Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII | HTML | PDF ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Annali d'Italia, vol. 4 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750
Author: Muratori, Lodovico Antonio
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Annali d'Italia, vol. 4 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750" ***


ANNALI D'ITALIA 4



                ANNALI D'ITALIA

        DAL PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE
              SINO ALL'ANNO 1750


                 _COMPILATI_

            DA L. ANTONIO MURATORI

      E CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI


           _Quinta Edizione Veneta_

                VOLUME QUARTO


                   VENEZIA
    DAL PREMIATO STAB. DI G. ANTONELLI ED.
                    1845



ANNALI D'ITALIA

DAL PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE FINO ALL'ANNO 1500



    Anno di CRISTO DCCCCXCIV. Indiz. VII.

    GIOVANNI XV papa 10.
    OTTONE III re di Germania e d'Italia 12.


Cogli affari d'Italia han correlazione quei di _Gerberto_ creato
arcivescovo di Rems. Prese la santa Sede la protezione di _Arnolfo_
deposto da quella sedia contro le leggi canoniche, e papa _Giovanni XV_
sospese dai divini uffizii que' vescovi che aveano proferita sentenza
contro di lui. Restano tuttavia le invettive d'esso Gerberto, non dirò
contro la Chiesa romana, ma contro quei papi che in questi ultimi tempi
l'aveano cotanto sporcata, e sì malamente governata; di Gerberto, dico,
il quale da qui a non molto ci comparirà salito sul medesimo trono
pontificio. _Ugo Capeto_ re di Francia spedì al papa le ragioni
dell'operato dai vescovi, e il pregò di voler venire in persona fino a
Grenoble, per conoscere meglio questa differenza. Non si sentì voglia il
pontefice Giovanni di prendersi tanto incomodo, e solamente mandò in
Francia _Leone abbate_ del monistero di san Bonifazio per suo legato,
per cui opera nell'anno seguente fu in qualche maniera posto fine a
quell'imbroglio. Abbiamo da Lupo Protospata[1] e da Romoaldo
Salernitano[2] che in questo anno _obsessa est Matera a Saracenis tribus
mensibus, et quarto capta ab eis_. Ne erano allora in possesso i Greci,
ma non ebbero forza per poterla sostenere contro la possanza dei Mori.
Fino all'anno presente signoreggiò in Salerno _Giovanni II_ appellato
_di Lamberto_[3]. La morte il rapì con restare principe di Salerno suo
figliuolo _Guaimario_, chiamato il _terzo_, per distinguerlo da altri
due principi dello stesso nome, che erano vivuti ne' tempi addietro. Era
esso Giovanni tuttavia vivente nel giugno di quest'anno, ciò apparendo
da un diploma dato da lui e dal figlio Guaimario, che si legge nelle
Antichità italiane[4]. Truovasi ancora in quest'anno _Otberto_ ossia
_Oberto II_ marchese, figliuolo di quell'_Otberto I_ che noi già vedemmo
marchese e conte del sacro palazzo, e dicemmo progenitore della casa
d'Este, il quale tiene un placito nella chiesa di Lavagna, e sentenzia
in favore del monistero di san Fruttuoso[5]. L'atto fu scritto _anno
Incarnationis Domini nostri Jesu Christi nongentesimo nonagesimo quarto,
X kalendas februarii, Indictione septima_, cioè senza contar gli anni di
Ottone III re. Erano potenti in Toscana e Lunigiana i marchesi appellati
dipoi di Este, e forse di qui possiamo inferire che il suddetto _Otberto
II_ governasse in questi tempi la marca di Genova.

NOTE:

[1] Lupus Protospata, in Chronico.

[2] Romualdus Salernitanus, in Chron.

[3] Peregrinius, Hist. princip. Langobard.

[4] Antiquit. Ital., Dissert. XXXII, pag. 1035.

[5] Antichità Estensi, P. I, cap. 15.



    Anno di CRISTO DCCCCXCV. Indiz. VIII.

    GIOVANNI XV papa 11.
    OTTONE III re di Germania e d'Italia 13.


Fu nel presente anno sul principio di giugno tenuto per ordine del papa
un concilio in Mosomo, oggidì Mouson vicino alla Mosa, a cui presedette
_Leone abbate_ legato pontificio, e fu deciso che la deposizione di
_Arnolfo arcivescovo_ di Rems fosse invalida e nulla, e per conseguente
contro i canoni entrato in quella chiesa _Gerberto_ monaco, già abbate
di Bobbio. Però spossessato di quell'insigne arcivescovato Gerberto, e
come abbandonato da _Ugo Capeto_ re di Francia, si ritirò alla corte del
re _Ottone III_, di cui aveva l'onore d'essere stato maestro. Ma
Arnolfo, che era in prigione, finchè visse il re Ugo, non ne potè
uscire. Abbiamo da Ditmaro[6] e da Ermanno Contratto[7] che ad una dieta
tenuta in Maddeburgo intervenne con gli altri principi _Arrigo II_ duca
di Baviera e di Carintia, e marchese di Verona, il qual poscia portatosi
a Gandersheim, dove _Gerberga_ sua sorella era badessa, quivi cadde
gravemente infermo. Però chiamato a sè il figliuolo _Arrigo_, che fu poi
imperadore e santo, gli ordinò di tornarsene in Baviera ad assicurarsi
di quel ducato, raccomandandogli di non operare mai contro la fede ed
ubbidienza dovuta al re suo signore: massima da lui trascurata negli
anni addietro, del che era ben pentito, e pregandolo di ricordarsi del
padre, che più non rivedrebbe in questo mondo. Aggiugne l'Annalista
Sassone[8]: _Hic postquam poenitentia ductus regnum respuit, et Bawariae
ducatu donatus est, ita in eo pro componenda pace ultra priores suos
effloruit, ut ab illius terrae incolis Henricus pacificus et pater
patriae appellaretur_. Dopo la morte del padre il giovane Arrigo,
_Bawariorum electione et auxilio, bona patris et ducatum, rege donante,
obtinuit_. Abbiamo poi due rilevanti particolarità spettanti a
quest'anno negli Annali di Ildeseim[9], copiate dipoi dall'Annalista
sassone, cioè, che Ottone III mandò per suoi ambasciatori a
Costantinopoli _Giovanni vescovo_ di Piacenza, e _Bernuardo vescovo_ di
Virzburgo, per addimandare in moglie d'esso re una principessa del
sangue imperiale de' Greci. Tornerà il ragionamento intorno a questo
affare andando innanzi. Questo vescovo di Piacenza è quel medesimo
_Giovanni_ archimandrita calabrese, di cui abbiam parlato di sopra, e
che vedremo antipapa in breve. Il Campi nella Storia ecclesiastica di
Piacenza il truova in quella città anche nell'aprile dell'anno presente.
L'altra particolarità è che _legati apostolicae sedis cum unanimitate
Romanorum atque Langobardorum regem Romam invitant_. Certo è, che per la
lontananza del re erano insorti dei troppo mali umori in Italia, cioè
sedizioni di popoli, e soprattutto dai potenti venivano usurpati
giornalmente i beni e diritti delle chiese. Abbiam veduto il popolo di
Milano in rotta contra del loro arcivescovo _Landolfo_; obbligato papa
_Giovanni XV_ a fuggirsene di Roma per la prepotenza di Crescenzio e di
quel senato. Forse questi due fatti occorsero circa questi medesimi
tempi. E come avesse mano e balìa nel governo di Roma il suddetto
Crescenzio, si può anche intendere da ciò che i vescovi di Francia nella
lite già accennata di _Arnolfo_ e _Gerberto_ diceano, o, per dir meglio,
facea lor dire lo stesso Gerberto[10]: _Regii, ac nostri legati Romam
profecti, et epistolas pontifici porrexerunt, et ab eo indigne suscepti
sunt. Sed, ut credimus, quia Crescentio nulla munuscula obtulerunt, per
triduum a palatio seclusi, nullo responso accepto redierunt: quod
peccatis nostris exigentibus provenire, non dubium est, ut romana
Ecclesia, quae mater et caput ecclesiarum est, per tyrannidem
debilitetur._ Ecco lo stato in cui si trovava allora la Sedia
apostolica, certo per colpa de' soli Romani. Da un diploma riferito
dall'Ughelli[11] siamo assicurati che il re _Ottone III_ si trovava in
Magonza _III idus novembris anno dominicae Incarnationis DCCCCXCV
Indictione VIIII_ (la qual dovea camminare fino al fine dell'anno
presente, secondo il moderno stile) _anno tertii Ottonis regnantis XII_.
Parimente la Cronica del monistero di Volturno[12] ci somministra un
placito, tenuto in quest'anno in _Valva_ nel ducato di Spoleti, oppure
nella marca di Camerino. Erano presidenti ad esso _Atto comes, et
Oderisius comes, et Helmepertus episcopus missus domni Ugonis dux et
marchio_. Queste poche parole confermano quanto s'è accennato di sopra,
cioè che per qualche accidente non era più duca di Spoleti e marchese di
Camerino _Trasmondo_, da noi veduto negli anni addietro al governo di
que' paesi; e che a lui era succeduto _Ugo duca_ e marchese anche di
Toscana.

NOTE:

[6] Ditmarus, in Chron., lib. 4.

[7] Ermannus Contractus, in Chron.

[8] Annalista Saxo. apud Eccardum.

[9] Annales Hildesheim.

[10] Baron., in Annal. Eccles. ad annum 992.

[11] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Episc. Veron.

[12] Chron. Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXCVI. Indiz. IX.

    GREGORIO V papa 1.
    OTTONE III re 14, imperad. 1.


L'anno fu questo in cui, venuta la primavera, _vernali tempore_, il
giovane _Ottone III_ re calò in Italia, accompagnato dalla guardia di un
decoroso esercito. Secondo il Cronografo sassone[13], _dominicam
resurrectionem Papiae regali more celebravit_. Passato a Ravenna, quivi
fece una buona posata, e colà gli giunse l'avviso che era mancato di
vita _Giovanni XV_, cioè quel papa che il santo abbate di Fleury
_Abbone_[14] ito a Roma, _turpis lucri cupidum, atque in omnibus suis
actibus venalem reperit_. Seco avea l'imperadore condotto _Brunone_ suo
parente, in qualità di cappellano, giovane letterato, ma alquanto per la
sua età focoso. Invogliossi Ottone di metterlo sul trono pontifizio, e
intesosi coi Romani, lo spedì a Roma, accompagnato da _Willigiso
arcivescovo_ di Magonza, e da _Adalboldo vescovo_ di Utrecht, dove
innalzato a quella sublime dignità, assunse il nome di _Gregorio V_. Il
Sigonio[15] scrive che Ottone _usurpato jure Brunonem Saxonem propinquum
suum, XVI kalendas julii pontificem declaravit, ac Romam consecrandum
misit_. Altrettanto ha Girolamo Rossi[16]; ed amendue riferiscono
all'anno precedente l'esaltazione d'esso Gregorio; nè mancano scrittori
che credono creato papa Brunone allorchè Ottone III fu giunto a Roma, e
adoperò la sua autorità in favore di lui. Ma tanto al Sigonio, quanto al
cardinal Baronio[17] mancarono molti lumi, che noi ora abbiamo, e però
in molte circostanze si allontana dal vero il loro racconto. La verità
si è, che solamente nel presente anno venne _Ottone III_ in Italia; ed
in esso mancò di vita _Giovanni XV_ romano pontefice. Stando il re
Ottone in Ravenna, raccomandò ai Romani il suddetto Brunone, ed essi
concordemente convennero nell'elezione di lui, senza che il re usurpasse
i loro diritti. Prese il nome di _Gregorio V_. Non essendo egli per
anche imperadore, ma solo re d'Italia, a nulla era tenuto per lui il
clero e popolo romano, e solamente poteano intervenire riguardi di
convenienza, che in fatti non mancarono in tal congiuntura. Come
succedesse l'affare, l'abbiamo da un autore contemporaneo, cioè dal
monaco autore della Vita di santo _Adalberto vescovo_ di Praga presso il
padre Mabillone[18]: _Rex autem Otto_, scrive egli, _Alpium nives multo
milite transmeans, juxta sacram urbem Ravennam regalia castra metatus
est. Ibi in ejus occursum veniunt epistolae cum nuntiis, quos mittunt
romani proceres et senatorius ordo: primo illius adventum, velut toto
tempore paternae mortis non visum, totis visceribus desiderare, ac
debita fidelitate pollicitantur exspectare. Deinde in morte domni
Apostolici tam tibi quam illis, non modicam invectam esse partem
incommodorum annuntiant, et quam pro eo ponerent, regalem exquirunt
sententiam._ Pertanto mandò egli a Roma _Brunone_; e che questi fosse
liberamente eletto ed approvato dal clero e popolo romano, l'abbiamo
dagli Annali d'Ildeseim[19] e dall'Annalista sassone[20], che scrivono a
quest'anno: _Johannes papa obiit. Unde imperator in Italia positus,
rumore incitatus, praemissis quibusdam principibus, publico consensu et
electione, fecit in apostolicam Sedem ordinari suum nepotem domnum
Brunonem, Ottonis filium, qui marcham veronensem servabat, imposito
nomine Gregorii._ Di qui impariamo chi fosse il padre di _Gregorio V_
papa, cioè _Ottone duca_ della Franconia, ed allora marchese ancora
della marca di Verona, nato da _Liutgarda_ figliuola di _Ottone il
Grande_ imperadore. Ne ho io prodotta la genealogia altrove[21]. Così il
Cronografo sassone scrive[22]: _Nepotem suum Brunonem virum valde
praeclarum, non solum cleri, sed et omnium Romanorum unanimi voto civium
pontificem electum subrogari pie consensit_. Crede il padre Pagi[23] che
sul principio di maggio seguisse l'assunzione al trono pontifizio di
Gregorio V.

Allorchè Ottone nel calare in Italia fu a Verona, per attestato del
Dandolo[24], _Pietro Orseolo II_ doge di Venezia inviò a fargli
riverenza _Pietro_ suo figliuolo, che ebbe l'onore d'essere tenuto alla
cresima dal medesimo re: nella quale occasione mutò il suo nome in
quello di _Ottone_, e regalato dal re se ne tornò tutto contento al
padre. E quando esso re fu giunto a Ravenna, il suddetto doge gli spedì
degli ambasciatori, che riportarono da lui _privilegium de portu et
mercato tenendo cum tribus locis, cum omni datio et theloneo_. Non si
può ben intendere in qual sito fosse questo porto e mercato. Immaginò il
Sigonio che Ottone III, prima di portarsi a Ravenna, passasse ad
assediar Milano, dove aggiustasse le differenze insorte fra Landolfo
arcivescovo e il popolo di quella città. Ma appunto l'immaginò. Niuno
degli antichi scrittori conobbe questo assedio di Milano, nè sotto
Ottone II, nè a' tempi di Ottone III suo figliuolo: però non si può
riposar sull'autorità di Landolfo seniore storico milanese, che è solo a
narrarlo; e tanto più perchè, già avvertimmo che Arnolfo altro storico
milanese, ma più accurato, nulla ne parla, e scrive posto in altra
maniera fine alle controversie di Milano. Si può ben credere che in
quest'anno, e non già nel seguente, come fu d'avviso Girolamo Rossi[25],
riuscisse ad esso Ottone III dimorante in Ravenna d'indurre san
_Romualdo_, monaco ed anacoreta, di santità già conosciuta, ad accettare
il governo dei monistero di Classe, come si legge nella vita d'esso
santo scritta da san Pier Damiano[26]. Dappoichè fu assunto al
pontificato _Gregorio V_, il re _Ottone III_ mosse da Ravenna alla volta
di Roma, dove fu solennemente ricevuto. Ho io rapportato un bel placito,
tenuto fuori della stessa Roma dal medesimo re colla assistenza di molti
vescovi e principi con queste note[27]: _Regnante domno Hottone piissimo
rege anno regni pietatis ejus in Italia secundo, primo mense madii,
Indictione secunda, foras porta sancti Laurentii, infra palatius domni
nostri regis_. Non ho finora saputo intendere, perchè si dica _anno
secondo_ del regno, se non supponendo che seguisse la sua elezione e
coronazione in re d'Italia nell'aprile dell'anno precedente. Ma se
Ottone era in Roma, ossia sulla porta di Roma nel dì primo di maggio, si
avvalora l'autorità di quegli scrittori che il fanno giunto colà prima
che Brunone fosse posto sulla cattedra pontifizia. Ora in esso placito
l'abbate di santa Flora d'Arezzo fece querela contra _Adelbertus
marchio, et Albertus germani, filii quondam Holberti_, cioè figliuoli
del marchese _Oberto I conte_ del sacro romano palazzo, ed antenati
della casa d'Este, per cagione di alcuni beni da loro occupati, e ne
riportò il possesso, _salva querela_, cioè con lasciar vive ad essi
marchesi le loro ragioni nel petitorio. Stando in vicinanza di Roma il
re Ottone III, finalmente giunse ad ottenere la corona dell'imperio.
Siccome abbiamo dalla vita di santo Adalberto[28], _magno gaudio omnium
imperatorium attigit apicem. Laetantur cum primoribus minores civitatis,
cum afflicto paupere exsultant agmina viduarum, quia novus imperator dat
jura populis, dat jura novus papa._ Queste parole, dice il padre
Pagi[29], _manifeste ostendunt, Ottonem III sicuti et decessores,
supremum dominium in urbe exercuisse; quod usque ad nostra tempora
obscurum fuit_. Il giorno in cui, secondo gli Annali d'Ildeseim, egli
_imperator et patricius coronatur_, fu quello di Pentecoste, che in
quell'anno cadde nel dì 31 di maggio. Ma, per attestato di Ditmaro[30] e
dell'Annalista sassone[31], _Romam veniens in Ascensione Domini, quae
tunc erat XII kalendas junii, anno aetatis suae XV, regni autem XIII,
Indictione VIII_ (ha da essere _VIIII_) _ab eodem unctionem percepit, et
advocatus Ecclesiae sancti Petri efficitur_. Altrettanto ha il
Cronografo sassone, pubblicato dal Leibnizio[32]: il che quando sia
vero, la coronazione seguì nel dì 21 di maggio. E questa appunto si dee
dire le vera sentenza. Rapporta l'Ughelli[33] un suo diploma, dato in
Roma _X kalendas junii_ di quest'anno, _Indictione IX, anno tertii
Ottonis imperantis I_. Ho io parimente pubblicato un diploma[34], da lui
dato in favore di _Odelrico vescovo_ di Cremona, _obtentu karissimae
sororis nostrae Sophiae_ con queste note: _Datum VI kalendas junii anno
dominicae Incarnationis DCCCCXCVI, Indictione VIIII, anno vero tercii
Ottonis regnantis XIII, imperii autem ejus primo_. _Actum Romae_: il che
ci fa conoscere ch'egli era già imperadore nel dì 27 di maggio. E qui
non voglio tacere che nel medesimo mese _Ardoino conte_ del palazzo
tenne un placito[35] nel distretto di Brescia, dove l'avvocato della
chiesa di Cremona ottenne sentenza favorevole contra di Gualberto
giudice. L'atto fu scritto _anno Incarnationis Domini nostri Jesu
Christi DCCCC nonagesimo sexto, XI kalendas junias, Indictione nona_: il
che è da notare, perchè sempre più conferma quanto io ho detto di sopra;
cioè, che quantunque Ottone III fosse eletto re di Italia, e governasse
questo regno, pure non erano contati in Italia gli anni del suo regno,
perchè egli non era per anche coronato colla corona che chiamiamo
ferrea. Altra ragione non so io addurne che questa. Aggiungasi un altro
diploma d'esso Augusto, dato _VIII kalendas junii_ dell'anno presente
coll'_actum Romae_, come si legge nel Bollario casinense; di modo che
siam certi del dì della sua coronazione.

Creato che fu imperadore Ottone III, cominciò, secondo il rito de' suoi
predecessori, a far giustizia in Roma; e fra gli altri fu citato
Crescenzio per le insolenze usate a _Giovanni XV_ papa. _Habito_, dice
l'Annalista sassone[36], _cum Romanis placito, quemdam Crescentium, quia
priorem papam injuriis saepe laceraverat, exsilio statuit deportari; sed
ad preces novi Apostolici omnia illi remisit._ Di qui ancora s'intende
qual fosse l'autorità imperiale di Ottone III in Roma. Sbrigato da
questi affari esso Augusto, si trasferì dipoi a Pavia. Ne ho la pruova
in un suo diploma[37], confermatorio de' beni e privilegii del monistero
delle monache di santa Maria di Teodata, oggidì della Posterla, dato
_kalendis augusti, anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVI Indictione IX,
anno tertii Ottonis regnantis XIII, imperii primo. Actum Papiae._ Benchè
niuno degli antichi storici faccia menzione che Ottone III fosse
coronato colla corona del regno d'Italia; pure si può ragionevolmente
credere ch'egli o nel suo primo arrivo in Lombardia nella primavera di
quest'anno, ovvero nell'essere tornato colà dopo la coronazione romana,
ricevesse ancora l'altra del regno italico. Bonincontro Morigia da
Monza[38], che fioriva nel secolo decimoquarto, siccome osservai nel mio
trattato _de Corona Ferrea_,[39], scrive ch'egli _primo in Modoetia_
(cioè in Monza) _postea in Mediolano italici regni coronam accepit_.
Anzi, se a lui crediamo, Ottone III fu quegli che costituì la nobil
terra di Monza _caput Lombardiae et sedem regni illius_: il che
difficilmente si può credere, perchè quest'era una prerogativa di Pavia,
e, se si vuol, anche di Milano. Sappiamo ben di certo, che ne' secoli
susseguenti fu e tuttavia si truova custodita la corona del _ferro_
nella basilica di san Giovanni Batista di Monza, e che quivi talvolta
furono coronati i re d'Italia. Sull'autunno se ne tornò in Germania il
novello Augusto, e per quanto ci assicura il Cronografo sassone, _in
agrippina colonia, summi imperatoris condigno honore, celebrat natalem
diem_. Può essere motivo di maraviglia il trovare tanta diversità di
pareri intorno all'anno in cui _Ugo Capeto_ re di Francia, primo della
sua schiatta, finì di vivere. L'Annalista sassone[40] fa succeduta la di
lui morte nell'anno 994; Odoranno ed altri nell'anno 998. Certo è che
s'ingannano. Il padre Mabillone e il padre Daniello il credono mancato
di vita nell'anno presente 996. Ma il padre Pagi pretende che ciò
accadesse nell'anno seguente 997. Tale fu ancora il sentimento di
Romoaldo salernitano[41]. Lascerò io disputarli di questo, bastando
ricordare ai lettori ch'ebbe per successore _Roberto_, principe per la
sua pietà e per altre virtù lodatissimo, ma poco da noi conosciuto per
altre sue azioni Abbiamo poi una gran folla di scrittori che tengono
istituiti in quest'anno da papa Gregorio V i sette elettori
dell'imperio. Ma in questi ultimi tempi, ben ventilata una tal
quistione, è ormai deciso non sussistere l'istituzione d'essi elettori:
intorno a che non ispenderò io altra parola.

Prima nondimeno di abbandonar quest'anno, si vuol rammentare uno
strepitoso fatto, che si dice accaduto nel contado di Modena, e vien
riferito all'anno presente dal Sigonio[42] e da altri. Gotofredo da
Viterbo[43] circa l'anno 1190 fu il primo e il solo a spacciar questo
racconto. Trovandosi l'imperadrice moglie di Ottone III (chiamata
_Maria_ da alcuni) vicino a Modena nella casa del conte, ossia
governatore di questa città, chiamata Amola, perdutamente s'invaghì
d'esso conte, ed anche sfacciatamente gli palesò le sue fiamme. Egli,
fedele a Dio e al suo principe, si mise a fuggire; e perchè
l'imperadrice l'aveva afferrato pel mantello a fine di ritenerlo, glielo
lasciò nelle mani. Rivelò il conte alla propria moglie quanto gli era
accaduto, ben prevedendo la propria rovina. Infatti accusato
dall'imperadrice all'Augusto consorte, quasichè egli avesse dato un
assalto alla di lei onestà, il credulo Ottone gli fece senz'altro
tagliare il capo. Comparve dipoi l'afflitta moglie del conte davanti
all'imperadore; e rivelato il fatto, come era, dimandò giustizia, con
esibirsi di provar l'innocenza del marito e la calunnia dell'imperadrice
col giudizio, come allora diceano, del ferro rovente. Fu ammessa alla
pruova, e senza danno alcuno maneggiò quel ferro, o pure passeggiò
illesa sopra i vomeri infuocati; perlochè l'imperadrice fu condannata al
fuoco. Ma che questa sia una popolar novella, bevuta buonamente da
Gotofredo da Viterbo, abbastanza si comprende dal vedere che niuno de'
più antichi scrittori ha lasciata menzione di un avvenimento di tanto
rilievo, che avrebbe fatto un incredibil rumore dappertutto. E neppure
alcun d'essi scrive che Ottone III, giovane di sedici anni, avesse per
anche presa moglie; anzi s'è osservato ch'egli nel precedente anno inviò
due vescovi a cercarne una in Grecia. Aggiungasi aver noi trovato
all'anno 989 _Tedaldo_, avolo della contessa Matilda, _marchese e conte
di Modena_. Scorgeremo inoltre vivente lo stesso Tedaldo dopo la morte
di Ottone III, nè è molto probabile che fosse stato tolto a lui il
governo di questa città per darlo ad un altro. Quel solo che potrebbe
addursi per sostener qui il racconto di Gotifredo, consiste in
immaginare che gli antichi passassero sotto silenzio le nozze e la morte
di questa imperadrice, come memoria infame. Oltre di che, Landolfo
seniore, storico milanese, non lontano dai tempi di Ottone III lasciò
scritto[44], aver egli spedito a Costantinopoli _Arnolfo II_ arcivescovo
di Milano a cercargli una moglie, _defuncta conjuge, ex qua filium
masculum minime genuerat_: siccome io prima d'ora osservai nella
prefazione alla storia d'esso Landolfo. Però ne creda ciò che vuole il
saggio lettore.

NOTE:

[13] Chronograph. Saxo, in Access. Histor. Leibnitii.

[14] Aimonius, in Vita S. Abbonis.

[15] Sigonius, de regno Italiae, lib. 7.

[16] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[17] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[18] Mabill., Saecul. Benedict. V, pag. 860.

[19] Annales Hildesheim.

[20] Annalista Saxo.

[21] Antiq. Ital., Dissert. XLI. Antichità Estensi, P. I, cap. 8.

[22] Chronograph. Saxo apud Leibnitium.

[23] Pagius, Crit. Baron.

[24] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[25] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.

[26] Petrus Damiani, in Vit. Romualdi., cap. 6.

[27] Antichità Estensi, P. I, cap. 20.

[28] Anonym., in Vit. S. Adalberti Pragens.

[29] Pagius, in Critic. Baron.

[30] Ditmarus, in Chron., lib. 4.

[31] Annalista Saxo.

[32] Chronographus Saxo editus a Leibnitio.

[33] Ughell., Ital. Sacr., t. 5 in Episc. Veronens.

[34] Antiquit. Italic., Dissert. VIII.

[35] Ibidem, Dissert. VII.

[36] Annalista Saxo apud Eccardum.

[37] Antiquit. Ital., Dissert. XVIII.

[38] Bonincontrus Morig. in Chron.

[39] Anecdot. Latin., tom. 2.

[40] Annalista Saxo.

[41] Romualdus Salernitanus, in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[42] Sigonius, de Regno Ital., lib. 7.

[43] Gotifredus Viterbiens., in Panth.

[44] Landulf. Senior, Hist. Mediol., t. 4 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXCVII. Indiz. X.

    GREGORIO V papa 2.
    OTTONE III re 15, imperad. 2.


Pareva che ormai dovesse il regno d'Italia, e Roma più che le altre
città, goder pace e quiete, dacchè c'era un imperador potente che potea
farsi rispettare ed ubbidire da tutti. Ma non fu così. Un mal uomo, un
uomo acciecato dall'ambizione, conviene dire che fosse _Crescenzio_
console di Roma. Quando si credeva _Gregorio V_ papa di poter esercitare
quel temporal dominio in Roma e nel suo ducato che aveano goduto tanti
suoi predecessori, e che gli era stato confermato dall'Augusto _Ottone
III_, trovò un troppo gagliardo oppositore in esso Crescenzio. Avvezzo
questi a comandare, senza far caso del giuramento di fedeltà prestato al
medesimo papa e all'imperadore, dimenticando ancora il perdono dei suoi
falli, poco dianzi ottenuto ad intercessione dello stesso pontefice:
tanto fece, che obbligò Gregorio V a fuggirsene di Roma, _nudus omnium
rerum_, e a mettere in salvo la vita[45]. Ritirossi egli a Pavia, dove
raunato un concilio di vescovi, fulminò la scomunica contra di
Crescenzio. Ma questi se ne rise; anzi da lì a non molto passò
all'estremo degli eccessi, quasichè non ci fosse più nè Dio nè potenza
umana valevole a contrastare con lui. Cioè capitò in questi tempi a Roma
quel _Giovanni_ calabrese vescovo ossia arcivescovo di Piacenza, di cui
s'è parlato più volte negli anni addietro, e il quale nella vita di san
Nilo Egumeno presso il cardinal Baronio porta il nome di _Philagathus_,
già inviato dallo stesso Ottone III a Costantinopoli per trattare del
suo maritaggio con una delle figliuole dei greci Augusti. Venivano con
esso lui gli ambasciatori spediti all'Augusto Ottone da _Basilio_ e
_Costantino_ imperadori, che furono con grande onore ricevuti da
Crescenzio. Allora fu che tanto l'ambizioso Crescenzio, quanto il
volpone Giovanni tramarono una tela d'infame politica, che abbastanza
risulta dalla storia di quei tempi: cioè si accordarono insieme che il
governo temporale di Roma restasse a Crescenzio, ma sotto la protezione
e sotto la sovranità degl'imperadori greci, e Giovanni fosse creato
papa, con contentarsi del governo spirituale della Chiesa di Dio.
Parlando Arnolfo milanese[46] di questo Giovanni greco, ha le seguenti
parole: _De quo dictum est, quod romani decus imperii astute in Graecos
transferre tentasset._ A me sembra verisimile che anche gli ambasciatori
greci avessero mano in questo indegno trattato, che fu immediatamente
eseguito, con aver la fazion di Crescenzio eletto e consecrato il
suddetto Giovanni, manifesto antipapa, ed usurpatore del trono
pontifizio. Fece inoltre Crescenzio mettere in prigione gli altri legati
dell'imperadore Ottone che erano tornati da Costantinopoli. Benchè io
abbia di sopra dato assai a conoscere chi fosse Giovanni, ora divenuto
antipapa, pure ai lettori non sarà discaro di mirarne la pittura che ce
ne lasciò il Cronografo sassone[47], appellato dal Pagi, maddeburgense.
_Hic igitur_, dice egli, _Johannes natione graecus_ (di sopra l'avea
chiamato _Johannem quemdam calabritanum_) _conditione servus, astu
callidissimus imperatorem Augustum Ottonem II sub paupere adiens habitu,
ob interventum suae dilectae contectalis Theophanu Augustae, regia
primum est alitus stipe. Deinde procurrente tempore, vulpina, qua nimium
callebat, versutia praefatum eatenus circumvenit Augustum_ (veggasi
all'anno 982) _ut pro loco et tempore satis clementi ab eo gratia
donatus, paene inter primos usque ad defunctionem suam clarus haberetur.
Post dormitionem vero secundi Ottonis, regnante jam tertio Ottone filio
suo, praefatus Johannes ingenita sibi circa illos calluit securius
astutia, quo regis infantia et primatum illius permittebatur incuria. Ad
haec defuncto placentinae urbis episcopo, vir bonae indolis ei
subeligitur. Quo indecenter ejecto, praefatus Johannes, non pastor sed
mercenarius, eamdem non regendam, sed devastandam suscepit ecclesiam.
Quam quum aliquot annos teneret, avaritiae diabolicae inebriatus veneno,
tantum se extulit super se, ut etiam Romae ipsam beati Petri apostoli
sedem, antichristi membrum vere effectus, fornicando potius pollueret,
quam venerando insederet._ Ecco qual fosse il furbo calabrese che
s'intruse nella sedia sacrosanta del principe degli Apostoli. Fu egli
perciò scomunicato da tutti i vescovi dell'Italia, Germania e Francia.

Crescenzio intanto _imperium sibi usurpavit_; e perchè papa _Gregorio V_
si azzardò d'inviare i suoi legati a Roma, li fece egli prendere, e
cacciolli in prigione. Di tutta questa sacrilega sollevazione andavano
di mano in mano gli avvisi all'Augusto _Ottone III_; ma trovandosi egli
in Germania impegnato nella guerra contro gli Slavi, non potè sì presto
accudire agl'interessi d'Italia, certo essendo ch'egli fin verso il fine
di quest'anno non si mosse dalla Sassonia. Perciò scorretto è da dire un
suo diploma da me letto nell'archivio episcopale di Cremona con queste
note[48]: _Data kalendis maji, anno dominicae Incarnationis nongentesimo
nonagesimo septimo, domni autem Ottonis regnantis XV, imperii vero II,
Indictione X. Actum Romae._ Gli anni del regno e dell'imperio convengono
all'anno seguente, e conseguentemente s'ha da scrivere _anno
DCCCCXCVIII, Indictione XI_. S'ingannò eziandio il Sigonio, e poi
Girolamo Rossi, allorchè scrissero che Ottone III fu in Ravenna
nell'aprile dell'anno presente, dove alle preghiere di Alasia sua
sorella donò alcuni stati in Lombardia a Witichindo, _a quo illustris
Carrettorum familia manavit_, come spacciavano i favolosi genealogisti
degli ultimi secoli. Se sia poi documento legittimo una bolla di
_Gregorio V_ papa, che si pretende conceduta in quest'anno a _Giovanni
arcivescovo_ di Ravenna, _nonis julii, Indictione X_, nelle scritture
estensi, per la controversia di Comacchio, è stato abbastanza esaminato.
Abbiamo presso il Campi[49] un diploma di Ottone III spedito nell'anno
presente _XVI kalendas augusti. Actum Eschonowaga_, cioè in una terra di
Germania. Circa il fine poi dell'anno presente indubitata cosa è che
esso imperadore calò di nuovo in Italia, sì perchè sotto quest'anno
l'Annalista d'Ildeseim[50] scrive ch'egli, _ut Romanorum sentinam
purgaret, Italiam perrexit_, e sì perchè così persuadono i documenti che
citerò all'anno seguente. Basti qui l'accennare un suo diploma,
pubblicato dal padre Puccinelli[51], che cel fa vedere in _Trento_ nel
dì 13 di dicembre dell'anno presente; e l'Ughelli attesta che il
medesimo ne spedì un altro in favore della chiesa di Vercelli, _Papiae
in palatio XI kalendas januarii anno Incarnat. Domini DCCCCXCVII,
Indictione XI, anno regni XIV, imperii autem II._ Si aumentò
mirabilmente in quest'anno la potenza dei Veneziani[52], perchè nata
discordia dopo la morte di _Turpimiro_ re dei Croati Schiavoni, le città
marittime della Dalmazia mostrarono genio di darsi sotto il dominio
veneto, che in quelle parti non possedeva allora se non la città di
Zara. Il saggio dunque e valoroso doge _Pietro Orseolo II_ con una buona
armata navale si portò colà, ed ebbe ubbidienti ai suoi cenni Parenzo,
Pola, Ausere, Veglia, Arbe, Traù, Spalatro, Curzola, Liesina, Ragusi, ed
altre città ed isole; dopo di che trionfalmente restituitosi a Venezia,
cominciò ad intitolarsi _duca della Dalmazia_.

NOTE:

[45] Annales Hildesheim. Annalista Saxo.

[46] Arnulphus, Hist. Mediol. tom. 4 Rer. Ital.

[47] Cronographus Saxo apud Leibnitium.

[48] Antiquit. Italic., Dissert. XI.

[49] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.

[50] Annales Hildesheim.

[51] Puccinelli, Chron. della Badia Fiorentina, pag. 232.

[52] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO DCCCCXCVIII. Indiz. XI.

    GREGORIO V papa 3.
    OTTONE III re 16, imperad. 3.


Da uno strumento, da me dato alla luce[53], noi ricaviamo che nel dì 15
di gennaio dell'anno presente _domnus Otho dux filius bonae memoriae
Cononi_ comperò da _Liutifredo vescovo_ di Tortona molte castella e
beni. Il contratto seguì in Pavia. Questo _Ottone duca_, figliuolo di
_Conone_, cioè di _Corrado duca_ della Francia orientale, altri non è
che il padre di _Gregorio V_ papa. Essendosi ritirato a Pavia esso
pontefice a cagione dello scisma introdotto nella Chiesa romana, colà si
era portato ancora Ottone suo padre, marchese allora della marca di
Verona; oppure vi capitò accompagnando l'Augusto _Ottone III_, il quale
irritato forte contro i perturbatori del suo imperio e della Chiesa
romana, sul fine del precedente anno era calato di nuovo in Italia. Il
Cronografo sassone[54] ci fa sapere che _venerabilis papa Gregorius
Papiae obviam factus est_ all'imperadore. Adunque Ottone III venne a
Pavia, e, siccome poco fa osservammo, quivi celebrò la festa del santo
Natale. Oltre a ciò, nel dì 5 di gennaio del presente anno egli si
truova in quella città, dove diede un diploma in favore del monistero
ambrosiano[55]: _Nonis januarii anno dominicae Incarnationis
DCCCCXCVIII, regni vero domni Ottonis tertii XIV_ (dee essere _XV_),
_imperii ejus II, Indictione XI. Actum Papiae._ Di là poi passò
l'imperadore a Cremona, e quivi nel dì 29 di gennaio concedette ai
canonici di santo Antonino di Piacenza un privilegio[56], dato _XIV
kalendas februarii anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVIII, Indictione
XI, anno vero domni Ottonis tertii imperatoris regni ejus XV imperii II.
Actum Cremonae._ Che esso Augusto nel medesimo giorno dimorasse in
Cremona, ne abbiamo un'altra testimonianza in un placito da me
pubblicato[57], il cui principio è tale: _Dum in Dei nomine civitate
Cremona in domo_ (cioè nel palazzo del vescovo) _ipsius civitatis in
Laubia majore ipsius domus, ubi domnus Otto gloriosissimus imperator
praeesset, in judicio residebat, per ejusdem domni Olderici licentiam_
(cioè del vescovo di Cremona, perchè non si potea nei luoghi privati
senza permission del padrone alzar tribunale di giustizia) _Otto dux et
missus domni ipsius Ottonis imperatoris_ (cioè il padre di Gregorio V
papa) _unicuique justitias faciendas et deliberandas: residentibus cum
eo Henricus dux_ (cioè di Baviera, che fu poi imperadore), ec. In esso
placito ottenne _Odelrico vescovo_ di Cremona una favorevol sentenza
contra dei cittadini della medesima città usurpatori de' suoi beni. Da
Cremona si trasferì Ottone a Ravenna, e quivi[58] _V idus februarii,
Indictione XI_ confermò i privilegii ai canonici di Ferrara, con imporre
ai trasgressori la pena di cento libbre, da pagarsi _medietatem camerae
nostrae, et medietatem praedictis canonicis_, e non già alla camera
pontificia. Dovette in tal congiuntura succedere ciò che narra Andrea
Dandolo a questo medesimo anno[59]: cioè che soggiornando Ottone III in
Ravenna, s'invogliò di fare una scappata a Venezia, per vedere quella
maravigliosa città. Fatta dunque vista di ritirarsi all'antichissimo
monistero della Pomposa, per quivi fare un poco di purga, con soli sei
compagni e Giovanni Diacono si portò poscia colà incognito. Segretamente
avvertito della sua venuta il doge, la notte trattava e cenava
lautamente con lui, nel giorno poi il lasciava andare a suo talento
visitando le chiese e le altre cose rare della città. Tenne Ottone
Augusto al battesimo una figliuola del doge; gli condonò il pallio, che
in vigore dei patti pagavano ogni anno i Veneziani al re d'Italia; e
soddisfatta la sua curiosità, se ne ritornò a Ravenna. Finalmente in
compagnia di papa Gregorio V e con un fioritissimo esercito d'Italiani e
di Tedeschi s'incamminò il giovine imperadore alla volta di Roma[60].

In essa si trovarono questi due primi luminari della Cristianità _VIII
kalendas martii anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVIII, Indictione
XI_, ciò apparendo da un diploma d'esso Augusto in favore dell'insigne
monistero di Farfa contra d'_Ugo abbate[61], qui sibi imperialis
abbatiae monasterii videlicet farfensis, absque nostro assensu regimen
usurpaverat inique, et quod deterius est, pretio emerat a romano
pontefice_. Il bello è che Ottone III lo tolse ad Ugo abbate, por darlo
poi in commenda, ossia in benefizio ad _Ugo vescovo_. Non istette però
molto a rimettere in possesso del medesimo monistero il suddetto Ugo
abbate, il quale riuscì poi un valentuomo, e faticò non poco in
vantaggio del suo monistero. Un altro suo diploma[62], dato in Roma
stessa _V kalendas martii_, si legge nelle Antichità italiane. In esso
son confermati tutti i suoi beni ad _Antonino vescovo_ di Pistoia. Non
avea già aspettato l'arrivo di papa Gregorio, nè dell'imperadore,
l'antipapa _Giovanni_; ma cautamente travestito, dopo aver tenuta
occupata circa dieci mesi la sedia di san Pietro, se n'era fuggito. Poco
nondimeno gli valse in questo bisogno l'astuzia sua. Fu scoperto e preso
dai Romani stessi, i quali, per attestato di san Pier Damiano[63] e del
Cronografo sassone[64], temendo che l'imperadore il lasciasse andar
senza pena, gli tagliarono la lingua e il naso, gli cavarono gli occhi,
e così malconcio il condussero nelle carceri di Roma. Da lì a qualche
tempo postolo a rovescio sopra di un asinello, colla coda d'esso in mano
il guidarono per le piazze e contrade della città, forzandolo a cantare:
_Tale supplicium patitur, qui romanum papam de sua sede pellere
nititur._ Novella ben graziosa, come se fosse credibile che il misero
avesse voglia e forza da cantar questa canzone. E poi s'ha da chiedere a
Pier Damiano, come potesse costui cantare, dopo averci detto che gli era
stata dianzi tagliata la lingua. Per altro non si mette in dubbio
l'obbrobrioso trattamento fatto a questo antipapa; anzi si sa che fu
detestato da san _Nilo abbate_ greco, celebre di questi tempi, e
fondatore del monistero di Grottaferrata, abitante allora in un
monistero presso di Gaeta, la cui Vita si legge negli Annali
ecclesiastici del Baronio. Udito che egli ebbe come l'antipapa _orbatus
oculi, lingua et naso, in carcerem conjectus est_, per compassione a
questo suo nazionale greco, benchè di patria calabrese, si portò a Roma.
Accolto con somma divozione dal papa e dall'imperadore, chiese loro in
dono l'infelice Giovanni, _qui_, diceva egli, _utrumque vestrum ex fonte
baptismatis suscepit_. Veggasi a qual grado di riputazione avesse
portato costui la sua ipocrisia, dacchè avea tenuto al sacro fonte due
sì eccelsi personaggi. Allora l'imperadore colle lagrime agli occhi
(_neque enim revera tota res ejus consilio peracta est_) gli rispose che
gliel concederebbe, purchè esso Nilo volesse fermarsi in Roma a
governare il monistero di santo Anastasio dei Greci. Si disponeva il
buon servo di Dio ad accettar la proposizione; _sed durus ille papa, non
contentus malis, quae adversus praedictum Philagathum_ (così egli nomina
Giovanni) _patraverat, quum illum adduxisset, et sacerdotales vestes ei
dilaniasset, per totam urbem circumduxit_, ec. Predisse poi Nilo tanto
al papa, quanto all'imperadore l'ira di Dio, perchè niuna misericordia
aveano di costui, male corrispondendo a Dio che loro l'avea dato nelle
mani.

Non era già fuggito Crescenzio da Roma, perchè confidato nel creduto
allora inespugnabile castello di sant'Angelo, quivi si serrò coi suoi
partigiani[65]. Dopo la domenica in Albis fece l'imperadore imprendere
l'assedio di quella fortezza con quante macchine erano allora in uso; e
dati varii assalti e scalate, finalmente riuscì ai suoi di superar
quella rocca. A Crescenzio preso e a dodici dei suoi tagliata fu,
d'ordine dell'imperadore, la testa, e i lor cadaveri appesi ai merli del
castello _III kalendas maji, quando Crescentius decollatus suspensus
fuit_, come si ha da un diploma d'esso imperadore, citato dal padre
Mabillone[66]. Ma diversamente contano questo fatto gli storici
italiani, cioè Leone Ostiense, san Pier Damiano, Arnolfo e Landolfo
seniore storici milanesi, con iscrivere che ingannevolmente, e con
promessa e giuramento di aver salva la vita, s'indusse Crescenzio a dare
il castello e sè stesso in mano dell'imperadore, il qual poscia con
qualche pretesto gli fece tagliare la testa: il che servì ad atterrir
chiunque non sapeva allora ubbidire nè al papa nè all'imperadore. Cessò
di vivere, o rinunziò alla sua chiesa in quest'anno _Giovanni
arcivescovo_ di Ravenna. Trovavasi nella corte dell'imperadore
_Gerberto_ monaco franzese, da noi veduto abbate di Bobbio, e poscia
arcivescovo di Rems. Cacciato da quella chiesa, si attaccò all'Augusto
Ottone III, di cui era stato maestro, e siccome gran faccendiere stava
attento ad ogni apertura di avanzare la sua fortuna. Ed appunto egli
ottenne di essere promosso all'arcivescovato di Ravenna verso il fine
d'aprile dell'anno corrente, e non già nell'anno antecedente, come pensò
Girolamo Rossi. Tenne egli, prima che passasse quest'anno, un concilio
dei suoi suffraganei in essa città[67]. Occorre qui un punto imbrogliato
di storia. Presso l'Olstenio, e nei concilij del Labbe, e nelle giunte
ad Agnello Ravennate[68], e nella Cronica di Farfa[69] si legge una
riguardevol costituzione di Ottone III Augusto, indirizzata _consulibus
senatus populique romani, archiepiscopis, abbatibus, marchionibus,
comitibus, in Italia constitutes_, dove proibisce da lì innanzi ed
annulla le alienazioni dei beni delle chiese. Fu fatta e pubblicata
questa costituzione _XII kalendas otobris Indictione XII_ (cominciata
nel settembre dell'anno presente) _anno III pontificatus domni Gregorii
V papae, promulgata per manus Gerberti sanctae ravennatis ecclesiae
archiepiscopi in ea synodo, in qua mediolanensi episcopo, Arnulfo
nomine, papatum oblatum est in basilica beati Petri, quae vocatur ad
Coelum aureum, et subscripserant omnes, qui adfuerunt episcopi_. Non si
sa primieramente il luogo di questo concilio. Se in Ravenna esisteva una
basilica di san Pietro _ad Coelum aureum_, o, come ha un altro testo,
_ad Cellam auream_, quivi sarà stato tenuto il suddetto concilio. Ma più
probabile sembra che qui si debba intendere la basilica famosa di questo
nome, posta in Pavia, dove riposa il sacro corpo di santo Agostino. Non
certo in Roma finchè non apparisca che ivi fosse basilica alcuna così
denominata. Secondariamente non si capisce che significhino quelle
parole, _in qua mediolanensi episcopo, Arnulfo nomine, papatum ablatum
est_. Qui decide tosto il padre Pagi[70] con dire che l'imperito
Cronografo farfense v'aggiunse di suo queste parole _et Arnulfum
archiepiscopum mediolanensem loco Johannis archiepiscopi piacentini
posuit_. Ma anche nel testo della Biblioteca estense, ove son le Vite
degli arcivescovi di Ravenna, s'incontrano le stesse parole. E poi come
aspettare al dì 20 di settembre di quest'anno, e al concilio di Pavia, a
levare il papato a Giovanni Calabrese arcivescovo di Piacenza, s'egli
già nel dì 2 di marzo era stato deposto e villaneggiato, e forse non si
contava più tra i viventi? Giacchè a noi mancano i lumi della storia per
rischiarare questo punto, amo meglio di tacere, oppure di solamente
proporre un mio sospetto. Cioè morto in quest'anno _Landolfo II_,
arcivescovo di Milano, gli succedesse _Arnolfo II_, il quale, siccome
altri vescovi voleano allora usare il titolo di _servus servorum Dei_,
riserbato oggidì al romano pontefice, così anche egli assumesse il
titolo di _papa urbis Mediolani_, non già per usurparsi il pontificato
romano, ma per imitare gli antichi vescovi, i quali erano, al pari del
pontefice romano, chiamati _papi_. Giacchè il costume avea introdotto
che ai soli successori nella cattedra di san Pietro si desse questo
titolo, papa Gregorio si può immaginare che ne facesse doglianza, e che
nel concilio di Pavia fosse decretato che Arnolfo desistesse dal
chiamarsi _papa_. San Gregorio VII pontifice decretò dipoi che questo
titolo fosse riserbato ai romani pontefici.

Due diplomi da me pubblicati[71] ci fanno vedere Ottone III Augusto nel
territorio di Lucca. Il primo è dato _X kalendas septembris anno
dominicae Incarnationis DCCCCXCVIII, Indictione VI_ (ha da essere _XI_.)
_Actum in Marlia juxta Lucam._ Il secondo fu dato _kalendis septembris_
dello stesso anno. _Actum in castello Marlia juxta Lucam._ Ch'egli di là
passasse a Pavia, l'impariamo da un altro suo diploma in favore del
vescovo di Torino[72], dato _kalendis septembris anno dominicae
Incarnationis DCCCCXCVIII, Indictione XII, anno regni domni Othonis
tertii XIV, imperii vero ejus III. Actum palatio Papiae_. Ma questo è
documento difettoso. Nel primo dì di settembre non potè essere Ottone
Augusto nel territorio di Lucca e in Pavia. Perciò in vece di
_septembris_ s'ha forse da leggere _octobris_. Così in vece dell'anno
_XIV_ del regno s'ha da scrivere _XV_. Quivi ancora si legge: _Eo quod
interventu ob amorem_, ec. senza dirsi che intervenisse per impetrar
questa grazia. Abbiamo poscia un altro diploma del medesimo Augusto in
favor del monistero di Bobbio[73], dove è _Actum Papiae anno ab
Incarnatione Domini nostri Jesu Christi DCCCCXCVIII, Indictione XI_
(s'ha da scrivere _XII_), _anno imperii tertii Ottonis III. Datum
kalendis octobris_: il che ci dà a conoscere che la suddetta costituzion
generale fu da lui formata e promulgata in un concilio tenuto in essa
città di Pavia, e non altrove. Merita eziandio d'essere qui rammentato
un placito[74], tenuto nel dì 16 di settembre dell'anno presente, _anno
Gregorii summi pontificis III, et anno Ottonis imperatoris III,
Indictione XII, civitate Corneliense_ (cioè in Imola) _juxta monasterium
sanctae Mariae, quod vocatur in Regula_. Tenne questo placito _domnus
Oldericus subdiaconus et missus domni Ottonis imperatoris, et cum eo
domnus Erardus comes_. Ivi fu rimesso in possesso d'alcuni beni situati
nel territorio di Faenza e d'Imola il monistero di santa Maria, _quod
vocatur in Palatiolo_, posto in Ravenna. _Tunc misit domnus Oldericus
subdiaconus et missus domni imperatoris cum praedicto domnus Erardus
comes bandum_, ec., colla pena di cento bisanti d'oro ai trasgressori,
da pagarsi _medietatem camerae nostrae_ (cioè dell'imperadore), e
l'altra metà al monistero: pruova ancor questa del fisco spettante nelle
città dell'esarcato all'imperadore. Ci fa poi intendere Lupo
Protospata[75] che in quest'anno _venit Busitus Caytus_ (uffiziale di
guerra dei Saraceni) _cum praedicto Smaragdo_ (era questi un Greco o un
cittadino di Bari ribello dei Greci) _Barum mense octobris, et
praedictus Smaragdus eques intravit Barum per vim a porta occidentali,
et exiit iterum. Tunc Busitus cognita fraude discessit._ Dovea costui
aver fatto credere ai Mori di dar loro in mano la città di Bari,
signoreggiata allora dai Greci; ma non essendogli venuto fatto di
fissare il piede in quella città, il capitano de' Mori temendo di
qualche inganno, se ne tornò colle pive nel sacco. A quest'anno, siccome
ho nelle Antichità estensi[76] fatto conoscere, si truova nel broglio di
Carrara in Lunigiana _Oberto II marchese_, progenitore de' principi
della casa d'Este, che stabilisce un aggiustamento con _Gotifredo
vescovo_ di Luni, riconoscendo da lui in livello quattro pievi. Egli è
ivi chiamato _Otbertus marchio filius quondam item Otberti itemque
marchio, qui professus sum ex natione mea lege vivere Longobardorum_.
Gli stati di questi principi erano allora principalmente nella Lunigiana
e per la Toscana. Tenuto fu in quest'anno un insigne placito in Roma
davanti a papa _Gregorio V_ e all'imperadore Ottone III[77] _anno
pontificatus domni Gregorii, summi pontificis et universalis V papae II,
imperii autem domni Ottonis imperatoris similiter II, Indictione XI
mensis aprilis die IX_, davanti alle porte della basilica vaticana, dove
Ugo abbate di Farfa vinse una lite di due chiese, _quae sunt aedificatae
in thermis alexandrinis, cum casis, cryptis, hortis, terris cultis et
incultis, etc. sitas Romae regione nona_. Fu imposta la pena di dieci
libbre d'oro ottimo ai trasgressori, da pagarsi _medietatem regi, et
medietatem ipsius monasterii_ (farfensis) _rectoribus_. Potrebbesi forse
anche di qui dedurre il sovrano dominio tuttavia conservato in Roma da
Ottone III Augusto: del che ho io addotto altre pruove nella Piena
esposizione, ec.

NOTE:

[53] Antiquit. Italic., Dissert. XLI.

[54] Chronographus Saxo apud Leibnitium.

[55] Puricellius Monument. Basil. Ambrosian.

[56] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.

[57] Antiquit. Ital., Dissert. XXVIII, p. 793.

[58] Ibidem, Dissert. LXII.

[59] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[60] Annalista Saxo apud Eccardum.

[61] Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[62] Antiquit. Ital., Dissert. XIX, pag. 9.

[63] Petrus Damiani, Epist. II ad Cadalpum.

[64] Cronographus Saxo.

[65] Ditmarus, Chronic., lib. 4. Annalista Saxo. Glaber, Rodulphus lib.
1 cap. 4.

[66] Mabill., Annal. Benedict., ad hunc annum.

[67] Labbe Concil., tom. 9.

[68] Agnell., Vit. Episcopor. Ravenn., P. I tom. 2 Rer. Ital.

[69] Chronic. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[70] Pagius, in Crit. ad Annal. Baron.

[71] Antiquit. Ital., Dissert. V.

[72] Guichenon, Bibliotec. Sebus. Centur. I, cap. 87.

[73] Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. LXV.

[74] Antiquit. Ital., Dissert. X.

[75] Lupus Protospata, in Chronico.

[76] Antichità Estensi, P. I, cap. 15.

[77] Mabill., Annal. Benedict. Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer.
Italic.



    Anno di CRISTO DCCCCXCIX. Indiz. XII.

    SILVESTRO II papa 1.
    OTTONE III re 17, imperad. 4.


Venne a morte in quest'anno nel dì 12 di febbraio, secondochè abbiamo
dal suo epitaffio, _Gregorio V_ papa, senza che alcuno degli antichi
storici parli più precisamente di questo fatto. Egli era nel più bel
fiore della sua gioventù, e probabilmente corse qualche sospetto che la
fazion di Crescenzio avesse saputo trovar modo di sbrigarsi di un papa
odiato da essi, parente dell'imperadore, e tanto assistito dalla potenza
di lui. Leggesi anche oggidì nella basilica vaticana il suo epitaffio,
rapportato da Pietro Mallio, dal cardinal Baronio, dall'Aringhi e da
altri. Non dovea per anche essere abbastanza appagata l'ambizione di
_Gerberto_ coll'arcivescovato di Ravenna, contuttochè allora fosse
quella chiesa una delle più riguardevoli e ricche della Cristianità.
Venuta la vacanza della santa Sede, s'adoperò egli per ottenerla colla
protezione ed autorità dell'imperadore, stato già discepolo suo: se pure
lo stesso Ottone III quegli non fu che per avere un pontefice ben
affetto e dipendente dai suoi cenni, il promosse a questa eccelsa
dignità. Se si vuol prestar fede ad un diploma da me dato alla luce, nel
primo dì di gennaio dell'anno presente si trovava esso Augusto in
Verona[78], dove concedette ai canonici di Parma per interposizione di
_Sigefredo vescovo_ parmigiano _curtem de Palationi, quae dicitur sancti
Secundi, cum castello et villis_. Siccome facilmente si osserva nelle
antiche memorie, bene spesso sotto nome di _corte_ era compreso un
territorio che avea castello e parrocchia sua particolare. Il diploma fu
dato _kalendis januarii anno dominicae Incarnationis DCCCCXCIX,
Indictione XIII, anno tertii Ottonis regnantis XVII, imperantis IIII.
Actum Veronae._ Ma queste note tutte convengono non al presente anno, ma
bensì al susseguente; e sarà stato adoperato l'anno veneto e fiorentino,
che durava nei primi mesi dell'anno millesimo della nostra salute.
Comunque sia, era esso Augusto in Roma, allorchè accadde la morte di
Gregorio V, oppure accorse egli frettolosamente colà a questo disgustoso
avviso. Scrive il Cronografo sassone[79] che nel dì 7 di febbraio di
questo anno diede fine alla sua vita _Matilda_, figliuola di _Ottone I_
Augusto, ed egregia badessa quindilinburgense, alla cui saviezza
superiore al suo sesso, avea l'Augusto Ottone III lasciato il governo
del regno germanico. Furono spediti ambasciatori per portare
all'imperadore questa infausta nuova, i quali _Romam pervenientes
praefactum imperatorem recenti nepotis sui papae Brunonis, qui romana
lingua Gregorius dicebatur, obitu admodum moestum reperiunt_. Era egli
dunque in Roma, poco dopo la morte del papa, e quivi parimente il truovo
nel dì 7 di maggio, ciò apparendo da un suo diploma[80] dato alla chiesa
di Vercelli, _nonis maii, anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVIIII,
Indictione XII, anno tertii Ottonis regis XV, imperatoris III. Actum
Romae._ È considerabile in esso diploma il dirsi: _Damus omnia praedia
Arduini filii Dodonis, quia hostis publicus adjudicatus episcopum Petrum
vercellensem interfecit, et interfectum incendere non expavit._ E pure
questo _Ardoino_ figliuolo di Dodone, oppur di Oddone, quel medesimo
sembra essere stato che da qui a non molto vedremo re d'Italia, con
essere caduta la corona del regno d'Italia in un sì crudele ed empio
personaggio. Ora i buoni ufizii, oppure l'autorità di Ottone III
Augusto, furono cagione che _Gerberto_, già arcivescovo di _Rems_,
poscia di _Ravenna_, giugnesse a salire sulla cattedra pontifizia di
_Roma_ nel dì due d'aprile, col prendere il nome di _Silvestro II_. È
famoso quel verso, composto da lui, o da altri:

    _Scandit ab R. Gerbertus ad R. post papa viget R._

Egli ebbe per successore nella cattedra archiepiscopale di Ravenna
_Leone abbate_ nonantolano.

Era tuttavia vivente _Adelaide_, vedova di Ottone il Grande, intenta
solo alle limosine e ad altre opere di pietà, per le quali si meritò poi
d'essere annoverata fra i santi. Aveva ella, oltre ad altri monisteri,
fondato fuor di Pavia l'insigne di san Salvatore. Al medesimo in
quest'anno nel dì 13 di aprile, trovandosi ella _infra castrum, qui
dicitur Asterna, judiciaria, alsasiense_, cioè in Alsazia, fece una
magnifica donazion di beni, che si legge nello strumento da me dato alla
luce[81]. S'era la buona imperadrice portata in Borgogna per mettere la
pace fra i sudditi di _Rodolfo II_ re suo nipote, e per visitar quei
luoghi santi. Infermatasi finalmente, piena di meriti, passò a miglior
vita[82] nel dì 16 di dicembre dell'anno presente, e onorata da Dio con
varii miracoli, fu seppellita in Selts. Noi poscia troviamo l'Augusto
Ottone nel celebre monistero di Subiaco, dove concede a Pietro monaco
licenza di fabbricare una chiesa, con un diploma[83] dato _III idus
augusti anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVIIII, Indictione XII, anno
tertii Ottonis regnantis XVI, imperantis IIII. Actum Sublaci in sancto
Benedicto._ Con altro suo diploma ordinò dipoi che il nobil monistero di
Farfa non avesse in avvenire a concedersi in benefizio ossia in commenda
ad alcuno. Esso privilegio[84] fu dato _V nonas octobris_ di questo
anno, _Indictione XII, anno regni XVI, imperii IV. Actum Romae._ Son
degne in questo diploma le seguenti parole: _Nos quadam die Romam
exeuntes pro restituenda republica, cum marchione nostro Hugone, et
concilia imperii nostri cum venerabili papa Silvestro secundo, et cum
aliis nostris optimatibus, ibidem tractavimus._ Questo Ugo era il
marchese e duca di Toscana, talmente introdotto nella corte di Ottone
III Augusto, che gli serviva non solamente di consigliere, ma in certa
maniera anche da aio.

Abbiamo poi da Leone ostiense[85] che in quest'anno _Laidolfo principe_
di Capoa, perchè scoperto di aver tenuta mano nell'assassinamento di
_Landenolfo_ suo fratello, fu cacciato in esilio dall'imperadore Ottone,
e sostituito in suo luogo da _Ademario_ nobile capuano. Da un diploma
ancora, rapportato nella Cronica del monistero di santa Sofia[86], si
scorge che esso Augusto era in Benevento _V idus novembris_ del presente
anno, quivi ben trattato da _Pandolfo II_ principe di quella città. E
quando sussista questo documento, facilmente si potrà verificare ch'egli
si trovasse prima in quella medesima città _VII idus julii_, nel qual
giorno, scrive _Roberto abbate_ tuiziense[87] che santo _Eriberto_ fu
consecrato arcivescovo di Colonia in _Benevento_, dove era la corte
dell'imperadore. Anche il padre Bollando dubitò di questo giorno. Ma
Ademario poco godette del suo principato di Capoa; perciocchè, secondo
il suddetto Ostiense, _paulo post_, cioè quattro mesi dappoi, dai
cittadini di Capoa fu discacciato, e in luogo suo fu creato principe
_Landolfo IV_ da sant'Agata, figliuolo di _Landolfo III_ già principe di
Benevento. Tornato che fu Ottone III a Roma, tenne un riguardevol
placito, rapportato dal padre Mabillone[88] e nella Cronica del
monastero di Farfa[89], _anno, Deo propitio, pontificatus domni nostri
Silvestri summi pontificis et universalis secundi papae primo, et
imperii domni nostri tertii Ottonis, a Deo coronati, magni et pacifici
imperatoris anno IIII, Indictione XIII, mense decembris die secunda._
Litigavano fra loro l'abbate di Farfa _Ugo_ e _Gregorio abbate_ dei
santi Cosma e Damiano, monistero posto _Romae trans Tiberim in Mica
Aurea_, a cagione della cella di santa Maria in Minione. Davanti a papa
_Gregorio V_ s'era agitata questa causa, _et tunc supradictus domnus
Gregorius papa propter pecuniam, quam acceperat a Gregorio abbate,
iratus est contra Hugonem abbatem_, e il forzò a cedere. Dopo la morte
di papa Gregorio reclamò _Ugo abbate_ di Farfa davanti l'imperadore, in
Roma nel palazzo imperiale; ed essendo stato più volte citato l'abbate
Gregorio, e ricusando di comparire l'imperadore, col consiglio del
giudici, diede il possesso di quella cella all'abbate di Farfa, con
intimar la pena di cento libbre d'oro puro ai contravventori, da
applicarsi, _medietatem camerae imperatoris, et medietatem praefato
monasterio sanctae Mariae in Pharpha_. E ne fu fatto lo strumento
_praecepto domni imperatoris, et consensu domni apostolici, sive
judicum_. Circa questi tempi _Pietro Orseolo II_ doge di Venezia, per
attestato del Dandolo[90], a requisizione di _Basilio_ e _Costantino_
imperadori d'Oriente, mandò a Costantinopoli _Giovanni_ suo figliuolo,
che da loro ricevette molti onori e finezze. Ed allora fu, come scrive
Cedreno[91], che Basilio Augusto _principi Venetiae nuptum tradidit
filiam Argyri, sororem ejus Romani, qui post imperio potitus est, hoc
modo gentem sibi devinciens Venetorum_. Questo principe di Venezia altro
non fu che il suddetto _Giovanni_, il quale, per attestato del medesimo
Dandolo, fu dal popolo eletto doge e collega. Riconobbe lo stesso
Dandolo queste nozze celebrate magnificamente in Costantinopoli, e
chiama quella principessa _Maria_ (_Marta_ ha un altro testo) nipote di
Basilio, perchè nata da sua sorella maritata con Argiro. Furono coronati
gli sposi con diadema d'oro, e Giovanni onorato col titolo di patrizio,
e regalato col corpo di santa Barbara, ch'egli portò con seco a Venezia.
Scrive sotto questo anno Lupo Protospata[92] che _descendit Trachamotus
catapanus, qui et Gregorius, et obsedit civitatem Gravinam, et
comprehendit Theophylactum_. Davano i Greci in questi tempi il nome di
_catapano_ al governator generale degli stati che possedevano in
Calabria e in Puglia: nome che Guglielmo pugliese ed altri stimarono
derivato dalla greca favella, ma il Du-Cange[93] ha creduto formato dal
latino _capitaneus_. La quistione non so io dire se sia per anche
pienamente decisa. Dall'Ughelli[94] è rapportato un diploma dato alla
chiesa di Como da Ottone III colle seguenti note: _Data VI kalendas
julii, anno dominicae Incarnationis 999, imperii domni Ottonis XVI,
Indictione XII._ Spropositate affatto son queste note, siccome osservò
il Coleti nella nuova edizion dell'Ughelli, ed avvertì anche il
diligentissimo _Gotifredo abbate_ gotwicense[95], il quale osserva qui
ed altrove molte simili storture dei documenti recati da esso Ughelli.

NOTE:

[78] Antiquit. Ital., Dissert. LXVI.

[79] Chronographus Saxo apud Leibnitium.

[80] Antiquit. Italic., Dissert. LXXIII.

[81] Antiquit. Ital., Dissert. XXI, pag. 171.

[82] Odilo in Vit. S. Adelheidis.

[83] Antiq. Italic., Dissert. LXVII.

[84] Chronic. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[85] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap 15.

[86] Ughell., tom. 8 Ital. Sacr., in Appendic.

[87] Rupertus Tuitiensis, in Vita S. Heriberti.

[88] Mabillon., Annal. Benedict.

[89] Chronic. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[90] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[91] Cedrenus, in Hist., ad hunc annum.

[92] Lupus Protospata, in Chron.

[93] Du-Cange, in Not. ad Alexiad. et in Glossar. Latin.

[94] Ughell., Ital. Sacr., in Episcop. Comens.

[95] Chron. Gotwicense, pag. 223.



    Anno di CRISTO M. Indizione XIII.

    SILVESTRO II papa 2.
    OTTONE III re 18, imperad. 5.


Erano mancate ad _Ottone III_ Augusto le tre principali colonne sue,
cioè _Gregorio V_ papa, la santa avola _Adelaide_, e la piissima e savia
zia _Matilda_ badessa: però per regolare gli affari del regno germanico
s'inviò colà nella primavera di quest'anno. Specialmente era condotto in
Germania dal pio desiderio di visitare in Gnesna città della Polonia il
sacro corpo di santo _Adalberto vescovo_ di Praga, ultimamente
martirizzato per la Fede di Gesù Cristo dai Prussiani, avendo inteso che
al suo sepolcro si faceano dei frequenti miracoli. Portossi colà con
somma divozione, e a piè nudi entrato nella città, fece le sue orazioni
in quel sacro tempio. Celebrò dipoi la Pasqua in Sassonia, e di là
passando ad Aquisgrana, quivi solennizzò la festa della Pentecoste.
Mosso da una giovanil curiosità, volle vedere dove riposasse il corpo di
_Carlo Magno_[96]. E segretamente fatto rompere il pavimento, tanto si
cercò sotterra, che si trovò la camera, dove era il deposito di quel
glorioso monarca, la cui descrizione abbiamo da varii antichi storici,
ma specialmente da Ademaro[97] monaco, scrittore vicino a questi tempi.
Non altro prese Ottone che la croce d'oro che gli pendeva dal collo, e
parte delle vesti non putrefatte; e il resto lasciò come era. Perchè ciò
fu creduto _contra disciplinam ecclesiasticam_ perciò corse voce; che
Carlo Magno era apparuto ad Ottone III, con predirgli che morrebbe senza
eredi. Le storie di questi tempi son piene di simili visioni e sogni. A
tutto allora si prestava fede, e non pochi erano gl'inventori di tali
novità. Lo stesso Ademaro scrive che _Otto imperator per somnium monitus
est, ut levaret corpus Caroli Magni_. Dimorava in Aquisgrana l'Augusto
Ottone, allorchè _Olderico_, ossia _Odelrico vescovo_ di Cremona ottenne
da lui la conferma di due corti, con diploma dato[98] _V idus maii, anno
dominicae Incarnationis millesimo, Indictione XIII, anno tertii Ottonis
regnantis XVI_ (dee essere _XVII_), _imperii V_ (ha da essere _IV_).
_Actum Aquisgrani in palatio._ Sbrigato dagli affari della Germania, se
ne tornò Ottone in Italia; e, se vogliamo credere ad un suo diploma,
pubblicato dal Margarino[99], era egli in Pavia nel dì 6 di luglio del
presente anno, avendo quivi confermate al monistero di san Salvatore
tutte le sue tenute ed esenzioni, con diploma dato _II nonas julii, anno
dominicae Incarnationis M, Indictione XIII, anno tertii Ottonis regni
XVII, imperii anno V. Actum in papiensi palatio._ Da un altro diploma
presso l'Ughelli[100] abbiamo ch'egli dimorava in Roma nella festa
dell'Ognissanti di quest'anno, avendo ivi conceduto a _Leone vescovo_ di
Vercelli un privilegio _kalendis novembris, anno dominicae Incarnationis
M, Indictione XIV, anno tertii Ottonis regnantis XVI, imperii vero V.
Actum Romae in palatio monasterio._ È scorretta questa ultima parola, e
secondo un esemplare del padre Mabillone[101], s'ha da leggere _Montis_.
Finalmente l'autore degli Annali d'Ildeseim[102] scrive che _imperator
Natalem Christi Romae celebravit_.

Questo è quel poco che si sa delle azioni di Ottone III nel presente
anno. Potrebbe essere ch'egli in questo medesimo, come scrive
l'Ostiense[103], andasse per divozione al monte Gargano, e poscia a
Benevento; ma certo non succedette, come pensò il padre Mabillone, la di
lui venuta a Ravenna, nè la sua permanenza nel monistero di Classe,
dovendosi ciò riferire all'anno seguente. Non so da quale documento, o
storia si prendesse il Sigonio[104] la seguente notizia, di cui si può
dubitare, cioè che papa _Silvestro II_ andò ad Orvieto, _et rempublicam
ejus civitatis multis salutaribus legibus vinxit_. Aggiunge che esso
pontefice assediò in quest'anno Cesena. E così fu, scrivendo san Pier
Damiano[105] che _papa Gerbertus juxta Caesenam castra metatus erat,
ejusque oppidum circumfusi exercitus obsidione vallabat_. Per qual
motivo s'inducesse a tale assedio il pontefice, non apparisce.
Finalmente scrive il medesimo Sigonio che i Saraceni con grosso esercito
in quest'anno fecero un'irruzione nella Campania, _et Capuam ejus
provinciae caput ceperunt_. Ma questo avvenimento qual credenza possa
meritare nol veggo, non ne parlando alcuno degli antichi storici. Se
fosse riuscito un sì gran colpo ai Mori, troppo strepito avrebbe fatto
in Italia; ed è quasi impossibile che alcuno degli antichi non ne avesse
lasciata memoria. Scorgesi ancora che il Sigonio si servì qui di poco
buoni documenti, perchè scrive che Ottone III, intesa questa
disavventura del Cristianesimo, con tanta prestezza tornò dalla Sassonia
in Italia, e che nel dì 25 di marzo dell'anno seguente 1001 arrivò a
Ravenna. Ma noi giù abbiamo veduto ch'egli di buon'ora comparve in
Italia nell'anno presente. Non altro ha Lupo Protospata[106] sotto
quest'anno, se non che _anno millesimo, Indictione XIII captus est
Smaragdus_ (ribello de' Greci) _a Tracamotho_ (catapano ossia generale
d'essi Greci) _mense julii XI die_. Che s'egli poi soggiugne: _Et obiit
rex Otho Romae_, questo è un doppio errore, non essendo mancato di vita
Ottone III nè in quest'anno, nè in Roma. Fu duca di Amalfi circa questi
tempi _Giovanni Petrella_ figliuolo del già _Mansone duca_[107], e portò
anch'egli il titolo di _patrizio imperiale_. Che i Greci in questi tempi
avessero stesa di molto la lor signoria nella Puglia, si può dedurre da
un diploma di _Gregorio_[108] protospatario e catapano d'Italia, in cui
conferma al monistero di Monte Casino varie tenute poste in Lesina,
Ascoli, Canosa, Minervina e Trani, città perciò sottoposte al dominio
greco.

NOTE:

[96] Ditmarus, Chron., lib. 4.

[97] Ademarus Monachus, in Chron.

[98] Antiquit. Ital., Dissert. XXXI, pag. 967.

[99] Bullarium Casinens., tom. 2, Constit. LXVIII.

[100] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Vercellens.

[101] Mabill., in Annal. Benedictin.

[102] Annales Hildesheim.

[103] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2.

[104] Sigonius, de Regno Italiae, lib. 7.

[105] Petrus Damian., in Vit. S. Mauri, cap. 3.

[106] Lupus Protospata, in Chronico.

[107] Antiquit. Italic., tom. 1, pag. 120.

[108] Ibidem, Dissert. VI, p. 337.



    Anno di CRISTO MI. Indizione XIV.

    SILVESTRO II papa 4.
    OTTONE III re 19, imperad. 6.


Siam giunti al principio del secolo undecimo, secolo che produsse una
mutazione insigne di governo e di costumi; e sopra tutto ci farà vedere
in rotta il sacerdozio coll'imperio, cioè un'iliade de' gravi scandali e
sconcerti non meno in Italia che in Germania. Ma ritornando al filo
della storia, noi sappiamo da san Pier Damiano[109] che _Ottone III
Augusto_, perchè si sentiva mordere la coscienza d'aver sotto la fede
del giuramento ingannato e fatto decollare Crescenzio console romano
nell'anno 998, e ne volea far penitenza, dopo aver confessato il suo
fallo a san Romoaldo abbate, per consiglio di lui, _nudis pedibus de
romana urbe progrediens, sic usque in Garganum montem ad sancti
Michaelis perrexit ecclesiam_. Leone Ostiense[110] mette questo
pellegrinaggio dell'imperadore sotto l'anno precedente 1000, con
aggiugnere, che passando per Benevento, fece istanza a que' cittadini
d'aver il corpo di san Bartolomeo apostolo, da riporre nella chiesa di
santo Adalberto, ch'egli facea fabbricare nell'isola del Tevere in Roma,
e sommamente desiderava di arricchir di sante reliquie. Gli accorti
Beneventani, giacchè non ardivano di opporsi alla dimanda autorevole
dell'imperadore, in vece del corpo dell'Apostolo, gli mostrarono e
diedero il corpo di san Paolino vescovo di Nola: con cui egli tutto
contento, ma ingannato, se ne andò. Perciò il cardinale Orsino, poscia
Benedetto XIII papa, ai dì nostri vigorosamente sostenne il possesso dei
Beneventani contra le pretensioni de' Romani, giacchè si attribuisce
l'una e l'altra città il corpo di quell'apostolo. E ben prevale
l'autorità dell'Ostiense agli autori del secolo susseguente, che
diversamente ne scrissero. Seguita poi a dire Leone ostiense, che
scoperto l'inganno, s'adirò forte l'imperadore contra de' Beneventani, e
perciò _sequenti tempore perrexit iterum super Beneventum, et obsedit
eam undique per dies multos. Sed nihil adversus eam praevalens, Romam
reversus est. Unde vix ad sua reverti disponens, mortus est._ La morte
di Ottone III cadde nel gennaio dell'anno seguente. Parrebbe perciò che
in quest'anno seguisse l'assedio di Benevento. Infatti Romoaldo
salernitano[111] scrive che Ottone III _obsederat Beneventum anno MI,
Indictione IV_ (vuol dire XIV) _et acriter ipsam civitatem expugnans vi
caeperat_. Contuttociò non pare assai certo quest'assedio, e molto meno
è da credere ch'egli prendesse quella città. E quando pur fosse
succeduto, difficile è lo stabilirne il tempo, cioè se nel presente o
nel precedente anno. Credo bensì che sul principio di quest'anno
succedesse l'assedio di Tivoli. Tangmaro prete, scrittore contemporaneo,
nella vita di san _Bernardo_ vescovo d'Ildeseim[112], racconta che quel
santo prelato, a cagione d'una controversia insorta fra lui e
_Willigiso_ arcivescovo di Magonza, arrivò a Roma nel dì 4 di gennaio
dell'anno presente, ed espose le sue querele al _piissimo papa
Silvestro_, all'_imperadore Ottone_, di cui era stato maestro, e ad
_Arrigo duca di Baviera_, che si trovava allora alla corte d'esso
imperadore. Fu raunato un concilio, deciso in favore di lui, e spedito
in Germania _Federigo_ cardinal della santa romana Chiesa, sassone di
nazione, per terminar quella briga con un altro concilio. In quei
giorni, seguita a dire Tangmaro, avea l'imperadore Ottone intrapreso
l'assedio di Tivoli con tutte le macchine di guerra, e facea gran guerra
a quella città. San Pier Damiano scrive che l'origine d'essa venne
dall'avere quel popolo ucciso Mazzolino, duca ossia capitano d'esso
Augusto Ottone III, e dall'aver anche obbligato lo stesso imperadore a
scappare dalla città. Ma Tangmaro assai dà a conoscere che la lite era
insorta fra i Romani e quei di Tivoli; e perciocchè Ottone inclinava in
favore dei Romani, i Tiburtini si ribellarono, e fu necessitato
l'imperadore a prendere l'armi contra di loro, ma con trovare quell'osso
più duro di quel che si pensava. Se vogliam credere al medesimo san Pier
Damiano[113], si trattava di mettere a fil di spada tutti gli abitanti
di quella città; ma buona per loro che capitò in quelle parti san
Romoaldo abbate per rinunziare la badia di Classe. S'interpose egli,
trattò d'accordo, e fece che l'adirato Augusto si contentò che quel
popolo atterrasse una parte delle mura, gli desse degli ostaggi, e in
mano l'uccisore del suo uffiziale. Così fu, e il santo ottenne anche
dalla madre dell'ucciso la vita dell'uccisore. Come sieno sicuri i
racconti di san Pier Damiano, che neppure era nato in que' tempi, si
raccoglierà dal confrontarli colla narrativa di Tangmaro prete, il quale
con san Bervardo si trovò presente a questo fatto. Nulla scrive egli di
san Romualdo, ma bensì, che trovando l'imperadore gran testimonianza
negli assediati, e desiderando di uscir di questo impegno senza disonore
papa Silvestro e il vescovo Bernardo mossi da ecclesiastico zelo, fecero
istanza d'entrare in Tivoli. Vi furono con giubilo accolti, e disposero
quel popolo a risottomettersi _imperatoris ditioni_, con rendersi a
discrezione. Il dì seguente uscirono _cuncti primarii cives nudi,
femoralibus tantum tecti, dextra gladios, laeva scopas_ (flagelli) _ad
palatium praetendentes; imperiali jure se subactos; nil pacisci, nec
ipsam quidem vitam; quos dignos judicaverit, ense feriat, vel pro
misericordia ad palum scopis examinari faciat; si muros urbis ad solum
complanari votis ejus suppetat, promtos libenti animo cuncta exsequi,
nec jussis ejus majestatis, dum vivant, contradicturos_. L'imperatore,
alle preghiere del papa e del vescovo, loro perdonò, e restò conchiuso
di non distruggere quella città. Notinsi quelle parole de' Tivolesi;
_imperialis juri se subactos_. In tali casi andavano i nobili a chiedere
perdono col mettersi la spada al collo, per dichiararsi degni del taglio
della testa. Gl'ignobili portavano la corda al collo, per protestarsi
degni di essere impiccati.

Torniamo ora a san Pier Damiano, il quale ci fa sapere che Ottone III
venne a Ravenna nell'anno presente, ed ivi attese a far penitenza dei
suoi falli nel monistero di Classe. Ecco le sue parole[114]: _Per totam
etiam quadragesimam in classense monasterio beati Apollinaris, paucis
sibi adhaerentibus, mansit. Ubi jejunio et psalmodiae, prout valebat,
intentus, cilicio ad carnem indutus, aurata desuper purpura tegebatur.
Lecto etiam fulgentibus palliis strato, ipse in florea de papyris
confecta tenera delicati corporis membra terebat. Promisit itaque
Romualdo, quod imperium relinquens, monachicum susciperet habitum, ec_.
Che Ottone III fosse in Ravenna nel dì 20 di aprile, si può anche
intendere da un suo diploma confermatorio dei privilegii del monistero
delle monache della Posterla di Pavia, a petizione di _Pietro_ vescovo
di Como ed arcicancelliere e di _Ottone_ conte del palazzo, nipote
d'esso vescovo. Fu dato quel diploma[115] _II kalendas mai, anno
dominicae Incarnationis millesimo primo, Indictione XIIII, anno tercii
Ottonis regnantis XVII, imperii V. Actum Ravennae_. Pendeva tuttavia da
esso diploma il sigillo di piombo coll'immagine e nome dell'imperadore.
Ma io non osservai bene, se in vece di _regnantis XVII_, fosse ivi
scritto _XVIII_, perchè ciò essendo, converrebbe ammettere due epoche
diverse del regno. Altri simili esempli nondimeno abbiam veduto di
sopra. Ho io parimente prodotta una lettera scritta[116] da papa
Silvestro II al suddetto imperadore, in cui raccomanda alla cura di
_Guido_ vescovo di Pavia l'antichissimo monistero delle monache del
Senatore. Vidi pendente la Bolla pontifizia di piombo; e pure v'ha la
seguente data: _Actum hoc anno dominicae Incarnationis millesimo primo.
Indictione tertiadecima, anno vero pontificatus Silvestri universalis
papae quarto._ Ma in questo anno correa l'_indizione XIV_, e l'_anno
quarto_ di papa Silvestro II cominciava solamente a correre nell'anno
seguente. Che anche verso il fine di novembre tuttavia esso imperadore
soggiornasse in Ravenna, si raccoglie da un altro diploma, spedito in
favore del monistero delle monache di san Felice di Pavia[117], _dato X
kalendas decembris, anno dominicae Incarnationis millesimo primo,
Indictione XV, anno tertii Ottonis regnantis XVII, imperii VI. Actum
Ravennae._ Si osservi ancor qui l'_anno XVII_, del regno, e non già il
_XVIII_, come dovrebbe essere secondo l'epoca ordinaria di questo
imperadore. Ma quivi è cosa strana che sottoscriva _Heribertus
Cancellarius vice Willigisi archiepiscopi_, quando Pietro vescovo di
Como era tuttavia arcicancelliere. Apparteneva in questi tempi la nobil
terra di Carpi, oggidì città, al contado di Reggio; e quivi[118] _anno
imperii tercii domni Ottoni, Deo propitio, sexto, pridie kalendas
octobris, Indictione quintadecima_, cioè nell'anno presente, _Tedaldo_
marchese e conte del contado di Reggio, avolo della gran contessa
Matilda, tenne un placito, in cui si trovò in persona _Berta badessa_
del monistero di santa Giulia di Brescia, e vinse una lite di terreni. A
qual marca presedesse Tedaldo, io nol so dire. Circa questi tempi
_Leone_ arcivescovo di Ravenna, caduto in mala sanità, rinunziò la sua
Chiesa, ed in luogo suo entrò il soprammentovato _Federigo_ cardinale
della santa romana Chiesa. Non so io concertare con quanto abbiam veduto
di sopra intorno alla permanenza di Ottone III Augusto in Ravenna per
tutta la quaresima, il dirsi dal Cronografo sassone[119] ch'egli _Romam
proficiscens sacrosanctum dominicae Resurrectionis festum debita ibi
veneratione celebrare instituit._ Credo io piuttosto che in vece della
Pasqua egli volesse dire il Natale del Signore. Nè si dee tralasciare
che questo imperadore da Ravenna fece una scappata a Pavia verso il fine
di giugno, ciò costando da un suo diploma, dato in favore di _Pietro_
vescovo di Novara[120] _X kalendas julii, anno dominicae Incarnationi
millesimo primo, Indictione XIV, anno tertii Ottonis regni XVII, imperii
V_. Dee essere _VI_. Tornato poscia a Ravenna, sentendo sul fine
dell'anno che v'erano dai torbidi in Roma, s'inviò a quella volta. Trovò
più di quel che s'immaginava. Abbiamo da Ditmaro[121] che fra gli altri
potenti romani, Gregorio, personaggio assai caro al medesimo Augusto,
gli tendeva delle insidie per prenderlo. Un giorno infatti divampò una
sollevazion dei Romani contra di lui, per la quale fu astretto a
fuggirsene per una porta fuori di Roma con lasciar molti de' suoi nella
città rinchiusi. Il Cronografo sassone[122] scrive, che quanti ne furono
trovati, tutti restarono trucidati. Ma Ditmaro narra che i Romani
ravveduti del loro fallo, li lasciarono in libertà, ed inviarono messi
all'imperadore, chiedendo perdono e pace. Ottone, nulla fidandosi delle
loro belle parole, attese a raunar quante soldatesche potè, e tutti i
suoi vassalli; e chi dice ch'egli esercitò varie ostilità contra dei
Romani, e chi, solamente che si preparò a vendicarsi del ricevuto
affronto. Fra quelli che specialmente assisterono in questo brutto
frangente all'imperadore, per mettersi in salvo, si contò _Ugo_ duca e
marchese di Toscana; ma egli stette poco a terminare i suoi giorni. Se
vogliam badare a san Pier Damiano[123], scrittore che, credulo più degli
altri, imbottì l'opere sue di visioni, sogni e miracoli strani, racconta
che un vescovo, di cui avea dimenticato il nome, vide in un tizzone di
fuoco scritte queste parole: _Hugo marchio quinquaginta annis vixit_:
indizio della vicina sua morte. Ma se è vero, come avvertii di sopra
all'anno 961, che già Ugo fosse marchese di Toscana in quell'anno, non
si potrà già credere ch'egli mancasse di vita in età solo d'anni
cinquanta.

Seguita a dire san Pier Damiano, che l'imperadore Ottone, udita la morte
del marchese Ugo, o perchè poco si fidasse di lui, o perchè non gli
piacesse la troppa di lui potenza, proruppe in queste parole del
salmo[124]: _Laqueus contritus est, et nos liberati sumus._ Ma ebbe poco
a rallegrarsi e a gloriarsene Ottone III, perciocchè anch'egli _paulo
post, eodem scilicet anno, et ipse defunctus est_. Sembrano queste
parole indicare che la morte d'Ugo accadesse sul principio di gennaio
dell'anno seguente; perchè da lì a non molto in quello stesso mese diede
fine al suo vivere anche lo stesso imperadore. Ma don Placido
Puccinelli, che con istile romanzesco compilò la vita di questo celebre
e potente principe, e il saggio Cosimo della Rena[125] pretendono che la
sua morte accadesse nel dì 21 di dicembre dell'anno presente; giorno in
cui i monaci benedettini della badia di Firenze celebrano il di lui
anniversario. Che il luogo, dove egli finì sua vita, fosse o Pistoia, o
Firenze, li credo io sogni dei moderni scrittori. Certo è poi, per
attestato del suddetto san Pier Damiano, che questo principe, figliuolo
d'Uberto, e nipote d'Ugo re d'Italia _obtinuit utramque monarchiam_
(egli avrà scritto _marchiam_) _et quam Tyrrhenum videlicet, et quam
mare Adriaticum alluit_: cioè fu duca non meno della Toscana che di
Spoleti. _Sed quam perpenderet, quia propter improbitatem injuste
viventium strenue regere utramque non posset, ultroneae renuntiationis
arbitrio cessit imperatori marchiam Camerini cum Spoletano ducatu, juri
vero proprio Tusciam reservavit_. Se non si disotterrano altre memorie,
non è facile il conoscere in qual tempo succedesse questa rinunzia del
ducato di Spoleti e della marca di Camerino; anzi può anche nascere
dubbio intorno alla medesima. Abbiam veduto all'anno 995 un _Ugo_ duca
di Spoleti e marchese di Camerino. Aggiungo ora, credersi da me lo
stesso che Ugo marchese di Toscana. Perciocchè fra le epistole di
Gerberto una se ne legge scritta a lui, già divenuto papa, con questo
titolo[126]: _Reverentissimo papae Gerberto Otto gratia Dei imperator
augustus_, dove dice, che trovando nociva l'aria d'Italia alla sua
sanità, vuol mutare paese; ma che in aiuto di esso papa egli lascia
_primores Italiae_, e massimamente _Hugonem tuscum vobis per omnia fidum
S._ (forse _scilicet_) _comitem, Spoletinis et Camerinis praefectum, cui
octo comitatus, qui sub lite sunt, vestrum ob amorem contulimus,
nostrumque legatum eis ad praesens praefecimus, ut populi rectorem
habeant, et vobis ejus opera debita servitia exhibeant_. Circa questi
tempi si conosce scritta questa lettera, e dalla medesima impariamo che
Ugo marchese di Toscana comandava anche a Spoleti e a Camerino. Dove è
dunque la cessione di quei principati a noi narrata da Pier Damiano?
Anzi il marchese Ugo, in vece di rinunziare in questi tempi ciò ch'egli
godeva, cercava ancora di goderne di più secondo il costume ordinario
dei gran signori, che mai non si saziano d'accrescere i loro stati. Di
qui appunto abbiamo ch'egli acquistò otto contadi, non goduti prima. E
un contado allora per lo più significava una città col suo distretto.
Non lasciò dopo di sè il marchese Ugo alcun figliuolo maschio, e resta
tuttavia involto nelle tenebre chi fosse l'erede degli immensi suoi
allodiali. Gran sospetto ho io che per qualche sua figliuola, o sorella,
o zia, passata nei marchesi progenitori della casa d'Este, a loro
devenisse Rovigo, Este, la badia della Vangadizza con altri Stati
situati fra Padova e Ferrara; perciocchè gli Estensi, prima potenti
nella Lunigiana e Toscana, si cominciano da qui innanzi a trovar signori
anche di questi altri stati; e si vede ricreato in essi il nome di
_Ugo_[127], essendo anche allora non men che oggidì, vigoroso il costume
di rinnovar nei nipoti i nomi degli avoli o parenti si paterni che
materni. Andando innanzi, vedremo chi succedesse al marchese Ugo nel
ducato della Toscana, e in quello ancora di Spoleti e di Camerino.

Tornando ora ad Ottone III Augusto, uscito ch'egli fu di Roma, e
raccolti che ebbe tutti i suoi vassalli e soldati, mostrava ben grande
ilarità nel volto; ma riflettendo ai varii trascorsi della sua giovanile
età, internamente nondimeno stava malinconico, ed attendeva a farne
penitenza[128] colle lagrime, orazioni e limosine. Secondo gli Annali
d'Ildeseim[129], egli solennizzò la festa del santo Natale in Todi in
compagnia di papa Silvestro. Poscia _Salernum oppidum adiit_, sta
scritto nei suddetti Annali; ma con errore, dovendo dire _Paternum
oppidum_. Quel che è più strano, e lo racconta Ditmaro, in questi
medesimi tempi, senza che ne sappiam la cagione, in Germania molti duchi
e conti, con participazione ancora dei vescovi, macchinavano delle
novità contra dello stesso Ottone III, e ricorsero per questo ad _Arrigo
duca di Baviera_. Ma perchè il ritrovarono ricordevole degli
avvertimenti lasciati a lui dal duca Arrigo suo padre, di osservare
religiosamente la fedeltà dovuta al sovrano, non andò più innanzi la
loro mena. Scrivono alcuni che esso duca Arrigo si trovava
coll'imperadore, allorchè questi fu forzato a scappare di Roma. Ciò
ch'io rapporterò all'anno seguente, ci darà abbastanza a conoscere che
Arrigo dimorava sul fine di quest'anno in Germania. Ma s'io ho da
confessare il vero, temo forte che Ditmaro e i suoi copiatori non sieno
stati informati di questi sconcerti. Tangmaro prete[130], che, come
dissi, ci diede la vita di san Bervardo, e fu non solo scrittore
contemporaneo, ma testimonio di vista di tali avvenimenti, lasciò
scritto, che terminato l'assedio di Tivoli (assedio succeduto nei primi
mesi dell'anno presente), col perdono dato a quei cittadini, il popolo
romano, il quale volea pur disfatta quella città, e atterrato quel
popolo per una gara che vedremo continuata anche dipoi, la prese contra
dell'imperadore, serrò le porte di Roma, negò ad esso Augusto, non che
ai suoi, l'entrarvi, ed arrivò anche ad uccidere alcuni dei fedeli del
medesimo imperadore. Si venne perciò all'armi, ma Dio volle che i Romani
si ravvidero, implorarono ed ottennero la pace; eglino stessi levarono
la vita a due capi della sedizione, e tutto restò quieto. _Pacem petunt,
sacramenta innovant, fidem se imperatori perpetuo servaturos
promittunt_. Sul principio dell'anno tutto questo accadde. Tornò in
Germania san Bervardo, e perchè con tutto l'appoggio del papa e
dell'imperadore non potè ottener giustizia dall'arcivescovo _Wittigiso_,
rispedì verso il fine dell'anno il suddetto Tangmaro in Italia. Questi
_imperatorem in spoletanis partibus reperit;_ vi arrivò anche il papa,
ed amendue _Tudertinae Natalem Domini celebrarunt_. In essa città fu poi
tenuto nel dì seguente un concilio di molti vescovi di Italia, e di tre
tedeschi, nel quale Tangmaro espose le doglianze del suo vescovo, e ne
riportò buon provvedimento. Licenziato dipoi con assai regali, si partì
alla volta della Germania nel dì 11 di gennaio, con aggiugnere che
l'imperadore poco appresso, cioè _X kalendas februarii_, per una febbre
già incominciata terminò i suoi giorni. Però non so vedere come regga
quella guerra contra dei Romani, e quella vendetta che ci vien
raccontata da Ditmaro. Tutto era in pace, ed anche papa Silvestro in
buona armonia coi Romani pacificamente celebrò quel concilio in Todi. Ma
prima di terminare gli avvenimenti di quest'anno, dee farsi menzione
d'uno, che altronde non s'ha se non da due storici milanesi del secolo
di cui parliamo, cioè da Arnolfo[131] e da Landolfo seniore[132]. Stando
fermo Ottone III di volere per moglie una principessa dell'imperial
corte di Grecia, giacchè indarno l'avea chiesta con una precedente
ambasceria, spedì colà, per quanto si può conghietturare, nell'anno
presente, _Arnolfo II_ arcivescovo di Milano. V'andò egli con
superbissimo accompagnamento, ricevette insigni onori da Basilio e
Costantino Augusti, ed ottenne quanto dimandò. Ma inutile riuscì il suo
viaggio e trattato, perchè tornato in Italia, trovò Ottone III chiamato
da Dio all'altra vita. Il suddetto Landolfo seniore, scrittore talvolta
parabolano, lasciò scritto, che oltre a molti altri regali riportati da
quella corte, esso Arnolfo _serpentem aeneum, quem Moyses in deserto
divino imperio exaltaverat, imperatori requisivit, et habere meruit; et
veniens in ecclesia sancti Ambrosii ipsum exaltavit._ Mirasi tuttavia
nella basilica ambrosiana di Milano un serpente di bronzo sopra una
colonna di marmo, creduto il medesimo di cui parla Landolfo; e sopra di
questa insigne reliquia è mirabile il vedere quanto abbiano scritto
varii scrittori milanesi, senza accorgersi che questa è una delle
grossolane semplicità dei secoli barbarici. Sembra a me d'aver prodotta
altrove[133] la vera origine di questo serpente di bronzo, conservato in
essa basilica; e però altro non ne soggiungo.

NOTE:

[109] Petrus Damiani, Vit. S. Romualdi, cap. 25.

[110] Leo Ostiens., in Chron.

[111] Romualdus Salern., Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[112] Tangmarus, in Vita, S. Berwardi. tom. 1 Scriptor. Brunsvicens.
Leibnitii.

[113] Petrus Damian., in Vit. S. Romualdi.

[114] Petrus Damian., in Vita S. Romuald., cap. 25.

[115] Antiq. Ital., Dissert. VII.

[116] Ibidem, Dissert. LXX.

[117] Ibidem, Dissert. LXVI.

[118] Antiquit. Ital., Dissert. VIII.

[119] Cronograph. Saxo apud Leibnitium.

[120] Baron., Ann. Eccl. ad hunc annum.

[121] Ditmarus, Chron., lib. 4.

[122] Chronograph. Saxo.

[123] Petrus Damiani, lib. 7, Epist. 12, seu Opuscul. 57.

[124] Psalm. 123.

[125] Cosimo della Rena, Serie de' duchi di Toscana.

[126] Gerbert., Epist. 158, tom. 2 Rer. Franc. Du-Chesne.

[127] Antichità Estensi, P. I, cap. 11 e 12.

[128] Annal. Saxo. Ditmar., Chron., lib. 4.

[129] Annal. Hildesheim.

[130] Tangmarus, in Vita S. Bervvardi.

[131] Arnulf., Hist. Mediolan., lib. 1, cap. 13.

[132] Landulfus Senior., lib. 2, cap. 18.

[133] Antiquit. Italic., Dissert. LIX.



    Anno di CRISTO MII. Indizione XV.

    SILVESTRO II papa 4.
    ARDOINO re d'Italia 1.


Dimorava l'Augusto _Ottone III_ nella terra di Paterno con poca sanità,
intento agli esercizii di penitenza. Questa terra di Paterno, Cosimo
della Rena[134] la crede situata nel contado di Perugia, distante una
giornata da Todi. Leone ostiense[135] chiaramente scrive che Ottone si
ritirò _apud oppidum, quod nuncupatur Paternum, non longe a civitate,
quae dicitur Castellana_. Nelle Tavole del Magini tuttavia si osserva
Paterno del contado di Città Castellana; e però non occorre senza
testimonianza degli antichi cercare altro sito che questo. Stando in
essa terra Ottone, che s'intitola _Servus Apostolorum_, diede un
diploma[136] in favore della badia di Firenze _VI idus januarii, anno
dominicae Incarnationis MII, Indictione XV, anno tertii Othonis regni
XVIII, imperii VI. Datum in Paterno_. Si osservi ancor qui l'anno del
regno _XVIII_, che, secondo l'epoca ordinaria dovrebbe essere il _XIX_,
e però indica un'epoca diversa dall'altra. Forse è presa dall'anno 884,
dappoichè colla cessione del duca Arrigo egli fu ristabilito sul trono.
Poscia nel dì 11 del medesimo mese ne spedì un altro in confermazione
dei beni del monistero di santa Maria di Prataglia[137], _III idus
januarii, anno dominicae Incarnationis MII, Indictione XV, anno autem
domni Ottonis inclitissimi tertii imperatoris, regnantis quidem XVIII,
imperantis VI. Actum in Paterno_. Ma da lì a pochi dì la morte rapì
questo giovane imperadore, della cui nobilissima indole maravigliose
doti d'animo e sapere, non si saziano di parlare gli storici antichi
della Germania. La morte sua negli Annali d'Ildeseim[138] e da Ermanno
Contratto[139] vien registrata nel dì 23 di gennaio del presente anno.
Ditmaro, che la mette nel dì 24, forse volle intendere della sepoltura.
Se ad alcuni scrittori tedeschi s'ha da credere, Ottone III fu portato
all'altra vita da una febbre petecchiale. Ma Leone ostiense, Landolfo
seniore, Roberto tuiziense, Radolfo glabro ed altri tutti concordemente
asseriscono che mancò di vita per veleno datogli da Stefania, già moglie
di quel Crescenzio ch'egli avea fatto decapitare, benchè sieno discordi
nella maniera, ed abbiamo infrascato di molte dicerie popolari questo
avvenimento. L'incauto principe s'avea presa per concubina questa donna,
laonde fu a lei facile il far vendetta dell'ucciso marito. Che Ottone
l'avesse presa per moglie, come hanno asserito alcuni, e poi la
ripudiasse, son favole, a mio credere, nate nell'immaginazione della
buona gente. Fors'anche è una favola quel concubinato, che non s'accorda
colla penitenza a cui egli attendeva in questi tempi. Fu incredibile il
dolore e pianto di tutti i suoi per l'immatura morte di questo da loro
amatissimo principe. La tennero essi celata finchè si raunassero le
soldatesche sparse per le castella, e poi si misero in viaggio per
riportarne il corpo ad Aquisgrana, dove egli desiderò di essere
seppellito. Ditmaro[140] e l'Annalista[141] e il Cronografo sassone[142]
scrivono, che divulgata la morte di Ottone III, e che veniva trasportato
in Germania il cadavero suo, i Romani (se pure non voglion dire gli
Italiani) barbaramente si scatenarono contro la picciola armata dei
Tedeschi; ed ora in aguati, ed ora a campagna aperta l'assalirono, con
essere specialmente succedute tre battaglie, nelle quali ebbero la
peggio i Romani. In somma per sette giorni continui bisognò marciar
quasi sempre combattendo; nè si trovarono mai sicuri, finchè _ad Bernam
perveniunt civitatem_. Ma in vece di _Berna_ si ha a mio credere da
scrivere _Beronam_, cioè _Verona_, in cui era marchese _Ottone duca_ di
Carintia. In fatti nella vita di santo Arrigo imperadore[143] si legge:
_Cum maxima difficultate et periculis pluribus per Veronam, per
Bavariam, cadaver ipsius reportabant_. Furono poi accolti ad una corte
del vescovo d'Augusta da _Arrigo III duca_ di Baviera, il quale cominciò
di buon'ora a fare i suoi negoziati, per essere eletto re, giacchè il
defunto Augusto non avea lasciato dopo di sè prole alcuna maschile. Era
esso Arrigo figliuolo di Arrigo duca, e nipote di un altro Arrigo duca,
già da noi veduto fratello di Ottone il Grande Augusto; e per
conseguente, se era mancata la linea d'esso Ottone, durava nondimeno in
lui l'altra in guisa ch'egli pretendeva come per diritto ereditario la
corona. Però per forza occupò lo scettro, la corona, il pomo e gli altri
ornamenti imperiali. E perchè il santo arcivescovo di Colonia _Eriberto_
avea mandata innanzi la lancia, il fece arrestare, nè il rilasciò senza
sigurtà che gliel'avrebbe inviata. Fu poi data sepoltura al corpo del
defunto imperadore in Aquisgrana.

In questo mentre, cioè appena intesa la morte di Ottone III Augusto
senza successione, i principi, vescovi, ed altri primati d'Italia furono
in gran moto. Ai più pareva che fosse risorta la lor libertà per poter
eleggere quel re che fosse loro più in grado; e tanto per amore della
propria nazione, quanto perchè non erano molto soddisfatti del governo
dei monarchi tedeschi, si accordarono assaissimi d'essi nella dieta
tenuta in Pavia di eleggere un re italiano. _Ardoino marchese_ d'Ivrea,
principe per accortezza e per ardire, ma non già per le virtù cristiane,
superiore a molti, quegli fu che guadagnò i voti degli altri, e si fece
eleggere e coronare re nella basilica di san Michele di Pavia.
_Episcopicida _ il chiama Ditmaro, e ne abbiam veduta la ragione di
sopra all'anno 999. Favole io reputo quelle che racconta Valeriano
Castiglione[144], spacciando che in una dieta di Lodi seguisse l'elezion
di Ardoino. Arnolfo milanese chiaramente scrive: _Papiae eligitur_.
Nella Cronichetta dei re d'Italia[145], da me data alla luce, si legge
che dopo la morte di Ottone III _fuit tunc regnum sine rege XXIV dies.
Die qui fuit dominico, et fuit XV mensis februarii in civitate Papia
inter basilicam sancti Michaelis fuit coronatus Ardoinus rex_. Cadde
appunto il dì XV di febbraio dell'anno presente in _domenica_; e di qui
ancora si apprende, contando i dì 24 del regno vacante, che Ottone finì
di vivere nel dì 23 di gennaio. _Ardoino_, chiamato da Ditmaro
_Hardwigus_ ed _Hardwicus_, e da Arnolfo storico milanese di questo
secolo[146] _nobilis Ipporegiae marchio_, era figliuolo di _Dodone_
ossia _Doddone_, come si ha da un suo diploma, dato[147] _anno dominicae
Incarnationis MXI, tertio kalendas aprilis, Indictione IX. Actum Bobii
in episcopali palatio_. Questo contiene una donazione fatta a san Siro
di Pavia _pro anima patris nostris Doddonis, et pro anima patrui nostri
domni Adalberti, rogante domno Wilelmo marchione carissimo consobrino
germano nostro_. Nè dà egli il titolo di marchese al padre, nè allo zio.
Da altri il padre d'Ardoino sembra appellato Oddone, cioè _Ottone_; ed
avendo Ardoino avuto un figliuolo nomato _Ottone_[148], pare che non sia
senza fondamento un tal nome. Per quanto ancora ho osservato nelle
Antichità estensi[149], non è inverisimile che _Odelrico Magnifredo_
ossia _Manfredi_, marchese celebre di Susa, e fratello di _Alrico_
vescovo d'Asti, fosse suo zio paterno. Comunque sia, _Ardoino_ diede
principio al suo governo col confermare i privilegii di varie chiese.
Uno dei suoi diplomi pel monistero di san Salvatore di Pavia si vede
spedito[150] _X kalendas martii, anno dominicae Incarnationis MII, anno
domni Arduini regis I. Actum in papiensi palatio_. Il Margarino ha
dimenticata l'indizione. Due altri dati nello stesso giorno per la
chiesa di Como si leggono presso il padre Tatti[151] colle seguenti
note: _VIII kalendas aprilis anno dominicae Incarnationis millesimo
secundo, Indictione quintadecima, anno vero domni Ardoini regis
regnantis primo. Actum Castro Montigio_. Così passavano gli affari
d'Italia, ed intanto si disputava in Germania per l'elezione del nuovo
re. I due principali concorrenti, oltre ad _Ecchicardo_ marchese di
Turingia, erano _Erimanno duca_ di Alemagna e d'Alsazia, figliuolo di
_Udone_ duca (morto nella sconfitta data dai Saraceni in Calabria ad
Ottone II) e il soprammentovato _Arrigo III_, _duca_ di Baviera.
Prevalse in fine, ma dopo molti movimenti d'armi, coi suoi aderenti esso
duca Arrigo, il quale in Magonza, per attestato di Ditmaro[152], _VII
idus junii in regem eligitur, acclamatur, et a Willigiso praesule
benedicitur et coronatur_. Adelboldo[153] scrive _octavo idus junii_:
cioè sarà stato eletto nel dì 25 di maggio, e coronato nel dì 26: e
n'era ben degno; tante virtù d'animo concorrevano in lui, e massimamente
la religione e la pietà, per cui si meritò poscia il titolo di santo.
_Claudus_, cioè zoppo, fra gli Arrighi vien appellato da alcuni, perchè
zoppicava di un piede. Avea per moglie _Cunegonda_, figliuola di
_Sigefredo conte_ di Lucemburgo, che con lui gareggiava nel possesso ed
esercizio delle più rare virtù, e per cagion d'esse arrivò anche ella ad
essere registrata nel catalogo dei celesti cittadini[154]. Ricevette
anch'essa dipoi la corona regale nel giorno di san Lorenzo in Paderbona.
Sotto il presente anno Lupo protospata[155] racconta che _obsedit Saphi
caytus_ (cioè il generale dei Saraceni ossia dei Mori africani, padroni
della Sicilia) _Barum a die II maii usque ad sanctum Lucam mense
octobris. Tunc liberata est per Petrum ducem Veneticorum_. Questo fatto
glorioso di _Pietro Orseolo II doge_ di Venezia non fu ignoto
all'accuratissimo cronista di Venezia Andrea Dandolo[156], di cui sono
le seguenti parole: _Iste dux etiam contra Saracenos, qui barensem urbem
Apuliae obsessam delinebant, cum navali stolo perrexit, et urbem
intravit, et victualibus muniit. Et cum Gregorio catapano imperiali ex
urbe exiens, de Saracenis victoria habuit, et liberata urbe ab obsidione
Venetias rediit_. Il Sigonio differì questa impresa fino all'anno 1005.

Non fu l'assunzione del re Arrigo al trono germanico senza contrasti, e
massimamente dalla parte del suddetto Erimanno duca d'Alemagna, o
vogliam dire di Suevia. Tuttavia, giacchè chiunque de' baroni a tutta
prima non aveva acconsentito alla di lui elezione, di mano in mano
veniva a rendergli ubbidienza, Erimanno anch'egli, preso miglior
consiglio, sul principio d'ottobre di quest'anno, e non già nel
seguente, come hanno gli Annali d'Ildeseim, andò a gittarsegli a' piedi,
e a giurargli fedeltà. Di questi prosperosi successi del re Arrigo
informato il re Ardoino, già andava prevedendo che non tarderebbe molto
il re germanico a portar la guerra in Italia[157], ma in questo mentre
si fabbricava egli la sua rovina col trattar aspramente que' medesimi
principi d'Italia che l'aveano messo sul trono. Fra gli altri, perchè il
vescovo di Brescia gli disse alcune spiacevoli parole, il prese pel
ciuffo, e il cacciò vituperosamente in terra, come se fosse stato un
bifolco. Questa sua sfrenata collera fu cagione che molti dei principi
italiani, pentiti d'averlo innalzato, segretamente spedirono o messi o
lettere ad invitare in Italia il buon re Arrigo[158]. Era, come ho detto
di sopra, in questi tempi duca di Carintia e marchese della marca di
Verona, ossia di Trivigi, _Ottone_, quel medesimo che vedemmo padre di
Gregorio V papa, il cui padre fu Corrado duca di Franconia, la madre
Liutgarda figliuola di Ottone I Augusto. Il discender egli dal sangue di
esso imperadore, congiunto col credito di una rara probità e saviezza,
parvero tali prerogative allo stesso Arrigo, non per anche re, che gli
mandò ad offerire il regno. Ma egli con umiltà si sottrasse a questo
onore e peso, e, per quanto potè, cooperò dipoi all'esaltazione
d'Arrigo. Dalla Germania, ove era ito esso Ottone, ebbe ordine di
tornarsene in Italia con un piccolo corpo di armata. Ardoino, che teneva
di buone spie, non solo penetrò la di lui venuta, ma seppe ancora, che
calato esso in Italia, erano per unire con lui le forze loro _Federigo
arcivescovo di Ravenna_ e _Teodolfo marchese_. Così ha il testo di
Ditmaro, e quello eziandio dell'Annalista sassone[159]; ma senza dubbio
in vece di _Teodolfo_, s'ha quivi da leggere _Teodaldo_, ossia _Tedaldo
marchese_, avolo della gloriosa contessa Matilda. _Tieboldus_ è nominato
da Adelboldo[160]. Però Ardoino frettolosamente con tutte le sue forze
accorse alle Chiuse d'Italia, che fin qui erano state guardate dagli
uomini del vescovo di Verona, e per forza le prese. S'avanzò anche fino
a Trento, credendo che colà fossero già calati i Tedeschi; ma non
avendoli trovati, se ne tornò in fretta alla campagna di Verona.
Celebrava egli la festa del santo Natale in un castello, quando giunto
il duca Ottone alla Chiusa dell'Adige, e trovato serrato quel passo,
mandò al re Ardoino pregandolo della licenza di poter passare. Trattenne
Ardoino i messi sino alla mattina seguente, e nella notte raunate le sue
truppe, sul far del giorno in ordinanza di battaglia portossi ad
assalire i nemici. Calda fu quell'azione, molto sangue costò all'una e
all'altra parte; ma in fine restarono sconfitti i Tedeschi, e pochi se
ne salvarono coll'aiuto delle gambe. Narra il Sigonio questo fatto sotto
l'anno 1003; ma assai chiaramente si raccoglie da Ditmaro che ciò seguì
sul termine dell'anno presente. Non errò già egli, come pretende il
padre Pagi[161], in raccontare una tal battaglia e vittoria, essendo
cosa indubitata, perchè asserita da Ditmaro[162] e da Adelboldo[163]
scrittori di questi tempi. Parimente Arnolfo storico del presente secolo
scrive[164] che il re Arrigo per consiglio de' principi d'Italia
segretamente a lui favorevoli, _direxit in Italiam suum cum exercitu
ducem. Cui occurrens viriliter Ardoinus, facta congressione in campo
Fabricae, quamplures stravit, ceteros extra fines regni fugavit_.
Curiosa cosa è il vedere un contrasto seguito in quest'anno fra
_Conone_, ossia _Corrado_, vescovo di Perugia, e l'abbate del monistero
di san Pietro di Perugia[165], _praesidente domno Sylvestro II Romanae
sedis pontifice in synodo habita in palatio sacrosancto lateranensi,
anno quarto ordinationis suae, mense Decembris die tertia, Indictione
prima_, cominciata nel settembre. Pretendeva il vescovo superiorità
sopra quel monistero; pretendeva il papa che fosse esente ed
immediatamente sottoposto alla santa sede in vigore di un privilegio
pontificio. Rispondeva il vescovo: _Privilegia haec non reprobo, sed
sine consensu antecessoris mei, cujus temporibus illud primum
privilegium factum est, factum fuisse dico. Si solum viderem consensum,
haberem inde aeternum silentium_. Gli fu mostrata la lettera del suo
predecessore col consenso, anzi con preghiera che fosse privilegiato
quel monistero; laonde convenne al vescovo di cedere. Così i vescovi
d'allora consentivano alla diminuzione della loro giurisdizione. E di
qui si scorge che si esigeva questo loro consenso. Ma andando innanzi,
fu creduto in Roma superfluo il chiederlo, e si privilegiarono tutti
quanti i monisteri, secondochè piaceva ai romani pontefici.

NOTE:

[134] Cosimo della Rena, Serie de' Duchi di Toscana.

[135] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 24.

[136] Puccinelli, Cronica della Badia Fiorent.

[137] Idem, ibidem, pag. 209.

[138] Annal. Hildesheim.

[139] Hermannus Contrac., in Chronic.

[140] Ditmarus, lib. 4.

[141] Annalista Saxo.

[142] Chronographus Saxo apud Leibnitium.

[143] Adelboldus in Vita S. Henrici imperat.

[144] Castiglione, nelle Annotaz. al regno d'Italia del Tesauro.

[145] Anecdot. Latin, tom. 2, pag. 204.

[146] Arnulf. Histor. Mediolanens. lib. 1.

[147] Guichenon Bibliothec. Sebus., Centur. II, cap. 10.

[148] Idem, Ibidem, cap. 3.

[149] Antichità Estensi, P. I, cap. 13.

[150] Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. LXXI.

[151] Tatti, Istor. della Chiesa di Como, tom. 2.

[152] Ditmarus, Chron., lib. 5.

[153] Atelboldus, in Vit. S. Henrici.

[154] Annales Hildesheim.

[155] Lupus Protospata, in Chronico.

[156] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[157] Ditmarus, Chronic., lib. 5.

[158] Adelboldus, in Vita S. Henrici.

[159] Annalista Saxo apud Eccardum.

[160] Adelboldus, in Vita S. Henrici.

[161] Pagius, Crit. ad Annal. Baron. ad ann. 1004.

[162] Ditmaro, Chron., lib. 5.

[163] Adeboldus, in Vita S. Henrici.

[164] Arnulf., Hist. Mediol., lib. 1, c. 15.

[165] Ughell., Ital. Sacr., tom. 9, pag. 918.



    Anno di CRISTO MIII. Indizione I.

    GIOVANNI XVII papa 1.
    GIOVANNI XVIII papa 1.
    ARDOINO re d'Italia 2.


Circa il dì 11 di maggio dell'anno presente diede fine alla sua carriera
_Silvestro II_ papa, prima chiamato _Gerberto_. Se si volesse credere
all'Annalista sassone[166], quella medesima Stefania, già moglie di
Crescenzio console decapitato, che attossicò Ottone III Augusto,
malamente conciò anche il suddetto pontefice. _Veneficio ejusdem
mulieris etiam papa Romanus gravatus asseritur, ita ut loquendi usum
amiserit_. Non si può dire quante ciarle si spargessero dipoi in
discredito di esso Silvestro: cioè fu spacciato per negromante, e che
per patto segreto del diavolo egli arrivasse al pontificato, e poco
mancò che miseramente poi tra le griffe di lui non ispirasse l'anima.
Stomacose calunnie son queste, o inventate, o spacciate da Bennone,
cardinale scismatico a' tempi di papa Gregorio VII, nell'infame sua
invettiva contra della corte romana[167]. Sigeberto, Martino Polacco,
Tolomeo da Lucca ed altri da questa puzzolente scrittura trassero la
favola indegna del merito raro di questo pontefice. Perciocchè, per
consentimento degli antichi e migliori storici, _Gerberto_ ossia
_Silvestro II_, se si eccettua la sua ambizione, fu uno dei più insigni
personaggi di questi tempi: tanto era il suo sapere, non disgiunto dalla
pietà, per cui parve a que' secoli ignoranti ch'egli più che umanamente
possedesse le arti e le scienze. A lui anzi ha grande obbligazione
l'Italia, potendosi in certa maniera dire, che dall'aver egli aperta
scuola nel monistero di Bobbio, cominciò fra noi il risorgimento delle
buone lettere; e così in Germania e in Francia, dove egli coll'esempio
suo infervorò allo studio i dormigliosi ingegni. Di lui perciò si
dilettava forte Ottone III imperadore, e soprattutto, perchè egli era
assai istruito delle arti matematiche. Quelle linee e quei triangoli,
cose allora troppo forestiere, probabilmente gli acquistarono il titolo
di mago presso il goffo popolaccio. _Optime, scriveva Ditmaro[168],
callebat astrorum cursus discernere, et contemporales suos variae artis
notitia superare. In Magdaburg horologium fecit, illud recte
constituens, considerata per fistulam quadam stella, nautarum duce_.
Anche prima dell'invenzione del cannocchiale, si servivano gli astronomi
di un tubo per mirar le stelle, ma senza giungere a saper adoperare e
congegnar lenti ed obbiettivi di vetro, che oggidì cotanto ingrandiscono
e rendon visibili gli oggetti lontani. Il padre Pez diede alla luce la
Geometria d'esso Gerberto[169]. Altre sue operette, oltre alle epistole,
scritte con assai vivacità, sono rammentate dagli scrittori della storia
letteraria. Ora a Silvestro II succedette nella cattedra di san Pietro
un _Giovanni_, soprannominato _Siccone_ o _Secco_, il quale, secondo la
cronologia pontificia, dovrebbe essere appellato _Giovanni XVI_, e pure
si truova nomato da alcuni _Giovanni XVII_, perchè quantunque Giovanni
calabrese, che occupò la sedia a Gregorio V nell'anno 997, non meriti
luogo tra i romani pontefici, pure altro sentimento dovettero avere i
Romani d'allora, giacchè troviamo che il successore di questo Giovanni
Secco venne sempre chiamato negli Atti pubblici _Giovanni XVII_. Così il
chiamò anche Mariano Scoto e l'Annalista sassone; e che così si abbia a
chiamare saggiamente lo pretese il padre Pagi[170]. Ma questo _Giovanni
XVII_, dopo aver tenuta la cattedra pontificia appena sei mesi, colla
sua morte fece luogo ad un altro _Giovanni XVIII_, che fu soprannominato
_Fasano_. Crede il suddetto padre Pagi seguita la di lui ordinazione nel
dì di santo Stefano, 26 di dicembre dell'anno corrente.

In quest'anno ancora mi sia lecito il riferire quali principi d'Italia
tenessero in favore del _re Arrigo_, secretamente nondimeno; credendo io
che il solo _Ottone marchese_ di Verona e duca di Carintia si
dichiarasse apertamente contra di Ardoino. Trovavasi tuttavia in
viaggio, tornando dall'ambasciata di Costantinopoli, _Arnolfo II_
arcivescovo di Milano, allorchè venne a morte Ottone III Augusto, e
seguì l'elezione e coronazione d'esso Ardoino. Dovette egli aversi a
male che senza di lui, primo fra' principi della Lombardia, e in
possesso di coronare i re d'Italia, si fosse dato il regno e conferita
la corona al marchese d'Ivrea. Perciò Ardoino, secondochè s'ha da
Arnolfo storico[171], _cognito jam dicti praesulis reditu, occurrit in
itinere obvius, securitate, quanta valuit, sibi illum applicare
procurans_. Gli diede, a mio credere, il prelato delle buone parole, ma
internamente seguitò ad essergli contrario. Anzi, se si volesse credere
a Landolfo seniore[172], da lì a pochi giorni questo arcivescovo _in
Rochalia cum omnibus Italiae primatibus colloquium habuit, ubi quum
diverse de regni negotiis tractassent, Arduini spreto dominio, quod
malis artibus usurpaverat, Henricum I theutonicum scientia illustrem,
armis fortissimum militumque copiis abundantem, et divitiis affluentem
elegit_. Ma non presti qui fede il lettore a Landolfo, autore solito a
vendere delle fanfaluche. Non è credibile questa dieta tenuta in
Roncaglia (io non so come il Sigonio la metta in Lodi), allorchè Ardoino
era tuttavia forte, nè avea competitore in Italia. Arnolfo, storico di
maggior credito, sotto l'antecedente anno scrive con più apparenza di
verità, che insorta la lite del regno fra Arrigo e Ardoino, _in medio
principes regni (italici) fraudulenter incedentes, Ardoino palam
militabant, Henrico latenter favebant, avaritiae lucra sectantes_.
Adelboldo[173], autore contemporaneo, ci viene annoverando quai fossero
i fautori del re Arrigo in Italia, che nell'anno precedente l'invitarono
in Italia. _In voluntate hujusmodi, dice egli, aliqui manifesti, aliqui
erant occulti. Tieboldus namque marchio et archiepiscopus ravennas, et
episcopus mutinensis, veronensis, et vercellensis, aperte in regis
Henrici fidelitate manebant. Archiepiscopus autem mediolanensis, et
episcopi cremonensis, placentinus, papiensis, brixiensis, comensis, quod
volebant, manifestabant. Omnes tamen in commune regem Henricum
desiderabant, precibus per legatos et literas invitabant_. Fra quei che
camminavano con più riguardo, v'era l'arcivescovo di Milano. Veggasi
dunque se regga la sparata di Landolfo storico milanese. Quel _Tieboldo_
marchese, siccome già accennai, altro non è che _Teodaldo_ o _Tedaldo_,
avolo della contessa Matilda, e figliuolo di quell'Adalberto Azzo conte,
oppure marchese, da noi veduto a' tempi di Ottone I Augusto. Di esso
Tedaldo parla anche _Benzone_ vescovo d'Alba in quel suo scomunicato
panegirico di Arrigo III fra gl'imperadori, con dire[174]: _De Tadone
vero, qui propter metum Ardoini pedester legatus marchionis Teodaldi,
atque episcopi Leonis (di Vercelli) quid fecit venerabilis clementia
magni Henrici serenissimi imperatoris? Certe uni filio ejus dedit
Veronae episcopatum; alteri comitatum; patri vero Gardam, et totum
Benacum_. Volle il padre Pagi[175] darci informazione di questo
principe, con dire ch'egli sposò _Willa_ ossia _Guilla, sorella di Ugo
duca e marchese di Toscana_. Certo che una _Willa_ fu moglie di esso
Tedaldo; ma un sogno è del padre Pagi, perchè senza pruova alcuna
dell'antichità, il darle per fratello il marchese _Ugo_. Soggiugne
francamente che _Tedaldo_ succedette al marchese Ugo nel ducato della
Toscana: il che hanno creduto alcuni moderni, ed inclinò a crederlo
anche l'accuratissimo Francesco Maria Fiorentini[176]. Per provarlo,
adduce esso Pagi la fondazione da lui fatta del monistero di Polirone,
dove s'intitola: _Ego in Dei nomine Teudaldus marchio, filius quondam
Adelberti itemque marchio_. Stima eziandio che _Adalberto_ suo padre sia
stato marchese di Toscana. Ma è da dire che la storia della Toscana per
questi tempi è involta in molte tenebre. Per conto di Adalberto, tale è
l'error del Pagi, che non occorre confutarlo. Abbiam già veduto a cui
finora sia stato appoggiato il governo della Toscana. Che poi _Tedaldo_
suo figliuolo succedesse ad Ugo marchese, nulla serve a provarlo il
titolo di _marchese_. Altri v'erano in que' tempi di questo titolo
decorati, e fra gli altri anche gli antenati della casa d'Este, senza
che si possa dire che governassero la Toscana. Nè perchè si truovi in
Toscana un marchese, ci è lecito il tosto inferirne che egli fosse
ancora marchese di Toscana. Altrimenti con più ragione si avrebbe ad
asserire marchese di quella contrada[177] _Adalberto marchese, figliuolo
di Oberto marchese e nipote di Oberto marchese_, uno degli antenati
della suddetta casa d'Este, che poco più di due mesi dopo la morte di
Ugo, potente marchese di Toscana, fa una vendita di beni[178] _anno ab
Incarnatione millesimo secundo, et tertio idus martii, Indictione XV,
infra Burgo de Luca prope portam sancti Fridiani_. Ma io non mi sono
arrischiato per questo solo documento a crederlo e chiamarlo marchese di
Toscana. Tornando dunque al marchese _Tedaldo_ suddetto, altro io non so
dire, se non che egli era _conte di Reggio e di Modena_, come altrove ho
provato. Di lui scrisse ancora Donizone Monaco[179] nella vita della
contessa Matilda sua nipote, che il papa l'investì di Ferrara.

    _Regibus exsistit carus, notissimus illis,_
    _Romanus papa quem sincere peramabat,_
    _Et sibi concessit, quod ei Ferrarea servit._

Inclino parimente a credere ch'egli governasse Mantova, perchè nel
seguente anno truovo _Bonifazio_ suo figliuolo con titolo di _marchese_
in quella città. Ed ancorchè non sappia io ben dire se il
soprammentovato monistero di Polirone fosse allora situato nel contado
di Mantova, oppure di Reggio; pure di qui ancora scorgiamo che la
potenza di _Tedaldo_ marchese si stendeva per queste parti, senza che
resti memoria alcuna comprovante ch'egli fosse marchese di Toscana.
Perchè Arrigo re di Germania niun possesso e dominio godeva per anche in
Italia, potrebbe sembrare alquanto strano un suo diploma riferito
dall'Ughelli[180], dato _II kalendas martii, anno Incarnationis Domini
MIII, Indictione I, anno vero domni Henrici regis primo. Actum
Noviomagi_, in cui esso re Arrigo, _interventu nostri fidelis Teodaldi
marchionis_ (così abbiamo veduto che era appellato dai Tedeschi il
suddetto _Tedaldo_), concede a _Sigefredo_ vescovo di Parma la pingue
badia di Nonantola sul modenese: parendo poco verisimile che Tedaldo
marchese e il vescovo si portassero a Nimega, senza timore d'incontrar
la disgrazia del regnante Ardoino. Ma questo broglio e l'aggraffamento
di questa insigne badia sarà seguito per lettere e raccomandazioni
segrete. E il buon re Arrigo non avea allora scrupolo a guadagnarsi de'
partigiani in Italia, facendo il liberale coi beni ancora della chiesa.
_Quatenus (Sigefredus) firmatus in fide acriter deserviret nobis_, lo
dice chiaramente lo stesso Arrigo. Nè vo' lasciare di dire avere Lupo
Protospata[181] scritto sotto quest'anno: _Sarraceni obsederunt montem
Scaviosum mense martii, sed nihil profecerunt_.

NOTE:

[166] Annalista Saxo, ad ann. 1001.

[167] Menchenius, Scriptor. Rer. German., tom. 1.

[168] Ditmarus, Chronic. sub finem lib. 6.

[169] Pez, Thesaur. Anecdotor., P. II, tom. 3.

[170] Pagius, Crit. ad Annales Baron.

[171] Arnulf., Hist. Mediol., lib. 1, cap. 19.

[172] Landulf. Senior, Hist. Mediol., lib. 2, cap. 14.

[173] Abelboldus, in Vita S. Henrici.

[174] Benzo, Panegyr. lib. 1, cap. 16. tom. 1 Rer. German. Menchen.

[175] Pagius, in Crit. Baron. ad ann. 1002.

[176] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.

[177] Antichità Estensi, P. I, cap. 21.

[178] Fiorentini, Memorie di Matilde, lib. 3.

[179] Donizo, in Vita Mathild., lib. 1, cap. 3.

[180] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Parmens.

[181] Lupus Protospata, in Chron.



    Anno di CRISTO MIV. Indizione II.

    GIOVANNI XVIII papa 2.
    ARDOINO re d'Italia 3.
    ARRIGO II re di Germania 3, d'Italia 1.


Fin qui era durato il regno di Ardoino in Italia senza essere turbato,
per quanto si sappia, da guerre interne, ma colla fede vacillante di
molti principi che inclinavano al re Arrigo, o erano da lui mossi colla
speranza di maggiori vantaggi. Ho io pubblicato[182] un placito tenuto
da Adelelmo _qui et Azo, missus domni Arduini regis_ in Cremona, _anno
regni domni Arduini regis tercio. Quinto kalendas marcii, Indictione
II_, cioè nel febbraio nell'anno presente. Ma non andò molto che arrivò
in Italia chi gli rovesciò il suo trono. Arrigo II, re di Germania, tra
perchè gli stava a cuore l'Italia, e perchè da' suoi parziali gli veniva
dipinta per assai facile la conquista di questo regno, sbrigato che fu
da alcune guerre civili, e creato che ebbe duca di Baviera _Arrigo_
fratello dell'Augusta Cunegonda, s'incamminò con un possente esercito a
questa volta, e nel dì delle palme arrivò a Trento. Se crediamo
all'Annalista sassone[183], già erano iti a trovarlo fino in Germania il
vescovo di Verona, _et alii quidam italici primores regni cum regiis
muneribus_. Secondochè scrive Ditmaro,[184], la venuta d'esso Arrigo in
Italia accadde nell'anno seguente 1005, _consummata millenarii linea
numeri et in quinto cardinalis ordinis loco_. Però il cardinal
Baronio[185], e dopo di lui il padre Pagi[186], rifiutando gli Annali
d'Ildeseim[187] che la mettono nell'anno presente, scrive: _Henrici
expeditionem italicam in annum sequentem MV, differt Ditmarus libro
sexto, eique standum existimo_. Ma il padre Pagi non colpì nel segno. Il
testo di Ditmaro quivi è scorretto, e in vece di _quinto_ vi si ha da
scrivere _quarto_. L'Annalista sassone e il Cronografo sassone[188],
copiatori di esso Ditmaro, chiaramente scrivono che nell'anno presente
il re Arrigo calò in Italia. Così ha Ermanno Contratto[189] con altri. E
questa verità vien chiaramente confermata da Adelboldo[190], scrittore
contemporaneo, e dai documenti che accennerò. Arrivato dunque a Trento
il re germanico coll'esercito suo, trovò prese e ben fortificate da
Ardoino le Chiuse dell'Adige, in maniera che gli era impossibile lo
sforzare quel passo. Per consiglio de' suoi, rivolse le sue speranze al
popolo della Carintia, il quale portossi ad occupare un'altra Chiusa
verso la Brenta, non so se sul Vicentino o sul Trivisano, che non era
custodita con tanta gelosia. Presa questa, Arrigo col fiore della sua
armata per monti scoscesi e dirupi tanto fece, che da quella parte scese
al piano d'Italia in vicinanza d'esso fiume Brenta. Quivi riposò le
stanche soldatesche, e celebrò la santa Pasqua, che venne in quest'anno
nel dì 17 d'aprile. Degno di considerazione è uno strumento dato alla
luce dal padre Bacchini[191], in cui _Bonifacio Marchio filius domni
Teudaldi itemque Marchio, qui professus sum ex natione mea lege vivere
Longobardorum_, fa un donativo di terre al monistero di Polirone. Tali
sono le note di quella carta: _Henricus gratia Dei rex, anno regni ejus,
Deo propitio, hic in Italia primo, mense martius, Indictione secunda.
Actum in civitate Mantuae._ Credette esso padre Bacchini spettante
all'anno seguente 1005 questa donazione, non so se così persuaso dal
padre Pagi, che ad esso anno mette la venuta del re Arrigo in Italia. Ma
è fuor di dubbio che appartiene all'anno presente, dimostrandolo
l'_indizione seconda_, corrente in quest'anno. Sicchè vegniamo ad
intendere che _Bonifazio_ marchese, padre della contessa Matilda,
vivente ancora il marchese _Tedaldo_ suo padre, portò il titolo di
_marchese_, e signoreggiava in Mantova. Di esso Bonifacio appunto scrive
Donizone:

    _Cui juravere, patre tunc vivente fideles_
    _Servi prudentes proceres, comites pariterque._

Intendiamo inoltre che esso marchese Bonifazio, appena udita la mossa
del re Arrigo verso l'Italia, senza neppure aspettare ch'egli valicasse
i monti, il riconobbe per re d'Italia, e cominciò a contare l'_anno
primo del suo regno_. Si dovea egli fidar molto della fortezza di
Mantova, siccome suo padre della rocca di Canossa. Nella terza festa di
Pasqua passò il re Arrigo la Brenta, ed accampossi per ispiare gli
andamenti d'esso Ardoino. Ma da lì a poco gli giunse il lieto avviso che
l'armata d'esso Ardoino s'era sciolta, e chi l'una via e chi l'altra
avea preso. Arnolfo milanese[192] così racconta il fatto: _Ex adverso
Ardoinus fidens viribus, nec minus armis instructus, non tantum
defendere, quantum super eum_ (Heinricum) _paratus insurgere, occurrit
illi Veronae. Sed deceptus perfidia principum, majori militum parte
destituitur. Quumque cessisset invitus, regnum Heinricus ingreditur._
Non avea saputo Ardoino cattivarsi l'amore de' principi; abbondava anche
di vizii, oltre al sapersi che il pescare nel torbido è mestiere non
ignorato dai grandi; nè mancava allora in Italia chi credea di poter
vantaggiare gl'interessi suoi sotto i re tedeschi e lontani. In somma il
re Arrigo, esentato da ogni contrasto, fu ben tosto ricevuto in Verona
con sommo applauso, e quivi se gli presentò _Tedaldo_ marchese col
suddetto _Bonifazio_ marchese suo figliuolo, e cogli altri parziali che
s'erano cavata la maschera[193]. Con pari lietissimo incontro fu accolto
in Brescia da que' cittadini e dal loro vescovo, per quanto pare,
appellato _Adalberone_ da Ditmaro, sebbene l'Ughelli mette allora
vescovo di quella città _Landolfo_. _Ibi_, soggiugne Adelboldo,
_archiepiscopus ravennas cum suis et sibi finitimis ei obviam venit, et
manus nondum dominio adulterino pollutas, seniori diu exspectato
reddit_: parole significanti che _Federico_ arcivescovo di Ravenna co'
popoli dell'esarcato non avea voluto riconoscere per re in addietro
Ardoino, e che egli giurò fedeltà ad Arrigo, come a suo signore. Dal che
resta sempre più avverato che in que' tempi l'esarcato di Ravenna era
parte del regno d'Italia, e non ne godevano i papi alcun temporale
dominio. Ma poco più dovette sopravvivere esso arcivescovo di Ravenna,
siccome apparirà da quanto diremo all'anno 1014. Andossene dipoi Arrigo
a Bergamo, e colà venuto l'arcivescovo di Milano _Arnolfo II_, prestò ad
esso re il giuramento di fedeltà. Giunto finalmente a Pavia, fu eletto
ed acclamato re d'Italia dalla maggior parte dei principi, e coronato
nella chiesa di san Michele. Nella prima delle Cronichette dei re
d'Italia, da me date alla luce[194], si legge: _In die dominico, qui
fuit die.... mensis madii inter basilicam sancti Michaelis, quae dicitur
Majore; fuit electus Henricus, et coronatus in secundo die, qui fuit die
Lunae. XII die mensis madi._ Nell'altra Cronichetta abbiamo: _Deinde
venit Anricus rex. Fuit coronatus in regem in Papia tertio die ante
festivitatem sancte Xiri, quae fuit in mense madio._ Nel dì 17 di maggio
in Pavia si celebra la traslazione di san Siro. Tre giorni prima, cioè
nel dì 14 d'esso mese, correndo allora la domenica, dovette seguir
l'elezione del re Arrigo, e la sua coronazione nel lunedì seguente,
giorno 15 d'esso mese. Però in vece di _die Lunae XII die mensis madii_,
vo io credendo s'abbia a leggere _XV_.

Ma queste allegrezze restarono funestate da un terribilissimo accidente.
Nello stesso giorno della coronazione del re, verso la sera, insorse
lite fra i Pavesi e i Tedeschi che erano in Pavia. Gli storici tedeschi,
da' quali soli vien con qualche particolarità esposto il fatto,
attribuiscono l'origine della discordia all'ubbriachezza de' cittadini
(il lettore più facilmente la immaginerà dei Tedeschi), e a qualche
fazionario (il che può essere) di Ardoino che incitò il popolo all'armi.
Presero i Pavesi le mura, e crescendo la loro furia, s'inviarono al
palazzo dove era Arrigo. _Eriberto_ arcivescovo di Colonia, per placare
il rumore, s'affacciò ad una finestra; ma i sassi e le saette il fecero
ritirare ben tosto. Intanto s'attrupparono quanti Tedeschi si trovavano
nella città, e cominciò la mischia, che durò tutta la notte fino al
giorno chiaro, in cui accorsi gli altri soldati ch'erano fuori della
città, ridussero a mal punto i cittadini. Ma perciocchè dalle case
venivano pietre, legni e verrettoni, i Tedeschi si avvisarono di
attaccar fuoco in varii siti della città; e questo crebbe a tal segno,
che tutta quella nobil città restò preda delle fiamme insieme col
palazzo regale. Restarono vittime delle spade o del fuoco non pochi dei
Pavesi; e ciò che non consumò il fuoco, andò miseramente a sacco.
Ritirossi il re Arrigo fuori della città nel monistero di san Pietro in
_Coelo aureo_, fece cessare, ma molto tardi, la guerra; e intanto, come
scrive Arnolfo[195], _quum non ad votum sibi obtemperasset, uno totam
Papiam concremavit incendio_. I saggi imperadori tedeschi, per evitare
simili tragedie, amavano di aver fuori delle città i loro palagi. Ugo
flaviniacense[196] scrive che Arrigo obbligò i Pavesi a rifare il
palazzo regale. Noi non possiam ben sapere il netto di questi fatti,
perchè non gli abbiamo se non da storici tedeschi, i quali ce ne danno
notizia, e li dipingono come lor torna meglio. Ma si può ben credere che
una sì barbarica vendetta non fece gran credito al re Arrigo, e meno
alla gente sua, e sparse l'orrore per tutta l'Italia. Perciò stimò bene
esso re di non fermarsi molto in un paese, dove lasciava segni tanto
vivi di bestial furore per colpa de' suoi. Pare nondimeno ch'egli
tuttavia dimorasse in Pavia nel dì 25 del mese di maggio, avendo io
pubblicato un suo diploma[197] in favore di Guinizone abbate di san
Salvatore di Monte Amiata, dato _VIII kalendas junii, anno dominicae
Incarnationis millesimo quarto, Indictione II, anno vero domni Henrici
regis II. Actum Papiae._ Non parrà a taluno molto credibile che il re
Arrigo si fermasse tanto in una città interamente bruciata, e in mezzo a
cittadini che l'odiavano a morte. Quel che è certo, da Pavia se ne andò
a Pontelungo, dove ricevette molti deputati di città e luoghi che
vennero a sottomettersi. Poscia visitò Milano. _Inde Chromo perveniens
Pentecostem sanctam pia animi devotione celebravit._ Che luogo sia
questo, nol so. _Grommo_ è chiamato dall'Annalista sassone[198]. Parmi
di aver veduto _Gromello_ nelle vecchie carte, ma mi è ignoto il suo
sito, e per conseguente non posso discernere se convenga a questo
racconto. Diede un egli amplissimo privilegio a _Sigefredo_ vescovo di
Parma[199], _II kalendas junii, anno dominicae Incarnationis MIIII,
Indictione II, anno vero domni Henrici regis II. Actum in Rodo._ Abbiam
qui l'epoca del regno di Germania, ma dovrebbe essere l'_anno III_. Il
luogo poi è _Rhò_, terra del contado di Milano. Un altro diploma dal
Tatti[200] e dall'Ughelli si dice dato ad Everardo vescovo di Como nello
stesso giorno, cioè _II idus junii, anno vero dominicae Incarnationis
MIIII, Indictione II, anno vero domni Henrici secundi regis tertio.
Actum in Lacunavara._ Si osservi il nome di _Henricus_ (si soleva
scrivere _Heinricus_) e il titolo _Francorum pariterque Longobardorum
rex_, ch'è cosa rara. Aggiugne Adelboldo[201], che nel partirsi Arrigo
da Crommo, _Tusci ei occurrunt, et manus per ordinem singuli reddunt_.
Se la Toscana avesse riconosciuto per re Ardoino, nol so dire. Certo di
qui impariamo che quei popoli si diedero al re Arrigo; e non vedendosi
parola del loro marchese, nasce sospetto che in questi tempi niuno essa
ne avesse. Pare eziandio che vada per terra l'opinion di coloro che
tennero _Tedaldo_, avolo della contessa Matilda, per marchese di
Toscana. Se tal fosse stato, non si tardi quella provincia avrebbe
accettato per re Arrigo, sapendosi che Tedaldo era de' suoi più
parziali. Sbrigato così dagli affari d'Italia il regnante Arrigo,
s'inviò alla volta dell'Alemagna, e celebrò in Argentina la festa di san
Giovanni Batista. Quindi attese alla guerra contra di Boleslao
usurpatore della Boemia. Che il Sigonio non abbia conosciuto la venuta
in quest'anno di Arrigo in Italia, e gli altri atti suddetti, non è da
maravigliarsene. Mancavano a lui molti lumi che noi ora abbiamo.
Piuttosto si può chiedere, come abbondando di questi lumi Burcardo
Struvio[202], scrivesse che Arrigo fu coronato re d'Italia in Pavia
nell'anno 1005. Ma anch'egli senza altro esame dovette tener dietro al
Pagi.

Ho io pubblicata una donazione[203] che _Bonifacius gloriosus marchio_
(non so se sia il padre della contessa Matilda) fece al monistero di san
Salvatore _anno Deo propitius, pontificatus domni Johannis summi
pontificis, ec. secundo, sicque regnante domno Heinrico piissimo rege in
Italia anno tertio, die XXIII mensis septembris, Indictione septima.
Fontana Tanoni._ Gli anni del papa e del re indicano l'anno presente. Ma
l'indizione è scorretta, e dovrebbe essere o _secunda_ o _tertia_. Se
sapessi dove fosse il luogo di _Fontana Tanoni_, saprei anche dire
perchè entrino qui gli anni del romano pontefice. Negli Annali
pisani[204] si legge sotto questo anno: _Fecerunt bellum Pisani cum
Lucensibus in Aqualonga, et vicerunt illos_. Questo è il primo fatto
d'armi e la prima guerra d'una città italiana contra dell'altra, che ci
somministri la storia d'Italia. Fin qui le città di questo regno erano
state governate ognuna dal suo conte. I conti delle varie provincie
erano subordinati a qualche marchese o duca, cioè al governatore della
provincia. E i duchi e marchesi all'imperadore ossia al re di Italia.
Così ognuno vivea in pace, e nascendo discordie fra l'un popolo e
l'altro, o i duchi e marchesi, oppure gli uffiziali e messi imperiali
tosto le sopivano. Abbiam solamente veduta fin qui una discordia civile
in Milano. Se è vera la guerra suddetta, già cominciamo a scorgere che
le città d'Italia alzano la testa, e si attribuiscono ovvero si usurpano
il diritto regale di far guerra. Vedremo andar crescendo questa musica,
la quale si tirò dietro col tempo una gran mutazione di cose in Italia.
Ancor questo potrebbe parere indizio che allora la Toscana fosse senza
un capo, cioè senza un marchese, la cui autorità tenesse a freno o
troncasse somiglianti discordie. Nota appunto il Sigonio[205] sotto il
presente anno che _Pisa_, _Genova_ e _Firenze_ cominciarono a far figura
e ad acquistarsi gran nome; perciocchè, coll'esempio de' Veneziani, si
diedero alla mercatura ed all'armi, e fecero flotte navali. Delle due
prime città possiamo accordarci con lui; ma per conto di _Firenze_,
cominciò ella più tardi a salir in potenza e ricchezza, e a segnalarsi
nell'armi. Per altro conviene andar ritenuto in credere tutto ciò che
narrano i suddetti Annali, e, dopo di essi, il Tronci[206], di tante
prodezze dei Pisani coi lor vicini in questi tempi. Altri d'essi Annali
raccontano all'anno 1002 la suddetta sconfitta de' Lucchesi ad
Acqualunga. Poscia all'anno presente narrano che _Lucani cum magno
exercitu Lombardorum venerunt usque ad Pappianam, et Pisani eos
fugaverunt usque ad Ripam Fractam_. Non è sì facilmente da credere una
tale armata de' Lucchesi, perchè non per anche i popoli d'Italia aveano
scosso il giogo, nè soleano far tanto i bravi l'un contra l'altro.
Secondochè osservò il cardinal Baronio, in quest'anno la peste infierì
non poco in Roma. Confermò ancora il re Arrigo tutti i suoi beni e
privilegii alla chiesa di Cremona con un diploma dato[207] _VII idus
octubris, Indictione II, anno ab Incarnatione Domini MIIII, anno vero
domni Henrici secundi regis II. Datum in Agidburgo._ A _Giovanni
Petrella_ duca di Amalfi succedette in questo anno _Sergio_ suo
figliuolo, il quale avendo dichiarato suo collega nel governo _Giovanni_
suo figliuolo, dopo tredici anni fu scacciato dal popolo, mal
soddisfatto di lui[208]. Nell'anno poscia 1019 lo stesso _Giovanni_
juniore fu di nuovo proclamato duca, e regnò tredici anni.

NOTE:

[182] Antiq. Ital., Dissert. XXXI, pag. 965.

[183] Annalista Saxo apud Eccardum.

[184] Ditmarus, Chron., lib. 6.

[185] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[186] Pagius, in Critic. Baronii.

[187] Annales Hildesheim.

[188] Chronographus Saxo apud Leibnitium.

[189] Hermannus Contractus, in Chron.

[190] Adelboldus in Vita S. Henrici.

[191] Bacchini, Istoria del monistero di Polirone, Append., pag. 20.

[192] Arnulfus, Hist. Mediolan., lib. 1, cap. 16.

[193] Adelboldus, in Vit. S. Henrici, §. 48.

[194] Chronic. Regum Ital. tom. 1 Anecdot. Latin.

[195] Arnulfus, Hist. Mediolanens., lib. 1.

[196] Ugo Flaviniacens., in Chron.

[197] Antiquit. Ital., Dissert. LXXI.

[198] Annalista Saxo.

[199] Antiquit. Italic., Dissert. LXXI.

[200] Tatti, Istor. della Chiesa di Como, tom. 2.

[201] Adelboldus, in Vita S. Henrici.

[202] Struv., Corp. Hist. German., in Henrico II.

[203] Antiquit. Ital., Dissert. VI.

[204] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[205] Sigonius, de Regno Ital., lib. 8.

[206] Tronci, Annal. Pisan.

[207] Antiquit. Italic., Dissert. LXXI.

[208] Ibid., tom. 1, pag. 120.



    Anno di CRISTO MV. Indizione III.

    GIOVANNI XVIII papa 3.
    ARDOINO re d'Italia 4.
    ARRIGO II re di Germania 4, d'Italia 2.


Qualor si voglia prestar fede agli Annali pisani, _fuit capta Pisa a
Saracenis_[209]. Il Tronci, storico di quella città, narra che i Pisani
colla lor armata navale passarono in Calabria contra de' Saraceni, e
trovatili rifugiati nella città di Reggio, vi posero l'assedio, e datale
aspra battaglia, se ne impadronirono, con mettere a fil di spada tutti
quegl'infedeli, e dare il sacco alle lor case. Aggiugne che Musetto re
saraceno, divenuto padrone della Sardegna, inteso che la città di Pisa
si trovava allora sprovveduta di combattenti, per essere eglino andati
in corso, venne con grossa armata, prese quella città, la saccheggiò, e
ne bruciò quella parte che si chiamò poi _Chinsica_, perchè una donna
chiamata Chinsica Gismondi, vedendo il pericolo della città, andò
gridando al palazzo de' rettori della repubblica, e fece dar campana a
martello; per la qual cosa i Barbari si diedero alla fuga. Fu poi alzata
una statua a questa donna, e dato il nome di lei alla parte abbrugiata
di essa città. V'ha delle contraddizioni in quel racconto, e, quanto a
me, io il credo in parte favoloso. Forse il nome di _Chinsica_ venne
dalla lingua arabica a quella parte di Pisa, perchè ivi soleano abitare
i mercatanti arabi ossia saraceni che venivano a trafficare in Pisa.
Abbiamo dal Dandolo[210] che nell'anno XV di _Pietro Orseolo II_, doge
di Venezia, il quale dovrebbe coincidere coll'anno presente o col
susseguente, una terribil carestia e moria fu non solamente in Venezia,
ma per tutto il mondo, in guisa che innumerabil gente perì. Fra gli
altri che restarono preda di questo malore, si contò _Giovanni_
figliuolo d'esso doge e suo collega nel ducato. E da lì a sedici dì
soggiacque al medesimo funesto influsso anche _Maria_ sua moglie, quella
stessa ch'egli avea condotta da Costantinopoli, sorella di Romano,
poscia imperadore de' Greci, come di sopra vedemmo all'anno 999. Di
questa donna s'ha da intendere ciò che scrive san Pier Damiano colle
seguenti parole[211]: _Dux Venetiarum constantipolitanae urbis civem
habebat uxorem, quae nimirum tam tenere, tam delicate vivebat, et non
modo superstitiosa, ut ita loquar, se se jucunditate mulcebat, ut etiam
communibus se aquis dedignaretur abluere; sed ejus servi rorem coeli
satagebant undecumque colligere, ex quo sibi laboriosum satis balneum
procurarent_ (lo creda chi vuole). _Cibos quoque suos manibus non
tangebat, sed ab eunuchis ejus alimenta quaeque minutius concidebantur
in frusta; quae mox illa quibusdam fuscinulis aureis atque bidentibus
ori suo liguriens adhibebat. Ejus porro cubiculum tot thymiamatum
aromatumque generibus redundabat, ut et nobis narrare tantum dedecus
foeteat, et auditor forte non credat._ Seguita poscia a dire che Dio
colpì la vanità e superbia di questa donna, perchè _corpus ejus omne
computruit, ita ut membra corporis undique cuncta marcescerent, totumque
cubiculum intolerabili prorsus foetore complerent_. In tale stato,
fuggita da tutti, terminò la sua vita questa vanissima principessa. Si
ingannò il Dandolo, riferendo parte di queste parole di san Pier Damiano
a' tempi di Domenico Silvio che fu eletto doge di Venezia nell'anno
1071. A questi tempi appartiene un tal fatto. Ma perciocchè l'abbate
urspergense[212] mette la fame sotto l'anno precedente, nel quale
parimente accadde la peste, per testimonianza del cardinal Baronio[213],
potrebbe taluno credere che a quell'anno si avesse da riferire
l'avvenimento suddetto. Parla Ermanno Contratto[214] di questa carestia
all'anno presente. All'incontro Sigeberto[215] e gli Annali
d'Ildeseim[216] la mettono nell'anno seguente. Attese in questo anno il
re Arrigo a domar Boleslao occupator della Boemia, e il ridusse a
capitolar con giubilo di tutti i popoli. Stando in Utrecht confermò i
privilegii del monistero ambrosiano con diploma[217] dato _anno
dominicae Incarnationis MV Indictione III, anno vero domni Heinrici II,
regis III, data VI nonas maii. Actum Trajectum._

NOTE:

[209] Annal. Pisan., tom. 6 Rer. Ital.

[210] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[211] Petrus Damian., Opuscul. de Instit. Monial. cap. 11.

[212] Urspergensis, in Chronico.

[213] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[214] Ermannus Contract., in Chronic.

[215] Sigebertus, in Chron.

[216] Annales Hildesheim.

[217] Puricellius Monument. Basil. Ambrosian.



    Anno di CRISTO MVI. Indizione IV.

    GIOVANNI XVIII papa 4.
    ARDOINO re d'Italia 5.
    ARRIGO II re di Germania 5, d'Italia 3.


Forse perchè nell'anno presente fu l'Italia, anzi l'Europa tutta,
afflitta dalla carestia e pestilenza, di cui s'è fatta menzione nel
precedente anno, la storia è assai digiuna di fatti, e massimamente
l'italiana. Della Germania altro non sappiamo, se non che Baldovino
conte di Fiandra, per avere occupata la città di Valenciennes,
appartenente alla marca della Lorena, e sottoposta allora al regno
germanico, obbligò il re Arrigo ad impugnar l'armi contra di lui, ma con
poco profitto. Però fu riserbata all'anno venturo la maniera più propria
di metterlo in dovere. Grande affetto avea preso il buon re Arrigo alla
chiesa di Bamberga, con desiderare specialmente di farne un vescovato.
Però ne cominciò con vigore in quest'anno il negoziato, ma ritrovando
renitente _Arrigo_ vescovo di Virtzburg, ossia d'Erbipoli, per lo
smembramento che si voleva far della sua diocesi[218], solamente
nell'anno seguente ebbe compimento la di lui premura. Negli Annali
pisani[219] abbiamo sotto il presente anno, che _fecerunt Pisani bellum
cum Saracenis ad Rhegium, et gratia Dei vicerunt illos in die sancti
Sixti_. Questa è la vittoria riferita dal Tronci all'anno precedente. Ma
altro è l'avere sconfitti i Saraceni _ad Rhegium_, altro l'essersi
impadroniti, come vuole esso Tronci, di quella città, perchè di ciò non
resta vestigio. Leggesi presso l'Ughelli[220] un placito tenuto _anno
Incarnationis Domini MVI, Indictione IV, quarto nonas aprilis_ dal re
Arrigo in Germania, dove fu agitata una lite fra _Arialdo_ vescovo di
Chiusi in Toscana, e Guinizone abbate del monistero di san Salvatore di
Monte Amiato, e Bosone abbate di santo Antimo. Il suo principio è
questo: _Dum resideret domnus Henricus rex in caminata in Castello
hereditatis suae, quod dicitur Novum Burgum_ (Neoburgo) alla presenza di
alcuni vescovi ed abbati. Fra gl'Italiani v'intervennero _Olderico_
vescovo di Trento e lo stesso vescovo di Chiusi, Ivizone abbate leonense
sul Bresciano, Ugo abbate di Farfa, Buono abbate di Ravenna, Ildeberto
abbate di Siena, Giovanni abbate forse di Lucca, Ildebrando, Rinieri e
Ardingo conti, probabilmente di Toscana, Pietro Traversario da Ravenna,
e i messi dei vescovi di Arezzo e di Siena. Ecco come gl'Italiani
frequentavano in questi tempi la corte del re Arrigo, e massimamente gli
abbati, tutti per loro negozii, e per impetrar privilegii, o beni, o
giustizia, giacchè non mancavano mai prepotenti che usurpavano ai
monisteri gli stabili con quella stessa facilità con cui i monaci gli
acquistavano.

NOTE:

[218] Acta Sanctor. Bollandi ad diem 14 julii.

[219] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[220] Ughell., Ital. Sacr., tom. 3 in Episcop. Clusin.



    Anno di CRISTO MVII. Indizione V.

    GIOVANNI XVIII papa 5.
    ARDOINO re d'Italia 6.
    ARRIGO II re di Germania 6, d'Italia 4.


Esige ben la storia d'Italia che a quest'anno si faccia menzione di
_Fulberto_ creato circa questi tempi, come comunemente vien creduto,
vescovo di Sciartres (_Carnutum_) in Francia. Siccome osservò il padre
Mabillone[221], fondamento c'è di tenerlo per nato in Italia. Bassi ben
furono i natali suoi, ma passato in Francia, per l'elevatezza
dell'ingegno e saper suo, meritò d'essere innalzato a quella cattedra.
Aveva avuto in Rems per maestro Gerberto, che fu poi papa Silvestro II.
Aprì anch'egli scuola, e la continuò anche dopo essere salito al
vescovato; e dalla medesima uscirono poi eccellenti discepoli. Più
celebre scuola di questa non v'era allora tra i Franzesi. Le opere di
così insigne prelato sono assai note nella storia letteraria. Già avea
_Tedaldo_ marchese, _filius quondam Adalberti itemque marchio_, avolo
della celebre contessa Matilda, ridotto a perfezione il magnifico
monistero di san Benedetto, situato tra il Po e il fiumicello Larione,
oggidì appellato di Polirone. Al medesimo fece egli un'amplissima
donazione di beni in quest'anno. Presso il padre Bacchini[222] si legge
lo strumento stipulato _infra Rocca Canossa_, con queste note: _Henricus
Dei gratia rex, anno regni ejus, Deo propitio, hic in Italia quarto,
mense junii, Indictione V_. Dal che impariamo che in Italia si usava
l'epoca particolare del regno italico diversa da quella del germanico.
Un'altra donazione parimente da lui fatta al monistero medesimo si vede
scritta _anno millesimo septimo, Indictione quinta, secundo die intrante
mense aprilis_, senza apporvi gli anni del re. Comunemente si crede
ch'esso marchese Tedaldo desse fine in quest'anno ai suoi giorni. Io non
ne sono abbastanza persuaso, siccome dirò qui sotto all'anno 1012. Nel
presente riuscì al _re Arrigo_ di appagar le sue piissime voglie con
ergere in vescovato e dotare magnificamente la chiesa di Bamberga, e
sottoporla al solo romano pontefice. Fu confermato quest'atto con sua
bolla particolare data in quest'anno da Giovanni XVIII papa, come si
legge presso l'Hofmanno[223] ed altri scrittori[224]. Con gagliardo
esercito passò circa questi tempi il medesimo re Arrigo la Schelda
contro di Baldovino conte di Fiandra, il quale veggendo di non potere
resistere, si gittò alla misericordia di lui, e ne ottenne buona
capitolazione. Si riaccese anche la guerra fra esso re Arrigo e Boleslao
duca di Polonia e degli Sclavi. Questo è poi l'anno in cui venne alla
luce in Ravenna _Pietro Damiano_, grande ornamento del secolo
presente[225]. Fu il suo nome _Pietro di Damiano_, cioè Pietro fratello
di Damiano. Confessa egli in più di un luogo che attese allo studio
delle lettere prima in Faenza, poscia in Parma; il che ci dà a conoscere
che le lettere a poco a poco risorgeano anche in Italia. Terminò il
corso di sua vita in quest'anno _Landolfo IV_ principe di Capua[226],
soprannominato _da santa Agata_, nel dì 24 di luglio, e lasciò
successore nel principato _Pandolfo IV_. Andavano di male in peggio gli
affari della Chiesa di Cremona. Non fu sì presto uscito del mondo
_Odelrico_ ossia _Olderico_ vescovo di quella Chiesa, che i beni d'essa
patirono non lieve detrimento. Gli succedette _Landolfo_ cappellano del
re Arrigo, il quale nell'anno presente ottenne da esso re un diploma di
protezione per la sua Chiesa[227], _anno dominicae Incarnationis MVII,
Indictione V, anno regni domni Heinrici regis secundi regnantis VI_
(questa è l'epoca del regno germanico). _Actum Polede._ In Milano
Fulcoino figliuolo di Bernardo, vivente secondo la legge salica, fondò
in quest'anno la collegiata di santa Maria, oggidì appellata
_Folcorina_. Lo strumento ha queste note: _Henricus gratia Dei rex, anno
regni ejus quarto, VIII die mensis octobris, Indictione ingrediente
sexta._ Ancor qui abbiamo l'epoca del regno d'Italia del re Arrigo.

NOTE:

[221] Mabill., Annal. Benedict., ad ann. 992.

[222] Bacchini, Istor. di Poliron. nell'Appendice.

[223] Hofmannus, Annal. Bambergens.

[224] Apud Ludewig, tom. 1. Scriptor. Bamberg.

[225] Petrus Damian., Opuscul. 67, cap. 5.

[226] Camillus Peregrinius, Histor. Princip. Langobard.

[227] Antiquit. Italic., Dissert. LXI.



    Anno di CRISTO MVIII. Indizione VI.

    GIOVANNI XVIII papa 6.
    ARDOINO re d'Italia 7.
    ARRIGO II re di Germania 7, d'Italia 5.


Ebbe in quest'anno degli aspri affari il re Arrigo per cagione di uno
dei fratelli della imperadrice _Cunigonda_ sua moglie, chiamato
_Adalberone_. Essendo vacata l'archiepiscopale chiesa di Treveri, fu
egli eletto, benchè mal volentieri, da quel clero e popolo per
arcivescovo. Ma non vi consentì il re Arrigo, da cui fu data quella
chiesa a _Megingaudo_, camerario di _Willigiso_ arcivescovo di
Magonza[228]. Per questa cagione insorse guerra fra esso re e lo stesso
Adalberone, al quale furono in aiuto _Teodorico_ vescovo di Metz,
_Arrigo_ duca di Baviera, suoi fratelli. Li soggiogò il re Arrigo, e
tolse poi il ducato al cognato Arrigo. Intorno a che si possono leggere
gli Annali di Treveri del Browero[229]. Gl'imperadori greci possedevano
in questi tempi quasi tutta la Puglia, cominciando da Ascoli, e
seguitando la costa dell'Adriatico, a riserva di Siponto e del monte
Gargano, dipendenti dal principato di Benevento. Erano anche in possesso
della maggior parte della Calabria, con ritenere ancora qualche
sovranità o autorità almeno nei ducati di Napoli, Amalfi e Gaeta.
Soleano chiamar _Longobardia_ quegli Stati e mandarvi un governator
generale col nome di _catapano_, come già accennammo. Abbiamo da Lupo
Protospata[230] che nell'anno 1006 _Xifea_ catapano era venuto a quel
governo. Ma essendo egli mancato di vita nell'anno appresso, in
quest'anno _descendit Curcua patricius mense maii_, cioè fu inviato per
governatore d'essa minor Lombardia. Pare che in quest'anno il re Arrigo
confermasse i suoi privilegii e beni al monistero delle monache di san
Sisto di Piacenza con un diploma[231], dato _anno dominicae
Incarnationis millesimo octavo, Indictione V, anno vero domni Heinrici
secundi regis, regnantis VI. Actum in Ingelheim._ Ma qui v'ha errore, o
nell'anno, e si dee scrivere _millesimo septimo_, ovvero nell'indizione,
e si dee leggere _Indictione VI_. Ed è considerabile che nè in questo,
nè nell'altro diploma, accennato all'anno precedente, non comparisce il
giorno, nè il mese, contro il costume delle regali cancellerie. Anche il
padre Mabillone[232] osservò questo rito o difetto in altri diplomi
d'esso re Arrigo. Nell'archivio del monistero di Subiaco si legge una
bolla o strumento con queste note: _Anno, Deo propitio, pontificatus
domni Johanni summi pontifici XVIII papae in sacratissima sede beati
Petri Apostoli V, Indictione VI, mense junii die VI_, cioè nell'anno
presente. Vo io tuttavia contando gli anni del re _Ardoino_; perciocchè
sebbene ha creduto più d'uno scrittore che egli dopo la venuta in Italia
del re Arrigo, e dopo la di lui coronazione, decadesse affatto dal
soglio reale, pure è certo che egli ritenne circa nove anni ancora non
solamente il titolo di re, ma anche ne esercitò l'autorità in molti
luoghi. Allorchè gli convenne cedere al re Arrigo, egli si ritirò nelle
fortezze del Piemonte in salvo. Ma non sì tosto uscì Arrigo d'Italia,
che Ardoino tornò ad alzare la testa, e trovando specialmente inviperito
il popolo di Pavia contro dei Tedeschi per l'immenso danno recato colla
spada e col fuoco alla lor città, si può facilmente credere che fu quivi
di nuovo riconosciuto per re. Porta il Guichenon[233] una donazione
fatta alla cattedrale di Pavia da _Ottone_ conte, chiamato ivi _filius
serenissimi domini, et metuendissimi patris mei domini Ardoini regis_.
Lo strumento ha queste note: _Ardoinus divina tribuente gratia piissimus
rex, anno regni ejus propitio septimo, Indictione VII._ Manca il mese e
il giorno, con restare incerto se fosse fatta quell'offerta negli ultimi
quattro mesi dell'anno corrente, o nei due primi del seguente. Lo
strumento è sottoscritto dallo stesso re Ardoino, e vi si legge: _Actum
apud Papiam in palatio juxta ecclesiam sancti Michaelis_. Sicchè abbiam
qualche fondamento di credere ritornato questo re al suo comando in
Pavia.

NOTE:

[228] Hermannus Contractus, in Chron.

[229] Browerus, Annal. Trevirens.

[230] Lupus Protospata, in Chron.

[231] Antiquit. Ital., Dissert. LXX.

[232] Mabillon., de Re Diplomatica.

[233] Guichenon Bibliot. Sebus Centur. II, cap. 3.



    Anno di CRISTO MIX. Indizione VII.

    SERGIO IV papa 1.
    ARDOINO re d'Italia 8.
    ARRIGO II re di Germania 8, d'Italia 6.


Giunse al fine di sua vita in quest'anno, senza sapersene il più preciso
tempo, _Giovanni XVIII_ papa, che da Ditmaro è chiamato _Phasan_[234], e
dall'Annalista sassone[235] _Phasianus, idest Gallus_ cioè fagiano. Uno
strumento si legge nel monistero di Subbiaco, che porta le seguenti
note: _Anno, Deo propitio, pontificatus domni Johanni summi pontifici et
universali XVIII papae in sacratissima sede beati Petri Apostoli sexto,
Indictione septima, mensis januarii die XI_, cioè nel presente anno.
Rapporta il cardinal Baronio[236] un epitaffio, che era nella basilica
vaticana, attribuito da Motteo Veggio a questo papa. Lo riferisce ancora
Pietro Manlio[237], ma con dirlo _cujusdam Johannis papae_. Non oserei
io crederlo sepolcro di questo papa. Ivi si legge:

    NAM GRAIOS SVPERANS, EOIS PARTIBVS VNAM,
    SCHISMATA PELLENDO, REDDIDIT ECCLESIAM.

Non è probabile che di questa gloriosa azione niuno avesse lasciata
qualche menzione nella Storia ecclesiastica d'Oriente o d'Occidente.
Egli è chiamato ancora

    AVGVSTIS CARVS, GENTIBUS, ET TRIBVBVS.

Più convien questo titolo a qualche papa Giovanni, vivuto allorchè i
greci Augusti signoreggiavano in Roma. Successore di questo pontefice fu
_Sergio IV_, il quale, per attestato di Ditmaro[238], _vocabatur Bucca
Porci_. Erano forse in voga ancora in quei tempi i soprannomi, molti dei
quali, tuttochè fossero imposti più per vituperio che per onore,
tuttavia passarono dipoi in cognomi di famiglia, siccome ho osservato
altrove[239]. Negò il cardinal Baronio che questo papa portasse un tal
soprannome, perchè dal suo epitaffio si scorge che prima del pontificato
era chiamato _Pietro_.

    SERGIUS EX PETRO SIC VOCITATVS ERAT.

Ma questo a nulla serve. _Pietro_ fu il suo nome battesimale; ma per
soprannome, secondo il costume d'allora, egli dovette essere chiamato
_Bocca di Porco_, siccome il suo predecessore Giovanni fu soprannominato
_fasano_, ossia _fagiano_. Per attestato del Dandolo[240], in quest'anno
pagò il tributo della natura _Pietro Orseolo II_ doge di _Venezia_,
principe glorioso per avere assaissimo ampliato il dominio veneto,
sconfitti i Saraceni, e governati con somma prudenza e dolcezza i suoi
popoli. Gli succedette circa il mese di marzo _Ottone Orseolo_ suo
figliuolo, dianzi creato suo collega, non inferiore nella religione e
giustizia al padre, e ricchissimo di beni di fortuna. Ebbe egli per
moglie una figliuola di Geiza duca di Ungheria, e sorella di santo
Stefano, primo re regnante allora in quelle contrade, la quale
gareggiava nelle virtù col fratello. Era, per testimonianza di Camillo
Pellegrino[241], in questi tempi principe di Capua _Pandolfo IV_. Prese
egli per suo collega in quel principato _Pandolfo II_ principe di
Benevento, suo zio paterno. Non ne veggiamo assegnato il motivo; ma
probabilmente fu, perchè mancandogli successione maschile, volle
assicurare nei parenti suoi il principato. Abbiamo sotto questo anno da
Lupo Protospata[242] che _cecidit maxima nix, ex qua siccaverunt arbores
olivae, et pisces et volatilia mortua sunt_. Poscia aggiugne: _Mense
maii incoepta est rebellio_: il che io intendo de' Pugliesi che
cominciarono a ribellarsi ai Greci _Et mense augusti apprehenderunt
Saraceni civitatem Cosentiam_ (metropoli della Calabria) _rupto foedere
nominae Cayti Sati_, cioè del generale dei Mori. Ancorchè Ardoino re
avesse ripigliate le forze, e signoreggiasse, a mio credere, in Pavia,
pure la maggior parte delle città del regno stava costante nella
divozione e fedeltà giurata al _re Arrigo_, e fra queste Milano,
Piacenza, Cremona. _Landolfo_ vescovo appunto di Cremona ottenne in
quest'anno da Arrigo un divieto a Lamberto, abate del monistero di san
Lorenzo, situato presso a Cremona, di non poter alienare, livellare o
contrattare in altre guise i beni di qual sacro luogo senza la licenza
del vescovo suddetto, il quale poscia se ne abusò. Il diploma si dice
dato[243] _VII idus octobris, anno ab Incarnatione Domini MVIIII, anno
vero domni Henrici primi_ (scrivi _secundi_) _regis VII. Actum
Maideburg._ Dovrebbe essere l'_anno VIII_, se pure non appartiene
all'anno precedente: il che non si può comprendere per la mancanza
dell'indizione. Ho veduta un'autentica donazione fatta in Correggio alla
chiesa di san Michele, oggidì di san Quirino, con queste note: _Enricus
gratia Dei rex ic in Italia quinto, die quinto de mense octubris,
Indictione octava_, che appartiene all'anno presente. Sotto quest'anno
ancora abbiamo dal Bollario casinense[244] e dall'Ughelli[245] una
donazione fatta alla badia di santa Maria di Firenze, _anno ab
Incarnatione Domini nono post mille, pridie idus augusti, Indictione
settima_. Il suo principio è questo: _Ego quidem Bonifatius inclitus
marchio, filio domni Alberti, qui fuit comes, qui professus sum legem
vivere Ribuariorum_. Lo strumento fu stipulato _in loco Palanoro
territorio motinense_. Dove fosse questo _Planoro_ del contado di
Modena, nol saprei dire. Pianoro si trova sulle montagne di Bologna,
Pianorso in quelle di Modena. Meno poi so di qual contrada fosse
marchese questo _Bonifazio_. Cosimo della Rena nella seconda parte, a
noi promessa, ma non mai data, della Serie dei duchi di Toscana, pare
che inclinasse a crederlo duca di Toscana. Non c'è fondamento alcuno per
sì fatta opinione. I duchi, marchesi, conti e signori grandi per lo più
possedeano allora dei beni in varie parti d'Italia; nè basta una
donazione di beni privati, fatta da alcun di essi in qualche territorio,
per argomentare il dominio principesco di questo _Bonifazio_ marchese,
vivente secondo la legge ripuaria, ho io trattato altrove[246], con
crederlo discendente da quel _Bonifazio_ che già vedemmo duca di Spoleti
e marchese di Camerino, e da _Teobaldo_ parimente duca e marchese di
quelle contrade nel secolo precedente. Ma non apparisce punto se questo
giovane Bonifazio governasse marca alcuna: e certamente egli fu
personaggio diverso da _Bonifazio_, marchese padre della gran contessa
Matilda.

NOTE:

[234] Ditmarus, in fine, lib. 6.

[235] Annalista Saxo.

[236] Baron., in Annal. Eccles.

[237] Manlius tom. 7 Junii Act. Sanctor. Bolland.

[238] Ditmarus, in Chron., lib. 6.

[239] Antiquit. Ital., Dissert. XLI.

[240] Dandul., in Chron. tom. 12 Rer. Italic.

[241] Camillus Peregrinius, Histor. Princip. Langobard.

[242] Lupus Protospata, in Chronico.

[243] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Cremonens.

[244] Bullarium Casinens., tom. 2, Constit. LXXV.

[245] Ughell., Ital. Sacr., tom. 3.

[246] Antiquit. Ital., Dissert. XXII.



    Anno di CRISTO MX. Indizione VIII.

    SERGIO IV papa 2.
    ARDOINO re d'Italia 9.
    ARRIGO II re di Germania 9, d'Italia 7.


Se vogliam qui prestar fede a Giovanni Villani[247] che, narrando
avvenimenti lontani dai suoi tempi, ci conta bene spesso delle favole,
oppure con favolose particolarità sconcia i fatti veri, in quest'anno i
Fiorentini, mirando da gran tempo di mal occhio la vicina città di
Fiesole, con inganno finalmente se ne fecero padroni. Nel dì solenne di
san Romolo, protettore dei Fiesolani, mentre quel popolo era intento
alla festa, spedirono i Fiorentini colà una mano de' loro giovani
segretamente armati, che presero le porte, e diedero campo all'esercito
d'essi Fiorentini d'impadronirsi di quella città, con ismantellarla poi
tutta, e ridurre quel popolo a Firenze. Questo racconto passò dipoi in
tutte le storie fiorentine, non mancando nondimeno altri scrittori
moderni che tengono succeduto un tal fatto nell'anno 1024. Credane il
lettor ciò che vuole. Quanto a me, vo assai lento a persuadermi cotali
bravure in questi tempi, nei quali le città d'Italia non aveano per
anche nè facoltà nè uso di muover l'armi da sè, nè di distruggersi l'una
l'altra. Molto meno credo che in questi tempi, come vuole Scipione
Ammirati[248] con altri, fosse duca di Toscana _Bonifazio_ marchese,
padre della contessa Matilda. Niuna pruova di questo viene addotta; e
senza pruove l'asserir cose antiche, non è diverso dal fabbricar nelle
nuvole. Leggesi sotto quest'anno una magnifica donazione fatta ai
canonici di Ferrara da _Ingone_, vescovo di quella città, con uno
strumento scritto[249], _pontificatus domni nostri Sergii summi
pontificis et universalis papae in apostolica sacratissima beati Petri
sede anno primo, regnante vero domno Enrico rege a Deo coronato,
pacifico, magno, in Italia septimo_ (dovrebbe essere _sexto_) _die
tertia mensis februarii, Indictione octava. Ferrariae._ Si osservi come
in Ferrara sono contati gli anni di Arrigo re d'Italia. In questi tempi,
per la Toscana specialmente e pel ducato di Spoleti, san Romoaldo abbate
spargeva odore di gran santità, edificava monisteri, e dilatava l'ordine
religioso che si chiamò camaldolese, e fu una riforma del benedettino in
Italia. Abbiamo da Lupo Protospata[250] nell'anno presente, che _Curcua_
patrizio, governatore degli Stati posseduti dai Greci in Italia, diede
fine a' suoi giorni, e in luogo suo venne a quel governo _Basilio_
catapano nel mese di marzo con un corpo di milizie tratte dalla
Macedonia. Aggiugne questo scrittore che _Syllistus incendit multos
homines in civitate Trani_. Da un altro testo si ha che _Langobardia_
(così chiamavano i Greci, come già si accennò, gli Stati loro in Italia)
_rebellavit a Caesare_ (cioè dal greco Augusto) _opera Melo ducis. Isque
accurrens praeliatus est Barum contra Barenses, ubi ipsi obierunt._
Questo _Melo_ di nazion longobarda, siccome c'insegna Leone
ostiense[251], _barensium civium, immo totius Apuliae primus, et clarior
erat, strenuissimus valde ac prudentissimus vir. Sed quum superbiam,
insolentiamque, ac nequitiam Graecorum, qui non multo antea, tempore
scilicet primi Octonis, Apuliam sibi Calabriamque, sociatis in auxilium
suum Danis, Russis, et Gualanis, vindicaverunt, Apuli ferre non possent,
cum eodem Melo, et cum Datto quodam aeque nobilissimo, ipsiusque Meli
cognato, tamdem rebellant._ Che strepitose conseguenze si tirasse seco
questa ribellion dei Pugliesi, l'andremo a poco a poco scorgendo.
Abbiamo da Ademaro[252] e da Glabro[253] che circa questi tempi i
Saraceni infierirono sotto varii pretesti contra dei Cristiani abitanti
in Gerusalemme, con ucciderne assaissimi, e forzarli ad abiurare la fede
di Cristo. Diroccarono eziandio la basilica del santo Sepolcro con varie
altre chiese. Era allora Gerusalemme sottoposta al califa ossia al
sultano dell'Egitto, e non già ai Turchi. Fecero ancora i Saraceni
dimoranti in Italia, oppure in Sicilia, una battaglia, per attestato del
suddetto protospata, coi Greci a Monte Peloso, non lungi dal distretto
di Bari, _unde peremptus est dux_, senza sapersi se dei Greci o dei
Mori.

NOTE:

[247] Giovanni Villani, Istor., lib. 4, cap. 5.

[248] Ammirati, Istor. Fiorent.

[249] Antiquit. Ital., Dissert. LXV.

[250] Lupus Protospata, in Chronico.

[251] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 37.

[252] Ademarus, in Chron. apud Labbe.

[253] Glaber Rodulfus, in Chronico.



    Anno di CRISTO MXI. Indizione IX.

    SERGIO IV papa 3.
    ARDOINO re d'Italia 10.
    ARRIGO II re di Germania 10, d'Italia 8.


Già ho accennata la ribellione dei Pugliesi, capo de' quali era Melo,
con essersi sottratti al dominio dei Greci. Scrive Romualdo
salernitano[254]: _Anno MXI, Indictione IX, fames validam Italiam
obtinuit. Quo tempore Mel catipanus cum Normannis Apuliam impugnabat_.
Ecco il _catipanus_ o _catapanus_, adoperato invece di _capitanus_, o
_capitaneus_. Ma questo storico anticipa di troppo la venuta dei
Normanni a guerreggiare in Puglia. Potrebbe ben essere che nell'anno
presente seguisse l'assedio di Bari fatto da Basilio generale dei Greci,
ed accennato da Leone ostiense. In un testo di Lupo Protospata[255] pare
che tale assedio sia narrato all'anno precedente. In un altro è posto
sotto l'anno 1013. Forse anche la ribellione dei Pugliesi non divampò se
non in quest'anno, oppure nel seguente, perchè lo storico greco
Curopalata[256] mette nei primi mesi dell'anno presente alcune disgrazie
che servirono di preludio. Comunque sia, abbiamo dall'Ostiense[257], che
ancorchè entro essa città di Bari assistesse Melo alla difesa, pure quel
popolo vilmente sosteneva il peso degli assalti; e però dopo un mese
d'assedio trattarono di rendersi e di dar lo stesso Melo in mano de'
Greci. Ebbe Melo conoscenza di questa trama, e la fortuna di salvarsi
segretamente in compagnia di Datto, con rifugiarsi in Ascoli, città che
s'era anch'essa ribellata. Quivi fu di nuovo assediato, laonde una notte
gli convenne fuggire anche di là insieme con Datto, e ritirarsi a
Benevento. Poscia andò a Salerno, indi a Capoa, meditando sempre le
maniere di liberar la sua patria dalla tirannia de' Greci, e studiandosi
di muovere que' principi in aiuto suo. Ebbe nuova guerra in quest'anno
il re Arrigo con Boleslao duca di Polonia[258]. Con gran solennità fece
il re Arrigo[259] dedicare anche nel presente anno (se pure non fu
piuttosto nel seguente) la chiesa di Bamberga. _Giovanni_ patriarca
d'Aquileia con più di trenta vescovi fece quella sacra funzione. Ci
somministra a quest'anno il Guichenon[260] una donazione fatta dal re
Ardoino a san Siro, cioè alla cattedrale di Pavia, _pro anima patris
nostri Doddonis, et pro anima patrui nostri domni Adalberti, rogante
domno Willelmo marchione carissimo consobrino germano nostro_. Tale atto
fu scritto _anno dominicae Incarnationis MXI, tertio kalendas aprilis,
Indictione IX. Actum Bobii in episcopali palatio_. È osservabile che non
compariscono qui gli anni del suo regno. Scorgiamo poi che il dominio di
esso re Ardoino si stendeva anche nella città di Bobbio, situata sulla
Trebbia, ventiquattro miglia sopra di Piacenza. Se è vero questo
documento, converrà dire che prima dell'anno 1014, cioè prima di quel
che pensasse l'Ughelli[261], fosse creato il primo vescovo di Bobbio. Ma
Ditmaro[262], storico di questi tempi, ci assicura che quel vescovo fu
istituito nell'anno 1014, e però fondamento giusto ci è di dubitare
della legittimità di questo documento. Qualora poi si potesse provare,
come pensò il suddetto Guichenon[263], che _Berengario II_ re d'Italia
avesse avuto un figliuolo chiamato _Doddone_ ossia _Oddone_, noi
potremmo dedurre dal documento suddetto, che il re Ardoino fosse nipote
di lui, e per pretensioni ereditarie avesse conseguito la corona
d'Italia. Perciocchè in tal caso _Adalberto_, zio paterno d'esso
Ardoino, sarebbe quel medesimo che abbiam veduto re d'Italia, scacciato
da Ottone il Grande. E _Guglielmo_ marchese, qui nominato, sarebbe
_Otton Guglielmo_ figliuolo di esso re Adalberto, che in questi tempi
tuttavia vivente era conte ossia duca di _Borgogna_. Ma io non so che
Berengario II avesse se non tre figliuoli, cioè _Adalberto, Conone_,
ossia Corrado, e _Guido_; e qui poi si tratta di un documento che non è
affatto sicuro. Per testimonianza del padre Mabillone[264], in
quest'anno, _undecima die decembris, anno Sergii papae tertio_, tenuto
fu un placito in Roma davanti a Giovanni patrizio, e a Crescenzio
prefetto della città, in cui Guido abbate del monistero di Farfa vinse
una casa di ragione del suo monistero. Resta a noi ignoto come allora si
regolasse il governo di Roma. Era in questi tempi console e duca di
Napoli _Sergio IV_ mentovato da Leone ostiense, e in un documento da me
dato alla luce[265].

NOTE:

[254] Romualdus Salern., in Chron. l. 6 Rer. Ital.

[255] Lupus Protospata, in Chronico.

[256] Curopalata.

[257] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 37.

[258] Annalista Saxo. Hermannus Contractus, in Chron.

[259] Marianus Scotus, in Chron. Ditmar., Chron., lib. 6.

[260] Guichenon, Bibliothec. Sebus Centur. II, cap. 10.

[261] Ughell. Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Bobiens.

[262] Ditmarus, Chron., lib. 7.

[263] Guichenon, Histoire de la Maison de Savoye, tom. 2.

[264] Mabillonius, Annal. Benedict. ad hunc annum.

[265] Antiquit. Italic., Disser. V, pag. 195.



    Anno di CRISTO MXII. Indizione X.

    BENEDETTO VIII papa 1.
    ARDOINO re d'Italia 11.
    ARRIGO II re di Germania 11, di Italia 9.


Scrive Ermanno Contratto[266] che in quest'anno fu chiamato da Dio
all'altra vita _Corrado duca_ di Carintia. Questi era figliuolo di
_Ottone_, duca parimente di Carintia e marchese della marca di Verona,
da noi menzionato di sopra, e fratello di _Brunone_, cioè del già papa
_Gregorio V_. Lasciò dopo di sè un figliuolo appellato anch'esso
_Corrado_. Ma il re Arrigo, forse perchè questo principe si trovava in
età non per anche capace da governar popoli, conferì il ducato suddetto
della Carintia ad _Adalberone_, giacchè non erano per anche stabilite le
leggi feudali usate oggidì. Ho io prodotto un placito[267] tenuto
nell'anno seguente fuori di Verona da esso Adalberone, chiamato ivi
_Adalperio dux istius marchiae_. Se Ottone fu nello stesso tempo duca di
Carintia e marchese di Verona, e tale veggiamo ancora che fu il suddetto
Adalberone, per conseguenza intendiamo che anche _Corrado_ duca di
Carintia, morto in quest'anno, dovette essere marchese di Verona.
Andavano allora congiunti questi due governi. Fra i documenti pubblicati
dal padre Bacchini[268] nella Storia del monistero di Polirone abbiamo
una donazione fatta ad esso monistero da _Bonifazio_ marchese, padre
della contessa Matilda, esistente in Pigognaga, oggidì terra del
Mantovano. Le note son queste: _Henricus gratia Dei rex, anno regni ejus
Leo propitio, in Italia nono, VIII kalendas augustus, Indictione
decima_, cioè nell'anno presente. Egli s'intitola nella seguente forma:
_Ego in Dei nomine Bonifacius marchio, filius domni Theudaldi itemque
marchio qui professo sum ex natione mea lege vivere Langobardorum_. Han
creduto il Sigonio, il Fiorentini ed altri moderni che _Tedaldo_
marchese, padre d'esso Bonifazio, cessasse di vivere nell'anno 1007. Ma
non trovandosi qui segno alcuno che Tedaldo fosse morto, cioè non
comparendo il _quondam_, usitata parola per tale effetto; ed essendo
simile questa formola all'altra che abbiam veduto nella donazione fatta
dal medesimo marchese Bonifazio nell'anno 1004, quanto a me, sospendo la
credenza della di lui morte in quell'anno. Per altro abbiam già
osservato introdotto il costume, che vivente ancora il padre _marchese_,
i figliuoli talvolta venivano decorati del medesimo titolo per
concessione, credo io, degli imperadori ossia dei re d'Italia. Abbiamo
nella Cronica del monistero di Volturno[269] una bolla data da _papa
Sergio IV_ in favor di quell'insigne monistero, con queste note: _Data V
kalendas martii, anno Deo propitio, pontificatus domni nostri Sergii
sanctissimi quarti papae, sedente anno tertio, Indictione supradicta
decima_, cioè nell'anno presente. Altri atti del medesimo papa spettanti
al marzo e all'aprile di quest'anno son citati dal padre Mabillone, ed
uno del dì 16 di giugno del cardinal Baronio. Però ragionevolmente dopo
il padre Papebrochio pensò il padre Pagi, che questo pontefice passasse
a miglior vita prima dell'agosto dell'anno presente, e che
immediatamente gli succedesse _Benedetto VIII_, il quale in fatti si
truova papa nel dì 2 d'esso mese d'agosto. Ciò costa da una carta
d'accordo seguito fra Guido abbate di Farfa[270] _et inter Johannem.
Domini gratia, ducem atque marchionem, necnon et Crescentium, Dei nutu,
honorabilem comitem germanum ipsius, de curte, quae vocatur sancti
Getulii_. Fu stipulato quello strumento nello stesso monistero di Farfa,
_anno Deo, propitio, pontificatus domni nostri Benedicti summi et
universalis octavi papae primo, Indictione X, mense augusto, die XXII_.
La moglie di Crescenzio conte viene appellata _Hitta illustrissima
ducatrice_.

Non sappiam bene se il monistero di Farfa posto nella Sabina, il quale
nei tempi addietro era compreso nel ducato di Spoleti, fosse in questi
tempi suggetto al temporal dominio dei papi. Ne ho io sospetto, al
vedere mentovati nei cataloghi anteposti alla cronica di Farfa _Leo dux
sabinensis, Rayno dux sabinensis_, e _Joseph dux sabinensis_, con
trovarsi poi degli altri che altro non portano se non il titolo di
_comes sabinensis_. I primi paiono ministri del papa, gli altri
dell'imperadore, ossia del re d'Italia. Per altro, essendosi finora
osservato che il _dux et marchio_ soleva indicare chi era duca di
Spoleti e marchese di Camerino, inclinerei a credere che quel _Johannes
dux et marchio_ avesse goduto amendue quei governi, succeduto forse ad
Ugo già marchese di Toscana. Leggesi poi nel Bollario casinense[271] un
diploma del re Arrigo, dato _pridie idus maij, anno dominicae
Incarnationis MXII, Indictione decima, domni vero Henrici regis secundi
regnantis X. Actum Pavenberg_, cioè in Bamberga. Conferma egli alla
badia di Firenze le corti, _quas quondam Bonifacius marchio per
chartulas offersionis eidem tradidit monisterio_, cioè donate, come di
sopra vedemmo nell'anno 1009, da _Bonifazio_ marchese figliuolo di
Adalberto conte, vivente secondo la legge ripuaria, e differente dal
padre della contessa Matilda. Siccome ho io con chiari documenti
provato[272], da _Oberto I_ marchese e conte del sacro palazzo,
progenitore dei principi della casa d'Este, nacque _Oberto II_ marchese;
e questi ebbe due figliuoli, cioè _Adalberto_, ossia _Alberto Azzo I_,
ed _Ugo_, amendue marchesi, vivente ancora il padre. Truovansi questi in
Casal maggiore, terra di lor dominio, in quest'anno, dove fanno una
donazione al vescovato di Cremona. Sono ivi appellati: _Nos in Dei
nomine Azzo et Ugo germanis, et filii Auberti marchio, qui professi
sumus ex natione nostra lege vivere Longobardorum. Ipso namque genitor
noster nobis consentiente_, ec. Si sottoscrivono _Azo, Ugo marchio,
Otbertus marchio_, cioè il loro vivente padre. Lo strumento si vede
scritto: _Enricus gratia dei rex, anno regni ejus, Deo propitio, hic in
Italia octavo, VI kalendas martii, Indictione decima_, cioè nell'anno
presente. In un altro strumento parimente di quest'anno, scritto IX
kalendas martii, sono chiamati _Azo et Ugo germanis, et filii Uberti
marchio_. In un altro documento dell'anno 1011, _sexto die mensis madii,
Indictione IX, Adelaide_, ossia _Adela comitissa et conjux Azoni
marchio_, compera varii beni. La stessa in un altro, stipulato _sesto
die mensis septembris_ dell'anno presente, dona beni posti in _comitatu
Auciense_ (oggidì lo _Stato pallavicino_ tra Parma e Piacenza) al
vescovato di Cremona. Quivi è appellata _Adela comitissa, Conjus Azoni
marchio_, ec. _ipso namque jugale et Mundoaldo meo mihi consentiente, et
mihi cui supra Azoni praedictus, Otbertus genitor meus, similiter mihi
consentiente_. Col lume di sì fatti documenti andremo vedendo la
continuazione dei principi appellati poscia _marchesi d'Este_. Ma papa
Benedetto VIII poco di quiete potè godere nella sedia pontificia.
Ditmaro[273] ci fa sapere che egli nell'elezione ebbe per concorrente un
certo _Gregorio_, il quale restò bensì allora inferiore nei voti, ma da
lì a non molto divenne superiore nella forza, in maniera che papa
Benedetto fu costretto ad uscire di Roma. Andossene egli in Germania a
trovare il re Arrigo per raccomandarsi, alla di lui protezione, e
celebrò con esso lui in Palithi il santo Natale. Allora fu che si
concertò di creare imperadore Arrigo. Ne ardeva egli di voglia, e il
papa conosceva anch'egli la necessità di mettere un Augusto sulle teste
troppo allora caparbie e sediziose de' Romani. Quando e come tornasse il
papa in Roma, prima che vi giugnesse Arrigo, non è a noi ben noto.

NOTE:

[266] Ermannus Contractus, in Chron.

[267] Antichità Estensi, P. I, cap. 11.

[268] Bacchini, Istor. del Monist. di Polirone nell'Append.

[269] Chronic. Vulturn., P. II, tom. 1. Rer. Ital.

[270] Chronic. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[271] Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. LXXVI.

[272] Antichità Estensi, P. I, cap. 14 e 15.

[273] Ditmarus, Chronic., lib. 6, in fin.



    Anno di CRISTO MXIII. Indizione XI.

    BENEDETTO VIII papa 2.
    ARDUINO re d'Italia 12.
    ARRIGO II re di Germania 12, d'Italia 10.


Già si è veduto che ARDOINO re d'Italia avea ripigliato il dominio di
Pavia e d'altre città, e si può credere che il Piemonte tutto aderisse a
lui. Non abbiamo storia d'Italia che ci dia lume per gli avvenimenti
d'allora. Contuttociò è facile ed insieme giusto l'immaginare che
durasse molto la guerra fra Ardoino e quei della sua fazione dall'una
parte, e le città aderenti al re Arrigo dall'altra. Il solo Arnolfo,
storico milanese di questo secolo[274], ci ha lasciato due parole
bastanti a farci conghietturare il resto. Così egli scrive: _Verumtamen
reassumtis interim viribus Ardoinus juxta posse ultionem exercet in
perfidos. Siquidem postea Vercellensium urbem cepit, Novariam obsedit,
Cumas invasit, multaque alia demolitus est loca sibi contraria_. Siccome
vedremo, pare che ciò avvenisse nell'anno seguente, come ancora osservò
il Sigonio[275], quantunque Arrigo allora fosse venuto in Italia, e
fosse creato imperadore. Puossi ben conghietturare da questo che non
dovettero godere gran calma le città aderenti in Lombardia ad Arrigo
prima della di lui seconda venuta in Italia. Ora qui due importanti
punti cominciano a trasparire nella storia d'Italia. L'uno è parer
verisimile che da questi torbidi avesse principio la gara e l'odio
implacabile che andrem da qui innanzi osservando fra le due nobilissime
città di Milano e Pavia; giacchè la prima teneva per Arrigo, e l'altra
per Ardoino: gara facile e familiare fra le città vicine, e massimamente
se potenti, ma accresciuta fra queste due per la suddetta discordia, e
per le pensioni dure che tengono dietro alla guerra. L'altro è che i
popoli della Lombardia per questa occasione e necessità cominciarono ad
imparare a maneggiar le armi da sè stessi, o per offendere altrui, o per
difendere le proprie cose; il che loro inspirò animi più grandi, ed
anche dell'orgoglio, di modo che presto li vedremo alzar la testa sin
contro i sovrani, e tendere a gran passi alla libertà, e conseguirla in
fine con un considerabile cambiamento di governi in Italia. Ma prima di
narrar la seconda venuta del re Arrigo, raccoglieremo alcune altre poche
notizie che riguardano l'anno presente. Leggesi una donazione fatta da
papa Benedetto VIII a Guido abbate di Farfa[276] _anno, Deo propitio,
pontificatus domni Benedicti summi pontificis et universalis papae VIII
in sacratissima sede beati Petri primo, Indictione XI, mense junio, die
II_. In quest'anno parimente _die quinto mense madio, Indictione XI,
Adalberone_ duca di Carintia, e marchese della marca di Verona, tenne un
placito[277] _in comitatu veronense in loco et fundo monasterii sancti
Zenonis, non longe prope muros civitatis Veronense_, dove fu decisa una
causa in favore del nobilissimo monistero di san Zacheria di Venezia.
Perchè quivi si trattava di una corte posta nel territorio di Monselice,
di cui erano padroni allora i marchesi _Alberto Azzo I_ ed _Ugo_
fratelli, antenati della casa d'Este, perciò anch'essi v'assisterono, e
il notaio scrisse la carta _ex jussione domni Azoni et Ugoni
marchionis_. Abbiamo, oltre a ciò, un altro placito, tenuto dai suddetti
due marchesi in Monselice (segno del loro dominio in quella riguardevol
terra), _anno domni Henrici regis hic in Italia decimo die mense madio,
Indictione XI_. Il suo principio è questo: _Dum in Dei nomine in
comitatu patavensi et in judiciaria montisillicana in praedicto loco
Montesilice in mansione publica resideret domnus Azo et Ugo germanis
marchiones_, ec. Nelle sottoscrizioni si legge _Adelbertus, qui Azo
vocatur_, ec. _Ugo marchio_, ec. Però cominciamo a scorgere in que'
paesi i principi progenitori della casa d'Este, forse per eredità loro
pervenuta da Ugo marchese di Toscana. Ed è ben verisimile che già
possedessero _Este, Rovigo_, ed altre terre e castella che troveremo,
andando innanzi, di loro giurisdizione. Dopo avere il re Arrigo dato
buon sesto agli affari della Germania, e stabilita qualche concordia con
Boleslao duca di Polonia, determinò di tornare per la seconda volta in
Italia. Doveano essere frequenti e caldi gl'inviti che venivano dalle
città di Lombardia, travagliate dalle armi del re Ardoino. Ma quel che
più stava a cuore al re Arrigo, era la protezione impresa di papa
Benedetto VIII, e la brama di vedersi in capo la corona imperiale. Però
sul finir dell'autunno[278] colla regal consorte _Cunegonda_ e con un
possente esercito, al dispetto delle piogge dirotte e delle inondazioni
dei fiumi, comparve in Italia; ed arrivato a Pavia, quivi _Natale Domini
honorifice celebravit_. Girolamo Rossi[279] scrive, che esso re in
quest'anno fu in _Ravenna_, dove confermò abbate del monistero di santo
Adalberto vicino al Po san Romoaldo, sommamente da lui venerato per la
sua santità. Ho io pena a credere succeduto nell'anno presente un tal
fatto. Contuttociò si vegga all'anno seguente. L'ingresso poi d'esso
Arrigo in Pavia, senza che gli scrittori facciano menzione di
opposizione alcuna, porge a noi motivo di credere che i Pavesi atterriti
dalle forze di Arrigo tornassero, prima che egli arrivasse, alla di lui
divozione senza farsi pregare, ed ottenessero il perdono.

NOTE:

[274] Arnulphus, Hist. Mediol., lib. 1, cap. 16.

[275] Sigonius, de Regno Ital., lib. 8.

[276] Antiquit. Ital., Dissert. LVI.

[277] Antichità Estensi, P. I, cap. 11.

[278] Annalista Saxo, et Annales Hildesheim.

[279] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.



    Anno di CRISTO MXIV. Indizione XII.

    BENEDETTO VIII papa 3.
    ARRIGO II re di Germania 13, imperadore 1.
    ARDOINO re d'Italia 13.


Da Pavia, non ostante il verno, passò il re Arrigo a Ravenna, dove, per
attestato dell'Annalista sassone[280], raunato un concilio, fece
eleggere arcivescovo (se pur non era prima eletto) _Arnoldo_ ossia
_Arnaldo_ suo fratello. Dacchè in quella città mancò di vita _Federigo_
arcivescovo (probabilmente nell'anno 1004), un certo _Adelberto_ avea
senza legittima elezione e con male arti occupata quella sedia
archiepiscopale, e detenuta finora. Poscia in Roma fece il re Arrigo
consacrare da papa Benedetto VIII questo suo fratello[281]. Volle anche
far degradare il suddetto Adalberto; ma alle preghiere di molte persone
pie _alteri praefecit ecclesiae, nomine Aricia_. L'Annalista sassone
dice: _Arecinae praefecit ecclesiae_. Crede il padre Mabillone ch'egli
fosse creato vescovo d'_Arezzo_, ma presso l'Ughelli nulla si trova di
lui. Sarebbe mai qui mentovata la _Riccia_, che in questi tempi godesse
l'onore del vescovato? Poscia continuò il re Arrigo alla volta di Roma
il suo viaggio. Secondo la testimonianza di Glabro Rodolfo[282], papa
_Benedetto VIII_ gli venne incontro: il che ci fa intendere che esso
papa era già rimesso sul trono pontifizio. Ditmaro scrive che il papa
l'aspettò a san Pietro: e questo era il costume. Abbiamo poi nei testi
d'esso Ditmaro e dell'Annalista sassone che si fece la solenne
coronazione imperiale di _Arrigo_ e di _Cunegonda_ sua moglie _VI
kalendas martii_, cioè nel dì 24 di febbraio, _die dominica_. Ma non
essendo caduto quel dì in domenica nell'anno presente, il padre Pagi con
ragione pretende[283] che la magnifica funzione si facesse _XVI kalendas
martii_, cioè nel dì 14 di febbraio, giorno veramente di domenica.
Abbiamo da Ditmaro che in quella solennità l'Augusto Arrigo, secondo fra
i re, e primo fra gl'imperadori, comparve _a senatoribus duodecim
vallatus, quorum sex rasi barba, alii prolixa, mystice incedebant cum
baculis_. Prima di entrar nella basilica vaticana, secondo il costume,
fu interrogato se voleva essere avvocato e difensore della Chiesa
romana, e fedele al papa e ai suoi successori. Rispose con gran
divozione di sì. Dopo di che ricevette colla moglie l'unzione e la
corona imperiale. Nota il medesimo Ditmaro, e dopo lui l'Annalista
sassone, che _Giovanni figliuolo di Crescenzio, apostolicae sedis
destructor, muneribus suis et promissionibus phaleratis regem palam
honoravit; sed imperatoriae dignitatis fastigium eum ascendere multum
timuit, omnimodisque id prohibere clam tentavit_. Abbiam trovato di
sopra all'anno 1012 a _Giovanni_ duca e marchese, sospettato da me _duca
di Spoleti_, fratello di Crescenzio conte. Forse qui si parla di lui.
Non amavano i Romani in que' tempi di avere sopra di sè un imperadore,
perchè senza questo freno faceano ballare i papi come loro piaceva. Ed è
anche da osservare ciò che il suddetto Ditmaro scrive[284]: _Rex
Henricus a papa Benedicto, qui tunc prae ceteris antecessoribus suis
maxime dominabatur, mense februario in urbe Rumulea cum ineffabili
honore suscipitur_. A mio credere, vuol dire che i Romani aveano per
molti anni addietro ritagliata di molto l'autorità temporale dei papi in
Roma. Ma dacchè papa Benedetto ebbe fatto ricorso al re Arrigo, e se ne
tornò a Roma, per paura d'esso re i potenti romani dovettero cedergli,
in guisa che egli esercitava più di molti suoi antecessori la temporal
signoria. Oppure gli Ottoni Augusti, e massimamente (per quanto vo io
sospettando) il terzo, aveano accorciato non poco il temporale dominio
dei romani pontefici, con averlo poi ricuperato il suddetto papa
Benedetto VIII dal piissimo imperadore Arrigo regnante. A quest'anno
rapporta il cardinal Baronio[285] il diploma che si pretende dato
dall'Augusto Arrigo alla Chiesa romana, per confermare ad essa i suoi
Stati temporali; e veramente ad altro anno che a questo non dee
appartenere. Ma esso è una copia informe senza l'anno in cui fu dato, e
senza gli anni del regno dell'imperio. Contiene eziandio varie notizie
che patiscono difficoltà, siccome prima d'ora ho io altrove
accennato[286]. Conviene aggiugnere qui ciò che osservò il padre
Mabillone colle seguenti parole[287]: _Baronius ad hoc tempus revocat
privilegium romanae Ecclesiae ab eodem imperatore concessum. At
subscriptiones quaedam satis ostendunt, hoc esse posterioris temporis,
quippe cui subscribit Richardus abbas fuldensis, qui vix ante annum
MXXII hanc praefecturam iniit_. Così colla sua solita modestia
quell'insigne letterato, volendo anch'egli significare che il privilegio
suddetto è finto, oppure interpolato.

Nell'ottavo giorno dopo la coronazione insorse una strepitosa rissa fra
i Romani e Tedeschi sul ponte del Tevere, e molti caddero estinti
dall'una parte e dall'altra. Si trovò essere stati autori di tale
sconcerto _germani tres, Hug, Hecil, Ecilin_, non so se tre Tedeschi o
tre fratelli. Furono presi, incarcerati, e poi condotti fra le catene in
Germania. Che anche Arrigo, primo di questo nome fra gl'imperadori,
godesse al pari de' suoi predecessori la sovranità in Roma, si raccoglie
dal suo nome, enunziato con quello de' papi nelle monete e negli atti
pubblici di Roma, e dall'avere anch'egli amministrata pubblicamente
giustizia in essa città. Pubblicò il padre Mabillone[288] un insigne
placito del medesimo Augusto, in cui per ordine suo fu decretato il
possesso del castello di Bucciniano ad Ugo abate di Farfa. _Igitur_
(quivi si legge) _quum memoratus Heinricus Romam venisset, et intra
basilicam beati Petri apostoli resideret ad legem et justitiam
faciendam_, ec. Da Roma s'incamminò l'Augusto Arrigo alla volta di
Pavia. Ch'egli venisse per la Toscana, lo raccolgo da due diplomi da me
pubblicati[289], e dati nel medesimo luogo del contado di Pisa, il primo
in favore del monistero antichissimo delle monache oggidì appellate di
santa Giustina di Lucca, e l'altro in favore de' canonici d'Arezzo. Le
note cronologiche son queste: _Datum anno dominicae Incarnat. MXV,
Indictione XII, anno domni Heinrici imperatoris Augusti regnorum XII,
imperii ejus I. Actum in comitatu pisano in villa, quae dicitur
Fasiano_. Io, nel pubblicar tali diplomi, li rapportai all'_anno_ 1015,
senza esaminare se in quell'anno Arrigo potesse soggiornare in Toscana.
Ora veggo che appartengono al presente anno, ed essere quivi usato
l'anno pisano, che nove mesi prima del nostro ha il suo principio. Dalla
Toscana passò Arrigo a Ravenna, dove lasciò il fratello, cioè Arnolfo
arcivescovo, il quale[290] _quartodecimo anno post millesimum divinitus
mortalitatis assumtae, sub imperio clementissimi Augusti domni Henrici
in tertio_ (si dee scrivere primo) _anno, pridie kalendarum majarum_,
tenne un concilio provinciale in Ravenna, in cui annullò varii atti
dell'usurpatore Adalberto. In passando poi per Piacenza l'imperadore
confermò i suoi beni alla badia di Tolla con un diploma[291], dato_ anno
dominicae Incarnationis MXIV, indictione XII, anno vero domni Heinrici
regni ejus XIII, imperii autem primo. Actum Placentiae_. Ancor qui, come
in tanti altri d'esso Arrigo, manca il giorno e il mese. Giunto a Pavia,
celebrò ivi la santa Pasqua, e diede un diploma in favore del monistero
di san Salvatore. _Actum Papiae_[292]. Quivi ancora, _septimo die mensis
madii_, davanti a lui tenne un placito _Ottone conte del palazzo_, da me
dato alla luce[293] coll'intervento di _Oberto_ ed _Anselmo_ fratelli
marchesi. Poscia s'inviò verso la Germania, e passando per Verona,
confermò i suoi privilegii alle monache di santa Giulia di Brescia[294].
Lo stesso fece in favore della badia di san Zenone di Verona con diploma
dato _XII kalendas junii_ (si osservi qui il giorno e mese) _anno
dominicae Incarnationis MXIIII, Indictione XII, anno domni Heinrici
imperatoris Augusti regnantis XII, imperii vero ejus I. Actum Veronae_.
Un altro suo diploma[295] in favore del monistero veronese di santa
Maria all'Organo è dato _VIIII kalendas junii, Indictione XII, ec. Actum
Liciana_. Leggesi parimente un placito tenuto in quest'anno[296],
_quarto die mensis madii_, in Pavia da _Ottone_ conte del palazzo. Papa
Benedetto VIII anch'egli in questo anno confermò al monistero di Farfa
il castello di Bucciniano con bolla data[297] _XV kalendas augusti, anno
domni Benedicti papae octavi tertio, imperante domno Henrico, anno ejus
primo_. Se così era nell'originale, abbiamo di qui che questo pontefice
dovette ottenere il papato prima del dì 18 di luglio dell'anno 1012. Ma
non è cosa certa, perchè di sopra si legge _scriptum in mense augusti_.
In fatti tenne questo papa un bel placito nel dì 2 di agosto dell'anno
presente, per ricuperare il castello suddetto; e tal documento si legge
presso il padre Mabillone e nella suddetta Cronica di Farfa. Ci
somministra ancora la medesima Cronica un placito senza data, ma
probabilmente circa quest'anno tenuto da _Rainerius marchio, et dux in
turri de Corgnito_. Il trovarsi intorno a questi tempi _Rinieri_
marchese di Toscana, fa ch'io il creda il medesimo enunciato in quella
carta.

Arrivò felicemente l'Augusto Arrigo a Bamberga, e vi celebrò la festa di
Pentecoste. Ma appena aveva egli messo il piede fuori d'Italia, che il
re Ardoino più feroce che mai ripigliò l'armi, e ricominciò la guerra. È
da sapere, per testimonianza di Ditmaro[298], che esso Ardoino,
all'avviso che Arrigo con gran potenza calava di nuovo in Italia, ben
conoscendo di non poter cozzare con un re sì poderoso, gli spedì
incontro degli ambasciatori, con esibirsi pronto a rinunziare la corona,
purchè gli concedesse un certo contado. Il buon re, lasciatosi condurre
da alcuni suoi consiglieri, rigettò l'offerta; ma egli _ad magnum suis
familiaribus provenire damnum id postea persensit_. Racconta dipoi lo
stesso storico, che uscito d'Italia l'imperadore, Ardoino, che dianzi
era stato ritirato in un forte castello, _vercellensem invasit
civitatem, Leone ejusdem episcopo vix effugiente. Omnem quoque hanc
civitatem comprehendens, iterum superbire coepit._ Abbiam veduto di
sopra, colla testimonianza di Arnolfo storico, ch'egli non solamente
prese Vercelli, ma assediò anche Novara, _Cumas invasit, multaque alia
demolitus est loca sibi contraria_. Prestarono aiuto in questa mossa
d'armi ad Ardoino anche i marchesi, progenitori della casa d'Este, forse
perchè parenti suoi, sapendo noi che _Berta_ figliuola del marchese
_Oberto II_ fu maritata[299] con _Odelrico Manfredi_, marchese celebre
di Susa, il qual, forse era della casa del re Ardoino. Dei danni
inferiti da questa guerra ne toccò la sua parte alla chiesa di Pavia,
_quam ipsi in suis pertinentiis igne et rapinis vehementer
devastaverunt_; perciò quel vescovo o clero in quest'anno ricorse
all'Augusto Arrigo in Germania, chiedendo giustizia e compenso. Egli
dunque con suo diploma, dato _anno Incarnationis dominicae MXIIII,
Indictione XII, anno vero domni Henrici imperatoris Augusti regni XIII,
imperii vero primo. Actum Solega_ (non so che luogo sia questo), dopo
avere esposto, _Ubertum comitem filium Hildeprandi, Otbertum marchionem
et filios ejus, et Albertum nepotem illius, postquam nos in regem et
imperatorem elegerunt, et post manus nobis datas, et sacramenta nobis
facta, cum Dei nostroque inimico Arduino regnum nostrum invasisse,
rapinas, praedas, devastationes ubique fecisse_, ec.: erano secondo le
leggi incorsi nella pena della vita, e tutti i lor beni devoluti al
fisco: assegna perciò alla chiesa di Pavia una tenuta di beni spettanti
ad essi marchesi in San Martino in Strada e in altri siti. Succedette di
più, benchè io non sappia se in questo oppure in alcuno dei susseguenti
anni, cioè che[300] l'Augusto Arrigo _marchiones Italiae quatuor,
Ugonem, Azonem Adelbertum, et Obizonem captione una constrinxit_. Nè
dice già esso Arnolfo, come scrisse trecento anni dipoi Gualvano
Fiamma[301], ch'egli facesse anche tagliar loro la testa. Solamente
scrive che gli ebbe prigioni. Ma che per la sua innata clemenza lor
poscia rendesse non solamente la libertà, ma anche gli Stati, l'abbiam
di certo dal veder da lì innanzi fiorire in Italia questi medesimi
principi, come costa dai documenti da me dati alla luce nella Antichità
estensi. E ne resta inoltre la positiva asserzione dell'autore della
Cronica novaliciense[302], che scrisse in questo secolo, laddove
parlando di Arrigo primo imperadore, così favella: _Marchiones autem
italici regni sua calliditate capiens, et in custodia ponens, quorum
nonnulli fuga lapsi, alios vero post correctionem ditatos muneribus
dimisit_. Si noti quest'ultima particolarità. Già abbiam veduto che i
marchesi _Ugo_ ed _Alberto Azzo I_ erano figliuoli di _Oberto II_
marchese, ed _Alberto_ (lo stesso è che Adalberto) _Azzo II_ fu
figliuolo di _Azzo I_, tutti principi della casa d'Este, ma non per
anche chiamati marchesi d'Este, quantunque anche allora possedessero la
nobil terra d'Este, che negli antichi tempi fu città.

In quest'anno 1014 e poi nel 1016 in due strumenti di Rodolfo re di
Borgogna, si comincia a vedere un _Bertoldo conte_, chiamato da altri
_Beroldo_, da cui il Guichenone e gli altri storici del Piemonte fanno
discendere la real casa di Savoia. Allora i conti, siccome perpetui
governatori di qualche città, entravano nel ruolo dei principi. Però nel
regno di Borgogna, ossia Arelatense, si hanno a cercare gli antenati del
medesimo Bertoldo. Truovasi dipoi in quelle parti _Umberto_ ossia
_Uberto conte_, e questi è asserito figlio d'esso Beroldo. Dal medesimo
Umberto discende la suddetta real famiglia. E questa, dappoichè con
istendere ampiamente il suo dominio in Italia, qui da tanti secoli
gloriosamente regna, ed ora maggiormente risplende per la saviezza e
valore del regnante _Carlo Emanuello_ re di Sardegna, duca di Savoia, e
principe del Piemonte, meriterebbe bene che penna più sicura di quella
del Guichenone diradasse le tenebre che tuttavia restano nella
genealogia dei primi discendenti da esso conte Beroldo, e più
accuratamente ne cercasse gli ascendenti, e mostrasse il vero tempo in
cui passarono in essa gli ampii Stati della celebre casa dei marchesi di
Susa. Si può certamente con ragion presumere che la nobiltà d'esso conte
si stendesse anche nei secoli addietro, e non avesse già si corti
principii, come ha preteso il tedesco Eccardo.

NOTE:

[280] Annalista Saxo.

[281] Ditmarus, Chronic. lib. 7.

[282] Glaber, Hist. lib. 1, in fine.

[283] Pagius, in Crit. Baron.

[284] Ditmarus, lib. 6, in fine.

[285] Baron., Annal. Eccles.

[286] Piena Esposizione per la Controversia di Comacchio.

[287] Mabill., Annal. Benedict. ad ann. 1014.

[288] Idem, ibidem.

[289] Antiquit. Italic., Dissert. XVIII et LXII.

[290] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Archiepiscop. Ravenn.

[291] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.

[292] Bullar. Casinense, tom. 2, Constit. LXXVIII.

[293] Antichità Estensi, P. I, cap. 14.

[294] Antiquit. Italic., Dissert. XXVIII.

[295] Antiq. Italic., Dissert. XIX.

[296] Ibidem, Dissert. VIII.

[297] Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[298] Ditmarus, Chronic., lib. 6 et seq.

[299] Antichità Estensi, P. I, cap. 13.

[300] Arnulfus., Hist. Mediolanens., lib. 1, c. 18.

[301] Flamma, in Manipulo Flor.

[302] Chron. Novalic., P. II, tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MXV. Indizione XIII.

    BENEDETTO VIII papa 4.
    ARRIGO II re di Germania 14, imperadore 2.


Terminarono in quest'anno tutte le bravure e le sconsigliate speranze
del re Ardoino, non già come immaginò Gualvano Fiamma, e dopo lui il
Sigonio[303], perchè l'arcivescovo di Milano Arnolfo con un gagliardo
esercito assediasse Asti, ed obbligasse Ardoino disperato a farsi
monaco; ma perchè cadde gravemente infermo, e dovette finalmente
intendere quanto sieno caduchi i regni della terra. _Ad ultimum_ (scrive
di lui Arnolfo storico milanese di questo secolo[304]) _labore
confectus, et morbo, privatus regno, solo contentus est monasterio
nomine Fructeria_ (ossia _Fructuaria_ nella diocesi allora di Ivrea)
_ibique depositis regalibus super altare, sumtoque habitu paupere, suo
dormivit in tempore_. Ma una tal risoluzione fu da lui presa solamente
allorchè ebbe perduta la speranza di poter più vivere: che così usavano
allora anche i gran signori sul fine dei loro giorni, per comparire
davanti a Dio diversi da quello che erano stati in vita. Il tempo della
sua morte fu a noi conservato dall'Annalista sassone[305] con queste
parole all'anno presente: _Interim Hardwigus, nomine tantum rex, perdita
urbe Vercelli, quam expulso Leone episcopo diu injuste tenuerat,
infirmatur, radensque barbam_ (che tutti i secolari solevano allora
portare) _et monachus factus, tertio kalendas novembris obiit, sepultus
in monasterio_, cioè di Fruttuaria. Il padre Mabillone[306] avvertì che
la morte di Ardoino vien registrata nel Necrologio di Dijon _XIX
kalendas januarii_. Così restò libero da questo impaccio in Italia
l'imperadore Arrigo, fra il quale e Boleslao duca di Polonia durava
intanto la discordia e la guerra in Germania. Tenuto fu un bel placito
in questo anno da papa _Benedetto VIII_ in Roma, di cui ci arricchì il
medesimo padre Mabillone. Ha le seguenti note[307]: _Pontificatus domni
nostri Benedicti summi pontificis et universalis octavi papae_, ec.
_quarto, imperante domno nostro Heinrico piissimo imperatore Augusto_,
ec. _anno II, Indictione XIV, quarto die decembris_. La lite era di beni
fra Ugo abbate di Farfa, _et domnum Romanum consulem et ducem, et omnium
Romanorum senatorem, atque germanum praenominati domni pontificis_. Si
veggono mentovati in esso placito _Johannes domini gratia urbis Romae
praefectus, Albericus consul germanus praedicti praesulis_, ec. La
dignità di prefetto della città di Roma, sì cospicua negli antichi
secoli, pare che si rimettesse in piedi sotto gl'imperadori Ottoni.
Anche a' tempi di Pippino e Carlo Magno patrizii di Roma la medesima
illustre dignità ivi si osserva. Geroo proposto reicherspergense,
scrittore del secolo susseguente[308], in una lettera scritta _ad
Henricum presbyterum cardinalem_, ci avvertì che dai senatori romani si
conoscevano le cause civili solamente, e che _grandiora urbis et orbis
negotia longe superexcedunt eorum judicia, spectantque ad romanum
pontificem, sive illius vicarios, Lino et Cleto consimiles; itemque ad
romanum imperatorem, sive illius vicarium URBIS PRAEFECTUM, qui de sua
dignitate respicit utrumque, videlicet domnum papam, cui facit hominium,
et domnum imperatorem, a quo accipit suae potestatis insigne, scilicet
exertum gladium. Sicut enim hi, quorum interest exercitum campo ductare,
congrue investiuntur per vexillum, sic non indecenter ex longo usu
praefectus urbis ab imperatoribus cognoscitur investitus per gladium
contra malefactores urbis exertum. Praefectus vero urbis desuper sibi
dato gladio tunc legitime utitur ad vindictam malorum, laudem vero
bonorum, quando exinde tam domno papae, quam domno imperatori ad
honorificandum sacerdotium et imperium famulatur, promissa vel jurata
utrique fidelitate_, ec. Tale era in quei tempi il governo di Roma e del
suo ducato. Ho io pubblicato un bel placito[309], che ci fa conoscere
che _Bonifazio_ marchese, padre della celebre contessa Matilda, non meno
che del fu marchese _Tedaldo_ suo padre, signoreggiava in Ferrara. Fu
esso tenuto, _pontificatus domni nostri Benedicti summi pontificis anno
quarto, regni vero Henrici regis, qui antea regnabat, quam coronam
imperii suscepisset, undecimo_ (questa è l'epoca del regno di Italia),
_sed postquam coronam imperii suscepisset, secundo, in Dei nomine, die
XIV mensis decembris, Indictione XIV. Ferrariae_. La lite era fra
Martino abbate del monistero di san Genesio di Brescello ed Ugo vescovo
di Ferrara, a cagione del monistero di san Michele Arcangelo, posto in
essa città di Ferrara. Secondo l'abuso di quei tempi, si venne
all'esibizion del duello, ma in fine il vescovo si diede per vinto.

NOTE:

[303] Sigonius, de Regno Italiae, lib. 8.

[304] Arnolf., Hist. Mediolan., lib. 1. cap. 16.

[305] Annalista Saxo.

[306] Mabill., Annal. Benedict., ad hunc ann.

[307] Chronic. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[308] Apud Balozium, Miscellan., lib. 5, pag. 64.

[309] Rer. Ital. P. II, tom. 1, pag. 11.



    Anno di CRISTO MXVI. Indizione XIV.

    BENEDETTO VIII papa 5.
    ARRIGO II re di Germania 15, imperadore 3.


Perchè l'anno preciso in cui succedette un movimento d'armi in
Lombardia, resta incognito, mi fo lecito di riferirlo qui. L'abbiamo da
Arnolfo storico milanese[310]. Narra egli che il vescovo d'Asti, perchè
favorì le parti del re Ardoino, cadde in disgrazia dell'Augusto Arrigo,
e però venuto a Milano, quivi sino alla morte stette ascoso: _Dederat
imperator, vivente ipso, et abjecto, episcopatum cuidam Olderico fratri
Mainfredi marchionis eximii_, cioè di Manfredi marchese di Susa, marito
di _Berta_, figliuola del marchese _Oberto II_ progenitore dei marchesi
d'Este. _Arnolfo_ arcivescovo di Milano, non parendo a lui giusta la
deposizione del predetto vescovo, conseguentemente ricusò di consecrare
_Olderico_, chiamato in alcuni documenti _Alrico_. Ma questi confidando
nella potenza sua e del marchese Manfredi suo fratello, se n'andò a
Roma, dove con false rappresentanze ottenne dal papa la consecrazione,
che apparteneva di diritto all'arcivescovo di Milano. Irritato da tali
atti Arnolfo arcivescovo, scomunicò in un concilio esso Olderico.
Poscia, raunato un numeroso esercito, andò, insieme co' suoi vassalli, a
mettere l'assedio alla città di Asti, e vi colse dentro non meno
Olderico, che il marchese suo fratello. Si osservi come in Lombardia si
cominciano a raunare eserciti e a far guerra, senza dipendere
dall'imperadore, nè dai suoi ministri. Strinse egli tanto quella città,
che furono costretti gli assediati a capitolare come volle
l'arcivescovo. E fu ben dura la capitolazione: cioè tre miglia lungi da
Milano, _nudis incedendo vestigiis episcopus codicem, marchio canem
bajulans, ante fores ecclesiae beati Ambrosii reatus proprios
devotissime sunt confessi_. Per attestato di Ottone frisingense[311], se
qualche nobile commettea tal fallo che meritasse la morte, secondo
l'antica consuetudine dei Franzesi e Suevi, _ad confusionis suae
ignominiam, canem dei comitatu in proximum comitatum gestare cogebatur_.
Depose Olderico il baston pastorale e l'anello sopra l'altare di
sant'Ambrosio, che gli furono poi restituiti. E il marchese Manfredi
offerì alla chiesa una buona somma d'oro. Ciò fatto, coi piedi nudi per
mezzo alla città andarono alla metropolitana, dove ebbero pace
dall'arcivescovo, clero e popolo. Se crediamo all'Ughelli[312],
Odelrico, ossia Olderico, fu intruso nell'anno 1008, e nel seguente
legittimamente eletto, laddove Tristano Calco, il Sigonio e il Puricelli
fanno succeduta questa scena chi nell'anno 1014, e chi nel 1015 o nel
1016. Il Guichenon[313] porta un diploma del regnante Arrigo Augusto,
dato in favore del monistero di Fruttuaria nell'anno 1014, in cui fra le
altre cose conferma, _quae dederunt Manfredus marchio, et Berta ejus
uxor, et fratres ejusdem Manfredi, idest Alricus epicopus_, ec. Adunque
Alrico ossia Olderico godea nell'anno 1014 pacificamente il vescovato
d'Asti. Contuttociò sembra a me tuttavia scuro il tempo di tale
avvenimento. Perchè, come mai nell'anno 1008, tempo in cui era tuttavia
vivente e in forze il re Ardoino, decadde il vescovo d'Asti che il
favoriva; e come potè il re Arrigo lontano mettere un altro vescovo in
quella città? Arnolfo inoltre dice che l'imperadore diede quella chiesa
ad _Olderico_. Arrigo non prese la corona romana se non nell'anno 1014.
E però altri han creduto che non già Arrigo, ma Ardoino promovesse
Olderico a quella chiesa. Nè il diploma del Guichenon è documento esente
da difficoltà, mancandovi l'anno dell'imperio e il luogo, e venendo
chiamato Everardo _archicappellano_, che negli altri diplomi è detto
_archicancelliere_. Intorno a ciò nulla io decido, bastando a noi di
tenere la sostanza del fatto. Ho io rapportato un placito[314], tenuto
_anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi millesimo sexto decimo,
anno vero imperii domni Henrici imperatoris tertius, mense hoctubri,
Indictione quartadecima_. Il suo principio è questo: _Dum Raginerius
marchio et dux tuscanus placitum celebraret in civitate Aretina cum
Hugone comite ipsius comitatus, etc_. Or vengano moderni scrittori a
volerci persuadere che alcuni anni prima _Bonifazio_ marchese, padre
della contessa Matilda, era stato creato duca e marchese della Toscana.
Basta questo documento per farci conoscere che in ciò s'ingannarono. Noi
troviam qui chi in questi tempi governava la Toscana coi titoli di duca
e di marchese, cioè _Rinieri_, da noi anche veduto di sopra. Nè si
toglievano i loro governi ai duchi, marchesi e conti senza qualche grave
delitto. Vedremo a suo tempo, quando probabilmente il marchese Bonifazio
ottenne la signoria ossia il governo della Toscana. Egli in tanto
signoreggiava nelle parti della Lombardia, e specialmente in Mantova,
dove il trovò con _Richilda_, di lui moglie, san Simeone romito[315],
che da qualche tempo s'era fermato nel monistero di Polirone, scuola
allora di grande esemplarità, in tempo che uno di quei lioni, _quos
principes magnificentissimo alebat sumtu ac pompa_, era fuggito dal
serraglio con gran terrore dei cittadini, e fu da quel servo del Signore
ricondotto al suo luogo. Ed appunto nell'anno presente, come si ha
dall'autore contemporaneo della di lui Vita, esso Simeone passò al regno
dei beati _anno dominicae Incarnationis MXVI, Indictione XIV, septimo
kalendas augusti, romani imperii monarchiam obtinente Henrico primo
Augusto, ducatus quoque principatum triumphante_ (parola, a mio credere,
scorretta) _Bonifazio glorioso duce ac principe_. Trattossi poi in Roma
della di lui canonizzazione, e resta tuttavia intorno a ciò una lettera
scritta da papa Benedetto VIII _Bonifacio gratia Dei marchioni inclyto_.

E per conto d'esso papa, di lui si racconta un fatto strepitoso accaduto
in quest'anno, la cui memoria fu a noi conservata da Ditmaro[316].
Vennero i Saraceni con un grande stuolo di navi alla città di _Luni_,
che allora era della provincia della Toscana, e la presero, essendone
fuggito il vescovo. Quivi s'annidarono, scorrendo poi tutto il vicinato,
e svergognando le donne di quei contorni. Ciò udito, papa Benedetto non
perdè tempo a mettere in armi quanti popoli potè per terra e per mare,
affin di cacciarli. Spedì un'armata navale davanti a Luni, affinchè
quegli infedeli non potessero scappare coi loro legni. Ebbe nondimeno la
fortuna di salvarsi a tempo in una barchetta il re loro, che
probabilmente era Mugetto, occupator della isola di Sardegna. Gran
difesa, grande strage dei Cristiani fecero per tre dì quei Barbari; ma
finalmente rimasero rotti, e fu sì ben compiuta la festa, che neppur un
d'essi vi restò che la potesse contare. Alla loro regina, che fu ivi
presa, neppure si perdonò. La sua conciatura da testa, ricca d'oro e di
gemme, che ben valeva mille lire, fu inviata in dono all'imperadore
Arrigo dal papa. Il padre Pagi[317], dopo aver anch'egli contato questo
avvenimento, aggiugne una cosa che potrebbe farci maravigliare, se non
sapessimo che non v'ha scrittore, per grande che sia, il quale non sia
soggetto a prendere dei granchi, ed anche a grossolanamente ingannarsi:
cioè scrive: _Luna autem, hodie Luca appellata, civitas libera, a qua
aliquot loca pendent_. Sa ogni Italiano pratico alquanto di storia, o di
geografia, che la città di Luni, da alcuni secoli scaduta alla
sboccatura della Magra, nulla ha che fare con Lucca, ed esserci tuttavia
il vescovo di Luni, abitante nella città di Sarzana, con bella diocesi,
diversa dal lucchese. L'impresa suddetta d'essa città di Luni la credo
io accennata negli Annali pisani colle seguenti parole[318]: _Anno MXVI
Pisani et Januenses fecerunt bellum cum Mugeto, et vicerunt illum_.
Negli altri Annali, ove è scritto sotto quest'anno: _Pisani et Januenses
devicerunt Sardineam_, v'ha dell'errore; e si conosce da quel che
siegue, perciocchè solamente nell'anno seguente i Pisani e Genovesi
andarono in Sardegna. Alle cose dette di sopra aggiugne Ditmaro che il
re dei Mori, da me creduto Mugetto, irritato per la perdita suddetta,
inviò al papa un sacco di castagne, volendo significare che altrettanti
soldati (sarebbono stati ben pochi) nella state ventura avrebbe spedito
contra dei Cristiani. Il pontefice in contraccambio gli mandò un
sacchetto di miglio, per fargli conoscere che non era figliuol di paura.
Nè voglio tacere che il soprammentovato marchese _Bonifazio_ e
_Richilda_ sua moglie (figliuola di _Giselberto_ conte del sacro palazzo
in Italia, e non già di Giselberto fratello di Cunegonda allora
imperadrice), tutti e due gran cacciatori di beni e Stati, ricorsero in
quest'anno all'_imperadore Arrigo_ per ottenere la metà della corte di
Trecenta, oggidì sul Ferrarese, colla metà del castello e sue
dipendenze, _sicut a Berengario et Hugone filiis Sigefredi comitis,
nostro imperio rebellantibus hactenus visa sunt possideri_. Li donò
Arrigo ad essa Richilda con un diploma dato[319] _anno dominicae
Incarnationis millesimo decimo sexto, Indictione XIIII anno domni
Henrici regni XIII, imperii ejus III_. _Actum Panvembero_ (ossia
Pavemberg, cioè, come voglio credere, in Bamberga). Fu di parere il
Sigonio[320] che le nozze di Richilda col marchese Bonifazio seguissero
nell'anno 1021. Ecco quanto prima era contratto il lor matrimonio. Nè
già in occasion d'esse nozze si fece quella battaglia che viene
accennata da Donizone, come si pensò il suddetto Sigonio, ma in qualche
altra congiuntura, siccome diremo. Nell'anno presente sì, per attestato
dell'Annalista sassone[321], l'Augusto Arrigo tenne una gran dieta in
Argentina, dove anche si trovò _Rodolfo re di Borgogna_, con sottoporre
il suo regno all'imperio romano. Vo io pensando che allora si
stabilissero quelle tre leggi d'esso Arrigo che si leggono fra le
longobardiche[322]; giacchè nella prefazione si dice che furono fatte
_in civitate Argentina, quae vulgari nomine Straburge appellatur_,
coll'intervento degli arcivescovi di Milano e di Ravenna, dei vescovi
d'Argentina, Piacenza, Como, ec., ed anche dei marchesi e conti
d'Italia. Abbiamo inoltre da Lupo Protospata[323] che in quest'anno
_civitas Salernum obsessa est a Saracenis per mare et per terram, et
nihil profecerunt_. Se si ha a credere a Leone Ostiense[324], fu in
questa occasione che i Normanni, dei quali parleremo all'anno seguente,
capitando dal viaggio di Terra santa a Salerno, furono in aiuto di
_Guaimario III_ principe di quella terra, e colla loro prodezza
obbligarono que' Barbari a levare l'assedio. Ma Guglielmo pugliese,
siccome vedremo, diversamente ne parla.

NOTE:

[310] Arnulfus, Histor. Mediolanens lib. 1, cap. 18.

[311] Otto Frisingensis, lib. I, cap. 28 de Reb. Gest. Frider.

[312] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Astens.

[313] Guichenon, Bibliot. Sebus., Centur. II, cap. 39.

[314] Antiquit. Ital., Dissert. VI.

[315] Vita S. Symeonis, apud Mabill., Saecul. VI, Benedict., Par. I.

[316] Ditmarus, Chron., lib. 7.

[317] Pagius, in Critic., Baron.

[318] Annal. Pisani, tom. 4 Rer. Ital., pag. 107 et 167.

[319] Antiquit. Ital., Dissert. XIX.

[320] Sigonius, de Regno Italiae, lib. 8.

[321] Annalista Saxo.

[322] Rer. Ital., P. II, tom. 1.

[323] Lupus Protospata, in Chronico.

[324] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap 37.



    Anno di CRISTO MXVII. Indizione XV.

    BENEDETTO VIII papa 6.
    ARRIGO II re di Germania 16, imperadore 4.


Il Tronci ne' suoi Annali pisani, non so su qual fondamento, scrisse che
i Pisani, fatta nell'anno 1014 una grossa armata, sbarcarono nella
Sardegna, vennero alle mani coll'esercito de' Mori, il misero in rotta,
e s'impadronirono di quell'isola, dopo esserne fuggito il re di que'
Barbari Mugetto. Meritano ben più fede gli antichi Annali di Pisa[325],
che sotto il presente anno raccontano quell'impresa. Se n'era tornato in
Sardegna Mugetto, fortunatamente scampato da Luni, tutto nelle furie
contra de' Cristiani di quell'isola, molti de' quali fece barbaramente
crocifiggere. Erasi anche messo in pensiero di fabbricar in quell'isola
una forte città. BENEDETTO PAPA intanto, che l'avea cominciata bene,
volle finirla meglio. Spedì per suo legato a Pisa il vescovo d'Ostia,
per animare quel popolo a cacciar fuori di Sardegna Mugetto. Lo stesso
probabilmente fece a Genova, dacchè confessano gli stessi Annali di Pisa
che anche i Genovesi concorsero a quell'impresa. Passarono infatti in
Sardegna questi due popoli con tutte le lor forze, obbligarono Mugetto a
salvarsi colla fuga in Africa, e presero il possesso di quell'isola.
Soggiungono quegli Annali che il papa investì d'essa Sardegna i Pisani.
Ma non tardò a nascere discordia fra gli stessi conquistatori, perchè il
buon boccone faceva gola a tutti. Si sforzarono i Genovesi di cacciarne
i Pisani; ma i Pisani, che in questi tempi erano più forti, li spinsero
fuori di tutta l'isola, e ne restarono padroni. Tale principio ebbe la
potenza della città di Pisa, tuttochè non apparisca ch'essa per anche
avesse acquistata la libertà, perchè era tuttavia suggetta ai duchi,
ossia ai marchesi della Toscana. Cominciò anche in Puglia per questi
tempi una bella danza, che parve cosa da nulla sul principio, ma ebbe
col tempo delle mirabili conseguenze. Era venuto, per testimonianza di
Guglielmo pugliese[326], nell'anno precedente dalla Normandia un pugno
di quella gente per sua divozione al monte Gargano, dove san Michele
Arcangelo era in gran venerazione. Quivi per accidente trovatosi Melo,
quel potente e savio cittadino di Bari che s'era ribellato a' Greci,
appena ebbe egli adocchiati questi uomini, bella e nerboruta gente, che
tenuto con esso loro discorso della bellezza di quel paese, della
dappocaggine de' Greci, e della facilità di vincerli e di farsi gran
signori, gl'invogliò di seco imprendere guerra in quelle parti contra
del dominio greco. Presero essi tempo, tanto che tornassero alle lor
case ed invitassero altri compagni all'impresa. Venuti in quest'anno
senz'armi, ne furono ben forniti da Melo, e dopo aver preso riposo,
portarono la guerra addosso ai Greci. Era allora generale de' Greci in
quelle contrade Turnichio, appellato da altri Andronico, che senza
dimora uscito in campagna colle sue forze, _mense maii_, come ha Lupo
Protospata[327], _fecit praelium cum Melo et Nortmannis_. Questa prima
battaglia pare che fosse favorevole a Melo. Si tornò a combattere nel dì
22 di luglio, e, secondo il testo d'esso Lupo Protospata, benchè
restasse morto nel conflitto Leone Paziano, che in luogo del catapano
Turnichio comandava l'armata de' Greci, pure vi restò sconfitto Melo co'
Normanni. Ma forse quel testo è guasto. Guglielmo pugliese, autore di
maggior credito in questo, attesta che Melo e i Normanni ne uscirono
vincitori, senza raccontar altro che un solo fatto d'armi. Gran credito
che s'acquistarono con ciò que' pochi, ma valentissimi Normanni; gran
bottino che fecero. Anche l'Anonimo casinense[328], ossia Alberico
monaco, scrive sotto il presente anno: _Normanni Melo duce coeperunt
expugnare Apuliam_.

Abbiamo da Girolamo Rossi[329] che un riguardevol placito fu in
quest'anno tenuto in Ravenna da Pellegrino cancelliere e messo _Henrici
imperatoris_, e da Tadone conte, messo anch'egli del medesimo Augusto,
_anno Benedicti papae quinto, Henrici imperatoris in Italia anno tertio,
die XV februarii, Indictione XV, Harnaldo gratia Dei sanctissimo et
coangelico archiepiscopo sanctae ravennatis ecclesiae_. In esso placito
il suddetto Pellegrino _apprehendens manibus virgam, misit eam in
manibus suprascripto Harnaldus gratia Dei sanctissimo et coangelico
archiepiscopo, et investivit ipsum et ecclesiam ravennatem, ex parte
Henrici imperatoris de omni fisco et de omni publicare ravennate, sive
ripae aut portae, et de comitatu bononiense et comitatu corneliense_
(Imola) _et comitatu faventino, et comitatu_.... _et comitatum
ficoclense_ (Cervia) _cum omni fisci, et publicis eorum comitatibus_,
ec. Noi abbiamo bensì presso del cardinal Baronio i diplomi di Lodovico
Pio, di Ottone I e del regnante Arrigo I Augusto, ne' quali si veggono
confermati alla Chiesa romana l'esarcato di Ravenna, il ducato di
Spoleti, il ducato di Benevento con altri paesi. Ma essendosi per
disgrazia perduti gl'originali, e non rapportandosi se non le copie,
suggette a molte alterazioni, secondo il bisogno e l'interesse delle
persone, non porgono esse bastante lume per quetar l'intelletto. E tanto
poi meno, se con esse combattono fatti certi e documenti, sui quali non
cadano sospetti. Già s'è veduta più d'una pruova che da gran tempo
l'esarcato era divenuto parte del regno d'Italia, forse per qualche
convenzione seguita fra la santa sede e gl'imperadori. Ne abbiamo ancor
qui una pruova chiara. Altrettanto pure s'è osservato del ducato di
Spoleti. Per conto poi del ducato di Benevento, neppur convien
disputarne. E a comprovare quanto s'è detto della Romagna, servirà anche
ciò che scrisse san Pier Damiano[330] circa l'anno 1060. _Eo tempore
quum adhuc romana Ecclesia spatiosius multo quam NUNC jura protenderet,
et inter cetera caesenate oppidum possideret_, ec. Adunque a' tempi del
Damiano Cesena non apparteneva più al dominio temporale de' papi. Chi ne
fosse padrone, l'abbiamo già veduto. Ho io prodotta una carta di livello
di un porto, dato dal soprammentovato _Arnaldo_ arcivescovo di Ravenna a
Pietro abbate della Pomposa[331], creduta da me spettante all'anno
seguente 1018; ma siccome ho poi avvertito per più esatta collazione
fatta coll'originale, essa appartiene a quest'anno. Ivi sono le seguenti
note: _Anno, Deo propitio, pontificatus domni Benedicti summi
pontificis, et universalis papae VIII, ec. quinto; sed et imperante
domno Heinrico magno imperatore in Italia anno quarto, die XX mensis
februarii, Indictione XV_. Abbiamo qui l'anno 1017. Adunque Arrigo I fra
gl'imperadori avea nell'anno 1014 e nel dì 20 di febbraio già ricevuta
la corona imperiale. Di esso _Pietro_ abbate è fatta menzione nella Vita
di san Guido abbate della Pomposa[332]. In quest'anno parimente
s'incontra un placito[333], che _domnus Adelpeyro dux istius marchiae
Carentanorum, et Rambaldus comes istius comitatu tervisianense_,
unitamente tennero _in comitatu tervisianense in villa Axilo non multum
longe ad castro Axilo, de subtus_, in cui contra del monistero di santa
Giustina di Padova fu decisa una lite in favore del monistero delle
monache di san Zacheria di Venezia. Abbiamo qui che la nobil terra di
Asolo era in questi tempi del contado di Trivigi. Leggesi inoltre sotto
il presente anno una donazione[334] fatta nel mese di marzo al monistero
di Nonantola da _Bonifacius Marchio, filius bone memorie Teudaldi, qui
fuit itemque marchio, et Richelda conjuge ejus jugalibus, filia bone
memorie Giselberti, qui fuit comes palatii, qui professi sumus legem
vivere Longobardorum_.

NOTE:

[325] Annal. Pisani, pag. 107 et 167, tom. 6 Rer. Ital.

[326] Gullielmus, Apulus, Poem. de Normann., lib. I.

[327] Lupus Protospata, in Chronico.

[328] Anonymus Casinenis, tom. 5, Rer. Ital.

[329] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.

[330] Petrus Damian., in Vita S. Mauri Caesen., cap. I.

[331] Antiq. Italic., Dissert. LVI.

[332] Mabillon., Saecul. VI Benedict., P. I.

[333] Antiquit. Italic., Dissert. V.

[334] Antiquit. Ital., Dissertat. XX.



    Anno di CRISTO MXVIII. Indizione I.

    BENEDETTO VIII papa 7.
    ARRIGO II re di Germania 17, imperadore 5.


Se vogliamo riposar sulla fede di Girolamo Rossi[335], seguitato
dall'Ughelli, _Arnaldo_ arcivescovo di Ravenna, fratello dell'Augusto
Arrigo, compiè il corso de' suoi giorni nel 19 di novembre dell'anno
seguente, ed ebbe per successore _Eriberto_. Ma, secondo l'Annalista
sassone[336], egli mancò di vita nell'anno presente. Potrebbono le carte
pecore dell'archivio di Ravenna mettere in chiaro qual di queste
asserzioni sia vera. Ed è da sperarlo, dacchè il padre don Pietro Paolo
Ginanni abbate benedettino con infaticabil premura va raccogliendo le
antiche memorie di quella città nobilissima. Aveva anche diligentemente
osservato il signor Sassi[337] che _Arnolfo II_ arcivescovo di Milano
cessò di vivere, non già nell'anno 1019, come si pensò il Sigonio, non
già nell'anno 1015, come si ingegnò di provar l'autore delle annotazioni
all'Ughelli[338], ma bensì nell'anno presente 1018. Infatti il suddetto
Annalista sassone sotto quest'anno medesimo scrive: _Mediolanensis
archiepiscopus obiit, et praepositus ejusdem ecclesiae Heribertus
successit_, cioè Eriberto _de loco Antimiano_, come si ha da' suoi
strumenti, arcivescovo famoso fra quei di Milano, che fece, siccome
vedremo, sudare il ciuffo all'imperador Corrado. Ch'egli ancora
ottenesse in quest'anno la cattedra milanese, si compruova con un
placito tenuto in Belasio[339], territorio di Como, da Anselmo messo
dell'imperadore Arrigo, _anno imperii domni Henrici imperatoris quinto,
mense november, Indictione secunda_. Produssi io questo documento come
scritto nell'anno 1019. Ora m'avveggo che appartiene all'anno presente,
perchè l'_indizione seconda_ ebbe principio nel settembre. Quivi _domnus
Aribertus sanctae mediolanensis ecclesiae archiepiscopus, et Albericus
sanctae cumensis ecclesiae episcopus_, citati e presenti, cedono alle
loro pretensioni sopra certe terre in favore del monistero di
sant'Ambrosio di Milano, e del suo abbate Gotifredo. Erano gli Augusti
greci adirati non poco contra di Melo ribello del loro imperio, per la
guerra da lui mossa in compagnia de' Normanni contro la Puglia di lor
giurisdizione. Però, secondochè s'ha da Lupo Protospata[340], spedirono
in quest'anno al comando delle lor armi in Italia, ossia per loro
catapano o capitano, Basilio soprannominato _Bugiano_, uomo di gran
senno ed attività. Romoaldo salernitano[341] scrive che costui portò
seco un gran tesoro, cioè il principal nerbo per ben fare la guerra.
Aggiugne dipoi ch'esso Basilio _anno MXIII_ (va scritto _MXVIII_),
_Indictione I_, fece rifabbricar nella Puglia l'antica città di _Ecana_
(si dee scrivere _Eclana_), che anticamente ebbe i suoi vescovi, e le
impose il nome di Troia. Noi sappiamo da Mario mercatore e da altri
antichi scrittori che Giuliano fiero difensor di Pelagio, e confutato
nei suoi mirabili libri da santo Agostino, fu _vescovo eclanense_.
Camillo Pellegrino pretese che la moderna città di Frigento sia
succeduta all'antichissima Eclana. L'Olstenio e il cardinal Noris[342],
crederono che Eclana fosse il luogo appellato poscia _Quintodecimo_.
Sembra ora che si possa con più fondamento aderire alla opinione di
Romoaldo salernitano, autore vivuto cinquecento anni prima e pratico di
que' paesi, allorchè attesta che la moderna città di Troia fu l'antica
Eclana, o vogliam dire Eclano. Oltre a questa città fabbricò il suddetto
Basilio _Draconaria_, _Fiorentino_, ed altri luoghi forti nella
provincia che oggidì si nomina _Capitanata_. Aggiugne il già citato
Protospata che _Ligorius Tepotriti_ (leggo _Tepotiriti_, cioè
conservatore del luogo) _fecit praelium Trani, et occisus est ibi
Joannatius Protospata. Et Romoald captus est, et in Constantinopolim
deportatus est._ Sono scure tali notizie, ma bastano a farci comprendere
la continuazion della guerra in Puglia fra i Greci e i Pugliesi
ribellati. Viene citata sotto il presente anno dal padre Mabillone[343]
una donazione _fatta da Giovanni duca_ e console di Gaeta al monistero
di san Teodoro di quella città: il che ci fa conoscere chi fosse allora
principe di Gaeta.

NOTE:

[335] Rubeus, Histor. Ravenn.

[336] Annalista Saxo.

[337] Saxius, in Notis ad Sigon. de Regno Ital.

[338] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4.

[339] Antiquit. Italic., Dissert. LXX.

[340] Lupus Protospata, in Chron.

[341] Romualdus Salern., Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[342] Noris., Hist. Pelagian., lib. I, cap. 18.

[343] Mabill., in Annal. Benedictin. ad hunc ann.



    Anno di CRISTO MXIX. Indizione II.

    BENEDETTO VIII papa 8.
    ARRIGO II re di Germania 18, imperadore 6.


Sotto il presente anno scrive Ermanno Contratto[344] che _Conradus
adolescens filius Conradi quondam ducis Carentani_ (e marchese ancora
della marca di Verona) _auxiliante patruele suo Conrado, postea
imperatore, Adalberonem tunc ducem Carentani apud Ulmam pugna victum
fugavit_. Abbiam veduto di sopra che questo Adalberone era anch'egli
duca di Carintia, e insieme marchese di Verona. L'aveva con lui il
giovinetto Corrado, quasichè gli avesse Adalberone rubati quegli Stati
che, se non di giustizia, almeno per introdotto costume doveano toccare
a lui dopo la morte del padre suo Corrado. È da credere che Adalberone
possedesse ancora degli Stati in Germania, e che per cagion d'essi tra
lor seguisse il conflitto suddetto. Per attestato di Lupo
Protospata[345], Bugiano generale dei Greci venne a battaglia in questo
medesimo anno circa il dì primo d'ottobre coll'armata di Melo, e gli
diede una rotta tale, che non potè più risorgere. Leone ostiense[346]
lasciò scritto che Melo col soccorso de' Normanni avea dinanzi riportate
tre vittorie de' Greci _primo apud Arenolam, secundo apud civitatem_
(_Marsicum_ la chiama Angelo della Noce), _tertio apud Vaccariciam
campestri certamine dimicans, tribus eos vicibus vicit, multosque ex his
interficiens, et usque Tianum eos constringens, omnes ex hac parte, quas
invaserant, Apuliae civitates et oppida recepit. Quarta demum pugna apud
Cannas Romanorum clade famosas, Bojani catapani insidiis et ingeniis_
(macchine di guerra) _superatus, universa, quae facile receperat,
facilius perdidit_. Appresso racconta, essere stata fama che di
dugentocinquanta Normanni, aiutatori di Melo, non ne rimanessero in vita
se non dieci, e che la vittoria nondimeno costò ben cara ai Greci. Melo
disperato, non sapendo più dove rivolgere le sue speranze, dopo avere
raccomandato i pochi Normanni, che gli restavano, a _Guaimario III_
principe di Salerno, e a _Pandolfo IV_ principe di Capua, imprese il
viaggio di Germania, o per muovere l'imperadore Arrigo a venire in
persona in Italia, o almeno per ottenere da lui un poderoso soccorso di
milizie. Ecco come di quest'ultimo fatto d'armi parla Guglielmo
pugliese[347].

    _Vicinus Cannis qua defluit Aufidus amnis,_
    _Circiter octobris pugnatur utrimque calendas,_
    _Cum modica non gente valens obsistere Melus,_
    _Terga dedit magna spoliatus parte suorum,_
    _Et puduit victum patria tellure morari._
    _Samnites adiit superatus, ibique moratur,_
    _Post Alemannorum petiit suffragia regis_
    _Henrici, solito placidus qui more precantem_
    _Suscipit, auxilii promittens dona propinqui._

Leggesi una cessione fatta delle decime di quattro pievi al vescovato di
Cremona[348] da _Bonefacius marchio filius quondam Teotaldi itemque
marchio, et Richilda filia quondam Giselberti comitis_, nell'anno
presente. Bonifazio è il padre della contessa Matilda. Vo io credendo
che appartenga ancora all'anno presente un diploma, spedito
dall'imperadore Arrigo in favore del monistero di Monte Casino e
dell'abbate Atenolfo[349]. Le note son queste: _Datum III idus julii,
anno dominicae Incarnationis millesimo vigesimo, Indictione secunda,
anno domni Heinrici regis decimo septimo, imperii vero ejus quinto.
Actum Radesbone._ Se crediamo al padre Gattola, il diploma è originale;
ma io ho pena a crederlo. _La indizione seconda_ accenna l'anno
presente. Come poi sia l'anno MXX, se non ricorriamo all'anno pisano,
non si sa capire. E resta poi da mostrare come in Germania avesse luogo
l'era pisana. Posto ancora che sia l'anno nostro _MXIX_, non si accorda
con esso l'_anno XVII_ del regno, nè il quinto dell'imperio.

NOTE:

[344] Hermannus Contract., in Chronico, edit. Canis.

[345] Lupus Protospata, in Chronico.

[346] Leo Ostiensis, Chronic., lib. 2, cap. 37.

[347] Guilielmus Apulus, de Norman., lib. 1.

[348] Antiq. Ital., Dissert. VI.

[349] Gattola, Hist. Monast. Casinens. P. I.



    Anno di CRISTO MXX. Indiz. III.

    BENEDETTO VIII papa 9.
    ARRIGO II re di Germania 19, imperadore 7.


L'anno fu questo in cui_ papa Benedetto VIII_ andò in Germania a trovar
l'imperadore Arrigo, che l'aspettava in Bamberga. Il Sigonio, il
Baronio, l'Hoffmanno, e soprattutto il padre Pagi hanno preteso che
questa andata del pontefice accadesse nell'anno precedente 1019, e che
mal si sieno apposti coloro che la riferiscono all'anno presente, con
citare per la loro sentenza Lamberto da Scafnaburgo, Mariano Scoto, gli
Annali d'Ildeseim e l'abbate Urspergense. Ma non ha fatta assai
riflessione il padre Pagi a questo punto di storia. Mariano Scoto, se
ben si guarda, a quest'anno[350] appunto parla del viaggio di papa
Benedetto. E si conosce che le stampe hanno alterato i testi di Lamberto
e dell'Urspergense, e degli Annali d'Ildeseim. Dico, si conosce, perchè
ivi la morte di sant'Eriberto arcivescovo di Colonia si mira nei loro
testi stampati all'anno 1020, quando è fuor di dubbio che avvenne
nell'anno 1021, come confessa lo stesso padre Pagi. Però gli autori
suddetti si dee credere che abbiano posta l'andata del papa nel presente
anno 1020, e nel seguente la morte di sant'Eriberto. Che poi veramente
il papa in quest'anno si portasse a Bamberga, l'abbiamo da Ermanno
Contratto[351] nell'edizion migliore e più copiosa del Canisio, da
Sigeberto[352], dall'Annalista sassone[353], dal Cronografo
sassone[354], da Alberico monaco dei tre Fonti e da altri storici. Lo
stesso si scorge dell'antica Vita dello stesso santo Arrigo[355]
pubblicata dal Gretsero e da altri. Quivi è scritto che il papa invitato
dall'imperadore, _in proximo aprili Alemanniam intravit, omnibusque
civitatibus illius regionis peragratis, tempore, quo condixerat,
Babengerg locum adire disposuit. Venit ergo V feria majoris hebdomadae,
hora sexta, sacris pontificalibus vestimentis indutus_, ec. Questo
minuto racconto fa conoscere che l'autor d'essa vita prese un tal fatto
da buone notizie, e probabilmente da quella che scrisse Adelboldo,
giunta a noi troppo mancante. Ma se papa Benedetto entrò d'aprile in
Alemagna, ed arrivò nel giovedì santo a Bamberga, adunque nell'anno
presente arrivò colà, e non già nel precedente. Perciocchè nell'anno
1019 la Pasqua cadde nel dì 20 di _marzo_, e in quest'anno si celebrò
essa nel dì 17 d'_aprile_. Nè voglio tacere che viene anche citata la
Vita di san Meinwerco vescovo di Paderbona[356], per comprovar
l'opinione dei suddetti sostenitori dell'anno 1019. Ma quella Vita,
quando anche dicesse ciò che pretendono, essendo scritta nel secolo
susseguente, non può chiamarsi un testimonio infallibile di quel che
cerchiamo. Oltre di che, fors'anche quella va d'accordo coll'opinione
mia, scorgendosi che il medesimo autore all'anno susseguente mette il
passaggio a miglior vita del suddetto santo Eriberto, ii qual pure viene
stabilito nell'anno 1021. Fra l'altre cose che aggiugne l'autore della
Vita suddetta di santo Arrigo imperadore, racconta che nel mattutino di
Pasqua il _patriarca d'Aquileia_ recitò la prima lezione, l'_arcivescovo
di Ravenna_ la seconda, e il _papa_ la terza. E che poscia il pontefice
medesimo _VIII kalendas maii basilicam in honore sancti Stephani
consecravit_; e lo stesso ancora abbiamo dall'autor della Vita di san
Meinwerco. Il dì 24 d'aprile qui enunziato più s'accorda colla mia
suddetta opinione. Saggiamente osservò il cardinal Baronio che fra i
motivi per li quali andò volentieri papa Benedetto, ancor quello vi
dovette essere di commuovere l'Augusto Arrigo a condurre o spedire una
buona armata per far argine ai progressi dei Greci. Circa il dì primo di
ottobre nell'anno precedente era succeduta, come dicemmo, la disfatta
del picciolo esercito di Melo. Tutto perciò andava a seconda dei Greci,
i quali non solamente ricuperarono quanto aveano perduto, ma eziandio
ritirarono nel loro partito _Pandolfo II_, principe di Capua. Scrive
l'Ostiense[357]: _Quum capuanus princeps latenter faveret
constantinopolitano Basilio, fecit interim fieri claves aureas, et misit
ad illum, tam se, quam civitatem capuanam, immo universum principatum
ejus per haec imperio contradens_.

Davano negli occhi e gran gelosia recavano a papa Benedetto questi
maneggi ed avanzamenti de' Greci, che stendevano il loro dominio fino ad
Ascoli; e se mettevano il piede anche sopra il principato di Capua, già
se li sentiva alle porte di Roma. Nè era già da sperare che i greci
Augusti avessero voluto lasciare ai papi, se si fossero impadroniti di
Roma, quella signoria che, secondo i patti cogl'imperadori d'Occidente,
da più di due secoli godevano. Però dovette il buon papa sollecitare,
per quanto potè, l'Augusto Arrigo ad impiegar le sue forze contra di
quella nazione, nemica ancora dei Latini, la quale aspirava allora a dei
gran voli. Abbiamo anche da Glabro[358] che Rodolfo normanno fuggito da
Normandia a Roma con alquanti compagni, andò a trovar papa Benedetto
VIII per contargli i suoi guai. Ma il papa _coepit ei querelam exponere
de Graecorum invasione romani imperii_, e indusse que' Normanni a
militar contra di loro. Portò intanto la disgrazia che Melo trovandosi
in Germania per muovere quella corte contra de' Greci, infermatosi quivi
nell'anno presente, cessò di vivere. L'abbiamo da Lupo Protospata[359];
e Guglielmo pugliese[360] l'attesta anch'egli scrivendo d'esso Melo, e
dell'onore fattogli alla sepoltura, le seguenti parole:

    _At Melus regredi praeventus morte nequivit;_
    _Henricus sepelit rex hunc, ut regius est mos;_
    _Funeris exsequias comitatus ad usque sepulcrum,_
    _Carmine regali tumulum decoravit humati._

Nella Cronica del Protospata egli è appellato _dux Apuliae_, nè senza
ragione. Questo titolo gliel diede l'Augusto Arrigo per premio del già
operato, e per animarlo ad operare di più: il che è da avvertire per
intendere se gli Augusti avessero donato ai papi il ducato di Benevento;
e con ciò va concorde il suddetto passo di Glabro col seguente. Abbiamo
nella Vita di esso santo imperadore[361], benchè non con tutta
l'esattezza, che esso imperadore _Apuliam a Graecis diu possessam,
romano imperio recuperavit, et eidem provinciae Ismaelem_ (vuol dire
Melo) _ducem praefecit, qui postea in babenbergensi loco mortuus, et in
capitulo majoris monasterii sepultus requiescit in Domino_. Oltre a ciò,
sappiamo dal Protospata che in quest'anno i Saraceni assediarono la
città di _Bisignano_, e la sottomisero al loro dominio: sicchè e Greci e
Mori malmenavano forte quelle contrade. Specialmente poi in questi tempi
si studiavano i principi e gran signori di pelare or soavemente or
violentemente le chiese. La maniera soave era quella di prendere i loro
beni e castella a livello con promettere un annuo canone, e intanto
donar qualche terra in proprietà ad essi luoghi sacri, per indurre i
vescovi e gli abbati col picciolo presente vantaggio a livellar essi
beni, l'usufrutto dei quali mai più non soleva arrivare a consolidarsi
col diretto dominio. Uno dei gran cacciatori di tali beni già ho detto
che era il _marchese Bonifazio_, padre poscia della gloriosa contessa
Matilda. Può essere motivo di stupore l'osservare quante castella,
corti, chiese, ec. egli carpisse al solo vescovato di Reggio. Ne ho io
pubblicata la lista[362]. Altrettanto, o poco meno, dovette egli fare
co' vescovi di Modena, Parma, Cremona, Mantova, ed altre città
circonvicine. Ed in questo anno appunto egli ottenne a livello da
_Warino_ ossia _Guarino_ vescovo di Modena _medietatem de monte uno, qui
dicitur Barelli, ubi antea castrum edificatum fuit, cum fossatum in
parte circumdatum_.

NOTE:

[350] Marianus Scotus, in Chron.

[351] Ermannus Contractus, in Chron., edition. Canisii.

[352] Sigebertus, in Chron.

[353] Annalista Saxo.

[354] Chronographus Saxo.

[355] Vita S. Henrici inter Acta Sanctor. Bolland., ad diem 14 julii.

[356] Vita S. Meinwerci apud Leibnitium, tom. 1, Scriptor. Brunswic.

[357] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 38.

[358] Glaber, Chronic., lib. 3, cap. 1.

[359] Lupus Protospata, in Chronico.

[360] Guilielmus Apulus, lib. i, de Normann.

[361] Vita S. Henrici, cap. 3, in Actis Sanct. ad diem 14 julii.

[362] Antiquit. Ital., Dissert. XXXVI.



    Anno di CRISTO MXXI. Indizione IV.

    BENEDETTO VIII papa 10.
    ARRIGO II re di Germania 20, imperadore 8.


Ardevano di voglia i Greci di aver in lor mano _Datto_, che già dicemmo
uno dei principali della Puglia ribellati alla lor signoria, e parente
del defunto Melo. Dopo l'infelice battaglia di Canne, per attestato
dell'Ostiense[363], s'era egli ritirato colla sua famiglia sotto la
protezione di Atenolfo abbate di Monte Casino. Ma poscia papa Benedetto
VIII, perchè il conosceva fedele all'imperadore Arrigo, il mise alla
custodia della torre del Garigliano, _quam idem papa tunc retinebat_,
con alcuni Normanni. Che fece il catapano greco _Boiano_ (lo stesso è
che _Bugiano_) per averlo? Guadagnò con danari _Pandolfo II principe_ di
Capua, acciocchè gli permettesse di prendere il misero Datto.
All'improvviso dunque arrivato colle sue soldatesche sotto quella torre,
cominciò a tormentarla con assalti e macchine. Per due giorni si
difesero quei di dentro, ma in fine colla torre rimasero presi. Alle
preghiere dell'abbate Atenolfo, lasciò Bugiano la libertà ai Normanni;
ma _Datto_[364] fra le catene e sopra un asinello condotto a Bari nel dì
15 di giugno, a guisa de' parricidi, chiuso in un sacco di cuoio, fu
gittato in mare. Secondo gli Annali di Pisa[365], avea Mugetto re de'
Mori, oppure, come io credo, corsaro potente, preso nell'anno precedente
castel Giovanni (forse in Sardegna) che era sotto l'arcivescovo di
Milano. Nell'anno presente poi con poderosa armata di navi tornò in
Sardegna. Allora i Pisani, tirati in lega i Genovesi contra di questo
comune nemico, fatto un grande sforzo di navi e di gente, il cacciarono
dall'isola, e maggiormente poscia attesero a stabilirsi e fortificarsi
in quella vasta isola. Il ricco tesoro d'esso Mugetto, venuto alle lor
mani, fu da essi ceduto ai Genovesi in pagamento delle loro spese e
fatiche. Il Tronci storico pisano scrive[366] che Mugetto in quest'anno
s'impadronì di nuovo della Sardegna, e che nel seguente ne fu cacciato.
E qui combattono gli storici di Pisa con quei di Genova, pretendendo i
primi che niun diritto acquistassero i Genovesi sopra la Sardegna, e gli
altri sostenendo il contrario; intorno a che li lasceremo duellare. Se
parimente vogliam credere al Tronci suddetto, i Pisani divisero poi
quell'isola in quattro giudicati, _che furono dati in governo a quattro
nobili pisani_, cioè di _Cagliari_, di _Gallura_, di _Arborea_ e di
_Torri_, volgarmente detto _Sasseri_. E tali _giudici arrivarono a tanto
fasto, che furono anche nominati regi, e le loro mogli regine_. Ma temo
io forte che non sieno assai sicure tali notizie, dappoichè ho altrove
fatto vedere[367] che in questo medesimo secolo vi era in Sardegna la
division dei giudicati, e che quei giudici usavano anche liberamente il
titolo di re: il che punto non conviene a chi unicamente fosse stato
governatore di quelle contrade per la repubblica pisana. Oltre di che,
non v'ha negli atti di quei giudici o re menomo vestigio di dipendenza
da Pisa. Anzi da un fatto narrato dall'Ostiense[368] circa l'anno 1063
si scorge che i Pisani miravano con invidia i Sardi, ed aveano nemicizia
con Barasone re di quell'isola. Però si può sospettare che molto più
tardi la potenza dei Pisani fissasse il piede nella Sardegna; o almeno
meriterebbe questo punto d'essere più sodamente chiamato ad esame.
L'insulto fatto alla torre del Garigliano, colla presa e morte crudele
di Datto, dovette far rinforzare le istanze e preghiere di papa
_Benedetto VIII_ all'Augusto _Arrigo_, perchè accorresse alla difesa
dell'Italia orientale che era in manifesto pericolo di perdersi. Perchè
Arrigo, siccome scrive Leone ostiense[369] _reputans secum, fore ut
Graeci amissa Apulia ac principatu, Romam quoque maturarent, Italiamque
totam simul amitteret_, determinò di tornare, e ben armato, in Italia.
Comunemente il Sigonio, il Baronio, il padre Pagi ed altri hanno scritto
ch'egli venisse solamente nell'anno seguente.

Ma si ha a tenere per certo che la sua calata fu nell'autunno dell'anno
presente, sotto il quale Ermanno Contratto[370] _racconta che Henricus
imperator in Italiam expeditionem movit_. E l'Annalista sassone[371]
aggiugne ch'egli _Natale Domini celebravit in Italia_. Abbiamo inoltre
documenti che ce ne assicurano. Ho io prodotto un insigne placito[372],
da lui stesso tenuto in Verona, _anno praedicti Domni Heinrici
gloriosissimi imperatoris Deo propicio, hic in Italia, octavo, sexta die
mensis decembris, Indictione V_, cominciata nel settembre di quest'anno.
Degno è d'essere rapportato qui il principio di quell'atto: _Dum in Dei
nomine foris, et non multum longe urbis veronensis, in solario proprio
beatissimi sancti Zenonis confessori Christi, quod est constructum juxta
praedictum monasterium sancti Zenonis confessoris Christi, in caminata
dormitoria ad regalem imperium in judicio resideret domnus
gloriosissimus Heinricus Romanorum imperator Augustus, unicuique
justitias faciendas, hac deliberandas, residentibus cum eo domnus Popo
sanctae aquilejensis ecclesiae patriarcha_. Fermiamoci qui per dire che
non meritava censura il Sigonio, per avere scritto che Arrigo passò in
Italia _cum Piligrino coloniensi, et Poppone aquilejensi praesulibus_,
con pretendersi che non Poppone patriarca di Aquileia, ma bensì
_Poppone_ allora arcivescovo di Treveri, ignorato dal Sigonio, quegli
fosse che accompagnò in tale spedizione l'imperadore. Perchè l'Ostiense
chiamò _arcivescovo_ questo Poppone, perciò si è creduto che sbagliasse
il Sigonio. Il Browero[373] anch'egli (e poscia il padre
Mabillone[374]), fondato solamente sopra quella parola dell'Ostiense,
quasichè il patriarca d'Aquileia non fosse anch'egli arcivescovo, si
figurò che il suo Poppone venisse in Italia, e seco menasse un grosso
corpo di truppe. Ma noi qui abbiam chiaramente _Poppone patriarca
d'Aquileia_ al corteggio dell'imperadore, e non già l'arcivescovo di
Treveri, e però salda saldissima resta l'asserzion del Sigonio.
Seguitano le parole del placito: _Pelegrinus coloniensis, Eribertus
mediolanensis, sanctarum dei ecclesiarum archiepiscopis, Johannes
veronensis, Leo vercellensis, Siginfredus placentinus, Henricus
parmensis, Arnaldus tervianensis_ (di Trivigi), _Ermingerius cenedensis,
Rigizo feltrensis, Ludovicus bellunensis, Ugo marchio_, ec. De' marchesi
d'Italia non si trovò in tale occasione a corteggiare Arrigo, se non
_Ugo_, uno degli antenati della casa d'Este, di cui tornerà occasion di
parlare. Fra i pochi che sottoscrissero, si legge ancora _Ugo marchio_.
Era, come abbiam veduto, l'imperadore in Verona nel dì 6 di dicembre. Io
il trovo nel dì 10 d'esso mese in Mantova, ciò constando da un suo
diploma, dato da esso Augusto in favore d'_Itolfo_ vescovo di quella
città, e da me pubblicato[375], le cui note guaste, da me allora non
esaminate, conviene ora raddirizzare. Tali sono esse nella copia ch'io
n'ebbi: _Data IIII idus decembris, Indictione V, anno dominicae
Incarnationis MXX, anno domni Heinrici regnantis XVIII, imperii vero
VII. Actum Mantuae in palatio ejusdem episcopi_. L'indizione V
cominciata nel settembre ci dà a conoscer che nell'originale sarà stato
scritto _anno dominicae Incarnationis MXXI_, ec. _regnantis XX, imperii
VIII_.

NOTE:

[363] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 37 et 38.

[364] Lupus Protospata, in Chronico.

[365] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[366] Tronci, Annal. Pisan.

[367] Antiquit. Ital., Dissert. V et XXXII.

[368] Leo Ostiensis, Chron. lib. 3, cap. 23.

[369] Idem, ibidem, lib. 2.

[370] Ermannus Contract., edition. Canisii.

[371] Annalista Saxo apud Eccardum.

[372] Antichità Estensi P. 1, cap. 14.

[373] Brovverus, Annal. Trevirens., tom. I.

[374] Mabillon., in Annal. Benedictin.

[375] Antiquit. Ital., Dissert. LXXIII.



    Anno di CRISTO MXXII. Indizione V.

    BENEDETTO VIII papa 11.
    ARRIGO II re di Germania 21, imperadore 9.


Nel gennaio dell'anno presente col suo poderoso esercito continuò
l'Augusto Arrigo il suo viaggio alla volta della Puglia[376]. Per la
marca di Camerino inviò il patriarca Poppone con quindicimila
combattenti contra de' Greci; e per quella di Spoleti e del ducato
romano spedì Piligrino, ossia Piligrimo arcivescovo di Colonia, con
altri ventimila armati verso Monte Casino e verso Capua, ad oggetto di
prendere Atenolfo abbate e il principe di Capua _Pandolfo IV_ suo
fratello, amendue proclamati come segreti fautori dei Greci, e che
avessero tenuta mano alla morte di Datto. L'abbate non volle aspettar
questo turbine, e se ne fuggì ad Otranto con disegno di passare a
Costantinopoli. Ma imbarcatosi e colto da una fiera burrasca, lasciò con
tutti i suoi la vita in mare. Saputasi dall'arcivescovo la di lui fuga,
per timore che _Pandolfo_ principe non gli scappasse dalle mani, con
isforzata marcia arrivò sotto Capua, e la cinse d'assedio. Allora
Pandolfo, che sapea d'essersi colle sue iniquità comperato l'odio dei
Capuani, anzi era informato che macchinavano di tradirlo, la fece da
disinvolto; ed affidato si venne a mettere in mano dell'arcivescovo
Piligrino, con dire che gli dava l'animo di giustificarsi delle
imputazioni disseminate contra di lui. Intanto l'Augusto Arrigo era
passato all'assedio di Troia, città che, quantunque non fossero per
anche terminate le incominciate fortificazioni, pure tante n'avea, e sì
copioso presidio di Greci, che si accinse ad una gagliarda difesa. Sotto
a quella città fu a lui presentato il principe di Capua, il quale poco
mancò che non vi lasciasse la testa, perchè condannato a morte dal pieno
consiglio. Ma cotanto si adoperò l'arcivescovo di Colonia, geloso del
salvocondotto a lui dato, che gli guadagnò la vita. Posto nondimeno in
catene, fu dipoi menato prigione in Germania. Ma non si dee tralasciare,
che prima d'imprendere l'assedio di Troia, l'imperadore Arrigo, per
attestato di Lupo Protospata[377], giunse di marzo a Benevento, dove da
_Landolfo_ principe, e, come lasciò scritto Epidanno[378], _a
Beneventanis gratulantibus honorifice ac magnifice suscipitur_, e fu
riconosciuto ivi per sovrano. Di questo ancora ci restano buone
testimonianze ne' documenti di quelle contrade, vedendosi il suo nome
nei pubblici contratti d'allora, e trovandosi dei placiti tenuti da lui
per l'amministrazione della giustizia in quelle parti. Uno di questi si
legge nella Cronica del monistero del Volturno[379], tenuto _in
territorio beneventano in locum, qui nominatur ad Campum de Petra,
ibique in praesentia domni Henrici serenissimi imperatoris_, ec. Fu
scritto quel giudicato _anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi
sunt MXXII, et imperante domno Henrico serenissimo imperatore Augusto,
anno imperii ejus, Deo propitio in Italia octavo, et dies mense
februarii per Indiction. IV_ (scrivi _V_). _Actum in territorio
beneventano_. Un altro placito tenne nel mese di marzo di quest'anno in
Balva _domnus Ambrosius, qui est missus et capellanus domni Henrici
imperatoris Augusti_. Un altro parimente in essa Cronica si legge,
tenuto nell'_aprile_ dell'anno presente da _Leone_ vescovo di Vercelli,
e da un altro vescovo deputati _a praeclara potestate serenissimi
Einrici Augusti, in territorio beneventano juxta ecclesiam sancti Petri
apostoli, situs propinquo hanc Beneventi civitatem_, ec. Ci fa anche
vedere un diploma d'esso Augusto in favore del monistero di santa Sofia
di Benevento, rapportato dall'Ughelli[380], che il medesimo soggiornava
in Benevento _VI idus martii_. Posesi dunque l'imperadore all'assedio
della città di Troia, valorosamente difesa da quei cittadini e dalla
guarnigione greca, di modo che per tre mesi convenne tener ivi il campo
con gran disagio degli assedianti e non minore degli assediati. Radolfo
Glabro[381], storico di questi tempi, descrive un tal assedio. Era
tormentata la città dai mangani e da altre macchine di guerra. Uscirono
i cittadini, e ne fecero un falò: perlochè montato forte in collera
l'imperadore, fece prepararne dell'altre coperte di crudo cuoio, e
continuar le offese. Indarno furono invitati i difensori alla resa con
buone condizioni: s'ostinarono essi, perchè lor si faceva credere
imminente un gagliardo soccorso. Per questo impazientatosi l'imperadore,
gli uscì di bocca, che se potea mettere il piede in quella città, volea
mandar tutti quanti a fil di spada. Ma non potendo più i cittadini,
allora si rivolsero a chiedere misericordia: al qual fine spedirono
fuori della città un romito con dietro tutti i lor fanciulli in
processione, che gridavano _Kyrie, eleyson, cioè, Signore, abbiate
pietà_. Arrigo colle lagrime agli occhi ordinò che si rimandassero in
città. Tornò il dì seguente il romito coi fanciulli e colle stesse voci,
ed, uscito l'imperadore dal suo padiglione, non potè reggere a quel
tenero spettacolo, e perdonò a quei cittadini, con che abbattessero
quella parte delle mura che aveano fatta resistenza alle sue macchine, e
che poi le rifacessero. Lasciato dunque ivi presidio, e presi gli
ostaggi, se ne venne a Capua, dove, per attestato dell'Ostiense[382],
diede quel principato a _Pandolfo_ conte di Tiano, senza che s'oda che
papa Benedetto VIII pretendesse ivi giurisdizione alcuna temporale. Creò
ancora conti, non si sa di qual luogo, Stefano Melo e Pietro, nipoti del
già defunto Melo duca di Puglia, co' quali allogò quei pochi Normanni
che erano restati in quelle contrade.

Di là passò in compagnia del romano pontefice al monistero di Monte
Casino, dove seguì l'elezione di Teobaldo abbate, consecrato poscia dal
papa. Pativa l'imperadore dei gravi dolori, e ne fu guarito per
intercessione di san Benedetto; per la qual grazia fece dei ricchi
regali a quell'insigne santuario. Rapporta il padre Gattola[383] un
diploma, da lui dato allo stesso monistero, con queste note: _Anno ab
Incarnatione Domini MXXII, Indictione V, anno vero domni Heinrici
Romanorum imperatoris Augusti secundi regnantis XXI, imperantis autem
nono. Actum in Monte Casino_. Non dia fastidio ad alcuni il veder ivi
sottoscritto il cancellier Teodorico _vice Ebbonis papembergensis
episcopi et archicapellani_, quando negli altri diplomi questo vescovo
di Bamberga porta il nome di _Eberardo_ e di _arcicancelliere_;
perciocchè _Ebbone_ è lo stesso nome di Eberardo; ed egli era anche
_arcicappellano_ dell'imperadore, se pure in questi tempi non era lo
stesso il grado di _arcicancelliere_ e di _arcicappellano_. Leggesi
inoltre una lettera del medesimo Augusto a papa Benedetto, in cui gli
raccomandò efficacemente il monistero imperiale di Monte Casino,
sottoscritto colle stesse note cronologiche. Tutti i sopra narrati
avvenimenti appartengono all'anno presente; e se il Sigonio li riferì
all'anno seguente, non si dee già argomentare che in lui mancasse la
diligenza, ma bensì che gli mancarono molte storie e documenti, de'
quali noi godiamo ora, disotterrati dagli eruditi. Lo stesso dee dirsi
del cardinal Baronio, il quale si figurò che l'imperadore Arrigo si
trattenesse sino all'anno seguente in Italia, quando è fuor di dubbio
oggidì ch'egli in questo se ne tornò frettolosamente in Germania. Ma
prima di accennare il suo viaggio convien qui avvertire, avere scritto
Epidanno[384], monaco di san Gallo in questo secolo, che l'Augusto
Arrigo _Trojam, Capuam, Salernum, Neapolim, urbes imperii sui ad Graecos
deficientes ad deditionem coegit_. Che anche _Guaimario III_ principe di
Salerno, atterrito dall'esempio di Capua, riconoscesse per suo sovrano
l'imperadore, niuna difficoltà ho a crederlo. Leggesi tuttavia un
diploma[385] d'esso Arrigo, conceduto ad _Amato II_ arcivescovo di
Salerno, dove è chiamato _fidelis noster, dato pridie kalendas junii,
Indictione V_, cioè nell'anno presente coll'_Actum Troje_. Potrebbe solo
dubitarsi di Napoli. Ma abbiamo ancora _Ermanno Contratto_ che lo
conferma con iscrivere sotto il presente anno[386]: _Beneventum
intravit, Trojam oppidum oppugnavit et cepit; Neapolim, Capuam,
Salernum, aliasque eo locorum civitates in deditionem omnes accepit_.

Era già insorta, durante l'assedio di Troia, la peste, oppure una
epidemia nell'esercito dell'Augusto, e questo aveva anche servito a lui
di maggiore impulso a perdonare a quel popolo, per isbrigarsi da que'
contorni. Si mise dunque in viaggio alla volta della Germania, e dovette
passare per la Toscana; avendo io pubblicato un suo diploma[387] in
favore dei Benedettini di Arezzo, dato _X kalendas augusti, anno
Incarnationis dominicae MXXII, Indictione V, anno domni Heinrici
regnantis secundi XXI, imperii vero VIIII. Actum Privaria in comitatu
lucense._ Perchè a cagion de' calori d'Italia crebbe nell'armata
imperiale l'epidemia, che ne fece grande strage, Arrigo in fretta e con
poche guardie _Alpium cacumina citato transgreditur cursu_, come s'ha
dall'Annalista e dal Cronologo Sassoni[388], e, giunto in Germania,
raunò un numeroso concilio di vescovi. Crede il padre Solerio della
compagnia di Gesù[389] che tal concilio sia stato quello di
Salingenstad, pubblicato dal Labbe nel tomo IX de' concilii, e tenuto
nel dì 12 d'agosto dell'anno presente. Ma se Arrigo, come abbiam veduto,
nel dì 25 di luglio era tuttavia nel territorio di Lucca, resterebbe da
esaminare come egli potesse compiere in tempo sì stretto il suo viaggio
in Germania, e l'adunamento di tanti prelati a quel concilio. Oltre di
che, in Salingenstad non si trovò se non l'arcivescovo di Magonza con
cinque suoi suffraganei: laddove quel di Arrigo fu composto di
moltissimi vescovi. Nel mese di dicembre dell'anno presente il marchese
_Bonifazio_ padre della contessa Matilda, insieme con _Richilda_
contessa sua moglie, prese a livello da _Landolfo_ vescovo di Cremona
due corti[390] _cum castro inibi habente_, e colla lor pieve; ed
all'incontro egli cedette al vescovo la corte di Piadena, patria del
celebre storico Bartolomeo Platina. Assistè al contratto _Tadone_ conte
di Verona. E in questi tempi fiorì nel monistero della Pomposa _Guido_
abbate rinomato per la sua santità, siccome ancora Guido monaco di
patria aretino, a cui ha non poche obbligazioni il _canto fermo_, da lui
riformato ed insegnato colle sue regole. Trovasi tuttavia scritto a
penna un suo trattato _de musica_ col titolo di _Micrologus_, di cui
ancora fa menzion Donizone nella vita della contessa Matilda.

NOTE:

[376] Leo Ostiensis. Chron., lib. 2, cap. 39.

[377] Lupus Protospata, in Chron.

[378] Hepidannus, Annal. brev. inter Scriptor. Rer. Alem.

[379] Chronic. Vulturn., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[380] Ughell., Ital. Sacr., tom. 8 in Archiepisc. Benev.

[381] Glaber, Hist., lib. 3, cap. 1.

[382] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 42.

[383] Gattola, Hist. Monaster. Casinens. P. I.

[384] Hepidannus, in Annal. brev.

[385] Antiq. Ital., Dissert. V.

[386] Hermannus Contract., in Chron. edit. Canis.

[387] Antiquit. Italic., Dissert. LXIII.

[388] Annalista Saxo. Chronograph. Saxo.

[389] Acta Sanctor. Bollandi ad diem 14 julii.

[390] Antiq. Ital., Dissert. XXXVI.



    Anno di CRISTO MXXIII. Indizione VI.

    BENEDETTO VIII papa 12.
    ARRIGO II re di Germania 22, imperadore 10.


Secondochè abbiam dal predetto Donizone[391], ebbe il marchese
_Bonifazio_, padre della poco fa mentovata Matilda, due fratelli. L'uno
fu, non _Tebaldo_, come scrisse il padre Pagi[392], ma _Teodaldo_ ossia
_Tedaldo_, che vescovo di Arezzo vien lodato da quello storico per la
sua religione, continenza ed avversione ai simoniaci. Questi nell'anno
presente fece una donazione ai Benedettini d'Arezzo[393], _mense
augusti, Indictione sexta_, da me data alla luce. L'altro, cioè
_Corrado_, era giovane di molto fuoco. Cercarono gli emuli di questa
famiglia di mettere la discordia fra esso lui e Bonifazio fratello
maggiore, ma loro non venne fatto. Non si sa poi nè il tempo nè il
perchè si fece una gran raunata di gente _ex regno toto_ contra di
questi due fratelli, che venne a trovarli sino a _Coviolo_, un miglio e
mezzo lungi da Reggio. Quivi seguì un sanguinoso fatto d'armi. Bonifazio
vi fece di molte prodezze; pure gli convenne ritirarsi, quand'ecco
uscire di un bosco il fratello Corrado con cinquecento cavalli, che
l'incoraggì a tornare in campo contra de' nemici. Rinforzossi la
battaglia, e finalmente dai due fratelli fu messa in rotta l'armata
nemica. In quel conflitto riportò Corrado una ferita, che fu bensì
curata; ma perchè il giovane non s'ebbe riguardo alcuno da lì innanzi
nel giocare e mangiare, da lì a più anni, _post plures annos_, come si
ha da Donizone (e non già in quel fatto d'armi, come scrisse il
Sigonio), essa ferita il portò all'altro mondo nel dì 13 di luglio
dell'anno 1030.

    _Anni terdeni tunc Verbi mille sereni._

Ci porta questo a conoscere che oramai i popoli della Lombardia
cominciavano a farsi guerra l'uno all'altro, senza dipendere dai
ministri imperiali che governavano il regno d'Italia e le particolari
città. Il che non vuol dire che i conti e marchesi perdessero la loro
autorità sopra de' popoli; ma anch'essi coi lor popoli faceano guerra
agli altri, e, come si può credere, senza chiederne licenza
all'imperadore: il che in addietro non leggiamo che si praticasse. E di
qui avvenne che a poco a poco andò crescendo l'ardimento ne' Lombardi,
con giugnere finalmente, siccome vedremo, ad erigere in repubblica le
loro città. Confermò in quest'anno l'Augusto _Arrigo_ al monistero di
Monte Casino, e a _Tebaldo_ abbate di quel sacro luogo, tutti i suoi
privilegii con diploma dato[394] _II nonas januarii, anno dominicae
Incarnationis MXXIII, anno vero domni Henrici regnantis XXI, imperii
vero ejus VIIII, Indictione sexta. Actum Poderbrunnon_, cioè in
Paderbona. Ci ha anche conservato il registro di Pietro Diacono,
esistente in quell'insigne badia, il diploma con cui esso imperadore
_nonis januarii, Indictione VI, anno Domini MXXIII_, concedette
_principibus inclitis nostris, quidem fidelibus dilectis Pandulfo et
Johanni filio ejus, principatum Capuae cum omnibus ad eum pertinentibus,
ita videlicet ut avus ejus Pandulfus tenuit, exceptis abbatibus
imperialibus sancti Benedicti de Monte Casino et sancti Vincentii_.
Leggesi ancor questa concessione presso il padre abbate Gattola, ed è
degna di attenta considerazione. Nella copia del diploma, con cui lo
stesso Arrigo primo tra gli imperadori si dice che nell'anno 1014
confermò alla Chiesa romana i di lei Stati, leggiamo _in partibus
Campaniae Sora, Arces, Aquinum, Arpinum, Theanum, Capuam_, città
componenti il principato di Capua. Quando ciò fosse stato, non si può
già credere sì privo di memoria, nè sì mancante di religione Arrigo I,
imperadore santo, ch'egli avesse dopo investito d'essa Capoa e del suo
principato _Pandolfo_ e _Giovanni_ suo figliuolo. E se pur fatto
l'avesse, avrebbe reclamato il romano pontefice: del che niun vestigio
apparisce. Che dunque si ha da dire della copia del diploma dell'anno
1014 rapportata dal cardinal Baronio? Abbiamo poi da Lupo
Protospata[395] che in quest'anno _venit Raya_ (ossia _Rayca_) _cum
Saffari Criti Barum mense junii, et obsedit eam uno die. Et amoti exinde
comprehenderunt pelagianum oppidum. Et fabricatum est castellum in
Motula._ Erano questi due assediatori di Bari Pugliesi ribelli ai Greci,
e riuscì loro di prendere la terra di Pelagiano, ossia di Corigliano,
come ha un altro testo. Sotto quest'anno _Poppone_, patriarca
d'Aquileia, per quanto narra il Dandolo[396], fidatosi nell'appoggio
dell'imperadore, mosse lite al patriarca di Grado davanti a papa
Benedetto, chiamandolo usurpatore di quel titolo, e pretendendolo
soggetto alla sedia sua. Accadde che per dissensioni nate in Venezia fu
obbligato _Ottone Orseolo_ doge di ritirarsi in Istria come esiliato in
compagnia di _Orso_ patriarca di Grado suo fratello. Si prevalse Poppone
di tal congiuntura per entrare coll'armi in Grado, e dopo avere
spogliato ed abbattuto più di una chiesa ed alcuni monisteri, quivi
lasciò una guarnigione di suoi soldati. A questo colpo si ravvidero i
Veneziani, (e forse nell'anno seguente), richiamato il doge col
patriarca fratello, passarono con grandi forze a Grado, e ripigliarono
quella città ed isola, con iscacciarne le genti del patriarca
d'Aquileia.

NOTE:

[391] Donizo, in Vita Comitiss. Mathild., lib. 1, cap. 5 et 6.

[392] Pagius, in Crit. ad Annales Baron.

[393] Antiquit. Italic., Dissert. XXXVI.

[394] Gattola, Hist. Monaster. Casinens., Part. I.

[395] Lupus Protospata, in Chron.

[396] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MXXIV. Indizione VII.

    GIOVANNI XIX papa 1.
    CORRADO II re di Germania e d'Italia 1.


Mancarono in quest'anno alla repubblica cristiana i suoi due primi
luminari, cioè il papa e l'imperadore. Forse il primo fu papa _Benedetto
VIII_ che terminò il suo pontificato, per quanto si crede, nel mese di
giugno, come osservò il padre Pagi[397]. Ebbe per successore _Giovanni
XIX_, soprannominato _Romano_, fratello del predefunto _Benedetto_, ma
papa screditato da Glabro[398] e dal cardinal Baronio[399], perchè di
laico ch'egli era coll'intercessione della pecunia guadagnati i voti,
salì sul trono pontificio. _Uno eodemque die et laicus et pontifex
fuit_, dice Romoaldo salernitano[400]; il che fu contra gli antichi
canoni. Che l'assunzione sua seguisse per la prepotenza dei conti
Tuscolani, lo scrive il porporato Annalista, del che io non veggo le
pruove. Glabro solamente attesta che fu l'efficace mezzo dell'oro che il
portò in alto: e questo dire, se è vero, ferisce chiunque l'elesse.
Quanto all'imperadore, abbiamo da Wippone[401], da Ermanno
Contratto[402], e da altri antichi storici ch'egli fu chiamato da Dio ad
un regno migliore nel dì 13 di luglio dell'anno presente, e gli fu data
sepoltura nella sua prediletta città di Bamberga. Imperadore, le cui
molte virtù, e massimamente l'insigne pietà, coronata da varie gloriose
azioni, meritarono ch'egli fosse scritto nel catalogo de' santi, con
celebrarsene anche la festa nel dì 14 d'esso mese, giorno probabilmente
della sua sepoltura. Consegnò egli prima di morire ai parenti
l'imperadrice _Cunegonda_ sua moglie, vergine, per quanto la fama
divulgò, quale l'avea ricevuta; principessa anch'ella dotata di sì
luminose virtù, che non men del marito arrivò a conseguir la laurea dei
santi. Per gloria di lei, e per documenti delle strane vicende, alle
quali sono esposti anche i migliori, non si vuol tacere che così santa
principessa[403] fu accusata d'infedeltà all'Augusto suo consorte. Si
esibì ella di provare l'innocenza sua colla pruova del fuoco, usata in
que' secoli d'ignoranza; e però co' piedi nudi senza lesione alcuna
passeggiò sopra dodici ferri roventi. Ma di questo gran fatto, nè della
verginità di Cunegonda noi non abbiamo testimonio alcuno contemporaneo
che incontrastabilmente ce ne assicuri; ed ella potè senza di questo
essere principessa di rara santità. Le vite de' Santi scritte lungo
tempo dopo la lor morte son suggette a varii riguardi, perchè la fama,
che cresce in andare, aggiugne talvolta quello che non fu.

Venne dunque colla morte di santo Arrigo a vacare l'imperio romano col
regno della Germania e dell'Italia. L'essere egli mancato senza prole,
aprì il campo alle pretensioni di varii principi, e per conseguente alla
discordia. Secondo l'attestato di Wippone, storico di quei medesimi
tempi[404], i due principali concorrenti furono due _Canoni_, cioè due
Corradi, i quali per distinzione erano appellati, a cagion dell'età,
l'uno il maggiore, l'altro il minore, cugini germani. Era nato il
maggiore da _Arrigo_ duca della Franconia, il secondo da _Corrado_, che
vedemmo duca di Carintia e marchese di Verona, amendue fratelli ancora
di Gregorio V papa. _Ottone_ avolo dei suddetti due cugini, figliuolo di
Liutgarda nata da Ottone il Grande, fu anche egli duca di Franconia.
Però questi due principi, siccome discendenti dal sangue di Ottone I
Augusto, furono creduti i più propri per succedere; e fra questi due
competitori fu amichevolmente conchiuso che quegli sarebbe re, il quale
riportasse più voti. Cadde pertanto l'elezione in _Corrado_ il maggiore,
figliuolo d'Arrigo, che fu poi appellato per soprannome il _Salico_.
Scrivono che Arrigo Augusto nell'ultima sua infermità consigliò i
principi ad eleggere questo, siccome principe di gran valore e senno. E
non furono già i sette elettori che diedero il re alla Germania, ma
bensì tutti i vescovi, duchi e principi di quel regno che concorsero
nella scelta di lui, come attesta il medesimo Wippone. Vi furono
invitati anche i principi d'Italia, ma non giunsero a tempo. Nel dì 8 di
settembre in Magonza seguì la coronazione germanica di Corrado il
Salico; e per allora si tacque il minore Corrado, benchè mal contento
d'essergli stato posposto. Ma appena il popolo di Pavia ebbe intesa la
morte del santo imperadore Arrigo, che, ravvivando la non mai estinta
rabbia per l'atroce danno inferito da lui, o, per dir meglio, dai suoi
soldati alla loro città, nè sapendo qual altra vendetta fare, proruppero
in una sollevazione, e corsi ad atterrare il palazzo regale, lo
ridussero in un monte di pietre. _Tunc Papienses in ultionem incensae
urbis, regium, quod apud ipsos erat, destruxere palatium_: sono parole
di Arnolfo storico milanese[405]. Udiamo anche _Wippone_[406]: _Erat_,
dice egli, _in civitate papiensi palatium a Theodorico rege miro opere
conditum, ac postea ab imperatore Ottone tertio nimis adornatum_. Questo
è il palazzo che, secondo Wippone, diruparono i Pavesi. Ne dubito io.
Siccome abbiam veduto all'anno 1004 restò incenerito nella sedizione
insorta in Pavia il regal palazzo, e i Pavesi furono condannati a
rifarlo, oppure a fabbricarne un nuovo. Così di Arrigo scrive Ugo
flaviniacense[407]: _Papiam veniens, ab eis miri operis palatium sibi
construi fecit_. Questo dunque, e non già il palazzo di Teoderico,
dianzi rovinato, dovette più verisimilmente restar nell'anno presente
vittima del furor de' Pavesi. Per altro motivo ancora (bisogna
confessarlo) s'indusse quel popolo a tal risoluzione, perciocchè i
regali palagi, siccome altrove abbiam detto, solevano essere fuori delle
città primarie, affine appunto di schivar gli accidenti funesti che per
sua mala sorte provò Pavia; e perciò rincresceva al popolo pavese di
vedere il suo piantato nel cuore della loro città. _Totumque palatium_
(seguita a dire Wippone) _usque ad imum fundamenti lapidem eruebant, ne
quisquam regum ulterius infra civitem illam palatium ponere
decrevisset_.

NOTE:

[397] Pagius, ad Annal. Baron.

[398] Glaber, Hist. Mediolan., lib. 4, cap. 1.

[399] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[400] Romuald. Salern., Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[401] Wippo, in Vita Conradi Salici.

[402] Hermannus Contractus, edit. Canis.

[403] Vita S. Cunegund., cap. 2.

[404] Wippo, in Vit. Conradi Salici.

[405] Arnulfus, Hist. Mediol., lib. 2, cap. 1.

[406] Wippo, in Vit. Conradi Salici.

[407] Ugo Flaviniacens., in Chron. ad ann. 1013.



    Anno di CRISTO MXXV. Indizione VIII.

    GIOVANNI XIX papa 2.
    CORRADO II re di Germania 2.


Non mancarono principi d'Italia che, concordi nel genio col popolo di
Pavia, abborrivano di aver più in Italia re, o imperadori tedeschi, i
quali doveano forse parer loro troppo gravosi. Fra questi specialmente
ci fu _Maginfredo_ marchese chiarissimo di Susa, con _Alrico_ vescovo
d'Asti suo fratello, e i marchesi progenitori della casa d'Este, cioè
_Ugo_ ed _Alberto Azzo I_. Siccome osservò il Beslì[408], si voltarono
essi a _Roberto_ re di Francia, esibendo a lui la corona del regno
d'Italia; e quando a lui non piacesse, almeno ad _Ugo_ suo figliuolo,
già dichiarato collega nel regno. Ma egli non se ne volle impacciare,
perchè non gli piaceva di tirarsi addosso una guerra col re Corrado.
Glabro[409] scrive, in parlando del medesimo Ugo, che _ubique
provinciarum percitus peroptabatur a multis, praecipue ab Italis, ut
sibi imperaret, in imperium sublimari_. E nei versi fatti sopra la morte
di lui:

    _Omnis quem prona proscebat Italia,_
    _Caesar ut jura promeret regalia._

Perduta questa speranza, e tanto più perchè esso giovinetto Ugo fu
rapito dalla morte in quest'anno nel dì 17 di settembre, passarono que'
marchesi a tentare _Guglielmo IV_ duca d'Aquitania, oppure suo figliuolo
_Guglielmo V_. Fulberto vescovo di Chartres così ne scrive a Roberto re
di Francia[410]: _Guillelmo Pictavorum comes_ (lo stesso è che il duca
d'Aquitania) _herus meus loquutus est mihi nuper dicens, quod postquam
Itali discesserunt a vobis, diffisi, quod vos regem haberent, petierunt
filium suum ad regem. Quibus ille invitus coactusque respondit, tamdem
acquiescere se voluntati eorum._ Ma per non imbarcarsi male a proposito,
fece il duca Guglielmo avvisare per mezzo del conte d'Angiò il re
Roberto dell'esibizion fattagli dagli Italiani; e ch'egli
l'accetterebbe, qualora il re volesse secondarlo e muovere all'armi i
duchi della Lorena contro il re Corrado: al qual fine gli offeriva una
buona somma di danaro. Nè questo gli bastò. Volle in persona venir egli
in Italia, per meglio scandagliare gli animi e le forze di questi
principi. Ma qui non trovando quella concordia che occorreva in un
affare di tanta importanza, e non gli piacendo certe condizioni che si
dimandavano dai principi italiani, se ne tornò in Guienna, e si diede a
disfare la tela ordita. In una lettera[411], da lui scritta a Maginfredo
marchese, gli dice: _Quod coeptum est de filio meo, non videtur mihi
ratum fore, nec utile, neque honestum. Gens enim vestra infida est.
Insidiae graves contra nos orientur._ Però il prega di rompere con buon
garbo questo negozio. Odasi ancora Ademaro, monaco di santo Eparchio,
che nella sua Cronica scrive:[412] _At vero Langobardi, fine
imperatoris_ (Henrici) _gavisi, destruunt palatium imperiale, quod erat
Papiae, et jugum imperatorium a se excutere volentes, venerunt multi
nobiliores eorum coram pictavam urbem ad Willelmum ducem Aquitanorum, et
eum super se regem constituere cupiebant. Qui prudenter cavens cum
Willelmo comite Engolismae Langobardorum fines penetravit, et diu
placitum tenens cum ducibus Italiae, nec in eis finem_ (o piuttosto
_fidem_) _reperiens, laudem et honorem eorum pro nihilo duxit_. Leone,
vescovo di Vercelli, uno di quelli fu che si sbracciò non poco per
tirare in Italia l'amico suo duca d'Aquitania. Leggesi una lettera
faceta del duca ad esso Leone, nella quale venendo poi al serio,
scrive[413]: _Longobardos non arguo deceptionis, quam in me exercere
vellent. Quantum enim in ipsis fuit, partum erat mihi regnum Italiae, si
unum facere voluissem, quod nefas judiravi: scilicet, ut ex voluntate
eorum episcopos, qui essent Italiae, deponerem, et alios rursus illorum
arbitrio elevarem. Sed absit, me rem hujusmodi facere_, ec. Ecco quanta
fosse la pietà e saviezza di quel principe.

In occasione di questi trattati passò, come vedemmo, in Francia _Ugo
marchese_, uno degli antenati estensi, per indurre il re Roberto ad
accettar la corona d'Italia, e, passando per la città di Tours, quivi si
fermò per due giorni affin di soddisfare alla divozione sua verso san
Martino. Questa notizia ci è somministrata da una carta dell'archivio di
quei canonici, dove si legge[414]: _Orta est querela canonicorum sancti
Martini, circa quosdam marchiones Italiae, Bonifacium videlicet,
Albertum, et Aczonem, Otbertum, et Hugonem, propter terras beati Martini
de Italia, quas injuste tenebant. Quorum Hugo accidit, ut in terra
legationis causa Robertum Francorum regem adiret, et per sanctum beati
Martini locum transiret_, ec. Siccome ho altrove dimostrato, erano
questi principi della famiglia de' marchesi appellati poscia d'Este.
Soddisfece il marchese Ugo a que' canonici. Ora il negoziato fin qui
esposto de' principi d'Italia per iscuotere il giogo tedesco per la
maggior parte fu fatto nel precedente anno, e terminò poi nel presente.
Tra perchè abortirono le speranze concepute di avere un re dalla parte
della Francia, e perchè l'unire e tener unite tante teste, era cosa più
che difficile, _Eriberto_ arcivescovo di Milano, il primo fra' principi
di Lombardia, prese il partito suo, e, seguitato da moltissimi altri,
andò in Germania a darsi al re Corrado, e a promettergli la corona del
regno italico, ogni volta ch'egli calasse in Italia. L'abbiamo da
Arnolfo storico milanese[415]. _Factum est_ (scrive egli) _ut simul
convenientes in commune tractarent de constituendo rege primates.
Diversis itaque in diversa trahentibus, non omnium idem fuerat animosus.
Interque talia fluctuante Italia, suorum comparium declinans Heribertus
consortium, invitis illis ac repugnantibus adiit Germaniam, solus ipse
regem electurus teutonicum. Quumque Teutones sibi Chuonradum eligerent,
eumdem ipsum laudavit, omniumque in oculis coronavit._ Ma non sussiste
che Eriberto intervenisse all'elezion germanica, e molto meno che egli
coronasse Corrado, nè che v'andasse solo. Un autore meglio informato,
che era allora in corte d'esso Corrado, cioè Wippone[416], ci assicura
che il suo re, venuto alla città di Costanza, quivi celebrò la
Pentecoste, che cadde nel dì 6 di giugno dell'anno presente. _Ibi
archiepiscopus mediolanensis Heribertus cum ceteris optimatibus italici
regni occurrebat, et effectus est suus, fidemque sibi fecit per
sacramentum et obsidum pignus, ut quando veniret cum exercitu ad
subjiciendam Italiam, ipse eum reciperet, et cum omnibus suis ad dominum
et regem publice laudaret, statimque coronaret. Similiter reliqui
Langobardi fecerant_ (fecerunt) _propter_ (praeter) _Ticinenses, qui et
alio nomine Papienses vocantur, quorum legati aderant cum muneribus et
amicis, molientes ut regem pro offensione civium placarent, quamquam id
adipisci a rege juxta votum suum nullo modo valerent_. Tenevasi offeso
il re, perchè i Pavesi avessero demolito il palazzo imperiale. E questi
dicevano: _Chi abbiamo noi offeso? Finchè l'Augusto Arrigo è vivuto gli
siamo stati ubbidienti e fedeli. Morto lui, non avendo noi re, nè
obbligo verso chi non era per anche nostro re, abbiamo smantellato un
palazzo, su cui niun, fuorchè noi, aveva diritto._ Ma Corrado non
l'intendeva così, pretendendo che se moriva il re, il regno nondimeno
vivo restava; e che quel palazzo era del re d'Italia e non de' Pavesi.
Per questo motivo senza pace se ne tornarono indietro gli ambasciatori
di Pavia. _Reliqui vero Italici amplissimis donis a rege honorati in
pace dimissi sunt._ Nè già i Pavesi ricusavano di rifabbricare quel
palazzo regale che era loro di gloria, ma lo volevano fuor di città.
Corrado all'incontro lo voleva dentro, come prima. In ciò consisteva la
lor discordanza. In questo anno propriamente, siccome osservò il padre
Mabillone[417], ed io ancora[418], ebbe principio il celebre monistero
della Cava nel principato di Salerno per cura di _Guaimario III_
principe di quelle contrade. Il suo primo abbate fu santo _Adelferio_
ossia _Alferio_. Abbiamo ancora da Leone Ostiense[419] e dall'Anonimo
casinense, che in quest'anno _Pandolfo IV_ principe di Capua, già
condotto prigione in Germania dal defunto Arrigo Augusto, ad
intercessione dello stesso Guaimario, ottenne la sua libertà, e
tornossene tutto umile e mansueto, secondo le apparenze, in Italia, con
accignersi dipoi a ricuperare il perduto principato.

NOTE:

[408] Beslius, de vera orig. Hugon. Reg.

[409] Glaber, lib. 3, cap. 9.

[410] Folbertus, Epistol. 54 et 55.

[411] Fulbertus, Epistol. 58.

[412] Apud Labbe Bibliothec. MSS. tom. I.

[413] Fulbert., Epist. 126.

[414] Martene, Thesaur. nov. Anecdot. tom. I, pag. 51.

[415] Arnulf., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 1.

[416] Wippo, in Vita Conradi Salici.

[417] Mabill., Annal. Benedict.

[418] Rer. Ital., tom. VI. Praefat. ad Vit. Abbat. Cavens.

[419] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 58.



    Anno di CRISTO MXXVI. Indizione IX.

    GIOVANNI XIX papa 3.
    CORRADO II re di Germania 3, d'Italia 1.


Ancorchè nell'anno addietro tendessero alla ribellione, e facessero
varii movimenti contra del re Corrado, il giovine Corrado duca di
Franconia, Ernesto duca di Alemagna, ossia di Suevia, e Guelfo conte
suevo, figliastro del medesimo Ernesto, e Federigo duca di Lorena[420]
con altri probabilmente mossi da Roberto re di Francia, che già faceva
conto di pescare nel torbido: pure, tal fu l'industria e il senno d'esso
re Corrado, che seppe quietar questi rumori, e dissipare in gran parte
le alleanze tramate contra di lui. Però non sì tosto si vide quieto in
Germania, che si accinse a calare in Italia, per prevalersi della buona
disposizione che avea trovato ne' principi di Italia e nel romano
pontefice in favore di lui. Per attestato di Arnolfo storico[421],
l'arcivescovo Eriberto gli avea già guadagnati gli animi di quasi tutti,
parte con fatti e parte con isperanze di premii. Per tanto s'incamminò
egli alla volta dell'Italia, seco menando un poderoso esercito[422]. Per
Verona passò a Pavia, e trovando chiuse le porte di quella città andò a
Vercelli, dove celebrò la santa Pasqua nel dì 10 di aprile. _In ipsis
diebus paschalibus Leo ejusdem civitatis antistes, vir multum sapiens,
mundum cum pace reliquit, cui Ardericus mediolanensis canonicus
successit._ Adunque circa il tempo della quaresima, come vuole Ermanno
Contratto, dell'anno presente era allora _Leone_ vescovo di Vercelli;
pertanto è da vedere come l'Ughelli[423] metta in questi tempi vescovo
di quella città _Pietro_, tenuto ivi per santo, con dire ch'egli morì
nel dì 13 di febbraio di quest'anno 1026. Secondo il suddetto storico
Arnolfo, _veniens Conradus Italiam, ab Heriberto archiepiscopo, ut moris
est, coronatur in regno_. Vogliono gli storici milanesi ch'egli fosse
coronato nella basilica di santo Ambrosio, allora fuori di Milano.
Buonincontro, storico di Monza, aggiugne[424] che questo re _ab Henrico
archiepiscopo Mediolani, primo in Modoetia, postea Mediolani in sancto
Ambrosio coronatur_. Neppur sapea questo scrittore che allora sedea
nella cattedra di santo Ambrosio Eriberto arcivescovo: laonde neppur noi
sappiamo cosa sia da credergli in questo particolare. La verità si è,
che la coronazione in re d'Italia si dee tenere per certa; ma, per conto
del tempo e del luogo, questo tuttavia resta involto nelle tenebre.
Persistendo poi Corrado in non volere dar pace ai Pavesi, fece loro
quanta guerra potè nel territorio d'essi, con incendiar le castella e le
chiese, e far morire di ferro o di fuoco i poveri contadini rifuggiti in
que' sacri luoghi, con tagliar tutte le viti e far altre simili azioni
abbominevoli e scellerate per un re cristiano, perchè contro quella
parte di popolo che niuna colpa avea nel delitto, benchè il buon Wippone
le racconti quasi come gloriose prodezze del re Corrado. Ma non si mise
egli a far l'assedio di Pavia, perchè la conobbe città forte e piena di
popolo, e però capace di far lunga e vigorosa resistenza. Racconta
Guiberto[425] nella Vita di san Leone IX papa, che questi in età di
ventitrè anni, chiamato allora Brunone, correndo l'anno 1025, _vice sui
pontificis Herimanni in expeditione Conradi imperatoris_ (suo zio)
_Longobardiam, et maxime super Mediolanum tunc rebellem, est profectus_.
S'ingannò Guiberto, e volle dir Pavia; perciocchè Milano era tutto
allora per Corrado.

Attese esso re per qualche tempo a sottomettere alcuni gran signori,
collegati co' Pavesi, cioè _Adalberto_ marchese e _Guglielmo_, ed altri
principi in quei contorni, con desolare un lor castello chiamato _Orba_
verso i confini oggidì dell'Alessandrino. Passò dipoi a Ravenna, e, come
scrive il suddetto Wippone, _cum magna potestate ibi regnavit_: il che
sempre più ci assicura che Ravenna col suo esarcato era allora, anzi da
gran tempo, compresa nel regno d'Italia. Ma anche in Ravenna si attaccò
una zuffa tra que' cittadini e gl'indiscreti Tedeschi, per la quale fu
in armi tutta la città, e si combattè alla disperata fra l'una parte e
l'altra, e ne seguì una non picciola strage, colla peggio in fine de'
Ravennati. Lo stesso re Corrado, udito il rumore, si fece armare,
domandò il cavallo, ed uscì fuor del palazzo. Ma veggendo scappare i
cittadini, e salvarsi nelle chiese e nei nascondigli, _misertus eorum,
quia ex utraque parte sui erant, exercitum de persequutione civium
revocavit_. Nel dì seguente davanti a lui i primi della città co' piedi
nudi e colle spade nude in mano, per segno d'essere degni del taglio
della testa, comparvero a chiedere il perdono, e l'ottennero. Grandi
furono in quest'anno i calori nell'Italia, e molte perciò le malattie.
Affine di custodir la sanità, il re _ultra Atim fluvium propter opaca
loca et aeris temperiem in montana secessit, ibique ab archiepiscopo
mediolanensi per duos menses et amplius regalem victum sumtuose habuit_.
Che fiume sia questo _Ati_, nol so. Credo guasta la parola. Parrebbe
_Athesis_, cioè l'Adige; ma le spese a lui fatte sì magnificamente da
Eriberto arcivescovo m'inclinano piuttosto a crederlo un luogo del
Milanese. Celebrò finalmente in Ivrea la festa del santo Natale, e non
già in Ravenna, come si pensò il Sigonio. Riportò in quest'anno _Ingone_
vescovo di Modena la conferma de' beni e privilegii della sua chiesa da
esso Corrado con un diploma pubblicato, ma non senza scorrezioni, dal
Sillingardi[426] e dall'Ughelli[427]. Le note son tali nell'originale:
_Data XIII kalendas julii anno dominicae Incarnationis MXXVI, Indictione
nona, anno vero domni Conradi secundi regnantis primo. Actum Cremonae._
L'anno _primo_ del regno d'Italia si vede qui adoperato. Si dee anche
correggere un diploma d'esso Corrado, dato in _Piacenza_ in favore del
monistero di san Salvatore di Pavia[428], e conceduto in quest'anno, e
non già nell'_anno MXXIII_.

Era mancato di vita dopo cinquanta anni d'imperio _Basilio_ imperadore
dei Greci nel precedente anno 1025, ed era restato solo imperadore
_Costantino_ suo fratello. Pensò questi nell'anno presente alla
conquista della Sicilia, che da tanti anni languiva sotto la tirannia
de' Saraceni. La spedizione sua è narrata da Lupo Protospata con queste
parole[429]. _Despotus Nicus_ (forse _Andronicus_) _in Italiam descendit
cum ingentibus copiis Russorum, Wandalorum, Turcarum, Bulgarorum,
Brunchorum, Polonorum, Macedonum, aliarumque nationum ad Siciliam
capiendam. Captum est autem Rhegium, et ob civium peccata destructum est
a Vulcano catapano, et Basilius imperator obiit anno secundo._ Si dee
scrivere Constantinus, come osservò Camillo Pellegrini. La morte di
questo imperadore, succeduta nell'anno seguente a dì 9 di novembre, e la
peste entrata nell'esercito de' Greci mandò a male tutta quell'impresa.
_Oreste_ è chiamato da Cedreno il generale de' Greci, spedito, secondo
lui, in Sicilia, quand'anche era vivo Basilio Augusto. Sconvolse in
quest'anno la discordia la città di Venezia[430]. Perchè _Ottone
Orseolo_ doge non volle investire _Domenico Gradonico_ ossia _Gradenigo_
juniore, eletto vescovo di quella città, alzossi contra del doge una
potente fazione che il depose, e, tagliatagli la barba, il mandò in
esilio a Costantinopoli. _Orso_ patriarca di Grado suo fratello, siccome
sospetto, fu anche egli in tal congiuntura cacciato dalla sua sedia. In
luogo del bandito Ottone venne eletto _Pietro Barbolano_ ossia
_Centranico_. Ma poca quiete provò egli, parte perchè di tanto in tanto
si formavano delle sedizioni contra di lui, e parte perchè Poppone
patriarca di Aquileia, assistito dagli aiuti del re Corrado, infestava i
confini de' Veneziani. Anzi lo stesso Corrado, senza voler confermare
gli antichi patti, si mise anch'egli a perseguitare e danneggiar i
Veneziani. Secondo l'Anonimo casinense[431], _Pandolfo IV_ ritornato
libero dalle carceri di Germania, e andando dietro alla ricupera del suo
principato di Capoa, uniti tutti i suoi seguaci e fautori, ottenne anche
un rinforzo considerabile di armati da Boiano ossia Bugiano generale
dell'armi greche, e da _Guaimario III_ principe di Salerno, marito di
Gaitelgrima sua sorella. Ebbe anche dalla sua Rainulfo e Arnolfo capi
de' Normanni, e i conti di Marsi. Con questo sforzo di gente mise
l'assedio a Capoa, che durò, chi scrive sei mesi, e chi un anno e mezzo.
_Pandolfo_ conte di Tiano, giù creato principe di Capoa da Arrigo I
Augusto, finchè ebbe forza, difese la città; ma in fine la necessità il
costrinse a renderla. Affidato dal catapano de' Greci, insieme con
_Giovanni_ suo figliuolo e con tutti i suoi aderenti fu condotto a
Napoli, e lasciato in libertà. Così _Pandolfo IV_ tornò ad essere
principe di Capoa, e dichiarò suo collega nel principato _Pandolfo V_
suo figliuolo. Fu chiamato da Dio in quest'anno nel dì 30 di agosto a
miglior vita _Bononio_ abbate di Lucedio nella diocesi di Vercelli. Le
sue insigni virtù ed azioni di rara pietà, accompagnate da miracoli,
indussero _Arderico_ vescovo di Vercelli a riconoscerlo per santo: il
che fu anche approvato dal sommo allora pontefice Giovanni XIX. Nacque
Bononio in Bologna, e quivi nel monistero di santo Stefano per alquanti
anni visse monaco. La Vita di lui, scritta da autore contemporaneo, si
legge presso il padre Mabillone[432].

NOTE:

[420] Hermannus Contractus, in Chron.

[421] Arnulf., Histor. Mediolanens., lib. 2, cap. 2.

[422] Wippo, in Vit. Conradi Salici.

[423] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4.

[424] Bonincontr., Chronic. Modoet. tom. 12 Rer. Ital.

[425] Wibertus, Vita S. Leonis IX, lib. 1, cap. 7.

[426] Sillingard. Calalog. Episcop. Mutinens.

[427] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2.

[428] Bullar. Casinens.

[429] Lupus Protospata, in Chronico.

[430] Dandulus, in Chronico, tom. 12 Rer. Ital.

[431] Anonymus Casinensis, tom. 5 Rer. Ital. Leo Ostiensis, lib. 2, cap.
58.

[432] Mabill., Saecul. VI Benedict., P. I.



    Anno di CRISTO MXXVII. Indizione X.

    GIOVANNI XIX papa 4.
    CORRADO II re di Germania 4, imperadore 1.


Nel febbraio dell'anno presente dovette muoversi il re Corrado alla
volta di Roma, dove, secondo i maneggi e il concerto seguito fra loro,
papa GIOVANNI XIX era per concedergli la corona imperiale. Un suo
diploma[433], dato probabilmente nel febbraio di quest'anno, benchè
manchi il mese e il giorno, ci fa vedere in _Verona_ appellato solamente
re lo stesso Corrado, cioè non per anche nomato imperadore. _Rinieri_
marchese di Toscana, per quanto ne lasciò scritto Wippone[434], con
tutta quella provincia, non avea voluto per anche riconoscerlo per re, e
stava forte nella ribellione. A quella volta marciò Corrado colla sua
armata, cioè con un possente esorcismo per costrignerlo all'ubbidienza.
Infatti Rinieri, dopo essersi tenuto chiuso in Lucca per pochi giorni,
vedendo la malparata, venne finalmente ad arrendersi. L'esempio di Lucca
e del marchese servì a ridurre in breve la Toscana tutta a suggettarsi.
Ci mancano documenti per conoscere se dopo questo fatto seguitasse il
marchese Rinieri a reggere la Toscana, oppure s'egli fosse deposto, e in
luogo di lui creato duca di Toscana _Bonifazio marchese_, padre
dell'inclita contessa Matilda. Inclino io a credere che Bonifazio
profittasse di tal congiuntura. Andossene dipoi Corrado a Roma, e quivi
nel mercordì santo con sommo onore e magnificenza fu accolto da papa
Giovanni e da tutti i Romani. Poscia _in die sancto Paschae, qui eo anno
VII calendas apriles terminabatur, a Romanis ad imperatorem electus_
(doveano dunque concorrere anche i Romani col papa all'elezion
dell'imperadore) _imperialem benedictionem a papa suscepit_,

    _Caesar et Augustus romano nomine dictus_.

Ricevette eziandio la sacra unzione e coronazione la regina _Gisela_ sua
moglie, figliuola di _Erimanno_ duca di Alemagna. Fu quella gran
funzione onorata dalla presenza di due re, cioè di _Rodolfo III_ re di
Borgogna, e di _Canuto_ ossia _Cnuto_ re d'Inghilterra, in mezzo ai
quali l'Augusto Corrado se ne tornò al palazzo. Ma anche in Roma
succedette il medesimo che era avvenuto in Ravenna. Mi sia permesso il
dirlo, doveano ben essere allora indisciplinati, barbarie bestiali i
Tedeschi. Per ogni picciolo rumore correvano a far laghi di sangue, e
sfoggiavano nella crudeltà: dal che poi venne che si tirarono addosso
l'odio degl'Italiani, e ne stancarono la pazienza, siccome vedremo. Per
un vil cuoio di bue in un dì di quella settimana nacque contesa fra un
Romano e un Tedesco, e vennero ai pugni. Invece di spartirli, diede
all'armi tutto l'esercito imperiale, e i Romani anch'essi ricorrendo per
difesa alle armi loro, fecero una pazza resistenza; ma in fine convenne
loro dar alle gambe, _et innumerabiles ex illis perierunt_. Nel dì
seguente i così maltrattati Romani, _ante imperatorem venientes, nudatis
pedibus, liberi cum nudis gladiis, servi cum torquibus vimineis circa
collum, quasi ad suspensionem praeparati, ut imperator jussit,
satisfaciebant_. Queste furono le allegrezze e consolazioni de' Romani.
Se vogliam credere ad Arnolfo storico milanese di questo secolo[435],
accadde in occasione della stessa coronazione anche una rissa fra
_Eriberto arcivescovo_ di Milano ed _Eriberto arcivescovo_ di Ravenna.
Quest'ultimo arditamente si mise alla destra di Corrado. L'arcivescovo
di Milano, ciò veduto, e sentendo che il corteggio de' suoi Milanesi,
che era grande, incominciava a fare tumulto, e poteane succedere
scandalo, saviamente si ritirò. Accortosene Corrado, fermò il passo e
disse, che siccome toccava all'arcivescovo di Milano di dare la corona
al re d'Italia, per cui si saliva all'imperio; così convenevol cosa era
che quel medesimo presentasse il re al papa per ricevere dalle di lui
mani la corona imperiale; e però, tolta la man destra all'arcivescovo di
Ravenna, giacchè se ne era ito quel di Milano, per parere del pontefice
Giovanni XIX, fece supplire le di lui veci ad _Alderico vescovo_ di
Vercelli, suffraganeo dell'arcivescovo. Intanto i Milanesi, altercando
co' Ravennati, vennero con essi alle mani, e ne seguirono molte ferite,
e crebbe sì fattamente la mischia che lo stesso arcivescovo di Ravenna
fu obbligato a mettersi in salvo colla fuga. Da lì poi a pochi giorni in
un concilio tenuto dal papa fu deciso che l'arcivescovo di Ravenna
avesse da cedere la mano a quel di Milano. Lite nondimeno che non finì,
e noi la vedremo risorgere all'anno 1047. Abbiamo un diploma di Corrado
Augusto[436], in cui conferma tutti i suoi beni al monistero di Farfa,
dato _V kalendas martii, anno dominicae Incarnationis MXXVII, anno vero
domni Conradi regnantis III, imperii quoque I. Actum Romae_: il che
maggiormente ci assicura del tempo della sua coronazione. Ch'egli
abitasse fuori di Roma _in civitate leoniana_, si raccoglie da un suo
diploma, dato _nonis aprilis_ dell'anno presente, e da me tolto alle
tenebre[437].

L'attività di questo imperadore nol lasciò consumare inutilmente il
tempo in Roma. Però da lì a poco marciò egli coll'armata a Benevento e a
Capoa; ed esse città, coll'altre di quella contrada, _sive vi, sive
voluntaria deditione, sibi subjugavit_. Diede anche licenza ai Normanni
che si trovavano in quelle parti, di abitarvi, e difendere i confini dai
tentativi de' Greci. Ciò fatto, ritornò a Roma, e si avviò alla volta
dell'Alpi. Era egli in Ravenna nel dì 3 di maggio, e in Verona nel dì 24
di esso mese, come consta da due suoi diplomi pubblicati
dall'Ughelli[438], e da uno riferito dal padre Celestino nella Storia di
Bergamo. Tanto fece, che in questi viaggi ebbe nelle mani Tasselgardo
italiano, grande spogliator delle chiese e delle vedove; e colla sua
morte sopra un patibolo liberò non so qual provincia dagl'insulti di
costui. _Filii Taselgardi quondam comitis_ si veggono nominati all'anno
1029 nella Cronica del monistero di Farfa[439]. In uno strumento ancora
da me pubblicato[440], e scritto nell'anno 1045, si trova _Tesselgardus
comes filius bonae memoriae Tesselgardi comitis ex civitate Beneventi_.
Sembra che del medesimo personaggio si parli in tali memorie. Mentre
queste cose passavano in Italia, _Guelfo_ conte della Suevia, _dives in
praediis, potens in armis_, turbò la quiete della Germania.
Impadronitosi della città di Augusta, devastolla, e diede il sacco al
tesoro di quel vescovo. Oltre a _Corrado duca_ di Franconia, che faceva
di molti preparamenti, anche _Ernesto duca_ d'Alemagna ossia della
Suevia, benchè figliastro dell'imperadore, prese l'armi contra di lui.
L'arrivo di Corrado ad Augusta dissipò tutti i disegni di que' principi.
Guelfo, Ernesto e Corrado vennero all'ubbidienza, e colla prigionia e
coll'esilio di qualche tempo pagarono la pena della lor ribellione.
Racconta Wippone[441], che Corrado _per biennium omnes Ticinenses
afflixit, donec omnia quae precepit omni dilatione postposita
compleverunt_. Però si può credere che i Pavesi in quest'anno, indotti a
rifabbricar entro la lor città il palazzo regale, tornassero in grazia
dell'Augusto Corrado. Circa questi tempi, per quanto si raccoglie da
Arnolfo storico[442], venne a morte il vescovo di Lodi, e quel popolo,
secondo l'antico rito, elesse il successore. Ma Eriberto arcivescovo di
Milano, che in ricompensa delle tante fatiche e spese fatte per esaltare
l'imperador Corrado, e per potere signoreggiar egli sotto l'ombra di lui
in Lombardia, avendo fra gli altri privilegii ottenuto da esso Augusto
di poter dare a Lodi quel vescovo che gli piacesse, scelse e conservò
vescovo di quella città _Ambrosio_, uno de' suoi cardinali: che allora
molte chiese d'Italia, massimamente le maggiori, avevano i lor cardinali
al pari della chiesa romana. Sdegnati i Lodigiani per questa novità, che
era anche contra de' canoni, gli fecero la testa. Ma il feroce
arcivescovo, messa insieme un'armata, lor mosse guerra, prese
all'intorno le lor terre e castella, e portò l'assedio alla stessa città
di Lodi. Non potendo di meno que' cittadini, cedettero alla forza,
accettarono Ambrosio vescovo, il qual poscia fece ottima riuscita; ma di
là nacque un odio implacabile de' Lodigiani contra de' Milanesi, il qual
poscia partorì immense ruberie, incendii, e stragi per moltissimi anni
avvenire. Credesi che in questo anno terminasse i suoi giorni e le sue
mirabili fatiche san _Romoaldo_ abbate istitutore dell'ordine
camaldolese, in età di cento venti anni, come lasciò scritto san Pier
Damiano[443]. V'ha chi crede che il Damiano, autore avvezzo a credere e
spacciare il mirabile dappertutto, senza avvedersene abbia accresciuto
di troppo gli anni di questo santo. Ma intorno a ciò son da vedere le
dissertazioni camaldolesi del padre abbate Grandi, celebre letterato,
che dottamente ha esaminato questo punto[444]. S'ebbe a male _Pandolfo
IV_, dopo avere ricuperato il principato di Capoa[445], che _Sergio
duca_ di Napoli avesse dato ricovero nella sua città a Pandolfo di
Tiano, cioè al vinto emulo. E senza di questo, che non fa il mantice
dell'ambizione ne' potenti signori[446]? Quando men Sergio se
l'aspettava, eccoti Pandolfo colla sua armata volare all'assedio di
Napoli, e strignere talmente quella città, che l'obbligò alla resa.
Sergio ebbe maniera di fuggirsene; e Pandolfo di Tiano scappò anch'egli
a Roma, dove miseramente terminò i suoi giorni. A niuno de' principi
longobardi era mai riuscito nei secoli addietro di mettere il piede in
Napoli. Questa fu la prima volta, ma Pandolfo neppur egli potè
lungamente sostenere una tal conquista, siccome diremo. Nella Cronica
del Volturno[447] si vede che _Pandolfo IV_ e suo figliuolo _Pandolfo V_
contavano nel mese di marzo e di aprile dell'anno seguente 1028 l'_anno
primo ducatus neapolitani_.

NOTE:

[433] Antiquit. Ital., Dissert. XLV.

[434] Wippo, in Vit. Conradi Salici.

[435] Arnulfus, Mediolan. Hist., lib. 2, c. 3.

[436] Chron. Farfense, P. I, tom. 2, Rer. Ital.

[437] Antiquit. Italic., Dissert. LXV.

[438] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Episcop. Patav. et Veronens.

[439] Chronic. Farf. P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[440] Antiquit. Italic., Dissert. XIX.

[441] Wippo, in Vit. Conradi Salici.

[442] Arnulf., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 6.

[443] Petrus Damian., in Vita S. Romualdi.

[444] Grandi, Dissertationes Camaldulenses.

[445] Anonymus Casinensis, tom. 5 Rer. Ital.

[446] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 58.

[447] Chron. Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MXXVIII. Indizione XI.

    GIOVANNI XIX papa 5.
    CORRADO II re di Germania 5, imperadore 2.


Avea nell'anno precedente terminato il corso di sua vita _Arrigo duca_
di Baviera[448]; però l'_Augusto Corrado_ scelse per quel ducato la
persona più cara ch'egli avesse, cioè il suo stesso figliuolo _Arrigo_.
In quest'anno poscia gli procurò una maggior dosa d'onore, con farlo
eleggere re di Germania in età di soli undici anni. La sua coronazione
fu solennemente fatta in Aquisgrana nel dì 14 di aprile, cioè nel giorno
santo di Pasqua. Abbiam veduto di sopra che _Corrado duca_ di Franconia,
ossia di Wormacia, cugino dell'imperadore, restò escluso dal trono
imperiale. Da lì innanzi non si quietò giammai, e fece guerra contra
d'esso imperadore per più anni, ma con suo grave discapito. Alla perfine
l'Augusto Corrado, in riguardo massimamente della parentela, ed anche
per compensarlo dei danni a lui recati, perchè gli avea smantellate
tutte le sue fortezze, il rimise in sua grazia, gli restituì tutti i
suoi stati di Germania; e poi, siccome diremo all'anno 1035, gli fece
anche una considerabil giunta e regalo. Chi dopo la morte di _Ugo
marchese_ di Toscana, succeduta sul fine dell'anno 1001, succedesse a
lui nel governo del ducato di Spoleti e della marca di Camerino, e
reggesse quel paese fino a questi dì, non l'ho saputo finora discernere
per mancanza di documenti. Nelle giunte da me pubblicate alla Cronica
del monistero di Casauria[449], noi troviamo chi in quest'anno fosse
duca di Spoleti e marchese di Camerino, cioè un altro _Ugo_. Veggonsi
due placiti, tenuti l'uno nella città di Penna, e l'altro nella città di
Marsi, _anno ab Incarnatione Domini MXXVIII, et imperante domno Chonrado
gratia Dei imperatore Augusto, anno imperii ejus in Italia primo, et die
mensis januarii, per Indictionem X_. Nell'originale sarà stato _Indict.
XI_. Era presidente ad essi placiti _Ugo dux et marchio_. La pena
imposta ai trasgressori è di mille libbre d'oro ottimo, _medietatem ad
partem imperatoris, et medietatem ad partem praedicti sancti monasterii_
di Casauria: parole indicanti il dominio dell'imperadore in quella
contrada, e che per conseguente ivi si parla del ducato di Spoleti,
oppur della marca di Camerino, ossia di Fermo. Probabilmente questo Ugo
ebbe per padre _Bonifazio_ juniore duca di Spoleti, come ho
conghietturato altrove[450].

Circa questi tempi succedette quanto lasciò scritto Glabro storico[451],
benchè con qualche imbroglio di cronologia. Cioè in un castello,
appellato Monforte, nella diocesi d'Asti, pieno di molti nobili, s'era
introdotta un'eresia, con rinnovar i riti dei pagani e de' Giudei. Per
quel che dirò, furono costoro piuttosto manichei, giacchè questa mala
razza s'era di soppiatto molto prima introdotta in Italia e in Francia,
e pur troppo in tutti e due questi regni avea sparse di grandi radici
coll'andare degli anni. _Saepissime tam Mainfredus marchionum
prudentissimus, quam frater ejus Alricus, astensis urbis praesul, in
cujus scilicet dioecesi locatum habebatur hujusmodi castrum, ceterique
marchiones, ac praesules circumcirca creberrimos illis assultus
intulerunt._ Ciò che avvenisse di quel castello e di quegli eretici,
Glabro lo lasciò nella penna. Ma ne parla ben diffusamente Landolfo
seniore[452], storico milanese del presente secolo, con dire che
_Eriberto arcivescovo_ in questi tempi di Milano, trovandosi in Torino,
udì l'eresia degli abitanti del castello di Monforte. Fatto prendere un
di coloro, appellato Girardo, volle intendere da lui in che consistesse
la setta e credenza di quel popolo. Allegramente espose costui i suoi
dommi, e chiaro si scorge che era la eresia de' manichei. Allora
Eriberto spedì le sue milizie a quel castello, e fece prendere tutti
quanti quegli abitatori, e specialmente la contessa di quel luogo.
Fattili condurre a Milano, cercò tutte le vie di ridurli a ravvedimento,
ma in vece d'abiurare i loro errori, si misero a sedurre chiunque andava
a visitarli. Perciò fu loro intimata la morte, se non ritornavano alla
vera fede di Cristo. Alcuni, almeno in apparenza, la abbracciarono;
ostinati gli altri vivi furono bruciati. Ma giacchè abbiam parlato qui
di _Odelrico Magnifredo_, ossia _Manfredi_ marchese di Susa, da noi
altre volte menzionato, ed onorato da altri scrittori di questi tempi
coll'elogio di principe prudentissimo, bene sarà il ricordare ch'egli
fondò in quest'anno (come costa da uno strumento presso l'Ughelli[453])
il convento delle monache di santa Maria di Caramania, oggidì nella
diocesi di Torino, insieme con _Berta_ contessa sua moglie. Con queste
parole si veggono essi enunziati: _Nos in Dei nomine Odelricus, qui
miseratione Dei Magnifredus marchio scilicet nominatus, filius quondam
Magnifredi similiter marchionis, et Berta, auxiliante Deo, jugales,
filia quondam Auberti itemque marchionis_. Dal che si scorge che Berta
sua moglie fu figliuola del marchese _Oberto II_, progenitore della casa
d'Este. Hassi ancora all'anno seguente la fondazione fatta da questi due
piissimi consorti, e da _Alrico_ vescovo d'Asti, fratello d'esso
marchese, della badia di san Giusto di Susa[454], in cui si vede che
Berta avea per fratelli _Adalberto_ marchese, _Azzo_ ed _Ugo_, che
appunto si trovano in questi tempi figliuoli del suddetto marchese
Oberto II. Da _Azzo_ vengono i principi estensi.

NOTE:

[448] Annalista Saxo, Hermannus Contractus, in Chron.

[449] Chron. Casaur., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[450] Antiq. Ital. Dissert. VI, pag. 987, et Dissert. XV, pag. 855.

[451] Glaber, Hist., lib. 4, c. 2.

[452] Landulfus senior, Hist. Mediolan. lib. 2, cap. 27.

[453] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4.

[454] Antichità Estensi, P. I, cap. 13.



    Anno di CRISTO MXXIX. Indizione XII.

    GIOVANNI XIX papa 6.
    CORRADO II re di Germania 6, imperadore 3.


Mordeva il freno _Sergio duca_ di Napoli, perchè cacciato fuori del suo
nido da _Pandolfo IV_ principe di Capua, e studiava tutte le vie di
rientrare in casa. Dopo due anni e mezzo ch'egli era esule[455], gli
venne fatto di ricuperare il suo principato, e per conseguente o sul
fine di quest'anno, oppur nell'anno seguente. Probabilmente gli
prestarono aiuto per mare i Greci, perchè Napoli fin qui s'era sempre
tenuta salda sotto la sovranità degl'imperadori d'Oriente, benchè i suoi
duchi, appellati anche maestri de' militi, godessero una piena signoria
in quella città e nelle sue dipendenze. Sembra anche certo che a tale
impresa concorressero in aiuto suo i Normanni, i quali andavano
crescendo in quelle contrade; gente che sapeva pescare nel torbido, e
seguitava senza scrupolo ora l'uno, ora l'altro di que' principi,
anteponendo sempre chi gli dava o prometteva di più. Nè mancavano a
Sergio dei partigiani nella stessa città di Napoli; e però ne tornò
felicemente in possesso. Si sa ch'egli donò un delizioso e fertile
territorio fra Napoli e Capoa (senza fallo per guiderdone del buon
servigio), ai Normanni con crear conte _Rainulfo_ capo de' medesimi, e
imparentarsi seco. Allora fu che i Normanni si diedero a fabbricar case
in quel sito che a poco a poco divenne una città chiamata _Aversa_, di
cui fu il primo conte il predetto Rainulfo, e che servì di baluardo da
lì innanzi contro la potenza de' principi di Capoa. Il trovarsi poi così
ben agiati e favoriti in Italia i Normanni, e la fama delle lor delizie
portata in Normandia, andava facendo venire di colà nuovi compagni nella
Campania a partecipar della fortuna e felicità de' lor nazionali.
Abbiamo da Lupo Protospata[456] che in quest'anno fu mandato in Italia
per catapano ossia generale de' Greci _Cristoforo_, e che _Bugiano_ con
_Oreste_ se ne tornò a Costantinopoli. Aggiugne il suddetto Cronista che
_mense julii venit Potho catapanus, fecitque pugnam cum Rayca in Baro_.
Tanto son corte queste memorie, che non si arriva a distinguere nè le
persone, nè le azioni succedute in que' paesi. Tuttavia assai traluce
dello Anonimo barense[457], che dopo la morte di Melo questo Rayca si
fece capo dei Pugliesi ribelli ai Greci. Abbiamo di nuovo sotto
quest'anno memoria di _Ugo marchese_, uno degli antenati della casa di
Este, in uno strumento dato alla luce dal Campi[458] e scritto colle
note seguenti: _Conradus gratia Dei imperator Augustus, anno imperii
ejus, Deo propitio, secundo, X kalendas februarii, Indictione XII_, che
indicano l'anno presente. Egli è quivi chiamato _Ugo marchio filius
bonae memoriae Oberti, qui fuit item marchio_. È magnifica la compra
ch'egli fa di una gran quantità di beni, ascendenti secondo la misura a
_diecimila iugeri_, che, secondo il Campi, danno _centoventimila
pertiche_. Fra questi beni posti ne' territorii di _Pavia_, _Piacenza_,
_Parma_ e _Cremona_, si contano varii castelli, rocche, corti e chiese,
che si trovano poi confermate nell'anno 1077 da Arrigo III, detto il IV,
alla casa d'Este. Così coll'una mano raunava questo principe delle
ricchezze, ma coll'altra ne faceva anche parte ai sacri luoghi.
Perciocchè in quest'anno appunto, oppure nel 1038, come vuole il Campi,
si osserva in un altro suo strumento[459] che egli dona alla cattedrale
di Piacenza due porzioni della decima di Portalbero, e la terza alla
chiesa di santa Maria _de ipso loco Portalbero_. Molt'altri effetti
della sua pietà e munificenza verso le chiese ci ha nascoso il tempo; ma
non ci è ignoto che egli magnificamente arricchì l'antica badia della
Pomposa, situata oggidì nel distretto di Ferrara, e governata dal
vivente allora _Guido_ abbate, uomo santo, di cui si è parlato di sopra.
Arrigo II fra gl'imperadori in un suo diploma, da me dato alla luce
nelle Antichità estensi, e scritto nel settembre dell'anno 1045, chiama
essa badia _ab Ugone marchione magnifice ditatam_, e le conferma
_quidquid sibi junior Ugo marchio filius Uberti dedit_. L'anno in cui
questo principe mancò di vita, è a noi ignoto. Probabilmente non molto
sopravvisse dopo l'anno presente. Ebbe moglie, ma non apparisce ch'egli
lasciasse dopo di sè figliuoli: laonde la sua eredità pervenne al
_marchese Alberto Azzo I_ suo fratello, se era vivo, oppure al _marchese
Alberto Azzo II_ suo nipote, del quale comincieremo a parlar da qui
innanzi. Fu di parere l'Ughelli[460], che _Eriberto arcivescovo_ di
Ravenna passasse a miglior vita nell'anno 1027. Non ne adduce alcuna
pruova. Ben certo è per uno strumento addotto da Girolamo Rossi[461],
che si truova in quest'anno, _anno quarto Johannis papae, imperante
Chuonrado anno tertio, die XI aprilis, Indictione XII_, arcivescovo di
quella città _Gebeardo_. In vece di _anno quarto_, avrà avuto la
pergamena _anno V_, oppure _VI_, e il Rossi per isbaglio avrà letto
_anno IV_. Egli stesso confessa, che nell'anno seguente 1030 a dì 6 di
giugno correva tuttavia l'_anno VI_ di papa Giovanni XIX. In un
documento, da me dato alla luce[462], torna a farsi vedere il marchese
di Susa _Odelrico Magnifredo_, ossia _Manfredi_, il quale si protesta
figliuolo di un altro _Magnifredo_ marchese. Di questo principe avremo
occasion di parlare in breve.

NOTE:

[455] Anonymus Casinens., tom. 5 Rer. Italic. Leo Ostiensis, lib. 2,
cap. 58.

[456] Lupus Protospata, in Chronico.

[457] Anonymus Barensis, Chron., tom. 5 Rer. Italic.

[458] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1 Append.

[459] Antichità Estensi, P. I, cap. 12.

[460] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Archiepiscop. Ravenn.

[461] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.

[462] Antiquit. Ital., Dissert. VI, pag. 341.



    Anno di CRISTO MXXX. Indizione XIII.

    GIOVANNI XIX papa 7.
    CORRADO II re di Germania 7, imperadore 4.


Insorse in quest'anno guerra fra l'_imperador Corrado_ e _Stefano_ primo
re d'Ungheria, principe santo, per colpa non già degli Ungheri, ma bensì
dei Bavaresi lor confinanti[463]. Mosse Corrado un potente esercito a
quella volta, e giunse fino al fiume Rab. Seguirono saccheggi ed
incendii sì nell'Ungheria che nella Baviera. Ma il buon re Stefano, a
cui non piaceva questa brutta musica, e che si trovava anche inferiore
di forze, con una ambasciata spedita al giovinetto re Arrigo dimandò
pace; e questi dall'Augusto Corrado suo padre l'ottenne. Circa questi
tempi _Pandolfo IV_ principe di Capoa, ingrato ai benefizii a lui
compartiti da Dio, tornò ad imperversar come prima contra del
nobilissimo monistero di Monte Casino, nulla curando che quel sacro
luogo fosse sotto l'immediata signoria e protezion degl'imperadori[464].
Chiamò a Capoa Teobaldo abbate con invito di gran benevolenza, e il
forzò a non partirsi da quella città. Si fece giurar fedeltà da tutti i
sudditi di quella badia, distribuì ai Normanni, allora suoi aderenti,
una parte delle castella dipendenti da esso monistero, e diede l'altra
in governo ad un certo Todino, uno de' famigli del monistero, che
aspramente cominciò a trattare i poveri monaci. In una parola fu ridotto
a tal miseria quel sacro luogo, che un giorno i monaci disperati presero
la risoluzione d'andarsene tutti in Germania a' piedi dell'imperadore
per implorar aiuto, e si misero in viaggio. Avvisato di ciò il suddetto
Todino, corse, e tante preghiere e promesse adoperò, che li fece tornare
indietro. Abbiamo dagli Annali pisani[465] che in quest'anno _in
Nativitate Domini Pisa exusta est_. Di simili incendii di città italiane
in questi secoli noi ne andremo trovando da qui innanzi non pochi. Non
erano allora molte d'esse città fabbricate colla durevolezza e pulizia
de' nostri tempi. Molto legname concorreva a farle, e in molti di quegli
edifizii duravano ancora i tetti coperti di paglia, siccome ho io
altrove accennato[466]. Però non è da stupire, se attaccato il fuoco in
un luogo, facilmente si diffondesse la fiamma sino a prendere la maggior
parte delle città. Abbiam parlato di sopra con lode di _Magnifredo_
marchese di Susa. Non si vuol ora tacere un fatto narrato dall'autore
della Cronica della Novalesa[467]. Secondo gli abusi di questi secoli
barbari, avea l'imperador Corrado, stando in Roma, conferita la badia
della Novalesa al nipote di santo Odilone abbate di Clugnì, il quale per
essere giovinetto, dopo averle recato non lieve danno, la concedette in
benefizio (probabilmente per danari) ad _Alberico_ vescovo di Como.
Questo prelato ingordo _Taurinum veniens, egit arte callida cum
marchione Maginfredo, et fratre suo Adelrico praesule_ (d'Asti),
_datoque multo pretio, ut abbatem caperent: quod et fecit_. Nel dì
seguente i cittadini di Torino, che amavano ed apprezzavano forte
quell'abbate, fecero una gran raunata per levarglielo dalle mani. _Sed
praedictus marchio cum turba militare praevaluit, interdicens illis, ne
quid offenderent_. Può essere che sel meritasse l'abbate. Ne ho io fatta
menzione, acciocchè il lettore osservi come in questi tempi la città di
Torino dovea essere sotto la giurisdizione del marchese Magnifredo o
Manfredi. In quest'anno trovandosi l'imperador Corrado in Ingeleim
_XVIII kalendas aprilis, anno Chuonradi regnantis sexto, ejusdemque
imperii tertio_[468], confermò i suoi beni e diritti alla badia di santa
Maria di Firenze, con dichiararla badia imperiale e regale.

NOTE:

[463] Annales Hildesheim. Wippo, in Vita Conradi Salici.

[464] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 58 et seq.

[465] Annali Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[466] Antiq. Ital., Dissert. XXI.

[467] Chron. Novalic., P. II, tom. 2 Rer. Ital., pag. 760.

[468] Bullar. Casinense, tom. 2, Constit. LXXXV.



    Anno di CRISTO MXXXI. Indizione XIV.

    GIOVANNI XIX papa 8.
    CORRADO II re di Germania 8, imperadore 5.


Scrive Romoaldo salernitano[469] che _anno MXXX, Indictione XIII
Johannes princeps Salerni defunctus est anno principatus sui LVII, et
successit ei Guaymarius filius ejus_. Ma è fallato il testo, e in vece
di _Johannes_ avrà scritto Romoaldo _Guaymarius_, cioè _Guaimario III_
principe di Salerno. Anche l'Anonimo barense presso il Pellegrini mette
all'anno 1030 la morte di questo principe. In un testo di Lupo
Protospata[470] essa viene riferita all'anno 1029. Ma il suddetto
Camillo Pellegrini portò opinione che Guaimario III conducesse la sua
vita fino all'anno presente 1031, parendogli che si possa ciò ricavare
da alcuni antichi strumenti. Abbiamo inoltre tanto dall'Anonimo
barense[471], quanto dal Protospata suddetti, che _mense junii
comprehenderunt Saraceni Cassianum_, cioè la piccola città di Cassano
nella Calabria; e che nel dì 3 di luglio Poto catapano de' Greci venne a
battaglia con quegli infedeli, e restò sconfitto con lasciarvi egli la
vita. Passò alla gloria de' beati in quest'anno san _Domenico abbate_
del monistero di Sora, appellato da Leone ostiense[472] _mirabilium
patrator innumerum, et caenobiorum fundator multorum_. Il Sigonio, e
dopo lui Angelo dalla Noce[473] abbate casinese stimarono Domenico
Sorano lo stesso che san _Domenico Loricato_. Ma andarono lungi dal
vero. Certo è che furono due persone diverse. Il Loricato volò al cielo
nell'anno 1061, come dirittamente osservò il cardinal Baronio[474].
Ossia che si pentissero finalmente i Veneziani dell'aspro trattamento da
lor fatto ad _Ottone Orseolo_ lor doge; oppure che s'infastidissero del
governo di _Pietro Barbolano_ a lui sustituito nel ducato; oppure, come
è più probabile, che prevalesse la fazion degli Orseoli: certo è, per
attestato del Dandolo[475], ch'essi preso in questo anno il suddetto
Pietro doge, senza saponata gli levarono la barba, e vestitolo da
monaco, il mandarono in esilio a Costantinopoli. Quindi inviarono alla
stessa città di Costantinopoli _Vitale_ vescovo di Torcello con bello
accompagnamento a ricondurre di colà _Ottone Orseolo_, per rimetterlo
sul trono ducale. Intanto diedero il governo della terra ad _Orso
Orseolo_ patriarca di Grado, e fratello d'esso Ottone, uomo di gran
senno e generosità, il quale per un anno e due mesi fece da vice-duca
con molta sua lode.

Due diplomi ho io dato alla luce[476], che in quest'anno ottenne
dall'Augusto Corrado _Ubaldo_ vescovo di Cremona, amendue dati _III
kalendas martii, anno dominicae Incarnationis MXXXI, Indictione XIIII,
anno autem domni Chuonradi secundi regnantis VI, imperantis vero IIII.
Actum Goslare_. In tutti e due questi documenti è notato l'_anno sesto
del regno_, e conseguentemente pare adoperata l'epoca del regno
d'Italia. Ma di qui risultando che la coronazione italica di Corrado
sarebbe seguita prima del dì 26 di febbraio dell'anno 1026, converrà
meglio interpretare Ermanno Contratto[477], allorchè ad esso anno 1026
scrive che Corrado _circa tempus quadragesimae cum exercitu Italiam
adiit_. Diede fine in questo anno in Fiscanno alla sua santa vita
_Guglielmo abbate_ di Dijon in Francia[478], celebre nella storia
monastica per le sue virtù e per la fondazione di varii monisterii, fra'
quali quello di san Benigno di Fruttuaria in Piemonte, e per avere
introdotta la riforma in assaissimi monisteri, massimamente di Francia.
Glabro Rodolfo[479] suo contemporaneo, nella vita che scrisse di lui,
attesta, tale essere stata la fama e stima d'esso Guglielmo abbate, _ut
cunctas Latii ac Galliarum provincias ipsius amor ac veneratio
penetraret. Nam reges ut patrem, pontifices ut magistrum, abbates et
monachi ut archangelum, omnes in commune ut Dei amicum, suaeque
praeceptorem salutis habebant_. Ne ho fatta menzione, perchè egli senza
dubbio fu di nascita italiano. Secondo la testimonianza del medesimo
Glabro, egli nacque nell'isola di san Giulio della diocesi di Novara,
nel tempo stesso che Ottone il Grande assediò Willa moglie di Berengario
re d'Italia in quell'isola del lago d'Orta: il che, siccome abbiam
veduto, succedette nell'anno 962. Ottone stesso, dopo la presa di quel
luogo, il tenne al sacro fonte. Non s'ingannò Glabro in iscrivendo
ch'egli morì nell'anno presente 1031, in età d'_anni settanta_; ma
ingannossi bene il padre Mabillone[480], volendo qui correggere Glabro,
quasichè Guglielmo avesse dovuto nascere nell'anno 961, perchè molto ben
si verifica che egli fosse nato nel 962, e che nel presente 1031 egli
fosse entrato nell'anno settantesimo di sua età, benchè sia vero che
Berengario morì molto più tardi di quel che suppose Glabro. Se vogliam
credere a Sigeberto[481], in quest'anno _Robertus et Richardus_ (nobili
normanni) _minuendae domo multitudinis caussa, hoc tempore a Normannia
digressi, Apuliam expetunt, et Italis inter se dissidentibus, dum alteri
contra alterum auxilium praestant, hac opportunitate Italos callide et
fortiter debellant, et successus urgendo suos nomen suum dilatant, et
futurae prosperitatis sibi viam parant_. Se, come io credo, e si
raccoglie da altro susseguente luogo, Sigeberto vuole che _Roberto
Guiscardo_ nell'anno presente dalla Normandia passasse in Puglia, egli
racconta delle favole. Nè in questi tempi fu guerra in Puglia, nè fra i
principi di quelle contrade, e noi vedremo a suo tempo quando esso
Roberto venne in Italia. Ma forse parla di un diverso Roberto quello
storico.

NOTE:

[469] Romuald. Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[470] Lupus Protospata, in Chron.

[471] Anonym. Barensis, tom. 5 Rer. Ital.

[472] Leo Ostiensis in Chron., lib. 2, cap. 62.

[473] Angelus de Nuce, in Notis ad Chron. Leonis Ostiensis.

[474] Baron., in Annal. et in Martyrologio.

[475] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[476] Antiquit. Italic., Dissert. VIII et XIX.

[477] Ermannus Contractus, in Chron.

[478] Mabillon., in Annal. Benedictin.

[479] Glaber, in Vita Wilielmi Divion. apud Mabillon.

[480] Mabill., Annal. Benedict., ad ann. 987.

[481] Sigebertus in Chron.



    Anno di CRISTO MXXXII. Indizione XV.

    GIOVANNI XIX papa 9.
    CORRADO II re di Germania 9, imperadore 6.


Cessò di vivere in quest'anno _Rodolfo III_ re di Borgogna,
soprannominato il _Dappoco_, senza lasciar figliuoli. Aveva egli per
cura del santo imperadore Arrigo riconosciuto per dominio dipendente
dall'imperio il suo regno[482]; oppure perchè ciò si pretendeva fatto
nei tempi insino di Arnolfo re di Germania, egli venne a soggettarlo di
nuovo all'imperio. L'_imperador Corrado_ maggiormente strinse questo
affare, usando anche della forza, con indurre Rodolfo a promettere di
aver per successore in quel regno o lui, o in suo luogo il giovane
_Arrigo re_, con pretenderlo ancora per le ragioni di _Gisela_ o _Gisla_
imperadrice sua moglie, nipote del suddetto Rodolfo[483]. Ed era ben
vasto e fiorito quel regno, perchè da Basilea si stendeva fino ad Arles
e a Marsilia, con abbracciare la Provenza, Lione, il Delfinato ed altri
paesi[484]. Ne fu portata la corona coll'altre regali insegne, e
massimamente colla lancia di san Maurizio, all'Augusto Corrado. Ma
_Odone II_ conte ossia duca di Sciampagna perchè figliuolo di Berta
sorella del defunto re Rodolfo, pretendendo a quella eredità, si
prevalse della congiuntura che esso re imperadore si trovava impegnato
coll'armi nella Schiavonia, o, per meglio dire, nella Polonia contra di
Misicone re oppure duca di quelle contrade; ed entrò in possesso della
Borgogna. Perciò Corrado s'andò preparando per fare nell'anno seguente
una disgustosa danza nel regno a lui rapito. Abbiamo spettante a
quest'anno un documento che ci scuopre chi fosse ne' tempi presenti duca
e marchese della Toscana. Pubblicò l'Ughelli[485] la fondazione de'
canonicati fatta nella sua chiesa da _Jacopo_ vescovo di Fiesole. _Anno
dominicae Incarnat. MXXXII, imperii domni Conradi Augusti V, Indictione
XV_. Dice di far quell'opera per la salute degl'imperadori, e
specialmente di Arrigo I fra gli Augusti, che l'avea promosso a quella
chiesa. _Necnon pro salute Conradi serenissimi imperatoris felicis
memoriae_ (così dicevano altri ancora de' principi viventi) _suaeque
conjugis Gislae Augustae, et filii ejus II. necnon Bonifacii serenissimi
ducis et marchionis Tusciae_. Sicchè probabil cosa è che fin nell'anno
1027 _Rinieri_ marchese di Toscana, volendo cozzare col re Corrado, con
essere poi necessitato a rendersi, decadesse da quel ducato, e che sulle
rovine di lui si alzasse il marchese _Bonifazio_, padre della gran
contessa Matilda. Comunque sia, l'abbiamo _duca della Toscana_ in questi
tempi. Tornarono nell'anno presente gli ambasciatori[486], spediti dal
popolo di Venezia a Costantinopoli, per ricondurre di colà il già
esiliato lor doge _Ottone Orseolo_, colla nuova ch'egli avea dato fine
alla sua vita in quella città. Il perchè _Orso patriarca_ di Grado suo
fratello, stato vice-doge per un anno e due mesi, rinunziò il governo.
Col favore di poca parte di popolo s'intruse nel ducato _Domenico
Orseolo_, e male per lui, perciocchè non andò molto, che formatasi una
potente sollevazione contra di lui, ebbe fatica a salvarsi con ritirarsi
a Ravenna, dove lasciò poi le sue ossa. Girolamo Rossi[487] mette la sua
fuga e morte nell'anno 1024. Merita ben più fede in questo Andrea
Dandolo, diligente scrittore delle cose della patria sua. Fu dunque
creato doge di Venezia _Domenico Fabianico_, che allora si trovava in
esilio; con che cessarono tutte le fazioni e discordie de' Veneziani.
Questi, soggiugne il Dandolo, _a Costantino Augusto protospatarius
ordinatus est_. Ma dovea dire da _Romano Argiro_, il quale nell'anno
1028 era succeduto a Costantino nell'imperio d'Oriente. Per attestato di
Lupo Protospata[488] e dell'Anonimo Barense[489], in quest'anno il
medesimo _Romano imperador _ de' Greci mandò per Catapano, ossia
governator generale dei suoi Stati in Italia, _Costantino protospata_,
chiamato ancora _Opo_.

NOTE:

[482] Ditmarus, Chronic., lib. 7.

[483] Wippo, in Vita Conradi Salici.

[484] Guatherus Ligurio., lib. 5.

[485] Ughell., Ital. Sacr., tom. 3 in Episcop. Faesulan.

[486] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[487] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[488] Lupus Protospata, in Chronico.

[489] Anonym. Barensis, Chron., tom. 5 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MXXXIII. Indizione I.

    BENEDETTO IX papa 1.
    CORRADO II re di Germania 10, imperadore 7.


Oltre a quest'anno non passò la vita di _Giovanni XIX_. Non ci è noto il
giorno e mese in cui egli cessò di vivere. Ben sappiamo che ebbe nel
mese di giugno per successore nella cattedra di s. Pietro _Benedetto
IX_. Adunque uno strumento accennato da Girolamo Rossi[490], dove si
legge il suo _anno terzo_ nel dì 25 di giugno dell'anno seguente,
patisce delle difficoltà. Aggiungo di più, che nel Bollario casinense e
negli Annali benedettini del padre Mabillone si truovano documenti,
secondo i quali parrebbe che esso Benedetto IX avesse conseguito il
pontificato nell'anno precedente, e non già nel presente. Tali nondimeno
e tanti sono gli altri che ci assicurano aver egli solamente in
quest'anno conseguita la dignità pontificia, che non credo si possa
dipartire dall'opinione suddetta. Ora noi troviamo questo pontefice
sommamente screditato nella storia ecclesiastica. Egli è appellato da
Glabro[491] _nepos duorum, Benedicti atque Johannis_ (romani pontefici),
_puer ferme decennis, intercedente thesaurorum pecunia, electus a
Romanis_. Non par notizia sicura ch'egli fosse di età sì tenera. Dicono
ancora che si chiamava prima _Teofilatto_. Anche di questo io dubito,
sembrando, per le notizie da me addotte altrove, che non egli, ma
_Benedetto VIII_ suo zio portasse questo nome. Ha ben ragione di dar qui
nelle smanie il cardinal Baronio[492] contra di questo mostro, con
saviamente confutare dipoi i nemici della Chiesa cattolica, che di qui
prendono motivo di sparlare della Chiesa romana. Non lasciarono mai, nè
lasciano le chiese, e specialmente quella che è capo di tutte, d'essere
sacrosante venerabili, ancorchè talvolta ministri indegni ne giungano al
governo. Così durò anche allora in tutti i savii cristiani la
venerazione dovuta alla Sede apostolica, tuttochè ciascun disapprovasse
e l'ingresso e la vita di questo pontefice, che fu veramente esecrabile
e sporca. I vizii de' sacri pastori non son già vizii delle loro sedie.
Passa anche il cardinale Annalista a riprovare, e meritamente, i
principi del secolo, qualor vogliano metter mano nell'elezione de' sommi
pontefici. Ma è da vedere se questo fosse il luogo di dar questo ricordo
ai principi. Pare piuttosto ch'egli dovesse ricordare ai suoi elettori
di aver gli occhi solamente a Dio e al bene della Chiesa, e non già allo
splendor dell'oro, nè a' proprii vantaggi. Nella elezione di Benedetto
IX niun principe ebbe mano. L'oro fu il principe che fece eleggerlo, e
da questo tiranno, e non da violenza di principe alcuno, si lasciarono
questa volta abbagliare il clero e popolo romano. Abbiamo da Vittore III
papa[493] che questo Benedetto di nome, ma non di fatti, _cujusdam
Alberici filius (Magi potius Simonis, quam Simonis Petri vestigia
sectatus) non parva a patre in populum profligata pecunia, summum sibi
sacerdotium vendicavit. Cujus quidem post adeptum sacerdotium vita quam
turpis, quam foeda, quam exsecranda exstiterit, horresco referre_. Ma
allora pur troppo la simonia facea grande strage non in Roma solo, ma
per tutta la Cristianità. Ed essa più facilmente ancora mettea le zampe
nell'elezion de' papi, perchè a questa interveniva anche il popolo
secolare. Lodiamo Dio che questa mal erba, sempre detestata, sempre
fulminata dalla Chiesa cattolica, truovò da lì a pochi anni degli
zelantissimi papi che seriamente attesero a sradicarla; e lodiamolo,
perchè a miglior ordine ridotta la elezion de' romani pontefici, non più
si veggono nella sedia di san Pietro personaggi che, in vece di
edificare distruggano, nè vescovi nelle altre chiese mancanti affatto di
quelle belle doti che san Paolo desidera ed esige in ogni sacro pastore
della Chiesa di Dio.

Nel gennaio dell'anno presente si trovava in Basilea l'_imperador
Corrado_, come costa da un suo diploma pubblicato da me[494]. In quello
stesso mese, per attestato di Wippone[495], egli mosse l'armata sua
verso il regno della Borgogna, per ispossessarne Odone conte ossia duca
di Sciampagna. Arrivato nel giorno della Purificazion della Vergine al
monistero Paterniaco, quivi da buona parte dei grandi d'esso regno fu
riconosciuto per re, e ne ricevette la corona nel giorno stesso.
S'accinse ancora all'assedio di alcune castella; ma sì fiero e
straordinario fu il freddo in quelle parti, che convenne desistere e
ritirarsi. Tornossene dunque indietro, e trovandosi nel castello
Turcico, vennero ad inchinarlo la vedova regina di Borgogna
_Ermengarda_, con altri non pochi Borgognoni, i quali aveano fatta la
via d'Italia per timor di Odone. Venuta poi la state, l'imperadore, in
vece di portar l'armi contro il regno della Borgogna, andò a dirittura a
cercar Odone in casa sua, cioè nella Sciampagna, dove sì terribil guasto
diede, che Odone per necessità venne a trovar Corrado con tutta umiltà,
e a chiedere perdono, con promettere quello che, siccome uomo di mala
fede, non voleva eseguire. Contento di questo, se ne tornò in Germania
Corrado. Immaginossi il cardinal Baronio[496], per un passo mal inteso
di Glabro, ch'esso Augusto calasse in quest'anno in Italia. Ciò è troppo
lontano dal vero, come avvertì il padre Pagi[497]. Anche il padre
Daniello[498], sinistramente interpretando un altro passo di Glabro, si
credette che il popolo di Milano, ribellatosi all'Augusto Corrado,
spedisse nell'anno presente ambasciatori ad offerir la corona d'Italia
al predetto Odone. Ciò seguì molto più tardi, siccome vedremo. Erano in
questi tempi i Milanesi sommamente attaccati e fedeli all'imperadore. Nè
si vuol tacere che, per attestato del suddetto Glabro[499], in questo
anno cominciò per la prima volta ad udirsi il nome della _Tregua di
Dio_, proposta dai vescovi delle provincie di Arles e di Lione, che poi
fu stabilita più tardi, ed anche abbracciata da molti in Italia. Erano
allora non meno in Francia che in Italia in uso le guerre private: cioè
permettevano le leggi il potersi vendicare dei nemici, dacchè il fallo
era patente e conosciuto da' pubblici ministri. Però le discordie e
vendette si tramandavano ai figliuoli e nipoti; frequentissimi erano gli
ammazzamenti, e i più camminavano coll'armi, pronti sempre alla difesa
ed offesa. Fu perciò in questi tempi fatta parola, e poi conchiuso
nell'anno 1041, che in alcuni giorni di qualsivoglia settimana[500] per
amore di Dio niuno osasse di far danno alla vita o alla roba de' suoi
nemici. Fu imposta la scomunica e l'esilio a chi, accettata questa
tregua, la trasgredisse dipoi. Susseguentemente fu in alcun luogo
abbreviato il termine della tregua con altre regole, delle quali è da
vedere il Du-Cange[501]. Ne parla anche Landolfo seniore[502], storico
milanese di questo secolo, ma con qualche differenza, scrivendo che a'
tempi d'Eriberto arcivescovo, _lex sancta, atque mandatum novum et bonum
e coelo, ut sancti viri asseruerunt, omnibus Christianis tam fidelibus
quam infidelibus data est, dicens: Quatenus omnes homines secure ab hora
prima Jovis usque ad primam horam diei lunae, cujuscumque culpae forent,
sua negotia agentes permanerent. Et quicumque hanc legem offenderent,
videlicet Treguam Dei, quae misericordia Domini nostri Jesu Christi
terris noviter apparuit; procul dubio in exsilio damnatus per aliqua
tempora poenam patiatur corpoream. At qui eamdem servaverit, ab omnium
peccatorum vinculis Dei misericordia absolvatur._ Fu saggiamente pensata
e introdotta la tregua di Dio dai vescovi di Francia; ma Landolfo ci fa
intendere ch'essa era venuta _dal cielo_, secondo il costume di que'
tempi, ne' quali ogni pia istituzione si spacciava come miracolosa e
mandata dal cielo con qualche rivelazione. In quest'anno _IX kalendas
februarii_ trovandosi l'Augusto Corrado in Basilea, confermò con suo
diploma[503] tutti i beni e diritti del monistero pavese di san Pietro
in _Coelo aureo_.

NOTE:

[490] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[491] Glaber, His., lib. 4, cap. 5.

[492] Baron., in Annal. Eccles.

[493] Victor III papa, Dialog., lib. 3.

[494] Antiquit. Ital., Dissert. XI.

[495] Wippo, in Vita Conradi Salici.

[496] Baron., in Annal. Eccles.

[497] Pagius, in Critic. Baron. ad annum 1038.

[498] Daniel, Histoire de France.

[499] Glaber, Histor., lib. 4, cap 5.

[500] Hugo Flaviniacens., in Chronico.

[501] Du-Cange, in Glossar. Latinit.

[502] Landulfus Senior. Mediol., Hist., lib. 2. cap. 30.

[503] Antiquit. Ital., Dissert. XI.



    Anno di CRISTO MXXXIV. Indizione II.

    BENEDETTO IX papa 2.
    CORRADO II re di Germania 11, imperadore 8.


Si credeva l'_imperador Corrado_ di avere in pugno il regno della
Borgogna, chiamato anche arelatense, perchè Arles era una delle città
primarie d'esso. Ma _Odone duca_ di Sciampagna, mancando alle promesse,
seguitò a signoreggiarne una parte, e ad inquietare il rimanente[504].
Videsi dunque l'Augusto Corrado forzato a ripigliar le armi, e per non
avervi più a tornare, raunò una potente armata in Germania, e un'altra
d'Italiani ordinò che marciasse a quella volta. _Exspeditis Teutonicis
et Italicis, Burgundiam acute adiit. Teutones ex una parte, ex altera
archiepiscopus mediolanensis Heribertus, et ceteri Italici, ductu
Huperti comitis de Burgundia, usque Rhodanum fluvium convenerunt_. Parla
qui nominatamente Wippone di _Eriberto arcivescovo_di Milano, che andò
come capitano di quella spedizione secondo gli abusi di questi tempi. A
tale impegno si può attribuire l'aver egli in quest'anno _mense martii,
Indictione II_, provveduto a' suoi temporali affari per tutte le
disgrazie che potessero avvenire, con fare l'ultimo suo testamento.
Leggesi questo dato alla luce dall'Ughelli[505] e dal Puricelli[506],
dove egli fece una gran quantità di legati pii alle principali chiese, e
a tutti i monisteri di Milano sì di monaci che di monache. Convien ora
aggiugnere, che, oltre ad Eriberto, si distinse in quell'impresa
_Bonifazio duca_ e marchese di Toscana, padre della contessa Matilda.
Arnolfo[507], storico milanese, allora vivente, così ne parla: _E vicino
autem Italiae cum optimatibus ceteris electi duces incedunt, scilicet
praesul Heribertus, et egregius marchio Bonifacius, duo lumina regni.
Ducentes Langobardorum exercitum, Jovii montis ardua juga transcendunt,
sicque vehementi irruptione terram ingredientes, ad Caesarem usque
perveniunt_. Si dovea tuttavia preparare per questa spedizione il
marchese Bonifazio nel dì 17 di marzo, _decimosexto kalendas aprilis_
dell'anno presente; imperciocchè, stando in Mantova, ivi fece una
permuta di varie castella e poderi con un certo Magifredo. Hassi questa
nelle Antichità Italiche[508]. Ora l'imperador Corrado con tanto sforzo
di gente prese la città di Ginevra, e in essa _Geroldo_ principe di quel
paese, siccome ancora _Burcardo_ arcivescovo di Lione, uomo scellerato e
sacrilego, se crediamo ad Ermanno Contratto. In somma tal terrore portò
in quelle contrade, che non vi restò persona che non si rendesse a lui,
o non fosse esterminata da lui, con venire alle sue mani tutto quel
regno. Dopo di che per l'Alsazia se ne tornò in Germania. Appartiene
all'anno presente un diploma di Corrado Augusto, inserito da Girolamo
Rossi nella sua Storia di Ravenna[509], con cui concede alla chiesa di
essa città e al suo arcivescovo _Gebeardo_ (andato anche egli, come si
può immaginare, colle sue genti alla guerra) _comitatum faventinum cum
omni districtu suo, et regali placito et judicio, omnibusque publicis
functionibus, angariis, ec. hactenus juri regis legaliter attinentibus_.
Fu esso dato _pridie kalendas maii, Indictione II, anno dominicae
Incarnationis MXXXIV, anno autem domni Chuonradi secundi, regni decimo,
imperii vero octavo. Actum Ratisponae_. Era allora in possesso del
contado di Faenza Ugo conte di Bologna. Per cagione dunque del
privilegio suddetto, esso Ugo conte nel dì 25 di giugno dell'anno
presente cedette pubblicamente all'arcivescovo Gebeardo il suddetto
intero contado di Faenza, con riceverne poi l'investitura della metà dal
medesimo prelato. Questi son segni chiarissimi che l'esarcato di Ravenna
era in questi tempi, come anche l'abbiam veduto per tanti anni addietro,
sotto il dominio immediato dei re d'Italia, senza che apparisca che più
vi avessero dominio o vi pretendessero i romani pontefici. Non meno
dell'Augusto suo padre si segnalò il giovanetto _re Arrigo_, suo
figliuolo in quest'anno, con avere riportate due vittorie contro i
Boemi, e messo al dovere _Olderico_ duca di quella provincia, ed altri
ribelli all'imperador suo padre. Seguì nell'anno presente, oppure
nell'antecedente, uno strumento fra _Ingone_ vescovo di Modena[510] e
_Bonifazio_ chiaramente appellato _marchio et dux Tusciae_. il vescovo
dà a Bonifazio e a _Richilda_ sua moglie due castella, cioè Clagnano e
Savignano, a titolo di livello; e i due consorti cedono al vescovato di
Modena le due corti di _Bajoaria_ (oggidì _Bazovara_) e del _fossato del
re_ colle loro castella. Confermò l'Augusto Corrado, non so se in questo
o in altro anno, i suoi beni alla badia di Firenze con diploma,
pubblicato dal padre Puccinelli[511], e dato _II nonas maii, Indictione
II, anno dominicae Incarnationis MXXXIV, anno autem domni Chuonradi
secundi regnantis X, imperii vero VIII. Actum Radesbonae_. Queste note
cronologiche sono scorrette.

NOTE:

[504] Wippo, in Vita Conradi Salici. Hermannus Contract., in Chronic.
Sigebertus, in Chronico.

[505] Ughell., Ital. Sacr., tom. 6 in Episcop. Mediolanens.

[506] Puricellius, Monument. Basil. Ambrosian.

[507] Arnulf., Hist. Mediolan., lib. 2.

[508] Antiq. Ital., Dissert. XI.

[509] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[510] Antiquit. Ital., Dissert. 1.

[511] Puccinelli, Cron. della Badia Fiorent.



    Anno di CRISTO MXXXV. Indizione III.

    BENEDETTO IX papa 3.
    CORRADO II re di Germania 12, imperadore 9.


Secondochè s'ha da Ermanno Contratto[512], nell'anno presente _Adelbero
dux Carentani et Histriae_ (marchese ancora della Marca di Verona)
_amissa imperatoris gratia, ducatu quoque privatus est_. Wippone[513]
parla di questo fatto all'anno 1028, e scrive che esso Adalberone fu
mandato in esilio. Diede poscia l'imperadore nell'anno seguente, per
attestato del medesimo Ermanno Contratto, il ducato di Carintia e
d'Istria, e per conseguente anche la Marca veronese, a _Corrado_ duca di
Franconia suo cugino, cioè a quel medesimo ch'era stato suo concorrente
alla corona, ed avea poscia portate le armi contra di lui. _Corrado_,
padre di questo Corrado, avea anch'egli, per quanto altrove s'è detto,
dianzi goduto questi medesimi Stati. Nota inoltre il suddetto Wippone
che in questa maniera, cioè colla giunta di un tal regalo, _dux Chuno_
(lo stesso è che _Corrado_) _fidus et bene militans imperatori, et filio
ejus Heinrico, regi, quousque vixit permansit_. Dagli Annali pisani[514]
abbiamo che in questo anno _Pisani fecerunt stolum magnum_ (cioè
un'armata navale, onde la voce italiana _stuolo_), _et vicerunt
civitatem Bonam in Africa, et coronam regis imperatori dederunt_.
Scrisse inoltre il Sigonio[515] nell'anno 1050 che dai medesimi Pisani
fu fatta una spedizione in Africa, e presa la città di _Cartagine_, del
che si può dubitare, quantunque il Tronci[516] con altri moderni sotto
quell'anno parli di tale impresa, con descriverla come s'egli vi si
fosse trovato presente. A quest'anno poi il prefatto Tronci racconta che
i Pisani ebbero per assedio la città di _Lipari_, con aver fatto un
grosso bottino in quell'isola. Questo nol dovettero sapere i suddetti
antichi Annali pisani, perchè neppure una parola ne dicono. Poscia,
secondo il medesimo Tronci, accadde nell'anno 1036 la conquista di
_Bona_: il che per conto del tempo non s'accorda co' suddetti Annali
pisani, e piuttosto sarebbe da credere che ciò avvenisse nell'anno 1035,
perchè i Pisani di nove mesi anticipano l'anno nostro volgare. Del resto
_Bona_, città dell'Africa, è l'antica _Hippona_, di cui fu vescovo il
glorioso sant'Agostino dottore della Chiesa. Si turbò gravemente in
quest'anno la quiete della Lombardia. Ermanno Contratto[517] ne parla
con queste parole così: _In Italia minores milites contra dominos suos
insurgentes, et suis legibus vivere, eosque opprimere volentes, validam
conjurationem fecere_. Medesimamente Wippone scrive che in questi tempi
seguì una confusione non prima udita in Italia, perchè congiurarono
tutti i valvassori d'Italia e i militi gregarii contra de' loro signori,
e tutti i minori contra de' maggiori, col non lasciare senza vendetta,
se dai signori veniva lor fatta cosa ch'essi riputassero di loro
aggravio; e diceano: _Si imperator eorum nollet venire, ipsi per se
legem sibimet facerent_. Dovette il Sigonio leggere in qualche testo, o
autore, _regem_ in vece di _legem_, perchè scrive, che _conjurarunt, se
non passuros quemquam regnare, qui aliud, quam quod ipsis luberet, sibi
imponeret_. È confusa nell'edizion d'Epidanno, fatta del Goldasto, la
cronologia di questi tempi, veggendosi ivi posticipati i fatti di sei
anni. Però sotto l'anno 1041 egli[518] parla di questa cospirazione de'
militi inferiori contra dei lor signori, e de' servi contra de' loro
padroni. Ma nell'edizion del Du-Chesne troviamo ciò riferito all'anno
presente.

Che significasse il nome di _valvassori_ si raccoglie facilmente dai
libri de' Feudi. I più nobili una volta tra i vassalli erano i duchi,
marchesi, conti, arcivescovi, vescovi ed abbati, i quali a dirittura
riconoscevano dai re ed imperadori i loro feudi e le loro dignità
temporali. Questi poi solevano concedere in feudo castella o altri beni
ai cospicui nobili privati, per avere alle occorrenze il loro servigio
nelle guerre e nelle comparse onorevoli. E a questi nobili si dava il
nome di _valvassori maggiori_ e di _capitanei_. Similmente poi questi
nobili infeudavano corti e poderi ad altri men nobili, per aver anche
eglino dei seguaci e aderenti ne' lor bisogni. E questi ultimi venivano
distinti col nome di _valvassori minori_, ossia di _valvassini_. Ora
insorsero dissapori, e poscia aperta dissensione e rottura fra i signori
e i lor vassalli subordinati, pretendendo gli ultimi d'essere oltre al
dovere aggravati dai primi. E tal briga aprì il campo anche ai servi (da
noi ora chiamati schiavi) di rivoltarsi contra de' lor padroni, quasichè
troppo aspramente fossero da loro trattati. L'origine nondimeno di
questi disordini pare che si debba attribuire ad _Eriberto arcivescovo_
di Milano. Non mancavano a lui molte virtù, ma queste si miravano
contaminate dalla superbia, talmente che egli puzzava alquanto di
tiranno. Tutto voleva a suo modo, nè a lui mettevano freno o paura le
leggi. Lo confessa lo stesso Arnolfo[519], storico milanese, che potè
forse conoscerlo, con dire che _multis prosperatus successibus praesul
Heribertus, immoderate paululum dominabatur omnium, suum considerans,
non alienum animum. Unde factum est, ut quidam urbis milites, vulgo
walvassores nominati, clanculo illius insidiarentur operibus; adversus
ipsum assidue conspirantes. Comperta autem occasione, cujusdam potentis
beneficio_ (così tuttavia si nominavano quei che ora appelliamo feudi)
_privati: subito proruunt in apertam rebellandi audaciam, plures jam
facti_. Si studiò a tutta prima l'arcivescovo colle buone di quetare
l'insorto tumulto; ma nulla con ciò profittando, mise mano alle brusche
con dar di piglio alle armi. Seguì entro la stessa città di Milano un
conflitto, in cui le genti dell'arcivescovo restarono superiori, e
convenne ai vinti di ritirarsi colla testa bassa, ma col cuore pregno
d'ira, fuori della città. Allora fu che con costoro si unirono i popoli
della Martesana e del Seprio, fecesi anche in altri contadi cospirazione
ed unione; ma sopra tutti trasse a questo rumore il popolo di Lodi,
troppo esacerbato per la violenza lor fatta dall'arcivescovo stesso in
volere dar loro un vescovo, siccome abbiam detto di sopra. Ciò che
partorisse una tal discordia lo vedremo fra poco. Crede il Sigonio[520]
che l'esempio de' valvassori milanesi servisse di stimolo anche al
popolo di Cremona per rivoltarsi in questo anno contra di _Landolfo_
loro vescovo, cacciar lui di città, dirupare il di lui palazzo, che era
ridotto in forma di fortezza, e per maltrattare alla peggio i di lui
canonici. Ma nulla ebbero che fare coi movimenti de' Milanesi quei di
Cremona; erano anzi accaduti molti anni prima; e, se crediamo
all'Ughelli[521], il vescovo Landolfo cessò di vivere nell'anno 1030. Di
questo Landolfo così scrive Sicardo[522], vescovo anch'egli di Cremona:
_Temporibus Henrici Claudi, capellanus ejus nomine Landolphus Cremonae
fuit episcopus, qui monasterii sancti Laurentii, et cremonensis populi
fuit acerrimus persequutor. Quocirca populus ipsum de civitate ejecit,
et palatium_ (non già _oppidum_, come ha il Sigonio), _turribus et
duplici muro munitum, destruxit. Proinde licei episcopio multa
conquisierit, tamen multa per superbiam, multa per inertiam perdidit._
Nomina poscia Sicardo per successore di Landolfo nel vescovato _Baldo_,
cioè _Ubaldo_, ai tempi di Corrado Augusto, _qui quoque monasterium
sancti Laurentii persequutus est, et apud Lacum obscurum impugnatus
est._

NOTE:

[512] Ermannus Contractus, in Chron. edition. Canisii.

[513] Wippo, in Vit. Conradi Salici.

[514] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[515] Sigonius, de Regno Ital., lib. 8.

[516] Tronci, Annal. Pisani.

[517] Hermannus Contractus, in Chron.

[518] Epidannus, in Annal. tom. 1 Rer. Alamann.

[519] Arnulfus, Hist. Mediolan., lib. 2, cap. 10.

[520] Sigonius, de Regno Italiae, lib. 8.

[521] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Cremonens.

[522] Sicardus, Chron., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MXXXVI. Indizione IV.

    BENEDETTO IX papa 4.
    CORRADO re di Germania 15, imperadore 10.


Bollivano più che mai le dissensioni, anzi le guerre fra _Eriberto
arcivescovo_ di Milano e i suoi valvassori ribelli: nella qual briga
s'erano mischiati i valvassori di altri vescovi e principi, e il popolo
di Lodi mal soddisfatto di Eriberto. Però ad un luogo fra Milano e Lodi
appellato la Motta (si chiamavano così le fortezze fabbricate al piano
sopra un'alzata di terra fatta a mano), oppure, come abbiamo da Arnolfo
storico milanese[523], nel _Campo Malo_, così anticamente chiamato, si
venne fra l'una parte e l'altra ad una campale battaglia, che riuscì
molto sanguinosa[524]. Fra gli altri che tennero la parte
dell'arcivescovo, non so se per proprio interesse, oppure per far
servigio ad esso arcivescovo, si contò _Alrico_ vescovo d'Asti, fratello
di _Maginfredo marchese_ di Susa. Nè solo egli intervenne a quel fatto
d'armi, ma, come un san Giorgio dovette anch'egli volere far prova del
suo valore con iscandalosa risoluzione, vietando i sacri canoni agli
ecclesiastici, e massimamente ai vescovi, l'andare alla guerra per
combattere. Gli costò nondimeno cara, perchè ne riportò una ferita, per
cui da lì a non molto morì. La notte fece fine al furore delle spade.
Soffersero molto amendue gli eserciti, ma la peggio fu dalla parte
dell'arcivescovo. Questi torbidi di Lombardia tenevano in agitazione
l'animo dell'_Augusto Corrado_: e ossia ch'egli conoscesse troppo
necessaria la sua presenza per quetarli, oppure, come vuole Arnolfo,
ch'egli ne fosse pregato e sollecitato dall'arcivescovo Eriberto,
determinò di tornare in Italia. Pertanto, dopo aver data in moglie al re
_Arrigo_ suo figliuolo _Cunichilda_ (_Cunelinda_ è chiamata da
Wippone[525], e negli Annali d'Ildeseim[526] _Cunichild nomine, in
benedictione Cunigund dicta_), figliuola di _Canuto re_ d'Inghilterra,
con esso re Arrigo verso il fine dell'anno mosse alla volta d'Italia,
seco menando una poderosa armata. Giunse a Verona per la festa del santo
Natale, e quivi la solennizzò[527]. Era esso imperadore nel dì 5 di
luglio in Nimega, quando, a petizione dell'imperadrice _Gisla_, di
_Pilegrino_ arcivescovo di Colonia, _ac Bonifatii nostri dilecti
marchionis_[528], cioè del duca di Toscana, che dovea trovarsi in
Germania, confermò i privilegii al monistero delle monache di san Sisto
di Piacenza. Parimente l'Ughelli[529] rapporta un diploma d'esso
Augusto, dato in favore del monistero di san Salvatore di monte Amiato
della diocesi di Chiusi, _anno dominicae Incarnationis MXXXVI, regni
vero domni Conradi II regnantis tertio, imperii ejus nono, Indictione
IV. Actum in civitate Papia_. In vece dell'_anno III_ del regno si dee
scrivere XIII. Ma che in quest'anno arrivasse l'Augusto Corrado a Pavia,
ho io difficoltà a crederlo. Nè sul fine di quest'anno correva l'_anno
IX_ dell'imperio, ma bensì l'_anno X_. Però quel diploma ha bisogno di
chi rimetta al suo sito l'ossa alquanto slogate.

Crede il Fiorentini (non so con qual fondamento) che in quest'anno
venisse a morte _Richilda_, moglie del suddetto marchese Bonifazio,
donna di gran pietà e liberalità verso i poveri e verso i sacri templi e
monisteri[530]. Abbiamo presso il padre Bacchini[531] una donazione da
lei fatta nel dì 28 d'aprile dell'anno precedente 1035 alla chiesa di
Gonzaga, _subtus confirmante donnus Bonefacius marchio jugale et
Mundoaldo meo_. Sappiamo da Donizone[532] che questa piissima
principessa terminò i suoi giorni, senza lasciar figliuoli, in Nogara,
terra del Veronese, ed ivi ebbe la sua sepoltura. Potrebbe essere che
l'andata del vedovo marchese Bonifazio in Germania servisse a lui per
intavolare un secondo matrimonio con _Beatrice_ figliuola di _Federigo_
duca della Lorena superiore, e di _Matilda_ nata da _Ermanno duca_ di
Suevia, parente degl'imperadori e dei re di Francia. Credo io tuttavia
incerto l'anno in cui seguì un tale accasamento del marchese Bonifazio.
Contuttociò, perchè egli avea passato di molto il mezzo del cammino
della sua vita, può parer probabile ch'egli non perdesse tempo a cercar
altra moglie che l'arricchisse di prole, e che per conseguente si
effettuassero in quest'anno le di lui seconde nozze. Veggonsi esse
descritte dal suddetto Donizone con tali colori, che, se è vero tutto,
convien confessare che era superiore ad ogni altro principe d'Italia la
di lui magnificenza e ricchezza. Andò Bonifazio con sontuoso treno a
prenderla in Lorena; i suoi cavalli portavano suole d'argento, attaccate
con un solo chiodo. Ebbe in dote assai terre e ville in Lorena. Condotta
Beatrice in Italia, per tre mesi nel luogo di Marego sul Mantovano si
tenne corte bandita. Pel popolo v'erano pozzi di vino; alle tavole
piatti e vasi tutti d'oro e d'argento; prodigiosa quantità di strumenti
musicali e di _mimi_ a' quali

    _dedit insignis dux praemia maxima._

Il che ci fa conoscere già introdotto il costume, che durò poi per più
secoli, che a simili feste concorrevano in folla tutti i buffoni,
giocolieri, cantambanchi e simili, che portavano via de' grossi regali.
Di che ragguardevoli doti fosse poi ornata la duchessa _Beatrice_,
l'andremo vedendo nel proseguimento della storia. Io non so se arrivasse
in quest'anno, oppure prima, al fine di sua vita _Odelrico Maginfredo_
ossia _Manfredi_ marchese di Susa, da me più volte menzionato di sopra.
Aveva egli data in moglie ad _Erimanno_ (lo stesso è che _Ermanno_) duca
di Suevia, ossia di Alemagna, una sua figliuola, cioè _Adelaide_, che fu
poi principessa celebre nella storia. Nè avendo lasciato maschi dopo di
sè, Erimanno per le ragioni della moglie pretese quella Marca, e
l'ottenne per grazia dall'imperador Corrado. _Heremannus dux Alamanniae
marcham soceri sui Meginfredi ab imperatore accepit_: sono parole di
Ermanno Contratto[533].

NOTE:

[523] Arnulf., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 10.

[524] Hermannus Contract., in Chron.

[525] Wippo, in Vita Conradi Salici.

[526] Annales Hildesheim.

[527] Epidannus in Annal.

[528] Antiq. Ital., Dissert. LXX.

[529] Ughell., Ital. Sacr., tom. 3 in Episcop. Clusin.

[530] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 1.

[531] Bacchini, Istoria di Polirone.

[532] Donizo, in Vita Comitiss. Mathild., lib. 1, cap. 8 et seq.

[533] Hermannus Contract., in Chron.



    Anno di CRISTO MXXXVII. Indizione V.

    BENEDETTO IX papa 5.
    CORRADO II re di Germania 14, imperadore 11.


Non piccioli furono gli sconvolgimenti della Lombardia in quest'anno.
Dopo avere l'_Augusto Corrado_ celebrato in Verona il santo Natale[534],
se non prima, certo sul principio di quest'anno, passando per Brescia e
Cremona, come scrisse Ermanno Contratto, arrivò a Milano, dove con gran
magnificenza l'accolse _Eriberto arcivescovo_ nella chiesa di santo
Ambrosio. Nello stesso giorno chiunque si pretendeva aggravato da esso
arcivescovo, tumultuosamente comparve colà, chiedendo con alte grida
giustizia. Fece lor sapere l'imperadore, che avendosi a tenere in breve
una generale dieta in Pavia, quivi udrebbe le lor doglianze e ragioni.
Infatti si tenne quella dieta. Un _Ugo conte_ con altri esposero gli
aggravi loro inferiti dal suddetto arcivescovo. Corrado, amicissimo di
lui, ma più della giustizia, ordinò ch'egli soddisfacesse. Ricusò
Eriberto di farlo; anzi, se vogliam prestar fede al Cronografo
sassone[535], con alterigia grande rispose, che de' beni trovati nella
sua chiesa, o da lui acquistati, non ne rilascerebbe un briciolo per
istanza o comandamento di chi che fosse. Avvisato che almeno eccettuasse
l'imperadore, tornò a parlare nel medesimo tuono. Allora l'Augusto
Corrado s'avvide che dalla durezza di Eriberto erano procedute le
sollevazioni dianzi accennate; perciò gli fece mettere le mani addosso.
Così raccontano questo sì strepitoso affare gli autori tedeschi, per
giustificar la risoluzione presa dall'Augusto Corrado; nè vi manca
probabilità, perchè Eriberto era uomo di testa calda e facea volentieri
il padrone, senza mettersi pena delle altrui querele. Ma Arnolfo
milanese[536], che scrisse prima del fine di questo secolo la storia
sua, in altra maniera descrisse questo avvenimento, con dire, che giunto
Corrado a Milano, avendo tolto all'arcivescovo il già concedutogli
privilegio, per altro abusivo, di dare a Lodi quel vescovo che a lui
piaceva, il popolo di Milano con alte grida sparlò contro l'imperadore,
che se ne offese non poco. E perciocchè credette autore del tumulto esso
Eriberto, aspettò d'averlo in Pavia, cioè lontano dal suo popolo, ed
allora il mise sotto le guardie. Questo racconto porta forse più
dell'altro tutta l'aria di verisimiglianza, al vedere che dipoi lo
stesso popolo di Milano, lasciando andare le precedenti gare, imprese
con incredibile zelo la difesa del suo pastore. In effetto seguita a
dire esso Arnolfo, che all'avviso della prigionia d'Eriberto,
_mediolanensis attonita inhorruit civitas, proprio viduata pastore,
dolens ac gemens a puero usque ad senem. O quae Domino preces, quantae
funduntur et lacrymae!_ Si adoperarono il clero, la nobiltà e il popolo
per liberarlo; si venne anche ad una convenzione, per cui fu promesso
dall'imperadore di rilasciarlo, e a questo fine se gli diedero ostaggi;
ma, ciò non ostante, continuò Corrado a tenerlo prigione, con
determinazione di mandarlo in esilio. Nè di ciò contento, essendo state
molto dipoi portate delle accuse contra de' vescovi di Vercelli, Cremona
e Piacenza, Corrado fattili prendere, gli esiliò: azione riprovata dallo
stesso Wippone, con dire: _Quae res displicuit multis, sacerdotes
Christi sine judicio damnari_. Anzi soggiugne che lo stesso re Arrigo
suo figliuolo in segreto detestò la risoluzione presa dal padre contra
dell'arcivescovo e dei tre suddetti vescovi, persone tanto venerabili
fra i cristiani, e pur condannate e punite senza processo e senza una
legale sentenza. Altri autori, che riferirò fra poco, mettono più tardi
la disgrazia di questo prelato. Fu dunque consegnato l'arcivescovo
Eriberto a _Poppone patriarca_ d'Aquileia e a _Corrado duca_ di Carintia
e marchese di Verona, acciocchè ne avessero buona custodia. Il
condussero essi a Piacenza, o piuttosto fuori di Piacenza presso al
fiume Trebbia sotto buona guardia; e intanto l'imperadore se n'andò a
Ravenna, dove celebrò la santa Pasqua nel dì 10 d'aprile, con ispedire i
suoi messi a far giustizia per tutto il regno. Nel dì 5 di maggio del
presente anno si truova _Ermanno arcivescovo_ di Colonia, che per ordine
di esso Augusto tiene un placito[537] nel borgo d'Arbia del contado di
Siena. Un altro placito tennero nel dì primo di marzo, per testimonianza
di Girolamo Rossi[538], _Arrigo_ ed _Ugo_ messi dell'imperador Corrado
nel territorio d'Osimo.

Mentre soggiornava esso augusto in Ravenna, gli venne la disgustosa
nuova che Eriberto arcivescovo di Milano era fuggito. Wippone scrive
che, postosi uno de' familiari dell'arcivescovo nel di lui letto,
ingannò le guardie; e in questo mentre Eriberto, travestito e salito
sopra un cavallo, che gli fu condotto, spronò forte finchè fu in sicuro.
Il Cronografo sassone[539] attribuisce il colpo ad un monaco che solo
era stato lasciato a' servigii d'esso arcivescovo. Ma par bene che più
fede in questo si possa prestare a Landolfo seniore, storico milanese di
questo secolo. Secondo lui[540], Eriberto, che ben conosceva la
ghiottoneria de' Tedeschi, e quanta parzialità avessero pel vino, spedì
con buone istruzioni un suo fedele alla badessa di san Sisto di
Piacenza, per concertare la maniera di rimettersi in libertà. Inviò essa
all'arcivescovo venti some di varie carni e dieci carra di diversi
squisiti vini. Può essere che fossero meno, e certo non occorreva tanto
al bisogno. Fu fatta una sontuosa cena: tutte le guardie si
abboracchiarono ben bene; il sonno col ronfare tenne dietro ai votati
bicchieri; e nel più proprio tempo l'arcivescovo se la colse felicemente
con trovare in Po una barca preparata che il condusse in salvo. Arrivato
a Milano, non si potrebbe esprimere la gioia di quel popolo: segno
ch'egli era ben veduto e stimato da tutti. Ma neppur si può dire quanto
affanno e rabbia recasse all'Augusto Corrado la fuga d'Eriberto. Tosto
immaginò la ribellione di Milano, nè si ingannò. Corse coll'esercito suo
ad assediare quella città, città forte di mura e di torri, città ricca
di popolo, e popolo risoluto di difendere fino all'estremo il suo
pastore. Vedesi ampiamente descritto quell'assedio dal suddetto Landolfo
seniore; e sappiamo da Wippone e da Ermanno Contratto, ch'esso durò, non
già per tutto quest'anno, nè pel susseguente, come scrisse il Cronografo
sassone, e, prima di lui, l'autore degli Annali d'Ildeseim, ma solamente
poche settimane. Perciocchè Milano si trovò osso troppo duro, si andò
intanto sfogando la rabbia tedesca sopra le castella e ville di quel
territorio. La terra di Landriano specialmente rimase un monte di
pietre. Nel dì dell'Ascensione fecero una vigorosa sortita i Milanesi, e
nel fiero combattimento, per attestato di Arnolfo[541], fra gli altri un
nobile tedesco (forse quel nipote dell'imperatore di cui parla il
suddetto Landolfo) _et Wido italicus marchio, signifer regius, inter
media tela confixi sunt_. Probabilmente questo _Guido_ marchese era uno
degli antenati della casa d'Este, e fratello del marchese _Alberto Azzo
I_ progenitore d'essi Estensi, per quanto ho io detto altrove[542]. Di
lui si ha memoria in uno strumento dell'anno 1029, accennato dal
Guichenon nella Storia genealogica della real casa di Savoia. Ora
accadde, che trovandosi l'imperadore Corrado nel sacro dì della
Pentecoste all'assedio di Corbetta, castello poco distante da Milano,
all'improvviso s'alzò un temporale sì furioso di pioggia, gragnuola e
fulmini, che andarono per terra tutte le tende dell'esercito[543], e vi
restò, oltre a molti uomini, estinta una prodigiosa quantità di cavalli
e di armenti con isbalordimento universale di tutta l'armata. Fu creduto
miracoloso un sì funesto accidente, e che santo Ambrosio in questa
maniera liberasse la città[544] e l'arcivescovo dall'ingiusta
persecuzion di Corrado. Certo di più non ci volle, perchè l'imperadore,
veggendo sì conquassata l'armata sua, si ritirasse a Cremona. Io non so
bene se prima o dopo l'assedio suddetto, ovvero se esso durante,
l'arcivescovo Eriberto facesse una spedizione ad _Odone conte_ ossia
duca di Sciampagna, cioè a quel medesimo che avea disputato il regno
della Borgogna all'Augusto Corrado.

Certa è la spedizione, per attestato di Glabro Rodolfo[545], degli
Annali d'Ildeseim[546] e d'altri autori. Esibivano questi legati
lombardi il regno d'Italia ad esso Odone, il quale intanto volendo
profittare della lontananza dell'imperadore, con una possente armata
entrò nella Lorena, prese il castello di Bar, e fece un mondo di mali
dovunque arrivò. Volle la sua disgrazia che _Gozelone duca_ di Lorena,
con forze grandi ito ad incontrarlo, gli diede battaglia, e lo
sconfisse, con restar trucidato il medesimo Odone. Stavano aspettando
gli ambasciatori italiani l'esito di quella guerra, per far calar esso
Odone in Italia: al che si mostrava egli dispostissimo. Ma inteso il suo
miserabil fine, e perdute tutte le speranze riposte in lui, se ne
tornarono indietro coll'afflizione dipinta ne' loro volti. Peggio ancora
ai medesimi avvenne. Imperciocchè, siccome abbiamo dal Cronografo
sassone[547] e dall'Annalista sassone[548], _socrus Herimanni Suevorum
ducis, legatorum conventum rescivit, missisque satellitibus suis, omnes
simul comprehensos, reique veritatem confessos, imperatori, ubi in
publico conventu, eisdem praenominatis tribus episcopis praesentibus,
consederat, transmisit._ La suocera di Erimanno duca di Suevia era
_Berta_, vedova del fu _Maginfredo_ marchese di Susa, e sorella dei
marchesi _Ugo, Alberto Azzo I_, e _Guido_, antenati della casa d'Este,
siccome ho dimostrato altrove[549]. I tre vescovi accusati furono,
siccome già dissi, quei di Vercelli, Cremona e Piacenza, che perciò
ebbero a patire l'esilio in Germania. Ma già s'è veduto coll'autorità di
Wippone, il più accreditato storico delle imprese di Corrado Augusto,
esser questo già succeduto prima, e che irregolare fu la lor condanna, e
dispiacque fino al re Arrigo figliuolo del medesimo imperadore: il quale
Augusto, per far dispetto all'arcivescovo Eriberto, diede nell'anno
seguente la chiesa di Milano ad un canonico di quella cattedrale per
nome _Ambrosio_, e pare eziandio che il facesse consacrare in Roma. Male
nondimeno per questo ambizioso canonico, perchè mai arrivò a sedere in
quella cattedra; e i Milanesi, che tennero sempre saldo per Eriberto,
devastarono tutti quanti i di lui beni[550]. Venne _papa Benedetto_ a
ritrovar Corrado in Cremona. Fu ricevuto con grande onore, e dopo aver
trattato de' suoi affari, se ne tornò a Roma, senza che apparisca il
motivo di questo suo viaggio, se pur non fu quello che ci additerà
Glabro all'anno seguente. Passò l'imperadore la state nelle montagne per
ischivare il soverchio caldo di quest'anno, e sul finire d'esso venne a
Parma, dove solennizzò la festa del santo Natale. Ma in questa città
ancora avvenne la solita calamità, di cui sarà permesso ai Tedeschi di
darne la colpa ai cittadini, e a me di credere che provenisse dalla poca
disciplina, avidità o bestialità allora dei medesimi lor nazionali.
Nello stesso dì del Natale s'attaccò rissa fra essi Tedeschi e i
Parmigiani. Vi restò morto Corrado coppiere dell'imperadore. Perciò fu
in armi tutto l'imperiale esercito, e col ferro e col fuoco infierì
contro della misera città. Volle inoltre l'imperadore, cessato che fu
l'incendio, che si smantellasse una gran parte delle mura della città,
onde imparassero i popoli italiani a lasciarsi mangiar vivi dagli
oltramontani. Con tali notizie non so io accordare ciò che scrive
Donizone con dire[551] che l'imperadore Corrado assediò Parma, e che gli
furono uccisi alcuni de' suoi più cari. Perciò ordinò a _Bonifazio_
marchese di Toscana di accorrere colle sue truppe, per espugnare
l'ostinata città. Appena comparve egli, che cadde il cuore per terra ai
Parmigiani, e corsero a buttarsi a' piedi dell'imperadore. Poscia
Bonifazio giurò fedeltà ad esso Augusto, il quale ordinò:

    _.... quod Marchia serviet ipsi._

E all'incontro Corrado anch'egli giurò di conservar la vita e la dignità
_absque dolo_ al medesimo Bonifazio: cosa veramente insolita, di modo
che lo stesso poeta soggiugne:

    _Nullus dux unquam meruit tam foedera culta._
    _In charta scriptum jusjurandum fuit istud._

Pare che Donizone avesse sotto gli occhi la carta di un tal atto. Nè si
vuol tacere che in questo anno, trovandosi lo stesso imperadore in
_Canedolo juxta_ flumen Padi[552], nel dì 31 di marzo confermò i suoi
privilegii ad _Itolfo vescovo_ di Mantova. Inoltre fece quella legge
spettante ai feudi che si truova fra le longobardiche e nel libro quinto
de' Feudi. La data d'essa, da me scoperta, è tale: _V kalendas junii,
Indictione V, anno dominicae Incarnationis MXXXVIII_ (così dee scrivere
_MXXXVII_, o qui è adoperato l'anno pisano), _anno autem domni Chuonradi
regis XIII, imperantis XI. Actum in obsidione Mediolani_. Confermò il
medesimo Augusto al monistero di san Teonisto del Trivigiano i suoi beni
e privilegii con diploma[553] dato _II idus julii, anno dominicae
Incarnationis MXXXXII, Indictione V, anno autem domni Chuonradi secundi
regni XIII, imperii XI. Actum Veronae ad sanctum Zenonem_.

NOTE:

[534] Wippo, in Vit. Conradi Salici.

[535] Chronographus Saxo apud Eccardum.

[536] Arnulf., Hist. Mediol., lib. 1, cap. 12.

[537] Antiquit. Ital., Dissert. XXXI.

[538] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.

[539] Cronographus Saxo apud Eccardum.

[540] Landulfus Senior., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 22 et seq.

[541] Arnulfus., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 13.

[542] Antichità Estensi, P. I, cap. 13.

[543] Wippo in Vita Conradi Salici. Chronographus Saxo, Arnulf., Hist.
Mediol. Landulfus. Senior, Hist. Mediol.

[544] Sigebertus, in Chronico.

[545] Glaber, Hist., lib. 3, cap. 7.

[546] Annales Hildesheim.

[547] Chronographus Saxo apud Leibnitium.

[548] Annalista Saxo apud Eccardum.

[549] Antichità Estensi, P. I.

[550] Wippo, in Vita Conradi Salici.

[551] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 1, cap. 10.

[552] Antiquit. Italic., Dissert. XI.

[553] Ibid., Dissert. XXX.



    Anno di CRISTO MXXXVIII. Indizione VI.

    BENEDETTO IX papa 6.
    CORRADO II re di Germania 15, imperadore 12.


Cessato il rigore del verno, marciò nella primavera di quest'anno
l'Augusto Corrado per la Toscana alla volta di Roma coll'esercito suo.
Se vogliamo credere a Glabro[554], ebbe bisogno della di lui venuta
_Benedetto IX_ papa, perchè alcuni de' baroni romani tramavano congiure
ed insidie contra la di lui vita. _Sed minime valentes, a sede tamen
propria expulerunt. Tam pro hac re, quam aliis insolenter patratis,
imperator illuc proficiscens, propriae illum sedi restituit_. Niun altro
autore abbiamo che parli di questa cacciata e restituzione d'esso
pontefice. Quivi fece che il papa fulminò la scomunica contra di
_Eriberto arcivescovo_ di Milano. Ma altro recipe ci volea che questo
per guarire quella cancrena. Eriberto co' Milanesi tranquillamente
seguitò a difendersi. Passò dipoi Corrado a Monte Casino[555], dove da
que' monaci gli fu rinfrescata la memoria de' tanti aggravii e danni
recati al loro imperial monistero da _Pandolfo IV_ principe di Capoa,
con disprezzo dell'augusta sua maestà: lamenti anche molto prima portati
al di lui trono. Per questo avea già spedito l'imperadore a Capoa i suoi
legati, con intimare a quel malvagio principe il risarcimento e la
restituzione di tutto ai monaci casinesi. Si trovò indurato l'animo di
Pandolfo nell'antica malizia: laonde Corrado, dopo essere stato a Monte
Casino, passò colle armi alla volta di Capoa nuova, e v'entrò nella
vigilia della Pentecoste, cioè nel dì 15 di maggio. Erasi ritirato
Pandolfo nella forte rocca di sant'Agata; ma per tornare in grazia
dell'imperadore, gli fece esibir trecento libbre d'oro, e per ostaggi
una figliuola e un nipote: offerta che fu accettata. Poco nondimeno
stette a scoppiare che Pandolfo tuttavia macchinava delle novità per la
voglia e speranza di ricuperar la città, subitochè se ne fosse partito
Corrado. Il perchè esso imperadore col parere de' principali di Capoa
diede quel principato a _Guaimario IV_ principe di Salerno, cioè ad un
principe, a cui non mancassero forze per sostener quell'acquisto. Così
tolta la speranza a Pandolfo di rientrare in casa, egli, dopo aver
lasciato _Pandolfo V_ suo figliuolo con buona guarnigione nella rocca
suddetta, se ne andò a Costantinopoli per implorare dal greco Augusto
aiuto o di gente o di danaro. Ma prevenuto _Michele_, allora
_imperadore_, dai messi spediti da Guaimario, in vece di soccorso, il
mandò in esilio, dove stette finchè s'udì la morte dell'imperador
Corrado. Ad intercessione ancora d'esso Guaimario, l'Augusto suddetto
diede l'investitura del contado di Aversa a _Rainolfo_ normanno. E
perchè era andato crescendo il corpo de' Normanni a cagion d'altri che
andavano di tanto in tanto sopravvenendo, con esser poi insorte
dissensioni fra i vecchi stabiliti in quelle contrade e i nuovi
venuti[556], Corrado colla sua autorità le troncò o compose. Ma intanto
sopravvenuta la bollente state, entrò la peste, oppure una feroce
epidemia nell'esercito imperiale, in maniera che la morte cominciò a
mietere senza ritegno le vite de' soldati tedeschi, avvezzi a clima
troppo diverso. Questa disavventura fece affrettar i passi
dell'imperador Corrado, dappoichè egli ebbe fatta una visita a
Benevento, per tornarsene in Germania; ma coll'armata sua marciava del
pari il malore con fiera strage dei minori ed anche de' maggiori. Fra
questi ultimi specialmente fu compianta da tutti la morte di
_Cunichilda_ regina, nuora d'esso Augusto[557], a cui tenne dietro
l'altra di _Erimanno duca_ di Suevia, figliastro dell'imperadore, perchè
nato in prime nozze dall'imperadrice Gisla. Noi vedemmo questo principe
divenuto anche marchese di Susa pel suo matrimonio con una figliuola del
già marchese _Maginfredo_, cioè, secondo tutte le verisimiglianze, con
_Adelaide_ principessa di gran senno e ornata di rare virtù, la quale è
certo, per testimonianza di san Pier Damiano[558], che ebbe due mariti,
e che sotto il dominio d'essa _plures episcopabantur antistites_. Restò
perciò vedova essa Adelaide, e d'essa avremo occasion di riparlare
andando innanzi. Nè vo' lasciar di dire che l'imperador Corrado,
nell'andare in quest'anno a Roma, si trovò _VII kalendas martii ad viam
Vinariam_ (Vivinaia) _in comitatu Lucensi_, siccome costa da un suo
diploma da me dato alla luce[559], e spedito in favore del capitolo de'
canonici di Lucca. Vedesi il medesimo Augusto dipoi _XIII kalend.
aprilis anno dominicae Incarnationis MXXXVIII, Indictione VI, anno domni
Chuonradi regni XIIII, imperii XIII_ (si dee scrivere _XI_) _juxta
Perusium in monasterio sancti Petri_, come s'ha da un suo diploma da me
pubblicato, e confermatorio dei beni del monistero di san Sisto di
Piacenza. Stando poscia esso Augusto in Benevento _nonis junii_ di
quest'anno, _regnantis quartodecimo, imperantis tertiodecimo_ (dovrebbe
essere _duodecimo_), _Indictione sexta_, confermò i suoi privilegii al
monistero di Monte Casino, come s'ha dalla storia casinese del padre
Gattola[560]. Abbiamo ancora un diploma suo dato in favore della badia
di Firenze[561] _X kalendas augusti_ dell'anno presente, _anno regni
XIV, imperii XIII. Vidalianae_, cioè in _Viadana_, oggidì del contado di
Mantova. Come ancor qui e come in altri due sopraccennati diplomi,
s'incontri l'_anno XIII_ dell'imperio, quando allora correa solamente
l'_anno XII_, lascerò esaminarlo ad altri. Abbiamo inoltre due placiti
tenuti in Vivanaia nel contado di Lucca da _Cadaloo_ cancelliere
dell'imperadore[562] _intus curte domnicata domni Bonifatii marchio et
dux per data licentia domni Conradi imperatoris, qui ibi aderat, octavo
kalendas martii_ dell'anno presente. Se dice il vero uno strumento che
sono per riferire, mancò di vita in quest'anno _Ingone_ vescovo di
Modena, e gli succedette _Guiberto_, il quale non tardò a fare un
contratto con _Bonifazio_, appellato ivi _marchio et dux Tusciae_[563],
dandogli a livello tre corti, cioè _Bazani cum castro et capella sancti
Stephani; Liviciani cum castro et capella sanctorum martyrum Adhelberti
et Antonini; et sanctae Mariae in castello cum rocha et ecclesia_, ec.
Dal che sempre più s'intende che le corti anticamente abbracciavano un
buon territorio con parrocchia, e sovente con castello. Diede
all'incontro il marchese Bonifazio in proprietà e a titolo di donazione
al vescovato di Modena tre corti, cioè di _Gavello_, forse quella che è
oggidì sul Mirandolese; di _Panzano cum castro et capella_, e di
_Ganaceto_ colla porzione a lui spettante _de castro et capella infra
eodem castro in honore sanctorum martyrum Georgii et Resmi_ (forse
_Erasmi_); e inoltre varii poderi nelle _pievi di Pulinago e di rocca
Pelago, cum rocca, quae nominatur Flumenalbo_, ec, ascendenti alla somma
di mille cinquecento iugeri. Le note cronologiche sono queste:
_Chuonradus gratia dei imperator Augustus, anni imperii ejus hic in
Italia duodecimo, XV kalendas octobris, Indictione sexta_, continuata
sino al fine dell'anno.

Era ne' precedenti anni insorta discordia fra i due fratelli saraceni
Abulafar e Abucab, governatori della Sicilia[564]. Si venne all'armi, ed
Abulafar superato, ebbe ricorso a _Michele imperador_ greco per ottener
soccorso. Prese quell'Augusto pe' capelli questa congiuntura per
isperanza di ritorre la Sicilia ai Saraceni, e con una buona armata
spedì in Italia, oltre a _Michele Duciano_ e _Stefano_ patrizii, anche
_Giorgio Maniaco_, famoso generale d'armi de' Greci in questi tempi.
Costoro unirono al loro esercito quanti Longobardi e Normanni poterono
allettare con ingorde promesse a quell'impresa, e passarono in Sicilia.
Felice fu il loro ingresso colla presa di Messina, e poi di Siracusa,
dove specialmente si distinse _Guglielmo_ figliuolo di Tancredi
d'Altavilla, venuto dalla Normandia a cercar fortuna con altri Normanni
in Puglia[565]. Le sue prodezze gli acquistarono il soprannome di
_Ferrodibraccio_. Intanto venuto dall'Africa un gran rinforzo di gente,
i Saraceni siciliani formarono un'armata di circa cinquanta mila
combattenti. Maniaco andò coraggiosamente colla sua gente ad assalire
quegl'infedeli al fiume Remata, e diede loro una gran rotta, alla quale
tenne dietro la presa di tredici piccole città di quell'isola, colla più
bella apparenza del mondo di ridur tutta la Sicilia all'ubbidienza del
greco Augusto. L'autore della Vita di san Filareto monaco siciliano, che
fiorì in questi tempi, racconta[566], che, oltre alla bravura de' Greci,
anche un vento gagliardo che soffiava in faccia a' nemici, servì a
mettere i Saraceni in rotta, e che il governator saraceno di Sicilia se
ne fuggì ignominiosamente con pochi de' suoi. Aveano coloro sparsa per
la campagna gran copia di triangoli acuti di ferro, sperando di rovinar
la cavalleria de' Greci; ma erano ferrati in maniera i cavalli greci,
che punto loro non nocque l'insidiosa invenzione de' nemici, la quale
sappiamo che in altre guerre fece un buon giuoco. Secondo la Cronica
casauriense[567], in questi tempi si truova ne' contorni di quel
monistero il giovane _Trasmondo marchese_, il quale, a mio credere,
governava allora la marca di Camerino, essendochè in essa marca era
compreso quel monistero. Se ciò è vero, dovea essere mancato di vita
quell'_Ugo duca_ e marchese che vedemmo all'anno 1028. In una carta
dell'anno 1056 da me pubblicata[568] si truova _domna Willa inclita
comitissa, reclita quondam domni Ugo gloriosissimo, qui fuit dux et
marchio_. Questa fu sua moglie.

NOTE:

[554] Glaber, Hist., lib. 4, cap. 8.

[555] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 65.

[556] Wippo, in Vit. Conradi Salici.

[557] Hermannus Contractus, in Chron. Annal. Saxo apud Eccard.

[558] Petrus Damian., Opusc. XVIII.

[559] Antiq. Ital., Dissert. XL et XLI.

[560] Gattola, P. I Hist. Casin. Access.

[561] Bullar. Casinense, tom. 2, Constit. LXXXVI.

[562] Antiquit. Italic., Dissert. VI et IX.

[563] Ibidem, Dissert. XXXVI.

[564] Cedren., in Compend. Histor.

[565] Guafrid. Malaterra, Hist., lib. 1. Leo Ostiensis, lib. 2.

[566] Vita S. Philaret., in Act. Sanct. ad diem 6 aprilis.

[567] Chron. Casauriense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[568] Antiquit. Ital., Dissert. VI.



    Anno di CRISTO MXXXIX. Indizione VII.

    BENEDETTO IX papa 7.
    ARRIGO III re di Germania e d'Italia 1.


Fu questo l'ultimo anno della vita dell'_imperador Corrado_. Aveva egli
fatto un viaggio nel regno della Borgogna, dove que' popoli accettarono
per loro re l'unico di lui figliuolo _Arrigo_. Trovandosi poi in
Colonia, confermò ed accrebbe i privilegii ad _Ingone_ vescovo di
Modena, con cui il crea conte di Modena. Il diploma, già accennato dal
Sigonio sotto il presente anno, e da me dato intero alla luce, ha le
seguenti note[569]: _Datum XVII kalendas aprilis, anno dominicae
Incarnationis MXXXVIII, Indictione VII, anno autem domni Chuonradi regni
XIIII, imperii XII. Actum Colonia_. Ma io truovo qui degl'intoppi. Pare
fallato l'anno, e che si deggia scrivere _MXXXVIIII_; e così l'intese il
Sigonio. Ma v'ha anche dell'errore negli anni del regno; e quando si
volesse questo diploma riferire all'anno precedente, Corrado allora
dimorava in Italia, e non già in Colonia. Oltre di che, quando sussista
la carta additata nell'anno precedente, era già succeduto Guiberto ad
Ingone nel vescovato di Modena prima dell'anno presente 1039. Però che
dee dire di questo diploma il saggio lettore? Ito poscia l'imperadore
Corrado ad Utrecht nella Frisia[570], quivi celebrando la festa della
Pentecoste, fu sorpreso da dolori, che nel lunedì seguente, cioè nel dì
4 di giugno, il condussero al fine de' suoi giorni. Era dianzi stato
eletto e coronato re di Germania il suddetto _Arrigo III_ suo figliuolo,
soprannominato il NERO a cagion della barba, e come suo successore fu
immediatamente riconosciuto da tutti. Una curiosa novella cominciò ad
avere spaccio nel secolo susseguente intorno alla persona d'esso re
Arrigo. Gotifredo da Viterbo pare che fosse il primo a darle
credito[571]. Eccone, per ricreazion di chi legge, un transunto. Caduto
in disgrazia di Corrado Augusto un _Lupoldo conte_, si ritirò colla
moglie a vivere incognito in una capanna in mezzo ad una selva. Questa
favola, passata poi in Italia, fu applicata in altri termini ad alcune
nobili case dagl'impostori genealogisti. Ora accadde che Corrado,
smarrito nella caccia, giunse a quel tugurio una notte, e vi prese
riposo. Nello stesso tempo partorì la moglie di Lupoldo un maschio, e
Corrado, al sentirlo vagire, intese una voce dal cielo che gli disse:
_Corrado, questo fanciullo sarà tuo genero ed erede_. Levatosi per tempo
l'imperadore, ordinò a due suoi famigli di prendere quel bambino e
d'ucciderlo. N'ebbero compassione, e il lasciarono vivo sopra di un
albero. Passò di là un certo duca, che il prese ed allevò, e veggendolo
crescere in bellezza e senno, l'adottò per figliuolo. Dopo alcuni anni
guatando l'imperadore questo giovinetto, gli venne sospetto che fosse il
medesimo di cui avea comandata la morte, forse perchè seppe come era
stato trovato dal duca; e con apparenza di volerlo onorare, l'arrolò
fra' suoi cortigiani. Un dì poscia scrisse all'imperadrice Gisla una
lettera, in cui gli ordiva di farne immediatamente uccidere il
portatore, e la diede al giovinetto Arrigo con ordine di presentarla in
mano d'essa Augusta. Andò questi; ma addormentatosi per viaggio in una
chiesa, il prete d'essa adocchiata quella lettera, gliela tolse di
saccoccia ed aprì. Per compassione il buon prete ne scrisse un'altra con
ordine all'imperadrice che, alla comparsa di quel giovane, immantinente
gli desse in moglie la comune lor figliuola. Andò il giovane, senza
nulla sapere dell'operato dal prete, e presentata la lettera, non tardò
a divenir genero dell'imperadore. Bel suggetto per una tragedia, purgato
che fosse da varii inverisimili, ma per conto della storia, avvenimento
inventato di peso, essendo fuor di dubbio, secondo l'autorità di più
scrittori contemporanei, che _Arrigo III_ nacque da Corrado e Gisla
Augusti, ed ebbe due mogli l'una _Cunichilde_ morta nell'anno
precedente, e poscia nell'anno 1045 _Agnese_ figliuola di _Guglielmo
duca_ di Poitiers. Benchè poi non fosse costume di contare in Italia gli
anni del regno italico, nè dell'imperio, se non dopo le coronazioni;
pure mi prendo io la libertà di cominciar qui l'epoca del di lui regno
in Italia, al vedere che una carta riferita dal Campi[572], e scritta in
_Piacenza_, ha queste note: _Anno ab Incarnatione Domini MXLIV, anno
regni donni Henrici rex hic in Italia quinto, nono kalendas aprilis,
Indictione XII_, il che fa bastevolmente intendere che almeno i Pavesi
ed altri popoli d'Italia, anche senza la coronazione italiana, non
tardarono molto a ricevere esso Arrigo III per re. Un'altra carta
piacentina nell'anno seguente _MXLV_ ha l'_anno sesto_ del regno
d'Arrigo. Così nel Bollario casinense[573] e presso l'Ughelli[574] si
truovano diplomi dati da esso re alle chiese d'Italia coll'epoca
suddetta. Ho io parimente pubblicata[575] una lettera di Adalgerio,
_cancellarius et missus gloriosissimi regis Henrici, cujus vice in regno
sumus_, a tutto il popolo di Cremona, con cui gli ordinava d'intervenire
al placito di _Ubaldo vescovo_ di quella città. Contuttociò potrebbe
essere che solamente all'anno susseguente si desse principio all'epoca
del regno d'Italia, cioè dappoichè _Eriberto arcivescovo_ di Milano,
siccome vedremo, andò a riacquistar la grazia del medesimo re Arrigo. Nè
mancano documenti italiani di questi tempi, ne' quali niuna menzione è
fatta del regno d'esso Arrigo.

Avea l'Augusto Corrado portato con seco in Germania un implacabil odio
contra d'esso Eriberto, nè altro potendo fare, avea incaricato i
principi d'Italia, cioè i vescovi, marchesi e conti di far aspra guerra
a Milano. In fatti alla primavera di quest'anno si raunarono armi ed
armati da varie parti per eseguire la di lui volontà e vendetta; ma
punto non si sgomentò Eriberto[576]. Preparò egli buona copia di
munizione da bocca e da guerra; chiamò in città tutti i distrettuali dal
grande fino al picciolo; ed allora fu ch'egli inventò il _carroccio_;
tanto poscia usato e decantato ne' secoli susseguenti in Lombardia.
Questo era un carro condotto da buoi con un'antenna alzata che aveva
sulla cima un pomo dorato con due stendardi bianchi. Nel mezzo v'era
l'immagine del Crocifisso. Uno stuolo de' più forti gli stava alla
guardia, e conducendosi questo carro in mezzo all'esercito, colla sua
vista accresceva coraggio ai combattenti. Di molte baruffe si fecero in
tal congiuntura, ed era per seguirne peggio, quando all'improvviso
giunta la nuova della morte di Corrado, tutto l'esercito nimico si levò
e sbandò con tal confusione, che ad alcuni costò la vita. Eriberto ne
dovette ben cantare il _Te Deum_. Abbiamo da Ermanno Contratto[577] e da
Wippone[578] che in questo anno nel dì 13 d'ottobre parimente mancò di
vita _Corrado duca_ di Franconia, di Carintia e d'Istria: con che venne
eziandio a vacare la marca di Verona. Avrebbe forse potuto pretendere ad
essa _Adalberone_, che prima di lui l'aveva goduta, e ne fu cacciato; ma
anch'egli pagò il suo debito alla natura nell'anno presente. Se ad
alcuno fosse ne' sei o sette anni seguenti conferita quella marca, non
l'ho potuto finora scoprire. Erano nella più bella positura gli affari
de' Greci in Sicilia, e pareva già vicino il fortunato giorno, in cui
quell'isola nobilissima restasse libera dal giogo de' Saraceni. Ma la
greca avidità e superbia tagliò il corso agli ulteriori progressi, e
rovinò anche gli acquisti fatti per la cagione che son per narrare. Gran
cosa avea promesso Giorgio Maniaco ai Longobardi e Normanni, suoi
ausiliarii a quell'impresa. Quando si fu a partire il bottino, anche
essi ne pretesero, come era il dovere, la lor parte. Nulla poterono
ottenere. Inviarono _Ardoino_ nobile longobardo a Maniaco per farne
nuova istanza; e questi, forse perchè parlò con troppo calore, altro non
riportò che strapazzi e bastonate. Voleano i Longobardi e Normanni
correre all'armi e farne vendetta; ma il saggio Ardoino, per attestato
di Guaifredo Malaterra[579], li consigliò a dissimular lo sdegno; ed
accortamente ricavata licenza di poter tornare in Calabria, imbarcatosi
con tutti i suoi aderenti, felicemente si ridusse a Reggio di Calabria
in terra ferma. Allora fu ch'essi, preso per lor capitano esso
_Ardoino_, si diedero a far vendetta dell'ingratitudine de' Greci, con
devastar tutto quanto poterono delle terre possedute da essi Greci in
quella provincia. Ma Guglielmo pugliese[580], Cedreno ed altri scrivono,
che non da Maniaco in Sicilia, ma da Doceano, ossia Dulchiano, catapano
de' Greci in Puglia, fu maltrattato esso Ardoino, il quale era allora
suo luogotenente. Di qui ebbe principio la rovina del dominio greco in
Italia. Riuscì ancora in quest'anno a _Guaimario IV_ principe di Salerno
e di Capoa[581] di sottomettere al suo dominio coll'aiuto dei Normanni
il ducato di _Amalfi_. Lo stesso vien confermato dalla Cronichetta
d'Amalfi[582], da cui impariamo, che essendo fuggiti a Napoli _Giovanni_
e _Sergio_ suo figlio, duchi di quella città, _Mansone_ fratello d'esso
Giovanni occupò quel principato. Ma essendo da li a quattro anni
ritornato esso Giovanni da Napoli, dopo aver preso ed accecato il
suddetto Mansone, tornò a comandar le feste; per poco tempo nondimeno,
perchè _Guaimario_ s'impadronì di quella allora molto ricca città. La
tenne egli per cinque anni e sei mesi, dopo i quali Mansone, tuttochè
cieco, ricuperò quel ducato, e regnò dipoi altri nove anni.

NOTE:

[569] Antiquit. Ital., Dissertat. LXXI.

[570] Wippo, in Vita Conradi Salici. Hermannus Contract., in Chron.
Annales Hildesheim.

[571] Godefridus Viterbiensis, in Panth.

[572] Campi, Istor. di Piacenza tom. 1 Append.

[573] Bullarium Casinense, Constit. LXXXIX.

[574] Ughellius, Ital. Sacr., tom. 4, in Episcop. Bergam.

[575] Antiquit. Italic., Dissert. LXXI.

[576] Arnulf., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 16.

[577] Hermannus Contractus, in Chronico.

[578] Wippo, in Vit. Conradi Salici.

[579] Gaufrid. Malaterra, Hist., lib. 1.

[580] Guillielmus Apulus, Hist. lib. 1.

[581] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 65.

[582] Antiq. Ital., tom. 1, pag. 211.



    Anno di CRISTO MXL. Indizione VIII.

    BENEDETTO IX papa 8.
    ARRIGO III re di Germania e d'Italia 2.


Fondato sopra l'autorità di Galvano Fiamma scrisse il Sigonio[583], che
il _re Arrigo_ dopo la morte del padre fu sollecito a spedir
ambasciatori in Italia ad _Eriberto arcivescovo_ di Milano, per chiedere
la corona del regno italico di presente, e buona amicizia in avvenire.
Sembra a me più verisimile che Eriberto cercasse egli la grazia del
nuovo regnante, e che il maneggio si terminasse nell'anno presente.
Meritano d'essere qui riferite le parole dell'Annalista sassone[584].
Dopo aver egli detto che Arrigo solennizzò la Pasqua in Ingeleim,
seguita a scrivere così: _Illuc etiam post Pascha metropolitanus
mediolanensis adveniens, et de omni sua controversia, quam contra
imperatorem Conradum exercuit, satisfaciens, interventu principum
gratiam regis promeruit, et iterum juramentis pacem fidemque se
servaturum affirmavit: sicque regem Agrippinam prosecutus, inde ad
patriam cum pace simul et gratia regis remeavit_. Pertanto venne sempre
più a stabilirsi in Italia il dominio del re Arrigo III, quantunque non
resti memoria della di lui elezione in re d'Italia, la quale è da
credere che seguisse in qualche dieta dei principi in Pavia o nel
precedente anno o nel presente, Truovasi menzionata anche da
Arnolfo[585] la riconciliazione suddetta, e si vede presso il Campi[586]
una donazione fatta dal suddetto arcivescovo alla badia di Tolla sul
Piacentino, scritta _anno MXL domni Henrici regis primo, nostri autem
archiepiscopatus XXII, Indictione VIII, Actum in Castro Cassano_. Fa
egli menzione in quel documento dei passati suoi travagli, e riconosce
da Dio e dall'intercessione de' santi la sua liberazione. Ebbe in
quest'anno il re Arrigo guerra col duca di Boemia, ma con isvantaggio
de' suoi. Seguitarono intanto i Longobardi i Normanni, che s'erano
ritirati dalla Sicilia, a prendere terre e a dare il guasto nel dominio
de' Greci in Puglia; e perciocchè non aveano alcun sicuro ricovero in
quelle parti, dopo aver presa _Melfi_ ossia _Melfia_ nel dì di Pasqua,
la fortificarono in maniera da non temere l'orgoglio de' Greci. Leone
ostiense[587] scrive che _Rainolfo_ normanno, conte di Aversa, con patto
di aver la metà delle conquiste, diede aiuto ad Ardoino nemico d'essi
Greci con trecento de' suoi Normanni. Nè qui si fermò la bravura di
questa gente. Presero anche _Venosa_, _Ascoli_ e _Lavello_. Abbiamo
inoltre da Lupo Protospata[588] che nel mese di marzo _Arigo_, figliuolo
di quel _Melo_ che abbiam veduto capo della sollevazion dei Pugliesi
contra de' Greci, assediò _Bari_, e se ne impadronì. Ma se qui andavano
male gli affari dei Greci, peggio ancora camminavano in Sicilia[589].
Ripigliate le forze, i Saraceni aveano messa insieme un'armata di terra,
con cui sperando di riacquistar le città perdute, si accamparono nella
pianura di Dragina. Giorgio Maniaco, valente generale di terra per
l'imperadore greco, nulla prezzando costoro, presentò lor la battaglia,
con aver prima ordinato a Stefano patrizio, marito d'una sorella
dell'imperadrice, e general di mare, di star bea attento colla sua
flotta, acciocchè niuno de' Barbari fuggisse: tanto si teneva egli in
pugno la vittoria. Infatti mise in rotta il nemico, e ne fece buona
strage; ma il general moro ebbe la fortuna di salvarsi con una barchetta
per mare. Per questa negligenza di Stefano si trovò sì irritato Maniaco,
che il regalò di qualche bastonata, e lo strapazzò, chiamandolo
soprattutto uom vile e traditore, Stefano, che stava bene alla corte,
scrisse colà che Maniaco macchinava di usurpare per sè la Sicilia; e
questo bastò perchè venisse ordine di mandarlo ne' ferri con Basilio
patrizio a Costantinopoli: il che fu eseguito, con restare al comando
dell'armi il suddetto Stefano. La dappocaggine ed avidità di costui
diede campo ai Mori di riaversi e di ricuperare a poco a poco coll'aiuto
degli stessi Siciliani le città e fortezze perdute, a riserva di Messina
che si sostenne. All'assedio di questa città con tutte le lor forze
passarono i Mori. Catalaco Ambusto comandante della piazza, mostrando
timore, per tre di niun movimento fece, di maniera che i Mori notte e dì
ad altro non pensavano che a sollazzarsi, in bere, in danze e in altre
allegrie. Nel dì della Pentecoste Ambusto, animati i suoi alla pugna,
diede improvvisamente addosso agli assedianti, colla cavalleria giunse
fino al padiglione d'Apolafare, general de' Mori, che, colto colle spade
ubbriaco, morì senza saper di morire. Chi de' Saraceni non ebbe buone
gambe vi lasciò la vita; e nel bottino si truovò tanta quantità d'oro,
d'argento, perle e pietre preziose che, se vogliamo crederlo, si
misuravano a moggia. Ma con tutta questa fortuna i Greci, per mancanza
del loro generale, nulla più acquistarono, e Stefano se ne fuggì in
Calabria. Aggiunse in quest'anno _Guaimario IV_ ai suoi principati di
Salerno, di Capoa e d'Amalfi anche il ducato di Sorrento[590]. Quanto al
re Arrigo, egli interdisse a Walderico, abbate del monistero cremonese
di san Lorenzo, l'alienarne e livellarne i beni senza licenza di
_Ubaldo_ vescovo di quella città. Questo era il mestiere di molti abbati
cattivi di questi tempi. Fu dato il diploma[591] _XVI kalendas
februarii, Indictione VII anno MXL in Augusta, per consiglio Kadeloi
episcopi atque cancellarii nostri_. E però di qui veniamo a conoscere
che _Cadaloo_, famoso per le sue ribalderie nella storia ecclesiastica,
dovette conseguire il vescovato di Parma, non già nell'anno 1046, come
volle l'Ughelli[592], ma bensì nell'anno precedente 1039.

NOTE:

[583] Sigonius, de Regno Ital., lib. 8.

[584] Annalista Saxo apud Eccardum.

[585] Arnulph., Hist. Mediol. lib. 2, cap. 17.

[586] Campi, Istor. di Piacenza, tom. I, Append.

[587] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 67.

[588] Lupus Protospata, in Chronico.

[589] Cedren., in Comp. Hist.

[590] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 65.

[591] Antiquit. Italic., Dissert. LXXII.

[592] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2, in Episcop. Parmens.



    Anno di CRISTO MXLI. Indizione IX.

    BENEDETTO IX papa 9.
    ARRIGO II re di Germania e d'Italia 3.


Era in questi tempi sconvolta la reggia di Costantinopoli per la
prepotenza dell'_imperadrice Zoe_, che faceva e disfaceva a suo talento
gl'imperadori; e però anche le membra dell'imperio greco risentivano i
malori del capo. Al governo della Puglia e Calabria[593] era stato
inviato _Doceano_ o _Dulchiano_ catapano dell'Augusto _Michele
Paflagone_, che in quest'anno finì i suoi giorni, con avere per
successore _Michele Calafata_, il quale durò ben poco, e lasciò l'impero
a _Costantino Monomaco_. Questo Doceano moriva di rabbia al vedere i
progressi dei Normanni nella Puglia[594], e però fece quanto sforzo potè
per desiderio di opprimerli e di cacciarli da Melfi. Gli era anche
venuto qualche rinforzo di gente dal Levante. Nulla sbigottito per
questo _Ardoino_, capitano allora de' Normanni, adunò anch'egli le sue
truppe; e, quantunque troppo inferiore di gente[595], pure
intrepidamente venne alle mani coi Greci nel mese di marzo presso al
fiume Labento, e toccò la vittoria ai pochi, ma valorosi. Allora i
Normanni, per tirar dalla sua gli abitatori di quelle contrade, elessero
per loro capo _Atenolfo_ fratello di _Pandolfo III_ principe allora di
Benevento, e arditamente nel mese di maggio presso il fiume Ofanto, e,
secondo Cedreno, in vicinanza del famoso luogo di Canne, s'azzuffarono
coll'esercito greco, e di nuovo lo sbaragliarono. Accadde che quel
medesimo fiume, dianzi secco, allorchè i Greci il passarono,
all'improvviso si gonfiò d'acque in tal guisa, che dei Greci in volerlo
ripassare più ne rimasero ivi affogati, che non erano restati tagliati a
pezzi nel campo dalle spade nemiche. Secondo Lupo Protospata, Doceano si
salvò in Bari: segno che Argiro avea ricuperata quella città con
intelligenza de' Greci, oppure che non la tenne. Gran bottino fecero in
tal congiuntura i vittoriosi Normanni. Succedette parimente in
quest'anno un'altra considerabile impresa, di cui parlerò all'anno
seguente. Ben si può credere che i vincitori dovettero saper profittare
della lor fortuna con sottomettere nuove terre in Puglia al loro
dominio. Anche in Lombardia cominciò la discordia a scompaginar la buona
armonia del popolo di Milano. Mi sia lecito il parlarne sotto quest'anno
col Sigonio, tuttochè si possa dubitare che al susseguente appartenga
questo funesto avvenimento, scritto da Arnolfo e Landolfo seniore[596],
storici milanesi di questo secolo.

Era composta la nobiltà di Milano dei militi che tutti godevano qualche
feudo, e si dividevano in capitanei e valvassori, siccome ancora d'altri
che non aveano già feudi, ma per grosse tenute di beni, e per dignità ed
uffizii erano potenti. Maltrattavano, aggravavano i militi il popolo
minore, cioè gli artisti e l'altra plebe; e andò tanto innanzi la loro
indiscretezza, che infine il popolo ruppe la pazienza e il rispetto
dovuto ai maggiori con tale scissura, che la piaga durò dipoi ne' secoli
avvenire, ora aperta, ora cicatrizzata, ma non mai ben saldata. Abbiam
veduto all'anno 1035 una simile rottura in Milano, che poi si quetò per
allora. Fu un giorno malamente bastonato o ferito da un milite, ossia da
un cavaliere, un plebeo. Trasse al rumore altra gente plebea; ne seguì
un conflitto, e poscia un'unione giurata di tutto il basso popolo contra
de' nobili, da' quali più non si voleva lasciar calpestare. Il peggio fu
che Lanzone, uomo nobile, si mise alla lor testa: il che sommamente
dispiacque al corpo della nobiltà. La guerra passata avea addestrata
all'armi anche la plebe, e però, stando sì l'una come l'altra parte in
sospetto e in guardia, un dì per un piccolo rumore tutti corsero
all'armi, e si cominciò per le piazze per le strade un'aspra battaglia.
Chi all'aperto, e chi dalle finestre e dai tetti combatteva, e a
moltissime case fu attaccato il fuoco. Era di troppo superiore il numero
dell'inferocito popolo: laonde furono obbligati i nobili a cercare
scampo con fuggirsene dalla città insieme colle lor mogli e figliuoli.
L'arcivescovo Eriberto, affinchè non si credesse ch'egli favorisse il
partito della plebe contra dei nobili, molti de' quali erano suoi
vassalli, giudicò bene anch'egli di ritirarsi fuor di Milano. Siccome
apparisce da un documento da me dato alla luce[597], in quest'anno si
truova nel Bondeno la moglie di _Bonifazio duca_ e marchese di Toscana,
_Beatrice_ contessa, la quale è detta _filia quondam Frederici_, senza
specificare, come era il costume, che suo padre fosse duca. Ma benchè
quella carta si dica scritta nell'anno _ab Incarnatione Domini nostri
Jesu Christi millesimo quadragesimo primo, die XIII martii_, pure è
difettosa, perchè seguita l'_indizione decima_; e però o l'anno è
fallato, e sarà il seguente; ovvero l'indizione dev'essere la _nona_.
Confermò in quest'anno il re Arrigo tutti i diritti e beni della chiesa
d'Asti a _Pietro vescovo_ di quella città con diploma[598] dato _VII
idus februarii anno dominicae Incarnationis MXLI, Indictione VIII_ (si
dee scrivere _VIIII_) _anno domni Henrici tertii regis, ordinationis
ejus XIII, regni II. Actum in Aquisgrani palatio_. Con altro diploma
parimente concedette il contado di Bergamo ad _Ambrosio vescovo_ di
quella città[599] _nonis aprilis, Indictione IX, anno domni Henrici
regnantis II, ordinationis vero ejus XXIII_ (scrivi _XIII_). _Actum
Moguntiae_. Così a poco a poco cominciarono i vescovi di Lombardia ad
acquistare anche il governo temporale e il dominio delle loro città. Se
l'oro faccia tutto oggidì, nol so dire: allora certo aveva questa virtù.

NOTE:

[593] Cedrenus, in Compend. Hist.

[594] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 67.

[595] Lupus Protospata, in Chronico. Guilielmus Apulus, lib. 1.

[596] Arnulf., Histor. Mediolan., lib. 1, cap. 18. Landulf. Senior,
Hist. Mediolan., lib. 2, cap. 26.

[597] Antiquit. Italic., Dissert. XLI.

[598] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Astens.

[599] Ibidem in Episc. Bergomens.



    Anno di CRISTO MXLII. Indizione X.

    BENEDETTO IX papa 10.
    ARRIGO III re di Germania e d'Italia 4.


Bolliva più che mai fra i nobili usciti di Milano e il basso popolo,
restato padrone della città, l'odio, la discordia e la guerra. Ci
assicura Landolfo seniore[600] che l'arcivescovo _Eriberto_ si tenne
neutrale in sì fiera congiuntura. Ora i nobili, avendo tirato nella lor
fazione i popoli della Martesana e del Seprio, si fortificarono in sei
terre all'intorno della città, e ne formarono un blocco, senza
permettere che alcuno vi portasse dei viveri; nè giorno passava in cui
non seguisse qualche badalucco o combattimento tra la plebe e i
fuorusciti, con mortalità continua d'amendue le parti. Guai se talun
cadeva nelle mani del nemico; non iscansava la morte, o una prigionia
peggior della morte. Aveva il greco Augusto _Michele Paflagone_ prima di
morire richiamato dall'Italia Doceano ossia Dulchiano, già catapano,
riconosciuto per inutile, anzi dannoso maestro di guerra[601], e in sua
vece inviato in Puglia un figliuolo di Bugiano, soprannominato, per
quanto s'ha dall'Ostiense, _Exaugusto_, o _Annone_, secondo il
Malaterra. Costui seco condusse un numeroso stuolo di Greci e di
Barbari; ma venuto a battaglia nel precedente anno coi Normanni a' dì 5
di settembre sotto Monte Piloso, o, come vuol Cedreno, in vicinanza di
Monopoli, non ebbe miglior fortuna del suo predecessore. Restò ivi con
una memorabile sconfitta tagliato a pezzi quasi tutto l'esercito suo. Fu
fatto prigione egli stesso, e donato dai Normanni ad _Atenolfo_ lor
capitano, il quale ne fece traffico coi Greci, e ne ricavò una buona
somma d'oro: azione nondimeno che irritò non poco i Normanni, e fu
cagione che gli levarono il baston del comando. Abbiamo dal Protospata,
che _Argiro_ barense, figliuolo del celebre Melo, fu in quest'anno
dichiarato _princeps et dux Italiae_, cioè della Puglia e Calabria; ma
senza dire chi gli desse questo titolo, cioè se i Greci, o i Normanni.
Certo è, per attestato di Guglielmo pugliese[602] e di Leone ostiense,
che i Normanni Argiro _Meli filium sibi praeficientes, ceteras Apuliae
civitates partim vi capiunt, partim sibi tributarias faciunt_. Ma non
istaremo molto a vedere questo medesimo Argiro e i Normanni uniti coi
Greci. Intanto l'imperador _Michele Calafata_, succeduto a _Michele
Paflagone_nell'anno addietro, imputando all'imperizia e dappocaggine de'
capitani le fiere percosse date dai Normanni alle armate sue, si avvisò
di spedire in Italia _Giorgio Maniaco_[603], cioè quel medesimo che
vedemmo dopo le vittorie riportate in Sicilia mandato in ceppi a
Costantinopoli. Costui venne, uomo superbo, uomo oltre ad ogni credere
crudele. Appena giunto ad Otranto, trovò che i Normanni erano già
divenuti padroni di tutta la Puglia, o l'aveano divisa tra loro[604]. A
_Guglielmo Bracciodiferro_ era toccata la città d'Ascoli. Lupo
Protospata scrive[605] che _Guilielmus electus est comes Materae_. A
_Drogone_ suo fratello toccò Venosa; ad _Arnolino_, _Lavello_; ad _Ugo_,
_Monopoli_; _Trani_ a _Pietro_; _Civita_ a _Gualtiero_; _Canne_ a
_Ridolfo_; a _Tristano_, _Montepiloso_; _Trigento_ ad _Erveo_;
_Acerenza_ ad _Asclittino_; ad un altro _Ridolfo_, _Santo Arcangelo_;
_Minervino_ a _Rainfredo_. Anche _Ardoino_ ebbe la parte sua. E
_Rainolfo_ conte di Aversa ottenne la città di _Siponto_ col _Monte
Gargano_. _Melfi_ restò comune a tutti, città diversa da Amalfi. Così
noi miriamo andar crescendo a gran passi la fortuna e potenza de'
Normanni in quelle contrade. Ora Maniaco diede principio alle sue
imprese con impadronirsi di Monopoli e di Matera. Fin le donne e i
fanciulli furono barbaramente tagliati a pezzi, nè si perdonò a' monaci
e preti: tanta era la barbarie di costui. In questo mentre Argiro, preso
per generale dai Normanni, s'impossessò di Giovenazzo, e per un mese
tenne assediata la città di Trani. Scrive Lupo Protospata che la città
di Bari _reversa est in manus imperatoris_ nell'anno presente. Non
s'intende bene, per la brevità delle parole di questo scrittore, come
passassero quegli affari. Veggasi all'anno seguente, e verrà qualche
lume a queste tenebre.

NOTE:

[600] Landulfus Senior, Hist. Mediolan., lib. 2, cap. 26.

[601] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 67. Lupus Protospata, in
Chron.

[602] Guilielmus Apulus, lib. 1.

[603] Cedrenus. Guiliemus Apulus.

[604] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 67.

[605] Lupus Protospata, in Chron.



    Anno di CRISTO MXLIII. Indizione XI.

    BENEDETTO IX papa 11.
    ARRIGO III re di Germania e d'Italia 5.


Da un documento da me pubblicato[606] noi ricaviamo che _Adalgerio_,
cancelliere e messo del re Arrigo, tenne un placito in Pavia nel
monistero di san Pietro _in coelo aureo_, al quale intervennero
_Eriberto arcivescovo_ di Milano, _Rinaldo vescovo_ di Pavia, _Riuprando
vescovo_ di Novara, _Litigerio vescovo_ di Como e _Adelberto conte_. Fu
scritto quel giudicato _anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi
millesimo quadragesimo tertio, regni vero domini Heinrici regis hic in
Italia V, decimotertio kalendas madias, Indictione undecima_. Ma
dovrebbe essere l'_anno IV_ del regno, prendendo il principio dell'epoca
sua dalla morte di Corrado suo padre. Tristano Calco e il Puricelli che,
fondati su questo documento, scrissero essere in quest'anno venuto in
Italia il re Arrigo, presero un grosso abbaglio. Quivi non è vestigio
alcuno di tal venuta, e vi si oppone ancora il silenzio delle storie.
Seguitarono in questo anno ancora i nobili fuorusciti milanesi a tenere
bloccata la città di Milano, con succedere frequentissimi conflitti fra
essi e il popolo di quella città, da cui valorosamente si resisteva ai
loro sforzi. Non men crudele danza continuava nella Puglia. Era stato
balzato dal trono di Costantinopoli nell'anno addietro _Michele
Calafata_, e in luogo suo innalzato _Costantino Monomaco_, che prese per
moglie l'imperadrice Zoe, cioè la sconvolgitrice di quell'imperio[607].
Passava un'antica nimicizia fra esso Costantino e Giorgio Maniaco
generale in Italia dell'armi greche. Prevedendo costui la sua rovina
sotto un imperadore sì mal affetto verso di lui, parte per disperazione,
parte per gli stimoli dell'ambizione, s'appigliò ad un'arditissima
risoluzione con farsi proclamare imperador de' Greci, e prenderne le
insegne. Cedreno accenna[608] che per cagion di Romano Duro, suo nemico
e prepotente alla corte di Costantinopoli, Maniaco si ribellò. Infatti
l'Augusto Monomaco avea spedito in Italia Pardo protospatario con ordine
di spogliar Maniaco del comando. Ma lo scaltro Maniaco seppe così bene
fare, che spogliò lui della vita e delle gran somme d'oro portate da
esso Pardo in Italia, e se ne servì per regalar le truppe, e
maggiormente adescarle nel suo partito. Abbiamo poi da Lupo
Protospata[609] che Maniaco andò sotto Bari, ma nol potè trarre alla sua
devozione. V'era dentro Argiro figliuol di Melo, che nè per minacce, nè
per promesse volle indursi a sottomettersi a lui. Tentò anche di
guadagnare i Normanni, ma non gli riuscì. Tutto questo pare succeduto
nell'anno precedente. L'imperadore Costantino, a cui scottava forte la
ribellion di Maniaco, nè trovava mezzi per ismorzar questo fuoco, si
rivolse anch'egli ad Argiro e ai Normanni; ed esibite loro delle ingorde
condizioni, e massimamente, come si può credere, la conferma delle loro
conquiste, li tirò dalla sua. Dall'Anonimo Barense, da me dato alla
luce[610], si raccoglie che vennero ad Argiro lettere imperiali
_Foederatus, et Patriciatus, et Catapani, et Vestatus_ (forse
_Sebastatus_). Portarono anche i messi imperiali dei magnifici regali
per Argiro e per li Normanni. Tutto avrebbe dato il Monomaco per
liberarsi da questo competitor dell'imperio. Argiro, ch'era da gran
tempo all'assedio di Trani, ed avea fatta fabbricare una mirabil torre
di legnami per espugnar la terra, tosto indusse i Normanni a
ritirarsene, e a far preparamenti in favore di Costantino Monomaco
contra di Maniaco. Scrisse a Rainolfo conte di Aversa per nuovi aiuti;
e, raccolta un'armata di settemila persone, tutta gente di somma bravura
ed avvezza alle vittorie, con Guglielmo Ferrodibraccio s'inviò in questo
anno alla volta di Taranto, dove s'era chiuso Maniaco, non osando tenere
la campagna contra de' pochi, ma formidabili Normanni. Taranto era città
fortissima; prenderla per assalto si conosceva impossibile; nè i Greci
voleano uscire a battaglia. Però dopo qualche tempo se ne tornarono
indietro i Normanni. Saputo poi che Maniaco se n'era ito ad Otranto, e
che contra di lui era venuta una flotta greca condotta da Teodoro
patrizio e catapano, accorsero anch'essi per terra all'assedio di quella
città. Maniaco, veggendo la malparata, ebbe la fortuna di potersi
salvare per mare e di andarsene a Durazzo. Ma poco durò la sua buona
sorte, perchè sorpreso dai soldati dell'Augusto Monomaco, terminò la sua
tragedia con restare ucciso in quelle contrade; oppure, come vuol
Cedreno, benchè vincitore, morì di una ferita. Il capo suo, portato a
Costantinopoli, empiè di consolazione tutta quella corte. Otranto si
diede ad Argiro, il quale dopo questa impresa licenziò tutti i Normanni,
e se ne tornò glorioso alla città di Bari. In quest'anno ancora, per
attestato del Dandolo[611], avendo finiti i suoi giorni _Domenico
Flabanico_ doge di Venezia, gli succedette in quel principato _Domenico
Contareno_. _Constantinus Augustus hunc ducem magistrali sede
decoravit_, sono parole d'esso Dandolo, significanti che dal greco
augusto fu dichiarato questo doge _magister militum_, come erano i duchi
di Napoli, cioè generale d'armata. Rapporta l'Ughelli[612] la fondazione
da lui fatta in quest'anno, insieme con _Domenico patriarca_ di Grado e
con _Domenico vescovo_ olivolense, ossia di Venezia, del monistero di
san Niccolò in Lido, con ivi ordinare _Sergio_ abbate. Passò in questo
anno alle seconde nozze il re Arrigo III, con prendere per moglie, nel
dì d'Ognissanti[613], _Agnese_ figliuola di _Guglielmo duca_ di
Poitiers. Negli Annali d'Ildeseim[614] si parla all'anno seguente di
questo fatto, ma con errore. A tali nozze fu un gran concorso di
buffoni, giocolieri e ciarlatani, tutti credendo, come era l'uso di quei
secoli, di riportarne de' bei regali. Ma Arrigo, ridendosi di quel
ridicolo costume, tutti li lasciò colle mani piene di mosche, e ne
dovette riportar molte maledizioni da quella canaglia, ma insieme molte
lodi dai buoni e saggi.

NOTE:

[606] Antiquit. Italic., Dissert. LXVI.

[607] Guilielmus Apulus, Hist., lib. 1.

[608] Cedren., in Compend. Histor.

[609] Lupus Protospata, in Chronico.

[610] Antiquit. Ital., Dissert. I.

[611] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[612] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Venet. Patriarch.

[613] Hermannus Contractus. Lambertus Scafnaburgensis. Chron.
Andegavense.

[614] Annales Hildesheim.



    Anno di CRISTO MXLIV. Indizione XII.

    GREGORIO VI papa 1.
    ARRIGO III re di Germania e d'Italia 6.


Per tre anni, secondo l'attestato di Arnolfo storico[615], durò il
blocco di Milano, già intrapreso dai nobili fuorusciti contro le plebe
di quella città. Terminò esso, a mio credere, piuttosto nel presente
anno che nel precedente, come si figurò il Sigonio. Eccone la maniera,
di cui siam tenuti a Landolfo seniore[616], altro storico milanese di
questo secolo. Erasi ridotta per sì lungo contrasto in somme miserie
quella nobil città, perchè troppo scemato il popolo a cagion dei tanti
combattimenti e delle malattie sofferte, e massimamente perchè un'orrida
fame era succeduta alla mancanza dei viveri. Pareano scheletri
camminanti quei che erano restati in vita. Ora Lanzone capitan d'esso
popolo, allorchè vide tendente al precipizio la fortuna de' suoi, nè
rimaner loro speranza di soccorso, preso seco molto oro ed argento,
segretamente se ne andò in Germania ad implorar il patrocino del re
Arrigo. Il trovò molto adirato contra di _Eriberto arcivescovo_, perchè
il supponeva autore di sì scandalosa division de' Milanesi, e insieme
della ribellione, giacchè niuna delle due fazioni ubbidiva più agli
ordini d'esso re. Purchè Lanzone si obbligasse di ricevere nella città
di Milano quattromila cavalli tedeschi, promise il re Arrigo di aiutar
la plebe contra dei nobili, e contra qualunque persona che volesse
molestarla. A tutto acconsentì Lanzone, e fu determinato il tempo della
spedizion dell'armata. Con queste buone nuove tornato a Milano rimise il
cuore in corpo ai macilenti suoi seguaci, con gaudio incredibile di
tutti, e con sua gran lode. Ma questo Lanzone, siccome personaggio ben
provveduto di senno, ed amante della patria, stette poco a riconoscere a
che pericolo si esponesse la città, e non men la fazione contraria che
la sua. Fors'anche avea consigliatamente operato tutto per condurre alla
pace i nobili ostinati. Perciò segretamente s'abboccò con alquanti
nobili fuorusciti; e rappresentato loro quanto a tutti potea avvenire
per così fiera disunione, non trovò difficoltà a stabilire una buona
pace e concordia: con che rientrarono i nobili in Milano, e deposto ogni
spirito di vendetta, attesero sì i grandi che i piccioli a vivere per
allora con buona armonia, benchè poco fossero disposti gli animi
dell'una parte verso dell'altra. Tal fine ebbe quella scandalosa
discordia. Conoscendo _Poppone patriarca_ di Aquileia quanto fosse
agevole, nella corruzione in cui si trovava allora la corte romana per
cagione di un papa pieno di vizii, l'ottenere quel che si voleva[617],
tanto s'adoperò, che ne riportò un decreto, che la chiesa di Grado,
benchè da più secoli smembrata, dovesse riconoscere per suo
metropolitano il patriarca aquileiense. Negli ultimi mesi adunque
dell'anno presente portatosi con gente armata a Grado, diede il sacco a
quanto vi era di buono; ed appunto con barbarica crudeltà attaccò il
fuoco alle chiese e alla città, e ne fece un falò. _Domenico Contareno_
doge ed _Orso patriarca_ di Grado, commossi da sì empio insulto, ne
scrissero lettere assai calde a _papa Benedetto_, e spedirono apposta a
Roma i lor messi per implorar giustizia e ristoro. Furono trovate così
buone le lor ragioni, che si venne nel sinodo romano ad abolire il
privilegio surrettiziamente ottenuto, con obbligo di restituire il
maltolto. Ed allora il doge di Venezia si studiò di rifabbricare
l'abbattuta città di Grado. Tornati che furono alle lor case i Normanni
dopo la morte di Maniaco, _Guaimario IV_ principe di Salerno e di Capoa,
mal sofferendo che Argiro sotto l'ombra del greco imperadore usasse il
titolo di principe di Bari e di duca d'Italia, determinò di fargli
guerra. Aveva esso Guaimario preso il titolo di duca di Puglia e
Calabria, quasichè questo gli somministrasse diritto sopra quelle
provincie. Ora avendo egli condotti al suo soldo i Normanni che aveano
abbandonato Argiro, portò le sue armi contro della Calabria. Cosa ivi
facesse, non si sa. Lupo Protospata[618] solamente nota che Guaimario
insieme con _Guglielmo Bracciodiferro_, capo de' Normanni, vi fabbricò
il castello di Squillaci. Guglielmo pugliese aggiugne[619] ch'egli passò
con quelle forze sotto Bari, e vi mise l'assedio, con intimarne la resa
ad Argiro. Ma Argiro facendo buona guardia alla città, nè volendo
cimentarsi a combattimento alcuno, il lasciò minacciar quanto volle.
Però veggendo Guaimario di consumare indarno e tempo e danari intorno a
quella città, dopo aver saccheggiato tutto il paese, se ne ritornò
indietro colle trombe nel sacco.

Patì una fiera confusione e burrasca in quest'anno la Chiesa
romana[620]. Erano arrivate al colmo le disonestà, le ruberie e gli
ammazzamenti di papa _Benedetto IX_, in maniera che il popolo romano,
non potendo più tollerar questo mostro, il cacciò fuori di Roma, ed
elesse papa, _canonica parvipendentes decreta_, Giovanni vescovo
sabinense, che prese il nome di _Silvestro III_. Questi comandò le feste
solamente tre mesi, perchè colla forza de' suoi parenti risorto
Benedetto IX, risalì sul trono, scomunicò e cacciò il sustituito
Silvestro. Ma continuando nelle sue iniquità Benedetto, e scorgendo più
che mai irritati contro di lui i Romani, rinunziò al pontificato, con
venderlo simoniacamente a Giovanni chiamato Graziano, arciprete romano,
il quale assunse il nome di _Gregorio VI_. In questo miserabile stato
cadde allora la santa Chiesa romana, non per la prepotenza di principe
alcuno, ma per la disunione ed avarizia del popolo romano, che avendo
mano nell'elezione de' papi, facilmente sturbava chiunque del clero
serbava il timore di Dio, ed avrebbe forse saputo canonicamente
provvedere al bisogno della santa Sede. Sforzasi il cardinal
Baronio[621] di provare che _Gregorio VI_ fu riconosciuto per legittimo
papa, e lodato da molti per le sue virtù; nè questo si mette in dubbio.
Ma il padre Pagi[622] pruova che Graziano, cioè _Gregorio VI_ comperò
anch'egli, cioè simoniacamente acquistò il romano pontificato, e che,
per non essere sui principii noto questo peccaminoso ingresso d'amendue
que' papi, fu ad essi prestata ubbidienza, nè per questo rimasero
esclusi dai cataloghi de' romani pontefici. Comunque sia, noi fra poco
vedremo che non tardò Iddio a sovvenir la Chiesa, e a liberarla dagli
scandali con darle dei legittimi e buoni pontefici. Gioverà anche alla
storia d'Italia l'accennar qui[623], che venuto a morte in quest'anno
_Gozelone_ ossia _Gotolone_, _duca_ della Lorena inferiore lasciò quel
ducato a _Gozelino_ suo figliuolo, soprannominato il _Dappoco_. Ma il re
Arrigo, tuttochè gliel'avesse promesso, conferì quel ducato ad un
_Adalberto_. Non seppe digerir questo torto _Gotifredo_ il Barbato,
altro figliuolo del suddetto Gozelone, e già duca della Lorena
mosellanica ossia superiore, giovane di nobilissima indole, e
peritissimo dell'arte militare. Perciò ribellatosi al re Arrigo, fece
gran guasto e strage di gente fino al Reno, non salvandosi dal di lui
furore se non chi si rifugiò nelle fortezze, o si riscattò con danari.
Noi vedremo questo principe in Italia da qui ad alcuni anni operator
d'altre imprese. Finì sua vita in quest'anno _Gebeardo arcivescovo_ di
Ravenna, mentre dimorava nel monistero della Pomposa[624], godendo ivi
della pia conversazione di _Guido abbate_, uomo di santa vita. Fu
occupata quella chiesa da un certo _Widgero_; ma, siccome vedremo, ne
decadde dopo due anni. Nè voglio lasciar di dire, aver Bennone nel
zibaldone d'imposture e calunnie caricata la mano sopra il suddetto papa
_Benedetto IX_, e che san Pier Damiano, in vigore d'una delle
rivelazioni che anticamente erano alla moda, il cacciò nel profondo
dell'inferno. Ma essersi trovato a' dì nostri chi con antichi documenti
fa vedere che esso _Benedetto IX_, a persuasione di san Bartolommeo
abbate di Grottaferrata, rinunziò il pontificato, ed avendo vestito
l'abito monastico in quel monistero, attese a far penitenza dei suoi
falli, finchè Dio il chiamò all'altra vita; e però non meritar fede chi
tanto sparla del suo fine, e di penitente ch'ei fu, cel vuole far
credere impenitente e dannato. Come poi s'accordino tali notizie colle
parole dette da san Leone IX papa, prima di morire, nell'anno 1054,
intorno ad esso Benedetto IX, io lascerò che altri lo decida. Resta
forte allo scuro la storia italiana e romana in questi tempi.

NOTE:

[615] Arnulf., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 19.

[616] Landulfus Senior, Histor. Mediol., lib. 2, cap. 26.

[617] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[618] Lupus Protospata, in Chronico.

[619] Guilielmus Apulus, Hist., lib. 2.

[620] Vict. III Papa, Dialog., lib. 3. Hermannnus Contractus, in Chron.
Leo Ostiensis, Petrus Damiani, et alii.

[621] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[622] Pagius, ad Annal Baron. ad hunc annum.

[623] Hermannus Contractus, in Chron. Annalista Saxo.

[624] Hermannus Contractus, in Chron. Rubeus, Hist., Ravenn. lib. 5.



    Anno di CRISTO MXLV. Indizione XIII.

    GREGORIO VI papa 9.
    ARRIGO III re di Germania e d'Italia 7.


Se si ha a prestar fede a Guglielmo malmesburiense[625], papa _Gregorio
VI_ trovò sì distratti e desolati per colpa dei suoi antecessori i beni
e gli stati della Chiesa romana, che appena gli restava da vivere. Erano
sì assediati i cammini dai ladri ed assassini, che niun pellegrino osava
più di passare a Roma, se non in buona carovana. Le obblazioni che si
facevano alle chiese romane degli Apostoli e Martiri venivano tosto
rapite dai potenti scellerati. Il pontefice prima colle buone, poi colle
scomuniche cercò di metter fine a tanti abusi ed iniquità. Nulla valse
questo rimedio. Unì dunque fanti e cavalli armati, che colle spade
sterminarono gran parte di quella mala razza, e per tal via ricuperò
molti poderi e città tolte alla Chiesa romana. Aperti ancora ed
assicurati i cammini, tornarono i pellegrini a frequentar le chiese di
Roma. Ma i Romani, avvezzi a vivere di rapina, non poteano soffrir sì
fatti regolamenti, e chiamavano sanguinario il papa, e indegno di dir
messa, e in ciò andavano d'accordo col popolo ancora i cardinali. Ma io
non so che mi credere di questo racconto del Malmesburiense, al vedere
ch'egli vi attacca varie favole intorno alla morte di questo papa, e un
lungo ragionamento di lui, che sicuramente è finto, e resta smentito
dalla storia. Quel solo che si può credere, si è il miserabile stato
delle rendite della santa Sede in questi tempi sì abbondanti d'iniquità.
Così li trovò anche il santo papa Leone IX fra quattro anni, siccome
vedremo. Sul principio di quest'anno diede fine a' suoi giorni _Eriberto
arcivescovo_ di Milano, lodatissimo dagli storici milanesi[626], ma
chiamato tiranno da i Tedeschi. Ermanno Contratto[627] il fa morto
nell'anno 1044, il Puricelli[628] nel 1046. Ma nel suo epitaffio, che
dee meritar più fede, si legge:

    OBIIT ANNO DOM. INC. MXLV. XVI. DIE
    MENSIS IANVARII, INDIC. XIII.

Lo stesso abbiamo da Landolfo seniore, storico milanese di questi tempi.
Però nell'ultimo suo testamento, riferito dal suddetto Puricelli, è
scritto _anno ab Incarnatione Domini millesimo quadragesimo quinto,
mense decembris, Indictione XIII_, si dee credere adoperata l'era
pisana, che anticipa di nove mesi l'anno volgare, oppure l'anno nuovo
cominciò nel Natale del Signore. Insomma quel testamento dee appartenere
all'anno 1044, ne' cui ultimi mesi correva l'_indizione XIII_. Ebbe il
corpo di Eriberto sepoltura nel monistero di san Dionisio, da lui
fabbricato ed arricchito presso alla città di Milano. Venne il clero e
popolo di quella città all'elezione del successore, e, per attestato di
Landolfo seniore[629], _quatuor majores ordinis viros sapientes, optimae
vitae bonaeque famae elegerunt, quibus electis universae civitatis
ordines ipsos ad imperatorem_ (non era peranche imperadore) _Henricum,
qui noviter surrexerat, noviterque populum ipsum a majorum manibus
liberaverat, summa cum diligentia direxerunt_. Galvano Fiamma[630]
nomina questi quattro eletti. Ed ecco la maniera che si teneva in tempi
tanto sconcertati dell'Italia, allorchè occorreva l'elezione de'
vescovi. Si lasciava al clero e popolo un'ombra dell'antico diritto, con
permettere loro di eleggere e nominar quattro personaggi, uno de' quali
poi soleva essere prescelto dal re d'Italia, ossia dall'imperadore. Ma
talor succedeva che i re ed imperadori, rompendo questo ordine,
eleggevano fuor degli eletti chi più era loro in grado. Ciò appunto
avvenne in questa congiuntura.

Trovavasi alla real corte in Germania _Guido da Velate_, villa del
Milanese, uomo di bassa lega, per quanto lasciò scritto Arnolfo[631],
con dire: _Sustulit eum de gregibus, et de post foetantes accepit eum_.
Come egli si aiutasse, non è ben noto o certo. Sappiam solamente che il
re Arrigo, anteponendolo ai quattro eletti, il dichiarò arcivescovo di
Milano. Se crediamo al suddetto Fiamma, _Guido_ era stato eletto dalla
parte dei nobili di Milano, e ne dà qualche fondamento Landolfo seniore:
il che pare che possa giustificar la risoluzione presa dal re Arrigo.
Aggiugne di più, che questo Guido era suo _segretario_; del che si può
dubitare. Resta incerto quando egli entrasse in possesso della cattedra
ambrosiana. Nel Codice estense di Arnolfo è notato l'anno 1046, ed
Ermanno Contratto mette in un anno la morte di _Eriberto_, e nel
susseguente l'elezione di _Guido_. Non sembra molto probabile questa
opinione, perchè quando sussista la morte di Eriberto nel gennaio
dell'anno presente, difficilmente potè restare per sì lungo tempo
vacante la chiesa di Milano. Venuto in Italia Guido, fu mal ricevuto dal
clero della metropolitana, e durò fra essi una gran discordia; ma per
paura del re mostrarono di acquetarsi, e l'accettarono per loro pastore.
Da questo fatto poi con sicurezza raccogliamo che i Milanesi erano
tornati in grazia del re Arrigo, e riconoscevano la di lui autorità e
signoria. Concedette esso re in questo anno un privilegio al monistero
delle monache di santa Giulia di Brescia, pubblicato dal Margarino[632],
e dato _anno dominicae Incarnationis MXLV, Indictione XIII, undecimo
kalendas augusti, ordinationis vero domni Henrici XIII_ (dovrebbe essere
_XVII_), _regni vero VI_ (si scriva _VII_). _Actum Trajectula_.
Parimente con altro suo diploma dato in _Augusta_,[633] ma senza il
giorno e il mese, confermò tutti i beni e diritti della chiesa di
Mantova a _Marciano_ vescovo di quella città. Secondo Ermanno
Contratto[634], _Gotifredo duca_ di Lorena, veggendo di non poter
sostenere la sua ribellione, andò in quest'anno a gittarsi ai piedi del
re Arrigo, e per salutar penitenza fu posto in prigione. Sigeberto[635]
aggiugne, che con dare per ostaggio il figliuolo, riacquistò la libertà;
ma essendo mancato di vita esso suo figliuolo, egli tornò a ribellarsi,
e a devastar paesi come prima. L'Annalista sassone[636] mette questo
fatto sotto l'anno seguente. Abbiamo anche un'indubitata pruova che
s'era ristabilita la buona armonia fra il re Arrigo e il popolo di
Milano, perciocchè troviamo al governo di quella città nell'anno
presente il ministro imperiale. E questi fu il marchese _Alberto Azzo
II_ progenitore de' principi estensi. Ciò costa da due placiti tenuti
nel novembre di quest'anno in essa città, e da me dati alla luce[637],
ne' quali _domnus Azo marchio, et comes istius civitatis_ rende
giustizia con imporre la pena di mille mancosi d'oro da pagarsi
_medietatem camerae domni regis_. Per attestato del Dandolo[638],
_Salomone re_ d'Ungheria fece ribellare la città di Zara ai Veneziani.
Ma insorta poi guerra civile fra quel re e i suoi fratelli, _Domenico
Contareno_ doge di Venezia si servì di tal congiuntura per ricuperar
circa questi tempi la suddetta città. Nulladimeno essendo Salomone stato
eletto re d'Ungheria molto dipoi, dovrebbe questo avvenimento riferirsi
non all'_anno_ secondo di quel doge, ma assai più tardi. Romoaldo
salernitano[639] scrive che nell'anno presente _Drogone conte_ dei
Normanni prese la città di Bovino, e la mise a sacco. Nell'anno appresso
fu essa rifabbricata, ma da lì a poco un incendio la rovinò.

NOTE:

[625] Willielmus Malmesburiensis, de gest. Reg. Angl. lib. 2.

[626] Landulfus, Hist. Mediolan., lib. 2, cap. 32.

[627] Hermannus Contract., in Chron.

[628] Puricellius, Monument. Basil. Ambrosian.

[629] Landulfus Senior, Hist. Mediol., lib. 3, cap. 2.

[630] Gualvaneus Flamma, in Chron. Major. MS., cap. 763.

[631] Arnulf., Hist. Mediol., lib. 3, cap. 1.

[632] Bullar. Casin., tom. 2, Constit. LXXXIX.

[633] Antiquit. Ital., Dissert. LXXIV.

[634] Hermannus Contract., in Chron.

[635] Sigebert., in Chron.

[636] Annalista Saxo.

[637] Antiquit. Ital., Dissert. XLV.

[638] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[639] Romuald. Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MXLVI. Indizione XIV.

    CLEMENTE II papa 1.
    ARRIGO III re di Germania 8, imperadore 1.


Abbiamo da Ermanno Contratto[640] che _Widgero_ eletto e non consecrato
arcivescovo di Ravenna, dopo aver per due anni incirca occupata quella
chiesa e commesse varie crudeltà e cose improprie, chiamato in Germania
dal re Arrigo, fu da esso deposto. Celebrò Arrigo la Pentecoste in
Aquisgrana, dove se gli presentò _Gotifredo duca_ della Lorena, per
chiedergli misericordia de' suoi falli, nè solamente l'ottenne, ma anche
il ducato, da cui era decaduto per le già enunziate ribellioni. Sarà
cura d'altri il vedere se questa umiliazione di Gotifredo sia diversa
dalla narrata nell'anno precedente. Si credeva Arrigo di aver terminate
le guerre coll'Ungheria, che gli aveano dato tanto da fare negli anni
addietro, e parendogli di lasciar quieta la Germania, determinò
sull'autunno di quest'anno la sua venuta in Italia, per dar sesto agli
affari di queste contrade, e massimamente di Roma, dove desiderava di
prendere la corona dell'imperio. Era per viaggio con un esercito
numeroso, quando sentì sconvolto di nuovo il regno dell'Ungheria; ma non
istette per questo, e seguitò l'impreso cammino. Arrivato a Pavia, tenne
ivi un concilio, oppure una dieta. Verisimile cosa è che in tal
congiuntura egli ricevesse in Milano la corona ferrea dalle mani di
_Guido arcivescovo_. Passò dipoi a Piacenza, dove venne a trovarlo
Graziano, cioè papa _Gregorio VI_, che fu accolto con onore, e rimandato
con belle parole alla sua residenza. Sul finir di novembre noi troviamo
esso re in Lucca, dove fece una donazione[641] _VII kalendas decembris,
anno dominicae Incarnationis MXLVI, Indictione XIV, anno autem domni
Henrici III, ordinationis ejus XVIII, regni vero VIII. Actum Lucae_.
Giunto Arrigo a Sutri alquanti giorni prima del santo Natale, quivi fece
raunare un gran concilio di vescovi, e v'inviò anche papa Gregorio,
acciocchè fosse presidente di quella sacra adunanza. Non mancò egli di
andarvi, colla speranza che abbattuti gli altri due papi, egli
resterebbe solo sul trono. Abbiamo dall'Annalista sassone[642], avere un
romito (è molto che non dicessero un angelo) inviato al re Arrigo questo
ricordo:

    _Una Sunamitis nupsit tribus maritis._
    _Rex Henrice, Omnipotentis vice_
    _Solve connubium triforme dubium._

Ora in esso concilio fu esaminata la causa di tutti e tre i papi, cioè
di _Benedetto IX_, di _Silvestro III_ e di _Giovanni VI_, e trovato che
con male arti e colla simonia aveano conseguito il pontificato, furono
tutti deposti, o, per dir meglio, dichiarato nullo ed illegittimo il
loro papato. Il cardinal Baronio, che teneva non già simoniaco, ma vero
e legittimo papa _Gregorio VI_, crede ch'egli spontaneamente
rinunziasse, e chiama una _detestanda prosunzione_ quella del re Arrigo,
quasichè egli il facesse deporre, perchè senza suo consentimento fosse
stato eletto dai Romani. Ma cotal pretensione difficilmente potè avere
Arrigo, perchè essendo solamente re, niun diritto aveva egli sopra la
città e i fatti di Roma. Quel che più importa, meritano qui ben più
d'essere uditi gli antichi storici[643] che dicono _convinto_ di simonia
anche il suddetto Gregorio VI. Sopra tutto si legga quello che ne scrive
Leone vescovo ostiense[644] e cardinale, informatissimo di quegli
affari, il quale non ha difficoltà di dire che il re Arrigo, _caelitus
inspiratus, de tanta haeresi sedem apostolicam desiderans expurgare,
Sutri restitit, et super tanto negotio deliberaturus, universale ibi
episcoporum concilium fieri statuit_, ec. Nè s'avvide il saggio Baronio
ch'egli disavvedutamente dava una mentita ad un insigne e santo papa di
questo medesimo secolo, cioè a _Vittore III_, stato prima abbate di
Monte Casino col nome di Desiderio. Questi ne' suoi dialoghi, i quali si
veggono pur anche citati da esso porporato Annalista, scrive[645] che
Benedetto _IX Joanni archipresbytero, non parva ab eo accepta pecunia,
summum sacerdotium tradidit_. Aggiugne, che Arrigo _tres illos, qui
injuste apostolicam sedem invaserant, cum consilio et auctoritate totius
concilii juste depettere instituit_, e che Gregorio VI _agnoscens se non
posse juste honorem tanti sacerdotii administrare, ex pontificali sella
exsiliens, ac semetipsum pontificalia indumenta exuens, postulata venia,
summi sacerdotii dignitatem deposuit_. Altrettanto si ricava da una
bolla di _Clemente II_ papa, successore del medesimo Gregorio, e da
_Bonizone vescovo_ di Sutri in questo secolo, le parole dei quali son
riferite dal padre Pagi[646]. Ma se giustamente operò Arrigo, e, per
confessione dello stesso Baronio, _inventum est plane remedium,
opportunum, quum metu et reverentia imperatoris cessarint violentae
illae intrusiones, crebro, ut vidimus, per comites tusculanos sacrilege
iteratae_: come mai si viene ad insultare alla memoria di questo re,
autore giusto d'un rilevantissimo beneficio? Anche Sigismondo imperadore
si sbracciò per far deporre tre papi, e lode, non biasimo conseguì da
tutti. Veggansi gli encomii che san Pier Damiano[647] diede per questo
allo stesso imperadore Arrigo. Fu poscia condotto in Germania il deposto
_Gregorio VI_, e quivi terminò i suoi giorni, non si sa bene in qual
città o monistero. Sappiamo bensì che il celebre _Ildebrando_, di cui
avremo a parlare non poco, il seguitò, ma contra sua voglia, in
quell'esilio. Dopo il concilio di Sutri entrò in Roma il re Arrigo, e
raunatosi tutto il clero e popolo romano nella basilica vaticana co'
vescovi stati al suddetto concilio, restò eletto, per consentimento di
tutti, sommo pontefice _Suidgero vescovo_ di Bamberga, personaggio
cospicuo per la sua pietà e letteratura, il quale con gran ripugnanza
accettò e prese il nome di _Clemente II_. E ciò, perchè non si trovò nel
clero romano chi fosse creduto degno di sì sublime ministero. Crede il
cardinal Baronio che questo fosse _velamentum fraudis, et adinventus
praetextus, quod eligeretur peregrinus, eo quod Romae non reperiretur
idoneus: nam quis magis idoneus ipso Gregorio, quem viri sanctissimi
atque doctissimi ejus temporis summis laudibus praedicarunt_? Ma ne vuol
egli il Baronio saper più di Vittore III papa, e di Leone cardinale e
vescovo d'Ostia, viventi in questo tempo, e ben informati di quegli
affari, ed amendue chiaramente attestanti che _non erat tunc talis
reperta persona, quae digne posset ad tanti honorem sufficere
sacerdotii_? Nè d'esso certamente parrà mai degno il suddetto Gregorio,
dacchè fu convinto d'essere entrato simoniacamente nella sedia di san
Pietro. Lo stesso san Pier Damiano, che sulle prime, per non sapere il
mercato fatto, cotanto lodò esso Gregorio, poscia di lui scrisse[648]:
_Super quibus, praesente Henrico imperatore, quum disceptaret postmodum
synodale concilium, quia venalitas intervenerat, depositus est_. Che se
Martin Polacco ed altri storici lontani da questi tempi scrissero che
Clemente II fu _invasor apostolicae sedis_, non meritano d'essere
ascoltati, perchè Clemente fu eletto da tutto il clero e popolo romano.
Nel Natale del Signore fu consecrato esso papa _Clemente II_, e nel
giorno medesimo con gran pompa fu acclamato imperador de' Romani
_Arrigo_, terzo fra i re di Germania, e secondo fra gl'imperadori.
Ricevette non men egli che l'Augusta sua consorte _Agnese_ l'imperial
corona dalle mani del novello pontefice. E così, come erano coronati,
insieme col papa[649], e fra i viva e l'accompagnamento del popolo
romano e delle altre nazioni, amendue passarono al palazzo del Laterano.
Celebratissimo era in questi tempi il monistero della _Pomposa_, oggidì
nel distretto di Ferrara, monistero antichissimo, ma sommamente
arricchito da _Ugo marchese_, uno degli antenati della casa d'Este, ed
illustrato in maniera da _Guido_ abbate santo, che Guido aretino monaco,
ristoratore del canto fermo, in una sua lettera rapportata dal cardinal
Baronio all'anno 1022[650], nominando il monistero pomposiano, ebbe a
dire: _Quod modo est per Dei gratiam, et reverentissimi Guidonis
industriam in Italia primum_. Era l'abbate Guido in istima grande presso
il re Arrigo e però, siccome costa dalla Vita di lui, scritta da un
monaco contemporaneo, e data alla luce dai padri Bollando[651] e
Mabillone[652], ebbe ordine da esso re nell'anno presente di andare
incontro ai messi reali, spediti in Italia per fare i preparamenti
necessarii per la venuta del re medesimo, perchè Arrigo intendeva di
valersi in tutto del parere del santo abbate. Andò Guido a Parma, indi a
Borgo san Donnino, dove infermatosi passò a miglior vita nel dì 31 di
marzo, dopo aver governato per quarantotto anni il suo monistero.
Racconta Donizone[653] che _Bonifazio duca_ e marchese di Toscana, e
signore di Ferrara, una volta l'anno andava alla Pomposa per farvi la
confessione de' suoi peccati, perchè allora era poco in uso il
frequentare i confessionarii:

    _Fratres ac abbas ejus delicta lavabant,_
    _Ecclesiae quorum solito dabat optima dona,_
    _Rex etenim numquam dedit ullus ibi meliora._

E perciocchè, secondo l'abuso comune di questi tempi corrotti, i re, i
principi e i vescovi vendevano, cioè conferivano le chiese per danari,
il santo abbate Guido diede al marchese Bonifazio una buona
disciplinata, e gli fece promettere di guardarsi in avvenire da questo
abbominevole e sacrilego mercato:

    _Qua de re Guido sacer abbas arguit, immo_
    _Hunc Bonifacium, ne venderet amplius, ipsum_
    _Ante Dei matris altare flagellat amaris_
    _Verberibus nudum, qui deliciis erat usus._
    _Pomposae vovit tunc abbatique Guidoni,_
    _Ecclesiam nullam quod per se venderet unquam._

Abbiamo da Lupo Protospata[654] che in quest'anno Argiro figliuol di
Melo, patrizio e duca della Puglia, andò a Costantinopoli, dove
Guglielmo pugliese[655] attesta che ricevette grandi onori e commissione
dal greco Augusto di trovar maniera di scacciare di Puglia i Normanni,
che ogni dì più divenivano potenti ed insolenti, e recarono ancora in
questi tempi non poche molestie e danni alle castella ed ai beni di
Monte Casino. Intanto, secondo il suddetto Protospata, Eustasio,
catapano de' Greci in Italia, richiamò tutti i banditi da Bari, e li
fece ritornare alla lor patria. E nel dì 8 di maggio, essendo ito
coll'esercito suo a Trani per assalire i Normanni, col riportarne una
rotta imparò a conoscer meglio e a rispettare quella valorosa nazione.
Ma una grande perdita fecero in questo anno anche i Normanni, perchè la
morte rubò loro _Guglielmo Bracciodiferro_, capo de' medesimi, il cui
solo nome era terror de' nemici. _Drogone_ suo fratello fu creato conte,
ed ebbe tutti i di lui Stati. Non so se a quest'anno, oppure alla prima
venuta di Arrigo in Italia, appartenga ciò che narra Donizone[656].
Cioè, che trovandosi esso re in Mantova, Alberto visconte di quella
città, cioè vicario in essa del marchese e duca di Toscana Bonifazio,
gli donò del suo cento cavalli (cosa non facile a credersi) e dugento
astori per la caccia degli uccelli. Di sì sterminato dono si
maravigliarono forte il re e la regina, conoscendo da questo che gran
signore doveva essere il marchese, quando al suo servigio avea degli
uffiziali sì ricchi. Volle l'imperadore tener seco questo Alberto alla
sua tavola; ma egli se ne scusò con dire di non aver mai osato di
mangiare alla mensa del suo padron Bonifazio. Avendogli nondimeno data
licenza Bonifazio, pranzò col re, e ne riportò varii doni di pelliccie,
usatissime in questi tempi, le quali poi presentò egli tutte al duca
Bonifazio suo signore col cuoio di un cervo ripieno di danari, affine di
placarlo. In questo secolo e nei precedenti ogni città aveva il suo
_conte_, cioè il suo governatore, ed ogni conte il suo _visconte_, cioè
il suo vicario: onde poi vennero varie nobili famiglie appellate dei
visconti. In questo anno, secondochè si può ricavare dal suddetto
Donizone, _Beatrice_, duchessa di Toscana, partorì al suddetto Bonifazio
suo consorte la _contessa Matilda_, i cui fatti la renderono poi celebre
nella storia d'Italia. Avea prima partorito un maschio appellato
_Federigo_, ma egli non sopravvisse molto al padre. Circa questi tempi,
per quanto abbiamo dall'autore della Vita di san Severo vescovo di
Napoli[657], _Giovanni duca_ di Napoli e della Campania andò ad assediar
Pozzuolo, e quivi stette accampato gran tempo, ma senza apparire qual
esito avesse quell'assedio.

NOTE:

[640] Hermannus Contract., in Chron.

[641] Antiquit. Ital., Dissert. LVI.

[642] Annalista Saxo.

[643] Chronograph. S. Benigni. Hermannus Contract., in Chron. Pandulfus
Pisanus. Arnulfus Hist. Mediol.

[644] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 79.

[645] Victor III. Dialogor., lib. 3.

[646] Pagius, in Annal. Baron. ad ann. 1044.

[647] Petrus Damian., Opusc. VI, cap. 36.

[648] Petrus Damian., Opuscul. XIX, cap. 11.

[649] Hermannus Contractus, in Chron.

[650] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[651] Bolland., in Act. Sanctorum.

[652] Mabill., Saecul. VI Benedict., P. I.

[653] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 1, cap. 14.

[654] Lupus Protospata, in Chronico.

[655] Gulielmus Apulus, lib. 2.

[656] Donizo., in Vit. Comitiss. Mathild., lib. 1, cap. 12.

[657] Vita S. Severi Episcop. in Act. Sanctorum Neapol., ad diem 30
aprilis.



    Anno di CRISTO MXLVII. Indizione XV.

    CLEMENTE II papa 2.
    ARRIGO III re di Germania 9, imperadore 2.


Il vizio della simonia, siccome abbiamo detto, inondava allora tutta
l'Italia. _Clemente II_ papa, animato dal suo zelo e dalle premure
dell'_imperadore Arrigo_, che al pari del pontefice desiderava tolta
dalla Chiesa di Dio questa infamia, celebrò un concilio in Roma contra
de' simoniaci, di cui fa menzione san Pier Damiano[658]; ma gli atti son
periti. È da vedere come da esso san Pier Damiano venga esaltato
l'imperadore Arrigo, per la cura che egli si prese di estirpare la
simonia nei regni a lui consegnati da Dio, e massimamente in Italia, con
recedere affatto dal pessimo esempio de' suoi predecessori. E perciocchè
pur troppo i Romani aveano in addietro per amore della pecunia
conculcate le leggi di Dio e della Chiesa nelle elezioni dei papi, dal
che erano seguiti tanti scandali, e si mirava ridotta in tanta povertà
la santa Chiesa romana; esso re obbligò il clero e popolo di Roma che
non potesse eleggere e consecrar papa alcuno senza l'approvazione sua.
_Et quoniam_, dice san Pier Damiano, _ipse anteriorum tenere regulam
noluit, ut aeterni regis praecepta servaret, hoc sibi non ingrata divina
dispensatio contulit, quod plerisque decessoribus suis eatenus non
concessit: ut videlicet ad ejus nutum sancta romana Ecclesia nunc
ordinetur, ac praeter ejus auctoritatem apostolicae sedi nemo prorsus
eligat sacerdotem_. Anche Glabro Rodolfo ed Ugo flaviniacense attestano
questa pia premura dell'Augusto Arrigo contro la simonia; e perciocchè
la corruzion del secolo era allora grande, ed esso imperadore, pieno
d'ottimi sentimenti, altro non desiderava che il ben della Chiesa, fu
allora creduto utile e necessario il ripiego suddetto. Ma perchè ad un
padre buono succedette un figliuolo cattivo che cominciò ad abusarsi di
questa autorità, e il clero e popolo romano si diede allo studio e alla
pratica delle virtù, cessò questo bisogno, e fu giustamente rimessa in
piena libertà del clero romano l'elezion de' sommi pontefici, che da
molti secoli s'usa, ed è da desiderare che sempre duri, ma che nello
stesso tempo cessino le scandalose lunghezze dei conclavi, e le private
passioni de' sacri elettori in affare di tanta importanza per la Chiesa
di Dio. In esso concilio insorse nuova lite di precedenza fra gli
arcivescovi di Ravenna e di Milano, e il patriarca di Aquileia; e la
sentenza fu data in favore del ravennate. Di questo fatto altra
testimonianza non abbiamo, fuorchè una bolla di papa Clemente II,
accennata dal Rossi[659] e pubblicata dall'Ughelli[660], la qual
veramente ha tutta l'apparenza di non essere finta, ed avrebbe anche
maggior credito se non le mancasse la data. Tuttavia il Puricelli la
crede una finzione, e noi abbiamo due storici milanesi di questo secolo,
che nulla ne parlano, cioè Arnolfo e Landolfo seniore. Anzi il secondo
scrive[661] che in un concilio tenuto (non so se nell'anno 1049, oppure
nel 1050) da san Leone IX avvenne la controversia della precedenza fra
gli arcivescovi di Milano e di Ravenna, e che, _Deo annuente, ecclesia
ambrosiana per Guidonem sedem ipsam viriliter devicit, et religiose
hodie et semper tenebit_. Ed Arnolfo[662] anch'egli attesta che nel
concilio romano Guido arcivescovo di Milano fu onorevolmente trattato
_ab apostolico tunc Nicolao, cujus dextro positus est in praesenti
synodo latere_: forse nell'anno 1059. Oltre a ciò, Benzone scismatico
vescovo d'Alba, che visse sotto il re Arrigo IV, figliuolo di questo
imperadore, nel panegirico, ossia nella satira pubblicata dal
Menckenio[663], scrive, che quando il re va a prendere la corona
imperiale, _eum sustentat ex una parte papa romanus, ex altera parte
archipontifex ambrosianus_. Oltre di che, Domenico patriarca d'Aquileia
in una sua lettera, scritta circa l'anno 1054, e pubblicata dal
Cotelerio[664], scrive d'essere in possesso di sedere alla destra del
papa.

Dimorava tuttavia in Roma l'imperadore Arrigo, allorchè confermò tutti i
suoi beni al monistero di san Pietro di Perugia con un diploma[665],
dato _III nonas januarii, anno dominicae Incarnationis MXLVII,
Indictione XV, anno autem domni Heinrici tertii, ordinationis ejus
XVIII, regnantis VIII, imperantis autem primo. Actum Romae_. Un altro ne
diede pel monistero di Casauria[666] kalendis januarii. _Actum ad
Columna civitatem_, onde prese il cognome la nobilissima casa Colonna.
Uscito Arrigo di Roma, dopo aver preso _nonnulla castella sibi
rebellantia_, come s'ha da Ermanno Contratto[667], passò a Monte Casino,
dove, accolto con grande onore da quei monaci, lasciò molti regali, e
con un diploma, portante il sigillo d'oro, confermò tutti i diritti e
beni di quell'insigne monistero. Abbiamo questo diploma dal padre
Gattola[668], e si vede dato_ tertio nonas februarii, anno dominicae
Incarnationis MXLVII, Indictione XV, anno autem domni Heinrici tertii,
ordinationis ejus decimo octavo, regnantis quidem octavo, sed imperantis
primo. Actum Capuae_. A Capoa appunto da Monte Casino se n'andò
l'imperadore. Ossia che _Guaimario IV_ principe di Salerno, il quale
dall'Augusto Corrado avea anche ottenuto il principato di Capoa, non
fosse molto in grazia dell'Augusto Arrigo; oppure che avesse fatto gran
progresso nella corte e nell'animo di lui _Pandolfo IV_ già principe di
Capoa, deposto dal suddetto Corrado: egli è fuor di dubbio che Arrigo
trattò la restituzion d'esso Pandolfo nel principato di Capoa, e che
Guaimario gliel rinunziò con riceverne una buona somma d'oro.
Presentaronsi anche all'imperadore i Normanni, cioè _Drogone_ conte di
Puglia, e _Rainolfo_ conte di Aversa; e i regali a lui fatti di molti
destrieri e danari produssero buon effetto; perciocchè ne riportarono
l'imperiale investitura di tutti i loro Stati. Da Capoa s'incamminò alla
volta di Benevento; ma, secondo Ermanno Contratto, essendo stata
ingiuriata dai Beneventani la suocera dell'imperadore, nel passare per
colà in venendo dalla divozione del monte Gargano, i Beneventani temendo
lo sdegno d'esso imperadore, nol vollero ricevere, e si ribellarono.
Conduceva Arrigo allora poche truppe con seco, per averne rimandate la
maggior parte in Germania; e veggendo che gli mancavano le forze per
procedere ostilmente contra di quel popolo, altro ripiego non seppe
trovare che di farli scomunicare da papa Clemente, suo compagno in quel
viaggio. Tenne esso Augusto (ma non si sa in qual giorno) nel contado di
Fermo un placito, riferito dall'Ughelli[669]. Intanto l'_imperadrice
Agnese_ venuta a Ravenna, quivi gli partorì una figliuola. Inviossi
dipoi l'Augusto Arrigo alla volta della Germania, e trovandosi in _san
Flaviano_ nel dì 13 di marzo, diede un altro privilegio in favore del
monistero di Casa Aurea[670]. Passato dipoi a Mantova nel dì 19
d'aprile, giorno di Pasqua, celebrò con gran solennità la festa. Quivi
gravemente s'infermò, ma riavuto si fece venir da Parma il corpo di san
Guido abbate della Pomposa, morto nel precedente anno, e glorificato da
Dio con molti miracoli, e seco dipoi lo condusse in Germania. Mentre
l'imperadore in Mantova si trovò, dovette succedere quanto vien
raccontato da Donizone[671]. Era divenuta alquanto sospetta ad esso
imperadore la troppa potenza di _Bonifazio duca_ e marchese; e però gli
cadde in pensiero di farlo arrestare, allorchè egli veniva all'udienza,
con ordinare alle guardie di lasciarlo passare con non più di quattro
persone, e di chiudere incontanente le porte. Lo scaltro Bonifazio
v'andò coll'accompagnamento di una buona comitiva de' suoi
provvisionati, tutti provveduti d'armi sotto i panni. Costoro, a veder
le porte serrate dopo Bonifazio, le sforzarono, nè vollero mai perdere
di vista il padrone, il quale scusò questa insolenza con dire
francamente al re che l'uso di sua casa era d'andar sempre accompagnato
dai suoi. Arrigo tentò ancora di sorprenderlo di notte; ma avea che fare
con uno che anche dormendo tenea gli occhi aperti, e però se ne andò
senza far altro che ringraziarlo del buon trattamento. Nel dì primo di
maggio _Cadaloo vescovo_ di Parma ottenne dall'Augusto Arrigo in Mantova
il titolo e la dignità di conte di Parma[672]. E nel dì 8 di maggio
riportò Alberico abbate del nobil monistero di san Zenone di Verona
dall'imperadore un privilegio[673], _dato VIII idus maii, anno dominicae
Incarnat. MXLVII, Indict. XV, anno autem domni Heinrici tertii,
ordinationis ejus XVIII, regnantis VIII, secundi imperatoris primo.
Actum Folerni._ Era esso Augusto in Trento nel dì 11 di maggio, come
apparisce da altro suo diploma dato ai canonici di Padova[674] colle
stesse note.

Fin quando si trovava l'imperadore in Roma, cioè o sul fine del
precedente o sul principio del presente anno, egli diede per arcivescovo
alla chiesa di Ravenna _Unfredo_ suo cancelliere, e il fece consecrare
dal papa. Giunto poscia a Spira, dove collocò il corpo del suddetto san
Guido abbate, quivi celebrò la festa della Pentecoste, e tenne una dieta
de' principi. Allora fu ch'egli conferì il ducato della Carintia e la
marca di Verona a _Guelfo III_ conte, di nazione suevo, e di casa
nobilissima e rinomata in Germania, figliuolo del fu _Guelfo II_ conte.
Non ho io saputo discernere nelle Antichità estensi[675], se in occasion
della venuta in Italia di questo principe, oppure molto prima, _Alberto
Azzo II_, marchese e progenitor de' principi estensi, prendesse in
moglie _Cunegonda_, sorella d'esso Guelfo III. Pare che
l'Urspergense[676] dica che prima, con iscrivere che Guelfo II _genuit
et filiam Chunzam_ (lo stesso è che Cunegonda) _nomine, quam Azzoni
ditissimo marchioni Italiae dedit in uxorem_. Di queste nozze parla
eziandio l'antico autore della Cronica di Weingart[677]. Coll'imperadore
era ito in Germania anche _Clemente II_ papa, e ritornato poscia per
mala sua ventura in Italia, mentre si trovava _in romanis partibus_ sul
principio d'ottobre, cadde infermo, e si sbrigò da questa vita. Corse
voce, e forse non mal fondata, ch'egli morisse di veleno, fattogli dare
da Benedetto IX già papa, ai cui vizii noti non è inverisimile che
s'aggiugnesse ancora questa nuova scelleraggine. _Mense junii_ (sono
parole di Lupo Protospata[678], ma si dee scrivere _octobris_) _dictus
papa Benedictus per poculum veneno occidit papam Clementem._ Altrettanto
ha Romoaldo salernitano[679]. Nè sussiste l'asserzione di Leone
ostiense[680], che questo papa terminasse i suoi giorni _ultra montes_.
Fu ben portato a Bamberga il suo cadavero, ma _e romanis finibus_, come
ha ancora l'autore della Vita di santo Arrigo imperadore[681]. Essendo
stato finora ignoto il luogo dove questo pontefice terminasse i suoi
giorni, ho io il piacere di poterlo rilevare. Alle mani del padre don
Pietro Paolo Ginanni abbate benedettino, diligentissimo ricercatore
delle antiche memorie di Ravenna sua patria, capitarono negli anni
addietro due bolle originali. La prima è del suddetto papa _Clemente
II_, data _VIII calendas octobris, Indictione I_, cioè nel dì 24 di
settembre dell'anno presente, mentre egli si trovava gravemente infermo
nel monistero di san Tommaso apostolo _ad Aposellam_, vicino a Pesaro.
In essa dona egli a Pietro abbate di quel monistero la terra di san
Pietro, _pro salute animae suae_. La seconda bolla è di papa _Nicolò
II_, data nel dì 16 d'aprile dell'anno 1060, in cui _per intercessionem
domni Petri Damiani hostiensis episcopi, confratris nostri_, conferma al
predetto abbate la terra di san Pietro, _quam domnus papa Clemens, qui
ibi obiit, obtulit praedicto monisterio_. Resta perciò chiaro in qual
parte d'Italia venisse a morte il soprallodato papa Clemente II. Ora il
già deposto _Benedetto IX_ papa, udita ch'ebbe la morte di Clemente, col
mezzo dei suoi parenti potentissimi in Roma, tanto s'adoperò, che per la
terza volta tornò ad occupare la sedia di san Pietro, e la occupò per
otto mesi e dieci giorni. Vedesi in quest'anno un placito tenuto in
Broni, diocesi di Piacenza, da _Rinaldo messo del signor imperadore, al
quale intervennero ancora Anselmo ed Azzo marchesi_, l'ultimo dei quali,
antenato de' marchesi d'Este, già da noi s'è veduto all'anno 1045 _conte
di Milano_. Questo documento si legge presso il Campi[682], ed è
autentico. Ma non così un diploma rapportato dal medesimo storico, e
attribuito ad _Arrigo III_ re, come dato nell'anno presente. Non può
sussistere quell'atto.

NOTE:

[658] Petrus Damian., Opusc. XIX, cap. 27 et 36.

[659] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[660] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Archiepisc. Ravenn.

[661] Landulf. Senior, Histor. Mediol. lib. 3, cap. 3.

[662] Arnulf., Hist. Mediol.

[663] Benzo, cap. 4 Panegyr., tom. 1 Rer. German. Menck.

[664] Coteler, Monument. Graec., tom. 2.

[665] Bullar. Casinens., tom. 1, Constit. XC.

[666] Chron. Casaur., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[667] Ermannus Contract., in Chron. Leo Ostiens., Chron., lib. 1, cap.
80.

[668] Gattola, Hist. Monaster. Casinens., tom. 1. Accession.

[669] Ughell., Ital. Sacr., in Episcop. Asculan.

[670] Chron. Casauriens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[671] Donizo, in Vita Mathild., lib. 1, cap. 13.

[672] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Episcop. Parmens.

[673] Antiq. Ital., Dissert. LXXII.

[674] Ibidem, Dissert. XVIII.

[675] Antichità Estensi, P. I, cap. 2.

[676] Urspergensis, in Chronico.

[677] Apud Leibnitium, Rer. Brunswic., tom. 1.

[678] Lupus Protospata, in Chronico.

[679] Romualdus Salern., tom. 7 Rer. Ital.

[680] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 81.

[681] Acta Sanctor. Bolland. ad diem 14 julii.

[682] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.



    Anno di CRISTO MXLVIII. Indizione I.

    DAMASO II papa 1.
    ARRIGO III re di Germania 10, imperadore 3.


Non mancarono i Romani, per attestato di Lamberto da Scafnaburgo[683],
di spedire ambasciatori all'Augusto Arrigo per riferirgli la morte di
papa Clemente II, _eique successorem postulantes_; e questi si trovarono
in Palitì, dove esso imperadore celebrò la festa del santo Natale
nell'anno precedente. Ma perciocchè Benedetto IX s'era di nuovo intruso
nella cattedra pontificia, si dovettero trovar difficoltà a mandare un
papa nuovo a Roma. Però solamente nel luglio di questo anno fu eletto
per successore del defunto Clemente _Poppone vescovo_, non già
d'Aquileia, come ha l'Annalista sassone, Alberico monaco dei tre Fonti
ed altri ma bensì di Brixen ossia di Bressanone nel contado del Tirolo.
Egli è chiamato da Ermanno Contratto _episcopus brixiensis_: il che da
alcuni vien creduto error de' copisti, in vece di _brixinensis_; ma que'
cittadini anche presso altri scrittori si veggono appellati
_brixienses_. Prese questi il nome di _Damaso II_, e, secondo il
cardinal Baronio, mandato a Roma dall'imperadore, _suffragiis omnium
electus et comprobatus, consecratus fuit_. Da quali autori prendesse il
porporato Annalista tal notizia, non l'ho potuto scorgere; e certo par
verisimile che Arrigo, prima d'inviare a Roma esso Poppone, se
l'intendesse col clero e popolo romano. Ciò non ostante, non lascio io
di sospettare che Arrigo potesse qui prevalersi troppo dell'autorità
sua, con lasciare in tal elezione poco arbitrio ai Romani. Ermanno
Contratto[684] scrive che _Poppo brixiensis_ (brixinensis) _episcopus ab
imperatore electus Romam mittitur, et honorifice susceptus_. Sospetto io
inoltre che cominciassero allora ad alterarsi gli animi de' Romani,
perchè gli antichi imperadori greci e franchi, secondo i canoni, aveano
lasciata sempre loro in libertà l'elezion de' nuovi papi, con
riserbarsene solamente l'approvazione prima di consecrarli. Ma l'Augusto
Arrigo neppur lasciò loro libero il diritto dell'elezione, dacchè gli
aveva obbligati a non procedere ad essa senza il suo beneplacito. Doveva
anche rincrescere loro il veder provveduta la Chiesa romana di pontefici
forestieri, senza prenderli dal grembo loro, benchè noi abbiamo
osservato molti papi presi dall'Oriente ne' secoli addietro. Veggasi
Ottone Frisingense[685], che conferma quanto io vo sospettando. Che
sconvolgimenti partorisse dipoi questa mutazione di disciplina,
l'andremo vedendo nel proseguimento della storia. Venne dunque il
novello papa Damaso II verso Roma nel mese di luglio dell'anno presente,
essendosi, come è da credere, ritirato il falso pontefice Benedetto IX.
Ma poco potè egli godere della sua dignità, perchè dopo soli 23 giorni
di pontificato passò all'altra vita in Palestrina. Questa sì repentina
morte fece correre dei sospetti che il veleno anche a quest'altro papa
avesse abbreviati i giorni. Restò vacante nel rimanente dell'anno la
Chiesa romana.

Seguitava intanto nel regno germanico la ribellione di _Gotifredo duca_
della Lorena superiore. Avvenne che in questo anno _Adalberto_, già
creato duca della Lorena inferiore, venuto a battaglia con esso
Gotifredo, restò sconfitto ed ucciso in quel fatto d'armi. Abbiamo poi
dal Bollario casinese[686] che l'imperadore Arrigo concedette al
monistero delle monache di santa Giulia di Brescia un privilegio, dato
_VI nonas maii, anno vero dominicae Incarnationis MXLVIII, Indictione I,
anno autem domni Heinrici regis tertii, imperatoris secundi,
ordinationis ejus XX, regnantis quidem IX, imperantis vero II. Actum
Turegum_, cioè in _Zurigo_, oppure in _Turgau_. Fu più volte in quella
terra o città l'imperadore Arrigo, ed in quest'anno ancora vi celebrò
l'Ascension del Signore. Certo è, secondochè ho dimostrato nelle
Annotazioni alle leggi longobardiche[687], ch'egli in esso luogo tenendo
una gran dieta de' principi italiani (in qual anno, nol so), pubblicò
tre leggi che si leggono nel corpo d'esse leggi longobardiche. Una
specialmente merita attenzione. Sapevasi che molti in questi sì corrotti
secoli erano levati dal mondo _veneficio, ac diverso furtivae mortis
genere_, cioè non già con fattucchierie, ma col veleno, e con altre
maniere occulte: che questa è la forza della parola _veneficium_.
Ditmaro ed altri storici anch'essi asseriscono che in questi tempi
l'Italia era troppo screditata per l'uso del veleno. Perciò fu
determinata la pena della morte contra gli operatori di sì orrida
iniquità. Rinnovò in quest'anno ancora esso Augusto i suoi privilegii al
monistero di san Pietro di Bremido con diploma spedito[688] _XIII
kalendas maii, anno vero dominicae Incarnationis MXLVIII, Indictione I,
anno autem domni Heinrici regis tertii, imperatoris secundi,
ordinationis ejus XX, regnantis quidem IX, imperantis vero II. Actum in
Ulmo._ Sarà la città di Ulma. Truovo io tali sconcerti nei diplomi
intorno agli anni dell'_ordinazione_ di Arrigo, che non ho voluto il
fastidio di riveder questi conti.

NOTE:

[683] Lambertus Scafnaburgensis, in Chron.

[684] Hermannus Contractus, in Chron.

[685] Otto Frisingensis, lib. 6, cap. 32 Chron.

[686] Bullarium Casinense, tom. 2, Constit. XCI.

[687] Rerum Italic., P. II, tom. 1.

[688] Antiquit. Ital., Dissertat. LXX.



    Anno di CRISTO MXLIX. Indizione II.

    LEONE IX papa 1.
    ARRIGO III re di Germania 11, imperadore 4.


Abbiamo dal Cronografo di san Benigno[689] che i Romani innamorati delle
doti di _Alinardo arcivescovo_ di Lione, fecero istanza all'_imperadore
Arrigo_ per averlo papa. Alinardo, ciò saputo, perchè non gli dovea
piacere l'aria di Roma, si guardò di capitare alla corte imperiale,
finchè non udì creato un novello pontefice romano. Questi fu _Brunone
vescovo_ di Tullo, parente dell'imperadore. Non si potea scegliere
personaggio più fatto secondo il cuore di Dio: tanta era la sua pietà,
il suo zelo, la sua attività, la prudenza, il sapere[690]. Trovavasi
l'imperadore Arrigo in Vormazia nel dicembre dell'anno antecedente, dove
tenne una gran dieta di vescovi e principi. Si trattò in essa di
provveder di un nuovo pontefice la santa Chiesa romana. Non se
l'aspettava Brunone; tutti i voti concorsero in lui, ed egli, colto così
all'improvviso, dimandò tempo a pensarvi tre giorni. Dopo i quali
ripugnando a tale elezione, con isperanza di schivare questo sì pesante
onore, fece in pubblico la confessione de' suoi mancamenti; ma indarno,
perchè stettero tutti costanti in volerlo papa. V'erano presenti i
legati romani. In fine si arrendè, ma con protestare che non accettava
la carica qualora non vi concorresse l'elezione e il consentimento del
clero e popolo di Roma, non ignorando egli ciò che in tale proposito
aveano ordinato i sacri canoni. Gli furono date le insegne pontificali,
e dopo aver celebrate le feste del santo Natale nella sua chiesa di
Tullo, con singolare umiltà vestitosi da pellegrino, sul principio
dell'anno presente si mise in viaggio verso Roma, avendo in sua
compagnia il celebre monaco Ildebrando, che fu poi papa Gregorio VII.
Arrivò egli a Roma sul principio della quaresima[691], ed ivi ancora
solennemente fu eletto e applaudito dal clero e popolo romano, e
consecrato papa, con prendere il nome di _Leone IX_. Nè perdè tempo ad
operare. Dopo la domenica in Albis tenne gran concilio di vescovi in
Roma contro de' simoniaci. Poscia, chiesta licenza ai Romani, sen venne
a Pavia, e quivi nella settimana dopo la Pentecoste celebrò un altro
concilio. Indi passò a trovare l'imperadore in Sassonia per informarlo
dello stato d'Italia e de' bisogni della Chiesa. Un altro concilio assai
numeroso fu da lui tenuto nella basilica di san Remigio di Rems, e
poscia un altro in Magonza, dove si trovò ancora l'imperadore. In questi
tempi durando la ribellione di _Gotifredo duca_ di Lorena, con cui aveva
unite le sue forze anche _Baldovino conte_ di Fiandra[692], papa Leone,
ad istanza dell'imperadore, amendue gli scomunicò. Più che l'armi
temporali servirono le spirituali per mettere il cervello a partito di
Gotifredo; e però egli sen venne supplichevole ad Aquisgrana a' piedi
dell'imperadore, e coll'aiuto del buon papa ottenne il perdono de' suoi
falli. Seguitò Baldovino a far guerra, ma dopo aver lasciato dare un
gran guasto al suo paese dall'armata imperiale, finalmente trattò di
pace, e diede a tal fine gli ostaggi. Dopo queste imprese Leone IX per
la città d'Augusta e per la Baviera sul finir dell'anno venne alla volta
d'Italia, ed arrivò a celebrar la festa del Natale in Verona. Confermò
esso papa in quest'anno i suoi privilegii al monistero di Farfa con sua
bolla[693], data in Roma _IV kalendas marti, anno pontificatus domni
Leonis noni papae primo, Indictione II_. E l'imperadore Arrigo
concedette a _Berardo vescovo_ di Padova, e a' suoi successori, la
licenza di battere moneta[694], _secundum pondus veronensis monetae_. Il
diploma fu dato _XVI kalendas maii, anno dominicae Incarnationis
MXLVIIII, Indictione II. Anno domni Henrici tertii regis, imperatoris
secundi, ordinationis ejus XX, regni quidem X, imperii vero III. Actum
Goslariae._ Torno a dire che gli anni dell'ordinazion di Arrigo sono
confusi in varii diplomi: e però lascerò ad altri la cura di accertar
questa epoca e di correggere gli errori. Circa questi tempi ancora
abbiamo da Cedreno[695] un avvenimento importantissimo per la storia
d'Italia, cioè che i Turchi, gente di nazione unnica, o vogliam dire
della gran Tartaria, uscirono dalle porte del Caucaso, e cominciarono le
lor terribili conquiste con levare ai Saraceni la Persia, e darsi poscia
ad infestar l'imperio de' Greci. Non mi stendo a dirne di più per ora,
riserbando quel che occorrerà al resto della storia.

NOTE:

[689] Dachery, Spicileg., tom. 2 nov. edition. Albericus Monach., in
Chronico.

[690] Wibert., in Vita S. Leonis IX, lib. 2, cap. 1.

[691] Wibert. Bruno. Leo Ostiensis, in Chron. Anselmus, in Itiner., etc.

[692] Hermannus Contractus, in Chron.

[693] Chronic. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[694] Antiquit. Italic., Dissert. XXVII.

[695] Cedren., Compend. Histor.



    Anno di CRISTO ML. Indizione III.

    LEONE IX papa 2.
    ARRIGO III re di Germania 12, imperadore 5.


Giunto che fu a Roma il santo pontefice _Leone IX_, e sbrigato da varii
affari, in questo anno (e non già nel precedente, come lasciò scritto
Leone ostiense[696]) passò in Puglia, parte per sua divozione[697],
parte per quetar le discordie insorte fra i Normanni e i popoli di
quelle contrade, che si sentivano gravati non poco da quella gente
straniera. Fu nell'aprile a Monte Casino, a san Michele del Monte
Gargano, e a Benevento, dove di nuovo scomunicò quel popolo, perchè
ribello all'imperadore. Tenne un concilio in Siponto, dove depose due
arcivescovi convinti di simonia. Tornato a Roma, sul principio di maggio
celebrò un altro concilio nella basilica lateranense, dove furono
condannate le perverse dottrine di Berengario franzese intorno al
sacramento dell'altare. Fioriva in questi tempi in Normandia nel
monistero di Becco il celebre _Lanfranco_, priore allora d'esso sacro
luogo, di nascita italiano, perchè nato di nobili parenti in Pavia.
Essendo passata fra lui e il suddetto Berengario qualche lettera, fu
egli chiamato in Italia, e tanto in esso concilio lateranense, quanto in
quello di Vercelli susseguentemente tenuto nel settembre di questo anno
dal medesimo papa, giustificò sè stesso, e restò carissimo a tutta la
corte pontificia. Servì questo accidente a maggiormente accrescere la
fama della letteratura e pietà di Lanfranco, il quale col tempo divenne
abbate di Becco, e poscia arcivescovo santo di Canturberì in
Inghilterra. Era insorta qualche contesa fra papa Leone e _Unfredo
arcivescovo_ di Ravenna spalleggiato da alcuni della corte imperiale.
Però in esso concilio di Vercelli il papa gli sospese il ministro
episcopale, oppure, come vuol Wiberto, lo scomunicò. Tornò egli dipoi
alla sua Chiesa di Tullo per farvi la traslazione del corpo di san
Gerardo, già vescovo di quella città. Passò in questo anno nel dì 12
d'aprile a miglior vita sant'_Adalferio_ ossia _Alferio_, fondatore e
primo abbate dell'insigne monistero della Cava nel principato di
Salerno, la cui Vita, insieme con quella di tre altri abbati suoi
successori, si legge fra gli scrittori da me raccolti delle cose
d'Italia[698]. Se si vuol prestar fede agli Annali pisani, in
quest'anno[699] Mugetto, re de' Saraceni africani, con un potente
esercito tornò in Sardegna, e cacciatine i Pisani, attese a fabbricarvi
delle città, e prese la corona di quel regno. _Pisani vero, cum romana
Sede firmata concordia cum privilegio et cum vexillo sancti Petri
accepto, invaserunt regem, et ceperunt illum et totam terram, et coronam
imperatori dederunt. Et Pisa fuit firmata de tota Sardinea a romana
Sede._ Ma al vedere che de' vari autori di questo secolo, i quali han
parlato dei fatti gloriosi di san Leone IX papa, niuno parla di questo,
che pur sarebbe tornato cotanto in onore del medesimo; pare che si possa
dubitare dell'impresa suddetta, o almeno delle sue circostanze. Nacque
nell'anno presente nel dì 12 di novembre all'Augusto Arrigo un figliuolo
maschio[700], partoritogli dall'imperadrice Agnese. Fu questi poi
_Arrigo quarto_ fra i re, e terzo fra gl'imperadori, per cui cagione
vedremo a suo tempo sconvolta tutta l'Italia e la Germania.

Cessò di vivere in questi tempi _Pandolfo IV_ principe di Capoa[701].
Leone ostiense il fa portato via dai diavoli, citando un'apparizione
fatta ad un servo di Dio napoletano. Ma, siccome il padre Angelo della
Noce osservò, probabilmente questa fu una giunta fatta alla Cronica
dell'Ostiense, ed altri ciò scrissero di Pandolfo Capodiferro, tanti
anni prima defunto. Nei secoli dell'ignoranza gran voga aveano
somiglianti visioni e dicerie. _Pandolfo V_ suo figliuolo restò padrone
di quel principato, con avere per collega _Landolfo V_ suo proprio
figliuolo. Ho io rapportato altrove un diploma dell'Augusto Arrigo[702],
come dato in quest'anno in favore del monistero di san Zenone di Verona.
Le note cronologiche sono queste: _Data III idus novembris, anno
dominicae Incarnationis ML, Indictione IIII, anno domni Heinrici tertii
regis, imperatoris autem secundi, ordinationis ejus XXIIII, regni quidem
XIII, imperii vero IIII. Actum Veronae._ Perchè era tuttavia attaccato
alla pergamena il sigillo di cera, e nel novembre dell'anno presente
potea correre l'_Indictione IV_, senza farne altro esame, lo credei
documento originale e sicuro. Ma se sta così nella pergamena, nè è
succeduto errore in copiarlo, non so io ora accordarlo colla verità
della storia. Che l'imperador fosse in Italia in quest'anno, niuno degli
antichi lo scrive, ed io lo credo falso. Sono anche discordi fra loro
l'_anno XIII_ del regno e il _IV_ dell'imperio. Sarebbe da vedere se
potesse riferirsi all'anno 1055 col confronto dell'originale. Siccome
apparisce da un documento da me dato alla luce[703], in quest'anno il
marchese _Alberto Azzo II_, progenitore de' principi estensi, si truova
conte della Lunigiana. Egli è qui appellato _Albertus, qui Aczo vocatur,
marchio et comes istius Lunensis comitato, filius bonae memoriae itemque
Alberti similiterque Aczo, et marchio et comes_. In Lunigiana era il
forte de' beni e Stati posseduti dagli antichi marchesi, appellati
poscia marchesi d'Este. Sotto quest'anno (seppure non fu nel 1054) si
legge una lettera di _Argiro duca_ d'Italia a _Berardo abbate_ di
Farfa[704], in cui egli si rallegra d'essere stato ammesso alla
confraternità e partecipazion delle orazioni e de' meriti di quei buoni
monaci. Il titolo suo molto spezioso e degno d'osservazione è questo:
_Ego Argiro Dei providentia magister vestis, et dux Italiae, Calabriae,
Siciliae, Paflagoniae._ Molto più antico è il rito di simili
confraternità fra i monaci, ed esso dura tuttavia.

NOTE:

[696] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 81.

[697] Wibertus, in Vita S. Leonis, lib. 2, cap. 4.

[698] Rer. Ital., tom. 6.

[699] Annal. Pisan., tom. 6 Rer. Ital., pag. 167.

[700] Hermannus Contractus, in Chron.

[701] Camillus Peregrin., Hist. Princip. Langobard.

[702] Antiquit. Italic., Dissert. LXIII.

[703] Antichità Estensi, P. I, cap. 11.

[704] Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MLI. Indizione IV.

    LEONE IX papa 3.
    ARRIGO III re di Germania 13, imperadore 6.


Trovaronsi l'infaticabil _Leone IX_ papa e l'_imperadore Arrigo_ in
Augusta, dove insieme celebrarono la festa della Purificazione della
santa Madre di Dio. In tal occasione, per attestato di Ermanno
Contratto[705], l'imperadore rimise in grazia del papa _Unfredo
arcivescovo_ di Ravenna. Ma Wiberto[706] aggiugne una particolarità:
cioè che Unfredo fu chiamato da Arrigo ad Augusta, e dopo aver
restituito al papa alcuni beni ingiustamente occupati, fu forzato a
chiedere l'assoluzion delle censure. Inginocchiossi egli a' piedi del
santo pontefice, e perchè tutti i prelati assistenti interposero le lor
preghiere in favor di lui, Leone con alta voce disse: _A misura della
sua divozione Dio gli conceda l'assoluzione di tutti i suoi falli._ Nel
levarsi Unfredo in piedi, fu osservato, che quasi burlandosi del papa, e
tuttavia gonfio di superbia, sogghignava. Vennero le lagrime agli occhi
al buon pontefice, e con voce bassa disse ad alcuni che gli stavano
intorno: _Oimè, questo miserabile è morto._ Poco stette Unfredo a cader
malato, ed appena ricondotto in Italia, diede fine alla vita e
all'alterigia sua. Ermanno Contratto lasciò scritto, essere corsa voce
ch'egli morisse attossicato, perchè la sua morte fu improvvisa. Ma
s'egli morì, come vuole il Rossi, nel dì 22 di agosto, gran tempo corse
fra la di lui andata in Germania e la morte sua. Tornato a Roma papa
Leone, quivi celebrò dopo Pasqua un nuovo concilio, dove fra l'altre
cose scomunicò _Gregorio vescovo_ di Vercelli, imputato d'adulterio con
una vedova già sposa di un suo zio. Non si trovava questo vescovo in
Roma, e nulla perciò potè rispondere per sè. Ma avvertito della censura
contra di lui fulminata, se nel volò a Roma, ed avendo promessa
soddisfazione, se ne tornò assoluto e contento a casa. Questo ne' tempi
susseguenti fece gran figura negli affari secolareschi d'Italia, siccome
vedremo. Andò poscia il santo pontefice all'insigne monistero di
Subiaco, da dove essendo fuggito _Attone_ ossia _Azzo_ abbate, a cui
dovea rimordere la coscienza, egli diede per abbate a que' monaci
_Umberto_, nato in Francia, e le cui imprese, parte buone e parte
cattive, si leggono nella Cronica di Subiaco[707], da me data alla luce.
È notabile quanto ivi è scritto: cioè che il papa in quella congiuntura
_Sublacenses ad se convocavit in monasterio, quorum et requirens
instrumenta chartarum, notavit falsissima, et ex magna parte ante se
igne cremari fecit_. Di queste merci non furono privi una volta altri
monisteri e chiese: il che sia detto senza pregiudizio degli
innumerabili altri autentici documenti che si trovano nei loro archivii.

Doveano in questi tempi avere i monaci di Farfa chi li perseguitava
nella corte pontificia; e probabilmente uno dei lor nemici era _Giovanni
vescovo_ della Sabina, che mosse di molte pretensioni contra di
quell'insigne monistero. Scrissero i monaci una lettera al buon
pontefice con esporgli le prerogative di quel sacro luogo, e pregarlo di
non badare ai detrattori. _Sumus enim_ (dicono essi) _plus minus
quingenti vestri oratores_[708]: il che, per mio avviso, si dee
intendere non de' soli monaci abitanti in Farfa, ma degli altri ancora
che erano ne' monisteri e priorati sottoposti. Nel concilio romano si
agitò la lite fra i monaci e il suddetto vescovo. Finalmente papa Leone
IX confermò al monistero farfense tutti i suoi privilegii con una bolla,
in cui si fa sentire il suo cuore pien di divozione verso la santissima
Vergine, _data III idus decembris per manus Federici diaconi sanctae
romanae Ecclesiae bibliothecarii, vice domni Herimanni archicancellarii,
et coloniensis archiepiscopi, anno domni Leonis IX papae tertio,
Indictione V_, cominciata nel settembre dell'anno presente. Crede il
padre Mabillone[709] che _Ermanno_ arcivescovo di Colonia fosse
_arcicancelliere_ di papa Leone IX, nelle cui sole bolle si truova
questa novità. Era il medesimo Ermanno arcicancelliere dell'imperio in
questi giorni. Wiberto scrive[710] che papa Leone diede _officium
cancellarii sanctae romanae Sedis_ a lui e ai suoi successori. Confermò
parimente il santo pontefice tutti i suoi diritti al monistero
casauriense con altra bolla[711], data _X kalendas julii, ec. anno domni
Leonis IX papae II_ (dee essere _III_), _Indictione IV_. Io tralascio
altre bolle dello stesso papa, il quale, per testimonianza
dell'Ostiense[712], in quest'anno andò a Capoa, a Benevento e a Salerno.
In tal congiuntura è credibile che succedesse ciò che preventivamente
aveva asserito il medesimo Ostiense, cioè ch'egli assolvesse dalla
scomunica il popolo di Benevento. Tanti passi dell'ottimo pontefice
verso quelle parti erano tutti per trovar, se era mai possibile, qualche
rimedio o freno all'insolenza, crudeltà ed avidità incredibile de'
Normanni, ogni dì più potenti e gravosi alla Puglia e alle vicinanze, e
Cristiani più di nome che di fatti. In una lettera[713] scritta da esso
papa all'imperador di Costantinopoli gli espone, come costoro
ammazzavano, tormentavano que' miseri abitanti, neppur perdonando alle
donne e a' fanciulli; spogliavano ancora ed incendiavano le chiese; e
che per quante esortazioni e minacce avesse egli adoperato, nulla si
mutavano i loro perversi costumi. Però s'era egli abboccato con Argiro
catapano de' Greci per reprimere questa mala gente, ed implorava anche
il braccio dello stesso Augusto greco. In quest'anno appunto scrive Lupo
Protospata[714] che arrivò, cioè da Costantinopoli tornò in Puglia,
_Argiro_ figliuolo di Melo e _duca di Italia_ per gli Greci. Volle
entrar in Bari, ma gli fu negato da Adralisto, Romoaldo e Pietro
fratelli, capi di una fazion contraria. Finalmente il popolo di Bari al
dispetto de' contradittori l'ammise in quella città. Se ne fuggì
Adralisto; gli altri due fratelli presi, furono inviati in carcere a
Costantinopoli. _Drogone_ conte e capo de' Normanni fu in quest'anno
ucciso da un suo compare, e succedette _Unfredo_ conte, suo fratello,
nel governo di quegli Stati. Noi troviamo battezzato in quest'anno nella
città di Colonia il fanciullo _Arrigo_, figliuolo dell'imperadore
Arrigo, e tenuto al sacro fonte da _Ugo_ abbate di Clugnì, uomo santo.
Da un documento che io diedi alla luce[715] apparisce che in questi
tempi _Guaimario IV_ e _Gisolfo II_ suo figlio erano principi di
Salerno, e duchi di Amalfi e Sorriento.

NOTE:

[705] Hermannus Contract., in Chron.

[706] Wibertus, Vit. Leonis IX., lib. 2, cap. 7.

[707] Chron. Sublacense, tom. 24 Rer. Ital.

[708] Chron. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[709] Mabillonius, Annal. Benedictin. ad hunc annum.

[710] Wibertus, in Vita Leonis IX, lib. 2, cap. 5.

[711] Chron. Casauriens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[712] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 84.

[713] Wibertus, in Vita Leonis IX, lib. 2, cap. 10.

[714] Lupus Protospata, in Chronico.

[715] Antiquit. Italic., Dissert. V, pag. 217.



    Anno di CRISTO MLII. Indizione V.

    LEONE IX papa 4.
    ARRIGO III re di Germania 14, imperadore 7.


Era stata in addietro l'Ungheria tributaria dell'imperio germanico; ma
essendo insorte liti, e cessato il pagamento, si venne ad un'aspra
guerra fra l'_imperadore Arrigo_ ed _Andrea_ re d'Ungheria. Il santo
papa Leone, per desiderio di rimettere la concordia fra que' principi
cristiani, si portò in quest'anno di nuovo in Germania per trattar di
pace. Ermanno Contratto scrive[716] ch'egli vi andò per le istanze del
re Andrea; fece desistere l'imperadore dall'assedio di un castello; e
trovatolo dispostissimo ad un accordo, già si credeva di avere in pugno
la pace. Ma Andrea sconciamente il burlò: laonde il papa fulminò contra
di lui la scomunica. Se ciò sussiste, è cosa da stupir come Wiberto
conti tutto al rovescio questa faccenda, con dire[717] che gli Ungheri
erano pronti a pagare il tributo, purchè ottenessero il perdono dei
trascorsi passati. _Sed quia factione quorumdam curialium, qui felicibus
sancti viri invidebant actibus, sunt Augusti aures obturatae precibus
domni apostolici, ideo romana respublica subjectionem regni hungarici
perdidit, et adhuc dolet finitima patriae praedis et incendiis
devastari._ _Arrigo_ vicecancelliere dell'imperadore fu in quest'anno da
lui promosso all'arcivescovato di Ravenna; ma, secondo il Rossi[718],
non ottenne la conferma e il pallio dal papa, se non nell'anno seguente
con bolla data _VI idus aprilis, anno pontificatus IV, Indictione VI_.
Sotto specie d'intronizzar questo novello arcivescovo, fu inviato a
Ravenna anche _Nizone vescovo_ di Frisinga, uomo pien di vizii, e che
per qualche tempo mostrò di pentirsi e di abbracciar la vita monastica,
ma in breve tornò alla vita di prima. Costui, giunto a Ravenna, quivi,
colto da morte improvvisa, lasciò le sue ossa. Al suddetto Arrigo
arcivescovo scrisse il suo libro ossia opuscolo intitolato _Gratissimus_
san Pier Damiano, o, come si dovrebbe dire, _Pietro di Damiano_, nato
nella città stessa di Ravenna, e gran luminare di santità e letteratura
in Italia per questi tempi. Uno ancora dei motivi per gli quali
s'indusse a tornare quest'anno in Germania il santo pontefice, fu,
secondo l'Ostiense[719], per impetrar degli aiuti dall'imperadore contra
de' Normanni di Puglia, le avanie e crudeltà dei quali egli non potea
più sofferire. Un diploma, che si legge pubblicato nelle mie Antichità
italiane[720], ci fa vedere nel giugno di quest'anno in Zurigo
l'imperadore Arrigo, che concede al clero di Volterra, fra gli altri
privilegii, quello di poter decidere le liti col duello. Era allora
troppo in uso questa barbarica e detestabil usanza, accresciuta dipoi
nell'andare innanzi dai cacciatori di puntigli. Per isradicarla molto
s'è fatto; ma al mondo non mancheranno mai dei pazzi. Ho io pubblicato
un contratto seguito in questo anno fra _Bonifazio duca_ e marchese di
Toscana, signore di Mantova, Ferrara ed altre città, e _Otta_ badessa di
santa Giulia di Brescia. Fu scritta quella carta[721] _anno ab
Incarnatione Domini nostri Jesu Christi millesimo quinquagesimo secundo,
Enricus gratia Dei imperator Augustus, anno imperii ejus sexto, quarto
kalendas aprilis, Indictione quinta_. Ma poche settimane dipoi
sopravvisse Bonifazio. Mentre egli da Mantova passava a Cremona, per
mezzo di un ombroso bosco, fu ferito con una saetta, ossia con un dardo
attossicato, e di quel colpo morì. _His diebus marchio Bonifacius_ (son
parole di Arnolfo milanese[722] autore contemporaneo) _dum nemus
transiret opacum, insidiis ex obliquo latentibus, venenato figitur
jaculo. Heu senex ac plenus dierum, maturam mortem exiguo
praeoccupavit._ Il Fiorentini scrive[723] che egli _non molto carico
d'anni_ morì; ma non avea veduto Arnolfo, scrittore più informato di
lui. E se Bonifazio si truova _marchese_ fin l'anno 1004, convien dire
che egli fosse vecchio nell'anno presente. E qui si dee notare che
nell'edizione della storia d'esso Arnolfo fatta dal Leibnizio sopra un
testo milanese, si legge _marchio Montisferrati Bonifacius_. Ma il
manuscritto estense più antico degli altri non ha _Montisferrati_; e
quella è una giunta di qualche ignorante, siccome già osservai[724]
nella prefazione al medesimo Arnolfo.

Abbiamo da Donizone il tempo preciso della morte di questo principe,
laddove scrive, ma accortamente tacendo ch'essa fosse violenta[725]:

    _Ipse die sexta maii post quippe kalendas_
    _Deseruit terram, quem Christus ducat ad ethram,_
    _Quando defunctus, terrae datus, estque sepultus,_
    _Tunc quinquaginta duo tempora mille Dei stant._

Fu seppellito il di lui corpo in Mantova: perlocchè si legge presso il
suddetto Donizone una curiosa altercazione fra quella città e la rocca
di Canossa, dove pretendeva il buon monaco canossino Donizone che se gli
dovesse dar sepoltura presso de' suoi antenati. Da altre memorie ancora
da me rapportate nella prefazione al medesimo Donizone apparisce, aver
la buona gente creduto che non nascesse erba nel luogo dove Bonifazio fu
ferito. Certamente questo principe non era un santo. Anzi egli
s'acquistò il brutto nome di tiranno presso i Tedeschi. Ermanno
Contratto, vivente allora (se pure al suo testo non fu fatta qualche
giunta), scrive sotto quest'anno[726]: _Bonifacius ditissimus Italiae
marchio, immo tyrannus, insidiis a duobus exceptus militibus,
sagittisque vulneratus et mortuus, Mantuae sepelitur._ E il Fiorentini
osserva[727] che in tre privilegii da Arrigo IV e V e Lottario,
susseguenti imperadori, conceduti al popolo di Lucca, si legge:
_Consuetudines etiam perversas, a tempore Bonifacii marchionis duriter
iisdem hominibus impositas, omnino interdicimus, et ne ulterius fiant
praecipimus._ Lasciò Bonifazio dopo di sè tre figliuoli a lui nati dalla
duchessa Beatrice, cioè _Federigo_ (appellato _Bonifazio_ dal
continuatore di Ermanno Contratto), _Beatrice_ e _Matilda_, tutti tre di
tenera età, e perciò bisognosi della madre. In questo anno ancora, per
testimonianza dell'Ostiense[728] e di Romoaldo salernitano[729],
_Guaimario IV_ principe di Salerno, per una congiura fatta contra di lui
da alcuni suoi parenti e da altri malcontenti, con più ferite tolto fu
di vita; e il suo cadavero obbrobriosamente strascinato lungo il lido
del mare. Salerno colla rocca restò in potere de' congiurati; ma _Guido
duca_ di Sorrento, e fratello d'esso Guaimario chiamati in aiuto i
Normanni, da lì a cinque giorni ricuperò quella città; installò nel
principato _Gisolfo II_ figliuolo del trucidato principe, e fece morir
quattro di lui parenti con trentasei altri, tutti rei di quel misfatto.
Fermossi tutto quest'anno in Germania il santo _papa Leone_, ed in
Vormazia celebrò la festa del Natale in compagnia dell'imperadore.
Allora fu, secondo Ermanno Contratto, ch'egli fece istanza perchè fosse
restituita sotto il dominio della Chiesa romana la ricca badia di Fulda
con altre poste in quelle contrade, le quali ne' tempi addietro furono
donate a san Pietro, e pagavano censo a Roma. Altrettanta premura ebbe
pel vescovato di Bamberga, di cui Arrigo I Augusto avea fatto un dono
alla Chiesa romana, e pagava anch'essa annualmente a Roma un cavallo
bianco e cento marche d'argento. L'imperadore all'incontro, mosso da
egual brama di poter disporre di quel vescovato e dello suddette badie,
propose piuttosto un cambio, e questo fu accettato dal papa: cioè Leone
rinunziò ad Arrigo i suoi diritti sopra quelle chiese, ed Arrigo in
contraccambio gli cedette molti suoi Stati nelle parti di là da Roma.
L'Ostiense scrive[730] che _tunc inter ipsum apostolicum et imperatorem
facta est commutatio de Benevento et bambergensi episcopio_, ma senza
dichiarare se fosse ceduta la sola città di Benevento col suo
territorio, come gode oggidì la Sede apostolica, oppure anche il
principato, di buona parte nondimeno del quale erano stati prima
investiti i Normanni: e senza dire con qual titolo e patti cedesse tali
Stati. Il Sigonio[731] dice _nomine vicariatus_. Così egli interpretò le
parole dell'Ostiense[732], laddove scrive che _Leo nonus papa
vicariationis gratia Beneventum ab Heinrico Conradi filio recepit_. Da
questo cambio poi deduce il padre Pagi[733] che non sussista quanto ha
Eutropio prete presso il Goldasto, con dire che Carlo Calvo avea
distratto Benevento dall'imperio romano, e concedutolo ai pontefici
romani. E si può similmente dedurre che neppure Lodovico Pio, Ottone I
ed Arrigo I imperadori avessero mai conceduto loro esso ducato di
Benevento.

NOTE:

[716] Hermannus Contractus, in Chronico.

[717] Wibert., Vita S. Leonis IX, lib. 1, cap. 4.

[718] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[719] Leo Ostiens., Chron. lib. 2, cap. 84.

[720] Antiquit. Italic., Dissert. XXXX, pag. 641.

[721] Antiquit. Ital., Dissertat. LXVI.

[722] Arnulfus, Hist. Mediolan., lib. 3, cap. 3.

[723] Fiorentini, Memor. di Matild., lib. 1.

[724] Rerum Italic. Scriptor., tom. 3.

[725] Donizo, in Vita Mathild., lib. 1.

[726] Hermannus Contractus, in Chronico.

[727] Fiorentini, Memorie di Matilde, lib. 1.

[728] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 85.

[729] Romualdus Salernit., Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[730] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 84.

[731] Sigonius, de Regno Italiae, lib. 8.

[732] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 46.

[733] Pagius, in Annal. Baron.



    Anno di CRISTO MLIII. Indizione VI.

    LEONE IX papa 5.
    ARRIGO III re di Germania 15, imperadore 8.


Implorò in questi tempi _papa Leone_ più che mai l'assistenza
dell'_Augusto Arrigo_ per liberar la Puglia dal giogo dei Normanni, i
quali, per quanto scrive Ermanno Contratto[734], _viribus adaucti,
indigetes bello premere coeperunt, injustum dominatum invadere,
haeredibus legitimis castella, praedia, villas, domus, uxores etiam,
quibus libuit, vi auferre, res ecclesiarum deripere, postremo divina et
humana omnia (prout viribus plus poterant) jura confundere, nec jam
apostolico pontifici, nec ipsi imperatori, nisi tantum verbo tenus
cedere_. Guglielmo pugliese diversamente parla della condotta de'
Normanni, e ci vorrebbe far credere che da Argiro duca d'Italia per
l'imperadore greco provenissero specialmente tanti lamenti in parte
falsi contra de' Normanni, dappoichè non gli era riuscito nè con danari
nè con promesse di tirarli fuor d'Italia al servigio de' Greci. Secondo
lui[735], la gente di Puglia

    _. . . . . . varias deferre querelas_
    _Coepit, et accusat diverso crimine Gallos._
    _Veris commiscens fallacia nuntia mittit_
    _Argirous papae, precibusque frequentibus illum_
    _Obsecrat, Italiam quod libertate carentem_
    _Liberet, ac populum discedere cogat iniquum._

Ma non era papa Leone uomo da lasciarsi in tal congiuntura ingannare.
Egli stesso soggiornava in lor vicinanza, e più volte era stato sul
fatto, cioè in quelle contrade medesime, e potea ben sapere se i
Normanni fossero sì o no una specie di masnadieri. Vedremo che mai non
si quetarono, infinattantochè non ispogliarono i signori di que' paesi
de' loro Stati. Guglielmo storico, allorchè i Normanni furono nel colmo
della potenza, scrisse per piacere alla stessa nazion dominante; però
non par sicura la testimonianza sua. Ora l'imperadore diede alcune delle
sue soldatesche al papa; molte altre ne ottenne esso papa da diversi
signori; e con queste brigate s'unì una gran ciurma di scellerati e
banditi, tutti condotti dall'avidità e speranza di far buon bottino. Nel
mese di febbraio con questa gente calò in Italia il buon pontefice,
conducendo seco _Gotifredo duca_ di Lorena, e _Federigo_ suo fratello
che fu poi papa Stefano X, e molti cherici e laici esercitati nel
mestier della guerra, per valersene contro i Normanni[736]. Ma prima di
arrivar egli giù dall'Alpi, _Gebeardo_ vescovo allora di Aichstet, di
nazion bavarese, avendo fatto ricorso all'imperadore, tanto disse e
tanto fece, che il ridusse a richiamare il grosso corpo di truppe
imperiali già spedite in aiuto del papa, in maniera che altro non vi
restò di quell'esercito che un battaglione di cinquecento persone[737].
Se n'ebbe poscia ben bene da pentire lo stesso Gebeardo, dacchè divenne
anch'egli pontefice romano col nome di Vittore II, per le insolenze che,
non men di papa Leone IX, dovette sofferir dai Normanni di Puglia, senza
poterli reprimere. Giunto a Mantova papa Leone nella quinquagesima, per
attestato di Wiberto[738], determinò di tener quivi un concilio. Erano
accorsi ad ossequiar il papa varii vescovi di Lombardia, a' quali faceva
paura il rigore e zelo del santo pontefice: che ben sapeano di aver de'
mancamenti da renderne conto. Però alla lor suggestione fu attribuita
una rissa insorta fra i familiari d'essi prelati e quei del papa, in
tempo appunto che si celebrava il concilio. Corse alla porta della
basilica il santo padre; volavano le saette e i sassi, e fu egli stesso
in pericolo della vita per salvare i suoi domestici, che si rifugiavano
verso la di lui persona, e senzachè gli aggressori si guardassero dal
ferire chi andava a nascondersi sotto le vesti pontificali. Si quetò con
difficoltà il tumulto, ma fu esso cagione che si sciolse il concilio; e
ciò non ostante il misericordioso pontefice diede nel dì seguente
l'assoluzione agli autori di tale iniquità. Andossene a Roma san
Leone[739], e dopo Pasqua tenne quivi un nuovo concilio[740], dove fu
posto fine alle vecchie liti che bollivano fra i patriarchi di Aquileia
e di Grado, chiamato nuova Aquileia; cioè fu deciso che quel di Grado
fosse indipendente dall'altro, e vero metropolitano dell'Istria e delle
isole di Venezia. Anche il Dandolo[741] ne fa menzione, ma con supporre
ciò seguito in un precedente sinodo, mentre aggiugne che papa Leone
visitò dipoi Venezia per divozione verso san Marco. Ciò probabilmente
accadde nell'ultimo suo ritorno dalla Germania sul principio dell'anno
corrente.

Ciò fatto, ardendo pure il santo papa di desiderio di liberar la Puglia
dalla crudele ed insaziabil nazione dei Normanni, mosse l'esercito
preparato contra di loro. Era questo composto, secondochè abbiamo da
Guglielmo pugliese[742], de' pochi Tedeschi ch'egli avea potuto ritenere
al suo soldo, cioè di settecento Suevi, oltre alla canaglia de'
facinorosi, venuta di Germania, condotti da _Guarnieri_, che
probabilmente fu il primo marchese di questo nome della marca d'Ancona.
V'erano inoltre moltissime brigate d'Italiani armati, raccolte da Roma,
Spoleti, Camerino, Fermo, Ancona, Capoa, Benevento ed altri luoghi. Non
sussiste, a mio credere, che _Goffredo_ o _Gotifredo duca_ di Lorena
fosse il generale di questa impresa. Piuttosto è da credere _Rodolfo_,
eletto già principe di Benevento, per quanto s'ha da Leone
ostiense[743]. Consisteva poi l'armata de' Normanni, secondo il medesimo
autore, in tremila cavalli e poca fanteria, ma tutta gente forte,
agguerrita, e che non conosceva paura. I condottieri di questa, divisa
in tre squadre, furono _Unfredo_ conte e capo d'essi Normanni,
_Riccardo_ conte di Aversa, _Roberto_ soprannominato _Guiscardo_, cioè
_Astuto_, poco dianzi venuto di Normandia a trovare il fratello Unfredo,
cioè quel medesimo Roberto che vedremo a suo tempo padrone di quasi
tutto il regno ora di Napoli e di parte della Sicilia. Tralascio altri
nominati da esso storico pugliese. Dal medesimo bensì e da Ermanno
Contratto[744] abbiamo che i Normanni, veggendo sì grande apparato di
guerra contra di loro, e sè di forze troppo disuguali, spedirono
ambasciatori al papa, offerendosi umilmente al servigio e all'ubbidienza
di lui, e di riconoscere in feudo dalla santa Sede gli Stati da lor
posseduti. Ma non fu accettata l'offerta, non già per alterigia del papa
pieno d'umiltà e nemico di spargere il sangue cristiano, ma per cagion
dei superbi Tedeschi, i quali s'opposero, deridendo la piccola statura
de' Normanni, e figurandosi d'averli già vinti col solo terrore. Costoro
indussero suo malgrado il papa a comandar loro che, deposte le armi, se
ne tornassero al loro paese; altrimente andrebbono tutti a fil di spada.
A questa sì aspra risposta non seppero accomodarsi i Normanni, ed
abbracciando i consigli della disperazione, risoluti piuttosto di morir
cadauno onoratamente coll'armi in mano, che di accettare un così
vergognoso partito, si prepararono alla battaglia. Fors'anche furono i
primi ad assalire improvvisamente l'oste nemica. Si fece questa giornata
campale presso Civitella nella provincia di Capitanata nel dì 18 di
giugno[745]. A Riccardo conte di Aversa, che guidava la prima schiera,
riuscì facile lo sbrigliare le mal disciplinate milizie italiane, ed
inseguirle con loro non picciola strage. S'affrontò Unfredo conte coi
Tedeschi, e trovò quivi duro il terreno, in guisa che per la morte di
molti de' suoi era vicino a cedere, quando il valoroso Roberto colla sua
schiera di riserva accorse in aiuto del fratello, e fece delle mirabili
prodezze. Tornato poi Riccardo dalla caccia degli Italiani, finì la
festa con la morte di quasi tutti i Tedeschi, i quali vi lasciarono ben
la vita, ma la fecero costar cara ai vincitori. Papa Leone, dopo questa
disgrazia afflittissimo, si salvò colla fuga in Civitella, che fu ben
tosto assediata dai Normanni. Secondo Gaufrido Malaterra, quegli
abitanti, per non aver danno da quella feroce nazione, misero il papa
fuori della città. Guglielmo Pugliese scrive che non vollero riceverlo
nella città, temendo di disgustare i Normanni, di modo ch'egli venne
nelle mani de' Normanni stessi. Volle Dio che costoro si ricordassero di
esser Cristiani, nè obbliassero il rispetto dovuto al vicario di Cristo.
Perciò, lungi dal fargli oltraggio alcuno, corsero a baciargli i piedi,
e a chiedergli perdono ed assoluzion delle colpe. Il papa li benedisse,
ed ottenne d'esser condotto a Benevento: il che con tutto onore di lui
eseguirono. Quivi si fermò egli per molto tempo, cioè per tutto
quest'anno e parte del seguente, ma senza essergli permesso di
tornarsene indietro. L'Ostiense scrive che entrò in Benevento nel dì 23
di giugno. Non fu lodata dai zelanti cattolici d'allora questa impresa
di papa Leone, ed anzi fu creduto che Dio permettesse ciò per insegnare
ai capi della Chiesa e agli altri sacri ministri di non intervenire ai
sanguinosi spettacoli della guerra. _Occulto Dei judicio_, dice Ermanno
Contratto, _sive quia tantum sacerdotem spiritalis potius quam pro
caducis rebus pugna decebat; sive quod nefarios homines quam multos ad
se ob impunitatem scelerum vel quaestum avarum confluentes, contra
itidem scelestos secum ducebat; sive divina justitia alias, quas ipsa
novit, ob caussas nostros plectente_.

Disapprovò sommamente tal fatto anche san Pier Damiano, con giugnere
infino a negare ai papi il diritto di far guerra: perlochè si meritò la
censura del cardinal Baronio. Ma son certo che neppur lo stesso Baronio
seppe approvar l'andata in persona di questo buon pontefice alla guerra,
massimamente contra di gente cristiana. Anche la spada temporale
conviene ai sommi pontefici, come principi temporali; ma questa, per
sentimento di papa Gregorio IX, _pro ecclesia manu saecularis principis
eximenda est_[746]. E Brunone vescovo di Segna[747] scrive ch'egli andò
_super Normannos praeliaturus, zelum quidem Dei habens, sed non fortasse
scientiam. Utinam ispe per se illuc non ivisset, sed solummodo illuc
exercitum pro justitia defendenda misisset_! Riposossi di poi il papa in
Benevento, come in città sua. Secondo la Cronichetta dei duchi di quella
città, pubblicata dal Pellegrini[748], _Pandolfo V_ e _Landolfo V_
principi di Benevento aveano tenuto quel principato, _usquedum venit
domnus papa Leo in Beneventum mense augusti, Indictione IV, anno Domni
MLI, et exsiliati sunt_. E ciò avvenne prima del cambio di Benevento con
Bamberga. Pare che solamente dopo esso cambio un certo _Rodolfo_ fosse
creato dal papa _principe_ di Benevento: il che quando sia certo,
abbastanza si conosce che non la sola città, ma anche il principato era
stato ceduto a papa Leone IX; il che tuttavia è difficile a credersi,
perchè allora i papi non concedevano ai lor vassalli il titolo di
_principe_, significante in questi tempi un signore indipendente, o un
figlio di sovrano. Oltre alla battaglia suddetta, abbiamo dall'Anonimo
barense[749] che un'altra ne succedette ed anche prima, e forse
nell'anno precedente. Ecco le sue parole all'anno 1052, nel quale vien
anche riferito il fatto d'armi dell'esercito pontifizio. _Argiro_ (duca
l'Italia per l'imperador greco) _ibit_ (in vece d'_ivit_) _in Siponto
per mare. Deinde Umfreda_ (conte e capo dei Normanni) _et Petrone cum
exercitu Normannorum super eum, et fecerunt bellum, et ceciderunt de
Longobardis ibidem. Ipse Argiro semivivus exsiliit plagatus, et ibit
incivitate Vesti_. Poscia all'anno presente narra che lo stesso Argiro
spedì il vescovo di Trani a Costantinopoli per ragguagliar quella corte
de' sinistri avvenimenti delle cose d'Italia. Guglielmo pugliese
aggiugne[750] che per queste disavventure Argiro cadde dalla grazia del
greco imperadore, sospettandolo forse d'intelligenza coi Normanni,
oppure riguardandolo come uomo inetto al governo. Fu perciò mandato in
esilio, dove, dopo lungo tempo cruciato dalla poca sanità e dalle
amarezze dell'animo, diede fine alla sua vita. Abbiamo nondimeno da
Leone Ostiense[751] che Argiro tuttavia nell'anno 1058 era _Barensium
magister_, e che solamente in quell'anno egli andò a Costantinopoli, e
in tal congiuntura è da credere che restassero liberi i Normanni da
questo emulo, che tanto s'era maneggiato per la loro rovina. In
quest'anno[752] l'_imperadore Arrigo_, tenuta una gran dieta in
Tribuaria, fece eleggere re di Germania e suo successore il fanciullo
_Arrigo IV_ suo figliuolo. E perciocchè _Corrado duca_ di Baviera s'era
collegato con _Andrea re_ d'Ungheria nemico del romano imperio, gli
tolse quel ducato, e lo diede allo stesso novello re suo figliuolo. Ho
io rapportato altrove[753] la conferma de' privilegii fatta dall'Augusto
al monistero delle monache del Senatore di Pavia. Il diploma si dice
dato _XI kalendas maii, anno dominicae Incarnationis MLIIII, Indictione
VI, anno autem domni Heinrici tertii regis, imperatoris secundi,
ordinationis ejus XXV, regni quidem XIII, imperii vero VII. Actum
Turego_. Probabilmente l'originale avrà _anno dominicae Incarnationis
MLIII_, perchè veramente l'indizione e l'altre note indicano l'anno
presente, se pure non fu quivi adoperato l'anno pisano. Ribellatisi in
quest'anno gli Amalfitani al cieco _Mansone_ loro duca[754],
l'obbligarono a fuggire, ed allora risorse il deposto _Giovanni_ suo
fratello, il quale seguitò poi a governar quel popolo per sedici anni.

NOTE:

[734] Hermannus Contractus, in Chron.

[735] Guillelmus Apulus, lib. 2 Poem.

[736] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[737] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 90.

[738] Wibertus, Vita S. Leonis IX, lib. 2, cap. 4.

[739] Hermannus Contractus, in Chron.

[740] Leo IX, Epistol. II, tom. 9 Concilior. Labbe.

[741] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[742] Guillelmus Apulus, lib. 2 Poem. de Normann.

[743] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 87.

[744] Hermannus Contractus, in Chron.

[745] Gaufrid. Malaterra, Histor., lib. 1, cap. 10.

[746] Gregor. IX, in Epist. ad Germ. Constant.

[747] Bruno Episc., in Vit. Leonis IX.

[748] Apud Peregrin., Hist. Princip. Langobard.

[749] Anonymus Barensis, tom. 5 Rer. Ital.

[750] Guillelmus Apulus, lib. 2 Poem.

[751] Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 10.

[752] Hermannus Contractus, in Chron.

[753] Antiquit. Ital., Dissert. LXX.

[754] Ibidem, tom. 1, pag. 211.



    Anno di CRISTO MLIV. Indizione VII.

    LEONE IX papa 6.
    ARRIGO III re di Germania 16, imperadore 9.


Passò il verno in Benevento il santo pontefice _Leone IX_, ma in mezzo
all'afflizione, perchè egli, secondochè scrive Lamberto da
Scafnaburgo[755], dappoichè fu liberato dall'assedio de' Normanni,
_cunctos dies, quibus supervixit tantae calamitati, in luctu et moerore
egit_. Ed Ermanno Contratto scrive[756] ch'egli ridotto in Benevento,
quivi si fermò, _nec fuit redire permissus_. Non dice chi gl'impedisse
il ritorno. Possiamo con tutta ragione sospettare che i Normanni; ma ciò
non s'accorderebbe col Malaterra[757] là dove racconta che papa Leone
loro non solamente restituì la sua grazia, ma concedette ancora in feudo
tutti gli Stati posseduti, e quegli eziandio che potessero acquistare in
Calabria e in Sicilia; giacchè la Sicilia tuttavia gemeva sotto il giogo
de' Maomettani Saraceni. Spedì il buon papa nel gennaio di quest'anno a
Costantinopoli per suoi legati _Umberto cardinale_, _Pietro arcivescovo_
d'Amalfi, e _Federigo_ diacono cardinale, cancelliere della santa romana
Chiesa e fratello di _Gotifredo duca_ di Lorena, a cagione delle liti
insorte in questi tempi fra le Chiese latina e greca, le quali andarono
a terminare in un deplorabile scisma. Se ne può informare il lettore
dagli Annali ecclesiastici del cardinal Baronio, e da altri scrittori di
sì fatte materie. Ma le afflizioni dell'animo ridondarono ancora sopra
il corpo del buon pontefice[758]. Infermatosi, ebbe nondimeno tanto
vigore che celebrò messa pubblicamente nell'anniversario della sua
ordinazione, cioè nel dì 12 di febbraio. Crescendo poscia il malore, di
colà si partì nel dì 12 di marzo per tornarsene a Roma, e gli prestarono
in tal congiuntura buona scorta ed ogni possibil servigio i Normanni. Se
crediamo al Malaterra, lo stesso _conte Unfredo_ il condusse con tutto
onore fin dove piacque al papa. Leone ostiense lasciò scritto[759] che
l'accompagnò fino a Capoa, dove esso pontefice si fermò per dodici
giorni, e preso poi seco _Richerio abbate_ di Monte Casino, continuò il
suo viaggio fino a Roma. Nè passarono molti giorni che fu chiamato da
Dio a godere delle sue rare virtù e gloriose fatiche il premio in cielo
nel dì 19 d'aprile dell'anno presente. Dio attestò coi miracoli la
santità di questo buon pontefice, il quale benchè poco vivesse e in
tempi tanto corrotti, pure gran cose operò, e gareggiò in attività e
zelo co' primi pontefici della Chiesa di Dio. Veggansi le Vite di lui
scritte da Wiberto e da Brunone vescovo di Segna, e gli Atti de' Padri
Bollandisti al dì 19 d'aprile.

Succedette in quest'anno, se pur non fu nel precedente, in Italia un
matrimonio che disturbò forte la corte imperiale in Germania,
_Gotifredo_, ossia _Goffredo duca_ di Lorena, che, secondo Lamberto
scafnaburgense[760], era già venuto in Italia con papa Leone, oppure,
come ha Ermanno Contratto[761], _Italiam latenter adiens_ nell'anno
presente, trattò e conchiuse le sue nozze con _Beatrice_, vedova del fu
marchese e duca di Toscana _Bonifazio_, e, secondochè hanno alcuni
conghietturato, concertò anche l'accasamento di _Gotifredo_ il Gobbo suo
figliuolo con _Matilda_ figliuola di essa Beatrice, allora di età assai
tenera. Lamberto e Sigeberto[762] scrivono effettuato il matrimonio di
Beatrice nell'anno precedente. Ermanno Contratto ne parla solamente in
questo, terminando con sì fatta notizia e colla morte propria la Cronica
sua. Altrettanto ha Bertoldo da Costanza[763]. Per tal via lo scaltro
Goffredo (son parole di Lamberto) _Beatricem accipiens, marcham_ (di
Toscana) _et ceteras ejus possessiones conjugii praetextu sibi
vindicavit_. A questo avviso s'allarmò non poco l'Augusto Arrigo,
primieramente perchè vedeva intaccato di troppo il suo diritto, mentre,
secondo le leggi, o secondo le consuetudini, Beatrice per essere donna,
ed anche solamente vedova, non potea pretendere di comandare nel ducato
della Toscana, e, benchè avesse figliuoli, apparteneva all'imperadore il
darne l'investitura al maschio. Secondariamente, perchè Gotifredo, stato
finora nemico dell'imperadore, e personaggio di gran senno e maneggio,
era creduto capace di sconvolgere tutta l'Italia, e di sottrarla al
dominio degli Augusti tedeschi. Vedemmo grande la potenza del marchese
Bonifazio anche in Lombardia, dove possedeva tante fortezze e beni:
tutto venne in potere di Goffredo, e però non erano ingiusti i sospetti
e timori d'Arrigo, il quale fin d'allora pensò a rimediarvi; e noi il
vedremo venire nell'anno seguente apposta per questo in Italia. Dopo la
vittoria riportata contra dell'esercito pontifizio non istettero punto i
Normanni colle mani alla cintola. Per testimonianza di Guglielmo
pugliese[764], niuna città restò in Puglia che non si sottomettesse al
loro dominio, o non si obbligasse di pagar loro tributo. _Unfredo_ conte
e capo d'essi fece allora aspra vendetta degli uccisori di Drogone suo
fratello, e forzò all'ubbidienza le città di Troia, Bari, Trani, Venosa,
Otranto, Acerenza, ed altre terre. Ma questo storico diede qui negli
eccessi, con attribuire tutte queste prodezze e conquiste ad Unfredo.
Certamente parte d'esse succedette dipoi. Mandò ancora, per
testimonianza di lui, _Roberto Guiscardo_ suo fratello a far delle
conquiste in Calabria. Uomo di mirabil accortezza e bravura era Roberto,
e perciò seppe ben profittarne. Fors'anche fece più di quel che si
aspettava o voleva Unfredo; e quindi nacque lite fra loro, di maniera
che un dì, trovandosi insieme a pranzo, Unfredo gli fece mettere le mani
addosso, e, sguainata la spada, era in procinto d'ucciderlo, se non
fosse stato trattenuto da Gocelino. Restò Roberto in prigione per
qualche tempo, finchè, deposto lo sdegno, Unfredo non solamente gli
restituì la libertà ed amicizia primiera, ma gli concedette ancora
quanto esso Roberto avea acquistato ed era per acquistare in Calabria,
con dargli anche un buon soccorso di cavalleria. Di più non vi volle
perchè Roberto, parte colle astuzie, parte colla forza, slargasse in
quelle contrade i confini del suo dominio. Abbiamo la conferma de'
privilegii data dall'Augusto Arrigo a _Benedetto vescovo_ di Adria[765]
_II idus februarii, anno dominicae Incarnationis MLIIII, Indictione VII.
Actum Turegum_. Le altre note han bisogno d'essere ritoccate.

NOTE:

[755] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[756] Hermannus Contractus, in Chron.

[757] Gaufrid. Malaterra, lib. 1 Hist.

[758] Wibertus, in Vita Papae Leonis IX, lib. 2, cap. 7.

[759] Leo Ostiensis, in Chron., lib. 2, cap. 87.

[760] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[761] Hermannus Contractus, in Chron.

[762] Sigebertus, in Chron.

[763] Bertold. Constantinensis, in Chron.

[764] Guillelmus Apulus, lib. 2 Poem.

[765] Antiquit. Italic., Dissert. LXXIII.



    Anno di CRISTO MLV. Indizione VIII.

    VITTORE II papa 1.
    ARRIGO III re di Germania 17, imperadore 10.


Per quanto s'ha da Leone ostiense[766], fu spedito in Germania dal clero
e popolo romano _Ildebrando_, allora suddiacono della santa Chiesa
romana, acciocchè impetrasse dall'imperadore la libertà di eleggere a
nome d'essi Romani un nuovo papa, il creduto da lui più degno, giacchè
in Roma dicono che non si trovava persona atta a sì gran ministero.
Scelse egli _Gebeardo vescovo_ di Aichstet, prelato di gran prudenza e
facoltoso, col consenso degli stessi Romani, e presentollo
all'imperadore, il quale non sapeva indursi a concederlo, perchè l'amava
assaissimo, e il riputava troppo necessario ne' suoi consigli. Ripugnava
anche lo stesso Gebeardo, non so se per umiltà, oppure per paura di sua
vita in mezzo agl'Italiani. Arrigo ne propose degli altri; ma Ildebrando
stette fisso nell'elezione fatta, e condusse in Italia Gebeardo. Questi,
giunto a Roma canonicamente eletto ossia confermato dai Romani, assunse
il nome di _Vittore II_, e fu consecrato papa nel dì 13 d'aprile, cioè
dopo essere stata vacante la santa Sede quasi un intero anno. Dacchè
seguì il matrimonio fra _Gotifredo_ Barbato, duca di Lorena, e
_Beatrice_ duchessa di Toscana, cominciarono a fioccar le lettere alla
corte imperiale sì da Roma che da altre parti d'Italia[767],
rappresentanti l'esorbitante accrescimento di potenza in Italia d'esso
Gotifredo; e che, se non si rimediava per tempo, correa pericolo questo
regno di staccarsi da quello della Germania. Non trascurò questi avvisi
l'Augusto Arrigo, e sul principio dell'anno presente colla sua armata
calò in Italia per dar sesto a questi affari. Egli era in Verona nel dì
7 d'aprile, come consta da un suo diploma pubblicato dal Margarino[768].
E nel dì 16 d'esso mese celebrò la Pasqua in Mantova. Non giudicò bene
Gotifredo, siccome principe assai accorto, di presentarsi
all'imperadore, ma gli mandò incontro ambasciatori al di lui arrivo in
Italia con grandi proteste di fedeltà. Poscia fece tener loro dietro la
moglie Beatrice, figurandosi che il di lei sesso e la parentela stretta
coll'imperadore l'esenterebbono da ogni insulto e gastigo. In fatti andò
essa, ma non senza interni timori; ebbe difficilmente udienza, ed
avutala, disse quante ragioni seppe per giustificar sè e il marito. Ma
con tutto questo, perchè il matrimonio era seguito senza participazione
e consentimento dell'imperadore con principe creduto pubblico nemico
dell'imperio, fu essa ritenuta sotto guardia e come ostaggio, senza far
caso del salvocondotto ch'ella avea prima procurato ed ottenuto, per
quanto ha il Continuatore d'Ermanno Contratto[769]. Fece studio
l'imperadore per aver nelle mani anche il piccolo _Federigo_ figliuolo
del fu marchese Bonifazio e di Beatrice (chiamato Bonifazio dal suddetto
storico) che potea con qualche ragione pretendere alla successione nel
ducato della Toscana, affin di levare ogni pretesto al duca Goffredo di
amministrare il governo di quegli Stati. Ma mentre chi avea cura di
questo piccolo principe va cercando di non esporlo al duro trattamento
che provava la duchessa sua madre, egli se ne morì, e liberò Arrigo da
questo pensiero. Essendo già premorta Beatrice sua sorella, restò erede
di quell'ampio patrimonio l'unica prole rimasta in vita de' figliuoli
del marchese Bonifazio e di Beatrice, cioè la celebre contessa
_Matilda_, che allora si trovava in età di otto anni, e verisimilmente
si assicurò da ogni violenza con ritirarsi nella sua inespugnabil rocca
di Canossa sul Reggiano. Il Fiorentini scrive[770] ch'essa era allora
colla madre: il che difficilmente m'induco io a credere. Nel dì 5 di
maggio si trovava l'Augusto Arrigo ne' celebri prati di Roncaglia sul
Piacentino, dove, secondo il consueto, si raunava, all'arrivo dei re e
degl'imperadori, la dieta dei principi d'Italia, siccome costa da un suo
placito ivi tenuto, da me dato alla luce[771], che merita attenzione,
perchè gli avvocati di _Guido vescovo_ di Luni, avendo una lite pel
castello di Aghinolfo con un Gandolfo, volevano deciderla col duello
alla presenza dello stesso Augusto e di varii vescovi, se non che
amichevolmente si acconciò l'affare. Di questa dieta fa menzione anche
Arnolfo storico milanese nel lib. III, cap. 6, con dire che in essa
_marchionem Adelbertum, de quo nimia fuerat proclamatio, cum aliis
flagitiosis, ferreis jubet vinciri nexibus_. Non ho potuto chiarire se
questo principe fosse della schiatta dei marchesi poscia appellati
estensi.

Perchè gl'interessi della Toscana stavano forte a cuore all'Augusto
Arrigo, ed anche perchè il novello _papa Vittore_ avea intimato un
concilio da tenersi in Firenze, colà s'inviò egli, e trovossi col
pontefice in quella città per la festa della Pentecoste[772]. Fu
celebrato in Firenze il suddetto concilio, e quivi di nuovo condannata
l'eresia di Berengario e la simonia, e vietata l'alienazione dei beni
ecclesiastici. Non ci restano gli atti di quella sacra adunanza. Inviò
anche lo zelante papa in Francia, o in questo anno, ovvero nel seguente,
il celebre Ildebrando, suddiacono allora, siccome dissi, della santa
romana Chiesa, per estirpare la simonia, male in questi tempi gravemente
radicato per tutta la Cristianità. Vi operò egli delle mirabili cose,
che si leggono nella storia ecclesiastica. In quest'anno ancora, per
asserzione di Lamberto da Scafnaburgo[773] e d'altri, accadde che dalla
mano sacrilega di un suddiacono fu posto del veleno nel calice quando il
suddetto pontefice era dietro a celebrar messa. Miracolosamente volle
Dio che il buon papa dopo la consecrazione non potesse alzare il calice.
Allora egli col popolo in orazione pregò Dio di rivelar la cagione di
questa novità: ed eccoti essere preso dal demonio l'empio autore
dell'iniquità, che confessò il suo delitto. Fece Vittore chiudere quel
calice in un altare col vino attossicato; e rinnovò col popolo le
preghiere a Dio, finchè il suddiacono si vide liberato dal demonio.
Havvi chi crede essere provenuto un tale attentato da quel tristo di
Teofilatto, che dianzi abbiam veduto sotto il nome di Benedetto IX sulla
cattedra di san Pietro, il quale già deposto era tuttavia vivente, per
quanto consta dalle parole dette dal santo papa Leone IX prima di morire
nell'anno precedente[774]. Ma se sussiste ciò che si è detto di sopra
all'anno 1044 d'esso Benedetto IX, sopra di lui non dovrebbe cadere un
tal sospetto. Che l'Augusto Arrigo fosse in Firenze nel dì 6 di giugno
dell'anno presente, possiamo anche provarlo colla conferma de'
privilegii de' canonici di Parma, da me pubblicata[775], e data _VIII
idus junii, anno dominicae Incarnationis MLV, Indictione VIII, anno
autem domni Heirici tercii regis, imperatoris autem secundi,
ordinationis ejus XXVII, regni quidem XVI, imperii vero VIIII. Actum
vero Florentiae_. Accadde in quest'anno il ritorno in Italia di
_Federigo_ cardinale, cancelliere della Sede apostolica, già spedito a
Costantinopoli dal santo papa Leone IX, dove con vigore apostolico
sostenne la dottrina della Chiesa romana contra di Michele Cerulario,
principale autore di un deplorabile scisma[776]. Fama corse ch'egli
portasse da quella corte un gran tesoro, ed avvertitone l'imperadore
Arrigo, per sospetto che Federigo, siccome fratello di Gotifredo duca di
Lorena, cioè di una persona odiata non poco da esso augusto, avesse
tramata col greco imperadore qualche lega in pregiudizio dell'imperio
germanico, scrisse al papa di prenderlo e cacciarlo in prigione. Ne fu
segretamente avvertito Federigo, e, per sottrarsi alla persecuzione
d'Arrigo, corse al monistero di Monte Casino, e quivi si fece monaco.
Leone ostiense, autore di questo racconto, avea detto nel capitolo
precedente che Federigo in passando pel territorio teatino o sia di
Chieti, _Trasmondo conte_ di quella città l'avea spogliato di quanto
egli portava seco, lasciandolo poi in libertà, con grave scandalo ed
ingiuria della sede apostolica. Aggiugne il suddetto Ostiense[777], che
essendo mancato di Vita _Richerio abbate_ di Monte Casino, in suo luogo
fu eletto dai monaci un di loro appellato Pietro. Se l'ebbe a male papa
Vittore II, il quale per altro amava poco i monaci, e ne fece gran
querela, perchè senza sua saputa avessero eletto un abbate. Mandò
apposta colà _Umberto_ vescovo e cardinale con ordine di adoperar le
scomuniche; _ita ad subjugandam sibi violenter abbatiam animum papa
intenderat: quum numquam aliquis ante illum romanorum pontificum hoc
attemptaverit; sed libera ab initio permanente, abbatis quidem electio
monachis, papae vero sacratio tantummodo pertinuerit_. Furono perciò in
armi i sudditi della badia; ma non finì la faccenda, che Pietro eletto
abbate rinunziò a quella dignità nell'anno 1057, siccome vedremo.

Se si ha a credere a Lamberto da Scafnaburgo[778], l'Augusto Arrigo
aveva, almeno in apparenza, mostrato di accettar le scuse e proteste
d'esso Goffredo, per timore specialmente ch'egli, unendosi coi Normanni,
non isconvolgesse tutta l'Italia. Tuttavia essendosi ritirato Goffredo
in Lorena, mal soddisfatto al vedere ritenuta dall'imperadore Beatrice
sua moglie, concepì Arrigo dei sospetti ch'egli potesse tentar delle
nuove ribellioni, ed in quest'anno appunto, secondo Sigeberto[779],
_Baldovino conte_ di Fiandra _cum Godefrido avunculum suum Fridericum
ducem intra Androverpum obsidet_. Perciò Arrigo determinò di ritornare
in Germania, dappoichè l'Italia restava in una buona calma. Era egli sul
Ferrarese verso il fine d'agosto, siccome consta dal diploma da me dato
alla luce[780], in cui conferma al popolo di Ferrara i lor privilegii.
Le note cronologiche son queste: _VIII kalendas septembris, anno
dominicae Incarnationis MLV, Indictione VIII, anno autem domni Henrici
tertii regis, imperatoris autem secundi, ordinationis ejus XXVII, regni
quidem XVII, imperii vero VIIII. Actum ad Pontem_: forse il _Ponte_
oggidì appellato di _Lagoscuro_ sul Po. Nel dì 15 d'ottobre si truova lo
stesso Augusto in Mantova, dove spedisce un diploma in favore de'
canonici di Cremona colle suddette note[781]. Parimente in Verona nel dì
11 di novembre ratificò i privilegii del monistero di san Zenone, posto
allora fuori di quella città, con diploma da me pubblicato altrove[782].
Leggonsi ancora tre placiti tenuti in questo anno da _Guntero_
cancelliere e messo dell'imperadore, uno nel contado di Firenze presso
il fiume Arno, _in loco, qui nominatur Omiclo_, nel dì 14 di giugno; il
secondo _in civitate Mantua in lobia soleriata, quae fuit marchionis
Bonifacii, XV kalendas novembris_; il terzo nella villa di Volarno del
contado di Verona nel dì 15 di novembre. Per la Baviera passò l'Augusto
Arrigo a Turgau negli Svizzeri, dove celebrò la festa del santo
Natale[783], _ibique Othonis marchionis filiam_ (appellata _Berta_)
_aequivoco suo filio desponsavit_, cioè ad Arrigo IV, allora fanciullo
di pochi anni. Altri non è questo _Ottone_ marchese che il marchese di
Susa, cioè il marito di _Adelaide_ celebre marchesana di quelle
contrade. Oltre ad altri scrittori, Lamberto scafnaburgense[784]
all'anno 1066 fa menzione delle nozze d'esso Arrigo IV _et Berthae
reginae filiae Ottonis marchionis Italorum._ L'Annalista sassone[785] la
chiama _filiam Ottonis marchionis de Italia, et Adeleidis, quae soror
erat comitis, qui agnominatus est de monte Bardonis in Italia._
Quest'ultimo è una favola. Appartiene ancora al presente anno un
avvenimento di grande importanza per la nobilissima casa d'Este. Nel
suddetto diploma dato ai monaci di san Zenone vien mentovato _Welpho
gloriosus dux_, cioè duca della Carintia, e marchese della marca di
Verona. L'autore della Cronica di Weingart[786] e l'abbate
urspergense[787] raccontano che questo principe essendo ito ad aspettare
ne' prati di Roncaglia l'imperadore, che vi si dovea trovare in un
giorno determinato, dopo averlo aspettato indarno tre dì,
impazientatosi, fece alzar le bandiere colle sue genti, e se ne tornò a
casa. E tuttochè per via trovasse l'imperadore che veniva, nè per
preghiere, nè per minacce vi fu maniera di farlo tornare indietro. Mise
anche l'imperadore Arrigo una esorbitante contribuzion di danaro a'
Veronesi, e la riscosse. Sopravvenne il duca Guelfo, e, saputo un sì
pesante aggravio imposto a' suoi sudditi, fece tal fuoco presso del
medesimo Augusto, che l'obbligò a rifondere quel danaro. Il Continuatore
di Ermanno Contratto scrive che Gebeardo vescovo di Ratisbona, _et
Welphus dux licentiam repatriandi ab Italia impetraverunt, militesque
eorum, illis (ut ajunt) ignorantibus, contra imperatorem conjuraverunt._
Ma in questo medesimo anno lo stesso duca Guelfo III, giovane di spiriti
eccelsi, _suis, et omni populo flebili morte praeventus, apud altorfense
coenobium sepultus est._ In lui ebbe fine la famosa ed antichissima
famiglia de' principi guelfi, se non che fors'anche era in vita
_Cunegonda_ sua sorella, moglie di _Alberto Azzo II_ marchese,
progenitore de' principi estensi. Da questo matrimonio era nato un
figliuolo appellato _Guelfo IV_. E contuttochè i monaci di Weingart,
ossia delle vigne, in Altorf, prevalendosi del momento felice della
mortal malattia d'esso Guelfo IV, l'avessero indotto a lasciar tutti i
suoi Stati e beni della Suevia, che erano di grande estensione, al lor
monistero; pure _Ermengarda_ madre di lui, tuttavia vivente, chiamò in
Germania il nipote _Guelfo IV_ figliuolo della figliuola e del _marchese
Azzo_ e, fatto probabilmente conoscere informe e nullo il testamento del
figliuolo, fece passare in esso suo nipote tutta l'ampia eredità della
casa de' Guelfi. Ecco le parole dell'Urspergense: _Mater ejusdem_ (di
Guelfo III duca) _hanc distributionem fieri non permisit; sed potius de
Italia revocavit filium praefati Azzonis nepotem suum Welphonem quartum,
eumque heredem omnium possessionum ejusdem generis instituit._
Altrettanto ha la Cronica di Weingart presso il Leibnizio. È punto
importante alla storia dell'Italia e della Germania, perchè il sangue
de' principi estensi per mezzo di questo principe si propagò e divenne,
siccome diremo, gloriosissimo in Germania, discendendo per diritta linea
da esso _Guelfo IV_ la reale ed elettoral casa di Brunsvic, siccome da
un altro figlio di esso marchese Azzo la linea de' marchesi d'Este.
Quando mancasse di vita la suddetta _Cunegonda_, moglie del marchese
Alberto Azzo, non l'ho potuto scoprire. Ben so che fu seppellita nella
badia della Vangadizza presso all'Adigetto, posseduta per più secoli dai
monaci camaldolesi; e il suo epitaffio, a me comunicato dal celebre
letterato don Guido Grandi camaldolese, fu già da me dato alla
luce[788]. Abbiamo dalla Cronica antica di Parma[789], che quella città
nel dì di san Lorenzo di quest'anno restò da un terribil incendio in
gran parte consumata. Fu anche guerra fra i Pisani e Lucchesi; _Pisani
vero vicerunt illos_, se crediamo agli antichi Annali di Pisa[790]; e la
battaglia succedette in un luogo detto Vaccoli presso di Lucca. Scrive
ancora il Dandolo[791] che riuscì a _Domenico Contareno_ doge di Venezia
di riportare (probabilmente in quest'anno) dall'imperadore Arrigo la
conferma de' patti antichi col regno d'Italia.

NOTE:

[766] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 89.

[767] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[768] Bullar. Casinense, tom. 2, Constit. XCVI.

[769] Continuator Hermanni Contracti.

[770] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 1.

[771] Antiquit. Ital., Dissert. XXXIX, pag. 645.

[772] Continuator Hermanni Contracti, in Chron.

[773] Lambert. Schafnaburgensis, in Chronico. Annalista Saxo et alii.

[774] Acta Sanctorum Bolland., in Vita S. Leonis IX.

[775] Antiquit. Italic., Dissert. XXIII.

[776] Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 89.

[777] Idem, ibid., lib. 2, cap. 92 et 94.

[778] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[779] Sigebertus, in Chronico.

[780] Antiquit. Italic., Dissert. LXVIII.

[781] Ibidem. Dissertat. IX et XIII.

[782] Antichità Estensi, P. I, cap. 2.

[783] Continuator Hermanni Contracti, in Chron.

[784] Lambertus Schafnaburgensis, in Chronico.

[785] Annalista Saxo apud Eccardum.

[786] Chronic. Weingart., tom. 1 Scriptor. Brunsvicens.

[787] Conradus Abbas Urspergensis, in Chron.

[788] Antiquit. Ital., Dissert. LI.

[789] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[790] Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[791] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MLVI. Indizione IX.

    VITTORE II papa 2.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 1.


Desiderò l'_imperadore Arrigo_ che _papa Vittore_ andasse a ritrovarlo
in Germania, e questi vi andò, ricevuto con sommo onore in
Goslaria[792], dove insieme celebrarono la festa della Natività di santa
Maria con pompa mirabile, perchè vi intervennero quasi tutti i principi
tedeschi, sì ecclesiastici che secolari, e il patriarca d'Aquileia. Ma
quest'anno riuscì ben funesto per varii disastri, cioè per la morte di
molti di que' principi, per la carestia che afflisse non poco i popoli,
per gli affari della guerra che andavano alla peggio, e per una
dissensione col re di Francia. Ne concepì l'Augusto Arrigo non poca
malinconia, dopo di che fu assalito da una febbre perniciosa, che in
sette giorni il fece passare all'altra vita nel dì 5 di ottobre,
assistito specialmente dalla presenza del romano pontefice. Era egli in
età di trentanove anni, nè mancò prima di morire di perdonare ad ognuno,
di restituire il maltolto, e di chiedere perdono a tutti. Dodechino
scrive[793] che egli _in jecore cervi mortem comederat_. Forse allora
corse il sospetto di veleno, facile a nascere nelle morti immature dei
regnanti. Raccomandò egli a tutti i principi, ma principalmente al sommo
pontefice Vittore, il piccolo suo figliuolo _Arrigo IV_ di età d'anni
sei, mettendolo sotto la protezione della Chiesa romana. In fatti
contribuì non poco il papa, affinchè il re fanciullo fosse di nuovo
eletto e confermato re di Germania. La cura e tutela di lui restò, col
consiglio e consentimento de' primati, appoggiata all'_imperadrice
Agnese_, principessa di molto senno e di non minore pietà, che si diede
ad allevarlo con saggia e profittevol educazione. Ma convien pure dirlo
per tempo: la morte troppo frettolosa di Arrigo III e la minorità del re
suo figliuolo furono il principio d'immensi malanni sì in Italia che in
Germania, e di un orribile sconvolgimento di cose, con essersi
specialmente sciolto il freno alle ingiustizie, alle ribellioni, alle
guerre civili. E qui comincia il periodo di avvenimenti, che fecero a
poco a poco mutar faccia anche all'Italia, siccome andremo vedendo. Per
allora la savia condotta dell'Augusta Agnese impedì che non seguisse
tumulto o novità alcuna; ma non andò molto che, tolte a lei le redini
del governo, si scatenarono i vizii, nè ci fu ritegno all'inondazion de'
mali e allo sconcerto dei regni. Che Arrigo IV, per elezione o
precedentemente procurata dal padre, o dopo la di lui morte ottenuta,
cominciasse tosto, benchè non coronato, a dominare in Italia, si
raccoglie da varii atti di giurisdizione da lui esercitati in queste
contrade. Nell'anno presente[794], _imperante domnus Enricus filius
quondam domni Chonradi imperatoris anno decimo, die quartodecimo mense
genuarius, Indictione nona_, Willa inclita contessa, _relicta quondam
domni Ugo gloriosissimo, qui fuit dux et marchio_, manomette Clariza
figliuola di Uberto da Castel Poderoso. Per quanto io credo, quest'_Ugo
duca_ e marchese già defunto era stato duca di Spoleti e marchese della
marca di Camerino, siccome accennai all'anno 1028. Rapporta
l'Ughelli[795] all'anno presente un diploma dato dal sopraddetto Arrigo
imperadore in favor di _Bernardo vescovo_ d'Ascoli, le cui note
cronologiche affatto guaste son tali: _Datum VI kalendas junii, anno
dominicae Incarnationis MLVI, Indictione IX, anno domni Henrici tertii,
ordinationis ejus XXVIII, regni vero XVIII, imperii II_ (oppure _XI_).
_Actum Florentiae_. Ma quel diploma sarà dato nell'anno precedente sul
fine di maggio, allorchè Arrigo fu in Firenze, e a tenore di ciò si
debbono acconciar quelle note.

NOTE:

[792] Continuator Hermanni Contracti, in Chron. Sigebertus, in Chronico.
Lambertus Schafnaburgensis, in Chron. Marianus Scotus, in Chron.

[793] Dodechinus, in Chron., ann. 1106.

[794] Antiquit. Ital., Dissert. XV.

[795] Ughell., Ital. Sacr., tom. I in Episc. Asculan.



    Anno di CRISTO MLVII. Indizione X.

    STEFANO IX papa 1.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 2.


Per tutto il verno si fermò il _papa Vittore_ in Germania[796], ed
insieme col fanciullo _re Arrigo IV_ solennizzò la festa del santo
Natale in Ratisbona. Opera sua fu, per testimonianza di Sigeberto[797],
che nel presente anno _Baldovino conte_ di Fiandra e _Goffredo duca_ di
Lorena comparissero ad una gran dieta tenuta in Colonia, e quivi fossero
rimessi in grazia del re e dell'imperadrice lor madre. In tale occasione
Goffredo[798] liberamente riebbe la _duchessa Beatrice_ sua moglie, e
con esso lei se ne tornò al governo della Toscana e degli altri Stati
d'Italia. Anche il pontefice Vittore II, dopo avere colla sua prudenza
messo qualche buon sesto alla quiete della Germania, sen venne in
Italia. Da una lettera a lui scritta da san Pier Damiano[799] si
raccoglie che esso papa portò seco un'ampia autorità e plenipotenza per
regolar gli affari del regno italico, e mantenerlo alla divozione del
piccolo re Arrigo. Introduce esso Pier Damiano Cristo Signor nostro a
parlargli così: _Ego te quasi patrem imperatoris esse constitui_, ec.
_Ego claves totius universalis Ecclesiae meae tuis manibus tradidi_, ec.
_Et si pauca sunt ista, etiam monarchias addidi. Immo sublato rege de
medio, totius imperii vacantis tibi jura permisi._ Prima ancora, cioè
nell'anno precedente, e vivente l'Augusto Arrigo, era ad esso papa
raccomandato e commesso il governo d'Italia. In pruova di ciò resta un
atto pubblicato dall'Ughelli[800], cioè un placito tenuto da esso papa
Vittore II _in comitatu aprutiensi ante castrum de la Vitice, ab
Incarnatione Domini nostri Jesu Christi anni sunt millesimi
quinquagesimi sexti, et dies istius_ (parola scorretta) _et mensis
julius per Indictione nona._ Quivi egli è chiamato _Victorius sedis
apostolicae praesul urbis Romae Dei gratia Italiae egregius universali
PP. regimine successus, marcam firmanam et ducatum spoletinum._ Non
furono copiate colla dovuta attenzione queste parole, ma assai
trasparisce ch'esso papa avea il governo o di tutta l'Italia, o almeno
della marca di Fermo e del ducato di Spoleti. Ed acciocchè si conosca
chi fosse tuttavia il sovrano di quegli stati, si osservi che il papa
_fecit mittere bandum de parte regis Henrici, et de sua parte_, ec., _ut
si qui rebellis aut contemptor extiterit_, ec., _sciat se compositurum
ad partem camerae regis libras quinquaginta, et ad partem camerae suae
alias quinquaginta libras, etc._ Già si accennò che nell'anno 1055
_Federigo_ fratello del duca Goffredo avea vestito l'abito monastico in
Monte Casino. Era venuto papa Vittore a Firenze, colà invitato dal duca;
e, per attestato di Leone ostiense[801], Federigo, che più non avea
paura del defunto imperadore, si portò anche egli a Firenze, per far le
sue doglianze contro di _Trasmondo conte_ di Chieti, da cui era stato
empiamente svaligiato nel suo ritorno da Costantinopoli. Trasmondo fu
scomunicato dal papa, e, per ottener l'assoluzione, restituì non solo
tutto il rapito, ma ancora il castello di Frisa, già lasciato al
monistero casinese dalla di lui moglie. Quindi fu mossa lite contra di
_Pietro_ eletto abbate d'esso monistero, e spedito colà _Umberto
cardinale_ per esaminar l'elezione di lui. Avendo egli rinunziato, i
voti dei monaci, probabilmente per insinuazione dello stesso cardinale,
si unirono ad eleggere il suddetto _Federigo_, personaggio per altro
degnissimo di quel ministero, perchè dotato di religiosa perfezione e di
singolari virtù. Nè mancò il duca Goffredo di procacciargli anche dei
più splendidi onori. In effetto il papa nelle quattro tempora di giugno
creò esso Federigo cardinale del titolo di san Grisogono, confermando
nello stesso tempo a lui il grado di abbate, e alla badia casinese tutti
i suoi privilegii con bolla pubblicata dal padre Mabillone[802].

Fra poco si partì alla volta di Roma il novello porporato per quivi
prendere il possesso della sua chiesa titolare, quando eccoti, pochi
giorni dopo il suo arrivo, colà giugnervi anche _Bonifazio_, _cardinale_
e vescovo d'Albano, colla nuova che _papa Vittore_ era mancato di vita
in Firenze nel dì 28 di giugno. Cominciarono dunque i Romani a trattar
dell'elezione del successore, e nel dì 2 d'agosto con voti unanimi del
clero e popolo restò eletto il medesimo _cardinal Federigo_, che assunse
il nome di _Stefano IX_, perchè correva in quel dì la festa di santo
Stefano papa e martire. Lamberto da Scafnaburgo[803] notò come cosa
considerabile l'unione ed allegria de' Romani in tal congiuntura, con
dire: _Nec quisquam sane multis retro annis laetioribus suffragiis,
majore omnium exspectatione, ad regimen processerat romanae Ecclesiae._
Applicossi tosto questo zelantissimo papa alla riforma della disciplina
ecclesiastica con tenere più di un concilio, dove condannò i maritaggi
de' preti latini, le nozze illecite, le simonie ed altri pubblici e
comuni disordini di que' corrotti secoli. Per la festa di santo Andrea
si portò a Monte Casino, dove con tutto vigore cercò di svellere l'abuso
de' monaci proprietarii. Tornato a Roma, _quum romana febre jamdudum
langueret_, s'aggravò talmente il suo male circa la festa del santo
Natale, che credette d'essere giunto al fine de' suoi giorni. Allora fu
che, col consiglio dei priori, elesse abbate di Monte Casino
_Desiderio_, uomo incomparabile, ed uno dei più splendidi ornamenti di
quel sacro luogo, con dichiararlo anche suo nunzio alla corte
dell'imperadore d'Oriente, inviandolo colà insieme con _Stefano
cardinale_ e _Mainardo_, poscia vescovo di Selva Candida. Abbiamo da
Romoaldo salernitano[804] che in quest'anno terminò i suoi giorni
_Goffredo conte_ de' Normanni, lasciando per suo successore _Bagelardo_
ossia _Abailardo_ suo figliuolo, valoroso milite. Ma _Roberto Guiscardo_
fratello di Goffredo, la cui ambizione non conobbe mai limiti,
s'impadronì di tutti i di lui Stati, e ne cacciò il nipote. Questo
_Goffredo_, il cui nome è alterato nel testo di Romoaldo, altro non è
che _Unfredo_ conte e capo dei Normanni in Puglia, del quale abbiam
favellato più volte in addietro. La sua morte è riferita all'anno
precedente da Lupo Protospata[805]. Guglielmo Pugliese aggiugne[806] che
Roberto Guiscardo, dopo i funerali del fratello,

    _Ad Calabros rediit, Cariati protinus urbem_
    _Obsidet, hac capta reliquas ut terreret urbes._

Quest'assedio appartiene all'anno seguente. Nel presente[807]
cominciarono i baroni della Sassonia, siccome mal soddisfatti del
defunto imperadore Arrigo, a macchinare delle novità contra del di lui
figliuolo _Arrigo_. Accolsero con grande ansietà _Ottone_ fratello di
_Guglielmo marchese_, e trattarono infino di alzar lui al trono, e di
levar di vita il re fanciullo. Diedesi principio alla sollevazione; ma,
rimasto estinto in un incontro il suddetto Ottone, per allora si quetò
il tumulto, e continuò nell'animo de' Sassoni la medesima avversione ad
Arrigo IV. In quest'anno ancora il nuovo papa Stefano ben conoscente
della rara virtù e letteratura di _Pier Damiano_, dall'eremo il chiamò a
Roma, e l'alzò al grado di cardinale e di vescovo d'Ostia[808]. Ripugnò
forte ad accettar queste dignità il santo monaco, con resistere finchè
potè alle preghiere d'esso papa e di molti vescovi; ma l'intimazione
della scomunica, se non ubbidiva, quella fu che in fine l'espugnò.
Provvide ancora esso pontefice la Chiesa vacante di Lucca di un vescovo,
che poi divenne celebre, cioè di _Anselmo da Badagio_ milanese, il qual
poscia nella sedia di san Pietro fu chiamato _Alessandro II_. Circa
quest'anno parimente ebbe cominciamento lo scisma del clero di Milano,
di cui parleremo negli anni seguenti. Una bolla del suddetto pontefice,
data non già nell'anno 1058, ma bensì nel presente 1057, fu da me
pubblicata[809], in cui determina che gli ecclesiastici non sieno tirati
al foro secolare, nè sieno loro imposte gravezze dai laici. Le note son
queste: _Datum Romae per manum Humberti sanctae ecclesiae Silvae
Candidae episcopi et bibliothecarii sanctae romanae et apostolicae
Sedis, anno pontificatus domni Stephani noni papae primo, XV kalendas
novembris, Indictione undecima_, cominciata nel settembre. A quest'atto
intervennero _Anselmo_ vescovo di Lucca, _Benedetto_ vescovo di Veletri,
_Bonifazio_ vescovo d'Albano, _Umberto_ vescovo di Selva Candida,
_Pietro_ vescovo lavicano, ed _Ildebrando_ cardinale suddiacono della
santa romana Chiesa.

NOTE:

[796] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[797] Sigebertus, in Chron.

[798] Albericus Monachus, in Chronico.

[799] Petrus Damian., lib. 1, Epist. 5.

[800] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 Append. Episcop. Ascol.

[801] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 94.

[802] Mabillon., in Annal. Benedictin., tom. 4 in Append.

[803] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[804] Romualdus Salern., Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[805] Lupus Protospata, in Chronico.

[806] Guilielmus Apulus, lib. 2 Poem.

[807] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[808] Johann. Laudensis, in Vit. S. Petri Damian., cap. 6.

[809] Antiquit. Ital., Dissert. LXX.



    Anno di CRISTO MLVIII. Indizione XI.

    BENEDETTO IX papa 1.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 3.


Se avesse Dio conceduta più lunga vita al pontefice _Stefano IX_,
potevano aspettarsi da lui di grandi imprese non meno di pietà che di
politica. Racconta Leone marsicano[810] ch'egli mandò ordine a Monte
Casino di portare con gran fretta e di nascosto a Roma tutto il tesoro
di quel sacro luogo in oro ed argento, promettendo in breve di rifare il
danno e con usura. Il motivo di tale novità era ignoto; ma fu creduto
ch'egli fosse dietro a mettere nel capo del duca Goffredo suo fratello
le corone del regno d'Italia e del romano imperio. _Disponebat autem
fratri suo duci Gotifredo apud Tusciam in colloquio jungi, eique, ut
ferebatur, imperialem coronam largiri; demum vero ad Normannos Italia
expellendos, qui maximo illi odio erant, una cum eo reverti._ Ma l'uomo
propone e Dio dispone. Non ebbe egli tempo da effettuar questo disegno,
il quale, se pure è vero, avrebbe portato una gran taccia al nome suo
presso la nazione germanica, ma sarebbe forse stato la salute
dell'Italia, con risparmiarle tanti sconcerti che poscia avvennero per
cagione di un re fanciullo allora e poi carico di vizii. Fu portato al
papa il tesoro casinense, ma ben mal volentieri, dai monaci. Una visione
raccontata al papa, e gli scrupoli insorti nella di lui delicata
coscienza, furono cagione ch'egli ordinasse che tutto quell'oro ed
argento fosse ricondotto al suo monistero. Maggiormente intanto si
aggravava la di lui malattia; e però, unito il clero e popolo romano,
l'obbligò a promettere che, in caso di sua morte, non passerebbono
all'elezione del nuovo papa finchè non fosse tornato di Germania
_Ildebrando cardinale_ suddiacono della Chiesa romana, e abbate di san
Paolo, chiamato da Lamberto[811] _vir et eloquentia et sacrarum
literarum eruditione valde admirandus_. Era questi stato inviato per
comun parere da Roma all'_imperadrice Agnese_ per gli affari e bisogni
occorrenti di questi pericolosi tempi. Andossene poi il pontefice
Stefano a Firenze in Toscana a trovare il fratello, e vi trovò anche la
morte, che il portò a miglior vita nel dì 29 di marzo, assistito nella
malattia dal santo abbate di Clugnì _Ugo_. Dio onorò la sua sepoltura
con varii miracoli. A questa nuova il popolo romano, che non s'era mai
saputo accomodare ad aver pontefici tedeschi, e specialmente eletti
dall'imperadore, tuttochè i cinque ultimi venuti di colà fossero stati
personaggi santi, o almeno assai benemeriti della Chiesa romana, fece
tosto un gran broglio per creare un papa romano. Gregorio figliuolo
d'Alberico, conte tuscolano ossia di Frascati, unito con altri potenti
di Roma[812], e guadagnata con danari buona parte del clero e popolo,
corse in tempo di notte con assai gente armata alla chiesa, e quivi
tumultuariamente fece eleggere papa _Giovanni vescovo_ di Veletri,
soprannominato poi _Mincio_ (parola forse tratta dal franzese _mince_,
che significava _leggiere_ e _balordo_, e potè dar l'origine alla parola
oggidì usata di _mincione_, _minchione_), il quale assunse il nome di
_Benedetto X_. Era uomo privo affatto di lettere, per attestato di san
Pier Damiano. A questa sregolata elezione, contraria ai sacri canoni, e
fatta anche senza il consentimento della corte germanica, cioè contra
del giuramento intorno a ciò prestato al defunto imperadore Arrigo III,
e contra del forte divieto fatto dall'ultimo defunto papa Stefano IX: a
questa elezione, dissi, con tutto vigore si oppose il suddetto san Pier
Damiano vescovo d'Ostia cogli altri cardinali. Protestarono, intimarono
scomuniche; ma indarno tutto. Furono essi astretti a fuggirsene e a
nascondersi per timor della vita; e il popolo, giacchè non si potea
avere il vescovo ostiense, a cui apparteneva la consecrazione del nuovo
pontefice, per forza obbligò l'arciprete d'Ostia, uomo ignorante, a
consecrare questo illegittimo e simoniaco papa: cosa anche essa affatto
ripugnante alla disciplina della Chiesa.

Giunto in Germania l'avviso della morte del papa, e nello stesso tempo
quel della novità commessa in Roma, non tardò l'imperadrice Agnese a
rimandare in Italia il cardinale Ildebrando con ordine di andar di
concerto col duca Gotifredo per provvedere a questi disordini. Intanto
arrivò a quella corte, per attestato di Lamberto, un'ambasceria di que'
Romani che non aveano acconsentito all'intrusione di Mincio,
rappresentandosi pronti ad osservare verso il re figliuolo quella
fedeltà che aveano mantenuta verso l'Augusto suo padre, e pregando
caldamente il re di mandar loro quel papa che gli piacesse, perchè
ognuno abborriva l'intruso. Si trattò dunque di eleggere un pontefice
legittimo, e s'accordarono insieme nella città di Siena, dove fu
celebrato un concilio, i primati tanto romani che tedeschi[813], per
alzare al trono pontifizio _Gherardo vescovo_ di Firenze, di nascita
borgognone, personaggio per senno e per ottimi costumi degno di sì
sublime dignità. Si attese nel rimanente dell'anno a preparar la forza,
e a far negoziati per atterrar l'usurpatore della cattedra di san
Pietro: il che, ebbe compimento nell'anno seguente, siccome diremo. Nel
presente, per testimonianza del Malaterra[814], fu nella Calabria una
terribil carestia e mortalità. Era già venuto in Italia _Ruggieri_,
minor fratello di _Roberto Guiscardo_, giovane che per valore, per
eloquenza, per accortezza non avea pari. Si diede anch'egli, col
consenso del fratello, a far delle conquiste nella Calabria, la metà
della qual provincia gli fu o promessa o conceduta da esso Roberto. In
quest'anno ancora il medesimo Roberto, vedendosi salito in tanta
potenza, sdegnò d'aver più per moglie _Alberada_, che gli avea partorito
un figliuolo appellato _Marco_, e con altro nome _Boamondo_, principe
che divenne col tempo assai celebre e glorioso. Trovate perciò ragioni o
pretesti di parentela, la ripudiò; ed ansioso di nozze più illustri,
prese per moglie _Sigelgaita_ figliuola del defunto Guaimario IV
principe di Salerno. Ma Guglielmo Pugliese[815] riferisce all'anno
seguente queste nozze, alle quali a tutta prima _Gisolfo II_, allora
principe regnante di Salerno, e fratello di Sigelgaita, si mostrò
renitente; ma poi condiscese, per non tirarsi addosso la nimicizia di
quella fiera nazione, e perchè guadagnò nel contratto alcune castella.
In quest'anno _V idus junii, Indictione XI_, dimorando in Firenze il
duca Gotifredo, accordò ai canonici di Arezzo la sua protezione[816].
Diedero unitamente tal privilegio_ Gottifredus divina favente clementia
dux et marchio, et Beatrix ejus conjux_. Parimente il medesimo duca _XVI
kalendas januarii, Indictione XII_, cioè ai dì 17 di dicembre dell'anno
presente, mentre risedeva in giudizio _intus casa, quae est sala de
palatio de civitate lucense_, confermò ad _Anselmo vescovo_ di Lucca,
che fu poi papa _Alessandro II_, la chiesa di santo Alessandro, _et
misit bannum domni imperatoris_ (benchè non per anche Arrigo IV godesse
questo titolo)_ super eodem Anselmo episcopus_, per maggior sicurezza di
lui.

NOTE:

[810] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 99.

[811] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[812] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 101.

[813] Cardinal. Aragon., in Vita Nicolai II, Par. I, tom. 3 Rerum
Italicarum.

[814] Gaufrid. Malaterra, Hist., lib. 1, cap. 30.

[815] Guillelmus Apulus, lib. 2 Poem.

[816] Antiquit. Italic., Dissert. XVII.



    Anno di CRISTO MLIX. Indizione XII.

    NICCOLÒ II papa 1.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 4.


Sul principio di quest'anno il nuovo eletto pontefice, che assunse
poscia il nome di _Niccolò II_, s'inviò da Firenze alla volta di Roma,
fiancheggiato dalle milizie di _Goffredo duca_ di Lorena e Toscana,
principe allora potentissimo in Italia. Fermossi a Sutri, perchè la
possanza de' conti di Tuscolano era grande nella città. Quivi raunò un
concilio di vescovi per trattare della deposizion di Mincio, ossia di
_Benedetto X_ falso pontefice[817]. Non aspettò Mincio la forza, ma
spontaneamente depose le insegne pontificali, e si ritirò alla propria
casa. Ciò inteso, l'eletto papa Niccolò, tenuto consiglio coi cardinali,
senza accompagnamento di soldatesche e con tutta umiltà entrò in Roma,
dove, accolto onorevolmente dal clero e popolo, fu intronizzato: dal
qual tempo ha principio l'epoca del suo pontificato. Da lì poscia a
pochi giorni si presentò a' suoi piedi Mincio, chiedendo perdono, con
allegar per iscusa che gli era stata usata violenza, confessando
nondimeno il suo fallo per aver mancato al giuramento. In pena del suo
reato restò degradato dall'ordine episcopale e sacerdotale, e confinato
in santa Maria Maggiore. Fece poscia papa Niccolò un viaggio nella marca
di Camerino sul principio di quaresima, e in tal occasione creò
cardinale _Desiderio_, insigne abbate di Monte Casino. Trovossi il
medesimo papa in Spoleti _VI nonas martii_, e quivi confermò i
privilegii al monistero del Volturno[818]. Era egli _VIII idus martii_
in Osimo, dove fece la suddetta grazia a Monte Casino. Raunò un numeroso
concilio di cento tredici vescovi nella basilica lateranense[819],
correndo il mese d'aprile, in cui fu stabilito un salutevol decreto
intorno all'elezione dei romani pontefici, da farsi in Roma
principalmente da' cardinali, e poi dal restante clero e popolo, _salvo
debito honore et reverentia dilecti filii nostri Henrici, qui
impraesentiarum rex habetur, et futurus imperator, Deo concedente,
speratur, sicut jam concessimus, et successoribus illius, qui ab
apostolica Sede personaliter hoc jus impetraverint._ Nella Cronica del
monistero di Farfa[820], da me data alla luce, si legge questo decreto
più copioso che nella raccolta de' concilii, perchè v'ha il catalogo di
tutti i cardinali e vescovi assistenti al medesimo concilio. E qui si
legge qualche giunta allo suddette parole: cioè _sicut jam mediante ejus
nuntio Longobardiae cancellario W. concessimus, et successorum illius,
qui ab hac apostolica sede personaliter hoc jus impetraverint, ad
consensum novae electionis accedant._ Quel cancelliere dovrebbe essere
_Wibertus_, cioè _Giberto_, che fu poi arcivescovo di Ravenna ed
antipapa, ma che non era già allora arcivescovo di Ravenna, in guisa che
quel _Wibertus archiepiscopus_, che si legge nelle sottoscrizioni, sarà
arcivescovo d'altra chiesa, se pur quel nome non è scorretto. Forse ivi
era scritto _Wido_, cioè _Guido_ arcivescovo di Milano. In questa
maniera il papa rimise ne' termini dell'antica consuetudine, da noi per
più secoli osservata, l'elezion de' romani pontefici, confermandola ai
cardinali e al clero e popolo romano, ma con riserbarne l'approvazione
al regnante imperadore, prima di consecrarlo. Prevalendosi inoltre della
minorità del re Arrigo, fece diventar questo un privilegio personale,
accordato dalla santa sede all'imperadore: il che non s'udì mai in
addietro. E i Greci e i Franchi e i Tedeschi Augusti fin qui aveano
sostenuto che questa fosse una prerogativa dell'alto loro dominio in
Roma, e in concedere gli Stati al romano pontefice si riserbavano per
patto questo da lor preteso diritto. Non potea però pretenderlo Arrigo
IV, perchè fin qui egli non era imperadore. Vero è che vedremo da qui a
non molto che fu rivocato anche questo medesimo decreto di papa Niccolò
II. In esso concilio romano Berengario abiurò per la prima volta la sua
eresia, e furono proibite non meno le simonie che i matrimonii ossia i
concubinati dei preti. Abbiamo dalla Vita di questo pontefice[821],
raccolta dal cardinale Niccolò d'Aragona, che i Normanni gli spedirono
ambasciatori con pregarlo di venire in Puglia, promettendogli ogni
soddisfazione. V'andò in fatti papa Niccolò dopo le feste di Pasqua, e,
per attestato di Leone Ostiense[822] e di Guglielmo Pugliese[823],
celebrò un concilio nella città di Melfi in Puglia, e non già in Amalfi,
come han supposto alcuni,

    _Praesulibus centum jus ad synodale vocatis._
    _Namque sacerdotes, levitae, clericus omnis_
    _Hac regione palam se conjugio sociabant._

Intervenne a quel concilio anche _Riccardo I_ conte d'Aversa, che poi fu
principe di Capua coll'espulsione di _Landolfo V_. Questi era di nazione
normanna, e cognato di _Roberto Guiscardo_ mercè del matrimonio
contratto con Fridesinna di lui sorella. Passò il papa a Benevento, e
fuori di quella città sul principio d'agosto tenne un altro concilio, di
cui si vede fatta menzione nella Cronica suddetta del monistero di
Volturno. Fra gli altri che vi si trovarono, si conta _Ildebrando
cardinale_ suddiacono. Ma dopo questo concilio egli ci comparisce
davanti promosso a più alto grado, cioè creato cardinale arcidiacono
della santa romana Chiesa. In una bolla spedita dal medesimo papa
Niccolò II nel dì 14 di ottobre del presente anno in favore del
monistero di s. Pietro di Perugia, e pubblicata dal padre
Margarino[824], egli si sottoscrive: _Hildebrandus qualiscumque
archidiaconus sanctae romanae Ecclesiae_.

Dopo questi concilii attese il vigilantissimo papa a stabilire un
accomodamento coi Normanni. In vece di volerli nemici, da uomo saggio se
li fece amici; e il tempo mostrò i frutti del suo senno, perchè i
Normanni divennero lo scudo de' romani pontefici, e li sostennero in più
occasioni, e li misero in piena libertà e indipendenza dagl'imperadori.
Concedette dunque papa Niccolò in feudo a Roberto Guiscardo gli Stati da
lui conquistati in Puglia e Calabria, e il resto che si potesse da lui
conquistare non solo in quelle contrade, ma anche in Sicilia, dandogli
il titolo di _duca di Puglia, Calabria e Sicilia._ Guglielmo Pugliese
anch'egli scrive:

    _Robertum donat Nicolaus honore ducali;_

notizie nondimeno che è difficile d'accordarle con Leone Ostiense[825],
il quale lasciò scritto che Roberto, dopo la presa della città di Reggio
in Calabria, _ex tunc coepit dux appellari_. Anche il Malaterra scrisse
lo stesso. Reggio fu presa solamente nell'anno 1060. Comunque sia, vien
riferito dal cardinal Baronio[826] il giuramento di fedeltà ch'esso
Roberto prestò al suddetto pontefice, con obbligarsi di pagare ogni anno
alla santa Sede dodici denari di moneta pavese per ogni paio di buoi.
Cercano alcuni con qual titolo papa Nicolao desse tale investitura ai
Normanni, che fu la primordiale del regno appellato oggidì di Napoli, e
v'aggiugnesse anche la Sicilia, su cui conservavano il lor diritto i
greci imperadori. Certo è che in questi tempi si facea molto valere la
donazion di Costantino, nata, per quanto si può credere, nel secolo
ottavo dell'era nostra volgare. Nè forse per l'ignoranza d'allora alcuno
s'accorgeva ch'ella fosse un documento apocrifo, talmente che s. Leone
IX papa nella lunga lettera scritta a Michele Cerulario patriarca di
Costantinopoli nell'anno 1053[827], cioè pochi anni prima, la produsse
quasi tutta, e massimamente quelle parole: _Tam palatium nostrum, quam
romanam urbem, et omnes Italiae, seu occidentalium regionum provincias,
loca et civitates saepefato beatissimo pontifici et patri nostro
Silvestro universali papae contradentes atque relinquentes, ei vel
successoribus ipsius pontificibus potestatem et ditionem firmam
imperiali censura per hanc divalem jussionem et pragmaticum constitutum
decernimus desponendo, atque juri sanctae romanae Ecclesiae concedimus
permansura_. Fece anche gran caso di tal donazione alcuni anni dappoi
san Pier Damiano in un suo dialogo[828]. Non c'è ora persona dotta che
non sappia essere quella una fattura de' secoli posteriori; ma nol
sapeano, nè se n'accorgeano i Romani di questi tempi. Sembra ancora che
circa questi medesimi tempi fossero dati fuori con delle giunte i
diplomi di Lodovico Pio, di Ottone I e di Arrigo I Augusti in favore
della Chiesa romana, dove è parlato di Benevento, della Calabria, della
Sicilia e d'altri paesi, coerentemente agl'interessi di questi tempi, ma
con discordia da quei de' secoli precedenti. Potrebbesi credere che su
tali fondamenti si piantasse il principio dei diritti che da allora fin
qua, cioè per tanti secoli, gode la Sede apostolica sopra le due
Sicilie, nelle quali ha stabilito una sì autentica e giusta sovranità e
prescrizione, contra di cui non si può allegare ragione alcuna. Oltre di
che, può anche darsi che non mancassero al pontefice Niccolò II altre
più sussistenti ragioni di dedizione spontanea, e di cessione anche
dalla parte dell'imperio. Certamente, per attestato del Continuatore di
Ermanno Contratto[829], Arrigo II imperadore avea conceduto al santo
papa Leone IX _pleraque in ultra romanis partibus ad suum jus
pertinentia pro cisalpinis in concambium datis._ Comunque sia, noi
sappiamo da san Pier Damiano[830] che la corte germanica con assai
vescovi nel conciliabolo di Basilea, dappoichè passò a miglior vita papa
Niccolò II, cassò _omnia quae ab eo fuerunt statuta_; e perciò resta
luogo di dubitare che in Germania fosse disapprovato questo fatto di
papa Niccolò. Diede anche lo stesso pontefice l'investitura di Capua e
del suo principato a _Riccardo I_[831] cognato di Roberto Guiscardo,
tuttochè non ne fosse per anche in possesso. Ciò fatto, perchè non potea
sofferire il magnanimo papa che i capitani e potenti romani, e
massimamente i conti di Tuscolo, ossieno Tuscolani, avessero occupato
tanti beni patrimoniali e Stati della Chiesa romana, con tener anche in
certa guisa come schiavi i pontefici romani[832], cominciò a valersi del
flagello de' Normanni stessi per mettere in dovere que' nobili suoi
ribelli. Ritornato dunque a Roma, spedì un esercito di quella gente
masnadiera addosso a Palestrina, a Tuscolo, ora Frascati, a Nomento, a
Galeria. Furono messi a sacco tutti quei luoghi fino a Sutri, e forzati
que' nobili all'ubbidienza del papa, e con ciò liberata Roma dalla lor
tirannia.

Abbiamo dal Continuatore d'Ermanno Contratto[833] che in quest'anno,
_orto inter Mediolanenses et Ticinenses bello, multi ex utraque parte
ceciderunt._ Di questa guerra fece menzione Arnolfo storico
milanese[834] de' correnti tempi, con dire che i Pavesi non vollero
ricevere un vescovo dato loro dal fanciullo re Arrigo, tuttochè fosse
stato anche consecrato dal papa. Altrettanto fecero poco appresso
parimente gli Astigiani, con rifiutare un vescovo da loro non eletto.
Per interessi ancora civili la discordia avea avvelenato il cuor de'
Pavesi e Milanesi. Gran tempo era che fra quelle due città popolatissime
e le maggiori del regno di Italia, bolliva una segreta gara ed invidia,
ancorchè ognun sapesse che Milano andava innanzi a Pavia. Niuna d'esse
volea cedere all'altra: e quindi per essere confinanti, nascevano bene
spesso ammazzamenti d'uomini, saccheggi ed incendii. Si venne ad una
palese rottura. I Pavesi, conoscendosi inferiori di forze, assoldarono
delle truppe forestiere, e diedero il guasto a' confini del Milanese.
Uscirono in campo anche i Milanesi, avendo tirati in loro lega i
Lodigiani; ed ancorchè parte della loro armata sotto l'_arcivescovo
Guido_ guerreggiasse in altre parti, pure vennero ad un fatto d'arme,
che riuscì sanguinosissimo per l'una e per l'altra parte, specialmente
per la morte d'assaissima nobiltà. Restò il campo in potere de'
Milanesi. Il luogo della battaglia si chiamava fin da' vecchi tempi
_Campo morto_. Sicchè noi cominciamo a vedere le città di Lombardia far
leghe e guerre, e mettersi in libertà: il che andò a poco a poco
crescendo: tutti effetti della minorità, cioè dell'impotenza del re
_Arrigo IV_. Era negli anni addietro nato in Milano un grave scisma, che
ogni dì più andava prendendo fuoco; perciocchè principalmente nel clero
di quella insigne città s'era introdotto l'abuso che i preti e diaconi
assai notoriamente prendevano moglie: il che in buon linguaggio vuol
dire che viveano nel concubinato. Questo morbo era familiare per
l'Italia, ed aveva infestata anche la stessa città di Roma: colpa per lo
più de' vescovi poco attenti alla lor greggia, e talvolta ancora tinti
della medesima pece. L'esempio della Chiesa greca facea loro credere
lecito l'ammogliarsi, senza volere far caso della disciplina
costantemente osservata fin dai primi secoli della Chiesa latina, in cui
fu sempre vietato ai preti e diaconi il prendere moglie, o, se prima le
aveano, l'uso delle medesime. Contra di questi incontinenti e scandalosi
ministri dell'altare, a' quali, benchè impropriamente, si attribuisce
l'eresia de' Nicolaiti, alzò bandiera Arialdo diacono, uomo zelantissimo
dell'onor di Dio e della sua Chiesa, ed egli fu che commosse il popolo
contra di loro. Guido arcivescovo, fautore dei preti, nel concilio di
Fontaneto proferì sentenza di scomunica contra di Arialdo e di Landolfo
nobile laico suo collega. Ma questo non servì se non ad accrescere il
tumulto e l'ira di una parte del popolo. Arnolfo e Landolfo seniore,
storici milanesi di questi tempi[835], ed avvocati dell'incontinenza del
clero ambrosiano di allora, diffusamente parlano di quella tragedia. Ora
l'indefesso papa Niccolò, informato da più parti di così strepitoso
disordine, spedì in quest'anno, se pure non fu nel fine del precedente,
due suoi legati a Milano per cercarne i rimedii. Questi furono _Pier
Damiano_, santo e celebratissimo cardinale e vescovo d'Ostia, ed
_Anselmo da Badagio_ milanese, già creato vescovo di Lucca. Andarono
essi anche per isradicare il vizio della simonia, di cui era
patentemente reo l'arcivescovo, giacchè egli a niuno conferiva gli
ordini ecclesiastici senza farsi pagare. Trovarono essi delle
opposizioni, e contra di loro si venne anche ad una sollevazione de'
parziali degli ecclesiastici. Pure per la saviezza ed eloquenza del
Damiano quetati i rumori, quell'arcivescovo confessò il suo fallo, ed
accettò la penitenza impostagli. Così fecero anche gli altri, con restar
proibita da lì innanzi la simonia e l'ammogliarsi dei sacri ministri
dell'altare. Vien distesamente narrato questo fatto dal medesimo san
Pier Damiano in una sua relazione[836], e a lungo ne parlano il cardinal
Baronio[837] e il Puricelli[838]. Dopo questo l'arcivescovo Guido andò
al concilio romano, dove ebbe buon trattamento dal papa, alla cui destra
fu posto, e, giurata a lui ubbidienza, se ne tornò lieto a casa. Ma Pier
Damiano in ricompensa delle sue fatiche fu spogliato dal papa de' suoi
benefizii, e ricevette altri affronti, per li quali modestamente dimandò
licenza di rinunziare al suo vescovato d'Ostia. Nell'anno presente,
secondo Guglielmo Pugliese[839], _Roberto Guiscardo_ duca di Puglia
s'impadronì delle città di Cariati, Rossano, Cosenza e Geraci nella
Calabria. E _Gotifredo duca_ di Lorena e Toscana, intitolato _dux et
marchio_, con _Arnaldo vescovo_ e conte, tenne due placiti nel contado
di Arezzo, _anno dominicae Incarnationis MLIX, regnante Genrico rege,
mense junio, Indictione XIII_[840]. Dal che si raccoglie che Gotifredo
avea molto bene assunto il governo della Toscana, e il titolo di
marchese di quella provincia, e che non ne fosse già semplice
amministratore a nome della moglie e di Matilda sua figliuola, come ha
creduto taluno. Inoltre ne ricaviamo, ch'egli riconosceva per re
d'Italia Arrigo IV. In uno d'essi documenti comparisce _Rainerius filius
Ugicionis ducis et marchionis_, cioè di quell'_Uguccione_ che a' tempi
di Corrado I Augusto era stato duca e marchese della Toscana.

NOTE:

[817] Cardinal. Aragon., in Vita Nicolai II, Par. I, tom. 3 Rerum
Italicarum.

[818] Chron. Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[819] Tom. 9 Concilior. Labbe, pag. 1099.

[820] Chron. Farfens. P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[821] Cardin. de Aragon., P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[822] Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 13.

[823] Guillelmus Apulus, lib. 2 Poem.

[824] Bullarium Casinense, tom. 2, Constit. CI.

[825] Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 16.

[826] Baron., in Annal. ad hunc annum.

[827] Leo IX, Epist. I, tom. 9 Concilior. Labbe.

[828] Petrus Damian., Opusc. 4.

[829] Continuator, Hermanni Contrac., in Chron.

[830] Petrus Damian., Opuscul. 4.

[831] Leo Ostiens., in Chron. lib. 3.

[832] Cardinal. de Aragon., in Vita Nicolai III.

[833] Continuator Hermanni Contracti, in Chron.

[834] Arnulf., Hist. Mediolan., lib. 3, cap. 5 et 6.

[835] Arnulfus et Landulfus Senior, Hist. Mediolan., tom. 6 Rerum
Italicar.

[836] Petrus Damian., Opusc. 5.

[837] Baron., Annal. Ecclesiast.

[838] Puricellius, Vita S. Arialdi.

[839] Guillel. Apulus, lib. 2 Poem.

[840] Antiquit. Ital., Dissertat. VI et XVII.



    Anno di CRISTO MLX. Indizione XIII.

    NICCOLÒ II papa 2.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 5.


Fece il pontefice _Niccolò_ o sul fine del precedente, o sul principio
di questo anno, una scappata a Firenze, quando sussista una sua bolla in
favor delle monache di santa Felicita _VI idus januarii_, rapportata
dall'Ughelli[841]. Portatosi poi al monistero di Monte Casino, quivi
creò cardinal diacono _Oderisio_ figliuolo di Odecrisio conte di Marsi.
Depose _Angelo vescovo_ d'Aquino, e in luogo suo ordinò _Martino_ monaco
cassinense di nazion fiorentino. Anche _Pietro_, altro monaco di quel
monistero, di nazion ravennate, fu consecrato vescovo di Venafro e
d'Isernia. Ed allora fu, secondo Leone Ostiense[842] ch'egli creò duca
di Puglia, Calabria e Sicilia _Roberto Guiscardo_. Nulla altro di
rilevante, operato da questo valoroso pontefice nell'anno presente, è
giunto a nostra notizia, se non che egli andò al monistero di Farfa,
dove nel mese di luglio consecrò varii altari, e diede poi a quel sacro
luogo la conferma de' privilegii[843]. Intanto _Stefano cardinale_, da
lui spedito in Francia, tenne un concilio nella città di Tours[844],
dove alcuni canoni spettanti alla disciplina ecclesiastica furono
pubblicati. Per quanto s'ha da Guglielmo Pugliese[845], si scoprì forse
nell'anno presente una congiura di dodici conti contra del suddetto
Roberto Guiscardo, ordita spezialmente da Goffredo, Gocelino e
Abailardo, normanni nobili, tutti malcontenti di lui, perchè egli tutto
volea per sè. Abailardo, fra gli altri, nipote d'esso Roberto, non potea
sofferire di vedersi spogliato da esso suo zio degli Stati che erano di
Unfredo conte suo padre. De' congiurati chi fu preso, chi si salvò colla
fuga. Ma io non accerto che in quest'anno succedesse tale attentato,
perchè Guglielmo narra i fatti senza assegnarne il tempo. Sotto l'anno
presente bensì racconta il Malaterra[846] che i due fratelli Roberto
Guiscardo e Ruggieri, ansanti dietro alla conquista di Reggio, capitale
della Calabria, si portarono nel tempo di state all'assedio di quella
città. Resisterono un pezzo i Greci padroni, ma in fine a patti di buona
guerra si arrenderono, e quel presidio passò a Squillaci. Fu questo
castello assediato anch'esso, ed obbligato alla resa da Ruggieri. Nella
Cronichetta amalfitana[847] abbiamo di più: cioè che il Guiscardo
ridusse in suo potere anche la città di Cosenza, con che tutta la
Calabria venne sotto il dominio di lui, ed allora fu ch'egli, secondo il
suddetto Malaterra, prese il titolo di _duca_. Leone Ostiense[848] è del
medesimo sentimento, siccome dicemmo, con aggiugnere che il Guiscardo,
dopo la presa di Reggio, venne con tutte le sue forze in Puglia addosso
la città di Troia, e se ne impadronì. La Cronichetta d'Amalfi mette
prima alla presa di Troia, e poi della Calabria. Con questi sì
prosperosi successi camminava a gran passi la fortuna e il valore del
Guiscardo, e veniva mancando il dominio de' Greci in quelle parti.
Giovanni Curopalata[849], autore per altro poco conoscente, onde
scendesse Roberto Guiscardo confessa che dopo la perdita di Reggio altro
non restava in mano de' Greci che Bari, Idro, Gallipoli, Taranto,
Brindisi ed Hora, cioè, a mio credere, Oria, con altri castelletti. La
gloria nondimeno di tante conquiste de' Normanni in Calabria è dovuta in
parte a Ruggieri di lui fratello, altro eroe di quella nazione e
famiglia. Due bolle di papa Niccolò II, date nel mese di maggio
dell'anno presente, in conferma de' privilegii dell'insigne monistero
delle monache di santa Giulia di Brescia, si leggono nel Bollario
casinense[850]. Ho anch'io dato alla luce un documento[851], scritto
_anno ab Incarnatione Domini MLX, ipso die kalendas decembris,
Indictione XIII_, da cui apparisce che nella città di Firenze _ante
praesentia domni Nicolai papa sede sancti Petri romanensis ecclesiae, et
Ildibrandus abbas monisterio sancti Pauli_, Guglielmo conte
soprannominato Bulgarello restituisce alcune castella a Guido vescovo di
Volterra. Ma è da vedere, se questa carta appartenesse piuttosto al
primo dì di dicembre dell'anno precedente, in cui poteva e soleva anche
più ordinariamente correre l'_Indizione XIII_. Al vedere che
_Ildebrando_ è chiamato solamente _abbate di san Paolo_, potrebbe far
sospettare adoperato qui l'anno pisano.

NOTE:

[841] Ughellius, Ital. Sacr., tom. 3.

[842] Leo Ostiensis, Chronic., lib 3, cap. 15.

[843] Antiquit. Ital., Dissert. LXX.

[844] Labbe, Concil., tom. 9.

[845] Guilliel. Apul., lib. 2 Poem.

[846] Gaufrid. Malaterra, lib. 1, cap. 3.

[847] Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 213.

[848] Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 16.

[849] Curopalata, in Histor.

[850] Bullarium Casinense, Constit. CII et CIII.

[851] Antiquit. Ital., Dissert. LXXII.



    Anno di CRISTO MLXI. Indizione XIV.

    ALESSANDRO II papa 1.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 6.


In quest'anno ancora il pontefice _Niccolò II_ volle visitar la chiesa
di Firenze ch'egli aveva ritenuta e governata anche durante il suo
pontificato; ma quivi venne a trovarlo la morte circa il dì 22 di
luglio: pontefice benemerito della santa Sede, e degno di maggior vita.
Tanto più fu deplorabile la perdita di lui, perchè le tennero dietro de'
gravissimi sconcerti, che furono preludii anche d'altre maggiori
calamità. Attesta Leone Ostiense[852] che gran dissensione e tumulto
insorse in Roma intorno all'elezione di un novello papa; ed è certo che
restò vacante la sedia di san Pietro circa tre mesi. V'era un partito
che tenea per l'osservanza delle prerogative o pretese accordate al re
di Germania _Arrigo_; ed un altro che escludeva ogni dipendenza da lui.
Di quest'ultimo probabilmente era capo l'intrepido cardinale
_Ildebrando_, arcidiacono della santa romana Chiesa, a cui non piacque
mai che gl'imperadori avessero ingerenza alcuna nell'approvazione, non
che nell'elezione dei sommi pontefici. Capi dell'altro, per quanto
ragionevolmente va congetturando il cardinal Baronio, erano i conti di
Tuscolo, ossia di Frascati, mal soddisfatti di quanto avea operato
contra di loro il defunto papa Niccolò. Se vogliamo ascoltare il
Continuatore di Ermanno Contratto[853], dopo la morte d'esso papa,
_Romani coronam, et alia munera Enrico regi transmiserunt, eumque pro
eligendo summo pontifice interpellaverunt_. Tale spedizione dovette
essere fatta dalla fazione de' suddetti conti Tuscolani. Non mancò il
collegio dei cardinali di spedire anch'esso un'ambasciata alla real
corte di Germania[854], e fu scelto per tale incumbenza Stefano, uno dei
più accreditati fra loro, in cui concorreva

    _Nobilitas, gravitas, probitas et mentis acumen._

Andò questi, ma per la cabala e malvagità dei cortigiani sette giorni
passeggiò l'anticamera del re senza poter vedere la di lui faccia, nè
presentargli le lettere credenziali. Veduta ch'egli ebbe questa mala
aria, sene tornò indietro a Roma, dove rappresentò l'incivil trattamento
che gli era stato fatto. Allora fu che il cardinale Ildebrando, tenuto
consiglio cogli altri cardinali e coi nobili romani del suo partito,
propose di eleggere papa _Anselmo da Badagio_, di patria milanese, e
vescovo allora di Lucca, uomo di gran bontà e zelo ecclesiastico, e che
forse non s'aspettava questa promozione. Chiamato a Roma, venne
immediatamente consecrato ed intronizzato col nome di _Alessandro II_,
senza voler aspettare consenso alcuno dal re Arrigo. E qui appunto
tornarono i Romani ad esercitare l'intera loro libertà nell'elezion de'
sommi pontefici, con ricuperare eziandio l'altra di non aspettar
l'assenso degli Augusti per la consecrazione: indipendenza mantenuta poi
fino a' dì nostri, quando, per tanti secoli addietro, sotto
gl'imperadori greci, franchi e tedeschi, era durato il costume, o
diciamo, se così si vuole, l'abuso, che l'elezion bensì restasse libera
al clero e popolo romano, ma che non si devenisse alla consecrazione
senza il beneplacito e l'approvazione degli Augusti. Avea il solo
predefunto _Arrigo II_ fra gl'imperadori oltrepassato i confini de' suoi
predecessori, con obbligare i Romani che neppur potessero eleggere il
novello papa senza il consentimento suo. Da Niccolò II era stato
ultimamente corretto questo eccesso, con tornar le cose al rito antico.
Ma i Romani, offesi del poco conto che s'era fatto alla regal corte di
Stefano cardinale loro ambasciatore, neppur vollero accomodarsi al
decreto d'esso papa Niccolò, decoroso anche pel re Arrigo, perchè
risoluti di rompere ogni catena, e di ricuperar la piena lor libertà in
fare i papi, praticata sempre mai ne' primi quattro secoli della Chiesa.
Nè già operarono senza aver ben preparati i mezzi umani per sostener la
loro risoluzione. Era in lor favore _Gotifredo duca_ di Toscana,
principe allora potentissimo in Italia. Faceano anche capitale del
soccorso de' Normanni, che aveano giurata fedeltà alla Sede apostolica;
e più ne faceano di _Riccardo principe_ di Capoa, divenuto anch'esso
vassallo della Chiesa romana. Sappiamo da Leone Ostiense[855] che
_Desiderio_ abbate di Monte Casino e cardinale se ne andò in tal
congiuntura a Roma _cum principe_. Credette il cardinal Baronio[856] che
questo principe fosse Roberto Guiscardo. Ma si dee intendere di
_Riccardo_, nel cui principato era Monte Casino. Roberto s'intitolava
allora _duca_, e non principe.

Ora appena giunse alla corte germanica l'avviso dell'eletto ed
intronizzato _Alessandro II_, che l'_imperadrice Agnese_ ne restò
amareggiata, e i suoi ministri diedero nelle smanie, esagerando
l'affronto fatto al re col non aver voluto aspettare il suo assenso, e
coll'essersi messo sotto i piedi il decreto di papa Niccolò, sul quale
unicamente si potea fondare la pretension di Arrigo: giacchè solamente
chi era imperadore coronato avea in addietro avuta mano nell'approvazion
de' papi eletti, e non già chi era unicamente re d'Italia, come in
questi tempi veniva riconosciuto Arrigo IV, benchè non per anche avesse
ricevuta la corona di questo regno. Degno nondimeno di osservazione è,
che in alcune lettere e diplomi Arrigo IV non per anche imperadore usa
il titolo di _Romanorum rex_: il che vuol significar qualche cosa, nè si
truova usato da' suoi predecessori. Accadde in questo mentre che i
vescovi di Lombardia dopo la morte di papa Niccolò II fecero broglio fra
loro per aver un papa di tempra men rigoroso dei precedenti zelantissimi
papi, il quale sapesse un po' più compatire le lor simonie ed
incontinenze, e con dire una ridicolosa proposizione, cioè che il papa
non si dovea prendere, _nisi ex paradiso Italiae_, cioè della
Lombardia[857]. Spedirono a tal fine in Germania alcuni dell'ordine
loro, affinchè si maneggiassero per ottener questo intento. Ora
trovandosi un gran caldo in quella corte, e soffiando in quel fuoco _Ugo
Bianco_, già cardinale, e poi ribello della Chiesa romana, non fu loro
difficile il proporre e far dichiarare papa, cioè antipapa, contra tutte
le regole, nella festa de' santi Simeone e Giuda, _Cadaloo_, chiamato
_Cadalo_, vescovo di Parma, uomo ricco di facoltà, ma più di vizii, che
si dicea condannato in tre concilii a cagion della sua vita troppo
contraria al carattere di sacro pastore. Ne fecero perciò gran festa
tutti i simoniaci e concubinarii di Lombardia. Le scene occorse dipoi si
veggono descritte dalla penna satirica di _Benzone_, il quale s'intitola
_vescovo d'Alba_ nel Monferrato, ma vescovo scismatico, che forse non
dovette mai essere ricevuto da quel popolo, e perciò neppure fu
conosciuto dall'Ughelli. Era costui gran partigiano dell'antipapa
Cadaloo. Il panegirico da lui fatto ad Arrigo IV, che fu dato alla luce
dal Menchenio[858], e da me vien creduto la stessa opera che Gualvano
Fiamma[859] circa l'anno 1335 citò sotto nome di _Chronica Benzonis
episcopi albensis_, è una stomacosa satira contra di papa Alessandro II
e d'Ildebrando cardinale, sostegno in questi tempi della Chiesa romana,
da mettersi coll'altra infame e piena di bugie che abbiamo di Bennone
falso cardinale, e ribello della Chiesa romana. Narra esso Benzone
d'essere stato inviato per ambasciatore del re Arrigo a Roma, per
intimare a papa Alessandro la ritirata dal trono pontificio, ma con
trovar ivi chi non avea paura. In tale stato eran gli affari della
Chiesa romana in questi tempi.

Intanto dopo la conquista della Calabria il valoroso _conte Ruggieri_
mirava con occhio di cupidigia ed insieme di compassione la vicina
misera Sicilia posta sotto il giogo degli empii Saraceni, e cominciò a
meditarne la conquista[860]. La buona fortuna portò che si rifuggì
presso di lui in Reggio Benhumena, ammiraglio saraceno della Sicilia,
maltrattato e perseguitato da Bennameto, uno de' principi di
quell'isola. Questi gli fece conoscere assai facili i progressi in
Sicilia, dacchè essa era divisa fra varii signorotti mori, ed offerì il
suo aiuto per l'impresa. Ruggieri adunque sul fine del carnovale
dell'anno presente con soli centosessanta cavalli passò il Faro per
ispiar le forze de' Mori nell'isola, diede una rotta ai Messinesi, fece
gran bottino verso Melazzo e Rameta; poi felicemente si ricondusse in
Calabria, dove per tutto il mese di marzo e d'aprile attese a far
preparamenti per portare la guerra in Sicilia. A questa danza invitato
il duca _Roberto Guiscardo_ suo fratello[861], colà si portò con buon
nerbo di cavalleria, ed anche con un'armata navale. Presentivano
veramente i Mori la disposizione dei due fratelli normanni, e però
accorsero da Palermo con una flotta assai più numerosa per impedire il
loro passaggio. Ma l'ardito Ruggieri con cento cinquanta cavalli per
altro sito passò lo Stretto, e trovata Messina con poca gente, perchè i
più erano iti nelle navi moresche, se ne impadronì: il che fece ritirar
le navi nemiche, e lasciò aperto il passaggio a quelle di Roberto
Guiscardo, il quale colà sbarcò colle sue soldatesche. Nel testo di
Gaufrido ossia Goffredo Malaterra questa sì gloriosa conquista per cui
dopo 230 anni si rialberò la croce nella città di Messina, si vide
riferita all'anno precedente 1060. Ma io credo fallato quell'anno,
portando la serie del racconto che la presa di Messina accadesse
nell'anno presente. Venne poi un grosso esercito di Mori e Siciliani,
raunato da Bennameto, ad assalire il picciolo de' Normanni, ma restò da
essi sbaragliato colla morte di diecimila di quegl'infedeli. Non è già
vietato il credere assai meno. Diedero il sacco dipoi i due fratelli
principi normanni a varie castella e contrade di quell'isola sino a
Girgenti, colla presa di Traina, finchè, venuto il verno, si ritirarono
a' quartieri. Se crediamo a Lupo Protospata[862], in quest'anno ancora
Roberto Guiscardo s'insignorì d'Acerenza. Ma probabilmente ciò avvenne
l'anno antecedente, al vedere che questo scrittore mette all'anno
seguente l'innalzamento al pontificato di Alessandro II, che pure
appartiene all'anno presente.

NOTE:

[852] Leo Ostiensis., lib. 3, cap. 21.

[853] Continuator Hermanni Contracti, in Chron.

[854] Petrus Damianus, Opuscul. 4.

[855] Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 21.

[856] Baron., Annal. Ecclesiast.

[857] Cardinal. de Aragon., Vit. Alexandr. II, P. II, tom. 3 Rer. Ital.

[858] Menckenius, Rer. Germanicar., tom. 1.

[859] Galvaneus Flamma, in Politia MSta.

[860] Gaufridus Malaterra, lib. 2, cap. 1. Noweirius, in Hist. Arab.
Siciliae apud Pagium.

[861] Malaterra, lib. 2, cap. 8.

[862] Lupus Protospata, in Chronico.



    Anno di CRISTO MLXII. Indizione XV.

    ALESSANDRO II papa 2.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 7.


Null'altro avea fatto nel verno di quest'anno l'antipapa Cadaloo che
ammassar gente armata e danaro per passare a Roma con disegno di
cacciarne il legittimo successor di san Pietro, e di farsi consecrare,
se crediamo al continuator d'Ermanno Contratto[863]. Alcuni il
pretendono già ordinato papa, perchè vescovo egli era, e che avesse
assunto il nome di Onorio II, ma ne mancano le prove. E s'egli non mutò
nome, segno è che neppur fu colle cerimonie ordinato pontefice. Con tali
forze arrivò Cadaloo a Roma nel dì 14 di aprile (Benzone scrive che vi
giunse _VIII kalendas aprilis_), e si accampò coll'esercito suo nei
prati di Nerone. Nella Vita di papa _Alessandro II_, a noi conservata
dal cardinal d'Aragona[864], troviamo che molti capitani e nobili romani
guadagnati coll'oro si dichiararono del partito di Cadaloo; ciò vien
confermato da Leone Ostiense[865] e dall'autore di un'altra Vita di esso
papa Alessandro[866], da cui impariamo che molti giorni dopo la
esaltazion di esso papa, _Romani, quorum mala consuetudo semper fuit,
eum odio habere coeperunt_, e furono essi gl'incitatori della venuta di
Cadaloo. Uno de' principali, ma volpe vecchia, era Pietro di Leone, la
cui famiglia fece anche dipoi gran figura in Roma. Da Benzone[867] è
chiamato _Giudeo_: il che probabilmente vuol dire che era nato tale, ma
poi fatto cristiano. Non mancavano in Roma a papa Alessandro degli
aderenti ed affezionati, e verisimilmente aveva egli anche procurato
degli aiuti da _Riccardo principe_ di Capua. Si venne dunque ad una
battaglia, che riuscì sanguinosa, e finì colla peggio della fazione del
legittimo papa. Poco nondimeno durò l'allegrezza di Cadaloo, perchè
chiamato a Roma _Gotifredo duca_ di Toscana, comparve colà in aiuto del
pontefice Alessandro con sì numerose squadre e forze tali, che restò
come assediato l'antipapa; e se volle uscirne salvo, gli convenne
adoperar preghiere e grossi regali col duca, il quale si contentò di
lasciargli aperta la porta per tornarsene libero, ma spogliato e colla
testa bassa, a Parma. Benzone descrive a lungo questi fatti, ma se con
fedeltà, nol saprei dire. Certamente da san Pier Damiano vien sospettato
che il duca Gotifredo non operasse con tutta lealtà ed onoratezza o in
questa o nelle seguenti congiunture. All'incontro Benzone scrive che il
medesimo duca fece venire i Normanni a Roma a difesa del papa;
_Camerinum et Spoletum invasit_ (il che è degno d'attenzione), _plures
Comitatus juxta mare tyrannice usurpavit. Per totam Italiam, quos
voluit, ad regis inimicitias incitavit._ Aggiugne inoltre, essere egli
stato quegli che mosse _Annone arcivescovo_ di Colonia a rapire il
giovinetto _re Arrigo_. E Lamberto da Scafnaburgo[868] osserva, come
fosse scandaloso il vedere che laddove anticamente si fuggivano i
vescovati, ora si faceano battaglie, e si spargeva il sangue cristiano
per conseguirli: e vuol dire del papato. Ho detto che _Annone_ rapì
Arrigo IV. Intorno a che si ha da sapere che fin qui esso re era stato
sotto il governo dell'_imperadrice Agnese_, la quale regolava gli affari
unicamente coi consigli di _Arrigo vescovo_ di Augusta, personaggio ben
accorto, che, ad esclusion degli altri pretendenti, avea saputo
introdursi nella grazia di lei. Era savia, era pia principessa Agnese:
tuttavia non potè schivar la maldicenza degli altri principi invidiosi
della fortuna del vescovo augustano, perchè sparsero voce d'illecita
familiarità fra lei e quel prelato. Il perchè Annone arcivescovo di
Colonia, col consenso di molti altri principi, tolse all'Augusta madre
il giovinetto Arrigo, ed assunse colla di lui tutela il governo degli
Stati. La maniera da lui tenuta per far questo colpo la sapremo fra
poco, richiedendo ora la voce sparsa contro l'onor dell'imperadrice
Agnese, che io premunisca i lettori con avvertirli della malvagità che
allora più che mai era in voga. Facile è l'osservare che i tempi di
guerra son tempi di bugie; ma non si può dire abbastanza, quanto larga
briglia si lasciasse in queste e nelle seguenti discordie fra il
sacerdozio e l'imperio, alla bugia, alla satira, alla calunnia. Le più
nere iniquità s'inventarono e sparsero dei papi, de' cardinali, de'
vescovi da chi era loro contrario; ed altre vicendevolmente si
spacciarono dai mal affetti contra di Arrigo IV e di tutti i suoi
aderenti. Però sta ai prudenti lettori il camminar qui con gran
riguardo, prestando solamente fede a ciò che si trova patentemente
avverato dalla misera costituzion d'allora.

Nè già si può fallare in credendo che Arrigo IV si scoprì col tempo
principe d'indole cattiva, incostante e violento, e che tutti i vizii
presero in lui gran piede per qualche difetto della madre, ma più per
l'educazion seguente; e che la vendita de' vescovati, delle abbazie e
dell'altre chiese, cioè la simonia, era un mercato ordinario di que' sì
sconcertati tempi, per colpa specialmente della corte regale di
Germania, in cui più potea l'amore dell'oro che della religione, e
troppo regnava l'abuso, non però nato allora, di uguagliar lo spirituale
al temporale. Ora, o sia che i maneggi segreti della corte di Roma, o
quei del duca Gotifredo disponessero in Germania un ripiego per liberar
la Chiesa dalla vessazione dell'indegno Cadaloo; oppure che il suddetto
Annone arcivescovo, prelato tenuto in concetto di santa vita, con altri
principi lo trovasse ed eseguisse, per mettere fine allo scisma: certo
è, che in quest'anno, essendo ito esso arcivescovo pel Reno a visitare
il re Arrigo, giovane allora di circa tredici anni, dopo il desinare
l'invitò a veder la nave suntuosissima che l'avea condotto colà. Vi
andò, di nulla sospettando il semplice giovanetto, ed entrato che fu, si
diede tosto di mano ai remi. Sorpreso da quest'atto il picciolo re,
temendo che il conducessero a morire, si gettò nel fiume; ma fu salvato
dal conte Ecberto, che saltò anche esso nell'acqua. Su quella nave
adunque pacificato con carezze fu condotto a Colonia, dove restò sotto
il governo di quel saggio prelato, al quale dai principi ne fu accordata
la tutela. L'imperadrice Agnese, trafitta da questo inaspettato colpo, e
ravveduta de' falli commessi in patrocinar l'antipapa, determinò di dare
un calcio al mondo, e passando dipoi a Roma, accettò la penitenza che le
fu data da papa Alessandro II. Per testimonianza di san Pier
Damiano[869], non tardò l'arcivescovo di Colonia Annone a dare, per
quanto era in sua mano, la pace alla Chiesa; perciocchè, raunato un
concilio in Osbor, dove intervennero lo stesso re Arrigo e una gran
copia di vescovi oltramontani ed italiani, nello stesso dì 28 di
ottobre, in cui Cadaloo era stato nell'anno precedente eletto contro i
canoni papa, fu egli anche deposto, o, per dir meglio, riprovato e
condannato. Avea precedentemente il medesimo Pier Damiano scritta una
lettera di fuoco al predetto Cadaloo, chiudendola con alcuni versi, e
dicendo in fine[870]: _Diligenter igitur intende, quod dico_:

    _Fumea vita volat, mors improvisa propinquat,_
    _Imminet expleti praepes tibi terminus aevi._
    _Non ego te fallo: caepto morieris in anno._

Visse anche dopo l'anno predetto Cadaloo. Pier Damiano, veggendo che non
avea colto nella predizione, cercò uno scampo, con dire ch'egli s'era
inteso della morte civile, cioè della di lui deposizione, e non già
della morte naturale. Se i suoi versi ammettano tale scappata, non tocca
a me il giudicarne. Certo confessa egli che per questo gli fecero le
risa dietro i suoi avversarii. Levò ancora esso arcivescovo Annone il
posto di cancelliere d'Italia a _Guiberto_, che parimente col tempo
divenne arcivescovo di Ravenna ed antipapa, e lo diede a _Gregorio
vescovo_ di Vercelli, uomo nondimeno macchiato anch'esso di vizii: il
che fa conoscere che il re Arrigo, benchè non per anche coronato in
Italia, pur ci era riconosciuto per padrone.

Non so io già se in questi tempi sia ben regolata la cronologia di Lupo
Protospata. Ben so aver egli scritto[871] che _Roberto Guiscardo_ duca
s'impadronì in quest'anno della città d'Oria, e di nuovo prese Brindisi,
e lo stesso miriarca (forse il suo governatore). È da vedere ancora, se
appartenga all'anno presente, come ha il testo di Gaufrido
Malaterra[872] la discordia insorta fra esso duca Roberto e il _conte
Ruggieri_. Benchè Roberto promesso avesse ad esso suo fratello di
cedergli la metà della Calabria, pure non si veniva mai a questa
sospirata cessione. A riserva di Melito, che era in man di Ruggieri, in
tutto il resto delle conquiste l'ambizioso ed insaziabil Roberto la
facea da signore. Però Ruggieri, presa occasione dal recente suo
matrimonio, fece istanza a Roberto per l'esecuzion delle promesse,
affine di poter dotare decentemente la nuova sua sposa _Erimberga_,
chiamata da altri _Delizia_, o _Giuditta_. Ricavandone solo parole, e
non fatti, si ritirò forte in collera da lui, e gli intimò la guerra, se
in termine di quaranta giorni nol soddisfacea. La risposta che gli diede
Roberto, fu di portarsi coll'armata ad assediarlo in Melito. Ma con
tutte le prodezze fatte dall'una e dall'altra parte, nulla profittò
Roberto. Anzi Ruggieri, uscito una notte di Melito, gli occupò la città
di Gierace per trattato fatto con quei cittadini. Allora Roberto tutto
fumante d'ira corse all'assedio di Gierace; e siccome personaggio
d'incredibile ardire, una notte ben incappucciato (che già era in uso il
cappuccio anche fra i secolari) segretamente fu introdotto nella città
da uno di questi potenti cittadini per nome Basilio. Per sua
disavventura restò scoperto, e preso a furia di popolo; vide poco di poi
trucidato Basilio, impalata sua moglie, e si credeva anch'egli spedito.
Con belle parole gli riuscì di fermar la furia del popolo, e fu cacciato
in prigione. Ne andò la nuova all'esercito suo; ma non sapendo che si
fare i suoi capitani per liberarlo, miglior consiglio non seppero
trovare che di spedirne incontanente l'avviso al conte Ruggieri,
scongiurandolo che accorresse per salvare il fratello. Non si fece
pregare il magnanimo Ruggieri; corse tosto co' suoi a Gierace, e
chiamati fuor della città i capi, tanto disse colle buone e colle
minaccie, che fece rimettere in libertà il fratello. Questo accidente e
la costanza di Ruggieri produsse buon effetto, perchè dopo qualche tempo
Roberto gli accordò il dominio della metà della Calabria. Passò dipoi
Ruggieri in Sicilia, dove essendosi ribellato da lui il popolo di
Traina, fece delle maraviglie di patimenti e di bravure contra di quei
cittadini e dei Saraceni accorsi in loro aiuto, tantochè ne riacquistò
veramente la signoria. Crede Camillo Pellegrini[873] che _Riccardo I
conte_ di Aversa, figliuolo di Ascilittino normanno, e non già fratello
di Roberto Guiscardo duca, come immaginarono il Sigonio e il padre Pagi
all'anno 1074, occupasse fin l'anno 1058 il principato di Capoa, citando
sopra di ciò l'Ostiense[874]. A quell'anno ancora nella Cronichetta
amalfitana[875] è scritto che Riccardo fu creato _principe di Capoa_
insieme con suo figlio _Giordano_. Certo è bensì che Niccolò II papa
nell'anno 1059, gli concedette l'investitura di quel principato, ma non
apparisce che ne fosse allora totalmente in possesso. Imperciocchè è da
sapere che, secondo il suddetto Ostiense, invogliatosi tempo fa Riccardo
di quella bella contrada, messo l'assedio a Capoa, vi fabbricò tre
bastie all'intorno. Ma _Pandolfo V_ principe, che v'era dentro, collo
sborso di settemila scudi d'oro l'indusse a ritirarsene. Mancato poi di
vita esso Pandolfo (non so in qual anno), e succedutogli _Landolfo V_
suo figliuolo, eccoti di nuovo Riccardo colle sue armi sotto Capoa.
Tanto la strinse, che si venne nell'anno presente ad una capitolazione,
per cui Landolfo se n'andò via ramingo, e i cittadini riceverono per
loro principe Riccardo, ma con ritenere in lor potere le porte e le
torri della città. Dissimulò per allora l'accorto Riccardo, e
contentossi di questo. Poi rivolte le sue armi all'acquisto delle città
e castella di quel principato, gli riuscì nello spazio di quasi tre mesi
d'insignorirsi di tutto. Ciò fatto, intimò a' Capuani la consegna delle
torri e porte, e perchè gliela negarono, strettamente assediò quella
città. Spedirono bensì i Capuani al re Arrigo in Germania il loro
arcivescovo per ottener soccorso; ma non avendo egli riportato se non
parole, furono dalla fame astretti a far le voglie di Riccardo, _anno
dominicae Incarnationis MLXII quum jam per decem circiter annorum
curricula Normannis viriliter repugnassent._ Però, quantunque esistano
più diplomi di questo principe, da' quali costa aver egli assunto fin
dall'anno 1058, o 1059, il titolo di principe di Capoa, con associar
ancora _Giordano I_ suo figliuolo al dominio; nientedimeno solamente in
quest'anno egli ottenne la piena e libera signoria di quel principato.
Così cessò di regnare anche ivi la schiatta de' principi longobardi, e
sempre più crebbe la potenza de' principi normanni. Da lì a poco,
attaccatosi una notte il fuoco alla città di Tiano, probabilmente con
premeditato consiglio, v'accorse nel mattino seguente Riccardo, e colla
fuga di que' conti se ne impossessò. Parimente scrive Romoaldo
Salernitano[876] che in quest'anno esso principe _intravit terram
Campaniae, obseditque Ceperanum, et usque Soram devastando pervenit._ Ci
ha conservata l'autore della Cronichetta amalfitana[877] una notizia;
cioè che, per ordine dell'imperadore, _Gotifredo marchese_ e duca di
Toscana col suo esercito venne contra di Riccardo, e che seguirono fra
loro varii fatti d'armi presso di Aquino, in guisa tale che fu obbligato
Gotifredo a tornarsene indietro con poco suo gusto e men guadagno.

NOTE:

[863] Continuator Hermanni Contracti, in Chron.

[864] Card. de Aragon., Vit. Alexandri II, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[865] Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 21.

[866] Vit. Alexandri II, P. II, tom. 3 Rer. Ital.

[867] Benzo, in Panegyric. Henrici IV, tom. 1 Rer. Germ., Menchenii.

[868] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[869] Petrus Damian., Opusc. 4 et in Opusc. 18.

[870] Petrus Damian., lib. 1, Epist. 20, et in Opusc. 18.

[871] Lupus Protospata, in Cronico.

[872] Gaufrid. Malaterra, lib. 2, cap. 21.

[873] Camillus Peregrinius, Hist. Princip. Langobard.

[874] Leo Ostiensis, Chron., lib. 3, cap. 16.

[875] Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 213.

[876] Romualdus Salernitanus, Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[877] Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 213.



    Anno di CRISTO MLXIII. Indizione I.

    ALESSANDRO II papa 3.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 8.


Fioriva in questi tempi _Giovanni Gualberto_ abbate, istitutore de'
monaci di Vallombrosa[878], personaggio di sommo credito per la santità
de' suoi costumi, non meno entro che fuori della Toscana. Era stato
creato vescovo di Firenze _Pietro_ di nazione pavese; e perciocchè
allora dappertutto faceva grande strepito il vizio della simonia, i
monaci vallombrosani, sospettando ch'egli fosse entrato nella sedia
episcopale mediante il danaro, cominciarono a diffamarlo per simoniaco,
e mossero un gran tumulto nel popolo di quella città. Andrea monaco
genovese[879] lasciò scritto, che portatosi da Roma a Firenze Teuzone
Mezzabarba per visitare il vescovo suo figliuolo, i furbi Fiorentini con
interrogazion suggestiva gli dimandarono, quanto avesse pagato per
ottener la mitra a Pietro; e che il buon Lombardo confessasse di avere
speso tremila libbre in regalo al re _Arrigo IV_ per sortire il suo
intento. Ma avendo questo monaco scritta quella vita nell'anno 1419,
siccome osservò il padre Guglielmo Cupero della compagnia di Gesù, e
nulla di questa importante particolarità parlando gli autori più
antichi, si può ben sospenderne la credenza. Era dubbiosa la simonia di
quel vescovo, e tale non sarebbe stata se si fosse potuto allegar la
confession di suo padre. Certo è che i monaci suscitarono fieramente il
popolo contra del vescovo, e andarono sì innanzi, che san _Pier Damiano_
mosso dal suo zelo impugnò la penna contra di loro. Anche il _duca
Gotifredo_ sosteneva il vescovo e minacciava di far ammazzare e monaci e
cherici che contrariassero a quel prelato, e gli levassero l'ubbidienza.
Fu inviato appunto colà dal _pontefice Alessandro_ esso santo Pier
Damiano per procurar di estinguere un sì pericoloso incendio. In vece di
pacificar gli animi di quella gente, diede ansa a que' monaci di
sparlare anche di lui, quasichè fosse fautore de' simoniaci, e
specialmente gli tagliò i panni addosso uno dei più arditi di loro per
nome Teuzone, ubbriaco di uno zelo indiscreto. Ma qui non finì la
faccenda, siccome vedremo. Benchè in Germania fosse stato riprovato
l'antipapa Cadaloo, pure costui non si arrendeva in Italia. Anzi
nell'anno presente, raunata nuova gente e dei buoni contanti,
spalleggiato dai vescovi allora sregolati della Lombardia, si avviò di
nuovo alla volta di Roma, sperando maggior fortuna che nell'anno
precedente[880]. Ci fu sospetto che Gotifredo duca di Toscana
segretamente il favorisse. Certo è che non gli mancarono assistenze in
Roma stessa, perchè molti de' nobili romani si dichiararono per lui. Gli
fu dunque aperto l'adito nella città leonina; anzi dicono che gli fu
consegnata anche la fortezza di Castel Sant'Angelo. _Tempore post alio
quorumdam ex urbe ope et Consilio Romam, quam novam perhibent,
ingressus, conscendit arcem Crescentii_: così ancora Arnolfo storico
milanese[881], che allora scriveva le storie sue. Ma ciò pare che
succedesse in altra forma, siccome dirò. Sappiamo bensì ch'egli
s'impadronì al suo arrivo della basilica vaticana, ma non già resta
notizia ch'egli vi prendesse colle cerimonie il manto papale, secondo il
costume; perchè appena s'udì in Roma come egli v'era entrato, che la
mattina seguente diede alle armi il popolo romano, e corso colà in
furia, tal terrore cacciò in corpo ai soldati di lui, che presero
vilmente la fuga, e lasciarono il loro idolo solo soletto. Sarebbe
caduto Cadaloo in mano de' Romani, se non fosse stato Cencio figliuolo
del prefetto di Roma, uomo di perduta coscienza, che allora l'accolse
nella fortezza di Crescenzio, cioè in Castello Sant'Angelo, e gli
promise assistenza. Quivi restò l'antipapa assediato dai Romani per ben
due anni, con sofferirvi stenti ed affanni incredibili: degno pagamento
della smoderata ed empia sua ambizione. Un concilio di cento vescovi fu
in quest'anno tenuto da papa Alessandro II, dove furono fatti varii
decreti contra de' simoniaci e de' preti concubinarii. Ne esistono
alcuni atti presso il cardinal Baronio[882] e nelle raccolte de'
concilii.

Intanto in Germania crescevano gli abusi, profittando ogni prepotente
dell'età immatura del re Arrigo IV[883]. L'educazione di lui fu sul
principio appoggiata agli arcivescovi di Colonia e Magonza, cioè ad
_Annone_ e _Sigefredo_. Ma loro tolse la mano _Adelberto_ arcivescovo di
Brema, che coll'arte dell'adulazione si rendè arbitro del giovanetto re,
ed occupò in tal maniera due delle migliori abbazie di Germania. Per far
poi tacere gli altri, due ancora ne diede all'arcivescovo di Colonia,
che non si fece scrupolo di questo, ed una a quel di Magonza, ed altre
ai duchi di Baviera e di Suevia, cioè ad Ottone e Ridolfo. Così mal
allevato il re, non è maraviglia se andò crescendo in que' vizii che
tanto diedero poi da sospirare ai buoni. Secondochè abbiamo da Lupo
Protospata[884], in quest'anno _Roberto Guiscardo_ duca di Puglia e
Calabria tolse ai Greci la città di Taranto. Ma neppure stava in ozio il
valoroso conte _Ruggieri_ di lui fratello in Sicilia. Per attestato del
Malaterra[885], in questo medesimo anno formarono i Musulmani mori e i
Siciliani un potente esercito, e vennero ad accamparsi presso al fiume
Ceramo. Erano circa trenta cinque mila, e il conte non avea che cento
trenta sei cavalli, ossieno pedoni, da opporre a sì gran piena di gente.
Contuttociò, implorato l'aiuto di Dio e spedito innanzi Serlone suo
nipote, diede loro addosso, e in poco d'ora mise in iscompiglio e fuga
quegl'infedeli. Fu detto che comparve un uomo di rilucenti armi guernito
sopra bianco cavallo, con bandiera bianca sopra d'un'asta, che si cacciò
dove erano più folte le schiere de' nemici, e fu creduto san Giorgio.
Quindici mila di coloro rimasero estinti sul campo; nel dì seguente
volarono i Cristiani alla caccia di venti mila pedoni, che s'erano
salvati colla fuga nelle montagne e nelle rupi, e per la maggior parte
gli uccisero. Si può ben temere che Gaufrido Malaterra monaco, il quale
solamente per relazione altrui scrisse queste cose dopo molti anni, si
lasciasse vendere delle favole popolari in formar questo racconto che ha
troppo dell'incredibile, ed egli perciò se volle concepirlo, fu
obbligato a ricorrere ai miracoli. La vittoria nondimeno è fuor di
dubbio; le spoglie de' nemici furono senza misura; e il conte avendo
trovato fra esse quattro cammelli, li mandò in dono a papa Alessandro,
il quale si rallegrò assaissimo di così prosperosi avvenimenti contra
de' nemici della croce, e spedì anch'egli a Ruggieri la bandiera di san
Pietro, per maggiormente animarlo a proseguir quell'impresa.
Trafficavano in questi tempi i mercatanti pisani in Sicilia,
massimamente in Palermo, città capitale, piena allora di ricchezze.
Avendo essi ricevute varie ingiurie da que' Mori, raunarono una possente
flotta per farne vendetta, ed esibirono la loro alleanza al conte
Ruggieri per assediar Palermo, essi per mare, ed egli per terra. Ma
perciocchè non potè così presto Ruggieri accudire a quell'impresa, a
vele gonfie andarono ed urtar nella catena che serrava il porto di
Palermo, e la ruppero. Entrati nel porto, se crediamo agli Annali
pisasi[886], _Civitatem ipsam ceperunt._ Ma ciò non sussiste. Il
Malaterra ci assicura essere accorsa tanta moltitudine di Musulmani e
cittadini per difesa della città, che i Pisani, contenti di portar via,
come in trionfo, la catena spezzata, se ne tornarono a casa. Egli è
bensì fuor di dubbio ch'essi, trovate in quel porto sei navi di ricco
carico, cinque ne diedero alle fiamme, e la più ricca seco menarono a
Pisa, del cui immenso tesoro si servirono dipoi per dar principio alla
magnifica fabbrica del loro duomo. Di questa gloriosa impresa resta
tuttavia la memoria in versi, incisa in marmo nella facciata di quel
maestoso tempio, che si legge stampata presso molti scrittori. Nè quivi
si parla della presa della città di Palermo, ma sì ben delle navi
bruciate, e della ricchissima menata via: con aggiugnere, che sbarcati
dipoi i Pisani fuor di Palermo, vennero alle mani coll'armata de'
Saraceni, e ne fecero un gran macello; dopo di che, alzate le ancore, se
ne tornarono tutti festeggianti a Pisa. Andò poscia il conte Ruggieri
con dugento soldati, ossieno cavalli, a bottinare verso la provincia di
Grigenti: che questo era il suo mestiere, per poter pagare ed alimentar
la sua gente. Parte dei suoi cadde in un'imboscata di settecento Mori,
che loro tolse la preda, e li mise in fuga. Ma sopraggiunto Ruggieri,
sbaragliò i nemici, e ricuperata la preda, allegramente la condusse a
Traina. Dovette in quest'anno Riccardo, principe normanno di Capoa,
insignorirsi ancora della città di Gaeta, perchè da lì innanzi egli e
Giordano suo figliuolo nei diplomi si veggono intitolati _duchi di
Gaeta_.

NOTE:

[878] Andreas Parmensis, in Vit. S. Johann. Gualberti. Acta Sanctorum
Bolland. ad diem 12 Julii.

[879] Andreas Januensis, in Vit. S. Johaan. Gualberti.

[880] Cardinal. de Aragon., in Vita Alexand. II, P. I, tom. 3 Rer. Ital.
Leo Ostiensis, Chron., lib. 3, cap. 20.

[881] Arnulf., Hist. Mediolanensis., lib. 3, c. 17.

[882] Baron., Annal. Eccl.

[883] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[884] Lupus Protospata, in Chronico.

[885] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital., pag. 168.

[886] Gaufrid. Malaterra, lib. 2, cap. 33.



    Anno di CRISTO MLXIV. Indizione II.

    ALESSANDRO II papa 4.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 9.


Fu creduto in addietro che correndo quest'anno, _Annone arcivescovo_ di
Colonia fosse spedito a Roma per terminare lo scisma, e che
susseguentemente fosse tenuto il famoso concilio di Mantova, in cui
seguì la total depressione di Cadaloo. Ma Francesco Maria
Fiorentini[887], e poscia più profondatamente il padre Pagi[888], han
dimostrato doversi riferire all'anno 1067 tali fatti. Perchè nulladimeno
Lamberto da Scafnaburgo[889] parla sotto quest'anno dell'andata di esso
Annone a Roma, fu il Pagi d'avviso che due volte egli imprendesse tal
viaggio, l'una in questo e l'altra nell'anno suddetto. Ma il racconto di
Lamberto, se si avesse da attendere, porterebbe che Annone fosse venuto
molto prima di questo anno, dacchè egli successivamente narra che
Cadaloo, dopo la partenza di Annone in Italia, tentò la sua fortuna
colle armi contra di papa Alessandro. Nè ci resta vestigio di azione
alcuna fatta in questa prima pretesa venuta di Annone. Però, quanto a
me, credo che questo scrittore imbrogliasse qui il suo racconto, e che
non s'abbia a credere se non un sol viaggio di lui, del quale, parleremo
all'anno 1067. E tanto più perchè tuttavia seguitarono in quest'anno i
Romani a tener bloccato e ristretto Cadaloo in Castello Sant'Angelo. Se
fosse venuto a Roma Annone con commissioni del re, avrebbe messo fine a
quella gara. Per le notizie che accenna il suddetto Fiorentini, veniamo
in cognizione che papa Alessandro, il quale, imitando gli ultimi suoi
predecessori, riteneva tuttavia il vescovato di Lucca, si portò nel
presente anno a visitar quella chiesa, e quivi si fermò per più mesi.
Tolomeo lucchese, vescovo di Torcello[890], racconta una particolarità
degna d'osservazione: cioè che questo papa per maggior sua sicurezza si
ritirò in tempi tali a Lucca, con accordar varii privilegii alla
medesima città. _Nam primo tribuit ei bullam plumbeam pro sigillo
communitatis, ut habet dux Venetorum_ (l'usavano anticamente anche altri
principi). _Ecclesiam sancti Martini_ (cattedrale di Lucca) _speciali
decorat gratia, ut canonicos dictae Ecclesiae mitratos habeat in
processione regulari, et sicut cardinales incedant, sicut Ravennae, et
ecclesiae sancti Jacobi, quae Compostellana vocatur._ Ampliò _Benedetto
XIII_ papa in questi ultimi tempi la dignità di quella chiesa con dare
il titolo di arcivescovo al suo sacro pastore. In quest'anno ancora
_Domenico Contareno_, intitolato _Dei gratia Venetiae Dalmatiaeque dux,
imperialis magister_[891], insieme con Giovanni abbate del monistero dei
santi Ilario e Benedetto, situato _in territorio olivolensi super
flumen, quod dicitur Hune_, concede l'avvocazia di quel sacro luogo ad
Umberto da Fontannive. Dal che si raccoglie che Olivolo, città una volta
episcopale, era in terra ferma. In quest'anno ancora _Adelasia_ ossia
_Adelaide_ marchesana di Susa, e vedova di _Oddone_ ossia _Ottone_
marchese, fondò il monistero di santa Maria di Pinerolo per l'anima
sua[892], _et Manfredi marchionis genitoris mei, et Adalrici episcopi
Barbani mei, et Bertae genitricis meae, et anima domni Oddonis
marchionis viri mei, cujus exitus sit mihi luctus_, ec. Lo strumento fu
stipulato _anno Domini nostri Jesu Christi MLXIV, octavo die mensis
septembris_ nella città di Torino. Perchè non avea per anche Arrigo IV
re ricevuta la corona, perciò di lui non si fa memoria nè in questo
documento, nè in molti altri d'Italia. Abbiamo poi da Lupo
Protospata[893] che in quest'anno la città di Matera venne alle mani del
duca Roberto Guiscardo nel mese d'aprile. Passò egli dipoi con alquante
soldatesche in Sicilia in aiuto del conte Ruggieri suo fratello. Uniti
amendue scorsero senza contrasto l'isola depredando il paese, e
piantarono l'assedio a Palermo. Gran guerra fecero alla lor gente le
tarantole, e dopo aver consumato tre mesi inutilmente sotto quella
città, si ritirarono, ma ricchi assai di bottino.

NOTE:

[887] Fiorentini, Memorie di Matilde, lib. 1.

[888] Pagius, Crit. ad Annal. Baron.

[889] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[890] Ptolomaeus Lucensis, Annal. et Hist. Eccl., lib. 19, tom. II Rer.
Ital.

[891] Antiquit. Italic., Dissert. LXIII.

[892] Guichenon, Hist. Eccl.

[893] Lupus Protospata, in Chron.



    Anno di CRISTO MLXV. Indizione III.

    ALESSANDRO II papa 5.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 10.


Dopo aver sofferto l'antipapa Cadaloo infiniti incomodi ed affanni per
due anni nel Castello di Sant'Angelo, perchè ivi assediato sempre o
bloccato dai Romani, forse perchè si slargò il blocco, o altra via per
fuggire se gli aprì, cercò nell'anno presente di mettersi in
libertà[894]. Ma gli convenne comperarla con trecento libbre d'argento
da quel medesimo Cencio figliuolo del prefetto di Roma, che fin allora
lo avea salvato dalle mani del popolo romano con ricoverarlo in quella
fortezza. Però svergognato segretamente ne uscì; e malconcio di sanità e
senza soldi con un semplice ronzino e un solo famiglio, tanto cavalcò,
che arrivò a Berceto sul Parmigiano, nè più gli venne voglia di veder le
acque del Tevere. Racconta Leone Ostiense[895] che circa questi tempi
_Barasone_ uno dei re della Sardegna fece istanza a _Desiderio
cardinale_ ed abbate di Monte Casino, per aver dei monaci da fondare un
monistero nelle sue contrade. Lo zelantissimo abbate sopra una nave di
Gaeta v'inviò dodici dei suoi religiosi con un abbate, ben provveduti di
sacri arnesi, di libri, di reliquie e d'altre suppellettili. Ma i
Pisani, _maxima Sardorum invidia ducti_, presero e bruciarono quella
nave, e tutto tolsero ai poveri monaci. Ci fa ben vedere questo fatto
che i Pisani non per anche signoreggiavano in Sardegna. Barasone ne
dimandò, e n'ebbe soddisfazion da loro; dopo di che ottenne due altri
monaci da Monte Casino, co' quali fondò un monistero. Altrettanto fece
un altro re di quell'isola chiamato _Torchitorio_, colla fondazione di
un altro monistero. Poscia il papa e il duca Gotifredo tanto operarono,
che i Pisani soddisfecero al monistero casinense, e gli promisero in
avvenire rispetto ed amicizia. L'aver taluno creduto che solamente nel
secolo seguente i giudici della Sardegna prendessero il titolo di re,
viene smentito da questi atti e da altre pruove da me recate nelle
Antichità italiane[896]. Un altro fatto vien raccontato da esso Ostiense
che ci servirà a far conoscere la diversità delle cose umane. Perchè
erano nati degli sconcerti nel monistero dell'isola di Tremiti,
dipendente dal nobilissimo di Monte Casino, il saggio e santo abbate
Desiderio ne levò via Adamo abbate, e diede quell'abbazia a Trasmondo
figliuolo di Oderisio conte di Marsi. Furono imputati quattro monaci
tremitensi dai lor compagni di aver tentata la ribellion di quell'isola.
Di più non ci volle perchè il giovane Trasmondo abbate facesse cavar gli
occhi a tre d'essi, e tagliar ad uno la lingua. Al cuore dell'abbate
casinense Desiderio, uomo pieno di mansuetudine e di carità, fu una
ferita la nuova di questo eccesso, sì per la disgrazia di chi avea
patito, come per la crudeltà di chi avea dato quell'ordine, e
principalmente poi per l'infamia di quel sacro luogo. Però
frettolosamente accorse colà, mise sotto aspra penitenza Trasmondo, e
poscia il cacciò di colà. Ma quel che è da stupire, diverso fu il
sentimento d'_Ildebrando cardinale_ ed arcidiacono allora della santa
romana Chiesa, che fu poi papa Gregorio VII. Sostenne egli che Trasmondo
aveva operato non da crudele, ma da uomo di petto, non aver trattato,
come sel meritavano, que' maligni; e gli conferì anche in premio una
migliore abbazia, cioè la casauriense; anzi da lì a non molto il fece
ancora vescovo di Balva. Era allora il cardinale Ildebrando il mobile
principale della corte pontificia. Nulla si facea senza di lui, anzi
pareva che tutto fosse fatto da lui: tanto era il suo senno, l'attività
e zelo, con cui operava, benchè fosse assai piccolo di statura, e
l'apparenza del corpo non rispondesse alla grandezza dell'animo. Giacchè
il cardinal Baronio[897] non ebbe difficoltà a produrre alcuni acuti
versi di san Pier Damiano, neppur io l'avrò per qui replicarli. Così
egli scriveva al medesimo Ildebrando, suo singolare amico:

    _Papam rite colo, sed te prostatus adoro._
    _Tu facis hunc Dominum: Te facit ille Deum._

In un altro distico, anche più pungente, dice dello stesso Ildebrando.

    _Vivere vis Romae? clara depromito voce:_
    _Plus Domino, papae, quam domno pareo papae._

Il che ci fa conoscere, chi fosse allora il padrone di nome, e chi di
fatti in Roma.

Fu in quest'anno fatto cavaliere il _re Arrigo IV_[898], cioè ricevette
egli l'armi militari dalle mani dell'arcivescovo di Brema con quella
solennità che era da molti secoli in uso, e durò molti altri dappoi. E
fin d'allora si scoprì il suo mal talento contra di _Annone arcivescovo_
di Colonia, perchè gli stava sempre davanti gli occhi il pericolo corso,
allorchè quel prelato il rapì alla madre. Ma per buona fortuna essa sua
madre, cioè l'_imperadrice Agnese_, avendo fatta una scappata da Roma in
Germania, quetò per allora l'animo vendicativo del figliuolo. Attesero
nell'anno presente[899] i due fratelli normanni _Roberto duca_ e
_Ruggieri conte_ ad espugnare qualche castello che tuttavia si sottraeva
al loro dominio nella Calabria. Costò loro quattro mesi l'assedio del
solo di Argel, e convenne in fine ammettere quegli abitanti ad una
discreta capitolazione. In questi tempi il sopraddetto insigne abbate di
Monte Casino e cardinale Desiderio attese indefessamente a fabbricar una
suntuosa basilica in quel sacro luogo[900]: al quale fine chiamò dalla
Lombardia, da Amalfi e da altri paesi, e fin da Costantinopoli, dei
valenti artefici di musaici, di marmi, d'oro, di argento, di ferro, di
legno, di gesso, di avorio e d'altri lavorieri: il che servì ancora ad
introdurre o a propagar queste arti in Italia. Troviamo eziandio che
nell'anno presente seguitava la città di Napoli a riconoscere la
sovranità dei greci Augusti, ciò apparendo da una concession di
beni[901] fatta da _Giovanni II_ arcivescovo di quella città, e da
_Sergio V_, il quale si vede intitolato _eminentissimus cousul et dux,
atque Domini gratia magister militum_. Lo strumento fu stipulato
_imperante domino nostro duce Constantino magno imperatore, anno quinto,
die XXII mensis julii, Indictione tertia, Neapolis_. Se tali note non
son fallate, prima di quel che credette il padre Pagi[902], _Costantino
duca_ ascese sul trono di Costantinopoli. A quest'anno ancora appartiene
un placito pubblicato dal Campi[903], e tenuto nel dì primo di luglio in
Piacenza nella corte propria di Rinaldo messo del signor re, dove _in
judicio residebat domnus Dionisius episcopus sanctae placentinae
ecclesiae, et comes vius comitatu placentino, sive missus domni regis
una cum domnus Cuniberto episcopus sanctae taurinensis ecclesiae_, ec.
Serva ancora questo atto a comprovare il dominio del re Arrigo, tuttochè
non per anche coronato, in Italia; e che anche il vescovo di Piacenza,
al pari di tanti altri prelati, era divenuto conte, cioè governatore
della sua città.

NOTE:

[894] Cardinal. de Aragon., in Vit. Alexandri II.

[895] Leo Ostiensis, Chron., lib. 3, cap. 23.

[896] Antiquit. Italic., Dissert. V et XXXII.

[897] Baron., Annal. Eccles. ad ann. 1061.

[898] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[899] Gaufridus Malaterra, lib. 2, cap. 37.

[900] Leo Ostiensis, Chron., lib. 3, cap. 18 et seq.

[901] Antiquit. Italic., Disset. V.

[902] Pagius, ad Annal. Baron.

[903] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1 Append.



    Anno di CRISTO MLXVI. Indizione IV.

    ALESSANDRO II papa 6.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 11.


Dimenticossi ben presto _Riccardo principe_ di Capoa d'essere vassallo
della santa Sede, e di aver giurata fedeltà ad essa sotto papa Niccolò
II. Egli, a guisa degli altri principi normanni, che mai non si
quetarono finchè non aveano assorbito chi stava loro vicino, e dopo ciò
pensavano ad ingoiar gli altri, a' quali s'erano appressati: veggendo
che tutto gli andava a seconda, cominciò anche a stendere le sue
conquiste sopra le terre immediatamente sottoposte nel ducato romano ai
papi. E Lupo Protospata scrive[904] ch'esso Riccardo _intravit terram
Campaniae, obseditque Ceperanum, et comprehendit eum, et devastando
usque Romam pervenit_. Accostato che si fu a Roma[905], pretese d'essere
dichiarato patrizio, cioè avvocato della Chiesa romana: dignità fino da'
tempi di Pipino re di Francia conservata sempre negl'imperadori, e
dignità che portava seco primato, o almeno gran considerazione
nell'elezione de' romani pontefici. Di questa mena fu avvertito il re
_Arrigo IV_, e per abbatterla, ed insieme con disegno di levar dalle
mani rapaci de' Normanni le terre di san Pietro, e di prendere in tal
occasione la corona dell'imperio dalle mani del papa, unì insieme una
forte armata, e giunse fino ad Augusta, risoluto di calare in Italia. Il
costume era che il marchese di Toscana, allorchè il re germanico era per
venire in queste parti, andasse ad incontrarlo colle sue milizie.
Aspettò Arrigo per qualche tempo che il _duca Gotifredo_ comparisse; ma
non veggendolo mai venire, anzi avvisato ch'egli era ben lontano di là,
tra il dispetto a cagione di questa mancanza, e forse anche per qualche
sospetto della fede di lui, desistè dalla sua spedizione, e se ne tornò
indietro. Intanto esso duca con possente esercito era corso a Roma per
reprimere l'insolenza di Riccardo e de' suoi Normanni. Tale era il
credito del duca Goffredo, tali le forze sue, che i Normanni sbigottiti
si ritirarono più che di fretta, abbandonando la Campania romana; se non
che Giordano figliuolo del suddetto Riccardo con un buon corpo di gente
si fortificò in Aquino per far testa all'armata nemica. Presentossi
Goffredo co' suoi circa la metà di maggio sotto quella città,
accompagnato in quella spedizione dallo stesso papa e dai cardinali, e
per diciotto giorni stette accampato intorno alla medesima, con essere
succedute varie prodezze sì dall'una parte come dall'altra. Ma per
accortezza di Guglielmo Testardita, che andò innanzi indietro, si
conchiuse un abboccamento fra esso duca Goffredo e Riccardo principe al
ponte già rotto di sant'Angelo di Todici. Fama corse che il duca più da
una grossa somma di danaro, che dalle parole di Riccardo si lasciasse
ammansare; e però da lì a poco piegate le tende, se ne tornò colla sua
gente in Toscana. Si lasciò vedere in quegli stessi giorni una gran
cometa, di cui fanno menzione altri storici sotto il presente anno, e
mostrò la sua lunga coda per più di venti giorni. Romoaldo
Salernitano[906], che sotto questo medesimo anno parla del predetto
fenomeno, aggiugne che _Roberto Guiscardo_ circa gli stessi giorni
_cepit civitatem Vestis, apprehenditque ibi catapanum nomine Kuriacum_
(cioè Ciriaco). Nella Cronichetta amalfitana[907] l'acquisto della città
del Vasto è trasportato nell'anno seguente, e quel catapano vien ivi
chiamato _Bennato_. Abbiamo da Gaufrido Malaterra[908] che in questi
tempi il _conte Ruggieri_ facea continue scorrerie in Sicilia addosso ai
Mori, con riportarne quasi sempre buon bottino, e con tale speditezza,
che non potea esser mai colto da loro. Fabbricò eziandio la fortezza di
Petrelia con torri e bastioni: fortificazione che servì a lui non poco
per conquistare il resto della Sicilia.

Fin qui avea tenuto saldo contra del clero concubinario di Milano e
contra de' simoniaci _Arialdo_ diacono di quella chiesa, non già
fratello di un marchese, ma bensì di chi portava il soprannome di
Marchese; ecclesiastico pieno di zelo per la disciplina ecclesiastica, e
che insieme con _Erlembaldo_ nobile laico commoveva il popolo contra de'
cherici scandalosi, e contra dello stesso _arcivescovo Guido_. Passò
Arialdo a Roma, e tali doglianze e pruove dovette portare contra d'esso
arcivescovo, fautore de' preti concubinarii, e creduto simoniaco, che il
pontefice Alessandro II fulminò la scomunica contra di lui. Tornato
Arialdo a Milano, e divulgate le censure, gran tumulto ne succedette nel
dì della Pentecoste, perchè ito alla chiesa l'arcivescovo, sollevossi
contra di lui, oppur prese l'armi in favore d'Arialdo quella plebe che
teneva il di lui partito, e dopo aver bastonato l'arcivescovo, e
lasciatolo come morto, corsero tutti a dare il sacco al di lui
palazzo[909]. Questo accidente svegliò non poca commozione ne' vassalli
ed altri aderenti dell'arcivescovo i quali, risolverono di farne
vendetta sopra Arialdo. Non veggendosi egli sicuro, travestito se ne
fuggì, ma non potè lungo tempo sottrarsi alle ricerche de' suoi
persecutori. Tradito da un prete, presso il quale s'era rifuggito, fu
messo in mano dei soldati dell'arcivescovo, che condotto sul Lago
maggiore, quivi crudelmente gli levarono la vita nel dì 28, oppure, come
altri vogliono, nel dì 27 di giugno dell'anno presente. Non mancarono
miracoli in attestazione della gloria ch'egli conseguì in cielo, e fu
poco dipoi registrato fra i santi martiri dalla Sede apostolica. Abbiamo
la sua vita scritta dal beato Andrea Vallombrosano suo discepolo; e il
Puricelli[910], scrittore accuratissimo e benemerito della storia di
Milano, diede tutto alla luce, ed illustrò i fatti sì d'esso Arialdo che
di Erlembaldo. Veggansi ancora gli Atti de' Santi bollandiani[911].
Arnolfo e Landolfo seniore, storici milanesi di questi tempi,
svantaggiosamente parlarono d'esso Arialdo, perchè avversarii di lui, e
protettori del clero, allora troppo scostumato. In quest'anno ancora
passò alla gloria de' beati san _Teobaldo_ romito franzese della
schiatta nobile dei conti di Sciampagna. Succedette la sua morte nel
luogo di Solaniga presso a Vicenza, dove per più anni egli era dimorato,
menando una vita austera in orazioni e digiuni. Il sacro suo corpo fu
rapito dai Vicentini; ma nell'anno 1074 furtivamente tolto, fu portato
al monistero della Vangadizza presso l'Adicetto, dove è oggidì la terra
della Badia. Abbiamo la sua vita[912] scritta da Pietro abbate di quel
sacro luogo, e persona contemporanea, che assistè alla di lui morte. Ne
parla anche Sigeberto[913], oltre a molti altri. In quest'anno ancora
non potendo più sofferire i vescovi e principi della Germania[914] che
_Adelberto arcivescovo_ di Brema, uomo pien d'alterigia, si abusasse
dell'ascendente preso sopra il giovane re Arrigo coll'operar tutto di
cose che gli tirarono addosso l'odio di tutti: congiurati in Triburia,
intimarono ad Arrigo o di depor la corona, o di licenziare da sè
Adelberto. Perchè egli volle fuggire, gli misero le guardie intorno, e
poi vituperosamente cacciarono l'arcivescovo bremense, e fu consegnato
il re sotto il governo di _Annone arcivescovo_ di Colonia, e di
_Sigefredo arcivescovo_ di Magonza[915]. Annone attese ad innalzar tutti
i suoi parenti ed amici alle prime dignità, e fra gli altri promosse
alla chiesa archiepiscopale di Treveri, che venne a vacare in questo
anno, _Conone_, cioè _Corrado_ suo parente, e gli fece dar l'anello e il
baston pastorale dal re Arrigo, con inviarlo poscia a Treveri, per esser
ivi intronizzato. Restò talmente disgustato ed irritato il clero e
popolo di quella città, per vedersi privato dell'antico suo diritto
d'eleggere il proprio pastore, che diede nelle smanie, e ne avvenne poi
che, arrivato colà Conone, Teoderico conte e maggiordomo della chiesa di
Treveri gli fu addosso con una mano d'armati, e, dopo qualche mese di
prigionia, il fece precipitar giù da un'alta montagna, dove lasciò la
vita. Fu questi, non so come, riguardato dipoi qual martire; e Lamberto
scrive che alla sua tomba succedeano moltissimi miracoli. Ma non dovette
far grande onore all'arcivescovo Annone, che fu poi anch'egli venerato
per santo, una promozion tale, perchè ingiuriosa a quel popolo e
contraria ai sacri canoni.

NOTE:

[904] Lupus Protospata, in Chron.

[905] Leo Ostiensis, Chron., lib. 3, cap. 25.

[906] Romualdus Salernit., Chron., tom. 7 Rer. Italic.

[907] Antiquit. Italic., tom. 1, pag. 253.

[908] Gaufrid. Malaterra, lib. 2, cap. 38.

[909] Arnulfus Hist., Mediol., lib. 3, cap. 18.

[910] Puricellius, de SS. Arialdo et Herlembaldo.

[911] Acta Sanctorum Bollandi, ad diem 27 Junii.

[912] Mabill., Saecul. Benedict., VI, P. II.

[913] Sigebertus, in Chron.

[914] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[915] Adam Bremensis, Hist., lib. 3, cap. 37.



    Anno di CRISTO MLXVII. Indizione V.

    ALESSANDRO II papa 7.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 12.


Non men che Milano era in confusione la città di Firenze in questi
giorni a cagion de' monaci vallombrosani, che sosteneano aver _Pietro_
da Pavia _vescovo_ conseguita quella chiesa coll'aiuto della regina
pecunia. Per mettere fine a sì lunga dissensione che avea già partorito
varii scandali, ebbero le parti ricorso a san _Giovanni Gualberto_. Fece
egli quanto fu in sua mano per indurre il vescovo a confessare il suo
fallo; ma indarno. Propose dunque la sperienza ossia il giudizio del
fuoco: che allora simili modi di tentar Dio non erano vietati, anzi
parea talvolta che Dio gli autenticasse coi miracoli. Questa sregolata
pruova nondimeno non avea voluto concedere nell'anno antecedente papa
_Alessandro II_ in occasione di visitar la Toscana. Comandò dunque
l'abbate san Giovanni Gualberto che un suo monaco dabbene, appellato
Giovanni, passasse pel fuoco, e con tal pruova chiarisse se Pietro era
simoniaco sì o no. A due cataste di legna preparate per tal funzione fu
attaccato il fuoco, ed allorchè era ben formato ed alto il fuoco,
animosamente vi passò per mezzo il monaco Giovanni, co' piedi nudi senza
nocumento alcuno, e senza che neppur restasse bruciato un pelo del suo
corpo. Il fatto prodigioso si vede descritto del popolo fiorentino in
una lettera[916] a papa Alessandro, riferita anche dal cardinal
Baronio[917], il quale giudicollo accaduto nell'anno 1063. Ma il padre
Mabillone[918] scoprì con altre memorie che tal pruova accadde nel mese
di febbraio nel mercordì della prima settimana di quaresima dell'anno
presente, in cui la Pasqua cadde nel dì 8 di aprile. Il vescovo Pietro
si sa che, preso l'abito monastico, in quello piamente terminò i suoi
giorni; e che il monaco Giovanni fu dipoi creato cardinale e vescovo
d'Albano, appellato da lì innanzi _Giovanni igneo_, quasi uomo di fuoco,
e adoperato dalla santa Sede in ambascerie di grande importanza.

Tuttavia durava l'ostinazion dell'antipapa Cadaloo, e se non potea far
più guerra coll'armi al legittimo pontefice Alessandro II, gliela facea
colla disunione delle chiese, seguitando alcuni vescovi, spezialmente
_Arrigo arcivescovo_ di Ravenna, a sostenere la di lui fazione. Per
terminare questa abbominevol gara, e per salvare con qualche apparenza
il decoro della corte germanica, fu data l'incumbenza ad _Annone
arcivescovo_ di Colonia di venire in Italia[919]. Passò egli por
Lombardia e Toscana a Roma senza fermarsi, e quivi ammesso all'udienza
del papa, in presenza de' cardinali, con aria mansueta e modesta disse:
_Come mai, o confratello Alessandro, avete voi ricevuto il papato senza
ordine e consentimento del re mio signore? Lungo tempo è che tale
licenza s'ottiene dai re e principi_. E qui cominciando dai patrizii dei
Romani e dagl'imperadori, alcuni ne nominò, per ordine e consenso de'
quali erano saliti gli eletti sulla sedia di san Pietro. Allora saltò su
il _cardinal Ildebrando_ arcidiacono coi vescovi e cardinali, e disse
all'arcivescovo, che, secondo i canoni, non era permesso ai re d'aver
mano nell'elezione de' romani pontefici, e addusse molti testi dei santi
Padri, e massimamente l'ultimo decreto di papa Niccolò II sottoscritto
da cento tredici vescovi, di maniera che l'arcivescovo restò, o mostrò
di restar soddisfatto: benchè veramente neppur fosse stato osservato il
decreto d'esso Niccolò pontefice. Dopo di che pregò il papa di voler
tenere per questa causa un concilio in Lombardia, per quivi giustificar
pienamente l'elezione sua. Il che, quantunque paresse contro il costume,
e contrario al decoro d'un romano pontefice, tuttavia, considerata la
cattiva costituzion de' tempi, e per desiderio di dar la pace alla
Chiesa, fu accordata e scelta la città di Mantova per celebrarvi il
concilio. Che in quest'anno fosse il medesimo celebrato, e non già nel
1064, come altri ha creduto, l'hanno già dimostrato Francesco Maria
Fiorentini[920] e il padre Pagi[921] coll'autorità di Sigeberto e di
Landolfo juniore storico milanese. Egli è da dolersi che non sieno
giunti fino a' dì nostri gli atti di quel concilio. Pure sappiamo che
v'intervennero tutti i vescovi di Lombardia, eccettochè Cadaloo, il
quale, benchè ne avesse ordine dall'arcivescovo di Colonia, non ardì di
presentarsi a quella sacra assemblea, dove il pontefice Alessandro II
talmente provò la legittimità della sua elezione e rispose alle calunnie
inventate dai malevoli contra di lui, che i vescovi di Lombardia, di
suoi avversari che erano prima, gli diventarono amici ed ubbidienti. Fra
le altre cose, quei che veramente in Lombardia erano rei di simonia,
aveano opposto il medesimo vizio all'elezione di lui. Lo attesta anche
Landolfo seniore[922], ma con una man di favole, che non occorre
confutare, perchè smentite dall'evidenza. Il papa, secondo il costume
dei suoi predecessori, si purgò di questa taccia col giuramento; e
bisogno neppur ve n'era, perchè egli fu papa di somma virtù e di raro
zelo contro la simonia, ed eletto spezialmente per cura del cardinale
Ildebrando, cioè del maggior nemico che si avesse mai quell'esecrabil
vizio. Restò dunque atterrato Cadaloo, il quale nondimeno, per
testimonianza di Lamberto[923], finchè visse, non volle mai cedere
all'empie sue pretensioni.

Da Mantova passò papa Alessandro alla sua patria Milano, dove si studiò
di riformar gli abusi per quanto potè, e di metter pace fra il clero e
popolo. A tal fine quivi lasciò, oppure mandò due cardinali[924], cioè
_Mainardo vescovo_ di Selva Candida e _Giovanni_, che fecero nel dì
primo d'agosto alcune utili e savie costituzioni contra de' simoniaci e
cherici concubinarii, e promossero la pace e concordia fra i cittadini.
Leggonsi tali costituzioni negli Annali del cardinal Baronio e nelle
annotazioni alla storia di Arnolfo milanese[925]. La pace nondimeno
prese piede in Milano. _Erlembardo_ Cotta, uomo nobile e potente,
assistito dal braccio di Roma, seguitò a far aspra guerra
all'_arcivescovo Guido_, con pretenderlo simoniaco ed illegittimo
pastore: il che continuò gli sconcerti, descritti da Arnolfo e da
Landolfo seniore, storici milanesi di questi tempi, ma parziali, come
già abbiam detto, de' preti concubinarii, e massimamente il secondo, ne'
cui scritti la bugia e l'insolenza trionfano. Questi fra l'altre cose
scrive[926] che Erlembaldo _sibimet vexillum, milites_ (cavalleria) _et
pedites, exinde qui scalas ad capiendas domos, machinasque diversas
ordinavit; praeterea balistas ac fundibularios_, ec. Questi avvenimenti
ci fanno assai conoscere che allora Milano non dovea lasciarsi regolare
da ministro alcuno del re, e che a poco a poco il popolo s'incamminava a
quella libertà che vedremo andar crescendo negli anni seguenti. Nella
vita di papa Alessandro II, a noi conservata da Niccolò cardinale
d'Aragona[927], si legge che dopo il concilio di Mantova esso pontefice
se ne ritornò tutto lieto a Roma, e che nello stesso tempo i Normanni
occuparono la città di Capoa, e che Ildebrando cardinale chiamò in aiuto
Goffredo duca di Toscana, il quale accorso con un immenso esercito, e
colla contessa Matilda sua figliastra, ricuperò essa città di Capoa, e
la restituì alla Chiesa romana. Potrebbe ciò far credere tenuto il
concilio di Mantova prima dell'anno presente, giacchè abbiam veduto
succeduta nel presente anno la guerra della Campania. Ma non è sicuro in
questo il racconto di quello scrittore, dacchè egli fa ricuperata Capoa,
quando è fuor di dubbio che Riccardo principe di quelle contrade seguitò
ivi a tener sua signoria; nè l'Ostiense, scrittore di questi tempi, dà
alcun segno che Capoa venisse in potere della Chiesa romana. Forse vuol
dire che Riccardo di nuovo si accordò col papa, e gli giurò omaggio
anche per la città di Capoa. In fatti si legge una bolla d'esso papa in
favore di _Alfano_ arcivescovo di Salerno, pubblicata dall'Ughelli[928],
e data _Capuae IV idus octobris, per manus Petri sanctae romanae
Ecclesiae subdiaconi et bibliothecarii, anno VII pontificatus domni
Alexandri papae, Indictione VII_. Credette il Sigonio che tal documento
appartenesse all'anno seguente 1068, ma io lo credo scritto nell'ottobre
dell'anno presente. Ora da esso apparisce che il papa entrò in Capoa, e
pacificamente vi dimorò; ma quivi continuò anche Riccardo il suo
dominio. La guerra fatta dal duca Gotifredo in terra di Lavoro, abbiam
veduto di sopra che è riferita nella Cronichetta amalfitana all'anno
1058. Fin qui la città di _Bari_, capitale della Puglia, anzi degli
Stati che aveano già in Italia gl'imperadori d'Oriente, città forte e
città piena di ricchezze, avea fuggito il giogo de' Normanni. Ma da gran
tempo vi facea l'amore _Roberto Guiscardo_ duca, e l'anno fu questo
ch'egli ne determinò la conquista. Però con un copioso esercito per
terra e con una flotta navale per mare si portò ad assediarla. Non
concordano gli autori nell'assegnar l'anno in cui egli diede principio a
quest'assedio. Lupo Protospata[929] e l'Anonimo barense[930] di ciò
parlano all'anno seguente, e per quello che andremo vedendo, dee
preponderare l'asserzion loro a quella di Gaufredo Malaterra[931] e di
Romoaldo salernitano[932], che lo mettono in quest'anno. Leone
ostiense[933] scrive che Roberto prima di mettersi a così difficile
impresa, s'era impadronito della città d'Otranto. Si risero a tutta
prima i Baritani della venuta dell'esercito nemico; e con ingiurie e col
far mostra delle lor cose più preziose si faceano beffe dei Normanni. Ma
Roberto, senza curarsene punto, attendeva a preparar tutto quanto parea
più spediente per vincere una sì orgogliosa città. In quest'anno[934] il
re Arrigo IV celebrò le sue nozze in Triburia con _Berta_ figliuola del
già _Oddone_ e della celebre _Adelaide_ marchesi di Susa. _Pietro_
marchese, fratello d'essa Berta, per quanto s'ha da un documento
rapportato dal Guichenon[935], tenne un placito nell'anno 1064 nella
villa di Cambiana. Ma riuscì ben infelice il matrimonio suddetto, perchè
troppo era già alterato da' vizii l'animo di questo re.

NOTE:

[916] Epistol. Populi Florentini ad Alexandr. Papam, in Vita S. Johannis
Gualberti.

[917] Baron., in Annal. Eccl.

[918] Mabill., Annal. Benedict. ad hunc annum.

[919] Nicol. Cardinal. de Aragon., in Vita Alexandri II, Part. I, tom. 3
Rer. Italicar.

[920] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 1.

[921] Pagius, in Crit. ad Annal. Baron.

[922] Landulphus Senior, Histor. Mediolan., lib. 3, cap. 18.

[923] Lambertus Schafnaburgensis, in Chronico.

[924] Arnulf., Hist. Mediol., lib. 3, cap. 19.

[925] Rer. Ital. tom. 4, pag. 32.

[926] Landulf. Senior., Hist. Mediolan., lib. 3, cap. 29.

[927] Rerum Italicar., P. I., tom. 3.

[928] Ughell., Ital. Sacr., tom. 7 in Archiepisc. Salernit.

[929] Lupus Protospata, in Chronico.

[930] Anonymus Barensis, in Chron.

[931] Malaterra, lib. 2, cap. 40.

[932] Romualdus Salern., tom. 7 Rer. Ital.

[933] Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 16.

[934] Annal. Saxon. Berthold. Constantinensis. Alber. Monan. et alii.

[935] Guichenon, Histor. Genealog. de la Maison de Savoye, tom. 3.



    Anno di CRISTO MLXVIII. Indizione VI.

    ALESSANDRO II papa 8.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 13.


Non avea di buona voglia il _re Arrigo_ presa per moglie la _regina
Berta_, e ne cominciò ben presto a far conoscere a lei, anzi al pubblico
tutto, l'avversione. Se si ha a credere a Brunone scrittore della guerra
sassonica[936], autore contemporaneo, ma nemico d'esso re e parziale de'
Sassoni, da cui non discorda Bertoldo da Costanza[937], già Arrigo era
arrivato ad una strana sfrenatezza di costumi, e perduto nella libidine,
senza curarsi più della moglie, tuttochè giovane, bella e savia, e
cercando in tutt'altre parti pastura alle sue voglie impudiche. Cominciò
pertanto a desiderare di liberarsi da questo legame, e gli cadde in
pensiero di far tentare da un suo confidente l'onestà di essa regina.
Con tale audacia e costanza costui ne parlò a Berta, ch'ella s'avvide
non poter egli senza consentimento del marito tenerle di sì fatti
ragionamenti. Mostrò dunque d'arrendersi, e concertò di ammetterlo nel
buio della notte. Ciò riferito ad Arrigo, all'ora prefissa venne con
costui o per sorprendere la moglie ed aver legittimo motivo di
separarsene, ovvero con pensier di levarle la vita. Per paura che appena
introdotto nella camera il compagno, si serrasse l'uscio, volle egli
essere il primo ad entrare, e fu ben riconosciuto da Berta, che tosto
diede il catenaccio alla porta ed escluse l'altro, infingendosi di non
conoscere il marito. Erano preparate tutte le sue damigelle con bastoni
e scanni, che se gli avventarono addosso, gridando la regina: _Ah
figliuolo di rea femmina, come hai avuto tanto ardire di entrar qua?_
Fioccavano le bastonate; e benchè egli dicesse d'essere il re, Berta
replicava ch'egli mentiva, perchè suo marito non aveva bisogno di cercar
furtivamente ciò che gli era dovuto di ragione. Insomma tante gliene
diedero, che il lasciarono mezzo morto: ed egli senza palesare ad alcuno
questo accidente, e fingendone altra cagione, per un mese attese a
guarire in letto. Così operava, o almen si dicea che operasse lo
sconsigliato re, il quale, oltre gli eccessi della sua libidine,
commetteva ancora di quando in quando delle crudeltà, e fece quanto potè
per disgustar i popoli della Turingia e Sassonia: il che fu principio
d'aspre guerre in quelle contrade. Ciò nondimeno che maggiormente
dispiaceva al romano pontefice e a tutti i buoni, era il vender egli
pubblicamente i vescovati e le badie a chi più offeriva, e più a d'uno
lo stesso benefizio, e a gente anche per altro indegna del sacro
ministero.

Attesta il Fiorentini, fondato su molte carte esistenti nell'archivio
archiepiscopale di Lucca[938], che il pontefice Alessandro II si
trattenne in Lucca, cioè nell'antico suo diletto vescovato, che egli
tuttavia governava, _sul principio di luglio fino al principio di
dicembre_. In un continuo allarme erano in questi tempi i Saraceni e i
popoli restati loro sudditi in Sicilia, perchè l'indefesso _conte
Ruggieri_ ora in questa ora in quella parte faceva delle scorrerie, e
metteva tutto il paese in contribuzione. Non sapendo essi come più
vivere in mezzo a tanti affanni, secondochè lasciò scritto Gaufredo
Malaterra[939], misero insieme un grosso esercito, ed in quest'anno
allorchè Ruggieri comparve verso Palermo a bottinare, gli furono addosso
all'improvviso nel luogo di Michelmir, e il serrarono da tutte le parti.
Alla vista di costoro, il conte, animata con breve ragionamento e
schierata la sua picciola armata, la spinse contro ai nemici, e tal
macello ne fece, che (se pur si ha in ciò da credere alla esagerazione
di quello storico) non vi restò chi potesse portarne la nuova a Palermo.
Trovaronsi fra il bottino dei colombi chiusi in alcune sportelle, e
Ruggeri chiestone conto, venne a sapere, essere uso de' Mori il portar
seco tali uccelli, per potere, allorchè il bisogno lo richiedeva,
informar la città degli avvenimenti, con legare al collo o sotto l'ali
d'essi un polizzino, e dar loro la libertà. Dura tuttavia quest'uso in
alcune parti del Levante, e celebre fu fra i Romani nell'assedio di
Modena. Fece il conte scrivere in arabico in un poco di carta il
successo infelice de' Mori, e i colombi sciolti ne portarono tosto a
Palermo la nuova, che empiè di terrore e pianto tutta quella
cittadinanza. Abbiamo da Lupo Protospata[940] che Roberto Guiscardo duca
di Puglia in quest'anno assediò la città di Montepeloso, e veggendo che
indarno vi spendeva il tempo, andò con pochi sotto Obbiano ossia Ojano,
e l'ebbe in suo potere. Romoaldo Salernitano[941] lo chiama Ariano.
Poscia per tradimento di un certo Gotifredo s'impadronì da lì a non
molto anche di Montepeloso. Osserva il Malaterra[942] che quella città
era di Goffredo da Conversano, nipote dello stesso Roberto, perchè
figliuolo di una sua sorella, il quale valorosamente l'avea con altre
castella conquistato senza aiuto del duca, e però non si credeva
obbligato a servirgli, come il duca esigeva. Ma l'ambizion di Roberto
non solea guardare in faccia nè a parenti nè ad amici, e però gli tolse
quella città, benchè dipoi gliela rendesse con giuramento di omaggio. Si
può nondimeno dubitare che per conto del tempo si sia ingannato il
Protospata; imperocchè tanto il Malaterra quanto Guglielmo Pugliese[943]
rapportano questo fatto prima che Roberto imprenda l'assedio di Bari, a
cui, siccome abbiam veduto, egli diede principio nell'anno precedente, e
continuollo ancora nel presente. Tuttavia anche Romoaldo salernitano
sotto quest'anno riferisce la presa di Montepeloso nel dì 6 di febbraio,
correndo l'indizione sesta.

NOTE:

[936] Hist. Belli Saxon. apud Freherum.

[937] Bertholdus Constantinensis, in Chron.

[938] Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 1.

[939] Malaterra, Hist., lib. 2, cap. 41.

[940] Lupus Protospata, in Chronico.

[941] Romualdus Salern., tom. 7 Rer. Ital.

[942] Gaufrid. Malaterra, lib. 2, cap. 39.

[943] Guillelmus Apulus, lib. 3.



    Anno di CRISTO MLXIX. Indizione VII.

    ALESSANDRO II papa 9.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 14.


Arrivò in quest'anno il giovanil furore e l'avversione conceputa dal re
_Arrigo_ contra di _Berta_ sua moglie[944], a trattare di ripudiarla; al
qual fine adescò con varie promesse _Sigefredo arcivescovo_ di Magonza,
per averlo favorevole in questo affare. Perchè non v'era legittimo alcun
fondamento di divorzio, s'inorridirono a tal proposizione gli altri
vescovi e magnati. Pertanto si determinò di tenere un concilio in
Magonza, nella settimana dopo la festa di san Michele, dove si
risolverebbe ciò che fosse di dovere. Avvisato intanto _papa Alessandro
II_ di questo mostruoso disegno del re, per impedirlo, spedì suo legato
in Germania san _Pier Damiano_, che benchè oppresso dagli anni, ed anche
mal soddisfatto della corte di Roma, pure non ricusò di assumere questo
faticoso viaggio ed impiego. L'arrivo del legato mise in costernazione
il re, e guastò i disegni del concilio e tutte le misure
dell'arcivescovo di Magonza. In Francofort diede Arrigo udienza al
legato apostolico, che gli espose gli ordini del papa di guardarsi da sì
scandalosa azione, troppo riprovata dai sacri canoni, e obbrobriosa alla
gloria di sua maestà. A tenore del legato parlarono ancora quasi tutti i
principi di quell'assemblea, in guisa che per necessità e vergogna, ma
sempre di mal cuore, Arrigo smontò dalla sua pretensione, dicendo che
avrebbe fatto forza a sè stesso per portare quel peso, giacchè non avea
la maniera di sgravarsene. Che da lì innanzi passasse buona armonia fra
esso re e la moglie Berta, si può riconoscere dall'avergli ella
partorito figliuoli, e dall'averlo costantemente seguitato ne' suoi
viaggi. Continuava intanto l'assedio di Bari, che con gran vigore veniva
difeso dai cittadini e da Stefano Paterano uffiziale speditovi da
Costantinopoli, ed uomo di molta probità e valore. Ma neppur cessava
Roberto per mare e per terra, con quante macchine da guerra erano allora
in uso, di tormentare la città, adoperando anche larghe promesse e fiere
minacce, tutto nondimeno senza far frutto. Veggendo i Baritani e il loro
governatore tanta ostinazione in Roberto, e che la vettovaglia andava
scemando di troppo, s'avvisarono di liberarsi in altra maniera da questo
pertinace nemico. Trovavasi in Bari un sicario, uomo di non ordinario
ardimento, che prese l'assunto di tendere insidie al duca Roberto, e di
levargli la vita[945]. Altro non era il padiglione d'esso Roberto che
una baracca o capanna formata di travicelli, e circondata da rami
d'alberi fronzuti. Essendosi l'assassino finto uno dei suoi, verso la
sera mentre il duca era per andare a cena, di dietro ad essa capanna gli
tirò una saetta avvelenata, che gli toccò bensì le vesti, ma non già il
corpo, ed ebbe quell'assassino la fortuna di salvarsi colla fuga nella
città. Servì questo accidente per aprir gli occhi a Roberto e a' suoi, i
quali tosto chiamati i muratori gli fecero fabbricare una casa, dove
egli potesse dimorar con sicurezza.

A quest'anno il Sigonio[946] riferisce un concilio, tenuto da papa
Alessandro in Salerno, al quale, oltre a molti vescovi ed abbati,
intervennero anche _Gisolfo principe_ di quella città, _Roberto
Guiscardo_ duca, e il conte _Ruggieri_ suo fratello. Ma nè in
quest'anno, nè in quel luogo fu celebrato un tal concilio, se è vero,
come io credo, il documento recato dall'Ughelli[947], che è l'unico
testimonio a noi restato di questa sacra adunanza. Parla ivi il
pontefice del sinodo, _quae sexto pontificatus nostri anno apud Melphim
celebrata est in ecclesia beati Petri Apostolorum principis, quae est
ejusdem civitatis sedes episcopatus, die calendarum augustarum_, a cui
furono presenti i suddetti principi. L'anno sesto di papa Alessandro
correa nel dì primo d'agosto dell'anno 1067, se pur egli contò gli anni
dal dì della sua intronizzazione. E in _Melfi_, e non già in Salerno, si
dice tenuto quel concilio. In questi tempi si vivea scomunicato dal papa
Arrigo arcivescovo di Ravenna, per la cui riconciliazione inutilmente
aveva adoperato i suoi buoni uffizii san Pier Damiano appresso il romano
pontefice. Peggio anche passava in Milano a _Guido arcivescovo_, perchè
_Erlembaldo_ Cotta, nobile zelantissimo, dopo aver ricevuto da Roma la
bandiera di san Pietro, colle armi temporali gli facea guerra: del che
parlano gli storici milanesi Arnolfo e Landolfo seniore. Ora, siccome
osservò il Puricelli[948], nell'anno presente accadde, che trovandosi
quel prelato, siccome persona creduta simoniaca, angustiato da tanti
affanni, ed oramai per le malattie e per la vecchiaia in pessimo stato,
s'indusse a rinunziar la chiesa a _Gotifredo_ suddiacono, uno degli
ordinarii, cioè de' canonici della metropolitana, il quale, inviato
l'anello e il pastorale in Germania, mediante lo sborso di buona somma
di danaro, fu approvato per arcivescovo di Milano dal re Arrigo, ma non
già dalla Sede apostolica, la quale fulminò contra di lui le sacre
censure, e neppur fu accettato dal popolo milanese. Era seguita fra lui
e Guido una convenzione verisimilmente di pagare al vecchio una
ragionevol pensione. Ma avendo Erlembaldo mosse l'armi anche contra di
questo simoniaco successore della cattedra ambrosiana, e mancando a lui
i mezzi da soddisfare al convenuto, Guido accordatosi con Erlembaldo,
tentò di ripigliare l'arcivescovato, e se ne tornò a Milano, dove
burlato miseramente terminò poscia i suoi giorni nell'anno 1071. Essendo
morto senza prole _Erberto conte_ e principe del Maine in Francia,
s'impadronì di quella provincia _Guglielmo_ il Conquistatore, duca di
Normandia, e poi re d'Inghilterra. Ma quei popoli, malcontenti di avere
un tal padrone, chiamarono alla signoria di quegli Stati il _marchese
Alberto Azzo II_ progenitore de' principi estensi. S'ha dunque a sapere,
per testimonianza di Orderico Vitale[949], che scrivea le sue storie
circa l'anno 1130, che esso Erberto ebbe tre sorelle. _Una earum data
est Azzoni marchisio Liguriae_, cioè al suddetto marchese Azzo. Il suo
nome fu _Garsenda_, siccome ho dimostrato altrove[950]. Dal primo
matrimonio con _Cunegonda_ dei Guelfi avea questo principe avuto un
figliuolo, cioè _Guelfo IV_, che vedremo in breve creato duca di
Baviera, ascendente della real casa di Brunswich. Da questo altro
matrimonio colla principessa del Maine ricavò due maschi, cioè _Ugo_ e
_Folco_, dal secondo de' quali viene la ducal casa d'Este. Abbiamo
dunque dalle Vite de' vescovi, date alla luce dal padre Mabillone[951],
che forse circa questi tempi i primati del Maine _mittentes in Italiam,
Athonem quemdam marchisium cum uxore et filio, qui vocabatur Hugo venire
fecerunt, seque et civitatem, et totam simul regionem eidem marchisio
tradiderunt_. Andò il marchese Azzo, s'impadronì di tutto il Maine, e vi
lasciò signore il figliuolo Ugo. Ma nel 1072 di nuovo s'impadronì di
quel principato il suddetto re d'Inghilterra Guglielmo. Di ciò ho io
parlato più diffusamente nelle Antichità estensi[952]. A _Giovanni duca_
di Amalfi[953] succedette nell'anno presente _Sergio_ suo figliuolo.

NOTE:

[944] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[945] Guillelmus Apulus, lib. 2. Gaufrid. Malaterra, lib. 2, cap. 11.

[946] Sigonius, de Regno Ital., lib. 9.

[947] Ughell., Ital. Sacr., tom. 7 in Archiepisc. Salernit.

[948] Puricellius, in Vita S. Herlembaldi, cap. 28.

[949] Ordericus Vitalis, Hist. Eccl., lib. 4.

[950] Antichità Estensi, P. I, cap. 3.

[951] Mabill., Analect., tom. 3, cap. 33.

[952] Antichità Estensi, P. I, cap. 27.

[953] Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 211.



    Anno di CRISTO MLXX. Indizione VIII.

    ALESSANDRO II papa 10.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 15.


Mancò di vita _Gotifredo Barbato_ duca di Lorena e Toscana; ma non è sì
facile l'accordar gli scrittori intorno all'anno della sua morte.
Bertoldo da Costanza[954] la mette nell'anno 1069, succeduta nella
vigilia del santo Natale: nel che è seguitato dal Fiorentini nelle
Memorie di Matilda[955], e dal padre Mabillone[956]. Ma Lamberto da
Scafnaburgo[957], Sigeberto[958], l'Annalista sassone[959] ed altri, ai
quali aderì il cardinal Baronio[960] col padre Pagi[961] la riferiscono
all'anno presente. E se si potesse con franchezza riposare sopra una
memoria informe recata dallo stesso Fiorentini, si dovrebbe credere
veramente passato all'altra vita nell'anno presente. Ma non sembra
finora ben deciso questo punto. Anche la breve Cronica di san Vincenzo
di Metz[962] all'anno 1069 riferisce la di lui morte. Vo io credendo
derivata questa sconcordanza degli storici dall'anno che terminava colla
vigilia del santo Natale, cominciando il nuovo nel dì seguente. Dovette
mancare questo principe nella notte che divideva l'uno anno dall'altro.
Presso gli storici suddetti egli si truova ornato di molti elogi, e fu
da taluno appellato _Gotifredo il Grande_, a distinzione degli altri
duchi di Lorena di questo nome. Morì appunto in Lorena, ed ebbe
sepoltura in Verdun, con lasciar vedova per la seconda volta _Beatrice
duchessa_ di Toscana, e un figliuolo di lui nato dalle prime nozze, per
nome _Gozelone_, ossia _Gotifredo_, giovine di gran talento, ma gobbo:
il che servì a lui di soprannome per distinzione dagli altri. Ossia che
vivente il padre, o che dopo la sua morte si conchiudesse l'affare,
certo è che fra questo giovane principe, cioè Gotifredo il Gobbo e la
_contessa Matilda_, unica figliuola di Bonifazio già duca e marchese di
Toscana e della suddetta Beatrice, seguì matrimonio; e noi vedremo in
breve questo principe, già succeduto al padre nel ducato della Lorena,
esercitar anche in Italia l'autorità di duca di Toscana per ragione di
Matilda sua moglie. Non erano per anche divenuti ereditarii i ducati e
gli altri governi d'Italia, talmente che le donne ancora vi
succedessero; ma la potenza e la costituzion de' tempi avea già
introdotto questo costume. L'abbiamo parimente osservato in _Adelaide
marchesana_ di Susa, principessa d'animo virile. Vien creduto dal
Guichenon[963], che a questa Adelaide appartenga una Memoria riferita
dall'Ughelli[964], ed estratta dalla Cronica del monistero di
Fruttuaria, cioè la seguente: _Anno Domini MLXX, mense majo capta fuit
et incensa civitas astensis ab Alaxia comitissa astensi_: nella quale
occasione il suddetto Ughelli fu d'avviso che Adelaide facesse ricevere
a quel popolo per suo vescovo _Girlemo_, fin qui rigettato dagli
Astigiani. Leggesi una simil Memoria nelle Croniche d'Asti[965], ma con
diversità, dicendosi ivi che la città d'Asti fu presa in quest'anno,
_nono kalendas maii a comitissa Alaxia; et ab ea tota succensa fuit de
anno MXCI decimo quinto kalendas aprilis; et eodem anno dicta comitissa
obiit_. Alassia e Adelaide sono lo stesso nome; ma se è vero questo
incendio, non dovette già questo entrare nel catalogo de' suoi elogi. In
quest'anno ancora diede fine a' suoi giorni _Odelrico duca_ e marchese
di Carintia[966]. Soleva in addietro andare unito col governo della
Carintia quello ancora della Marca di Verona; ma non so dire s'egli
godesse nello stesso tempo di questa, nè chi fosse ora presidente d'essa
Marca. Ebbe per successore _Bertoldo_ ossia _Bertolfo_. Nè si dee
tacere, per gloria dell'Italia, che in quest'anno da _Guglielmo_ re
d'Inghilterra e duca di Normandia, soprannominato il Conquistatore, fu
creato arcivescovo di Cantorberì e primate dell'Inghilterra il beato
_Lanfranco_ di nazione pavese, personaggio celebre nella storia
ecclesiastica non meno per la sua letteratura, che per le sue gloriose
azioni. Appoggiato il Sigonio[967] alle Croniche moderne di Pisa,
scrisse che in quest'anno i Pisani portarono la guerra in Corsica: del
che offesi i Genovesi, con dodici galere andarono a bloccar la bocca di
Arno; ma usciti in armi i Pisani, ne presero sette nel dì di san Sisto
d'agosto. Non sono indubitate cotali notizie. Gli antichi Annali di
Pisa[968] altro non dicono, se non che sorse gran guerra fra i Pisani e
Genovesi. L'avidità del commercio diede moto all'invidia, all'odio, e
poscia alle guerre fra queste due nazioni; e andando innanzi, ne vedremo
de' lagrimevoli effetti. Neppur lasciò passare l'anno presente _papa
Alessandro_ senza rivedere la sua diletta chiesa di Lucca, dove, secondo
le memorie allegate da Francesco Maria Fiorentini[969], nel dì 6 di
ottobre solennemente consecrò la cattedrale di san Martino, nuovamente
fabbricata in quella città, e confermò i privilegii a quel vescovato.

V'ha chi crede che in quest'anno giugnesse _Roberto Guiscardo_ duca ad
insignorirsi della capital della Puglia, cioè di Bari[970]. Già
cominciava ad assottigliarsi forte la vettovaglia in quella città, e
Roberto più che mai si mostrava risoluto di forzarla a cedere. Spedirono
perciò que' cittadini un messo a Costantinopoli con lettere
compassionevoli a _Romano Diogene imperadore_, per implorare soccorso.
Nè lo chiesero in vano. Romano, messa insieme una buona flotta di navi
con soldatesche e viveri, ne diede il comando a Gocelino normanno, che
disgustato e ribello del duca Roberto, era alcuni anni prima passato
alla corte imperiale d'Oriente, ed avea fatta ivi gran fortuna colla sua
bravura. Tornato il messo a Bari, e segretamente entrato, riempiè di
allegrezza quel prima disperato popolo coll'avviso del vicino aiuto, e
loro ordinò di stare attenti per far dei fuochi la notte, allorchè si
vedesse avvicinare la flotta de' Greci. Ma s'affrettarono essi di
troppo. La stessa notte cominciarono ad accendere de' fuochi nelle torri
e in altri siti della città: il che osservato dai Normanni, servì loro
d'indizio, che aspettassero in breve qualche aiuto per mare. Per buona
ventura il _conte Ruggieri_ alle premurose istanze del fratello Roberto
era anch'egli dalla Sicilia venuto a quell'assedio, menando seco un
poderoso naviglio. Fu a lui data commission di vegliare dalla banda del
mare, nè passò molto che si videro da lungi molti fanali, segni
indubitati di navi che venivano alla volta di Bari. Allora l'intrepido
Ruggeri, imbarcata la gente sua, con leonina ferocia volò incontro ai
Greci, i quali credendo che i Baritani per l'allegrezza venissero a
riceverli, non si prepararono alla difesa. Andarono i Normanni a urtar
sì forte ne' legni nemici, che una delle navi normanne, dove erano cento
cinquanta corazzieri, si rovesciò, e restò cogli uomini preda dell'onde.
Ma il valoroso Ruggieri adocchiata la capitana, perchè portava due
fanali, andò a dirittura ad investirla, e la sottomise con far prigione
il generale Gocelino, che poi lungamente macerato in una prigione, quivi
miseramente morì. Questa presa, e l'avere affondata un'altra nave de'
Greci, mise in rotta e fuga tutto il rimanente con gloria singolare de'
Normanni, che in addietro non s'erano mai avvisati di esser atti a
battaglie navali, e cominciarono allora ad imparare il mestiere. Nè di
più vi volle perchè i cittadini di Bari trattassero e concludessero la
resa della città al duca Roberto, che trattò amorevolmente non solo
essi, ma anche la guarnigion greca, e il lor generale Stefano, con
rimandar poi tutti essi Greci liberi al loro paese. Se veramente in
quest'anno, oppure nel seguente, Roberto Guiscardo facesse così
importante conquista, si è disputato fra gli eruditi. Chiaramente scrive
Lupo Protospata[971] ch'egli entrò vittorioso in Bari nel dì 15 d'aprile
dell'anno 1071; e a lui si attiene il padre Pagi[972], con osservare,
che, per testimonianza di Guglielmo Pugliese, durò _tre anni_
quell'assedio, e che, per conseguente, esso dovette aver principio
nell'anno 1068. Gaufredo Malaterra[973] all'incontro scrive che Bari
venne alle mani di Roberto nell'anno presente 1070, e Camillo
Pellegrini[974] si sottoscrisse a tale opinione. Stimò il padre Pagi
poco sicura la cronologia del Malaterra, senza osservare che non è di
miglior tempera quella di Lupo Protospata, dacchè troviamo da esso
storico posticipata di un anno la caduta dal trono di Romano Diogene
Augusto. Anche Romoaldo Salernitano nella Cronica sua[975], siccome
ancora la Cronichetta amalfitana[976] mettono sotto quest'anno la presa
di Bari. Tuttavia l'autorità dell'Ostiense[977] sembra bastante a
decidere questo punto; cioè a persuaderci che veramente nell'anno
seguente il vittorioso Roberto, dopo un assedio di _circa quattro anni_,
mettesse il piede in Bari. Vedremo in breve ciò ch'egli ne dice. Vennero
in questo anno a Roma, per attestato di Lamberto[978], gli arcivescovi
di Magonza e Colonia _Sigefredo_ ed _Annone_, ed _Ermanno vescovo_ di
Bamberga. Probabilmente ci conta favole quello storico con dire che
Ermanno accusato di simonia, con preziosi regali placò il papa.
Alessandro, pontefice di rara virtù, non era personaggio da lasciarsi in
tal guisa sovvertire. Aggiugne quello storico che a tutti e tre poi fece
esso pontefice un'acerba riprensione, perchè simoniacamente vendessero
gli ordini sacri. Non dovea per anche Annone arcivescovo essere giunto a
quella santità, di cui parlano gli storici dei secoli susseguenti. Era
in questi tempi un gran faccendiere _Gregorio vescovo_ di Vercelli, e
cancelliere di Arrigo IV re di Germania e d'Italia. Da lui ottenne egli
nell'anno presente varii casali posti nel contado di Vercelli per la sua
chiesa[979], con esser ivi espresso donato ancora _servitium, quod
pertinet ad comitatum_: il che fa intendere che si andava sempre più
pelando e sminuendo l'autorità e il provento spettante ai conti
governatori delle città, di modo che a poco a poco si ridusse quasi in
nulla il distretto di esse città, e la signoria de' conti urbani. Ma
dacchè si misero in libertà le stesse città, colla forza, siccome
vedremo, ripigliarono e sottomisero al loro dominio non meno i conti
territoriali ed altri nobili possidenti castella indipendenti dalla lor
giurisdizione, ma stesero le mani anche alle castella possedute dalle
chiese.

NOTE:

[954] Bertold. Constantiensis, in Chron.

[955] Fiorentini, Memor. di Matild., lib. 1.

[956] Mabill., Annal. Benedict.

[957] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[958] Sigebertus, in Chron.

[959] Annalista Saxo apud Eccardum, tom. 1 Corp. Hist.

[960] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[961] Pagius, ad Annal. Baron.

[962] Labbe, Nova Bibliot., tom. 1, pag. 345.

[963] Guichenon, Histoire de la Maison de Savoye, tom. 1.

[964] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4, in Episc. Astens.

[965] Chron. Astens., tom. 9 Rer. Ital.

[966] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron. Annalista Saxo apud
Eccardum, tom. 1 Corp. Histor.

[967] Sigionius, de Regno Ital., lib. 4.

[968] Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[969] Fiorentini, Memorie di Matilde, lib. 1.

[970] Gaufrid. Malaterra, lib. 2, cap. 43. Guillelm. Apulus, lib. 3.

[971] Lupus Protospata, in Chronico.

[972] Pagius, in Crit. ad Annal. Baron.

[973] Malaterra, lib. 2, cap. 43.

[974] Peregrin., Hist. Princip. Langobard.

[975] Romualdus Salernitanus, Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[976] Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 213.

[977] Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 30.

[978] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[979] Antiquit. Italic., Dissert. XIII, pag. 738.



    Anno di CRISTO MLXXI. Indizione IX.

    ALESSANDRO II papa 11.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 16.


L'intruso e simoniaco arcivescovo di Milano _Gotifredo_, giacchè era
stato rigettato dal popolo[980] con molti suoi fazionarii, andò a
ritirarsi in Castiglione, castello, pel sito montuoso, per le mura e
torri, e per altre fortificazioni, creduto allora inespugnabile, circa
venti miglia lungi da Milano. Ne usciva spesso la sua gente a
provvedersi di viveri alle spese dei confinanti, col commettere ancora
non pochi ammazzamenti. Non volendo il popolo di Milano tollerar più
questo aggravio, misero insieme un esercito, e con tutto il bisognevole
passarono ad assediar quella rocca, risoluti di liberarsi da quella
vessazione. Mentre durava un tale assedio, o accidentalmente, o per
opera di qualche scellerato, si attaccò il fuoco in Milano in tempo
appunto che soffiava un gagliardissimo vento, nel dì 19 di marzo
dell'anno presente. Fece un terribil guasto l'incendio, riducendo in un
mucchio di pietre una quantità immensa di case, ed anche di sacri
templi, fra i quali soprattutto fu deplorabile la rovina della basilica
di san Lorenzo, una delle più belle d'Italia, di maniera che Arnolfo
storico esclamò con dire: _O templum, cui nullum in mundo simile!_ Nelle
storie milanesi questo orribile incendio si vede appellato il _fuoco di
Castiglione_. All'avviso di sì fiera calamità, la maggior parte dei
Milanesi che erano all'assedio di Castiglione, corse alla città per
visitar le sue povere famiglie: del che accortisi gli assediati, e
cercato qualche rinforzo di amici, dopo Pasqua fecero una vigorosa
sortita addosso ai pochi rimasti a quello assedio. Ma _Erlembaldo_ con
tal valore sostenne gli assalti, che furono obbligati a retrocedere.
Dopo di che Gotifredo non veggendosi più sicuro, si fece condurre
altrove: con che cessò la guerra contra di quel castello. Essendo poi
mancato di vita il vecchio _arcivescovo Guido_, Erlembaldo andò
disponendo le cose per far eleggere un successore, dopo aver fatto
giurare il popolo di non mai accettare il simoniaco Gotifredo; e procurò
che da Roma venisse un legato, per dar maggior peso a tale elezione.
Avea l'infaticabil abbate di Monte Cassino _Desiderio_ già compiuta la
fabbrica della sua magnifica basilica[981]; e desiderando di consecrarla
con ispecial onore, invitò a tal funzione il buon papa Alessandro, che
non mancò d'andarvi. Incredibile fu il concorso de' popoli a quella
divota solennità. Fra gli altri vi si contarono dieci arcivescovi,
quaranta quattro vescovi, _Riccardo principe_ di Capua, con _Giordano_
suo figlio e _Rainolfo_ suo fratello, _Gisolfo principe_ di Salerno co'
suoi fratelli, _Landolfo principe_ di Benevento, Sergio duca di Napoli e
Sergio duca di Sorrento. _Nam dux Robertus Panormum eo tempore
oppugnabat, ideoque tantae solemnitati interesse non potuit_, come
scrive l'Ostiense. Seguì la suddetta consecrazione nel primo giorno di
ottobre; e però questo passo dell'Ostiense ci dee convincere che
nell'anno presente, e non già nel precedente 1070, si arrendè al _duca
Roberto_ la doviziosa ed importante città di Bari, e che, per
conseguente, sono scorretti i testi del Malaterra e di Romoaldo
salernitano.

Hassi dunque a sapere, che appena si fu impadronito il duca suddetto di
quella città nell'aprile del presente anno, ed ebbe dato sesto a quel
governo, che per le istanze del _conte Ruggieri_ suo fratello, a cui era
principalmente dovuta la gloria di una tal conquista, egli si dispose a
passare in Sicilia, per formare l'assedio di Palermo, capitale di
quell'isola insigne. Le dissensioni e guerre civili fra gli stessi Mori,
che aveano in addietro facilitato a Ruggieri il conquistar ivi non poco
paese, animarono maggiormente i due normanni eroi a tentar così bella
impresa, per accrescere in uno stesso tempo il loro dominio, e liberar
dal giogo saracenico quell'antichissima ed illustre città. Lo stesso
Malaterra[982], da cui non discorda Guglielmo pugliese[983], attesta che
Roberto dopo la presa di Bari, _brevi iterum expeditionem versus
Salernum summovet_; e che essendo dimorato ne' mesi di giugno e luglio
in Otranto per fare i preparamenti della nuova guerra, si portò dipoi a
Reggio di Calabria, e indi passò in Sicilia, fingendo di voler andare
contro l'isola di Malta. A tal fine sbarcò a Catania, dove si trovava il
conte Ruggieri, città che, secondo l'Ostiense[984], fu da loro
sottomessa in quest'anno; ma poi con tutte le forze di terra e di mare
eccolo piombare addosso alla città di Palermo, assediandola da tutte le
parti. Anche la Cronichetta amalfitana ha, che il Guiscardo, dopo aver
preso Bari, _inde movens exercitum in Siciliam ire preparavit_ (forse
_properavit_) _obseditque Panormum_. L'anno fu questo in cui la
nobilissima casa appellata poi d'Este vide uno de' suoi principi
stabilito in uno de' primi gradi d'onore e di potenza in Germania. Già
dicemmo all'anno 1055 che _Guelfo IV_, figliuolo del marchese _Alberto
Azzo II_ e di _Cunegonda_ de' Guelfi, fu chiamato in Suevia a prendere
l'ampia eredità de' principi guelfi[985], _missis in Italiam legatis_ da
_Imiza_ avola sua materna. Accadde, per testimonianza di Bertoldo da
Costanza,[986] di Lamberto[987] e d'altri scrittori, che _Ottone duca_
di Baviera nell'anno precedente si ribellò contra al re Arrigo, e per
questa cagione si espose ad un'aspra guerra. Avea Guelfo IV sposata una
figliuola di esso duca; però coll'armi, e in quante altre maniere potè,
aiutò per un pezzo il suocero. Ma allorchè vide andare a precipizio gli
affari di lui, pensò ai casi proprii, nè risparmiò oro, argento e beni
allodiali affine di ottenere dal re quell'insigne ducato, maggiore
allora di gran lunga che oggidì. Infatti, per valermi delle parole del
suddetto Lamberto e dell'Annalista sassone[988], per interposizione di
_Rodolfo duca_ di Suevia, cognato del re Arrigo, _Welf vir illustris,
acer, et bellicosus, filius Azzonis marchionis Italorum, ducatum
Bavariae suscepit_. Da questo principe, che fece tanta figura, e cotanto
si segnalò nelle guerre di questi tempi, viene a dirittura la linea
estense guelfa dei duchi di Brunswich, Luneburgo e Wulfembettel, che
all'elettorato germanico oggi unisce la corona del regno della gran
Bretagna. Così il marchese _Alberto Azzo II_ tuttavia vivente vide
stabilita ed innalzata in Germania la discendenza sua, la quale pur
tuttavia gloriosamente si mantiene e fiorisce anche in Italia nell'altra
linea de' marchesi di Este duchi di Modena, ec., discendente da Folco
marchese, fratello del medesimo duca Guelfo. Oltre a quest'anno non
arrivò la vita di _Domenico Contareno_ doge di Venezia[989], ed in suo
luogo fu alzato al trono ducale _Domenico Silvio_, e col confalone dato
gli fu il possesso della dignità.

NOTE:

[980] Arnulf., Hist. Mediolan., lib. 3, cap. 21.

[981] Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 30.

[982] Malaterra, lib. 2, cap. 43.

[983] Guillelmus Apulus, lib. 3.

[984] Leo Ostiens., lib. 3, cap. 16.

[985] Abbas Urspergensis, in Chron.

[986] Bertoldus Constantiensis, in Chron.

[987] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[988] Annalista Saxo apud Eccardum, tom, 1 Corp. Hist.

[989] Dandul. in Chron., tom. 12. Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MLXXII. Indizione X.

    ALESSANDRO II papa 12.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 17.


Portò opinione Girolamo Rossi[990], seguitato anche in ciò
dall'Ughelli[991], che _Arrigo arcivescovo_ di Ravenna desse fine alla
sua vita nell'anno 1070: il cardinal Baronio[992] credette che nell'anno
presente. Ma più probabile a me sembra che prima di quest'anno egli
sloggiasse dal mondo; perciocchè sappiamo, che essendo morto scomunicato
esso Arrigo[993], e trovandosi il popolo di Ravenna incorso in molte
censure, _papa Alessandro_ giudicò bene d'inviar colà san _Pier Damiano_
ravennate di patria, tuttochè avanzato forte nella vecchiaia, per dar
sesto a quella sì sconcertata chiesa. V'andò il santo uomo, fu con
grande allegria ricevuto, riconciliò tutto quel popolo, e, dopo aver
trattato d'altri affari, si rimise in cammino. Ma appena giunto ad un
monistero posto fuori della porta di Faenza, quivi fu preso dalla febbre
che, ogni dì più invigorendosi, il fece passare a miglior vita nel dì 22
di febbraio dell'anno presente[994]. Questi viaggi ed azioni, esigendo
tutti del tempo, a me fanno credere che almeno nell'anno precedente lo
scomunicato Arrigo cessasse di vivere. Fu poi sustituito in suo luogo,
per elezione del re Arrigo, _Guiberto_ dianzi suo cancelliere in Italia,
uomo pieno d'ambizione, e nato per flagello della Chiesa di Dio. Papa
Alessandro, che assai ne conosceva lo spirito turbolento, mal volentieri
condiscese a consecrarlo; ma, secondochè sta scritto nella Vita d'esso
pontefice[995] gli predisse che dalla santa Sede riceverebbe il gastigo
delle sue voglie ambiziose. Ho detto che Dio chiamò a sè san Pier
Damiano: debbo ora aggiugnere che mancò in lui un gran lume ed ornamento
della Cristianità, mercè della scienza e del raro zelo che in tutte le
azioni sue si osservò, e tuttavia si osserva ne' libri suoi, vivi
testimoni ancora di un felicissimo e piissimo ingegno, nei quali
solamente si può desiderare più parsimonia nelle allegorie, e più
cautela in credere e spacciar tante visioni e miracoli, alcuni de' quali
possono anche far dubitare dei veri. Abbiamo da Arnolfo, storico
milanese[996] di questi tempi, che nel presente anno per cura di
_Erlembaldo_, capo in Milano della fazione opposta alla simonia e
all'incontinenza del clero, alla presenza di _Bernardo_ legato della
Sedia apostolica, e nel dì dell'Epifania, fece eleggere dai suoi
parziali arcivescovo di Milano _Attone_, ossia _Azzo, tantummodo
clericum, ac tenera aetate juvenculum, invito clero, et multis ex
populo_. Perchè questo novello arcivescovo venne poi approvato da papa
_Gregorio VII_, il Puricelli fu d'avviso ch'egli non potesse avere sì
poca età, come suppone Arnolfo, il qual pure era allora vivente, e
scriveva di questi fatti. Ma oltre al potersi dire che _juvenculus_ non
vuol dire età che escluda il vescovato, le scabrose congiunture d'allora
dovettero giustificare l'aver eletto arcivescovo chi si potea; perchè i
più saggi ed attempati verisimilmente fuggirono una dignità accompagnata
dai pericoli di disgustare il re, e d'incontrar la persecuzione della
fazion parziale del re medesimo. Infatti poco durò l'allegrezza di
Attone. Mentre egli passava co' suoi ad un lauto convito, con cui si
voleva solennizzare l'acquisto di sì riguardevole mitra, fu in armi la
fazione contraria, ed entrata nel palazzo mise tutto sossopra. Si
nascose Attone a questo rumore, ma scoperto e preso, fu indegnamente
trattato anche con delle percosse. E se volle salvar la vita, gli
convenne salire in pulpito nella chiesa, e con alta voce rinunziare
all'elezione fatta di lui. Si nascosero tutti i suoi fautori; il legato
apostolico anch'egli corse gran pericolo, perchè gli furono stracciate
le vesti, laonde malconcio si sottrasse alla furia del popolo. In tal
confusione era la città di Milano. Gotifredo ed Attone fuori di Milano
non consecrati, e senza goder le rendite della chiesa, gran tempo
stettero campando del proprio, e chiusi nelle lor case di campagna.
Intanto si tenne in Roma un concilio, in cui venne approvata l'elezione
di Attone, e scomunicato Gotifredo.

Nell'agosto dell'anno precedente fu, siccome dicemmo, intrapreso
l'assedio di Palermo dagl'invitti due fratelli normanni _Roberto_ e
_Ruggieri_. Seguirono molti assalti e fatti d'armi sotto quella città.
Venne anche in soccorso de' Palermitani un grosso rinforzo di Mori[997];
ma non attentandosi coloro di assalire per terra l'esercito cristiano,
vollero tentar la loro fortuna per mare. Gl'intrepidi Normanni
accettarono la sfida, e nella battaglia navale menarono così ben le
mani, che riuscì loro di prendere alcune delle navi moresche, altre ne
affondarono, e il restante di esse fu costretto alla fuga. Dopo cinque
mesi dunque di faticoso assedio, Roberto fece dare un dì due furiosi ma
finti assalti da due parti alla città nuova posta nella penisola; ed
egli allorchè vide ben impegnati i cittadini nella difesa di que' due
siti, diede co' suoi una scalata ad un altro sito, e fortunatamente
v'entrò colla sua gente. Ritiraronsi perciò i Palermitani e Mori nella
vecchia città, e conoscendo che non v'era più speranza di resistere a
questo torrente, la mattina seguente i primati dimandarono di
capitolare: cioè esibirono la resa della città, purchè ai Musulmani (e
tali doveano essere quasi tutti allora quei cittadini o Siciliani o
Mori) fosse permesso di vivere liberamente nella loro legge maomettana.
A braccia aperte fu accettata la loro esibizione colla condizione
suddetta; laonde il duca e il conte vittoriosi presero il possesso di
quella nobil città, non già nel mese di giugno, come ha il testo
scorretto di Lupo Protospata[998], ma bensì nel dì 10 di gennaio
dell'anno presente, e dopo soli cinque mesi d'assedio, come ha l'Anonimo
barense[999], con cui va d'accordo Romoaldo salernitano[1000]. Diede
dipoi Roberto Guiscardo, secondochè lasciò scritto Leone ostiense[1001],
l'investitura di tutta la Sicilia al conte Ruggieri suo fratello,
ritenendo nondimeno in suo potere la metà di Palermo e di Messina. Ma
per quanto osservò l'abate Carusi[1002], nobile storico delle cose di
Sicilia, in questo ultimo punto non si appose al vero l'Ostiense, perchè
Roberto si riservò il pieno dominio delle suddette due città, e il resto
concedette al fratello. La Cronichetta amalfitana[1003], che all'anno
seguente riferisce la conquista di quella città, aggiugne che il
Guiscardo di colà portò a Troia varie porte di ferro e molte colonne di
marmo co' lor capitelli in segno della sua vittoria. Ci accertano le
memorie citate dal Fiorentini[1004] che in quest'anno ancora papa
Alessandro soggiornò in Lucca nel mese d'agosto e nei tre seguenti.
Vedesi parimente un placito[1005] tenuto da _Beatrice duchessa_ di
Toscana, e da _Matilda_ sua figliuola nel territorio di Chiusi: _anno
dominicae Incarnationis millesimo septuagesimo secundo, septimo idus
junii, indictione decima_, al quale intervennero i due conti di Chiusi
Rinieri e Bernardo coi vescovi di Chiusi e di Siena. Finì di vivere in
quest'anno[1006] _Adalberto_ arcivescovo di Brema, che fin qui era stato
primo ministro del re _Arrigo IV_; persona già in odio a tutti, perchè o
complice o autore di molte iniquità da esso re commesse. Fu uomo di
rigida continenza, e celebrava la messa con gran compunzione e lagrime;
ma senza avvedersi che la molta sua alterigia, vanità ed altri vizii
offuscavano di troppo e guastavano le sue poche virtù. Tanto il re
Arrigo pregò _Annone arcivescovo_ di Colonia, prelato di rara probità,
che volesse assumere il medesimo grado, che quantunque non poco egli
ricusasse, pure v'acconsentì. E in effetto cominciò il pubblico governo
sotto questo insigne prelato a prendere miglior faccia colla retta
amministrazione della giustizia, col castigo dei cattivi, e con altri
ottimi regolamenti. Ma durò ben poco questo sereno. Troppo violento,
troppo avvezzato al mal fare era il re Arrigo. Fugli ancora supposto che
_Ridolfo_ _duca_ di Suevia suo cognato macchinasse contro la sua corona,
ed era per vedersi una scena eguale a quella della Baviera. Ma avendo
Ridolfo fatto venire in Germania l'_imperadrice Agnese_ sua suocera,
questa così efficacemente s'interpose tra il figliuolo e il genero, che
ne seguì per ora la pace.

NOTE:

[990] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[991] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Archiepisc. Ravenn.

[992] Baron., in Annales Ecclesiast.

[993] Acta Sanct. Bolland., ad diem 23 februarii.

[994] Bertold. Constantiensis, in Chron.

[995] Nicol. Card. de Aragon., in Vita Alex. II Papae.

[996] Arnulf., Hist. Mediolanens., lib. 3, cap. 23.

[997] Guillelm. Apulus, lib. 3. Malaterra, lib. 2, cap. 45.

[998] Lupus Protospata, in Chron.

[999] Anonymus Barensis, apud Peregrin.

[1000] Romualdus Salernit., tom. 7 Rer. Ital.

[1001] Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 16.

[1002] Carusi, Stor. di Sicil., P. II.

[1003] Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 213.

[1004] Fiorentini, Memorie di Matilde, lib. 1.

[1005] Antiquit. Italic., Dissert. XXXI.

[1006] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.



    Anno di CRISTO MLXXIII. Indizione XI.

    GREGORIO VII papa 1.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 18.


Non potè molto durarla _Annone arcivescovo_ di Colonia alla corte del
_re Arrigo_[1007]. Egli edificava con una mano, e il re distruggeva con
tutte e due. Però non potendo più sopportare le sregolatezze del re,
facendo valere la scusa della sua avanzata età, tanto disse, che ottenne
di potersi liberar dalla corte, e di ritirarsi alla sua chiesa. Allora
fu che Arrigo, vedendosi come tolto di sotto all'aio, lasciò la briglia
a tutte le sue passioni, dandosi maggiormente in preda alle lascivie, e
nulla curandosi, se riduceva alla disperazione i popoli della Turingia e
Sassonia, con fabbricar tutto dì delle rocche in quel paese, con
permettere alle guarnigioni di prendere colla forza il sostentamento dai
poveri villani, e con proteggere le pretensioni dell'arcivescovo di
Magonza, che volea contro il costume esigere le decime da que' popoli.
Andarono perciò delle gravi doglianze a Roma contra di Arrigo, ed
esposte furono tutte le di lui infamie, e spezialmente la vendita delle
chiese: il che soprattutto dispiaceva al romano pontefice. Quindi
cominciarono i Sassoni a ribellarsi, voltando l'armi loro contra delle
fortezze fabbricate in lor pregiudizio dal re. Si aggiunse che _Ridolfo
duca_ di Suevia, _Bertolfo duca_ di Carintia, e il novello duca di
Baviera _Guelfo IV_[1008], veggendo sprezzato alla corte il savio ed
onorato lor parere, se ne ritirarono. In somma l'indomito cervello e
furor giovanile di Arrigo tutto andava facendo per perdere l'amore non
men dei grandi che dei piccoli, e per mettere la confusione in Germania:
il che pur troppo gli venne fatto. Intanto papa Alessandro, se dobbiamo
credere all'Urspergense[1009], spedì lettere ad esso re, _vocantes eum
ad satisfaciendum pro simoniaca haeresi, aliisque nonnullis emendatione
dignis, quae de ipso Romae fuerant audita._ Ma non potè il buon
pontefice _Alessandro_ proseguir più oltre questi disegni, perchè Dio il
chiamò a sè nel dì 21 d'aprile: pontefice per la sua pietà, umiltà,
eloquenza e zelo, non inferiore ai migliori[1010]. Si raccontano ancora
varii miracoli operati da Dio per intercessione di lui. Appena fu nel
giorno seguente data sepoltura al defunto papa, che i cardinali con
tutto il clero e popolo concordemente acclamarono papa il _cardinale
Ildebrando_ che prese il nome di _Gregorio VII_, e si rendè poi celebre
a tutti i secoli avvenire. Resistè egli finchè potè, ma bisognò darla
vinta al quasi furor del popolo, che non ammise dilazione. Nè ci volea
di meno in questi tempi sì sconcertati della Chiesa di Dio, che il petto
forte di questo virtuoso, dotto ed incorrotto pontefice, per correggere
spezialmente gli abusi delle simonie e dell'incontinenza del clero, che
troppo piede aveano preso dappertutto. Non volle ommettere il saggio
eletto tutti i riguardi dovuti al re Arrigo, per procurare, se mai era
possibile, di mantener la concordia, e per eseguir in parte anche il
decreto di papa Niccolò II, nel quale anch'egli aveva avuta mano. Cioè
spedì tosto i suoi messi in Germania coll'avviso al re della sua
elezione, e per quanto si ha dalla Vita di lui, a noi conservata da
Niccolò cardinal d'Aragona[1011], pregandolo, come avea fatto anche san
Gregorio il Grande, di non prestar l'assenso a tale elezione. _Quod si
non faceret, certum sibi esset, quod graviores et manifestos ipsius
excessus impunitos nullatenus toleraret._ Se è vera la parlata di questo
tenore (del che potrà talun dubitare), bisogna ben dire che il re Arrigo
dovette qui fare un grande sforzo al suo mal talento per consentire,
siccome è certo che consentì, ma non così tosto. Lamberto da
Schafnaburgo[1012], senza parlare dei messi suddetti, e dopo avere
esaltato l'integrità e l'altre virtù che concorrevano in questo
pontefice, scrive che il di lui inflessibile zelo ed ingegno acre fece
paura ai vescovi che si trovarono allora alla corte, ben consapevoli di
varii lor mancamenti, dei quali poteva egli un giorno chiedere conto.
Perciò esortarono Arrigo di dichiarar nulla l'elezione di lui, giacchè
fatta senza conoscenza ed ordine suo. Ma dovette prevalere il parer dei
più saggi, e il re si contentò d'inviare a Roma il _conte Eberardo_ con
ordine di conoscere come era passato il fatto; e se trovasse già
consecrato il papa novello, di protestare di nullità qualunque atto
fatto. Andò questo uffiziale, fu cortesemente accolto, dimandò conto
dell'operato, e l'eletto pontefice rispose, che contro sua volontà, non
ostante l'opposizione sua, era stato eletto dal clero e popolo; ma che
non s'era lasciato sforzare a prender anche l'ordinazione, volendo prima
essere assicurato che il re e i principi germanici avessero prestato
l'assenso all'elezione sua. Questa umile risposta, rapportata al re
Arrigo, il soddisfece, e però diede tosto ordine che fosse consecrato.
_Et statim Gregorium Vercellensem episcopum italici regni cancellarium
ad urbem transmisit, quatenus autoritate regia electionem ipsam
confirmaret, et consecrationi ejus interesse studeret._ Lamberto scrive
ch'egli fu consecrato nell'anno seguente nel giorno della Purificazione
di santa Maria. Ma è un errore, a mio credere, de' suoi copisti. Tanto
dalla Vita di lui conservata dal cardinal d'Aragona, quanto dal registro
delle lettere del medesimo papa[1013], chiaramente costa che fu
celebrata la di lui consecrazione nella festa de' principi degli
Apostoli, cioè nel dì 29 di giugno dell'anno presente.

Già aveano prese l'armi i popoli della Sassonia e Turingia, perchè niuna
giustizia poteano ottenere dal re. Ed egli inviperito volea procedere
colla forza; ma gli arcivescovi di Colonia e Magonza, i vescovi
d'Argentina e Vormazia, e i duchi di Baviera, di Suevia, dell'una e
dell'altra Lorena e di Carintia ricusarono di somministrar gente, non
parendo loro convenevole di andare all'oppressione di popoli innocenti.
Non istette per questo Arrigo di marciare armato contra di que' popoli;
ma più di quel che credeva li trovò forti e risoluti di vincere o di
morire. E intanto fra vari principi della Germania, stomacati di tanti
vizii di Arrigo, si cominciarono delle segrete pratiche per liberare il
regno da un re che tendeva alla sua distruzione. Nel precedente anno era
venuto in Italia _Gozelone_, ossia _Gotifredo_ il Gobbo, duca di Lorena,
tra il quale e _Matilda_, _contessa_ e insieme duchessa insigne di
Toscana, già dicemmo contratto matrimonio. Si disputa da varii scrittori
se fra essi si conservò il celibato: quistione difficile a risolversi
senza chiare testimonianze degli antichi, da chi è troppo lontano da
que' tempi. In questi governavano la Toscana e gli altri Stati del fu
marchese Bonifazio la _duchessa Beatrice_, e la suddetta _contessa
Matilda_ sua figliuola. Ora che Matilda, morto che fu il padrigno
Goffredo, cominciasse ad esercitare o sola o colla madre Beatrice la
suddetta autorità, lo deduco da un placito tenuto dalla medesima in
quest'anno[1014], _sexto idus februarii, Indictione undecima, extra
muros lucensis civitatis, in burgo, qui vocatur Sancti Fridiani_. Ivi
essa è intitolata _domna Mactilda marchionissa, hac ducatrix, filia
bonae memoriae Bonefatii marchionis_. È osservabile in quel documento
che Flaiperto giudice vien chiamato _missus domini imperatoris_: eppure
Arrigo IV non era giunto per anche alla corona dell'imperio, nè
s'intitolava imperadore. Il notaio, usato a questa antica formola, non
dovette badar molto al titolario d'allora. Un altro placito tenne in
quest'anno la duchessa Beatrice[1015] _in civitate Florentia infra
palatium de domo Sancti Johanni_, cioè nel palazzo del vescovo. La carta
è scritta _anno Domini nostri Jesu Christi septuagesimo secundo post
mille, quinto kalendas martii, Indictione undecima_. Qui è adoperata
l'epoca fiorentina, che comincia l'anno nuovo nel dì 25 di marzo, e
l'_indizione XI_ fa conoscere che si parla dell'anno presente 1075, il
quale, secondo lo stile fiorentino, era tuttavia anno 1072. In esso
documento si vede intimato il bando _domni regis_, e non già
dell'imperadore. Troviamo poi la duchessa Beatrice[1016] _cum praeclara
filia mea Mathilda nell'anno presente, Indictione XI, in die sabbati,
quod est quarto idus augusti, in festivitate sancti Laurentii martyris_,
che fa una donazione al monistero di san Zenone di Verona. Lo strumento
fu stipulato _in monasterio sancti Zenonis in refectorio_. Dissi venuto
in Italia Gotifredo il Gobbo prima dell'anno presente. Ne fa fede un
altro placito riferito dal Fiorentini[1017], e tenuto dalla duchessa
Beatrice _in civitate pisense in palatio domni regis, una cum Gotifredo
duce et marchione, XVI calendas februarii, Indictione XI_. E di qui
ancora impariamo che il giovine Gotifredo in vigore del suo matrimonio
colla contessa Matilda fu anch'egli ammesso al governo della Toscana e
degli altri Stati. Leggesi poi una lettera[1018] a lui scritta dal nuovo
papa Gregorio eletto, in cui gli significa la sua elezione e il buon
animo ed affetto paterno ch'egli tuttavia conservava verso del re
Arrigo. Pruova il cardinal Baronio[1019] che in quest'anno esso papa
andò a Benevento, dove _Landolfo VI_ principe di quella città gli prestò
giuramento di fedeltà e vassallaggio. Passò anche a Capua, dove
_Riccardo I_ principe fece un atto simile per riconoscere suo sovrano il
romano pontefice.

NOTE:

[1007] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[1008] Bertholdus Constantiniensis, in Chron.

[1009] Abbas Urspergens., in Chron.

[1010] Marianus Scotus, in Chronico. Donizo. Paul. Benried., in Vit.
Gregorii VII et alii.

[1011] Card. de Aragon., in Vit. Gregor. VII, ibid.

[1012] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[1013] Tom. 10. Concilior. Labbe.

[1014] Antiquit. Italic., Dissert. X.

[1015] Ibid., Dissert. VI.

[1016] Antiquit. Italic., Dissert. XI.

[1017] Fiorent., App. Memor. di Matil., pag. 150.

[1018] Gregor. VII, lib. 1, Ep. 4.

[1019] Baron., in Annal. Eccl.



    Anno di CRISTO MLXXIV. Indizione XII.

    GREGORIO VII papa 2.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 19.


Abbiamo dalla Vita di san _Gregorio VII_ nella raccolta di Niccolò
cardinale d'Aragona[1020], ch'esso pontefice spedì in Germania
l'imperatrice, non già _B_, ma _A_, cioè Agnese madre del re Arrigo, con
_Gherardo_ vescovo d'Ostia, _Uberto_ vescovo di Palestrina, _Rinaldo_
vescovo di Como, e col vescovo di Coira. Tale spedizione, per attestato
di Bertoldo da Costanza[1021] e di Lamberto da Scafnaburgo[1022],
appartiene all'anno presente. Furono questi legati ben accolti dal re
dopo Pasqua in Nuremberga; esposero le paterne ammonizioni di papa
Gregorio; ottennero che fossero cacciati di corte cinque nobili
cortigiani già scomunicati; ma poc'altro di sostanza. Diede ben buone
parole il re, e promise d'emendarsi; poscia li rispedì con tutto onore e
ben regalati. Contra de' Sassoni seguitava intanto il maltalento del
feroce re, i cui atti ed avvenimenti si veggono diffusamente scritti dal
suddetto Lamberto. E benchè il papa si fosse esibito mediatore per
comporre quelle rabbiose differenze, e s'affaticassero anche varii
principi della Germania per indurlo a placarsi, egli non la sapeva
intendere. Perchè le forze allora gli mancarono, infine come tirato pel
capestro acconsentì alla pace, e con delle condizioni di suo poco onore,
essendosi stabilito in quell'accordo che si smantellerebbono tutte le
fortezze da lui fabbricate in pregiudizio di quei popoli. Mosse anche
una furiosa lite al santo arcivescovo di Colonia _Annone_, e pochi erano
que' principi ch'egli non credesse suoi nemici, o non facesse tutto il
possibile per inimicarseli. Tenne in quest'anno il pontefice Gregorio
VII un gran concilio in Roma, al quale intervennero assaissimi vescovi,
ed inoltre, come s'ha da Cencio camerario presso il Baronio, e dal
cardinal d'Aragona[1023], _egregia comitissa Mathildis, Aczo marchio, et
Gisulfus salernitanus princeps non defuere_. Parlasi qui del famoso
marchese _Alberto Azzo II_ progenitore delle due linee de' principi di
Brunswich e di Este. Anche il papa suddetto scrisse in questo anno[1024]
a _Beatrice duchessa_ di Toscana che il _marchese Azzo_ avea promesso al
papa nel sinodo di rendere conto del suo matrimonio con _Matilda_
sorella di _Guglielmo vescovo_ di Pavia, e vedova del _marchese Guido_,
diversa da _Matilda_ la gran contessa e duchessa di Toscana. Secondo le
mie conghietture, doveva essere premorta a questo principe la contessa
_Garsenda_ sua seconda moglie, ed egli volle prenderne la terza, cioè la
suddetta Matilda[1025]. Ma riputandosi eglino parenti, ne fu portata la
denunzia a Roma. Fece il suo dovere il papa; ma non sappiamo qual fine
avesse un tal affare. Certo è aver fallato alcuni scrittori della vita
della gran contessa Matilda, in credere che di lei parlasse il papa in
quella lettera. Ora in esso concilio[1026] fu pubblicata la deposizione
de' preti concubinarii; decretato che niuno potesse ascendere agli
ordini sacri, se non prometteva la continenza; e fulminata di nuovo con
terribili anatemi la simonia. Portati in Germania questi decreti, gran
rumore ne fece il clero dissoluto di quelle contrade; e pertinaci in
voler sostenere l'inveterato abuso, eccitarono anche dei fieri tumulti
contra di que' vescovi, che si accinsero a pubblicarli e a farli
accettare. Parimente sappiamo che in questo concilio il pontefice
Gregorio pubblicò la scomunica[1027] contra di Roberto Guiscardo duca di
Puglia, non già, come suppose il cardinal Baronio, perchè egli dopo la
presa di Salerno avesse portata la guerra contro la Campania, e messo
l'assedio a Benevento, essendo più tardi succedute tali imprese. Vo io
sospettando piuttosto, che citato _Roberto Guiscardo_ a rinnovare il
giuramento di fedeltà, e a prendere l'investitura de' suoi Stati, come
aveano fatto i principi di Benevento e di Capoa, nè comparendo, si
tirasse addosso le censure della Sede apostolica. In una lettera scritta
a Beatrice e a Matilda nell'ottobre seguente, lo stesso papa Gregorio
significa loro che Roberto prometteva di prestare il suddetto
giuramento.

Era tornato il duca Roberto dopo la presa di Palermo, portando seco un
gran tesoro in Puglia, alla città di Melfi[1028], dove i baroni tutti
concorsero a baciar quell'invitta mano e a congratularsi. Ma fra essi
non comparve Pietro normanno, che dominava in Trani ed in altre terre,
nè avea dianzi voluto condur le sue genti all'impresa di Palermo,
spacciandosi indipendente dal duca. Ma Roberto non potea sofferire chi
in quelle parti non piegava il capo ai suoi voleri, e nol riconosceva
per padrone. Fece dunque l'assedio di Trani, e l'obbligò alla
resa[1029]. L'esempio di questa città fu seguitato da Giovenazzo, da
Bussiglia e da altre terre. Tuttavia fatto in una baruffa prigione esso
Pietro, sperimentò che la magnanimità non era l'ultima delle virtù di
Roberto, perchè riebbe la libertà, ed anche le sue terre, a riserva di
Trani, con obbligo di riconoscerle in vassallaggio dal duca. Anche
_Ruggieri conte_ di Sicilia[1030], ansiosissimo di aggiugnere alle sue
conquiste l'importante castello di san Giovanni, con fortificare un
vicino castello, cominciò a strignerlo, ben persuaso, che l'acquisto di
quella fortezza gli faciliterebbe quello del rimanente della Sicilia.
Intanto i corsari tunesini sbarcati a Nicotera nella notte della vigilia
di san Pietro, parte di quei cittadini uccisero, parte colle donne e coi
figliuoli condussero schiavi. Era stato nell'anno precedente conferito
il vescovato di Lucca ad Anselmo nipote del defunto papa Alessandro II,
e di patria senza dubbio milanese, uomo di santa vita e di sì eminente
prudenza, che papa Gregorio VII il deputò poscia per consigliere della
contessa Matilda, e il dichiarò suo vicario in Lombardia. Merita ben
questo illustre personaggio che se ne faccia menzione. Sua cura tosto fu
di volere riformar gli abusi introdotti fra i canonici della cattedrale
di Lucca, come s'ha dalla di lui vita[1031] scritta da un autore
contemporaneo, cioè dal suo penitenziere: abusi che erano in questi
tempi assai familiari anche nell'altre chiese d'Italia; ma per quante
esortazioni e minacce adoperasse, nulla potè ottener da essi. A qual
precipizio si conducessero quegli ecclesiastici per questo affare, lo
vedremo a suo luogo. Credette il cardinal Baronio[1032] che in questo
anno fossero eglino citati al concilio romano, ma ciò avvenne molto più
tardi. È anche degno d'osservazione, che stranamente prosperando i
Turchi nell'imperio cristiano d'Oriente, Gregorio VII volle commuovere i
principi e i re d'Occidente a formare un'armata da spedire colà per
opporsi ai progressi di que' Barbari[1033]; ma niun successo ebbero le
di lui premure. Questa è la prima volta che si cominciò a parlar di
crociate contro gl'infedeli d'Oriente. Scrisse ancora papa Gregorio
delle lettere fulminanti contro _Filippo re_ di Francia a cagione di
molti suoi eccessi, fra' quali entrò quello d'aver estorte immense somme
di danaro ai mercatanti italiani che trovò iti a una fiera di Francia.
Durava tuttavia la pia frenesia di rubare i corpi de' santi, ansando
tutti di aver presso di sè que' sacri depositi. In quest'anno appunto
riuscì ai monaci della Vangadizza sull'Adigetto di rubare ai Vicentini
il corpo di _san Teobaldo_ romito, che già dicemmo morto nell'anno 1066.
Portato il sacro pegno al loro monistero, siccome costa dalla storia
della sua traslazione[1034], fu esso onorato da Dio con assai miracoli,
con essersi anche trovato ad essi presente il marchese _Alberto Azzo II_
progenitore della casa d'Este. _Contigit, illustrem virum Azonem
marchionem, illius videlicet monasterii possessorem, advenire, et sicut
ante gesta solo auditu, sic eadem visu cognoscere_. Da lì a qualche
tempo arrivò alla Vangadizza Rodolfo fratello del medesimo santo per
ottenerne delle reliquie, e ne fece premurose istanze al marchese Azzo.
Ma questi rispondea, _se nolle tanti pretii thesauro regionem suam
depauperare, et alienam ditare_. Finalmente gliene concedette una parte.
Nel diploma, con cui Arrigo IV nell'anno 1077 confermò gli Stati ad esso
marchese _Azzo_, ed a _Ugo_ e a _Folco_ suoi figliuoli, siccome io
altrove[1035] osservai, si vede il _monistero della Vangadizza_, oggidì
bella terra appellata la _Badia_, posseduto allora dalla casa d'Este. Ma
io non avvertii, che anche questo bel passo egregiamente compruova la
verità d'esso diploma, perchè quel buon principe sommamente si rallegrò
di avere ottenuto il sacro corpo di san Teobaldo, _quod se suaeque
ditionis populum in adventu beati et omni laude celebrandi, confessoris
Teobaldi visitaverit_. Ed ecco dove era allora il principal soggiorno
del marchese Azzo estense. Le premure di papa Gregorio VII fecero che in
quest'anno nel mese di settembre _Domenico Silvio_ doge di Venezia e
duca della Dalmazia fece un assegno di beni alla chiesa patriarcale di
Grado. Il diploma, sottoscritto dai vescovi suffraganei, fu da me dato
alla luce[1036].

NOTE:

[1020] Rerum Italicar., P. I, tom. 3.

[1021] Bertholdus Constantiensis, in Chron.

[1022] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[1023] Cardinal. de Aragon., in Vit. Gregorii, VII.

[1024] Gregor. VII, lib. 2, Ep. 9.

[1025] Antichità Estensi, P. I, cap. 4.

[1026] Lambertus Schafnaburgensis, in Chronico.

[1027] Card. de Aragon., in Vit. Gregor. VII.

[1028] Guillelmus Apulus, lib. 3.

[1029] Chron. Amalfitan., tom. 1 Antiquit. Ital., pag. 213.

[1030] Gaufridus Malaterra, lib. 3, cap. 7.

[1031] Acta Sanctorum Bolland., ad diem 18 mart.

[1032] Baron., Annal. Ecclesiast.

[1033] Gregor. VII, lib. 2, Epist. 31 et 37.

[1034] Mabill., Saecul. Benedict. VI P. II.

[1035] Antichità Estensi, P. I, cap. 7.

[1036] Antiquit. Ital., Dissert, V.



    Anno di CRISTO MLXXV. Indizione XIII.

    GREGORIO VII papa 3.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 20.


Un altro insigne concilio romano nel fine di febbraio fu in quest'anno
celebrato da papa _Gregorio VII_[1037], in cui lo zelantissimo pontefice
per la prima volta pubblicamente proibì sotto pena di scomunica le
investiture de' vescovati e delle abbazie che i re davano agli
ecclesiastici, con porgere loro il pastorale e l'anello. S'era da molti
anni introdotta questa novità, e coll'essere divenuta dipendente dalla
volontà dei sovrani temporali, che in que' tempi erano di coscienza
guasta, la collazion delle chiese e dignità ecclesiastiche, s'era aperta
una larga porta alla simonia. Infatti si conferivano queste dai re a chi
le comperava colla lunga servitù alle corti, o colle adulazioni, e più
sovente a chi più largamente offeriva regali e danaro. Venivano con ciò
a cader bene spesso le chiese in mano di chi meno le meritava, restando
neglette le persone degne. Furono anche in esso concilio confermati i
decreti contra de' cherici concubinarii. Di nuovo eziandio fu
scomunicato _Roberto Guiscardo_, il quale in questi tempi tenea segrete
pratiche col re Arrigo, e nello stesso tempo dava buone parole al papa
di volersi suggettare a tutti i di lui voleri. Ora il decreto suddetto
intorno alle investiture, siccome parea che sminuisse di troppo
l'autorità già usurpata dai monarchi, così fu la scintilla che accese
dipoi la funesta guerra fra il sacerdozio e l'imperio. Sulle prime non
ne fece doglianza o risentimento alcuno il re Arrigo, perchè incerto
dell'esito della guerra da lui impresa contra de' Sassoni; anzi scrivea
lettere di tutta sommessione e buona volontà al papa. Appena ne uscì
egli vittorioso, che cominciò i suoi strepiti contro la Sede apostolica.
Mosse egli dunque nell'anno presente le sue armi contro i popoli della
Sassonia e Turingia[1038], dopo aver tanto operato colle lusinghe e
promesse, che avea tirato nel suo partito i primi principi della
Germania, cioè _Ridolfo duca_ di Suevia, _Guelfo duca_ di Baviera,
_Goffredo_ il Gobbo _duca_ di Lorena, e _Bertoldo duca_ di Carintia, i
quali accorsero tutti colle lor genti a secondarlo in quell'impresa.
Verso la metà di luglio seguì una sanguinosa battaglia fra l'esercito di
Arrigo e quel de' Sassoni, e fu disputata un pezzo la vittoria; ma in
fine andarono rotti i Sassoni, con essere nondimeno costato caro questo
trionfo all'armata regale, in cui perì molta nobiltà, specialmente della
Baviera e Suevia. Fama fu che restassero sul campo circa ventimila
persone. Furono, siccome dissi, cagione questi fortunati successi che il
re Arrigo, dianzi cotanto mansueto col romano pontefice, prendesse
un'altr'aria, e cominciasse a farla da sprezzante, con ammetter anche
alla sua corte e familiarità que' ministri che dianzi erano stati
scomunicati dalla Sede apostolica. Intanto i Sassoni non lasciavano
intentato mezzo alcuno per ottener pace e grazia dal re, il quale sempre
più infellonito contra d'essi, e gonfio per la passata fortuna, nulla
meno macchinava che l'intera loro schiavitù e rovina. Però affine di
esterminarli intimò una nuova spedizion contra di loro, ed era con lui
Goffredo duca di Lorena con sì grosso corpo di gente scelta, che
uguagliava il resto dell'esercito del re[1039]. Ma gli altri duchi,
_Radulfus scilicet dux Suevorum, Welf dux Bajoariorum, Bertholdus dux
Carentinorum, regi auxilium suum petenti denegaverunt: poenitentes, ut
ajebant, superiori expeditione in irritum fusi tanti sanguinis, offensi
etiam regis immiti atque implacabili ingenio, cujus iracundiae incendium
nec lacrymae Saxonum, nec inundantes campis Thuringiae rivi sanguinis
restinguere potuissent_. Ciò non ostante, s'interposero tanti per la
pace, che i Sassoni s'arrenderono alla volontà del re, il quale cacciò
in esilio la maggior parte dei lor capi e baroni, e trattò il resto alla
peggio.

Succedette in quest'anno nel martedì santo, giorno 30 di marzo, un nuovo
terribile incendio nella città di Milano, descritto da Arnolfo
milanese[1040], scrittore di vista. E fu come cosa miracolosa, perchè
insorto nell'aria un vapore che vomitava fiamme, attaccò il fuoco alle
case che si erano salvate nel precedente incendio, e alle già
rifabbricate: con divario nondimeno dall'altro, perchè questo distrusse
più chiese, a fra l'altre le due basiliche metropolitane, cioè la
mirabil estiva di santa Tecla, e l'invernale di santa Maria, con quelle
di san Nazario e di santo Stefano. Il danno di quella città fu
incredibile. Non ostante sì terribil disgrazia, _Erlembaldo_ seguitava a
far guerra al clero incontinente di quella città, ed impedì anche
nell'anno presente il battesimo solenne che si solea fare in tutte le
cattedrali nel sabbato santo. Irritati per questo i nobili, e guadagnata
parte della plebe, vennero alle mani colla gente di Erlembaldo, ed egli
in quella zuffa restò morto, e fu poi riguardato qual martire e
riconosciuto per santo, avendo anche Iddio con varii miracoli onorata la
di lui sepoltura. Il Puricelli ne scrisse la vita. Dopo ciò il popolo di
Milano, il quale, esaminati ben questi fatti, pare che già avesse
assunta qualche forma di repubblica, ma con riconoscere tuttavia il
comando e l'autorità del re Arrigo, unito col clero, spedì un'ambasciata
al re medesimo per avere un arcivescovo[1041]. Giacchè egli era pentito
di aver dato per arcivescovo ai Milanesi _Goffredo_, fu da lui eletto
_Tedaldo_ suddiacono milanese, che era suo cappellano, e il mandò a
Milano, dove trovò buona accoglienza non men presso il clero, che presso
il popolo, avido sempre di cose nuove. Si videro allora in un medesimo
tempo, e non senza scandalo, tre arcivescovi di Milano, cioè _Gotifredo_
consecrato, ma esiliato; _Attone_ sostenuto e consecrato da papa
_Gregorio VII_, e vivente in Roma, e _Tedaldo_ ultimamente sopraeletto
agli altri due. Fece quanto potè il papa per impedire la consecrazion di
Tedaldo; ma i vescovi suffraganei attaccati al re Arrigo, ad onta di
lui, il consecrarono. Corse in quest'anno un gran pericolo lo stesso
pontefice Gregorio[1042]. Aveva egli pubblicata la scomunica contra di
Cencio figliuolo di Stefano già prefetto di Roma, ma non già, a mio
credere, prefetto anche egli d'essa città, uomo prepotente sì per la sua
dignità e nascita, come per le sue grandi ricchezze, usurpator de' beni
delle chiese, ed amico del duca di Puglia _Roberto Guiscardo_. Istigato
costui dalle segrete insinuazioni di _Guiberto arcivescovo_ di Ravenna,
che già aspirava al papato, allorchè papa Gregorio nella notte del santo
Natale di questo, e non già del seguente anno, celebrava la messa a
santa Maria Maggiore, entrato con gente armata, il prese, e staccatolo
dal sacro altare, seco il trasse ad una sua torre. Paolo
benriedense[1043] aggiunge che esso papa riportò una ferita in quella
funesta occasione. Si sparse tosto per la città la nuova di tanta
empietà, a cui tutti inorridirono; e il popolo romano, dato di piglio
all'armi, fatto il giorno, in furia corse alla torre di Cencio, e quivi
con fuoco, con catapulte e con altri ingegni di guerra cominciò a
batterla sì forte, che Cencio prevedendo in breve la propria rovina, si
gettò a' piedi del papa, implorando, non che misericordia, aiuto per
salvarsi. Allora il clementissimo pontefice affacciatosi ad una
finestra, fece fermar gli assalti e l'ira del popolo; e tratto dalla
torre, se ne tornò fra le acclamazioni di tutti a terminar la messa a
santa Maria Maggiore; segno o che non era ferito, o che la ferita
dovette essere ben leggera.

Furono poi dal popolo devastati e confiscati tutti i beni dell'empio
insieme e pazzo Cencio che ebbe la fortuna di poter fuggire colla moglie
e co' figliuoli. Gli aveva il papa imposto la penitenza di fare il
viaggio di Gerusalemme. Arnolfo milanese[1044], scrittore di questi
tempi, ci assicura, non essere passato l'anno, che costui morì soffocato
da un'ulcera nella gola. Lo attesta anche Bertoldo da Costanza[1045],
con dire che Cencio nei primi mesi dell'anno 1077 andò a Pavia menando
prigione _Rainaldo vescovo_ di Como, per essere ricompensato dal re
Arrigo, e che quivi morendo all'improvviso, trovò quel guiderdone che
meritavano le di lui scelleratezze. Approdarono inaspettatamente in
quest'anno i Mori in Sicilia alla città di Mazzara[1046], e trovando i
cittadini mal preparati a questa visita, entrarono per forza nella
città. Posero anche l'assedio al castello situato nella pianura della
città e vi stettero sotto ben otto giorni. Informato di ciò il _conte
Ruggieri_, entrò di notte con uno stuolo d'armati in esso castello, e la
seguente mattina uscì addosso ai nemici. Moltissimi di coloro restarono
sul campo, gli altri incalzati, come poterono il meglio, si salvarono
alle navi. Se si ha a prestar fede agli Annali pisani[1047], nella festa
di san Sisto di agosto dell'anno presente presero i Pisani la città di
Almadia, ed obbligarono Firmino re d'essa a pagar tributo da lì innanzi
a Pisa, _et coronam romano imperatori assignaverunt_. Possiam fidarci
poco d'essi Annali, ne' quali all'anno 1077 si torna a dire che i Pisani
presero Almadia in Africa, e ciò parimente nel dì di S. Sisto. Ed altri
Annali pisani riferiscono questo fatto all'anno 1088, dove ne tornerò io
a parlare. Trovavasi nell'anno presente _Beatrice duchessa_ di Toscana
in San Cesario, distretto di Modena, dove nel dì 8 di giugno[1048]
compose una differenza insorta fra Eriberto vescovo di Modena ed Alberto
di Bazovara per la canonica di Cittanuova. Leggesi parimente un placito
tenuto da essa Beatrice[1049], appellata _gloriosissima comitissa_, e da
_Matilda_ sua figliuola _in civitate Florentia in via prope ecclesia
sancti Salvatoris juxta palatio de domni sancti Battista, anno ab
Incarnatione Domini nostri Jesu Christi septuagesimo quinto post mille,
nonas martii, Indictione tertiadecima_. Qui è l'anno fiorentino. Se s'ha
da credere alla Cronichetta amalfitana[1050], nell'anno presente Roberto
Guiscardo s'impadronì della città di santa Severina in Calabria.

NOTE:

[1037] Concil. Labbe tom. 9.

[1038] Lambertus Schafnaburgensis, in Chr. Bertholdus Constatiens., in
Chron.

[1039] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[1040] Arnuf., Hist. Mediolan., lib. 4. cap. 8.

[1041] Idem, lib. 5, cap. 5.

[1042] Pandulfus Pisanus, et Cardinal. de Aragon., in Vit. Greg. VII.
Lambertus Schafnaburg., in Chron.

[1043] Paulus Benriedens., in Vit. S. Greg. VII P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[1044] Arnulf. Hist. Mediolanens., lib. 5, cap. 6.

[1045] Berthold. Constantiensis in Chron.

[1046] Gaufrid. Malaterra lib. 3, cap. 9.

[1047] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[1048] Antiquit. Italic., Dissert. V.

[1049] Ibid., Dissert. XVII.

[1050] Chron. Amalfitan., tom. 1. Antiq. Ital., pag. 214.



    Anno di CRISTO MLXXVI. Indizione XIV.

    GREGORIO VII papa 4.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 21.


Fu sopra gli altri funesto l'anno presente, perchè principio
dell'abbominevol guerra fra il sacerdozio e l'imperio. Fin qui avea il
pontefice _Gregorio_ usate tutte le maniere più efficaci, ma insieme
dolci, per impedir la rottura, saldo nondimeno in voler abolita l'empia
usanza di vendere i vescovati, ed eseguito il decreto formato contra le
investiture delle chiese date dai principi laici. Ma il _re Arrigo_,
insuperbito per li buoni successi della guerra di Sassonia, più che mai
continuava il commercio simoniaco, e comunicava cogli scomunicati dalla
santa Sede. In una lettera scritta il dì 8 di gennaio dell'anno
presente[1051], con esso lui si doleva il papa, perchè avesse dato
contro le promesse l'arcivescovato di Milano a _Tedaldo_, ed inoltre
conferite le chiese di Fermo e di Spoleti a persone incognite al
medesimo papa: segno che il ducato di Spoleti e la marca, appellata già
di Camerino e talvolta di Fermo o d'Ancona, erano ritornati, dopo la
morte di Goffredo Barbato duca di Lorena e Toscana, all'ubbidienza del
re Arrigo. Ora il pontefice Gregorio, siccome personaggio di cuore
intrepido, non mancò di scrivergli delle lettere più vigorose delle
passate, e di avvertirlo, che s'egli non mutava registro, sarebbe
forzata la santa Sede ad escluderlo dalla comunion de' fedeli. A questo
fine gl'inviò nuovamente dei legati, che furono accolti con disprezzo.
Fece l'infuriato re tenere una gran dieta in Vormazia nella domenica di
settuagesima, dove intervennero tutti i vescovi ed abbati mal
intenzionati verso il papa. Sopraggiunse ancora _Ugone il Bianco_
cardinale, che di nuovo ribellatosi dalla Chiesa romana, comparve colà
con lettere finte del senato romano, de' cardinali e d'altri vescovi,
che richiedevano la deposizion di Gregorio VII e l'elezione di un nuovo
papa. Di più non occorse, perchè il re Arrigo in essa dieta coi vescovi
suddetti formassero un decreto, in cui dichiararono illegittimo
pontefice e scomunicato papa Gregorio. Dopo di che[1052] spedì Arrigo i
suoi messi con lettere in Lombardia e nella marca di Fermo per
significare a tutti la risoluzion presa, e per sommuovere ciascuno
contra di lui. Fu eziandio data ad un Rolando cherico di Parma
l'imcumbenza di portare alla Chiesa romana una lettera fulminante e un
ordine spedito in qualità di patrizio a papa Gregorio di scendere dal
trono pontifizio, per dar luogo all'elezione di un altro papa. Arrivò
questo Rolando a Roma in tempo che si celebrava un concilio numeroso
nella basilica lateranense[1053], ed entrato nella sacra assemblea
arditamente, dopo aver presentate al papa le lettere, con alta voce
gl'intimò di lasciare in quel punto la cattedra pontificia, e al clero
romano di portarsi per la Pentecoste alla corte, per ricevere dalle mani
del re un vero papa, perchè il presente era un lupo. Alzossi allora
_Giovanni vescovo_ di Porto, gridando che fosse preso quel temeriario; e
il prefetto di Roma colla milizia, sguainate le spade, corsero sopra di
lui per levarlo di vita; e l'avrebbono fatto, se, interpostosi il papa,
non lo avesse salvato dalle loro mani. Ventilata dipoi nel concilio la
causa, ed animato il pontefice dall'assistenza della _duchessa Beatrice_
e della _contessa Matilde_, che stendevano la lor possanza sopra buona
parte d'Italia, e dalla disposizione in cui sapea che erano i più
riguardevoli principi della Germania, dichiarò scomunicato e decaduto
dal regno Arrigo IV, con assolvere tutti i di lui sudditi dal giuramento
di fedeltà: risoluzione che, quantunque non praticata da alcuno de' suoi
predecessori, pure fu creduta giusta e necessaria in questa congiuntura.

Morì nell'anno presente sul fine di febbraio, e di morte violenta,
_Gozelone_ ossia _Goffredo_ il Gobbo, duca di Lorena e Toscana, da noi
veduto marito della contessa Matilde[1054]. Ito egli una notte al luogo
adattato pei bisogni del corpo, che dovea ben essere fabbricato alla
balorda, da un uomo che stava in agguato (fu detto per ordine di
_Roberto conte_ di Fiandra) di sotto con una freccia fu sì mortalmente
ferito nelle natiche, che, secondo Lamberto, da lì a sette giorni, o,
secondo Bertoldo, la stessa notte gli convenne morire, ed anche senza i
sacramenti, se si ha a credere a Brunone scrittor della guerra di
Sassonia. Per la sua bravura e prudenza vien lodato non poco da esso
Lamberto. Fu gran partigiano del re Arrigo IV, e però sospetto e poco
caro a papa Gregorio VII, e a Beatrice e Matilde. Ma potea ben
risparmiare il Fiorentini[1055] di farlo anche autore della nera
congiura ed insolenza di Cencio romano contra la sacra persona di papa
Gregorio, perchè nessun giusto fondamento di questa taccia a noi porge
l'antica storia. Essendo egli morto senza prole, Arrigo investì del
ducato della Lorena _Corrado_ suo proprio figliuolo, e diede la marca
d'Anversa a _Gotifredo_ figliuolo del conte Eustachio, e cugino del
defunto Gotifredo, il quale col tempo divenne re di Gerusalemme. Restò
con ciò senza marito la contessa Matilde, e non andò molto ch'ella si
vide tolta anche la madre. Terminò il corso di sua vita la duchessa
_Beatrice_ nel dì 18 di aprile nella città di Pisa, come consta dai
versi di Donizone[1056]:

    _Octo decemque dies aprilis dum sinit ire_
    _Christi post ortum vera de Virgine corpus_
    _Anno milleno bis terno septuageno._

Principessa di gran pietà, di egual prudenza e d'animo virile, che si
tenne sempre attaccata alla santa Sede, ma senza perdere il rispetto al
re Arrigo, anzi con essere mediatrice di concordia e pace fra lui e il
pontefice Gregorio. La maggior gloria nondimeno di Beatrice fu l'aver
messa al mondo, e mirabilmente educata in tutte le virtù e nella
cognizion delle varie lingue, la _contessa Matilde_, la quale rimasta
sola al governo della Toscana e degli altri aviti suoi Stati, cominciò a
far conoscere i suoi rari pregi nelle fiere rivoluzioni che andrò da qui
innanzi accennando. Nè si dee tacere che il monaco Donizone s'adirò
contra di Pisa, perchè quivi, e non in Canossa, fu seppellita la
duchessa Beatrice. I suoi versi ci faran conoscere conoscere, come
allora fosse mercantile la città di Pisa[1057]:

    _..... Dolor heic me funditus urit,_
    _Quum tenet urbs illam, qua non est tam bene digna._
    _Qui pergit Pisas, videt illic monstra marina,_
    _Haec urbs Paganis, Turchis, Libycis quoque,_
    _Parthis,_
    _Sordida. Chaldaei sua lustrunt littora tetri._
    _Sordibus a cunctis sum munda Canossa, sepulcri_
    _Atque locus pulcher mecum. Non expedit urbes_
    _Quaerere perjuras, patrantes crimina plura._

Che voglia dire con queste ultime parole Donizone, non si può ben
intendere. Ma ben si capisce che Pisa era in questi tempi un famoso
emporio e porto franco, dove erano ammessi gl'infedeli orientali ed
africani: il che parve a Donizone un'indegnità, e perciò più meritevole
la sua patria Canossa, per cagione della sua purità in materia di
religione.

Le determinazioni prese in Roma contro del re Arrigo, quelle furono che
finirono di determinare i primi principi della Germania a ritirarsi dal
re Arrigo scomunicato, e a seriamente divisare dei mezzi di rimettere la
quiete in quelle contrade[1058]. E giacchè vedeano più che mai ostinato
il re nelle sue violenze e in altri vizii, passarono a liberar sè stessi
e i popoli da un principe nato solamente per rendere infelici i suoi
sudditi. I primarii dunque che l'abbandonarono, furono _Ridolfo_ duca di
Suevia, _Bertoldo_ duca di Carintia e _Guelfo_ duca di Baviera, il cui
padre, cioè il marchese _Alberto Azzo II_, signore d'Este, di Rovigo e
di altri Stati in Italia, parzialissimo fu sempre anch'egli della santa
Sede, e dovea ben promuovere gl'interessi d'essa presso il figliuolo
duca. Andò a dismisura crescendo il loro partito, e v'entrarono
moltissimi vescovi. In una dieta da essi tenuta in Tribuna dopo la metà
d'ottobre, dove intervennero anche i legati della santa Sede, fu
progettato di creare un nuovo re. Arrigo venuto alla villa di Oppeneim,
fra cui e Tribuna scorreva il Reno, affine di schivar l'imminente nembo,
spediva di tanto in tanto legati, con promettere emendazion di vita,
soddisfazioni, benefizii; e perchè niun si fidava di un principe che
tante volte avea mancato alle promesse, e venivano rigettate le di lui
belle parole, non lasciò egli indietro sommissione e preghiera alcuna
per placarli. Finalmente gli fu accordato del tempo, e conchiuso che al
romano pontefice sarebbe rimesso questo affare, e che esso papa sarebbe
pregato di trovarsi in Augusta per la Purificazione di santa Maria; ed
esaminate le ragioni dell'una e dell'altra parte, si starebbe al
giudicato di sua Santità, con altre condizioni da eseguirsi al presente,
che io tralascio. Non così fecero i più dei vescovi di Lombardia[1059].
Erano stati eglino scomunicati insieme con _Guiberto arcivescovo_ di
Ravenna nell'ultimo concilio romano, e da papa Gregorio. Però esso
Guiberto, e _Tedaldo arcivescovo_ di Milano con altri vescovi
scismatici, raunato un conciliabulo in Pavia, scomunicarono anch'essi lo
stesso papa Gregorio. Questo partito a sè favorevole in Italia fece
risolvere il re Arrigo di non aspettare in Germania la venuta del
pontefice romano, ma di portarsi egli a dirittura ad implorare la di lui
misericordia di qua dall'Alpi. E tanto più credette migliore questo
spediente, perchè temeva di soccombere nella dieta germanica alla folla
di tanti accusatori delle sue enormità, delle quali ben sapeva di non
avere scusa; e che gli riuscirebbe più facile lungi da tanti suoi
avversarii di guadagnare il romano pontefice. Ma perciocchè i duchi di
Baviera, Suevia e Carintia aveano chiuso con gente armata i passi per i
quali si cala in Italia, egli colla moglie _Berta_ e col piccolo
figliuolo _Corrado_, accompagnato da pochi, prese il cammino della
Borgogna[1060], e celebrò il santo Natale in Besanzone. Continuando
poscia il viaggio, _quum in locum, qui Civis dicitur, venisset, obviam
habuit socrum suam_ (cioè _Adelaide_ marchesana di Susa) _filiumque ejus
Amedeum nomine, quorum in illis regionibus et autoritas clarissima et
possessiones amplissimae, et nomen celeberrimum erat_. Non saprei dire
se qui si parli della terra di _Civasco_. Fu onorevolmente ricevuto da
essi Arrigo IV; ma se volle continuare il viaggio, gli convenne conceder
loro cinque vescovati d'Italia contigui ai loro Stati: senza di che non
voleano lasciarlo passare. Parve ciò duro al re, ma i suoi interessi più
premurosi il fecero cedere a tali istanze. Il Guichenone[1061] pretende
che questi vescovati fossero in Borgogna, e forse il _Bugey_. Ma
Lamberto chiaramente scrive _quinque Italiae episcopatus_. Talmente era
in questi tempi cresciuta la fama e potenza di _Roberto Guiscardo duca_
di Puglia, Calabria e Sicilia, che _Michele Duca_ imperadore d'Oriente
concertò di avere una di lui figliuola per moglie di _Costantino Duca_
Porfirogenito Augusto suo figliuolo e collega nell'imperio. Giovanni
Zonara attesta[1062] che la figliuola fu condotta a Costantinopoli, e,
secondo l'uso de' Greci, le fu posto il nome di Elena. Lupo
Protospata[1063] nota anch'egli sotto l'anno presente le suddette nozze.
Ed aggiugne che _Ruggieri conte_ di Sicilia e fratello d'esso Roberto
fece prigione un nipote del re d'Africa, che era venuto in Sicilia a
Mazzara comandante di cento cinquanta legni. Ma questa sarà l'impresa
medesima che il Malaterra[1064] mette sotto l'anno precedente, e, per
conseguente, potrebbe anche essere accaduto il matrimonio nobilissimo
della figliuola di Roberto Guiscardo in esso anno. Resto io in dubbio se
in questi tempi il medesimo Roberto facesse l'impresa di Salerno, come
vuole Romoaldo salernitano[1065], oppure nel seguente, dove ne
parleremo. In Sicilia avea lasciato esso conte Ruggieri per suo
luogotenente Ugo di Gircea, marito di una sua figliuola bastarda.
Questi, voglioso di segnalarsi con qualche bella impresa, benchè ne
avesse un divieto dal conte, insieme con Giordano, figliuolo anch'esso
illegittimo d'esso Ruggieri, diede addosso a Benavert saraceno
governatore di Siracusa. Ma caduto in una imboscata, vi lasciò la vita
co' suoi, e Giordano appena si salvò con pochi. Affrettò per questa
disavventura il conte Ruggieri il suo ritorno in Sicilia, e fece per
allora quella vendetta che potè, con dare il sacco a qualche castello e
paese de' Mori vicini.

NOTE:

[1051] Gregor. VII, lib. 1, Epist. 10.

[1052] Bertholdus Constantiensis, in Chron.

[1053] Paulus Benriedens., in Vit. Gregor. VII, cap. 69.

[1054] Lambertus Schafnaburgensis, in Chronico. Bertholdus
Constantiensis, in Chronico. Bruno, de Bell. Saxon.

[1055] Fiorentini, Memorie di Matilde, lib. 1.

[1056] Donizo, in Vit. Mathildis, lib. 1, cap. 20.

[1057] Donizo, in Vit. Mathildis, lib. 1, cap. 20.

[1058] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron. Berthold. Constant., in
Chron.

[1059] Cardin. de Aragon., Vit. Greg. VII.

[1060] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[1061] Guichenon, de la Maison de Savoye, tom. 1.

[1062] Zonaras, Annal., tom. 2, pag. 288. Guillelm. Apulus, cap. 3.
Malaterra, lib. 3, cap. 13.

[1063] Lupus Protospata, in Chron.

[1064] Malaterra, lib. 3, cap. 10.

[1065] Romualdus Salernitanus, Chron., tom. 7. Rer. Ital. Malaterra,
lib. 3, cap. 10.



    Anno di CRISTO MLXXVII. Indizione XV.

    GREGORIO VII papa 5.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 22.


Secondo il concerto, s'era messo in viaggio il _pontefice Gregorio_ con
disegno d'andare alla dieta già intimata da tenersi in Augusta nel
principio di febbraio di quest'anno[1066]. Uno dei più atroci verni che
mai sieno stati, si provava allora in Lombardia. Contuttociò l'animoso
pontefice si mise in viaggio, e, scortato dalla _contessa Matilde_,
arrivò fino a Vercelli: quando eccoti nuova che il _re Arrigo_ era
giunto in Piemonte. Infatti dopo incredibili patimenti aveva egli
valicate le Alpi piene di ghiacci e nevi, e corso più volte pericolo
della vita colla moglie e col figliuolo; ma per timore che passasse
l'anno dopo la scomunica contra di lui fulminata, egli si espose ad ogni
rischio e fatica, tantochè pervenne in Italia. Sparsasi la fama del suo
arrivo, corsero a visitarlo ed onorarlo i vescovi simoniaci di Lombardia
e i conti; ed in breve si vide alla sua corte un conflusso innumerabil
di gente. Ora non sapendo il papa se Arrigo venisse o con buona o con
cattiva intenzione, tenuto consiglio, giudicò bene di retrocedere e di
ritirarsi colla contessa Matilda alla di lui inespugnabil rocca di
Canossa sul Reggiano. Colà comparvero molti vescovi e laici di Germania,
venuti per disastrose ed inusitate strade a chieder l'assoluzion della
scomunica, e dopo qualche giorno di penitenza l'ottennero. Vi comparve
ancor il re Arrigo, e fatta chiamar la contessa Matilde ad un
abboccamento, _eam precibus ac promissionibus oneratam ad papam
transmisit, et cum ea socrum suam_ (Adelaide marchesana di Susa)
_filiumque ejus_ (Amedeo) _Azzonem etiam marchionem_ (dal quale abbiam
detto che discende la real casa di Brunswich e la ducale d'Este) _et
abbatem cluniacensem_ (Ugo), _et alios nonnullos ex primis Italiae
Principibus, quorum auctoritatem magni apud eum momenti esse non
ambigebat, obsecrans, ut excomunicatione absolveretur, ne principibus
teutonicis, qui ad accusandum eum stimulo invidiae magis quam zelo
justitiae exarsissent, temere fides haberetur_. Somma fatica si durò da
tutti per muovere il papa a commiserazione ed accordo. Lasciossi in fine
piegare, purchè Arrigo deponesse le regali insegne, e desse veri segni
di pentimento. Seguì pertanto quella scena, che fece allora e dipoi
grande strepito, e farallo anche nei secoli avvenire: cioè fu ammesso
Arrigo entro la seconda cinta di muro di quella rocca, che tre ne avea.
Quivi accompagnato da tutti, senza alcun segno dell'esser suo di re, con
veste di lana, co' piè nudi, mentre un eccessivo freddo regnava sopra la
terra, restò un giorno, e poi l'altro, ed anche il terzo, con farlo ivi
digiunare sino alla sera. Tempo viene talvolta che la superbia, primo
mobile dei regnanti, cede il trono all'interesse. Dopo i tre dì, e come
scrive Donizone[1067]:

    _Ante dies septem, quam finem Janus haberet,_
    _Ante suam faciem concessit papa venire_
    _Regem, cum plantis nudis a frigore captis._

Cioè nel dì 25 di gennaio diede il papa udienza ad Arrigo, che prostrato
a' suoi piedi, dimandò misericordia de' suoi falli. Celebrò il pontefice
la messa, e presa la sacra ostia nelle mani, perchè i suoi nemici lo
spacciavano per simoniacamente asceso al papato, si purgò da questa
calunnia. Esibì ad Arrigo di fare altrettanto, s'egli si credeva
innocente, e non reo di tante accuse prodotte contra di lui. Ma egli con
varie scuse se ne guardò. Fu poscia al pranzo col pontefice, il quale lo
avea ben assoluto della scomunica, ma con lasciare in sospeso l'affare
del regno, e rimettere ai principi germanici e ad una dieta il decidere
s'egli dovesse deporre la corona, oppure ritenerla. Dopo ciò il papa
venne a Reggio, dove si trovava _Guiberto arcivescovo_ di Ravenna, il
più maligno degli avversarii del papa, con gli altri vescovi simoniaci,
aspettando il compimento delle promesse di Arrigo.

Convien ora sapere, essersi appena inteso in Lombardia come era passato
il congresso del re col papa in Canossa[1068], che infinite mormorazioni
ed insolenze si sparsero non men contra dello stesso pontefice,
trattandolo da tiranno, da omicida, da simoniaco, quanto contra
d'Arrigo, perchè sì vilmente si fosse suggettato ad un sì indegno
trattamento. Fu proposto di creare _Corrado_ figliuolo di Arrigo, benchè
di tenera età, re: tutti fuggivano, o vilipendevano Arrigo, e le città
gli serravano le porte in faccia. Ora tra per questo, e perchè non già
di buon cuore, ma per necessità de' suoi affari, egli avea fatta quella
concordia col papa, se ne pentì egli ben presto. Gli stava a' fianchi il
suddetto Guiberto con altri vescovi scomunicati, a' quali non fu
difficile il fargli ritrattare il fatto, e ricominciar lo sprezzo delle
condizioni già accettate, e la nemicizia col papa. In questa maniera
ricuperò Arrigo a poco a poco la buona grazia de' vescovi e dei popoli
della Lombardia[1069]. Ma non potè ottenere dal papa la licenza d'essere
coronato re d'Italia colla corona ferrea in Monza. Riassunse nondimeno
le insegne di re, benchè si fosse obbligato col papa di vivere in
maniera privata, finchè in Germania fosse decisa la di lui causa. Un suo
diploma da me pubblicato[1070] cel fa vedere in Pavia nel dì 3 d'aprile
dell'anno presente. Se s'ha a credere a Donizone[1071], egli tentò
ancora di tirare il papa ad una conferenza, con disegno di prenderlo. Ma
avvertitane la contessa Matilde, fece sventare la mina e condusse il
papa alle montagne. Fece Arrigo prendere anche _Geraldo vescovo_
d'Ostia, mandato dal papa per suo legato a Milano. Di tutto questo andò
avviso in Germania. Non volle poi Arrigo portarsi alla dieta intimata a
Forcheim, come avea data parola. Vi si trovarono bensì i legati del
papa, e quivi i duchi _Ridolfo, Guelfo e Bertoldo_, gli arcivescovi di
Magonza e di Maddeburgo, e i vescovi di Virtzburg, di Metz e di altre
chiese, i quali trattarono della maniera di restituir la pace, come essi
credevano, o almen desideravano, alla Germania; e fu risoluto di creare
un nuovo re[1072]. Fu dunque eletto _Ridolfo duca_ di Suevia, tuttochè
egli resistesse un pezzo ad accettar questa pericolosa dignità. A buon
conto nello stesso giorno della sua consecrazione, che fu il dì 26 di
marzo dell'anno presente[1073], si sollevò contra di lui una sedizione
in Magonza. Quel che è più strano, apparisce dalle lettere di papa
Gregorio[1074] che esso pontefice non approvò l'elezion di Ridolfo, e si
riserbò la conoscenza di tal causa, per decidere a chi de' due
contendenti fosse dovuta la corona; del che poi fece gravi doglianze la
fazione d'esso Ridolfo, scrivendone al medesimo papa. Ricorse in questi
tempi Arrigo al medesimo pontefice, implorando il suo aiuto contra di
Ridolfo usurpatore della corona. Ebbe per risposta, che non si potea
soddisfarlo, mentre esso Arrigo teneva tuttavia prigione s. Pietro nel
suo legato _Geraldo_, il quale poi diede fine alle sue miserie, chiamato
da Dio a miglior vita sul principio di dicembre dell'anno presente. Ora
il pontefice, dopo essersi fermato per tutto giugno in Bibianello,
Carpineto e Carpi, terre del Reggiano, allora della contessa Matilde, e
in Figheruolo sul Po; chiarito abbastanza che l'animo di Arrigo, lungi
dall'essersi mutato, era disposto a far peggio, s'incamminò per la
Toscana alla volta di Roma. Il re Arrigo anch'egli seppe trovar via di
penetrare in Germania, dove raunato un picciolo esercito, cominciò la
guerra contra del nuovo re Ridolfo[1075]. Morì nel dì 14 di dicembre in
quest'anno l'_imperadrice Agnese_ sua madre in Roma, lasciando dopo di
sè il concetto di molta pietà e prudenza. Mancarono anche in questo anno
di vita _Sigeardo patriarca_ d'Aquileia (a cui fu surrogato _Arrigo_
canonico d'Augusta) ed _Imbricone vescovo_ d'Augusta, fautore di Arrigo.
Ma quel che dovette far più rumore, fu la morte di _Gregorio_ vescovo di
Vercelli, cancelliere in Italia d'esso re. Aveva egli intimata una dieta
del regno da tenersi ne' prati di Roncaglia circa il dì primo di maggio
dell'anno avvenire, con disegno, se mai potea, di deporre il papa; ma
una morte improvvisa prima di quel dì troncò le sue trame, e senza
lasciargli tempo di penitenza.

Secondo Lupo Protospata[1076], in quest'anno _Roberto Guiscardo_ duca di
Puglia fece l'acquisto importante della città e del principato di
Salerno. Ma per conto dell'anno è da maravigliarsi come cotanto
discordino fra loro gli scrittori. L'anonimo casinense[1077] accenna
questo fatto all'anno 1075; Romoaldo salernitano[1078] all'anno 1076.
Quantunque io non vegga stabili nella lor cronologia questi autori,
forse per difetto de' loro testi alterati dai copisti, pure stimo più
verisimile che all'anno presente s'abbiano da riferir tali avvenimenti,
per le ragioni che andremo adducendo. Erano in questi tempi gli
Amalfitani sotto _Gisolfo principe_ di Salerno[1079], ed aggravati da
lui oltre il dovere e costume con dei tributi. Ricorsero essi a Roberto
Guiscardo, che a bocca aperta stava aspettando l'opportunità e uno
specioso pretesto per insignorirsi di quel nobile paese. Avendo egli
presa ben volentieri la lor protezione, fece con ambasciata sapere a
Gisolfo suo cognato che trattasse più umanamente quel popolo.
Sdegnosamente gli rispose Gisolfo. Allora Roberto, che avea delle
nimicizie con _Riccardo I principe_ di Capoa, stabilì con esso lui pace,
e fra le condizioni gl'impose di aiutarlo nell'impresa di Salerno.
Infatti amendue colle lor forze e colle macchine militari posero
l'assedio a Salerno per terra e per mare. Abbiamo da Pietro
diacono[1080] continuator dell'Ostiense, che presentita questa guerra
papa Gregorio, che amava non poco Gisolfo, gli spedì _Desiderio abbate_
di Monte Casino per esortarlo a trattar di pace; ma che Gisolfo neppur
gli volle dare risposta. Dappoichè fu intrapreso l'assedio, tornò
l'abbate casinense, e fatto abboccar Riccardo principe di Capoa con
Gisolfo, gli consigliarono tutti di venire a concordia col duca Roberto.
Egli più che mai pertinace nulla si curò del loro parere. Crebbe la fame
nell'assediata città a tal segno, che il povero popolo si ridusse a
cibarsi delle carni più immonde; e non potendo più reggere, aprirono le
porte ai Normanni _octavi tempore mensis_. Ritirossi il principe Gisolfo
nella torre o rocca fortissima, fabbricata sulla cima del monte. Stretto
ancor ivi, finalmente fu forzato a rendersi a patti di buona guerra, ed
ebbe la libertà d'andarsene. Soggiunge Pietro diacono che papa Gregorio
il fece governatore della Campania. Dopo la presa di questa città,
ch'era allora delle più belle e deliziose d'Italia, e celebre
spezialmente per la scuola della medicina, colà per questo concorrendo
anche gli oltramontani bisognosi di guarigione, il duce Roberto vi fece
fabbricar nella pianura un castello inespugnabile. Anche nella
Cronichetta amalfitana[1081] l'acquisto di Salerno è attribuito all'anno
presente. Diedesi ad esso duca anche Amalfi, città allora mercantile al
sommo, piena d'oro, piena di popolo e di navi. Di essa così scrive
Guglielmo pugliese[1082]:

    _Huc et Alexandri diversa feruntur ab urbe_
    _Regis et Antiochi. Haec (ratibus) freta plurima transit._
    _Hic (an heic?) Arabes, Indi, Siculi noscuntur et Afri:_
    _Haec gens est totum prope nobilitata per orbem,_
    _Et mercanda ferens, et amans mercata referre._

Gaufredo Malaterra[1083] aggiugne che nel tempo medesimo dell'assedio di
Salerno il duca Roberto entrò in possesso d'Amalfi, ed ebbe al suo
servigio parte degli stessi Amalfitani contra di Salerno. Meritano ben
più fede tali autori, che la Cronichetta amalfitana, in cui all'anno
1074 è riferita la presa di Amalfi, con dirsi ivi ancora, che essendo
morto _Sergio duca_ di quella città, gli succedette _Giovanni_ suo
figlio, ma per poco tempo, perchè ne fu spogliato da Roberto Guiscardo.

Abbiamo ancora dal suddetto Malaterra che in quest'anno il _conte
Ruggieri_ assediò per mare e per terra in Sicilia la città di Trapani, e
la forzò alla resa. Veggonsi varii atti di Arrigo IV e dei suoi
ministri, prima ch'egli tornasse in Germania. Cioè confermò egli al
monistero di san Salvatore di Pavia i suoi beni[1084], _III nonas
aprilis anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi MLXXVII,
Indictione XV, anno autem ordinationis quidem domni Henrici quarti regis
XXVI, regni vero XXIV. Actum Papiae_. Trovavasi egli in Piacenza _XIII
kalendas martii_, dove tenne un placito[1085], e giudicò in favore di
quella cattedrale. Probabile è ancora che appartenga a quest'anno il
diploma da me dato alla luce[1086], in cui conferma _Ugoni et Fulchoni
germanis, Aczonis marchionis filiis_, cioè del _marchese Azzo II_
progenitore dei principi estensi, i loro Stati posti nei contadi di
_Gavello, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Cremona, Parma, Lunigiana,
Arezzo, Lucca, Pisa, Piacenza, Modena e Tortona_; fra' quali
specialmente vengono annoverati _Este, Rovigo, Montagnana, Casal
Maggiore_ del Cremonese, _Pontremoli_ della Lunigiana, e la terra
_Obertenga_ in Toscana, de' quali Stati ho io abbastanza favellato nelle
Antichità estensi. Tre placiti ancora tenuti dai suoi ministri in Verona
e in Padova si trovano da me pubblicati nelle Antichità italiche[1087].
Ma quel che è più glorioso per la nobilissima casa d'Este, in quest'anno
(s'io ben mi appongo) Roberto Guiscardo duca, dopo aver maritata, come
già accennammo, una figliuola nell'imperador d'Oriente, un'altra ne
diede ad _Ugo_ figliuolo del sopraddetto marchese Azzo. Ne fa menzione
Guglielmo pugliese[1088] con dire che dopo la presa di Salerno venne il
duca alla città di Troia, e che fermatosi ivi,

    _Nobilis advenit lombardus Marchio quidam,_
    _Nobilibus patriae multis comitantibus illum;_
    _Axo vocatus erat. Secum deduxit Hugonem_
    _Illustrem natum. Ducis ut filia detur_
    _Exigit, in sponsam. Comites, proceresque vocari_
    _Quoque facit super his dux consulturus ab urbe._
    _Horum consiliis Roberti filia nato_
    _Traditur Axonis, ec._

Poscia aggiugne che si fecero di gran feste e conviti per quelle nozze,
e che Roberto sollecitò tutti i suoi baroni a regalar gli sposi: il che
non essendo stato praticato nelle nozze della precedente figliuola,
rattristò quei nobili. Tuttavia contribuirono tutti, e molto più fece
egli.

    _Iis generum donans, addens sua, classe parata_
    _Ad sua cum magno, patremque remisit honore._

In qual credito fosse allora la casa di Este, si può abbastanza dedurre
anche da questo. Cessò di vivere nel novembre di quest'anno _Landolfo
VI_ principe di Benevento[1089]; laonde Roberto Guiscardo duca, voglioso
anche di questa conquista, si portò all'assedio di quella città. Se poi
meritano fede gl'imbrogliati Annali pisani[1090], quel popolo unito co'
Genovesi, passato in Africa, vi prese _duas magnificas civitates
Almadiam et Sibiliam in die sancti Sixti_. Io so bene che una Siviglia è
in Ispagna. Che un'altra ne fosse in Africa, non l'ho per anche letto.
Il Tronci[1091] ne parla all'anno 1087, e dice che presero le città di
_Damiato_ e di _Libia_: tutte notizie che mancano di sicuri fondamenti.
Veggasi l'anno 1088, al quale si dee riferire sì fatta impresa.

NOTE:

[1066] Lambert. Schafnaburgensis, in Chronico. Cardinal. de Arag., in
Vita Gregorii VII.

[1067] Donizo, in Vita Mathild., lib. 2, cap. 1.

[1068] Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.

[1069] Paulus Benried., in Vita Greg. VII, c. 86.

[1070] Antiquit. Italic., Dissert. XXXI, pag. 948.

[1071] Donizo, lib. 2, cap. 1.

[1072] Bruno, Histor., Bell. Saxon.

[1073] Bertholdus, Constantiensis, in Chron.

[1074] Gregor. VII, lib. 4, Epistol. 23, 24, 28.

[1075] Bertholdus, Constantiensis, in Chron.

[1076] Lupus Protospata, in Chron.

[1077] Anonymus Casinens., in Chron.

[1078] Romualdus Salernit., in Chron.

[1079] Guillelmus Apulus, lib. 3.

[1080] Petrus Diaconus, Chron. Casin., tom. 3, cap. 45.

[1081] Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 214.

[1082] Guillelmus Apulus, lib. 3.

[1083] Gaufridus Malaterra, lib. 3, cap. 3.

[1084] Bullar. Casinense, tom. 2, Constit. CXIV.

[1085] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1, Append.

[1086] Antichità Estensi, P. I, cap. 7.

[1087] Antiquit. Ital., Dissert. IX et XXXI.

[1088] Guillelmus Apulus, lib. 3 Poemat.

[1089] Chronic. S. Sophiae apud Peregrinium.

[1090] Annali Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[1091] Tronci, Annali Pisani.



    Anno di CRISTO MLXXVIII. Indizione I.

    GREGORIO VII papa 6.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 23.


Tanto il _re Arrigo_ quanto il nuovo _re Ridolfo_ si studiavano di aver
favorevole nella loro terribil gara il romano pontefice, e a questo fine
gli spedirono i loro legati[1092]. _Papa Gregorio_ perciò tenne un
concilio in Roma nella prima settimana di quaresima, dove essendo
concorsi circa cento tra arcivescovi e vescovi, fu stabilito di spedire
in Germania i legati apostolici per conoscere da qual parte fosse la
ragione e il torto. Quivi furono ancora di nuovo scomunicati _Tedaldo_,
appellato da alcuni _Tebaldo_, arcivescovo di Milano, _Guiberto_
arcivescovo di Ravenna, _Ugo Bianco_ cardinale ribello della Chiesa
romana, con altri vescovi. Degno di osservazione si è ciò che seguitano
a dire quegli Atti[1093]: _Excommunicamus omnes Northmannos, qui
invadere terram sancti Petri laborant, videlicet marchiam firmanam,
ducatum spoletanum, et eos, qui Beneventum obsident, et qui invadere et
depraedari nituntur Campaniam, et maritima, atque Sabinos, necnon et qui
tentant urbem romanam confundere_. Di qui può apparire che la marca di
Fermo, ossia di Camerino o d'Ancona, il ducato di Spoleti, erano o
posseduti dalla Chiesa romana, o almen pretesi di sua ragione dal papa:
il che, come fosse succeduto, non l'ho potuto finora conoscere. Debbonsi
ancora notar quelle parole: _et eos, qui Beneventum obsident_. Intorno a
che convien ora dire, che sbrigato dalla conquista di Salerno il duca
Roberto, mal soddisfatto del romano pontefice, che dianzi l'avea
scomunicato, cominciò nell'anno precedente la guerra contra le terre
della Chiesa nella Campania[1094]. Fu perciò di nuovo pubblicata la
scomunica contra di lui e del suddetto Riccardo, e papa Gregorio,
_collecto exercitu, super eos ire disponit_, come s'ha da Pietro
Diacono. Ciò riferito al duca Roberto, si ritirò in fretta col principe
Riccardo a Capoa, e andò a mettere l'assedio a Benevento, nel mentre che
Riccardo principe di Capoa imprese quello di Napoli. Tutto ciò avvenne
nell'anno antecedente. Continuò _Riccardo_ l'assedio di Napoli per molti
mesi, ed avea anche ridotta quella città a mal partito[1095], quando
sopraggiuntagli la morte nel dì 15 d'aprile, liberò i Napoletani dalle
sue branche. Fu principe, per attestato della Cronichetta
amalfitana[1096], alto di statura, di bell'aspetto, di gran coraggio ed
avvedutezza, benigno coi fedeli, terribile contro i perfidi ribelli.
Ebbe per successore nel principato di Capoa _Giordano I_ suo figliuolo.
Ci fa assai intendere il suddetto concilio che nel principio della
quaresima tuttavia durava l'assedio di Benevento, fatto dal duca
Roberto: perlochè fu di nuovo fulminata contra di lui la scomunica. Ma
appena Giordano fu succeduto al padre, che insorse la discordia fra il
duca Roberto e lui. Abbracciò esso Giordano la difesa delle terre della
Chiesa e dei Beneventani[1097], da' quali ebbe un regalo di quattromila
e cinquecento bisanti, o vogliam dire scudi d'oro. Uscito perciò in
campagna, secondochè s'ha da Pietro Diacono, fece ribellare molti de'
conti e vassalli contra di Roberto, arrivò sotto Benevento, e distrusse
tutte le fortificazioni fatte dal duca per prendere quella città. Bari
con Trani ed altre città si ribellarono al Guiscardo. Abailardo suo
nipote, perchè figliuolo di Unfredo, al quale avea Roberto occupata
tutta l'eredità, fu uno de' più vigorosi congiurati contra dello zio
Guiscardo. Seguirono perciò varii incontri d'armati, e varii assedii
raccontati da Guglielmo pugliese[1098], dopo i quali finalmente fu fatta
pace tra esso Roberto e Giordano. Servì questa concordia per abbattere
tutte le speranze del nipote Abailardo, il quale se ne fuggì a
Costantinopoli, e quivi diede fine alla vita. Ricuperò Roberto Bari,
Trani, Santa Severina, e l'altre terre[1099] che s'erano ribellate.
Ascoli, Monte di Vico ed Ariano ritornarono alle mani sue; ed era per
fare altri progressi, quando _Desiderio abbate_ di Monte Casino
s'interpose, e trattò di pace fra il pontefice e lui. Abbiamo dalla Vita
di Gregorio VII papa, a noi tramandata da Niccolò cardinale
d'Aragona[1100], che _venerabilis pontifex receptis nuntiis Roberti
Guiscardi egregii Normannorum ducis, versus Apuliam post octavas
Pentecostes iter arripuit, et cum ipso apud Aquinum colloquium habuit.
Congrua itaque ab eo satisfactione suscepta, prius a vinculo
excommunicationis eum absolvit, et consequenter fidelitatem et homagium
ejus recepit. Postmodum vero jam assumtum in specialem beati Petri
militem, de totius Apuliae et Calabriae ducatu per vexillum Sedis
apostolicae investivit_. Guglielmo pugliese scrive che questo
abboccamento e concordia seguì in Benevento, e non già in Aquino; ed
essere corsa voce che il papa, per impegnar meglio nella sua difesa
Roberto Guiscardo, gli fece sperare la corona del regno d'Italia[1101]:

    _Romani regni sibi promisisse coronam_
    _Papa ferebatur._

Parimente Riccardo cluniacense[1102] conferma questa voce con asserire
che papa Gregorio aveva intenzione di crear imperadore esso Roberto, o
Boamondo suo figliuolo. Tornava il conto ad esso pontefice, nel
pericoloso cimento, in cui egli si trovava per la nemicizia del re
Arrigo, non solo di non aver nemico il potentissimo ed invitto duca di
Puglia, ma anche di averlo amico e difensore ne' bisogni. Il tempo fece
vedere che senza questo appoggio minacciava rovina il suo pontificato.

Ma non tutti questi avvenimenti si compierono nell'anno precedente e nel
presente. Siccome vedremo, parte d'essi appartiene all'anno seguente
1079. Certamente si allontanò dal vero il cardinal Baronio[1103],
allorchè pose l'assedio suddetto di Benevento nell'anno 1074. Già abbiam
veduto che nel concilio romano dell'anno presente si fa menzione del
medesimo assedio, non per anche sciolto. Ma neppure il padre Pagi[1104]
colpì nel segno, allorchè pretese che nell'anno 1077 Roberto duca si
abboccasse col papa, e ne riportasse l'assoluzione. Papa Gregorio per
tutto il giugno del 1077 si trattenne nelle montagne del Reggiano,
siccome costa dalle lettere d'esso pontefice. Nel dì 15 d'agosto era in
Firenze, e nel primo giorno di settembre in Siena. Ma abbiam veduto che
papa Gregorio si mosse di Roma _post octavas Pentecostes_, per andare ad
Aquino a trattar di pace con Roberto. Essendo venuta l'ottava della
Pentecoste nell'anno 1077 prima della metà di giugno, come potè egli mai
passar da Roma ad Aquino in quel tempo, se, siccome abbiam detto, egli
per tutto giugno si fermò in Lombardia? Adunque la riconciliazion di
Roberto dee essere succeduta più tardi, e vedremo che non s'ingannò il
Baronio in differirla sino all'anno 1080. Oltre di che, Lupo
Protospata[1105] all'anno 1078 scrive: _Robertus dux obsedit Beneventum,
sed ejus obsidio dissipata est a Rodulpho Pipino comite_, (cioè, come
stimò il Pellegrini[1106], da Rainolfo zio del principe di Capoa
Giordano) _et hoc anno obiit Richardus princeps_, mentre assediava
Napoli. Anche Romoaldo salernitano[1107] e l'autore della Cronichetta
amalfitana[1108] attestano che Riccardo morì durante quell'assedio
_Indictione prima_, cioè nell'anno presente. E che _anno primo, postquam
cepit Salernum, Robertus dux Beneventum obsedit_. Certo è che nello
stesso tempo furono fatti que' due assedii, e però nell'anno presente.
Il che vien ancora confermato dall'antica Cronichetta di santa Sofia,
pubblicata dal suddetto Pellegrini[1109], dove si legge: _Robertus dux
obsedit Beneventum XIV kalendas januarii, usque VI idus aprilis, unde
expulsus est cum omnibus suis Indictione I_. L'indizione prima correa
nell'anno presente. Ora essendo fuori di dubbio l'aggiustamento del papa
con Roberto Guiscardo, seguito dappoichè fu sciolto l'assedio di
Benevento, per conseguente non nell'anno 1077, come immaginò il padre
Pagi, ma molto più tardi si dee credere succeduto. Finalmente si noti
che l'autore della Vita di san Gregorio VII[1110] ci somministra il filo
per accertarci dell'anno, in cui seguì l'accordo suddetto. Cioè scrive
egli che fra i due re contendenti Arrigo IV e Ridolfo, _horribili bello
acriter utrimque commisso, caesa sunt multa millia hominum hinc inde_.
Soggiugne appresso: _Et iterum peccatis exigentibus inter eosdem reges
horribiliter est pugnatum, ubi maxima virorum fortium multitudo
cecidit_. Spedì papa Gregorio i suoi legati in Germania per quetar, se
mai era possibile, così atroce tempesta. Ma i due re vennero alla terza
battaglia. _Iterum inter eosdem reges acriter est pugnatum, et multa
millia hominum, maxime Bohemorum, caesa sunt_.

Dopo questi tragici avvenimenti continua quell'autore a dire che papa
Gregorio, portatosi ad Aquino, fece l'accordo con Roberto Guiscardo. Non
essendo succedute tali battaglie se non nell'anno presente e nel 1080,
nel quale ancora furono spediti in Germania i suddetti legati, vegniamo
in fine a conoscere che nell'anno stesso 1080, come volle il Baronio,
Roberto Guiscardo tornò all'ubbidienza del romano pontefice. Abbiam
detto che succederono sanguinosissimi fatti d'armi fra Arrigo e Ridolfo
in Germania. Nel primo, per testimonianza di Bertoldo[1111], restò
vincitore e padrone del campo Ridolfo; e nel secondo, accaduto nel dì 17
d'agosto di quest'anno, la vittoria restò incerta, essendo costata la
vita a più migliaia di persone. Fra gli altri vi fu ucciso _Wernero_
arcivescovo di Maddeburgo, e presi Bernardo arcidiacono della Chiesa
romana, _Sigifredo_ arcivescovo di Magonza, e _Adalberto_ vescovo di
Vormazia: il che non si può mai intendere senza orrore, non essendo le
guerre e le battaglie un mestier convenevole a persone ecclesiastiche.
L'autore della Cronica di Maddeburgo presso il Meibomio[1112] e
l'Annalista sassone[1113] pretendono che questa seconda battaglia
riuscisse molto più favorevole ai Sassoni e a Ridolfo, che ad Arrigo.
Verso l'Ognissanti esso re Arrigo, rinforzato di gente, portò la guerra
negli Stati di _Guelfo duca_ di Baviera, e di _Bertoldo duca_ di
Carintia, tutti e due fedeli fautori del papa e del re Ridolfo[1114].
Nel qual tempo venne a morte esso duca Bertoldo con grave danno del suo
partito. In questo anno poi _Ruggieri conte_ di Sicilia per terra e per
mare bloccò[1115] la città di Taormina, e dopo molte fatiche se ne
impadronì. Tenuto fu un altro concilio in Roma da papa Gregorio dopo la
metà di novembre, in cui troviamo fulminate molte scomuniche, e
nominatamente contra _Niceforo Botoniata_ imperador di Costantinopoli,
che avea usurpato quel trono a _Michele_ e a _Costantino_ Porfirogenito,
genero del duca Roberto, la cui figliuola fu rimandata al padre. Per
questi sì frequenti concilii di papa Gregorio doveano poco attendere
alle lor gregge i sacri pastori. Intervennero a quest'ultimo i legati
de' due re contendenti, promettendo amendue di fare una dieta, dove si
deciderebbe la lor controversia.

NOTE:

[1092] Paulus Benriedens., in Vit. Greg. VII.

[1093] Concilior. Labbe, tom. 10.

[1094] Petrus Diac., lib. 3 Chron., cap. 45.

[1095] Camillus Peregr., in Not. ad Protos.

[1096] Antiquit. Italic., tom. 1.

[1097] Petrus Diacon., Chron., lib. 3, cap. 45.

[1098] Guillelmus Apulus, Poem., lib. 3.

[1099] Petrus Diac., Chron. lib. 3, cap. 45.

[1100] Cardinalis de Aragonia, in Vit. Greg. VII.

[1101] Guillelmus Apulus, lib. 3.

[1102] Richardus Cluniacensis, in Chron., in Antiq. Ital.

[1103] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[1104] Pagius, Crit. ad Annal. Baron.

[1105] Lupus Protospata, in Chronico.

[1106] Peregrin., in Notis ad Protospatam.

[1107] Romuald. Salern., in Chron., tom. 8 Rer. Ital.

[1108] Antiquit. Italic, tom. 1.

[1109] Peregrin., Hist. Princ. Langobard.

[1110] Card. de Aragon., P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[1111] Bertholdus Constantiensis, Chron. August., tom. 1 Freheri.

[1112] Chronic. Magdeburg., tom. 2, apud Meibomium.

[1113] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[1114] Bertholdus Constantiensis, in Chron.

[1115] Gaufrid. Malaterra, lib. 3, cap. 15.



    Anno di CRISTO MLXXIX. Indizione II.

    GREGORIO VII papa 7.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 24.


In quest'anno ancora _papa Gregorio_ celebrò nel mese di febbraio un
numerosissimo concilio in Roma[1116], dove intervenne l'eresiarca
Berengario, e ritrattò le perverse sue dottrine intorno al sacramento
dell'altare. Furono confermate le sacre censure contra _Tedaldo
arcivescovo_ di Milano, _Sigefredo vescovo_ di Bologna, _Rolando
vescovo_ di Trevigi, e contra i vescovi di Fermo e Camerino. Trovossi
alla medesima sacra assemblea _Arrigo_ novello patriarca di Aquileia, il
quale, quantunque promosso a quella chiesa da Arrigo IV, pure umilmente
si suggettò alla Sede apostolica, e promise di non aver comunione con
gente scomunicata. Si dolsero in quel sinodo del re Arrigo i legati del
re Ridolfo, a cagion delle guerre e violenze ch'egli promoveva in
Germania[1117]. Perlochè il pontefice Gregorio destinò per suoi legati
al congresso, da tenersi in Germania, _Pietro Igneo_ cardinale e vescovo
d'Albano, Odelrico vescovo di Padova (Paolo Benriedense scrive[1118] che
fu _Alemano_ vescovo di Passavia) e il suddetto patriarca d'Aquileia.
Andarono essi; ma perchè non vollero alle istanze di Arrigo scomunicare
il re Ridolfo, senza frutto se ne tornarono a Roma, con riferire al papa
la disubbidienza d'esso Arrigo e l'ubbidienza del re Ridolfo. Era
intenzione del pontefice di trasferirsi egli in persona in Germania, per
decidere quello spaventoso litigio; ma il re Arrigo, troppo diffidando
di lui, a questo non volle dar mano. Continuò in quest'anno la guerra
fra essi re[1119]. Ridolfo andò contro la Vestfalia, e costrinse que'
popoli alla sua ubbidienza. Arrigo portò la guerra nella Suevia contra
di Ridolfo. Aggiugne il Cronografo sassone[1120] che _bellum fit iterum
inter Rodulphum et Henricum hyeme nimis aspera, ubi in primo congressu
Saxones_ (uniti con Ridolfo) _terga vertunt_. Ma uno squadron d'essi
Sassoni, mentre gli altri erano occupati nella mischia, diede il sacco
agli alloggiamenti del re Arrigo. In questa maniera si andava desolando
la misera Germania per l'arrabbiata contesa di quei due regnanti. Per
altro non dovette succedere alcun fatto strepitoso, al vedere che
Bertoldo da Costanza non ne parla. Gli Annali pisani[1121], che non
meritano, a mio credere, gran fede nelle cose antiche, mettono sotto
quest'anno la guerra fra i pisani e i Genovesi. Dai primi fu abbruciata
la terra di Rapallo, ed incontratesi le lor flotte nel dì 13 di maggio,
la genovese si salvò colla fuga. In quest'anno ancora Lupo
Protospata[1122] scrive che _intravit Petronus_ (Pietro vien chiamato da
Guglielmo pugliese) _in Tranum. Et Barum rebellavit, ejecto exinde
praeside ducis. Et Bajalardus filius Umfredae comprehendit Asculum_.
Però se fosse stabile l'asserzione di questo istorico, noi avremmo che
parte di que' fatti che ho riferito nell'anno precedente, presi da
Pietro Diacono, sarebbono da attribuire all'anno presente. Ma
all'osservare ch'esso Lupo racconta come succeduta in questo medesimo
anno la caduta di _Michele Duca_ dal trono di Costantinopoli, e
l'usurpazione di _Niceforo Botoniata_, che pur si crede creato imperador
d'Oriente nell'anno precedente, si potrebbe restar dubbioso intorno al
tempo di tali fatti. Ma l'Anonimo barense[1123] presso Camillo
Pellegrini, dopo aver narrata all'anno 1078 l'assunzione al trono del
Botoniata, anch'egli nel presente 1079 scrive che _mense februarii die
III stante rebellavit Bari ab ipso duce, et dirutum castello de
Portanova_. Nella stessa guisa l'autore di un'antica Cronichetta
normannica, da me data alla luce[1124], parla di que' fatti. _Anno
MLXXIX Petronius comes intravit iterum Barim. Abagilardus comes_ (nipote
di Roberto Guiscardo) _ivit super Trojam, et fugavit Boamundum filium
Roberti ducis, et obsedit, et cepit Asculum. Et iterum Robertus
recuperavit eum. Postea factum est praelium ibidem, et fugatus est
Abagilardus cum militibus suis, et fugit in Constantinopolim, et ibi
mortuus est inimicus duci Roberto_. Ecco dunque che gli avvenimenti
raccontati tutti in un fiato da Pietro Diacono, continuatore della
Cronica casinense, succederono in parte nell'anno presente, e fra questi
la ribellione di Bari. Ancora al conte Ruggieri si ribellarono in
Sicilia le terre di Jato e Cenisi[1125]. Le assediò egli amendue nello
stesso tempo; e costrinse quegli abitanti ad implorare il perdono, che
non fu loro negato.

Confermò in quest'anno il re Arrigo i suoi privilegii alla chiesa di
Padova e al vescovo Olderico con un diploma[1126] dato _X kalendas
augusti, Indictione II, anno dominicae Incarnationis MLXXVIIII, anno
autem regni domni regis Henrici quarti XXIII. Actum Ratispone_. Nella
copia, di cui mi son servito, si leggeva _D. Paduanae ecclesiae
episcopus_. Ma si dee scrivere _Uld_., cioè _Uldericus_. E di qui può
apparire che esso Olderico non fu spedito per suo legato dal pontefice
Gregorio. Ho io parimente pubblicata una convenzione seguita nel dì 31
di maggio[1127] _inter marchionem Azonem, et Ugonem et Fulconem
germanos, filios ejusdem marchionis Azonis_, e il capitolo dei canonici
di Verona, in vigore di cui essi canonici diedero a livello al marchese
e a' suoi figliuoli la corte di Lusia, villa di grande estensione. Si
vede che il marchese Azzo estense pensava a bene stabilire ed ingrandire
in Italia i figliuoli del secondo matrimonio, giacchè _Guelfo IV_ figlio
del primo letto e duca di Baviera era giunto ad una riguardevol potenza
in Germania. Questo _Ugo_ è il medesimo che avea sposata la figliuola
del duca di Puglia Roberto. Raccogliesi poi da una lettera scritta da
papa Gregorio a Desiderio abbate di monte Casino[1128], che Arrigo IV
anch'egli si maneggiò per ottenere una figliuola d'esso Roberto
Guiscardo duca in moglie di _Corrado_ suo primogenito, con esibirsi
d'investire Roberto della marca di Fermo, _et rex duci marchiam
tribuat_. Ma il saggio papa dovette fare in maniera che questo trattato
andò per terra. Nè si dee tacere che (probabilmente in quest'anno) esso
duca Roberto maritò un'altra figliuola con _Raimondo II_ conte
potentissimo di Barcellona e di altre città. Ne parla, oltre ad altri
autori, Guglielmo pugliese[1129] come di un fatto accaduto prima che
seguisse la concordia fra il papa ed esso duca:

    _Partibus Esperiae, quem Barcilona tremebat,_
    _Venerat insignis comes hanc Raymundus ad urbem;_
    _Ut nuptura ducis detur sibi filia, poscit._

Il padre Pagi[1130] credette contratto questo matrimonio prima dell'anno
1077. Ma se son ben concertati i tempi di quei fatti presso il suddetto
storico, tali nozze debbono appartenere all'anno presente.

NOTE:

[1116] Concil. Labbe, tom. 10.

[1117] Cardinal. de Aragon., in Vita Gregor. VII.

[1118] Paulus Benriedens., in Vita Gregor. VII.

[1119] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[1120] Chronographus Saxo, apud Leibnitium.

[1121] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[1122] Lupus Protospata, in Chron.

[1123] Rerum Italicarum, tom. 5.

[1124] Ibid., tom. 5, pag. 278.

[1125] Ganfrid. Malaterra, lib. 3, cap. 20.

[1126] Antiquit. Italic., Dissert. XIX.

[1127] Antichità Estensi, P. I, cap. 7.

[1128] Gregor. VII, Epist. 11, lib. 9.

[1129] Guillelmus Apulus, lib. 4. Anonym., de Gest. Comit. Barcin. apud
Baluz.

[1130] Pagius, in Critic. ad Annal. Baron.



    Anno di CRISTO MLXXX. Indizione III.

    GREGORIO VII papa 8.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 25.


Crebbero in quest'anno gli affanni alla Germania e all'Italia per la
funestissima guerra insorta fra il sacerdozio e fra i due emuli re
_Arrigo_ e _Ridolfo_. Il primo, figurandosi di trovar a dormire i
Sassoni, nel dì 27 di gennaio dell'anno presente andò colla sua armata
ad assalirli[1131]. Si fece un sanguinoso fatto d'armi, in cui (che che
ne dica la Cronica augustana) fu obbligato ad una vergognosa fuga Arrigo
con tutti i suoi. Ridolfo ne spedì per mezzo dei suoi legati a Roma la
lieta nuova, ed insieme fece esporre le doglianze sue contra di Arrigo,
che sempre più sconvolgeva e desolava la Germania, e mostravasi
disubbidiente al romano pontefice. Diedero motivo tali avvisi e lamenti
a _papa Gregorio_ di apertamente dichiararsi in favore del re Ridolfo.
Perciò nel concilio VII tenuto in Roma nel dì 9 di marzo, dopo avere
rinnovate le scomuniche contra gli arcivescovi di Milano e di Ravenna,
dichiarò legittimo re del regno germanico Ridolfo, e fulminò la
scomunica e la sentenza di deposizione contra di Arrigo, usando le più
forti espressioni, per esprimere in ciò l'autorità dei sommi pontefici,
e colla stessa franchezza dicendo: _Ipse autem Henricus cum suis
fautoribus in omni congressione belli nullas vires, nullamque in vita
sua victoriam obtineat_. Mandò esso papa a Ridolfo una corona d'oro,
dove si leggeva questa iscrizione:

    PETRA DEDIT PETRO, PETRVS DIADEMA RODVLPHO.

Essendo volata in Germania la nuova di questa risoluzione[1132], crebbe
a dismisura la rabbia del re Arrigo, nè mancarono perversi consiglieri
che il trassero all'ultimo degli eccessi. Fece egli pertanto raunare un
conciliabolo di trenta vescovi scismatici, e di molti signori sì di
Germania che d'Italia, suoi fautori, in Brixen, o sia Bressanone sul
Tirolo, e gl'indusse con empia ed affatto irregolar procedura a
dichiarar deposto Gregorio VII dal papato, e ad eleggere in suo luogo
_Guiberto arcivescovo_ di Ravenna, già più volte scomunicato, il quale
assunse dipoi il nome di _Clemente III_. Era costui cittadino di Parma
di gran nobiltà, e da molti vien creduto della nobil casa di Correggio.
Scrive Donizone[1133] che di tre figliuoli di Sigefredo lucchese,
ascendente della contessa Matilde,

    _Fiunt Parmenses duo fratres, ambo potentes._
    _Dat Guibertinam minimus, primus Baratinam,_
    _Progenies ambas grandes, et honore micantes._

Da essa schiatta gibertina sembra che discendesse il suddetto antipapa.
Aspirava da gran tempo alla cattedra di san Pietro esso Guiberto, uomo,
quanto privo dello spirito ecclesiastico, altrettanto provveduto di
mondana politica. Il primo de' suoi pensieri era l'ambizione, l'ultimo
il timore di Dio. L'esaltazione di questo mal uomo succedette nel dì 25
di giugno. Nel decreto di tale elezione, rapportato dall'abbate
urspergense[1134], si spacciarono non poche stomachevoli calunnie contra
di papa Gregorio, suggerite da Ugo il Bianco cardinale scomunicato, e
che si leggono anche nell'empia diceria delle scismatico Bennone.
Scrisse dipoi Arrigo allo stesso Gregorio pontefice e al popolo romano
lettere infami per avvisarli dell'idolo ch'egli avea introdotto nella
casa di Dio. Fu inoltre spedito in Italia il novello antipapa, per
tirare nel suo partito tutti i simoniaci e i nemici del vero papa; nè a
lui fu difficile di trovarne molti e di mettere insieme un'armata.

Il presentimento di questo colpo, e gli avvisi di quel che andava
succedendo in Germania, quegli sproni dovettero essere che finalmente
indussero e ad affrettarono papa Gregorio a rilasciare la sua severità
contra di _Roberto Guiscardo duca_ di Puglia, Calabria e Sicilia, ed
accordarsi con lui. Roberto anch'egli si trovava in qualche disordine
per le molte città che gli s'erano ribellate, e gli era utile
l'accomodarsi ai voleri del papa. Però il pontefice _post octavas
Pentecostes_, circa il dì 7 di giugno, siccome abbiamo detto di sopra,
andossene ad Aquino[1135], accompagnato da _Giordano principe_ di Capoa,
e quivi riconciliatosi con Roberto, l'assolvè dalle censure, e diedegli
l'investitura di tutti quegli Stati che gli erano stati conceduti da
Niccolò II e da Alessandro II pontefici predecessori, con aggiugnere:
_De illa autem terra, quam injuste tenes, sicut est Salernus, et
Amalfia, et pars Marchiae Firmanae, nunc te patienter sustineo in
confidentia Dei omnipotentis et tuae bonitatis_, ec. Probabilmente
questo era stato il punto principale che avea fin qui ritardata la pace
fra loro. Giurò all'incontro fedeltà ed omaggio al papa il duca Roberto,
con promettere ancora di pagar ogni anno alla Chiesa romana dodici
denari di moneta pavese per ogni paio di buoi di tutti i suoi Stati. Già
s'è, a mio credere, assai dimostrato di sopra all'anno 1078 non
sussistere l'opinione del padre Pagi, che tal riconciliazione seguisse
nell'anno 1077, e star forte quella del Sigonio e del cardinal Baronio,
da' quali fu riferita al presente anno 1080. Aggiungo ora, che gli atti
d'essa investitura e del giuramento di Roberto son posti fra le lettere
del libro ottavo di Gregorio VII, che riguardano gli affari di
quest'anno. E nella lettera settima d'esso libro il pontefice dà avviso
a tutti i fedeli di aver parlato _cum duce Roberto et Jordane,
ceterisque potentioribus Nortmannorum principibus_, che gli aveano
promesso soccorso contra di ognuno in difesa della Chiesa romana, con
palesar eziandio la risoluzione presa di marciare con un'armata contra
di Ravenna, per liberar quella chiesa e città dalle mani dell'empio
Guiberto, già alzato dalla perfidia al sacrilego grado di antipapa.
Finalmente abbiamo dalla Cronichetta normannica da me pubblicata[1136],
che _anno MLXXX Robertus dux amicatus est cum Gregorio papa in mense
junio, et confirmata fuit ab illo omnis terra, quam habebat Robertus dux
in Apulia, Calabria et Sicilia_. Guglielmo pugliese anch'egli
narra[1137] sotto il presente anno la concordia suddetta; anzi la fa
succeduta dopo la morte del re Ridolfo: nel che egli s'inganna. Dalla
stessa Cronichetta abbiamo che il duca Roberto nell'aprile di quest'anno
ricuperò la città di Taranto e Castellaneta. Presentossi ancora
coll'esercito sotto Bari, e colla fuga di Petronio conte tornò ad
impadronirsene. Fece anche lo stesso della città di Trani. Notizie tutte
confermate da Lupo Protospata[1138] e dall'Anonimo barense[1139]. Era
già stato, siccome accennai, da _Niceforo Botoniata_ precipitato dal
trono imperiale d'Oriente _Michele Parapinacio_ con _Costantino_ suo
figliuolo, e genero del duca Roberto, ed obbligato a prendere l'abito di
monaco. Una curiosa scena avvenne in quest'anno. Eccoti comparire in
Puglia davanti il duca Roberto un uomo vilmente vestito, che si spaccia
per Michele imperator deposto, e chiede aiuto contro l'occupator
dell'imperio, spezialmente rappresentando che la sua rovina era
proceduta dalla parentela contratta con esso Roberto, principe troppo
odiato da' Greci. Fu accolto con grande onore, vestito di abiti
imperiali, e trionfalmente condotto per la città. Credette, o mostrò di
credere il duca Roberto che costui veramente fosse il deposto Michele.
Anna Comnena[1140] sostiene nella sua Storia che questa fu una finzione,
procurata da Roberto stesso, principe che in astuzie politiche non avea
pari, per prendere da ciò pretesto di assalire la monarchia dei Greci.
Gaufredo Malaterra[1141], tuttochè Normanno, pure anch'egli inclina a
credere che questo Michele fosse un tiro di politica e una fantasima
atta a commuovere i popoli alle imprese che Roberto, sbrigato dalle
guerre civili, andava già macchinando, e alle quali cominciò nell'anno
presente a prepararsi. Da una lettera di papa Gregorio[1142] si scorge
che anche a lui fu fatta credere la venuta in Italia dell'Augusto
Michele. Il Malaterra suddetto mette la comparsa di questo fantoccio
nell'anno 1077, ma i più nell'anno presente 1080, nel quale comparve in
Sicilia _Raimondo conte di Provenza_ a chiedere per moglie _Matilda_
figliuola primogenita del _conte Ruggieri_. Furono con gioiosa solennità
celebrate quelle nozze, e lo sposo contento condusse la moglie alle sue
contrade. Ebbero maniera i Saraceni di rientrare in questo anno nella
città di Catania per tradimento di Bencimino governator d'essa,
musulmano di professione, ma creduto di gran fede da Ruggieri. Udita
questa dispiacevol nuova, non perdè tempo _Giordano_ figliuolo del conte
Ruggieri ad accorrere colà con un piccolo corpo di cavalleria. Trovò
schierati i Saraceni sotto quella città, gli assalì con incredibil
valore, e talmente li riempiè di terrore, che, non credendosi sicuri
neppure nella città, l'abbandonarono con ritirarsi in Siracusa.

Intanto in Germania avvenne una terribile mutazion di cose[1143]. Nel dì
15 di ottobre seguì la quarta battaglia campale fra i due re _Arrigo_ e
_Ridolfo_. Gran varietà si truova fra gli scrittori nella descrizion di
essa, chi sostenendo che furono messi in fuga i Sassoni, e chi essersi
dichiarata la vittoria per loro. Quel che è certo, in quel conflitto
restò mortalmente ferito, e di lì a non molto morì il _re Ridolfo_.
L'autore della Vita di Arrigo IV presso il Reubero[1144] pretende
ch'egli fosse ucciso da' suoi medesimi soldati, guadagnati con danaro
del re Arrigo. Questo colpo sconcertò sommamente gli affari della lega
cattolica non solo in Germania, ma anche in Italia, ed espose alle
dicerie de' nemici il pontefice Gregorio VII. Se merita fede
Sigeberto[1145], avea predetto esso papa che in quest'anno sarebbe morto
il falso re, intendendo di Arrigo, ma in vece sua finì di vivere il re
Ridolfo. Potrebbe essere una favola; ma certo egli, scrivendo a tutti i
fedeli[1146], avea fatto loro sperare, _nefandorum perturbationem merita
ruina cito sedandam, et sanctae Ecclesiae pacem et securitatem (sicut de
divina clementia confidentes promittimus) proxime stabiliendam_. Si
raccoglie lo stesso da altre sue lettere. Però fecero grande schiamazzo
i partigiani di Arrigo per l'avvenimento tutto contrario alle promesse o
speranze pontificie. Loro ha già risposto il cardinal Baronio[1147], e
meritano intorno a ciò d'esser lette anche le riflessioni dell'abbate
Fleury[1148]. A questo infausto accidente un altro se ne aggiunse in
Italia. Risoluta la celebre _contessa Matilda_ di sostener gl'interessi
del romano pontefice, e di tentare, secondo il concerto fatto, di
cacciar da Ravenna l'antipapa Guiberto, avea raunate le sue forze nel
territorio di Mantova, città allora a lei ubbidiente. Ma fu anche in
armi quasi tutta la Lombardia in aiuto di Arrigo, e con un potente
esercito si portò alla Volta, luogo del Mantovano[1149]. Quivi vennero
alle mani le due armate, e a quella della contessa toccò la rotta nel dì
15 di ottobre, cioè nel giorno stesso in cui seguì l'altro infelice
conflitto della Germania, dove il re Ridolfo perdè la vita. Leggesi
parimente nella Vita di Gregorio VII[1150], che dopo la morte di Ridolfo
_evolutis paucis diebus, Henricus filius ejus_ (di Arrigo IV) _cum
exercitu llustris comitissae Mathildis pugnavit. Et quia, sicut fieri
solet, varius est eventus belli, victoriam habuit_. Che Enrico, ossia
Arrigo, sia questo figliuolo del re Arrigo IV, non truovo io scrittore
che me l'additi. _Forse quello_ (dice il Fiorentini[1151]), _che senza
nome presso Donizone morì poi nell'assedio di Montebello_. Certamente
non fu Arrigo V, poscia imperadore, perchè si crede nato solamente
nell'anno seguente. A me è ignoto se Arrigo IV avesse de' figliuoli
bastardi. Nondimeno improbabil cosa non sarebbe che ne avesse avuto.
Fece in quest'anno la suddetta contessa Matilde una donazione al
monistero di san Prospero, oggidì di san Pietro, dei Benedettini di
Reggio. La carta fu scritta[1152] _anno ab Incarnatione Domini nostri
Jesu Christi millesimo octuagesimo, die IX mensis decembris, Indictione
tertia_. L'indizione corre qui sino al fine dell'anno; ma potrebbe
dubitarsi che fosse qui adoperato l'anno pisano, e che lo strumento
appartenesse all'anno precedente, nel cui settembre cominciò a correre
l'_Indizione III_. Tenne inoltre essa contessa un placito in Corneto,
terra del contado di Toscanella[1153], _VII kalendas aprilis, Indictione
III_, dove decise la lite d'una chiesa in favore di _Berardo abbate_ di
Farfa.

NOTE:

[1131] Bertholdus Constant., in Chron. Bruno, Hist. Bell. Saxon.

[1132] Marianus Scotus, in Chron. Otto Frisigen., in Cron. Sigebertus,
in Chron. et alii.

[1133] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 1, cap. 1.

[1134] Urspergensis, in Chron.

[1135] Cardinal de Aragon., in Vit. Gregor. VII.

[1136] Chron. Normann., tom. 5 Rer. Ital., p. 278.

[1137] Guillelm. Apulus, Poemat., lib. 4.

[1138] Lupus Protospata, in Chron.

[1139] Anonymus Barensis, apud Peregrin.

[1140] Anna Comnena, in Alexiad., lib. 1.

[1141] Gaufrid. Malaterra, lib. 3, cap. 13.

[1142] Gregor. VII, lib. 8, Epist. 6.

[1143] Marianus Scotus, in Chron. Bertholdus Constant., in Chron. Bruno,
Hist. Bell. Saxon. et alii.

[1144] Auctor. Vit. Henrici IV, apud Reuberum.

[1145] Sigebertus, in Chron.

[1146] Gregor. VII, lib. 8, Epist. 7 et 9.

[1147] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[1148] Fleury, Hist. Eccl., tom. 13, dans la Pref.

[1149] Bertold. Constantiensis, in Chron.

[1150] Cardinal. de Aragon., Vit. Gregor. VII, part. I, tom. 3 Rer.
Italic.

[1151] Fiorentini, Memor. di Matild., lib. 1.

[1152] Antiquit. Italic., Dissert. XXII.

[1153] Mabill., Annal. Benedict.



    Anno di CRISTO MLXXXI. Indizione IV.

    GREGORIO VII papa 9.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 26.


Insuperbito il _re Arrigo_ per le felicità nel precedente anno occorse
all'armi sue, calò nel presente con molte forze in Italia[1154]; e
siccome uomo infaticabile e fervido nel mestier della guerra, dopo aver
celebrata la Pasqua in Verona, s'inviò a Ravenna, dove si preparò per
passare a Roma, fingendo di voler pace, ma consigliatamente per tentare,
se potea, d'intronizzar nella sedia di san Pietro lo scomunicato
Guiberto. Confessò in una sua lettera _Gregorio VII_[1155] che la
maggior parte de' suoi, atterriti dalle prosperità d'Arrigo, il
consigliava di far pace, e massimamente perchè Arrigo prometteva di gran
cose. Eravi anche apparenza che la _contessa Matilda_, quasi unico
antemurale della parte cattolica in Italia, per difetto non già di
volontà, ma di forze, avesse da cedere alla potenza d'Arrigo.
Contuttociò mirabil fu la costanza ed intrepidezza di Gregorio; nè si
lasciò egli mai piegare ad alcuna viltà. Animo a lui fra i mezzi umani
faceva la speranza di essere soccorso da _Roberto Guiscardo_, e il
vedere i Romani concordi per sostenerlo. Se si ha a credere agli storici
fiorentini, Arrigo assediò inutilmente Firenze dall'aprile fino al dì 21
di luglio. Il Villani[1156] scrive che nel dì 12 d'aprile terminò
quell'assedio. Comunque sia, certo è che comparve circa la Pentecoste
coll'esercito e coll'antipapa a Roma il re Arrigo[1157]. Trovò quella
città ben disposta alla difesa, e fu non men egli che Guiberto onorato
di quanti ingiuriosi titoli e villanie seppe inventare la satirica
facondia di quel popolo. Accampossi nel prato di Nerone, aspettando pure
di far qualche bel colpo; ma inutilmente tutto, perchè odiato da' Romani
tutti. Intanto gli aderenti suoi di Lombardia faceano guerra alle terre
della contessa Matilda, devastando paesi, assediando castella, ma con
ritrovar dappertutto nelle di lei genti il coraggio della medesima
principessa. Ne fa menzion Donizone[1158], ma con tacerne una a lui
svantaggiosa, discoperta nondimeno dall'avveduto Fiorentini[1159]. Cioè,
che in questi tempi cotanto prevalse in Lucca la fazione degli
scismatici, istigata principalmente da alcuni scapestrati del clero, che
quella città si ribellò alla contessa Matilda e si diede ad Arrigo. Ciò
si ricava dai diplomi di esso re, dati in quest'anno a que' cittadini, e
alle chiese di essa città, de' quali fa anche menzione Tolomeo da
Lucca[1160]. Di questa ribellione eziandio siamo assicurati dall'autore
della Vita di santo Anselmo vescovo di Lucca, il quale in tal
congiuntura fu cacciato dalla sua sedia, e si ricoverò sotto la
protezion di Matilde, senza più potere ricuperar quella chiesa, in cui
fu intruso al dispetto dei sacri canoni un Pietro diacono, fiero
fomentatore del partito del re. Intanto i Sassoni e varii principi e
vescovi di Germania, co' quali Arrigo aveva indarno trattato di tregua,
per potere con più sicurezza far guerra a papa Gregorio, tennero una
solenne dieta[1161], con eleggere in essa un re nuovo, cioè _Ermanno di
Lucemburgo_ Lorenese, nella vigilia di san Lorenzo. Non è in questo
luogo da seguitare il Baronio nè il p. Pagi, che fidatisi di Mariano
Scoto, della Cronica d'Ildeseim, e di qualche altro minore storico,
differirono sino all'anno seguente la promozione di _Ermanno_. Bertoldo
da Costanza, uno dei migliori scrittori di questi avvenimenti, ci
assicura ch'egli fu promosso alla corona in quest'anno. Così ha anche
Sigeberto[1162], così la Cronica di Augusta[1163]; e, quel che più
importa, Brunone storico contemporaneo della guerra di Sassonia[1164], e
che ne termina la descrizione in quest'anno, scrive che _in natali
sancti Stephani protomartyris, a Sigefredo moguntinae sedis
archiepiscopo Hermannus in regem venerabiliter est unctus, quum jam
MLXXXII annus Incarnationis dominicae fuisset inceptus_. Cominciavano i
Tedeschi nel Natale del Signore l'anno nuovo. Perciò alcuni autori
mettono il principio del suo regno nell'anno seguente, perchè egli fu
coronato nella festa di santo Stefano. Mariano Scoto negli ultimi tre
anni della sua Cronica ha degli anacronismi che non si possono salvare.
E forse quella è una giunta fatta da qualche penna posteriore; eppure
egli si scuopre mal informato.

Ora per disturbar la dieta e l'elezione suddetta che dissi fatta nella
vigilia di san Lorenzo di quest'anno, erano accorsi i principi fedeli ad
Arrigo con assaissime squadre d'armati. L'esercito loro di molto
superava in numero quello di Ermanno. Contuttociò, passata la festa di
san Lorenzo, il novello re insieme con _Guelfo duca_ di Baviera
all'improvviso andò ad assalirli nel luogo di Hoctet, celebre per una
gran giornata campale de' nostri giorni, e gli sconfisse. Assediò dipoi
Augusta, e, non potendola vincere, si rivolse ad altre parti della
Germania. Finalmente ben accolto dai Sassoni, nella festa di santo
Stefano di quest'anno, siccome dissi, da _Sigefredo arcivescovo_ di
Magonza ricevette la corona e la consecrazion regale. Mentre se ne stava
attendato l'esercito di Arrigo intorno alla città leonina, valorosamente
difesa dai Romani, cominciò l'aria, anche allora malsana di quei
contorni, a far guerra a lui e a' suoi soldati. Non poche migliaia vi
lasciarono per le infermità la vita; laonde, non potendo egli reggere a
questa persecuzione, giudicò meglio di levare il campo e di ritornarsene
in Toscana. Dalle memorie del Fiorentini suddetto costa ch'egli tuttavia
dimorava all'assedio di Roma nel dì 23 di giugno. Poscia si truova in
Lucca nel dì 25 di luglio. Un suo diploma, da me dato alla luce nelle
Antichità italiane[1165], cel fa vedere ivi nel dì 19 d'esso mese di
luglio. Di là, se vogliamo stare all'asserzione di Girolamo Rossi[1166],
si ridusse a Ravenna, e in quelle parti svernò. Fu in questi tempi
ch'egli tentò di tirar dalla sua _Roberto Guiscardo_ duca di Puglia, con
proporre il matrimonio di _Corrado_ suo figlio con una figliuola del
medesimo Roberto. Ma il duca stette forte nell'unione col papa. Niuno
aiuto nondimeno, benchè richiesto, potè o volle dare allo stesso papa,
perchè allora ad altro non miravano le sue vaste idee che a stendere le
sue conquiste nell'imperio de' Greci, forse con isperanza di farsi
imperadore d'Oriente. A questo fine fece un gran preparamento di navi e
di gente in Brindisi e in Otranto, e con questa poderosa armata, dopo
aver dichiarato principe di Puglia e Sicilia e suo erede il figlio
_Ruggieri_, mosse contra de' Greci, menando seco il suo creduto finto
imperadore Michele. S'impadronì dell'isola di Corfù, prese Botontrò e la
Vallona, e s'inviò per mettere l'assedio alla forte città di Durazzo.
Anna Comnena nella sua Alessiade scrive[1167], che la di lui armata
navale patì una fiera burrasca, e che vi perì gran copia di gente e di
navi; ma che nulla potendo atterrire il cuore intrepido di Roberto, egli
continuò il suo viaggio contra di Durazzo. Seco era _Boamondo_, a lui
nato dalla prima moglie, che nel valore e nella maestria della guerra,
benchè giovane, compariva veterano, eletto perciò generale dell'armata
dal padre. Fu dunque dato principio all'assedio di quella città. In
questo medesimo anno avendo _Alessio Comneno_ guadagnato in suo favore
l'esercito greco, fu proclamato imperadore nel dì primo d'aprile in
Andrinopoli[1168], e passato a Costantinopoli, quivi si fece
solennemente imporre la corona imperiale. Trovavasi allora gravemente
oppresso l'imperio orientale dai Turchi, che aveano eletta per lor
capitale Nicea, e vivamente era minacciato da Roberto Guiscardo nella
Dalmazia.

Fece egli perciò pace co' Turchi; e per resistere al Guiscardo, spedì
lettere e ambasciatori al papa, al re Arrigo, ed anche a quasi tutti i
principi d'Occidente, senza che alcuno volesse alzare un dito contro ai
Normanni. I soli Veneziani, sempre fin qui uniti co' Greci, in aiuto di
lui concorsero con un'armata navale. Guglielmo pugliese[1169] ci fa
conoscere con un superbo elogio, come già fosse cresciuta fin d'allora
la potenza veneta, con dire d'essa flotta:

    _..... Illam populosa Venetia misit,_
    _Imperii prece, dives opum, divesque virorum,_
    _Qua sinus Adriacis interlitus ultimus undis_
    _Subjacet Arcturo. Sunt hujus moenia gentis_
    _Circumspecta mari nec ab aedibus alter ad aedes_
    _Alterius transire potest, nisi lintre vehatur._
    _Semper aquis habitant. Gens nulla valentior ista_
    _Æquoreis bellis, ratiumque per aequora ductu._

Colla bravura e sperienza di questa gente non era da mettere a fronte
l'armata marittima de' Normanni; però non è da maravigliarsi se da essi
assalita ne restò sconfitta, e fu in pericolo di lasciarvi la vita lo
stesso Boamondo figliuol di Roberto. Buon soccorso di vettovaglie
recarono i veneti vincitori all'assediata città. Ma non per questo il
duca Roberto punto si smarri; nè perchè la peste entrata ne' cavalli
della sua armata ne facesse strage, desistè punto dall'impresa. Fece
fabbricar nuovi legni, fece venir nuove genti, e più che mai con torri e
macchine militari tornò a tempestare la città di Durazzo. Ma eccoti nel
mese d'ottobre lo stesso _imperador Alessio_ in persona con una
formidabile armata di Greci, Turchi ed altre nazioni venire al soccorso.
V'ha degli autori[1170] che fanno ascendere fino a cento settanta mila
l'esercito de' Greci. Quel _cento_ vi è di più. Il Malaterra[1171]
infatti parla di soli settanta mila. Non più di quindici mila ne aveva
Roberto, ed altri scrivono anche molto meno. Si venne ad una terribil
battaglia; vi fecero i Normanni delle prodezze inudite, talmente che
Anna Comnena figliuola del suddetto Alessio, tuttochè cotanto sparli
della nascita e delle azioni del duca Roberto, pure non potè di meno di
non riconoscere in lui le virtù de' bellicosi eroi. Sbaragliarono i
Romani l'armata greca, e nel conflitto perirono circa cinque o sei mila
persone dalla parte di Alessio, e fra questi il giovane _Costantino_,
genero del medesimo Roberto, dianzi dallo scaltro Alessio restituito a'
primieri onori. Restovvi morto ancora il finto imperadore Michele.
Innumerabile e ricchissima preda toccò ai vincitori; ed Alessio, che in
una terra vicina stava aspettando l'avviso della rotta di Roberto,
tenendosela come in pugno, avvertito dell'esito contrario, diede di
sproni alla volta di Costantinopoli. Dopo questa felice impresa tornò il
duca Roberto a mettere l'interrotto assedio a Durazzo, ridendosi di que'
cittadini che vantavano posto quel nome alla loro città, perchè era
piazza dura ed inespugnabile[1172], ed anch'egli scherzando dicea d'aver
nome Durando, e che se s'accorgerebbono i Durazzesi, perchè farebbe
durar quell'assedio finchè gli avesse ammolliti e domi. Sotto quella
città passò egli tutto il seguente verno. Lupo Protospata[1173] mette
questa campal battaglia sotto l'anno seguente, perchè incomincia l'anno
in settembre; e questa succedette nel giorno di san Luca nel mese
d'ottobre. Intanto il _conte Ruggieri_[1174] in Sicilia, essendosi a lui
ribellata la città di Geraci, colla forza costrinse quel popolo a
tornare all'ubbidienza sua. Vedesi dato in questo anno dal re Arrigo un
diploma in favore del monistero di santo Eugenio posto nel contado di
Siena[1175], _Indictione quarta, III nonas junii. Actum Romae_: il che
ci porge motivo giusto di credere che anche Siena seguitasse l'esempio
di Lucca, con ribellarsi alla contessa Matilde e darsi al medesimo
Arrigo. Anche Giugurta Tomasi[1176] è di parere che i Sanesi
seguitassero il partito d'esso re Arrigo. Scrive più d'uno storico che
in questo anno la _regina Berta_ partorì ad Arrigo il secondogenito, che
fu poi _Arrigo V_ fra i re, e il IV fra gl'imperadori. Erasi già
impadronito d'Ascoli il duca Roberto. Qualche tumulto o sedizione
dovette nell'anno presente succedere in quella città, perciocchè
sappiamo da Romoaldo salernitano[1177], che accorso il principe
_Ruggieri_, figliuolo d'esso duca, fece smantellar le mura di quella
città, e diede il fuoco alle case. Sotto quest'anno ancora narra
Alberico monaco de' tre Fonti[1178] che _Matilda marchesana_ di Toscana
concedette al vescovo di Verdun la badia delle monache di Guisa, a lei,
come si può credere, pervenuta per eredità della duchessa Beatrice sua
madre. Certamente ella possedeva di là da' monti beni e Stati di ragione
d'essa sua genitrice.

NOTE:

[1154] Berthold. Constantiensis, in Chron. Annalista Saxo.

[1155] Gregor. VII, lib. 9, Ep. 3.

[1156] Giovanni Villani, lib. 4, cap. 23. Ammirati, Istor. di Firenze,
cap. 1.

[1157] Cardinal. de Aragonia, in Vita Gregor. VII.

[1158] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 1.

[1159] Fiorentini, Memor. di Matild., lib. 1.

[1160] Ptolom. Lucens., Annal., tom. 1 Rerum Ital.

[1161] Bertholdus Constantiensis, in Chron.

[1162] Sigebertus, in Chron.

[1163] Chron. Augustan.

[1164] Bruno, Hist. Bell. Saxon.

[1165] Antiquitat. Italic., Dissert. XXXI, pag. 949.

[1166] Rubeus, Hist. Ravenn. lib. 5.

[1167] Anna Comnena, Alexiad., lib. 1. Malaterra, lib. 3, cap. 24.

[1168] Zonar., in Annal. Anna Comnena, Alex., lib. 3.

[1169] Guilielm. Apulus, lib. 4.

[1170] Petrus Diacon., Chron. Casinen., lib. 3, cap. 49.

[1171] Malaterra, lib. 3, cap. 27.

[1172] Alberic. Monachus, in Chronico.

[1173] Lupus Protospata, in Chron.

[1174] Anonymus Barensis apud Peregrinum.

[1175] Antiquit. Italic., Dissert. LXXII.

[1176] Tomasi, Istor. di Siena lib. 3.

[1177] Romualdus Salernitanus, in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[1178] Alberic. Monachus, Chron. apud Leibnit.



    Anno di CRISTO MLXXXII. Indizione V.

    GREGORIO VII papa 10.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 27.


Verso il principio della primavera di quest'anno tornò di nuovo il _re
Arrigo_ col suo antipapa a Roma, e strinse un'altra volta d'assedio, o
piuttosto con un blocco, la città leonina, premendogli forte di poter
mettere il piede nella basilica vaticana. Poco fastidio a lui recava in
Germania il competitore _Ermanno_ dichiarato re, perchè, per
testimonianza dell'Annalista sassone[1179] e del Cronografo
sassone[1180], esso Ermanno _tam suis, quam alienis coepit in brevi
despectus haberi_; nè si sa ch'egli facesse impresa alcuna nell'anno
presente. Ma neppure Arrigo riportò frutto alcuno da questo nuovo
tentativo[1181]. Fece ben egli da un traditore attaccar fuoco alla
basilica vaticana, sperando che i Romani, accorrendo all'incendio,
abbandonerebbono la guardia delle mura. Ma avvertitone papa Gregorio,
ordinò tosto che maggiormente si armassero i posti; e, confidato
nell'aiuto di Dio e nella protezion di san Pietro, fece il segno della
croce sopra le fiamme, e queste cessarono. Abbiamo dalla Cronica di
Farfa[1182] che nel dì 17 di marzo esso Arrigo andò a visitare il
celebre monistero di essa Farfa, ricevuto ivi con tutto onore da que'
monaci, i quali punto non badavano alle scomuniche pontificie, e tennero
sempre con esso re, perchè quello era monistero regale ossia imperiale.
Fu dai medesimi ammesso alla confraternita e alla participazion delle
loro orazioni: rito antichissimo dell'ordine benedettino. Assediò egli
il castello di Fara, e lo restituì all'_abbate Berardo_. Fece dipoi
prigione _Bonizone vescovo di Sutri_, personaggio celebre non men per le
sue disavventure che per la sua letteratura, restando tuttavia alcuni
opuscoli suoi manuscritti, uno de' quali, cioè _de Ecclesiasticis
Sacramentis_, è stato da me dato alla luce[1183]. Fu egli dipoi creato
vescovo di Piacenza; ma dagli scismatici restò un giorno barbaramente
trucidato. In quest'anno ancora il timore dell'aria malsana dei contorni
di Roma fece dopo Pasqua tornare Arrigo con pochi verso la
Lombardia[1184]. Lasciò nondimeno l'antipapa Guiberto in Tivoli
coll'esercito, acciocchè continuasse il blocco di Roma, con farlo
divenire di falso papa vero generale d'armata. Ostinatamente intanto
proseguì il duca _Roberto Guiscardo_ anche nel verno l'assedio di
Durazzo nell'Albania[1185]. Accadde che un certo Domenico nobile
veneziano ebbe dei disgusti in quella città, difesa allora dal valoroso
stuolo de' Veneziani. Questi perciò cominciò una trama col Guiscardo per
renderlo padrone della città, con farsi prima accordare in moglie una
nipote del duca, ed altre vantaggiose condizioni. Andò sì felicemente
innanzi il trattato[1186], che nella notte del dì 8 di febbraio
dell'anno presente, scalate le mura, i Normanni furono introdotti nella
città. Restò prigione il figliuolo del doge di Venezia con altri molti
veneti, e con assai loro navi, e tutto il circonvicino paese in potere
di Roberto.

Ora _Alessio Augusto_, non sapendo più che argine mettere al torrente
impetuoso di questo conquistatore[1187], spedì un'ambasceria con ricchi
regali al re Arrigo, per impegnarlo a fare una diversione con portare la
guerra in Puglia, rappresentandogli la facilità delle conquiste, mentre
le forze di Roberto erano oltre mare, e promettendogli mari e monti per
questo benefizio. Ossia che Arrigo accettasse la offerta, o che Alessio
facesse spargerne la voce con politica finzione, ne fu ben tosto spedito
l'avviso al duca Roberto. Egli allora, conoscendo necessaria la sua
presenza in Italia, lasciato al figliuolo Boamondo il comando
dell'esercito, tornossene in Puglia, ed attese a raunar gente per tutti
i bisogni. Prima della sua venuta, pare che accadesse quanto vien
narrato da Guglielmo Pugliese[1188], cioè che il popolo di Troia, dove
si trovava il _principe Ruggieri_ figliuolo del duca, si ribellò, e
costrinse il principe a rifuggirsi nella rocca, alla quale tosto fu
messo l'assedio. In aiuto ancora de' Troiani accorse il popolo d'Ascoli,
irritato forte per l'aspro trattamento fatto nel precedente anno da esso
Ruggieri alla loro città. Ma venuto da più parti soccorso, il principe
fece una sì vigorosa sortita dalla rocca, che gli riuscì di dispergere
quella ribellione. Costò la vita ad assaissimi di quelle due città
l'ardito ed infelice tentativo. Aveva intanto _Ruggieri conte_ di
Sicilia[1189] raccomandato il governo delle sue conquiste in quell'isola
a _Giordano_ suo figlio bastardo, perchè pressanti affari il
richiamavano in Calabria. Lasciatosi l'ambizioso giovane pervertire dai
consigli degli adulatori, si mise in possesso d'alcune castella, e tentò
di occupar Traina, dove era il tesoro del padre; ma questo ultimo non
gli riuscì. All'avviso di tal novità ritornò frettolosamente Ruggieri in
Sicilia; invitò al perdono il mal consigliato figliuolo; e fatti
abbacinare dodici de' più colpevoli, lasciò il governo della Sicilia a
più fidata persona. Tornato che fu in Lombardia il re Arrigo, per
testimonianza di Donizone[1190] e di Lupo Protospata[1191], si diede a
far guerra alla _contessa Matilda_, principale sostegno della parte
pontificia in Italia. Aveva ella, per così dire, una selva di fortezze
nelle montagne di Modena e Reggio, Canossa, Bibianello, Carpineta, Monte
Baranzone, Montebello ed altri simili luoghi montuosi di sua ragione
aveano rocche fortissime, delle quali resta tuttavia qualche vestigio

    _Insuperabilia loca sunt sibi plurima fixa:_

così scrive Donizone. Con tale attenzione e valore accudiva a tutto
l'eroina contessa che potè ben egli dare il guasto al paese, e formar
degli assedii, ma senza che gli venisse fatto di conquistare alcuno de'
suoi forti castelli. Soccorreva ella nel medesimo tempo con danari papa
Gregorio, che troppo ne abbisognava, per sostenersi contro l'esercito
dell'antipapa. E fu in questa occasione e nell'anno presente, che essa
contessa con _Anselmo vescovo_ di Lucca, scacciato dalla sua chiesa, e
vicario del papa in Lombardia, richiesero al monistero di Canossa il suo
tesoro per li bisogni della Chiesa romana[1192]. Non ebbe difficoltà
l'abbate Gherardo coi monaci a concederlo. Consistè esso in settecento
libbre d'argento, e in nove libbre d'oro, che furono inviate a Roma. Ma
la pia contessa non mancò di dar qualche compenso a quel monistero, con
assegnargli alcune chiese, e fargli poscia altri benefizii. Facilmente i
principi del secolo metteano le mani sopra i tesori delle chiese; ma
pochi imitavano Matilda nell'indennizzarle in altra guisa.

NOTE:

[1179] Annalista Saxo.

[1180] Chronographus Saxo.

[1181] Bertholdus Constantiensis, in Chron.

[1182] Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1183] Antiquit. Ital., Dissert. V.

[1184] Card. de Aragon., in Vit. Greg. VII.

[1185] Gaufrid. Malaterra, lib. 3, cap. 28. Guilielm. Apulus, lib. 4.

[1186] Anonymus Barensis, apud Peregrinum.

[1187] Anna Comnena, Alexiad., lib. 3.

[1188] Guillelmus Apulus, lib. 4.

[1189] Gaufrid. Malaterra, lib. 3, cap. 30.

[1190] Donizo, Vit. Mathild., lib. 2, cap. 1.

[1191] Lupus Protospata, in Chronico.

[1192] Rerum Italicar., tom. 5, pag. 385.



    Anno di CRISTO MLXXXIII. Indizione VI.

    GREGORIO VII papa 11.
    ARRIGO IV re di Germania e d'Italia 28.


In quest'anno ancora per la terza volta ritornò il _re Arrigo_
sotto Roma con isperanza d'entrarvi un giorno colla forza, o
almeno con intenzione di stancare i Romani e d'indurli a qualche
capitolazione[1193]. Fece alzare un castello in faccia alla città
leonina, che infestava molto i Romani difensori d'essa città. Certamente
s'ingannò Bertoldo da Costanza, autore per altro assai esatto di questi
tempi, in credere che l'antipapa Guiberto fosse consecrato papa ed
intronizzato nel presente anno. Ciò avvenne nell'anno seguente.
Quand'anche Arrigo in questo anno si fosse impadronito del Vaticano,
certamente non mise piede nella basilica lateranense, necessaria per
intronizzare un papa. Vero è bensì ch'egli cominciò de' trattati segreti
coi nobili romani, impiegando cogli uni l'oro, e l'ingorde promesse
cogli altri, in maniera che, a riserva di Gisolfo principe di Salerno,
essi convennero di far tenere al papa nel mese di novembre venturo un
concilio, dove si dibattesse la causa del regno controverso, ed ognun si
acquetasse alla determinazion di quella sacra assemblea. Promise Arrigo
di lasciar libero a tutti il cammino per intervenirvi. Tornossene perciò
egli in Lombardia, e fece venire a Ravenna il suo antipapa. Ma non
mantenne poi la parola, perciocchè fece prigioni i legati de' principi
tedeschi suoi nemici; trattenne inoltre _Ottone vescovo_ di Ostia,
legato della santa Sede, e molti altri; impedì ancora che _Ugo
arcivescovo_ di Lione, _Anselmo vescovo_ di Lucca e _Rinaldo vescovo_ di
Como non potessero intervenire al concilio suddetto. Fu nondimeno
celebrato esso concilio[1194] nel dì 20 di novembre, e da tanti fu
pregato il pontefice Gregorio, che s'astenne dallo scomunicar di nuovo
Arrigo; ma con tal forza parlò della fede e morale cristiana, e della
costanza necessaria nella persecuzione presente, che cavò le lagrime
dagli occhi di tutti. Scomunicò soltanto chi aveva impedito quei che
venivano a Roma[1195]. Molte istanze fecero i Romani, acciocchè egli
accogliesse Arrigo senza esigere soddisfazione. Ma egli saldissimo negò
di farlo, quando Arrigo non soddisfacesse per le offese fatte a Dio e
alla Chiesa. Si venne allora in cognizione che essi Romani aveano nella
state precedente contratta obbligazione con giuramento di fare in
maniera che il papa gli desse la corona; e non volendola dare, ch'essi
eleggerebbono un altro che gliela desse, con discacciare lo stesso
Gregorio papa. Nè egli, nè i suoi familiari aveano fin qui potuto
discoprir quest'arcano. Si ricorse dunque ad un sottil ripiego: cioè,
che non avendo i Romani promesso di dare ad Arrigo la corona con
solennità, poteano rispondere di esser pronti a fargliela dare dal papa,
qualora il re desse segni di vero pentimento; se no, il pontefice con
una fune gliene manderebbe giù una da castello Sant'Angelo. Nè l'uno, nè
l'altro piacque ad Arrigo; e però i Romani protestarono di essere
assoluti dalla lor promessa, e dal giuramento a lui fatto, e si unirono
di nuovo a sostener papa Gregorio. In questi infelici tempi restarono
pochissimi vescovi uniti al partito d'esso pontefice, e questi ancora,
per la maggior parte cacciati dalle lor chiese. Il rifugio di tutti era
allora la contessa Matilda. Arrigo tornato dipoi sotto Roma, celebrò il
santo Natale _apud sanctum Petrum_, come ha l'Urspergense[1196].

Abbiamo da Pietro Diacono[1197] che esso Arrigo, dopo aver preso e
distrutto il portico di san Pietro, scrisse a _Desiderio_ insigne abbate
di Monte Casino, perchè venisse a trovarlo. Non sapendo l'abbate che
titolo dargli, non gli rispose. Un'altra lettera più forte e minacciosa
gli scrisse Arrigo, comandandogli di presentarsi a lui in Farfa. Rispose
allora Desiderio assai cautamente, con addurre per sua scusa i pericoli
del viaggio per cagion de' Normanni; e intanto significò a papa Gregorio
quanto gli accadeva, per sapere come si avesse a regolare; ma Gregorio
niuna risposta gli diede. Sopravvenute poi altre lettere più formidabili
di Arrigo, che minacciavano la rovina del monistero, Desiderio andò fino
ad Albano, e trattò con _Giordano principe_ di Capoa, ma stando sempre
saldo in non voler giurar fedeltà ad Arrigo, e ricevere dalle mani di
lui la badia, benchè badia imperiale. Se Giordano non avesse smorzata
l'ira di Arrigo, era questa per iscoppiare in danno del monistero. Ma
mise egli sì buone parole, che Desiderio fu ammesso all'udienza del re.
Alla istanza di prendere da lui il baston pastorale rispose, che quando
la maestà sua avesse ricevuta la corona imperiale, allora esso abbate
risolverebbe o di ricevere da lui la badia, o di rinunziarla. Ed
essendosi fermato più giorni in corte, ebbe di gravi dispute
coll'antipapa, e collo stesso vescovo d'Ostia ritenuto da Arrigo,
intorno al valore del decreto di papa Niccolò II, ch'essi voleano far
valere, ed egli lo sosteneva per cosa ingiusta e pazzamente fatta,
benchè fatta da un papa e da un numeroso concilio. Non finì la faccenda
che Desiderio ottenne da Arrigo il diploma confermatorio dei beni del
suo monistero con bolla d'oro, ed impetrata licenza, se ne tornò al suo
monistero. Avrei volentieri veduto questo diploma per conoscere a qual
anno veramente appartenga questo fatto. Ma o esso è perito, o il padre
Gattola non giudicò bene di darlo alla luce nella Storia sua del
monistero casinense. Erasi ribellata a _Roberto Guiscardo_ duca la città
di Canne. Sono concordi Guglielmo Pugliese[1198], Lupo Protospata[1199],
l'Anonimo Barense[1200] e Romoaldo Salernitano[1201] in scrivere che
Roberto nel maggio dell'anno presente vi mise l'assedio. Presa poi nel
mese di giugno, oppure nel dì 10 di luglio, quella terra, la distrusse
affatto. Aggiugne esso Anonimo che il duca suddetto afflisse non poco il
popolo di Bari con una esorbitante contribuzione loro imposta, e col
carcerar molti di que' cittadini. E Lupo scrive che i Romani erano in
procinto di darsi al re Arrigo: il che saputo da Roberto, inviò a Roma
trentamila scudi d'oro, e coll'applicazione di questo rimedio tenne
quell'anime venali attaccate al partito del papa e suo. Temeva egli, che
prevalendo l'armi d'Arrigo, si volgessero poi contra delle sue
conquiste. Nè si dee tacere che per testimonianza di Pietro Diacono,
_Giordano principe_ di Capoa provvide anch'egli a' suoi interessi con
prendere dal re Arrigo l'investitura di quel principato, mediante lo
sborso di gran quantità di danaro, adattandosi alle scabrose congiunture
di questi tempi. Ma il monistero di Monte Casino, spettante al distretto
del principato medesimo, fu riserbato sotto il dominio, ossia sotto la
protezione degli imperadori. Era restato in Albania al comando
dell'armata normannica _Boamondo_, prode figliuolo primogenito di
Roberto Guiscardo. Anna Comnena scrive[1202] che egli occupò e fortificò
la città di Giovannina. Venne l'imperador greco _Alessio_ nel mese di
maggio per opporsi ai di lui progressi, ma in due battaglie restò
sconfitto. Avendo poi fatto calare in aiuto suo un possente corpo di
Turchi, gli riuscì di sconfiggere i Romani che assediavano Larissa.
Ricuperò anche la città di Castoria dianzi presa da Boamondo. In
quest'anno, per attestato di Sicardo[1203], la contessa Matilda assediò
Nonantola nel contado di Modena. È da credere che questo insigne
monistero, per essere imperiale, seguitasse le parti del re Arrigo.

NOTE:

[1193] Berthold. Constantiensis, in Chron.

[1194] Labbe, Concil., tom. 10.

[1195] Card. de Aragon., in Vit. Gregor. VII.

[1196] Urspergensis, in Chron.

[1197] Petrus Diacon., Chron. Casinens. lib. 3, cap. 30.

[1198] Guillelmus Apulus, lib. 4.

[1199] Lupus Protospata, in Chronico.

[1200] Anonymus Barensis, apud Peregrin.

[1201] Romualdus Salernit., Chron., tom. 7 Rer. Italic.

[1202] Anna Comnena, lib. 5 Alexiad.

[1203] Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MLXXXIV. Indizione VII.

    GREGORIO VII papa 12.
    ARRIGO IV re 29, imperad. 1.


Secondochè abbiamo da Anna Comnena[1204], il greco _imperadore Alessio_
suo padre avea inviato al re _Arrigo_ cento quaranta quattro mila scudi
d'oro, e cento pezze di scarlatto, per indurlo a muovere guerra al _duca
Roberto_. Ma, per quanto scrisse Bertoldo da Costanza[1205], Arrigo si
servì di tutto quest'oro per abbagliare e guadagnare il basso popolo
romano in suo favore. Vero è raccontarsi dall'Annalista Sassone[1206],
ch'egli sul principio di febbraio entrò nella Campania, e prese gran
parte della Puglia. Ma di ciò niun altro storico parla. Poscia fu dagli
ambasciatori romani invitato ad entrar pacificamente in Roma. Gli fu
infatti aperta la porta lateranense nel giovedì prima delle palme, cioè
nel dì 21 di marzo di quest'anno: con che egli si mise in possesso del
palazzo lateranense e di tutti i ponti, e presso a poco d'ogni luogo
forte di Roma. Ebbe tempo il _pontefice Gregorio_ di salvarsi in
castello Sant'Angelo. E perciocchè la maggior parte dei nobili teneva
pel papa, volle Arrigo da essi cinquanta ostaggi. Nel dì seguente, come
lasciò scritto l'abbate Urspergense[1207], fece accettare dal popolo il
suo antipapa Guiberto; e questi nella seguente domenica delle Palme fu
poi consecrato, non già dai vescovi d'Ostia, di Porto e d'Albano, a'
quali appartiene, ma bensì dai vescovi di Modena e di Arezzo, come ha
Bertoldo da Costanza, oppure da quei di Bologna, Modena e Cervia, come
s'ha dalla Vita d'esso papa Gregorio[1208], conservata a noi dal
cardinale d'Aragona. Altri danno questo brutto onore a quel di Cremona,
in vece di quello di Cervia. Guiberto, se non prima, assunse allora il
nomo di Clemente III. Venuto il giorno santo di Pasqua, cioè nel dì 31
di marzo, l'antipapa ed Arrigo s'incamminarono alla volta di San Pietro;
ma si trovò una squadra di gente fedele al papa che volle impedire il
lor passaggio, ed uccise o ferì quaranta degli Enriciani. Contuttociò
nella basilica vaticana ricevette Arrigo dalle mani del sacrilego
antipapa la corona imperiale e il titolo d'imperadore Augusto. Tale il
chiamerò anch'io, come han fatto tanti altri, quantunque illegittimo
imperadore, perchè unto e coronato da un usurpatore del romano
pontificato; giacchè neppure i Romani poteano privare di questo diritto
il papa legittimo tuttavia vivente. Ascese poscia Arrigo nel
Campidoglio, atterrò tutte le case de' Corsi, cominciò ad abitare in
Roma, come in sua propria casa. Vi restava ancora il Septisolio, creduto
da alcuni di Septizonio, antico e maestevol mausoleo, dove s'era fatto
forte Rustico nipote di papa Gregorio. A questo sito mise Arrigo
l'assedio, e cominciò con varie macchine a batterlo; ma eccoti una nuova
che gli fece mutar pensiero. Allorchè vide il pontefice Gregorio quanto
poco egli si potesse fidare del popolo romano, e fu astretto a
ricoverarsi in castello Sant'Angelo, immantenente scrisse e spedì messi
al duca _Roberto Guiscardo_, ricordandogli l'obbligo, le promesse e la
congiuntura pressante di recargli soccorso. Questo bastò perchè Roberto,
il quale si trovava allora in Puglia, e non già in Albania, allestisse
un copioso esercito, capace di soccorrere il papa. Dopo di che si mise
animosamente in viaggio alla volta di Roma. Informato di questa
spedizione[1209] _Desiderio abbate_ di Monte Casino, ne spedì tosto
l'avviso segretamente a papa Gregorio per fargli conoscere vicina la sua
liberazione, ed anche segretamente all'Augusto Arrigo, acciocchè egli
prendesse la risoluzione che infatti prese. Non si può negare[1210]:
quasi tutto il popolo romano era per esso Arrigo, ed aveva assediato il
papa in castello Santo Angelo, con alzarvi un muro incontro, acciocchè
niuno potesse entrarvi od uscirne. Contuttociò neppure fidandosi Arrigo
di una città chiamata _venale_ dallo stesso autore della Vita di
Gregorio VII, e trovandosi ivi con poca guarnigione delle sue genti,
determinò di sloggiare. Veniva[1211] Roberto con grande sforzo di
milizie, cioè con sei mila cavalli, e trenta mila fanti, ed oltre a ciò,
il solo suo nome e la riputazione d'invitto capitano valeva un mezzo
esercito: laonde non parve bene ad Arrigo di aspettarlo. Tre giorni
dunque prima che Roberto arrivasse, fece una bella allocuzione a tutti i
Romani, con espor loro la necessità di venire per suoi affari in
Lombardia, pregandoli di aver cura della città, e promettendo di far per
loro delle maravigliose cose in ritornando. Quindi si ridusse
coll'antipapa a Cività Castellana, e di là s'inviò verso Siena.

Non mancavano a papa Gregorio aderenti in Roma, specialmente fra la
nobiltà. Scrivono alcuni che, per concerto precedentemente fatto, e
suggerito da Cencio console de' Romani, fu attaccato in più luoghi della
città il fuoco; e mentre il popolo si trovava impegnato per estinguere
l'incendio, Roberto fu messo entro la città per la porta Flaminia. Altri
dicono che, dopo esser egli entrato, i Romani presero l'armi contra di
lui, ma senza potergli nuocere. Ed egli, all'incontro, diede alle fiamme
e distrusse affatto tutta la parte di Roma, dove son le chiese di san
Silvestro e di san Lorenzo in Lucina, oppure tutto il rione del Laterano
fino al Colisseo. Anzi, secondo Bertoldo da Costanza[1212], diede il
sacco a tutta la città, e la maggior parte d'essa ridusse in mucchi di
sassi, con isvergognar le donne e le monache stesse, e commettere tutti
gli altri eccessi che accompagnano un saccheggio militare. Landolfo
Seniore, storico milanese di questi tempi[1213], ci lasciò un orrido
ritratto di questo fatto: e non è da maravigliarsene, perchè Roberto
menò seco una gran quantità di Saraceni a quell'impresa, nemici del
cristianesimo, e nati per esterminar ogni cosa. Romoaldo Salernitano
scrisse[1214] ch'egli incendiò Roma dal palazzo lateranense fino a
castello Sant'Angelo: il che forse non merita molta credenza. Nè tardò
Roberto a presentarsi davanti ad esso castello, e a liberare il papa con
rimetterlo nel Laterano. Goffredo Malaterra notò[1215] che Roberto con
una scalata entrò in Roma, liberò il papa, e condusselo al Laterano. Da
lì a tre dì i Romani presero l'armi contra de' Normanni. Roberto allora
gridò _fuoco_, e perciò la maggior parte della città restò incendiata, e
i Romani per forza si acconciarono col papa. Fermossi dipoi per alquanti
giorni in quella città Roberto; nel qual tempo fece schiavi assaissimi
di que' perfidi cittadini, ed altri ne castigò con varie pene. Lo stesso
papa tenne l'ultimo de' suoi concilii romani, dove fulminò di nuovo la
scomunica contra di Guiberto e di Arrigo. Partissi finalmente di Roma il
Guiscardo, e, secondo l'autore della Vita di papa Gregorio[1216], lasciò
esso pontefice nel palazzo lateranense. Ma più peso ha qui da avere
l'asserzione di Pietro Diacono, di Pandolfo Pisano, di Lupo Protospata e
d'altri, che ci assicurano che il pontefice non credendosi sicuro fra
gli incostanti ed infedeli Romani, irritati ancora dall'aspro
trattamento fatto in questa congiuntura a loro e alla città, se ne andò
con esso Roberto a Monte Casino, e di là alla forte città di Salerno.
Non potè di meno lo stesso Malaterra di non alzar la voce contra di
Roma, allora sì ingrata ad un pontefice di virtù cotanto eminenti, con
dire fra l'altre cose[1217]:

    _Leges tuae depravatae plenae falsitatibus._
    _In te cuncta prava vigente luxus, avaritia,_
    _Fides nulla, nullus ordo. Pestis simoniaca_
    _Gravat omnes fines tuos. Cuncta sunt venalia._
    _Per te ruit sacer ordo, a qua primum prodiit._
    _Non sufficit papa unus: binis gaudes infulis._
    _Fides tua solidatur sumptibus exhibitis._
    _Dum stat iste, pulsas illum; hoc cessante revocas;_
    _Illo istum minitaris. Sic imples marsupias._

In questi medesimi tempi non istavano in ozio i partigiani d'Arrigo in
Lombardia, paese dove pochi si contavano aderenti al papa. Sosteneva
nondimeno questo altro partito vigorosamente la _contessa Matilda_,
principessa nell'amor della religione a niuno seconda, e superiore al
suo sesso nella politica e nella conoscenza dell'arte militare. Un fatto
avvenne che recò a lei gran gloria, e rincorò chiunque manteneva buon
cuore per la parte pontificia. Donizone[1218] pare che lo riferisca ad
alcuno degli anni seguenti. Ma Bertoldo da Costanza[1219] e l'autore
della Vita di santo Anselmo ne parlano all'anno presente. Cioè non fu sì
tosto giunto in Lombardia Arrigo IV, che ordinò ai vescovi e marchesi di
mettere insieme un buon esercito con voce (finta o vera, non so) di
voler tornare alla volta di Roma. I fatti furono diversi. Mosse egli
nuova guerra alla contessa Matilda, e spedì quell'esercito sul Modenese,
da cui fu impreso l'assedio del castello di Sorbara. Benchè la contessa
tanta gente non avesse da potersi cimentare con sì poderosa armata,
tuttavia, avendo dalle spie inteso che quegli assedianti, senza curarsi
di guardie, se ne stavano alla balorda nel loro campo sotto Sorbara, una
notte, quando men se l'aspettavano, mandò le sue milizie ad assalirli.
Ne riportò (forse nel mese di luglio) un'insigne vittoria, fece prigione
_Eberardo vescovo_ di Parma con cento dei migliori soldati, sei
capitani, più di cinquecento cavalli, assaissime armature, e
l'equipaggio del campo de' nemici. Il _marchese Oberto_ generale di
quell'armi con assai ferite si diede alla fuga; e _Gandolfo vescovo_ di
Reggio, scappato nudo, per tre dì stette nascoso in uno spinaio. In
quest'anno ancora _Guelfo duca_ di Baviera, presa la città d'Augusta, e
cacciatone _Sigefredo vescovo_ scismatico, pose in quella sedia
_Wigoldo_ pastore legittimo. Ma Arrigo, che era nel dì 19 di giugno in
Verona, ed ivi confermò i privilegii a que' canonici[1220], ad avea nel
dì 17 confermati i suoi beni al monistero di san Zenone[1221], essendo
passato sul principio d'agosto in Germania, ed avendo assediata la
medesima città di Augusta, la costrinse anch'egli alla resa. Dacchè fu
sbrigato dagli affari pontificii Roberto Guiscardo[1222], venne a
trovarlo _Boamondo_ suo figliuolo, per ottener soccorso di gente e di
danaro, perchè l'esercito di lui lasciato in Albania, non correndo le
paghe, minacciava di rivoltarsi, e l'_imperadore Alessio_ segretamente
avea fatto offerir loro di soddisfarli. Era in collera Roberto contra di
_Giordano principe_ di Capoa[1223], perchè avesse ricevuta da Arrigo
l'investitura degli Stati, e gli mosse guerra per questo, con dare a
ferro e fuoco parte del di lui paese. Forse passò l'affare di concerto
fra loro, acciocchè Giordano avesse un apparente motivo di rinunziare
all'aderenza dell'imperadore, e di riunirsi con papa Gregorio, siccome
in effetto seguì. Goffredo Malaterra scrive che questa mossa di Roberto
contra di Giordano accadde molto prima ch'egli andasse a liberar il papa
dall'assedio di Roma. Fece Roberto consecrare da esso pontefice la
magnifica chiesa ch'egli avea fabbricata in Salerno; e ciò fatto, attese
ad una strepitosa spedizione in Albania contra del greco Augusto. Sul
principio dunque dell'autunno, seco conducendo anche _Ruggieri_ altro
suo figliuolo, con una poderosa armata navale di gente e di cavalli
passò il mare[1224]. Nel mese di novembre venne a battaglia colla flotta
de' Greci e Veneti con tanto vigore, che la sbaragliò; prese alcune
delle loro navi; due cogli uomini ne affondò, da due mila n'ebbe
prigionieri, ed alcuni migliaia d'uomini dalla parte d'essi Greci e
Veneziani vi perirono. Anna Comnena scrive che due vittorie contro i
Normanni aveano prima riportate in quest'anno i Veneziani: del che niuna
menzione vien fatta dagli altri storici. Confessa dipoi essa istorica la
terribil rotta suddetta, loro data dal Guiscardo, la qual fu cagione che
si sciogliesse l'assedio di Corfù, già incominciato dai Greci. Svernò in
quelle parti Roberto, macchinando sempre maggiori imprese contra del
greco Augusto. Abbiamo dal Dandolo[1225] che _Vitale Faledro_, con
prevalersi della disgrazia succeduta alla flotta veneta spedita in
favore de' Greci, suscitò l'odio del popolo veneto contra di _Domenico
Silvio_ loro doge; ed aggiunti poi donativi e promesse, tanto fece che
esso Domenico fu deposto. Dopo di che fu egli sostituito nella medesima
dignità. Appresso scrive, avere Vitale inviati a Costantinopoli i suoi
legati che gli ottenessero dall'_Augusto Alessio_ il titolo di
protosebasto: perlochè da lì innanzi il doge veneto cominciò ad
intitolarsi _dux Dalmatiae et Croatiae, et imperialis protosevastos_.
Confermò in quest'anno Arrigo imperadore tutti i suoi privilegii e beni
al monistero di Farfa, come costa dal suo diploma inserito nella Cronica
farfense[1226]. Que' monaci riconosceano allora per papa Guiberto, e
tenevano saldo il partito d'Arrigo.

NOTE:

[1204] Anna Comnena, lib. 3.

[1205] Bertholdus, Constantiensis, in Chron.

[1206] Annalista Saxo, apud Ecchardum.

[1207] Urspergensis, in Chron.

[1208] Cardinal. de Aragon., in Vit. Gregor. VII.

[1209] Petrus Diaconus, Chron. Casin., lib. 3.

[1210] Pandulfus Pisan., in Vit. Gregor. VII, P. I, tom. 3 Rer. Italic.

[1211] Guillelmus Apulus, lib. 4 Poemat.

[1212] Bertholdus, Constantiensis, in Chron.

[1213] Landulfus Senior, Histor. Mediolan., lib. 4, cap. 3.

[1214] Romualdus Salernitanus, in Chron., tom. 7 Rerum Italicarum.

[1215] Gaufrid. Malaterra, Hist., lib. 3, cap. 37.

[1216] Cardin. de Aragon., in Vit. Gregor. VII.

[1217] Malaterra, lib. 3, cap. 38.

[1218] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 3.

[1219] Bertholdus Constantiensis, in Chron.

[1220] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Episcop. Veronens.

[1221] Antiquit. Italic., Dissert. XIII.

[1222] Anna Comnena, Alexiad., lib. 5.

[1223] Guillelmus Apulus, lib. 5.

[1224] Idem, lib. 4.

[1225] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1226] Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MLXXXV. Indizione VIII.

    GREGORIO VII papa 13.
    ARRIGO IV re 30, imperad. 2.


Dimorava tuttavia in Salerno _papa Gregorio_, quando volle Iddio
liberarlo dalle tribulazioni del mondo cattivo, e chiamarlo a miglior
vita[1227]. Cadde egli infermo nel mese di maggio; ed interrogato chi
egli designasse per suo successore in tempi tanto turbati della Chiesa,
tre ne nominò, cioè _Desiderio cardinale_ ed abbate di Monte Casino,
_Ottone vescovo_ d'Ostia ed _Ugo arcivescovo_ di Lione. Perchè i due
ultimi erano fuori d'Italia, consigliò di eleggere Desiderio. Fattagli
istanza di dar l'assoluzione e benedizione agli scomunicati, rispose
che, a riserva di Arrigo e dell'antipapa Guiberto, e dei principali
fomentatori di quello scisma, la concedeva agli altri tutti. Però vien
creduto falso il dirsi da Sigeberto[1228] ch'egli rimettesse in sua
grazia Arrigo. L'ultime sue parole furono: _Dilexi justitiam, et odovi
iniquitatem: propterea morior in exsilio_. Nel dì 25 di maggio passò
egli alla gloria de' beati: pontefice onorato da Dio in vita e dopo da
morte varii miracoli, e perciò registrato nel catalogo dei santi.
Innumerabili contradittori ebbe egli vivente, altri non pochi ne ha
avuti anche a' dì nostri. Quel che è certo tante calunnie divolgate
contra di lui sono patentemente smentite dalla vita incorrotta che egli
sempre menò, e dal suo zelo per la purità della disciplina
ecclesiastica. Se poi i mezzi da lui adoperati per ottenere questo
lodevol fine sieno anch'essi tutti degni di lode, alla venerazion mia
verso i capi della Chiesa non conviene esaminarlo, nè alla mia tenuità
di volere decidere. Fu data sepoltura al sacro corpo del defunto
pontefice nella chiesa di san Matteo di Salerno, e i cardinali,
conoscendo il bisogno della Chiesa, tutti rivolsero gli occhi sopra il
suddetto _abbate casinese Desiderio_[1229], uomo incomparabile per la
sua saviezza e purità di costumi, ed amico di tutti i principi. Ma
ritrovando in lui ripugnanza indicibile a questo peso, ancorchè avessero
implorato l'aiuto di _Giordano principe_ di Capoa e d'altri signori,
passò il resto dell'anno senza che si desse un nuovo pastore alla Chiesa
romana. Nello stesso dì 25 di maggio cessò ancora di vivere _Tedaldo_
ossia _Tebaldo arcivescovo_ di Milano, capo e colonna maestra degli
scismatici di Lombardia[1230], mentre era in Arona, terra della sua
chiesa sul Verbano, cioè sul Lago Maggiore, e non già posta fra Como e
Bergamo, come immaginarono i padri Papebrochio e Pagi. Ebbe per
successore _Anselmo da Rho_. Nega esso padre Pagi[1231] che questo nuovo
arcivescovo fosse eletto dall'imperadore Arrigo; o se pur fu eletto dal
clero e popolo milanese, prendesse da Arrigo l'investitura, con allegare
Bertoldo da Costanza laddove scrive che dopo la morte d'esso Tedaldo la
chiesa di Milano _erigere caput coepit, excussoque e cervicibus jugo
schismaticorum, catholicum sibi delegit antistitem, Anselmum ejus
nominis tertium_. Ma queste son parole del cardinal Baronio[1232], e non
già di Bertoldo. All'incontro Landolfo juniore[1233], siccome osservò il
signor Sassi[1234], chiaramente scrive che Anselmo fu investito da
Arrigo. Vedremo ben poi lo stesso arcivescovo abbracciare fra qualche
tempo il partito de' cattolici; ma questo non fa che egli sulle prime
non ricevesse dalle mani dell'imperadore il baston pastorale. Mancarono
ancora di vita i vescovi scismatici di Parma, di Reggio, di Modena e di
Pistoia; e perchè in questi tempi la _contessa Matilda_ ricuperò non
poco della sua autorità, furono provvedute le tre ultime chiese di
pastori cattolici.

Stava intanto _Roberto Guiscardo_ duca di Puglia facendo maravigliosi
preparamenti di navi e di gente colla vasta idea di portar la guerra nel
cuore del greco imperio, e di mettere almeno in contribuzione i luoghi
marittimi di quella monarchia; ma abortì ogni suo disegno, perchè
passato in Cefalonia per prendere la città di quell'isola, infermatosi
quivi terminò i suoi giorni nel dì 17 di luglio. Con che venne meno uno
de' principi più memorabili della storia normannica ed italiana, che da
picciolo gentiluomo era pervenuto ad essere come un re col suo
infaticabil valore, colla sua accortezza e con altre eroiche doti,
mischiate nondimeno con una smoderata ambizione, e cogli altri vizii de'
conquistatori che passano per virtù negli occhi del mondo, ma non già in
quelli di Dio. _Post multorum pauperum et divitum oppressionem, cujus
avaritiae nec Sicilia nec Calabria suffecit_, finì egli di vivere, come
scrisse Bertoldo da Costanza[1235]. Secondo l'uso dei secoli barbari,
non mancò chi attribuì la sua morte al veleno, fattogli dare o
dall'_imperadore Alessio_, o da _Sichelgaita duchessa_ sua moglie[1236].
Resta questa voce distrutta da Guglielmo Pugliese[1237], da Romoaldo
Salernitano[1238] e da altri, che cel rappresentano mancato di morte
comune. Trovaronsi alla morte di lui presenti la stessa duchessa con
_Ruggieri_ suo figliuolo, e _Boamondo_ nato a Roberto dal primo
matrimonio. Avea Sichelgaita già fatto dichiarar principe ed erede degli
Stati il suo figlio Ruggieri, soprannominato Borsa: pure, temendo che i
popoli, udita la morte del marito, tumultuassero, oppure che Boamondo
disputasse la successione ad esso suo figlio, siccome infatti avvenne,
frettolosamente ripassò in Italia sopra la miglior galea di
quell'armata, con riportar seco il cadavero del defunto consorte. Prima
nondimeno di partirsi dalla Cefalonia, esso principe Ruggieri parlò
all'esercito, e trovò tutti disposti alla fedeltà verso di lui. Ma non
fu sì tosto egli allontanato, che quasi fosse caduto il mondo nella
persona di Roberto Guiscardo, tutta quell'armata sorpresa da panico
spavento, lasciando armi e bagaglio, corse alle navi, e, come potè il
meglio, se ne venne alla volta d'Otranto. Già toccavano i lidi della
Puglia, quando insorta una fiera tempesta, ingoiò molte di quelle barche
e gran quantità di gente. Ruppesi la stessa galea che portava il
cadavero del Guiscardo; e questo andò in mare, da dove con fatica
ricuperato, fu poi seppellito nella città di Venosa. Durazzo e l'altro
paese già conquistato da Roberto non tardò a rimettersi sotto il dominio
del greco Augusto. Fu proclamato duca _Ruggieri_ in Puglia, Calabria e
Salerno; ma _Boamondo_, suo fratello maggiore di età, non potendo
sofferire di vedersi così escluso dall'eredità, benchè primogenito,
appena fu anch'egli tornato in Italia, che si diede a far gente e
movimenti contro del fratello. In Germania, dove si trovavano
l'_imperadore Arrigo_ e il _re Ermanno_, nulla seguì di memorabile
nell'anno presente. Tenuto fu un concilio in Quintilineburgo dal già
liberato vescovo di Ostia nella settimana di Pasqua[1239], ed in esso
proferita la scomunica contra di alcuni simoniaci, con altri ordini
spettanti all'ecclesiastica disciplina. V'intervenne lo stesso re
Ermanno co' principi suoi seguaci. Raunarono dipoi i partigiani di
Arrigo anch'essi un conciliabolo in Magonza, e ritorsero le censure
contro la parte contraria. Ebbe maniera in questo anno esso Arrigo di
tirar dalla sua buona parte de' Sassoni: così belle furono le promesse
che loro diede di un buon trattamento. Ma quello sconsigliato principe
tardò poco a far conoscere che la volpe muta il pelo, e non il vezzo; e
però fu in breve rigettato e cacciato da chi gli avea prestata
ubbidienza. Era in Ratisbona esso Arrigo nel dì 9 di novembre dell'anno
presente, se vogliam credere al diploma con cui egli confermò i
privilegii delle monache di santa Giulia di Brescia[1240], _dato V idus
novembris anno dominicae Incarnationis MLXXXV, Indictione VII, anno
autem domni Henrici regis quarti, imperatoris tertii, ordinationis ejus
XXXI, regnantis quidem XXIX, imperii vero III. Actum Ratisponae_. Ma c'è
battaglia fra queste cronologiche note, e l'ultime indicano l'anno
seguente 1086. Bensì _Liutaldo duca_ tenne un placito in Padova nel dì 3
di marzo[1241], in cui _Milone vescovo_ di quella città ottenne sentenza
favorevole per alcuni beni della sua chiesa. Fu, siccome vedremo,
Liutaldo duca di Carintia, e che fosse ancora marchese della marca di
Verona in questi tempi, può risultare dall'alto sopraddetto. Oltre a
Bertoldo di Costanza, gli Annali pisani fanno menzione[1242] di una
terribile carestia che, unita colla peste, nell'anno presente popolò di
cadaveri le sepolture.

NOTE:

[1227] Paulus Benried., in Vit. Greg. VII.

[1228] Sigebertus, in Chronico.

[1229] Petrus Diac., Chron. Casin., lib. 3, cap. 65.

[1230] Berthold. Constantiensis, in Chron.

[1231] Pagius, Chrit. ad Annal. Baron.

[1232] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[1233] Landulf. Junior, Hist. Mediolan., cap. 9, tom. 5 Rer. Ital.

[1234] Saxius, in Notis ad Landulfum Junior.

[1235] Berthold. Constantiensis, in Chron.

[1236] Olderic. Vitalis, lib. 7 Hist. Alber. Monachus, in Chron.

[1237] Guillelmus Apulus, lib. 5.

[1238] Romualdus Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[1239] Berthold. Constantiensis, in Chron. Annalista Saxo.

[1240] Bullar. Casinense, tom. 2, Constit. CXVII.

[1241] Antiquit. Italic. Dissertat. XXVIII.

[1242] Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MLXXXVI. Indizione IX.

    VITTORE III papa 1.
    ARRIGO IV re 31, imperad. 3.


Conoscevasi molto pregiudiziale alla Chiesa cattolica, e più a Roma, la
oramai troppo lunga vacanza della Sede apostolica. Però i vescovi e
cardinali della santa Chiesa romana si unirono verso la festa di
Pasqua[1243], e fecero sapere a _Desiderio abbate_ di Monte Casino e
cardinale di venire a Roma unito agli altri cardinali che con esso lui
dimoravano, e con _Gisolfo_ già principe di Salerno. Credendo egli che
più non si pensasse a lui, andò colà nella vigilia della Pentecoste.
Sulla sera furono a trovarlo e vescovi e cardinali e laici fedeli di san
Pietro, per indurlo ad accettare il papato; ma egli protestò di voler
piuttosto andar pellegrinando, che di condiscendere ai loro voleri; e
caso che gli facessero qualche violenza, se ne tornerebbe tosto a Monte
Casino tal quale era, ed essi commetterebbono con ciò un'azione
ridicola. Nel dì seguente si congregarono tutti, e diedero a Desiderio
la facoltà di nominar chi dovesse empiere la sedia di san Pietro; ed
egli, col parere di Cencio console dei Romani, nominò _Ottone vescovo_
di Ostia. Erano tutti in procinto di proclamar papa esso vescovo, quando
uno dei cardinali si ostinò a non volerlo, con allegare i canoni, da'
quali si proibiva la traslazione da un vescovato all'altro, quantunque
tali canoni fossero oramai troppo andati in disuso. Questo accidente fu
cagione che i vescovi e cardinali col clero e popolo risolvessero in
fine di crear papa per forza _Desiderio_. Presolo dunque, l'elessero,
violentemente gli misero addosso la cappa rossa, ma non poterono già
vestirlo colla bianca, tanta fu la di lui resistenza, e gl'imposero il
nome di _Vittore III_. Il prefetto dell'imperadore, che, lasciato in
libertà dal duca Ruggieri, era tornato a Roma, e in Campidoglio
esercitava la sua autorità, adirato perchè i vescovi e cardinali, ad
istanza di Gisolfo già principe di Salerno, non aveano voluto consecrare
l'eletto arcivescovo salernitano, cominciò notte e dì a perseguitarli,
acciocchè non seguisse la consecrazione dall'eletto papa. Dovendosi
questa fare nella basilica vaticana, non poterono essi aver libertà per
celebrarvi sì gran funzione. Però dopo quattro giorni esso Desiderio
uscì di Roma, ed arrivato a Terracina, quivi depose la croce, il manto e
l'altre insegne pontificali, risoluto di voler piuttosto andarsene pel
mondo, che di sottomettere le sue spalle al peso del pontificato, e se
ne tornò a Monte Casino. Per quante preghiere e lagrime i cardinali e i
vescovi adoperassero, rappresentandogli il bisogno e il danno della
Chiesa, nol poterono rimuovere. E tuttochè facessero venire al monistero
Giordano principe di Capoa con un grande esercito, non riuscì ad alcuno
d'indurre Desiderio a lasciarsi consecrare. In così fluttuante stato
passò ancora l'anno presente.

Dominava tuttavia in Mantova la _contessa Matilda_, e seco si trovava
l'illustre servo di Dio _Anselmo_, di nazione milanese, vescovo di
Lucca, già dalla sua chiesa scacciato, e vicario del papa in Lombardia.
Ammalatosi egli in essa città, passò a miglior vita nel dì 18 di
marzo[1244], e alla sua tomba succederono non poche miracolose
guarigioni: per le quali, ma più per le sue insigni virtù, fu annoverato
fra i santi. Scrisse molti libri, e ne restano due composti in difesa di
papa Gregorio VII contra dell'antipapa Guiberto. Leggesi anche la sua
Vita, scritta dal suo penitenziere, cioè da un autore contemporaneo.
Eransi negli anni addietro ribellati i principali della Baviera a
_Guelfo IV_ loro duca, ed aveano abbracciato il partito dell'imperadore
Arrigo[1245]. Nella Pasqua dell'anno presente si riconciliarono con
Guelfo, ed abbandonarono il partito imperiale. Unitisi poscia essi
Baveresi coi Suevi e Sassoni, si portarono ad assediare la città di
Virtzburg. Portossi colà Arrigo con un esercito di venti mila persone
tra fanti e cavalli, per liberarla dall'assedio. Seguì dunque una fiera
battaglia fra quelle due armate nel dì 11 d'agosto. Rotto Arrigo, si
salvò colla fuga, e de' suoi rimasero sul campo più di quattro mila, e
pochissimi dei cattolici, a' quali poi non fu difficile l'avere in lor
balia quella città, e l'intronizzarvi il vescovo cattolico _Adalberone_.
Ma non passò molto che Arrigo tornò sotto quella città, per quanto
scrive l'Urspergense[1246], dove fu di nuovo posto in sedia il vescovo
scismatico. Essendosi poi portato esso Augusto vicino alla festa del
santo Natale all'assedio di un castello in Baviera, Guelfo duca di
quelle contrade e _Bertoldo duca_ di Suevia gli furono addosso, e
talmente lo strinsero, che, se volle uscirne, gli convenne promettere di
tenere una dieta, dove si terminasse la discordia del regno.

NOTE:

[1243] Petrus Diacon., Chron. Casinens., lib. 3, cap. 66 et seq.

[1244] Vita S. Anselmi Lucensis, in Act. Sanctor. Bulland. ad diem 18
martii.

[1245] Berthold. Constantiensis, in Chron. Sigebertus, in Chron.
Annalista Saxo et alii.

[1246] Urspergensis, in Chron.



    Anno di CRISTO MLXXXVII. Indizione X.

    VITTORE III papa 2.
    ARRIGO IV re 32, imperad. 4.


Verso la metà di quaresima dell'anno presente si raunarono molti vescovi
e cardinali nella città di Capoa, e vi tennero un concilio, al quale
presedette _Desiderio_ già eletto papa[1247], ed intervennero Cencio
console colla maggior parte della nobiltà romana, _Giordano principe_ di
quella città, e _Ruggieri_ duca di Puglia. Vinto ivi Desiderio dalle
tante loro preghiere, e, come io vo credendo, anche dalle promesse a lui
fatte da que' principi e dai Romani di assisterlo con braccio forte
contra dell'usurpatore antipapa, ripigliò la croce e la porpora; e
tornato nel dì delle Palme a Monte Casino, quivi solennizzò la Pasqua.
Poscia passò con essi principi e colla loro armata verso Roma; e benchè
fosse sorpreso da una languidezza di forze, si accampò fuori della porta
di san Pietro. Dianzi avea l'antipapa occupata la basilica vaticana, e
la difendea con una mano d'armati. Fu essa in fine ricuperata dalle armi
collegate; e però il novello papa _Vittore III_ venne quivi consecrato
nella domenica dopo l'Ascensione dai vescovi d'Ostia, di Tuscolo, di
Porto e di Albano, con gran concorso del popolo romano. Dopo otto giorni
se ne tornò egli coi suddetti principi a Monte Casino. Ma perchè la
_contessa Matilda_ col suo esercito era giunta a Roma, egli notificò
l'ardente sua brama d'abboccarsi con lui, per mare si restituì colà, e
si fermò in san Pietro per otto giorni, e nel dì di san Barnaba
coll'aiuto di Matilda, passato il Tevere, entrò in Roma, accolto da gran
folla del popolo e dalla maggior parte della nobiltà. Così tornò in suo
potere tutta quella città con castello Sant'Angelo, San Pietro, e le due
città di Porto e d'Ostia. Prese egli abitazione nell'isola del Tevere.
Ma nella vigilia di san Pietro eccoti comparire un messo, che si finse
spedito da Arrigo, il quale intimò ai consoli, senatori e popolo romano
la disgrazia dell'imperadore, se non abbandonavano papa Vittore. Allora
i volubili Romani congiunti colle soldatesche dell'antipapa cacciarono
di Roma tutti i soldati del papa, che si ritirarono in castello
Sant'Angelo. Presero anche tutti i contorni della basilica vaticana, ma
non poterono già entrare in essa basilica, in maniera che l'antipapa,
che sperava di celebrar ivi messa nella festa di san Pietro, fu
costretto a celebrarla nella chiesa di santa Maria nelle torri contigue
alla vaticana. Nella sera poi ne uscì la guarnigion pontificia, e
Guiberto nel dì seguente vi celebrò; ma ritiratisi i suoi, nel giorno
appresso ritornò quella basilica alle mani di papa Vittore. Era ben
compassionevole lo stato di Roma in tempi di tanta turbolenza.
Restituitosi a Monte Casino esso pontefice, passò poi nell'agosto a
Benevento, dove tenne un concilio, condannò le investiture date agli
ecclesiastici, rinnovò le scomuniche contra dell'antipapa Guiberto, e le
medesime censure fulminò contra di _Ugo arcivescovo_ di Lione e di
_Riccardo abbate_ di Marsiglia, perchè oppostisi all'esaltazion d'esso
papa, s'erano dianzi separati dalla comunion della Chiesa romana. Non
potè già accadere senza scandalo il vedere che questo arcivescovo,
proposto dallo stesso papa Gregorio VII come persona degna di succedere
a lui nel pontificato, mosso poi da ambizione e invidia, si rivoltasse
contra d'esso papa Vittore, e ne sparlasse senza ritegno alcuno. Resta
tuttavia una di lui lettera scritta alla contessa Matilda[1248], dove
tratta Desiderio per uomo dominato dall'ambizione, vanaglorioso, astuto,
con chiamar nefande le di lui azioni; per le quali cagioni aveva esso
arcivescovo impugnata la consecrazione del medesimo, con esigere ch'egli
prima evacuasse alcuni reati. Tale nondimeno era stata in addietro la
vita di Desiderio, tale la sua pietà e il suo zelo per la religione, che
non si dee prestar fede alle dicerie di quell'arcivescovo, il quale ben
si scopriva che moriva di voglia del pontificato romano, nè potea
sofferire che altri l'avesse preoccupato. Mentre si celebrava il
suddetto concilio, peggiorò di sanità papa Vittore, per cagione d'una
gagliarda dissenteria, e però si affrettò di tornare a Monte Casino,
dove presentò ai vescovi e cardinali _Ottone vescovo_ di Ostia,
consigliandoli di eleggerlo per suo successore. Dopo tre giorni, cioè
nel dì 16 di settembre, passò a godere in cielo il premio delle sue
fatiche, con lasciar fama di santità presso i buoni, non già presso gli
scismatici, che scaricarono contra di lui non poche calunnie, come
aveano fatto di Gregorio VII, le quali si leggono nella Cronica
d'Augusta[1249]. Nè mancano scrittori che il dicono[1250] morto di
veleno a lui dato nel sacro calice; ma questa probabilmente fu una di
quelle immaginazioni che facilmente nasceano e si dilatavano in secoli
di tante turbolenze. Papa Vittore III si acquistò credito anche fra i
letterati con tre libri di dialoghi sacri, i quali sono alla luce. Fu in
quest'anno sul principio d'agosto tenuta una gran dieta dai principi
tedeschi delle due fazioni nella città di Spira[1251]. V'intervenne
anche l'_Augusto Arrigo_. Quei del partito a lui contrario si esibirono
di riconoscerlo per re, purchè egli impetrasse l'assoluzion dalle
scomuniche. Ma persistendo egli in protestarsi non iscomunicato,
andarono in fumo tutte le speranze di quell'assemblea, ed ognun dal suo
canto si rivolse a preparar armi per la guerra. Arrigo colle sue armi
tornò addosso ai Sassoni, ma gli convenne fuggire, inseguito sì da
vicino dal re Ermanno, che se non era _Egberto conte_ che per sua
malizia il lasciò scampare, egli cadeva nelle mani de' Sassoni.

NOTE:

[1247] Petrus Diacon., Chron. Casinens., lib. 3, cap. 68.

[1248] Concilior. Labbe, tom. 10. Chronicon Virdunens., apud Labb.

[1249] Chron. Augustan., apud Freherum, tom. 1.

[1250] Dandulus, in Chronico, tom. 12 Rer. Ital. Martinus Polonus, in
Chron. et alii.

[1251] Berthold. Constant., in Chron.



    Anno di CRISTO MLXXXVIII. Indizione XI.

    URBANO II papa 1.
    ARRIGO IV re 33, imperad. 5.


Sino al dì 8 di marzo dell'anno presente restò vacante la Sede
apostolica[1252]. Tante furono le istanze de' cattolici romani, e
massimamente della contessa Matilda, che da varie parti dell'Italia, ed
anche di Oltramonti, si raunò un concilio in Terracina, e nel suddetto
giorno i vescovi e cardinali col resto del clero e popolo con voti
concordi si unirono ad eleggere papa il _vescovo d'Ostia Ottone_, di
nazion francese, della diocesi di Rems, al quale imposero il nome di
_Urbano II_. Era questi personaggio di gran vaglia per la sua
letteratura, mirabile per l'attività, e di zelo incorrotto per la
religione e per la disciplina ecclesiastica. Fu prima canonico di Rems,
poi monaco di Clugnì, poi vescovo d'Ostia, ed infine romano pontefice.
Nel 12 di marzo prese egli il possesso del trono pontificale con plauso
di tutti i buoni, e dalla maggior parte dell'Europa accettato e
riverito. Tutto ciò abbiamo da Pietro Diacono, il quale parimente
racconta[1253] che papa Vittore III, prima di passare a miglior vita,
ardendo di desiderio di veder gastigata la baldanza de' Saraceni
africani, che con frequenti piraterie infestavano le coste d'Italia, e,
sapendo quanta fosse la bravura e potenza de' Pisani e Genovesi in mare,
commosse questi due popoli ed altri non pochi dell'Italia a formare una
poderosa armata navale contra di que' Barbari. Adunque dopo la sua
morte, e nell'anno presente fecero essi cristiani l'impresa contra del
re di Tunisi, ed espugnarono una città con tagliare a pezzi cento mila
Mori; e, quel che fu più mirabile, nello stesso giorno che succedette la
loro vittoria, se n'ebbe e se ne sparse la nuova in Italia. Non han
bisogno i lettori ch'io loro dica che la strage di tanti Mori è un
ingrandimento della fama, facilmente bugiarda in simili casi. Anche
Bertoldo da Costanza[1254] parla di questo fatto, con dire che i Pisani
e Genovesi ed altri molti Italiani ostilmente assalirono il re d'Africa,
e, dato il sacco alla di lui terra, il costrinsero a rifugiarsi in una
fortezza, e a rendersi tributario della santa Sede. Gli Annali pisani
medesimamente[1255] gonfiano le trombe con farci sapere sotto l'anno
presente che _fecerunt Pisani et Januenses stolum in Africam, et
ceperunt duas munitissimas civitates_ (_Almadiam_ è scritto di sopra)
_et Sibiliam in die sancti Sixti. In quo bello Ugo vicecomes filius
Ugonis vicecomitis mortuus est. Ex quibus civitatibus, Saracenis fere
omnibus interfectis, maximam praedam auri et argenti, palliorum et
ornamentorum abstraxerunt. De qua praeda thesauros pisanae ecclesiae
diversis ornamentis mirabiliter amplificaverunt, et ecclesiam beati
Sixti in Curte Veteri aedificaverunt_. Però s'han da correggere gli
altri Annali pisani che mettono questa impresa all'anno 1075, oppure al
1077. Credono alcuni che in Africa fosse la città di _Meadia_, chiamata
in questi Annali _Almadia_, e per errore Dalmazia. Ma che i Cristiani
prendessero allora Siviglia, città che non si sa che sia mai stata in
Africa, o Siviglia città di Spagna, non è punto credibile. Pietro
Diacono parla d'una sola città. Goffredo Malaterra[1256] fa anch'egli
menzione di quella spedizione, narrando che _Pisani apud Africam
negotiando proficiscebantur. Quasdam injurias passi, exercitu
congregato, urbem regiam regis Tunicii oppugnantes, usque ad majorem
turrim, qua rex defendebatur, capiunt_. Adunque lo sforzo de' Pisani fu
contra Tunisi. Se essi inoltre espugnassero Meadia, o Almadia, resta
incerto, quando per avventura Tunisi e Almadia non fossero la stessa
città. Aggiugne dipoi, che i Pisani non avendo forze per mantener Tunisi
in loro potere, spedirono a _Ruggieri conte_ di Sicilia, con esibirgli
il possesso di quella città. Ma Ruggieri, fra cui e il re di Tunisi
passava buona amicizia, non volle romperla per questo, o piuttosto
perchè conosceva troppo difficile il sostenere le conquiste nell'Africa.
Però il re di Tunisi, per liberarsi dai Pisani, diede loro una gran
somma di danaro, promise di non più corseggiare sopra le terre d'Italia,
e rilasciò lutti gli schiavi cristiani. Un tal racconto a me sembra il
più credibile di tutti.

Ora ci vien dicendo il Malaterra che in questi medesimi tempi il
suddetto conte Ruggieri fece l'impresa di Siracusa. Sembra scorretto il
suo testo, allorchè mette questi fatti sotto l'anno 1085. Anche Lupo
Protospata[1257] e Romoaldo Salernitano[1258] riferiscono al presente
anno 1088 la presa di Siracusa, la quale, per testimonianza d'esso
Malaterra, accadde nella forma seguente. Mentre si trovava in Puglia o
in Calabria il conte Ruggieri per calmare le dissensioni insorte fra il
_duca Ruggieri_ e _Boamondo_ suoi nipoti, Benavert saraceno comandante
di Siracusa con una squadra di navi avea dato un gran guasto alla marina
di Reggio e d'altri luoghi della Calabria, con profanare le chiese, e
condurre in ischiavitù le monache e gli altri abitanti. Perciò Ruggieri,
allestita nel verno una numerosa flotta, nel maggio dirizzò le prore
alla volta di Siracusa, e per terra spedì _Giordano_ suo figliuolo colla
cavalleria. Uscitogli incontro Benavert con tutte le sue forze di mare,
si venne ad una sanguinosa battaglia. Saltò Ruggieri nella capitana
nemica, e volendo Benavert passare in un'altra nave, cadde armato in
mare, e vi si affogò. Ebbe con ciò fine il combattimento. Moltissimi
legni di que' Mori vennero in potere del conte. Dopo di che egli strinse
d'assedio Siracusa, e vi stette intorno ben quattro mesi. Per la
mancanza de' viveri a tale venne la fame di quel popolo ostinato nella
difesa, che alcuni si cibarono di cadaveri umani. Finalmente veggendo la
moglie del morto Benavert disperato il caso, imbarcatasi col figliuolo e
co' principali Saraceni in due navi, fece vela e si salvò nella marina
di Noto: con che quella nobil città venne in potere del conte Ruggieri.
Fece egli ribenedire i sacri templi già occupati dai Musulmani, e
concedette il dominio d'essa città al figliuolo Giordano. Se crediamo al
testo di Lupo Protospata, cominciò, siccome ho già detto, in quest'anno
la guerra fra il duca di Puglia _Ruggieri_ e _Boamondo_ suo fratello
maggiore. A me sembra più verisimile che se le desse principio molto
prima. Certo è, per attestato del Malaterra, che Boamondo s'era
insignorito della città d'Oria, e fatta gran massa di gente, infestava
tutte le contrade di Taranto e d'Otranto. Romoaldo Salernitano scrive,
ch'egli in quest'anno all'improvviso comparve a Farnito nel territorio
di Benevento, ed attaccò battaglia coll'armata del duca suo fratello; e
fu mirabile cosa, che quantunque restassero prigionieri molti soldati
d'esso Boamondo, pure, a riserva d'un solo, niuno morì in quella zuffa.
Ora il conte di Sicilia Ruggieri s'interpose fra i nipoti, e trattò di
pace. Seguì infatti un accordo fra loro, per cui il duca cedette a
Boamondo la suddetta città d'Oria con Otranto, Gallipoli, Taranto ed
altre terre. Ma di questa discordia seppe profittare anche il conte
Ruggieri loro zio, perchè, in premio d'aver presa la difesa del duca
Ruggieri, ottenne da lui l'intera signoria della Calabria. Roberto
Guiscardo non gli avea ceduto se non la metà del dominio nelle terre di
quella provincia. In qual anno poi precisamente si stabilisse una tale
concordia fra i due fratelli, non possiamo accertatamente saperlo. Mancò
di vita in quest'anno[1259] l'_imperadrice Berta_, e trasportato fu il
suo cadavere alla città di Spira. E i Sassoni abbracciarono il partito
dell'imperadore Arrigo: il che fu cagione che il re _Ermanno_ si
ritirasse in Lorena. Poco nondimeno questi sopravvisse, perchè essendo
all'assedio di un castello, colpito da un sasso nella testa, lasciò
quivi la vita. Alcuni mettono la di lui morte nell'anno 1086, oppure nel
1087; ma più fede meritano gli allegati scrittori. Riuscì ancora a
_Guelfo duca_ di Baviera di prendere in quest'anno nella seconda festa
di Pasqua la città d'Augusta, e di farvi prigione _Sigefredo vescovo_
scismatico. Poco poi stettero i Sassoni, a persuasione di _Egberto
marchese_, a ribellarsi di nuovo ad Arrigo; anzi lui stesso assediarono,
e se volle liberarsi, fu costretto a promettere molto, ma senza ch'egli
si credesse poi tenuto ad osservar la parola. Io non so bene se
nell'anno seguente, come ha l'Annalista sassone, oppure sul fine del
corrente, dal cui Natale Bertoldo incomincia il suo anno, seguisse la
rotta data in Sassonia dal marchese Egberto al suddetto Arrigo. Certo è
che in quel conflitto restò morto lo scismatico vescovo di Losanna, e
preso _Liemaro arcivescovo_ di Brema. Ebbe fatica a salvarsi Arrigo.
Nella vigilia appunto di Natale succedette questa battaglia.

NOTE:

[1252] Petrus Diacon., Chron. Casinens., lib. 4, cap. 2.

[1253] Petrus Diacon., Chron. Casinens., lib. 3, cap. 71.

[1254] Berthold. Constantiensis, in Chron.

[1255] Annal. Pisani., tom. 6 Rer. Ital.

[1256] Gaufrid. Malaterra., lib. 4, cap. 3.

[1257] Lupus Protospata, in Chron.

[1258] Romoaldus Salernitanus, Chronic., tom. 7 Rer. Ital.

[1259] Bertholdus Constantiensis, in Chron. Annalista Saxo, Chron.
Augustan.



    Anno di CRISTO MLXXXIX. Indizione XII.

    URBANO II papa 2.
    ARRIGO IV re 34, imperad. 6.


Secondochè s'ha da Bertoldo da Costanza[1260], tenne in quest'anno _papa
Urbano_ un concilio di cento quindici vescovi in Roma, dove furono
confermati i decreti de' pontefici predecessori contra de' simoniaci,
contra del clero incontinente e di Guiberto antipapa. Costui tuttavia si
teneva fortificato in qualche sito di Roma. Tornati in sè i Romani, ed
animati da questo coraggioso papa, l'assediarono, e a tali strettezze fu
ridotto l'ambizioso Guiberto, che se volle uscirne, gli convenne
promettere con giuramento di non occupar in avvenire la Sedia
apostolica. Anche in Germania si trattò di pace fra le due fazioni.
S'abboccarono i duchi e principi cattolici collo stesso _Arrigo IV_,
offerendosi pronti a ristabilirlo pienamente nel regno, s'egli
abbandonava l'antipapa. Non era egli lontano dal farlo; ma riserbandosi
di aver l'assenso de' principi suoi aderenti, trovò tale schiamazzo nei
vescovi scismatici del suo partito, persuasi della lor caduta, se questa
concordia aveva effetto, che andò per terra tutto quel trattato. In
questo medesimo anno[1261] esso Augusto Arrigo passò ad un secondo
matrimonio con _Adelaide_ (chiamata _Prassede _ da Bertoldo) vedova di
_Utone marchese_ di Brandeburgo, e figliuola del re della Russia. Le
nozze furono celebrate in Colonia. In un grande ascendente si vede in
questi tempi la nobilissima casa d'Este. Aveva il marchese _Alberto Azzo
II_ in Germania il suo primogenito _Guelfo IV_, principe bellicoso, e
forte sostegno del partito cattolico, in possesso dell'insigne ducato
della Baviera. Si studiò egli d'ingrandir maggiormente la di lui linea
con un cospicuo ed utilissimo matrimonio, e trattò con papa Urbano II di
dar per marito alla celebre contessa _Matilde Guelfo V_ figliuolo d'esso
Guelfo IV. Fu la proposizione molto accetta al pontefice, e però indusse
la contessa ad acconsentirvi, _tam pro incontinentia_, dice Bertoldo da
Costanza[1262], _quam pro romani Pontificis obedientia, videlicet ut
tanto virilius sanctae romanae Ecclesiae contra scismaticos posset
subvenire_[1263]. Sappiamo da Alberico monaco dei tre Fonti[1264], che
nell'anno precedente _Roberto_ primogenito di _Guglielmo_ il
Conquistatore, famosissimo re d'Inghilterra e duca di Normandia, avea
tentato di ottenere per moglie la suddetta contessa, ma non gli venne
fatto. Gli interessi di questi tempi consigliarono il papa e la contessa
ad accordarsi con _Guelfo V_, perchè così cogli Stati di Baviera in
Germania, e con quei della contessa Matilda in Italia e del _marchese
Azzo_ estense, avolo paterno del medesimo Guelfo V, si veniva a
maggiormente assodare il partito de' Cattolici. Che nei capitoli o nelle
promesse di siffatto matrimonio fosse stabilito che gli Stati di Matilda
avessero dopo la di lei morte a ricadere in esso Guelfo V, io non ne
dubito punto, per quel che diremo all'anno 1095. Venne infatti questo
principe in Italia; e ne seguirono le nozze. Perchè dovette con gran
segretezza condursi questo affare, l'imperadore Arrigo solamente dopo il
fatto venne a saperlo. Ne arrabbiò, ragionevolmente temendo che questo
nodo gl'imbrogliasse forte gli affari del regno d'Italia. Però si diede
a far preparamenti per calare di nuovo in queste parti. Nè tardarono gli
scismatici di Lombardia a prendere tosto l'armi contra dello stesso
Guelfo; con poca fortuna nondimeno, perchè furono sì ben ricevuti da
lui, che ebbero per grazia di ottenere per mezzo della contessa di lui
moglie una tregua fino alla Pasqua prossima ventura. Circa questi tempi
ancora si dee riferire un altro avvenimento spettante alla medesima casa
d'Este. Era nell'anno 1087 giunto al termine de' suoi giorni il suddetto
famosissimo re d'Inghilterra _Guglielmo_ il Conquistatore, con lasciare
il solo ducato di Normandia a _Roberto_ suo primogenito, e il regno
d'Inghilterra a _Guglielmo_ il Rosso suo secondogenito. Insorsero tosto
dissensioni fra i due fratelli, nè mancò un gagliardo partito favorevole
a Roberto stesso in Inghilterra. Si prevalsero dunque di tali torbidi i
popoli del Maine in Francia per sottrarsi all'ubbidienza del re
d'Inghilterra. E perchè conservano tuttavia la divozione ai figliuoli
del secondo letto del marchese Azzo estense e di _Garsenda contessa_,
ultimo rampollo di quei principi, li richiamarono per la seconda volta
al possesso di quel principato. Gli Atti dei vescovi cenomanensi, dati
alla luce dal padre Mabillone[1265], e Orderico Vitale nella sua
Storia[1266], scritta in vicinanza di que' tempi, fanno memoria di
questo fatto.

Scrive spezialmente Orderico che i Cenomani spedirono in Italia i lor
legati ai figliuoli _Azzonis marchionis Liguriae_, con grande istanza
perchè passassero in Francia. Tennero questi consiglio col padre,
tuttavia vivente, e cogli amici. _Tandem definierunt, ut Fulco, qui natu
major erat_ (il propagatore della linea estense oggidì regnante) _patris
honorem_ (cioè gli Stati) _in Italia possideret, Hugo autem frater ejus
principatum_ (nel Maine) _ex matris hereditate sibi reposceret_.
Portossi dunque Ugo in Francia, e ritornò in possesso di quel
principato. Ma perciocchè era egli bensì nato di casa d'Este, ma non
avea ereditato il valore e le virtù degli Estensi, gli mise tale
spavento in cuore Elia, signor della Fleche, con esagerargli le forze
del re d'Inghilterra, che l'indusse da lì a non molto a vendergli quel
principato, e a ritornarsene carico di disonore in Italia. Nè fu questa
la sola azione degenerante di esso Ugo. Abbiam veduto ch'egli prese per
moglie una figliuola del celebre duca _Roberto Guiscardo_. Ora ecco ciò
che ne scrive il soprallodato Orderico: _Hic filiam Roberti Wiscardi
conjugem habuit. Sed generosae conjugis magnanimitatem vir ignavus ferre
non valens, ipsam repudiavit. Pro qua re papa Urbanus_ (II) _palam eum
excommunicavit_. Questa ed altre azioni poco lodevoli, che io non
tacerò, del medesimo Ugo furono infin cagione che i suoi il cacciarono
di là dai monti con inviarlo in Borgogna. Secondo Lupo Protospata[1267],
fu celebrato nel mese di settembre di quest'anno in Melfi di Puglia un
gran concilio di vescovi, al quale intervennero anche tutti i baroni di
quelle parti. Fu in esso accettata e giurata la _tregua di Dio_ per le
nemicizie private: del che s'è fatto menzione di sopra. Ancorchè Lupo
non parli di papa Urbano, pure sappiamo ch'egli presedette a quel
concilio, e lo stesso storico c'insegna ch'esso pontefice si portò dipoi
a Bari, ed appresso consecrò la chiesa di Brindisi. Attesta Romoaldo
Salernitano[1268] che in quel concilio _Ruggieri duca_ di Puglia giurò
vassallaggio al papa, e fu col confalone investito del ducato. Morì in
quest'anno _Sichelgaita_ sua madre, e nel medesimo parimente, e non già
nell'anno 1086, come ha il testo del Malaterra[1269], da me creduto
scorretto, _Ruggieri conte_ di Sicilia mise l'assedio alla città
d'Agrigento, oggidì Girgenti. Vi stette sotto da quattro mesi, ed
avendola astretta alla resa nel dì 25 di luglio, vi colse dentro i
figliuoli e la moglie di Camutto amira de' Saraceni, che furono da lui
trattati con molta cortesia, e facilitarono poscia a lui l'acquisto
dell'importante fortezza di castello San Giovanni: al che con tanti
desiderii e sforzi non era potuto giugnere mai in addietro. Imperocchè
impadronitosi di undici terre circonvicine, e mosso poi trattato di
concordia col mentovato Camutto, tanto operò, che il Saraceno non
solamente abbracciò il partito di Ruggieri, ma anche la religion
cristiana. Questo esempio commosse gli altri Mori a far lo stesso, e a
consegnare il suddetto castello di San Giovanni al conte. Furono
assegnate a Camutto in Calabria molte terre, ed egli finchè visse, non
mancò mai alla fedeltà verso i Normanni. Noveiro scrittore arabo mette
la conquista fatta da Ruggieri di castello San Giovanni e di Girgenti
sotto il precedente anno. Morì certo nel presente _Lanfranco_ di nazion
pavese, glorioso arcivescovo di Cantorberì in Inghilterra, con odore di
santità, e mancò in lui uno degli insigni personaggi di questo secolo.
Fu restitutore delle lettere in Francia, della religione in Inghilterra.
In Piacenza era stato accettato per vescovo _Bonizone_, già _vescovo_
cattolico di Sutri. Non poteano accomodarsi al suo zelo i fazionarii
scismatici, e però crudelmente un giorno gli levarono la vita con
cavargli prima gli occhi e poi tagliarlo a pezzi; laonde fu riguardato
qual martire dalla Chiesa cattolica. Per testimonianza di
Sigeberto[1270], cominciò in questi tempi il morbo pestilenziale del
fuoco sacro ad affliggere la Lorena, e si sparse dipoi per la Francia e
per l'Italia. Consumava a poco a poco le carni del corpo umano, e
riduceva a morte i pazienti, facendoli divenir come carboni. Fu per
questo celebre col tempo la divozion de' popoli a santo Antonio abbate,
venerato in Vienna del Delfinato, dove ricorreva la gente per la
guarigione di questo male. E di qui ebbero origine tante chiese di santo
Antonio abbate, anche per le città d'Italia, e il dipignere o
rappresentare in altra maniera il santo suddetto colle fiamme di fuoco
in mano, o da un lato della sua immagine. Questo fuoco nelle antiche sue
immagini significava la sua gran carità; il porco a' piedi, la vittoria
di tutti gli affetti sensuali. Ma il rozzo popolo interpretò ch'egli
avesse particolar virtù contra del fuoco e per la salute dei bestiami.
L'ordine de' religiosi istituito sotto il suo nome fu poi soppresso; il
morbo per misericordia del Signore col tempo anche esso cessò, ma ne
dura tuttavia la memoria col nome di fuoco di sant'Antonio, santo
venerato con altra idea a' dì nostri dal volgo, qual protettore e
liberatore dagl'incendii cagionati dal fuoco naturale.

NOTE:

[1260] Bertholdus Constantiensis, in Chron.

[1261] Chronographus Saxo. Annalista Saxo.

[1262] Berthold. Constantiensis, in Chron.

[1263] Chron. Weingart. Sigebertus, in Chron.

[1264] Alberic. Monachus, Chron. apud Leibnit.

[1265] Mabill., Analect., tom. 3.

[1266] Orderic. Vitalis, Hist. Eccles., lib. 8.

[1267] Lupus Protospata, in Chronico.

[1268] Romuald. Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[1269] Gaufrid. Malaterra, lib. 4, cap. 5.

[1270] Sigebertus, in Chron.



    Anno di CRISTO MXC. Indizione XIII.

    URBANO II papa 5.
    ARRIGO IV re 35, imperad. 7.


Seguitava bensì in Germania la dissensione e la guerra fra i cattolici e
gli scismatici; pure apprendendo l'_Augusto Arrigo_ che l'unione di
_Guelfo IV_ colla gran _contessa Matilda_ potesse dare un tracollo a'
suoi interessi in Italia, determinò di valicar le Alpi, e di portar loro
addosso la guerra. Calò dunque in Italia con un poderoso esercito nel
marzo dell'anno presente. Abbiamo da Donizone[1271] che anche prima
Arrigo avea danneggiato, per quanto potè, la suddetta contessa, con
torle in Lorena tutte le castella e ville a lei pervenute per eredità
della _duchessa Beatrice_ sua madre, a riserva del forte e ricco
castello Brigerino:

    _Praeterea villas ac oppida, quae comitissa_
    _Haec ultra montes possederat a genitrice,_
    _Abstulit omnino, nisi castrum Brigerinum._

Era in possesso la contessa Matilde da gran tempo di Mantova, città
signoreggiata anche dal _marchese Bonifazio_ suo padre. Ne imprese il
blocco o l'assedio Arrigo, con devastarne intanto il territorio.
Ritirossi la contessa alle sue fortezze della montagna reggiana e
modenese. Ossia che Arrigo non intraprendesse quell'assedio sì presto, o
che non fosse a lui facile l'armar di gente tutto il largo circondario
del lago che difende quella città, noi troviamo entro essa importante
città il _duca Guelfo_ colla moglie, nel dì 27 di giugno dell'anno
presente. Ciò si raccoglie da un loro diploma[1272], dato in Mantova _V
calendas julii, anno dominicae Incarnationis, millesimo nonagesimo,
Indictione tertiadecima_, da me veduto e dato alla luce, con cui
confermarono ed accrebbero i beni e privilegii al popolo mantovano:
dettame di prudente politica per maggiormente impegnarlo ed animarlo
alla difesa della patria. Anche il Sigonio ne fece menzione, ma con
rappresentarlo scritto nell'_indizione XII_[1273]. Il Registro, ch'io ho
avuto sotto gli occhi, ha l'indizione XIII, che corre nell'anno
presente. Quel diploma ha il seguente principio: _Guelfo Dei gracia dux
et marchio, Mathilda Dei gracia, si quid est._ Dovettero poi uscire di
Mantova Guelfo e Matilda, e sappiamo da Donizone che la contessa si
ritirò alle sue fortezze nelle montagne; e da Bertoldo[1274], che di
grandi incendii e danni sofferirono in questi tempi gli Stati del duca
Guelfo V, non so bene, se quei della moglie, o dell'avolo _marchese
Azzo_. Ma Guelfo, massimamente per le esortazioni della contessa sempre
stette saldo nell'attaccamento alla parte pontificia, e resistè alla
forza nemica. Impadronissi nondimeno Arrigo di Rivalta e di Governolo,
due luoghi importanti del Mantovano, e seguitò a tener chiusi in città
quegli abitanti, a' quali Matilda di tanto in tanto spediva rinfreschi
di gente e di viveri. Per attestato di varii storici, morì in
quest'anno[1275] _Liutaldo duca_ di Carintia, uno de' più fedeli
aderenti di Arrigo. Egli è lo stesso che vedemmo all'anno 1085 col nome
di _Liutaldo_ tenere un placito in Padova. Avea questo duca poco innanzi
ingiustamente ripudiata la propria moglie, e presane un'altra con
licenza dell'antipapa Clemente, che dovea condiscendere a tutte le
istanze anche inique de' suoi partigiani per non disgustarli. Dissi
esser io di parere ch'egli governasse ancora la marca di Verona, città
in questi tempi fedele ad Arrigo. Ne farebbe anche testimonianza un
diploma d'esso Augusto, ch'io ho pubblicato come spettante all'anno
presente[1276], ma senza esaminare le note cronologiche che sono affatto
difettose. Fu esso dato in favore del monistero veronese di san Zenone,
_anno dominicae Incarnationis millesimo nonagesimo, sexta Indictione,
regnante Henrico imperatore III, regni ejus XXXIV, imperii autem VIII.
Hoc actum est IV idus aprilis Veronae_. Ma, come dissi, non so io ora
combinar queste note. Non sarà originale quel diploma, ma un abbozzo mal
fatto, quantunque a prima vista autentico a me paresse. Presso Goffredo
Malaterra[1277] truovasi così intricata la cronologia di _Ruggieri
conte_ di Sicilia, ch'io non oso dare per certo il tempo delle imprese
da lui narrate, messa in confronto con altri storici. Racconta egli che
di nuovo si riaccese la guerra fra i di lui nipoti, cioè fra _Ruggieri
duca_ di Puglia e _Boamondo_. Accorse in aiuto del primo il conte, e
dopo due anni di discordia si riconciliarono. Pare che l'Anonimo
Barense[1278] metta il principio di tal rottura nell'anno 1088, con dire
che Bari si accordò con Boamondo; e, se ciò fosse, nell'anno presente si
sarebbono que' due principi amicati. Soggiugne il Malaterra che
nell'anno 1089 esso conte Ruggieri[1279] passò alle terze nozze con
_Adelaide_, nipote di _Bonifazio_ famosissimo marchese d'Italia, cioè,
come si crede, marchese del Monferrato. Finalmente scrive che nell'anno
presente il popolo della città di Neto si soggettò al di lui dominio:
con che niun luogo in Sicilia restò che non riconoscesse la di lui
signoria. Eresse egli varii vescovati, fondò chiese e monisteri,
promosse in ogni parte il culto del vero Dio, precedendo a tutti
coll'esempio della pietà. Restò nondimeno in Sicilia una gran quantità
di Saraceni, ai quali fu permesso il vivere e credere secondo la lor
legge, purchè osservassero la fedeltà dovuta al sovrano. Passò inoltre
il conte Ruggieri coll'armata navale all'isola di Malta nel mese di
luglio, e mise l'assedio alla città. Ha creduto più d'uno ch'egli
s'impadronisse di quella isola nell'anno presente, ma senza fondamento.
Tutto ciò che guadagnò Ruggieri in tale spedizione, come narra Goffredo
Malaterra[1280], fu di liberar gli schiavi cristiani, e di costrignere
quei Mori a pagargli tributi, e a far seco lega, con obbligo di aiuto
ne' bisogni. Secondo i conti di Camillo Pellegrini[1281], diede fine
alla sua vita verso il fine di questo anno _Giordano I_ principe di
Capoa, lodato non poco da Romoaldo Salernitano. Ma di ciò parleremo
all'anno seguente, in cui forse si dee riferir la sua morte.

NOTE:

[1271] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 4.

[1272] Antichità Estensi, P. I, cap. 29.

[1273] Sigon., de Regno Italiae, lib. 9.

[1274] Bertholdus Constantiensis, in Chron.

[1275] Bertholdus Constantiensis, in Chron. Annalista Saxo. Chronic.,
Augustan.

[1276] Antiquit. Italic., Dissert. LXVII.

[1277] Malaterra, lib. 4, cap. 10.

[1278] Anonymus Barensis, tom. 5 Rer. Ital.

[1279] Malaterra, lib. 4 cap. 14.

[1280] Idem, ibid. cap. 16.

[1281] Camillus Peregrin., Hist. Princ. Langobard.



    Anno di CRISTO MXCI. Indizione XIV.

    URBANO II papa 4.
    ARRIGO IV re 36, imperad. 8.


Continuò l'_imperadore Arrigo_ ostinatamente per tutto il verno
l'assedio, ovvero il blocco di Mantova. Trovò egli in fine il segreto di
espugnare una così forte ed importante città con adoperar la potente
mediazion dell'oro, e sovvertire il cuore di que' cittadini. Contra
d'essi perciò Donizone scaricò la sua bile, chiamandoli traditori. Nè
gli mancava ragione, perciocchè provvedendoli il _duca Guelfo_ e la
_contessa Matilda_ di mano in mano del bisognevole, avrebbono potuto,
volendo, sostener più anni l'assedio, e mantener la promessa fatta di
non aderir mai ad Arrigo. Entrarono dunque l'armi tedesche in quella
città, non già nel sabbato santo a dì 12 d'aprile, come scrisse taluno,
ma nel giorno precedente, come si ricava dal suddetto Donizone, che così
parla[1282]:

    _Nam qua nocte Deum Judas mercator Iesum_
    _Tradidit, hac ipsa fuit haec urbs Mantua dicta_
    _Tradita._

Ebbe la guarnigion di Matilde tanto tempo che potè, uscendo pel lago in
barche, salvar le persone e l'equipaggio. Il cattolico vescovo _Ubaldo_
se ne fuggì anch'egli, ricoverandosi presso la medesima contessa,
rifugio allora di tutti i cattolici italiani perseguitati. Arrigo dipoi
intronizzò nella chiesa di Mantova _Conone_, cioè _Corrado_ vescovo
scismatico. Stese inoltre le sue conquiste coll'impadronirsi di tutte le
terre di là dal Po, dianzi ubbidienti alla suddetta contessa, eccettochè
di Piadena, patria nel secolo decimoquinto di Bartolommeo detto il
Platina, scrittore celebre; e di Nogara, oggidì terra del Veronese, che
tennero forte contra lo sforzo de' Tedeschi. Nella state ancora avendo
assediata la forte terra di Manerbio, oggidì posta nel distretto di
Brescia, colla fame in fine la costrinse alla resa. Dopo la presa di
Mantova, scrive il Sigonio[1283] che la città di Ferrara, situata allora
oltre Po, senza aspettar la forza, si sottopose ad Arrigo. Onde s'abbia
egli tratta questa notizia non l'ho scoperto finora. Certo è che quella
città si levò dalla divozione della contessa Matilda, e a suo tempo
vedremo ch'essa valorosamente la ricuperò; e perciò non è improbabile la
sua ribellione in quest'anno, favorevole anno assai ad Arrigo. Tenne
_papa Urbano_ un concilio nell'anno presente in Benevento, dove stabilì
molti punti di disciplina ecclesiastica, e confermò le censure contra
dell'antipapa Guiberto. Ma mentre egli dimorava in quelle parti, essendo
cresciuta la baldanza degli scismatici per le prosperità d'Arrigo, i
Romani, che mutavano facilmente vela ad ogni vento[1284], con frode
s'impossessarono della torre di Crescenzio, cioè di castello
Sant'Angelo, e venne anche loro in pensiero di diroccarlo. Lasciarono,
oltre a ciò, entrare in Roma il suddetto antipapa, che forse questa
volta si credette di stabilir ivi per sempre il suo trono, ma gli andò
fallita, siccome vedremo. Veggendo intanto _Guelfo IV_ duca di Baviera
la cattiva piega che aveano presa in Italia gli interessi di _Guelfo V_
suo figliuolo, e della contessa _Matilde_, sua nuora, nel mese d'agosto
calò in Italia, e trattò di pace verisimilmente per via di mediatori
coll'Augusto Arrigo, con condizione che questi abbandonasse l'antipapa,
e riconoscesse Urbano II papa legittimo, e restituisse tutti i beni
ingiustamente tolti ad esso duca Guelfo suo figliuolo e agli altri
aderenti tutti. Arrigo, insuperbito della fortuna presente, rigettò ogni
proposizion di accordo, dimodochè il duca se ne tornò in Alemagna; e
contuttochè molti di quelle contrade in questi tempi si dichiarassero
del partito di Arrigo, pure Guelfo risvegliò molti altri ancora contra
di lui, e propose ancora di creare un nuovo re: cosa che non ebbe
effetto per la pigrizia e malevolenza d'alcuni.

Per attestato del medesimo Bertoldo, terminò in quest'anno i suoi giorni
_Adelaide marchesana_ di Susa e di Torino, celebre principessa, e già
suocera d'Arrigo. Chi succedesse nella ricca eredità de' suoi Stati, lo
vedremo all'anno seguente. Benchè il Pellegrini, siccome abbiam detto,
metta la morte di _Giordano I_ principe di Capoa verso il fine dell'anno
precedente, affidato sull'autorità di Lupo Protospata, essendo assai
confusi i testi di quello storico, non sembra assai sicura la di lui
asserzione, da che più chiaramente Romoaldo Salernitano scrive che _anno
MXCI, Indictione XIV, mense februario, Jordanus Capuae defunctus est
anno XIII principatus_. Quel che è certo, dopo la morte di Giordano i
Capuani si ribellarono, e cacciarono fuor di città _Riccardo II_,
primogenito ed erede del defunto principe, con tutti i Normanni. Dal
suddetto Bertoldo di Costanza è narrata sotto quest'anno quella
ribellione, sembrando perciò che anch'egli differisca all'anno presente
la morte di Giordano. Per attestato di Pietro Diacono[1285], si ritirò
Riccardo ad Aversa sua città con sua madre _Gaitelgrima_, sorella di
Gisolfo II già principe di Salerno; ed implorato l'aiuto di _Ruggieri
duca di Puglia_, venuta che fu la state, passò con un possente esercito
sotto Capoa, mettendo a ferro e fuoco tutta la campagna. Seguita a dire
esso Pietro Diacono: _Et tamdiu eos expugnavit, usquequo Capuani,
necessitate coacti, praedicto Richardo munitiones redderent, eumque
recipientes, sibi in principem consecrarent_: quasichè in questo
medesimo anno Riccardo riacquistasse la signoria di Capoa. Ma quel
_tamdiu_, confrontato colle storie di Lupo Protospata[1286] e di
Romoaldo Salernitano[1287], vuol dire che Riccardo seguitò a far guerra
a' Capuani, finchè dopo gran tempo, cioè nell'anno 1098, siccome
vedremo, li ridusse all'ubbidienza sua. Erasi anche sollevata la città
di Cosenza in Calabria contra del duca Ruggieri[1288]. Chiamò questi in
suo aiuto _Ruggieri conte_ di Sicilia, che vi accorse con un buon corpo
di Saraceni e delle sue vecchie truppe. Fu formato l'assedio, e
v'intervenne col duca anche _Boamondo_ suo fratello. Operò tanto colla
sua destrezza il conte, che que' cittadini finalmente si riconciliarono
col duca, il quale entrato nella città ordinò tosto che nel colle
superiore si piantasse una fortezza, per impedir da lì innanzi una simil
prosunzione di quegli abitanti. Il conte Ruggieri, che sempre sapea
pescare nelle disgrazie del duca suo nipote, ottenne anche questa volta
da lui per guiderdone di questa fatica il dominio nella metà di Palermo:
il che ci fa conoscere che Roberto Guiscardo in conquistandola, tutta la
ritenne in suo potere, nè già ne diede la metà al fratello, come pensò
Leone ostiense. Migliorò di poi sì fattamente Palermo per opera del
conte Ruggieri, che ne ricavava maggior profitto possedendola solo per
metà, che quando interamente ne era signore il duca. Veggasi ancora
all'anno 1122, dove si parla di questo. Se fossero ben corrette le Note
cronologiche di un documento da me prodotto altrove[1289], noi sapremmo
dove in questi tempi dimorasse la contessa Matilda. Nella copia a noi
conservata da Pellegrino Prisciani quella carta si dice data _anno ab
Incarnatione Domini millesimo nonagesimo primo, die mensis madii,
Indictione XII, cum esset domna Matilda, gratia Dei ducatrix et
comitissa, marchionis Bonifatii filia, in loco sancti Cexarii_, cioè in
San Cesario, distretto di Modena. Ma quell'_Indictione XII_ non conviene
all'anno presente. E trovandosi allora colla contessa _Ugo vescovo_ di
Mantova, e _Landolfo vescovo_ di Ferrara, questi due pastori, secondo
l'Ughelli, molto dopo il presente anno furono promossi a quelle chiese.
Però io nulla so accertare del tempo in cui quella carta fu scritta.

NOTE:

[1282] Donizo, in Vita Mathildis, lib. 2.

[1283] Sigon., de Regno Ital. lib. 9.

[1284] Bertholdus Constantiens., in Chron.

[1285] Pietrus Diacon., Chron. Casinen., lib. 4, cap. 10.

[1286] Lupus Protospata, in Chron.

[1287] Romualdus Salernit., in Chron., tom. 6 Rer. Ital.

[1288] Gaufridus Malaterra, lib. 4, cap. 17.

[1289] Antiquitat. Italic., Dissertat. XI.



    Anno di CRISTO MXCII. Indizione XV.

    URBANO II papa 5.
    ARRIGO IV re 37, imperad. 9.


Per quanto potè, seguitò l'_Augusto_ _Arrigo_ a guastar le terre di
_Guelfo V_ duca e della _contessa Matilda_. Ma non mancavano spie alla
contessa che di mano in mano la avvertivano di tutti gli andamenti
d'Arrigo; e perciocchè ella seppe che nel tempo del verno egli si
trovava di là dall'Adige, senza aver seco milizie, spedì a quella volta
mille de' suoi combattenti. Gli andò per otto giorni deludendo Arrigo,
con ritirarsi or qua or là, tanto che potè raunar le sue truppe; e ciò
fatto, andò ad assalire all'improvviso le genti della contessa, che se
ne stavano sdraiate nella villa di Tricontai. Molti furono presi, molti
uccisi; gli altri si salvarono col favor delle gambe. Donizone[1290]
attribuisce questo fatto a tradimento di Ugo lor condottiere, con dire:

    _Proditor emanso fuit Hugo nobilis alvo;_
    _Hanc contra morem sed fecit proditionem,_
    _Nam proba nobilitas non turpe scelus patrat umquam._

Non ho io dissimulato nelle Antichità estensi che tal taccia è data ad
_Ugo_ figliuolo del _marchese Azzo II_ estense, dovendosi leggere e
_Manso fuit Hugo_. La capitale della provincia del Maine in Francia è
appellata _le Mans_. Perchè Ugo, siccome di sopra osservammo, era stato
signore di quel principato, perciò era chiamato _Ugo del Manso_. Doveva
egli militare in favore del duca _Guelfo V_ figliuolo di un suo
fratello; e se veramente egli fosse reo di questo, e senza scusa, io nol
so dire. Ma se fu, non è da maravigliarsene, dacchè abbiam già veduto
come questo principe in altre sue azioni degenerò dalla virtù dei suoi
maggiori. Giunta che fu la state, Arrigo colla sua armata essendo venuto
di qua dal Po, cominciò la guerra contra le fortezze della contessa
Matilda, situate nelle montagne del Modenese, saccheggiando e
incendiando tutte queste contrade[1291]. Prese Monte Morello verso
Savignano presso il Panaro, siccome ancora Monte Alfredo; indi mise
l'assedio a Monte Bello, oggidì Montevìo, allora del contado di Modena,
e oggidì del Bolognese. Era forte quel castello, bravi i suoi difensori.
L'antipapa Clemente venne in persona per abboccarsi coll'imperadore, e
visitar quell'assedio. Intanto perchè andavano male gli affari della
contessa, i suoi baroni e cortigiani cominciarono vivamente ad esortarla
alla pace, con supporle che anche Arrigo ne fosse voglioso. Tanto la
tempestarono, che si contentò di farne la proposizione in una dieta,
tenuta per questo nella rocca di Carpineta ad una radunanza di teologi.
_Eriberto vescovo_ cattolico di Reggio colla maggior parte furono di
sentimento che la contessa dovesse cedere al tempo, e pacificarsi con
Arrigo, ma non già per darsi all'antipapa. Ciò sarebbe forse succeduto,
se non si fosse alzato Giovanni, probabilmente abbate del monistero di
Canossa, il quale tanto perorò contra di un tale aggiustamento con dare
speranza alla contessa di qualche vicino soccorso dal cielo, che Matilda
non volle più sentirne parlare, risoluta piuttosto di morire che di far
patti con Arrigo nemico della Chiesa. Spese intanto esso imperadore
tutta la state sotto Monte Bello[1292] senza frutto alcuno: sì gagliarda
fu la difesa della guarnigion di Matilda. Restò incendiata una torre,
ossia altra macchina militare degli assedianti, ed ucciso anche un
figliuolo d'esso Arrigo, di cui niuna menzione fanno gli altri storici.
Verisimilmente era suo bastardo. Portato il di lui cadavero a Verona,
gli fu fabbricato un superbo sepolcro. Pertanto veggendo Arrigo ch'egli
avea che fare con una fortezza inespugnabile, sciolse l'assedio, e si
ritirò a Reggio, dove si fermò alquanti giorni. Poscia nel mese
d'ottobre, fingendo di passare a Parma, voltò indietro, e andò a San
Paolo, per vedere se potea sorprendere l'importante rocca di Canossa,
dove nell'anno 1077 abbiam veduto che brutta figura egli avea fatto.
Spedì colà immantinente la contessa un buon rinforzo, ed ella si ritirò
in Bibianello. Essendo insorta una folta nebbia, allorchè i nemici
s'accostarono a Canossa, la gente della contessa fu con esso loro alle
mani, e le riuscì di prendere la bandiera imperiale, caduta di pugno al
figliuolo del _marchese Oberto_. Chiarito Arrigo che gittava i suoi
passi, marciò al piano, e poi si condusse di là dal Po. Ogni dì s'andava
sminuendo la sua armata; e però anche la contessa passò oltre Po, e
prima che terminasse l'anno, ricuperò alquante delle sue terre perdute,
e fra le altre la torre di Governolo e Rivalta. Per quanto scrive
Bertoldo da Costanza, _papa Urbano_ celebrò il santo Natale dell'anno
presente fuori di Roma, in vicinanza nondimeno d'essa città, per non
aver potuto aver l'ingresso nella basilica di san Pietro; perciocchè
presso alla medesima s'era incastellato, cioè ben fortificato l'antipapa
Guiberto. Per le memorie che rapporta il cardinal Baronio, apparisce,
aver esso pontefice fatto nel presente anno un viaggio a Salerno, dove
nel dì 14 di settembre confermò i suoi privilegii a _Pietro abbate_
dell'insigne monistero della Cava.

Accennai di sopra la morte di Adelaide marchesana di Susa e di Torino.
Conviene ora aggiugnere ciò che il suddetto Bertoldo autore
contemporaneo scrive intorno alla di lei eredità. _In Longobardia_, dice
egli, _Conradus filius Henrici regis, bona Adelheidae Taurinensis
comitissa invasit, quae ejusdem comitissae nepos, filius Federici
comitis habere debuit_. E dopo aver detto che questo _Federigo conte_
assaissimo risplendeva per la sua pietà e pel suo costante attaccamento
in questi torbidi tempi al partito pontificio, ed aver egli avuto per
suoi genitori Lodovico conte e Sofia zia materna della contessa Matilda,
ed essere mancato di vita nella festa di san Pietro dell'anno
precedente, soggiugne: _Hujus ergo filium ex nepte dominae Adelheidae
susceptum, Henricus rex cum filio_ (Corrado) _exheredare proposuit;
terramque ejus hostiliter invadendo, ac circumquaque devastando,
fructuariensi monasterio multa mala intulit_. Di qui pertanto nasce un
gruppo assai difficile nella storia genealogica della real casa di
Savoia, e non sufficientemente sciolto dal Guichenon: laonde è da
aspettare qualche altro più sperto scrittore, il quale più esattamente
ricerchi e in maggior lume metta i fatti di que' principi che da tanti
secoli in qua con gloriosa successione illustrano l'Italia. Per le
notizie prodotte dall'Ughelli[1293], si scorge che in quest'anno, mentre
_papa Urbano_ dimorava in Anagni, ad istanza della contessa Matilda,
eresse in arcivescovato la nobil chiesa di Pisa, in maniera che
_Daiberto_, già vescovo di quella città, fu il primo arcivescovo della
medesima, e a lui furono sottoposti i vescovati della Corsica. Di ciò
tornerà occasion di parlare all'anno 1118. Avea già concertato l'Augusto
Arrigo un abboccamento con _Ladislao re_ d'Ungheria[1294], e già erano
vicini ad incontrarsi verso il Natale del Signore, quando _Guelfo IV_,
duca di Baviera, sopraggiungendo con varie squadre d'armati interruppe
il loro congresso, e fece tornare vergognosamente indietro Arrigo.
Scrive Lupo Protospata[1295] che nell'anno presente per essersi
ribellato il popolo della città d'Oria a _Boamondo_ loro signore, questi
coll'aiuto de' circonvicini amici mise l'assedio a quella città. Tanto
ardire nondimeno e forza ebbero gli Orietani, che il cacciarono di là, e
gli presero l'equipaggio e le bandiere. A _Ruggieri conte_ di Sicilia la
morte rapì in questo anno _Giordano_ suo figliuolo bastardo[1296],
giovine di gran valore, che si credeva destinato alla succession del
padre, giacchè egli altro figliuolo non avea allora che questo. Ne fu
inconsolabile Ruggieri. Ma volle Dio asciugargli le lagrime con dargli
nel presente anno un figliuolo legittimo, a lui partorito da _Adelaide_
sua seconda moglie. Essendosi anche ribellata la città di Peutarga, o
Pentarga, che dianzi era sottoposta a Giordano, Ruggieri colla forza la
ridusse alla sua ubbidienza: il che costò la vita agli autori di quella
sollevazione. Perchè poi l'Augusto Arrigo dominava nella città di Reggio
di Lombardia, quivi ancora veniva riconosciuta l'autorità dell'antipapa
Guiberto. Resta tuttavia una sua bolla, da me data alla luce[1297], in
favore dei canonici reggiani, colle seguenti note: _Datum apud Cesenam
per manum Berneri vice Petri cancellarii, anno dominicae Incarnationis
MXCII, Indictione XV, anno autem pontificatus domni Clementis tertii
papae VIIII, idibus junii._

NOTE:

[1290] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 6.

[1291] Berthold. Constantiensis, in Chron.

[1292] Donizo, Vit. Mathild., lib. 2, cap. 6.

[1293] Ughellius, Ital. Sacr., tom. 3 in Archiepisc. Pisan.

[1294] Berihold. Constantiensis, in Chron.

[1295] Lupus Protospata, in Chron.

[1296] Gaufridus Malaterra, lib. 4, cap. 18.

[1297] Antiquit. Italic., Dissert. XXI.



    Anno di CRISTO MXCIII. Indizione I.

    URBANO II papa 6.
    ARRIGO IV re 38, imperad. 10.
    CORRADO II re d'Italia 1.


Un gran colpo venne fatto in questo anno ai difensori della parte
pontificia, e principalmente, per quanto si può sospettare, v'ebbe mano
la _contessa Matilda_. Cioè riuscì loro d'indurre _Corrado_, primogenito
dell'_Augusto Arrigo_, a ribellarsi contra del padre: il che succedette
all'anno presente, per testimonianza di varii storici[1298], e non già
più tardi, come volle Donizone. Gran colpo, dissi, di politica sì, ma
che non si può leggere senza qualche orrore, sapendo noi che i figliuoli
possono bensì, per non consentire col padre nell'iniquità, separarsi da
lui, ma non potersi eglino dispensare dall'onorarlo. Se poi deggia
essere loro permesso di levar gli Stati a chi li generò, e d'impugnar
l'armi contra di lui, lascerò io che altri ne giudichi. I motivi che
fecero rivoltar questo giovane principe contra del padre si veggono
riferiti da Dodechino, e son così orridi, che si ha della pena a
crederli veri[1299]. Cioè avendo Arrigo conceputo odio e sprezzo di
_Adelaide_ (chiamata _Prassede_ da altri) sua moglie, la mise in
prigione, diede licenza a molti d'usarle violenza, ed esortò anche il
figliuolo Corrado a fare lo stesso. Perchè questi ricusò di commettere
questo nefando eccesso, cominciò Arrigo a dire che egli non era suo
figliuolo, ma bensì di un certo principe di Suevia, a cui portava
somiglianti le fattezze. Ora che Adelaide fosse maltrattata dall'Augusto
consorte, non si può controvertere. Ella stessa in due concilii accusò
il marito delle violenze a lei fatte. Altresì è fuor di dubbio che
Corrado fu principe umile, modesto e pieno di tutta bontà, accordandosi
tutti gli scrittori a confessarlo tale; e si può credere ch'egli fosse
anche mal soddisfatto del padre. Quando sia vero che Arrigo gli
proponesse il suddetto misfatto, si meriterebbe bene un padre tale che
il dichiarassimo eziandio pazzo e furioso. Comunque sia, trovavasi
Corrado col padre in Italia, e, siccome già dicemmo, era corso in
Piemonte a mettersi in possesso degli Stati della contessa _Adelaide_
avola sua. Si servì di questa congiuntura la contessa Matilda, o alcuno
de' suoi partigiani per guadagnarlo, con esibirgli di farlo re d'Italia.
Un grande incanto ai figliuoli di Adamo è la vista d'una corona. Ma non
andò sì segreto il maneggio, che non ne venisse qualche sospetto ad
Arrigo suo padre. Perciò, furbescamente chiamato a sè il figliuolo, il
mise in prigione. Si sa ch'egli ebbe maniera di fuggirsene, e di
ricoverarsi presso la contessa Matilda, la quale l'inviò a papa Urbano
per ottener l'assoluzione della scomunica: il che gli fu ben facile.
Fece gran rumore dappertutto, ma specialmente in Lombardia, questo
ritirarsi da Arrigo un figliuolo ornato di sì belle doti; ed essendosi
ancora sparse le sopra accennate voci contra d'esso imperadore,
stomacati non pochi abbracciarono il partito de' cattolici. Quel che più
importa, le città di Milano, Cremona, Lodi e Piacenza, abbandonato
Arrigo, fecero contra di lui una lega per venti anni avvenire col _duca
Guelfo_ e colla _contessa Matilda_ sua moglie: il che diede un gran
tracollo agli interessi e all'estimazione d'esso Augusto. Abbiam già
veduto che Milano, Lodi e Pavia aveano presa qualche forma di
repubblica, ossia di città libera, governata da' suoi cittadini, e non
più dai ministri imperiali. Vo io credendo che maggiormente quelle città
in tempi sì sconcerti stabilissero il proprio governo, e cominciassero a
reggersi co' proprii uffiziali, riconoscendo nondimeno la sovrana
autorità di chi era re d'Italia. L'esempio d'esse a poco a poco indusse
dipoi l'altre città d'Italia a mettersi in libertà.

Fu poi mandato _Corrado_ a Milano, dove per le mani d'_Anselmo vescovo_
cattolico di quella città ricevette la corona del regno d'Italia tanto
in Monza, quanto nella basilica milanese di santo Ambrosio. Ne fa
menzione anche Landolfo iuniore[1300], cognominato da san Paolo, storico
milanese di questi tempi, della cui Storia cominceremo a valerci, con
iscrivere: _Cono quoque rex_ (Conone e Corrado, torno io qui a
ripeterlo, è lo stesso nome) _qui dum pater ejus Henricus viveret, per
contractationem Mathildis comitissae, et officium hujus Anselmi de Rode
fuit coronatus Modoetiae, et in ecclesia sancti Ambrosii regali more_.
Scrive ancora Bertoldo da Costanza[1301] che questa coronazione si fece
_annuente Welphone duce Italiae, et Mathilda ejus carissima conjuge_.
Appresso egli soggiugne che _Guelfo IV_ duca di Baviera, padre d'esso
Guelfo V, poco dappoi venne in Italia a visitar questo re novello, e ad
offerirsi suo fedele aderente insieme col figliuolo. Per questo
inaspettato accidente restò sì depresso e sbalordito l'imperadore
Arrigo, che si ritirò in una fortezza, e quivi gran tempo si trattenne
come persona privata e senza la dignità regale. Anzi fama corse, esser
egli stato preso da tanta afflizione, che si volle dar la morte, e
l'avrebbe fatto, se i suoi non l'avessero impedito. Ma in quest'anno
terminò i suoi giorni il suddetto _Anselmo III_ arcivescovo di Milano; e
perciocchè in questi tempi le fazioni contrarie facilmente faceano
gl'interpreti de' gabinetti del cielo, probabilmente gli scismatici
dovettero attribuire ai giudizii di Dio la di lui morte, per aver
sostenuto la ribellion d'un figliuolo contra del padre. Ma ricordar non
occorre quanta sia, se non sempre, almen bene spesso, la nostra
temerità, allorchè vogliam mettere mano ne' consigli dell'Altissimo, e
immaginar cagioni soprannaturali degli avvenimenti naturali. Ebbe
Anselmo per successore _Arnolfo_ nobile milanese dalla Porta Orientale,
il quale non pare credibile, come alcuni hanno scritto, che prendesse la
investitura dall'Augusto Arrigo, perchè Milano allora seguitava la parte
del romano pontefice e del re Corrado. Che egli nondimeno avesse delle
opposizioni, si può dedurre dall'esser egli stato solamente nell'anno
1095 consecrato. Si dee anche avvertire per gloria dell'Italia che in
quest'anno _santo Anselmo_, grande splendore del monachismo, fu creato
arcivescovo di Cantorberì, e primate della Inghilterra. Nato nella città
di Aosta, abbracciò nel monistero di Becco in Normandia la vita
monastica, fu creato abbate, e poi contra sua volontà dal _re Guglielmo
II_ alzato al primo seggio della Chiesa inglese. Provò egli dipoi delle
gravissime vessazioni che servirono ad accrescere la di lui gloria in
terra, e più nel cielo. _Ruggieri duca_ di Puglia, che avea preso per
moglie _Adelaide_ figliuola di _Roberto conte_ di Fiandra, e nipote di
Filippo re di Francia, s'infermò gravemente in quest'anno, talmente che
si sparse nuova ch'era mancato di vita[1302]. Sollevaronsi dunque contra
i di lui Stati e figliuoli, non solamente _Boamondo_ suo fratello, ma
ancora altri baroni vassalli suoi. Riavutosi egli da quella malattia,
Boamondo si riconciliò tosto con lui; ma Guglielmo di Grantmaniol stando
pertinace nella ribellione, obbligò il duca risanato a procedere
coll'armi contra di lui. Colle milizie del nipote unì anche _Ruggieri
conte_ di Sicilia un buon nerbo di soldati, coi quali fu ridotto
Guglielmo a fuggirsene a Costantinopoli colla perdita di tutti i suoi
Stati. La maggior parte nondimeno ne riebbe egli dopo qualche tempo
dalla clemenza del duca. Prosperò non poco in quest'anno la fede
cattolica, non solamente in Italia, ma anche in Germania. Lo stesso papa
Urbano potè celebrare in Roma (non so in qual chiesa) con solennità la
festa del Natale, quantunque in quella città tuttavia dimorassero non
pochi seguaci dell'antipapa. Il saggio pontefice, che abborriva di
adoperare il rimedio dell'arme per cacciarli, piuttosto volle
sofferirli, che inquietare il popolo; e tanto più perchè castello
Sant'Angelo, oltre ad altri siti, restava tuttavia in potere di
Guiberto, che vi teneva buona guarnigione. Intanto esso Guiberto
dimorava con Arrigo in Verona, fingendosi prontissimo a rinunziare il
preteso suo papato, se in altra maniera non si potea dar la pace alla
Chiesa. Ho io prodotto, ma colle note cronologiche poco esatte, una
donazione fatta in quest'anno da esso Arrigo[1303], dimorante in
Mantova, a _Conone_ ossia _Corrado_ vescovo di quella città.

NOTE:

[1298] Berthold. Constantiensis, in Chron. Sigebertus, in Chron.
Dodechinus, in Chron.

[1299] Berthold. Constantiensis, in Chron. Sigebertus, in Chron.
Dodechinus, in Chron.

[1300] Landulf. Junior, Hist. Mediolan., cap. 1, tom. 5 Rer. Ital.

[1301] Bertholdus Constantiensis, in Chron.

[1302] Gaufrid. Malaterra, lib. 3, cap. 15.

[1303] Antiquit. Italic., Dissert. LXVII.



    Anno di CRISTO MXCIV. Indizione II.

    URBANO II papa 7.
    ARRIGO IV re 39, imperad. 11.
    CORRADO II re d'Italia 2.


Il solo Sigeberto è quello[1304] che accenna una scorsa data in
quest'anno dall'_imperadore Arrigo_ nella Gallia, cioè nella Borgogna o
Lorena. Servì il suo allontanamento dall'Italia a far crescere
smisuratamente la parte pontificia in queste parti, di maniera che
moltissime fortezze si ribellarono, e presero l'armi contra di lui.
Profittonne anche _papa Urbano_. Da Bertoldo di Costanza[1305] e da una
lettera di Goffredo abbate vindocinense, cioè di Vandomo, ci vien
confermato[1306] che in questi tempi l'antipapa teneva tuttavia
guarnigione nel palazzo del Laterano, ed era inoltre padrone di castello
Sant'Angelo e della basilica vaticana. Abitava all'incontro quasi
privatamente papa Urbano nella casa di Giovanni Frangipane, nobile
romano, la quale dovea aver sembianza di fortezza. Quindici dì prima di
Pasqua venne a trovarlo Ferruccio, lasciato dal suddetto Guiberto per
custode d'esso palazzo lateranense, offerendo di dargli quel riguardevol
edifizio, purchè gli fosse pagata una buona somma di danari. Era vota la
borsa pontificia, e perciò Urbano si raccomandò ai vescovi e cardinali,
che poco gli diedero, perchè poveri anche essi a cagion della
persecuzione e de' malanni correnti. Trovossi per accidente in Roma il
suddetto Goffredo abbate vindocinense, e questi ciò udito, vendè tosto i
suoi muli e cavalli, e contribuì tutto quanto l'oro e l'argento che
avea; e con ciò si ultimò il mercato con Ferruccio, ed Urbano entrò in
possesso della torre e del _palazzo lateranense_. Col nome di questa
_torre_ pensa il padre Pagi[1307] disegnato castello Sant'Angelo. Io non
ne son persuaso. Esso abbate Goffredo nella lettera seguente[1308] si
pregia di aver tolto a Guiberto _lateranense palatium_, senza parlar più
della torre. Se gli avesse anche tolto castello Sant'Angelo, siccome
fortezza di maggior conseguenza, non l'avrebbe egli taciuto. E Bertoldo
Costanziense chiaramente asserisce che Guiberto ne era padrone, e che i
suoi impedivano il passare per ponte Sant'Angelo. Ma che vo io cercando
conghietture? Il suddetto Bertoldo attesta che anche nell'anno 1097
Guiberto tenea presidio in quel castello. Dimorava tuttavia in Roma il
pontefice romano nel dì 29 di giugno, in cui confermò i privilegii della
badia di Montebello sul Pavese, con bolla data[1309] _Romae III kalendas
julii, anno Domini millesimo nonagesimo quarto, Indictione secunda,
pontificatus domni Urbani II septimo_. Abbiamo da Donizone[1310] che,
per consiglio della contessa Matilda, esso pontefice determinò di venire
in Lombardia, per maggiormente fortificare il partito dei cattolici, e
sradicare la gramigna guibertina. Perciò verso il fine dell'anno, per
attestato di Bertoldo[1311], celebrò il santo Natale in Toscana, dove fu
ad accoglierlo con tutta divozione la contessa Matilda. Se rimase Arrigo
sommamente sconcertato per la fuga e ribellione del figliuolo _Corrado_
nell'anno precedente, restò egli in questo anche oltremodo svergognato
per la fuga della _regina Adelaide_, ossia _Prassede_, sua moglie. La
teneva egli imprigionata in Verona[1312], ed avendo essa trovato modo di
far sapere le sue miserie alla suddetta contessa Matilda, con
raccomandarsi a lei, seppe la contessa così ben menare un segreto
trattato, che nel verno di quest'anno la fece fuggir dalle carceri.
Rifugiossi ella presso il _duca Guelfo V_, il quale colla consorte
Matilda le fece un trattamento da pari sua; ed allora fu che essa regina
diede fuoco a tutte le iniquità e crudeltà commesse contra di lei dal
bestiale marito, il cui discredito certamente dovette andar crescendo
alla pubblicazione di fatti sì enormi. Essendosi poi tenuto un gran
concilio di cattolici tedeschi nella città di Costanza da _Gebeardo
vescovo_, fece la regina suddetta esporre in quella sacra adunanza le
sue querele, che mossero a sdegno e compassione chiunque la udì. Intanto
in Germania _Guelfo IV_ duca di Baviera conchiuse una pace e lega per
tutta la Suevia, Francia teutonica, Alsazia e Baviera, sino ai confini
dell'Ungheria: contrade tutte parziali al vero romano pontefice. Scrive
sotto quest'anno il Dandolo[1313], che trovandosi l'imperadore Arrigo in
Trivigi, _Vitale Faledro_ doge di Venezia gli spedì tre suoi legati, che
il trovarono molto favorevole agli interessi de' Veneziani. In segno di
che non solamente egli rinnovò i patti antichi col popolo di Venezia, ma
ancora alzò dal sacro fonte una figliuola del doge. Scoprissi ancora in
Venezia il sacro corpo di San Marco evangelista, essendo gran tempo che
s'era smarrita la memoria del sito in cui era seppellito; e di nuovo fu
posto in luogo, oggidì affatto ignoto, nella di lui basilica: che così
allora si costumava per timore de' ladri pii delle sacre reliquie, che
per più secoli non lasciarono riposar le ossa sacre dei santi. Andò
anche Arrigo Augusto per sua divozione a visitare in Venezia la basilica
suddetta, e dopo aver girata la città, ne commendò molto il sito e il
governo, e concedute esenzioni a varii monisteri, se ne tornò in terra
ferma. Potrebbe nondimeno essere che prima di questo anno, e in tempo di
maggior felicità, Arrigo visitasse Venezia. Abbiamo anche un privilegio
fatto in questo medesimo anno dal soprallodato doge _Vitale_ al popolo
di Loreo, castello fabbricato e ben fortificato dallo stesso doge.

NOTE:

[1304] Sigebertus, in Chron.

[1305] Berthold. Constantiensis, in Chron.

[1306] Goffrid. Vindocinensis, lib. 1, Epist. 8.

[1307] Pagius, Crit. ad Annal. Baron.

[1308] Goffrid., lib. 1, Epist. 9.

[1309] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1 in Append.

[1310] Donizo, lib. 2, cap. 8.

[1311] Berthold. Constantiensis, in Chron.

[1312] Donizo, lib. 2, cap. 8. Berthold. Constantiensis, in Chron.
Annalista Saxo.

[1313] Dandul., in Chron, tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MXCV. Indizione III.

    URBANO II papa 8.
    ARRIGO IV re 40, imperad. 12.
    CORRADO II re d'Italia 3.


Passò dalla Toscana nel febbraio dell'anno presente in Lombardia il buon
_papa Urbano_, e circa il primo dì di marzo celebrò un insigne concilio
nella città di Piacenza[1314], dove intervennero dugento vescovi
dell'Italia, Borgogna, Francia, Alemagna, Baviera, e d'altre provincie,
e quasi quattro mila cherici, con più di trenta mila laici. Sì grande fu
il concorso, che non essendovi basilica capace di tanta gente, bisognò
tener quella sacra assemblea in piena campagna. Colà comparve la
sfortunata regina _Adelaide_, e si lamentò delle infamie che le avea
fatto sofferire l'indegno suo consorte Arrigo. Non avendo ella
acconsentito a tali scelleratezze, fu disobbligata dal farne penitenza.
Quivi ancora furono stabiliti varii decreti riguardanti la disciplina
ecclesiastica, che avea patito di molto in questi sì burrascosi tempi; e
solennemente fu rinnovata la scomunica contra dell'antipapa e de' suoi
aderenti. Vi comparvero ancora i legati di _Alessio Comneno_ imperadore
dei Greci, con esporre le di lui calde preghiere ed istanze per ottener
soccorso contra de' Turchi e d'altri infedeli, che già aveano occupata
la maggior parte dell'imperio d'Oriente, e colle loro scorrerie si
faceano vedere sotto le mura di Costantinopoli. Però papa Urbano ivi
cominciò a predicar la crociata[1315], e molti vi furono che con
giuramento s'impegnarono al viaggio di oltremare, per militar contro
degl'infedeli. Fu in tal congiuntura consecrato _Arnolfo arcivescovo_ di
Milano, alla cui elezione tanto tempo prima s'era opposto il legato
apostolico. Nel dì 11 di aprile passò il papa a Cremona, e venutogli
incontro il giovane _re Corrado_, umilmente tenne la staffa al pontefice
e l'addestrò. Gli prestò inoltre giuramento di fedeltà, cioè di
conservargli la vita, le membra e il pontificato romano. Urbano,
all'incontro, il ricevette per figliuolo della santa romana Chiesa, con
promettergli ogni aiuto e favore per fargli conseguire il regno e la
corona imperiale, purchè anch'egli rinunziasse alla pretension delle
investiture ecclesiastiche. Inviossi dipoi il papa per mare in Provenza,
e venuto a Valenza, di là spedì le lettere circolari per invitare i
prelati ad un concilio da tenersi in Chiaramonte nell'ottava di san
Martino, oppur ne' giorni seguenti. Fu infatti celebrato quel
concilio[1316] al tempo destinato, coll'intervento di tredici
arcivescovi e dugento e cinque fra vescovi ed abbati, benchè altri ne
contino fin quattrocento. Molti regolamenti si fecero ivi per la
disciplina della Chiesa. L'atto nondimeno più famoso di quella insigne
assemblea fu la proposizione fatta di nuovo con più fervore dallo
zelantissimo papa per la crociata, cioè di un armamento per liberar
Gerusalemme dalle mani degl'infedeli. Così celebre è questo avvenimento,
così ampiamente trattato da varii scrittori antichi e moderni, che a me
basterà di solamente darne un lieve abbozzo per la concatenazione di
questa istoria. A sì celebre movimento era già preceduta la predicazione
di Pietro romito franzese[1317], il quale, dopo essere stato a visitare
i luoghi santi di Palestina, rapportò in Occidente la persecuzion fatta
dai Musulmani a' poveri Cristiani in quelle contrade, e come restassero
profanate le memorie della nostra redenzione. Portò egli lettere
compassionevoli di quel patriarca Simeone al papa e a' principi
dell'Occidente; poi per l'Italia, Francia e Germania andò predicando e
movendo grandi e piccoli a portar la guerra in Oriente. Questo fu il
precursore di papa Urbano, ma potè più di lunga mano l'esortazione
infocata d'un capo visibile della Chiesa di Dio per commuovere e
principi e popoli a quell'impresa. Adunque corse a gara gran moltitudine
di gente dopo il concilio a prendere la croce e ad impegnarsi per la
spedizione d'Oriente; nè altro si udiva dappertutto che questa voce:
_Dio lo vuole, Dio lo vuole_. Nè tanta commozion di popoli nacque dalla
sola lor divozione; v'intervenne anche un piissimo interesse. Erano
allora tuttavia in uso i canoni penitenziali; ad ogni peccato era
destinata la sua penitenza; e queste penitenze si stendevano bene spesso
ad anni e a centinaia d'anni, a misura della quantità e qualità dei
reati. Ora il pontefice, per animar tutti a prendere la croce,
concedette indulgenza plenaria (cosa allora rarissima) di tutte le
suddette pene canoniche a chiunque pentito e confessato imprendesse le
fatiche di un sì lungo e scabroso viaggio a Gerusalemme. Però non è da
stupire se allora sì grande fu il concorso di ecclesiastici e laici alla
guerra sacra, e se anche tanti principi si infiammarono di zelo per
condurre a fine così glorioso disegno. Più di cento mila persone presero
allora la croce, e fra questi moltissimi monaci ancora, che con sì bella
congiuntura si misero in libertà.

Succedette in quest'anno un grave sconcerto in Italia, a noi narrato da
Bertoldo da Costanza con queste parole[1318]: _Welpho filius Welphonis
ducis Bajoariae, a conjugio dominae Mathildis se penitus sequestravit,
asserens illam a se omnino immunem permansisse: quod ipsa in perpetuum
reticuisset, si non ipse prior illud satis inconsiderate publicasset_.
Ho io cercato altrove[1319] i motivi di tal separazione, e mi è sembrato
di poter dire che non ispontaneamente nè per sua balordaggine si ritirò
_Guelfo V_ dalla contessa Matilda nell'anno presente, ma sì bene per
disgusti a lui dati dalla contessa medesima. Finchè ella ebbe bisogno di
lui nelle turbolenze passate, non gli fu scarsa di segni di vero amore e
stima, tuttochè fra loro non passasse commercio carnale, o perchè ella
nol voleva, o perchè con questo patto l'aveva egli sposata. Ma dacchè
ella vide depresso in Italia Arrigo IV, cominciò a rincrescerle di aver
un compagno nel comando, e però seppe indurre il marito a separarsi da
lei. Forse anche si scoprì solamente allora che Matilda nell'anno 1077
avea fatta una donazione solenne di tutto il suo patrimonio alla Chiesa
romana; laonde trovandosi Guelfo da tutte le parti burlato per aver
presa una ch'era solamente moglie di nome, ed anche senza speranza di
godere della di lei eredità, disgustatissimo da lei si congedò. E che
nel contratto del di lui matrimonio colla contessa seguisse qualche
patto di tal successione, si può raccogliere dal sapere che _Guelfo IV_
duca di Baviera suo padre, udito questo divorzio, volò in Italia tutto
ardente di sdegno, e per quanto facesse, non gli riuscì di riconciliar
questi due coniugati; nè potendo egli digerir l'inganno fatto alla sua
casa dalla contessa, dopo essere per tanti anni stato il principal
sostegno della parte cattolica, si gettò nel partito allora fallito
dell'imperadore Arrigo. Questa sua risoluzione e lo sdegno da lui
mostrato fanno abbastanza intendere che un gran torto gli doveva aver
fatto Matilda. _Unde_ (soggiugne esso Bertoldo) _pater ipsius_ (cioè
Guelfo IV) _in Longobardiam nimis irato animo pervenit, et frustra diu
multumque pro hujusmodi reconciliatione laboravit. Ipsum etiam Henricum
sibi in adjutorium adscivit contra dominam Macthildam, ut ipsam bona sua
filio ejus dare compelleret, quamvis nondum illam in maritali opere
cognosceret_. È un sogno del Fiorentini il farsi a credere che il
vecchio Guelfo prima del divorzio del figliuolo avesse abbracciata la
fazione di Arrigo. L'abbracciò per dispetto, dopo essersi trovato sì
solennemente beffato dalla contessa Matilda. Se si notassero tutti i
vizii degli eroi, per lo più comparirebbono non minori di numero e peso
che le loro virtù. Tornarono i due Guelfi, malcontenti della contessa,
in Germania, per attestato di Bertoldo, e si affaticarono non poco in
favore dell'Augusto Arrigo; tutto nondimeno indarno, perchè il di lui
partito era oramai troppo scaduto. È da osservare che Donizone, troppo
parziale della contessa, niuna menzione fa mai di Gotifredo, nè di
Guelfo, che pur furono mariti di lei, ma da lei in fine rigettati e
sprezzati. Fu in questi tempi consigliato _Corrado re_ d'Italia ad
ammogliarsi[1320]. Papa Urbano e la contessa Matilda gli proposero
_Matilda_ figliuola di _Ruggieri conte_ di Sicilia, principe che potea
dare una buona dote, di cui abbisognava forte quel povero re, smunto
affatto di danaro. Lo stesso papa ne scrisse al conte Ruggieri, e restò
conchiuso il trattato. Spedì egli la figliuola con una flotta e con un
ricco tesoro a Pisa, dove si trovò Corrado a riceverla; e quivi con
tutta onorevolezza furono celebrate le nozze. Scrive bensì Bertoldo da
Costanza che in questi medesimi tempi l'imperadore Arrigo dimorava in
Lombardia, _paene omni regia dignitate privatus_, perchè tutto il nerbo
delle sue milizie era passato sotto le bandiere del suddetto suo
figliuolo Corrado e della contessa Matilda. Contuttociò io truovo che
egli nel dì 31 di maggio tenne un placito nella città di Padova[1321]
coll'intervento di _Burcardo_ e _Warnerio_ marchesi, e in esso accordò
la sua protezione per alcuni beni al monistero di santa Giustina di
Padova. Similmente dimorando egli in Garda sul lago Benaco, nel dì 7 di
ottobre confermò i suoi privilegii[1322] al monistero della Pomposa,
posto tra Ferrara e Comacchio, con un diploma, le cui note non son
pervenute a noi assai esattamente copiate dall'originale. Tentò egli
inoltre, secondochè abbiam da Donizone[1323], d'impadronirsi del forte
castello di Nogara coll'aiuto dei Veronesi. L'assediò infatti, e l'aveva
già ridotto alla estremità per la fame; ma, ciò udito la contessa
Matilda,

    _Mox accersitos Motinenses corpore firmos,_
    _Eridanum transit._

E già era in cammino per soccorrere la languente fortezza, quando sorse
tal timore nell'armata di Arrigo, che tutti diedero a gambe, con
abbandonare armi e bagaglie.

NOTE:

[1314] Labbe, Concil., tom. 10.

[1315] Berthold. Constantiensis, in Chron.

[1316] Labbe, Concilior., tom. 10.

[1317] Guillelm. Tyr., Hist., lib. 1, cap. 11. Bernardus, Thesaur., cap.
6, tom. 7 Rer. Ital.

[1318] Bertholdus Constantiensis, in Chron.

[1319] Antichità Estensi, P. I, cap. 4.

[1320] Gaufridus Malaterra, lib. 4, cap. 23.

[1321] Antiquit. Italic., Dissert. XXXI.

[1322] Ibidem, Dissert. LXX.

[1323] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 9.



    Anno di CRISTO MXCVI. Indizione IV.

    URBANO II papa 9.
    ARRIGO IV re 41, imper. 13.
    CORRADO re d'Italia 4.


Parte di quest'anno impiegò l'infaticabile _papa Urbano_ in varii viaggi
per le città della Francia, dei quali fa menzione il padre Pagi.
Sollecitò dappertutto la crociata, e tenne in quelle contrade due altri
concilii nelle città di Tours e di Nismes, per regolar gli affari
ecclesiastici. Aveva egli già scomunicato _Filippo re_ di Francia a
cagion delle nozze illegittime da lui contratte, vivente la vera moglie.
Si ravvide egli, ed ottenuta l'assoluzione, tornò in grazia del papa e
della Chiesa. Per attestato di Bertoldo da Costanza[1324], venne poscia
nel mese di settembre in Italia, e presso Pavia celebrò la festa
dell'Esaltazion della Croce nel dì 14 di esso mese. Pretende il suddetto
padre Pagi[1325], non so se con buoni fondamenti, ch'egli calasse più
tardi in Lombardia. Gran concorso di vescovi e principi fu ad ossequiare
il buon pontefice, che da Pavia passò a Milano, e di là continuò il suo
viaggio fino a Roma, dove gloriosamente entrato, celebrò con solennità
magnifica il santo Natale. Mercè dell'armi cristiane, che qui sotto
accennerò, tutta quella città s'era ridotta ubbidiente ai suoi cenni, a
riserva del castello Sant'Angelo, in cui, per attestato del suddetto
Bertoldo, dimorava tuttavia la guarnigione dell'antipapa Guiberto. Si
mosse in quest'anno un'infinità di cristiani crocesegnati alla volta
dell'Oriente, composta della schiuma di tutti i masnadieri e della
canaglia della Francia, Germania ed Inghilterra, e con loro andarono
femmine da partito senza numero. Un corpo d'essi era condotto dal romito
Pietro: la prima prodezza che fecero in Germania, fu di perseguitare,
svaligiare, uccidere, oppur forzare quanti Giudei trovarono ad
abbracciar la religione di Cristo[1326]. Arrivati costoro in Ungheria e
Bulgaria, tante ribalderie e rapine commisero, che que' popoli, prese
l'armi, desertarono tutta quell'armata, di maniera che poche migliaia ne
poterono giugnere a Costantinopoli limosinando un tozzo di pane. Un
altro corpo di questa ciurmaglia penetrò più avanti fino al paese de'
Turchi, e fu da essi disfatto. Un altro, condotto da _Raimondo conte_ di
sant'Egidio, passò per la Schiavonia. Mossesi poi nell'agosto _Gotifredo
di Buglione_ dal suo ducato della Lorena, principe di rara pietà e
saviezza e di egual valore, seco conducendo una gran quantità di altri
principi e signori della Francia, Fiandra e Lorena, e un'armata di dieci
mila cavalli e di settanta mila fanti, tutta gente agguerrita e
disciplinata. Con buon ordine per la Germania, e poi coll'avere ottenuto
libero il passaggio da _Colomanno re_ per l'Ungheria, marciò questo
esercito alla volta di Costantinopoli. Un'altra potentissima armata
condotta da _Ugo il grande_, fratello del re di Francia, da _Roberto
conte di Fiandra_, da _Roberto duca di Normandia_, da _Eustachio di
Bologna_, fratello del duca Gotifredo, e da altri principi[1327], venne
per l'Italia, e passando per la Toscana, trovato in Lucca papa Urbano
incamminato verso Roma, presero da lui la benedizione[1328]. In passando
per Roma, cacciarono di là l'antipapa Guiberto, e perciò la città,
fuorchè castello Sant'Angelo, tornò in potere del papa. Arrivarono
questi sul principio del verno in Puglia, e convenne loro prendere
quartiere in quelle parti, perchè non era più tempo di mettersi in mare.
Ma essendosi azzardato il suddetto _principe Ugo_ di passare a Durazzo,
fu quivi fatto prigione dai perfidi Greci, e tosto inviato a
Costantinopoli. Buon per lui che da lì a non molto, verso la festa del
Natale, giunse in quelle vicinanze il _duca Gotifredo_ col suo prode
esercito, che forzò l'_imperadore Alessio_ a rimettere in libertà quel
principe, e stabilì poi varie capitolazioni co' Franchi pel libero loro
passaggio in Asia.

Accadde in quest'anno che la città di Amalfi si ribellò a _Ruggieri
duca_ di Puglia[1329]. Non avea egli forze bastanti per mettere al
dovere quella città, e massimamente navi per istrignerla dalla parte del
mare. Raccomandossi a _Ruggieri conte_ di Sicilia suo zio per un copioso
aiuto; e questi infatti raunato un esercito di ventimila Saraceni suoi
sudditi in Sicilia, colla giunta delle sue vecchie truppe e con una
buona squadra di navi, accorse, e col nipote mise l'assedio per terra e
per mare a quella città. Intanto si sparse la voce della crociata e de'
Franchi che venivano verso la Puglia per passare il mare. Trovavasi a
quell'assedio anche _Boamondo principe_ di Taranto e fratello del duca
Ruggieri. Invogliatosi anch'egli di quella sacra spedizione, e
soprattutto spinto dalla speranza di qualche gran conquista in Oriente,
prese la croce[1330]. Il gran rumore che faceva allora la commozion di
tanti popoli per andare alla conquista di Gerusalemme, e l'esempio suo
cagion furono che la maggior parte delle truppe sì del duca che del
conte, assedianti Amalfi, cominciassero a gridare: _Iddio lo vuole, lo
vuole Iddio_; laonde s'arrolarono a furia sotto Boamondo per passare in
Oriente. Fu questo inaspettato avvenimento la fortuna degli Amalfitani,
già ridotti al verde; perchè il conte Ruggieri, veggendo per la maggior
parte dileguato l'esercito suo, si ritirò confuso e malcontento in
Sicilia; ed altrettanto fece il suo nipote Ruggieri, con ritornarsene in
Puglia, lasciando nella ricuperata libertà la città d'Amalfi. Questo a
me fa credere che non venti mila Saraceni, come vuole il Protospata, ma
assai minor numero di quegl'infedeli fossero condotti a quell'assedio
dal conte. Certamente niun d'essi dovette prender la croce; e venti mila
di coloro erano un'armata sufficiente per ultimar l'impresa di quella
città. Accompagnossi con Boamondo anche _Tancredi_, che divenne poscia
al pari di lui celebre eroe nella guerra sacra, e le cui prodezze si
truovano descritte da Radolfo Cadomense. Nella prefazione alla Storia di
questo scrittore ho io osservato[1331] che Tancredi ebbe per padre
_Odone_, ossia _Otton Buono marchese_, e per madre _Emma_ sorella del
duca di Puglia Roberto Guiscardo, ed era perciò cugino di Boamondo.
Altri il fanno suo nipote, ma senza buon fondamento. Ho eziandio creduto
assai probabile che Tancredi fosse di nazione italiana. Nè si dee tacere
che anche da tutte le parti dell'Italia concorse innumerabil gente a
questa sacra impresa. Folco, uno degli antichi storici della guerra
sacra presso il Du-Chesne[1332], fra le genti crocesegnate annovera

    _Quos Athesis pulcher praeterfluit, Eridanusque,_
    _Quos Tyberis, Macra, Vulturnus, Crustumiumque_
    _Concurrunt Itali, ec._
    _Pisani ac Veneti propulsant aequora remis._

Soggiunge più sotto:

    _Qui Ligures, Itali, Tusci, pariterque Sabini,_
    _Umbri, Lucani, Calabri simul, atque Sabelli,_
    _Aurunci, Volsci, vel qui memorantur Etrusci;_
    _Quaeque etiam gentes sparguntur in Apula rura,_
    _Queis conferre manus visum est in praelia dura,_
    _Sub juga Tancredi et Boamundi corripuere,_
    _Et contra fidei refugas patria arma tulere._

Verisimile nondimeno a me sembra che non tutti questi Italiani ad un
tempo si movessero nell'anno presente, ma che continuasse la folla anche
ne' due seguenti. Passato nell'Epiro Boamondo con Tancredi, ebbe tosto,
per attestato di Radolfo Cadomense[1333], a sguainar la spada coi Greci
che gli vollero contrastare il passo. Diede loro più d'una rotta,
s'impadronì di buon tratto di paese, e tal timore arrecò la di lui
venuta alla corte di Costantinopoli, che _Alessio imperadore_ giudicò
meglio di procedere colle buone con un principe sì avvezzo alle
vittorie. Chiamatolo dunque alla corte, l'indusse a prestargli omaggio,
e cercò di sbrigarsene il più presto possibile. Venuto a morte _Vitale
Faledro_ doge di Venezia[1334] in questo anno, ebbe per successore
_Vitale Michele_ in quella illustre dignità. Per attestato ancora di
Jacopo Malvezzo[1335], nell'anno presente un terribile incendio devastò
quasi tutta la città di Brescia.

NOTE:

[1324] Berthold. Constantiensis, in Chron.

[1325] Pagius, Crit. ad Annal. Baron.

[1326] Albert. Aqu., lib. 1, cap. 24. Guillelm. Tyr., lib. 1, cap. 17.

[1327] Guibert. Abbas, cap. 11 Hist. Fulcherius Carnotens. et alii.

[1328] Otto Frisingensis, Chron., lib. 7, cap. 6.

[1329] Gaufridus Malaterra, lib. 4, cap. 24. Lupus Protospata, in Chron.

[1330] Guibertus Abbas, in Chronico. Petrus Diac., Chron. Casinens.,
lib. 4, cap. 11.

[1331] Rerum Italicarum Scriptor., tom. 5.

[1332] Du-Chesne, Rer. Francic., tom. 4.

[1333] Radulphus Cadomensis, cap. 4.

[1334] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1335] Malvicius, Hist. Brix., tom. 14 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MXCVII. Indizione V.

    URBANO II papa 10.
    ARRIGO IV re 42, imperad. 14.
    CORRADO II re d'Italia 5.


Restò libera in quest'anno l'Italia dall'_imperadore Arrigo_. Veggendosi
egli snervato e screditato affatto in queste parti, e più che mai
concorrere i popoli in favore del pontefice e del _re Corrado_ suo
figliuolo[1336], meglio stimò di ritornarsene in Germania. Riportò
indicibil gloria la _contessa Matilda_ per questo successo, con
attribuirsi al di lei valore e prudenza un tale abbassamento di Arrigo.
Si trattenne tutta la state esso Augusto in forma assai privata in
Ratisbona e Nuremberga, dove avendo a lui fatto ricorso i Giudei,
forzati nel precedente anno ad abbracciare la religione di Cristo,
restituì loro la libertà della coscienza[1337]. Circa il principio di
dicembre tenne una conferenza co' principi tedeschi a motivo di trattar
della pace, ma forse principalmente per promuovere al regno _Arrigo V_
suo secondogenito, giacchè troppo odio portava egli al primogenito
_Corrado_. Era già pervenuto all'età di più di cento anni il marchese
_Alberto Azzo II_ estense, e conoscendo approssimarsi il termine de'
suoi giorni, allora fu che più che in addietro volle esercitar la sua
pia liberalità verso le chiese[1338]. Resta tuttavia un'insigne
donazione da lui fatta _anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi
MLXXXXVII, tertiodecimo die introeunte mense aprilis, Indictione
quinta_. Cioè dona ivi _cinquanta possessioni_, con ispecificare il nome
di cadaun lavoratore d'esse, al monistero della Vangadizza
sull'Adigetto, luogo di suo giuspatronato, e posto ne' suoi Stati.
L'originale da me veduto nell'archivio di essa badia forse passò in mano
del nobile veneziano Giam-Batista Recanati. Intervenne a questa pia
donazione anche Ugo suo figliuolo, e trovandosi eglino nella nobil
terra, oggidì città, di Rovigo, di cui era esso marchese padrone. Ma non
andò molto, che il decrepito principe fu chiamato da Dio a miglior vita,
con lasciare dopo di sè un glorioso nome sopra la terra. _Azzo marchio
de Longobardia_ (son parole di Bertoldo da Costanza, scrittore
contemporaneo) _pater Welphonis ducis de Bajoaria, jam major centenario,
ut ajunt, viam universae terrae arripuit_. Restarono di lui tre
figliuoli maschi, cioè _Guelfo IV_ duca di Baviera, ed _Ugo_ e _Folco_;
dal primo de' quali, nato da _Cunegonda_ dei Guelfi, convien qui
ripetere che discende l'imperiale, reale, elettorale e ducal casa di
Brunswich; e da _Folco_, nato da _Garsenda_ principessa del Maine, i
marchesi d'Este, duchi di Ferrara, Modena, Reggio, ec. Ho io rapportato
altrove[1339] una convenzione, stabilita nel dì 6 d'aprile dell'anno
1095, tra i due fratelli Ugo e Folco, da cui apparisce che Ugo principe,
per quanto abbiamo già veduto, di poco lodevol condotta, vendè a Folco
suo fratello tutte le pretensioni sue sopra molti Stati che il marchese
Azzo avea con varii strumenti ceduto al medesimo Folco. Contuttociò
Folco si contentò di lasciar godere ad esso suo fratello e a' suoi
figliuoli maschi legittimi, ma con obbligo di vassallaggio, _medietatem
castrorum, et terrae, quae Azo marchio genitor noster tenet a Mincio
usque ad Veneciam, et illam porcionem ceterorum castrorum de alia terra
marchionis Azonis genitoris nostri_. Accaduta dunque la morte del
marchese Azzo, questi due fratelli entrarono in possesso di tutti gli
Stati del padre, cioè di un fioritissimo paese dal fiume Mincio di
Mantova sino al mare, che abbracciava fra le altre terre la nobil
d'Este, e quella di Rovigo col suo Polesine, Montagnana, la Badia, ec.,
siccome ancora di tutti gli altri spettanti al padre nella Lunigiana e
Toscana, e in varii altri contadi d'Italia specificati nel diploma
d'Arrigo IV nell'anno 1077, senza contare quei ch'essi riconoscevano
dalle chiese.

Erano questi due principi stati sempre costanti nel partito cattolico
del re Corrado contra dell'Augusto Arrigo. Però in questo medesimo anno
_Folco marchese_ andò alla corte del re Corrado, che dimorava in borgo
San Donnino, e nel dì 20 di agosto impetrò dallo stesso re un
privilegio, da me dato alla luce[1340]. Ma non passò gran tempo che
_Guelfo IV duca_ di Baviera suscitò contra dei due suddetti suoi
fratelli una gran tempesta. Veggendo il marchese Azzo sì ben provveduto
in Germania esso Guelfo suo figliuolo del primo letto, avea trasmessi
tutti i suoi Stati d'Italia negli altri due suddetti suoi figliuoli,
acciocchè con isplendore tirassero innanzi le due loro linee in Italia.
Ma non l'intese così il duca Guelfo loro fratello. Pretese anch'egli la
sua parte negli Stati paterni, e perchè trovò renitenti a ciò Ugo e
Folco, mosse loro guerra nell'anno presente. Dopo aver detto il suddetto
Bertoldo che il marchese Azzo mancò di vita, soggiugne: _Magnamque
guerram suis filiis de rebus suis dereliquit. Nam Welfo dux omnia patris
sui bona, utpote matri suae_ (Cunegonda) _donata_ (il che non merita
fede) _obtinere voluit. Sed fratres ejus de alia matre_ (cioè da
Garsenda) _procreati noluerunt se poenitus exheredari_. Si mise in
procinto il duca Guelfo di scendere in Italia colle sue forze per
sostener gagliardamente le sue pretensioni; ma Ugo e Folco anch'essi
furono in armi, _et aditum ei ad Longobardiam prohibuerunt, quum iret ad
possidendum_: il che ci fa intendere, qual fosse la lor potenza, quando
era bastante ad impedire ad un duca di Baviera armato il passaggio in
Italia. Allora fu che Guelfo si collegò con _Arrigo duca_ di Carintia, e
probabilmente ancora marchese della marca di Verona, e col patriarca
d'Aquileia, fratello d'esso Arrigo duca e principe, signore del Friuli e
della Carniola. Coll'accrescimento di tante forze al duca Guelfo non fu
poi difficile il penetrare in Italia, e il portar la guerra contra de'
fratelli. _Sed filii ejusdem marchionis_ (aggiugne Bertoldo) _de alia
conjuge praedicto duci totis viribus resistere_. Nulladimeno non potendo
essi competere colla potenza di lui e de' suoi collegati, Guelfo
_hereditatem patris de manibus eorum ex magna parte sibi vendicavit_. Ma
da lì a non molto ricuperò il marchese Folco gli Stati paterni, e
dovette seguire qualche convenzione fra esso Folco e i figliuoli di
Guelfo IV, all'osservarsi che la linea estense in Germania possedette
dipoi la terza parte di Rovigo, ed esercitò signoria anche nella nobil
terra d'Este. Non si sa che divenisse del _marchese Ugo_. Ho io ben
trovato che lasciò figliuoli, a lui nati dalla figliuola di _Roberto
Guiscardo_ duca di Puglia. Abbiamo da Goffredo Malaterra[1341] che in
questo anno _Ruggieri conte_ di Sicilia maritò una sua figliuola con
_Colomanno_, appellato da alcuni impropriamente Carlo Manno re
d'Ungheria. Le nozze furono con singolar pompa celebrate in Buda
capitale di quel regno. Fece quanto potè _Alessio imperadore_ de' Greci,
principe accortissimo, per liberarsi dagli eserciti de' Franchi giunti
in Tracia, che faceano immensi mali anche nei contorni di
Costantinopoli. Fra lui e i principi di quelle armate in fine si
stabilirono alcune capitolazioni, dopo le quali passati i Cristiani di
là dallo Stretto, ed entrati in Asia, in una terribil battaglia nel dì
14 di maggio sconfissero un immenso esercito di Turchi. Si impadronirono
appresso della città di Nicea; e continuato il loro viaggio, arrivarono
fino alla regal città d'Antiochia, di cui intrapresero l'assedio nel dì
21 di ottobre. Trovandosi _Corrado re_ d'Italia in Cremona nel dì 22
d'esso mese d'ottobre, confermò i suoi privilegii ai canonici di
Cremona, siccome consta dal diploma da me dato alla luce[1342], in cui
l'anno XIV del regno d'esso Corrado non può sussistere. Terminò il corso
di sua vita in quest'anno _Arnolfo_ arcivescovo di Milano, e in luogo
suo fu eletto Anselmo di questo nome quarto. Secondo le carte prodotte
dal Guichenon[1343], fioriva in questi tempi _Umberto_ ossia _Uberto_ II
conte, da cui discende la real casa di Savoia. Truovasi nominato
_Umbertus comes filius quondam Amedei_, ed altrove _comes et marchisus_.
Quel che pare strano, egli professa _lege vivere romana_, perchè que'
principi erano di nazione e legge salica.

NOTE:

[1336] Bertholdus Constantiensis, in Chron.

[1337] Annalista Saxo. Abbas Urspergensis, in Chron.

[1338] Antichità Estensi, P. I, cap. 11.

[1339] Antichità Estensi, P. 1, cap. 27.

[1340] Idem, ibid., cap. 28.

[1341] Gaufrid. Malaterra, lib. 4, cap. 25.

[1342] Antiquit. Italic., Dissert. LXIV.

[1343] Guichenon, de la Maison de Savoye, tom. 3.



    Anno di CRISTO MXCVIII. Indizione VI.

    URBANO II papa 11.
    ARRIGO IV re 43, imper. 15.
    CORRADO II re d'Italia 6.


Fino a quest'anno era durata la ribellion di Capoa contra tutti gli
sforzi di Riccardo suo principe, che s'era ritirato in Aversa. Cotanto
si raccomandò questo principe normanno a _Ruggieri duca_ di Puglia, che
questi, chiamato in aiuto il suo zio _Ruggieri duca_ di Sicilia,
s'indusse a formare nell'aprile dell'anno presente l'assedio di quella
città[1344]. V'intervennero il duca e il conte con due possenti
eserciti; e _papa Urbano_, affine di trattar pace, ed anche, per quanto
si può conghietturare, a motivo di sostenere i diritti della santa Sede
sopra quella città, giudicò bene di trasferirsi al medesimo assedio, e
si fermò assai tempo in quelle vicinanze. Anche santo _Anselmo
arcivescovo_ di Cantorberì in Inghilterra[1345], venuto in Italia a
cagione delle violenze del re _Guglielmo II_, si portò colà per
conferire col sommo pontefice, da cui, non meno che dal duca di Puglia,
ricevette singolari onori. Si studiò il buon papa d'indurre i Capoani a
rendersi amichevolmente; e ritrovandoli ostinati nella rivolta, si
ritirò a Benevento. Con tal vigore continuarono poscia i principi
normanni a strignere Capoa, che quel popolo[1346] nel mese di giugno fu
astretto ad esporre bandiera bianca e capitolar la resa. Dal duca e dal
conte fu consegnata quella città a Riccardo II. Nè si vuol tacere che
Ruggieri duca di Puglia, non già per magnanimità aiutò Riccardo suo
cugino a quell'impresa, ma per interesse; perciocchè _princeps caussa
auxilii, quod ab ipso sperabat, homo ducis factus fuit_. Cioè il duca
obbligò Riccardo a riconoscere da lui in feudo la medesima città, benchè
non anche presa, e forse tutti gli Stati di lui: alla qual risoluzione
non s'era giammai potuto indurre _Giordano principe_ di Capoa, e padre
di lui, per quante carezze e minacce avesse adoperato per ottenere
questo intento Roberto Guiscardo, padre d'esso duca Ruggieri, e zio
materno del medesimo Giordano. Nella Vita di san Brunone[1347] si
racconta che durante l'assedio d'essa città, avendo un tal Sergio
tramata una congiura contra di Ruggieri conte di Sicilia, san Brunone,
che in questi tempi fioriva in Calabria, apparve in sonno al conte, e
l'avvertì dell'imminente pericolo; per la qual grazia esso conte fu poi
liberalissimo verso de' monaci certosini, istituiti dallo stesso san
Brunone in questi tempi. Passarono dopo la conquista di Capoa il duca
Ruggieri e il conte Ruggieri a Salerno, città allora, dove solea dimorar
la corte dei duchi di Puglia. Colà parimente[1348] da Benevento si portò
papa Urbano per abboccarsi col conte prima del suo passaggio in Sicilia.
E perciocchè si ritrovò esso conte disgustato per avere il pontefice
eletto suo legato in Sicilia _Roberto vescovo_ di Traina, senza
precedente notizia e consenso del medesimo conte, affin di placarlo, e
perchè ben sapea quanto grande fosse lo zelo della religione in quel
principe, dichiarò legato apostolico per tutta la Sicilia esso conte e i
suoi eredi con bolla data _Salerni per manum Johannis sanctae romanae
Ecclesiae diaconi, tertio nonas julii, Indictione VII_ (si dee scrivere
_VI_) _pontificatus domni Urbani secundi XI_. Di qui ebbe origine la
decantata monarchia di Sicilia (nome veramente strano) così
vigorosamente impugnata dal cardinal Baronio nel tomo undecimo della sua
Storia ecclesiastica, tomo perciò condannato alle fiamme in Ispagna.
Anche a' dì nostri sotto il pontificato di Clemente XI ribollì questa
controversia, che susseguentemente ebbe fine colla moderazione di alcuni
abusi introdotti nel tribunale di quella monarchia.

Andossene dipoi papa Urbano alla città di Bari, dove nel mese di ottobre
tenne un maestoso concilio di cento ottantacinque vescovi[1349].
Comparvero in quella sacra raunanza molti Greci, e con esso loro seguì
una calda disputa intorno alla Procession dello Spirito Santo dal
Figliuolo. Vi si trovò presente l'arcivescovo _santo Anselmo_,
personaggio il più letterato che si avesse allora la Chiesa latina.
Confutò egli l'opinion de' Greci con tal forza di ragioni ed autorità
delle divine Scritture, che avrebbono dovuto coloro ammutolirsi. In
quest'anno probabilmente accadde ciò che narra Landolfo iuniore storico
milanese[1350]. Per attestato di lui, il giovane _re Corrado_ teneva la
sua corte in Borgo San Donnino. Avvenne che passò per colà Liprando
prete milanese, gran partigiano della parte pontificia, incamminato
verso Roma, per presentarsi davanti papa Urbano. Era egli persona
famosa, perchè nell'anno 1075 gli scismatici gli aveano tagliato il naso
e gli orecchi. Avendo voluto il re vederlo, fra l'altre cose, gli disse:
_Essendo maestro tu de' Paterini_ (così erano allora appellati i fautori
della parte pontifizia), _che sentimento hai tu intorno ai vescovi e
sacerdoti, che possedendo tanti beni loro conceduti dai re, nulla poi
vogliono contribuire per gli alimenti del re?_ Probabilmente questo re,
più di apparenza che di sostanza, si doveva trovar molto asciutto e
bisognoso di moneta per vivere. Liprando con tutta modestia e buon garbo
gli rispose, ma senza sapersi ciò che gli rispondesse. Passando egli poi
pel Parmigiano, fu preso e spogliato dagli uomini di quel vescovo, e fu
obbligato a tornarsene indietro. Corrado fece pagar buona somma di
danaro in pena da que' masnadieri. Dopo un faticoso assedio di nove
mesi[1351], e dopo aver disfatti varii corpi di Turchi che voleano
portar soccorso all'assediata Antiochia, e dopo aver patito quella città
una terribil fame e mortalità di gente, riuscì in fine all'esercito de'
cristiani crocesignati di entrare per intelligenza di un ricco saraceno
in quella vasta città, e di mettere a fil di spada chiunque non potè
salvarsi colla fuga. Il _principe Boamondo_, che da Roberto suo padre,
se non altra eredità, quella ebbe almeno dell'accortezza e del valore,
quegli fu, che per trattato secreto con un uffiziale turco, cristiano
rinnegato, introdusse le armi cristiane in Antiochia, e seppe così ben
condurre i propri affari, che tutti gli altri principi accordarono a lui
il dominio di quella nobilissima città, in cui egli fondò un illustre
principato. Ma poco stette a presentarsi sotto Antiochia _Corborano_
principe dei Turchi con trecento sessanta cinque mila armati (numero
forse esagerato), che strettamente assediò i vincitori nella città
medesima, e li ridusse, per mancanza di viveri, a cibarsi di carne di
cavallo e di asini, e a morir non pochi di fame. Tutto era disperazione,
quando eccoti un prete provenzale riferire che per una rivelazione di
sant'Andrea si trovava in quella città la lancia, con cui fu aperto il
costato al divino nostro Salvatore, e ne indicò il luogo. Fu poi dai più
saggi creduta questa un'impostura. Verità nondimeno è, che ritrovata la
pretesa lancia (che nulla più facile sarebbe stato, quanto che il
porvene e seppellirne una a capriccio), tal compunzione, tal coraggio e
risoluzione entrò in cuore dell'esercito cristiano, che fatta una
sortita generale contro all'immensa armata nemica, la sbaragliarono e
misero in fuga. Incredibil fu la quantità e ricchezza delle spoglie del
campo. Sopraggiunse la peste, che fece non poca strage de' Cristiani;
vennero anche dissensioni fra Boamondo e _Raimondo conte_ di Tolosa; ma,
ciò non ostante, la cotanto diminuita armata de' crociati continuò il
suo cammino alla volta di Gerusalemme, con impossessarsi in andando di
varie città. Che la _contessa Matilda_ fosse in questi tempi
governatrice o signora di Reggio di Lombardia, si può forse dedurre da
un atto da me dato alla luce[1352]. Bolliva lite fra i monaci
benedettini di quella città e gli uomini delle valli per alcuni beni.
Essendo ricorsi gli ultimi ad essa principessa, ordinò ella ad uno dei
suoi giudici di ben ventilar quella causa, e d'intimare alle parti _che
fossero pronte alla pugna_, cioè alla pazza maniera di decidere molte
controversie che era allora in voga. Entrarono i campioni nello
steccato, e gran dire vi fu, perchè quello degli uomini suddetti gittò
sopra la testa del campione de' monaci _un guanto donnesco ordinato di
varii colori_, dando con ciò sospetto di malefizio. Tralascio gli altri
ridicolosi avvenimenti di quel duello, che non era in questi barbari
tempi riconosciuto dai più per una chiarissima tentazione di Dio, e però
peccaminosa nel tribunale d'esso Altissimo.

NOTE:

[1344] Gaufrid. Malaterra, lib. 4, cap. 36.

[1345] Eadmerus, in Vita S. Anselmi.

[1346] Lupus Protospata, in Chron.

[1347] Apud Surium ad diem 6 octobr.

[1348] Gaufrid. Malaterra, lib. 4, cap. 29.

[1349] Lupus Protospata, in Chron. Anonymus Barensis, apud Peregrinium.

[1350] Landolfus junior, Hist. Mediolan., cap. 1, tom. 5 Rer. Italic.

[1351] Chronograph. Malleac. Guillelm. Tyr. Bernardus Thesaurarius et
alii.

[1352] Antiquit. Italic., Dissert. XXXIX, pag. 647.



    Anno di CRISTO MXCIX. Indizione VII.

    PASQUALE II papa 1.
    ARRIGO IV re 44, imperad. 16.
    CORRADO II re d'Italia 7.


Era tornato a Roma nel precedente anno il buon papa Urbano, e con gran
pace avea quivi solennizzato la festa del santo Natale[1353], perchè gli
era riuscito di rimettere in suo potere castello Sant'Angelo, fin qui
occupato dal presidio dell'antipapa Guiberto. Niun'altra fortezza
restava in quella città che non fosse dipendente dai di lui cenni; e
coloro che quivi tuttavia si trovavano favorevoli alla fazione
scismatica, o colle carezze o colla forza furono ridotti alla dovuta
ubbidienza. Intimò egli un concilio da tenersi in Roma nella terza
settimana dopo Pasqua, e infatti questo fu celebrato al tempo prefisso
coll'intervento di cento cinquanta fra vescovi ed abbati, e col concorso
d'innumerabili cherici. Vi fu presente anche il celebre arcivescovo
_santo Anselmo_. Si rinnovò in esso la scomunica contro dell'antipapa e
de' suoi parziali; si confermarono le censure contro de' preti
concubinarii; e fu fatta gran premura dal pontefice per nuovi aiuti
all'impresa di terra santa. Ma da lì a pochi mesi infermatosi _Urbano
II_, passò in miglior paese a godere il frutto delle sue virtù dopo un
pontificato insigne e glorioso d'undici anni e cinque mesi. Succedette
la morte sua, per attestato di varii scrittori, nel dì 29 di luglio del
presente anno. Non andò molto che dal clero e popolo fu sustituito nella
cattedra di san Pietro _Rinieri_ di nazione toscano, già monaco
cluniacense, e poi prete cardinale del titolo di san Clemente, che
assunto il nome di _Pasquale II_, fu ordinato papa nel dì 14 d'agosto,
dopo aver egli fatto gran resistenza, per fuggire così eccelsa dignità.
Secondo la combinazione de' tempi, non potè il buon pontefice Urbano
prima di chiuder gli occhi aver la consolazione di veder il frutto delle
sue apostoliche fatiche, coll'avviso d'essersi impadronita l'armata de'
cristiani crocesegnati della santa città di Gerusalemme, dove fecero un
gran macello di Saraceni. Cioè fu essa dopo pochi giorni d'assedio presa
nel dì 15 di luglio di quest'anno[1354]; ma non potè, dissi, così
importante nuova, che riempì di giubilo tutta la cristianità, ritrovar
vivo esso Urbano. Raunati nella conquistata città i principi cristiani,
dopo otto giorni di comun parere elessero re di Gerusalemme _Gotifredo
di Buglione_ duca di Lorena, il più saggio, il più pio, ed anche il più
valoroso fra essi. Diede egli nel dì 14 del seguente agosto una terribil
rotta all'immenso esercito del soldano d'Egitto presso ad Ascalona, che
veniva per soccorrere Gerusalemme: con che restò mirabilmente coronata
quella campagna. Ma perciocchè moltissimi di que' Franchi, dopo aver
compiuti i lor voti, se ne tornarono appresso in Occidente, restò il
novello re appena con trecento cavalli e due mila fanti: il che fu
cagione ch'egli implorasse i soccorsi del papa e degli altri principi
cristiani. Nè mancò _papa Pasquale_, informato del felice successo
dell'armi cristiane in Oriente, di sollecitare i popoli in aiuto de'
Franchi conquistatori. Sembra a me verisimile che, prima della conquista
di Gerusalemme, i Pisani, i Veneziani e i Genovesi, cadaun popolo colla
sua flotta, si movesse verso quelle parti, quantunque forse vi
arrivassero solamente dopo la presa d'essa città. Negli Annali
Pisani[1355] è scritto, che di quest'anno restò bruciata tutta
_Kinsica_, cioè una parte della città di Pisa, dove, a mio credere,
abitavano i mercatanti mori che venivano a trafficare in quella città.
_Et stolus pisanus in Hierusalem ivit cum navibus centum viginti. De quo
stolo Daibertus ejusdem ecclesiae archiepiscopus fuit ductor et dominus,
qui tunc temporis in Hierusalem patriarcha remansit_. Poscia all'anno
1100 vien quivi raccontata la presa di Gerusalemme _XVIII kalendas
augusti_. Anticipando i Pisani di nove mesi il principio dell'anno
volgare, la presa di Gerusalemme cade molto acconciamente nel dì 15 di
luglio dell'anno presente. Ma, secondo quegli Annali, si era molto prima
incamminata a quella volta l'armata pisana.

Altri Annali poi attribuiscono principalmente ai Pisani la gloria del
conquisto di Gerusalemme: il che non merita credenza, perchè niuno di
tanti autori, o contemporanei o vicini a quella rinomata impresa, vi
parla de' Pisani. Anzi Guglielmo Tirio[1356] attesta che solamente verso
il fine del presente anno arrivò con dei soccorsi _Daimberto
arcivescovo_ di Pisa, e legato della Sede apostolica, il quale fu anche
eletto patriarca di Gerusalemme. Scrive il Dandolo[1357] che i Veneziani
misero insieme uno stuolo di circa dugento legni, dove, sotto il comando
di _Giovanni Michele_ figliuolo del doge, s'imbarcarono tutti i
crociati, e s'inviarono alla volta della Dalmazia, e poscia svernarono a
Rodi. _Alessio imperador_ dei Greci, nemicissimo in segreto della
crociata, si adoperò per farli tornare indietro; ma inutili in ciò
riuscirono le cabale sue. Venne poscia avviso ai Veneziani che i Pisani
con cinquanta galee navigavano contro di loro, gloriandosi di voler
entrare in quel porto. Fra queste due flotte seguì una zuffa, e toccò ai
Pisani di salvarsi colla fuga. Arrivarono poscia i Veneziani alla città
di Mira nella Licia, dove, se loro vogliam credere, trovarono il corpo
di san Niccolò vescovo, e l'inviarono a Venezia, quantunque il popolo di
Bari pretenda che assai prima quel sacro deposito passasse alla loro
città. Scrivono ancora gli storici genovesi, che capitata in questi
tempi la flotta genovese alla stessa città di Mira, ne asportò le ceneri
di san Giovanni Battista. Un grande emporio di sacre reliquie doveva
essere quella città. Lascerò io disputar fra loro questi troppo pii
masnadieri, e seguiterò a dire che la flotta veneta giunse nel porto di
Joppe, città già conquistata insieme con Gerusalemme dai Franchi. Però è
da credere che gli aiuti portati per mare dai popoli italiani
giugnessero colà solamente dappoichè Gerusalemme era caduta in potere
dei collegati oltramontani. Fece l'imperadore _Arrigo IV_ scoppiare in
quest'anno lo sdegno suo contra _Corrado_ suo primogenito, che ribello
al padre avea occupata la corona del regno d'Italia. Raunata in
Aquisgrana una dieta di principi germanici, quivi propose e fece
accettar per suo collega e successore nel regno _Arrigo V,_ suo
secondogenito. Ho io pubblicato[1358] un placito tenuto dalla contessa
Matilde in Firenze _anno dominicae Incarnationis millesimo nonagesimo
nono, VI nonas martii, Indictione VIII_, in cui Guido Guerra, da cui si
crede che discendesse la nobil casa de' conti Guidi, celebre nelle
storie, concedette ai canonici della cattedrale di quella città alcune
terre. Notai quel placito come tenuto nell'anno presente, senza
esaminarne le note cronologiche. Ora mi avveggo appartener esso all'anno
susseguente, indicandolo l'_indizione VIII_. Quivi s'è adoperato l'anno
fiorentino; cioè tuttavia in quella città nel dì 5 di marzo continuava
l'anno 1099, laddove, secondo l'era volgare, nel dì primo di gennaio
avea avuto principio l'anno 1100. Similmente è stata da me
prodotta[1359] una donazione fatta da essa contessa al monistero di san
Salvatore della Fontana di Taone, e scritta _anno ab Incarnatione Domini
millesimo nonagesimo nono, regnante imperatore Henricus, octavo idus
septembris, Indictione sexta_. Se così ha l'originale (il che io non
posso affermare), quest'anno 1099 sarà l'anno pisano, e, secondo noi,
l'anno 1098. Ma il Fiorentini[1360], accennando questo documento, legge
_Indict. VIII_, cominciata nel medesimo mese di settembre, e però
quell'atto è da riferire all'anno presente. Non è certamente lieve
imbroglio nella storia questa diversità degli anni e delle indizioni che
comparisce nelle carte antiche, ed è facile il prendere degli abbagli,
se non si ha molta attenzione ed altri lumi della storia.

NOTE:

[1353] Bertholdus Constantiensis, in Chron.

[1354] Guillelmus Tyr., lib. 8, cap. ult.

[1355] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[1356] Guilelmus Tyr., lib. 3.

[1357] Dandulus, in Chronico, tom. 12 Rer. Ital.

[1358] Antiquit. Italic., Dissert. XLI.

[1359] Antiquit. Ital., Dissert. VIII.

[1360] Fiorentini, Memor. di Matild., lib. 2.



    Anno di CRISTO MC. Indizione VIII.

    PASQUALE II papa 2.
    ARRIGO IV re 45, imperad. 17.
    CORRADO II re d'Italia 8.


Abbiamo da Pandolfo Pisano[1361] che fu fatta calda istanza dal popolo
romano a _papa Pasquale_ perchè venisse cacciato da que' contorni
l'antipapa Guiberto, il quale per tanti anni avea travagliata e tenuta
in guerra la loro città, con esibire a questo effetto buone somme d'oro
e d'argento. Giunsero nello stesso tempo ambasciatori di _Ruggieri
conte_ di Sicilia, che ammessi all'udienza del papa, posero ai di lui
piedi mille oncie d'oro. Animato da questi impulsi ed aiuti il
pontefice, spedì l'esercito contra di Guiberto. Dimorava costui nella
città d'Alba, e sostenne per qualche tempo l'assedio d'essa. Veggendo
poi disperato il caso, ebbe maniera di scampare, e di ritirarsi in un
forte castello; ma quivi all'improvviso la morte il colse, e mancò di
vita ostinato nel suo scisma, pentito più volte d'avere assunto il
titolo di pontefice romano, senza però mai pentirsi daddovero per
riconciliarsi col vero vicario di Cristo, e far penitenza de' suoi
enormi eccessi. Colla morte sua restò liberata la Chiesa di Dio da una
gran peste, da un terribil nemico. Non restò essa nondimeno
immediatamente quieta; imperciocchè i seguaci di esso Guiberto in luogo
di lui elessero papa un certo _Alberto_, che nello stesso giorno fu
dispapato. Laonde passarono all'elezion di un certo _Teodorico_; e
questi per più di tre mesi fece fra' suoi aderenti una ridicola figura
di sommo pontefice. Ma i Romani, o pure i Normanni misero le mani
addosso a que' mostri, e confinarono il primo in san Lorenzo d'Aversa,
l'altro nel monistero della Cava presso Salerno. Saltò su col tempo
anche il terzo, appellato _Maginolfo_, che nel dì 2 di novembre fu da'
suoi parziali promosso al pontificato e prese il nome di Silvestro IV.
Sigeberto nella Cronica sua[1362] secondo l'edizion del Mireo scrive,
che essendosi costui ritirato in una fortezza, _Berto caput et rector
romanae militiae cum expeditione cleri et populi eum inde extraxit, et
ad Warnerum principem Anconae in tiburtinam urbem adduxit_, dove fu
dagli scismatici creato papa, ma per attestato del medesimo scrittore,
costui _non multo post reprobatur a Romanis, et fama nominis ejus
evanuit_. Di ciò riparleremo all'anno 1106. Sicchè neppur dopo la morte
di Guiberto pervenne ad una intera quiete papa Pasquale. Nè si dee
tralasciar senza osservazione che in questi tempi la marca d'Ancona, non
diversa da quella che tempo fa era denominata marca di Camerino o di
Fermo, ubbidiva allora all'imperadore Arrigo IV. Ne era marchese
_Guarnieri_, da cui probabilmente, o da' suoi discendenti che portarono
lo stesso nome, fu quel paese poscia chiamato la _marca di Guarnieri_; e
questi riconosceva per suo signore il suddetto Arrigo, come costa da un
pezzo di lettera da lui scritta al medesimo Augusto presso di Sigeberto.
Che se questo Guarnieri teneva, siccome abbiam veduto, _Tivoli_,
anch'egli dovea recar delle molestie a Roma e al pontefice Pasquale.

Abbiamo dal soprallodato Pandolfo Pisano che il papa, non so se
nell'anno presente, oppure nel susseguente, ricuperò colla forza
dell'armi Città Castellana. Mosse anche guerra a Pietro dalla Colonna
(il primo che s'incontri di questa nobilissima famiglia nelle storie),
perchè aveva occupata la terra di Cavi, spettante alla Chiesa romana.
Tolta fu non solamente ad esso Pietro la terra suddetta, ma eziandio
Colonna e Zagarolo, che erano di suo diritto: il che ci fa intendere che
non cominciava allora la nobiltà di quella casa, ed esserle venuto il
cognome dal dominio della terra di Colonna, che fu poi loro restituita.
Poco potè godere del suo nuovo regno di Gerusalemme, e delle nuove
conquiste da lui fatte, l'inclito e piissimo _re Gotifredo_ di Buglione.
Caduto egli infermo nell'anno presente, passò a miglior vita nel dì 18
di luglio, lasciando dopo di sè una memoria piena di benedizioni[1363].
Accorso a Gerusalemme _Baldovino_ suo fratello, fu con universale
consentimento eletto re, ed anche solennemente coronato nel dì del santo
Natale: funzione da cui s'era astenuto il buon re Gotifredo. Landolfo
juniore[1364], storico milanese, scrive che _Anselmo IV_ arcivescovo di
Milano predicò la crociata per la Lombardia, facendo cantare una canzone
che cominciava _Ultreja_, forse franzese, e probabilmente significante
_Oltre già sono iti i Franchi_, ec. Unì egli con ciò una grossa armata
di Lombardi; e dopo aver creato e lasciato suo vicario in Milano
_Crisolao_ (appellato volgarmente _Grossolano_), che poco prima era
stato eletto e consecrato vescovo di Savona, alla testa di
quell'esercito s'inviò alla volta di Costantinopoli[1365]. Seco andarono
il vescovo di Pavia e Alberto da Biandrate potentissimo Lombardo. Non
per mare da Genova passò questa gente, come si pensò Tristano
Calco[1366], ma bensì per terra, attestandolo l'Abbate Urspergense[1367]
e l'Annalista Sassone[1368] con dire sotto quest'anno: _Ex Langobardis
cum Mediolanensi et Papiensi Episcopis quinquaginta millia ad
Hierosolymitanam profectionem signati, in Bulgariae civitatibus
hyemaverunt_. Rapporta il padre Bacchini[1369] un'insigne donazione
fatta in quest'anno dalla contessa Matilda, mentre era in Guastalla, al
monistero di san Benedetto di Gonzaga, e scritta _anno ab Incarnatione
Domini millesimo centesimo, Indictione decima, kalendis junii_. Ma non
può convenire a quest'anno l'_indizione X_, e dal Fiorentini[1370]
sappiamo che la contessa dimorava in Toscana nel dì 7 di giugno
dell'anno presente. Dimorava anche in Firenze _in palatio domus_ (cioè
del duomo) _sancti Johannis_, dove tenne un placito nel dì 2 di marzo,
da me dato alla luce. Però sembra verisimile che quel documento
appartenga all'anno 1102, in cui veramente Matilda si trovò in
Lombardia. Secondochè scrive Romoaldo Salernitano[1371], in quest'anno
_Ruggieri duca_ di Puglia assediò e prese la città di Canosa, ch'egli
durante l'assedio avea fatto cignere tutta all'intorno con delle reti.
_Boamondo principe_ d'Antiochia suo fratello restò nel presente anno
prigione dei Turchi: il che riuscì di grave danno agl'interessi del
cristianesimo in Oriente.

NOTE:

[1361] Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschal. II, P. I, tom. 3 Rer. Italic.

[1362] Sigebertus, in Chron. edit. Miraei.

[1363] Guillelmus Tyr. Abbas Urspergensis. Fulcherius Carnotens.
Bernardus Thesaur. et alii.

[1364] Landulfus de S. Paulo, Histor. Mediolan., tom. 5 Rer. Ital.

[1365] Orderic. Vitalis. Radulfus Cadomens.

[1366] Tristan. Calchus, Hist. Med.

[1367] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1368] Annalista Saxo.

[1369] Bacchini, Ist. di Poliron. App., pag. 46.

[1370] Fiorentini, Memorie di Matilda, lib. 2.

[1371] Romualdus Salernit., tom. 7 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCI. Indizione IX.

    PASQUALE II papa 3.
    ARRIGO IV re 46, imper. 18.


Funestato fu l'anno presente dalla morte di due illustri principi nello
stesso mese di luglio. L'uno fu _Corrado_ re di Italia, figliuolo di
Arrigo IV, e l'altro _Ruggieri_ conte di Sicilia. Quanto a Corrado, non
si sazia l'Abbate Urspergense[1372] con altri storici di esaltare le di
lui virtù. Niuno gli andava avanti nella pietà, nella mansuetudine,
nella continenza, di maniera che pareva un angelo in carne. Eppure
questo buon principe provò anch'egli poco buona fortuna presso la
contessa Matilda, donna che in questi tempi senza titolo regale faceva
volentieri da regina in Italia. Che disgusti ella desse all'ottimo
giovane Corrado, non si sa; ma gliene diede. Dappoichè Arrigo suo padre
non ebbe più forze in Italia, neppur ella ebbe più bisogno di Corrado. E
non seppe tacer Donizone che è pure il panegirista della contessa,
questa verità, scrivendo[1373]:

    _Infra Conradus longobardos comitatus_
    _Dum staret, discors a Mathildi fuit ipso_
    _Tempore. Duravit modicum discordia talis._
    _Nam petiit partes tuscanas rex. Ibi tamdem_
    _Nobilibus quidam facientibus expulit iram._

Che Matilda non solamente signoreggiasse in Toscana e in parte della
Lombardia, ma stendesse anche la sua autorità in Milano, si può
raccogliere da Landolfo di san Paolo[1374]. Quivi fu eletto arcivescovo
_Matildis comitissae favore_ Landolfo da Badagio; decaduto questo, restò
eletto consecrato Anselmo IV da Baiso, il quale _virgae pastorali per
munus Matildis abhatissae_ (dovrebbe essere _comitissae_) _adhaesit_.
Collo stendere così le fimbre della sua autorità, dovea Matilda
annientar quella del re; forse anche non somministrava quanto occorreva
pel decente suo trattamento. Però forte in collera il real giovane si
ritirò a Firenze, dove sorpreso da maligna febbre, nel luglio di
quest'anno diede fine alla sua vita. Per testimonianza dell'Urspergense
corse qualche voce che così immatura morte fosse provenuta da veleno; e
forse ne fu dai maligni incolpata la medesima contessa Matilda,
scrivendo il soprammentovato Landolfo: _Quum pervenisset Florentiam rex
ipse prudens et sapiens, atque decorus facie (proh dolor!) adolescens,
accepta potione ab Aviano medico Matildis comitissae, vitam finivit_. Le
virtù di Matilda tali furono, che non può cadere sopra di lei un sì nero
sospetto. Per quel che riguarda _Ruggieri_ conte di Sicilia[1375],
anch'egli nel medesimo mese fu rapito dalla morte; principe valoroso e
glorioso al pari di Roberto Guiscardo suo fratello sopra la terra, ma
più di lui religioso, clemente liberale, e specialmente memorabile per
aver liberata la Sicilia dal giogo dei Saraceni, e restituito in essa il
culto del vero Dio colla fondazione di tanti vescovadi, spedali e templi
del Signore. Lasciò dopo di sè due piccioli figliuoli, _Simone_
primogenito, che fu riconosciuto tosto conte di Sicilia e di Calabria, e
_Ruggieri_ nato nell'anno 1097, che divenne col tempo re di Sicilia:
amendue sotto il governo della contessa _Adelaide_ loro madre, donna che
coll'alterigia univa una gran sete del danaro altrui, e però cagione che
in que' principii della sua tutela succedessero non poche sedizioni fra
i sudditi suoi. Non parlo di un terzo figliuolo appellato _Goffredo_,
probabilmente bastardo, perchè forse era premorto al padre.

In quest'anno sul principio d'aprile _Guelfo IV duca_ di Baviera, per
redimer i suoi peccati, imprese il viaggio di terra santa, e si unì con
_Guglielmo duca_ d'Aquitania[1376]. Conducevano seco questi due principi
un'armata di cento sessanta mila crociati. A questa precedeva l'altra
de' Lombardi, che dicemmo incamminata con _Anselmo arcivescovo_ di
Milano, il cui disegno fatto sulle dita, per quanto ne correa la voce,
era di voler conquistare Babilonia, come se quella fosse una bicocca. Ma
tanti castelli in aria andarono ben presto a finire in nulla. Passata
che fu sì gran moltitudine di gente nell'Asia[1377], per tradimento
dell'_imperadore Alessio_, che passava d'intelligenza coi Turchi, parte
per gli stenti e mancanze de' viveri, parte per le sciable e frecce
nemiche, perì quasi tutta. Fra gli altri principi che lasciarono la vita
in sì sfortunata spedizione[1378], uno fu il suddetto arcivescovo di
Milano, ossia che egli morisse in una zuffa co' Turchi, oppure che
ferito fuggisse a Costantinopoli, dove Landolfo da san Paolo scrive che
succedette la sua morte. Salvossi dopo la rovina del suo esercito il
duca Guelfo, e per mezzo ad infiniti travagli ebbe almen la consolazione
di arrivare a Gerusalemme. Soddisfatto ch'ebbe ivi alla sua divozione,
se ne tornava questo principe per mare a casa; ma giunto all'isola di
Pafo, oppure di Cipri, e colto da una mortale infermità, quivi finì di
vivere, e trovò la sua sepoltura o nel presente o nel susseguente anno:
principe glorioso per tante sue militari imprese, e massimamente per
aver piantata in Germania e lasciata quivi in gran potenza una linea di
principi estensi, la qual tuttavia più che mai fiorisce nella insigne
casa di Brunswich, Wolfembuttel e Luneburgo, dominanti anche sul trono
dell'Inghilterra. Restarono di lui due figliuoli maschi, cioè _Guelfo V_
marito della gran contessa Matilda, ma da lei separato, ed _Arrigo_,
appellato per soprannome _il Nero_. Succedette _Guelfo V_ nel ducato
della Baviera, e questi poi si segnalò colle doti della pietà, del
valore e della liberalità, come s'ha dalla Cronica di Weingart. In qual
anno egli terminasse i suoi giorni resta tuttavia allo scuro. Certo è,
che vivente ancora esso Guelfo, _Arrigo_ suo fratello portò il titolo di
_duca_, e ne vedremo una pruova all'anno 1107. Truovasi nel maggio del
presente anno la _contessa Matilda_ in Governolo sul Mantovano[1379],
dove restituisce al monistero di san Benedetto di Polirone l'isola di
Revere con altri beni. Si accinse ella in questi medesimi tempi a
ricuperar la città di Ferrara, che tanti anni prima le si era ribellata;
e fatto un gran preparamento di soldatesche, chiamati anche in aiuto i
Veneziani[1380] e i Ravennati, che vi accorsero per Po con una squadra
di navi, nell'autunno passò all'assedio di quella città.

    _Contra quam gentes numero sine duxit et enses,_
    _Tuscos, Romanos, Longobardos galeatos,_
    _Et Ravennates, quorum sunt maxime naves._
    _Circumstant equidem multae maris atque carinae_
    _A duce praeclaro trasmissae venetiano._

Son versi di Donizone[1381], che soggiugne, avere i Ferraresi alla vista
di tanto sforzo presa la risoluzione di arrendersi: con che senza
spargimento di sangue tornò quella città sotto il dominio della
contessa.

NOTE:

[1372] Abbas Ursperg., in Chron. Annalista Saxo.

[1373] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 13.

[1374] Landulfus junior, Hist. Mediolan. cap. 2.

[1375] Romualdus Salernitanus, in Chron.

[1376] Chron. Weingart. apud Leibnit. Abbas Urspergens., in Chron.

[1377] Radulphus Cadomensis, de gestis Tancredi.

[1378] Landulf. junior, Hist. Mediolan., cap. 2.

[1379] Bacchini, Stor. di Polirone, lib. 3.

[1380] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15
Rer. Ital.

[1381] Donizo, in Vit. Mathildis, lib. 2, cap. 13.



    Anno di CRISTO MCII. Indizione X.

    PASQUALE II papa 4.
    ARRIGO IV re 47, imperad. 19.


Celebrò in quest'anno _papa Pasquale_ un solenne concilio in Roma nella
basilica lateranense[1382], in cui rinnovò la scomunica contra dello
scismatico imperadore _Arrigo IV_, e confermò i decreti de' precedenti
sommi pontefici intorno alla disciplina ecclesiastica. In Germania esso
Arrigo sul principio di quest'anno, o sul fine del precedente, raunati
in una dieta i principi di quelle contrade, trattò con essi di levar lo
scisma, e di restituir la pace alla Chiesa e ai popoli. Fu consigliato
da tutti i saggi di riconoscere il romano pontefice Pasquale, ed egli
anche promise di portarsi a Roma, dove in un concilio si esaminasse
tanto la sua quanto la causa del papa, e ne seguisse concordia. Ma
l'infelice principe non attenne dipoi la parola; anzi si seppe ch'egli
andava tuttavia macchinando di creare un nuovo antipapa: il che non gli
venne fatto per difetto non già di volontà, ma di potere. Aveva papa
Pasquale inviato per suo nunzio e vicario residente presso la contessa
Matilda _Bernardo_ cardinale della santa romana Chiesa, ed abbate di
Vallombrosa, uomo di rara probità e prudenza. Fra gli altri affari che
egli trattò colla contessa, uno de' principali fu l'ottener da essa la
rinnovazion della donazione di tutti i suoi beni alla Chiesa romana. Gli
aveva essa donati alla medesima Chiesa fin sotto papa Gregorio VII, ma
per le gravi turbolenze dipoi insorte s'era smarrito lo strumento della
medesima donazione. Però stando essa Matilda nella rocca di Canossa nel
dì 17 di novembre dell'anno presente confermò e rinnovò[1383], _per
manum Bernardi cardinalis et legati ejusdem romanae Ecclesiae_, la
donazione di tutti i suoi beni, tanto posseduti quanto da possedersi, e
tanto di qua quanto di là da' monti, in favore della Chiesa romana. Lo
strumento tuttavia esistente si legge in fine del poema di Donizone. Era
la medesima contessa in quest'anno nel dì 4 di giugno _in loco, qui
dicitur Mirandula_, e quivi fece un aggiustamento[1384] con _Imelda_
badessa di san Sisto di Piacenza per conto del castello e della corte di
Guastalla. Apparteneva quella nobil terra, oggidì città, al monistero
suddetto di san Sisto fino dai tempi dell'_imperadrice Angilberga_
fondatrice del medesimo. Dovea Matilda averlo occupato, e gliel restituì
nell'anno presente.

Lasciò, come già di sopra accennammo, _Anselmo arcivescovo_ di Milano,
allorchè intraprese il viaggio di terra santa, per suo vicario in quella
città e diocesi _Crisolao_, chiamato _Grossolano_ dal popolo, a cui quel
nome greco dovette parere alquanto straniero. Egli era vescovo di
Savona[1385], uomo assai dotto, sapea predicare al popolo, e
nell'esteriore affettava grande mortificazione, sommo sprezzo del mondo,
usando vesti grosse e plebee, e cibi vili dopo molta astinenza. Un dì
quel prete Liprando, a cui gli scismatici aveano tagliato il naso e gli
orecchi, persona di gran credito non meno nella sua patria che in Roma
stessa, l'esortò a cavarsi di dosso quel sì orrido mantello, e a
prenderne uno più conveniente al suo grado. Gli rispose Grossolano di
non aver danaro. Esibitone a lui in prestito, replicò che egli sprezzava
il mondo, nè volea mutare registro. Allora Liprando gli disse: _In
questa città ogni persona civile usa pelli di vaio, di griso, di
martora, ed altri ornamenti e cibi preziosi. Con questi vostri
grossolani abiti vedendovi i forestieri, ne vien disonore a noi altri_:
il che si dee osservare come una volta fosse in uso e credito in Italia
il vestirsi di preziose pellicce; probabilmente Grossolano era qualche
Calabrese che sapea bene il suo conto, ed anche fu intendente della
greca favella. Intesasi poi la morte dell'arcivescovo Anselmo, si raunò
il clero e popolo di Milano per eleggere il successore. Concorrevano
molti in due Landolfi canonici ordinarii della metropolitana. Grossolano
si oppose per motivo che fossero lontani, perchè erano iti in terra
santa. Allora _Arialdo abbate_ di s. Dionisio con una gran moltitudine
della plebe e de' nobili proclamò arcivescovo il medesimo Grossolano,
che con tutto il suo sprezzo del mondo corse subito a mettersi nella
sedia archiepiscopale. Spedì la parte che non concorreva a tale elezione
i suoi messi a Roma per impedire che non fosse accettato per varii
motivi. Ma ricorsi i fautori di Grossolano a _Bernardo cardinale_ e
vicario del papa in Lombardia, questi ne trattò colla contessa, e fu
risoluto di ammettere la persona di Grossolano, il quale alcuni van
sospettando (non so se con valevole fondamento) che fosse prima, al pari
di Bernardo cardinale, monaco vallombrosano. Però in fretta se n'andò
esso Bernardo a Milano, e portò la stola (cioè il pallio), che fu
ricevuto da Grossolano fra lo strepitoso plauso del popolo. Salito lo
scaltro Grossolano dove egli mirava, allora cominciò ad usar cibi
delicati e vesti preziose. Ma poco passò che Liprando cogli altri gli
mosse guerra, trattandolo da simoniaco, e perciò da pastore illegittimo.
Secondo che si ha dal Catalogo degli abbati di Nonantola[1386], e dal
Sigonio, la suddetta contessa, mentre era nel castello di Panzano,
allora del distretto di Modena, nel dì 15 di novembre, correndo
l'_indizione XI_, donò al monistero di Nonantola sul Modonese, con
licenza di Bernardo cardinale e vicario generale del papa in Lombardia,
Castel Tealdo posto in Ferrara colla chiesa di san Giovanni Batista. E
ciò in remissione de' suoi peccati, e in ricompensa del tesoro di quel
monistero, di cui s'era essa servita ne' bisogni delle passate guerre.
Fu questo l'ultimo anno della vita di _Vitale Michele_ doge di
Venezia[1387]. Ebbe per successore _Ordelafo Faledro_.

NOTE:

[1382] Labbe, Concil., tom. 10.

[1383] In Append. ad Donizonem, in Vit. Mathildis.

[1384] Antiquit. Italic., Dissert. LXXI.

[1385] Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 4.

[1386] Catalogus Abbat. Nonantul. Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.

[1387] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCIII. Indizione XI.

    PASQUALE II papa 5.
    ARRIGO IV re 48, imper. 20.


Avea celebrato _Arrigo IV_ Augusto la festa del santo Natale in
Magonza[1388], e pubblicamente fatto sapere ai principi e al popolo
ch'egli avea intenzione di lasciare il governo del regno ad _Arrigo V_
re suo figliuolo, e di voler in persona andare al santo Sepolcro. Questa
voce gli guadagnò l'affetto universale de' Tedeschi sì ecclesiastici che
laici, e moltissimi si disposero ad accompagnarlo in quel viaggio. Ma il
tempo fece vedere ch'egli non dovea aver parlato di cuore, perchè nulla
effettuò di quanto avea promesso. Certo è che all'anno presente si dee
riferire uno strepitoso avvenimento della città di Milano, diffusamente
narrato da Landolfo iuniore[1389], storico di quella città e di questi
tempi. Era già stato creato arcivescovo _Crisolao_ ossia _Grossolano_.
Il soprammentovato prete Liprando continuò a sostenere ch'egli
simoniacamente era entrato in quella chiesa, e si esibì di provarlo col
giudizio del fuoco, che quantunque non mai approvato dalla Chiesa, pure
in questi secoli sconcertati non mancava di fautori. Fece istanza
Grossolano che Liprando desse le pruove di tale accusa; ma non apparisce
che il prete ne producesse alcuna: il che fa conoscere l'irregolarità
del suo procedere. Venne egli in fine alla pruova dal fuoco; ed alzata
nella piazza di santo Ambrosio una gran catasta di legna, lunga dieci
braccia, ed alta e larga quattro braccia più dell'ordinaria statura
degli uomini, allorchè essa fu ben accesa, Liprando vi passò per mezzo,
e ne uscì salvo, senza che nulla si bruciasse neppur delle vesti
sacerdotali ch'egli portò in quella congiuntura, con acclamazione di
tutti gli spettatori. Veggendosi Grossolano come vinto, giudicò bene di
ritirarsi e di andarsene a Roma, dove fu graziosamente accolto da _papa
Pasquale_. La risoluzion di Liprando era già stata disapprovata da
alcuni vescovi suffraganei di Grossolano, che si trovavano allora in
Milano; molto più dispiacque alla saggia corte di Roma, che sempre
riprovò i giudizii di Dio non canonici, siccome invenzioni umane da
tentar Dio. E perciocchè si trovò che essendo restato il prete Liprando
leso in una mano e in un piede nella pruova suddetta, benchè si
attribuisse ciò ad altre cagioni, pure fu messa in dubbio nella stessa
città di Milano la pruova da lui fatta, e ne succedette del tumulto
colla morte di molti. Trovossi nel dì 19 di novembre la _contessa
Matilda in palatio florentino_[1390], dove concedette un privilegio ai
monaci di Vallombrosa. Circa questi tempi _Adelaide_ vedova di Ruggieri
conte di Sicilia, e tutrice di _Simone_ suo figliuolo, veggendo
sprezzato da' Siciliani il suo governo[1391], pensò a fortificarlo col
chiamare colà dalla Borgogna _Roberto_, principe non men valoroso che
prudente, a cui diede in moglie una sua figliuola. Il dichiarò poscia
tutore del figliuolo e governatore dell'isola: il che servì a tenere in
briglia le teste calde di quelle contrade.

NOTE:

[1388] Abbas Urspergens., in Chron. Otto Frisingens., Hist., lib. 7,
cap. 8.

[1389] Landulfus S. Paulo, Hist. Mediolan., cap. 9 et seq. tom. 5 Rer.
Ital.

[1390] Mabill., Annal. Benedictin. ad hunc ann.

[1391] Orderic. Vitalis, Hist. Eccles., lib. 13.



    Anno di CRISTO MCIV. Indizione XII.

    PASQUALE II papa 6.
    ARRIGO IV re 49, imper. 21.


Secondochè osservò il padre Pagi[1392], abbiamo dalla Cronica di un
anonimo di Treveri[1393] che nel marzo del presente anno _papa Pasquale
II_ celebrò in Roma un gran concilio, di cui niun'altra menzione si
trova presso gli antichi scrittori. Ma forse non è sicura quella
notizia, e si dee riferire all'anno seguente. Solennizzò l'imperadore
_Arrigo_ la festa del santo Natale in Magonza[1394], ed allora fu che
_Arrigo V_ re, suo figliuolo all'improvviso si ritirò da lui e diede
principio alla ribellione contra del padre, che uno o due anni prima lo
avea promosso al grado di re. _Dieboldo_ marchese, _Berengario_ conte ed
altri furono i consiglieri di tanta iniquità, _sub specie religionis_,
come scrive Ottone da Frisinga[1395]. Han preteso alcuni che egli fosse
a ciò mosso da una lettera di papa Pasquale, accennata da un antico
storico[1396], in cui era esortato a soccorrere la Chiesa di Dio. Ma non
vuol già dir questo che il pontefice l'esortasse anche a ribellarsi
contra del padre, e a prendere l'armi contra di lui. Senza questo nero
attentato poteva egli cooperare alla retta intenzione del pontefice
romano. Può nondimeno essere che di questo pretesto si valessero i
nemici di Arrigo per rivoltare contra di lui il figliuolo. Scrive
l'Annalista Sassone[1397] che il giovane Arrigo spedì immantinente dopo
il Natale a Roma i suoi legati ad abiurare lo scisma, e a chiedere
consiglio al papa intorno al giuramento da lui prestato al padre di non
mai invadere il regno senza licenza d'esso suo genitore. Il papa gli
mandò la benedizione ed assoluzione, purchè egli volesse operare da re
giusto, ed essere buon figliuolo della Chiesa; il che bastò
all'ambizioso giovane per dare di piglio all'armi contra del padre.
Tacendo nondimeno l'Urspergense e l'autore della Vita d'Arrigo IV presso
l'Urstisio ed altri questa particolarità, si può dubitar della verità,
benchè da essa neppur risulti l'approvazione di quel che succedette
dipoi. Avvenne in quest'anno uno scandaloso sconcerto in Parma, riferito
da Donizone[1398]. Portossi _Bernardo cardinale_ e vicario del papa in
Lombardia a quella città per la festa dell'Assunzione della Vergine, e
cantò la messa nella cattedrale. Dopo il vangelo predicò al popolo; ma
perchè volle entrare a parlar con grave disprezzo di Arrigo IV, come
principe scomunicato, trovandosi in quella udienza moltissimi tuttavia
ben affetti al medesimo Augusto, s'irritarono talmente, che dopo la
predica, messa mano alle spade, corsero all'altare, e s'avventarono al
cardinale, il condussero prigione, e svaligiarono tutta la di lui
cappella, cioè tutti i di lui paramenti per la messa. Fu portata questa
disgustosa nuova alla _contessa Matilda_, che si trovava allora nel
territorio di Modena. Raunò ella incontanente quelle milizie che potè, e
passati appena tre giorni dopo quella brutta scena, marciò alla volta di
Parma. Non aspettarono que' cittadini intimoriti ch'essa arrivasse, e
consegnarono ai vassalli nobili della medesima il cardinale, colla
restituzione ancora di tutti i suoi sacri arredi. Altro male non fece la
contessa ai Parmigiani, perchè il piissimo cardinale perorò in loro
favore. In quest'anno, secondochè abbiamo da Tolomeo da Lucca[1399],
cominciò nell'agosto la guerra fra i Pisani e Lucchesi, e ne seguì una
battaglia, in cui i Pisani ebbero la peggio. Presero i Lucchesi il
castello di Librafatta, e ne condussero prigioni i castellani alla loro
città. Dalle carte riferite dal padre Bacchini[1400] si scorge che la
soprallodata contessa Matilda sul fine d'aprile, trovandosi in Nogara
sul Veronese, confermò ad _Alberico abbate_ del monistero di san
Benedetto di Polirone varii beni. Parimente la medesima, mentre era a
Coscogno, villa delle montagne di Modena, nel dì 15 di settembre, donò
allo stesso monistero la metà dell'isola di Gorgo con altri beni. A tali
donazioni intervenne sempre il consenso del suddetto cardinale Bernardo
vicario del papa, trattandosi di disporre di beni donati alla Chiesa
romana. Vedesi sotto quest'anno la vendita della corte firminiana, fatta
da _Ottone_ eletto arcivescovo di Ravenna a _Landolfo_ vescovo di
Ferrara[1401]. Per quanto s'ha dal Rossi[1402], questi dopo la morte
dell'antipapa Guiberto fu intruso nella sedia archiepiscopale di
Ravenna, e da questo atto si raccoglie ch'egli non avea trovato per
anche chi avesse voluto consecrarlo.

NOTE:

[1392] Pagius, in Crit. Baron.

[1393] Anonymus Trevirensis apud Dachery, in Spicileg.

[1394] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1395] Otto Frisingens., Hist., lib. 7, cap. 8.

[1396] Hermann. Tornac., apud Dachery, in Spicileg.

[1397] Annalista Saxo.

[1398] Donizo, in Vita Mathild., lib. 2, cap. 14.

[1399] Ptolom. Lucensis, in Annalibus brevib.

[1400] Bacchini, Istor. di Polirone, nell'Append.

[1401] Antiquit. Italic., Dissert. XXVIII.

[1402] Rubeus, Hist. Ravenn.



    Anno di CRISTO MCV. Indizione XIII.

    PASQUALE II papa 7.
    ARRIGO IV re 50, imperad. 22.


Fece il pontefice _Pasquale_ atterrar le case della nobil famiglia de'
Corsi in Roma, forse perchè ridotte dianzi in forma di fortezza[1403].
Stefano nobil romano, capo di quella casa, se l'ebbe tanto a male, che
uscito di Roma, si fece forte nella basilica di san Paolo e nel castello
che in questi tempi abbracciava essa basilica. Concorrevano a lui tutti
gli sgherri e masnadieri, co' quali poi infestava non solo i contorni di
Roma, ma la città medesima. Destramente procurò la corte pontificia
intelligenza in esso castello, e di ricavare in cera la forma delle
chiavi di quel forte luogo. Formatene poi delle nuove, coll'aiuto d'esse
una notte furono introdotte le milizie pontificie, che dopo una vigorosa
battaglia s'impadronirono della terra, con essere fuggito Stefano
travestito da monaco. Siccome osserva il padre Pagi[1404] coll'autorità
di Eadmero[1405], fu celebrato in quest'anno dal pontefice Pasquale II
un concilio nella basilica lateranense. Fra le altre materie che vi si
trattarono, abbiamo da Landolfo iuniore[1406] che fu quivi agitata la
causa di _Grossolano_ arcivescovo di Milano, il quale per la sua
dottrina, spezialmente dimostrata in confutare lo scisma de' Greci s'era
acquistato non poco onore alla corte pontificia. V'era in confronto di
lui il prete Liprando, che non dovette poter provare l'imputazione a lui
data di simoniaco. Però, dopo aver Grossolano giurato di non aver
forzato Liprando alla pruova del fuoco, riprovata dai Padri di quel
concilio, fu assolto e restituito nella sua dignità. Gli cadde in quella
occasione di mano il pastorale: sul quale accidente la buona gente
d'allora formò varii lunarii. Ma non per questo potè egli entrare in
possesso della cattedra sua, nè di castello alcuno spettante al suo
arcivescovato: tanta fu la possanza della parte contraria in Milano.
Verso il fine dell'anno presente passò papa Pasquale in Toscana[1407];
nè so io ben dire se fu allora, oppure nell'anno susseguente, ch'egli
tenne un concilio in Firenze, a motivo che il vescovo di quella città,
uomo visionario, sosteneva ch'era già nato l'anticristo. Probabilmente i
tremuoti, le inondazioni ed altri sconcerti di questi tempi fecero
cadere il buon prelato in questa immaginazione, la quale in varii altri
tempi si truova insorta nelle menti delle persone pie e paurose. Si
disputò non poco di questo; ma pel gran concorso della gente curiosa,
che a cagione della novità fece un grave tumulto, convenne interrompere
il concilio e lasciar la quistione indecisa. La decise poi il tempo, e
fece conoscere la semplicità del prelato. Per le memorie accennate dal
Fiorentini, si vede[1408] che la _contessa Matilda_ si trovò in Toscana
in questi medesimi tempi, senza fallo per fare buon trattamento al papa
ito colà, il quale, stando in Lucca nel mese di dicembre, confermò i
privilegii ai canonici regolari di san Frediano; ed innamoratosi della
loro riforma, che era allora in gran credito, la volle introdotta nei
canonici della basilica lateranense. Tornossene dipoi il pontefice a
Roma. Tenne un placito la suddetta contessa in quest'anno nel dì 25
d'ottobre[1409] in non so qual luogo di Toscana, dove accordò la sua
protezione ai canonici di Volterra. Possedeva in Lombardia l'insigne
monistero di Monte Casino alcuni beni ad esso lasciati da Giordano da
Cuvriago; e trovandosi la soprallodata Matilda sul Modonese in san
Cesario nel dì 22 di giugno, Giorgio prete e monaco di quel monistero
impetrò da lei il possesso e dominio di quegli stabili.

Dappoichè il giovane _Arrigo V_ re ebbe tirato nel suo partito _Guelfo
V_ ed _Arrigo il Nero_ duca di Baviera, e i Sassoni ed altri principi,
sentendosi assai forte, cominciò la guerra contra dell'_imperadore
Arrigo_ suo padre[1410]. Belle erano le sue proteste, cioè di non aver
altra intenzione, se non d'indurre il padre a riconciliarsi colla
Chiesa; ma sotto questo pretesto egli era dietro a promuovere
gl'interessi proprii colla depressione di chi gli avea dato e vita e
regno. _Corrado_ suo fratello abbiam veduto che occupò il regno
d'Italia; niuno nondimeno scrive ch'egli portasse l'armi contra del
padre. Ma non così operò Arrigo V. Dopo varii fatti, ch'io tralascio,
marciò egli colla sua armata sino al fiume Regen, che sbocca nel Danubio
vicino a Ratisbona. Dall'altra parte d'esso fiume s'accampò
coll'esercito suo l'Augusto Arrigo suo padre, ed erano per venire ad un
fatto d'armi. Non si potè qui trattenere Ottone vescovo di Frisinga,
storico gravissimo, dal prorompere in sensate esclamazioni contra di un
figliuolo tale, la cui risoluzione non si può certo leggere senza
orrore, perchè presa contro le leggi della natura, ed anche della
religion cristiana: perciocchè fuor di dubbio è che la santa religione
di Cristo non approvò mai nè approva cotale inumanità. Ebbe maniera il
giovane Arrigo di tirar dalla sua con promesse e lusinghe il duca di
Boemia ed altri signori, dimodochè il vecchio Arrigo IV fu forzato a
fuggirsene segretamente. Seguì poscia un abboccamento in Elbinga il dì
15 di dicembre fra amendue, e fu determinato di tenere una dieta
universale del regno a Magonza per la festa del santo Natale. Ciò che ne
risultasse, lo accennerò all'anno venturo. Intorno a questi fatti si
truova non lieve discrepanza fra gli antichi scrittori, parlandone
cadauno secondo le proprie passioni e fazioni. All'anno presente, oppure
allo antecedente appartiene un curioso placito, a noi conservato da
Gregorio monaco, autore della Cronica di Farfa[1411]. Disputossi in Roma
intorno ad un castello occupato ai monaci da alcuni nobili romani.
Allegarono questi ultimi in lor favore il privilegio di Costantino
Magno, per cui appariva che quel grande imperadore avea donato alla
Chiesa romana tutta l'Italia e tutti i regni d'Occidente. Prese
all'incontro l'avvocato dei monaci a mostrare che era falso, o non si
doveva intendere così quel privilegio, facendo costare che anche dopo
Costantino gli Augusti aveano signoreggiato in Roma e in tutta l'Italia.
Però anche tanti secoli prima di Lorenzo Valla la donazion costantiniana
si vede impugnata, con essere poi giunta in questi ultimi tempi ad
essere anche negli stessi sette Colli riguardata qual solenne impostura
de' secoli ignoranti oppur maliziosi. Secondo le memorie recate dal
Fiorentini[1412], continuò ancora in quest'anno la guerra fra i Pisani e
i Lucchesi, e i primi per due volte restarono sconfitti. Come queste
guerre succedessero fra i popoli della Toscana, non si sa ben intendere,
perchè era pur quella provincia sotto il dominio della _contessa
Matilda_, e strano sembra ch'ella o permettesse tali sconcerti, o non
avesse forza o maniera di calmar sifatte sanguinose gare.

NOTE:

[1403] Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschalis II, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[1404] Pagius, Crit. ad Annal. Baron.

[1405] Eadmerus, in Vit. S. Anselmi lib. 4.

[1406] Landulfus de S. Paulo, Hist. Mediolanens., tom. 5 Rer. Ital.

[1407] Landulfus, de S. Paulo, Hist. Mediol., tom. 5 Rer. Ital.

[1408] Fiorentini, Memor. di Matild., lib. 2.

[1409] Antiquit. Italic., Dissert. XVII.

[1410] Abbas Urspergensis. Otto Frisingensis, cap. 8. Annalista Saxo.

[1411] Chron. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital., pag. 637.

[1412] Fiorentini, Memor. di Matild. lib. 2.



    Anno di CRISTO MCVI. Indizione XIV.

    PASQUALE II papa 8.
    ARRIGO V re di Germania e d'Italia 1.


Un'insigne raunanza di vescovi, abbati, principi, baroni e popoli del
regno germanico s'era fatta in Magonza[1413] nel Natale dell'anno
precedente, per trattare di concordia fra i due Arrighi padre e
figliuolo, e fra gli scismatici e la Chiesa romana. Dovea, dico,
intervenirvi il vecchio Arrigo, ma dal figliuolo era trattenuto come
prigioniere in un castello. Fece egli istanza per la libertà; ma i
principi temendo che il popolo, avvezzo a favorir più lui che il
figliuolo, non tumultuasse, ed anche perchè _Riccardo_ vescovo di Albano
e _Gebeardo_ vescovo di Costanza, legati apostolici, giunti a quella
dieta, aveano confermata la scomunica contra di esso imperadore, non
permisero ch'egli venisse a Magonza. Gli andarono essi incontro ad
Ingheleim, e tanto gli dissero colle buone e colle brusche, che
l'indussero a rinunziare al figliuolo la croce, la lancia, lo scettro e
gli altri ornamenti imperiali, ma non già la spada e la corona. Non
manca chi scrive essergli state tolte per forza queste divise della sua
dignità; scrivono altri che spontaneamente le rassegnò. Si riconobbe
Arrigo colpevole dello scisma, e de' mali avvenuti per tal cagione, e
pentito ne dimandò l'assoluzione al legato apostolico, il quale giudicò
di non aver facoltà bastante per rimetterlo in grazia della Chiesa.
Gittossi anche a' piedi del figliuolo[1414], ricordandogli il diritto
della natura; ma questi neppure voltò gli occhi verso di lui. Portate a
Magonza le insegne regali, fu confermato re il giovane _Arrigo V_, e
spedita una solenne ambasceria di alcuni vescovi e baroni a Roma per
comporre tutte le vecchie differenze, ed invitare in Germania il romano
pontefice. Ma questi ambasciatori, nel passare pel Trentino, furono
assaliti da un certo Adalberto conte[1415], svaligiati e cacciati in
prigione, a riserva di _Gebeardo vescovo_ di Costanza, che tenne altro
cammino, e fatto scortare dalla _contessa Matilda_, felicemente arrivò a
Roma. Di questa iniquità avvisato _Guelfo V_ duca di Baviera, corse
colle sue genti, e sforzate le chiuse, obbligò essi malandrini a
rimettere in libertà que' prelati e signori. Intanto il deposto
imperadore Arrigo si ritirò a Colonia e a Liegi, dove fu con qualche
onore accolto, e di là scrisse lettere compassionevoli a tutti i re
cristiani, lagnandosi de' trattamenti a lui fatti dal barbaro figliuolo,
e della violenza usatagli per detronizzarlo. Una specialmente se ne vede
al re di Francia, che non si può leggere senza ribrezzo. Trovati anche
non pochi favorevoli al suo partito, e specialmente _Arrigo duca_ di
Lorena, ripigliò il pensiero di far guerra. Ma prevalendo le forze del
figliuolo, e trovandosi egli ridotto in istato miserabile, pel
crepacuore infermatosi in Liegi, quivi terminò i suoi giorni nel dì 7
d'agosto per comparire al tribunale di Dio a rendere conto di tanti suoi
vizii, di sì lunga vessazione data alla Chiesa, e del tanto sangue
cristiano sparso pe' suoi capricci e per la ostinazion nello scisma. A
lui eziandio si dee attribuire una gran mutazione seguita per sua
cagione non meno in Italia che in Germania. Certo è che il regno della
Borgogna, unito dall'imperador Corrado I alla corona germanica, patì
molte mutazioni duranti le soprarriferite turbolenze. E da questo
parimente procedette l'essersi buona parte delle città di Lombardia
messa in libertà con formar delle repubbliche, senza più voler ministri
del re ossia dell'imperadore al loro governo: del che parleremo andando
innanzi. Era stato portato a Ravenna il cadavero dell'antipapa Guiberto,
e quivi seppellito. Dovette dipoi Ravenna rimettersi in grazia della
Chiesa romana; e però in quest'anno andò ordine colà da _papa Pasquale_
che fosse disotterrato il suo corpo, e gittate l'ossa nel fiume[1416].
Non mancavano persone vane, oppur ben affette alla di lui memoria, che
spacciavano come vedute al suo sepolcro delle risplendenti facelle in
tempo di notte: il che aggiunto ad esser egli morto scomunicato, diede
impulso alla suddetta risoluzione. Aggiungo, affinchè si conosca meglio
la cabala e malignità, ed anche la ignoranza di questi tempi, che furono
divolgati varii miracoli, come succeduti al sepolcro di questo
sovvertitore della Chiesa di Dio. Fra le lettere a noi conservate da
Udalrico di Bamberga, e pubblicate dall'Eccardo[1417], una se ne legge,
scritta dal vescovo di Poitiers all'imperadore Arrigo, dove tratta _de
plurimis miraculis, quae divina clementia per merita felicis memoriae
domni nostri Clementis papae ad ejus sepulcrum est operata, a Johanne
castellano episcopo transmissa_. Ma probabilmente sarà venuta non da uno
di quei vescovi, ma da qualche impostore quella serie di miracoli, per
dar pascolo alla gente corriva. Fu anche data sepoltura in Liegi al
corpo del morto imperadore Arrigo, ma da lì a poco per decreto de'
vescovi cattolici tolto fu di chiesa, e deposto in luogo non sacro.

Dopo essere stato circa il mese di febbraio a Benevento il pontefice
Pasquale II[1418], si mise in viaggio alla volta della Lombardia, ed
intimò un concilio da tenersi nella nobil terra di Guastalla verso il
fine d'ottobre. Un gran concorso di vescovi, abbati e cherici,
massimamente di Germania e d'Italia, e l'ambasceria del novello re di
Germania _Arrigo V_ rendè celebre quella sacra assemblea, a cui diede
principio nel dì 22 del suddetto mese[1419]. Fra gli altri decreti, per
umiliare la Chiesa di Ravenna, furono sottratte dalla suggezione di
quell'arcivescovo la chiese di _Bologna, Modena, Reggio, Parma_ e
_Piacenza_, e non già di _Mantova_, come ha il testo del cardinal
Baronio, in vece di _Modena_. Furono ivi riprovate di nuovo le
investiture date da' principi secolari agli ecclesiastici; formati varii
decreti intorno al riconciliare alla Chiesa gli scomunicati; e deposti
alcuni vescovi simoniaci, oppure ordinati nello scisma. Colà si
presentarono i legati de' Parmigiani, che già aveano rinunciato allo
scisma, con chiedere per lor vescovo quel medesimo cardinale _Bernardo_,
che due anni prima essi aveano così maltrattato. Aggiunsero preghiere,
acciocchè il papa volesse portarsi a consecrare la lor cattedrale; al
che egli acconsentì; ed ito colà con gran solennità, consolò quel
popolo, e diede loro per vescovo il cardinale suddetto. Anche il popolo
di Modena, concorde con Dodone vescovo zelantissimo di questa città,
avea nell'anno precedente cominciata una nuova cattedrale, giacchè la
vecchia minacciava rovina. Non era per anche terminata questa gran
fabbrica, in cui fu impiegata una prodigiosa quantità di marmi[1420],
quando l'impaziente popolo desiderò che si trasferisse colà il corpo del
santo lor vescovo e protettore Geminiano. A tal funzione e festa, che
seguì nel dì 30 d'aprile, intervennero tutti i vescovi circonvicini ed
immenso popolo, accorso da varie città, colla stessa _contessa Matilda._
Nata poi disputa se si dovesse o no aprire l'arca del santo, fu rimessa
la decisione alla medesima contessa, la quale consigliò che s'aspettasse
la venuta in Lombardia del sommo pontefice, già disposto a far questo
viaggio nell'anno presente. Infatti arrivò egli a Modena nel dì 8 di
ottobre, predicò al popolo, diede indulgenze, fece aprir l'arca di san
Geminiano; e trovato intero il sacro suo corpo, e mostrato al popolo,
svegliò una mirabil divozione negl'innumerabili spettatori. Dopo avere
papa Pasquale II consecrato l'altare nuovo del santo, accompagnato dalla
contessa Matilda, e da una gran frotta di cardinali, vescovi, abbati e
cherici, s'inviò alla volta di Guastalla, dove, siccome abbiam detto,
tenne un riguardevol concilio. Da Parma passò dipoi il papa a Verona con
disegno di continuare il viaggio verso la Germania, dove era
inviato[1421]. Ma insorto in quella città un tumulto contra di lui, ed
avvertito egli che il nuovo re Arrigo V, siccome giunto a non aver più
bisogno del papa, parea poco disposto a rinunziare le investiture degli
ecclesiastici, giudicò meglio di passare per la Savoia in Francia, dove
in effetto celebrò il santo Natale nel monistero di Clugnì. Finì di
vivere in quest'anno, senza lasciar dopo di sè figliuoli maschi,
_Riccardo II_ principe di Capoa, ed ebbe per suo successore _Roberto I_
suo fratello minore. Truovasi poi la contessa Matilda sul principio di
quest'anno in Quistello[1422], oggidì villa del Mantovano di qua dal Po,
dove fece giustizia a Giovanni abbate di san Salvatore di Pavia, che si
querelò per le violenze usate dagli uomini di Revere, sudditi d'essa
contessa, alla terra di Melara, sottoposta a quel monistero. Era già
uscito dalle mani de' Turchi _Boamondo principe_ d'Antiochia, dopo aver
comperata la libertà con promesse di una gran somma di danaro. Non
sapendo egli dove trovar tanto oro, venne in Italia[1423], e passò in
Francia nel marzo dell'anno presente, dove non solamente collo scorrere
per varie città di quelle contrade commosse moltissimi a prendere la
croce per accompagnarlo nel suo ritorno in Oriente, ma anche prese in
moglie _Costanza_ figliuola di Filippo re di Francia, e conchiuse le
nozze di _Cecilia_ figliuola naturale di esso re con _Tancredi_ suo
cugino, ch'egli avea lasciato governatore di Antiochia.

Di sopra abbiam veduto che in questi tempi _ Guarnieri_ governava la
marca d'Ancona. Si vede nella Cronica farfense[1424] un ricorso a lui
fatto probabilmente nell'anno presente dai monaci di Farfa contra di
alcuni occupatori de' beni di quell'insigne monistero; siccome ancora la
lettera da esso Guarnieri scritta in loro favore, comandando
_auctoritate domni imperatoris praesentis serenissimi Henrici_, che
fosse rispettato quel sacro luogo. Di qui, torno a dirlo, si ricava che
Guarnieri reggea quella marca a nome dell'imperadore, benchè la Chiesa
romana la pretendesse come Stato di sua ragione. E perciocchè egli
s'intitola ed è intitolato _Guarnerius Dei gratia dux et marchio_, se ne
può inferire che non la sola marca d'Ancona, ma anche il ducato di
Spoleti fossero a lui sottoposti. Dicemmo di sopra, essere stato questo
Guarnieri quegli che promosse al pontificato romano, cioè creò antipapa
_Maginolfo_ col nome di Silvestro III. Ciò succedette nell'anno
presente, prima che il papa venisse in Lombardia, per attestato
dell'Urspergense[1425], di cui sono le seguenti parole: _Wernherus
quidam ex ordine ministerialium regis, qui marchae, quae in partibus
Aquinae_ (dee dire Anconae) _praeerat, quasi haeresim eamdem
resuscitaturus, collectis undecumque per Italiam copiis, corruptis
quoque multa pecunia Romanis nonnullis, dum domnus apostolicus
beneventanis immoratur finibus, quemdam pseudo abbatem de Farfara_ (vuol
dire _Farfa_, ma senza che si sappia che in questi tempi vi fosse un
tale abbate in quel monistero. Forse ne fu monaco) _proh nefas!
Cathedrae sancti Petri imposuit, et ipsum papam Caesaris sub vocabulo
Sylvestri appellari voluit. Qui tamen post paululum turpiter, ut
merebatur, a Catholicis eliminatus, vesaniae suae praemium male
conquisiti, pejusque dispersi aeris retulit_. Nella Cronica di
Fossanova[1426] si mette questo fatto sotto l'anno precedente.
_Marchion_ (dice quell'autore in vece di marchio, cioè Guarnieri) _venit
Romam consentientibus quibusdam Romanis, et elegit Adinulfum_ (tale
probabilmente fu il suo nome) _in Lapam_ (cioè _in papam_) _Silvestrum
ad sanctam Mariam Rotundam infra octava sancti Martini; sed sine effectu
reversus est_. Udalrico da Bamberga fra le lettere da lui raccolte, e
date alla luce dall'Eccardo[1427], ne porta una scritta in quest'anno da
papa _Pasquale II_ a tutti i fedeli della Francia coll'avviso, che
mentre esso pontefice stava nel portico di san Pietro fuori di Roma in
occasione della dedicazione della basilica vaticana, _venit quidam
Wernerius, regni teutonici famulus, in romanae urbis vicina_; e che
questi s'era unito con varii ribelli della Chiesa romana, abitanti fuori
ed entro di Roma. _Talibus sociis presbyter quidam romanae urbis advena
se conjunxit, de quo vel ubi, vel hactenus ordinatus sit, ignoramus.
Hanc personam egregiam, nigromanticis, ut dicitur, praestigiis plenam,
quum fideles nostri, occasione treguae Dei ab armis omnino desisterent,
in lateranensem ecclesiam induxerunt, et congregatis Wibertinae fecis
reliquiis, et episcopi nomen perniciosissime indiderunt_. Soggiugne:
_Quum vero intra urbem die altero rediissemus, monstrum illud turpiter
ex urbe profugiens, quo transierit ignoramus_. Adunque costui non era
abbate di Farfa. Abbiamo ancora dal Dandolo[1428] che in quest'anno in
poco più di due mesi accaddero in Venezia due furiosissimi incendii che
distrussero molte contrade di quella nobil città, perchè di materia
combustibile era fabbricata la maggior parte di quelle case. Si
aggiunse, che la città di Malamocco fu affatto ingoiata dal mare, laonde
il suo vescovato venne dipoi trasportato a Chioggia.

NOTE:

[1413] Abbas Urspergensis, in Chron. Otto Frisingensis, Hist., lib. 7,
cap. 11.

[1414] Anonymus, in Vit. Henrici IV.

[1415] Abbas Urspergens. Annalista Saxo.

[1416] Abbas Urspergensis, in Chron. Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschal.
II.

[1417] Eccard., Scriptor. med. aevi, tom. 2, pag. 194.

[1418] Falco Benevent., in Chronico.

[1419] Labbe, Concilior., tom. 10.

[1420] Transl. S. Geminiani, tom. 6 Rer. Ital.

[1421] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1422] Antiquit. Italic., Dissert. LXV.

[1423] Suger., in Vit. Ludovic., cap. 6, apud Du-Chesne.

[1424] Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1425] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1426] Chron. Fossae Novae, apud Ughell.

[1427] Eccard., Scriptor. med. aevi, tom. 2, p. 258.

[1428] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCVII. Indizione XV.

    PASQUALE II papa 9.
    ARRIGO V re di Germania e d'Italia 2.


Varii viaggi ed azioni di _papa Pasquale_ in Francia in quest'anno si
possono leggere nella Vita di Lodovico il Grosso scritta da Sugerio
abbate[1429]. Anche il padre Pagi[1430] ne fa menzione. Io tutto
tralascio, bastandomi di accennare che il re _Arrigo V_ spedì una
solenne ambasciata in Francia per trattare con esso papa dell'affare
delle investiture, perciocchè egli, al pari del padre, volea sostenerle
contro i decreti di Roma. Il capo degli ambasciatori era _Guelfo V_ duca
di Baviera, uomo corpolento, e che usava un tuono alto di voce. Parevano
essi andati più per intimidire il papa, che per trattare amichevolmente
di concordia. E niuna concordia infatti ne seguì, ma solamente delle
minaccie. Che il pontefice ritornasse in questo medesimo anno in Italia,
si raccoglie da una sua bolla[1431] data _Mutinae kalendis septembris,
Indictione I Incarnationis dominicae anno MCVII, pontificatus autem
domni Paschalis II papae nono_. Era in Fiesole nel dì 18 di settembre.
In quest'anno la _contessa Matilda_ nel dì 10 di febbraio trovandosi nel
contado di Volterra, tenne un placito, in cui fece un decreto in favore
de' canonici di Volterra. Apparisce ancora da due memorie prodotte dal
Fiorentini[1432] che la medesima contessa nel mese di giugno mise
l'assedio alla terra di Prato in Toscana, che s'era ribellata a lei,
oppure a' Fiorentini. Arrivato in Toscana il suddetto papa Pasquale,
ricevette dalla medesima contessa un trattamento convenevole alla
dignità dell'uno, e alla somma venerazion dell'altra verso i vicarii di
Gesù Cristo. Fecene menzione anche Donizone, ma senza dire ch'ella seco
andasse a Roma, come alcuno ha supposto, in quei versi[1433]:

    _Illic post annum rediit retro pastor amandus._
    _Ejus ad obsequium Mathildis mox reperitur_
    _Promta, loquens secum. Romam rediit cito praesul._

Nell'anno presente ancora pare che venisse in Italia _Arrigo il Nero_,
duca di Baviera e fratello del _duca Guelfo_[1434]. Certamente è scritta
come succeduta in quest'anno una donazione da lui fatta al monistero di
santa Maria delle Carceri d'Este. Ma essendo discorde dall'anno suddetto
l'_indizione settima_, non si può ben accertare il tempo. Quel che è
sicuro, quivi esso principe è intitolato _Henricus dux, filius quondam
Guelfonis ducis, qui professus sum ex natione mea lege vivere
Lombardorum_, siccome per tanti altri documenti si scorge che
costumarono di professare i principi estensi, dai quali egli discendeva.
Fu stipulato quello strumento _apud sanctam Theclam de Este_: il che fa
intendere che la linea estense dei duchi di Baviera riteneva la sua
porzion di dominio nella nobil terra d'Este. In questi tempi scrive
Landolfo da san Paolo ch'egli era in Milano[1435] _consulum epistolarum
dictator_. La menzione dei consoli già introdotti nel governo di quella
città mi obbliga qui di dire, essere ciò una pruova chiara che i
Milanesi s'erano già sgravati de' ministri imperiali o regii, ed aveano
presa la forma di repubblica e la libertà, con governarsi da sè stessi,
solamente riconoscendo la sovranità di chi era imperadore, oppure re
d'Italia. S'è veduto di sopra che quel popolo tanti anni prima avea
fatta guerra coi Pavesi, e poi s'era esercitato nelle interne fazioni e
guerre civili, senza più mostrar ubbidienza e dipendenza dal re, ossia
da alcun suo ministro. L'essersi poi sconvolta la Lombardia tutta per
cagione d'Arrigo IV, aumentò l'animo di quel popolo a mettersi
pienamente a libertà. Cercando essi in qual maniera si avesse a regolar
la loro nuova repubblica, poco ci volle a mettersi davanti agli occhi il
metodo tenuto dai Romani antichi nel governo di Roma. Perciò crearono
due consoli che fossero capi principali della comunità, ed elessero
altri ministri della giustizia, della guerra, della economia. Credo io
che sui principii l'arcivescovo avesse gran parte nelle loro
risoluzioni, e molto d'autorità per regolar le faccende. Formarono il
_consiglio generale_, composto di nobili e di popolo, che ascendeva
talvolta a più centinaia di persone, capi di famiglie. Eravi eziandio un
consiglio particolare e segreto, ristretto a pochi scelti dal generale,
il quale veniva appellato il _consiglio di credenza_; col qual nome si
denotava chi giurava di custodire il segreto de' pubblici affari. Questo
consiglio particolare aveva in mano l'ordinario governo politico; ma la
risoluzion delle cose importanti, come il far guerra o pace, spedire
ambasciatori, far leghe, eleggere i consoli ed altri ministri, era
riserbato al consiglio generale.

Tale era allora la forma di queste nascenti repubbliche; e dico
repubbliche, perchè nello stesso tempo altre città di Lombardia si
misero in libertà, e presero forma di repubblica, come Pavia, Lodi,
Cremona, Verona, Genova ed altre. Allorchè s'incontra nelle città
d'allora il nome di _consoli_, subito s'intende che queste erano
divenute città libere, le quali nondimeno protestavano di riconoscere
per supremo lor padrone l'imperadore ossia il re d'Italia. Nelle Memorie
antiche di Pisa e Lucca scorgiamo che circa questi tempi anche quelle
città cominciarono a governarsi coi consoli, e s'è veduto che faceano
guerra fra loro: il che indica la loro libertà, e l'acquistata o
usurpata parte del dominio. Come poi succedessero ad essa altri marchesi
di Toscana (cosa che in Lombardia più non si usava), non è sì facile ad
intendere. Forse l'autorità dei conti, che più non s'incontra neppure
nel governo delle città principali della Toscana, era passato nella
comunità di quelle città, restando salva solamente l'autorità
marchionale. Probabile è ancora che la contessa Matilda ne' tempi
tempestosi delle guerre passate fosse obbligata a cedere per accordo
alle città potenti di quella provincia parte delle sue regalie, e tutte
quelle de' conti già governatori delle città. Abbiam già veduto che
Lucca e Siena s'erano ribellate a lei, e tennero per un tempo il partito
di Arrigo IV. Ma appena queste città libere si sentirono colle mani
slegate e colla balìa di maneggiar l'armi, che lo spirito
dell'ambizione, cioè la sete di accrescere il proprio Stato colla
depression de' vicini, ristretto in addietro ne' principi del secolo,
occupò ancora il cuore dei repubblichisti. Ed appunto in quest'anno i
Milanesi, parte mossi da questo appetito innato negli uomini, ma più
vigoroso ne' più potenti, e parte attizzati da antichi odii e gare,
dichiararono la guerra alla confinante città di Lodi[1436], e la
strinsero con forte assedio. Nè mancava in Lodi stessa chi segretamente
teneva la parte di essi Milanesi. Oltre a varii nobili, furono
sospettati di dubbiosa fede in que' frangenti _Arderico_ vescovo della
medesima città, e Gaiardo suo fratello. Se vogliamo anche prestar fede a
Galvano dalla Fiamma[1437], il popolo di Pavia mosse guerra contro di
quel di Tortona. Conoscendosi i Tortonesi inferiori di forza a quella
potente città, ricorsero per aiuto a' Milanesi, coi quali contrassero
lega: il che fu cagione che anche i Pavesi si collegassero co' Lodigiani
e Cremonesi. Entrati poi nel Tortonese essi Pavesi, diedero una rotta a
quel popolo, misero a sacco il loro territorio, riportarono anche de'
vantaggi contra de' Milanesi, e in fine impadronitisi di Tortona, la
diedero alle fiamme. Prese tali notizie Galvano dalla Cronica di Sicardo
vescovo di Cremona[1438], il quale nondimeno altro non iscrive, se non
che incendiarono i borghi di Tortona. Errò parimente Galvano in credere
che tuttavia continuasse Corrado figliuolo di Arrigo IV ad essere re
d'Italia. Giunto intanto a Roma papa _Pasquale II_[1439], trovò
sconcertati non poco i suoi affari. Stefano Corso, di cui s'è parlato di
sopra, avea ribellata tutta la Marittima, e s'era ben fortificato in
Ponte Celle e in Montalto, terre della Chiesa romana. Spedì colà il papa
il suo esercito, che ripigliò la prima d'esse terre; ma non potendo, a
cagion del verno, fermarsi sotto l'altra, dopo di aver saccheggiato il
territorio, si ritirò ai quartieri. Abbiamo da Romoaldo
Salernitano[1440] che nell'anno presente _Ruggieri duca_ di Puglia
assediò la città di Luceria, oggidì Nocera, e la rimise sotto il suo
dominio. Finalmente l'Anonimo Barense scrive[1441] che _Boamondo
principe_ d'Antiochia tornato in Italia co' crociati franzesi, e fatta
adunanza d'altri Italiani nel suo principato di Taranto, con dugento
navi, trenta galee, cinque mila cavalli e quaranta mila fanti, dal porto
di Brindisi passò di là dall'Adriatico alla Vallona, e la prese. Se una
tal flotta di navi fosse bastante a condur tanti uomini e cavalli,
lascerò io considerarlo agl'intendenti. Forse passarono in più
veleggiate. Assediò dipoi la città di Durazzo; ma ritrovandola ben
provveduta di presidio e di viveri, non gli riuscì di mettervi il piede.
Il motivo di far questa guerra ad un imperadore cristiano, in vece di
portarla in Oriente contra de' Turchi ed altri infedeli, fu perchè esso
imperadore _Alessio Comneno_ facea segretamente la guerra a chiunque dei
crociati voleva passare per le sue terre in Oriente, dimodochè era egli
tenuto per nemico più pericoloso che gli stessi Turchi. Di questo fatto
parlano anche Fulcherio nella Storia sacra[1442], e il suddetto Sicardo
vescovo di Cremona nella sua Cronica.

NOTE:

[1429] Sugerius, apud Du-Chesne, Script. Rer. Franc.

[1430] Pagius, ad Annales Baron.

[1431] Bacchini, di Polirone, Ist., nell'Append.

[1432] Fiorent., Memor. di Matild., lib. 2.

[1433] Donizo, in Vit. Mathild.

[1434] Antichità Estensi, P. I, cap. 39.

[1435] Landulphus Senior, Hist. Mediolan., cap. 15.

[1436] Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 16.

[1437] Galv. Flamma, Manipul. Flor., tom. 11 Rer. Ital.

[1438] Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[1439] Pandulfus Pisan., in Vit. Paschal. II, Part. I, tom. 3 Rer. Ital.

[1440] Romualdus Salernitan., Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[1441] Anonymus Barens. apud Peregrinium.

[1442] Fulch., Hist. Hierosolym., lib. 2.



    Anno di CRISTO MCVIII. Indizione I.

    PASQUALE II papa 10.
    ARRIGO V re di Germania e d'Italia 3.


Non ostante che la presenza del pontefice _Pasquale_, ritornato a Roma,
dovesse restituire la calma a quella tumultuante città, pure, per
attestato di Pandolfo Pisano[1443], tutto dì accadevano omicidii,
latrocinii e sedizioni. I ribelli di fuori influivano a tenere inquieta
la medesima città. Il papa, per non poter di meno, andava pazientando;
nè questo il ritenne dall'intraprendere il viaggio di Benevento.
Lasciata dunque al vescovo lavicano la cura dello spirituale di Roma, a
Pietro di Leone ed a Leon Frangipane quella del politico, e il comando
dell'armi a Gualfredo suo nipote, si portò a Benevento, dove nel mese
d'ottobre tenne un concilio, i cui atti sono periti[1444]. Visitò in tal
occasione il monistero di san Vincenzo del Vulturno, ed era già in
viaggio per tornarsene a Roma, quando gli giunse nuova, essere quella
città sconvolta per varie sedizioni; formarsene dell'altre verso Anagni,
Palestrina e Tuscolo; essersi ribellata la Sabina, e che _Tolomeo_,
nobil romano, di cui dianzi il pontefice assaissimo si fidava, avea
voltata casacca, e s'era unito con _Pietro dalla Colonna, abbate di
Farfa_ (ma si dee scrivere: e coll'abbate di Farfa, perchè Farfa allora
avea per abbate _Beraldo_), di maniera che non era sicuro il passo per
tornare a Roma. Il buon papa, senza punto sbigottirsi, chiamò in aiuto
_Riccardo_ dall'Aquila duca di Gaeta, il quale co' suoi uomini lo scortò
fino alla città d'Alba, dove fu ricevuto con somma divozione. Di là
passato a Roma, attese a ricuperare i beni della Chiesa romana.
Continuava _Boamondo principe_ di Taranto e di Antiochia le ostilità
contra dell'imperadore _Alessio_[1445]. Questi non sapendo come levarsi
di dosso questo feroce campione, per attestato del Dandolo[1446], chiamò
in suo aiuto i Veneziani, i quali con una poderosissima flotta
l'assisterono. Ma appigliatosi dipoi a miglior consiglio, trattò di
pace, e in fatti la conchiuse, con promettere e giurare sopra le sacre
reliquie di far buon trattamento e difesa a chiunque passasse per li
suoi Stati alla volta di Terra Santa. Dopo di che Boamondo si quetò, e
ritornossene colla sua armata ad Otranto[1447], lasciando in pace le
terre del greco Augusto. In questi tempi, se pur sussiste la cronologia
di Romoaldo Salernitano[1448], mancò di vita _Guido_ fratello di
Ruggieri duca di Puglia, di cui non veggo menzione in altri autori. Morì
parimente nell'agosto un figliuolo d'esso duca, appellato _Guiscardo_.
Trovavasi nell'aprile di quest'anno la _contessa Matilda_ in Governolo
sul Mantovano, e quivi con pubblico strumento rimise _Dodone vescovo_ di
Modena[1449] in possesso di Rocca Santa Maria, posta nelle montagne del
Modenese. Non so io dire se all'anno presente oppure all'antecedente
appartenga una sua donazione fatta al monistero di san Benedetto di
Polirone, e rapportata dal padre Bacchini[1450]. Lo strumento fu scritto
_anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi MCVIII, sexto-decimo
die mensis octobris, Indictione prima_. Potrebbe essere anno pisano,
convenendo più all'ottobre dell'anno antecedente l'_indizione prima_. Se
vogliamo prestar fede a Galvano dalla Fiamma[1451], seguitando la
discordia fra i Pavesi e Milanesi, accadde che in quest'anno il vescovo
di Pavia con tutto il suo popolo armato marciò alla volta di Milano. Gli
vennero incontro i Milanesi in campagna aperta, ed attaccarono battaglia
con tal vigore, che, rotto l'esercito pavese, vi restò prigioniero il
vescovo colla maggior parte de' suoi, condotti poscia nelle carceri di
Milano. Furono di poi rimessi in libertà, ma con obbrobriosa maniera:
perchè condotti tutti nella piazza, fu attaccato alla parte deretana
d'essi un fascio di paglia, e datogli fuoco, furono così cacciati fuori
della città. Torno nondimeno a dire che non ci possiamo assicurar della
verità di questi fatti sull'asserzione del solo Galvano, autore non
assai esatto, e troppo parziale in favore de' Milanesi. Egli mette in
questo tempo arcivescovo di Milano _Giordano_, che pure solamente
nell'anno 1112 ottenne quella sedia.

NOTE:

[1443] Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschalis II, Part. II, tom. 3 Rer.
Ital.

[1444] Petrus Diaconus, Chron. Casin., lib. 4, cap. 33.

[1445] Fulcher., Hist. Hierosolym., lib. 2. Guillelmus Tyr., Hist., lib.
11, cap. 6.

[1446] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1447] Anonymus Barensis, apud Peregrinium.

[1448] Romualdus Salernitan., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[1449] Sillingard., Catalog. Episcopor. Mutinens.

[1450] Bacchini, Istor. di Poliron. nell'Append.

[1451] Gualvan. Flamm., Manipul. Flor., tom. 11 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCIX. Indizione II.

    PASQUALE II papa 11.
    ARRIGO V re di Germania e d'Italia 4.


Forse a quest'anno si dee riferire ciò che narra Pandolfo Pisano[1452]
nella Vita di _papa Pasquale_: cioè ch'egli ricuperò molti beni della
Chiesa romana, e fra questi la città di Tivoli, il quale acquisto
nondimeno costò la vita ad assaissime persone. Ciò fatto, salì nel
Campidoglio, e commosse il popolo romano contra di Stefano Corso,
occupatore di Montalto e d'altri patrimonii di san Pietro. Assediò dipoi
e prese a forza d'armi essa terra di Montalto, le cui torri furono
spianate; e tal terrore mise in cuore di que' tirannetti, che tutti
restituirono senza l'uso d'altra forza il mal tolto, e diedero ostaggi
con promessa di non vendicarsi, e di non usurpare in avvenire i beni di
san Pietro e dell'altre chiese. Per gloria dell'Italia non si dee tacere
che nel dì 21 d'aprile dell'anno presente fu chiamato a miglior vita
pieno di meriti santo _Anselmo_ arcivescovo di Cantorberì e primate
dell'Inghilterra, Italiano di nascita[1453]. Mancò in lui un gran lume
della Chiesa di Dio, ed uno de' più illustri dotti vescovi di quell'età,
ai cui libri di molto è tenuta la teologia scolastica, perchè
principalmente da lui fu introdotta, e cominciò da lì innanzi ad essere
coltivata con grande applicazione nelle scuole di Parigi e della
Francia. Dimorò in questo anno la _contessa Matilda_ in Lombardia,
verisimilmente attendendo a premunirsi e a ben provvedere le sue
fortezze, perchè già si presentiva che avesse da calare in Italia il re
_Arrigo V_. Egli era giovane, gli bolliva il sangue nelle vene, e non
era ignoto ch'egli, al pari del padre, stava forte nella pretension
delle investiture ecclesiastiche. Dai documenti rapportati dal padre
Bacchini[1454] noi comprendiamo ch'essa si trovò ora in _Gonzaga_, ora
al _Ponte del Duca_ sui confini del Modenese e del Ferrarese, con far
delle donazioni al monistero di san Benedetto di Polirone. Ho anch'io
pubblicato uno strumento, scritto _anno dominicae Nativitatis MCIX,
Paschale in apostolatu anno X, regnante Henrico quinto quodam Henrici
imperatoris filio, anno tertio, Indictione secunda_, da cui apparisce
che la medesima contessa[1455], soggiornando sul Modenese in san
Cesario, rilasciò molte terre a _Landolfo vescovo_ di Ferrara. E in un
altro atto[1456] esentò dalle albergarie Giberto da Gonzaga. Menzionati
si truovano in questi tempi i nobili di Gonzaga, da' quali si può
credere che discendesse quella casa che nel 1328 cominciò a
signoreggiare in Mantova. Aveano i Genovesi prestato non poco aiuto
negli anni addietro alla guerra sacra d'Oriente[1457]. Con una flotta di
settanta legni assisterono essi con tal vigore nell'anno presente
_Baldovino re_ di Gerusalemme, che in mano sua pervenne la città di
Tripoli. Altri mettono prima di quest'anno una tale conquista. Da varie
carte prodotte dal Guichenon[1458] vegniamo in cognizione che in questi
tempi fioriva _Amedeo_ conte di Morienna, progenitore della real casa di
Savoia. Egli è appellato _Amedeus filius Uberti comitis_, e talvolta
intitolato _morianensis comes et marchio_. Ma per mancanza d'antichi
storici restano molto allo scuro le azioni di questo principe e de' suoi
predecessori. Secondo il Sigonio[1459], in quest'anno succedette la
guerra tra i Cremonesi e Bresciani. Io ne parlerò all'anno seguente.
Vuole ancora il Campi[1460] che nel presente anno essi Bresciani uniti
coi Milanesi s'impadronissero della città di Lodi. Accorsi con grandi
forze i Cremonesi collegati de' Lodigiani, gli obbligarono ad
abbandonarla. Ma ad assicurarci di tali fatti non basta l'autorità de'
moderni scrittori. È solamente fuor di dubbio, asserendolo Landolfo da
san Paolo[1461], che i Milanesi seguitarono a far guerra a Lodi, e che
in aiuto di questa città furono i Pavesi e i Cremonesi. Aggiugne esso
Landolfo che circa questi tempi tornato da Roma _Grossolano_ arcivescovo
di Milano, perchè non ricevuto dal popolo, andò a piantarsi in Arona,
terra e fortezza della sua chiesa sopra il lago Maggiore. Ma fu
consigliato di levarsene e di far piuttosto il viaggio di Terra Santa;
ed egli l'intraprese con lasciare suo vicario in Milano _Arderico_
vescovo di Lodi.

NOTE:

[1452] Pandulfus Pisanus, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[1453] Eadmer., in Vita S. Anselmi.

[1454] Bacchini, Istor. di Polirone nell'Append.

[1455] Antiquit. Italic., Dissert. XLI.

[1456] Ibidem, Dissert. XIX.

[1457] Fulcher., Hist. Hierosol., lib. 2. Guillelm. Tyr., lib. 11, cap.
9.

[1458] Guichenon, de la Maison de Savoye, tom. 3.

[1459] Sigon., de Regno Ital., lib. 10.

[1460] Campi, Istor. di Piacenza, lib. 1.

[1461] Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 17.



    Anno di CRISTO MCX. Indizione III.

    PASQUALE II papa 12.
    ARRIGO V re di Germania e d'Italia 5.


Aveva nell'anno addietro il re _Arrigo V_, per testimonianza
dell'Annalista d'Ildeseim[1462], inviati a Roma _Federigo_ arcivescovo
di Colonia, _Brunone_ arcivescovo di Treveri ed altri principi suoi
ambasciatori a trattare con papa _Pasquale II_ della sua venuta in
Italia per ricevere la corona imperiale. Le risposte del papa furono,
ch'egli il riceverebbe come padre con tutto amore, purchè il re dal suo
canto si mostrasse cattolico, figliuolo e difensor della Chiesa, e
amator della giustizia. Non erano i legati suddetti probabilmente
partiti peranche da Roma, quando il pontefice nel dì 7 di marzo del
presente anno tenne un gran concilio nella basilica lateranense, in cui
furono rinnovati i decreti contro le investiture pretese dai re. Furono
gli ambasciatori suddetti, nel ripassare per Lombardia, a visitar la
_contessa Matilda_, che li regalò da pari sua[1463]. Intanto il re
Arrigo, solennizzando in Ratisbona la festa dell'Epifania[1464],
pubblicò alla presenza de' principi germanici la risoluzione sua di
calare in Italia affine di prendere dalle mani del sommo pontefice la
corona dell'imperio, e di dar buon sesto al regno dell'Italia,
dimostrandosi specialmente pronto a far tutto ciò che gli suggeriva il
papa per la difesa della Chiesa. Fu da tutti lodato il di lui pensiero;
e quantunque una gran cometa apparisse in questi tempi, la cui vista il
volgo suol d'ordinario ricevere come preditrice di malanni, pure con
allegria si attese per sei mesi a pagar le contribuzioni e a preparar
l'armata che dovea scortare il re in questo viaggio. Provvide inoltre il
re d'uomini scienziati, ed atti all'amministrazion della giustizia e a
sostenere i diritti regali; e fra questi si contò un certo David di
nazione Scoto, che scrisse dipoi con limpido stile tutta questa
spedizione. L'Abbate Urspergense ebbe sotto gli occhi la di lui Storia,
ma questa non è giunta fino a' dì nostri. Adunque circa il mese d'agosto
si mosse il re Arrigo alla volta dell'Italia. Con parte del suo potente
esercito tenne egli la via della Savoia, e felicemente arrivò ad Ivrea.
Nel di 12 d'ottobre egli era in Vercelli, dove confermò a Giovanni
abbate del monistero ambrosiano di Milano tutti i suoi privilegii con
diploma[1465] dato _IV idus octobris Indictione III, regnante Henrico
quinto rege Romanorum anno IV, ordinationis ejus X_. Pervenuto a Novara,
trovando quel popolo resistente a tutto ciò ch'egli pretendeva, diede
alle fiamme quell'infelice città, e fece diroccar le sue mura, per
mettere con questo spettacolo di crudeltà sui principii terrore a tutti
gli altri popoli. Lo stesso trattamento fece alle castella e terre che
non furono ben puntuali agli ordini suoi. Scrive il Sigonio[1466] che
Arrigo passò a Milano, dove dalle mani di _Crisolao_, ossia _Grossolano_
arcivescovo fu coronato colla corona ferrea. Si fondò egli qui su quanto
scrive Galvano dalla Fiamma[1467] circa l'anno 1335. Egli veramente
narra, che venuto Arrigo a Milano, prese ivi la corona del regno
d'Italia da Giordano arcivescovo, il quale l'accompagnò fino a Roma.
Tutte queste nulladimeno son favole. Niuno degli antichi parla di questa
coronazione, ed espressamente la niega Donizone storico de' tempi
presenti, con iscrivere che tutte le città della Lombardia mandarono ad
Arrigo vasi d'oro e d'argento e danari; e che la sola città di Milano
nol volle riconoscere per padrone, nè pagargli contribuzione
alcuna[1468]:

    _Aurea vasa sibi, nec non argentea misit_
    _Plurima cum multis urbs omnis denique nummis._
    _Nobilis urbs sola Mediolanum populosa_
    _Non servivit ei, nummum neque contulit aeris._

Ecco dunque che non può stare la coronazione suddetta. Nè allora
_Grossolano_ soggiornava in Milano, perchè ito in Terra Santa, nè
_Giordano_ per anche era stato eletto arcivescovo di Milano. Passato il
Po, venne il re Arrigo a Piacenza, dove fu accolto da quei cittadini con
allegrezza ed onorato di superbi regali. L'altra parte dell'esercito
suo, che era calata in Italia per la valle di Trento, arrivò _apud
Viruncalia_, secondo il concerto, e quivi si unì coll'altra armata e
collo stesso re. È scorretto qui il testo dell'Urspergense[1469], e dee
dire _apud Runchalia_, cioè ne' prati di Roncaglia sul Piacentino, dove
alla venuta dei re ed imperadori si solea celebrar la dieta generale del
regno d'Italia, concorrendovi tutti i principi, baroni, vassalli e
ministri delle città. Si dee credere che veramente anche in quella
occasione si celebrasse la dieta generale del regno: perchè Arrigo per
tre settimane si fermò in quelle parti. Ottone Frisingense scrive[1470]
ch'egli diede la mostra al suo esercito presso il Po, e che vi si
trovarono trenta mila soldati a cavallo scelti, senza gl'Italiani,
concorsi a servirlo. Venne dipoi a Parma. Sprezzava Arrigo tutte le
città italiane.

Ma sola _Matilda contessa_ gli dava dell'apprensione, perchè ben
consapevole egli era di quanto ella aveva operato contra dell'Augusto
Arrigo IV suo padre. Ed ebbe ben la contessa la prudenza di non volersi
portare alla corte, nè mettersi a rischio di qualche sgarbo o violenza.
Molti principi e baroni oltramontani si portarono a visitarla[1471], per
conoscere in lei una persona superiore al suo sesso, e di tanto credito
per tutta l'Europa. Trattossi dunque fra essa e il re _per internuntios_
di pace e concordia. Prestò ella ad Arrigo tutti gli ossequii dovuti al
sovrano; ed Arrigo a lei confermò tutti gli Stati e diritti ad essa
competenti. _Mathildam comitissam per internuntios sibi subjectam gratia
sua et propriis justitiis donavit_: sono parole dell'Urspergense. E
Donizone scrive che la contessa, per trattare di questo accomodamento,
dalla fortezza di Canossa passò a quella di Bibianello, oggidì Bianello,
ed aver ella promesso fedeltà al re contro a tutti, fuorchè contro al
romano pontefice. Indi sul principio di dicembre il re Arrigo per la
strada di monte Bardone, ossia di Pontremoli, si mosse coll'esercito
alla volta della Toscana; e perchè caddero immense pioggie in quel
tempo, molta gente e cavalli perirono nel passaggio dell'Apennino. Gli
fece resistenza la suddetta terra di Pontremoli, terra forte per la sua
situazione e per le altissime sue torri, probabilmente spettante allora
ai principi estensi[1472], e non già alla contessa Matilda. Per forza se
ne impadronì e la devastò. Giunse finalmente a Firenze. Quivi con
ammirabil pompa solennizzò la festa del santo Natale. Tutte le città
della Toscana non tardarono a mandargli ambasciatori, regali e
contribuzioni. Con che cuore, nol so. Pandolfo Pisano, scrittore di
questi tempi, chiama esso Arrigo[1473] _exterminatorem terrae_, e
mandato dall'ira di Dio in Italia; con aggiugnere che egli _civitates
multas et castra in itinere dolo, pacem ostendendo, subvertit, ecclesias
destruere non cessavit; religiosos ac catholicos viros capere, quos
invenire poterat, nullo modo desistebat; quos vero habere non poterat, a
propriis sedibus pellere non cessabat_. Tale era quel principe di cui si
servirono i Tedeschi e gl'Italiani per atterrare Arrigo di lui padre, e
che peggiore del padre si diede poi a conoscere, siccome maggiormente
andremo vedendo. Sembra a me più probabile, per non dir certo, che
nell'anno presente, prima che arrivasse in Italia il re Arrigo,
succedesse la guerra fra i Cremonesi e Bresciani. La racconta appunto
sotto quest'anno Galvano dalla Fiamma, con dire[1474] che riuscì a'
Cremonesi di dare una rotta al popolo di Brescia. Ma venuti i Milanesi
in soccorso de' Bresciani, sì fattamente incalzarono i Cremonesi
vincitori, che li misero in fuga, e per più miglia seguitandoli, fecero
d'essi non poca strage, massimamente allorchè furono ridotti al fiume
Oglio. La verità di questo fatto è confermata da Sicardo vescovo di
Cremona, di cui sono queste parole[1475]: _Anno Domni MCX fuit bellum
inter Mediolanenses et Cremonenses apud Brixianorium, Cremonensibus
perniciosum_. E molto più da Landolfo da san Paolo[1476], che scrive
essersi rallegrati i Milanesi della ordinazione di cinque loro nobili
canonici della cattedrale, fatta nel mese di giugno; e che _etiam majori
gaudio gavisi sunt, quia in ipso mense susceperunt triumphum de
Cremonensibus victis et superatis apud Brixianorii campum_. Questo nome
di _Brixianorium_ temo io che desse occasione a Galvano dalla Fiamma di
credere che i Bresciani avessero parte nel suddetto avvenimento. I due
autori suddetti non parlano se non di guerra fra i Milanesi e i
Cremonesi. In questo stesso anno papa Pasquale II, saggiamente temendo
qualche violenza dal re Arrigo, disposto a calare in Italia, andò nel
mese di giugno verso Monte Casino[1477]; e chiamati a sè _Ruggieri duca_
di Puglia e _Roberto principe_ di Capua, con tutti i conti della Puglia,
stabilì un trattato con loro, che ognun d'essi prenderebbe l'armi in
difesa del pontefice, se venisse il bisogno. Tornato a Roma, fece
giurare a tutti i baroni romani di fare altrettanto.

NOTE:

[1462] Annal. Hildesheim, apud Leibnit.

[1463] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 18.

[1464] Abbas Ursperg., in Chron.

[1465] Puricell., Monument. Basil. Ambrosian.

[1466] Sigon., de Regno Ital., lib. 10.

[1467] Galvaneus Flamma, Manipul. Flor., cap. 160.

[1468] Donizo, in Vit. Mathildis, lib. 2, cap. 18.

[1469] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1470] Otto Frisingens., Hist., lib. 7, cap. 14.

[1471] Donizo, lib. 2, cap. 18.

[1472] Antichità Estensi, P. I, cap. 7.

[1473] Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschalis II.

[1474] Gualvanus Flamma, Manip. Flor., tom. 11 Rer. Ital.

[1475] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[1476] Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 17.

[1477] Petrus Diac., Chron. Casin., lib. 4, cap. 35.



    Anno di CRISTO MCXI. Indizione IV.

    PASQUALE II papa 13.
    ARRIGO V re 6, imperad. 1.


Abbiamo dagli Annali Pisani[1478] che il re _Arrigo V_ o sul fine del
precedente anno, o sul principio del presente, _cum magno exercitu Pisas
venit, et fecit pacem inter Pisanos et Lucenses; in qua guerra Pisani
devicerunt Lucenses ter in campo, et Castellum de Ripafracta
recuperaverunt, et Ripam, unde lis fuit, retinuerunt_. Passò ad Arezzo,
e trovò della discordia fra i cittadini e il clero[1479]. La cattedrale
di san Pietro era fuori della città. Il popolo la voleva dentro, secondo
l'uso dell'altre città d'Italia, e però la distrussero. Essendo ricorsi
i cherici ad Arrigo, prese la loro parte; e forse perchè il popolo non
mostrò prontezza ad ubbidire, o perchè fece resistenza, il re barbaro
quivi ancora lasciò lagrimevoli segni della sua fierezza, con far
abbattere le mura e le torri altissime d'essa città, e spianar buona
parte delle case cittadinesche. Con questi bei preparamenti arrivò ad
Acquapendente[1480], dove ricevette i suoi ambasciatori tornati da Roma
con quei del papa, che portavano buone nuove di concordia. Continuato il
viaggio fino a Sutri, giunsero altri legati del papa con regali e
proposizioni di concordia, e promesse di dargli l'imperiale diadema. Ma
non andò molto che questo bell'aspetto di cose si convertì in una
luttuosa e scandalosa scena; nel racconto della quale gli scrittori
romani ne attribuiscono la colpa ad Arrigo, e gli storici tedeschi ai
medesimi Romani. Una lettera dello stesso Arrigo presso Dodechino[1481],
l'Abbate Urspergense[1482], Ottone da Frisinga[1483], Pietro
Diacono[1484], Pandolfo Pisano[1485] e gli Atti rapportati dal cardinal
Baronio[1486] parlano di questa tragedia, ma non tutti con egual tenore.
Quel che è certo, Arrigo si mostrò risoluto di non voler cedere al
diritto da lui preteso di dar le investiture agli ecclesiastici, non
volendo essere da meno di tanti suoi predecessori. All'incontro il papa,
sapendo quanto discapito era provenuto alla Chiesa di Dio dall'uso di
tali investiture per le frequenti simonie che si commettevano, non era
men forte in volerle abolite. Non si sa intendere come esso pontefice
non avesse meglio concertati gli affari, prima che gli arrivasse addosso
Arrigo col nerbo di tanti armati. O fu egli mal servito da' suoi legati,
o burlato dalle belle parole d'esso re. Comunque sia, veggendo egli sì
forte Arrigo nelle sue pretensioni, piuttostochè consentire alle
medesime, s'indusse egli ad una strana risoluzione, che, proposta al re,
neppure gli parve credibile, e fu nondimeno da lui accettata. Cioè, che
il papa con tutti i suoi rinunzierebbe al re tutti gli Stati e tutte le
regalie che gli ecclesiastici aveano avuto e riconoscevano dall'imperio
e dal regno fino da' tempi di Carlo Magno e di Lodovico Pio e di Arrigo
I, con ispecificare le città, i ducati, i comitati, le zecche, le
gabelle, i mercati, le avvocazie, le milizie, le corti e castella
dell'imperio; giacchè a cagion di queste regalie il re pretendeva di
continuar l'uso delle investiture. Ed esso re vicendevolmente
rinunzierebbe all'uso d'investire i vescovi e gli abbati. L'accordo fu
fatto, dati dall'una e dall'altra parte gli ostaggi. Anche oggidì si ha
pena a credere che un pontefice arrivasse a promettere una sì smisurata
cessione. Nella domenica adunque della quinquagesima, cioè nel dì 12 di
febbraio, si mosse il re Arrigo alla volta della città Leonina, per
trovare il papa che l'aspettava coi cardinali fuori della basilica
vaticana[1487]. Furono mandati ad incontrarlo sino a Monte Mario gli
uffiziali della corte e della milizia colle loro insegne, e un'infinita
moltitudine di popolo portante corone di fiori, palme e rami d'albero.
Avanti alla porta comparvero i Giudei, e nella porta i Greci che
cantavano nel loro linguaggio, e faceano plauso al futuro imperadore.
V'intervennero ancora i monaci[1488], e cento monache con lampade o
doppieri accesi, e tutto il clero in pianete e dalmatiche. Con questa
maestosa processione, spargendo intanto gli uffiziali del re gran copia
di danaro alla plebe, arrivò Arrigo alla basilica vaticana[1489]; ma non
volle entrare, se prima non fu consegnata alle sue guardie ogni porta e
luogo forte della medesima. Prestò Arrigo al papa gli atti di riverenza
dovuti; il papa l'abbracciò e baciò; ed amendue entrati per la porta
d'argento, arrivati che furono alla ruota del porfido, si misero a
sedere nelle sedie preparate.

Allora fu che il pontefice fece istanza ad Arrigo di eseguir le promesse
della rinunzia alle investiture. Il re si ritirò coi suoi vescovi e
principi nella sagrestia per consultar con essi; ed allora succedette un
gran tumulto, reclamando tutti i vescovi che era un'empietà ed eresia il
volere spogliar di tanti beni tutte le chiese. Arrigo, nella sua lettera
presso Dodechino, pretende che l'esibizione di levar le immense regalie
ai pastori delle chiese venisse dal papa, e fosse un tiro politico per
ricavare dal re la rinunzia delle investiture, e nello stesso tempo
concitare contra di lui l'amplissimo ordine degli ecclesiastici.
Pandolfo Pisano ed altri, per lo contrario, scrivono che la proposizione
fosse fatta dal re, il quale con questo tiro pensasse a carpir la corona
imperiale, ottenuta la quale, era poi facile il continuar le
investiture, perchè la repubblica ecclesiastica non vorrebbe mai
abbracciare il partito di rilasciar tanti Stati e beni all'imperadore.
Ottone da Frisinga scrive, avere Arrigo fatta istanza per l'esecuzion
del trattato, alla quale era dispostissimo dal canto suo il papa; ma che
non potè quegli eseguirlo per li troppi richiami de' vescovi. Comunque
sia, certo è che un grande bisbiglio e furore si sollevò in tutti i
vescovi sì italiani che oltramontani all'intendere una cotanto
insopportabil condizione di rinunziare gli Stati; laonde fra il
pontefice e il re insorse discordia, non volendo il primo coronar
l'altro senza la rinunzia delle investiture, nè volendo il re
rinunziare, se non gli si manteneva la parola data di restituir tutti i
beni regali. Non si sa intendere come niuno allora proponesse, o se fu
proposto, come non fosse accettato il ripiego poscia usato, e tuttavia
osservato in Germania, cioè di lasciar libere le elezioni de' vescovi e
degli abbati, con che restava salva la libertà della Chiesa, obbligando
poi gli eietti a prendere l'investitura degli Stati, ma non delle
chiese, dall'imperadore, ossia dal re d'Italia. Ora il re Arrigo,
veggendo a terra il trattato, e saldo il papa in negargli la corona,
andò nelle furie. Nè gli mancarono empii consiglieri, il primo de' quali
fu _Alberto_ allora cancelliere, poscia arcivescovo di Magonza, uomo
scellerato, che lo spinsero a far prigione il papa contro il giuramento
fatto di nulla intentare contra la di lui persona e dignità: il che
venne con incredibil tumulto eseguito. Fu consegnato il pontefice ad
_Ulrico_ patriarca d'Aquileia, che il custodisse sotto buona guardia.
Questa violenza non solamente fu riprovata da tutti i buoni, e
massimamente dall'arcivescovo di Salisburgo, con rischio anche della sua
vita, ma eziandio irritò sì fattamente il popolo romano, il quale in tal
congiuntura si fece conoscere fedelissimo al papa suo signore, che corse
a svenare quanti Tedeschi si trovarono nella città. E dopo aver tenuto
tutta la notte un gran consiglio, la mattina seguente uscirono essi
Romani arditamente coll'armi addosso all'esercito tedesco, alloggiato
entro e fuori della città Leonina, che non s'aspettava una visita sì
scortese. Quanti ne trovarono, tutti li misero a fil di spada.
Assalirono dipoi il quartiere dello stesso re, il quale uscito di letto,
e scalzo tuttavia, salito a cavallo, fece di molte prodezze, ma corse
gran pericolo della vita, perchè gli ammazzarono il cavallo sotto, e il
ferirono anche in faccia. Salvollo Ottone conte di Milano, o, per dir
meglio, _vicecomes_, come Landolfo da san Paolo, più informato di
questo, lasciò scritto, con dargli il proprio cavallo; ma fatto egli
prigione, e condotto in città, fu quivi messo in brani dall'infuriata
plebe. Armatisi intanto i Tedeschi, s'opposero all'empito de' Romani;
seguì gran battaglia, grande strage dall'una e dall'altra parte,
rinculando ora gli uni, ora gli altri. Penetrarono i Romani fino nel
portico di san Pietro; ma perchè si perderono a spogliare i forzieri de'
Tedeschi, ebbero da ben pentirsene: perchè raccolti i Tedeschi e
Lombardi, li misero in fuga, con restarne assaissimi vittima delle
spade, o annegati nel Tevere. L'attesta Donizone, con dire che i Romani
quasi furono vincitori dei Tedeschi:

    _Sed flagrant erga nimis horum quippe zabernas;_
    _Insimul ex armis et denariis onerati_
    _Plus adamant nummum, quam bellum vincere sumtum._

Venuta la notte, e tenuto consiglio in Roma, fu risoluto di procedere di
nuovo nel dì seguente contra de' Tedeschi. Ne venne sentore al re
Arrigo, il quale credette meglio fatto di ritirarsi colla sua gente
lungi da Roma nella Sabina, ed anche con fretta, lasciando in dietro
parte dell'equipaggio della sua armata. Seco condusse l'innocente papa
Pasquale prigione, con cui essendo stati presi _Bernardo_ cardinale e
vescovo di Parma, e _Bonsignore_ vescovo di Reggio, in lor favore parlò
con vigore Ardoino da Palude nobile reggiano, e messo della contessa
Matilda, con ricordare ad Arrigo i patti fatti con essa. E non parlò
indarno, perchè il re, per amore della medesima contessa, li rimise in
libertà. L'Urspergense ci vuol far credere che Arrigo _Apostolicum secum
duxit, et eo, quo potuit, honore tenuit_. Ma Pandolfo Pisano ed altri
narrano, ch'egli, custodito sotto stretta guardia, fece non pochi
patimenti per sessanta e un giorno, detenuto nel castello di Tribucco
con sei cardinali, e che gli altri cardinali furono imprigionati in un
altro castello. Ossia, come vuol Pietro Diacono, che Arrigo intimidisse
il papa col minacciare a lui e a tutti i prigioni la morte; ovvero, come
altri ha voluto[1490], che Arrigo si gittasse a' piedi del papa, e il
supplicasse di perdono e di pace; oppure che non veggendo nè il papa, nè
i cardinali che seco si trovavano, maniera di acconciar questa esecrabil
rottura, finalmente esso papa piegasse l'orecchio ad un aggiustamento:
certo è che questo succedette, e quale il volle Arrigo.

Condiscese dunque il pontefice Pasquale II, ma con protesta di farlo
violentato, e per liberar tanti prigioni e i Romani da ulteriori
vessazioni, che liberamente e senza simonia si dovessero eleggere da lì
innanzi i vescovi ed abbati coll'assenso dell'imperadore; e che gli
eletti prendessero il pastorale e l'anello, cioè l'investitura da lui,
senza la quale non potessero essere consecrati; e che il papa giurasse
di non fare vendetta alcuna, nè di adoperar censure per l'ingiuria fatta
a lui ed ai suoi; e l'imperadore scambievolmente promettesse di lasciare
in libertà tutti i prigioni, e di conservare o restituire tutti i beni
occupati alla Chiesa romana, fra' quali, per testimonianza di Pietro
Diacono[1491], furono nominatamente espresse la Puglia, la Calabria, la
Sicilia e il principato di Capoa. Ottenne inoltre Arrigo che si potesse
dar sepoltura in chiesa al corpo di Arrigo IV suo padre, giacchè si
fecero venire in campo persone attestanti esser egli morto con atti di
vero pentimento. Così seguì la pace, dopo la quale il papa solennemente
coronò imperadore Arrigo nella basilica vaticana, con istare intanto
serrate le porte di Roma, acciocchè niun de' Romani venisse a disturbare
la funzione. Il giorno preciso in cui seguì questa coronazione, fin qui
è stato controverso. Donizone, autore di questi tempi, scrive di papa
Pasquale[1492]:

    _Dum festum Paschae venite tribuit sibi pacem,_
    _Urbem romuleam sibi subdens, et diadema_
    _Ipsius capiti ponens, unguit, benedixit._
    _Ultima lux mensis primi tunc Pascha revexit,_
    _Numinis undecimo centum post mille sub anno._

Ci fa vedere qui Donizone tuttavia conservata la sovranità imperiale in
Roma; ma, siccome già accennai nelle annotazioni al di lui poema, è da
stupire come egli dica caduta in quest'anno la Pasqua nel dì ultimo di
marzo, quando è fuor di dubbio ch'essa s'incontrò nel di 2 d'aprile. Per
altro anche Rogerio Hovedeno[1493] e Sigeberto[1494] scrivono che _nel
giorno di Pasqua_ fu conferita la corona ad Arrigo V. All'incontro, il
padre Pagi[1495] pretende ciò fatto nella domenica in Albis, cioè a dì 9
d'aprile, ma senza recarne alcuna soda pruova, e col correggere a suo
piacimento gli antichi scrittori. A me sembra, non dirò solo probabile,
ma certo, che la funzione suddetta seguisse nel giovedì dopo l'ottava di
Pasqua, cioè nel dì 13 d'aprile, giorno delle idi. Chiaramente lo
attesta l'autore della Vita di Pasquale II, storico contemporaneo, a noi
conservato dal cardinal d'Aragona, il quale scrive[1496]: H_aec, quae
passi sumus, et oculis nostris vidimus, et auribus nostris audivimus,
mera veritate conscripsimus_. Ora questo scrittore attesta che fu
consecrato e coronato _idibus aprilis, quinta feria post octavam
Paschae_. Queste note van d'accordo, nè patiscono eccezione. Vien
confermata la stessa verità dall'Annalista Sassone, di cui son queste
parole[1497]: _Rex Heinricus Pascha, non longe ab urbe in castris suis
celebravit, et post octavas Paschae, die scilicet idus aprilis, in
ecclesia sancti Petri in imperatorem consecratur_. Altrettanto s'ha dal
Cronografo Sassone, citato dal padre Mabillone[1498] e dagli Annali
d'Ildeseim[1499]. L'Abbate Urspergense[1500], con iscrivere che Arrigo
ricevette la corona _post octavas Paschae_, esclude le due precedenti
opinioni, e viene ad accordarsi con questa. Nella messa solenne, e alla
comunione, il papa col corpo del Signore in mano ratificò la pace e le
promesse. Egli se ne andò libero a Roma, e il re Arrigo, dopo aver fatti
suntuosi regali al papa e ai cardinali ch'erano con lui, si mise in
viaggio alla volta della Toscana per ritornarsene in Lombardia, e poscia
in Germania. Appena fu in Roma il buon papa, che trovò alienati da sè
gli animi de' cardinali rimasti ivi, perchè avesse consentito ad una
tale concordia, di modo che quasi nacque uno scisma. L'ingiuriarono
specialmente i più dotti, e quasi il trattarono da eretico, sostenendo
che dovea piuttosto lasciarsi levare la vita, che consentire alle
investiture. È un bel fare il bravo lungi dalle battaglie. Se que'
zelanti cardinali si fossero trovati per due mesi nelle angustie del
papa, e col coltello alla gola, come egli fu, e nel pericolo di veder
sacrificati al furore tedesco i porporati prigioni e tanti altri Romani
non so se avessero praticato eglino ciò che ora esigevano dal papa. Non
potendo reggere a sì fatti insulti il buon pontefice, uscì di Roma e si
ritirò a Terracina: nel qual tempo i cardinali con solenne decreto
condannarono l'accordo da lui fatto, e diedero un grande esercizio alla
pazienza ed umiltà di lui, quasichè qui si trattasse di un punto di
fede, e non già di disciplina ecclesiastica, la quale benchè certo
patisse nella maniera tenuta allora di dar tali investiture, pure,
dacchè se ne voleva esclusa la simonia, si potea in qualche guisa
tollerare, Goffredo da Viterbo[1501], Sugerio abbate[1502] ed
Idelberto[1503] ci fan conoscere che il buon pontefice depose il manto,
si ritirò in una solitudine, e volea rinunziare il papato; ma fu
richiamato a Roma da tutti i buoni e saggi.

Per la Toscana calò in Lombardia Arrigo quinto fra i re, quarto fra
gl'imperadori, e gran voglia nutrendo di conoscere di vista la celebre
contessa Matilda sua parente[1504], giacchè ella non si sentiva voglia
d'ire a trovar lui, determinò egli di andare a lei. Dimorava allora la
contessa Matilda nella fortezza di Bibianello, ossia Bianello, sul
Reggiano. Colà nel dì 6 di maggio fu a visitarla, magnificamente
accolto, e per tre dì seco si fermò. Sapeva Matilda fra molte altre
lingue anche la tedesca, e però sempre senza interprete teneva i suoi
ragionamenti con lui. Talmente restò Arrigo invaghito della prudenza ed
onoratezza di questa insigne eroina, che non solamente le confermò i
precedenti patti, ma la dichiarò ancora sua vicegerente, ossia
viceregina in Lombardia:

    _Cui liguris regni regimen dedit in vice regis,_
    _Nomine quam matris verbis claris vocitavit._

Passò dipoi Arrigo a Verona, dove si riposò per qualche tempo, e ne
resta anche una memoria nel diploma da me pubblicato[1505], con cui
conferma ai canonici di Cremona i lor privilegii. Esso è dato _XIV
kalendas junii, Indictione IV, anno dominicae Incarnationis MCXI,
regnante Henrico V rege Romanorum anno V, imperante primo, ordinationis
ejus XI. Actum Veronae_. Un altro parimente ne diede egli _XII kalendas
junii_ in quella città in favore di Alberico abbate del monistero di
Polirone[1506]. In questa occasione può essere che succedesse ciò che
narra il Dandolo[1507]. Bolliva da gran tempo discordia fra i Veneziani
e Padovani a cagion de' confini. Collegati i Padovani co' popoli di
Trivigi e Ravenna, vennero nel dì 4 di ottobre dell'anno precedente alle
mani coll'esercito veneto, e rimasero sconfitti, con restarvi
cinquecento e sette d'essi prigioni. Ora giunto che fu a Verona
l'imperadore, portarono a lui i Padovani le loro doglianze, siccome al
sovrano del regno d'Italia. Ad istanza di esso Augusto, comparvero in
quella città gli ambasciatori veneti, e si mise fine alla discordia,
coll'essersi aggiustati i confini, liberati i prigioni, e rinnovati i
patti d'amicizia fra Venezia dall'un canto, e i Padovani e gli altri
sudditi dell'italico regno dall'altro. Ito poscia l'imperadore in
Germania, quivi fece dar solenne sepoltura alle ossa del padre. Terminò
i suoi giorni nel febbraio di questo anno[1508] _Ruggieri duca_ di
Puglia, con lasciare suo successore e duca _Guglielmo_ suo figliuolo.
Per questa cagione i Normanni della Puglia niun soccorso poterono
prestare al romano pontefice ne' di lui bisogni, ed attesero unicamente
a premunirsi in casa, per timore che il nuovo imperadore potesse far
qualche tentativo contra di quegli Stati. Preparavasi in Italia
_Boamondo_ fratello di esso Ruggieri, e principe di Antiochia e di
Taranto, per ripassare in Oriente[1509], quando venne a trovare anche
lui la morte nel marzo seguente. Fu seppellito in Canossa. Restò gran
fama e un piccolo figliuolo di lui, per nome anche esso _Boamondo_,
erede de' suoi Stati. Appena fu fuori d'Italia, seppur ne era anche
uscito l'imperadore[1510], che i Milanesi, dopo avere per quattro anni o
con assedio, o con blocco, o con devastar le campagne, stretta e
malmenata la città di Lodi, finalmente nel giugno dell'anno presente per
forza se ne impadronirono; e lasciata in tal occasione la briglia
all'odio e sdegno loro, la spogliarono delle mura, incendiarono le case,
ed imposero leggi severe di servitù a quel popolo, dianzi troppo vicino
a sì potente città. Ne restano appena le vestigia nel luogo appellato
Lodi vecchio, e diverso dal sito in cui ora è Lodi nuovo[1511]. Fu quel
popolo compartito in sei borghi, e in tale stato durò il suo
abbassamento sino ai tempi di Federigo I imperadore.

NOTE:

[1478] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[1479] Otto Frisingens., Chron., lib. 7, cap. 14.

[1480] Abbas Urspergens., in Chron.

[1481] Dodechinus, in Append. ad Marian. Scotum.

[1482] Urspergensis, in Chron.

[1483] Otto Frisingensis, in Chron.

[1484] Petrus Diacon., in Chron. Casinens.

[1485] Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschal. II.

[1486] Baronius, in Annal. Eccles.

[1487] Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 36.

[1488] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 18.

[1489] Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschal. II.

[1490] Annalista Saxo.

[1491] Petrus Diaconus, Chron. Casinens.

[1492] Donizo, in Vita Mathildis, lib. 2, cap. 18.

[1493] Hovedenus, Annal., P. I.

[1494] Sigebertus, in Chron.

[1495] Pagius, Crit. Baron.

[1496] Vit. Paschalis II, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[1497] Annalista Saxo.

[1498] Mabill., Annal. Benedictin.

[1499] Annal. Hildesheim.

[1500] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1501] Goffrid. Viterbiensis, in Chron.

[1502] Suger., in Vit. Lodovici Gross.

[1503] Hildelb., in Epistol.

[1504] Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2.

[1505] Antiquit. Italic., Dissert. XI.

[1506] Bacchini, Istor. di Poliron. nell'Append.

[1507] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1508] Romualdus Salern., in Chron. Falco Benevent., in Chron. Anonymus
Barens., apud Peregrin.

[1509] Albert. Aquens., lib. 11, cap. 48. Petrus Diaconus, Chron.
Casinens. et alii.

[1510] Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 18.

[1511] Gualv. Flamma, Manipul. Flor., cap. 163.



    Anno di CRISTO MCXII. Indizione V.

    PASQUALE II papa 14.
    ARRIGO V re 7, imperad. 2.


Dacchè fu posto in libertà papa _Pasquale II_, e sentì tante doglianze
del sacro suo senato per la concession delle investiture, mai non negò,
anzi sempre riconobbe d'aver dato l'assenso a cosa illecita, ed operato
ciò che non dovea. Solamente scusava il fatto coll'intenzione avuta di
sottrarre ai pericoli della vita tante persone, e a maggior danno il
popolo di Roma e lo stato della Chiesa. Ora in questo anno fu per così
scabrosa materia raunato un insigne concilio[1512] di cento venticinque
vescovi a dì 18 di marzo nella basilica lateranense. Tutti i prelati
esclamarono contro delle investiture ecclesiastiche date da mano laica,
come usurpazione dei diritti della Chiesa e seminario di simonie. Il
punto difficile era, come il pontefice potesse venire contra del proprio
solenne giuramento. Si trovò il ripiego da _Gerardo_ vescovo
d'Engulemme, cioè che si ritrattasse bensì e condannasse il privilegio
accordato dal papa ad Arrigo, e chiamato _pravilegium_, e non
_privilegium_; ma che non si scomunicasse la persona d'esso imperadore.
Così fu fatto. Tenuto ancora fu in quest'anno nel mese di settembre un
concilio in Vienna del Delfinato, e quivi non solamente seguì la
condanna delle suddette investiture, ma eziandio fulminarono que'
vescovi scomunica contra dell'Augusto Arrigo, chiamato da essi tiranno.
Abbiamo da Landolfo da san Paolo[1513], che nel primo dì dell'anno
presente il clero della metropolitana di Milano, nonostante che sapesse
favorevole a _Grossolano_ arcivescovo il romano pontefice, pure il
dichiararono decaduto da quella sedia, e in luogo suo elessero
arcivescovo _Giordano da Clivi_, uomo per altro ignorante e di non molta
levatura. Chiamarono dipoi tre suffraganei di quella metropoli per
ordinarlo, cioè _Landolfo_ vescovo d'Asti, _Arialdo_ vescovo di Genova e
_Mamardo_, ossia Mainardo, vescovo di Torino. Vennero questi, ma quel
d'Asti accortosi che non erano concorsi gli altri suffraganei, e bollire
non poca mormorazione nel popolo, tentò di fuggire. Gli veniva fatto, se
le genti di Giordano non l'avessero ritenuto per forza, con anche ferire
un suo diacono, e bastonare i di lui famigli. Infine Giordano fu da essi
consecrato. Portossi poco appresso a Roma Mamardo vescovo di Torino, ed
ottenne dal papa il pallio per questo novello arcivescovo, senza che
s'intenda come esso pontefice abbandonasse Grossolano, già approvato per
legittimo arcivescovo. Ma perchè Mamardo aveva ordine di non dare il
pallio a Giordano, s'egli prima non faceva giuramento, non si sa se di
fedeltà al romano pontefice, o di non prendere l'investiture
dall'imperadore, o di qualche altra obbligazione, e Giordano ricusò di
farlo; per sei mesi ne stette senza. Ho detto che per l'esaltazione di
Giordano incorse gran mormorazione fra il popolo di Milano. Aggiugne
Landolfo, che vi fu ancora delle contese e battaglie, nelle quali ebbero
parte _Azzo_ vescovo d'Acqui e _Arderico_ vescovo di Lodi. Infatti fra
le lettere raccolte da Ulderico da Bamberga presso l'Eccardo[1514], una
se ne legge scritta in tal occasione dal medesimo Azzo vescovo
all'imperadore Arrigo, in cui l'avvisa doversi tenere in Roma un sinodo
(cioè il lateranense suddetto) _in qua asseritur, domnum papam P._
(Paschalem) _deponi et alterum debere eligi, qui omne consilium pacis,
quod cum domno P. firmastis dissolvat, pro eo quod domnus P. non audet
vos propter factas inter vos et ipsum securitates excommunicare_. Ecco
quali nuove corressero allora. Appresso aggiugne che i Milanesi aveano
eletto un altro arcivescovo (cioè Giordano), e fattolo consecrar da
alcuni suffraganei. _Quod ego videns contra imperii vestri honorem
fieri, omnino interdixi; et licet ab ipsis multum rogatus, hujusmodi
consecrationi interesse, nec assensum praebere volui, immo dedi operam
erigendi magnum parietem populi contra populum sub occasione alterius
archiepiscopi, quem pars illorum intendit deponere, viri scilicet
literatissimi, et ingenio astutissimi, et eloquentissimi, curiae vestrae
valde necessarii, cujus partem propter honorem vestrum in tantum auxi,
quod medietas populi contra medietatem populi contendit_. Parla qui di
Grossolano, a cui procura la protezion dell'imperadore, con insieme
consigliarlo di venir presto in Italia, e che a ciò non occorreva un
grande esercito. _Vestra est enim adhuc Langobardia, dum terror, quem ei
incussistis, in corde ejus vivit_. Forse perchè Grossolano fu in Roma
creduto parziale dell'imperadore, o protetto da lui, restò abbandonato,
e si lasciò correre l'elezion di Giordano.

Io non so se nell'antecedente o nel presente anno fosse scritta da papa
Pasquale un'altra lettera allo stesso imperadore Arrigo, in cui gli
notifica di non aver potuto finora riaver varii Stati spettanti alla
Chiesa romana[1515]. _Licet quidam,_ dice egli, _jussioni vestrae, in
his quae beato Petro restitui praecepistis, adhuc noluerunt obedire,
incolae videlicet Civitatis Castellanae, Castri Corcolli, Montisalti,
Montisacuti et Narnienses: Nos tamen ea, et Comitatus Perusinum,
Eugubbinum, Tudertinum, Urbevetum, Balneum Regis, Castellum Felicitatis,
Ducatum Spoletanum, Marchiam Ferraniam, et alias beati Petri
possessiones per mandati vestri praeceptionem confidimus obtinere._
Notisi che il ducato di Spoleti è chiaramente detto di ragione della
Chiesa romana. Nomina il papa anche _Marchiam Ferraniam_, ma si dee
scrivere _Firmanam_, allora occupata da Guarnieri, non osando io leggere
_Marchiam Ferrariam_, perchè Ferrara in questi tempi era in potere della
contessa Matilda, che la riconosceva dalla Sedia apostolica. _Alessio_
imperadore d'Oriente, per quanto si ha da Pietro Diacono[1516], avuta
notizia dell'indegno trattamento fatto dall'imperadore Arrigo al romano
pontefice, spedì ambasciatori a Roma per condolersi con lui, e
congratularsi coi Romani dell'opposizione fatta ad esso Arrigo. E
sperando egli di profittare di così bella occasione, propose che
volessero eleggere imperadore _Giovanni_ Comneno suo figliuolo. Può
anche essere che corressero dei regali. Acconsentirono i Romani al
trattato, ed elette circa seicento persone, le spedirono a
Costantinopoli per condurre in Italia il progettato Augusto. Non è punto
credibile che tanta gente fosse spedita colà. E perciocchè non apparisce
altro dell'esecuzion di questo disegno, bisogna immaginare ch'esso poco
stesse ad andarsene in fascio, perchè non s'arrischiarono i Romani di
condurre a fine un negozialo di tanta importanza, che potea tirar loro
addosso lo sdegno e le forze di tutta la Germania. Nel dì 13 d'aprile di
quest'anno, la contessa Matilda, dimorando nel castello di Massa del
distretto di Modena, fece una donazione al suo diletto monistero di san
Benedetto di Polirone[1517]. E nel dì 8 di maggio trovandosi al Bondeno
de' Roncori, fece donazione della corte Vilzacara col castello, broglio
e borgo di san Cesario alla chiesa di san Cesario del contado di Modena.
In quest'anno ancora, secondo i conti del Campi[1518] e d'altri storici
piacentini, per opera specialmente della suddetta zelantissima contessa
furono cacciate le monache dall'insigne monistero di san Sisto di
Piacenza, perchè la lor dissolutezza era giunta ad esser incorreggibile.
In vece di esse presero i monaci benedettini il governo di quel sacro
luogo, cavati dall'allora esemplarissimo monistero di Polirone.

NOTE:

[1512] Labbe, Concil., tom. 10. Baron., in Annal. Ecclesiast.

[1513] Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 21.

[1514] Eccard., Scriptor. med. aevi, tom. 2, p. 266.

[1515] Eccard., Scriptor. med. aevi, tom. 2, p. 274.

[1516] Petrus Diacon., Chron. Casinens., lib. 4, cap. 46.

[1517] Bacchini, Istor. di Poliron. nell'Append.

[1518] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.



    Anno di CRISTO MCXIII. Indizione VI.

    PASQUALE II papa 15.
    ARRIGO V re 8, imperad. 5.


Impariamo da Falcone Beneventano[1519] che essendosi nell'anno
precedente fabbricate varie congiure in Benevento per levare quella
città di sotto il dominio pontificio, avvertitone _papa Pasquale_ da
que' cittadini ch'erano costanti nella fedeltà, si portò colà nel dì 2
di dicembre per rimediare ai disordini. Fermossi in quella città nel
tempo del verno, e correndo il mese di febbraio, celebrò ivi un
concilio. Poscia, dopo avere scoperti gli autori di quelle trame, e
datigli in mano della giustizia, lasciato in quella città per
governatore e contestabile Landolfo della Greca, uom di gran coraggio e
prudenza, se ne tornò a Roma. Trovavasi affatto sprovveduto di danari
_Baldovino re_ di Gerusalemme, e però gli mancava il miglior nerbo per
resistere a tanti nemici infedeli che all'intorno gli facevano
guerra[1520]. Ebbe sentore che _Adelaide_ contessa di Sicilia, vedova
del defunto _conte Ruggieri_, e madre del piccolo _Ruggieri_, succeduto
a _Simone_ suo fratello nel dominio di quella isola, era principessa a
proposito per sovvenire alle di lui indigenze; perchè fama correva
ch'essa nel tempo della tutela del figliuolo avesse accumulato
grossissime somme d'oro. Però spedì ambasciatori in Sicilia per trattare
d'averla in moglie. Poco vi volle a far gustare questa proposizione
all'ambiziosa principessa; ma affinchè il figliuolo Ruggieri e i suoi
cortigiani non attraversassero a lei il conseguimento della corona, fu
proposto e conchiuso, che nascendo figliuoli da Baldovino e Adelaide,
succedessero nel regno di Gerusalemme. Ma venendo egli a mancar senza
prole, quel regno si devolvesse al figliastro Ruggieri. Portò seco
Adelaide una prodigiosa quantità di viveri, d'armi, di cavalli, e, quel
che più si sospirava, di denaro; e giunta a Tolemaide, fu con grande
solennità sposata. Ma non passarono due anni che Adelaide si trovò
delusa e tradita dal re consorte. Egli avea tuttavia vivente un'altra
moglie, presa prima di essere re[1521]. Sotto varii pretesti
ripudiatala, senza che v'intervenisse alcun giudizio della Chiesa,
l'avea forzata ad entrare nel monistero di sant'Anna di Gerusalemme.
Fece poi cattivo fine questa donna, per attestato di Bernardo tesoriere,
perchè ottenuta licenza di andarsene a visitare i parenti in
Costantinopoli, quivi s'abbandonò ad una vita disonesta. Ora gravemente
un dì infermatosi Baldovino, e rimordendolo la coscienza dell'ingiuria
fatta alla legittima moglie, per consiglio de' baroni, fece voto, se
guariva, di ripigliarla. Indi rivelò tutto ad Adelaide, con intimarle il
divorzio. S'ella, trovandosi così barbaramente ingannata, prorompesse in
pianti ed in amare invettive contra del re e degli ambasciatori
predetti, è facile l'immaginarlo. Non tardò molto essa per lo dispetto a
tornarsene in Sicilia, ma priva di que' tesori che portò a Gerusalemme,
ed accorata per questo tradimento si crede che terminasse la sua vita
nell'anno 1118. Una sì nera azione recò non poco nocumento alla
riputazione del re Baldovino e agli affari di Terra Santa. Fra gli altri
il conte Ruggieri figliuolo di essa Adelaide con tutta la corte de'
Siciliani, al vedersi così burlato, concepì tale sdegno contra di
Baldovino e de i re di Gerusalemme, che, per attestato di Guglielmo
Tirio[1522], solo fra' principi cristiani mai non diede loro soccorso
alcuno, nè curò lo stato miserabile, in cui a poco a poco si ridussero
le cose dei Cristiani in Palestina e in Soria. La città di Cremona,
siccome scrisse Siccardo[1523], da lì a cent'anni vescovo della
medesima, patì in questo anno un fierissimo incendio nel dì di san
Lorenzo. Abbiamo strumenti di donazioni fatte al monistero di Polirone
dalla _contessa Matilda_, mentre essa dimorava in Pigognaga e nel
Bondeno, vicino al Po[1524]. Era ito in Terra Santa _Grossolano_
arcivescovo, di Milano. Tornato in Italia, e inteso come Giordano avea
occupata la sua chiesa, eletto già e consecrato arcivescovo determinò di
venire a Milano: il che fu cagione che esso Giordano informato di questo
prendesse il pallio colle condizioni proposte dal papa[1525]. Venuto poi
Grossolano a Milano, coll'aiuto de' suoi parziali s'impadronì delle
torri di Porta Romana. Allora prese l'armi la fazion di Giordano, e andò
per iscacciarlo. Succederono fra le due parti dei combattimenti, ne'
quali restarono non pochi feriti e morti, non solamente della plebe, ma
anche della nobiltà. S'interposero pacieri, e proposero di rimettere la
decision di tale discordia al concilio davanti al papa. E perchè la
borsa di Grossolano restò in breve esausta, gli convenne sloggiare, con
fama nondimeno che ricavasse buona somma di danaro da Giordano per
ritirarsi. Venne egli perciò a Piacenza, e di là a Roma, per trattar
della sua causa nel tribunal pontificio. Diede fine alla sua vita nel dì
6 di gennaio dell'anno presente nel monistero di Pontidio sul Bergamasco
Liprando prete, quel medesimo che col giudizio del fuoco avea negli anni
addietro fatta guerra ad esso Grossolano, come ad arcivescovo
simoniaco[1526]. Morì in concetto di santità (il che era facile allora),
e fu detto ch'erano succeduti miracoli alla sua tomba.

NOTE:

[1519] Falco Beneventan., Chron., tom. 5 Rer. Ital.

[1520] Guillelmus Tyr., lib. 11, cap. 21. Ordericus Vital., Hist.
Eccles. Bernardus Thesaur., cap. 100, tom. 7 Rer. Ital.

[1521] Idem Bernardus, cap. 92.

[1522] Guillelmus Tyr., Hist. Hierosolym.

[1523] Sicard., in Chron. tom. 7 Rer. Ital.

[1524] Bacchini, Istor. di Poliron. nell'Append.

[1525] Landulf. junior, Hist. Mediolan., cap. 26.

[1526] Landulf. junior, Hist. Mediolan., cap. 24.



    Anno di CRISTO MCXIV. Indizione VII.

    PASQUALE II papa 16.
    ARRIGO V re 9, imperad. 4.


Avea, come dissi poc'anzi, lasciato _papa Pasquale_ per suo contestabile
e governatore di Benevento Landolfo della Greca[1527]. Contra di lui per
invidia _Roberto principe_ di Capoa, ed altri baroni normanni fecero una
congiura, e nell'agosto precedente si portarono con poderosa armata
all'assedio di quella città. Con poca fortuna nondimeno, perchè il
valoroso Landolfo, fatta co' Beneventani una sortita, li mise in fuga, e
poco mancò che non prendesse tutto il loro bagaglio. Durò nondimeno la
guerra col guasto delle campagne di Benevento; e crebbero poscia i
malanni, perchè lo stesso arcivescovo di quella città _Landolfo_ si
dichiarò contra del medesimo contestabile, e trasse dalla sua la maggior
parte del popolo, di maniera che in fine astrinsero esso contestabile a
deporre la carica. Per questa e per altre cagioni papa Pasquale II
nell'ottobre tenne un concilio in Ceperano ai confini del ducato romano,
o della Puglia, dove concorsero _Guglielmo duca_ di Puglia e _Roberto
principe_ di Capoa con circa mille cavalli. Quivi il papa diede
l'investitura della Puglia, Calabria e Sicilia al duca Guglielmo.
Falcone così scrive, e da ciò si può ricavare che i duchi della Puglia
ritenessero diritto d'alto dominio sopra la Sicilia, sovranità nondimeno
sottoposta ad un maggiore sovrano, cioè al romano pontefice. Quivi
ancora essendo forte il papa in collera contra dell'arcivescovo
Landolfo, istituì il giudizio intorno alle accuse dategli, e il depose.
Ma egli col tempo, e, se vogliam credere a Romoaldo Salernitano[1528],
coll'uso di molti regali, fu restituito nella sua dignità. Di questi
regali non parla Falcone. Da Romoaldo è riferito il suddetto concilio
all'anno seguente; ma Falcone, storico contemporaneo, merita maggior
fede. Glorioso riuscì quest'anno alle armi cristiane per la guerra
felicemente fatta ai Mori padroni dell'isole Baleari. L'onore
specialmente ne è attribuito ai Pisani. I Mori, dissi, abitanti in
quelle isole, cioè in Evizza, Maiorica e Minorica, colle lor piraterie
tenevano inquieta e danneggiata tutta la costa di Italia[1529]. Risoluti
i Pisani di far quella impresa, ebbero ricorso al buon papa Pasquale per
ottenerne la sua approvazione e benedizione. Poscia disposto un
terribile armamento per mare, con tutte le lor forze, accompagnati da
_Bosone_ cardinale legato della santa Sede e da _Pietro_ loro
arcivescovo, marciarono alla volta di que' Barbari. Questa guerra è
diffusamente narrata in un poema da Lorenzo Veronese, o da Verna[1530],
diacono del medesimo arcivescovo, ed autore di vista. Fu esso poema
pubblicato dall'Ughelli, e da me ristampato altrove. Riuscì a questa
armata nell'anno presente di conquistar l'isola d'Evizza, e di prendere
nel dì di san Lorenzo la città d'essa isola, posta in sito vantaggioso.
Ne distrussero i Pisani le mura e il cassaro, cioè la rocca, e seco
condussero prigione il governatore saraceno. Passarono poi l'armi
vittoriose all'isola di Maiorica, e vi fecero lo sbarco nella festa di
san Bartolommeo, con intraprendere l'assedio di quella città. In aiuto
de' Pisani concorsero _Raimondo_ conte di Barcellona ed altri conti di
Catalogna, di Provenza e Linguadoca.

Nell'anno presente ancora l'imperadore _Arrigo V_ celebrò in Magonza le
sue nozze con una figliuola d'Arrigo re d'Inghilterra appellata
_Matilda_[1531]. In quella solennità si presentò davanti ad esso Augusto
coi piè nudi _Lottario duca_ di Sassonia, che fu poi imperadore, per
chiedere perdono dell'essersi dianzi ribellato. Così scrive Ottone
Frisingense[1532]: il che come sussista non so; perchè nell'anno
seguente altre storie cel rappresentano coll'armi in mano contra del
medesimo Augusto. Erasi, come vedemmo, nell'anno 1090 ribellata la città
di Mantova alla _contessa Matilda_, nè a lei fin qui era venuto fatto di
poterla ricuperare[1533]. Questa contentezza fu a lei riserbata per
l'anno corrente. Cadde essa gravemente inferma, mentre dimorava a Monte
Baranzone sulle montagne di Modena, nel qual luogo si vede una donazione
da lei fatta a san Benedetto di Polirone nel dì 14 di giugno[1534]. La
fama, solita ad ingrandir le cose, in breve la diede per morta. Allora
il popolo di Mantova, siccome libero dal timore d'essa, fece uno sforzo,
e mise l'assedio a Ripalta castello della medesima contessa, e tanto lo
strinse, che i difensori stanchi capitolarono la resa, ma condizionata,
se fosse viva la lor padrona Matilda. _Manfredi_ vescovo di Mantova
intanto arrivò alla sua città, e divolgò che Matilda era tuttavia
vivente. Gli ebbe a costar la vita un sì dispiacevol avviso per
l'infuriato popolo che la desiderava morta. Nè molto stettero i
Mantovani che diedero al fuoco l'infelice castello di Ripalta. Questa
disgrazia fu per tutto il tempo della malattia di Matilda a lei tenuta
nascosa dai suoi. Ma dacchè si fu riavuta, intesone il tenore, pensò a
farne vendetta. Raunò quanti combattenti potè, formò eziandio una flotta
di navi, e con questo armamento passò all'assedio di Mantova. Sulle
prime se ne rise quella forte città; ma scorgendo la risoluta contessa
di trarre a fin quell'impresa, que' cittadini s'appigliarono a' consigli
di pace; e spediti ambasciatori alla stessa, mentre era in Bondeno,
trattarono di rendersi ad onesti patti. Seguì infatti la resa di quella
città sul fine di ottobre con gloria grande di Matilda, a cui, dopo aver
messa al dovere ne' tempi addietro anche la marca, creduta da me quella
di Toscana, nulla restò più delle perdute antiche sue giurisdizioni che
non ritornasse alle sue mani. Nel dì 8 di novembre di quest'anno la
medesima contessa, essendo nel monistero di san Benedetto di
Polirone[1535], esentò dalle albergarie de' soldati tutti i beni di que'
monaci. Ho anch'io dato alla luce un laudo proferito alla di lei
presenza per lite di persone private[1536], mentre la medesima
soggiornava nella rocca di Carpineta nel dì 22 d'aprile dell'anno
presente.

NOTE:

[1527] Falco Beneventan., in Chron.

[1528] Romualdus Salernitan., Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[1529] Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[1530] Laurent. Veronens., lib. 1 Poem., tom. 6 Rer. Ital.

[1531] Abbas Urspergensis, in Chron. Simeon Hunelmensis.

[1532] Otto Frising., in Chron.

[1533] Donizo, in Vita Mathild., lib. 2, cap. 19.

[1534] Bacchini, Istor. di Polirone.

[1535] Bacchini, Istor. di Polirone.

[1536] Antiquit. Italic., Dissert. XXXI.



    Anno di CRISTO MCXV. Indizione VIII.

    PASQUALE II papa 17.
    ARRIGO V re 10, imperad. 5.


Per attestato di Falcone Beneventano[1537], si portò in quest'anno papa
_Pasquale II_ alla città di Troia in Puglia, e quivi nel dì 24 d'agosto
tenne un concilio coll'intervento di quasi tutti gli arcivescovi,
vescovi e baroni di quelle contrade. Vi fu accettata da tutti la tregua
di Dio. Andato poscia a Benevento, dedicò la chiesa di san Vincenzo del
Volturno, e finalmente nel dì 30 di settembre se ne tornò a Roma. L'anno
fu questo in cui la celebre _contessa Matilda_ terminò il corso di sua
vita[1538]. Trovandosi ella in Bondeno de' Roncori della diocesi di
Reggio, l'assalì una fastidiosa infermità sul principio di quest'anno,
in occasione di una visita fattale da _Ponzio_, superbo abbate di
Clugnì, che tornava da Roma. Continuò il suo malore per alcuni mesi
ancora: nel qual tempo ella esercitò più che mai la sua pia liberalità
verso i monisteri di Polirone[1539] e di Canossa, e verso i canonici
regolari di san Cesario sul Modenese. Era assistita da _Bonsignore_
vescovo di Reggio. Passò in fine a miglior vita questa principessa,
gloriosa per tante azioni di pietà, di valore e di prudenza, nel dì 24
di luglio, cioè nella vigilia di san Jacopo, di cui era divotissima, e
il corpo suo seppellito nella chiesa del monistero di san Benedetto di
Polirone, quivi riposò, finchè nell'anno 1655 per cura ed ordine di papa
Urbano VIII trasportato a Roma, fu magnificamente collocato nella
basilica vaticana in memoria dell'insigne sua beneficenza verso la
Chiesa romana. Aveva ella negli anni addietro, siccome dicemmo, lasciata
erede di tutti i suoi beni essa Chiesa: eredità nondimeno che fu
seminario di nuove lite fra i romani pontefici e gl'imperadori; e per
assaissimi anni poi la troviamo tra essi disputata, finchè il tempo,
medico di molte malattie politiche, diede fine a quella contesa. Nè
tardò a volare in Germania la nuova della morte di questa insigne
principessa, di cui scrive l'Urspergense[1540]: _Qua foemina sicut nemo
nostris in temporibus ditior ac famosior, ita nemo virtutibus et
religione sub laica professione reperitur insignior_. Arrigo imperadore
fu da' suoi ministri mosso, ed anche dai parziali d'Italia con lettere
invitato a venire a prendere il possesso di tutti i di lei beni. Per
quali titoli, non si vede ben chiaro. Finch'egli pretendesse i regali e
feudali, come fu la marca della Toscana, Mantova ed altre città, se ne
intende il perchè. Ma egli pretese ancora gli allodiali e patrimoniali,
e ne entrò anche in possesso, per quanto si vedrà. Probabilmente non
dovette in tal congiuntura tacere la linea degli Estensi di Germania,
cioè di _Guelfo V_ ed _Arrigo il Nero_ duchi di Baviera, perchè, secondo
i patti del matrimonio d'esso Guelfo colla medesima contessa, al primo
doveano pervenire tutti i di lei beni. Certo è che sotto l'imperador
Federigo I, come si dirà a suo luogo, fu loro fatta giustizia in questo
particolare. Ora l'imperadore Arrigo, a cui stava forte a cuore il
cogliere questa pingue eredità, si dispose a calare, subito che gli
affari gliel permetteano, in Italia. Continuò ed ebbe fine in quest'anno
la guerra de' Pisani contra delle isole Baleari[1541]. Riuscì loro dopo
lunghe fatiche e combattimenti, e colla strage di moltissime migliaia di
Saraceni, di prendere la città di Maiorica, e di distruggerla, per
togliere quel nido ai corsari africani. Pieni poi delle spoglie di
quegl'infedeli, e colmi di gloria se ne tornarono alla lor patria. Se
anche l'isola e città di Minorica restasse da loro soggiogata e
disfatta, nol so io dire di certo. Gli Annali Pisani dicono di sì. Ben
so io che Evizza non è Minorica, come si figurò il Tronci[1542] ne' suoi
Annali di Pisa. Di sopra all'anno 1097 osservammo che _Folco_ marchese,
figliuolo di Azzo II marchese, fu quegli che propagò la linea italiana
dei marchesi d'Este. Leggonsi tre atti a lui e all'anno presente
spettanti[1543]. Il primo è un placito da lui tenuto nella grossa terra
di _Montagnana_ (appellata _populosa_ da Rolandino) nel dì 31 di maggio,
in cui veggiamo proferita dal medesimo principe una sentenza in favore
del nobilissimo monistero delle monache di san Zacheria di Venezia per
beni posti nell'altra insigne terra di _Monselice_: dal che comprendiamo
ch'esso marchese Folco dominava nell'una e nell'altra d'esse terre. Il
secondo strumento, stipulato in _Montagnana_ nel dì 10 di giugno di
quest'anno, contiene una donazione fatta da esso marchese Folco al
monistero di Polirone _pro ordinatione testamenti Garsendae genitricis
meae_, cioè di Garsenda principessa del Maine sua madre, di cui più
volte si è parlato di sopra. Un'altra donazione, da lui fatta al
monistero della Trinità di Verona nel dì 2 di ottobre dell'anno
presente, fu stipulata _in Caminata constructa ante ecclesiam
beatissimae sanctae Teclae virginis sita in villa, quae est ante castrum
Esti_. Lo stesso marchese s'intitola _habitator in loco, qui dicitur
Esti_. Non usavano per anche questi principi il titolo di _marchesi
d'Este_, ma erano padroni d'Este, o, per dir meglio, compadroni; perchè
vedremo che anche l'altra linea estense dei duchi di Baviera riteneva
una terza parte del dominio di quella nobil terra e di Rovigo, e
dell'altre sottoposte allora ad essi marchesi. Nell'anno presente
_Ordelafo Faledro_ doge di Venezia[1544] con grossa armata navale
ricuperò la città di Zara, che pochi anni prima gli era stata tolta da
_Calomanno_ re d'Ungheria.

NOTE:

[1537] Falco Benevent., tom. 5 Rer. Ital.

[1538] Donizo, in Vita Mathild., lib. 2, cap. 20.

[1539] Bacchini, Istor. di Polirone.

[1540] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1541] Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[1542] Tronci, Annal. Pisani.

[1543] Antichità Estensi, P. I, cap. 32.

[1544] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXVI. Indizione IX.

    PASQUALE II papa 18.
    ARRIGO V re 11, imperad. 6.


Nel dì 6 di marzo di quest'anno tenne _papa Pasquale_ un concilio nella
basilica lateranense[1545], in cui di nuovo riprovò e condannò il
privilegio delle investiture da lui contra sua voglia accordato
all'imperadore Arrigo. Ma ebbe in tal occasione bisogno della sua
pazienza; perchè _Brunone vescovo_ di Segna, tenuto dopo la morte per
santo, ebbe ardire di trattar da eretico lo stesso papa, per avere
accordato quell'indulto. Gli convenne ancora sofferire che que' vescovi
riguardassero come scomunicato esso imperadore senza che egli nondimeno
volesse lasciar uscire decreto contra della di lui persona. Fu anche
agitata in quel concilio la lite dell'arcivescovato di Milano, pendente
fra _Grossolano_ e _Giordano_, amendue presenti al suddetto concilio.
Perchè il primo era passato dalla chiesa di Savona a quella di Milano, e
si trovava che tal traslazione, siccome cagion di tumulti e guerre,
tornava in danno dell'anime e dei corpi; perciò fu essa riprovata e
giudicato in favor di Giordano. Dianzi era stato assoluto Grossolano
dalle accuse di simonia, e tenuto fu in Roma per legittimo arcivescovo.
Gran concetto si avea della di lui dottrina, avendolo lo stesso papa
adoperato per confutare lo scisma de' Greci. Come egli ora cadesse, non
se ne sa la vera cagione, perchè il passare da una chiesa all'altra da
gran tempo era in uso, nè più si badava agli antichi canoni che lo
proibivano. Forse la caduta sua è da attribuire all'essere stato
conosciuto uomo intrigante, capriccioso e predominato dall'ambizione, e
però poco prudente e molto inquieto. Landolfo da san Paolo[1546],
storico contemporaneo, parla di questo concilio, e della deposizion di
Grossolano, con aggiugnere che egli non volle tornare a Savona, ma per
un anno e quattro mesi seguitò a dimorare in Roma in san Sabba,
monistero de' Greci, dove terminò i suoi giorni nell'anno seguente.
Tornò a Milano il vittorioso arcivescovo Giordano, e un dì raunato il
clero e popolo, salito con _Giovanni da Crema_ cardinale romano sul
pulpito della metropolitana, pubblicamente scomunicò l'imperadore
Arrigo, a cagion, senza dubbio, dell'aver fatto prigione il papa, ed
estorto il privilegio delle investiture. Con questo segreto patto dovea
egli aver conseguita la vittoria suddetta. Non volea già il pontefice
fulminar le censure contra di esso Augusto, ma non ostava che gli altri
le fulminassero, e il sacro collegio lo esigeva. Abbiamo dall'Abbate
Urspergense che il suddetto imperadore verso il fine di febbraio[1547]
_in Italiam se una cum regina, totaque domo sua contulit, ac circa Padum
negotiis insistens regni, legatos ad Apostolicum pro componendis
caussis, quae iterum regnum et sacerdotium disturbare coeperunt,
suppliciter destinavit. Ponzio abbate_ di Clugnì, come parente del papa,
fu principalmente adoperato in questo maneggio. Portossi in tal
congiuntura esso Arrigo a visitar la maravigliosa città di Venezia. Ciò
chiaramente apparisce da un suo proclama, da me dato alla luce[1548],
con cui egli _IV idus marcii in regno Veneciarum_ (si noti questa
espressione gloriosa per la repubblica veneta) _in palatio ducis, anno
ab Incarnatione Domini MCXVI, Indictione VIIII_, diede varii ordini in
favor delle monache di san Zacheria di Venezia, essendovi presenti
_Ordelaffus Dei gratia Venetiae dux, et Henricus Welphonis ducis
frater_, con alcuni vescovi e nobili. Vien confermata la stessa verità
dall'accuratissimo Andrea Dandolo, che così scrive[1549]: _Mense marcii
MCXVI Henricus V imperator Venetias accedens, in ducali palatio
hospitatus est, liminaque beati Marci, et alia sanctorum loca cum
devotione maxima visitat, et urbis situm, aedificiorumque decorem, et
regiminis aequitatem multipliciter commendavit. Curiam etiam suorum
principum tenens, pluribus monasteriis immunitatum privilegia de suis
possessionibus italici regni concessit, in quibus ducalem provinciam
regnum appellat_. Per un documento da me pubblicato[1550] si conosce che
il medesimo Augusto nel dì 12 di maggio si trovava in Governolo sul
Mantovano, dove come persona privata fece donazione di beni al monistero
di Polirone, e alla chiesa di Gonzaga _pro mercede et remedio animae
meae et comitissae Mathildis_. Segno è questo che Arrigo s'era messo in
possesso della vasta eredità della contessa Matilda. A quell'atto
intervenne anche _Guarnieri giudice_, che noi diciamo ora _dottor di
legge_. In un placito tenuto a dì 6 del suddetto mese di maggio[1551] da
esso Augusto nel medesimo luogo di Governolo, e in un altro[1552]
spettante a' canonici regolari di Melara, si vede nominato _Warnerius
bononiensis_. Con tali documenti ho io confermato[1553] quanto scrive
l'Abbate Urspergense all'anno 1126; cioè[1554]: _Eisdem temporibus
dominus Wernerius libros legum, qui dudum neglecti fuerant, nec quisquam
in eis studuerat, ad petitionem Mathildis comitissae renovavit_, ec.
Credette il Sigonio che s'ingannasse l'Urspergense nell'attribuir questa
gloria alla contessa Matilda, che era già defunta. Ma l'Urspergense, che
aveva all'anno 1115 riferita la morte d'essa contessa, ben sapea ch'essa
nell'anno 1126 non era in vita. Però volle dire che Guarnieri fioriva in
questi tempi, ma che molto prima, ad istanza di Matilda, aveva
intrapreso di spiegare i Digesti e l'altre leggi di Giustiniano
trascurate ne' secoli addietro, e certamente conosciute prima che i
Pisani portassero (se è pur vero) da Amalfi le Pandette appellate
pisane, ed oggidì fiorentine. Ora certo è, confessandolo anche gli
stessi dotti bolognesi, che questo _Warnieri_, ossia _Guarnieri_,
chiamato da altri _Irnerio_, il primo fu che aprisse in Bologna scuola
di giurisprudenza romana; e di qui ebbe il suo primo principio, siccome
ho altrove osservato[1555], lo studio di Bologna, consistente a tutta
prima in un solo lettor di leggi, ma di mano in mano accresciuto di
lettori dell'altre scienze ed arti: per la qual diligenza si formò
un'università, che portò poi il vanto di primaria fra tutte le italiane:
giacchè oggidì si sa anche in Bologna essere un'impostura del secolo
susseguente il diploma di Teodosio minore, da cui si dice fondata fin
dall'anno di Cristo 431 l'università bolognese.

Benchè patisca qualche difficoltà un altro documento da me
prodotto[1556], appartenente ad essa città di Bologna; pure vo io
credendo sussistente notizia che quel popolo nel dì 7 di maggio del
presente anno, mentre l'imperadore Arrigo dimorava in Governolo,
ottenesse da lui la remission delle offese, e una conferma de'
privilegii e delle consuetudini di quella città, la quale in questi
tempi non men della Romagna riconosceva per suo sovrano l'imperadore
ossia il re d'Italia. Dopo aver tenuto il concilio lateranense, papa
_Pasquale II_ nello stesso mese di marzo ebbe non poche inquietudini e
travagli: se pure questo avvenimento non si dee riferire all'anno
precedente[1557]. Mancò di vita il prefetto di Roma. Pietro di Leone
faceva una gran figura allora in essa città, e da Benzone vescovo
scismatico d'Alba vien chiamato _Giudeo_, perchè Ebreo fatto Cristiano.
Orderico Vitale[1558] all'anno 1119 scrive che un figliuolo d'esso
Pietro fu sprezzato da tutti _propter odium patris ipsius, quem
iniquissimum foeneratorem noverunt_. Ora costui attese a far succedere
in quella illustre carica un suo figliuolo coll'appoggio del papa. Ciò
saputosi dai Romani, non perderono tempo ad eleggere prefetto un
figliuolo del prefetto defunto, tuttochè di età non per anche atta ad un
tal ministero, perchè fanciullo. Indi il presentarono al papa, acciocchè
il confermasse: cosa che egli ricusò di fare, e si dee ben avvertire per
conoscere intorno a questo l'autorità del sommo pontefice. Quindi si
venne alle minaccie, e poscia alla guerra ne' giorni della settimana
santa e di Pasqua fra le genti armate del papa ed esso popolo romano.
Tolomeo, uno de' principali Romani, e zio del giovinetto prefetto,
benchè sulle prime prendesse la protezion del papa, e ne ottenesse
perciò la Riccia, pure non istette molto a rivoltarsi contra di lui. E
perchè dalle soldatesche pontificie fu fatto prigione esso nipote di
Tolomeo fuori di Roma, lo stesso Tolomeo con un corpo d'armati andò a
liberarlo dalle loro mani. Un tal fatto tirò dietro la ribellion di
molte terre in quei contorni e della Marittima, e di quasi tutta Roma.
Il buon papa, a cui non piaceva il comperarsi la quiete collo
spargimento del sangue, amò meglio di ritirarsi fuor di Roma a Sezza.
Durante questo contrasto, i Romani scaricarono il lor furore contro le
case di Pietro Leone e de' suoi aderenti. Andò poscia a poco a poco
calando questo fuoco, in guisa che, secondo Falcone Beneventano, il papa
rientrò in Roma e nel palazzo del Laterano. I Romani ribelli a poco a
poco tornarono alla di lui divozione ed ubbidienza.

NOTE:

[1545] Abbas Urspergensis, in Chron. Labbe, Concilior., tom. 10.

[1546] Landulfus junior, Hist. Med., cap. 29.

[1547] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1548] Antichità Estensi, P. I, cap. 29.

[1549] Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1550] Antiquit. Ital., Dissert. XI.

[1551] Antiquit. Ital., Dissert. XLIII.

[1552] Ibidem, Dissert. XXXI.

[1553] Ibidem, Dissert. XLIV.

[1554] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1555] Antiquit. Italic., Dissert. XLIV.

[1556] Antiq. Ital., Dissert. XI.

[1557] Pandulfus Pisanus, in Vita Paschalis II. Falco Beneventanus, in
Chron.

[1558] Orderic. Vital., Hist. Eccles., lib. 12.



    Anno di CRISTO MCXVII. Indizione X.

    PASQUALE II papa 19.
    ARRIGO V re 12, imperad. 7.


Funestissimo riuscì quest'anno all'Italia e Germania[1559]. Era tutta
sossopra la Germania per le guerre civili che la laceravano, sostenendo
alcuni principi il partito dell'imperadore, ed altri usando l'armi, e
tutto dì fabbricando congiure contra di lui. Vi si fece anche sentire un
terribil tremuoto, di cui simile non restava memoria. Ma questo vieppiù
micidiale si provò in Italia. Per attestato dell'Annalista
Sassone[1560], _Verona civitas Italiae nobilissima aedificiis concussis,
multis quoque mortalibus obrutis corruit. Similiter in Parma, et
Venetia, aliisque urbibus, oppidis, et castellis non pauca hominum
millia interierunt_. In Cremona, per attestato di Sicardo[1561], cadde,
fra gli altri edifizii, la cattedrale. Cominciò questo flagello sul
principio dell'anno, e per quaranta giorni si andarono sentendo varie
altre funestissime scosse _per universam fere Italiam_, come lasciò
scritto Pietro Diacono[1562]. Landolfo da san Paolo[1563] anch'egli
parla di questo spaventevole tremuoto, _qui regnum Longobardorum penitus
commovit et quassavit, et me nimirum_ (ovvero _nimium_) _vigilare
fecit_. Vidersi ancora nuvoli di color di fuoco e sangue vicini alla
terra, e corse anche voce d'altri molti prodigii, prodotti forse
piuttosto dall'apprensione, che realmente accaduti, i quali però
sparsero il terrore dappertutto. Nel qual tempo _Giordano arcivescovo_
di Milano tenne un concilio, al quale intervennero i suoi suffraganei
coi consoli e magistrati di quella città. Ora il rumore di tante
calamità e dei divolgati strani prodigii s'accrebbe non poco in quei
creduli tempi, con fama ancora di sangue piovuto dal cielo; e servirono
tutti questi successi a far più che mai desiderare all'Augusto Arrigo la
pace colla Chiesa. Però spedì varii ambasciatori a trattarne col papa,
ma senza frutto. Perciocchè confessava bensì il pontefice di non averlo
scomunicato, ma che la scomunica fulminata contra di lui dai concilii,
vescovi e cardinali, principali membri della Chiesa, non si potea levare
se non coll'assenso e consiglio d'essi. Arrigo, mal soddisfatto di tali
risposte, credette meglio di passare a Roma stessa per trattar più da
vicino i suoi affari col sommo pontefice. E tanto più l'animava a questo
viaggio la buona corrispondenza che passava fra lui e la nobiltà romana.
Allorchè egli intese nell'anno precedente la discordia insorta fra esso
papa e i Romani a cagion di Pietro di Leone, per attestato di Pietro
Diacono[1564], _xenia imperialia urbis praefecto et Romanis transmisit,
adventum suum illis praenuntians affuturum_. Infatti, venuta la
primavera, l'Augusto Arrigo coll'esercito suo si portò a Roma. Scrive
Pandolfo Pisano[1565], che i suoi aderenti e consiglieri furono l'abbate
di Farfa, già due o tre volte condannato ad avere la testa recisa dal
busto a cagione de' sacrilegii e delle sedizioni sue contra del papa, e
Giovanni e Tolomeo nobili romani. Fece egli guerra ad alcune terre e
castella fedeli al pontefice: cose bensì di poco momento, ma che
nondimeno mossero il popolo e la plebe di Roma ad accoglierlo con plauso
e con una specie di trionfo, ma senza che gli venisse incontro niuno de'
cardinali, vescovi e clero romano. Poscia cercò di far pace col papa, il
quale, al primo sentore della venuta di lui, subito uscì fuori di Roma,
e andossene a Monte Casino[1566], ed indi per Capoa a Benevento. Erano i
maneggi d'esso pontefice di formare una lega del principe di Capua, del
duca di Puglia, e degli altri baroni normanni, per opporsi al vicino
Arrigo. Poca disposizione dovette egli trovare in quei principi. Intanto
Arrigo, parte con regali, parte con promesse, si guadagnò gli animi de'
consoli, senatori e magnati romani. Diede per moglie Berta sua figliuola
a Tolomeo console, figliuolo di un altro Tolomeo già console; il quale,
se si vuol riposare sull'attestato di Pietro Diacono suo parente, _ex
Octavia stirpe progenitus erat_. Si sarebbe trovato quello storico in
uno non lieve imbroglio, se avesse preso a recar pruove di questa
gloriosa genealogia. Ma neppure in quei barbari tempi vi era scarsezza
di adulatori, e di chi adulava sè stesso. Confermò Arrigo al medesimo
Tolomeo tutti i beni e stati a lui provenuti da Gregorio suo avolo.

Saltò poscia in testa ad esso Augusto di farsi coronare di nuovo nella
basilica vaticana, e in una magnifica congregazion de' Romani fece di
grandi sparate, con esporre la sua ardente inclinazione alla pace; ma
gli fu risposto a tuono dagli ecclesiastici, che rovesciarono sopra di
lui la colpa delle discordie e dei disordini, senza che in lui apparisse
ombra di pentimento. In somma, giacchè in Roma non v'era, nè vi voleva
essere papa Pasquale, nel dì di Pasqua fecesi coronare in san Pietro da
_Burdino_, altrimenti appellato _Maurizio_ arcivescovo di Braga, che due
anni prima, uscito di Spagna, con grande sfarzo era venuto a Roma a
cagion di alcune differenze coll'arcivescovo di Toledo. Costui era
allora sì caro a papa Pasquale, che, in occasion della venuta a Roma
dell'imperadore Arrigo, lo spedì a lui per trattare della sospirata
concordia. Ma lo ambizioso prelato lasciossi talmente guadagnare dalle
carezze e promesse d'Arrigo, che s'indusse a dargli la corona: azione
procurata con tutto studio dall'imperadore, acciocchè apparisse, che se
non la potea avere dal papa, la riceveva almen dalle mani di chi facea
la figura di legato apostolico. Ma ciò appena s'intese alla corte
pontificia, residente allora in Benevento, che il papa, intimato un
concilio nel mese di aprile[1567], scomunicò esso Burdino, anzi il
depose, come costa da alcune antiche memorie. Venuta poi la state, e
temendo l'Augusto Arrigo l'aria e i caldi di Roma, se no tornò in
Lombardia a soggiornare in luoghi di miglior aria e fresco.
Verisimilmente Arrigo il Nero duca di Baviera, della linea estense di
Germania, dovette in queste congiunture far la sua corte ad esso
imperadore[1568]. Noi il troviamo non solamente in Italia, ma anche
nella nobil terra d'Este, dove nel dì 4 d'ottobre del presente anno
tenne un placito, ed accordò la sua protezione al monistero di santa
Maria delle Carceri, coll'imporre la pena di due mila mancosi d'oro ai
contravvenienti. Dal che siam condotti a conoscere che anche la linea
estense dei duchi di Baviera riteneva almeno la sua parte nel dominio
d'Este, e nell'eredità del marchese Azzo II. Dalla Cronica del monistero
di Weingart[1569] siamo avvertiti che fra la sua linea e quella de'
marchesi estensi durò un pezzo discordia e guerra a cagion di tale
eredità. Forse il duca Arrigo, prevalendosi in quest'anno del buon
tempo, mentre l'imperadore colla sua armata si trovava in quelle parti,
si mise in possesso d'Este. Come poi si componessero queste liti, lo
vedremo all'anno 1154. Infestarono nell'anno presente gli Ungheri la
Dalmazia, siccome vogliosi di ritorre ai Veneziani la città di
Zara[1570]. Con una poderosa flotta di navi, carica di cavalleria e
fanteria, passò a quella volta _Ordelafo Faledro_ doge di Venezia.
Attaccò battaglia con que' Barbari, ma ebbe la disgrazia di lasciarvi la
vita. Fu riportato a Venezia il di lui cadavero, ed eletto doge in sua
vece _Domenico Michele_, benchè vecchio, pieno nondimeno di spiriti
guerrieri, di prudenza e di religione. Da un documento, ch'io ho dato
alla luce[1571], si raccoglie che in questi tempi _Guarnieri_ era
tuttavia duca di Spoleti e marchese di Camerino. Da lui o da un altro
dello stesso nome prese poi quella che oggidì si appella marca d'Ancona,
la denominazione di _Marca di Guarnieri_, come ho provato altrove[1572].
Apparisce da un altro documento[1573] che in questi medesimi tempi era
marchese di Toscana _Rabodo_, messo a quel governo dall'imperadore.

NOTE:

[1559] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1560] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[1561] Sicard., in Chron.

[1562] Petrus Diaconus, Chron. Casin., lib. 4, cap. 62.

[1563] Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 36.

[1564] Petrus Diaconus, Chron. lib. 4, cap. 60.

[1565] Pandulfus Pisanus, in Vita Paschalis II.

[1566] Petrus Diaconus, Chron. Casin., lib. 4, cap. 60.

[1567] Falco Beneventan., in Chron.

[1568] Antichità Estensi P. I, cap. 29.

[1569] Chron. Weingart., tom. 1 Scriptor. Brunswic. Leibnitii.

[1570] Dandul. in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1571] Antiquit. Italic., Dissert. V, pag. 173.

[1572] Antichità Estensi, P. I.

[1573] Antiquit. Italic., Dissert. VI, pag. 315.



    Anno di CRISTO MCXVIII. Indizione XI.

    GELASIO II papa 1.
    ARRIGO V re 15, imperad. 8.


Abbiamo da Pandolfo Pisano[1574], scrittore contemporaneo della vita di
_Pasquale II_, che questo pontefice nello autunno dell'anno precedente
era venuto ad Anagni. Quivi per la vecchiaia e per li patimenti fatti
cadde infermo, e si ridusse a tale, che i medici il davano per ispedito.
Tuttavia si rimise alquanto in forze, di maniera che potè venire a
Palestrina, dove celebrò il santo Natale ed anche l'Epifania, e congedò
gli ambasciatori di _Alessio Comneno_ imperadore d'Oriente, il quale
finì appunto i suoi giorni in quest'anno, con aver per successore
_Giovanni_ suo figliuolo. Ciò fatto, coraggiosamente venne il buon papa
con un corpo d'armati alla volta di Roma, _et liberaturus beati Petri
basilicam, incautis hostibus Romam in porticum venit_. Legge il padre
Papebrochio _in portica_, e spiega tal parola _in lectica_. Ma è da
sapere che il portico di san Pietro contiguo alla basilica vaticana, e
spesse volte menzionato nelle antiche storie, volgarmente veniva
chiamato la _portica_. Però _in portica_ altro non è ivi che _porticum_,
come ha il testo della biblioteca estense, di cui mi son servito io
nell'edizion delle Vite di Pandolfo Pisano. Tal timore arrecò la venuta
del pontefice in quel luogo al prefetto di Roma e a Tolomeo, capi de'
sediziosi romani, che già pensavano a nascondersi. Ma aggravatasi
l'infermità del pontefice, mentre stava preparando le macchine militari
per cacciar colla forza da san Pietro i nemici, questa il condusse al
fine de' suoi giorni nel dì 21 di gennaio come pruova il padre
Pagi[1575]. Piissimo, saggio ed ottimo pontefice, che in tempi
sommamente torbidi si seppe regolare con prudenza, carità e
mansuetudine; e merita scusa se nella sua prigionia non fece di meglio.
Vero è che il cardinal Baronio[1576] non gli sa perdonare, perchè mai
non si volesse indurre dipoi a scomunicar Arrigo V, dopo gli strapazzi
ricevuti da lui, con dire ch'egli _visus est languescere et hebescere_,
e che per non avere aderito ai cardinali, i quali proferirono essa
scomunica, _magnam ipse sibi notam inussit, summam vero laudem sibi
pepererunt cardinales_. Questo papa nondimeno non già biasimo, ma lode
riporterà di aver così operato presso chiunque rifletterà che in tal
maniera diede egli a conoscere la delicatezza della sua coscienza.
Rivocò egli la concession dell'investiture, perchè era obbligato a non
approvar quel disordine. Per conto poi di Arrigo, niun ostacolo riteneva
i cardinali dallo scomunicarlo; ma il buon papa non conobbe dall'un
canto necessarie le censure, e dall'altro gli stava davanti agli occhi
l'avere col giuramento chiamato Dio in testimonio della sua promessa di
non fulminare contra dell'imperador la scomunica. Secondo il Baronio,
non teneva quel giuramento; ma meglio fia il credere ad un papa, ch'esso
teneva in quella congiuntura. Almeno poteva esserci dubbio, e il buon
pontefice volle eleggere la parte più sicura, con osservar la parola e
il giuramento fatto, e lasciar correre intanto la scomunica de'
cardinali e d'altri contra d'Arrigo: il che era bastante al bisogno. Fu
poi portato nel dì seguente il corpo imbalsamato d'esso _Pasquale II_
alla sepoltura nella basilica lateranense in un mausoleo: al che niuno
de' Romani fece opposizione, giacchè si trattava di ammetterlo morto.
Tre giorni dopo la morte del papa si raunarono i vescovi e cardinali con
alquanti senatori e consoli romani per trattare dell'elezion del
successore[1577]. Cadde questa sopra la persona di _Giovanni Gaetano_,
già monaco casinense, poscia cardinale e cancelliere della santa romana
Chiesa, vecchio venerando per l'età e più per le sue virtù e per
gl'illibati costumi. Abbiamo la sua Vita elegantemente scritta da
Pandolfo Pisano, autore contemporaneo, ed illustrata da Costantino
Gaetano abbate benedettino. Prese poscia il nome di _Gelasio II_.

Ma appena si sparse la voce del papa eletto, che Cencio Frangipane, uno
dei fazionarii dell'imperadore, con una mano di masnadieri ruppe le
porte della chiesa, prese il pontefice eletto per la gola, con pugni e
calci il percosse, e a guisa di un ladrone il trasse alla sua casa, e
quivi l'imprigionò. All'avviso di questo esecrabil attentato, furono in
armi Pietro prefetto di Roma, Pietro di Leone con altri nobili, e dodici
rioni della città coi Trasteverini; e saliti in Campidoglio, spedirono
tosto istanze e minacce ai Frangipani, perchè rimettessero in libertà il
papa. Fu egli in fatti rilasciato, e trionfalmente condotto al palazzo
del Laterano, quivi con tutta pace cominciò a dar udienza alla nobiltà
romana, che in copia concorreva ad onorarlo. Si andava intanto divisando
di aspettar le quattro tempora, nelle quali l'eletto pontefice, che
solamente era diacono, si potesse promuovere al presbiterio e consecrar
papa: quando eccoti nuova una notte che l'imperadore Arrigo era
segretamente arrivato con gente armata nel portico di san Pietro[1578].
Trovavasi egli sul Padovano, o, per dir meglio, ne' contorni del Po
verso Torino, come ha Landolfo da san Paolo; e udita appena la morte di
papa Pasquale, frettolosamente si mise in viaggio coll'esercito alla
volta di Roma, e colà all'improvviso arrivò nel dì 2 di marzo, quando
egli avea dianzi fatto sapere a Roma che solamente per Pasqua volea
venirvi. Ora all'avviso di così impensato arrivo, spaventato il papa,
con tutta la sua corte si ritirò per quella notte in una casa privata, e
la seguente mane imbarcatosi con tutti i suoi in due galee, pel Tevere
discese al mare. Ma si trovò terribilmente gonfio esso mare con pioggia
e tuoni; lo stesso Tevere era in tempesta; però convenne prendere terra.
_Ugo cardinale_ d'Alatri, col benefizio della notte, prese il papa sulle
sue spalle, e miselo in salvo nel castello d'Ardea, perciocchè già i
Tedeschi battevano le rive di quel fiume. Essendo ritornati costoro la
mattina a Porto, giurarono i cortigiani del papa che il papa era
fuggito; ed essi perciò si ritirarono. Fu ricondotto il pontefice in
nave, e dopo varii pericoli nel mare tuttavia grosso, arrivò a
Terracina, e di là a Gaeta, patria del medesimo papa, dove con gran
solennità si vide accolto. Colà concorsero varii arcivescovi, vescovi ed
abbati per onorarlo. Vi spedì anche l'imperadore i suoi messi per
pregarlo di ritornare a Roma, a farsi consecrare, e mostrando gran
premura di assistere ad una tal funzione, e che questa sarebbe la
maniera più facile per ristabilir l'unione. E non facendolo, aggiunse
minaccie. Non parve al saggio pontefice sano consiglio il fidarsi di un
principe che avea sì sonoramente perduto il rispetto al suo
predecessore, con cui anch'egli fu fatto prigione. E per conto del
trattato di pace[1579], fece sapergli che vi darebbe volentieri mano in
luogo e tempo proprio, cioè in Milano o in Cremona, per la festa di san
Luca. Scelse il pontefice queste due potenti città, perchè già divenute
libere e divotissime de' sommi pontefici; giacchè egli non si potea
fidar de' Romani, gente venale in que' tempi, e tante volte provati da'
suoi predecessori e da lui stesso per poco fedeli. Fu egli poscia
ordinato prete e vescovo nelle quattro tempora di marzo, alla qual
funzione, oltre ad una gran copia di prelati e d'innumerabil popolo,
intervennero ancora _Guglielmo duca_ di Puglia e Calabria, _Roberto
principe_ di Capoa, e _Riccardo_ dall'Aquila duca di Gaeta, principi che
in quella occasione giurarono fedeltà ed omaggio ad esso papa Gelasio,
siccome a sovrano temporale de' loro Stati. Accorgendosi intanto
l'imperadore Arrigo che non vi restava apparenza di poter condurre a'
suoi voleri il papa, passò ad un eccesso troppo indegno di principe
cristiano, e di chi voleva essere nominato e creduto difensore della
Chiesa romana. Cioè unito con que' pochi o molti nobili romani che
stavano attaccati al suo partito, fece dichiarar papa, voglio dire
antipapa, _Maurizio Burdino_ (che già vedemmo arcivescovo di Braga, e
scomunicato dal medesimo papa Pasquale II), _die quadragesimo quarto
post electionem nostram_, dice papa Gelasio nella lettera scritta ai
vescovi e principi della Francia. Per conseguente la promozione di
questo mostro dovette succedere circa il dì 9 di marzo: il che vien
confermato da Landolfo da san Paolo[1580], che la scrive avvenuta
_septimo idus martii_. Aggiugne questo istorico che Arrigo fece valere
presso i Romani la risposta data da Gelasio di discutere la controversia
del papato in Milano o in Cremona, e che essi _clamaverunt: numquid
honorem Romae volunt illi transferre Cremonae? Absit_. Però si animarono
ad eleggere un altro papa. Oltre a ciò, _magister Guarnerius de Bononia,
et plures legis periti populum romanum convenerunt_, per fargli credere
che si potea passare a quella sacrilega elezione e consecrazione. Questo
è il medesimo Guarnieri di cui s'è parlato di sopra all'anno 1116.
Veggasi che gran sapere e che buona coscienza avesse questo sì decantato
restitutore della giurisprudenza romana. Prese l'empio ed ambizioso
Burdino il nome di Gregorio VIII, e fu condotto al palazzo del Laterano,
dove fece da papa per tre mesi, predicò al popolo, ed anche nel dì 2 di
giugno coronò Arrigo nella basilica vaticana.

Da Gaeta passò papa Gelasio a Capoa. S'era avuto qualche sentore in
Gaeta della promozione dell'antipapa, in Capoa se n'ebbe la
certezza[1581]; e però, secondo Pietro Diacono[1582], il papa insieme
coi vescovi e cardinali pubblicamente scomunicò l'imperadore e
l'occupatore indegno della sedia di san Pietro con tutti i loro
complici. Ciò dovette seguire prima del fine di marzo, quando sussista
che Burdino fosse promosso circa il di 9 di quel mese. Celebrò dipoi con
solennità magnifica in essa città la santa Pasqua, che in quest'anno
cadde nel dì 14 d'aprile. E perciocchè s'intese che l'imperadore aveva
assediata la Torricella, castello pontificio, il papa ordinò a Guglielmo
duca di Puglia, a Roberto principe di Capoa e agli altri baroni di
metter insieme l'armata per procedere contra di Arrigo. Si trasferì
dipoi a Monte Casino, dove con sommo onore fu ricevuto da que' monaci; e
dopo essersi fermato quivi, vennero a trovarlo i messi dell'imperadore,
ma senza sapersi con qual commessione, nè se dessero loro udienza. Se ne
tornò dipoi a Capoa; e udito che l'Augusto Arrigo era incamminato alla
volta di Lombardia, con lasciare il suo idolo a Roma, determinò di
tornarsene anch'egli alla sua residenza. Infatti segretamente entrò coi
suoi in Roma, e prese alloggio in una picciola chiesa, posta entro le
case di Stefano normanno, di Pandolfo suo fratello e Pietro Latrone
nobili romani, dove trattò dipoi con tutti i suoi parziali del clero e
della nobiltà intorno al rimedio. Alle istanze di _Desiderio cardinale_,
si arrischiò egli nel dì 21 di luglio di cantar messa nella chiesa di
santa Prassede, titolare di esso cardinale: risoluzione che gli costò
ben cara. Imperocchè, mentre era dietro a celebrare i divini uffizii,
eccoti che i Frangipani con un copioso stuolo d'armati vengono per
isforzar quelle case. Loro si opposero i suddetti nobili con Crescenzio
nipote del medesimo papa, e si diede principio ad una fiera battaglia,
offendendo gli uni, e difendendo gli altri. Intanto il papa sbigottito
ebbe maniera di mettersi in salvo: del che accertato Stefano normanno,
facilmente indusse i Frangipani a depor le armi e a ritirarsi. Trovossi
il papa nella campagna di san Paolo, e quivi, raunati i suoi, pubblicò
il suo pensiero di andarsene lungi da Roma, chiamata da lui _nuova
Babilonia_, non già per conto della Chiesa, ma perchè nel temporale
tutti vi facevano i padroni, nè pace nè fedeltà vi si potea trovare;
laonde egli diceva: _Io vorrei piuttosto, se mai fosse possibile, avere
un solo imperadore, che tanti in Roma_. Decretò pertanto vicario suo in
essa città _Pietro vescovo_ di Porto, e governatore di Benevento _Ugo
cardinale_, che seppe dipoi difendere quella città contro de' Normanni,
confermò prefetto di Roma Pietro, e dichiarò confaloniere Stefano
normanno. Quindi congregate assai navi, ed imbarcatosi con sei
cardinali, e molti nobili e cherici, felicemente navigando pervenne a
Pisa, dove con immenso onore ed allegrezza accolto nel dì 2 di settembre
spedì varii privilegii, rapportati da Costantino Gaetano, e consecrò la
chiesa primaziale di quella città. Sul principio d'ottobre passò il
pontefice a Genova, dove fece la consecrazione di quella cattedrale; e
continuato il viaggio per mare, sbarcò finalmente al monistero di santo
Egidio, una lega lungi dal Rodano, e passò alla città di Magalona, e
poscia ad Avignone e ad altre città della Francia. Nè si dee tacere,
come cosa di rilievo, che _Gualtieri arcivescovo_ di Ravenna, seguendo,
non l'esempio di alcuni suoi antecessori scismatici, ma il dovere del
suo ministero, fece in questi tempi risplendere la sua divozione verso
il vero papa Gelasio II, e con questo meritò ch'esso pontefice
rimettesse sotto la metropoli di Ravenna le chiese di Piacenza, Parma,
Reggio, Modena e Bologna, a lei tolte da Pasquale II, come costa da sua
bolla, rapportata da Girolamo Rossi[1583], data _Romae VII idus augusti,
Indictione XI, anno dominicae Incarnationis MCXIX_, oppure, come ha il
testo del cardinal Baronio[1584], _kalendis septembris, Indictione XII,
anno MCXIX_. Comunque sia, spetta all'anno presente quella bolla,
essendo ivi adoperato l'anno pisano, incominciato nel dì 23 di marzo.
Nell'anno seguente 1119, del mese d'agosto, Gelasio, lungi dall'essere
in Roma, neppur era tra i vivi. Fra quegli ecclesiastici che tennero il
partito dell'imperadore Arrigo V in queste turbolenze, si contò anche
Beraldo abbate dell'insigne monistero di Farfa co' suoi monaci. Però
nell'anno presente egli ottenne un magnifico privilegio da esso Augusto,
da me dato alla luce[1585] nella Cronica di Farfa, in cui contro il
dovere fu sottoposto a quel monistero l'altro al pari riguardevole di
san Vincenzo del Volturno: cosa che non ebbe poi effetto veruno. Intanto
l'imperadore Arrigo se ne tornò in Lorena, dove attese con carezze e
minacce a ricondurre nel suo partito que' popoli che s'erano a lui
ribellati. Non mancarono in Germania ed Inghilterra persone che
aderirono all'antipapa; ma i più di que' regni e tutta la Francia e
quasi l'Italia tennero per legittimo papa Gelasio.

Secondo gli storici pisani, fin dall'anno 1092[1586] era stata eretta in
arcivescovato la chiesa di Pisa. Ma forse perchè non ebbe effetto
l'autorità di quegli arcivescovi sopra i vescovati della Corsica, noi
abbiamo da Pietro Diacono che papa Gelasio II, allorchè fu in Pisa, in
ricompensa de' servigi a lui prestati colle lor galee dai Pisani[1587],
_primus in eadem urbe archiepiscopatum instituit_. Alcuni Annali pisani
dicono[1588] ch'egli _pisanam ecclesiam tam privilegio quam ore proprio
in metropolitanam confirmavit sublimitatem_. Altri Annali da me
pubblicati[1589] hanno: _Et dedit archiepiscopum pisanae civitati, quia
usque tunc tantum episcopus erat, excepto Daiberto, qui quamvis
declaratus, non potuit residere, quia eodem tempore fuit creatus
patriarcha civitatis sanctae Hierusalem_. Ma secondo gli Atti
dell'archivio pisano da me dati alla luce[1590], certa cosa è che
_Daiberto_ nell'anno 1094 e nel 1098 s'intitola _pisanae civitatis
archiepiscopus_. Per conseguente, è da credere che sotto Urbano II fosse
alzata al grado archiepiscopale la chiesa pisana; ma perciocchè i
vescovi della Corsica non vollero dipoi riconoscere per loro arcivescovo
il pisano, papa Gelasio in quest'anno con bolla nuova di maggiore
efficacia confermò quel diritto alla chiesa di Pisa; e che ciò sortisse
il suo effetto, lo vedremo all'anno seguente. La maledetta discordia nel
presente svegliò una arrabbiata guerra fra i popoli di Milano e di
Como[1591]. Vescovo cattolico di Como era _Guido_ in questi tempi.
Landolfo da Carcano nobile milanese, ed uno dei canonici ordinarii di
quella metropolitana, per quanto pretende il padre Tatti[1592], era già
stato investito di quella chiesa da Arrigo IV fra i re e III fra
gl'imperadori. Landolfo da san Paolo aggiunge che questi era anche stato
consecrato dal patriarca d'Aquileia suo metropolitano. Ma perchè fu
scomunicato da papa Urbano II, non potè entrar allora in possesso di
quella chiesa. Ora, dacchè fu creato l'antipapa Burdino, ed Arrigo V
venne verso la Lombardia, Landolfo dovette alzar la testa, e tentare il
possesso di quel vescovato. Ma riuscì alle genti del vescovo Guido e a'
Comaschi di farlo prigione; nella quale occasione venne morto Ottone
nipote del medesimo Landolfo, ed egregio capitano de' Milanesi. Se ne
fece gran rumore in Milano; e nobili e plebei nel consiglio della città
gridavano ad alta voce vendetta contra de' Comaschi. Sopraggiunto
l'arcivescovo _Giordano_, maggiormente accese il fuoco, con far querela
per danni recati dal popolo di Como ai beni e agli uomini del suo
arcivescovato. Fece di peggio questo arcivescovo, che ben dovea dar poco
guasto alla Scrittura; perciocchè, fatte serrar le porte delle chiese,
vi negava l'ingresso al popolo di Milano, se non andava coll'armi a
spargere il sangue de' Comaschi, e a vendicarsi della lor malignità.
Insomma i Milanesi gridarono all'armi, e a bandiere spiegate marciarono
contra di Como. Diedero battaglia presso a Monte Baradello al popolo
comasco, che, colto all'improvviso e sentendosi inferiore di forze, la
notte seguente si fuggì al suddetto monte, e lasciò libera la città al
furor dei Milanesi, i quali con saccheggiarla, e poi darla alle fiamme,
sfogarono la lor collera, e liberarono il falso vescovo Landolfo dalla
prigione. Ma i Comaschi guatando dall'alto del monte l'eccidio della
patria, portati dalla disperazione, ecco che all'improvviso arrivano
addosso ai nemici, e trovandoli sbandati e intenti solo alla preda,
molti ne uccidono, molti ne fan prigioni, e il resto mettono in fuga,
con ritornar padroni della propria città. Questo fatto servì a
maggiormente inasprire il potente popolo di Milano, il quale continuò
dipoi per più anni la guerra contro di Como, tirata in sua lega l'isola
ed altri popoli di quel lago; e giunse in fine, siccome vedremo, a dar
l'ultimo crollo a quell'infelice città. Vedesi pienamente descritta
questa guerra da un poeta comasco contemporaneo[1593]. In questi
medesimi tempi si tenne in Milano un'adunanza dal suddetto
Giordano[1594] e da' vescovi suffraganei, alla quale concorsero ancora i
marchesi e conti di Lombardia, per discolpare l'imperadore Arrigo ed
amicarlo con que' prelati. Si sa che molti parvero inclinare alla
concordia; ma l'arcivescovo cogli altri prelati sostennero il partito
della Chiesa, senza poi sapersi comprendere come i Milanesi cotanto
sostenessero contra i Comaschi il suddetto scismatico Landolfo,
riprovato dai sommi pontefici. E qui comincia a trasparire qualche
principio delle fazioni de' Guelfi e Ghibellini. I marchesi, conti ed
altri vassalli dell'imperio tenevano per l'imperadore, i prelati di
molte città col popolo gli erano contrarii.

NOTE:

[1574] Pandulfus Pisanus, P. 1, tom. 3 Rer. Ital.

[1575] Pagius, in Crit. Baron.

[1576] Baron., in Annal. Eccles. ad ann. 1112.

[1577] Pandulfus Pisanus, in Vita Gelas. II, P. I, tom. 3 Rer. Italic.

[1578] Falco Beneventanus, in Chron.

[1579] Gelas. II, Epist. apud Wilhelm. Malmesburiensem.

[1580] Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 32, tom. 5 Rer. Ital.

[1581] Pandulfus Pisanus, in Vit. Gelasii II.

[1582] Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 64.

[1583] Rubeus, Histor. Ravenn, lib. 5.

[1584] Baron., in Append. tom. 12 Annal. Eccl.

[1585] Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.

[1586] Ughell., Ital. Sacr., tom. 3.

[1587] Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 64.

[1588] Annal. Pisani, apud Ughell., Ital. Sacr.

[1589] Rer. Ital., tom. 5.

[1590] Antiquit. Italic., tom. 3.

[1591] Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 34.

[1592] Tatti, Annal. Com.

[1593] Cuman. Poeta, tom. 5 Rer. Ital.

[1594] Landulf. junior, Hist. Mediolan., cap. 34.



    Anno di CRISTO MCXIX. Indizione XII.

    CALLISTO II papa 1.
    ARRIGO V re 14, imperad. 9.


Lasciò scritto Corrado abbate Urspergense[1595] che _papa Gelasio II_
tenne in quest'anno un concilio in Vienna del Delfinato; ma non
parlandone Pandolfo Pisano, nè altri contemporanei scrittori, il padre
Pagi[1596] dedusse l'insussistenza di un tal concilio, buonamente
ammesso dal Baronio, Labbe, Costantino Gaetano, ed altri. Avea bensì il
pontefice eletta la città di Rems per celebrarvi il concilio, e trattar
ivi dell'importante affare delle investiture; ma Dio non gli concedè
tanto di vita da poter eseguire il suo pio disegno. Visitò egli intanto
alcune città e chiese; vennero in gran numero prelati ed ambasciatori a
venerarlo; e notano gli scrittori, che intesa la di lui povertà, una
immensa copia di regali e danari, o spontanei, o comandati, da ogni
banda concorse per sollevare i di lui bisogni. Orderico Vitale[1597]
nondimeno sparla per questo di lui. Si trasferì il buon pontefice,
secondo il cardinale d'Aragona, a Mompellieri, e a Tolosa e
nell'Auvergne; per attestato d'altri, a Vienna, poscia a Lione, e di là
a Mascone, dove si aggiunse alla gotta, di cui egli pativa, anche un
principio di pleuritide. Era egli incamminato alla volta del celebre
monistero di Clugnì, e però, benchè infermo, fece affrettare il viaggio,
tanto che giunse a quel sospirato sacro luogo. Quivi aggravatosi sempre
più il suo male, rendè l'anima al Creatore nel dì 29 di gennaio. In
questo preciso giorno concorrono le autorità dei migliori storici, nè
merita fede chi il fa morto alcuni giorni prima. Fu data sepoltura nella
chiesa del suddetto insigne monistero a questo pontefice, compianto da
tutti, siccome personaggio atto a recar gran bene alla Chiesa cattolica,
se Dio non l'avesse tolto sì presto. Prima di morire, chiamò egli a sè
que' pochi cardinali che erano seco[1598], e volle disegnar suo
successore _Ottone vescovo_ di Palestrina; ma questi se ne scusò con
allegare la propria debolezza, e il bisogno di spalle migliori per
sostenere l'afflitta Chiesa, e consigliò piuttosto di far cadere questa
elezione sopra _Guido arcivescovo_ di Vienna. Fu egli infatti chiamato a
Clugnì, o, per dir meglio, l'avea lo stesso papa Gelasio, in partendo da
Vienna, incaricato di andarlo a trovar colà; ma questi in cammino intese
la di lui morte, e, ciò non ostante, continuò il suo viaggio sino al
monistero suddetto. Era il suddetto arcivescovo _Guido_ (chiamato non so
come _Milone_ dall'Urspergense) figliuolo di _Guglielmo Testardita_
conte di Borgogna, parente degl'imperadori e dei re di Francia ed
Inghilterra. Una sua sorella per nome _Guilla_ fu moglie di _Umberto II_
conte di Morienna, progenitore della real casa di Savoia, e da questo
matrimonio nacque _Adelaide_ maritata con _Lodovico il Grosso_ re di
Francia. Orderico Vitale, scrittore del presente secolo, parlando di
esso Lodovico re, ci assicura di questo fatto con dire[1599]: _Hic
Adelaidem filiam Humberti principis intermontium duxit uxorem_. E
Sugerio abbate[1600] fa menzione _nobilis Adelaide reginae neptis_ del
mentovato arcivescovo: il che sempre più ci fa intender l'alta
riputazione in cui era anche allora la nobilissima casa di Savoia.
Raunati dunque i sei cardinali coi Romani che erano venuti accompagnando
il defunto pontefice, concordemente elessero papa il suddetto
arcivescovo Guido, quantunque egli facesse molta resistenza, sì per non
credersi degno di sì eccelsa dignità, e sì per timore, come molti si
figuravano, che una tale elezione non fosse approvata dal collegio de'
cardinali esistenti in Roma. Seguì essa nel dì primo di febbraio,
secondo i conti del padre Pagi. Venne il novello pontefice alla volta di
Lione, ed _Umbaldo arcivescovo_ di quella città, acconsentendo alla
fatta elezione, il riconobbe ed onorò qual papa legittimo. Passò dipoi a
Vienna, dove nel giorno della domenica di quinquagesima, cioè nel dì 9
di febbraio, fu consecrato, se vogliam riposare sulla testimonianza
della Storia Vezeliacense[1601], e prese il nome di _Callisto II_. Però
dovrebbe essere scorretto il testo di Pandolfo Pisano, allorchè scrive:
_cessavit episcopatus diebus XV_, e si avrà da scrivere _diebus XII_;
trovandosi non di rado il numero _II_ cambiato in _V_ per poca
attenzione de' copisti. Ma è da avvertire che non tardarono i cardinali
dopo l'elezione a spedirne l'avviso al sacro collegio rimasto in Roma.
Avendola _Pietro vescovo_ di Porto vicario quivi, tosto notificata agli
altri cardinali e al clero e alla nobiltà romana, tutti, per opera
specialmente di Pietro di Leone, il cui figliuolo _Pietro cardinale_ si
trovava in Francia, consentirono ed accettarono per papa il suddetto
Callisto II. Dalla di lui Vita, scritta dal poco fa mentovato Pandolfo,
scrittore sopra gli altri degno qui di fede, siamo assicurati che questo
pontefice fu solamente consecrato papa, allorchè[1602] _nuncii redeuntes
a Roma, viva voce ac literis electionem ipsam canonice, jureque
confirmarunt. Tunc papa solemniter a Lamberto ostiensi episcopo et aliis
quamplurimis in Dei nomine consecratus fuit_. Perciò non può, a mio
credere, sussistere l'opinione del padre Pagi, che il vuole consecrato
nel dì 9 di febbraio. Di più tempo fu d'uopo perchè i messi andassero e
tornassero da Roma colla approvazione del sacro collegio romano.

Leggonsi nel codice di Uldarico da Bamberga, pubblicato
dall'Eccardo[1603], e presso i padri Martene e Durand[1604] le lettere
scritte da' cardinali residenti in Roma ai cardinali oltramontani, nelle
quali confermano l'elezion di Callisto II fatta per necessità oltra
monti, senza dissimulare che questa si dovea fare _ex romanae Ecclesiae
filiis presbyteris, et diaconibus, ed anche infra urbem, si possibile
fuerit, vel extra in locis finitimis_. Confessano nondimeno di confermar
la suddetta elezione, _quum ex romano more electionem facere
impediamur_. Per le quali parole si vede allora assai confuso lo stato
di Roma, senza che ben s'intenda come essi cardinali romani non avessero
libertà di eleggere un papa nuovo. Forse si dirà, perchè Burdino
antipapa e i suoi parziali l'impedivano. E pur si vede che potevano
adunarsi per confermare l'eletto, e in Roma comandava il vicario
pontificio, cioè il vescovo di Porto, e quivi quietamente soggiornava
tanti cardinali opposti al medesimo Burdino. In una d'esse epistole
presso l'Eccardo è scritto che i cardinali suddetti in Roma col clero e
popolo s'erano congregati in _kalendis martii_, ed aveano dato il loro
assenso per l'esaltazione di Callisto al pontificato romano: il che se è
vero, fino al marzo convien differire la di lui consecrazione in papa.
Trasferitosi dipoi il nuovo pontefice a Tolosa, tenne ivi un concilio
_VIII idus junii_, secondochè si ha da Bernardo di Guidone[1605]. Ma
questo nel codice di Uldarico da Bamberga si dice tenuto _VII idus
julii_; e questo si conferma per altre memorie. Che se alcuni lo mettono
nell'anno MCXX, questo avvenne perchè si servirono dell'anno pisano,
cominciato nel dì 23 di marzo dell'anno presente volgare. Furono ivi
fatti alcuni decreti intorno alla disciplina della Chiesa. Nel dì 20
d'ottobre celebrò egli un altro più insigne e numeroso concilio nella
città di Rems[1606], dove intervennero quindici arcivescovi più di
ducento vescovi, nel quale scomunicò, bensì con dispiacere, l'imperadore
Arrigo e il suo antipapa Burdino. Quando sussista il racconto
dell'Abbate Urspergense[1607], esso Arrigo dovea essere tornato in
Italia, giacchè egli scrive, che avendo esso Augusto inteso come in un
concilio di Colonia era stata proferita la scomunica contra di lui, e
intimatone un altro in Virtzburg, con fama di volerlo deporre,
_efferatus animo, Italiae suis copiis cum regina relictis, germanicis se
regionibus nimis insperatus exhibuit_. Passò la sua rabbia a desolar
varii paesi con saccheggi ed incendii. Ma fioccarono tante lettere e
messaggi de' vescovi e principi della Germania, che consentì ad un
concilio in Triburia, in cui fu dato sesto a molti de' correnti
disordini. Il consigliarono ancora molti d'intervenire al concilio di
Rems, per trattar ivi la concordia col sacerdozio: se ne trattò fra lui
e i legati del papa; ma egli dopo aver promesso e ripromesso, infine
sotto varii pretesti sfuggi ogni accordo e deluse chiunque credea già
fatta la pace[1608]. Abbiamo da Falcone Beneventano[1609] che anche
_Landolfo arcivescovo_ di Benevento tenne in quest'anno un concilio co'
vescovi suoi suffraganei, e coll'intervento di alcuni cardinali romani.
Continuò intanto la guerra dei Milanesi contra di Como, descritta
dall'anonimo poeta comasco. Degno è di osservazioni il numero delle
città che inviarono soldatesche in aiuto di Milano, conoscendosi da ciò
che erano divenute libere e si reggeano a repubblica. Dice egli dunque
dei Milanesi[1610]:

    _Mittunt ad cunctas legatos agmina partes_
    _Ducere; Cremonae, Papiae mittere curant,_
    _Cum quibus et veniunt cum Brixia, Pergama: totas._
    _Ducere jussa suas simul et Liguria gentes._
    _Nec non adveniunt Vercellae, cum quibus Astum_
    _Et comitissa suum gestando brachio natum._

Cioè la contessa di Biandrate.

    _Sponte sua tota cum gente Novaria venit,_
    _Aspera cum multis venit et Verona vocata:_
    _Docta suas secum duxit Bononia leges._

Parole chiaramente indicanti già instituito in quella città lo studio
delle leggi romane.

    _Attulit inde suas Ferraria nempe sagittas._
    _Mantua cum rigidis nimium studiosa sagittis:_
    _Venit et ipsa simul quae Guardastalla vocatur._
    _Parma suos equites conduxit carfanienses._

La Garfagnana, provincia di là dall'Apennino, oggidì suggetta alla
serenissima casa d'Este (se pur d'essa si parla qui, come è probabile),
doveva allora ubbidire a Parma. Ed ecco quante città collegate contro la
misera città di Como, al cui soccorso non si legge che alcuno alzasse un
dito. Ciò non ostante bravamente si difesero in quest'anno i Comaschi,
ed accostandosi il verno, obbligarono tanti nemici a ritornarsene alle
lor case. Abbiamo ancora dagli Annali Pisani[1611] che nell'anno
presente ebbe principio la guerra tra i Genovesi e Pisani. Non poteano
digerire i primi la autorità conferita dal papa agli arcivescovi di Pisa
sopra i vescovi della Corsica, e però sfogarono coll'armi il loro
maltalento. Lo storico genovese Caffaro scrive[1612] che i Genovesi
usciti con sedici galee presero molti Pisani in Goloccio, e con esso
loro una gran somma di danaro.

NOTE:

[1595] Abbas Ursperg., in Chron.

[1596] Pagius, ad Annal. Baron.

[1597] Ordericus Vital., Hist. Eccles., lib. 12.

[1598] Falco Beneventanus, in Chron.

[1599] Ordericus Vital., Hist. Eccles., lib. ii.

[1600] Suger., in Vit. Ludovici Gross.

[1601] Historia Vezeliacensis, in Spicileg. Dachery.

[1602] Pandulfus Pisanus, in Vita Callisti II, P. I, tom. 3 Rer. Italic.

[1603] Eccard., Corp. Hist., tom. 2.

[1604] Martene, Veter. Scriptor. tom. I.

[1605] Bernardus Guidonis, P. II, tom. 3 Rer. Italic.

[1606] Labbe, Concilior., tom. 10.

[1607] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1608] Hesso apud Labbe, Concilior., tom. 10.

[1609] Falco Beneventanus, in Chron.

[1610] Anonymus Comensis, Poem., tom. 5 Rer. Italic.

[1611] Annal. Pisani., tom. 6 Rer. Ital.

[1612] Caffarus, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXX. Indizione XIII.

    CALLISTO II papa 2.
    ARRIGO V re 15, imperad. 10.


Celebrò il pontefice _Callisto_ la festa del santo Natale dell'anno
precedente in Autun, e di là poscia tornò al monistero di Clugnì. Andò
poscia nel febbraio a Valenza del Delfinato, e nel marzo valicate le
Alpi, felicemente arrivò a Santo Ambrosio, borgo vicino a Susa, dove fu
gran concorso di popoli lombardi a venerarlo e riconoscerlo per
papa[1613]. Discese poscia _ad populosas Lombardiae civitates, in quibus
non minori honorificentia recipiebatur_. Landolfo da san Paolo[1614]
scrive ch'egli vide questo pontefice nel palazzo di Tortona nella
domenica dell'Ulivo, cioè nel dì 11 di aprile. Seco era _Giordano
arcivescovo_ di Milano, contra del quale esso istorico portò le sue
querele, per essere stato indebitamente spogliato dalla sua chiesa. Ma
_Lamberto vescovo_ d'Ostia il mandò in pace con dirgli che in tempo di
verno non si calcano le uve nel torchio; e che essi aveano bisogno
dell'arcivescovo, nè volevano contristarlo, nè disgustarlo. Venne il
papa a Piacenza, dove solennizzò la santa Pasqua, dopo la quale per
Monte Bardone, cioè per la strada di Pontremoli, s'inviò alla volta
della Toscana. Nell'avvicinarsi a Lucca, ebbe l'incontro di tutta la
milizia ben in ordine, e del clero e popolo di quella città, che con
gran festa e plauso il condussero alla cattedrale e al palazzo. Dopo tre
dì di riposo passò a Pisa, anche ivi con una magnifica processione
incontrato da quel clero e popolo[1615]. _Rogatus autem ab ipsis
Pisanis, et cum magna instantia postulatus, majorem ecclesiam in honorem
beatae Mariae, tota ibidem Tuscia concurrente, dedicavit solemniter_. Si
è di sopra veduto che questa consecrazione viene attribuita a Gelasio
suo predecessore, e però il Tronci[1616] pretende che questo autore,
creduto da lui Pandolfo Pisano, s'ingannasse in iscrivere così. E
veramente Pietro Diacono[1617], scrittore di questi tempi, s'accorda
cogli Annali pisani in riferir questo fatto a papa Gelasio II; di modo
che più probabile sembra il sentimento degli storici pisani.
Avvicinatosi a Roma il pontefice, mirabil fu la commozione ed allegrezza
di quel popolo cattolico, a riserva degli scismatici, che rimasero pieni
di confusione e terrore. Lo stesso antipapa Burdino, non tenendosi
sicuro in quella città, se ne fuggì, e ritirossi nella città di Sutri,
dove attese a fortificarsi, sperando soccorso dall'imperadore. Era
Callisto II informato della di lui partenza[1618], perciò a dirittura
marciò verso Roma. Vennero ad incontrarlo tutti i fanciulli della città
con rami d'ulivo o d'altri alberi, con sonore acclamazioni e lodi;
poscia i Greci, i Giudei, il clero, la nobiltà e il popolo di Roma con
una sterminata processione, da cui fu nel dì 3, oppure nel dì 9 di
giugno, come vuol Falcone[1619], introdotto in Roma, e condotto al
palazzo del Laterano. Non s'era da gran tempo veduto entrar papa con
tanto plauso e giubilo de' Romani. Per qualche tempo si trattenne egli
in Roma in pacifico stato, dando cortese udienza a ciascuno[1620]. Ma
bisognando di gente per levarsi di dosso l'antipapa, passò dipoi a Monte
Casino, dove dimorò alle spese di quel pingue monistero per quasi due
mesi. Trasferissi poscia a Benevento nel dì otto di agosto, accolto con
immenso tripudio e magnificenza. Fra gli altri gli Amalfitani, ch'erano
ricchi mercatanti, e teneano bottega in moltissime città, ornarono tutte
le piazze di tele e drappi di seta, e d'altri preziosi ornamenti, con
turiboli d'oro e d'argento collocati di sotto, nei quali si bruciava
cannella e varii altri odori.

Colà vennero a rendere i loro ossequii al papa _Guglielmo_ duca di
Puglia, _Giordano_ principe di Capoa, ed altri conti e baroni di quelle
contrade[1621], che gli prestarono omaggio e fedeltà _contra omnes
homines_, come s'ha da Romoaldo Salernitano[1622]; ed egli loro diede
l'investitura col gonfalone. Trovandosi poi i contorni di Roma infestati
dagli scismatici che svaligiavano i pellegrini, e faceano altri mali, il
pontefice si trattenne pel resto dell'anno in quelle parti. Andò alla
città di Troia, dove il suddetto duca Guglielmo con grande onore il
ricevette, e addestrollo fino alla cattedrale. La menzione da me fatta
di _Giordano II_ principe di Capoa richiede ora che io dica che
nell'anno presente a dì 5 di giugno terminò i suoi giorni Roberto I,
principe di quella città. Mentre egli era gravemente infermo, i Capoani
alzarono al principato _Riccardo III_ di lui figliuolo[1623], e secondo
il rito già introdotto dai principi di Benevento, il fecero consecrare
dal loro arcivescovo. Ma essendo questi sopravvivuto al padre solamente
due giorni, in quel dominio succedette _Giordano II_ di lui zio paterno,
che andò, siccome dicemmo, a visitar papa Callisto. Sua moglie fu
_Gaitelgrima_ figliuola di _Sergio principe_ di Sorrento. Mancò eziandio
di vita nel dì 4 di ottobre di quest'anno _Giordano arcivescovo_ di
Milano, e nel dì 12 di novembre in suo luogo fu eletto _Olrico_, che era
_vicedominus_, ossia _visdomino_[1624], dignità principale in
quell'arcivescovato. Tornarono anche nell'anno presente i Milanesi
all'assedio di Como, e seguirono varie battaglie; ma in fine senza
frutto furono obbligati a ripatriare. Dopo ciò i Comaschi portarono la
guerra addosso alle terre ribelli del lago con saccheggi ed incendii.
Continuò parimente la guerra fra i Genovesi e Pisani Abbiamo da
Caffaro[1625] che i primi si portarono a Porto Pisano con ottanta galee,
trentacinque gatte, ventotto golabi e quattro grosse navi, che portavano
tutti le occorrenti macchine da guerra, e ventidue mila combattenti tra
fanti e cavalli, fra' quali si contarono cinque mila uomini d'armi con
corazza ed elmi ben bruniti. Parrà incredibile a' nostri giorni uno
sforzo tale d'una sola città, e massimamente trattandosi di cavalleria,
e questa condotta per mare. Ma il trasporto d'essi verisimilmente fu in
più volte. Se crediamo agli Annali di Pisa[1626], nel 1119 _die sancti
Sixti Pisani Januenses vicerunt_. Poscia all'anno 1121 pisano, spettante
al presente, aggiungono che i Genovesi con ventidue galee vennero
all'imboccatura dell'Arno, mentre il papa consecrava alcuni altari di
quella cattedrale; e che i Pisani gli assalirono e misero in rotta, con
prendere sei loro galee. Non così la discorre Caffaro. Tal terrore diede
il poderoso esercito de' Genovesi ai Pisani, stanti colla loro armata in
terra, che nel settembre dell'anno presente prestarono orecchio ad un
trattato di pace _de lite Corsicae_. Circa questi tempi credono alcuni
storici siciliani[1627] che _Ruggieri_ iuniore conte di Sicilia, giovane
di mirabil talento, che fra le altre sue prodezze avea già tentato di
occupare l'isola di Malta, prese per moglie _Alberia_ figliuola di
_Alfonso re_ di Castiglia. Nè si dee tacere ciò che lasciò scritto
Sicardo vescovo di Cremona[1628] sotto quest'anno, cioè: _Fuit in Italia
inter Cremonenses et Parmenses clades bellica, qua Cremonenses cum
Parmensibus in parmensi glarea conflixerunt._ E questa fu la prima
guerra che ebbero i Cremonesi coi Parmigiani.

NOTE:

[1613] Cardin. de Aragon., in Vit. Callisti II.

[1614] Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 35.

[1615] Vita Callisti II.

[1616] Tronci, Annal. Pisan.

[1617] Petrus Diac., Chron. Casin., lib. 4, cap. 64.

[1618] Eginon., Epist. apud Canisium.

[1619] Falco Beneventanus, in Chron.

[1620] Petrus Diac., Chron. Casin., lib. 4, cap. 68.

[1621] Pandulfus Pisanus, in Vit. Callisti II.

[1622] Romualdus Salernitanus, in Chron.

[1623] Peregrin., in Stemmat. Princip. Langobard.

[1624] Saxius, in Not. ad Landulf. junior., tom. 5 Rer. Ital.

[1625] Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.

[1626] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[1627] Carusi, Istor. di Sicilia, P. II, lib. 1.

[1628] Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXXI. Indizione XIV.

    CALLISTO II papa 5.
    ARRIGO V re 16, imperad. 11.


Trionfale noi troviamo l'anno presente per _papa Callisto_, pontefice di
maravigliosa attività e prudenza. Nè ci volea meno di lui, che alle più
belle doti accoppiava un gran credito per la nobiltà della sua nascita,
per isbrigare la santa Sede da tutti gl'inconvenienti onde era turbata.
Dopo aver egli fatte le convenevoli disposizioni per un gagliardo
rinforzo di truppe normanne da valersene alla primavera[1629], tornò a
Roma, e quivi celebrò la santa Pasqua. Poscia raccolto un potente
esercito di Romani con altre milizie ausiliarie, lo spedì all'assedio di
Sutri, sotto il comando di _Giovanni da Crema_ cardinale di san
Grisogono; ed egli stesso poco appresso colà si portò per dar calore
all'impresa. Quivi rinchiuso era l'antipapa Burdino, adulandosi indarno
di ottener soccorsi dall'imperadore, che niun pensiero se ne prendeva.
Forte era massimamente pel sito la città, e vi succederono varii assalti
e fatti di guerra. Ma in fine i Sutrini o stanchi di questo giuoco, o
guadagnati con buone promesse, si rivoltarono contra del falso papa, e
nel dì 25 d'aprile, non senza mille maledizioni ed improperii, il
diedero in mano all'esercito pontifizio, che postolo a rovescio sopra un
cammello colla coda in mano, in quella obbrobriosa forma, non lodata da
tutti, fu menato a Roma[1630]. _Tunc praeparato sibi camelo pro albo
cabalto, et pilosa pelle vervecum pro chlamyde rubea, positus est in
transverso super ispum camelum, et in manibus ejus pro freno posita est
cauda ipsius cameli. Talibus ergo indumentis ornatus in comitatu
pontificis praecedebat, revertens ad urbem cum tanto dedecore, quatenus
et ipse in sua confunderetur erubescentia, et aliis exemplum praeberet,
ne similia ulterius attentare praesumant_. Son parole dell'autor della
Vita di questo pontefice, a noi conservata dal cardinal d'Aragona: il
che vien confermato da altri storici. Con questo accompagnamento giocoso
insieme e tetro il pontefice fra i viva del popolo, e per varii archi
trionfali a lui preparati nella via, entrò in Roma, e fu condotto al
palazzo del Laterano. Discordano gli autori intorno alla risoluzione
presa da Callisto papa per la persona di Burdino. Nella Vita suddetta si
legge ch'egli _Burdinum fecit in arce Fumonis retrudi, et inde ad
monasterium cavense transferri, ubi perseverans in sua rebellione vitam
finivit_. Pandolfo[1631] solamente scrive che _Burdinum in cavensi
coenobio trudi praecepit_. Altrettanto ha Falcone Beneventano[1632].
Alcuni storici oltramontani il dicono rinchiuso non già nel monistero
della Cava, ma bensì _in cavea, in una gabbia_. E l'Anonimo
Casinense[1633] aggiugne che il papa _Burdinum de Cava extractum, in
Januta custodiendum tradidit_. Pietro Diacono anche egli scrive che
Burdino fu chiuso nella rocca di Janula, che era monistero casinense, e
poscia all'anno 1124 soggiugne[1634], che Onorio II _Mauricium
haeresiarcham de Janula, in qua eum papa Callixtus exsiliaverat,
abstrahens, apud Fumonem exsilio relegavit_. Non sembra certo molto
probabile che papa Callisto si fidasse di mettere un sì pericoloso
animale nel monistero della Cava, monistero vicino a Salerno, e però
fuori della sua giurisdizione e balìa. Ha perciò miglior aria di verità
quanto scrive Pietro Diacono. Tuttavia Pandolfo, che fu storico di
vista, dee qui trattener la decisione, e massimamente veggendosi che
Landolfo iuniore[1635], storico anch'egli di questi tempi, e Romoaldo
Salernitano[1636] vanno d'accordo con lui. Nè altronde si dee credere
nata la menzione di _Cavea_, creduta _gabbia_, se non dal monistero
della _Cava_, dove a tutta prima egli dovette essere rinchiuso. Mi è
nato sospetto che fosse creduto bene lo spargere una finta voce che
Burdino, secondo i canoni, era stato cacciato in un monistero per far
penitenza, quando infatti la fece in una fortezza. Racconta il medesimo
Pandolfo che il papa processò dipoi i conti di Ceccano ribelli, e gli
astrinse a piegar la testa; con che tornò un'invidiabil pace in Roma e
in tutti i suoi contorni.

Per attestato dell'Abbate Urspergense[1637], crebbero quest'anno in
Germania le sollevazioni de' popoli, e specialmente della Sassonia,
contra dell'_imperadore Arrigo_ scomunicato, per opera di _Adalberto
arcivescovo_ di Magonza, dichiarato suo legato dalla Sede apostolica. Ne
fremeva Arrigo; ma per non poter di meno, cominciò ad ascoltare consigli
di pace. Intimata dunque una gran dieta in Virtzburg circa la festa di
san Michele di settembre, quivi si trattò seriamente della rinunzia
delle investiture, cagione di tanti scandali; e l'Augusto Arrigo vi
condiscese. Restava l'impedimento della scomunica, e ciò fu rimesso al
sommo pontefice: al qual fine restarono destinati ambasciatori che
andassero a trattarne in corte di Roma. All'anno presente verisimilmente
appartiene ciò che scrive dipoi il suddetto Pandolfo Pisano. Cioè fece
_Guglielmo duca_ di Puglia correr voce del suo matrimonio colla
figliuola del fu Alessio imperador di Costantinopoli, il che non si sa
intendere; perchè se sussistono i documenti allegati dal Summonte[1638],
questo principe avea già per moglie _Gaitelgrima_ figlia di Sergio
principe di Sorrento, e questa sopravvisse a lui. Quel che è certo,
Guglielmo si mise in viaggio per qualche suo importante affare alla
volta di Costantinopoli, e prima di farlo, raccomandò a papa Callisto la
protezion de' suoi Stati. Ruggieri iuniore, conte di Sicilia, in cuore
di cui già cominciava a bollire lo spirito de' conquistatori, prese
questa occasione per tentare d'impadronirsi (non si sa sotto qual
pretesto) della Calabria e della Puglia. Assediata che ebbe in Calabria
la rocca di Niceforo, il pontefice gl'inviò _Ugo_, uno de' più cospicui
cardinali della Chiesa romana, per farlo desistere da quella violenza.
Questi, gittate le parole al vento, se ne tornò a Roma. Allora il papa
sdegnato si mosse in persona per trattar di questa briga, e passò in
Puglia. Male per lui, perchè a cagione di una pessima influenza, o
epidemia, i migliori de' suoi cardinali, e fra gli altri il suddetto
Ugo, lasciarono la vita in quelle contrade. Lo stesso pontefice
anch'egli v'ebbe a perdere la sua per una simile infermità, di cui seppe
ben profittare il conte Ruggieri, perchè portò il papa a far quanto esso
bramava. Quantunque poi continuasse ancora in questo anno la guerra in
Milano contra di Como, narrata dal Poeta Comasco[1639], pure niuna
prodezza si sente de' Milanesi. Solamente si legge che i Comaschi
saccheggiarono varie terre del Milanese, come Varese, Binago, Vedano e
Trezzo.

NOTE:

[1629] Pandulfas Pisanus, in Vit. Callisti II. Cardin. de Aragonia, in
Vit. ejusd. Papae, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Falco Beneventanus, in
Chronico.

[1630] Card, de Aragon., in Vit. Callisti II. Willelm. Tyr., lib. 12,
cap. 8, Falco Benevent., in Chron.

[1631] Pandulfus Pisan., in Vit. Callisti II.

[1632] Falco Benevent., in Chron.

[1633] Anonym. Casinensis, tom. 5 Rer. Ital.

[1634] Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 68 et 86.

[1635] Landulpus junior, Hist. Mediolan., cap. 36.

[1636] Romualdus Salernitanus, in Chron.

[1637] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1638] Summonte, Istor. di Napoli, tom. 1.

[1639] Poeta Comensis, tom. 5 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXXII. Indizione XV.

    CALLISTO II papa 4.
    ARRIGO V re 17, imper. 12.


Nel felicissimo presente anno ebbe finalmente fine la troppo lagrimevol
discordia fra il sacerdozio e l'imperio per cagion delle investiture.
Furono nel precedente anno spediti dalla dieta germanica per
ambasciatori a Roma[1640] il vescovo di Spira e l'abbate di Fulda, affin
di disporre questo importantissimo affare. Allora _papa Callisto_,
veggendo le cose in buona disposizione, insieme coi suddetti inviò in
Germania _Lamberto vescovo_ d'Ostia, _Sassone cardinale_ di santo
Stefano in Monte Celio, e _Gregorio cardinale_ diacono di sant'Angelo,
per legati apostolici, a darvi l'ultima mano. Tennesi dunque in Vormazia
nell'anno presente una numerosissima dieta, dove l'Augusto Arrigo,
sentendosi toccato il cuore da Dio, rinunziò in fine alla pretension
delle investiture colla consegna dell'anello e del pastorale, giacchè
con tale introduzione s'era introdotto nella Chiesa l'esecrabile abuso
di vendere i vescovati e le badie. Cioè lasciò Arrigo V in libertà al
clero e popolo di cadauna città l'elezione e consecrazione de' loro
vescovi, e ai monaci quella de' loro abbati. Promise egli ancora di
restituire alla Chiesa romana e a tutte le altre gli stati e i beni
ch'egli per avventura o suo padre avessero usurpato, e diede una vera
pace a papa Callisto II e alla santa Chiesa romana, e a chiunque era
stato del suo partito. All'incontro papa Callisto accordò all'imperadore
che le elezioni de' vescovi ed abbati del regno teutonico si facessero
in presenza dell'imperadore o de' suoi messi, liberamente, e senza
simonia o violenza; e, nascendo discordia, fosse questa rimessa al
metropolitano coi vescovi provinciali. L'eletto poi dovea ricevere
dall'imperadore l'investitura collo scettro degli Stati e delle regalie
spettanti alla sua chiesa, eccettuate le appartenenti alla Chiesa
romana. Nell'altre parti dell'imperio, consecrato che fosse l'eletto,
nel termine di sei mesi egli prenderebbe l'investitura delle regalie.
Nel dì 8 di settembre tenuta fu quella dieta in Vormazia, e il papa nel
dì 25 d'esso mese spedì l'approvazione sua. Tutti si partirono colmi di
letizia; e l'imperadore spedì poco appresso a Roma i suoi ambasciatori
con regali, per confermare la sincerità del pentimento e della concordia
sua. Ed ecco il sospirato fine di una sì lunga e deplorabil tragedia:
tanto vi volle a sradicare un abuso che insensibilmente avea preso piede
nella Chiesa di Dio contro tutti i riti dell'antichità, ne' quali sempre
erano state libere le elezioni de' sacri pastori, con gravissimi fulmini
emanati contra della simonia. È in uso tuttavia per la Germania
l'accordo suddetto, e appartiene ai capitoli l'elezione dei loro
vescovi. Che se taluno chiedesse, perchè dopo tante fatiche, sconcerti e
guerre, per rimettere anche in Italia questa libertà delle elezioni già
fatte dal clero e popolo, di essa non rimanga vestigio fra noi:
rimetterò io volentieri al padre Tomasino e ad altri eruditi scrittori
il dargli risposta, volendo io continuare l'intrapreso viaggio della
presente storia.

Abbiamo da Falcone Beneventano[1641], che ribellatosi _Giordano_ conte
d'Ariano a _Guglielmo duca_ di Puglia, questi non si sentendo con assai
forze per domarlo, ricorse a _Ruggieri_ iuniore, conte di Sicilia. Per
ottenere aiuto, bisognò comperarlo. _Medietatem suam palermitanae
civitatis et Messanae, et totius Calabriae dux ille eidem comiti
concessit, ut ei auxilium largiretur_. Avendo noi veduto di sopra
all'anno 1088 che al conte Ruggieri seniore di lui padre era stata
interamente ceduta la _Calabria_ dal duca Ruggieri figliuolo di Roberto
Guiscardo, e padre di esso Guglielmo, non saprei dire chi di quegli
autori abbia fallato. Col soccorso dunque di gente e danaro datogli dal
conte fece il duca Guglielmo guerra al conte di Ariano. Ebbe anche
soccorso da _Crescenzio cardinale_, governatore di Benevento; laonde
colla presa d'alcune castella ridusse il ribello Giordano a venir colla
corda al collo a chiedere misericordia. Finì per allora questa guerra;
ma convenne ripigliarla da lì a pochi mesi, con varie avventure che io
tralascio. Continuò, o si accese di nuovo la gara e guerra tra i Pisani
e Genovesi. Racconta Caffaro[1642] che essi Genovesi fecero prigioni ben
mille Pisani, e presero due loro galee. Durando poi tuttavia la guerra
fra i Milanesi e Comaschi, riuscì ai primi di levar Lugano dalla
suggezione ai secondi, i quali non lasciarono per questo di sostener il
dominio loro in quel lago. Ma il Sigonio, fondato sopra altri autori,
non ammette la presa di Lugano.

NOTE:

[1640] Abbas Urspergensis, in Chron. Pandulfus Pisanus, in Vita Callisti
II.

[1641] Falco Beneventan., in Chron.

[1642] Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXXIII. Indizione I.

    CALLISTO II papa 5.
    ARRIGO V re 18, imperad. 13.


Secondochè scrisse il Sigonio, e fondatamente provarono i padri Cossart
e Pagi, nel dì 18, ovvero 19 di marzo dell'anno presente, e non già del
precedente, come pensarono il Panvinio e il cardinal Baronio, fu
celebrato il primo general concilio lateranense[1643], coll'intervento
di trecento vescovi e di assaissimi abbati. Pandolfo Pisano[1644] scrive
che vi furono novecento novanta sette tra vescovi ed abbati: numero che
eccede la credenza. Quivi furono fatti varii decreti intorno alla
disciplina ecclesiastica; confermato l'accordo seguito fra l'_imperadore
Arrigo_ e la santa Sede; data oppure rinnovata l'assoluzion delle
censure al medesimo Augusto; riprovate le ordinazioni fatte
dall'antipapa Burdino, con altri canoni che si leggono nella Raccolta
dei concilii. In questo concilio ancora, per quanto s'ha da Landolfo da
san Paolo[1645], che v'era presente, si rinnovò la lite della precedenza
tra _Olrico arcivescovo_ di Milano e _Gualtieri arcivescovo_ di Ravenna.
Scrive quest'autore, che i due predecessori di Olrico, _Grossolano_ e
_Giordano_, ebbero nei concilii romani la lor sedia alla destra del
sommo pontefice, e però anche Olrico con fermezza sostenne il suo punto.
Veggendo che gli era contrastato il posto nella prima sessione, non
volle comparire nè al concilio nè al palazzo del papa. _Sed in quarta
feria, dum synodus celebrata fuit, Olricus idem mediolanensis
archiepiscopus ad dexteram apostolici Callisti nullo mediante sedit_.
Per cagione di questi ed altri esempli credono gli scrittori milanesi
apocrifa la bolla di papa Clemente II dell'anno 1087, riferita da
Girolamo Rossi[1646], in cui stabilisce la precedenza dell'arcivescovo
di Ravenna a quel di Milano. Furono finalmente in esso concilio[1647]
fatte gravissime doglianze dai vescovi contra dei monaci, perchè già
aveano occupate le chiese, le decime, le oblazioni, e ridotti i vescovi
quasi al solo pastorale. Ma ebbero un bel dire. Il mondo restò qual era.
Così in altri tempi altre querele sono insorte contro i frati
mendicanti, ma un bel dire hanno avuto vescovi e parrochi. Crebbero in
questi tempi[1648] le ruberie, le sedizioni e le iniquità in Germania,
al contrario della città di Roma, in cui il valoroso papa _Callisto II_
pose la pace col mettere freno a tutti i prepotenti. _Tale_, scrive
Falcone[1649], _tantumque pacis firmamentum infra romanam urbem
temporibus praedicti Apostolici advenisse comperimus, quod nemo civium,
vel alienigena arma, sicut consueverat, ferre ausus est_. Aggiunge il
medesimo storico che in quest'anno ancora esso pontefice si portò a
Benevento, dove accusato _Roffredo arcivescovo_ di quella città d'avere
simoniacamente conseguita quella chiesa, si tenne giudizio per questo.
Ma egli col giuramento suo, e di due vescovi e tre preti, si giustificò,
e fece ammutir gli accusatori. Ho io prodotta[1650] una bolla del
suddetto papa in favore dei canonici di Cremona, data _Laterani II nonas
martii_. Un'altra parimente scritta _Laterani IV kalendas martii_
dell'anno presente ne ottennero i canonici regolari di san Cesario sul
Modenese, per cui fu dichiarato che i monaci di Nonantola niuna
giurisdizione aveano sopra la corte di Vilzacara, cioè sopra una parte o
sopra il tutto del moderno san Cesario nel distretto di Modena. Si
fecero in questo anno ancora varii fatti di guerra nel lago di Lugano
tra i Milanesi e Comaschi, descritti dall'anonimo Poeta di Como[1651].
Raunarono molte navi i Milanesi a Porlezza loro castello, e di là
passarono all'assedio del castello di san Michele, ma senza potersene
impadronire. Ebbero per tradimento Lavena, ma perderono le lor navi
prese dai nemici. Abbiamo poi dal Dandolo[1652] che circa questi tempi
_Domenico Michele_ doge di Venezia mandò i suoi legati a Costantinopoli,
per impetrare la bolla d'oro da _Giovanni_ Comneno imperador de' Greci;
ma quell'Augusto, allontanatosi dal rito de' suoi antecessori, non la
volle concedere. Nacque perciò guerra fra i Greci e Veneziani. Alle
istanze poi di _Baldovino_ re di Gerusalemme, esso doge mise insieme un
grosso stuolo di dugento legni, tra galee, barche da trasporto ed altre
navi, e passò in Oriente[1653]. Trovata presso Joppe la flotta di
Babilonia, composta di sessanta galee e d'altri legni, la mise in rotta.
Di questa loro vittoria fa menzione anche Fulcherio Carnotense[1654] che
si trovava allora in Terra Santa. Durando tuttavia la discordia fra i
Genovesi e Pisani, a cagion dei vescovati della Corsica, suggettati
all'arcivescovo di Pisa[1655], il pontefice Callisto II, a cui dispiacea
troppo questa rottura fra due popoli che avrebbono potuto impiegar
meglio le loro forze in Oriente contra degli infedeli, chiamò gli
ambasciatori di questi due popoli al sopra mentovato concilio
lateranense. Ne seguì un gran contraddittorio. Fu rimessa la decision
dell'affare a dodici arcivescovi e a dodici vescovi, che dibatterono la
pendenza, ma non vollero proferir la sentenza. _Gualtieri arcivescovo_
di Ravenna d'accordo cogli altri consigliò il papa di levar quelle
chiese di sotto all'arcivescovo di Pisa. Ciò udito dall'arcivescovo di
Pisa, cotanto si sdegnò, che gittò a' piedi del pontefice la mitra e
l'anello con dirgli che non sarebbe più nè suo arcivescovo, nè vescovo.
_Azzo_ dovrebbe essere stato questo arcivescovo, di cui oltre a
quest'anno non parla l'Ughelli[1656]. Allora il papa con un piede spinse
via la mitra e l'anello, e disse all'arcivescovo: _Fratello, hai mal
fatto, e te n'avrai a pentire_. Nel giorno seguente poi nel pieno
concilio ordinò a _Gregorio cardinal_ diacono di sant'Angelo, che fu poi
papa Innocenzo II, di leggere il decreto, che da lì innanzi i vescovi
della Corsica cessassero d'essere sottoposti alla chiesa pisana. A tutto
questo fu presente lo stesso Caffaro istorico, il quale conferma la
tenuta del concilio lateranense nell'anno presente. Però, in vece di
calmar la dissensione fra i Genovesi e Pisani, questa sentenza
maggiormente l'accese.

NOTE:

[1643] Labbe, Concilior., tom. 10.

[1644] Pandulfus Pisanus, in Vita Callisti II.

[1645] Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 36.

[1646] Rubeus, Histor. Ravenn.

[1647] Petrus Diaconus, Chron. Casin., lib. 4.

[1648] Urspergensis, in Chronico.

[1649] Falco Benevent., in Chron.

[1650] Antiquit. Italic., Dissert. LXII.

[1651] Anonymus Poeta Comens., tom. 5 Rer. Ital.

[1652] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1653] Bernardus Thesaur., cap. 117 et seq.

[1654] Fulcher. Carnotens., Histor., lib. 3.

[1655] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Ital.

[1656] Ughell., Ital. Sacr., in Archiep. Pisan.



    Anno di CRISTO MCXXIV. Indizione II.

    ONORIO II papa 1.
    ARRIGO V re 13, imperad. 14.


Non oltre l'anno presente menò sua vita _Callisto II_, pontefice
d'immortal memoria. Scrive Pandolfo Pisano[1657] ch'egli fece atterrar
le torri di Cencio di Donna Bona, che erano una sentina d'iniquità, con
ordine di non rifabbricarle mai più. Parla della sua pia liberalità
verso le chiese di Roma, e massimamente verso la basilica vaticana, con
altre sue gloriose azioni. Meritava ben più lunga vita un pontefice di
sì rare qualità. Ma Iddio il volle per sè. Caduto infermo nel mese di
dicembre dell'anno presente, prese i santi sacramenti, e fra le lagrime
e i gemiti di tutti gli astanti cessò di vivere sopra la terra. Molto si
stende il padre Pagi[1658] per accertare il giorno preciso di sua morte,
pretendendo ch'egli mancasse di vita nel dì 13 del suddetto mese, e
fosse seppellito nel giorno seguente. Resta nulladimeno, a mio credere,
tuttavia alquanto dubbioso questo punto. Pandolfo Pisano, che era allora
in corte di Roma, gli dice data sepoltura nella basilica lateranense _in
festivitate sanctae Luciae_. E Falcone Beneventano[1659], anch'esso
autore di questi tempi, racconta che egli terminò i suoi giorni
_duodecimo die stante mensis decembris_. Probabilmente egli scrisse
intrante. Comunque sia, dopo sette giorni di sede vacante fu eletto
_Lamberto vescovo_ d'Ostia, nato nel territorio di Bologna, e persona
letterata, che prese il nome di _Onorio II_. Tuttavia l'elezione sua non
passò senza discordia e tumulto. I laici principali di Roma erano allora
Leone della nobilissima casa de' Frangipani, e Pier Leone ossia Pietro
di Leone, cioè figliuolo di un Leone ricchissimo Giudeo che s'era fatto
cristiano, come s'ha dalla Cronica mauriniacense[1660], da san Bernardo
e da altri. S'accordarono questi[1661] di trattare amichevolmente
insieme, con segreto pensiero nondimeno di deludere l'un l'altro nel
dare un successore al defunto pontefice. Fece il Frangipane una sera
avvertir tutti i cappellani de' cardinali, che nella seguente mattina
portassero seco il piviale rosso sotto il mantello, con intenzione di
far dichiarare papa il suddetto Lamberto ostiense. Ma, non so come,
essendosi nel giorno appresso raunati i vescovi nella chiesa di san
Pancrazio presso al Laterano, quivi restò eletto papa _Tebaldo
Boccadipecora_, cardinale di santa Atanasia, col nome di _Celestino_,
consentendovi anche lo stesso vescovo Lamberto; e messogli addosso il
piviale rosso, intonarono il _Te Deum_. Non erano alla metà, che Roberto
Frangipane, forse fratello di Leone, con alcuni suoi parziali e con
alcuni della corte proclamarono papa il suddetto _Lamberto vescovo_
d'Ostia, e il fecero vedere al popolo, il quale è da credere che
anch'esso l'acclamò. Gran disputa dovette succedere; ma in fine
prevalendo la potenza de' Frangipani, e cedendo con gloriosa umiltà ai
suoi diritti il cardinale Tebaldo, restò papa l'ambizioso Lamberto, cioè
_Onorio II_. Aggiugne poi l'autore della Vita di questo pontefice, a noi
conservata dal cardinale d'Aragona[1662], che scorgendo Onorio dubbiosa
e poco canonica l'esaltazione sua, dopo sette giorni depose il
pontificato, e con una nuova universale elezione abilitato e confermato
sanò gli antecedenti difetti. _Sed quia electio ipsius Honorii minus
canonicae processerat, post septem dies in conspectu fratrum sponte
mitram et mantum refutavit atque deposuit. Fratres vero tam episcopi,
quam presbyteri et diaconi cardinales, videntes ipsius humilitatem, et
prospicientes in posterum, ne in romanam Ecclesiam aliquam inducerent
novitatem, quod perperam factum fuerat, in melius reformarunt; et eumdem
Honorium denuo advocantes, ad ejus vestigia prociderunt, et tanquam
pastori suo et universali papae consuetam sibi obedientiam exhibuere_.
L'abbate Urspergense[1663] scrive che una parte dei Romani desiderò
d'avere per papa _Gualtieri arcivescovo_ di Ravenna, _omni religionis
testimonio satis commendatum_. Più che mai continuò in quest'anno la
guerra fra i Genovesi e Pisani. Secondo la testimonianza di
Caffaro[1664], venivano dalla Sardegna ventidue navi cariche di molto
avere, scortate da nove galee pisane. Contra d'esse a vele gonfie
navigarono sette galee genovesi, alla vista delle quali intimoriti i
Pisani, si rifugiarono nel porto di Vado, e abbandonarono esse navi. I
Genovesi con grande allegrezza condussero a Genova que' legni col loro
valsente. Per attestato di Fulcherio Carnotense[1665] e del
Dandolo[1666], si segnalarono in quest'anno ancora in Oriente l'armi de'
Veneziani, comandate da _Domenico Michele_ loro doge. Cioè cogli altri
crociati formarono l'assedio della ricchissima e riguardevol città di
Tiro, e tanto la strinsero e battagliarono, che in fine que' cittadini
turchi e saraceni furono costretti a capitolar la resa. Due parti d'essa
città toccarono a _Baldovino re_ di Gerusalemme, _tertia hereditario
jure Veneticis tam in urbe, quam in portu_: sono parole d'esso
Fulcherio. Scrive il Dandolo che fu convenuto con quel re, _ut in omni
civitate, quam caperent, Veneti unam rugam_ (vocabolo franzese
latinizzato, significante _contrada_) _francam habeant, ecclesiam,
balneum, clibanum, mensuras etiam bladi, vini, et olei; quae omnia
libera sint, sicut propria regis. Et insuper annuatim CCC bysantia in
festo apostolorum Petri et Pauli de funda Tyri habere debent_. Molto più
scrive Bernardo Tesoriere[1667], con dire che si doveano pagare ogni
anno _quatuor millia byzantiorum Saracenorum_ ai Veneziani; e che
prendendo Ascalona e Tiro, _tertiam partem cum suis pertinentiis
regaliter et libere obtinebunt_. Tali conquiste mirabilmente servirono
alla mercatura e ad altri vantaggi de' Veneziani. Intesosi dipoi che
l'imperador di Costantinopoli era dietro a recar danno alle terre d'essi
Veneziani, venne la lor flotta a Rodi, e negandole quel popolo
rinfreschi di viveri, presero quella città e le diedero il sacco con
asportarne di molte ricchezze. Poscia se ne andò quella flotta a Scio, e
impadronitasene, quivi passò il verno. Seguitando intanto la guerra fra
i Milanesi e Comaschi[1668], l'anno presente ancora vide molti fatti
d'armi, favorevoli ora all'una, ora l'altra parte. Assediarono i
Comaschi l'isola loro nemica, ma non poterono ridurla alla loro
ubbidienza. Impresero poscia i Milanesi l'assedio di Como, ma cotal
bravura ritrovarono in quel popolo, che loro convenne tornarsene a casa
colle bandiere nel sacco.

NOTE:

[1657] Pandulfus Pisanus, in Vita Callisti II.

[1658] Pagius, ad Annal. Baron.

[1659] Falco Beneventanus, in Chron.

[1660] Chron. Mauriniac.

[1661] Pandulfus Pisanus, in Vita Honorii II.

[1662] Cardinal, de Aragonia, in Vita Honorii II.

[1663] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1664] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.

[1665] Fulcher. Carnotens., lib. 3.

[1666] Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1667] Bernard. Thesaurar., cap. 118, tom. 7 Rer. Italic.

[1668] Anonymus Poeta Comens., tom. 5 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCXXV. Indizione III.

    ONORIO II papa 2.
    LOTTARIO III re di Germania e d'Italia 1.


Fu l'anno presente l'ultimo della vita di _Arrigo_ fra i re _quinto_ e
_quarto_ fra gli imperadori[1669]. Concordano in questo fatto troppi
storici: laonde non è da ascoltare chi parla di sua morte o nel
precedente o nel susseguente anno. Accadde questa nel dì 23, oppure nel
22 del mese di maggio, senza ch'egli lasciasse prole dopo di sè.
Trattossi dunque nella dieta de' principi dell'elezion del successore, e
fra i candidati si contavano[1670] _Lottario duca_ di Sassonia,
_Federigo duca_ di Suevia, _Leopoldo marchese_ d'Austria e _Carlo conte_
di Fiandra. Concorsero i voti della maggior parte in _Lottario_, terzo
fra i re d'Italia, e poi secondo fra gl'imperadori, il quale contro sua
voglia eletto nel dì 30 d'agosto, fu coronato re di Germania nel dì 13
di settembre. Erano passate fra questo principe e l'ultimo Arrigo
Augusto molte dissensioni e guerre, per le quali Lottario, uomo per
altro valorosissimo, era stato una volta assai umiliato, e però
conservava egli un mal talento contra tutti i di lui parenti. Tali erano
fra gli altri il suddetto _Federigo_ duca di Suevia, e _Corrado_ suo
fratello, che l'Urspergense chiama duca di Franconia, perchè figliuoli
di Agnese sorella del suddetto Arrigo V ed eredi del medesimo Augusto.
Avea lo stesso Federigo condotte seco alla dieta circa trenta migliaia
di combattenti, sperando o col terrore o col favore di poter conseguir
la corona. Escluso, rivolse l'armi contra del nuovo re; ma per
interposizione dei vescovi si quietò per allora, e gli fece poi più
guerra ne' seguenti anni per mezzo ancora del suddetto Corrado suo
fratello, dopo averlo, coll'aiuto di alcuni principi suoi parziali,
creato re di Germania, siccome vedremo andando innanzi. Non so io dire
se in questo, oppure nel seguente anno, come vuole il signor Sassi,
desse fine a' suoi giorni _Olrico arcivescovo_ di Milano. Ben so che a
lui succedette _Anselmo da Pusterla_[1671]. E perciocchè, oltre ad uno
strumento recato dal Puricelli[1672], da cui apparisce che questo
Anselmo anche nell'anno 1123 s'intitolava _arcivescovo di Milano_, s'ha
la medesima notizia chiaramente confermata dall'anonimo contemporaneo
poeta della guerra di Como[1673]: come ciò possa essere l'hanno cercato
eruditi scrittori. Continuo io a credere, siccome conghietturai nella
prefazione al suddetto anonimo poeta, che vivente il suddetto Olrico,
prima dell'anno 1123 fosse eletto suo coadiutore il medesimo Anselmo, e
che in questi tempi colla coadiutoria andasse unito anche il titolo di
arcivescovo: del che ho recato un altro esempio di questo secolo nella
chiesa milanese. Essendo poi mancato di vita Olrico o nel presente o nel
seguente anno, allora Anselmo restò solo ed attuale arcivescovo di
Milano.

Non pochi fatti di guerra succederono ancora in questo anno fra i
Milanesi e Comaschi con varietà di fortuna. Tornarono i primi
all'assedio di Como, ma ne furono valorosamente respinti. Varie
battaglie ancora si fecero nel lago Lario, ossia di Como, e senza mai
perdersi d'animo tennero forte i Comaschi contro la potenza de' nemici.
Ma essendo passato a miglior vita _Guido_ loro vescovo, cominciarono da
lì innanzi ad andare i loro affari di male in peggio. Tornò nell'anno
presente a Venezia[1674] la vittoriosa flotta del doge di Venezia
_Domenico Michele_. Prima nondimeno essendo seguita rottura
coll'imperador di Costantinopoli _Giovanni Comneno,_ gli fecero guerra
col prendere e dare a sacco le isole di Samo, Mitilene ed Andro. Venuti
parimente in Dalmazia, ricuperarono dalle mani degli Ungheri le città di
Spalatro e di Traù. Cacciarono anche dalla marittima terra di Belgrado,
diversa da quella che sta al Danubio, gli Ungheri; e quindi ricevuti con
grande onore dal popolo di Zara, dove si fece la distribuzion della
preda, felicemente e con trionfo si restituirono alla lieta lor patria.
Nella state dell'anno presente i Genovesi con dieci galee scorsero il
mare di Corsica e Sardegna sino a Porto Pisano[1675], con prender molti
Pisani, merci e legni de' medesimi. Trovata ancora una lor cocca, che
portava quattrocento uomini e un ricco carico, la perseguitarono per
quattro giorni. Per fortuna di mare fu d'uopo lasciarla; ma questa andò
poi a rompersi all'imboccatura dell'Arno. Presero dipoi e saccheggiarono
Piombino nel mese di settembre, conducendo prigioni a Genova tutti
quegli abitanti grandi e piccioli.

NOTE:

[1669] Abbas Urspergens., in Chron. Otto Frisingensis, in Chron.
Robertus de Monte et alii.

[1670] Otto Frisingens., lib. 7, cap. 17. Dodechin., in Chron.

[1671] Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 37.

[1672] Puricell., Monument. Basil. Ambrosian.

[1673] Anonymus Comensis, in Poem., tom. 5 Rer. Ital.

[1674] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital. Sicard., in Chron., tom. 7
Rer. Ital.

[1675] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXXVI. Indizione IV.

    ONORIO II papa 3.
    LOTTARIO III re di Germania e d'Italia 2.


Un insigne accrescimento di potenza si fece in questi tempi, per
attestato di Dodechino[1676], alla linea germanica degli estensi duchi
di Baviera. Cioè in questo, oppure nell'anno precedente, mancò di vita
_Arrigo il Nero_ duca di Baviera, il quale s'era ritirato nel monistero
di Weingart[1677], con lasciare gli Stati ad _Arrigo IV_ e _Guelfo VI_
suoi figliuoli. Restarono di lui ancora _Corrado_, che, sprezzato il
mondo, morì poi in concetto di santità, e quattro figliuole: fra le
quali _Giuditta_, maritata con _Federigo _ duca di Suevia, fu madre del
famoso imperadore _Federigo I_ soprannominato Barbarossa. Ora il
suddetto Arrigo IV, che poi venne da alcuni moderni scrittori appellato
il _Superbo_ per distinguerlo dagli altri di questo nome, fu considerato
dal _re Lottario_ per quel principe che meritasse più degli altri la
confidenza ed amore suo, stante la sua potenza, e insieme l'antica
nimistà che passava tra la casa de' Guelfi, il cui sangue e la cui
eredità era passata in lui, e la casa ghibellina, da cui discesero i tre
ultimi Arrighi imperatori, con lasciar eredi anche delle loro gare i due
fratelli Federico duca di Suevia e Corrado. Perciò Lottario, affine di
maggiormente accrescere la possanza di Arrigo IV duca di Baviera, gli
conferì in quest'anno anche il ducato della Sassonia: con che egli potea
paragonarsi ai re, se non nel titolo, certamente nell'ampiezza del
dominio, perchè allora i nobilissimi ducati della Baviera e Sassonia
erano di maggior estensione che oggidì. Un altro riflesso ebbe in ciò il
re Lottario, perchè già meditava di dare in moglie ad esso Arrigo
l'unica sua figliuola _Geltruda_. Anzi non mancano scrittori[1678] che
credono contemporanee tali nozze, celebrate nell'anno susseguente,
coll'investitura del ducato della Sassonia: e forse questo può sembrar
più probabile. L'anno presente verisimilmente quel fu in cui _Anselmo_
da Pusterla, novello arcivescovo di Milano, contro la volontà del suo
clero e popolo si portò a Roma per trattare del pallio che il papa
ricusava di inviargli a Milano[1679]. A questa sua risoluzione si
opponevano i Milanesi, pretendendo una novità pregiudiziale alla dignità
del loro arcivescovo il dover andare a prendere in Roma quel pallio che
i precedenti pontefici per li loro legati aveano inviato in addietro a
Milano. Colà giunto Anselmo, ebbe un bell'allegare privilegii e
consuetudini favorevoli al suo diritto. Papa _Onorio II_ stette saldo in
volere che ricevesse il pallio o dalle sue mani, o sull'altare di san
Pietro. Anselmo, chiesto parere a _Roberto vescovo_ d'Alba, che il
dissuase dal sottoporsi a questo aggravio e discredito, se ne tornò
senza pallio a Milano. Ma non fu ammesso nel palazzo archiepiscopale, se
non dopo avere Uberto da Marignano suo cancelliere e il vescovo d'Alba
giurato ch'egli non avea acconsentito a pregiudizio alcuno della chiesa
milanese. In quest'anno ancora, per attestato di Caffaro[1680], i
Genovesi colla lor flotta arrivarono alla bocca d'Arno. Sbarcati, furono
alle mani colla fanteria e cavalleria de' Pisani. Passati poscia a Vado,
distrussero quasi tutto quel castello, e di nuovo per battaglia
s'impadronirono del castello di Piombino, che già si cominciava a
rifabbricare. Portatisi di poi in Corsica, presero il castello di san
Giovanni, con far prigioni trecento Pisani. Parimente in
quest'anno[1681] tornò l'esercito de' Milanesi contra della città di
Como, con bloccarla ed occupare le colline d'intorno e la valle di san
Martino. Erano coi Milanesi anche i Lodigiani e Cremaschi, coll'aiuto
dei quali si renderono padroni della valle di Lugano. Sempre più perciò
peggioravano gli affari del popolo comasco.

NOTE:

[1676] Dodechinus, in Chron.

[1677] Chron. Monaster. Weingart.

[1678] Helmoldus, Chron. Slav., lib. 1, cap. 55.

[1679] Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap 38.

[1680] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.

[1681] Anonymus Poeta Comensis, tom. 5 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXXVII. Indizione V.

    ONORIO II papa 4.
    LOTTARIO III re di Germania e d'Italia 3.


Diede fine in quest'anno alla sua vita in Salerno, capitale allora dei
duchi di Puglia, nel dì 20 di luglio[1682] _Guglielmo duca_ di Puglia,
compiuto di poco l'anno trentesimo di sua vita. Non aveva egli ricavata
prole alcuna da sua moglie, figliuola del principe di Capoa, la quale
vinta dal dolore, tagliatisi i suoi bei capegli, fra le lagrime e gli
urli andò a gittarli sopra il petto del defunto consorte. Concorse
ancora tutto il popolo di Salerno a deplorar la morte di questo buon
principe, il cui cadavero con reale magnificenza fu seppellito in quella
metropolitana. Appena arrivò questa nuova a _Ruggieri conte_ di Sicilia,
che non perdè tempo a passar con sette galee presso a Salerno, e di là
si studiò d'indurre quel popolo a prenderlo per loro signore, allegando
la stretta parentela e la promessa fattagli dallo stesso duca Guglielmo
di dichiararlo suo erede in mancanza di figliuoli. Hanno anche scritto
alcuni che veramente Guglielmo col suo testamento gli mantenne la
parola; ma di ciò non resta alcun buon fondamento. Se creder vogliamo a
Falcone Beneventano, per dieci giorni si fermò il conte Ruggieri in
nave, cercando pur di trarre alle sue voglie i Salernitani, che trovò
molto alieni del darsi a lui, forse perchè riputavano erede più
legittimo e prossimo ab intestato _Boamondo II_ principe d'Antiochia,
nipote di Roberto Guiscardo, oppure per altri motivi. Ma finalmente
chiamati a parlamento quei cittadini col loro arcivescovo _Romoaldo_,
diverso dallo storico, con sì belle parole e promesse di buon
trattamento loro parlò, che fatto dipoi generale consiglio,
l'accettarono per loro signore. Alessandro, chiamato da altri abbate
Celesino, ma che senza dubbio si dee appellar Telesino, perchè abbate di
Telesa, scrittore di questi tempi, aggiugne una particolarità
cioè:[1683] che i Salernitani, parlando con Sarolo ossia Saroto, messo
del conte, esagerarono gli aggravii loro fatti dal duca Guglielmo e da'
suoi antecessori, e che, temendo altrettanto dal conte Ruggieri, non gli
si voleano sottomettere. E perchè Sarolo rispose loro con qualche
villania, se gli avventarono addosso e il privarono di vita. Non ostante
sì grave offesa, stette fermo il conte; e dissimulando il suo sdegno,
seguitò a trattare, finchè indusse quel popolo a riceverlo per principe,
a condizione nondimeno che restasse in lor mano la guardia della torre
maggiore, ossia della rocca. Ruggieri, uomo che ben sapea il suo conto,
accordò loro tutto, purchè si mettesse in possesso di Salerno.
Altrettanto fece con _Rainolfo_ conte di Alife, a cui concedette
esorbitanti dimande, per averlo dalla sua nella già incominciata
conquista della Puglia. L'esempio di Salerno si tirò dietro gli
Amalfitani, che, nel darsi al conte Ruggieri, ottennero anch'essi di
ritenere in lor potere le fortezze di quella città. Aggiugne Falcone che
il conte Ruggieri ridusse dipoi alla sua ubbidienza anche le città di
Troia e di Melfi, ed altre parti della Puglia, e se gli suggellarono
alcuni baroni di quelle contrade. Ma giunto a Roma l'avviso di questi
progressi del conte Ruggieri, se ne alterò forte papa _Onorio II_ con
tutta la sua corte, tra perchè dovea pretendere devoluto il feudo della
Puglia alla santa Sede, e perchè non gli dovea piacere l'ingrandimento
d'un principe signore della Sicilia, il quale, se diveniva padrone anche
della Puglia e Calabria, avrebbe potuto dar la legge a Roma stessa. Però
cominciò a far pratiche per impedire gli avanzamenti del conte Ruggieri.

Passò esso papa a tal fine a Benevento, indi alla città di Troia, che
gli prestò ubbidienza. Gli avea già il conte Ruggieri spediti
ambasciatori con ricchi regali, per impetrar l'investitura del ducato di
Puglia e Calabria; e tuttochè esibisse di rilasciare al papa la città di
Troia e Montefosco, niun partito si volle ascoltare, essendo
insperanzito il pontefice di metter sotto l'immediato suo dominio tutto
quel ducato, oppure disegnando d'investirne il giovane Boamondo II
principe d'Antiochia, a cui con più ragione appartenevano quegli Stati.
Ora veggendo il conte Ruggieri sì mal disposto verso di lui l'animo del
papa, comandò a' suoi uffiziali di cominciar le ostilità contro la città
di Benevento: il che fu cagione ancora ch'esso papa Onorio si
trasferisse colà. Quivi egli fulminò la scomunica contra d'esso conte, e
di chiunque gli prestasse aiuto: il che servì a Rainolfo conte d'Alife
per abbandonar Ruggieri, e seguitar la parte del romano pontefice.
Dimorava tuttavia in Salerno il conte Ruggieri, e di là spedì altri
ambasciatori a Benevento, pregando il papa di concedergli il ducato; ma
furono ancor questi rimandati con sole dure risposte. Il perchè Ruggieri
perduta la pazienza, e conoscendo volerci altro che preghiere e parole
per piegare l'animo indurito del pontefice, se ne tornò in Sicilia,
risoluto di cercar colla forza ciò che non poteva ottener colle maniere
amichevoli di pace; e senza licenza del papa assunse il titolo di duca.
Intanto i Milanesi, più che mai ansanti di sottomettere la città di
Como[1684], fecero venir da Genova e da Pisa buona copia d'artefici,
atti a fabbricar navi, castelli di legno, grosse baliste ed altri
ordigni di guerra. Ottennero gagliardi soccorsi da Pavia, Novara,
Vercelli, Asti, Alba, Albenga, Piacenza, Parma, Mantova, Ferrara,
Bologna, Modena e Vicenza, siccome ancora dal conte di Biandrate, dalla
Garfagnana e da altre parti. Dal che vegniamo a conoscere che tutte le
suddette città si governavano a repubblica, nè più erano governate dai
ministri imperiali. Con questo possente esercito si portarono i Milanesi
all'assedio di Como, che fu con vigore sostenuto da' cittadini, finchè
ebbero forze. Ma in fine, veggendo vicina la rovina loro, presero la
risoluzione d'imbarcar una notte tutte le loro donne e figliuoli col
meglio delle sostanze; e fatto nello stesso tempo un grande strepito
nella città, e una sortita sopra i nemici, affinchè non inquietassero le
preparate navi, anch'essi dipoi imbarcatisi sul lago, navigarono al
castello di Vico, con animo di quivi vendere caro la lor libertà e la
vita. Entrati la seguente mattina i Milanesi nella città, si avvidero
della fuga degli abitatori. Di là passarono al suddetto castello di
Vico; ma trovandolo inespugnabile, e necessario gran tempo e spesa per
vincere la costanza de' Comaschi, diedero finalmente orecchio alle
proposizioni di pace. Fu questa infatti stabilita, conservati i beni ai
cittadini, ma condannata la città a perdere le mura ed ogni altra
fortezza, e a prestare ubbidienza e tributo da lì innanzi a Milano.
Pretesero il Puricelli e il padre Pagi che l'eccidio di Como seguisse
nell'anno susseguente 1128, e il signor Sassi[1685] riferisce altri
autori del medesimo parere. Ma essendo concordi gli storici milanesi e
comaschi e Galvano Fiamma[1686] in riferir questo fatto all'anno
presente, non credo che s'abbia da dipartire dalla loro opinione. E
massimamente perchè nell'antico Calendario milanese, da me
pubblicato[1687], è notato _anno Domini MCXXVII capta est civitas
Comensium_. Forse i primi autori parlano della pace probabilmente
conchiusa nell'anno seguente, e gli altri della presa della città
accaduta nel presente. Ed ecco come, liberate le città lombarde dal
giogo straniero, cominciarono a volgere l'armi l'una contra l'altra;
male che mireremo andar crescendo per la matta ambizione da cui chi più
può, più degli altri ancora si lascia sovvertire. Celebrò il re Lottario
la festa di Pentecoste in Merseburg[1688], _ubi decentissimo multorum
principum habito conventu unicam et dilectam filiam suam Gertrudem
glorioso Bavariae duci Henrico, ducis Heinrici, et Vulfidae, magni ducis
natae, filio, cum multa honorificentia in matrimonii honore sociavit_.
L'Urspergense narra[1689] che in Augusta ne furono celebrate le nozze
con rara magnificenza. Io ne fo menzione, perchè fatto spettante alla
linea estense di Germania.

NOTE:

[1682] Falco Beneventanus, in Chron.

[1683] Alexander Telesinus, de Gest. Rogerii lib. 1, cap. 5.

[1684] Anonymus Poeta Comensis, tom. 5 Rer. Italic.

[1685] Saxius, in Not. ad Landulfum junior., cap. 37.

[1686] Gualvan. Flamma, Manip. Flor., tom. 11 Rer. Ital.

[1687] Rer. Italic. Par. II, tom. 2.

[1688] Annalista Saxo.

[1689] Urspergens., in Chronic.



    Anno di CRISTO MCXXVIII. Indizione VI.

    ONORIO II papa 5.
    LOTTARIO III re di Germania e d'Italia 4.


Nel dì 19 di dicembre dell'anno precedente era mancato di vita _Giordano
II_ principe di Capoa[1690], a cui succedette _Roberto II_ suo
figliuolo. Per questa cagione, cioè per sostenere i diritti della sua
sovranità, si portò _papa Onorio_ nel dì 30 di dicembre a Capoa, quivi
accolto con varie finezze da Roberto. Invitati poscia i vescovi ed
abbati sul principio di quest'anno con gran pompa ed allegria alla
presenza del sommo pontefice, Roberto fu unto principe e prese
l'investitura da esso papa. In tal congiuntura papa Onorio nella copiosa
assemblea de' prelati e baroni espose le sue doglianze contra di
Ruggieri conte di Sicilia per la guerra mossa ai Beneventani, e per
l'usurpazione di vari luoghi della Puglia, invitando tutti alla difesa
di quegli Stati, siccome dipendenti dalla Chiesa romana, e dando
indulgenza plenaria a chiunque morisse in quella spedizione: ripiego
strano, che tuttavia comincia a diventare alla moda, con far servire la
religione agl'interessi temporali. _Roberto_ principe di Capoa,
_Rainolfo_ conte d'Alife, _Grimoaldo_ principe, o, per dir meglio,
signore di Bari, _Tancredi_ di Conversano conte di Brindisi, _Ruggieri_
conte d'Oria, ed altri conti e baroni, tutti con promesse magnifiche
assunsero la difesa dei diritti pontificii, e si prepararono a sostener
la guerra contra del conte Ruggieri. Confermò di nuovo il papa tanto
ivi, quanto dipoi in Troia, la scomunica contra d'esso Ruggieri, ed
inviò il principe di Capoa col conte Rainolfo all'assedio del castello
della Pillosa nel dì 29 di gennaio, e con esso loro più di due mila
Beneventani. Ma ossia che l'osso fosse duro, oppure, come fu allora
creduto, che quei comandanti non operassero con buona fede, nulla di
rilevante fu fatto per impadronirsene; del che concepì tale sdegno il
pontefice, dimorante allora in Monte Sarchio, che se ne tornò nel
distretto del ducato romano[1691]. Intanto venuta la primavera, il
valoroso conte Ruggieri con un poderoso esercito di Siciliani passò lo
Stretto; prese e spianò le terre d'Unfredo; se gli renderono Taranto ed
Otranto, città di _Boamondo_ iuniore principe d'Antiochia, il quale
miseramente poi nell'anno 1130 restò ucciso in Oriente dai Turchi.
S'inoltrò il vittorioso Ruggieri, e stretta con vigoroso assedio la
città di Brindisi, talmente la battagliò, che la costrinse alla resa.
Colla stessa felicità s'impadronì della città di Oria e di molte altre
castella. A questi dispiacevoli avvisi tornò papa Onorio II a Benevento,
seco conducendo circa trecento soldati a cavallo romani; e ordinato a
Roberto principe di Capoa, a Rainolfo conte e agli altri baroni di
prendere l'armi, andò con grandi forze per opporsi alle vittoriose
schiere del conte Ruggieri. Ma questi unita la sua gente, venne a
postarsi al fiume Bradano, e quivi si accampò. Dall'altra parte anche
l'esercito pontificio mise le tende, senza osare nè l'una nè l'altra
parte di guadare il fiume per cercare il nemico. Alessandro abbate
Telesino scrive, essersi trattenuto Ruggieri per riverenza al sommo
pontefice. All'incontro Falcone[1692], favorevole ad esso pontefice,
scrive che Ruggieri, _sentiens Apostolicum cum exercitu valido militum
et peditum, et baronibus suis adversus se venientem, in montana
secessit, devitans Apostolici virtutem, ne aliquo modo aliquid ei
sinistrum contingeret; et sic per quadraginta dies Apostolicus ille
ardenti sole mensis julii fatigatus comitem illum obsedit_. Tanta
inazione, e l'essersi cominciato a scarseggiar di viveri e di paghe nel
campo pontificio, cagione fu che disertavano a furia i soldati, e lo
stesso principe di Capoa, siccome persona di delicata complessione, non
potendo reggere alla sferza del caldo estivo e agli altri disagi,
spiantò il suo padiglione per andarsene. Falcone, l'autor della Vita di
questo papa[1693], ed altri scrittori incolpano d'infedeltà que' baroni,
quasichè cercassero senza ragione motivi di ritirarsi. Comunque sia, il
saggio papa, veggendosi esposto a pericolo di disonore e di perdite
gravi, segretamente mandò Cencio Frangipane ad offerire al conte
Ruggieri l'investitura del ducato, promettendo di dargliela in
Benevento. Altro che questo non cercava Ruggieri, e però furono
d'accordo. Andossene il papa a Benevento; gli tenne dietro Ruggieri con
un buon corpo di sua gente, e andò a postarsi nel monte di san Felice
fuori di Benevento. Pretendeva il pontefice che Ruggieri entrasse nella
città a ricever quivi l'investitura; ma Ruggieri, principe cauto ed
accorto, persiste sempre in dire che fuori e non entro di Benevento
avrebbe ricevuto le grazie pontificie. Convenne pertanto che il papa
uscisse, e fatto l'abboccamento al ponte maggiore presso il fiume,
nell'ottava dell'Assunzion della Vergine, quivi papa Onorio II investì
il conte Ruggieri del ducato di Puglia e Calabria nella stessa forma che
s'era praticata con Roberto Guiscardo e col suo figliuolo e nipote.

Si lagnarono forte del papa per questo segreto accordo, fatto senza lor
participazione, e, senza parola in lor difesa, i baroni e le città che
tenevano la parte d'esso pontefice, perchè restavano alla discrezione
del nuovo duca Ruggieri. Ma ebbero un bel gridare. Dopo avere il papa in
questa maniera assicurato il suo diritto, se ne tornò da lì a non so
quanti giorni a Roma. Non v'era ancor giunto, quando una parte de'
Beneventani crudelmente uccise Guglielmo governatore pontificio di
quella città. Adirato il papa proruppe in molte minaccie, e spedì il
cardinale _Gherardo_ a quel governo, che trovò avere i Beneventani
formata una specie di comunità, senza però dipartirsi dall'ubbidienza
del romano pontefice. Intanto il duca Ruggieri si portò all'assedio di
Troia[1694]; ma ritrovandola ben munita, e i cittadini risoluti di
difendersi, si ritirò, attendendo poscia ad entrare in possesso di Melfi
e d'altre città che gli aveano mandati ambasciatori. Dopo di che,
avvicinandosi il verno, andò a Salerno, e di là in Sicilia. In Lombardia
parimente fu gran novità in quest'anno. Federigo duca di Suevia e
Corrado suo fratello, siccome figliuoli di Agnese sorella dell'ultimo
Arrigo Augusto, pretendeano al regno e all'imperio, e perciò dicemmo
nata guerra fra loro e il re Lottario in Germania. Pensò Federigo di
fare un bel colpo coll'inviare il fratello Corrado in Italia, acciocchè
si procacciasse questo regno[1695]. Doveva essere preceduto qualche
segreto trattato coi Milanesi, perciocchè appena comparve in Milano, che
quella nobiltà col popolo tutto si dichiarò in suo favore. Soggiornava
in questi tempi l'arcivescovo _Anselmo_ fuori di città nelle sue
castella; fu chiamato per parte del clero e popolo a far la coronazione
di Corrado, la quale infatti si eseguì nella festa di san Pietro di
giugno in Monza, con dargli l'arcivescovo la corona ferrea nella
basilica di san Giovanni Batista, e dichiararlo re d'Italia. Fu da lì a
qualche giorno rinnovata questa funzione nella basilica di santo
Ambrosio di Milano. Alla prima coronazione si trovò presente lo storico
Landolfo da san Paolo, ma per suoi affari mancò alla seconda. Scrive
egli dipoi d'esso Corrado: _Hunc namque gradientem per comitatus et
marchias Lombardiae et Tusciae, comites et marchiones cujuscumque
nobilitatis, viri potentes et humiles, cum gaudio susceperunt et
amaverunt_. Ma coloro che gli fecero resistenza, nè il vollero per loro
re, _ejus acutissimi gladii fortitudinem senserunt, atque mortem et
confusionem, ceu Anselmus marchio del Busco, et illustris... comes,
susceperunt_. Uno scrittore tedesco s'immaginò che questo conte, di cui
s'è perduto il nome, fosse _Alberto_, o _Ingelberto_, dichiarato, per
quanto egli crede, da papa Onorio marchese della Toscana, con citare un
documento da me prodotto[1696], in cui s'incontra _Albertus Dei gratia
marchio et dux, lege vivens salica, cooperante gratia et beati Petri, et
domini papae Honorii ejus vicarii munere_, ec. Ma questo non vuol dire
ch'egli fosse marchese veramente di Toscana. In questi tempi si truova
_Corrado_, marchese veramente di Toscana, siccome ho osservato
altrove[1697], e si truovano documenti che parlano di lui agli anni 1121
e 1129. Quell'_Alberto_, di cui è fatta menzione nelle Antichità
estensi, si vede creato da papa Onorio II _marchese_ e _duca_ dopo la
morte dell'ultimo imperadore Arrigo, con dargli l'investitura de' beni e
Stati della contessa Matilda; ma senza ch'egli esercitasse dominio
alcuno nè in Toscana, nè in Mantova, Ferrara, Modena ed altre città
sottoposte una volta a Matilda. A noi dunque basterà di sapere che
Corrado incoronato re, per tale fu riconosciuto, non dirò da tutti,
bensì da moltissimi in Lombardia e Toscana. Ma che? Il pontefice, che
avea approvata per mezzo de' suoi legati l'elezione del re Lottario,
mosso da lui, pubblicò contra di Corrado una terribile scomunica[1698],
per cui cominciò tosto a scemare il suo credito, e fu in fine annientata
in Italia la di lui potenza.

NOTE:

[1690] Falco Beneventanus, in Chron.

[1691] Abbas Telesinus, lib. 1, cap. 12.

[1692] Falco Beneventanus, in Chron.

[1693] Cardinal. de Aragon., in Vit. Honorii II.

[1694] Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 17.

[1695] Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 39.

[1696] Antichità Estensi, P. I, cap. 30.

[1697] Antiquit. Italic., Dissert. VI.

[1698] Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 17.



    Anno di CRISTO MCXXIX. Indizione VII.

    ONORIO II papa 6.
    LOTTARIO III re di Germania e d'Italia 5.


Nella Vita di papa _Onorio II_ è scritto che egli[1699] _delegavit
Petrum presbyterum cardinalem tituli sanctae Anastasiae ad partes
Ravennae, qui deposuit aquilejensem et venetum patriarchas_. Il cardinal
Baronio[1700] non seppe il perchè. Ma Bernardo di Guidone[1701] ne
adduce il reato, _quia invenit eos schismaticis favorabiles exstitisse_.
Il Dandolo[1702] scrive, _quia schismaticis fuerant fautores_. Tolomeo
da Lucca[1703] vi aggiugne un forte. Non si può intendere questo
dall'antecedente scisma, perchè la pace avea abolito tutti i delitti e
processi. Adunque, siccome subodorò il Sigonio[1704], potè piuttosto
procedere la loro condanna per aver promosso o abbracciato il partito di
_Corrado_ usurpatore della corona d'Italia contro il giuramento prestato
al _re Lottario_, cioè ad un principe approvato dalla santa Sede. Da una
lettera scritta in questi tempi dall'arcivescovo di Salisburgo al
vescovo di Bamberga, che si legge fra le raccolte da Udalrico[1705],
impariamo che fu eletto in luogo di _Gherardo_, stirpe inutile e piena
di vizii, un altro patriarca, che era decano di Bamberga, uomo dabbene,
e perciò _eliminatam fuisse veterum spurcitiarum, quae longo illic
tempore dominata fuerat, foeditatem, quum abjecta indigna satis omni
ecclesiastico regimini persona, clerum et populum vidimus tam honeste
tamque canonice de alterius substitutione cogitare_. Qui nulla si parla
di scisma; solamente è accusato quel _Gherardo_, chiamato _Riccardo_
dall'Ughelli[1706], di inabilità e di vizii. E però le lodi a lui date
dal Candido, da esso Ughelli e da altri, si debbono cancellare. Ma
eletto che fu il decano suddetto, quel clero il perseguitò in maniera
che fu obbligato a fuggire, e noi non sappiamo se quel _Pellegrino_ che
gli succedette, sia lo stesso decano. È nondimeno da stupire come tali
scrittori parlino della deposizione di que' due patriarchi, e nulla
dicano di quanto avvenne ad _Anselmo arcivescovo_ di Milano. Noi certo
abbiamo da Landolfo da san Paolo[1707] che _Giovanni da Crema_ cardinale
romano, venuto a Pavia, qui raunò un concilio de' vescovi suffraganei
della chiesa di Milano per iscomunicare il suddetto arcivescovo, perchè
egli avesse coronato ed alzato Corrado al regno contro il legittimo re
Lottario. Anselmo, udito questo rumore, spedì colà molti de' suoi per
pregarli di non procedere avanti senza ascoltarlo; ma il cardinale e i
vescovi, incitati da alcune città che aderivano ad esso re Lottario,
niuna dilazione vollero accordargli, e fulminarono contro di lui la
scomunica. Dico la scomunica, perchè non parla quello storico di
deposizione. Anzi aggiunge che la maggior parte de' Milanesi, finchè
visse papa Onorio II, tennero per loro pastore il soprammentovato
Anselmo. Quali poi fossero le città costanti nell'ubbidienza al re
Lottario, lo spiega il medesimo storico con dire: _At papienses,
cremonenses, novarienses quoque, et eorum episcopi, et aliarum
civitatum, praedicantes hoc regium opus Anselmi contrarium Deo, et magno
regi Lothario, nequaquam illius pontificis_ (cioè di Anselmo)
_legationem susceperunt, sed ipsum praestante cardinali illo Johanne
excommunicaverunt_.

Si aggiunse ai motivi di nimicizia fra le suddette città e Milano
l'altro della nobil terra di Crema, oggidì città. Era questa sottoposta
nello spirituale e temporale a Cremona, e ribellatasi, implorò la
protezione de' Milanesi, che volentieri ne convennero, siccome popolo
potente e rivolto ad ampliare il dominio e a sottomettere i vicini. Però
i Cremonesi collegati con quei di Pavia, di Novara e d'altre città che
di mal occhio miravano il soverchio ingrandimento de' Milanesi, loro
mossero guerra: guerra che costò poi tanto sangue, e parecchi anni durò.
Ma che divenne del suddetto Corrado re? Lo stesso Landolfo narra che
_fortis manus Honorii papae ipsum resupinavit, atque ad Germaniam, quasi
ad sua propria loca redire fecit_. V'ha chi crede che la di lui ritirata
seguisse nell'anno presente o nel seguente, ma non ne appariscono le
pruove; e che ciò avvenisse solamente nell'anno 1132, lo vedremo fra
poco. È stato creduto che esso re Corrado soggiornasse tuttavia in Lucca
nel dì 4 di settembre, perchè, secondo l'attestato di Francesco Maria
Fiorentini[1708], in quel giorno e luogo concedette un privilegio al
monistero di san Ponziano. Ma da abbracciar sì fatta opinione dee
ritenere ognuno il vedere che egli in detto privilegio è intitolato
_Conradus divina gratta Ravennatum dux, et Thusciae praeses et marchio_.
Se si trattasse del già menzionato Corrado, coronato re in Milano,
avrebbe egli adoperato il titolo di re. Però marchese di Toscana era in
questi tempi un _Corrado_, diverso da Corrado, fratello di Federigo duca
di Suevia; e questo ultimo, se crediamo all'Urspergense[1709], era duca
di Franconia. Per conseguente, neppur sussiste che Corrado marchese di
Toscana fosse nipote di Arrigo V Augusto, come immaginò il suddetto
Fiorentini. Di questo _Corrado_ marchese di Toscana ho io pubblicalo due
diplomi[1710], spettanti all'anno 1120 e 1121, i quali ci fan conoscere
ch'egli, vivente ancora Arrigo, quarto fra gl'imperadori, governava la
Toscana. Ci ha conservato Udalrico da Bamberga[1711] un'altra lettera,
scritta da _Litifredo_ vescovo di Novara _Lothario Dei gratia Romanorum
regi Augusto,_ in cui leggiamo le seguenti parole: _Excellentia vestra
pro certo cognoscat, quod Novaria, Papia, Placentia, Cremona, et Brixia,
civitates Italiae, firmiter fidelitatem vestram custodiunt, et adventum
vestrum unanimiter cupiunt. Cunradus autem Mediolanensium idolum, ab eis
tamen relictum, arrepta fuga solum Parmae habet refugium, ubi tam
pauper, tamque paucis stipatus viliter moratur, quod ab uno loco ad
alium vix fama ejus extenditur_. Veggiamo qui che i Milanesi aveano già
abbandonato Corrado, e ch'egli poveramente dimorava in Parma. Ciò sembra
indicare che anche nell'anno seguente egli si trattenesse in Italia, ma
caduto di credito. Nè certamente egli dovea essere Corrado duca di
Toscana.

Giunta che fu la primavera[1712], tornato _Ruggieri duca_ di Puglia e
conte di Sicilia di qua dallo stretto con un possente esercito, trovò
che _Tancredi_ di Conversano si era rimesso in possesso di Brindisi e di
altre terre a lui dinanzi tolte. Intraprese l'assedio di quella città;
ma trovatala più forte ed ostinata, si ritirò ed attese ad impadronirsi
di Montalto, di Rossano e di altre terre, la conquista delle quali
cagionò che per timore di tanta potenza molti baroni venissero a
prestargli omaggio, e ad onorarlo qual loro sovrano. Fra gli altri non
tardò a pacificar seco _Rainolfo_ conte di Alife, marito di una sua
sorella, coll'aiuto del quale ridusse dopo pochi giorni d'assedio la
città di Troia a sottomettersi ai di lui voleri. Tenuto poscia un
parlamento nella città di Melfi, dove chiamò tutti i baroni di Puglia,
intimò la pace e concordia fra loro, il mantenimento della giustizia, e
il rispetto alle chiese e alle persone sacre. Gli stava poi sul cuore la
permissione da lui mal volentieri accordata ai Salernitani di tener essi
la guardia della torre maggiore, ossia della fortezza di quella città,
parendogli di non essere padrone, se la lasciava in lor mano. Perciò con
tutte le sue forze passò sotto Salerno, ed attorniatala da tutte le
parti, richiese la cession d'essa torre; e fu d'uopo ubbidirlo. Da
quanto poi soggiugne Alessandro abbate telesino, pare che[1713] anche
_Sergio duca_ di Napoli fosse allora costretto a giurar suggezione e
fedeltà ad esso Ruggieri, se non volle far pruova delle forze di lui. Ma
il medesimo storico parla dipoi all'anno seguente della suggezion de'
Napolitani. Perciò poco o nulla restò nel paese che ora appelliamo Regno
di Napoli e di Sicilia, su cui o immediatamente o mediatamente non
signoreggiasse il duca e conte Ruggieri. Avvenne ancora in quest'anno
che sedici galee di Genovesi, andando in traccia de' Pisani loro nemici,
li trovarono a Messina già scesi in terra[1714]. Attaccarono una zuffa
con loro, e tuttochè i Messinesi accorressero in aiuto de' Pisani,
furono tutti respinti fino al palazzo del duca dal valore de' Genovesi,
i quali occuparono in tal congiuntura una buona somma di danaro, benchè
poi, ad istanza del medesimo Ruggieri, la restituissero. Portossi papa
_Onorio II_ nell'anno presente a Benevento nel mese d'agosto, e vi
consecrò abbate di santa Sofia _Francone_[1715]. Avendo poi pregato i
Beneventani di voler rimettere nella città alcuni nobili da loro
esiliati, nol potè ottenere. Di questa loro durezza sdegnato, uscì della
città, ed abboccatosi col duca Ruggieri, si fece promettere che
nell'anno seguente verrebbe coll'armata a gastigare l'orgoglio di quel
popolo. Fece ancora dare il sacco a varii luoghi del loro territorio, e
così in collera se ne tornò a Roma.

NOTE:

[1699] Cardinal. de Arag., in Vit. Honorii II, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[1700] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[1701] Bernardus Guidon., in Vit. Honori II, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[1702] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1703] Ptolom. Lucens., Histor. Eccl.

[1704] Sigon., de Regno Ital.

[1705] Udalricus Bambergensis, Corp. Hist. Eccardi, tom. 2, pag. 353.

[1706] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5.

[1707] Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 39.

[1708] Fiorent., Memor. di Matil., lib. 2, pag. 346.

[1709] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1710] Antiq. Italic., Dissert. XVII, pag. 959 et seq.

[1711] Udalricus Bamberg., apud Eccard., tom. 2, pag. 361, Corp. Hist.

[1712] Abbas Talesinus, lib. 1, cap. 16 et seq.

[1713] Abbas Telesinus, lib. 2, cap. 1 et 12.

[1714] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.

[1715] Falco Beneventanus, in Chron.



    Anno di CRISTO MCXXX. Indizione VIII.

    INNOCENZO II papa 1.
    LOTTARIO III re di Germania e d'Italia 6.


Nel dì 14 di febbraio dell'anno presente il sommo pontefice _Onorio II_
diede fine ai suoi giorni, e fu seppellito nella basilica lateranense.
La morte sua produsse un fiero sconvolgimento nella Chiesa romana. I più
buoni e saggi de' cardinali ben conoscevano i maneggi che facea _Pietro
cardinale_ di santa Maria in Trastevere, uomo screditato pe' suoi
perversi costumi, figliuolo di Pietro, figliuolo di Leone, cioè di un
Ebreo fatto cristiano. Anche san Bernardo[1716] dà il titolo di _judaica
soboles_ ad esso Pietro cardinale, uomo sommamente ambizioso, e
potentissimo in Roma per le aderenze e parentele sue, e per le ricchezze
tanto di sua casa, che ammassate colla sua rapacità in varie legazioni.
Perciò essi buoni, prima che si pubblicasse la morte di papa
Onorio[1717], segretamente elessero papa _Gregorio cardinale_ di
sant'Angelo, di nazione romano, personaggio in cui concorrevano le virtù
meritevoli di sì alto grado, per confessione d'ognuno, e massimamente di
san Bernardo, allora celebre abbate di Chiaravalle. Fece egli quanta
resistenza potè, ma in fine accettata l'elezione, assunse il nome
d'_Innocenzo II_. Non istettero molto dopo questa elezione gli altri
cardinali della fazion contraria ad eleggere pubblicamente papa e
consecrare il suddetto Pietro cardinale, che prese il nome di _Anacleto
II_. Falcone scrive[1718], essere succedute sì fatte elezioni nel giorno
stesso che morì il papa. Altri vogliono che Innocenzo restasse eletto
nel dì 15 di febbraio, ed Anacleto nel dì seguente. Certo è che
precedette quella di Innocenzo, e pare che non fosse per anche
seppellito il papa morto: il che tenuto fu per cosa contraria ai sacri
canoni. Ma da una lettera scritta dal vescovo di Lucca all'arcivescovo
di Mariemburgo[1719] si raccoglie, che _celebratis exsequiis_, si
procedette all'elezione. Certo è altresì, che sebbene si contarono più
cardinali dalla parte di Anacleto, pure in maggior riputazione furono i
favorevoli ad Innocenzo. Dichiarossi in tale occasione Leon Frangipane
con tutta la sua casa in favor d'esso Innocenzo, il quale, non potendosi
sostenere nel Laterano, si ritirò nelle forti case de' medesimi; ma
Anacleto impadronitosi della basilica vaticana, e spogliatala de' suoi
più preziosi arredi, si servì di quel tesoro e dello spoglio d'altre
chiese, siccome ancora del ricco erario proprio e di suo fratello, per
tirare nel suo partito la maggior parte dei grandi e piccioli di Roma.
Assalì poscia di nuovo le case de' Frangipani, che fecero gran
resistenza. Ma conoscendo papa Innocenzo che non potea a lungo
mantenersi quivi, prese la risoluzione di cedere alla potenza
dell'avversario. Imbarcatosi dunque nel Tevere coi cardinali del suo
partito[1720], a riserva del vescovo sabinense, che lasciato per suo
vicario in Roma, poche faccende ebbe per molto tempo, felicemente navigò
fino a Pisa, dove fu con sommo onore ricevuto. Di là ito a Genova[1721],
dispiacendogli forte la guerra di quel popolo, tanto operò, che
conchiuse fra loro una tregua, da osservarsi finchè egli ritornasse di
Francia. Aggiugne Caffaro, scrittore genovese di questi tempi, che il
papa suddetto, per maggiormente cattivarsi l'affetto di quel popolo,
promise di levare il vescovo _Siro_ di sotto all'arcivescovo di Milano,
e di conferirgli la dignità archiepiscopale. Consecrollo anche vescovo,
allorchè fu giunto a Sant'Egidio vicino al Rodano. Andossene dunque papa
Innocenzo II in Francia, accolto dappertutto come vero papa. Pochi
furono in quelle parti coloro che facessero conto delle lettere scritte
loro dall'antipapa Anacleto; a cui nondimeno altri popoli e dentro e
fuori d'Italia aderirono con somma confusione della Chiesa di Dio.

Fra gli altri procurò Anacleto di guadagnare al suo partito _Anselmo
arcivescovo_ di Milano[1722], che già dicemmo scomunicato sotto il
predefunto papa Onorio II. Gli mandò dunque il pallio; e perciò il
popolo di Milano seguitò quasi tutto la parte di Anacleto e di Corrado
re, che furono di accordo in questa congiuntura fra loro. Non potè già
Anacleto far lo stesso con _Gualtieri arcivescovo_ di Ravenna, il quale,
per la testimonianza del Rossi[1723], e molto più d'una sua lettera
scritta all'arcivescovo di Mariemburgo[1724], si sa che fu costante in
favorir papa Innocenzo. Ma principalmente ebbe cura Anacleto di
assodarsi colla buona corrispondenza di _Ruggieri duca_ di Puglia e
Sicilia, del principe di Capoa, e degli altri baroni di quelle contrade.
Nè gli fu difficile. Appena ebbe il suddetto Ruggieri slargate cotanto
l'ali, che gli nacque o gli fu fatto nascere il pensiero di deporre il
titolo ducale, e di assumere quello di re, giacchè tali erano divenute
le sue forze, ed ampliato cotanto il suo dominio, che ben si conveniva a
lui un titolo più luminoso. Ne trattò coll'antipapa Anacleto[1725], il
quale non vi fece difficoltà per timore di non disgustarlo, e decretò
_Conte cardinale_, ossia il cardinale della famiglia de' Conti, per
assistere a questa coronazione. Siccome osservò il padre Pagi[1726], han
creduto gli storici napoletani che Ruggieri di sua propria autorità, e
senza saputa e consenso di Roma, assumesse il titolo e la corona regale;
e che poscia, per convenzione seguita con Anacleto, di nuovo si facesse
coronare. Ma questa doppia coronazione è priva di buon fondamento.
Falcone Beneventano[1727] parla d'una sola, fatta coll'approvazione di
Anacleto. Alessandro abbate di Telesa[1728] una sola anch'egli ne
riferisce, nè parla punto dell'assenso e della cooperazione
dell'antipapa, perchè giudicò meglio di tacere una particolarità che a'
suoi dì non facea bel sentire, nè molto onore al re Ruggieri. Ma Pietro
diacono scrive che _Petrus cardinalis_ (cioè Anacleto) _Rogerio duci
Apuliae coronam tribuens, et per privilegium capuanum principatum, et
ducatum neapolitanum cum Apulia, Calabria, et Sicilia illi confirmans
regemque constituens, ad suam partem attraxit_, con eziandio concedergli
altri privilegii, che Ruggieri con questo buon vento seppe accortamente
chiedere e facilmente ottenere: laonde san Bernardo in una delle sue
lettere[1729] ebbe a dire che Anacleto _habet ducem Apuliae, sed solum
ex principibus, ipsumque usurpatae coronae mercede ridicula comparatum_.
Tutto ciò fu conchiuso verso il fine di settembre, in cui Anacleto si
portò ad Avellino e a Benevento. E perciocchè si credette che Palermo
capitale della Sicilia fosse il luogo più proprio per la coronazione di
Ruggieri, quivi nel sacro giorno del Natale dell'anno presente si fece
questa funzione con quella magnificenza che vien descritta dal suddetto
abbate di Telesa: rito che si è dipoi conservato e ravvivato pochi anni
sono; cioè che in quella città si piglia la corona anche del regno di
Napoli. Vi assistè come legato pontificio il cardinale sopraccennato; e
_Roberto II principe_ di Capoa, siccome il più nobile riguardevole de'
suoi vassalli, gli mise la corona in capo. Il vedremo ben presto mal
ricompensato per questa sua attenzione da Ruggieri. Intanto papa
Innocenzo giunto in Francia, vi fu accolto con gran venerazione. Presso
di Orleans fu a visitarlo il _re Lodovico_, che già nel concilio di
Estampes l'avea riconosciuto per vero papa. Andò a Sciartres, a Clugnì e
ad altri luoghi. Nel novembre tenne un concilio numeroso nella città di
Chiaramonte. Per cura massimamente di san _Bernardo_, non solamente i
Francesi, ma anche il _re Lottario_ in Germania e il _re Arrigo_
d'Inghilterra nell'anno seguente prestarono ubbidienza a papa Innocenzo,
quantunque non mancassero alcuni in quelle parti, che si dichiararono in
favore dell'antipapa Anacleto. In quest'anno restò trucidato dai Turchi
in Soria _Boamondo II principe_ d'Antiochia, sicchè in lui finì
d'estinguersi la prosapia di Roberto Guiscardo, e il re Ruggieri più
francamente potè tenere gli Stati a lui occupati in Italia. Terminò
ancora i suoi giorni _Domenico Michele_[1730] doge di Venezia, e fu
alzato a quel trono _Pietro Polano_. Parimente all'anno presente vengono
riferiti i privilegii e le esenzioni accordate da _Baldovino re_ di
Gerusalemme, dai patriarchi e dal principe di Antiochia alla nazione
veneta in Acon e in altri luoghi d'Oriente.

NOTE:

[1716] Bernardus, Epist. 139. Sugerius, in Vit. Ludovici Gross.

[1717] Arnulf. Sagiens., de Schismat.

[1718] Falco Benevent., in Chron.

[1719] Udalricus Bamberg., tom. 2 Corp. Hist. apud Eccardum.

[1720] Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 54.

[1721] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.

[1722] Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 40.

[1723] Rubeus, Histor. Ravenn.

[1724] Udalric. Bamberg., tom. 2 Corp. Hist. apud Eccardum.

[1725] Idem, ibidem.

[1726] Pagius, ad Annal. Baron.

[1727] Falco Beneventanus, in Chron.

[1728] Abbas Telesinus, lib. 2, cap. 1 et seq.

[1729] Bernardus, Epist. 137.

[1730] Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXXXI. Indizione IX.

    INNOCENZO II papa 2.
    LOTTARIO III re di Germania e d'Italia 7.


Verso la metà di gennaio del presente anno papa _Innocenzo II_ andò alla
città di Sciartres, e colà comparve ancora _Arrigo re_ d'Inghilterra,
per tributargli il suo ossequio, siccome scrisse Orderico Vitale[1731].
Nel dì 29 di marzo si trovò esso pontefice in Liegi coll'accompagnamento
di molti vescovi ed abbati franzesi. Vi concorse ancora _Lottario re_ di
Germania e d'Italia con buona parte dei prelati tedeschi[1732], e quivi
sì egli, come la regina _Richenza_ sua moglie furono solennemente
coronati da esso papa. Promise in tal occasione Lottario di venir
nell'anno seguente in Italia per liberar la Chiesa romana dallo scisma,
e rimettere in possesso di Roma il legittimo pontefice Innocenzo. Venuto
poscia a Parigi esso papa, quivi celebrò con incredibil magnificenza e
divozion di quel popolo la settimana santa e la Pasqua del Signore.
Visitò dipoi altre città della Francia, ed avendo intimato un gran
concilio nella città di Rems[1733], lo tenne nel dì 19 di ottobre
coll'intervento di tredici arcivescovi e di dugento sessantatrè vescovi
(se non è scorretto il testo dell'Urspergense[1734]), e colla presenza
dello stesso re e regina di Francia. In esso fu solennemente pubblicata
la scomunica contra dell'antipapa Anacleto[1735] e di chiunque il
favoriva; e non solamente il re de' Romani Lottario ed Arrigo re
d'Inghilterra mandarono colà a confermar la loro aderenza al papa, ma
anche i re d'Aragona e di Castiglia. Sul principio di quest'anno, per
quanto ci assicura Falcone Beneventano[1736], il suddetto Anacleto, non
potendo sofferire la comunità stabilita dal popolo di Benevento, cioè
una specie di repubblica, ossia un'unione da lor fatta per resistere,
occorrendo, agli ordini del papa loro sovrano, chiamato in aiuto suo con
un buon corpo di milizie _Roberto principe_ di Capoa, fece imprigionare
i più potenti ed arditi di quella città, in guisa che ridusse quel
popolo a dismettere la comunità, e a prestare una piena ubbidienza a'
suoi voleri. Andò poscia a Salerno, e di là passò a Roma. Allorchè il
popolo d'Amalfi, siccome di sopra è detto, si sottomise a Ruggieri,
dichiarato poscia re di Sicilia e Puglia[1737], ritenne in suo potere le
fortezze di quella città. Lo scaltro Ruggieri dissimulò allora il suo
sdegno per questa lor pretensione. Ora che se la vide bella, spedita per
mare una flotta sotto il comando di Giovanni suo ammiraglio, e raunato
un forte esercito per terra, mise l'assedio a quella città. Dopo aver
preso loro le terre di Guallo, Capri e Trivento, assediò anche Ravello,
e talmente colle petriere flagellò la torre di quel castello, che già
minacciava rovina. Allora fu che non solamente il popolo di Ravello, ma
quello eziandio della città d'Amalfi mandarono a trattare di pace, nei
cui capitoli diede il re Ruggieri quella legge ch'ei volle ai sudditi
suoi. Dopo di ciò, tornò Ruggieri a Salerno, e quivi soggiornando, si
vide comparir davanti _Sergio duca_ di Napoli, che consigliato dal
timore dell'ambizione e potenza d'esso re, senza voler aspettare la
forza, andò a sottomettersi a lui, amando meglio di conservare il suo
dominio come vassallo, che di perderlo affatto col voler fare
resistenza. Da ciò pare che si deduca avere bensì Ruggieri ottenuto
dall'antipapa Anacleto un non so qual diritto sopra Napoli nell'anno
precedente, ma averne egli solamente nel presente acquistata la
sovranità per la volontaria dedizione di Sergio. Come poi potesse
pretendere Roma diritto sopra quella nobilissima città, che per più
secoli si era mantenuta indipendente dall'imperio occidentale, con
riconoscere per sovrani i soli imperadori d'Oriente in varii tempi; io
lascerò indagarlo ad altri. Non so ben dire se in quest'anno oppure nel
seguente succedesse quanto viene scritto da Falcone Beneventano e
dall'Anonimo Casinense[1738]. Cioè, che essendo fuggita a Salerno,
oppure chiamata dal re Ruggieri a Salerno _Matilda_ sua sorella moglie
di _Rainolfo_ valoroso conte di Alife, col figliuolo d'esso conte,
insorse nemicizia fra loro. Altri baroni ancora, fra i quali _Tancredi_
di Conversano conte di Brindisi, _Grimoaldo_ principe di Bari e
_Goffredo_ conte di Andria, si collegarono insieme, veggendo che
Ruggieri tendeva a mettere il piede sul collo a tutti. L'Abbate
Telesino, siccome parzial di Ruggieri, sopra d'essi baroni rigetta la
colpa dei movimenti di guerra che sopravvennero, e de' quali parleremo
all'anno seguente. Sarebbe stato da desiderare che questo istorico
avesse registrato sotto i suoi precisi anni le imprese di Ruggieri. Ma
egli lo trascurò. E ne' testi di Falcone e dell'Anonimo Casinense non
v'ha sempre tutta l'esattezza necessaria della cronologia. Era nel
precedente anno cominciala la guerra fra i Milanesi dall'una parte, e i
Pavesi, Cremonesi e Novaresi dall'altra; e questa durò nel presente e
nel susseguente anno. Abbiamo un testimonio autentico, cioè Landolfo da
san Paolo[1739], che ci assicura essere stati vincitori in essa tenzone
i Milanesi. E secondo Galvano Fiamma[1740], in quest'anno si venne ad
una battaglia campale fra i Milanesi e Pavesi presso Macognago, nella
quale quasi tutto l'esercito pavese restò sbaragliato, preso, e condotto
nelle prigioni di Milano. Ebbe principio ancora in quest'anno la
divisione fra i popoli di Modena e di Bologna[1741]. Bollivano liti fra
il comune di Modena per cagione d'acque, di giurisdizioni e d'altre
occorrenze, e l'insigne e ricchissimo monistero di Nonantola, situato
nel territorio di Modena. Prevalendosi di questo litigio, i Bolognesi
segretamente indussero quell'abbate _Ildebrando_ a mettersi sotto la lor
protezione, anzi a sottoporre quella terra al loro comune con varie
vantaggiose condizioni: il che riuscì una grave ferita al cuore del
popolo modenese.

NOTE:

[1731] Ordericus Vital., Hist. Eccles., lib. 13.

[1732] Vit. S. Godeardi. Ægid. Aureae Vallis, Hist. Leod.

[1733] Ordericus Vital., ibidem.

[1734] Urspergensis, in Chron.

[1735] Dodechinus, in Chron.

[1736] Falco Beneventanus, in Chron.

[1737] Alexander Abbas Telesinus, lib. 1, cap. 7.

[1738] Anonymus Casinensis, apud Peregrinium

[1739] Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 40.

[1740] Gualvan. Flamma, Manipul. Flor., c. 166.

[1741] Annales Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXXXII. Indizione X.

    INNOCENZO II papa 3.
    LOTTARIO III re di Germania e d'Italia 8.


Per qualche mese ancora si trattenne _papa Innocenzo_ in Francia con
aggravio non piccolo di quelle chiese, come scrive Orderico[1742],
perchè egli non avea altra maniera da mantenersi. Nel febbraio fu al
monistero di Clugnì e a Lione, da dove passò a Valenza e a Sant'Egidio.
Finalmente _per montem Genuae_ (_Genevae_ crede il padre Pagi[1743] che
si debba leggere; Jacopo da Varagine[1744] scrive che Innocenzo II nel
suo ritorno fu in _Genova_) _fines Lombardiae intravit_, _atque apud
Astam solemnitate Resurrectionis dominicae celebrata_ (nel dì 4 di
aprile) _venit Placentiam_. Quivi celebrò il terzo suo concilio coi
vescovi di Lombardia, della Romagna, Emilia e marca d'Ancona. Convien
dire che egli lungo tempo si fermasse in quelle parti per aspettar
l'arrivo del re Lottario, il quale, secondo il concerto, dovea venire in
Italia. Vedesi una di lui bolla[1745], data in Cremona _II idus julii_
dell'anno presente, in favore dei monaci di san Sisto di Piacenza. E in
Brescia _IV kalendas augusti_ un'altra. Portano esse bolle l'uso
dell'anno pisano. Abbiamo dall'Annalista Sassone[1746] e dagli Annali
d'Ildeseim[1747] che il _re Lottario_ celebrò la festa dell'Assunzion
della Vergine in Virtzburg, e di là poi mosse alla volta d'Italia, ma
con un'armata assai tenue rispetto al suo decoro. Però solamente circa
il principio di settembre arrivò per la via di Trento ai prati di
Roncaglia sul Piacentino, dove soleano adunarsi i principi, vescovi,
baroni e legati delle città di questo regno, allorchè il nuovo re
veniva. Colà si portò ancora il papa per abboccarsi con lui, e stabilir
le cose occorrenti per liberar dalle mani dell'antipapa la città di
Roma, e conferir la corona dell'imperio ad esso re Lottario. Ma con poco
suo onore fu Lottarlo ricevuto; perciocchè, secondo l'asserzione di
Alberico monaco dei tre Fonti[1748], _in multis locis tam amore Conradi,
quam respectu paucitatis suae, ab incolis terrae subsannatus et
despectus fuit. Verum paulo ante Conradus, qui a Mediolanensibus
constitutus rex fuerat, paene omnibus suis amissis, periculose ad
patriam repatriavit_. Questo _paulo ante_ ci fa scorgere insussistente
l'opinione di chi credette partito d'Italia _Corrado_ nell'anno 1129.
Quivi dovette egli dimorare fino all'anno presente, finchè udita la
mossa del re Lottario, non credendosi più sicuro in Italia, se ne fuggì
non senza pericoli in Germania. Ora il pontefice dopo il suddetto
abboccamento dovette venire sul Modenese al monistero di Nonantola, per
cui erano insorte liti fra i popoli di Modena e Bologna. Ho io
pubblicata una sua bolla data in quel monistero[1749] _IV idus octobris_
coll'anno pisano 1133, che è il volgare 1132. Da tal bolla apparisce
l'opulenza d'esso monistero. Dopo ciò, il pontefice, passando per monte
Bardone, cioè per la strada di Pontremoli, andò a fermarsi in Pisa. Colà
chiamati gli ambasciadori de' Genovesi, trattò fra essi e i Pisani la
pace: e per gratificare amendue que' popoli, da' quali avea ricevuti più
servigi, levò _Siro vescovo_ di Genova dalla suggezione dell'arcivescovo
di Milano, col conferirgli la dignità archiepiscopale[1750], e
sottomettere a lui i vescovati di Bobbio e di Brugneto, e tre altri in
Corsica. Dichiarò eziandio primate della Sardegna l'arcivescovo di Pisa,
e a lui sottomise inoltre il vescovato di Populonia, e tre altri nella
Corsica suddetta, con che contentò amendue quei popoli. Caffaro
scrive[1751] che in Corneto fu stabilito l'ingrandimento di questi due
arcivescovi. Se ciò è, appartiene il fatto all'anno seguente. Ma forse
in Corneto furono solamente spedite le bolle di quanto in Pisa era stato
accordato. Abbiamo dagli Annali d'Ildeseim[1752] e dal Cronografo
Sassone che il re Lottario celebrò la festa del santo Natale nella terra
di Medicina, sul Bolognese, e non già _Modoetiae_, ossia _Monza_, come
sospettò il Leibnizio, per poca conoscenza di quella terra. Egli era nel
luogo di Fontana sul Piacentino, allorchè concedette, in non so qual
giorno, ai canonici di Cremona un privilegio[1753], notato coll'anno
pisano.

Una gran rivolta di baroni di Puglia era seguita contra _Ruggieri re_ di
Sicilia. Verisimilmente sperando la venuta del re Lottario e di papa
Innocenzo, si animarono tutti contra di chi faceva a tutti paura. Ma
Ruggieri, appena comparsa la primavera, con potente esercito passato lo
Stretto[1754], si portò a Taranto, e di là passò all'assedio di
Brindisi, che era di _Tancredi_ di Conversano, con obbligar quella città
alla resa. Ritenne prigione _Goffredo_ conte di Andria, che fu astretto
a cedergli buona parte delle sue terre. Quindi portò la guerra contra
della città di Bari, e in tre settimane indusse quei cittadini a
capitolare la resa, e a dargli in mano _Grimoaldo_ principe di quella
città, che fu mandato prigione in Sicilia. Venuti poi ad aperta rottura
contra di Ruggieri il principe di Capoa _Roberto II_ e _Rainolfo conte_
d'Alife cognato del re medesimo, unirono un'armata, se crediamo a
Falcone, di tre mila cavalli e quaranta mila fanti (numero che ha
dell'eccessivo). Riuscì all'accorto re Ruggieri, di guadagnar
_Crescenzio, cardinale_ dell'antipapa Anacleto, che governava allora
Benevento, con indurre parte di quel popolo e _Landolfo arcivescovo_ a
giurare la neutralità in que' torbidi di guerra. Ma sparsasi voce che
Crescenzio volea dare in poter di Ruggieri essa città di Benevento, quel
popolo andò nelle furie; e sollecitato dipoi dal principe di Capoa e da'
suoi aderenti, abbracciò il partito di papa Innocenzo II. Portossi il re
all'assedio di Nocera, per soccorrere la quale s'affrettò il principe di
Capoa, sicchè all'Atripalda, o, come scrive l'Abbate Telesino, al fiume
Sarno, in luogo chiamato Scafato, nel dì 24 di luglio si venne ad una
battaglia campale. Al primo incontro riuscì a Ruggieri di far piegare e
prender la fuga all'ala sinistra comandata dal principe di Capoa; ma il
valoroso conte Rainolfo, che guidava l'ala destra, con tal bravura si
spinse addosso all'armata del re, che in fine la sbaragliò, ed ottenne
piena la vittoria coll'acquisto di un ricco bottino, ma non senza grande
spargimento di sangue da ambedue le parti. Vedesi descritta questa
vittoria in una lettera del vescovo agatense presso Udalrico da
Bamberga[1755]. Non era avvezzo a simili colpi il re Ruggieri: questo
servì ad umiliare alquanto la di lui ambizione ed alterigia. Ritirossi
egli più che in fretta a Salerno, con volto nondimeno allegro e costanza
tale d'animo, come se nulla gli fosse accaduto. Ma questa sua
disavventura incoraggì forte tutti i suoi nemici, di modo che i baroni
già abbassati ripigliarono l'armi contra di lui. Era dietro a far lo
stesso anche il popolo di Bari; ma comparso colà Ruggieri, frenò i loro
movimenti colle buone, e coll'accordare a que' cittadini quanto seppero
addimandare. Poscia, dopo aver dato un terribil sacco al territorio di
Benevento, venuto il dicembre, se n'andò in Sicilia a preparar nuove
forze, per poter resistere, anzi per potere dar legge a tanti che
s'erano ribellati contra di lui.

NOTE:

[1742] Ordericus Vital., Hist. Ecclesiast., lib. 13.

[1743] Pagius, Crit. ad Annal. Baron.

[1744] Jacob. de Varagine, in Chron.

[1745] Campi, Istor. di Piacenza, nell'Append.

[1746] Annalista Saxo.

[1747] Annales Hildesheim.

[1748] Alberic. Monachus, apud Leibnitium.

[1749] Antiquit. Italic., Dissert. LXV.

[1750] Cardin. de Aragonia, in Vita Innocentii II. Gualvanus Flamma,
Manip. Flor., cap. 167.

[1751] Caffari, Annal. Genuens., lib. I.

[1752] Annal. Hildesheim. Chronogr. Saxo, apud Lebnitium.

[1753] Antiquit. Italic, Dissert. LXII.

[1754] Falco Beneventanus, in Chron. Alexander Telesinus, lib. I.

[1755] Udalricus Bamberg., tom. 2 Corp. Histor., p. 366, apud Eccardum.



    Anno di CRISTO MCXXXIII. Indizione XI.

    INNOCENZO II papa 4.
    LOTTARIO III re 9, imper. 1.


Addolcito alquanto il verno, passò in Toscana il _re Lottario_, e a
Calcinaia nel territorio di Pisa si abboccò di nuovo con _papa
Innocenzo_[1756]. Marciò dipoi per la strada regale fino a Viterbo, dove
arrivato ancora per la Marittima il pontefice, s'inviarono poscia
unitamente per Orta, e pel territorio della Sabina e di Farfa sino a
Roma. Dacchè furono vicini a Roma, si accamparono presso a Santa Agnese,
e in quel luogo ebbero una visita da Teobaldo prefetto di Roma, da
Pietro Latrone (e non _Leone_, come ha il testo del Baronio) e da altri
nobili romani del loro partito. Entrati finalmente in Roma sul fine
d'aprile, papa Innocenzo II liberamente prese alloggio nel palazzo
lateranense, e Lottario colle sue genti sul Monte Aventino. Buona parte
allora de' Romani si dichiarò in favore del legittimo pontefice; ma non
lasciò per questo l'antipapa Anacleto coi suoi aderenti di tener saldo
castello Sant'Angelo colla basilica vaticana, ed altri siti forti di
quella città, coll'andare intanto inviando ambasciatori al re Lottario,
pregandolo di voler dar luogo senza guerra ad un esame canonico delle
sue ragioni e di quelle d'Innocenzo, con esibire ancora ostaggi e
fortezze in deposito. Ma i fatti non corrispondevano alle parole. Nè
Lottario avea condotto tali forze da poter metter costui a dovere. Non
più di due mila cavalli, scrivono alcuni ch'egli avesse di
seguito[1757]. Vennero bensì in aiuto del papa con otto galee i
Genovesi[1758]; con altre ancora vi accorsero i Pisani, e presero Cività
Vecchia con altri piccioli luoghi, ma neppur questo bastava a snidar
l'antipapa ben fortificato ed assistito da molti nobili romani suoi
aderenti. Veggendosi adunque mal disposte le cose[1759], fu risoluto di
dar come si potea la corona imperiale al re Lottario: al qual fine fu
scelta la basilica lateranense, giacchè non si potea far la funzione
nella vaticana. Pertanto nel dì 4 di giugno, giorno di domenica, dalla
mano di papa Innocenzo II ricevette Lottario la corona e il titolo
d'imperadore. Ora egli si truova chiamato _Lottario III_ in quanto era
re d'Italia, e _Lottario II_ come imperadore. Da lì a pochi giorni si
compose la differenza durata fin qui fra la santa Sede ed Arrigo V
imperadore e Lottario suo successore[1760], per l'eredità dei beni
allodiali della contessa Matilda. Fu preso questo mezzo termine, che il
pontefice ne investisse esso Lottario, e dopo lui _Arrigo IV_ duca di
Baviera e Sassonia, genero dello stesso imperadore, con che egli
giurasse omaggio e fedeltà per esse terre al pontefice romano. Ne
rapporta il cardinal Baronio la bolla pontificia. Abbiam veduto di sopra
che la linea estense di Germania, ossia dei duchi di Baviera, per le
nozze del duca _Guelfo V_ colla suddetta contessa Matilda, pretese la di
lei eredità. Restarono esaudite in quest'anno le sue pretensioni, di
modo che il duca Arrigo, il più potente de' principi della Germania, e
che riteneva in Italia la porzione sua negli antichi Stati della casa
d'Este, maggiormente stese la sua possanza ancora in queste parti colla
giunta di quelli della contessa Matilda. Vennero a Roma in tal
congiuntura _Roberto principe_ di Capoa e _Rainolfo_ conte di Alife con
circa trecento cavalli[1761], sperando di concertar le maniere di
difendersi da _Ruggieri re_ di Sicilia; ma gittarono i passi; perchè
troppo smilze erano le forze dell'Augusto Lottario, e meno poteva papa
Innocenzo, perchè in mano dell'antipapa restavano quasi tutte le torri e
fortezze di Roma.

Approssimandosi intanto i caldi perniciosi della state, l'imperador
Lottario, con rimettere a tempo più propizio il totale ristabilimento di
papa Innocenzo, sen venne alla volta di Lombardia. Era egli nel campo di
san Leonardo sul Mantovano nel dì 30 di luglio[1762], quando confermò al
popolo di Mantova tutti i suoi privilegii, con facoltà di trasferire il
palazzo imperiale dal borgo di San Giovanni al monistero di là dal fiume
Mincio. Abbiamo dagli Annali d'Ildeseim[1763], che giunto l'Augusto
Lottario alla chiusa sull'Adige, nell'andare da Verona a Roveredo,
essendogli negato il passaggio dagli abitanti di quel paese, egli
mirabilmente s'impadronì della città situata in cima al monte (ben
difficile è a credere che ivi fosse una città), fece prigione il padron
d'essa, e felicemente passò in Germania, con celebrar la Natività della
Vergine in Virtzburg, dove fu gran concorso di principi ecclesiastici e
secolari. Dimorò per qualche tempo ancora papa Innocenzo in Roma nel
palazzo lateranense; ma trovandosi continuamente infestato dall'antipapa
e mal sicuro, ne uscì, e nel mese di settembre andò a ricoverarsi in
Pisa, dove con grande onore ed amore accolto, trovò quel popolo
costantissimo nel suo servigio. Mentre era in Roma l'imperador Lottario,
certificato il re Ruggieri che nulla v'era da temere di lui, con
un'armata più poderosa delle passate venne dalla Sicilia in
Puglia[1764], pieno di veleno contra de' baroni ribelli e mancatori del
giuramento a lui prestato. Ciò udito da Roberto principe di Capoa,
veggendo egli fallite le sue speranze di ottener soccorso dai Tedeschi,
d'ordine del papa, nel dì 24 di giugno se ne andò per mare a Pisa, dove
gli riuscì d'impetrar allora alquanto di gente, con cui se ne ritornò a
casa, portando seco la promessa d'un aiuto di cento legni nel marzo
prossimo venturo. Fece anche un trattato co' Genovesi, senza de' quali
non si vollero impegnare i Pisani. Intanto il re Ruggieri, come un
folgore, piombò sopra le terre de' baroni ribelli a lui contrarii[1765].
Prese Venosa, Nardò, Baroli, Binerbino ed altre città, commettendo tali
crudeltà sopra d'esse e sopra gli abitanti, che peggio non avrebbono
fatto i Turchi e Saraceni nemici di Cristo. Tentò indarno coll'assedio
Brindisi, che fu bravamente difeso. Ma con felicità occupò le terre di
_Alessandro_ conte di Matera, il quale si salvò colla fuga in Dalmazia.
_Goffredo_ conte di Andria fatto prigione, fu inviato in Sicilia a far
penitenza di sua fellonia. Non fu più propizia la sorte a _Tancredi_ di
Conversano, che si accinse alla difesa di Montepiloso. Assediata quella
terra da Ruggieri, benchè forte di sito e guernita di coraggiosi
difensori, pure dovette cedere alla forza ed industria d'esso Ruggieri,
che condannò alle prigioni di Sicilia il conte caduto nelle sue mani.
Con barbarie inaudita fece Ruggieri tagliare a pezzi tutti gli abitanti
di quella terra, senza riguardo alcuno nè a donne nè a fanciulli. Si
credette il popolo della città di Troia, allorchè intese incamminato il
re alla lor volta, di placarlo; e però gli uscirono incontro con una
divota processione e colle reliquie de' santi. Ma l'inumano re con occhi
torvi guatata la misera genie, non volle ascoltarla, di maniera che chi
qua e chi là presero la fuga. Fece egli mettere ne' ferri molti di quei
cittadini, e dare il fuoco alle lor case e beni. Un egual trattamento
provò poscia la città di Melfi. Con questo rapido corso di vittorie e di
crudeltà s'impadronì egli di Bisseglia, di Trani, d'Ascoli, di Santa
Agata e di altre terre. Intanto il conte Rainolfo, temendo che il
temporale andasse a scaricarsi sopra le sue contrade, ricorse a Sergio
duca di Napoli, il quale avea parimente cangiato mantello; e da lui e
dal popolo d'Aversa ottenne promessa di un gagliardo aiuto. Ma per
allora cessò il bisogno, perchè il re Ruggieri nell'ottobre passò in
Sicilia con molti navigli carichi d'oro e d'argento e d'altre spoglie
delle misere terre ch'egli avea non conquistate, ma ridotte all'ultima
rovina. Altro da soggiogare non gli restava, se non Roberto principe di
Capoa, Rainolfo suo cognato conte d'Alife, e Sergio duca di Napoli.
Secondo il padre Pagi[1766], passò nel dì 3 di dicembre dell'anno
presente a miglior vita _san Bernardo_ vescovo di Parma, la cui Vita,
scritta da un autore contemporaneo, è passata fino a' nostri tempi.
Sappiamo di certo ch'egli avea accompagnato a Roma nell'anno presente
l'Augusto Lottario.

NOTE:

[1756] Cardinal. de Aragonia, in Vita Innocentii II, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.

[1757] Falco Beneventanus, in Chron.

[1758] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.

[1759] Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 18. Annalista Saxo.

[1760] Baronius, in Annal. Eccles. ad hunc annum.

[1761] Falco Beneventanus, in Chron.

[1762] Antiquit. Italic., Dissert. XIII.

[1763] Annales Hildesheim. Annalista Saxo.

[1764] Alexander Telesinus, lib. 2, cap. 36.

[1765] Falco Beneventan., in Chron. Romualdus Salernitanus, in Chron.

[1766] Pagius, ad Annal. Baron.



    Anno di CRISTO MCXXXIV. Indizione XII.

    INNOCENZO II papa 5.
    LOTTARIO III re 10, imper. 2.


Tenne in quest'anno nel dì 30 di maggio papa _Innocenzo II_ un
concilio[1767] generale nella città di Pisa, eletta da lui per suo
domicilio, finchè Dio provvedesse allo scisma di Anacleto. Sono periti
gli atti di quell'insigne sacra adunanza, a cui concorsero i vescovi ed
abbati, non solamente dell'Italia, ma anche della Francia e Germania.
Fra gli altri v'intervenne _san Bernardo_ abbate di Chiaravalle, gran
luminare allora della Chiesa di Dio. Sappiamo che in esso concilio fu
confermata la scomunica contro il suddetto antipapa e contro tutti i
suoi aderenti e protettori[1768]. Furono ivi deposti _Pietro_ vescovo di
Tortona, _Uberto_ vescovo di Lucca, e i vescovi di Bergamo, Boiano ed
Arezzo, forse perchè fautori dell'antipapa Anacleto. Osservò il cardinal
Baronio[1769], che nel ritornare da questo concilio varii vescovi ed
abbati franzesi, furono essi presi ed incarcerati nella Lunigiana e in
Pontremoli. Ne parla Pietro abbate di Clugnì in una lettera a papa
Innocenzo[1770]; ma senza specificare chi fosse l'autore di tale
iniquità, cioè se i partigiani dell'antipapa, oppure alcun padrone di
quelle terre. Dalle memorie accennate dal Fiorentini[1771] abbiamo che
nel 26 di novembre dell'anno 1131 si trovava nel distretto di Volterra_
Ramprettus divino munere Thusciae praeses et marchio_. Questo suo
diploma l'ho io divolgato altrove[1772]. Leggesi poi negli Annali
pisani, all'anno 1135 pisano, cioè nel 1134 nostro volgare, che[1773]
_III kalendas junii Pisis est celebratum concilium per papam
Innocentium, et alios praelatos. In quo concilio Ingilbertus de marchia
Tusciae investitus est. Qui postea defensus a Pisanis, et a Lucensibus
ubique offensus, et victus apud Ficecchium in campo, Pisas cum lacrymis
fugiens, a Pisanis vindicatus est_. Chi desse l'investitura della
Toscana a questo _Ingelberto_, non apparisce. Potrebbe credersi che il
papa colle pretensioni dell'eredità della contessa Matilda, la desse. Ma
questi non potea conferire ad altrui le provincie dell'imperio escluse
dall'eredità d'essa Matilda. E se egli le avesse pretese come allodio,
già abbiamo veduto che ne aveva investito Arrigo duca di Baviera.
All'anno 1137 si scorgerà che l'imperadore mandò soccorso allo stesso
Ingelberto; e però dovea questi essere suo vassallo per la Toscana. Ma
non volendo i Lucchesi che loro comandasse, quindi nacque la guerra
contra di questo marchese. Non è facile a me il determinare se in
questo, oppure nel precedente anno fosse dai Milanesi rigettato e
deposto _Anselmo_ arcivescovo di Milano, dianzi scomunicato, per aver
coronato re d'Italia Corrado. Ne era anche provenuto gran danno alla
chiesa di Milano, come attesta san Bernardo in una sua lettera ai
Milanesi[1774]; perchè papa Innocenzo II l'avea spogliata della dignità
di metropoli ecclesiastica, e a lei sottratti i suoi suffraganei, e fra
gli altri costituito arcivescovo il già vescovo di Genova sottoposto a
Milano. Nega il padre Pagi questo fatto; ma paiono assai chiare le
parole di san Bernardo al popolo milanese, dove dice: _Quid contulit
tibi vetus tua rebellio? Agnosce potius, in qua potestate, gloria, et
honore suffraganeorum tuorum tamdiu privata exstitisti_, con quel che
segue. Non era forestiera in questi tempi una tal pena, e l'abbiam anche
veduta usata contro la chiesa di Ravenna. Racconta Landolfo da San
Paolo[1775] che i Milanesi, clero e popolo, si sollevarono contra d'esso
Anselmo, oramai pentiti d'aver favorito l'antipapa Anacleto e lo spurio
re Corrado. Però si arrogarono l'autorità di dichiararlo decaduto, in
guisa che egli fu costretto a ritirarsi nelle castella della chiesa
milanese. Fu poi confermata, ossia autenticata nel concilio di Pisa la
deposizione d'Anselmo dal pontefice Innocenzo. Ma prima d'esso concilio
aveano i Milanesi invitato alla loro città _san Bernardo_, la cui
santità ed autorità facea in questi tempi gran rumore dappertutto,
acciocchè colla sua presenza e destrezza mettesse fine allo scisma della
loro città, e li riconciliasse con papa Innocenzo II e coll'imperadore
Lottario. Se ne scusò il santo abbate allora, perchè chiamato a Pisa. Ma
appena terminato quel concilio, il pontefice l'inviò colà con _Guido_,
non già arcivescovo di Pisa, ma bensì cardinale di nascita Pisano, col
vescovo d'Albano _Matteo_, personaggio di rare virtù, e con _Goffredo_
vescovo di Sciartres[1776]. La divozione con cui il popolo di Milano
venne all'incontro di quel celebre abbate, fu incredibile. Il riceverono
come angelo di Dio, baciandogli i piedi, e pelandogli il mantello, con
dispiacere nondimeno della sua profonda umiltà. Colla mediazione di
questi legati apostolici e di san Bernardo abiurò tutto quel popolo non
meno l'antipapa che il re Corrado, sottomettendosi al vero papa e
all'Augusto Lottario. E perciocchè era vacante per le addotte cagioni la
chiesa ambrosiana, universale fu il desiderio di quel popolo per
ottenere in loro arcivescovo il santo abbate di Chiaravalle, per la cui
intercessione succederono allora molte miracolose guarigioni in Milano.
Corsero in folla alla chiesa di san Lorenzo, nella cui canonica era egli
alloggiato, richiedendolo per loro pastore; ma il buon santo, che teneva
sotto i piedi tutte le grandezze umane, nel dì seguente colla fuga
deluse tutte le loro speranze. Altrettanto avea fatto a Genova. Allora
fu che alcuni suoi discepoli restati in Milano si accinsero colla
raccolta delle limosine a fondare il monistero de' Cisterciensi di
Chiaravalle fuori di Milano. Andò poscia san Bernardo a Pavia, e quindi
a Cremona, per troncare il corso alla guerra, che quei popoli tuttavia
manteneano contra di Milano. Pare che i Pavesi si quetassero alle
vigorose insinuazioni di lui, ma non già i Cremonesi, tuttochè vedessero
ritornata all'ubbidienza de' varii suoi superiori la città di Milano,
come si raccoglie da una lettera d'esso san Bernardo a papa
Innocenzo[1777].

Tornò sul principio di quest'anno _Roberto II_ principe di Capoa a Pisa,
per sollecitare i soccorsi a lui promessi[1778], e sul fine di febbraio
comparve in Capoa, menando seco due de' consoli pisani, e circa mille
soldati levati da quella città. _Sergio duca_ di Napoli e _Rainolfo
conte_ di Alife approvarono il trattato da lui fatto in Pisa[1779], e
somministrarono il danaro occorrente per accelerar la venuta della
flotta pisana. Intanto eccoti arrivare a Salerno il re Ruggieri con
circa sessanta galee, ch'egli immediatamente spedì contra di Napoli. Ma
ritrovarono quel popolo che non dormiva, ed accorse valorosamente alla
difesa. Però, dopo aver dato il sacco ad alcune castella di que'
contorni, se ne ritornarono a Salerno. Quivi raunata una poderosa armata
di Siciliani e Pugliesi, e spintala addosso al castello di Prata,
tuttochè fosse luogo forte, quasi in un momento se ne impadronì, e lo
diede alle fiamme. Nello stesso primo giorno sottomise Altacoda, la
Grotta e Summonte: il che sparse il terrore fra i Beneventani, Capoani e
Napoletani suoi avversarii. Inoltratosi poi verso il principato di
Capoa, prese Palma e Sarno. Intanto il conte Rainolfo animò tutti i suoi
aderenti, ed uscì in campagna collo esercito suo per fermare i progressi
di Ruggieri. Ma questi, dopo aver munite le rive del fiume Sarno di
cavalieri e d'arcieri, per impedire al conte il passaggio, andò a
mettere l'assedio a Nocera, città forte del principato di Capoa. V'era
dentro Ruggieri da Surriento con buona guarnigione, animoso guerriero, e
risoluto di ben difenderla; ma per tradimento d'alcuni gli convenne
depor l'armi e rendersi. Passò di là il re Ruggieri contra le terre del
conte Rainolfo, e ne conquistò alcune: il che veduto dal conte, per
consiglio de' suoi, mandò a trattar di pace. Ruggieri diede allora luogo
alla collera contra del cognato, e purchè egli si sottomettesse, accettò
la proposizione di restituirgli la moglie e il figliuolo. Presentossi
dunque il conte al re, e inginocchiatosi volle baciargli i piedi. Nol
consentì Ruggieri, e baciatolo in volto, pacificossi con lui, e ne
ricevette il giuramento di fedeltà. Trattò in tale occasione Rainolfo
anche della pace con Roberto principe di Capoa; e il re s'indusse a
concederla, purchè Roberto prima della metà del mese d'agosto si
riconoscesse suo vassallo, e cedesse le terre perdute. Era in questo
mentre ito a Pisa Roberto, per implorare il promesso soccorso da papa
Innocenzo e dai Pisani. Passato quel termine, il re, veggendo non essere
accettata l'esibita pace, s'impossessò di Castello a Mare, e di altre
terre d'Ugo conte di Boiano. Andò al monistero di Telesa[1780], dove fu
ben accolto da Alessandro abbate, scrittore poi dei fatti del re
medesimo; e di là s'inviò alla volta della nobilissima città di Capoa.
Niuna difesa volle far quel popolo, con attendere solo a placarlo; e
però uscito in processione, con grande onore l'accolse, e con inni e
lodi il condusse alla chiesa maggiore e gli giurò fedeltà. Si accigneva
appresso il re Ruggieri, dopo essersi impadronito di Aversa e del resto
del principato capoano, a passar contra di Napoli; ma Sergio duca di
quell'inclita città, giudicando meglio di non aspettar la tempesta,
venne in persona a rendersi, cioè a sottoporsi come vassallo alla di lui
sovranità. Altrettanto fecero quei della casa di Borello. Presentossi
anche Ruggieri sotto Benevento, con obbligar quel popolo a prestargli
giuramento di fedeltà, salvo nondimeno l'omaggio dovuto al papa. Però
non fu pigro l'antipapa Anacleto a volar colà, e a ripigliarne il
possesso, con far poscia demolir le case d'alcuni di que' cittadini che
non erano in sua grazia. Così in breve tempo ridusse il re Ruggieri
sotto il suo dominio quel vasto e fioritissimo paese. Dopo di che pieno
di gloria se ne tornò a Salerno, e di là in Sicilia. Roberto principe di
Capoa restò in Pisa presso papa Innocenzo, aspettando amendue con
pazienza migliori venti dal settentrione, cioè dall'_imperadore
Lottario_. Scrive Landolfo da san Paolo[1781] che in quest'anno il
principe _Corrado_, cioè lo stesso che dai Milanesi avea conseguita la
corona del regno d'Italia, _altiori consilio potitus, imperatoris
Lotharii vexillifer est factus_, cioè si era riconciliato
coll'imperadore. Ma raccontando altri scrittori, che questa pace
solamente seguì nell'anno prossimo venturo, o Landolfo anticipò il
tempo, oppure s'incominciò in quest'anno il trattato della concordia, e
poi si compiè nel seguente. Fino a questi tempi menò i suoi giorni
_Folco marchese_ d'Este, figliuolo del celebre marchese _Azzo II_, e
progenitore della linea de' marchesi di Este, che fiorisce tuttavia nei
duchi di Modena. Ciò apparisce da uno strumento di cession di beni da
lui fatta al monistero di san Salvatore della Fratta[1782]. Quanto di
vita gli restasse dipoi, non so dire. Ben so, ch'egli giunto al fine dei
suoi giorni, lasciò dopo sè quattro figliuoli, cioè _Bonifazio_, _Folco
II_, _Alberto_ ed _Obizo_, e fors'anche il quinto, chiamato _Azzo_.
Portarono tutti il titolo di _marchesi_, siccome costa dai loro
strumenti, e signoreggiarono in Este, Rovigo e nelle altre antiche terre
della casa di Este.

NOTE:

[1767] Labbe, Concil., tom. 10.

[1768] Cardinal. de Aragon., in Vit. Innocentii II, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.

[1769] Baron., Annal. Ecclesiast.

[1770] Petrus Cluniacens., lib. 3, Epist. 27.

[1771] Fiorent., Memor. di Matil., lib. 2, pag. 347.

[1772] Antiq. Italic., Dissert. XVII.

[1773] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[1774] Bernardus, Epist. 131.

[1775] Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 41.

[1776] In Vit. S. Bernardi, lib. 2, cap. 2.

[1777] Bernardus, Epist. 314.

[1778] Falco Beneventanus, in Chron.

[1779] Alexander Telesinus Abbas, lib. 2, cap. 54.

[1780] Alexander Telesinus Abbas, lib. 2, cap. 65.

[1781] Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 42.

[1782] Antichità Estensi, P. I, cap. 32.



    Anno di CRISTO MCXXXV. Indizione XIII.

    INNOCENZO II papa 6.
    LOTTARIO III re 11, imper. 3.


Quanto le conquiste e vittorie rendeano più orgoglioso il _re Ruggieri_,
altrettanto affliggevano il buon pontefice _Innocenzo II_, dimorante in
Pisa, che sempre più mirava allontanarsi la speranza di rientrare in
possesso della città di Roma. Seco ancora si trovava _Roberto principe_
di Capoa dopo la perdita del suo principato[1783]. Però frequenti
lettere esso papa andava scrivendo all'imperador Lottario, per muoverlo
a soccorrere la Chiesa di Dio, e a reprimere il re Ruggieri nemico
dell'imperio. Assicurò in quest'anno l'Augusto suddetto i suoi propri
interessi in Germania col dare la pace a varii suoi nemici e ribelli. I
più potenti ed ostinati erano finora stati _Federigo duca_ di Suevia e
_Corrado_ suo fratello. Fin l'anno precedente _Arrigo duca_ di Baviera e
Sassonia, genero dell'imperadore, dopo aver sostenuta con vigore negli
anni addietro la guerra contro i due suddetti fratelli, avea tolta loro
la città d'Ulma: colpo che sbalordì forte il duca Federigo, di modo che,
mentre la imperadrice Richenza si trovava nella badia di Fulda, egli co'
piedi nudi comparve alla di lei presenza, per implorar la grazia
dell'Augusto suo consorte. Fu accettata la di lui umiliazione, e
l'imperadrice dopo averlo fatto assolvere dalla scomunica per mezzo del
legato apostolico che si trovava presso di lei[1784], trattò dipoi una
piena concordia, a cui ebbe parte anche _san Bernardo_, che in questi
tempi, mercè della sua santità ed eloquenza, era il mediatore di tutti i
grandi affari. In quest'anno adunque nel dì 17 di marzo tenne l'Augusto
Lottario una solenne dieta di quasi tutti i principi della Germania in
Bamberga. Colà arrivò anche il duca Federigo, e gittandosi ai piedi
dell'imperadore, umilmente il supplicò della sua grazia, che non gli fu
negata, con impegnarsi di accompagnare l'imperadore nella spedizion
d'Italia, già risoluta per l'anno seguente. Oltre ai legati del papa,
che il sollecitavano a venire, mandò ancora _Giovanni_ Comneno imperador
de' Greci i suoi al medesimo Lottario con ricchi presenti, per confermar
la pace ed amicizia fra l'uno e l'altro imperio, ed anche per muoverlo
contra del re Ruggieri, il cui ingrandimento recava già non lieve
gelosia ai Greci stessi. Diede udienza Lottario a questi ambasciatori
nella festa dell'Assunzione della Vergine in Mersburg, e li rimandò ben
regalati e contenti. Poscia dopo la festa di san Michele di settembre,
trovandosi esso imperadore in Mulausen, colà venne _Corrado_ fratello
del suddetto duca Federigo, tutto umiliato, ed avendo ottenuta
l'assoluzion della scomunica da _Corrado arcivescovo_ di Maddeburgo, fu
ammesso all'udienza dell'imperadore, a' cui piedi espresse il suo
pentimento per la già usurpata corona d'Italia, ed implorò il perdono di
tutti i suoi falli, che l'ottimo Augusto buona volontà gli concedette.
Nella festa poi del Natale chiamò Lottario alla città di Spira tutti i
principi, e con essi concertò la spedizion d'Italia, tanto sospirata dal
romano pontefice. Altre novità succederono in quest'anno in Italia. Dopo
il suo ritorno in Sicilia gravemente infermatosi il re Ruggieri, fece
temer di sua vita[1785]. Non s'era egli per anche ben riavuto dal male,
che la regina _Alberia_ sua moglie fu sorpresa da più gagliarda
malattia, che la portò all'altra vita; principessa per la sua religione
e per le sue tante limosine di memoria benedetta fra i Siciliani. Tal
malinconia ed afflizione per questa perdita assalì il re consorte, che
serratosi in camera, come inconsolabile, per più giorni non si lasciò
vedere se non da' suoi più intimi familiari. Come suol accadere in
simili casi, cominciò a prendere piede, e a volar dappertutto la fama
che Ruggieri più non fosse vivo, e che per politica si occultasse la
morte sua.

Pertanto pervenuta questa voce a Pisa, _Roberto principe_ di Capoa
affrettò il soccorso promesso a lui da' Pisani, e con circa otto mila
combattenti e con venti navi di quel popolo[1786] si portò nell'aprile
di quest'anno a Napoli, dove sì egli che il _duca Sergio_ alzarono
bandiera contra del creduto defunto Ruggieri. Altrettanto fece ancora il
_conte Rainolfo_, figurandosi anch'egli di poter così operare a mano
salva, perchè persuaso della morte del sovrano a cui aveva giurata
fedeltà. Allora fu che il popolo di Aversa, tuttochè non mancasse chi
asseriva molto ben vivo il re, ribellatosi, richiamò l'antico suo
principe Roberto. Volevano i Pisani marciare di là addosso a Capoa,
sperandone la conquista; ma furono ritenuti da chi sapea esservi un buon
presidio, comandato da Guarino, consiglier di Ruggieri, uomo accorto, il
quale mandò legata a Salerno la gente più sospetta di quella città, ed
uscì ancora in campagna contra dei nemici, portandosi al fiume Chiano.
Il non veder comparire alcuno dalla Sicilia, accresceva ogni dì più la
credenza della morte del re: quand'ecco arrivare esso re a Salerno nel
dì 5 di giugno, e dar subito gli ordini per unir tutte le sue forze. La
prima sua impresa fu contro la città di Aversa, da cui essendo fuggita
buona parte di que' cittadini per paura a Napoli, non credendosi ivi
sicuro il _conte Rainolfo_, anche egli tenne la medesima via. Restò la
dianzi opulenta città alla discrezion di Ruggieri, che, dopo averla
abbandonata al sacco, la fece dare alle fiamme. Devastò poscia tutti i
contorni di Napoli; e Guarino suo cancelliere inviato contro le terre
del suddetto conte, s'impadronì dell'amena città di Alife e di
sant'Angelo. Perchè Caiazzo e Sant'Agata fecero resistenza, passò lo
stesso Ruggieri all'assedio di esse, e le costrinse alla resa. Di là
tornò ad infestar Napoli; ma conoscendo troppo difficile la conquista di
quella forte città, se ne ritirò, comandando solamente che si
rifabbricasse Cucolo ed Aversa, per ristrignere ed infestare coi loro
presidii i Napoletani. Alle calde istanze di Roberto principe di Capoa,
e, come si può credere, anche di papa Innocenzo, spedirono i Pisani in
questo anno altre venti navi con gente guerriera a Napoli per opporsi
agli attentati del re Ruggieri. Trovavasi allora la città di Amalfi
senza milizia, perchè impegnati gli abili all'armi dal re parte per mare
e parte in terra contra de' suoi nemici. Animaronsi perciò i Pisani ad
assalire una mattina quella città, e l'assalirla e il prenderla fu lo
stesso. Andò tutta a sacco quella ricchissima città; innumerabile e
prezioso fu il bottino che vi fecero e ne asportarono alle lor navi i
Pisani. In questa congiuntura, vecchia tradizione fra i Pisani è stata
che i lor maggiori, trovato in Amalfi l'antichissimo e rinomato codice
delle Pandette pisane, lo portassero colle altre spoglie a Pisa, da dove
poi per le disgrazie di quella repubblica passò a Firenze. V'ha uno
scrittore del secolo quartodecimo, da me dato alla luce, che lo accenna.
Se possa l'asserzion sua bastare, s'è disputato fra due valenti
letterati in questi ultimi tempi: intorno a che nulla io oserei di
decidere. Ben so che nell'anno presente 1135, chiamato da' Pisani
secondo il loro stile 1136, toccò ad Amalfi la disavventura suddetta.
Poscia i Pisani fecero lo stesso giuoco[1787] alla Scala, a Revello e ad
altri piccioli luoghi. Ma saputosi dal re Ruggieri il guasto dato
dall'armi pisane, da Aversa accorse colà colla sua armata, e trovati i
Pisani all'assedio della Fratta, diede loro una considerabile spelazzata
con ucciderne o farne prigioni circa mille e cinquecento. Fra i prigioni
si contarono due de' consoli pisani, e il terzo vi lasciò la vita. Se ne
tornarono i restanti alla lor patria colle navi cariche di spoglie, e
con esso loro andò ancora il principe Roberto. Ruggieri, dopo essere
tornato ai danni dei Napoletani, e fatto tagliar loro gli alberi
portanti le viti, andò a Benevento, dove colla bandiera investì del
principato di Capoa _Anfuso_ suo terzogenito (nome che è lo stesso che
_Alfonso_), e dichiarò conte di Matera Adamo suo genero. Disposti poi
gli affari della Puglia, e creati nel dì del santo Natale cavalieri
_Ruggieri duca_ suo primogenito, e _Tancredi principe_ di Bari suo
secondogenito, se ne andò dipoi in Sicilia. Per quanto crede il signor
Sassi[1788], nel dì 29 di luglio dell'anno presente eletto fu
arcivescovo di Milano _Robaldo_ ossia _Roboaldo_ vescovo d'Alba, il
quale fu detto che accettasse l'elezione con patto di ritener il
primiero suo vescovato[1789]. E circa questi tempi uscirono i Milanesi
in campagna contra de' Cremonesi, ma con poca fortuna, perchè furono
fatti prigioni cento trenta de' loro soldati a cavallo. Apparisce ancora
da una lettera di san Bernardo[1790] che anche i Piacentini ebbero nelle
lor prigioni altri Milanesi. Accadde circa questi tempi che il deposto
arcivescovo _Anselmo_, colla speranza di aver soccorso dall'antipapa
Anacleto, si mosse per Po alla volta di Roma. Nelle vicinanze di Ferrara
fu preso da Goizo de Martinengo, e inviato prigione a Roma nel mese
d'agosto. Quivi l'infelice consegnato a Pietro Latrone ministro del
papa, nello stesso mese finì i suoi giorni, senza sapersi se di morte
naturale. Come poi si arrischiasse il papa a trasmettere un prigione di
tanta conseguenza a Roma, dove comandava l'antipapa, non si può
intendere, se non supponendo che anche il partito d'esso pontefice
ritenesse tuttavia assai vigore e delle fortezze in quella città.

NOTE:

[1783] Annalista Saxo.

[1784] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1785] Alexander Telesinus, lib. 3, cap. 1.

[1786] Falco Beneventanus, in Chron.

[1787] Alexander Telesinus, lib. 3, cap. 20.

[1788] Saxius, in Notis ad Hist. Landulfi junior.

[1789] Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 42.

[1790] S. Bernard., Epist. 131.



    Anno di CRISTO MCXXXVI. Indizione XIV.

    INNOCENZO II papa 7.
    LOTTARIO III re 12, imper. 4.


Puossi ben credere che se non era amareggiato, era almeno bisognoso di
molta pazienza il cuore del pontefice _Innocenzo II_, al veder crescere
ogni dì più le prosperità del re nemico _Ruggieri_, e non mai muoversi
dai suoi paesi l'imperadore _Lottario_ per venire al soccorso d'esso
papa e dei suoi alleati. Però sul principio del presente anno spedì allo
stesso Augusto per suo legato _Gherardo cardinale_[1791] con _Roberto
principe_ di Capoa e _Riccardo_ fratello del conte Rainolfo, a
ricordargli vivamente il bisogno e le promesse di lui. Lottario
benignamente gli accolse, li regalò, e li rimandò in Italia con
sicurezza che in questo anno egli sarebbe calato con formidabile
esercito in Italia. Anche _Sergio duca_ di Napoli passò per mare a Pisa,
affine d'implorare al suo pericoloso stato gagliardi soccorsi dal papa e
dal popolo pisano. Quante buone parole e promesse egli volle, facilmente
ottenne, ma nulla di fatti. Qualche segreto emissario dovea avere il re
Ruggieri in quella città, che con regali distornò l'affare: laonde
convenne al duca tornarsene, ma assai mal contento, a Napoli, città che
già penuriava di viveri, non potendone ricevere nè per terra nè per
mare, perchè tutti i contorni e il mare stesso erano infestati dalle
genti e dalle galee di Ruggieri. Tuttavia Sergio ebbe maniera di
arrivare colà con cinque navi cariche di vettovaglia: il che fu di gran
conforto a quel popolo. Ma più si animarono essi coll'avere il duca
portata la sicurezza che in quest'anno comparirebbe in Italia
l'imperadore Lottario con gran potenza, e verrebbe a liberarli dal
tiranno Ruggieri. Quali imprese facesse in quest'anno esso Ruggieri, non
è giunto a nostra notizia, perchè la storia di Alessandro abbate di
Telesa termina col fine dell'anno precedente; e Falcone altro non
scrive, se non che crebbe a tal segno la fame nella città di Napoli, che
molti fanciulli, giovani e vecchi cadeano morti per le piazze.
Contuttociò era disposto quel popolo a soccombere piuttosto alla morte
che di andar sotto il dominio dell'odiatissimo re Ruggieri. Nè Sergio
duca mancava dal suo canto di rinvigorirli con far loro conoscere
imminente l'arrivo dell'imperadore, colle cui forze si sarebbono
liberati da quelle angustie. Tuttavia Falcone non dice una parola, che
Ruggieri fosse in persona al blocco di Napoli. Tenne in quest'anno
l'Augusto Lottario nella festa dell'Assunzione della Vergine una dieta
generale in Wirtzburg[1792], terminata la quale, si mise in marcia con
un potente esercito alla volta dell'Italia. Seco erano gli arcivescovi
di Colonia, Treveri e Maddeburgo, con assai altri vescovi ed abbati,
_Arrigo duca_ di Baviera e Sassonia, e genero di esso Augusto _Corrado
duca_, dianzi efimero re d'Italia, ed altri non pochi principi e baroni.
Presso alla città di Trento ritrovò i ponti rotti, e chi s'opponeva al
suo passaggio. Presto se ne sbrigò; ed arrivato alla Chiesa dell'Adige,
quivi ancora gli fu contrastato il passo; ma colla morte degli abitanti
e del loro signore si fece largo, ed arrivò a Verona, dove fu con grande
onore accolto. Andò poscia ad accamparsi presso il fiume Mincio, ed
essendo comparsi colà in folla i Lombardi, tenne ivi una magnifica corte
nella festa di san Maurizio, cioè nel dì 22 di settembre; e però non è
da credere, come si figurò il padre Pagi, ch'egli nell'agosto fosse
giunto al castello di san Bassano: e molto meno ch'egli fosse
nell'aprile dell'anno precedente in Piacenza, come ha un privilegio
pubblicato dal Campi[1793], dato alla famiglia de' Bracciforti:
documento anche per altre ragioni apocrifo ed insussistente. In tal
congiuntura il vescovo di Mantova, che in addietro non s'era voluto
sottomettere all'imperadore, fu necessitato ad umiliarsi e ad implorar
la sua grazia. Guastalla, chiamata dall'Annalista Sassone _oppidum
munitissimum Warstal_, d'ordine d'esso Augusto (non ne sappiamo il
perchè), fu assalita e presa, e posto dipoi l'assedio all'alta sua
rocca. Tale era anche allora il costume degl'italiani, e specialmente
del re Ruggieri, di fabbricare simili rocche, fortezze, castelli e
gironi nelle città, per tenere in freno i cittadini, ed aver un luogo
sicuro contra de' nemici. Dubbio nondimeno mi è rimasto, se ivi
veramente si parli di Guastalla, perchè sembra parlarsi di luogo posto
alla collina, e non al piano, come Guastalla. Nella stessa maniera fu
anche presa la città di Garda nel lago Benaco, ossia di Verona: de'
quali due luoghi l'imperadore infeudò il suo genero, cioè il _duca
Arrigo_. Ho io dato alla luce[1794] uno strumento difettoso nelle note
cronologiche, e che appartiene, forse con errore, all'anno presente, in
cui si vede fatta donazione del castello di Cavallilo, posto nel
Veronese, al monistero delle Carceri di Este da esso _Arrigo duca_ di
Sassonia. Lo strumento è fatto in Este, e il duca dice: _Cum ad nostrum
dominium spectent multa oppida, castra, atque rura sita in marchia
trivisana, et ea, quae in districtu veronensi habemus_, ec. Può essere
che ad un altro anno, e forse al duca Arrigo Leone appartenga quel
documento. Ma comunque sia, di qui ancora risulta il dominio che la
linea estense di Germania, cioè dei duchi di Sassonia e Baviera,
tuttavia riteneva in Italia sopra la sua parte dell'eredità del marchese
Alberto Azzo II progenitore anche dell'altra linea de' marchesi di Este.

Si trovò Cremona ribellante all'imperadore; e pure i Cremonesi erano
stati fin qui nemici di Corrado innalzato dai Milanesi, e contrarii
all'antipapa. Si sa, che avendo loro ordinato l'imperadore di rilasciar
i prigioni milanesi, nol vollero ubbidire, nè consentirono alle
proposizioni di pace. Ottone Frisingense scrive[1795], che dibattuta la
controversia de' Milanesi coi Cremonesi, fu data ragione ai primi, e
messi gli altri al bando dell'imperio. La disputa era per Crema. Perchè
Lottario, in passando pel territorio loro, permise il sacco dei loro
poderi e il taglio alle loro vigne. _Casalam, item Cincellam oppugnavit,
cepit, et destruxit, interfectis, et captis pluribus_. Qui si parla di
Casal Maggiore; ma qual luogo sia Cincella nol so dire. Arrivato poscia
l'imperadore a Roncaglia sul Piacentino, bellissima e larga pianura,
quivi per molti giorni si riposò, ed alzò tribunale con rendere a tutti
giustizia. Vennero colà ben quaranta mila Milanesi ad inchinarlo con
somma allegrezza, e in ubbidienza di lui, _castrum munitissimum Samassan
oppugnantes, ejus tamdem adjutorio ceperunt._ Sono scorretti presso
l'Annalista Sassone varii nomi di luoghi e di persone italiane. In vece
di _Samassan_ credo io che s'abbia a leggere _Soncinum_, che veramente
fu preso con san Bassano, come si ha da Landolfo da san Paolo[1796].
Andò poscia Lottario a mettere il campo nei borghi di Pavia, città che
al pari della collegata Cremona nol volle ricevere, anzi gli mandò
alcune risposte ingiuriose. Male per quel popolo, perchè prevalendosi
dell'occasione i Milanesi, acerbi loro nemici, talmente si diedero
all'ingegno, che misero il piede in quella città. Già s'era dato
principio agli incendii e alle stragi; ma usciti in processione i
cherici e monaci, corsero, chiedendo misericordia, ai piedi
dell'imperadore, il quale siccome principe clementissimo loro perdonò, e
fece desistere i Milanesi dalle offese. Ma perciocchè nel dì seguente
restò ucciso un conte tedesco che insolentemente volea rompere una porta
dalla città: fu in armi tutto il campo contra de' Pavesi, minacciando la
morte a tutti; ma questi, mostrata la loro innocenza, ottennero il
perdono, con restar nondimeno condannati a pagar venti mila talenti.
Così dall'Annalista Sassone[1797] narrati ci vengono questi fatti. Ma
Landolfo da san Paolo, scrittore di maggior credito in questo,
racconta[1798] che Lottario venne a Lardirago sul fiume Olona in
vicinanza di Pavia. Usciti in armi i Pavesi, furono rispinti fin sotto
le mura dal principe _Corrado_, e molti ne restarono prigioni. Allora i
Pavesi vennero a' piedi dell'imperadore, e dopo aver liberati i prigioni
milanesi, ottennero anch'essi la libertà de' suoi. Trovaronsi ancora
ribelli all'Augusto Lottario Vercelli, Torino e Gamondo (non so se nome
sicuro), e però coll'esercito passò egli colà, e colla forza mise al
dovere quelle città, e lo stesso fece con Castello Pandolfo. _Post haec
ingressus est terram Hamadan principis suae majestati contradicentis,
quem destructis innumeris urbibus et locis munitis subjici sibi
compulit_. Questo principe _Hamadan_ ha gran ciera d'essere _Amedeo_
conte di Morienna, progenitore della real casa di Savoia, che possedeva
molti Stati in Italia, ed è chiamato zio del re di Francia da Pietro
Cluniacense. Dagli scrittori del Piemonte non è stata conosciuta questa
particolarità.

Venne poscia Lottario a Piacenza, anche essa collegata co' Cremonesi e
Pavesi, e la espugnò. Da' Parmigiani fu accolto con grande onore, e loro
in ricompensa concedette un castello e presidio contra de' Cremonesi
loro nemici. Nè si dee lasciar sotto silenzio, che mentre questo
imperadore sul principio di novembre tenne la sua magnifica dieta in
Roncaglia, pubblicò una legge intorno ai feudi, che si truova fra le
longobardiche[1799] e nel Codice _de Feudis_. Abbiamo ancora dal
Dandolo[1800], che trovandosi egli in Correggio Verde sul Parmigiano,
confermò i patti e privilegii a _Pietro Polano_ doge di Venezia. Se
vogliamo riposar sulla fede di Buonincontro Morigia[1801] e di Galvano
Fiamma[1802], scrittori del quartodecimo secolo, l'Augusto Lottario in
quest'anno _Mediolanum venit, ubi ab Anselmo de Pusterla archiepiscopo
mediolanensi primo in Modoetia, secundo in Mediolano coronatus fuit.
Postea per Innocentium secundum in Roma coronatus fuit in ecclesia
lateranensi_. Zoppica di troppo questo racconto. Non era più
arcivescovo, anzi neppur vivo in questi tempi _Anselmo_. E già vedemmo
Lottario coronato imperadore in Roma nell'anno 1133. Che se quegli
storici si sono intesi dell'anno stesso 1133, allora passava discordia
fra esso imperadore e i Milanesi, ed Anselmo arcivescovo era legato
dalla scomunica. Verisimil cosa nondimeno sarebbe, che trovandosi
Lottario sì vicino a Milano, e così ben ristabilita l'armonia fra lui e
quel popolo, si facesse coronare colla corona ferrea del regno d'Italia.
Ma nulla dicendo di così importante funzione Landolfo da san Paolo,
scrittore presente ai fatti d'allora, non si può far fondamento
sull'asserzione de' suddetti storici posteriori, siccome lontani dal
medesimo Landolfo[1803], che probabilmente in quest'anno, e prima che
calasse in Italia Lottario, seguì un fatto d'armi fra i Milanesi e
Pavesi colla sconfitta de' primi. _Vexilla Mediolanensium, et eorum
agmina capta aut fugata a Papiensibus velut mitissima ovium pecora_.
Portossi dipoi l'_arcivescovo Robaldo_ a Pisa, dove giurò fedeltà a papa
Innocenzo: risoluzione che dispiacque non poco al popolo milanese,
quasichè cotale umiliazione sminuisse la dignità e libertà della lor
chiesa. Pare nondimeno, secondo l'opinione del Puricelli[1804], che
Robaldo sostenesse il suo punto in non volere ricever dalla mano del
papa il pallio archiepiscopale, con esigere che gli fosse inviato a
Milano, come per tanti secoli s'era praticato in addietro. A questa
opinione dà qualche fondamento san Bernardo nella lettera CXXXI; se non
che si crede essa scritta nel precedente anno 1135, e però converrebbe
rapportare anche l'andata a Pisa di Robaldo a quell'anno. Certo è che
questo arcivescovo, allorchè l'imperador Lottario fu in Roncaglia, si
portò co' suoi suffraganei a fargli la corte; e che per ordine d'esso
Augusto fulminò la scomunica contra de' Cremonesi, ostinati in non voler
rendere i prigioni milanesi: scomunica nondimeno non approvata da papa
Innocenzo II, il quale in quest'anno, oppure nel seguente, ne mandò
l'assoluzione a quel popolo.

NOTE:

[1791] Falco Beneventanus, in Chron.

[1792] Annal. Saxo. Annal. Hildesh. Abbas Ursperg., in Chron.

[1793] Campi, Istor. di Piac., tom. 1 nell'Append.

[1794] Antichità Estensi, P. I, cap. 29.

[1795] Otto Frisingensis, lib. 7, cap. 19.

[1796] Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 45.

[1797] Annalista Saxo.

[1798] Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 45.

[1799] Leg. Langobard., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[1800] Dandul, in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1801] Morigia, Annal. Modoet., tom. 12 Rer. Ital.

[1802] Flamma, Manip. Flor., tom. 11 Rer. Ital.

[1803] Landulfus junior., Hist. Mediol., cap. 45.



    Anno di CRISTO MCXXXVII. Indiz. XV.

    INNOCENZO II papa 8.
    LOTTARIO III re 15, imper. 5.


Portò grandi mutazioni in Italia l'anno presente. Non apparisce in qual
luogo l'Augusto Lottario solennizzasse la festa del santo Natale
dell'anno addietro. Abbiamo un suo diploma[1805] dato in Reggio _VI. X_
(cioè _sexto decimo_) _kalendas januarii, anno dominicae Incarnationis
MCXXXVI, Indictione XIV_, che dovea correre sino al fine dell'anno.
Abbiamo inoltre un placito tenuto nella stessa città di Reggio
dall'_imperadrice Richenza_ sua moglie[1806] _septima die intrante mense
novembri_ dello stesso precedente anno, _Indictione XIV_: segno che essa
Augusta risiedeva in Reggio, mentre l'imperadore girava per la
Lombardia. Non sussiste già che l'imperadore co' Cremonesi assediasse
Crema in quest'anno, come volle Antonio Campi[1807]. Erano allora i
Cremonesi in disgrazia d'esso Augusto. Sappiamo bensì dall'Annalista
Sassone[1808] che egli si accampò nelle pianure di Bologna, ed assediò
quella città con pensiero di venire anche agli assalti, se non fosse
stato il rigoroso freddo di quel verno che lo impedì. Presero nondimeno
i suoi un castello fortissimo alla montagna, dove tagliarono a pezzi più
di trecento persone. Venne poscia a' voleri di lui essa città di
Bologna. Ottone vescovo di Frisinga scrisse[1809] che _Bononienses et
Æmilienses, qui priori eum expeditione despexerant, supplices, ac multum
servitii afferentes, ultro occurrunt_. Seguita a dire l'Annalista
Sassone che Lottario, _capta Bononia, venit Cassan pacifice_. Forse
vorrà dire _Cesena_, nel nome suo da lui storpiata, come altri luoghi; e
quivi celebrò la festa della Purificazion della Vergine, con essere
comparso colà anche il duca di Ravenna a pagare i tributi del suo
ossequio. Abbiam veduto all'anno 1129 _Corrado duca di Ravenna_. In
questi tempi presso il Rossi troviamo _Pietro duca_ in Ravenna. Se di
alcun d'essi si parli nol saprei dire. Di là spedì Lottario il duca
Arrigo suo genero in Toscana con un buon corpo di combattenti, per
rimettere nel suo posto _Eggelberto_ marchese cacciato da quei popoli,
cioè quel medesimo di cui si è parlato all'anno 1134. Non si sentivano
più voglia i Toscani di avere un marchese, cioè un superiore che loro
comandasse a nome dell'imperadore, dacchè aveano preso ancora quelle
città forma di repubblica. Passò dipoi l'imperador Lottario in vicinanza
di Ravenna, dove fu onorato da quell'_arcivescovo Gualtieri_ e da tutto
il clero e popolo. _Post haec aggressus est Lutizan_[1810], _quam
prioribus satis rebellem et inexpugnabilem imperatoribus, primo impetu
cepit_. Che città sia questa mi è ignoto. Ben di qui ancora si vede che
la Romagna era allora degl'imperadori, e che ne investivano gli
arcivescovi di Ravenna. _Inde Vanam_ (Fano), _deinde Sinegalla_
(Sinigaglia) _obsedit et expugnavit. Sicque Avennam civitatem adiit_.
Vuol, credo, dire _Ancona_. Sono di Otton Frisingense[1811] queste
parole: _Anconam, Spoletum cum aliis urbibus seu castellis in deditionem
accepit_. Ciò, secondo il suddetto Annalista, non succedette senza
venire alle mani col popolo d'Ancona, e colla morte di due mila d'essi:
dopo di che e per mare e per terra assediata quella città, fu costretta
a rendersi e a contribuir cento legni al servigio del medesimo Augusto.
Ma Buoncompagno, storico di questo secolo ed Italiano[1812], niega che
Ancona si rendesse ai voleri dell'Augusto Lottario, il quale l'assediò
bensì, ma senza frutto. Gli scrittori tedeschi sapeano per lo più gli
affari d'Italia per fama; e la fama ingrandisce facilmente le cose. Se
crediamo all'Urspergense, Lottario, passato l'Apennino, andò a Spoleti,
senza sapersi perchè quella città facesse resistenza all'imperadore, e
massimamente se mettessimo per vero che allora quelle contrade fossero
governate da uno de' duchi _Guarnieri_, vassalli dell'imperio. Sembra
nondimeno più probabile che Lottario non valicasse l'Apennino, sapendo
noi dall'Annalista Sassone che celebrò la santa Pasqua nella città di
Fermo, e di là entrò nella Puglia, impadronendosi a forza d'armi di
Castel Pagano, luogo fortissimo, al cui governatore Riccardo fece poscia
il re Ruggieri abbacinar gli occhi per non aver fatta la dovuta
resistenza. Spedì egli il duca _Corrado ad oppugnandum castellum
Rigian_, i cui abitatori non aspettarono la forza per rendersi. Arrivato
esso Corrado a Monte Gargano, l'assediò per tre giorni, finchè giunto
anche l'imperadore col grosso dell'armata, quel popolo depose le armi e
venne all'ubbidienza. Dopo aver fatte le sue divozioni alla basilica di
san Michele Arcangelo, passò Lottario a Troia, Ranne (forse Canne) e
Barletta, gli abitatori delle quali città ostilmente uscirono contro al
cesareo esercito, non con altro guadagno che di restar molti d'essi o
trucidati o prigioni. Non volle fermarsi l'imperadore ad espugnar quei
luoghi, e continuato il cammino, fu volentieri ricevuto dai cittadini di
Trani, che all'arrivo suo smantellarono la rocca di Ruggieri. Ed essendo
comparse ventitrè navi d'esso re con animo di rinforzar quel presidio,
otto di esse furono sommerse, e l'altre si salvarono colla fuga. Tentò
il re Ruggieri coll'esibizione di una gran copia d'oro di placare e
guadagnare l'imperadore Lottario, ma il trovò sordo a questo canto.

Intanto il _duca Arrigo_ passato in Toscana, per rimettere in posto il
marchese _Eggelberto_ ossia _Ingelberto_, nel piano di Mugello vinse il
conte Guido ribello d'esso marchese, e col distruggere tre sue castella,
l'obbligò a riconciliarsi con lui[1813]. Accompagnato poscia ad esso
conte assediò Firenze, e, dopo averla costretta alla resa, vi rimise il
vescovo dianzi ingiustamente cacciato dalla città. Da Pistoia, ove non
trovò opposizione, andò alle castella di san Genesio e di Vico, che
colla forza furono sottomesse. Dopo avere distrutta la torre di Capiano,
nido d'assassini, s'inviò alla volta di Lucca con pensiero d'assediarla;
ma interpostisi alcuni vescovi col santo abbate di Chiaravalle
_Bernardo_, che chiamato, era prima venuto a trovare il papa, quel
popolo, a cui non erano ignoti i maneggi de' lor nemici pisani contra di
loro, comperò la pace collo sborso di una buona somma di danaro. Scrive
l'Abbate Urspergense[1814] che il duca Arrigo fu investito del ducato di
Toscana dall'Augusto suocero, verisimilmente per le ragioni spettanti
alla linea estense di Germania sopra gli Stati posseduti dalla contessa
Matilda in Italia. Inviatosi poi alla volta di Grosseto, espugnò
_Hunsiam_, forse _Siena_, e diede alle fiamme i suoi contorni. Alle
chiamate di lui risposero con insolenza i Grossetani; ma assediata la
loro città, dopo aver preso colle macchine di guerra un fortissimo
castello vicino, diede loro tal terrore, che non tardarono ad
arrendersi. Trovossi o venne di marzo in quella città il pontefice
_Innocenzo_, ed onorato e scortato dal duca, con esso lui passò a
Viterbo. Erano quivi per la maggior parte i cittadini aderenti
all'antipapa Anacleto; aveano anche distrutta dianzi la vicina città di
San Valentino; ma per le esortazioni del papa e per la paura del duca si
arrenderono col pagamento di tre mila talenti, intorno ai quali nacque
discordia, pretendendoli il pontefice come padrone della città, e il
duca per diritto di guerra. Giunti che furono a Sutri, quivi Innocenzo
depose quel vescovo, e ne creò un altro. Da Monte Casino cacciarono il
presidio del re Ruggieri. Capoa collo esborso di quattro mila talenti si
esentò dall'assedio, ed ivi fu rimesso in possesso di quel principato
_Roberto_ oppresso dianzi dal re Ruggieri[1815]. Quindi nel dì 23 maggio
passarono il pontefice Innocenzo II e il duca sotto Benevento, dove era
una buona guarnigion di Ruggieri e i più de' cittadini fautori giurati
dell'antipapa. I maneggi e il timore gl'indussero a rendersi e ad
ammettere il legittimo lor sovrano Innocenzo, a cui giurarono fedeltà.
Poscia nel dì 25 di maggio esso papa col duca Arrigo andò a ritrovar
l'imperadore, che già avea intrapreso l'assedio di Bari; e nel cammino,
per attestato di Pietro Diacono, si rendè loro la città di Troia. Con
ammirabil onore ed allegrezza fu accolto il papa dall'Augusto Lottario.
Senza far resistenza il popolo di Bari si diede ad esso imperadore; ma
non già la rocca fortissima, ivi fabbricata dal re Ruggieri, che costò
gran tempo, assalti e maneggio di macchine militari per impadronirsene.
Fu messa a fil di spada quella guarnigione. La presa di sì importante
città fu cagione che Melfi e le altre minori di Puglia e Calabria si
sottomettessero. Intanto la flotta de' Pisani composta di cento navi da
guerra, pervenuta a Napoli, ebbe ordine dall'imperadore di portarsi
contra d'Amalfi, il cui popolo, collo sborso di molto danaro e col
rendersi all'imperadore e ai Pisani, schivò l'eccidio. Presero dipoi
essi Pisani a forza d'armi Revello, la Scala, la Fratta ed altri luoghi
marittimi. Restava la sola città di Salerno, città per copia di popolo,
di ricchezze e di fortificazioni allora molto riguardevole, alla
divozione del re Ruggieri. Ebbero ordine i Pisani, _Sergio duca_ di
Napoli e _Roberto principe_ di Capoa di mettere l'assedio per terra e
per mare a quella città; e vi fu spedito anche il _duca Arrigo_ col
_conte Rainolfo_ e un corpo di Tedeschi[1816]. Nel dì 18 di luglio si
cominciò quell'assedio, al quale intervennero ottanta legni di Genovesi
e trecento di Amalfitani, se pur non v'ha errore in sì sfoggiato numero
di navi. Gran difesa fece il presidio di Ruggieri, insigni prodezze vi
fecero i Pisani, i quali avevano preparato un'altissima e mirabil
macchina per espugnar così dura fortezza. Ma venuti il papa e
l'imperadore, cominciarono un trattato coi Salernitani, per cui fu loro
conceduto l'ingresso e la signoria di quella città; il che inteso da'
Pisani, i quali speravano il sacco di essa, talmente s'indispettirono,
che abbandonarono ogni offesa, e, bruciata la macchina preparata, misero
alla vela per tornarsene a casa, e gran fatica durò il papa per
ritenerli. Romoaldo Salernitano[1817] racconta che dai Salernitani fu
dato alle fiamme il castello di legno dei Pisani: del che tanto sdegno
concepirono essi Pisani contra dell'imperadore per non avergli aiutati,
che si accordarono col re Ruggieri. Cagionò nondimeno questa mala
intelligenza che non si conquistasse la torre maggiore, ossia la rocca,
in cui si rifugiò gran parte della guarnigione del re Ruggieri.

Dopo aver celebrata la festa dell'Assunzion della Vergine in Salerno, il
papa e l'imperadore sen vennero ad Avellino, e quivi trattarono di
creare un duca di Puglia che per valore e prudenza fosse atto a
governare e sostener que' popoli contro la potenza del re Ruggieri. E
perciocchè _Roberto principe_ di Capoa per la delicatezza del suo corpo,
e per altri difetti d'animo, non parve a proposito per sì rilevante
impiego, ne fu creduto più degno il _conte Rainolfo_, chiamato da altri
_Rainone_ e _Reginolfo_, ma da altri poi con errore _Raidolfo_ e
_Rainaldo_. Qui insorse lite fra il papa e l'imperadore, pretendendo
cadaun d'essi la sovranità in quelle parti e il diritto d'investirlo.
Era dianzi nata un'altra controversia fra loro a cagione di
Salerno[1818], che il papa dicea di suo diritto, e l'imperadore lo
sosteneva per città dell'imperio, come s'ha principalmente da Romoaldo
Salernitano. Per quasi trenta giorni durò la disputa dell'investitura da
darsi al conte Rainolfo, nè altro temperamento trovandosi, finalmente
tenendo colle mani amendue, cioè Innocenzo e Lottario, il
gonfalone[1819], per mezzo d'esso l'investirono del ducato con infinita
allegrezza di que' popoli. Un'altra calda contesa, narrata a lungo da
Pietro Diacono, fu ne' medesimi tempi fra questi due supremi principi
della Chiesa e dell'imperio, a cagion di Rinaldo eletto abbate di Monte
Casino. Perchè ciò era seguito senza consentimento di papa Innocenzo II,
e perchè egli pretendea scomunicati que' monaci per avere aderito
all'antipapa, non volea ammettere per conto alcuno quell'eletto, e
pretendeva che i monaci venuti al campo gli comparissero davanti in
abito di penitenza ad implorar l'assoluzione. Si fece una lunga disputa
per questo. Lottario sostenne per quanto potè i monaci e la libertà di
quell'insigne monistero, siccome camera dell'imperio; ma in fine papa
Innocenzo II la vinse. Fu rigettato Rinaldo, e promosso _Guibaldo_ a
quella badia. Iti poscia nel dì 4 di settembre a Benevento tanto il papa
che l'imperadore, quel popolo per mezzo d'esso papa ottenne dall'Augusto
Lottario che fossero levati varii aggravi loro imposti da' vicini conti
normanni. Dopo di aver presa Palestrina, asilo allora di assassini, e
liberato il monistero di Farfa, vennero poscia amendue alla volta di
Roma. Innocenzo, assistito dai Frangipani e da altri nobili, ripigliò il
possesso del palazzo lateranense; e Lottario, congedatosi dal papa,
s'inviò per ritornare in Germania. Nel cammino prese Narni, domò il
popolo di Amelia, e per Orvieto passò ad Arezzo, ed indi per Mugello a
Bologna. Quivi congedò l'esercito, lasciando andar cadauno alle loro
case. Giunto egli a Trento, e quivi solennizzando con allegria la festa
di san Martino, cadde infermo. Ciò non ostante, avendo egli voluto
continuare il viaggio, in una vilissima casuccia all'imboccatura
dell'Alpi passò all'altra vita, _miseram humanae conditionis memoriam
relinquens_. S'è disputato intorno al giorno della sua morte; ma i più
convengono che questa accadesse nel dì 5 di dicembre di questo anno. Non
si saziano gli antichi storici di esaltar questo imperadore per la somma
sua religione, per l'amore de' poveri, per la gloria militare, per la
prudenza e per altre virtù, di modo che non men dagli Italiani che dai
Romani fu rinnovato in lui il titolo di Padre della patria. Fu portato
il suo cadavero alla sepoltura nel monistero di Luter in Sassonia.

Ed ecco una mirabile scena delle umane instabili grandezze. Ma ne
succedette un'altra nello stesso tempo non men considerabile. S'era fin
qui ritenuto il re Ruggieri in Sicilia, aspettando miglior volto della
fortuna, con applicarsi intanto a raunar milizie, e a preparar l'altre
occorrenze di guerra. Saggiamente immaginò egli che non tarderebbe a
ritirarsi l'imperadore colla sua possente armata, e che non sarebbe
allora difficile il ricuperare il perduto. Così infatti avvenne. Appena
era giunto verso Roma l'imperador Lottario, che Ruggieri con tutte le
sue forze sbarcò a Salerno; e tra perchè si trovò tuttavia occupata dai
suoi la torre maggiore, e per la divozione che gli professava quel
popolo, con facilità ne ricuperò il possesso e dominio[1820]. Poi senza
perdere tempo prese Nocera, e quindi Alife con tutte le terre proprie
del _duca Rainolfo_. Voltossi appresso alla volta di Capoa con furore, e
se ne impadronì; ma con lasciare affatto la briglia alla crudeltà. Fu
dato il sacco a quella nobil città, e ne furono asportate immense
spoglie e ricchezze, perchè si stese l'insolenza militare anche alle
chiese, e fin le monache restarono involte in quella orribil calamità.
Di molti Saraceni siciliani avea seco Ruggieri, che accrebbero
l'esecrabile sfogo dell'avarizia e della libidine senza rispetto alcun
alla religione. _Roberto principe_ di Capoa si ricoverò altrove, e tutta
la Terra di Lavoro venne in poter di Ruggieri. Intanto _Sergio duca_ di
Napoli, al veder tanta mutazione negli affari, non tardò ad implorar
perdono e pace da Ruggieri, che l'obbligò a militar seco in quella
campagna. Dopo la presa di Avellino arrivò il re sotto Benevento, dove
quel popolo, rinunziando ad ogni difesa, si sottopose tosto a lui e
all'antipapa Anacleto verso la metà di ottobre. Monte Sarchio dipoi,
Monte Corvino ed altre terre parimente gli si diedero. Ma non si atterrì
per questo rovescio il nuovo duca di Puglia Rainolfo, risoluto di morir
piuttosto valorosamente, che di cedere con vergogna al re nimico. Aveva
egli un corpo di Tedeschi lasciatigli dall'imperador Lottario, e raunati
i popoli di Bari, Troia, Trani e Melfi, compose una grossa armata, con
cui uscito in campagna, andò a mettersi a fronte di quella di Ruggieri.
Erano vicini a venire alle mani, quando il mirabil abbate di Chiaravalle
_san Bernardo_, di consenso o per ordine di papa Innocenzo, arrivò al
padiglione di Ruggieri per trattar di pace. Non mancò certo al santo
abbate facondia e zelo in tal congiuntura; tuttavia tali dovettero
essere le condizioni di accomodamento da lui proposte, che non piacquero
al re, e massimamente per sentirsi egli superiore di forze a Rainolfo.
Rottosi dunque il trattato di pace, e partitosi il santo abbate _secundo
die stante mensis octobris_, che dovrebbe essere, secondo i conti di
Camillo Pellegrino, il dì 30 di ottobre, si venne ad un fatto d'armi
appresso Ragnano. Per attestato di Romoaldo Salernitano, la prima
schiera de' feritori, comandata da _Ruggieri duca_ di Puglia primogenito
del re, sì fieramente urtò nel battaglione, che il mise in rotta e
l'inseguì sino a Siponto. Ma il duca Rainolfo, colle altre sue schiere,
così animosamente assalì il grosso dell'armata nemica, dove era in
persona lo stesso re Ruggieri, che lo sconfisse, e riportò piena
vittoria. Restarono sul campo circa tre mila persone, fra le quali
_Sergio duca_ di Napoli; moltissimi furono i prigioni, immenso il
bottino, per cui tutti quei di Bari, Trani ed altri aderenti se ne
tornarono ben ricchi alle lor case. Il re Ruggieri col benefizio di un
buon cavallo e degli sproni si salvò, ed arrivato nel dì seguente alla
Padula, di là passò a Salerno, dove quel popolo corse ad offerirsi al di
lui servigio; e i Beneventani, avendo ottenuto in quella congiuntura un
grazioso privilegio da lui, tutti si dichiararono per lui. Dopo la
vittoria non istette colle mani alla cintola il duca Rainolfo. Con un
buon corpo di gente sottomise a' suoi voleri la città di Troia; obbligò
ancora colla forza _Ruggieri_ conte d'Ariano a sottomettersi con tutte
le sue terre; e di là nel primo dì di dicembre andò col suo esercito a
mettere l'assedio al castello della Padula. Non per questo si mosse di
Salerno il re Ruggieri. Nel ragionare con san Bernardo, aveva egli
mostrato desiderio che se gli mandassero da papa Innocenzo tre
cardinali, ed altrettanti dall'antipapa, per esaminare in un congresso
le ragioni dell'una e dell'altra parte. Ancorchè fosse per più capi
disdicevole una tal proposizione; pure non ebbe difficoltà il papa di
spedir colà a questo fine i cardinali Aimerico cancelliere e _Gherardo_,
e con esso loro _san Bernardo_. Inviò Anacleto anch'egli i suoi, cioè
Matteo cancelliere, Pietro pisano, uomo di raro sapere, e Gregorio,
cardinali del suo partito. Per quattro giorni ascoltò Ruggieri con somma
attenzione le ragioni de' primi, e poscia per altri quattro giorni
quelle de' secondi; ma scaltro che' gli era, volle prender tempo; e col
pretesto di non saper egli solo terminar questa gran contesa, fece
istanza che andasse con lui uno per parte dei cardinali suddetti in
Sicilia, dove pensava di celebrare il santo Natale, affinchè
nell'assemblea degli arcivescovi, vescovi ed abbati si facesse la
decisione opportuna. Infatti l'accompagnarono colà _Guido_ da Castello
cardinale di papa Innocenzo II, ed un altro per parte di Anacleto. A
questo si ridusse il buon pontefice per desiderio della pace e di
terminare amichevolmente il deplorabile scisma.

NOTE:

[1804] Paricellius, Monument. Basil. Ambrosian., num. 376.

[1805] Ughell., Italia Sacra, tom. 5 Append., pag. 1599 in Episc.
Regiens.

[1806] Antiquit. Italic., Dissert. XI, pag. 613.

[1807] Campi, Istor. di Cremon.

[1808] Annalista Saxo.

[1809] Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 19.

[1810] Annalista Saxo.

[1811] Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 19.

[1812] Boncompag., de obsidione Anconae, tom. 6 Rer. Ital.

[1813] Annalista Saxo.

[1814] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1815] Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 105. Falco
Beneventanus, in Chron.

[1816] Annalista Saxo.

[1817] Romualdus Salernitan., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[1818] Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 117.

[1819] Otto Frising., Chron., lib. 7, cap. 20. Falco Beneventanus, in
Chron.

[1820] Romuald. Salern., in Chron. Falco Benev., in Chron. Petrus
Diaconus, in Chron. Cassin.



    Anno di CRISTO MCXXXVIII. Indizione I.

    INNOCENZO II papa 9.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 1.


Volle Dio liberare in quest'anno la Chiesa sua dal peso dell'antipapa
Anacleto[1821]. Il colpì la morte nel dì 25 di gennaio dell'anno
presente, e al cadavero suo non si sa dove fosse data sepoltura da' suoi
parenti. Per sì favorevol accidente s'innalzò maggiormente in Roma
l'autorità di _papa Innocenzo_, e parea che dovesse anche mettersi fine
allo scisma. Ma i fratelli dell'antipapa, cioè i figliuoli di Pier
Leone, e gli altri lor fazionarii significarono al _re Ruggieri_ quanto
era accaduto, per sapere se doveano far pace, oppure eleggere un altro
antipapa. Ruggieri, per isperanza di vendere più caro la sua concordia,
ordinò che passassero all'elezione di un altro antipapa; e però verso la
metà di marzo alzarono un nuovo idolo nella Chiesa di Dio, cioè
_Gregorio cardinale_, a cui imposero il nome di Vittore IV. Ma sempre
più crescendo il concorso de' Romani a papa Innocenzo II, i figliuoli di
Pier Leone, non volendo restar soli ed esposti a gravi pericoli,
nell'ottava di Pentecoste, come s'ha da una lettera di _san
Bernardo_[1822], andarono ad umiliarsi al pontefice Innocenzo, e gli
giurarono fedeltà ed omaggio. Ci vorrebbe far credere Pietro
Diacono[1823] che Innocenzo li guadagnasse con buona somma di danaro; ma
probabilmente non merita fede. Trovavasi allora in Roma il suddetto
santo abbate Bernardo, tutto intento ai vantaggi della Sede apostolica.
Riuscì al credito e zelo suo d'indurre il novello antipapa Vittore a
deporre la porpora e la mitra; laonde condottolo ai piedi del pontefice,
rinunziò ad ogni sua pretensione, ed implorò misericordia pel suo
trascorso. Altrettanto fecero quasi tutti i suoi aderenti, con
allegrezza inestimabile di tutta Roma, anzi di tutta la Cristianità. Con
ciò venne alle mani di papa Innocenzo ogni fortezza della città di Roma,
e quivi tornò a rifiorir la pace e la benedizione di Dio. Ma san
Bernardo, che nulla curava le umane grandezze, non tardò, dopo aver
veduto il frutto delle tante sue lodevoli fatiche, a ritornarsene
accompagnato dalla sua umiltà in Francia. Non si sa ben intendere ciò
che narra Falcone Beneventano[1824], con dire che anche il re Ruggieri
riconobbe per vero papa Innocenzo, ed ordinò ai Beneventani di
sottomettersi a lui: il che fu eseguito; mentre non apparisce seguito
fra esso papa e il re accomodamento alcuno; anzi si sa che Innocenzo II
continuò la guerra contra di lui, e venne in quest'anno colle sue
milizie ad Albano, per andare ad unirsi col duca Rainolfo, e far fronte
ad esso Ruggieri; ma sopraggiuntagli un'infermità, gli convenne
desistere. Quanto ad esso Rainolfo, seguitò ben egli ad assediare e a
tormentar colle macchine militari il castello della Padula; ma scorgendo
troppo difficile il superarlo, passò ad Alife, e se ne impadronì.
Intanto venuta la primavera, dalla Sicilia comparve in Puglia il re
Ruggieri con un possente esercito. Implorato dai Beneventani il suo
aiuto, corse colà, e prese alcune castella nemiche di quel popolo. Gli
venne contra il duca Rainolfo con una buona armata, cercando di dargli
battaglia; ma Ruggieri, addottrinato dal passato, non volle avventurarsi
ad un nuovo conflitto, ed accortamente schivando gl'incontri, piombò
poscia sopra la città di Alife e la prese. Prima il sacco con tutte le
sue crudeli conseguenze, e poscia le fiamme terminarono l'eccidio di
quella ricca e bella città. Di là passò all'assedio di Venafro, che
parimente gareggiava colle migliori nelle ricchezze e fortificazioni, e
con furiosi assalti se ne impadronì. Se gli diedero Presenzano, Rocca
Romana e Tocco nel mese di settembre. Nel dì 4 di ottobre fu in
Benevento, e poscia prese le castella di Morcone, san Giorgio, Pietra
Maggiore, Apice ed altri, ne' quali mise buone guarnigioni per
restringere sempre più il duca Rainolfo, il quale custodiva Troia, Bari,
Melfi ed altre città da lui dipendenti. Andossene dipoi Ruggieri verso
il verno a Salerno per di là passare in Sicilia.

Era intimata in Germania una general dieta in Magonza per la festa della
Pentecoste, affin di eleggere il nuovo re[1825]. Ma alcuni de' principi
temendo che la corona potesse cadere in _Arrigo duca_ di Baviera e
Sassonia, genero del già defunto Lottario, la cui potenza, per
signoreggiar egli due così insigni ducati, era oggetto della loro
invidia e malevolenza, anticipando quel tempo, adunati nella città di
Conflans, promossero al regno il _duca Corrado_, fratello di Federigo
duca di Suevia, cioè quel medesimo che abbiam veduto di sopra momentaneo
re d'Italia. A questi principi fece animo _Teodoino cardinale_ e legato
pontificio, con promettere loro _totius populi romani, urbiumque Italiae
assensum_. E questa fu la ricompensa delle fatiche fatte dal suddetto
duca Arrigo in servigio della sede apostolica. Non solamente restò egli
escluso dal regno, ma venne creato re un principe suo nemico, ed anche
scomunicato negli anni addietro dal medesimo papa Innocenzo[1826]. Nella
domenica terza di quaresima si fece in Aquisgrana la coronazione d'esso
Corrado. Da gran tempo regnava la discordia fra la casa di lui, perchè
erede degli Augusti Arrighi di sangue ghibellino, e quella del duca
Arrigo suddetto, proveniente bensì dal sangue italiano de' principi
estensi, ma erede della famiglia dei Guelfi in Germania: il che è da
notare, perchè di qua presero origine le fazioni _guelfa_ e
_ghibellina_, che lacerarono dipoi cotanto la misera Italia, siccome
abbiamo dallo stesso Ottone da Frinsinga, e meglio si comproverà andando
innanzi. Ora il medesimo duca Arrigo e i suoi popoli di Baviera e
Sassonia, siccome non concorsi a tale elezione, si opposero al novello
re Corrado. Crescendo nulladimeno di giorno in giorno l'autorità e
possanza di lui, que' popoli insieme colla vedova _imperadrice
Richenza_, correndo la festa della Pentecoste, il riconobbero per re in
Bamberga. Citato per la festa di san Pietro il duca Arrigo a Ratisbona,
comparve colà; e perciocchè in mano sua erano tutte le imperiali
insegne, cioè la corona, lo scettro e gli altri ornamenti del defunto
Augusto, tante belle promesse gli furono fatte, che le cedette al re
nuovo. Ma nulla di tante promesse fu a lui attenuto, e Corrado rivolse
tutto il suo odio e studio alla rovina di questo principe, con metterlo
al bando dell'imperio, e privarlo dei suoi ducati. A _Leopoldo_ iuniore,
figliuolo del santo _marchese Leopoldo_, diede la Baviera, al _marchese
Adalberto_ la Sassonia: il che si tirò dietro non poche guerre, e un
fiero sconvolgimento di quelle provincie. Restò il duca Arrigo per la
maggior parte colla forza spogliato della Baviera; ma i Sassoni, che del
suo governo si pregiavano, imbracciarono lo scudo per lui.

NOTE:

[1821] Ordericus Vital., Hist. Ecclesiast., lib. 13. Falco Beneventanus,
in Cronico.

[1822] S. Bernard., Epist. ad Godefridum.

[1823] Petrus Diaconus, Chron. Casin., lib. 4, cap. ult.

[1824] Falco Beneventanus, in Chron.

[1825] Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 22.

[1826] Annalista Saxo.



    Anno di CRISTO MCXXXIX. Indizione II.

    INNOCENZO II papa 10.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 2.


Sul principio di aprile tenne _papa Innocenzo_ il concilio II generale
lateranense[1827], a cui intervennero circa mille tra arcivescovi,
vescovi ed abbati. Furono quivi fatti molti nobili decreti contra dei
simoniaci, usurarii, incendiarii, ecclesiastici incontinenti, ed altri
delinquenti. Vi ha chi crede che nel concilio da lui tenuto in
Chiaramonte nell'anno 1130, oppure in quello di Rems del 1131 si
pubblicasse il famoso canone _Si quis suadente Diabolo_, con cui è
intimata la scomunica contra chi mette violentemente le mani addosso
agli ecclesiastici, riserbata al sommo pontefice. Certamente questo
canone fu pubblicato oppur confermato nel suddetto concilio lateranense;
e quivi ancora fulminata fu la medesima censura contra del re Ruggieri,
ed annullate tutte le ordinazioni fatte dall'antipapa Anacleto[1828].
Appena era terminato questo concilio, che il valoroso e prudente _duca
Rainolfo_, trovandosi nella città di Troia, sorpreso da un'ardente
febbre, nel dì 30 d'aprile diede fine al suo vivere, con incredibil
dolore e pianto non solo di quei cittadini, ma di quegli ancora di Bari,
Trani, Melfi e Canosa, ridotti all'ultima disperazione, perchè colla
morte di lui restavano tutti senza capo, ed esposti al genio crudele e
tirannico del re Ruggieri. E a tal nuova all'incontro esultò sommamente
esso re, nè tardò a comparire dalla Sicilia a Salerno con assai navi,
gente e danaro. Quivi raccolto dalla Puglia, Calabria e Capoa un potente
esercito, parte ne diede a _Ruggieri duca_ di Puglia suo figliuolo, e
parte ne ritenne per sè. Sottomise egli al suo dominio tutta la
provincia di Capitanata, e il duca suo figliuolo si fece rendere
ubbidienza da tutte le città della Puglia, fuorchè da Bari capitale di
quelle contrade; perchè il principe d'essa vi avea dentro quattrocento
uomini a cavallo, e cinquanta mila cittadini atti alle armi: di modo che
tentò bensì il duca di soggiogar quella città, ma, conoscendone
l'impossibilità, lasciò l'impresa, e andò ad unire il corpo de' suoi
combattenti con quello del re suo padre. Trattarono poscia amendue di
mettere lo assedio alla città di Troia; ma saputo che v'era dentro un
forte e copiosissimo presidio, preso solamente il vicino castello di
Bacarezza, quivi lasciarono dugento cavalieri, con ordine di ristrignere
ed infestare i Troiani. Assediarono poscia la città di Ariano, ed
inutilmente. Alla difesa stavano dugento soldati a cavallo, e copiose
schiere di fanti. Però, levato l'assedio, infierirono solamente contro
le viti, gli ulivi, alberi e seminati di quel territorio. Con estremo
dispiacere sentì anche Innocenzo II la morte del duca Rainolfo; e
veggendo in una deplorabil confusione tutta la Puglia, e il re
incamminato a sottomettere quell'intero paese, saggiamente si rivolse
più di prima a' pensieri di pace, e volle portarsi in persona a
trattarne. Uscito dunque di Roma coll'accompagnamento di _Roberto
principe_ di Capoa, e di circa mille cavalli, e di gran moltitudine di
fanti, giunse alla città di San Germano. Allora il re Ruggieri gli spedì
ambasciatori con proposizioni d'amicizia e di pace, che furono
amorevolmente accolti dal papa; e il papa anch'egli inviò a lui due
cardinali con invitarlo a San Germano. L'invito fu accettato, e Ruggieri
col duca Ruggieri suo figliuolo e colla sua armata si portò in quelle
vicinanze, e per otto giorni seguirono dei forti maneggi di pace, ma
senza potersi accordare fra loro a cagione del principato di Capoa, che
il pontefice esigeva per restituirlo a Roberto, e Ruggieri pretendeva
devoluto per la di lui pretesa fellonia.

Mentre si faceano tali negoziati, il re prese una parte delle castella
de' figliuoli di Borello; e perchè in persona egli era colà, ed era già
tramontata la speranza della pace, il papa comandò ai suoi che
assalissero e devastassero il castello di Galluzzo. Portata questa nuova
al re, a marcie sforzate sen venne egli con tutta l'armata alla volta di
San Germano, e si accampò presso a quella città, entro la quale dimorava
il pontefice. Non si tenendo esso papa nè i suoi sicuri in quel luogo,
sloggiarono ben presto per cercare un sito di maggior sicurezza. Ma il
giovine Ruggieri duca, presi con seco circa mille cavalli, e postosi in
un'imboscata, dove doveano passare i Romani, all'improvviso fu loro
addosso, e li fece dare alle gambe. Salvossi il principe Roberto con
Riccardo fratello del defunto Rainolfo, e coi più de' Romani, de' quali
nondimeno molti si negarono nel fiume, ed altri rimasero prigioni. Fra
questi ultimi per disavventura si contò anche il buon papa Innocenzo, il
quale nello stesso giorno, cioè nel dì 22 di luglio, come si ha da
Falcone, fu condotto sotto buona guardia alla presenza del re Ruggieri,
che gli fece assegnare un padiglione per gli altri cardinali prigioni.
Andò a sacco tutto il tesoro e tutti gli arredi del santo padre, a cui e
agli altri suoi successori volle Dio dare un nuovo ricordo di quel
versetto del salmo: _Hi in curribus, et hi in equis: nos autem in nomine
Dei nostri invocavimus_. Differente nondimeno si vuol confessare il caso
presente da quello di san Leone IX papa. Questi andò per combattere, ma
pare che Innocenzo II si movesse per cercare la pace, e che per semplice
sua scorta camminasse con quegli armati. Fors'anche intervenne qualche
iniquità nell'agguato a lui e alla sua gente teso. Che nondimeno
seguissero delle ostilità, si raccoglie da Giovanni da Ceccano, di cui
son queste parole[1829]: _Mense junii venit papa cum Romanis ad
expugnandum regem Siciliae, et incensa sunt a Romanis Falvatera, Insula,
et Sanctus Angelus in Tudicis_. Racconta Romoaldo Salernitano[1830], che
_rex e vestigio prosequutus domnum papam, ad pedes ejusdem voluit
humiliter satis accedere. Sed ipse, utpote vir constans et egregius, eum
primo recipere noluit_. Ma andando innanzi e indietro proposizioni di
pace, il saggio pontefice col consiglio de' cardinali, per sottrarre ai
disagi i molti nobili romani, rimasti anch'essi prigioni, segnò in fine
l'accordo con legittimare a Ruggieri il titolo di re, conferitogli
dall'antipapa Anacleto, ed investire lui del regno di Sicilia, e il
figliuolo di Ruggieri del ducato di Puglia. Nel diploma di tale
investitura presso il cardinal Baronio[1831] si legge confermato anche a
Ruggieri il principato di Capoa; ma niuno parla del ducato di Napoli e
Amalfi. Nella festa di san Jacopo di luglio seguì la suddetta concordia,
e quanto la mestizia era stata incredibile fra i popoli cristiani por la
prigionia del papa, altrettanto fu la consolazione e l'allegrezza per la
pace e liberazione di lui. Presentossi dunque con tutta riverenza il re
Ruggieri insieme co' suoi figliuoli, cioè col duca Ruggieri e con Anfuso
ossia Alfonso principe di Capoa, ai piedi del pontefice[1832]; e dopo
aver chiesto perdono, ed ottenuta l'assoluzione, ricevette l'investitura
degli Stati suddetti col gonfalone dalle di lui mani. Accompagnò egli
dipoi con tutto onore il papa fino a Benevento, nella quale città
entrarono amendue nel dì primo d'agosto, dove il pontefice fece
atterrare il castello fabbricato in quella città da _Rossemanno_, già
creato arcivescovo da Anacleto, e deposto in questa congiuntura, con
sostituirgli _Gregorio_. Furono cagione i prosperosi successi del re
Ruggieri che i Napoletani vennero a Benevento anch'essi a mettersi sotto
il suo dominio, con accettar per loro duca Ruggieri primogenito d'esso
re. Preso poscia congedo dal papa, marciò Ruggieri coll'esercito alla
volta di Troia, i cui cittadini non tardarono a rendersi; ma pregatolo
che entrasse in città, rispose loro che non vi metterebbe il piede
finchè quel traditore (cioè il defunto duca Rainolfo) dimorasse fra
loro. Fu costretto con suo gran rammarico quel popolo a far disotterrare
il cadavero fetente d'esso Rainolfo, che da alcuni suoi nemici con una
fune legata al collo tratto fu per la città, e gittato fuori d'essa
nelle fosse: vendetta orribile e detestata da tutti, e infino dal duca
Ruggieri, il quale presentatosi al padre, tante preghiere adoperò, che
gli fu conceduto di farlo seppellire. Non entrò per questo il re
Ruggieri in Troia, ma a dirittura andò a piantar l'assedio por terra e
per mare alla città di Bari. Spedì Innocenzo pontefice il vescovo
d'Ostia a que' cittadini con esortazioni paterne di cedere amorevolmente
alla forza, per sottrarsi al rigore. Ma quel superbo popolo neppur volle
lasciarlo entrare in città, nonchè badare ai di lui consigli.

Tornossene il papa dopo il dì 2 di settembre a Roma, ricevuto con
immenso gaudio dai Romani, i quali tentarono bensì d'indurlo a rompere
la pace fatta per forza; ma Innocenzo, siccome principe di veterana
prudenza, non volle acconsentire al parer di que' bravi, che poco dianzi
aveano lasciato sì bei segni del loro coraggio nella precedente zuffa.
Continuò il re Ruggieri per tutto l'agosto e il settembre l'assedio di
Bari; le sue petriere e torri di legno distrussero parte delle mura e
torri della città e non pochi palagi; crebbe anche a dismisura la fame
fra quel popolo, sino ad aver per grazia di poter mangiare carne di
cavallo e un tozzo di pane, di maniera che finalmente trattarono della
resa, che fu loro accordata con oneste capitolazioni. Tutto pareva
tranquillo e quieto, quando presentatosi al re Ruggieri uno de' suoi
soldati, dimandò giustizia contra di _Giacinto_ principe di Bari, perchè
gli avesse fatto cavare un occhio. Diede nelle smanie il re, e fatto
fare il processo da' giudici di Troia, Trani e Bari, con pretendere
rotta la capitolazione, fece impiccare il suddetto Giacinto con dieci
suoi consiglieri, e cavar gli occhi a dieci altri, e imprigionare
inoltre e spogliare dei loro beni varii prudenti cittadini di Bari: se
con giustizia e buona fede, Dio lo sa. Con questi barbarici passi
camminava il re Ruggieri, che poscia sul fine di ottobre se n'andò a
Salerno, ed ivi stando pubblicò varii confischi e bandi contra di chi
avea impugnate l'armi contra di lui. Finalmente nel dì 5 di novembre
imbarcatosi in una nave ben corredata, passò a Palermo. Fece gran guerra
in quest'anno _re Corrado_ ad Arrigo estense-guelfo duca di Sassonia e
Baviera, in maniera che questo principe[1833], _ante potentissimus, et
cujus autoritas (ut ipse gloriabatur) a mari usque ad mare, idest a
Dania usque in Siciliam extendebatur, in tantam in brevi humilitatem
venit, ut paene, omnibus fidelibus et amicis suis in Bajoaria a se
deficientibus, clam inde egressus, quatuor tantum comitatus sociis in
Saxoniam veniret_. Ma in Sassonia, assistito da quei popoli, rendè
inutili gli sforzi e disegni di esso re Corrado, siccome ancora quei di
_Adalberto_ creato duca di Sassonia. Ma mentre egli con vigore e fortuna
attende a difendere e a conservar quegli Stati, e già si dispone a
portar la guerra in Baviera per ricuperar quel ducato, eccoti la morte
che mette fine alla vita e a tutte le di lui applicazioni terrene. Corse
voce di veleno a lui dato. Secondo l'Annalista Sassone[1834], _facto
colloquio in Quidelingeburch, Heinricus nobilissimus atque probissimus
dux Bavariae atque Saxoniae, veneficio ibidem, ut fertur, infectus, XIII
kalendas novembris vitam finivit_. Il suo corpo trovò riposo e sepoltura
nel monistero di Luter in Sassonia alla destra dell'imperador Lottario
III suo suocero. Questo principe, eguale un tempo ai re per la sua
potenza, che godeva anche in Italia, oltre a tanti altri Stati, la sua
porzione nell'eredità del sangue estense, a da cui discende la real casa
di Brunswich, vien da' moderni storici contraddistinto dagli altri
Arrighi estensi-guelfi col titolo di _Superbo_, non per altro se non
perchè non s'inchinò a pregare i principi dell'imperio affine di
conseguir la corona germanica. Per altro le virtù abbondarono in lui, e
lasciò dopo di sè una gloriosa memoria, e un solo piccolo figliuolo
maschio, nomato _Arrigo Leone_, che superò anche la gloria del padre; e
raccomandato ai Sassoni, fu da essi con somma fedeltà e valore sostenuto
contro i tentativi del re e degli altri nemici. Nella Toscana, che era
stata ad esso duca Arrigo conceduta in feudo dal suddetto Lottario, da
qui innanzi comparisce marchese di quella provincia _Udelrico_, secondo
le memorie accennate dal Fiorentini[1835]. Ma che in questi tempi la
Toscana si trovasse in uno stato infelice, si raccoglie da una lettera
da Pietro abbate di Clugnì scritta al re Ruggieri, dove scrive[1836] che
nelle parti _miserabilis et infelicis Tusciae nunc res divinae atque
humanae nullo servato ordine confunduntur. Urbes, castra, burgi, villae,
stratae publicae, et ipsae Deo consecratae ecclesiae homicidis,
sacrilegis, raptoribus exponuntur. Peregrini clerici, monachi, abbates,
presbyteri, ipsi supremi ordinis sacerdotes, episcopi, archiepiscopi,
primates, vel patriarchae in manus talium traduntur, spoliantur,
distrahuntur. Et quid dicam? verberantur, occiduntur_. Così circa questi
tempi quell'abbate. Le guerre fra i Genovesi, Lucchesi e Pisani doveano
aver prodotto sì esecrandi disordini. In quest'anno[1837] essi Genovesi
ottennero dal re Corrado la facoltà di battere moneta. Però essi dipoi
fin quasi ai nostri giorni usarono di mettere il nome di questo re nelle
loro monete. Durava tuttavia la rabbia de' Cremonesi contra de' Milanesi
a cagion dell'occupazione di Crema. Si venne perciò nell'anno presente
ad un fatto d'armi fra loro, che riuscì infelicissimo ai primi. Però
scrisse il loro vescovo Sicardo[1838]: _Anno Domini 1139 magna pars
Cremonensium a Mediolanensibus apud Cremam capta, carceralibus vinculis
est mancipata_.

NOTE:

[1827] Labbe, Concilior., tom. 10.

[1828] Falco Benevent., in Chron.

[1829] Johan. de Ceccano, tom. 1 Ital. Sacr. Ughell.

[1830] Romuald. Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[1831] Baron., Annal. Ecclesiast.

[1832] Falco Beneventanus, in Chron.

[1833] Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 23.

[1834] Annalista Saxo, apud Eccardum.

[1835] Fiorent., Memor. di Matild., lib. 2.

[1836] Petrus Cluniacens., lib. 5, Epist. XXXIV.

[1837] Caffari, Annal. Genuens. lib. 1.

[1838] Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXL. Indizione III.

    INNOCENZO II papa 11.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 3.


In questi tempi cominciò _Arnolfo_ ossia _Arnaldo da Brescia_ a far gran
rumore nella Chiesa di Dio. Costui portatosi in Francia, e messosi sotto
la scuola di _Pietro Abailardo_, seminator di nuove e pericolose
dottrine, dopo aver profittato nella malizia, se ne ritornò in Italia,
e, presa la veste monastica, si diede in Roma a spacciar le sue false
merci[1839]. Grande adulator de' laici, e bel parlatore, prese a tutta
prima a censurare spietatamente i costumi corrotti allora in buona parte
del clero secolare e regolare; e, secondo l'arte degli altri eresiarchi,
passò oltre a condannar generalmente le soverchie ricchezze de' monaci e
degli altri ecclesiastici, e massimamente i loro dominii temporali,
sostenendo che ciò non si poteva accordar col Vangelo, e che i loro beni
erano del principe, e doveano tornare ai laici. Veniva con piacere
accolta questa adulatrice e falsa dottrina dalle persone affatto
mondane, e prese anche in Roma stessa buone radici. Perciò fu egli
scomunicato nell'anno addietro nel concilio lateranense: perlochè,
temendo della pelle, si ricoverò circa questi tempi in Francia. Di là
cacciato, andò in Germania, spargendo dappertutto il suo veleno. _San
Bernardo_ il teneva d'occhio, e scrisse varie lettere per farlo
conoscere a chi buonamente gli dava ricetto. Abbiamo da Falcone
Beneventano[1840] che nell'anno presente il _re Ruggieri_ inviò _Anfuso
principe_ di Capoa suo figliuolo con possente esercito di cavalli e
fanti a conquistare la provincia di Pescara, che abbracciava allora
quasi tutto l'Abruzzo ulteriore. Non poca fatica e tempo costò al
principe suddetto il ridurre all'ubbidienza sua le castella di quella
contrada: laonde ebbe ordine dal padre anche _Ruggieri duca_ di Puglia
di portarsi colà con un grosso corpo di fanteria e mille cavalli. Perchè
tali conquiste si facevano ai confini degli Stati della Chiesa romana,
se ne ingelosì e turbò non poco _papa Innocenzo II_, il quale perciò
spedì due cardinali ai principi fratelli, facendo lor sapere di non
toccare i confini romani. Risposero essi che il loro disegno era, non
già d'occupare l'altrui, ma di ricuperare le terre spettanti ai lor
principati. Informato di ciò il re Ruggieri, che non volea liti col
romano pontefice, verso la metà di luglio sbarcò a Salerno, venne nelle
vicinanze di Benevento, e quivi trattò col _cardinal Giovanni_
governatore di quella città, confermando la risoluzione sua di
mantenersi fedele al papa. Andò poi a Capoa e a San Germano; e perchè
intese che papa Innocenzo era disgustato de' suoi figliuoli, li richiamò
da Pescara. Avrebbe egli voluto abboccarsi con esso pontefice, ma questi
con varie scuse se ne sottrasse, di modo che Ruggieri, per troncare il
corso alle gelosie, licenziò l'esercito. Nulladimeno abbiamo da Giovanni
da Ceccano[1841] che i di lui figliuoli nel mese di luglio presero Sora
ed altri luoghi fino a Ceperano. Andò Ruggieri a Monte Casino, e levato
a que' monaci Monte Corvo, con pretenderlo suo, diede loro in cambio la
rocca di Bantra.

Tenne poscia il re un parlamento in Ariano, dove proibì con rigorose
pene lo spendere nel regno suo le romesine, cioè, a mio credere, la
moneta battuta in Roma; e ne sustituì dell'altra battuta da lui di lega
molto inferiore, a cui diede il nome di ducato; e danari di rame, tre
de' quali valeano una romesina: il che recò un incredibil danno a tutto
il suo dominio, e fece universalmente desiderare la di lui morte. E
perciocchè avea comandato anche ai Beneventani di ricever quella moneta,
se ne alterò forte il papa, e loro ordinò di non ubbidirlo. Appresso
andò il re a Napoli per la prima volta. Fu con immenso onore incontrato
da quella nobiltà e popolo fuori di porta Capuana, e alla porta ricevuto
dal clero con bella processione. L'addestrarono varii nobili fino alla
chiesa maggiore, dove l'aspettava l'_arcivescovo Marino_. Non mancò di
far carezze e regali a quella nobiltà, di visitar tutta la città, e in
una notte fece misurare il circuito della medesima, il quale si trovò
allora di due mila e trecento settantatrè passi. Nel dì seguente dimandò
ai Napoletani, quanto fosse il giro della lor città, e non sapendolo
dire alcuno, lo disse egli con ammirazione di tutti. Sul principio
poscia di ottobre se ne tornò in Sicilia, lasciando in Puglia il duca
Ruggieri, e in Capoa il principe Anfuso. Ci vien meno qui la narrativa
di Falcone Beneventano con grave danno della storia di que' paesi.
Intenti i Genovesi, al pari d'altre città libere di Italia, ad
ingrandire la lor signoria[1842], nell'anno presente con grande esercito
per mare e per terra andarono addosso alla città di Ventimiglia, e
costrinsero tanto essa come tutte le castella di quel contado a
sottomettersi al loro dominio. Ma non sussiste già ciò che sotto questo
anno è scritto negli Annali Pisani[1843], cioè che quel popolo ebbe
guerra con Ruggieri re di Sicilia, e tenne in suo potere Napoli per
sette anni: favola troppo grossolana. Fu bensì in questi tempi, per
attestato del Dandolo[1844], rottura fra il popolo di Fano dall'un
canto, e quei di Ravenna, Pesaro e Sinigaglia dall'altro. Non potendo i
Fanesi resistere soli a tanti nemici, fecero i loro consoli ricorso ai
Veneziani, con promettere fedeltà e censo a _Pietro Polano_ doge, e
concedere loro varii privilegii ed esenzioni nella loro città: dal che
mossi i Veneziani, con una possente flotta andarono contro ai nemici di
quel popolo, e li fecero desistere dalle offese. Intanto non mancava
neppure in Germania la guerra. Il duca _Guelfo VI_, dacchè cessò di
vivere _Arrigo IV_, duca di Baviera e Sassonia suo fratello, mosse le
pretensioni sue sopra la Baviera, siccome ducato paterno ed avito, e
susseguentemente la guerra a _Leopoldo_, che n'era stato investito dal
re Corrado[1845]. Mentre questi faceva l'assedio di Falea, eccoti
all'improvviso comparire il duca Guelfo colle sue schiere, che gli diede
una rotta e l'astrinse alla fuga nel dì 3 d'agosto. Ma avendo voluto lo
stesso Guelfo dar battaglia anche al re Corrado, che assediava Winsperg,
rimase sbaragliato, e dovette fuggire. Questo ho voluto riferire, perchè
si tratta d'un principe della linea germanica de' principi estensi, il
quale non lasciò dormire per questo esso re Corrado, con successivamente
continuar la guerra contra di lui. Confermò in quest'anno esso re ai
Piacentini il privilegio di battere moneta, come costa dal suo diploma
riferito da Umberto Locati[1846].

NOTE:

[1839] Ligurin., de Gest. Friderici Primi, lib. 3.

[1840] Falco Beneventanus, in Chron.

[1841] Johan. de Ceccano, tom. 1, Ital. Sacr.

[1842] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.

[1843] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[1844] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1845] Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 25. Abbas
Urspergensis, in Chron.

[1846] Locatus, de Orig. Placent., Chron. Placent., tom. 16 Rerum
Italicarum.



    Anno di CRISTO MCXLI. Indizione IV.

    INNOCENZO II papa 12.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 4.


In questi tempi resta quasi affatto al buio la storia d'Italia, per
mancanza di scrittori, o, per meglio dire, delle antiche croniche
perite. Scrive il cardinal Baronio[1847] che le città d'Italia
ostinatamente faceano guerra l'una contro l'altra: _Lucenses adversus
Pisanos in Tuscia, in Longobardia Patavini adversus Veronenses,
Mediolanenses implacabili odio Comenses perdere conabantur_. Abbiam
veduto già quanti anni prima fosse cessata la guerra fra i Milanesi e
Comaschi, col totale abbassamento degli ultimi. La guerra de' Pisani e
Lucchesi si ravvivò molto più tardi, siccome vedremo. Crede il cardinale
suddetto che a questo anno appartenga quella del popolo romano contra
del popolo di Tivoli, narrata da Ottone Frisingense[1848]. Ma, per
attestato di Sicardo, succedè essa[1849] nell'anno seguente. Non si sa
il perchè la città di Tivoli da gran tempo si manteneva disubbidiente e
ribelle al pontefice: forse per gare e discordie insorte a cagion de'
confini e d'ingiurie e danni fra quel popolo e i Romani. Non potendo
Innocenzo II colle buone ridurli alla conoscenza del loro dovere, avea
fulminato molto prima d'ora la scomunica contra d'essi. _Jam per multum
temporis Tyburtinos excommunicaverat, ac aliis modis presserat_; sono
parole del suddetto Frisingense. Però non aspettò il papa a quest'anno a
scomunicarli, come pretese il Sigonio. Ora i Romani indussero il buon
Innocenzo a mettere l'assedio a Tivoli, e v'andarono con grande sforzo,
già persuasi di divorar quel popolo. Ma i Romani d'allora erano ben
diversi da quelli del tempo antico. Poco dianzi voleano muover guerra di
nuovo al re Ruggieri, se il papa più saggio di loro avesse acconsentito.
Neppur tennero saldo contra il solo popolo di Tivoli. Uscito questo
animosamente della città, ed attaccata la mischia cogli assedianti, li
caricò sì forte, che gli astrinse a voltar vergognosamente le spalle, e
a lasciare indietro un ricco bottino. Per questo accidente sinistro
implacabili divennero i Romani contra di quel popolo. Da gran tempo
ancora bolliva discordia fra i Veronesi e Padovani[1850]; e perciocchè i
primi aveano divertito dal suo alveo il fiume Adige con pregiudizio
degli altri, si venne circa questi medesimi tempi ad una sanguinosa
battaglia fra loro. Si dichiarò la fortuna in favore de' Veronesi. Sul
campo restò gran copia di Padovani, moltissimi furono i prigioni, ma
costò questa vittoria assai caro agli stessi vincitori. Abbiamo
dall'Anonimo Casinense[1851], che in quest'anno ancora il re Ruggieri
venne in Puglia, e si portò al monistero di Monte Casino; e giacchè Dio
avea restituita la pace in tutti i suoi dominii, attese a farvi
esercitar la giustizia, e a levarne le prepotenze e gli abusi. Vien ciò
asserito da Romoaldo Salernitano colle seguenti parole[1852]: _Rex autem
Rogerius in regno suo perfectae pacis tranquillitate potitus, pro
conservanda pace camerarios et justiciarios per totam terram instituit;
malas consuetudines de medio abstulit_.

NOTE:

[1847] Baronius, in Annal. Ecclesiast. ad hunc annum.

[1848] Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 27.

[1849] Sicard. Cremonens., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[1850] Otto Frisingensis, in Chron.

[1851] Anonymus Casinensis, tom. 5 Rer. Ital.

[1852] Romualdus Salernitan., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXLII. Indizione V.

    INNOCENZO II papa 13.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 5.


Continuando nella lor contumacia i cittadini di Tivoli, per
testimonianza di Sicardo[1853], assediò il pontefice in quest'anno coi
Romani la loro città. Nulla dice dell'esito di quell'impresa lo storico
suddetto, lasciando in dubbio se questo sia l'assedio infelice di cui si
è parlato nell'anno precedente, oppure un altro. Abbiamo di certo da
Ottone Frisingense che furono forzati a capitolare e sottomettersi, ma
non so se nel presente oppure nel susseguente anno. Ho io prodotto il
giuramento prestato ad esso pontefice da quel popolo, in cui si
legge[1854]: _Civitatem tiburtinam, donnicaturas, et regalia, quae
romani pontifices ibidem habuerunt, et munitionem Pontis Lucani,
Vicovarum, sanctum Polum, castellum Boverani, Cantalupum, Burdellum,
Cicilianum, et alia regalia beati Petri, quae habet, adjutor erit ad
retinendum, ec. Comitatum quoque et rectoriam ejusdem civitatis
tiburtinae in potestatem domni papae Innocentii, et successorum ejus,
libere dimittam_, ec. Di gravi disordini produsse un tale aggiustamento,
siccome vedremo all'anno seguente. Non poteano digerire i Modenesi che
la terra e badia di Nonantola, posta nel loro contado, si fosse data ai
Bolognesi. Però nel presente andarono a campo sotto quella terra[1855],
malmettendo tutti i suoi contorni. A tale avviso, uscì in campagna
l'esercito de' Bolognesi; il che fu cagione che i Modenesi, lasciato
l'assedio, marciarono contra di essi. In Valle di Reno, oppure in Valle
di Lavino s'affrontarono le due armate, e sconfitta rimase la modenese.
Gran quantità di prigioni fu condotta a Bologna. Dopo la Pasqua
dell'anno presente il _re Corrado_ tenne una gran dieta in
Francoforte[1856], dove si trovarono quasi tutti i principi della
Germania, e vennero anche i Sassoni ad umiliarsi a lei, che li ricevette
in sua grazia. Allora fu ch'egli confermò il ducato della Sassonia al
giovinetto duca _Arrigo_ soprannominato _Leone_ estense-guelfo, e
indusse la di lui madre _Geltruda_, figliuola del fu imperador Lottario,
a passare alle seconde nozze con _Arrigo_, fratello del _duca Leopoldo_;
e a questo Arrigo concedè il ducato della Baviera[1857]: il che fu un
seminario di discordie. Imperocchè _Guelfo VI_, duca, zio paterno del
suddetto Arrigo Leone, pretendendo indebitamente tolta la Baviera alla
sua casa, continuò la guerra contra di questo novello duca, e sugli
occhi suoi entrato in quella provincia, le diede un gran guasto. Arrigo
il bavaro anche egli per vendicarsi passò a distruggere le ville e
fortezze degli aderenti al duca Guelfo; e così andò seguitando per
qualche anno la guerra con varie vicende. Stava da lungi osservando
questo fuoco il re Ruggieri[1858], e temendo che, cessata tal guerra, il
re Corrado potesse calare in Italia armato a' suoi danni, seppe animare
il duca Guelfo a continuar la gara, _singulisque annis mille marcas se
ob hoc daturum juramento confirmavit_. Anche il re d'Ungheria, per paura
di Corrado, invitò alla sua corte esso duca Guelfo VI, _dataque pecunia
non modica, ac deinceps omni anno dandam pollicens, ad rebellandum
nihilominus instigat_. Con tal vigore, senza mai stancarsi, proseguì di
poi esso duca Guelfo ad infestare tanto il re, quanto il duca di
Baviera, che Corrado non potè mai trovar tempo ed agio per passare in
Italia a prendere la corona.

NOTE:

[1853] Sicardus Cremonens., in Chron.

[1854] Antiquit. Italic., Dissert. LXXII.

[1855] Cron. di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Annal. veter. Mutinens.,
tom. 9 Rer Italic.

[1856] Dodech., Append. ad Marian. Scot.

[1857] Abbas Urspergens., in Chron.

[1858] Godefridus Viterbiensis, in Pantheo.



    Anno di CRISTO MCXLIII. Indizione VI.

    CELESTINO II papa 1.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 6.


Ossia che nell'anno precedente, oppure nel presente, il popolo di Tivoli
tornasse all'ubbidienza di papa Innocenzo II, certo è che per
l'indulgenza usata da lui con essi, il popolo romano diede principio a
molte scandalose novità in pregiudizio dell'antichissima signoria ed
autorità temporale de' papi. Erano sì fieramente inviperiti i Romani
contra dei Tivolesi[1859], che quando si trattò di capitolar con essi,
pretesero che il papa non li ricevesse in grazia se non col patto di
smantellar le mura della lor città, e di mandare dispersi fuori di essa
gli abitanti. A questa irragionevole ed inumana pretensione non potè
acconsentire il benignissimo pontefice; perciò i Romani gonfii di
superbia rivolsero anche contra del buon pontefice lo sdegno ed odio
loro. Fatta dunque una sedizione, e corsi a folla in Campidoglio col
pretesto di rinnovar l'antica gloria della città, ristabilirono il
senato, che da gran tempo era scaduto, e senza rispetto alcuno al papa
loro signore, intimarono di nuovo la guerra a Tivoli. Abbiam più volte
veduta menzione del senato romano anche a' tempi di Carlo Magno, e ne'
susseguenti secoli; ma senza sapere qual fosse la di lui autorità in
quei tempi, nè quando esso fosse dipoi abbattuto dai papi. Non volevano
i Romani di questi tempi esser da meno de' lor predecessori. Il male fu,
che non guardarono misure, ed assunsero una specie di sovranità. Nulla
tralasciò il pontefice di esortazioni e minaccie per fermare i passi a
questa specie di ribellione; adoperò anche i regali; ma indarno tutto:
sì grande era la foga del popolo, massimamente della nobiltà. Ed ecco
germogliar le sementi delle perverse dottrine, lasciate in quella città
da Arnaldo da Brescia. È da credere che siffatti sconcerti servissero a
conturbare non men l'animo che la sanità di papa _Innocenzo II_.
Infatti, caduto egli infermo, passò nel dì 24 di settembre dell'anno
presente a miglior vita, lasciando sulla terra un'immortal memoria delle
sue rare doti, e massimamente della sua incomparabile prudenza e
benignità, e dell'aver anche procurata la riforma del clero, con
sustituire dovunque potè ai canonici secolari i regolari. Furono ancora
varie chiese da lui fabbricate o risarcite. Rimise, fra le altre cose,
il tetto della basilica lateranense, che era caduto, con avergli il _re
Ruggieri_ somministrate le grandiose occorrenti travi. Ebbe sepoltura in
essa chiesa in un avello di porfido. In luogo suo da lì a tre giorni fu
eletto papa _Guido cardinale_ di san Marco, di nazione Toscano, del
castello di Felicità (forse città di Castello), che assunse il nome di
_Celestino II_, secondo il costume di questi tempi, nei quali si
richiedeva il nome de' celebri pontefici che fiorirono ne' primi secoli
della Chiesa. Questo pontefice, secondo l'attestato di Romoaldo
Salernitano[1860], ricusò di confermare la concordia stabilita fra il
suo predecessore e il re Ruggieri, e perciò fra loro insorse mala
intelligenza. Circa questi tempi, per testimonianza del Dandolo[1861],
nacque lite fra i Veneziani e Padovani a cagione di un taglio nel fiume
Brenta, fatto non lungi da Sant'Ilario dai secondi con danno dei primi.
Spedì _Pietro Polano_ ambasciatori a Padova per chiederne conto. Fu loro
data una risposta assai arrogante. Il perchè i Veneziani colle lor forze
uscirono a farsi giustizia, ed azzuffatisi coi Padovani alla Tomba,
diedero loro una rotta, e condussero circa trecento di que' nobili presi
nella battaglia a Venezia. Poscia iti gli ambasciatori de' Padovani,
dopo aver protestato che non per far dispiacere o danno al popolo
veneziano era seguito quel taglio, si rimise fra loro l'amicizia e
concordia primiera. Abbiamo parimente dall'Anonimo Casinense[1862] che
il re Ruggieri portatosi in quest'anno al monistero di Monte Casino, la
fece alla turchesca, con levare da quel sacro luogo tutto il tesoro,
lasciandovi solamente la croce dell'altar maggiore col ciborio, che
doveva essere d'argento, e tre tavole da altare. Restano ignoti i
pretesti di questa scelleraggine; se non che anticamente erano troppo
suggette all'ingordigia e avarizia de' principi le ricchezze delle
chiese. S'impadronirono parimente i figliuoli d'esso re della provincia
di Marsi, e, per attestato di Giovanni da Ceccano[1863], anche della
terra d'Arce: il che probabilmente fu origine de' dissapori insorti fra
lui e papa Celestino.

NOTE:

[1859] Otto Frisingens., in Chron., lib. 7, cap. 27.

[1860] Romualdus Salernit., in Chronic., tom. 7 Rer. Ital.

[1861] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1862] Anonymus Casin., tom. 5 Rer. Ital.

[1863] Johann. de Ceccano, tom. 1 Ital. Sacr.



    Anno di CRISTO MCXLIV. Indizione VII.

    LUCIO II papa 1.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 7.


Terminò in quest'anno il suo breve pontificato papa _Celestino II_, non
essendo egli giunto a governar la Chiesa di Dio a cinque mesi e mezzo.
Nel dì 9 di marzo diede egli fine a' suoi giorni. Venne poscia eletto
pontefice nel dì 12 dello stesso mese _Gherardo_ de' Caccianemici,
Bolognese di patria, già canonico regolare, e poi cardinale di santa
Croce[1864]. Da papa Innocenzo II per la sua abilità era stato
costituito cancelliere della santa romana Chiesa. Prese il nome di
_Lucio II_. Scrive Romoaldo Salernitano[1865] che il _re Ruggieri_ fece
gran festa per l'esaltazione di questo papa, per esser egli suo compadre
e molto amico, sperando perciò di averlo in tutto favorevole. Nè tardò
egli a spedire i suoi ambasciatori a prestargli ubbidienza, e a pregarlo
di voler venire fino ai confini, cioè a Ceperano, per un comune
abboccamento. Andò il papa, e il re venuto per mare a Gaeta, si portò
poscia ad incontrarlo a Ceperano. Gran dibattimento seguì fra loro
intorno la pace, ed inclinava il papa alla concordia; ma ripugnando i
cardinali, si sciolse il congresso senza conclusione alcuna. Ruggieri,
bollendo per la collera, se ne tornò in Sicilia; ma pria di muoversi,
ordinò a _Ruggieri duca_ di Puglia suo figliuolo di farne risentimento.
Fu ubbidito. Entrò questi con un copioso esercito nella Campania romana,
ossia in Terra di Lavoro, e diede il sacco a tutte quelle contrade sino
a Ferento (ma forse sarà ivi scritto Ferentino); dopo di che se ne tornò
in Puglia. Così toccò, come d'ordinario succede, agli infelici popoli il
far penitenza de' falli altrui. Abbiamo dall'Anonimo Casinense che il re
Ruggieri venne a Monte Casino, e quivi si abboccò col papa, e che se ne
partì in discordia, con poscia prendere parte della Campania con
Terracina. Assediò anche Veroli. _Deinde quodam pacto facto, quod
ceperat, reddidit_. Sembra dunque che seguisse dipoi fra loro qualche
aggiustamento. Morì in quest'anno _Anfuso_ ossia _Alfonso principe_ di
Capoa e Napoli, figliuolo secondogenito di Ruggieri re di Sicilia. A lui
fu sustituito in que' principati _Guglielmo_, terzogenito del re
medesimo. In questi giorni avanzandosi l'ardire de' Romani, oltre
all'erezion del senato, fu anche eletto capo d'esso senato, ossia
patrizio, _Giordano_ figliuolo di Pier Leone, fratello, a mio credere,
del defunto antipapa Anacleto: il che ci fa intendere, essere senza
fondamento ciò che alcuni hanno scritto, che la famiglia di Pier Leone
fu sterminata in Roma. Una parte del popolo minore teneva coi senatori,
e poco mancava ad una patente ribellione. Abbiamo da Otton
Frisingense[1866] (giacchè convien mendicare dagli scrittori stranieri
le cose nostre) che in questi tempi la pazza discordia sguazzava per le
città d'Italia. Aspirava cadauna di esse alla superiorità, e pareva a
ciascuna troppo ristretto il suo dominio, nè restava maniera
d'allargarlo, se non con pelare o soggiogare i vicini. Durava tuttavia
la gara fra i Veneziani e Ravennati, che vicendevolmente si
danneggiavano per terra e per mare. I Veronesi uniti coi Vicentini
facevano guerra ai Padovani collegati coi Trivisani; e probabilmente
quest'anno fu quello in cui misero a ferro e fuoco le castella e le
campagne di Trivigi. Maggiore era l'incendio in Toscana per la guerra
che da gran tempo andava ripullulando fra i Pisani e Lucchesi, la quale
involse in quell'incendio anche le città circonvicine. Non v'era città
libera che in sì fatte turbolenze non facesse delle leghe con altre
città, per ottenerne aiuto. E queste facilmente v'entravano, por non
veder crescere di troppo una città confinante colla depressione
dell'altre.

Erano in lega i Lucchesi coi Sanesi, i Fiorentini coi Pisani. L'oste de'
Fiorentini, insieme con _Ulrico_ ossia _Ulderico_ marchese di Toscana,
corse fino alle porte di Siena, e ne bruciò i borghi. Trovandosi in tali
strettezze i Sanesi, ricorsero per aiuto ai Lucchesi, i quali sì per
sovvenire a quella città collegata, come ancora per sostenere il _conte
Guido Guerra_, che era malmenato dagli stessi Fiorentini, si
dichiararono contro a Firenze. All'incontro i Pisani, a richiesta de'
Fiorentini, uscirono in campagna. Un fiero guasto fu dato da essi e da'
Fiorentini alle castella e ville del suddetto conte Guido. I Sanesi, che
erano venuti per saccheggiare il contado di Firenze, colti in
un'imboscata, quasi tutti vi rimasero prigioni. Più rabbiosa riuscì la
guerra fra i Pisani e Lucchesi. Moltissimi dall'una e dall'altra parte
vi lasciarono la vita; ma innumerabili furono riserbati alle miserie di
una lunghissima prigionia. Lo storico suddetto, cioè Ottone vescovo di
Frisinga, attesta di averli veduti da lì a qualche anno così squallidi e
macilenti nelle pubbliche carceri, che cavavano le lagrime da chiunque
passava per di là: segno che non vi doveva essere cartello di cambio fra
loro, o che ebbero la peggio i Lucchesi, nè restò ad essi maniera di
redimere i suoi. Dagli Annali pisani[1867] abbiamo che la guerra fra
questi due popoli fu per cagione delle due castella di Aginolfo e di
Vurno, e d'altre terre che l'una città all'altra avea occupato. Misero i
Pisani a fuoco quasi tutto il territorio di Lucca, presero il castello
dell'isola di Palude con trecento cittadini lucchesi, e seguitò poi la
guerra anche degli anni parecchi. Per testimonianza ancora del
Dandolo[1868], crebbe in questi tempi la nemicizia fra i Veneziani e
Pisani, e dovunque s'incontrarono per mare, l'una nazione all'altra fece
quanti danni ed oltraggi potè. Ma si interpose _papa Lucio_, e pare che
li pacificasse insieme. Erano anche in rotta i Modenesi co'
Bolognesi[1869], perchè nell'anno addietro il castello di Savignano per
tradimento s'era dato agli ultimi. Se noi avessimo le storie di molte
altre città d'Italia, forse ne troveremmo la maggior parte involte in
altre guerre per questi tempi. Il _re Corrado_ per conto dell'Italia era
come non vi fosse; e però senza verun freno ogni città possente
insolentiva contra dell'altre. Ricavasi ancora da una lettera di _Pietro
abbate_ di Clugnì[1870], che venendo egli nell'anno seguente (per la via
probabilmente di Pontremoli) a Roma per visitar papa Eugenio III, fu nel
viaggio svaligiato da un marchese _Obizzo_ (forse Malaspina); ma ricorso
egli ai Piacentini, questi colla forza obbligarono quel marchese e tutti
i suoi sgherri a dargli soddisfazione, con restituirgli tutto fino a un
soldo. E così van le cose del mondo. Pareva un gran dono la libertà
ricuperata dai popoli italiani, e pur questa servì a renderli più
infelici. Per attestato del Malvezzi[1871], la città di Brescia in
questi medesimi tempi patì un furiosissimo incendio, per cui fu fatto un
verso:

    _Plangitur immodicis succensa Brixia flammis_.

NOTE:

[1864] Cardin. de Aragon., in Vit. Lucii II.

[1865] Romuald. Salern., in Chron.

[1866] Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 29.

[1867] Annal. Pisani, tom. 5 Rer. Ital.

[1868] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1869] Annales veteres Mutinens., tom. 9 Rer. Ital.

[1870] Petrus Cluniacens., lib. 6, Epist. 45.

[1871] Malveccius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCXLV. Indizione VIII.

    EUGENIO III papa 1.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 8.


Ebbe fine in quest'anno la vita e il breve pontificato di _Lucio II_. Se
vogliamo prestar fede all'autore conservato a noi dal cardinale
d'Aragona[1872], egli come uomo prudente e coraggioso, dopo aver ben
prese le sue misure coi fautori della maestà pontificia, messa insieme
una mano d'armati, forzò i nobili romani, che contra il divieto del suo
predecessore Innocenzo II aveano istituito il senato, ad uscire del
Campidoglio, e ad abiurare la novità da loro fatta. Non la racconta così
questa faccenda Gotifredo da Viterbo[1873], storico del presente secolo.
Secondo lui, questo papa ascese bensì accompagnato da alquante
soldatesche nel Campidoglio, risoluto di cacciar di là vituperosamente i
senatori; ma il senato e popolo romano avendo dato all'armi, ripulsarono
in un momento il papa con tutti i suoi aderenti. Anzi fu sì esorbitante
il tumulto loro, che esso pontefice percosso da più sassate, finchè
sopravvisse (il che fu poco), non potè più sedere nella cattedra sua.
Ch'egli fosse colpito da un sasso, lo afferma ancora un altro scrittore,
accennato dal cardinal Baronio[1874]: laonde dopo pochi giorni
infermatosi, dovette soccombere all'imperio della morte. Mancò egli di
vita nel dì 25 di febbraio, dopo aver quasi rifabbricata di pianta e
arricchita di molto la chiesa di santa Croce in Gerusalemme, di cui era
stato titolare. Servì la di lui morte a rendere più che mai orgogliosa
quella fazione di nobili romani che s'era rivoltata contra dei sommi
pontefici, e che stabilì più fortemente l'unione ed autorità del senato
romano in Campidoglio. In mezzo a questi tumulti non trovandosi in piena
libertà il sacro collegio dei cardinali, si raunò nella chiesa di san
Cesario, e quivi di comune consenso elesse papa nel dì 27 febbraio
_Bernardo_ Pisano, abbate cisterciense di santo Anastasio, discepolo
negli anni addietro di san Bernardo, uomo di molta bontà di vita. Era
questi tenuto per uomo piuttosto semplice, ma per ispezial grazia del
cielo riuscì dipoi un eloquente e valoroso pontefice. Prese il nome di
_Eugenio III_[1875], e condotto alla basilica lateranense, fu quivi
intronizzato. Si disponeva egli a ricevere nella seguente domenica la
consecrazione in san Pietro, secondo l'antica consuetudine; ma inteso
che i senatori meditavano d'opporsi e d'impugnare la di lui elezione,
qualora ricusasse di confermar coll'autorità apostolica la rinnovazione
da lor fatta del senato, in tempo di notte, accompagnato da pochi
cardinali, segretamente uscì di Roma, e si ritirò alla rocca di
Monticelli. Congregati poscia nel dì seguente gli altri cardinali, che
per timore dell'infuriato popolo s'erano qua e là dispersi, se ne andò
al celebre monisterio di Farfa nella Sabina, e quivi nel dì 4 di marzo,
giorno di domenica, fu solennemente consecrato. Andossene dipoi a
Viterbo, dove celebrò la santa Pasqua, e fermossi in quella città per
otto mesi. Tornò in questo tempo a Roma l'eresiarca Arnaldo da Brescia,
e spargendo con piena libertà il veleno della sua dottrina[1876],
aggiunse nuovi sproni alla nobiltà romana per privare della loro
autorità i sommi pontefici. Andava costui predicando che si dovea
rifabbricare il Campidoglio, rimettere in Roma non solo il senato, ma
anche l'ordine equestre, come fu al tempo degli antichi Romani; nè
dovere il papa impacciarsi nel governo temporale, ma contentarsi dello
spirituale. Tal piede presero questi velenosi insegnamenti, figurandosi
coloro di voler vedere di nuovo Roma padrona del mondo, che l'inferocito
popolo si diede ad atterrare i magnifici palazzi e le torri non
solamente di que' nobili che abborrivano questa sacrilega novità, ma
anche de' cardinali, alcuni de' quali inoltre riportarono delle ferite
dalla matta plebe che non conosce nei suoi trasporti misura. Abolirono
inoltre i Romani[1877] la dignità del prefetto di Roma; obbligarono
tutti i nobili cittadini a giurar suggezione al loro patrizio
_Giordano_, figliuolo di Pier Leone, ed incastellarono, cioè ridussero
in fortezza la basilica vaticana, con far poscia delle avanie, e dar
anche delle ferite ai pellegrini che per divozione colà concorrevano. Il
pontefice Eugenio, dopo aver colla pazienza e colle buone tentato invano
di frenar la disubbidienza de' Romani, venne alle brusche, con fulminare
la scomunica contra di Giordano dichiarato patrizio. Adoperò ancora gli
altri rimedii efficaci della forza temporale per metterli in dovere,
avendo congiunte le sue armi con quelle del popolo di Tivoli. Non finì
dunque l'anno che furono astretti i Romani ad una concordia, per cui si
contentò il papa che sussistesse il senato, come era in uso in tanti
secoli addietro, ma con obbligare i Romani ad abolire il patrizio, a
rimettere la dignità del prefetto di Roma, e a prestare l'ubbidienza
dovuta ai pontefici, padroni legittimi di Roma. Ciò fatto, da Viterbo se
ne tornò a Roma verso il Natale del Signore con immenso giubilo di quel
popolo e clero[1878], che gli fece un solenne incontro, cantando il
_Benedictus, qui venit in nomine Domini_: il che può farci maraviglia,
per quel che s'è prima veduto. Andato egli al palazzo lateranense,
celebrò dipoi con magnifica solennità e quiete di tutti la festa del
Natale. Applicossi parimente in quest'anno il buon pontefice a rimettere
la pace fra i Pisani e i Lucchesi: al qual fine fece venire in Italia
_Pietro abbate_ di Clugnì, personaggio di gran credito, siccome costa da
una lettera di esso abbate citata all'anno precedente. Ma qual effetto
producesse un tal negozio, resta a noi ignoto.

NOTE:

[1872] Cardin. de Aragon., in Vit. Lucii II, P. I, tom. 3 Rer. Italic.

[1873] Godefr. Viterbiensis, in Pantheo.

[1874] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[1875] Cardin. de Aragon., in Vit. Eugenii III.

[1876] Otto Frisingensis, de Gestis Friderici, lib. 2, cap. 20.
Guntherus, in Ligur., lib. 3.

[1877] Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 31.

[1878] Card. de Aragon., in Vit. Eugenii III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCXLVI. Indizione IX.

    EUGENIO III papa 2.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 9.


Poca quiete trovò in Roma il pontefice _Eugenio_. Troppo erano
esacerbati gli animi del popolo romano contra quello di Tivoli[1879].
Accecati da quest'odio, tuttodì il tormentavano, perchè si smantellasse
la nemica città; nè potendo egli reggere a tanta petulanza e fastidio,
si ritirò di là dal Tevere, forse in castello Sant'Angelo, che era
tenuto dagli altri figliuoli di Pier Leone suoi fedeli. L'Anonimo
Casinense[1880] sotto all'anno 1145, che è, secondo noi, il 1146, non so
come, scrive che papa Eugenio _pacem cum Romanis reformans, muros
tiburtinae civitatis destrui praecepit_. A me non si rende credibile
questo fatto, perchè se il pontefice fosse giunto ad accordar questa
pretensione ai Romani, non avrebbono essi continuata la guerra ai
Tiburtini, nè papa Eugenio avrebbe abbandonata Roma, siccome fece
nell'anno presente, per sottrarsi all'indiscretezza e alle violenze de'
Romani. Infatti egli si partì assai disgustato da Roma. Il troviamo in
Sutri nel dì 25 di aprile[1881]. Per attestato di altri, se ne andò
poscia a Viterbo, poscia a Siena, e, secondo le Croniche accennate dal
Tronci[1882], di là venne alla sua patria Pisa. Dall'Anonimo Casinense
sappiamo[1883] che egli si portò anche a Lucca, probabilmente per
istabilir, se potea, la pace fra quelle due repubbliche. Valicato poi
l'Apennino, se è vero ciò che scrive il Sigonio, passò alla città di
Brescia, dove diede una bolla _X kalendas septembris_, in cui scrive al
popolo di Bologna di avere intimato ai Reggiani e Parmigiani di non
porgere aiuto ai Modenesi contra la badia di Nonantola: e perchè non
aveano ubbidito, col consentimento de' cardinali, del patriarca
d'Aquileia e di molti vescovi, avea privato le loro città della dignità
episcopale. Temo io che questa bolla appartenga agli anni posteriori.
Dalle Croniche di Piacenza abbiamo ch'egli fu in quella città, e di là
s'inviò alla volta di Francia. Non si può ben accertare se vivente papa
Lucio II, oppur sotto il presente papa Eugenio III, i nuovi senatori di
Roma scrivessero al _re Corrado_, appellato _re de' Romani_, una lettera
a noi conservata da Ottone da Frisinga[1884]. Gli significavano di avere
ristabilito il senato, come era a' tempi di Costantino e di Giustiniano;
di essere a lui fedeli, e di faticare indefessamente coll'unica mira di
esaltare la di lui dignità e persona, nulla più desiderando che la
venuta di lui a prendere la corona imperiale. L'avvisavano che i
Frangipani e i figliuoli di Pier Leone (eccetto che il loro fratello
Giordano) e Tolomeo con altri erano dichiarati in favore del papa, e
tenevano castello Sant'Angelo per impedire la coronazion d'esso Corrado,
ma che essi rifabbricavano e fortificavano Ponte Molle in di lui
servigio. Aggiunsero che il papa e il re di Sicilia tenevano ad una,
andando d'accordo in non volere Corrado in Italia, e molto meno in Roma;
ed è ben probabile che Ruggieri anche da questa parte s'ingegnasse di
contrariare alla venuta di Corrado, le cui armi poteano rinnovar la
scena disgustosa dell'imperadore Lottario. Scriveano essi Romani, oltre
a ciò, essere seguita concordia fra il papa e lo stesso Ruggieri (ciò
sembra indicare lo accordo fatto da papa Lucio II nell'anno 1144), per
cui il pontefice avea conceduto a Ruggieri _virgam et annulum,
dalmaticam et mitram atque sandalia, et ne ullum mittat in terram suam
legatum, nisi quem Siculus petierit_: il che viene interpretato dai
Siciliani per un indizio della decantata lor monarchia. _Et Siculus
dedit ei multam pecuniam pro detrimento vestro, et romani imperii._ Ma
il re Corrado niun conto fece di tale rappresentanza, assai informato
del sistema delle cose e del buon cuore del papa; anzi venuti a lui due
legati pontificii, l'uno de' quali era _Guido_ Pisano cardinale e
cancelliere della santa romana Chiesa, per la rinnovazion degli antichi
privilegii, con tutto onore gli accettò, e concedè quanto chiedevano. Si
trova nell'anno 1147 cancelliere d'essa romana Chiesa Guido cardinale;
ma non so dire se sia lo stesso. Abbiamo dalla Cronica di Fossa
Nuova[1885] sotto questo anno che _Romani venerunt super Tiburim, et
multos ex eis decollaverunt_. Anche i Genovesi[1886] fecero pruova del
lor valore contro de' Saraceni dominanti in Minorica, e corsari di
professione. Armarono ventidue galee, e molte altre navi con assai
macchine militari e castelli di legname. Generale di questa flotta fu lo
stesso Caffaro, che diede principio agli Annali di Genova. Sbarcati
nell'isola Minorica fanti e cavalli, diedero il guasto al paese, fecero
molti prigioni, presero la città, e la distrussero, ma dopo averne
cavato un ricco bottino. Di là passarono ad Almeria, città marittima
della Spagna nel regno di Granata, e postole l'assedio, cominciarono a
flagellarla con petriere, gatti, ed altre macchine usate in questi
tempi. Veggendosi in mal punto quegl'infedeli, fecero istanza per tregua
o pace. Fu per la tregua accordato che pagassero cento tredici mila
marabotini, e ne pagarono venticinque mila in quella notte. Stando i
Genovesi a vedere e numerare il danaro, ebbe agio il re d'Almeria di
salvarsi in due galee col resto della somma accordata. Creò il popolo
d'Almeria la seguente mattina un altro re, che ratificò la promessa
antecedente; ma perchè non la mantenne nel tempo prescritto, i Genovesi
fecero quanto di male poterono al di fuori della città, ed accostandosi
il verno, se ne tornarono con trionfo in patria.

Non potea star quieto in questi tempi _Ruggieri re_ di Sicilia, principe
agitato dallo spirito de' conquistatori. Giacchè non potea stendersi
dalla parte di Roma, per non disgustare il papa; nè verso la marca
d'Ancona, per non tirarsi addosso lo sdegno del re _Corrado_, determinò
di portar la guerra addosso ai Mori di Africa. Pertanto con possente
flotta sbarcò su quelle coste, assalì la città di Tripoli, nido di
corsari; e tuttochè la trovasse forte per sito, per buone mura e torri,
pure, dopo aver presa l'isola delle Gerbe, a forza d'armi s'insignorì di
quella città, con trucidar quanti v'erano alla difesa, e condurre le lor
donne schiave in Sicilia. Il padre Pagi[1887] riferisce questo fatto
all'anno presente. Secondo Roberto dal Monte[1888], ed anche per
attestato dell'Anonimo Casinense[1889], tal conquista si dovrebbe
attribuire all'anno precedente 1145. Altri poi ne parlano all'anno 1147,
come ha Noveiro scrittore arabo, citato da esso Pagi; e questa è forse
la più verisimil opinione. Veramente per la cronologia della Sicilia in
questi tempi a noi mancano lumi sicuri. Pensa il suddetto Pagi che
appartenga all'anno 1148 la guerra del re Ruggieri contra di _Manuello
imperador_ de' Greci, e a quell'anno veramente ne parla Roberto dal
Monte[1890]. Ma non è sicura la cronologia di quell'autore. Mette egli
nello stesso anno 1148 la presa d'Almeria in Ispagna, e le conquiste
fatte da esso re Ruggieri nelle coste d'Africa; e pur vedremo che tali
avventure son da riferire all'anno seguente 1147. Nè potendosi credere
che Ruggieri in uno stesso anno guerreggiasse contro i Greci e contro i
Mori d'Africa, m'induco io a credere che in questo anno egli ostilmente
entrasse nel dominio greco. Con tale opinione meglio si accorda Ottone
Frisingense, che narra dipoi fatti accaduti nell'anno 1147. Una Cronica
del monistero della Cava[1891] mette essa guerra contro i Greci sotto lo
stesso anno 1147; ma quivi ancora sono scorretti i numeri per colpa de'
copisti, e si conosce che l'autore avrà scritto 1146, perchè, dopo aver
narrata l'assunzione di papa Eugenio nel 1145, racconta al seguente anno
la guerra della Grecia. Il motivo d'essa fu che passava da lungo tempo
nemicizia fra gli Augusti greci e il re Ruggieri, pretendendo sempre
gl'imperadori d'Oriente che i Normanni indebitamente ritenessero in lor
potere la Sicilia, ed ingiustamente avessero tolto all'imperio greco
molte città di Puglia e Calabria. Tentò _Giovanni Comneno_ imperadore,
padre di _Manuello_, di far lega contra di Ruggieri col _re Corrado_,
siccome abbiamo da Ottone Frisingense[1892]. _Pietro Polano_ doge di
Venezia ne era mediatore, e venne anche per questo un'ambasceria de'
Greci in Germania. Ruggieri, per quanto scrive Roberto del Monte, mandò
anch'egli i suoi ambasciatori a Costantinopoli per ottener la pace; ma
questi furono messi in prigione ad onta del diritto delle genti. Da tale
affronto irritato forte il re Ruggieri, spedì, a mio credere, nell'anno
presente una poderosa flotta nella Dalmazia e nell'Epiro, comandata da
valorosi capitani. Sbarcarono essi in Corfù, e con astuzia
s'impadronirono di quella città e di tutta l'isola. Lasciato ivi un buon
presidio, e continuato il viaggio, saccheggiarono dipoi la Cefalonia,
Corinto, Tebe, Atene, Negroponte, ed altri paesi del greco
imperio[1893]. Non si può dire l'immensità della preda d'oro, d'argento
e di vesti preziose che ne asportarono i vincitori Normanni. Alcune
migliaia di Greci, nobili e plebei, donne e fanciulli, ed anche Giudei,
furono condotti prigioni in Sicilia, e servirono a popolar molti luoghi
che scarseggiavano di gente. Soprattutto notabil fu l'accortezza
politica del re Ruggieri, il quale fece prendere tutti quanti gli
artefici che lavoravano in quelle parti drapperie di seta, e li fece
trasportare a Palermo. Prima non si lavoravano se non in Grecia e in
Ispagna gli sciamiti e le stoffe di varii colori di seta, con oro ancora
tessute. Costavano un occhio a chi degl'Italiani ne voleva. Da lì
innanzi fu introdotta in Sicilia questa bell'arte, che poi col tempo si
diffuse per altre parti della nostra Europa, e rendè men caro il prezzo
di sì fatte tele. Ugone Falcando[1894], scrittore di questo secolo, ne
fa una vaga descrizione, come di cosa rara, nel principio dell'opera
sua. E tale fu il guadagno che riportarono i Greci dalla nemicizia col
re Ruggieri. Trovavansi in cattiva positura gli affari di Terra Santa in
questi tempi, massimamente dappoichè gli infedeli aveano tolto a'
Cristiani la nobil città di Edessa in Soria. Ora per la zelante
eloquenza di _san Bernardo_ nell'anno presente _Lodovico VII_ re di
Francia e _Corrado III_ re di Germania presero la croce, e si
obbligarono di marciare nell'anno seguente con grandi forze, e
coll'accompagnamento di copiosa nobilità in Levante, a militare contra
de' nemici del nome cristiano.

NOTE:

[1879] Otto Frisingensis, lib. 7.

[1880] Anonymus Casinens., tom. 5 Rer. Ital.

[1881] Johann, de Ceccano, Chron.

[1882] Tronci, Memor. Istor. di Pisa.

[1883] Anonymus Casinensis, tom. 5 Rer. Ital.

[1884] Otto Frising., de Gestis Friderici, lib. 1, cap. 28.

[1885] Johann. de Ceccano, tom. 1 Ital. Sacr.

[1886] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.

[1887] Pagius, in Critic. Baron. ad hunc annum.

[1888] Robert. de Monte, Chron.

[1889] Anonymus Casin., tom. 5 Rer. Ital.

[1890] Robert. de Monte, Append. ad Sigebert.

[1891] Chron. Cavense, tom. 7 Rer. Ital.

[1892] Otto Frisingens. lib. 1, cap. 23 de Gestis Federici I.

[1893] Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1894] Hugo Falcandus, de calamit. Sicul., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXLVII. Indizione X.

    EUGENIO III papa 3.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 10.


In quest'anno, principalmente per promuovere l'affare importante della
crociata, passò in Francia il buon _papa Eugenio_[1895]. Fu ad
incontrarlo il _re Lodovico_ VII a Dijon, e insieme poi celebrarono la
santa Pasqua in Parigi. Dopo la Pentecoste esso re andò a prendere alla
chiesa di san Dionigi, secondo i riti d'allora, il bordone e la
scarsella da pellegrino[1896], e la bandiera appellata Orofiamma, e si
mosse con gran comitiva di prelati e baroni, e col suo esercito andò ad
imbarcarsi per passare in Oriente. Fra gli altri seco condusse[1897] _de
Italia Amedeum taurinensem fratremque ejus Guilielmum marchionem de
Monte Ferrato avunculos suos_. Come fossero fratelli questi due
principi, quando si sa che la real casa di Savoia era ben diversa da
quella de' marchesi di Monferrato, non si comprende. Probabile è ciò che
il Guichenone[1898] immaginò, cioè che fossero fratelli uterini. Sarebbe
da desiderare che ci fossero rimaste in maggior copia antiche memorie o
notizie di questi tempi, per meglio intendere quali Stati possedessero,
e quai personaggi avessero quelle due nobilissime famiglie. E per conto
del suddetto _Guglielmo marchese_ di Monferrato, non voglio tacere
ch'egli ebbe per moglie una sorella del re Corrado, attestandolo Sicardo
vescovo di Cremona[1899], che fiorì sul fine di questo secolo, là dove,
parlando del medesimo Corrado, scrive: _Cujus soror marchioni Guilielmo
de Monte-Ferrato, nomine Julitta, fuit matrimonio copulata, ex qua
quinque filios genuit eximiis meritis, hac serie describendos, scilicet
Guilielmum, Conradum, Bonifacium, Fredericum, et Raynerium, quorum
diversa fuere dona fortunæ._ Questa pare la prima volta che i marchesi
di Monferrato portarono le loro armi in Oriente per la fede di Gesù
Cristo, dove poi si acquistarono tanta gloria e possanza, siccome
andremo vedendo. Poco prima il re Corrado s'era messo in arnese per
marciare anch'egli in Oriente[1900]. Tenne una general dieta in
Francoforte, dove fece dichiarare re il fanciullo _Arrigo_ suo
figliuolo. Colà comparve il giovane _Arrigo Leone_ guelfo-estense, duca
di Sassonia, con fare istanza d'essere reintegrato nel ducato della
Baviera, tolto a suo padre e dato ad Arrigo figliuolo di Leopoldo, con
pretenderlo a sè dovuto per diritto di eredità. Con sì buone parole
trattò di questo affare il re, che indusse il giovanetto principe a
sospendere questo interesse sino al suo ritorno da Terra Santa. Adunque
dopo l'Ascensione il re Corrado imprese il viaggio d'Oriente con un
immenso esercito. Andarono specialmente in compagnia di lui il suddetto
_Arrigo_ duca di Baviera, _Ottone_ vescovo di Frisinga, fratello uterino
del medesimo re Corrado, e storico nobilissimo di questi tempi, e
_Federigo_ iuniore suo nipote, che fu poi imperadore. Suo padre
_Federigo duca_ di Suevia, non avendo che questo figliuolo, per troppo
affanno di vederlo condotto via, da lì a non molto diede fine a' suoi
giorni. Pacificatosi ancora il _duca Guelfo_, zio paterno del duca di
Sassonia, col re Corrado, e presa la croce, andò anch'egli in questa
sacra spedizione. Arrivò il re Corrado col suo innumerabil esercito a
Costantinopoli, dove _Manuello Comneno_, che aveva per moglie una
sorella della regina _Geltruda_, e però suo cognato, gli usò di molte
finezze e fece dei gran regali. Ma a chi non è nota la fede de' Greci?
Promise assaissimo quell'imperadore, e massimamente dei viveri, ma nulla
attenne[1901]. Anzi, dacchè quel terribil nuvolo di crociati fu passato
oltre allo Stretto, niuna furberia lasciò intentata per farli perire,
mantenendo anche intelligenza coi Turchi. Io non mi fermerò punto nel
racconto di queste infelici avventure, perchè nulla spettanti alla
storia d'Italia, e lascerò che i lettori consultino sopra ciò gli
scrittori della guerra santa. Felice all'incontro fu un'altra crociata
di Franzesi e Spagnuoli contra de' Saraceni di Spagna, fatta in
quest'anno. Vi accorsero dall'Italia i Pisani, ma principalmente i
Genovesi[1902] con una poderosissima flotta. Capitatane in quelle parti
anche un'altra che andava in Terra Santa, diede mano a far quelle
conquiste. Presero Lisbona, Baeza ed altre città. La mira di quella
sacra lega soprattutto era la città di Almeria, perchè infame
ricettacolo di corsari. Se crediamo agli Annali di Genova, è dovuta al
popolo genovese la gloria dell'espugnazione di quella città, nel cui
castello rifugiatisi venti mila Saraceni, si riscattarono a forza d'oro.
Ma gli storici spagnuoli[1903] ci assicurano che a quell'impresa
intervennero anche _Alfonso re_ di Spagna, il re di Navarra, ed altri
popoli di quelle contrade e di Francia. Ottone Frisingense scrive che
Almeria e Lisbona erano città _in sericorum pannorum opificio
praenobilissimæ_. In quest'anno ancora il re di Sicilia _Ruggieri_ portò
di nuovo la guerra in Africa contra de' Mori. Abbiamo detto che
nell'anno precedente egli conquistò Tripoli. Forse in quest'anno ciò
avvenne. Nel quale certamente pare ch'egli, continuando le conquiste,
come scrive Noveiro storico arabo citato dal padre Pagi[1904], si
impadronì di Mahadia, chiamata Africa dall'Anonimo Casinense[1905], di
Safaco, di Capsia e d'altre terre in quella costa di Barberia, con
renderle tributarie alla sua corona. Secondo le croniche di Bologna, in
quest'anno[1906] quella città patì un fierissimo incendio nella
settimana santa. Sì nel secolo precedente che nel presente s'ode la
medesima disavventura di altre città, specialmente nella Lombardia;
segno che molte doveano essere le case con tetto coperto di _scindule_,
cioè di assicelle di legno, usate molto una volta, e facili a comunicar
l'una all'altra il fuoco, oltre ad altre case coperte di paglia, siccome
ho dimostrato nelle Antichità italiane.

NOTE:

[1895] Anonymus Casin., tom. 5 Rer. Ital.

[1896] Sugerius, in Vita Ludovici.

[1897] Otto Frisingensis, in Chron, lib. 1, cap. 44 de Gestis Frider.

[1898] Guichenon, Histoire de la Maison de Savoye, tom. 1.

[1899] Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[1900] Otto Frisingens., lib. 1.

[1901] Romualdus Salernit., in Chron., lib. 1.

[1902] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.

[1903] Sandoval., in Vita Alphonsi VII.

[1904] Pagius, ad Annal. Baronii.

[1905] Anonymus Casinensis, in Chron. Hugo Falcandus, Hist.

[1906] Matth. de Griffonibus, tom. 18 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXLVIII. Indiz. XI.

    INNOCENZO III papa 4.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 11.


Nella quaresima di quest'anno tenne papa _Eugenio_ un gran concilio
nella città di Rems[1907], dove furono pubblicati molti canoni spettanti
alla disciplina ecclesiastica, e fu chiamata all'esame la dottrina di
_Guiberto vescovo_ di Poitiers. Dopo il concilio andò il pontefice a
visitar le insigni badie di Cisterzio e di Chiaravalle, e poscia s'inviò
di ritorno in Italia. Si truova egli nel dì 7 di luglio in Cremona, dove
confermò i privilegii della badia di Tolla, e nel dì 15 di luglio in
Brescia, secondochè si ricava da altra sua bolla[1908] e da una sua
lettera scritta al clero romano[1909]. Girolamo Rossi[1910] rapporta un
suo breve, dato in Pisa nel dì 10 di novembre _Indictione XII,
Incarnationis dominicæ MCXLIX, pontificatus domini Eugenii papæ III,
anno quarto_. Qui è l'anno pisano e la nuova Indizione cominciata nel
settembre. Però appartenendo quel documento all'anno presente, in cui
correva l'anno quarto del suo pontificato, vegniamo in cognizione che
esso papa visitò nel viaggio la sua patria Pisa. Un'altra simile bolla
da lui data nella stessa città di Pisa _XIIII kalendas decembris,
Indictione XII, Incarnationis dominicae anno MCXLVIII_, ho io
pubblicato[1911]. Ma dovrebbe essere lo stesso anno in tutte e due.
Nella di lui vita[1912] altro non si legge se non che, terminato il
concilio, _ad urbem suam, et commissum sibi populum, ductore Domino,
incolumis remeavit_. Ma o non entrò, oppure non si fermò in Roma.
L'Anonimo Casinense[1913] scrive ch'egli venne a Viterbo. E da Romoaldo
Salernitano abbiamo che il suo soggiorno fu in Tuscolo ossia Tusculano.
Erano tuttavia sconcertati gli affari fra lui e il popolo romano.
Intanto dopo la perdita d'innumerabil gente il _re Corrado_ imbarcatosi
arrivò nella settimana di Pasqua a Tolemaide, appellata allora Acon.
Altri de' suoi pervennero a Tiro e Sidone[1914]. E _Lodovico re_ di
Francia anch'egli, dopo avere perduta buona parte de' suoi, verso la
metà di quaresima giunse ad Antiochia. Unitisi questi due principi fra
le città di Tiro e di Tolemaide, per tre dì assediarono Damasco, ed
aveano presa la prima cinta delle mura; ma per frode de' principi
cristiani d'Oriente, ossia de' Templari ed Ospitalieri, convenne
ritirarsene[1915]. Fu anche risoluto l'assedio di Ascalona, e vi
stettero sotto parecchi giorni: senza frutto nondimeno, perchè la città
era fortissima, ed entro stava il miglior nerbo de' Saraceni, nè mai
vennero le milizie promesse da Gerusalemme. Però, dopo avere i due
monarchi infelicemente gittato tempo, danaro e gente, senza alcun
profitto della cristianità d'Oriente, troppo discorde, troppo data
all'interesse e ai piaceri, ad altro non più pensarono che a
ritornarsene alle loro contrade. In questa spedizione caduto infermo
_Amedeo conte_ di Morienna, terzo di questo nome presso gli storici
della real casa di Savoia, finì di vivere nell'isola di Cipro. Il
Guichenon[1916] colla sua solita franchezza rapporta la di lui morte
all'anno seguente; ma che questa avvenisse piuttosto nel presente, si
raccoglie da Bernardo di Guidone, là dove scrive[1917]: _Amedeus comes
Marianensis_ (cioè _Maurianensis_) _in Cypro insula obiit_, con
raccontare dipoi gli assedii di Damasco e d'Ascalona, certamente
succeduti in quest'anno. Ad Amedeo succedette nel dominio _Umberto III_
di lui figliuolo. In quest'anno da _Raimondo conte_ di Barcellona tolta
fu ai Mori di Spagna l'importante città di Tortosa; e quantunque sia qui
mancante la storia di Caffaro genovese, pure altronde si sa che i
Genovesi ebbero mano in quella conquista, e ne riportarono per
ricompensa il dominio della terza parte di quella città, oppure il terzo
della preda. Per quanto s'ha dagli antichi Annali di Modena[1918], nel
primo giorno di luglio _tota civitas Mutinae casu combusta fuit_.

NOTE:

[1907] Robert. de Monte. Otto Frisingens et alii.

[1908] Campi, Istoria di Piacenza, tom. 1.

[1909] Baron., Annal. ad hunc annum.

[1910] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.

[1911] Antiquit. Italic., Dissert. LXX.

[1912] Cardin. de Aragon., in Vita Eugenii III.

[1913] Anonymus Cassinens., tom. 5 Rer. Ital.

[1914] Otto Frisingensis, de Gest. Friderici I, lib. 7, cap. 58.

[1915] Bernard. Thesaur., Chron. cap. 26, tom. 7 Rer. Ital.

[1916] Guichenon, Histoire de la Maison de Savoye, tom. 1.

[1917] Bernard. Guidonis, P. I, tom. 3 Rer. Ital., in Vita Eugenii III.

[1918] Annales Veteres Mutin., tom. 9 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXLIX. Indizione XII.

    EUGENIO III papa 5.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 12.


Durando tuttavia le controversie dei Romani con _papa Eugenio_, questi
colla forza cercò di metterli in dovere. Roberto del Monte scrive sotto
il presente anno, che[1919] _papa Eugenius in Italiam regressus, cum
Romanis vario eventu confligit_. Per attestato di Romoaldo
Salernitano[1920], non mancò il _re Ruggieri_, dacchè ebbe inteso
l'arrivo d'esso papa nelle vicinanze di Roma, di spedirgli i suoi
ambasciatori per attestargli il suo ossequio ed offerirgli aiuto. Aveva
già questo pontefice fatta buona massa di combattenti, e guerreggiava
contro i disubbidienti romani. Accettò volentieri il pontefice
l'esibizione del re, che non tardò ad inviargli un corpo di soldatesche.
Ciò che seguisse in tal guerra le storie che abbiamo nol dicono; se non
che l'Anonimo Casinense scrive[1921], che _Eugenius papa Tusculanum
ingressus, fultus auxilio Rogerii regis, Romanos sibi rebelles
expugnat_. Intanto i due re _Corrado_ e _Lodovico_ si misero in viaggio
per tornare dalla Terra Santa alle lor case, portando con esso loro
nulla di gloria e molto di rammarico. Fu anche un gran dire fra i popoli
cristiani dell'infelicità di questa spedizione, perchè tanta gente s'era
mossa di Francia, Germania, Inghilterra, e altri paesi, che pareano
bastanti a subissar tutti gli infedeli di Oriente. Specialmente addosso
a _san Bernardo_ si scatenarono le lingue maldicenti del popolo,
quasichè egli avesse temerariamente mandate al macello tante migliaia di
persone, e si fosse ingannato nelle sue predizioni, con aver promesso
vittorie, che poi si convertirono in soli pianti. Non potè contenersi il
santo abbate dal fare una savia apologia del suo operato, e la fece
ancora per lui Ottone vescovo di Frisinga. Imbarcatosi il re Corrado,
arrivò ne' confini dell'Acaia, e della Tessaglia, dove si trovava
l'imperador _Manuello_ suo cognato, che cortesemente l'accolse[1922]. I
patimenti in addietro fatti, e l'affanno ch'egli seco portava, il fecero
cadere gravemente infermo, e gli convenne per forza prendere ivi riposo
per qualche tempo. Spedì intanto innanzi _Federigo_ iuniore, nipote suo,
acciocchè vegliasse alla quiete dell'imperio, giacchè abbiamo
dall'Urspergense, che il duca _Guelfo_ per la Calabria e Puglia
ritornato in Germania[1923], stette poco a ricominciar la guerra contro
la Baviera. Nel suo passaggio per la Sicilia aveva egli ricevuto, non
solo grandi finezze dal re Ruggieri, ma anche delle grosse somme d'oro,
acciocchè mantenendo il fuoco della guerra in Germania, non restasse
tempo nè voglia al re Corrado di venire in Italia, siccome egli infatti
meditava e dovea anche averne concertata l'esecuzione coll'imperador de'
Greci. Venne poscia Corrado, ristabilito che fu in salute, per
l'Adriatico a Pola e ad Aquileia, e di là passò in Germania.

Il motivo appunto per cui si trovava in Acaia l'augusto Comneno, era per
vendicarsi del re Ruggieri che gli avea occupata l'isola di Corfù, e
dato il sacco a tante altre città e luoghi del suo dominio. Aveva egli,
per testimonianza di Niceta Coniate[1924], fatto venir dall'Asia e da
altri luoghi quante legioni aveva, ordinate nuove leve di soldati,
allestite le vecchie navi, e fabbricatone gran numero di nuove,
dimanierachè compose una formidabil armata di circa mille legni, con
isperanza, non solo di far vendetta, ma di riacquistar anche la Sicilia,
Calabria e Puglia. Chiamò inoltre i Veneziani in aiuto suo, con accordar
loro una bolla d'oro e privilegii maggiori che quei del tempo
addietro[1925]. Era allora doge di Venezia _Pietro Polano_, e questi in
persona con quanto sforzo potè di gente e di navi andò a congiungersi
colla flotta imperiale. Passò dunque con sì potente apparato di guerra
lo stesso Manuello Comneno augusto in persona all'isola di Corfù, e
vigorosamente intraprese l'assedio di quella città, dove si trovava un
gagliardo presidio del re Ruggieri, a cui non mancava coraggio e voglia
di difendersi. Accadde che in questi tempi _Lodovico re_ di Francia
sciolse le vele da Terra Santa per ritornarsene al suo regno. Erano
indrizzate le prore verso la Sicilia, ma portò la disgrazia, che
abbattutosi in parte della flotta greca, la quale andava scorrendo quei
mari, fu fatto prigione. Parve questa ai condottieri d'essa flotta una
bella preda da ricavarne una grossa ranzone, e già erano in viaggio per
condurre e presentare l'infelice re al loro imperadore. Aveva il re
Ruggieri messo in mare sessanta galee ben armate, con ordine di scorrere
contra de' suoi nemici. Ne era ammiraglio Giorgio, appellato da altri
Gregorio, il quale non ardì di andare a cimentarsi colla troppo
superiore armata de' Greci, assediante Corfù, ma veleggiò alla volta di
Costantinopoli, dove attaccò il fuoco a que' borghi, gittò saette (non
già _aureas_, come ha Roberto del Monte[1926], ma _igneas_, come scrive
il Dandolo) contra del palazzo imperiale, ed, entrato per forza ne'
giardini d'esso palazzo, per trofeo ne portò via le frutta. Ora avvenne,
che tornando indietro quella flotta siciliana, s'incontrò nel convoglio
greco che menava prigioniere il re di Francia Lodovico. Venne alle mani
coi Greci, li ruppe, ed ebbe la sorte di rimettere in libertà quel re,
per le cui generose preghiere l'ammiraglio siciliano s'indusse a
rilasciar dalla prigionia molti Greci presi in tal congiuntura. Che gli
storici moderni della Francia vogliano dissimular questa avventura di un
loro re, può passare; ma che si mettano a negarla, non ne so veder
sufficiente ragione, quando abbiamo storici antichi bastevoli ad
assicurarcene. Fu condotto sano e salvo il re franzese forse a Palermo,
come vuole Bernardo Tesoriere[1927], ma certamente in Calabria nella
città di Potenza, dove si trovava il re Ruggieri. Non lasciò indietro il
re siciliano finezza alcuna, per attestare al monarca franzese la sua
benevolenza e il suo ossequio. Gli fece molti regali, e onorevolmente il
fece condurre e scortare per tutti i suoi Stati. Nel dì 5 d'ottobre
arrivò il re Lodovico al monistero di Monte Casino, ricevuto con grande
onore da que' monaci, e vi si fermò per tre dì. Continuato poscia il
viaggio, trovò papa Eugenio in Tuscolo, il quale, secondochè attesta
Romoaldo Salernitano[1928], ricordevole dei favori a lui compartiti in
Francia da esso re, _eum prout decuit, cum reverentia magna et honore
suscepit, dona multa obtulit et in pace ad propria redire permisit_. Nè
si dee tacere che mentre questo re si trovava nella terra di
Ferentino[1929], Gregorio signor di Fumone, andò per fargli riverenza.
Ma colto nel viaggio da papa Eugenio, restò spogliato d'esso castello di
Fumone.

Con tal vigore intanto il greco Augusto continuò l'assedio di
Corfù[1930], che finalmente lo costrinse alla resa, con accordare ai
difensori un'onesta capitolazione. Ma il governatore della città
siciliano, o perchè maggiormente non si difese, come forse potea, o per
altri motivi, temendo l'ira del re Ruggieri, si acconciò coi Greci, nè
volle più riveder la Sicilia. Perchè poscia una fiera tempesta
scompigliò l'armata navale d'essi Greci, con affondar anche non pochi
legni, lo _imperador Manuello_ non credette più tempo di tentar
l'impresa di Sicilia, massimamente accostandosi il verno; e però
sbarcate le genti alla Vallona, attese a scaricare il suo sdegno contro
ai popoli della Servia, che, durante questa guerra, aveano fatte varie
scorrerie ne' paesi del suo imperio. Tuttavia non finì questa guerra,
senza che la flotta de' Veneziani e dei Greci venisse alle mani con
quella del re Ruggieri. Ben calda fu la zuffa, e la peggio toccò ai
Siciliani, che lasciarono diciannove galee in potere de' nemici. Pare
che non s'accordi colle notizie fin qui addotte la Cronologia di Andrea
Dandolo, mentre egli scrive, che Pietro Polano doge di Venezia nell'anno
diciottesimo, del suo ducato, cioè nel 1148 dopo aver messa insieme
l'armata per andare a Corfù infermatosi, dopo aver dato il comando
d'essa flotta a Giovanni suo fratello e a Rinieri suo figliuolo, se ne
tornò a Venezia. Finita l'impresa di Corfù si restituì quella flotta
vittoriosa alla patria, dove trovò già passato all'altra vita il doge,
in cui luogo fu sustituito _Domenico Morosino_, personaggio di gran
bontà e valore, nell'anno stesso 1148. Certo è che nel presente 1149
succedette la guerra e ricuperazion di Corfù. Però converrà intendere
che i preparamenti di tale spedizione si facessero nel precedente anno,
in cui ancora mancò di vita Pietro Polano, trovato poi morto dai
capitani che tornarono da quella felicissima impresa. Abbiamo poi da
Romoaldo Salernitano, che, quantunque il re Ruggieri somministrasse
aiuti a papa Eugenio III, e mandasse più ambasciatori a lui per
istabilir seco una buona pace e concordia, pure nulla potè ottenere. Dio
il visitò ancora con un altro flagello in quest'anno; imperocchè per
attestato dell'Anonimo Casinense, la morte gli rapì il primogenito suo
_Ruggieri_, duca di Puglia, in età di trent'anni, con infinito cordoglio
del re suo padre e di tutti i suoi popoli. _Vir speciosus et miles
strenuus, pius, benignus, misericors, et a suo populo multum dilectus_,
vien chiamato da Romoaldo. Lasciò questo principe dopo di sè due
piccioli figliuoli, a lui procreati fuori di matrimonio da una nobil
dama, figliuola di Roberto conte di Lecce, appellati l'uno _Tancredi_,
che fu poi re di Sicilia, e _Guglielmo_, de' quali si parlerà a suo
tempo. Di cinque legittimi figliuoli, che avea dianzi il re Ruggieri,
non restò in vita se non _Guglielmo_ suo quartogenito. Si può credere
che papa Eugenio non adoperasse in vano la forza contra de'
recalcitranti Romani, al vedere che seguì fra lui ed essi una concordia
accennata dall'Anonimo Casinense con queste parole: _Eugenius papa
pacem_ (ossia _pactum_) _cum Romanis reformans, Romam reversus est._
Anche Romoaldo Salernitano asserisce che questo pontefice, dopo essere
dimorato per qualche tempo in Tuscolo, si compose coi Romani, da' quali,
non meno che da' senatori tutti, fu con sommo onore qual sovrano
accolto. Ma poca sussistenza ebbe una tal pace. Io non so se si possa
riposare sulla fede di Girolamo Rossi[1931], che a quest'anno mette la
guerra fatta dai Bolognesi e Faentini alla città d'Imola collegata coi
Ravennati, con impadronirsi di San Cassiano, e rimettere in piedi il
castello appellato d'Imola. Seguì, secondo quell'autore, una battaglia
fra i popoli di Ravenna e Forlì dall'un canto, e i Faentini dall'altro
con ispargimento di gran sangue da ambedue le parti. Ma nulla di ciò
parlando gli Annali di Bologna, più sicuro è il sospenderne la credenza.
Abbiamo bensì dalle Croniche di Piacenza[1932], Parma e Cremona, che
avendo in quest'anno i Piacentini assediato il castello di Tabiano,
accorsi i Parmigiani e Cremonesi, diedero loro una grande sconfitta, di
modo che la maggior parte di essi Piacentini restò prigioniera. Giovanni
da Bazzano negli Annali di Modena[1933], dopo aver notata la rotta
suddetta de' Piacentini, aggiugne che in quest'anno la terra di
Nonantola fu distrutta dai Modenesi.

NOTE:

[1919] Robertus de Monte, Append. ad Sigebert.

[1920] Rumualdus Salernit., Chron. tom. 7 Rer. Ital.

[1921] Anonym. Casinens., tom. 5 Rer. Ital.

[1922] Otto Frisingens., lib. 1, cap. 59. de Gestis Friderici I.

[1923] Abbas Urspergens., in Chronico.

[1924] Niceta Chonial., Hist. lib. 7.

[1925] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1926] Robertus de Monte. Bernardus Guidonis, et alii.

[1927] Bernard. Thesaurarius, in Chron. Anonymus Casinensis, in Chronic.

[1928] Romualdus Salernit., in Chron. tom. 7 Rer. Ital.

[1929] Johann. de Ceccano, Chron. Fossae novae.

[1930] Niceta, Histor., lib. 7.

[1931] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.

[1932] Annal. Placentini, tom. 16 Rer. Ital.

[1933] Johan. de Bazano, Annal. Mutin., tom. 1, Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCL. Indizione XIII.

    EUGENIO III papa 6.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 13.


Benchè fosse seguita pace fra _papa Eugenio_ e i Romani, pure restando
assai torbidi gli animi, nè desistendo il pontefice dalla voglia di
abbattere la novità del ristabilito senato, fu egli di nuovo forzato a
ritirarsi fuori di Roma, mal contento di quella nobiltà. Abbiamo, ma non
so ben dir se in quest'anno, dall'Anonimo Casinense[1934], che _Eugenius
papa urbe egressus, Campaniae moratus est_; e da quello che poi
soggiugne, assai si comprende che per disgusti egli passò a Terra di
Lavoro. Avea _san Bernardo_ inviato ad esso papa nel precedente anno il
primo libro _de Consideratione_. Gl'inviò nel presente il secondo, e
poscia i tre altri di quella bellissima opera. Prima nondimeno ch'egli
uscisse di Roma, venne a visitarlo _Pietro_, celebre abbate di Clugnì,
il quale attesta in una lettera scritta a san Bernardo[1935], d'aver
ricevuto di grandi onori e segni di benevolenza, non solamente da esso
papa, le cui mirabili e savie maniere va descrivendo, ma anche dal
senato romano, dai vescovi e dai cardinali. Dacchè il re Ruggieri vide
nell'anno addietro tutta la sua prole ridotta in un solo rampollo, cioè
in _Guglielmo_, creato da lui o in questo o in esso precedente anno,
duca di Puglia, per desiderio d'avere altri figliuoli a maggior
sicurezza del suo regno, avea presa per moglie _Sibilla_ sorella di
_Odone II duca_ di Borgogna[1936]; ma questa principessa tolta fu dalla
morte all'anno presente, senza ch'ella desse alcun frutto del suo
matrimonio. Pensando i Piacentini alla vendetta, e alla maniera di
rifarsi del danno e della vergogna lor fatta nell'assedio di Tabiano dai
Cremonesi nell'anno precedente[1937], strinsero oppure confermarono lega
coi Milanesi, con indurli a mettersi in campagna coll'esercito loro
contra d'essi Cremonesi. Così fece il popolo di Milano. In questo mentre
i Piacentini voltarono le lor armi e macchine contra il suddetto
castello di Tabiano, del quale infine s'impadronirono, e tosto lo
spianarono. Ben diverso fu l'esito dell'armata milanese. Venuta alle
mani nel dì cinque di luglio coll'armata cremonese a Castelnuovo, fu
forzata a voltar le spalle con perdita di molta gente e cavalli. Peggio
anche le occorse, perchè restò in mano de' vincitori il carroccio loro.
Era questo allora l'uso delle città più forti d'Italia di uscire in
campagna con questo carroccio istituito, siccome già dicemmo, da
_Eriberto arcivescovo_ di Milano nel secolo precedente. Nè altro esso
era che un carro tirato da due o tre paia di buoi ornati di belle
gualdrappe. V'era nel mezzo piantata un'antenna, tenente in cima la
croce, oppure il Crocefisso colla bandiera sventolante del Comune. Stava
sopra d'essa qualche soldato, e intorno marciava di guardia il nerbo dei
più robusti e valorosi combattenti. A guisa dell'Arca del Signore
condotta in campo dagli Ebrei, era menato questo carro. Al vederlo si
rincorava l'esercito. Guai se cadeva in mano de' nemici: allora tutti a
gambe. Grande impegno era il non perderlo; grandi maneggi si faceano per
ricuperarlo. Circa questi tempi, per attestato del Dandolo[1938],
_Domenico Morosino_ doge di Venezia inviò uno stuolo di cinquanta galee
ben armate sotto il comando di Domenico suo figliuolo e di Marino
Gradenigo contra la città di Pola ed altre dell'Istria, che erano
divenute alloggio di corsari, nè più ubbidivano a Venezia. Riuscì di
mettere al dovere quella città, poi Rovigno, Parenzo, Umago, Emonia
oggidì Città Nuova. Secondo gli Annali Pisani[1939], in quest'anno seguì
battaglia fra i popoli di Pisa e Lucca, colla totale disfatta e gran
mortalità de' Lucchesi. Ma, non parlando di questo fatto gli storici
pisani moderni, non paiono sicure tali notizie; e tanto più che quegli
Annali sono di autore poco esatto. Abbiamo ancora dalla Cronica di Fossa
Nuova[1940], che _papa Eugenio_ nel mese di ottobre andò a Ferentino,
dove consecrò molti arcivescovi e vescovi. Anche Romoaldo
Salernitano[1941] attesta, che _rex Rogerius archiepiscopos et episcopos
terrae suae a papa Eugenio jussit consecrari_. Aggiugne l'autore di essa
Cronica, che la città di Terracina fu presa nel dì 26 di novembre, ma
senza dire da chi. Senza dubbio dal papa, a cui in quelle turbolenze
s'era ribellata, o che era stata alienata dai suoi antecessori, come
chiaramente attesta l'autore della sua Vita nella Raccolta del cardinale
d'Aragona[1942].

NOTE:

[1934] Anonymus Casinensis, in Chron.

[1935] Petrus Cluniacens., lib. 6, Epist. 46.

[1936] Romualdus Salernitan., in Chron.

[1937] Annal. Cremonens., tom 7 Rer. Ital.

[1938] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[1939] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[1940] Johan. de Ceccano, in Chron. Fossae novae.

[1941] Romualdus Salernitanus, in Chron.

[1942] Cardinal. de Aragon., in Vit. Eugenii III.



    Anno di CRISTO MCLI. Indizione XIV.

    EUGENIO III papa 7.
    CORRADO III re di Germania e d'Italia 14.


Verisimilmente in quest'anno il _re Ruggieri_, voglioso pur di supplir
con un nuovo maritaggio alla mancanza di tanti figliuoli a lui rapiti
dalla morte, per testimonianza di Romoaldo Salernitano, _Beatricem
filiam comitis de Reteste in uxorem accepit, de qua filiam habuit, quam
Constantiam appellavit_. La notizia è d'importanza per le cose che
vedremo a suo tempo dopo assaissimi anni, ne' quali questa sua figlia
Costanza cagione fu di grandi mutazioni nella Sicilia. Volendo inoltre
assicurare il regno a _Guglielmo_ suo figliuolo, in quest'anno[1943] il
dichiarò suo collega e re nel mese di maggio, _biennio antequam
moreretur_, dice Romoaldo[1944]; ed essendo morto Ruggieri sul fine di
febbraio del 1154, parrebbe che ciò appartenesse all'anno seguente. Ma
più sotto egli soggiugne, che Guglielmo _cum patre duobus annis et
mensibus decem regnaverat_. Aggiungono gli storici siciliani, che in
questo medesimo anno il re suddetto diede per moglie al figliuolo
Guglielmo _Margherita_ figliuola di _Garzia re_ di Navarra[1945]; e
vogliono che in questo anno se ne celebrassero solennemente le nozze in
Palermo. Probabile è, che nell'anno presente seguisse[1946] la morte di
_Arrigo_, picciolo figliuolo del _re Corrado_; già eletto re di
Germania; e, quantunque sopravvivesse un altro figliuolo d'esso re,
appellato _Federigo_, pure questo accidente aprì la strada a _Federigo_,
figliuolo di suo fratello, per acquistar la corona del regno germanico,
siccome diremo fra poco. Cessò in questi tempi la guerra che il _duca
Guelfo_ avea ricominciata in Germania contra del re Corrado[1947] per
interposizione appunto del medesimo Federigo, nipote di Corrado e d'esso
Guelfo, perchè gli fece assegnare alcune rendite del fisco regale colla
villa di Merdingen, e con ciò l'indusse a vivere quieto. Così lasciò
scritto l'Abate Urspergense, di cui sono ancora le seguenti parole:
_Reatina civitas post longam obsidionem a Rogerio rege Siciliae
destructa est anno Domini MCLI_. Quando non vi sia errore di stampa, la
città di Rieti, non men che Ascoli, dovea essere allora compresa nella
Puglia, signoreggiata da esso re Ruggieri. Scrive ancora Giovanni da
Ceccano[1948], che _papa Eugenio_ nel dì 10 di maggio andò a Castro, e
vi dedicò la chiesa di santa Croce, e nel dì 27 d'ottobre dedicò la
chiesa del monistero di Casemaro, dopo di che tornò a Segna. Per quanto
osservò il cardinal Baronio[1949], circa questi tempi vennero a Roma gli
arcivescovi di Colonia e di Magonza, contra de' quali bolliva un gran
processo, e vennero carichi di danaro, credendosi di comperar la grazia
del papa e della sua corte, come nei tempi addietro succedea, e parea
più facile allora pel bisogno del pontefice, tuttavia involto nella
guerra coi Romani. Ma furono rimandati indietro con tutto il loro
tesoro, _nova res_, dice san Bernardo in iscrivendo ad esso papa[1950].
_Quando hactenus aurum Roma refudit? Et nunc Romanorum consilio id
usurpatum non credimus_. Durando tuttavia la guerra dei Piacentini coi
Parmigiani[1951], dai primi fu preso e distrutto Fornovo. Con gran
concorso di scolari si spiegavano in questi tempi in Bologna le leggi
romane, risuscitate circa il principio di questo secolo. Cadde in
pensiero a _Graziano monaco_ benedettino, toscano di patria, perchè nato
in Chiusi, abitante allora nel monistero di san Felice di Bologna[1952],
di compilare ancora il gius canonico, per metterlo nelle scuole e nelle
mani della gioventù studiosa. Intraprese dunque il suo decreto,
componendolo di canoni, di concilii, lettere di papi (fra le quali non
poche apocrife, perchè provenienti da Isidoro Mercatore) e passi di
santi Padri. Prima di lui più d'una di simili raccolte era stata fatta;
ma questa portò il vanto, e divenne poi celebre ed usata nelle scuole.
Stabilirono in questo anno lega insieme i popoli di Modena e Parma,
promettendo i Parmigiani di assistere agli altri _a loco Rheni usque ad
burgum Florenzolae; et ab Alpibus usque ad flumen Padi_[1953].
Lasciarono ai Reggiani il luogo se voleano entrare in questa lega. Ebbe
con ciò principio la stretta alleanza, continuata dipoi per anni
moltissimi, fra le città di Modena e di Parma.

NOTE:

[1943] Peregrin., in Not. ad Anonym. Casinens.

[1944] Romualdus Salern., in Chron.

[1945] Carusi, P. II, lib. 2, Istor. di Sicilia.

[1946] Otto Frisingens., de Gest. Frider. I, lib. 1, cap. 62.

[1947] Abbas Urspergensis, in Chron.

[1948] Johann. de Ceccano, Chron. Fossae Novae.

[1949] Baron., in Annales Ecclesiast.

[1950] San Bernard. de Consid., lib. 3, cap. 3.

[1951] Annales Placentini, tom. 16 Rer. Ital.

[1952] Ricobaldus, in Pomario.

[1953] Antiquit. Italic., Dissert. LVI.



    Anno di CRISTO MCLII. Indizione XV.

    EUGENIO III papa 8.
    FEDERIGO I re di Germania e d'Italia 1.


Nel dì 9 di giugno dell'anno presente era _papa Eugenio_ in Spagna, come
costa da una sua bolla data in favore di _Richilda badessa_ dell'insigne
monistero di santa Giulia di Brescia, da me data alla luce[1954]. E fin
qui era durata la discordia de' Romani con esso pontefice, il quale per
lo più a motivo di maggior quiete e sicurezza era dimorato fuori di
Roma. San Bernardo scrivendo in questi tempi al medesimo papa il quarto
libro _de Consideratione_, parve che predicesse il fine di questa
briga[1955]: _Quid tam notum saeculis_, dice egli, _quam protervia et
fastus Romanorum? Gens insueta paci, tumultui assueta; gens immitis et
intractabilis usque adhuc, subdi nescia, nisi quum non valet resistere.
En plaga: tibi incumbit cura haec, dissimulare non licet. Ridens me
forsitan, fore incurabilem persuasus. Noli diffidere_. In fatti per
attestato dell'Anonimo Casinense[1956], il cui anno 1151 si dee
intendere per l'anno presente, papa Eugenio, stabilito un accordo coi
Romani, rientrò pacificamente in Roma nel dì 11 d'ottobre. Anche Roberto
del Monte[1957] in quest'anno scrive: _Eugenius papa cum Romanis pace
facta urbem ingreditur, ibique cum eis hoc anno primitus commoratur_.
Giovanni da Ceccano[1958] aggiugne, ch'egli entrò in Roma nel dì 6 di
settembre. Lo stesso abbiamo da Romoaldo Salernitano[1959], il quale
attesta che Eugenio fu con sommo onore ricevuto dai senatori e da tutto
il popolo romano. Poscia con tante limosine e benefizii si guadagnò il
cuore d'esso popolo, che quasi comandava a bacchetta nella maggior parte
della città: _Et nisi esset mors aemula quae illum cito de medio rapuit,
senatores noviter procreatos populi adminiculo usurpata dignitate
privasset_. Era nell'anno addietro cominciata una gran guerra fra i re
dell'Africa. Seppe bene profittarne il _re Ruggieri_[1960]. Inviò egli
colà nel presente anno, se pur non fu nel susseguente, la sua armata
navale, a cui venne fatto d'insignorirsi della città d'Ippona, oggidì
Bona, e di altre terre in quella costa di Barberia. Ch'egli ancora
prendesse Tunisi, lo attesta Roberto del Monte, secondo l'edizione del
padre Dachery nello Spicilegio. Ma è da dolersi perchè la storia non ci
abbia dato un più distinto ragguaglio di tali imprese. Certo è, che
avendo poco prima i Mori Naassamoniti, abitanti verso Fez e Marocco,
strangolato il re loro, s'impadronirono delle due Mauritanie: e poscia
stendendo le conquiste verso Oriente, distrussero il regno de' Zeridi
colla presa della città di Bugia, minacciando con ciò la Sicilia, Puglia
e Calabria. Ma fece vedere a costoro il re Ruggieri che non gli metteano
paura le loro bravate. Abbiamo dagli Annali Piacentini[1961], che in
questo anno il popolo di Piacenza prese a' Parmigiani il castello di
Medesana, e lo distrusse: e perciocchè dovette seguir qualche accordo
fra loro, in cui ebbero i Cremonesi gran mano, affinchè Parma
restituisse i prigioni di Piacenza, in segno di gratitudine i Piacentini
cedettero ad essi Cremonesi Castelnuovo di Bocca d'Adda. Un fiero
incendio devastò tutto Borgo S. Donnino, a riserva della chiesa
maggiore. Maggiori avventure furono quelle della Germania nell'anno
presente. Già si preparava il _re Corrado_ per venire in Italia a
prendere la corona imperiale[1962], risoluto insieme di far guerra al re
Ruggieri in vigor della lega e del concerto fatto coll'imperador de'
Greci suo cognato. S'era egli trasferito a Bamberga con pensiero di
tenere ivi una gran dieta, quando venne a battere alle sue porte
l'inesorabil morte. Mancò egli di vita nel dì 15 di febbraio dell'anno
corrente. Scrive Ottone da Frisinga, essere corsa allora voce, ch'egli
fosse stato aiutato ad uscire del mondo da alcuni medici del re
Ruggieri, che, fingendo d'aver paura di quel re, s'erano rifugiati in
Germania. Erano allora veramente in gran credito i medici della scuola
di Salerno, e consultati da varie parti. Nè già è inverisimile che
l'accorto Ruggieri avesse tentato per questa esecrabil via di liberarsi
da un dichiarato nemico, la cui possanza quella sola era che dava a lui
una fondata apprensione. Tuttavia in simili casi i sospetti e le dicerie
del popolo sono a buon mercato. Allorchè Corrado vide in pericolo la sua
vita, trattò coi principi di chi gli dovesse succedere. Gli restava
bensì un figliuolo per nome _Federigo_, ma di età picciola, nè atta al
governo. Però saggiamente consigliò che eleggessero _Federigo_,
appellato poscia _Barbarossa_ a cagion del colore della sua barba,
figliuolo di _Federigo_ il _Guercio_ duca di Suevia suo fratello; al
quale consegnò le insigne reali, e vivamente raccomandò il tenero suo
figliuolo. Fu data sepoltura al di lui corpo in Bamberga, vicino alla
tomba del santo imperadore Arrigo. Tenutasi poi la gran dieta del regno
nel dì 4 di marzo in Francoforte, quivi restò a comuni voti eletto re ed
imperadore futuro il suddetto Federigo. Degno è di osservazione, che a
tale elezione ebbero parte tutti i principi della Germania, per
attestato di Ottone vescovo di Frisinga, che uno fu di que' principi; il
che fa conoscere quanto sia mal appoggiata l'opinione di chi pensa tanto
prima istituito il collegio de' sette elettori; del che ho parlalo anche
io altrove[1963]. Nè a quella dieta mancarono principi e baroni
italiani. _Non sine quibusdam ex Italia baronibus_, scrive il suddetto
Frisingense. E Amando[1964] segretario del medesimo Federigo racconta,
che _multi illustres heroes ex Lombardia, Tuscia, Januensi, et aliis
Italiae dominiis_, etc. _convenerunt in urbe francofurtensi_, etc., per
eleggere il nuovo re. Più importante ancora è un'altra osservazione
fatta dal medesimo Frisingense[1965], zio dello stesso Federigo, cioè
che il motivo principale per cui convennero i voti di tutti i principi
nella persona di Federigo, fu quello di pacificare ed unire insieme le
due potenti e famose famiglie di Germania, cioè la _ghibellina_ e la
_guelfa_. Della prima era erede e capo lo stesso _Federigo Barbarossa_;
dell'altra il _duca Guelfo VI_, e _Arrigo Leone duca_ di Sassonia, suo
nipote.

Era nato Federigo, siccome ho detto, da Federigo duca di Suevia, e da
_Giuditta_ figliuola d'_Arrigo il Nero_ estense-guelfo, padre del
suddetto Guelfo VI duca: per conseguente veniva ad esser Guelfo zio
materno del re Federigo, e il duca di Sassonia Arrigo Leone suo cugino.
Unendosi dunque in un solo principe il sangue d'amendue le sopraddette
insigni famiglie, si credette che cesserebbe da lì innanzi la nemicizia
ed animosità mantenuta fra loro tanti anni addietro. Ecco le parole del
Frisingense: _Duae in romano orbe apud Galliae Germaniaeve fines famosae
familiae hactenus fuere: una Henricorum de Guibelinga, alia Guelforum de
Altdorfio: altera imperatores, altera magnos duces producere solita.
Istae, ut inter viros magnos, gloriaeque avidos assolet fieri,
frequenter se se invicem aemulantes, reipublicae quietem multotiens
perturbarunt. Nutu vero Dei, ut creditur, paci populi sui in posterum
providentis, sub Henrico V factum est, ut Fridericus dux, pater hujus_
(di Federigo Barbarossa), _qui de altera, idest de regum familia
descenderat, de altera, Henrici scilicet Noricorum ducis filiam in
uxorem acciperet, ex eaque Fridericum, qui in praesentiarum est et
regnat, generaret. Principes ergo non solum industriam, ac saepe dicti
juvenis virtutem, sed etiam hoc, quod utriusque sanguinis consors,
tamquam angularis lapis, utrorumque horum parietum dissidentiam unire
posset, considerantes, caput regni eum constituere adjudicaverunt:
plurimum reipublicae profuturum praecogitantes, si tam gravis et diutina
inter maximos imperii viros, ob privatum emolumentum simultas, hac demum
occasione, Deo cooperante, sopiretur_. Ho voluto rapportar intero questo
passo, perchè esso è la chiave dell'origine delle famose fazioni
ghibellina e guelfa, che recarono ne' secoli susseguenti tanti travagli
e guai all'Italia. A questo lume svaniscono varie favole intorno a tale
origine, spacciate dai poco informati storici, essendo certo che per le
nimistà passate in Germania fra i re ghibellini e la linea dei duchi
estense-guelfa di Germania (le quali poi si rinnovarono, siccome vedremo
a suo tempo) presero piede in Italia queste maledette fazioni. Adunque
il nuovo re Federigo portatosi ad Aquisgrana, nel dì 9 di marzo fu ivi
solennemente coronato, e diede principio al suo governo con ispedire i
suoi legati a papa _Eugenio III_ e a tutta l'Italia, per notificare ad
ognuno la sua elezione, che fu accettata e lodata da tutti. Una delle
principali applicazioni ch'egli ebbe in questi principii, fu quella di
terminare amichevolmente la lite mossa da _Arrigo Leone_ estense-guelfo
duca di Sassonia, che pretendeva il ducato della Baviera, siccome
figliuolo ed erede del _duca Arrigo_ il Superbo, contra del _re Arrigo_
figliuolo di san Leopoldo, che ne era in possesso per concessione del fu
re Corrado III. Ad amendue fu assegnato il termine per addurre le loro
ragioni nel mese d'ottobre in Erbipoli, ossia in Wirtzburg.
Presentaronsi ancora a' piedi del novello re con assai lagrime _Roberto_
già _principe_ di Capoa, _Andrea conte_ di Rupecanina, ed altri signori
della Puglia, spogliati dal re Ruggieri de' loro Stati, chiedendo
giustizia ed aiuto. La determinazione di Federigo fu, che pazientassero
finchè egli calasse in Italia per venire a prendere la corona imperiale:
spedizione che restò fissata per l'anno 1154, e che, siccome vedremo,
diede principio ad infiniti sconcerti e guerre nella misera Italia.
Rapporta il cardinal Baronio[1966] la concordia stabilita in questo anno
fra papa Eugenio e il re Federigo per mezzo de' lor deputati. Federigo
si obbliga di non far pace nè tregua col popolo romano, nè con Ruggieri
re di Sicilia, senza il consentimento di esso Eugenio e de' pontefici
suoi successori, e di conservare e difendere tutte le regalie di san
Pietro; e all'incontro il papa promette di coronarlo imperadore, e di
aiutarlo secondo la giustizia. Ho riferito anch'io un diploma d'esso re
Federigo in conferma de' privilegii de' canonici di Vercelli[1967],
spedito in _Wirtzburg XV kalendas novembris anno Domini MCLII,
Indictione XV_. In quest'anno scrive il Sigonio[1968] che ebbe principio
la guerra fra i Parmigiani e Reggiani. Vennero i primi saccheggiando
fino al fiume Secchia. Accorsero i Reggiani, ma rimasero sconfitti colla
prigionia di molti, che nel dì dell'Assunzion della Vergine furono poi
rilasciati in camiciuola con un bastone in mano e uno scopazzone.
Passarono appresso i vittoriosi Parmigiani nel settembre fino a Borgo
San Donnino, e, presolo, ne fecero un dono alle fiamme. Di questi fatti
non veggo parola nei vecchi autori. Ma il Sigonio forse li prese da
qualche Cronica manoscritta esistente allora, e smarrita oggidì.

NOTE:

[1954] Antiquit. Ital., Dissert. LXX.

[1955] San Bernard., lib. 4, cap. 2 de Consideratione.

[1956] Anonymus Casin., tom. 5 Rer. Ital.

[1957] Robertus de Monte, Append. ad Sigebert.

[1958] Johann. de Ceccano, Chron. Fossae Novae.

[1959] Romualdus Salern., in Chron.

[1960] Anonymus Casinensis. Robertus de Monte.

[1961] Annal. Placentini, tom. 16 Rer. Ital.

[1962] Otto Frisingensis, de Gestis Friderici I, lib. 1, cap. 63.
Dodechinus, in Append.

[1963] Antiquit. Ital., Dissert. III.

[1964] Amand., de prim. Act. Frider.

[1965] Otto Frisingensis, de Gestis Frider., lib. 2, cap. 2.

[1966] Baron., Annal. Ecclesiast., ad hunc annum.

[1967] Antiquit. Ital., Dissert. LXII.

[1968] Sigon., de Regno Ital., lib. 12.



    Anno di CRISTO MCLIII. Indizione I.

    ANASTASIO IV papa 1.
    FEDERIGO I re di Germania e d'Italia 2.


Meritava bene il piissimo ed ottimo pontefice _Eugenio III_ di vivere
più lungamente. Egli s'era già cattivato colle sue liberalità e dolci
maniere il popolo di Roma, di modo che già si trovava in istato di
abolire il senato, onde era venuta tanta turbazione a lui e ai tre suoi
predecessori. Avea fabbricato un palazzo presso san Pietro e un altro a
Segna[1969]; avea ricuperata Terracina, Sezza, Normia e la rocca di
Fumone, alienate un pezzo fa dal dominio di San Pietro. Le sue rare
virtù il facevano venerabile ed ubbidito dappertutto. Ma Iddio il volle
chiamare a sè con immenso dolore di tutto quel clero e popolo.
Succedette la morte sua nel dì 7 di luglio del presente anno, mentre
egli dimorava in Tivoli, e fu il suo sepolcro nella basilica vaticana
onorato da Dio con varie miracolose guarigioni. Da lì a due giorni fu
promosso al pontificato Romano _Corrado vescovo_ di Sabina, romano di
nazione, che prese il nome di _Anastasio IV_. In quest'anno ancora
l'immortal servo del Signore _san Bernardo_, fondatore di tanti
monisteri, andò a ricevere in cielo il frutto delle insigni sue virtù e
gloriose fatiche. Tanto angustiarono in questi tempi i potenti Bolognesi
uniti co' Faentini la città d'Imola, troppo inferiore di forze[1970],
che, dopo una rotta data a quel popolo, il costrinsero ad una
svantaggiosa pace, e a dipendere da lì innanzi dai loro cenni. Scrive
ancora il Sigonio[1971] che i Piacentini uniti ai Cremonesi nel dì 26 di
giugno vennero alle mani coll'esercito de' Parmigiani a Casalecchio, e
restarono sconfitti, e, per la maggior parte presi, furono condotti
nelle carceri di Parma. Onde si abbia egli tratte queste notizie nol so
io dire. Negli antichi Annali di quella città non ne truovo vestigio.
Erano già passati quarantadue anni che la città di Lodi stava sotto il
giogo de' Milanesi, trattata non con quella piacevolezza che si cattiva
il cuor de' sudditi, ma bensì con quell'asprezza che li fa gemere e
sospirar tutto dì mutazion di governo. Accadde che due Lodigiani
(siccome abbiamo da Ottone Morena[1972], storico diligente di questi
tempi, e nativo di quella città), l'uno appellato Albernando Alamano, e
maestro Omobuono, per proprii affari essendo iti alla città di Costanza,
vi si trovarono nel tempo stesso che il nuovo re Federigo tenne ivi un
parlamento. Osservato che molti sì ricchi che poveri ricorrevano ad esso
per giustizia, e la ottenevano, saltò loro in pensiero di fare un passo
forte, senza averne commissione e facoltà alcuna dalla loro città. Cioè
prese in ispalla oppure in mano due grosse croci di legno (che tale era
allora l'uso in Italia di chi aggravato portava le sue querele al trono
de' principi), andarono a gittarsi a' piedi di Federigo nel dì 4 di
marzo dell'anno presente, chiedendo con assai lagrime misericordia e
giustizia contra de' Milanesi, come tiranni della lor patria Lodi, ed
esponendo ad uno ad uno tutti gli aspri trattamenti che avea patito e
tuttavia pativa questa infelice città.

Fra le rare doti che si univano in Federigo, principe di grande
accortezza e mente, di petto forte e di valore impareggiabile, non era
l'ultima l'amore della giustizia, ma inflessibile e congiunto, siccome
vedremo, con tal severità, che andava al barbarico. Appena ebbe intese
tali doglianze, che ordinò tosto al suo cancelliere di scrivere lettera
vigorosa ai consoli e al popolo di Milano in favore e sollievo della
città di Lodi, e deputò a portarla un uomo di sua corte appellato
Sicherio. Tornati i due buoni Lodigiani a Lodi, notificarono ai consoli
e al consiglio della Credenza di quella città quanto aveano operato.
Siccome altrove ho io dimostrato, il consiglio della Credenza, nelle
città libere d'Italia, non era composto della sola plebe, come ha
creduto taluno. V'entravano anche i nobili, qualora aveano parte nel
governo. Altro in somma non era che il consiglio segreto, a cui chi
interveniva, prestava giuramento di non rivelar quello che ivi si
trattava. In gran pena furono que' cittadini per tal novità, temendo, e
con ragione, il risentimento e furore de' Milanesi; però in vece di
ringraziamenti caricarono di villanie que' due semplici cittadini, e
serrarono loro in petto queste novelle. Venne Sicherio a Lodi,
credendosi di portar via grosso regalo; ma i consoli di Lodi, riprovando
l'operato de' due lor cittadini, non altro fecero che scongiurarlo di
tornarsene indietro senza presentar la lettera del re ai Milanesi. Ma
egli arditamente ito a Milano, sfoderò gli ordini del re, ricevuti con
sì mal garbo da que' consoli e dal loro consiglio, che dopo aver gittata
in terra e pestata coi piedi la lettera, si avventarono addosso a
Sicherio, ch'ebbe fatica a salvarsi; però se ne tornò egli assai brutto
in Germania, ed espose al re e a' suoi baroni il grave affronto fattogli
e il pericolo da lui corso. Sommo fu lo sdegno di Federigo e dei suoi
principi, e se la legò al dito, per farne vendetta a suo tempo. Crebbe
indicibilmente lo spavento ne' Lodigiani. Di dì in dì si aspettavano
l'ultimo esterminio, minacciato loro da' Milanesi; e per isperanza di
schivarlo, segretamente inviarono al re Federigo una chiave tutta d'oro
per mezzo di _Guglielmo marchese_ di Monferrato, raccomandandosi
caldamente alla di lui protezione. Tornati in sè i Milanesi, per placare
la collera del re, anch'essi gli mandarono una coppa d'oro piena di
danaro, che non fu punto accettata da Federigo. Nello stesso tempo
comparvero alla corte gli ambasciatori di Cremona e di Pavia con ricchi
regali, e insieme con ordine d'esporre in segreto colloquio al re la
superbia de' Milanesi, siccome quelli che erano dietro ad ingoiar tutti
i loro vicini, e di far premure in favore dell'oppressa città di Lodi; e
fu ben eseguita la commessione. Niega il padre Pagi la spedizione di
questi ambasciatori, e la niega a torto. Ottone Morena ce ne assicura.
Nè sussiste, come vuol esso Pagi, che i popoli di Puglia inviassero
ambascerie a Federigo. Le doglianze furono fatte, come ho detto, da que'
baroni cacciati dal re Ruggieri, che si trovavano in Germania.

O nel fine di quest'anno, o sul principio del seguente, non volendo il
re Federigo che restasse un seminario di guerra in Germania, col
lasciare indecisa la lite insorta fra _Arrigo Leone_ duca di Sassonia ed
_Arrigo_ duca di Baviera, a cagion della stessa Baviera[1973],
finalmente diede la sentenza, con aggiudicar quel ducato insigne al
suddetto Arrigo Leone, goduto da' suoi maggiori per tanti anni addietro.
Si venne poi nell'anno 1156 ad una transazione, per cui restò in dominio
dell'altro Arrigo, col titolo di duca, la provincia dell'Austria, oggidì
arciducato, che era in addietro parte della Baviera. Oltre a ciò, aveva
esso Federigo data già, oppur diede allora al _duca Guelfo_, zio paterno
dello stesso duca Arrigo Leone, e materno d'esso re Federigo[1974],
l'investitura della _marca di Toscana_, del _ducato di Spoleti_, del
_principato di Sardegna_, e de' _beni allodiali della fu celebre
contessa Matilda_. Che _Volderico_, dianzi marchese di Toscana, cessasse
di godere di quella dignità, si raccoglie da una sua magnifica donazione
fatta alla chiesa d'Aquileia nell'anno 1170, che io ho dato alla luce
nelle Antichità italiane[1975]. Sicchè possedendo la linea degli Estensi
di Germania tali Stati in Italia, e in Germania i vasti e nobilissimi
ducati della Sassonia e Baviera con Luneburgo e Brunsvich, anche oggidì
esistenti sotto il loro dominio; e signoreggiando l'altra linea de'
marchesi estensi una fioritissima porzione di Stati, massimamente nella
marca trivisana: la potenza del sangue estense arrivò al sommo in questo
tempi. Confermò papa _Anastasio IV_ nell'anno presente i privilegii a
_Pacifico abbate_ del monistero di Brescello, fondato da Azzo conte o
marchese bisavolo della suddetta Matilda, con bolla data[1976] _Laterani
V idus decembris, Indictione II, Incarnationis dominicae anno MCLIII,
pontificatus vero domni Anastasii quarti papae anno primo_.

NOTE:

[1969] Cardinal. de Arag., in Vit. Eugenii III.

[1970] Matth. de Griffonibus, Histor. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.

[1971] Sigon., de Regno Ital., lib. 12.

[1972] Otto Morena, Hist., tom. 6 Rer. Ital.

[1973] Otto Frisingens., de Gest. Friderici I, lib. 2, cap. II.

[1974] Chron. Weingart apud Lebnitium Scriptor Brunsvich.

[1975] Antiquit. Ital., tom. 3, pag. 1221.

[1976] Antiquit. Ital., Dissert. LXX.



    Anno di CRISTO MCLIV. Indizione II.

    ADRIANO IV papa 1.
    FEDERIGO I re di Germania e d'Italia 3.


Fu questo l'ultimo anno della vita di _Ruggieri_, primo re di Sicilia,
rapito dalla morte, secondo Romoaldo Salernitano[1977], nel dì 26 di
febbraio in età di cinquantotto anni: principe glorioso per tante
imprese, di statura alta, corpulento, con faccia leonina, saggio,
provvido, accorto, più inclinato a raccogliere che a spendere il danaro,
fiero in pubblico, benigno in privato, verso chi era fedele liberale in
premiarli, aspro sino ad essere crudele contra chi gli mancava di fede.
Era più temuto che amato dai suoi sudditi; e più ancora dei sudditi
aveano paura di lui, perchè lo avean provato, i Greci e Saraceni. Altre
sue lodi si possono raccogliere da Ugo Falcando nel principio della sua
Storia[1978]. A lui si dee principalmente la fondazione dei due bei
regni di Sicilia e di Napoli. Veramente è corso anche a me qualche
sospetto che nel precedente anno potesse egli essere mancato di vita.
Nel testo di Romoaldo la di lui morte è riferita all'anno 1152,
nell'indizione I. Certamente l'anno è fallato, perchè la prima indizione
correva solamente nel febbraio del 1153; al che non badò il cardinal
Baronio[1979]. Ma, per quel che dirò, e l'anno e l'indizione sono ivi
scorretti. Oltre a ciò, nella lettera di Corrado Domenicano[1980]
intorno alle cose di Sicilia, e nella Cronica di Roberto del
Monte[1981], Ruggieri si fa morto nell'anno 1153. Quel che è più, Ottone
Frisingense, scrittore contemporaneo, ed informato degli affari
d'allora, scrive che il _re Federigo_ nel mese di settembre spedì
ambasciatori a _Manuello imperador_ de' Greci, non solamente per
trattare del suo maritaggio, ma ancora[1982] _pro Guilielmo Siculo, qui
patri suo Rogerio noviter defuncto successerat, utriusque imperii
invasore debellando_. Tale spedizione, secondo il contesto di quella
narrativa, appartiene all'anno 1153. Eppure con più fondamento si dee
riferire all'anno presente la morte di Ruggieri, siccome portò opinione
Camillo Pellegrino[1983], uno de' più accurati critici dell'Italia,
opinione confermata dipoi dal padre Pagi[1984], perchè in essa
convengono l'Anonimo Casinense e Ridolfo da Diceto; e il Pellegrino,
attesta ciò ricavarsi dagli strumenti e diplomi d'allora. Aggiungo io
che nella Cronichetta del monistero della Cava, da me data alla
luce[1985], si legge _anno 1154, Indictione II, obiit Rogerius rex, et
Guilielmus filius ejus substituitur_. Altrettanto ha Bernardo di Guidone
nella Vita di Atanasio IV[1986]. Quel poi che può decidere tal
controversia, si è uno strumento, rapportato da Rocco Pirro[1987], e
scritto _anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi MCLIV, regnante
domino nostro Willelmo, Dei gratia sanctissimo et gloriosissimo rege
Siciliae, Apuliae et Capuae, principatus anno I, mense vero II post
obitum beatissimi Rogerii patris sui, mense aprili, Indictione II_. Dopo
il qual documento non dovrebbe più restar controversia intorno a questo
punto. Al re Ruggieri succedette _Guglielmo I_ suo figliuolo, già
dichiarato re, ma non erede delle virtù del padre, che diede principio
con qualche lode e plauso al suo governo, ma nel progresso di male in
peggio andando, si acquistò co' suoi difetti e vizii il soprannome di
_Cattivo_. Si fece egli coronare in Palermo nella Pasqua dell'anno
presente, e non approvando egli i saggi ministri lasciati a lui da suo
padre, parte ne licenziò, e parte ne bandì o cacciò in prigione.

Leggesi da una bolla di papa _Anastasio IV_, da me data alla luce[1988],
in favore della badia della Pomposa, che si dice data _Laterani XIV
kalendas aprilis, Indictione II, Incarnationis dominicae anno MCLIII,
pontificatus vero domni Anastasii papae quarti primo_. Quando per
avventura non fosse qui adoperato l'anno fiorentino e veneto, si dee
scrivere _anno MCLIV_. Un'altra bolla, spedita _VIII kalendas maii_,
vien riferita da Campi[1989]. Continuò questo pontefice la sua vita fino
al dì 2 di dicembre dell'anno presente, in cui Dio il chiamò a sè.
Succedette a lui nella cattedra pontificia _Niccolò_, nato in
Inghilterra nel castello di Santo Albano già canonico regolare in san
Rufo d'Arles, poi _vescovo di Albano_, che, spedito in Norvegia,
confermò nella fede di Gesù Cristo quella barbara nazione, eletto nel dì
3 d'esso dicembre, benchè renitente, da' voti concordi di tutto il sacro
collegio[1990]. Assunse egli il nome di _Adriano IV_, personaggio di
esemplarissima vita, di sublime intendimento e fermezza d'animo, tardo
alla collera, veloce al perdono, e gran limosiniere. Sotto il
pontificato di Eugenio III e d'Anastasio IV era sempre dimorato in Roma
l'eretico Arnaldo da Brescia, protetto e sostenuto da alcuni perversi
potenti, e massimamente dai senatori contro il divieto de' papi. Non
cessava costui di seminare il suo veleno, e benchè scomunicato e,
bandito dal novello papa Adriano, non solo si rideva delle censure, ma
pubblicamente inveiva contra di lui. Avvenne che il cardinale di santa
Podenzana, nell'andare a palazzo, fu insultato da uno di quegli eretici
e ferito a morte. Adriano per tali eccessi sottopose all'interdetto
tutta Roma, e quivi cessarono i divini uffizii: gastigo non mai per
l'addietro provato da quell'augusta città[1991]. All'avviso
dell'assunzione di papa Adriano, non tardò il _re_ di Sicilia
_Guglielmo_ ad inviargli ambasciatori per attestargli il suo ossequio, e
insieme per trattar di pace. Ma ritrovarono ben lontano da questa il
nuovo pontefice, che colla venuta del re Federigo sperava di meglio
acconciare gl'interessi della Chiesa romana ne' principati di Puglia e
di Capoa. Intanto i Milanesi, informati de' mali uffizii fatti contra di
loro dal popolo di Pavia, con incitare lo sdegno del re Federigo ai lor
danni[1992], marciarono coll'esercito per farne vendetta. Galvano Fiamma
scrive[1993], che _expulsis Laudensibus et Cremonensibus, super Papiam
equitaverunt de mense augusti, eosque in admirabilem servitutem
redegerunt_. Ma questo autore, fecondo di favole nel raccontar le
avventure di questi tempi, troppo dice con quelle parole. Non altro gli
autori contemporanei scrivono, se non che ne seguì un gran guasto[1994].
Coi Milanesi andarono in oste i Comaschi, Lodigiani e Cremaschi, nè
v'era memoria di un sì grande esercito come fu questo. Nel dì 11
d'agosto a Lardiraga sopra il fiume Olona vennero alle mani coi Pavesi;
e nella battaglia, che durò dubbiosa fino al tramontar del sole, furono
molti gli uccisi, molti i prigioni dall'una parte e dall'altra. Ma nel
giorno seguente i Milanesi, che s'erano accampati, furono per un
accidente presi da un sì panico terrore, che se ne tornarono alle lor
case, lasciando indietro un ricco bottino d'armi, tende ed arnesi.

Durante questa guerra calò per la valle di Trento in Italia il _re
Federigo_ nel mese di ottobre, coll'accompagnamento conveniente al suo
grado, cioè con un fioritissimo esercito. Seco fra gli altri era _Arrigo
IV_ guelfo estense, soprannominato il lione, duca di Sassonia e Baviera,
il qual, per attestato di Ottone Morena, _in Lombardiam cum ipso rege
fere non cum minori copia equitum, quam ipse rex, venerat_. S'attendò il
re presso il lago di Garda, per ivi aspettar tutta la sua gente, e nel
dì seguente giunse ad accamparsi nei prati di Roncaglia sul Piacentino.
Era il costume, che venendo in Italia il re, ossia l'imperadore, andava
a posar colà, e vi si dava la revista di tutti i vassalli, cioè
feudatarii, sì di quei di Germania che degl'Italiani, obbligati cadauno
a concorrere colà per riconoscere il sovrano. Chi mancava senza licenza
del re perdeva i suoi feudi. Li perderono appunto in tal congiuntura i
vescovi di Brema e di Alberstad, ma solamente lor vita durante, perchè
si toglievano alle persone, e non alle chiese. Non si dee qui
tralasciare il ritratto che fece allora dell'Italia _Ottone vescovo_ di
Frisinga[1995], zio dello stesso Federigo. Confessa che i popoli nulla
più riteneano de' barbarici costumi degli antichi Longobardi, e ne' loro
costumi e linguaggio compariva molto della pulizia e leggiadria de'
vecchi Romani. Talmente si piccavano della libertà, che non voleano
esser governati da un solo, eleggendo piuttosto i consoli, scelti dai
tre ordini, cioè dai capitani, valvassori e plebe, affinchè niuno d'essi
ordini soperchiasse l'altro. Uso era ancora di mutar ogni anno questi
consoli. E per maggiormente popolar le città, costrignevano tutti i
nobili e signorotti abitanti nelle loro diocesi, ancorchè feudatarii
liberi dal lor dominio, di suggettarsi alle città, e di venire ad
abitarvi. Ammettevano ancora alla milizia e ai pubblici ufizi gli
artigiani più meccanici e vili: il che strano pareva al suddetto Ottone,
perchè in Germania non si praticava così, confessando nulladimeno che in
tal maniera le città d'Italia in ricchezze e potenza avanzavano tutte
l'altre fuori d'Italia. Ma un sì felice stato veniva accompagnato anche
dalla superbia e dal pessimo costume di portar poco rispetto al re,
vedendolo mal volentieri venire in Italia, e spesso non ubbidendolo, se
i di lui comandamenti non erano assistiti dalla forza di un buon
esercito. Ma sopra gli altri si facea distinguere l'alterigia del popolo
di Milano, che teneva il primato fra queste città, sì per la sua forza e
per la copia di uomini bellicosi, come ancora per aver sottoposte al suo
dominio le città di Como e di Lodi. Fermossi il re Federigo per cinque o
sei giorni in Roncaglia, dove comparvero i consoli di quasi tutte le
città a dir le loro ragioni, e tutti a giurargli fedeltà. V'intervenne
_Guglielmo marchese_ di Monferrato, signor nobile e grande, e quasi
l'unico che si fosse salvato dall'imperio delle città, il quale portò
querele contra de' popoli d'Asti e del Cairo. Altrettanto fece degli
Astigiani il loro vescovo. Ma più lamentevoli furono le doglianze dei
Comaschi e Lodigiani contra de' Milanesi, benchè presenti fossero i
consoli stessi di Milano, cioè Oberto dall'Orto e Gherardo Negro. Colà
ancora vennero i legati di Genova a venerare il sovrano, a cui
presentarono lioni, struzzoli, pappagalli ed altri preziosi regali di
Levante. Racconta Caffaro ne' suoi Annali (era egli uno degli
ambasciatori) che Federigo[1996] fece loro molto onore e confidenza
degli affari del regno, con promesse di onorar sopra l'altre città
quella di Genova. Meditava già questo principe di far guerra a
_Guglielmo re_ di Sicilia; e però tante carezze dovette fare ai
Genovesi, per valersi della lor flotta in quella occorrenza. Non
mancarono, come ho detto, i Milanesi d'inviare due de' loro consoli a
Roncaglia[1997], per attestare la lor fedeltà a Federigo, con cui ancora
s'accordarono di pagargli quattro mila marche d'argento, e di restituire
i prigioni ai Pavesi. Ma durò ben poco questo sereno. Volendo Federigo
marciare alla volta del Piemonte, prese per condottieri i consoli di
Milano, che il menarono per luoghi disabitati, dove non si trovarono
tappe, nè mercato per comperarne. I due storici Ottoni credono ciò fatto
per frode de' Milanesi, e che di qui avesse principio lo scoppio
dell'ira di Federigo contro d'essi. Ma Sire Raul pretende che Federigo
cercasse col fuscellino i pretesti di prenderla contro il popolo di
Milano, perchè pensò la di lui politica che se metteva al basso i
Milanesi, gli altri popoli tutti avrebbono chinata la testa. Dovette
essere un accidente quel cammino per paese desertato dalle guerre
precedenti. E che non venisse da cabala de' Milanesi, lo fecero essi
conoscere, perchè saputa l'ira di Federigo, andarono tosto a dirupar la
casa di Gherardo Negro, l'uno di que' consoli, per cui balordaggine si
può credere che succedesse quell'inconveniente.

Comunque sia, Federigo incominciò le ostilità contro Milano. Arrivato a
Landriano, fece restituire a Pavia i suoi prigioni; ma i milanesi
prigioni fece legarli alle code de' cavalli, alcuni de' quali si
sottrassero poi colla fuga, ed altri si riscattarono con danaro. Arrivò
alla terra di Rosate, dove erano di presidio cinquecento cavalli
milanesi; e volendovi entrar per forza i Tedeschi affamati, venne ordine
da Milano a quella guarnigione e a tutti gli abitanti di uscirne.
Entrativi poscia i Tedeschi, dopo il sacco bruciarono tutta la terra.
Passò il Ticino su quel di Novara, e bruciò i ponti che vi aveano fatto
fabbricare i Milanesi. Mentre era in Biagrasso, comparvero i deputati di
Milano per pagare le quattro mila marche accordate; ma Federigo le
rifiutò e strapazzò i messi, con trattare il lor popolo da gente di mala
fede ed ingannatrice. Aggiunse di più, che non isperassero da lui
accordo alcuno, finchè non avessero rimesse in libertà le città di Como
e di Lodi. E per conto di Lodi, aveva egli già inviato un suo cappellano
colà per farsi giurare fedeltà. Risposero que' cittadini di non poter
farlo senza il beneplacito di Milano, a cui erano sudditi. Spedirono
poscia colà a chiederne licenza, e questa non fu negata dai Milanesi.
Continuò il suo viaggio Federigo con distruggere da' fondamenti tre
terre di giurisdizion di Milano, cioè Galliate, che era
dell'arcivescovo, Trecate e Mumma. Sire Raul scrive: _Castra et villas
de Monti, et Trecate_. Trovasi nondimeno presso di lui _turris de
Mommo_. In que' contorni celebrò Federigo la festa del Natale con grande
allegria, mentre gl'innocenti abitatori di quelle terre piagneano,
detestando la di lui crudeltà. Era col re Federigo calato in Italia
anche il _duca Guelfo_, e sappiamo dalla Cronica di Weingart[1998] che
vennero a trovarlo _legati de omnibus civitatibus Tusciae, necnon ex
omnibus civitatibus Spoleti, munera condigna offerentes, et subjectionem
voluntariam promittentes_. Prese egli anche possesso di tutte le
castella e beni della fu contessa Matilda, nè apparisce che il pontefice
ne facesse alcuna querela[1999]. Vennero in quest'anno i Mori mossamuti
al castello di Pozzuolo, e gli diedero il sacco; ma ne pagarono la pena,
perchè accorsa la flotta del _re Guglielmo_, ne prese molti, e sterminò
il resto colle spade. Chiuderò le presenti notizie con una spettante
alla casa d'Este. Per l'eredità del comune stipite, cioè del marchese
_Alberto Azzo II_, erano state fin qui liti ed anche guerra[2000], di
cui fa menzione la Cronica di Weingart, fra gli Estensi di Germania
duchi di Baviera e Sassonia, e gli Estensi d'Italia marchesi. Per
terminar sì fatte differenze, _Arrigo il Leone_ duca di Sassonia, venuto
in quest'anno col re Federigo in Italia, trovandosi sul Veronese nella
villa di Povegliano nel dì 27 di ottobre, concedette a titolo di feudo
tutte le sue ragioni sopra Este, Soresino, Arquada e Merendola ai
marchesi _Bonifazio, Folco II, Alberto_ ed _Obizzo_, dall'ultimo de'
quali discende la serenissima casa d'Este, che già ne erano in possesso,
facendo lor fine di tutte le offese fatte da essi e dai lor maggiori
alla linea de' duchi. Con questa concordia i marchesi tennero da lì
innanzi pacificamente quegli Stati. Di Rovigo e d'altri Stati, ch'essi
parimente godeano, non si vede parola in questo accordo. Il medesimo
accordo fecero dipoi i marchesi con _Guelfo duca_ di Spoleti e marchese
della Toscana nell'anno 1160.

NOTE:

[1977] Romualdus Salernit., in Chronic., tom. 7 Rer. Ital.

[1978] Hugo Falcandus, in Histor.

[1979] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[1980] Conradi Epist., P. II, tom. 1 Rer. Ital.

[1981] Robert. de Monte, Append. ad Sigebert.

[1982] Otto Frisingens., de Gestis Frider. I, lib. 2, cap. II.

[1983] Peregrinius, in Notis ad Anonym. Casin.

[1984] Pagius, in Critic. ad Annal. Baron.

[1985] Chron. Cavense, tom. 7 Rer. Ital.

[1986] Bernardus Guidonis, in Vit. Anastasii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[1987] Pirrus, Sicil. Sacr., in Episcop. Syracus.

[1988] Antiquit. Italic., Dissert. LXV.

[1989] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 2.

[1990] Cardin. de Aragon., in Vit. Adriani IV, P. I, tom. 3 Rer. Italic.

[1991] Romualdus Salernit., in Chron.

[1992] Sire Raul, Histor., tom. 6 Rer. Ital.

[1993] Gualvanus Flamma, Manip. Flor., tom. 11 Rer. Italic.

[1994] Otto Morena, Hist. Laudens., tom. 6 Rer. Italic.

[1995] Otto Frisingensis, de Gest. Frideric. I, lib. 2, cap. 13.

[1996] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Ital.

[1997] Otto Morena, Hist. Laud. Otto Frising., de Gest. Frider.

[1998] Chron. Weingart., apud Leibnitium, tom. 1 Scriptorum Brunsvic.

[1999] Robert. de Monte, Append. ad Sigebert.

[2000] Antichità Estensi, p. I, cap. 39.



    Anno di CRISTO MCLV. Indizione III.

    ADRIANO IV papa 2.
    FEDERIGO I re 4, imperad. 1.


Verso la quaresima venne _Guglielmo re_ di Sicilia a Salerno: il che
pervenuto a notizia di _papa Adriano_, gli spedì _Arrigo cardinale_ de'
santi Nereo ed Achilleo per affari che noi non sappiamo[2001]. Perchè
nella lettera a lui scritta non gli diede il papa il titolo di re, ma
quello solamente di signor della Sicilia, se l'ebbe tanto a male, che
rimandò il legato senza voler trattare con lui: cosa che turbò forte la
corte romana. Nè contento di ciò, prima di tornarsene in Sicilia, diede
ordine ad Asclintino o Anscotino suo cancelliere, dichiarato governator
della Puglia, di muovere guerra allo Stato ecclesiastico. Portossi
costui all'assedio di Benevento, e ne devastò i contorni. Trovaronsi ben
animati alla difesa que' cittadini, anzi avendo presa diffidenza di
_Pietro_ loro _arcivescovo_, l'uccisero. Fu questo assedio un suono di
tromba che eccitò alla ribellione molti de' baroni di Puglia, o perchè
gente facile alla rivolta, o perchè sotto mano commossi dalla corte di
Roma. Alcuni d'essi accorsero alla difesa di Benevento, altri
abbandonarono l'armata del re: il che fece sciogliere quell'assedio.
Entrò poscia[2002] il cancelliere nella Campania romana; diede alle
fiamme Ceperano, Babuco, Todi e i luoghi vicini; e, nel tornare
indietro, fece smantellar le mura d'Aquino, di Pontecorvo e d'altre
terre, e cacciò via tutti i monaci, a riserva di dodici. Per queste
ostilità papa Adriano fulminò la scomunica contra del re
Guglielmo[2003]: il che maggiormente servì ad accrescere la ribellion
de' baroni di Puglia. Per le istanze del clero i Romani fecero istanza
che si levasse l'interdetto da Roma, promettendo di cacciarne Arnaldo da
Brescia. Tornò dunque il papa in Roma, e andò ad abitare al palazzo
lateranense. Sul principio di quest'anno marciò il _re Federigo_
coll'esercito suo a Vercelli e a Torino[2004], senza che resti memoria
di quanto egli ivi operasse. Passato il Po verso quelle parti, venne
alla volta della grossa terra del Cairo e della città d'Asti. Sempre era
seco _Guglielmo marchese_ del Monferrato, con inculcar le sue doglianze
contra que' popoli per torti a lui fatti. E perciocchè questi non aveano
ubbidito ai precetti lor fatti dal re, furono posti al bando come
ribelli. Arrivato Federigo al Cairo, trovollo voto di abitatori, ma
pieno di vettovaglie. Dopo varii giorni di posata in quel luogo, fece
atterrarne le torri, che non erano poche, e tutta la terra diede in
preda al fuoco. Eransi anche ritirati gli Astigiani coi lor nobili ad un
forte loro castello, creduto _Novi_ dall'Osio, e _Anone_ dal signor
Sassi[2005]. Diede Federigo quella città al marchese di Monferrato, che
ne fece smantellar molte torri e una parte delle mura. Aggiungono gli
Annali di Asti[2006] che quasi tutta quella città fu consegnata alle
fiamme. Non cessavano intanto i Pavesi d'incitar Federigo contro la
città di Tortona[2007], allegando varii aggravi ricevuti da que'
cittadini. Era nondimeno il reato principale de' Tortonesi l'aver eglino
lega coi Milanesi, dai quali ancora animati alla difesa ed anche
sovvenuti, benchè Federigo li citasse a comparire, non vennero. Egli
dunque intraprese l'assedio di quella città nei primi giorni di
quaresima, nel dì 13 di febbraio dell'anno presente. Seco era _Arrigo_
estense-guelfo duca di Baviera e Sassonia, che aveva condotto in sua
parte un grosso nerbo di cavalleria; e a quella impresa concorsero
ancora colla lor gente i Pavesi e Guglielmo marchese di Monferrato.
Elegantemente si vede descritto da Ottone vescovo di Frisinga questo
lungo assedio sostenuto con vigore da quel popolo, a cui si era unito
anche in tale congiuntura _Obizzo Malaspina_ marchese, potente signore
in quelle parti e in Lunigiana. I mangani e le petriere, gli archi, le
balestre e le mine furono in un continuo esercizio; ma con tutto lo
sforzo dei nemici non sarebbe caduta quella forte città, se la penuria
dell'acqua e del pane non l'avesse finalmente astretta a capitolare.
Federigo, ansioso di non perdere più tempo, perchè gli premeva forte il
viaggio di Roma affine di ricevere la corona imperiale, accordò a tutti
gli abitanti l'uscita libera con quanto poteano portar seco. Entrò egli
dipoi coll'esercito nell'abbandonata città circa il dì 4 d'aprile (Sire
Raul[2008] scrive nel dì 18 di quel mese), la quale, dopo un sacco
generale, tutta fu data in preda alle fiamme. Se vogliam credere ad esso
Sire Raul, avea promesso Federigo di lasciarla intatta nel suo stato; ma
non fu mantenuta la parola, perchè prima i Pavesi aveano sborsata gran
somma di danaro con patto della distruzion della medesima, se cadeva
nelle mani del re. _Bruno abbate_ di Chiaravalle di Bagnolo, che avea
trattata la resa con quella promessa, veggendosi burlato, fama fu che
pel dolore da lì a tre giorni mancasse di vita. Lasciarono i Pavesi un
corpo di lor gente, che altro per otto giorni non fece che rovinar dai
fondamenti le case non affatto atterrate dal fuoco.

Nel dì 17 di aprile, giorno di domenica, Federigo invitato da' Pavesi
alla lor città, quivi, per attestato di Ottone Frisingense[2009], _in
ecclesia sancti Michælis, ubi antiquum regum longobardorum palatium
fuit, cum multo civium tripudio coronatur_. Galvano Flamma, Buonincontro
Morigia, ed altri scrittori milanesi lasciarono scritto che Federigo fu
coronato in santo Ambrosio di Milano, oppure in Monza, chi dice
nell'anno 1154, e chi nel presente 1155. Senza esaminar meglio questa
loro opinione, anche io la riferii nel mio trattato _de corona
ferrea_[2010] stampato nell'anno 1698. Ora conosco essere una frottola
di questi storici. La nimicizia insorta fra lui e i Milanesi non gli
permise di visitar Milano o Monza, e molto meno di ricevere la corona
del ferro dalle mani di _Uberto arcivescovo_. Anzi, siccome osservò il
Sigonio[2011], e dopo lui il signor Sassi[2012], neppur si dee credere
che seguisse la coronazione ed unzione di lui in Pavia. Il _coronatur_
del Frisingense unicamente vuol dire ch'egli nella basilica di san
Michele si fece vedere colla corona in capo e lo scettro in mano. Venne
Federigo a Piacenza, città, che dopo avere nel dì 26 d'aprile ricevuto
il soccorso della cavalleria e fanteria di due porte di Milano, s'era
ben preparata alla difesa. Questo apparato e la fretta di Federigo
esentarono da ulteriori molestie quella città. Celebrò Federigo vicino a
Bologna la festa della Pentecoste, e il Ghirardacci[2013] rapporta un
suo diploma dato _III idus maii juxta Rhenum_, in cui ordina ai
Bolognesi di rifare il castello di Medicina, da essi distrutto. Di là
passò in Toscana, dove comandò ai Pisani d'armare la lor flotta contra
di Guglielmo re di Sicilia, e diede l'arcivescovato di Ravenna ad
_Anselmo vescovo_ di Avelberg, stato suo ambasciatore a Costantinopoli,
con investirlo, secondo il solito, dell'esarcato di Ravenna. Camminava a
gran giornate egli e l'esercito suo verso Roma, e questa sua fretta
diede non poca apprensione a _papa Adriano_[2014], che per anche non
sapeva con qual animo venisse questo principe, e principe a cui costava
poco l'eccidio della città. Per consiglio di Pietro prefetto di Roma e
di Ottone Frangipane, gli mandò incontro, per concertar prima le cose,
tre cardinali, che trovarono Federigo in San Quirico. Fra le altre
domande che questi gli fecero, vi fu quella di avere in mano Arnaldo da
Brescia, che i visconti o conti di Campania aveano tolto alle genti del
papa, e il teneano in un lor castello, onorandolo qual profeta. Non
tardò Federigo a spedir gente, che prese uno di quei visconti, il quale,
per liberarsi, consegnò quell'eretico ai cardinali. Messo costui nelle
forze del prefetto di Roma[2015], fu impiccato e bruciato, e le sue
ceneri sparse nel Tevere, acciocchè la stolida plebe non venerasse il
corpo di questo infame. Andarono innanzi e indietro ambasciatori, prima
che seguisse l'accordo fra il papa e l'imperadore; ma finalmente
Federigo promise e giurò di conservar tutti gli onori e stati al
pontefice e ai cardinali; e il pontefice, di coronarlo. Giunto Federigo
nel territorio di Sutri, si attendò coll'esercito nel Campo grasso. Colà
venne da Nepi papa Adriano, incontrato prima da molti principi tedeschi;
e quando fu per ismontare al padiglione reale, aspettò indarno che
Federigo gli venisse a tenere la staffa. Fu cagione questo accidente che
i cardinali spaventati se ne fuggissero a Città Castellana, lasciando
con pochi familiari il pontefice, che smontato si mise sul faldistorio
preparato. Allora comparve Federigo, e baciatigli i piedi, s'accostava
per ricevere il bacio di pace; ma il papa intrepidamente gli rispose,
che non avendo esso re usata quella riverenza che i di lui predecessori
aveano praticata coi romani pontefici, non volea baciarlo. Era papa
Adriano di animo grande e forte in sostenere i suoi diritti. Non la
cedeva a lui Federigo, e pretendea di non essere tenuto a questo. Durò
il dibattimento di questo punto per tutto il dì seguente. Ma fatto
conoscere a Federigo che tale era il cerimoniale e costume con varii
esempli, egli si arrendè; e passato a Nepi, dove era la tenda del papa,
che gli veniva incontro, sceso da cavallo, andò a tenere la staffa ad
esso pontefice, che poi lo ammise al bacio di pace; e di là insieme
s'inviarono alla volta di Roma. Di questo litigio ho io rapportato
altrove[2016] un documento. Aveano anche i Romani prima spediti a
Federigo i loro ambasciatori[2017] per rallegrarsi del suo arrivo,
offerirgli la lor suggezione, chiedere la confermazion del senato e di
molti pretesi privilegii, e inoltre cinque mila lire per la coronazione;
e soprattutto che tornasse il governo temporale di Roma, come era ne'
secoli vecchi, con esclusione de' papi. All'alterigia e baldanza con cui
parlarono i Romani, non potè stare a segno la sofferenza di Federigo.
Rispose loro di maravigliarsi che fossero venuti con pensiero di dar
legge a chi siccome principe e sovrano di Roma doveva egli imporle ad
essi. Esaltò la potenza e il diritto degl'imperadori franchi e tedeschi,
e rigettò le lor proposizioni. Participato poi l'affare al papa, fu
consigliato a non fidarsi di quel popolo, e di spedire il più presto
possibile ad impossessarsi di San Pietro e della città leonina: parere
che tosto fu e con felicità eseguito.

Nella mattina del dì seguente, giorno 18 di giugno, solennemente marciò
Federigo a San Pietro, accolto dal papa ai gradini della basilica, e
dopo aver prestato i soliti giuramenti, cantata che fu la messa,
ricevette dalle mani del pontefice la corona imperiale cogli altri
ornamenti, e con alte acclamazioni di tutta l'armata. Ma i Romani, che
videro fatta la festa senza di loro, come impazziti per la rabbia, dopo
aver tenuto consiglio in Campidoglio, diedero all'armi, e circa il
mezzogiorno furiosamente uscirono di città, e cominciarono verso San
Pietro a far man bassa contra qualunque Tedesco che incontravano.
Corsero anche i Tedeschi all'armi, e si diede principio ad una terribil
mischia, cedendo ora gli uni ora gli altri; e questa durò fin verso la
notte, ma colla peggio de' Romani, de' quali circa mille rimasero sul
campo, innumerabili feriti, dugento prigioni: il resto si salvò nella
città. Afflittissimo per questa tragedia il papa, tanto si adoperò colle
preghiere, che fece rilasciar i prigioni al prefetto di Roma. Nel dì
seguente egli e l'imperadore, giacchè mancava loro la sussistenza de'
viveri, ritiratisi a Tivoli, quivi diedero riposo all'esercito; e dipoi,
venuta la festa di san Pietro, la celebrarono solennemente a Ponte
Lucano. _Missam Adriano papa celebrante, imperator coronatur_, dice il
Frisingense[2018]: cioè vi assistè Federigo colla corona in capo, il
qual passo dichiara l'altro sopraddetto di coronatur in Pavia. L'autore
della Vita di Adriano IV[2019] scrive che in tal occasione: _Pontifex et
Augustus ad missarum solemnia in die illa pariter coronati
processerunt_. Crescendo poscia i caldi e le malattie de' soldati,
Federigo, lasciato il papa, come si può credere, assai deluso, dopo
avergli lasciato il dominio di Tivoli, salvo _in omnibus jure
imperiali_, si rimise in viaggio alla volta della Lombardia. Giunto a
Spoleti, nè potendo ottener vettovaglia nè contribuzione da quel popolo
che avea anche ritenuto prigione il conte Guido Guerra, il più ricco fra
i baroni della Toscana, già inviato da esso Augusto al re di Sicilia,
senza volerlo rendere mosse l'oste contra di loro. Uscirono baldanzosi
gli Spoletini ed attaccarono la zuffa; ma furono così ben respinti ed
incalzati, che con esso loro alle spalle entrarono nella città anche i
Tedeschi vittoriosi. Andò la sconsigliata città a sacco, e poi ne fu
fatto un miserabil falò: gastigo barbarico e sempre detestabile di
questi tempi. Nella Vita di sant'Ubaldo[2020] vescovo di Gubbio è
scritto che Federigo passò per quella città, e benchè istigato dai
castellani circonvicini a distruggerla, pure per intercession del santo
prelato, nessun male le fece. Potrebbe dubitarsi del suo arrivo colà,
sapendosi ch'egli nel viaggio arrivò ad Ancona, città allora dipendente
dall'imperador de' Greci, dove dai di lui ambasciatori fu visitato e
riccamente regalato. Passò poscia il Po a San Benedetto di Polirone, e
pervenne nel distretto di Verona. In quella città pubblicò la sentenza
contra de' Milanesi, per aver essi distrutte le città di Como e di
Lodi[2021], privandoli del diritto della zecca, con trasferirlo alla
città di Cremona sua fedele, siccome ancora di tutte l'altre regalie
godute in addietro da esso popolo di Milano. Ebbe poscia nel passaggio
dell'Adige a dolersi de' Veronesi pel ponte malamente fatto su quel
fiume; e alla Chiusa trovò una man di assassini che gli vietavano il
passo, richiedendo regali e pagamento per chiunque volesse passare. Fece
Federigo salire una brigata de' suoi sull'erto monte, e faticar tanto
con rotolar pietre, che avendo snidati da quelle caverne quei
malandrini, gli ebbe nelle mani, e di loro fece far la giustizia che
meritavano. Così sano e salvo se ne tornò in Germania l'Augusto
Federigo, con aver ottenuta la corona, e nulla operato in favore di chi
l'avea coronato.

Finita questa scena, un'altra ne ebbe principio in Puglia. Avrebbe
desiderato esso imperadore, allorchè fu in Roma, di portar la guerra in
quelle parti; ma l'esercito suo, in cui si vedeano cader malati tanti di
loro, troppa ripugnanza ne avea dimostrato. Pertanto i baroni fuorusciti
altro far non poterono se non impetrar delle patenti da esso imperadore,
come inviati da lui a que' popoli. Ricorsero ancora a papa Adriano, che
promise loro ogni aiuto, anzi fu egli il principal promotore di quelle
ribellioni, come accennano Romoaldo Salernitano[2022], Guglielmo
Tirio[2023] ed altri. Fra i principali che armati congiurarono contra
del re _Guglielmo_, vi fu _Roberto_ già principe di Capoa, _Andrea_
conte di Rupecanina, e _Riccardo_ dall'Aquila. Anche _Roberto_ di
Bissavilla conte di Loritello, benchè cugino germano del re Guglielmo,
entrò in quella congiura, anzi ne fu il capo, dacchè il perfido
ammiraglio Maione, favorito del re, l'avea messo in disgrazia di
lui[2024]. Mossero pertanto questi baroni una fiera sollevazione in
Puglia contra del re Guglielmo. Al principe Roberto riuscì di ricuperare
Capoa col suo principato; all'altro Roberto di prendere Suessa, Tiano e
la città di Bari, il cui castello fece egli spianare. Il conte Andrea
s'impadronì del contado d'Alife. Aveano essi baroni sul principio tenuto
trattato con _Manuello imperadore_ di Costantinopoli, per tirarlo in
questa guerra: occasione da lui sospirata molti anni addietro[2025]. Vi
entrò egli dunque a braccia aperte, e spedì in Puglia Michele Paleologo,
quel medesimo che in Ancona fece l'ambasciata all'imperadore Federigo,
con gran somma di danaro al conte Roberto e agli altri baroni, acciocchè
assoldassero gente e facessero guerra al re Guglielmo. Mandò inoltre una
flotta comandata da un Sebasto, la quale s'impossessò di Brindisi, a
riserva del castello. Tutte le altre città marittime s'accordarono coi
Greci e col suddetto Roberto conte di Loritello. In somma si sostennero
in sì fiera tempesta alla divozione del re Guglielmo solamente Napoli,
Amalfi, Surrento, Troia, Melfi, e poche altre città e castella forti.
Per accalorar maggiormente questa impresa mosse da Roma _papa
Adriano_[2026], accompagnato da molte schiere d'armati, e circa la festa
di san Michele di settembre arrivò a san Germano, dove Roberto, di nuovo
principe di Capoa, e gli altri baroni gli giurarono fedeltà ed omaggio.
Di là passò a Benevento, e per tutte quelle parti fu riconosciuta la di
lui sovranità. Intanto dugento cavalli milanesi con dugento fanti,
appena partito da Piacenza Federigo[2027], entrarono nella distrutta
città di Tortona, e vi si afforzarono il meglio che poterono.
V'accorsero i Pavesi colla loro armata[2028]; ma o perchè non si
attentarono, o perchè il marchese di Monferrato per suoi segreti fini li
dissuase, se ne tornarono indietro colle pive nel sacco. Ciò udito dai
Milanesi, che dianzi aveano richiamato da Tortona quel corpo di gente
senza essere stati ubbiditi, sentendosi animati a soccorrere una città
che per loro amore s'era sacrificata, nacque in loro gran voglia di
rifabbricarla, e a questo fine spedirono colà le genti di Porta Ticinese
e Vercellina, che si diedero a rimettere in piedi le mura.
Successivamente vi mandarono i soldati di due altre porte. Ma eccoti nel
dì 25 di maggio l'esercito pavese venire a trovarli. Uscirono in
campagna i Milanesi, e si affrontarono co' nemici; ma infine toccò loro
la mala fortuna, e il dare alle gambe, con lasciare in preda de' Pavesi
tutto il loro equipaggio, oltre a molti uccisi o presi. In questo fatto
d'armi coi Milanesi si trovò lo stesso Ottone Morena istorico. Nel dì
seguente diedero i Pavesi un fiero assalto alla città, e v'entrarono
anche due bandiere d'essi, ma furono respinti con bravura. Essendo poi
tornati a Pavia i nemici, attesero i Milanesi a rifar le mura e le fosse
di Tortona, tutte alle loro spese. E questo passava in Italia. Dacchè fu
in Germania l'Augusto Federigo[2029], alla metà d'ottobre tenne una gran
dieta in Ratisbona, dove diede il possesso della Baviera ad _Arrigo
Leone_ estense-guelfo duca di Sassonia, e ammise all'udienza _Tebaldo
vescovo_ di Verona, inviato dalla sua città a scusarsi ed umiliarsi. Nè
vi andò indarno. _In gratiam_, dice Ottone da Frisinga, _recepta est
Verona. Nam et magnam pecuniam dedit ac militiam, quam habere posset,
contra Mediolanenses ducere sacramento firmavit_.

NOTE:

[2001] Romuald. Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.

[2002] Anonymus Casin., tom. 5 Rer. Ital.

[2003] Card. de Aragon., in Vit. Adrian. IV.

[2004] Otto Frisingens., de Gest. Frider. I.

[2005] Saxius, in Notis ad Ottonem Morenam.

[2006] Annal. Astens., tom. 11 Rer. Ital.

[2007] Otto Morena, Hist. Laudens., tom. 6 Rer. Italic.

[2008] Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.

[2009] Otto Frisingensis, de Gest. Friderici I, lib. 2, cap. 21.

[2010] Anecdot. Latin., tom. 2.

[2011] Sigonius, de Regno Ital., lib. 12.

[2012] Saxius, in Notis ad Sigonium.

[2013] Ghirardacci, Istor. di Bologna, lib. 3.

[2014] Cardin. de Aragon., in Vit. Adriani IV.

[2015] Otto Frisingens., de Gest. Friderici I, lib. 2, cap. 21.

[2016] Antiquit. Ital., Dissert. IV. pag. 117.

[2017] Otto Frisingensis, lib. 2, cap. 22.

[2018] Otto Frisingens., lib. 2, cap. 24.

[2019] Cardinal. de Aragon., in Vit. Adrian. IV.

[2020] Vit. S. Ubaldi, in Actis Sanct., ad diem 16 maii.

[2021] Antiquit. Italic., Dissert. XXVII, pag. 591.

[2022] Romualdus Salern., in Chron.

[2023] Guillelmus Tyrius, lib. 18, cap. 2. Cardin. de Aragon., in Vit.
Adrian. IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Anonym. Casinens., in Chron.

[2024] Hugo Falcandus, in Chron.

[2025] Romualdus Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2026] Cardin. de Aragon., in Vit. Adriani IV.

[2027] Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.

[2028] Otto Morena, Hist. Landens., tom. 6 Rer. Italic.

[2029] Otto Frisingens., de Gest. Frider. I, lib. 2, cap. 29.



    Anno di CRISTO MCLVI. Indizione IV.

    ADRIANO IV papa 3.
    FEDERIGO I re 5, imperad. 2.


Nella primavera di quest'anno l'_imperador Federigo_ celebrò in
Wirtzburg le sue nozze con _Beatrice_ figliuola di _Rinaldo conte_ di
Borgogna[2030], che gli portò in dote molti Stati. Vennero in questi
tempi gli ambasciatori del greco Augusto _Manuello Comneno_, ma non
furono ammessi. Curioso è il motivo che ci vien qui narrato da Ottone
Frisingense, per cui svanì tutta la precedente amicizia e confidenza che
passava tra i due imperii occidentale ed orientale. Sia verità o bugia,
fu rappresentato a Federigo che i Greci, allorchè egli passò da Ancona,
aveano destramente colta una lettera sigillata col sigillo d'esso
imperador Federigo (quasichè niuna di queste lettere si conservasse
nella corte di Costantinopoli), e s'erano serviti di quel sigillo
applicato ad altra carta, fingendo che Federigo avesse conceduta al
greco Augusto la Campania e la Puglia, per tirar dalla sua i popoli di
quelle contrade. Con questa frode e con gran profusione d'oro guadagnati
non pochi baroni della Puglia, s'erano fatti padroni di un gran tratto
di paese, e specialmente di Bari capital della provincia, dove era morto
Michele Paleologo, condottiere di quella impresa. Corse anche voce in
Germania che _Guglielmo re_ di Sicilia fosse o mancato di vita o
impazzito. E infatti abbiamo da Ugone Falcando[2031] che Guglielmo
nell'anno addietro, per artifizio del suo disleale favorito ed
ammiraglio Maione, se ne stette come chiuso nelle stanze del suo palazzo
in Palermo, senza dar udienza a chi che sia, fuorchè ad esso Maione e ad
_Ugone arcivescovo_ di quella città. Ora, benchè Federigo odiasse non
poco il re Guglielmo, pure più rabbia in lui cagionava il vedere che i
Greci, potenza maggiore e capace di far maggiori progressi in Italia,
avessero usurpata la Puglia; e però, chiamandoli traditori, già si
disponeva a tornare in Italia per muovere guerra contra di loro. Ma
dacchè intese che Guglielmo era vivo e sano di mente, e che altra faccia
aveano presa gli affari di Puglia, siccome dirò fra poco, smontò da quel
disegno, e solamente rivolse i suoi pensieri contra de' Milanesi, che
erano in sua disgrazia, con fare i preparamenti necessarii per tale
impresa.

Ora è da sapere che, per attestato del suddetto Ugone Falcando, molte
trame furono fatte dal menzionato Maione contra di non pochi baroni
della Sicilia, i quali giunsero a ribellarsi con gran confusione di cose
in Palermo e in altri luoghi. Servirono tali sconcerti a svegliare
l'addormentato _Guglielmo_, che non arrivò già per questo a conoscere
qual mostro egli tenesse appresso nella persona di Maione. Risaputo
bensì finalmente il grave sfasciamento de' suoi affari in Puglia, si
applicò tosto al riparo. Il suo primo tentativo fu quello di rimettersi,
se potea, in grazia di _papa Adriano_[2032], e tanto più perchè si venne
a sapere che l'imperador greco facea proposizioni ingorde di danaro al
medesimo pontefice per ottener tre città marittime, con promettere
ancora di dargli tali forze di gente e d'oro da poter cacciare Guglielmo
dalla Sicilia. Venuto dunque a Salerno, inviò al papa il vescovo eletto
di Catania ed altri della sua corte, con plenipotenza di far pace colla
Chiesa romana, offerendole il danaro esibito dai Greci, tre terre per li
danni dati, omaggio ed ubbidienza, e la libertà delle chiese. Non prestò
fede a tutta prima il pontefice Adriano a queste proposizioni, e per
chiarirsene inviò a Salerno _Ubaldo cardinale_ di santa Prassede.
Accertossi egli tutto essere vero; e il papa, trovandovi del vantaggio,
inclinava forte alla concordia, se non che gli si oppose la maggior
parte de' cardinali che macinavano nella lor mente delle inusate
grandezze, in maniera che disturbarono tutto il negoziato. Ebbero bene a
pentirsi della lor ingordigia, e a provare che chi si esalta sarà
umiliato, e chi si umilia verrà esaltato. Il re Guglielmo, messo insieme
un poderoso esercito per mare e per terra[2033], andò alla volta di
Brindisi, occupato da' Greci, da dove si ritirò _Roberto conte_ di
Loritello, con venire a Benevento. Si teneva tuttavia il castello pel
re. Assediata quella città, i Greci co' Pugliesi uscirono in campo
aperto, e diedero battaglia. Durò un pezzo dubbioso il combattimento; ma
in fine la vittoria si dichiarò in favore di Guglielmo. Molta nobiltà
de' Greci fu ivi presa ed inviata nelle carceri di Palermo; gran bottino
di danaro e di navi fu fatto, e riacquistata la città nel dì 28 di
maggio. A non pochi ancora de' baroni pugliesi ribelli toccò la
disgrazia di cader nelle mani del re. Tolta fu ad alcuni la vita, ad
altri la vista. Ciò fatto, marciò alla volta di Bari col vittorioso
esercito. Uscirono i cittadini ad incontrarlo senz'armi e in abito di
penitenza, chiedendo misericordia. Altro non ottennero al re, troppo
sdegnato per lo smantellamento della sua cittadella, se non spazio di
due giorni per uscir della città con quanto poteano asportare. Dopo di
che spianate prima le mura, fu quella dianzi sì superba, sì popolata e
ricca città ridotta in un mucchio di pietre, e diviso il suo popolo in
varie ville. Un sì lagrimevole spettacolo fece che non tardarono le
altre città della Puglia perdute a rimettersi in grazia e sotto il
dominio del re Guglielmo, il quale continuò il viaggio sino a Benevento,
dove i più de' baroni suoi ribelli s'erano rifugiati.

Tal paura mise il suo avvicinamento _a Roberto principe_ di Capoa,
dimorante in essa città di Benevento, che non credendosi sicuro, prese
la fuga. Ma nel passare il Garigliano, tesogli un agguato da _Riccardo_
dell'Aquila conte di Fondi, fu preso e poi consegnato a Guglielmo. Con
questo tradimento Riccardo rientrò in grazia del re; e Roberto inviato
prigione a Palermo, ed abbacinato, finì poco appresso nelle miserie la
sua vita. S'interpose il pontefice Adriano, che si trovava in Benevento
anche egli, per salvare Roberto conte di Loritello, Andrea conte di
Rupecanina, ed altri baroni che erano presso di lui chiusi in quella
città; ed il re si contentò di non molestarli, purchè uscissero fuori
del regno: grazia di cui non tardarono a prevalersi. E allora fu che
esso pontefice, chiarito delle umane vicende, e pensando al suo stato,
mandò egli stesso a ricercar quella pace, per cui pochi mesi prima era
stato supplicato. Inviò dunque i cardinali _Ubaldo_ di santa Prassede,
_Giulio_ di san Marcello e _Rolando_ di san Marco al re Guglielmo, per
avvertirlo da parte di san Pietro di non offendere Benevento, di
soddisfare per li danni dati, e di conservare i suoi diritti alla Chiesa
romana. Furono essi benignamente accolti dal re, intavolarono il
trattato della pace, e dopo molti dibattimenti fu essa conchiusa.
Mediatore fra gli altri ne fu _Romoaldo arcivescovo_ di Salerno, quel
medesimo che ci ha lasciata la sua Storia, da me data alla luce.
Rapporta il cardinal Baronio[2034] il diploma del _re Guglielmo_, che
contiene le condizioni dell'accordo, e con esso s'ha a confrontare ciò
che ne scrivono alcuni moderni. Si obbligò il papa di concedere al re
l'investitura del regno di Sicilia, del ducato di Puglia, del principato
di Capoa, Napoli, Salerno e Melfi, siccome ancora della Marca e
dell'altro paese ch'egli dovea avere di qua da Marsi. E il re si obbligò
a prestargli omaggio contro ogni persona, e il giurargli fedeltà, con
pagare ogni anno il censo di seicento schifati per la Puglia e Calabria,
e cinquecento per la Marca: cose tutte eseguite dipoi nella chiesa di
san Marciano fuori di Benevento, dove alla presenza di molta nobiltà e
popolo diede Guglielmo il giuramento a' piedi del papa, e ricevette
l'investitura. Sotto il nome di _Marca_ è da vedere che paese fosse
allora disegnato. Forse quella di Chieti, non osando io spiegar ciò
della marca di Camerino, che è la stessa con quella d'Ancona e di Fermo.
Confermò papa Adriano IV con sua bolla, riferita parimente dal cardinal
Baronio, la concordia suddetta; concordia nondimeno che dispiacque ad
alcuni de' cardinali, e molto più all'imperador Federigo, che si vedea
precluso con ciò l'adito alla meditata guerra di Puglia. Di grandi
regali in oro, argento e drappi di seta lasciò il re Guglielmo al papa,
ai cardinali e a tutta la corte pontificia[2035], e poi se ne andò. Da
Benevento venne il papa alla volta di Roma, con passare per Monte Casino
e per le montagne di Marsi. E perciocchè la città d'Orvieto, per
lunghissimo tempo sottratta alla giurisdizione della Chiesa romana, era
tornata alla sua ubbidienza, volle il buon pontefice consolar quei
popoli colla sua presenza. Con singolar onore quivi ricevuto, alla
venuta poi del verno passò alla volta dell'ameno e popolato castello di
Viterbo, e di là a Roma, dove pacificamente alloggiò nel palazzo
lateranense. Nell'anno presente i Milanesi, ricevuto qualche rinforzo di
gente da Brescia, continuarono la guerra contro ai Pavesi[2036]. Presero
loro varii luoghi, e fra gli altri il forte castello di Ceredano, non
avendo osato i Pavesi e Novaresi, benchè usciti in campagna con tutto il
loro sforzo, di venire ad alcun fatto d'armi, nè di tentar di soccorrere
quella terra, che poi fu spianata. Andarono ancora i Milanesi nella
valle di Lugano, e suggettarono circa venti di quelle castella. Seguì
ancora un conflitto fra essi e i Pavesi, in cui ebbero la peggio gli
ultimi. Studiaronsi in questi tempi i Piacentini[2037] di fortificar la
loro città con buone mura, torri e fosse, ben prevedendo i malanni che
sovrastavano alla Lombardia per la ribellion de' Milanesi. Intanto diede
fine a' suoi giorni _Domenico Morosini_ doge di Venezia[2038], in cui
luogo fu sostituito _Vitale Michele II_, il quale non tardò a far pace
coi Pisani. Nell'anno presente ancora, se è da prestar fede alla Cronica
di Jacopo Malvezzi[2039], i Bresciani, per cagion delle castella di
Volpino e Ceretello, mossero guerra ai Bergamaschi. Vennero alle mani
coll'esercito d'essi nel mese di marzo vicino a Palusco, e insigne
vittoria ne riportarono col far prigioni due mila e cinquecento
Bergamaschi, e prendere il loro principal gonfalone, che, portato nella
chiesa de' santi Faustino e Giovita, ogni anno nella gran solennità si
spiegava. All'incontro fecero i Genovesi pace e concordia con Guglielmo
re di Sicilia[2040], e lor ne venne molto vantaggio ed onore.

NOTE:

[2030] Otto Frisingens., de Gest. Friderici I, lib. 2, cap. 30.

[2031] Hugo Falcandus, in Chron.

[2032] Cardin. de Aragon., in Vita Adriani IV.

[2033] Romualdus Salernit., in Chron. Anonym. Casinens., in Chron.
Johann. de Ceccano.

[2034] Baron., Annales, ad hunc annum.

[2035] Cardin. de Aragon., in Vita Eugenii IV.

[2036] Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.

[2037] Annales Placentini, tom. 16 Rer. Ital.

[2038] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2039] Malveccius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.

[2040] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCLVII. Indizione V.

    ADRIANO IV papa 4.
    FEDERIGO I re 6, imperad. 3.


Dappoichè _papa Adriano_ avea fatte coll'Augusto _Federigo_ tante
doglianze di _Guglielmo re_ di Sicilia, ed era restato con lui in
concerto di fargli guerra; cosa che Federigo non avea potuto eseguire
dopo aver presa la corona imperiale a cagion delle malattie entrate
nell'esercito suo; restò forte esacerbato esso imperadore all'udire
nell'anno precedente la pace data dal papa a Guglielmo con accordargli
il titolo di re, senza participazione alcuna ed assenso suo. Adirato
perciò fin da allora, cominciò a far conoscere il suo mal talento contro
d'esso Adriano col difficultare agli ecclesiastici del regno germanico
di passare alla corte pontificia per ottener benefizii o per altri
affari. Mosso da questa non picciola novità Adriano spedì nell'anno
presente due cardinali, cioè _Rolando_ cancelliere e _Bernardo_ del
titolo di san Clemente, alla corte cesarea[2041]. Correva il mese
d'ottobre, e Federigo Augusto s'era portato a Besanzone per farsi
riconoscere padrone del regno della Borgogna, siccome in fatti ottenne,
avendo in persona o per lettere prestata a lui ubbidienza gli
arcivescovi di _Lione, Vienna, Arles_, i vescovi di _Valenza_,
d'_Avignone_ e d'altre città. Era concorsa a Besanzone gran foresteria
per veder l'imperadore, e per affari. V'erano Romani, Pugliesi,
Veneziani, Lombardi, Franzesi, Inglesi e Spagnuoli. Furono ricevuti
onorevolmente i legati apostolici, i quali presentarono a Federigo una
lettera del papa, conceputa con gravi risentimenti, perch'esso
imperadore non avesse finora gastigato quegli scellerati di Germania che
aveano preso e messo in prigione _Esquilo arcivescovo_ di Lunden in
Isvezia (e non già di Londra, come immaginò il Baronio) nel ritorno di
Roma, con ricordargli appresso la prontezza con cui esso pontefice gli
avea conferita l'imperial corona; del che non era pentito, nè si
pentirebbe, quando anche _majora beneficia excellentia tua de manu
nostra suscepisset_. Letta la lettera, e spiegata a chi non sapeva il
latino, si alzò un gran bisbiglio nell'assemblea a cagione de' termini
forti in essa adoperati, ma principalmente per quella parola di
_beneficia_, che fu presa in senso rigoroso, quasichè adoperata nel
senso de' legisti, presso i quali significa _feudo_, volesse il
pontefice far sapere che l'imperadore dalle mani del papa riceveva in
feudo l'imperio. Diede motivo a tale interpretazione l'aver veduto in
Roma una pittura, rappresentante nel palazzo lateranense l'_imperador
Lottario_ ai piedi del papa, con questi due versi sotto:

    REX VENIT ANTE FORES, IVRANS PRIVS VRBIS HONORES,
    POST HOMO FIT PAPAE, SVMIT QVO DANTE CORONAM.

Quell'_homo_ vuol dire _vassallo_. Ne fu fatta doglianza collo stesso
papa Adriano che avea promesso di farlo cancellare. Uscirono parole
calde su questo nell'assemblea, e s'aumentò il fuoco, perchè dicono
avere risposto uno dei legati: _A quo ergo habet, si a domino papa non
habet imperium_? A tali parole poco mancò che _Ottone conte_ palatino di
Baviera, sguainata la spada, non gli tagliasse il capo. Quetò Federigo
il tumulto, e poi diede ordine che i legati fossero messi in sicuro,
acciocchè nel dì seguente per la più corta se ne tornassero a Roma.
Notificò poi esso imperadore quest'avvenimento con sua lettera sparsa
per tutta la Germania, lamentandosi del fatto dei legati, e del poco
rispetto a lui mostrato dal papa, con aggiugnere essersi trovati presso
quei legati non pochi fogli in bianco sigillati, per potere a loro
arbitrio scrivervi quel che volevano, per accumular danari e spogliar le
chiese del regno. Si vede che tanto il papa, quanto l'imperadore erano
inclinati alla rottura. L'avere il papa dalla sua il potente re di
Sicilia, il facea parlar alto; ma questa loro concordia quella appunto
era che a Federigo maggiormente movea la bile. Nè mancavano i baroni
pugliesi rifugiati colà di accenderla vieppiù, con isparlar dappertutto
del papa. Ottone da San Biagio[2042] mette l'avvenimento suddetto sotto
l'anno 1156, ma Radevico, scrittore di maggior peso, sotto il presente.

Durando tuttavia la guerra in Lombardia, i Milanesi, fatto un grande
sforzo contra dei Pavesi, con qualche aiuto ancora de' Bresciani, e dato
il comando dell'armata a _Guido conte_ di Biandrate, nel mese di giugno
si portarono alla volta di Vigevano, terra insigne de' Pavesi, alla cui
difesa s'erano posti _Guglielmo marchese_ di Monferrato, _Obizzo
Malaspina_ marchese, che dovea aver cangiata casacca, ed altri
baroni[2043]. Distrussero il castello di Gambalò, assediarono dipoi
Vigevano, e tanto lo tennero stretto, che per mancanza di viveri lo
strinsero alla resa, e dipoi lo spianarono. Seguì in tal congiuntura un
accordo fra i Milanesi e Pavesi, che durò ben poco. Ottone Morena scrive
per colpa de' Milanesi, e Sire Raul per mancamento de' Pavesi. Perciò il
popolo di Milano, che era tornato a casa, di nuovo uscì in campagna, e
passato in Lomellina, fertilissimo paese già tolto dai Pavesi ai nobili
conti palatini di Lombardia, si diedero a rifabbricar la terra di
Lomello, capitale allora di quella provincia. Nel medesimo tempo
maggiormente accalorarono il rifacimento e le fortificazioni di Tortona,
di Gagliate, Trecate e d'altri luoghi, fecero di buone fosse a Milano,
di maniera che, per attestato di Sire Raul, in tali fatture e nel
rimettere dei fortissimi ponti sopra i fiumi Ticino ed Adda, spesero più
di cinquanta mila marche di argento purissimo. Si mossero contra di loro
in quest'anno i Cremonesi; ma senza alcuna impresa di rilievo se ne
ritornarono alla loro città. Intanto gl'infelici Lodigiani, secondo
l'asserzione di Ottone Morena, storico contemporaneo di quella città,
furono con aggravii nuovi maggiormente afflitti dal popolo di Milano.
Non si sa che in quest'anno il re di Sicilia _Guglielmo_ alcuna impresa
facesse. Perduto ne' piaceri, e ritirato nel suo palagio di Palermo,
lasciava le redini all'indegno Maione suo ammiraglio, il quale gli dovea
lodar la vita ritirata e lussuriosa dei sultani turcheschi, per farla
egli intanto da re e per continuare in questi tempi la persecuzione
contra di qualunque barone siciliano che fosse o paresse contrario ai
suoi voleri e disegni. Ma nel mese di novembre _Andrea conte_ di
Rupecanina[2044], uno de' baroni di Puglia ribelli, che dianzi era
fuggito fuori del regno, vi tornò per voglia massimamente di vendicare
il tradimento fatto a _Roberto principe_ di Capoa da _Riccardo_
dall'Aquila conte di Fondi. Unì egli una picciola armata di Romani,
Greci e Pugliesi, e con essa entrato nel contado di Fondi, lo prese
insieme colla città d'Acquino, e bruciò il traghetto dove tradito fu il
suddetto principe di Capoa. Confermò papa Adriano in questo anno _IV
idus novembris_, stando nel palazzo lateranense, i privilegii a
_Guifredo abbate_ del monistero di san Dionisio di Milano, come costa da
sua bolla da me data alla luce[2045].

NOTE:

[2041] Radevicus, de Gestis Frider. I, lib. 1, cap. 8.

[2042] Otto de Sancto Blasio, in Chron.

[2043] Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital. Otto Morena, Histor. Laudens.

[2044] Anonymus Casinensis, in Chron. Johan. de Ceccano, in Chron.
Fossaenovae.

[2045] Antiquit. Italic., Dissert. LXX.



    Anno di CRISTO MCLVIII. Indizione VI.

    ADRIANO IV papa 5.
    FEDERIGO I re 7, imperad. 4.


L'anno fu questo in cui _Federigo imperadore_ determinò la seconda sua
venuta in Italia, per domare i Milanesi, Bresciani e Piacentini, ribelli
alla sua corona. A questo fine mise insieme un potentissimo esercito, e
ne fece la massa ne' contorni d'Augusta. Erano già tornati a Roma i due
cardinali legati, rimandati indietro dall'imperador Federigo[2046], ed
aveano riempiuta la corte pontificia di lamenti per l'affronto lor fatto
in Germania. Fu diviso il clero romano: l'una parte accusava di mala
condotta i legati, con dar ragione all'imperadore; e l'altra sosteneva
il loro operato. Sopra di ciò _papa Adriano_ scrisse una lettera agli
arcivescovi e vescovi di Germania, gravida bensì di lamenti per lo
strapazzo fatto ai suoi legati, ma con raccomandarsi che placassero e
mettessero in miglior sentiero l'imperadore. All'incontro quei prelati
gl'inviarono una risposta assai vigorosa in difesa della dignità
imperiale, rilevando sopra tutto l'insolenza di que' versi, e di quella
dipintura che dicono osservata nel palazzo lateranense, la quale dovea
per anche essere stata abolita, toccando anche gli abusi ed aggravii
introdotti nelle chiese della Germania dai ministri della curia romana.
Perciò il saggio pontefice, udendo che Federigo si preparava per tornare
coll'armi in Italia, giudicò meglio di smorzare il nato incendio con
inviare in Germania due altri legati più prudenti, cioè _Arrigo
cardinale_ de' santi Nereo ed Achilleo, e _Giacinto cardinale_ di santa
Maria della scuola greca, che per viaggio furono presi, spogliati e
posti in prigione da due conti del Tirolo. Furono poi rilasciati, ed
_Arrigo il Leone_ duca di Baviera e Sassonia fece poi un'esemplare
vendetta di que' nobili masnadieri. Trovarono questi legati Federigo ne'
contorni d'Augusta, ed ammessi all'udienza, gli parlarono con gran
riverenza, e presentarongli una lettera mansueta del papa. In essa egli
spiegava la parola _beneficium_, dichiarando di aver non mai preteso che
l'imperio fosse un feudo. Bastò questo a calmare l'ira di Federigo; ed
avendo egli poscia dato buon sesto ad alcune altre differenze che
passavano fra lui e la corte di Roma, fu ristabilita la pace, e i legati
contenti e nobilmente regalati se ne ritornarono a Roma. Avea già
l'Augusto Federigo spediti in Italia per precursori alla sua venuta
_Rinaldo_ suo cancelliere e _Ottone conte_ del palazzo. Questi verso la
Chiusa sull'Adige s'impadronirono del castello di Rivola, importante per
la sicurezza del passaggio dell'armata. Giunti a Cremona, quivi tennero
un gran parlamento, al quale intervennero gli arcivescovi di Milano e di
Ravenna, quindici vescovi, e molti marchesi, conti e consoli delle
città. Visitarono dipoi l'esarcato di Ravenna, e nell'andare alla volta
d'Ancona, scoprirono che i Greci, allora dominanti in quella città,
assoldavano gente sotto pretesto di volere far guerra a _Guglielmo re_
di Sicilia, ma infatti con disegno d'impadronirsi di altre città
marittime dell'Adriatico. A man larga spendevano costoro, e però vi
concorrea popolo da tutte le bande. I legati incontratisi nel cammino
con _Guglielmo Maltraverser_ (vuol dire Radevico _da Traversara_), il
più nobile dei Ravennati, gli fecero tal paura, che non pensò più a
trattar coi Greci. Arrivati poi nelle vicinanze d'Ancona con un
drappello d'armati, ne chiamarono fuori i ministri del greco Augusto, e
fecero loro una calda ripassata con varie minaccie, in guisa tale che i
medesimi stentarono ad iscusarsi. Dopo ciò, sen vennero que' legati a
riposare in Modena. Diviso in varii corpi l'immenso suo esercito,
Federigo parte ne inviò in Italia pel Friuli, parte pel Mongivì, altri
per Chiavenna e pel lago di Como. Calò egli stesso per la valle di
Trento col fiore dell'armata, seco conducendo _Uladislao duca_ di
Boemia, a cui poco prima avea conferito le insegne e il titolo di re,
_Federigo duca_ di Suevia, figliuolo del re Corrado, _Corrado duca_
palatino del Reno suo fratello, con varii arcivescovi, marchesi e conti.

La prima città, in cui sul principio del mese di luglio si scaricò
questo terribil nembo d'armati, fu Brescia. Benchè forte di mura, benchè
provveduta di gran copia di forti cittadini[2047], fece ben qualche
opposizione sulle prime al re di Boemia, che non tardò a devastare i
suoi contorni; ma giunto che fu l'imperadore in persona, e fermatosi
circa quindici giorni in quelle parti, con saccheggiare e bruciar molte
castella e ville, mandarono i Bresciani a trattare d'accordo, e con
dargli sessanta ostaggi e una grossa somma di danaro, si procacciarono
il perdono e la pace da Federigo. Se vogliamo prestar fede al racconto
dell'Urspergense[2048] pagò quel popolo _sessantamila marche d'argento_;
ma forse quel _sessanta_ cade sopra gli ostaggi, sembrando eccessiva una
tal somma, giacchè vedremo in breve quanto meno costò ai Milanesi il
loro accordo. Stando sul Bresciano pubblicò l'Augusto Federigo le leggi
militari riferite da Radevico[2049], ed intimata la guerra contra di
Milano, fu consigliato dai savii e dottori d'allora a citar prima quel
popolo, per poter proferire legittimamente la sentenza contra di loro.
Comparvero gli avvocati milanesi, sfoderarono leggi e paragrafi con
grande eloquenza; ma a nulla servì. Fecero esibizione di molto danaro
all'imperadore, si raccomandarono a quanti principi vi erano: tutto
indarno. Convenne loro tornarsene colle mani vote, e nel consiglio de'
più valenti giurisconsulti d'Italia, chiamati colà, fu proferita contra
de' Milanesi la sentenza, e tutti messi al bando dell'imperio.
Incamminossi dipoi la formidabil armata alla volta dell'Adda, per
passarlo[2050]. Non v'era che il ponte di Cassano per cui si potesse
transitare; ma dall'altra parte del ponte v'era un buon corpo di
Milanesi con assaissimi villani alla guardia: sicchè si credette
disperato il passaggio. Ma venendo il re di Boemia e Corrado duca di
Dalmazia all'ingiù dietro il fiume, parve loro di avere scoperto un bel
guado; e senza pensarvi più che tanto, spinsero i cavalli nell'acqua.
Molti se ne annegarono, ma molti ancora salirono felicemente all'altra
riva. Visti costoro di là dal fiume, e portatone l'avviso ai Milanesi
che custodivano l'altra testa del ponte: addio, buon pro a chi ebbe
migliori le gambe. Allora con tutto suo comodo passò l'imperadore colla
nobiltà per quel ponte. Passò anche parte dell'esercito; ma sul più
bello una parte d'esso ponte pel troppo peso si ruppe, e precipitarono
in acqua molti cavalieri e scudieri. Quei poscia che erano già passati,
incalzarono i fuggitivi milanesi, ne uccisero alquanti, e molti ne
fecero prigioni. Ingrandì poi la fama talmente questo passaggio, che
l'Abbate Urspergense[2051] spacciò essersi accampato Federigo _juxta
flumen Padum_, in vece di dir presso l'_Adda_; e che mancandogli barca
da passare, salito a cavallo di un trave, sostenuto di qua e di là da
alcune aste, con pochi passò di là, ed assaliti i nemici, li mise in
fuga. Dovea lo storico pesar meglio sì bizzarro avvenimento. Recato a
Milano questo inaspettato avviso, quando si credeva che il fiume Adda
avesse a fermare i passi dell'armata nemica, riempiè di spavento, di
lagrime e d'urli il popolo imbelle, e cominciò a fuggire una gran
quantità d'uomini e donne plebee, e fino gl'infermi si faceano portar
fuori di città. Assediò Federigo il castello di Trezzo, e l'ebbe in poco
tempo a patti di buona guerra. Passò di là su quel di Lodi, ed eccoti
comparire alla sua presenza una folla di poveri Lodigiani in abito
compassionevole colle croci in mano, chiedendo giustizia contra de'
Milanesi che gli aveano cacciati dalle lor case e tolti i loro beni. Era
pur troppo la verità. Nell'antecedente gennaio aveano i Milanesi voluto
obbligare il popolo di Lodi a prestare un nuovo giuramento di fedeltà.
Erano pronti i Lodigiani, ma vi voleano inserire la clausola _salva
imperatoris fidelitate_, stante il giuramento da essi fatto
all'imperadore con licenza degli stessi consoli di Milano. Ostinatisi i
Milanesi di volere una fedeltà senza eccezion di persone, e minacciando
l'esilio e la perdita dei beni, amò piuttosto quasi tutto quell'infelice
popolo di abbandonar le lor case e tenute, che di contravvenire al già
fatto giuramento; e si ritirò chi a Pizzighettone e chi a Cremona, ma
con lasciar molti d'essi la vita in quelle parti per le troppe miserie.
Compassionò forte l'imperadore lo stato infelice di quel popolo, e gli
assegnò un luogo presso il fiume Adda, appellato Monte Ghezone, per
potervi fabbricare la nuova loro città, giacchè il vecchio Lodi, lontano
di là quattro miglia, era stato diroccato dai Milanesi.

Mentre si tratteneva l'Augusto Federigo sul Lodigiano[2052], isperanzito
il _conte Echeberto_ di Butena di far qualche bel colpo, senza chiederne
licenza, si portò con circa mille cavalieri ben armati fin quasi alle
porte di Milano. Uscirono i Milanesi per dimandargli colle lance e spade
ciò che egli andasse cercando; ed attaccata la zuffa, che fu ben dura e
sanguinosa per l'una parte e per l'altra, restò in essa ucciso il conte
con _Giovanni duca_ di Traversara, il più nobile dell'esarcato di
Ravenna, e con altri. Si salvò con una veloce ritirata il rimanente de'
Tedeschi. Federigo condannò la di lui disubbidienza, e provvide per
l'avvenire. Aveva esso Augusto preventivamente mandato ordine pel regno
d'Italia[2053], che gli atti all'armi venissero all'oste per l'impresa
di Milano. Però giunsero colà assaissimi armati dalle città di _Parma,
Cremona, Pavia, Novara, Asti, Vercelli, Como, Vicenza, Trevigi, Padova,
Verona, Ferrara, Ravenna, Bologna, Reggio, Modena e Brescia_, e molti
altri della Toscana. Erano allora tutte queste città del regno d'Italia.
Sire Raul fa conto che ascendessero a quindici mila cavalli, e fosse
innumerabile la fanteria. Radevico solamente scrive che l'armata passava
i cento mila combattenti. Passò l'imperadore con questo potentissimo
esercito all'assedio di Milano, se crediamo a Radevico, nel dì 25 di
luglio; ma più meritano fede Ottone Morena, che scrive ciò fatto nel dì
6 d'agosto, e Sire Raul, che lo riferisce al dì 5 d'esso mese. Intorno
alla città fu divisa in varii campi e quartieri l'armata. Trovavasi
quella nobilissima città guernita di forti mura, di altissime torri, e
di una profonda fossa piena d'acqua corrente. Il suo giro, per quanto
scrive Radevico, era _più di cento stadii_; del che io dubiterei. Nulla
mancava ai cittadini di valore e di sperienza nell'armi per ben
difendersi. Fecero eglino una sortita vigorosa addosso ai Boemi,
accampati al monistero di san Dionisio; e vi fu aspro combattimento; ma
accorso l'imperadore con altre molte squadre, furono obbligati a
retrocedere in fretta. Aveano essi Milanesi posta gente alla difesa
dell'Arco romano, che non era già un castello, come immaginò il padre
Pagi, ma una fabbrica di quattro archi con torrione di sopra[2054],
composta di grossissimi marmi fuori di Porta romana. Vi alloggiavano
quaranta soldati, che per otto giorni bravamente vi si mantennero; ma
non potendo resistere al continuo tirare dei balestrieri, in fine si
renderono. Colà sopra fece poi l'imperadore mettere una petriera che
incomodava forte i Milanesi; ma questi, con opporne un'altra, fecero
sloggiare di là i Tedeschi. Non pochi altri fatti d'armi succederono,
che io tralascio. Cresceva intanto nella città la penuria de' viveri per
la gran gente che vi s'era rifugiata. Entrò anche una fiera epidemia in
quel popolo, la quale mieteva le vite di molti. La Martesana, il Seprio,
anzi tutte le castella e ville del distretto Milanese andavano a sacco,
scorrendo dappertutto i Tedeschi, con tagliare anche gli alberi e le
viti, ma più de' Tedeschi sfogando i Pavesi e Cremonesi la rabbia loro
contro le case e tenute degli emuli Milanesi. In tale stato si trovava
la misera città, quando _Guido conte_ di Biandrate, uomo saggio, e che
per l'onoratezza sua era egualmente amato e stimato da' Tedeschi che da'
Milanesi, entrato in città, con tale facondia perorò, che indusse que'
cittadini ad implorare la misericordia dell'Augusto sovrano. Vennero
dunque i consoli e primi della città a trovare il re di Boemia e il duca
d'Austria, i quali, interpostisi coll'imperadore, ottennero il perdono e
la pace colle condizioni che Radevico distesamente riferisce[2055]. Le
principali furono di lasciare in libertà Como e Lodi; di pagar nove mila
marche d'argento, in oro, argento o altra moneta[2056]; di dare trecento
ostaggi; di rilasciare i prigioni; che i consoli sarebbono confermati
dall'imperadore; che il comune di Milano dimetterebbe all'imperadore le
regalie, come la zecca e le gabelle; che si rimetterebbono i Cremaschi
in grazia d'esso Augusto col pagamento di cento venti marche.
Sottoscritta che fu dalle parti questa convenzione nel dì 7 di
settembre, l'arcivescovo e il clero colle reliquie, i consoli e la
nobiltà in veste positiva, co' piedi nudi e colle spade sopra il collo,
e la plebe colle corde al collo, vennero nel dì seguente a chiedere
perdono al vincitore Augusto[2057], il quale s'era allontanato quasi
quattro miglia dalla città per maggior fasto, ed affinchè passassero i
supplichevoli per mezzo ai soldati sfilati per tutta la strada. Furono
poi rilasciati dai Milanesi i prigioni, fra i quali si contarono mille
Pavesi. La bandiera dell'imperadore fu alzata nella torre della
metropolitana di Milano, che era la più alta di tutte le fabbriche di
Lombardia.

Poscia portatosi l'Augusto Federigo _apud Modoicum, sedem regni italici,
coronatur,_ cioè a Monza. Giudicai io[2058] una volta che queste parole
di Radevico indicassero conferita allora la corona del regno italico a
Federigo; ma, secondo le osservazioni fatte di sopra, altro non vogliono
significare se non che egli comparve in pubblico colla corona in capo.
_In die Nativitatis beatae Mariae Virginis imperiali diademate processit
coronatus_, dice l'Abbate Urspergense. Avea Turisendo, cittadino
veronese, occupato il castello regale di Garda, nè volendolo rendere i
Veronesi all'imperadore, giacchè il comandar colle lettere non giovava,
andò Federigo colà con un corpo di milizie, e, passato l'Adige, cominciò
le ostilità nel loro territorio: il che è da credere gl'inducesse ad
ubbidire. Volle poi ostaggi da tutte le città del regno; e tutte
gl'inviarono, fuorchè Ferrara. All'improvviso arrivò a quella città
_Ottone conte_ palatino di Baviera, e, dopo aver ivi regolate le
faccende, seco condusse quaranta Ferraresi per ostaggi. Tenne poi
Federigo in Roncaglia per la festa di san Martino la general dieta del
regno italico, dove intervennero tutti i vescovi, principe i consoli, e
furono anche chiamati gli allora quattro famosi lettori delle leggi
nello studio di Bologna, cioè _Bulgaro, Martino Gossia, Jacopo_ ed
_Ugone_ da Porta Ravegnana, tutti e quattro discepoli di quell'Irnerio
ossia Guarnieri che di sopra vedemmo primo interprete delle leggi in
Bologna. Interrogati costoro di chi fossero le regalie, cioè i ducati, i
marchesati, le contee, i consolati, le zecche, i dazii, le gabelle, i
porti, mulini, le pescagioni ed altri simili proventi: _Tutto, tutto_,
gridarono que' gran dottori, _è dell'imperadore_. E però niuno vi fu di
quei principi e signori, il quale, cedendo alla potenza, non dimettesse
le regalie in mano di Federigo. Egli ne rilasciò una parte a quei
solamente che con buoni documenti mostrarono di goderle per indulto e
concessione degl'imperadori. Fu giudicato il resto del fisco,
consistente in una rendita annua di trenta mila talenti. Nè si dee
tacere una particolarità, di cui poscia fu fatta strepitosa menzione da
molti legisti e storici. Cioè, che cavalcando un dì l'imperador Federigo
fra Bulgaro e Martino, due de' suddetti dottori, dimandò loro, s'egli
giuridicamente fosse _padrone del mondo_[2059]. Rispose Bulgaro, _che
non ne era padrone quanto alla proprietà_; ma il testardo Martino disse
_che sì_. Smontato poi l'imperadore, donò ad esso Martino il palafreno
su cui era stato: laonde Bulgaro disse poi queste parole: _Amisi equum,
quia dixi aequum, quod non fuit aequum_.

Guadagnò ben Federigo con poca fatica il dominio di tutto il mondo.
Sarebbe stato prima da vedere se i Franzesi, Spagnuoli, Inglesi, e molto
più se i Greci, Persiani, i Cinesi, ec. l'intendessero così. Ah che
l'adulazion sempre è stata e sempre sarà la ben veduta nelle corti dei
principi! Pubblicò poscia Federigo alcune leggi per la conservazion
della pace, e intorno ai feudi, con proibirne specialmente
l'alienazione, e il lasciargli alle chiese; il che operò che non più da
lì innanzi agli ecclesiastici, se non difficilmente, pervenissero
marchesati, contee, castella ed altri feudi. Portate le doglianze de'
Cremonesi dei danni loro inferiti dai Piacentini, contra di questi
ultimi, fu proferito il bando imperiale. Per liberarsene, convenne loro
pagar grossa somma di danaro, ed atterrare i bastioni fatti nei tre anni
addietro alla lor città, siccome ancora le antiche torri delle loro
mura. Levò inoltre Federigo Monza dalla suggezion di Milano; ed,
accostatosi ai confini del Genovesato, obbligò quel popolo a pagar mille
e dugento marche d'argento al suo fisco, e di dismettere la fabbrica
delle lor mura. Racconta Caffaro[2060], uno degli ambasciatori spediti a
Federigo dai Genovesi, le ragioni addotte in lor favore, per non
soggiacere alle rigorose leggi pubblicate allora dal fisco imperiale,
allegando massimamente le gravi spese occorrenti a quella città per
difendere quelle coste dai nemici dell'imperio: perlochè erano e
meritavano d'essere privilegiati. Sì fatte ragioni non furono addotte in
vano. Ma nulla dice Caffaro delle mura della città; anzi, secondo lui,
queste furono perfezionate nell'anno appresso. Grande imperadore,
insigne eroe, gridavano tutti i Tedeschi, allorchè videro con tanta
felicità imposto un sì pesante giogo da Federigo agli Italiani; ma fra
gl'Italiani coloro ancora che erano amici dell'imperadore, ne' lor cuori
ben diversamente parlavano.

Celebrò poi Federigo nella città di Alba il santo Natale; spedì alcuni
dei suoi principi a mettere i consoli nelle città. Ed avendo trovato che
le rendite dei beni della contessa Matilda erano state disperse e
trascurate dal _duca Guelfo_ suo zio, le raccolse e rendè al medesimo
duca. Tali furono le imprese di Federigo Barbarossa in quest'anno:
principe che s'era messo in pensiero di ridurre l'Italia presso a poco
come era al tempo dei Longobardi e de' Franchi, per non dire in
ischiavitù, e che cominciò a trovar la fortuna favorevole a così vasti
disegni. Neppure la Puglia andò in questi tempi esente da
turbolenze[2061]. _Andrea conte_ di Rupecanina, uno de' baroni
fuorusciti, di cui parlammo di sopra, dopo aver preso il contado di
Fondi ed altri luoghi, fatta l'Epifania di quest'anno, andò alla città
di San Germano, e se ne impadronì, con far prigioni circa dugento
soldati del _re Guglielmo_. Essendo fuggito il resto al monistero di
Monte Casino, passò colà Andrea, e diede più battaglie a quel luogo.
L'Anonimo Casinense scrive che nol potè avere. Giovanni da Ceccano,
nella Cronica di Fossanuova, attesta il contrario; ma amendue concordano
ch'egli nel seguente marzo, senza sapersene il motivo, abbandonò quelle
contrade, e ritirossi in Ancona, ubbidiente allora ai Greci. Intanto
_Manuello imperador_ d'essi Greci spedì una formidabil flotta da
Costantinopoli[2062], siccome fu creduto, a' danni del re di Sicilia.
Aveva il re Guglielmo anche egli allestita una potente flotta, la quale,
secondo l'asserzione del Dandolo[2063], inviata in Egitto, diede il
sacco alla città di Tani ossia Tanne alla foce del Nilo. Ma, udito il
movimento de' Greci[2064], venne Stefano ammiraglio d'essa flotta, e
fratello di Maione, in cerca dei nemici; e trovatili nell'Arcipelago,
tuttochè inferiore di forze, valorosamente gli assalì, e gloriosamente
gli sconfisse, con bruciar molti de' loro legni. Tale era allora il
valore e la potenza de' Siciliani. Rimase prigione in tal congiuntura
Costantino Angelo generale della greca flotta, e zio dell'imperadore,
con Alessio Comneno, Giovanni duca e molt'altra nobiltà e gente, che fu
inviata in Sicilia. Scorse poi la vittoriosa armata fino a Negroponte, a
cui diede il sacco; e dopo aver fatto altri mali alle contrade dei
Greci, se ne tornò trionfante in Sicilia nel mese di settembre. Servì
questa sconfitta ad abbassare talmente l'orgoglio dell'Augusto Manuello,
che sospirò da lì innanzi di aver pace col re Guglielmo. A questo fine
spedì egli ad Ancona Alessio Ausuca, uomo di gran destrezza, che
intavolò il trattato, e conchiuse una tregua per trent'anni fra esso
Guglielmo e l'Augusto greco: con che si può credere che fossero
rilasciati i prigioni fatti nella suddetta sconfitta.

NOTE:

[2046] Radevicus, de Gest. Frider. I, lib. 1, cap. 15.

[2047] Otto Morena, Histor. Laudens.

[2048] Abbas Urspergensis, in Chron.

[2049] Radevicus, de Gest. Friderici I, lib. 1, cap. 26.

[2050] Otto Morena, Sire Raul.

[2051] Abbas Urspergens., in Chronico.

[2052] Rad., lib. 1, cap. 31.

[2053] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Ital. Sire Raul, in
Histor.

[2054] Radev. Otto Moren.

[2055] Radev., de Gest. Friderici I, lib. 1, cap. 41.

[2056] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 4 Rer. Italic.

[2057] Abbas Urspergens., in Chron. Otto Morena, Hist. Laud., tom. 6
Rer. Italic.

[2058] Commentar. de Corona Ferrea, tom. 2. Anecdot. Latin.

[2059] Otto Morena, in Histor. Laud., tom. 6 Rer. Italic.

[2060] Caffar., Annal. Genuens., lib. 1.

[2061] Anonymus Casinens., in Chron. Johann. de Ceccano, in Chron.
Fossaenovae.

[2062] Nicetas, in Hist.

[2063] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2064] Romualdus Salernitanus, in Chron., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCLIX. Indizione VII.

    ALESSANDRO III papa 1.
    FEDERIGO I re 8, imperad. 5.


Insorsero sul principio di quest'anno principii di nuova discordia fra
papa _Adriano IV_ e L'Augusto _Federigo_. Radevico scrive[2065] che il
papa mendicava i pretesti per romperla, senza considerare se fossero
giuste o no le doglianze dello stesso pontefice. Lagnavasi Adriano dei
messi dell'imperadore, che con somma insolenza esigevano il fodro negli
Stati della Chiesa romana, e molto più perchè Federigo avesse coll'aspra
legge delle regalie non solamente aggravati i principi e le città
d'Italia, ma ancora i vescovi ed abbati. E intorno a ciò gli spedì una
lettera, che in apparenza parea amorevole, ma in sostanza era alquanto
risentita, per mezzo di una persona bassa, la quale appena l'ebbe
presentata, che se la colse. Essendo giovane allora Federigo,
l'alterigia si potea chiamare il suo primo mobile; però gli fumò forte
questa bravata. Accadde, che morto in questi giorni _Anselmo
arcivescovo_ di Ravenna, _Guido_ figliuolo del conte di Biandrate,
protetto dall'imperadore, fu eletto con voti concordi dal clero e popolo
di Ravenna per loro arcivescovo. Ma essendo egli cardinale suddiacono
della Chiesa romana, senza licenza speciale del papa non poteva passare
ad altra chiesa. Ne scrisse per questo l'imperadore ad Adriano, il quale
rispose con belle parole sì, ma senza volerlo compiacere. Sdegnato
Federigo, ordinò al suo cancelliere che da lì innanzi, scrivendo lettere
al papa, anteponesse il nome dell'imperadore, come si facea co' semplici
vescovi: rituale contrario all'uso di più secoli, e ingiurioso di troppo
alla santa Sede. Due lettere che rapporta il Baronio[2066] su questo
proposito, copiate dal Nauclero, l'una del papa all'imperadore, e
l'altra di Federigo al pontefice, a me sembrano fatture di qualche
ozioso dei secoli susseguenti, oppur finte allora da qualche sciocco
ingegno. In somma andavano crescendo i semi della discordia, e tanto più
perchè corse voce d'essere state intercette lettere del papa che
incitava di nuovo alla ribellione i Milanesi. Prese poi maggior fuoco la
contesa, perchè Adriano inviò a Federigo quattro cardinali, cioè
_Ottaviano_ prete del titolo di santa Cecilia, _Arrigo_ de' santi Nereo
ed Achilleo, _Guglielmo_ diacono e _Guido_ da Crema, anch'esso diacono
cardinale. Proposero questi varie pretensioni della corte romana, cioè
che l'imperadore non avesse a mandare suoi messi a Roma ad amministrar
giustizia, senza saputa del romano pontefice, perchè tutte le regalie e
i magistrati di Roma sono del papa. Che non si dovessero esigere fodro
dai beni patrimoniali della Chiesa romana, se non al tempo della
coronazione imperiale. Che i vescovi d'Italia avessero bensì da prestare
il giuramento di fedeltà all'imperadore, ma senza omaggio. Che i nunzii
dell'imperadore non alloggiassero per forza ne' palagi de' vescovi. Che
si avessero a restituire i poderi della Chiesa romana e i tributi di
Ferrara, Massa, Figheruolo, e di tutta la terra della contessa Matilda,
e di tutta quella che è da Acquapendente sino a Roma, e del ducato di
Spoleti, e della Corsica e Sardegna. Rispose Federigo che starebbe di
tali pretensioni al giudizio d'uomini saggi, al che i legati pontificii
non vollero acconsentire, per non sottomettere il pontefice all'altrui
giudizio. All'incontro pretendeva egli che Adriano avesse mancato alla
concordia stabilita, per cui era vietato il ricevere senza comune
consentimento ambasciatori greci, siciliani e romani; e che non fosse
permesso ai cardinali di andare per gli Stati imperiali senza permission
dell'imperadore, aggravando essi troppo le chiese; e che si mettesse
freno alle ingiuste appellazioni, con altre simili pretensioni e
querele. Non si trovò ripiego; e Federigo mostrò specialmente
dell'indignazione della prima proposizion dei legati, parendogli di
diventare un imperador dei Romani di solo nome e da scena, quando se gli
volessero levare ogni potere e dominio in Roma. Intanto assai informato
il senato romano di queste dissensioni, prese la palla al balzo per
rimettersi in grazia di Federigo, e gli spedì nunzii, che furono ben
ricevuti, con isprezzo e sfregio dell'autorità pontificia.

Ma da questi guai ed imbrogli del mondo venne la morte a liberare il
papa _Adriano IV_, il quale, se si ha da credere all'Abbate Urspergense
e a Sire Raul, avea giù conchiusa lega coi Milanesi, Piacentini e
Cremaschi contra di Federigo, meditando anche di fulminare contra di lui
la scomunica. Passò egli a miglior vita per infiammazion di gola nel
primo dì di settembre, mentre era alla villeggiatura d'Anagni, con
lasciar dopo di sè gran lode di pietà, di prudenza e di zelo, e molte
opere della sua pia e principesca liberalità. Ma da ben più gravi
malanni fu seguitata la morte sua. Nel dì 4 del mese suddetto, raunatisi
i vescovi e cardinali per dare un successore al defunto pontefice, dopo
tre giorni di scrutinio convennero nella persona di _Rolando_ da Siena,
prete cardinale del titolo di san Callisto, e cancelliere della santa
romana Chiesa[2067], che ripugnò forte, e prese in fine il nome di
_Alessandro III_. Univansi in questo personaggio le più eminenti virtù
morali, la dottrina e la sperienza del mondo, di maniera che tutti i
buoni il riguardarono tosto per un bel regalo fatto alla Chiesa di Dio;
ed anche san Bernardo, quando era in vita, ne avea conosciuto ed
esaltato il merito singolare. Ma l'ambizione del cardinal _Ottaviano_
quella fu che sconcertò così bella armonia, con dar principio e fomento
ad un detestabile scisma. V'ebbe segretamente mano anche Federigo, il
quale dacchè si mise in testa di aggirare ad un solo suo cenno tutta
l'Italia, conoscendo di qual importanza fosse l'avere amico e non nemico
il romano pontefice, si studiò di mettere sulla sedia di san Pietro una
persona a lui ben nota e confidente; e dovette preventivamente farne
maneggi non solamente allorchè Ottaviano fu alla sua corte, ma anche
allorchè i Romani nel precedente anno furono in sua grazia rimessi. Era
presente all'elezione suddetta esso Ottaviano cardinale di santa
Cecilia, di nazione Romano, ed ebbe anche pel pontificato due miseri
voti da _Giovanni_ cardinale di san Martino e da _Guido_ da Crema
cardinale di san Callisto. Costui invasato dalla voglia d'essere papa,
quando si vide deluso, strappò di dosso ad Alessandro il manto
pontificale, e sel mise egli furiosamente addosso; ma toltogli questo da
un senatore, se ne fece tosto portare un altro preparato da un suo
cappellano, e frettolosamente se ne coprì, ma al rovescio, mettendo al
collo ciò che dovea andare da piedi: il che dicono che eccitò le risa di
tutti, se pur vi fu chi potesse ridere a così orrida tragedia. Assunse
Ottaviano antipapa il nome di _Vittore IV_, e con guardie d'armati tenne
rinserrato il legittimo papa in un sito forte della basilica di san
Pietro insieme coi cardinali per molti giorni. Ma il popolo romano, non
potendo sofferire tanta iniquità, unito coi Frangipani rimise in libertà
Alessandro, il quale ritiratosi fuor di Roma con essi cardinali alla
terra di Ninfe, quivi fu consecrato papa dal vescovo d'Ostia nel dì 20
di settembre.

Attese intanto l'antipapa a guadagnar dei voti nel clero e popolo;
trasse dalla sua due vescovi, ed anche _Jomaro_ vescovo tuscolano, che
prima aveva eletto Alessandro, e da lui nel monistero di Farfa si fece
consecrare nella prima domenica di ottobre. Due altri cardinali si
veggono nominati per lui in una lettera rapportata dal cardinal
Baronio[2068]. Come prendesse questo affare l'imperador Federigo, si
accennerà fra poco, esigendo intanto il racconto che si parli prima di
una rotta fra lui e i Milanesi[2069]. Mandò egli nel gennaio del
presente anno a Milano _Rinaldo_ suo cancelliere, che fu poi arcivescovo
di Colonia, e _Ottone conte_ palatino di Baviera, per crear quivi un
podestà, ed abolire i consoli: rito che Federigo cominciò ad introdurre
nelle città italiane, molte delle quali per forza vi si accomodarono.
Erano esacerbati forte i Milanesi contra di questo imperadore, che
null'altro cercava tuttodì se non di abbatterli sempre più, e di mettere
loro addosso i piedi. Già gli avea spogliati del dominio di Como e di
Lodi nella capitolazione; poi contra la capitolazione avea smembrata dal
loro contado la nobil terra di Monza, e tutto il Seprio e la Martesana,
provincie da lungo tempo sottoposte a Milano. S'aggiunse quest'altra
pretensione, di non voler più che potessero eleggere i consoli; il che
era chiaramente contrario ai patti riferiti da Radevico, nei quali si
legge: _Venturi consules a populo eligantur, et ab ipso imperatore
confirmentur_. Diedero perciò nelle smanie i Milanesi, chiamando
Federigo mancator di parola, ed infuriati quasi misero le mani addosso
ai ministri imperiali, che si salvarono colla fuga. Il cancelliere
Rinaldo mai più loro non la perdonò. Similmente avea Federigo nello
stesso mese inviati i suoi messi a Crema, con intimare a quel popolo,
suddito o collegato de' Milanesi, che prima della festa della
Purificazion della Vergine avessero smantellate le mura e spianate le
fosse della lor terra. Ancor questo era contro ai patti; ma i Cremonesi,
per guadagnar questo punto, aveano promesso all'imperadore quindici mila
marche d'argento. A così inaspettata e dura proposizione i Cremaschi non
si poterono contenere; e dato all'armi, poco mancò che non trucidassero
i messi cesarei, i quali se ne scapparono a ragguagliar l'imperadore di
quanto era loro accaduto.

Federigo per allora dissimulò la sua collera. Ma nel dì 21 di marzo si
trovava egli in Luzzara, terra nel distretto di Reggio, dove confermò
tutti i suoi privilegii e diritti alla città di Mantova[2070]. Di là
venne a Bologna, dove celebrò la santa Pasqua nel dì 12 d'aprile. In
questo mentre i Milanesi, credendosi disobbligati dai patti, giacchè il
primo a romperli era stato Federigo, e considerando ch'egli amico non
macchinava se non la loro totale schiavitù e rovina, determinarono di
volerlo piuttosto nemico. Adunque nel sabbato dopo Pasqua andarono
coll'esercito loro all'assedio del castello di Trezzo, dove era un buon
presidio di Tedeschi. Talmente insisterono all'espugnazion di quel luogo
con un castello di legno, con petriere e continui assalti, che
v'entrarono vittoriosi. Fu dato il sacco, presa una gran somma di danaro
ivi riposta come in sicura fortezza da Federigo; fatti prigioni ed
inviati a Milano legati più di dugento Tedeschi con varii villani.
Poscia diroccarono da' fondamenti quel castello, se vogliam credere, a
Radevico; ma, siccome vedremo all'anno 1167, per testimonianza di Acerbo
Morena, quel castello tuttavia sussisteva. Romoaldo Salernitano
aggiugne[2071] che nella presa di Trezzo eglino liberarono ancora i loro
ostaggi ivi detenuti. Di questo non parla nè il Morena, nè Sire Raul, e
noi vedremo fra poco quando tali ostaggi furono ricuperati. Due volte
poscia dopo la Pentecoste tentarono i Milanesi di sorprendere la
nascente città di Lodi nuovo; ma usciti arditamente i Lodigiani, li
costrinsero ad una frettolosa ritirata, con far molti di loro prigioni.
Si mossero inoltre i Bresciani, collegati di nuovo co' Milanesi, contra
del territorio di Cremona: con loro danno nondimeno, perchè respinti dai
Cremonesi che ne uccisero o presero in circa quattrocento. Aggiugne
Radevico che i Milanesi inviarono anche un sicario per levar di vita
Federigo: il che non gli riuscì; ma poi sinceramente confessa d'aver
inteso che costui era un furioso, e che innocentemente fu ucciso. Dopo
avere l'Augusto Federigo, stando in Bologna fatto dichiarar nemici della
corona i Milanesi, anche prima dell'assedio da lor fatto di Trezzo, ed
anche senza citarli, attese a far la guerra al loro distretto. Intanto
avea spedito pressanti ordini in Germania per far venire con grande
sforzo di soldatesche l'Augusta sua consorte _Beatrice_, e _Arrigo il
Leone_ duca di Baviera e Sassonia suo cugino[2072]. In fatti calarono
essi, menando seco una possente armata. Di copiosi rinforzi ancora
condusse _Guelfo_ principe di Sardegna, duca di Spoleti, marchese di
Toscana e zio d'esso Arrigo. Si stende Radevico nelle lodi di questi due
insigni principi, che per brevità tralascio, ma meritano di esser lette
da chiunque ama l'onor dell'Italia, giacchè amendue traevano il lor
sangue dall'Italia, cioè dalla nobilissima casa d'Este. Allora fu che i
Cremonesi coll'offerta di undicimila talenti (forse marche d'argento)
indussero l'imperador Federigo all'assedio e alla distruzione di Crema,
contra della quale immenso era il loro odio[2073]. A dì 7 di luglio
impresero gli stessi Cremonesi l'assedio di quella terra, e colà dopo
otto giorni vi comparve ancora l'imperadore colla sua potentissima
armata, e si diede principio alle offese.

Confidato il popolo cremasco nelle buone mura e fortificazioni della lor
terra, rinforzato ancora da quattrocento fanti e da alquanta cavalleria
inviata da Milano, si accinse ad una gagliarda difesa. Venne poi
Federigo a Lodi, parte per far curare il male d'una sua gamba, e parte
per impedire ai Milanesi di portare soccorso alcuno a Crema. Di concerto
con lui i Pavesi entrarono nel distretto di Milano, mettendolo a sacco;
ma usciti i Milanesi, diedero loro addosso con farne molti prigioni:
quando eccoti, mentre ritornavano vittoriosi, sbucare il medesimo
imperadore da un'imboscata, che li mise in fuga; e non solamente
ricuperò i Pavesi, ma prese ben trecento cavalieri milanesi, mandati
poscia da lui nelle carceri di Lodi, e di là trasportati a Pavia.
Diffusamente descrive Ottone Morena il famoso assedio di Crema. A me
basterà di dire, che se i Tedeschi, Cremonesi e Pavesi intorno a quella
terra fecero di molte prodezze per vincerla, non minori furono quelle
degli assediati per difenderla. Le testuggini, le catapulte, i gatti, i
mangani o le petriere d'ogni sorta ebbero di gran faccende in tal
congiuntura. Più di dugento botti piene di terra portate alla fossa
diedero campo ad un altissimo castello di legno, fabbricato dai
Cremonesi per avvicinarsi alle mura. Ma i mangani dei Cremaschi
fulminavano grosse pietre, che lo misero in evidente pericolo di
rompersi. Allora cadde in mente a Federigo una diabolica invenzione,
cioè di far legare sopra esso castello gli ostaggi de' Cremaschi, ed
alcuni nobili milanesi prigioni, acciocchè, vinti dalla compassione de'
figliuoli o parenti, gli assediati cessassero dalla tempesta de' sassi.
Ma questi non perciò desisterono, e restaronvi uccisi nove di que'
nobili, ed altri storpii: il che indusse Federigo a ritirare i
sopravvivuti da quel macello. Ma accortisi i Milanesi e Cremaschi del
male fatto contra de' suoi, talmente s'inviperirono, che sulle mura e
sugli occhi dell'armata scannarono molti Tedeschi, Cremonesi e Lodigiani
loro prigioni. E perchè Federigo fece impiccar per la gola quelli di
Crema, i Cremaschi anch'essi praticarono la stessa crudeltà contro quei
dell'imperadore. Con tali orride scene procedette l'assedio fino al fine
dell'anno, senza che riuscisse agli assedianti di far punto rallentare
il valore di chi difendea quella terra. Restò morto in quelle baruffe
_Guarnieri marchese_ della marca di Camerino, ossia d'Ancona, venuto
colle sue genti alla chiamata dell'imperadore. Intanto _papa Alessandro_
era passato a Terracina, e stava osservando i portamenti di _Ottone
conte_ palatino e di _Guido conte_ di Biandrate, già spediti da Federigo
a Roma, vivente ancora papa Adriano IV[2074]. Davano questi buone parole
al pontefice; ma in fatti, per non dispiacere all'imperador lor padrone,
prestavano favore ed aiuto all'antipapa Ottaviano. Per parere anche dei
cardinali determinò papa Alessandro d'inviare i suoi nunzi all'Augusto
Federigo, per esporgli le sue buone ragioni, e chiarirsi delle di lui
intenzioni. Non fossero mai andati. Il trovarono all'assedio di Crema.
Non solamente ricusò egli di ricevere le lettere, ma volle, o finse di
voler fare impiccare chi le avea portate, se non si fossero opposti i
duchi _Arrigo il Leone_ e _Guelfo_ principi che sempre si fecero
conoscer divoti della santa Sede apostolica. Così restò deciso che
Federigo era tutto per l'antipapa, il quale appunto, perchè confidato
nella di lui protezione, aveva osato di usurpare il pontificato in
concorrenza di chi era stato sì canonicamente eletto papa. Ma il re
_Guglielmo_ non istette punto sospeso a riconoscere per vero papa
Alessandro, congiungendosi colla giustizia anche i motivi politici che
il facevano andar di accordo con chi non era amico dell'imperadore. In
quest'anno terminarono i Genovesi[2075] in quarantatrè giorni con
ammirabil fretta e lavoro le mura della loro città, ed era il giro
d'esse cinque mila e cinquecento piedi, con mille e settanta merli.
Federigo facea paura a tutti; e chiunque potea si premuniva.

NOTE:

[2065] Radevicus, de Gest. Frider. I, lib. 2, cap. 15.

[2066] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[2067] Cardinal. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.

[2068] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[2069] Radevicus, lib. 2. cap. 21. Otto Morena, Histor. Laudens., tom. 6
Rer. Ital. Sire Raul.

[2070] Antiquit. Ital., Dissert. XIII, pag. 711.

[2071] Romualdus Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.

[2072] Radevicus, de Gest. Friderici I, lib. 2, cap. 38.

[2073] Otto Morena, Hist. Laudens.

[2074] Cardinal. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.

[2075] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCLX. Indizione VIII.

    ALESSANDRO III papa 2.
    FEDERIGO I re 9, imperad. 6.


Continuarono i Cremaschi assediati a fare una valida difesa contra
dell'esercito imperiale, ma essendo fuggito da essi nel campo nemico il
loro principal ingegnere[2076], e non potendo più reggere a tante
vigilie e stenti, ricorsero a _Pellegrino patriarca_ d'Aquileia e ad
_Arrigo il Leone_ duca di Baviera, pregandoli di trattar della resa
coll'Augusto Federigo. Non altro poterono ottenere, se non che fosse
permesso ai Milanesi e Bresciani, che quivi erano, di uscire senz'armi,
e che i Cremaschi godessero anch'eglino licenza di uscire con quel che
poteano portare addosso. Accettata la dura condizione, tutto
quell'infelice popolo colla testa china e colle lagrime sugli occhi,
detto l'ultimo addio alla patria, uscì nel giorno 27 di gennaio[2077],
chi portando in vece di mobili sulle spalle i teneri figliuolini, chi la
moglie, o il marito febbricitante, con ispettacolo grande della miseria
umana, e insieme dell'amore e della fede. Fu poi la misera terra
saccheggiata, incendiata e da' fondamenti distrutta dagl'irati
Cremonesi. Terminata questa tragedia, il duca _Guelfo VI_ se ne tornò in
Toscana; tenne un gran parlamento nella terra di San Genesio, dove diede
colla bandiera l'investitura di sette contadi ai conti rurali di quelle
contrade; alle altre città e castella concedette quel che era di dovere,
ed anche ricuperò le rendite a lui dovute. Fu con tutta onorevolezza
ricevuto dai popoli di Pisa, Lucca ed altre città. Diede lo stesso
ordine al ducato di Spoleti; e giacchè avea risoluto di visitare i suoi
Stati di Germania, lasciò al governo di quei d'Italia _Guelfo VII_ suo
figliuolo, il quale si comperò l'amore di tutti per la sua rettitudine e
buone maniere; ma specialmente perchè occorrendo facea testa alle genti
dell'imperadore, che voleano danneggiar quel paese; perlochè talvolta
ancora se ne dichiarò offeso lo stesso Federigo. Ciò è da notare per
disporsi ad intendere l'origine dei Guelfi e Ghibellini, cioè di quelle
fazioni funestissime che a suo tempo (siccome andremo vedendo) formarono
un terribil incendio in Italia. Se n'andò poscia l'imperadore Federigo a
Pavia, ricevuto ivi come in trionfo, e cominciò a trattar dello scisma.
Aveano già i cardinali dell'una parte e dell'altra nel precedente anno
inviate lettere circolari riferite, da Radevico[2078], per avvisare i
fedeli delle ragioni che loro assistevano. Quei dell'antipapa dicevano
d'essere nove cardinali di quel partito, e quattordici quei
d'Alessandro. Questi, all'incontro, asserivano che due soli elessero
Ottaviano. Quel che è più strano, protestavano quei di Alessandro che
l'elezione di lui s'era fatta col consenso del clero e popolo romano; e
pure quei di Ottaviano sostenevano anch'essi che egli era stato alzato
alla cattedra _electione universi cleri, assensu etiam totius fere
senatus, et omnium capitaneorum, baronum, nobilium, tam infra urbem,
quam extra urbem habitantium_. Perchè Ottaviano avea guadagnato gente a
forza di danaro, doveano i suoi parlar così. Ora Federigo, mostrandosi
zelante della union della Chiesa, pubblicò lettere circolari con
esprimere di aver intimato un gran parlamento e concilio da tenersi in
Pavia per l'ottava dell'Epifania dell'anno presente, a cui invitava
tutti i vescovi ed abbati d'Italia, Germania, Francia, Inghilterra,
Spagna ed Ungheria, per decidere, secondo il loro parere, l'insorta
controversia del romano pontificato. Ne scrisse anche a papa Alessandro,
chiamandolo solamente _Rolando cancelliere_, e comandandogli da parte di
Dio e della Chiesa cattolica di venire a quel parlamento, per udir la
sentenza che proferirebbono gli ecclesiastici. Giusto motivo ebbe il
pontefice Alessandro di non accettar questo invito[2079], fattogli da
chi parlava non come avvocato e difensor della Chiesa, ma come giudice
superiore e padrone, e quasi peggio di Teoderico re de' Goti; e
massimamente trattandosi di luogo sospetto, e sapendo che già Federigo
era dichiarato in favor dell'antipapa. Però ai vescovi di Praga e di
Verda, che aveano portata ad Anagni la lettera di Federigo, fu data
risposta, essere contro i canoni che l'imperadore senza consenso del
papa convocasse un concilio; nè convenire alla dignità del romano
pontefice l'andare alla corte dell'imperadore, e l'aspettar da esso lui
la sentenza. Non così fece l'antipapa Ottaviano. Furono a trovarlo i due
vescovi, l'adorarono, cioè l'inchinarono qual vero papa, ed egli ben
volentieri sen venne a Pavia. Seco portò l'attestato de' canonici di san
Pietro, di vari abbati e del clero di molte parrocchie di Roma, tutti a
sè favorevoli.

Questo, unito al non essere comparso colà papa Alessandro III, e fatto
credere ch'egli fosse congiurato coi nemici dell'imperio, bastò perchè
que' vescovi ed arcivescovi, parte per adulazione, parte per paura,
dichiarassero, nel dì 11 di febbraio, vero papa Ottaviano, e
condannassero e scomunicassero come usurpatore Alessandro. Rendè poscia
Federigo a questo idolo tutti gli onori, con tenergli la staffa e
baciargli i fetenti piedi. All'incontro papa Alessandro, udito ch'ebbe
il risultato del conciliabolo di Pavia, nel giovedì santo, mentre
celebrava i divini uffizii nella città di Anagni, pubblicamente
scomunicò l'imperador Federigo, e rinnovò le censure contra
dell'antipapa e di tutti i suoi aderenti. Furono anche scritte varie
lettere per mostrare l'insussistenza ed irregolarità di quanto era stato
conchiuso per politica in Pavia. Poscia inviò Alessandro varii cardinali
per suoi legati in Francia, Inghilterra, Ungheria e a Costantinopoli. In
essi regni, siccome ancora in Ispagna, Sicilia e Gerusalemme, fu egli
dipoi accettato e venerato come legittimo successore nella sedia di san
Pietro. Abbiamo inoltre da Sire Raul[2080] che _Giovanni cardinale_
nativo di Anagni, legato di esso papa Alessandro, _tertio kalendas
martii_, trovandosi in Milano nella chiesa metropolitana insieme
coll'arcivescovo di quella città _Oberto_, dichiarò scomunicato
_Ottaviano_ antipapa e _Federigo_ imperadore. Poscia nel dì 12 di marzo
ferì colle censure i vescovi di Mantova e di Lodi, il marchese di
Monferrato, il conte di Biandrate, e i consoli di Cremona, Pavia,
Novara, Vercelli, Lodi, e del Seprio e della Martesana. Oltre a ciò, nel
dì 28 di marzo scomunicò Lodovico, che stava nella fortezza di
Baradello, cinque miglia lungi da Como. Intanto papa Alessandro, per
attestato di Giovanni da Ceccano, _acquisivit totam Campaniam, et misit
in suo jure_[2081]. Perchè tuttavia bolliva la guerra fra l'imperador
Federigo e i Milanesi, il primo aiutato da' Pavesi, Cremonesi, Novaresi,
Lodigiani e Comaschi, i secondi da' Bresciani e Piacentini[2082],
succederono in quest'anno non poche azioni militari. Più d'una volta
passarono i Milanesi ai danni de' Lodigiani, ed anche all'assedio di
quella città; ma o furono respinti, o per timore de' Cremonesi si
ritirarono. Federigo ancora diede il sacco ad alcune parti del distretto
di Milano, e vi smantellò qualche luogo. Formarono i Milanesi,
coll'aiuto dei Bresciani, l'assedio del castello di Carcano. Vi accorse
Federigo colle genti di Pavia, Novara, Vercelli, Como, e di altri
luoghi, col marchese di Monferrato e col conte di Biandrate. Avendo egli
impedito il trasporto delle vettovaglie ai Milanesi, costretti furono
questi nella vigilia di san Lorenzo, cioè nel dì 9 di agosto, a venire
ad un fatto d'armi. All'ala comandata dallo stesso imperadore riuscì di
sbaragliar le opposte schiere, di giugnere fino al carroccio de'
Milanesi, che fu messo in pezzi, uccisi i buoi che lo menavano, e presa
la croce indorata che era sull'antenna colla bandiera del comune. Per lo
contrario, il nerbo maggiore della cavalleria milanese e bresciana mise
in rotta l'altra ala, composta principalmente di Novaresi e Comaschi; ne
perseguitò una parte sino a Montorfano, e il marchese di Monferrato sino
ad Anghiera. Tornarono dipoi queste vittoriose squadre al campo, dove
era restato l'imperadore con poca gente. S'immaginava egli di avere
riportata la vittoria. Ma avvertito del pericolo in cui si trovava,
perchè già i Milanesi e i Bresciani erano per venire ad un secondo
conflitto, non tardò a decampare con lasciar indietro molti padiglioni e
prigioni. Spogliarono i Milanesi co' Bresciani il campo e benchè tardi
dessero alla coda de' fuggitivi, pure non fu poca la preda che fecero, e
i prigioni che guadagnarono. Nel giorno seguente, festa di san Lorenzo,
veniva la cavalleria e fanteria de' Cremonesi e Lodigiani per unirsi
all'armata dell'imperadore, senza sapere quanto fosse avvenuto nel
giorno addietro. Mentre erano fra Cantù e Monte Baradello, i Milanesi e
i Bresciani informati del loro arrivo, furono loro addosso, e gli
sconfissero, facendone molti prigioni, col cambio dei quali ricuperarono
i lor proprii, ed anche gli ostaggi che restavano in mano di Federigo.
Continuarono i Milanesi anche per otto dì l'assedio di Carcano; ma
perchè fu bruciato il lor castello di legno, nel dì 19 d'agosto se ne
tornarono a Milano. Raccontano Ottone Morena e Sire Raul un terribile
incendio che nel dì di san Bartolommeo devastò più della terza parte
d'essa città di Milano, con essersi dilatato per varii quartieri, ed
aver consumata, oltre ad infiniti mobili, gran quantità di vettovaglie.
Mandarono i Milanesi cento cavalieri a Crema, la qual di nuovo cominciò
ad alzare la testa e ad essere riabitata. Lo stesso arcivescovo _Oberto_
con altrettanti cavalieri s'andò a postare in Varese. Intanto Federigo
passò a Pavia; e perchè si trovava assai smilzo di gente, obbligò i
vescovi di Novara, Vercelli e d'Asti, e i marchesi di Monferrato, del
Bosco e del Guasto, ed _Obizzo marchese_ Malaspina, ed altri principi, a
somministrargli de' balestrieri ed arcieri per sua guardia in quella
città sino a Pasqua grande dell'anno venturo. Ottone da San Biagio[2083]
parla poco esattamente di questi affari all'anno presente, e al suo s'ha
certamente da anteporre il racconto degli storici italiani.

Continuando il re di Marocco in questo anno l'assedio per mare e per
terra della città di Mahadia nelle coste d'Africa, dove il _re
Guglielmo_ teneva un copioso presidio[2084], spedì esso re di Sicilia
ordine alla sua flotta, già inviata per far diversione in Ispagna, di
portar soccorso all'assediata città. Consisteva essa flotta poco meno
che in cento sessanta galee, ed avrebbe questa potuto far di gran cose,
se non fosse stata comandata da Gaito Pietro, un degli eunuchi di
palazzo, cristiano di nome, saraceno di cuore. Atterrì l'arrivo suo
l'armata de' Mori, e gran festa se ne fece da' cristiani di Mahadia, che
si aspettavano di vederlo entrare in porto: quando eccoti Gaito Pietro
con somma maraviglia di tutti prender la fuga colla capitana, che fu ben
tosto seguitata dall'altre vele. Ciò veduto, i Mori, saltati in sessanta
loro galee inseguirono i fuggitivi, e presero sette galee siciliane.
Romoaldo Salernitano scrive che Gaito Pietro, data battaglia a quei
Mori, ne rimase sconfitto colla perdita di molti legni. Comunque sia, la
guarnigione cristiana, veggendo già svanita la speranza del soccorso,
trattò di rendersi; e benchè ottenesse di potere spedire a Palermo, e di
fatto spedisse colà a rappresentare il bisogno, pure per le cabale
segrete dell'ammiraglio Maione, niuno aiuto poterono ottenere: dal che
furono necessitati alla resa di sì importante città, colla condizione
d'essere ricondotti sani e salvi in Sicilia, e la parola fu lor
mantenuta. Intanto l'infingardaggine del re Guglielmo, che sì
vergognosamente si lasciava menar pel naso da Maione, e le iniquità
continue di costui fecero nascer voce che questo mal uomo tramasse di
occupare il regno colla morte del re, ed avesse anche tentato sopra ciò
_papa Alessandro_. Vera o falsa che fosse tal voce, servì essa ad
accrescere il numero dei malcontenti tanto in Sicilia, quanto in Puglia;
laonde si venne in fine a formare contra di costui una congiura,
specialmente da _Gionata_ conte di Conza, _Riccardo_ dall'Aquila conte
di Fondi, _Ruggieri_ conte di Acerra, _Giliberto_ conte di Gravina, e da
altri baroni di Puglia. Vi aderirono anche le città di Melfi e di
Salerno. Avvertitone Maione, spedì Matteo Bonello, uno de' principali
baroni della Sicilia, già destinato suo genero, in Calabria per tener
saldi que' popoli nella union colla corte. Ma ne avvenne tutto il
contrario. Tanto fu detto al Bonello intorno alla necessità di rimediare
ai disordini del regno, ch'egli stesso prese la risoluzione di divenire
il liberator della patria e del re tradito. Tornato dunque in Sicilia,
un dì che Maione era ito a visitar l'arcivescovo di Salerno infermo,
affrontatolo con varii armati nel ritorno, il trucidò. Fece scempio il
popolo del di lui cadavero, e diede il sacco alle case dei di lui
parenti ed amici. Svegliossi allora il re Guglielmo dal suo letargo, ed,
informato meglio degli affari, non pensò per allora a farne alcuna
vendetta, e si calmò ogni movimento de' popoli, con restar egli liberato
da un pessimo arnese, tuttochè gli dispiacesse non poco la maniera con
cui gli fu prestato questo servigio.

NOTE:

[2076] Otto Morena, Hist. Laudens., tom. 6 Rer. Ital.

[2077] Abbas Urspergensis, in Chron.

[2078] Radevicus, de Gest. Frider. I, lib. 2, c. 52.

[2079] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.

[2080] Sire Raul, Histor., tom. 6 Rer. Ital.

[2081] Johann. de Ceccano, Chron. Fossae novae.

[2082] Otto Morena, Hist. Laud., tom. 6 Rer. Italic. Sire Raul, in
Histor.

[2083] Otto de S. Blasio, in Chron.

[2084] Hugo Falcandus, in Histor. Romualdus Salernit., in Chron., tom. 7
Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCLXI. Indizione IX.

    ALESSANDRO III papa 3.
    FEDERIGO I re 10, imperad. 7.


L'anno fu questo in cui, accordatisi insieme _Lodovico VII_ re di
Francia ed _Arrigo II_ re d'Inghilterra, pubblicamente riconobbero per
vero pontefice romano _Alessandro III_. Al qual fine fu celebrato un
copioso concilio in Tolosa, dove si decretò, non doversi ammettere se
non questo papa. Non avea lasciato l'imperador _Federigo_ di tentare di
tirar nel suo partito con varie lettere que' due monarchi[2085], ed
intervennero anche i suoi ambasciatori e quei dell'antipapa al suddetto
concilio; ma nulla poterono ottenere. Ritornò in quest'anno a Roma papa
Alessandro[2086], e solennemente quivi consecrò la chiesa di santa Maria
nuova. Ma perciocchè non sapea trovar se non pericoli, e una continua
inquietudine in quella stanza a cagione del troppo numero degli
scismatici e della potenza dell'antipapa; e perchè inoltre scoprì le
male intenzioni di que' Romani che si fingevano tutti suoi, ma
segretamente favorivano Ottaviano, si ritirò di nuovo nella Campania.
Quivi dimorò sin verso il fine dell'anno. Considerando poi che, a
riserva di Orvieto, Terracina, Anagni e qualche altra terra, tutto il
resto del patrimonio di San Pietro da Acquapendente sino a Ceperano era
stato occupato dai Tedeschi e dagli scismatici, col parere del sacro
collegio prese la risoluzione di passare nel regno di Francia, usato
rifugio de' papi perseguitati. Concertato dunque l'affare con Guglielmo
re di Sicilia, che gli fece allestir quattro ben armate galee, e
lasciato prima per suo vicario in Roma _Giulio vescovo_ di Palestrina,
era per imbarcarsi in Terracina, quando, insorto all'improvviso un vento
rabbioso, disperse que' legni, e poco mancò che non li fracassasse negli
scogli. Risarcite le galee suddette, e preparatane alcun'altra, negli
ultimi giorni dell'anno s'imbarcò il papa coi cardinali, e per la festa
di sant'Agnese pervenne a Genova[2087], dove fu con somma divozione ed
allegria accolto da quel popolo, che niun pensiero si mise del suo
contravvenire agl'impegni contrarii dell'Augusto Federigo. Nel dì 17 di
marzo si portò l'esercito milanese all'assedio di Castiglione[2088],
terra situata nel contado di Seprio, e cominciò coi mangani a
tempestarla di pietre, e ad accostarsi coll'altre macchine. Erano
stretti forte i Castiglionesi; ma ebbero maniera di spedire un messo
all'imperadore per chiedergli soccorso. Venuto a Lodi, non perdè egli
tempo ad ammassar quante genti potè di Parmigiani, Reggiani, Vercellesi,
Novaresi e Pavesi, e di varii principi d'Italia. Con questo esercito
andò ad accamparsi sopra il fiume Lambro; nè di più vi volle, perchè i
Milanesi, conoscendo la risolutezza di questo principe, dato il fuoco a
tutti i mangani, gatti e all'altre macchine di guerra, lasciassero in
pace Castiglione, e se ne tornassero a Milano. Diede poi Federigo il
guasto a quante biade potè del contado di Milano. Le sue premure intanto
portate in Germania per ottener gagliardi rinforzi di gente, affin di
domare l'ostinato popolo di Milano, furono cagione che molti principi
calassero in Italia con assaissime schiere d'armati. Fra i quali si
distinsero _Corrado conte_ palatino del Reno, fratello d'esso
imperadore, _Federigo duca_ di Suevia figliuolo del fu re Corrado, il
lantgravio cognato d'esso Augusto, il figliuolo del re di Boemia.
_Rinaldo_ cancelliere e arcivescovo eletto di Colonia condusse più di
cinquecento uomini a cavallo. Altri vescovi, marchesi e conti vennero
anche essi ad aumentare l'armata. Con questo gran preparamento sul fine
di maggio Federigo marciò alla volta di Milano fin sotto le mura, e fece
tagliar ne' contorni per quindici miglia un'infinita quantità di biade,
alberi e viti. Di là passò a Lodi, dove nel dì 18 di giugno tenuto fu un
conciliabolo dall'antipapa Vittore, e vi intervennero _Pellegrino
patriarca_ d'Aquileia, _Guido_ eletto arcivescovo di Ravenna, _Rinaldo_
eletto di Colonia, gli arcivescovi di Treveri e Vienna del Delfinato, e
molti vescovi ed abbati. Furono ivi lette le lettere dei re di
Danimarca, di Norvegia, Ungheria e Boemia, e di diversi arcivescovi e
vescovi, che diceano di voler tenere per papa esso Vittore, e di
approvar quanto egli avesse determinato nel conciliabolo suddetto. In
essa raunanza fu pubblicata la scomunica contra di _Oberto arcivescovo_
di Milano, e de' vescovi di Piacenza e Brescia, e de' consoli di Milano
e di Brescia.

Nel dì 7 di agosto tornò Federigo coll'armata vicino a Milano. Venne
avviso al lantgravio, al duca di Boemia e al conte palatino, che i
consoli di Milano desideravano d'abboccarsi con loro. Ricevute le
sicurezze, vennero i consoli; ma dai soldati dell'eletto arcivescovo di
Colonia, che nulla sapeva del concertato, furono presi in viaggio.
Portata questa nuova ai Milanesi, disperatamente si mossero per
ricuperare i consoli, ed attaccarono battaglia. Saputone il perchè, que'
principi, che aveano data la parola, montarono in tanta collera, che se
non s'interponeva l'imperadore, aveano risoluto d'ammazzare
quell'arcivescovo. Andò innanzi il conflitto, in cui Federigo,
dimenticata la sua dignità, la fece da valoroso soldato; gli fu anche
morto il cavallo sotto, e ne riportò una leggera ferita. Soperchiati in
fine dall'eccessivo numero de' nemici, furono obbligati i Milanesi a
retrocedere in fretta, inseguiti sino alle fosse e porte della città,
con lasciar molti di loro uccisi sul campo, e prigioni ottanta
cavalieri, e dugento sessantasei fanti, che furono menati nelle carceri
di Lodi. Finì poscia Federigo di dare il guasto alle biade, agli alberi
e alle viti del distretto di Milano, con torre a quel popolo ogni
sussistenza. E perciocchè stando in Pavia non avrebbe potuto impedire il
trasporlo de' viveri di Piacenza a Milano, determinò di passare il verno
in Lodi coll'Augusta _Beatrice_, col figliuolo del duca Guelfo, e col
_duca Federigo_ suo cugino, e diede il congedo a varii altri signori,
che tornarono in Germania. Succederono in questo anno altre novità in
Sicilia[2089]. Ebbe licenza Matteo Bonello, uccisore del perfido Maione,
di ritornarsene a Palermo, dove fu ricevuto con tale applauso ed onore
dalla nobiltà e dal popolo, che ne concepì gelosia il _re Guglielmo_. Si
servirono di tal occasione i vecchi amici e le creature di Maione, per
accrescere in mente del re i sospetti contra del medesimo Bonello,
quasichè le sue linee tendessero ad usurpar la corona. Di ciò avvedutosi
il Bonello, formò egli una congiura per veramente deporre dal trono
l'incapace re, e di mettere in suo luogo il picciolo di lui figliuolo,
cioè il _duca Ruggieri_. Prima di quel che si voleva, e in tempo che il
Bonello era a far de' preparamenti fuor di Palermo, prese fuoco la
cospirazione. Sforzarono i congiurati il palazzo, si assicurarono del re
Guglielmo, ed esposero il duca Ruggieri alle finestre per farlo
acclamare re. Ma si trovò discorde il popolo, i più approvando, ma altri
disapprovando l'operato da essi. E massimamente si opposero i vescovi e
gli altri ecclesiastici, con ricordare a tutti l'obbligo de' sudditi, e
a' vassalli il giuramento prestato. Perciò prevalse il partito di chi
volea libero il re, e furono obbligati que' congiurati a rilasciarlo,
dopo aver ottenuta la sicurezza di poter uscire liberi fuori della
città. Fu così barbaro Guglielmo, se pure è vero ciò che se ne conta,
che presentatosegli davanti l'innocente figliuolo Ruggieri, già
acclamato re, con un calcio il fece cadere a terra, in guisa che da lì a
non molto spirò l'ultimo fiato in braccio della stessa infelice sua
madre. Ma Romoaldo Salernitano[2090] ne attribuisce la morte ad una
saetta gittata in quel tumulto, che il percosse presso un occhio con
ferita mortale. Perseguitò dipoi il re Guglielmo i baroni congiurati; e
questi misero sottosopra tutta la Sicilia. Fece cavar gli occhi a Matteo
Bonello; assediò Botera, ed, entratovi, tutta la fece diroccare. Intanto
essendo rientrato in Puglia _Roberto conte_ di Loritello[2091], mise in
rivolta molte di quelle terre e città fino a Taranto. Ma sopravvenuto il
re Guglielmo col suo esercito, ripigliò Taranto e tutto il perduto: il
che si tirò dietro l'allontanamento dal regno d'esso conte Roberto e
d'altri baroni, i quali si rifugiarono presso lo imperador Federigo.
Tutte queste scene ed altre, ch'io tralascio, son diffusamente narrate
da Ugone Falcando. In questo anno i Genovesi[2092] stabilirono i patti
del commercio con _Lupo_, chiamato da essi re di Spagna, ma che, secondo
il Mariana, non fu se non re di Murcia. Altrettanto fecero col re di
Marocco, e spedirono a Gerusalemme per ricuperare i loro diritti nelle
città di Terra Santa.

NOTE:

[2085] Gerhous Reicherspergens., de investigand. Anticar., lib. 1.

[2086] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.

[2087] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.

[2088] Otto Morena, Hist. Laudens., tom. 6 Rer. Italic.

[2089] Hugo Falcandus, Histor.

[2090] Romuald. Salernit., in Chron. tom. 7 Rer. Ital.

[2091] Johannes de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2092] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCLXII. Indizione X.

    ALESSANDRO III papa 4.
    FEDERIGO I re 11, imperad. 8.


Famosissimo divenne quest'anno, perchè in esso finalmente venne fatto
all'imperador Federigo di vedere a' suoi piedi il popolo di Milano, e di
potere sfogare contra della loro città il suo barbarico sdegno[2093]. Il
guasto dato a tutti i contorni di Milano avea privato di viveri quel
valoroso popolo, nè restava speranza nè maniera di cavarne dai vicini,
perchè tutti all'incontro erano lor nemici e collegati per rovina di
quell'illustre città. La sola città di Piacenza avrebbe potuto o voluto
soccorrere; ma n'era impedita dall'armi di Federigo, acquartierato
apposta a Lodi, che facea battere le strade, e tagliar crudelmente la
mano destra a chiunque era colto portante vettovaglia a Milano. Però si
cominciò stranamente a penuriare in essa città, e alla penuria tenne
dietro una grave discordia tra i cittadini, cioè tra i padri e i
figliuoli, i mariti e le mogli e i fratelli, gridando alcuni che s'aveva
a rendere la città, ed altri sostenendo che no: laonde accadevano
continue risse fra loro[2094]. Si aggiunse che i principali formarono
una segreta congiura di dar fine a tanti guai, in guisa che prevalse il
sentimento accompagnato da minaccie di chi proponeva la resa, e fu preso
il partito d'inviare a trattar di pace. Iti gli ambasciatori a Lodi,
proposero di spianare per onor dell'imperadore in sei luoghi le mura e
le fosse delle città. Federigo col parere de' suoi principi, e de'
Pavesi, Cremonesi, Comaschi ed altri popoli nemici di Milano, stette
fisso in volerli a sua discrezione senza patto alcuno. Durissima parve
tal condizione, ma il timore di peggio indusse i Milanesi ad accomodarsi
al fierissimo rovescio della lor fortuna. Pertanto nel primo giorno di
marzo vennero a Lodi i consoli di Milano, cioè Ottone Visconte, Amizone
da porta Romana, Anselmo da Mandello, Anselmo dall'Orto, con altri; e
colle spade nude in mano, siccome nobili, giurarono di fare quello che
piacesse all'imperadore, e che lo stesso giuramento si presterebbe da
tutto il loro popolo. Nella seguente mattina comparvero trecento soldati
a cavallo milanesi, che rassegnarono a Federigo le lor bandiere, e
insieme le chiavi della città. Nel martedì vennero circa mille fanti da
Milano col carroccio, che giurarono come i precedenti. Volle Federigo
quattrocento ostaggi, e spedì sei Tedeschi e sei Lombardi, fra i quali
fu Acerbo Morena, allora podestà di Lodi, continuatore della storia
cominciata da Ottone suo padre, acciocchè esigessero il giuramento di
totale ubbidienza da tutto il popolo milanese. Andò l'imperadore a Pavia
con tutta la corte, e nel dì 19 d'esso mese di marzo mandò ordine ai
consoli milanesi[2095] che in termine di otto giorni tutti i cittadini
maschi e femmine evacuassero la città con quel che poteano portar seco.
Spettacolo sommamente lagrimevole fu nel dì 25 il vedere lo sfortunato
popolo piangente abbandonar la cara patria co' piccoli lor figliuoli,
cogl'infermi e coi lor fardelli, portando quel poco che poterono, e
lasciando il resto in preda agli stranieri. Alcuni giorni prima, cioè
nel dì 18, se n'era già partito l'_arcivescovo Oberto_ coll'arciprete
Milone, Galdino arcidiacono ed Alchisio cimeliarca, ed ito per trovar
_papa Alessandro_ che tuttavia dimorava in Genova. Chi potè, se ne andò
a Pavia, a Lodi, a Bergamo, a Como, e ad altre città; ma l'infelice
plebe si fermò fuori della città ne' monisteri di san Vincenzo, di san
Celso, di san Dionisio e di san Vittore, sperando pure che non fosse
estinta affatto nel cuore dell'imperadore la clemenza, e ch'egli,
soddisfatto dell'ubbidienza, permetterebbe il ritorno alle lor case. Non
poteva essere più vana una sì fatta lusinga. Comparve nel dì seguente
Federigo accompagnato da tutti i suoi principi e soldati, e da'
Cremonesi, Pavesi, Novaresi, Lodigiani e Cremaschi, e da quei del Seprio
e della Martesana; ed, entrato in Milano, l'abbandonò all'avidità
militare. Nel sacco neppure alcun riguardo s'ebbe alle chiese. Furono
asportati i lor tesori, i sacri arredi e le reliquie. Ed allora dicono,
che trovati i corpi creduti dei tre re magi, e donati a _Rinaldo_
arcicancelliere ed arcivescovo eletto di Colonia, furono portati alla di
lui città, dove di presente la popolar credenza li venera. Scrissero
alcuni che anche i corpi dei santi Gervasio e Protasio furono portati a
Brisacco; ma il Puricelli e il signor Sassi, bibliotecario
dell'Ambrosiana, hanno già convinta di falso una tale opinione. Sire
Raul, autore di questi tempi, scrive seguito solamente nell'anno 1164
questo pio ladroneccio.

Poscia uscì della bocca imperiale il crudele editto pella total
distruzione della città di Milano. Se fosse vero ciò che racconta
Romoaldo arcivescovo in questi tempi di Salerno[2096], Federigo nella
concordia avea promesso _civitatem integram, et cives cum rebus suis
permanere illaesos_; poi mancò alla parola. Ma non s'accorda questa
particolarità con quanto ne scrivono il Morena e Sire Raul, storici più
informati di questi fatti. Furono deputati i Cremonesi ad atterrare il
sestiere di porta Romana, i Lodigiani a quel di porta Renza, i Pavesi a
quel di porta Ticinese, i Novaresi a quel di porta Vercellina, i
Comaschi a quel di porta Comacina, e il popolo del Seprio e della
Martesana a quello di porta Nuova. L'odio e lo spirito della vendetta
animò sì forte questi popoli, che si diedero un'incredibil fretta alla
rovina dell'infelice città. Gran somma di danaro aveano anche sborsato a
Federigo per ottenerne la permissione. Il fuoco attaccato alle case ne
distrusse buona parte; il resto fu diroccato a forza di martelli e
picconi, ed anche in pochi giorni si vide smantellata la maggior parte
delle mura. Pare che Acerbo Morena si contraddica, perchè, dopo avere
scritto, che _usque ad dominicam Olivarum tot de moenibus civitatis
consternaverunt, quod ab initio a nemine credebatur in duobus mensibus
posse dissipari, soggiugne appresso, che remansit tamen fere totus murus
civitatem circumdans (forse manca dissipatus), qui adeo bonis et magnis
lapidibus confectus fuerat, et quasi centum turribus decoratus, quod, ut
existimo, numquam tam bonus fuit visus in Italia_. Certo è da credere
che, se non prima, lo dirupassero almeno dopo la domenica dell'ulivo,
perchè lasciando in piedi un sì forte muro, nulla avrebbono fatto. E
Sire Raul scrive che Federigo _destruxit domos, et turres, et murum
civitatis_. Così ha l'Abbate Urspergense[2097], Elmoldo, Gotifredo
monaco ed altri. Il campanile della metropolitana, mirabile a vedere per
la sua vaghezza ed incredibil altezza, venne per comandamento
dell'imperadore abbassato. Ma rovesciato sopra la chiesa, ne atterrò la
maggior parte. La fama accrebbe poi questa calamità di Milano, essendo
giunti alcuni a scrivere[2098] che Federigo vi fece condurre sopra
l'aratro, e la seminò di sale: tutte fandonie. Per attestato di
Duodechino[2099] _populus expulsus fuit; murus in circuitu dejectus;
aedes, exceptis Sanctorum templis, solo tenus destructae. Reservatis
tantummodo matrice Ecclesia, et quibusdam aliis_, scrive Roberto dal
Monte[2100]. Ordine ancora fu dato che mai più non si potesse
rifabbricare, nè abitar quella nobilissima città, a spianar le cui fosse
concorse quasi tutta la Lombardia. Io qui niuna menzione farò delle
favole della Cronica de' conti di Anghiera, mentovate ancora da Galvano
Fiamma[2101], perchè il confutarle sarebbe tempo mal impiegato. Nella
domenica delle Palme assistè Federigo Augusto ai divini uffizii nella
basilica di santo Ambrosio[2102] fuori della desolata città milanese, e
prese l'ulivo benedetto; e nello stesso giorno s'inviò a Pavia. Celebrò
egli in essa città la santa Pasqua, col concorso della maggior parte dei
vescovi, marchesi, conti ed altri baroni d'Italia. Alla messa e dopo la
messa, ad un lauto convito, a cui s'assisero i suddetti principi, e i
vescovi colla mitra, e i consoli delle città, si fece vedere colla
corona in capo, insieme coll'Augusta Beatrice, giacchè due anni innanzi
avea fatto proponimento di non portar più corona, se prima non
soggiogava il popolo di Milano. Grande fu allora il giubilo e il plauso
del popolo di Pavia per le fortune dell'imperadore; e gli scrittori
tedeschi si sciolgono in sonori elogi del suo gran valore e della sua
costanza, per aver sottomessa una sì riguardevol città. Ma resterebbe da
vedere se gloria vera s'abbia a riputare per un monarca cristiano il
portare l'eccidio ad un'intera insigne città, con distruggere e
seppellir tante belle fabbriche e memorie dell'antichità, che fino a'
tempi di Ausonio quivi si conservavano. Che in pena della ribellione si
dirocchino tutte le mura ed ogni fortificazione, ciò cammina; ma poi
tutto, chi può mai lodarlo, e non attribuirlo piuttosto ad un genio
barbarico? A mio credere, i buoni principi fabbricano le città, e i
cattivi le distruggono. Certo intanto è che la caduta e rovina di Milano
sparse il terrore per tutta l'Italia, ed ognuno tremava al nome di
Federigo Barbarossa. Però non è da stupire se i Bresciani spedirono
nella seconda domenica dopo Pasqua i loro consoli, accompagnati da molta
nobiltà, a Pavia, per sottomettersi ai di lui voleri. Fu accettata la
lor sommessione, con patto di dover demolire tutte le torri e mura della
lor città, di spianar le fosse, di ricevere un podestà dall'imperadore,
di pagar una buona somma di danaro, e di consegnare ad esso Augusto
tutte le rocche e fortezze del loro contado, e di militare con lui,
occorrendo, anche a Roma e in Puglia. Sapea ben Federigo nella buona
ventura mettere i piedi addosso a chiunque gli cadeva sotto le mani.

Vi restavano i soli Piacentini da mettere in dovere. Già si sapeva che
era giurato l'assedio della lor città. Ma conoscendo essi la necessità
di prevenir la tempesta, trattarono di pace, e colla mediazione di
_Corrado conte_ palatino del Reno, fratello dell'imperadore,
l'ottennero. Però i lor consoli colle spade nude si presentarono a
Federigo nel dì 11 di maggio, mentre egli era a San Salvatore fuori di
Pavia, e se gli sottomisero con promessa di pagargli sei mila marche
d'argento, di distruggere le mura e le fosse della lor città, di
ricevere un podestà, di restituir tutte le regalie, e di cedere tutte
quelle castella del lor territorio che volesse l'imperadore; il che era
poco men che perdere tutto l'essere di repubblica. Ciò fatto, mandò
Federigo per podestà de' Milanesi il vescovo di Liegi; a Brescia
Marquardo di Grumbac; a Piacenza Aginolfo, e poscia Arnaldo Barbavara; a
Ferrara il conte Corrado di Ballanuce; a Como maestro Pagano; e così ad
altre città. Per grazia speciale permise ai Cremonesi, Parmigiani,
Lodigiani ed altri popoli fedeli il governarsi co' proprii consoli.
Rapporta il Sigonio[2103] l'investitura data ai Cremonesi, molto
vantaggiosa per loro. Nel mese di giugno passò Federigo alla volta di
Bologna, che era tuttavia restia ai comandamenti di lui. Seguì parimente
accordo con quel popolo, obbligato anch'esso a diroccar le mura, a
guastar le fosse della città, a fare lo sborso di molta pecunia, e a
ricevere pel suo governo il cesareo podestà. Andò poscia ad Imola e
Faenza, e ad altri luoghi. In somma non vi restò città dell'Italia di
qua da Roma che non piegasse il collo sotto i piedi del formidabil
Augusto, a riserva della rocca di Garda, che occupata da Turisendo
veronese, e assediata quasi per un anno dal conte Marquardo e da'
Bergamaschi, Bresciani, Veronesi e Mantovani, lungo tempo si difese, e
finalmente si rendè con onesta capitolazione. Anche i Genovesi, chiamati
da Federigo a Pavia, per attestato di Caffaro[2104], vennero
all'ubbidienza, ed ottennero buoni patti, con ritener tutte le regalie,
perchè s'obbligarono di servire a Federigo nelle spedizioni ch'egli
meditava contro il re di Sicilia. Il privilegio conceduto da esso
imperadore ai Genovesi può leggersi nelle mie Antichità italiane[2105].
Affinchè restasse memoria della sua crudeltà contra de' Milanesi; quel
diploma si vede dato _Papiae apud sanctum Salvatorem in palatio
imperatoris post destructionem Mediolani, et deditionem Brixiae, et
Placentiae, V junii, anno dominicae Incarnationis MCLXII, Indictione X_.
Altri diplomi segnati in questa forma ci restano. Curiosa cosa è il
vedere con che generosità Federigo diede allora in feudo al popolo
genovese _siracusanam civitatem cum pertinentiis suis, et ducentas
quinquaginta caballarias terrae in valle Nothi, ec. et in unaquaque
civitate maritima, quae propitia divinitate a nobis capta fuerit, rugam
unam_ (una rua, una contrada) _eorum negotiatoribus convenientem cum
ecclesia, balneo, fundico, et furno_, con altre liberalità. Ma il
proverbio dice che il fare i conti sulla pelle dell'orso vivo non sempre
riesce.

Nella domenica di passione imbarcatosi di nuovo a Genova papa
_Alessandro III_[2106], di colà passò a Magalona in Francia, e poscia a
Mompellieri, dove mandò il re _Lodovico VII_ a visitarlo e a rendergli
l'onore dovuto. Nel giugno si inviò a Chiaramonte. Alle glorie
dell'Augusto Federigo mancava quella solamente di terminar la lite del
pontificato romano a voglia sua. Mostrando egli in apparenza grande zelo
per l'unione della Chiesa, subito che intese l'arrivo in Francia di papa
Alessandro, scrisse al re Lodovico, proponendo un abboccamento con lui
per dar fine a questo importantissimo affare; e che a San Giovanni di
Laune, oppure a Besanzone si tenesse un concilio, dove si presentassero
i due contendenti, per esser ivi esaminate le ragioni d'ambedue le
parti. Covava nondimeno l'astuto imperadore il pensiero di burlar non
meno l'odiato Alessandro che l'antipapa Ottaviano. _Apud se cogitavit_
(lo abbiamo dalla vita di papa Alessandro), _sicut homo hujus saeculi
prudentissimus, sagax, et callidus, qualiter posset Alexandrum, et
idolum suum judicio universalis Ecclesiae pariter dejicere, atque
personam tertiam in romanum pontificem ordinare_. Trovaronsi insieme
papa Alessandro e il re Lodovico a Souvignì, e il re, principe che non
andava molto alla malizia, volle persuadere al papa di venir al
progettato congresso; ma Alessandro tenne il piè fermo, allegando che
non conveniva alla dignità della Sede apostolica il sottoporsi a quel
giudizio; e che giusto motivo avea di sospettar artifizii e superchierie
dalla parte di Federigo, che già era apposta passato in Borgogna. Di
grandi negoziati si fecero dipoi; ma volle Dio che scoperti in fine i
raggiri d'esso imperadore, il re di Francia si ritirasse dal contratto
impegno: perlochè fu quasi per nascere rottura di guerra fra que' due
monarchi, se non fosse accorso in aiuto del re Lodovico il re
d'Inghilterra: il che mise freno a Federigo, che oramai si credea di
potere dar legge a tutti, e pretendea che ai soli vescovi del suo
imperio appartenesse il giudicar dell'elezione del romano pontefice. In
somma esso Augusto, mal contento di tanti maneggi inutilmente fatti, fu
forzato dalla mancanza de' viveri a tornarsene coll'esercito in
Germania; e l'antipapa, veggendosi mal ricevuto in quelle parti, se ne
tornò in Italia. Rimandò poco dappoi Federigo in Italia l'eletto
arcivescovo di Colonia _Rinaldo_, principal arnese, ma arnese pessimo
della sua corte[2107], che fatto un viaggio per la Lombardia, Romagna,
marca di Verona e Toscana, si studiò di assodar tutte le città e
principi nell'ossequio verso l'imperadore. Intanto il miserabil popolo
di Milano[2108] escluso dalla sua patria, senza tetto dove ricoverarsi,
fu ripartito dal vescovo di Liegi in quattro siti, alcune miglia lungi
dalla città, con permissione di fabbricar ivi de' borghi per loro
alloggio. Tornò in Germania quel vescovo, e lasciò al governo d'esso
popolo Pietro di Cunin, che cominciò a far delle estorsioni in varie
maniere. Terminò in quest'anno il re di Sicilia la guerra di
Puglia[2109] colla presa di Taverna e di Monte Arcano; e, passato a
Salerno, senza volervi entrare, s'accampò sotto quella città. Era
inviperito contra di quel popolo, perchè esso dianzi avea consentito
alla congiura che divampò contro di lui. Pretese il re una gran somma di
danaro da que' cittadini; nè potendo eglino colla puntualità ricercata
soddisfare al pagamento, con questo pretesto minacciò Guglielmo l'ultimo
eccidio alla città. Ed era disposto ad eseguir la parola, quando sul bel
mezzo giorno e a ciel sereno, insorto un impetuoso turbine, seguitato
poi da una furiosa pioggia, schiantò quasi tutte le tende, e
specialmente la regale, in maniera che Guglielmo, il quale allora
dormiva, corse pericolo di riportarne gran danno. Se ne fuggì egli in
una picciola tenda che era rimasta in piedi, con raccomandarsi a san
Matteo apostolo, il cui corpo si pretende conservato in quella città. Fu
questo in fatti creduto un miracoloso ripiego del santo Apostolo, per
liberar da quel rischio il suo popolo; e però impaurito il re, nel dì
seguente sciolse le vele verso Palermo, nè altro male fece a quella
magnifica città. Insorse in quest'anno discordia fra i Pisani e i
Genovesi nella città di Costantinopoli. Avendo prevaluto i primi,
diedero il sacco al fondaco dei Genovesi, con asportarne il valore di
trenta mila perperi[2110]. Portatene le querele a Genova, il popolo in
furia spedì a Pisa, chiedendo soddisfazione, altrimenti intimavano la
guerra. Non essendo venuta alcuna buona risposta, i Genovesi con dodici
galere volarono a Porto Pisano a farne vendetta. Vi distrussero la torre
del porto, e presero molte navi coll'avere e cogli uomini. Accadde che
arrivò a Pisa il suddetto Rinaldo arcicancelliere ed arcivescovo eletto
in Colonia, che, informato di questa briga, mandò tosto a Genova ordine
che cessassero le offese, ed ottenne la liberazion de' prigioni. Ma
avendo dipoi i Pisani presi due legni dei Genovesi, si riaccese la
guerra che era per andare innanzi, se, interpostosi di nuovo
l'arcicancelliere, non avesse rimessa all'imperadore, che era a Torino,
la cognizion di questa controversia. Stabilì esso Augusto dipoi una
tregua fra loro. Di una tal discordia parlano gli Annali pisani all'anno
seguente.

NOTE:

[2093] Acerbus Morena, Hist. Laud., tom. 6 Rer. Italic.

[2094] Sire Raul, Histor., tom. 6 Rer. Ital.

[2095] Acerbus Morena. Sire Raul. Otto de Sancto Blasio.

[2096] Romualdus Salernitanus, in Chron.

[2097] Abbas Urspergensis, in Chron.

[2098] Ptolom. Lucens., in Annalib.

[2099] Dodech., in Append. ad Marian.

[2100] Robert. de Monte, in Append. ad Sigebert.

[2101] Gualvan. Flamma, Manipul. Flor.

[2102] Acerbus Morena, Histor. Laudens., tom. 6 Rer. Ital.

[2103] Sigon., de Regno Ital., lib. 13.

[2104] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.

[2105] Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII et LXXII.

[2106] Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.

[2107] Acerbus Morena, Histor. Lauden., tom. 6 Rer. Ital. Romualdus
Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.

[2108] Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.

[2109] Romualdus Salernit., in Chron. Johann de Ceccano, Chron.
Fossaenovae.

[2110] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCLXIII. Indizione XI.

    ALESSANDRO III papa 5.
    FEDERIGO I re 12, imper. 9.


Dopo avere _papa Alessandro_ celebrata la festa del santo Natale nella
città di Tours[2111], venuta la domenica di settuagesima, passò a Parigi
per una conferenza con _Lodovico VII_ re di Francia. Gli venne incontro
il piissimo re coi baroni e colle sue guardie due leghe lungi dalla
città, e alla vista di lui smontato, corse a baciargli i piedi. Dopo di
che amendue continuarono il viaggio fino a Parigi, dove la processione
del clero col vescovo l'accolse. Dimorò ivi il pontefice per tutta la
quaresima, e vi solennizzò la Pasqua. Poscia, avvicinandosi il tempo
della celebrazion del concilio da lui intimato nella città di Tours,
colà si trasferì. Riguardevole fu quella sacra adunanza, a cui fu dato
principio nel dì 19 di maggio, perchè v'intervennero diciassette
cardinali, cento ventiquattro vescovi, quattrocento quattordici abbati,
e una copiosa moltitudine di clerici e laici. Furono ivi pubblicati
varii canoni di disciplina ecclesiastica, da' quali apparisce che era
già insorta nelle parti di Tolosa, e si andava dilatando, una setta
d'eretici, i quali, siccome accenneremo, infettarono in fine tutte
quelle contrade. Era anche passato in Francia lo studio delle leggi
civili, e molti monaci e canonici regolari, col pretesto d'insegnarle
nelle scuole, oppur di spiegare la fisica, o di praticar la medicina,
abbandonavano i loro chiostri. Questo fu proibito, e dichiarate nulle e
sacrileghe tutte le ordinazioni fatte e da farsi dall'antipapa e dagli
altri scismatici. E perciocchè l'andar girando il papa dovea riuscire di
non lieve aggravio alle chiese, gli fu fatto sapere che se volea più
lungamente fermarsi in Francia, eleggesse una dimora stabile nella città
che più gli fosse in grado: laonde egli scelse la città di Sens, dove si
trattenne dal principio d'ottobre fino alla Pasqua dell'anno 1165. Circa
questi tempi avendo _Ulrico_, novello patriarca di Aquileia, fatta
un'invasione nell'isola di Grado[2112], vi accorsero i Veneziani con uno
stuolo di galee, e il fecero prigione con assai nobili del Friuli
nell'ultimo giovedì del carnevale, e tutti li misero nelle carceri di
Venezia. Per liberarsi, egli si obbligò di mandare ogni anno da lì
innanzi nell'ultimo mercordì del carnevale al doge dodici porci grassi,
e dodici pani grossi in memoria della vittoria de' Veneti e della sua
liberazione. Allora fu fatto in Venezia uno statuto, che nel giovedì
suddetto in avvenire ad un toro e ad altri simili porci nella pubblica
piazza si dovesse tagliar la testa, il qual uso per conto del toro dura
tuttavia in essa città. Credevasi dalla plebe ciò istituito per denotare
che si tagliava il capo al suddetto arcivescovo e a dodici de' suoi
canonici; ma i saggi sapeano che pel solo fine suddetto si facea quello
spettacolo.

Era in questi tempi straziato l'infelice popolo milanese dai ministri
tedeschi, che tutti aveano nell'ossa il morbo dell'avarizia. Tanta era
la parte che il loro vice-governatore Pietro di Cunin esigeva dalle
rendite de' poderi[2113], che quasi nulla ne restava ai miseri padroni e
ai loro rustici. Oltre di che, da que' poderi che aveano i Milanesi sul
Lodigiano e Cremasco, nel Seprio, nella Martesana e in altri luoghi,
nulla poteano ricavare. Tutto sel divorano gli uffiziali
dell'imperadore. Fabbricarono costoro nel borgo di Noseta una gran torre
per far quivi la zecca, e guardarvi il danaro dell'imperatore. Ad un
magnifico palagio ancora per servigio d'esso Augusto fu dato principio
in Monza; e tutto il dì erano in volta gli strapazzati contadini colle
lor carra e buoi per condurre i materiali. Altrettanto si facea per la
fabbrica del castello di Landriano, e di un palazzo a Vigiantino. Per
queste e per altre doglianze della gente, il vescovo di Liegi richiamò
il Cunin, e mandò al governo un Federigo cherico, appellato mastro delle
scuole: che così era chiamata una dignità nelle cattedrali. La sperienza
mostrò che costui avea l'unghie anche più arrampinate che quelle del
precedente ministro. Arrivò poi a Lodi nel dì 29 d'agosto, di ritorno
dalla Germania l'imperador _Federigo_ coll'augusta sua consorte
_Beatrice_[2114] e con gran comitiva di baroni. Da lì a quattro giorni
vi giunse ancora l'antipapa, il quale nel dì 4 di novembre fece la
traslazione del corpo di san Bassiano da Lodi vecchio a Lodi nuovo. Lo
stesso Ottaviano, ed anche l'imperadore col patriarca d'Aquileia e
coll'abbate di Clugnì, ed altri vescovi ed arcivescovi portarono sulle
loro spalle la sacra cassa. Nel dì 16 d'esso mese essendosi trasferito a
Pavia esso Federigo, allora fu che i Pavesi fecero tante istanze,
avvalorate dal rinforzo di una buona somma di danaro, che ottennero di
potere smantellar le mura di Tortona, con rappresentare riedificata
quella città in obbrobrio dell'imperadore e di Pavia. Corsero dunque
all'esecuzion del decreto; nè contenti d'aver diroccato il muro, vi
distrussero ancora con fretta incredibile tutte le case, riducendo
quella sventurata città in un monte di pietre. Un alto di clemenza
esercitò poco appresso l'imperadore coi Milanesi, perchè rimise in
libertà i quattrocento loro ostaggi. Passando poi egli da Pavia a Monza
nel dì 5 di dicembre, il popolo milanese, confinato in uno dei borghi
nuovi, maschi e femmine gli andarono incontro sulla via. Era di notte, e
forte piovea. Prostrati a terra in mezzo al fango, gridavano
misericordia; e Federigo lasciò ivi _Rinaldo_ arcivescovo eletto di
Colonia, acciocchè gli ascoltasse. Questi ordinò che alcuni d'essi nel
dì seguente andassero a Monza, dove darebbe loro udienza. Fece anche
venir colà dodici di cadaun borgo, e udito che richiedevano la
restituzion de' loro poderi più colle lagrime che colla voce, dimandò,
cosa offerissero all'imperadore per ricuperarli. Si scusarono essi per
la somma loro povertà e per le tante miserie: il che fece montar in
collera l'iniquo arcivescovo, e intimar loro di pagare per tutto gennaio
prossimo venturo una somma di danaro, e bisognò sborsarla. Nel
precedente anno aveano i Pisani inviata un'ambasceria all'imperador
Federigo[2115], che ne mostrò molto piacere, e fece di molte carezze ai
loro ambasciatori. Nell'anno presente poi investì egli di tutte le
regalie quel popolo, che si obbligò di armare sessanta galee in aiuto
del medesimo Augusto per la guerra che si andava meditando contro il re
di Sicilia. Ma questo lor palese attaccamento a Federigo fu cagione che
non si poterono accordare coll'imperador de' Greci _Manuello Comneno_,
pretendente ch'essi rinunziassero all'amicizia di Federigo: al che mai
non vollero acconsentire. Ma peggio loro avvenne negli Stati del re di
Sicilia, perchè considerandoli il re Guglielmo come nemici della sua
corona, benchè avesse pace con loro, pure all'improvviso fece prendere
quanti Pisani si trovarono nelle sue contrade, ed occupar tutte le loro
mercatanzie. Corse un gran pericolo in quest'anno esso re Guglielmo in
Palermo[2116]. Folto era il numero de' prigionieri di Stato in quelle
carceri. Ebbero costoro maniera di uscire, ed usciti assalirono il
palazzo regale con disegno e gran voglia di trucidare il re. Fecero così
bene il loro uffizio le guardie, che andò fallito il colpo, e restarono
i più d'essi tagliati a pezzi.

NOTE:

[2111] Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.

[2112] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2113] Sire Raul, in Hist., tom. 6 Rer. Ital.

[2114] Acerbus Morena, Histor. Laudens., tom. 6 Rer. Ital.

[2115] Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[2116] Hugo Falcandus, Histor, Sicul.



    Anno di CRISTO MCLXIV. Indizione XII.

    ALESSANDRO III papa 6.
    FEDERIGO I re 15, imper. 10.


Continuò _papa Alessandro_ ancora per quest'anno la sua dimora in
Francia nella città di Sens, dove ebbe molte faccende per le differenze
insorte in questi tempi fra _Arrigo re_ d'Inghilterra e _Tommaso
arcivescovo_ di Cantorberì, che fu poi santo martire. Intanto
l'ambizioso antipapa Ottaviano, chiamato Vittore III, mentre dimorava in
Lucca[2117], fu colto da una mortale infermità, e quivi impenitente
passò al tribunale di Dio nel dì 20 d'aprile. Pietro Blesense, che ne
parla per esperienza, descrive il di lui fasto e la di lui crudeltà; e
pure si fece credere alla buona gente che al suo sepolcro erano
succeduti non pochi miracoli: _Pro cujus sanctis meritis dicitur, Deum
multa miracula ibi fecisse_: così scrive Acerbo Morena[2118], uno de'
suoi parziali: il che sempre più ci dee rendere cauti a distinguere i
veri dai finti o dai creduti miracoli. Restavano tuttavia in vita due
soli cardinali scismatici, cioè Giovanni da san Martino e Guido da
Crema. Costoro fecero un'adunanza di molti ecclesiastici della lor
fazione; e giacchè _Arrigo vescovo_ di Liegi ricusò il falso
pontificato, fu questo conferito allo stesso Guido da Crema, il quale
senza alcuna osservanza degli antichi riti ricevette la consecrazione
dallo stesso vescovo di Liegi, con assumere il nome di _Pasquale III_.
Speditone tosto l'avviso all'Augusto Federigo, in vece di valersi egli
di tal congiuntura per estinguere lo scisma, approvò il fatto, e
riconobbe costui per legittimo papa. Intanto le città di Lombardia
avvezze per assaissimi anni addietro a vivere lautamente col godimento
delle regalie e della libertà, con decoro ed autorità principesca, al
vedersi ora ridotte ad una vile schiavitù, troppo mal volentieri
s'accomodavano a questo insolito giogo. Si aggiunsero le continue avanie
che faceano i ministri imperiali, oppressori dei grandi e de' piccioli,
intenti solo a smugnere danaro dagli afflitti popoli. Fece tutto ciò
perdere a que' popoli la pazienza, e cominciarono a risorgere gli
spiriti generosi in alcune città, determinate di non lasciarsi così
obbrobriosamente calpestar da li innanzi[2119]. Queste furono le città
della marca di Verona, cioè _Verona, Vicenza, Padova, Trevigi_, ed altre
minori, che strinsero una segreta società e lega fra loro. Trovavansi
mal soddisfatti anche i Veneziani per aggravii patiti dagli uffiziali
dell'imperadore, e però anch'essi entrarono in essa lega; e tutti
cominciarono a far testa agli ordini di Federigo e de' suoi ministri.
Appena scoppiò questo principio di ribellione, che Federigo, messo
insieme l'esercito de' Pavesi, Cremonesi e dell'altre città fedeli, e
col poco che gli restava de' suoi Tedeschi, marciò verso Verona. Prese e
distrusse alcune castella di quel territorio: quando eccoti uscirgli
incontro l'esercito delle città collegate, che animosamente venne ad
accamparsi in faccia sua, disposto e preparato a ricevere o dar
battaglia. Tra perchè era superiore di forze questa armata, e perchè
cominciò Federigo ad accorgersi del poco capitale che potea far de'
Lombardi suoi seguaci, ne' quali più non concorreva l'odio, che li rendè
sì fieri contra di Milano, e si scorgeva in essi piuttosto del
compatimento e dell'inclinazione per chi avea preso l'armi per la sua
libertà: restò esso Augusto assai confuso. Giudicò dunque miglior
partito il ritirarsi, benchè non senza rabbia e vergogna, che di
azzardare ad un troppo dubbioso fatto d'armi la sua dignità e
riputazione. Da lì innanzi ebbe sempre in sospetto tutte le città
d'Italia, perchè conosciute troppo vogliose e gelose della libertà; e
però, giacchè non sapea farsi amare da esse, cercò da indi in poi di
farsi temere. Aveva egli dalla sua di certo solamente i marchesi, conti
ed altri nobili vassalli, perchè questi abbisognavano del di lui braccio
e patrocinio per non essere divorati dalle città. Mise pertanto in tutte
le rocche e fortezze presidii e governatori tedeschi, de' quali
unicamente si fidava, senza valersi più d'Italiani.

Accade in quest'anno[2120] che _Barasone_ giudice di Turri, ossia di
Logodoro in Sardegna, e _Pietro_ giudice di Cagliari, uniti co' Pisani,
per vendicarsi di varie ingiurie ricevute da Barasone giudice di
Arborea, oggidì Oristagno, gli fecero guerra, con bruciargli il paese e
menar via gran copia di prigioni. Allora questo giudice d'Arborea si
raccomandò ai Genovesi, perchè l'aiutassero ad impetrare dall'imperador
Federigo il titolo di re di tutta la Sardegna. E non già del solo suo
giudicato; perciocchè, siccome ho io altrove dimostrato[2121], la
Sardegna era divisa in quattro giudicati, e que' giudici ben cento anni
prima si truovavano intitolati re, perchè niun superiore riconoscevano.
Promise costui di gran cose ai Genovesi, dai quali perciò fu condotto a
Pavia e presentato a Federigo. Condiscese ben volentieri l'imperadore
alla dimanda, non tanto per acquistar diritto sopra la Sardegna, quanto
per godersi quattro mila marche d'argento, che gli furono esibite per
questa grazia. Gli Annali di Pisa dicono che l'offerta fu di trenta mila
lire di soldi imperiali. Forse le quattro mila marche davano questa
somma. Ma si opposero forte gli ambasciatori pisani alle istanze del
giudice e alla risoluzion dell'imperadore, pretendendo che la Sardegna
fosse di lor giurisdizione. Altrettanto ancora pretendevano i Genovesi.
Federigo che non volle perdere l'oro promesso, senza curarsi delle lor
brighe, nel dì 5 d'agosto, nella chiesa di san Siro di Pavia,
solennemente coronò e dichiarò re della Sardegna esso _Barasone_. Il
bello fu, che quando Federigo si credea di mettere le mani sopra il
danaro accordato, si trovò che il re novello non aveva un soldo, e
lavorava solo di promesse. Era Federigo in procinto di condurlo seco
prigione in Germania, finchè avesse soddisfatto; ma costui tanto si
adoperò coi Genovesi, che fecero sigurtà per lui, ed essi effettivamente
dopo alquanti giorni sborsarono la somma, con prenderla ad usura da
varii cittadini. Non trovandosi poi maniera ch'egli soddisfacesse ai
Genovesi, fu detenuto prigione in Genova; e i Pisani cogli altri giudici
della Sardegna mossero di nuovo guerra ad Arborea, e distrussero quasi
tutto il paese, di modo che la vanità di Barasone andò a terminare in un
re da teatro. Fecero di più i Pisani. Passò Federigo nell'anno presente
in Germania ad oggetto di metter insieme una buona armata, per
maggiormente assodare il piede in Italia. Colà spedirono i Pisani
Uguccione, uno dei lor consoli, per cui maneggio Federigo investì col
gonfalone la città di Pisa di tutta l'isola di Sardegna; nè andò molto
che i Pisani la renderono interamente tributaria alla loro repubblica.
L'onnipotenza dell'oro quella fu che fece dimenticar sì presto a
Federigo di aver già dichiarato _principe della Sardegna_ il duca Guelfo
suo zio, e poco prima _re d'essa isola_ il vanissimo Barasone. Dagli
Annali genovesi si sa che i Pisani sborsarono tredicimila lire per
ottenere quel privilegio. Diede fine in quest'anno alla sua vita nel dì
20 di luglio _Pietro Lombardo_, Novarese di patria, già vescovo di
Parigi, celebre personaggio, e conosciuto da tutti col nome di mastro
delle sentenze. Abbiamo ancora dagli Annali di Bologna[2122] e di
Modena[2123] che Bozzo, luogotenente dell'imperadore in Lombardia, fu
ucciso nel contado di Bologna, verisimilmente a cagion delle sue
angarie. Nè si dee tacere, che, avendo in quest'anno l'Augusto Federigo
richiesto aiuto da' Ferraresi _pro motione et guerra Venetorumn,
Paduanorum, Vicentinorum et Veronensium, quae cornua rebellionis et
superbiae contra nos et imperium erexerunt_, concedette o confermò loro
tutte le regalie con altri privilegii, siccome apparisce dal diploma da
me pubblicato[2124], e dato _apud sanctum Salvatorem juxta Papiam, VIIII
kalendas junii, anno dominicae Incarnationis MCLXIV, Indictione XII_.
Con altro diploma confermò al popolo di Mantova parimente tutti i suoi
privilegii. Ma, ossia per errore, come io credo, ossia perchè fu usato
l'anno pisano, quel diploma si dice bensì dato _Papiae apud sanctum
Salvatorem VI kalendas junii, anno millesimo centesimo sexagesimo
quinto, Indictione XII_; ma è certo ch'esso appartiene all'anno
presente.

NOTE:

[2117] Cardin. de Aragon., in Vit, Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.

[2118] Acerbo Morena, Histor. Laudens., tom. 6 Rer. Ital.

[2119] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III. Acerbus Morena, in
Histor. Laudens. Sire Raul., tom. 6 Rer. Ital.

[2120] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital. Caffari, Annal. Genuens., lib.
1, tom. 6 Rer. Ital. Acerb. Morena, Hist. Laudens., tom. 6 Rer. Ital.

[2121] Antiquit. Italic., Dissert. V et XXXII.

[2122] Matth. de Griffonibus, Annal. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.

[2123] Annales veteres Mutinens., tom 9 Rer. Ital.

[2124] Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII.



    Anno di CRISTO MCLXV. Indizione XIII.

    ALESSANDRO III papa 7.
    FEDERIGO I re 14, imper. 11.


Essendo in questi tempi mancato di di vita _Giulio vescovo_ di
Palestrina[2125], lasciato da _papa Alessandro_ per suo vicario in Roma,
fu sostituito in suo luogo _Giovanni cardinale_ de' santi Giovanni e
Paolo, il quale, a forza di danaro e di esortazioni, indusse il popolo
romano a giurar la solita fedeltà ad esso pontefice, e regolò ancora a
suo volere il senato. Avendo egli inoltre tolta di mano agli scismatici
la basilica vaticana e la contea della Sabina, giudicando che fosse
oramai tempo di richiamare il papa dalle contrade della Francia, gli
spedì a questo fine messi e lettere di molta premura. Per consiglio
dunque non solamente de' vescovi e cardinali, ma anche dei re di Francia
e d'Inghilterra, si preparò egli al suo ritorno. Partitosi dopo Pasqua
dalla città di Sens, e passando per Parigi, dopo la festa di san Pietro
arrivò a Mompellieri; e dappoichè furono all'ordine i legni che doveano
condurlo, fra l'ottava dell'Assunzion della Vergine s'imbarcò, con
alcuni cardinali, in una nave di Narbona, e il rimanente de' cardinali
con _Oberto arcivescovo_ di Milano, il quale fu poi creato cardinale di
santa Sabina, in un altro più grosso legno che era de' cavalieri
ospitalieri, oggidì appellati di Malta. Aveano appena date le vele ai
venti, che eccoti comparir la flotta de' Pisani, i quali stavano in
agguato. A tal vista la nave, dove era il papa, voltò la prora, e se ne
tornò in fretta a Magalona. Circondarono i Pisani quella in cui venivano
i più dei cardinali, e non avendo essi trovato fra loro il pontefice,
senza far male alcuno, la lasciarono andare al suo viaggio. Il
Neobrigense scrive[2126] che questa nave bravamente si difese, e con
poco lor gusto fece retrocedere i Pisani. Comunque sia, tornò il papa ad
imbarcarsi in un legno più picciolo, ed ancorchè fosse travagliato da
alcune tempeste nel cammino, pure felicemente arrivò a Messina[2127]. A
questo avviso il _re Guglielmo_, che era in Palermo, inviò tosto a
complimentarlo i suoi ambasciatori con molti regali, e destinò
l'arcivescovo di Reggio e di Calabria ed altri baroni, che
l'accompagnarono fino a Roma: al qual fine somministrò una forte galea
pel papa, e quattro altre per gli cardinali e pel resto della corte
pontificia. Pertanto nel mese di novembre mosse papa Alessandro III da
Messina, e venne a Salerno, dove fu con grande onore accolto da
_Romoaldo arcivescovo_ e da tutto il popolo. Nella festa di santa
Cecilia giunse all'imboccatura del Tevere sano e salvo, e riposò per
quella notte in Ostia. Nel seguente giorno corsero a venerarlo i
senatori romani con gran folla di cherici e laici, e gli prestarono la
dovuta ubbidienza. Dopo di che coi rami di ulivo il condussero fino alla
porta Lateranense. Quivi era il clero vestito de' sacri ammanti, quivi i
Giudei colla sacra Bibbia nelle braccia, e i giudici e le milizie colle
loro insegne. Con questa processione e fra gli alti viva del popolo
passò il papa alla basilica, ed indi al palazzo del Laterano, con tanta
allegria della città, che non v'era memoria d'altra sì lieta giornata in
quel popolo.

Giunto in Germania l'_imperador Federigo_ vi trovò accesa la
guerra[2128]. Imperocchè avendo _Ugo conte_ palatino di Toingen fatto
impiccare due uomini del duca _Guelfo juniore_, al quale il duca _Guelfo
seniore_ avea rinunziato gli Stati della Suevia, per attendere a quei
dell'Italia, esso giovane Guelfo, non potendo averne soddisfazione, mise
a ferro e fuoco il di lui paese. Ricorse il palatino per aiuto a
_Federigo duca_ di Rotemburg, cugino dell'imperadore; e siccome fra la
casa di lui, erede della guibellinga, che noi ora diciam ghibellina, e
la casa estense-guelfa del duca Guelfo era antica la gara e la
nemicizia; così Federigo prese volentieri ad assisterlo. Il giovane
Guelfo anch'egli ebbe dalla sua _Bertoldo duca_ di Zeringhen ed altri
principi. Nei primi giorni di settembre vennero alle mani i due
eserciti, e Guelfo ne andò rotto, con lasciarvi prigioni novecento de'
suoi cavalieri. A questa nuova il vecchio _duca Guelfo_, ardente di
collera corse dall'Italia in Germania, assediò ed espugnò varie
castella, e vittorioso andò a riposarsi nelle sue terre. Ma il palatino
colle forze del duca Federigo avendo congiunto l'armata de' Boemi, gente
allora fierissima, rinforzò la guerra, che costò immensi danni e guasti
a quelle contrade, essendo venuti i Boemi per la Baviera e Suevia sino
al lago di Ginevra, commettendo infiniti disordini. S'interpose
l'Augusto Federigo, fece rilasciare i prigioni, e dare nella dieta
d'Ulma al duca Guelfo soddisfazione: con che si smorzò quell'incendio.
Tenne ancora Federigo in quest'anno[2129] una dieta in Erbipoli, ossia
in Wirtzburg, dove circa quaranta vescovi tedeschi giurarono di ubbidire
al falso pontefice Pasquale, ossia Guido da Crema. Nell'anno presente
ancora, come s'ha dalla Cronica di Fossanuova[2130], _Cristiano_,
eletto, o, per dir meglio, intruso arcivescovo di Magonza, col conte
Gotolino e con alcune soldatesche passò nella Campania romana, e fece
giurar fedeltà da tutti que' popoli all'antipapa Pasquale, condotto da
lui sino a Viterbo, e all'imperadore. Perchè Anagni ricusò di ubbidire,
diede il guasto alle sue campagne, ed incendiò Cisterna. Ma non sì tosto
furono costoro tornati in Toscana, che Giliberto conte di Gravina e
Riccardo da Gaia coll'esercito del re di Sicilia entrarono in essa
Campania, ed uniti coi Romani ricuperarono Veroli, Alatri, Ceccano ed
altre terre. Si ruppe ancora in quest'anno la tregua fra i Pisani e
Genovesi[2131], e cominciò l'un popolo all'altro a far quel male che
potea, con prendersi le navi. Riuscì a' Pisani, dopo aver bruciato Capo
Corso, di giugnere, nel dì 21 d'agosto, allo improvviso addosso alla
città d'Albenga, e di prenderla, con darle poscia il sacco e consegnarla
alle fiamme. Passarono essi dipoi alla fiera di Sant'Egidio in Provenza
con galee trentuna. Ma i Genovesi, ansiosi di vendicarsi, con maggior
numero di galee andarono a cercar colà i nemici, e fidandosi che
_Raimondo_ conte di santo Egidio non proteggerebbe i Pisani, attaccarono
una battaglia, che fu separata dalla notte. Gli Annali Pisani[2132]
dicono, esserne uscita vittoriosa la lor nazione; ma per una fiera
tempesta nel ritorno perderono dodici delle lor galee con tutta la
gente.

Crebbero in quest'anno i guai delle città di Lombardia. Avea l'Augusto
Federigo lasciati dappertutto i suoi uffiziali che raccogliessero i
dazii e tributi spettanti al fisco imperiale. Per testimonianza di
Acerbo Morena[2133] tuttochè parzialissimo dell'imperadore, questi cani
ne esigevano sette volte più del dovere: _Plus de septem, quam
imperatori de jure deberetur, ab omnibus injuste excutiebant._ Il Morena
va specificando gli smoderati tributi ed aggravi, che l'avidità loro
inventò. Ai Milanesi non si lasciava che un terzo delle loro entrate.
Sopra ogni casa, sopra ogni mulino, sopra la pescagione imposero dazii:
la caccia tutta per essi: tolto ai nobili, padroni delle castella, il
distretto ossia la giurisdizione, benchè goduta per trecento anni
addietro. Altre estorsioni di grano, di fieno, legna, polli e d'altri
naturali tuttodì si faceano da essi uffiziali, per attestato di Sire
Raul[2134]. In somma tutto operavano costoro per ridurre all'ultima
disperazione i Lombardi; il che nondimeno si credeva contro l'intenzion
di esso imperadore. Teneva intanto il timore di peggio molti di questi
popoli in dovere; ma in lor cuore si rallegravano al vedere nella marca
di Verona già alzata bandiera per la difesa della libertà, e all'udire
che i Veronesi e Padovani aveano tolto di mano ai Tedeschi le due
fortissime rocche di Rivoli ed Appendice, e spianatele da' fondamenti.

NOTE:

[2125] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.

[2126] Neubrig., lib. 2, cap. 17 Hist.

[2127] Romualdus Salernitan., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2128] Otto de S. Blasio, in Chron. Abbas Urspergens. in Chron.

[2129] Chron. Reicherspergense ad hunc annum.

[2130] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2131] Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Italic.

[2132] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[2133] Acerbus Morena, Hist. Laudens., tom. 6, Rer. Ital.

[2134] Sire Raul, tom. 6 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCLXVI. Indizione XIV.

    ALESSANDRO III papa 8.
    FEDERIGO I re 15, imper. 12.


Assalito da grave infermità in questo anno _Guglielmo re_ di Sicilia,
stette languente per due mesi[2135], e chiamato a sè _Romoaldo
arcivescovo_ di Salerno, che dilettavasi forte della medicina, arte
allora di gran credito in quella città, ne ascoltò bene i consigli, ma
seguitò poi a regolarsi a modo suo. Veggendosi poscia ridotto
all'estremo, fatti chiamare nella sua camera i prelati, i baroni e i
ministri della sua corte, dichiarò alla loro presenza per suo successore
nel regno _Guglielmo II_ suo maggior figliuolo, al quale, per essere di
età tuttavia incapace del governo, diede per tutrice e governatrice del
regno la _regina Margherita_ sua moglie e madre del giovinetto re,
assegnandole tre consiglieri di Stato. Dichiarò ancora principe di Capoa
_Arrigo_ altro suo figliuolo; e dopo avere scusata la sua passata
condotta, e pregati tutti della lor fedeltà verso la sua prole, nel mese
di maggio cessò di vivere. _Septimo die intrantis mensis madii_, ha il
testo di Romoaldo. Ma nel Necrologio casinense è notata la di lui morte
_idibus maii_. I tanti sconcerti succeduti durante il suo regno per la
sua disapplicazione[2136], lasciandosi egli reggere dalla canaglia dei
suoi eunuchi, e per la sua crudeltà e mala condotta che gli tirò addosso
tante ribellioni, fecero restare il suo nome in abborrimento e
maledizione. Si applicò tosto la regina a guadagnarsi l'amore de'
sudditi, col far aprire le carceri, richiamar dall'esilio un buon numero
di nobili banditi o fuggiti, e minorar le gabelle. Non lasciarono
veramente di fare un'irruzione sopra varie terre della Puglia[2137] i
vecchi ribelli _Andrea conte_ di Rupecanina e _Riccardo_ dall'Aquila,
dappoichè ebbero intesa la morte del re; ma con poco loro profitto, e
finì in un fuoco di paglia il lor tentativo. Due giorni dopo la morte
del padre, oppure più tardi, come vuole il Falcando, con gran solennità
nella cattedral di Palermo fu coronato il nuovo re _Guglielmo II_, e
somma comparve l'allegrezza del popolo, che sperava giorni più lieti
sotto di lui; nè cotali speranze andarono fallite. Da lì a qualche tempo
restò liberata la Sicilia da un mal arnese, cioè da Gaito Pietro eunuco,
principal ministro e camerlengo di quella corte. Costui nato Saraceno,
dopo aver preso il sacro battesimo, ritenne sempre in cuore l'antica sua
superstizione; e natogli sospetto che gli emuli suoi tramassero contro
la di lui vita, imbarcatosi una notte, e seco portando un gran tesoro,
se ne fuggì al re di Marocco. _Manuello_ Comneno imperador de' Greci,
dacchè seppe assunto al trono Guglielmo II, gli spedì ambasciatori per
rinnovare il trattato di pace, e mosse anche parola di dargli per moglie
l'unica sua figliuola. Fu ben confermata la pace, e andarono innanzi e
indietro ambasciatori e lettere per trattare di quel matrimonio, ma
nulla infine si conchiuse di questo per varii politici intoppi. Tornò in
quest'anno nel mese di novembre in Italia l'_imperador Federigo_ con un
fiorito esercito. Passò per la Val Camonica, perchè i Veronesi doveano
aver preso e ben fortificato il passo della Chiusa, e venne ad
accamparsi vicino a Brescia. Lo scrittor della vita di papa Alessandro
dice[2138], che, quantunque egli avesse conceputo grand'odio contro i
Lombardi, nè si fidasse di loro, pure, chiudendo in petto la sua
fierezza, si mostrò amorevole e cortese verso chiunque si presentò
all'udienza sua. Non così parla Sire Raul[2139], autore più informato di
questi affari. Diede Federigo il guasto a molte castella e ville del
Bresciano, sino alle fosse della città, e costrinse que' popoli a dargli
sessanta ostaggi de' principali e più ricchi, i quali furono inviati a
Pavia. Devastò ancora la pianura di Bergamo, e sen venne a Lodi, dove
tenne un gran parlamento di Tedeschi e Lombardi. S'erano messi gli
afflitti popoli della Lombardia in isperanza di sollievo per l'arrivo
dell'Augusto sovrano[2140] e però a folla comparvero colà grandi e
piccioli, chi colle croci in mano, e chi senza, chiedendo pietà.
Esposero all'imperadore e a' suoi ministri ad una per una tutte le
avanie finora patite; e sul principio parve ch'egli se ne condolesse
forte, e fosse per farne risentimento. Ma i fatti dimostrarono che nulla
curava di tali doglianze. Allora la povera gente scorata affatto, si
vide come perduta, nè vi fu chi non credesse che l'imperadore fosse
d'accordo con quegl'inumani uffiziali. Si trasferì poi Federigo da Lodi
a Pavia, e quivi solennizzò la festa del santo Natale.

Rapporta il cardinal Baronio[2141] una lettera scritta da esso Augusto
ai cardinali: tale nondimeno è lo stile e il tenore di essa, che si può,
senza timor di fallare, tenere per un'impostura di qualche dottorello, o
monachetto scismatico di quell'età. Certo è bensì che il suddetto
imperador di Costantinopoli inviò in questo anno a Roma Giordano Sebasto
del suo imperio, figliuolo di Roberto già principe di Capoa[2142]. Portò
egli dei gran regali a papa _Alessandro III_, e due proposizioni di
grande importanza. Era la prima di riunir le due chiese latina e greca,
discordi fra loro da gran tempo. L'altra, che il papa restituisse la
corona dell'imperio romano agli Augusti greci, promettendo a questo fine
mari e monti; cioè tanto oro ed argento, e tanta copia di truppe da
ridurre all'ubbidienza l'Italia tutta. Troppo difficile affare, e degno
di gran posatezza parve quest'ultimo al saggio pontefice; tuttavia, non
volendo trascurar cosa alcuna, inviò coll'ambasciator suddetto in
Levante il vescovo d'Ostia e il cardinale de' santi Giovanni e Paolo,
principalmente per trattar della concordia, ed anche per iscorgere che
fondamento si potea far de' Greci per l'altro negozio. Più che mai
durando la gara tra i Pisani e Genovesi[2143] per cagion della Sardegna,
in questo anno ancora accaddero rappresaglie di varie navi, e fecero i
Pisani di molti prigioni. _Guglielmo marchese_ di Monferrato, non
contento di tante terre e castella che l'Augusto Federigo sottopose alla
di lui giurisdizione, mosse guerra anch'egli a Genova, e loro tolse le
castella di Palodi e di Otaggio. Spedì per questo il popolo di Genova i
suoi inviati all'imperadore Federigo, per rappresentargli l'aggravio lor
fatto dal marchese, e ne riportarono poco buone parole. Inoltre davanti
ad esso Augusto seguì un'altra fiera altercazione fra essi e quei di
Pisa. Imperocchè era dianzi riuscito a Genovesi di rendersi tributarii
in Sardegna i due giudicati d'Arborea e di Cagliari: laonde i Pisani,
investiti di quell'isola da Federigo, fecero istanza perchè fosse
interdetto a' Genovesi di mettervi piede. Reclamarono i Genovesi,
pretendendo che la Sardegna appartenesse loro, dacchè ne cacciarono il
re Musetto, e che l'imperadore non potesse investirne altri senza far
loro torto. Addussero fra l'altre ragioni che costumavano in segno del
lor dominio i Gaetani e Napoletani, ogni qual volta nell'andare in
Sardegna o per mercatanzia, o per sale, s'incontravano in legni
genovesi, di mandar loro uno scudo pieno di pesci, e due vasi di vetro
pieni di pesce, e due barili di vino. Fu rimessa la lite alla curia
imperiale, e intanto fu ordinato il rilascio de' prigioni genovesi, con
grande schiamazzo de' Pisani. Venne a morte nel dì 28 di marzo in
quest'anno nella città di Benevento _Oberto arcivescovo_ di Milano e
cardinale[2144], e in luogo suo fu consacrato da papa Alessandro nel dì
8 di maggio _Galdino_ già arcidiacono della chiesa milanese, cardinale
anch'esso, che per le sue rare virtù meritò poscia d'essere venerato
qual santo.

NOTE:

[2135] Romualdus Salern., in Chron., Anonymus. Casinens.

[2136] Hugo Falcandus, in Hist.

[2137] Johann, de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2138] Cardinal. de Aragon., in Vit. Alexandri III.

[2139] Sire Raul, in Histor.

[2140] Idem, ibidem.

[2141] Acerb. Morena, Hist. Laudens.

[2142] Card. de Aragon., in Vit. Alexandri III.

[2143] Annal. Pisani. Caffar., Annal. Genuens., lib. 2

[2144] Acta S. Galdini apud Bolland. ad diem 18 april.



    Anno di CRISTO MCLXVII. Indizione XV.

    ALESSANDRO III papa 9.
    FEDERIGO I re 16, imper. 13.


Celebre e memorando è quest'anno nella Storia d'Italia per le strepitose
avventure che succederono. Avea l'_imperadore Federigo_ mandato avanti
con un corpo di truppe Rinaldo, eletto arcivescovo di Colonia e
arcicancelliere d'Italia, uomo fatto più per gl'imbrogli secolareschi,
che per maneggiare il pastorale, affinchè riducesse i contorni di Roma
all'ubbidienza dell'antipapa Pasquale[2145]. Tra la forza e i regali
ridusse Rinaldo ai suoi voleri molte di quelle terre e città; quelle che
fecero resistenza, la pagarono con patire saccheggi, incendii od altre
calamità figliuole della guerra. Nè solamente fuori di Roma fece egli
de' progressi, ma studiossi con profusione d'oro di guadagnare in Roma
stessa partito. E perciocchè, come scrive l'autor della vita di papa
_Alessandro III_, con servirsi di un detto degli antichi, _Roma, si
inveniret emtorem, se venalem praeberet_; non furono pochi i Romani che,
adescati dalla pecunia, giurarono fedeltà all'antipapa Guido da Crema e
all'imperadore contra di ogni persona. Non mancava il buon papa
Alessandro con paterne ammonizioni di esortar tutti alla concordia, alla
fedeltà e alla difesa della patria, offerendo ancora il danaro
necessario per questo; e davano essi buone parole, ma camminavano con
doppiezza, volendo piacere all'una e all'altra parte, infedeli nello
stesso tempo a tutte e due. Intanto l'Augusto Federigo nel dì 11 di
gennaio si mosse da Lodi colla imperadrice e coll'armata alla volta di
Roma[2146]. Arrivò sul Bolognese, dove, in vendetta della morte data già
al suo ministro Bozzo, diede il guasto sino alle porte della città, e
ridusse quel popolo a dargli cento ostaggi, che furono mandati sotto
buona scorta a Parma, e a pagare sei mila lire di moneta di Lucca. Passò
dipoi a Imola, Faenza, Forlì e Forlimpopoli, e in quelle contrade si
fermò sino a San Pietro, esigendo da que' popoli e dagli altri della
Romagna grosse contribuzioni di danaro. Non si sa il motivo perch'egli
facesse quivi sì lunga dimora, non accordandosi ciò col costume di un
principe sì focoso e diligente. Finalmente sul principio di luglio
marciò verso la città di Ancona, e ne intraprese l'assedio. Era questa
città in quei tempi ubbidiente e suddita a _Manuello imperador_ de'
Greci, e contuttochè gli costasse di molto il mantenere tale acquisto,
pure se ne compiaceva, lusingandosi che potesse un dì quel piccolo nido
riuscire di gran vantaggio alle mire non mai interrotte sopra l'Italia.
Ora i cittadini, sì perchè animati dai Greci, e perchè restava ad essi
libero il mare, nè mancavano buone fortificazioni alla lor terra, si
accinsero con vigore alla difesa. Fece Federigo fabbricar varie macchine
di guerra, e succederono varii conflitti con vicendevoli perdite, usale
in simili contrasti.

Intanto dacchè fu partito l'imperadore dalla Lombardia, Arrigo conte di
Des, lasciato governatore in Pavia, perchè verisimilmente subodorò i
segreti maneggi delle città lombarde, nel mese di marzo dimandò e volle
cento ostaggi del popolo milanese, cinquanta de' quattro borghi, e
altrettanti de' forensi. Da lì a qualche tempo crescendo i sospetti, ne
volle altri dugento, che tutti mise nelle carceri di Pavia, e fece anche
istanza di danari. Allora l'infelice popolo milanese giunto ai termini
della disperazione, al vedersi si maltrattato ed oppresso, diede ascolto
a chi proponeva di unirsi in lega con altre città, per iscuotere
l'insoffribil giogo tedesco. Fecesi dunque un congresso, a cui
intervennero i Cremonesi, Bergamaschi, Mantovani, Bresciani e Ferraresi;
e senza dubbio vi si contò ancora qualche inviato della lega della marca
di Verona. Quivi, rammentati gli aggravii e le crudeltà che tuttodì
pativano per l'insaziabilità e indiscretezza de' ministri cesarei,
determinarono di voler piuttosto morire una volta con onore, se
occorresse, che di viver con tanta lor vergogna e miseria sotto chi si
dimenticava d'essere lor principe, e principe cristiano. Una lega dunque
fu stabilita fra loro, con obbligarsi, sotto forte giuramento, di
difendersi l'un popolo l'altro, se l'imperadore o i suoi uffiziali
volessero da lì innanzi recar loro ingiuria o danno senza ragione,
_salva tamen imperatoris fidelitate_, clausola nondimeno che nulla dovea
significare secondo i bisogni. Fu specialmente convenuto il giorno
d'introdurre i dispersi Milanesi nell'abbattuta e abbandonata loro
città, e di star ivi finchè quel popolo si fosse messo in istato di
potervi sussistere da sè solo. Erano stati finora i Cremonesi de'
maggiori nemici che avesse Milano, e de' più fedeli che potesse vantar
Federigo. È da credere che si movessero a mutar massima dal vedere, e
fors'anche dal provar eglino il duro trattamento e l'alterigia de'
ministri imperiali sulle città lombarde, e temere col tempo di una
somigliante fortuna. Sicardo, che pochi anni dappoi fu vescovo di
Cremona, e scrisse una Cronica da me in buona parte data alla
luce[2147], si lagna non poco di questa risoluzion del suo popolo,
perchè a' suoi dì i Milanesi divenuti potenti, e dimentichi de'
benefizii, angustiavano forte la città di Cremona: quasichè in
quest'anno essa città avesse fabbricato un martello che dovea poi
schiacciare il capo a lei. Ma anche i saggi provveggono al bisogno
d'oggi, come possono il meglio, rimettendo poi alla provvidenza di Dio
il resto, giacchè niuno vi è che arrivi con sicurezza a leggere nel
libro dell'avvenire.

Erano i Milanesi in una somma costernazione, perchè veniva minacciata la
distruzione de' loro borghi, e i Pavesi ne lasciavano correre la voce;
laonde per quattro settimane stettero come in agonia tra i pianti e le
grida; e chi a Como, e chi a Novara, a Pavia, a Lodi trasportava i suoi
pochi mobili, perchè di dì in dì aspettavano l'ultimo eccidio. Quando
nel felicissimo dì 27 d'aprile comparvero le milizie bresciane,
cremonesi, bergamasche, mantovane e veronesi, che introdussero quel
popolo nella desolata città, con immenso gaudio di tutti[2148]. Che
menassero tosto le mani per alzar terra, e valersi delle reliquie
dell'antico muro, e serrarsi in casa, ben giusto è il crederlo.
Riportata questa nuova all'imperador Federigo, benchè altamente se ne
cruciasse il suo cuore, pure mostrò di non curarsene punto. Ed allorchè
i collegati videro la città ridotta in istato di competente difesa, si
ritirarono per attendere a guadagnar Lodi. Sussistendo questa città sì
attaccata al servigio dell'imperadore, niuno di quei popoli si vedeva
sicuro. Però trattarono di tirarla nella lega: e perchè i Lodigiani a
niun patto volevano staccarsi dal servigio imperiale dopo i tanti
beneficii ricevuti da Federigo, si venne alla forza. Fu assediata quella
città dai Milanesi e dagli altri alleati nel dì 17 di maggio: seguirono
varii combattimenti; fu dato il guasto al paese, e adoperate tante
minacce, che finalmente s'indusse quel popolo, per non poter di meno, ad
entrar nella lega, _salva imperatoris fidelitate_. Passarono i collegati
al castello di Trezzo, fortezza di gran polso, perchè cinta di un muro e
di una torre che non avea pari in Lombardia. Quivi era riposto un gran
tesoro dell'imperadore, come in luogo di somma sicurezza. Tanto
nulladimeno lo strinsero e batterono colle macchine di guerra, che il
presidio tedesco, a riserva del governatore, fu astretto alla resa,
salva la lor vita e libertà. Messo a sacco quel castello, fu poi
consegnato alle fiamme ed interamente distrutto. Tali notizie le abbiamo
da Acerbo Morena, autore lodigiano e contemporaneo; il perchè o non
sussiste ciò che scrisse Radevico all'anno 1159 della distruzion di quel
castello oppure convien immaginare che fosse rifatto dipoi. Portato
questo spiacevole avviso all'imperadore, ne provò allora un immenso
dispiacere; ma impegnato nella guerra contra d'Ancona e di Roma, altro
per allora non potè fare che legarsela al dito.

Avvenne in questo mentre che il popolo romano concepì, o, per dir
meglio, rinnovò l'odio antico contra quei di Tuscolo e di Albano, perchè
li vedea inclinati o aderenti ai Tedeschi, e renitenti a pagar gli
eccessivi tributi loro imposti[2149]. Sul fine dunque di maggio essi
Romani con tutto il loro sforzo, ancorchè si opponesse a tal risoluzione
il prudentissimo papa Alessandro III, andarono a dare il guasto a tutto
il territorio tuscolano, con tagliar le biade, gli alberi e le viti:
dopo di che assediarono quella città. Rainone padrone di Tuscolo, non
avendo forze da poter resistere, per necessità ricorse all'aiuto
dell'imperadore, che assediava Ancona. Ordinò egli tosto a Rinaldo
eletto arcivescovo di Colonia, esistente in que' contorni, che con
alquante schiere d'armati s'affrettasse al soccorso di Tuscolo. Così
fece egli. Ma, se vogliam credere a Ottone da San Biagio[2150], restò
Rinaldo rinserrato ed assediato dai Romani in quella città. Ne fu bensì
avvisato Federigo, e perchè parve ch'egli non se ne mettesse gran
pensiero, Cristiano eletto arcivescovo di Magonza, con Roberto conte di
Bassavilla e con altri baroni, prese l'assunto di marciare in aiuto di
lui con poco più di mille cavalieri tedeschi e borgognoni, ma i più
bravi dell'armata[2151]. Allora i Romani si misero in punto di dar
battaglia, confidando nella superiorità delle forze, giacchè si tiene
che nel campo loro si contassero tra cavalieri e fanti ben tre mila
persone armate. Romoaldo Salernitano scrive[2152] che i Romani, sedotti
dalla lor prosunzione e superbia, vollero venire alle mani, ma senza
ordine e cautela alcuna. Si azzuffarono dunque nel dì 30 di maggio coi
nemici. Sulle prime poco mancò che i Tedeschi, sopraffatti dal troppo
numero degli avversarii, non piegassero; ma uscito di Tuscolo
l'arcivescovo Rinaldo coi suoi, e dando alle spalle ai Romani, così
vigorosamente li caricò, che la lor cavalleria prese la fuga, lasciando
alla discrezion de' Tedeschi la fanteria. Non erano i Romani d'allora
come gli antichi loro antenati; però da lì innanzi non fu più battaglia,
ma solamente una fuga e un macello di que' miseri. Ingrandiscono qui
alcuni a dismisura la perdita de' Romani, facendola Ottone da San Biagio
ascendere a quindici mila tra morti e prigioni. Lo scrittor della vita
di papa Alessandro apre più la bocca, con dire che appena si salvò la
terza parte di sì copiosa armata, e che dalla battaglia d'Annibale a
Canne in qua non era più succeduta strage sì grande del popolo romano.
Sicardo copiò anch'egli questo bell'epifonema. E l'autore della Cronica
reicherspergense arrivò a dire che di quaranta mila Romani _paucissimi
evaserunt, qui non occisi, aut captivati fuerint_. Più ancora ne disse
Gotifredo monaco nei suoi Annali. Giovanni da Ceccano nella sua cronica
di Fossanuova ne fa morti sei mila, e molte altre migliaia di rimasti
prigioni. Ma perchè suol più spesso avvenire che la fama e la
millanteria de' vincitori faccia in casi tali di troppe frange al vero,
meglio sarà l'attenersi qui alla relazione di Acerbo Morena, autor di
questi tempi, che dice d'averlo inteso da Romani disappassionati; cioè
esservi restati morti più di due mila d'essi Romani, e più di tre mila
fatti prigioni, che legati furono condotti alle carceri di Viterbo.
L'Anonimo Casinense scrive di mille e cinquecento uccisi, e di mille e
settecento prigioni. Meno ancora dice il continuatore degli Annali
genovesi di Caffaro.

Non potè contener le lagrime all'avviso di sì funesto successo il buon
papa Alessandro. Tuttavia senza avvilirsi attese a premunir la città di
Roma, e a procurar degli aiuti dal di fuori. Mosse la regina di Sicilia
e il figliuolo _Guglielmo II_ a spedir le loro truppe, che giunte nella
campagna di Roma, si diedero ad assediare un forte castello presediato
da' Tedeschi. Secondo Acerbo Morena, pare che il giovinetto re venisse
in persona a tale impresa; ma è cosa non sì facile da credere. Ora
l'avviso della vittoria riportata dalle sue genti sotto Tuscolo, ma più
questa mossa delle armi siciliane, furono i motivi che indussero
Federigo a dismettere l'assedio d'Ancona a fine di trasferirsi verso
Roma. Per mantener nondimeno il decoro, ed acciocchè non paresse che la
ritirata venisse da paura, ammise dopo quasi tre settimane d'assedio ad
un trattato d'accordo gli Anconitani, i quali si obbligarono di pagargli
una gran somma di danaro, e per sicurezza del pagamento gli diedero
quindici ostaggi. S'ingannò Ottone da San Biagio con altri, allorchè
scrisse che Ancona si rendè all'imperadore. L'impazienza di Federigo era
grande, nè volendo aspettare i lenti passi della fanteria, presa seco la
cavalleria e l'Augusta sua moglie, a gran giornate marciò verso la
Puglia. Alla nuova che si accostava l'imperadore, e sulla credenza
ancora che con tutta l'armata egli venisse, si ritirarono ben
prestamente dall'assedio del suddetto castello le soldatesche del re di
Sicilia. Con tal fretta marciò Federigo, che raggiunse i fuggitivi al
passo di un fiume, dove molti ne fece prigioni. Assediò e vinse un
castello tolto dal re Guglielmo a Roberto conte di Bassavilla, con
restituirlo poi ad esso conte. Arrivò sino al Tronto, mettendo a sacco e
fuoco tutte quelle contrade. Sua intenzione pareva di passar più oltre;
ma sì vigorose furono le istanze dell'antipapa Pasquale dimorante in
Viterbo, per tirarlo a Roma, sì in virtù delle promesse a lui fatte,
come anche per la speranza di cacciarne papa Alessandro, che Federigo
con tutto l'esercito si mosse a quella volta, e nel dì 24 di luglio
giunse a mettere il campo nel monte del Gaudio, appellato monte Malo
dallo scrittor della vita di papa Alessandro, che racconta il di lui
arrivo colà _XIV kalendas augusti_. Nulla più sospirava egli che
d'impadronirsi della basilica vaticana; nè tardò a superar la cortina e
il portico di san Pietro, con ispogliare e dar alle fiamme tutte quelle
case. Ma nella vaticana non potè egli entrare, perchè fortificata e ben
difesa dalla masnada di san Pietro, cioè dai soldati raccolti dai beni
patrimoniali della Chiesa romana. Diedero i Tedeschi varie battaglie al
sacro luogo per una continua settimana, sempre inutilmente, finchè
riuscì loro di potere attaccar fuoco alla chiesa di santa Maria del
Lavoriere, ossia della torre. Essendo questa contigua a san Pietro, poco
mancò che le fiamme non penetrassero anche nella basilica. Mise
nondimeno quell'incendio tal paura ne' difensori, massimamente veggendo
essi di non potere sperar soccorso alcuno dalla città, che dimandarono
di capitolare. Fu loro accordato di potersene andar salvi colle persone;
e così san Pietro venne in potere di Federigo. Però nella seguente
domenica arrivò l'antipapa Pasquale a cantar messa in quella chiesa,
nella quale occasione coronò l'imperadore con un cerchio d'oro, insegna
del patriziato. Fin dall'anno 1155, siccome abbiam veduto, aveva egli
ricevuta la corona imperiale dalle mani di papa Adriano IV. Tuttavia
volle (Acerbo Morena, che v'era presente, ce ne assicura) il piacere di
riceverla di nuovo da quelle del suo idolo; funzione fatta nel martedì
seguente, festa di san Pietro in Vincola. Fu coronata anche l'Augusta
Beatrice; anzi che a lei sola fosse imposta l'imperial corona lo scrive
l'autor della Cronica Reicherspergense[2153], parendogli molto strano
che il già coronato imperadore si facesse coronar di nuovo. Altrettanto
ha Gotifredo monaco di san Pantaleone ne' suoi Annali[2154]. Ciò fatto,
si studiò l'imperador Federigo di guadagnare i grandi e il popolo di
Roma[2155]: e siccome accortissimo principe propose, che se dava lor
l'animo di fare che il pontefice Alessandro rinunziasse al papato,
astrignerebbe anch'egli il suo papa Pasquale ad imitarlo: con che si
verrebbe poi all'elezione di un terzo, ed egli darebbe la pace a tutti,
senza più intricarsi nell'elezion de' pontefici. Esibiva eziandio di
rilasciar tutti i prigioni. Parve questo un bel partito ai più de'
Romani, i quali giunsero fino a dire che il papa era tenuto ad
accomodarvisi, e a far anche di più per riscattare e salvare tante sue
pecorelle; e il cominciarono a tempestar su questo. Ma Alessandro,
dacchè si accorse dei segreti maneggi del popolo co' suoi nemici, dal
palazzo lateranense s'era ritirato nelle forti case de' Frangipani, e
poscia presso il colosseo, con ispedir quivi le cause spettanti alla
Chiesa e allo Stato. Intanto il giovane re Guglielmo, giuntagli la
notizia di quanto passava in Roma, mosso dal suo zelo per la salute del
papa, spedì due ben corredate galee con gente e danaro assai, ed ordine
di condurre in salvo il pontefice. Vennero su pel Tevere le due galee, e
fatto sapere l'arrivo loro ad Ottone Frangipane, furono introdotti
all'udienza del papa i sopracomiti. Sommamente obbligato si protestò
Alessandro III all'amorevol pensiero del re siciliano; prese il denaro
inviato; e credendo per allora non necessaria la sua partenza, rimandò
le galee indietro con due cardinali, per trattar dei presenti affari
colla corte di Sicilia. Poscia distribuì buona parte di quel danaro ai
Frangipani e ai figliuoli di Pier Leone, per maggiormente animarli a
star seco uniti; e il resto l'inviò ai custodi delle porte. Ma in fine
si lasciarono piegare gli incostanti Romani dalle lusinghevoli
proposizioni di Federigo, e volendo pur indurre il papa ad acconsentire,
questi, accompagnato da alcuni de' cardinali, e travestito, segretamente
uscì di Roma, e passando per Terracina, arrivò a Gaeta, dove ripigliò
gli abiti pontificali. Di là poi si trasferì a Benevento, dove fu con
grande onore accolto da quel popolo.

Eransi interamente dati i Pisani ai servigi dell'imperador
Federigo[2156], verisimilmente per que' gran doni e vantaggi che, a
guisa dei già conceduti a' Genovesi, dovette compartire anche a
quest'altro popolo con un pezzo di pergamena, per l'ansietà di portare
in breve la guerra, non solo contra de' Romani, ma anche in Puglia,
Calabria e Sicilia; al qual fine abbisognava della loro flotta. Aveano
essi Pisani giurata ubbidienza all'antipapa Pasquale. E perchè Villano
loro arcivescovo non volle acconsentire a sì fatta abbominazion del
santuario, fu costretto a fuggirsene e a ritirarsi nell'isola della
Gorgona; e in luogo suo fu intruso in quella chiesa Benincasa canonico
sul fine di marzo. Aveano anche prestato aiuto a Rinaldo arcivescovo di
Colonia, per prendere Civitavecchia, prima ch'egli passasse a Tuscolo,
ossia Tuscolano. Ora Federigo, benchè trattasse di ridurre i Romani a'
suoi voleri colle buone, non lasciò per questo di prepararsi per
adoperar la forza, se il bisogno lo portava. A questo fine richiese
d'aiuto i Pisani, che gli spedirono dodici galee ben armate con due de'
loro consoli; e queste dipoi entrate pel Tevere, e salite sino al ponte,
infestavano non poco le ville dei Romani, ed impedivano ogni soccorso
per quel fiume. Il popolo romano adunque per la maggior parte, tanto per
ischivar gli ulteriori danni e pericoli, quanto perchè Federigo confermò
il senato romano, ed accordò e quel popolo di molte esenzioni per tutti
i suoi Stati, condiscese a quanto egli bramava, con promettere, fra
l'altre cose, che _justitias suas_ (cioè dell'imperadore) _tam intra
urbem, quam extra urbem juvabunt eum retinere_; e che terrebbono per
papa l'antipapa Pasquale, se pure s'ha in ciò da credere al continuator
del Morena; perciocchè da una lettera di Giovanni Sarisberiense fra
quelle di san Tommaso Cantuariense si raccoglie che i Romani stettero
saldi nell'ubbidienza di papa Alessandro III, nè di Pasquale si parla
nel giuramento dei Romani rapportato nella sua Cronica da Gotifredo
monaco di san Pantaleone presso il Freero. I Frangipani nondimeno e la
casa di Pier Leone con altri nobili non consentirono a questo accordo.
Mandò poscia Federigo a ricevere il giuramento di fedeltà da' Romani
varii suoi deputati, fra' quali uno fu Acerbo Morena, continuatore della
Storia di Ottone suo padre, uomo dabbene ed incorrotto, e diverso da
tanti altri dell'armata imperiale, che viveano di sole rapine. Intanto
venne Dio a visitare i peccati e l'alterigia dell'imperadore Federigo,
principe che nulla meno meditava che di mettere in catene l'Italia
tutta, e per politica andava fomentando il deplorabile scisma della
Chiesa di Dio. Una improvvisa epidemia cagionata dall'aria di Roma,
micidiale anche allora in tempo di state, se pur non fu una vera
pestilenza, assalì intanto l'esercito di Federigo, e cominciò a mieterne
le centinaia ogni giorno. La mattina erano sani, non arrivava la sera
che si trovavano morti, di modo che si penava a seppellir tanta
gente[2157]. Nè già sulla sola plebe de' soldati si stese questo
flagello, comunemente attribuito alla visibil mano di Dio, ma ancora ai
principi e signori più grandi d'essa armata. Vi perirono _Rinaldo_
eletto arcivescovo di Colonia, _Federigo duca_ di Suevia, ossia di
Rotemburgo, figliuolo del già re Corrado e cugino germano
dell'imperadore, i vescovi di Liegi, di Spira, di Ratisbona, di Verden e
d'altre città, con assaissimi altri principi e nobili, fra' quali
specialmente è da notare il _duca Guelfo_ iuniore, la cui morte fu
compianta anche dagl'Italiani, perchè la di lui perdita fu cagione che
si seccasse in lui questa linea di Estensi-guelfi, e che il duca Guelfo
suo padre rinunziasse dipoi all'imperadore tutti i suoi Stati in Italia;
del che ho assai favellato altrove[2158]. Per questa fiera mortalità di
gente anche il suddetto Acerbo Morena istorico, nel tornare a casa
portando seco il malore, nel dì 19 d'ottobre mancò di vita nei borghi di
Siena, come s'ha dal suo Continuatore.

Atterrito da così tragico avvenimento l'imperador Federigo,
frettolosamente decampò col resto dell'armata, e per la Toscana venuto a
Pisa e a Lucca, continuò il viaggio alla volta di Lombardia. Ma nel
voler valicare l'Apennino, trovò il popolo di Pontremoli ed altri
Lombardi che gli vietarono per quelle montagne il passo[2159]. Se non
era _Obizzo marchese_ Malaspina che l'affidò per le sue terre della
Lunigiana, e gli diede il passaggio, si sarebbe trovato in pericolose
angustie. Gran parte nondimeno del suo equipaggio si perdè per istrada.
Verso la metà di settembre, e non già di dicembre, come per error de'
copisti si legge presso Sire Raul, arrivò egli a Pavia, con avere
perduto e ne' contorni di Roma, e nel viaggio per le malattie suddette,
oltre a gran copia di soldati, più di due mila nobili, tra vescovi,
duchi, marchesi, conti, vassalli e scudieri. Quivi nel dì 21 d'esso mese
di quest'anno, e non già del 1168, come ha il testo del continuatore del
Morena, mise al bando dell'imperio tutte le città congiurate di
Lombardia, riserbando solamente Lodi e Cremona, senza che s'intenda il
perchè di quest'ultima, e gittò in aria il guanto in segno di sfida. In
vece de' _Cremonesi_, sospetto io che il continuatore di Acerbo Morena
eccettuasse i _Comaschi_, perchè questi continuarono a tenere il partito
di Federigo. Il qual poscia più fiero che mai coi Pavesi, Novaresi,
Vercellesi, e coi marchesi _Guglielmo_ di Monferrato ed _Obbizzo_
Malaspina, e col conte di Biandrate cavalcò contro le terre de'
Milanesi, con devastar Rosate, Abbiategrasso, Mazzenta, Corbetta ed
altri luoghi. Accorsero allora a Milano i Lodigiani, i Bergamaschi e i
Bresciani che erano in Lodi, e i Parmigiani e Cremonesi che si trovavano
in guardia di Piacenza. Tornossene per questa mossa Federigo a Pavia; ma
senza prendere fiato si voltò contra de' Piacentini, alle terre de'
quali fece quanto male potè. Ingrossatisi per questo a Piacenza i
collegati, erano per affrontarsi con lui, s'egli non si fosse
prestamente ritirato a Pavia. Abbiamo nondimeno da una lettera di
Giovanni Sarisberiense che seguì fra loro qualche baruffa colla peggio
di Federigo, il quale_ in fugam versus est_, come si può vedere fra le
lettere di san Tommaso Cantuariense. Nè già sussiste, come scrive il
Sigonio, che Federigo andasse sotto Bergamo, e ne bruciasse i borghi.
Tante forze egli non aveva. Venuto poscia il verno, si quetò il rumore
delle armi in Lombardia.

Durò anche nel presente anno la rabbiosa guerra fra i Pisani e i
Genovesi[2160], perseguitandosi i loro legni per mare a tutto potere.
Furono fatti progetti di pace, e rimesse le differenze in dieci per
parte; ma senza che animi tanto alterati potessero punto accordarsi.
Intanto il regno di Sicilia era agitato dalle gare di que' baroni e da
varie fazioni[2161], che tutte cercavano di superiorizzare durante la
minorità del re _Guglielmo II_. Le città di Messina e di Palermo
tumultuarono, e contribuì ad accendere quel fuoco _Giovanni cardinale_
Napoletano, uomo sol fatto per ismugnere danaro; e per gli suoi vizii
biasimato dal Baronio. Queste dissensioni minutamente descritte si
leggono nelle storie di Ugone Falcando e di Romoaldo Salernitano. Mi
dispenso io dal riferirle per amore della brevità. Si trasferì in
quest'anno a Venezia in abito da pellegrino, e di là venne a Milano il
novello arcivescovo di quella città _Galdino_[2162] nel dì 5 di
settembre, con infinita consolazion del suo popolo. Portò egli seco il
titolo e l'autorità di legato apostolico: il che servì a maggiormente
corroborare ed accrescere la lega delle città lombarde contra di
Federigo. Infatti ho io pubblicato i patti d'essa lega, stabiliti nel dì
primo di dicembre[2163], obbligandosi cadauno di difendere _civitatem
Venetiarum, Veronam et castrum et suburbia, Vicentiam, Paduam,
Trivisium, Ferrariam, Brixiam, Bergamum, Cremonam, Mediolanum, Laudum,
Placentiam, Parmam, Mantuam, Mutinam, Bononiam_, ec. con varii patti, il
più considerabile de' quali è l'obbligarsi alla difesa ed offesa _contra
omnem hominem, quicumque nobiscum facere voluerit guerram aut malum,
contra quod velit nos plus facere, quam fecimus a tempore Henrici regis
usque ad introitum imperatoris Friderici_. Sotto nome di Arrigo porto io
opinione che si debba intendere Arrigo quarto fra i re, terzo fra
gl'imperadori, perchè sotto di lui vo credendo incominciata la libertà
di molte città di Lombardia, che andò poi crescendo finchè arrivò alla
sua pienezza; e questa abbiamo dipoi veduta come annichilata dal terrore
e dalla fortuna dell'imperadore Federigo.

NOTE:

[2145] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.

[2146] Acerb. Morena, Hist. Laud., tom. 6 Rer. Italic. Sire Raul, tom. 6
Rer. Ital.

[2147] Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2148] Acta S. Galdini, apud Bolland. ad diem 18 april.

[2149] Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.

[2150] Otto de S. Blasio in Chron.

[2151] Acerbus Morena, Hist. Laud., tom. 6 Rer. Italic.

[2152] Romuald. Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2153] Chron. Reicherspergens.

[2154] Godefr. Monach., in Annal.

[2155] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.

[2156] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[2157] Continuator Acerbi Morenae, tom. 6 Rer. Ital. Otto de S. Blasio.
Godefrid. Monachus apud Freherum.

[2158] Antichità Estensi, P. I, cap. 31.

[2159] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital. Continuat. Acerbi Morenae.

[2160] Caffari, Annal. Genuens., lib. 2, tom. 6 Rer. Italic.

[2161] Romuald. Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Ital. Hugo Falcandus,
Histor. Sicul.

[2162] Continuator Acerbi Morenae, tom. 6 Rer. Ital. Act. S. Galdini
apud Bollandist. ad diem 18 april.

[2163] Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII.



    Anno di CRISTO MCLXVIII. Indizione I.

    ALESSANDRO III papa 10.
    FEDERIGO I re 17, imper. 14.


Abbiamo dal continuatore di Acerbo Morena che l'Augusto _Federigo_ quasi
per tutto il verno dell'anno presente andò girando, con dimorare ora
nelle parti di Pavia, ora in quelle di Novara, ora di Vercelli, del
Monferrato e d'Asti. Ma veggendo sempre più declinare i suoi affari, e
trovandosi come chiuso in Pavia, e sempre in sospetto che i pochi
rimasti a lui fedeli il tradissero, un dì di marzo all'improvviso
segretamente si partì, _et in Alemaniam per terram comitis Uberti de
Savogia, filii quondam comitis Amadei, qui et comes dicitur de Morienna,
iter arripuit_: così si legge negli antichi manoscritti. Questo
_Uberto_, chiamato dal Guichenon _Umberto_, è uno de' progenitori della
real casa di Savoia; e quantunque ritenesse il nome di _conte di
Morienna_, pure in varii strumenti ha il titolo ancora di _marchese_; e
di qui parimente si scorge ch'egli era principe di molta potenza, e che
per andare in Borgogna si passava per li di lui Stati. Fra le lettere di
san Tommaso arcivescovo di Cantuaria[2164], una se ne legge di Giovanni
Sarisberiense, riferita anche dal cardinal Baronio[2165], dalla quale si
ricavano varie particolarità. Cioè che Federigo non vedendosi sicuro in
Pavia, per aver fatto cavar gli occhi ad un nobile di quella città, e
sapendo che già i Lombardi mettevano insieme un'armata di venti mila
soldati, lasciati in Biandrate trenta degli ostaggi lombardi, passò nel
Monferrato, dove, per la fidanza che aveva in _Guglielmo marchese_ di
quella contrada, per le di lui castella distribuì gli altri ostaggi.
Poscia andò qua e là sempre di sospetto, non osando di pernottare più di
due o tre giorni nel medesimo luogo. Frattanto il marchese trattò _cum
cognato suo comite mauriensi_, (leggo _mauriennensi_), _ut imperatorem
permitteret egredi, promittens ei non modo restitutionem ablatorum, sed
montes aureos, et cum honore et gloria imperii gratiam sempiternam_.
Poscia raccolti gli ostaggi, e accompagnato da soli trenta uomini a
cavallo, andò sino a Santo Ambrosio fra Torino e Susa; e la mattina per
tempo rimessosi in viaggio, quando fu presso a Susa barbaramente fece
impiccare uno degli ostaggi, nobile bresciano, incolpandolo d'aver
maneggiata l'unione dell'esercito che il cacciava dall'Italia. Sire
Raul[2166] scrive che Federigo _nono die martii suspendit Zilium de
Prando obsidem de Brixia juxta Sauricam_ (forse era scritto _Secusiam_)
_dolore et furore repletus, quod Mediolanenses, Brixienses, Laudenses,
Novarienses, et Vercellenses obsederant Blandrate, et inde abiit in
Alamanniam_. Aggiugne, che arrivato a Susa cogli altri ostaggi, i
cittadini presero l'armi, e gli tolsero questi ostaggi, mostrando paura
di essere rovinati dai Lombardi, se lasciavano condurre per casa loro
fuori d'Italia quei nobili, massimamente dopo aver egli tolto poco fa di
vita un d'essi, uomo potente e generoso, con tanta crudeltà. Accortosi
Federigo del mal tempo che correva per quelle parti, anzi, se è vero ciò
che ha Ottone da San Biagio[2167], avvertito dal suo albergatore che
que' cittadini meditavano d'ucciderlo, avendo lasciato nel letto suo un
Artmanno da Sibeneich che il rassomigliava, travestitosi da famiglio e
con altri cinque suoi famigli mostrando di andare innanzi a preparar
l'alloggio per un gran signore suo padrone, continuò il viaggio per
istrade alpestri e dirupate, finchè giunse in Borgogna, dove di gravi
minacce fece a que' popoli; e dipoi passò in Germania, con trovar ivi
non poche turbolenze, e molti che l'odiavano. Sarebbe da desiderare che
le antiche storie ci avessero lasciate notizie più copiose della real
casa di Savoia, perciocchè non bastano le moderne a darci de' sicuri e
sufficienti lumi. Abbiam veduto all'anno 1155 che Federigo probabilmente
avea tolto degli Stati anche ad Umberto conte di Morienna; ma quali non
sappiamo. Nella lettera suddetta del Sarisberiense è scritto che
Federigo prometteva ad esso conte _restitutionem ablatorum_; ma quali
Stati fossero a lui tolti non apparisce. Il Guichenon[2168], che
dimenticò di parlare all'anno presente, di questo passaggio di Federigo
per la Savoia, e dell'avvenimento di Susa, scrive che Federigo irritato
contra d'esso Umberto pel suo attaccamento a papa Alessandro III, diede
in feudo ai vescovi di Torino, di Morienna, di Tarantasia, di Genova,
ec. quelle città. Veggasi ancora l'Ughelli[2169], che rapporta un
diploma d'esso Federigo in favore del vescovo di Torino, e le liti poi
sopravvenute. Quel che è certo, brutta scena fu quella dell'uscita di
Federigo imperadore, dico, al cui cenno dianzi tremavano tutte le città
italiane, e che già per decisione dei vanissimi dottori di que' tempi,
era stato dichiarato _padrone del mondo_, si vide in fine ridotto a
fuggirsene vergognosamente d'Italia sotto un abito di vil famiglio
_contra imperatoriam dignitatem_, come dice Gotifredo Monaco[2170],
tardi conoscendo che più colla clemenza e mansuetudine, che colla
crudeltà ed alterigia, si suol far guadagno, e che per voler troppo,
bene spesso tutto si perde.

Dopo un vigoroso assedio cadde in potere dei collegati lombardi la terra
di Biandrate. Furono ricuperati gli ostaggi quivi detenuti, e tagliati a
pezzi quasi tutti i Tedeschi che v'erano di guarnigione[2171]. Dieci
d'essi nobilissimi e ricchissimi vennero consegnati alla moglie del
nobile Bresciano fatto impiccare da Federigo, acciocchè ne facesse
vendetta, o ne ricavasse un grosso riscatto. In questo anno[2172] nel
giovedì santo, cioè a dì 28 di marzo, per le istanze di Galdino
arcivescovo di Milano, e per paura di mali maggiori, il popolo di Lodi
abiurò l'antipapa Pasquale, e ridottosi all'ubbidienza di Alessandro
papa, elesse per suo vescovo Alberto proposto della chiesa di Lodi.
Intanto cresciuti gli animi dei popoli collegati della Lombardia per la
fuga dell'imperador Federigo, si accinsero questi alla guerra contra de'
Pavesi e del marchese di Monferrato, che soli in quelle parti restavano
più che mai attaccati al partito d'esso Augusto. Per maggiormente
angustiare Pavia, venne loro in capo un grandioso pensiero, cioè quello
di fabbricar di pianta una nuova città ai confini del Pavese e del
Monferrato. Però i Milanesi, Cremonesi e Piacentini nel dì primo di
maggio[2173] unitamente si portarono fra Asti e Pavia in una bella e
feconda pianura, circondata da tre fiumi, e quivi piantarono le
fondamenta della nuova città, obbligando gli abitatori di sette terre di
quelle parti, e fra l'altre Gamondio, Marengo, Roveredo, Solera ed
Ovilia a portarsi ed abitare colà. Poscia in onore di papa Alessandro
III, e dispregio di Federigo, le posero il nome d'_Alessandria_. Perchè
la fretta era grande, e mancavano i materiali al bisogno, furono i tetti
di quelle case per la maggior parte coperti di paglia: dal che venne che
i Pavesi ed altri emuli cominciarono a chiamarla _Alessandria dalla
paglia_; nome che dura tuttavia. Ottone da San Biagio[2174] mette sotto
l'anno 1170 l'origine di questa città, forse perchè non ne dovette sì
presto prendere la forma. Ma è scorretta in questi tempi la di lui
cronologia. Il continuatore di Caffaro[2175] anche egli ne parla
all'anno presente. Lo stesso abbiam da Sicardo e da altri autori. Certo
nondimeno è che di buoni bastioni e profonde fosse fu cinta quella
nascente città, ed essere stato tale il concorso della gente a piantarvi
casa, che da lì a non molto arrivò essa a metter insieme quindici mila
persone, parte di cavalleria e parte di fanteria, atte all'armi e
bellicose. E nell'anno seguente i consoli della medesima città,
portatisi a Benevento, la misero sotto il dominio e protezione de'
romani pontefici, con obbligarsi a pagar loro un annuo censo o tributo.
Tutto ciò fu di somma gloria a papa Alessandro. Attaccato fin qui era
stato _Obizzo_ marchese _Malaspina_, potente signore in Lunigiana, ed
anche possessore di varii Stati in Lombardia, al partito di Federigo. Ma
dacchè egli vide tracollati i di lui affari, non fu pigro ad unirsi
colla lega lombarda contra di lui. Egli fu che coi Parmigiani e
Piacentini nel dì 12 marzo, secondo Sire Raul[2176], introdusse il
disperso popolo di Tortona nella desolata loro città, la quale perciò
tornò a risorgere. Andò intanto crescendo la lega delle città lombarde,
entrandovi or questa or quella, chi per ricuperare la perduta libertà ed
autorità, e chi per non esservi astretta dalla forza e potenza
dell'altre. Il suddetto Sire Raul nomina le città confederate con quella
di Milano, cioè le città della Marca, capo d'esse _Verona, Brescia,
Mantova, Bergamo, Lodi, Novara, Vercelli, Piacenza, Parma, Reggio,
Modena, Bologna, Ferrara_. Confessa il continuatore di Caffaro[2177] che
anche i Genovesi furono invitati ad entrare in questa lega, ed eziandio
spedirono i lor deputati per trattarne, ma senza che tal negoziato
avesse effetto.

Ho io dato alla luce[2178] l'atto della concordia seguita nel dì 3 di
maggio dell'anno presente fra il suddetto marchese _Obizzo_ e i consoli
di _Cremona, Milano, Verona, Padova, Mantova, Parma, Piacenza, Brescia,
Bergamo, Lodi, Como_ (degno è di osservazione che ancora i consoli
comaschi aveano abbracciata la lega), _Novara, Vercelli, Asti, Tortona,
Alessandria, nuova città_, e _Bologna_. Leggonsi ivi i patti stabiliti
fra loro e i nomi de' deputati di cadauna città. Fu guerra in quest'anno
fra i pisani e Lucchesi[2179]. Erano gli ultimi collegati coi Genovesi,
e, secondo il concerto fatto con essi, verso la metà di maggio andarono
ad assediare il castello di Asciano, e, dategli varie battaglie, se ne
impadronirono. Accorsero i Pisani, ma non a tempo, e venuti ad un
combattimento, ebbero la peggio, con restarvi molti di loro prigioni, i
quali furono mandati dai Lucchesi nelle carceri di Genova: il che venne
creduto cosa infame e degna dell'odio di tutti[2180]. Gl'impetrarono i
Genovesi per potere col cambio riavere altri loro prigioni detenuti in
Pisa. Continuò tuttavia la guerra fra i Pisani e Genovesi, e contuttochè
molto si adoperasse _Villano arcivescovo_ di Pisa, che era tornato al
possesso della sua chiesa, per metter pace fra queste due sì accanite
città, pure non gli venne fatto: tanto predominava in cuor di que'
popoli l'ambizione d'essere soli in mare, e soli nel commercio e
guadagno. Aveano fin qui i predetti Genovesi tenuto come sequestrato
nelle loro città il vanerello re di Sardegna Barisone, sperando ch'egli
arrivasse pure a soddisfar pel danaro sborsato a conto di lui. Ma un
soldo mai non si vide. Il perchè i Genovesi si contentarono di condurlo
in Sardegna, dove diede speranza di pagare. Andarono, e fecero raccolta
di danaro; ma perchè molto vi mancò a soddisfare i debiti contratti,
ricondussero a Genova quel fantasma di re. In questi tempi i Romani
mossero guerra al popolo d'Albano[2181], perchè era stato in favore di
Federigo contra di loro, e tanto fecero che distrussero da' fondamenti
quella città, ancorchè fosse in quelle parti _Cristiano_ eletto
arcivescovo di Magonza, mandatovi da Federigo per sostenervi il suo
partito. Rodeva i Romani un pari, anzi maggior desiderio di vendicarsi
de' Tuscolani, per cagion de' quali aveano patita sì fiera rotta
nell'anno precedente, e recarono loro anche gran danno; ma non
consentendo la Chiesa ai loro sforzi, desisterono per allora da tale
impresa. Tornò parimente in quest'anno _Manuello_ Comneno imperador de'
Greci ad inviare ambasciatori a Benevento, dove era il pontefice
Alessandro; e, siccome ben informato delle rotture che passavano fra
esso papa e Federigo, si figurò facile di poter ottenere il suo intento:
cioè di far privare della corona Federigo, e che questa fosse poi
conferita a lui e a' suoi successori. Per ismuovere la corte pontificia,
venne cogli ambasciatori un'immensa quantità d'oro. Ma Alessandro,
pontefice de' più prudenti che s'abbia avuto la Chiesa di Dio, ringraziò
forte il greco Augusto per la sua buona volontà e divozione; ma per
conto della corona imperiale fece lor conoscere che troppe difficoltà
s'incontravano, nè conveniva a lui il trattarne, per esser uffizio suo
il cercare la pace, e non già la guerra. Pertanto rimandò indietro essi
ambasciatori colla lor pecunia, e spedì con tale occasione due cardinali
alla corte di Costantinopoli. Abbiamo da Giovanni da Ceccano[2182], da
Romoaldo Salernitano[2183] e da altri storici che l'antipapa Pasquale
III, ossia Guido da Crema, mentre stava nella basilica di san Pietro
fuori di Roma, fu chiamato da Dio al rendimento de' conti. Morì egli
impenitente nel dì 20 di settembre. Pareva che lo scisma con la morte di
costui avesse affatto a cessare, perchè niuno più restava de' cardinali
scismatici, e gli antipapi d'allora non soleano crearne dei nuovi,
siccome vedremo fatto nel grande scisma del secolo XIV. Tuttavia gli
scismatici non si quetarono, e si trovò un Giovanni abbate di Struma,
uomo apostata e pieno di vizii, che si fece innanzi ed accettò il falso
papato, con assumere il nome di Callisto III. Costui era stato eletto
vescovo tuscolano da papa Alessandro, e fece dipoi una miserabil figura
fra quei della sua screditata fazione.

NOTE:

[2164] S. Thomas Cantuariensis, lib. 2, ep. 66, edit. Lupi.

[2165] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[2166] Sire Raul, in Histor. tom. 6 Rer. Ital.

[2167] Otto de S. Blasio, in Chron.

[2168] Guichenon, Histoire de la Mais. de Savoye, tom. 1.

[2169] Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Archiepisc. Taurinens.

[2170] Godefridus Monachus, in Chron.

[2171] Johann. Sarisberiensis, in Epist.

[2172] Continuator Acerbi Morenae.

[2173] Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.

[2174] Otto de S. Blasio, in Chron.

[2175] Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.

[2176] Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.

[2177] Continuat. Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Ital.

[2178] Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII.

[2179] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Italic.

[2180] Caffari, Annal. Genuens., lib. 2.

[2181] Cardinal. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.

[2182] Johannes de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2183] Romualdus Salernit., in Chron., tom. 6 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCLXIX. Indizione II.

    ALESSANDRO III papa 11.
    FEDERIGO I re 18, imper. 15.


Spese l'imperador Federigo in Germania l'anno presente in istabilire ed
ingrandire i suoi figliuoli[2184]. Nelle feste di Pentecoste tenne una
gran dieta in Bamberga, dove comparvero i legati dell'antipapa Callisto.
In essa di comune consenso de' principi fece eleggere re di Germania e
d'Italia il suo primogenito _Arrigo_, e coronarlo per mano di _Filippo
arcivescovo_ di Colonia. Al secondo de' suoi figliuoli, cioè a
_Federigo_, giacchè era mancato di vita _Federigo duca_ di Suevia,
chiamato di Rotimburgo, l'Augusto imperadore diede quel ducato. Rimasto
senza eredi il vecchio duca _Guelfo_ della linea estense di Germania,
per la morte del figliuolo accaduta nell'anno 1167 in Italia, aveva egli
dichiarato suo erede _Arrigo il Leone_ duca di Baviera e Sassonia, suo
nipote, di tutti i suoi Stati e beni posti nella Suevia, a condizione di
ricavarne una buona somma di danaro. Ma procrastinando il duca Arrigo di
pagare, figurandosi che per l'età avanzata dello zio la morte gli
risparmierebbe un tale sborso, il duca Guelfo rinunziò tutto a Federigo
Augusto, che pagò il danaro pattuito. A _Corrado_ suo terzogenito
conferì poi il ducato della Franconia con altri beni. Al quartogenito
_Ottone_ diede il regno d'Arles, ossia della Borgogna. L'ultimo suo
figliuolo _Filippo_ era allora in fasce. Altri acquisti, annoverati da
Ottone da San Biagio, fece Federigo per ben arricchir la sua prole; e in
quest'anno ancora s'impadronì dell'arcivescovato di Salisburgo, facendo
colare quanti mai potè de' feudi delle chiese in essi suoi figliuoli, e
comperando ed acquistando diritti e beni, ovunque poteva. La Sicilia
nell'anno presente, correndo il dì 4 di febbraio, soffrì un fierissimo
eccidio per un orribile tremuoto che desolò varie città[2185]. Quella
sopra tutto di Catania, città allora ricchissima, tutta fu rovesciata a
terra colla morte di circa quindici mila persone, e del vescovo (uomo
per altro cattivo, e salito in alto colla simonia) e di quasi tutti i
monaci, senza che vi restasse una casa in piedi. La stessa disavventura
provò la nobil terra di Lentino. Danneggiata di molto restò anche
Siracusa con assai altre castella. Negli Annali Pisani[2186] sta scritto
che _a Catania usque ad Plassa undecim inter civitates et castella et
villas cum multis hominibus in via et agro oppressis a dicto terraemotu
perierunt_. Attesero i Cremonesi a cignere di buone mura la loro
città[2187]. Nè riposavano i Milanesi in fabbricar case, e fortificare
la rinata loro città. Degno è d'attenzione ciò che ha Niceta
Coniate[2188]: cioè che _Manuello_ imperador de' Greci per l'apprensione
dell'armi di Federigo Augusto, massimamente dappoichè questi aveva
tentato di torgli Ancona, somministrò grossi aiuti, cioè di danaro, ai
Milanesi, affinchè rifabbricassero la loro città, e si mettessero in
istato di poter far fronte ad un imperadore che meditava la rovina di
tutti. Certo è che Manuello era in lega col papa, col re di Sicilia e
coi Lombardi contro di Federigo. Abbiamo anche da Galvano Fiamma[2189],
che le pie donne di Milano venderono tutti i loro anelli e gioielli, per
impiegarne il prezzo nella riedificazione della chiesa metropolitana di
santa Maria. Guerra fu in quest'anno nella Romagna[2190]. Aveano i
Bolognesi, assistiti da' Ravegnani, assediata la città di Faenza.
Ricorsero i Faentini per soccorso, ai Forlivesi, che accorsi ed
attaccata battaglia verso il fiume Senio, misero in rotta il campo
bolognese, con farvi quattrocento prigioni. Il Ghirardacci rapporta
questa sconfitta de' suoi, ma pretende che i Bolognesi fossero iti in
aiuto de' Ravegnani lor collegati, a' danni dei quali s'erano portati i
Faentini e Forlivesi. Veniva in questi tempi agitata da interne guerre
civili la città di Genova[2191]. Tanto si adoperò _Ugo arcivescovo_
unito coi consoli, che si conchiuse concordia e pace fra i cittadini.
Seguitando intanto la guerra già incominciata fra i Pisani e Lucchesi,
perchè i primi s'erano fatti forti coll'aiuto de' popoli della
Garfagnana e Versiglia, richiesero gli altri di aiuto i Genovesi, che
non mancarono di accorrere per sostenerli. Si trattò poscia di pace, ma
senza che potessero venire ad accordo alcuno. Per questa cagione
continuarono i Pisani e Genovesi a farsi guerra gli uni agli altri in
mare, prendendo chi potea più legni de' nemici.

NOTE:

[2184] Otto de S. Blasio, in Chron. Chronic. Reichersperg.

[2185] Hugo Falcandus, in Chron. Romualdus Salernitanus, in Chron., tom.
7 Rer. Ital.

[2186] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[2187] Sicard., in Chron., tom. 6 Rer. Ital.

[2188] Niceta, Histor., lib. 7.

[2189] Gualvan. Flamma, in Manipul. Flor.

[2190] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5. Sigonius, de Regno Ital., lib.
14. Ghirardacci, Istor. di Bologna, lib. 3.

[2191] Caffari, Annal. Genuens., lib. 2.



    Anno di CRISTO MCLXX. Indizione III.

    ALESSANDRO III papa 12.
    FEDERIGO I re 19, imper. 16.


Tentò in quest'anno l'_imperador Federigo_ d'introdurre trattato di pace
con _papa Alessandro_ III dimorante tuttavia in Benevento[2192]. Spedì a
questo fine in Italia il vescovo di Bamberga _Everardo_, con ordine
d'abboccarsi col pontefice, ma di non entrare negli Stati del re di
Sicilia. Alessandro, che stava all'erta, e per tempo s'avvide ove
tendeva l'astuzia di Federigo, cioè a mettere della mala intelligenza
fra esso papa e i collegati lombardi, non tardò punto ad avvisarne la
lega, acciocchè gli spedissero un deputato per assistere a quanto fosse
per riferire il vescovo suddetto. Dappoichè fu questi venuto, si
trasferì il pontefice in Campania a Veroli, per quivi dare udienza al
legato cesareo. Voleva questi parlargli da solo a solo; il che
maggiormente accrebbe i sospetti di qualche furberia. Benchè con
ripugnanza, fu ammesso ad una segreta udienza, dove espose essere
Federigo disposto ad approvar tutte le ordinazioni da esso pontefice
fatte; ma intorno al papato, e all'ubbidienza dovuta al vicario di
Cristo, ne parlò egli con molta ambiguità, e senza osare di spiegarsi.
Comunicò papa Alessandro cotali proposizioni al sacro collegio e al
deputato della lega. La risposta ch'egli poi diede al vescovo Bamberga,
fu di maravigliarsi, come egli avesse preso a portare una siffatta
ambasciata, che nulla conteneva di quel che più importava. Che quanto ad
esso papa, egli era pronto ad onorare sopra tutti i principi Federigo, e
ad amarlo, purchè anch'esso mostrasse la filial sua divozione dovuta
alla Chiesa sua madre; e con questo il licenziò. Mentre il pontefice
dimorava in Veroli, i Romani pieni di rabbia contro l'odiata città di
Tuscolo, le faceano aspra guerra. Rainone signore di essa città,
veggendosi a mal partito, trattò d'accordo con Giovanni, lasciato
prefetto di Roma dall'imperador Federigo, e gli cedette quella città,
con riceverne in contraccambio Monte Fiascone e il borgo di San
Flaviano, senza farne parola col papa, da cui pure egli riconosceva
quella città, e con assolvere dal giuramento i Tuscolani, i quali si
crederono col nuovo padrone di esentarsi dalle molestie de' Romani. Ma
questi più vigorosamente che mai continuarono la guerra contra di essa
città, di maniera che quel popolo, fatto ricorso al papa, si mise sotto
il dominio e patrocinio di lui. Alla stessa corte pontificia tardò poco
a comparire il suddetto Rainone pentito del contratto, perchè quei di
Montefiascone vituperosamente l'aveano cacciato dalla lor terra; ed
anch'egli, implorata la misericordia del papa, fece una donazion della
terra di Tuscolo alla Chiesa romana: il che la preservò per allora
dall'ira e dalle forze del popolo romano. Rapporta il Guichenon[2193]
una bolla di papa Alessandro, dato in quest'anno _Laterani_ in favore
della badia di Fruttuaria. Non può stare, perchè il papa non fu in
questi tempi in Roma. Persistendo tuttavia Manuello imperador de' Greci
nel vano pensiero di ricuperar la corona imperiale di Roma, per farsi
del partito in quella città, mandò nel presente anno una sua nipote per
moglie di Ottone Frangipane[2194], la cui nobilissima famiglia era in
questi tempi attaccatissima al pontefice Alessandro. Fu essa condotta
con accompagnamento magnifico di vescovi e nobili greci, e con gran
somma di danaro a Veroli, dove il papa gli sposò: dopo di che Ottone
condusse la novella moglie a Roma. Ardevano i Bolognesi di voglia di
vendicarsi della rotta loro data nel precedente anno dai Faentini. Però
col maggior loro sforzo e col carroccio, che per la prima volta fu da
essi usato, s'inviarono contra della città di Faenza, e l'assediarono.
Il Ghirardacci scrive[2195] che sconfissero l'armata de' Faentini. Le
vecchie storie di Bologna[2196] parlano solamente dell'assedio; e di più
non ne dice Girolamo Rossi[2197], che mette all'anno seguente un tal
fatto, ed aggiugne, essersi uniti i Ravegnati ed Imolesi col popolo di
Bologna contra di Faenza. Concordano poi tutti gli autori in dire che
seguì la pace fra questi popoli, con essersi restituiti i prigioni ai
Bolognesi. Accenna il suddetto Rossi una battaglia accaduta in
quest'anno fra essi Faentini dall'una parte, e i Forlivesi e i Ravennati
dall'altra, colla sconfitta degli ultimi. Ma non s'intende come il
popolo di Forlì, ausiliario de' Faentini nel precedente anno fosse già
divenuto loro nemico. Oltre di che, non è molto da fidarsi degli storici
moderni, qualora mancano le croniche vecchie. Tre ambasciatori del greco
imperadore Manuello Comneno approdarono in quest'anno a Genova per
trattar di concordia con quel popolo[2198], portando con seco cinquanta
sei mila, oppur ventotto mila perperi (monete d'oro dei Greci); ma non
fu loro data udienza, se non dappoichè fu ritornato da Costantinopoli
Amico da Murta, ambasciatore d'essi Genovesi. Perchè si trovò gran
divario fra la esposizion d'Amico e quella de' legati greci, licenziati
questi senza accordo, si riportarono indietro i lor danari. Seguitò
ancora nell'anno presente la guerra fra i Pisani e i Lucchesi, colla
peggio degli ultimi, che rimasero sconfitti presso Motrone, e lasciarono
in poter de' Pisani una gran quantità di prigioni[2199]. Nè cessarono le
vicendevoli prede fra essi Pisani e i Genovesi per mare. Fra l'altre
prede, venne fatto ai Genovesi di prendere una nave, dove era Carone,
uno de' consoli pisani.

NOTE:

[2192] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III.

[2193] Guichenon, Bibliot. Sebus., Centur. II, cap. 35.

[2194] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2195] Ghirardacci, Istor. di Bologna, lib. 3.

[2196] Cron. di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.

[2197] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.

[2198] Caffari, Annal. Genuens., lib. 2, tom. 6 Rer. Ital.

[2199] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCLXXI. Indizione IV.

    ALESSANDRO III papa 13.
    FEDERIGO I re 20, imper. 17.


Somma era stata l'occupazion di _papa Alessandro_ negli anni addietro
per rimettere in grazia di _Arrigo re_ d'Inghilterra, e nel possesso
della sua chiesa _Tommaso arcivescovo_ di Cantorberì, ed aveva avuta la
consolazione di veder terminato così scabroso affare. Ma non fu minore
il suo affanno nel principio del presente anno, perchè vennero le nuove
che al santo prelato era stata da empii sicarii levata la vita nel dì 29
del precedente dicembre: laonde meritò di essere onorato da Dio con
varii miracoli, e poi registrato nel catalogo dei martiri. Ebbe perciò
il pontefice da faticar tuttavia non poco per eseguir ciò che la
disciplina ecclesiastica prescrive in simili casi[2200]. Trovavasi egli
in Tuscolo nel dì 25 di marzo, allorchè arrivarono gli ambasciatori del
re Arrigo, venuti per discolparlo, e protestare ch'egli non avea avuta
mano in quel sacrilego fatto. A tutta prima non li volle il papa vedere;
ma dopo qualche maneggio gli ammise, e dipoi spedì in Inghilterra due
cardinali per formare il processo, e conoscere se il re era innocente o
reo. Continuarono ancora in quest'anno con gran vigore i Milanesi a
rialzare l'abbattuta loro città; nè contenti di questo, ne ampliarono
con nuove mura il circuito chiudendo in essa le basiliche di santo
Ambrosio, di san Lorenzo, di san Nazario e di sant'Eusebio, di maniera
che le disgrazie loro servirono a maggiormente nobilitare la per altro
nobilissima patria loro. Ne resta tuttavia la memoria in un antico marmo
rapportato dal Puricelli[2201], dove ancora si leggono i nomi de'
consoli milanesi di quest'anno. Due d'essi specialmente sono da notare,
cioè _Ardericus de la Turre, Obertus de Orto_; il secondo celebre fra i
legisti, per la raccolta delle consuetudini feudali; e il primo, perchè
da lui verisimilmente discende l'illustre casa della Torre, ossia
Torriana, che signoreggiò dipoi in Milano. Pubblicò nell'anno 1708 il
famoso Stefano Baluzio la Storia genealogica della casa della Torre
d'Alvernia, ossia dei duchi di Buglione, per cui ebbe di molti guai. Sì
egli, come altri han creduto una medesima famiglia quella de' Torriani
milanesi e l'altra de' franzesi. Quando non si adducano pruove più
sicure di tal connessione, difficile sarà il credere sì fatta unione di
sangue. Noi qui a buon conto troviamo un _Arderico della Torre_ console
in Milano, e perciò buon cittadino di Milano: ma ch'egli, o i suoi
maggiori fossero venuti di Francia, non si dee senza buone pruove
asserire.

Cercarono i Lucchesi e Genovesi collegati di tirar nella loro alleanza
altri popoli, per poter con più fortuna rintuzzare i Pisani. Riuscì loro
di guadagnare i Sanesi e Pistoiesi, e al conte Guido signor potente in
Toscana. Fu ciò cagione che anche i Pisani stabilirono lega coi
Fiorentini per quaranta anni avvenire. Gli Annali pisani, in vece di
anticipar di un anno i successi di questi tempi per accomodarsi all'era
pisana, che nove mesi prima dell'era volgare comincia l'anno nuovo, li
pospongono di un anno: e però non si può stare alla cronologia d'essa
storia. Abbiamo gli Annali genovesi in questo più esatti[2202].
Fabbricarono nel presente anno i Lucchesi coll'aiuto de' Genovesi
Viareggio al mare. Verso l'autunno arrivò in Lombardia all'improvviso
_Cristiano arcivescovo_ eletto di Magonza, inviato dall'imperador
Federigo, per assistere agl'interessi dell'Italia, e massimamente della
Toscana, che tuttavia teneva il partito imperiale. Passò egli
intrepidamente per mezzo le città lombarde nemiche, ma con gran fretta;
e valicando il fiume Tanaro presso Alessandria, si trasferì a Genova,
dove per rispetto dell'imperadore fu onorevolmente accolto. Se l'ebbero
forte a male i collegati lombardi, e però pubblicarono un bando che
niuno avesse da condurre grani e altre vettovaglie a Genova: il che
cagionò una gran carestia in quella città. Tornarono ancora in
quest'anno essi Genovesi a condurre in Sardegna il _re Barisone_,
sequestrato da essi per debiti, e pare che soddisfatti del loro avere,
quivi il lasciassero a scorticare i suoi popoli per le colpe della sua
vanità. Aveva l'imperadore Manuello Comneno cacciato da Costantinopoli i
Pisani. In quest'anno venuto con essi a concordia, restituì loro i
fondachi e il maltolto. Obbligossi egli di pagare per quindici anni
avvenire al comune di Pisa cinquecento bisanti (monete d'oro) e due
pallii, o un pallio ancora all'arcivescovo di Pisa. Vennero gli
ambasciatori di lui a Pisa, e nel dì 13 di dicembre furono segnati i
capitoli della concordia. Essendo mancato di vita _Guido arcivescovo_ di
Ravenna[2203], succedette in quella chiesa _Gherardo_, il quale, al pari
dei suoi antecessori usò il titolo di _esarco_, cioè di padron temporale
di Ravenna e dell'esarcato, per le concessioni loro fatte
dagl'imperadori. Papa Alessandro III con sua bolla data in Tuscolo gli
confermò la superiorità sopra i vescovati di Bologna e Parma, per li
quali forse era stata in que' tempi qualche controversia. Tolte furono
ai Veneziani da _Stefano re_ d'Ungheria le città di Spalatro, Sebenico,
Zara e Traù[2204]. Il doge _Vitale Michele_ ricuperò Zara. Ma contra de'
Veneziani mosse maggior tempesta Manuello imperador de' Greci. Mostrossi
egli tutto benevolo verso questa nazione, e l'invitò a passare in
Levante colle lor merci, sicchè moltissimi uomini e navigli v'andarono
sotto la buona fede. Poscia spediti gli ordini per tutto il suo imperio,
nel dì 22 di marzo fece prendere tutti i legni e l'avere de' Veneziani.
Portatane la nuova a Venezia, ne' generosi petti di que' cittadini tanto
ardore di giusto risentimento s'accese, che in poco più di tre mesi
parte prepararono, parte fabbricarono cento galee e venti navi da
trasporto per portare la guerra in Grecia. Vi s'imbarcò lo stesso doge,
e mossa nel mese di settembre la poderosa flotta, ricuperò per forza
Traù, con darle poscia il sacco, e diroccarne una parte. Costrinse
Ragusi a sottomettersi al dominio di Venezia. Passò dipoi a Negroponte,
e imprese l'assedio di quella capitale. Fu allora dai Greci mossa parola
di pace, e il comandante di quella città inviò persone apposta a
Costantinopoli col vescovo d'Equilio, pratico della lingua greca, per
parte de' Veneziani. Finchè venissero le risposte, portatosi il doge a
Scio, s'impadronì di quella città e dell'isola tutta, e quivi determinò
di svernare coll'armata: il che gli fu di gravissimo danno, siccome fra
poco si dirà.

NOTE:

[2200] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.

[2201] Puricell., Monum. Basilic. Ambr.

[2202] Caffari, Annal. Genuens., lib. 2.

[2203] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.

[2204] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCLXXII. Indizione V.

    ALESSANDRO III papa 14.
    FEDERIGO I re 21, imper. 18.


Fin qui il pontefice _Alessandro_ era dimorato fuor di Roma, perchè
tuttavia il popolo, o, per dir meglio, il senato romano che avea provato
il gusto di comandare, gli contrastava l'esercizio della giurisdizione
ed autorità temporale dovuta ai sommi pontefici. Erano anche i Romani
forte in collera contro del papa per la protezione ch'egli avea preso
dei Tuscolani, popolo troppo odiato da essi per la vecchia nemicizia e
per la memoria della sanguinosa sconfitta dell'anno 1167. Si trattò in
quest'anno d'accordo. Indussero gli astuti Romani il pontefice a
contentarsi che si spianassero le mura di Tuscolo[2205], promettendo
essi in ricompensa di riguardarlo da lì innanzi come lor padre e
signore, e di ubbidire a tutti i suoi comandamenti. Menarono poi le mani
per atterrar quelle mura: dopo di che si scoprì la lor frode, con
restare burlato il buon papa, perchè non mantennero punto la promessa
fatta dal canto loro. Se ne crucciò altamente Alessandro; e giacchè
altro non si potea, fece circondar di fossa e muro la torre di Tuscolo,
e, lasciata ivi per sicurezza di quel popolo una buona guarnigion di
cavalli e fanti, andò a stare ad Anagni, dove poi dimorò molto tempo.
Romoaldo Salernitano quegli è che ci ha conservata questa notizia, la
quale dal cardinal Baronio vien riferita all'anno 1168, ma
verisimilmente fuori di sito. Nella Cronica di Fossanuova si
legge[2206]: _Anno 1172, Indictione quinta, Alexander fecit finem cum
Romanis, qui destruxerunt muros civitatis tusculanae mense novembri_.
Questo autore lasciò nella penna l'inganno fatto dai Romani al papa; ma
ne parla bene l'autor della vita di papa Alessandro, con dire[2207] che
i Romani non permisero al papa di entrare in città, e di esercitarvi il
suo pastorale uffizio: laonde egli si ritirò in Campagna di Roma,
aspettando tempi migliori. Dopo avere ricevuto molte finezze da'
Genovesi, passò _Cristiano arcivescovo_ eletto di Magonza, ed
arcicancelliere dell'imperadore, a Pisa nel dì 3 di febbraio, ricevuto
ivi parimente con molta magnificenza. Poscia convocati tutti i conti,
marchesi e consoli delle città da Lucca sino a Roma, tenne un gran
parlamento nel borgo di San Genesio, per quanto s'ha dagli Annali
Pisani[2208], e quivi propose da parte dell'imperadore la pace fra'
Genovesi, Lucchesi e Pisani. Il continuatore di Caffaro scrive[2209] che
questo parlamento tenuto fu appresso Siena; ma forse furono due in
diversi luoghi, o San Genesio era del Sanese. Sarebbono condiscesi i
Pisani ad abbracciar la pace, se loro non fosse paruta troppo dura la
condizione di restituir senza compenso alcuno tanti prigioni che aveano
de' nemici. Però stando forti su questo, l'arcivescovo in un altro
parlamento, certamente tenuto nelle vicinanze di Siena, mise i Pisani al
bando dell'imperio, privandoli di tutti i privilegii, e delle regalie, e
della Sardegna.

Leggesi negli Annali di Genova la lettera scritta da lui ai Genovesi,
con avvisarli che nell'assemblea tenuta presso Siena, _in conspectu
praefecti urbis Romanorum, et coram marchionibus anconitanis, Conrado
marchione de Monteferrato, comite Guidone, comite Aldebrandino, et
quamplurimis aliis comitibus, capitaneis, valvasoribus, consulibus,
civitatum Tusciae, Marchiae, et vallis spoletanae, et superioris atque
inferioris Romaniae, et infinita populi multitudine_, avea pubblicato il
bando contra de' Pisani, con ordinare ad essi Genovesi di tener pronte
cinquanta galee per l'ottava di Pasqua in servigio dell'imperadore. Ho
rapportato questo passo, acciocchè il lettore comprenda quai popoli
tuttavia aderissero al partito imperiale in Italia per questi tempi.
Abbiamo in fatti dall'Abbate Urspergense[2210] che Federigo prima di
passare in Germania, _quemdam Bideluphum ducem Spoleti effecit, Marchiam
quoque Anconae, et principatum Ravennae Cunrado de Luzelinhart contulit,
quem Italici Muscamincerebro nominabat, eo quod plerumque quasi demens
videretur_. Tentarono poscia i Pisani coi Fiorentini di togliere San
Miniato al presidio tedesco che ivi dimorava: perlochè l'arcicancelliere
fu di pensiero di metter anche il popolo di Firenze al bando
dell'imperio. Seguitarono inoltre le offese tra i Genovesi e Pisani.
Mentre passava il verno nell'isola di Scio l'armata veneta[2211],
aspettando pure risposte decisive di guerra o di pace da _Manuello
imperador_ de' Greci, che dava quante buone parole si volevano, ma niuna
conclusion del trattato: si cacciò la peste in quella flotta, e cominciò
a fare un'orrida strage di gente. Per questo il doge _Vital Michele_
salpò per tornarsene a casa. Ma infierì nel viaggio più che mai la
pestilenza, di modo che quella dianzi sì fiorita e possente armata
arrivò a Venezia poco men che disfatta; e perchè colla venuta di tanta
gente infetta s'introdusse anche nella città lo stesso micidial malore,
molto popolo ne perì. Rigettata la colpa di tanti mali sopra il doge,
insorse col tempo contra di lui un tumulto, per cui nel ritirarsi dal
palagio restò mortalmente ferito; poscia finì di vivere nel dì 27 di
marzo, oppur di maggio dell'anno presente, se pur non fu nell'anno
seguente. Restò eletto in di lui luogo _Sebastiano Ziani_. Venne in
quest'anno il giovinetto re di Sicilia _Guglielmo II_ in Puglia, e fino
a Taranto[2212], credendosi che si avessero ad effettuar le sue nozze
concertate con una figliuola del greco imperadore Manuello. Ma restò
deluso dai Greci. Assai di ciò disgustato, passò a Capoa e a Salerno, e
di là se ne tornò a Palermo, menando seco Arrigo suo minor fratello, già
creato dal padre principe di Capoa, il qual diede fine ai suoi giorni in
quest'anno nel dì 16 di giugno. Abbiamo anche dalla Cronica di
Piacenza[2213] che i Piacentini, Milanesi, Alessandrini, Astigiani,
Vercellini e Novaresi fecero un fatto d'armi presso il castello di
Mombello col marchese di Monferrato, e lo sbaragliarono, con inseguire
per sei miglia i fuggitivi.

NOTE:

[2205] Romuald. Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.

[2206] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2207] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.

[2208] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Italic.

[2209] Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.

[2210] Abbas Urspergensis, in Chron.

[2211] Dandul., in Chronic.

[2212] Anonymus Casinens., in Chron. Romualdus Salernitanus, in Chron.

[2213] Chronic. Placent., tom. 16 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCLXXIII. Indizione VI.

    ALESSANDRO III papa 15.
    FEDERIGO I re 22, imper. 19.


Fece in quest'anno _papa Alessandro_, mentre dimorava in Segna, la
canonizzazione di _san Tommaso arcivescovo_ di Cantorberì. _Federigo
imperadore_ in Germania andava disponendo sè stesso e quei nazionali per
calare di nuovo in Italia con grandi forze, voglioso di domare i
Lombardi, e già era intimata la spedizione per l'anno seguente
1174[2214]. Arrivarono circa questi tempi alla corte d'esso Augusto gli
ambasciatori del Soldano di Babilonia, che gli presentarono dei rari e
preziosi regali, e poi discesero a chiedere una figliuola
dell'imperadore per moglie del figliuolo del medesimo Soldano, con
esibirsi il Soldano d'abbracciar col figliuolo e con tutto il suo regno
la religion cristiana, e di rendere tutti i prigioni cristiani.
L'imperadore trattenne per un mezz'anno questi ambasciatori, e loro
permise di visitar le città della Germania, e d'informarsi ben dei riti
del paese. Credane quel che vuole il lettore. Per me tengo la
proposizione attribuita a quei legati per una vana diceria del volgo, al
veder in corte uomini di diversa credenza venuti sì di lontano. Non son
facili da smuovere i Maomettani; e quand'anche il Sultano avesse avuta
tal disposizione, come potea promettersi de' sudditi suoi? La sua testa
avrebbe corso troppo pericolo. Sarà ben vero ciò che scrive Romoaldo
Salernitano[2215]: cioè che _Cristiano arcivescovo_ di Magonza mandò
nell'anno seguente persona apposta a _Guglielmo II_ giovane re di
Sicilia, offerendogli in moglie una figliuola del suddetto imperador
Federigo, e di stabilir buona pace ed amicizia fra loro. Ma il re
Guglielmo (o, per dir meglio, i suoi consiglieri) riflettendo all'arti
di Federigo, che si studiava di dividere i collegati, per poterli più
facilmente divorar tutti, non potè indursi ad abbandonar papa
Alessandro, e diede per risposta che non potea dar mano ad una pace, da
cui restassero esclusi i suoi confederati. Informato di ciò Federigo, se
l'ebbe molto a male; ma da lì a qualche tempo quella stessa sua
figliuola cessò di vivere. Udivansi intanto in Lombardia i gran
preparamenti che facea l'imperadore, per calar di nuovo in Italia; il
che serviva di continuo stimolo a queste collegate città per ben
premunirsi, con istrignere le vecchie alleanze e farne delle
nuove[2216]. A questo fine si tenne in Modena nell'anno presente nel dì
10 di ottobre un parlamento, a cui intervennero i cardinali
_Ildelbrando_ e Teodino, e il vescovo di Reggio _Albericone_; nel
distinguere i quai nomi non adoperò la solita sua diligenza il Sigonio;
mentre, in far menzione di tal atto dice che il papa spedì da Anagni a
Modena _Hildeprandum Crassum episcopum mutinensem_ (non era egli più
vescovo di questa città) _et Albergonum cardinalem utrumque_.
V'intervennero ancora i consoli _di Brescia, Cremona, Parma, Mantova,
Piacenza, Milano, Modena, Bologna,_ e _Rimini_. Fu ivi confermata la
_società e lega di Lombardia_, con obbligarsi cadauna delle parti di non
far trattato nè pace con Federigo imperadore senza il consentimento di
tutti, e di non riedificare la terra di Crema senza permissione degli
altri collegati. Ho io dato alla luce questo documento, preso
dall'archivio della comunità di Modena.

Abbiamo poi dagli Annali Pisani[2217], che avendo i Lucchesi,
fiancheggiati da un buon esercito, rimesso in piedi il castello di
Motrone, il popolo di Pisa, uscito in campagna, li mise in fuga, e
distrusse il nuovo edifizio. Poscia nel dì 27 di giugno _Cristiano
arcivescovo_ di Magonza, pentito di averla presa contra de' Pisani, li
liberò dal bando. Il che fatto, trasferitosi a Pisa nel primo giorno dì
luglio (se pure all'anno presente appartiene questo avvenimento), tenne
ivi un parlamento, in cui comandò che cessasse la guerra fra quel popolo
e i Fiorentini dall'una parte, e i Lucchesi dall'altra; e che si
restituissero i prigioni, con deputar nello stesso tempo persone, le
quali si studiassero di terminar tutte le altre differenze, e di
stabilir fra que' popoli una buona pace. Furono rilasciati i prigioni;
ma iti i consoli di Pisa e gli ambasciatori fiorentini coll'arcivescovo
al borgo di San Genesio, quivi, perchè non vollero acconsentire ad
alcune proposizioni di poco onore e molto danno delle loro città,
l'arcivescovo proditoriamente li fece prendere ed incatenare. Quindi
unito coi Lucchesi, Sanesi e Pistoiesi, e col conte Guido, si mise in
punto per correre ai danni del territorio pisano. A questo avviso
fumanti di collera i Pisani e i Fiorentini uscirono in campagna, e
fecero fronte alla meditata irruzione. Passarono anche i Pisani per fare
una diversione sul territorio di Lucca, dando il guasto sino a
Ponsampieri e a Lunata: il che servì a far correre i Lucchesi alla
propria difesa. Ma allorchè questi furono al ponte di Fusso, assaliti
dai Pisani nel dì 19 d'agosto, rimasero sconfitti. Seguitò poi
l'arcivescovo Cristiano coi Lucchesi a far guerra in Toscana; e i
Genovesi nel settembre tolsero a' Pisani il castello dell'isola di
Pianosa, e lo smantellarono affatto. Questo fatto negli Annali Genovesi
vien riferito al precedente anno[2218]: il che mi fa dubitare se
appartenga quanto ho tratto qui dagli Annali Pisani all'anno presente, o
pure all'antecedente. Da essi Annali Genovesi altro non si vede
registrato sotto quest'anno, se non la guerra incominciata prima da
_Obizzo marchese_ Malaspina e da _Moroello_ suo figliuolo, contra de'
Genovesi, con aver questi assediato e ricuperato il castello di Passano
che s'era ribellato. Anche il Tronci[2219] rapporta all'anno 1172 i
suddetti avvenimenti. Seguitavano in questi tempi le città di Lombardia
a farsi render ubbidienza dalle terre e castella già concedute in feudo
dagl'imperadori a varii nobili, per reintegrare i loro distretti e
contadi, che ne' tempi addietro erano rimasti troppo smembrati. Nè da
questo loro empito andavano esenti i vescovi e monisterii. Ne abbiamo un
esempio nell'anno presente, in cui il popolo di Modena costrinse varie
comunità della montagna sottoposta alla badia di Frassinoro[2220] a
promettere di pagar tributo a Modena, e di militar sotto ai consoli di
essa città in occasion di guerra. Altrettanto faceano anche le altre
città, ingrandendo il lor territorio e distretto colle terre e castella
loro tolte ne' secoli addietro o dalla forza de' nobili, o dai
privilegii dei re ed imperadori.

NOTE:

[2214] Godefridus Monachus, in Chron.

[2215] Romuald. Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2216] Antiquit. Italic., Dissert. XLVIII.

[2217] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[2218] Caffari, Annal. Genuens., lib. 2, tom. 6 Rer. Ital.

[2219] Tronci, Annali Pisani.

[2220] Antiquit. Ital., Dissert. XIX.



    Anno di CRISTO MCLXXIV. Indizione VII.

    ALESSANDRO III papa 16.
    FEDERIGO I re 23, imper. 20.


Dopo aver l'_imperadore Federigo_ tenuta una solennissima dieta in
Ratisbona verso il fine di maggio[2221], nella quale con sacrilega
prepotenza fece deporre _Adalberto_ legittimo arcivescovo di Salisburgo,
e sostituirne un altro, attese ad unire un potentissimo esercito, con
isperanza una volta di conculcar tutte le città della Lombardia. Gli
faceano continue premure i Pavesi e il marchese di Monferrato, perchè
venisse. Adunque circa la festa di san Michele di settembre, come ha il
continuatore di Caffaro[2222], ossia _IV calendas octobris_, come ha
Sire Raul[2223], per la Borgogna e Savoia calò in Italia, seco avendo il
re di Boemia, e non pochi altri principi di Germania. Occupò Torino ed
altre circonvicine città, che spontaneamente se gli renderono. Arrivato
a Susa, da dove è da credere che fossero fuggiti tutti quegli abitanti,
sfogò la sua collera contro le loro case[2224], riducendo quella città
in un mucchio di pietre; non già perchè que' cittadini, come taluno ha
scritto, seguitassero le parti di papa Alessandro, ma perchè nella sua
fuga dall'Italia aveano a lui tolti gli ostaggi, e ridotto lui a
fuggirsene travestito per timore di peggio. Passò di là alla città
d'Asti, e per otto giorni l'assediò[2225]. Quel popolo, contuttochè
fosse stato premunito dalla lega con assai gente e buoni ingegneri, pure
spaventato chiese ed ottenne buona capitolazione, con rinunziare alla
lega lombarda. Riserbava Federigo il suo furore contro la città
d'Alessandria, nata ad onta sua, e che avea preso quel nome per far
dispetto a lui. Perciò rivolse tutto il suo sforzo contro quella città,
spintovi ancora dal marchese di Monferrato, che coi Pavesi accorse a
quell'assedio, e ne fece sperar facile la conquista. Nel dì 29 di
ottobre si cominciò dunque ad assediarla; si spiegarono tutte le
macchine di guerra, nè si lasciò indietro tentativo alcuno per vincere.
Ma si trovarono sì risoluti i cittadini alla difesa, che quantunque
fosse quella città, per così dire, bambina, e, secondo Gotifredo
Monaco[2226], non peranche cinta di mura, ma solamente provveduta di una
profonda fossa (il che viene asserito dall'autore della vita
d'Alessandro III[2227]), pure nulla vi profittò l'esercito imperiale.
Lascerò considerare ad altri che capitale debba farsi dell'Urspergense,
allorchè scrive di Alessandria: _Erat tamen circumdata fossatis et muris
firmissimis_. Federigo, principe di costanza mirabile nelle sue imprese,
benchè le piogge avessero allagata quella pianura, pure determinò di
passare piuttosto il verno sotto quella città nelle tende, che di
ritirarsi a più agiati quartieri. Se vogliamo credere al Sigonio[2228],
i Milanesi, Piacentini, Bresciani e Veronesi, ciascun popolo col proprio
carroccio, vennero in quest'anno a postarsi tra Voghera e Castiggio, per
dar soccorso all'assediata città. Alla vista del loro ardire non
potendosi contener l'imperadore, venne ad attaccar con esso loro
battaglia: _Verum acie pulsus vix incolumis Clastidium recepit_. Niun
fondamento trovo io di questo fatto d'armi e di tal vittoria de'
collegati nelle antiche storie, le quali anzi insegnano il contrario. Nè
sussiste, come vuole esso Sigonio, che in quest'anno i Cremonesi e
Tortonesi si ritirassero dalla lega di Lombardia per paura di Federigo.
Molto meno poi si regge in piedi l'opinione del Puricelli[2229], che i
Pavesi fossero dianzi entrati in essa lega. Costantissimi furono sempre
essi nel partito di Federigo. Nella prefazione all'opuscolo di
Buoncompagno, da me dato altrove alla luce[2230], fidatomi al testo di
Sicardo vescovo di Cremona che vivea in questi tempi, scrissi che
l'assedio d'Ancona seguì nell'anno 1172. Ora meglio disaminato questo
punto di storia, credo fallato quel testo, e doversi riferire tale
impresa all'anno presente, Romoaldo Salernitano[2231], scrittore
contemporaneo, ne parla sotto questi tempi, e gli Annali Pisani[2232]
più chiaramente ci additano quest'anno.

Non riconosceva la città d'Ancona, come le circonvicine, per suo signore
lo imperador d'Occidente; ma godendo della sua libertà si pregiava
d'avere per suo sovrano l'imperador d'Oriente, o almeno di stare sotto
il di lui patrocinio. Quivi perciò risiedeva un ministro di _Manuello
Comneno_ imperadore, principe che, siccome più d'una volta dicemmo, da
gran tempo andava ruminando pensieri di conquiste in Italia. Ma nè
all'Augusto Federigo, nè ai suoi ministri piacea questo nido de' Greci
nel cuore dell'imperio occidentale. Molto men piaceva esso ai Veneziani,
i quali, non solamente erano inaspriti per le cose già dette contra dei
Greci, ma eziandio aspiravano ad essere soli nel dominio dell'Adriatico,
e nel commercio delle merci in Levante; laonde antica era la gara, e
vecchio l'odio fra Venezia ed Ancona. Varie guerre ancora ne erano
procedute negli anni addietro fra loro. S'intesero dunque insieme essi
Veneziani e l'arcivescovo di Magonza _Cristiano_, legato e
plenipotenziario di Federigo in tutta l'Italia, per sottomettere, anzi
per distruggere Ancona. _Buoncompagno_, autore contemporaneo, che
descrisse questo avvenimento, ci fa intendere qual fosse allora la
potenza de' Veneziani, con dire[2233] che _illius civitatis dux aureum
circulum in vertice defert, et propter aquarum dignitatem quaedam
regalia insignia obtinere videtur_. Vennero dunque i Veneziani con una
flotta di quaranta galee e con un galeone di smisurata grandezza a
bloccare sì strettamente per mare il porto di quella città, che niuno ne
poteva uscire. Per terra ancora ne formò l'arcivescovo maganzese
l'assedio con quante milizie tedesche egli potè raccogliere, e con altre
in maggior numero venute dalla Toscana, Romagna e Spoleti. Dagli Annali
Pisani[2234] abbiamo che quell'assedio durò dal primo giorno d'aprile
dell'anno presente sino alla metà d'ottobre: cotanto vigorosa fu la
difesa di que' cittadini. Ma, più che gli eserciti nemici, cominciò col
tempo la fame a far guerra a quel popolo, di maniera che si ridussero a
cibarsi de' più sordidi alimenti; e felice si riputava chi poteva avere
in tavola carni di cani e gatti, e cuoio di bestie poco fa uccise. Volea
l'arcivescovo a discrezione la città, per mandarla del pari colla città
di Milano con altre, secondo la barbarie d'allora; e però mai non volle
prestar orecchio ad accordo alcuno, senza pensare che sempre ha fatto e
sempre farà brutto vedere un vescovo alla testa di un'armata per
ispargere il sangue cristiano, e tanto più se privo di clemenza. Non
mancava intanto di confortare alla pazienza ed animare alla difesa quei
cittadini il legato del greco Augusto, con impiegare ancora quant'oro
ebbe in loro soccorso; ma in fine era disperato il caso: ma eccoti un
buon vento di Ponente che rincorò gli assediati, e fece seccar tutte le
speranze degli assedianti. _Guglielmo_ degli Adelardi, potentissimo e
primario cittadino di Ferrara, unitosi con _Aldruda contessa_ di
Bertinoro, donna di gran cuore, della nobil famiglia de' Frangipani di
Roma, avea raunato un copiosissimo esercito di Lombardi e Romagnuoli.
Con questi venne egli nella vicinanza d'Ancona; e di più non vi volle,
perchè nella notte l'arcivescovo di Magonza levasse il campo, e
precipitosamente si ritirasse. Restò la città libera, e dipoi
abbondantemente provveduta di viveri. Romoaldo Salernitano[2235], dopo
aver detto che Guglielmo e la contessa di Bertinoro vennero con grandi
forze in soccorso d'Ancona, scrive appresso che l'arcivescovo, _recepta
ab Anconitanis pecunia, ab obsidione recessit_. Credane il lettore quel
che vuole. Che per altro quell'arcivescovo fosse un gran cacciatore di
danaro, si può facilmente provare. Gotifredo monaco di san
Pantaleone[2236], accennando all'anno 1171 le prodezze del suddetto
Cristiano arcivescovo fatte in cinque anni di sua dimora in queste
parti, non seppe quel che si scriveva, allorchè disse: _Anconam
civitatem maritimam, expulsis Graecis, imperatori restituit_.
Differentemente ne parlano gli storici italiani, meglio informati de'
nostri affari. Andossene dipoi il glorioso ferrarese Guglielmo alla
corte di Costantinopoli, dove fu accolto con onori da principe; e tanti
furono i regali di oro e d'argento a lui fatti dall'imperador Manuello,
che, tornato in Italia, disimpegnò tosto tutte le sue tenute, sulle
quali avea preso grosse somme di danaro per far quell'impresa.
Largamente ancor esso Augusto rifece tutti i lor danni a' cittadini
d'Ancona. Di questo famoso assedio poco si mostrano consapevoli gli
scrittori veneti, quantunque espressa menzione ne faccia il
Dandolo[2237]; ma è da vederne la descrizione a noi lasciata dal
suddetto Buoncompagno fiorentino, che era in questi tempi pubblico
lettore di belle lettere in Bologna. Nè si dee tacere che il suddetto
arcivescovo, per attestato di Romoaldo, prima d'imprendere l'assedio
d'Ancona, _ad ducatum spoletinum, et ad Marchiam veniens, multa castra
regionis illius depopulatus est, et cepit. Assisiam civitatem et
spoletinam suo dominio subdidit_. E scrivendo l'Abbate Urspergense che
in quest'anno nel mese di marzo _la città di Terni fu distrutta_, si può
immaginare che questa fosse una delle belle prodezze di quel barbaro
prelato. Questi gran movimenti di guerra cagion furono che seguì pace
fra Guglielmo II re di Sicilia e i Genovesi[2238], i quali ancora
stabilirono una buona concordia col _marchese Obizzo_ Malaspina. Un gran
flagello nell'anno presente si fece sentire alla città di Padova[2239].
Attaccatosi il fuoco, o per accidente o per iniquità d'alcuno, nel dì 4
di marzo, vi bruciò più di due mila e seicento case.

NOTE:

[2221] Chron. Reicherspergense.

[2222] Caffari, Annal. Genuens., lib. 2, tom. 6 Rer. Ital.

[2223] Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.

[2224] Romualdus Salernitan., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2225] Cardinal. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.

[2226] Godefridus Monachus, in Chron.

[2227] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III.

[2228] Sigon., de Regno Ital., lib. 14.

[2229] Puricell., Monument. Basilic. Ambros.

[2230] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[2231] Romualdus Salern., in Chron.

[2232] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[2233] Boncompagnus, de obsidione Anconae, tom. 6 Rer. Ital.

[2234] Annales Pisani.

[2235] Romualdus Salern., in Chron.

[2236] Godefridus Monachus, in Chron.

[2237] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2238] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Italic.

[2239] Catalog. Consul. Patavinor., tom. 8 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCLXXV. Indizione VIII.

    ALESSANDRO III papa 17.
    FEDERIGO I re 24, imper. 21.


Rigoroso fu il verno di quest'anno, e, ciò non ostante, l'intrepido
imperador _Federigo_ non volle muovere un passo di sotto all'assediata
città di Alessandria contro il parere di tutti i suoi principi[2240].
Tali e tanti furono i disagi patiti dalla sua armata in quella
situazione, che per mancanza di foraggi gli perì gran quantità di
cavalli, e si scemò il numero dei combattenti o per le malattie o per le
diserzioni, non potendo i soldati reggere alla penuria di tutte le cose
necessarie. Non si rallentava per questo l'ardore d'esso Augusto,
lusingandosi egli di uscirne presto con riputazione, mercè di
un'invenzione che gli prometteva un felice successo dell'impresa. Questa
era una mina condotta sì segretamente sotterra verso la città, che gli
Alessandrini non se ne avvidero giammai. Per questa sperava Federigo di
penetrare all'improvviso nella città. Racconta Gotifredo monaco[2241],
che se cadeva nelle sue mani alcuno de' nemici, d'ordinario li faceva
impiccare; ma che un dì ne fece pur una degna di lode. Condottigli
davanti tre prigioni, ordinò tosto che fossero lor cavati gli occhi.
Eseguita la sentenza sopra i due primi, dimandò l'imperadore al terzo,
che era un giovinetto, perchè fosse ribello contro l'imperio. Rispose il
giovane: _Nulla, signore, ho fatto contra di voi o dell'imperio; ma
avendo un padrone nella città, ho fedelmente ubbidito a quanto egli mi
ha comandato. E s'egli vorrà servire a voi contra de' suoi cittadini,
con egual fedeltà a lui servirò; e quando pur mi vogliate privar della
vista, così cieco ancora servirò, come potrò, al mio padrone_. Da queste
parole ammansato l'imperadore, senza fargli altro male, gli ordinò di
ricondurre in città gli altri due accecati. Venuto il marzo, cominciava
Alessandria a scarseggiar troppo di viveri: del che avvisati i
collegati, non tardarono più a mettersi all'ordine, per dar anche
battaglia al campo imperiale. S'unì dunque a Piacenza un formidabil
esercito di _Milanesi, Bresciani, Veronesi, Novaresi, Vercellini,
Trevisani, Padovani, Vicentini, Mantuani, Bergamaschi, Piacentini,
Parmigiani, Reggiani, Modenesi e Ferraresi_[2242], cavalieri e fanti.
Coraggiosamente marciando questa sì poderosa oste, dopo aver prese e
distrutte le terre di Broni e di San Nazario de' Pavesi, andò a postarsi
nella domenica delle Palme, giorno 6 di aprile, vicino a Tortona, dieci
miglia lungi dal campo tedesco. Si trovò allora Federigo tra due fuochi,
ma non si sgomentò, perchè sperava vicina la caduta di Alessandria: per
ottenere il quale intento (conviene ben confessarlo) si servì di una
frode non degna di principe onesto, e molto men di principe cristiano:
cioè fece intendere agli Alessandrini nel giovedì santo, che concedeva
loro tregua per benignità imperiale fino al lunedì di Pasqua. Affidato
da queste parole quel popolo, senza credere bisognevole in tempo tale la
moltiplicità delle guardie, dopo le divozioni andò al riposo. Verso la
mezza notte Federigo, dimentico della fede data, spinse per la mina
sotterranea dugento dei più bravi e nerboruti suoi soldati; e
figurandosi che questi, sboccando nella città, darebbono campo a lui
d'entrar per la porta, messa in armi tutta la sua gente, stette
aspettando l'esito dell'affare poco lungi dalla porta suddetta. Ma
appena dalle sentinelle fu scoperto essere entrati in città alcuni de'
nemici, che gridarono all'armi; alla qual voce il popolo uscito dalle
case, a guisa di lioni, affrontò i nemici, e li costrinse a gittarsi giù
dai bastioni, oppure a lasciare ivi la vita. Sopra quelli che non erano
per anche usciti dalla mina, cadde la terra superiore, e li soffocò.
Poscia in quel bollore di sdegno gli Alessandrini, aperte le porte,
assalirono il campo nemico non senza molta strage de' Tedeschi. Riuscì a
quel popolo eziandio di attaccar fuoco al castello di legno
dell'imperadore, in cui stava un buon drappello di soldati, e di bruciar
l'uno e gli altri. Quand'anche volesse talun dubitare se vera fosse la
frode suddetta, la qual pure vien raccontata dallo scrittor della vita
di papa Alessandro III, confermata da Romoaldo Salernitano e da Sire
Raul, certo si meritava Federigo un sì infelice successo, dacchè egli
avea meditato e procurato in giorni sì santi l'eccidio di un popolo
intero seguace di Cristo. Vedendo egli dunque andare a rovescio tutte le
speranze sue, attaccato il fuoco alle restanti macchine di guerra, levò
il campo, e venne a fronte dell'esercito collegato[2243], per impedirgli
l'unione cogli Alessandrini; oppure si mise in viaggio per tornare a
Pavia; ma non potendo passare, si fermò nella villa appellata Guignella.

Già pareva imminente una terribil giornata campale, quando in vece di
battaglia seguì pace e concordia fra l'imperadore e i Lombardi. Gli
storici tedeschi, soliti a far nascere allori in tutti i passi di questo
e d'altri Augusti, scrivono[2244] che al comparire dell'esercito cesareo
sorpresi i Lombardi da timor panico, mandarono tosto a chieder pace a
Federigo, ed ottenutala con aver deposte le armi, s'andarono a gittar
colle spade sul collo ai di lui piedi. Ma queste son da credere
millanterie. L'autore della vita di papa Alessandro, e Romoaldo
Salernitano, scrittor gravissimo di questi tempi, ci assicurano che il
timore fu dalla parte di Federigo; nè è da credere altrimenti, perchè
egli era molto inferiore di forze ai Lombardi, e i Lombardi sapeano
molto bene contra di chi s'erano mossi col loro esercito. Ora nel lunedì
di Pasqua, mentre i Lombardi, preparati a menar le mani, erano incerti
se dovessero eglino assalire, oppure aspettar l'assalto[2245], alcuni
religiosi ed uomini savii, e non sospetti, cominciarono a correre di qua
e di là, per consigliar la pace e risparmiare il sangue cristiano.
Finalmente acconsentì l'imperadore di rimettere le controversie, e di
stare nell'arbitrio d'uomini dabbene, purchè restasse salvo il diritto
dell'imperio. E i Lombardi accettarono il partito, purchè si salvasse la
lor libertà e quella della Chiesa romana. Gherardo Maurisio[2246] e
Galvano dalla Fiamma[2247] scrivono che Eccelino primo, avolo del
crudele, ed Anselmo da Doara, padre di Buoso, furono tra i mediatori di
questo accordo. E specialmente Eccelino _sic humiliter verbis et factis
supplicavit eidem imperatori, quod tam sibi quam dictis Lombardis, et
Obitioni marchioni estensi suam indignationem remisit_. Dovette anche il
marchese _Obizzo di Este_ trovarsi nell'esercito collegato contra di
Federigo. Insomma sottoscritto e giurato l'accordo con fare il
compromesso in _Filippo_ eletto arcivescovo di Colonia, in Guglielmo da
Pozasca capitano di Torino, e in un Pavese di San Nazario per parte di
Federigo, e per parte de' Milanesi in Gherardo da Pesta milanese, e in
Alberto da Gambara bresciano, e in Gezone veronese: non lasciarono i
Lombardi di comparire con tutta umiliazione e riverenza davanti
all'imperadore, che gli accolse con molta benignità, e si ritirò poscia
a Pavia colla moglie e coi figliuoli. E perchè erano ormai sazii i
soldati del re di Boemia dei tanti patimenti fatti, ottennero licenza di
tornarsene alle loro case: il che sempre più sforzò l'imperadore a dar
orecchio a trattati di tregua o pace. Non era egli uomo, se non si fosse
veduto in bassa fortuna e in pericolo, da rimettere sì per poco la spada
nel fodero. Tornando poscia i Lombardi per Piacenza alle loro città,
trovarono per viaggio i Cremonesi che venivano col loro carroccio
all'armata[2248]. Non erano saldi nella lega essi Cremonesi per
l'amicizia che passava fra loro e i Pavesi, e però consigliatamente
tardarono tanto per isperanza d'impedir la mossa degli altri collegati.
Saputo poi che senza di loro s'era intavolata la concordia, n'ebbero
gran vergogna; e il popolo di Cremona, mosso per questo da bestial
furore, ed incolpatine i consoli, andò ad atterrare i loro palagi, e a
dare il sacco a tutti i loro beni, con poscia crearne dei nuovi. In
quest'anno _papa Alessandro_ diede il primo vescovo alla città
d'Alessandria, cioè _Arduino_ suddiacono della Chiesa romana, e privò il
vescovo di Pavia della prerogativa del pallio e della croce per cagione
del suo attaccamento allo scisma.

Intanto l'Augusto Federigo, facendo credere di voler pace anche nella
Chiesa romana, fece sapere a Roma che ne avrebbe volentieri trattato con
_Ubaldo vescovo_ d'Ostia, _Bernardo vescovo_ di Porto, e _Guglielmo
pavese_ cardinale di san Pietro in Vincola. Vennero tutti e tre a
Pavia[2249]; fors'anche più a requisizion de' Lombardi che di Federigo;
loro fu fatto grande onore; molte furono le conferenze d'essi coi
deputati dell'imperadore e colle città della lega. Ma infine trovandosi
esorbitanti in tutto le pretensioni di Federigo per quello che
riguardava la libertà tanto della Chiesa quanto de' Lombardi, si sciolse
in fumo il trattato, e i legati apostolici se ne tornarono a Roma. Le
segrete mire di Federigo erano di guadagnar tempo, tanto che calasse in
Italia un nuovo esercito, che s'aspettava di Germania, e non già di
ridursi ad accordo alcuno, in cui si avessero a moderar le alte sue
pretensioni. Per altro certissimo è che fu fatto in quest'anno nel dì 16
d'aprile, vicino a Mombello, il compromesso dell'imperadore e de'
Lombardi. Lo strumento intero, da me tratto dagli antichi registri della
comunità di Modena, si legge nelle mie Antichità italiane[2250], ed è di
gran luce a questi avvenimenti. Degno è d'osservazione che _Uberto conte
di Savoia_ fa la figura di uno dei principali aderenti e confidenti
dell'imperador Federigo; e però sembra che sieno favole quelle che ci
racconta il Guichenon[2251] intorno a questi tempi della real casa di
Savoia. Si conferma eziandio ciò che abbiam detto di sopra di Eccelino
primo e di Anselmo da Doara; perchè da quegli atti apparisce che amendue
erano _rettori di Lombardia_, cioè direttori della lega e società delle
città lombarde: dignità di sommo credito in questi tempi, e indubitato
indizio della lor nobiltà e saviezza. Vedesi inoltre che la lega
abbracciava _le città della Lombardia, Marca di Verona, Venezia e
Romagna_, e che Federigo segretamente se la dovea intendere coi
_Cremonesi_, benchè collegati di Milano, perchè in loro è rimessa la
decision de' punti che restassero controversi. Tralascio il resto di
quell'atto, da cui niun frutto poscia si ricavò.

Abbiamo dalle storie di Bologna[2252] che nel dì 7 di febbraio dell'anno
presente quel gran faccendiere di Cristiano arcivescovo di Magonza,
usato a maneggiar più l'armi che il pastorale, co' Faentini, co'
Forlivesi condotti dal conte Guido Guerra, e colle milizie di Rimini e
d'Imola e della Toscana, venne ad assediare il castello di San Cassano,
alla cui difesa stavano trecento cavalieri dei migliori di Bologna, che
per più di tre settimane bravamente si sostennero. Contuttochè i
Bolognesi ottenessero un buon soccorso, cioè da Milano trecento
cavalieri, trecento da Brescia, trecento da Piacenza, cento da Bergamo,
cinquecento da Cremona, ducento da Reggio, cento da Modena, trecento da
Verona, ducento da Padova, con altri della contessa Sofia e della città
di Ferrara, e marciassero per liberar quel castello; tuttavia nulla
fecero, perchè i difensori ormai stanchi, attaccatovi il fuoco ed
usciti, ebbero la fortuna di salvarsi correndo a Bologna. Il Sigonio
diversamente narra questo fatto. Impadronissi poscia l'arcivescovo del
castello di Medicina, e fece altri mali al contado bolognese, e
sconfisse la lor gente presso al castello de' Britti. Mentre dimorava lo
imperador Federigo in Pavia, comandò che venissero a trovarlo i deputati
di Genova e Pisa con plenipotenza delle loro città[2253]; e venuti che
furono, stabilì fra queste due emule nazioni, la pace, con assegnare ai
Genovesi la metà della Sardegna (il che rincrebbe forte ai Pisani), e
con ordinare la distruzion di Viareggio ai Lucchesi. Proibì ai Pisani il
battere moneta ad imitazion del conio lucchese. Secondo gli Annali di
Pisa[2254], in quest'anno (se pur non fu nel precedente) _Guglielmo_ II
re di Sicilia, desideroso di far qualche prodezza contra de' Saraceni,
che ogni dì più faceano progressi in Oriente colla rovina del regno
gerosolimitano, sul principio di luglio inviò in Egitto un'armata di
cento cinquanta galee e di ducento cinquanta legni da trasporto per la
cavalleria; se pure è credibile sì poderosa flotta. Fecero sbarco vicino
ad Alessandria, diedero il sacco a que' contorni, nè si sa che
riportassero alcun altro vantaggio. Forse per questo niuna menzione fece
di tale spedizione Romoaldo arcivescovo di Salerno nella sua Cronica.

NOTE:

[2240] Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.

[2241] Godefr. Monach., in Chron.

[2242] Sire Raul, in Histor. tom. 6 Rer. Ital.

[2243] Otto de S. Blasio, in Chron.

[2244] Godefridus Monachus, in Chron. Cronographus Saxo.

[2245] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3.

[2246] Gherard. Maurisius, in Chron.

[2247] Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 204.

[2248] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III.

[2249] Romualdus Salernit., in Chron.

[2250] Antiquit. Italic., Dissert. XLVIII.

[2251] Guichenon, de la Mais. de Savoie, tom. 1.

[2252] Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.

[2253] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3.

[2254] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital. Guillelm. Tyrius, Hist.
Hierosolymit., lib. 21.



    Anno di CRISTO MCLXXVI. Indizione IX.

    ALESSANDRO III papa 18.
    FEDERIGO I re 25, imper. 22.


Dacchè le alte pretensioni di _Federigo_ fecero svanir tutte le speranze
di pace, andò egli infestando gli Alessandrini, ma senza maggiormente
stuzzicare il vespaio, dissimulando il suo sdegno finchè arrivassero i
soccorsi aspettati dalla Germania, per ottenere i quali avea nell'anno
precedente spedite lettere a tutti i principi di quelle contrade.
Stavano all'erta per lo contrario anche i Lombardi, a' quali non
mancavano spie per sapere ciò che si manipolava oltramonti. Vedesi
parimente nel gennaio di questo anno il giuramento di chi era direttore
della lega lombarda[2255]. Ora _Wichmanno arcivescovo_ di Maddeburgo, e
_Filippo arcivescovo_ di Colonia, con tutti que' vescovi e principi
ch'eglino poterono raunare[2256], dopo Pasqua misero in marcia
l'esercito preparato, per venire in aiuto dell'Augusto Federigo. Dalla
parte dell'Adige non v'era libero il passo, e però per montagne alpestri
calarono finalmente verso il lago di Como. Appena udì Federigo essere
quella gente in viaggio, che non si potè contenere di andar, ma
sconosciuto, a riceverli a Como, ed anche a Bellinzona. Con questa
armata e colle forze de' Comaschi suoi fedeli, perchè doveano aver di
nuovo aderito al di lui partito, si mise in marcia per Cairate alla
volta del Ticino, con pensiero di unirsi coi Pavesi e col marchese di
Monferrato, e ricominciar la festa. Non dormivano i Milanesi; e premendo
loro che non seguisse l'union di Federigo coll'esercito pavese,
sollecitarono tutti i lor collegati per uscire in campagna, ed opporsi
al di lui passaggio. Non erano ancor giunte tutte le milizie che
s'aspettavano, quando s'udì che l'armata nemica era già pervenuta a
Como. Però, senza perdere tempo, le scelte schiere de' Milanesi,
Bresciani, Piacentini, Lodigiani, Novaresi e Vercellini mossero col
carroccio, e fecero alto fra Borsano e Busto Arsiccio, ossia fra Legnano
e il Ticino[2257]. Mandarono innanzi settecento cavalli, per riconoscere
qual via tenesse l'esercito tedesco, e questi, appena fatte tre miglia
di viaggio, si videro venire all'incontro circa trecento cavalieri
tedeschi. Imbracciati gli scudi, e colle lance in resta tutti
spronarono, e tosto si attaccò battaglia: battaglia memorabile per tutti
i secoli avvenire. Il giorno, in cui essa seguì, dal Panvinio vien detto
il dì 26 di maggio; dal Sigonio il dì 30 d'esso mese, correndo la festa
de' santi Sisinnio, Martirio ed Alessandro. Il padre Pagi pretende che
abbia a prevalere a tutti l'autorità della vita di papa Alessandro III,
dove si legge che questo fatto d'armi accadde _circa finem mensis
junii_. Nell'edizion da me fattane è scorretto in essa vita
l'anno[2258], leggendosi _anno MCLXXV_, quando ha da essere _MCLXXVI_,
come si truova negli estratti che ne fece il cardinal Baronio. Tanto poi
nell'edizion suddetta, quanto presso il Baronio è difettoso quel _circa
finem junii_. E si conosce dal vedere che si fa incamminato Federigo a
Como circa il fine di giugno, con soggiugnere appresso che i Milanesi
_in primo sabbato mensis junii_ uscirono in campagna, nè tardarono a
venire alle mani. Ma neppur sussiste che nel primo sabbato di giugno
succedesse quella campal giornata. Avvenne essa nell'_ultimo sabbato di
maggio_, che era in quell'anno il dì 29 di maggio, ossia il dì _IV
kalendas junii_, correndo veramente allora la festa dei santi suddetti,
che fu posta dal Sigonio, sedotto da Galvano Fiamma, _III kalendas
junii_. Sire Raul, autore allora vivente in Milano[2259], chiaramente
mette la battaglia suddetta _quarto kalendas junii, in die sabbati_. Il
continuatore di Caffaro scrive[2260] succeduto ciò _in hebdomada
Pentecostes_. E nel Calendario milanese, da me dato alla luce, si
legge[2261]: _IV kalendas junii, sanctorum Sisinnii, Martyrii, et
Alexandri, anno Domini MCLXXVI inter Legnianum et Ticinum Mediolanenses
expulerunt de campo imperatorem Federicum cum toto exercitu suo, et
infiniti Teutonici capti sunt ibi, et gladio occisi, et fere totus
populus Cumanorum ibi remansit._ Il suddetto Galvano Fiamma[2262]
anch'egli mette questo fatto nella festa de' suddetti santi, benchè per
errore nel suo testo sia scritto _III kalendas junii_. E però in essa
festa il popolo di Milano annualmente da lì innanzi continuò a rendere
un pubblico ringraziamento alla misericordia di Dio, di maniera che non
è più da mettere in dubbio questa verità: cioè nel dì 29 maggio seguì
quel famoso conflitto.

Incominciarono dunque la baruffa i settecento cavalieri milanesi
incontratisi coi trecento tedeschi, quando sopraggiunse l'imperadore col
grosso dell'armata, al cui arrivo non potendo essi reggere, presero la
fuga. Con questo buon principio arrivò Federigo dove l'aspettava col
carroccio il nerbo maggiore dell'esercito collegato, e con tutto vigore
l'assalì. Quivi trovò gran resistenza, e sulle prime vide steso a terra
e stritolato dai piedi de' cavalli chi portava l'imperial bandiera.
Contuttociò tal fu lo sforzo de' Tedeschi, che piegarono alcune schiere
di Bresciani, e presa in fine la fuga, furono inseguite per parecchie
miglia. Ma perchè restava un altro gran corpo de' più valorosi collegati
alla guardia del carroccio, e parte de' Tedeschi s'era perduta a dar la
caccia ai fuggitivi, non solamente non potè Federigo romperli, ma restò
rotto egli stesso, massimamente perchè andarono sopravvenendo al campo
de' collegati nuovi rinforzi di gente che dianzi era in viaggio[2263].
Fece delle maraviglie di bravura in quel dì Federigo, e fu anche degli
ultimi a ritirarsi; ma finalmente rovesciato da cavallo, come potè il
meglio si sottrasse al pericolo, e sparì, lasciando i suoi alla
discrezione de' vincitori. Restarono moltissimi vittima delle spade de'
collegati, o affogati nel Ticino, moltissimi altri rimasero prigioni; ma
principalmente toccò la mala ventura alle milizie di Como, che quasi
tutte rimasero tagliate a pezzi, o condotte in prigionia. Diedesi poscia
il sacco al campo nemico, ed oltre ad una quantità d'armi, di cavalli,
d'arnesi e d'equipaggio, fu presa la cassa di guerra, che portava
all'imperadore il tesoro raunato in Germania per sostener la guerra in
Italia, con altri arredi e robe preziose. In una lettera scritta dai
Milanesi a Bologna, e rapportata da Radolfo di Diceto, si legge[2264]:
_Interfectorum, submersorum, captivorum non est numerus. Scutum
imperatoris, vexillum, crucem, et lanceam habemus. Aurum et argentum
multum in clitellis ejus reperimus, et spolia hostium accepimus, quorum
aestimationem non credimus a quoquam posse definiri. Captus est in
praelio dux Bertholdus, et nepos imperatoris, et frater coloniensis
archiepiscopi. Aliorum autem infinitas captivorum numerum excludit, qui
omnes Mediolano detinentur._ Chi non sapesse che i vittoriosi
ingrandiscono sempre il valore e la fortuna loro, di qua può impararli.
E chi avesse anche da imparare che i vinti sogliono inorpellar le loro
perdite, legga qui le storie degli scrittori tedeschi[2265], che
scrivono aver avuto i collegati ben cento mila combattenti in
quest'azione, quando era di poche migliaia l'armata imperiale. V'ha
licenza di credere che superiori di forze fossero i collegati, ma non
per questo era sterminato l'esercito loro, come si può raccogliere da
Sire Raul. Nè Federigo, principe, che come mastro di guerra sapeva bene
il suo conto, ito sarebbe ad attaccare i Lombardi con poche migliaia
d'armati. Aggiungono finalmente, che l'imperadore fece una grande strage
di essi Lombardi, e che finalmente soperchiato dalle lor forze, si aprì
colla spada il passaggio a Pavia. La verità si è[2266] che celatamente
fuggito Federigo, fu creduto ucciso in battaglia, e si cercò
diligentemente il di lui cadavero. Prese tal piede questa credenza, che
la imperadrice restata in Como si vestì da corruccio; e molti giorni si
stette in tale ambiguità, senza sapersi dove fosse il fuggitivo
imperadore, finchè all'improvviso egli comparve vivo e sano in Pavia.
Presso il Malvezzi abbiamo[2267] che Federigo fu fatto prigione dai
Bresciani, e condotto a Brescia, da dove fuggì in abito di mendico.
Questa favola ci vorrebbe far credere molto poco avveduti i signori
Bresciani.

Comparve dunque in Pavia l'imperador Federigo, ma molto umiliato,
riconoscendo egli finalmente la mano di Dio sopra di sè, e di meritar
anche peggio, per aver sì lungamente fomentata la disunione e lo
scandalo nella Chiesa di Dio, e per tante sue crudeltà, prepotenze ed
altri suoi peccati. Pertanto ammaestrato dalle disgrazie, e forse più
per trovarsi sprovveduto di danaro e di gente, e consigliato da varii
suoi principi, cominciò una volta a concepir daddovero pensieri di pace.
Però non tardò molto a spedire con plenipotenza _Cristiano_ eletto
arcivescovo di Magonza, _Guglielmo_ eletto arcivescovo di Maddeburgo, e
Pietro eletto vescovo di Vormazia, per farne l'apertura a papa
_Alessandro III_, che si trovava in Anagni. Ammessi all'udienza,
esposero il desiderio di Federigo, ed ebbero per risposta che il papa
era prontissimo alla concordia, purchè in essa avessero luogo anche il
re di Sicilia, i Lombardi e l'imperador di Costantinopoli: al che
acconsentirono gli ambasciatori. Per quindici dì si tennero segrete
conferenze, e restò smaltita la controversia spettante alla Chiesa
romana, siccome si può vedere dallo strumento pubblicato dal padre
Pagi[2268]. Ma per quel che riguardava la lite coi Lombardi, niuna
determinazione si potè prendere, e solamente si giudicò bene che il papa
in persona venisse verso la Lombardia, per dar più facilità e calore
all'aggiustamento. Presentito questo negoziato di pace dai Cremonesi, si
credettero eglino o sul fine di questo, o sul principio del seguente
anno, di vantaggiare i loro interessi con darsi di buona ora
all'imperadore; e però si aggiustarono con lui senza il consenso dei
collegati e contro del giuramento. Antonio Campi[2269] ne rapporta lo
strumento dato nell'anno presente. Altrettanto fecero dipoi i Tortonesi:
passi tutti sommamente detestati dal papa e dagli altri collegati, che
li chiamarono traditori, vili ed infami. Per quanto s'ha dall'Anonimo
Casinense[2270] e dalla Cronica di Fossanuova[2271], _Cristiano
arcivescovo_ di Magonza sul principio di marzo dell'anno presente
assediò il castello di Celle ai confini della Puglia. _Ruggieri conte_
di Andria e il conte Roberto, messo insieme un copioso esercito,
andarono per isloggiarlo di là. V'ha chi scrive, che venuti a battaglia
coll'armata imperiale, ne riportarono vittoria. Tutto il contrario
sembra a me di leggere nella Cronica di Fossanuova, dove son queste
parole: _Comites regni Siciliae cum ingenti exercitu insurrexerunt in
eum; et gens quidem Alemannorum fuit super eos; et plerosque cepit;
atque in fugam verterunt VI idus martii._ Altro non si sa di una tale
impresa che questo poco. L'anno poi fu questo in cui _Guglielmo II_ re
di Sicilia determinò di ammogliarsi[2272], e a tal fine spedì col titolo
di legati in Inghilterra _Elia vescovo_ eletto di Troia, ed _Arnolfo
vescovo_ di Capaccio, a chiedere _Giovanna_ figliuola del re _Arrigo II_
in sua moglie[2273]. Conchiuso il parentado per interposizion di papa
Alessandro, fu da una squadra di navi inglesi condotta questa
principessa sino all'isola di Sant'Egidio in Linguadoca. Colà vennero a
levarla _Alfano arcivescovo_ di Capoa, _Riccardo vescovo_ di Siracusa e
_Roberto conte_ di Caserta con venticinque galee, e la condussero a
Napoli, dove per non poter più essa soffrir gl'incomodi del mare,
sbarcò, e celebrò la festa del santo Natale. Continuato poscia il
viaggio per Salerno e Calabria, arrivò in fine felicemente a Palermo, e
quivi con gran solennità fu sposata e poi coronata nel dì 13 dell'anno
seguente. Nel dì 18 d'aprile di quest'anno _Galdino arcivescovo_ di
Milano[2274], appena fatta sul pulpito della metropolitana una fervorosa
predica contra degli eretici Catari che aveano cominciato ad infettare
la città di Milano, colpito da un accidente mortale, rendè l'anima a
Dio, e fu poi annoverato fra i santi. Erano i Catari una specie di
Manichei, che venuti dalla Bulgaria, a poco a poco s'introdussero in
Lombardia, in Francia e in Germania. Nella storia ecclesiastica sotto
varii nomi, secondo la diversità de' paesi dove si annidarono, veggonsi
nominati. Qui in Italia per lo più venivano chiamati _paterini_, e durò
gran tempo questa peste, senza poterla sradicare. Ne ho parlato ancor io
nelle Antichità italiane[2275].

NOTE:

[2255] Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII.

[2256] Chronograph. Saxo, apud Leibnitium.

[2257] Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital. Cardin. de Aragon., in Vit.
Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.

[2258] Rerum Italic., P. I, tom. 3.

[2259] Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.

[2260] Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.

[2261] Kalend. Mediolan., P. II, tom. 2 Rer. Ital., pag. 1037.

[2262] Gualvanus Flamma, in Manipul. Flor.

[2263] Romuald. Salernit., in Chron., tom. 9 Rer. Italic.

[2264] Radulph. de Diceto, pag. 591.

[2265] Otto de S. Blasio, in Chron. Godefridus Monachus, in Chron.
Chronographus Saxo, apud Leibnitium.

[2266] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III.

[2267] Malvec., in Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.

[2268] Pagius, in Crit. Baron., ad hunc annum. Sigonius, de Regno Ital.,
lib. 14.

[2269] Antonio Campi, Cremon. fedel.

[2270] Anonymus Casinens., in Chron.

[2271] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2272] Romualdus Salernit., in Chron.

[2273] Radulphus de Diceto, pag. 594.

[2274] Acta Sanct. Bolland., ad diem 18 april.

[2275] Antiquit. Ital., Dissert. LX.



    Anno di CRISTO MCLXXVII. Indizione X.

    ALESSANDRO III papa 19.
    FEDERIGO I re 26, imper. 23.


Felicissimo fu il presente anno, perchè in esso ebbe fine una volta il
deplorabile scisma della Chiesa di Dio, e cominciò la pace a rifiorire
in Italia. Erano già state con articoli segreti composte le differenze
che passavano fra la Chiesa romana e _Federigo imperadore_, e restavano
tuttavia pendenti quelle de' Lombardi. Per agevolar l'aggiustamento
ancora di queste, il _pontefice Alessandro_, siccome era il concerto,
avea da venire a Ravenna o a Bologna[2276]. Prima di muoversi da Anagni,
per maggior cautela, volle che lo stesso Federigo autenticasse col
giuramento la sicurezza della sua persona, a lui promessa dai
plenipotenziarii. Però spedì apposta il vescovo d'Ostia e il cardinale
di san Giorgio, i quali dalla Toscana venuti in Lombardia, trovarono
Federigo ne' contorni di Modena, e furono accolti onorevolmente e con
buon volto. Fece egli confermare col giuramento a nome suo da Corrado
figliuolo del marchese di Monferrato il passaporto accordato al
pontefice; e lo stesso giuramento prestarono tutti i principi della sua
corte. Informato di ciò papa Alessandro III, dopo avere spediti innanzi
sei cardinali, che trovarono l'imperadore a Ravenna, s'inviò egli a
Benevento, dove dimorò dalla festa del santo Natale sino all'Epifania.
Di là per Troia e Siponto passò al Vasto, dove trovò sette galee ben
guernite d'armi e di viveri, che il re di Sicilia gli aveva allestite,
con ordine a _Romoaldo[2277] arcivescovo_ di Salerno (lo stesso che
scrisse la storia di questi fatti) e a _Ruggieri conte_ d'Andria, gran
contestabile e giustiziere della Puglia, di accompagnare la Santità sua,
e di accudire agl'interessi del suo regno. Perchè il mare fu lungamente
in collera, non potè il pontefice imbarcarsi se non il primo dì di
quaresima, cioè a dì 9 di marzo. Undici poi furono le galee che il
servirono nel viaggio; e con queste e con cinque cardinali nella prima
domenica di quaresima arrivò a Zara, e nel dì 20, oppure nel dì 24
d'esso mese felicemente giunto a Venezia, prese riposo nel monistero di
san Nicolò al Lido. Nel dì seguente _Sebastiano Ziani_ doge co'
patriarchi d'Aquileia e di Grado, coi lor vescovi suffraganei ed immenso
popolo, andò a levarlo e il condusse a san Marco, e di là al palazzo del
patriarca. Dimorava intanto Federigo Augusto in Cesena, ed udito
l'arrivo del papa a Venezia, inviò colà l'arcivescovo di Maddeburgo, il
vescovo eletto di Vormazia e il suo protonotaio, a pregarlo di far
mutare il luogo del congresso, che già era destinato in Bologna, perchè
non si attentava d'inviare a Bologna _Cristiano arcivescovo_ di Magonza
suo cancelliere, persona troppo odiata da' Bolognesi, per li danni loro
inferiti dal medesimo poco dianzi. Nulla volle conchiudere il saggio
pontefice senza il parere e consenso de' collegati; e però scrisse,
acciocchè spedissero i lor deputati a Ferrara, dove egli si troverebbe
nella domenica di Passione. In Ferrara dunque, dove al determinato
giorno comparve con undici galee il santo padre, vennero a rendergli
ossequio _Algisio_ novello arcivescovo di Milano, e l'arcivescovo di
Ravenna coi lor suffraganei, e i consoli delle città lombarde, e gran
copia di abbati e di nobili. Disputossi per molti giorni del luogo del
congresso, insistendo i Lombardi per Bologna, e i ministri
dell'imperadore per Venezia. Prevalse l'ultimo partito, in maniera che
il papa col suo seguito imbarcatosi nel dì 9 di maggio, se ne tornò a
Venezia, dove ancora si trasferirono i deputati dell'imperadore, e
insieme quei delle città della lega, cioè i vescovi di Torino, Bergamo,
Como ed Asti, ed altri dell'ordine secolare, e si diede principio alle
conferenze. Empierei quivi di gran carta se volessi minutamente
descrivere le pretensioni delle parti e i maneggi di quel trattato. Chi
più diffuso ne desidera il racconto, dee consultare la Cronica di
Romoaldo Salernitano, e gli atti da me pubblicati nelle Antichità
italiane[2278], siccome ancora i prodotti dal Sigonio[2279], avvertendo
nulladimeno che esso Sigonio li riferisce all'anno precedente, quando è
fuor di dubbio che appartengono al presente.

Dirò in poche parole, avere preteso l'imperadore che i Lombardi
eseguissero quanto era stato decretato nella dieta di Roncaglia
nell'anno 1158 col consiglio dei dottori bolognesi intorno alla cession
delle regalie, oppure che rimettessero le cose nello stato in cui erano,
allorchè il vecchio Arrigo, cioè il quarto fra i re e il terzo fra
gl'imperadori, venne in Italia. Poca cognizion di storia convien dire
che avesse Gerardo Pesta deputato dei Milanesi, allorchè, per attestato
di Romoaldo Salernitano, rispose che Arrigo il vecchio fu un tiranno, e
ch'egli fece prigione papa Pasquale (quando ciò accadde sotto Arrigo
quinto), nè alcuno vivea che si ricordasse degli atti e statuti d'esso
Arrigo seniore. E però che essi erano pronti a rendere a Federigo quei
doveri, _quae antecessores nostri juniori Henrico, Conrado, et Lothario,
et ei usque ad haec tempora reddiderunt_; e che fossero salve le
consuetudini delle città colle lor libertà. Questa, a mio credere,
cominciò fin sotto Arrigo seniore; nè vivea allora alcuno che si
ricordasse del suo principio, laonde, _ab immemorabili_ erano esse città
in possesso dei diritti di eleggersi i lor ministri, e delle regalie.
Apparisce poi dagli atti da me prodotti che le città e i luoghi del
partito imperiale erano in questi tempi _Cremona, Pavia, Genova,
Tortona, Asti, Alba, Acqui, Torino, Ivrea, Ventimiglia, Savona, Albenga,
Casale di Sant'Evasio, Montevio, Castello Bolognese, Imola, Faenza,
Ravenna, Forlì, Forlimpopoli, Cesena, Rimini, Castrocaro, il marchese di
Monferrato, i conti di Biandrate, i marchesi del Guasto e del Bosco, e i
conti di Lomello_. All'incontro nella lega di Lombardia erano _Venezia,
Trivigi, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Ferrara, Mantova, Bergamo,
Lodi, Milano, Como_ (benchè da noi poco fa veduto aderente di Federigo),
_Novara, Vercelli, Alessandria, Carsino e Belmonte, Piacenza, Bobbio,
Obizzo Malaspina marchese, Parma, Reggio, Modena, Bologna, Doccia, San
Cassano ed altri luoghi_ e persone dell'esarcato e della Lombardia. Le
dispute andarono in lungo, e niuna conclusione potè avere il negoziato,
non volendo cedere l'una delle parti all'altra. Allora fu che papa
Alessandro propose una tregua: il che riferito all'Augusto Federigo,
andò nelle smanie. Ciò non ostante, segretamente fece intendere al papa,
che si contenterebbe di accordare ai Lombardi una tregua di sei anni, e
di quindici al re di Sicilia, purchè il papa permettesse ch'egli per
quindici anni godesse le rendite de' beni della famosa contessa Matilda,
che erano in sua mano, dopo i quali ne dimetterebbe il possesso alla
Chiesa romana. Contentossene il papa, e in questa maniera si stabilì la
concordia. Lagnaronsi dipoi non poco i Lombardi del papa[2280],
perch'egli avesse acconci i fatti propri, con lasciar essi tuttavia in
ballo, quando eglino aveano tutto il peso della guerra con tanto loro
dispendio di gente e di roba, per ridur pure Federigo a far pace colla
Chiesa. Ma il più ordinario fin delle leghe suol esser questo. Cercano
prima i potenti il maggior loro vantaggio, e tocca dipoi ai minori
l'accomodarsi al volere degli altri, e ringraziar Dio se non anche
restano abbandonati. Non erano ancora bene smaltiti tutti questi punti,
quando l'Augusto Federigo venne a Chioggia. Suscitossi allora una gran
commozione fra la plebe di Venezia, mostrandosi essa risoluta di andare
a condurlo tosto in città: il che fu quasi cagione che il papa e i
ministri del re di Sicilia si ritirassero da Venezia; e già ne erano
partiti alla volta di Trevigi i deputati de' Lombardi. Ma il doge, uomo
savissimo, trovò riparo a questo disordine, e diede tempo che fosse
giurata la pace, e concertato l'abboccamento da farsi in Venezia[2281].
Nel giorno adunque 24 di luglio, giorno di domenica, saputosi che
Federigo imperadore veniva a Venezia, il papa di buon'ora con gran
solennità si trasferì a san Marco, e mandò ad incontrarlo i vescovi
d'Ostia, di Porto e di Palestrina, con altri cardinali, che gli diedero
l'assoluzion della scomunica; e allora _Cristiano arcivescovo_ di
Magonza con gli altri prelati abiurarono Ottaviano, Guido da Crema e
Giovanni da Struma antipapi. Andò il doge con gran corteggio di
bucentori e barche a levar l'imperadore da san Niccolò del Lido, e
processionalmente poi col patriarca di Grado e clero il condusse fin
davanti alla basilica di san Marco, dove il papa in abito pontificale
con tutti i cardinali, col patriarca d'Aquileia, e molti arcivescovi e
vescovi lo stava aspettando. Allora Federigo alla vista del vero vicario
di Cristo, venerando in lui Dio, lasciata da parte la dignità imperiale,
e gittato via il manto, con tutto il corpo si prostese ai piedi del
sommo pontefice, e glieli baciò. Non potè contener le lagrime per la
gioia il buon papa Alessandro, e sollevatolo con tutta benignità, gli
diede il bacio di pace e la benedizione. Allora fu intonato ad alta voce
il _Te Deum_: e Federigo, _apprehensa pontificis dextera_, il condusse
fino al coro della basilica di san Marco, dove ricevette la benedizione
pontificia, e di là passò ad alloggiare nel ducal palagio. Nel giorno
seguente, festa di san Jacopo apostolo cantò il papa solenne messa, e
predicò al popolo in san Marco. Federigo gli baciò i piedi, fece
l'oblazione, e dopo la messa gli tenne la staffa; presa anche la briglia
del cavallo pontificio, era in procinto di addestrarlo, se il papa
affettuosamente non l'avesse licenziato. Seguirono poi visite, conviti e
colloqui, e nel dì primo d'agosto fu solennemente ratificata la pace e
tregua, e poscia assoluti gli scismatici. E nella vigilia dell'Assunzion
della Vergine tenne il papa un concilio in san Marco, dove scomunicò
chiunque rompesse la pace e tregua suddetta. Fece dipoi istanza a
Federigo per la restituzion dei beni della Chiesa romana: al che si
mostrò pronto l'imperadore, ma con salvare per sè le terre della
contessa Matilda e il contado di Bertinoro, che poco fa era vacato per
la morte di quel conte accaduta in Venezia, pretendendo quegli Stati,
come cosa dell'imperio, ed esibendo di rimetterne la cognizione a tre
arbitri per parte. Ne restò amareggiato non poco papa Alessandro, e
tanto più perchè il suddetto conte di Bertinoro ne avea fatta una
donazione alla Chiesa romana; ma per non disturbare la pace fatta,
consentì ai di lui voleri.

Con questo glorioso fine terminò lo scisma della Chiesa; al che
specialmente dopo la mano di Dio contribuì assaissimo la prudenza e
pazienza del buon papa Alessandro, che sempre si guardò dallo inasprir
gli animi coi rigori, e colse in fine il frutto della sua mansuetudine.
Il buon esito ancora di sì grande affare è dovuto all'inclita repubblica
di Venezia, ne' cui rettori da tanti secoli passa come per eredità la
prudenza e saviezza, essendosi mirabilmente adoperati que' nobili, e
sopra gli altri il loro doge Ziani, affinchè si eseguisse la tanto
sospirata riunione, con aggiungersi ancora questa alle tante glorie
della città di Venezia. Alla verità delle cose fin qui narrate fecero
poscia i tempi susseguenti varie frange con dire: che Federigo andò
nell'anno 1176 coll'esercito suo ad Anagni, perseguitando papa
Alessandro, il quale travestito se ne fuggì a Venezia, dove fu
riconosciuto ed onorato: che esso Federigo passò fino a Taranto in cerca
del papa: che una flotta di settantacinque galee da lui messa in ordine
fu disfatta da' Veneziani, con restarvi prigione Ottone figliuolo di
esso Augusto: che quando Federigo fu a' piedi del papa, mettendogli
Alessandro il piè sulla gola, prorompesse in queste parole: _Super
aspidem et basiliscum ambulabis,_ ec., e Federigo rispondesse: _Non
tibi, sed Petro_. Ed è ben vecchio questo racconto. Andrea Dandolo circa
l'anno 1340[2282] cita le storie di Venezia (se pur quella non è una
giunta fatta a quel savio scrittore) e una leggenda di fra Pietro da
Chioggia. Fra Galvano Fiamma[2283], contemporaneo del Dandolo, ne parlò
anch'egli, di modo che divenne famosa questa relazione nelle storie de'
susseguenti storici. E perciocchè il Sigonio e il cardinal Baronio
dichiararono sì fatti racconti favole e solenni imposture; e lo stesso
Sabellico prima d'essi avea assai fatto conoscere di tenerli per tali:
don Fortunato Olmo monaco benedettino nell'anno 1629 con libro apposta
si studiò di giustificarli con dar fuori un pezzo di storia di Obone
Ravennate ed altre cronichette, e con addurre varie ragioni. Ma si
tratta qui di favole patenti, e sarebbe un perdere il tempo in volerle
confutare. Gli autori contemporanei s'hanno da attendere, e qui gli
abbiamo, e gravissimi, in guisa tale che niuna fede merita la troppo
diversa o contraria narrativa degli scrittorelli lontani da que' tempi.
Che non si disse del duro trattamento fatto a Canossa da Gregorio VII al
re Arrigo IV? Altrettanto e più sarebbe detto di papa Alessandro III con
Federigo I, se fondamento avesse avuto tal diceria. Ma Alessandro fu
pontefice moderatissimo, e però, secondo l'attestato del Cronografo
Sassone[2284], Federigo dai cardinali _honestissime_, e dal papa _in
osculo pacis suscipitur_. Per essere gloriosa la città e repubblica di
Venezia, non v'ha bisogno di favole, bastando la verità per onor suo,
essendo essa stata il teatro di sì memorabil pace, a cui con tanta
prudenza, e con ispese e regali sommamente contribuì quel doge con altri
nobili. Curioso è bensì un catalogo di tutti i vescovi, principi, abbati
e signori che intervennero a quella gran funzione di Venezia colla nota
della famiglia di cadauno, pubblicato dal suddetto Fortunato Olmo. Fra
gli altri si veggono annoverati _Alberto ed Obizzo marchesi da Este con
uomini cento ottanta_, cioè con accompagnamento superiore a quello della
maggior parte degli altri principi che colà concorsero. E questi poi si
truovano con altri principi registrati in varii diplomi dell'Augusto
Federigo dati in Venezia nell'anno stesso, siccome ho io altrove
dimostrato[2285]. Si partì poscia da Venezia Federigo, dopo aver baciati
i piedi al sommo pontefice, e dato il bacio di pace a tutti i cardinali,
e andossene a Ravenna, e di là a Cesena. Papa Alessandro anch'egli circa
la metà di ottobre con quattro galee ottenute dai Veneziani, perchè già
s'erano partiti i legati del re di Sicilia colle lor galee, si imbarcò,
e giunse nel dì 29 d'esso mese a Siponto e presa la strada di Troia,
Benevento e San Germano, con felicità e sanità arrivò ad Anagni verso la
metà di dicembre; se non che in Benevento finì i suoi giorni _Ugo_ da
Bologna cardinale, in Aversa _Guglielmo_ da Pavia vescovo di Porto, e
_Manfredi_ vescovo di Palestrina in Anagni. Per attestato di Sire Raul,
nel settembre di quest'anno un orribil diluvio, tale che di un simile
non v'era memoria, si provò nelle parti del lago Maggiore, il qual
crebbe sino all'altezza di dieciotto braccia (se pure, come io vo
credendo, non è scorretto quel testo), e coprì le case di Lesa, con
restare allagati dal fiume Ticino tutti i contorni, di maniera che dalla
Scrivia s'andava sino a Piacenza in barca.

NOTE:

[2276] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III.

[2277] Romualdus Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.

[2278] Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII.

[2279] Sigonius, de Regno Ital.

[2280] Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.

[2281] Romuald. Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Ital. Cardinal. de
Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[2282] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2283] Gualvanus Flamm., in Manipul. Flor.

[2284] Chronograph. Saxo apud Leibnitium.

[2285] Antichità Estensi, P. I, cap. 35. Antiquit. Ital., Dissert. XIX.



    Anno di CRISTO MCLXXVIII. Indiz. XI.

    ALESSANDRO III papa 20.
    FEDERIGO I re 27, imper. 24.


Incredibil fu l'allegrezza di tutta la Chiesa di Dio per la pace
stabilita in Venezia fra il papa e l'imperadore. I Romani ne fecero
anch'eglino festa[2286]; e considerando il grave danno che loro era
venuto tanto nello spirituale che nel temporale per le passate
discordie, e per la lontananza del vero pontefice, cominciarono
seriamente a trattare di richiamar _papa Alessandro_ in Roma. Gli
spedirono a questo fine un'ambasceria di sette nobili, pregandolo di
ritornare alla sua città. Prima di farlo, volle il saggio pontefice che
si acconciassero le differenze passate, e deputò _Arrigo vescovo_
d'Ostia, che con due altri cardinali ne trattasse coi senatori; ed egli
intanto venne a Tuscolo per essere più vicino ai bisogni del negoziato.
Dopo lunghi dibattimenti restò conchiuso che sussisterebbe il senato, ma
con obbligazione di giurar fedeltà ed omaggio al papa, e di restituirgli
la chiesa di san Pietro e tutte le regalie occupate. Nel giorno adunque
12 di marzo, festa di san Gregorio, con trionfale accoglimento del
popolo entrò in Roma, e dopo aver visitata la basilica lateranense, andò
a riposarsi nel contiguo palazzo; e celebrò dipoi la santa Pasqua con
gran solennità. Nel mese d'agosto passò a villeggiare in Tuscolo, ossia
Tuscolano[2287]. Quivi fu che nel dì 29 d'esso mese ebbe la consolazione
di veder a' suoi piedi Giovanni abbate di Struma, già antipapa sotto
nome di Callisto III. Costui dacchè intese riconciliato l'Augusto
Federigo col pontefice, si ritirò a Viterbo, ostinato come prima nel suo
proposito. Avvertitone l'imperadore, gli ordinò di ubbidire e di
sottomettersi: altrimente l'avrebbe messo al bando dell'imperio.
Spaventato da questo tuono, lasciò Viterbo, e si rifugiò in Monte
Albano, ricevuto ivi molto cortesemente da Giovanni signore di quel
castello, per isperanza di ricavarne molto oro da papa Alessandro. Ma
ciò inteso da _Cristiano arcivescovo_ di Magonza, volò ad assediar Monte
Albano, con dare il guasto alle viti e alle biade di quel distretto.
Lasciata poi quivi gente sufficiente per tenere ristretto quel luogo,
andò a prendere il possesso di Viterbo a nome del papa, e trovò il
popolo ubbidiente, ma non già i nobili, che, fomentati da _Corrado_
figliuolo del marchese di Monferrato, si opposero coll'armi
all'arcivescovo e al popolo; e perchè non poteano resistere alla plebe,
implorarono l'aiuto de' senatori e del popolo romano. Nè mancarono
questi, siccome gente ben presto dimentica de' suoi giuramenti, di
accorrere in aiuto de' nobili; ed era per seguirne grande spargimento di
sangue, se il saggio papa non avesse ordinato all'arcivescovo e al
popolo di schivar la battaglia. Ma conoscendo l'antipapa Callisto la
rovina de' proprii affari, finalmente tutto umiliato andò nel dì 29 di
agosto a buttarsi a' piedi di papa Alessandro in Tuscolo, col confessare
il suo peccato e chiedere misericordia. _Quem Alexander papa, ut erat
pius et humilis, non objurgavit et reprehendit, sed secundum sibi
innatam mansuetudinem benigne recepit_: sono parole di Romoaldo
Salernitano, che poscia soggiugne: _Alexander papa eum, et in curia et
in mensa sua honorifice habuit_. Abbiamo inoltre[2288] che il papa _eum
postea rectorem Beneventi constituit_. Basta ciò a far conoscere qual
credenza meriti chi inventò l'accoglimento indecente di Federigo Augusto
in Venezia. Se il buon papa così amorevolmente trattò costui, che non
avrà poi fatto ad un imperadore, e imperadore qual fu Federigo, ed
essendo mediatrice la saviezza veneta, a cui stava a cuore anche l'onor
d'esso Augusto? E ben pareva a tutti con ciò estinto affatto lo scisma,
quando venne in pensiero ad alcuni disperati scismatici delle parti di
Roma di far nascere un altro fantoccio col nome di papa. Ecco le parole
di Giovanni da Ceccano[2289]: _Tertio kalendas octobris quidam de secta
schismatica inito concilio Landum Sitinum elegerunt in papam Innocentium
III, qui ab eisdem est consecratus_. Nella Cronica Acquicintina[2290] è
scritto che costui era _de progenie illorum, quos Frangipanes Romani
vocant_: il che difficilmente si può credere di quella così nobile e
cattolica famiglia; e che un fratello di Ottaviano già antipapa gli
diede ricovero in una sua fortezza in vicinanza di Roma.

Vegnendo ora all'imperador Federigo, appena egli fu giunto nell'anno
addietro a Cesena, che si accostò alla terra di Bertinoro[2291], e ai
due cardinali, che erano stati già mandati dal papa a prenderne il
possesso, fece istanza di prenderlo ed averlo egli, pretendendolo, a mio
credere, come dipendenza della Romagna, di cui allora gl'imperadori
erano padroni, senza che se ne udissero lamenti o proteste dei papi; ed
anche perchè, secondo la legge da lui pubblicata in Roncaglia, non si
potevano senza licenza sua lasciar feudi alle chiese. Risposero essi con
tutta mansuetudine di non poter farlo senza ordine del papa. Altro non
vi volle perchè Federigo intimasse immantinente la guerra, e, raunato
l'esercito, si portasse sotto quel castello. Non vollero mettersi in
difesa i due cardinali, e massimamente perchè v'erano dentro le fazioni
de' Bulgari e de' Mainardi, l'una delle quali teneva per l'imperadore.
Sicchè quell'inespugnabil castello (oggidì città episcopale) senza
sfoderar la spada venne alle mani di Federigo; e benchè il papa gliene
facesse delle doglianze con ammonizioni paterne, nulla si mosse egli dal
proponimento suo. Non si sa per altro intendere come tanto l'imperadore
che il papa pretendessero sopra Bertinoro, quando esso era della Chiesa
di Ravenna, ed io ne ho rapportata l'investitura[2292], data nell'anno
1130 da _Gualtieri arcivescovo a Cavalcaconte conte_, i cui antecessori
similmente ne erano stati investiti da essa Chiesa di Ravenna. Passò
dipoi esso Augusto a Spoleti, e di là in Toscana. Truovasi negli Annali
de' Genovesi[2293] che nel gennaio di quest'anno egli arrivò a Genova,
dove era anche pervenuta nel dì innanzi l'Augusta sua consorte
_Beatrice_, e nel dì seguente comparve il giovinetto re _Arrigo_ lor
primogenito. Dopo essersi fermati alquanti giorni in quella città,
sontuosamente regalati, se n'andarono. Galvano Fiamma scrive[2294]
ch'egli venne a Milano; ma questo autore non è tale da poter noi
riposare sulla sua parola ne' tempi lontani da lui. Ora, giacchè la
tregua co' Lombardi non permetteva a Federigo di continuar il suo
mestiere, che era quel della guerra[2295], determinò di passare in
Borgogna. Nè fidandosi degl'Italiani[2296], ordinò a _Bertoldo duca_ di
Zeringhen di venir di qua dalle Alpi con un buon corpo di truppe per
iscortarlo. Passò dunque pel Monsenisio in Borgogna, e stando in Arles
si fece coronare re di quelle contrade. Bernardo di Guidone[2297] mette
questa coronazione nel dì _III nonas augusti_. Tenne poscia il
parlamento di quel regno in Besanzone nella festa dell'Assunzion della
Vergine. Era egli forte in collera contra di _Arrigo il Leone_ duca di
Baviera e Sassonia (ne dirò le cagioni fra poco): e però sotto mano fece
che _Filippo arcivescovo_ di Colonia cominciasse a muovergli guerra.
Giunto che fu Federigo a Spira, andò il duca a rendergli i suoi
rispetti, e a dolersi degli attentati dell'arcivescovo[2298]; ma benchè
Federigo dissimulasse, pur fece abbastanza conoscere che covava dei
cattivi pensieri contra di lui. Intanto non dormivano i Lombardi. Era
ben uscito d'Italia Federigo, era fatta la tregua; contuttociò eglino
sempre in sospetto non lasciavano di prendere le misure competenti per
la difesa della lor libertà. Da un documento pubblicato dal
Puricelli[2299], e scritto nel dì 15 di settembre dell'anno presente, si
scorge che i rettori della Lombardia, Marca e Romagna tennero un
congresso per loro affari nella città di Parma. I nomi loro son questi:
_Guillelmus de Ossa de Mediolano, Ardizo confanonerius Brixiae, Amabeus
Veronae, Obertus de Bonifacio Placentiae, Guillelmus de Mapello
Pergamensis, Eleazarus Laudensis, Guidotus Reginus, Malvelius de Mantua,
Pius Manfredi de Mutina, Albericus de Padua, Astulfus de Tarvisio,
Rodulfus Bononiensis, Mainfredus de Parma_. Servirà ancora questa
memoria a farci conoscere che la nobil casa de' Pii, una delle molte de'
figliuoli di Manfredi, era di patria modenese. Nella breve Cronica di
Cremona, da me data alla luce[2300], si legge che nell'anno 1177 i
Cremonesi per la prima volta elessero il loro podestà, che fu Gherardo
da Carpineta nobile reggiano, il quale finì ivi i suoi giorni nel 1180.
_Post illum Manfredus Fantus de filiis Manfredi mutinensis, gener ipsius
Girardi fuit potestas electus. Hic suo tempore Castrum Manfredum
aedificavit, et illi nomen suum imposuit_. Dal che parimente intendiamo
che i Pii, i Fanti, Pichi, ed altri _de' figliuoli di Manfredi_ erano di
schiatta modenese. Circa questi tempi _Guglielmo II_ re di Sicilia[2301]
spedì un'armata di cinquanta galee in soccorso dei cristiani d'Oriente,
sommamente afflitti dalle forze di Saladino sultano d'Egitto. L'arrivo
d'essa a Tiro con genti e vettovaglie fu la salute d'Antiochia e di
Tripoli.

NOTE:

[2286] Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.

[2287] Romualdus Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.

[2288] Anonymus Casinensis, tom. 4 Rer. Italic.

[2289] Johan. de Ceccano, in Chron. Fossaenovae.

[2290] Apud Pagium, in Crit. Baron., ad hunc an.

[2291] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III.

[2292] Antiquit. Ital., Dissert. XI, pag. 633.

[2293] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3.

[2294] Gualv. Flamma, in Manipul. Flor.

[2295] Otto de S. Blasio, in Chron.

[2296] Godefridus Monachus, in Chron.

[2297] Bernard. Guidonis, in Vit. Alexandri III.

[2298] Arnold. Lubec., Chron. Slav., cap. 24 aut 29.

[2299] Puricell., Monum. Basilic. Ambr., n. 573.

[2300] Chron. Cremonens., tom. 7 Rer. Ital.

[2301] Anonym., Hist. Hierosolymit.



    Anno di CRISTO MCLXXIX. Indizione XI.

    ALESSANDRO III papa 21.
    FEDERIGO I re 28, imper. 25.


Per saldare affatto le piaghe lasciate dal lungo scisma nella Chiesa di
Dio, lo zelantissimo _papa Alessandro_ avea intimato un concilio
generale nell'anno presente (e non già nel 1180, come alcuno ha creduto)
sul principio di marzo nella basilica lateranense[2302], coll'intervento
di più di trecento arcivescovi e vescovi, e di una sterminata
moltitudine d'altri ecclesiastici e laici. Vi furono fatti ventisette
canoni, ne' quali fu riformata la disciplina ecclesiastica; provveduto
alla simonia; scomunicati gli eretici albigensi (ancor questi erano
manichei), che si andavano sempre più dilatando in Tolosa e ne' suoi
contorni; e dato buon sesto a molte chiese che aveano patito non poco
durante lo scisma. Al medesimo concilio, secondochè scrisse Roberto dal
Monte[2303], intervenne ancora _Burgundio pisano_, uomo in questi tempi
dottissimo non meno nella latina che nella greca lingua. Delle di lui
fatiche letterarie accuratamente ha parlato il celebre padre don Guido
Grandi abbate camaldolese, e pubblico lettore di Pisa. Due diete in
questo anno tenne l'imperador Federigo in Germania, l'una in Wormazia,
l'altra in Maddeburgo; e cercando pur le vie di sfogar la sua vendetta
contra di _Arrigo il Leone_ duca di Sassonia e di Baviera, invitò quanti
principi potè a muovere delle querele, e fino accuse di tradimento
dell'imperio contro di lui. Perlochè il citò a rispondere in
giudizio[2304]. Il duca, poco fidandosi de' consiglieri e giudici
dell'imperadore, non volle comparire. Ottenne da Federigo un'udienza
privata, e si studiò di placarlo nella miglior maniera che potè. Gli
disse Federigo che il consigliava di pagare cinque mila marche alla sua
camera; che in questa maniera il farebbe rientrare nella grazia de'
principi. Parve dura al duca una tal dimanda, e senza volerne far altro,
se n'andò. Gli costò ben caro il non essersi appigliato a questo
consiglio. Tornò l'arcivescovo di Colonia a portar la guerra ne' di lui
Stati; e il duca sopportò con pazienza anche questo nuovo insulto senza
fargli resistenza. Sono parole di Gotifredo monaco di san Pantaleone a
questo anno: _Christianus moguntinus episcopus capitur a Marvio Ferrei
Montis_[2305]. Scorretta è la parola Marvio, e facilmente s'intende che
lo storico avrà scritto _Marchione_. Ma in che luogo e perchè questo
arcivescovo fosse preso dal marchese di Monferrato, questo restò nella
penna dello scrittore. Roberto dal Monte ne parla fuor di sito, cioè
all'anno 1180, se pur egli non usò l'era pisana. Abbiam veduto all'anno
precedente che questo guerriero arcivescovo per guadagnarsi l'affetto
del papa, contra di cui avea tanto operato in addietro, fece guerra alla
nobiltà di Viterbo, che non volea sottomettersi al dominio temporale del
papa. Erano sostenuti que' nobili da _Corrado_ figliuolo del marchese di
Monferrato, e in lor soccorso venne ancora l'oste de' Romani. Seguitando
quella rissa, l'arcivescovo di Magonza dovette restar prigione del
suddetto Corrado. Ma per buona ventura Buoncompagno, storico di questi
tempi, qui ci somministra lume, con dire[2306] che _Conradus Marchio
Montisferrati cum praefato cancellario_ (cioè col suddetto Cristiano
arcivescovo) _commisit praetium juxta Camerinum, in quo eum super quadam
rupe prope arcem, quae dicitur Pioragum, cepit, ipsumque apud
Aquampendentem detinuit non modico tempore catenis ferreis religatum.
Exivit demum de carcere, et quum consuetam duceret vitam, mors eum
Tusculani conclusit. Et tunc illum poenituit de commissis, quum non
potuit amplius lascivire_. Parleremo a suo tempo della morte di questo
scandaloso prelato.

Ma giacchè s'è fatta menzione di un figliuolo del marchese di
Monferrato, esige quella nobilissima casa italiana che io qui accenni
alcune illustri sue parentele, per le quali si rendè essa tanto celebre
non meno in Occidente che in Oriente. Il marchese di Monferrato, di cui
s'è più volte udito il nome di sopra, aderente costantissimo di Federigo
Augusto, era _Guglielmo_, principe di gran senno e valore. Questi, per
attestato di Sicardo[2307], fu stretto parente d'esso Federigo, perchè
ebbe per moglie _Giuditta_ sorella di _Corrado III_ re di Germania e
d'Italia, che gli procreò cinque figliuoli maschi, cioè _Guglielmo,
Corrado, Bonifazio, Federigo e Rinieri_. Avvenne, che ito in Terra santa
_Guglielmo_ il primogenito, soprannominato _Longaspada, Baldovino_ il
Lebbroso re di Gerusalemme, innamorato della di lui gagliardia, bravura
ed avvenenza, doti unite ad una grande nobiltà, gli diede per moglie
_Sibiglia_ sua sorella, e la contea di Joppe in dote. Da Bernardo
Tesoriere[2308] egli vien chiamato _Bonefacii illustris marchionis
Montisferrati filius_, ma con errore. Sicardo ne sapea più di lui. Morì
Sibiglia poco più di un anno dipoi, con avergli generato un figliuolo, a
cui fu posto il nome di _Baldovino_. Questi, dopo la morte di esso re
Baldovino suo zio materno, fu dichiarato re di Gerusalemme, ma mancò di
vita in tenera età. Anche _Manuello_ Comneno imperador di
Costantinopoli, pel gran credito in cui era in questi tempi la casa di
Monferrato, fece sapere al marchese Guglielmo seniore, che gli mandasse
uno de' suoi figliuoli, perchè desiderava di dargli una sua figliuola,
cioè _cira Maria_, ossia _donna Maria_, per moglie, cioè quella stessa
che fu promessa dianzi a _Guglielmo II_ re di Sicilia, ma che egli non
potè poi avere, e neppur potè ottenere l'Augusto Federigo per _Arrigo_
suo primogenito. In que' tempi due figliuoli d'esso Guglielmo marchese,
cioè _Corrado e Bonifacio_, erano ammogliati. _Federigo_ vestiva l'abito
clericale, e poi fu creato vescovo d'Alba. Colà dunque mandò Guglielmo
il minore de' suoi figliuoli, cioè Rinieri, giovane di bellissimo
aspetto, a cui l'Augusto greco diede la destinata moglie, e per dote la
corona del regno di Tessalonica, ossia di Salonichi, porzione la più
nobile di quell'imperio dopo Costantinopoli, perciocchè l'altiera
figliuola, per testimonianza di Roberto dal Monte[2309], protestò di non
voler marito che non fosse re. Furono celebrate quelle nozze con gran
solennità, per attestato di Guglielmo Tirio[2310]. Benchè Roberto ne
parli all'anno 1180, si scorge nondimeno appartenere questo fatto
all'anno presente, perchè succeduto nell'anno del concilio III
lateranense. Benvenuto da san Giorgio scrive[2311] che Giordana, sorella
del suddetto Rinieri, fu data in moglie ad Alessio imperadore, figliuolo
del suddetto Manuello Comneno imperadore. Ma è contraria alla storia una
tal notizia, perchè Alessio in età di tredici anni, e in questo medesimo
anno, prese unicamente per moglie _Agnese_ figliuola di _Lodovico VII_
re di Francia, la quale sopravvisse al marito. Del resto le prodezze de'
principi della casa di Monferrato in Levante tali furono, che il nome
loro con gloria penetrò dappertutto. Nel dì 13 d'aprile dell'anno 1178,
secondochè scrive il Dandolo[2312], terminò i suoi giorni _Sebastiano
Ziani_ degnissimo doge di Venezia, ed ebbe per successore _Aureo_, ossia
_Orio Mastropetro_, eletto dai voti concordi del popolo. Ma seguitando a
dire il Dandolo che _eodem anno Alexander papa lateranense congregavit
concilium_, ed essendo certo che tenuto fu in quest'anno esso concilio,
può nascere sospetto che al presente, e non al precedente anno
appartenga la morte dell'un doge e la creazione dell'altro. Se si ha a
credere alle storie di Bologna[2313], la città d'Imola in quest'anno fu
presa dai Bolognesi, che ne spianarono le fosse, e ne condussero in
trionfo le porte a Bologna. Ma ciò non s'accorda nel tempo con altre
storie.

NOTE:

[2302] Labbe, Concilior., tom. 10. Baron., in Annal. Eccl. Pagius, in
Crit. ad Annal. Baron.

[2303] Robert. de Monte, in Chron.

[2304] Arnold. Lubec., in Chron. Slav., cap. 24 aut 29.

[2305] Godefr. Monach., in Chron.

[2306] Buoncompagn., de obsidione Ancon., cap. 25, tom. 6 Rer. Ital.

[2307] Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2308] Bernard. Thesaurar., de acquisit. Terr. sanct., cap. 138.

[2309] Robert. de Monte, in Chron.

[2310] Guillelm. Tyrius, lib. 22, cap. 4.

[2311] Benvenuto da S. Giorgio, Storia del Monferrato, tom. 23 Rer.
Ital.

[2312] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2313] Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCLXXX. Indizione XIII.

    ALESSANDRO III papa 22.
    FEDERIGO I re 29, imperad. 26.


Peggioravano sempre più gli affari de' cristiani in Oriente per la gran
potenza e valore di Saladino sultano dell'Egitto: e però in quest'anno
papa _Alessandro III_ scrisse lettere compassionevoli ai re di Francia e
d'Inghilterra, e a tutti gli altri principi e vescovi della cristianità
per muoverli a recar soccorso a quel regno, maggiormente ancora posto in
pericolo per l'infermità della lebbra del valoroso _re Baldovino_.
Rapporta queste lettere il cardinal Baronio[2314]. Mancò di vita in
quest'anno _Lodovico VII_ re di Francia, a cui succedette _Filippo
Augusto_. Questo novello re, e parimente _Arrigo II re_ d'Inghilterra,
mossi dalle esortazioni del santo padre, s'impegnarono di somministrar
de' gagliardi soccorsi a così pio bisogno. L'anno fu questo, in cui la
linea germanica degli Estensi da un altissimo stato fu precipitata al
basso dall'ira di _Federigo imperadore_. Uno de' principi più gloriosi
dell'Europa era _Arrigo il Leone_ per le tante imprese da lui fatte, che
si possono leggere nella Cronica slavica di Elmoldo e di Arnoldo abbate
di Lubecca. Tale era la sua potenza, che dopo i re non v'era principe
che l'uguagliasse, perchè possessore dei ducati della Sassonia e
Baviera, più vasti allora che oggidì, e di Brunswich e Luneburgo, e
d'altri paesi che io tralascio. Ma egli incorse nella disgrazia di
Federigo, perchè non volle aiutarlo a mettere in catene l'Italia, e a
sostenere lo scandalo degli antipapi: il che fu bensì la salute
dell'Italia e della Chiesa, ma egli ne pagò il fio, perchè cadde sopra
di lui tutta la rovina che era destinata per gl'Italiani. Arnoldo da
Lubecca[2315], Ottone da San Biagio[2316], Corrado abbate
Urspergense[2317] ed altri raccontano i motivi dello sdegno di Federigo,
con qualche diversità bensì, ma nella sostanza convengono che Federigo
nell'anno 1175, abbisognando di grossi soccorsi della Germania per
vincere pure l'izza sua contra de' Lombardi, fece venire a Chiavenna il
duca Arrigo suo cugino, cioè il solo che in questi tempi, non meno per
la sua riputazione in fatti di guerra, che per la gran potenza e per le
molte ricchezze, potea raddrizzare la sua declinante fortuna. Venne il
duca; adoperò Federigo quante persuasioni potè per tirarlo in Italia. Si
scusò Arrigo per essere vecchio e consumato dalle fatiche; esibì genti e
danaro, ma per la sua persona stette fermo in dire che non potea
servirlo. Allora Federigo (tanto gli premeva questo affare), con
inginocchiarsegli a' piedi, si figurò di poter espugnare la di lui
ripugnanza. Sorpreso e confuso da atto tale il duca, l'alzò tosto di
terra, ma neppure per questo s'arrendè ai voleri di lui. Ecco il reato
del duca Arrigo, di cui finalmente giunse a Federigo il tempo di farne
vendetta.

Gli appose che passasse intelligenza fra esso duca e il papa e i
Lombardi, nemici dell'imperio. Mi maraviglio io che non saltasse fuori
ancora, esser egli stato guadagnato dall'imperador di Costantinopoli,
perchè essendo ito il medesimo duca Arrigo nell'anno 1172, oppure 1173,
per sua divozione al santo Sepolcro, ricevette immensi onori dappertutto
dove passò, ma specialmente alla corte del greco Augusto. In somma
citato più volte, senza ch'egli volesse comparire alla dieta tenuta in
Geylinhusen da Federigo verso la metà di quaresima[2318], fu posto al
bando dell'imperio, e dichiarato decaduto da tutti i suoi Stati. Diede
incontanente l'imperadore il ducato di Baviera ad _Ottone conte
palatino_ di Witelspach, da cui discende la nobilissima casa del
regnante duca ed elettore di Baviera, oggidì imperador de' Romani.
Investì del ducato della Sassonia _Bernardo conte_ di Anhalt, e della
Westfalia ed Angria _Filippo arcivescovo_ di Colonia. Si difese poi per
quanto potè generosamente il duca Arrigo, ma furono tanti e sì poderosi
i suoi nemici, e massimamente dacchè lo stesso Federigo congiunse con
loro l'armi sue, che restò interamente spogliato di que' ducati, senza
che nè il re d'Inghilterra suocero suo, nè alcun altro principe
movessero una mano per aiutarlo. Tuttavia rimasero a lui gli Stati di
Brunswich e Luneburgo, oggidì pur anche posseduti da' suoi nobilissimi
discendenti, che a' dì nostri seggono ancora sul trono della gran
Bretagna. Diede fine alla sua vita nel settembre di quest'anno _Manuello
Comneno_, glorioso imperador de' Greci, ed ebbe per successore _Alessio_
suo figliuolo, principe infelice, perchè nell'anno 1183 da _Andronico_
tiranno fu barbaramente levato dal mondo. Per la morte di Manuello,
scrive il Continuatore di Caffaro[2319], _Christianitas universa ruinam
maximam et detrimentum incurrit_. Cominciarono inoltre ad andare di male
in peggio gli affari temporali dell'imperio orientale per le iniquità,
per le dissensioni e per la debolezza de' successori Augusti. Già
dicemmo creato antipapa un certo Landone col nome d'Innocenzo III,
dappoichè l'altro antipapa Callisto, ossia Giovanni abbate di Struma,
pentito, era ricorso alla misericordia di papa _Alessandro III_. Abbiamo
dall'Anonimo Casinense[2320] che costui nell'anno presente _apud
Palumbariam cum sociis captus, ad Cavas est in exsilium deportatus_.
Altrettanto s'ha da Giovanni da Ceccano, che scrive[2321]: _Lando
Sitinus falso papa dictus, captus ab Alexandro papa, et illaqueatus est,
et apud Caveam cum complicibus suis in exsilium ductus est_. E nella
Cronica Acquicintina si legge[2322] che Alessandro papa comperò dal
fratello dell'antipapa Ottaviano la Palombara, dove dimorava Landone, e
l'ebbe in questa maniera nelle mani: con che cessarono una volta tutte
le reliquie dello scisma. Scrive ancora il suddetto Giovanni da Ceccano,
che, traboccato dagli argini il fiume Tevere, inondò non poca parte di
Roma: dal che nacque una fiera epidemia che infestò gravemente quella
gran città, ed insieme Terra di Lavoro. Roberto dal Monte scrive
anch'egli un'importante particolarità sotto il presente anno[2323], ma
che, per mio avviso, appartiene al precedente: cioè che il re di Marocco
potentissimo principe, perchè signoreggiava tutta la costa dell'Africa
sul Mediterraneo, e a lui ubbidivano anche i Saraceni di Spagna, mandava
a marito ad un altro re saraceno una sua figliuola. S'incontrarono le
navi che la conducevano nella flotta di Guglielmo II re di Sicilia, che,
fatta prigione questa principessa, la condusse a Palermo. Una sì
riguardevol preda servì per ristabilir la pace fra quei due potentati.
Guglielmo restituì al re padre la figliuola; e il re di Marocco a quel
di Sicilia le due città di Africa, ossia Mahadia e Siviglia, situate in
Africa. Nulla di questo s'ha dalle vecchie storie di Sicilia. Abbiamo
bensì dall'Anonimo Casinense che nel seguente anno 1181 _Dominus noster
rex fecit treguam apud Panormum cum rege Maxamutorum usque ad decem
annos, mense augusti_.

NOTE:

[2314] Baron., in Annalib. ad hunc annum.

[2315] Arn. Lubec., Chron., lib. 2, cap. 15 aut. 20.

[2316] Otto de S. Blasio, in Chron.

[2317] Abbas Urspergens., in Chron.

[2318] Godefridus Monachus, in Chron. Chron. Reichersperg.

[2319] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Ital.

[2320] Anonymus Casinens., in Chron., tom. 5 Rer. Ital.

[2321] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2322] Chron. Acquicinctinum.

[2323] Robert. de Monte, in Chron.



    Anno di CRISTO MCLXXXI. Indizione XIV.

    LUCIO III papa 1.
    FEDERIGO I re 30, imper. 27.


Fu chiamato da Dio in quest'anno a miglior vita papa _Alessandro III_.
Accadde la morte sua in Città Castellana nel dì 30 d'agosto, secondo i
conti del padre Pagi[2324]. In lui mancò uno de' più insigni successori
di san Pietro: tanta era la sua letteratura, tale la sua moderazione e
saviezza, per cui gloriosamente si governò in tempi sommamente torbidi,
e in fine felicemente arrivò a restituire il sereno alla Chiesa di Dio.
Appena gli fu data sepoltura, che raunati i vescovi e cardinali, con
voti unanimi concorsero nella persona di _Ubaldo vescovo_ d'Ostia e di
Velletri, di nazione Lucchese, personaggio di singolare sperienza e
prudenza, perchè adoperato in addietro in tutti i più scabrosi affari
della Chiesa romana. Egli, eletto che fu papa, prese il nome di _Lucio
III_, e venne poi coronato nella domenica prima di settembre in
Velletri. Abbiamo da Tolomeo da Lucca[2325] sotto questo medesimo anno
ch'esso pontefice _concessit Lucensibus monetam cudendam, quam civitatem
summe commendans, omnibus civitatibus Tusciae, Marchiae, Campaniae,
Romagnolae, et Apuliae in moneta praeponit_. Ma convien spiegar questa
concessione. Noi sappiam di certo, e se ne possono veder le pruove nelle
mie Antichità italiane, che Lucca fin dai tempi dei re longobardi godeva
il privilegio della zecca, ossia di battere, come diciamo, moneta. Nè
altra città in Toscana che Lucca si sa che avesse allora un tal diritto
continuato poscia in essa sotto gli Augusti franchi e tedeschi. E questo
diritto nelle città del regno d'Italia si otteneva dai soli re od
imperadori. Però verisimile a me sembra che la concession di papa Lucio
si restrignesse al volere che la moneta lucchese avesse corso negli
Stati della Chiesa romana. Aggiugne lo stesso Tolomeo che in quest'anno
seguì pace fra i Lucchesi e Pisani, avendo giurato questi di tenere i
Lucchesi per cittadini di Pisa, con dar loro la facoltà di mercantare in
Pisa al pari degli stessi Pisani. Fin qui era stato detenuto prigione in
Acquapendente _Cristiano arcivescovo_ di Magonza da _Corrado marchese_
di Monferrato, senza che s'intenda come esso Corrado figliuolo di
_Guglielmo marchese_, cioè di un principe sì strettamente unito con
Federigo Augusto, trattasse così male un arcivescovo primo ministro
d'esso imperadore, e che in questi tempi guerreggiava in favore della
Chiesa romana. Il sospettare che Federigo, al vederlo divenuto sì
parziale del papa, non avesse dispiacere ch'egli fosse maltrattato,
potrebbe parere un pensier troppo malizioso. Ora noi abbiamo da
Gotifredo monaco[2326] che Cristiano nell'anno presente riacquistò la
libertà, _dato non modico argento_. Scrive Roberto dal Monte[2327], per
relazione d'alcuni, che in quest'anno, oppure nel seguente, _Giovanna_
figliuola d'_Arrigo II re_ d'Inghilterra, e moglie di _Guglielmo II re_
di Sicilia, gli partorì un figliuolo, a cui fu posto il nome di
_Boamondo_; ed appena battezzato, fu dichiarato dal padre duca di
Puglia. Riccardo da San Germano[2328] lasciò scritto all'incontro, che
Dio _conclusit uterum consortis illius, ut non pareret, vel conciperet
filium_. Nè di questo figliuolo ebbero notizia altre istorie de'
Siciliani. Però se altronde non viene miglior lume, convien per ora
sospenderne la credenza. Negli Annali di Genova[2329] è scritto che il
re di Sicilia Guglielmo inviò un potente stuolo di galee e di uscieri
(navi da trasporto) sotto il comando di Gualtieri da Moach suo
ammiraglio, con disegno di portar la guerra contro l'isola di Minorica.
Svernò questa flotta in Vado, nè apparisce che facesse altra impresa.

NOTE:

[2324] Pagius, in Critic. Baron. ad hunc annum.

[2325] Ptolom. Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Italic.

[2326] Godefridus Monachus, in Chron.

[2327] Robertus de Monte, in Chron.

[2328] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2329] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3.



    Anno di CRISTO MCLXXXII. Indiz. XV.

    LUCIO III papa 2.
    FEDERIGO I re 31, imper. 28.


Seguitò ancora in quest'anno _papa Lucio_ a far la sua residenza in
Velletri: segno che dopo la morte di Alessandro III s'era di nuovo
sconcertata l'armonia fra lui e il senato romano: ed egli, ad imitazione
dei suoi predecessori, perchè non si trovava nè quieto nè sicuro fra i
Romani, meglio amava di starsene in quella città. Nella Cronica di
Fossanuova[2330] si legge, che essendo morto _Landolfo conte_ di
Ceccano, i suoi figliuoli _Castrum reddiderunt papae Lucio_. Abbiamo
ancora dall'Anonimo Casinense[2331] che per tre giorni fra l'ottava
della Epifania spirò un vento sì impetuoso per tutta l'Italia, che
uccise molti uomini ed animali, e fece seccar gli alberi. Erano in oltre
cinque anni che infieriva la carestia per tutte le contrade dell'Italia,
di maniera che in alcune parti neppure con un'oncia d'oro si potea
trovare una salma, ossia somma di grano: il perchè assaissimi contadini
perirono, null'altro avendo essi da cibarsi che erbe. Di questi guai fa
anche menzione Gaufredo priore del monistero vosiense, con
inscrivere[2332]: _Romae mortalitas populum multum prostravit. Petrus
legatus_ (arcivescovo bituriciense) _kalendis augusti apud Ostiam,
praesente papa Lucio, decessit_. In Germania Arrigo il Leone
estense-guelfo, spogliato dei ducati di Sassonia e Baviera[2333], non
potendo resistere alle forze di tanti nemici, e dello stesso imperadore,
passò in Normandia colla moglie _Matilda_ e co' figliuoli, a vivere
presso il re Arrigo d'Inghilterra suocero suo, con isperanza di
ricuperar gli Stati coll'appoggio d'esso re. Ma più non venne questo
favorevol vento. Secondo i conti di Girolamo Rossi[2334], in quest'anno
terminò il corso di sua vita _Gherardo arcivescovo_ di Ravenna, perchè
si truova in uno strumento nominato _Cappella domni Gerardi
archiepiscopi bonae recordationis_. Ma questa formola fu anche usata
altre volte per le persone viventi; e trovandosi anche da lì innanzi un
Gherardo arcivescovo di quella città, verisimile a me sembra che lo
stesso arcivescovo, e non già un altro dello stesso nome, continuasse a
vivere. Siccome ho io provato nelle Antichità Estensi[2335], la linea
italiana de' marchesi estensi, per essere stata finora diramata in varii
personaggi, ciascuno dei quali godeva la sua parte di Stati e di beni
allodiali, per qualche tempo cessò di far figura nella Storia d'Italia.
Ma ridottasi finalmente ne' marchesi _Alberto ed Obizzo_, e in
_Bonifazio_ loro nipote, cominciò di nuovo a risplendere come prima.
Impariamo dalle Storie di Padova[2336] che nell'anno 1177, e nel
seguente, esso _Marchese Obizzo_ governò la nobilissima città di Padova,
eletto e confermato per suo podestà da quel popolo libero. Ed, insorta
in quest'anno lite fra essi marchesi e il popolo d'Este, si vede lettera
dell'imperador Federigo data in Magonza nel dì 28 d'aprile, con cui
conferma la sentenza proferita in favore de' marchesi contra di quel
popolo, che avea appellato al tribunale cesareo.

NOTE:

[2330] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2331] Anonymus Casinens., in Chron., tom. 5 Rer. Italic.

[2332] Gaufrid. Vosiens., in Chron. apud Labb.

[2333] Robertus de Monte, in Chron. Godefridus Monachus, in Chron.
Arnoldus Lubecensis, in Chron.

[2334] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.

[2335] Antichità Estensi, P. I, cap. 35.

[2336] Catalogus Potestatum Patav. post Rolandin.



    Anno di CRISTO MCLXXXIII. Indizione I.

    LUCIO III papa 3.
    FEDERIGO I re 32, imper. 29.


Celebre è nella storia d'Italia l'anno presente per la pace finalmente
conchiusa fra l'_imperador Federigo_ e le città collegate della
Lombardia, Marca e Romagna. Già erano vicini a spirare i sei anni della
tregua conchiusa nell'anno 1177 in Venezia. E perciocchè premeva forte
al giovane _re Arrigo_, figliuolo di Federigo, di assicurarsi il regno
d'Italia, si crede ch'egli promovesse il trattato della concordia. Ben
verisimile nondimeno è che anche i Lombardi ne facessero destramente
muover parola alla corte. Trovavasi allora Federigo nella città di
Costanza, e, dato orecchio a chi gliene parlava, deputò _Guglielmo
vescovo_ d'Asti, il _marchese Arrigo_ soprannominato il Guercio, frate
Teoderico e Ridolfo camerlengo, che ne trattassero, dando loro
l'opportuna plenipotenza. Ma il popolo di Tortona, senza voler aspettar
gli altri della lega, nel dì 4 di febbraio del presente anno fece la
pace coll'imperadore, come costa dai documenti da me prodotti nelle
Antichità italiane[2337]. Fu dunque intimato il congresso della lega coi
deputati cesarei nella città di Piacenza, e in questo, che tenuto fu nel
dì 30 aprile, si abbozzò la desiderata concordia. Gli atti preliminari
tutti, per quanto ho io potuto, raccolti da varii archivii, si leggono
nelle suddette Antichità. Finalmente si conchiuse l'accordo; e portatisi
i deputati delle città a Costanza, quivi nel dì 25 di giugno l'Augusto
Federigo col re Arrigo suo figliuolo diede la pace all'Italia,
confermandola con un suo famoso diploma, che abbiamo ne' testi civili
_de Pace Constantiae_, ma scorretto non poco. Mi son io studiato di
levarne gli errori col confronto de' manuscritti. Le città che erano
prima contra l'imperadore son queste: _Milano, Brescia, Piacenza,
Bergamo, Verona, Vicenza, Padova, Trivigi, Mantova, Faenza, Bologna,
Modena, Reggio, Parma, Lodi, Novara, Vercelli, ed Obbizzo marchese
Malaspina_. Le città che tenevano la parte dell'imperadore, ivi
enunziate, sono _Pavia, Cremona, Como, Tortona, Asti, Alba, Genova e
Cesarea_. Sotto quest'ultimo nome venne la città d'_Alessandria_, la
quale, siccome da questi atti apparisce, staccatasi nel precedente marzo
dalla lega, al pari di Tortona, avea fatta una pace particolare
coll'imperadore, ma con obbligazione di deporre il nome primiero, odiato
da Federigo, e di chiamarsi _Cesarea_. Il Sigonio[2338] e il
Ghilino[2339] rapportano il diploma e le condizioni della pace degli
Alessandrini. Ma se non prima, dappoichè cessò di vivere esso Federigo,
quella città ripigliò il nome d'_Alessandria_, che dura tuttavia. Ne'
preliminari si truova fra i principi della parte dell'imperadore _comes
de Savolia_: il che fa conoscere che l'oggidì real casa di Savoia si era
molto prima amicata coll'Augusto Federigo. Non furono ammesse a questa
pace, probabilmente perchè non inviarono i loro agenti, _Imola, il
castello di San Cassiano, Bobbio, la Pieve di Gravedena, Feltre,
Belluno, Ceneda e Ferrara_, alle quali fu riserbata la grazia
dell'imperadore, se nel termine di due mesi si accordassero coi
Lombardi, oppure coll'imperadore. Ancorchè _Venezia_ fosse dianzi nella
lega, pure d'essa non si vede menoma menzione in questi trattati, perchè
non era città del regno d'Italia. Non mi fermerò io a specificare i
capitoli della pace suddetta, perchè son fra le mani di tutti i
letterati. Basterà solamente accennare che le città suddette restarono
in possesso della libertà e delle regalie e consuetudini, ossia dei
diritti che da gran tempo godevano, con riservare agl'imperadori l'alto
dominio, le appellazioni e qualche altro diritto. Che le appellazioni
della marca di Verona fossero concedute ad Obizzo marchese d'Este, e ad
_Azzo VI_ suo figliuolo, lo vedremo fra poco.

Incredibil fu l'allegrezza di tutta la Lombardia per questa pace,
mediante la quale si stabilì coll'approvazione imperiale la forma di
repubblica in tante città con governo sì diverso da quello de'
precedenti secoli. I Piacentini in loro parte pagarono dieci mila lire
imperiali all'imperadore, e mille a' suoi legati[2340]. Verisimilmente
sudarono anche le borse dell'altre città. Duravano intanto le
controversie fra _papa Lucio_ e i Romani, i quali, non deponendo la
memoria dei danni patiti nella guerra contra di Tuscolo, ossia
Tuscolano, in quest'anno, conceputa speranza d'impadronirsene, coll'oste
loro andarono all'assedio di quella città[2341]. Ma inutile riuscì lo
sforzo loro. Trovavasi forse non lungi da quelle parti _Cristiano
arcivescovo_ di Magonza, ed avvisato dal pontefice di questo insulto
fatto ad una sua terra dai Romani, vi accorse tosto con un'armata di
Tedeschi. Non aspettarono già i Romani l'arrivo di lui, e bravamente si
ritirarono; ma Cristiano cominciò a devastare il lor territorio, ed era
per far peggio, se colpito da una malattia in Tuscolo non fosse passato
al tribunale di Dio a rendere conto della sua vita troppo aliena dal
sacro suo carattere. Secondo il solito, in casi tali, corse qualche voce
che i Romani l'avessero aiutato a far questo viaggio. Certo è che egli
si meritò da Roberto dal Monte il seguente elogio[2342]: _Anno 1182_
(dee essere 1183) _Christianus moguntiensis archiepiscopus obiit, qui se
non habebat secundum morem clericorum, sed more tyranni, exercitus
ducendo, et Brebansones_ (cioè i soldati borgognoni). _Multa mala fecit_
(prima dell'anno 1177) _Ecclesiae romanae, et hominibus sancti Petri, et
quibusdam civitatibus Longobardiae, quae erant contrariae Imperatori
Alemanniae domino suo._ L'Anonimo Casinense scrive che in quest'anno
_Guglielmo II re_ di Sicilia nel dì 26 di gennaio venne a Monte Casino,
e nel dì seguente a Capoa. Intanto papa Lucio continuava il suo
soggiorno in Velletri, e, quivi stando, eresse, non già nell'anno 1182,
ma nel presente, in arcivescovato il regal monistero di Monreale in
Sicilia[2343], _nonis februarii, Indictione I, Incarnationis dominicae
anno MCLXXXII_. L'indizione prima indica l'anno presente, e quello dee
essere anno fiorentino.

NOTE:

[2337] Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII.

[2338] Sigonius, de Regno Ital., lib. 15.

[2339] Ghilin., Annal. Alexandrin.

[2340] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2341] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae. Godefridus Monach., in
Chron. Anonym. Casinens., in Chron.

[2342] Robert. de Monte, in Chron.

[2343] Bullar. Casin., tom. 2, Constit. CXCV.



    Anno di CRISTO MCLXXXIV. Indizione II.

    LUCIO III papa 4.
    FEDERIGO I re 33, imper. 30.


Per testimonianza di Arnoldo da Lubeca[2344], e di Gotifredo
monaco[2345], nella Pentecoste di quest'anno tenne l'_imperador
Federigo_ in Magonza una delle più superbe e magnifiche corti bandite,
che da gran tempo si fossero vedute, perchè v'intervenne, non solamente
dalla Germania ed Italia, ma anche da altri regni gran copia di principi
ecclesiastici e laici, e infinita moltitudine di persone. Il motivo fu
quello di crear cavaliere il giovane _re Arrigo_ suo figliuolo. Ma
perchè non era capace la città di quella immensa foresteria, in una
vasta pianura contigua d'ordine di Federigo fu fabbricato un vasto
palagio di legno, con un'alta cappella, dove si fece la solenne
funzione, e sotto i padiglioni alloggiò quella gran frotta di nobili. Ma
in uno de' seguenti giorni insorto un fiero temporale, gittò a terra
quel grande edificio, e sotto vi restarono morte quindici o venti
persone: il che fu creduto un presagio di calamità, che pur troppo
vennero. Poscia nel mese d'agosto l'Augusto Federigo calò in Italia per
visitar le città già rimesse in sua grazia. Abbiamo dalla Cronica di
Piacenza ch'egli _primo pacifice intravit Mediolanum, deinde Papiam,
postea Cremonam, deinde Veronam ad loquendum cum papa Lucio, qui
successerat Alexandro. Postea ivit ad alias civitates, videlicet Paduam,
Vicentiam, Bergomum, Laudem et Placentiam_[2346]. Con sommo onore fu
accolto dappertutto, e si dee anche credere con gravissime spese e
regali a lui fatti da que' popoli. Abbiamo da questo scrittore e da
altri, che s'abboccarono insieme nell'anno presente il pontefice e
l'imperadore in Verona[2347], e non già nel seguente anno, come pare che
per errore si legga nella Cronica di Arnoldo da Lubeca, seguitato in ciò
dal cardinal Baronio. Sicardo sembra d'accordo con Arnoldo, e Gotifredo
monaco chiaramente scrive che quel congresso seguì nel 1185. Ma certo è
che fu nel presente. Convien ora spiegare la cagion di questo
abboccamento fra i due primi luminari nel mondo cristiano. Più che mai
si scoprivano i Romani inviperiti contro la vicina città di Tuscolo, e
siccome essi non si prendevano gran suggezione di papa Lucio, così, per
attestato di Giovanni da Ceccano[2348] nel mese d'aprile, ripigliate le
ostilità, si portarono a dare il guasto a tutto il territorio di quella
terra. E, dopo aver anche donato alle fiamme Palliano, Ferrone ed altri
luoghi, se ne tornarono a casa. La Cronica Acquicintina[2349] e il
Nangio[2350], oltre a questo, raccontano che i Romani, avendo presi
alcuni cherici aderenti al papa, cavarono loro gli occhi, a riserva
d'uno, acciocchè fosse condottiere degli altri; e messe loro in capo
delle mitre per ischerno, gli obbligarono con giuramento a presentarsi
davanti al pontefice in quella guisa. Anche frate Francesco Pipino[2351]
scrive nella vita di questo papa: _Multi ex suis excaecantur, mitrati
super asinos aversis vultibus ponuntur, et, uti juraverunt, se papae
taliter repraesentant_. A tale spettacolo inorridì e sommamente si
afflisse il buon pontefice; nè potendo più reggere a dimorar in quelle
vicinanze, prese il partito di venire a trovar l'imperadore, non tanto
per implorare il suo aiuto, quanto per trattare di altri assai
importanti affari. Tutte le suddette Croniche asseriscono ch'egli venne
in quest'anno in Lombardia, ed il suddetto Giovanni da Ceccano, non meno
che l'Anonimo Casinense attestano che egli lasciò, o piuttosto poscia
mandò il conte Bertoldo, legato dell'imperadore, alla difesa della
Campania, il quale con uno stratagemma s'impadronì della rocca di Papa,
e fece varie scorrerie nel distretto di Roma.

Ora papa Lucio incamminatosi per la Toscana[2352], passò per Lucca, e,
siccome abbiamo dalle Croniche di Bologna, in quest'anno _die octava
julii intravit Bononiam, et consecravit ecclesiam sancti Petri
majoris_[2353]. Poscia, secondo gli Annali vecchi di Modena[2354], nel
dì 12 del medesimo mese di luglio con dieci cardinali e molti
arcivescovi e vescovi arrivato a Modena, alle preghiere di _Gherardo
arcivescovo_di Ravenna, di _Ardicione vescovo_ di Modena, de' consoli
della città e dei rettori della Lombardia, marca di Verona e Romagnuola,
consecrò la cattedrale nel dì seguente, e fece vedere al popolo il sacro
corpo di san Geminiano vescovo e protettore d'essa città. Uscendo poi
della città nel dì 14 dello stesso mese per la porta di Cittanuova,
rivolto ad essa, la benedisse con dire: _Benedicta sit haec civitas ab
omnipotenti Deo Patre, Filio, et Spiritu Sancto, et a beata Maria semper
Virgine, et a beato Petro Apostolo, et a beato Geminiano. Augeat eam
Dominus Deus, et crescere et multiplicare eam faciat_. Di questa
dedicazione si fa tuttavia l'anniversario in Modena. Passò dipoi il
pontefice a Verona, dove era concertato il congresso con Federigo
imperadore. Ne abbiamo l'attestato da Sicardo vescovo di Cremona, di cui
sono le seguenti parole: _Anno Domini MCLXXXIV papa Lucius Veronam
venit, qui me anno_ _praecedenti subdiaconus ordinaverat, et pro hoc
adventu ad imperatorem direxerat_[2355]. Nella Cronica veronese di
Parisio da Cereta si legge: _Anno MCLXXXIII dominus Lucius papa, et
dominus Fredericus imperator ultimo die julii fuerunt Veronam, et
hilariter recepti et honorifice pertractati_[2356]. Ma il testo è
fallato, e si dee scrivere _anno MCLXXXIV_. Aggiugne il medesimo storico
che nel principio di gennaio dello stesso anno _maxima pars alae arenae
Veronae cecidit, terraemotu magno per prius facto, videlicet ala
exterior_. In Verona tenne il papa un concilio nell'anno presente,
piuttosto che nel susseguente, a cui intervenne lo stesso imperadore, e
in esso fulminò la condanna e scomunica contra gli eretici catari,
paterini, umiliati, poveri di Lione, passagini, giuseppini ed altri,
tutti specie di manichei sotto diversi nomi. Scomunicò ancora gli
arnaldisti e i Romani disubbidienti e ribelli alla temporale autorità
del papa. Quivi parimente si trattò del soccorso di Terra santa, il cui
pericolo ogni dì più cresceva per la potenza e per le vittorie di
Saladino sultano dell'Egitto. Abbiamo inoltre da Arnoldo da Lubeca[2357]
che si dibatterono poscia in privato varii punti particolari fra il papa
e l'imperadore, e massimamente quello del patrimonio della contessa
Matilda. Ne era in possesso Federigo, e il papa ne faceva istanza, come
di beni donati alla Chiesa romana. Si disputò lungamente, furono
prodotti varii strumenti, ma in fine la controversia restò nell'essere
di prima. Neppure s'accordarono il papa e l'imperadore nel punto di
varii prelati scismatici, o eletti in discordia. Mosse anche Federigo la
pretensione che il papa concedesse la corona dell'imperio al _re Arrigo_
suo figliuolo: al che il pontefice non acconsentì, con dire che non era
più in uso l'aver due imperadori nello stesso tempo, nè poter egli dar
la corona al figliuolo, se prima il padre non la deponeva. In somma, mal
soddisfatti l'uno dell'altro, in fine si separarono. Restò papa Lucio in
Verona, e Federigo andò a visitar l'altre città di Lombardia. Noi
abbiamo una bolla del medesimo papa in favore dell'insigne monistero
delle monache di santa Giulia in Brescia, data _Veronae XV kalendas
septembris, Indictione II, Incarnationis dominicae MCLXXXIV,
pontificatus vero domni Lucii papae III anno IV_[2358]. Un'altra sua
bolla spedita similmente in essa città _X kalendas decembris_ viene
riferita dall'Ughelli[2359]. Ho io finalmente dato alla luce lo
strumento, da cui apparisce che _anno dominicae Nativitatis MCLXXXIV,
die Veneris, qui est tertiodecimo exeunte mense octobris, Indictione
secunda, quum Federicus Romanorum imperator apud Veronam in palatio
sancti Zenonis cum maxima curia esset_, quivi egli investì _marchionem
Obizonem de Hest de marchia Genuae, et de marchia Mediolani, et de omni
eo, quod marchio Azzo_ (suo avolo) _habuit et tenuit ab imperio_[2360].
Questo rilevante atto, quantunque fosse solamente a titolo d'onore,
perchè già Milano e Genova godevano la lor libertà, nè più erano
sottoposte ai marchesi, tuttavia è di singolar gloria per la nobilissima
casa d'Este, perchè da esso risulta che i di lei maggiori doveano essere
stati _marchesi di Milano e di Genova_, e Federigo volle conservar loro
il titolo, giacchè non poteva il possesso, per le mutazioni delle cose.
Altri esempli simili di Stati non più posseduti si truovano in questi
tempi, ed anche oggidì si mirano nelle investiture date dagli imperadori
a varii principi di Germania, e alla stessa casa d'Este. E da ciò ancora
vien confermato l'abboccamento seguito in quest'anno in Verona fra il
papa e il medesimo imperadore.

NOTE:

[2344] Arnold. Lubec., Chron., lib. 3, cap. 9.

[2345] Godefridus Monachus, in Chron.

[2346] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2347] Rodulph. de Diceto, Imag. Histor. ad hunc annum. Sigonius,
Rubeus, Panvinius, etc.

[2348] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2349] Chron. Acquicinctinum.

[2350] Guillelm. Nang., in Chron.

[2351] Franciscus Pipin., Chron., tom. 9 Rer. Ital.

[2352] Ptolom. Lucensis, in Annalib. brevib., tom. 11 Rer. Italic.

[2353] Matth. de Griffon., Memorial. Historic., tom. 18 Rer. Ital.

[2354] Annal. Veter. Mutinenses, tom. 11 Rer. Italic.

[2355] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2356] Parisius de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.

[2357] Arnold. Lubecensis, lib. 3, cap. 10.

[2358] Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. CCII.

[2359] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Episcop. Veron.

[2360] Antichità Estensi, P. I, cap. 6.



    Anno di CRISTO MCLXXXV. Indizione III.

    URBANO III papa 1.
    FEDERIGO I re 34, imper. 31.


Continuò _papa Lucio_ il suo soggiorno in Verona, e l'Ughelli rapporta
una sua bolla data _Veronae idibus junii, Indictione III, Incarnationis
dominicae anno MCLXXXV, pontificatus vero domni Lucii III papae anno
quarto_[2361]. Trattenevasi tuttavia in Italia anche l'imperador
Federigo, se pure non aveva egli fatta una scappata in Germania. E però
il papa dovette persister ivi per continuare i negoziati scabrosi con
esso Augusto. Rapporta il Margarino un diploma di esso Federigo, dato
_apud Veronam V nonas januarii, anno dominicae Incarnationis
MCLXXXV_[2362]. Trovossi poi il medesimo Augusto _in Reggio III idus
februarii_, cioè nel dì 11 di febbraio del presente anno, e quivi
confermò i privilegii al popolo milanese, con estensione di molte
grazie, tutte probabilmente ben pagate. Il Puricelli[2363] rapporta
l'intero diploma, degno ben di considerazione, perchè in esso
restituisce a' Milanesi le antiche loro giurisdizioni dalla parte
d'occidente e settentrione, e tutte l'altre dalla parte di levante, con
obbligarsi di rimettere in piedi la terra di Crema: il che servì ad
alterar sommamente gli animi de' Cremonesi, i quali, dopo tante spese e
dopo tanto sangue e fatiche, vedeano sè stessi spogliati delle lor
conquiste, e premiato chi sì lungamente avea sostenuta la guerra contra
di esso Federigo. All'incontro i Milanesi si obbligano di aiutar
l'imperadore, di ritenere e ricuperare tutti i diritti dell'imperio in
Italia, e nominatamente i beni della contessa Matilda. Fra i testimoni
si veggono nominati, _Conradus dux Spoleti, e Conradus marchio
anconitanus_, cioè che allora governava la marca d'Ancona, benchè non
apparisca se la stessa città d'Ancona allora ubbidisse a lui. Un altro
diploma d'esso Federigo, spedito in Milano _IV nonas maii_, in favore
del monistero di santo Ambrosio, si legge presso il suddetto Puricelli.
Però non dovrebbe sussistere lo scriversi dal Sigonio[2364] che
Federigo, partitosi da Reggio, arrivò a Bologna nel dì primo di aprile,
e di là passò alla visita delle città della Romagna. Aggiugne il
medesimo Sigonio che dalla Romagna andò in Toscana nel mese di luglio, e
che tolse a tutte quelle città le regalie, fuorchè a Pisa e a Pistoia,
con privarle della libertà, e sottometterle agli uffiziali da lui
destinati; e ciò perchè nelle guerre passate aveano tenuto colla Chiesa
contra di lui. Prese queste notizie il Sigonio da Giovanni
Villani[2365], che le racconta all'anno 1184, anticipando d'un anno il
tempo. Concorrono nella stessa narrativa gli Annali antichi di
Siena[2366], con asserire sotto il presente anno l'arrivo in Toscana
dell'imperador suddetto. Già cominciavano nelle città a pullulare i semi
ascosi delle fazioni guelfa e ghibellina. Teneano i nobili la parte
dell'imperadore, per difendere le lor castella e i lor feudi, che dianzi
erano esenti dalla giurisdizione delle città. All'incontro il popolo,
che volea, non solo godere della libertà, ma rimettere ancora sotto il
suo dominio tutti i luoghi che anticamente erano del suo distretto, e
forzava i nobili ad ubbidire, ripugnava all'autorità dell'imperadore.
Per questa cagione in Faenza s'accese la discordia fra il popolo e i
nobili. Inferiori di forze gli ultimi ricorsero a Federigo[2367], il
quale ordinò a Bertoldo suo cancelliere di assediar quella città colle
forze della Romagna. Dopo una gagliarda difesa i Faentini in fine furono
costretti a sottomettersi alla volontà dell'imperadore.

S'era poi cangiato l'animo de' Cremonesi, sì caldo negli anni addietro
in favor d'esso Augusto, dacchè videro che egli avea confermata Crema al
popolo di Milano; e non essendo ignota a Federigo questa loro
alienazione d'affetto, ne fece vendetta con ordinare che si
rifabbricasse quell'abbattuta terra. Così ne scrive Sicardo[2368]: _Anno
Domini MCLXXXV, imperator in Italiam rediens, Cremam in odium
Cremonensium reaedificavit. Quo anno ego Sicardus, praesentis operis
compilator et scriba, Cremonae, licet indigne, electus sum ad episcopale
officium_. Trattenevasi tuttavia in Verona il buon papa _Lucio III_,
quando Iddio volle chiamarlo a sè. Concordano gli storici in
asserire[2369] che la sua morte accadde verso il fine di novembre, e
data gli fu sepoltura nel dì 25 di quel mese. Era stato eletto in questo
medesimo anno arcivescovo di Milano _Uberto Crivello_ chiamato Lamberto
con errore da altri. Tale dovea essere il di lui merito, che il collegio
de' cardinali appena dopo le esequie del defunto papa Lucio
s'accordarono in eleggerlo sommo pontefice. Prese egli il nome di
_Urbano III_, e continuò a governar come arcivescovo la chiesa di Milano
per tutto il tempo del suo pontificato, siccome han già concludentemente
provato il p. Pagi[2370] e il signor Sassi[2371]. Un de' motivi, per li
quali l'imperador Federigo andava rondando per l'Italia, quello era
eziandio di trattare il matrimonio di _Costanza_ figliuola postuma del
fu _re Ruggieri_ avolo di _Guglielmo II_ re di Sicilia, col _re Arrigo_
suo primogenito. Vedeva egli quel re senza successione, e bramoso di
unire il fioritissimo regno della Sicilia, che abbracciava ancora la
Puglia, la Calabria, Napoli e il principato di Capoa, si diede a far
maneggi nella corte di Sicilia per ottenere il suo intento. Vi si
trovarono delle difficoltà, ripugnando i consiglieri del re Guglielmo
all'unione di quegli Stati coll'imperio, e alla signoria de' Tedeschi,
il governo de' quali era assai screditato ne' tempi d'allora. Più ancora
par verisimile che segretamente si opponesse il romano pontefice, per
non trovarsi un dì fra le forbici e senza l'appoggio dei re di Sicilia,
stati in addietro difensori della Chiesa romana. Ma ebbe maniera
Federigo di guadagnar il punto. Abbiamo dall'Anonimo Casinense[2372] che
in questo anno fu conchiusa la pace fra esso Augusto e il re Guglielmo.
Fra i patti di quella pace vi dovette entrare il matrimonio suddetto, di
cui parleremo nell'anno prossimo seguente. Abbiamo anche dal suddetto
storico, da Niceta Coniate[2373], da Sicardo[2374] e dalla Cronica di
Fossanuova[2375] che il predetto Guglielmo II re di Sicilia, per
vendicarsi dei Greci che l'aveano molto prima beffato nel trattato di
matrimonio con una figliuola di _Manuello Comneno_ loro imperadore, e
per la loro barbarie contro de' Latini, animato ancora da _Alessio
Comneno_, che era ricorso a lui, spedì nel dì 11 di giugno una
potentissima flotta a' danni di _Andronico_ (tiranno allora regnante sul
trono di Costantinopoli) sotto il comando del conte Tancredi suo cugino.
S'impadronì questa armata nel dì 24 di giugno della città di Durazzo, e
nella festa di san Bartolommeo d'agosto, dell'insigne città di
Tessalonica, ossia di Salonichi. Conquistò molte altre città, castella e
rocche, le quali tutte giurarono fedeltà al re siciliano, le cui genti
commisero ogni sorta di crudeltà e sacrilegii in tale occasione. Ucciso
in questo mentre _Andronico_, succedutogli _Isacco Angelo_ nell'imperio,
non tardò ad inviare una poderosa flotta per fermar questi progressi; e
non finì la faccenda, che ebbero una rotta i Siciliani per terra; e
dipoi s'intavolò una pace fra loro, ma con frode, perchè gli uffiziali
del re Guglielmo traditi, furono condotti prigioni a Costantinopoli. Li
fece ben rilasciare Isacco; ma a buon conto egli ricuperò tutto il
perduto, e la flotta siciliana molto confusa se ne tornò a' suoi porti.

NOTE:

[2361] Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Episcop. Veronens.

[2362] Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. CIII.

[2363] Puricell., Monum. Basilic. Ambr.

[2364] Sigonius, de Regno Ital. lib. 15.

[2365] Villani, Istor. lib. 5, cap. 12.

[2366] Annales Senens., tom. 15 Rer. Ital.

[2367] Hieronymus Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.

[2368] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2369] Martin. Polonus, in Chron. Radulph. de Diceto et alii.

[2370] Pagius, in Crit. Baron.

[2371] Saxius, in Notis ad Sigon., de Regno Ital., lib. 6.

[2372] Anonymus Casinens., in Chron., tom. 5 Rer. Ital.

[2373] Niceta Choniates, in Histor.

[2374] Sicard., in Chron.

[2375] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.



    Anno di CRISTO MCLXXXVI. Indizione IV.

    URBANO III papa 2.
    FEDERIGO I re 35, imper. 32.
    ARRIGO VI re d'Italia 1.


Continuò anche _Urbano III_ papa la sua dimora in Verona: il che si
raccoglie dalle di lui lettere scritte in quella città nel dì 12 di
gennaio dell'anno presente, pubblicate dal cardinal Baronio[2376], e da
due bolle che si leggono nel Bollario casinense[2377]. Venne a Milano il
_re Arrigo_ primogenito dell'imperador _Federigo_, e colà parimente fu
condotta _Costanza_ zia di _Guglielmo II_ re di Sicilia, che si trovava
allora in età d'anni trentuno; nè mai fu monaca, come chiaramente
dimostrò il suddetto cardinal Baronio. Per attestato di Gotifredo da
Viterbo[2378], che con questo racconto dà fine alla sua Cronica, furono
celebrate le nozze di questi principi presso Milano nel palazzo contiguo
alla basilica di santo Ambrosio, con incredibil magnificenza e concorso
di nobiltà, e coll'assistenza dell'_imperador Federigo_ nel dì 27 di
gennaio. Gotifredo, monaco di san Pantaleone, lasciò scritto che esso
Augusto celebrò il santo Natale in Milano, e che _in octava Epiphaniae
nuptias filii sui opulentissime cum magna poene cunctorum procerum
frequentia apud Ticinum agit_[2379]. Ma merita qui più fede il suddetto
Gotifredo da Viterbo, perchè italiano, e perchè scrittore di cose da sè
vedute, che ciò riferisce avvenuto in Milano. Anche Sicardo
contemporaneo[2380], oltre ad Ottone da san Biagio[2381] e a Galvano
Fiamma[2382], asserisce lo stesso. E però molto meno è da ascoltare
Arnoldo da Lubeca, dove scrive che la solennità di quelle nozze fu data
_in confinio Papiensium et Mantuanorum_[2383]: che è un evidente errore
a chiunque sa che Pavia non confina con Mantova. Frate Francesco Pipino
dell'ordine dei predicatori aggiugne una particolarità, cioè che
l'imperador Federigo nel precedente anno _mense julio cum aliquot
Theutonicis et Lombardis perrexit Apuliam, accepturus filiam regis
Willielmi_ (dee dire _Rogerii_) _Constantiam nomine, Henrico filio suo
in uxorem_[2384]. Però probabile è che Federigo nell'anno addietro dalla
Toscana passasse ai confini del regno, detto oggidì di Napoli, per
trattar più da vicino della pace e delle nozze di Costanza col re
Guglielmo. Soggiugne il Pipino: _Pro cujus dote recepit ultra centum
quinquaginta somarios, auro, argento, palliis et aliis pretiosis
jocalibus onustos. Praefatam igitur Constantiam hyeme sequenti, de mense
scilicet februarii_ (januarii) _anno Incarnationis dominicae MCLXXXVI,
idem Henricus cum maximis solemnitatibus desponsavit uxorem, et ambos
idem imperator coronis regalibus insignivit._ Lo stesso vien confermato
dalla Cronica di Piacenza, sì per l'andata di Federigo verso la Puglia,
come ancora per la dote. _Et habuit ex ea plusquam CL equos oneratos
auro et argento, et samitorum, et palliorum, et grixiorum, et variorum,
et aliarum bonarum rerum_[2385]. Attesta anch'egli che Costanza passò
per Piacenza, _eundo Mediolanum, ubi dicto anno desponsata fuit per
dominum Henricum regem, et ipsi jugales ibi coronati fuerunt_. Il
medesimo abbiam dalla Cronica di Parma[2386]. E perciocchè i Cremonesi
non intervennero a quella suntuosa funzione, l'ebbe sì forte a male
Federigo, che, trovati dei pretesti, li mise al bando dell'imperio. Il
Sigonio[2387], seguitando un po' troppo confidentemente Galvano
Fiamma[2388], scrisse che nell'anno 1184 il re Arrigo ricevette la
corona ferrea in santo Ambrosio di Milano. Lo stesso Fiamma altrove,
cioè nella Cronica maggiore manoscritta, ci vien dicendo che Arrigo e
Costanza _fuerunt coronati in sancto Ambrosio et in Modoetia_.
All'incontro il cardinal Baronio[2389] e il Puricelli[2390] credono
seguita cotal coronazione nell'anno 1185. Ma s'imbrogliano poi tali ed
altri scrittori in assegnare l'arcivescovo di Milano che gli desse la
corona, adducendo alcuni _Algisio_, altri _Uberto_, ed altri _Milone_.

La verità si è, che il re Arrigo e Costanza sua moglie furono coronati
in quest'anno correndo il mese di gennaio, come si ricava dai sopra
allegati autori. Ascoltisi Rodolfo da Diceto[2391]: _Inter Henricum,_
dice egli, _regem teutonicum et Constantiam filiam Rogeri siculi regis,
amitam vero Guillielmi regis siculi, generi regis Anglorum, matrimonium
celebratum est: sexto kalendas februarii viennensis archiepiscopus
Fredericum imperatorem romanum Mediolani coronavit_: cioè colla corona
del regno di Borgogna. _Eodem in die aquilejensis patriarcha coronavit_
(cioè colla corona del regno d'Italia) _Henricum regem teutonicum, et ab
ea die vocatus est Caesar. Quidam episcopus teutonicus coronavit
Constantiam, amitam Willelmi regis siculi_ (cioè come regina della
Germania). _Haec acta sunt in monasterio sancti Ambrosii_, e non già in
Monza. All'arcivescovo di Milano apparteneva il dar la corona ferrea al
nuovo re d'Italia. E perciocchè allora papa Urbano III riteneva tuttavia
come arcivescovo quella chiesa, nè volle, per dissapori già insorti tra
lui e l'imperadore, intervenir a quella funzione, Gotifredo patriarca di
Aquileia, uomo arditissimo, e persona assai mondana, senza riguardo al
papa si usurpò quel diritto, e conferì al re Arrigo la corona del regno
d'Italia. Per questa sua prosunzione fu sì egli, come gli altri vescovi
assistenti a quella coronazione, sospeso dai divini uffizii da papa
Urbano. Ne abbiamo l'attestato presso l'autor della Cronica
acquicintina, che narrando le dissensioni nuovamente nate fra papa
Urbano e Federigo Augusto, così ne parla: _Praecipue quod patriarcha
aquilejensis, et quidam episcopi interfuerunt, absque consensu papae,
coronationi Henrici regis die quadam solemni in Italia: quos omnes papa
a divino suspendit officio_[2392]. Ci ha conservati Arnoldo da
Lubeca[2393] gli altri capi delle querele di papa Urbano contra di
Federigo imperadore. Lamentavasi in primo luogo ch'egli indebitamente
occupasse il patrimonio della contessa Matilda, da lei donato alla
Chiesa romana. Poscia che l'imperadore, venendo a morte qualche vescovo,
entrasse in possesso de' beni di quelle chiese, con fare lo spoglio in
danno intollerabile dei vescovi successori. In terzo luogo, che, col
pretesto di toglier le badesse scandalose, occupasse le rendite de'
monisteri, e non ne sostituisse altre di miglior professione. Eravi
anche lite per cagione del nuovo arcivescovo di Treveri, e per le decime
possedute od usurpate dai laici. Di più non ne dico per non diffondermi
troppo; ma si può ben credere che una delle cose che maggiormente
amareggiava l'animo del pontefice e de' cardinali, fossero le nozze di
Costanza col re Arrigo, ben conoscendo essi le mire di Federigo sopra un
regno spettante alla Chiesa romana, senza averne egli ricercato
l'assenso del sommo pontefice, e prevedendo i guai che ne poteano
venire, e che vennero in fatti all'Italia per questa alleanza.

Lo sdegno conceputo dall'imperador Federigo contra de' Cremonesi, e
maggiormente fomentato dai Milanesi, il condusse quest'anno ai loro
danni. Con tutte dunque le forze d'essi Milanesi, de' Piacentini,
Bresciani ed altri popoli, ostilmente passò nel territorio di Cremona
sul principio di giugno, prese varie terre e castella; e trovato
Castel-Manfredo, poco dianzi fabbricato da' Cremonesi, che facea
resistenza, ne intraprese l'assedio, e superatolo colla forza, lo
distrusse. Fu in tale occasione ch'egli concedette ai Milanesi varie
castella poste fra i fiumi Adda ed Oglio, cioè Rivolta, Casirate,
Agnanello ed altri. Il diploma di tal concessione, da me dato alla luce,
si vede scritto in quest'anno _in territorio cremonensi, in destructione
castri Meimfredi, quinto idus junii_[2394]. Veggendosi perciò a mal
partito i Cremonesi, cominciarono a trattar d'accordo, e a questo fine
spedirono all'imperadore un personaggio a lui noto, cioè _Sicardo_ loro
vescovo, il quale così efficacemente si adoperò, che rimise in grazia di
lui il suo popolo. Così ne parla nella sua Cronica lo stesso Sicardo:
_Anno Domini MCLXXXVI imperator quoddam castrum Cremonensium, quod
Manfredi nomine vocabatur, omnino destruxit. Sed auctore Domino
per meum ministerium facta est inter imperatorem et cives meos
reconciliatio_[2395]. Si truova dipoi Federigo nel dì 22 di giugno in
Varese, nobil terra del Milanese, dove concedette un privilegio alla
badia del Mezzano, pubblicato dal Campi[2396]. Dopo queste imprese
Federigo se ne tornò in Germania, e fece tosto conoscere il suo mal
talento contra di papa Urbano[2397] con far serrar tutte le vie
dell'Alpi, acciocchè niuno dalla Germania potesse venire in Italia alla
santa Sede. Aveva egli anche lasciato al figliuolo Arrigo il governo
dell'Italia, e speditolo coll'esercito alla volta di Roma, per
maggiormente angustiare il papa, sulla speranza di ridurlo ai suoi
voleri. Per quanto vo io conghietturando, andava Arrigo d'accordo col
senato romano; laonde portò la guerra unito con essi Romani alle terre
che tuttavia si mantenevano sotto l'ubbidienza del romano pontefice. Ed
ecco quanto breve durata ebbe la pace di Venezia. Scrive Giovanni da
Ceccano[2398] che esso re in quest'anno soggiogò tutta la Campania, cioè
quella che apparteneva al romano pontefice, fuorchè la rocca di Fumone;
e assediò castello Ferentino per nove giorni. Altri gran danni recò
l'armata sua a quelle parti; ed egli restituì Ceperano a Riccardo
Reberi. Aggiugne, che i Romani sul principio di dicembre passarono nella
stessa Campania, diedero alle fiamme Monte Lungo, e dopo varii saccheggi
se ne tornarono a casa. Che il re Arrigo facesse delle altre ostilità in
quelle parti, lo raccolgo da uno strumento altrove da me
pubblicato[2399]. Abbiamo anche dalla Cronica acquicintina[2400], che
incontratosi il re Arrigo in un famiglio del papa che portava a Verona
una buona somma di oro e d'argento, gli tolse tutto, e fecegli anche
tagliare il naso in disprezzo del papa. Intanto non bastò ai Cremonesi
di aver acconciati i loro interessi coll'imperador Federigo; vollero
similmente assicurarsi del sole nascente, cioè del medesimo re Arrigo.
Speditagli adunque una ambasceria, ottennero anche da lui pace. Lo
strumento fu scritto in quest'anno, _qui fuit sextus intrante mense
julii. Actum sub temptorio regis Henrici feliciter, quando erat in
obsidione Urbis Veteris_. Fra i testimoni si conta _Otto Frangenspanem
praefectus Romae_. Altri deciderà se qui si parli dell'assedio
d'Orvieto, oppure di Civita vecchia. Il Sigonio dice Orvieto, e a lui mi
attengo anch'io. Accennai di sopra che le appellazioni della marca di
Verona furono appoggiate ad _Obizzo marchese_ d'Este. In confermazione
di ciò ho prodotto altrove[2401] due sentenze date dal medesimo
marchese, l'una in quest'anno _die Mercurii, qui fuit quarto idus
decembris_, dove si truova _marchio Opizo, commissis nobis per
imperatorem appellationibus totius Paduae, atque ejus districtus,_ ec.;
e l'altra nell'anno seguente 1187, proferita in Este, nella quale si
legge: _Ego Opizo marchio de Hest, vicarius et nuncius domni imperatoris
Federici, ad audiendas causas appellationum Veronae, et ejus
districtus,_ ec. In passando il re Arrigo nel mese di giugno di
quest'anno per la Toscana, avea ricevuto in sua grazia i Sanesi, ma con
rigorose condizioni, come apparisce dallo strumento da me dato alla
luce[2402]. Ma dovette quel popolo ingegnarsi, e verisimilmente con quel
segreto che ha tanta forza nel mondo, per ricuperare i perduti diritti;
e però sul fine d'ottobre, mentre esso re dimorava in _Cesena, VIII
kalendas novembris, Indictione V,_ ottennero da lui un diploma grazioso,
che si può leggere nelle mie Antichità italiane[2403].

NOTE:

[2376] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[2377] Bullar. Casin., tom. 2, Constit. CCIV et CCV.

[2378] Godefridus Viterbiensis, in Chron.

[2379] Godefridus Monachus S. Pantal., in Annal.

[2380] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2381] Otto de S. Blasio, in Chron.

[2382] Gualvanus Flamm., in Manipul. Flor.

[2383] Arnol. Lubec., lib. 3, cap. 14.

[2384] Pipinus, Chron., cap. 2, tom. 9 Rer. Ital.

[2385] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2386] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[2387] Sigon., de Regno Ital., lib. 15.

[2388] Gualvanus Flamma, in Manipul. Flor.

[2389] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[2390] Puricell., Monum. Basilic. Ambros., n. 596.

[2391] Radulphus de Diceto, Imag. Histor.

[2392] Chron. Acquicinct. apud Pagium ad hunc annum.

[2393] Arnold. Lubec., Chron., lib. 3, cap. 16.

[2394] Antiquit. Italic., Dissert. XLVII.

[2395] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2396] Campi, Istor. di Piacenza.

[2397] Arnoldus Lubecensis, lib. 3, cap. 17.

[2398] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2399] Antiquit. Ital., Dissert. L.

[2400] Chron. Acquicinct. apud Pag.

[2401] Antichità Estensi, P. I.

[2402] Antiquit. Ital., Dissert. L.

[2403] Ibidem.



    Anno di CRISTO MCLXXXVII. Indizione V.

    GREGORIO VIII papa 1.
    CLEMENTE III papa 1.
    FEDERIGO I re 36, imper. 33.
    ARRIGO VI re d'Italia 2.


Fu segnato il presente infelicissimo anno colle lagrime di tutta la
cristianità. La santa città di Gerusalemme, che avrebbe dovuto ispirare
in tutti i suoi abitanti cristiani la divozione e il timore di Dio, già
era divenuta il teatro dell'ambizione, della incontinenza e degli altri
vizii che accompagnano il libertinaggio; e questi si miravano baldanzosi
fra quella gente. Però Dio volle finirla. Insorsero fra i principi delle
dissensioni a cagione del regno; e perchè non si mantenea la fede a
Saladino potentissimo sultano di Babilonia e dell'Egitto, nè agli altri
vicini[2404], esso Saladino con ismisurato esercito marciò alla volta
della Palestina. Rimasero sconfitti i Cristiani (e fu creduto per
tradimento di _Rinaldo principe_ di Montereale, e di _Raimondo conte_ di
Tripoli) con istrage di molti, e colla prigionia del re Guido, e di
moltissimi altri nobili, fra' quali si abbattè il vecchio _Guglielmo
marchese_ del Monferrato, che era andato alla visita de' luoghi santi,
ed anche per assistere al picciolo suo nipote. Cotal disgrazia si tirò
dietro la perdita di molte città. Dopo di che Saladino condusse l'armata
terrestre e marittima sopra l'importante città di Tiro, e ne formò
l'assedio. Era perduta quella nobil città, se per avventura _Corrado_
figliuolo del suddetto marchese Guglielmo, venendo da Costantinopoli per
andare ai luoghi santi, intesa la perdita di Tiberiade, ossia di Accon,
voltata vela, non fosse qualche tempo prima approdato ad essa città di
Tiro, dove da quel popolo ricevuto come angelo di Dio, fu eletto per
loro signore. Guidò Saladino sotto quella città il vecchio marchese suo
prigione, esibendone la libertà a Corrado, se gli rendeva la terra:
altrimente minacciandone la morte, se non accettava l'offerta. Nulla si
mosse il marchese Corrado; anzi rispose ch'egli sarebbe il primo a
saettare il padre, se Saladino l'avesse esposto per impedir la difesa.
La costanza di questo principe fece mutar pensiero a Saladino, che niun
danno per questo inferì al vecchio marchese. Non amando poi egli di
consumare il tempo sotto una città sì dura, con perdere il frutto della
vittoria, rivolse l'armata contro le città circonvicine a Gerusalemme; e
impadronitosene, obbligò infine alla resa la santa città nel dì 2 di
ottobre: colpo che riempiè d'incredibil dolore tutti quanti i fedeli.
Tornò poscia il vittorioso Saladino all'assedio di Tiro nel mese di
novembre. Avea il valoroso marchese Corrado nei giorni addietro
coll'aiuto de' Pisani battuta due volte la flotta nemica, prese ancora
alcune lor galee e navi nel porto di Accon, provveduta la città di
viveri, e fabbricato un forte barbacane. Caddero, il dì innanzi che
arrivasse Saladino, quaranta braccia di questo muro: il che atterrì
sommamente il popolo cristiano, ma non già l'intrepido marchese Corrado,
che, impiegati uomini e donne, riparò in un dì quel danno. Fatte poi
vestire da uomo le donne, e messele sulle mura, inviò i Pisani di nuovo
ad Accon, da dove condussero due navi cariche di vettovaglie. E questi
medesimi da lì a non molto presero cinque altre galee nemiche piene di
gente e di viveri. Per queste perdite arrabbiato Saladino, fece dei
mirabili sforzi contra del barbacane, adoperando assalti e quante
macchine di guerra erano allora in uso, con gran perdita de' suoi, e
lieve degli assediati. E perciocchè ai Pisani venne fatto, inseguendo
nove galee della flotta infedele, di pressarle di maniera che i Barbari
attaccarono ad esse il fuoco, Saladino, che avea perduta molta gente,
trovandosi anche sprovveduto di aiuto per mare, finalmente nell'ultimo
giorno di decembre, oppure nel dì primo del seguente gennaio, dopo aver
bruciate tutte le macchine, si ritirò pieno di dispetto dalla città di
Tiro. In segno ancora del suo dolore fece tagliar la coda al proprio
cavallo, per incitare in questa maniera i suoi alla vendetta. Di qui
probabilmente ebbe principio il rito de' Turchi di appendere allo
stendardo loro la coda del cavallo per segno di guerra. Distesamente
parla di questi fatti Bernardo Tesoriere, la cui Storia ho dato alla
luce, oltre a molti altri scrittori, che un lacrimevol racconto
lasciarono di questi infelici successi de' Latini in Oriente. Di tante
conquiste tre sole città restarono in lor potere, cioè Antiochia, Tiro e
Tripoli.

Andavano intanto maggiormente crescendo i dissapori fra _papa Urbano
III_ e l'_imperador Federigo_; e quantunque il pontefice, il quale nel
dì 4 di giugno, stando in essa città di Verona, diede una bolla in favor
delle monache di santa Eufemia di Modena[2405], si vedesse in molte
strettezze, perchè dall'un canto Federigo avea serrati i passi fra la
Germania e l'Italia, e teneva come in pugno tutta la Lombardia e la
Romagna, e dell'altro gli Stati della Chiesa romana erano malmenati dal
giovane re Arrigo; tuttavia, come personaggio di gran cuore e zelo,
prese la risoluzione di usar l'armi spirituali contra di Federigo[2406].
Citollo nelle debite forme; ma quando fu per fulminare la scomunica, i
Veronesi, con rappresentargli che erano servi ed amici dell'imperadore,
il pregarono di non voler nella loro città far questo passo, che avrebbe
fatto grande strepito, e cagionato loro dei gravi disturbi. Il perchè
Urbano si partì di Verona, ed incamminossi alla volta di Ferrara, con
pensiero d'effettuar ivi il suo disegno. Gervasio Tiberiense[2407]
all'incontro scrive che s'era intavolato, anzi sottoscritto un accordo
fra esso papa e Federigo: dopo di che Urbano sen venne a Ferrara. Lo
stesso abbiamo dal Cronografo Sassone. Comunque sia, appena giunto il
pontefice in quella città, quivi caduto infermo, passò a miglior vita
nel dì 19 d'ottobre. Dopo avergli per sette giorni il popolo ferrarese
fatte solenni esequie, gli diede sepoltura nella cattedrale. Buona parte
degli storici[2408], copiando l'un l'altro, lasciarono scritto che il
buon pontefice Urbano, pervenutagli la dolorosa nuova della perdita di
Gerusalemme, non potendo reggere all'afflizione, mancò di vita.
Difficile è ben da credere che in sì poco tempo fosse portato a Ferrara
quel funestissimo avviso. Se egli morì d'affanno, come vien preteso,
dovette piuttosto essere per la notizia ricevuta della rotta
precedentemente data da Saladino ai cristiani, e della presa di varie
città, e dell'assedio di Tiro. Dopo la sepoltura del defunto papa
Urbano, fu in suo luogo assunto al pontificato _Alberto cardinale_ di
san Lorenzo in Lucina, cancelliere della santa romana Chiesa, che prese
il nome di _Gregorio VIII_. Non tardò questo pontefice, lodatissimo da
tutti gli scrittori, a spedir lettere circolari a tutta la cristianità,
che si leggono presso Ruggieri Hovedeno[2409], e son anche riferite dal
cardinal Baronio[2410]. In esse caldamente esorta tutti i fedeli al
soccorso di Terra santa, con prescrivere ancora digiuni e preghiere per
placare l'ira di Dio. Una lettera di questo pontefice ad Arrigo, _regi
electo Romanorum imperatori_, pubblicata dal Leibnizio[2411], per
provare usato fin allora il titolo d'imperadore eletto, non può stare,
perchè contraria all'uso di que' tempi. Leggonsi ancora presso
l'Ughelli[2412] i privilegii e le esenzioni concedute nell'ottobre
dell'anno presente da _Corrado marchese_, che s'intitola _figliuolo del
marchese di Monferrato_, ai Pisani, pel soccorso a lui dato nella difesa
di Tiro. Per attestato degli Annali Genovesi[2413], scrisse il medesimo
Corrado lettere all'imperadore, e ai re di Francia, Inghilterra e
Sicilia, implorando aiuto per gli urgenti bisogni della cristianità in
Levante. Verisimilmente venne nel dì 10 di dicembre a Pisa il nuovo papa
_Gregorio VIII_, appunto per muovere quel popolo e i Genovesi a far
maggiori sforzi per sostenere la cadente fortuna de' cristiani latini in
Levante. Ma Iddio dispose altrimenti; imperciocchè questo pontefice,
degnissimo di lunga vita per le sue rare virtù, infermatosi in essa
città di Pisa, fu chiamato da Dio ad un miglior paese nel dì 17 del mese
suddetto, e fu seppellito il sacro suo corpo in quella cattedrale. Che
vacasse la cattedra di san Pietro venti giorni, onde solamente nel
gennaio dell'anno seguente fosse eletto il di lui successore, lo
credettero il Sigonio, il Panvinio, il Baronio ed altri. Ma, secondo le
pruove recate dal padre Pagi[2414], l'elezione di un altro pontefice
seguì nel dì 19 del suddetto dicembre. Nelle Croniche Pisane[2415] è
scritto: _XIV kalendas ejusdem mensis cardinalis Paulus praenestinus
episcopus in eadem Ecclesia majori pontifex summus est electus, levatus
ab hospitio sancti Pauli de Ripa Arni, et largiente Domino Clemens III
vocatus est_. Sicchè fu eletto papa e consecrato _Paolo cardinale_ e
vescovo di Palestrina, di nazione Romano, che si fece chiamare _Clemente
III_.

Ho detto di sopra che l'ottimo _papa Gregorio VIII_ si portò a Pisa per
incitar non meno quel popolo che l'altro di Genova all'aiuto di Terra
santa; ma ho detto poco. Fu di mestieri il mettere prima pace fra quelle
due nazioni, giacchè di nuovo s'era accesa la guerra fra esse. Abbiamo
dai continuatori degli Annali Genovesi di Caffaro[2416] che in
quest'anno i Pisani, contravvenendo ai trattati e giuramenti della pace,
con un'armata passarono in Sardegna, dove spogliarono e cacciarono da
tutto il giudicato di Cagliari quanti mercatanti genovesi trovarono in
quelle parti. All'avviso della rotta pace, allestirono immediatamente i
Genovesi un potente esercito per passare a Porto Pisano, quand'ecco
comparire a Genova una lettera del _re Arrigo_, che i Pisani aveano
segretamente procacciata al bisogno. In essa pregava il re i Genovesi di
desistere per amor suo dall'offesa de' Pisani; e però si disarmò la
preparata flotta, a riserva di dieci galee, che, passate in Sardegna,
infestarono non poco i Pisani, e preso il castello di Bonifazio,
fabbricato da essi Pisani, lo distrussero da' fondamenti. Bernardo di
Guidone[2417] ed altri scrivono che la pace fra questi due popoli fu
maneggiata e conchiusa dal suddetto papa Gregorio VIII. Ma di ciò nulla
ha il continuatore de' suddetti Annali di Genova, che pur era
contemporaneo. Sul fine di quest'anno, o sul principio del seguente,
come ha dimostrato il signor Sassi[2418], arcivescovo di Milano fu
eletto _Milone_ da Cardano vescovo di Torino, e Milanese di patria. E,
se vogliam credere a Galvano Fiamma[2419], l'anno fu questo, in cui il
popolo di Milano elesse per suo primo podestà Uberto de' Visconti di
Piacenza. Nè vo' lasciar di dire una particolarità a noi conservata da
Bernardo Tesoriere[2420]: cioè che alcune migliaia di cristiani cacciati
da Gerusalemme pervennero ad Alessandria d'Egitto, e quivi svernarono
sino al marzo dell'anno seguente, trattati con assai carità ed
ospitalità da que' Saraceni. Arrivarono in quel mese trentasei navi di
Pisani, Genovesi e Veneziani, che imbarcarono quanti cristiani poteano
pagare il nolo. Essendo restato in terra un migliaio di essi, il
governator saraceno volle saperne la cagione, e inteso che era perchè
non aveano di che pagare, fece una severa parlata a que' capitani di
navi per la poca lor carità verso de' cristiani loro fratelli, con
vergogna del nome cristiano, quando Saladino ed egli stesso gli aveano
trattati tutti con tanta amorevolezza e clemenza. E perchè non perisse
quella povera gente, e non divenisse schiava, volle che la ricevessero
nelle navi, e la trasportassero in Italia, con dar loro di sua borsa
tanto biscotto ed acqua dolce, quanto potea bastare pel viaggio. Tutti
raccontano che Saladino più de' cristiani medesimi era misericordioso
verso de' poveri cristiani. Sicchè i più de' nostri non per motivo
alcuno di religione, ma per sete di guadagno, e per vivere più
liberamente, usavano in quei tempi di andare in Terra santa. Nè si vuol
tacere che l'ingrandimento e la ricchezza de' Pisani e Genovesi s'ha in
parte da attribuire alle caravane de' pellegrini che le lor navi
conducevano e riconducevano da que' paesi, con ricavarne un buon nolo,
ed occupar la roba di chi moriva nel viaggio. Molti privilegii,
esenzioni e diritti accordati circa questi tempi al popolo pisano dai re
di Gerusalemme, dal principe d'Antiochia, dal conte di Tripoli, dal
principe di Tiro e da altri principi cristiani di Levante si possono
leggere nelle mie Antichità italiane[2421].

NOTE:

[2404] Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Italic. Bernard. Thesaurar.,
Histor., tom. 7 Rer. Ital. Guillelm. Nangius, in Chron. Chron.
Acquicinct. apud Pagium. Chron. Reicherspergense.

[2405] Antiquit. Italic., Dissert. XXVI.

[2406] Arnold. Lubec., lib. 3, cap. 18.

[2407] Gervas. Tiberiens., in Chron.

[2408] Hugo Antissiodor. Ptolomaeus Lucensis, Neubrig. et alii.

[2409] Rogerius Hovedenus, in Annalib.

[2410] Baron., in Annal. Eccl.

[2411] Leibnitius, Prodr. ad Cod. Jur. Gent.

[2412] Ughell., Ital. Sacr., tom. 3 in Episcop. Pisan.

[2413] Annal. Genuens., lib. 5, tom. 6 Rer. Ital.

[2414] Pagius, in Critic. ad Annal. Baron.

[2415] Chron. Pisan., apud Ughellium, tom. 3 Ital. Sacr.

[2416] Annal. Genuens., lib. 3.

[2417] Bernardus Guidonis, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[2418] Saxius, in Not. ad Sigon. de Regno Ital.

[2419] Gualvanus Fiamma, in Manip. Fior.

[2420] Bernard. Thesaurar., Chron., cap. 165.

[2421] Antiquit. Ital., Dissert. XXX, p. 907 et seq.



    Anno di CRISTO MCLXXXVIII. Indiz. VI.

    CLEMENTE III papa 2.
    FEDERIGO I re 37, imper. 34.
    ARRIGO VI re d'Italia 3.


Le calamità di Terra santa quelle furono che quetarono in questi tempi
le differenze pullulate di nuovo fra i sommi pontefici e l'imperador
Federigo. Cessarono le ostilità per molti anni continuate fra il re
d'Ungheria e i Veneziani a cagion della Dalmazia. Si fece anche pace fra
i re di Francia e d'Inghilterra. In somma la religione, che tante volte
s'è veduta sotto i piedi dell'ambizione dei principi, questa volta restò
in molti paesi al disopra: tanto rimasero sbalorditi e compunti i
sovrani d'allora per la miserabil perdita di Gerusalemme, e per gli
immensi progressi di Saladino. D'altro allora non si parlava se non di
queste disavventure, e del loro rimedio. Aveva il pontefice _Clemente
III_, siccome quegli a cui più che ad ogni altro stava a cuore il
sussidio di Terra santa, spediti alle corti di tutti i principi della
cristianità varii cardinali legati per promuovere questo importante
affare[2422]. Comparvero due d'essi alla dieta generale tenuta
dall'_imperador Federigo_ in Magonza verso la metà della quaresima; e
perorarono così forte a nome del papa, che lo stesso Federigo Augusto
prese la risoluzione di andar egli in persona alla testa di una armata
in Levante. Già la pace regnava in Italia e Germania; lieve non era la
soma de' peccati di questo imperadore, de' quali bramava egli di far
penitenza con sagrificare il resto de' cadenti suoi giorni alla difesa
del cristianesimo. Vi entrò anche il desiderio della gloria, perchè egli
andando si teneva in pugno la liberazion di Terra santa. Però prese la
croce egli, e coll'esempio suo trasse alla risoluzion medesima _Federigo
duca_ di Suevia suo figliuolo, e una gran quantità di vescovi e
principi. Fu dunque intimata la spedizione nell'anno prossimo venturo, e
che intanto ognun si preparasse. Grandi guerre addietro erano state tra
_Filippo re_ di Francia ed _Arrigo re_ d'Inghilterra. Guglielmo
arcivescovo di Tiro, spedito dal papa, ed altri legati pontificii non
solamente condussero que' due monarchi alla pace, ma gl'indussero ancora
a prender la croce, e a promettere di passare in persona colle lor forze
in Terra santa. Predicata parimente la crociata per tutte le altre
provincie della cristianità, commosse i popoli alla sacra impresa. I
primi a portar colà dei soccorsi furono gl'Italiani, chiamati
dall'Abbate Urspergense _homines bellicosi, discreti, et regula
sobrietatis modesti, prodigalitatis expertes, parcentes expensis, quum
necessitas non incubuerit, et qui inter omnes gentes soli scripta legum
sanctione reguntur_. Sotto nome d'Italiani sono qui compresi i
Veneziani, i Lombardi, i Toscani e gli altri popoli di qua dal regno di
Napoli. Imperciocchè quanto a _Guglielmo II_ re di Sicilia e di Puglia,
spedì egli una flotta di dugento vele in soccorso della città di
Tiro[2423], che unita a quella di _Corrado marchese_ di Monferrato
liberò Tripoli dall'assedio di Saladino. Ma Sicardo[2424] con poca lode
parla de' Siciliani. Essendo stato in questo mentre rimesso in libertà
_Guido re_ di Gerusalemme da Saladino con varii nobili dianzi suoi
prigionieri, egli si animò a nuove imprese, giacchè gli giunse in
soccorso una flotta numerosa di Veneziani, sopra la quale era anche
l'arcivescovo di Ravenna _Gherardo_ col vescovo di Faenza. A questo,
secondo alcuni, s'unì l'altra de' Pisani, che era condotta dal loro
arcivescovo _Ubaldo_. Imperocchè allo zelantissimo papa Clemente III
riuscì in questo anno, col mezzo di due cardinali deputati, di rimettere
la pace fra essi Pisani e i Genovesi, come costa da una sua bolla
pubblicala dal Tronci[2425].

Ora il re Guido con questo possente rinforzo deliberò di far l'assedio
di Tolemaide, ossia di Accon, importante città marittima. Non giunse
però la flotta pisana, secondo il suddetto Sicardo, alla città di Tiro,
se non nell'anno seguente. In questo sì, trovandosi Tiro senza
vettovaglie, l'indefesso _marchese Corrado_ inviò la sua flotta navale
ad Azoto. Presa fu quella terra dai cristiani, fatto prigione
l'ammiraglio di Saladino con cinquecento soldati, liberati molti fedeli
dalla schiavitù. Ricco bottino e abbondanza di viveri fu riportata da
quelle vittoriose navi a Tiro, e Corrado col cambio di quell'ammiraglio
riebbe in libertà il _marchese Guglielmo_ suo padre. Perchè il mio
argomento nol richiede, non mi stenderò io molto a narrar quelle
strepitose avventure, bastandomi di solamente accennarle. A chi più ne
desidera, non mancano libri che diffusamente trattano dalla guerra
sacra. Mandò intanto l'imperadore Federigo in Levante a Saladino il
conte Arrigo di Dedi con lettere, nelle quali gl'intimava la restituzion
di Gerusalemme[2426]: altrimenti lo sfidava. Saladino se ne rise, e
seguitò a fare il fatto suo, con impadronirsi in quest'anno di varie
altre città. Con tutte le disgrazie di Terra santa non si calmarono in
quest'anno le discordie tra i Piacentini e Parmigiani[2427]. Vennero
questi due popoli ad un fatto d'armi, in cui restarono sconfitti i
Parmigiani col _marchese Maroello_ Malaspina in valle di Taro. Ma
rinforzati dipoi i Parmigiani dai Cremonesi, Modenesi e Reggiani,
andarono all'assedio della torre di Seno e di Castelnuovo, e dopo tre
giorni impadronitisi di quelle castella, le diruparono. Mosse intanto
parola di pace col senato romano il pontefice Clemente; e siccome egli
era lor concittadino, e i guai del cristianesimo venivano allora uditi
come una gran predica dell'ira di Dio; così trovò quel popolo disposto
all'accordo. Leggesi presso il cardinal Baronio[2428], e più compiuto
nelle mie Antichità italiche[2429], lo strumento della concordia
stabilita fra esso papa e i Romani nell'ultimo dì di maggio, ove si
veggono restituite al pontefice romano tutte le regalie, ma con aver
egli sacrificato allo sdegno implacabile de' Romani la città di Tuscolo
troppo vicina a Roma, ed anche Tivoli, con aver conservato il medesimo
senato, e accordate ad esso varie prerogative. Nulladimeno prima del
suddetto strumento papa Clemente era venuto a Roma, ricavandosi ciò da
una sua lettera scritta a _Guglielmo re_ di Scozia, e riferita dallo
stesso Baronio, come data _Laterani tertio idus martii, pontificatus
nostri anno primo_. Una sua bolla ancora s'ha nel Bollario Casinense,
data _XVI calendas junii, Indictione VI, pontificatus anno primo_[2430].
Era stato spedito in Germania dai Cremonesi _Sicardo_ lor vescovo[2431]
per impetrare la licenza di rifabbricare Castel-Manfredo. Senza poterla
ottenere se ne ritornò. In sua vece i Cremonesi fondarono Castel-Leone,
ossia Castiglione.

NOTE:

[2422] Abbas Urspergens., in Chron. Otto de Sancto Blasio, in Chron.
Chronograph. Saxo, Godefrid. Monachus et alii.

[2423] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2424] Bernard. Thesaurar., Hist., cap. 170.

[2425] Tronci, Annal. Pisan.

[2426] Roger. Hovedenus, in Chron.

[2427] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2428] Baron., in Annalib. ad hunc annum.

[2429] Antiquit. Ital., Dissert. XLII, pag. 783.

[2430] Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. CCVII.

[2431] Sicard., in Chron.



    Anno di CRISTO MCLXXXIX. Indiz. VII.

    CLEMENTE III papa 3.
    FEDERIGO I re 38, imper. 35.
    ARRIGO VI re d'Italia 4.


Nella festa di san Giorgio di questo anno, cioè nel dì 23 d'aprile,
_Federigo imperadore_ diede principio alla sua spedizion verso Oriente,
conducendo seco il suo figlio _Federigo_ (e non già Corrado, come pensò
il padre Pagi) duca di Suevia, con assaissimi altri principi, e circa
trenta mila cavalli, oltre alla fanteria. Arnoldo da Lubeca[2432] fa qui
una sparata grande, con dire, che giunto Federigo al fine dell'Ungheria,
si trovò avere un esercito di cinquanta mila cavalli, e di altri cento
mila combattenti. Sicardo[2433] non gli dà se non novanta mila soldati,
fra' quali dodici mila cavalli. Passò Federigo per l'Ungheria, ben
accolto da quel re e dalla regina sua moglie, e sofferti molti incomodi
per la Bulgheria, poi s'inoltrò verso la Romania. Avendo conceputo dei
sinistri sospetti di questa poderosa armata _Isacco Angelo_ imperador
de' Greci, fra il quale ancora, se vogliam credere ad alcuni autori, e
Saladino sultano de' Saraceni passava stretta intelligenza ed amicizia,
trattenne e maltrattò il vescovo di Munster e il conte di Nassau,
ambasciatori a lui inviati; e spedì soldatesche per impedire il
passaggio di Federigo Augusto, il cui figliuolo Federigo, principe di
raro valore, sbaragliò chiunque se gli oppose. Diede per questo l'armata
tedesca il sacco dovunque passò; ma finalmente lasciati in libertà gli
ambasciatori, e dati dal greco imperadore gli ostaggi richiesti, si
quetò il rumore. Furono nondimeno cagione cotali sconcerti che l'armata
imperiale dovette svernare in Grecia, ma senza mai fidarsi de' Greci,
che sotto mano manipolavano la rovina de' Latini. Se lo imperador
Federigo non veniva dissuaso da' suoi principi, voleva ben egli farne
vendetta con mettere l'assedio a Costantinopoli. Erasi intanto riaccesa
la guerra tra _Filippo re_ di Francia ed _Arrigo re_ di
Inghilterra[2434]. Tanto si adoperarono allora _Giovanni_ da Anagni
cardinale legato della santa Sede, e varii arcivescovi e vescovi, che in
fine si ristabilì nella vigilia di san Pietro la pace fra loro: laonde
cominciarono a prepararsi per compiere il voto di Terra santa. Ma venuto
a morte da lì a poco il re Arrigo, a lui succedette nel regno _Riccardo_
già duca d'Aquitania, suo primogenito, il qual poscia prese l'impegno
d'eseguir ciò che il re suo padre, prevenuto dalla morte, avea lasciato
imperfetto. Essendo già concorsa a Tiro da tutte le parti d'Italia una
tal copia di combattenti, che non potea più capire in Tiro, e nascendo
ogni dì dei disordini, _Guido re_ di Gerusalemme condusse questo popolo
all'assedio di Tolemaide, ossia di Accon, o di Acri, a cui fu dato
principio nel mese d'agosto. Sicardo scrive che v'intervenne coi Pisani
il loro arcivescovo, legato apostolico, e vi arrivò anche una
grossissima nave fabbricata dai Cremonesi, e ben armata di loro gente.
Giunservi ancora molti legni de' Genovesi[2435] con buona copia di
combattenti, desiderosi di segnalarsi in quelle contrade per la fede
cristiana. Ma non andò molto che l'esercito de' fedeli mutò faccia,
perchè di assediante divenne assediato. Colà accorse Saladino con una
formidabil armata, e piantò il campo contra de' cristiani, i quali
perciò si trovarono ristretti fra la città e il nemico esercito, e in un
miserabile stato. Evidente si scorgeva il pericolo di restar quivi tutti
vittima delle sciable nemiche: sì picciolo era il numero loro in
confronto dell'innumerabil oste de' Saraceni[2436], se non che
all'improvviso comparvero dalla Frisia e dalla Danimarca cinquanta
vascelli, e trentasette dalla Fiandra, che sbarcarono un buon rinforzo
di gente e di viveri, e rincorarono a maraviglia il campo cristiano, il
quale seguitò costantemente a tenere il suo posto, ancorchè ogni dì
convenisse aver l'armi in mano, e difendere dagli assalti nemici le
linee e i trincieramenti, coi quali s'erano fortificati.

Perchè intanto durava in Lombardia la guerra fra i Piacentini e
Parmigiani[2437], _Pietro_ e _Siffredo_ cardinali legati della santa
Sede s'interposero, e fecero seguir pace tra loro, compresovi il
marchese Malaspina. Una terribil mutazione di cose accadde nel presente
anno in Sicilia, che riuscì anche di sommo danno all'Italia tutta e
all'armi cristiane in Levante. Nel dì 16 di novembre[2438] venne a morte
_Guglielmo II_ re di Sicilia, soprannominato il Buono, in età di soli
trentasei anni, principe pio, principe glorioso, e padre de' suoi
popoli, i quali perciò in dirotti pianti si sciolsero, non tanto per la
perdita del bene presente, quanto per la previsione de' mali avvenire,
perch'egli non lasciava dopo di sè prole alcuna. Secondo le promesse e i
patti del matrimonio di _Costanza con Arrigo VI re_ di Germania e
d'Italia, dovea succedere nel regno essa Costanza. Scrive ancora il
Cronografo Acquicintino[2439] che Guglielmo prima di morire dichiarò suo
figliuolo ed erede il medesimo re Arrigo. Ma si sa dall'Anonimo
Casinense[2440] ch'egli morì senza far testamento. Certo non è da
mettere in dubbio che Costanza fosse stata dinanzi riconosciuta per
erede presuntiva di quella corona, mentre sappiamo che lo stesso
Tancredi, a cui toccò il regno, avea con altri giurata fedeltà alla
medesima regina Costanza. Ma i Siciliani abborrivano di andar sotto di
principe straniero, che, per cagion degli altri suoi Stati, poteva
trasportare altrove la corte. Apprendevano ancora come duro e barbarico
il governo dei Tedeschi d'allora; nè s'ingannavano. Però somma fu la
confusione di que' vescovi, conti e ministri in tal congiuntura. Scrive
il suddetto Anonimo che dopo la morte del re vennero alle mani i
cristiani coi Saraceni abitanti in Palermo (e ve n'era ben qualche
migliaio), in guisa che degli ultimi fu fatta grande strage, e il resto
venne obbligato a ritirarsi ad abitar nelle montagne. Il perchè non si
sa. Trovavasi in grave perplessità quella corte, e convocato il
parlamento de' baroni, _Gualtieri arcivescovo_ di Palermo, per cui opera
erano seguite le nozze di Costanza con Arrigo, sostenne il loro
partito[2441]. Ma il gran cancelliere Matteo da Salerno prevalse
coll'altro, il quale, giacchè vi restava un rampollo maschio de'
principi normanni, a questo credea dovuta la corona, per benefizio
ancora del regno. Vi si aggiunse ancora l'autorità e il maneggio, se non
palese, almeno segreto della corte di Roma, affinchè non si unissero
quegli Stati in chi era re d'Italia e doveva essere imperadore; e tanto
più vi s'interessò il pontefice, dacchè senza riguardo della sua
sovranità altri volea disporre di quel regno. Fu dunque spedita gente a
Lecce a chiamar _Tancredi conte_ di quel paese, col notificargli la
risoluzione presa di volerlo per re. Era Tancredi figliuolo di _Ruggieri
duca_ di Puglia, cioè del primogenito del re Ruggieri, ma nato fuor di
matrimonio da una nobil donzella, che molti nondimeno crederono sposata
da lui. Sotto il re Guglielmo fu detenuto prigione. Fuggitone si
ricoverò in Costantinopoli. Dopo la morte d'esso re zio se ne tornò in
Puglia, ben veduto dal re _Guglielmo II_ suo cugino, la cui morte aprì a
lui l'adito alla corona. E n'era degno per le sue belle qualità, perchè
signore d'animo sublime e di molta prudenza[2442], e che alle virtù
politiche accoppiava ancora un amor distinto alle lettere, e sapeva
anche le matematiche, l'astronomia e la musica: cosa rara in questi
tempi. Ma al di lui merito mal corrispose la fortuna, siccome vedremo.

NOTE:

[2432] Arnold. Lubec., lib. 3, cap. 29. Chron. Reicherspergense.

[2433] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2434] Radulph. de Diceto, Imag. Histor.

[2435] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Ital.

[2436] Bernardus Thesaur., Hist., cap. 171.

[2437] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2438] Richardus de S. Germano.

[2439] Chron. Acquicinctinum apud Pag.

[2440] Anonymus Casinens., in Chron., tom. 5 Rer. Italic.

[2441] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2442] Hugo Falcandus, in Chron.



    Anno di CRISTO MCXC. Indizione VIII.

    CLEMENTE III papa 4.
    ARRIGO VI re di Germania e d'Italia 5.


Venuta la primavera, l'_imperador Federigo_ rimise in viaggio l'esercito
suo, ed arrivato a Gallipoli[2443], trovò quivi un'immensa quantità di
legni piccioli e grandi, preparati, affinchè potesse passar
l'Ellesponto, dall'imperador greco, premuroso di levarsi d'addosso
un'armata sì potente, che il teneva in continue gelosie e timori. Verso
il fine di marzo valicò essa armata lo stretto in cinque giorni. Tenne
la vanguardia Federigo duca di Suevia, la retroguardia l'Augusto
Federigo suo padre. Di gravi incomodi cominciò a patire questo esercito;
passato che fu in Asia, per le segrete mine dei Greci; ma peggio
avvenne, allorchè giunse nelle terre de' Turchi e del sultano d'Iconio,
perchè mancavano i viveri per gli uomini e per li cavalli; e scopertasi
nemica quella gente, non passava giorno che non si avesse a combattere.
Arrivarono ad Iconio, nè potendo aver per danari vettovaglia, ordinò
Federigo che si espugnasse quella città: il che fu eseguito con
incredibil bravura e strage de' Turchi. Rifugiossi il sultano nel
castello, e si ridusse allora a dar dei viveri, benchè a caro prezzo. Di
là passò l'imperadore in Armenia, dove trovò buona accoglienza e miglior
mercato. Arrivato poscia al fiume Salef, che scorre per deliziose
campagne, essendo il caldo grande, volle _Federigo_ bagnarsi in
quell'acque, ma in esse sventuratamente lasciò la vita, chi dice, perchè
annegato nuotando, e chi perchè il soverchio freddo dell'acqua
l'intirizzì laonde dopo poche ore mancò di vita. Succedette la morte sua
nel dì 10 di giugno. Altri scrivono nel dì 12, ma senza fondamento,
perchè fu in domenica, e questa cadde nel dì 10 suddetto. Non può
negarsi: uno de' più gloriosi principi che abbiano governato l'imperio
romano fu _Federigo I Barbarossa_, alle cui lodi, espresse da varii
autori, nulla ho io da aggiugnere. Non mancarono già fra molte sue virtù
moltissimi vizii e difetti considerabili, tali ancora che la memoria di
lui resterà sempre in abbominazione presso degli Italiani. Ma non si può
negare, egli almeno coll'ultima sua piissima risoluzione compiè la
carriera del suo vivere gloriosamente, e con dispiacere universale,
perchè niuno era più a proposito di lui per umiliar la fortuna di
Saladino: tanto era il suo valore e il suo credito anche in Oriente. Il
duca _Federigo_ suo figliuolo, valorosissimo principe[2444], prese il
comando dell'armata rimasta in una grave costernazione; la condusse fino
ad Antiochia, dove per l'intemperanza del vivere quasi tutta perì, in
maniera che egli giunse con pochi all'assedio di Accon, ed ivi terminò
anch'egli la vita nel principio dell'anno seguente. Seguitava intanto
l'assedio di Accon, assedio de' più famosi che mai si sieno intesi, e vi
succederono varii fatti d'armi, tutti degni di storia, ma non
convenevoli alla mia, che ha altra mira. A me basterà di accennare
qualmente in una giornata campale, che i cristiani vollero azzardare,
restarono sconfitti dall'esercito di Saladino; e che ciò non ostante
continuarono essi a ristringere quella città, tuttochè bloccati da
Saladino. Entrata la carestia nel campo cristiano, cagione fu che ne
perissero ben sette mila. Giunse anche una flotta saracena nel porto di
Accon, che ridusse a maggiori angustie l'accampamento de' cristiani; ma
il valoroso marchese di Monferrato _Corrado_, portatosi a Tiro, e
tornato con uno stuolo di navi, prese i legni nemici carichi di
vettovaglie, che servirono al bisogno de' cristiani. Tuttavia disperati
pareano questi affari, quando nell'anno seguente giunsero colà i re di
Francia e d'Inghilterra, che fecero mutar faccia alle cose, siccome
diremo.

Intanto è da sapere che questi due monarchi avendo preparata cadauno una
gran flotta, coll'accompagnamento d'assaissimi principi, fecero vela
verso l'Oriente. Abbiamo dal continuatore di Caffaro[2445] che _Filippo
Augusto re_ di Francia arrivò nel dì primo d'agosto in Genova. Colà
parimente nel dì 13 d'esso mese giunse _Riccardo re_ d'Inghilterra, il
quale, dopo essersi abboccato col re Filippo, continuò tosto il suo
viaggio. Sul fine d'esso mese approdarono amendue a Messina, dove con
grandi finezze e regali furono accolti da Tancredi, che nel gennaio di
quest'anno era stato coronato re di Sicilia col consenso del romano
pontefice. Dopo la sua esaltazione avea atteso Tancredi ad assicurarsi
della Puglia[2446], dove non mancavano baroni e città, o malcontenti per
invidia della di lui fortuna, o aderenti alla regina Costanza, fra'
quali specialmente _Ruggieri conte_ d'Andria. Diede il comando dell'armi
a _Riccardo conte_ di Acerra suo cognato; e questi parte colla dolcezza,
parte colla forza tirò all'ubbidienza di Tancredi quasi tutta la Puglia
e Terra di Lavoro. Intanto _Arrigo VI_ re di Germania e d'Italia si
disponeva per far valere le ragioni della regina _Costanza_ sua moglie,
ma non con quella fretta che avrebbono desiderato i suoi parziali. Mandò
ben egli Arrigo Testa suo maresciallo con un corpo d'armata che, unitosi
col conte d'Andria, prese molti luoghi in Puglia, lasciando dappertutto
segni di crudeltà per li continui saccheggi. Ma ingrossato l'esercito
del re Tancredi, ed entrate le malattie e la penuria de' viveri nel
nemico esercito, il comandante tedesco si ritirò, lasciando in ballo il
conte d'Andria, che si rifugiò in Ascoli. Ad assediarlo in quella città
venne il conte d'Acerra, e un dì sotto buona fede chiamato fuor delle
porte esso conte d'Andria, proditoriamente il fece prendere, e poi
tagliargli la testa. Col tempo anche la città di Capua, dianzi
favorevole alla regina Costanza, abbracciò il partito del re Tancredi:
con che poco o nulla restò che nol riconoscesse per suo sovrano. Ma un
più pericoloso affare ebbe Tancredi in casa propria. Appena fu giunto al
porto di Messina il re inglese Riccardo, che mosse varie pretensioni
contra d'esso Tancredi; cioè che gli desse cento navi promesse dal re
Guglielmo al re Arrigo di lui padre, per valersene nel passaggio di
Terra santa. Pretese eziandio che gli fosse rimandata la _regina
Giovanna_ sua sorella e vedova del _re Guglielmo II_, e insieme o
restituita la dote, o assegnato per essa un stato competente. Perchè si
tardava a soddisfarlo, Riccardo principe ferocissimo mise mano all'armi,
e colla forza s'impossessò di due fortezze situate fuor di Messina. Ciò
veduto da' Messinesi, non tardarono a cacciar fuori di città quanti
Inglesi vi si trovarono. E ne sarebbe seguito peggio, se, frappostosi il
re di Francia, ch'era approdato anch'egli a Messina, non avesse calmata
l'ira di Riccardo, e trattato di aggiustamento. Ma non andò molto che,
portata a lui una falsa nuova che i Messinesi macchinavano contra di
lui, alla testa dei suoi egli ostilmente prese una porta di quella
città[2447]; fece macello di quanti cittadini gli vennero all'incontro,
e piantò le sue bandiere sopra le mura. O perchè si smorzasse la sua
collera, o perchè prevalesse il parere de' suoi consiglieri, uscì della
città. Venne poscia ad accordo con Tancredi, il quale si obbligò di
pagare venti mila oncie d'oro per la dote della vedova regina, e di
provvedere a Riccardo alquante navi pel viaggio di Terra santa. Restò
ancora conchiuso che Tancredi darebbe una sua figliuola in moglie ad
_Arturo duca_ di Bretagna, nipote d'esso re Riccardo, con dote di
ventimila oncie d'oro. Nè mancaron motivi di discordia fra gli stessi
due re di Francia e d'Inghilterra; ma il franzese, più moderato e saggio
dell'altro, sopportò tutto per non disturbare il piissimo suo disegno di
soccorrere i cristiani in Terra santa. Fu in questa occasione che, ad
istanza del re Riccardo, fu chiamato a Messina _Gioachino_ abbate
cisterciense del monistero florense, tenuto allora in gran concetto di
probità, e di profetizzar l'avvenire[2448]. Interrogato egli se si
libererebbe Gerusalemme, rispose che non era per anche giunto il tempo
di questa consolazione. Hanno combattuto e combattono tuttavia gli
scrittori, chi trattando esso abbate Gioachino da impostore, e fin da
eretico, e chi tenendolo per uomo d'esemplarissima vita, di buona
credenza e santo. Veggasi il padre Pagi a quest'anno. A me nulla
appartiene l'entrare in sì fatto litigio. In quest'anno i Genovesi
elessero per loro primo podestà Manigoldo nobile bresciano, che diede
principio con vigore al suo governo in quella troppo disunita e
tumultuante città[2449]. Per quanto s'ha dalla Cronica Estense[2450],
nell'anno presente guerra fu fra i Ferraresi e Mantovani, e si venne
alle mani nella terra di Massa, distretto ferrarese. Toccò ai Mantovani
il voltare le spalle.

NOTE:

[2443] Niceta Choniates. Godefridus Monachus. Chron. Reichersperg.
Sicardus, in Chron.

[2444] Abbas Urspergensis, in Chron.

[2445] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3.

[2446] Richardus de S. Germano, in Chron. Anonymus Casinens.

[2447] Hovedenus, in Chron.

[2448] Idem, in Annalib.

[2449] Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.

[2450] Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXCI. Indizione IX.

    CELESTINO III papa 1.
    ARRIGO VI re 6, imperad. 1.


Diede fine al corso di sua vita il sommo pontefice _Clemente III_ verso
il fine di marzo nel corrente anno[2451], e gli fu data sepoltura nel dì
28 di marzo. Da lì a due giorni fu eletto papa _Giacinto cardinale_ di
santa Maria in Cosmedin, in età di circa ottantacinque anni, che prese
il nome di _Celestino III_. Doveva egli, secondo il rito, essere
consecrato nella seguente domenica; ma intendendo che venisse alla volta
di Roma _Arrigo VI_ re di Germania e d'Italia, con gran baldanza, per
ricevere la corona dell'imperio, volle differir la propria
consecrazione, per ritardar quella di Arrigo, e guadagnar tempo, tanto
che si concertassero gli affari con decoro della santa Chiesa romana. Si
dovettero concordar tutti i punti; e Arnoldo da Lubeca scrive[2452] che
i Romani segretamente s'accordarono con esso Arrigo, e poi pregarono il
papa di dargli la corona. Però il novello pontefice ricevette la propria
consecrazione nel dì 14 d'aprile, giorno solenne di Pasqua. Nel dì
seguente poi il re Arrigo, che scortato da un copioso esercito era
giunto nelle vicinanze della basilica vaticana colla moglie _Costanza_,
ma senza entrare in Roma, le cui porte, se crediamo a Ruggieri
Hovedeno[2453], furono ben chiuse e guardate dal popolo romano, senza
lasciarvi entrare i Tedeschi: venne incontro al papa, che dal Laterano
si trasferì al Vaticano. Sopra la scalinata di san Pietro prestò il
giuramento consueto, e poscia nella basilica introdotto, fu solennemente
coronato imperadore. Racconta il suddetto Hovedeno che Celestino
_sedebat in cathedra pontificali tenens coronam auream imperialem inter
pedes suos, et imperator inclinato capite recepit coronam, et imperatrix
similiter de pedibus domini papae. Dominus autem papa statim percussit
cum pede suo coronam imperatoris, el dejecit eam in terram, significans,
quod ipse potestatem ejiciendi cum ab imperio habet, si ille demeruerit.
Sed cardinales statim arripientes coronam, imposuerunt eam capiti
imperatoris._ Questo racconto vien preso dal cardinal Baronio come
moneta contante. Ma niuno de' lettori ha obbligo di creder vero un fatto
che più conviene alla scena che al sacro tempio, e troppo disdice ad un
vicario di Cristo, ed è contra il rituale di tutti i tempi, e si conosce
sommamente obbrobrioso a questo imperadore. Tale non era egli da
sofferire in faccia del suo esercito e di Roma un insulto e strapazzo sì
fatto. Però quanto più si esaminerà questo racconto, tanto più si
scorgerà inverisimile. Nella Cronica Reicherspergense è scritto che
Arrigo fu _ab ipso Caelestino papa consecratus honorabiliter Romae, et
coronatus_[2454]. Fra i patti accordati fra esso Augusto Arrigo e i
Romani prima della sua coronazione[2455], il primario fu ch'egli
cederebbe loro la città di Tuscolo, entro la quale era stato posto
presidio imperiale. Abbiamo veduto che anche papa _Clemente III_ aveva
abbandonata quella città al volere del popolo romano. E Ruggieri
Hovedeno scrive che anche _papa Celestino_ ne fece istanza ad Arrigo:
altrimenti non volea coronarlo. Perciò la guarnigion cesarea d'ordine
del novello imperadore, appresso ne diede la tenuta ai Romani, senza
avvertirne i cittadini. Pretende il cardinal Baronio che i Romani
infierissero solamente contro le mura e le case, nè maltrattassero gli
abitanti. L'Abbate Urspergense, che vivea in questi tempi, così parla
del presidio imperiale: _Hi accepta legatione imperatoris, incautam
civitatem Romanis tradiderunt, qui multos peremerunt de civibus, et fere
omnes sive pedibus sive manibus, seu aliis membris mutilaverunt. Pro qua
re imperatori improperatum est a multis._ Lo stesso vien confermato da
Gotifredo Monaco[2456]. E Sicardo vescovo allora di Cremona
scrive[2457]: _Imperator Apostolico dedit Tusculanum, et Apostolicus
Romanis. Romani vero civitatem destruxerunt et arcem, Tusculanos alios
excaecantes, et alios deformiter mutilantes._ Però neppur il papa
dovette andar esente da biasimo per tali crudeltà, degne de' barbari
tempi che allora correvano. Non restò pietra sopra pietra della misera
città, e questa mai più non risorse. Dicono che gli abitanti rimasti in
vita si fabbricarono in quei contorni capanne con frasche, dal che prese
poi il nome la città di Frascati d'oggidì.

Intanto _Tancredi re_ di Sicilia[2458] avea conchiuso un trattato di
matrimonio fra _Irene_ figliuola di _Isacco Angelo_ imperador de' Greci,
e _Ruggieri_ suo primogenito, già dichiarato duca di Puglia. E perchè
questa principessa era in viaggio alla volta d'Italia, egli passò di qua
dal Faro, per esser pronto a riceverla. Dopo aver dunque ridotti al loro
dovere alcuni popoli dell'Abruzzo, che teneano col _conte Rinaldo_ suo
ribello, si portò a Brindisi, dove accolse la regal sua nuora, le cui
nozze furono con singolar magnificenza celebrate. Quivi ancora diede il
titolo di re allo stesso figliuolo, e fece coronarlo: dopo di che con
gloria e trionfo se ne tornò in Sicilia. Strano è il vedere che
l'Anonimo Casinense[2459] metta la solennità di queste nozze nell'anno
1193. Si dee credere scorretto il suo testo. Pareva con ciò stabilita,
non men la fortuna di Tancredi, che la pace del suo regno; ma poco andò
che alzossi una terribil tempesta di guai, che recò a lui la rovina e la
desolazione a tutto quel fioritissimo regno. Sul fine d'aprile, o sul
principio di maggio, l'imperadore Arrigo ostilmente entrò nella
Puglia[2460], ancorchè il pontefice Celestino se l'avesse forte a male,
e facesse quanto potesse per ritenerlo. Mise l'assedio alla terra
d'Arce, difesa da Matteo Burello; nè giovò che il dì seguente que'
cittadini si rendessero amichevolmente. Egli, ciò non ostante, diede
quella terra alle fiamme: esecuzione, da cui restarono atterriti i
popoli vicini, che senza voler aspettare la chiamata, nonchè la forza,
si diedero a lui, cioè l'abbate di Monte Casino, i conti di Fondi e di
Molise, e le città di San Germano, Sora, Arpino, Capoa, Teano, Aversa,
ed altre terre. Di là passò coll'esercito a Napoli, e trovata quella
nobil città preparata alla difesa, ne imprese l'assedio. V'era dentro un
buon corpo di gente comandato da _Riccardo conte_ d'Acerra, cognato del
re Tancredi, e risoluto di far fronte a tutti i tentativi dei nemici.
Molti furono gli assalti, molte le prove per vincere la forte città:
tutto nondimeno senza frutto, perchè i difensori, che aveano aperto il
mare, e nulla loro mancava di gente e di viveri, di tutti gli sforzi
ostili si rideano. Intanto l'importante città di Salerno si rendè
all'imperadore. Erano venuti i Pisani con istuolo di navi, per secondar
l'impresa d'Arrigo sotto Napoli, quando eccoti giugnere la flotta del re
di Sicilia, composta di settantadue galee, condotta dall'ammiraglio
Margaritone, uomo famoso, che assediò i Pisani in Castellamare. Si
studiò ancora l'Augusto Arrigo di aver dalla sua i Genovesi in questo
bisogno: al qual fine spedì a Genova l'arcivescovo di Ravenna, chiamato
_Ottone_ dal continuatore di Caffaro[2461]. Per testimonianza del
Rossi[2462], tenea quella chiesa allora _Guglielmo_ arcivescovo. S'egli
non avea due nomi, l'uno di questi autori ha sbagliato. Quel che è più,
l'arcivescovo di Ravenna era passato in Oriente, e quivi ancora sotto
Accon lasciò la vita. Il Rossi di ciò non parla. Ora per guadagnare il
popolo di Genova, Arrigo gli confermò tutti i privilegii, assegnogli
Monaco e Gavi, e si obbligò di concedergli la città di Siracusa, con
altri vantaggi, se alle sue mani veniva la Sicilia: promesse ch'egli non
voleva poi mantenere. Misero dunque alla vela con trentatrè galee ben
armate i Genovesi sotto il comando di due de' loro consoli, e tirarono
verso Napoli; ma vi trovarono mutato l'aspetto delle cose. La stagione
bollente e l'aria poco salubre di quei tempi cominciò a far guerra
all'armata tedesca, di maniera che una fiera epidemia ne cacciò sotterra
alquante migliaia, senza perdonare agli stessi principi[2463], fra'
quali mancò di vita _Filippo arcivescovo_ di Colonia, e _Ottone duca_ di
Boemia. Cadde gravemente infermo lo stesso Arrigo imperadore, fino ad
essere corsa voce che avea cessato di vivere. Fecero queste disavventure
risolvere Arrigo tuttavia malato di ritirarsi dall'assedio di Napoli nel
mese di settembre. Lasciato pertanto alla guardia di Capoa Corrado per
soprannome chiamato Moscaincervello, e l'imperadrice Costanza a Salerno,
conducendo seco _Roffredo abbate_ di Monte Casino, sen venne a Genova,
dove con ricche promosse di parole impegnò quel popolo a sostenere i
suoi disegni sopra la Sicilia, e di là poscia passò in Germania. Ebbero
i Pisani la fortuna di sottrarsi colla fuga all'ammiraglio di Sicilia,
il quale, data anche la caccia ai Genovesi, gli obbligò a tornarsene al
loro paese. Appena fu slontanato dalla Campania l'Augusto Arrigo, che
uscito di Napoli il conte di Acerra con quante soldatesche potè unire,
venne a dirittura a Capoa, che se gli diede[2464]. Ritiratosi nel
castello il Moscaincervello, per mancanza di viveri capitolò in breve, e
se n'andò con Dio. Tornarono all'ubbidienza del re Tancredi Aversa,
Teano, San Germano, ed altre terre.

Allora i Salernitani, che erano stati de' più spasimati a darsi
all'imperadore, e presso i quali si credea sicurissima l'imperadrice
Costanza, veggendo la mutazion degli affari, per riacquistare la grazia
del re Tancredi, condussero a Palermo e gli diedero nelle mani
l'imperadrice stessa. L'Anonimo Casinense scrive che Arrigo, prima
d'uscire di Terra di Lavoro, mandò a prendere Costanza; ma restò questa
tradita dai Salernitani. Con gran piacere accolse Tancredi una sì
rilevante preda, e non lasciò di trattarla con tutta onorevolezza.
L'Augusto Arrigo all'incontro, risaputa la disgrazia della moglie, con
lettere calde tempestò _papa Celestino_ per riaverla col mezzo suo.
Infatti indusse questo pontefice il re Tancredi a rimetterla in libertà,
e a rimandarla in Germania nell'anno seguente. Non si sa ch'egli la
cedesse con patto alcuno di suo vantaggio. Solamente sappiamo che, dopo
averla generosamente regalata, la rimandò. Vero è che il concerto era
ch'essa Augusta passasse per Roma, dove il pontefice pensava di trattar
di concordia; ma essa gli scappò dalle mani, e in vece d'arrivare a
Roma, voltò strada, e se ne andò a Spoleti. Se i principi d'oggidì,
trovandosi in una situazione tale, fossero per privarsi con tanta
facilità, e senza alcuna propria utilità, di una principessa che seco
portava il diritto sopra la Sicilia, lascerò io che i saggi lettori lo
decidano. Ben fu ingrato dipoi Arrigo, che niuna riconoscenza ebbe di sì
gran dono. Per conto di Terra santa[2465], giunto sotto Accon, ossia
Acri, _Filippo re_ di Francia, trovò che la fame e la peste aveano fatto
gran macello della gente cristiana che assediava quella città, con
essere anch'essa ristretta dal campo di Saladino. L'arrivo suo rimise in
buono stato quegli affari, di maniera che da lì cominciò daddovero a
tormentar colle macchine l'assediata città. Intanto _Riccardo re_
d'Inghilterra, giunto in Cipri, ebbe o cercò delle ragioni per muover
guerra ad Isacco, ossia _Chirsacco_, signore o tiranno greco di
quell'amenissima isola, il quale si facea chiamare imperador de' Greci.
Il mise in fuga, e assediatolo poscia in un castello, l'ebbe in sua mano
con un immenso tesoro. Venne in potere di lui ogni città e terra di
quell'isola, ch'egli spogliò di tutte le sue ricchezze, e poscia per
venticinque mila marche d'argento la vendè ai cavalieri templari, e
toltala in fine ai medesimi, la rivendè per ventisei mila bisanti a
_Guido Lusignano_, già re di Gerusalemme, i cui discendenti gran tempo
dipoi ne furono possessori. Arrivò sotto Accon questo feroce re, ma
entrò ben tosto anche l'invidia e la discordia fra lui e il re di
Francia. Bastava che l'uno volesse una cosa, perchè l'altro la
disapprovasse. Contuttociò le larghe breccie fatte nelle mura di quella
città, che fin qui era costata la vita d'innumerabili cristiani, e di
moltissimi principi, obbligarono i Saraceni a renderla con sommo giubilo
della cristianità nel dì 12, oppure nel 13 di luglio dell'anno presente.
L'immensa preda fu divisa fra gl'Inglesi e Francesi, con grave doglianza
delle altre nazioni, che più d'essi aveano faticato e patito in
quell'assedio, e nulla guadagnarono.

Allora Saladino si ritirò in fretta; e perchè non volle approvar le
proposizioni di render Gerusalemme, il re Riccardo con inudita barbarie
fece levar di vita cinque mila prigioni saraceni. Le torbide passioni
che mantenevano la discordia fra i due re crebbero maggiormente da lì
innanzi, e furono cagione che non si prendesse la santa città: il che
era facile allora. Il re Filippo, principe saggio, tra perchè non gli
piacea di star più lungamente in quella dimestica guerra, e perchè si
trovava oppresso da una grave malattia, se ne tornò in Italia, e dopo
aver presa in Roma la benedizione da papa Celestino, ripatriò. Il re
Riccardo restò in Sicilia. Nè si dee tacere, che essendo morta
nell'assedio di Accon _Sibilia_ regina di Gerusalemme, moglie di _Guido_
Lusignano, succedendo in quel diritto _Isabella_ sua sorella, figliuola
del già re _Aimerico_, fu dichiarato nullo il matrimonio d'essa con
_Unfredo_ signore di Monreale, e questa data a _Corrado marchese_ di
Monferrato, il più prode ed accreditato fra que' principi cristiani, il
quale perciò potè aspirare al titolo di re. Erasi accesa o riaccesa
guerra in quest'anno tra i Bresciani e Bergamaschi. In aiuto degli
ultimi accorsero i Cremonesi[2466]; ma sopraffatti dai Bresciani, o,
come altri scrivono, atterriti dalla voce sparsa che venivano anche i
Milanesi[2467], ne riportarono una fiera sconfitta, di cui durò un pezzo
la memoria col nome di _mala morte_; perciocchè incalzati, moltissimi di
loro s'annegarono nel fiume Oglio, altri furono presi, ed altri tagliati
a pezzi, colla perdita del loro carroccio, che trionfalmente fu condotto
a Brescia. Jacopo Malvezzi[2468] scrive a lungo questa vittoria.
Ritornando poi l'_imperadore Arrigo_ di Puglia, fece rilasciar loro i
prigioni, e con suo privilegio concedè la terra di Crema al popolo di
Cremona: il che essendo contrario a quanto avea stabilito l'imperador
Federigo suo padre in favore dei Milanesi, alienò forte l'animo di
questi dall'amore d'esso Augusto, e fu seme di nuove guerre fra le emule
città suddette. Secondo le Croniche d'Asti[2469], in questo anno nel dì
19 di giugno gli Astigiani vicino a Montiglio ebbero battaglia con
_Bonifazio marchese_ di Monferrato, e ne riportarono una rotta sì fiera,
che circa due mila d'essi furono condotti prigionieri nelle carceri dei
Monferrato, dove penarono per più di tre anni, finchè si riscattarono.
Durò questa guerra dipoi per quindici anni, con farsi ora pace ed ora
tregua, male osservate sempre da esso marchese, e dal _marchese
Guglielmo_ suo figliuolo. Finalmente nell'anno 1206 seguì fra esso
Guglielmo e gli Astigiani una vera pace, in cui gli ultimi guadagnarono
Loreto e la contea delle Castagnole.

NOTE:

[2451] Chron. Reicherspergens. Anonymus Casinens. Necrolog. Casinense.

[2452] Arnold. Lubecensis, lib. 4, cap. 4.

[2453] Rogerius Hovedenus, in Annal.

[2454] Chron. Reicherspergens.

[2455] Abbas Urspergens., in Chron.

[2456] Godefridus Monachus, in Chron.

[2457] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2458] Ricardus de S. Germano.

[2459] Anonymus Casinens., in Chron.

[2460] Arnold. Lubec., lib. 4, cap. 5.

[2461] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6, Rer. Ital.

[2462] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.

[2463] Arnold. Lubec., lib. 4, cap. 6.

[2464] Richardus, de S. Germano.

[2465] Sicard., in Chron. Arnoldus Lubecens. Abbas Urspergens.
Godefridus Monachus. Bernard. Thesaur. et alii.

[2466] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2467] Gualvanus Flamm., in Manipul. Flor.

[2468] Jacopus Malveccius, in Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.
Annales Placentini, tom. 16 Rer. Italic.

[2469] Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXCII. Indizione X.

    CELESTINO III papa 2.
    ARRIGO VI re 7, imperad. 2.


Avea l'_imperadore_ Arrigo lasciato per castellano della rocca d'Arce
Diopoldo suo uffiziale[2470]. Costui nel mese di gennaio messa insieme
un'armata di Tedeschi, e delle terre della Campania e di Roma, assediata
la città di San Germano, la costrinse alla resa, e diede il sacco non
meno ad essa, che ad altre terre da lui conquistate, facendo dappertutto
quanto male gli suggeriva la sua crudeltà ed avarizia. Da ciò mosso il
re Tancredi, giudicò meglio di venire egli in persona ad assistere a'
suoi interessi di qua dal Faro. Giunse fino a Pescara, e riuscitogli di
riporre sotto la sua ubbidienza buona parte del paese, e di mettere a
dovere _Riccardo conte_ di Celano, se ne tornò poscia in Sicilia. Fu
assediato dalle sue truppe San Germano, ma inutilmente, perchè difeso da
Arnolfo monaco, decano di Monte Casino. Rimandò poscia l'imperadore in
Italia con un corpo d'armati _Roffredo abbate_ di quell'insigne
monistero, il quale tutto s'era dato a lui, con ordine a _Bertoldo
conte_ di marciare con quanta gente potea in compagnia di esso abbate
verso Terra di Lavoro. Riccardo da San Germano[2471] ciò riferisce
all'anno seguente. Fermossi Bertoldo in Toscana, e diede la gente
all'abbate, che fece molta guerra in quelle parti, e con Diopoldo
s'impadronì d'Aquino, e stese le sue scorrerie fino a Sessa. Lo stesso
Bertoldo nel mese di novembre anch'egli comparve, ed acquistò Amiterno e
Valva, ed occupò i contadi di Molise e di Venafro. Perchè il re Tancredi
e il conte di Acerra suo cognato non si opponessero agli avanzamenti di
questi uffiziali cesarei, la storia nol dice. Abbiamo dal Malvezzi[2472]
che in quest'anno l'imperadore Arrigo, dimorando in Germania, confermò
ed aumentò i privilegii al comune di Brescia. Leggesi presso quello
storico il cesareo diploma, in cui si veggono obbligati i Bresciani ad
aiutar l'imperadore a mantener l'imperio _in Lombardia, Marchia,
Romandiola, et specialiter terram quondam comitissae Mathildis_. Di
grandi prodezze fece in quest'anno Riccardo re d'Inghilterra, tuttavia
dimorante in Oriente, benchè con poco frutto di quella cristianità. Fra
l'altre imprese, non essendo giunto a tempo per soccorrere la città di
Jafet vinta per assedio da Saladino, ebbe l'ardire d'entrarvi dentro con
pochi dei suoi, dove fece strage di quegl'infedeli, finchè, seguitato da
tutti i suoi, interamente la ricuperò. Rifabbricò varie città, diede
anche una rotta all'immenso esercito di Saladino. Era così temuto nelle
contrade dei Saraceni il nome di questo re per le sue bravure[2473], che
le donne saracene, per far paura ai piccioli figliuoli, lor diceano:
_Viene il re Riccardo_. Un grand'eroe sarebbe stato, se a tanta bravura
avesse aggiunto la moderazion dell'animo, che in lui difficilmente si
trovava. Ma gli sconcerti del suo regno il richiamavano a casa. Propose
dunque che si creasse un generale dell'armata cristiana, che portasse
anche il titolo di re[2474]. Concorrevano alcuni in _Guido_ già re di
Gerusalemme, altri in _Arrigo conte_ di Sciampagna; ma i più si
dichiararono in favore di _Corrado marchese_ di Monferrato e signore di
Tiro, di cui ci fanno questa dipintura Corrado abbate Urspergense e
Bernardo il Tesoriere: _Fuit autem idem marchio Conradus armis strenuus;
ingenio et scientia sagacissimus; animo et facto amabilis; cunctis
mundanis virtutibus praeditus; in omni Consilio supremus, spes blanda
suorum; hostium fulmen ignitum; simulator et dissimulator in omni re;
omnibus linguis instructus; respectu cujus facundissimi reputabantur
elingues._ Era solamente tacciato per aver tolta in moglie la
principessa _Isabella_, vivente ancora Unfredo suo marito, stante il non
credersi legittima la dissoluzion del loro matrimonio. Ma che? Trovavasi
in Tiro questo sì illustre principe nel dì 24 di aprile, quando gli
furono presentate le lettere coll'avviso della sua assunzione; e in
quello stesso giorno, secondochè abbiam da Sicardo, tolta gli fu da due
sicarii con varie coltellate la vita. Si divulgò l'atroce caso. Chi
l'imputava al suddetto Unfredo; altri ne faceano autore il re Riccardo,
che veramente lo ebbe sempre in odio, perchè dichiarato parziale di
Filippo re di Francia[2475]; e questa voce corse per tutto l'Occidente.
Altri scrittori poi convengono in credere che il vecchio della montagna,
signore di un tratto di paese chiamato degli Assassini, i cui sudditi
mirabilmente eseguivano tutti i di lui ordini senza far conto della lor
vita (onde poscia venne il nome d'_assassino_ in Italia per denotare un
sicario), lo avesse fatto proditoriamente levare dal mondo in vendetta
d'aver Corrado tolta ad alcuni mercatanti d'esso vecchio una gran somma
di danaro senza volerla restituire. Appena udita la morte del valoroso
marchese, il re Riccardo, entrato in nave, corse a Tiro, e tre giorni
dopo quella brutta scena obbligò la regina _Isabella_, benchè fosse
gravida, e benchè contra sua voglia, a sposare il suddetto conte di
Sciampagna _Arrigo_, nipote del medesimo Riccardo, a cui conferì anche
il titolo di re: cose tutte che servirono a maggiormente accrescere i
sospetti della morte di Corrado contra dello stesso re Riccardo.
Stabilita poi con Saladino una tregua di cinque anni s'imbarcò Riccardo,
e, dato l'ultimo addio alla Palestina e Soria, sciolse le vele verso
l'Occidente[2476]. Battuto da una fiera tempesta, fu spinto per
l'Adriatico verso Aquileia, dove sbarcato con pochi, prese quella via
che potè. Ebbe difficoltà di scampare dagli uomini del conte di Gorizia,
che gli presero alcuni de' suoi. Passando poi per le terre di _Leopoldo
duca_ d'Austria, benchè travestito, venne per sua mala fortuna, o per
tradimento d'alcuno de' suoi famigli, riconosciuto all'osteria da chi lo
avea veduto in Oriente, e ne fu portato l'avviso al duca, il quale spedì
tosto nel dì 20 di dicembre gente armata a prenderlo, e il confinò in
una sicura prigione. Non era già Leopoldo della gloriosa famiglia
austriaca, la quale dopo la morte dell'ottimo Carlo VI imperador de'
Romani, torna a rifiorire in Maria Teresa regina d'Ungheria e Boemia,
sua figlia. Era egli poc'anzi tornato da Accon, dopo avere bravamente
militato in quelle parti, ed avea, al pari di tant'altri, in quella
occasione ricevuti non pochi strapazzi dal violento re inglese, principe
che in alterigia e in isprezzar tutti sopravanzava chiunque si fosse.
Venne il tempo di farne vendetta, benchè ciò fosse contro i privilegii
della crociata; e parve che Dio permettesse questo accidente per
umiliarlo, ed anche per punirlo, se pur egli fu reo della morte del
marchese Corrado. Gran rumore cagionò ancor questo fatto per tutta la
cristianità; e chi l'approvò, e chi sommamente lo disapprovò, perchè
egli infine era benemerito della crociata, e vi aveva impiegato gente e
tesori non pochi. Diede fine nell'anno precedente ai pensieri
secolareschi _Aureo_, ossia _Orio Mastropetro_ doge di Venezia[2477],
con ritirarsi nel monistero di santa Croce a far vita monastica. In
quest'anno nel dì primo di gennaio in luogo suo fu eletto doge _Arrigo
Dandolo_, personaggio de' più illustri e benefici che s'abbia mai avuto
quell'inclita repubblica.

NOTE:

[2470] Anonymus Casinens., Chron., tom. 5 Rer. Ital. Johan. de Ceccano,
Chron. Fossaenovae.

[2471] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2472] Malveccius, in Chron. Brixian.

[2473] Bernardus Thesaurar., Hist., cap. 177.

[2474] Sicard., in Chron.

[2475] Alberic. Monachus, in Chron. Godefridus Monachus, in Chron.

[2476] Pipinus, Chron., lib. 2, cap. 26, tom. 9 Rer. Italic.

[2477] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXCIII. Indizione XI.

    CELESTINO III papa 3.
    ARRIGO VI re 8, imperad. 3.


Continuò ancora in quest'anno la confusione in Puglia e in Terra di
Lavoro[2478]. Bertoldo generale dell'imperadore cogli altri uffiziali
cesarei, coll'abbate di Monte Casino, che, dimentico dei canoni, era
divenuto guerriero, e coi conti di Fondi e di Caserta, prese varie
castella. Ingrossò l'armata con tutti coloro che teneano la parte
dell'imperadore, di modo che quantunque venisse di qua del Faro il _re
Tancredi_ con un grosso esercito, non lasciò di tener la campagna, anzi
di andar a fronte dell'armata nemica a Monte Fuscolo. Erano inferiori
molto di forze i cesarei; eppure si astenne Tancredi di venire a
battaglia, perchè i suoi gli rappresentarono andarvi del suo onore,
s'egli, essendo re, si cimentava con chi non era par suo. Assediò
Bertoldo il castello di Monte Rodone. Una grossa pietra scagliata da un
mangano lo stritolò. Nel generalato succedette a lui Corrado
Moscaincervello, che, impadronitosi di quel castello, non lasciò vivo
alcuno degli abitanti. All'incontro il re Tancredi riacquistò la rocca
di sant'Agata, Aversa, Caserta ed altre terre; e sentendosi poi
aggravato da febbri, si ridusse verso il fine dell'anno in Sicilia, dove
restò trafitto da inesplicabil dolore per la morte che gli rubò sul fior
degli anni il primogenito suo, cioè il re _Ruggieri_. Questo colpo quel
fu che sul principio dell'anno seguente fece tracollar la sanità
dell'infelice _Tancredi_, il qual tenne dietro al figliuolo, e riempiè
di pianto la Sicilia tutta, ben prevedendo ognuno le sinistre
conseguenze di perdite cotanto inaspettate. Lasciò egli sotto la tutela
della regina _Sibilla_ sua moglie il secondogenito suo, cioè _Guglielmo
III_, erede piuttosto di lagrimevoli disavventure, che della corona
reale e di un bellissimo regno. Miracolo è che, secondo l'uso dei
fallaci umani giudizii, niuno susurrò che questi principi fossero stati
aiutati a sloggiare dal mondo. Siccome osserva il cardinal
Baronio[2479], incitato _papa Celestino III_ in quest'anno da replicate
forti lettere della regina d'Inghilterra _Eleonora_, madre del _re
Riccardo_, che era prigione in Germania, finalmente s'indusse a
minacciar le censure contra _Leopoldo duca_ d'Austria, e contra dello
stesso _imperadore Arrigo_, se non mettevano in libertà il fatto
prigioniere, con trasgredire i capitoli e giuramenti della crociata. Ho
detto anche Arrigo Augusto, perchè anche egli volle essere a parte di
quella preda, con aver fissata la massima di ricavarne un grossissimo
riscatto. Adduceva egli quella gran ragione, che un re non dovea star
nelle carceri di un duca, e però o colle minacce o colle promesse di
parte del guadagno, fatte al duca medesimo, gliel trasse di mano, con
divenir egli principale in quest'affare, e con accusare dipoi Riccardo
di varii insussistenti reati, fra i quali entrò il preteso
assassinamento del marchese Corrado. Fu dunque proposto a Riccardo, se
bramava la libertà, un enorme pagamento di danaro. A queste disavventure
del re inglese una più dolorosa si aggiunse, perchè _Filippo re_ di
Francia, sentiti in tal occasione più vigorosi i consigli dell'interesse
che dell'onore, uscì armato in campagna, e cominciò ad occupar gli Stati
che Riccardo possedeva di qua del mare.

Abbiamo dalla Cronica Cremonese[2480] che fu guerra in quest'anno fra i
Milanesi e Lodigiani. Aveano questi tirata una fossa dalla lor città
sino al Lambro. Dovette ciò dispiacere ai Milanesi, i quali perciò
venuti coll'esercito sul Lodigiano, la spianarono, bruciarono un tratto
di paese, e condussero prigioni molti Lodigiani. Galvano Fiamma[2481] di
ciò parla all'anno precedente, ma il Malvezzi[2482] ne scrive sotto il
presente. Secondo questi autori, i Cremonesi collegati coi Lodigiani, e
accampati nel territorio d'essi, si diedero a far delle scorrerie nel
distretto di Milano. Uscirono in campagna anche i Milanesi, e diedero
loro battaglia. Nel conflitto si sparse voce che venivano i Bresciani:
laonde i Cremonesi pensarono più a fuggire che a combattere. Restò in
mano de' Milanesi il loro carroccio. Ma son da ricevere con gran
riguardo tali notizie, perchè Galvano Fiamma troppe altre cose narra o
favolose, o accresciute oltre al dovere. Era stato podestà di Bologna
nell'anno precedente _Gherardo_ degli Scannabecchi vescovo di quella
città[2483], e con lode aveva esercitato quel principesco uffizio.
Continuò anche nel presente; ma più non piacendo il governo suo, furono
ivi di nuovo creati i consoli; e perchè il vescovo non volea dimettere
il comando, si fece una sollevazione contra di lui, per la quale fu
assediato il palazzo episcopale, colla morte di molti. Il vescovo,
fuggito per una cloaca travestito, ebbe la fortuna di mettersi in salvo.
Genova anch'essa provò i mali effetti della discordia civile[2484].
Tutto dì vi si commettevano omicidii e ruberie; e l'una famiglia dalla
sua torre facea guerra all'altra. Durò questo infelice stato di cose
fino all'anno seguente, in cui, fatto venir da Pavia Oberto da Olevano
per loro podestà, questi, siccome persona di gran cuore e prudenza,
diede buon sesto a tanti disordini. Era incorso nella disgrazia
dell'imperadore Arrigo, e posto anche al bando dell'imperio, il popolo
di Reggio di Lombardia, perchè avea costretto molti castellani
dipendenti dall'imperio a giurar fedeltà e ubbidienza al loro comune:
cosa praticata in questi tempi anche da altre città. Li rimise Arrigo in
sua grazia nell'anno presente con diploma[2485] dato _Wirceburc XIV
kalendas novembris, Indictione XI_ (indizione che non si doveva mutare
nel settembre); ma con aver prima i Reggiani assoluto da' giuramenti
que' vassalli imperiali, e restituiti i luoghi occupati. Passavano delle
differenze fra i Bolognesi e Ferraresi. Furono in questo anno composte
nel dì 10 di marzo nella villa di Dugliuolo, come costa dallo strumento
da me pubblicato altrove[2486].

NOTE:

[2478] Richardus de S. German., in Chron. Anonymus Casinensis, in Chron.

[2479] Baron., in Annal. Ecclesiast.

[2480] Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.

[2481] Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 225.

[2482] Malveccius, Chron. Brixian., c. 71, tom. 14 Rer. Ital.

[2483] Matth. de Griffonibus, Annal. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.

[2484] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Ital.

[2485] Antiquit. Italic., Dissert. L.

[2486] Ibidem, Dissert. XLIX.



    Anno di CRISTO MCXCIV. Indizione XII.

    CELESTINO III papa 4.
    ARRIGO VI re 9, imperad. 4.


Dopo sì lunga prigionia, finalmente sul principio di febbraio di
quest'anno fu rimesso in libertà _Riccardo re_ d'Inghilterra[2487]. Gli
convenne pagare cento mila marche ossia libbre d'argento, e promettere
altra somma all'_imperadore Arrigo_, che la terza parte ne diede a
_Leopoldo duca_ d'Austria. In Inghilterra, per mettere insieme questo
tesoro, che sembra quasi incredibile, furono venduti fino i calici
sacri: laonde per tale avania Arrigo si tirò addosso il biasimo e la
indignazione universale. Intanto giunse la nuova d'essere mancato di
vita il _re Tancredi_ col figliuolo maggiore, e rimasto il regno di
Sicilia in mano d'un re fanciullo, e sotto il governo di una donna, cioè
della regina _Sibilia_, o _Sibilla_, sua madre. Che tempo propizio fosse
questo per conquistare quegli Stati, più degli altri l'intese Arrigo
Augusto; e trovandosi egli anche ben provveduto d'oro, gran requisito
per chi vuol far guerra, s'affrettò a mettere insieme un possente
esercito per la spedizion di Sicilia. Nel mese di giugno calò in Italia,
e premendogli di aver sufficienti forze per mare alla meditata impresa,
personalmente si trasferì a Genova, dove con larga mano regalò quel
popolo di promesse in loro vantaggio. _Si per vos_, disse egli[2488],
_post Deum, regnum Siciliae acquisiero, meus erit honor, proficuum erit
vestrum. Ego enim in eo cum Teutonicis meis manere non debeo; sed vos et
posteri vestri in eo manebitis. Erit utique illud regnum non meum, sed
vestrum_. Con degli ampli privilegii ancora, ben sigillati, confermò
loro questi monti d'oro. Non è dunque da stupire se i Genovesi fecero un
grande sforzo di gente e di navi per secondare i disegni
dell'imperadore. Portossi Arrigo anche a Pisa verso la metà di luglio,
ed impetrò da quel popolo un altro stuolo di navi. Ho io dato alla luce
un suo diploma[2489], emanato nell'anno precedente, in cui, oltre al
confermare tutte le lor giurisdizioni e varii privilegii, concede anche
loro in feudo la metà di Palermo, di Messina, di Salerno e Napoli, e
tutta Gaeta, Mazara e Trapani: tutte belle promesse per deludere quei
popoli poco accorti, ed averne buon servigio. In Pisa si trovarono i
deputati di Napoli, che gli promisero di rendersi al primo arrivo
dell'imperiale armata. Con questa dunque s'inviò egli per la Toscana
alla volta della Puglia e di Terra di Lavoro[2490]. Piuttosto verso il
principio che sul fine d'agosto arrivato colà, le più delle città
corsero ad arrendersi. Atinio e Rocca di Guglielmo tennero forte. Capoa
ed Aversa nè si renderono, nè furono assediate. Se si vuol credere ad
Ottone da San Biagio[2491], che con errore ciò riferisce all'anno 1193,
Arrigo, fatto dare il sacco a tutte le città della Campania e della
Puglia, le distrusse, e massimamente Salerno, Barletta e Bari, con
asportarne un immenso bottino. Ma della sovversione di tante città non
parlando nè l'Anonimo Casinense, nè Riccardo da San Germano, benchè si
potesse sospettare che tacessero per paura di chi allora comandava in
Sicilia, pure non è credibile tutto quanto narra quello scrittore,
specialmente stendendo egli queste crudeltà a tutte le città di quelle
contrade. Fuor di dubbio è che Arrigo fece assediar Gaeta, e che colà
nello stesso tempo arrivò la flotta de' Genovesi. Non volle quella città
far lunga resistenza all'armi cesaree, e si rendè a Marquardo siniscalco
dell'imperadore, a _Guglielmo marchese_ di Monferrato, e ad Oberto da
Olevano podestà e generale de' Genovesi. Passò dipoi l'esercito e la
flotta nella vigilia di san Bartolommeo a Napoli, città che si rendè
tosto all'imperadore, e gli giurò fedeltà, siccome ancora Ischia, ed
altre isole e terre. La rabbia maggiore dell'Augusto Arrigo intanto era
contra de' Salernitani, per aver essi tradita l'imperadrice Costanza sua
moglie. E però inviò il suddetto Guglielmo marchese ad assediar quella
ricca e nobil città[2492]. Tuttochè quei cittadini facessero una
valorosa difesa, pure non poterono lungamente resistere agli assalti del
marchese, il quale poscia, per ordine di Arrigo, infierì contra d'essi,
con levar la vita a moltissimi, permettere il disonor delle donne,
imprigionare e tormentar altri, e bandire i restanti. Tutto fu messo a
sacco, e poscia senza perdonare alle chiese, restò interamente
smantellata la città che da lì innanzi non potè più risorgere all'antico
splendore. Per la Calabria s'inoltrò l'esercito cesareo, e, passato il
Faro, giunse a Messina, che tosto se gli diede. Che ciò accadesse sul
fine di agosto si può argomentar dagli Annali di Genova, che dicono
arrivata a Messina la lor flotta nel dì primo di settembre; tempo in cui
quella città era già pervenuta alle mani dell'imperadore.

Questi vittoriosi progressi furono allora turbati da un accidente
occorso fra i Genovesi e i Pisani. L'odio fra queste due emule nazioni,
originato dalla gara dell'ambizione, e più da quella dell'interesse, era
passato in eredità; e si potea ben con tregue e paci frenare, ma per
poco tornava a divampare in maggiori incendii. Appena si trovarono le
lor flotte a Messina, che vennero alle mani, e nel lungo conflitto molti
dei Pisani vi restarono o morti o feriti. Per questo gli altri Pisani,
che erano nella città, corsero al fondaco de' Genovesi, e gli diedero il
sacco, con asportarne molto danaro. Altrettanto fecero alle case dove si
trovarono de' Genovesi, molti ancora de' quali furono fatti prigioni.
Ciò inteso dai Genovesi, che stavano nelle navi, infuriati corsero a
farne vendetta sopra le galee pisane, e tredici ne presero, con tagliare
a pezzi molti de' Pisani. S'interpose Marquardo imperial siniscalco, e
riportò dalle parti giuramento di restituire il maltolto, e di non più
offendersi. Eseguirono la promessa i Genovesi. Poco o nulla ne fecero i
Pisani, che godeano miglior aura alla corte; anzi fecero nuovi insulti
per le strade ai Genovesi, e presero una lor ricca nave che veniva di
Ceuta. Per tali affronti e danni morì di passione il podestà e generale
de' Genovesi Oberto da Olevano. Allorchè si seppe in Palermo la resa di
Messina, la regina _Sibilla_ si fortificò nel palazzo reale, e il
fanciullo _re Guglielmo_ si ritirò nel forte castello di Calatabillotta.
Allora i Palermitani spedirono all'imperadore Arrigo, invitandolo alla
lor città. Così l'Anonimo Casinense. Ma, secondo gli Annali Genovesi,
pare che i Palermitani resistessero un tempo, e si facessero pregare per
ammetterlo. Intanto i Genovesi accorsero in aiuto di Catania, che s'era
data all'imperadore, e trovavasi allora assediata dai Saraceni abitanti
in Sicilia, siccome fautori della fazion di Tancredi, e la liberarono.
Presero poi per forza la città di Siracusa. Tengo io per fermo che
l'Anonimo Casinense e Riccardo da San Germano per politica parlarono
pochissimo di questi affari, che pur furono sì strepitosi, mettendo un
velo sopra molte iniquità e crudeltà di Arrigo. Non mancò egli di
addormentare con graziosissime promesse i Palermitani[2493]. Il
magnifico di lui ingresso in quella città ci vien descritto da Ottone da
San Biagio[2494]. Ma perchè conobbe dura impresa l'impadronirsi del
regal palazzo, e del castello di Calatabillotta, mandò alcuni suoi
ministri a trattare colla regina Sibilla, con cui, secondo il suo
costume, fu liberalissimo di promesse: cioè impegnò la sua parola di
concedere a Guglielmo di lei figliuolo la contea di Lecce, e di
aggiugnervi il principato di Taranto; condizioni che furono da lei
abbracciate, perchè già vedea disperato il caso di potersi sostenere.
Diede dunque sè stessa e il figliuolo in mano di Arrigo, il quale non sì
tosto fu padrone del palazzo regale, che lo spogliò di tutte le cose
preziose, e lasciò il sacco del resto ai soldati. Secondo gli scrittori
moderni siciliani, Arrigo si fece coronare re di Sicilia nella cattedral
di Palermo. Non truovo io di ciò vestigio alcuno presso l'Anonimo
Casinense, nè presso Riccardo da San Germano. Ne parla bensì Radolfo da
Diceto, che il dice coronato nel dì 23 di ottobre. Rocco Pirro rapporta
un suo diploma, dato _Panormi III idus januarii, Indictione XIII, anno
MCXCV_[2495], dove, parlando della chiesa di Palermo, dice: _In qua
ipsius regni coronam primo portavimus_. Ma falla esso Pirro in iscrivere
che tal coronazione seguì nel dì 30 di novembre dell'anno 1195. Se il
diploma da lui poco fa accennato, e dato nel dì 11 di gennaio dell'anno
1195, la suppone già fatta, come differirla al novembre dell'anno
medesimo? Oltre di che, nel novembre del 1195 Arrigo non era più in
Sicilia. Sicchè egli dovette esser coronato in Palermo o nell'ottobre o
nel novembre del presente anno 1194. Neppure sussiste il dirsi da Rocco
Pirro che l'imperadrice Costanza ricevette anche essa la corona in tale
occasione. Abbiamo da Riccardo da San Germano che in quest'anno
_imperatrix Exii civitate Marchie filium peperit nomine Fredericum mense
decembri in festo sancti Stephani_. Non era ella dunque giunta per anche
in Sicilia, e da Jesi non si potè partir così presto, come ognun
comprende.

E qui si noti la nascita di questo principe, che fu poi _Federigo II
imperadore,_ della cui nascita, e del luogo dove Costanza Augusta il
partorì molte favole si leggono presso gli storici lontani da questi
tempi. V'ha anche disputa intorno all'anno della sua nascita. Ma, oltre
al suddetto Riccardo, l'Anonimo Casinense[2496] e Alberto
Stadense[2497], il fanno nato nel fine dell'anno presente, perchè il
loro anno 1195, cominciato nel dì della Natività del Signore, abbraccia
la festa di santo Stefano di quest'anno 1194. Finalmente nella vita
d'Innocenzo III papa[2498] troviamo che i principi in Germania nell'anno
1196 elessero re Federigo II _puerum vix duorum annorum, et nondum sacri
baptismatis unda renatum_: il che ci assicura doversi riferire all'anno
presente la nascita d'esso Federigo. Qual fosse la coscienza ed
onoratezza dell'imperadore Arrigo VI lo scorgeremo ora. Dopo aver tanto
speso e faticato per lui i Genovesi, richiesero il guiderdone loro
promesso, cioè il possesso di Siracusa e della valle di Noto[2499]. Andò
Arrigo per qualche tempo allegando varie scuse, e pascendo quel popolo
di varie speranze. La conclusione finalmente fu, che non solamente nulla
diede loro del pattuito, ma levò ad essi ancora tutti i diritti e
privilegii goduti da loro sotto i re precedenti in Sicilia, Calabria,
Puglia, e in altri luoghi. Proibì sotto pena della vita ai Genovesi il
dar nome di console ad alcuno in quelle parti. Anzi minacciò d'impedir
loro l'andar per mare, e giunse fino a dire che distruggerebbe Genova.
Il continuatore di Caffaro non potè contenersi dal chiamarlo un nuovo
Nerone, per così orrida mancanza di fede. Certo è che neppure i Pisani
riportarono un palmo di terra in Sicilia, e sparvero agli occhi ancora
di questi gli ampli Stati che si leggono promessi loro nel diploma di
sopra accennato. E pur poco fu questo. Nel giorno santo di Natale tenne
un solenne parlamento di tutto il regno in Palermo, e quivi cacciò fuori
delle lettere, credute dai più di sua invenzione, dalle quali appariva
una cospirazione formata contra di lui da alcuni baroni del regno. Dopo
di che fece mettere le mani addosso a moltissimi vescovi, conti e
nobili, e cacciar in prigione anche la stessa vedova regina Sibilla,
ossia Sibilia, e il figliuolo Guglielmo, fintamente da lui proclamato
conte di Lecce e principe di Taranto, dimenticando il bell'atto del re
Tancredi, che gli avea restituita la moglie Costanza, e mettendosi sotto
i piedi la fede e le promesse date alla regina e al figliuolo. Alcuni
d'essi baroni furono accecati, altri impiccati, altri fatti morir nelle
fiamme, e il resto mandato e condotto in Germania in esilio. Anche
Ottone da San Biagio fa menzione di queste crudeltà, accennate parimente
da Giovanni da Ceccano e da Innocenzo III papa in una sua lettera,
prevedute ancora da Ugo Falcando sul principio della sua Storia, che
dovettero fare un grande strepito per tutta l'Europa. Fece fino aprire
il sepolcro di Tancredi e del figliuolo Ruggieri, e strappar loro di
capo la corona regale. Sicardo, vescovo allora di Cremona, e parziale
d'Arrigo, scrive che i Siciliani se la meritarono, per aver tese insidie
allo imperadore. Ma sarebbe convenuto accertarsi prima se sussisteva la
congiura; poichè per conto dell'aver eglino preferito Tancredi a
Costanza contra del loro giuramento, non aveano essi operato ciò senza
l'approvazione del romano pontefice, al quale apparteneva il disporre di
quel regno, come di feudo della santa Sede. Vuole il padre di Pagi che
non sussista tanta barbarie dell'Augusto Arrigo in Sicilia, citando in
pruova di ciò Giovanni da Ceccano. Ma questo medesimo autore è buon
testimonio dell'inumanità d'Arrigo VI.

NOTE:

[2487] Roger. Hovedenus, Guillelm. Neubrig., Abbas Urspergens. et alii.

[2488] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Ital.

[2489] Antiquit. Ital., Dissert. L.

[2490] Richardus de S. Germano. Anonymus Casinens. Johann. de Ceccano,
Chron.

[2491] Otto de S. Blasio.

[2492] Radulph. de Diceto, Imag. Histor.

[2493] Johann. de Ceccano, Richardus de S. Germano.

[2494] Otto de S. Blasio, in Chron.

[2495] Pyrrhus, Chronolog. Reg. Sicil. et in Notit. Ecclesiast. Panor.

[2496] Anonymus Casinens., in Chron.

[2497] Albert. Stadens., in Chron.

[2498] Vita Innocentii III, num. 19.

[2499] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3.



    Anno di CRISTO MCXCV. Indizione XIII.

    CELESTINO III papa 5.
    ARRIGO VI re 10, imperad. 5.


Dopo avere _Arrigo Augusto_ sfogato in parte il suo crudel talento
contra gli aderenti del fu re Tancredi, venne in Puglia, dove tenne un
gran parlamento di baroni. Trovavasi nella corte di Sicilia _Irene_
vedova del giovane _re Ruggieri_ figliuolo di _Tancredi_. La trovò assai
avvenente _Filippo_ fratello dell'imperadore; e forse pensando egli che
questa principessa potesse anche portar seco dei diritti d'importanza,
per essere figliuola d'un greco imperadore, la prese per moglie[2500] di
consentimento di Arrigo, che allora gli diede a godere il ducato della
Toscana, e i beni della fu contessa Matilda. Vedesi presso il
Margarino[2501] un diploma d'esso Filippo coi titoli suddetti, spedito
in san Benedetto di Polirone nel dì 31 di luglio, trovandosi egli in
quel monistero. Dopo aver tenuto in Puglia il parlamento suddetto, ed
inviata l'imperadrice in Sicilia, prese Arrigo la strada di terra, per
tornarsene in Germania. Convengono tutti gli scrittori in dire ch'egli
per mare e per terra mandò in Germania innumerabili ricchezze; tutte
spoglie de' miseri Siciliani e del regale palazzo di Palermo. Arnoldo da
Lubeca scrive[2502] ch'egli _reperit thesauros absconditos, et omnem
lapidum pretiosorum et gemmarum gloriam, ita ut oneratis centum
sexaginta somariis_ (cavalli o muli da soma) _auro et argento, lapidibus
pretiosis, et vestibus sericis, gloriose ad terram suam redierit_. Bella
gloria al certo guadagnata con tanti spergiuri, coll'ingratitudine,
colla barbarie, e con lasciare in Sicilia un incredibil odio e
mormorazione contra della sua persona. Oltre ad assaissimi baroni
prigionieri, ed oltre agli ostaggi di varie città, fra' quali fu
l'arcivescovo di Salerno, seco egli menò la sfortunata regina Sibilla
con tre figliuole e col figliuolo Guglielmo, e li tenne poi sotto buona
guardia chiusi in una fortezza. Crede il padre Pagi[2503] che Arrigo
solamente nel Natale dell'anno presente imperversasse contra de'
Siciliani, e poscia se ne tornasse in Germania. Ma Giovanni da
Ceccano[2504] parla del Natale dell'anno precedente. Ed Arrigo in
quest'anno venne a Pavia, e di là passò in Germania, come si ha dagli
Annali genovesi[2505] e da altri autori. Girolamo Rossi[2506] cita un
suo diploma dato in Vormazia _IV kalendas decembris, Indictione XIIII,
anno Domini MCXCV_. L'indizione è quivi mutata nel settembre. Anche il
Sigonio accenna un suo diploma, _dato VII kalendas junias apud burgum
sancti Donnini, anno MCXCV, regni Siciliae primo_[2507]. Lasciò esso
Arrigo per suo vicario, ossia per vicerè nel regno di Sicilia il vescovo
d'Ildeseim già suo maestro, che fra tanti suoi studii non dimenticò
quello di far danaro per quanto potè. In quest'anno il celebre _Arrigo
Leone_, già duca di Sassonia e Baviera, della linea estense di Germania,
terminò i suoi giorni in Brunsvic, città restata a lui con altre
adiacenti dopo il terribil naufragio di sua grandezza. Ma in questo
medesimo anno essendo morto _Corrado conte_ palatino del Reno, zio
paterno dell'Augusto _Arrigo_, succedette ne' di lui Stati Arrigo, uno
de' figliuoli di esso Arrigo Leone, perchè marito dell'unica figliuola
del medesimo Corrado: sicchè in qualche maniera tornò a rifiorire in
Germania la potenza de' principi estensi-guelfi. Nè si dee tacere che
l'imperadore Arrigo suddetto in quest'anno creò e confermò duca di
Spoleti _Corrado_ Moscaincervello, e dichiarò duca di Ravenna e marchese
d'Ancona _Marquardo_. È considerabile lo strumento di concordia seguita
fra lui e il popolo di Ravenna, di cui Girolamo Rossi ci ha conservato
la memoria. Da esso apparisce che anche Ravenna si governava in
repubblica, ed avea il suo podestà, e giurisdizione, e rendite; ma
doveano al duca restar salve le regalie, _quas imperator, et ipse
Marchoaldus in civitate Ravennae et ejus districtu habere consuevit_. La
terza parte di Cervia apparteneva ad esso Marquardo o Marcoaldo,
un'altra all'arcivescovo, e un'altra al comune di Ravenna, che partivano
insieme le intrate massimamente del sale.

Racconta il continuatore di Caffaro che i Pisani, trovandosi in
favorevole stato alla corte imperiale, seguitarono in questi tempi a
recar insulti, danni e ingiurie ai Genovesi, e rifabbricarono anche, ad
onta di essi, il castello di Bonifazio in Corsica, che divenne un nido
di corsari, fingendo di non esserne eglino padroni. Non potendo più
reggere a tali strapazzi il popolo genovese, spedì in Corsica con varii
legni un corpo di combattenti, che a forza d'armi entrarono in
Bonifazio, e vi si fortificarono. Presero dipoi varie navi pisane, ed
altri danni inferirono a quella nemica nazione, della quale in questi
tempi ci manca l'antica istoria. Spedirono anche i Genovesi _Bonifazio_
loro arcivescovo, e Jacopo Manieri lor podestà a Pavia all'imperadore,
che prima di passare in Germania soggiornava nel monistero di San
Salvatore fuori della città, per ricordargli le promesse lor fatte e
confermate con un solenne diploma. Si accorsero in fine, nulla essere da
sperare da un principe che niun conto faceva della sua fede. Dissi già
che esso Augusto avea conceduto Crema al popolo cremonese. Anche
nell'anno presente a dì 6 di giugno[2508] lo stesso imperadore Arrigo
confermò ai medesimi Cremonesi col gonfalone l'investitura di tutti i
loro Stati, fra' quali anche la terra di Crema era compresa. Ma perchè
di questa erano in possesso i Milanesi per concessione e diploma di
Federigo I Augusto padre del regnante, nè si sentivano essi voglia di
cedere una sì riguardevol terra, restò fin qui ineffettuata la
concessione d'Arrigo. Probabilmente cadde ancora in quest'anno un altro
documento, da me dato alla luce[2509] colle note guaste, da cui
apparisce che avendo Giovanni Lilò d'Hassia, messo e camerlengo dello
imperadore Arrigo, mandato a prendere la tenuta d'essa Crema, non era
stato ammesso il suo deputato, e però egli mette al bando dell'imperio i
Cremaschi, Milanesi e Bresciani per tal disubbidienza. Quell'atto fu
fatto in Cremona _anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi MCXC,
Indictione XIII, die Mercurii tertiodecimo intrante junio_. Ma conviene
all'anno presente, in cui correa la INDIZIONE XIII; se non che il dì 13
di giugno non era in mercordi. Dalla Cronichetta Cremonese[2510] abbiamo
che in quest'anno fu qualche guerra fra essi Milanesi e Cremonesi, e che
restarono prigioni alquanti degli ultimi.

NOTE:

[2500] Conrad. Abbas Urspergens., in Chron.

[2501] Bullar. Casinens., tom. 2, Const. CCXVIII.

[2502] Arnol. Lubec, lib. 4, cap. 20.

[2503] Pagius, in Critic. Baron. ad hunc annum.

[2504] Johann., de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2505] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom 6 Rer. Italic.

[2506] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.

[2507] Sigon., de Regno Ital., lib. 15.

[2508] Antiquit. Italic., Dissert. XI, pag. 621.

[2509] Ibidem, Dissert. L.

[2510] Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXCVI. Indizione XIV.

    CELESTINO III papa 6.
    ARRIGO VI re 11, imperad. 6.


Per le crudeltà loro usate dall'imperadore Arrigo andavano tutto di i
Siciliani e Pugliesi, massimamente di nazione normanna, meditando
rivoluzioni; e verisimilmente accaddero non poche sollevazioni e
sconcerti in quelle contrade, delle quali ci dan qualche barlume, ma non
già una chiara notizia, gli antichi storici. A tali avvisi lo spietato
Arrigo (ne è incerto il tempo) fece cavar gli occhi agi' innocenti
ostaggi che erano in Germania, fuorchè a _Niccolò arcivescovo_ di
Salerno. Or mentre si trovava esso Arrigo in Germania, fu gagliardamente
sollecitato da papa _Celestino III_ a portare soccorsi in Terra santa.
Ci è permesso di credere che si prevalesse egli di questa occasione per
muovere i popoli della Germania a prendere l'armi, col fine di valersene
egli prima a gastigare i popoli di Sicilia e Puglia, siccome avea fatto
nell'anno 1194, in cui sappiamo ch'egli si servì d'alcune migliaia di
pellegrini crociati, che erano in viaggio verso la Soria, per conquistar
la Puglia e Sicilia. Infatti raunò una possente armata. Ma prima di
muoversi alla volta d'Italia, tenne una general dieta[2511], in cui
tanto si adoperò, che indusse que' principi ad eleggere re de' Romani e
di Germania il suo figliuolo _Federigo II_, ancorchè appena giunto
all'età di due anni, e non per anche battezzato. Ciò fatto, venne in
Italia. Egli si truova in Milano _secundo idus augusti_, come consta da
un suo diploma, dato, nell'anno presente, presso il Puricelli[2512].
Poscia il vediamo in Piacenza _VI idus septembris_, ciò apparendo da un
altro suo diploma pubblicato dal Campi[2513]. Da tre altri, che si
leggono nel Bollario Casinense[2514], impariamo ch'egli era in Monte
Fiascone _XIII kalendas novembris_, e in Tivoli _XVI kalendas
decembris_. Per attestato di Giovanni da Ceccano[2515], nell'ultimo
giorno di novembre arrivò a Ferentino, e vi dimorò sette giorni,
mostrando, secondo il suo finto animo, pensieri di pace e di equità. Se
n'andò poscia a Capoa, nelle cui prigioni trovò il valoroso, ma
sfortunato _Riccardo conte_ di Acerra, che poco prima, nel voler fuggire
per prevenir l'arrivo d'esso Augusto, tradito da un monaco bianco, cadde
nelle mani di Diopoldo uffiziale cesareo[2516]. Il fece giudicare, e poi
tirare a coda di cavallo pel fango di tutte le piazze, e finalmente
impiccar per li piedi, finchè morisse; nè il suo cadavero fu rimosso
dalla forca, se non dappoichè giunse la nuova della morte d'esso Augusto
nell'anno seguente. Dopo la festa del Natale s'incamminò verso la
Sicilia. Essendo in questo mentre mancato di vita senza figliuoli
_Corrado_ suo fratello duca di Alemagna, ossia di Suevia[2517], diede
quel ducato all'altro suo fratello _Filippo_, dianzi dichiarato duca di
Toscana, e mandollo a prenderne il possesso: il che fu da lui volentieri
eseguito, con tener una corte solenne in Augusta nell'agosto dell'anno
presente. Abbiamo ancora da Riccardo di San Germano che Arrigo, prima di
giugnere in quelle contrade, anzi stando in Germania, avea spedito il
vescovo di Vormacia per suo legato in Italia. Andò questo prelato a
Napoli col guerriero abbate di Monte Casino, e con molte squadre di
soldati italiani e tedeschi, _et imperiale implens mandatum, Neapolis
muros et Capuae funditus fecit everti_. Per assicurarsi di quel regno,
altro ripiego non volle adoperar questo Augusto, che quello del rigore e
terrore, duri maestri del ben operare. Coi benefizii e non colla
crudeltà si guadagnano i cuori de' popoli.

Ebbero in quest'anno i Genovesi per loro podestà Drudo Marcellino[2518],
uomo di petto, che con vigore esercitò la sua balia, non la perdonando a
malfattore alcuno, e gastigando tutta la gente inquieta; talchè rimise
in buono stato quella sì discorde città. Fra l'altre sue prodezze,
perchè molti cittadini contro i pubblici divieti aveano fabbricate torri
altissime, delle quali poi si servivano a far guerra ai lor vicini
nemici, intrepidamente le fece abbassare, riducendole tutte alla misura
d'ottanta piedi d'altezza. La continuata dissensione e guerra che in
questi tempi bolliva fra essi Genovesi e Pisani, dispiacendo al paterno
cuore di papa _Celestino III_, cagion fu ch'egli inviasse a Genova per
suo legato _Pandolfo cardinale_ della basilica de' dodici Apostoli, per
trattar di pace. Fra i deputati dell'una e dell'altra città alla
presenza di lui si tenne un congresso in Lerice sul principio d'aprile.
Questo, per cagion della vicina Pasqua, si sciolse senza frutto, e fu
rimesso ad altro tempo. Prevalendosi di tal dilazione i Pisani,
segretamente spedirono in Corsica uno stuolo di navi, credendosi di
poter levare il castello di Bonifazio ai Genovesi, ma lo ritrovarono ben
guernito. A questo rumore accorsero ancora i Genovesi con una bella
armata di mare, e andarono a sbarcare e a postarsi in Sardegna nel
giudicato di Cagliari, di cui era allora padrone il _marchese Guglielmo_
(di qual casa, io non so dire). Raunò questo marchese un esercito di
Sardi, Catalani e Pisani, per isloggiare i Genovesi; ma ne riuscì tutto
il contrario. Fu messo in fuga coi suoi, e la sua bravura gli costò
l'incendio del suo palagio e d'altri ancora. Dopo di che i Genovesi se
ne tornarono a Bonifazio. Tentarono un'altra volta i Pisani d'assediar
quel castello, ma indarno. Vennero anche a battaglia le flotte pisana e
genovese, ma con poco divario nella perdita. A quest'anno il
Sigonio[2519] e il Rossi[2520] riferiscono il matrimonio di _Azzo V_,
figliuolo di _Obizzo marchese_ di Este con _Marchesella_ degli Adelardi.
Ho io provato[2521] che molto prima di questi tempi dovettero accader
queste nozze: nozze di somma importanza per la linea estense d'Italia,
perchè aprirono alla nobilissima casa dei marchesi estensi la porta per
signoreggiare in Ferrara[2522]. Abbiam veduto di sopra all'anno 1174
qual fosse la potenza e riputazione di Guglielmo Adelardi,
soprannominato della Marchesella, per cui valore fu liberata Ancona
dall'assedio. Egli era principe della fazion guelfa in Ferrara; giacchè
erano nate e andavano crescendo le fazioni de' Guelfi e de' Ghibellini.
Salinguerra figliuolo di Taurello, ossia Torello, era il capo dell'altra
fazione. Morto egli, e mancato parimente di vita Adelardo suo fratello,
e rimasta erede dell'immensa loro eredità Marchesella figliuola di
Adelardo, fu questa sposata al suddetto Azzo estense, acciocchè egli
sostenesse il partito de' Guelfi in quella città. Da lì innanzi i
marchesi d'Este, signori del Polesine di Rovigo, di Este, Montagnana,
Badia, e d'altre nobili terre, cominciarono ad aver abitazione in
Ferrara, e a far figura di capi della fazion guelfa non solo in essa
città, ma anche per tutta la marca di Verona, di modo che lo stesso era
dire la _parte marchesana_, che la _parte guelfa_.

NOTE:

[2511] Godefridus Monachus, in Chron.

[2512] Puricellius, Monument. Basilic. Ambros.

[2513] Campi, Istor. di Piacenza, tom. 2.

[2514] Bullar. Casinens,, Constit. CCXX, et seq.

[2515] Johannes de Cercano, Chron. Fossaenovae.

[2516] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2517] Otto de S. Blasio, in Chron.

[2518] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Ital.

[2519] Sigonius, de Regno Ital., lib. 15.

[2520] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 6.

[2521] Antichità Estensi, P. I, cap. 36.

[2522] Richobald., in Pomario.



    Anno di CRISTO MCXCVII. Indizione XV.

    CELESTINO III papa 7.
    ARRIGO VI re 12, imperad. 7.


Le più strepitose avventure dell'anno presente furono in Sicilia; ma per
disavventura non han voluto raccontarle per qualche politico riguardo
gli antichi scrittori italiani di quelle parti, che erano sudditi di
_Federigo II_ Augusto, figliuolo di _Arrigo VI_ imperadore. Più ne han
parlato gli scrittori inglesi e tedeschi, ma non senza mio timore
ch'essi lontani ingannati dalle dicerie, possano ingannare ancor noi.
Scrive adunque Arnoldo da Lubeca[2523] che, giunto in Sicilia l'Augusto
Arrigo, vi fu occupato da molte traversie e battaglie, perciocchè
constava del tradimento dell'imperadrice _Costanza_ sua moglie, e degli
altri nobili di quelle contrade. Perciò, raunata gran gente a forza di
danaro, d'essi congiurati ben si vendicò, dopo averli fatti prigioni. A
colui che era stato creato re contra di lui, fece conficcare in capo una
corona con acutissimi chiodi; altri nobili condannò alla forca, al fuoco
e ad altri supplizii. Poscia in un pubblico parlamento perdonò a
chiunque aveva avuta mano in quella cospirazione, e _talibus alloquiis
multam gratiam illius regni invenit, et de cetero terra quevit_. Che
l'imperadrice Costanza mirasse di mal occhio le crudeltà del marito
contra de' poveri siciliani, e massimamente del sangue normanno, si può
senza fatica credere, perchè era nata in Sicilia, e Normanna di nazione,
e si riconosceva anche obbligata alla famiglia di Tancredi, perchè sì
generosamente rimessa da lui in libertà. Finalmente suo era quel regno,
e non del marito, nè potea piacerle ch'egli lo distruggesse col macello
di tanta nobiltà, e con votarlo di tutte le ricchezze per portarle in
Germania. Ma non è mai credibile che, avendo ella un figliuolo, potesse
consentire che altri si mettesse in testa quella corona. Par dunque più
probabile che l'imperadrice fosse in sospetto al marito Augusto d'aver
parte in quelle sollevazioni, ma non già ch'ella ne restasse convinta. E
però convien sospendere la credenza in parte di quello che scrive
Ruggieri Hovedeno[2524], storico inglese, e perciò nemico d'Arrigo, con
dire che Arrigo prese i magnati della Sicilia, e parte ne imprigionò,
parte dopo varii tormenti fece morire. Aveva dianzi dato il ducato di
Durazzo e il principato di Taranto a Margarito, ossia Morgaritone,
grande ammiraglio. Questa volta il fece abbacinare ed eunucare. Per le
quali inumanità l'imperadrice Costanza fece lega colla sua gente contra
dell'Augusto consorte; e, venuta a Palermo, prese i tesori dei re suoi
antenati; dal che incoraggiti i Palermitani, uccisero gran copia di
Tedeschi. L'imperadore fuggendo si racchiuse in una fortezza, con
pensiero di ripatriare, se gli veniva fatto; ma i suoi nemici gli aveano
serrati i passi. Credane ciò che vuole il lettore. Sicardo storico
italiano[2525], e allora vivente, scrive che Margaritone fu accecato da
Arrigo nell'anno 1194, e non già nel presente. Che in Sicilia fossero e
congiure e rumori o nel precedente, o nel corrente anno, ammettiamolo
pure. Ma che Arrigo, ito colà con un'armata di sessanta mila combattenti
fosse ridotto in quello stato, non ha molto di verisimile. Meno ne ha
che la imperadrice a visiera calata impugnasse il marito. Riceva dunque
il lettore come meglio fondato il racconto di Gotifredo monaco, di cui
sono le seguenti parole all'anno presente: _Imperator in Apulia moratur.
Ibi quosdam principes, qui in necem ejus conspirasse dicebantur,
diversis poenis occidit. Rumor etiam de eo ac de imperatrice Constantia
varia seminat, scilicet quod ipse in variis eventibus praeventus, etiam
in vitae periculo saepe constitutus sit; quod imperatricis voluntate
semper fieri vulgabatur_[2526]. Quetati i rumori della Sicilia, e
riconciliato l'imperadore Arrigo colla moglie, allora egli permise che
la gran flotta de' pellegrini, desiderosi di segnalarsi in Terra santa,
sciogliesse le vele, con aggiugnervi egli alcune delle sue squadre, e
dar loro per condottiere _Corrado vescovo_ di Wirtzburgo suo
cancelliere. Andarono, fecero alquante prodezze in quelle parti; più
ancora n'avrebbono fatto, se non fosse giunta la morte dell'imperadore,
che sbandò tutti i principi tedeschi, volendo ciascuno correre a casa,
per intervenire all'elezion del nuovo Augusto. Succedette essa morte
nella seguente forma, che si ha da Riccardo da San Germano[2527]. Fece
Arrigo venire a sè l'imperadrice Costanza sua moglie, e mentre essa era
nel palazzo di Palermo, Guglielmo castellano di Castro-Giovanni si
ribellò all'imperadore. Portossi in persona Arrigo all'assedio di quella
fortezza, e, quivi stando, fu preso da una malattia, a cagion della
quale condotto (per quanto s'ha da Giovanni da Ceccano[2528] e
dall'Hovedeno[2529]), a Messina, quivi terminò i suoi giorni nella
vigilia di san Michele, cioè nel dì 28 di settembre. Altri dicono nella
festa di san Michiele, altri nel dì quinto d'ottobre, e negli Annali
Genovesi[2530] la sua morte è riferita nell'ultimo dì di settembre.

Voce corse ch'egli morisse attossicato dalla moglie, a cui si
attribuiscono tutte le traversie patite dal marito; ma Corrado abbate
Urspergense la giustifica di tal taccia con dire: _Quod tamen non est
verisimile. Et qui cum ipso_ (Augusto) _eo tempore erant familiarissimi,
hoc inficiabantur. Audivi ego id ipsum a domno Conrado, qui postmodum
fuit abbas praemonstratensis, et tunc in saeculari habitu constitutus,
in camera imperatoris exstitit familiarissimus_[2531]. Non so io qual
fede meriti l'Hovedeno, allorchè scrive che Arrigo morì scomunicato da
papa _Celestino III_ per non avere restituito il danaro indebitamente
estorto a _Riccardo re_ d'Inghilterra, e perciò proibì il papa che se
gli desse sepoltura in luogo sacro, tuttochè l'arcivescovo di Messina
molto si adoperasse per ottenerlo. Aggiugne che lo stesso arcivescovo
venne da Roma per questo, e di tre cose fece istanza. La prima, che
fosse permesso il seppellire esso Augusto: al che rispose papa Celestino
di non poterlo concedere senza consentimento del re d'Inghilterra, e
restituito prima il maltolto. La seconda, che facesse ritirare i Romani
che aveano assediato Marquardo nella marca di Guarnieri, cioè d'Ancona:
il che dovette succedere dopo la morte dell'imperadore. E la terza, che
permettesse la coronazione del piccolo Federigo in re di Sicilia. Sono
sospetti gli scrittori inglesi in parlando di questo imperadore.
Nondimeno anche Galvano Fiamma[2532] lasciò scritto che egli morì
scomunicato. Quel ch'è più, vedremo che anche papa Innocenzo III il
pretese scomunicato da esso papa Celestino. Forse implicitamente si
pretendea incorso Arrigo nella scomunica per la violenza usata al re
d'Inghilterra; ma che espressamente fossero fulminate contra di lui le
censure, non si truova in altre memorie d'allora. All'incontro Ottone da
san Biagio, dopo aver notata la morte d'Arrigo in Messina, soggiugne:
_Ibidem cum maximo totius exercitus lamento cultu regio
sepelitur_[2533]. Sono ancora di Sicardo storico e vescovo, allora
vivente, le seguenti parole: _Anno Domini MCXVCII reversus imperator in
Italiam, in Sicilia mortuus est et sepultus_[2534]. E l'Abbate
Urspergense discorda bensì nel luogo della sepoltura, ma questa ce la dà
per certa, scrivendo[2535]: _Henricus imperator obiit in Sicilia, et in
ecclesia panormitana magnifice est sepultus_; nè alcun di essi parla di
scomunica. Comunque sia, la morte di questo Augusto fu sommamente
compianta dai Tedeschi, che l'esaltano forte, per avere stesi i confini
dell'imperio, e portati dalla Sicilia in Germania immensi tesori; ma
all'incontro essa riempiè d'allegrezza tutti i popoli della Sicilia, e
d'altri paesi d'Italia, che l'aveano provato principe crudele e
sanguinario, nè gli davano altro nome che di tiranno. Odasi Giovanni da
Ceccano[2536]:

    _Omnia cum papa gaudent de morte tyranni._
    _Mors necat, et cuncti gaudent de morte sepulti,_
    _Apulus, et Calaber, Siculus, Tuscusque, Ligurque._

Certo è che la morte di questo principe portò una somma confusione nella
Germania, e si tirò dietro un fiero sconvolgimento e una gran mutazione
di cose anche in Italia, siccome andremo vedendo. Per lume intanto di
quel che poscia avvenne, considerabile è una notizia a noi conservata
dall'autore della vita di Innocenzo III papa[2537]. Scrive egli che dopo
la rotta data, siccome vedremo, nell'anno 1200 a Marquardo marchese di
Ancona, si trovò fra' suoi scrigni il testamento del suddetto imperadore
_Arrigo VI_, con bolla d'oro, che ora si legge stampato da me e da
altri. In esso ordinava egli che _Federigo Ruggieri_ suo figliuolo
riconoscesse dal papa il regno di Sicilia; e mancando la moglie e il
figliuolo senza erede, esso regno tornasse alla Chiesa romana. Che se il
papa confermasse al figliuolo Federigo l'imperio, in ricompensa si
restituisse alla Chiesa stessa tutta la terra della contessa Matilda, a
riserva di Medicina e di Argelata sul Bolognese. Ordinò ancora a
Marquardo, _ut ducatum ravennatem, terram Brictinori, marchiam Anconae
recipiat a domino papa, et romana Ecclesia, et recognoscat etiam ab eis
Medisinam et Argelata._ E mancando egli senza eredi, vuole che quegli
Stati restino in dominio della suddetta Chiesa. Una parola non vi si
legge del ducato di Spoleti. Solamente vi si dice che sia restituita al
papa tutta la terra da Monte Paile sino a Ceperano, siccome ancora Monte
Fiascone. Secondochè abbiamo da Parisio da Cereta[2538], i Veronesi in
questo anno attaccarono battaglia coi Padovani, assistiti da _Eccelino
da Romano_, e da _Azzo marchese_ d'Este, e li sconfissero colla morte di
molti. Questo Eccelino, per soprannome il Monaco, fu padre del crudele
_Eccelino da Romano_. Di questo fatto parla ancora Gherardo
Maurisio[2539], con dire che i Vicentini dopo una gran rotta loro data
dai Padovani e dal suddetto Eccelino, per cui restarono prigionieri più
di due mila d'essi, ricorsero per aiuto ai Veronesi, i quali con sì
formidabil armata entrarono nel Padovano, guastando e bruciando sino
alle porte di Padova, che atterriti i Padovani, altro ripiego non ebbero
per liberarsi da questo turbine, che di restituire tutti i prigioni: il
che fatto, ebbe fine la guerra. Ma questo avvenimento da Rolandino vien
riferito all'anno seguente, e in altri testi all'anno 1199. Un documento
da me prodotto nelle Antichità italiane forse ci fa vedere tuttavia
_duca di Toscana Filippo_ fratello dell'imperadore Arrigo. Esso fu
scritto nell'anno 1196 nel dì 30 d'agosto, correndo l'_Indizione XV_. Ma
perchè tale indizione spetta all'anno presente, però, o ivi dovette
essere l'anno 1197, ovvero s'ha da scrivere Indictione XIV, e sarà
veramente l'anno 1196.

NOTE:

[2523] Arnold. Lubec, Chron., lib. 5, cap. 2.

[2524] Rogerius Hovedenus, Annal.

[2525] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2526] Godefridus Monachus, in Chron.

[2527] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2528] Johann, de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2529] Rogerius Hovedenus.

[2530] Caffari, Annal. Genuens., lib. 4.

[2531] Abbas Urspergensis, in Chron.

[2532] Gualvanus Flamma, in Manipul. Flor.

[2533] Otto de S. Blasio, in Chron.

[2534] Sicard., in Chron.

[2535] Abbas Urspergens., in Chron.

[2536] Johann, de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2537] Vita Innocentii III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.

[2538] Paris. de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.

[2539] Mauris., Hist., tom. 8 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXCVIII. Indizione I.

    INNOCENZO III papa 1.
    Vacante l'imperio.


Venne a morte papa _Celestino III_ nel dì 8 di gennaio, _VI idus
januarii_ dell'anno presente, e fu seppellito il corpo suo nella
basilica lateranense. A lui succedette nella cattedra di san Pietro
Lottario, figliuolo di Trasmondo conte di Segna, cardinale de' santi
Sergio e Bacco, che prese il nome d'_Innocenzo III_, e riuscì uno de'
più insigni e gloriosi pontefici che s'abbia mai avuto la Chiesa di Dio;
e al quale eterne obbligazioni professa specialmente la romana, al cui
ingrandimento non meno nel temporale che nello spirituale egli
assaissimo contribuì mercè delle prospere congiunture, e più ancora
dell'elevatezza dell'ingegno suo[2540]. Era egli allora in età di soli
trentasette anni, ma maturo di senno e ornato delle scienze, studiate in
Roma, in Parigi e in Bologna. Nella di lui vita è scritto che fu eletto
nel dì 8 di gennaio, _sexto idus januarii_. Ma, o papa Celestino dovette
morire un giorno prima, o egli esser eletto un giorno dopo; perciocchè
sappiamo che non si veniva all'elezione se non dappoichè era stata data
sepoltura all'antecessore; e questo pio cardinale _apud basilicam
constantinianam voluit decessoris exequiis interesse_. Fu poi consecrato
papa nella festa della cattedra di san Pietro, cioè nel dì 22 di
febbraio. Trovò egli smantellato il patrimonio della Chiesa romana,
perchè il poco fa defunto _imperadore Arrigo_ avea occupato tutto quasi
fino alle porte di Roma, a riserva della Campania, in cui nondimeno era
esso Augusto più temuto che il papa. Trovò ancora che niun ostacolo
restava alla sua autorità dalla parte degl'imperadori per le ragioni che
addurrò fra poco. Una delle sue prime imprese dopo la consecrazione fu
questa: _Petrum urbis praefectum ad ligiam fidelitatem recepit, et per
mantum, quod illi donavit, de praefectura eum publice investivit, qui
usque ad id tempus juramento fidelitatis imperatori fuerat obligatus, et
ab eo praefecturae tenebat honorem_. Leggesi il di lui giuramento fra le
lettere d'esso papa Innocenzo[2541]: notizia degna di osservazione per
la conoscenza de' tempi addietro e di quelli che succederono, perchè
spirò qui l'ultimo fiato l'autorità degli Augusti in Roma, e da lì
innanzi i prefetti di Roma, il senato e gli altri magistrati giurarono
fedeltà al solo romano pontefice.

Non tardò il generoso papa, giacchè più non v'era ostacolo, a ripigliare
il dominio della _Marca d'Ancona_, nulla badando alle offerte, preghiere
e larghe promesse che fece fargli _Marquardo_, già investito di quelle
contrade dal predefunto Arrigo. A riserva d'Ascoli, vennero alle di lui
mani Ancona, Fermo, Osimo, Camerino, Fano, Jesi, Sinigaglia e Pesaro: il
che ci fa intendere di quale estensione fosse allora la _marca
d'Ancona_, chiamata in altri tempi, ora di _Camerino_ ed ora di _Fermo_.
In breve ancora ricuperò dalle mani di _Corrado_ Suevo, dianzi duca di
Spoleti e conte d'Assisi, tutte quelle contrade; cioè il ducato di
Spoleti, che abbracciava le città di Rieti, Spoleti, Assisi, Foligno e
Nocera. E poscia tornarono in suo potere le città di Perugia, Gubbio,
Todi e Città di Castello. Tentò ancora di ridurre sotto il suo dominio
l'esarcato di Ravenna, Bertinoro e la terra del conte Cavalcaconte, con
ispedir colà lettere e legati; ma non gli venne fatto, perchè
l'arcivescovo di Ravenna tenne forte, allegando e mostrando le
investiture imperiali, da lungo tempo addietro date di quel paese a'
suoi antecessori e alla chiesa sua: il che fermò i passi alle
pretensioni del papa. Nè lasciò indietro papa Innocenzo la ricerca e la
ricuperazione dei beni della contessa Matilda; nel che provò non pochi
intoppi e contraddizioni. Erano da un gran tempo malcontente
degl'imperadori suevi le città della Toscana, cioè Firenze, Lucca,
Pistoia, Siena ed altre; perchè laddove tante altre città di Lombardia
godevano una piena libertà, nè sopra di loro aveano marchese o duca che
esercitasse giurisdizione, elleno sole si trovavano maltrattate, prima
da _Federigo_ Barbarossa, poi da _Arrigo_ suo figliuolo, ed ultimamente
da _Filippo_ già dichiarato duca di Toscana, figliuolo anche esso del
medesimo Federigo. Però, giacchè il vento era propizio coll'essere
mancato l'imperadore Arrigo, la cui crudeltà e potenza facea star tutti
col capo chino, si misero al forte, per non voler più sopra di loro
ministro alcuno imperiale, senza pregiudizio nondimeno della sovranità
cesarea. Strinsero dunque una lega collo stesso pontefice Innocenzo per
sostenersi colle forze unite contro chiunque in avvenire volesse
pregiudicare alla lor libertà. Simile era questa alla lega di Lombardia.
I Pisani, siccome quei soli che in Toscana godevano di tutte le regalie,
nè poteano guadagnar di più, essendo già attaccatissimi agl'imperadori,
non vollero entrare in essa lega, che noi riguarderemo da qui innanzi
per lega guelfa. Imperciocchè questo nome di _Guelfi_ e _Ghibellini_
originato, siccome accennai di sopra, dalle gare continue della casa de'
duchi ed imperadori di Suevia discendenti dalla casa ghibellina degli
Arrighi Augusti per via di donne, colla casa degli Estensi di Germania,
duchi di Sassonia e Baviera, discendenti per via di donne dagli antichi
Guelfi; questo nome, dissi, cominciò a prendere gran voga in Italia. Chi
era aderente de' papi, per custodire la sua libertà, nè essere più
conculcato dagli uffiziali cesarei, si dicea seguitar la parte o fazione
_guelfa_. E chi aderiva all'imperadore, si chiamava di parte o fazion
_ghibellina_. In quest'ultima si contavano per lo più que' marchesi,
conti, castellani, ed altri nobili, che godeano feudi dell'imperio, per
mantenersi liberi dal giogo delle città libere, le quali tuttodì
cercavano di sottomettersi alla lor giurisdizione. Vi entravano ancora
alcune città, che, oltre all'essere ben trattate dagli Augusti, aveano
bisogno della lor protezione, per non essere ingoiate dalle vicine più
potenti città. Tali furono Pavia, Cremona, Pisa ed altre. E massimamente
presero piede, siccome andremo vedendo, queste due fazioni negli anni
susseguenti, perchè risvegliossi più che mai la discordia fra le case
suddette de' Guelfi e Ghibellini in Germania, a cagione dei due re che
vedremo fra poco eletti, cioè di _Filippo duca_ di Suevia di sangue
ghibellino, e di _Ottone IV_ procedente dai Guelfi. Ai quali poi
succedette _Federigo II_ figliuolo di Arrigo VI, e perciò d'origine
ghibellina, fra i quali e i romani pontefici e varie città d'Italia
passarono sanguinose discordie; e chiunque a lui si oppose si gloriava
d'essere del partito de' Guelfi. Che sconcerti, che guerre civili, che
rovine producessero col tempo queste lagrimevoli e diaboliche fazioni,
l'andrò accennando nella continuazion della storia: giacchè penetrò a
poco a poco questo veleno nel cuore delle stesse città, rompendo la
concordia de' cittadini e delle famiglie; dal che derivarono infiniti
mali.

Intanto è da dire che _Filippo_ duca di Suevia nell'anno precedente fu
chiamato in Italia dall'imperadore _Arrigo_ suo fratello, con disegno
ch'egli conducesse in Germania il picciolo _Federigo II_, eletto già dai
principi tedeschi re de' Romani, per farlo coronare[2542]. Arrivò
Filippo sino a Monte Fiascone, e non già a Falcone, vicino a Viterbo,
dove ricevette l'avviso dell'immatura morte del fratello Augusto.
Allora, senza più mettersi pensiero del nipote Federigo, ed unicamente
ruminando i proprii vantaggi, voltò strada per tornarsene in Germania.
Talmente erano esacerbati gli animi degl'Italiani contra de' Tedeschi
pel governo barbarico di Federigo I e di Arrigo VI suo figliuolo, che
dovunque passò Filippo, sia per la Toscana, sia per le altre città, fu
maltrattato e in pericolo della vita, e restarono uccisi anche alcuni
de' suoi cortigiani. Giunto in Germania, cominciò i suoi maneggi per
essere eletto re, e gli venne fatto. Il buon uso del danaro e delle
promesse, e la protezione di _Filippo re_ di Francia operarono che
moltissimi principi della Germania, niun caso facendo del giuramento
prestato nell'elezione del fanciullo Federigo, il proclamassero re. Dopo
di che fu egli coronato non già in Aquisgrana, ma in Magonza; nè
dall'arcivescovo di Colonia, ma da quello di Tarantasia; cose tutte
contro il rituale. All'incontro _Riccardo re_ d'Inghilterra, entrato
anch'egli in questa briga, si studiò di promuovere _Ottone_, figliuolo
del già duca di Sassonia e Baviera _Arrigo Leone_, estense-guelfo, e di
_Matilda_ sua sorella, che era allora duca di Aquitania e conte del
Poitù. Confessa Arnoldo da Lubeca che Riccardo impiegò, per vincere il
punto, settanta mila marche d'argento, troppo dispiacendogli
l'esaltazione di Filippo, fratello di chi con tanta indegnità avea fatto
mercato della di lui persona. In somma da _Adolfo arcivescovo_ di
Colonia e da' suoi suffraganei, da _Arrigo duca_ di Lorena, dal vescovo
d'Argentina, e da alcuni altri vescovi, abbati e conti, di numero
nondimeno inferiore agli elettori dell'altro, fu esso _Ottone IV_ eletto
re de' Romani, e coronato dipoi in Aquisgrana. Arnoldo da Lubeca e
Ottone da San Biagio scrivono che a questa elezione intervenne anche
_Arrigo conte_ palatino del Reno, fratello maggiore di esso Ottone,
tornato in fretta da Terra santa. Ma Ruggieri Hovedeno[2543] e Federigo
monaco[2544] raccontano ch'egli arrivò dipoi, e sostenne gl'interessi
del fratello, con essersi ad Ottone uniti i vescovi di Cambray,
Paderbona ed altri, e i duchi di Lovanio e Limburgo, e il landgravio di
Turingia ed altri. Ebbe anche mano nell'elezion di Ottone IV _Innocenzo
III_ papa, perchè egli era di una casa stata sempre divota della santa
Sede, e casa che, per la sua parzialità verso i papi, avea perduti i
ducati di Baviera e Sassonia. Il perchè egli favorì la di lui elezione,
e riprovò quella di Filippo Suevo, allegando che questi era stato
scomunicato da papa _Celestino III_ per varie usurpazioni fatte dianzi
degli Stati della Chiesa romana, e rammentando gli eccessi commessi dal
padre e dal fratello suo. Lo scisma di questi due re si tirò dietro in
Germania di molte guerre, turbolenze e danni infiniti, de' quali parlano
gli storici tedeschi.

Intanto, dacchè si videro i Siciliani liberi dall'odiato imperadore
Arrigo VI per l'inaspettata sua morte, si diedero a sfogar la rabbia
loro contra de' Tedeschi che erano in quell'isola. Il che vedendo
l'imperadrice _Costanza_, che aveva assunto il governo di quel regno e
la tutela del figliuolo _Federigo Ruggieri_, con farlo venire da Jesi
(dove era stato lasciato sotto la cura de' conti di Celano e di
Copersano[2545], ovvero, come altri scrive, della duchessa di Spoleti),
e con farlo coronare dipoi, ordinò che uscissero di Sicilia le truppe
straniere: risoluzione che per allora mise in calma gli animi alterati
di quei popoli. E tanto più perchè ella, scoperte le trame e le mire di
_Marquardo_, già duca di Ravenna e marchese d'Ancona, il dichiarò nemico
del re e del regno, e volle che tutti il trattassero come tale. Inviò
poscia ambasciatori a papa Innocenzo[2546], per ottenere l'investitura
pontificia degli Stati al fanciullo Federigo. Tentò allora la corte di
Roma di profittar di questa occasione per abbattere quella che oggidì si
chiama la monarchia di Sicilia, benchè si creda che Adriano e Clemente
papi avessero conceduti que' privilegii. Su questo si disputò
lungamente. Mossesi l'imperadrice a spedire anche _Anselmo arcivescovo_
di Napoli a Roma, sperando miglior mercato dalla di lui eloquenza. Ma
più di lui sapeano parlare i ministri pontificii; e però convenne
accettar l'investitura (cosa di troppa premura in quelle circostanze)
con quelle leggi che piacquero al papa, cioè _capitulis illis omnino
remotis_, e con obbligazione di ricevere nella corte di Sicilia
_Ottaviano vescovo_ e cardinale ostiense, come legato della santa Sede.
Ma questa investitura arrivò in Sicilia in tempo che l'imperadrice era
passata all'altra vita. Certo è che la medesima finì di vivere nel dì 27
di novembre, dopo aver dichiarato balio ossia tutore del re suo
figliuolo papa Innocenzo III, ed ordinato che durante la di lui minorità
si pagassero ogni anno trenta mila tarì per tal cura ad esso pontefice,
oltre a quelli ch'egli spendesse per difesa del regno. L'educazione del
re fanciullo fu lasciata agli arcivescovi di Palermo, Monreale e Capoa.
Non mancò in questi tempi papa Innocenzo di procurare con vigorosi e
caritativi uffizii la liberazione di _Sibilia_, già moglie di Tancredi
re di Sicilia, detenuta prigione in Germania colle figliuole. Posta in
libertà, oppure aiutata a fuggire, si rifuggì essa in Francia, dove
maritò la sua primogenita con _Gualtieri conte_ di Brenna, di cui avremo
a parlare andando innanzi. V'ha chi crede che _Guglielmo_ suo figliuolo,
già dichiarato re dal padre, fosse morto. Nè si può negare che l'autor
della vita di Innocenzo III e Giovanni da Ceccano lo scrivono. Se con
certezza, nol so. Imperocchè Ottone da San Biagio racconta che Arrigo,
dopo averlo fatto accecare (altri hanno scritto che solamente il fece
eunucare), il condannò ad una perpetua prigionia in una fortezza de'
Grigioni. _Qui ubi ad virilem aetatem pervenit, de transitoriis
desperans, bonis operibus, ut fertur, aeterna quaesivit. Nam de activa
translatus coacte, contemplativae studuit, utinam meritorie_. In questo
anno i Milanesi stabilirono pace col popolo di Lodi. Lo strumento
d'essa, da me dato alla luce, fu[2547] scritto _in civitate Laude, anno
dominicae Incarnationis millesimo centesimo nonagesimo nono, die lunae V
calendas januarii, Indictione secunda_. Il dì 28 di dicembre dell'anno
presente cadde in lunedì; e però scorgiamo che in Lodi si cominciava
l'anno nuovo nel Natale, oppure nel dì 25 del precedente marzo alla
maniera pisana; e che l'indizione si mutava nel settembre. Abbiamo da
Rolandino[2548] che in quest'anno i Padovani coll'aiuto di _Azzo VI
marchese_ d'Este loro collegato andarono all'assedio della terra di
Carmignano, una delle migliori del Vicentino, e a forza d'armi se ne
fecero padroni. Antonio Godio[2549] mette questo fatto sotto l'anno
seguente. Altri testi lo riferiscono al precedente. Dopo di che i
Veronesi venuti in soccorso de' Vicentini, fecero gran danno e paura ai
Padovani, siccome ho detto nell'anno antecedente.

NOTE:

[2540] In Vita Innocentii III, num. 5.

[2541] Innocent. III, lib. 1, Epist. 577.

[2542] Otto da S. Blasio. Abbas Urspergens. Godefridus Monachus.
Arnoldus Lubecensis.

[2543] Rogerius Hovedenus.

[2544] Fridericus Monach.

[2545] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2546] Vita Innocentii III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[2547] Antiquit. Ital., Dissert. XLIX.

[2548] Rolandin., Histor., lib. 1, cap. 8.

[2549] Godius, in Histor., tom. 8 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCXCIX. Indizione II.

    INNOCENZO III papa 2.
    Vacante l'imperio.


Benchè molti odiassero in Sicilia, Puglia e Calabria il picciolo _re
Federigo II_, prole di chi avea spogliato quel regno di tante vite e di
tanti tesori; pure s'erano essi quetati al riflettere che loro tornava
meglio l'avere un re proprio, e massimamente dappoichè pareva ch'egli
non potesse aspirare alla Germania, del cui dominio disputavano allora
_Filippo_ ed _Ottone_. Ciò non ostante, sopravvennero a quel regno altri
non pensati guai, che l'afflissero molto e per lungo tempo[2550].
Marquardo, cacciato dalla marca d'Ancona, si ridusse in Puglia, nè sì
tosto ebbe intesa la morte dell'imperadrice _Costanza_, che, raunato un
esercito di Tedeschi e d'altri suoi aderenti e scapestrati, sfoderò la
sua pretensione di voler assumere il baliato, cioè la tutela del
fanciullo Federigo, a lui lasciata dall'imperadore Arrigo VI nell'ultimo
suo testamento. Era costui anche animato e spronato con occulta
intelligenza dal _re Filippo_ zio paterno di Federigo. Passò dunque,
dopo aver prese alcune castella, ad assediare la città di San Germano
sul principio di quest'anno, e impadronitosene, l'abbandonò al sacco de'
suoi, per animarli a maggiori imprese. La guarnigione dei soldati con
buona parte de' cittadini ebbe la fortuna di potersi ritirare a Monte
Casino[2551]. Fu per otto dì assediato quel sacro luogo dal Marquardo, e
forse giugnea costui a compiere le sue sacrileghe voglie, se la mano di
Dio non rompeva i suoi disegni. Era nel dì 15 di gennaio, festa di san
Mauro abbate, sereno il cielo. Sorse all'improvviso un fiero temporale,
misto di vento, gragnuola e pioggia, che rovesciò tutte le tende degli
assedianti, i quali, forzati a cercare scampo colla fuga, lasciarono
indietro tutto lo equipaggio, e inseguiti perderono anche molta gente.
Papa _Innocenzo III_, attentissimo a questi affari, siccome quegli che
era risoluto di difendere il re Federigo alla sua cura commesso, mise
anch'egli insieme un buon esercito, per distornare i progressi di
Marquardo, che mostrò di pentirsi, e tanto seppe fare, che indusse il
papa ad assolverlo dalle censure, nè stette poi molto a tradirlo. O
prima o dopo questa simulata concordia fece costui varie scorrerie per
la Puglia; mise a sacco la città d'Isernia; prese, o tentò d'occupar
varie altre terre; e si ridusse infine a Salerno, città affezionata al
suo partito. Aveva egli con precedente trattato indotti i Pisani a
fornirlo di una buona flotta di legni, e questi appunto li trovò
preparati in Salerno, quantunque papa Innocenzo, con iscrivere a Pisa
più lettere, si fosse studiato di divertire quel popolo dall'aiutar
questo perfido. Imbarcatosi dunque esso Marquardo su questa armata, fece
vela alla volta della Sicilia, dove era desiderato e aspettato dai
Saraceni, abitanti tuttavia con libertà di coscienza e di rito in
quell'isola, per timore che il papa si servisse di questa favorevol
congiuntura per iscacciarli fuori del regno. L'avea ben preveduta questa
lor ribellione Innocenzo, e ne avea scritto anche ad essi per tenerli in
dovere; ma a nulla servì. Che l'andata di Marquardo in Sicilia
succedesse nel novembre di quest'anno, lo raccolgo da una lettera d'esso
pontefice[2552], scritta a tutti i conti e baroni di Sicilia _VIII
kalendas decembris_. E però non sussiste ciò che scrive Odorico
Rinaldi[2553], con dire che riuscì in quest'anno a Marquardo di occupar
Palermo col palazzo regale, mediante una composizione seguita col conte
Gentile di Palear, lasciato ivi custode del re Federigo da Gualtieri
gran cancelliere del regno. Vero è che ciò si legge nella Cronica di
Riccardo da San Germano; ma ciò è detto fuor di sito, e forse questa è
una giunta fatta da qualche ignorante alla sua Cronica. Tale fors'anche
è il leggersi quivi poco innanzi che Diopoldo conte, cioè la man destra
di Marquardo, _a Guilielmo Casertae comite captus est, et quamdiu vixit,
eum tenuit vinculatum. Sed, eo mortuo, Guilielmus filius ejus, accepta
filia ejus in uxorem, liberum dimisit illum_. Bisognerà ben dire che
quel conte di Caserta mancasse presto di vita, perchè noi troviam da lì
a poco lo stesso Diopoldo in armi. Ciò che veramente succedette in
Sicilia, lo diremo all'anno seguente.

Più non ci essendo chi tenesse in briglia le emule città di Lombardia,
ed ita per terra la dianzi forte lega de' Lombardi, ripigliarono esse
più che prima le armi l'una contro dell'altra. Fra i Parmigiani e
Piacentini gran discordia era insorta a cagione di Borgo San Donnino.
Apparteneva quella nobil terra, non so ben dire se alla città di Parma,
oppure ai marchesi Pelavicini (oggidì Pallavicini) in questi tempi.
Arrigo VI Augusto ultimamente l'aveva impegnata ai Piacentini per due
mila lire imperiali. Guerra ne venne per questo. Abbiamo da _Sicardo
vescovo_ di Cremona[2554], allora vivente, che nel presente anno, e fu
di maggio, con grande sforzo di gente si portarono essi Piacentini
all'assedio del borgo suddetto. Negli Annali Piacentini[2555] e
Bresciani[2556] ciò è riferito all'anno precedente. Ma è più sicuro
l'attenersi a Sicardo, con cui va d'accordo la Cronica di Parma[2557].
In aiuto de' Piacentini accorsero i Milanesi, Bresciani, Comaschi,
Vercellini, Astigiani, Novaresi ed Alessandrini. Ebbero i Parmigiani
dalla loro parte le forze de' Cremonesi, Reggiani e Modenesi. Il
Malvezzi nella Cronica di Brescia scrive[2558] che anche i Pavesi e i
Bergamaschi inviarono gente in favore di Parma. Per alquanti giorni
durarono le offese dei collegati contra di Borgo San Donnino; ma
indarno, perchè stava alla difesa di quella terra un buon corpo di
animosi combattenti: il che indusse i Piacentini e collegati e battere
la ritirata. Allora i Parmigiani in armi coi lor confederati diedero
alla coda dell'armata nimica, e la fecero camminar di buon trotto sino
ai confini di Piacenza. Quivi i Piacentini e Milanesi, voltata faccia,
s'affrontarono con chi gl'incalzava. Duro fu il combattimento, da cui si
sbrigarono con gran perdita i primi; e maggiore ancora sarebbe stato il
danno, se non giugnevano a tempo i Bresciani in loro aiuto. Circa
dugento cavalieri piacentini rimasero prigioni, e furono condotti nelle
carceri di Parma. Scrivono ancora gli antichi storici che i Piacentini
uniti ai Milanesi andarono coll'oste a Castelnuovo di bocca d'Adda, e
v'ebbero cattivo mercato. Se questo sia un fatto diverso dall'altro, nol
so dire. Negli Annali di Piacenza è riferito sotto un differente anno.
Credo ben falso che di quel castello s'impadronissero, come lasciò
scritto Galvano Fiamma[2559]. Sicardo e i suddetti Annali di Piacenza
dicono il contrario. Abbiamo inoltre dal medesimo Sicardo che in
quest'anno _Veronenses Mantuanos discumfecerunt, ex eis innumeram
multitudinem captivantes_. Il che vien confermato da Parisio da
Cereta[2560], il quale notò il luogo del conflitto, cioè _in capite
pontis Molendinorum de Mantua_, oggidì Ponte Molino. E questi aggiugne
che nell'anno presente andarono gli stessi Veronesi a fabbricare il
castello d'Ostiglia sul Po. Nè si dee tralasciare che papa Innocenzo
III, avvertito della rabbiosa gara che passava fra i Piacentini e
Parmigiani a cagion di Borgo San Donnino, scrisse lettere all'abbate di
Lucedio, _V kalendas maii_[2561], incaricandolo di unirsi
coll'arcivescovo di Milano e coi vescovi di Vercelli, Bergamo, Lodi,
ec., per indurre a concordia questi popoli, con adoperar le scomuniche
contra de' renitenti. Da essa lettera apparisce che i medesimi popoli
_universam Lombardiam commoverunt ad arma, et alteri cum universis
fautoribus suis, alteris et omnibus eorum complicibus generale proelium
indixerunt_. Secondochè scrive Ottone da San Biagio[2562], passarono in
quest'anno dall'Italia in Germania, venendo da Terra santa, _Corrado
arcivescovo_ di Magonza e _Bonifazio marchese_ di Monferrato, con
commessione avuta dal papa di trovar ripiego allo sconvolgimento della
Germania per l'elezione e guerra dei due re Filippo ed Ottone.
Riuscirono inutili i lor negoziati, perchè Ottone troppo abborriva il
depor le insegne regali.

NOTE:

[2550] Innocentius III, lib. I, Epist. 557 et seq.

[2551] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae. Richardus de S. Germano.

[2552] Innocentius III, lib. 2, Epist. 221.

[2553] Raynaldus, in Annal. Eccl. ad hunc annum.

[2554] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2555] Annales Placentini, tom. 16 Rer. Ital.

[2556] Chron. Brixianum, tom. 14 Rer. Ital.

[2557] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[2558] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.

[2559] Gualvan. Flamm., in Manip. Flor., cap. 235.

[2560] Parisius de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.

[2561] Innocent. III, lib. 2, Epist. 39.

[2562] Otto de S. Blasio, in Chron.



    Anno di CRISTO MCC. Indizione III.

    INNOCENZO III papa 3.
    Vacante l'imperio.


Dopo aver prese varie terre e città in Sicilia, Marquardo coll'esercito
suo si portò all'assedio di Palermo, dove trovò difensori ben animati
alla difesa. Intanto papa _Innocenzo III_ avea spedito Jacopo suo cugino
per maresciallo, e il cardinale di San Lorenzo in Lucina con dugento
cavalli verso la Sicilia. Di un sì smilzo aiuto parla il testo della
Vita di papa Innocenzo[2563], qui forse difettoso. Che altre forze
inviasse colà il papa, si può argomentare da quanto avvenne dipoi. Lo
stesso Innocenzo, scrivendo al re Federigo, in una lettera rapportata in
essa Vita, dice di aver inviato Jacopo suo cugino _cum exercitu nostro_
in favore di lui. Riccardo da San Germano anch'egli narra che il papa
spedì in aiuto del pupillo Federigo re di Sicilia il suddetto Jacopo
_cum militari exercitu_[2564]. Dugento cavalli non formano un esercito.
Arrivò felicemente quest'armata a Messina, e quivi, inteso il tentativo
di Marquardo sopra Palermo, dopo aver fatta massa di quanti soldati
erano in favore di Federigo, si mise in marcia alla volta dell'assediata
città. Giunta che fu colà, non si dimenticò l'astuto Marquardo di far
pruova se potea addormentarli con far proposizioni di pace; e si fu
sull'orlo di conchiuderla. Ma, osservato che il papa onninamente vietava
il venire ad accordo alcuno con chi s'era già fatto sì palesemente
conoscere mancator di parola, fu presa la risoluzion di deciderla colle
spade. Nella pianura adunque posta fra Palermo e Monreale si venne nel
mese di luglio ad una sanguinosa battaglia, in cui interamente restò
disfatto l'esercito di Marquardo, colla strage di moltissimi dei suoi, e
colla perdita dell'equipaggio, in cui fu ritrovato il testamento
dell'imperadore _Arrigo VI_. Uscito ancora di città il conte Gentile
colla guarnigione, diede addosso a cinquecento Pisani, che con una gran
moltitudine di Saraceni custodivano varii siti in quelle montagne, e ne
fece un fiero macello. Per questa vittoria poi papa Innocenzo,
riconoscendola spezialmente da Jacopo suo cugino e maresciallo, che
mercè della sua buona condotta e valore corrispose in quel dì
all'espettazion d'esso papa, procurò che in ricompensa gli fosse
conceduta dal re Federigo e dal suo consiglio la contea d'Andria. Questa
vittoria avrebbe dovuto tirarsi dietro dei considerabili vantaggi per la
quiete della Sicilia: pure ad altro non servì che a liberar per allora
Palermo dagli artigli di Marquardo. Mancando i danari per pagare
l'esercito, fu questi obbligato a ripassare il mare: il che servì a far
tornare in auge l'abbattuto Marquardo, che si rinvigorì di forze, e
colle minacce e coi maneggi tornò a cercare di mettere il piede nella
corte di Palermo[2565]. E gli venne fatto. _Gualtieri vescovo_ di Troia,
allora gran cancelliere del regno, uomo di sfrenata ambizione, essendo
morto l'arcivescovo di Palermo, ebbe maniera di farsi eleggere suo
successore, ma senza poter ottenerne l'approvazione del papa, il quale
ben conosceva di che tempra fosse questo arnese. Costui non solamente
alzò sopra gli affari _Gentile conte_ di Monopello suo fratello, ma si
diede anche a trattar di concordia con Marquardo, tanto che l'introdusse
in corte, con dividersi poi amendue fra loro il governo del regno.
Sommamente dispiacque al pontefice Innocenzo questa cabala, siccome
quella che escludeva lui dal baliato del regno e dalla tutela di
Federigo; e allora fu che si sparsero delle gravi diffidenze e ciarle.
Mostrava Roma di credere più che mai che Marquardo aspirasse al regno
colla depressione del picciolo Federigo. E all'incontro il gran
cancelliere andava spacciando che papa Innocenzo macchinava delle novità
pregiudiziali al regno, coll'aver fatto venire _Gualtieri conte_ di
Brenna, di cui favelleremo fra poco, per farne un re nuovo, ad
esclusione di Federigo. Così con tutto il padrocinio di papa Innocenzo,
il quale sopra ciò scrisse lettere risentite, dettate nulladimeno da
gran prudenza, peggioravano gli affari della Sicilia.

S'è nominato poco fa Gualtieri conte di Brenna: quello stesso egli è che
avea sposata la primogenita del re Tancredi, fuggita dalle carceri di
Germania in Francia colla regina Sibilia sua madre. Povero cavaliere
egli era, ma valoroso e di rara nobiltà, parente ancora dei re di
Francia e d'Inghilterra. Volle egli far valere le pretensioni della
moglie, e venuto a Roma colla suocera e colla moglie, trovò buon accesso
presso di papa Innocenzo, a cui non dispiacque di avere un personaggio
tale dipendente da sè, non solamente per opporlo allora agli uffiziali
tedeschi, che malmettevano il regno di Sicilia e di Puglia, ma forse
anche per farlo salire più alto, caso che fosse accaduta la morte del
fanciullo Federigo. Si adoperò dunque egli con vigore, acciocchè ad esso
conte di Brenna e a sua moglie fosse conceduta la contea di Lecce col
principato di Taranto: al che s'era obbligato _Arrigo VI_ imperadore,
allorchè la regina _Sibilia_ a lui si arrendè sotto questa condizione,
con aver nondimeno ricavata promessa dallo stesso conte di non
pretendere di più, e di far guerra ai nemici del picciolo re
Federigo[2566]. Tornò il conte in Francia per condurre in suo aiuto
qualche squadra di combattenti in Italia. Ed eccolo comparir di nuovo a
Roma con pochi sì, ma scelti uomini d'armi. Con questi intrepidamente
entrò in Puglia, e tuttochè tanti fossero gli avversarii che si credeva
doverne restare ingoiato, pure, venuto a battaglia col conte Diopoldo
presso a Capoa, gli diede una rotta con istupore de' Capoani, che
saltarono fuori a spogliare il campo. Aiutò poscia il conte di Celano ad
acquistar la contea di Molise; e quindi, passato in Puglia, s'impadronì
del castello di Lecce, e poscia d'alcune città del principato di
Taranto, cioè di Matera, Otranto, Brindisi, Melfi, Barolo, Montepiloso e
d'altri luoghi; e si mise a far guerra a quei di Monopoli e di Taranto,
che non si volevano sottomettere al di lui dominio. Non furono minori in
questi tempi gli sconcerti in Lombardia, divorandosi l'una coll'altra
quelle sfrenate città. Narra Sicardo[2567] che i Milanesi e Bresciani
impresero l'assedio di Soncino, appartenente ai Cremonesi, e con poco
onore se ne partirono. Essendosi poi affrontati essi Milanesi coi Pavesi
a Rosate, rimasero sconfitti. Vennero anche alle mani i Cremonesi coi
Piacentini a Sant'Andrea vicino a Busseto, e li sbaragliarono. Secondo
gli Annali di Piacenza[2568], restarono prigionieri più di secento
sessanta Piacentini col loro podestà Guido da Mandello Milanese. Seguì
ancora un'altra battaglia al castello di san Lorenzo fra i Piacentini
dall'una parte, e i Cremonesi e Parmigiani dall'altra, colla peggio de'
primi. Per lo contrario fu conchiusa pace in quest'anno fra i Cremonesi
e Mantovani, dopo essere per alcuni anni durata la discordia e guerra
fra loro. Trovavansi assaissimi Mantovani prigioni in Cremona: per
questo motivo giovò il venire ad un accordo. Fin qui s'era mantenuta la
buona armonia del popolo di Brescia, ma si sconcertò nell'anno presente,
perchè la plebe si sollevò contro la nobiltà: disgrazia che verso questi
tempi cominciò a propagarsi per altre città. Jacopo Malvezzi[2569]
attribuisce la cagione della domestica rottura dei Bresciani all'aver
alcuni voluto unirsi coi Milanesi ai danni de' Bergamaschi: al che altri
s'opposero. Il fine della dissensione fu, che toccò ai nobili l'uscir di
città, e questi, ricorsi ai Cremonesi, coll'aiuto loro si diedero a far
guerra alla fazion popolare dominante, alla quale fu posto il nome di
Bruzella. D'altri vantaggi riportati dai Cremonesi sopra i Bresciani
parla la Cronichetta Cremonese[2570]. Cercavano anche i Romani di
dilatare il loro distretto; e però con tutte le loro forze e bandiere
spiegate andarono in quest'anno addosso a Viterbo, e talmente strinsero
e combatterono quella città, che fu astretta a sottomettersi alla lor
signoria, ossia a quella del papa. All'anno presente scrive Galvano
dalla Fiamma[2571] che nel dì 4 di settembre i Milanesi col carroccio
entrarono nella Lomellina dei Pavesi, e vi presero Mortara con
venticinque altre castella. Girolamo Rossi[2572] e il Sigonio[2573]
riferiscono che Salinguerra figliuolo di Torello, capo della fazion
ghibellina in Ferrara, all'improvviso ostilmente assalì coll'esercito
ferrarese la terra d'Argenta, e, dopo averla presa, la mise a sacco.
Accorsa una mano di Ravegnani per dar soccorso a quella guarnigione,
restarono prigioni, e, condotti nelle carceri di Ferrara, quivi
miseramente finirono i lor giorni. Per questa disgrazia, e per timore di
peggio, furono obbligati i Ravegnani a fare una pace svantaggiosa coi
Ferraresi, i capitoli della quale si leggono da me dati alla luce[2574].
Tolta parimente fu ad esso popolo di Ravenna la città di Cervia da quei
di Forlì.

NOTE:

[2563] Vita Innocentii III, num. 17, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[2564] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2565] Vita Innocentii III, num. 33.

[2566] Vita Innocentii III, num. 31, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[2567] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2568] Annal. Placentini, tom. 16 Rer. Ital.

[2569] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.

[2570] Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.

[2571] Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 233.

[2572] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.

[2573] Sigon., de Regno Ital., lib. 15.

[2574] Antiquit. Ital., Dissert. XLIX.



    Anno di CRISTO MCCI. Indizione IV.

    INNOCENZO III papa 4.
    Vacante l'imperio.


Arrivò in questi tempi al sommo l'ambizione e prepotenza di _Gualtieri
vescovo _ di Troia, eletto arcivescovo di Palermo, e gran cancelliere
del regno di Sicilia[2575]. Oltre all'aver tirato in corte il perfido
Marquardo, cominciò a farla da re, dando e levando le contee a sua
voglia, creando nuovi uffiziali, vendendo o impegnando le dogane e
l'altre rendite regali, e soprattutto sparlando di papa _Innocenzo III_,
a cagione del conte di Brenna, da lui oltremodo odiato. Tanto ancora
operò, che il legato apostolico si levò di Sicilia. Non potè più
lungamente il pontefice sofferir questi eccessi, ridondanti in dispregio
della sacra sua persona, e del baliato a lui commesso nel regno di
Sicilia. Adunque lo scomunicò e privò d'amendue le chiese, e fece
ordinar altri vescovi in suo luogo. Di più non occorse perchè,
scoppiando l'odio d'ognuno contra di costui, egli restasse abbandonato
da tutti; laonde si vide in necessità di fuggirsene dalla corte. Venuto
poi in Puglia, ed unitosi col conte Diopoldo, attese da lì innanzi a far
quanto di male poteva al sommo pontefice. E, quantunque trattasse dipoi
di riconciliarsi con _Pietro vescovo_ di Porto, legato del papa in
Puglia, pure, ostinato in non voler promettere di non opporsi al conte
di Brenna, meglio amò di persistere nella sua contumacia, che di
ottenere il perdono offertogli. Intanto Marquardo divenne onnipotente in
Sicilia. Aveva in suo potere il _re Federigo_ col palazzo, e già pendeva
da' suoi voleri tutta la Sicilia, a riserva di Messina e di qualche
altro luogo. Opinione corse che costui avrebbe usurpata la corona, se
non l'avesse ritenuto il timore del conte di Brenna, a cui, dopo la
morte di Federigo, perveniva quel regno. Ma non andò molto che colei, la
quale scompiglia tanti disegni de' mortali, pose fine anche ai suoi. Era
egli tormentato da asprissimi dolori di pietra, ed avendo voluto farsi
tagliare (giacchè ancora in que' tempi erano in uso i tagliatori di
pietra), così sinistramente andò l'operazione, che nell'atto stesso egli
spirò l'anima. Fecesi allora avanti Guglielmo Capperone, di nascita
anch'egli Tedesco, ed, occupato il palazzo reale colla persona del re
Federigo, sotto il titolo di capitan generale del regno si arrogò tale
autorità, che superò quella dello stesso Marquardo. Riccardo da San
Germano[2576] rapporta all'anno seguente la morte d'esso Marquardo, e
forse convien differirla sino a quel tempo. Vivente ancora costui, il
conte di Brenna riportò un'altra vittoria in Puglia. Quivi egli
trovavasi presso al famoso luogo di Canne, e con poche squadre di
combattenti, quando comparve a fronte di lui il conte Diopoldo con un
esercito superiore di lunga mano al suo. Al vedersi così alle strette, e
tanto più perchè il legato apostolico provvide alla sua sicurezza con
una pronta ritirata, restò pieno d'affanno. Tuttavia, rivolgendo le sue
speranze a Dio, invocato ad alta voce il nome di san Pietro, procedette
alla battaglia, che fu ben dura. Ma infine i pochi rimasero superiori ai
molti. Fece il conte alcuni riguardevoli prigioni; e dopo questi felici
avvenimenti papa Innocenzo III pensava a spedirlo in Sicilia, colla
speranza ch'egli avesse da liberare quel regno, e la corte da chi
l'opprimeva. In quest'anno ancora i Cremonesi[2577] riportarono
un'insigne vittoria. Per sostenere il partito de' nobili cacciati da
Brescia, uscirono armati in campo contro la plebe bresciana; e seguì un
fiero conflitto fra loro nelle vicinanze di Calcinato, in cui restò
sconfitto l'esercito dei Bresciani. Il loro carroccio preso
trionfalmente fu condotto a Cremona. Jacopo Malvezzi racconta[2578] che
intervennero a questo fatto d'armi i Bergamaschi e Mantovani in favor di
Cremona; che i Veronesi, chiamati in aiuto del popolo di Brescia,
erano in viaggio colle lor forze, ma non giunsero a tempo. Aggiugne che
la battaglia si diede nel dì 9 d'agosto, e vi fu grande strage dall'una
e dall'altra parte; ma tace la perdita del campo e del carroccio,
asserita dal vescovo Sicardo allora vivente. Servirono poi questi
malanni a produrre un bene; perciocchè, interpostisi gli ambasciatori
spediti da Bologna, nel mese di novembre fu ristabilita la pace fra i
Cremonesi, Bergamaschi, Comaschi e Bresciani, per cui tornò in Brescia
la nobiltà dianzi bandita, ma con serbare in suo cuore un odio
implacabile verso la plebe.

Anche nell'anno presente con gagliardo esercito entrarono i Milanesi in
Lomellina de' Pavesi, e vi diedero il guasto. Assediarono poscia
l'importante castello di Vigevano, tentato già due altre volte indarno,
e nel dì 4 di giugno se ne impadronirono, con farvi prigioni mille e
dugento Pavesi. Il nome di Vigevano è scorretto nel testo di Sicardo e
d'altri autori. Se crediamo a Galvano Fiamma[2579], _ipso armo de mense
angusti Papienses in manibus Philippi archiepiscopi juraverunt perpetuo
obedire mandatis civitatis Mediolani_. S'egli vuol dire che seguì pace
fra loro, si può credere; ma non già che i Pavesi per allora si
riducessero a giurare ubbidienza e suggezione alla città di Milano.
Prima nondimeno della perdita di Vigevano ebbero un'altra scossa i
Pavesi, raccontata nella Cronica Piacentina[2580]: cioè presso al
castello di Nigrino si azzuffò l'esercito loro con quello dei Piacentini
e Milanesi, e restò rotto, con lasciar prigionieri de' vincitori quattro
cavalieri e trecento trentadue fanti. Disfecero poscia i Piacentini la
torre di Santo Andrea, e ridussero in ottimo stato le fosse della loro
città. A cagion dell'acque del fiume Secchia, che corre fra i Modenesi e
i Reggiani, a parte delle quali volevano essere i Reggiani, quando i
Modenesi pretendeano d'averne una piena padronanza, erano state negli
anni addietro varie liti e rumori fra questi due popoli. Nell'anno
presente si diede mano all'armi daddovero. Venuti i Reggiani
coll'esercito loro fin verso Formigine di qua da Secchia, attaccarono
battaglia co' Modenesi, e li misero in rotta[2581], inseguendo i
fuggitivi sino al Prato della Tenzone, creduto da me quello in cui,
secondo i costumi delle città d'Italia d'allora, s'esercitavano
nell'armi specialmente i giovani ne' giorni di festa. Vi restarono
prigionieri più di cento cavalieri col podestà di Modena, che era allora
Alberto da Lendenara, nobile veronese. In queste guerre de' Lombardi è
da notare che d'ordinario non si perdeva la memoria dell'umanità. Si
dava quartiere a tutti, mettendo i popoli la loro gloria non già
nell'uccidere, ma nel prendere il più che poteano de' loro nemici.
Nell'anno presente conculcati i Faentini dal popolo di Forlì,
implorarono l'aiuto de' Bolognesi, i quali con possente esercito e col
carroccio andarono a campo a Forlì. Scrive il Sigonio[2582] che diedero
una rotta ai Forlivesi. Di ciò non parlano le storie bolognesi da me
date alla luce. Nè si dee tacere che, quantunque gli affari del re
_Ottone IV_ fossero in poco buona positura in Germania, e superiori
senza paragone fossero le forze del re _Filippo_, pure papa Innocenzo
nell'anno presente[2583], con ispedire a Colonia _Guido cardinale_
vescovo di Palestrina, solennemente confermò l'elezione di esso re
Ottone, e fulminò le scomuniche contra del re Filippo: il che fu
occasione a molti di sparlare d'esso pontefice. Le di lui ragioni e
giustificazioni si leggono negli Annali ecclesiastici del Rinaldi[2584].
Fece sul fine di quest'anno lega il comune di Modena con quello di
Mantova, siccome costa dallo strumento da me dato alla luce[2585].

NOTE:

[2575] Vita Innocentii III, num. 32 et seq.

[2576] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2577] Sicard., in Chron. Cremonens., tom. 7 Rer. Italic.

[2578] Malvecius, in Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.

[2579] Gualvan. Flam., in Manip. Flor.

[2580] Annal. Piacentini, tom. 16 Rer. Ital.

[2581] Memoriale Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital. Annal. Veter.
Mutin., tom. 9 Rer. Ital. Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.

[2582] Sigonius, de Regno Ital., lib. 15.

[2583] Godefridus Monachus, in Chron.

[2584] Raynaldus, in Annalib. Eccles. ad hunc ann.

[2585] Antiquit. Italic., Dissert. XLIX.



    Anno di CRISTO MCCII. Indizione V.

    INNOCENZO III papa 5.
    Vacante l'imperio.


Furono in quest'anno rivolti gli occhi di tutti gl'Italiani alla
ragguardevol crociata che s'incamminava verso Oriente per liberar la
Terra santa. Erano già tre anni che in Francia e in Fiandra e in altri
paesi oltramontani si predicava questo riguardevol impiego della pietà
cristiana per que' sacri luoghi, e non poco calore diede a tale impresa
lo zelo di _papa Innocenzo_. Capo dell'esercito dei crociati era stato
scelto il _conte di Sciampagna_; ma, venuto questi a morte, fu proposto
il bastone del comando ad _Eude duca_ di Borgogna, e a _Tebaldo conte_
di Bar, che se ne scusarono. Grande era anche di là da' monti il credito
di _Bonifazio marchese_ di Monferrato, fratello di quel valoroso
marchese Corrado, che vedemmo principe di Tiro, e proclamato in fine re
di Gerusalemme[2586]. Concorsero que' principi nel desiderio d'averlo
per generale, ed avendo spedito messi in Italia a questo fine, il
trovarono prontissimo ad assumere così nobil peso. Andò egli in Francia,
prese la croce, e concertò con que' principi la maniera dell'esecuzione.
Sei deputati vennero in Italia, e, trovato più comodo il dar principio
al viaggio per Venezia, colà s'inviarono alcuni deputati per trattarne
con _Arrigo Dandolo_, insigne doge di quella repubblica. Infine tu
risoluto che i Veneziani somministrerebbono una flotta di tanti legni
che fosse capace di condurre quattro mila e cinquecento uomini a
cavallo, nove mila scudieri e venti mila fanti con viveri per nove mesi:
il tutto col pagamento di ottantacinque mila marche d'argento. Par
credibile che in più volte, e non in una sola, si avesse a far lo
trasporto per mare di tanta gente e cavalli. Ne fu scritto al pontefice
Innocenzo[2587], che lodò bensì questo pio movimento dei cristiani, ma
rispose che l'approverebbe con un patto ed obbligazione, cioè che non
fosse loro permesso di nuocere ai cristiani, se non in caso che
volessero frastornare il loro passaggio. Non piacque ai Veneziani questa
condizione, perchè già andavano meditando di valersi in lor pro di
questa spedizione. Comparvero dunque nell'anno presente a Venezia in
folla principi, vescovi e nobili di Francia, di Fiandra, di Borgogna e
d'altre contrade, e a migliaia i crociati, tutti vogliosi di far
prodezze in Oriente per la fede. Molti Italiani vi concorsero, e fra gli
altri _Sicardo vescovo_ di Cremona, il quale per conseguente nella sua
Storia, da me data alla luce, può parlar di quegli avvenimenti con
fondamento. Ma con tutte le pratiche fatte dal pontefice Innocenzo per
pacificar insieme i Genovesi e Pisani, affinchè poi secondassero colle
lor forze l'impresa meditata di Terra santa, nulla si potè ottener da
loro, prevalendo più in lor cuore l'odio particolare, che il bene
universale della cristianità. Fra questi apparati della guerra sacra
venne a frammischiarsi un altro affare di tal rilievo, che in breve lo
vedremo d'accessorio divenir principale. Ad _Isacco Angelo_ imperador
dei Greci aveva _Alessio_ suo fratello levato nell'anno 1495 gli occhi e
il trono, e tenuto fin qui in istretta prigione _Alessio_ suo nipote,
figliuolo del suddetto[2588]. Ebbe questo giovane principe la fortuna di
salvarsi; e, venuto a Roma, si presentò ai piedi di papa Innocenzo III,
implorando giustizia contro il tiranno suo zio. Se ne andò poscia in
Germania a trovar la _regina Irene_ moglie del _re Filippo_, sorella
sua. Filippo, veggendo già disposto il passaggio de' crociati in
Levante, caldamente raccomandò a Bonifazio marchese di Monferrato la
persona e gl'interessi di questo suo cognato.

Avevano intanto i Veneziani allestita la gran flotta promessa pel
trasporto del preparato esercito; ma a muoverla s'incontrarono varie
difficoltà, la maggior delle quali era, che mancava molto a compiere il
pagamento accordato dai principi crociati. Il ripiego che si trovò, fu
di obbligarsi i Franzesi e i Fiamminghi di dar mano ai Veneziani per
ricuperare la città di Zara, loro occupata negli anni addietro dal re
d'Ungheria. Fece dunque vela nel dì 8 di ottobre da Venezia l'armata
navale, in cui s'imbarcò lo stesso doge Dandolo, benchè vecchio, e
benchè quasi cieco; ed arrivò nel dì 10 di novembre a Zara. Cercarono
quegli abitanti di rendersi, ma per mala intelligenza fu presa quella
città e messa a sacco, con dividersi le ricche spoglie d'essa fra i
conquistatori. Ne furono poi atterrate tutte le mura e fortificazioni,
per levare ai cittadini la comodità di ribellarsi in avvenire. La troppo
avanzata stagione consigliò l'armata a passare il verno in quelle parti.
Sommamente dispiacque al pontefice Innocenzo questa prima impresa de'
crociati, perchè fatta contra di _Arrigo re_ d'Ungheria, il quale aveva
anche esso con Andrea suo fratello presa la croce, e perchè eseguita
contro la precedente proibizione del medesimo papa, al cui giudizio
s'erano rimessi gli Zaratini. Ne scrisse perciò delle gravi doglianze
all'esercito de' crocesignati[2589], trattandoli come scomunicati, e
loro comandando la restituzione di quella città. Ma Bonifazio marchese
di Monferrato giudicò meglio di non lasciar correre la lettera
pontificia, per timore che si sciogliesse in fumo tutta la spedizione.
Essendo morto in quest'anno, oppure nel precedente, Marquardo arbitro
della Sicilia, ed avendo prese le redini del governo Guglielmo
Capperone, siccome dicemmo, ad onta dal papa, si formò contra di lui una
fazione degli aderenti dello stesso Marquardo. Non lasciò Gualtieri gran
cancelliere, già vescovo di Troia, di pescare in questo torbido.
Maneggiossi egli colla corte di Roma, e, prestato giuramento di ubbidire
ai comandamenti del pontefice, impetrò l'assoluzione della scomunica.
Dopo di che passò in Sicilia, ed unissi cogli avversarii del Capperone,
mostrandosi tutto attaccato alla santa Sede, quantunque non potesse più
riavere le mitre perdute. Lo strepito della crociata fu cagione che in
quest'anno si osservasse tregua dal più delle città. Contuttociò i
Modenesi, non potendo digerire la vergogna della battaglia perduta nel
precedente anno coi Reggiani, nel presente, chiamati in aiuto i
Ferraresi e Veronesi coi lor carrocci (il che portava seco il maggior
nerbo della gente di quelle città), passarono ostilmente all'assedio di
Rubiera di là dal fiume Secchia; e coi mangani cominciarono a tormentar
quella terra, e dare il guasto al paese, senza che potessero i Reggiani
col soccorso dei Bolognesi impedir questi danni. Secondo le Croniche di
Bologna[2590], Rubiera fu presa. Dell'assedio bensì, ma non
dell'acquisto parlano gli Annali di Modena[2591]. E quei di Reggio[2592]
scrivono che non fecero danno alcuno a quel castello. Cerio è che
s'interposero Lupo marchese, podestà allora di Parma, e Guarizone ed
Aimerico, amendue podestà di Cremona, per condurre a pace questi popoli
sì animati l'un contra dell'altro. La pace fu conchiusa nella ghiara di
Secchia nel dì 6 d'agosto, e giurata da Manfredi Pico podestà di Modena,
e da Gherardo figliuolo di Rolandino bolognese, podestà di Reggio. Fu
divisa l'acqua di Secchia, e rilasciati i prigioni. Lo strumento si vede
da me dato alla luce[2593]. Abbiamo anche dalla Cronica Piacentina[2594]
che in questo anno i Cremonesi e Parmigiani andarono all'assedio di
Fiorenzuola, nobil terra de' Piacentini, senza sapersene l'esito.

NOTE:

[2586] Vita Innocent. III. P. I, tom. 3 Rer. Ital. Albericus Monachus.
Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital. Bernardus Thesaur., tom. 7 Rer.
Ital.

[2587] Vita Innocentii III, num. 83.

[2588] Villharduinus, Sicard., in Chron. Dandul., in Chron. Niceta, in
Chron. Abbas Urspergens., in Chron. Vita Innocentii III.

[2589] Innocentius III, lib, 5, Epist. 161.

[2590] Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Italic.

[2591] Annales Veteres Mutinens.

[2592] Memorial. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.

[2593] Antiquit. Italic., Dissert. XLIX.

[2594] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCIII. Indizione VI.

    INNOCENZO III papa 6.
    Vacante l'imperio.


Strepitose furono le imprese fatte dai Latini in quest'anno, non già in
servigio di Terra santa, come richiedeva l'impegno da lor preso, ma in
favore del giovane _Alessio_, figliuolo del deposto imperadore _Isacco
Angelo_[2595]. Passò a Zara il predetto principe Alessio, dove fu con
onore accolto dal Dandolo doge di Venezia, e dal marchese di Monferrato;
e loro fatte varie promesse, qualora l'aiutassero a ricuperare il
perduto imperio, e con parte della flotta, essendo l'altra incamminata
innanzi, dirizzò le prore verso l'Epiro. La città di Durazzo il
ricevette come suo principe. Sbarcarono in Corfù, e quegl'isolani
promisero di suggettarsi a lui, dappoichè avesse conquistata la città di
Costantinopoli. Tale appunto in fine fu il disegno di que' principi per
favorire quel fuggiasco principe, mossi dalle raccomandazioni del re
Filippo di Germania, e dalla parentela del re di Francia, contratta coi
greci Augusti, mercè delle nozze di _Agnese_ figliuola di _Lodovico re_
con _Alessio Comneno_; ma più per isperanza di ricavar danari e viveri,
senza i quali non vedeano la maniera di arrivare in Soria o in Egitto,
secondo il primo loro concerto. Vero è che il papa Innocenzo, informato
delle mire d'essi, proibì loro per varie ragioni d'invadere gli Stati
del greco Augusto; ma essi, figurandosi forse ch'egli così scrivesse per
politica, e che internamente avrebbe caro il lor pensiero, seguitarono
il lor viaggio fino a Costantinopoli. Ciò che ivi operassero, s'io
volessi prendere a raccontarlo, mi dilungherei troppo dall'assunto mio.
In brevi parole dirò, che fatta la chiamata ad Alessio Angelo,
occupatore del trono imperiale, nè volendo egli cedere, ruppero i Latini
la catena del porto: con che liberamente in quel porto entrarono tutte
le lor navi. Per terra e per mare impiegarono sette giorni per espugnar
la città. Nell'ottavo uscì Alessio fuori con trenta mila cavalli e
infiniti pedoni, disposto a dar battaglia ai Latini; ma, veduta la lor
fermezza, fece vista di differire al dì seguente il fatto d'armi; ma,
venuta la notte, segretamente presa la fuga, si ritirò ad Andrinopoli.
Rinforzò allora l'esercito latino gli assalti, ed entrò per forza in
Costantinopoli, con molta strage de' Greci, e saccheggio dei loro averi.
Cavato dalle carceri il cieco Isacco Angelo, fu riposto sul trono; e
proclamato imperatore anche Alessio suo figliuolo, per cui la festa era
fatta, nel mese di luglio solennemente ricevette la corona nel gran
tempio di santa Sofia. Marciò poscia coll'esercito contra del fuggitivo
Alessio suo zio ad Andrinopoli; lo sconfisse, e l'obbligò a cercarsi un
più lontano ricovero. Non so io se prima o dopo quest'ultima azione
succedesse ciò che sono per dire. Ossia che i Greci per l'antico odio, o
per le fresche perdite, non sapendo soffrire i Latini, ne andassero di
quando in quando uccidendo, come scrive Sicardo, oppure, come altri ha
scritto, perchè una mano di Fiaminghi i Pisani volle dare il sacco alle
case e alle moschee de' Saraceni abitanti di Costantinopoli: diedesi
principio un dì ad una fiera mischia fra i Latini e Greci. Attaccato il
fuoco ad alcune case, perchè soffiava forte il vento, si dilatò
ampiamente per la città, e fece un orrido scempio d'innumerabili chiese,
palagi e case. Gran bottino riportarono ancora i Latini da questo fiero
accidente. Il resto lo accennerò all'anno seguente.

Sembra che nel presente anno per qualche disgusto ricevuto dai Romani,
non mai quieti, _papa Innocenzo_ uscisse di Roma, e si ritirasse a
Ferentino. _Nonis maji_, scrive Giovanni da Ceccano, _indignatione
Romanorum dominus papa venit Ferentinum_[2596]. Lettere sue quivi
scritte si leggono. Andò ad Anagni, dove, colto da una grave infermità,
diede motivo alla voce ch'egli fosse morto[2597]. Fu questo un colpo
mortale a _Gualtieri conte_ di Brenna, perchè su tali dicerie alcune
città se gli ribellarono, e fra le altre Matera, Brindisi ed Otranto.
Anche Baroli si sottrasse all'ubbidienza di Jacopo, cugino del papa, il
quale ricuperò poi le città di Andria e di Minerbio. Inviò papa
Innocenzo in Sicilia per suo legato _Gherardo cardinale_ di Santo
Adriano suo nipote, con isperanza di dar pace a quegli affari, dappoichè
Gualtieri gran cancelliere, e il Capperone, benchè nemici, si mostravano
dispostissimi a voler quel solo che piacesse ad esso papa. Non
corrisposero gli effetti alle parole. Il cardinale, dopo essere stato
alquanti giorni in Palermo, si ritirò a Messina, per quivi aspettar le
risoluzioni del pontefice zio. Prosperarono in quest'anno gli affari del
_re Ottone_ in Germania[2598] con singolar piacere del papa che il
proteggeva. Ma in Brescia si riaccese la pazza discordia[2599]. Dopo
avere per qualche tempo i nobili covato il lor odio contro la plebe, e
meditata vendetta per gli affronti e danni patiti in addietro, la
eseguirono nel gennaio dell'anno presente, dimenticando i giuramenti
della precedente pace. Tutti dunque in armi assalirono il basso popolo,
che fece quella resistenza che potè. Ne uccisero molti, e più ne
costrinsero a cercar colla fuga l'esilio. Racconta il Sigonio[2600]
sotto quest'anno un gran movimento de' Bolognesi, incitati dalla
ambizione, figliuola della potenza e grassezza, per islargare il lor
territorio, con danno dei Modenesi; ma senza poter trarre alla loro lega
i Cremonesi e Parmigiani collegati di Modena. Anzi, per evitare questa
guerra, spedirono i Parmigiani a Bologna Matteo da Correggio lor
podestà, e i Cremonesi i lor ambasciadori per pregare e consigliare il
popolo di Bologna che si degnasse di rimettere in loro la cognizion di
tali differenze. Rispose Guglielmo, podestà di Bologna, di non volere
compromettersi nè in loro, nè in persone religiose. Il male è vecchio.
Chi ha più forza, dee anche aver più ragione. Leggesi quest'atto nelle
mie Antichità Italiane[2601].

NOTE:

[2595] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital. Villharduinus. Godefridus
Monach. Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2596] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2597] Vita Innocentii III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[2598] Godefridus Monachus, in Chron.

[2599] Malvecius, in Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.

[2600] Sigonius, de Regno Ital., lib. 15.

[2601] Antiquit. Ital., Dissert. XLIX.



    Anno di CRISTO MCCIV. Indizione VII.

    INNOCENZO III papa 7.
    Vacante l'imperio.


Gran mutazione di cose succedette in Costantinopoli nell'anno presente.
Non sapeano i Greci mirar di buon occhio il nuovo loro imperador
_Alessio_[2602], perchè s'era servito de' Latini a salire sul soglio con
tanto loro obbrobrio e danno. Insorse ancora lite fra esso Alessio e i
Latini a cagion delle paghe promesse ai medesimi, il compimento delle
quali si andava troppo differendo. Perciò la nobiltà greca elesse
imperadore un certo _Costantino_, e il popolo ne elesse un altro, cioè
_Alessio_ soprannominato Murzulfo; nè solamente l'elesse, ma il fece
anche coronare Augusto. Questo crudele mise tosto le mani addosso al
giovane Alessio Augusto; e cacciatolo in prigione, o col veleno, o in
altra guisa il levò dal mondo. Poco stette a tenergli dietro _Isacco
Angelo_ suo padre, vinto dal dolore, oppure aiutato da altri ad uscire
di questi guai. Questi avvenimenti funesti quei furono che fecero
prendere allora, se pur non vi pensavano prima, una risoluzione
all'armata latina d'impadronirsi di Costantinopoli, e di piantarvi il
loro dominio. Il Continuatore di Caffaro[2603] vorrebbe farci credere
che finto fu il disegno di que' principi cristiani di passare in Terra
santa; e il vero essere stato fin sul principio quello di sottomettere
al loro comando l'imperio de' Greci. Assalirono dunque con battaglia di
terra e di mare quella regal città. Murzulfo dopo qualche difesa,
considerando la bravura altrui e il pericolo proprio, si ritirò in salvo
fuori della città; laonde in fine i cittadini capitolarono la resa nel
mese di marzo, la quale non si sa intendere perchè fosse seguitata dal
sacco di quell'augusta città, per cui tutti i soldati arricchirono, e da
altri eccessi e disordini, di cui è capace in tali congiunture la
sfrenata licenza della gente di guerra. Quetati i rumori, fu proposto
nel consiglio di que' vittoriosi principi di eleggere un imperador
latino, e il più degno fu creduto Baldovino conte di Fiandra. Poscia,
secondo i patti, fu fatta la division dell'imperio. Ai _Veneziani_ toccò
la quarta parte, consistente in varie provincie, isole e città,
specificate tutte ne' documenti aggiunti alla Cronica di Andrea
Dandolo[2604], e inoltre la facoltà di eleggere il patriarca latino di
Costantinopoli. Questo onore toccò per quella volta a _Tommaso
Morosino_. A _Bonifazio marchese_ di Monferrato in sua parte fu
confermato il regno di Tessalonica, ossia di Salonichi, coll'isola di
Candia. Agli altri signori furono concedute in feudo altre provincie e
terre. Prima di questi sì strepitosi avvenimenti il pontefice _Innocenzo
III_, o prevedendo, o sapendo cosa andassero macchinando i principi
crociati, avea con varie lettere e minaccie cercato di rimuoverli dal
danneggiare l'imperio greco, perchè di cristiani. Mostrossi anche in
collera per tale conquista; ma da saggio se la lasciò passare ben tosto,
perchè sotto di lui era accaduto un sì gran cambiamento di cose,
vantaggioso non poco alla santa Sede e alla Chiesa latina, con cui,
volere o non volere, non tardarono ad accordarsi i Greci, da che Dio
avea cotanto umiliato la loro superbia.

In quest'anno _Gualtieri conte_ di Brenna, collegato con Jacopo conte di
Tricarico e con Ruggieri conte di Chieti, prese Terracina. Assediato poi
dal conte Diopoldo e dai Salernitani, e ferito da una saetta, restò
privo d'un occhio; ma al soccorso di lui si affrettarono i due conti
suddetti, e il liberarono. Tutto ciò abbiamo da Riccardo da San
Germano[2605], il quale aggiugne che il soprascritto Diopoldo fu
ignominiosamente coi suoi cacciato di Salerno. Profittando i Pisani
delle discordie che bollivano in Sicilia, trovarono maniera
d'impossessarsi della città di Siracusa, con obbligare a ritirarsi molti
di que' cittadini, e fin lo stesso vescovo e i di lui fratelli[2606].
Ciò udito da' Genovesi, tra per l'odio antico contra de' Pisani, e
perchè da _Arrigo VI_ Augusto era stata loro assegnata in dominio quella
città, vennero in parere di levarla ai Pisani. Unitesi dunque varie loro
navi ed armatori nell'isola di Candia, si portarono a Malta, e tirarono
con esso loro in lega _Arrigo conte_ di quell'isola, valoroso signore,
che in persona con varie galee e colla sua gente accorse alla meditata
impresa. Nel dì 6 d'agosto arrivarono sotto Siracusa, e cominciarono le
offese contra dei difensori, e dopo sette giorni a forza d'armi
v'entrarono, con tagliare a pezzi assaissimi Pisani, e rimettere in casa
il vescovo co' suoi fratelli. Ritennero per sè quella città, e il
lasciarono un governatore che la reggesse a nome della repubblica di
Genova, se pur non gliela diedero in feudo. Ma in Genova una fiera
tempesta di mare affondò varie loro navi mercantili, con gravissimo
danno di merci e danari. Vi fu anche una sedizione d'alcuni cittadini
contro del podestà, che, colla mediazione di persone religiose e d'altri
savii, si sopì ben presto. Anche in Piacenza la divisione entrò fra gli
ecclesiastici e laici di quella città[2607], e toccò ai primi, siccome
inferiori di forze, col loro vescovo _Grimerio_ di abbandonare la città;
e tuttochè papa Innocenzo fulminasse le censure contro gli autori di
tali eccessi, per tre anni e mezzo stettero quegli ecclesiastici esclusi
dalla città. Era stato in addietro lo studio delle città libere quello
di sottomettere al loro imperio i castellani e nobili che godeano feudi
indipendenti dalle città, con ampliare il loro distretto per quanto
poterono. Si rivolsero poi contra de' vescovi, abbati ed altri
ecclesiastici, parendo loro che possedessero troppe giurisdizioni e beni
in pregiudizio del comune: e, senza rispettare i sacri canoni, gli
andarono spogliando di molte terre e di varii diritti, e mettendo
talvolta anche delle taglie sopra i loro stabili. Ciò che fece Piacenza,
si truova in altri anni praticato da altre città; perciocchè l'esempio è
un efficace maestro del mal fare. La nuova della presa di Costantinopoli
sparsa per Italia cagione fu che circa mille Cremonesi[2608] presero il
viaggio verso colà, sulla speranza d'arricchire anch'essi alle spese de'
Greci. Erano già vicini i Bolognesi e i Modenesi a romperla[2609]; e
bisogna ben credere che il popolo di Modena si sentisse debole di polso;
imperocchè sul principio di gennaio giunse a compromettere le differenze
che vertivano cogli avversarli, nello stesso podestà di Bologna, ch'era
Uberto Visconte. Ciò che doveva aspettarsene, avvenne. Nel dì 9 di
maggio proferì egli il laudo, che stendea i confini del Bolognese sino
alla Muzza, con patente ingiustizia. Se ne lagnarono forte i Modenesi;
ma, per non potere di più, chinarono la testa, e sofferirono i colpi
della contraria fortuna. Noi vedremo ritrattato lo stesso laudo da
_Federigo II_ Augusto all'anno 1226. Cercarono poi essi di rifarsi
contra de' capitani e castellani del Frignano, viventi in libertà in
quelle montagne che dai Liguri Friniati presero il nome: il che diede
motivo ai Parmigiani di accorrere col loro carroccio alla difesa di que'
popoli. Crema in quest'anno[2610] restò tutta consumata dal fuoco. Non
si era per anche ammogliato _Azzo VI_ marchese d'Este. L'anno fu questo,
in cui egli solennizzò le sue nozze con _Alisia_, figliuola di Rinaldo
principe d'Antiochia, che portò nella famiglia estense il nome di
Rinaldo, una ricca dote e un nobilissimo parentado. Imperciocchè una
sorella fu maritata[2611] in _Manuello Comneno_ imperador de' Greci, e
un'altra, per nome _Agnese_, divenne moglie di _Bela re_ d'Ungheria. Di
questo matrimonio, siccome ancora d'altri atti spettanti ad esso
marchese, ho io parlato nelle Antichità Estensi[2612].

NOTE:

[2602] Pipinus, in Chron. Bononiens., tom, 9 Rer. Ital. Sicard., in
Chron. Godefridus Monachus, in Chron.

[2603] Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Italic.

[2604] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2605] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2606] Caffari, Annal. Genuens., lib. 4.

[2607] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2608] Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.

[2609] Annales Veteres, Mutinens., tom. 11, Rer. Ital.

[2610] Gualvan. Flamma, in Manipul. Flor.

[2611] Alberic. Monachus, Trium Font., in Chron.

[2612] Antichità Estensi, P. I, cap. 39.



    Anno di CRISTO MCCV. Indizione VIII.

    INNOCENZO III papa 8.
    Vacante l'imperio.


Terminò in quest'anno _Gualtieri conte_ di Brenna la carriera del suo
vivere[2613]. Passava il suo valore in temerità. Essendo consigliato da
chi gli volea bene di aver più guardia a sè stesso, diede una risposta
da Guascone, con dire prosuntuosamente che i Tedeschi armati non
oserebbono di assalire Franzesi disarmati. Non andò molto che ne fece la
pruova. Aveva egli messo l'assedio al castello di Sarno, entro cui
rinserrò il conte Diopoldo, e se ne stava con poca guardia. Accortosene
Diopoldo, una mattina per tempo co' suoi in armi andò a fargli una
visita, ma non da amico; e trovato lui co' suoi, che nudi agiatamente
dormivano fra le morbide piume, ne fece un macello. Il conte ferito da
più saette e lancie, condotto prigione nel castello, da lì a pochi
giorni spirò l'anima, lasciando gravida la moglie sua, chiamata da Rocco
Pirro Alteria, o Albiria, figliuola del già re Tancredi, la quale, dopo
aver partorito un figliuolo, in cui fu ricreato il nome del padre, passò
alle seconde nozze con Jacopo conte di Tricarico. _Giovanni conte_ di
Brenna suo fratello fu dipoi creato re di Gerusalemme. Sbrigatosi
Diopoldo da questo bravo avversario, e tornatosene vittorioso a Salerno,
dove teneva in suo potere la torre maggiore, prese molti Salernitani, e
come traditori li punì a suo talento. Infausto riuscì l'anno presente
anche ai Latini signoreggianti in Costantinopoli[2614]. Portatosi lo
imperador _Baldovino_ all'assedio di Andrinopoli, fu quivi preso vivo
dai Bulgari, e poi barbaramente ucciso. In luogo suo fu alzato al trono
_Arrigo_ suo fratello. Per attestato del Continuatore di Caffaro[2615],
_Bonifazio marchese_ di Monferrato e re di Tessaglia, ossia di
Salonichi, si portò all'assedio di Napoli di Malvasia e di Corinto, dove
tuttavia signoreggiava quell'Alessio che tirannicamente aveva usurpata
la corona del greco imperio. Il fece prigione colla moglie e col
figliuolo, e li mandò in una nave di Porto Venere sino a Genova. Di ciò
avvisato _Guglielmo marchese_ suo figliuolo, corse immantenente a
Genova, e, presi questi illustri prigionieri, seco li condusse in
Monferrato. Confessa nulladimeno Sicardo vescovo di Cremona che in
quest'anno il suddetto marchese Bonifazio _a Graecis et Blachis_
(Bulgari erano costoro) _multa passus est_; e che la fortuna nell'anno
presente favorevole fu ai Greci, contraria ai Latini. In quest'anno
ancora, conoscendo il suddetto marchese di non poter tenere l'isola di
Candia, ne fece vendita ai Veneziani per mille marche d'argento, e tanti
poderi, che rendessero dieci mila perperi di entrata ogni anno. Lo
strumento si legge presso Benevento da San Giorgio[2616]. Si rodevano
intanto i Pisani per cagion di Siracusa, tolta loro da' Genovesi, e per
ansietà di ricuperarla, fecero in quest'anno un grande armamento, ed
ebbero soccorso dal conte Rinieri e da altri Toscani. Con queste forze
andarono a mettere l'assedio a Siracusa, e la strinsero per tre mesi e
mezzo. Mossesi allora _Arrigo conte_ di Malta con quattro galee ben
armate, e, venuto a Messina, vi trovò alcune navi de' Genovesi, ed altre
ne unì per soccorrere quella città. Dichiarato generale di quella
flotta, da Messina passò alla volta di Siracusa. Gli vennero incontro i
Pisani con dodici galee ed altri legni, ed attaccarono battaglia, ma con
lor danno; perchè, a riserva di cinque galee di Lombardi che presero la
fuga, l'altre vennero in potere de' Genovesi. Uscito anche di Siracusa
Alemanno conte di quella città, diede addosso ai Pisani ch'erano in
terra, e li mise in rotta, con prendere le bandiere, tende e bagaglio
del campo loro. Succedette questo fatto nel lunedì avanti alla Natività
del Signore.

Molte altre prodezze e prese di ricche navi mercantili veneziane fatte
da esso Arrigo conte di Malta, e l'aiuto da lui prestato al conte di
Tripoli, si leggono negli Annali Genovesi. In questi tempi la pirateria,
ossia il fare il corsaro, era un mestiere che non dispiaceva neppure a
molti cristiani; e questo conte non era l'ultimo a praticarlo. All'udire
i Genovesi, erano corsari i Pisani, e lo stesso nome veniva dato da
altri ai Genovesi. Riuscì in quest'anno al popolo di Modena[2617] di
ridurre con amichevol trattato i capitani, cioè i nobili padroni di
terre e castella nel Frignano, a sottomettersi alla loro comunità, con
divenir cittadini di Modena, promettere di abitar in essa città qualche
mese dell'anno, e di militare, secondo le occorrenze, in aiuto del
comune. Così il distretto di Modena ripigliò gli antichi suoi confini, e
così andavano anche facendo le altre città libere d'Italia. Abbiamo da
Gerardo Maurisio che in quest'anno _venit studium scholarium in civitate
Vicentiae, et duravit usque ad potestariam domini Drudi_[2618], cioè
sino all'anno 1209. Antonio Godio[2619] anche gli attesta che nell'anno
presente _studium generale fuit in civitate Vicentiae, doctores que in
contrata sancti Viti manebant_. I primi ad istituire lo studio delle
leggi nel secolo undecimo o duodecimo furono i Bolognesi, e in quella
sola città durò per molti anni questo ornamento, con essersi a poco a
poco aggiunti anche i lettori di lettere umane, di filosofia e medicina.
Mirando poi gli altri popoli quanto onore e vantaggio venisse a Bologna
dal gran concorso degli scolari, s'invogliarono di nobilitar le loro
città con somigliante studio. Ciò specialmente fecero anche i Modenesi e
i Padovani: del quale argomento ho io trattato altrove[2620]. Era in
questi tempi capo della fazion ghibellina in Ferrara _Salinguerra_
figliuolo di Torello. Capo della guelfa tanto in quella città, che per
tutta la marca di Verona, era _Azzo VI marchese_ d'Este. Fra sì
contrarii genii ed impegni troppo era difficile che lungamente durasse
la concordia. In fatti, secondo la Cronica di Bologna[2621], nell'anno
presente il marchese Azzo, non gli piacendo che Salinguerra avesse
fortificata la Fratta, castello ne' confini dei suoi Stati, gliel prese
e lo dirupò: il che fu principio delle tante dissensioni che seguirono
poscia fra loro. La Cronica Estense[2622] parla di questo fatto all'anno
1189; ma fuor di sito, a mio credere, perchè solamente nell'anno
seguente fra questi due emuli si accese la guerra. Essendo mancato di
vita in Costantinopoli l'insigne doge di Venezia _Arrigo Dandolo_ nel dì
primo di giugno, portatane la funesta nuova a Venezia, si venne nel dì 5
d'agosto all'elezione d'un nuovo doge, e questa cadde nella persona di
_Pietro Ziano_[2623] conte d'Arbe, figliuolo del già doge _Sebastiano_.

NOTE:

[2613] Richardus de S. Germano, in Chron. Vita Innocentii III, P. I,
tom. 3 Rer. Ital.

[2614] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital. Nicetas et alii.

[2615] Caffari, Annal. Genuens., tom 6 Rer. Ital.

[2616] Benvenuto da S. Giorgio, Storia del Monferrato.

[2617] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.

[2618] Maurisius, Hist., tom. 8 Rer. Ital.

[2619] Godius, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.

[2620] Antiquit. Italic., Dissert. XLIV.

[2621] Chron. Bononiense, tom. 17 Rer. Ital.

[2622] Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.

[2623] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCVI. Indizione IX.

    INNOCENZO III papa 9.
    Vacante l'imperio.


Dopo tanta opposizione fatta fin qui da Diopoldo conte tedesco a papa
_Innocenzo III_ in Puglia, costui finalmente cercò di rimettersi in
grazia d'esso pontefice[2624], con promettergli una totale ubbidienza e
sommissione, e specialmente per gli affari del governo del regno di
Sicilia. Fu dunque chiamato a Roma, ed ottenuta che ebbe l'assoluzion
dalle scomuniche, con licenza del sommo pontefice se ne tornò a Salerno.
Sperava Innocenzo col braccio di questo ministro di ristabilir la pace,
e insieme la sua autorità nella corte reale di Palermo. Passò infatti
Diopoldo, secondo l'Anonimo Casinense[2625], in quest'anno, oppure, come
ha Riccardo da san Germano, nell'anno seguente in Sicilia; e tanto si
adoperò con Guglielmo Capperone, che l'indusse a consegnare il
giovinetto _re Federigo_ nelle mani del cardinale legato. Ma Diopoldo si
trovò ben presto tradito. Fu sparsa voce ch'egli con sì belle apparenze
era dietro ad impossessarsi del re, e ad atterrare lo stesso Capperone e
Gualtieri gran cancelliere, che cozzavano da gran tempo fra loro.
Fondata, o immaginata che si fosse dai malevoli una tal diceria, la
verità è che, avendo Diopoldo preparato un convito per solennizzare la
pace fatta, contra di lui fu svegliata una sedizione, in cui preso, egli
andò a far delle meditazioni in prigione. Ma non vi si fermò molto,
perchè ebbe chi Io aiutò a fuggire; e fortunatamente uscito di Palermo,
si ricoverò di nuovo a Salerno. Allora il gran cancelliere giunse ad
aver in suo potere il re Federigo. Circa questi tempi _Bonifazio
marchese_ di Monferrato fu coronato re di Tessalia; ed abbiamo dal
Continuatore di Caffaro[2626] che in Genova furono armate quattro galee
per condurre a Costantinopoli una figliuola d'esso marchese, destinata
in moglie ad _Arrigo_ di Fiandra, nuovo imperador latino in quelle
parti. Proseguiva con calore l'astio e la guerra fra i due competitori
nel regno germanico, cioè tra Filippo di Suevia e Ottone
estense-guelfo[2627]. Ebbe una rotta in quest'anno il _re Ottone_: il
che indusse il popolo di Colonia ad accomodarsi col re Filippo. Trovossi
allora Ottone a mal termine, e, portatosi a Brunsvich, dopo aver dato
buon sesto a' suoi affari, passò in Inghilterra a chiedere soccorso al
_re Giovanni_ suo zio, e vi fu ricevuto con grande onore sì dal re, come
da tutti i baroni. Dopo esservisi trattenuto per qualche tempo, se ne
tornò in Germania, portando seco un gagliardo rinforzo di danaro. Verso
questi tempi i nobili, che soli governavano Brescia[2628], vennero fra
loro alle mani, e si sparse molto sangue: il che fu cagione che fu
richiamata in città quella plebe che n'era stata cacciata. Ma poca
durata in quella sconvolta città ebbe la pace. Sorse Alberto conte di
Casalalto, che aspirava al comando sopra gli altri, e si venne all'armi.
Coi suoi aderenti fu forzato a fuggirsene dalla città, e continuò dipoi
la guerra civile. Essendo mancato di vita in questo anno _Filippo_
arcivescovo di Milano, in luogo suo venne eletto _Uberto da Pirovano_,
il quale, secondo le pruove addotte dal signor Sassi[2629], fu insieme
cardinale della santa romana Chiesa. Terminò ancora i suoi giorni
_Alberto_ arcivescovo di Ravenna, ed ebbe per successore _Egidio_
vescovo di Modena[2630]. Entrò in quest'anno la discordia anche nella
città di Verona. _Bonifazio conte_, figliuolo di _Sauro_ conte di San
Bonifazio, che era chiamato conte di Verona, non già perchè la
governasse allora, ma perchè era discendente dagli antichi conti, o,
vogliam dire, governatori perpetui di quella città, siccome del partito
de' Guelfi, ebbe controversie[2631] coi Monticoli, ossia Montecchi,
potenti cittadini di Verona, di partito contrario. Nel di 14 di maggio
venute alle mani queste due fazioni, seguì un fiero conflitto; e
soccombendo i Monticoli, si sottrassero colla fuga al pericolo di
peggio. Furono in questa occasione bruciate le case loro, le botteghe
de' mercatanti e le case dei nobili dalla Carcere e di Lendenara.

NOTE:

[2624] Richardus de S. Germano.

[2625] Anonymus Casinens., in Chron.

[2626] Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Ital.

[2627] Godefridus Monachus, in Chron. Alberic. Monachus, in Chron.

[2628] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.

[2629] Saxius, in Not. ad Sigon., de Regno Ital.

[2630] Annal. Veter. Mutin., tom, 11 Rer. Ital. Rubens, Hist. Ravenn.,
lib. 6.

[2631] Paris. de Cereta, Chron. Veronense, tom. 8 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCVII. Indizione X.

    INNOCENZO III papa 10.
    Vacante l'imperio.


Era in grande auge di gloria e di potenza _Bonifazio marchese_ di
Monferrato, perchè re di un bel regno, cioè di Salonichi e della
Tessalia. All'udire[2632] che i Saraceni aveano assediata Satalia,
benchè non di sua giurisdizione, non potè contenersi il suo valore
dall'accorrere in aiuto de' cristiani. Ma, venuto a battaglia con
quegl'infedeli, ferito da una saetta avvelenata, diede gloriosamente
fine alla sua vita. Restarono di lui due figliuoli maschi, _Guglielmo_,
che fu marchese di Monferrato, e _Demetrio_, a cui toccò la corona del
regno tessalico. Soggiornava in Salerno il conte Diopoldo[2633], mal
soddisfatto de' suoi emuli che governavano la Sicilia, e probabilmente
anche della corte di Roma. Insorsero dissapori fra lui e i Napoletani, e
si venne a decidere col ferro la loro contesa. Rimasero disfatti i
Napoletani, con gravissima loro perdita di gente. Fra gli altri prigioni
vi restò Giffredo da Montefuscolo, che era loro generale. Essendo
prevaluta in Verona la fazione de' Guelfi, per fortificarla maggiormente
si studiarono essi di avere per loro podestà in quest'anno _Azzo VI
marchese_ d'Este: uffizio ben volentieri accettato da lui, perchè
l'andare per podestà nelle città libere d'allora si chiamava _andare in
signoria_, cioè andar a fare il principe in quelle città[2634]. Unitosi
dunque col _conte Bonifazio_ da San Bonifazio, nobile e potente signore
tanto in Verona che nel suo distretto, cominciò il marchese ad esercitar
con vigore il suo governo. Ma i Montecchi esiliati, ai quali troppo
dispiaceva la patita depressione, collegatisi col marchese _Bonifazio d
Este_, zio d'esso Azzo, e alieno da lui per liti civili, e con Eccelino
da Onara, padre del crudele Eccelino, e non già del conte Bonifazio da
San Bonifazio, come per qualche errore de' copisti si legge nella
Cronica di Parisio da Cereta[2635], furtivamente introdotti una notte in
Verona, costrinsero il marchese Azzo ad abbandonar la città. Allora fu
che anche _Salinguerra_, capo de' Ghibellini in Ferrara, scopertosi
intrinseco amico di Eccelino, cacciò da quella città tutti gli aderenti
del marchese Azzo, e senza lasciar più luogo a lui, cominciò a farla da
signore di Ferrara. Ma che non andasse impunita l'insolenza di costoro,
lo vedremo all'anno seguente. Ritirossi il marchese alla terra della
Badia, e negli altri suoi Stati, dove attese a far gente. Parla di
questo fatto anche la Cronica Estense[2636], con aggiugnere che
Salinguerra prese in quest'anno ai Ravennati la grossa terra d'Argenta,
e, consegnatala alle fiamme, se ne tornò trionfalmente a Ferrara con
assaissimi prigioni. Fin l'anno addietro _papa Innocenzo III_, che vedea
in gran declinazione gli affari del _re Ottone_ in Germania, ricevute
che ebbe lettere di gran sommessione dal _re Filippo_[2637], siccome
personaggio provveduto di una buona bussola per sapere con vantaggio
navigare secondo i venti, cominciò a parlar dolce con esso Filippo; e,
spediti in quest'anno in Germania due cardinali legati, diede ordine che
si trattasse di pace. V'ha chi scrive[2638] essersi questa conchiusa con
obbligarsi il re Filippo di dare una sua figliuola per moglie al re
Ottone col ducato della Suevia. Altri niegano che seguisse accordo
alcuno; e giacchè non si potè ottener altro, i legati stabilirono una
tregua d'un anno, e fecero depor l'armi a Filippo. Ciò non
ostante[2639], papa Innocenzo diede mano ad un accomodamento proprio con
Filippo, disposto a dargli la corona dell'imperio, tuttochè avesse già
riconosciuto Ottone per legittimo re de' Romani. Racconta Corrado abbate
Urspergense d'avere inteso da persone veridiche che Filippo si guadagnò
l'animo del pontefice colla promessa di concedere in moglie a Riccardo
fratello d'esso papa, già fatto conte, una sua figliuola, e di dargli in
dote la Toscana, Spoleti e la marca d'Ancona. Probabilmente queste
furono dicerie de' fautori del re Ottone, oppure di coloro che
facilmente fanno gl'interpreti de' gabinetti de' principi. Per altro non
dimenticò mai questo pontefice, in mezzo ai pubblici affari, i privati
della propria casa. Sparsasi poi per l'Italia la nuova del favorevol
ascendente del re Filippo, non perde tempo _Azzo VI marchese _ d'Este ad
inviar deputati in Germania, per ottener la conferma delle appellazioni
della marca di Verona, cioè di Verona, Vicenza, Padova, Trivigi, Trento,
Feltre e Belluno, e l'investitura di cinque ville poste nel territorio
di Vicenza, per sè e per la principessa _Alisia_ sua moglie. Leggonsi
questi due diplomi, spediti in Argentina _XIV kalendas julii_, nelle
Antichità Estensi[2640]. Un altro diploma, con cui Filippo concede in
feudo a _Tommaso conte_ di Savoia nel dì primo di giugno alcune
castella, mentre stava in Basilea, si legge presso il Guichenon[2641].

NOTE:

[2632] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.

[2633] Anonymus Casinens., in Chron. Richardus de S. Germano.

[2634] Roland., lib. 1, cap. 9. Gerard. Maurisius, tom. 8 Rer. Ital.

[2635] Parisius de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Italic.

[2636] Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.

[2637] Arnold. Lubec., lib. 7, cap. 6.

[2638] Abbas Urspergens., in Chron.

[2639] Arnol. Lubec., Chron., lib. 7, cap. 6. Albert. Stad., ad annum
1207.

[2640] Antichità Estensi, P. I, cap. 39.

[2641] Guichenon, Histoire de la Mais. de Savoye, tom. 3.



    Anno di CRISTO MCCVIII. Indizione XI.

    INNOCENZO III papa 11.
    Vacante l'imperio.


Già il tutto era disposto per la riconciliazione ed esaltazione del _re
Filippo_; già avea egli spedito i suoi ambasciatori a PAPA INNOCENZO III
per la confermazione dei capitoli accordati coi legati apostolici:
quando un funesto accidente scompigliò e rovesciò tutti questi
disegni[2642]. Soggiornava il re Filippo in Bamberga, raunando un
potente esercito contra del _re Ottone_, oppur contra di _Waldemaro re_
di Danimarca, collegato d'esso Ottone. Trovandosi alla sua corte Ottone
palatino conte di Witelspach, uomo facinoroso, sdegnato con esso Filippo
per alcune cagioni, e specialmente per non aver potuto impetrare da lui
in moglie _Cunigonda_ di lui figliuola, benchè ne fossero seguiti gli
sponsali o le promesse: nel giorno in cui s'era Filippo fatto salassare
ad amendue le braccia, chiese udienza per parlargli. Ammesso nella
camera del re, sguainato il ferro, con un sol colpo vibrato alla testa,
lo stese morto a terra. Sbrigato poi con altri colpi da chi voleva
arrestarlo, e salito co' suoi nei preparati cavalli, felicemente si mise
in salvo. Quest'orrido eccesso, commesso nel dì 21 di giugno, oppure nel
seguente, si tirò dietro la detestazione di tutti, e massimamente del re
Ottone, che nulla ebbe che fare nella risoluzion presa da questo
assassino. Tornò bensì in vantaggio di esso Ottone l'altrui iniquità;
perciocchè, tenuta una dieta ad Alberstad, quivi con unanime consenso
dei principi fu di nuovo eletto re de' Romani e di Germania. Poscia in
un altro più solenne parlamento congregato in Francoforte nella festa di
san Martino, non solamente ricevette le regali insegne, ma conchiuse
ancora un altro importante affare, cioè di prendere in moglie _Beatrice_
figliuola dell'ucciso re Filippo, la quale gli portò poi in dote
trecento cinquanta castella, e gli altri allodiali della casa di Suevia,
quasichè per nulla si contasse allora _Federigo II re_ di Sicilia,
nipote d'esso Filippo. Così per tutta la Germania rifiorì la pace e la
tranquillità; e papa Innocenzo, dopo aver detestato l'assassinio fatto a
Filippo, rivolse tutto il suo studio e le sue carezze in favore del re
Ottone. Attese dal suo canto anche Ottone a guadagnarsi gli animi de'
principi già suoi avversarii, con rinunziare particolarmente alle
pretensioni sue sopra quegl'immensi Stati, de' quali era stato spogliato
a' tempi di Federigo Barbarossa il duca _Arrigo Leone_ suo padre.

Per vendicarsi dell'affronto ricevuto nell'anno addietro in Verona dagli
emuli suoi, _Azzo VI, marchese_ d'Este[2643] congregò un potente
esercito di Lombardi, Romagnuoli e della marca di Verona, e massimamente
ebbe in suo aiuto il comune di Mantova. Con queste forze entrato in
Verona, s'impadronì di qualche fortezza. In aiuto della fazione
contraria dei Montecchi accorse Eccelino da Onara, soprannominato poi il
Monaco, con un buon corpo di gente. Vennero anche i Vicentini fino alle
porte, per desiderio di metter pace; ma guerra vi fu, e si venne a
battaglia nella Braida di Verona, in cui, dopo ostinato combattimento e
strage di molti, la vittoria si dichiarò in favore del marchese.
Fuggirono i Montecchi, e si fecero forti nelle rocche di Garda e di
Peschiera. Le lor torri e case in Verona furono diroccate, e da lì
innanzi il marchese Azzo col conte di San Bonifazio signoreggiò, finchè
ebbe vita, in quella città. Ho ben io raccontato questo avvenimento
sotto l'anno presente colla scorta di Rolandino[2644]. Ma Parisio da
Cereta[2645] mi par più degno di fede, perchè scrittor veronese, e non
men antico dell'altro. Questi lo riferisce all'anno 1207, e ci assicura
che quel conflitto accadde nel dì 29 di settembre, festa di san Michele.
Scrive ancora Rolandino che il suddetto Eccelino, padre del crudele
Eccelino, restò prigione del marchese, che il trattò con gran cortesia
ed onorevolezza, e infine, donatagli la libertà senza riscatto, il fece
nobilmente accompagnare fino a Bassano. E quivi Rolandino prorompe in
lode di questi tempi, ne' quali sì buon trattamento si faceva ai nemici
prigionieri, laddove cinquanta anni dappoi ogni sorta di crudeltà si
cominciò a praticar contra di essi. Gherardo Maurisio, scrittore
parzialissimo della casa d'Eccelino, scrive ch'egli ebbe la fortuna di
salvarsi co' suoi dopo la rotta suddetta; e che avendo poi il marchese
Azzo messo l'assedio alla fortezza di Garda, e ridottala a tale, che già
alla guarnigione erano mancati i viveri, Eccelino con alcune schiere
d'armati raunati in Brescia comparve all'improvviso sotto Garda, e la
fornì di vettovaglie per un anno: sicchè fu obbligato il marchese a
ritirarsi. All'incontro abbiamo dal poco fa mentovato Parisio che Garda
fu presa dal marchese, e condotti prigioni ad Este quei difensori: il
che vien anche asserito da Andrea Dandolo[2646].

Qui non si fermò l'attività e il valore del marchese d'Este. Venuto a
Ferrara con grande sforzo di genie, ne cacciò _Salinguerra_ capo de'
Ghibellini. E allora fu che il popolo di Ferrara, per mettere fine alle
interne sue turbolenze, determinò di mettersi nelle braccia d'un solo, e
di proclamare per suo signore il marchese. Fu eseguito il pensiero, e
data a lui una piena balia sopra quella città e suo distretto con uno
strumento che si legge nelle Antichità Estensi[2647]. Di questo suo
dominio in Ferrara abbiamo anche la testimonianza di Gherardo Maurisio.
Negli Annali antichi di Modena[2648] è scritto che Salinguerra, cacciato
da Ferrara, si ricoverò in Modena. E merita riflessione che il predetto
marchese Azzo fu il primo, per quanto io sappia, che acquistasse
principato in città libere per volere de' cittadini, acciocchè
cessassero gli abbominevoli effetti delle fazioni e guerre civili: il
che servì poscia d'esempio ad altre per fare lo stesso. Venivano allora
così fatti principi considerati come capi delle repubbliche, perchè
tuttavia restava il nome e l'autorità d'esse repubbliche. La lega fatta
dallo stesso marchese colla città di Cremona, nelle suddette Antichità
Estensi si può leggere. E d'un'altra stabilita col popolo di Ravenna
parla Girolamo Rossi[2649]. Ricuperò ancora il marchese la fortezza di
Peschiera, e quivi caduti nelle sue mani i Montecchi, li mandò nelle
carceri d'Este. A quell'assedio intervennero i Veronesi e Mantovani coi
loro carrocci. Truovasi poi nei suddetti Annali di Modena che in questo
anno il popolo modenese andò in aiuto de' Mantovani, perchè loro si era
ribellata Suzara. Secondo la Cronica di Reggio[2650], all'assedio di
quella terra furono i Mantovani, il marchese d'Este, i Modenesi e
Cremonesi. Ma sopraggiunti i Reggiani coi loro collegati, si sciolse
quell'assedio. Quali fossero questi collegati, si raccoglie dagli Annali
di Modena, nei quali è scritto sotto il presente anno: _Bononienses cum
suo carroccio. Imolenses, et Faventini iverunt in servitio Regiensium
per burgos civitatis Mutinae_. Ed ecco come in questi tempi erano sempre
in armi e in moto i popoli della Lombardia, per opprimersi o difendersi
l'un l'altro. La lor libertà era un gran bene, ma insieme un gran male
la loro ambizione ed inquietudine. Se crediamo agli storici moderni
della Sicilia, Inveges, Pirro ed altri, il pontefice _Innocenzo III_
nell'anno presente per mare si portò a Palermo, e vi arrivò nel dì 30 di
maggio, per dar sesto agli affari del re Federigo. Sono favole, fondate,
a mio credere, sopra una lettera d'esso papa, in cui dice d'essere
_entrato nel regno_. Ma questa sua entrata altro non vuol dire, se non
ch'egli andò a Sora, ricuperata con altre terre in quest'anno dalla
tirannide degli uffiziali tedeschi, delle quali creò egli conte
_Riccardo_ suo fratello. Poscia se n'andò a San Germano e a Monte
Casino. Questo è tutto quello che di lui raccontano l'autore anonimo
della sua Vita[2651], l'Anonimo Casinense[2652] e Riccardo da San
Germano[2653]. Se il pontefice avesse fatto un viaggio fino in Sicilia,
siccome avvenimento tanto più considerabile, non l'avrebbono taciuto
quegli autori. Aggiungasi che esso Riccardo storico e Giovanni da
Ceccano[2654] minutamente descrivono i passi di questo pontefice, con
dire ch'egli nel dì 16 di giugno, uscito di Roma, andò ad Anagni, poscia
a Piperno, al monistero di Fossanuova, e nel dì 23 d'esso mese a San
Germano, dove tenne un parlamento coi baroni del regno per aiuto del re
_Federigo_, e per la pace di quelle contrade. Che luogo dunque resta
all'immaginato suo viaggio in Sicilia?

Racconta Galvano Fiamma[2655] che in quest'anno i Milanesi, udita
l'esaltazione di Ottone IV re, non più dubbiosa, gli spedirono
ambasciatori fino a Colonia, pregandolo di venire a ricevere la corona
del regno d'Italia. Duranti le discordie passate fra la nobiltà e la
plebe di Brescia, era venuta alle mani de' Cremonesi la terra di Ponte
Vico. Vollero i Bresciani ricuperarla, e la strinsero d'assedio. Si
mossero bensì i Cremonesi, con avere in aiuto il marchese d'Este; ma
sopraggiunti i Milanesi collegati de' Bresciani, misero in rotta il
campo cremonese, con far prigionieri quattrocento de' loro uomini a
cavallo; e Ponte Vico tornò in potere de' Bresciani. Nella Cronichetta
di Cremona[2656] è scritto di Assagito da San Nazario, potestà in
quest'anno di Cremona: _Hic suo tempore cepit Pontevicum, et suo tempore
perdidit_. Aveva _Arrigo conte_ di Malta[2657] fiancheggiato dai
Genovesi, tolta ai Veneziani l'isola di Creta, ossia di Candia,
nell'anno 1206. Inviarono in quest'anno i Veneziani una flotta contra di
lui; ma furono rotti, e restò prigione Rinieri Dandolo loro ammiraglio.
L'insigne storico veneto Andrea Dandolo[2658] differentemente parla di
questi affari: cioè che nell'anno 1206 fu spedito Rinieri Dandolo con
una armata di galee trentuna, il quale prese Leone Vetrano corsaro
genovese con galee nove di suo seguito; dal che nacque guerra fra i
Genovesi e Veneziani. Impadronissi ancora il suddetto Rinieri di Corfù,
Modone, Corone, Atene e d'altri luoghi. In questi tempi Arrigo chiamato
Pescatore, conte di Malta, colle forze de' Genovesi mise piede in
Candia, coll'impadronirsi di molto paese. Nell'anno 1207 l'armata veneta
giunta colà, ricuperò la capitale dell'isola, e mise in fuga il Maltese,
con prendergli quattro navi. Nell'anno presente, uscito in campagna esso
Rinieri Dandolo contra d'alcuni ribelli, ferito da una saetta in un
occhio, terminò i suoi dì, e fu seppellito nella città di Candia.
Seguitò poi la guerra coi Genovesi; ma pare che l'isola di Candia
restasse interamente sotto il dominio veneto. Ebbero anche i Veneziani
il possesso di Negroponte e di Cefalonia, ed infeudarono quei paesi per
lor minore fastidio ad alcuni nobili.

NOTE:

[2642] Arnold. Lubecensis, lib. 7, cap. 14. Otto de S. Blasio. Abbas
Urspergens. Godefridus Monachus.

[2643] Gerardus Maurisius Hist., tono. 8 Rer. Ital.

[2644] Roland., lib. 1, cap. 9.

[2645] Paris. de Cereta, Chron., tom. 8 Rer. Ital.

[2646] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2647] Antichità Estensi, P. I, cap. 39.

[2648] Annal. Veter. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.

[2649] Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 6. Parisius de Cereta, in Chron.,
tom. 8 Rer. Ital.

[2650] Memoriale Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.

[2651] Vita Innocentii III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[2652] Anonymus Casinensis, in Chron.

[2653] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2654] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2655] Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 241.

[2656] Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.

[2657] Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Ital.

[2658] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCIX. Indizione XII.

    INNOCENZO III papa 12.
    OTTONE IV imperadore 1.


Solennizzò in quest'anno con dispensa pontificia _Ottone IV_ re de'
Romani in Wirtzburg le sue nozze con _Beatrice_ figliuola del _re
Filippo_ ucciso[2659]. Aveva egli messo al bando dell'imperio _Ottone_
conte palatino di Witelspach uccisore del medesimo, e confiscati i di
lui Stati, con distribuirli a varie persone. Questi nell'anno presente
colto da Arrigo di Calendin maresciallo, restò con più ferite tolto dal
mondo. Inviò in Italia _Volchero_ patriarca d'Aquileia a riconoscere i
diritti imperiali, e a disporre le città per la sua venuta. Sopra di che
è da leggere il Sigonio. Acconciò egli intanto tutti i suoi affari con
_papa Innocenzo III_, per poter passare a Roma, e ricevere la corona
imperiale. Tutto quanto seppe dimandare il pontefice, fu
liberalissimamente accordato e promesso da lui, mentre era nella città
di Spira, con obbligarsi di restituire alla Chiesa romana _tutta la
terra di Radicofani sino a Ceperano, la marca d'Ancona, il ducato di
Spoleti, la terra della contessa Matilda, la contea di Bertinoro,
l'esarcato di Ravenna, la Pentapoli, e tutto quanto era espresso in
molti privilegii d'imperadori e re dai tempi di Lodovico Pio_. Ciò
fatto, Ottone, dopo aver celebrata in Augusta la festa de' santi
Apostoli Pietro e Paolo, con forte esercito per la valle di Trento calò
in Italia. Passò l'Adige sopra un ponte fabbricato dai Veronesi[2660],
da' quali pretese e ricevette la rocca di Garda. Furono a pagargli il
tributo de' loro ossequii _Azzo VI marchese_ d'Este, ed Eccelino da
Onara, fra' quali passavano nimicizie, ed, altercando insieme, si
sfidarono alla presenza d'esso re. Curioso è quanto racconta il Maurisio
dell'incontro di questi due emuli, e della cura ch'ebbe Ottone di
pacificarli, e de' sospetti poi conceputi di loro. Ne ho parlato nelle
Antichità Estensi. Ordinò egli al marchese di rimettere in libertà i
prigioni; e fu ubbidito. Venne Ottone verso Modena[2661], e si attendò
nel distretto di Spilamberto. Indi, per testimonianza di Ottone da San
Biagio[2662], passò a Bologna, dove concorsero tutti i principi e
deputati delle città d'Italia, e vi fu fatta gran corte e festa. Di là
portossi a Milano, ricevuto con gran pompa ed allegria da quel popolo.
In tale occasione gli storici milanesi scrivono[2663] che esso re prese
nella basilica di santo Ambrosio la corona del regno d'Italia, nè per
tal funzione volle chiedere o ricevere quella contribuzion di danaro
che, secondo il costume, si pagava dai popoli. Tristano Calco[2664]
differisce all'anno seguente la di lui coronazione italica: il che
sembra poco verisimile, l'uso essendo stato che la corona del regno
d'Italia precedentemente alla romana si conferisse. Ma certo non
sussiste il dirsi da Galvano Fiamma, che Ottone fosse coronato nel
_sabato_ santo di quest'anno, perchè egli non era per anche disceso in
Italia; e tal asserzione può piuttosto persuaderci l'opinione del
Calchi, che riferisce la di lui coronazione in Milano al sacro giorno di
Pasqua dell'anno susseguente. Dopo aver quivi dato ordine agli affari
del regno d'Italia, si rimise in viaggio il re Ottone, e, passato
l'Appennino, per tutta la Toscana fu ben veduto ed accolto. Trovò a
Viterbo papa Innocenzo[2665], che l'aspettava; e concertata con lui la
coronazione romana, e confermati i giuramenti, continuò il viaggio alla
volta di Roma coll'esercito suo, accresciuto di molte migliaia
d'Italiani, e andò ad accamparsi nelle vicinanze di san Pietro, cioè
della basilica vaticana. In essa poi dalle mani di papa Innocenzo III
ricevette l'imperial corona e benedizione. Il giorno di sì solenne
funzione è controverso fra gli storici[2666]. Alcuni la scrivono fatta
nel dì 27 di settembre, giorno di domenica, altri nella seguente
domenica, giorno 4 d'ottobre. Non ho io trovato finora lumi bastanti per
decidere questo dubbio, parendomi nulladimeno più probabile la seconda
opinione. Accompagnò Ottone colla corona in capo il pontefice sino alla
porta di Roma fra la gran calca delle sue truppe, e tornossene dipoi al
suo padiglione.

Ma questa gran festa ed allegria mutò ben presto aspetto. Ossia, come
vogliono alcuni[2667], che accidentalmente venissero alle mani i Romani
coi Tedeschi a cagione di qualche danno o insolenza loro fatta; oppure,
secondo altri, che il popolo romano pretendesse quei grossi regali, che
da alcuni precedenti Augusti erano stati lor fatti nella coronazione
romana, e Ottone ricusasse di soddisfarli; certo è che seguì fra i
Romani e Tedeschi una calda baruffa, e la peggio toccò alle genti del
novello imperadore. _Non sine strage magna suorum_, dice Riccardo da San
Germano[2668]. Giordano ed Alberico monaco dei tre Fonti[2669]
amplificando, a mio credere, questo avvenimento, scrivono: _Multi de
Teutonicis occisi sunt, et plurimi damnificati, ita quod dictum est
postea, in illo bello mille centum equos amisisse imperatorem, praeter
homines occisos, et alia damna_. Non ci è fondamento bastante di credere
così gran perdita. Ma verisimilmente per questo accidente cominciò a
turbarsi la buona armonia fra il papa e l'imperadore, il quale, venuto
in Toscana, parte quivi e parte in Lombardia passò il verno seguente,
con aver licenziata la maggior parte dell'armata sua. Parmi ancora
credibile che non tardasse molto l'Augusto Ottone ad occupare o a non
restituire alcuni degli Stati della Chiesa romana, non ostante la
promessa e il giuramento da lui prestato. La storia è qui molto scarsa,
nè ci scuopre le cagioni tutte che produssero dipoi tanti sconcerti fra
la santa Sede e il suddetto imperadore. Sappiamo da tutti che papa
Innocenzo III accusò di usurpazione e perfidia Ottone; e che,
all'incontro, Ottone pretendeva di non operar contro il giuramento fatto
in favor del pontefice, con dire ch'egli prima avea nella sua
coronazione germanica giurato di conservare e ricuperare gli Stati e i
diritti imperiali. Si può credere che mettessero la zampa nel consiglio
imperiale i legisti politici, con rappresentare ad Ottone l'esempio de'
suoi predecessori, che aveano goduto il dominio di quegli Stati, e date
ne aveano le investiture: il che era stato praticato anche da _Arrigo I_
imperadore santo. Forse ancora chiamarono ad esame i diplomi delle
concessioni fatte ai papi dagli imperadori fin da' tempi di Lodovico Pio
sino a questi, con trovarvi delle difficoltà. Comunque sia, egli è fuor
di dubbio che grande strepito fece il pontefice contra di Ottone,
l'ammonì per mezzo dell'arcivescovo di Pisa, ma indarno sicchè giunse
infine ad atterrarlo, siccome vedremo. Più che mai seguitava intanto il
vigilantissimo papa a tenersi ben unito con _Federigo II_ re di Sicilia,
considerando il bisogno che potrebbe occorrere di quel principe, qualora
le speranze da lui concepute di Ottone IV rimanessero deluse. Fu egli
dunque che consigliò a Federigo di accasarsi; fu egli ancora mediatore
del matrimonio di lui con _Costanza_ figliuola del re d'Aragona. Nel
mese di febbraio del presente anno, essendo stata condotta questa
principessa a Palermo, con rara magnificenza se ne celebrarono le nozze.
Abbiamo da Gerardo Maurisio[2670] e da altri storici che in quest'anno
_Salinguerra_ capo de' Ghibellini in Ferrara, co' suoi aderenti seppe
far tanto, che rientrò in Ferrara, spogliò di quel dominio _Azzo VI
marchese_ d'Este, e cacciò in esilio tutti i di lui partigiani.
Trovavasi allora il marchese collo esercito suo accompagnato dai
Veronesi e Vicentini verso la Brenta, per passare alla distruzione della
nobil terra di Bassano, dove Eccelino da Onara nemico suo signoreggiava.
Erano anche in armi i Trivisani, per dar aiuto ad esso Eccelino. Arrivò
al marchese la nuova della perdita di Ferrara: allora precipitosamente
levò il campo e tornossene a Vicenza, ubbidiente in questi tempi ai suoi
cenni, e fu inseguito da Eccelino sino alle porte di quella città. Non
andò più innanzi questa briga, perchè, arrivato il re Ottone, che veniva
allora dalla Germania, ad Orsaniga, tanto il marchese che Eccelino
dovettero ire alla corte, siccome ho di sopra accennato. In
Cremona[2671] ancora nell'anno presente v'entrò la discordia. Il popolo
si divise in due fazioni: l'una teneva la città vecchia, e l'altra la
nuova, di modo che arrivarono nell'anno seguente cadauna delle parti ad
eleggere il suo podestà.

NOTE:

[2659] Abbas Urspergensis, in Chron. Godefridus Monachus, in Chron., et
alii.

[2660] Gerard. Maurisius, Hist. tom. 8 Rer. Ital.

[2661] Annales Veteres Mutinens., tom, 11 Rer. Italic.

[2662] Otto de S. Blasio, in Chron.

[2663] Gualvan. Flamm., in Manip. Flor., cap. 244. Corius, Bossius, et
alii.

[2664] Tristan. Calcus, Histor. Mediolan.

[2665] Johan. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2666] Otto de S. Blasio, in Chron., Arnold. Lubec. Godefridus Monach.
Matthaeus Paris. Histor. Angl.

[2667] Abbas Urspergens., in Chron. Jordanus, in Chron.

[2668] Richard. de S. Germ., in Chron.

[2669] Albericus Monachus, in Chronic. Appendix ad Robert. de Monte.

[2670] Gerard. Maurisius, Hist., tom. 8 Rer. Ital. Memor. Potest.
Regiens., tom. 8 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.

[2671] Chron. Cremonens., tom. 7 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCCX. Indizione XIII.

    INNOCENZO III papa 13.
    OTTONE IV imperadore 2.


Trovavasi l'imperadore Ottone tuttavia in Toscana _XIII kalendas
februarii_ dell'anno presente, ciò apparendo da un suo diploma dato ad
_Azzo VI marchese d'Este apud Clusinam civitatem_[2672]. Intorno al qual
documento è da avvertire che il saggio pontefice Innocenzo negli anni
addietro, attento a ricuperar dalle mani de' Tedeschi gli Stati della
Chiesa romana, standogli forte a cuore la marca d'Ancona, perchè non
avea forze bastevoli per ricuperare e sostener quel paese alla sua
divozione, lo concedette con investitura al suddetto marchese d'Este,
ben conoscendo di che valore egli fosse dotato. Abbiamo di ciò la sicura
testimonianza di Rolandino[2673] storico di questo secolo. Ma avendo
l'Augusto Ottone IV preteso che quello Stato appartenesse all'imperio,
giudicò meglio il marchese Azzo di prenderne l'investitura anche da esso
imperadore, e forse con tacito consenso del pontefice, acciocchè non si
annidasse in quel dominio qualche persona mal affetta alla santa Sede.
Ottone dunque l'investì di quella marca, che abbracciava allora le città
d'_Ascoli, Fermo, Camerino, Osimo, Ancona, Umana, Iesi, Sinigaglia,
Fano, Pesaro, Fossombrone, Cagli e Sassoferrato_. Viene ivi chiamato
_cognatus noster Azzo marchio estensis_ da Ottone, perchè amendue
discendeano dal marchese _Azzo III_, comune stipite della linea di
Germania e dell'italiana. Un altro diploma d'esso Ottone, dato in
Foligno nel dì cinque di gennaio, ho io quivi accennato. Presso
l'Ughelli[2674] un altro se ne legge, dato _apud Pratum_ in Toscana
_VIII idus februarii_. Era esso Augusto _apud Imolam III calendas
aprilis_, come costa da un altro suo diploma riferito dal medesimo
Ughelli[2675]. Trasferitosi anche a Ferrara, quivi pubblicò un editto
contro gli eretici paterini, ossia gazari, mettendoli al bando
dell'imperio, coll'intimar pene gravissime contra dei medesimi. Il suo
diploma, da me pubblicato[2676], fu dato _Ferrariae VIII kalendas
aprilis_ del presente anno. Probabilmente in questa congiuntura ch'egli
pacificò insieme il suddetto Azzo VI marchese di Este e _Salinguerra_
competitori nella signoria di Ferrara[2677]. _Imperator praedictus venit
Ferrariam, et pacem fecit inter marchionem estensem et dominum
Salinguerram_: così è scritto nella vecchia Cronica Estense. Altrettanto
abbiamo dagli antichi Annali di Modena[2678]. Passò dipoi l'imperadore
Ottone a Milano, dove furono da lui spediti nel mese d'aprile tre
diplomi accennati dal signor Sassi[2679]. Ch'egli si trattenesse in
quelle parti, e si trovasse in Piacenza nel mese di giugno, in Cremona,
in Alba, in Brescia e in Vercelli, apparisce da altri suoi diplomi. Che
parimente egli soggiornasse vicino a Pavia nel dì 17 agosto dell'anno
presente, si raccoglie da un altro suo diploma presso il suddetto
Ughelli nel catalogo de' vescovi di Parma. Tenne anche un parlamento in
essa città di Parma[2680]. Era antico l'odio di Ottone, perchè erede
della casa de' Guelfi, contra di _Federigo II_ re di Sicilia, erede
della casa ghibellina di Suevia. Crebbe questo alla pubblica notizia
ch'esso Federigo aspirava all'imperio, anche prima della coronazion di
Ottone. E giacchè s'erano stranamente imbrogliati gli affari fra esso
Ottone e _papa Innocenzo_, che gran parzialità mostrava per Federigo,
Ottone, senza voler far caso che il regno di Sicilia da tanto tempo
dipendeva dalla sovranità dei soli romani pontefici, sconsigliatamente e
contra de' giuramenti si lasciò trasportare a dichiarar la guerra al
medesimo Federigo, e ad invadere i di lui Stati di qua dal Faro. Abbiamo
da Rigordo[2681] che egli aveva ancora occupato _castra et munitiones,
quae erant juris beati Petri, Aquapendens, Radicofanum, Sanctum
Quiricum, Montem Flasconis, et fere totam Romaniam_. Intanto egli ebbe
dei segreti negoziati in Puglia col conte Diopoldo tante volte nominato
di sopra, e il guadagnò col dargli l'investitura del ducato di Spoleti.
Scrive il Sigonio[2682] di averla veduta, data _XIII kalendas
februarias_ dell'anno presente.

Tirò eziandio nel suo partito Pietro conte di Celano, potente signore in
quelle contrade. Studiossi inoltre di metter pace fra i Genovesi e
Pisani[2683], per aver aiuto da loro nella meditata impresa. A questo
fine, mentre era in Piacenza, chiamò colà i lor deputati; si fece
consegnare i prigioni dell'una e dell'altra parte, e intimò una tregua
fra loro dalla vicina festa di san Michele sino a due anni. Ciò fatto,
verso il principio di novembre s'incamminò con un possente esercito di
Tedeschi, Toscani e Lombardi alla volta della Puglia. Fin qui avea il
pontefice Innocenzo III adoperate esortazioni e minaccie per rimettere
in buon cammino questo principe; ma nulla avendo operato le parole, e
scorgendolo più che mai spinto dalla sua passione a perdere affatto il
rispetto alla santa Sede, venne finalmente ai fatti, cioè il dichiarò
scomunicato[2684]. L'intrepidezza di questo papa bastante era a fargli
prendere sì gagliarda risoluzione; ma non lasciò egli di misurar prima
anche le forze temporali, che potevano assisterlo in tal congiuntura.
Non lieve odio portavano i Romani ad Ottone: il che assicurava il
pontefice della loro aderenza e costanza. Faceva anche gran capitale
delle forze di Federigo II re di Sicilia, unitissimo seco di interessi.
Nè minore speranza fondava egli su quella di Filippo re di Francia
nemico di Ottone, alla cui esaltazione dianzi aveva egli fatto ogni
possibil contrasto. Sapeva inoltre papa Innocenzo quanto poteva
promettersi di molti de' più possenti principi della Germania; e ne
vedremo presto le pruove. Però al prudente e zelante pontefice non
mancavano i mezzi umani per sostenere i suoi atti. Ciò non ostante,
marciò l'Augusto Ottone in Puglia[2685], e, dalla parte di Rieti
entrato, s'avanzò a Marsi e a Comino, con riempiere di terrore quelle
contrade. Roffredo abbate di Monte Casino contro il parere de' suoi
monaci andò a trovarlo, e benignamente ricevuto ne riportò salvaguardie
per li suoi Stati. Celebrata la festa di san Martino vicino a Sora,
passò Ottone all'assedio della città d'Aquino, che fu valorosamente
difesa da Tommaso, Pandolfo e Roberto conti di quella città. Venne alle
sue mani Capoa col suo principato, datagli da Pietro conte di Celano.
Salerno gli fu consegnato da Diopoldo creato duca di Spoleti. Oltre ad
altre città, anche i Napoletani, per odio che portavano alla città
d'Aversa, spontaneamente se gli diedero, con attizzarlo poi a mettere
l'assedio a quella città. Durò questo sino alla Natività del Signore, e
vedendo Ottone di non poter più sussistere in campagna a cagion della
stagione, dopo aver fatta una composizione cogli Aversani, si ritirò ai
quartieri di verno in Capoa, dove attese a far fabbricar macchine da
espugnar le città. In tale stato erano gli affari di quelle parti. Fu in
quest'anno fieramente agitata la città di Cremona[2686] dalle civili
fazioni insorte fra il popolo della città nuova e quel della vecchia, e
si venne molte volte alle mani. Interpostosi il vescovo Sicardo,
restituì loro la pace, ma pace che, secondo il costume di que' tempi
sconcertati, ebbe corta durata. Una delle applicazioni del popolo di
Modena[2687] in quest'anno fu quella d'indurre l'abbate di Frassinoro,
che sulle montagne possedeva molte terre, a sottomettersi alla città per
godere del suo patrocinio. Così le città libere d'allora andavano
pelando i vescovi ed abbati, con intromettersi nelle loro giurisdizioni,
giugnendo in fine a liberarli dalla cura di que' temporali governi, ed
accrescendo in questa maniera il proprio distretto. Fabbricarono ancora
essi Modenesi il castello di Spilamberto. Vo io credendo che riducessero
quella terra in fortezza, poichè anche ne' tempi posteriori se ne truova
memoria.

NOTE:

[2672] Antichità Estensi, P. I, cap. 39.

[2673] Roland., Chron., lib. 1, cap. 10.

[2674] Ughel., Ital. Sacr., tom. 3 in Episcop. Pistoriens

[2675] Ughel., Ital. Sacr., tom. 2 in Episcop. Parmens.

[2676] Antiquit. Ital., Dissert. LX.

[2677] Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.

[2678] Annal. Veter. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.

[2679] Saxius, in Not. ad Sigonium, de Regn. Italic.

[2680] Chron. Parmense, tom. 11 Rer. Ital.

[2681] Rigord., de Gest. Philip. Reg. Franc.

[2682] Sigon., de Regno Ital., lib. 16.

[2683] Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Italic.

[2684] Godefr. Monach. Albertus Stad. Richardus de S. Germano. Rigordus.
Sicardus et alii.

[2685] Richardus de S. Germano, in Chron. Johan. de Ceccano, Chron.
Fossaenovae.

[2686] Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.

[2687] Annales Veteres Mutinens., tom. 6 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCCXI. Indizione XIV.

    INNOCENZO III papa 14.
    OTTONE IV imperadore 3.


Venuta la primavera, continuò l'imperadore _Ottone_ le conquiste nel
regno siciliano di qua dal Faro[2688]. Sottomise a' suoi voleri tutta la
Puglia, la Terra di Lavoro, e quasi interamente la Calabria, ed arrivò
fino a Taranto. Abbiamo dall'Abbate Urspergense[2689] che papa
_Innocenzo III_, desideroso pur d'estinguere questo fiero incendio,
avea, durante il verno, mandato innanzi e indietro a Capoa l'abbate di
Morimondo, per indurre alla pace, o a qualche aggiustamento, Ottone,
contentandosi piuttosto di patir del danno negli Stati, che di
permettere la rovina del _re Federigo_. Ma indarno andarono i messi e le
proposizioni d'accordo. Ubbriacato Ottone dalla ridente fortuna, tutto
rigettò, perchè persuaso di poter oramai balzare dal trono il giovinetto
re[2690]. Infatti i Saraceni di Sicilia segretamente gli fecero sapere
che prenderebbono l'armi per lui. Abbiamo anche dagli Annali
Pisani[2691] che in aiuto di esso Augusto furono armate in Pisa quaranta
galee, le quali andarono fino a Procida, credendo di potere trovar quivi
l'imperadore. In somma si disponeva Ottone IV a passare in Sicilia, e
pareano in total decadenza gli affari del re Federigo II, quando ecco
scoppiare una terribil mina, da Ottone non preveduta. Tanto seppe fare
il non dormiglioso papa Innocenzo, col favore ancora di _Filippo re_ di
Francia, che indusse molti vescovi della Germania non solamente a
pubblicar la scomunica contra di Ottone, e a dichiararlo decaduto, ma
ancora a trattar di eleggere in suo luogo re de' Romani Federigo II. In
questa lega concorsero _Siffredo arcivescovo_ di Magonza, legato
apostolico, l'arcivescovo di Treveri, il lantgravio della Turingia, il
re di Boemia, il duca di Baviera, il duca di Zeringhen, ed altri vescovi
e principi. Soffiò non poco in questo fuoco anche il suddetto re di
Francia Filippo, che, per aver tolta la Normandia al re d'Inghilterra,
non potea tollerar le prosperità di Ottone Augusto, parente strettissimo
e collegato coll'Inglese. Gotifredo monaco scrive che questi principi si
raunarono in Bamberga, e fu proposta l'elezion di Federigo; ma che, non
accordandosi fra loro, restò sospeso il colpo. L'arcivescovo di Magonza
bensì pubblicò dappertutto le censure contra di Ottone: dal che presero
motivo _Arrigo conte_ palatino del Reno, fratello d'esso Ottone, e il
duca del Brabante e i nobili della Lorena di dare un terribil guasto al
territorio di Magonza. Nella Cronica di Fossanuova[2692], e presso
Alberico[2693], Sicardo[2694] ed altri, si legge che seguì di fatto
l'elezion di Federigo in Germania. Sembra almen certo che intanto que'
principii sollecitassero il pontefice a spignere in Germania il
giovinetto Federigo. Quel che è certo, furono cagione questi disgustosi
avvisi che Ottone tagliasse il corso alle sue vittorie in Puglia, e ai
disegni di portar la guerra in Sicilia, e cominciasse a pensare alla
propria casa, a cui era attaccato il fuoco. Congregati dunque i baroni
di quelle contrade, raccomandò loro la costanza nella sua fedeltà, virtù
per altro poco conosciuta da quegli instabili popoli; e, preso da loro
congedo, venne nel mese di novembre in Lombardia per impedire a Federigo
il passaggio in Germania. I Pisani[2695], ch'erano iti fino a Napoli in
aiuto di lui colle lor quaranta galee, non sentendone più nuova, se ne
tornarono, senza far altro, al loro paese. Venuto l'Augusto Ottone in
Lombardia[2696], tenne in Lodi un parlamento, per esaminar qual conto
egli potesse fare degli animi e de' soccorsi di questi popoli. Trovò che
il pontefice avea già preoccupato più d'uno contra di lui. _Estensis
enim marchio jam cum Papiensibus et Cremonensibus, et Veronensibus
consensit summi ponteficis foedus inire contradictionis_; sono parole di
Sicardo allora vescovo di Cremona. Infatti nè il marchese d'Este, nè i
deputati di Pavia, Cremona e Verona vollero intervenire a quella dieta.
Ma i Milanesi, siccome quelli che amavano forte la casa estense-guelfa
dei duchi di Sassonia, e odiavano la ghibellina dei duchi di Suevia, da
cui tanti mali aveano ricevuto, larghe promesse fecero all'Augusto
Ottone, e gli altri non mancarono di dargli buone parole[2697]. Avea il
pontefice Innocenzo solennemente confermata nel giovedì santo la
scomunica contra di lui. Poscia mise l'interdetto a Napoli e a Capoa,
perchè aveano comunicato con lui. Scrisse contro i Pisani, i Bolognesi
ed altri che favorivano lo scomunicato Augusto. In questi tempi
l'indefesso marchese d'Este _Azzo VI_ coll'aiuto de' Cremonesi[2698]
ricuperò Ferrara, e ne cacciò Ugo da Guarnasio, lasciato ivi per podestà
da esso Ottone. Che anche Salinguerra mutasse aria in tal congiuntura,
se non è certo, è almen credibile. Troviamo parimente presso papa
Innocenzo menzione della presa di Ferrara, fatta dal marchese d'Este, in
una lettera scritta in quest'anno _VII idus junii_[2699]. In Cremona la
parte del popolo di città nuova, non potendo reggere alla forza di quei
della città vecchia, restò abbattuta e spogliata de' suoi averi. Tanto
ancora si industriò in questi tempi Eccelino da Onara, signor di
Bassano, che ottenne dall'imperadore il governo della città di
Vicenza[2700]: il che fu il primo gradino, che portò dipoi il crudele
Eccelino da Romano suo figliuolo alla potenza che vedremo.

NOTE:

[2688] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2689] Abbas Urspergens., in Chron.

[2690] Godefridus Monachus, in Annal.

[2691] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[2692] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2693] Alberic. Monach., in Chron.

[2694] Sicard. in Chron., tom. 7 Rer. Ital. Abbas Urspergens., in Chron.

[2695] Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Ital.

[2696] Sicard., in Chron.

[2697] Richardus de S. Germano.

[2698] Chron. Cremonens., tom. 7 Rer. Ital. Annales Estenses, tom. 15
Rer. Ital.

[2699] Innocent. III, lib. 14, Epist. 76.

[2700] Maurisius, Histor., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXII. Indizione XV.

    INNOCENZO III papa 15
    OTTONE IV imperadore 4.


V'ha degli scrittori[2701] che narrano partito l'imperadore Ottone
d'Italia nell'anno precedente, per accudire agl'interessi della
Germania, che cominciavano a prendere un cattivo sistema. La verità si
è, ch'egli era tuttavia in Milano nel dì 10 di febbraio dell'anno
presente, ciò ricavandosi da due suoi decreti, da me dati alla
luce[2702], nei quali prende la protezione di certe pretensioni civili
che avea _Bonifazio marchese_ d'Este contra del marchese _Azzo VI_ suo
nipote. E Riccardo da San Germano[2703] coerentemente lasciò scritto che
Ottone _regnum_ (di Puglia) _festinus egreditur mense novembri_ (del
precedente anno), _et mense martio_ (del presente) _in Alemanniam
remeavit_. Anche l'Abbate Urspergense[2704] attesta lo stesso. Nel
passare per Brescia, secondo il Malvezzi[2705], rimise la pace fra i
nobili e la plebe di quella città. Arrivato in Germania, circa la festa
della Pentecoste tenne una solenne dieta in Norimberga, dove espose a
que' principi, che v'intervennero, i motivi della sua rottura col papa.
Fece poi guerra ad _Ermanno_ lantgravio di Turingia, uno di que'
principi che se gli erano ribellati, mettendo a ferro e fuoco tutte le
di lui contrade. Ma intanto per le replicate instanze de' principi
tedeschi del partito di _Federigo II_ re di Sicilia, avvalorate ancora
dalle altre di _Filippo re_ di Francia, papa _Innocenzo III_ fece
premura a Federigo di passare in Germania, dove la sua presenza
recherebbe più calore ed animo ai suoi partigiani. Si oppose forte a tal
risoluzione la regina moglie, per timore ch'egli potesse correre troppi
pericoli oltra monti; ma in cuore del giovinetto re prevalsero le spinte
dell'ambizione e della gloria; e però, lasciata la moglie, che già dato
avea alla luce un figliuolo appellato _Arrigo_, imbarcatosi, venne a
Gaeta, e nel dì 17 di marzo di quest'anno, e non già del precedente,
come ha il testo di Riccardo da San Germano[2706], entrò in Benevento.
Di là poi passò a Roma[2707], dove fu con ogni dimostrazion d'onore
accolto dal papa e dai Romani. Dopo pochi giorni per mare si portò a
Genova[2708], e quivi ben trattato si fermò quasi tre mesi, concertando
intanto le maniere di passare in Germania, giacchè l'imperadore Ottone
avea messe guardie dappertutto per impedirgli il passaggio. Nel dì 15 di
luglio si mosse da Genova, e andò a Pavia. Erano per lui i Pavesi e il
marchese di Monferrato; e però scortato dalla loro armata, arrivò fino
al Lambro, dove li aspettavano con tutte le lor forze i Cremonesi ed
Azzo VI marchese d'Este, i quali con gran festa il menarono a Cremona.
Nel tornarsene addietro, i Pavesi all'improvviso furono assaliti dai
Milanesi, e in quel fatto d'armi furono fatti dall'una e dall'altra
parte alquanti prigioni.

Come si ha da Rolandino[2709] e da Alberico monaco[2710], il più zelante
a scortare verso l'Alemagna il re Federigo fu il suddetto marchese
d'Este, che con grande accompagnamento d'armati il menò per disastrose e
non praticate strade sicuramente sino a Coira ne' Grigioni. Lo stesso
Federigo, siccome costa da una sua lettera[2711] scritta ad Eccelino da
Romano molti anni dappoi, riconosceva specialmente da esso marchese il
principio della sua esaltazione. Arrivò dunque il giovane Federigo a
Costanza tre ore prima di Ottone. Se tardava un poco più, sarebbe stato
costretto a tornarsene indietro. Andò poscia a Basilea e per l'altre
parti del Reno, dove trovò tutti i principi che si erano dichiarati per
lui. Si abboccò con _Filippo re_ di Francia a Valcolore, e stabilì lega
con lui. Scrittori non mancano che il dicono eletto in quest'anno re dei
Romani e di Germania; anzi gli Annali di Genova, scritti da autori
contemporanei, e l'Abbate Urspergense ci assicurano ch'egli fu coronato
in Magonza sul principio di dicembre. Godifredo monaco differisce questa
coronazione fino all'anno 1215, e la dice fatta in Aquisgrana. Due volte
probabilmente dovette egli farsi coronare. Giacchè i Milanesi stavano
pertinaci in favorir l'imperadore Ottone, Azzo VI marchese d'Este e
d'Ancona strinse, nel dì 25 d'agosto, una lega colle città di Cremona,
Brescia, Verona, Ferrara e Pavia, e col conte Bonifazio da San
Bonifazio. Se ne legge lo strumento nelle Antichità Estensi[2712]. In
quest'anno poi esso marchese coll'esercito e carroccio veronese, e coi
rinforzi venuti di Mantova, Cremona, Reggio, Brescia e Pavia, mosse
guerra a Vicenza. Dopo aver preso Lunigo, si accostò alla città.
Eccelino co' Vicentini e Trivisani il fece ritirar in fretta. Ma questo
glorioso principe e il suddetto conte di San Bonifazio nel novembre
seguente terminarono i lor giorni nel più bell'ascendente della loro
fortuna[2713]. Lasciò il marchese _Azzo VI_ dopo di sè due figliuoli,
_Aldovrandino_ ed _Azzo VII_, principi che ereditarono non solamente gli
Stati, ma anche il valore del padre. Restò similmente di lui Beatrice,
che per le sue rare virtù meritò poi il titolo di beata, procreata da
una figliuola di _Tommaso conte_ di Savoia, moglie d'esso marchese.
Videsi in questo anno una novità in Italia. Circa sette mila tra uomini,
ragazzi, donne e fanciulle, da pio entusiasmo mossi dalla Germania, con
avere per capo un fanciullo nomato Niccolò, arrivarono a Genova sul fine
d'agosto[2714], per andare in Terra santa. Ma quivi trovarono un gran
fosso da passare, e però si sciolse la loro unione, e chi restò in
Genova, e chi andò in altri paesi. Di trenta mila di questi fanciulli,
venuti fino a Marsiglia col suddetto spropositato disegno, parlano
Alberico monaco dei tre Fonti[2715], e Alberto Stadense[2716], con
aggiugnere che furono assassinati dai ribaldi, parte affogati in mare,
parte venduti ai Saraceni. Nell'anno precedente era nata guerra fra i
Bolognesi e Pistoiesi[2717]; e venuti alle mani, restarono molti de'
Bolognesi prigioni. Per vendicarsene, essi Bolognesi in quest'anno,
coll'aiuto ancora de' Reggiani[2718], Faentini ed Imolesi, menarono un
forte esercito a' danni di Pistoia; e piantato il campo sul monte della
Sambuca, ammazzarono molti de' nemici, e molti altri presi li trassero
alle carceri di Bologna: con che ricuperarono i lor prigioni. Carestia
così grave in quest'anno flagellò la Puglia e Sicilia, paesi per altro
soliti ad essere i granai dell'Italia, che, per attestato di Sicardo,
vescovo allora di Cremona[2719], le madri giunsero a mangiare i loro
figliuoli.

NOTE:

[2701] Godefridus Monachus, in Chron. Sicardus, in Chron. et alii.

[2702] Antichità Estensi, P. I, cap. 40.

[2703] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2704] Abbas Urspergens., in Chron.

[2705] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.

[2706] Richardus de S. German., in Chron.

[2707] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.

[2708] Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Italic.

[2709] Roland., Chron., lib. 1, cap. 11.

[2710] Alberic. Monachus, in Chron.

[2711] Rolandinus, Chron., lib. 4, cap. 8.

[2712] Antichità Estensi, P. I, cap. 40.

[2713] Gerard. Maurisius, Histor. Monachus Patavinus, Chron. Rolandinus,
lib. 1, cap. 11.

[2714] Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Italic.

[2715] Alberic. Monachus, in Chron.

[2716] Alberic. Stadiens., in Chron.

[2717] Matth. de Griffonibus, Histor. Bonon.

[2718] Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.

[2719] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXIII. Indizione I.

    INNOCENZO III papa 16.
    OTTONE IV imperadore 5.


Svantaggiosa era stata nel precedente anno per li Pavesi la battaglia
loro data dai Milanesi fautori di Ottone, nel ritorno che faceano a
casa, dopo avere accompagnato il _re Federigo_ sino al Lambro[2720]. Per
rifarsi del danno, uscirono questi in campagna con grande sforzo
nell'anno presente. Mossero ancora i Cremonesi col loro carroccio,
aiutati da trecento cavalieri bresciani, con animo di unirsi coi Pavesi.
Erano già pervenuti a Castello Leone, ossia Castiglione, quando
all'improvviso nel dì 2 di giugno, giorno di Pentecoste, fu loro addosso
l'oste dei Milanesi, forte non solamente per le proprie milizie, ma
anche per li cavalieri ed arcieri piacentini, e per la cavalleria e
fanteria de' Lodigiani e Comaschi, e per trecento altri cavalieri
bresciani del partito contrario. Fiero, lungo ed ostinato fu il
combattimento, in cui sulle prime ebbero la peggio i Cremonesi. Ma,
rinforzato da questi l'assalto, riuscì loro di mettere in rotta il campo
milanese, con far prigioni alcune migliaia d'essi, e con prendere il
loro carroccio: segno di piena vittoria e di gran vergogna per chi
perdeva. La fama de' Cremonesi per questo illustre fatto si sparse per
tutto l'Occidente, come attesta il Monaco Padovano[2721]. Dalla pia
gente d'allora fu attribuita questa vittoria a miracolosa assistenza di
Dio, perchè i Milanesi teneano saldo per lo scomunicato Ottone; ma si
può anche essere pio senza obbligo di credere si fatti miracoli. Scrive
inoltre Alberico monaco dei tre Fonti che il popolo di Milano,
ripigliate le forze, in questo medesimo anno uscì contro i Pavesi, ed
assediò un lor castello. Ma sopravvenuta l'armata de' Pavesi, diedero i
Milanesi alle gambe, con abbruciar le loro tende. Furono seguiti dai
Pavesi, che fecero quantità di prigioni, e spogliarono il campo loro.
Così due rotte ebbe in un sol anno il popolo di Milano. Aggiugne il
medesimo Alberico, che essendo stato ucciso l'abbate del monistero di
santo Agostino di Pavia da' suoi monaci neri, il legato apostolico diede
quel sacro luogo ai canonici regolari di Mortara, che tuttavia ne sono
in possesso. Dalle cose fin qui narrate si può comprendere che Galvano
Fiamma[2722] cercò di inorpellar le perdite de' Milanesi con dire
ch'essi, dopo aver presa gran copia di prigioni, cavalli, carriaggi e
tende de' Cremonesi, volendo mettere in salvo tante spoglie,
raccomandarono il loro carroccio a pochi Piacentini (il che troppo è
inverisimile) a' quali tolto fu dai Cremonesi. Scrive inoltre che i
Milanesi nel dì 12 di giugno entrarono armati in Lomellina, distrussero
Mortara, Gambalo e Lomello, e misero a sacco tutta quella contrada.
Presero anche il castello di Voghera. Tace poi le busse lor date dal
popolo pavese: sicchè gran sospetto porge l'adulazione. A questi fatti
aggiugne il Sigonio[2723] delle altre particolarità, senza ch'io sappia
onde le abbia ricavate. Ben so io ch'egli si servì del Fiamma in questo
racconto. Il Continuatore di Caffaro scrive[2724] che quattro mila
Milanesi tra fanti e cavalieri rimasero prigionieri in mano de'
Cremonesi, e che i popoli d'Alessandria, Tortona, Vercelli, Acqui ed
Alba, co' marchesi _Guglielmo_ e _Corrado_ Malaspina, e settecento
cavalieri milanesi, entrarono nel Pavese ostilmente, e presero Sala.
Usciti anche i Pavesi in campo, diedero una rotta a questi collegati,
con farne due mila prigioni. A questi autori pare che si possa credere
senza timor di fallare.

Succeduto al marchese _Azzo VI_ suo padre _Aldrovandino_ marchese d'Este
e di Ancona, continuò a tenere col _conte Riccardo_ da San Bonifazio il
dominio di Verona, dove fu creato podestà nell'anno presente[2725]. Ma
egli ebbe di gravissimi contrasti con _Salinguerra_ in Ferrara. In aiuto
di lui furono i Modenesi[2726]. Tornando questi a casa col loro podestà,
cioè con Baldovino Visdomino da Parma, caddero in un agguato posto dal
nipote d'esso Salinguerra, in cui restò morto esso podestà, e fatti
prigionieri circa quaranta de' lor soldati. Fabbricarono in quest'anno
essi Modenesi il castello del Finale[2727], per avere un antemurale
contra de' Ferraresi. Secondo la Cronica Estense[2728], seguì pace fra
il suddetto marchese Aldrovandino e Salinguerra, ed io ne ho rapportato
altrove lo strumento. Ma più gravi disturbi ebbe esso marchese dai
popolo di Padova, che, al pari degli altri, si studiava di dilatare i
suoi confini alle spese de' vicini. Era da loro indipendente la nobil
terra d'Este. Perchè egli non avea fatta giustizia ad alcuni Padovani,
l'assediarono essi in questo anno, ed intervenne a quell'assedio
Eccelino da Onara col giovinetto suo figliuolo Eccelino da Romano[2729].
Fu obbligato il marchese a venire ad un accordo, e a prendere la
cittadinanza di Padova: la qual violenza fu appresso riprovata da papa
_Innocenzo III_, e col tempo ancora da _Federigo II_ Augusto. Sei anni e
due mesi era stata fuori di Verona la fazion ghibellina de' Montecchi,
la quale, rifugiata nella terra di Cereta, quivi creava il suo podestà.
Interpostosi in quest'anno Marino Zeno podestà di Padova unitamente col
comune stesso di Padova[2730], tanto fece, che quel dì Verona lasciò
tornarli pacificamente in città. Non così avvenne alla città di Brescia.
Poco durò la concordia fra i nobili e il popolo. Nella festa de' santi
Faustino e Giovita presero l'armi i popolari, e cacciarono fuor della
città tutta la fazion de' nobili; nè ciò loro bastando, infierirono
contra le lor torri e case, con atterrarle: crudeltà meritamente
detestata dal Malvezzi cronista bresciano[2731]. L'aver essi similmente
data la fuga a Tommaso da Torino, lasciato ivi per governatore
dall'imperador Ottone, fa intendere che que' popolari aveano abbracciato
il partito del re Federigo. Ma probabilmente questo fatto appartiene
all'anno precedente, giacchè lo stesso storico scrive che per cura di
_Alberto_ da Reggio vescovo della lor città, e prelato di rara virtù, fu
nell'ottobre dell'anno presente conchiusa pace fra que' discordi
cittadini. Tale fu la fede di cadauno in quel buon vescovo, che a lui
diedero anche il politico governo della città. Fecero lega in quest'anno
i Bolognesi coi Reggiani obbligandosi di far guerra ai Modenesi ad ogni
lor cenno[2732].

NOTE:

[2720] Sicard., in Chron. Alber. Monac., in Chron.

[2721] Monach. Patavinus, in Chron.

[2722] Gualv. Flamm., in Manipul. Flor. cap. 246.

[2723] Sigonius, de Regno Ital., lib. 16.

[2724] Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom 6 Rer. Ital.

[2725] Paris. de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.

[2726] Annales Veteres Mutinens., tom. 6 Rer. Italic.

[2727] Antichità Estense, P. I, cap. 41.

[2728] Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.

[2729] Roland., lib. 1, cap. 12. Monachus Patavin., in Chron. Antichità
Estensi, P. I, cap. 41.

[2730] Chron. Estense, tom 15 Rer. Ital. Gerardus Maurisius, Hist., tom.
8 Rer. Italic.

[2731] Malvecius, in Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.

[2732] Memoriale Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCCXIV. Indizione II.

    INNOCENZO III papa 17.
    OTTONE IV imperadore 6.


Succedette in quest'anno una famosa battaglia campale fra l'imperadore
_Ottone_ e _Filippo re_ di Francia[2733]. Si trovarono a fronte i due
potentissimi eserciti nel dì 27 di luglio a Ponte Bovino, e vennero alle
mani. Dalla parte di Ottone militavano le forze del re d'Inghilterra, i
duchi del Brabante e di Limburgo, e i conti di Fiandra e di Bologna. Il
fiore dei Franzesi col duca di Borgogna era nella altra parte. Lungo
tempo durò l'ostinato combattimento, e infine i Franzesi riportarono una
piena vittoria, con far moltissimi prigioni di conto, e grosso bottino.
Questa disgrazia diede il crollo agl'interessi dell'imperadore Ottone,
che da lì innanzi stentò a sostenersi in piedi. Se vogliamo prestar fede
a Galvano Fiamma[2734], in quest'anno i Milanesi vogliosi di vendicarsi
de' Cremonesi, per la rotta ricevuta nel precedente anno, con potente
sforzo andarono sino a Zenevolta. S'incontrarono coi Cremonesi, e
menarono così ben le mani, che li sconfissero e presero il loro
carroccio. In pruova di ciò il Fiamma cita la Cronica di Sicardo. Ma
giusto fondamento c'è di sospettare immaginaria e finta questa rotta de'
Cremonesi. Ne' due testi, dei quali mi sono servito per pubblicar la
Cronica di Sicardo, nulla di ciò si legge. Nulla nelle Croniche di
Cremona, Piacenza, Parma ed altre, che, dopo aver parlato sì chiaramente
della vittoria riportata dai Cremonesi all'anno precedente, se questa
gran percossa data loro dai Milanesi sussistesse, ne avrebbero anche
esse fatta menzione. Aggiugne esso Fiamma che, entrati i Milanesi nella
Lomellina de' Pavesi, vi espugnarono varie castella. Questo potrebbe
stare. Abbiamo bensì dalla Cronica di Cremona che nell'anno presente i
Cremonesi fecero oste sopra i Piacentini, con bruciar molto paese, e
prender alcune lor terre. Irritati anche i Modenesi[2735] per l'affronto
e danno loro inferito nell'anno precedente da un nipote di Salinguerra,
messo insieme un grosso esercito, con cui s'accoppiarono ancora i
Parmigiani, Mantovani e Ferraresi del partito di _Aldrovandino marchese_
d'Este, andarono a mettere l'assedio a Ponte Dosolo, ed, impadronitisi
di esso nella festa di san Martino, diedero alle fiamme e smantellarono
quel castello, con portarne a Modena in segno di vittoria la campana,
che fu posta nella torre maggiore, e adoperata dipoi a sonar nona. Somma
tranquillità godeva in questi tempi la città di Padova. Accadde che si
tenne gran corte, e si preparò un giuoco o spettacolo pubblico nella
città di Trivigi, descritto da Rolandino[2736]. V'intervenne da Venezia
e da Padova molta nobiltà dell'uno e dell'altro sesso. Nel combattimento
che si fece per prendere un finto castello, si appiccò lite fra i
Veneziani e Padovani, gareggiando tutti per aver la preminenza del
conquisto. Fu nella mischia stracciato un pezzo della bandiera di san
Marco portata dai Veneziani, e ne sorse tal rumore, che i presidenti al
giuoco lo fecero dismettere. S'ingrossò forte per questo accidente
l'odio dei Veneziani contra de' Padovani, in guisa che serrarono tutti i
passi delle mercatanzie, e andò poi più innanzi la briga. Le replicate
istanze di papa Innocenzo mossero nell'anno presente Aldrovandino
marchese d'Este a passare nella marca d'Ancona. N'era egli al pari di
suo padre stato investito dalla Sede apostolica. Ma sopraggiunta
l'immatura morte del padre, e per varii suoi scabrosi affari trovandosi
egli impegnato in Lombardia, i conti di Celano, fautori di Ottone
Augusto, s'erano impadroniti di quella contrada. Potè egli solamente ora
accudire a quel dominio. Impegnò tutti i suoi allodiali, e lo stesso
fratello suo _Azzo VII_ ai prestatori fiorentini per mettere insieme
delle grosse somme di danaro da far gente[2737]. Allorchè ebbe in pronto
un buon esercito, marciò verso quella marca, dove gli convenne un gran
coraggio per le molte opposizioni a lui fatte, parte dai popoli della
terra, e parte dai conti suddetti. Tuttavia diede loro varie rotte; ed
avea messo in buono stato quella signoria, quando la morte venne a
rompere tutte le di lui misure, come dirò all'anno seguente.

NOTE:

[2733] Godefridus Monachus. Alberic. Monachus. Abbas Urspergens.

[2734] Gualvan. Flam., in Manip. Flor., cap. 147.

[2735] Chron. Parmanense, tom. 7 Rer. Ital. Annales Veteres Mutinens.,
tom. 11 Rer. Ital.

[2736] Roland., Chron., lib. 1, cap. 13.

[2737] Roland., Chron., lib. 1, cap. 15. Monachus Patavinus, in Chron.
Antichità Estensi, P. I, cap. 41.



    Anno di CRISTO MCCXV. Indizione III.

    INNOCENZO III papa 18.
    OTTONE IV imperadore 7.


L'anno fu questo in cui lo zelantissimo papa _Innocenzo III_ celebrò uno
de' più insigni concilii generali che abbia tenuto la Chiesa di Dio,
cioè il lateranense quarto[2738]. Nel dì 11 di novembre gli fu dato
principio nella basilica lateranense, e v'intervennero più di
quattrocento tra patriarchi, arcivescovi e vescovi, e più di ottocento
abbati e priori. Furono quivi pubblicati[2739] non pochi decreti
spettanti al soccorso di Terra santa, agli eretici di questi tempi, che
faceano gran guasto e resistenza nel contado di Tolosa e nelle vicine
città; e fu anche trattato della disciplina ecclesiastica, che s'era
molto infievolita in sì torbidi tempi. Avendo preso in quel concilio i
Milanesi a difendere la parte dell'imperadore _Ottone_, il marchese di
Monferrato, siccome parente di _Federigo_, aringò forte in favore di
lui, ed ebbe maggior fortuna. Fra gli altri delitti di Ottone si contò
ancora, ch'egli avea chiamato Federigo il re dei preti. Ora è fuor di
dubbio che esso Federigo, per attestato di Gotifredo monaco[2740], fu in
quest'anno solennemente coronato re di Germania da _Siffredo
arcivescovo_ di Magonza, e legato apostolico in Aquisgrana. Sappiamo
altresì che, ad istanza del papa, egli prese la croce, e si obbligò a
militare in Terra santa. E perciocchè egli in quest'anno fece proclamar
re di Sicilia Arrigo suo figliuolo, non piacendo al pontefice che una
sola persona nello stesso tempo fosse imperadore e re di Sicilia, fu
astretto a rifare una solenne obbligazione al papa, che qualora egli
ottenesse la corona dell'imperio, immediatamente deporrebbe il governo
al re figliuolo, il quale lo riconoscerebbe dalla santa Sede. Poteva
allora chiedere papa Innocenzo III quanto voleva, che tutto largamente
si prometteva, per timore che si facesse giocar l'opposizione
dell'emulo. Vedremo a suo tempo qual memoria e cura di queste promesse e
giuramenti mostrasse lo stesso Federigo. Non è forse ben chiaro se il
papa, che avea barcheggiato finora per osservare dove andassero a
terminare gl'impensati accidenti della guerra, veramente in questo anno
confermasse l'elezion di Federigo: perciocchè, finchè visse Ottone mai
non si volle in Roma far l'ultimo passo di concedere a Federigo la
corona imperiale. Ma non mancano autori, e fra gli altri Riccardo da San
Germano[2741], che scrivono essersi Innocenzo apertamente dichiarato per
l'elezion di Federigo in re de' Romani.

Avea _Aldrovandino marchese_ d'Este colla prudenza, col valore e colla
liberalità ridotta quasi tutta in suo potere la marca d'Ancona[2742]. Ma
nel più bel fiore dell'età sua la morte il rapì, con essersi creduto che
i conti di Celano trovassero la maniera di farlo attossicare. Fu questo
un colpo di sommo svantaggio alla casa d'Este, perchè di maschi non
restò in essa se non _Azzo VII_ marchese d'Este, che cominciò ad
appellarsi anche marchese d'Ancona; ma in tenera età, nè capace per
anche di gareggiar co' suoi maggiori nelle imprese che esigono gran
cuore e senno. Conservò egli bensì gli Stati suoi aviti di Este, Rovigo
e dell'altre terre poste in un felicissimo paese; ma da lì a qualche
anno venne meno la sua autorità in Ferrara, perchè troppo vi crebbe
quella del ghibellino Salinguerra, siccome dirò a suo tempo. Seppe
questo volpone nell'anno presente con sì buone parole e promesse entrare
in grazia di papa Innocenzo (probabilmente dopo la morte del marchese
Aldrovandino), che ottenne da lui l'investitura delle terre che già
furono della contessa Matilda, ne' vescovati di Modena, Reggio, Parma,
Bologna ed Imola, con obbligarsi a servire in campagna coll'armi al
pontefice. L'atto e giuramento suo, prestato nel dì 7 di settembre, si
legge negli Annali ecclesiastici del Rinaldi[2743]. Andando innanzi,
vedremo la fedeltà di costui ai sommi pontefici. Fu cagione la discordia
insorta fra i Padovani e Veneziani, che i primi in quest'anno[2744]
passassero con grandi forze e preparativi verso Chioggia, ed
imprendessero l'assedio della torre di Baiba in tempo di autunno.
Sopravvennero tali pioggie, che furono obbligati a ritirarsi. Diedero
loro alla coda i Chioggiotti e Veneziani, e presero molti uomini, e non
poco del loro equipaggio. Assediarono anche i Reggiani coi Cremonesi
nell'anno presente il castello di Gonzaga, che era dei Mantovani[2745].
Ricorsero questi all'aiuto de' Veronesi, che non mancarono di uscire in
campo con loro. La venuta di questa armata fece risolvere gli assedianti
ad una pronta ritirata. Secondochè abbiamo da Ricordano Malaspina[2746],
per morte data in Firenze a Buondelmonte de' Buondelmonti, entrò in
quella città la divisione, e chi tenne alla parte dei Guelfi, e chi a
quella de' Ghibellini. Ricordano fa un catalogo delle nobili famiglie
che abbracciarono chi questa e chi quella fazione. Scrive Galvano
Fiamma[2747] essere entrati ancora in questo anno i Milanesi ostilmente
nella Lomellina de' Pavesi, con prendere per forza Garlasco, e menar via
gran quantità di bestie e mobili. Aggiugne, che, avendo essi fatta lega
con _Tommaso conte_ di Savoia, il quale personalmente venne con mille
cavalli in loro aiuto, si portarono all'assedio di Casale di
Sant'Evasio, terra nobile, che, venuta in loro potere nel dì 20
d'agosto, per aderire alle preghiere del popolo di Vercelli, fu da essi
disfatta da' fondamenti. Andarono poscia anch'essi in favor d'esso conte
nel Piemonte, ed obbligarono il marchese di Pimasio (se pure non è
scorretto questo nome) a cercar accordo col conte di Savoia. Scrive il
Sigonio[2748] che questo marchese fu quello di Monferrato. Mancò di vita
nel giugno dell'anno presente, e non già nel precedente, come lasciò
scritto Galvano Fiamma, _Sicardo_, uno de' più riguardevoli vescovi di
Cremona, di cui è restata una Cronica[2749] da me data alla luce.

NOTE:

[2738] Abbas Ursperg., in Chron., Johann. de Ceccano, Chron.
Fossaenovae. Richard. de S. Germano, et alii.

[2739] Labbe, Concilior., tom. 11, P. I.

[2740] Godefridus Monachus, in Chron.

[2741] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2742] Roland., lib. 4, cap. 15. Monachus Patavinus, in Chron.

[2743] Raynaldus, in Annal. Eccles. ad hunc ann., num. 39.

[2744] Roland., lib. 1, cap. 14.

[2745] Paris. de Cereta, tom. 8 Rer. Ital.

[2746] Ricordano Malaspina, Istor., cap. 104.

[2747] Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 104.

[2748] Sigonius, de Regno Ital., lib. 16.

[2749] Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXVI. Indizione IV.

    ONORIO III papa 1.
    OTTONE IV imperadore 8.


Le premure d'_Innocenzo III_ papa pel soccorso di Terra santa erano
incessanti. Conoscendo egli quanto potesse influire al bene di quegli
affari la potenza de' Genovesi e Pisani, provveduti di tanti legni e
gente brava specialmente in mare[2750], si doleva forte della discordia
e guerra che da tanti anni bolliva fra queste due nazioni. Determinò
dunque di portarsi in persona in sito, dove potesse trattar di pace fra
loro. Ma pervenuto a Perugia, quivi cadde malato, e l'infermità fu sì
grave, che il rapì da questa vita nel dì 6 di luglio dell'anno presente.
Mancò in lui uno de' più abili e gloriosi pontefici che sieno seduti
nella cattedra di san Pietro: gran giurisconsulto, gran politico, che
all'esperienza grande da lui mostrata nel governo spirituale aggiunse
l'ingrandimento temporale della Chiesa romana, con procurar nello stesso
tempo quello de' suoi parenti. Ma a questo insigne pontefice non
mancarono censure, facili ad uscir della penna di chi si consiglia colla
propria passione ed interesse. Ai grandi avvenimenti che furono sotto il
suo pontificato, tra' quali specialmente è da riporre l'essere caduta in
mano de' Latini la città di Costantinopoli con buona parte del greco
impero, si dee aggiugnere la nascita di due insigni ordini religiosi,
che illustrarono poi e tuttavia illustrano la Chiesa di Dio, cioè de'
Predicatori, istituito da San Domenico, e dei Minori, fondato da san
Francesco d'Assisi. Ci son di quelli che li credono confermati dal
medesimo papa Innocenzo III; il che non mi sembra ben fondato.
Nell'universale concilio lateranense IV, tenuto nel precedente anno, fu
stabilito così al capo tredicesimo[2751]: _Nenimia religionum diversitas
gravem in Ecclesia Dei confusionem inducat, firmiter prohibemus, ne quis
de cetero novam religionem inveniat. Sed quicumque voluerit ad
religionem converti, unam de approbatis assumat_. Però è ben vero che
sotto Innocenzo ebbe principio l'uno e l'altro di questi due ordini sì
benemeriti della Chiesa[2752], ma quello de' Predicatori non ebbe
bisogno di conferma, perchè San Domenico scelse la regola de' canonici
regolari, e per molto tempo que' religiosi ritennero il nome di
canonici, assumendo col tempo quello di Predicatori. L'altro de' Minori,
in considerazione della mirabil vita del suo istitutore, e delle sante
sue regole, fu veramente approvato da papa _Onorio III_, del quale ora
son per parlare. In luogo dunque del defunto _Innocenzo III_ fu nel
seguente giorno eletto sommo pontefice Cencio cardinale de' santi
Giovanni e Paolo, di nazione Romano, che, secondo le mie conghietture,
quel medesimo fu che ci ha lasciato il libro de' censi della Chiesa
romana, da me dato alla luce[2753]. Assunse il nome di _Onorio III_,
pontefice anche egli di gran vaglia[2754], il quale fu poi consecrato
nel dì 11 d'agosto. E perciocchè tuttavia durava la guerra de' Milanesi
e Piacentini contra de' Pavesi, senza voler ascoltare consigli di pace,
esso pontefice, in vigore di un decreto del suddetto concilio
lateranense, scomunicò di nuovo i rettori di Milano e Piacenza, e
pubblicò l'interdetto in quelle città. Diede ancora in governo al comune
di Modena alcune delle terre, delle quali Salinguerra era stato
investito dal suo predecessore.

Determinò in quest'anno il _re Federigo II_ di chiamare in Germania
l'unico suo figliuolo _Arrigo_, già dichiarato re di Sicilia, benchè
fosse in tenera età, per ottenergli l'amore de' principi tedeschi, e
forse anche per sospetto di qualche rivoluzione in Sicilia, durante la
sua lontananza. Venne da Palermo questo fanciullo re, accompagnato
dall'arcivescovo di Palermo, sino a Gaeta per mare. Ch'egli passasse per
la Toscana e per Lucca, si può arguire dagli Atti del comune di Modena
da me pubblicati[2755]. Imperciocchè Frogieri podestà di Modena cogli
ambasciatori d'essa città, cioè con Gherardo Rangone, Aldeprando Pico ed
altri, andò a riceverlo con un corpo d'armati sino allo spedale di San
Pellegrino, che era l'ultimo luogo della giurisdizione di Modena, e
condottolo per le montagne sino al ponte di Guiligua, il consegnò ivi
agli ambasciatori di Reggio e di Parma. Anche la _regina Costanza_ sua
madre per altra via s'incamminò verso la Germania. Le Croniche di
Bologna[2756] e di Reggio[2757] attestano ch'ella passò per quelle città
nell'anno presente. Riccardo da San Germano[2758] differisce l'andata
sua sino all'anno 1218. Abbiamo poi da esso Riccardo che in quest'anno
_Diopoldo duca_ di Spoleti, volendo passare travestito a cavallo di un
asino in Puglia, tradito e scoperto, fu preso in vicinanza del Tevere, e
consegnato al senatore di Roma, che il mise in prigione. L'onnipotente
forza della pecunia servì poscia a liberarlo. Per quanto s'ha da Galvano
Fiamma[2759], in quest'anno i Milanesi irritati per le censure
pontificie, pretendendo che fossero nulle od ingiuste, maggiormente
esercitarono la rabbia loro contra de' Pavesi. Presero e distrussero
varie loro castella; misero l'assedio ad Arena (non già ad Arona, come
sta scritto nel testo del Sigonio[2760]), ma non poterono averla.
Tornarono anche a spogliar la Lomellina. Tace poi questo autore ciò che
si legge nella Cronichetta di Cremona[2761]: cioè che il popolo
cremonese, collegato de' Pavesi, neppur egli stette colle mani alla
cintola in questi tempi. Col guasto e col fuoco distrusse le terre de'
Milanesi e Cremaschi ne' contorni dell'Adda. Lo stesso danno recò a un
tratto del Piacentino. Prese e smantellò Ponte Vico: se pure non è
scorretto questo nome. Azzuffatosi poi l'esercito loro con quel dei
Piacentini presso a Montile fra Ponte Vico e Piacenza, lo sconfisse, e
molti prigioni condusse a Cremona. Gelò sì forte in quest'anno il Po,
che le carra e le bestie vi passavano sopra, e seccarono perciò le viti.
La Cronica di Piacenza[2762] conferma il danno recato da' Piacentini e
Milanesi collegati al distretto di Pavia, coll'incendio di molte
castella, e soggiugne in fine: _Eodem anno fuit praelium de Pontenurio_.
Questa battaglia di Pontenura è spiegata dalla Cronica di Parma[2763].
Ivi dunque si legge che l'oste parmigiano andò sino a Ponte Nura sul
Piacentino, e vi si fece una baruffa colla peggio d'essi Piacentini.
Poscia nel dì 30 di settembre ebbero battaglia i Parmigiani con parte
de' Piacentini, Lodigiani, Cremaschi e Milanesi vicino al medesimo ponte
verso Fontana, e fecero molti prigioni: al qual combattimento
intervennero pochi Cremonesi. Nelle Croniche di Bologna[2764], di
Reggio[2765] e Cesena[2766] è scritto che in quest'anno nel dì 14 di
giugno ebbero i Cesenati dai Riminesi una mala percossa, con lasciare in
man loro mille e settecento prigionieri. Implorato l'aiuto dei
Bolognesi, due mesi dappoi questi con grande sforzo di gente, rinforzati
anche dalla cavalleria e dagli arcieri di Reggio, assediarono il
castello di Sant'Arcangelo per sei settimane. La Cronica Bolognese
racconta che lo presero per forza, con dare il guasto a tutto il paese
intorno. Di questo acquisto non parla la Cronica di Reggio, più antica
dell'altra, e neppur gli Annali di Cesena. Quel che è certo, costrinsero
i Riminesi a rendere tutti i prigioni. Non par già certo che i Cesenati
allora promettessero ubbidienza al comune di Bologna.

NOTE:

[2750] Martin. Polonus, Chron. Pontific.

[2751] Labbe, Concilior., tom. 11.

[2752] Antiquit. Ital., Dissert. LXV.

[2753] Antiquit. Ital., Dissert. LXIX.

[2754] Raynaldus, in Annal. Eccl.

[2755] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.

[2756] Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Italic.

[2757] Memor. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.

[2758] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2759] Gualvan. Flamma, in Manip. Flor., cap. 248.

[2760] Sigon., de Regn. Ital., lib. 16.

[2761] Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.

[2762] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2763] Chron. Parmens., tom. 9 Rer. Ital.

[2764] Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.

[2765] Memoriale Potest. Regiens., tom. 3 Rer. Italic.

[2766] Annal. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXVII. Indizione V.

    ONORIO III papa 2.
    OTTONE IV imperadore 9.


Venne in quest'anno a Roma _Pietro conte_ d'Auxerre, pretendente della
corona imperiale di Costantinopoli[2767]. Ogni di più andavano
prevalendo agli odiati Latini i Greci, che aveano per loro capo Teodoro
Comneno. Nel dì 9 d'aprile fu egli con gran gloria e solennità coronato
imperadore d'Oriente da papa _Onorio III_ nella chiesa di san Lorenzo.
Confermò questo efimero Augusto a _Guglielmo marchese_ di Monferrato, e
a _Demetrio_ di lui fratello il regno di Salonichi, tuttavia posseduto
da questi principi. Io punto non mi affaticherò a seguitare gl'infelici
suoi passi in Oriente. Passò pel Mediterraneo in quest'anno una possente
crociata di cristiani incamminata verso l'Egitto; e _Andrea re_
d'Ungheria con altri principi e con un copiosissimo esercito marciò
anch'esso a quella volta. Non ommise diligenza veruna in tempi di tanto
bisogno papa _Onorio_ per rimettere la pace fra i popoli dell'Italia. A
questo fine, per attestato del Continuatore di Caffaro[2768], inviò a
Genova _Ugolino_ cardinale e vescovo d'Ostia, che fu poi papa Gregorio
IX, personaggio di raffinata prudenza, per condurre quel popolo a far
pace coi Pisani. S'obbligarono i Genovesi di stare a quello che avesse
decretato il pontefice. Altrettanto fecero i Pisani: il che aprì la
strada, dopo tanti anni di guerra, alla concordia fra quelle due emule
città. Abbiamo ancora dal medesimo scrittore contemporaneo che in
quest'anno, _ob multas discordias, quae vertebantur inter civitates
Lombardiae, quum multae religiosae personae se intromitterent de pace et
concordia componenda, tandem auxilio Dei inter Papiam, Mediolanum,
Placentiam, Terdonam et Alexandriam pax firma fuit, et firmata mense
junii_. Restò bensì viva la guerra fra essi Milanesi e Cremonesi.
Leggesi nella Cronica di Cremona[2769] che nell'anno presente i
Cremonesi, assistiti di forze dai Parmigiani, Reggiani e Modenesi,
andarono a fronte dell'esercito milanese, il quale col rinforzo dei
Piacentini, Comaschi, Novaresi, Vercellini ed Alessandrini, era giunto
fin presso a Zenevolta. La loro comparsa produsse il mirabil effetto
d'indurre i Milanesi a ritirarsi in fretta. Ascoltisi ora Galvano dalla
Fiamma là dove scrive[2770] che in quest'anno i Milanesi col carroccio
andarono sul Cremonese, s'impadronirono di Ruminengo e di Zenevolta,
presero il carroccio de' Cremonesi, fecero anche prigione il vescovo di
Cremona con innumerabili Cremonesi. Mandò il podestà di Cremona a
minacciarli, ma non osò uscire della città. Dopo altri fatti l'armata
milanese passò ai danni de' Parmigiani. E finalmente i Pavesi per la
terza volta giurarono di ubbidire ai Milanesi. Noi non siam tenuti a
credere tutto a Galvano Fiamma, adulatore non rade volte della patria
sua. Merita ben più fede il Cronista Piacentino[2771], il quale, dopo
aver detto che i Piacentini coi lor collegati furono a dare il guasto al
territorio di Cremona, aggiugne che i Pavesi dall'una parte, e i
Milanesi e Piacentini dall'altra fecero compromesso delle lor differenze
nel podestà di Piacenza, il quale sentenziò che i Milanesi rilasciassero
Vigevano ai Pavesi per dieci anni, e che ai Piacentini restassero alcune
ville. Negli Annali vecchi di Modena[2772] è bensì scritto che nell'anno
presente riuscì ai Bolognesi di prendere al comune di Modena le castella
di Bazzano, San Cesario e Nonantola, e di sottomettere tutta la
Romagnuola; ma fuor di sito è una tal memoria, essendo succeduti tal
fatti molto più tardi.

Diedero in quest'anno principio i crociati alle lor imprese in Egitto.
Gran copia di Veneziani, Genovesi e Pisani, e d'altre città d'Italia
intervenne a quella gloriosa impresa. Dalle memorie che rapporta il
Rinaldi[2773] si scorge che _Guglielmo marches_e di Massa (e perciò di
casa Malaspina) era stato padrone del giudicato di Cagliari in Sardegna.
Morto lui, una sua figliuola ereditò quegli Stati, e ne prese il
possesso di consenso de' popoli _suscepto baculo regali, quod est signum
confirmationis in regnum_. Da lì a non molto, per mettere fine alle
guerre che erano state in addietro fra quel giudicato e l'altro di
Arborea, ella sposò il giudice d'essa Arborea, oggidì Oristagni. I
Pisani, che pretendevano il dominio della Sardegna, giunti colà un
giorno con una squadra di navi, obbligarono la marchesana di Massa e il
marito a giurar loro fedeltà, e a prendere da essi l'investitura col
gonfalone. Col tempo i Pisani cominciarono ad usurpar quelle
giurisdizioni, e a farla quivi da padroni assoluti: per lo che la
marchesana fece ricorso a papa Onorio, implorando il suo aiuto. Per
attestato del Dandolo[2774], in questo anno il patriarca d'Aquileia, per
delegazione del papa, rimise pace fra i Veneziani e Padovani, che erano
in rotta per l'accidente occorso nel giuoco di Trivigi. Ma
Rolandino[2775] non s'accorda con questa notizia, scrivendo egli che
anche nell'anno 1220 durava la nemicizia fra quelle due repubbliche.
Siccome costa dalle bolle da me date alla luce[2776], in quest'anno papa
_Onorio III_ diede l'investitura della marca di Guarnieri, cioè di
Ancona, ad _Azzo VII_ marchese d'Este, benchè giovinetto,
coll'annoverare cadauna città di quella marca.

NOTE:

[2767] Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae. Richard. de S. Germano,
in Chron. Raynaldus, Annal. Eccl.

[2768] Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Ital.

[2769] Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.

[2770] Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 250.

[2771] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Italic.

[2772] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[2773] Raynaldus, Annal. Eccles. ad hunc ann.

[2774] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[2775] Roland., Chron., lib. 2, cap. 1.

[2776] Antichità Estensi, P. I, cap. 42.



    Anno di CRISTO MCCXVIII. Indizione VI.

    ONORIO III papa 3.
    OTTONE IV imperadore 10.


Dopo Pasqua cadde infermo in un suo castello chiamato Hartzburg
l'imperadore _Ottone IV_; ed, aggravandosi il male[2777], con gran
compunzione di cuore e molte lagrime chiese l'assoluzione dalla
scomunica, la quale, dopo aver egli promesso di stare a quanto gli fosse
ordinato dal sommo pontefice, gli fu conceduta dal vescovo d'Ildeseim.
Ricevuti poscia i sacramenti con tutta divozione, terminò la sua vita
nel dì 19 di maggio. Gotifredo monaco[2778] la mette al dì 15 di quel
mese. Il Continuatore di Caffaro[2779] _uno die ante Ascensionem
Domini_, cioè nel dì 23 di maggio. Ma il Meibomio sta per la prima
sentenza. Ne dovette ben intendere il _re Federigo_ la morte senza
rammarico. Una grande scossa fu questa alla nobilissima linea degli
Estensi in Germania, perchè sbrigato da questo competitore esso re
Federigo tolse il palatinato del Reno ad _Arrigo_ fratello del defunto
Ottone, senza far caso d'un accordo stabilito con lui, nè dell'avergli
esso Arrigo consegnate le insegne dello imperio dopo la morte del
fratello. Venne perciò a restar quella casa coi soli Stati di Brunsvic,
tuttavia da lei posseduti, coll'accrescimento ai nostri giorni d'altri
paesi, e della corona della gran Bretagna. Che in questo anno seguisse
la pace tra i Genovesi e Pisani, lo raccoglie il Rinaldi[2780] da un
diploma pontificio. Di questo parlano gli Annali di Genova solamente
all'anno precedente, e sono scritti da autori contemporanei. Abbiamo
bensì da essi Annali che in un congresso tenuto in Parma fra i deputati
di Venezia e quei di Genova restò conchiusa una pace di dieci anni fra
quelle due repubbliche. Lasciò scritto Riccardo da San Germano[2781] che
nell'anno presente d'ordine del _re Federigo II_, Diopoldo duca di
Spoleti fu preso da Jacopo da San Severino. Dovettero i non mai quieti
Romani inquietare in quest'anno il buon _papa Onorio_. Nel mese di
giugno si portò egli alla villeggiatura di Rieti. Nell'ottobre seguente
andò a Viterbo, e di là a Roma, _sed quum propter Romanorum molestias
esse Romae non posset, coactus est Viterbium remeare_.

Non avendo più che temere dalla parte di Pavia i Milanesi, dopo aver
unito alle armi sue quelle degli stessi Pavesi, de' Vercellesi,
Novaresi, Tortonesi, Comaschi, Alessandrini, Lodigiani e Cremaschi,
vennero fino a Borgo San Donnino, con disegno di farne un regalo ai
Piacentini[2782]. Trovarono quivi accampato l'esercito dei Cremonesi,
Parmigiani, Reggiani e Modenesi; e però, delusi delle loro speranze,
voltarono verso il Po. Arrivati verso Ghibello, i Cremonesi coi lor
collegati comparvero anche essi colà, e nel dì 6 di giugno presentarono
loro la battaglia. Durò questa dalla nona fino alla notte, e vi
restarono sconfitti i Milanesi. Molti d'essi furono condotti nelle
carceri di Cremona. La Cronica di Parma[2783] ha che questo fatto d'armi
seguì nel primo giovedì di giugno, e che i Reggiani non arrivarono a
tempo: laonde passò in proverbio _il soccorso dei Reggiani_. L'autore
della Cronica Piacentina altro non dice[2784], se non che seguì fra loro
in quest'anno una gran battaglia, e che i Milanesi s'impossessarono di
Busseto. Ma il vigilantissimo papa Onorio III, cui troppo dispiacevano
gli odii sanguinarii di questi popoli[2785], spedì anche ad essi
_Ugolino vescovo_ di Ostia e di Velletri suo cardinale legato. Tale fu
la di lui eloquenza e destrezza, che gli venne fatto di metter pace fra
i Milanesi e Piacentini dall'una parte, e i Cremonesi e Parmigiani
dall'altra. Ascoltiamo ora anche Galvano Fiamma[2786], il quale fuor di
sito, cioè all'anno 1219, scrive che, usciti in campagna i Milanesi coi
lor collegati, nel dì 6 di giugno presero il castello di Santa Croce. E
nel dì 17 di luglio assediarono i Cremonesi, Parmigiani, Reggiani e
Modenesi in un luogo inespugnabile appellato Gibello, e si venne ad un
fatto d'armi, in cui molti perirono dall'una e dall'altra parte. Nel
giorno appresso presero Busseto con trenta e più luoghi de' Cremonesi.
Ma alle preghiere degli ambasciatori di Bologna, che erano venuti a far
pace, si ritirarono dal Cremonese. Se Cremona possedesse allora tanti
luoghi di qua dal Po nol saprei dire. Ma Galvano quasi nulla parla della
pace suddetta, e neppur ben conobbe chi la maneggiò. Così si andavano
mordendo a guisa di cavalli sfrenati, e consumando le città della
Lombardia fra loro; ma il peggio era, quando s'introduceva la matta
discordia fra gli stessi abitatori d'una città. In quest'anno appunto,
in occasione della guerra suddetta, entrò la divisione fra i nobili e il
popolo di Piacenza; e prevalendo, come per lo più succedeva, la forza
del popolo, questo vergognosamente cacciò dal suo governo il podestà,
che era allora Guido da Busto Milanese[2787]. Peggio ne avvenne dipoi,
siccome vedremo. Ci riferiscono gli Annali di Cesena[2788] che in questo
anno i Faentini uniti coi Cesenati assediarono Imola. Temo io che agli
anni seguenti appartenga questa notizia, giacchè si aggiugne che
nell'anno seguente i Bolognesi la presero: il che accadde più tardi. E
tanto più perchè il Sigonio[2789] scrive che in quest'anno i Forlivesi
fecero guerra più che mai ai Faentini, i quali, veggendosi al disotto,
implorarono l'aiuto de' Bolognesi. Vollero questi tentar prima se la
loro autorità potea bastare ad estinguere quella guerra senza metter
mano all'armi. Spediti dunque ambasciatori a Forlì, fecero istanza che
fosse compromessa nel loro podestà ogni contesa di quelle città. E così
fu fatto. E il podestà pubblicò tosto una tregua, per conoscere con più
agio i motivi delle loro discordie.

NOTE:

[2777] Albert. Stadens., in Chron.

[2778] Godefridus Monachus, in Chron.

[2779] Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Ital.

[2780] Raynaldus, Annal. Ecclesiast.

[2781] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2782] Chronic. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.

[2783] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[2784] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2785] Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.

[2786] Gualvan. Flam., in Manip. Flor., cap. 252.

[2787] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2788] Annales Caesen., tom. 14 Rer. Ital.

[2789] Sigon., de Regno Ital., lib. 16.



    Anno di CRISTO MCCXIX. Indizione VII.

    ONORIO III papa 4.
    Vacante l'imperio.


L'assedio di Damiata, fortissima ed importante città nell'Egitto,
terminato fu in quest'anno dopo immense fatiche col costo d'infinito
sangue di popolo battezzato, dall'esercito de' crociati, colla presa di
quella città in faccia all'innumerabil esercito di Corradino sultano de'
Saraceni nel dì cinque di novembre[2790]. Riempiè questa nuova d'immenso
gaudio tutta la cristianità, e un tal acquisto produsse un incredibil
tesoro e bottino a tutta quell'armata di cristiani. Racconta Godifredo
monaco[2791] una particolarità confermata dall'Urspergense[2792], cioè
che il sultano, per non perdere così cara città, aveva esibito ai
cristiani di restituir loro il legno della vera croce, tutti i
prigionieri, e di somministrar le spese per rimettere in piedi le mura
da lui smantellate di Gerusalemme. _Insuper regnum hierosolymitanum
totaliter restitueret, praeter Craccum, et Montem regalem, pro quibus
retinendis tributum obtulit, quamdiu tregua duraret_. Ma il legato
pontificio, i templari, ed altri rigettarono sì bella esibizione,
spacciandola per una illusione e furberia del sultano; e sostenendo che
quelle due sole fortezze erano bastanti ad inquietare continuamente
Gerusalemme. Insomma stabilirono di voler prima conquistar Damiata, e
poscia far trattato col sultano. Damiata fu presa, e niun trattato si
fece dipoi. Non lasciava intanto papa _Onorio_[2793] di sollecitare il
_re Federigo II_ ad eseguire il voto della croce da lui presa, per
portare soccorso ai cristiani militanti in Egitto. Ed egli colle più
belle lettere del mondo rispondeva di essere tutto acceso di voglia
d'impiegar colà le sue forze in pro della cristianità, e il buon papa se
lo credeva. La vera intenzione di Federigo, siccome col tempo si venne a
conoscere era di cavar dalle mani del romano pontefice la corona
dell'imperio: al che appunto egli arrivò nell'anno seguente, per quanto
si vedrà. Nè voglio tacere che, per testimonianza di Jacopo da
Vitry[2794], cardinale e scrittore contemporaneo, il mirabil servo di
Dio san Francesco d'Assisi fu all'assedio di Damiata, ed ebbe coraggio
di passare all'udienza del sultano, che, deposta la sua fierezza,
l'ascoltò predicare della fede di Cristo. Ma veggendo il santo che niun
frutto faceano le prediche sue con quegl'indurati Maomettani, se ne
tornò in Italia. Crebbe in quest'anno la rottura fra i nobili e il
popolo di Piacenza[2795], di maniera che toccò ai primi di uscire dalla
città con tutte le loro famiglie. Ritiraronsi essi a Podenzano, dove,
creato il loro podestà, cominciarono ad impedire che i contadini del
distretto non andassero al mercato di Piacenza.

Fecero pace in quest'anno i Bolognesi[2796] col popolo di Pistoia. È da
vedere il Sigonio[2797] che minutamente descrive gli atti di queste due
città in occasione di questa pace. Durando ancora le nemicizie de'
Faentini contra degl'Imolesi, i primi, assistiti dal popolo di Bologna,
ostilmente procederono contro Imola. Mentre davano il guasto al paese,
sopravvennero _Jacopo vescovo_ di Torino e _Guglielmo marchese_ di
Monferrato, che andavano ambasciatori del re Federigo a Roma. Questi
intimarono al podestà di Bologna di non molestar il popolo d'Imola, e di
restituire il maltolto. Mostrò il podestà di non credere ch'essi fossero
ministri di Federigo, al quale per altro tutto il popolo bolognese
professava riverenza. Andò nelle smanie il vescovo, e, dopo aver messa
Bologna al bando dell'imperio, in fretta se ne andò con Dio. Furono poi
rimesse quelle differenze degl'Imolesi e Faentini nel medesimo podestà
di Bologna. Nell'anno seguente capitato ad essa città di Bologna Anselmo
da Spira legato di Federigo, avendolo i Bolognesi unto con unguento di
mirabil efficacia, furono da lui assoluti. Era il marchese di Monferrato
non solamente per vincolo di parentela, ma per affetto e per comunione
d'interessi, attaccatissimo al re Federigo. Ed appunto racconta
Benvenuto da San Giorgio[2798] che in quest'anno egli ottenne da esso re
quattro castella situate sulle rive del Po, con diploma, che vien
rapportato dal medesimo storico, dato _apud Spiram anno MCCXIX, nono
kalendas martii, Indictione VII_. Ma forse circa questi tempi una fiera
scossa patì l'insigne casa dei marchesi di Monferrato, perchè _Demetrio_
fratello del suddetto Guglielmo marchese, re di Tessalonica, ossia di
Salonichi, e della Tessalia, fu dal greco _Teodoro Lascari_ spogliato di
quel regno, e gli convenne tornare in Italia, e ricoverarsi nell'avito
suo paese. Fra esso marchese Guglielmo e Andrea Delfino conte di Vienna
e di Grenoble passarono delle controversie a cagione del castello e
borgo di Brianzone. Furono queste nell'anno presente composte con aver
data il marchese _Beatrice_ sua figliuola in moglie al Delfino, ed
assegnatagli in dote quella terra. Da ciò si può arguire quanto
ampiamente si stendesse allora il dominio de' marchesi di Monferrato,
da' quali si diramarono senza fallo i marchesi di Saluzzo.

NOTE:

[2790] Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital. Bernardus Thesaurar.,
tom. 7 Rer. Ital. Monachus Patavinus, et alii.

[2791] Godefridus Monachus, in Chron.

[2792] Abbas Urspergens., in Chron.

[2793] Raynaldus, Annal. Eccl.

[2794] Jacobus de Vitriaco, Hist. Orient.

[2795] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2796] Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.

[2797] Sigonius, de Regno Ital., lib. 16.

[2798] Benvenut. de S. Giorgio, Stor. del Monferr., tom. 23 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXX. Indizione VIII.

    ONORIO III papa 5.
    FEDERIGO II imperadore 1.


Con lettere efficacissime andava più che mai _papa Onorio_ spronando il
_re Federigo_ alla spedizione di Terra santa, e al compimento del voto
suo[2799]; e Federigo, che sapeva, quantunque giovane, tutta la
quintessenza dell'astuzia, ne scriveva delle altre al papa le più
rispettose, le più affettuose che mai si potessero immaginare, adducendo
scuse e promettendo gran cose. Scrisse ancora lettere adulatorie al
senato e popolo romano, coll'avvertenza di esortarli alla ubbidienza
dovuta al sommo pontefice, al quale già notammo che avevano recato dei
disgusti, e data occasione di ritirarsi fuor di Roma. Il ritardo di
Federigo in Germania, a cui per altro un'ora parea mille anni di venire
in Italia a ricevere la sospirata corona imperiale, proveniva dai
maneggi ch'egli andava facendo per l'elezione del _re Arrigo_ suo
figliuolo in re de' Romani e di Germania. E li faceva senza farne
consapevole il papa, e senza ricercarne il di lui consenso, con aver poi
con varie mendicate ragioni scusato il suo procedere. Seguì in fatti
l'elezione suddetta, e Federigo fece credere al pontefice d'averne
sospesa l'esecuzione, finchè questa venisse approvata dalla santa Sede.
Sbrigato da così importante affare mosse Federigo di Germania, e con un
fiorito esercito giunse a Verona, da dove nel dì 15 settembre spedì
nuove lettere al papa. Se vogliam prestar fede a Galvano Fiamma[2800],
fece istanza ai Milanesi per la corona di ferro. Essi gliela negarono.
Più probabile è che, conoscendo il lor animo, risparmiasse a sè stesso
un tale affronto. Essendo egli in San Leone vicino a Mantova
_quintodecimo kalendas octobris_, diede un diploma in favore di _Azzo
VII marchese d'Este_, comandando al popolo di Padova di non inquietare
il marchese nel pacifico possesso e dominio d'Este, Calaone, Montagnana,
e degli altri antichi Stati della casa d'Este[2801]. Passato dipoi per
Modena e Bologna, di là nel dì 3 d'ottobre scrisse altre lettere al
medesimo papa, tutte infiorate delle solite proteste dell'ingrandimento
temporale della Chiesa romana, della filiale ubbidienza, e di altre
tenerezze, che poco costano alla penna. Il pontefice, a cui forte
premeva oltre all'altre cose solite promettersi dai novelli Augusti, che
il regno di Sicilia e di Puglia, se si conferiva la corona dell'impero a
chi ne era padrone, non venisse ad incorporarsi nello stesso imperio con
danno esorbitante della Chiesa romana; ed inoltre sommamente desiderava
che il nuovo imperadore impiegasse le forze sue in soccorso della
cristianità in Egitto, o in Soria, volle prima assicurarsi di questi due
punti. Federigo non vi fece difficoltà veruna. Però, continuato il
viaggo, felicemente giunse a Roma, dove nel dì 22 di novembre fu
solennemente coronato imperadore insieme con _Costanza_ sua moglie nella
basilica di san Pietro per mano di papa Onorio, con gran concorso e pace
del popolo romano. Nello stesso giorno il nuovo imperador Federigo[2802]
pubblicò nel Vaticano un famoso editto contro gli eretici manichei ossia
patarini, che allora quasi per tutte le città di Italia, o pubblicamente
o segretamente viveano, e similmente in favore della libertà degli
ecclesiastici. Fece dono di qualche Stato alla Chiesa romana, e le
restituì i beni della contessa Matilda. Alberico monaco[2803] vi
aggiugne una particolarità: cioè ch'egli _papam per manum validam Romani
introduxit, jam ab ea per septem menses exclusum, et Romanos eidem
reconciliavit_. Per conto dell'impresa di Terra santa, di nuovo prese la
croce dalle mani di _Ugolino cardinale_ vescovo d'Ostia, con obbligarsi
di spedire nel prossimo venturo marzo un gagliardo soccorso ai
crocesignati, e di passar fra pochi mesi anche egli in Palestina,
allegando di non poter farlo allora, perchè avea dei ribelli in Puglia,
e i Saraceni in Sicilia da domar prima. Nel dì 26 di novembre si trovava
Federigo tuttavia presso Roma, dove confermò i privilegii ad _Arrigo
vescovo_ di Bologna, ciò apparendo dal diploma rapportato dal
Ghirardacci[2804]. Passò dipoi a San Germano, magnificamente accolto ivi
da Pietro abbate di Monte Casino[2805]. _Mensam Campsorum, et jus
sanguinis, quod usque tunc habuerat concessione imperatoris Henrici
ecclesia casinensis, recipit ab eodem_. Crede il padre abbate
Gattola[2806] che Federigo confermasse questi due diritti all'insigne
monistero casinense. Voglia Dio che Riccardo non dica il contrario: cioè
che il primo regalo fatto da Federigo II ai Casinensi non fosse quello
di levar loro quel gius. Così seguita a scrivere Riccardo, che esso
Augusto tolse ed uni al dominio regale Suessa, Teano e la Rocca di
Dragone, che godeva il conte Ruggieri dall'Aquila. Poscia s'incamminò a
Capoa, dove in un gran parlamento pubblicò le assise, cioè venti
costituzioni pel buono stato e governo del regno, e formò la _corte
capuana_.

Abbiamo dai Continuatori di Caffaro[2807] che, saputasi dai Genovesi
l'arrivo in Italia di Federigo, gli spedirono Rambertino dei Bonarelli
da Bologna lor podestà, con molti nobili, sperando di riportarne molti
vantaggi, per le larghe promesse lor fatte con varie lettere da esso
principe. Il trovarono fuor di Modena, il seguitarono fino a Castel San
Pietro, dove, sfoderati i lor privilegii, il supplicarono per la
conferma d'essi. Appena volle egli confermar una parte di quello che
apparteneva all'imperio, scusandosi di nulla poter concedere intorno al
regno di Sicilia, se non dappoichè fosse giunto colà, e promettendo,
secondo il suo solito, di voler far molto: il che come fosse ben
eseguito lo vedremo in breve. Voleva che i Genovesi l'accompagnassero
alla coronazion romana; ma se ne sottrassero questi con allegare di non
poter farlo senza licenza del consiglio di Genova, e di non aver mai
usato il loro popolo d'inviare a quella funzione. Così, ottenuto il
congedo, malcontenti se ne tornarono a casa. Per la guerra che durava
fra i Reggiani e Mantovani, in quest'anno[2808] i primi, avendo in aiuto
i Parmigiani e Cremonesi, andarono all'assedio del castello di Gonzaga,
tenuto dai Mantovani. In vigor della lega contratta coi Mantovani, in
soccorso d'essi volarono i Modenesi. Portò la buona sorte che
l'arcivescovo di Maddeburgo, legato dell'Augusto Federigo, arrivò a
Modena, dove, chiamati con plenipotenza i deputati di amendue le città,
facendo valere la sua autorità, stabilì pace fra loro. Abbiamo parimente
dall'antica Cronica di Reggio[2809] che in quest'anno nel dì 16 di
giugno uniti insieme i Mantovani, Veronesi, Ferraresi e Modenesi,
presero il castello del Bondeno, probabilmente ai Reggiani, il distretto
de' quali una volta si stendeva fino colà. Circa questi tempi[2810] il
popolo di Trivigi diede il guasto alle diocesi di Ceneda, Feltre e
Belluno, ed uccise i vescovi delle due ultime città. Per l'atrocità di
questi fatti il pontefice Onorio fulminò le censure contra di loro, e li
minacciò di peggio, se nel termine di un mese non riparavano i danni e
restituivano l'ingiustamente occupato. Erano que' vescovi padroni delle
loro città. A tali notizie una altra ne aggiugne Rolandino[2811] storico
padovano: cioè che i Veneziani per timore che i Trivisani si unissero
co' Padovani, co' quali seguitava tuttavia la nimicizia, nata nella
congiuntura del giuoco di Triviso, fecero lega con essi Trivisani. Ciò
saputosi da _Bertoldo patriarca_ d'Aquileia (giacchè anch'egli si
sentiva maltrattato da essi Trivisani), per avere un buon appoggio, in
quest'anno elesse di farsi cittadino di Padova, e di giurare di far
quello che facessero i Padovani: al qual fine mandò a fabbricare a sue
spese alcuni bei palagi in Padova. Servì l'esempio suo, perchè i vescovi
di Feltre e di Belluno prendessero anch'essi la cittadinanza di Padova.
Infatti, avendo il popolo di Trivigi in quest'anno portata la guerra ad
alcune terre del patriarca, i Padovani, usciti in campagna coll'esercito
loro, si portarono sotto Castelfranco terra di Trivigi: e questo sol
movimento bastò a far tornare i Trivisani di galoppo a casa. Andò in
quest'anno il popolo di Piacenza[2812] oltre al fiume Trebbia, e bruciò
Campo Maldo di sotto, che era de' nobili fuorusciti. S'attrupparono, a
tal avviso, i nobili, e raggiunti i popolari vicino alla Trebbia, li
misero in isconfitta. Molti se ne affogarono nel fiume; circa seicento
fanti rimasti prigioni, furono condotti, parte nelle carceri di
Fiorenzuola, parte in quelle di Castello Arquato.

NOTE:

[2799] Raynald., Annal. Eccl.

[2800] Gualvan. Flam., in Manip. Flor., cap. 254.

[2801] Antichità Estensi, P. I, cap. 41.

[2802] Godefr. Monach. Richardus de S. Germano. Monach. Palavinus,
Chronicon. Austral et alii.

[2803] Albericus Monachus, in Chronic.

[2804] Ghirardacci, Istor. di Bologna, lib. 5.

[2805] Richardus de S. Germano.

[2806] Gattola, Access. ad Istor. Casinens., P. I.

[2807] Caffari, Annal. Genuens., lib. 5, tom. 6 Rer. Ital.

[2808] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[2809] Memoriale Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.

[2810] Raynald., in Annal. Eccles.

[2811] Roland., Chron., lib. 2, cap. 1.

[2812] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXXI. Indizione IX.

    ONORIO III papa 6.
    FEDERIGO II imperadore 2.


Un gran passaggio di cristiani si fece nella primavera di quest'anno
alla volta della conquistata Damiata. Per attestato di Jacopo da
Vitry[2813], cardinale e vescovo di Accon, ossia di Acri, vi arrivarono
fra gli altri _Arrigo da Settala_ arcivescovo di Milano, e i vescovi di
Faenza (come ha Bernardo il Tesoriere[2814], e non già di Genova, come
il Vitry), di Reggio e di Brescia. Vi giunsero ancora i legati
dell'imperador Federigo, portando nuove ch'egli in persona verrebbe.
_Aderat et Italiae militia copiosa_. Noi sappiamo dall'annalista
Rinaldi[2815], che papa _Onorio III_ cominciò a far di gravi doglianze
contra dell'imperador Federigo, perchè non avesse adempiuta la promessa
di mandar un gagliardo soccorso ai cristiani guerreggianti in Egitto. Ma
certa cosa è ch'egli con buon animo fin qui soddisfece all'impegno preso
col papa; perciocchè spedì colà una flotta di quaranta galee ben
armate[2816], sotto il comando di _Arrigo conte_ di Malta, il più bravo
e sperimentato capitano di mare che allora ci fosse, accompagnato da
Gualtieri di Palear suo gran cancelliere. Non so io dire se in questo
stuolo sieno comprese otto galee condotte dal conte Matteo di Puglia,
che Jacopo da Vitry e Bernardo Tesoriere scrivono esser giunte di luglio
a Damiata, dopo aver preso in viaggio due navi corsare de' Saraceni.
Sembra ancora ch'egli somministrasse legni pel trasporto del duca di
Baviera, che, affrettato da esso Augusto, con gran copia di nobiltà e di
soldatesche della Germania approdò a Damiata. Era già insorta discordia,
specialmente per la signoria di Damiata, soffiando l'interesse e
l'ambizione nel cuor di molti, più che l'amor della religione, fra
_Giovanni re_ di Gerusalemme e _Pelagio_ Portoghese, cardinale, vescovo
d'Albano e legato pontificio, uomo testardo, a cui viene da alcuni
attribuita la rovina degli affari della cristianità in Oriente. Prese il
re alcuni pretesti, e si ritirò ad Accon; e intanto il legato scomunicò
i di lui aderenti. Trovandosi poi questo legato con una sì fiorita
armata, che Godifredo monaco[2817] fa ascendere a quasi dugento mila
persone, ma che di gran lunga minore vien asserita da altri, non volendo
stare in ozio, propose di far qualche grande impresa. Trovò che le
milizie non si volevano muovere senza avere alla testa un generale di
sperienza, cioè il suddetto re Giovanni, parendo loro che un cherico,
benchè d'altissima dignità, non fosse atto a maneggiar il baston del
comando. Perciò il legato fu costretto a pregare il re che tornasse,
promettendo di pagargli cento mila bisanti che gli dovea. Venuto il re,
e tenutosi consiglio di guerra, fu egli di parere che si avesse da
andare a dirittura a rifabbricar Gerusalemme, e a riacquistar quel
regno: cosa allora facile, e che avrebbe potuto agevolar dipoi altre
conquiste in Egitto[2818]. Il legato, che si credea miglior mastro di
guerra, volle nel mese di luglio che si marciasse alla volta del Cairo,
città capitale dell'Egitto. Il sultano non lasciò in questi tempi di far
nuove proposizioni di pace, se gli si restituiva Damiata, con offerire
la restituzion de' prigioni e del regno di Gerusalemme, a riserva della
fortezza del Krach, e di pagar le spese per la riparazion delle
smantellate città, e una tregua di trenta anni. Tutta l'armata cristiana
acconsentiva; il solo legato Pelagio ruppe il trattato, e volle guerra.
Gotifredo monaco e Bernardo Tesoriere ci assicurano di questo fatto.
Finiamola con dire, che, inoltratasi l'armata de' crociati, il sultano
le tagliò la strada per cui da Damiata aveano da venir le vettovaglie,
ed aprì varie bocche del Nilo, che maggiormente ristrinsero i Cristiani,
di maniera che affamati, e senza modo di uscire di quel labirinto,
necessitati furono a chieder pace al Saraceno. Per ottenerla convenne
cedere Damiata colla vicendevol restituzion de' prigioni. Tale esito
ebbe l'ostinazion del legato: dopo di che di male in peggio andarono da
lì innanzi gli affari di Terra santa. A nulla servì in tal occasione la
flotta spedita a Damiata dall'imperador Federigo, ossia perchè, siccome
ha il Continuator di Caffaro, non sapendo l'esercito cristiano l'arrivo
di essa, non se ne prevalse; oppure perchè i Saraceni le impedirono il
poter continuare il viaggio pel Nilo. Quel che è certo (e l'abbiamo da
Riccardo da San Germano), il gran cancelliere _Gualtieri vescovo_ di
Catania, ed _Arrigo conte_ di Malta, condottieri della medesima, per
giusto timore d'essere gastigati dall'Augusto Federigo, l'uno, cioè
Gualtieri, se ne fuggì a Venezia, dove poi terminò i suoi giorni; e
l'altro, cioè Arrigo, tornato in Sicilia, e preso, restò spogliato della
sua contea di Malta. Ma il suddetto Continuatore degli Annali di Genova
scrive che egli perdè Malta solamente nell'anno 1223, per sospetti
d'intelligenza coi Saraceni di Sicilia ribelli. Oltre di che, il
troveremo all'anno 1227 di nuovo in grazia di Federigo.

Attese in quest'anno esso imperadore a vendicarsi di chi in Puglia avea
prese l'armi contra di lui, o veniva da lui creduto indebito possessor
de' suoi Stati. Levò Sora ed altri luoghi a _Riccardo_ fratello
d'_Innocenzo III_, con pretendere che esso Innocenzo nel tempo della di
lui fanciullezza avesse abusato della sua autorità in danno di lui. Non
meritava papa Innocenzo un trattamento sì fatto ne' suoi parenti, dopo
aver tanto operato per sostener Federigo fanciullo in Sicilia, e per
fargli ottenere il regno di Germania: il che fu un sicuro gradino alla
corona dell'imperio. Obbligò Federigo parimente _Stefano cardinale_ di
Santo Adriano a rilasciar la rocca d'Arce. Spogliò delle lor terre
_Tommaso conte_ di Celano e il conte di Molise. Ricuperò Boiano, e, ad
istanza de' Tedeschi, rimise in libertà il _conte Diopoldo_, ma con
torgli Alife, Caiazzo ed Acerra. Di quest'ultima città investì Tommaso
conte d'Aquino, con dichiararlo ancora gran giustiziere della Puglia.
Scrivono inoltre alcuni che fece morir qualche vescovo stato in addietro
ribello. Certamente con varie pene li maltrattò. Ora tanti baroni
abbassati tutti si riducevano a Roma, con far ivi di gravi doglianze al
papa contra di Federigo, il quale all'incontro si lamentava del
pontefice[2819], perchè faceva buon accoglimento a chiunque era in
disgrazia sua. Il papa infatti cominciò, o pur seguitò maggiormente ad
alterarsi contra di lui; ed imputando a lui tutte le disgrazie succedute
in Oriente, uscì in questo medesimo anno in minaccie di scomunica, se
egli non dava compimento al voto di Terra santa. Dopo aver disposte le
cose di Puglia, passò poi Federigo in Sicilia, e tenuto in Messina un
general parlamento del regno, pubblicò ivi alcuni regolamenti pel buon
governo d'esso. Per far pruova i Genovesi di che metallo fossero le
belle promesse lor fatte nell'anno precedente[2820], spedirongli nel
presente per loro ambasciatori Oberto da Volta, Sorlaone Pevere e Uberto
da Novara. La ricompensa de' tanti servigii a lui prestati, fu, ch'egli
tolse loro e al conte alemanno lor vassallo il possesso e il governo di
Siracusa; li spogliò del palazzo di Margaritone, già grande ammiraglio,
donato ai medesimi tanti anni prima; e gli obbligò a pagare, al par
degli altri, tutti i diritti delle dogane per l'introduzione ed
estrazione di merci; dimodochè se ne tornarono a Genova, non so se
bestemmiando, certo non benedicendo la generosità di questo imperadore.
E di questo passo camminava Federigo, chiudendo gli occhi e le orecchie
a tutto, purchè ben assodasse la sua potenza in Sicilia, ed impinguasse
l'erario suo. Ch'egli in quest'anno venisse a Genova, lo scrisse bensì
il Sigonio[2821], ma non colla sua solita accuratezza. Il Continuator di
Caffaro parla della di lui venuta a Genova nell'anno 1212, e non già
d'un'altra nell'anno presente, in cui egli non si mosse dal regno. Erasi
ribellata la città di Ventimiglia ai Genovesi negli anni addietro. Con
potente oste procederono essi in questo anno contra di quel popolo, il
quale venne bensì all'ubbidienza, ma nel dì seguente si rivoltò. Fecero
i Genovesi delle mirabili fortificazioni intorno a quella città; e,
lasciatala da ogni intorno bloccata, ridussero a casa l'esercito. L'anno
fu questo, in cui, secondo Galvano dalla Fiamma[2822], cominciò la
discordia a spargere il suo veleno fra i nobili e popolari della città
di Milano. Nascevano tutte queste civili divisioni nelle città libere
d'Italia dall'ambizione, ossia dal soverchio desiderio degli onori.
Aveano i popolari la lor parte nel governo, nè sapeano sofferire che i
nobili ambissero i migliori uffizii, le ambascerie ed altri posti o più
onorevoli o più lucrosi. Quindi le doglianze, e infine si dava di piglio
all'armi. Non potendo resistere i nobili alla possanza degli avversarii,
convenne loro uscir della città colle lor famiglie. Ma non già ne usci
l'arcivescovo _Arrigo da Settala_, come scrive il suddetto Fiamma,
perchè noi l'abbiam veduto in questi tempi crocesignato in Damiata.

Per lo contrario il _cardinale Ugolino_ vescovo di Ostia, glorioso per
aver procurata pace dovunque arrivava, nel mese di settembre dell'anno
presente compose le differenze che passavano fra il popolo e la nobiltà
fuoruscita di Piacenza[2823], con fare rimettere in libertà i prigioni
popolari: con che i nobili se ne ritornarono in città. Belle erano sì
fatte concordie; ma che? se con gran difficoltà si stringevano, con
facilità mirabile si discioglievano. Aveva il cardinale posto in
Piacenza per podestà generale della città Ottone da Mandello Milanese.
Dovette parere al popolo ch'egli avesse della parzialità per li nobili;
e però nel mese d'ottobre elesse per suo podestà Guglielmo dell'Andito,
che è oggidì la famiglia dei marchesi Landi. Nel seguente novembre il
suddetto Ottone da Mandello in tempo di mezza notte coi nobili andò alla
casa di Guglielmo Landi per farlo prigione. Trasse a questo rumore il
popolo, ed, attaccata battaglia, fece prigione Ottone da Mandello con
tutta la sua famiglia. Furono presi anche cento nobili, ma poscia
rilasciati. Anche in Ferrara avvennero delle novità[2824]. _Azzo VII_
marchese d'Este e di Ancona, chiamato anche _Azzolino_ ed _Azzo
Novello_, giovinetto spiritoso e insieme prudente, dopo la morte del
marchese _Aldrovandino_ suo fratello, abitava spesse volte in Ferrara,
siccome capo della fazion guelfa, e possessor quivi di gran copia di
beni e di vassalli, uno de' quali era lo stesso _Salinguerra_, capo de'
Ghibellini. Duro pareva agli aderenti del marchese che Salinguerra co'
suoi godesse i migliori uffizii della repubblica. Però nel mese
d'agosto, prese l'armi, assalirono la parte di Salinguerra, e dopo aspro
combattimento la forzarono ad abbandonar la città; e in tal occasione fu
dato alle fiamme il palazzo del medesimo Salinguerra. Si dovettero
interporre saggi mediatori di pace, perchè da lì a pochi giorni i
fuorusciti ritornarono alle lor case. Secondo le Croniche di
Bologna[2825], nell'anno presente a dì 23 di luglio in luogo detto il
Corneglio seguì un fatto d'armi fra i Bolognesi ed Imolesi. Ai men
possenti, cioè agli ultimi, toccò la rotta, e circa mille e cinquecento
d'essi rimasero prigionieri. Ma nulla di questo ha il Sigonio, scrittore
informatissimo delle cose di Bologna. Scrive egli bensì[2826] che
gl'Imolesi irritati contra del castello d'Imola lo distrussero, e tutti
quegli abitatori accolsero nella città, come lor veri cittadini. Venne
in quest'anno a morte nella città di Bologna[2827] il glorioso servo di
Dio _san Domenico_, institutore dell'ordine dei predicatori, e al corpo
suo fu data sepoltura nella chiesa dei suoi religiosi già piantati in
quella città. Abbiamo da Girolamo Rossi[2828] che Ugolino di Giuliano
conte della Romagna, mentr'era podestà di Ravenna, tagliato fu a pezzi,
senza dire da chi. In suo luogo Federigo Augusto creò conte di quella
provincia Goffredo conte di Biandrate, con dargli il godimento di tutte
le gabelle e de' porti spettanti all'impero, mercè d'un diploma spedito
in Messina nel giugno di questo anno. Abbiamo di qui che Federigo, al
pari dei suoi predecessori, seguitava a signoreggiar nella Romagna; nè
apparisce che il papa ne facesse doglianza. Diede ancora esso imperadore
l'investitura degli Stati aviti ad _Azzo VII_ marchese d'Este[2829], con
diploma spedito in Brindisi nel marzo del corrente anno.

NOTE:

[2813] Jacobus de Vitriaco, Hist. Orient.

[2814] Bernardus Thesaurar., cap. 204, tom. 7 Rer. Italic.

[2815] Raynald., in Annal. Eccl.

[2816] Richard. de S. Germ. Bernard. Thesaurar., cap. 204. Caffari,
Annal. Genuens., lib. 5, tom. 7 Rer. Ital.

[2817] Godefridus Monachus, Annal.

[2818] Alberic. Monachus, in Chron.

[2819] Abbas Urspergens., in Chron.

[2820] Caffari, Annal. Genuens., lib. 5.

[2821] Sigon., de Regno Ital., lib. 17.

[2822] Gualvan. Flam., Manipul. Flor., cap. 254.

[2823] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2824] Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.

[2825] Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.

[2826] Sigonius, de Regno Ital., lib. 17.

[2827] Bolland., Act. Sanct. ad diem 4 augusti.

[2828] Rubeus, Histor. Ravenn., ad hunc ann.

[2829] Antichità Estensi, P. I, cap. 42.



    Anno di CRISTO MCCXXII. Indizione X.

    ONORIO III papa 7.
    FEDERIGO II imperadore 3.


Le disavventure occorse ai cristiani in Egitto, per le quali il buon
pontefice _Onorio III_ preso fu da somma afflizione, il tenevano in
continui pensieri e cure per riparare il danno sofferto, e mettere in
migliore stato il cadente regno dei cristiani in quelle parti[2830].
Pertanto concertò coll'imperador _Federigo_ di fare un solenne congresso
in Verona per la festa di san Martino, dove desiderava di trovarsi egli
con esso imperadore, col re di Gerusalemme _Giovanni_ e col legato
pontificio _Pelagio_ vescovo d'Albano, a' quali scrisse per questo. Il
concerto di questo general parlamento fu fatto primieramente in Veroli;
perciocchè, per attestato di Riccardo da San Germano[2831], nel mese di
febbraio uscito di Roma il pontefice, andò ad Anagni, ed invitò
l'Augusto Federigo a venire a trovarlo. Trovaronsi dunque insieme in
Veroli, e per quindici dì dimorati in quella terra, ebbero agio di
trattar di varii affari. Fu ivi risoluta la suddetta gran corte in
Verona, e Federigo s'obbligò in certo termine di tempo di passar come
imperadore in sussidio di Terra santa. Ma nulla seguì poi del progettato
parlamento, forse per la infermità del papa, il quale, secondo il
suddetto Riccardo, patì in quest'anno un grave male in una gamba. I
Romani, che per lo più aveano nemicizia coi Viterbesi, fecero esercito
nell'anno presente contro la loro città. Neppur mancavano dei fastidii
all'imperador Federigo. La rocca di Magenul in Puglia si manteneva
ribellata: fece assediarla da Tommaso conte d'Acerra. In Sicilia, i
Saraceni quivi abitanti, perchè aggravati di grosse taglie, e
maltrattati dai cristiani, s'erano sollevati, con recare immensi danni
alla valle di Mazzara, avendo per loro capo un certo Mirabetto. Fu
obbligato per questo Federigo a tornarsene in Sicilia, dove, ammassato
un buon esercito, marciò contra di coloro. Terminò i suoi giorni nel dì
23 di giugno dell'anno presente in Catania l'imperadrice _Costanza_ di
lui moglie, la qual perdita dicono che gli fu molto sensibile. Uscito
segretamente dalla rocca di Magenul Tommaso conte di Celano, ebbe
maniera di ricuperar la sua terra di Celano, e per ben vittovagliarla
scorse tutta la Marsia. Allora il conte d'Acerra, lasciata quanta gente
occorreva per tener bloccata la rocca suddetta di Magenul, venne ad
assediar Celano. Si rendè poi la rocca predetta, e Federigo diede in
Sicilia delle buone percosse ai ribellati Saraceni. In un conflitto vi
restò ucciso il loro condottiere Mirabetto.

Fu posto fine in quest'anno alla guerra de' Bolognesi e Faentini contro
Imola con ridurre quella città ad accettar la legge che le vollero
imporre i due più potenti avversarii. Ne parla a lungo il Sigonio[2832],
che su questo diligentemente consultò gli atti pubblici e le storie di
Bologna. Solamente accennerò io che con tutte le lor forze il popolo di
Bologna e quel di Faenza nell'agosto dell'anno presente ostilmente si
portarono sotto essa città d'Imola, e ne impresero l'assedio. Ma eccoti
giugnere al campo loro Diotisalvi da Pavia, spedito dall'arcivescovo di
Maddeburgo, legato in Lombardia dell'imperador Federigo, coi podestà di
Parma e Cremona, e cogli altri ambasciatori di Brescia, Verona, Mantova,
Reggio e Modena, per trattar pace e impedir quell'assedio. Contuttochè
Diotisalvi a nome dell'arcivescovo, sotto pena di mille marche d'oro,
intimasse loro il non molestar quella città, e a questo comandamento
aggiugnessero gli altri le più efficaci preghiere; pure gli assedianti,
sentendo di avere il vento in poppa, stettero saldi nel loro proposito.
Partiti che furono quegli ambasciatori, il popolo d'Imola, per non
ridursi agli estremi, inviò i suoi deputati al campo per rendersi. Dure
furono le condizioni dell'accordo, Imola restò sotto la guardia ed
autorità de' Bolognesi e Faentini; convenne spianar le fosse; e le porte
della città furono trionfalmente portate a Bologna, e non già in altro
anno, come alcuno ha creduto. Portata questa nuova all'imperador
Federigo, ne andò forte in collera; fece anche citare al suo tribunale
Giuffredo da Pirovano podestà di Bologna; e da lì innanzi covò sempre un
mal animo contra de' Bolognesi. Di cattiva ricordanza fu l'anno presente
pel terribil tremuoto che nello stesso dì del santo Natale del Signore
si fece sentire in Lombardia, e per due settimane replicò due volte il
giorno le scosse. Secondochè scrive Goffredo Monaco[2833], in più luoghi
abbattè le case e le chiese, con opprimere gli uomini e i sacerdoti.
Fece anche gran male in Genova[2834]. Ma principalmente si scaricò
questo flagello sopra la città di Brescia, avendone atterrata la maggior
parte colla morte di molto popolo. Tutto ciò vien confermato dallo
storico bresciano Jacopo Malvezzi[2835], confessando egli che non
solamente innumerabili fabbriche nella città, nelle castella e ville
furono rovesciate a terra, ma che vi perì anche una gran quantità di
persone, massimamente di pargoletti e di bestiame. E perciocchè seguitò
questa calamità lungo tempo dipoi, quasi tutti, abbandonate le loro
abitazioni, si ridussero a vivere in mezzo alle campagne.

Tommaso arcidiacono di Spalatro, la cui Storia salonitana fu data alla
luce da Giovanni Lucio[2836], scrivendo le cose de' suoi dì, fa menzione
di quest'orribil disastro, con aggiugnere che ne ebbe gran danno la
Liguria, l'Emilia e la Marca Venetica, cioè di Verona; e che Brescia in
gran parte cadde, con rimaner seppellita nelle rovine una moltitudine di
uomini, e specialmente di eretici. Nè voglio tacere una bella
particolarità, che egli di veduta soggiugne intorno a san Francesco
d'assisi: _Eodem anno_, dice egli, _in die Assuntionis Dei Genitricis
quum essem Bononiae in studio, vidi sanctum Franciscum praedicantem in
platea ante palatium publicum, ubi tota paene civitas convenerat. Fuit
autem exordium sermonis ejus angeli, homines, daemones; de his enim
tribus spiritibus rationalibus ita bene et discrete proposuit, ut multis
literatis, qui aderant, fieret admirationi non modicae sermo hominis
idiotae; nec tamen ipse modum praedicantis tenuit; sed quasi
concionantis. Tota vero verborum ejus discurrebat materies ad
extinguendas inimicitias, et ad pacis foedera reformanda. Sordidus erat
habitus, persona contemtibilis, et facies indecora. Sed tantam Deus
verbis illius contulit efficaciam, ut multae tribus nobilium, inter quos
antiquarum inimicitiarum furor immanis multa sanguinis effusione fuerat
debacchatus, ad pacis consilium reduceretur. Erga ipsum vero tam magna
erat reverentia hominum et devotio, ut viri et mulieres in eum
catervatim ruerent, satagentes vel fimbriam ejus tangere, aut aliquid de
pannulis ejus auferre_. Prevalse in questo anno nella città di Ferrara
la fazione di Salinguerra, capo de' Ghibellini, in guisa che _Azzo VII_
marchese d'Este e d'Ancona con quei del suo partito guelfo fu obbligato
ad uscir della città. Per rifarsi di questo affronto[2837] il marchese
mise insieme un esercito raccolto da Rovigo, e dagli altri suoi Stati, e
dalla Lombardia e marca di Verona, e andò a mettere il campo sotto
Ferrara vicino al Po. Salinguerra, volpe vecchia, temendo che si
sollevasse il popolo contra di lui, mandò al marchese, con accordargli
che entrasse in Ferrara, dove si tratterebbe amichevolmente di concordia
fra le parti. Cadde buonamente nella rete il marchese, ed entrò con
cento nobili del suo partito nella città. Allora Salinguerra, fatta
correr voce che gli entrati con mala maniera prendevano il vivere per sè
e per li loro cavalli, e faceano altre insolenze, gridò all'armi,
all'armi. Parte degli entrati ebbe la fortuna di salvarsi col marchese,
gli altri restarono uccisi, e fra questi Tisolino da Campo San Pietro,
nobilissimo cavalier padovano, nel ritirarsi fu fermato dai contadini
d'una villa chiamata Girzola, o Guzola. Dopo averne ammazzati alcuni,
senza mai volersi rendere, per mano di quella canaglia perdè miseramente
la vita, del che fu non lieve dolore e compassione per tutta la marca
veronese. Contuttociò neppure per questo imparò il marchese d'Este a
conoscere se Salinguerra fosse personaggio da fidarsi di lui. I nobili
milanesi fuorusciti[2838] ed _Arrigo da Settala_ arcivescovo, che aveano
per loro capo Ottone da Mandello, erano tuttavia in rotta coi popolari
padroni della città, governati da Ardigetto Marcellino. Seguirono guasti
ed incendii non pochi nel distretto. Finalmente i due nemici eserciti
vennero a fronte in campagna, ed ognun si aspettava che si venisse alle
mani; quando, essendosi interposte persone savie e zelanti del pubblico
bene, segui pace fra loro. Nel mese di marzo del presente anno Sozzo, o
Gozzo de' Coleoni da Bergamo, podestà di Cremona, ebbe la gloria di far
pace fra i nobili e i popolari di Piacenza[2839], e di pubblicarla nella
piazza maggiore di quella città, con determinare che i nobili avessero
la metà degli onori e due parti delle ambascerie, e il popolo la metà
degli onori e la terza parte delle ambascerie. Ecco i motivi ordinarii
delle guerre civili in questi tempi fra la nobiltà e il popolo delle
città libere. Ma non passarono molti mesi che i nobili, costretti ad
abbandonar la città colle lor famiglie, tornarono alle lor castella, e
ricominciarono la guerra contro la città. Riuscì in quest'anno ai
Genovesi[2840] dopo un lungo e forte blocco di ridurre all'antica lor
suggezione ed ubbidienza la città di Ventimiglia. Ereditario era l'odio
e l'emulazione fra essi Genovesi e i Pisani; e, dovunque si trovavano,
poco ci voleva ad accendersi lite fra loro, e la lite per lo più si
decideva coll'armi. In quest'anno appunto nella città d'Accon, ossia
d'Acri, segui una fiera baruffa fra queste due nazioni. Ebbero la peggio
i Pisani. La vendetta che ne fecero fu di appiccar fuoco alle case de'
Genovesi, per cui non solamente rovinò la lor torre, che era di mirabil
bellezza e di grande altezza, ma ne rimase anche la maggior parte di
quella città distrutta. Il _re Giovanni_ favoriva i Pisani, e però gran
danno n'ebbero i Genovesi.

NOTE:

[2830] Raynaldus, Annal. Eccl. ad hunc ann.

[2831] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2832] Sigon. de Regno Ital., lib. 16.

[2833] Godefr. Monachus, in Chron. Rolandin., lib. 2, cap. 3.

[2834] Caffari, Annal. Genuens., lib. 5, tom. 6 Rer. Italic.

[2835] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.

[2836] Thom. Spalatr. apud Johann. Lucium de Reg. Delmat., pag. 338.

[2837] Roland., Chron., lib. 2, cap. 2.

[2838] Gualv. Flamma, in Manip. Flor., cap. 255.

[2839] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Italic.

[2840] Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCCXXIII. Indizione XI.

    ONORIO III papa 8.
    FEDERIGO II imperadore 4.


O era sul fine del precedente anno venuto, o certamente sul principio di
questo venne a Roma _Giovanni di Brenna_ re di Gerusalemme, con somma
benignità e molte carezze accolto dal pontefice _Onorio III_. Erano con
lui i gran mastri de' cavalieri templarii, ospitalarii e
teutonici[2841]. Allora il papa invitò l'imperador _Federigo II_ ad un
congresso, che si dovea tenere in San Germano. Non mancò Federigo,
mossosi di Sicilia, d'essere colà al tempo prefisso; ma perciocchè il
sommo pontefice tuttavia si trovava incomodato dal male della gamba, nè
potè fare quel viaggio, Ferentino fu destinato per quell'abboccamento.
V'intervennero il papa, l'imperadore, il re di Gerusalemme co' suoi, e
molti altri signori, colà invitati dal papa zelantissimo per gli affari
di Terra santa. Restò ivi conchiuso, che giacchè duravano le tregue coi
Saraceni, e tempo si richiedeva per fare i necessarii preparamenti,
l'Augusto Federigo da lì a due anni nella festa di san Giovanni Batista
farebbe il passaggio in Levante con tutte le forze sue: al che egli si
obbligò con solenne giuramento, sotto pena della scomunica. Fu stabilito
inoltre che esso Federigo contraesse allora gli sponsali con _Jolanta_
figliuola unica del suddetto Giovanni re di Gerusalemme, per celebrarne
il matrimonio a suo tempo: con che si figurò il saggio pontefice di
maggiormente animar Federigo a quell'impresa per la speranza di
acquistare un regno, di cui doveva essere erede la suddetta Jolanta.
Terminato il congresso, passò il re Giovanni in Francia, in Inghilterra
e in Ispagna a cercar de' soccorsi. Onorio papa anch'egli continuò con
calde lettere le paterne esortazioni e preghiere sue ai re e principi
della cristianità, acciocchè ciascuno dal suo canto porgesse mano ai
bisogni di Terra santa. Federigo, preso congedo dal papa, passò per
Sora, e andò a Celano, che si trovava allora assediato dalle sue
milizie. Era quella forte terra difesa da Tommaso antico conte d'essa.
Benchè facesse venire la moglie e il figliuolo del medesimo conte per
esortarlo a rendersi, nulla potè ottenere. Incamminossi Federigo verso
la Sicilia; e non per anche s'era imbarcato, che, frappostosi il papa,
il conte di Celano venne ad un accordo, per cui cedette all'imperadore
Celano ed altre sue terre, con obbligo di uscire del regno, e facoltà di
condur seco tutte le robe e gli aderenti suoi. Alla moglie di lui fu
riserbata la contea di Molise, e datone anche il possesso. Eseguita la
capitolazione, fu ordinato agli abitanti di Celano di uscirne coi loro
mobili, e poi da' fondamenti fu distrutta quella terra, e gli abitanti
furono col tempo trasportati in Malta per popolar quell'isola che oggidì
è sì famosa. Passò dunque Federigo in Sicilia per attendere a domare i
Saraceni più che mai ostinati nella lor ribellione. Il terribil flagello
del tremuoto, che nel Natale dell'anno precedente recò tanta rovina a
Brescia, se non apportò gran danno, cagionò ben gran terrore alla città
di Piacenza[2842]. Però quei popolari e nobili fuorusciti, prima divisi,
compunti ora al vedere l'ira di Dio, spontaneamente conchiusero la pace
fra loro; e il popolo, ito ad incontrare la nobiltà, l'introdusse
lietamente nella patria comune. Ne' vecchi Annali di Modena[2843] si
legge che in quest'anno _multae paces compositae fuerunt occasione
Carthaginis_. Ciò che si voglia dir questo autore, nol so io indovinare
con quel nome di _Cartagine_. E che non paia errore in vece di
_terremoto_, si può dedurre dal soggiugner egli: _Eodem anno fuit
terraemotus magnus_. Altri ancora hanno riferito al presente anno il
famoso terremoto dell'anno precedente, perchè accaduto nel Natale del
Signore, da cui molte città cominciavano a contare l'anno nuovo.
Benvenuto da San Giorgio[2844] accenna sotto questo anno una concession
d'alcune castella fatta da Federigo imperadore a _Guglielmo marchese_ di
Monferrato con diploma dato nel mese di aprile di quest'anno _in
obsidione Cetani_ (_Celani_, credo io), e fra' testimoni si legge
_Rainaldus dux Spoleti_. Questo medesimo duca di Spoleti il truovo io in
altro diploma d'esso Federigo dell'anno 1220 da me dato alla luce[2845],
e in altri diplomi riferiti dal suddetto Benvenuto nel 1224, e dal
Margarino[2846] nel 1226. È cosa da osservare, perchè in questi tempi il
pontefice era in possesso del ducato di Spoleti. Dovea quel Rinaldo
portarne solamente il titolo, perchè figliuolo di chi già ne era stato
investito.

NOTE:

[2841] Ricard. de S. German., in Chron. Raynald., Annal. Eccl.

[2842] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2843] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[2844] Benvenuto da S. Giorgio, Storia del Monferrato.

[2845] Antichità Estensi, P. I, cap. 41.

[2846] Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. CCXLVI.



    Anno di CRISTO MCCXXIV. Indizione XII.

    ONORIO III papa 9.
    FEDERIGO II imperadore 5.


Tanto da Gotifredo Monaco[2847], quanto dalle lettere dello stesso
imperador Federigo, rapportate dal Rinaldi[2848], abbiamo che esso
augusto per mostrare, oppure per far credere al pontefice l'animo suo
risoluto per la liberazion di Terra santa, ed animar con ciò i principi
di Germania a dar soccorsi per la sacra impresa, scrisse d'aver quasi in
pronto cento galee ne' suoi porti ben armate; e ch'egli inoltre facea
fabbricar cinquanta uscieri, ossia grosse navi da trasportar cavalleria:
di modo che, secondo i suoi conti, potea condurre in esse sole cinquanta
navi duemila cavalieri coi lor cavalli, e inoltre dieci mila fanti.
Aveano questi uscieri i lor ponti da gittare in terra, per li quali
avrebbono potuto gli uomini uscire a cavallo dalle navi stesse. Oltre a
ciò, aspettava assaissimi altri legni da varie parti dell'Italia, capaci
di una altra armata. Spedì ancora suoi uffiziali in Germania per far
gente, e muovere que' principi, ed anche il re d'Ungheria, alla
crociata, offerendo a tutti passaggio e danaro pel suo regno. Insomma
pare ch'egli operasse daddovero fin qui per l'esecuzion delle sue
promesse. Ma si doleva di saper di certo che niun soccorso si potea
sperare dalla Francia ed Inghilterra, ch'erano in guerra fra loro; e
fors'anche ricusavano di accudire alla sacra impresa, che finora era
costata la vita di tante centinaia di migliaia d'uomini, e tanti tesori
ai cristiani, con sì poco frutto in fine della cristianità. Intanto
_Giovanni re_ di Gerusalemme, ito in Ispagna, s'indusse a prendere in
moglie _Berengaria_ sorella del re di Castiglia. Non dovette già piacere
all'Augusto Federigo un tal matrimonio, dacchè per isperanza di
ereditare il di lui regno s'era indotto agli sponsali colla figlia del
medesimo re Giovanni. E fin qui era durata la guerra in Sicilia contra
de' Saraceni ribelli, che, afforzati nelle montagne, mostravano poca
paura dell'armi cristiane. Tuttavia nell'anno presente furono così
stretti, che finalmente la maggior parte d'essi implorò perdono, che ben
volentieri concedette loro l'Augusto Federigo. Ma affinchè non
inquietassero in avvenire la Sicilia, e cessasse ancora il pericolo che
costoro tirassero un dì dall'Africa dei rinforzi della loro setta, prese
Federigo lo spediente di trasportarli in Puglia, lungi dal mare, con dar
loro ad abitare nella provincia di Capitanata la città di Nocera
disabitata, che da lì innanzi fu appellata _Nocera de' Pagani_ a
distinzion d'altre Nocere. Scrive Giovanni Villani[2849] che furono _più
di venti mila Saraceni da arme_ condotti colà: il che mi sembra
esorbitante numero, considerando le lor famiglie che non sarebbono
capite in Nocera. Ebbe anche Federigo la mira, colla fondazion di questa
colonia maomettana, di tenere in briglia i Pugliesi. Col tempo ne fece
doglianza la corte di Roma. Non mancano scrittori che credono succeduto
molti anni dappoi un tal trasporto. Certo è che non finì qui la guerra
coi Saraceni, e ne restò almeno in Sicilia un'altra parte di tuttavia
contumaci[2850]. Federigo si servì di questo pretesto per chiamare in
Sicilia Ruggieri dall'Aquila, Jacopo da San Severino, e il figliuolo del
conte di Tricarico, fingendo di volersene valere contra d'essi Saraceni.
Andarono que' baroni; furono messi in prigione; e sulle lor terre i
regii uffiziali stesero le griffe. Il perchè non viene espresso. Tolse
ancora alla contessa di Molise le sue terre, ed impose delle nuove
gravezze ai popoli. S'egli fosse lodato per questo non occorre ch'io il
dica.

Insorsero in quest'anno ancora delle brighe fra i nobili e popolari di
Piacenza a cagion d'un omicidio[2851]; e di nuovo la nobiltà prese la
risoluzione di ritirarsi fuori di città. Anche in Modena[2852] cominciò
a metter piede la discordia in quest'anno fra i cittadini, e le fazion
furono in armi. L'una d'esse prese la torre maggiore di San Geminiano, e
vi si afforzò: laonde il podestà fece di molte condanne. Scritto è negli
stessi Annali di Modena che _Guglielmo marchese_ di Monferrato con
grande accompagnamento di nobili lombardi andò in _Alemagna_, dove da lì
a due anni mori. In vece di _Alemanniam_, s'ha quivi da scrivere
_Romaniam_. Abbiamo da Benvenuto da San Giorgio[2853] che questo
principe, lasciandosi trasportar dalla voglia di ricuperare il regno di
Tessalia, che era stato da _Teodoro Lascari_ tolto a _Demetrio_ suo
fratello, fece grande ammasso di gente, e specialmente di nobili suoi
amici per quella impresa, ch'egli concepiva molto facile. Ma,
mancandogli il danaro occorrente per tante spese, passò nell'anno
presente in Sicilia affine d'impetrarne dall'imperador Federigo. Ottenne
infatti da lui sette mila marche di argento al peso di Colonia, ciascuna
delle quali pesava mezz'oncia, ma con dargli in pegno la maggior parte
delle sue terre e dei suoi vassalli di Monferrato, tutte e tutti ad un
per uno annoverati nello strumento riferito da esso Benvenuto; il che è
una prodigiosa quantità. Potrebbe sospettarsi errore in quel _sette
mila_, parendo troppo poco rispetto al pegno. Nè solamente impegnò a
Federigo quegli Stati, ma gliene diede il possesso e le rendite da
godersi finchè fosse restituita tutta la somma di esso danaro. Lo
strumento di tale sborso e pegno fu fatto in Catania nel dì 24 di marzo
dell'anno presente. Andò il marchese col fratello Demetrio e con
_Bonifazio_ suo figliuolo a Salonichi, e pare che riavesse quella ricca
città; ma nel seguente anno vi lasciò la vita attossicato, per quanto fu
creduto, dai Greci. Dopo aver perduta quasi tutta la sua armata, suo
figliuolo Bonifazio se ne tornò in Italia, e Demetrio suo zio poco
stette a venirsene anch'egli, cacciato di nuovo dai Greci. Questo
infelice fine ebbe la spedizion del marchese Guglielmo. Come poi
Bonifazio suo figliuolo disimpegnasse le terre suddette non l'ho ben
saputo discernere.

La frode fatta in Ferrara l'anno 1222 da _Salinguerra_ ad _Azzo VII_
marchese d'Este, e la morte di Tisolino da Campo San Piero, che era de'
più cari amici di esso marchese, stavano fitte nel cuore di questo
principe[2854]. Egli perciò nell'anno presente, raunato un buon esercito
dei suoi Stati, e degli amici di Mantova, Padova e Verona, volendone far
vendetta, ritornò all'assedio di Ferrara. Tanto seppe fare e dire con
lettere ed ambasciate affettuose l'astuto Salinguerra, che indusse il
conte Riccardo da San Bonifazio con una certa quantità d'uomini a
cavallo ad entrare in Ferrara, sotto specie di conchiudere un amichevole
accordo. Ma, entrato, fu ben tosto fatto prigione con tutti i suoi, e
però il marchese d'Este deluso si ritirò da quell'assedio. È da stupire
come signori savii, i quali doveano essere abbastanza addottrinati dal
precedente inganno, si lasciassero di bel nuovo attrappolare da quel
solenne mancator di parola. Adirato per questo successo il marchese
Azzo, si portò all'assedio del castello della Fratta, de' più cari che
si avesse Salinguerra; e tanto vi stette sotto, che a forza di fame se
ne impadronì, con infierir poi barbaramente contra que' difensori ed
abitanti. Di ciò scrisse Salinguerra ad Eccelino da Romano suo cognato
con amarezza; ed amendue cominciarono più che mai da lì innanzi a
studiar le maniere di abbattere la fazion guelfa, di cui capo era il
marchese d'Este. Negli Annali vecchi di Modena[2855] si legge che i
Veronesi, Mantovani e Ferraresi furono all'assedio del Bondeno, e se ne
partirono con poco gusto ed onore. I Ferraresi uniti co' Veronesi
dovettero essere i fuorusciti, aderenti al marchese d'Este. Mossero in
quest'anno guerra gli Alessandrini ai Genovesi[2856] per cagion della
terra di Capriata, pretesa da essi di loro ragione. Ricavati molti aiuti
dai Tortonesi, Vercellini e Milanesi, uscirono in campagna contra di
quella terra. Non furono lenti ad accorrere alla difesa i Genovesi, alla
vista de' quali batterono gli Alessandrini la ritirata. Restò preso ed
incendiato Montaldello, castello degli Alessandrini, e Tessaruolo,
castello de' Genovesi. Tornaronsi dopo queste baruffe le armate ai lor
quartieri. Secondo gli Annali di Bologna[2857], passò in quest'anno per
quella città Giovanni di Brenna re di Gerusalemme colla moglie, di
ritorno dalla Germania.

NOTE:

[2847] Godefridus Monachus, in Chron.

[2848] Raynaldus, Annal. Eccl.

[2849] Giovanni Villani, Chron., lib. 6, cap. 14.

[2850] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2851] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Italic.

[2852] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[2853] Benvenuto da San Giorgio, Storia del Monferrato.

[2854] Roland., Chron., lib. 2, cap. 4. Chronicon Estense, tom. 14 Rer.
Italic. Monachus Patavinus, in Chron.

[2855] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[2856] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.

[2857] Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXXV. Indizione XIII.

    ONORIO III papa 10.
    FEDERIGO II imperadore 6.


Tali vessazioni ebbe in quest'anno papa _Onorio III_ da Parenzio,
senatore di Roma, e dal senato romano, che fu necessitato a partirsi da
quella città con passare ad abitare in Tivoli[2858]. Era venuto in
questo mentre da oltramonti _Giovanni re_ di Gerusalemme colla moglie
_Berengaria_. Prese stanza in Capoa, ben accolto e trattato d'ordine
dell'imperadore. Quivi gli partorì la regina una figliuola. Andò poi a
Melfi ad aspettar l'imperadore, il quale in questi tempi chiamò tutti i
baroni e vassalli di Puglia, per continuar la guerra ai Saraceni. Ma
perciocchè cominciava ad avvicinarsi il tempo de' due anni pattuiti,
dopo i quali s'era obbligato a fare il passaggio di Terra santa, nè egli
avea gran voglia di passare quel sì gran fosso, inviò il re Giovanni a
papa Onorio per ottener nuove dilazioni. Era il pontefice in Rieti;
ascoltò benignamente le dimande e scuse di _Federigo_, e poscia spedì a
San Germano _Pelagio_ vescovo d'Albano, e Guala cardinale di San
Martino, acciocchè stabilissero con lui una nuova convenzione. Colà
comparve ancora Federigo, e fu risoluto che egli nell'agosto dell'anno
1227 irremissibilmente passerebbe in aiuto di Terra santa, e militerebbe
per due anni in quelle contrade con mille uomini d'armi da tre cavalli
l'uno, e cento legni da trasporto, e cinquanta galee ben armate. In
questo mezzo egli darebbe il passaggio a due mila uomini d'armi coi lor
famigli. Se non eseguiva, gli era intimata la scomunica papale; ed egli
fece giurare _Rinaldo_ duca di Spoleti nell'anima sua, che compierebbe
la promessa fatta. Dava non poco da pensare ad esso imperadore il
contegno de' Milanesi, che fin qui non lo aveano voluto riconoscere per
re, nè per imperadore. Perciò spedì lettere circolari ai principi di
Germania e di Lombardia, e ai podestà delle città libere d'Italia,
acciocchè comparissero per la Pasqua di Risurrezione dell'anno seguente
a Cremona, dove pensava di tenere un gran parlamento. Intanto insorsero
delle amarezze fra lui e papa Onorio. Ne fu la cagione l'avere il
pontefice provveduto di vescovi le chiese vacanti di Salerno, Capoa,
Consa ed Aversa, senza che ne sapesse parola Federigo. Stimò egli questo
di grave pregiudizio alla sua corona, e però vietò il possesso di quelle
chiese a quei prelati. Venuto poscia il mese di novembre, arrivò
felicemente a Brindisi _Jolanta_ figliuola di _Giovanni re_ di
Gerusalemme; e in quella città si celebrarono solennemente le di lei
nozze con Federigo. Scrisse il Sigonio[2859] con altri che queste nozze
furono fatte in Roma, ed aveva il pontefice coronata Jolanta nel
Vaticano. Riccardo da San Germano, autore contemporaneo, chiaramente
attesta che tal funzione seguì in Brindisi. Circa questi tempi i
Milanesi ed altre città di Lombardia cominciarono a rinnovar la lega
lombarda, già nata sotto Federigo I Augusto. Vedevano essi che Federigo
II era principe che in Sicilia e Puglia aggravati tenea, bassi e in
briglia i suoi popoli e baroni, voleva anche comandare a bacchetta per
mezzo de' suoi uffiziali in Lombardia; insomma facea paura a tutti,
siccome principe di gran potenza, di non minore attività, ambizione ed
accortezza, ma di poca fede. Se vogliam credere a Gotifredo
Monaco[2860], papa Onorio III, neppur egli fidandosi di Federigo, fu il
promotore della rinnovazion della lega di Lombardia. Abbiamo poi da
Rolandino[2861], che i rettori di Lombardia (il che vuol dire della
lega) tanto si adoperarono, che fecero mettere in libertà Riccardo conte
di San Bonifazio con tutti i suoi, fraudolentemente presi nell'anno
addietro in Ferrara da Salinguerra. Tornossene egli alla sua città di
Verona[2862]; ma pochi mesi passarono che molti nobili e potenti della
sua fazione in essa città, corrotti dal danaro di Salinguerra, si
unirono coi Montecchi ghibellini della fazione contraria, e il
cacciarono da Verona. Allora fu che Eccelino da Romano, il quale
unitissimo con Salinguerra tenne mano a questi trattati, corse a Verona
in rinforzo de' Montecchi, e incominciò a prendere un po' di dominio in
quella città. Si ricoverò il conte Riccardo in Mantova, città che
l'amava forte, e sua protettrice fu sempre. Ma dispiacendo queste civili
rotture ai rettori della lega lombarda, in tempo ch'era cotanto
necessaria l'unione per resistere ai disegni dell'imperador Federigo,
impiegarono sì vigorosamente i loro uffizii, che per ora pace seguì, e
il conte ritornò a Verona.

Perchè continuavano le discordie fra i cittadini di Modena[2863], il
marchese Cavalcabò, podestà d'essa città, fece atterrar tutte le torri
de' nobili, per levar loro il comodo di farsi guerra l'uno all'altro
dalle medesime torri. Altrettanto si praticò in altre città in varii
tempi pel medesimo fine. Per attestato di Galvano Fiamma[2864], cessò in
quest'anno la divisione fra i nobili e popolari di Milano. Il suono
della vicina venuta dell'imperador Federigo persuase loro la pace ed
unione per evitare i pericoli di perdere la lor libertà. Nè si dee
tacere, che in questo anno ebbe principio la nimistà fra esso imperadore
e il suocero suo Giovanni re di Gerusalemme. Avea Giovanni conseguito il
titolo di re per avere sposata la principessa _Maria_ erede del regno
gerosolimitano. Da questo matrimonio essendo nata un'unica figliuola,
cioè _Jolanta_, divenuta moglie di Federigo II Augusto, certo è che la
medesima portava seco in eredità lo stesso regno; nè Federigo tardò
molto ad aggiugnere nei suoi sigilli e diplomi il _Rex Hierusalem_, e
mandò anche uffiziali a prenderne il possesso; cosa che fu mal sentita
da tutti. Giovanni, principe per altro di gran valore e senno, che non
avea pensato a premunirsi contra di questo colpo, immaginandosi che la
figliuola e il genero gli lascerebbono godere, finchè egli vivesse, quel
per altro troppo lacerato regno, perchè della maggior parte erano
possessori i Saraceni, trovandosi ora deluso, la ruppe con Federigo
nell'anno vegnente, e mosse da lì innanzi cielo e terra contra di lui.
Le Croniche di Bologna[2865] riferiscono a quest'anno il divieto fatto
da Federigo Augusto dello studio generale di Bologna, acciocchè gli
scolari andassero a quel di Napoli, istituito veramente da lui nel
precedente anno, per testimonianza di Riccardo da San Germano[2866], con
invitar colà da tutte le parti insigni professori dell'arti e delle
scienze. Più probabile è, che questa percossa arrivasse a Bologna
solamente nell'anno seguente: percossa gravissima, se fosse durata a
quella città, perchè dall'università degli studii colavano in Bologna
immense ricchezze, che poi servivano a renderla sì orgogliosa e manesca
contra di tutti i vicini. Vi furono degli anni, nei quali si contarono
dieci mila scolari in Bologna. Tutti vi portavano buone somme di denaro.
E forse circa questi tempi ebbe principio l'università di Padova pel
divieto fatto nell'anno presente, o, per dir meglio, nel seguente, dal
suddetto imperador Federigo[2867]. Procurò parimente esso Augusto che il
sommo pontefice si interponesse per ridurre al loro dovere i Milanesi ed
altri popoli di Lombardia, i quali più che mai si faceano conoscere
alieni d'animo dall'imperadore, e gli negavano ubbidienza per antico
odio contro la casa di Suevia, e per nuovi sospetti, che Federigo
pensasse a mettergli in ischiavitù. Scrisse il papa delle forti lettere
ma i Lombardi, o perchè sapevano che non le avea scritte di buon cuore,
o perchè queste non furono bastanti ad affidarli, continuarono a far de'
preparativi per difendersi dai di lui attentati. Seguitò in quest'anno
ancora la guerra fra gli Alessandrini e Tortonesi dall'un canto, e i
Genovesi ed Astigiani comperati con danaro dall'altro[2868]. Fecero i
Genovesi lega ancora con _Tommaso conte_ di Savoia, che si obbligò di
mantenere in lor favore ducento uomini d'armi, cadauno con un donzello
armato e due scudieri. Si fece anch'egli ben pagare. I Milanesi,
all'incontro, e i Vercellini spedirono dei rinforzi agli Alessandrini.
Diedersi i loro eserciti varie spelazzate, ma si guardarono di decider
le liti con una giornata campale. Abbiamo nondimeno dalla Cronica
d'Asti[2869] che circa la metà di giugno gli Astigiani, ad istanza de'
Genovesi, uscirono in campagna, e presso a Quatorda venuti alle mani
cogli Alessandrini, voltarono infine le spalle, con lasciarvi circa
dugento prigioni. Tornarono poscia in campo, e vicino a Calamandrona,
attaccata di nuovo battaglia cogli Alessandrini, nel dì 7 di settembre
ne riportarono una rotta più sonora, per cui circa ottocento de' loro
soldati rimasti prigionieri stettero nelle carceri di Alessandria con
incredibili patimenti per quasi due anni e mezzo, e molti vi morirono.
Ebbero gli Astigiani per questa guerra danno per più di ducento mila
lire. Di tali svantaggi non si vede parola negli Annali di Genova,
secondo il costume degli storici che tacciono o infrascano i sinistri
loro avvenimenti, ed ingrandiscono ed esaltano i prosperosi. In Milano,
per saggio maneggio di Aveno da Mantova podestà, si formò nuova
concordia fra i nobili e popolari. Il Corio[2870] ne rapporta lo
strumento colle note cronologiche, poco esattamente, a mio credere,
copiate, dove si leggono tutte le condizioni dell'accordo.

NOTE:

[2858] Richardus de S. Germano.

[2859] Sigon., de Regno Ital., lib. 17.

[2860] Godefridus Monachus, in Chron.

[2861] Rolandinus, Chron., lib. 2, cap. 4.

[2862] Monachus Patavinus, in Chron.

[2863] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[2864] Gualv. Flamm., in Manipul. Flor., cap. 258.

[2865] Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Italic.

[2866] Richardus de S. German., in Chron.

[2867] Raynaldus, in Annal. Eccles.

[2868] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.

[2869] Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.

[2870] Corio, Istor. di Milano.



    Anno di CRISTO MCCXXVI. Indiz. XIV.

    ONORIO III papa 11.
    FEDERIGO II imperadore 7.


Il minor pensiero, che si avesse in questi tempi l'imperador _Federigo_,
era quello della spedizione in Terra santa. Unicamente gli stava a cuore
la Lombardia, in cui collegatisi i Milanesi con altri popoli, davano
abbastanza a conoscere di non volere che egli mettesse loro il giogo.
Per altro erano in Italia de' cattivi umori in volta. Federigo
sospettava che il papa segretamente lavorasse delle mine contra di lui,
e tenesse buone corrispondenze coi Lombardi. All'incontro al papa non
mancavano dei gravi motivi d'essere disgustato di Federigo, che
dispoticamente taglieggiava non meno i laici che gli ecclesiastici del
suo regno, per adunar tesori, da impiegare non già in soccorso della
cristianità in Levante, ma per opprimere i Lombardi. Taccio altri
motivi, nell'esame de' quali io non oso entrare, perchè i gabinetti de'
principi son chiusi agli occhi miei. Ma non si può far di meno di non
riconoscere che in questi tempi era forte imbrogliata la politica colla
religione, e che Federigo II specialmente anteponeva la prima alla
seconda. Fuor di dubbio è, che[2871] esso Federigo scrisse con
dell'alterigia una mano di doglianze al sommo pontefice, il quale gli
rispose in buona forma, tacciandolo d'ingratitudine verso la santa Sede
e verso il re Giovanni, di maniera che esso imperadore tornò poi a
scrivere delle lettere meglio concertate ed umili, perchè conobbe di
quanto pregiudizio gli potesse essere il romperla colla corte di Roma.
Abbiamo da Riccardo da San Germano[2872] che sul principio di questo
anno Federigo, ben lontano dal voler passare in Levante, e
dall'adempiere le promesse e i giuramenti, intimò a tutti i baroni e
vassalli di tenersi pronti per la spedizione di Lombardia a Pescara nel
dì 6 di marzo. Lasciata poi l'imperadrice in Terracina di Salerno, al
divisato giorno fu in Pescara; e di là, mosso l'esercito, venne nel
ducato di Spoleti, dove comandò ai popoli di quella contrada di
accompagnarlo coll'armi in Lombardia. Ricusarono essi di ubbidirlo senza
espresso ordine del papa, di cui erano sudditi. Replicò lettere più
vigorose colla minaccia delle pene; e que' popoli le inviarono al papa,
il quale risentitamente ne scrisse a lui, lamentandosi di un tale
aggravio. Allora fu che corsero innanzi e indietro le querele di sopra
accennate. Questo ci fa ben intender quai giusti motivi si avessero
allora di sospettare che questo principe fosse dietro a calpestar
gl'Italiani, dacchè niun riguardo avea neppure pel sommo pontefice. Come
poterono, il meglio vi provvidero i Lombardi, col rinforzar maggiormente
la loro lega. Nel dì 2 di marzo nella chiesa di San Zenone nella terra
di Mosio, distretto di Mantova, fu stipulato lo strumento di essa lega
pubblicato dal Sigonio[2873], in cui i deputati di Milano, Bologna,
Piacenza, Verona, Brescia, Faenza, Mantova, Vercelli, Lodi, Bergamo,
Torino, Alessandria, Vicenza, Padova e Trivigi, stabilirono fra loro una
stretta alleanza di difesa ed offesa per venticinque anni avvenire, in
vigore della concession loro fatta da Federigo I Augusto di poter fare e
rinnovar leghe per la propria difesa. Dalle lettere di papa Onorio III
apprendiamo[2874] che anche il marchese di Monferrato, Crema, Ferrara, i
conti di Biandrate, ed altri luoghi e signori furono di questa lega. Da
Spoleti si trasferì l'Augusto Federigo II a Ravenna, dove celebrò la
santa Pasqua nel dì 19 d'aprile; e perciocchè Bologna e Faenza gli erano
contrarie, passò lungi da esse città, e venne a postarsi coll'armata a
San Giovanni in Persiceto. Di là portossi ad Imola, e tanto vi si fermò,
che, come prima, fu cinta di bastioni e fosse quella città per dispetto
de' Bolognesi. Andava egli differendo la sua venuta a Cremona, per
tenervi la progettata dieta, sulla speranza che il _re Arrigo_ suo
figliuolo, chiamato dalla Germania, coll'esercito tedesco e molti
principi di quel regno calassero. Ma questi, secondo l'attestato di
Gotifredo Monaco[2875], venuti fino a Trento, per sei settimane furono
astretti a fermarsi colà, perchè i Veronesi aveano presa ed armata la
Chiusa nella valle dell'Adige, nè lasciavano passar persona che andasse
o venisse dalla Germania. Perciò il re Arrigo co' suoi, senza poter
vedere l'Augusto suo padre, se ne tornò indietro, con lasciar nondimeno
in Trento una trista memoria della sua venuta; perciocchè nella di lui
partenza accidentalmente attaccatosi il fuoco a quella città, la ridusse
quasi tutta in un mucchio di pietre. Venne poscia l'imperador Federigo
sino a Parma, e quivi s'accorse che poche città in Lombardia, oltre a
Modena, Reggio, Parma, Cremona, Asti e Pavia, erano per lui. E portatosi
di là a Cremona, vi tenne ben la dieta[2876], ma non già col concorso di
gente ch'egli sperava, e senza che alcuno v'intervenisse della lega
lombarda. Vi spedirono i Genovesi il loro podestà Pecoraio da Verona con
una nobil comitiva. I Lucchesi, i Pisani e i marchesi Malaspina si
fecero anch'essi conoscere fedeli ad esso Augusto. Amareggiato al sommo
Federigo dall'avere scoperto maggiore di quel che credeva il numero dei
collegati contra di lui, e tutti preparati a ripulsare coll'armi le
offese, sen venne a Borgo San Donnino, dove mise al bando dello imperio
e dichiarò ree di lesa maestà le città della lega, cassando i lor
privilegii. Fece anche fulminar dal vescovo d'Ildesein la scomunica
contra di que' popoli, che ne dovettero ben fare una risata.

Era egli nel mese di giugno in essa terra di Borgo San Donnino, siccome
costa da tre suoi diplomi[2877], spediti in favore della città di
Modena. Nel primo conferma i suoi privilegii e diritti ad essa città,
concedendole ancora la facoltà di batter moneta. Nel secondo annulla
l'ingiusto laudo già proferito da Ubertino podestà di Bologna intorno ai
confini tra il Modonese e Bolognese, con dichiarare minutamente essi
confini con dei nomi, oggidì difficili ad intendersi, ma con apparir
chiaramente che la potenza di Bologna col tempo usurpò non poco
territorio al popolo di Modena. Il terzo è una conferma della concordia
seguita fra i Modonesi e Ferraresi, Costituì l'imperadore suo legato in
Italia _Tommaso conte_ di Savoia[2878]; ed avvenne che i popoli di
Savona, di Albenga e di altri luoghi della riviera di Ponente,
sottrattisi dall'ubbidienza de' Genovesi, si diedero al medesimo conte
di Savoia, e gli giurarono fedeltà: il che sommamente turbò il popolo di
Genova. Trovato che ebbe l'imperador Federigo sì mal disposti contra di
lui gli animi di tante città di Lombardia, e di non aver seco forze da
potersi far rispettare e temere, se ne tornò malcontento in Puglia.
Quivi, scorgendo che era tempo di trattar soavemente col pontefice
Onorio, ammise alle lor chiese gli arcivescovi e vescovi di Salerno,
Brindisi, Consa, Aversa ed altri, già creati senza suo consentimento; ed
insinuò al medesimo papa di voler lui per arbitro delle differenze che
passavano fra la persona sua e le città lombarde. Niuna difficoltà
ebbero le stesse città di rimettersi anch'elleno nel sommo pontefice; e
però spedirono a Roma i lor deputati[2879]. Federigo del pari inviò colà
per suoi plenipotenziarii gli arcivescovi di Reggio, di Calabria e di
Tiro; e il gran mastro dell'ordine de' Teutonici. Sentenziò poscia il
papa che Federigo concedesse il perdono alle città e persone collegate,
e cassasse tutti i processi e le sentenze emanate contra di loro, e
nominatamente quella dello Studio e degli scolari di Bologna; e facesse
confermar tutto dal _re Arrigo_ suo figliuolo. Obbligò le città
collegate a somministrar quattrocento uomini d'armi all'imperadore in
sussidio di Terra santa; e che si restituissero tutti i prigioni, e che
esse facessero pace colle città aderenti all'imperadore, con altre
condizioni ch'io tralascio. Si accomodò a tutto Federigo per non potere
allora di meno; ma covando nel medesimo tempo un fiero rancore, da lì
innanzi andò ruminando le maniere di vendicarsi. E ben se l'immaginavano
i Lombardi: perlochè seguitarono a vegliare e a fortificarsi per tutto
quello che potesse occorrere. In questa occasione fu che i Bolognesi
fabbricarono ai confini del Modonese[2880] Castelfranco, e i Modonesi
all'incontro d'esso castello fabbricarono Castello Leone. Le Croniche di
Bologna[2881] mettono la fondazion di questi castelli all'anno seguente.
Passò a miglior vita in quest'anno nel dì 4 di ottobre il mirabil servo
di Dio _san Francesco_ d'Assisi nella patria sua, con aver veduto in sua
vita l'ordine suo già dilatato per tutta quasi la cristianità. Seguì
nell'anno presente pace fra i nobili e popolari di Piacenza[2882]. E i
Bolognesi mandarono a Mantova in servigio de' collegati lombardi[2883]
ducento cinquanta cavalieri e cinquanta balestrieri, forse per sospetti
che potesse calar gente di Germania, o per sopire qualche discordia in
quella città. Dagli Annali di Asti[2884] abbiamo che in questi tempi
cominciarono gli Astigiani a prestare ad usura in Francia e in altri
paesi d'oltramonti, e vi fecero dei gran guadagni; ma col tempo di molti
guai soffrirono nelle persone e nella roba. Questo iniquo e scandaloso
traffico (ed è ben da notare) era in questi tempi il più favorito
mestiere d'altri Lombardi; ma sopra gli altri vi si applicavano e in
esso s'ingrassavano i prestatori ed usurai fiorentini, ed altri Toscani
sparsi per Francia ed Inghilterra. Dal che, a mio credere, ebbe
principio la potenza del popolo fiorentino. Di così pestilente costume
ho io trattato altrove[2885]. Benvenuto da Imola ne' suoi Commenti sopra
Dante[2886] scriveva circa il 1390, che anche a' suoi tempi gli
Astigiani erano ricchissimi perchè tutti usurai.

NOTE:

[2871] Raynaldus, Annal. Ecclesiast.

[2872] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2873] Sigonius, de Regno Ital., lib. 17.

[2874] Raynaldus, in Annal. Eccles.

[2875] Godefridus Monachus, in Chron.

[2876] Chron. Cremonens., tom. 7 Rer. Ital.

[2877] Antiquit. Italic., Dissert. XXVII, pag. 705, et XLVII, et XLIX.

[2878] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.

[2879] Richardus de S. Germano.

[2880] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[2881] Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.

[2882] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2883] Matth. de Griffonibus, Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ital.

[2884] Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.

[2885] Antiquit. Ital., Dissert. XVI.

[2886] Benvenut., tom. 1 Antiq. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXXVII. Indizione XV.

    GREGORIO IX papa 1.
    FEDERIGO II imperadore 8.


Leggesi da me prodotto un diploma[2887], con cui _Federigo II_ Augusto
nel dì primo di febbraio in quest'anno 1227 rimette in sua grazia ed
assolve da ogni offesa a lui fatta le città di Milano, Piacenza,
Bologna, Alessandria, Torino, Lodi, Faenza, Bergamo, Mantova, Verona,
Padova, Vicenza, Trivigi, Cremona, il marchese di Monferrato, il conte
di Biandrate, ed altri luoghi, affinchè la discordia non pregiudichi _al
negozio della Terra santa_, specialmente cassando la costituzione sua,
con cui aveva abolito lo Studio pubblico di Bologna. In Bologna appunto
s'era ritirato _Giovanni_ di Brenna re di Gerusalemme, dacchè esso
imperador Federigo, facendo valere i diritti di _Jolanta_ figliuola
d'esso Giovanni, e moglie sua, l'uvea spogliato di quella parte del
regno di Gerusalemme che restava libera dal giogo de' Saraceni. In
quella città, secondo le Croniche di Bologna[2888], si fermò per sei
mesi, nel qual tempo gli mori una figliuola partoritagli dalla regina
_Berengaria_ sua moglie. Parve a tutti, e massimamente al pontefice
_Onorio III_, un'insoffribil crudeltà quella di Federigo, di avere
ridotto, per così dire, in camicia un principe di tanto valore e
prudenza, di cui più che mai abbisognavano gl'interessi di Terra santa.
Ne scrisse con fervore esso papa all'imperador Federigo[2889],
esortandolo a qualche accordo, e a trattar meglio un sì degno suocero.
Ma l'ambizioso ed interessato Federigo fece le orecchie sorde, nè un
soldo, nè un ritaglio di Stati gli volle concedere. Il perchè, mosso a
pietà il suddetto pontefice, generosamente diede ad esso re il governo
di tutta la terra che è da Radicofani sino a Roma, con escluderne la
marca d'Ancona, il ducato di Spoleti, Rieti e la Sabina. Questo tratto
di paese abbracciava Acquapendente, Montefiascone, Montalto,
Civitavecchia, Corneto, Perugia, Orvieto, Todi, Bagnarea, Viterbo,
Narni, Toscanella, Orta, Amelia, ed altre terre e città. Intanto non
cessava il buon papa di sollecitare in Lombardia e in Germania i
soccorsi di Terra santa, figurandosi pure che Federigo avesse da
compiere il voto con cui s'era tante volte obbligato alla spedizione
d'Oriente. Ma mentre il buon pontefice è tutto intento a rimettere la
pace fra i cristiani, e a promuovere l'impresa di Gerusalemme: eccoti la
morte che viene a rapirlo nel dì 18 di marzo dell'anno presente[2890].
In luogo suo succedette _Ugolino_ cardinale e vescovo d'Ostia dei conti
di Segna ed Anagni, parente del glorioso pontefice _Innocenzo III_.
Concorrevano in questo personaggio molte delle più eminenti virtù che si
possano desiderare nel visibil capo della Chiesa di Dio; e di gran
pruove ne aveva egli dato dianzi in varie sue legazioni. Prese egli il
nome di _Gregorio IX_, con giubilo universale del popolo romano, e nel
dì 21 del suddetto mese solennemente consecrato andò a prendere il
possesso della basilica lateranense. S'applicò egli ben tosto a dar
compimento alla pace intavolata dal suo predecessore fra l'imperador
Federigo II e le città collegate di Lombardia, e cominciò a sollecitar
lo stesso imperadore per l'impresa di Terra santa. Mostravasi disposto
Federigo al passaggio, giacchè si avvicinava il termine de' due anni,
dopo i quali avea da muoversi[2891]. E per farlo ben credere, gravò di
molte contribuzioni i suoi popoli, e non meno gli ecclesiastici. Nel
mese di luglio arrivò di Germania _Lodovico langravio_ di Turingia con
un esercito di crociati, e passò sino a Brindisi, dove era preparata la
flotta per l'imbarco. Venne Federigo ad Otranto, e, lasciata quivi
l'imperadrice, si portò a Brindisi, dove erano concorsi tutti i
crocesignati sì di Germania e d'Inghilterra, che d'Italia, e fece
allestire i vascelli da trasporto. Si trovò che di quell'esercito molti
erano periti, ed altri s'erano infermati per li caldi della stagione, a'
quali non erano usati i Tedeschi, ed anche per l'aria cattiva di
Brindisi. Della lor perdita fu incolpato Federigo. Moltissimi per questo
se ne tornarono indietro. Imbarcati i restanti, e mandatili innanzi, lo
stesso Federigo col langravio entrò in nave nel dì 8 di settembre, e con
esso lui arrivò ad Otranto. Quivi il langravio, caduto infermo, finì di
vivere, e l'imperadore, sorpreso anch'egli da malattia, non potè
proseguire il viaggio. In Roma fu presa questa per una finzione, e si
mormorò forte di Federigo; anzi, come in tali casi avviene, giunsero
fino a credere ch'egli col veleno si fosse sbrigato del langravio. Però
papa Gregorio pien di sdegno e d'affanno per questi successi, senza
commonitorio o citazione alcuna, dichiarò nel dì 29 del suddetto mese
Federigo incorso nella scomunica, decretata ne' precedenti trattati.

Di ciò informato Federigo, inviò a Roma gli arcivescovi di Reggio, di
Calabria e di Bari, e Rinaldo chiamato duca di Spoleti, e il conte
Arrigo di Malta a portar le sue scuse e ragioni, con sostener vera la
malattia sopraggiuntagli, con chiamar Dio in testimonio di questo. Dio
appunto, scrutatore de' cuori, sa quello che veramente fu. A buon conto,
il pontefice, valutate per nulla quelle giustificazioni, rinnovò nel dì
di san Martino la pubblicazione della scomunica contra di lui, e ne
diede avviso con sue lettere a tutta la cristianità. Federigo anch'egli
venuto a Capoa, di là spedi a tutti i principi cristiani un manifesto
pungente, in cui si studiava di giustificar la sua condotta[2892], e con
varie invettive di far conoscere indebite quelle censure. Nè contento di
ciò, mandollo anche a Roma, e lo fece pubblicamente leggere nel
Campidoglio, con licenza del senato e popolo romano, a cui cominciò a
far di molte carezze. Inviò eziandio delle circolari, con intimare un
gran dieta in Ravenna nel marzo dell'anno seguente. Ed affinchè il mondo
non credesse che per paura e con inganno egli si fosse ritirato dal
passaggio in Levante, pubblicò dappertutto che l'intraprenderebbe nel
prossimo venturo maggio. Ma siccome s'era egli di già guadagnato il
concetto di principe doppio, non avea corso questa sua moneta se non
presso la gente troppo buona. Intanto la scomunica e discordia suddetta
apri la porta ad innumerabili disordini e scandali, che per lungo tempo
sconvolsero tutta l'Italia. Succedette in quest'anno gran mutazione in
Verona. Siccome di sopra accennammo, era diviso quel popolo in due
fazioni, l'una aderente a _Riccardo conte_ di San Bonifazio, e
chiamavasi la parte del marchese, cioè del marchese di Este, ossia
guelfa; e l'altra era la ghibellina de' Montecchi, aderente a
_Salinguerra_ di Ferrara e ad Eccelino da Romano[2893]. Se l'intesero i
Montecchi con Eccelino, allora abitante in Bassano. Costui, mossa
insieme quanta gente potè, con essa marciò per istrade disastrose e non
praticate di Valcamonica, per ghiacci e nevi, coll'arrivare
all'improvviso a Verona[2894]. Ivi, dato all'armi, fecero prigione il
podestà, cioè Guiffredo da Pirovano milanese; restò anche cacciato dalla
città il conte Riccardo coi nobili del suo partito i quali si
rifugiarono chi a Mantova, chi a Padova e chi a Venezia. Fu creato
podestà di Verona il suddetto Eccelino, che non istette molto ad
atterrar tutti i palagi e case del conte Riccardo e de' suoi partigiani;
ed è quello stesso che poscia per le sue crudeltà divenne sì rinomato in
tutta l'Italia. Questo fu il vero principio di quella grandezza, a cui a
poco a poco andò egli salendo. Non so io dire se in quest'anno medesimo
oppure nel seguente succedesse anche una rivoluzion di governo nella
città di Vicenza[2895]. Alberico fratello di Eccelino aveva in quella
città la sua fazione, e veggendola maltrattata dal podestà, che era
Albrighetto da Faenza, nemico de' fratelli da Romano, ne meditò la
vendetta. Comunicato il suo disegno ad Eccelino, questi colle forze dei
Veronesi andò diritto a Vicenza, dove, levato rumore, ognun trasse
all'armi, e si fece più d'un combattimento nella città. Ancorchè i
Padovani venissero in soccorso della parte guelfa, pure, arrivato che fu
Eccelino, con grande strage mise in rotta i Padovani, e convenne ch'essi
co' Guelfi uscissero di Vicenza. Alberico vi fu fatto podestà; e in
questa maniera tanto Verona che Vicenza presero il partito de'
Ghibellini, con grave abbassamento della parte del marchese, ossia della
guelfa. In quest'anno i Bolognesi, che pur voleano attaccar guerra coi
Modenesi[2896], fabbricarono le castella di Crevalcore, di Budrio, di
Serravalle, ed altre ai confini del Modenese. Cominciarono anche ad
assalir le terre modenesi del Frignano, e vi fu qualche zuffa.
Condussero poscia l'esercito sotto il castello di Bazzano spettante a
Modena; ma poco vi profittarono. Fecero in quest'anno i Genovesi tutto
il loro sforzo d'armi per terra e per mare[2897], affine di ricuperare
le ribellate città di Albenga e Savona, animati all'impresa dal saggio
lor podestà Lazzaro di Gherardino Giandone da Lucca. Arrivato il loro
esercito sotto Savona, con tal empito e bravura superò le fortificazioni
esteriori fatte da quel popolo, che fu astretto ad implorar
misericordia. Di là fuggi co' suoi Savoiardi _Amedeo conte_ di Savoia,
figliuolo del conte Tommaso. Anche Albenga mandò a capitolare.
Frappostisi poi gli ambasciatori di Milano per terminar la discordia che
restava fra essi Genovesi e gli Astigiani dall'una parte, e gli
Alessandrini e i Tortonesi dall'altra, fatto fu compromesso di quelle
differenze nel comune di Milano, il qual poi diede il suo laudo, con
poco piacere nondimeno de' Genovesi.

NOTE:

[2887] Antiquit. Ital., Dissert. XLVI, pag. 909.

[2888] Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.

[2889] Raynaldus, in Annal. Eccl.

[2890] Richardus de S. Germano. Albert. Stadens. Matthaeus Paris. et
alii.

[2891] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2892] Abbas Urspergens., in Chron.

[2893] Roland., lib. 2, cap. 8.

[2894] Chronic. Veronense, tom. 8 Rer. Ital

[2895] Gerard. Mauritius, Hist. Antonius Godius, Chronic.

[2896] Annales Vetns. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.

[2897] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXXVIII. Indizione I.

    GREGORIO IX papa 2.
    FEDERIGO II imperadore 9.


Era forte irritato l'imperador _Federigo_ per la scomunica contra di lui
fulminata da papa _Gregorio_, che anche nell'anno presente fu confermata
nel giovedì santo, colla giunta di assolvere dal giuramento di fedeltà i
di lui sudditi, massimamente quei di Puglia e di Sicilia[2898]. Però
studiossi di farne vendetta, e guadagnò sotto mano molti nobili romani,
e specialmente i Frangipani, acciocchè fossero per lui contra del papa.
Aveano essi per cagion di Viterbo delle liti col medesimo pontefice.
Scoppiò la loro congiura nel terzo dì dopo Pasqua, e, sollevatosi il
popolo, tali ingiurie ed insolenze commisero, che fu obbligato Gregorio
a levarsi di Roma. Andò a Rieti, dove, intendendo che Federigo facea
contribuir anche gli ecclesiastici pel passaggio in Terra santa, spedi
lettere, con ordine di non pagare un soldo. Passò dipoi a Spoleti, e
andò a fissare il suo soggiorno in Perugia. Partorì l'imperadrice
_Jolanta_ in quest'anno in Andria di Puglia al marito Augusto un
principe maschio, a cui fu posto il nome di Corrado; ma ella stessa morì
di quel parto, compianta da tutti. Nell'aprile Federigo, raunati tutti i
prelati e i baroni del regno in Baroli, esposta la sua risoluzione di
passar oltremare, fece una specie di testamento, in cui dichiarò suo
successore ed erede il _re Arrigo_ suo primogenito, e, in mancanza di
lui, il secondogenito _Corrado_. Venuto poscia l'agosto, andò a
Brindisi, dove era unita la sua flotta, e quivi si imbarcò, ma non con
quell'apparato che conveniva ad un par suo ed era stato da lui promesso;
e, sciolte le vele al vento, navigò fino ad Accon, ossia Acri, dove
finalmente sbarcò. Aveva egli premesso nell'anno addietro Riccardo suo
maresciallo con cinquecento cavalieri, ed inviate lettere al soldano,
portale dall'arcivescovo di Palermo; e il soldano gli avea mandato in
dono un elefante, alcuni cammelli ed altri preziosi regali. Non senza
maraviglia dei lettori scrive il Rinaldi[2899] che papa Gregorio IX
spedì messi a Federigo per farlo ravvedere; ma ch'egli, più ostinalo che
mai, continuò in mal fare, saldo restando nella disubbidienza. Sicchè si
considerò delitto in lui non essere andato otre mare, e delitto ancora
l'andarvi. Il pretendere Federigo che vera e non finta fosse la sua
infermità, e che perciò ingiusta fosse la scomunica, cagione fu ch'egli
dispettosamente serrò gli orecchi alle esortazioni del pontefice, e
senza voler chiedere assoluzione, cercò di compiere il suo voto. Ora
certo è che egli in quest'anno passò verso Terra santa, e vi passò senza
avere ottenuta la liberazion dalla scomunica, con lasciare in Puglia e
Sicilia Rinaldo, chiamato duca di Spoleti, balio ossia governatore
generale del suo regno, siccome persona di cui molto si fidava. Circa
questi tempi il popolo romano[2900], uscito in campagna, diede il guasto
al territorio di Viterbo, e s'impadronì del castello di Rispampano. Non
lasciarono i Viterbiesi di fare anche essi quel maggior male che
poterono ai Romani. Andò papa Gregorio nel mese di luglio da Perugia ad
Assisi, dove celebrò la canonizzazione di _san Francesco_ istitutor de'
minori, e tornossene dipoi a Perugia, dove la presenza sua servì a
quetar le civili discordie di quel popolo. Torna poi lo stesso Riccardo
da San Germano a parlar all'anno seguente della medesima canonizzazione,
come di funzione allora fatta. A quell'anno ancora ne parlano gli Annali
antichi di Modena[2901]. Abbiam dal medesimo storico che, lasciato
dall'imperador Federigo per governator generale del regno, essendosi
ribellati i signori di Popplito, fece esercito contra di loro, e li
spogliò di tutte le lor terre. Quindi, o perchè scoprisse che la corte
romana tenea mano a quelle ribellioni, oppure facea preparamenti per
invadere la Puglia, ovvero per sua propria malignità, o per ordini
segreti di Federigo, il quale per altro sostenne col tempo di non aver
ciò comandato, se con verità, Dio lo sa; Rinaldo, dico, dall'un canto
entrò coll'armi nella marca d'Ancona, e Bertoldo suo fratello fece
un'irruzione su quel di Norcia. Udito ciò, papa Gregorio pubblicò la
scomunica contra di Rinaldo; e veggendo ch'egli non desisteva per questo
dal far progressi nella Marca, essendo giunte le sue armi fino a
Macerata, determinò di ripulsar la forza colla forza, e di metter mano
all'armi temporali. Inviò dunque contra di Rinaldo _Giovanni re_ di
Gerusalemme, unito al _cardinal Giovanni_ dalla Colonna, con un buon
esercito di cavalieri e fanti. E perciocchè non bastava a farlo ritirare
dagli Stati della Chiesa, mise insieme un'altra armata, alla testa di
cui pose Tommaso da Celano e Ruggieri dall'Aquila, già banditi da
Federigo, con disegno di portar la guerra nel cuore del regno. Spedì
anche a Milano[2902] e all'altre città di Lombardia per aver soldati. I
Milanesi gli mandarono cento cavalieri; trenta i Piacentini. Riuscì in
quest'anno ad Eccelino da Romano[2903] di prendere con frode il castello
di Fonte, cogliendo in esso anche Guglielmo figliuolo di Jacopo da Campo
San Pietro. Fattene doglianze a Padova, quel popolo diede all'armi, e
col carroccio e con poderoso esercito andò fin sotto Bassano, avendo per
lor podestà e capitano Stefano Badoero Veneziano.

Questa mossa di gente fu cagione che la repubblica di Venezia spedisse
ambasciatori per trattar di concordia, e che la lite fosse rimessa nel
lor consiglio. Fecero istanza i Padovani per riavere il castello, come
era di dovere col fanciullo Guglielmo. Eccelino non volle far altro, e
convenne che gli ambasciatori se ne tornassero a Venezia malcontenti.
Erasi fatto monaco, e facea una vita da ipocrita, Eccelino da Onara,
padre del suddetto Eccelino da Romano e di Alberico, con iscoprirsi
infine eretico paterino. Questi scrisse tosto ai figliuoli che si
accomodassero, perchè non poteano per anche competere colla possanza de'
Padovani. Per questo, e per le esortazioni di varii amici, finalmente
s'indusse il superbo giovane Eccelino a rilasciare, ma con aria di
dispetto, l'occupato castello. Poco appresso, fatto egli cittadino di
Trivigi, seppe commuovere quel popolo contra dei vescovi di Feltre e
Belluno, in guisa che occupò ad essi quelle piccole città. I Padovani,
de' quali erano raccomandati quei vescovi, spedirono ambascerie per
distorre i Trivisani da quella oppressione. Poichè ne riportarono
solamente delle arroganti risposte, chiamati in aiuto loro il patriarca
d'Aquileia ed _Azzo marchese_ d'Este, e formata una bell'armata,
marciarono fin sotto le mura di Trivigi, prendendo e saccheggiando varie
terre. Finalmente, per interposizione di _Gualla vescovo_ di Brescia,
legato della santa Sede, e dei rettori della lega di Lombardia, tanto si
picchiò, che i Trivisani restituirono Feltre e Belluno, e tornò la
tranquillità in quelle parti. Non così avvenne ai Modenesi[2904]. Perchè
essi tenevano la parte dell'imperador Federigo, i Bolognesi fecero un
grosso esercito, con cui si unirono i rinforzi spediti dalle città di
Faenza, Imola, Forlì, Rimini, Pesaro, Fano, Milano, Brescia, Piacenza,
Forlimpopoli, Cesena, Ravenna, Ferrara, Firenze, e da altre città
lombarde[2905]. Assediarono essi Bolognesi il castello di Bazzano, che
era de' Modenesi, nel dì 4 di ottobre. Presero il castello di Vignola
nel dì 10 d'esso mese. Ma qui si fermò la loro fortuna. Uscirono in
campagna anche i Modenesi con tutte le forze de' Parmigiani[2906] e
Cremonesi. Forzarono alla resa il castello di Piumazzo, e lo distrussero
nel dì 14 del mese suddetto. Dopo avere in faccia de' nemici introdotto
in Bazzano un buon rinforzo di gente e di viveri, nel dì 15 diedero il
guasto al territorio bolognese sino al fiume Reno. Allora i Bolognesi
presso Santa Maria della Strada attaccarono una battaglia, in cui fu
molta mortalità dall'una parte e dall'altra. Nella Cronichetta di
Cremona[2907] è scritto che i Bolognesi furono rotti, e molti prigioni
menati a Cremona. Altrettanto ha la Cronica di Parma, da cui ancora
impariamo che in tal congiuntura furono liberati molti prigioni
modenesi, ed essere durato il combattimento dalla mattina sino alla
notte. Finalmente i Bolognesi nel dì 14 di novembre[2908] abbandonarono
l'assedio di Bazzano, con lasciar ivi tutte le lor macchine militari.
Venne dipoi l'esercito bolognese sino a Castelvetro, e quivi succedette
un altro fatto d'armi in cui di nuovo ebbe la peggio, e i Modenesi
condussero molti prigioni alla loro città. In quest'anno[2909] parimente
_Bonifazio marchese_ di Monferrato cogli Astigiani fece guerra agli
Alessandrini e al popolo di Alba, aiutato con gente e danaro dai
Genovesi. Colla mediazione de' Milanesi si quetò quella discordia.

NOTE:

[2898] Vita Gregorii IX, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Richardus de S.
Germano, in Chron.

[2899] Raynald., Annal. Eccl.

[2900] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2901] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[2902] Gualvan. Flam., in Manip. Flor., cap. 261.

[2903] Roland., Chron., lib. 2, cap. 9.

[2904] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[2905] Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.

[2906] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[2907] Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.

[2908] Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.

[2909] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCCXXIX. Indizione II.

    GREGORIO IX papa 3.
    FEDERIGO II imperadore 10.


Fece in quest'anno gran guerra _Giovanni re_ di Gerusalemme alla Puglia
colle forze che gli avea dato papa _Gregorio IX_. Ne descrive tutte le
particolarità Riccardo da San Germano[2910]. A me basterà di darne un
breve trasunto. L'esercito pontificio, che si chiamava chiavisegnato,
poichè portava per divisa le chiavi della Chiesa, sotto il comando di un
sì prode generale, entrato nel mese di marzo in Puglia, dopo la presa di
varie terre e castella, arrivò a Gaeta, e, costretta quella città alla
resa, vi spianò il castello che l'imperadore con grande spesa vi avea
poc'anzi fabbricato. Prese le terre di Monte Casino, il monistero, San
Germano ed altri luoghi in que' contorni. Fondi, Arce e Capoa tennero
saldo, e i conti d'Aquino, ben provvedute le lor terre, stettero forti
nella fedeltà verso di Federigo. Pure Aquino, Sora, a riserva del
castello, e le città d'Alife e di Telesa ed Arpino si renderono all'armi
pontificie, che passarono ad assediar Caiazzo e Sulmona. Furono in
questi tempi, per ordine di Rinaldo duca di Spoleti, cacciati fuor del
regno tutti i frati minori, perchè si dicea che portavano lettere papali
ai vescovi delle città, esortatorie, acciocchè inducessero gli uomini a
rendersi alla Chiesa romana. Sparsero ancora voce che _Federigo II_ era
morto. Furono esiliati per questo anche i monaci casinensi. E tale era
la guerra che faceva papa Gregorio in Puglia all'imperador _Federigo_,
per la quale implorò soccorsi da tutte le città della lega di
Lombardia[2911], mosse la Francia, la Spagna, l'Inghilterra, la Svezia
ed altri paesi a mandar danari e gente per questa guerra, ed eccitò
anche delle ribellioni in Germania contra d'esso Federigo. Tuttavia
minore non fu quell'altra guerra che nello stesso tempo egli fece a
Federigo in Levante. Giunto ad Accon, ossia ad Acri, nel settembre
dell'anno precedente, esso Augusto fu bensì ricevuto con tutto onore dal
patriarca, clero e popolo, ma insieme con protesta di non poter
comunicare con lui, se prima non otteneva l'assoluzion della scomunica
dal papa. Andò poscia in Cipri, e spedì i suoi ambasciatori al sultano
di Egitto, per richiedere amichevolmente il regno di Gerusalemme, come
Stato appartenente a suo figliuolo _Corrado_, perchè nato da _Jolanta_
legittima erede d'esso regno. Prese tempo il sultano a rispondere per
mezzo de' suoi ambasciatori. Intanto arrivarono due frati minori con
lettere del papa, nelle quali proibiva al patriarca e ai tre gran mastri
degli ordini militari, l'ubbidire a Federigo, e comandava di trattarlo
da scomunicato. Però, allorchè volle muovere l'esercito per marciare
contra de' Saraceni, trovò i cavalieri templarii ed ospitalieri che non
voleano militar sotto di lui. Bisognò che Federigo inghiottisse molti
strapazzi, e che si accomodasse in fine ai lor voleri, contentandosi che
l'impresa si facesse non in nome suo, ma in quello di Dio e della
repubblica cristiana. Andò a Joppe, e quivi attese a fortificar quel
castello disfatto, rendendolo piazza di gran polso, e lo stesso fece con
altre castella sulla via di Gerusalemme. Ma eccoti sul più bello
arrivare un sottil naviglio che gli porta l'avviso d'essere tutto in
confusione il regno di Puglia per l'invasione dell'armi pontificie.
Allora Federigo a nulla più pensò che a sbrigarsi dalla Palestina per
accorrere ai bisogni e pericoli del suo regno; e, stringendo, come potè,
il trattato di concordia col sultano, accettò quella capitolazione che
piacque al Saraceno di dargli. Consistè questa in pochi articoli. Gli
cedeva il sultano le città di Gerusalemme, Betlemme, Nazarette, Sidone,
con altre castella e casali, e con facoltà di poterle fortificare, e
riserbandosi solamente la custodia del tempio di Gerusalemme, ossia il
santo Sepolcro, con restar nondimeno libero tanto ai Saraceni che ai
Cristiani il farvi le lor divozioni. Stabilissi anche una tregua di
dieci anni, e la liberazion di tutti i prigioni. Andò poscia Federigo a
prendere il possesso di Gerusalemme: e strana cosa dovette pur parere il
ritrovarsi ivi già intimato dal patriarca l'interdetto, se Federigo
capitava colà. Contuttociò l'imperador si portò alla visita del santo
Sepolcro; e giacchè niuno si attentò a coronarlo, posò egli la corona
sul sacro altare, e poi, presala colle sue mani, se la mise in capo. Non
potrà di meno di non istringersi nelle spalle chi legge sì fatte
vicende. Dopo di che, tornato Federigo al mare con due ben armate galee,
frettolosamente e con felicità di viaggio arrivò a Brindisi in Puglia
nel maggio dell'anno presente. Divolgatasi la capitolazione da lui fatta
col sultano, fu strepitosamente riprovata in corte di Roma, chiamato
egli un vile e traditore, perchè avesse lasciato in man dei cani il
venerato Sepolcro di Cristo, senza voler far caso che Federigo per
necessità avea ricevuta la legge da chi, se avesse voluto, potea
negargli tutto; e massimamente perchè il sultano era ben informato di
quanto operava il pontefice sì in Puglia che in Palestina contra di
Federigo, e sapea la discordia che passava fra esso imperadore e il
patriarca e l'esercito cristiano. Ed è per altro certissimo che
Gerusalemme restò in mano de' cristiani, e che assaissime migliaia
d'essi andarono a piantarvi casa, e pacificamente vi abitarono da lì
innanzi sotto il comando degli uffiziali dell'imperadore. Io per me
chino qui il capo, nè oso chiamar ad esame la condotta della corte di
Roma in tal congiuntura, siccome superiore ai miei riflessi, bastandomi
di dire che, secondo l'Abbate Urspergense[2912], fece gran rumore per la
cristianità la contradizione praticata dal pontefice all'impresa di
Federigo in Levante. Anche Riccardo da San Germano[2913] lasciò scritto:
_Verisimile videtur, quod si tunc imperator cum gratia ac pace romanae
Ecclesiae transisset, longe melius et efficacius prosperatum fuisset
negotium Terrae sanctae_. Per la partenza poi di Federigo andò anche in
malora quel poco ch'egli avea guadagnato in Palestina, e specialmente
perchè il patriarca, e gli ospitalieri e templarii, dacchè egli si fu
partito, apertamente si rivoltarono contra di lui. Non si può leggere
senza patimento la storia di questa maledetta discordia, piena
d'invettive e calunnie dall'una parte e dall'altra, e, quel che è
peggio, di tanti guai de' popoli e danno della cristianità. Io senza
fermarmi passo innanzi.

Giunto che fu in Puglia Federigo, non lasciò di spedire ambasciatori al
papa, chiedendo pace, ed esibendosi pronto a far quello ch'egli
ordinasse. Nulla poterono essi ottenere. Raunò allora Federigo le sue
forze, con valersi ancora dei Tedeschi crociati ritornati di Levante, e
di un gran corpo di Saraceni cavati da Nocera. Nel settembre venne a
Capoa, e portossi a Napoli per aver soccorso di gente e di danaro.
Intanto Giovanni re di Gerusalemme, vedendo venire il mal tempo,
lasciato andare l'assedio di Caiazzo, si ritirò a Teano. Federigo
ricuperò Alife, Venafro ed altre terre; poscia San Germano, e le terre
della giurisdizione di Monte Casino, Presenzano, Teamo, la rocca di
Bantra, Arpino ed altri luoghi. Sora, avendo voluto aspettar la forza,
fu presa e data alle fiamme nella festa dei santi Simone e Giuda di
ottobre. Intanto fra il senato e popolo romano e l'imperadore passavano
lettere e messaggeri di buona armonia. Questi prosperosi successi
dell'armi di Federigo fecero in fine che il pontefice cominciò a prestar
orecchio ad un trattato di concordia, per cui specialmente si adoperava
il gran mastro dell'ordine teutonico. Pensarono i Bolognesi in
quest'anno di rifarsi delle perdite fatte nell'anno precedente nella
guerra coi Modenesi[2914], e, con gli aiuti di varie città loro
collegate composto un potente esercito, col carroccio si portarono
all'assedio di San Cesario, castello de' Modenesi. Secondo il
Sigonio[2915], nol presero; ma le vecchie Croniche dicono di sì, e che
lo distrussero. Non erano per anche mossi di là, che si videro a fronte
l'esercito de' Modenesi, Parmigiani e Cremonesi, risoluto di menar le
mani. Si azzuffarono in fatti le due armate, e durò il combattimento
d'avanti il vespro fin quasi a mezza notte a lume di luna. Fecero ogni
sforzo i Bolognesi contra il carroccio de' Parmigiani, e poco vi mancò
che nol prendessero: il che veniva allora riputato per la più gloriosa
di tutte le imprese. Ma i Cremonesi dall'un canto, e dall'altro i
Modenesi così vigorosamente gl'incalzarono, che finalmente li misero in
rotta, e diedero lor la caccia fin quasi alle porte di Bologna. Restò in
potere de' vincitori tutto il loro campo colle tende, carra, buoi e
bagaglio. Fu rotto e cacciato in un fosso il loro carroccio, perchè
nacque contesa fra i Parmigiani e Modenesi, pretendendolo cadauna delle
parti. Una gran copia di prigioni fu condotta a Modena e Parma, e i
Parmigiani trassero alla lor città molte manganelle, ossia petriere,
prese in tal occasione, e per gloria le posero nella lor cattedrale. Le
Croniche di Bologna han creduto bene di accennar la battaglia, ma con
tacerne l'esito sinistro per loro. Alberico monaco de' Tre Fonti[2916],
storico di questi tempi, ampiamente anch'egli descrive questa battaglia
e vittoria. Non contenti di ciò i Modenesi, voltarono con un nuovo alveo
il fiume Scultenna, ossia Panaro, addosso alle campagne de' Bolognesi,
con lor gravissimo danno. Pertanto dispiacendo al pontefice Gregorio IX
gli odii e le gare di queste città, spedì ordine a _Niccolò vescovo_ di
Reggio di Lombardia, che in suo nome s'interponesse per la concordia.
Non fu egli pigro ad eseguir la commessione, e gli riuscì di stabilire
fra i Modenesi e Bolognesi una tregua d'otto anni colla restituzion de'
prigioni, ed altre condizioni, che si leggono presso il Sigonio, il
quale dagli atti pubblici le estrasse. Godè in quest'anno la marca di
Verona un'invidiabil pace. I Piacentini[2917] fecero oste contro la
città di Bobbio, venticinque miglia lungi dalla loro città, e fu
costretto quel popolo a prestar giuramento di fedeltà a Piacenza Il
conte di Provenza nell'anno presente[2918] col braccio d'alcuni
traditori s'impadronì della città di Nizza e delle sue fortezze. Resistè
un pezzo parte de' cittadini, ed ebbe anche qualche soccorso da'
Genovesi; ma in fine dovette soccombere; e il conte restò in pieno
potere di quella città. Venne in quest'anno a morte _Pietro Ziani_ doge
di Venezia, dopo ventiquattr'anni di governo[2919], Prima che egli
morisse, fu eletto doge _Jacopo Tiepolo,_ ed avendo fatta una visita
all'infermo predecessore, fu ricevuto con disprezzo, ma colla virtù
dissimulò tutto. Abbiamo dal Sigonio[2920] che nel dì 2 di dicembre in
Milano fu riconfermata la lega delle città di Lombardia. V'erano
presenti i deputati de' Padovani e Veronesi; ma non apparisce che
giurassero come gli altri.

NOTE:

[2910] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2911] Raynaldus, Annal. Eccles. ad hunc annum, num. 38 et seq.
Matthaeus Paris, Hist.

[2912] Abbas Urspergens., in Chron.

[2913] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2914] Annales Veter. Mutinens. tom. 11 Rer. Ital. Chronicon Parmense,
tom. 9 Rer. Italic. Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Italic. Chronic.
Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.

[2915] Sigon., de Regn. Ital., lib. 17.

[2916] Alberic. Monachus, in Chron.

[2917] Chron. Placent. tom. 16 Rer. Italic.

[2918] Caffari, Annal. Genuens, lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.

[2919] Dandul., in Chronic. tom. 12 Rer. Italic.

[2920] Sigonius, de Regno Ital., lib. 17.



    Anno di CRISTO MCCXXX. Indizione III.

    GREGORIO IX papa 4.
    FEDERIGO II imperadore 11.


Nel primo giorno di febbraio del presente anno un'orribile inondazione
del Tevere recò immensi danni alla città di Roma e ai contorni[2921];
affogò molte persone e bestie, menò via una prodigiosa quantità di
grani, botti di vino e mobili; ed avendo lasciato un lezzo fetente con
dei serpenti per le case, ne sorse poi una mortale epidemia nel popolo.
Servì questo flagello a far ravvedere il senato e popolo romano degli
aggravii ed ingiurie fatte al sommo pontefice _Gregorio IX_, che per
cagion d'esse fin qui s'era fermato in Perugia; e però, spediti a lui il
cancelliere e Pandolfo della Saburra con altri nobili, il pregarono di
voler tornarsene a Roma. Sul fine dunque di febbraio comparve colà papa
Gregorio, accolto con tutta riverenza ed onore da quel senato e popolo.
Nella Vita d'esso papa vien riferito questo suo ritorno all'anno
seguente. Riccardo lo mette nel novembre del presente. Intanto andava
innanzi il trattato già intavolato di pace fra esso pontefice e
_Federigo_, il quale ricuperò in questo mentre varie altre sue terre.
Mediatori principali erano _Leopoldo duca_ d'Austria[2922], principe che
in questo medesimo anno terminò la sua vita in San Germano nel dì 28 di
luglio; e _Bernardo duca_ di Moravia, gli arcivescovi di Salisburgo e
Reggio di Calabria, ed Ermanno gran mastro dell'ordine dei Teutonici. Fu
per questo tenuto un congresso in San Germano, dove intervennero
_Giovanni cardinale_ vescovo sabinense, e _Tommaso cardinale_ di Santa
Sabina, legati pontificii, dove si smaltirono molte difficoltà. La
principale era la restituzion delle città di Gaeta e Santa Agata,
pretese da Federigo, laddove il papa intendea di ritenerle in suo
dominio. Finalmente, dopo essere andati innanzi e indietro più volte i
pacieri, nel dì 9 di luglio in San Germano fu conchiuso l'accordo, con
obbligarsi Federigo di rimettere ogni offesa a chiunque avea prese
l'armi contra di lui tanto in Italia che fuori; e di restituire alla
Chiesa qualunque Stato che i suoi avessero occupato, ed a varii
particolari le lor terre, e da non mettere più taglie ed imposte all'uno
e all'altro clero. Doveansi eleggere arbitri per decidere entro d'un
anno il punto controverso di Gaeta e di Santa Agata. Fu poi dopo
l'esecuzion del trattato assoluto esso imperadore dalle censure nella
festa di santo Agostino di agosto, e si fecero dappertutto grandi
allegrezze per questa pace. Ed oh si fossero due anni prima avute queste
medesime disposizioni, e Federigo con più umiliazione, e il pontefice
con più indulgenza si fossero portati l'un verso l'altro: che gli affari
di Terra santa sarebbono camminati meglio, e si sarebbe risparmiata
un'iliade di molti guai, uno de' quali fra gli altri fu notabilissimo;
cioè l'avere in tal congiuntura non già avuta la nascita, ma bensì
ricevuto un considerabile accrescimento e un'aperta professione le
maledette fazioni de' Guelfi aderenti al papa, e de' Ghibellini parziali
dell'imperadore. Abbiamo dalla Vita di papa Gregorio[2923], ch'egli
spese in questa guerra cento venti mila scudi, e Federigo si obbligò di
rimborsarlo. Altri hanno scritto che assunse di pagargli cento venti
mila once d'oro. Più, o meno che fosse, Federigo se ne dimenticò dipoi,
nè gli pagò un soldo. Passò il pontefice alla villeggiatura d'Anagni, e
colà invitò l'imperadore[2924]. Comparve egli con magnifico
accompagnamento, e si attendò fuori della città nel dì primo di
settembre. Nel dì seguente incontrato dai cardinali e dalla nobiltà, si
portò alla visita del papa; e, deposto il manto, prostrato a' suoi
piedi, riverentemente glieli baciò, e, dopo breve colloquio, andò a
posare nel palazzo episcopale. Nel giorno appresso il papa, che abitava
nel palazzo paterno, l'invitò seco a pranzo, ed amendue con tutta
magnificenza assisi alla stessa tavola, deposto ogni rancore, almeno in
apparenza, svegliarono nuova allegrezza negli assistenti. Dopo di che
tennero fra lor due, colla presenza del solo gran mastro dell'ordine
teutonico, un lungo ragionamento intorno a' proprii affari. Nel seguente
lunedì, congedatosi Federigo dal pontefice, se ne tornò nel regno, dove
non seppe contenersi dal trattar male i popoli di Foggia, Castelnuovo,
San Severino, ed altri di Capitanata, che ne' passati torbidi si erano
ribellati[2925]. Ma Riccardo da San Germano pare che metta questo fatto
prima della pace. All'incontro il papa sbrigato da questa guerra, e
tornatosene a Roma, attese a fabbricar palagi e spedali. Era venuto in
Italia _Milone vescovo_ di Beauvais Franzese con quello di Chiaramonte,
conducendo seco un buon corpo di truppe franzesi in aiuto del papa, le
quali, o non giunsero a tempo alla danza o furono rimandate[2926].
Trovavasi per questo sforzo Milone aggravato da grossi debiti. Il sommo
pontefice per sollevarlo gli diede il governo del ducato di Spoleti e
della marea di Guarnieri, ossia d'Ancona: con che egli in tre anni
inpinguò la sua borsa. Ma ritornandosene egli dopo quel tempo in
Francia, i vicini Lombardi, informati del ben di Dio ch'egli portava
seco, gli tesero delle imboscate, nelle quali perdè più di quel che avea
guadagnato. Alberico Monaco è quegli che racconta il fatto.

Cominciò a sconcertarsi in questo anno la marca di Verona[2927]. Essendo
stato chiamato per podestà di essa città Matteo de' Giustiniani nobile
veneto, richiamò egli tutti i nobili che il suo antecessore avea mandato
a' confini. Capo della fazion guelfa era _Ricciardo conte_ di San
Bonifazio, che, tornato a Verona, fu ben accolto dal podestà. Ingelosita
di ciò la parte ghibellina, appellata de' Montecchi, con intelligenza di
Eccelino da Romano e di Salinguerra dominante in Ferrara, un dì fatta
sollevazione, mise le mani addosso al conte Ricciardo, e cacciollo in
prigione con alquanti de' suoi. Il resto de' suoi amici usci di città;
lo stesso Giustiniani podestà ne fu cacciato; e la podesteria fu
appoggiata a _Salinguerra_, che corse colà da Ferrara. Anche Eccelino,
udita questa nuova, precipitosamente volò a Verona per accrescer legna
al fuoco[2928]. Ridottasi la parte del conte al castello di San
Bonifazio, elesse per suo podestà Gherardo Rangone da Modena,
personaggio di gran senno e valore. Questi col deposto Giustiniani
ricorse a Stefano Badoero podestà di Padova, il quale, raunato il
consiglio, ascoltò le loro querele: querele tali, che mossero a
compassione tutto il popolo di Padova; di maniera che si prese tosto la
risoluzione di aiutar con braccio forte la parte del conte. Inviarono
ambasciatori a Verona, che parte con amichevoli, e parte con minacciose
parole fecero istanza per la liberazione del conte. Nulla poterono
conseguire[2929]. Però usci in campagna nel mese di settembre l'armata
padovana col carroccio, con _Azzo VII_ marchese d'Este e coi Vicentini;
ed ostilmente entrata nel Veronese, s'impadronì di Porto, di Legnago e
del ponte dell'Adige, dai quali luoghi scapparono in fretta Eccelino,
Salinguerra e i Veronesi che erano accorsi alla difesa. Diedero poscia i
Padovani il guasto al circonvicino paese; distrussero la villa della
Tomba, presero Bonadigo, e colla forza costrinsero il castello di
Rivalta alla resa. Ciò fatto se ne tornarono a Padova. Neppure per
questi danni s'indussero i Veronesi a mettere in libertà il conte
Ricciardo. Era circa questi tempi capitato a Padova frate Antonio da
Lisbona dell'ordine dei minori, religioso di santa vita, di molta
letteratura, mirabil missionario e predicatore della parola di Dio. Gli
amici del conte e del marchese d'Este, a' quali più che agli altri stava
a cuore la prigionia d'esso conte, si avvisarono d'inviar a Verona
questo insigne religioso, sperando che la di lui eloquenza potrebbe
ottenere ciò che non era riuscito coll'armi. Andò il santo uomo, impiegò
quante ragioni e preghiere potè coi rettori della lega lombarda, con
Eccelino, con Salinguerra e coi lor consiglieri; ma sparse le parole al
vento, e ritornossene a Padova coll'avviso solo della pertinacia de'
Veronesi. La cronica Veronese aggiugne che anche i Mantovani col loro
carroccio fecero un'irruzione sul Veronese, presero e distrussero il
castello di Cola, diedero il sacco e il fuoco a Travenzolo, alla Motta
dell'Abbate, all'isola de' Conti, che or si chiama la isola della Scala,
e a molte altre ville del Veronese: il tutto per favorire il conte
Ricciardo. Notano gli Annali antichi di Modena[2930] che anche la
milizia dei Modenesi andò in soccorso de' Mantovani contra de' Veronesi.
Ebbero i Milanesi[2931] guerra in quest'anno col marchese di Monferrato
in favore degli Alessandrini, e, se si ha da prestar fede ai loro
storici[2932], coll'avere assediato ed anche preso il castello di
Bombaruccio nel Monferrato (Mongravio è detto negli Annali di Genova),
misero tal paura in cuore a quel marchese, che giurò di star da lì
innanzi ai voleri del comune di Milano[2933]. Il che fatto, passarono
sul territorio d'Asti, e vi diedero il guasto fino a due miglia lungi da
quella città. Anche la Cronica d'Asti[2934] confessa questo gran danno
inferito da' Milanesi al territorio astigiano, con aggiugnere che ciò
seguì fra la festa di san Giovanni Batista e di san Pietro, e che i
Milanesi v'andarono assistiti di gente da ventitrè amiche città. I
Genovesi spedirono un buon soccorso ad Asti. Poscia fece il popolo di
Milano guerra in Piemonte contra del conte di Savoia e di que' marchesi,
e, in onta d'essi, fabbricò il Pizzo di Cunio, dove si ritirarono quei
di Saviliano e di San Dalmazio, troppo aggravati dal conte di Savoia. In
una scaramuccia restò preso da esso conte, o dai marchesi, Uberto da
Ozimo, generale de' Milanesi, che fu poi crudelmente levato di vita.
Diede fine ai suoi giorni nel dì 16 di settembre _Arrigo da Settala_
arcivescovo di Milano, in cui luogo fu concordemente eletto _Guglielmo
da Rozolo_ nel dì 14 d'ottobre, che fu uomo di gran vaglia.

Negli Annali di Genova è scritto[2935] che in quest'anno gli
Alessandrini, stanchi della guerra co' Genovesi, fecero un compromesso,
e fu sentenziato che Capriata restasse al comune di Genova. Anche i
popoli d'Asti e d'Alba, Arrigo marchese del Carretto, ed altri
compromisero le lor differenze nel comune di Genova: il che diede fine
alle lor guerre. Si andavano intanto dilatando per le città d'Italia gli
eretici paterini, catari, poveri di Lione, passaggini, giuseppini ed
altri, che in fine tutti erano schiatte di manichei. Non v'era quasi
città dove di costoro non si trovasse qualche brigata. Specialmente in
Brescia le storie dicono che la lor setta avea preso gran piede. Roma
stessa non ne era esente, nè Napoli. Ora in quest'anno Raimondo Zoccola
Bolognese podestà di Piacenza[2936] fece bruciar molti di costoro.
Altrettanto si andava facendo in altre città. E nel mese di febbraio in
essa città di Piacenza _fuit ludus imperatoris, et Papiensium, et
Regiensium, et patriarchae in burgo et in platea sancti Antonini_. Do ad
indovinare ai lettori ciò che significhino queste parole. Quanto a me,
vo sospettando che fosse uno spettacolo pubblico, in cui si
rappresentava Federigo imperadore coi Pavesi e Reggiani, e col
patriarca, suoi aderenti, forse non con molto onore. I Parmigiani in
quest'anno[2937] andarono in servigio de' Piacentini a dare il guasto al
territorio di San Lorenzo e di Castello Arquato, luoghi detenuti dai
nobili fuorusciti di Piacenza. Fecero parimente oste essi Parmigiani a
Pontremoli contra dei marchesi Malaspina. Il Guichenon[2938] racconta a
quest'anno che il popolo di Torino si sottrasse all'ubbidienza di
_Tommaso conte_ di Savoia, e si diede a _Bonifazio marchese_ di
Monferrato. Il conte, messa insieme un'armata, si avvicinò a Torino,
disfece il soccorso che gli Astigiani conducevano agli assediati; nè
parendogli propria la stagione per continuar l'assedio, lasciò bloccata
quella città, e se n'andò in Savoia. Questo scrittore, giacchè gli
mancavano gli antichi storici, si suol servire di moderni, l'autorità
dei quali non di rado è poco sicura. Noi già vedemmo all'anno 1226 che
Torino, siccome città libera, entrò nella lega di Lombardia, e fu anche
posta coll'altre al bando dell'imperio da Federigo II imperadore, in
tempo che Tommaso conte di Savoia era uno de' suoi più favoriti. Nè può
stare che gli Astigiani, per quanto s'è veduto di sopra, menassero
soccorsi a quella città, quando penavano a difendere sè stessi da'
Milanesi. Nè so io credere che Torino venisse in potere del marchese di
Monferrato. Nulla ne seppe Benvenuto da San Giorgio. E se fosse caduta
nelle mani del marchese, principe sì potente, quella bella preda,
avrebbe saputo ben custodirla. Fu anche guerra nell'anno presente in
Toscana[2939]. I Fiorentini uniti cogli Aretini, Pistoiesi, Lucchesi,
Pratesi ed Urbinati, oppure Orvietani, andarono con possente esercito e
col carroccio contro ai Sanesi. Disfecero da venti loro castella, ed
arrivarono fino alle porte di Siena, guastando tutto il paese. Nel dì 9
di luglio i Sanesi animosamente uscirono armati alla porta di Camollia,
ed attaccarono la zuffa; ma soperchiati dalle troppo superiori forze de'
nemici, rimasero sconfitti; e i Fiorentini menarono prigioni circa mille
ducento e settanta d'essi. Ricordano Malaspina e Giovanni Villani suo
copiatore mettono questo fatto sotto l'anno 1229. Gli altri autori
concordemente ne parlano sotto il presente[2940].

NOTE:

[2921] Vita Gregor. IX, P. I, tom. 3 Rer. Italic. Richardus de S.
Germano.

[2922] Godefrid. Monachus, in Chronico.

[2923] Card. de Aragon., Vita Greg. IX, P. I, tomi. 3 Rer. Ital.

[2924] Richardus de S. Germano, in Chronic.

[2925] Raynaldus, Annal. Ecclesiast.

[2926] Alberic. Monachus, in Chronic.

[2927] Roland., Chron., lib. 3, cap. 1.

[2928] Monac. Palavinus, in Chron.

[2929] Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.

[2930] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[2931] Gualvan. Flamma, in Manip. Flor., cap. 163.

[2932] Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.

[2933] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.

[2934] Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.

[2935] Caffari, Annal. Genuens.

[2936] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2937] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[2938] Guichenon, Histoire de la Mais, de Savoye, tom. 1.

[2939] Chron. Bononiens. Chron. Senense.

[2940] Ptolom. Lucens., in Annal. Eccl.



    Anno di CRISTO MCCXXXI. Indiz. IV.

    GREGORIO IX papa 5.
    FEDERIGO II imperadore 12.


Tanto il pontefice _Gregorio_, quanto l'imperador _Federigo_[2941],
mirando con incredibil dispiacere i progressi che andava facendo
l'eresia de' paterini e di altre sette di manichei per l'Italia,
pubblicarono rigorosissimi editti contra di questi pestilenti uomini che
infestavano la Chiesa cattolica. Circa questi tempi nella città di
Perugia[2942], in cui la nobiltà e il popolo per cagion del governo
aveano in addietro avute non poche risse e liti fra loro, la discordia
tramontò gli argini, e toccò ai nobili l'uscir di città. Si diedero poi
questi a far quanto di male potevano al territorio; e il popolo anche
egli faceva altrettanto e peggio contra di essi. Con paterno zelo
accorse papa Gregorio al bisogno dell'afflitta città, con ispedir colà
il cardinal _Giovanni dalla Colonna_, il quale con tal efficacia si
adoperò, che, calmato il furor delle parti, ridusse in città una buona
somma di danaro per la riparazion dei danni. In questo anno parimente
contro la mente del pontefice i Romani fecero oste a' danni de'
Viterbesi nell'aprile e nel maggio, e obbligarono quei di Montefiascone
di dar sicurtà di non prestar loro aiuto. Prese dipoi l'imperador
Federigo la protezion di Viterbo, e vi spedì Rinaldo da Acquaviva suo
capitano con un buon corpo di milizie per difesa di quella città.
Dovette essere il papa che fece questo trattato, ed impegnò Federigo in
favor de' Viterbesi; imperocchè i Romani, dacchè n'ebbero l'avviso,
imposero, in odio del papa, una grave contribuzione di danaro alle
chiese di Roma. Cadde in quest'anno dalla grazia di Federigo _Rinaldo_,
appellato duca di Spoleti, quel medesimo che tanto avea fatto per lui in
danno della Chiesa romana. Federigo fu de' più accorti e maliziosi
principi che mai fossero. Probabilmente gli nacque sospetto che costui
tenesse segrete intelligenze colla corte di Roma[2943]; e infatti
s'impegnò forte il papa per la sua liberazione. Ora Federigo, preso il
pretesto di fargli rendere conto della passata amministrazione del
regno, nè potendo Rinaldo trovar cauzione idonea, il fece imprigionare,
con ispogliarlo di tutti i suoi beni; dal che prese motivo Bertoldo di
lui fratello di ribellarsi e di fortificarsi in Intraduco. In quest'anno
ancora pubblicò esso imperadore la determinazion sua di tenere una dieta
del regno d'Italia in Ravenna, la qual città era allora governata
dall'arcivescovo di Maddeburgo, conte della Romagna, e legato imperiale
di tutta la Lombardia. Ora, desiderando egli che v'intervenisse anche il
_re Arrigo_ suo figliuolo coi principi della Germania, pregò il
pontefice Gregorio d'interporre i suoi uffizii, affinchè le città
collegate di Lombardia non impedissero la venuta del figliuolo e dei
Tedeschi in Italia. Non lasciò il papa di scrivere per questo; ma sì
egli che i Lombardi, assai conoscendo il naturale finto ed ambizioso di
Federigo, e poco fidandosi di lui, seguitarono a star cogli occhi
aperti, e in buona guardia per tutti gli accidenti che potessero
occorrere.

A _Roberto_ imperador latino di Costantinopoli era succeduto _Baldovino_
suo figliuolo in età non per anche atta al governo. Veggendo i principi
latini di quell'imperio la necessità di avere un qualche valoroso
principe per loro capo da opporre alla potenza de' Greci[2944], che ogni
dì più cresceva, presero la risoluzion di dare in moglie al fanciullo
Augusto una figliuola di _Giovanni di Brenna_, già re di Gerusalemme,
con dichiarar lui vicario e governator dell'imperio, sua vita natural
durante. Gli diedero anche il titolo d'imperadore: il che si ricava
dalle lettere di papa Gregorio. Tutto lieto Giovanni per così
bell'ascendente, venne a Rieti ad abboccarsi col papa, e ad impetrar il
suo aiuto[2945]. Spedì anche a Venezia per aver tanti vascelli da condur
seco mille e dugento cavalli e cinquecento uomini d'armi. Preparato il
tutto, ed imbarcatosi, e ricuperate nel viaggio alcune provincie,
felicemente arrivò a Costantinopoli, dove, per attestato ancora del
Dandolo, fu coronato imperadore. Si provò in quest'anno un terribil
flagello di locuste in Puglia. Federigo, attentissimo a tutto, dopo
avere in questo medesimo anno pubblicate molte sue costituzioni pel buon
governo del suo regno, ordinò sotto varie pene che cadauno la mattina
prima della levata del sole dovesse prendere quattro tumoli di sì
perniciosi insetti, e consegnarli ai ministri del pubblico, che li
bruciassero: ripiego utilissimo, e da osservarsi in simili casi, non
ignoti a' giorni nostri. Passò nell'anno presente a miglior vita
_Antonio da Lisbona_ dell'ordine de' minori[2946], di cui abbiam parlato
di sopra. Tornato egli da Verona, si elesse per sua abitazione un luogo
deserto nella villa di Campo San Pietro, diocesi di Padova, con essersi
fabbricata una capannuccia sopra una noce, dove si pasceva della lettura
del vecchio e nuovo Testamento, con pensiero di scrivere molte cose
utili al popolo cristiano. Dio il chiamò a sè nel dì 13 di giugno, con
restare di lui un tal odore di santità, comprovata da molti miracoli,
che nell'anno seguente papa Gregorio IX, trovandosi nella città di
Spoleti, l'aggiunse al catalogo de' santi.

A proposito di Spoleti, non si dee ommettere che _Milone vescovo_ di
Beauvais, di cui s'è favellato di sopra, costituito governatore di quel
ducato dal papa[2947], non fu ricevuto da quel popolo. Il perchè raunato
un esercito, si portò a dare il guasto al distretto di Spoleti: il che
nondimeno a nulla giovò per far chinare il capo agli Spoletini.
Sommamente premeva ai Padovani[2948] e ad _Azzo VII_ marchese d'Este la
liberazione del conte Ricciardo da San Bonifazio, e degli amici
carcerati in Verona dalla parte ghibellina. Però fu spedito in Lombardia
Guiffredo, ossia Giuffredo da Lucino Piacentino podestà di Pavia, a
trattarne coi rettori della lega lombarda. Con tal occasione i Padovani
confermarono di nuovo essa lega. Ciò fatto, dall'un canto il popolo di
Padova col suo carroccio, e i Mantovani anch'essi col loro marciarono
sul territorio di Verona. Tra per questo movimento ostile, e per gli
efficaci uffizii dei rettori di Lombardia, finalmente s'indussero i
Ghibellini veronesi a mettere in libertà il conte Ricciardo cogli altri
prigioni: il che ottenuto, se ne tornarono gli eserciti alle loro città.
Cotanto ancora si maneggiarono i suddetti rettori, che nel dì 16 di
luglio seguì pace fra esso conte e i Montecchi suoi avversarii, nel
castello di San Bonifazio: pace nulladimeno simile all'altre di questi
tempi, cioè non diverse dalle tele de' ragni. Gli storici di
Milano[2949] scrivono, che volendo i Milanesi far vendetta della morte
del loro capitano Uberto da Ozino, inviarono l'esercito loro sotto il
comando di Ardighetto Marcellino a danni del marchese di Monferrato coi
rinforzi loro somministrati dalle città di Piacenza, Alessandria e
Novara. Formarono un ponte sul Po, presero il naviglio del marchese, e
le castella di Buzzala, Castiglione, Ostia, Ciriale e Civasso.
All'assedio di quest'ultima terra, colpito da una saetta il lor
capitano, terminò le sue imprese colla morte; e questo bastò perchè si
ritirasse a casa l'armata milanese. La venuta dell'imperador Federigo a
Ravenna, e l'aver chiamato in Italia il re Arrigo suo figliuolo
coll'armata tedesca, ingelosì sì fattamente i popoli collegati di
Lombardia, che, raunato un parlamento in Bologna, giudicarono maggior
sicurezza della lor libertà l'opporsegli, che il fidarsi delle di lui
parole. Ad istanza di Federigo, il sommo pontefice inviò dipoi per suoi
legati in Lombardia _Jacopo vescovo_ cardinale di Palestrina, e _Ottone
cardinale_ di San Nicolò in Carcere Tulliano, con incombenza di trattar
di pace. Non passò quest'anno senza disturbi civili in Piacenza[2950].
Ne fu cacciato Guiffredo da Pirovano Milanese lor podestà. Fu dipoi
concordato che la metà degli onori del governo si conferisse ai nobili,
e l'altra al popolo; il che fece rinvigorire gli antichi odii fra loro.
Abbiamo dai Continuatori di Caffaro[2951] che Federigo con sue lettere
fece intendere al comune di Genova la dieta generale del regno ch'egli
avea determinato di tenere per la festa d'Ognissanti in Ravenna, con
ordinare che vi mandassero i lor deputati. Si trovò l'imperadore prima
di novembre in quella città; ma restò differita sino al Natale la dieta
per cagione che i Lombardi non permettevano di passare in Italia ai
principi dello imperio. Vennero poi alcuni d'essi principi travestiti
par istrade non guardate, temendo dappertutto insidie da essi Lombardi.
Per attestato di Riccardo da San Germano, tenuta fu la dieta suddetta in
Ravenna con gran magnificenza; e la Cronichetta di Cremona ci fa sapere
che Federigo vi comparve colla corona in capo. In tal congiuntura fece
egli un giorno pubblicare un editto, comandando sotto rigorose pene che
niuna delle città fedeli al suo partito potesse prendere podestà dalle
città collegate contra di lui. Ebbero un bel dire i Genovesi di avere
eletto Pagano da Pietrasanta Milanese per loro podestà, nè poter essi
recedere dal giuramento prestato: nulla valsero le loro scuse e ragioni.
Tornati poscia a casa i deputati suddetti, vi fu gran dibattimento per
questo nel loro consiglio; ma infine vinse il partito di chi voleva quel
podestà per l'anno prossimo, e fu anche eseguito. Nè vo' lasciar di
riferire ciò che ha il Sigonio[2952], il quale l'avrà preso da qualche
vecchia storia. Cioè che Federigo diede un singolare spasso ai popoli in
Ravenna, coll'aver condotto seco un lionfante, dei leoni, de' leopardi,
de' cammelli, e degli uccelli stranieri, che, siccome cose rare in
Italia, furono lo stupore di tutti. Nulla di ciò ha il Rossi nella
Storia di Ravenna.

NOTE:

[2941] Raynald., in Annal. Eccles.

[2942] Cardin. de Aragon., in Vita Gregorii IX.

[2943] Raynaldus, in Annal. Eccles.

[2944] Dandul., in Chron., tom. 11 Rer. Ital.

[2945] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2946] Rolandin., Chron., lib. 3, cap. 5.

[2947] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2948] Roland, lib. 3, cap. 6. Paris de Cereta. Chron. Veron. Monachus
Patavinus, et alii.

[2949] Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 264. Annales
Mediolanenses, tom. 16, Rer. Ital.

[2950] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Italic.

[2951] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.

[2952] Sigon., de Regn. Ital., lib. 17.



    Anno di CRISTO MCCXXXII. Indizione V.

    GREGORIO IX papa 6.
    FEDERIGO II imperadore 13.


Nel gennaio dell'anno presente attese l'imperador _Federigo_ in Ravenna
a segreti maneggi per domare, se era possibile, le città lombarde
confederate contra di lui. Suoi intimi consiglieri furono Eccelino da
Romano e Salinguerra da Ferrara, capi de' Ghibellini; nè mancarono essi
di attizzarlo contra di _Azzo VII_ marchese d'Este, capo de' Guelfi, il
quale non si lasciò già vedere alla corte. Poi dopo la seconda domenica
di quaresima s'imbarcò esso Augusto per andare ad Aquileia[2953], e
quivi abboccarsi col re suo figliuolo, giacchè questi non s'era voluto
arrischiare a passar per la Valle di Trento, dove erano prese le Chiuse.
O fosse di sua spontanea volontà, oppure che qualche burrasca di mare
l'obbligasse a cangiar cammino, egli passò per Venezia, dove fu
magnificamente accolto, e concedè varie esenzioni nel regno di Puglia e
di Sicilia a quel popolo. Visitò la basilica di san Marco, e vi lasciò
dei superbi regali ornati d'oro e di pietre preziose. Un suo diploma
dato in Venezia nel marzo di quest'anno si legge nel Bollario Casinense.
Passò dipoi ad Aquileia, dove il _re Arrigo_ suo figliuolo venne a
trovarlo con alcuni principi di Germania. E quivi celebrò la santa
Pasqua. È da stupire come Ricobaldo storico ferrarese[2954], il quale
asserisce d'essere stato presente nell'anno 1293 in Padova alla
miracolosa guarigione di un muto nato, alla tomba di santo Antonio, e
però fiorì nel secolo presente, scrivesse che nel precedente anno
Federigo imprigionò esso suo figliuolo. Altrettanto s'ha dal Monaco
Padovano[2955] più antico di Ricobaldo. Noi vedremo che ciò succedette
solamente nell'anno 1235. Notano gli storici milanesi[2956] che i legati
già spediti dal papa per trattar della pace coi Lombardi andarono per
trovar Federigo in Ravenna. Egli, saputa la lor venuta, se n'andò a
Venezia. Colà si portarono anch'essi, ed egli, prima che arrivassero,
passò ad Aquileia. Perciò, credendosi burlati o sprezzati da lui, se ne
tornarono, senza far altro, al papa. Si trasferì dipoi Federigo circa la
festa dell'Ascensione per mare in Puglia, e nel cammino prese alcuni
corsari che infestavano l'Adriatico. Due cattive nuove gli giunsero in
quest'anno. L'una fu, che Giovanni da Baruto occupò in Soria
l'importante città d'Accon, ossia d'Acri, che era d'esso imperadore. Il
maresciallo Riccardo, lasciato ivi per governarla, andò contra di lui, e
restò sconfitto. L'altra fu, che nel mese d'agosto il popolo di Messina,
trovandosi angariato da Riccardo da Montenegro giustiziere per
l'imperadore, fece nel mese suddetto una sollevazion contra di lui; e
l'esempio di questa città servì per far tumultuare anche Siracusa,
Catania, Nicosia ed altre terre di Sicilia. Era duro sopra i popoli il
governo di Federigo; la voleva d'ordinario contro le loro borse, e per
poco si veniva al confisco. Di belle leggi andava egli pubblicando; ma
le sue gabelle, dazii, contribuzioni ed angherie faceano gridar tutti.
In quest'anno ancora i Romani, più che mai accaniti contro la città di
Viterbo, uscirono in campagna, e, dopo aver dato il guasto al paese, se
ne tornarono a casa. Ma venne fatto anche ai Viterbesi di prendere per
tradimento un castello appellato Vetorchiano, che era de' Romani; ed
avuto che l'ebbero, non tardarono a smantellarlo tutto. N'ebbero gran
rabbia i Romani; e siccome attribuivano al pontefice Gregorio la colpa
di tutto, come quegli che non voleva lasciar distruggere Viterbo; così,
mentre egli soggiornava in Rieti, mossero l'armi loro per fargli
dispetto, e giunsero sino a Montefortino, con disegno di assalire la
Campania romana ubbidiente ad esso papa. Per fermar questo loro
attentato, papa Gregorio spedì loro tre cardinali suoi deputati, che
conchiusero un accordo con esso popolo romano; e convenne sborsare una
buona somma di danaro, acciocchè se ne ritornasse a casa quell'armata sì
poco rispettosa al suo legittimo signore. Trattò in quest'anno il papa
di pace fra l'imperadore e le città collegate di Lombardia: al qual fine
queste ultime inviarono i loro agenti ad esso papa, mentre dimorava in
Anagni; ma nulla si dovette conchiudere, per le diffidenze che passavano
fra le parti.

Abbiamo da Parisio da Cereta, autore della Cronica antica di
Verona[2957], che nel dì 14 d'aprile Eccelino da Romano, soggiornando in
Verona, fece prigione Guido da Rho podestà di quella città, e i suoi
giudici con tutta la famiglia. Dopo di che mandò a prendere da Ostiglia
un uffiziale dell'imperador Federigo, che non mancò di portarsi a quella
città. Da lì a pochi giorni comparvero ancora colà il conte del Tirolo e
due altri conti con cento cinquanta uomini a cavallo e cento
balestrieri, che presero il possesso di Verona a nome dell'imperadore.
Ricuperarono poi il castello di Porto, e rifabbricarono quel di Rivalta.
Allora i Mantovani, amicissimi della parte del conte Ricciardo da San
Bonifazio, e di fazione guelfa, ripresero l'armi contra dei Veronesi, ed
usciti in campagna col loro carroccio, presero il castello di Nogarola,
bruciarono varie ville del distretto veronese, cioè Ponte Passero,
Fragnano, Isolalta, Poverano, l'isola della Scala, ed altre non poche. I
partigiani del conte abbandonarono Nogara, con darla alle fiamme.
Eccelino da Romano coi Veronesi, avendoli colti nella terra di Opeano,
li mise in rotta, e ne fece prigionieri non pochi. Poi circa il fine
d'ottobre i Mantovani diedero il sacco alla villa di Cereta. Dall'altra
parte i Padovani s'impadronirono di Bonadigo, e totalmente lo
distrussero. Altrettanto fecero alla villa della Tomba. Venne anche in
lor potere il castello di Rivalta. Temo io che questi fatti nella
Cronica di Parisio sieno fuori di sito, perchè somigliano quei che ho
narrato all'anno 1230; se non che dalle lettere dell'imperador Federigo
si sa che egli si lamentava, perchè quasi sotto i suoi occhi, mentre era
in Ravenna, le città lombarde aveano fatta oste contra de' suoi fedeli.
Seguita a scrivere Parisio che in quest'anno Azzo VII marchese d'Este, e
Ricciardo conte di San Bonifazio, portatisi in aiuto di Biachino e
Guezello da Camino, nel dì 27 di luglio attaccarono battaglia col popolo
di Trivigi, e il misero in rotta, con far molti prigioni, i quali furono
condotti nelle carceri del marchese a Rovigo. Allora si mosse Eccelino
con cento uomini d'armi e con cento balestrieri in soccorso de'
Trivisani; ma null'altro succedette dipoi. Presero in quest'anno i
Sanesi[2958], condotti da Gherardo Rangone da Modena lor podestà, nel dì
28 di ottobre la terra di Montepulciano, e ne disfecero tutte le mura e
fortezze. Era quel popolo collegato co' Fiorentini; per la qual cosa
essi Fiorentini andarono a oste sopra i Sanesi, con dare il guasto a
parte del loro territorio, e prendere a forza d'armi il castello di
Querciagrossa, i cui abitanti furono condotti nelle carceri di Firenze.
Avendo i Lucchesi[2959] assediata Barga insieme coi Fiorentini, ebbero
una spelazzata dai Pisani, Bargheggiani e Cattanei della Garfagnana.
Avvertito l'imperador Federigo che i Genovesi[2960], non ostante il
divieto lor fatto, aveano preso per lor podestà Pagano da Pietrasanta
Milanese, diede ordine che dovunque si trovassero persone e robe di
Genovesi, fossero prese: il che fu eseguito. Gran tumulto nacque per ciò
in Genova. Chi teneva per l'imperadore, e chi voleva che si entrasse
nella lega di Lombardia contra di lui. Ma Federigo, meglio pensando che
non gli tornava il conto a disgustare un popolo sì allora potente in
mare, dopo qualche tempo ordinò che tutto fosse loro restituito. Grave
danno in quest'anno recarono anche in Lombardia le locuste, che
divoravano tutte l'erbe delle campagne: flagello continuato anche ne'
due seguenti anni. Dalla Cronichetta di Cremona[2961] abbiamo che nel
popolo di quella città si rinvigorì la divisione, e fu guerra civile fra
loro. Andarono essi Cremonesi in servigio de' Bolognesi: a qual fine,
non so. Fecero anche oste contra de' Mantovani, bruciarono parecchi
luoghi di quel contado, e presero e distrussero il ponte che i Mantovani
tenevano sul Po. In Milano[2962] si crearono sette capitani, cadaun de'
quali comandava a mille soldati a cavallo, e giurarono tutti di
sostenere la lor libertà contra dell'imperadore, e piuttosto di morire
in campo che di fuggire. Mandò in quest'anno il sultano d'Egitto a
donare a Federigo Augusto un padiglione di mirabil lavoro[2963], il cui
valore si fece ascendere a più di venti mila marche d'argento. Vi si
vedeva con ammirabil artificio il corso del sole e della luna, co' suoi
determinati spazii, indicanti con sicurezza l'ore del giorno e della
notte. Fu esso risposto in Venosa nel tesoro regale. E Federigo poscia
nel dì 22 luglio ad un solenne convito invitò gli ambasciatori d'esso
sultano e del Vecchio della Montagna, principe de' popoli detti
Assassini. Teneva Federigo buona corrispondenza con costui; e voce
comune correva che uno de' sudditi d'esso Vecchio, per ordine del
medesimo imperadore, avesse nell'anno precedente tolto di vita _Lodovico
duca_ di Baviera, caduto in disgrazia d'esso Augusto.

NOTE:

[2953] Godefridus Monachus, in Chron. Dandul., in Chron., tom. 12 Rer.
Ital.

[2954] Richobald., in Pomar., tom. 9 Rer. Ital.

[2955] Monachus Patavinus, in Chron.

[2956] Annales Mediol. Gualvanus Flamma, in Manip. Flor. Richardus de S.
Germano, in Chron.

[2957] Chron. Veronense, tom. 8 Rer. Ital.

[2958] Chronic. Senense. Ricordano Malaspina, cap. 114 Giovanni Villani.

[2959] Ptolom. Lucensis, in Annal. brev.

[2960] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6.

[2961] Chronic. Cremonense, tom. 9 Rer. Italic.

[2962] Annales Mediolanens., tom. 16 Rer. Ital.

[2963] Godefridus Monachus, in Chron.



    Anno di CRISTO MCCXXXIII. Indizione VI.

    GREGORIO IX papa 7.
    FEDERIGO II imperadore 14.


Era sconvolta per interne sedizioni la città di Roma in questi tempi, e
molti occupavano le terre della Chiesa romana[2964]. Implorò papa
_Gregorio IX_ soccorso da _Federigo II_; ma egli, adducendo la non falsa
scusa di dover accorrere in Sicilia, dove gli si erano ribellate alcune
città, nulla accudì al bisogni del pontefice. Passò a questo fine in
Calabria[2965], dove ammassò un buon esercito, ed intanto ordinò che si
fortificassero il più possibile le fortezze di Trani, Bari, Napoli e
Brindisi. Volle Dio che nel mese di marzo i Romani, scorgendo essere
riposta la lor quiete e il maggiore lor bene nell'avere in Roma il sommo
pontefice, s'indussero a spedire il senatore con alcuni nobili ad
Anagni, dove facea allora la corte pontificia la sua residenza, per
pregare il santo padre di voler tornarsene a Roma. Non mancarono
cardinali che il dissuasero e contrariarono a sì fatta risoluzione; ma
egli intrepido volle venire, e fu accolto con dimostrazioni di molto
giubilo dal popolo romano. Allora fu ch'egli si accinse a calmar gli
odii dei Romani e Viterbesi: al qual fine spedì a Viterbo _Tommaso
cardinale_ per trattare di un'amichevol concordia. E questa infatti fu
da lì a qualche tempo stabilita. Intanto Federigo Augusto, passalo in
Sicilia con un vigoroso esercito, ridusse a' suoi voleri Messina, dove
alcuni degli autori della sollevazione pagarono il fio del loro misfatto
sulla forca, ed altri furono bruciati vivi. Catania, senza far
opposizione, tornò alla di lui ubbidienza. Fu assediato il castello di
Centoripi, e tuttochè, per la sua forte situazione in un dirupato monte
e per la bravura dei difensori, facesse lunga difesa, pure infine fu
obbligato alla resa. Da tal resistenza irritato Federigo, lo fece
atterrare da' fondamenti, e gli abitanti, passali in un altro sito,
fondarono a poco a poco una nuova città, a cui, per ordine
dell'imperadore, fu posto il nome d'Augusta. In Puglia finalmente il
castello di Introduco, dopo un penoso e lungo assedio, si arrese alle
sue armi. Bertoldo e Rinaldo appellato duca di Spoleti, che vi si erano
bravamente fin qui difesi, assicurali, uscirono fuori del regno. In
questo anno ancora tornò alle mani d'esso imperadore la città di Gaeta,
con restar privata delle vecchie sue esenzioni e del diritto di eleggere
i suoi consoli, avendovi Federigo messi i suoi uffiziali, e costituita
una dogana. Aveva egli promesso di ben trattare quel popolo, ma era
principe che mai non perdonava daddovero, e guai a chi avea fallato. Per
questo i Lombardi non s'indussero giammai a fidarsi di lui: gastigo ben
dovuto a quei principi che non san perdonare, nè mantener la parola.

Per la presa e distruzione di Montepulciano, fatta nell'anno addietro
dai Sanesi[2966], il comune di Firenze adirato forte fece in quest'anno
un grande sforzo affine di vendicarsene. Ricordano[2967] e Giovanni
Villani[2968] ciò riferiscono all'anno seguente; ma Riccardo da San
Germano[2969], la Cronica sanese e il Rinaldi[2970] ne parlano all'anno
presente. Ora i Fiorentini misero l'assedio a Siena, e in vergogna de'
Sanesi con un mangano gittarono entro la città un asino con altra
carogna. Tornali poscia a Firenze, nel dì 4 del mese di luglio rifecero
oste contra de' medesimi Sanesi; presero e disfecero Asciano, e
quarantatrè altre castella e ville di quel territorio, con gravissimo
danno d'essi Sanesi. Cagione fu ciò che, compassionando con paterno
affetto papa Gregorio lo stato infelice di Siena, s'interpose per la
pace, e a questo fine spedì a Firenze fra Giovanni da Vicenza
dell'ordine de' Predicatori, uomo eloquentissimo, ed insigne missionario
di questi tempi. Dimorava egli allora in Bologna, dove seguitato da
innumerabil copia di contadini e cittadini, colle fervorose sue prediche
fece infinite paci fra loro, moderò il lusso delle donne, con altri
mirabili effetti della parola di Dio. Andò questo buon servo di Dio a
Firenze; ma, per quanto facesse e dicesse, non potè smuovere quel comune
dall'ostinato suo proposito contra de' Sanesi. Per questo il papa
sottopose Firenze all'interdetto, e fece scomunicar i rettori di quella
città. Bolliva intanto, anzi ogni dì più andava crescendo la discordia
fra le città della marca di Verona. Se non v'ha difetto nella Cronica
veronese di Parisio da Cereta[2971], ancora in quest'anno i Mantovani
col loro carroccio, e coll'aiuto dei Milanesi, Bolognesi, Faentini e
Bresciani, cavalcarono contra de' Veronesi, e bruciarono e guastarono
molte lor ville, fra le altre Villafranca, Cona, Gussolengo,
Seccacampagna, Piovezano, Palazzuolo ed Isolalta; il che fatto, si
ridussero a casa. Ora colà ancora per ordine del sommo pontefice, e per
motivo eziandio di spontanea carità, si portò il suddetto buon servo di
Dio fra Giovanni da Vicenza. Tale era il concetto della sua virtù e
mirabil facondia, che il popolo di Padova[2972] gli andò incontro, nel
venire che egli faceva da Monselice, e, messolo sul carroccio, con gran
divozione e giubilo l'introdusse in città. Predicò egli quivi e per le
ville con indicibil concorso di gente; poscia se ne andò a Trivigi,
Feltre e Belluno, e quindi a Vicenza e Verona, dove Eccelino da Romano
coi Montecchi giurò di stare a quello che avesse ordinato il papa.
Trasferissi inoltre a Mantova, e Brescia, predicando da per tutto la
pace, facendo rimettere in libertà i prigioni, e correggendo a modo suo
gli statuti delle città. Il che fatto, intimò un giorno, in cui si
dovessero adunar tutte quelle città in un luogo determinato per far la
pace generale. Scelse egli una campagna presso all'Adige, quattro miglia
di sotto da Verona, e il giorno della festa di santo Agostino, cioè il
dì 28 di agosto. Fu uno spettacolo mirabile il vedere in quella giornata
comparire al sito prefisso i popoli di Verona, Mantova, Brescia,
Vicenza, Padova e Trivigi coi lor carrocci. Vi comparvero ancora il
patriarca di Aquileia, il marchese di Este, Eccelino e Alberico da
Romano, i signori da Camino, e una gran moltitudine d'altre città, cioè
di Feltre, Belluno, Bologna, Ferrara, Modena, Reggio e Parma, coi loro
vescovi, tutti senz'armi, e la maggior parte a piedi nudi in segno di
penitenza. Da tanti secoli non s'era veduta in un sol luogo d'Italia
unione di tanta gente. Secondo lo scandaglio di Parisio, vi furono più
di quattro cento mila persone. Frate Giovanni da un palco alto quasi
sessanta braccia predicò a questa smisurata udienza, udito da tutti, e
con esortar tutti a darsi il bacio di pace, e comandandolo anche a nome
di Dio e del romano pontefice. Il che fu prontamente eseguito; ed egli
appresso pubblicò la scomunica contra chiunque guastasse sì bell'opra;
anzi, per maggiormente assodarla, propose il matrimonio del principe
Rinaldo, figliuolo di _Azzo VII_ marchese d'Este, capo de' Guelfi, e
Adelaide figliuola di Alberico fratello di Eccelino da Romano, capo de'
Ghibellini: il che fu approvato e lodato da tutti. Lo strumento di
questa pace l'ho io pubblicato nelle mie Antichità Italiane.

Ma quanto durò questa concordia? Non più che cinque o sei giorni. Quel
che è più, andò anche per terra il concetto della di lui santità, ch'era
ben grande. Gherardo Maurisio scrive di aver co' suoi proprii orecchi
inteso predicare i frati minori nella cattedral di Vicenza, che fra
Giovanni avea risuscitato dieci morti. Non mancava gente che portava
odio a questo sacro banditor della parola di Dio e della pace, perchè
era inesorabile contro gli eretici. Nel mese di luglio n'avea fatto
bruciar vivi in tre giorni settanta nella piazza di Verona tra maschi e
femmine de' migliori cittadini di quella città. Altri poi cominciavano a
malignare sopra le di lui intenzioni, pretendendo che tutte le sue mire
fossero per abbassar la parte ghibellina, e che questo fosse un segreto
concerto della corte di Roma contra di Federigo II imperadore. Ma quello
che diede il crollo all'autorità e stima di fra Giovanni, fu ch'egli,
ito a Vicenza sua patria, si fece dare dal popolo un'assoluta padronanza
della città, tutta ad arbitrio suo: con che vi mise quegli uffiziali che
a lui piacquero, e corresse o mutò gli statuti della città, e ne formò
de' nuovi. Ito a Verona, anche ivi si fece eleggere signore della città;
volle ostaggi per sicurezza di sua persona; volle in sua mano il
castello di San Bonifazio, Ilasio, Ostiglia e le fortezze della città. I
Padovani, che facevano prima da padroni in Vicenza, corsero colà, e vi
accrebbero la lor guarnigione. Tornato frate Giovanni colà, e trovata
questa novità, volle far valere la sua autorità contra chi se gli
opponeva; ma in furia ritornarono a Vicenza i Padovani, e, dato di
piglio all'armi contra di lui e della sua fazione, infine presero lui
con tutta la sua famiglia, e il cacciarono in prigione nel dì 3 di
settembre. Rilasciato da lì a pochi giorni, se ne tornò a Verona, nè
trovò più ubbidienza, di modo che mise in libertà fra poco tempo gli
ostaggi, restituì al conte Ricciardo il castello di San Bonifazio, e
infine se ne tornò a Bologna, convinto dell'instabilità delle cose
umane, e pentito di avere oltrepassato i termini del sacro suo
ministero. Così ripullulò la discordia come prima fra quei popoli; anzi
parve che si scatenassero le furie per lacerar da lì innanzi tutta la
Lombardia. Il credito de' frati predicatori e minori era incredibile in
questi tempi per tutte le città. In alcune aveano anche parte ne'
governi. Però nell'anno presente desiderando i frati minori di metter
fine alle dissensioni vertenti fra i nobili e popolari di
Piacenza[2973], così efficacemente si maneggiarono, che le parti fecero
compromesso di tutte le lor differenze in fra Leone dell'ordine loro.
Questi diede da lì a poco il laudo, assegnando la metà degli onori della
repubblica agli uni, e l'altra metà agli altri, e col bacio della pace
ordinò che si confermasse la sentenza sua. Anche in Modena[2974], per le
prediche del buon servo di Dio fra Gherardo dell'ordine de' Minori, si
fecero moltissime paci fra il popolo della città. Ma febbri sì maligne
non si sradicavano punto con questi innocenti rimedii. Pochissimo durò
la calma in Piacenza, ed alteratisi di nuovo gli animi, la nobiltà si
ritirò alle sue castella; con che si riaccese la guerra. Predicando
nell'ottobre di quest'anno frate Orlando da Cremona dell'ordine de'
Predicatori nella piazza d'essa città di Piacenza, ecco una truppa di
eretici dar di piglio a sassi e spade, con ferire mortalmente esso
predicatore e un monaco di San Savino. Furono presi costoro ed inviati a
Roma. Anche in Milano[2975] quel podestà Oldrado da Lodi cominciò a far
bruciare gli eretici. Ne resta tuttavia la memoria in marmo nella piazza
del Broletto, ossia de' Mercatanti, leggendosi sotto l'effigie sua fra
l'altre parole ancor queste:

    _CATHAROS, VT DEBVIT, VXIT._

Andò anche a Parma[2976] il suddetto fra Gherardo da Modena, uomo di
santa vita, ed assaissima gente indusse alla pace, con emendare eziandio
gli statuti della città, e far assolvere tutti gli sbanditi. Colà
inoltre comparve fra Corneto dell'ordine de' Predicatori, che colla sua
pia eloquenza si tirava dietro tutto il popolo; e tanto i nobili che i
plebei, uomini e donne per divozione portavano terra affin di empiere
una borra, ossia luogo basso, dove si fermavano l'acque, presso alla
chiesa de' Predicatori. Tutto ciò serva a far conoscere i costumi di
questi tempi. Il Guichenon[2977] mette la morte di _Tommaso conte_ di
Savoia, principe di gran senno e valore, nel dì 20 di gennaio di
quest'anno. Io truovo nella Cronica di Alberico Monaco[2978] ch'egli
mancò di vita nell'anno precedente, benchè egli ne torni a parlare
all'anno 1234. Succedette a lui _Amedeo IV_ suo primogenito. Ho io
inoltre creduto che esso Guichenon prendesse abbaglio nel favellare
della prima moglie di _Azzo VII_ marchese di Este, la quale senza dubbio
figliuola fu di esso conte Tommaso, e madre della beata _Beatrice I_
d'Este[2979]. Ebbe questo principe quindici figliuoli, nove maschi e sei
femmine. L'una d'esse fu contessa di Provenza, e madre di Leonora regina
d'Inghilterra. Tra i figliuoli Amedeo fu vescovo di Morienna; Guglielmo
eletto vescovo di Valenza; Bonifazio eletto vescovo di Bellai, e poscia
arcivescovo di Cantorberì; e Filippo eletto arcivescovo di Lione.
Tommaso colle nozze di Giovanna contessa di Fiandra acquistò quel
principato, ma ne restò dipoi spogliato. I principi carichi di molti
figliuoli aveano allora gran cura d'incamminarli per la via
ecclesiastica, acciocchè venissero provveduti di nobili e lucrose
dignità in questa milizia.

NOTE:

[2964] Raynald., in Annal. Eccles.

[2965] Richardus de S. German., in Chron.

[2966] Chron. Senense, tom. 15 Rer. Ital.

[2967] Ricordanus Malaspina, in Chron.

[2968] Giovanni Villani.

[2969] Richardus de S. Germano.

[2970] Raynaldus, Annal. Ecclesiast.

[2971] Paris de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.

[2972] Roland., lib. 3, cap. 7. Gherardus Maurisius, Hist. Anton.,
Chron. Veronense.

[2973] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Italic.

[2974] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[2975] Gualvanus Flamma, in Manip. Flor. Corio, Istoria di Milano.

[2976] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[2977] Guichenon, Hist. de la Maison de Savoye, tom. 1.

[2978] Albericus Monachus Trium Fontium, in Chron.

[2979] Antichità Estensi, P. I, cap. 40.



    Anno di CRISTO MCCXXXIV. Indizione VII.

    GREGORIO IX papa 8.
    FEDERIGO II imperadore 15.


Non poche vessazioni ebbe in questo anno papa _Gregorio_ dal senato e
popolo romano[2980]. Tutto dì andavano questi cercando d'ampliare la
loro autorità in pregiudizio di quella del sommo pontefice, con occupare
i di lui diritti temporali, e stendere la mano anche agli spirituali,
imponendo aggravii agli ecclesiastici, e traendoli al loro foro. Fu
astretto di nuovo il pontefice a ritirarsi da Roma a Rieti[2981];
perlocchè, maggiormente saliti in orgoglio i Romani, spedirono nella
parte della Toscana suddita del papa e nella Sabina alcuni nobili per
farsi giurare fedeltà da que' popoli, ed esigerne i tributi. Tutti
questi sconcerti ebbero verisimilmente origine dall'implacabil loro odio
contra di Viterbo, che passò contra dello stesso papa, perchè il
vedevano contrario ai lor disegni di soggiogare quella città. Diedesi
pertanto il pontefice a procacciar que' mezzi che convenivano per
reprimere gl'irriverenti e ribelli Romani. Scrisse lettere per tutta la
cristianità a principi e vescovi per ottener soccorso di gente e di
danaro, e cominciò a raunar quante milizie egli poteva. Informato di
questi movimenti _Federigo_ imperadore[2982], venne in Puglia, e
all'improvviso nel mese di maggio comparve a Rieti a visitar papa
Gregorio, e ad offerirsi pronto al servigio e alla difesa sua; e gli
presentò anche il suo secondogenito _Corrado_, che seco avea condotto.
Gradì il pontefice l'esibizione, e concertò con lui le operazioni da
farsi. L'autore della Vita d'esso papa tratta da finzioni tutti questi
passi di Federigo. Io non entro a giudicar del cuore dei principi,
tuttochè assai persuaso che doppio fosse quel di Federigo. Solamente so
ch'egli col cardinal _Rinieri_ passò a Viterbo per animar quel popolo; e
che poscia, per consiglio del medesimo cardinale, intraprese l'assedio
di Respampano, castello ben guernito di gente e di viveri dai Romani,
che fece una gagliarda difesa. Vi stette sotto per lo spazio di due
mesi; e, veggendo che non v'era apparenza di poterlo nè espugnare nè
condur colle buone alla resa, nel settembre se ne tornò in Puglia. Tutto
ciò fu attribuito a tradimento e ad intelligenza coi Romani, i quali,
udita ch'ebbero la ritirata di Federigo, andarono a rinforzar di viveri
quella terra. Intanto papa Gregorio, che era passato a Perugia, avea
scritte lettere alle città della lega di Lombardia, affinchè non si
formalizzassero, nè s'ingelosissero della sua amicizia con Federigo,
perchè così portava il bisogno de' proprii affari senza pregiudizio dei
loro. Anzi le esortò a non impedir la calata di truppe tedesche, le
quali doveano venire in aiuto suo, consigliando ancora d'inviar deputati
per trattar di concordia coll'imperadore. Avvenne dipoi che i Romani,
portati dal loro mal talento, uscirono per andare, secondo il lor
costume, a dare il guasto al territorio di Viterbo. Erano restati al
servigio del papa molti Tedeschi dati dall'imperadore, amatori
dell'ecclesiastica libertà, e ben disposti alla difesa di quella città.
Godifredo Monaco[2983] scrive che l'imperadore _milites in civitate
Viterbio collocavit_; cosa che non fu osservata dal Rinaldi. Lo stesso
vien confermato da Matteo Paris[2984], il qual poi magnifica di troppo
la seguente battaglia e vittoria. Costoro, gente brava, avendo
incoraggito il popolo di Viterbo, arditamente uscirono contra de'
baldanzosi Romani, e diedero loro una buona lezione con isconfiggerli,
ucciderne e farne molti prigioni. Nè qui si fermò il corso della
vittoria. Passarono anche nella Sabina, e ridussero di nuovo quelle
terre all'ubbidienza del sommo pontefice. E pure niun merito di ciò ebbe
Federigo, e si continuò a gridare contra di lui. Mentre dimorava in
Rieti esso papa Gregorio[2985], canonizzò _san Domenico_, istitutore
dell'ordine de' Predicatori, nel dì 3 di luglio del presente anno.
Stando poscia in Perugia, con lettere circolari infiammò i principi e le
città della cristianità al soccorso di Terra santa, dove andava sempre
più peggiorando lo stato dei cristiani per le discordie di loro stessi.
Ne aveva dianzi trattato ancora coll'imperador Federigo, il quale mostrò
prontezza a quell'impresa.

Ma insorsero poi nuovi nuvoli che annientarono tutte le buone
disposizioni[2986]; imperocchè incominciò ad aversi in Italia sentore
che il _re Arrigo_, figliuolo dell'Augusto Federigo II, dimorante in
Germania, macchinava ribellione contra del padre. Godifredo Monaco
chiaramente lasciò scritto sotto quest'anno che[2987] _rex Heinricus
Lombardiae conventum quorumdam principium habuit, ubi a quibusdam
nefariis consilium accepit, ut se opponeret imperatori patri suo: quod
et fecit: Nam ex tunc coepit solicitare quoscumque potuit minis, prece,
et pretio, ut sibi assisterent contra patrem, et multos invenit_. Fra
quelli che entrarono in questa congiura, non si può mettere in dubbio
che non vi fossero i Milanesi colle città confederate contra di esso
Federigo, siccome tentati da esso re Arrigo; se pure da essi Milanesi
non venne la prima scintilla di questo fuoco. Certo dovettero
contribuire ad avviluppare l'incauto giovane colle lor promesse di farlo
re d'Italia; laonde egli tirò innanzi la tela, che andò poi a
strascinarlo nell'ultimo precipizio. Dagli Annali di Milano[2988], il
cui autore mostrò di averne veduto il documento, abbiamo che in
quest'anno Manfredi conte di Corte Nuova, podestà di Milano, con due
giudici, a nome del comune, _juraverunt fidelitatem Henrico regi
Romanorum filio Friderici Roglerii imperatoris. Et tunc facta est liga
fortis inter ipsum Henricum et Mediolanenses, ad petitionem papae contra
imperatorem patrem suum. Et promiserunt ei dare Mediolanenses coronam
ferream in Mediolano, quam patri suo dare numquam voluerunt_. Anche
Galvano Fiamma[2989], facendo menzione di questo fatto all'anno 1231,
cioè fuor di sito, scrive che _Henricus rex Alamanniae cum
Mediolanensibus composuit ad petitionem domini papae_. L'autore anonimo
della Vita di papa Gregorio IX con tante esagerazioni della perfidia di
Federigo contra del pontefice porgerebbe anch'egli motivo di sospettare
che esso Gregorio avesse tenuta mano a questo trattato. Ma l'indegnità
del fatto e la saviezza dello stesso pontefice abbastanza ci possono
persuadere la falsità di tal diceria. Oltre di che, se menomo indizio di
ciò avesse trovato l'imperadore, che doglianze, che schiamazzi non
avrebbe fatto? egli che sì spesso prorompeva in querele contra dei papi.
In fine, siccome diremo, il medesimo papa aiutò Federigo a smorzar
questo incendio. Il Monaco Padovano[2990] anche egli, con errore di
cronologia, raccontando all'anno 1231 che i Milanesi fecero lega col
suddetto re Arrigo contra di suo padre, soggiugne (e questo è più da
credere) che lo sconsigliato giovane tramò contra del padre, _ideo quia
videbatur, quod imperator plus eo puerum Conradum diligeret et foveret_.
Abbiamo dai suddetti storici milanesi[2991], che avendo l'imperadore
inviati in quest'anno a Cremona un lionfante, ed alcuni cammelli e
dromedarii in segno del suo amore, saputosi ciò dai Milanesi, Piacentini
e Bresciani, uscirono coll'esercito e coi lor carrocci in campagna fino
a Zenevolta. Ivi attaccata battaglia coi Cremonesi, li fecero dare alle
gambe. Secondo gli Annali di Modena[2992], questo fatto d'armi fu
grande, perchè in aiuto de' Cremonesi si trovarono i Parmigiani,
Reggiani, Pavesi e Modenesi. La Cronica di Parma[2993] ci assicura che
si combattè con gran vigore, ma senza vittoria d'alcuna delle parti; e
che nello stesso dì dopo il vespro si fece una tregua fra loro. Presero
anche i Milanesi nel mese di luglio i condottieri mandati
dall'imperadore con quelle bestie; ma le bestie scamparono, e
felicemente giunsero a Cremona. Fecesi anche in Milano una scelta de'
più bravi giovani, con appellar quella la Compagnia de' forti, ossia de'
gaiardi, che s'impegnò alla difesa del carroccio. Capo ne fu Arrigo da
Monza, soprannominato Mettefuogo, uomo di forza smisurata ed eccellente
in armi, il quale dicono che fu podestà in varie città, e senatore di
Roma.

Eransi collegati i popolari di Piacenza[2994] coi popolari cremonesi
contra de' loro nobili fuorusciti. Nel dì dell'Epifania il marchese
Pelavicino con cento cavalieri di Cremona e molti balestrieri, unito col
popolo piacentino, sconfisse i nobili suddetti, che, congiunti con quei
di borgo di Val di Taro, di Castello Arquato e di Fiorenzuola, vennero a
battaglia nel luogo di Gravago. Restarono prigionieri quarantacinque
uomini d'armi e circa ottanta fanti. Poscia nel mese di giugno il popolo
piacentino, assistito dal cremonese, si portò all'assedio del castello
di Rivalgario, ma senza potervi mettere il piede. Nell'ottobre seguente
si amicarono di nuovo i nobili piacentini coi popolari, e ritornarono in
città a goder la metà degli onori del pubblico. La Cronica Veronese di
Parisio[2995] nota che nel dì 24 di maggio i Bresciani e Mantovani coi
lor carrocci vennero contra de' Veronesi, e diedero alle fiamme Lebeto,
Ronco, Opeano, Bovo, la villa della Palude, l'isola Porcaria, Bodolono e
la maggior parte di Cereta. Nel dì primo di giugno se ne tornarono
trionfalmente per sì belle imprese a casa. Eccelino in quel mese, uscito
coll'esercito di Verona, s'impadronì del castello d'Albaredo, e volendo
andare a Cologna, trovato per istrada _Azzo VII_ marchese d'Este, che
gli veniva incontro coi suoi bene in armi, giudicò meglio di tornarsene
a Verona. Tornato poscia in campagna, riprese alcune castella; ma altre
ne tolse ai Veronesi Ricciardo conte di San Bonifacio unito co'
Mantovani. Secondo gli Annali di Modena[2996], in quest'anno i capitani,
ossia Cattanei del Frignano, lasciatisi guadagnare dal danaro, e
ribellatisi al comune di Modena, si diedero a quel di Bologna[2997]. Ed
ancorchè tregua ci fosse fra queste due città, stabilita per ordine del
papa, che dovea durare qualche anno ancora, i Bolognesi iniquamente la
ruppero, e venuti coll'esercito e col carroccio a San Cesario del
Modenese, diedero quella terra alle fiamme. Ceuta, posseduta da' Mori,
fu nell'anno presente assediata dai crocesignati spagnuoli; e perciocchè
i genovesi mercatanti[2998] tenevano in quella città molto avere, si
vide questa deformità, che, armate dieci delle maggiori e migliori lor
navi, furono in soccorso degl'infedeli. Il verno di questo anno fu de'
più orridi e rigidi che mai si provassero. Alcune croniche ne parlano
all'anno precedente; l'altre, alle quali io m'attengo col Sigonio, al
presente. Da Cremona sino a Venezia gelò sì forte il Po, che vi
camminavano sopra con sicurezza gli uomini e le carra. Pel freddo
morirono varie persone; si seccarono le viti, gli ulivi e le noci; venne
appresso la mortalità de' buoi e d'altri utili animali, con varii altri
malanni. In vece d'imparare da tanti flagelli, divennero più fieri nelle
lor discordie i popoli, e più ostinati nelle loro iniquità. Ottone da
Mandello Milanese, persona di gran credito in tutta Lombardia per la sua
prudenza e sperienza nell'armi, fu podestà di Padova[2999]. E perciocchè
i Trivisani con Alberico da Romano infestavano forte i signori di
Camino, cittadini e collegati di Padova, dopo avere il suddetto podestà
adoperate in vano preghiere e minaccie colla spedizione d'ambasciatori,
uscì con tutte le forze dei Padovani contra d'essi. Diede il guasto alle
campagne di Trivigi e delle terre dei fratelli da Romano, con arrivar
sino a Bassano, a Mussolneto, a San Zenone, a Romano, e con impadronirsi
della terra di Mestre, ma non già del castello. Si quietò così fiero
temporale per l'interposizione degli ambasciatori di Venezia e di varie
persone religiose, di maniera che tutti se ne tornarono alle lor case,
lasciando piagnere chi avea patito danno.

NOTE:

[2980] Cardin. de Aragon., in Vita Gregorii IX, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[2981] Raynald., Annal. Eccl.

[2982] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2983] Godefridus Monachus, in Chron.

[2984] Matth. Paris, Hist. Anglic.

[2985] Raynald., Annal. Eccles. Chron. Bononiens.

[2986] Richardus de S. Germano, in Chron.

[2987] Godefridus Monachus, in Chron.

[2988] Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital.

[2989] Gualvan. Flam., in Manip. Flor., cap. 264.

[2990] Monachus Patavinus, in Chron.

[2991] Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital.

[2992] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[2993] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[2994] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[2995] Paris, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.

[2996] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[2997] Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.

[2998] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom 6 Rer. Italic.

[2999] Roland., lib. 3, cap. 8.



    Anno di CRISTO MCCXXXV. Indiz. VIII.

    GREGORIO IX papa 9.
    FEDERIGO II imperadore 16.


Per provvedere alla ribellione del _re Arrigo_ suo figliuolo, imprese
l'imperador _Federigo_ in quest'anno il viaggio di Germania insieme col
suo secondogenito _Corrado_[3000]. Dopo Pasqua si mosse di Puglia
coll'accompagnamento di tre arcivescovi e d'altri nobili, ch'egli poi,
giunto a Fano, licenziò e lasciò ritornare alle lor contrade. Seco
portava lettere del sommo pontefice[3001], esortatrici della fedeltà a
lui dovuta, indirizzate ai vescovi e principi della Germania. A riserva
delle sue guardie, niuna soldatesca condusse egli seco, ben sapendo che
a chi ha danaro non manca gente, e che l'oro è il più potente strumento
per superar tutte le difficoltà. A questo fine egli andò ben provveduto
di tesoro nei suoi bauli. Nel mese di maggio, imbarcatosi a Rimini,
passò ad Aquileia, e di là continuò il cammino sino in Germania, dove
senza opposizione alcuna arrivò, e fu accolto con tutto onore dai
principi e popoli. Allora il giovane re Arrigo, al vedere che niuno
alzava un dito in suo favore, prese la risoluzione di andar a gittarsi
ai piedi del padre, e chiedergli misericordia. Tritemio, autore assai
lontano da quei tempi, scrive[3002] che si presentò a lui nel dì 2 di
luglio in Vormazia, e che Federigo, al mirarlo, ardente di sdegno,
comandò tosto che fosse cacciato in prigione; nè bastarono le preghiere
di quanti erano astanti ad ammollire l'implacabil suo cuore. Per lo
contrario da Godifredo Monaco di San Pantaleone, storico contemporaneo,
abbiamo[3003] che Arrigo, benchè convinto della congiura suddetta, pure
_in gratiam patris recipitur. Sed non persolvens, quae promiserat, nec
resignans castrum Drivels, quod habuit in sua potestate, jussu patris
est custodiae mancipatus_. Ch'egli ancora fosse rimesso in grazia del
padre, lo attestano le lettere di papa _Gregorio IX_ riferite dal
Rinaldi[3004]. Alcuni poscia per questo accusarono di crudeltà Federigo;
ed altri credettero ch'egli non si potesse esentare dall'assicurarsi di
un figliuolo, sì feroce anche dopo un così nero delitto, e che dava
indizii di voler essere un secondo Assalonne. Era vedovo l'imperador
Federigo. Conchiuse in questi tempi con dispensa pontificia il
matrimonio con _Isabella_ sorella di _Arrigo re_ d'Inghilterra. In
Vormazia con gran solennità furono celebrate le nozze. Nota il suddetto
Godifredo Monaco[3005] una particolarità degna di osservazione. Cioè che
_imperator suadet principibus, ne histrionibus dona solito more
prodigaliter effundant, judicans maximam dementiam, si quis bona sua
mimis vel histrionibus fatue largiatur_. Ho io trattato altrove di
questa ridicolosa usanza de' secoli barbari[3006]. Non si faceano nozze,
o altre feste grandiose di principi tanto in Italia che in Germania, e
probabilmente anche in altri paesi, che non vi concorressero le
centinaia di buffoni, giocolieri, commedianti, cantambanchi ed altri
simili inventori di giuochi e divertimenti della corte e del pubblico. I
regali che lor si faceano non solamente dal principe autor della festa,
ma dagli altri ancora che vi intervenivano, o di vesti o di danaro, o
altre cose di valore, erano immensi. Gli esempli presso gli scrittori
sono frequenti. E durò quest'uso od abuso anche nel secolo susseguente
1300. Federigo fece conoscere in tal congiuntura il saggio suo
discernimento col non volere scialacquar donativi in gente sì fatta,
siccome appunto avea praticato anche l'imperadore _Arrigo II_ nell'anno
1043, allorchè solennizzò le sue nozze con _Agnese_ figliuola di
_Guglielmo_ principe del Poitù. Tenne poscia Federigo[3007] una gran
dieta in Magonza, dove espose i reati del figliuolo, per giustificar la
propria condotta, e insieme per farlo conoscere indegno della corona.
Crebbe intanto il suo odio e sdegno contra de' Milanesi e degli altri
Lombardi, che sempre più andava egli scoprendo uniti e risoluti di
difendere la lor libertà contra il lui mal animo. Ora il pontefice, che
ben prevedeva in qual fiera guerra avesse a terminar questa discordia,
nell'anno presente ancora si affaticò per estinguerla, se era possibile;
e tanto più, perchè ne veniva frastornato il soccorso di Terra santa.
Scrisse ai Lombardi, affinchè spedissero i lor deputati a Perugia.
Scrisse a tutti i prelati che si trovavano alla corte in Germania,
incaricandoli di interporre i loro uffizii per indurre Federigo a far
compromesso di quelle differenze nel papa, padre comune. Ne fu contento
Federigo, ma prescrisse un corto tempo al laudo, cioè fino al prossimo
Natale del Signore.

Sotto il presente anno tanto Rolandino[3008] che il Monaco
Padovano[3009] parlano delle nozze di _Andrea II_ re di Ungheria con
Beatrice figliuola del defunto _Aldrovandino_ marchese d'Este; e
scrivono che essa con grandioso accompagnamento di nobili della marca
trivisana, e di _Guidotto vescovo_ di Mantova, fu inviata dal marchese
_Azzo VII_ suo zio paterno in Ungheria. Ma lo strumento dotale, dato da
me alla luce[3010], ce la fa conoscere già pervenuta nel maggio
dell'anno precedente ad Alba Reale. Andrea già avanzato in età, secondo
i conti di Alberico Monaco e d'altri, finì di vivere nell'anno presente,
con lasciar gravida la moglie. Allora fu che _Bela_, figliuolo d'esso re
di una precedente moglie, il quale di mal occhio avea veduto ammogliato
di nuovo il padre, sfogò l'odio suo contro la regina matrigna, e la
tenne come in prigione, pascendola del pane di dolore. Beatrice, donna
di gran coraggio e d'animo virile, capitati per buona ventura alla corte
di Ungheria gli ambasciatori dell'imperador Federigo, se l'intese con
loro, e travestita da uomo ebbe la fortuna di salvarsi, e di tornare in
Italia alla casa paterna[3011]. Partorì ella, non so se in Germania
oppure in Italia, un figliuolo appellato _Stefano_. Questi poi in età
competente prese per moglie una nipote di Pietro Traversara, potente
signore in Ravenna, che gli portò l'ampia eredità di quella nobil casa,
e passato poi per la morte d'essa alle seconde nozze con Tommasina de'
Morosini, nobile veneta, n'ebbe un figliuolo, appellato _Andrea III_, il
quale fu poi re d'Ungheria. Era in questi tempi anche la Romagna tutta
sossopra per la guerra che l'una all'altra si facevano quelle città.
Girolamo Rossi[3012] ne parla all'anno precedente. Nel presente abbiamo
da esso storico e dagli Annali di Cesena[3013] che i popoli di Ravenna,
Forlì, Bertinoro e Forlimpopoli ostilmente vennero a dare il guasto al
distretto di Cesena. Come se costoro se ne stessero a mietere il grano
nelle proprie campagne, niuna guardia faceano. Ma eccoti il popolo di
Cesena che armato e ben in ordine arriva loro addosso, ne fa molta
strage, e prende il fiore della nemica milizia, che fu condotto nelle
carceri di Cesena. Anche i Faentini coll'aiuto di due quartieri di
Bologna[3014] fecero una scorreria nel territorio di Forlì, con arrivar
sino alle porte di Forlimpopoli, lasciando quivi e poscia nel Ravegnano
funesti segni della lor nemicizia. Del pari i Bolognesi[3015]
continuarono la guerra co' Modenesi. Aveano già corrotti con danaro i
capitani del Frignano, i quali, ribellatisi a Modena, sottomisero al
dominio loro ventitrè castella di quelle montagne. Con grandi forze
ancora in quest'anno entrarono nelle pianure di Modena con giugnere fino
al fiume Secchia, e recar que' danni che erano allora in uso, e poi se
ne tornarono indietro. Siccome accennammo di sopra, pensando i
Modenesi[3016] d'innondar le campagne de' Bolognesi, fecero a Savignano
un taglio del fiume Scultenna, o sia Panaro, e ne rovesciarono l'acque
addosso al loro distretto; ma il Cronista di Parma[3017] scrive che
questa invenzione tornò piuttosto in utile d'essi Bolognesi. Nè lieve
dovette essere quell'impresa, perchè, per attestato della Cronica di
Reggio[3018], _iverunt Parmenses et Cremonenses, Placentini et
Pontremolenses in servitio Mutinae ad cavandum Scultennam super
Bononiam_. Assediarono anche i Modenesi il castello di Monzone, uno di
quelli che loro s'era ribellato nel Frignano, e vi presero dentro sei
capitani ribelli.

Per quanto scrive Galvano Fiamma[3019], i Cremonesi appresso Rivaruolo
presero ducento cavalieri bresciani nel mese di maggio; ma riuscì poi ai
Bresciani di farne prigionieri trecento altri de' Cremonesi. Jacopo
Malvezzi[3020], probabilmente descrivendo questi avvenimenti, solamente
ci fa sapere, secondo il rito degli storici parziali alla sua patria,
che i Bresciani, avendo raggiunti i Cremonesi al ponte d'Alfiano,
diedero loro una memorabil rotta, con uccisione d'innumerabili, e con
far prigionieri ottanta cavalieri e cinquecento fanti. Tornò in
quest'anno il popolo di Piacenza[3021] a cozzare coi nobili di tal
maniera, che essi furono forzati ad abbandonar la città. Ad essi nobili
ancora fu dai popolari tolta la terra di Fiorenzuola. Erano infievoliti
forte i Sanesi[3022], nè poteano tener forte contra la potenza de'
Fiorentini: il perchè dimandarono pace, e vi frappose anche i suoi
autorevoli uffizii, per commissione del papa, il vescovo di Palestrina.
Si conchiuse l'accordo, con restar obbligati i Sanesi[3023] a rifar le
mura di Montepulciano, e furono restituiti i prigioni. Studiossi
parimente il pontefice Gregorio di ridurre la concordia nella città di
Verona[3024]. Per questo inviò colà _Niccolò vescovo_ di Reggio e
_Tisone vescovo_ di Trivigi, di cui non truovo menzione presso
l'Ughelli. Corrisposero amendue all'espettazione del santo Padre,
coll'indurre nel dì 18 d'aprile le due fazioni contrarie, cioè la guelfa
del conte Ricciardo da San Bonifazio, e la ghibellina dei Montecchi, a
darsi il bacio di pace[3025], e a giurare di star ai comandamenti del
papa, a nome del quale misero ivi il podestà. Non piaceva un tale stato
di cose ad Eccelino da Romano, e però con lettere e messi[3026] andò
sollecitando l'imperador Federigo a calare in Italia con potente
esercito, promettendogli dal suo canto di gran cose. Fu eziandio creduto
ch'egli in persona si portasse alla città d'Augusta ad aggiugnere sproni
a chi già correva. Fu in quest'anno crudelmente ucciso nel monistero di
Santo Andrea, in un dì delle Rogazioni, _Guidotto_ da Correggio, vescovo
di Mantova, dalla famiglia degli Avvocati[3027]. Levossi per questo a
rumore tutto il popolo di Mantova, distrusse le lor case e torri, e gli
obbligò ad uscire di città. Si ridussero costoro a Verona da Eccelino,
rifugio di tutti gli scellerati.

NOTE:

[3000] Richardus de S. Germano, in Chron. Godefridus Monachus, in Chron.

[3001] Vita Gregorii IX, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[3002] Trithemius, Chron. Hirsaug.

[3003] Godefridus Monachus, in Chron. Alberic. Monachus, in Chron

[3004] Raynaldus, in Annal. Eccl.

[3005] Godefridus Monachus, in Chron.

[3006] Antiquit. Ital., Dissert. XXIX.

[3007] Otto Frisingensis, Chron., lib. 6, cap. 32.

[3008] Roland., lib. 3, cap. 9.

[3009] Monachus Patavinus, in Chron.

[3010] Antichità Estensi, P. I, cap. 41.

[3011] Richobaldus, in Pomario, tom. 9 Rer. Ital.

[3012] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.

[3013] Annales Caesen., tom. 14 Rer. Ital.

[3014] Matth. de Griffonibus, Memor. Histor., tom. 18 Rer. Ital.

[3015] Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.

[3016] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.

[3017] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3018] Memor. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.

[3019] Gualvaneus Flamma, in Manip. Flor., cap. 268.

[3020] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.

[3021] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[3022] Ricordan. Malaspina, cap. 122.

[3023] Annales Senenses, tom. 15 Rer. Ital.

[3024] Paris, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.

[3025] Gerard. Maurisius, Hist., tom. 8 Rer. Ital.

[3026] Rolandinus, lib. 3, cap. 9.

[3027] Monachus Patavinus, in Chron.



    Anno di CRISTO MCCXXXVI. Indiz. IX.

    GREGORIO IX papa 10.
    FEDERIGO II imperadore 17.


Nulla potè conchiudere papa Gregorio del progettato accomodamento delle
controversie vertenti fra l'imperador _Federigo_ e le città di
Lombardia, a cagione della strettezza del tempo a lui prefisso da esso
Augusto. Però si diede principio in quest'anno alle tragiche guerre e
rivoluzioni che per tanto tempo dappoi afflissero questo sconvolto
regno. Qual fosse allora il sistema d'Italia, conviene ora avvertirlo.
Non negavano già le città confederate di riconoscere anche esse la
superiorità ed autorità dell'imperadore; ma paventavano di molto un
imperador tale, quale fu Federigo II. Gelosissime della lor libertà, e
ricordevoli di quanto avesse operato Federigo I per abbatterla e
sradicarla, non sapeano indursi a credere di poter conservarla sotto
Federigo II, principe, la cui mente era grande, ma maggiore l'ambizione,
e che avea ereditato i vizii dell'avolo, ma non già le virtù. Sapeano
come egli scorticava i suoi sudditi di Sicilia e di Puglia; che il
perdonar di cuore a chi l'avea offeso, era cosa straniera nell'animo
suo; che egli prendeva le leggi del mantener la fede e parola, non mai
dall'onesto, ma solamente dall'utile o dalla necessità. Però, se gli
concedevano poco, temevano ch'egli vorrebbe poi tutto. Erano anche assai
persuasi che sì interessato e pieno d'ambiziosi e smisurati pensieri,
come era, altra mira non avesse che di ridurre l'Italia tutta sotto un
obbrobrioso giogo, e di mutar la Lombardia in una nuova Puglia. Di qui
venne che le città più forti, come Milano, Brescia, Mantova, Piacenza,
Bologna, Padova ed altre minori determinarono piuttosto di avventurar
tutto, che di sottomettersi a chi dall'essere di principe troppo
facilmente passava a quel di tiranno. Non mancavano altre città che
teneano per l'imperadore, come Cremona, Bergamo, Parma, Reggio, Modena
ed altre. Il principal motivo di questo attaccamento era il bisogno e la
speranza dell'aiuto di lui per mantenersi in libertà, dacchè le più
forti città vicine tutto dì si studiavano di assorbire i lor territorii,
e di assoggettarle ancora, se veniva lor fatto, al loro dominio. Che non
faceano i Bolognesi contra di Modena, i Piacentini contra di Parma, i
Milanesi e Bresciani contra di Cremona? Pavia umiliata dal popolo di
Milano stava allora col capo chino, mostrandosi ubbidiente ed unita coi
Milanesi, che le aveano date tante percosse; ma non sì tosto cessò la
paura del flagello, che, cavatasi la maschera, tornò anch'essa ad
abbracciare il partito di Cesare. Erano in egual pericolo, e forse in
peggiore stato, gli affari del sommo pontefice. Se riusciva a Federigo
di mettere il piede sul collo de' Lombardi, e di soggiogar tutta
l'Italia, che scampo restava a quella sacra corte contra di un principe,
il quale già avea fomentato le usurpazioni del senato e popolo romano in
pregiudizio della legittima ed inveterata autorità e sovranità dei papi?
Potevasi fondatamente temere, ch'egli ridurrebbe il papa a portare il
piviale di bambagina, stante la disordinata sua voglia di signoreggiare;
e vieppiù perch'egli era in concetto di fina politica, simulatore e
dissimulator mirabile, e, quel che è peggio, di poca, se non anche di
niuna, religione: del che, se è vero, sarà Iddio giudice un giorno.
Allorchè papa _Alessandro III_ tanta costanza mostrò contra di _Federigo
I_, a lui non mancava un forte appoggio alle spalle, cioè il re di
Sicilia e Puglia, della schiatta de' Normanni. Ora che Federigo II
possedeva ancora quegli Stati, se cadeva a terra l'opposizion de'
Lombardi, restava il romano pontefice Gregorio IX tra le forbici, ed
esposto alla discrezione ossia indiscrezione d'un imperadore che avrebbe
potuto tutto ciò che avesse voluto. Il perchè papa Gregorio riguardava
come suo grande interesse la lega di Lombardia, ben conoscendo che essa
sola potea tenere in briglia un Augusto, di cui non permettea la
prudenza che alcun si fidasse. All'incontro Federigo II odiava a morte
questa lega, benchè solennemente permessa ed approvata dall'avolo suo
Federigo I, considerandola come ingiuriosa a' suoi sovrani diritti, e
trattava da ribelli i Lombardi, declamando dappertutto, esigere il suo
decoro ch'egli passasse a domarli. E perciocchè il papa, spinto dal suo
zelo paterno, spediva in tutte le città, siccome abbiam veduto, i frati
predicatori e minori a predicar la pace e la concordia, tutto
interpretava fatto in danno suo, stante il praticarsi di far giurare i
popoli di ubbidire a quanto avesse loro comandato il papa. E
maggiormente si risentì egli per quello che avvenne in Piacenza
nell'anno presente[3028]. Non mancava in quella città il suo partito a
Federigo, sostenuto specialmente dalla nobiltà, di cui capo era
Guglielmo de Andito (oggidì quella nobil famiglia è chiamata de' Landi)
con Oberto Pelavicino (oggidì Pallavicino) marchese. Ma era tutta
sfasciata quella città per l'antica discordia di que' popolari con essi
nobili, la maggior parte de' quali fuoruscita facea guerra dalle sue
castella alla città. Trattossi in quest'anno di accordar queste fazioni,
e da amendue fu fatto compromesso in _Jacopo da Pecorara_ cardinale
della Chiesa romana, con esserne dipoi seguita un'amichevol unione, ed
aver egli dato per podestà a tutti Rinieri Zeno nobile veneziano.
_Exinde Placentini_, dice la Cronica, _imperatori fuerunt rebelles. Et
ipse potestas fecit destrui domos dicti domini Guilielmi de Andito, el
bannivit eum, et dominum Obertum Pelavicinum, et certos de populo, quia
tenebant cum imperatore contra Ecclesiam._ Lagnossi forte di
quest'operato dal legato pontificio l'imperador Federigo con papa
Gregorio, quasichè anch'egli si desse è divedere congiurato coi Lombardi
contra di lui. Ciò che gli rispondesse in tal proposito il papa, si può
leggere negli Annali ecclesiastici del Rinaldi[3029]. La conchiusione si
è, che ogni di più andavano crescendo le differenze del papa e di
Federigo, ed ognun lavorava di politica. Arrivò il pontefice a
comandargli[3030] che non movesse l'armi contra de' Lombardi, perchè non
era per anche spirata la tregua accordata per la spedizione di Terra
santa: il che fece maggiormente credere a Federigo che fra il pontefice
e i Lombardi vi fossero de' forti legami contra di lui; e perciò, senza
badare ad altro, determinò la sua venuta in Italia con una competente
armata di Tedeschi. Lasciò ordine[3031] al re di Boemia e al duca di
Baviera di far guerra a _Federigo duca_ d'Austria, incolpato di varii
delitti; ed essi il servirono bene. Aveva egli già spedito innanzi
cinquecento cavalli e cento balestrieri, con ordine di aspettarlo a
Verona, città che l'accorto Eccelino da Romano avea già ridotta
all'ubbidienza sua con iscacciarne il conte Ricciardo da San Bonifazio e
i suoi aderenti[3032]. Giunsero costoro nel dì 16 di maggio, e presero
la guardia di Verona a nome dell'imperadore, il quale nel precedente
gennaio aveva anche mandato in Italia il figliuolo _Arrigo_ ne'
ceppi[3033], con una buona scorta sotto il comando del marchese Lancia.
Questo infelice principe condotto in Puglia, e confinato nella rocca di
San Felice, e trasportato poscia a quella di Martorano, quivi nell'anno
1242, come s'ha da Riccardo da San Germano, e non già nel presente, come
scrisse il Monaco Padovano[3034], terminò fra gli affanni della carcere
i suoi giorni: del che mostrò Federigo pubblicamente un sommo dolore,
non so se vero o finto. Intanto il conte Ricciardo suddetto, scacciato
da Verona, si impossessò della forte rocca di Garda, colla morte del
presidio ivi posto da Eccelino. Per lo contrario, venne alle mani d'esso
Eccelino l'importante castello di Peschiera, e inoltre gli venne fatto
di espugnar quello di Bagolio. Finalmente nel dì 16 d'agosto arrivò
l'imperador Federigo a Verona con tre mila cavalli, accolto a braccia
aperte e con tutta riverenza dal suo fedel partigiano Eccelino e dai
Ghibellini Montecchi rettori della città. Andò poscia coll'esercito a
Vacaldo, e vi si fermò ben quindici giorni, concertando intanto le
imprese che doveano farsi[3035]. Passato poscia il Mincio, trovò i
Cremonesi, Parmigiani, Reggiani e Modenesi che colle lor milizie vennero
ad incontrarlo. Rinforzata che ebbe con tali aiuti la sua armata,
cominciò a scaricare i primi colpi del suo furore contra il distretto di
Mantova, mettendolo a ferro e a fuoco. Prese Marcheria, e dopo il sacco
la distrusse; ma poi, conoscendola sito importante pel passaggio del
fiume Oglio, ordinò che tosto si rifabbricasse, e la diede in guardia ai
Cremonesi. S'impadronì di Ponte Vico e d'altri luoghi, siccome ancora di
Mosio sul Bresciano, al qual territorio fece similmente quanto danno
potè. Anche il popolo di Gonzaga di qua dal Po si diede ai ministri
d'esso imperadore. Passò egli dipoi a Cremona per consolar quella città
tanto a sè fedele, e vi si fermò per alquanti giorni.

Secondo gli Annali di Milano[3036], ebbe disegno di passare anche a
Pavia, città che segretamente teneva per lui; ma usciti in campagna i
Milanesi gl'impedirono l'inoltrarsi. Certo è che vennero sino a
Montechiaro con tutte le lor forze, e furono quasi sull'orlo di
affrontarsi coll'esercito nemico di Federigo, ma infine giudicarono
meglio di star sulla difesa, che di azzardarsi alle offese[3037]. Che
Federigo venisse anche a Parma, s'ha dagli Annali vecchi di Modena. Era
per questo anno stato eletto podestà e rettore di Vicenza _Azzo VII_
marchese d'Este, il più appassionato di tutti per la parte guelfa e per
la lega di Lombardia[3038]. Mandò egli un bando che niuno osasse di
nominar l'imperadore, ed avendo esso Augusto inviati a Vicenza i suoi
messi con lettere, nè quelli nè queste volle ricevere. Avea il marchese,
prima che calasse Federigo in Italia, tentato col conte di San Bonifazio
di scacciar da Verona la parte di Eccelino; ma costui più accorto di
lui, siccome già accennai, prevenne il colpo, e spinse fuori di Verona
il conte coi suoi parziali. Ciò saputosi in Padova, Vicenza e Trivigi,
que' popoli in armi diedero un terribil guasto alle terre e ville di
Eccelino. Ora mentre l'imperadore dimorava in Cremona, minacciando i
Milanesi e Piacentini, non vollero star colle mani alla cintola il
marchese d'Este, i Padovani, Trivisani e Vicentini. Col maggior loro
sforzo, nel dì 3 di ottobre, che Rolandino[3039] osservò essere stato
giorno egiziaco, cioè di mal augurio, si portarono all'assedio di
Rivalta, castello dei Veronesi, con fare nello stesso tempo delle
scorrerie nel distretto di Verona, e guastare il paese[3040]. Eccelino
uscì in campagna con quella gente che potè raunare, e per quindici dì si
fermò nella villa della Tomba dall'altra parte dell'Adige, osservando i
nemici che poco profitto faceano sotto Rivalta, valorosamente difesa da
quel presidio. Tuttavia, veggendo il pericolo del castello, e crescer il
guasto del Veronese, scrisse all'imperador caldamente dimandando
soccorso. Allora Federigo, montato a cavallo, mosse la sua cavalleria
con una marcia sì sforzata, che in un dì e in una notte arrivò da
Cremona sin vicino al castello di San Bonifazio. Dato ivi un poco di
rinfresco alla gente e ai cavalli, sollecitamente continuò il suo
viaggio. L'avviso dell'improvvisa ed inaspettata venuta dell'imperadore
mise tale spavento negli assediatori di Rivalta, che se ne ritirarono in
fretta, con lasciar ivi parte delle tende e dell'equipaggio, e le
macchine da guerra. Lo esercito imperiale venendo per la più corta,
prima che arrivasse quel di Padova, giunse alle porte di Vicenza. Non
avendo voluto rendersi i Vicentini alla chiamata dell'imperadore, con
tal furore, e verisimilmente coll'aiuto di qualche traditore, la sua
gente co' Veronesi venne all'assalto: entrati per le mura, ed aperta una
porta, diedero immantinente un orrido sacco alla misera città,
commettendo, senza perdonare a sesso o grado, tutte quelle crudeltà ed
iniquità che in tali occasioni si possono facilmente immaginare.
Entrarono in Vicenza gli imperiali nella notte avanti la festa
dell'Ognisanti, e tutto il dì seguente si sfogò la lor rabbia, avarizia
e libidine nell'infelice città, a cui in fine diedero fuoco.

Considerando poi Federigo che male era anche per li suoi interessi il
perdere la popolazione di così nobil città, da lì a pochi giorni perdonò
a tutti, rilasciò ad ognuno il possesso de' loro stabili, con ordinare
ad Eccelino e al conte Gaboardo di Suevia, suo capitan generale, di
trattar bene il popolo di Vicenza. Risoluta la sua partenza, racconta
Antonio Godio[3041] che Federigo, il qual sempre seco menava una mano di
strologhi, e nulla facea senza il loro consiglio, diede ad indovinare ad
uno d'essi, per qual porta egli uscirebbe la seguente mane. Il furbo
strologo scrisse un biglietto, e sigillatolo pregò l'imperadore di non
aprirlo, se non dappoichè fosse uscito di città. La notte Federigo fece
rompere un pezzo del muro della città, e per quella breccia uscì dipoi.
Aperto il biglietto, vi trovò queste parole: _Il re uscirà per porta
nuova_. Non ci volle di più, perchè Federigo da lì innanzi si tenesse
ben caro questo grande indovino. Passò poi coi suoi armati esso
Augusto[3042] sul Padovano, facendo grave danno dovunque passava;
distrusse la terra di Carturio; ed arrivato sul Trevisano, si fermò
alquanti dì al luogo di Fontanella, sperando che Trivigi se gli
rendesse. Ma dentro v'era per podestà Pietro Tiepolo, nobile veneziano,
personaggio molto savio, che tenne in concordia il popolo, e
massimamente perchè i Padovani aveano inviati dugento cavalieri in aiuto
di quella città. Perciò defraudato delle sue speranze Federigo, dopo
aver licenziato Eccelino, e lasciata a lui e al conte Gaboardo la
maggior parte delle sue truppe, e la custodia di Verona e Vicenza,
seguitò frettolosamente il suo viaggio alla volta della Germania, o
perchè dubitava che vi si tramasse qualche congiura, di cui sempre
incolpava il papa, oppure unicamente per atterrare il duca d'Austria,
contra di cui fumava di sdegno. Nella vigilia del santo Natale di
quest'anno[3043] Ricciardo conte di San Bonifazio, che s'era ritirato a
Mantova, con quel popolo segretamente ito a Marcheria, ricuperò quella
terra, con uccidervi molti Cremonesi che vi erano di guarnigione, e
condurre il resto prigione a Mantova. I Padovani intanto, riflettendo
all'incendio che s'andava appressando alla loro città, tuttodì erano in
consiglio per cercarvi riparo, ma senza nulla conchiudere[3044].
Finalmente elessero sedici dei maggiori della città, con dar loro balìa
per prendere quegli spedienti che si credessero più proprii. Fecero
anche venire il marchese d'Este, al quale, perchè veniva considerato per
la maggiore e più nobile persona della marca trivisana, nel pieno
parlamento della città diedero il gonfalone, pregandolo di voler essere
lo scudo della marca in quelle pericolose contingenze. Secondo gli
Annali di Milano[3045], in quest'anno i Pavesi, animati dalla venuta e
dalle forze di Federigo Augusto, mettendosi sotto i piedi il giuramento
di fedeltà prestato ai Milanesi, si dichiararono aderenti
all'imperadore, nè solamente ricusarono di distruggere il ponte di
Ticino, ma uscirono ancora in armi contra dei Milanesi, i quali ben
presto li misero in fuga. Galvano Fiamma e il Corio nulla dicono di
questo. Abbiamo anche da Riccardo da San Germano[3046] che nell'anno
presente Pietro Frangipane in Roma, sostenendo il partito
dell'imperadore contra del papa e contra del senatore, commosse ad una
gran sedizione il popolo di quella città. E intanto moltiplicavano le
querele del pontefice e dell'imperadore, lamentandosi l'uno dell'altro,
come s'ha dagli Annali Ecclesiastici[3047]. Andarono ostilmente in
quest'anno i Faentini ad infestare il territorio di Ravenna fin cinque
miglia presso a quella città[3048]. Contra d'essi uscirono i Ravennati
con rinforzo di gente ricevuto da Rimini, Forlì, e Bertinoro, credendosi
d'ingoiare i nemici; ma ne riportarono una buona rotta, per cui restò
prigioniera la maggior parte de' Forlivesi.

NOTE:

[3028] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[3029] Raynald., in Annal. Eccles.

[3030] Cardin. de Aragon., in Vita Gregorii IX.

[3031] Godefrid. Monachus, in Chronico.

[3032] Annales Veronens., tom. 8 Rer. Ital.

[3033] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3034] Monac. Patavinus, in Chron.

[3035] Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital. Annal. Veteres
Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.

[3036] Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.

[3037] Mattheus Paris, Histor. Angl.

[3038] Gerard. Maurisius, Histor. Rolandinus, lib. 3, cap. 9. Monachus
Patavinus, in Chron. Godius, in Chron.

[3039] Roland., lib. 3, cap. 9.

[3040] Annales Veronens., tom. 8 Rer. Ital.

[3041] Antonius Godius, in Chron.

[3042] Roland., lib. 3, cap. 10.

[3043] Gualvan. Flam., in Manip. Flor., cap. 269. Memor. Potest.
Regiens., tom. 8 Rer. Ital.

[3044] Roland., lib. 3, cap. 11.

[3045] Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital.

[3046] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3047] Raynaldus, in Annal. Eccl.

[3048] Annal. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXXXVII. Indizione X.

    GREGORIO IX papa 11.
    FEDERIGO II imperadore 18.


Gli affanni di papa _Gregorio_ lievi non erano in questi tempi, non
tanto per li danni già inferiti alla Lombardia dall'imperador Federigo,
quanto per li maggiori che si conoscevano imminenti se continuava la
guerra[3049]. Più che mai dunque seguitò a trattar di concordia,
facendone istanze a Federigo, e ordinando alle città collegate d'inviare
a Mantova i loro plenipotenziarii, con isperanza che l'imperadore
darebbe luogo a qualche convenevole aggiustamento[3050]. Spedì esso
Augusto nel gennaio del presente anno alla corte pontificia il gran
mastro dell'ordine teutonico, e Pietro delle Vigne, famoso suo
cancelliere, e, in vece di mostrarsi inclinato ad accordo alcuno,
raccomandava al papa di prestargli aiuto e favore per domare i Lombardi
ribelli e ricettatori degli eretici[3051]. Trovavasi allora Federigo in
gran fasto ed auge di fortuna, perchè avea quasi ridotto agli estremi
_Federigo duca_ d'Austria (principe per altro degno di perdere tutto),
con avergli portate le chiavi i cittadini della nobil città di Vienna.
Gloriavasi pertanto di aver guadagnato all'imperio uno Stato che
fruttava ogni anno sessanta mila marche d'argento, cioè l'Austria e la
Stiria: vanti nondimeno che durarono ben poco, perchè tornato che fu
l'imperadore in Italia, il duca rialzò il capo, e giunse nell'anno
seguente a ricuperar tutto il perduto[3052]. Nella suddetta città di
Vienna fece Federigo eleggere in quest'anno re de' Romani _Corrado_ suo
secondogenito. L'atto d'essa elezione ci è stato conservato da frate
Francesco Pipino dell'ordine de' Predicatori[3053], da cui apparisce che
non per anche ai soli sette elettori era riserbato il diritto
dell'elezione. La città di Padova[3054] in questi tempi, priva di
consiglio e di coraggio, non sapeva a qual partito appigliarsi. I sedici
di Balìa, creati da quel consiglio, si scoprì che teneano segrete
corrispondenze con Eccelino da Romano. Accortosene il podestà, ordinò
bene che andassero a' confini a Venezia; ma eglino, senza passar colà,
si ribellarono al comune di Padova. Nel febbraio venne a quella città
per nuovo podestà Marino Badoero, che inviò tosto dugento cavalieri a
Carturio, perchè corse voce che Eccelino e il conte Gaboardo aveano mira
sopra Monselice[3055]. Non fu falsa la nuova. Arrivò l'armata imperiale
verso il fine di febbraio a Carturio, ed espugnato quel luogo, mise ne'
ferri tutta quella guarnigione (e v'erano ben cento nobili padovani), e
poscia, passata a Monselice, ebbe a man salva quella nobil terra. Allora
fu che Eccelino e il conte Gaboardo fecero venire a Monselice _Azzo VII_
marchese d'Este, per sapere s'egli voleva essere amico o nemico
dell'imperadore. Veggendo il marchese che niun capitale potea più farsi
di Padova, dove ogni di più s'aumentava il disordine, rispose che
sarebbe ai servigi dell'imperadore, purchè niuna angaria s'imponesse
alla sua gente nè a' suoi Stati. Ciò fatto, gl'imperiali conobbero
d'avere oramai in pugno la città di Padova. Nè andò fallita la loro
speranza. Trattarono coi loro corrispondenti padovani, e in fine tra per
la paura dell'armi cesaree, e pel desiderio di riavere i loro prigioni,
fu conchiuso in Padova di pacificamente ammettere gli uffiziali
dell'imperadore. Infatti nel dì 25 di febbraio Eccelino col conte
Gaboardo e con un corpo di truppe imperiali fece l'entrata in Padova, e
fu osservato che quando egli arrivò alla porta, diede un bacio ad essa:
il che dalla gente stolta fu interpretato in bene della città. Ne fu
preso il possesso a nome dell'imperadore: il che inteso dal comune di
Trivigi, si suggettò anche esso alle di lui arme vittoriose. Eccelino
intanto facea lo schivo in Padova, ma niuna determinazione del consiglio
valeva, se non veniva da lui approvata. Ricusò ancora l'uffizio di
podestà, contentandosi di quel che più importava, cioè d'aver ottenuto
da Federigo il vicariato della marca di Trivigi, ossia di Verona. E per
isbrigarsi anche del conte Gaboardo, il consigliò di passare in Germania
a ragguagliar l'imperadore di questi felici avvenimenti, fra' quali non
è da tacere che anche _Salinguerra_ sottomise in questo oppure nel
precedente anno a' voleri dell'imperadore la città di Ferrara[3056]. Nè
stette molto Eccelino a dar principio alla sua memorabil tirannia in
Padova, con richiedere ostaggi e mandar prigioni in Puglia ed altrove
coloro che gli erano sospetti, e ch'egli credeva amici del marchese
d'Este, trovando continuamente pretesti per accusar esso marchese, come
sprezzatore degli ordini dell'imperadore. Poi circa il principio di
luglio coll'esercito de' Padovanie Veronesi andò a mettere l'assedio al
castello di San Bonifazio, dove fece un gran guasto di case coi mangani
e coi trabucchi; ma senza poter far di più, perchè dentro v'era Leonisio
figliuolo del conte Ricciardo, a cui, benchè di tenera età, non mancò il
coraggio per una gagliarda difesa. Intanto i Lombardi s'erano
impadroniti del castello di Peschiera.

Passata la metà d'agosto, arrivò di nuovo in Italia l'imperador
Federigo, e fece incontanente dismettere l'assedio di San
Bonifazio[3057], por attendere a maggiori imprese, e specialmente perchè
cominciò ad intavolarsi un trattato del suddetto conte Ricciardo e de'
Mantovani con esso Augusto. Verso il fine d'agosto egli passò il fiume
Mincio[3058], e si accampò coll'esercito a Goito, avendo seco i
Padovani, Veronesi e Vicentini, due mila cavalli tedeschi e molti
Trentini. Quivi si fermò alquanti giorni per unire gli altri soccorsi
ch'egli aspettava. Fece venir di Puglia sette mila Saraceni arcieri.
Riccardo da San Germano[3059] ne conta dieci mila. I Reggiani e Modenesi
colle lor forze accorsero colà. Lo stesso fecero i Cremonesi
e i Parmigiani coi lor carrocci[3060]. Stando Federigo in
quell'accampamento, a' suoi piedi si presentarono gli ambasciatori di
Mantova, che si offerirono ai di lui servigi col conte Ricciardo da San
Bonifazio. Gli accolse egli con volto allegro, perdonò loro le passate
ingiurie ed offese, e confermò con suo diploma i privilegii e le
consuetudini della loro città. Anche il marchese Azzo Estense comparve
colà, e fu ben ricevuto da Federigo. Vi si portarono i cardinali legati
del papa per avere udienza da lui[3061]. Insuperbito Federigo per
l'acquisto di Mantova, neppur volle ascoltarli, di modo che se ne
tornarono assai scontenti di lui a Roma. Mossa dipoi la poderosa armata,
entrò nel territorio di Brescia, con dare il sacco e il guasto
dappertutto, e nel dì 7 di ottobre intraprese l'assedio della forte e
ricca terra di Montechiaro. L'aveano i Bresciani eletta per lor
antemurale; e però posto ivi un grosso e valoroso presidio, che si
difese finchè potè, ma finalmente nel dì 22 del suddetto mese fece
istanza di capitolare. Restò prigioniera tutta la guarnigione, e fu
inviata a Cremona; ma con grave biasimo di Federigo, perciocchè, per
attestato di Rolandino[3062] e di Jacopo Malvezzi[3063], avea loro
promessa la libertà, se rendevano la terra, e non osservò loro la fede.
Andò tutto l'infelice luogo a ruba, ed appresso fu consegnato alle
fiamme. Nel dì 2 di novembre vennero in potere di Federigo[3064] le
castella di Gambara, Gotolengo, Prà Alboino e Pavone; di queste ancora
fu fatto un falò. Passò dipoi Federigo coll'imperiale armata al castello
di Pontevico con disegno di portarsi di là dal fiume Oglio, ma ritrovò
l'esercito milanese[3065], rinforzato dagli Alessandrini, Vercellini e
Novaresi, accampato nell'opposta riva, e risoluto di contrastargli il
passaggio. In questo mentre i Bolognesi[3066], prevalendosi della
lontananza de' Modenesi che erano iti all'oste dell'imperadore,
occuparono Castel Leone, ossia Castiglione, fabbricato da essi Modenesi
in faccia a Castelfranco, e talmente lo distrussero, che appena oggidì
ne rimane vestigio. Nelle prigioni di Bologna furono condotti tutti i
soldati che quivi si trovarono. Presero anche il ponte di Navicello, e
fecero scorrerie per varie ville del Modenese. Per molti giorni stettero
le due armate dell'imperadore e de' Milanesi separate dal fiume Oglio,
l'una l'altra guardandosi[3067]. Ma o sia che per le pioggie e per gli
disagi della stagione i Milanesi fossero forzati a decampare; oppure che
prestassero fede ad una voce fatta spargere da Federigo, cioè che
tornasse indietro l'esercito cesareo, e veramente alcuni degli
ausiliarii erano stati licenziati dal campo; certo è ch'essi Milanesi si
misero in viaggio per tornarsene a casa. A questo avviso Federigo ebbe
maniera di passare il fiume colle sue milizie, e raggiunse nel dì 27 di
novembre a Corte Nuova l'esercito nemico, che con poca disciplina facea
viaggio, nè si aspettava d'avere da combattere[3068]. I primi ad
assalire l'oste milanese furono i Saraceni, ma ne restarono assaissimi
di essi estinti sul campo. Entrato in battaglia il nerbo dell'esercito
cesareo, ne seguì un asprissimo combattimento con grande strage dell'una
e dell'altra parte. Finalmente piegò e prese la fuga il popolo di
Milano; e allora fu che molte migliaia di essi rimasero prigioni.

Vi restò nondimeno da superare il corpo di battaglia che era alla
guardia del carroccio milanese, tutta gioventù forte ed animosa, che,
per quanto sforzo facessero gl'imperiali, tenne saldo il suo posto, e
rispinse sempre i nemici, finchè arrivò la notte che fece fine alla
battaglia. Gran gloria era, come ho già detto di sopra, il prendere il
carroccio ai nemici[3069]. Lo stesso Federigo conduceva anch'egli il
suo, ma sul dorso d'un elefante col gonfalone in mezzo, con quattro
bandiere negli angoli, ed alcuni Saraceni e cristiani ben armati in
esso. Dacchè non era riuscito a Federigo di conquistar quel carro
trionfale de' Milanesi, ansioso pur di questa gran lode, lasciò bensì
riposar nel tempo della notte la gente sua, ma senza che si spogliassero
dell'armatura, per essere pronti la seguente mane ad assalir di nuovo
gli ostinati difensori del carroccio. Trovò poi, fatto giorno, che i
Milanesi s'erano ritirati, lasciando il carroccio spogliato e sfasciato
fra la massa dell'altre carrette, giacchè le strade fangose non aveano
permesso loro di condurlo in salvo. Federigo, principe sommamente
vanaglorioso sparse per tutta Italia ed Oltramonti questa sua insigne
vittoria[3070], in cui, secondo i suoi conti, facili in tali casi ad
essere alterati, e certamente diversi da quei degli storici di Milano e
di Cesena, rimasero circa dieci mila Milanesi tra morti e prigioni. Fra
questi ultimi si contarono moltissimi nobili di Milano, Alessandria,
Novara e Vercelli; e specialmente Pietro Tiepolo, figliuolo del doge di
Venezia, che era allora podestà di Milano. Questi poi con altri nobili
condotto in Puglia, fu, per ordine di Federigo, fatto barbaramente e
pubblicamente impiccare sulla riva del mare[3071]: la quale onta ed
iniquità irritò sì fattamente il popolo di Venezia, che infine si
dichiarò apertamente contra di lui. Inoltre perchè passava ottima
intelligenza tra Federigo e il popolo romano, il quale anche nel
suddetto mese di novembre gli avea spedito degli ambasciatori, mandò
esso imperadore fino a Roma lo sguarnito carroccio preso ai Milanesi
coll'iscrizione in versi riportata da Ricobaldo[3072] e da altri,
acciocchè questo gran trofeo fosse collocato nel più augusto luogo
dell'Italia, cioè nel Campidoglio. E a' dì nostri s'è trovata anche
memoria di questo in Roma, siccome ho io dimostrato altrove[3073]. Passò
dipoi il vittorioso Federigo a Cremona, e di là a Lodi, città che venne
alla sua divozione, ed ivi celebrò il santo Natale. Godifredo
Monaco[3074] scrive che lo solennizzò in Pavia. Varie furono in
quest'anno le vicende di papa Gregorio IX[3075]. Duravano le differenze
d'esso pontefice col senato romano. Creato senatore Giovanni da Poli nel
mese di maggio, insorse una sedizione contro di lui, che maggiormente si
riaccese nel seguente luglio, talmente che fu deposto esso Giovanni, e
sostituito in suo luogo Giovanni di Cencio: per la qual cagione si venne
alle armi, e ne seguì molto sangue. Poscia nell'ottobre, essendo
prevaluta la fazione pontificia contro l'imperiale in Roma, papa
Gregorio fu, dopo lungo tempo di lontananza, richiamato. Con grande
onore si trovò accolto dai Romani; ma siccome nulla v'era di stabile in
tempi sì sconcertati, quando egli si credette in porto, si trovò,
siccome prima, in tempesta, perchè non tardò quel senato a fargli
provare di nuovi disgusti, massimamente col tenere aperta corrispondenza
coll'imperadore[3076]. Si aggiunse che il popolo di Viterbo, dianzi
sostenuto e colmato di favori dal papa, dacchè il vide amicato co'
Romani, cominciò a voltargli le spalle e ad occupare i diritti della
Chiesa. Nè volendo cedere alle ammonizioni, in fine obbligò il pontefice
a fulminar contro di loro le sacre censure. Erano antiche le ragioni
della Chiesa romana sopra la Sardegna. In quest'anno ancora i giudici, o
vogliam dire i regoli di Gallura, di Turri e d'Arborea, cioè di tre
parti di quell'isola, prestarono il giuramento di fedeltà al legato di
papa Gregorio IX: il che è da avvertire per quello che poscia
succedette. Gli atti di questo affare si leggono nelle mie Antichità
Italiane.

NOTE:

[3049] Raynaldus, in Annal. Eccl.

[3050] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3051] Godefridus Monachus, in Chron.

[3052] Chron. Augustan. apud Freherum.

[3053] Pipinus, Chron., tom. 9 Rer. Ital.

[3054] Roland., lib. 3, cap. 11.

[3055] Gerardus Maurisius, Hist., tom. 8 Rer. Italic.

[3056] Roland., lib. 4, cap. 3.

[3057] Annales Veronens., tom 8 Rer. Ital. Memorial. Potest. Regiens.,
tom. eodem.

[3058] Roland, lib. 4, cap. 4.

[3059] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3060] Annal. Veronens., tono. 8 Rer. Ital. Chron. Placent., tom. 9 Rer.
Ital.

[3061] Richardus de S. Germano, in Chron. Card. de Aragon., in Vita
Gregorii IX, P. I, tom. 3 Rer. Italic.

[3062] Roland., lib. 4, cap. 4.

[3063] Malvec., Chron. Brixian., cap. 125, tom. 14 Rer. Ital.

[3064] Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.

[3065] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.

[3066] Chron. Bononiens. tom. 18 Rer. Ital.

[3067] Annales Mediolanenses, tom. 16 Rer. Ital. Gualv. Flamma, in
Manipul. Flor. Godefridus Monachus, in Chron.

[3068] Matth. Paris., Hist. Anglic.

[3069] Memor. Potest. Regiens.

[3070] Matth. Paris. Richardus de S. Germano, in Chron.

[3071] Annal. Veronenses, tom. 8 Rer. Italic.

[3072] Richobald., in Pomar., tom. 9 Rer. Ital.

[3073] Antiq. Ital., Dissert. XXVI.

[3074] Godefridus Monachus, in Chron.

[3075] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3076] Raynald., in Annal. Eccl.



    Anno di CRISTO MCCXXXVIII. Indiz. XI.

    GREGORIO IX papa 12.
    FEDERIGO II imperadore 19.


O per la festa del Natale dell'anno precedente, o nel gennaio presente,
_Federigo_ imperadore fu in Pavia. Servì la vicinanza sua ad indurre il
popolo di Vercelli a sottomettersi al di lui dominio[3077]. Trovossi
egli in essa città di Vercelli nel dì 11 di febbraio. Venne anche alla
divozione di lui tutto il paese da Pavia sino a Susa, e cominciò a
pagargli tributo. Da tanta prosperità di Federigo mossi i Milanesi, che
oramai restavano coi soli Bresciani, Piacentini e Bolognesi esposti
all'ira di lui[3078], gli spedirono ambasciatori per essere rimessi in
sua grazia, offerendo fedeltà e denaro, e facendo altre esibizioni,
quali si giudicarono più grate a lui. Trovaronlo inesorabile; li voleva
a discrezione, nè volle intendere di condizione alcuna, pieno solo
d'astio e di vendetta, e dimentico affatto della clemenza, una delle
virtù più luminose de' principi saggi. Vedremo bene che Dio seppe
abbassare e confondere quest'orgoglioso principe, nè lasciò impunita
cotanta sua superbia. Il popolo di Milano, udite sì crude risposte, ben
conoscendo di che fosse capace l'animo barbarico di un tale Augusto,
allora determinò di morir piuttosto colla spada alla mano, che di
mettersi nelle forze, cioè nelle prigioni e sotto le mannaie di questo
da lor chiamato tiranno. Inoltre, per attestato di Matteo Paris, cagione
fu questo suo fiero contegno che molti popoli cominciarono a guardarlo
di mal occhio, e a sospirar la sua rovina. Fece dipoi Federigo[3079]
nella primavera una scappata in Germania, per trarre di là in Italia un
buon rinforzo di soldatesche, ed ordinò al _re Corrado_ suo figliuolo di
condurle in persona di qua da' monti. Tornossene di poi a Verona nel
mese d'aprile. Ebbe egli, siccome principe libidinoso e poco timoroso di
Dio, in uso di tener sempre alla maniera turchesca più concubine, senza
curar punto la fede maritale, e però non mancavano a lui bastardi e
bastarde. Una di queste appellata Selvaggia[3080] comparve nel presente
anno nel dì 22 di maggio a Verona con bella comitiva. Per maggiormente
assodare nel suo servigio Eccelino da Romano, sì zelante e profittevol
ministro suo, glie la diede in moglie nel dì della Pentecoste, ed egli
ne celebrò con gran pompa le nozze. Ebbe ancora Federigo fra gli altri
bastardi suoi figliuoli uno, a sè molto caro, che portava il nome
d'_Arrigo_, ma che è già conosciuto nella storia con quello d'_Enzio_.
Gli cercò egli in questo anno buona fortuna, con procurargli in moglie
_Adelasia_, ossia _Adelaide_, erede in Sardegna dei due giudicati, o
vogliam dire principati di Turri e Gallura[3081]. Forse la Sardegna
venne per tali nozze a poco a poco tutta in potere di lui. Fuor di
dubbio è ch'egli ne fu creato re dal padre, il quale unì quel regno
all'imperio, con gravissimi richiami nondimeno della corte romana, che
lo pretendeva suo, sostenendo Federigo in contrario, ch'era di antico
diritto del romano imperio, ed allegando l'obbligo suo di ricuperare il
perduto. Non cessava egli intanto di ammassar gente per l'accesa voglia
di soggiogar Milano e Brescia. Molti ne fece venir di Puglia. Il re
Corrado suo figliuolo nel mese di luglio[3082] arrivò a Verona con molti
principi e un fiorito esercito di Tedeschi. Fino il re d'Inghilterra suo
cognato gl'inviò[3083] cento uomini a cavallo, tutti ben montati e
guerniti, e, quel ch'è più, colla giunta di una gran somma di danaro in
dono. I Reggiani[3084] vi spedirono ducento cavalieri e mille fanti. I
Cremonesi con tutte le lor forze, i Bergamaschi, i Pavesi ed altri
popoli concorsero ad ingrossar la cesarea armata. Era già egli passato a
Goito nel dì 28 di giugno, per quivi far la massa di tutta la
gente[3085]. Determinò poscia col consiglio d'Eccelino, giacchè gli
restavano due ossi duri, cioè Milano e Brescia, di sbrigarsi da quello
che era creduto più facile, cioè da Brescia, per la cui caduta veniva
poi Milano a restar bloccato da tutte le parti. E perciò mosse
l'esercito alla volta di Brescia, saccheggiando e ardendo dovunque
arrivava, e nel dì 3 d'agosto strinse d'assedio quella città.

Fra i popoli d'Italia portarono sempre mai i Bresciani il vanto d'essere
uomini di gran valore e costanza, e questa volta ancora ne diedero un
illustre saggio. Trattavasi dell'ultimo eccidio della lor patria e di sè
stessi; però, dopo aver dianzi ben provveduta la città del bisognevole,
senza far caso d'oste sì sterminata, si accinsero animosamente alla
difesa, risoluti, se così avesse portato il caso, di vendere almeno caro
le loro vite. Fece Federigo mettere in esercizio contra della città
tutte le macchine allora usate per espugnar fortezze, cioè torri di
legno, mangani, manganelle, trabucchi ed altre specie di petriere. Ma di
queste ancora non penuriavano i Bresciani. Per buona ventura aveano essi
colto un ingegnere spagnuolo, uomo di gran perizia in fabbricar macchine
da guerra, che veniva di Alemagna al servigio dell'imperadore. Scoperto
il suo mestiere, ed intimatagli la morte, se non soccorreva esattamente
ai bisogni della città, servì loro di tutto punto. Non ignorando
Federigo l'esecrabil trovato dell'avolo suo Federigo I all'assedio di
Crema, anche egli, fatti venir da Cremona i prigioni bresciani, di mano
in mano lifacea legare davanti alle sue macchine, affinchè gli
assediati, per pietà de' lor cittadini e parenti, non osassero di tirar
contra di quelle per romperle. Non restarono per questo i Bresciani di
far giocare le lor macchine, nulla badando se uccidevano i propri
attinenti, purchè spezzassero le macchine nemiche, od ammazzassero chi
le maneggiava. Nondimeno la Cronica di Reggio[3086], cioè più antica
della Bresciana del Malvezzi, ci assicura che niun male fecero a quei
miseri lor concittadini; anzi, per rendere la pariglia all'imperadore,
anch'essi attaccavano pe' piedi i prigioni cesarei fuori del palancato,
esponendogli ai colpi delle macchine tedesche. Nè lasciavano i
coraggiosi Bresciani di dare di quando in quando delle sortite con grave
danno del campo imperiale. Massimamente nella notte del dì 9 d'ottobre,
allorchè men se l'aspettavano i Tedeschi, s'inoltrarono tanto ferendo ed
uccidendo, che lo stesso imperadore corse pericolo di restar preso. Durò
questo assedio due mesi e sei giorni. Scorgendo finalmente Federigo
ch'egli gittava il tempo e le fatiche, dopo aver dato il fuoco a tutte
le sue macchine, si ritirò coll'armata a Cremona: avvenimento, che,
quanto fu di gloria al popolo bresciano, altrettanto riuscì di vergogna
all'imperadore, il cui credito cominciò a calare per questo. Secondo le
Croniche di Milano[3087], si fecero nel presente anno i Milanesi rendere
conto dai Pavesi della fede rotta con darsi all'imperadore. Uscirono con
grandi forze addosso al territorio, guastando e bruciando; di maniera
che il comune di Pavia implorò misericordia, e tornò a giurar fedeltà a
quel di Milano. Non ci resta alcuna storia antica di Pavia che possa
assicurarci di questo fatto. Nè ciò s'accorda con quello che fra poco
dirò. Rivolsero poscia i Milanesi i loro sdegni e l'armi contra al
distretto di Bergamo, dove diedero un terribil guasto. Non lasciarono di
recar quel soccorso che poterono a Brescia. Anche i Piacentini[3088]
inviarono mille de' lor cavalieri in aiuto de' Milanesi, e nel distretto
di Lodi presero il castello d'Orio, che appresso fu distrutto. Quivi
succedette una battaglia svantaggiosa ad esso popolo di Piacenza. Forse
è quella che viene accennata da Alberico Monaco[3089], con dire che
Guglielmo eletto vescovo di Valenza, e poi di Liegi, trovandosi di
presidio in Cremona per parte dell'imperadore, co' suoi Borgognoni diede
una sconfitta ai Piacentini, con ucciderne molti, e farne prigioni più
di mille. In questo medesimo anno, se pure non fu nel seguente, i Pavesi
colle lor milizie, e con quelle di Vercelli, Novara, Tortona ed Asti, e
col marchese Lancia, vennero per terra ed acqua al Ponte Nuovo,
fabbricato da' Piacentini, per distruggerlo; nel qual tempo anche i
Cremonesi co' Bergamaschi si portarono a Lodi, affine, credo io,
d'impedire il passo ai Milanesi. Per quanto sforzo facessero que'
collegati contra d'esso ponte, avendo anche spinto barche incendiarie
alla volta d'esso, a nulla servì, perciocchè i Piacentini con altre
barche presero que' brulotti, e ne schivarono il danno: sicchè colle
mani vote se ne tornarono i lor nemici a casa. Eransi già accorti i
Padovani[3090] che il lupo era venuto alla guardia delle pecore.
Eccelino ogni dì facea delle novità, imprigionando or questo or quello,
e principalmente gli amici di _Azzo VII_, marchese d'Este. Perciò tutti
i buoni cominciarono a spronar lo stesso marchese che volesse torre di
mano ad Eccelino quella città, promettendo di dargli l'entrata per la
porta delle Torreselle. Al marchese non fu discaro l'avviso, trovandosi
anch'egli maltrattato nei suoi Stati da Eccelino.

Fatto dunque segretamente il preparamento convenevole di gente tanto dei
suoi sudditi, quanto dei fuorusciti Padovani, e degli altri suoi amici,
nel dì 13 di luglio (Rolandino, forse persuaso di queste inezie, avverte
che era giorno egiziaco) all'improvviso arrivò al Prato della valle ne'
borghi di Padova, credendo che gli sarebbe, secondo il concerto, aperta
la porta. Gran rumore tosto si alzò nella città alla di lui comparsa;
tutte le porte furono chiuse, ed Eccelino comandò che tutto il popolo
fosse in armi. Intanto le milizie estensi faceano ogni sforzo per
atterrar la porta delle Torreselle; ma più possa mostravano que' di
dentro a difenderla. Avvisato il marchese da alcuni, che occultamente
uscirono di città, qualmente fallita la speranza di corrispondenti nella
città, meglio era il retrocedere, e che in essa si dava campana a
martello contra di lui, non volle muoversi, e seguitò ad animare la
gente all'assalto. Intanto Eccelino co' suoi Tedeschi e col popolo
armato venne fuori della città ad assalire i nemici. Non vi fu bisogno
di menar le mani. La gente del marchese, senza poterla ritenere, diede
tosto alle gambe. Beato chi le avea migliori. Altro partito allora non
seppe prendere il marchese, che di raccomandarsi al suo cavallo, il
quale bravamente il cavò fuori di pericolo. Molti vi restarono presi, e
fra gli altri Jacopo da Carrara, uno de' principali fuorusciti di
Padova. Se volle liberarsi, gli convenne cedere il suo castello di
Carrara al comune di Padova, ossia ad Eccelino, e riacquistò la sua
grazia. Imparò da questa mala condotta, oppure disgrazia, il marchese di
Este ad andare più cauto in avvenire. Ma Eccelino, tornato trionfalmente
in Padova, ebbe il contento di udire da lì innanzi la gente, chi per
timore, chi per adulazione, trattar lui col nome di signore. Per
vendicarsi poi del marchese, raunò l'esercito, volendo procedere contra
la nobil terra d'Este. Avvertitone dagli amici, esso marchese si ritirò
alla sua terra di Rovigo, lasciando tutto in pianti il popolo d'Este.
Venne poi Eccelino nel dì 22 di luglio. Se gli arrendè pacificamente la
terra senza che ne patissero gli abitanti. Da lì ad alquanti giorni
anche la rocca ossia il castello capitolò, e quivi pose in guarnigione
un corpo di Saraceni e di Padovani. Colla speranza d'avere a sì buon
mercato anche Montagnana, terra del marchese, di non minor popolazione
che quella di alcune città, passò colà coll'armata, e vi chiamò anche la
milizia di Verona, in cui più confidava che in altri. Virilmente si
difesero quegli abitanti, e gli bruciarono anche di bel mezzo giorno il
Bilfredo, cioè una torre di legno fatta fabbricare da lui. Sotto v'era
egli stesso in quel punto; ma, avvertito, scampò. Gli convenne dunque
levar l'assedio; e natogli sospetto che Jacopo da Carrara e l'avvocato
di Padova avessero tenuta intelligenza co' nemici, ordinò loro di
presentarsi al podestà di Padova: il che allegramente risposero amendue
di fare. Ma dacchè si videro in libertà, fuggirono ad Anguillara, che
tuttavia teneva la parte del marchese, ed era di Jacopino Pappa-fava,
figliuolo di Albertino da Carrara, cioè d'un fratello d'esso Jacopo. Nel
mese poi d'agosto il marchese Azzo, tornato ad Este, ricuperò quella
terra, ma non già il castello. Ed Eccelino scrisse contra di lui
all'imperadore, esortandolo a menar le sue forze addosso a questo
principe suo gran nemico, con aggiugnere[3091]: _Feriendus est serpens
in capite, ut corpus facilius devincatur_. La risposta di Federigo, data
nel dì 21 di dicembre dell'anno presente, vien riferita da Rolandino. In
essa egli si maraviglia, come avendo il _marchese Azzo_ (da noi chiamato
il Sesto) a' suoi tempi tanto operato in aiuto suo, di maniera che si
potè nominar suo balio ed aio, ora il di lui figliuolo _Azzo_ degeneri
sì sconciamente dalle azioni del padre, con promettere poi ad Eccelino
la sua venula in quelle parti verso il fine del gennaio seguente.
Ribellaronsi in questo anno ai Genovesi[3092] i popoli di Savona,
Albenga, Porto Maurizio e Ventimiglia; e però convenne far guerra contra
di loro. Comparvero a Genova due ambasciatori dell'imperador Federigo,
che fecero istanza del giuramento di fedeltà. La risposta de' Genovesi
fu che invierebbono alla corte d'esso Augusto i loro ambasciatori,
siccome fecero in effetto, dappoichè videro ritornata Ventimiglia in
loro potere. Prestato che questi ebbero il giuramento di fedeltà a
Federigo, se ne tornarono a casa. Quando ecco sopraggiunsero a Genova
due altri ambasciatori del medesimo Augusto, che presentarono lettere
contenenti, come l'imperadore chiedeva giuramento di _fedeltà_ e di
_dominio_. Furono esse lette in un pieno parlamento del popolo, in cui
gran rumore fu fatto all'udir quella parola _dominio_. Il podestà che
era Paolo da Soresina, nobile milanese, prese il tempo, e spiegò con
bolla descrizione gli aspri trattamenti (e diceva ben la verità) che
faceva Federigo dei suoi sudditi in Sicilia e Puglia, e degli altri
luoghi dov'egli comandava. Di più non occorse. Gli ambasciatori furono
mandati in pace, e i Genovesi intavolarono tosto un trattato con papa
_Gregorio IX_ e coi Veneziani contra dell'imperadore, che fu senza gran
fatica conchiuso nella corte pontificia. Allora il pontefice prese sotto
la sua protezione Venezia e Genova. Faenza fu occupata nel dì 5 di
luglio in quest'anno da Acarisio[3093]. A lui dopo un mese fu ritolta da
Paolo Traversara potente Ravennate. Ma venula l'armata de' Bolognesi
cacciò lui fuori con istrage non lieve de' suoi, e difese anche la
medesima città contro gli sforzi del conte Aghinolfo di Modigliana, con
farlo prigione, e mettere in fuga quei del suo partito. Ciò accadde
nell'anno seguente, secondo altre Croniche. Scrive il Sigonio[3094],
avere Federigo imperadore, nello stesso tempo che assediò Brescia, con
un'altra parte della sua grande armata fatto l'assedio d'Alessandria, e
che questa venne in suo potere. Non ne truovo io parola ne' vecchi
storici, anzi veggo in contrario una lettera di papa Gregorio[3095]
scritta nel 1240, nel dì 10 di maggio, agli Alessandrini, coi quali si
rallegra della lor costanza nella divozion verso la Chiesa contro gli
attentati di Federigo. Ma nello stesso 1240, siccome vedremo, si
suggellarono poi ad esso imperadore.

NOTE:

[3077] Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.

[3078] Matth. Paris, Hist. Angl. Monach. Patavin., in Chron.

[3079] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3080] Annales Veronens., tom. 8 Rer. Ital.

[3081] Raynaldus, in Annal. Eccles.

[3082] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3083] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3084] Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.

[3085] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.

[3086] Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.

[3087] Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Gualvaneus Flamma, in
Manip. Flor.

[3088] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[3089] Alberic. Monachus, in Chron.

[3090] Roland., lib. 4, cap. 5. Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.

[3091] Roland., lib. 4, cap. 7.

[3092] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.

[3093] Chron. Caesen., tom. 14 Re. Ital.

[3094] Sigonius, de Regno Ital., lib. 18.

[3095] Raynald., in Annal. Eccles., num. 20 ad ann. 1240.



    Anno di CRISTO MCCXXXIX. Indizione XII.

    GREGORIO IX papa 13.
    FEDERIGO II imperadore 20.


Crescevano di dì in dì i motivi per li quali era papa _Gregorio_
scontento dell'imperador _Federigo_. Gli spedì egli più lettere ed
ambasciate, affinchè si correggesse[3096]; il citò ancora; ma vedendo
che le parole, preghiere e minaccie erano gettate al vento, rotta la
pazienza, venne finalmente ai fatti. O la continuazion della guerra
ch'egli faceva ai Lombardi, per la conservazion de' quali era forte
impegnato il papa, ovvero l'occupazion della Sardegna, pretesa dalla
Chiesa romana come incontrastabil suo diritto, oppure i segreti maneggi
di lui per incitare i Romani alla ribellione contra di esso papa
legittimo lor sovrano, furono, a mio credere, gl'impulsi più efficaci
perchè il pontefice Gregorio fulminasse pubblicamente nel dì delle Palme
la scomunica contra di Federigo II, ed assolvesse i sudditi di lui dal
giuramento di fedeltà. Altri non pochi reati d'esso imperadore vengono
espressi nella bolla di essa scomunica, che si legge nella Storia di
Matteo Paris[3097], e presso il Rinaldi ed altri autori. Confermò dipoi
papa Gregorio nel Laterano queste censure nel giovedì santo seguente, nè
lasciò indietro cosa alcuna per iscreditare e rendere odioso Federigo
con tacciarlo insino di pubblico ateista. Diede nelle smanie
l'imperadore all'avviso di tal novità; e, fatto stendere da Pietro delle
Vigne un manifesto in sua giustificazione, lo spedì a tutte le corti
della cristianità, con dolersi acerbamente del papa, e caricarlo di
varie ingiustizie, ch'egli pretendea fatte a sè stesso e ad altri. Passò
a fiere minaccie contra del medesimo e de' cardinali, con altre scene e
querele descritte dal Rinaldi negli Annali Ecclesiastici, e più
diffusamente rapportate da Matteo Paris. Scacciò poscia dal regno di
Sicilia e di Puglia i frati predicatori e minori non nativi del paese;
occupò l'insigne monistero di Monte Casino[3098]; richiamò da Roma tutti
i suoi sudditi; impose nuove taglie e contribuzioni agli ecclesiastici:
tutto per far onta e dispetto al pontefice, e tutto in varii tempi
dell'anno presente. _Lodovico IX_ re di Francia, che fu poi santo, per
attestato di Alberico Monaco[3099], inviò i suoi ambasciatori a Roma per
mitigar l'animo del papa verso di Federigo; ma il pontefice, uomo di
petto forte, nulla si mosse per questo. E neppur volle ascoltare due
vescovi inviati a Roma da Federigo. Anzi fece predicar la crociata
contra di lui. Vegniamo allo storico Rolandino[3100], da cui abbiamo gli
andamenti d'esso Federigo Augusto. Portossi egli sul fine di gennaio con
sontuoso accompagnamento di milizie e di nobiltà a Padova. L'incontro
magnifico fattogli da tutto il popolo di quella città gli fu cagione di
non poco piacere e insieme di maraviglia. Circa due mesi si fermò egli
nell'insigne monistero di Santa Giustina, ben corteggiato da Eccelino,
divertendosi alla caccia e in far buone passeggiate. Seco era
l'imperadrice, che amava piuttosto d'esser chiamata regina. Portossi
anche alla visita di Monselice, e vi ordinò alcune fortificazioni.
Stando nell'alto di quel monte vagheggiò più volte il bell'aspetto delle
terre e castella del marchese di Este, sparse per la ricca sottoposta
pianura, e conobbe la di lui potenza. Fece anche venir lo stesso
marchese con salvo condotto alla corte, e tenne con lui un segreto
colloquio. Era ben contento il popolo di Padova del buon volto e delle
carezze dell'imperadore, e dappertutto si mirava allegrezza, e
massimamente nel dì di Pasqua, in cui Federigo comparve colla corona in
capo. Ma fra pochi giorni così bel sereno si cambiò in un melanconico
nuvolo, perchè giunsero le nuove ch'egli era stato scomunicato dal papa.
Fece ben Federigo in un gran parlamento esporre da Pietro delle Vigne,
uomo dottissimo in questi tempi, le ragioni per le quali teneva per
ingiuste e nulle quelle censure: tuttavia nel popolo restò non poco di
confusione, e in lui cominciarono a crescere e a lacerarlo le diffidenze
e i sospetti. Perciò, fatto venire a Padova Azzo marchese d'Este con
tutti coloro che aderivano al di lui partito, gli affidò; e intanto
l'iniquo Eccelino mise delle spie per sapere chi dei Padovani trattava
col marchese, e tutti i lor nomi ebbe in iscritto. Di frequenti segreti
consigli si faceano in Santa Giustina. Non bastò a Federigo d'aver messe
guardie in tutte le castella d'esso marchese; volle anche per ostaggio
il principe Rinaldo di lui figliuolo, e con belle parole il mandò a
stare in Puglia insieme con Adelasia figliuola di Alberico da Romano,
con cui _Rinaldo_ avea contratto gli sponsali. Per non poter di meno, il
marchese accomodò la sua pazienza a queste avanie, che si stesero
appresso ad assaissimi nobili de' principali di Padova suoi amici, i
quali chi ad un luogo, chi ad un altro furono mandati a' confini:
consigli tutti del maligno Eccelino, nemico dichiarato del marchese.

Ma poco stette Federigo, la cui fortuna già si scopriva retrograda, a
provar gli effetti della sua politica troppo tirannica. Era egli dianzi
stato a Trivigi, ben accolto ed onorato da quel popolo. Alberico da
Romano, fratello d'Eccelino, irritato contra di lui pel cattivo
trattamento da lui fatto a sua figliuola Adelasia, e a Rinaldo Estense
suo genero, subito che intese come l'imperadore s'era messo in cammino
verso la Lombardia, unitosi con Biachino e Guezzelo da Camino, occupò la
città di Trivigi, con farvi prigioni tutti gli ufiziali e soldati
postivi dall'imperadore, a riserva di Jacopo da Morra Pugliese podestà,
che ebbe la buona sorte di fuggirsene. Probabilmente Alberico non fece
un passo sì ardito senza consiglio ed intelligenza de' vicini Veneziani.
A questo avviso, Federigo, battendo i denti se ne tornò a Padova, e
tosto ordinò un grande esercito contra di Trivigi. Nel mese di maggio,
dopo aver fatto prendere l'oroscopo a mastro Teodoro suo strologo sulla
torre del comune di Padova, mosse l'armata, e andò ad accamparsi intorno
a Castelfranco, dove citò i Trivisani a rendersi nel termine di otto
giorni. Passato il tempo prefisso senza che venissero a' suoi piedi,
fece una donazione al comune di Padova della città di Trivigi con un
privilegio munito di un bel sigillone d'oro. In quello stesso giorno
andando il marchese d'Este Azzo VII al campo con cento cavalieri, si
incontrò in Eccelino, che con circa venti de' suoi veniva a Cittadella.
Portavano amendue l'aquila nelle loro bandiere. Vi fu chi crede che
quivi avesse a succedere qualche scena fra questi due rivali. Ma avendo
il marchese mandato innanzi a pregar cortesemente Eccelino di ritirarsi
alla diritta o alla sinistra, egli si ritirò, e non ne fu altro. Essendo
poi accaduto nel dì 3 di giugno una grande ecclissi del sole, che durò
per due ore, Federigo, benchè ne sapesse la cagione, pure se ne mostrò
turbato, e determinò di ritirarsi da Castelfranco per andare in
Lombardia; e dopo aver tenuto un colloquio col marchese d'Este, con
Eccelino ed altri de' principali della marca trivisana, si mise in
viaggio co' suoi Tedeschi e Pugliesi, de' quali maggiormente si fidava.
Allorchè pervenne nelle vicinanze del castello di San Bonifazio, dicono
che il marchese fu avvertito con cenni da un cortigiano dell'imperadore,
amico suo, come si trattava di fargli tagliare il capo. Bastò questo al
marchese perchè co' suoi aderenti si mettesse in salvo nel suddetto
castello, e quantunque Federigo gli spedisse Pietro dalle Vigne per
affidarlo con mille belle promesse, il marchese non si sentì più voglia
di dimorar presso d'un principe che punto non si piccava di mantener la
parola, e tanto più perchè prevaleva nel suo consiglio il furbo e nemico
suo Eccelino. Passato che fu lo imperadore in Lombardia[3101], il
marchese d'Este, messa la sua speranza in Dio, e raunato un buon
esercito, coraggiosamente nel mese d'agosto andò ad Este. Ricuperò la
terra senza fatica; quella rocca e il castello di Baone a forza di armi;
quello di Lucio colla fame; l'altro di Calaone col terror de' trabucchi.
Assediò dipoi Cerro, dove era un presidio di Saraceni; venne Eccelino
per soccorrerlo, ma non si attentò; e però tornò alle mani del marchese,
il quale non permise che fosse fatto insulto alcuno a quegli infedeli.
Queste sue prosperità tornarono in danno di molti Padovani suoi amici, o
creduti tali, perchè Eccelino crudelmente li levò dal mondo.

Nel luglio dell'anno presente tolta fu Ravenna all'imperadore da Paolo
Traversara[3102] coll'aiuto de' Bolognesi e Veneziani, che poi la
rinforzarono[3103]. Per questa cagione l'imperador Federigo col re
_Enzio_ suo figliuolo naturale venne verso il Bolognese, ed imprese coi
Modenesi, Reggiani, Parmigiani e Cremonesi l'assedio del castello di
Piumazzo, intorno a cui consumò gran tempo. L'ebbe infine per forza, e
lo distrusse col fuoco, facendovi prigioni cinquecento persone. Di là
passò ad assediar Crevalcuore, e avutolo con grande stento, del pari lo
atterrò. Il vedere un sì glorioso imperadore perdersi dietro a tali
bicocche[3104], e l'impadronirsene anche con somma difficoltà, gli
accrebbe il discredito; e massimamente perchè nello stesso tempo i
Bolognesi[3105] vennero fin vicino a Modena, e vi bruciarono il borgo di
San Pietro. Presero anche i Modenesi[3106] il castello di Marano di
Campiglio, e Monte Tortore nel Frignano. Dopo sì segnalate imprese
Federigo, che tenea delle segrete corrispondenze con molti nobili
milanesi[3107], rivolse l'armi sue a quella volta. Passò per Merignano,
Landriano e Bascapè sino alla Pieve di Locate[3108], saccheggiando e
bruciando il paese. Fu disputa in Milano, se si avea da uscire in
campagna, oppur da aspettare in città il nemico. Ma prevalse il parere
di Gregorio da Montelungo legato pontificio, che fece armare anche
cherici e frati; e però venne l'esercito milanese a postarsi a
Camporgnano contra di quello di Federigo. Una parte de' nobili passò nel
campo dell'imperadore; altrettanto fecero i Comaschi. Ciò non ostante,
se s'ha da credere a Galvano dalla Fiamma, l'armata milanese stette a
fronte del nemico, rovesciò varie acque addosso al campo imperiale, ed
anche in un combattimento prese il carroccio de' Cremonesi, e mise quel
popolo e i Pavesi in rotta. I Piacentini anch'essi dal canto loro
respinsero gli sforzi dei cesarei. Chiaritosi Federigo che non facea
buon vento in quelle parti, se ne venne in Toscana[3109]; fu ben
ricevuto dai Lucchesi, e in Pisa celebrò la festa del santo Natale.
Aveva egli spedito il figliuolo _Arrigo_, ossia _Enzo re_ di Sardegna
nella Marca d'Ancona, acciocchè incominciasse a far guerra al
papa[3110]. Non tardò egli a farvi delle conquiste nel mese d'ottobre.
Contra di lui ebbe ordine _Giovanni dalla Colonna_ cardinale di portarsi
colla gente che potè adunare. E il pontefice Gregorio IX, dacchè fu
ritornato a Roma dalla villeggiatura d'Anagni, ben ricevuto dal popolo,
dopo aver nell'ottava di san Martino confermata la scomunica contra di
Federigo, alla medesima censura sottomise il suddetto re Enzo con tutti
i suoi aderenti per l'invasione fatta nella marca anconitana, spettante
alla Chiesa romana. Dappoichè l'imperador Federigo[3111] si fu ritirato
dal distretto di Bologna, quel popolo con tutte le sue forze si portò
all'assedio di Vignola, forte castello del distretto di Modena; e già
con briccole, mangani, gatti ed altre militari macchine aveano atterrata
buona parte del muro; quando nel dì 4 d'ottobre sopraggiunsero i
Modenesi, Ferraresi e Parmigiani con Simone conte di Chieti Pugliese, e
diedero battaglia. Fu sanguinosa e dura, ma infine voltarono le spalle i
Bolognesi, ed, oltre ad assaissimi o morti o annegati nel fiume
Scultenna, ne restarono, secondo la Cronica di Parma[3112], circa due
mila e secento prigioni. Minor numero si legge ne' vecchi Annali di
Modena. Strinsero in quest'anno i Veneziani[3113] una forte lega con
papa Gregorio ad oggetto di torre, se veniva lor fatto, la Sicilia a
Federigo, con obbligarsi al mantenimento di una buona squadra di galee.
Non solamente per l'indegna morte del figliuolo del doge Tiepolo erano
disgustati i Veneziani dell'imperadore, ma eziandio perchè avea tolte
loro quattordici galee, e quattro navi cariche di merci e di frumento,
che venivano dalla Puglia nella marca d'Ancona. O per guadagnare, o per
tener più unito al suo partito Bonifazio marchese di Monferrato,
Federigo Augusto gli fece una cessione di molte sue ragioni e
pretensioni, e gli confermò alcune castella con diploma dato nel campo
presso Pizzighettone nel dì ultimo d'agosto dell'anno presente, che
disteso si legge nella Storia del Monferrato[3114].

NOTE:

[3096] Raynaldus, in Annal. ad hunc annum.

[3097] Matth. Paris, Hist. Anglic.

[3098] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3099] Albericus Monachus, in Chron.

[3100] Roland., Chron., lib. 4, cap. 9.

[3101] Rolandinus, lib. 4, cap. 14.

[3102] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.

[3103] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3104] Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.

[3105] Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.

[3106] Annal. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.

[3107] Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital.

[3108] Gualvan. Flamma, in Manipul. Flor.

[3109] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3110] Card. de Aragon., in Vit. Greg. IX, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[3111] Chron. Bononiense, tom. 16 Rer. Ital. Annales Veter. Mutinens.,
tom. 11 Rer. Ital.

[3112] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3113] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[3114] Benvenuto da San Giorgio, Storia del Monferrato.



    Anno di CRISTO MCCXL. Indizione XIII.

    GREGORIO IX papa 14.
    FEDERIGO II imperadore 21.


Trovossi in gravissime angustie nell'anno presente il pontefice Gregorio
per la prepotenza di Federigo, principe ansante di vendetta contra di
chi avea separato lui dalla comunion de' fedeli, e renduti pubblici per
la cristianità i suoi reati. Mentre era esso Federigo in Toscana nel
verno, per quanto potè, ravvivò ed esaltò dappertutto il partito de'
ghibellini, in guisa che pochi erano que' luoghi, ne' quali dove più e
dove meno non fosse la fazione sua. Non si vollero già a lui
sottomettere i Fiorentini[3115], ma per lui furono i Pisani e i
Lucchesi, i quali nel presente anno insieme col marchese _Oberto
Pelavicino_ occuparono la Garfagnana. Gli giurarono fedeltà anche i
Sanesi, sperando coll'aiuto suo di mantenersi contro la potenza di
Firenze. Similmente gli Aretini se gli diedero, perchè travagliati dal
possente comune di Perugia, che non potè mai indursi a chinare il capo
all'imperadore, e tenne saldo per la Chiesa. Altrettanto avvenne nella
marca d'Ancona. Quivi al re Enzo si diedero alcune città, e massimamente
Osimo. Nel mese di febbraio entrato Federigo nel ducato di Spoleti,
Foligno il ricevette a braccia aperte con altre terre. Ebbe anche
Spello[3116], Orla, Città Castellana, Corneto, Sutri, Montefiascone e
Toscanella. Ma ciò che più afflisse la corte pontificia, fu che
l'ingrato popolo di Viterbo si gettò nelle braccia di Federigo in odio
de' Romani suoi antichi nemici. Allora fu che il pontefice, sorpreso da
sommi affanni, si sarebbe forse abbandonato, se Dio non l'avesse
provveduto di un raro coraggio. Vedevasi già Roma attorniata dalle forze
di Federigo al di fuori, al di dentro i nobili e il popolo niuna
disposizione mostravano a sostener le fatiche della guerra e della
difesa, perchè non mancava a Federigo in essa città il suo partito,
guadagnato a forza di regali, di danaro e di promesse. Pertanto papa
Gregorio, rivolte tutte le sue speranze a Dio, prese lo spediente
d'intimare una general precessione, in cui portò le sacre teste de'
santi apostoli Pietro e Paolo, e predicò la crociata contra di Federigo
imperadore nemico della Chiesa. Tal compunzione mosse questo pio
spettacolo nel popolo romano, che la maggior parte non solo de' laici,
ma anche degli ecclesiastici prese la croce e l'armi in difesa del papa
e di Roma. Ma guai a que' crocesignati tali che capitarono poi nelle
mani di Federigo. Niun d'essi andò esente, dopo varii tormenti, dalla
morte. Perduta la speranza di ottenere l'intento suo sotto Roma,
Federigo nel mese di marzo passò in Puglia, ed attese a far gente e a
smugnere le borse de' suoi sudditi, ma principalmente quelle degli
ecclesiastici. Non mancava intanto il papa di muover anche egli e cielo
e terra contra di lui: tanto erano esacerbati gli animi dall'una e
dall'altre parte. Trattò in Germania, si maneggiò in Francia e in
Ispagna, per far eleggere un nuovo imperadore; ma n'ebbe delle risposte
di poco suo gusto. Fece raccogliere da' suoi legati in Francia ed
Inghilterra grossissime somme di danaro dalle chiese, e in altre guise,
che gli servirono non poco in questi bisogni, e sollecitò quanti popoli
e principi potè per istaccarli dal partito di Federigo, ed attaccarli al
suo. Fra gli altri mosse per mezzo, di Gregorio da Montelungo suo legato
i Lombardi, i Bolognesi, i Veneziani e il marchese di Este a formar
l'assedio di Ferrara. Vi intervenne in persona _Jacopo Tiepolo_ doge di
Venezia e il suddetto marchese, a cui piucchè agli altri premeva tal
conquista[3117]. Inoltre i Mantovani, che si erano già sottratti
all'ubbidienza di Federigo, col conte Ricciardo da San Bonifazio vi
concorsero, e vennevi anche Alberico da Romano coi signori di Camino.
Durò l'assedio dal principio di febbraio sino al fine di maggio, oppur
sino al dì 3 di giugno. Nè apparenza v'era di forzar quella città alla
resa. Si ricorse al ripiego di guadagnar con danari Ugo de' Ramberti ed
altri potenti di Ferrara, che dissero di voler pace. Si fecero di bei
patti, e Salinguerra venne al campo de' collegati per confermarli;
nientedimeno, secondo che narra Ricobaldo[3118], egli fu attrappolato
dal legato pontificio, che era solamente notaio, uomo di grande
attività, ma di larga coscienza. Detestò, per attestato d'esso
Ricobaldo, questa frode il marchese d'Este, allegando l'onore e il
giuramento, _cui legatus persuasit, ut calcato honesto et juramento,
amplecteretur, quod utile sibi foret, ut scilicet urbe potiretur, illo
escluso_. Così Salinguerra, già ottuagenario, fu condotto prigione a
Venezia, dove civilmente trattato finì i suoi giorni in santa pace; e la
casa d'Este dopo tanti anni rientrò in Ferrara, e maggiormente vi si
stabilì andando innanzi. Per ordine del papa, ad esso marchese Azzo fu
in questo medesimo anno consegnata Argenta, terra che gareggiava colle
città.

Fece l'imperador Federigo nel mese di maggio dare da' suoi un terribil
guasto al territorio pontificio di Benevento[3119]. Poscia nel seguente
agosto ne ordinò anche l'assedio; ma quel popolo con vigorosa resistenza
gli fece conoscere l'illibata sua fedeltà verso la Chiesa romana.
Mossesi poi nell'agosto suddetto con poderosa armata Federigo da Capoa,
e il suo disegno era d'entrare nella Campania romana; ma, o sia che vi
trovasse più opposizione di quel che credeva, oppure che fosse
consigliato a ripigliar piuttosto de' paesi che si potessero pretendere
spettanti all'imperio: certo è che sen venne a Ravenna[3120], dove
essendo mancato di vita Paolo da Traversara capo de' Guelfi, facile
riuscì a lui dopo un breve assedio di rimetterla nel dì 22 d'agosto
sotto la sua ubbidienza. Di là passò all'assedio di Faenza, città che
vigorosamente si tenne per alquanti mesi. Inviarono i Veneziani nei
settembre di quest'anno uno stuolo di galee in Puglia, che diede il
guasto a Termoli, al Vasto e ad altre terre di quelle spiagge, con
riportarne un ricco bottino. E nel novembre, per ordine di Federigo,
furono scacciati dai regno tutti i frati predicatori e minori, a riserva
di due nativi del paese per ciascun convento. Il podestà imperiale di
Padova[3121] ebbe in quest'anno battaglia con Azzo VII marchese d'Este
presso il Ponte Rosso, e riuscì vantaggiosa per lui, con aver fatti
prigioni molti soldati d'esso marchese, fra' quali alcuni nobili. Per lo
contrario, nel dì 16 di maggio il podestà di Verona con tutta la
cavalleria e fanteria di quella città andò verso la Badia, terra del
suddetto marchese Azzo, con intenzione di dar soccorso al castello di
Gaibo assediato da esso marchese. Ma vergognosamente presero dipoi essi
Veronesi la fuga, e quivi lasciarono tutte le lor barche e carra.
Vennero allora alle mani del marchese le castella di Gaibo e della
Fratta che per ordine suo furono distrutte. Anche i Mantovani fecero
oste contra de' Veronesi, e, giunti a Trevenzolo, s'azzuffarono con
essi, ma con riportarne la peggio. Vi restò morto fra gli altri il loro
podestà, che era Gherardo Rangone da Modena, e il lor capitano Bocca
d'asino con assaissimi altri Mantovani fu condotto ne' ceppi a Verona.
Gli Alessandrini, stati fin qui uniti colla lega lombarda, si diedero
nell'anno presente all'imperadore, con ricevere per loro governatore il
marchese Manfredi Lancia[3122]. Questi poi da un lato e il marchese
_Oberto Pelavicino_, vicario dell'imperadore in Lunigiana, da un altro
ostilmente entrarono nel Genovesato. Inviarono i Milanesi e i Piacentini
dei soccorsi a Genova, il cui popolo virilmente accorse ai bisogni, e
fece retrocedere i nemici. Savona ed Albenga persistendo nella
ribellione, ebbero un gran gran guasto da essi Genovesi.

NOTE:

[3115] Vita Greg. IX, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Ptolom. Lucensis, Annal.
brev.

[3116] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3117] Roland., lib. 5. cap. 1. Monachus Palavinus, in Chron., tom. 8
Rer. Ital. Annal. Veronens. et alii.

[3118] Richobald., in Pomar., tom. 9 Rer. Ital.

[3119] Richardus de S. German., in Chron.

[3120] Rubeus, Hist. Raven., lib. 6. Paris de Cereta, Annal. Veron.
Richardus de S. Germano.

[3121] Annales Veronens., tom. 8 Rerum. Ital. Roland., lib. 5, cap. 3.

[3122] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCCXLI. Indizione XIV.

    GREGORIO IX papa 15.
    CELESTINO IV papa 1.
    FEDERIGO II imperadore 22.


Ostinatamente continuò l'imperador _Federigo_ per tutto il verno
l'assedio di Faenza[3123]; e perciocchè gli era mancato il danaro da
pagar le truppe, impegnò le sue gioie e vasellamenti d'oro e d'argento.
Nè ciò bastando, ricorse al ripiego di far battere moneta di cuoio,
facendola prendere come moneta buona, con promessa di pagarne il valore
a chi la riportasse al suo tesoriere: siccome poi fece, con cambiarla in
agostari d'oro, moneta da lui battuta, cadaun de' quali valeva un
fiorino d'oro e un quarto. Finalmente nel dì 14, oppure nel dì 15
d'aprile dell'anno presente, per maneggio di Rinieri conte di Cunio,
quella città capitolò la resa, salve le persone e robe. Tenuto fu gran
cosa che questo inesorabile imperadore dopo tanta resistenza perdonasse
a que' cittadini. Anche Cesena piegò il capo ai voleri d'esso
Augusto[3124]; e quel popolo gli consegnò il castello nuovo della città,
ch'egli fece diroccar tutto, per farvi una fortezza di pianta secondo il
gusto suo. Nello stesso mese d'aprile[3125] dopo avere la città di
Benevento, città pontificia, anch'essa sofferto un lungo assedio, fu
infine forzata a rendersi all'armi d'esso imperadore. Ne fece egli
spianare da' fondamenti le mura, abbassar le torri, e spogliò di tutte
le lor armi que' cittadini: colpo che sommamente afflisse la corte
romana. Nè di minor molestia fu l'essersi nel gennaio di quest'anno il
cardinal _Giovanni dalla Colonna_, per differenze insorte fra il papa e
lui, gittato nel partito dell'imperadore, con aver poscia afforzata in
Roma una sua fortezza appellata l'Agosta ossia Lagosta, e fuori di Roma
alquante sue castella contra del pontefice. Ma soprattutto trafisse
l'animo dello stesso papa e della corte sua, un'altra disavventura che
fece grande strepito per la cristianità. Avea papa Gregorio mandate nel
precedente anno le lettere circolari coll'intimazione di un concilio
generale, da farsi nel presente anno in Roma[3126]. Di questo concilio
era in gran pena Federigo II, ben prevedendo che in esso verrebbe
confermate contra di lui la sentenza della scomunica, ed anche della
deposizione. Però entrato in pensiero di impedirlo, quanti prelati di
Italia incamminati a Roma capitarono nelle sue mani, tutti li fece
fermare, e colla prigionia e in altre maniere li maltrattò. Una gran
frotta di vescovi ed abbati franzesi s'era già messa in viaggio per
passare in Italia insieme con _Jacopo cardinale_ vescovo di Palestrina,
e _Ottone cardinale_ di San Niccolò in Carcere. Pel trasporto loro con
grosso nolo fu preparata in Genova una bella flotta di galee e d'altri
legni sottili. Molti de' prelati franzesi venuti fino a Nizza, colla
scusa che non bastasse al bisogno e alla sicurezza loro l'armamento di
Genova, se ne tornarono indietro. Gli altri più animosi arrivarono nel
mese d'aprile a Genova e, colà ancora ne giunsero molti altri d'Italia
cogli ambasciatori di Milano, Piacenza e Brescia, tutti per imbarcarsi.
Intanto Federigo avea fatto allestire in Sicilia e Puglia quante galee
potè, e le inviò col re Enzo suo figliuolo verso Pisa, per opporsi alla
venuta di questi prelati. Ordinò parimente ai Pisani suoi aderenti di
fare ogni possibile sforzo per mare, ad oggetto di unitamente procedere
contro la armata navale de' Genovesi. Non lasciarono i Pisani nel mese
di marzo di spedire a Genova i loro ambasciatori, con pregar quel comune
di desistere da quella impresa, perchè aveano comandamento da Federigo
di far loro opposizione. Stettero saldi nel proposito loro i Genovesi,
animati dalle premurose lettere del pontefice, che scrivea non doversi
aver paura di chi era in disgrazia di Dio. Furono nello stesso tempo
intercette lettere di Federigo, per le quali si scoprì che egli avea
guadagnati al suo partito varii nobili di Genova, e nominatamente alcuni
della casa Spinola e Doria, la fazion de' quali fu chiamata da lì
innanzi de' Mascherati: perlochè il podestà fece prendere l'armi al
popolo, e procedette contro i ribelli. Quetato il tumulto, si mosse la
flotta genovese coi cardinali e prelati per passare alla volta di Roma;
e il temerario capitano, tuttochè consigliato di aspettare il rinforzo
d'altre dieci galee, e di tirar verso Corsica, per non incontrarsi co'
nemici, volle andar diritto; e infatti gl'incontrò in vicinanza
dell'isoletta della Melora. Si venne ad un aspro combattimento; ma
siccome d'ordinario i più vincono i meno, così restò sconfitta l'armata
genovese, e di ventisette galee sole cinque si salvarono colla fuga.
L'altre coi cardinali, portanti dei gran tesori, e col resto de' prelati
vennero in potere della flotta cesarea e pisana. In una sua lettera al
re d'Inghilterra[3127] Federigo scrive, che oltre alle ventidue galee
prese, se ne affondarono tre con circa due mila uomini, e che circa
quattro mila Genovesi restarono prigioni coi suddetti cardinali, prelati
ed ambasciatori. Succedette questa infelice battaglia[3128] nel dì 3 di
maggio, festa della; Croce. Per ordine di Federigo furono poi condotti i
cardinali e gli altri prigionieri a Napoli, distribuiti per varie
castella di quelle contrade, e inumanamente trattati da lui. Gran doglia
che per questo colpo ebbe la corte di Roma! Spedì poi esso Augusto a'
danni de' Genovesi una flotta di quaranta galee. Inoltre per terra fece
assalirli dal marchese Oberto Pelavicino, e dai Pavesi, Alessandrini,
Tortonesi, Vercellini, e da altri popoli della Lombardia, e da' marchesi
di Monferrato e del Bosco. Ma il bellicoso popolo di Genova mise tosto
in mare una flotta di cinquantadue tra galee e tartane, ossieno altri
legni; e per terra fece due altri eserciti, e gloriosamente si difese da
tanti nemici.

Nel mese di giugno ito l'imperadore a Fano, imprese l'assedio di quella
città. Trovandovi una gagliarda resistenza, dopo aver dato il guasto al
distretto passò, a Spoleti, e se ne impadronì con facilità. E perchè un
abisso si tira dietro l'altro, fece intanto richiedere in prestito tutti
tesori delle chiese di Puglia sì d'oro e d'argento, come di gemme e di
sacri preziosi arredi; e convenne darglieli. Bisogna pure ridirlo: ecco
dove andavano infine a terminare in que' miseri tempi doni fatti dalla
pietà cristiana ai sacri templi. Gran rumore faceva intanto
l'avvicinamento all'Ungheria di un formidabile, perchè innumerabile,
esercito di Tartari Comani, gente inumana e bestiale; e temevasi che,
ingoiato il regno ungarico, passerebbe la tempesta nella Germania.
Aveano già devastata la Russia, la Polonia, la Boemia. Entrarono dipoi
nell'Ungheria: vi fecero un mondo di mali. Federigo, giacchè capitò alla
sua corte, di ritorno dalla Terra santa, _Riccardo_ fratello del re
d'Inghilterra e dell'imperadrice sua moglie, lo spedì a Roma con
plenipotenza per trattar di pace in quel grave bisogno della
cristianità. Secondochè abbiamo da Matteo Paris[3129], scrittore che per
lo più sparla di papa Gregorio, e della venalità e rapacità de' ministri
pontificii, Riccardo trovò il papa inesorabile. Niuna proposizion
d'accordo a lui piacque. Sempre insiste in esigere che Federigo
assolutamente si sottomettesse all'arbitrio e volontà di lui: al che non
avendo voluto acconsentire Riccardo, tornò al cognato Augusto senza aver
fatto nulla. Continuò dunque Federigo la guerra[3130], e nel giugno
s'impossessò di Terni, ma non già di Narni, nè di Rieti, che
resisterono, e costò loro un grave guasto. Chiamato poi verso Roma dal
cardinal Colonna ribello del papa, prese Tivoli, Monte Albano, e varie
castella del monistero di Farfa, e si accampò a Grottaferrata. Matteo
Paris aggiugne che egli per forza prese e smantellò un castello che il
papa avea fatto fabbricare appresso Monforte per li suoi nipoti: il che
talmente afflisse il santo vecchio, che se ne morì. Ma non conviene
cercar altronde le cagioni della morte di questo pontefice, perchè, se è
vero ciò che scrive lo stesso Paris, egli era giunto coll'età fin quasi
a cento anni, e pativa di calcoli. Diede dunque fine a' suoi giorni papa
_Gregorio IX_ nel dì 21 d'agosto. Più di dieci cardinali non si
trovarono allora in Roma, a' quali apparteneva l'elezion del successore.
Riccardo scrive che _de imperatoris licentia cardinales omnes, qui extra
urbem fuerant, pro electione papae facienda ad urbem redeunt_. E ch'egli
vi lasciasse ancora intervenire i due cardinali da lui detenuti in
prigione, con patto poscia di ritornarvi (al qual fine diedero ostaggi),
non credo che s'abbia a mettere in dubbio, dacchè lo dice espressamente
Matteo Paris, scrittore di questi tempi; e Riccardo attesta che furono
condotti a Tivoli, non per altro, come si può giudicare, che per quivi
dar loro il giuramento del ritorno dopo l'elezione. Entrò poi la
discordia fra que' pochi cardinali, e durò circa quaranta giorni[3131]:
ma infine nell'ottobre essendo i voti dei più concorsi nel cardinal
_Giuffredo_, o _Goffredo_, di patria Milanese, vescovo sabinense, egli
veramente fu papa, e prese il nome di _Celestino IV_. Anche Federigo
n'ebbe piacere. Ma essendo egli assai vecchio ed infermiccio, benchè
nell'Ognisanti celebrasse solenne messa nella basilica lateranense, ed
ordinasse alcuni cardinali e vescovi, non passarono diciassette, oppur
dieciotto dì che fu chiamato da Dio a miglior vita, lasciando più che
mai desolata la Chiesa e sconvolta l'Italia. Ch'egli non ricevesse il
pallio, nè fosse consecrato, lo scrive Pietro da Curbio nella vita di
Innocenzo IV[3132]. Secondo Matteo Paris[3133], corse voce di veleno,
voce che facilmente in tempi tali era in voga, ma che presso di noi non
dee sì di leggieri meritar credenza.

In questo mentre Matteo Ruffo ossia Rosso, già creato senator di Roma da
papa Gregorio IX, avendo assediata Lagosta ossia l'Augusta, fortezza del
cardinal Colonna, la costrinse alla resa. Pare eziandio che Federigo,
dacchè seppe la morte del suddetto pontefice Gregorio, sospendesse le
offese contro gli Stati della Chiesa romana; e si sa ch'egli se ne tornò
in Puglia, dove ai confini del regno in faccia a Ceperano ordinò che si
fabbricasse una città nuova. Quel ch'è strano, racconta Riccardo[3134]
che dopo la morte di Celestino IV, prima ancora che gli fosse data
sepoltura, _de cardinalibus quidam de urbe fugerunt, et contulerunt se
Anagniam_. C'è luogo di sospettare che in Roma vi fossero non pochi
torbidi, nè si trovasse la libertà convenevole per l'elezione del nuovo
papa. Forse anche temevano essi della pelle. Infatti vacò poi per gran
tempo la santa Sede. Nel dicembre di quest'anno l'imperadrice
_Isabella_, sorella del re d'Inghilterra, dimorando in Foggia, morì di
parto, e fu seppellita in Andria. Federigo intanto continuava ad
aggravar di nuove imposte e taglie i sudditi suoi. Tentò in questo anno
_Eccelino_ da Romano di torre la bella terra d'Este al _marchese Azzo_
per tradimento[3135]. Per buona ventura s'ebbe sentore del suo trattato,
e, presi i traditori, che dianzi pareano de' più fedeli della casa
d'Este, cessò il pericolo di quella terra. Abbiamo dagli Annali vecchi
di Modena[3136] che anche i Bolognesi tramarono con alcuni prigioni
modenesi di levar proditoriamente al comune di Modena il castello di
Bazzano; e già vi erano entrati alcuni d'essi con armi e vettovaglia. Si
scoprì la mena; presi furono que' Bolognesi, e da' Modenesi venne ben
rinforzato quel castello. La Cronica di Parma[3137] aggiugne che poscia
in questo medesimo anno seguì pace fra essi Bolognesi, Modenesi e
Parmigiani: nella qual congiuntura furono rilasciati tutti i prigioni
d'amendue le parti. Il marchese _Oberto Pelavicino_[3138], vicario
dell'imperadore in Lunigiana, distrusse la nobil terra di Pontremoli. Si
riaccese in quest'anno la lagrimevol discordia civile tra i nobili e
popolari della città di Milano[3139]. Capo de' primi era fra _Leone da
Perego_ dell'ordine dei Minori, arcivescovo allora di Milano; capo del
popolo era Pagano dalla Torre, la cui famiglia, che dicono fosse padrona
di Valsasina, cominciò in tali congiunture ad acquistar gran credito in
Milano. Infestavano intanto i Pavesi il distretto milanese. Fu proposto
nel consiglio di far oste contra di loro; ma, essendo così mal d'accordo
fra loro, non si volle muovere il popolo. Uscirono bensì i nobili, e nel
dì 11 di maggio ad un luogo appellato Ginestre vennero alle mani coi
Pavesi; ma furono sconfitti colla morte e prigionia di molti. A questa
funesta nuova Pagano dalla Torre col popolo in armi andò ad assalire i
vittoriosi Pavesi, li respinse fino alle porte di Pavia, e tal terrore
mise in quella città, che tosto si trattò di pace fra i due popoli
rivali. Fu questa conchiusa colla liberazion de' prigionieri. Circa
questi tempi i Bresciani[3140] presero le castella di Gavardo, d'Iseo e
di Vanzago, togliendole ai Veronesi loro nemici. Pare che Riccardo da
San Germano parli di questo all'anno seguente.

NOTE:

[3123] Ricordano Malaspina, cap. 130.

[3124] Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital. Matth. Paris, Hist. Angl.

[3125] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3126] Raynaldus, Annal. Eccles. Caffari, Annal. Genuens., lib. 6.
Richardus de S. Germano, in Chron. Matth. Paris, Hist. Angl.

[3127] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3128] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3129] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3130] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3131] Roland., lib. 5, cap. 6. Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8
Rerum Ital.

[3132] Vita Innocentii IV, Part. I, tom. 3 Rer. Ital.

[3133] Matth. Paris, Histor. Angl.

[3134] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3135] Roland., lib. 5, cap. 5.

[3136] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[3137] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3138] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Italic.

[3139] Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital. Gualvaneus Flamma, in Manip.
Flor., cap. 274.

[3140] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCCXLII. Indizione XV.

    Pontificato vacante.
    FEDERIGO II imperadore 25.


Trovavasi desolata la Sede apostolica, perchè priva di pontefice, e
perchè neppure fra que' pochi cardinali che vi restavano sapeva entrar
la concordia. Erano alcuni d'essi usciti di Roma, gli altri cozzavano
l'un contra l'altro; tutto andava a finire in lasciar vedova la Chiesa.
L'Annalista Pontificio[3141] rigetta la colpa d'ogni disordine sopra del
solo _Federigo_. Ma convien dire che la storia di questi tempi è
alterata di troppo dalle passioni, dalle calunnie, dalle dicerie, che
non ci lasciano discernere la verità di tutte le magagne d'allora, nè di
chi fosse il torto in varii casi di quella maledetta discordia. Erano
pubblici, erano maiuscoli i vizii di Federigo, ed egli capace di tutto;
ma che dalla parte di Roma sempre si camminasse diritto e senza difetto
alcuno, sempre con istrada contraria all'iniquità di Federigo, poco
costa il dirlo. A noi mancano storici di allora che abbiano senza
parzialità ben esaminati i principii e i progressi di queste tragedie,
per poterne ben giudicare. Sappiamo da Matteo Paris[3142] e da Alberto
Stadense[3143] che gran discordia si trovava allora fra i cardinali. Se
Federigo n'era in colpa, come può stare che egli scrivesse lettere sì
obbrobriose ai medesimi, riferite dallo stesso Rinaldi, colle quali
fieramente gli accusa e strapazza, appunto perchè non s'accordavano ad
eleggere un successore di Pietro, e lasciavano in tanta confusione la
Chiesa di Dio? Ma non più. Nel mese di febbraio, per attestato di
Riccardo da San Germano[3144], Federigo spedì il gran mastro dell'ordine
teutonico, eletto arcivescovo di Bari, con un altro personaggio, _ad
curiam romanam pro pace_. Nulla se ne fece. Per colpa di chi, nol dice
la storia. Mandò ancora a Tivoli nel mese d'aprile i due cardinali
prigioni: il che può far credere che li lasciasse anche andare per
l'elezion del papa, siccome avea permesso nell'anno precedente. Veggendo
poi che non era da sperar pace dalla corte di Roma, nel maggio seguente
ripigliò le ostilità. Il duca di Spoleti per parte dell'imperadore diede
il guasto al territorio di Narni. Altrettanto fecero i Romani a Tivoli,
posseduto allora dall'imperadore. Dalle milizie d'esso Augusto assediata
la città d'Ascoli, nel mese di giugno cadde sotto il di lui dominio. Nel
qual mese venuto egli nella marca d'Ancona, si fermò all'Avenzana sino
al luglio, e poscia passò a dare il guasto ai contorni di Roma.
Nell'agosto si ridusse in Puglia. Non istava in ozio in questi tempi
_Eccelino_ da Romano, signoreggiante sotto l'ombra dell'imperadore in
Padova, Vicenza e Verona[3145]. Giacchè non gli era venuto fatto di
occupar colla forza la grossa terra di Montagnana, appellata dal Monaco
Padovano _populosa_[3146], che era del marchese d'Este, ricorse ad un
altro ripiego. Cioè spedì colà, o quivi guadagnò degl'incendiarii, i
quali in una notte del mese di marzo attaccarono il fuoco in più parti a
quella terra. Il marchese, stando nella rocca d'Este, di là mirò
quest'incendio, e tosto colla sua gente cavalcò colà per soccorrerla. Ma
avvertito che veniva, ed era vicino l'esercito di Verona, scorgendo che
altri fuochi saltavano su per Montagnana, s'avvide del tradimento.
Perciò, fatto mettere il fuoco nel resto, e presi seco quanti uomini e
donne e fanciulli potè di quegli abitanti, con esso loro se ne tornò ad
Este. S'impossessò di quella terra Eccelino, e ordinò tosto che vi si
fabbricasse un castello, o vogliam dire una fortezza. Chiamato poscia in
aiuto il conte di Gorizia, si portò Eccelino nel seguente giugno, per
far dispetto ad Alberico suo fratello, a dare un fierissimo guasto al
territorio di Trivigi. Lo stesso trattamento fece dipoi a quello d'Este;
e, tornato a Padova, attese da lì innanzi a far fabbricare in quella
città un castello con orride ed infernali prigioni, nelle quali col
tempo morì ancora quell'architetto ch'egli avea scelto per farle ben
tenebrose e scomode a chi per sua disavventura vi capitava. E ben poco
ci voleva sotto quel tiranno a capitarvi. Alcune altre conquiste di
castella fatte per Eccelino dalla parte di Vicenza si leggono nella
Cronica Vicentina di Antonio Godio[3147], autore che eziandio rapporta
le crudeltà commesse da lui in quella città.

Per vendicarsi i Milanesi de' Comaschi, da' quali restarono traditi
nell'ultima venuta di Federigo sul Milanese[3148], fecero oste contra di
loro, mettendo a ferro e fuoco il loro distretto sino alle porte di
Como. Presero e smantellarono le castella di Lucino e di Mendrisio. Si
impadronirono di quello di Bellinzona, e gran danno recarono ad altri
luoghi. Per attestato di Riccardo da San Germano[3149], avea Federigo in
Puglia e Sicilia fatto un armamento di cento cinquanta galee e venti
vascelli, da spedire contro ai Veneziani e Genovesi. Per questo i
Veneziani[3150] uscirono in mare con settanta galee; ma nulla ebbero da
faticare, perchè la flotta imperiale, comandata da Ansaldo Mari
Genovese, s'inviò contra de' Genovesi: nel qual tempo anche il marchese
Oberto Pelavicino per terra con grande sforzo nel dì 20 di giugno venne
sino a Porto Venere, ed imprese poi l'assedio di Levanto[3151]. Aveano
gli animosi Genovesi già fatto un preparamento di ottantatrè galee, ed
altri legni minori; e, all'avviso de' nemici, tosto imbarcati volarono
in traccia d'essi. Fu precipitosamente levato l'assedio di Levanto; la
flotta di Federigo sfuggì sempre ogni cimento, qua e là ritirandosi, ma
inseguita sempre da' Genovesi; e così terminò l'anno senza vantaggio
alcuno delle parti. Ma non lieve guadagno fu per la lega pontificia
l'aver indotto nell'anno presente a forza di danaro _Bonifazio_
_marchese_ di Monferrato, _Manfredi_ marchese del Carretto, e i marchesi
di Ceva, a far pace e lega coi Genovesi, Milanesi e Piacentini, con
obbligarsi que' marchesi nelle mani del legato apostolico di abbandonare
la parte dell'imperadore, di difendere a tutto lor potere la santa
Chiesa romana, e di far guerra viva ai nemici di essa e dei suddetti
comuni. Secondo la Cronica di Piacenza[3152], il _re Enzo_, figliuolo di
Federigo, fece un'irruzione in quest'anno nel Piacentino, assediò quivi
il castello di Roncarello, diede alle fiamme Podenzano e molti altri
luoghi di quel distretto. Andavasi intanto sempre più insinuando, o
aumentando in Lombardia il veleno delle fazioni guelfa e ghibellina. La
città di Parma, dianzi felice[3153], cominciò nell'anno presente a
provarne i mali effetti, con essere venuta meno la concordia fra i
cittadini. Soggiacque al medesimo pernicioso influsso quella di
Brescia[3154], dove si formò una fazione appellata da' Malisardi, per
colpa de' quali perdè quella città molte castella e nominatamente in
quest'anno Pontevico, che que' maligni fazionarii diedero al comune di
Cremona.

NOTE:

[3141] Raynald., Annal. Eccl.

[3142] Matth. Paris, Hist. Anglic.

[3143] Albert. Stadens., in Chron.

[3144] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3145] Roland., lib. 5, cap. 8.

[3146] Monach. Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Italic.

[3147] Antonius Godius, in Chron., tom. 8 Rer. Italic.

[3148] Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Gualvaneus Flamma, in
Manip. Flor., cap. 276.

[3149] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3150] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[3151] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.

[3152] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital. Chron. Bononiens., tom. 18
Rer. Ital.

[3153] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3154] Malvecius, in Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXLIII. Indizione I.

    INNOCENZO IV papa 1.
    FEDERIGO II imperadore 24.


Abbiamo da Matteo Paris, autore per altro parzialissimo di _Federigo_
imperadore[3155], che esso Augusto fece di gravi istanze, premure e
minaccie ai cardinali, perchè più non differissero l'elezione di un
nuovo pontefice, perchè la lor discordia tornava in infamia d'esso
Augusto, credendo i popoli che per suoi intrighi durasse cotanto la sede
vacante. Risposero i cardinali che, se gli premeva tanto la pace e il
bene della Chiesa, mettesse in libertà i cardinali e gli altri prelati
che teneva in prigione. Liberò Federigo almeno i cardinali e i ministri
pontificii, con riportarne promessa ch'essi efficacemente accudirebbono
alla creazione d'un novello pontefice, e alla pace fra la Chiesa e
l'imperio. Non veggendone egli poi alcun buon effetto, montato in
collera, con poderoso esercito si portò verso Roma, e cominciò a dare il
guasto ai beni dei cardinali e de' nobili romani. Nella qual congiuntura
i Saraceni infedeli presero Albano, e vi commisero le maggiori enormità
del mondo, spogliando le chiese, e riducendo tutti quegli abitanti
all'ultimo esterminio. Allora i cardinali mandarono a pregar Federigo di
desistere, promettendo di provvedere in breve la Chiesa di Dio d'un
sacro pastore. Anche i Franzesi mandarono ambasciatori apposta ai
cardinali con forti istanze per la creazion d'un sommo pontefice. Tutto
ciò da Matteo Paris, il cui racconto non oserei io sostenere per
veridico a puntino. Riccardo da San Germano[3156], savio scrittore, la
cui Cronica è da dolersi che finisca nel presente anno, altro non dice,
se non che nel mese di maggio Federigo cavalcò ai danni de' Romani; e
che poscia, alle preghiere de' cardinali, si ritirò dai contorni di
Roma; ed aver egli nello stesso mese rimesso in libertà il cardinale
vescovo di Palestrina, il quale andò ad unirsi cogli altri cardinali in
Anagni. È considerabile che essi cardinali non in Roma, ma in Anagni, si
raunarono per far l'elezione del papa: segno che in Roma non doveano
godere la libertà necessaria. E certo l'imperadore non disturbò punto la
lor unione in Anagni. Ora finalmente[3157] nel dì 24 di giugno, festa di
san Giovanni Batista, oppure nel dì 26, come ha il Continuatore di
Caffaro[3158] con altri, concorsero i loro voti nella persona di
_Sinibaldo cardinale_ di San Lorenzo in Lucina, di nazion Genovese,
della nobil famiglia de' conti di Lavagna, ossia de' Fieschi, il quale
assunse il nome d'_Innocenzo IV_. Scrivono[3159] che si fece dai baroni
della corte dell'imperadore gran festa per tal elezione, sapendo che fra
il loro signore e il nuovo eletto passava molta amicizia; ma che
Federigo se ne rattristò, con dire ch'egli avea perduto un amico
cardinale, ed acquistato un papa nemico. Narra Matteo Paris[3160] che
esso imperadore mise delle guardie per terra e per mare, acciocchè non
passassero nel regno le lettere colla nuova dell'esaltazione
d'Innocenzo. Più fede è dovuta a Riccardo da San Germano Italiano, da
cui sappiamo, che stando Federigo in Melfi, all'avviso del creato
pontefice[3161], _ubique per regnum laudes jussit Domino decantari_,
cioè dappertutto ne fece cantare il _Te Deum_. Inoltre non tardò molto a
spedire ad Anagni al papa l'arcivescovo di Palermo, Pietro dalle Vigne e
mastro Taddeo da Sessa a congratularsi, e a trattare _pro bono pacis. A
quo benigne satis recepti sunt, et benignum ad principem retulerunt
responsum_. La lettera da lui scritta si legge negli Annali
Ecclesiastici, e in essa nulla si parla dell'arcivescovo di Palermo. E
da un'altra del papa si scorge che questi ambasciatori non furono già
ammessi all'udienza del pontefice: del che fece dipoi querela esso
Federigo. Nel mese d'agosto segretamente spedito un buon corpo di Romani
a Viterbo, quella città ritornò all'ubbidienza del romano pontefice.
Entro vi era la guarnigione imperiale sotto il comando del conte Simone
di Chieti, il quale con tutti i suoi fu assediato nella fortezza. Benchè
il papa avesse ricuperata una città che era sua, pure se l'ebbe a male
Federigo, stante l'essere stata fatta cotal novità mentre durava la
tregua e si trattava di pace. Il perchè, raunato un copioso esercito,
nel mese di settembre personalmente si portò sotto Viterbo, e vi mise
l'assedio, sforzandosi colle minaccie e colle macchine militari di
vincere la costanza dei difensori. Chiaritosi che nulla v'era da
sperare, e tanto più perchè gli furono bruciate le macchine, si contentò
di riaver libero il conte Simone co' suoi, e ritirossi in Toscana a
Grosseto. Matteo Paris scrive che il conte Simone colla sua brigata fu
condotto prigione a Roma. Più è da credere in ciò a Riccardo da San
Germano, che a lui. Sul fine d'ottobre papa Innocenzo da Anagni si
trasferì a Roma, ricevuto con distinti onori dal senato e popolo romano.
Era capitato alla corte dell'imperadore _Raimondo conte_ di Tolosa.
S'interpose anche egli per rimettere la buona armonia; e a questo fine
andò a Roma nel mese di ottobre a trovare il papa, _tractans inter ipsum
et imperatorem bonum pacis_: colle quali parole Riccardo da San Germano
termina la Cronica sua.

Che il novello pontefice onoratamente desiderasse la concordia e la
pace, si raccoglie dalla spedizione da lui fatta a Federigo (anche prima
ch'egli inviasse a Roma i suoi ambasciatori, se è vero ciò che narra
Pietro da Curbio[3162]) di tre nunzii apostolici, cioè di _Pietro_ da
_Collemezzo_ arcivescovo di Roano, di _Guglielmo_ già vescovo di Modena,
celebre per le sue missioni in Livonia e in altri settentrionali paesi,
e dell'abbate di San Facondo, spedito in Italia da _Ferdinando re_ di
Castiglia per lavorare all'unione della Chiesa e dell'imperio: i quai
tre suggetti furono nell'anno appresso promossi al cardinalato da papa
Innocenzo. Pietro da Curbio stranamente cambia i nomi di questi nunzii.
Conteneva l'istruzione loro data, che il pontefice sospirava la pace;
che Federigo rimettesse in libertà il restante de' prelati e laici fatti
prigioni nelle galee; che pensasse alla maniera di soddisfare intorno ai
punti per li quali era stato scomunicato; che anche la Chiesa, se mai
qualche ingiuria avesse a lui fatta, era pronta a ripararla, esibendosi
di rimettere l'esame di tutto in principi secolari ed ecclesiastici; e
finalmente che voleva inclusi nella pace tutti gli aderenti alla Chiesa
romana. Ciò che precisamente rispondesse Federigo, non è ben chiaro; se
non che da una lettera del papa apparisce ch'egli mise in campo varie
querele e doglianze contra del papa, le quali si leggono negli Annali
Ecclesiastici, e a tutte saviamente rispose papa Innocenzo. In somma
andarono in fascio tutte le speranze della pace, e si tornò a fare
preparamenti di guerra. Di grandi vessazioni ebbe in Roma il pontefice
Innocenzo dai mercatanti romani, che aveano prestate al defunto papa
Gregorio IX sessanta mila marche d'argento, e voleano essere
soddisfatti. Continuava intanto la guerra nella marca di Trivigi, ossia
di Verona[3163]. Ricciardo conte di San Bonifazio coi Mantovani
conquistò Gazo, Villapitta e San Michele, castella de' Veronesi. Ma
_Eccelino_ co' Padovani, Vicentini e Veronesi venne all'assedio del
castello di San Bonifazio, spettante ad esso conte[3164]. Vi era dentro
il di lui figliuolo Leonisio fanciullo, nipote dello stesso Eccelino.
S'interposero persone religiose ed amici comuni per l'accordo, e fu
conchiuso di rilasciar quel castello ad Eccelino, e che Leonisio con
tutti i suoi se ne uscisse libero: il che fu eseguito. Fece Eccelino di
molte carezze e regali al giovinetto, che era suo nipote, e lasciollo
ire con sicurezza dove gli piacque. Sotto mendicati pretesti in
quest'anno esso Eccelino nel dì 4 di giugno nella pubblica piazza di
Padova fece decapitare Bonifazio conte di Panego, nobile veronese di
gran riguardo: il che fu di gran dolore e terrore al popolo padovano,
persuaso che il tiranno avesse levato di vita un innocente. Parimente in
Verona per ordine suo[3165] furono atterrate le case e torri di varii
nobili, che egli chiamava traditori; ed alcuni ne fece anche morir ne'
tormenti, prendendo con ciò maggior baldanza contra de' nobili e plebei.
Perchè i Bolognesi non osservarono i patti giurati nel precedente anno
col non rilasciare i prigioni di Parma[3166], anche i Parmigiani
ritennero i prigioni bolognesi, e li serrarono in uno steccato di legno
fatto presso le mura della città, con farli stare a cielo sereno. Entrò
in quest'anno ostilmente nel territorio di Milano[3167] _Arrigo_, ossia
_Enzo re_ di Sardegna, figliuolo naturale di Federigo imperadore, per
impedire che il comune di Milano non fabbricasse la Motta di Marignano,
che era un'alzata di terra fatta a mano per fabbricarvi sopra un
castello. Accampossi in Sairano. Allora con tutte le forze loro vennero
i Milanesi, e il costrinsero a ritirarsi con poco gusto e molta
vergogna. In lor soccorso avea spedito il popolo di Piacenza secento
cavalieri, che stettero a Lodi vecchio. Per questa ragione Enzo coi
Pavesi, passato il Po sopra un ponte fabbricato ad Arena, calò addosso
al Piacentino, e vi bruciò molti luoghi. Fiera carestia afflisse in
quest'anno la Lombardia, di modo che i poveri si ridussero a mangiar
erbe. Innocenzo IV circa questi tempi concedette a Piacenza il
privilegio dello Studio generale. Crebbe ancora in questo anno il
partito della Chiesa, perchè la città di Vercelli[3168] per maneggio di
_Bonifazio marchese_ di Monferrato, staccatasi da Federigo, entrò nella
lega di Lombardia. L'esempio suo servì ad indurre il comune di Novara a
fare altrettanto. Con grosso esercito andarono intanto i Genovesi a
mettere l'assedio alla tuttavia ribelle città di Savona, e cominciarono
a tormentarla coi mangani e trabucchi. Si raccomandarono con calde
lettere i Savonesi al re Enzo, e spedirono anche all'imperador Federigo,
che si trovava allora nelle parti di Pisa, implorando soccorso. Mise
Enzo insieme un'armata di Pavesi, Alessandrini, Tortonesi ed altri
popoli, e marciò fino alla città di Acqui; ma inteso che i Genovesi non
solamente non moveano piede, ma ogni dì più rinforzavano il loro
esercito, non passò oltre, e licenziò l'armamento, contuttochè avesse
ordine da Federigo di fare ogni sforzo per soccorrere Savona. Anche i
Pisani, ad istanza d'esso imperadore, uscirono in mare con ottanta
galee, vantandosi voler fare di molte prodezze. A questo avviso i
Genovesi, lasciato l'assedio di Savona, se ne tornarono alla lor città,
per quivi preparare un potente stuolo di galee da opporre agli sforzi
nemici. Fecero i Pisani bella mostra da lungi delle lor forze; ma, al
primo comparir della flotta genovese, voltarono le prore, contenti
d'aver salvata Savona.

NOTE:

[3155] Mattheus Paris, Hist. Angl.

[3156] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3157] Raynaldus, in Annal. Eccl.

[3158] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.

[3159] Ricordano Malaspina, cap. 132. Gualvaneus Flamma, in Manip. Flor.

[3160] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3161] Richardus de S. Germano, in Chron.

[3162] Petrus de Curbio, in Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.

[3163] Paris de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.

[3164] Roland., lib. 5, cap. 11.

[3165] Monach. Patavinus, in Chron.

[3166] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3167] Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital. Annales Mediol., tom. 16
Rer. Ital. Gualvaneus Flamma, in Manip. Flor.

[3168] Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXLIV. Indizione II.

    INNOCENZO IV papa 2.
    FEDERIGO II imperadore 25.


Ah maladetta discordia! Che fiere calamità soffrisse in questi tempi la
cristianità per quella che bolliva tra l'imperadore e la Chiesa, non si
può abbastanza dire. Orrendi e indicibili furono i danni recati dai
Tartari Comani alla Polonia, Stiria, Ungheria, ed altre provincie
cristiane, senza che niun potesse mettere freno all'empito e alla
barbarie di quegl'infedeli. Gravissimi altri malanni patì la cristianità
d'Oriente, perchè le fu di nuovo tolta la santa città di Gerusalemme con
istrage d'infiniti cristiani. La città d'Accon, ossa d'Acri, che dianzi
s'era ribellata all'imperador _Federigo_, cominciò a provar le scorrerie
de' Maomettani fino alle sue porte. L'imperio de' Latini in
Costantinopoli era già ridotto al verde; e in Lombardia s'andava
dilatando l'eresia de' Paterini, e crescevano le guerre con tutti i lor
funesti effetti. Per sostenere intanto i suoi impegni, il papa, con
ispedir collettori, voleva danari, e non pochi, da tutte le chiese della
cristianità, e bisognava darne. Più spietatamente _Federigo_ anch'egli
scannava i suoi popoli, e massimamente gli ecclesiastici, con imposte e
gravezze continue. Perciò una gran mormorazione dappertutto fra i
cristiani s'udiva, specialmente contra d'esso _Federigo_, il quale,
invece d'impiegar le sue forze (al che era tenuto) contra de' nemici del
nome cristiano, le rivolgeva contro la Chiesa sua madre. E qui la gente
s'empieva la bocca de' suoi perversi costumi[3169]: che egli non
ascoltava mai messa (eppure uno de' suoi delitti fu l'aver forzato dopo
la scomunica i preti a dirla in sua presenza); che non avea venerazione
alcuna per le persone ecclesiastiche; parlava poco sanamente della
religion cristiana; teneva per sue concubine donne saracene, con altri
reati, i quali, se non tutti, per la maggior parte almeno erano fondati
sul vero. All'incontro Federigo rigettava la colpa del non potere
accudire ai bisogni della cristianità sulla corte di Roma, che gli facea
quanta guerra potea, e tuttodì andava sottraendo all'ubbidienza di lui
le città d'Italia, ansiosa solamente della di lei rovina; nè poter egli
accorrere altrove colle armi, da che per la sua andata in Oriente poco
era mancato che il papa non gli avesse occupati i suoi Stati d'Italia.
Pare nulladimeno che in quest'anno venisse un buon raggio di
saviezza a calmare il di lui turbolento animo. Mentr'egli era ad
Acquapendente[3170], gli spedì papa _Innocenzo IV Ottone cardinale_
vescovo di Porto, suo amico, per indurlo alla pace. Gliel aveva anche
inviato l'anno innanzi, allorchè egli facea l'assedio di Viterbo.
Federigo, mostrando pur voglia d'accordo, inviò anche egli a Roma il
conte di Tolosa, Pietro dalle Vigne e Taddeo da Sessa con plenipotenza
per lo sospirato da tutti aggiustamento colla Chiesa. Matteo Paris[3171]
rapporta l'intero atto di tutto quello ch'egli accordava sì per la
soddisfazion della Chiesa, come pel perdono e per le sicurezze da darsi
a tutte le città aderenti al papa, e per la restituzion degli Stati
della Chiesa. Si metteva già per fatta la pace; perchè nel giovedì santo
nella piazza del Laterano i suoi ambasciatori giurarono alla presenza
del papa, de' cardinali, di _Baldovino imperador_ di Costantinopoli
venuto a Roma, e di tutto il senato e popolo romano, i capitoli del
suddetto accordo. Ma che? Partiti gli ambasciatori, insorse subito un
puntiglio. Voleva il papa ch'egli restituisse tosto le città della
Chiesa, e desse la libertà ai prigioni: il che fatto, riceverebbe
l'assoluzion dalla scomunica. Pretendeva all'incontro Federigo II che
dovesse precedere l'assoluzione; nè volendo Roma accordar questo punto,
ecco lo spirito della superbia invadere di nuovo il cuor di Federigo, e
farlo receder dal già conchiuso accordo. Studiossi egli di guadagnar
sotto mano il pontefice con ricercare una di lui nipote per moglie del
_re Corrado_ suo figlio[3172]; ma Innocenzo, che preferiva al suo
proprio onore e vantaggio quel della Chiesa, mostrò di non disprezzare
l'offerta, ma si tenne forte in sostenere gli interessi del pontificato,
e in guardarsi dagl'impegni e dalle insidie di un imperadore, di cui la
sperienza troppo avea mostrato quanto poco si dovea fidare.

Essendo ridotto a sì scarso numero il collegio de' cardinali, papa
Innocenzo ne creò dodici nel sabbato fra l'ottava della Pentecoste.
Poscia nel dì 7 di giugno, uscito di Roma, andò a Cività Castellana, e
di là a Sutri. Non si vedeva egli sicuro nè in Roma nè fuor di Roma,
perchè la maggior parte delle città della Chiesa erano occupate da
Federigo, ed avea che fare con un nemico, le cui arti e il cui cattivo
umore davano da sospettare o temere a tutti. Conosceva inoltre che senza
essere in paese di libertà, non si potrebbe mai domare l'alterigia di
Federigo. Per questo spedì segretamente a Genova[3173] un frate minore
ad Obizzo del Fiesco suo fratello, e a Filippo Visdomino da Piacenza
podestà di quella città, rappresentando loro i pericoli ne' quali si
trovava, e pregandoli di venire a prenderlo con una squadra di galee. Ne
armarono tosto i Genovesi ventidue, oltre ad altri legni, e sopra d'esse
imbarcatosi lo stesso podestà Alberto, Jacopo ed Ugo nipoti del medesimo
papa, nel dì 27 di giugno arrivò a Cività Vecchia. Fattolo tosto sapere
al pontefice, egli nella notte seguente con pochi familiari, consapevoli
della sua intenzione, salito a cavallo, per disastrose strade e per
boschi si condusse sano e salvo a Cività Vecchia nel dì seguente; e
poscia nella festa de' santi Pietro e Paolo entrato in nave col solo
_cardinal Guglielmo_ suo nipote, ed altri pochi di sua famiglia, fece
sciogliere le vele al vento, e nel dì 7 di luglio felicemente pervenne a
Genova, dove con incredibil festa e magnificenza d'apparato fu accolto
da' suoi nazionali. Gli altri cardinali, a riserva di quattro, il
seguitarono per terra, e andarono ad aspettarlo a Susa. Udita questa
inaspettata partenza del papa, Federigo, che soggiornava allora in Pisa,
rimase estatico; e scorgendo bene dove andava a parare la determinazion
del pontefice, allora fu che spedì di nuovo il conte di Tolosa con
lettere, nelle quali si maravigliava forte della risoluzione da lui
presa, con esibirsi nondimeno prontissimo a far quanto egli voleva. Il
conte, andato a Savona, di là significò il tutto a papa Innocenzo; ma
senza frutto, perchè il pontefice, tante volte deluso dalle promesse e
parole di Federigo, volle continuar il suo viaggio alla volta di Lione,
dove avea già determinato di fermarsi. Infermatosi il pontefice in
Genova, appena alquanto si riebbe, che neppure giudicandosi sicuro nella
patria, dove stavano i Mascherati fazionari dell'imperadore, fattosi
portare in letto, passò a Varragine[3174], ed indi a Stella, dove
_Manfredi marchese_ del Carretto l'accolse con una copiosa mano d'armati
per maggior sua sicurezza, perchè non mancavano insidie e nemici in
quelle parti. Cadde quivi di nuovo malato, e si dubitò di sua vita;
migliorato e scortato dal marchese di Monferrato, arrivò ad Asti nel dì
6 di novembre, e vi trovò le porte chiuse, perchè quel popolo teneva per
l'imperadore; ma non passò molto che vennero a dimandargli perdono di
quest'ingiuria. Giunto nel dì 12 del suddetto mese a Susa, ebbe la
consolazione di trovar otto cardinali, che quivi l'aspettavano; e con
essi non senza gravi incomodi valicate l'Alpi, felicemente nel dì 2 di
dicembre giunse a Lione, ricevuto onorevolmente da quel popolo. In essa
città piantò la sua corte, alla quale cominciò a concorrere una infinità
di gente da tutte le parti. Pieno intanto di rabbia Federigo fece
chiudere i passi, affinchè non passassero uomini e danari dall'Italia in
Francia: il che servì a maggiormente screditarlo, qual manifesto
persecutor della Chiesa. Scrive Matteo Paris[3175] una particolarità,
della cui verità si può forte dubitare. Cioè che per li maneggi del
papa, de' Milanesi, e d'altri Italiani e Tedeschi, fu proposto in
Germania d'eleggere in re il langravio di Turingia. Penetratasi questa
mena da Federigo, occultamente si trasferì egli in Germania, ed
abboccatosi con esso langravio, e regalatolo ben bene, il fece tutto
suo, e poi segretamente se ne ritornò in Italia. Lo creda chi vuole. Di
ciò riparleremo anche nell'anno seguente. Certo bensì è che si
staccarono in questo anno da esso Federigo le città d'Asti e di
Alessandria, ed altri luoghi, con aderire alla lega di Lombardia, tutta
impegnata a favorire il papa. Nel passaggio ancora che fece papa
Innocenzo per gli Stati di _Amedeo conte_ di Savoia, tirò nel suo
partito quel principe, con dargli in moglie una sua nipote, e
concedergli in dote le castella di Rivoli e di Vigliana colla valle di
Susa, che erano del vescovato di Torino, e dichiararlo suo vicario sopra
tutta la Lombardia. Così scrive l'autore anonimo degli Annali
Milanesi[3176], con cui va concorde Galvano Fiamma[3177]. Tutto ciò
nondimeno merita esame, dacchè il Guichenon[3178] non riconosce che
questo principe prendesse in moglie alcuna nipote del papa. Forse gli fu
solamente promessa, ed altro non ne seguì dipoi: oppure si parla di
Tommaso conte di Savoia, che poi nel 1251 sposò veramente una nipote
d'esso papa. Intanto noi sappiamo di certo che papa Innocenzo passò
molto tranquillamente nell'anno presente per la Moriena, e per altri
paesi del conte di Savoia: il che ci porge sufficiente indizio
dell'esser egli entrato nel partito del papa. Ciò non conobbe il
Guichenon, il quale, appoggiandosi in gran copia di racconti a degli
storici moderni, non può sovente appagar in tutto l'animo dei lettori
desiderosi di più sodi fondamenti. Riuscì in questo anno a Riccardo
conte di San Bonifazio, ad _Azzo VII_ marchese d'Este, ed al popolo di
Mantova[3179], dopo lungo assedio, di prendere e dirupare il castello
d'Ostiglia, che era de' Veronesi, castello riguardevole, perchè munito
di belle e forti mura, di alte torri e grandi fosse, e difeso da un lato
dal Po. Fece varii tentativi Eccelino da Romano per disturbar
quell'assedio, o per soccorrere quella terra; ma non potè impedirne la
perdita e rovina.

NOTE:

[3169] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3170] Petrus de Curbio, Vita Innocent. IV, cap. 9.

[3171] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3172] Vita Innocentii IV, cap. 11 P. I, tom. 3 Rer. Italic.

[3173] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.

[3174] Petrus de Curbio, Vita Innocent. IV, cap. 15, P. I, tom. 3 Rerum
Ital.

[3175] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3176] Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital.

[3177] Gualvaneus Flamma, in Manipul. Flor., cap. 278.

[3178] Guichenon, Histoire de la Mais. de Savoye, tom. 1.

[3179] Roland., lib. 5, cap. 12. Paris de Cereta, Annal. Veron., tom. 8
Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXLV. Indizione III.

    INNOCENZO IV papa 3.
    FEDERIGO II imperadore 26.


Dimorando in Lione _Innocenzo_ sommo pontefice, avea nel Natale
dell'anno precedente intimato il concilio generale da tenersi in essa
città nella festa di san Giovanni Batista dell'anno presente[3180]: al
qual fine spedì le lettere d'invito per tutta la cristianità, con aver
citato l'imperador Federigo a comparirvi in persona o per mezzo de' suoi
procuratori. Arrivò poscia a Lione il patriarca d'Antiochia inviato da
esso Federigo con altri suoi uffiziali, mostrando premura di ripigliare
il trattato di pace. I documenti prodotti dal Rinaldo[3181] ci
assicurano che Innocenzo IV con animo paterno condiscese, purchè
Federigo prima del concilio restituisse la libertà ai prigionieri, e
rendesse le terre della Chiesa, e si facesse compromesso nel papa stesso
per le differenze dei Lombardi con esso imperadore. Tornossene il
patriarca a Federigo per informarlo del negoziato. Ma bisogna ben dire
che questo principe fosse invasato da una cieca alterigia; e con una
strana politica conducesse i proprii affari. Niuna risposta fu data al
papa, e si giunse finalmente senza conclusione alcuna al general
concilio di Lione; se non che egli prima spedì colà l'arcivescovo di
Palermo e Taddeo da Sessa suo avvocato, acciocchè sostenessero le
ragioni sue. Che v'inviasse anche Pietro dalle Vigne, lo scrive
Rolandino[3182], da cui parimente intendiamo che sul fine di maggio esso
imperadore venne a Verona, ed ivi tenne un gran parlamento, al quale
intervennero l'imperador di Costantinopoli, il duca d'Austria, e i duchi
di Carintia e Moravia. Dopo molti ragionamenti e consulti continuati per
più dì, niuna risoluzione fu presa; se non che Federigo, mostrando
intenzione di trovarsi personalmente al concilio di Lione, con questa
apparenza andò fino in Piemonte. Nelle prime sessioni del concilio,
composto di più di centoquaranta tra patriarchi, arcivescovi e vescovi,
furono proposti dal papa i reati di Federigo; nè mancò Taddeo da Sessa
di addurre, per quanto seppe, le giustificazioni del suo padrone,
rispondendo a capo per capo. Il vescovo di Carinola, oppure di Catania,
come ha la Cronica di Cesena[3183], e un arcivescovo spagnuolo fecero un
ampio racconto dei costumi e della vita di Federigo, conchiudendo
ch'egli era un eretico, un epicureo, un ateista: al che Taddeo rispose
con forza, pretendendole tutte calunnie[3184]; e in oltre chiese una
dilazione per l'avviso pervenutogli che l'imperadore intendeva di venire
in persona al concilio per giustificarsi; oppure perchè il medesimo
Taddeo si lusingava di farlo venire. Si stentò ad ottenere dal papa la
dilazion di due settimane; ma Federigo non comparve mai, forse credendo
l'andata sua o pericolosa alla sua dignità o superflua, ovvero perchè lo
spirito dell'umiliazione non era mai entrato nè sapeva entrare in quel
cuore. Non imitò già l'avolo suo Federigo, perchè non albergava in lui
quella religione nè quel senno che l'altro mostrò. Per ciò nel dì 17 di
luglio papa Innocenzo[3185] nel concilio, dopo aver premesso i delitti
principali di Federigo, proferì la sentenza di scomunica contra di lui,
e il dichiarò decaduto dallo imperio e da tutti i regni, con assolvere i
sudditi dal giuramento di fedeltà. Taddeo da Sessa cogli altri
procuratori suoi compagni, che già avea protestato contra di tal
sentenza, ed appellato al futuro concilio, se n'andò tosto a portar la
nuova a Federigo, il quale, secondo Matteo Paris, fremendo di sdegno e
di rabbia, scoppiò in alcune ridicolose sparate, e dopo non molto
scrisse dappertutto atroci e velenose lettere contra del papa, le quali
maggiormente servirono a fargli perdere il concetto di vero cristiano.
Rivolse poscia il suo sdegno contra de' Milanesi, perchè informato
qualmente il pontefice movea tutte le suste in Germania per far eleggere
un nuovo re, e già convenivano i voti di molti di que' principi,
disgustati di Federigo, nella persona di _Arrigo_ langravio di Turingia;
seppe ancora che essi Milanesi con gli altri della lega di Lombardia
aveano spedito i lor deputati ad animare quel principe a prendere la
corona colla promessa di assisterlo con tutte le loro forze.

Venuto dunque da Torino l'imperadore a Pavia, uscì in campagna contra
d'essi Milanesi, e da un'altra parte li fece assalire anche dal _re
Enzo_ suo figliuolo. Se vogliam prestar fede a Matteo Paris, succedette
una fiera e sanguinosa battaglia fra l'armata d'Enzo e quella de'
Milanesi, e dall'una e dall'altra parte perì innumerabil gente, colla
peggio nondimeno de' secondi. Non la raccontano così gli storici di
Milano[3186], e si può credere che favoloso sia in parte ciò che narra
il suddetto storico inglese. Secondo i Milanesi, mosse Federigo
l'esercito da Pavia, ed entrato nel territorio di Milano, distrusse il
monistero di Morimondo. Nel dì 21 d'ottobre si accampò ad Abbiate sulla
riva del Ticino, volendo pur passare quel fiume; ma venutagli incontro
sull'opposta riva l'armata de' Milanesi, quivi stettero per ventun
giorno i campi nemici senza alcuna azione. Tentò eziandio Federigo di
passare il Ticinello a Buffalora; ma gliel impedirono i Milanesi, co'
quali era Gregorio da Montelungo legato pontificio. Lo stesso gli
avvenne a Casteno. In questo mentre con altro esercito, cioè coi
Bergamaschi e Cremonesi, il re Enzo passò all'improvviso il fiume Adda
vicino a Cassano, ed arrivò a Gorgonzuola. Accorsero a quella parte due
delle porte di Milano sotto il comando di Simone da Locarno, e vennero
alle mani col re Enzo, nè solamente sbaragliarono il di lui esercito, ma
fecero anche lui prigione, benchè il suddetto Simone, dopo averne
ricavato il giuramento di non mai più entrare nel distretto milanese, il
rimettesse in libertà. Perciò Federigo si ritirò a Pavia, e andossene
poi a passare il verno in Toscana a Grosseto. Avrei creduta mischiata
qualche favola in questo ultimo racconto, se l'antica Cronica di Reggio
non me ne avesse accertato colle seguenti parole: _Enzus imperatoris
filius supra Taleatam Addae cum Reginis, Cremonensibus, et Parmensibus
ivit. Et ceperunt Gorgunzolam, ad cujus assedium captus fuit rex, et
recuperatus per populum reginum et parmensem_[3187]. Ascoltiamo ora il
Continuatore di Caffaro, autore allora vivente[3188]. Narra egli che
Federigo nella primavera venuto da Pisa a Parma, andò poscia a Verona, e
spedì un gagliardo esercito contra de' Piacentini, nel territorio de'
quali si fermò più d'un mese, dando il guasto dappertutto, senza che
quel popolo si movesse punto dalla fedeltà verso la Chiesa. Fingendo
poscia di voler passare al concilio di Lione, venne a Cremona e a Pavia,
e di là ad Alessandria. Gli portarono gli Alessandrini le chiavi della
città, e gli sottoposero tutte le loro castella. Di là passò a Tortona:
del che ingelositi i Genovesi, inviarono tosto delle buone guarnigioni
alle loro castella di Gavi, Palodi e Ottaggio di qua dall'Apennino.
Anderarono ad incontrar Federigo i marchesi di Monferrato, di Ceva e del
Caretto, con ritirarsi dalla lega di Lombardia e far lega con lui.
Galvano Fiamma aggiugne[3189], avere altrettanto fatto il conte di
Savoia. Nel mese poscia di ottobre con potente esercito uscì ai danni
de' Milanesi, i quali con grandi forze il fermarono virilmente al
Ticinello, nè il lasciarono mai passare. In aiuto d'essi Milanesi il
comune di Genova inviò cinquecento balestrieri. Perciò, veggendo
Federigo inutili i suoi sforzi, nel dì 12 di novembre congedò l'armata,
e se n'andò a Grosseto. Di niuna considerabile e sanguinosa battaglia in
essi Annali Genovesi e in altri si truova menzione; e però dovette la
sopraddetta essere cosa di poco momento. Abbiamo dalla Cronica
Piacentina[3190] che il comune di Piacenza spedì ducento cavalieri in
soccorso dei Milanesi al Ticinello; e che, entrato il re Enzo coi
Cremonesi ed altri popoli sul Piacentino, arrivò fin presso alla città,
e bruciò lo spedale di Santo Spirito, e portò via la campana di San
Lazzaro. In questo anno ancora dalla città di Parma Federigo fece
scacciare Bernardo della nobile casa de' Rossi, perchè parente del papa,
con distrugger anche le di lui case. In tal congiuntura[3191] uscirono
parimente di Parma le nobili famiglie de Lupi e dei Correggieschi,
perchè erano di fazione guelfa, ed imparentati anch'essi colla casa de'
conti Fieschi. Impadronissi in quest'anno[3192] _Eccelino_ da Romano
delle castella di Anoale e di Mestre, e vi fece fabbricar dei gironi,
specie di fortezze usate in que' tempi. Le tolse ai Trivisani, a' quali
ancora sul finire dell'anno fu occupato Castelfranco da Guglielmo da
Compo San Piero. Anche dalla città di Reggio[3193], per ordine del re
Enzo, furono cacciati e banditi i Roberti, quei da Fogliano, i Lupisini,
i Bonifazii, quei da Palude, ed altri di fazione guelfa, insieme coi
Parmigiani, che s'erano ritirati in quella città. Vedremo che anche
Tommaso da Fogliano Reggiano era nipote di papa Innocenzo IV. Aggiungono
gli Annali vecchi di Modena[3194] che in Reggio ne' primi giorni
dell'anno vennero all'armi i Guelfi e i Ghibellini, e che nel dì 3 dì
luglio si tornò a combattere; ma entrato Simone de' Manfredi e Marione
de' Bonici con gran gente, ed uniti col popolo, cacciarono fuori i
Roberti e gli altri Guelfi. Parimente da Verona furono forzati ad uscire
quei che vi restavano di fazione guelfa, e questi si ricoverarono a
Bologna. In essi Annali finalmente si legge che anche la città di
Firenze si mosse a rumore, e toccò ai Guelfi di abbandonar la patria:
tutto per opera e maneggio di Federigo. Secondo Ricordano
Malaspina[3195], questa novità di Firenze pare succeduta solamente
nell'anno 1248. Tolomeo da Lucca[3196] di ciò parla all'anno 1247, e va
con lui d'accordo la Cronica di Siena[3197]. Ma è da preferire
Ricordano, del cui parere sono ancora altre storie. L'Ammirato
differisce fino ai 1249 l'uscita de' Guelfi da quella città.

NOTE:

[3180] Petrus de Curbio, Vita Innocent. IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[3181] Raynald., in Annal. Eccl.

[3182] Roland., lib. 5, cap. 13.

[3183] Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.

[3184] Matth. Paris, Hist. Anglic.

[3185] Raynaldus, in Annal. Eccl. Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom.
6 Rer. Italic.

[3186] Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Gualv. Flamm., in Manipul.
Flor.

[3187] Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.

[3188] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6.

[3189] Gualvan. Flamma, cap. 279.

[3190] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[3191] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3192] Roland., lib. 5, cap. 15.

[3193] Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.

[3194] Annal. Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.

[3195] Ricordano Malaspina, Storia Fiorent., cap. 137.

[3196] Ptolom. Lucens., in Annal. brev.

[3197] Chronic. Senense, tom. 15 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXLVI. Indizione IV.

    INNOCENZO IV papa 4.
    FEDERIGO II imperadore 27.


Di gran maneggi avea già fatto il pontefice _Innocenzo_ coi principi
della Germania, affinchè si venisse all'elezione d'un nuovo re, senza
neppure avere riguardo a _Corrado_ figliuolo di _Federigo_, che non era
nè scomunicato nè deposto. Alieni da questa risoluzione essendosi
trovati il re di Boemia, i duchi di Baviera, Sassonia, Brunsvich e
Brabante, e i marchesi di Misnia e di Brandeburgo[3198]: ne scrisse loro
il papa lettere efficaci. Tanto innanzi andò l'affare, che finalmente fu
eletto _re Arrigo langravio_ di Turingia dagli arcivescovi di Magonza,
di Colonia e di Treveri, e da alcuni altri principi[3199]: nuova che
sommamente rallegrò il papa per la conceputa speranza che col braccio di
questo principe egli schianterebbe Federigo e tutta la sua casa. Mandò
_Filippo vescovo_ di Ferrara per suo legato in Germania con un buon
rinforzo di danari al re novello, e con ordine di forzar tutti gli
ecclesiastici a riconoscerlo per tale. Scrisse parimente ai principi
secolari, pregandoli ed esortandoli a far lo stesso, con dispensar loro
per questo l'indulgenza plenaria di tutti i loro peccati. Volle inoltre
che i soldati del nuovo re prendessero la croce, e godessero di tutte le
indulgenze ed immunità, come se andassero a militare contro ai Turchi e
agli altri infedeli: il che servì di cattivo esempio per li tempi
susseguenti, con vedersi la religione servire alla politica. Intanto il
re Corrado figliuolo di Federigo, alla cui rovina ancora tendeva tutta
questa novità, raunato un forte esercito, marciò alla volta di
Francoforte per disturbar la dieta che ivi dovea tenere il
langravio[3200]. Venuto alle mani coll'armata del nemico re, ne restò
totalmente disfatto, di maniera che si giudicava come ridotto a
fuggirsene in Italia, se il duca di Baviera non avesse imbracciato lo
scudo per lui. Furono creati nello stesso tempo dal pontefice due
cardinali legati, acciocchè facessero un'armata, e commovessero la
Puglia e Sicilia contra di Federigo[3201]. E perciocchè occorrevano di
grandi spese per sostenere sì strepitosi impegni, s'imposero alle chiese
di Francia, Italia, Inghilterra e d'altri paesi non poche gravezze, per
cagione delle quali uscirono poi molte doglianze degl'Inglesi, riferite
da Matteo Paris[3202], essendo ben probabile che anche gli ecclesiastici
degli altri paesi si lamentassero forte che il loro danaro avesse da
servire in uso tale. Infatti si cominciarono varie congiure contra di
Federigo nella Puglia. Ne erano autori Teobaldo Francesco, Pandolfo
Riccardo, la casa de' conti di San Severino, ed altri non pochi baroni.
Per attestato del Continuatore di Caffaro[3203], la volevano anche
contra la vita d'esso imperadore. Fu in questi tempi, oppure molto più
tardi, come altri vogliono, i quali sembrano più veritieri, che anche
Pietro dalle Vigne, gran cancelliere di Federigo e suo favorito in
addietro, cadde dalla sua grazia. Chi scrisse, perchè trovato che avesse
parte nelle suddette congiure; chi perchè nel concilio di Lione non
articolasse parola in favore del suo padrone; chi perchè lo avesse
voluto avvelenare: del che fu convinto. Dei segreti dei principi ognun
vuol dire la sua. Quel che è certo, Federigo il fece abbacinare, lo
spogliò di tutti i suoi beni, e confinollo in una prigione, dove dicono
che da lì a tre anni egli stesso disperato, con dar della testa nel
muro, si abbreviò le miserie e insieme la vita. Abbiamo da Matteo Paris,
che trovandosi Federigo assediato da tanti turbini da tutte le parti,
ricorse al santo re di Francia _Lodovico IX_, acciocchè s'interponesse
col papa per la concordia, con esibirsi di passare in Terra santa colle
sue forze per ricuperare quel regno, e quivi terminare i suoi giorni,
purchè fosso rimesso in grazia della Chiesa. Lodovico, perchè avea già
presa la croce, voglioso d'impiegar le sue armi in Oriente in pro della
cristianità, parendogli questa un'offerta di sommo rilievo, per poter
unitamente con Federigo promuovere gli interessi di Terra santa, e
perchè conosceva che, durante la discordia fra la Chiesa e l'imperio,
nulla di bene potea sperare in Oriente; cercò di abboccarsi col sommo
pontefice, e l'abboccamento seguì nel monistero di Clugnì. Per quanto si
affaticasse il re a far gustare al papa questa proposizione, nulla potè
mai ottenere, persistendo Innocenzo IV in dire che non si dovea più
fidar di Federigo, principe tante volte provato mancator di parola. Poco
aggustato se ne tornò il re Lodovico alla sua residenza. Del suo ardore
per questa pace ne siamo anche assicurati dal Rinaldi annalista
pontificio.

Oltre a ciò, per dar animo ai ribelli di Puglia, si fece correr voce che
Federigo era morto in Toscana; ma Federigo, accorso colà, dissipò non
solamente questa diceria, ma eziandio i sollevati colla prigionia
d'alcuni; contra de' quali poscia, e contra de' parenti, e infine contra
chiunque fu o provato o sospettato complice egli poscia con atrocissimi
tormenti infierì. In una sua lettera scritta al re di Inghilterra nel dì
15 d'aprile del presente anno, parla egli de' congiurati depressi, con
aggiugnere[3204] che nel dì ultimo di marzo essendo venuto il cardinal
Rinieri col popolo di Perugia e d'Assisi per assalire Marino da Ebolo
suo capitano nel ducato di Spoleti, questi gli avea data una rotta; e
che, oltre agli uccisi, da cinque mila n'erano restati prigionieri. C'è
licenza di credere molto meno. Negli Annali vecchi di Modena si leggono
queste parole:_ Eodem anno 1246 Perusini conflicti fuerunt a Federico
imperatore_[3205]. Da una lettera poi di Guglielmo da Ocra abbiamo che
Federigo fece in quest'anno pace coi Romani e i Veneziani. Niuna
menzione di ciò s'ha dalla Cronica del Dandolo[3206] da cui bensì
sappiamo che circa questi tempi tornò sotto la signoria di Venezia la
città di Zara. Non parlano le Croniche di fatto alcuno riguardevole
accaduto in quest'anno in Lombardia. Ricavasi solamente da quelle di
Piacenza[3207] che il _re Enzo_ venne colle genti di Parma e Cremona sul
Piacentino ad istanza di Alberto da Fontana, che gli avea promesso di
dargli la città. Seguì ancora un conflitto fra lui e i Piacentini. Colle
mani vote se ne tornò il re Enzo a Cremona. In Parma[3208] i ministri
dell'imperadore occuparono il palazzo e la torre del vescovo, e tutte le
rendite del vescovato, con imporre eziandio delle gravissime taglie e
contribuzioni a tutti i beni della Chiesa: mestiere nello stesso tempo
praticato da Federigo in Puglia, e negli altri paesi posti sotto il suo
giogo. _Obizzo_ e _Corrado_ marchesi Malaspina si dichiararono in
quest'anno per la lega di Lombardia[3209]; ma, secondo l'uso de'
marchesi di quelle parti, Corrado da lì a non poco tornò ad abbracciar
il partito di Federigo. Prosperarono in quest'anno gli affari di
_Eccelino_ da Romano[3210], coll'essere venuti alle sue mani
Castelfranco, Triville e Campreto, castella de' Trivisani. Ebbe anche
per forza il castello di Mussolento. Costui in Verona fece morire i
nobili da Lendenara, e molti altri in Padova per sospetti di congiura,
che si dicea tramata contra di lui. Negli Annali Veronesi[3211], i quali
in questi tempi si trovano mancanti e i confusi, vien riferita una
battaglia accaduta di là dal Mincio fra Eccelino e i Veronesi dall'una
parte, e il _conte Ricciardo_ da San Bonifazio coi Mantovani e
fuorusciti veronesi, ed _Azzo VII_ marchese d'Este coi Ferraresi,
dall'altra. Niuno restò vincitore, ma molti furono i morti e prigioni, e
non pochi cavalli pel troppo caldo vi rimasero soffocati. A qual anno
appartenga tal combattimento nol so dire: probabilmente all'anno
seguente, come osservò il Sigonio.

NOTE:

[3198] Raynald., in Annal. Eccles.

[3199] Albert. Stadens., in Chron.

[3200] Monach. Patavin., in Chron., tom. 8 Rer. Ital.

[3201] Raynald., in Annal. Eccl.

[3202] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3203] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.

[3204] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3205] Annales Veteres Mutinenses, tom, 11 Rer. Ital.

[3206] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[3207] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[3208] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3209] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6. tom. 6, Rer. Ital.

[3210] Roland., lib. 3, cap. 16.

[3211] Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCXLVII. Indizione V.

    INNOCENZO IV papa 5
    FEDERIGO II imperadore 28.


Non so io qual fede meriti Matteo Paris in un fatto, di cui non
apparisce vestigio presso gli storici tedeschi, benchè, per vero dire,
la Germania non ha in questi tempi storico alcuno che ci dia sicuro lume
dei suoi avvenimenti. Scrive egli adunque[3212], che mentre l'eletto _re
Arrigo_ langravio di Turingia si disponeva per ricevere solennemente la
corona germanica, il _re Corrado_ figliuolo di _Federigo_ con quindici
mila combattenti si mise in agguato, e, venuto a battaglia con lui,
sbaragliò la di lui gente con istrage di moltissimi, e prigionia di
molti più, e colla presa di tutto il tesoro inviatogli dal papa. Per
questo colpo caduto Arrigo in una grave malinconia, s'infermò e diede
fine a' suoi giorni. Scrive il Sigonio[3213] ch'egli _ictu sagittae
saucius fugam arripere coactus, haud ita multo post dolore confectus
interiit_. Avrà egli presa tale notizia da Tritemio[3214], o dal
Nauclero, che scrivono ciò succeduto nell'assedio d'Ulma. Gli altri
storici dicono che esso re Arrigo morì nel suo letto cristianamente per
disenteria. Quante ciarle mai si saranno fatte per tal morte in tempi sì
sconvolti, tempi sì pieni di bugie, di falsi giudizii e di
strabocchevoli passioni, interpretando ognuno a suo talento i naturali
avvenimenti delle cose, come ancora si dovette fare a' tempi di papa
Gregorio VII per simili avvenimenti. Non si perdè d'animo per questo il
pontefice Innocenzo, ma, spedito in Germania il _cardinal Pietro_
Capoccio nel dì 4 d'ottobre dell'anno presente[3215], fece eleggere re
di Germania _Guglielmo conte_ d'Olanda, giovane prode e generoso in età
di circa venti anni, il qual poi essendosi colla forza impadronito di
Aquisgrana nell'anno seguente, quivi nella festa d'Ognisanti fu
solennemente coronato da _Guglielmo cardinale_ vescovo sabinense. Gli
mandò tosto il papa un rinforzo di trenta mila marche d'argento, che
felicemente arrivò alle di lui mani. Ma non ebbe già questa felicità la
spedizione di quattordici altre mila marche d'argento, che il papa,
stando tuttavia in Lione avea consegnato ad _Ottaviano cardinale_ di
Santa Maria in Via lata, insieme con un corpo di soldatesche per
soccorso dei Milanesi e degli altri collegati di Lombardia. Il
Continuatore di Caffaro scrive[3216] che erano mille e cinquecento
cavalli che il papa avea fatto assoldare in Lione. _Amedeo conte di
Savoia_[3217], perchè amico di Federigo, benchè si mostrasse parziale
del papa, trovò tante scuse, che il cardinale per quasi tre mesi fu
costretto a fermarsi e a consumare il danaro nel soldo di quegli armati,
i quali in fine licenziati se ne tornarono alle lor case; ed egli, se
volle passar in Italia, dovette colla sola sua famiglia guadagnarsi il
transito per vie inospite e dirupate. Quetati i rumori della Puglia,
venne in quest'anno Federigo a Pisa, e di là in Lombardia, senza
commettere ostilità veruna. Portossi dipoi a Torino, se crediamo a
Matteo Paris, per andare alla volta di Lione _cum innumerabili
exercitu_, con timore de' buoni ch'egli pensasse a far qualche brutto
scherzo al papa e ai cardinali soggiornanti in quella città. Ma questo
esercito, ed esercito innumerabile, è una frottola spacciata dal buon
Paris. Particolarità di tanto rilievo non l'avrebbe omessa nella vita di
papa Innocenzo IV Pietro da Curbio, che si trovava allora in Lione.
Altro non dice questo autore, se non che Federigo venne a Torino,_ ubi
cum comite Sabaudiae, et aliis quibusdam baronibus sibi adhaerentibus
nequiter machinans contra summum pontificem, ipsum Lugduni circumvenire
fraudulentissime procurabat_. Profittò di questa congiuntura il conte di
Savoia per farsi consegnare da Federigo il castello di Rivoli. Secondo
il suddetto autore, si teneva in Lione che Federigo fosse venuto per
ingannar con qualche frode, e non già per opprimere colla forza
dell'armi il pontefice. Per lo contrario, Federigo in una lettera,
rapportata dallo annalista Rinaldi scrisse che la risoluzione da lui
presa di portarsi a Lione gli era venuta da Dio, affine di terminar le
discordie, e giustificarsi appresso il papa e i Franzesi, per quanto io
vo credendo, dell'imputazione datagli d'essere un eretico e miscredente.
Se fosse vera o finta questa sua intenzione, non saprei dirlo io: ben so
che non sarebbe mai convenuta a lui una protesta sì fatta, quando egli
avesse condotto seco un esercito smisurato, capace di accusarlo presso
d'ognuno, non già di pacifici, ma bensì di perniciosi disegni. Così
dall'Annalista di Genova impariamo ch'egli venne in Lombardia mansueto
come un agnello, e diceva di voler ubbidire agli ordini del papa, e dar
pace al mondo; e ciò ad istanza del re di Francia. Comunque sia, eccoti
disturbati i di lui o buoni o perversi disegni dall'avviso d'una novità,
che il fece smaniar per la collera, e tornare ben tosto indietro.

I parenti di papa Innocenzo scacciati da Parma[3218], cioè i Rossi, i
Correggeschi, i Lupi ed altri, tenendo buona intelligenza in quella
città, nel dì 16 di giugno, giorno di domenica, con grosso corpo
d'armati vennero alla volta di Parma. Arrigo Testa da Arezzo, che quivi
era podestà per l'imperadore, ciò presentito, andò loro incontro fino al
fiume Taro colla milizia di Parma, e venne con loro a battaglia. O così
portasse la fortuna dell'armi, oppure perchè il popolo di Parma facesse
due diverse figure, restò egli morto in quell'azione, i suoi sbandati se
ne tornarono alla città, dove entrarono anche i nobili fuorusciti col
seguito loro. Gherardo da Correggio a voce di popolo fu immantinente
proclamato podestà, furono prese le torri e il palazzo del comune, con
iscacciarne gli uffiziali e soldati dell'imperadore. Trovavasi allora il
re Enzo all'assedio di Quinzano, castello de' Bresciani[3219]. Appena
ebbe intesa questa nuova, che, senza perdere un momento di tempo, venne
coll'armata sua a portarsi alle rive del Taro, per impedire i soccorsi a
Parma. Non per questo rimasero i Milanesi di spedirvi mille uomini
d'armi, ciascuno de' quali, secondo gli Annali di Milano[3220], avea
quattro cavalli. Secento ancora (forse _ducento_, secondo la Cronica di
Piacenza) ne mandarono i Piacentini[3221]. Fu condotta questa brigata
per la montagna da Gregorio di Montelungo legato apostolico, e da
Bernardo figliuolo d'Orlando Rosso, e felicemente arrivò in Parma con
somma consolazione di quel popolo. Essendo volata anche a Torino questa
novità, Federigo, ben conoscente delle conseguenze che seco portava,
perchè a lui tagliava la comunicazione con Reggio e Modena, città a lui
fedeli, e colla Toscana, precipitosamente venne alla volta di Parma, e
in vicinanza d'essa cominciò a trincierarsi. Attesero anche i Parmigiani
a far fossi, e a fabbricar palancati e bitifredi per lor difesa. Ordinò
Federigo al comune di Reggio di far prigioni quanti Parmigiani si
trovavano in quella città; e fu ubbidito. Un pari comandamento andò a
Modena, e quivi fu presa la cinquantina de' cavalieri di Parma, già
venuta in soccorso di Modena, acciocchè i Bolognesi non impedissero il
raccolto de' grani; e tutti inoltre gli scolari di Parma, che erano allo
studio delle leggi in Modena, città anche allora provveduta di buoni
lettori per la lor gara col popolo di Bologna. Furono tutti condotti a
Federigo, ed incarcerati. Fu anche sconfitta dal re Enzo la cavalleria
di Parma verso Montecchio, con restarvi molti di essi prigioni. Tra
questi ed altri presi in diversi luoghi, ebbe Federigo da mille prigioni
parmigiani, de' quali barbaramente cominciò a farne morir quattro in un
giorno in faccia alla città, e due nel dì seguente; ed era per seguitar
questa barbarie, se il popolo di Pavia mosso a compassione non avesse
chiesta in dono la loro vita, facendogli conoscere che la loro morte
nulla serviva a prendere la città, e solamente potea rendere lui odioso
a tutto il mondo. Il solo Colorno si tenne saldo in quelle congiunture;
tutto il resto del distretto ebbe il guasto, e venne in potere di
Federigo, il quale a quell'assedio avea ben dieci mila cavalli, e una
quantità innumerabile di fanteria di varie città, con alcune migliaia di
Saraceni balestrieri. Distruggevano costoro tutte le case, e ne
asportavano al campo imperiale tutti i mattoni e i coppi, co' quali,
d'ordine di Federigo, si andò fabbricando una città verso l'occidente in
faccia a Parma, con fosse, steccati, bitifredi, baltresche, ponti
levatori e mulini. Le fu posto il nome di Vittoria, per far buon augurio
all'imperadore, risoluto di non muoversi di là senza aver presa la
nemica città. Della nuova sua fece egli il disegno[3222], dopo aver
fatto prendere da' suoi strologhi l'ascendente più favorevole; e fu da
essi ben servito, siccome vedremo.

L'assedio di Parma commosse ben tosto al soccorso i circonvicini
collegati della Chiesa. _Ricciardo conte_ di San Bonifazio v'entrò con
una squadra d'armati. I Mantovani si scagliarono addosso ai Cremonesi,
saccheggiando e bruciando tutto sino a Casalmaggiore. _Azzo VII_
marchese d'Este coi Ferraresi, i fuorusciti di Reggio, Bianchino da
Camino, e infin Alberico da Romano, fratello di Eccelino, con una mano
di Trivisani, accorsero all'aiuto dell'assediata città. Anche i Genovesi
v'inviarono quattrocento cinquanta balestrieri, e trecento i conti di
Lavagna nipoti del papa. Fece all'incontro Federigo venire alla sua
armata _Eccelino_ da Romano co' Padovani, Vicentini e Veronesi. Allorchè
egli giunse alla villa di Gazoldo, passando pel Mantovano, il marchese
d'Este coi Mantovani nel mese di giugno assalitolo, diedero una
spelazzata alla sua gente, e massimamente ai Veronesi, che aveano la
retroguardia. Fu anche spedito dal papa il _cardinale Ottaviano_ degli
Ubaldini, il quale coi Milanesi, Bresciani, Mantovani, Veneziani e
Ferraresi si accampò nella Tagliata di Parma. Cresceva intanto ogni dì
più la fame in Parma per la mancanza de' viveri. Fecero i Mantovani e
Ferraresi venire una gran copia di barche per Po; e perciocchè al loro
passaggio si opponeva un ponte fabbricato dal re Enzo su quel fiume, i
collegati della Chiesa lo sforzarono e vinsero[3223]: dopo di che
introdussero animosamente in Parma una gran quantità di frumento,
melica, spelta, orzo, sale ed altre vettovaglie, delle quali abbisognava
l'afflitta città. Non istettero oziosi in questo tempo i Bolognesi,
profittando della lontananza de' Modenesi, iti al campo imperiale[3224].
Oltre all'aver anch'essi inviato all'armata della Chiesa in difesa di
Parma mille e quattrocento soldati, a tradimento, cioè per via di
danari, tolsero nel mese di luglio ai Modenesi[3225] il castello di
Bazzano. Diversamente scrive il Sigonio[3226], che quel popolo si
arrendè a patti di buona guerra. In aiuto de' Modenesi accorse allora
Eccelino da Romano; e però andarono ad accamparsi vicino a Bazzano a
fronte del campo bolognese, con aspettar anche un rinforzo d'uomini
d'armi dal re Enzo. Vennero poscia alle mani coi Bolognesi nel dì 23 di
luglio, e vi fu molta perdita di gente dall'una parte e dall'altra,
colla peggio nondimeno del campo bolognese. Ancor qui il Sigonio
discorda dai nostri Annali. Contuttociò essi Bolognesi s'impadronirono
dipoi anche di Montalto, di Savignano, e d'altri luoghi del Modenese.
Jacopino, e Guglielmo suo nipote, de' Rangoni da Modena, erano dianzi
passati al servigio del re Enzo con venticinque uomini d'armi. Senza
licenza dell'imperadore si partirono dall'assedio di Parma, e però
furono banditi da Modena con tutta la fazione guelfa, appellata degli
Aigoni. Loro diedero i Bolognesi il castello di Savignano da abitare. In
quest'anno i popoli della Lunigiana e Garfagnana si ribellarono
all'imperadore[3227], ed imprigionarono il di lui vicario nel castello
di Groppo San Pietro. Allora Obizzo marchese Malaspina ricuperò le sue
terre di Lunigiana. Vennero anche alla divozion de' Genovesi molte
terre, che dianzi si erano rivoltate, ma non già Savona, città ostinata
nella sua ribellione. Presero essi Genovesi una galea di Federigo
vegnente in Puglia, che conduceva tre nobili milanesi della casa
Pietrasanta, destinati da esso imperadore a far cambio con dei prigioni
bergamaschi detenuti in Milano. Fecero in essa galea prigioni ducento
uomini con Rubaconte, uno de' principali bergamaschi. Per attestato di
Matteo Paris[3228], in quest'anno l'imperador Federigo diede una sua
figlia per moglie a _Tommaso_ della casa di Savoia, già conte di
Fiandra, fratello di Amedeo IV, conte di Savoia, di Guglielmo
arcivescovo di Cantorberì, e d'altri degni personaggi di quella
nobilissima casa. Gli assegnò in dote Torino e Vercelli colle adiacenze,
affinchè impedisse il passo al papa e agli aderenti di lui per quelle.
Questo matrimonio è negato dal Guichenon[3229], e non senza ragione,
perchè lo stesso Paris afferma che il papa nel 1251 maritò con lui una
sua nipote. Chi sa che non si trovasse qualche fondamento allora per
disciogliere il matrimonio contratto con una figliuola d'un imperadore
scomunicato e morto? Intanto questo patto di Matteo Paris viene a
mettere in dubbio il dirsi dal suddetto Guichenone, che la città di
Torino nel 1245 riconobbe per suo signore Amedeo conte di Savoia.

NOTE:

[3212] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3213] Sigonius, de Regno Ital., lib. 18.

[3214] Trithemius, Annal. Hirsang.

[3215] Raynaldus, in Annal. Ecclesiast. Albertus Stadens., in Chron.
Petrus de Curbio, Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[3216] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.

[3217] Matth. Paris. Hist. Angl., Petrus de Curbio, in Vita Innocentii
IV, cap. 23.

[3218] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3219] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[3220] Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital.

[3221] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[3222] Rolandinus, lib. 5, cap. 21.

[3223] Annales Veronens., tom. 8 Rer. Ital.

[3224] Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.

[3225] Annales Veter. Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[3226] Sigonius, de Regno Ital., lib. 18.

[3227] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.

[3228] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3229] Guichenon, Hist. de la Maison de Savoye, tom. 1.



    Anno di CRISTO MCCXLVIII. Indizione VI.

    INNOCENZO IV papa 6.
    FEDERIGO II imperadore 29.


Memorabile fu quest'anno per la gloriosa liberazion di Parma. Avea la
rigida stagion del verno fatto ritirare ai quartieri buona parte degli
eserciti pontificio e cesareo, esistenti sotto Parma[3230], Federigo
nondimeno stette costante all'assedio nella sua città di Vittoria. Nel
gennaio dell'anno presente la cavalleria de' Parmigiani a Collecchio
restò sconfitta dai fuorusciti di Parma. Perchè restò preso nella zuffa
Bernardo de' Rossi, fu poscia da essi iniquamente ucciso, ma ne fecero
lo stesso dì un'esecranda vendetta i Parmigiani col dar morte a quattro
de' più nobili della fazione imperiale. Ebbero essi un'altra
disavventura. Erano venuti i Mantovani con sette grosse navi
incastellate su per Po, per vietare a' Cremonesi la fabbrica d'un ponte
su quel fiume. Passarono al dispetto de' Cremonesi; ma venuto loro
addosso il re Enzo, abbandonarono quelle navi, e si diedero alla fuga,
restandovi molti d'essi prigioni. Federigo, gran vantatore delle cose
prospere, e solito ad impicciolir le contrarie (costume nondimeno
familiare di tutti i tempi), in una sua lettera[3231] scrisse che erano
state prese cento navi tra grandi e picciole in questa occasione. Tali
perdite furono in breve ben compensate. Passata la metà di febbraio in
un giorno di martedì, cioè nel dì 18 di quel mese, per quanto io vo
conghietturando (la Cronica di Reggio[3232] dice _XII exeunte februario_
che in quell'anno bissestile vien ad essere il dì 18), un soldato
milanese, secondochè vien raccontato da Rolandino[3233], per nome
Basalupo, persuase al legato pontificio Gregorio da Montelungo, a
Filippo Visdomini Piacentino podestà di Parma, e agli altri baroni
difensori di Parma, che s'avea da assalire la città Vittoria
dell'imperadore, avendo egli osservato che ne era molto sminuita la
guarnigione, e che Federigo ogni dì di buon tempo ne usciva per
sollazzarsi alla caccia del falcone, suo favorito esercizio[3234]. Fu
risoluta l'impresa, ed uscito l'esercito collegato andò vigorosamente a
dar l'assalto alla nemica città. Se ne stavano sbadigliando
gl'imperiali, non mai imaginandosi una tal visita; e quantunque fossero
superiori di numero e ben fortificati, pure talmente s'invilirono, che
dopo qualche contrasto presero la fuga. Entrati i vittoriosi pontificii,
fecero man bassa contra dei Pugliesi, e principalmente contra de'
Saraceni; a moltissimi de' Lombardi diedero quartiere. Vi restò fra gli
altri ucciso Taddeo da Sessa, quello stesso che nel concilio avea fatto
da avvocato di Federigo. Lasciovvi anche la vita il marchese Lancia. Il
tesoro trovato nella camera imperiale in danaro, gioielli, vasi d'oro,
d'argento, corone, ed altre cose preziose, fu inestimabile. Circa
duemila si contarono di uccisi, più di tremila furono i prigioni. Preso
anche il carroccio de' Cremonesi tenuto per gioia di gran prezzo,
trionfalmente fu condotto a Parma. Berta era il nome d'esso carroccio.
Federigo, che si trovava alla caccia tre miglia lungi di là,
ragguagliato del fatto, senza pensarvi molto, spronò coi suoi alla volta
di Borgo San Donnino, e di là senza fermarsi passò a Cremona, portando
seco non so se più di rabbia, oppure di malinconia. Furono i fuggitivi
inseguiti sino al Taro, e molti ancora dei Parmigiani per due miglia di
là andarono facendo de' prigioni. La città Vittoria data alle fiamme,
col suo falò terminò il trionfo de' Parmigiani, che poi non vi
lasciarono pietra sopra pietra. Grande strepito fece per tutta Italia e
ne' paesi oltramontani questo glorioso successo della parte pontificia,
e ne venne un gran crollo agli affari di Federigo in Italia.

Era tornato a Padova sul principio di quest'anno Eccelino da
Romano[3235]; e giacchè era andata a male l'impresa di Parma, pensò egli
a far delle nuove conquiste. Nelle città di Feltre e Belluno
signoreggiava Bianchino da Camino aderente alla parte guelfa. Eccelino
nel mese di maggio, presi seco i Padovani e i Vicentini, ostilmente
s'inviò verso Feltre. Nel viaggio una gazza venne a posarsi sopra la
bandiera di Eccelino, e fu sì piacevole, che si lasciò prendere. Parve
questo ad Eccelino un buon augurio, e ordinò che fosse da lì innanzi la
buona gazza delicatamente nudrita in Padova. Feltre non fece molta
resistenza; ed Eccelino passò anche sotto Belluno; ma ritrovatovi del
duro, riserbò ad altro tempo l'impresa. Nella Cronica eziandio di Verona
si legge[3236] che esso Eccelino, venuto l'ottobre dell'anno presente,
coi popoli di Verona, Padova, Vicenza, Feltre e Belluno (secondo
Rolandino, non per anche Belluno era sua), passò sul mantovano, e per lo
spazio d'un mese diede il guasto a quelle campagne, e menò via molti
prigioni. Fu in quest'anno[3237], che papa Innocenzo fulminò la
scomunica contra di quel tiranno, cioè contra del crudele Eccelino.
Ricuperarono i Parmigiani[3238] nell'anno presente le castella di
Bianello, Cuvriaco, Guardasone e Rivalta. Nè si dee tacere che al conte
Ricciardo da San Bonifazio, il quale tanto si segnalò nella difesa della
lor città, donarono il palazzo dell'imperadore che era posto nell'Arena.
Erasi staccata la città di Vercelli da Federigo; la fece egli in
quest'anno ritornare all'ubbidienza sua. Ma Novara, secondo la Cronica
Piacentina[3239], si diede in quest'anno al legato del papa e ai
Milanesi. I Bresciani[3240] anch'essi ritolsero ai Cremonesi il castello
di Pontevico. Nuovi guai recò ancora la potenza de' Bolognesi al comune
di Modena con torgli Nonantola, San Cesario e Panzano. Dagli Annali di
Genova[3241] abbiamo che i Pisani e il marchese Oberto Pelavicino aveano
fatto un grande armamento per muover guerra ai Genovesi, i quali si
prepararono per ben riceverli. La rotta degl'imperiali sotto Parma fece
lor calare l'orgoglio. Aggiungono che Federigo venne sino ad Asti, e
spedì suoi messi a Lodovico re di Francia, il quale era già in procinto
di passare il mare contra degl'infedeli, con esibir di nuovo sè stesso e
tutte le sue forze per la medesima sacra spedizione, purchè
gl'impetrasse l'assoluzione della scomunica e deposizione. Ma nulla di
ciò fu fatto, e Federigo si fermò tutto il verno in Lombardia senza
recare offesa alcuna ai Crocesignati, o ad altri popoli. Succederono
bensì molte novità nella Romagna[3242]. Spedito colà il _cardinale_
_Ottaviano_ degli Ubaldini, prese seco tutta la milizia di Bologna, e
nel mese di maggio andò a mettere l'assedio a Forlì, che dopo pochi
giorni capitolò la resa. Altrettanto amichevolmente fecero le città di
Forlimpopoli, Cervia, Cesena, Imola e Ravenna. Con questi popoli poi
passò nel mese di giugno ad assediar Faenza, che tuttavia era in potere
di Tommaso dalla Marca, creato conte della Romagna da Federigo. Tenne
forte quella città per quindici giorni, dopo i quali si diede al
cardinale. Anche Malatestino (si comincia ora ad udir questa famiglia,
che col tempo salì ben alto) fece ribellare Rimini all'imperadore. Crede
Girolamo Rossi[3243], che queste città venissero sotto la signoria della
Chiesa, e che il pontefice dichiarasse allora Ugolino de' Rossi suo
nipote conte della Romagna. Più probabile a me sembra, che fossero prese
a nome di _Guglielmo re_ di Germania e de' Romani, creatura del papa,
per le ragioni che andando innanzi accennerò. Il Ghirardacci[3244] altro
non conobbe, se non che que' popoli giurarono di stare ai comandamenti
del papa e de' Bolognesi, conservando la libertà delle loro città. Tal
guerra fu fatta in quest'anno in Germania da Guglielmo nuovo re coronato
in Aquisgrana, al _re Corrado_ figliuolo di Federigo, che fu costretto a
ritirarsi in Italia presso il padre. Non farei io sigurtà della verità
di questo racconto che è di Matteo Paris[3245], perchè della venuta di
esso Corrado in Puglia non v'ha menomo vestigio in altre storie di
questi tempi.

NOTE:

[3230] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3231] Raynald., in Annal., Eccl.

[3232] Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.

[3233] Roland., in Chron., lib. 5, cap. 22.

[3234] Monach. Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Italic. Chron.
Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital. Petrus
de Curbio, Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Italic.

[3235] Roland., lib. 5, cap. 23.

[3236] Paris de Creta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.

[3237] Raynaldus, in Annal. Eccl.

[3238] Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.

[3239] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[3240] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.

[3241] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.

[3242] Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital. Chron. Caesen., tom. 14
Rer. Ital.

[3243] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.

[3244] Ghirardacci, Istor. di Bologna, tom. 1.

[3245] Matth. Paris, Hist. Angl.



    Anno di CRISTO MCCXLIX. Indizione VII.

    INNOCENZO IV papa 7.
    FEDERIGO II imperadore 30.


Si accinse nell'anno precedente il santo re di Francia _Lodovico IX_ a
compiere il suo voto di Terra santa[3246], e raunato un possente
esercito si mise in viaggio, accompagnato da _Roberto conte_ di Artois e
da _Carlo conte_ d'Angiò e di Provenza, suoi fratelli, e da molti
vescovi e baroni di Francia. Gli fornirono i Genovesi[3247] un copioso
stuolo di galee e di navi da trasporto a nolo. Seco era _Ottone
cardinale_, vescovo tuscolano legato apostolico. Imbarcatosi coi suoi
arrivò felicemente all'isola di Cipri, dove passò il verno. Venuta la
primavera, il piissimo re sciolse le vele verso l'Egitto, e prosperosi
furono i principii della sua spedizione, perchè giunto colà verso la
festa dell'Ascension del Signore, s'impadronì dell'importante città di
Damiata, dove si trovò gran copia d'armi, vettovaglie e ricchezze. Per
la solita inondazione del Nilo gli convenne far pausa tutta la state.
Poscia nel novembre uscì coll'armata in campagna, e più di una volta
ruppe i Saraceni, che ardirono d'azzuffarsi con lui. Per questi
progressi del re Cristianissimo, grandi speranze concepì tutta la
cristianità; ma dove andassero queste a finire, lo vedremo all'anno
seguente. Passò in questo anno in Puglia Federigo, nè si sa ch'egli
facesse impresa militare in alcun paese. Abbiamo bensì da Matteo
Paris[3248], che mentre _Marcellino vescovo_ di Arezzo nelle parti
d'Ancona per ordine del pontefice facea guerra a Federigo e ai
Ghibellini suoi aderenti, cadde nelle mani de' Saraceni, posti da esso
imperadore alle guardie di quelle contrade. Dopo tre mesi e più di
prigionia, d'ordine di Federigo fu pubblicamente impiccato; sacrilega
crudeltà, che fece orrore a tutti i buoni, ed accrebbe il discredito ed
odio comune contra di Federigo. Scrive ancora Pietro da Curbio[3249],
cappellano del papa, ch'egli, detestando l'opere buone del santo re di
Francia, chiuse i passi e i porti del suo regno, perchè egli non
passasse di là, nè fossero portate vettovaglie all'armata navale di lui
e de' Crocesignati. Ma che dobbiamo noi credere alla storia tanto
discorde ed appassionata di questi tempi? Tutto il contrario scrive
Matteo Paris, con dire che san Lodovico, dimorando in Cipri, spedì a
Venezia per aver soccorso di viveri. Gli spedirono i Veneziani sei navi
cariche di grano, vino e di altri commestibili, e un corpo ancora di
combattenti. Lo stesso fecero altre città ed isole:_ hoc Frederico non
tantum permittente, sed propitius persuadente. Similiter et ipse
Fredericus, ne aliis inferior videretur, maximum eidem victualium
diversorum transmisit adminiculum_. Aggiugne che il santo re per questo
rinforzo scrisse al papa, _ut reciperet ipsum Fredericum in gratiam
suam, nec amplius tantum Ecclesiae amicum ac benefactorem impugnaret vel
diffamaret, per quem ipse et totus exercitus christianus, ab imminenti
famis discrimine respiravit_. Anche la regina Bianca madre del re ne
scrisse con premura al papa; ma questi non si potè mai piegare, e più
che mai seguitò ad impugnar Federigo. Abbiamo infine una lettera di
Federigo scritta a san Lodovico[3250], in occasione d'inviargli de'
viveri e dei cavalli, dove esprime il desiderio di andare a trovarlo in
persona alla crociata: dal che si truova impedito per la guerra che gli
faceva il papa. Eppure Pietro da Curbio non ebbe scrupolo di scrivere
tutto al rovescio. Che poi il cardinal Capoccio in questi tempi, spedito
per legato dal pontefice verso la Puglia, facesse ribellar varie terre e
baroni al medesimo Federigo, lo abbiamo dallo stesso Paris. Era restato
in Lombardia vicario del padre il re Enzo. Fumava egli di collera contra
dei Parmigiani per l'antecedente rotta, e contra de' Bolognesi a cagion
de' danni inferiti a' Modenesi e alla Romagna, per opera loro ribellata
a suo padre. Fecero in quest'anno i Parmigiani[3251], uniti coi
Mantovani, uno sforzo alla volta di Brescello, che era stato rovinato
insieme con Guastalla da Eccelino, durante l'assedio di Parma.
Rifabbricarono essi quel castello, e vi misero buona guarnigione.
Assicurato così il passo del Po, condussero alla lor città grani, sale
ed altre vettovaglie, delle quali penuriavano. Ma un giorno
all'improvviso eccoti comparire il re Enzo coi Cremonesi fino alle porte
di Parma. Matteo Paris scrive che entrarono anche in Parma le sue genti,
e dopo aver fatta gran copia di prigioni se ne andarono. Non è cosa sì
facile da credere. Venne poscia a Modena, menando seco una bell'armata
di Cremonesi, Tedeschi, ed altri popoli, a' quali si aggiunsero i
Modenesi. Erano venuti i Bolognesi[3252] con poderoso esercito fino alla
Fossalta, circa due miglia lungi da Modena. La Cronica di Brescia[3253]
ha che i Bresciani ed altri collegati lombardi furono in aiuto di essi
Bolognesi, i quali aveano allora per podestà Filippo degli Ugoni
bresciano. Le città ancora della Romagna loro spedirono rinforzi di
gente. Nel mercoledì 26 di maggio si venne ad una terribil battaglia, in
cui dopo gran mortalità di gente l'animoso re Enzo non solamente restò
sconfitto, ma ancora con assaissimi dei suoi, e con Buoso da Dovara,
capo de' Cremonesi, fu fatto prigione dai Bolognesi, i quali
trionfalmente il condussero alla lor città, e confinaronlo nelle lor
carceri. In esse sopravvisse egli per più di ventidue anni, trattato
nondimeno con assai onore e civiltà da quel comune. Per quante lettere
scrivesse dipoi Federigo suo padre, e per quante esibizioni di riscatto
facesse ai Bolognesi per riavere in libertà il figliuolo, nulla potè mai
ottenere, riputando gran gloria quel popolo l'avere un riguardevol
prigione, re e figliuolo, se ben bastardo, d'un imperadore. Quando non
sia scorretto il testo di Pietro da Curbio, è da stupire com'egli abbia
scritto[3254] che questa vittoria dei Bolognesi accadde _XII kalendas
januarii, anno quo capta est Victoria_.

Costernati intanto i Modenesi per così grave disgrazia, si ritirarono
alla lor città, attendendo a ben provvederla e fortificarla, perchè già
miravano da lungi qual tempesta loro sovrastasse. Infatti nel mese di
settembre si presentò sotto Modena il cardinale Ottaviano con tutte le
forze de' Bolognesi e degli Aigoni[3255], cioè della fazione fuoruscita
di Modena, e la strinse di assedio. Se vigorosa fu l'offesa, minore non
fu la difesa. Gittarono un dì gli assedianti con una briccola, ossia
macchina da lanciar pietre, un asino morto con ferri d'argento entro la
città con altra carogna. Da questa ignominia irritato il generoso popolo
modenese, fece una sortita con tal empito, che tolse ai Bolognesi la
briccola, e la mise in pezzi. Essendosi dunque ostinatamente sostenuti i
Modenesi per più di tre mesi, nè veggendo speranza di soccorso, diedero
orecchio ad un trattato di pace offertogli dal cardinale[3256]. Si
stabilì esso nel dì 15 di dicembre. Nè già sussiste ciò che narra il
Monaco Padovano[3257], cioè che Modena si sottomettesse ai Bolognesi.
Restarono essi nella lor libertà, obbligati nondimeno di star fedeli
alla parte pontificia, e di ricevere ne' bisogni guardie nella loro
città. Si leggono i capitoli d'essa pace presso il Sigonio[3258].
Tornarono allora alla patria i Rangoni cogli altri fuorusciti di Modena,
e fu levato alla città l'interdetto, a cui in questi tempi erano
sottoposte tutte le città aderenti a Federigo. Ad esso imperadore fu
attribuito a delitto il non averne permesso l'osservanza nelle città
della Puglia. Ora nello stesso tempo che l'armi pontificie erano addosso
ai Modenesi, anche i Parmigiani coi fuorusciti reggiani fecero oste
contro la città di Reggio, e distrussero alcuno dei suoi borghi. Secondo
la Cronica antica di Reggio[3259], nel giugno, Simone de' Manfredi
bandito da Reggio, occupò ad essi Reggiani le castella di Novi, Arola e
Santo Stefano. Il Sigonio aggiugne, che i Reggiani col re Enzo ad Arola
vi fecero prigione tutta la guarnigione, e inoltre ducento cavalieri
parmigiani, che venivano per guardia a quel castello. Volle poi Enzo far
uccidere questi prigionieri in faccia a Parma; e l'avrebbe fatto il
crudele, se avvertito che i Parmigiani poteano con usura rendergli la
pariglia, non fosse desistito da questo inumano disegno[3260]. In
quest'anno i Manfredi Faentini, famiglia che comincia ora a farsi udire
nella storia, occuparono la città di Faenza, mettendo in fuga la guardia
che v'era de' Bolognesi[3261]. E, secondo gli Annali di Cesena[3262], i
conti di Bagnacavallo coi loro partigiani s'impadronirono della città di
Ravenna, con iscacciarne Guido da Polenta e la fazione guelfa, siccome
osservò ancora Girolamo Rossi[3263]. Perciò dal cardinale Ottaviano
furono i Ravegnani dichiarati nemici e ribelli della Chiesa romana, del
re Guglielmo e de' Bolognesi. Così tornarono di nuovo ad imbrogliarsi
gli affari della Romagna.

E, a proposito del re Guglielmo[3264], ho io altrove prodotto un suo
documento nell'anno 1249, con cui a dì 2 d'ottobre dà in feudo a Tommaso
da Fogliano nobile reggiano, nipote e maresciallo di papa Innocenzo IV,
i diritti che, _ratione imperii_, a lui competevano _in civitate,
districtu et episcopatu cerviensi, et in Bertonoro, et territorio, et
districtu suo_, ec. Da gran tempo la Chiesa romana non avea più dominio
in quella provincia, anzi neppur vi pretendeva. Spettava essa
all'imperio; e per chiarirsene meglio, si osservi che il papa stesso
quegli fu che impetrò questo dono al nipote dal re Guglielmo, e nella
bolla di confermazione confessa il medesimo papa che quei sono Stati
dell'imperio. Perciò si legge bensì nella sentenza proferita contra di
Federigo nel concilio di Lione dell'anno 1245 per uno de' suoi reati
l'aver egli occupata la marca d'Ancona, il ducato di Spoleti e
Benevento; ma non si fa già doglianza, perch'egli facesse il padrone
nella Romagna. Finalmente si noti presso l'Ughelli[3265] una concessione
fatta dal suddetto Tommaso da Fogliano, come conte della Romagna, di
alcune castella al vescovo di Sarsina nel dì 18 agosto del 1259, dove
chiaramente dice, esser quelli _di giurisdizione imperiale_. Andiamo ora
a Padova. Da che _Eccelino_ seppe la prigionia del re Enzo, considerando
che anche Federigo suo padre era in Puglia e mal sano[3266], cominciò a
formar pensieri di stabilir meglio la sua fortuna, e con indipendenza
ancora da esso imperadore. S'impadronì dunque nell'anno presente della
città di Belluno, che era dei signori da Camino. Poscia occupò con frode
la forte terra e rocca di Monselice, togliendola agli ufficiali e
soldati di Federigo. Levò poi dal mondo sotto varii pretesti alcuni che
gli faceano ombra in Padova. Era egli avanzato in età: contuttociò menò
moglie nel settembre di quest'anno Beatrice, figliuola di Buontraverso
da Castelnuovo. E senza pur condurla a casa, nello stesso mese mosse
l'armata de' Padovani, Vicentini e Veronesi, e andò sino a Porto e a
Legnago[3267]. Poi segretamente fatta una contromarcia, la notte della
vigilia di san Matteo si presentò alla nobil terra di Este, dove un
traditore per nome Vitaliano da Arolda gli diede una porta. Il popolo
sorpreso da questa inaspettata novità, se ne fuggì chi qua e chi
là[3268]. Fu data a sacco la terra, ed incontanente formato l'assedio
della rocca con belfredi ossia bitifredi, cioè torri di legno, petriere
e trabucchi, che continuamente dì e notte flagellavano le mura, le torri
e il palazzo del marchese. Alcuna di quelle macchine dicono che rotava
per aria pietre pesanti più di mille e ducento libbre; il che ai nostri
dì potrebbe parer cosa incredibile. Fece anche venir colà dalla Carintia
dei minatori, che gli promisero di far delle stupende mine. Dopo un mese
d'assedio gli assediati diedero la fortezza ad Eccelino con onesta
capitolazione. Impadronissi dipoi di Vighizuolo e di Vescovana, luoghi
tutti del marchese, e fece distruggerli. Non tentò per allora Cerro e
Calaone, perchè fortezze di buon polso, e solamente gli bastò di
bloccarle, acciocchè non v'entrassero viveri. Dopo un anno ancor queste
vennero in suo potere. Tale fu il danno che nell'anno presente ebbe
_Azzo VII_, marchese d'Este, trovandosi egli in Ferrara per podestà,
senza che apparisca alcun suo movimento in soccorso di quelle sue terre.
Dopo avere _Jacopo Tiepolo_ doge di Venezia rinunziata la sua dignità a
cagion della vecchiaia, terminò i suoi giorni nel dì 9 di luglio
dell'anno presente[3269]. In suo luogo fu sostituito _Marino Morosino_.

NOTE:

[3246] Jonvill. Nangius. Vicentius Belluacens.

[3247] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom 6 Rer. Italic.

[3248] Matth. Paris, Hist. Anglic.

[3249] Petrus de Curbio, Vita Innocent. IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[3250] Petrus de Vineis, lib. 3, epist. 23.

[3251] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3252] Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.

[3253] Chron. Brixianum, tom. 12 Rer. Ital. Annales Veronens., tom. 8
Rer. Ital. Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.

[3254] Petrus de Curbio, Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[3255] Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.

[3256] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.

[3257] Monach. Patavin., in Chron. tom. 8 Rer. Ital.

[3258] Sigon., de Regno Ital., lib. 18.

[3259] Memor. Potest. Regiens.

[3260] _Se nel 26 maggio fu fatto prigioniero dai Bolognesi, come nel
giugno il re Enzo poteva essere ad Arola?_ L'Ed.

[3261] Matth. de Griffonibus, Hist. tom. 18 Rer. Ital.

[3262] Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.

[3263] Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.

[3264] Piena Esposizione cap. 9.

[3265] Ughell., Ital. Sacr., tom. 2, in Episcop. Sarsin.

[3266] Roland., lib. 6, cap. 1 et seq.

[3267] Paris. de Cereta, Annal. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.

[3268] Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.

[3269] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCL. Indizione VIII.

    INNOCENZO IV papa 8.
    FEDERIGO II imperadore 31.


Non passò l'anno presente senza memorabili avvenimenti. Lagrimevole fu
quello della sacra spedizione del santo re di Francia _Lodovico IX_ in
Egitto. Già egli era padrone di Damiata; si magnificava dappertutto in
quelle parti la sua probità, e il valore delle sue armi per varie rotte
date ai Saraceni, talmente che (se pur è mai verisimile ciò che racconta
il Joinville[3270]) dopo le disgrazie che fra poco accennerò, avendo
que' barbari ucciso il loro Sultano, fu dibattuto non poco fra loro, se
doveano proclamar Lodovico re di Francia per loro imperadore. Eransi
inoltre coloro ridotti a chieder pace[3271], e ad esibirgli la
restituzion di Gerusalemme e degli altri luoghi di Terra santa tolti ai
cristiani, purchè rendesse loro la città di Damiata. La superbia, la
discordia, l'avarizia de' consiglieri e baroni del re non permisero che
si accettasse così vantaggiosa offerta. Inviossi poi l'armata regale
alla volta del Cairo, ma fu arrestata in cammino dalla fortezza di
Massora. Quivi stando, nè potendo ricevere viveri da Damiata, perchè i
Saraceni presero i passi per terra e per acqua, l'esercito per la fame e
per le malattie epidemiche insortevi cominciò a venir meno; e calando
ogni dì più il numero dei combattenti, il re, anch'egli infermo,
determinò di tornarsene a Damiata. Ma nel viaggio assaliti i cristiani
dall'immenso esercito di quegl'infedeli, nel dì 5 d'aprile furono
sconfitti, ed il santo re co' principi suoi fratelli, e con gran numero
di baroni e dodici mila di gente bassa, rimase prigione. Non so se abbia
buon fondamento il dirsi da Giovanni Villani[3272] che il re fu messo
ne' ceppi: forse fu sui primi giorni. I più antichi scrittori scrivono
ch'egli dipoi fu onorevolmente trattato da quei Barbari. Per liberarsi
convenne rendere Damiata, e promettere di pagare settanta mila bisanti
saraceni: il Villani suddetto dice ducento mila di parigini. Ma i più
accertati riscontri sono, che il riscatto suo e di tutti i baroni, e del
resto de' prigioni ascendesse ad ottocento mila bisanti d'oro. Fecesi
una tregua, che fu mal eseguita da que' perfidi. Doveano rimettere in
libertà molte migliaia di prigionieri; neppur mille uscirono dalle lor
mani. Continuò poscia il piissimo re, venuto ad Accon ossia Acri, a
soggiornare in quelle parti circa due anni, attendendo a fortificar que'
pochi luoghi che restavano in poter de' cristiani. Penuriava di viveri
la città di Parma. Perchè quella di Reggio tuttavia stava costante nel
partito imperiale, si mosse, affine di condurvene con sicurezza,
l'esercito de' Bolognesi, Modenesi, Ferraresi e fuorusciti reggiani, e
nel dì 8 di giugno, o, per dir meglio, nel dì 15 fino al fiume Crostolo
ne condusse una gran quantità[3273], che fu ricevuta dai Parmigiani, e
felicemente introdotta nelle lor città. Venuto Ugo dei Sanvitali da
Parma alla nobil terra di Carpi, che era allora sotto la giurisdizione
di Modena, quell'arciprete gliela consegnò, ed egli cominciò a farvi il
padrone. Alterato per questo affare il comune di Modena, mise al bando
tutti i Carpigiani, e già si disponeva per procedere ostilmente contro
quella terra e distruggerla. Ma i Carpigiani prevennero il colpo con
iscacciarne il suddetto Ugo, e allora i Modenesi colà spedirono una
buona guarnigione per assicurarsi in avvenire da somiglianti insulti.
Anche i Milanesi[3274], per sovvenire al bisogno di Parma, vi spedirono
in quest'anno quattro mila moggia di biade; ma nel passare pel
Piacentino, quel popolo prese e ritenne per sè tutto quel grano.
Diversamente parla di ciò la Cronica di Parma. Ossia che già in Piacenza
fossero de' mali umori, e a cagion d'essi venisse fatto questo aggravio
ai Milanesi e Parmigiani, che pur erano lor collegati; ovvero che di qua
prendesse origine la discordia: certo è che in quest'anno la fazion
ghibellina prevalse nella città di Piacenza[3275], e quel popolo, per
tanti anni in addietro sì attaccato alla Chiesa, voltò mantello: cotanto
erano allora instabili gli animi de' popoli italiani. Ritirossi per
questo il cardinale legato del papa da quella città, ed anche i nobili,
cedendo alla forza de' popolari, si ridussero alle lor castella.

Aveano i Cremonesi eletto per loro podestà nell'anno presente il
_marchese Oberto_ ossia Uberto Pelavicino, signor potente, e
Ghibellinissimo, per desiderio specialmente di vendicarsi
dell'insopportabile affronto ricevuto dai Parmigiani, che nella vittoria
del 1248 aveano preso il loro carroccio. Figurandosi dunque di poter
prendere Parma, che scarseggiava allora di vettovaglie, il marchese
Oberto, con grosso esercito di essi Cremonesi e dei fuorusciti di Parma,
da Borgo San Donnino s'incamminò a quella volta. Arditamente, benchè con
forze disuguali, uscì il popolo di Parma[3276] contro i nemici,
conducendo il suo carroccio appellato Biancardo, e nel giovedì 18 di
agosto in un luogo chiamato Agrola attaccò un fierissimo combattimento.
Nel furor della battaglia s'alzò una voce de' fuorusciti: _alla città,
alla città_: il che udito da' Parmigiani, abbandonato il conflitto,
furiosamente retrocederono per prevenire il tentativo de' nemici. Tale
fu la calca di essi al ponte della città, che questo si ruppe, nè
solamente precipitarono e si annegarono nell'acqua della fossa coloro
che v'erano sopra, ma assaissimi altri di quei che venivano dietro,
incalzati non meno dai suoi che dai Cremonesi. Perì per quell'accidente
e per le spade dei nemici gran quantità di cittadini di Parma, e ne
restarono prigionieri tre mila pedoni ed assaissimi cavalieri, giacchè
era loro tolto l'ingresso nella città. Furono tutti condotti a Cremona
in trionfo, trionfo soprattutto, secondo l'opinion d'allora, nobilitato
dalla presa ancora del carroccio parmigiano, per cui si fece gran festa
da' Cremonesi. Restò in Parma per lungo tempo la memoria di questo
infelice giorno, nominato la _mala zobia_. Scrive il Sigonio[3277]
ch'essi prigioni furono dipoi tormentati e ingiuriati, acciocchè si
riscattassero; ma, se crediamo ad Antonio Campo[3278], cavate loro le
brache per ischerno e vergogna, furono rimessi in libertà. Con questa
vittoria tal credito si acquistò il marchese Oberto Pelavicino, che a
poco a poco in altissimo stato salì, siccome andremo vedendo. Da lì a
tre dì essendo assediato Mozano castello di Parma da Alverio da Palù
ossia da Palude, e giunta nuova che i Mantovani venivano in aiuto di
Parma, animosamente essi Parmigiani corsero a liberar quel castello, e
vi fecero prigioni cento degli assedianti. Anche i Reggiani diedero il
guasto a Novi, e presero Campagnola con ducento sessanta uomini. Dal
vedere che i Milanesi[3279] in questo anno presero ai Lodigiani le
castella di Fissiraga, Brignate e Zimido, si può conghietturare che il
comune di Lodi coll'esempio di Piacenza si staccasse dalla lega di
Lombardia, ed abbracciasse il partito imperiale. Molti nondimeno de'
Milanesi pel soverchio caldo morirono in essa spedizione; laonde quello
fu poi chiamato _l'esercito della Caldana_. Nell'agosto dell'anno
precedente[3280] aveva Eccelino da Romano data la podesteria di Padova
ad Ansedisio de' Guidotti, figliuolo d'una sua sorella, fatto dalla
natura per essere ministro d'un crudele tiranno. Costui nell'anno
presente per sua iniquità, ed ordine ancora dell'inumano suo zio, levò
di vita molti cittadini di Padova a cagione d'alcuni versi fatti contra
di Eccelino, o sotto altri pretesti. Fra questi spezialmente si contò
Guglielmo da Campo San Piero, uno de' più cospicui non solo di Padova,
ma anche della marca di Ancona.

Passò _Federigo_ imperadore l'anno presente in Puglia, senza che resti
memoria d'alcuna sua particolare azione od impresa. Probabilmente pativa
egli qualche sconcerto nella sanità. Nondimeno Pietro da Curbio
scrive[3281] ch'egli in questi tempi cacciò fuori del regno i frati
predicatori e minori, che troppo a lui erano sospetti; alcuni ancora ne
fece tormentare e morire. Ma si è di sopra veduto ch'egli non aspettò a
quest'anno a bandire i religiosi suddetti. Assalito fu egli da una
mortale dissenteria nel castello di Fiorentino in Capitanata di Puglia,
e nel dì 13 di dicembre, festa di santa Lucia, per consenso de' migliori
autori[3282], cessò di vivere. Le circostanze della sua morte posso ben
io riferirle, ma con protesta di non saper che mi credere a quegli
storici e tempi che niuna misura ebbero negli odii e nelle passioni, nè
si studiavano di depurar la verità dalle dicerie del volgo. Ricordano
Malaspina[3283] e il suo copiatore Giovanni Villani[3284], ed anche Saba
Malaspina[3285], scrissero che gli era stata predetta la sua morte in
Firenze, e però non volle mai entrare nè in Firenze, nè in Faenza, senza
avvedersi che in Fiorenzuola (Fiorentino era appellato quel luogo) dovea
trovarlo la morte. Questo racconto ha cera d'una fandonia, dedotta forse
dal non essere egli entrato per qualche accidente in quelle città.
Aggiugne Ricordano che Manfredi suo figliuolo bastardo, per voglia _di
avere il tesoro di Federigo suo padre e la signoria del regno di
Sicilia_, con un guanciale postogli sulla bocca l'affogò. Anche questa
può essere una ciarla. Niuno degli autori più antichi ne parla; nè è
punto ciò verisimile, perciocchè Federigo avea de' figliuoli legittimi,
chiamati al regno, nè Manfredi vi potea allora aspirare; e se questi
avesse occupato i tesori del padre, ne avrebbe renduto buon conto al re
Corrado. Finalmente scrive che Federigo II_ morì scomunicato e senza
penitenza_. Lo stesso viene asserito da Pietro da Curbio, cappellano di
papa Innocenzo IV, e scrittore della sua Vita[3286], e dal Monaco
Padovano[3287]. Eppure Guglielmo dal Poggio, storico di questi
tempi[3288], Alberto Stadense[3289], scrittore parimente contemporaneo,
e Matteo Paris (non già il suo Continuatore), che scriveva anche egli
allora le sue storie[3290], affermano esser egli morto compunto e
penitente, con aver ricevuta l'assoluzione de' suoi peccati
dall'arcivescovo di Salerno. E lo stesso si vede confermato da una
lettera scritta da Manfredi al _re Corrado_ suo fratello, pubblicata dal
Baluzio[3291]. Il cattivo concetto, in cui era Federigo, facea che
solamente si pensasse e credesse il male di lui. In quest'anno ancora
aveva egli spedito al sultano per la liberazione del re di Francia
prigioniere. Dai malevoli suoi fu interpretato che la spedizione fosse
tutta a fine contrario. Per altro a Federigo non mancarono delle rare
doti, accennate da Niccolò da Jamsilla[3292], affezionato partigiano di
Manfredi suo figliuolo; cioè gran cuore, grande intendimento ed
accortezza, amore delle lettere, ch'egli fu il primo a richiamare e
dilatare nel suo regno; amore della giustizia, per cui fece molti bei
regolamenti, conoscenza di varie lingue, ed altre prerogative. Ma questi
suoi pregi furono di troppo offuscati dalla sfrenata sua ambizione, per
cui si mise in pensiero di abbattere la libertà de' Lombardi, senza mai
volere ammettere la pace di Costanza, e di abbassare sconciamente anche
l'autorità e potenza del romano pontefice e degli altri ecclesiastici.
La religione, che in lui era ben poca, veniva perciò bene spesso
calpestata dalla sua politica. Quindi le discordie e guerre, e da esse
la necessità di scorticare i sudditi, e il pretesto d'affliggere con
ismoderate gravezze le persone ecclesiastiche e le chiese. Colla sua
crudeltà, colla sua lussuria diede ancora frequenti occasioni di
sparlare di lui; e principalmente la doppiezza sua, e il non attener
parola, gli tirarono addosso la solita pena, che non gli era creduto
neppur quando parlava di cuore e daddovero. Insomma lasciò egli dopo di
sè fama e nome piuttosto abbominevole, di cui non si cancellerà sì di
leggeri la memoria. Fece testamento, in cui dichiarò suo erede nel regno
di Sicilia _Corrado_ re dei Romani e di Germania. V'ha chi scrive, aver
egli lasciata la Sicilia e Calabria ad _Arrigo_ fanciullo, a lui
partorito da Isabella d'Inghilterra sua terza moglie. Non così parla il
suo testamento. Costituì ancora balio ossia governatore del regno in
lontananza d'esso Corrado, _Manfredi_ suo figliuolo bastardo, a cui
lasciò in retaggio il principato di Taranto con quattro altri contadi.
Ordinò che si restituissero alla Chiesa tutti i suoi Stati e diritti,
purchè anch'essa restituisse quelli dell'impero. Le altre sue
disposizioni si leggono nel suo testamento, pubblicato in questi ultimi
tempi da varie persone.

NOTE:

[3270] Joinvill.

[3271] Nangius, Matth. Paris, et alii.

[3272] Giovanni Villani, Istor., lib. 6, cap. 36.

[3273] Annal. Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital. Chron. Parmense,
tom. 9 Rer. Ital. Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.

[3274] Annales Mediolanenses, tom. 16 Rer. Ital.

[3275] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[3276] Monachus Patavinus, in Chron. Memorial. Potest. Regiens.

[3277] Antonio Campo, Istor. di Cremona.

[3278] Sigon., de Regno Ital., lib. 18.

[3279] Annal. Mediol., tom. 8 Rer. Ital. Gualvan. Flamma, in Manipul.
Flor., cap. 284.

[3280] Rolandinus, lib. 6, cap. 3 et seq.

[3281] Petrus de Curbio, Vit. Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[3282] Caffari, Annal. Genuens. Monach. Patavinus, in Chron., tom. 8
Rer. Ital. Albertus Stadensis. Ricordano Malaspina et alii.

[3283] Ricordano Malaspina, Istor., cap. 147.

[3284] Giovanni Villani, Istor., lib. 6.

[3285] Saba Malaspina, Histor., lib. 1, cap. 2.

[3286] Petrus de Curbio, in Vit. Innocentii IV, cap. 29.

[3287] Monach. Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Italic.

[3288] Guillelmus de Podio, apud Du-Chesne, cap. 49.

[3289] Albertus Stadensis, in Chron.

[3290] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3291] Baluz., tom. 1 Miscellan.

[3292] Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCLI. Indizione IX.

    INNOCENZO IV papa 9.
    Imperio vacante.


Se fosse con disgusto o piacere intesa in Lione da papa _Innocenzo_ la
morte di _Federigo II_, non ha bisogno il lettore che io lo decida. Dirò
bensì che egli più che mai non solo si accinse a promuovere in Germania
gli affari del _re Guglielmo_ sua creatura, e a deprimere, por quanto
gli era possibile, il _re Corrado_, non meno odiato da lui che il suo
padre Federigo, con iscomunicarlo ancora, e dichiararlo decaduto da ogni
diritto sopra i regni; ma eziandio più che, mai senza risparmio
d'indulgenze plenarie e di crociate[3293], si diede a commuovere i
vescovi, baroni e popoli della Germania, Sicilia e Puglia contra di lui.
Tutto ciò s'ha dagli Annali Ecclesiastici del Rinaldi e da Matteo Paris.
Nè andarono a voto i maneggi del pontefice. Ribellaronsi[3294] le città
di Foggia, Andria e Barletta, e, quel che è più, Napoli e Capoa; e
questo esempio fu seguitato dai conti di Caserta e Cerra della casa di
Aquino, che possedevano allora quasi tutto il paese posto tra il
Garigliano e il Volturno. Papa Innocenzo IV promise a tutti dei gran
privilegii e gagliarda assistenza di soccorsi. Manfredi, giovane allora
d'anni dieciotto, ma savio e grazioso, che avea preso le redini del
governo a nome del re Corrado suo fratello, non perdè tempo ad accorrere
con quante forze potè contra de' sollevati, e gli riuscì di ridurre alla
primiera ubbidienza le tre prime città, e di assicurarsi di quelle di
Avellino ed Aversa. Mise poi l'assedio a Napoli, e diede il guasto a
quel territorio; ma per quanto egli si studiasse di tirar fuori della
città i Napoletani per dar loro battaglia, essi, più accorti di lui, si
tennero sempre alla sola difesa delle mura. Una Cronica di Sicilia[3295]
aggiugne che anche Messina, Castello San Giovanni ed altri luoghi si
ribellarono a Corrado in Sicilia. Intanto il pontefice Innocenzo, omai
libero dalla paura di Federigo, per dar più calore alle sollevazioni
della Puglia e agli altri affari dell'Italia, dopo Pasqua si mosse da
Lione, e, venuto a Marsilia, per la Provenza e per la riviera del mare
felicemente arrivò a Genova patria sua[3296]. Trovò quella città in gran
festa e magnificenza, non solamente per la venuta sua, ma ancora perchè
le città di Albenga e Savona con altri luoghi dianzi ribelli, scorgendo
la difficoltà di potersi sostenere, dappoichè era mancata la vita e
potenza di Federigo imperadore, erano tornate all'antica ubbidienza del
comune di Genova. Quivi scomunicò il re Corrado[3297], i Pavesi,
Cremonesi, ed alcuni popoli del partito imperiale. Sciolse dalla
scomunica _Tommaso di Savoia_ già conte di Fiandra, e gli diede per
moglie una sua nipote con ricca dote. Concorsero alla città di Genova i
podestà e gli ambasciatori di tutte le città e dei principi che erano
del suo partito, e particolarmente quei di Milano, Brescia, Mantova e
Bologna. Diede loro il papa benigna udienza; e perchè desideravano
ch'egli passasse per le loro città, determinò di compiacerli. Sul fine
dunque di giugno venuto a Gavi e Capriata, fu quivi accolto dalla
milizia milanese[3298], e scortato, perchè Vercelli tuttavia seguitava
la parte imperiale, e nel dì 7 del mese suddetto entrò in Milano,
accoltovi con grandioso e mirabil incontro e somma divozione da quel
popolo, e prese alloggio nel monistero di Sant'Ambrosio. E perciocchè
era morto in Genova il loro podestà, ne diede loro un nuovo, cioè
Gherardo dei Rangoni da Modena. Fermossi poi por varii affari il
pontefice in quella città lo spazio di sessantaquattro giorni. È lecito
il credere che uno de' più importanti fosse quello di staccare dal
partito ghibellino la vicina città di Lodi. Nata in quella città
discordia fra due famiglie potenti[3299], cioè fra i Vistarini e gli
Averganghi, questi ultimi ricorsi a Cremona, v'introdussero un presidio
ghibellino. Mise per questo il papa l'interdetto in quella città, perchè
allora si contava per delitto da gastigar coll'armi spirituali il
seguitar la fazione imperiale. Ciò udito i Milanesi, senza farsi molto
pregar da Sozzo de' Vistarini, mossero il loro esercito, ed entrarono
anch'essi in Lodi, e cominciarono a disputarne il possesso ai Cremonesi.
V'era anche _Eccelino_ da Romano con Buoso da Doara, se crediamo agli
storici di Milano; ma, secondo la Cronica Veronese[3300], v'intervennero
solamente gli ambasciatori di quel tiranno, cioè Federigo dalla Scala e
Rinieri dalla Isola. E secondo la Cronica di Matteo Griffone[3301],
Buoso solamente nell'ottobre di quest'anno fu rilasciato dalle carceri
di Bologna. Finalmente i Cremonesi, non potendo resistere alla forza dei
Milanesi, voltarono le spalle, e Lodi restò in potere d'essi Milanesi,
che ne diedero il dominio per dieci anni a Sozzo de' Vistarini, e vi
diruparono il castello dell'imperadore. Scrivono i suddetti storici
milanesi che nel mese d'aprile di quest'anno fu stabilita una pace
perpetua fra le città di Milano e Pavia. Della verità di questo fatto è
da dubitare; imperciocchè Parisio da Cereta asserisce che i Pavesi
continuarono nella lega de' Cremonesi ghibellini, e con essi ancora si
trovarono all'assedio di Lodi.

Ricuperarono i Milanesi in questo anno il castello di Caravaggio, e, in
pena della ribellione, lo distrussero. Da Milano passò dipoi papa
Innocenzo a Brescia nel mese di settembre, e di là a Bologna, dove nel
dì 8 di ottobre consecrò la chiesa di San Domenico. Oltre a Pietro da
Curbio[3302], gli Annali vecchi di Modena[3303] mettono il suo cammino
per Brescia, Mantova, Ferrara e Bologna, con poscia soggiugnere che
passò anche per Modena: il che pare che non ben si accordi. Nella
Cronica di Reggio[3304] si ha ch'egli da Mantova venne a San Benedetto
di Polirone, poscia a Ferrara e a Bologna. Ricobaldo scrive[3305], che
essendo egli fanciullo, il vide predicare al popolo in Ferrara nella
festa di san Francesco di ottobre. Andò finalmente il pontefice,
passando per la Romagna, a posarsi e a fissare la sua residenza in
Perugia, perchè non si fidava di Roma, dove bollivano molle fazioni, nè
vi mancavano partigiani dell'imperio. Presero in quest'anno i Cremonesi
il castello di Brescello sul Po, che era de' Parmigiani[3306], e ne
condussero prigionieri a Cremona i soldati che vi stavano in guardia.
Continuò la guerra fra il popolo e i nobili fuorusciti di Piacenza.
S'impadronirono questi ultimi della rocca di Bardi, e disfecero un corpo
di fanti e cavalli, che colà venivano per soccorso. Unitosi coi popolari
di Piacenza il _marchese Oberto_ Pelavicino, e colla milizia cremonese,
andò ai danni de' Parmigiani, e prese le castella di Rivalgario e di
Raglio, che poi diede alle fiamme: nel qual tempo il popolo di Piacenza
distrusse il ponte sul Po per paura di Milano. Tolsero ancora essi
popolari piacentini alcune altre castella ai nobili, con isfogare la lor
rabbia contra le insensate mura. In questo medesimo anno Eccelino da
Romano colla milizia di Verona, Padova, Vicenza e Trento, per venti
giorni stette nel distretto di Mantova, spogliando e guastando il
paese[3307]. Ma ecco nel mese di ottobre calare in Italia _Corrado re_
di Germania. Bisogna ben credere che si fossero molto rinvigoriti ed
assicurati i suoi affari in essa Germania, ed abbassati quei del _re
Guglielmo_ d'Olanda, dacchè esso Corrado si potè arrischiare a venirsene
di qua dalle Alpi. E veramente Matteo Paris[3308] fa abbastanza
intendere che Guglielmo cominciò ad essere in dispregio presso i
principi tedeschi. Arrivato che fu Corrado a Verona, ricevè quante
dimostrazioni di gioia e rispetto potea mai desiderare da Eccelino.
Passò dipoi coll'esercito suo di Tedeschi, e con quello dei Veronesi,
Padovani e Vicentini di là dal Mincio, ed accampatosi al castello di
Goito, quivi tenne un parlamento coi Cremonesi, Pavesi, Piacentini, ed
altri popoli del suo partito. Dopo quindici giorni ritornato a Verona,
continuò il suo viaggio con disegno di passar a buona stagione per mare
in Puglia. Tanto il Monaco Padovano che Parisio da Cereta ed altri
storici[3309] scrivono che in quest'anno il principe Rinaldo figliuolo
di _Azzo VII_ marchese d'Este, che già per ostaggio fu mandato in Puglia
da Federigo II imperadore, terminò i suoi giorni in quelle contrade.
Papa Innocenzo IV in una lettera[3310] scritta nel giugno di quest'anno
a _Pietro cardinale_ legato per indurre Manfredi a voler sottomettere e
cedere il regno alla Chiesa romana, fra le altre cose gli raccomanda la
liberazione del suddetto Rinaldo. Alcuni scrittori tengono che Manfredi
o per iniqua sua politica, o per ordine del re Corrado, se ne sbrigasse
col veleno. Chi ci può assicurar della verità in tempi di tante dicerie
e calunnie? Quel che è certo, restò di lui un picciolo figliuolo, a cui
fu posto il nome d'_Obizzo_. Giacchè le cattive congiunture de' tempi
aveano privato il marchese del caro suo figliuolo, si fece egli portare
a Ferrara il nipotino, e, riconoscendo in esso le fattezze e lo spirito
del defunto figliuolo, il dichiarò poi suo erede; e noi a suo tempo il
vedremo padrone di Ferrara e d'altre città. In questi tempi Eccelino da
Romano più che mai seguitò ad infierire contra dei Padovani. Le di lui
crudeltà minutamente vengono riferite da Rolandino[3311] testimonio di
veduta. Sul principio di questo anno nel dì 7 di gennaio il popolo di
Firenze[3312], dacchè ebbe intesa la morte di Federigo II, si mosse a
rumore; e rimise in città la fazione guelfa fuoruscita, e fece loro far
pace coi Ghibellini. Ma poco andò ch'essi Ghibellini furono forzati a
ritirarsi fuori di città. Fecero poi oste i Fiorentini nel mese di
luglio a Pistoia, che si reggeva in questi tempi a parte ghibellina. I
Pistojesi, venuti con loro a battaglia, ne rimasero sconfitti a Monte
Robolino. Ebbero i medesimi Fiorentini guerra ancora coi Sanesi[3313],
perchè questi ricettarono i lor banditi, ed erano in lega coi Pisani e
Pistoiesi di fazion ghibellina. Abbiamo dalla Cronica di Reggio[3314]
che gli Alessandrini e Milanesi una tal rotta diedero al popolo di
Tortona, che la maggior parte d'esso restò prigioniere.

NOTE:

[3293] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3294] Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.

[3295] Chronic. Sicil., cap. 26, tom. 10 Rer. Ital.

[3296] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.

[3297] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3298] Annales Mediol., tom. 14 Rer. Ital.

[3299] Gualvan. Flamma, Manipul. Flor., cap. 285.

[3300] Paris de Cereta, Annal. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.

[3301] Matth. de Griffonibus, Memor., tom. 18 Rer. Ital.

[3302] Petrus de Curbio, Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[3303] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[3304] Memoriale Potest. Regiens., toro. 8 Rer. Italic.

[3305] Richobald., in Pomar., tom. 9 Rer Ital.

[3306] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3307] Paris de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.

[3308] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3309] Monach. Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital. Paris de Cereta,
Annal. Veron, Annal. Mediol. et alii.

[3310] Raynald., in Annal. Eccles.

[3311] Roland., lib. 6, cap. 15.

[3312] Ricordano Malaspina, Istor., cap. 144.

[3313] Chron. Senense, tom. 15 Rer. Ital.

[3314] Memoriale Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.



    Anno di CRISTO MCCLII. Indizione X.

    INNOCENZO IV papa 10.
    Imperio vacante.


Abbiamo di certo che il _re Corrado_ nel dì 4 di dicembre dell'anno
precedente si partì da Verona, e, fatto il viaggio per Vicenza e Padova,
s'imbarcò in mare coll'aiuto di Eccelino, e passò a Porto Naone[3315]. I
conti suoi erano di poter giugnere in Puglia per mare in pochi giorni,
con risoluzione di tenere in Foggia per la festa del Natale un general
parlamento. In qual tempo precisamente vi arrivasse egli, non è ben
chiaro. Niccolò da Jamsilla[3316] scrive ch'egli sbarcò a Siponto
nell'anno presente senza specificarne il giorno. Altrettanto abbiamo
dalla Cronica Cavense[3317]. Non può certamente stare ciò che si legge
nel Diario di Matteo Spinelli[3318]: cioè che _alli 27 d'agosto 1251
venne lo re Corrado coll'armata de' Veneziani, e sbarcò a Pescara, o
alla montagna di Sant'Angelo_. Nel tempo suddetto Corrado neppur era
giunto in Lombardia. E il Continuatore di Caffaro[3319] scrive ch'egli
non già si servì di legni veneziani, ma _transiens per Marchiam venit in
partibus Istriae et Sclavoniae, ibique sexdecim galeas regni, quae serie
paratae erant, ipsum regem cum sua comitiva levaverunt, et ipsum in
Apuliam traduxerunt_. Giunto questo principe in Puglia, ricevè gli
ossequii e il giuramento di fedeltà dai baroni, e specialmente fece
buona accoglienza a Manfredi principe di Taranto suo fratello, con
lodare la sua condotta, e prendere da lui tutte le necessarie
informazioni dello stato presente degli affari. Avendo poscia, o
mostrando premura della grazia di papa _Innocenzo_[3320], che avea già
fulminata la scomunica contra di lui e di tutti i suoi aderenti, gli
spedì Bartolommeo marchese di Hoemburgo Tedesco, l'arcivescovo di Trani,
e Guglielmo da Ocra suo cancelliere, suoi ambasciatori, per ottener
l'investitura del regno di Sicilia e Puglia, e la succession
nell'imperio, con esibirsi pronto a far quello che avesse il papa
ordinato. Furono questi cortesemente accolti; ma nulla fruttarono i lor
maneggi, stando saldo il pontefice a pretendere che quel regno, per li
reati di Federigo suo padre, fosse decaduto alla Chiesa romana. Da ciò
irritato Corrado, non guardò più misura alcuna, ed attese a debellar
chiunque s'era ribellato ed avea alzato le bandiere del romano
pontefice. Le armi sue adunque, rinforzate dai Saraceni di Nocera e
Sicilia, piombarono addosso ai conti d'Aquino, con ispogliarli di tutte
le loro terre[3321], e con prendere e saccheggiare Arpino, Sezza,
Aquino, Sora, San Germano, ed altri luoghi che prima s'erano dati al
papa. Verso la festa di san Martino ostilmente s'inviò l'esercito suo
contra di Capoa; ma quella terra senza fare resistenza, e con rendersi,
schivò l'eccidio delle persone. Altro non vi restava che la città di
Napoli, la quale negasse ubbidienza. Questa, confidata nella sua
situazione, nelle forti mura, e nella speranza de' soccorsi del papa, si
accinse ad una gagliarda difesa. Passò dunque lo sdegnato re all'assedio
di quella città nel dì primo di dicembre, secondochè è scritto nel
Diario di Matteo Spinelli[3322], dove nondimeno si truovano slogati gli
anni. Egli dice del 1251, ma ha da essere il presente 1252. Nella
Cronica Cavense[3323] è scritto che fu dato principio all'assedio di
Napoli nel dì 18 di giugno dell'anno seguente. Non può stare. Invece di
giugno sarà ivi scritto gennaio. Durò di molti mesi quell'assedio. Ma in
questi tempi si raffreddò non poco il re Corrado verso del fratello
Manfredi, anzi concepì astio contra di lui, non ben si sa, se per
sospetti conceputi in vederlo sì savio ed amato dai popoli, oppure per
mali uffizii fatti contra di lui dai malevoli, fra' quali specialmente
si distinse Matteo Ruffo, nato nella città di Tropea in Calabria, che di
povera fortuna, per la sua abilità, era arrivato sotto l'imperador
Federigo II ai primi gradi della corte, e da lui fu lasciato aio del
figliuolo _Arrigo_ e vicebalio della Sicilia. Era questi nemico
dichiarato di Manfredi. Ma non mancò prudenza a Manfredi per navigare in
mezzo a tanti scogli. Destramente rinunziò a Corrado i contadi di
Gravina, Tricarico e Montescaglioso. Ed ancorchè il re gli sminuisse
anche la giurisdizione nel principato di Taranto, che solo gli restò, e
tuttochè Corrado ordinasse che Galvano e Federigo Lancia, e Bonifazio
d'Anglone, parenti dal lato materno di Manfredi, uscissero del regno,
pure Manfredi non ne mostrò risentimento alcuno, e seguitò con allegria
e fedeltà ad aiutare il re suo fratello in tutte le di lui imprese.

Intanto in Lombardia, cessato il timore di Federigo II, che teneva uniti
in più città gli animi de' cittadini, e succeduta la troppa libertà,
questa cominciò a generar la discordia. Soprattutto in Milano insorsero
gare e dissensioni fra il popolo e i nobili. Nel dì 6 di aprile, sabato
in albis dell'anno presente[3324], nel venire da Como a Milano _fra
Pietro_ da Verona dell'ordine de' Predicatori, inquisitore ed uomo di
santa vita, fu da Carino, sicario degli eretici, in vicinanza di
Barlassina sacrilegamente ucciso, e poi nel seguente anno canonizzato e
posto nel catalogo de' martiri da papa Innocenzo IV. Preso il sicario, e
messo nelle mani di Pietro Avvocato da Como, allora podestà di
Milano[3325], dopo dieci giorni di prigionia, fu lasciato fuggire. Gran
sollevazione per questo sorse in Milano; fu imprigionato il podestà,
dato il sacco al suo palazzo, ed appena potè egli ottenere in grazia la
vita. Allora i nobili proposero di dare il dominio della città a _Leone
de Perego_ arcivescovo. Non solamente si opposero i popolari, ma
suscitarono anzi una lor pretensione: cioè, che non ai soli nobili, ma
anche a quei dell'ordine popolare si conferissero le dignità e i
canonicati della metropolitana. Si venne alla forza; fu cacciato di
città l'arcivescovo, svaligiato il suo palazzo, e maggiormente per
questo crebbe la rissa fra il popolo e la nobiltà. Capo del popolo fu
Martino dalla Torre, e de' nobili Paolo da Soresina. Allora il popolo
chiamò per suo capitano il _marchese Manfredi_ Lancia, che venne con
mille cavalli al suo servigio. Così gli Annali di Milano[3326]. Ma
Galvano Fiamma, differisce fino all'anno 1256 questa perniciosa novità,
e ne tornano a parlare allora gli stessi Annali. _Gregorio da
Montelungo_, legato apostolico[3327], in ricompensa de' tanti servigi da
lui prestati alla Chiesa romana negli anni addietro, promosso al
patriarcato d'Aquileia, nel mese di gennaio andò a prenderne il
possesso. Morì all'incontro in Brescia _Ricciardo_ conte di San
Bonifazio, lasciando dopo di sè un glorioso nome, e un figliuolo
appellato Lodovico, che in prodezza non si lasciò vincere dal padre.
Negli Annali di Verona[3328] la sua morte si fa accaduta nel febbraio
dell'anno susseguente. Senza inorridire non si possono leggere nelle
Storie di Rolandino[3329], del Monaco Padovano e di Parisio da Cereta le
crudeltà praticate in questi tempi dal tiranno _Eccelino_ da Romano
contra de' cittadini di Verona e di Padova. Fecero nell'anno presente i
Parmigiani oste contro il castello di Medesano[3330]; e quantunque
_Oberto marchese_ Pelavicino co' fuorusciti di Parma e coi Cremonesi
accorresse in aiuto degli assediati, tuttavia s'impadronirono di esso
castello, e similmente di quei di Berceto e Miaro. Abbiamo da Matteo
Paris[3331] che i Romani elessero per loro senatore per l'anno vegnente
Brancaleone di Andalò Bolognese, uomo giusto, di gran petto, ma di non
minor rigidezza, il quale ricusò di accettare, se non gli veniva
accordata cotal dignità per tre anni, non ostante lo statuto di Roma.
Nella Vita di papa Innocenzo[3332] vien dipinto Brancaleone per un gran
Ghibellino e nemico del papa. Con questa condizione fu accettato, e ito
poscia a Roma, tenne in esercizio le forche e le mannaie per castigar la
gente troppo sediziosa, ed avvezza a non rispettar le leggi. In
quest'anno poi, secondo il suddetto Paris, oppure nel 1254, secondo
Pietro da Curbio (che sembra meritar in ciò maggior credenza), i Romani,
disgustati della superbia ed insolenza del popolo di Tivoli,
coll'esercito si portarono contro quella città. La presero e diroccarono
con fiero esterminio; e se quei cittadini vollero salvar la vita,
convenne che andassero scalzi e colle corde al collo a chiedere
misericordia in Roma. Per quello nondimeno che vedremo all'anno 1254,
non sussiste questa rovina di Tivoli. Guerra grande fu del pari in
Toscana[3333] tra i Fiorentini, Lucchesi ed Orvietani Guelfi, e i Sanesi
e Pisani Ghibellini. Ebbero gli ultimi una rotta a Montalcino.

NOTE:

[3315] Sigon., de Regn. Ital., lib. 19.

[3316] Nicolaus de Jamsilla, tom. 8 Rer. Ital.

[3317] Chron. Cavense, tom. 7 Rer. Ital.

[3318] Matteo Spinelli, Diario, tom. 7 Rer. Ital.

[3319] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.

[3320] Petrus de Curbio, Vita Innocent. IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[3321] Nicolaus de Jamsilla, Histor.

[3322] Matteo Spinelli, Diario.

[3323] Chron. Cavense.

[3324] Bolland., in Act. Sanct. ad diem 29 april.

[3325] Gualvan. Flamma, in Manip. Flor., cap. 286.

[3326] Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.

[3327] Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Italic.

[3328] Paris de Cereta, Annal. Veronens, tom. 8 Rer. Ital.

[3329] Roland., lib. 6, cap. 17 et seq.

[3330] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3331] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3332] Petrus de Curbio, Vit. Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[3333] Ricord. Malasp., cap. 152. Chron. Senens., tom. 15 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCLIII. Indizione XI.

    INNOCENZO IV papa 11.
    Imperio vacante.


Continuò il _re Corrado_ con gran vigore l'assedio di Napoli, avendo
condotto colà un copioso apparato di quelle macchine[3334], colle quali
si faceva allora guerra alle città e fortezze. E perciocchè v'entravano
di quando in quando dei rinfreschi per mare, sul principio di maggio
serrò ancora quel passo con un possente stuolo di galee, fatto venir di
Sicilia[3335]. Volle ben egli che si desse un generale assalto a quella
città nel dì 25 d'aprile, con promessa di tre paghe a quella nazione che
prima v'entrasse. Ma vi restarono morti da secento Saraceni, e poco men
di Tedeschi; laonde non più si pensò a soggiogar Napoli colla forza, ma
bensì colla fame. Si ridussero infatti que' cittadini[3336] a nutrirsi
ancora co' più vili e laidi cibi; nè più potendo, si renderono infine a
discrezione nel fine di settembre, come ha il Diario dello Spinelli,
oppure nel dì 10 di ottobre, come si legge nella Cronica Cavense. Alcuni
scrivono che a forza di mine fu espugnata quella città, e che, entrato
l'esercito tedesco, vi sparse gran sangue degli abitanti. Lo Spinelli
anch'egli scrive che Corrado _vi fece gran giustizia e grande
uccisione_. È da stupire come Pietro da Curbio e Saba Malaspina,
scrittori pontificii, non parlino di questo macello di gente, che certo
non dovea scappare alla lor penna. Ma ne parla bene Bortolomeo da
Neocastro[3337], autore di questo secolo; e per questo i Napoletani
concepirono un odio implacabile contro la casa di Suevia. La Cronica del
monistero cavense ha solamente, che egli mandò in esilio molti de'
Napoletani ed è fuor di dubbio che fece abbattere e spianare le belle
mura di Napoli e di Capoa, affinchè non venisse più voglia a que' popoli
di ribellarsi. Passò dipoi Corrado a Melfi, e quivi, celebrata la festa
del santo Natale, tenne un parlamento dei baroni del regno. Queste
prosperità di Corrado furono cagione che il pontefice colla sua corte
cominciasse in questo anno una tela nuova in rovina della casa di
Suevia: cioè spedì in Inghilterra[3338] Alberto da Parma, uno de' suoi
familiari, ad offerir la corona di Sicilia a _Riccardo conte_ di
Cornovaglia, fratello di quel _re Arrigo_, e ricco principe. Insorsero
delle difficoltà in questo maneggio. Ossia che questo trattato venisse,
come vuol Pietro da Curbio[3339], a scoprirsi, e _Carlo conte_ d'Angiò e
di Provenza, fratello del re di Francia, si esibisse al papa; oppure che
il papa, non trovando buona disposizione in Inghilterra, chiamasse a
mercato esso conte d'Angiò: certamente pare che fin d'allora Carlo vi
accudisse. Accadde dipoi, che il _re Arrigo_ trattò di ottenere per suo
figliuolo _Edmondo_ il regno di Sicilia, promettendo di gran cose.
Pietro da Curbio asserisce, che fu conchiuso questo contratto col re
inglese, il quale cominciò a far preparamenti per effettuarlo.
All'incontro dal Rinaldi[3340] sotto quest'anno sono rapportate le
condizioni, colle quali il papa esibiva a Carlo conte d'Angiò il regno
di Sicilia, ducato di Puglia e principato di Capoa. Quivi è nominato il
suddetto Alberto da Parma, come legato del papa. Così il Rinaldi.
Contuttociò tengo io per fermo che quel documento appartenga ai tempi di
Urbano IV, e non ai presenti.

Gran premura fecero in quest'anno i Romani a papa Innocenzo IV per farlo
ritornare a Roma, e, se vogliam credere a Matteo Paris[3341],
minacciarono anche Perugia, se ne impediva, o non ne sollecitava la
venuta. Mal volentieri si risolveva il pontefice a compiacerli, ben
conoscendo la difficoltà di trovar quiete fra que' torbidi ed instabili
cervelli d'allora, avvezzi a comandare e non ad ubbidire. Andò egli ad
Assisi[3342] nella domenica in albis, vi dedicò la chiesa di San
Francesco, visitò santa Chiara inferma, che nel dì 30 di giugno fu
chiamata da Dio alla patria de' giusti, e passò egli la state in quella
città. Poscia nel dì 6 di ottobre si mise in viaggio verso Roma, dove
dal senatore, dal clero e popolo romano fu incontrato fuori della città,
e introdotto con sommo giubilo ed onore. Pietro da Curbio scrive ch'esso
senatore, cioè Brancaleone, avea fatto il possibile perchè il papa non
venisse, e andò poi macchinando sempre contra di lui. Matteo Paris, per
lo contrario, attesta ch'egli fu in suo favore; ed avendo il popolo
romano cominciato a muovere pretensioni di grossissimi crediti per le
spese da lor fatte a fin di sostenere il pontefice nei tempi di Federigo
II, Brancaleone quetò con dolci parole il lor furore, e conservò la
pace. Tornò poscia il re Corrado ad inviare a Roma il conte di Monforte
suo zio, ed altri ambasciadori per placare il papa, ed impetrar
l'investitura del regno. In Lombardia la città di Parma[3343] nell'anno
presente fece qualche mutazione, pacificandosi co' Cremonesi e col
_marchese Oberto_ Pelavicino capo dei Ghibellini in queste parti.
Giberto da Correggio, soprannominato della Gente, prese allora un gran
predominio in Parma. Vi entrarono anche i Ghibellini fuorusciti.
Altrettanto fu fatto in Reggio, dove furono richiamati i Guelfi. Per
l'accordo suddetto il comune di Cremona restituì a Parma il castello di
Brescello, e tutti i prigionieri parmigiani che dianzi barbaramente
erano trattati nelle carceri cremonesi. Si riaccese in questi tempi la
guerra fra i Milanesi e Pavesi. Nel dì 10 di maggio l'esercito di Milano
col carroccio[3344], avendo passato il ponte di Vigevano, s'impadronì
della terra di Gambalò, e cinse poscia d'assedio Mortara. Ancor questa
terra fu presa; ma, facendo gran difesa il castello, venne l'esercito
pavese per soccorrerlo. Interpostisi intanto alcuni mediatori fra i due
popoli, si rinnovò la pace. Più che mai continuarono in questi tempi le
orride crudeltà d'Eccelino in Padova[3345] e negli altri luoghi a lui
sottoposti. Papa Innocenzo rinnovò per questo le scomuniche contra di
lui, e dichiarollo eretico; ma altro ci voleva che tali esorcismi a
vincere uno spirito sì maligno. Monte ed Araldo da Monselice fra gli
altri, imputati di tradimento, furono condotti a Padova. Gridando essi
ad alta voce di non essere traditori, Eccelino, ch'era a tavola, calò al
rumore, nè volle ascoltar ragione. Allora Monte, scagliatosi in furia
addosso al tiranno, il rovesciò a terra, e, dopo avere indarno
cercatogli addosso se avea qualche coltello, il prese per la gola por
soffocarlo, e coi denti e colle unghie gli fece quanto male potè. S'egli
trovava armi, in quel dì la terra si sarebbe sgravata del peggiore di
tutti gli uomini. Ma accorsi i familiari del tiranno, tanto fecero che,
messo in pezzi Monte col fratello, liberarono Eccelino dal pericolo, ma
non già dalle ferite, a curar le quali vi vollero molti giorni. Empiè in
questi tempi l'iniquissimo tiranno le infernali sue carceri di cittadini
padovani e veronesi, sì ecclesiastici che laici. Tutto era terrore,
tutto disperazione sotto di questo barbaro, a cui ogni menoma parola od
ombra di sospetto serviva di motivo per incarcerare o tormentare o
levare di vita le persone.

NOTE:

[3334] Chron. Cavense, tom. 7 Rer. Ital.

[3335] Matteo Spinelli, Diario, tom. 7 Rer. Ital.

[3336] Sabas Malaspina, lib. 1, cap. 3.

[3337] Bartholomaeus de Neocastro, cap. 3, tom. 13 Rer. Ital.

[3338] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3339] Petrus de Curbio, Vita Innocen. IV, cap. 31, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.

[3340] Raynald, in Annal. Eccles.

[3341] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3342] Petrus de Curbio, in Vita Innocen. IV, cap. 32 et seq.

[3343] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3344] Gualv. Flamma, Manip. Flor., cap. 287.

[3345] Roland., lib. 7, cap. 3 et seq. Monachus Patavinus, in Chron.,
tom. 8 Rerum Ital.



    Anno di CRISTO MCCLIV. Indizione XII.

    ALESSANDRO IV papa 1.
    Imperio vacante.


Mentre il _re Corrado_ soggiornava in Melfi, _Arrigo_ suo fratello
legittimo, nato da _Isabella_ d'Inghilterra, giovinetto di belle doti
ornato, fu a visitarlo, e nello stesso tempo infermatosi, cessò di
vivere. Voce tosto si sparse che Corrado col veleno avesse tolto dal
mondo l'innocente fanciullo; e non lasciò papa _Innocenzo_ di avvalorar
questo sospetto, per iscreditar Corrado presso il re d'Inghilterra zio
d'Arrigo[3346]. Cercò, all'incontro, Corrado di far credere falsa così
nera accusa. Se con fondamento, o no. Dio solo ne può essere il giudice.
Fuor di dubbio è bensì che Corrado in questi tempi caricò di
contribuzioni e gravezze la Puglia[3347]; e a quelle terre e città che
erano pigre al pagamento, andavano addosso o Saraceni o Tedeschi che
faceano pagar con usura. Furono in tal congiuntura messe a sacco le
città d'Ascoli, Bitonto ed altre: e se _Manfredi_ principe di Taranto
con buona maniera non provvedeva, era imminente la distruzion di quelle
contrade. Sotto il presente anno parla Matteo Paris di una battaglia
seguita fra l'esercito pontificio, comandato da _Guglielmo cardinale_
nipote del papa, e quello di Corrado, colla morte di quattro mila
soldati papalini. Forse egli intende di una zuffa di cui parlerò più
abbasso, ma che non merita titolo di sanguinosa, molto meno di grande.
Fu citato di nuovo Corrado dal pontefice a comparire in Roma, per
giustificare, se potea, la sua innocenza[3348]. Spedì egli colà di nuovo
il conte di Monforte e _Tommaso conte_ di Savoia a dir le sue ragioni, e
ad ottenere una proroga. Ma nel giovedì santo di nuovo si udì confermata
e aggravata contra di lui la papale scomunica. Preparavasi egli intanto
a ripassare in Germania per far guerra al suo competitore Guglielmo
d'Olanda, quando cadde infermo vicino a Lavello, e scomunicato, nel più
bel fiore degli anni cedette alla violenza del male nel dì 21 di maggio,
nella notte dell'Ascension del Signore[3349]. Autore della sua morte
comunemente fu creduto Manfredi, che col mezzo di Giovanni Moro,
capitano de' Saraceni e favorito di Corrado, il facesse avvelenare, sì
in vendetta degli Stati a lui tolti, come per farsi strada al regno di
Sicilia. Ma avendo Corrado un picciolo figliuolo per nome _Corradino_, a
lui partorito in Germania dalla _regina Isabella_ sua moglie nel dì 25
di marzo del 1252, a cui toccava il regno; e l'aver egli lasciato nel
suo testamento per governatore della Sicilia Bertoldo marchese di
Hoemburch, e non già Manfredi, il quale si mostrò anche alieno da tale
impiego, pare che non s'accordi col sopraddetto disegno. Maraviglia fu
che anche i nemici della corte di Roma non attribuissero ad esso
Manfredi questo colpo, come Matteo Paris asserisce fatto dianzi per
altro veleno dato al medesimo Corrado. Conoscendosi l'impossibilità di
chiarire in casi tali la verità, a me basta di avere accennato ciò che
allora e, molto più, poi si disse, specialmente dagli storici guelfi,
nemici di Manfredi[3350]. S'impossessò il nuovo balio e governatore del
regno Bertoldo di tutto il tesoro di Corrado; e perciocchè questi nel
suo testamento avea raccomandato il figliuolo Corradino alla Sede
apostolica, e ordinato al marchese di Hoemburch di fare ogni possibile
per metterlo in grazia del papa, affinchè potesse succedere nel regno di
Sicilia, furono immediatamente spediti ambasciatori ad esso Innocenzo.
Ma niuna apertura si trovò a trattato di pace. Il pontefice saldo in
dire ch'egli voleva prima il possesso del regno, e che poi si
esaminerebbe se alcun diritto vi avea il fanciullo Corradino, rigettò
ogni proposizione d'accordo. Cassò pertanto tutti gli atti e le
disposizioni testamentarie di Corrado, citò il marchese Bertoldo balio
del regno, come occupatore di uno Stato devoluto alla Chiesa; e per dar
più calore a' suoi disegni, celebrata in Assisi la festa della
Pentecoste, si mosse colla corte[3351]: e nel viaggio pacificati i
popoli di Spoleti e Terni, che erano in rotta fra loro, per Orta e
Civita Castellana arrivò alla basilica vaticana. Dopo aver quivi
celebrata solenne messa, e predicato con raccomandare ai Romani i
presenti affari, andò a posarsi in Anagni, con aver intanto spediti
ordini in Lombardia, Genova, Toscana, marca d'Ancona, patrimonio e
ducato di Spoleti, per fare copiosa leva di soldati. Comparve ad Anagni
_Manfredi_ principe di Taranto con altri baroni a trattar d'accordo, e
per quindici dì un gran dibattimento si fece; ma quando era già per
sottoscriversi la capitolazione, si ritirò il principe con gli altri.
Scopertosi intanto che Pietro Ruffo vicebalio in Sicilia[3352], Riccardo
da Montenegro, ed altri baroni guadagnati dal pontefice lavoravano
sott'acqua. Bertoldo marchese d'Hoemburch depose il baliato, e tanto
fece egli con altri dei partito della casa de' Suevi, che il principe
Manfredi accettò, benchè con ripugnanza almeno apparente, quell'uffizio.
Attese pertanto Manfredi a raunar un esercito; ma mancandogli il
principale ingrediente, cioè il danaro, nè potendone ricavare da
Bertoldo, che tutto avea occupato, trovato inoltre che i baroni
camminavano con doppiezza, e i popoli, stanchi del barbarico governo de'
Tedeschi, inclinavano a mutar padrone: egli fu il primo a sottoporsi
all'ubbidienza del pontefice, e a cedere alle contingenze del tempo,
salvi nondimeno i diritti del re suo nipote e i suoi proprii.
All'esempio suo tennero dietro gli altri baroni; alcuni nondimeno
l'aveano preceduto.

Mentre il pontefice tuttavia dimorava in Anagni[3353], i Romani che da
gran tempo assediavano Tivoli, venuta lor meno la speranza di forzar
quella città alla resa, spedirono ad esso papa, acciocchè trattasse di
pace, e non mancò egli di farlo, tuttochè disgustato del senatore, che
non lasciava andar viveri ad Anagni, nè prestar danari al papa, nè far
leva di gente per lui. Nel dì 8 di ottobre papa Innocenzo arrivò a
Ceperano sui confini del regno, e nel dì seguente entrò pel ponte in
esso regno, incontrato da Manfredi principe di Taranto, che,
accompagnato da molti altri baroni, fu a baciargli i piedi, e l'addestrò
per un tratto di strada. Io non so che mi dire del Diario di Matteo
Spinelli, che troppo discordia dai migliori scrittori nell'assegnare i
tempi. Egli fa giunto il papa a Napoli per la festa di san Pietro, con
altre cose che non battono a segno. Passò dipoi il pontefice ad Aquino,
a San Germano, a Monte Casino, accolto dappertutto con segni di
singolare onore ed affetto. Davanti a lui marciava coll'esercito
_Guglielmo cardinale_ di Sant'Eustachio, parente del medesimo papa, il
quale da tutti facea prestare giuramento di fedeltà alla Chiesa romana;
anzi pretese che Manfredi lo prestasse anch'egli: al che non volle egli
mai acconsentire, pretendendo che ciò fosse contro i patti stabiliti col
papa. Con questo felice passo camminavano gli affari del sommo
pontefice, e già egli si contava per padrone della Puglia, quando un
accidente occorse, da cui restò non poco turbata la corte pontificia.
Era il papa passato a Teano, dove fu sorpreso da incomodi di sanità, che
più non l'abbandonarono[3354]. Quivi trovandosi il principe Manfredi,
ebbe delle liti con Borello da Anglone, barone molto favorito nella
corte pontificia, per aver egli impetrato dal papa il contado di Lesina,
ancorchè appartenente a Monte Sant'Angelo, che era d'esso Manfredi, ed
averne anche inviato a prendere il possesso. Ricorse Manfredi al papa;
niuna risoluzione fu presa. Si aspettava in que' dì alla corte il
marchese Bertoldo. Volle Manfredi andare ad incontrarlo, e, preso
commiato dal papa, si mise in cammino. Non molto lungi da Teano ad un
passo stretto si trovò il suddetto Borello con una truppa d'uomini
armati: fu creduto per insultare il principe nel suo passaggio. Allora i
familiari di Manfredi s'inoltrarono per riconoscere che intenzione
avessero; e Borello co' suoi prese la fuga verso la città. Inseguito da
alcuni del principe (dicono contra volontà di lui), fu ferito e morto da
un colpo di lancia nella schiena. Grande strepito si fece per questo
nella corte del papa, il quale intanto passò a Capoa. Era giunto
Manfredi ad Acerra, con pensiero di portarsi a Capoa per giustificarsi;
ma fu consigliato di raccomandar piuttosto la sua causa al marchese
Bertoldo. Vi mandò apposta Galvano Lancia suo zio. Bertoldo ne parlò al
papa e a' ministri; e la risposta fu, che Manfredi venisse in persona, e
si ascolterebbono le sue discolpe. Se veniva, già risoluta era la di lui
prigionia. Il perchè Galvano Lancia gli significò che facea brutto tempo
per lui, e che si ritirasse ben tosto e con gran cautela verso Lucera,
ossia Nocera de' Pagani. Colà infatti, dopo aver passati molti pericoli
ed incomodi, senza che alcuno osasse di dargli ricetto, sul principio di
novembre arrivò una notte Manfredi. Per buona ventura non vi si trovò
Giovanni Moro, governatore di quella città, il più ricco e potente de'
Saraceni quivi abitanti. Fatto sapere alle sentinelle che era ivi il
principe figliuolo di Federigo imperadore, questi, amantissimi di suo
padre, non fidandosi di poter avere le chiavi dal vicegovernatore,
determinarono di rompere la porta e d'introdurlo. Detto fatto, tanto si
ruppe della porta, che il principe entrò. Fu incredibile la festa che
fecero perciò i Saraceni. Il condussero al palazzo, dove si trovarono
molti tesori dell'imperador Federigo, del re Corrado, di Oddone marchese
fratello del marchese Bertoldo, e quei specialmente di Giovanni Moro, il
quale da lì a poco tempo fu ucciso dai suoi Saraceni in Acerenza. Si
esibì tutto il popolo di Nocera a' servigi di Manfredi, e giurarono
fedeltà al re Corradino e a lui. Allora Manfredi, messa mano ne'
suddetti tesori, cominciò ad assoldar gente, e a lui da tutte le parti
concorsero i Tedeschi sparsi perla Puglia; di modo che in breve ebbe un
gagliardo esercito in piedi, ed usci in campagna alla volta di Foggia,
dove era accampato il marchese Oddone con un corpo assai poderoso di
gente pontificia. Si diede alla fuga Oddone dopo breve combattimento, e
Foggia, presa per forza, fu saccheggiata. Niccolò da Jamsilla fa ben
conoscere che questa fu una vittoria, ma non già vittoria di gran
rilievo, come vien descritta da Matteo Paris, se pur d'essa parla, come
vogliono alcuni scrittori napoletani. La verità nondimeno si è, che
questa qualunque si fosse diede tal terrore al grosso esercito
pontificio[3355], accampato allora a Troia, che, come se avessero alle
reni l'armata di Manfredi, disordinatamente di notte prese la fuga, con
lasciar indietro molto del loro equipaggio; nè si credettero in salvo il
cardinale legato ed altri, finchè non giunsero a Napoli, dove era allora
la corte pontificia.

Ma ritrovarono che già papa _Innocenzo IV_, sopraffatto dalla malattia,
era passato a miglior vita. Il Rinaldi[3356] fa accaduta la sua morte
nel dì 7 di dicembre. Il che vien confermato da Pietro da Curbio[3357],
che il dice defunto in Napoli nella festa di sant'Ambrosio. Niccolò da
Jamsilla e Bernardo di Guidone mettono la sua morte nel dì 13 del mese
suddetto; altri nel dì 40; ma si dee stare all'asserzione de' primi.
L'infelice successo di Foggia portò al cuore ancora de' cardinali
esistenti in Napoli un grave scompiglio, di maniera che, se non era il
marchese Bertoldo, che facesse lor animo, già pensavano a ritirarsi
verso Roma. Nel dì 21 del suddetto mese di dicembre, secondo il Rinaldi,
o piuttosto, siccome scrive chiaramente Pietro da Curbio, nel sabbato
giorno 12 del suddetto mese, fu eletto pontefice _Rinaldo vescovo_
d'Ostia da Anagni della nobil famiglia de' conti di Segna, e parente dei
predefunti papi Innocenzo III e Gregorio IX. Prese il nome di
_Alessandro IV_, e portò sulla sedia di san Pietro delle prerogative ben
degne del sommo pontificato. Buono e mansueto, nè portato a maneggiar le
chiavi e la spada con tanto imperio, e con tante gravezze agli
ecclesiastici, come avea praticato il suo predecessore, _revocat et
cassat, quae in gravamen multorum suus constituerat antecessor_, son
parole di Arrigo Sterone[3358]. Fu guerra in questo anno[3359] fra i
Pisani dall'una parte, e i Fiorentini e Lucchesi dall'altra. Sulle prime
riportarono i Pisani dei vantaggi, poscia ebbero molte busse e danni, in
guisa che vennero in parere di chieder pace. Se ne trattò per parecchi
giorni; e convien ben credere che il comune di Pisa si sentisse debole,
dacchè per ottenerla fece compromesso delle sue differenze in Guiscardo
da Pietrasanta Milanese, podestà di Firenze. Questi poi diede un laudo,
condannando i Pisani a restituire a' Lucchesi le castella di Motrone e
Monte Topolo; ai Genovesi Ilice e Trebiano, con altre condizioni, per le
quali tenendosi aggravato il comune di Pisa, non volle accettar quella
sentenza: il che fu cagione di nuova guerra. In questo medesimo anno nel
mese di agosto fecero oste i suddetti Fiorentini contra di
Volterra[3360], che si reggeva a parte ghibellina. Usciti
disordinatamente i Volterrani, furono incalzati, e con esso loro
entrarono anche i Fiorentini nella città. Gran cosa fu che si salvarono
dal sacco. Ne furono cacciati i Ghibellini, lasciato presidio in quelle
fortezze. Anche Poggibonzi, già ribellato, tornò per forza sotto la
signoria de' Fiorentini. Fecero guerra in quest'anno i Bolognesi[3361]
alla città di Cervia. Se ne impadronirono, e vi misero un podestà che a
loro nome la governasse. Di ciò neppure una parola si legge presso
Girolamo Rossi nella Storia di Ravenna. Dalle Croniche di Milano[3362]
altro non si ricava sotto il presente anno, se non che qualche
combattimento seguì fra i nobili e popolari di quella città; e che fu
chiamato colà un certo Beno dei Gonzani Bolognese, a cui fu data balia
di cavar danari dal popolo. Costui, sapendo ben esercitare il, per altro
facile, mestiere di pelare chi non può resistere, inventò nuovi dazii e
gabelle, ed introdusse ogni mala usanza in quella città. Come il popolo
dominante allora si lasciasse calpestare e spolpare da costui per
quattro anni, non si sa intendere. Secondo la Cronica Piacentina[3363],
il _marchese Oberto_ Pelavicino, che già signoreggiava in Cremona, seppe
così ben maneggiarsi, che dal popolo di Piacenza fu eletto per loro
signore perpetuo. Tentò di fare lo stesso anche in Parma coll'aiuto
della fazion ghibellina esistente in quella città[3364], e a questo fine
passò ad assalir Borgo San Donnino e Colorno. Gli veniva fatto, se,
alzatosi un vil sartore parmigiano, e divenuto capo popolo, non avesse
costretto i Ghibellini colle minaccie a desistere dal loro proponimento.
Perciò il marchese Oberto se ne tornò a Cremona senza far altro. Il
Sigonio, che narra questo fatto, l'avrà preso dalla Cronica del
Salimbeni, che si è perduta. Era il marchese Pelavicino suddetto gran
sostenitore della parte ghibellina, e perciò amico di Eccelino. Alcuni
scrittori guelfi cel rappresentano non inferiore al medesimo Eccelino
nella crudeltà e fierezza, forse con qualche ingiuria del vero. Abbiamo
bensì in quest'anno da Rolandino[3365] e da Parisio da Cereta[3366] una
serie d'altri inumani fatti d'esso Eccelino, che ogni dì più peggiorava
nella sua tirribil tirannia.

NOTE:

[3346] Matth. Paris, Hist. Angl. Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8
Rer. Ital.

[3347] Matteo Spinelli, Diario, tom. 7 Rer. Ital.

[3348] Raynaldus, in Annal. Eccl.

[3349] Nicolaus de Jamsilla, tom. 8 Rer. Ital. Sabas Malaspina. Hist.,
lib. 1, cap. 4. Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.

[3350] Ricordano Malaspina, cap. 146.

[3351] Petrus de Curbio, Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.

[3352] Nicolaus de Jamsilla, in Hist.

[3353] Petrus de Curbio, cap. 40.

[3354] Nicolaus, de Jamsilla, tom. 8 Rer. Ital.

[3355] Sabas Malaspina, lib. i, cap. 5.

[3356] Raynald., in Annal. Eccl.

[3357] Petrus de Curbio, Vii. Innocent. IV, cap. 42.

[3358] Stero, in Chron. Augustano,

[3359] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.

[3360] Ricordano Malaspin., cap. 155. Ptolom. Lucensis, in Annales
brev., tom. II Rer. Ital.

[3361] Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.

[3362] Annal. Mediolan., tom. 19 Rer. Ital. Gualv. Flamm., Manip. Flor.

[3363] Chron. Placent., tom. 1 Rer. Ital.

[3364] Sigon., de Regno Ital., lib. 19.

[3365] Roland., lib. 7, cap. 10.

[3366] Paris de Cereta, Annal. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCLV. Indizione XIII.

    ALESSANDRO IV papa 2.
    Imperio vacante.


Seppe ben prevalersi del prosperoso aspetto di sua fortuna _Manfredi_
principe di Taranto, ed anche nel verno attese a far delle conquiste. La
città di Barletta, a riserva del castello, venne alla sua
divozione[3367]. Venosa mandò ad offerirgli le chiavi. Trovavasi
tuttavia nella corte pontificia Galvano Lancia, zio materno di esso
Manfredi, uomo di gran destrezza e prudenza, che facea vista d'essere
forte in collera contra del nipote per la sua ribellione. Ma tutto ad un
tempo egli si ritirò da Napoli, e passò ad Acerenza con riceverne il
possesso a nome di Manfredi: il che fatto, andò a trovare il nipote a
Venosa. L'arrivo suo riempiè d'inesplicabil contento Manfredi, che
troppo abbisognava del consiglio e braccio di un sì fidato consigliere.
Quantunque la città di Rapolla fosse feudo dianzi conceduto ad esso
Galvano, pure dimorava ostinata in favor della Chiesa. Andò colà Galvano
coll'armata del principe, adoperò in vano le chiamate; colla forza in
fine la sottomise, e l'imprudente resistenza di quei cittadini costò la
vita a molti, e la desolazione della loro città. Melfi, Trani, Bari ed
altri luoghi non vollero rimaner esposti a somigliante pericolo, e si
diedero a Manfredi: con che, a riserva delle città della provincia
d'Otranto, quasi tutta la Puglia cominciò ad ubbidire ai suoi cenni. Non
sapeva digerire il nuovo papa _Alessandro IV_ colla corte pontificia che
Manfredi niuno ambasciatiore peranche avesse inviato a prestargli ameno
l'ubbidienza dovuta a lui come vicario di Cristo. Se gli fece insinuare
da più persone che inviasse con isperanza di riportarne dei vantaggi; ed
egli infine vi spedì due suoi segretarii ben istruiti con sufficiente
mandato di trattar di concordia. Iti essi a Napoli, ne cominciarono di
fatto il trattato. In questo mentre Manfredi collo esercito andò a
mettersi in possesso della Guardia de' Lombardi, come luogo spettante al
suo contado d'Andria. S'ebbe non poco a male la corte pontificia che,
trattandosi di pace, egli seguitasse le ostilità, temendo ch'egli non
venisse alla volta di Napoli; laonde egli per compiacerla se ne ritirò,
e prese il viaggio verso d'Otranto, per l'avviso giuntogli che Manfredi
Lancia suo parente era stato sconfitto dal popolo di Brindisi, il quale
avea anche presa e distrutta la città di Nardò. Intanto il papa dichiarò
suo legato in Puglia _Ottaviano_ degli Ubaldini cardinale di Santa Maria
in Via Lata, con ordine di ammassare un possente esercito contra di
Manfredi. Ora dunque, e non prima, come con errore scrisse Saba
Malaspina[3368], questo cardinale cominciò a presiedere all'armi del
pontefice. Da ciò presero motivo i ministri di Manfredi di rompere il
trattato di pace, e se ne tornarono al loro padrone. Passato Manfredi
alla volta di Brindisi, saccheggiò quel paese; assediò, ma indarno,
quella città; venne a' suoi comandamenti Lecce. Pose anche l'assedio
alla città d'Oria, che seppe vigorosamente difendersi. Stando egli
quivi, ricevete la buona nuova che Pietro Ruffo Calabrese, conte di
Catanzaro, che fin qui aveva esercitato in Sicilia l'uffizio di
vicebalio e governatore di quell'isola, uomo palese nemico suo, e che
teneva gran filo colla corte del papa, cacciato via dai Messinesi, s'era
ritirato in Calabria ai suoi Stati. Gli ordini spediti colà a questo
avviso da Manfredi, con un corpo di combattenti, e l'odiosità conceputa
anche da Calabresi contra di esso Pietro Ruffo, cagion furono che que'
popoli si sollevarono contra di lui, di modo che divenuto ramingo fu
infine forzato a cercare rifugio nella corte pontificia.

In quest'anno la città di Trento si levò dall'ubbidienza di _Eccelino_
da Romano[3369], dove quel popolo doveva aver fatta anch'esso pruova di
quella crudeltà che egli seguitava ad esercitare in Padova, e nelle
altre città a lui sottoposte. Spedì egli a quella volta un gagliardo
esercito, a cui solamente riuscì di dare un terribil guasto a molte
castella e ville di quel distretto. _Oberto marchese_ Pelavicino, già
divenuto signor di Cremona e Piacenza[3370], di volontà de' Piacentini
distrusse anch'egli nell'anno presente una mano di castella di quel
territorio, che probabilmente appartenevano ai nobili fuorusciti della
medesima città. Abbiamo dagli Annali d'Asti[3371], che in questi tempi
_Tommaso conte_ di Savoia cominciò la guerra contra degli Astigiani, con
levar loro il borgo di Chieri. Ed essendo Guiscardo da Pietrasanta
Milanese podestà di Lucca, fece fabbricar due borghi nella Versilia
sottoposta a Lucca[3372]. All'uno pose il nome di _Campo Maggiore_,
all'altro di _Pietra Santa_ dal suo cognome. Del che fo io menzione,
acciocchè si conosca la falsità del famoso decreto attribuito a
_Desiderio_ re de' Longobardi, scolpito in marmo nella città di Viterbo,
lodato dal Sigonio, stampato dal Grutero fra l'altre iscrizioni, dove è
parlato di Pietrasanta, di cui esso re vien fatto autore. Di tale
impostura ho io ragionato altrove[3373]. In Giberto da Correggio, detto
della Gente, podestà di Parma, era stato fatto compromesso[3374] dai
Modenesi e Bolognesi per le differenze loro intorno alla picciola
provincia del Frignano, in buona parte occupata dalla potenza d'essi
Bolognesi al popolo di Modena. Chiara cosa era, secondo la giustizia,
che se ne dovea fare la restituzione. Abborrivano i Bolognesi la
pronunzia del laudo, figurandosi bene qual esser dovesse, e la tirarono
sempre a lungo; ma infine Giberto lo proferì con obbligare il popolo di
Bologna a dimettere a' Modenesi l'usurpato possesso di quella contrada.
Ma perchè non sanno mai i potenti, che in qualche maniera sieno entrati
in possesso degli Stati dei meno potenti, persuadersi di avere il torto,
e che per loro sia fatta la legge di Dio che obbliga a restituire; i
Bolognesi lasciarono cantare il giudice, e seguitarono a ritener quel
paese finchè poterono. Mentre questi piccioli affari si faceano in
Lombardia, non perdeva oncia di tempo _Manfredi_ per migliorare quei del
_re Corradino_ suo nipote[3375], o piuttosto i suoi proprii, in Puglia e
Calabria. Eransi i Messinesi, dappoichè si furono sbrigati da Pietro
Ruffo, invogliati di reggersi a repubblica, e già col pensiero si
fabbricavano un largo dominio tanto in Sicilia che in Calabria alle
spese dei vicini. A questo effetto con potente armamento di gente e di
navi passarono in Calabria; ma poco durarono i lor castelli in aria,
perchè ebbero delle percosse dalle soldatesche di Manfredi, per le quali
la città di Reggio con altri luoghi venne alla di lui ubbidienza.
Continuava intanto Manfredi l'assedio d'Oria, con averla anche ridotta
all'estremità, di modo che se aveva un po' più di pazienza, si arrendeva
quel popolo. Ma giuntogli l'avviso che il cardinale legato Ottaviano
degli Ubaldini alla testa d'una possente armata, accompagnato dal
marchese Bertoldo da Hoemburch, e da Oddone e Lodovico suoi fratelli, i
quali, benchè Tedeschi, si erano tutti dati al servigio del papa,
entrava in Puglia: Manfredi, rotto ogn'indugio, s'inviò a Nocera. Quivi
messo insieme un forte esercito di Saraceni, Tedeschi e Pugliesi, marciò
poscia nel dì primo di giugno, per impedire gli avanzamenti del
pontificio, pervenuto sino a Frequento, e andò a postarsi fra esso e la
Guardia de' Lombardi, dove era di guarnigione un corpo di gente
papalina. Stettero per più dì a fronte le due armate; e, per quanto si
studiasse Manfredi di tirare ad una campal battaglia i nemici, che pur
erano senza alcun paragone superiori di forze, non vollero essi giammai
dargli questo piacere.

Così stando le cose, arrivò di Germania un maresciallo, spedito al papa
e al principe dal duca di Baviera a nome della _regina Isabella_, madre
di _Corradino_, con proposizioni di pace. Diede moto il suo arrivo ad un
trattato di tregua, che fu stabilita, finchè il maresciallo e i messi
del principe fossero andati e ritornati dalla corte papale. Ritirossi
perciò Manfredi alla marina di Bari; quand'ecco in Trani riceve nuova
che il cardinal legato s'era innoltrato verso Foggia col suo esercito, e
gli avea tolta la comunicazione con Nocera, sua importante città. Non
poteva egli credere un tal tradimento. Ma verissimo fu; e inoltre la
città di Sant'Angelo s'era data in tal occasione al legato. Animosamente
allora si mosse Manfredi, e, senza mostrar apprensione alcuna de'
nemici, passò alla volta di Nocera; ed avendo rinforzato il suo
esercito, venne da lì a pochi giorni ad accamparsi in faccia all'armata
nemica sei miglia lungi da Foggia, e ricuperò colla forza la suddetta
città di Sant'Angelo. Veggendo poi che i nemici niun movimento faceano,
attendendo solo a ben trincierarsi con fosse e steccati sotto Foggia,
s'avvicinò anche egli a quella città, e quivi formò de' buoni
trincieramenti, che l'armata pontificia, la quale dianzi meditava di far
l'assedio di Nocera, si trovò come assediata da quella di Manfredi.
Bertoldo marchese, ottenuti dal legato ottocento cavalli, passò in
questo mentre alla marina di Bari, e tolse al principe le città di
Trani, Barletta, e l'altre di quella contrada, eccetto che Andria. Ma
questo furbo navigava a due contrarii venti, perciocchè nello stesso
tempo trattava segretamente di comporsi col principe Manfredi. Spedì
costui al campo del legato, che scarseggiava di viveri, un copiosissimo
convoglio. Manfredi, informatone dalle spie, oppur dallo stesso
Bertoldo, lo sorprese. Mille e quattrocento uomini della scorta vi
restarono uccisi; da quattrocento cinquanta furono i feriti e i
prigioni. Tutto quel gran treno venne al campo di Manfredi. Entrata
dunque la fame e le malattie nell'esercito pontificio, il cardinale
legato propose un accordo, che fu accettato da Manfredi. Con esso si
rilasciava al re Corradino e al principe il regno, con obbligo di
prenderne l'investitura dal papa, a riserva di Terra di Lavoro, che
restava in poter della Chiesa romana. Sottoscritta la capitolazione, il
cardinale pregò Manfredi di perdono per chiunque avea prese l'armi
contra di lui. A tutti egli rendè la sua grazia, e nominatamente al
marchese Bertoldo e a' suoi fratelli. Ma il papa, che intanto avea mosso
il re d'Inghilterra alla conquista del regno di Sicilia per _Edmondo_
suo figliuolo, e già ne avea spedita l'investitura, credendo alle larghe
promesse di quel re, ricusò di accettar l'accordo fatto dal legato.
Gl'Inglesi dipoi non si mossero, e il papa deluso venne a perdere il
buon boccone della Terra di Lavoro. Saba Malaspina[3376] non tace la
divolgata opinione, che fra il cardinale Ottaviano e il principe
Manfredi passassero segrete intelligenze. A buon conto, un temporale
gran vantaggio egli avea procurato alla corte pontificia, che sel lasciò
fuggir di mano. Mentre che tali cose succedeano in Puglia, Pietro Ruffo
con un corpo di soldatesche papaline tornò in Calabria per riacquistar
quei paesi. Fu quivi anche predicata la crociata contra di Manfredi,
come se si fosse trattato di andar contra ai Turchi ed infedeli. Ma gli
uffiziali di Manfredi dissiparono que' turbini, e il Ruffo se ne tornò
dolente a Napoli. Non sopravvisse poi molto alle sue disgrazie,
perciocchè stando in Terracina fu ucciso da un suo familiare. Saba
Malaspina scrive ciò fatto per ordine di Manfredi, e detesta un tale
operato; ma quando ciò sia vero, dovette credere Manfredi di aver giusto
titolo di trattar così chi s'era mostrato sì ingrato ed infedele
all'imperador Federigo e a' suoi successori, da' quali era stato cotanto
beneficato, e ch'egli poi sì palesemente tradì. Si ridusse il papa in
questo anno colla sua corte a Roma, non trovandosi più sicuro in Napoli,
dacchè si era rifiutata la concordia. Nè è da tacere che il pontefice
approvò che Corradino s'intitolasse re di Gerusalemme, ma non già di
Sicilia, perchè questo regno si pretendeva devoluto alla santa Sede.

NOTE:

[3367] Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.

[3368] Sabas Malaspina, lib. 1, cap. 5.

[3369] Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital. Monachus Patavinus, in
Chron., tom. 8 Rer. Ital.

[3370] Chronic. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[3371] Chron. Astens., tom. 11 Rer. Ital.

[3372] Ptolom. Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital.

[3373] Antiq. Ital., Dissert. XXVII, pag. 665.

[3374] Annal. Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.

[3375] Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.

[3376] Sabas Malaspina, lib. 1, cap. 5.



    Anno di CRISTO MCCLVI. Indizione XIV.

    ALESSANDRO IV papa 3.
    Imperio vacante.


S'era fin qui assai poco mischiato nelle cose d'Italia _Guglielmo
d'Olanda_, già creato re de' Romani e di Germania[3377]. Di molte guerre
aveva egli avuto colla contessa di Fiandra e coi popoli della Frisia. Ma
dopo esser giunto nel presente anno a domar questi ultimi, caduto in un
agguato a lui teso dai medesimi, miseramente lasciò ivi la vita.
Trattossi dunque dai principi tedeschi di eleggere un successore. Papa
Alessandro con lettere[3378] assai forti incaricò gli elettori
ecclesiastici di non promuovere _Corradino_ figliuolo del re Corrado,
con intimar la scomunica contro a chiunque diversamente facesse.
Imbrogliaronsi per questo e per altri accidenti que' principi, e andò sì
avanti la discordia insorta fra loro, che passò tutto quest'anno senza
che potessero convenire in alcuno dei candidati. Tenne Manfredi nella
festa della Purificazion della Vergine in Barletta un gran
parlamento[3379]. Quivi diede il principato di Salerno a Federigo
Lancia, altro suo zio materno. Degradò da tutti i suoi onori Pietro
Ruffo; e fatto processo contra Bertoldo marchese e contra dei suoi
fratelli, li condannò ad una perpetua prigione, dove finirono i loro
giorni. Era già stato spedito in Calabria da Manfredi il suddetto
Federigo Lancia suo vicario, acciocchè riducesse la Sicilia alla di lui
ubbidienza. Tali ordini con somma destrezza egli eseguì. Per suoi
maneggi il popolo di Palermo si ritirò dalla suggezion de' ministri
pontificii, e fece prigione frate Ruffino dell'ordine de' Minori, che
col titolo di legato apostolico si faceva ubbidire in quelle parti.
Crebbe con ciò ogni di più in Sicilia il credito e il partito di
Manfredi, e formossi ancora in favore di lui un esercito di Siciliani.
Allora Federigo Lancia passò col suo dalla Calabria contro Messina,
città che non tardò molto a riconoscere per signore Manfredi. Con che la
di lui signoria si stese per quasi tutta la Sicilia e Calabria. Essendo
intanto ritornati dalla corte pontificia i suoi ambasciatori coll'avviso
dell'accordo rigettato dal papa, veggendosi Manfredi libero, mosse le
bandiere verso Terra di Lavoro. Gli vennero incontro i deputati spediti
da Napoli con offerirgli la città, e pregarlo di voler dimenticare le
ricevute offese. Manfredi era principe benigno ed amorevole; ben sapea
che la clemenza si tira dietro lo amore dei popoli, e però, passato a
dirittura a Napoli, non solamente perdonò a quel popolo, ma fece di gran
bene a quella nobil città. Quivi ancora ricevette i delegati di Capoa,
che si sottomisero alla di lui signoria. Altrettanto sospirava di fare
il popolo d'Aversa, ma, essendovi dentro un buon presidio papalino, non
ardiva di alzare un dito. Passò dunque Manfredi all'assedio di quella
città, a cui furono dati varii assalti, ma indarno tutti. La vicinanza
nondimeno della sua armata recò tal coraggio a que' cittadini, che,
alzato rumore un dì, uccisi non pochi degli stipendiati del papa, e
ricevuto soccorso da quei di fuori, venne ancora quella città alle mani
di Manfredi. Riccardo da Avella, uomo potente, dopo aver difeso sino
agli estremi il castello, volendo poi fuggire, colto, fu messo a pezzi.
Furono sì fortunati successi cagione che l'altre città di Terra di
Lavoro alzarono le bandiere di Manfredi, fuorchè Sora ed Arce, dove
stavano di presidio alcuni Tedeschi postivi dal marchese Bertoldo.
Inviossi dipoi l'infaticabil Manfredi a Taranto per desiderio di
soggiogare l'ostinata città di Brindisi. Ebbe il contento di veder
venire quel popolo ai suoi piedi, e di riceverlo in grazia sua. La sola
città d'Ariano, forte per la sua situazione, restava in quelle parti
ripugnante al suo dominio. Molti di Nocera, fingendosi banditi da' suoi,
s'introdussero colà, e, levato rumore una notte, tal confusione
produssero, che gli stessi cittadini scannarono l'un l'altro. Così fu
presa la città e distrutta, e il resto degli abitanti distribuito per
altri luoghi del regno. L'Aquila, città nuova, perchè negli anni
addietro fondata dal re Corrado, era già pervenuta ad una gran
popolazione, e fin qui avea tenuta la parte del papa. All'intendere i
continuati progressi di Manfredi, giudicò che più non era da indugiare a
sottoporsi, e però, a lui spediti suoi ambasciatori, il riconobbe per
suo signore. Ma, secondo Saba Malaspina[3380], fino all'anno 1258 questa
città si tenne per la Chiesa; e ne abbiamo anche delle pruove dal
Rinaldi[3381].

Così procedevano gli affari della Sicilia e della Puglia. Passiamo ora
ad un avvenimento della marca di Trivigi, ossia di Verona, che fece
grande strepito in quest'anno per tutta Italia. I gemiti dei miseri
Padovani per le enormi crudeltà di Eccelino da Romano[3382], le istanze
continue di _Azzo VII_ marchese d'Este, e i tanti richiami de'
circonvicini e degli esiliati mossero a compassione il buon papa
_Alessandro IV_, e a desiderio di rimediarvi. Dichiarò dunque suo legato
nella marca di Trivigi _Filippo_, eletto arcivescovo di Ravenna, il
quale, venuto a Venezia, ed ammassato un esercito di crocesignati, con
dichiarar podestà de' fuorusciti padovani Marco Querino, e maresciallo
dell'armata Marco Badoero, si disposero ad entrare nel Padovano.
Ansedisio podestà di Padova, perchè Eccelino colle forze de' popoli di
Padova, Vicenza e Verona era nel mese di maggio passato sul Mantovano,
lusingandosi di poter mettere il piede in quella città, prese molte
precauzioni per impedir lo ingresso dell'armata nemica; ma per giudizio
di Dio esse facilitarono piuttosto la di lui rovina. Sul principio di
giugno coraggiosamente entrò il legato apostolico nel territorio di
Padova; prese Concadalbero, Causelve e Pieve di Sacco; ed avanzandosi
ogni dì più, e crescendo l'armata sua per l'arrivo delle genti spedite
per cura del marchese d'Este da Ferrara, Rovigo ed altri luoghi, a
dirittura passò fin sotto Padova, e nel dì 19 di giugno s'impadronì, con
poco spargimento di sangue, de' borghi di quella città. Nel giorno
seguente dato di piglio alle armi, con gran giubilo tutta l'oste
crocesignata diede un generale assalto alla città. Fu condotta una
vigna, ossia gatto, macchina, sotto la quale speravano gli aggressori di
rompere le porte di Ponte Altinate. Tanta quantità di pece, zolfo e di
altra materia accesa fu gittata addosso a quella macchina, che il fuoco,
attaccatosi ad essa, servì ad accendere e ridurre in cenere la porta
stessa. Portatone l'avviso ad Ansedisio, allora gli cadde il cuore per
terra; e perchè un buon Padovano il consigliò di capitolare col legato,
affinchè la città non andasse a sacco, l'iniquo con una stoccata nel
petto, per cui restò morto, gl'insegnò a non dar più dei pareri ai
tiranni. Insomma costui pien di spavento, salito a cavallo, per la porta
di San Giovanni prese la fuga, nè i suoi furono lenti a tenergli dietro.
Entrò dunque l'armata de' crociati vittoriosamente in Padova nel dì 20
di giugno; male nondimeno per gl'innocenti cittadini, che dianzi miseri,
maggiormente divennero tali per la sfrenata avidità de' vincitori.
Costoro, avendo presa la croce più per isperanza d'arricchire che per
voglia di conseguir le indulgenze plenarie, appena furono dentro, che
diedero il sacco a quante case e botteghe erano nella città; nè altro
fecero per sette giorni che ruberie, lasciando spogliata di tutto
l'infelice cittadinanza, non senza biasimo de' comandanti, i quali in
tanto tempo niun provvedimento trovarono all'inestimabil danno degli
abitanti. Furono allora aperte le orrende carceri di Eccelino che erano
in Padova. Essendosi anche renduta la terra di Cittadella, dove Eccelino
avea dell'altre diaboliche prigioni, uscì alla luce una gran copia
d'infelici, quivi piuttosto seppelliti che rinchiusi. A riserva di
pochissimi luoghi, tutte le castella e terre del Padovano si diedero al
legato, e tornarono sotto l'ubbidienza della città. Anche il marchese
Azzo VII ricuperò la sua terra d'Este colle altre della Scodesia; ma non
potè per allora riavere Cerro e Calaone, fortezze quasi inespugnabili
per la lor situazione. Fecero poscia i Padovani nell'anno seguente un
decreto, da me altrove rapportato[3383], che si dovesse solennizzar da
lì innanzi con processione universale la felice liberazione della lor
città; la quale funzione si fa anche oggidì.

Dopo avere Eccelino dato il guasto alla maggior parte del Mantovano
senza poter nuocere alla città, alla quale impresa[3384] concorse ancora
coi Cremonesi il _marchese Oberto_ Pelavicino, decampò per venire a
Verona, ed accorrere al soccorso di Padova. Al passaggio del Mincio gli
arriva davanti uno tutto sudato ed ansante. _Che nuova?_ disse Eccelino.
Ed egli: _Cattive. Padova è perduta_. Eccelino il fece tosto impiccare.
Da lì a poco ne arriva un altro. _Che nuove?_ Rispose che con sua
permissione volea parlargli in segreto. Costui ebbe più giudizio, e gli
passò bene. Continuò il tiranno la marcia sino a Verona, senza
permettere un momento di posata all'esercito stanco; e quivi
insospettito de' Padovani che erano seco, tutti li fece imprigionare e
spogliare di quanto aveano. Per attestato di Rolandino, erano undici
mila persone tra nobili e plebei, ed Eccelino con una crudeltà, di cui
mai più non si perderà la memoria, quasi tutti li fece parte uccidere, e
il resto morire di stento: non ne tornarono forse ducento a Padova.
Potrebbesi nondimeno dubitare di qualche esagerazion di Rolandino in sì
gran numero d'infelici Padovani. Intanto il legato apostolico Filippo
attese a rinforzare il suo esercito. Era volato a Padova Azzo marchese
d'Este. Fece egli venire un buon rinforzo di gente da' suoi Stati e da
Ferrara. Vi accorsero tutti i banditi da Verona e Vicenza, e vennero più
brigate di Bolognesi, comandate in certa guisa dal famoso fra Giovanni
dell'ordine de' Predicatori: il che è da notare per conoscere i costumi
di questi tempi. S'ebbero ancora da Venezia e Chioggia assaissimi
balestrieri. Premeva al legato di ridurre Vicenza al suo partito, e
verso colà mosse l'armata nel dì 30 di luglio, e nel dì primo d'agosto
andò ad accamparsi a Longare; e nello stesso tempo vi arrivò anche
Alberico da Romano, fratello di Eccelino, con un corpo di Trivisani,
facendosi credere fedele alla Chiesa: del che tutti si stupirono, e ne
venne grande bisbiglio. Allora fu creato capitan generale dell'esercito
il marchese d'Este, con plauso di ognuno. Ma da lì a poco levatosi un
susurro, che Eccelino con un formidabil esercito si avvicinava, entrò
tal timor panico nell'armata de' crocesignati, che, per quanto facessero
il legato ed il marchese, i Bolognesi furono i primi a tornarsene a
casa, ed altri di mano in mano a ritirarsi: laonde il legato giudicò
meglio di ridurre l'esercito a Padova. Sospetto corse che Alberico da
Romano avesse segretamente fatto spargere questo terror nella gente. Per
attestato della Cronica di Verona[3385], la terra di Legnago sull'Adige,
acclamando in quest'anno il marchese Azzo d'Este, si sottrasse
all'ubbidienza di Eccelino e di Verona. Lo stesso fece quella ancora di
Cologna. Tirarono poscia i Padovani una gran fossa quasi di tre miglia
fuori della città con isteccati, torri di legno e petriere disposte in
varii siti, e quivi s'accampò l'esercito pontificio, aspettando il
tiranno. Colà fece venire il marchese Azzo tutta la cavalleria di
Ferrara, e dovea in breve arrivare anche la fanteria. Gran copia di
Mantovani e il patriarca di Aquileia con isforzo numeroso di gente
accorsero alla difesa di Padova. Arrivò sul fine d'agosto Eccelino,
diede varii assalti alle fortificazioni nemiche, ributtato sempre,
tuttochè superiore al doppio di forze ai Padovani: il perchè scornato se
ne tornò a Vicenza, dalla qual città con belle parole fece uscire la
milizia urbana, facendola stare ne' borghi, e dentro dispose una buona
guarnigione di Veronesi e Tedeschi.

Secondo la Cronica di Milano[3386], fu in quest'anno divisione fra i
nobili e popolari di Milano. Ognun voleva comandar le feste. Guerra
eziandio si fece fra i cittadini e fuorusciti di Piacenza[3387]. Ma in
Toscana fu ben più fiera. Uscirono in campagna i Fiorentini, Lucchesi e
Genovesi collegati contro ai Pisani[3388]. A tutta prima i Lucchesi
rimasero spelazzati; ma, accorsi i Fiorentini, sconfissero l'oste pisana
vicino al Serchio; e fu in pericolo la stessa città di Pisa. Tolsero i
Genovesi ai Pisani il castello d'Ilice. La debolezza in cui restò allora
il popolo pisano il ridusse a chiedere pace. E l'ottennero con
restituire ai Lucchesi Motrone, dimettere il castello di Corvara, che fu
distrutto, e quello di Massa, che fu restituito al _marchese Bonifazio_
Malaspina. Circa questi tempi cominciò il _marchese Oberto_
Pelavicino[3389], siccome capo de' Ghibellini in Lombardia, ad aver
qualche dominio anche in Pavia. Leggiamo poscia nelle Croniche
d'Asti[3390] che nell'anno presente, ad istanza e per ordine del papa,
tutti gli Astigiani che erano in Francia furono presi dai soldati del
santo _re Lodovico_, e consegnati a _Tommaso conte_ di Savoia, oppur
detenuti per lungo tempo nelle carceri di Parigi. Perderono gli
Astigiani quanto aveano in Francia, e nella lunga guerra che ebbero col
suddetto conte di Savoia, spesero più di ottocento mila lire. L'origine
della disgrazia di questo popolo si ha da Matteo Paris[3391], dal
Guichenone[3392], e da Antonio poeta astigiano[3393], secondo i quali
nel precedente anno cominciò la guerra fra esso Tommaso conte di Savoia
e il popolo d'Asti. Occupò il conte Chieri agli Astigiani. Usciti con
grande sforzo gli Astigiani, ruppero il popolo di Chieri, e poi presero
Moncalieri, dove fecero prigione l'abbate di Susa loro gran nemico. A
questa nuova il conte Tommaso, ch'era in Torino, ammassato l'esercito
suo, venne a dar battaglia agli Astigiani a Montebruno, ma se ne andò
egli sconfitto, e gran copia di Torinesi vi restò prigione. Tornato a
Torino, fecesi una matta sollevazione contra di lui, e da quel popolo fu
detenuto prigione, con intimazione di non rilasciarlo, se prima non
facea restituire i lor cittadini. Matteo Paris ne attribuisce la cagione
al suo duro governo. Diedero poscia i Torinesi barbaramente esso conte
in mano agli Astigiani, e con ciò liberarono la lor gente. La
disavventura di questo illustre principe, già conte ancora di Fiandra, e
parente dei re d'Inghilterra e di Francia, fece gran rumori dappertutto.
Papa Alessandro IV ne scrisse lettera di condoglianza alla regina
d'Inghilterra, rapportata da Matteo Paris, e l'esortò a far prendere
tutte le persone e i beni de' Torinesi ed Astigiani, che fossero nel suo
dominio. Altrettanto fece il santo re di Francia nel suo, per ordine
dello stesso papa. Presero poscia gli Astigiani Fossano ed altre terre
del conte, ed arrivarono fino alla valle di Susa, con egual felicità in
altri fatti d'armi. Abbiamo da Matteo Paris che venne in Italia
l'arcivescovo di Cantorberì per liberare il conte suo fratello. Mosse i
Savoiardi a fare l'assedio di Torino, ma senza profitto; e dopo avere
inutilmente consumate immense somme di danaro, se ne tornò in
Inghilterra, con lasciare tuttavia prigione il fratello. Aggiugne il
medesimo storico che nell'anno presente i Romani, stanchi della severità
ed inesorabil giustizia di Brancaleone d'Andalò Bolognese lor senatore,
il cacciarono in prigione. A lui volea gran male la nobiltà, e più la
corte pontificia. Segretamente se ne fuggì sua moglie, e, venuta a
Bologna, operò che gli ostaggi de' Romani quivi dimoranti fossero ben
custoditi. Ricorsi i Romani al papa, fecero ch'egli scrivesse al comune
di Bologna, intimando l'interdetto alla città, se non rendeva gli
ostaggi. Sofferirono i Bolognesi piuttosto l'interdetto, ben conoscendo
che, qualora gli avessero dati, vi andava la testa del loro
concittadino. Questo avvenimento ci fa comprendere con quali costumi si
regolassero allora le città italiane, o almen qual precauzione avesse
presa Brancaleone, perchè assai conoscente delle instabili leste dei
Romani d'allora, i quali presero dipoi per loro senatore Manuello Maggi
Bresciano. Potrebbe nondimeno essere che questi ostaggi e l'interdetto
suddetto appartenessero all'anno 1260, siccome vedremo.

NOTE:

[3377] Matth. Paris Hist. Anglic. Stero Hist. Augustan.

[3378] Raynald., in Annal. Eccl.

[3379] Nicolaus de Jamsilla, tom. 8 Rer. Ital.

[3380] Sabas Malaspina, Histor., lib. 2, cap. 1.

[3381] Raynaldus, in Annal. Eccl.

[3382] Roland, lib. 8, cap. 1. Monach. Patavinus, in Chron. Chron.
Veronense et alii.

[3383] Antiquit. Italic., Dissert. XXIX, pag. 851.

[3384] Paris de Cereta, Annal. Veronens, tom. 8 Rer. Ital. Roland., lib.
9, cap. 7.

[3385] Paris. de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.

[3386] Chron. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.

[3387] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[3388] Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital., Ptolomeus Lucens.,
tom. 11 Rer. Ital. Ricord. Malaspina, et alii.

[3389] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.

[3390] Chron. Astens., tom. 11 Rer. Ital.

[3391] Matth. Paris, Hist. Angl.

[3392] Guichenon, Hist. de la Maison de Savoye.

[3393] Anton. Astens., tom. 14 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCLVII. Indizione XV.

    ALESSANDRO IV papa 4.
    Imperio vacante.


Finalmente le dissensioni de' principi di Germania, per l'elezione di un
nuovo re de' Romani, andarono a terminare in uno scisma[3394]. Verso la
metà di gennaio gli arcivescovi di Magonza e Colonia, _Lodovico conte_
Palatino del Reno ed Arrigo suo fratello duca di Baviera elessero
_Riccardo conte_ di Cornovaglia, fratello del re d'Inghilterra. Da molti
altri principi fu riprovata questa elezione. Però circa la metà di
quaresima dell'anno seguente l'arcivescovo di Treveri, il re di Boemia,
il duca di Sassonia, il marchese di Brandemburgo e molti altri principi
acclamarono re anch'essi _Alfonso re_ di Castiglia e di Leone. Venuto in
Germania Riccardo, nel dì dell'Ascension del Signore fu coronato in
Aquisgrana[3395]. Il pontefice _Alessandro IV_ stette neutrale in mezzo
a questa contesa dei due re, senza aderire ad alcuno. Si agitò la causa
nella curia romana, ma non fu mai decisa; e però l'Italia niun pensiero
si prese di questi due re, quantunque i medesimi non cessassero di
procacciarsi qui dei partigiani. _Eccelino_ da Romano, fra gli altri, si
dichiarò in favore del re di Castiglia; e questo re scrisse anche
lettere al comune di Padova, per attestato di Rolandino. Lo stesso avrà
fatto all'altre città d'Italia; nè Riccardo dovette dimenticare un
somigliante uffizio; ma niun d'essi visitò mai queste contrade.
Restavano tuttavia in Sicilia[3396] disubbidienti a Manfredi Piazza,
Aidona e Castrogiovanni. Federigo Lancia, messo all'ordine un gagliardo
corpo d'armata, andò a cignere d'assedio Piazza, città allora assai
ricca e popolata. Vi trovò dentro gran copia di difensori, e difensori
che non conosceano cosa fosse paura, di maniera che quasi ne parea
disperato l'acquisto. Pure, dopo molti sanguinosi assalti, per forza
v'entrò, e vi gastigò i principali che s'erano mostrati sì ardenti
contro la casa di Suevia. Questo successo indusse la città d'Aidona a
sottomettersi volontariamente al conte Federigo, il quale non si attentò
di assediar Castrogiovanni, perchè città o castello troppo forte, ma
fece ben mettere a sacco e fuoco tutto il suo contado, e la ristrinse
con un vigoroso blocco. Questo nulladimeno bastò a far prendere a quel
popolo la risoluzione di arrendersi a buoni patti: con che Manfredi, già
divenuto padrone di tutto il regno di qua dal Faro, nulla ebbe in
Sicilia che più contrastasse al suo volere e dominio. Non seppe trovar
posa _Azzo VII_ marchese d'Este, finchè vide le rocche di Monselice e le
due sue fortezze di Cerro e Calaone in potere di Eccelino[3397]. Ad esse
aveva egli già posto il blocco. Gli riuscì nella primavera di quest'anno
di guadagnar, con danari e promesse di molti vantaggi, Gherardo e
Profeta capitani del tiranno, che tuttavia difendeano i gironi superiori
di Monselice; e in questa maniera liberò quell'importante sito. Nè passò
molto, che se gli renderono ancora le castella di Cerro e Calaone: con
che nulla restò in quelle parti al tiranno. Dimorava intanto esso
Eccelino in Verona[3398], nè più potendo dar pascolo all'inumano suo
genio contra dei Padovani, si diede a sfogarlo contra dei nobili e
popolari d'essa Verona. Fece egli prendere in quest'anno Federigo e
Bonifazio fratelli della Scala, famiglia che comincia ad apparire
distinta in quella città, e tutti i loro aderenti, e, incolpatili di
voler dare la città di Verona ai Mantovani e al marchese Azzo, li fece
nel mese di ottobre strascinar a coda di cavallo, e bruciar poscia vivi.
A forza ancora di tormenti fece morire Ansedisio suo nipote, per non
aver saputo difendere Padova, permettendo Iddio che questo iniquo
ministro delle crudeltà del zio ricevesse da lui stesso il meritato
gastigo. In questo medesimo anno nel dì 8 di maggio Alberico da Romano,
il quale dominava in Trivigi, essendo, oppure fingendo di essere, nemico
di Eccelino suo fratello, e di seguitar le parti della Chiesa, si cavò
infine la maschera, e fece non solamente pace, ma anche lega con esso
Eccelino, con dargli in ostaggio tre suoi figliuoli. Seguitò dipoi
Alberico ad esercitare anch'egli la crudeltà contra de' cittadini di
Trivigi, assaissimi de' quali, sbanditi dalla patria, si rifugiarono
sotto l'ali de' Padovani e Veneziani.

Era insorta nel precedente anno una fiera discordia rivile fra i Guelfi
e Ghibellini di Brescia. Prevalsero gli ultimi, confidati nelle forze di
_Eccelino_ e del _marchese Oberto_ Pelavicino, che allora mettevano a
sacco il contado di Mantova. Incarcerarono, o fecero fuggire molti degli
aderenti alla Chiesa. Ebbero nondimeno tanto giudizio di non ammettere
nella lor città il perfido Eccelino, che già era giunto a Montechiaro
con isperanza d'entrarvi; ed elessero per loro governatore Griffolino,
uomo saggio ed amante della patria. Nell'anno presente _Filippo_ da
Fontana Ferrarese, legato apostolico ed eletto di Ravenna, soggiornando
in Mantova, spedì colà[3399] frate Everardo dell'ordine de' Predicatori,
uomo di molta dottrina e destrezza, il quale con tal facondia si
adoperò, che la libertà e i beni furono restituiti ai Guelfi incarcerati
e fuorusciti. Questo buon principio diede animo al legato di passare con
poco seguito alla stessa città di Brescia, dove riconciliò gli animi
alterati di que' cittadini, promettendo tutti di star saldi nell'antica
divozione verso la Chiesa romana. Fecesi anche una riguardevole
mutazione in Piacenza[3400]. Si reggeva quella città a parte Ghibellina;
ne era signore e capo il marchese Oberto Pelavicino. Formata una potente
congiura, nel dì 24 di luglio levarono i Guelfi rumore, cacciarono dalla
città il suddetto marchese ed Ubertino Landò suo fedel seguace, e
spogliarono d'armi e cavalli tutta la gente loro, con eleggere dipoi per
loro podestà Alberto da Fontana. Questi fece dipoi guerra agli aderenti
de' Landi, col condannarli e bandirli dalla città. Non minore commozione
civile fu in questi tempi in Milano[3401]. Continuando _Leone da Perego_
arcivescovo, coll'assistenza de' nobili, a pretendere il governo della
città, a questo suo ambizioso disegno ripugnavano forte i popolari,
disgustati anche di molto per la prepotenza d'essi nobili, e per un
vecchio iniquo statuto, in cui altra pena non s'imponeva ad un nobile
che ucciso avesse uno del popolo, se non di pagare sette lire e danari
dodici di terzuoli. Essendo appunto in questi tempi stato ammazzato da
Guglielmo da Landriano nobile un popolare, per avergli fatta istanza
d'esser pagato, il popolo di Milano prese l'armi, si sollevò, e avendo
alla lor testa Martino dalla Torre, obbligò l'arcivescovo e la nobiltà
ad uscir di città. Si ritirarono questi nel Seprio, e ricevuto dai
Comaschi un gagliardo rinforzo di gente, tentarono poi di rientrare in
Milano, e più volte vennero alle mani coi popolari, ma sempre colla
peggio. Interpostosi poi papa Alessandro coi cardinali, ne seguì pace, e
mandati ai confini molti dei nobili, l'arcivescovo col resto se ne tornò
in città. Allora fu che Martino dalla Torre prese per moglie una sorella
di Paolo da Sorecina podestà de' nobili; e il popolo, chiamato al
sindacato Beno de' Gonzani Bolognese allora podestà, che tante angherie
avea fatto in addietro in Milano, il condannarono a pagar dodici mila
lire. E perciocchè egli non potè o non volle pagare sì grossa somma,
l'uccisero, e il suo corpo come di un cane gittarono nelle fosse. Andava
in questi tempi a dismisura crescendo la potenza de' Bolognesi. Erano
già padroni d'Imola, Cervia e d'altri luoghi. Nell'anno precedente,
siccome diffusamente narra il Sigonio[3402], e s'ha ancora dalla Cronica
di Bologna[3403], stesero la loro giurisdizione sopra Faenza, Forlì,
Forlimpopoli e Bagnacavallo, di maniera che parte della Romagna riceveva
da essi podestà, e ubbidiva ai loro comandamenti. Cagione fu questo alto
loro stato, ch'essi, ridendosi del laudo proferito da Giberto podestà di
Parma, non vollero restituire al comune di Modena le castella del
Frignano. Mancava ai Modenesi quel buon recipe che per sì fatti mali
occorre; perciò fecero ricorso alle città di Lombardia, acciocchè
interponessero i lor buoni uffizii, con far loro costare la forza delle
proprie ragioni. Unitamente dunque col podestà di Modena[3404] si
portarono a Bologna gli ambasciatori di Milano, Brescia, Mantova,
Ferrara, Parma e Reggio; ma, per quante esortazioni e preghiere
adoperassero, non si potè espugnare l'avido e superbo cuore de'
Bolognesi. Portarono allora i Modenesi le lor doglianze al papa, il
quale, per timore che questa città non si gittasse in braccio al partito
de' Ghibellini, scrisse nel dì 7 di agosto da Viterbo una lettera,
rapportata dal Sigonio, al vescovo di Mantova, dandogli commissione di
ordinare ai Bolognesi l'esecuzione del laudo, ma di non sottoporre
all'interdetto Bologna senza suo nuovo ordine. Non apparisce che il
vescovo facesse più profitto degli altri intercessori. In quest'anno
finalmente, secondo il Guichenon[3405], uscì delle prigioni d'Asti
_Tommaso conte_ di Savoia; e ciò si può dedurre ancora da Matteo
Paris[3406], che nell'anno seguente il dice arrivato in Inghilterra. Il
trattato della sua liberazione fu conchiuso in Torino nel dì 18 di
febbraio, e in esso il conte, forzato dalla necessità, rinunziò a tutti
i suoi diritti sopra la città di Torino e sopra altri suoi luoghi. Dal
Continuatore di Caffaro[3407] all'anno 1259 si ricava ch'egli diede agli
Astigiani in ostaggio i suoi figliuoli.

NOTE:

[3394] Stero., Annal. Augustan. Matth. Paris., Hist. Angl. Roland., lib.
11, cap. 2.

[3395] Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.

[3396] Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.

[3397] Roland., lib. 10, cap. 13.

[3398] Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.

[3399] Malvecius, Chron. Brix., tom. 14 Rer. Ital.

[3400] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.

[3401] Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital. Gualvan. Flamma, Manip.
Flor., cap. 291.

[3402] Sigonius, de Regno Ital., lib. 19.

[3403] Chron. Veronense, tom. 18 Rer. Ital.

[3404] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.

[3405] Guichenon, Histoire de la Mais. de Savoye, tom. 1.

[3406] Matth. Paris. Hist. Angl.

[3407] Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.



    Anno di CRISTO MCCLVIII. Indizione I.

    ALESSANDRO IV papa 5.
    Imperio vacante.


Era già il fin qui principe di Taranto _Manfredi_ in pacifico possesso
di tutto il regno di Sicilia di qua e di là dal Faro. Non mancavano a
lui voglie di maggiore ingrandimento, nè consiglieri che la fomentassero
e ne promovessero il compimento. Benchè intorno alle cose di lui non ci
restino da qui innanzi, se non istorici guelfi, talvolta sospetti di
troppo maliziare, e di alterar la verità secondo le loro passioni; pure
non ci mancherà lume per discernere quello che sia più probabilmente da
credere negli avvenimenti spettanti a lui. Pensò dunque Manfredi, e vi
avea pensato anche molto prima, di assumere il titolo e la dignità di re
di Sicilia. A questo fine fece egli sparger voce che Corradino suo
nipote in Germania fosse mancato di vita. Niccolò da Jamsilla[3408] pare
che ci voglia dare ad intendere che tal fama naturalmente e senza frode
sorgesse e prendesse piede; ma non si fallerà giudicando che
artificiosamente fosse disseminata, acciocchè, tenuto per estinto il
legittimo erede della corona di Sicilia, si facesse apertura alla
succession di Manfredi. E ciò poi sarebbe più chiaro del sole, qualora
fosse fuor di dubbio quanto vien raccontato da Ricordano[3409], da
Giovanni Villani[3410] e da altri Guelfi: cioè che Manfredi mandò suoi
ambasciatori in Suevia per avvelenar Corradino, e, credendo essi d'aver
fatto il colpo, se ne tornarono in Sicilia vestiti di gramaglia,
asserendo la di lui morte. Le credo io favole. Saba Malaspina[3411]
altro non dice, se non che si fecero correre certe lettere finte, come
scritte da baroni tedeschi, coll'avviso della morte di Corradino,
fondate forse anche sopra qualche grave malattia di lui, che diedero da
dubitar di sua vita. Bastò questo per indurre, come vuole il Jamsilla, i
prelati e baroni del regno a fare istanza a Manfredi di prendere lo
scettro del regno. Più verisimile è che dalle segrete insinuazioni dello
stesso Manfredi fossero mossi a far questo passo. Comunque sia, nel dì
11 d'agosto nella cattedral di Palermo fu egli solennemente coronato re
da tre arcivescovi col concorso e plauso d'innumerabili prelati, baroni
e popolo. Ed abbondavano bene in lui, anche per confessione de' suoi
avversarii, moltissime di quelle prerogative che rendono l'uomo degno di
regnare. Giovane di bell'aspetto, faceva sua gloria la cortesia,
l'affabilità e la clemenza, senza avere ereditata la crudeltà de' suoi
maggiori. Singolar fu la sua prudenza e l'intendimento superiore di
lunga mano all'età; grande il suo amore verso le lettere e i letterati,
ed egli stesso ben istruito delle scienze e dell'arti più nobili; ma
soprattutto risplendeva in lui la generosità e la gratitudine in
premiare chiunque gli prestava servigio. E specialmente nel tempo della
coronazione si diffusero le rugiade della sua liberalità e magnificenza
con profusione di donativi al popolo, e di contadi, baronie ed altri
uffizii, de' quali principalmente furono a parte i suoi zii materni
marchesi Lancia, ed altri suoi parenti e molti Lombardi, dei quali, più
che d'altri, si fidava. Ch'egli fosse principe di poca fede, di minor
pietà, e dedito a' piaceri e alla lussuria, lo dicono gli scrittori
pontificii. Certo è che la politica mondana e l'ambizione ebbero il
primato nel suo cuore, e fu dai più riprovato l'aver egli occupato il
regno dovuto al nipote. Credeva anch'egli non poco alla strologia.
Scrive Matteo Paris[3412], essersi nell'anno 1256 venuto a sapere che
Manfredi, creduto fin allora bastardo, in una malattia della madre,
figliuola del marchese Lancia di Lombardia, era stato legittimato
dall'imperador Federigo II suo padre, coll'averla sposata. Queste erano
ciance del volgo. Racconta ancora Saba Malaspina[3413], scrittore nimico
di Manfredi, che non essendo per anche egli coronato, per parte del re
Corradino vennero in Italia due ambasciatori con ordine di trattar col
papa di accordo per succedere nel regno di Sicilia. Verso il castello
della Molara furono presi, spogliati, e l'un di essi ucciso, l'altro
ferito da Raule de' Sordi nobile romano. Autore di questa sceleraggine
vien detto Manfredi da esso Malaspina, quasichè allora non si trovassero
nel distretto romano e in altri luoghi di que' nobili assassini che
andavano a caccia di chi avea cariche le valigie di oro; e non
confessasse egli che questo nobile era un solennissimo scialacquatore e
malvivente, capace perciò senza gli sproni altrui di così neri
attentati. Per lo contrario, abbiamo da Matteo Spinelli[3414] che nel dì
20 di febbraio del 1256 (nel suo testo sono sconcertati tutti gli anni:
forse è l'anno 1259) vennero a Barletta gli ambasciatori della regina
_Isabella_, madre del re _Corradino_, con quei del duca di Baviera suo
fratello, a trovare il re Manfredi. Fecero conoscere che Corradino era
vivente, e pretesero che si gastigasse chi avea detta la menzogna di sua
morte. Manfredi con saggio e bel sermone rispose loro che il regno era
già perduto, ed averlo egli, siccome ognun sapeva, conquistato coll'armi
e con immense fatiche; nè essere di dovere nè di utilità che lo
rinunziasse ad un fanciullo incapace di sostenerlo contra de' papi,
implacabili nemici della casa di Suevia. Che per altro avrebbe tenuto il
regno sua vita naturale durante, e poi vi sarebbe succeduto Corradino.
Con queste belle parole, e con regali magnifici, anche pel duca di
Baviera, rispedì gli ambasciatori. Da Palermo ripassato il re Manfredi
in Puglia[3415], tenne corte bandita e un gran parlamento in Foggia,
dove rallegrò i popoli concorsi da tutte le parti colla solennità di
varii spettacoli e giuochi. Indi coll'esercito passò addosso alla città
dell'Aquila, che fin qui avea pertinacemente tenute inalberate le
bandiere della Chiesa. Danno non venne alle persone e robe degli
abitanti, che furono poi costretti ad uscirne, e la città per pena fu
data alle fiamme.

In questi tempi avendo il popolo romano trovato colle pruove Mannello
dei Maggi[3416], senatore troppo parziale dei nobili, levatosi a rumore,
andò colla forza a liberar dalle carceri Brancaleone già senatore, e il
rimise nell'uffizio primiero. Allora egli cominciò ad esercitare
spietatamente il rigore della giustizia contra de' potenti Romani che
calpestavano il popolo, e fece infin presentare alle forche due della
nobil casa degli Annibaldeschi. Fu coi suoi fautori scomunicato dal
papa: del che non fecero eglino conto, pretendendo di avere un
privilegio di non potere essere scomunicato. Tali minaccie poi si
lasciarono uscir di bocca contra del pontefice e de' cardinali, che papa
Alessandro colla corte, non veggendosi sicuro, si ritirò a Viterbo. Ciò
dovette succedere nell'anno precedente, perchè si veggono lettere quivi
allora date dal papa. Nel presente anno Brancaleone col popolo romano fu
in procinto di portarsi coll'armi a distruggere Anagni, patria dello
stesso pontefice. Per placarlo, bisognò che il papa con umili parole
mandasse a pregarlo di desistere da così crudele disegno. Durò fatica
Brancaleone a frenar il furor del popolo, e da lì innanzi tenne buona
corrispondenza col re Manfredi, che gli promise ogni assistenza ed
aiuto. Poscia, per abbassare la potenza della nobiltà romana, che colle
case ridotte in forma di fortezze commetteva mille insolenze, fece
diroccare da cento quaranta loro torri; e in questa maniera tornò la
quiete e tranquillità in Roma. Ma non passò l'anno presente, che fu
anche lo stesso Brancaleone atterrato dalla morte, e il suo capo, per
memoria del suo valore, o, per dir meglio, della sua eccessiva giustizia
e crudeltà, posto sopra una colonna entro di un vaso prezioso. Per
consiglio di lui, fu eletto senatore Castellano di Andalò Bolognese suo
zio dal popolo romano, senza voler dipendere dall'assenso del papa, che
fece tutto il possibile per impedirlo. Prosperarono in quest'anno in
Lombardia gli affari dell'empio _Eccelino_ da Romano con somma
afflizione di tutti i buoni. Guardavansi con occhio bieco in Brescia le
due fazioni de' Guelfi e Ghibellini, benchè riconciliate poc'anzi.
Eccelino[3417] con segrete lettere soffiava nel fuoco. Tentarono i
Ghibellini di cacciar la parte contraria nel dì 29 d'aprile, essendo con
loro Griffo ossia Griffolino podestà della città. Si venne all'armi; si
combattè tutta la notte; nel dì seguente restarono sconfitti gli amici
di Eccelino, Griffo preso con altri, il resto colla fuga si salvò a
Verona e Cremona. Già dicemmo uniti in lega Eccelino ed _Oberto_
Pelavicino marchese. Perchè i Bresciani erano venuti all'assedio di
Torricella occupata dai lor fuorusciti, mosse il marchese l'esercito de'
Cremonesi per dar soccorso agli assediati, e nello stesso tempo
sollecitò Eccelino a muoversi dall'altro canto. Allora Eccelino con
quante forze potè di Tedeschi, e delle milizie di Verona, Feltre,
Vicenza e d'altri luoghi[3418], marciò alla volta del Mincio, e,
passatolo in fretta, andò ad unirsi coi Cremonesi. Intanto il legato
pontificio _Filippo arcivescovo_ di Ravenna, al primo movimento de'
Cremonesi avendo chiamati in aiuto i Mantovani, che v'accorsero colla
loro milizia, uscì in campagna coll'esercito bresciano e con tutti i
suoi crocesignati, e andò a Corticella presso al fiume Oglio. Ma
arrivata nel suo campo la nuova che Eccelino s'era accoppiato coi
Cremonesi, ben conoscendo d'essere inferiore di forze, propose di
ritirarsi a Gambara, e che s'aspettasse Azzo marchese d'Este, il quale a
momenti dovea giugnere collo sforzo dei Ferraresi e dei suoi Stati.
Parve a Biachino da Camino e ai principali Bresciani una viltà il
retrocedere[3419]. Da lì a poco eccoti si veggono da lungi sventolar le
bandiere di Eccelino; All'armi, all'armi. Si diede la battaglia nel dì
28 d'agosto, secondo Rolandino, ma, secondo il Monaco Padovano[3420] e
Jacopo Malvezzi[3421], nel dì 30. Atterriti sul principio, in breve
sbaragliati rimasero i Bresciani, e preso il legato del papa con
_Damiano Cossadoca_ vescovo eletto di Verona, Simone da Fogliano di
Reggio podestà di Mantova, e molti altri nobili, e gran quantità di
popolo. Nel dì seguente _Cavalcante da Sala_ vescovo, e gli altri
cittadini rimasti in Brescia, tutti sbigottiti, credendo di far cosa
grata ad Eccelino, liberarono Griffo e gli altri prigioni, ma
scioccamente e in propria rovina, perciocchè costoro aprirono le porte
della città ad Eccelino, il qual vittorioso col marchese Oberto e Buoso
da Doara ne prese il possesso. Il vescovo, i preti e gran copia d'altri
cittadini guelfi si sottrassero colla fuga a quel flagello del genere
umano. Aveva Eccelino, per attestato di Parisio da Cereta, nel primo dì
di febbraio dell'anno presente fatto morir ne' tormenti moltissimi
Veronesi, tanto nobili che plebei. Non dimenticò già egli il suo
barbarico costume, giunto che fu in Brescia. Ivi ancora le carceri e le
mannaie si tennero in esercizio, e le chiese spogliate, e le torri dei
principali nobili per ordine suo furono spianate. Doveva essere il
dominio di Brescia la metà de' Cremonesi; e infatti sul principio fu
divisa la città, e l'una parte d'essa assegnata al marchese Pelavicino e
a Buoso da Doara. Ma Eccelino la volea tutta, e ne trovò a suo tempo la
maniera. Intanto, a riserva della terra degli Orci, tutto il territorio
di Brescia venne in poter del tiranno. Per questa disavventura di
Brescia, città di tanto nerbo, fu un gran dire per tutta Italia, e
n'ebbe un sommo cordoglio e terrore la parte della Chiesa. Ma i giudizii
di Dio sono ben diversi da quelli degli uomini, e ce ne avvedremo
all'anno susseguente.

Nel dì 4 d'aprile, dell'anno presente, coll'interposizione del suddetto
Filippo legato del papa, s'erano accordati insieme i nobili e popolari
di Milano con istabilire una concordia, che fu appellata la pace di
Sant'Ambrosio[3422]. Il Corio[3423], che ne vide lo strumento, rapporta
distesamente tutte le condizioni d'essa. Ma, secondo il pessimo uso di
tempi tali, durò questa ben poco. Nella festa di san Pietro di giugno,
Martino dalla Torre capo del popolo cacciò di città _Leone da Perego_
arcivescovo colla fazione de' nobili, i quali si ridussero a Cantù, e
poscia andarono in soccorso de' Rusconi, potenti cittadini di Como, i
quali voleano abbattere la parte contraria de' Vitani. Ma, accorso in
aiuto degli ultimi il suddetto Martino con un possente corpo di
Milanesi, toccò ai Rusconi di sloggiare da Como, e i Vitani ne restarono
padroni. Ebbe nondimeno un'altra cagion di sospirare nell'anno presente
la città di Milano. Suddita de' Milanesi era da gran tempo la nobil
terra di Crema[3424]. Entrata anch'ivi la discordia fra i cittadini, i
Benzoni, famiglia potente, chiamarono il marchese Oberto Pelavicino, il
quale ben volentieri con cinquecento cavalli ne andò a prendere il
possesso e dominio, con iscacciarne la contraria fazione. L'emulazione
ancora che d'ordinario regnava fra quelle nazioni italiane, che si
trovavano allora possenti in mare, e intente alla mercatura, era già
passata in aperta guerra tra i Veneziani[3425] e Genovesi per accidente
occorso in Accon. Il Continuatore di Caffaro[3426] descrive il principio
e progresso della lite, per cui restarono aggravati i Veneziani. E
quantunque s'interponesse coi suoi paterni uffizii papa Alessandro IV, e
andassero innanzi e indietro lettere ed ambasciatori, pure non ne venne
concordia, e continuò il mal animo dell'altra nazione. Fecero lega i
Veneziani coi Pisani, Provenzali e Marsiliesi, e con gran flotta
navigarono tutti in Oriente. Colà comparvero ancora con possente sforzo
di galee e di navi i Genovesi. Nel dì 24 di giugno si affrontarono
queste armate navali, e dopo un ostinato combattimento la vittoria si
dichiarò in favore de' Veneziani e Pisani[3427], con prendere
venticinque galee dei vinti. Restarono perciò i Genovesi in molto
abbassamento in quelle parti, e fu distrutta in Accon la lor bellissima
torre, e spogliati i lor magazzini. A queste nuove il buon papa
Alessandro, considerando il grave pregiudizio che da ciò risultava
agl'interessi della cristianità in Soria, rinforzò le sue premure per la
pace. Intimò tosto una tregua; ottenne da' Veneziani la libertà de'
prigioni, e finalmente stabilì fra questi popoli la concordia, con
alcune condizioni nondimeno, che forse furono moleste ai Genovesi.
Crescendo anche in Bologna[3428] ogni dì più le discordie civili, che
ordinariamente nascevano dalle pazze parzialità e fazioni guelfa e
ghibellina, ovvero dall'incontentabil ambizione di soprastare nel
comando agli altri, in quest'anno vennero alle mani in essa città i
Geremii e i Lambertazzi, famiglie delle più potenti, cadauna delle quali
tirava seco il seguito d'altre nobili casate, e ne succedette la morte
di molti. Quel solo che potè ottenere con tutti i suoi sforzi il
podestà, fu di mettere tregua fra le parti: il che per allora sopì, ma
non estinse l'incendio, che continuò poi per anni parecchi.

NOTE:

[3408] Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.

[3409] Ricordano Malaspina, Istor., cap. 147.

[3410] Giovanni Villani, et alii.

[3411] Sabas Malaspina, lib. 1.

[3412] Matth. Paris, Hist. Angl. ad ann. 1256.

[3413] Sabas Malaspina, Histor., lib. 1, cap. 5.

[3414] Matteo Spinelli, tom. 7 Rer. Ital.

[3415] Sabas Malaspina, lib. 2, cap. 1.

[3416] Matth. Paris, ad hunc annum.

[3417] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.

[3418] Rolandinus, lib. 11, cap. 9.

[3419] Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.

[3420] Monachus Patavinus, in Chron., tom. eod.

[3421] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.

[3422] Annales Mediolanenses, tom. 16 Rer. Ital., Gualvan. Flamma, in
Manip. Flor., cap. 292.

[3423] Corio, Istor. di Milano.

[3424] Chronicon Placentinum, tom. 16 Rer. Ital.

[3425] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.

[3426] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom 6 Rer. Italic.

[3427] Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.

[3428] Matth. de Griffonibus, Histor. Bononiens., tom. 18 Rer. Italic.


FINE DEL VOLUME IV.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (Montevio/Montevìo e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Annali d'Italia, vol. 4 - dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home