mettere una Legge nel 22 febbraio, con la quale fu ordinato ai benestanti ripatriassero; dove no, sarebbero multati: ma nessuno fu multato, e vagarono quanto seppero e vollero; — testimone Don Tommaso Corsini. Questi eccitamenti non avendo trovato in Francia nel Governo quei supremi contrasti che in Firenze trovarono, bensì plauso ed istigazioni, ecco in breve spazio di tempo in quali fatali rovine fu visto precipitare quel nobilissimo Stato. — Parte di Popolo ardeva i castelli, ne decapitava i padroni; le mozze teste fitte sopra le picche, trionfo infame, portava in processione per le strade; dai braccioli di ferro dei lampioni pendevano cittadini impiccati; e l'altra parte del Popolo plaudiva e urlava; qualche volta ancora, tratto argomento di arguzia dalla nefanda tragedia, rideva. Desmoulins, furente di rabbia rivoluzionaria, assumeva il titolo di _Procuratore Generale del Lampione_. Oppressione antica nel reame di Francia, governativi errori, insolenze patrizie e abusi universali, di lunga mano apparecchiarono il bisogno di riforme; peregrini intelletti somministrarono argomenti e favella al gemere lungo del Popolo; forse il Principe cedeva, ma i Privilegiati non vollero, meno teneri della Monarchia che di sè stessi, ed invidiosi che questa, sviluppandosi da loro, senza loro durasse. Tutto lo edifizio monarchico e feudale doveva salvarsi o perire, e ciò parve amore, e veramente fu astio; ma così amano sempre i Partiti: — próstrati a terra, e adorami; io ti darò i regni della terra. — Satani sempre, e a tutti; anche a Gesù! — Di qui ebbero origine, da un canto, le trappolerie, gl'inganni, e le slealtà, poi le mene segrete, al fine le scoperte opposizioni; e dall'altro, rancori, rabbie, pretensioni quotidianamente crescenti, e il subentrare continuo dello impeto della passione ai nobili discorsi del pensiero; poi, aumentando lo scambievole odio, si venne alle ingiurie; il trapasso all'offesa fu breve; quegli ebbero ricorso alle forze ordinate del dispotismo, questi alle forze scomposte dell'anarchia; i primi, se avessero vinto, avrebbero ucciso la Libertà stringendole il collo; i secondi, vincendo, la condussero a morte aprendole le vene. Il sospetto non chiuse più occhio, e la vigilia infiammò il sangue del Popolo; e siccome quanti più scalini scendiamo per la scala della ingiustizia, sempre più copiosi troviamo i motivi di offendere, al sospetto, alla miseria, alla cupidità, al furore ecco accompagnarsi la paura; fra i cattivi consiglieri, pessimo: — la paura, Ciclope acciecato, che di tutto teme, anche dei camposanti, però che il vento che zufola per le croci le metta spavento; onde impreca alle croci, e vorrebbe anch'esse sepolte. Pareva che ormai la ferocia degli uomini avesse toccato il fondo del suo inferno, e non era niente; l'ultima furia e la più truce di tutte dormiva sempre. Negli ultimi giorni di agosto 1792, si sparge la voce in Parigi, i Prussiani, espugnato Longwy, accostarsi a Verdun. Male davvero conosce la natura delle rivoluzioni chi pensa che siffatte novelle giovino ad abbattere gli animi esaltati; la rabbia vedemmo allora diventare delirio, e destarsi e stendere le braccia insanguinate la furia delle vendette. Il sospetto cerca le cospirazioni pronte a scoppiare, spesso le immagina, qualche volta le trova, la paura l'esagera, e nella propria sua ombra teme il sicario; la minaccia esterna inasprisce, facendo, per così dire, rientrare nella massa del sangue la infiammazione della cute, e un grido sussurrato di orecchio in orecchio a voce sommessa, come si costuma ai funerali, dice: «Siamo traditi, il _pericolo delle armi_ sta lontano, e non è quello che ci _stringa più urgente_; il pericolo sta qui nei nemici che abbiamo in casa. I Generali alla frontiera badano ai Prussiani, noi qui dentro dobbiamo badare agli aristocratici cospiranti sempre contro la Libertà.[427] La causa della rivoluzione potrà salvarsi, se accorriamo tutti ai confini; ma lasciandoci dietro le nostre famiglie abbandonate, i nostri nemici le trucideranno; dunque è necessità mettere mano al sangue: forse la causa della rivoluzione soccomberà, dunque vendichiamoci anticipatamente della temuta disfatta sopra questi aborriti, che dispererebbero la nostra agonia con gl'insulti del trionfo; sia che vinciamo, sia che perdiamo, bisogna far sangue.» Riandate col pensiero le citazioni allegate nelle pagine precedenti, anzi aggiungetevi anche questa: «Per combattere il nemico straniero bisogna non _temere che il nemico interno c'insidii e ci minacci alle spalle_. La Fazione, non c'inganniamo, è numerosa, e potente. La coscienza della causa dà il debito, e il diritto della vittoria: _questo fa legittimo, e sacro ogni mezzo_;»[428] e vedete se la mossa del Laugier partoriva in Firenze i medesimi furori. Lascio la decadenza del Principe gridata a furia; lascio la Repubblica proclamata per _gittare_, come dicevano, un _fatto compíto_ davanti ai suoi nemici; non ricordo il bando di traditore posto addosso dalle turbe invelenite; ma, con ribrezzo, mi trovo costretto a rammentare la empia gioia della vicina strage, gli eccitamenti orribili a purgare con battesimo di sangue le strade della nostra città: e qui mi taccio, perchè nel ravvolgermi per queste memorie mi prende al cuore una tristezza infinita, che poco è più morte. Confrontate il linguaggio, che qui si udiva, in Toscana, con quello, che costumavasi in Francia, e ditemi poi se i giorni del terrore vi paressero imminenti! «I motivi sono eglino puri? Il fine approfitta la Rivoluzione? Giova o no alla causa della libertà? — Ciò basta... Si deve parlare della Rivoluzione con rispetto, e dei provvedimenti rivoluzionarii co' riguardi che meritano. La Libertà è una vergine di cui è colpa sollevare il velo.»[429] Vedete se qui come in Francia proclamavasi la sentenza, ai Rivoluzionarii non pure spettare il diritto, ma incumbere il dovere di fare di ogni erba fascio per salvarsi: «empia massima e atroce, che somministra ai minacciati il diritto di combattere con armi pari, e distrugge lo Stato Sociale per surrogarvi la guerra.[430]» Siffatti eccitamenti condussero in Francia le giornate del settembre. Che cosa pagherebbe mai la Francia per potere strappare coteste pagine dal volume della sua storia? Forse quelle che narrano dei gesti del Condé; e se non bastassero, ci aggiungerebbe le altre che parlano del Turena; e, se più si volesse, anche quelle di Napoleone; e finalmente quante altre mai favellano di gloria, purchè cotesto vituperio cessasse. Nè dovrebbe reputarsi troppo caro il riscatto, conciossiachè i Popoli s'infamino peggio pei fatti scellerati, che non si esaltino pei gloriosi. Coloro che quelle immanità ordinarono non ne sentirono rimorso, almeno sul momento; all'opposto, le confessarono come provvidenza necessaria di Stato; e questo avviene quante volte, pervertito ogni senso morale, il cervello guasto dai sofismi pesa sul cuore come una lapide di sepolcro: quelli poi che l'eseguirono n'ebbero orrore; ed anche questo è ragione, perchè il Popolo traviato dalla passione chiude le orecchie alla voce della coscienza, ma per via di cavilli non sa strozzarla. E avvertite, che non per ordine dell'Assemblea, ma in onta sua, fu commessa la strage. I violenti l'avevano soverchiata instituendo Governo fuori del Governo, per quei tempi onnipotente quanto feroce. La Francia spaventata imparò lo eccidio del settembre per via di questa Circolare spedita dal Comitato di Salute Pubblica col sigillo del Ministro della Giustizia: «Prevenuto che torme di Barbari si avanzavano contro la Francia, la Comune di Parigi usa diligenza ad informare i fratelli di tutti i Compartimenti come una parte degl'iniqui cospiratori detenuti nelle prigioni è rimasta spenta per virtù del Popolo. Comparve necessario questo atto di _giustizia_» (e sempre _giustizia_ rammentasi da coloro che meno vogliono e sanno adoperarla) «per contenere con la paura le legioni dei traditori chiuse dentro le mura, mentre stavamo in procinto di muovere contro il nemico; e il Comitato non dubita che il Popolo di Francia, dopo la serie dei tradimenti lunghissima la quale lo spinse su l'orlo dello abisso, si studierà imitare questo partito tanto vantaggioso quanto necessario, e dirà come il Parigino: — Noi correndo contro al nemico non lasceremo dietro a noi scellerati che scannino le nostre mogli ed i nostri figliuoli...!» I posteri incolpano meritamente la memoria del Danton, come partecipe ed eccitatore di cotesti misfatti; ed è da credere che dove risolutamente vi si fosse opposto, forse gli sarebbe venuto fatto stornare tanta sciagura dalla Francia, tanta infamia dal suo capo; però che la voce del Magistrato sia autorevole a dissuadere le turbe da promiscue stragi, come da qualsivoglia altro atto di efferata barbarie, dalla quale per religione, per educazione e per naturale istinto esse repugnino: e bene ammonisce il signor De Barante nei frammenti citati, che il Danton, stimolando la plebe a insanguinarsi, non fece affatto prova di audacia, bensì di codardia, solita nei capi di parte, che, _per mantenersi in favore dei proprii soldati, alle voglie loro, quantunque disordinate, sempre vilissimamente acconsentono_. E di vero il Danton invece di trattenere, ecco come spingeva la plebe: «Il dieci agosto ci ha divisi in Repubblicani e in Realisti: poco numerosi sono i primi, molto i secondi. In questa debolezza noi ci troviamo esposti a due fuochi; a quello dei nemici fuori, e all'altro dei realisti dentro,» e concludeva col truce attraversare della mano su la gola, e colle più truci parole: «Bisogna atterrire i realisti!»[431] Così procedono i fomentatori della Rivoluzione, e non la trattengono, nè il proprio corpo in mezzo alla strada attraversano, affinchè il carro sanguinoso si arresti. La sentenza gravissima del signor De Barante, da noi riportata poco anzi, ci porge occasione, confrontandola con certe parole dell'Accusa, a dimostrarne la manifesta stupidità. Costretta l'Accusa a confessare con amarezza inestimabile com'io mi fossi valoroso oppositore delle più _accese voglie_ della Demagogia, subito dopo, per cancellarne il merito, aggiunge che questo feci per conservare nelle mie mani il male acquistato potere. Innanzi tratto la mia autorità, per sua natura transitoria, non poteva prorogarsi che per ispazio brevissimo di tempo, sia che l'Assemblea deliberasse la Repubblica, sia piuttosto che il Principato costituzionale restituisse; nel primo caso, è da credersi che non avrebbero scelto a governare la Repubblica, _tale che accusavano averla contrariata_; nel secondo, di questa pasta non si fanno Principi, e penso che non ci bisogni dimostrazione. Ancora: non qui in Toscana, ma a Roma, il Potere Esecutivo e i Ministri sarebbersi dovuti eleggere; onde se in me fosse stata vaghezza di durare al governo con la Repubblica, e commettermi alle sue fortune, insensata opera faceva travagliandomi ad avversarla in Toscana: lasciato quaggiù, come suol dirsi, sacco e radicchio, avrei dovuto prendere le mosse verso Roma, dove supremo seggio, più volte, mi avevano offerto, e l'ho provato altrove. — Per durare al potere, in virtù del beneplacito della moltitudine, signora assoluta delle cose, nuova arte c'insegna l'Accusa. — La Storia ci mostra come i vogliosi di dominare abbiano sempre piaggiato, non contrastato il Popolo; ma che cosa cale all'Accusa di Storia? Ella sa di dire sempre bene. Anche Cromvello e Napoleone, che furono così assoluti e si sentivano gagliardi su le armi, si gratificarono i Popoli con ogni maniera di lusingheria. Perpetuo aborrimento loro erano i corpi deliberativi; sicchè quando vollero dominare signori, Cromvello nell'aprile del 1653, invaso il Parlamento co' suoi soldati, ne cacciava a vituperio i Deputati, e chiusa la sala se ne ripose la chiave in tasca, ordinando che vi appiccassero un cartello che dicesse: «_Stanze da appigionare._»[432] Buonaparte, nel novembre del 1799, faceva saltare, a San Clodio, dalle finestre i Membri del Consiglio dei Cinquecento.[433] Io convocai l'Assemblea Costituente toscana, perchè delle sorti toscane statuisse nello spazio di tempo che mi fu dato più breve. Adesso come, — esclamerà l'Accusa levando le mani al cielo, — con paziente animo può sopportarsi in bocca di questo bagnato e cimato prevenuto sì superbo vanto! Possono eglino questi agnelli toscani paragonarsi co' lupi parigini del 1792? Dove il coraggio, dove le mani sariensi trovate per far sangue? _A diversis non fit illatio._ Abbassa le mani, Accusa, e ascolta: già non sono io che queste cose penso essere state possibilissime qui; ma tu, che descrivi la Fazione con tali orribili colori, che se fosse stata composta di tanti diavoli scatenati dallo Inferno, non avresti saputo e forse nè anche voluto fare peggio. Ma io metto, che fosse mansueta quanto una vergine, eppure anche di questa il buon Parini filosoficamente poetando insegnò: «Ahi da lontana origine «Che occultamente noce «Anco la molle vergine «Può divenir feroce...» Oppure tu pretendi, o Accusa, la Fazione pusillanime e codarda? E per questo appunto la si doveva temere spietata. La virtù, che si esercita gagliardamente contro la resistenza, si arresta dinanzi al nemico supplichevole di mercede: ma la pusillanimità, per vantarsi, che anch'essa fu della festa, non potendo mostrarsi nella prima opera, si prende per sua parte la seconda, che è di sangue, e di strage. I macelli dopo le vittorie ordinariamente commettonsi dai bagaglioni, e dai saccardi, e la cagione delle immanità inaudite, per le quali le guerre civili diventano infami, consiste appunto in questo, che la plebe imbelle gavazza nel tuffare le braccia fino ai gomiti nel sangue e nel cincischiare un cadavere steso ai suoi piedi, sentendosi affatto di prodezza incapace: _Et lupus, et turpes instant morientibus ursi,_ _Et quæcumque minor nobilitate fera est._ Narrano le Storie che Alessandro crudelissimo tiranno di Fere, mentre si deliziava a ordinare i veri strazii di tante infelici vittime, non poteva soffrire i finti di Andromaca e di Ecuba rappresentati sopra i teatri. L'Imperatore Maurizio essendo avvertito in sogno e per altri prognostici, che un Foca soldato in allora sconosciuto lo avrebbe messo a morte, interrogò il suo cognato Filippico intorno ai costumi, alla indole, e alle azioni dell'uomo, ed intendendo com'ei si fosse pauroso e codardo, ne concluse subito, ch'egli doveva essere ancora omicida e crudele.[434] Leggi, Accusa, il grave De Barante, e t'insegnerà come anche in Francia la sete del sangue a poco a poco si sparse, e a poco a poco crebbe; saprai che nello esordio della strage dei prigioni della Badía gli ammazzatori se giungevano ai cinquanta non li passavano; vedrai come alieni molti di costoro da così immani delitti, al cessare del delirio che gli aveva invasi, presi da malinconia, agitati da visioni notturne, diventassero matti; udrai come uno armaiolo, detenuto nel carcere della _Conciergerie_, al quale i sicarii fecero patto salvargli la vita se gli aiutava a scannare, accettasse, ma, dato il primo colpo, gittasse via il ferro micidiale, e gridato con quanta voce aveva in gola: «Uccidetemi; io eleggo essere piuttosto vittima che carnefice!» cadesse trafitto martire della sua umanità;[435] e se ne avrai voglia, apprenderai «come dato una volta il segno, e prevalsa la idea che bisogna sacrificare vite per la salute dello Stato, tutto si disponga a questo atroce fine con incredibile agevolezza. Ognuno opera senza repugnanza, e senza rimorso; la gente vi si abitua nel modo stesso che il magistrato a condannare, il chirurgo a vedere gl'infermi patire sotto i suoi arnesi, il generale a spingere ventimila uomini alla morte. Viene composto un fiero linguaggio corrispondente alle opere; e perfino si trovano motteggi e lepidezze per esprimere idee di sangue. Ciascuno corre strascinato, intronato dal moto universale; e furono visti uomini, i quali nel giorno innanzi si occupavano pacifici di arti o di commercio, trattenersi con la medesima facilità di distruzione e di morte.»[436] Sicchè per queste e per altre notizie, tu, se ne avrai talento, potrai, o Accusa, conoscere come un Popolo lieto, giocondo, amabile, ai sensi di carità di leggieri inchinevole, religioso così che mediamente ebbe nome di cristianissimo, mutato, in breve giro di tempo, genio e costume, vincesse d'immanità assai le più feroci belve, e rinnegasse non solo i riti religiosi, non solo lo Dio dei suoi Padri, ma tutto Dio, e facendo l'anima morta col corpo, operasse da bruto. Veramente ogni Popolo presenta una sua speciale fisonomia; però andrebbe errato di molto colui che presumesse in queste nostre parti occidentali tanto un Popolo dall'altro diverso che, sottoposti entrambi al medesimo impulso, uno dall'altro, agendo, differisse; questo starebbe contro il naturale ordine delle cose e contro la esperienza quotidiana. Nelle medesime condizioni di civiltà tanto più si livellano i pensieri, gli appetiti e gl'impeti, che anche in condizioni differenti gli abbiamo veduti procedere a un di presso uguali. Così, a modo di esempio, nella peste di Milano del 1630 il Popolo ebbe fede alla presenza degli untori, e furono processati e morti, imperciocchè quale infamia, qual tirannide e quale errore patirono penuria di _Giudici_ per sentenziare, di Carnefici per _giustiziare_? E nella moría del Cholera chi di noi non rammenta avere udito gente, e non mica di piccola levatura, bensì di ordinario discorso dotata, affermare che uomini perversi, toccando con arnesi imbrattati, il mortale morbo trasfondevano? — E mentre questi successi accadevano sotto i miei occhi a Livorno, non leggevamo di cittadini dabbene precipitati dalla credula plebe parigina nei pozzi, perchè temuti manipolatori di veleni _cholerici_? Qui, come in Francia, sconfortate le moltitudini e indifferenti, e ce lo racconta la stessa Accusa;[437] qui la forza pubblica inerte; qui sciolti i vincoli politici, rilassati i religiosi; qui insomma poteva a buon diritto ripetersi quello che Garat Ministro dello Interno diceva all'Assemblea: «Enormezze incomportabili in Parigi quotidianamente commettonsi, e temesi peggio. La forza pubblica rimane spettatrice inoperosa, e si scusa adducendo difetto di ordini: intanto, prima che gli ordini arrivino, i perversi ragunano il Popolo, lo infiammano, lo strascinano, e il male cresce irrimediabile.» No, — senza supremo di Dio benefizio, a cui prima dobbiamo grazie infinite, e l'opera di me, fatto segno di vituperevole guerra, Toscana piangerebbe adesso giorni funesti quanto quelli che nel 1792 successero in Francia.[438] Questa è la mia gloria, e nessuno me la può tôrre. Se in secolo meno tristo io fossi nato, se fra gente più generosa vivessi, tradotto innanzi al Tribunale avrei detto: «in questo giorno, e in questa ora le furie rivoluzionarie invadevano la Patria nostra, traendo seco i mali, che fanno piangere un secolo. Dio aiutando, a me fu dato salvare la Patria. Popolo e Giudici, che facciamo noi qui? Andiamo in Chiesa a rendere grazie a Dio pel ricevuto benefizio.» Queste sono reminiscenze pagane; oggi i cristiani più civili farebbero condurre Cicerone alle Murate, a starsi in compagnia con Cetego e con Lentulo. § 3. _Stato in che mi trovo ridotto nei giorni 18, 19, 20._ Vedevo imminente formarsi la tempesta, e attendendo fra tanto pericolo a preservarne lo Stato, il quale era da temersi che ne andasse sommerso, pensai in primo luogo occupare le menti col rumore dello apparecchio delle armi, poi nel negozio delle elezioni. Consideravo così tra me, che scemando i motivi dello ardore, e frastagliandolo in tanti scopi diversi, poteva sperarsi che quel fattizio impeto per la Repubblica quietasse. In simile intento nel giorno 17 febbraio, con data del 16, era bandito questo Proclama, e col Proclama provvedimenti relativi allo scopo del Proclama consentivo, e ordinavo. «Toscani! «La nostra bella contrada si disfà, se quanti hanno cuore italiano non sorgono animosi a salvarla. «Bande di facinorosi col pretesto della fuga di Leopoldo II, ed anche senza pretesto irrompono al saccheggio e allo incendio. Il Governo ha represso gli scellerati, e saranno puniti. «Alcuni soldati figli di questa terra a noi dilettissima, abbandonavano le bandiere, e con sacrilegio maggiore disertavano i confini alla fede del sacramento loro affidati. Una cosa sola conforta l'animo travaglialo, ed è questa, che i più, pentiti, sono ritornati. Possa in breve un battesimo di fuoco reintegrarli nella pienezza dell'onore, che non doveva mai rimanere offeso. «Ora corre il momento solenne. Momento di eterna infamia o di eterno onore. Non sapremo noi spargere altro che lamenti codardi, e lacrime vane? Vorremo noi offrire di nuovo lo spettacolo allo straniero di una emigrazione troppo spesso derisa? «No, i mali sono grandi, ma non minori alla costanza del buon Cittadino. Non è mai lecito disperare della salute della Patria. «Coraggio! La Legge intorno ai Volontarii fu pubblicata; breve lo ingaggio, di un anno e un giorno; la ricompensa giusta, l'onore grandissimo. «Non più parole, ma fatti. Se trentamila Toscani volontarii non corrono alle armi, chi è quaggiù che ardirà parlare di Libertà? Se il Popolo sarà pari alle sue promesse, il Governo non mancherà al suo dovere. «Egli saprà vincere l'anarchia interna, egli si difenderà aggredito dalle invasioni straniere: farà quanto Dio e la coscienza gli impongono. «Rammentinsi i tepidi e gl'infingardi e gl'inerti, che a tale siamo noi che restare è peggiore che andare, e che il partito più fecondo di mali sta nel non far nulla. «Voi vi ritirate nelle vostre case, sciagurati! Chi ve le salverà dallo incendio? Voi nascondete il vostro denaro e lo negate alla voce della Patria! Chi vi difenderà se lo avrete a dare sotto al bastone croato? Voi pervertite il cuore dei campagnuoli e li dissuadete dalla guerra! Chi preserverà i colti dalle scorrerie dei cavalli nemici? «Non ci credete? Guardate la Lombardia, e vedrete se questa è verità. «Firenze, li 16 febbraio 1849.» Mirava ad attirare le menti commosse verso l'elezioni la Circolare ai Prefetti, pubblicata nello stesso giorno 17 febbraio. «_Circolare del Governo Provvisorio Toscano ai Gonfalonieri._ «Signor Gonfaloniere. «Il primo pensiero del Governo Provvisorio, appena si trovò chiamato ad assumere in momenti così supremi le redini dello Stato, fu quello di circondarsi di un'Assemblea Nazionale, onde la volontà del Popolo avesse tutto il suo peso nel Governo del Paese. «Così fosse stato nell'umana potenza, come era nel desiderio dei Cittadini che governano, improvvisare all'istante un'Assemblea Nazionale! Ma volendo far tutto che era umanamente possibile per affrettarne la convocazione, fu dettato un Regolamento nel quale, piuttosto che a giorni, ad ore, vennero misurate le operazioni elettorali. «Infatti per la preparazione, formazione, correzione e pubblicazione delle liste, fu imposta una sollecitudine per la quale si richiede tanta alacrità nei Parrochi e nelle Autorità Municipali, che solo la gravità dei tempi fa sperare secondata da tutti. Le ulteriori operazioni fino alla convocazione delle Assemblee Elettorali, e le successive, fino alla proclamazione dei Deputati di che parla l'Articolo 39 del Regolamento de' 13 corrente, sono così compendiate nel tempo che il Governo le ordinò, non senza tema che fossero giudicate impraticabili. Non si ebbe riguardo a sacrificare il ricorso, che in tempi ordinarii non avrebbe potuto negarsi, contro le risoluzioni dei Prefetti in domande di rettificazione di liste; e per le trasmissioni di carte da luogo a luogo, si fece conto che le Autorità interessate non avrebbero profittato dei modi di ordinaria corrispondenza comunque spedita, ma avrebbero, come debbono usare, mezzi al tutto straordinarii di più celere comunicazione. «Signor Gonfaloniere! all'Autorità Comunale, a Voi, è specialmente affidata l'esecuzione del Decreto Elettorale: da Voi specialmente dipende che il 15 marzo tutti gli Eletti del Popolo sieno in solenne convegno attorno al Governo Provvisorio. Gli indugi toscani non sieno più che una memoria. Pensate che il Paese vi guarda ed attende. Studiate in precedenza tutto il meccanismo del Regolamento, onde non vi sorprenda dubbio nel momento dell'azione: e quando sentiate bisogno di alcuna dilucidazione, chiedetene per tempo ai Prefetti, a Noi. «Le operazioni elettorali sono una catena. Se un anello non corrisponde, la macchina si ferma. E la macchina deve andare a ogni costo. «Li 16 febbraio 1849.» Sembra che il sospetto di trovarsi prevenuti, consigliasse i Congiurati ad anticipare, non aspettando che da tutti i paesi, come avevano disegnato, giungessero genti a Firenze. Verso le ore sei pomeridiane del 17 febbraio, ecco arrivarmi da Livorno questo Dispaccio. «Pigli a Guerrazzi. «Poco fa ha avuto luogo una dimostrazione numerosissima con cartelli e bandiere, per chiedere la pronta Unione con Roma. Sono stato costretto a parlare. Ho promesso informare il Governo senza promettere niente; mi sono limitato a lodare la Repubblica Romana. _Credo sapere_ che domani si porteranno costà Deputazioni di tutti i Circoli, per chiedere quanto sopra.»[439] Accorto da qual parte spirava il vento, e avendo oggimai conosciuto, che del Governatore non mi poteva fidare, spedisco senza mettere tempo fra mezzo il mio familiare Roberto Ulacco, e credo averlo fatto accompagnare da Emilio Torelli con lettere urgentissime pel signor Dottore Antonio Mangini, persona a me aderente, e preposta ai miei negozii in Livorno; con queste lettere gli commetteva, che col Gonfaloniere si accontasse, e palesatogli il mio concetto, facessero opera insieme presso gli amici, affinchè il disegno dei partigiani della Repubblica non avesse seguito. Spediti i messaggeri, per mezzo del telegrafo ammoniva il Gonfaloniere in questa sentenza: «Il Presidente del Governo Provvisorio al Gonfaloniere di Livorno. «Il Dottore Mangini a questa ora deve avere una nota del concetto del Governo. Dovrebbe fare un Proclama. Se non lo ha fatto, sollecitalo. La condizione nostra è piena di pericolo. Il Paese sta sopra un filo di rasoio. Quello che importa, è, che corrano alle armi. L'anno e un giorno è una formula; assicura che lo ingaggio sarà per un anno fisso. Qua abbiamo mille Volontarii, — domani speransi duemila. Livorno sarà minore di Firenze. Vergogna, vergogna. «Febbraio 17, ore 10, min. 20 pom.»[440] Questo pericolo nostro, o piuttosto mio, consisteva nel presagio d'impotenza a resistere allo sforzo repubblicano; l'oscillazione del Paese sul filo del rasoio riguardava la quasi sicurezza, che, attesa la inerzia dei più, sarebbe stato stravolto dalla Fazione audacissima. Consultato adesso da me il signore Mangini intorno ai fatti di cui fu parte, risponde nella guisa che sarà esposta fra poco. Importa intanto considerare, come, dalle carte raccolte nel Volume dell'Accusa resultando la notizia data al signor Dottore Mangini del mio concetto intorno ai successi del tempo, il suo possesso di una mia nota per compilarvi sopra un Proclama, e la raccomandata conferenza in proposito col signor Gonfaloniere di Livorno, nè l'uno nè l'altro sia stato su questo punto ricercato; però se importava considerarlo, non deve recare maraviglia alcuna, dopo averlo considerato. L'Accusa, che nel suo ufficio ravvisa un duello da combattere, s'ingegna con tutte le arti a facilitarsi e ad assicurarsi la vittoria. _La gran bontà dei cavalieri antiqui_ stava bene appunto fra i cavalieri antiqui; gli Accusatori di siffatte cortesie non sanno o non curano; e' vogliono sgarire ad ogni modo; e a questo scopo intendendo essi, quanto offende raccolgono, da quanto difende aborriscono. Non racconto novelle, ma cose che io stesso vidi. Fu già un uomo di cervello balzano, a cui venne in testa di fare raccolta di cornici; empito che n'ebbe un magazzino, cangiata voglia, si dette a comprare quadri e ad accomodarli dentro di quelle. Ora accadeva sovente che i quadri non capissero nelle cornici, di che il buono uomo punto si turbava, ma tagliato quel tanto che sopravanzava ce li faceva entrare di santa ragione. Così tagliò fin quasi ai ginocchi un quadro giudicato di Rubens, che rappresentava il caso della coppa di Giuseppe rinvenuta nel sacco di Beniamino, il quale, rimasto nella mia Patria, rende perpetua testimonianza della barbarie dell'uomo. L'Accusa, non so se abbia comprata da altri, o se abbia fabbricata con le sue mani una cornice; fatto sta, che ha preso testimonianze e documenti, e ce gli ha provati; quei, che a parere suo c'incastravano, ella ve gli aggiustò con amore; a quelli che non v'incastravano ha tagliato inesorabilmente le gambe ribelli. Ecco come scrive il Dottore Antonio Mangini: «Nel giorno successivo all'Adunanza del 16 febbraio, per mezzo di Roberto Ulacco, da lei specialmente ed appositamente inviato, ricevei una lettera urgentissima, nella quale accludendomi un lungo scritto tendente a dimostrare la inopportunità della Unione con Roma, e della proclamazione della Repubblica, mi commetteva lo pubblicassi a modo di Proclama, e per tal modo ne rendessi convinti i Circoli, e il Popolo di Livorno. Comunicai questo scritto al Dottore Mugnaini, a cui restò. Questo Proclama era intempestivo, perchè veniva dietro la deliberazione presa. Non ostante questo, il Dottore Mugnaini voleva servirsene nel miglior modo possibile. Immantinente conferii col Gonfaloniere Fabbri, il quale conobbe essere impossibile arrestare la opinione prevalente. Nulladimeno, mi promise intervenire la sera al Circolo, dove dovevano essere eletti i Membri componenti la Deputazione del Circolo Politico, che doveva partire per Firenze la domenica mattina successiva. Infatti il Fabbri intervenne al Circolo, ma indarno: non prese parola, perchè non vi fu discussione, essendo partito già preso; e indarno il Dottore Mugnaini volle opporsi, e con esso altri pochi. La domenica a Firenze avvenne quello che a tutti è noto. Interpellato oggi il Dottore Mugnaini per lettera, ha convenuto essere rimasto a lui quel Proclama, ma dichiara non averlo più trovato, e probabilmente essersi perduto fra moltissimi altri suoi fogli. Questi sono i fatti di cui sicuramente mi ricordo.» Mentre ingrossano senza riparo le turbe nella Capitale per proclamare la Repubblica, e mentre qui stanno tali, di cui Europa armata anche adesso paventa, per condurle, ecco cadere, non come favilla no, ma come folgore sopra le polveri incendevoli, la notizia: il Generale De Laugier essersi dichiarato contro al Governo Provvisorio; abbandonata la custodia delle frontiere, muovere contro la Capitale; avere sostenuto il Delegato Regio Conte Staffetti; minacciare fucilazioni e stato di assedio; percorrere le vie con sembianti terribili, e finalmente avere pubblicato il seguente Proclama: «Toscani! «Il nostro amato Sovrano Costituzionale Leopoldo Secondo si degna avvertirmi: «I. Non avere mai abbandonato la Toscana, perchè rimasto sempre in questi pochi giorni a Santo Stefano con Guardie d'onore inglesi. «II. _Nell'allontanarsi da Siena aver nominato un Governo Provvisorio_. «III. _Aver proibito alle Truppe di sciogliersi dal Giuramento_. «IV. Essere Egli sempre _l'ardente amatore della Libertà e dell'Indipendenza Italiana_. «V. Ordinarmi quindi richiamar tutti alla fedeltà e al dovere, ripristinare l'ordine e la quiete. «_Le Truppe Piemontesi, in numero di 20,000 uomini, passare adesso le frontiere per sostenerlo_. «VI. Essere conservati i gradi nella Milizia stanziale. «VII. Perdono ed oblio per tutti, meno per quelli, che dopo questo Proclama tentassero di fare spargere una sol goccia di sangue cittadino. «In Massa, li 17 febbraio 1849. «Viva Leopoldo II Principe Costituzionale. «Viva la Libertà. «Viva la Indipendenza Italiana. «_Il Generale_ — DE LAUGIER.» Altre voci succedono mescolate, siccome avviene, di vero e di falso, esagerate dalla fama, dalla rabbia e dalla paura: il Generale levare di Lunigiana artiglierie e milizie; abbandonare la frontiera indifesa alle invasioni nemiche; avere stracciato gli avvisi del Governo Provvisorio, posta Pietrasanta in istato di assedio.[441] Concionatori su le piazze crescevano legna al fuoco; era da per tutto tremendo anelito e delirio furente; immensi urli gridavano traditore De Laugier, Repubblica, morte ai nemici del Popolo; i sospetti si arrestino, le porte chiudansi, le case si perquisiscano; se il Governo vuol fare queste cose lo soccorreranno, se si rifiuta lo metteranno in pezzi, e faranno da sè; e questo sarebbe il meglio, perchè ormai, e si era visto a prova, il Governo non sa camminare con passi rivoluzionarii, verso i nemici della Patria procede con indulgenza colpevole, tepido poi si mostra e incapace degli estremi partiti; e questi abbisognare adesso, e questi ad ogni modo volere. Più che mai ardenti e minacciosi tornavano ai rimproveri avventati contro me fino dai primi giorni di febbraio.[442] In quel giorno i Settarii andavano insinuando malignamente parole mortali contro il Governo Provvisorio, o piuttosto contro di me: «già la _calunnia_ investe i nomi rispettabili dei componenti il Governo Provvisorio; già i reazionisti esitanti fino all'ultimo momento a mostrarsi a visiera alzata, susurrano iniquamente gli uomini del Governo nostro temporeggiare _per concerti fraudolenti col despota piemontese_, insinuano _volere essi conservare lo Stato allo austriaco Leopoldo_, e, senza compromettere sè stessi, lasciare che il loro Partito si comprometta, e si perda.»[443] Così fingevano compiangere i mali, che eglino stessi seminavano: lacrime di coccodrillo erano coteste. Ed in quel giorno G. B. Niccolini strillante come uccello del malo augurio, più spesso che mai avesse fatto, andava urlando dintorno: «Giù il Guerrazzi dalle finestre, e chiunque si oppone!» Incominciava per costui a diventare idea fissa quel mandarmi capovolto dai balconi del Palazzo; nonostante questa ed altre tali tenerezze, l'Accusa ritiene, che il Niccolini «continuò a godere, almeno per certo tempo, come in avanti, della confidenza e intimità dei Triumviri, _non escluso il Guerrazzi_!» La fiumana, rotti gli argini, allaga; la Repubblica in mezzo a fremiti è bandita, il Principe si urla decaduto, chiamato a morte De Laugier, l'Albero... ma che parlo io di Albero? una foresta di Alberi sorge su per le piazze e pei crocicchi di Firenze; e non solo la Repubblica, la Decadenza del Granduca, la Unione immediata con Roma, e la morte del Generale De Laugier si urlano, ma si riducono in Plebisciti. Dall'alto dei balconi del Palazzo Vecchio vedevamo quel mareggiare di teste in burrasca, e udivamo cotesto inferno di gridi, Sir Carlo Hamilton ed io; e lo interrogava dicendo: «Ora come potrò resistere? _Ah! fui gittato come uno schiavo alle fiere_.» Ed egli, fieramente turbato: «Cedete su tutto, ma salvate la vita e le sostanze dei cittadini.» Quando il Popolo irruppe allagando camere e sale, ed io solo nel vano di una finestra (al salto periglioso eravamo vicini, e il caso di Baldaccio dell'Anguillara mi traversava la mente), con ragioni, con preghiere, con rimproveri, e finalmente con arguzia potei schermirmi da cotesti furiosi, dovevano venirmi a canto i Giudici. Allora avrebbero veduto e sentito se incitai i Popoli, o se con pertinace resistenza, che a Dio piacque benedire, li contenni. Allora avrebbero inteso quali fieri accenti scambiassi con Giuseppe Mazzini, _che delle parole dette a Livorno non voleva più sapere_, e la Repubblica pretendeva, e subito s'instituisse; i quali, comecchè pronunziati nello impeto della passione, non è bello nè onesto riferire. Se in quel giorno i Giudici e gli Accusatori che fin qui mi stettero schierati di contro fossero stati fra i difensori dell'ordine al fianco mio, il giorno 18 febbraio così si sarebbe loro scolpito nel cuore, che forse avrebbero sentito vergogna di affermare, che alla proclamazione della Repubblica mi opposi soltanto dopo la disfatta di Novara. Ma dei miei Giudici e dei miei Accusatori fin qui non fu istituto _difendere_, bensì _offendere_; e tutto il mondo, non dubitino, di ciò si è accorto da buona pezza di tempo. Però, se cotesti Giudici e cotesti Accusatori non vi erano, vi ero io, e vidi intorno a me, soldati dell'ordine, il Gonfaloniere Peruzzi, il Generale Zannetti e quello Adami che osarono processare, e Romanelli e Franchini che ardirono accusare, ed altri parecchi cittadini onoratissimi i quali con la vista e con la voce mi confortavano a durare cotesta lotta mortale. L'Accusa, cui sembra poca cosa differire, può intanto conoscere che per essere state differite in quel giorno la decadenza del Principe e la proclamazione della Repubblica, nè allora nè poi furono atti compíti cotesti. Sentiamo adesso come ha coraggio incolpare l'Accusa. Il Decreto del 10 giugno, e con poche varianti sul medesimo tema il Decreto del 7 gennaio, e l'Atto di Accusa del 29 gennaio 1851, sostengono, la Spedizione armata volta verso Lucca essere in _gran parte_ composta della gente straniera, la quale allora _infestava_ il Paese: guidandola io, avere incusso da per tutto paura d'incendio e di saccheggio alle campagne che la impresa del Laugier e la causa del Principe si fossero attentate a favorire: Laugier _da me con Decreto_ messo fuori della Legge, e da me _costretto_ a rifuggirsi, quasi solo, in Piemonte, _abbandonato_ dalle sue milizie per opera nostra spaventate e corrotte. A Cesare De Laugier mi legava amicizia antica; e veramente la meritava, come quello che dell'onore italiano si mostrò tenerissimo sempre. Di questo fanno fede le opere che, con lungo studio, dettò sopra i gesti degli Italiani in Ispagna e in Russia (dove i nostri soldati combatterono per le glorie di un Popolo, a cui, almeno per ora, non piacque porre la gratitudine nel novero delle virtù che gli fanno corona), e il desiderio di accendere dalle scene, scuola vecchia di vizio e di viltà, con drammi guerreschi la mente dei giovani alla milizia. Egli procurò rendere popolare in Toscana la storia dei fatti di arme pei quali suonò onorato il nome degli esuli italiani su le remote spiaggie di Montevideo; e primo scrisse erudimenti per la milizia cittadina, ahimè! staccata acerba dall'albero dove avrebbe maturato rigogliosa e salutare. Per queste e per altre cagioni erami caro Laugier: egli pertanto scrivendomi, con lodi che mi parvero troppe, intorno al Decreto del 9 febbraio sul giuramento delle milizie, ammoniva mal consiglio essere stato quello di sciogliere le milizie dal giuramento, però che, già troppo inferme, per lo sciogliersi anche di cotesto vincolo sarebbonsi per avventura sbandate; i soldati avere già balenato con pessimi segni, più tardi avrebbe saputo ridurli al fine commessogli; lasciassi fare a lui, che egli gli avrebbe col tempo ridotti. Così egli scriveva a me; quello che al Ministro della Guerra scrivesse, ignoro; questo chiariranno gli Archivii del Ministero. Io gli rispondeva dandogli ragione, ed esponendogli come il Decreto fosse stato impresso nel _Monitore_ senza la mia firma, anzi contro il mio consenso. Potrei io invitare Cesare De Laugier, a nome della verità, di ritornarmi, almeno in copia certificata conforme, la mia lettera? Diligente conservatore delle sue carte io so il Generale, ed egli in parte la citò nella sua relazione da Sarzana: giustizia vuole si conosca intera. Della improvvisa mossa del Generale De Laugier tanto maggiormente io mi ebbi a restare sorpreso, in quanto che nel giorno stesso in cui egli muoveva con le sue forze contro lo interno del Paese, nel 17 febbraio, mandava al Ministro della Guerra: «Tenere bene le frontiere guardate; dove occorresse, farebbe il suo dovere di soldato.»[444] Ora questa amicizia con Cesare De Laugier mi tornava funesta; tale non gli fu, nè gli sarebbe mai stata la mia; i miei avversarii cominciarono a susurrare prima, e poi dire alla scoperta al Popolo febbricitante: «Ora vi siete chiariti? Non vel presagivamo noi? Sotto i governativi languori non covava la trama? Guerrazzi del traditore Laugier è amico antico; in ogni occasione tolse sempre le sue parti, così a Livorno come qui a Firenze, e sempre; seco lui tiene corrispondenza segreta; per certo di questa infamia egli era a parte, forse macchinata e condotta da lui. Quest'uomo non si mostrò propenso alla Repubblica mai; ed ora chi è che l'avversa? Forse non egli solo? Perchè, con quale intento le insorge egli contro? Chi non è con me, è contro me; e questo, io vo' che sappiate, ha detto tale che non può fallare. Che cosa significa questa tenerezza di conservare intatti i regii ostelli? Ha paura che noi li guastiamo? E di ciò a lui che ha da calere? Quali pensieri del Rosso sono questi suoi? Non sono eglino roba nostra? e se li guastiamo, dovrà egli risarcirli a sue spese? Inoltre, noi sappiamo, e ve ne abbiamo avvertito le mille volte, che il Guerrazzi se la intende di lunga mano col Ministro Gioberti per farci venire i Piemontesi in casa. Quel benedetto Montanelli, piuttosto che chiamare intorno a sè il Guerrazzi, faceva meglio a mettersi l'esca accesa negli orecchi. Ancora, udite, e questa è prova espressa contro la quale non ci è da ripetere; noi sappiamo il Guerrazzi avere mandato tutti i suoi bauli a Livorno, e con essi la famiglia, tranne il nipote e un familiare rimasto ammalato; ora che cosa significa fare bauli? — Significa che l'uomo si apparecchia a viaggiare: egli dunque tenta fuggire; egli fugge; egli è traditore.» Deh! Non fate le meraviglie se il Popolo armeggiasse in siffatta guisa; per avventura abbaca con miglior senno o con più coscienza la gente che tira salario a posta per ragionare? Almeno il Popolo dice le sue sciocchezze _gratis_. E badate, queste voci, comecchè triste, pure avevano in sè qualche fondamento di vero, consistendo appunto la calunnia nell'arte di mescere il vero col falso. Vera la relazione antica col De Laugier; vero il mio pronto sostenerlo in parecchie occasioni tanto in Livorno che in Firenze; a Livorno, in ispecie, quando nelle feste del settembre 1847 la milizia uscì fuori armata, mentre, per quanto si asseriva, egli aveva promesso mandarla fuori senz'armi, e non era vero; a Firenze, quando mi mandò un suo segretario affinchè mi adoperassi a fare approvare la sua condotta al Consiglio Generale, la quale venne amplissimamente approvata; vero lo invio delle valigie e di tutta la famiglia a Livorno, tranne il nipote che meco venne a Massa; vero che, temendo prossimi i tempi, dai quali la mia anima rifugge, avrei preferito morire nel tentativo di fuga, che vivere in terra insanguinata.[445] Stampavasi in Piemonte, e pubblicamente dicevasi, avere io domandato lo intervento delle milizie piemontesi a Vincenzo Gioberti; ed era vero all'opposto avergli scritto, a mediazione dell'amico Pasquale Berghini, lettere ortatorie onde nol consentisse: nonostante per siffatto modo si dilatò la voce, che io ebbi a smentirla nel _Monitore_ del 13 marzo 1849: «Brevi parole e schiette. Da Torino mi giungono notizie che il signor Vincenzo Gioberti va susurrando avere io domandato lo intervento piemontese. Dove ciò fosse vero, dovrei dichiarare il signor Gioberti mentitore, e gli raccomanderei a rammentarsi che gli uomini pubblici devono cadere con dignità. Però, in questi tempi copiosi di vani romori, _spero che le notizie pervenutemi ritengano appunto siffatta natura_. Nonostante giovi ad ogni buon fine questa mia dichiarazione.» Nel _Messaggere Torinese_ del 14 marzo si leggeva: «Vediamo con piacere le imprecazioni (del Gioberti contro di me), perchè i nuovi fautori del Gioberti si affannavano in Piemonte a sparger voce che il toscano intervento fosse concertato col Guerrazzi, voce che, per quanto combattuta dagli amici del prigioniero di Portoferraio, andava acquistandosi qualche credito.» Nè già si creda che fossero nuove queste notizie; al contrario, esse avevano incominciato a circolare fino dal novembre 1848, come occorre nel Nº 30 novembre del _Monitore_: «Nel _Corriere Mercantile_ del 28, sotto la rubrica di Genova 27 novembre, si legge, che in quella mattina partirono sul Vapore _San Giorgio_ 350 soldati delle riserve piemontesi chiamati in Toscana, a quanto si dice, dal Ministro Guerrazzi.» E fu smentito; ma la calunnia è un'acqua torba, che, per chiarire che si faccia, lascia sempre la posatura in fondo; almeno così insegna Don Basilio, nell'arte del calunniare professore solenne. Alla fine il Popolo sconvolto si avventò con le sue ondate contro i gradini del Palazzo Vecchio, fremendo ed urlando: «Il Guerrazzi fugge — è fuggito — è traditore.» Hanno mai provato i miei Giudici il Popolo quando viene in siffatto arnese a visitarvi a casa? — Se lo avessero provato, se anche veduto, o se almeno fattoselo raccontare, io quasi quasi mi persuado che non avrebbero scritto la coazione poca, o nulla, o esclusa dai primi atti _co' quali, e ne' quali_, ec., come in altra parte fu detto. E gli urli mi percossero nella mia stanza, dove stavo di corpo infermo, e della mente peggio, però che quel contendere ogni momento la fama e la vita, è tale martirio che logora viscere di bronzo. Qui non vi era tempo da perdere. Se il Popolo tornava imperversando nell'ostello già violato, mi lacerava di certo; risolvei, per subita ispirazione, andare contro lui. Presi (nè so bene il perchè, non potendo l'uomo negl'improvvisi moti dell'animo rendere ragione a sè stesso dell'operato) uno squadrone, e correndo giù per le scale mi presentai al Popolo dicendo: «Chi è che mi accusa di tradimento? Io non fuggo, chi ha cuore mi seguiti.»[446] Il Popolo brontolando si acquietò alquanto; ed ecco come mi trovai sospinto a partire per Lucca. Così i Francesi sospetti, nella prima Rivoluzione, riparavano al campo per sottrarre il capo alle parigine stragi. E avvertite che appena uscito da Firenze, o sia che per le relazioni dello _Inquisitore_, che mi avevano messo al fianco, della mia fede dubitassero, o sia che per sospetto spontaneo le consuete ubbie riassumessero; fatto sta, che allo improvviso mi giunse dietro per staffetta il richiamo: al quale, non senza sdegno, rispondendo io per via telegrafica da Lucca il 22 febbraio 1849 diceva: «_Non posso partire di qua senza vergogna, e_ SENZA CHE MI SI DICANO LE RAGIONI DELLA CHIAMATA.»[447] L'Accusa fra i suoi Documenti riporta un conto dell'oste Bordò pel Niccolini, e da cotesto conto appunto si conosce ch'egli meco non venisse, nè io meco lo conducessi, imperciocchè se fosse stato del mio seguito nei miei quartieri e non altrove avrebbe albergato, alla mia mensa, e non a quella dell'oste, seduto.[448] L'Accusa, inoltre, cita ricavandone motivo a mio danno l'espressioni contenute nel Dispaccio spedito da Massa il 23 febbraio 1849, le quali dichiarano: «_Ho servito fedelmente, e lo dico con franchezza, il Principe Costituzionale: servirò con uguale fedeltà il Popolo, non ne dubitate._»[449] Queste parole testimoniano aperto com'io venuto in sospetto m'ingegnassi inspirare la fede che meritavo; come ai miei stessi Colleghi, che di me, non pur gli atti, i pensieri conoscevano, la mia devozione religiosa agli interessi del Principato Costituzionale contestassi, e finalmente, e di ciò mi onoro, che con zelo e sagrifizio pari mi sarei, siccome invero mi sono, consacrato agl'interessi del Popolo, per liberarlo a un punto dagli scellerati furori degli anarchici, e dei reazionarii. Ma i Giudici appongono: tutto questo è nulla; il Guerrazzi aveva detto non avere paura, dunque non la doveva avere, e poteva resistere al Popolo in tutto e per tutto.... A simili opposizioni, le quali riesce giudicare impossibile se patiscano maggiore il difetto di discernimento, o quello della riconoscenza, comecchè grandissimi entrambi questi mancamenti appariscano, io mi sono confessato e mi confesso stremo di difesa. Oltre le ragioni a me speciali, stranissima (e potrei dire stupida) cosa è supporre che uomini di carne avessero potenza di resistere a tutto, in mezzo a così orribile trambusto, e rifiutare la sanzione al Plebiscito, che Laugier traditore della Patria dichiarava, mentre io riusciva a evitare l'altro relativo alla decadenza del Principe, e al bando della Repubblica. Stranissima e stupidissima cosa è supporre, che il Governo potesse astenersi da ordinare una Spedizione, che Popolo armato, e gente accorsa da più parti, non che di Toscana, d'Italia, imperiosamente imponevano. Qui non sovveniva ripiego di sorta; non si potevano opporre qui le teorie dai Repubblicani predicate, nè le promesse dai medesimi fatte poco anzi; non giovava addurre la necessità di consultare il Popolo; bisognava ed era prudente obbedire, avvegnachè, se per una maggiore resistenza avessero rotto l'ultimo freno, che cosa mai sarebbe accaduto di me? Dichiarato traditore, sarei stato messo in brani a furia di Popolo. — Questo c'importa poco, avvertiranno i miei Accusatori; ed io dirò: in fede di Dio voi parlate discretamente, perchè davvero trovarmi straziato dal Popolo, o da voi, potrebbe parere lo stesso, dove non pensassi che il Popolo si ravvede sempre, e piange, e voi non vi ravvedete, nè piangete mai; ma se non per pietà altrui, per voi medesimi almeno avrebbe dovuto premervi, che il Paese non venisse in balía di chi esaltava per santo qualunque partito, per istrascinare il Paese alla Repubblica, e danari dov'erano voleva arraffare, e dei sacri argenti spogliare le Chiese, e tribunali rivoluzionarii istituire, e rivoluzionarii eserciti disegnare, e impiegati sospetti e traditori non pure destituire, ma ammazzare:[450] avrebbe dovuto, sciagurati, premervi che lo Stato non cadesse nelle mani di chi esultava nella _prossima strage_, il sangue con aperte narici quasi bestia feroce fiutava, le strade con un battesimo di sangue cittadino intendeva purificare. E sì, e sì, che queste cose con le proprie mani avete raccolto, e co' vostri occhi avete letto come i Faziosi cospirassero a imporre _silenzio perpetuo_ agli avversarii loro; e sì che avete provato, come già voi stessi di contumelie e improperii vituperassero, e con più disonesto attentato manomettessero. Ora io vi domando, perchè dal nuovo pericolo percossi vi rivolgeste a noi, e ci chiedeste protezione? Se voi estimaste che la mala turba fosse aizzata per noi, o con qual senno o consiglio a noi vi raccomandaste? Voi mi credeste custode allora della civiltà toscana; e voi credeste, che avrei voluto e potuto difenderla. Ditemi, non vi difendemmo noi? Si tacque forse la nostra voce? A procurare tostano castigo dei colpevoli non fummo solleciti noi? Noi dalla rivoluzione vi difendemmo; come mi avete difeso voi dalla reazione? Io non parlo di altri; parlo di voi, i nomi dei quali ho letto sotto i Decreti e le Requisitorie compilate fin qui; e a voi rivolgendomi dico, che per onore vostro avreste dovuto continuare a credere oggi come credeste allora, e che me in voi stessi avreste dovuto rispettare. § 4. _L'Accusa non sa leggere._ Il Decreto della Camera di Accuse del 7 gennaio 1851, firmato da _Giuseppe Orsini_, _Giovan Battista Aiazzi_ e _Luigi Pieri_, il quale ne fu _relatore_ o _compilatore_, come si abbia a chiamare, a pag. 88, § 32, dice in questa maniera: «Il De Laugier con Decreto del giorno successivo (18 febbraio 1849), _firmato dal Guerrazzi e dal Mordini_, fu posto fuori della Legge come Traditore della Patria, e vennero dichiarati ribelli i soldati che l'obbedivano.» Nel Volume che serve di fondamento all'Accusa, a pag. 838, cotesto Decreto occorre riportato, e dice in quest'altra: «Il Governo Provvisorio toscano «Considerando, che il Conte De Laugier col suo Proclama del 17 corrente si è fatto eccitatore della guerra civile; «Considerando, che il Governo Provvisorio toscano legittimamente costituito dal Popolo mancherebbe a sè stesso, e al debito che egli ha di tutelare la vita e gli averi dei cittadini, se non facesse alla colpa succedere immediatamente la pena; ha decretato e decreta: «Art. 1. Il Conte De Laugier è dichiarato traditore della Patria, e come tale posto fuori della legge. «Art. 2. I soldati tumultuanti sono dichiarati ribelli. «Art. 3. I bassi uffiziali, che rimarranno fedeli terranno il posto immediatamente superiore a loro, occupato dagli uffiziali traditori. «Il Ministro Segretario di Stato pel Dipartimento della Guerra è incaricato della esecuzione del presente Decreto. «Dato in Firenze questo dì diciotto febbraio milleottocento quarantanove. «G. MAZZONI «Presidente del Governo Provvisorio toscano. «Per il Ministro Segretario di Stato pel Dipartimento della Guerra, «Il Ministro Segretario di Stato pel Dipartimento degli Affari Esteri, A. MORDINI.» Fui indiscreto io, se a giudicare di me pretesi Giudici che sapessero leggere? — Tremendi diritti mi somministrerebbe la Difesa, ma carità di Patria mi prega che io chiuda in cuore il giustissimo sdegno, e mi taccia. § 5. _Della lettera del 19 febbraio 1849 indirizzata al Pretore del Porto Santo Stefano._ La Requisitoria del Regio Procuratore generale, a pag. 126, afferma essere stata questa lettera dal signor Marmocchi composta sopra _minuta_ o _appunto_ del Guerrazzi. Il Decreto della Camera di Accuse, a pag. 87, aggiunge, che per essa lettera _non si deponeva punto il pensiero della cacciata del Principe_. Ecco la lettera: «Cittadino Prefetto. «I provvedimenti da voi adottati, dopo le notizie delle quali avete informato questo Ministero col foglio vostro in data del 17 stante, non possono non rimanere pienamente approvati. — Noi corriamo alla frontiera dalla parte di Massa. Colà urge il pericolo. _Leopoldo penso che attenda a fuggire._ Voi intanto mandate a Orbetello, Massa, S. Filippo, e Rocca S. Caterina. Il Pretore di San Stefano si porti dal Granduca, e gli dica, che il Governo, eletto dalla Assemblea e dal Popolo, gli partecipa che la reazione non può avere luogo; che la sua presenza ecciterà, come ha eccitato, qualche facinoroso al delitto; che è indegno di Principe _cospirare_ a _turbare_ l'ordine, che dice _raccomandare_. La Nazione giudicherà di Lui come Sovrano. Il Pretore faccia il suo dovere; se non può farlo, _protesti all'Ammiraglio, che con la minaccia dei cannoni inglesi s'impedisce il Magistrato ad eseguire gli ordini del Governo_. E vi saluto. «Li 19 febbraio 1849.» Prima di tutto, come possa da uomo di mente sana conservarsi il concetto di _cacciare via tale_, ch'ei pensa _in procinto di partire_, è per vero dire uno dei tanti prodigi di ragionamento, che l'Accusa ci abituò ad ammirare senza insegnarci, almeno per ora, ad intendere. Io poi ho serbata a questa sede del discorso la lettera del _19 febbraio_, perchè l'attenzione del lettore si fermi a considerare il tempo e lo stato delle cose in cui fu dettata. Ora è da sapersi come il signor Gustavo Mancini con Dispaccio del _12 febbraio 1849_, in assenza del Prefetto di Grosseto, domandasse le istruzioni, e come dopo _cinque_ giorni il Prefetto medesimo, non le vedendo comparire, per averle insistesse. Dunque da ciò si rende manifesto, come io da ben _sette_ giorni mi andassi indugiando a rispondere intorno al Granduca, però che scrivere spontaneo cosa che gli tornasse spiacente io non voleva, e cosa che a me e ad altrui nuocesse io non poteva. Giunto a Firenze nel giorno _18 febbraio_ il Dispaccio nel _17_ mandato da Grosseto, che instava, affinchè al Pretore del Porto San Stefano le istruzioni domandate fino dal _12_ del mese stesso si mandassero, il signor Marmocchi, il quale esercitava allora l'ufficio di Ministro dello Interno, meco per certo ne avrà conferito, e con altrui. Nel Volume dei Documenti occorrono di mio carattere due scritti relativi a questa lettera: il primo veramente è appunto come per ordinario ponevo nel margine dei Dispacci, contenente il concetto della risposta, che si doveva fare; il secondo è copia precisa della lettera mandata. Lo appunto dichiara: «Le istruzioni furono date. Se S. A. ama, come dice, il Paese, repugna alla dignità e lealtà sue rimanere in parte ove serve di bandiera alla guerra civile. Rammenti, che la situazione attuale del Paese fu creata da lui, non già dal _suo Popolo_ innocentissimo.»[451] La copia della lettera del _19 febbraio_ suona in diversa guisa: «Approvansi i suoi provvedimenti. Noi corriamo alla frontiera dalla parte di Massa. Colà urge il pericolo. Leopoldo penso che attenda a fuggire. Mandi a Orbetello, a Massa, San Filippo, e Rocca Santa Caterina. Il Pretore di Santo Stefano si porti dal Granduca, e gli dica, che il Governo, eletto dalle Assemblee e dal Popolo, gli partecipa che la reazione non può avere luogo; che la sua presenza ecciterà, come ha eccitato, qualche facinoroso al delitto; che è indegno di Principe cospirare a turbare l'ordine, che dice raccomandare. La nazione giudicherà di lui come Sovrano. Il Pretore faccia il suo dovere; se non può farlo protesti all'Ammiraglio, che con la minaccia dei cannoni inglesi s'impedisce il Magistrato ad eseguire gli ordini del Governo.»[452] Ora parmi chiaro, che meco conferendo e con altri il Ministro dello Interno ricevesse commissione di comporre il Dispaccio dietro le traccie dello appunto trascritto sopra la lettera del signor Mancini del _12_. Questo naturalmente successe nelle prime ore del giorno _18_, dopo lo arrivo della posta. I casi avvenuti in cotesta fiera giornata, le ardenti accuse mosse contro il Governo di avere con negligenza colpevole somministrato motivo alla guerra civile, e la necessità di difenderci all'uopo da persone, che si erano arrogate il diritto di sorvegliare i nostri atti, i nostri moti di ora in ora, e perfino di minuto in minuto, persuasero di certo alla svegliata prudenza del signor Marmocchi di mettere nel Dispaccio parole più colorite, e provvedimenti, che nè allora seppi, e neppure adesso so che cosa mai potessero importare. Lascio, come anche ora che scrivo, frugando nella mia mente, Rocca Santa Caterina che sia, del pari ignoro; bensì chiunque abbia intelletto di stile, di leggieri comprende, che la copia della lettera del 19 non è mio dettato.[453] Interrogato il Ministro circa il Dispaccio trasmesso, io, secondo ch'egli mi veniva dicendo, scrissi su i margini della lettera del signor Prefetto, onde potere mostrare ai miei _Inquisitori_ come le istruzioni fossero date, e quali: molto più, che difetto nel mandarle vi era, ed aveva mestieri schermirmi da giusto rimprovero d'inerzia. Arrogi quello che soventi volte ho dichiarato, non correre nè potere correre allora stagione opportuna a restaurare il Principato Costituzionale pochi giorni dopo che egli lasciava il campo, senza fare neppure le viste di resistere a parte repubblicana. Ella è follia espressa pretendere quiete il giorno seguente alla rivoluzione. La Inghilterra, che stette ferma all'urto della rivoluzione francese del 1830, pure, a giudizio di Lord Melbourne, durò per bene quattro anni a tentennare.[454] Nè questo è tutto: distraendo in altra parte le forze che tenevo apparecchiate col Generale D'Apice per impedire tumultuarie aggressioni contro Porto Santo Stefano, molte e gravi fortune potevano accadere alle quali importava grandemente ovviare. Come le terre di Maremma ardessero tutte, abbiamo veduto; certo La Cecilia le descrive diverse, ma altri dissente da lui; varii i giudizii secondo le impressioni; bensì il fatto dimostra che meglio i secondi opinassero, dacchè per le città e terre di Maremma, non annuente il Governo, vollero proclamare la Repubblica, e la proclamarono; e al Porto Santo Stefano eziandio, appena ebbe quinci rimossi i piedi il Granduca. Pertanto considerando maturamente la qualità dei successi, i tempi fortunosi, i pericoli, la inanità, anzi il danno espresso di rimontare contro pelo la corrente quando strascina più rapida, e la sicurezza di riuscire dando tempo al tempo, e modo di riaversi con la quiete consigliera di giusti partiti ai Toscani tutti, costituzionali ed anche esaltati, io per me, se avessi tuttavia seduto nei Consigli della Corona, le avrei detto: «Altezza. L'autorità che, debole e disarmata, non senza sforzo reggeva all'urto della Fazione avversa al Principato, impossibile parmi che possa ricuperarsi adesso per forza, adesso che di propria mano ha schiuso la porta ai suoi nemici. Che la Toscana per la massima parte, e gli uomini di senno pressochè tutti, sieno del costituzionale reggimento tenerissimi, V. A. lo sa, lo ha veduto, senza timore d'inganno lo ha detto più volte, ed è vero così. Si danno epoche per la umanità, che io volentieri chiamerei di contagio politico; e la presente è fra quelle: testimone la Europa. Quali argomenti si adoperano contro il contagio? Giova talvolta sostenerne imperturbati lo assalto, e, senza lasciarsi sbigottire, far prova di vincerlo col valore e con l'arte; tale altra parve più utile scansarsi, aspettare che la malignità dell'aere cessasse per tornare poi nelle purificate dimore. Praticare in un punto questi due partiti è impossibile. Del presente stato male s'incolperebbe tale o tale altro uomo, tale o tale altro Popolo. Stupidezze di menti meccaniche sono queste. Siffatte perturbazioni politiche non dirò che sopraggiungano alla sprovvista per tutti, bensì sempre ai Governi fatali, generate di lunga mano, per molti umori disposte, come sarebbero appunto le pestilenze ed altre maniere di perturbazioni fisiche. Ora poichè dei due partiti fu scelto quello di scansarci, scansiamoci, e provochiamo da questo i frutti che ne dobbiamo raccogliere, i quali, a senno mio, matureranno presto, e felici se lasceremo gli esaltati a straccarsi nello inane tumulto, se torremo loro prudentemente dinanzi gli argomenti i quali, gittandoli a disperate risoluzioni, chiuderebbero loro al rinsavire ogni via; in qualunque Stato che muti forma di reggimento con sicurezza di durata, il trapasso dal vecchio al nuovo noi vedemmo sempre doloroso per necessarii subugli; immaginiamo ora se accadrà di quieto questa trasformazione priva di potenza vitale. Voi vedrete i neghittosi diventare prodi per lo spavento della prossima anarchia. Tutto il male sarà attribuito alla Rivoluzione; ogni speranza di pace riposta nella restaurazione del Principato Costituzionale; dalla speranza al desiderio, dal desiderio al bisogno di ristabilirlo è brevissimo il tratto, se pure tratto ci corre; il moto poi riuscirà irresistibile, imperciocchè gli avversarii non pure troverete avviliti negli sforzi infecondi, ma vinti dal sentimento della propria impotenza, ed è questa fortuna suprema nelle faccende politiche dove la forza doma, ed anche per poco, — non vince; i traviati troverete all'abituale devozione ricondotti, gli ignavi, scottati dall'acqua calda, solleciti ora a guardarsi anche dalla fredda; riassicurati i timidi; tutti acclamanti; gli amici vostri, non della vostra fortuna, esulteranno e procederanno modesti; gli amici della vostra fortuna, e non di voi, si mostreranno insolenti, e voi con la prudenza e gravità vostre ne saprete tenere corti gli ugnoli. Fra pochi mesi V. A., tornando chiamato dal voto universale della Nazione, esclamerà: io ne vado sicuro, come Carlo II reduce a Londra, che suo fu il torto di andarsene o di non essere tornato più presto fra Popoli amatissimi e amantissimi.[455] Ogni altro consiglio, Altezza, come pernicioso a Voi, esiziale alla autorità che importa ricostruire, nemico al Popolo, deh! vi scongiuro, rifiutate. Ricondotto dalle armi, e sieno pure piemontesi, aprirete nel cuore delle genti una ferita che per tempo non sana, e gli esempii del secolo ce lo hanno fatto vedere.[456] Confidando nei moti interni, adesso che la febbre dura, avverto, che per lo meno insorgeranno contrasti, e questo è ciò che ho dimostrato doversi prudentemente evitare, conciossiachè l'uomo, animale di contradizione, soglia, per contrasto, ostinarsi, e, per offesa, nello errore confermarsi. Nè sono a temersi contrasti ed offese individuali soltanto, ma nascerà, e già è nata la guerra civile, di cui V. A. ha meritamente ribrezzo: l'anarchia stenderà, e già ha cominciato a stendere, le mani ladre, e, orribile a dirsi, alza l'augusto vostro nome a bandiera! Altezza, se orrore di sanguinosi conflitti l'animo vostro mansueto persuase ad allontanarvi da Siena, deh! considerate che, a cagione della presenza vostra a Santo Stefano, questi conflitti.... per ora.... non cessano.... ma crescono; — dacchè, durando le cause che in questo momento li provocano, anzi essendo diventate maggiori, la distanza di poche miglia non può avere virtù di spegnerli. Sceglieste il partito di dare tempo al tempo; io lo avrei combattuto con tutte le forze prima che voi, Altezza, lo aveste preferito; ora che lo sceglieste, giova seguirlo; se non m'inganno, ormai è quello che vi ricondurrà con pace nell'onorato seggio: mite foste, mite mantenetevi; gli altri consigli rigettate, però che se per essi (cosa che adesso subito parmi ad accadere difficile) vi fosse restituito lo scettro.... V. A. lo rigetterebbe da sè perchè sarebbe insanguinato.» Così con non savie forse, ma affettuose parole, io avrei favellato a Leopoldo II, se mi fosse stato concesso recarmi a Santo Stefano; e questo era il concetto che in nota succinta registrava il 18 febbraio 1849 sul Dispaccio inviato al Governo dal Consigliere di Prefettura di Grosseto il 12 di quel mese.[457] § 6. _Motivi per muovermi contro il Generale Laugier._ Ora si voglia supporre per un momento, che stesse in facoltà del Governo astenersi dalla Spedizione a Massa. Innanzi tratto, io vorrei domandare se i Giudici credono davvero che quando un soldato alza una bandiera, sia pure in nome del suo Sovrano, devano tutti sotto pena di ribellione prestargli fede, e seguitarlo. Badino, che quello che dicono, come pare, è veramente enorme, e potrebbe tirare grandemente a male. Per buona sorte servendo l'Accusa alla sua passione ha rinnegato la scienza, ed ha commesso gli errori deplorabili, di cui, invocata la dottrina dei pubblicisti, la incolpa l'Avvocato Adriano Mari nella Difesa che presentò alla Cassazione per Leonardo Romanelli. Il terreno che io ho da percorrere brucia: scerrò quello che scotta meno; e dirò soltanto, che più meditava il Proclama del 17 febbraio del Generale Laugier, meno mi riusciva intenderlo. Per nessun segno io poteva ritenerlo sincero. Infatti il Proclama dichiara, che il Granduca nello allontanarsi da Siena aveva nominato un Governo Provvisorio: ora questo era patentemente falso, nè conosciuto in quel tempo, nè mai; anzi contradittorio con la lettera e con lo spirito delle dichiarazioni granducali del 7 febbraio: con la lettera, perchè nulla contenessero espressamente in proposito; — con lo spirito, perchè raccomandando a noi i regii servi (e non invano), cosiffatta raccomandazione a privati non si poteva indirizzare; e se il Principe avesse eletto un Governo Provvisorio, noi privati cittadini ridivenivamo: inoltre pensava, che se il Principe avesse lasciato qualcheduno a rappresentarlo, sarebbe stato un Luogotenente, non un Governo Provvisorio. L'affermazione del Proclama accennava a due cose: prima, a una menzogna; seconda, ad uno errore commesso, o fatto commettere, perchè il Paese versasse nell'anarchia. Sosteneva inoltre avere vietato alle truppe di sciogliersi dal giuramento, ed anche di questo non era comparsa notizia. — Della Commissione conferita al De Laugier, nessuno fu avvertito dal Principe in modo autentico; in quanto a me, dopo l'ultima lettera particolare del signor Commendatore Bitthauser da Siena, nella quale mi si prometteva prossimo il ritorno del Principe, e intanto a suo nome mi si raccomandava la quiete della città, non ebbi avviso di sorta, neppure verbale. Nè anche Sir Carlo Hamilton mi riportò invito, ordine, raccomandazione, o che altro, da Santo Stefano. Al Governo, eccetto la lettera e la dichiarazione del 7 febbraio, non pervenne altro atto dalla Corona direttamente nè indirettamente. Ma non soli noi; non il Senato, non la Camera dei Deputati, non il Municipio, nessuno insomma ricevè avviso, che appo loro accreditasse il contegno del Generale Laugier. Ingrate materie io tratto, e con ingrato animo; ma se dei generosi non è spento il seme, ricorderanno, che io mi difendo da capitale accusa, e deploreranno con me chi mi ha ridotto in questo non giusto stato. — Sopra tutto mi faceva andare pensoso la chiamata dei 20,000 Piemontesi. Gli uomini che presiedevano allora ai consigli del Re Carlo Alberto si erano mostrati, non dirò poco benevoli, ma con mio sommo rammarico avversi alla Toscana. In altra parte di questa Apologia ho favellato delle quistioni col Governo di Piemonte poi confini; fu visto che per comporre coteste faccende era stata proposta al Ministro Pareto una commissione mista di Piemontesi e Toscani; accolto il partito, riceveva un principio di esecuzione. Avenza (come ognuno conosce) fa parte di Carrara: occupata prima dai Piemontesi, dopo l'armistizio Salasco la sgombrarono: allora, gli Avenzini imploranti, presero a presidiarla i Toscani. Il Piemonte a un tratto, sopportando ciò molestamente, c'impone la uscita non senza aggiungere minaccie. A questo punto, salito al Ministero io, trovai la quistione. Proposi allora alla Corona saggiare un po' di quali frutti sarebbe stata portatrice la Costituente, fino dal 12 Maggio 1848 da lei bandita fra cotesti Popoli, opposta come mezzo di difesa al Piemonte; e piaciuto il consiglio sfidai in certo modo il Governo Sardo a rimettercene al voto universale. Il Piemonte aderiva: proseguendo nelle trattative, fu convenuto una forza mista di milizie piemontesi e toscane, fino al giorno della votazione, presidiasse Avenza; in quel giorno si ritirasse; due commissarii, uno per parte, alla votazione assistessero. I Sardi, presentendo sfavorevole lo esito del negozio, adesso si danno a mettere in campo cavilli: opposi a tenacità tenacità; il convenuto solennemente ebbe ad adempirsi, ed è cosa degna di considerazione, come due soli voti ottenessero i Piemontesi. Con voglie prontissime gli Avenzini confondevansi alla famiglia toscana.[458] Ottimo esperimento era cotesto, e pegno felice a bene sperare della Costituente _quando le vicende politiche ci avessero persuaso o costretto di ricorrere a lei_. Piemonte, mal soddisfatto, metteva innanzi non so quali irregolarità di votazione, e mandava di nuovo Carabinieri ad Avenza per tenervi lo ufficio. Inestimabile, e l'ho detto, fu la contentezza della Corona per l'esito di questo suffragio universale. Pareva a lei, come a chiunque altro, che procurare alla Toscana confini naturali fosse un bello acquisto, — e più ne letiziava il cimento prosperoso del voto. Nel decembre i Piemontesi tentano torci Panicale, per la qual cosa il Regio Commissario conte Del Medico si risentiva gagliardamente scrivendo al Delegato di Sarzana: «Devo significarle il dispiacere e la sorpresa che ho provato nel ricevere dal signor Sabatini, R. Delegato di Pontremoli, la notizia che a Panicale si fossero avvisati di procedere ad una votazione assistita soltanto da alcuni Sarzanesi, senza la presenza di verun Toscano, e, dirò di più, accompagnata da minaccie e da violenze. — Come non sentirne dispiacere? Oltrechè quei modi non sono civili nè onesti (non parlo della legalità la quale niuno vorrà per certo affacciare), non si addicono poi a popoli di amiche Potenze, e molto meno ad Italiani del nostro tempo.» Più tardi (referisco le parole del _Monitore_), correndo il 12 decembre, il villaggio di Parana fu preso da alquante milizie piemontesi, che ne cacciarono fuori le toscane;[459] tennero dietro i dissidii per Mulazzo, Calice, Pallerone, e terre altre parecchie, su di che vedi il _Monitore_ del 3, 12, 27 decembre 1848, e 6 febbraio 1849, e le corrispondenze officiali, _quando me le daranno_. Per queste tribolazioni sarde assai si turbava la Corona, e penso non dilungarmi troppo dalla verità, se confermo, che principalissimo motivo a renderle accetta la Costituente fu quello di potere opporla quando il bisogno stringesse alle tendenze corrosive sarde, che lievi adesso, ma tenaci, davano a pensare del futuro assai. Meschina contesa fu quella, per non dire di peggio; intorno alla quale una considerazione mi conforta, ed è questa, che la si deve attribuire unicamente a colpa degli _zelanti, flagello dimenticato dal Profeta Natan, e fatale a qualunque Governo_, il quale comunque per ordinario diligente venga distratto da cure supreme. Con simili premesse, come io dovea credere che di punto in bianco dal sospetto si traboccasse nella sconfinata fiducia? E come supporre vero, che, mutata di subito politica, la Corona si gittasse a occhi bendati in braccio al Piemonte? Non era mica indovino io; e badate, se anche avessi indovinato, non per questo mi sarei trovato meno deluso, conciossiachè se la Corona, cedendo a improvvidi consigli, chiamò un giorno il soccorso sardo, il giorno veniente lo disdisse: però io avevo buon fondamento a ritenere il soccorso sardo non vero, perchè non verosimile.[460] E qui ripeto, che l'obbligo di soccorrere quei Popoli alla nostra fede commessi ci correva grandissimo, dacchè pareva duro, dopo averli alienati dai Piemontesi, esporli adesso al loro risentimento, che pur talvolta provano anche i generosi quando si vedono disprezzati. Ad ogni modo il nostro dovere era cotesto, perchè, se i fati non ci vogliono uniti nel grembo di una stessa famiglia, la gente apuana serbi almeno per noi stima di probi, amore di fratelli. Quando conobbero menzogna lo intervento piemontese, cotesti Popoli mostraronsi a viso aperto contrarii al Generale Laugier, e con lettere pressantissime e messaggi dicevano: «Ci affrettassimo a liberarli dalla insopportabile molestia. Non essersi dati alla Toscana per patire le stravaganze di un soldato, che non adempiva al dovere, voltando la faccia colà dove non erano nemici.»[461] La chiamata dei Sardi con volontà della Corona, a cagione delle cose esposte, mi pareva incredibile; pure il Generale De Laugier bandiva in quel punto 20,000 Piemontesi passare la frontiera, sicchè malgrado avvisi in contrario era a dubitarsi che fosse così. Io pensai che Cesare De Laugier _italianissimo_ come perpetuamente vantava, preso da vaghezza di lode presente, e più dalla cupidità di fama futura, avesse di repente abbracciato il partito di unire la Toscana al Piemonte: non era strano, nè forte, supporre in lui il disegno, che intendesse collegare il suo Paese ai destini di un grande Stato italiano forte in su le armi, invece di lasciarlo andare in balía della cieca ed avventurosa _unificazione_ con Roma. In questa opinione confermavami la notizia di un Partito piemontese agitantesi da tempo remoto in Toscana; la permanenza di Piemontesi di gran seguito quaggiù, a cui mettevano capo con molta ostentazione tutti coloro, che si reputavano od erano parziali al Piemonte, _e il Generale Laugier, non dico che fosse, ma si riteneva fra questi_;[462] la riunione di parecchi personaggi al Golfo della Spezia per macchinare nuovità; e finalmente la natura stessa del Generale De Laugier, uomo della prestanza militare del quale non è da dubitarsi, però non sempre seco, per quanto parve, pienamente concorde. Nè questo agitarsi non dei Piemontesi, ma pei Piemontesi, a Lucca, era solo; temevansi eziandio le mene, provocate da cui non voglio dire, a favore di Carlo Ludovico, che, incominciate da parecchi mesi indietro,[463] furono rinvenute vitali dalla procedura conclusa col Decreto della Camera di Accuse della Corte Regia di Lucca in causa Santarlasci e consorti, da me citata a pag. 459-460 di questa Apologia. Ed oltre ai moti politici, da tempo antico covavano nel contado lucchese, e vi si erano manifestate, enormezze in senso di anarchia. «Il Prefetto di Pisa al Ministro dello Interno. — Oggi alle 4 circa, vetturini ed altri paesani lucchesi hanno rotto 4 o 5 verghe della strada ferrata a due miglia da Lucca, verso Pisa, e si sono opposti alle riparazioni che i lavoranti della strada volevano subito fare ecc. — 31 decembre 1848.» Parevami (e ciò sia detto, s'egli è mai possibile, senza inasprire gli animi che pur troppo dureranno inacerbiti), parevami eziandio che in tale impresa, dove più che nelle armi era da farsi capitale nella benevolenza dei Popoli, non fosse da preferirsi il Generale Laugier, essendo noto a tutti quanto da lui repugnassero e Lucca e Pisa e Livorno, nè troppo gli procedessero benevoli neppure in Firenze: colpa, io voglio credere, non sua, bensì dei mutabili umori del Popolo, a cui per rendersi accetto egli non omise argomento di sorta. Ma, insomma, quando vogliamo conciliarci il Popolo per via di blandizie, è pur mestieri non prenderlo a contro pelo nelle sue affezioni, ed anche nelle sue fantasie. E avvertite, che non fui mica il solo a credere che il Generale Laugier mancasse di mandato a operare come faceva. In certa sua Apologia, datata da Sarzana il 1º marzo 1849, e impressa nel _Risorgimento_, egli medesimo ne informa: «Non vedendosi comparire i Piemontesi, gli animi abbatteronsi: si suppose _mia invenzione_ lo intervento, e _perfino la lettera del Granduca_.» Pensoso, e gravemente pensoso del pericolo che minacciava la città per la estrema esasperazione, solita accompagnare la paura del pericolo e la violenza rivoluzionaria, intendendo al disegno di distrarre la mente accesa delle turbe cittadine dalla Spedizione di Porto Santo Stefano, e dal proclamare a tumulto la Repubblica, mi parve operare prudentemente, prima col Dispaccio del 18 febbraio a volgere i corpi volontarii armati, senza dilazione, verso Lucca, e più tardi a vuotare Firenze, se mi venisse fatto, di quanta più gente armata potessi: quantunque (e si noti con prudente discernimento) nel medesimo giorno alle ore 6 pomeridiane io sapessi, che i Piemontesi non sarebbero entrati,[464] e su le prime ore del giorno 19 mi giungesse la conferma di questa notizia per la parte del Delegato Regio di Massa.[465] Ho detto, che anche un pensiero di personale sicurezza mi spinse; della mia persona niente importa all'Accusa, e troppo bene lo dimostra in ogni suo atto; ma se un cotal poco di me a me premesse, vorrà ella per questo incolparmi di criminlese? In marcia i soldati non attendono ad agitazioni politiche, nè i cittadini stanno loro alle orecchie per sobillarli. Di questo mi rampogna l'Accusa, ma davvero anche qui ella si è affrettata troppo, però che io deva confessare avere sortito il mio concetto meno che mezzo. I soldati non toscani formarono _piccolissima parte_ della colonna spedita a Lucca, ed è agevole riscontrarlo negli Ufficii del Ministro della Guerra. Vennero alcune compagnie lombarde da molto tempo condotte ai nostri stipendii:[466] la massima parte erano Toscani; con loro partii; in mezzo a loro io stetti inerme. Mi circondavano i soldati medesimi che avevo trovato tumultuanti in Fortezza di S. Giovanni Battista. Le genti in mezzo alle quali io passava, nel vedermi circondato di ufficiali al nome italiano poco, ed a torto, creduti amorevoli, mormoravano. Ai soldati e agli Ufficiali toscani poi nemmeno mancava chi insinuasse condurli D'Apice ed io per tradirli nelle mani dei Piemontesi. Così nei tempi torbidi la perfidia mesce mostruose novelle, e così facile le accoglie l'armento degli uomini.[467] § 7. _Di una lettera del R. Delegato di Massa e Carrara._ Ho voluto differire a ragionare in questo luogo della lettera del Delegato Regio di Massa e Carrara del 13 febbraio. Il Decreto della Camera delle Accuse del 7 gennaio così dichiara alla pagina 84: «Al _Prefetto_ Staffetti il quale faceva noto al Guerrazzi con lettera del 13 febbraio, come le truppe acquartierate ai confini ricusassero di prestare giuramento e si sbandassero, il Guerrazzi con lettera privata _rispondeva_ che calunniasse e screditasse il Granduca nell'animo di Laugier, onde indurlo a seguitare il nuovo Governo.» Importa, come sempre, prima di tutto rettificare il fatto. Il Regio Delegato di Massa e Carrara queste cose mandava: 1º la milizia toscana a Pontremoli, negato il giuramento, sbandarsi, e verso la Capitale incamminarsi; 2º d'accordo col comando generale egli spedire Ufficiali a incontrarla per ricondurla al dovere; 3º ancora inviare parte della Guardia Civica a Fosdinovo per agire secondo i casi; 4º a Massa avere temporeggiato a deferire il giuramento alle milizie; 5º mancata la truppa di Linea, difficilissimo mantenere l'ordine nel Paese;[468] 6º doversi organizzare 5 o 6 compagnie di bersaglieri; 7º da Fivizzano indirizzare una Deputazione in cerca di truppa piemontese temendo invasione nemica. Se ciò sia vero si conoscerà leggendo la lettera stessa del Delegato, stampata a pag. 208-209 dei Documenti: «In questo momento giunge avviso al Comando generale da Pontremoli che la truppa non ha voluto prestare giuramento, che ha incominciato a sbandarsi, dichiarando incamminarsi verso la Capitale. «Di accordo col Comando generale, si spediscono alcuni Ufficiali per incontrarla verso Fosdinovo e procurare di ricondurla al dovere. Nel tempo stesso io parto per Carrara, per mobilizzare una parte di quella Guardia Civica, e la invio egualmente a Fosdinovo per agire a seconda delle circostanze. Vi è colà una compagnia di truppa di Linea, colla quale si vorrebbe impedire il contatto di questi traviati. «Qui, conoscendo le difficoltà d'indurre immediatamente come si voleva la truppa a prestare nuovo giuramento, si è temporeggiato, predicando la necessità di mantenere l'ordine, e procurando di disporla a poco per volta al giuramento stesso; ma le notizie sopracitate, unite ad altre che sono giunte di Lucca ed altri paesi, non so quale effetto potranno produrre. «Se manca la truppa di Linea non so cosa potrà accadere in questi paesi. Io faccio e farò risolutamente quanto sarà in mio potere per il mantenimento dell'ordine, ma questa volta l'affare è serio davvero. «Mandami subito il Capitano Franzoni che ti diressi con lettera pochi giorni sono, e manda qui a chi credi l'incarico di organizzare 5 o 6 compagnie di Bersaglieri, le quali potranno essere utilissime. Io non mi ricuso di fare quanto possa essere utile. Addio. «Massa, 13 febbraio 1849. «Tuo affez. «DEL MEDICO STAFFETTI. «Notizie del momento. «Da Fivizzano è stata mandata una Deputazione a Sarzana per cercare la truppa piemontese temendo di una invasione nemica. — Manderò staffette ogni qualvolta sia necessario.» La minuta, o appunto della risposta, dichiara in questa maniera: «Prefetto ed Amico, «Tieni forte: fa quanto credi; arma Bersaglieri: difendi i confini: lusinga, loda ed eccita l'onore del Laugier; senta nel profondo che Leopoldo II, senza pretesti, senza plausibile motivo, lasciò il Paese all'anarchia e all'invasione. Portò seco quant'oro potè; e sull'estremo lito, con un piede in terra e un piede sopra un naviglio inglese, sta speculando la guerra civile. Creeremo un'armata, troveremo denaro; e quando nulla potrem fare, anderemo all'aria.» _Tieni forte_, riguarda la difesa dell'ordine: _fa quanto credi_, si riferisce al mettere in moto la Guardia Civica: _arma i Bersaglieri_, considera la difesa dei confini: _le altre parole_ sono dirette a indurre il Generale ad operare gagliardamente in pro della Patria, e in benefizio di cotesti paesi. Quanto fosse in noi l'obbligo e lo interesse di difenderli, ho esposto altrove; se fosse necessario confermare in qual conto da noi Toscani meritamente si tenessero, io non avrei a fare altro che allegare le istruzioni dal Ministero Capponi conferite nel 22 settembre 1848 al Marchese Ridolfi inviato straordinario e ministro plenipotenziario del Granduca di Toscana alle conferenze di Brusselle, in quella parte in cui queste provincie gli si raccomandano: «.... Ciò che il Governo granducale chiede, e lo chiede opinando di avere molti titoli per ottenerlo, è la conservazione dei suoi attuali confini, quali furono determinati dall'atto di accettazione del 12 maggio 1848. La perdita di questi territorii nuovamente aggregati alla Toscana sarebbe per essa cagione di vivissimo rammarico; e ciò non tanto per la diminuzione che essa soffrirebbe del suo territorio o per altro fine di proprio e particolare interesse, ma perchè il Governo granducale è sinceramente convinto che i popoli della Lunigiana e della Garfagnana, recentemente aggregati, siano toscani e per geografica posizione e per rapporti commerciali e per affetto, e che la prosperità, che ai medesimi può derivare dal far parte della famiglia toscana, non sia per essi possibile di trovare nella unione con qualsivoglia altro Stato. I voti e l'affetto di queste popolazioni, la lealtà costantemente dimostrata dal Governo di S. A. R. nella questione italiana, i sacrifizii da esso fatti per la causa nazionale costituiscono altrettanti titoli degnissimi di considerazione, per i quali questo desiderio della Toscana non potrebbe senza ingiustizia non appagarsi....»[469] Certo le parole contenute nella estrema parte di cotesto mio appunto, dimostrerebbero animo mal disposto pel Principe là dove spontanee mi fossero uscite dalla penna. Ma quando furono esse vergate? Vogliasi rammentare: nel giorno 14 febbraio 1849, in quel giorno stesso nel quale, come confido avere dimostrato nelle pagine precedenti, la prepotenza della Fazione mi costringeva a spedire al Governatore di Livorno l'ordine di apparecchiare gente onde essere poi inviata per la Maremma. Agl'Inquisitori e' fu mestieri fare copia della lettera del Regio Delegato; accesi quindi gli avvisi e i comandi; coteste espressioni contengono l'eco di quanto stampavasi pubblicamente, e predicavasi; ed io scrissi lo appunto in discorso per acquietare cotesti arrabbiati; ma la ricerca, che doveva proporsi l'Accusa, e sopra la quale avrebbe potuto fondarsi, allorchè fosse stata quella scrittura spontanea, consisteva nel conoscere se il foglio fu spedito, se ricevuto dal Conte; se, adoperando gli argomenti indicati, ei si era fatto a scrollare la fede del generale Laugier. Ora tutto questo non prova l'Accusa, e non fu. Perchè non interrogò ella i miei Segretarii, tanto gli _eletti_ quanto i _reprobi_, voglio dire tanto i mantenuti in carica, quanto i congedati, se compilarono Dispaccio alcuno sopra le traccie di cotesto appunto? Perchè non ne ricercarono lo egregio conte Del Medico? Veramente, a cagione del suo amore per la Toscana, male gl'incolse, e forse, mentre io tribolava in carcere sotto le torture degl'interrogatorii, questo illustre amico mutava in terra non sua gli amari passi dello esilio; ma nel modo (ed è questo uno dei singolari trovati della presente Procedura) che i dimoranti in Firenze, per lettere s'interpellavano; anzi un po' a voce, e con giuramento, e un po' per via di epistole s'invitavano a raccontare il fatto loro; potevasi col medesimo mezzo richiamare anche il Conte, a somministrare schiarimenti in proposito. Veramente l'Accusa, sommando i suoi addebiti, di cotesta lettera non fa capo d'incolpazione, ma intanto ella la cita, ella la converte in risposta, la suppone spedita, e ricevuta; le giova nella composizione non giusta nè leale dell'atmosfera criminosa, nella quale si studiò sempre e si studia immergermi dentro. Io penso avere provato quanto la pressione da me patita fosse materiale e continua, tale da soddisfare la Legge anche nei casi ordinarii; ma per chiarire come altre forze e di altra maniera necessità valgano a costringere gli uomini politici, mi giovi riportare certa sentenza profferita da Odilon Barrot nella Seduta dell'Assemblea di Francia del 19 luglio 1851 che mi cade adesso sott'occhio: «Bisogna confessare, che occorrevano allora una certa corrente d'idee, tali e siffatte preoccupazioni degli spiriti, certe morali necessità, le quali fanno sempre sentire la loro pressione sopra gli uomini politici. Quante volte nelle nostre secrete discussioni intorno ai punti che adesso si affacciano, circa i pericoli che avevamo preveduto, e la esperienza confermò, quante volte non intesi io rispondermi: — Certo voi avete ragione, non oggi però; più tardi: adesso lo stato degli umori, la corrente, le preoccupazioni impediscono ad accettare le vostre idee!» § 8. _Minaccie d'incendii e di saccheggi._ E poichè sento in cuore carità di patria, andando, confidai prevenire i casi pei quali tutta guerra civile viene esecrata meritamente. La fortuna (ed io perciò le perdono ben molte offese) di tanto mi era in questa parte benigna, che lo esito rispose alla speranza. Onde io rimasi sbigottito davvero, quando mi conobbi accusato di avere incusso timore di saccheggio e d'incendii. Questa turpe accusa è scomparsa, come piace a Dio, nel Decreto del 7 gennaio 1851 e nell'Atto di Accusa; ma fu scritta nel Decreto del 10 giugno 1850: onde riesce pieno di sconforto pensare come uomini cristiani possano con tanta leggerezza aggravare di scellerate accuse il capo di un uomo cristiano. Di me troppo era consapevole, avvegnadio quasi per iniziare il carattere di cotesta Spedizione, appena giunto in Empoli, volli ogni trascorso rimesso agli Empolesi, e riceverli in grazia come buoni fratelli: e già mostrai in che guisa premurosamente ammonissi i Livornesi, passando per Empoli, ad osservare _buona condotta, e a rammentarsi che cotesti popoli, comecchè momentaneamente traviati, ci erano pur sempre fratelli_. Tanto riposi solertissima cura a inspirare sensi di umanità in tali fortunose vicende, dove la voce di lei per ordinario si fa meno ascoltare! Nonostante rilessi affannoso se per avventura taluno vi avesse aggiunto qualche espressione maligna, e la Dio mercè di simile minaccia io non trovai vestigio. Questa sarebbe stata contradizione al mio scopo, il quale fu implorare pace, e portarla; impedire effusione di sangue; appena nata, sopprimere la guerra civile. Di ciò dia prova, che informato come la colonna condotta dal Petracchi si avanzasse sopra Pietrasanta precorrendo la colonna D'Apice, nello intento di ovviare ogni probabile conflitto, anzi ogni ingiuria, e anche semplice iattanza, non meno che per istudio della militare disciplina, non esitai ad avventurarmi solo per vie non sicure; e giunto in tempo, le ordinai riprendesse la via di Viareggio. L'ordine venne eseguito, non ostante la stanchezza dei soldati, e il _non celere_ obbedire.[470] Ne sieno prova il comando ai soldati di portare fronde di olivo nella bocca dello archibugio scarico e su i caschi, e il perdono concesso largamente a tutti. Se questo non feci a De Laugier, ciò avvenne, perchè prima di attendere la risposta si era fuggito; però ai signori Compagni e Salvioni, intercedenti per lui, dissi che non sarebbe stato senza grave pericolo rimanersi allora in Toscana, e che lo consigliavo a ritirarsi in Piemonte, _dove liberissimo intendevo lasciarlo andare_. In qual parte, pertanto, incussi timore di saccheggio e d'incendii? Forse nel Dispaccio da Pisa inviato _nel 21 febbraio 1849_ al Prefetto di Lucca? Quivi si parla del Decreto del Presidente del Governo Provvisorio contro De Laugier; si protesta ritenere _per apocrifi gli atti di lui, perchè nè il Governo nè il Municipio ha ricevuto da Leopoldo II veruna dichiarazione autentica in proposito_; avere il Governo sentito il bisogno di reprimere la guerra civile nei suoi primordii; venire io mandato con 3,000 uomini e D'Apice generale, a disperdere gli autori dello attentato. Per avventura i saccheggi e gl'incendii s'incontrano nell'Ordine del Giorno ai Soldati, in data di Lucca, del 21 febbraio? Ma no, quivi anzi si palesa il modo col quale intendevo mandare ad esecuzione il Decreto, che poneva il Generale De Laugier fuori della Legge: — _fugga, sgombri dalla nostra terra_; — e quivi è l'ordine di non combattere: «Portate un ramo di olivo sopra i vostri caschi, perchè voi non venite a suscitare, ma a reprimere la guerra civile.» Con quale, non dirò probità, ma fronte, avrei potuto io nel giorno 22 febbraio volgermi ai Cittadini, ponendo la condotta del Governo in parallelo con quella del Laugier, se avessi minacciato gli orrori dello incendio e del saccheggio? «Cittadini! — Un soldato ribelle ordina si straccino le Notificazioni del Governo Provvisorio, eletto dall'Assemblea nazionale e dal Popolo. Il Governo Provvisorio all'opposto ordina, che le stampe di cotesto soldato vengano diffuse e affisse sopra le cantonate. Il Governo intende che il Popolo, confrontando, giudichi e veda: come il soldato adoperi parole di menzogna, il Governo di verità; — il soldato ecciti la maledetta guerra civile, il Governo si affatichi richiamare i fratelli a concordia, necessaria sempre, santissima adesso che l'Austriaco torna a minacciare la desolazione nel nostro diletto Paese; — il soldato tolga il presidio alle frontiere, il Governo spinga la gioventù, atta alle armi, a difenderle; — il soldato calpesti la legge e la nazione, il Governo legge e nazione sostenga; — il soldato tenti spegnere la civile libertà nel sangue dei cittadini, il Governo procuri conservarla intera; — il soldato semini l'anarchia, susciti la Patria a sanguinose reazioni, il Governo voglia conservare l'ordine e gridi _pace, pace_. «Tacciano le discordi opinioni, tregua alle parti. Soldati toscani, il vostro posto non è contro il soldato toscano, ma sì alle frontiere contro il comune nemico. Cittadini, l'odio vostro non contro voi, ma deve volgersi contro l'Austriaco, che vede le vostre discordie, e ride. Il Governo co' voti più ardenti del suo cuore supplica Dio che cessi, appena nata, l'empia guerra: richiama i traviati ad avere pietà se non di altrui almeno di sè stessi; spera dovergli bastare a questo fine una parola di affetto, desidera essere risparmiato da più penoso ufficio; ma quando accadesse diversamente, sappiano i perversi pertinaci avere dichiarato il Governo, chiunque con parole, con scritture, o con fatti si adoperi aizzare la guerra civile, traditore della Patria, e come tale doversi punire con tutto il rigore della Legge. Il Governo farà in modo, che la sua dichiarazione non rimanga parola vana, e lo abbiano per inteso.»[471] Vedasi il Proclama diretto ai soldati del Generale Laugier in data di Camaiore, del 22 febbraio (il quale non pervenne loro, e fu inutile, perchè già eransi sbandati): in quello io dico, «che voglio abbracciarli, dimenticare ogni trascorso, perdonare lo involontario fallo; tornino in famiglia per combattere il solo nemico che abbiamo, lo straniero.» Vedasi la Notificazione datata da Camaiore nel medesimo giorno, essendomi qui pervenuta nuova della intenzione manifestata da alcuni di arrestare la madre del Generale Laugier;....[472] di qual tenore ella fosse vedete qui sotto. Mi risponderanno, preservare uno annoso ed innocente capo dalle furie di uomini perversi, fu dovere, nè può somministrare adesso argomento d'ingenerosa iattanza. Ed io dico: sta bene; dovere fu, non argomento di lode; non mi si dia, non la cerco; ma neppure si converta il dovere in subietto di accusa. Ed io mi difendo da accuse. Se poi taluno volesse appuntarmi per l'espressioni che adoperai in cotesto Proclama, lo pregherei a tenere sempre fisso nella mente lo esempio del Lafayette e del Fauchet, che non dubitarono valersi di parole bene altramente gravi, per salvare Foulon, o Luigi XVI; e la Storia, invece di biasimarli, gli loda per l'arguta loro pietà.[473] Nelle tempeste rivoluzionarie se si avesse a guardare le parole, che la necessità pone su le labbra, o su la penna, guai a tutti quelli, che sederono, sedono, e sederanno Ministri! Sarebbe più agevole far passare un cammello traverso la cruna dell'ago, che assolvere un Ministro da queste stolide imputazioni; gli uomini di Stato e i Politici opinano così: è opera di Accusa, quando _speculando il suo calendario crede il sole entrato nel segno del mastino_, andare a cercare il nodo nel giunco, e dai detti e dai gesti ricavare materia di perduellione. Non senza raccapriccio, io credo, gli Storici prudenti noteranno, e già hanno notato, come la Riforma Leopoldina del 1789 di cosiffatte esorbitanze purgava la Toscana. Del progresso abbiamo avuto assai: oh! chi ci fa stornare, di grazia, sessantadue anni!...... Nulla d'incendio e di saccheggio nel Dispaccio spedito al Presidente del Governo Provvisorio datato parimente da Camaiore il 22 febbraio; il quale mi giova riferire non solo per mostrare che non fu mai proposito ricorrere a questo mezzo ch'è infamia dei popoli civili, ma eziandio che non ve ne fosse bisogno, atteso l'arrendevolezza per tutto incontrata. «Al Presidente del Governo Provvisorio. «Al mio giungere in Lucca, senza perdere tempo, deliberai correre _contro_ Laugier e _verso_ i nostri fratelli in tre punti. Uno per la strada littorale di Viareggio, dove mandammo i Livornesi con ordine che fossero sostenuti per mare dal Vapore il _Giglio_. In Val di Serchio furono lasciati in riserva i Civici Pisani. Il secondo verso il Monte-Chiesa, dove il Maggior Petracchi si era spinto col solito generoso ardore, distendendosi fino a Macellarino. Il terzo per la via di San Quirico verso Camaiore, dove Laugier aveva raccolto maggior copia di gente e posto tre pezzi di artiglieria. «Era ordine _a tutti di procedere a schioppo scarico con ramoscelli di olivo nella bocca del medesimo e sui caschi; dove avessero incontrato resistenza fossero andati innanzi, domandando se per la empietà di un uomo i fratelli dovessero trucidare i fratelli_. L'anima mi esulta nel poterle dire che i Toscani ingannati da Laugier, appena seppero che per la parte di San Quirico mi avvicinava col General D'Apice, protestarono che non intendevano combattere contro i loro concittadini, onde da Montemagno, ove Laugier aveva posto un pezzo d'artiglieria e diverse compagnie, si ripiegarono sopra Camaiore, e quinci, per quanto ci viene riferito, sopra Pietrasanta. _Entriamo adesso a Camaiore, alle 5 e mezza pomeridiane, fra il suono delle campane e gli applausi di tutte le popolazioni accorse dalle campagne circostanti, che acclamavano al Governo Provvisorio, alla Italia, alla Libertà. Il Municipio indirizza la protesta che si compiega qui dentro_. «Appena riposati qualche ora, è proponimento nostro passare oltre. Qui mi giunge la consolante notizia che il Petracchi con la sua colonna è entrato in Viareggio _in virtù delle medesime disposizioni dei nostri fratelli Toscani_. «Nessuna nuova di perviene di mosse piemontesi, anzi avendo mandato un amico mio[474] e del Gioberti a Sarzana per sapere un po' se, egli Ministro, i Piemontesi avessero a comprimere la Libertà in Toscana, con promessa che, ove trovasse dato simile ordine al Generale Piemontese colà stanziato, sarebbe tornato ad avvisarmi, od altrimenti avrebbe proseguito per Torino, non si è più visto; e tutto porta a credere che la invasione Piemontese _fosse una brutta calunnia del Laugier_. Dove, contro il diritto delle genti e lo interesse medesimo dei Piemontesi, questi passassero la frontiera, noi anderemo loro incontro collo stesso ulivo in cima alle armi, e gl'interrogheremo se i nemici dei Piemontesi sono i Toscani o se gli Stranieri, e gli costringeremo a nome della Patria e della Libertà a procedere uniti con noi alla difesa della Patria. Credo debbano esser queste per tutti i cuori generosi liete novelle. Nella fiducia di potergliene partecipare ben presto anche migliori, mi dichiaro di Lei ec. «Camaiore, 22 febbraio 1849.» Perchè incutere timore di saccheggio e d'incendio, se le popolazioni mostravansi lietissime di accoglierci, e noi invitavano a liberarle con incessanti messaggi? Dove dalle mie labbra fosse uscita la immanissima minaccia, come avrei avuto abilità di lasciare ai Lucchesi il seguente Manifesto? Io vado lieto per averlo dettato, perchè spira intero l'anima mia. Del mio intelletto ho, com'è debito, opinione rimessa; ma non così leggermente concedo che altri possa vincermi per altezza di cuore. «Lucchesi! «I deboli nella inaspettata vittoria _si mostrano crudeli_. Il Popolo nel trionfo dei suoi diritti, come colui che si sente fortissimo, è _sempre generoso_. Il Governo, nelle cui mani fu confidata la rappresentanza del Popolo, sa mantenersi all'altezza del suo mandato: _egli non ricorda le ingiurie disoneste ed ingiuste di cui era posto segno ne' tempi passati; e se le ricorda, le perdona. Come vinse i suoi nemici armati con fronde d'ulivo, così egli intende vincere i suoi detrattori colla persuasione e con la magnanimità. Si assicurino pertanto tutti i suoi avversarii, perchè la passata malevoglienza, invece di somministrare al Governo argomento di persecuzione, dà titolo loro di amplissima tutela_. Quelli soltanto che le procedure iniziate paleseranno cospiratori contro la Patria saranno _giudicati a norma delle leggi veglianti_; depongano il pensiero che il Governo intenda procedere _a modo di Dittatore e rinnovare le proscrizioni sillane. Egli assunse il carico di mantenere tranquillo il Paese, finchè l'Assemblea nazionale non decida delle sue sorti: questo intende fare, e questo con ogni supremo sforzo farà_. Il Governo darà opera infaticabile a stringersi con gli altri Stati Italiani per combattere la sacra guerra della Indipendenza. Tutti quelli che sentono carità di Patria devono cospirare a questo scopo. Il Governo indirizza le sue preghiere ad ogni classe di cittadini, e segnatamente poi _ai Sacerdoti, onde essere sostenuto nell'arduo assunto_. I copiosi di beni terreni ricordino che con poco danaro dato alla Patria acquisteranno onore grande e sicurezza di non rimanere disfatti dai rapaci stranieri. I Sacerdoti tengano in mente che l'albero della Libertà deve crescere fortunato accanto alla Croce. Una volta la Libertà fu bandita coll'abolizione di ogni culto divino; adesso si predica Cristo iniziatore di Libertà. _Noi abbiamo fatto molti passi verso i Ministri dell'Altare; deh! ne muovano essi uno solo verso di noi_. Anche la Libertà è una Religione nutrita di lacrime di popoli desolati, santificata col sangue dei Martiri, ed essa pure merita la benedizione del Cielo. Non sieno i Sacerdoti ribelli ai voleri di Dio, perocchè Dio con segni manifesti protegga visibilmente la Causa Santa della Libertà e della Indipendenza Italiana.[475] Possano queste parole, che ci partono dal cuore, avere virtù di vincere gli animi più renitenti, _indurli a deporre gli odii e gli sdegni, e ad unirsi una volta nel concorde volere di dare salute alla povera Patria, che a mani giunte a tutti i suoi figliuoli supplica_ PACE. «Lucca, 26 febbraio 1849.» Se io con gli atti smentii le mie parole; se la lingua dolosa pronunziava ipocriti accenti, sorga l'accusatore, e mi vituperi: possano i miei avversarii, come me in questa parte, aspettare il giudizio degli uomini e di Dio senza paura. A completare i Documenti che furono mia fattura, mi giova citare una frase del Dispaccio telegrafico del 21 febbraio 1849 riportato a pagine 487 del Volume dell'Accusa: «Le cose andranno bene. Penso al Piemonte;» e l'altra contenuta nella lettera del 22 febbraio riportata poc'anzi: «ho mandato a Sarzana uno amico del Gioberti, e mio.» Come pensavo io al Piemonte? In che guisa? Con quali termini? Certo gl'Inquisitori dei Circoli non mi si staccavano dai fianchi, ma adesso, in Lucca, era più libero; mi confidava con persona amica in procinto di partire. A Pasquale Berghini io consegnava questo scritto pel Ministero Piemontese: «Berghini, «Siete amico mio, e più della Patria; quindi vi dichiaro essere la verità: «Che la Costituente Italiana fu liberamente accettata dal Principe col consiglio del Ministro d'Inghilterra. «Che partì da Firenze sempre promettendo sollecito il ritorno. «Che tardando a tornare, e mandandogli noi la nostra dimissione, rispose, stessimo al nostro posto, sarebbe quanto prima tornato. «Che dopo simulata infermità andava via senza indicare il luogo ove intendeva celarsi. «Che il Ministero, considerando da una parte offeso il patto costituzionale, dall'altra la impossibilità di governare, depose, come doveva, i suoi poteri nel seno dell'Assemblea. «Che l'Assemblea e il Popolo elessero il Governo Provvisorio per provvedere alla quiete e all'ordine del Paese. Sostenere adesso da taluno dei Deputati che non votarono con libertà, è menzogna: «1º Perchè la necessità li costringeva ad eleggere un Governo Provvisorio; «2º Perchè nella Sala delle Conferenze anche prima di entrare in Seduta pubblica, e prima che il Popolo invadesse l'emiciclo della sala, avevano determinato l'elezione del Governo Provvisorio; «3º Perchè i Deputati in parte uscirono, ma per le mie veementi rimostranze, cacciato via il Popolo, i Deputati tornarono, mentre nessuno li costringeva, unitamente al Presidente, e votarono, dopo discussione, all'unanimità. «Il Governo non poteva governare con Camere nate da legge elettorale conosciuta difettosa, e perciò le ha convocate di nuovo sulla base del voto universale. Queste Camere sono convocate pel 15 marzo: più presto non si poteva. _Il Popolo irrompe e vuole Repubblica_. Il Governo con tutte le forze ricusa prendere la iniziativa per dichiarare la Repubblica, e la fusione con Roma. Intende che tutta la Nazione rappresentata legittimamente, e con maturità di consiglio, decida delle sue sorti. Ma sforzato da questa posizione, che gli sembra ed è legalissima, in primo luogo si difenderà dalle ingiuste aggressioni, ed in secondo luogo, _ritirandosi_, lascierà a cui spetta, tutta la odiosità d'avere protetto, mentre invadeva il comune nemico tedesco, la guerra civile in Italia. «Lucca, 21 febbraio 1849. «GUERRAZZI.» Lo scrissi allora, nè mi sembra dovermene pentire adesso. Se Vincenzo Gioberti, invece di essere preso da quella sua caldezza che parve soverchia, e se invece di stimarmi, a torto, dei maneggi politici di Giuseppe Mazzini svisceratissimo, avesse voluto sperimentare da sè, io vado convinto che noi ci saremmo trovati d'accordo; però che io non mi senta presuntuoso così da ostinarmi nel mio concetto, e quanti mi conoscono sanno che di buon grado ascolto, e, dove trovi avere errato, di leggieri il confesso. La mia scrittura pertanto apriva l'adito a interrogazioni e a schiarimenti, e a senno mio le prime potevano ridursi a due: Perchè la Convocazione dell'Assemblea col suffragio universale? Qual fine ve ne ripromettete voi? Io gli avrei risposto, con parlare succinto, quello che verrò diffusamente ragionando fra poco, e allora io penso che il Ministro Gioberti avrebbe potuto, con vantaggio grande della Patria comune, interporsi mediatore fra il Paese e il Principe; certificarlo dello scopo mio, e confortarlo ad aspettare lo esito del rimedio proposto, siccome quello che si addiceva meglio ai tempi, al Paese, al decoro, e alla contentezza dell'universale.[476] Il signor Farini nel tomo III della Opera altrove citata a pag. 223 afferma: «Queste dichiarazioni del Guerrazzi erano consentanee a quelle che il Governo Provvisorio aveva già pubblicate, nè a mutare le risoluzioni del Governo Piemontese potevano essere efficaci.» In primo luogo ha da notarsi, che lo intervento piemontese in Toscana fu concetto particolare a Vincenzo Gioberti, non già del Governo Piemontese, se dobbiamo ritenere per vere le dichiarazioni parlate da Urbano Ratazzi nella Seduta del 21 febbraio 1849 della Camera dei Deputati piemontesi, e le scritte da Domenico Buffa, che in quei giorni governava Genova. In secondo luogo domando: e perchè le mie dichiarazioni non dovevano avere la virtù di mutare il concetto di Vincenzo Gioberti intorno allo intervento piemontese in Toscana? Forse la bandita Costituente toscana chiudeva irrevocabilmente l'adito a qualsivoglia mezzano partito? La Costituente doveva per necessità sopprimere il Governo Costituzionale in Toscana? I rimedii vi erano, e buoni, e lo stesso signor Farini gli ha scritti, ma non ha meditato, come agli storiografi si addice, a sufficienza su quelli; o forse gli obliò, o forse, e questo parrebbe più grave, gli ha voluti dimenticare. Quando Roma nel gennaio del 1849 ebbe bandita la Costituente, Vincenzo Gioberti non reputò rotta ogni via di accordo col Pontefice; all'opposto tenne, che per essa potesse condursi a fine la pratica di onorevole e fortunata conciliazione. «Illustrissimo signor Presidente. — Ricevo da Gaeta la lieta notizia, che il conte Martini fu accolto amichevolmente dal Santo Padre in qualità di nostro ambasciadore. Tra le molte cose che gli disse il Santo Padre pel conto degli affari correnti, questi mostrò di vedere di buon occhio che il Governo Piemontese s'interponesse amichevolmente presso i rettori ed il popolo di Roma per venire ad una conciliazione. Io mi credo in debito di ragguagliarla di questa entratura, affinchè ella ne faccia quell'uso che le parrà più opportuno. Se ella mi permette di aprirle il mio pensiero in questo proposito, crederei che il Governo romano dovesse prima di tutto usare influenza, acciocchè la Costituente che sta per aprirsi riconosca per primo suo atto i diritti costituzionali del Santo Padre. Fatto questo preambolo, la Costituente dovrebbe dichiarare che per determinare i diritti costituzionali del pontefice uopo è che questi abbia i suoi delegati e rappresentanti nell'assemblea medesima, ovvero in una commissione nominata e autorizzata da essa Costituente. Senza questa condizione il papa non accetterà mai le conclusioni della Costituente, ancorchè fossero moderatissime, non potendo ricevere la legge dai proprii sudditi senza lesione manifesta non solo dei diritti antichi, ma della medesima costituzione. Se si ottengono questi due punti, l'accordo non sarà impossibile. Il nostro Governo farà ogni suo potere presso il pontefice affinchè egli accetti di farsi rappresentare, come principe costituzionale, dinnanzi alla commissione o per via diretta, od almeno indirettamente: ed io adoprerò al medesimo effetto eziandio la diplomazia estera, per quanto posso disporne. Questo spediente sarà ben veduto dalla Francia e dall'Inghilterra, perchè conciliativo, perchè necessario ad evitare il pericolo d'una guerra generale.»[477] Perchè Vincenzo Gioberti, che sì manieroso mostravasi a Roma, voleva dare alla Toscana il pane con la balestra? Hassi a ritenere pertanto, che Gioberti un po' per isdegno concepito per mendaci rapporti, un po' cedendo alle insistenti suggestioni di cui non importa dire, deviasse in questa faccenda dalla prudente gravità dell'uomo di Stato. Questi Documenti, la difesa del mio onore mi ha persuaso allegare; e non tanto per respingere da me la temeraria imputazione appostami dal Decreto del 10 giugno 1850, ma molto più ancora, perchè porgono manifesta testimonianza di tre cose a ritenersi notabili: _Prima_, come io reputassi e dovessi reputare la mossa del Generale Laugier operata senza il consenso della Corona, e contraria agl'interessi della Patria, a parte qualunque quistione intorno alla forma di reggimento. _Seconda_, come in tutti questi atti emanati da me, sempre circuito dallo inquieto sospetto degli Inquisitori rivoluzionarii, pure lontano alquanto dalla violenza immediata io non adoperassi verbo nè facessi allusione alcuna relativa alla Repubblica: riscontro sicurissimo dell'animo mio intorno a questo particolare. _Terza_, come per me non fossero incarcerati, nè si ordinasse incarcerarsi Sacerdoti; i quali no, mai, se Sacerdoti davvero, io mi condurrò a credere nemici della Patria nostra, a noi tutti, quanti sortimmo nel suo grembo la vita, per tanta bellezza, e più per tanta sventura sommamente diletta. § 9. _Corruttela delle milizie laugeriane, e di tutte in generale, e accusa del giuramento._ A materia ingrata subentra altra ingratissima. Nel modo di concepire dell'Accusa, so bene io che cosa ella intenda per corruttela, e come non le piaccia nè le giovi distinguere; a me all'opposto talenta analizzare ed esporre dirittamente la materia al giudizio altrui. Ora, se per corruttela si voglia indicare la indisciplina delle milizie, apparirà strano davvero che a me si attribuisca; se invece per corruttela s'intende la parzialità dimostrata a difendere la Patria, la repugnanza a seguire, e la prontezza ad abbandonare il Laugier, si vedrà del pari come male possa essermi attribuita. E innanzi tratto, favelliamo del Decreto che scioglie le milizie dal giuramento. Questo Decreto fu apparecchiato per ordine di non so cui, e presentato alla firma; io ricusai firmarlo, sì perchè i nostri sindacatori non lo esigevano, sì perchè ho piccola opinione dei giuramenti, i quali dovrebbero legare moltissimo, ma alla prova vediamo che stringono pochissimo: ne abbiamo uditi tanti di questi benedetti giuramenti! — Breve; di giuramenti non sono partigiano gran fatto, perchè l'uomo probo, e che teme Dio, non ha mestiero di altro ritegno, che il timore di offenderlo; e per lo improbo, i giuramenti sono come funi a Sansone quando aveva i capelli cresciuti.... E Cristo maestro lasciò scritto: «sia il tuo parlare: _sì, sì; no, no_; il soverchio a queste parole viene dal maligno.» Ho letto ancora, che Ugo Foscolo, il quale per fede intemerata fu, piuttosto che raro, unico al mondo, soleva portare uno anello dove erano incise le parole: _est, est; non, non_; nobilissima impresa, che ognuno che voglia può meritare. Nonostante la mia opposizione e la mancanza della mia firma, il Decreto venne stampato, e col mio nome. La sera il Generale D'Apice accorse ad osservarmi come gli paresse cotesta provvidenza inopportuna, ed io gli rispondeva approvando il suo concetto; solo non comprendere il motivo delle sue riflessioni, però che io mi fossi astenuto da firmare il Decreto, e non avere voluto che si stampasse. Egli replicava averlo letto: io soggiungeva essere impossibile; finalmente chiesto il _Monitore_, esaminando, trovo il Decreto stampato. Procedei alle debite indagini, interrogai ufficiali e stampatori, e chiarii come lo sconcerto nascesse dal costume, che mi assicurarono antico, di raccogliere i Decreti dalla tavola dei Ministri, e farli firmare dopo stampati. Più del costume pessimo ed antico, scusava poi la nuova pressura, imperciocchè ai Decreti nostri sovente accadde quello ch'ebbe a sperimentare il Governo Provvisorio di Francia nei suoi, «i quali, pretesi con gridi impazienti da quelli che accorrevano a dimostrarne la urgenza, erano portati via e stampati, prima che fossero sottoscritti dai Componenti il Governo Provvisorio.»[478] Questo fatto molto di leggieri poteva chiarire l'Accusa interrogando gli ufficiali del Ministero dello Interno, tanto gli _eletti_ quanto i _reprobi_, e qualcheduno degl'impiegati alla compilazione del _Monitore_; potevasi eziandio ricercare il Generale De Laugier, che presentasse la mia lettera, dove di questo fatto gli si ragiona; e al D'Apice era dato somministrare in proposito testimonianza pienissima; ma tanto è pervertito il fine dell'Accusa, così, falsato il suo instituto, ella dimentica lo ufficio che le commise la Società, che il vero teme, e fugge, se nuoccia al fine della condanna. Nè qui, nè a questo soltanto si limitò l'Accusa; e quante volte i testimoni vollero deporre quello che venne loro dettando la coscienza, udironsi dire da taluno degli Esaminatori: «_basta.... non importa altro_!» Questo nasce dal pervertimento delle nozioni più ovvie intorno allo ufficio del Ministero Pubblico, che fino dal principio di questo lavoro noi con l'autorità del Guizot deplorammo. Non è duello, no, lo incontro del Ministero Pubblico col prevenuto; questo sarebbe scelleratissimo, imperciocchè rinnuoverebbe lo spettacolo dell'uomo inerme gittato alle bestie feroci; — sarebbe pagano. Un credente di Cristo, Santo Telemaco, incontrò il martirio perchè questa infamia presso gli antichi Gentili cessasse nei circhi; ora potremmo noi moderni cristiani patirla rinnuovata nei fôri? No; — la Legge e la Società non hanno istituito il Ministero Pubblico avvocato, furiere e provveditore del patibolo; egli non deve fare dell'accusa un patrimonio suo proprio: non deve mettervi gara, come se si trattasse vincere un palio. Se, non vincendo l'Accusa, il Ministero Pubblico corresse pericolo dell'azione della calunnia, comprenderei, se non la fede, almeno il bisogno del sostenerla tenacemente. La Società e la Legge chiudendo il prevenuto, e sequestrandolo da ogni relazione, circondandolo di terrori, saziandolo con pane d'angoscia.... hanno confidato alla religione di chi presiede al Ministero Pubblico d'indagare sottilissimo le ipotesi della innocenza e della colpa; altrimenti il giudizio diventa assassinio giuridico. La Società e la Legge non sentono bisogno, molto meno vantaggio, a punire: in ciò non guadagnano la prosperità, nè la morale, nè la economia pubblica, nè nulla. Se alla religione del Ministero Pubblico la Società non confidasse altro che la _vittoria della pena_, come potrebbe resistergli il prevenuto? Chi cercherà le difese per lui? Chi lo assisterà? Chi supplirà con lo ingegno e la pacatezza a quanto gli rapiscono il tedio del carcere, e le ansietà della procedura? Come mai il prevenuto, sbigottito e solo, durerà davanti l'Accusa fredda, acuta, esercitata da lunghissima scherma, sovvenuta da cento braccia e da cento occhi, terribile Briareo? No; — l'Accusa è tutela di verità: se dimentica il suo instituto, o lo calpesta; se le prove della innocenza sopprime; se i testimoni favorevoli esclude, o non ascolta, o non provoca a dire quello che sanno; se i mezzi per chiarire la verità rigetta, — paga solo di quanto ella pensa capace per la condanna.... allora, perchè si raddoppiano impieghi? Perchè si commettono inutili spese? Il carnefice può fare tutto da sè. Continuando adesso io dico, che se l'Accusa con le sue imputazioni vuolsi referire alla mia visita nel Castello di San Giovanni Battista, io colà mi recai in compagnia del signor Montanelli con la semplice intenzione di esaminare la indisciplina della milizia, che da ogni parte mi affermavano vergognosa. Trovai la Fortezza chiusa, remosse le sentinelle, Popolo stipato sotto le mura, parte dei soldati alle trincere, parte vaganti, e le milizie e il Popolo avvicendarsi ingiurie e sassate. Fatto aprire le porte, il Popolo vi sì precipitò, ma venne, con molta difficoltà, respinto, adoperandomivi io stesso. Dentro, tumulto infernale. Anche cotesta fu trista giornata. Le milizie schieraronsi in tre file, due laterali, una di faccia; da sinistra i Volontarii gridavano: Viva la Libertà! Viva il Governo Provvisorio! — Verso questi si avviò il signor Montanelli. Io, accompagnato dal Colonnello Baldini, m'incamminai al centro. Qui sorgevano diverse le grida; alcuni urlavano: Viva Leopoldo! — Altri: vogliamo andarcene! — Altri finalmente, e questi erano i troppo più: vogliamo la _massa_! Alcuni artiglieri, ma rari, minacciavano volerci puntare contro i cannoni. Passando davanti alla Linea, non una, nè dieci, ma cento volte dissi: che il Governo non costringeva nessuno; e chiunque volesse ritirarsi, lo facesse liberamente; noi poi non essere nè padroni, nè signori, nè nulla; soltanto preposti a mantenere illeso lo Stato a benefizio dello Stato medesimo, e di quello a favore di cui si sarebbe dichiarato il voto universale; ognuno di loro avrebbe potuto votare come meglio credeva. E queste cose diceva in parte suggeritemi dagli stessi Ufficiali, che mi assicuravano come i soldati ritenuti a forza avrebbero voluto partire; e lasciati partire, avrebbono voluto rimanere. Così invece di esortare i soldati al giuramento, e incutere timore ai repugnanti, la verità è, che per me concedevasi a tutti facoltà amplissima di restare o di andare. Le mie proposizioni compariscono vere dalle cose che seguono: Nel giorno stesso ci pervenne la seguente Protesta: «Ai Signori Membri del Governo Provvisorio. «L'ordine, la Patria e la Guerra della Indipendenza, essendo la divisa di tutti gli Uffiziali toscani, quelli della milizia stanziale di Firenze protestano altamente pel loro onore in faccia alla Toscana e alla Italia tutta, che i loro sentimenti non concordano con quelli espressi questa mattina da una parte dei loro sottoposti ai signori Membri del Governo Provvisorio, e pregano il Governo suddetto a rendere di pubblica ragione la presente dichiarazione. «Firenze, dalla Fortezza di S. Giovanni Battista, li 11 febbraio 1849.» Questa Protesta presentava l'intero collegio degli Ufficiali dei Volontarii, del Reggimento di Artiglieria e del 4º di Linea: l'originale è negli Archivii, la copia nel _Monitore_. Pochi soldati si prevalsero della facoltà di partire; e i partiti, come gli Ufficiali presagivano, tornarono chiedendo essere ammessi al giuramento, che avanti rifiutavano. — (_Monitore, 12 febbraio 1849_.) A Pontremoli i soldati reputandosi sciolti dalla milizia, disertano con arme e bagaglio; ma breve tratto di cammino percorso, tornano addietro, e parte spontanei, parte persuasi dagli Ufficiali, giurano. — (_Monitore, 15 febbraio_.) A Portoferraio varii soldati tumultuano; vengono repressi dai Sedentarii, timorosi che non si vogliano unire ai galeotti per mandare in subbisso la città. — (Monitore, 15 febbraio.) Gli Ufficiali delle milizie stanziate all'Elba mandano al Governo Provvisorio la seguente Protesta: «Gli Uffiziali del 2º Battaglione del 3º Reggimento di Linea, di guarnigione a Portoferraio, protestano, nulla avere risparmiato per quanto loro incumbeva, onde prevenire gli eccessi commessi nei tre precedenti giorni da molti individui del Battaglione medesimo. Quindi solennemente dichiarano di avere disapprovato l'accaduto, avvenuto con loro dolore per subdoli raggiri, e di non approvare quanto fosse per seguire di consimile, giacchè i sottoscritti intendono di servire fedelmente alla Patria, all'Onore, al Governo Provvisorio, e a tutto ciò che per le superiori disposizioni potrà contribuire alla tanto sospirata Indipendenza Italiana. «Portoferraio, 13 febbraio 1849.» A questa Protesta accenna il Dispaccio del Ministro della Guerra, al Governatore di Portoferraio, del 16 febbraio 1849. «Pervenuta a questo Ministero per l'organo del Maggiore Orselli Comandante il Battaglione che trovasi ora in cotesta Città, una Protesta di cotesti Ufficiali, che fa loro onore, il Ministero medesimo non può che esternare su di ciò la piena sua soddisfazione, scorgendo in essa quei sentimenti che non possono andar disgiunti da chi apprezza la Patria, l'onore, ed i voleri di un Governo eletto dalla pluralità dei voti di un Popolo.»[479] Sessanta soldati soli partirono dalla Elba, e sessanta tumultuarono a Livorno. Qui il Popolo gli arrestò. Lo Stato Maggiore del presidio di questa Piazza protestò devozione al Paese rappresentato allora dal Governo Provvisorio. Sopra gli altri il maggiore Pescetti, che non rifiniva di persuadere i soldati, com'essi non avessero a badare tanto in là, e dovessero difendere con tutta l'anima da qualunque invasione straniera la Patria, che gli nudrisce e paga durante la vita intera, perchè col braccio la proteggano un giorno. — (_Monitore, 15 febbraio 1849_.) A Lucca, tranne pochissimi, soldati e Ufficiali si mostrarono pronti di obbedire al concetto di mantenere il Paese quieto dentro, difeso fuori, fino al resultato del voto universale; e invece di aspettare insinuazioni o abbisognarne, mandavano agli altri proclami per trasfondere in essi lo ardore dal quale, a sentirli, si dicevano animati. La Linea senza riguardi voleva la _Repubblica_: «Fratelli d'Italia! «Non seconda è la Linea a quei sentimenti che _Veliti e Granatieri_ hanno mostrato alla Nazione; essa pure sente nel cuore l'alto disimpegno che l'è affidato, sente gli affetti di Patria, l'idea sacra della Libertà. Il traviamento di pochi, che ogni sforzo all'opera non omesso a ricondurli al giusto e perfetto sentiero (_sic_), non sia per dare idea di corruzione nel totale. «Pronta ed avida di far mostra di sè al mantenimento dei diritti sociali, alla difesa della Libertà e della Indipendenza d'Italia, anela quel momento di stringere la mano d'unione al Popolo, per nuovamente combattere il comune nemico, quando chiami la tromba all'onorato appello. «Sì, Fratelli! giura altamente esser con voi e con le altre milizie, nella brama che la Patria risorga, e vendicare quei valorosi che un dì pugnando morivano sui campi lombardi. «Viva il Governo Provvisorio toscano! Viva la Repubblica Romana ec. ec. ec. «Livorno, 15 febbraio 1849. «LA LINEA.» Più rimessi i Granatieri, pubblicavano parole portentose a dimostrare la gran voglia che provavano di farsi fare a pezzi, pei fini di che avverte lo stupendo loro Proclama, «Livornesi! «Alcuni soldati, dimentichi di sè stessi, ignari del proprio dovere, a scherno di noi tutti, tentarono la fuga, e corse voce per ogni via di Livorno, essere dei Granatieri; _ma, siccome galleggiano in seno al mare le navi, così l'innocenza più leggiera galleggia sopra l'infamia e i delitti_.[480] Vi supplichiamo a disprezzare e non credere i retrogradi che amano porre discordie fra il Popolo e i Soldati. «No, non vogliamo che rida su di noi lo straniero, non vogliamo che le _Armi Fraterne_, intente alla difesa della Patria, _brandiscano contro i petti nostri_, ma anzi l'impeto del nostro furore le faccia sfavillare nella gente nemica allorquando pugneremo a fronte i diritti della bella Penisola, e la tanto sospirata Libertà. (_sic_.) «Livornesi! ogni cittadino è soldato; _or dunque facciamo di noi salda catena, la quale sarà di cilicio al barbaro Croato che tenterà spezzarla_. «Sì, giuriamo tutti sul _tricolore Vessillo_, di farci fare in brani pria che vederlo sventolare in mani tedesche. Fratelli! scordate quei detti pestiferi vomitati da _Vipere velenose_, amanti di discordia fra noi, la rovina di tutta l'Italia; _è loro che fuggitivi_ (_sic_) vogliamo che sentano il peso di quella pena quale si deve ai _Traditori di Patria_. Uniamoci, e la vittoria è certa. «Viva il Governo Provvisorio! Viva l'Italiana Indipendenza! Viva l'Unione. «S. B. — I GRANATIERI.» Le Guardie di Finanza (e fecero bene, e le lodai allora di Palazzo, e torno a lodarle adesso di prigione) accorsero spontanee a tenere in rispetto Empoli che sembrava volere rinnuovare il guasto della odiata strada a vapore.[481] Nè mancarono i Veliti, chè anzi primi fino dal 12 febbraio, non contentandosi di favellare ai soldati Toscani, si rivolsero a tutti quelli d'Italia, e loro dicevano.... Ma sarà meglio ch'eglino stessi i proprii concetti manifestino: «A tutti i Soldati Italiani di Toscana! «Fratelli! Camerati! L'affetto e la riconoscenza ad un uomo è un lodevole sentimento; ma il sentimento più puro e più nobile è quello del Cittadino verso la sua Patria. Prima di rivestire una uniforme di soldato noi eravamo Cittadini, e tuttora siamo Cittadini a buon titolo, poichè vestiamo le insegne e portiamo le armi dei difensori della Patria. Rispettiamo noi stessi nei Governanti eletti dal voto del Popolo, di quel Popolo di cui noi pure facciamo parte. Riserbiamo le ire contro il nemico comune, contro lo straniero oppressore dell'Italia, e giuriamo di volere essere soldati e difensori di questa Italia, madre comune di tutti noi, di questa Italia che fino a quest'oggi fu debole perchè divisa in brani, ed ora comincia ad esser forte perchè si unisce al cenno di Roma, della città che Dio ha posto a capo e centro della forza e della gloria italiana. Fino a quest'oggi il superbo straniero rideva dei soldati toscani del Papa, e gl'insultava chiamandoli guardie del Santo Sepolcro. Ma lo straniero non riderà e non insulterà ai guerrieri della grande Nazione Italiana. Uniamoci dunque in un amplesso fraterno ai nostri concittadini, e gridiamo con loro: «Viva il Popolo Italiano! Viva Roma eterna! Viva l'Italia! «Firenze, 12 febbraio 1849.» (Seguono le firme dei componenti il Reggimento Veliti.) E non si voglia dimenticare, in grazia, che in quel giorno stesso, 12 febbraio, io mi opponevo allo inalzamento dell'Albero della Libertà in Firenze, e che nel giorno seguente, 13, soldati toscani e Popolo empievano i cortili di Palazzo Vecchio, con tremende grida proclamando la Repubblica; in fine, che soldati erano quelli che, poche ore prima, avevano appeso bandiera rossa alla magione reale. Il giuramento non conteneva in sè espressione o concetto il quale, in modo irrevocabile, alienasse i soldati dalla Monarchia Costituzionale: presentava anch'esso il carattere di provvisorio; e quando pure avesse dovuto ritenersi permanente, anche alla restaurazione dello Statuto applicavasi: «Giuro fedeltà e obbedienza alle Leggi e ai Poteri esecutivo e legislativo costituiti e _da costituirsi dal libero assenso del Popolo_. Giuro difendere e sostenere col mio sangue la _sacra bandiera italiana_ sotto cui ho la fortuna di militare, e di non mai abbandonare o vilmente cedere il posto che mi verrà affidato. Giuro sdegnare qualunque relazione col nemico della Patria. Giuro di non usare le armi che contro i suoi nemici sì interni che esterni. Giuro di prestare obbedienza a tutti i miei superiori, e rispettarli e difenderli.»[482] Porge testimonianza della verità di quanto poco anzi affermai, che nessuno soldato fosse stato violentato, anzi nemmeno blandito a rimanersi, l'_Ordine del giorno_ dell'11 febbraio 1849: «Il Capitano interrogherà ciascun soldato della sua volontà di servire la _Patria_, oppure abbandonare le bandiere. Quelli che vorranno continuare saranno raccolti ec. — I soldati poi che avranno deciso abbandonare le bandiere, verranno immediatamente licenziati senza congedo alcuno. Il Governo Provvisorio rilascerà loro la giacchetta di panno e il berretto di fatica.»[483] L'Auditore Padelletti nell'Atto del 27 agosto 1849 dichiara: «Non feci Processo verbale perchè non vi era bisogno, essendo liberi di andarsene quelli che non volevano servire il Governo Provvisorio.»[484] Come a me poco importasse di questo giuramento l'ho dimostrato riportando la lettera spedita al Consigliere Paoli nel 13 febbraio 1849, nella quale si legge la sentenza: «_Non abbiamo bisogno di giuramento_; ma se pure lo prestano, meglio che mai.»[485] Nè quanti rifiutarono giurare ebbero a patire per parte del Governo Provvisorio molestia: all'opposto si accettarono di nuovo, reintegrandoli facilmente nei loro gradi e titoli di anzianità. «Il Governo Provvisorio, volendo attribuire ad aberrazione momentanea di mente, anzichè a mala volontà, il fatto di quei militari che ricusarono di prestarsi al giuramento di fedeltà alle nuove istituzioni, ha ordinato che vengano riammessi al servizio, senza perdita di anzianità, tutti coloro che pentiti del commesso fallo si sono di già costituiti e si costituiranno alle militari bandiere per riprendervi il corso della rispettiva Capitolazione. — Firenze 17 febbraio 1849.»[486] Dai quali fatti deduco, ed il dedurlo è lieve, non avere punto bisogno le milizie toscane delle mie insinuazioni per dichiararsi favorevoli al Governo Provvisorio; recandomi inerme e solo in compagnia del Montanelli, non potere usare violenza alla milizia, ma all'opposto essere in facoltà della milizia ritenerci prigioni; gli Uffiziali delle tre armi, onoratissima gente, se le mie parole non fossero state ristrette in questa formula: «Qui non si tratta altro che di difendere la Patria, e questo di voi altri soldati è dovere supremo. In quanto al Principe o forma di Governo, dipenderà deciderne all'Assemblea _toscana_ eletta con suffragio universale. Voi pure, soldati, darete il voto alla persona, o persone, che penserete più acconcie a sostenere il vostro voto;» (se, dico, così da una parte e dall'altra non fosse stato detto ed inteso), è da credersi che da me, inerme, in mezzo a loro, dentro Fortezza chiusa, avrebbero con equo animo ascoltato proposizioni di tradimento? Può egli supporsi, che essi avrebbero mandato spontanei, senza che nessuno gliela chiedesse, padroni del Castello assoluti, la protesta del 12 febbraio contro una parte della milizia, se i sensi manifestati da questa fossero stati tutti affetto, tutti spiranti benevolenza e devozione al Principe? Avrebbero eglino pregato il Governo a rendere pubblica la dichiarazione di non concordare co' sentimenti espressi da una parte della milizia? — No, ripeto, qui non si trattava tradire nessuno, lo intenda bene l'Accusa, sibbene tutelare la Patria fino al voto dell'Assemblea: — no, le grida dei pochi soldati non suonavano devozione, ma sì piuttosto impazienza di servizio militare, e cupidità di recuperare le _masse_ perdute. Adesso esamino se le milizie laugeriane potessero essere per opera mia corrotte, o spaventate da me. Le milizie dopo le rotte sogliono rilassare la disciplina; questo noi vedemmo accadere anche negli eserciti incliti per militari ordinamenti, come a mo' di esempio quelli di Napoleone; le nostre milizie, dicasi con rammarico, non avevano mai avuto il pregio della disciplina, e per maggiore stroppio erano state vinte. Non è mio studio trattare qui dei modi di comporre ed istruire lo esercito in Toscana; basti dire, ch'eglino erano tali, da produrre effetti pessimi, e li partorirono. Gli Ufficiali disprezzavano i soldati a un punto, e temevano; i soldati avevano a vile gli Ufficiali, e gli odiavano; non fu spettacolo capace di rassodare la disciplina davvero la mutua detrazione. Il Generale Laugier, preso da impeto, coperse di obbrobrio a Valleggio gli Ufficiali, al cospetto dei soldati. Per avventura poteva avere ragione di concepire amarezza inestimabile contro gl'imbelli, ma si ha da confessare eziandio, che il modo tenuto tagliò alla radice la disciplina. Cotesti Ufficiali non potevano più durare al comando. Non importa che io dica come occorressero nobili eccezioni, e non poche, e queste al confronto quanto da un lato facevano risaltare la bontà dei soldati virtuosi, così dall'altro svelavano come il male fosse profondo pur troppo. Che cosa, di rovina in rovina, diventasse il nostro esercito sarà bello tacere, imperciocchè dopo la vergogna vediamo avanzare una strage nefandissima dalla quale il pensiero inorridito rifugge.[487] Io narrai come la massima parte dei soldati raccolti in Castello di San Giovanni Battista, indifferente ad ogni sentimento, urlasse: «_Vogliamo andarcene! La massa! La massa!_» La soldatesca laugeriana, uguale in tutto a questa, non aveva in bocca gridi diversi. Nello scritto che ho citato sopra, impresso nel _Risorgimento_, egli stesso, il Generale Laugier, dichiara che nel 16 febbraio: «aumentava la diserzione e la indisciplina nelle truppe; mancava il danaro per pagarle.» Più oltre: «Moltissimi ordini di previdenze militari non sono eseguiti.» Ancora: «Truppe e cavalli non avevano preso nutrimento; compagnie senza cappotto; mancano fieno e biada; cavalleggieri privi di portamantelli. — A Montemagno _ordino strattagemmi guerreschi_, che non furono eseguiti con diversi pretesti.» — «Le truppe, egli aggiunge, erano piene di entusiasmo, _non però quelli_, fra queste, _che temevano di pericolare il proprio sostentamento, e famiglia_.» A cui coteste parole accennassero, di lieve si comprende, imperciocchè i soldati semplici non abbiano famiglia, nè il soldo loro sia tale da farli paurosi di perderlo. Convoca gli Uffiziali e propone loro o ritirarsi in Piemonte, o far testa a Fosdinovo: rigettano l'uno e l'altro partito; vogliono capitolare. — A un tratto gli giunge notizia del campo di Porta in piena rivolta; — «ai soldati essere stato assicurato (egli continua) averli io traditi, e fuggito in Piemonte. Gli esorto a ricondursi all'ordine, e seguirmi a Fosdinovo, ma rifiutano ostinatamente gridando: _A casa! La paga! La massa!_ — Il Colonnello Reghini e molti Ufficiali assistevano impassibili a quella brutalissima scena. Coloro stessi che io reputai più fidi, mi avevano abbandonato. Volli che il Commissario di Guerra Pozzi mi mostrasse la cassa; negava: la pretesi; costretto, aprì; eranvi poche centinaia di lire; l'obbligai a consegnarle al Capitano Traditi, e ne feci ricevuta. — Ordinai all'artiglieria, alla cavalleria, ai buoni soldati, seguirmi a Fosdinovo. _Gli Uffiziali_ non mossero. — Cercai coloro che formavano parte del mio Quartiere Generale, ed avevano oggetti per me necessarii, che avevo loro affidati al momento della partenza: non potei mai trovarli! — Mi fermai all'Avenza con la speranza di vedermi, se non altro, raggiunto da quelli che mi avevano le mille volte giurato non volere la loro dalla mia sorte dividere, o almeno restituirmi quello che avevo loro affidato. Inutile!» Riuscirebbe difficile, per non dire impossibile, ritrarre con tinte più scure la indisciplina soldatesca, nè questa poteva essere opera del momento, sibbene derivata da origine remota; e come si vede, poco, anzi nulla, desumeva da opinioni politiche, ma tutto da voglia di ridursi a poltroneggiare a casa co' danari della _massa_. Nè dicasi che questo portento di disordine nascesse dal mio Proclama del 22 febbraio 1849, però che óstino due ragioni, una più forte dell'altra; la prima, perchè cotesto Proclama non fu impresso, nè pubblicato; la seconda, perchè innanzi che io muovessi da Lucca, De Laugier, deliberato a partirsi, mandava l'ultimo addio ai _Popoli della Versilia_. E queste mi paiono ragioni, che anche dall'Accusa si potrebbero capire. I soldati toscani un po' per colpa dei successi, e moltissimo per quella degli uomini, erano ormai ridotti a tale, che, qualunque mutamento in loro accadesse, non poteva essere che in meglio. Don Mariano D'Ayala, personaggio di quella rettitudine che tutto il mondo sa, si dimise dal Ministero della Guerra, sgomento di riuscire a condurre la milizia a termine ragionevole di disciplina.[488] Quello che il Generale D'Apice ne pensasse, può ricavarsi da questi brevi cenni, contenuti nella lettera del 27 febbraio 1849, pubblicata nei Documenti dell'Accusa a pag. 72: — «Alla mia entrata in Massa, vi trovai il Caos; ed ho dovuto mandare le truppe di Laugier ad organizzarsi altrove, per dopo richiamarle. — Una compagnia italiana dovei spedire a Firenze, per evitare la dissoluzione di quel corpo, _conseguenza della indisciplina della truppa, della quale io non ho colpa. — Gli Uffiziali_ del mio Stato Maggiore sono animati del migliore spirito, e pieni di zelo e di attività. _Cosa farà la truppa? Lo ignoro_.» Il Ministro della Guerra, Colonnello Tommi, malgrado i suoi sforzi lodevolissimi, non venne a capo di nulla; ond'è che giustamente commosso, uscì col seguente Ordine del Giorno, che ben dimostra quale e quanta fosse la disperazione del male, atteso i rimedii gagliardi, ch'egli si proponeva adoperare: «Uffiziali, Sotto-Uffiziali, Soldati! «La giustizia non può sostenere più a lungo la indisciplina che disfà l'armata. Ogni mite consiglio, ogni mezzano temperamento sarebbe una ingiuria alla Patria, che versa in tanto rischio, da esigere come dal cittadino ogni sagrifizio estremo, così dal soldato ogni prova più estrema di valore. Nè il valore può essere disgiunto dall'ordine, che solo costituisce la forza degli eserciti; e l'ordine è calpestato da voi. Fiacchezza nei comandi, ribellione nelle compagnie, soldati faziosi, inobbedienti, disertori; ecco il miserando spettacolo che la Toscana ha dinanzi ogni giorno. E la Toscana non può soffrirlo, noi non vogliamo, voi nol dovete, ove pensiate uno istante alla ignominia vostra e del vostro Paese. Su dunque, sentite per voi stessi una volta riverenza di uomo, ed amore di soldato; e trattenete con contegno migliore la mano della Giustizia, che pende inesorabile sopra di voi. Noi l'amministreremo senza pietà, poichè la pietà sarebbe così per voi estrema rovina, come per noi incancellabile vergogna.» Se non che a guasto antico male si ripara con parole; e le minaccie, e i rigori stessi, tornano inefficaci nella estrema corruzione; sicchè il meglio è disfare, ed a questo partito penso che si sieno attenuti; ma tanto basti allo increscioso argomento di dimostrare come le milizie del Generale Laugier e le toscane tutte fossero di per sè e da gran tempo corrotte. Prima però che io mi parta dallo ingrato soggetto promosso dalla suprema indiscretezza dell'Accusa, e da me assunto per necessità di difesa, abbiano meritata lode i generosi soldati che si mostrarono degni di fortuna, non di causa migliore; — con grato animo io la profferisco loro, e desidero ch'essi non l'abbiano meno accetta, perchè venga dalla parte di un prigioniero. § 10. _Perchè il Generale Laugier si partisse da Massa._ Apparisce chiaro del pari, che non per me il Generale De Laugier fosse costretto ad allontanarsi. Due vie egli aveva per riuscire alla impresa: o una forza irresistibile e materiale, o un consenso universale di Popolo. Per la prima aveva mestieri del soccorso piemontese, per la seconda no. La seconda era scevra da conflitto sanguinoso, e da guerra civile; la prima difficilmente, imperciocchè le armi allora non erano poche in Toscana, terribile il furore della gente armata, e la concitazione di parte del Popolo maravigliosa; ed una volta venute a riscontro le due schiere, l'una avrebbe voluto andare innanzi, e l'altra spingere indietro, la quale cosa come possa definirsi senza zuffa tra uomini che tengono le armi in pugno, e si reputano nemici, io non so vedere. Ad ogni modo questo partito venne meno, col rifiuto o con la disdetta dello intervento piemontese.[489] Avanzava l'altro; ma non correva la stagione opportuna, nè poteva farlo riuscire De Laugier, come ho notato poco anzi: questo doveva partirsi dal centro ed estendersi alla periferia: alla rovescia, senza molto polso di armi, non vedemmo mai riuscire simili moti, perchè hanno sembianza di aggressione, e trovano i Popoli indifferenti o contrarii; nè ricorrere alla forza diventa meno incomodo a cui l'adopera che a quello contro cui si adopera, conciossiachè per esempii quotidiani rimanga chiarito come quegli che usa la forza si trova sempre, per vicenda di casi, tratto più in là che non voleva; e sostenuto da gente cupida, e spesso anche pessima, almeno in parte, ch'è del pari pericoloso accettare o ricusare, comincia co' consigli proprii e termina sempre o quasi sempre con gli altrui: per le quali cose, trovandosi debole suo malgrado, è costretto ad abbracciare partiti violenti, e, posto ormai sul pendio, bisogna che vada.... e vada tuttavia — prima di passo, e poi di corsa a precipizio. Il tempo pertanto non era opportuno; e il modo anche meno: ritornerò fra poco su questo argomento. Frattanto giovi notare come De Laugier, incontrate appunto le popolazioni indifferenti o avverse, depose giù dall'anima la impresa avventata prima assai che io mi muovessi da Firenze. Di vero, la mia partenza fu il 20 febbraio, ed egli ci racconta nella sua Relazione del 1º marzo, che _nel 17 già era solo; non secondato che da pochi, contrariato segretamente dalle autorità politiche e governative, in niun luogo aveva appoggio, meno in lui solo_.[490] Viareggio non si mostrava disposta a contrastare co' Livornesi, essendo fra loro dimestichezza grande a cagione dei commerci;[491] più tardi protestò apertamente contro De Laugier.[492] Pietrasanta non si commosse,[493] Lucca e Massa mormoravano contro di lui.[494] Carrara gl'insorgeva nemica, Camaiore ci accoglieva festosa; soldati Piemontesi non venivano; i suoi per fame, per difetto di paga, per indisciplina, sbandavansi; tutto questo basta, e ce n'è di avanzo, per fare capitare male un disegno importuno. Ma in conferma del vero, stiamoci agli stessi laugeriani Proclami. Nel _21 febbraio_, appena entrato io a Lucca, egli così avvisava i Pietrasantini. «Pietrasantini! «Io voleva sostenere i diritti di Leopoldo Secondo mio legittimo Sovrano; le popolazioni non hanno corrisposto; siamo pochi, e perciò mi ritiro, perchè mi ripugna di versare il sangue cittadino.» Nelle prime ore del giorno 22 febbraio mi pervenne nelle mani questo altro: «Popoli della Versilia! «Voleste risparmiar l'_orrore di una guerra abbominevole_, io vi aderisco; nessuno desidera versare il sangue cittadino, meno dell'_Italianissimo_ Generale De Laugier.» Veramente nella sua Relazione datata 1º marzo, Sarzana, copiosa d'inesattezze, egli c'insegna come nel 21 febbraio fosse _deciso andare a Lucca_, e nella notte ritirandosi avesse _ordinato a Montemagno strattagemmi guerreschi_; e se non condusse a fine il primo proponimento, e' fu perchè le milizie nol vollero, o nol poterono seguitare; il secondo (che non mi sembra diretto a risparmiare sangue) gli fallì, perchè _sotto diversi pretesti non venne eseguito_. — Che che di ciò sia, il Generale Laugier nelle prime ore del giorno 23 partiva per Sarzana. — A me si presentò la Deputazione Massese in Pietrasanta, nel giorno 23 febbraio, verso le ore 2 p. m.[495] Da tutto questo, se non erro, mi sembra provato: che io a Lucca andai per sottrarmi a presentissimo pericolo; nel concetto di allontanare dalla città in momenti di esasperazione gente arrabbiata; per rendere innocua la Spedizione, la quale, senza me e contro me, con offese e con morti sarebbesi fatta; e rimane chiarito eziandio, come non paure d'incendii o di saccheggio io incutessi, ma parole civilissime e cristiane favellassi, perdono a tutti concedessi, i soldati del Generale Laugier non corrompessi (poichè tanto, più guasti di quello ch'erano non si potessero fare, nè pervenisse a loro il mio Proclama; anzi prima che io lo scrivessi, si fossero, molto per colpa loro, moltissimo per colpa di chi li lasciò senza paga e senza pane, sbandati); Laugier non costringessi a partire, come quello che i Piemontesi non vollero soccorrere, le popolazioni seguitare, i soldati obbedire; finalmente che in tutto quel successo io non favorii la Repubblica, anzi neppure la rammentai nei pubblici Atti, malgrado i focosi eccitamenti degli uomini mandati dalla Fazione repubblicana a sorvegliarmi; e che pei fatti e per le ragioni politiche io ritenni, e doveva ritenere, la mossa del Generale Laugier, operata senza il consentimento del Principe, contraria agl'interessi della Patria. Che mal consiglio fosse cotesto, e capace di sobbissare il Paese con la guerra civile, universalmente, crederono, ed io allora credei, e credo ancora. I Popoli se ne commossero prima, e se ne rallegrarono poi come di lutto domestico evitato. Santissimi Vescovi ne resero, _spontanei, grazie solenni a Dio_! XXVI. Leggi Statarie. Il Decreto del 10 giugno 1850 espone, che la Legge Stataria del 22 febbraio 1849 ben fu firmata dai signori Mazzoni, Romanelli e Mordini, — e dal Guerrazzi, il 2 marzo, abrogata, — ma in conseguenza della protesta del Municipio fiorentino contro questo _eccezionale e riprovato_ sistema di Procedura. Gli altri Documenti dell'Accusa quasi litteralmente concordano. Certo io non nego, anzi con grato animo ricordo avere io conferito sovente, intorno alle condizioni della Patria, col signore Ubaldino Peruzzi, il quale, cedendo alle mie istanze e a quelle di persone a lui amiche, accettò la carica di Gonfaloniere di Firenze che, me proponente, S. A. gli commise. Lo reputai allora uomo probo e di ottima mente, e non ho motivo per ricredermi adesso della concepita opinione. Veramente i suoi consigli, come meritavano, accettavo; i soccorsi suoi e del Municipio, che gli aveva _promessi leali_, mi davano animo a durare nella opera perigliosa di tenere ordinato il Paese;[496] ma della Protesta del Municipio non seppi niente, come quella che fu presentata nel 24 febbraio, quando stavo lontano da Firenze, dove tornai il giorno 26 del medesimo mese.[497] Dai Documenti dell'Accusa si ricavano due cose: che la Deliberazione Municipale intorno alla Legge Stataria non era pubblicata in virtù di altra Deliberazione Municipale; e che quantunque simile sospensione si decretasse per la promessa ottenuta dal Governo di revocarla il giorno dopo, pure nè il Governo credè conveniente revocare la Legge, nè il Municipio pubblicare la Protesta.[498] Dunque _non è vero_, che indotto io dalle Municipali Proteste la Legge Stataria abolissi. È vero soltanto, come nel primo marzo, il Cavaliere Ubaldino favellando meco intorno alle ragioni della Legge del 22 febbraio, io venni di mano in mano esponendogli i motivi pei quali non l'aveva per anche abrogata: — siffatte Leggi, di leggieri io consentiva, avere a durare poco, e piuttosto per incutere terrore, che per mandarle ad effetto; ed oggimai per me la Legge del 22 il suo effetto avere partorito in Firenze. Allora egli mi diè contezza delle Deliberazioni Municipali, e sempre persistendo nella censura della Legge, e raccomandandone la revoca, si persuase dei pericoli imminenti dai quali doveva difendere il Governo Provvisorio lo Stato, sicchè promise _fare opera che il Municipio aggiornasse la pubblicazione delle sue rimostranze_. Però, nonostante che le promesse il Cavaliere Ubaldino adempisse (Ubaldino Peruzzi, Gonfaloniere di Firenze, sapeva allora, e non dubito che saprebbe anche adesso mantenere le sue promesse, perchè onorato) intorno allo aggiornamento,[499] — convocati i Colleghi dimostrava loro, che io di cotesta Legge non sapeva che farmi; e siccome taluno sembrava tentennare, io gli domandai: «Se avrebbe sostenuto, egli Toscano, che soldatesche palle rompessero il petto ad uomini toscani?» Alla quale interrogazione avendo con subita vivezza ed atto di orrore risposto di no, allora io soggiunsi: «Dunque in nome di Dio togliamola via.» E il 2 marzo l'abrogai, malgrado che nel giorno stesso mi pervenisse la lettera del signor Gonfaloniere Peruzzi, con la quale mi assicurava che il Municipio consentiva ad aggiornare la pubblicazione delle sue Deliberazioni. Quindi anche qui erra l'Accusa, governata dal destino nemico, che non le concede imberciarne pure una; ed è vero che io toglieva la Legge giusto in quel punto, che in certo modo il Municipio non si opponeva a farla durare. Si ritenga pertanto, che fino al 2 marzo non solo dissuasi, ma volli che la Legge Stataria durasse; e che nel 2 marzo, nonostante che paresse a taluno aversi a mantenere, io instai ed ottenni di farla cessare. Ora dirò le ragioni per le quali non l'abrogai al mio primo giungere a Firenze. Il Circolo di Firenze annunziava[500] avere spedito Commissarii nelle Provincie onde eccitare i Popoli ad accorrere alla Capitale, per _mandare ad effetto_ la proclamazione della Repubblica, _già decretata dal Popolo fino dal 18 febbraio, ed accettata dai Circoli e dai Municipii toscani_; in altri termini, a compire una rivoluzione per rovesciare il Governo Provvisorio, e sostituirvene altro di loro fattura. Già fino dal 23 febbraio comparivano indizii di vicina tempesta, e il _Nazionale_ gli aveva notati.[501] Nel 27 febbraio due Compagnie, una del Battaglione Italiano, l'altra di Volontarii Lucchesi, e molta mano di Popolo, si fanno ai quartieri della Cavalleria a Pisa, e menano i soldati a percorrere le vie della città, acclamando alla Repubblica.[502] Da Lucca muoveva una Deputazione a Firenze, per costringere il Governo a proclamare la Repubblica, e unirsi a Roma, a seconda di quanto venne annunziato col N. 465 dell'_Alba_.[503] Notabilissimo poi è il rapporto del Consigliere di Prefettura Ciofi, il quale dimostra quali e quante sottili astuzie adoperassero gli Arrabbiati, insinuando perfino essere desiderio del Governo di parere sforzato _ad abbandonare la via della legalità, e procedere con la rivoluzione_; sicchè anche Siena veniva da cima in fondo rimescolata, per violentare il Governo, e dichiararsi per la Repubblica.[504] Fra i Documenti dell'Accusa occorre lettera del Circolo popolare di Vicchio al Circolo del Popolo di Firenze, colla quale si lamenta, che il ritardo di posta abbia impedito di mandare gente al convegno in Firenze, su la Piazza del Popolo, per proclamare la Repubblica, e la Unione con Roma.[505] A Pisa, invece di scemare, il furore cresce di giorno in giorno, e si vuole ad ogni costo piantare l'Albero, e costringere l'Arcivescovo a cantare il _Te Deum_.[506] Per siffatti successi in parte accaduti, e in parte facili a presagirsi, il Partito Costituzionale con ardentissimi voti mi chiamava a Firenze; e i Faziosi, che prima avevano veduto la mia partenza con sospetto, mandatemi le spie dietro, e finalmente smaniando di paura, si erano ingegnati a farmi richiamare appena mosso; ora non volevano che io ritornassi; anzi, mentre il Partito Costituzionale mi proseguiva di lode,[507] eglino decretarono, e su pei canti appiccarono i cedoloni, che il Popolo non mi venisse incontro, o mi accogliesse freddamente. Di vero, non s'ingannavano; imperciocchè, appena giunto a Firenze, chiamato dal Popolo con altissime grida a mostrarmi, uscii sul poggiuolo del Palazzo, dove arringando dissi, — che il Popolo non porgesse ascolto ai falsi amici; sarebbe stata tirannide, non libertà, imporre a forza e a tumulto alla Patria una forma di reggimento per la quale tutto il Popolo toscano aveva diritto di pronunziare il suo voto; la Legge si rispettasse, il Decreto dell'Assemblea eletta col suffragio universale si attendesse. Nè i Giornali del Partito tacquero il male concepito dispetto, chè l'_Alba_ nel suo Nº del 27 febbraio 1849 biasimando stampava: — «ma il Popolo sa quando e perchè applaudire, e ciò ne dimostrano tanto gli evviva agli eccitamenti patriottici dello illustre Cittadino, _quanto il silenzio profondo con cui venne accolta la dichiarazione di lui circa al ritardo nel proclamare la Repubblica, e nello unirsi con Roma_.» — E nella guisa che riportai a pag. 192 di questa Apologia, ammonii gravemente il Prefetto di Pisa e il Governatore di Livorno, con Dispaccio telegrafico del 27 febbraio delle ore 5 pom. E subito dopo, il Governo pubblicava in Firenze il Proclama, che nel Volume dei Documenti si legge stampato alle pagine 573 e 851: «Toscani! «Il Governo Provvisorio ha convocato l'Assemblea Toscana, e i Deputati alla Costituente Italiana, col voto di tutto il Popolo Toscano, affinchè decidano intorno alle sorti del nostro Paese: questo fatto, assunto di faccia a tutta la Nazione, deve essere e sarà mantenuto. «I principii dei componenti il Governo attuale sono bastantemente noti, per non rimanere dubbii sopra il partito che essi prenderanno nell'Assemblea Toscana, e nella Costituente Italiana. «Il Governo intende che sia interpellato il voto del Popolo, e si deliberi intorno cosa di tanto momento con maturità di consiglio e libertà di scelta. «Chiunque presumesse trascinare violentemente la Patria, e con manifesta tirannide, fino di ora è considerato traditore della Patria, per essere giudicato a norma della Legge del 22 febbraio 1849. «Al Governo fu commessa dal Popolo e dalla Assemblea Toscana la custodia della Libertà e la difesa dei diritti popolari; egli intende e vuole governare in benefizio della Libertà e del Popolo, e combattere la tirannide sotto qualsivoglia aspetto si presenti. «Firenze, 27 febbraio 1849.» G. MONTANELLI. F. D. GUERRAZZI. G. MAZZONI. L'aura popolare, che mi tornava favorevole, soffocate per ora le calunnie di tradimento, mi dava animo ad avventurare siffatti linguaggio e partito, cogliendo ogni occasione perchè lo spirito pubblico, sicuro di non rimanere per prepotenza soverchiato, prendesse coraggio a manifestarsi liberamente. A Livorno i provvedimenti praticati partorirono buono effetto, nonostante che il Circolo non avesse tralasciato di spedirvi suoi mandatarii, come si ricava dagli stessi Documenti dell'Accusa, e dai Giornali del tempo;[508] e così a Pisa,[509] e così a Lucca.[510] E badate, che per trattenere il nuovo turbine, erano mestieri gagliardi partiti davvero, imperciocchè più accese che mai venivano da Roma le ingiunzioni e le istanze, che la Repubblica di assalto si conquistasse; e il Farini, che talora (ma rado, una volta su mille a farla grassa) imbrocca nel segno, penso che a ragione dica, come Giuseppe Mazzini desse a Roma sollecita opera per costringere la Toscana a quella unificazione, a cui è vero che ella non si voleva piegare, ma a cui, parimente è vero, si sarebbe lasciata piegare per oscitanza, se altri non le infondeva sentimenti di dignità, per disporre almeno co' voti e liberamente dei proprii destini.[511] Se a inestimabile furore si accendessero le menti degli Arrabbiati, lascio pensare a chi legge: si assembrarono, urlarono, minacciarono, protestarono. Quanto fu stampato in proposito riuscirebbe a riportarsi fastidioso; basti saperne questo, che il Circolo di Firenze nel 27 febbraio, in solenne adunanza, decretò la seguente protesta, la quale dai Giornali del tempo venne riportata, e con quali chiose Dio ve lo dica per me: «PROTESTA. «_Il Circolo del Popolo di Firenze_ «Abbenchè persuaso di esser forte, per la opinione generale del Paese che si _è ormai pronunziata, colla adesione di tutti i Circoli e di gran parte dei Municipii, per la immediata Unione con Roma, e la proclamazione della Repubblica_; sicuro perciò che starebbe pienissimamente in esso il mandare ad effetto con ogni successo la propria deliberazione; — tuttavolta mosso da maggiore carità di patria, senza cambiare le proprie convinzioni, e _pronto a far render conto al Governo_, davanti alle Assemblee, del proprio operato, _dichiara di astenersi dalla dimostrazione annunziata pel 1º marzo, e ciò per_ remuovere anco il più lontano probabile di farsi cagione di quella guerra civile, alla quale ne sfida il Governo col suo Manifesto di questo giorno: ma nello astenersene _protesta_ solennemente contro il Manifesto istesso, inaudito nella istoria di ogni rivoluzione. Imperocchè _se la Legge Stataria si è veduta applicata dai Governi assoluti contro i liberali, — giammai si vide un Governo libero e democratico applicare leggi eccezionali contro uomini dello stesso Partito, che vogliono la cosa istessa che il Governo dice volere_. «Il Circolo decreta che la presente Protesta, stata approvata per acclamazione, sia fatta immediatamente di pubblica ragione. «Firenze, 27 febbraio 1849.» Ora io domando ai miei Accusatori e Giudici: doveva io lasciare che questi agitatori per violenza operassero quanto stava in cima dei loro desiderii? Sì, o no? Accusatori e Giudici comparsi fin qui, su via, parlate: — avvertite però, che, rispondendo affermativamente, voi vi trovate a concordare co' più arrabbiati Faziosi, però che anch'essi acerbamente mi mordessero, appunto come fate voi, per non averli lasciati operare. E che Dio vi perdoni, Accusatori e Giudici comparsi fin qui, quale altro spettacolo avete fino ad ora apprestato alle genti, oltre quello di farvi vedere scalmanati e ciechi, affaticarvi di su e di giù a raccogliere tutte le male erbe in due campi diversi, ma del pari faziosi, nemici a morte, ma ugualmente anarchici, sia che mentiscano larva di Repubblica, o principesca? Non è fra questi poli, che deve oscillare l'anima dei Giudici, nè in altri poli qualunque; bensì stare ferma alla vibrazione delle scosse politiche le quali spesso cambiano, sempre si acquietano. Ed ecco perchè, vedendo approssimarsi il turbine, per quattro giorni mantenni la Legge Stataria; nè vi voleva meno, imperciocchè in quei giorni la Toscana fosse minacciata da invasione estera, da guerra civile, e da reazioni interne;[512] e appena mi parve, almeno pel momento, allontanarsi, instai onde venisse revocata. Lo universale mi reputò della Legge annullatore, e questa opinione, nel modo che ho chiarito qui sopra, fu vera. Se vuolsi sapere quello che i miei stessi avversarii pensassero in cotesta occasione, può leggersi nella _Nazione_, Giornale piemontese al Governo toscano infestissimo: «Il Governo toscano, che aveva per ridicola inspirazione pubblicata la Legge Stataria, ora l'ha ritirata, ed io credo _per volontà del Guerrazzi_; il quale si sarebbe approfittato dell'assenza di M. per farlo» (e questo non era vero). « — Giacchè, dovete pur saperlo, Guerrazzi _è per singolarità il più assennato, e il più moderato dei nostri padroni_.» — (_Alba_, 14 marzo 1849. — Dalla _Nazione_, Nº 56, 7 marzo.) _Le mani erano di Esaù, la voce di Giacobbe_; di Torino la stampa, lo scritto di Toscana; infatti apparteneva a certo Professore _fior di senno_ della Università di Pisa, che a me non importa rammentare, e a lui io credo molto meno. Io poi ho voluto coteste parole citare, unicamente in prova della opinione universale, e parmi non demeritata, della mia temperanza. In quanto alla singolarità, che accenna lo Scrittore, dimostra una cosa sola, ed è quanto sia temerario, per non dire disonesto, giudicare un uomo, non ultimo finalmente del vostro Paese, o senza conoscerlo, o con la itterizia delle vostre passioni addosso. Poveri infermi, il giallo non istà negli obbietti che guardate, egli vi sta proprio negli occhi, — forse nel cuore; e allora la vostra malattia sarebbe senza rimedio, — la quale cosa io non vi auguro.[513] E non per iattanza vana, ma per difesa di me troppo a torto oltraggiato, io rammenterò come a quei tempi gli uomini che le opinioni loro facevano pubbliche col _Conciliatore_, i gravi mali deplorando, non sapevano, non dirò quale apportare, ma neppure quale avvertire rimedio; e verso di me si volgevano confortandomi ad operare, secondo che esperienza di storie veniva suggerendomi; se non che in cotesti casi abbaruffati il senno cade vinto e il coraggio, i consigli generali non valgono; ed anche fossero comparsi speciali, a cui consiglia non duole il corpo; ed altro è dire: fa; ed altro è fare; e la favola del sonaglio, che i topi deliberarono in collegio di appiccare al gatto, ce lo insegna _ab antiquo_. Intanto la stupenda audacia della Fazione repubblicana persuadeva gli uomini del _Conciliatore_, essere qualunque partito per attraversarla intempestivo od esiziale; oggimai a reverire in pace l'altare della Libertà rassegnavansi; unicamente a mani giunte supplicavano ad inalzare a canto a quello l'altare della virtù; le quali parole, ridotte in casereccia favella, significavano, che, per quanto amore portavo a Dio, dalle passioni fanatiche prima, poi dalle violenti, e alla fine dalle cupide le persone loro, e i poderi, e le case tutelassi. Ed io di cuore mi consacrava alla impresa, e certo per volontà non mancai al debito mio; ho fatto quanto la mia natura dentro me mi concedeva, e quanto fuori la veemenza degli accidenti mi consentiva. Se voi credevate fare meglio, dovevate dirmelo allora, e venire a provare a quei tempi; ma voi invece me pregaste, in me confidaste, chè di fare voi lo esperimento mi parevate vaghi come i cani delle mazze. — Perchè dunque mi avete tradito, e poi sempre e sempre calunniato; anzi, a quanti vennero a dirmi _raca_ traverso i fori del mio sepolcro con aperte palme applaudito? Parvi esemplare questo? Parvi virtuoso? La coscienza è il Pubblico Ministero di Dio; e le sue accuse, non contaminate da infelici passioni, suonano sempre giuste; — voi interrogatela, intanto che io riporto le vostre parole: «..... Le passioni non hanno più freno; l'interesse è l'unico motore della più parte delle azioni, e l'uomo sale imperturbato i gradini dell'ignominia, come una volta avrebbe salito quelli della virtù.... Questi mali dei tempi nostri notiamo liberamente aiutando il ragionamento col paragone dei tempi antichi, non a sfogo d'ire private, ma sibbene a pubblico insegnamento. _Quali rimedii fossero buoni a ripararvi, male sapremmo indicare_, sebbene di rimedii sia urgenza, se vuolsi trarre un qualche utile frutto dai mutamenti dello Stato. Chi tiene oggi il Governo della Toscana conosce al pari di noi questi mali; e scrivendo sulle virtù degli Avi, non risparmiò il flagello di Nemesi alla codardia dei nipoti degeneri. _Operi dunque come lo consigliano conoscenza di tempi ed esperienza di Storia_. Noi non facciamo altro voto, se non quello di _vedere inalzato l'altare della virtù accanto a quello della libertà, onde abbiano culto ambedue_, quale si conviene a vergini Dee, che amano pellegrinare sorelle fra le sventure e le follie degli uomini.» — (_Conciliatore_, 28 febbraio 1849.) «Il Circolo Popolare di Firenze aveva intimato il Popolo a proclamare la Repubblica oggi 1º marzo. Il Governo Provvisorio fece allora intendere al Circolo, come unicamente all'Assemblea, che tra pochi giorni sarà convocata, sia riserbato il votare liberamente una forma di stabile Governo: la Repubblica proclamata senza consiglio deliberato, non potere avere nè autorità per sè, nè reputazione all'estero. «Il Circolo, peraltro, non si appagava di queste ragioni, e persisteva nel primo proponimento. Allora il Governo pubblicò un Proclama, nel quale _applicava contro chiunque avesse turbato con violenze la quiete pubblica il rigore delle Leggi Statarie_. Il Circolo protestò contro il Governo; ma in pari tempo promise astenersi da ogni manifestazione. «_Così terminò questo incidente, che poteva avere gravi e dolorose conseguenze, e la giornata di oggi sembra riuscire tranquilla_.» In questo modo il _Conciliatore_ del 1º marzo 1849, Giornale di quella tenerezza per me che tutti conoscono, racconta il motivo pel quale di quattro giorni protrassi la durata della Legge Stataria. Avvertite cosa, che la impronta Accusa non bada: io voglio dire come la Legge Stataria fosse spada a due tagli, e guardasse a tenere in rispetto ogni maniera di gente, qualunque partito professasse, o piuttosto fingesse, la quale con sedizioso attentato la vita e la proprietà dei cittadini, o in altro modo l'ordine pubblico sovvertisse; nè questo è già un mio ingegnoso trovato, conciossiachè ricevesse manifesto commento dal fatto, dell'averla io quattro interi giorni protratta per contenere la rivoluzione minacciata nel 1º marzo 1849. E quando il Ministro dello Interno propose, e il Presidente del Governo accettò di richiamarla in vigore, io volli, che meno comparisse il concetto politico, e più fosse messo in rilievo il _sociale_; e di vero, nei _Considerandi_, unicamente si appella a _tranquillità pubblica turbata da fatti, che formano brutto contrasto con l'ordine pubblico generalmente mantenuto in Toscana_; e meglio si definisce nello Articolo IV, per moto reazionario che cosa s'intenda. Ai caratteri che deve presentare, io penso che nessun cittadino mai potrebbe astenersi da contribuire con tutte le forze a comprimerlo: «Moto reazionario,» si dice, «è quello il quale per le cause onde procede, e pel fine cui è diretto, e pel suo materiale carattere, possa ritenersi attentato contro il Governo, o contro l'ordine stabilito, o contro la pubblica tranquillità.» Nè qui rimasi, chè quantunque a me non ispettasse in cotesti giorni la Presidenza del Governo, che veniva esercitata da Giuseppe Montanelli, pure volli conoscere i nomi degli uomini deputati a comporre la Commissione preposta alla esecuzione della Legge, e non resi il foglio finchè non seppi che erano tutti probi e miti; tali insomma da corrispondere alle intenzioni del Governo. Ai Giudici del Decreto del 10 luglio 1850 basta l'animo di affermare: «Che tutto ciò fu fatto per comprimere la _reazione_, la quale _in sostanza altro non era, che un desiderio di restaurazione_.» Ho avuto luogo di notarlo altra volta: io pendo incerto se ingiurino più profondamente le offese o le difese dei Magistrati, i quali dettero opera fin qui a questa scandalosa procedura; fatto sta, che esorbitanti suonano coteste parole, ed io, e quanti facciano studio del Principato Costituzionale, dobbiamo considerarle non meno alla dignità della Corona, che al Paese, vituperevoli. E poichè mi accorgo che qui tra noi pochi fanno la parte loro, a me piace e giova fare la mia, protestando altamente dal profondo del carcere per la dignità della mia Patria e del Principato Costituzionale, contro tanto disonesta sentenza. Da simili proposizioni due conseguenze sono da trarsi, ed è la prima, che male giudicherà di me chiunque ritenga l'enormezze dell'Agro Aretino atti devoti alla causa del Principato Costituzionale; la seconda, che nefando desiderio, e degno della universa riprovazione è quello, che perduti uomini, ossa di trucidati e ceneri di case arse ammucchiando, vi piantassero sopra la bandiera dello assolutismo. — Lo so, per ventura pochi, e nondimeno per onta della civiltà nostra anche troppi, vivono uomini fra noi a cui basterebbe il cuore di mostrare l'ossuario dello Agro Aretino, come la Svizzera addita adesso con orgoglio l'ossuario di Morat, e non solo lo pensano, ma in isvergognate pagine lo scrivono.... Ah! stracci la coscienza pubblica coteste pagine, testimonianza di giorni di lutto per la nostra Patria.... le arda, e le disperda, perchè davvero mai ceneri più esecrabili furono gittate in balía dei venti. Perchè non avete raccontato i fatti che condussero il Governo a decretare la Legge Stataria per le Campagne Aretine? Eranvi ignoti forse? No, voi gli sapete. Forse ne andavano smarrite le traccie? No, si trovano negli Archivii ministeriali, e voi ad una ad una avete sfogliate le carte (che adesso presumete contendere a me), assistente uno ufficiale del Ministero. Bene io leggeva cotesti miserandi Rapporti, per cui tutto sconfortato, _al tocco dopo la mezzanotte_ dei 24 marzo 1849, mandava per Dispaccio telegrafico al Governo di Livorno: «_La campagna di Arezzo è in preda al brigantaggio e allo assassinio. I Pulicianesi hanno dato l'assalto a Castiglion Fiorentino. Vedete s'è tempo adesso di dimostrazioni_.[514]» Quello che non avete fatto voi (e ve ne correva santissimo il dovere) farò io, o piuttosto lascerò che faccia Adriano Mari, non avvocato ma storico diligente, e rimesso così