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Title: Vita di Francesco Burlamacchi
Author: Guerrazzi, Francesco Domenico
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Vita di Francesco Burlamacchi" ***


                                  VITA
                                   DI
                         FRANCESCO BURLAMACCHI

                                   DI
                            F. D. GUERRAZZI

                              VOLUME PRIMO



                                 MILANO
                  CASA EDITRICE ITALIANA DI M. GUIGONI
                                  1868



                        _Proprietà letteraria_.
                             Tip. Guigoni.



                               A LIVORNO
                             IN TESTIMONIO
                         CHE GRADITO O REIETTO
                 M'INDUSTRIAI SEMPRE REVERIRE E ONORARE
                         LE DEDICO QUESTA VITA
                                   DI
                    UN GRANDE E SVENTURATO ITALIANO

                                                    F. D. GUERRAZZI.



PROEMIO.

   Decadenza dei popoli graduata: difficilmente risorgono: e se
   risorgono, sentono per lungo tempo il sepolcro. — Viltà nostra di
   che danni operatrice nel secolo decimosesto; diversità che passa
   tra dominatore che ti regge in casa e dominatore che ti regge di
   fuori. — I papi prima dominatori, poi soci, all'ultimo aguzzini
   dei re. — I mutamenti religiosi o sovvertono le condizioni dei
   popoli o le confermano e perchè: Quello che dapprima Leone X
   pensasse della riforma. — Cristianesimo in onta alle apparenze di
   subiezione è ribelle, protestantesimo nonostante la sembianza di
   ribelle è servile. — Per quali cause gl'Italiani si mostrassero
   parziali alla riforma religiosa. — Condizioni della virtù
   militare in Italia durante il secolo decimosesto; molta e a suo
   danno. — La Italia non può morire, e lo ha dimostrato: circolo
   delle umane cose se vero; umanità sempre in moto verso il meglio.
   — Sardanapalo ed Anassarco, e parallelo fra loro. — Immondezzaio
   moderato che ha avvilito la Italia dal 1859 in poi. — Non
   avendo né potendo avere credito da per sè, i moderati sfruttano
   l'altrui, ma per poco; finchè non si fanno forti su le manette. —
   Dove, come e perchè il Burlamacchi si avesse la statua, per virtù
   dei moderati. — Orazione del professore Pacini ed iscrizione
   bugiarda: fatti che lo provano: verun tiranno si mostrò astioso
   quanto i moderati in Toscana. — Della setta moderata vuolsi
   disperso il seme, se intendiamo che la buona morale risorga,
   senza la quale restaurare la vita del popolo è niente.


Come nel corpo umano non percuote subita ed improvvisa per ordinario la
morte, ma sì con lungo alternare di miglioramenti e di peggioramenti,
e non senza supremi sforzi per fuggire la distruzione che lo minaccia,
così gli stati anch'essi mano a mano declinano, e prima di quotarsi
nello avvilimento mandano i tratti. Caduti poi non si rilevano:
affermano risorgesse dal sepolcro l'uomo Dio tutto intorno irradiato
di luce celeste; eccetto lui, chi si alza dallo avello porta seco gran
parte del sepolcro; e i vermi, per buona pezza almeno, gli formicolano
addosso: che ciò sia vero, miralo, se ti talenta nel moto che adesso
chiamano risorgimento italiano.

Colpa di noi stirpe tralignata, la quale da molto secolo alla
tirannide, quantunque fruttuosa, non si accomoda, come la efficace
libertà nè sa adoperare, nè ama, divenimmo tali nel secolo decimosesto,
che la nostra contrada o tutta, o parte ebbe a cadere in mano di
signori stranieri con questa ragione, che costoro i quali prima ci
vennero e posero stanza forse a lungo andare avrebbero fatto tutto un
popolo non senza profitto della nostra abiezione, però che per virtù
loro potesse rinnovarsi il sangue, e con la ferocia della barbarie, se
non correggere, almeno le infamie della bugiarda civiltà castigare. Da
ora innanzi i signori veri d'Italia la comandano di fuori, e cotesto
governo si rassomiglia a un paio di tanaglie, che ti straccino le
carni: a sollievo dei miseri oggimai nulla più giova, nè grida, nè
lamenti, nè maledizioni, nè preci. Dio sta in alto, e, il re lontano,
rispondono i vicerè; e il dì in cui non hanno fatto piangere dicono: Ho
perduto un giorno.

I papi che da prima stettero contro i re per dominarli, e più tardi
si accontarono con essi per bilanciarli, da ora innanzi si tramutano
in ministri di principi, anche in lancie spezzate, anzi in sicari,
oltre il volere della tirannide, suoi partigiani svisceratissimi; in
questo mondo le prestano i tormenti della Inquisizione, nell'altro i
terrori dello inferno. Ribelli ed eretici diventano tutta una cosa; il
re accatasta sotto di loro le legna per arderli; il prete, convertita
la religione in mantice, ci soffia dentro per suscitarne le fiamme. Al
papa ridotto ad operare da schiavo per libidine di dominazione basta
avere per trono anco il teschio dell'ultimo dei viventi sopra la terra.

I perturbamenti religiosi o capovolgono le condizioni dei popoli, o le
confermano; le capovolgono dove mirino a mutare di pianta la religione,
le confermano se invece di schiantarla la riformano; imperciocchè sia
chiaro che, le riforme togliendo via dagl'istituti nostri le parti
più insopportabili e più odiate, si venga in certo modo ad allungare
loro la vita: difatti Leone X argutissimo intelletto pei primi moti
religiosi della Germania si spaventò forte e volle esserne minutamente
ragguagliato; quando poi seppe che la guerra era mossa contro gli abusi
della Chiesa, non già contro al domma cattolico, ebbe soddisfatto
ad esclamare: «Si tratta di fronde; a primavera ributteranno.»
Gesù Cristo predicava la obbedienza alle autorità costituite e non
rifiniva insegnare: «Date a Cesare quello ch'è di Cesare»; tuttavia
appuntellava la nuova religione per dare di leva alle signorie del
mondo. Lutero all'opposto, con parole e co' fatti non rifinando di
protestarsi ossequente ai principi germanici, metteva la sua dottrina
ai servizi della loro potestà: però essi si posero nelle mascelle il
protestantismo come dente per masticare, al modo stesso che Carlo V ci
incastrò il cattolicesimo; così l'uno non vinse l'altro, e terminarono,
comechè trattandosi da suocera e da nuora, a vivere insieme sotto il
medesimo tetto ed a sedersi intorno alla medesima mensa; laddove oggi
sorgesse un terzo a sturbarne l'accordo, si legherebbero insieme per
dargli addosso: quanti preti sono al mondo vivono di credenze, non
di verità. Ma ai tempi di cui teniamo discorso taluno andava convinto
che la verità si trovasse nella eresia, tal altro che la riforma fosse
arnese idoneo a combattere la chiesa romana, nè i secondi erravano.
Difficilmente i filosofi e i politici innanzi ai successi presagiscono
le cause che li provocano e gli effetti che partoriscono; difficilmente
li conoscono anco dopo, almeno nel complesso loro; e quando pure essi
valessero a prognosticarli, di politici e di filosofi veri va scarso
il mondo, nè fin qui vedemmo politico o filosofo che, renunziata la
passione, si governi in tutto e per tutto con la ragione. Insomma,
o per ragione lusingata da passione, o per solo impeto di questa,
gl'Italiani, crucciosi della perduta libertà, si attaccavano alla
riforma come i cadenti alle tamerici cresciute nelle crepature del
precipizio.

E argomento di molto dolore lo somministra eziandio il pensiero che la
virtù militare non mancava; all'opposto l'Italia non n'ebbe mai come
adesso dovizia, ma mentre pochi generosi combattono per la sua libertà
e muoiono, molti a danno di lei le proprie spade con le spade dello
straniero congiungono.

Tuttavia l'Italia sparisce come il sole al fine di un giorno di autunno
tramonta nel mare: non si può presagire quanto rimarrà sotto, ma si
sente che tornerà a levarsi da capo; esalano le anime grandi Francesco
Ferrucci e Francesco Burlamacchi, ma tu confidi che qualcheduno le
raccoglierà; di su la faccia della terra la memoria di loro si dilegua,
ma penetra nel grembo della terra come il seme del grano durante il
verno per germogliare in messe a primavera. Esempi magnanimi, martirio
di uomini per amore di patria divini, pianto di popoli o furore e
vendetta a che pro? La tirannide muore, ma la servitù rimane; la quale
senza tirannide non potendo stare, la rifabbrica con le ossa e con
la fama dei morti per la libertà quello che è, sarà, e nulla vi ha
di nuovo sotto il sole; gli Egiziani col geroglifico del serpe che si
morde la coda vollero significare come le cose tornino perpetuamente ai
loro principii, sentenza che pure intende dimostrare il Machiavello;
e non è così: i rivolgimenti umani, comechè si rassomiglino, non
offrono mai le medesime qualità; essi si aggirano sopra sè stessi
più sempre progredendo a spira: ora se misuriamo la miglioranza alla
stregua della vita dell'uomo, poco andiamo innanzi, e talora sembra
che retrocediamo; i popoli la vita dei quali si prolunga nei secoli
conseguono il bene ottenuto a gocce: da ciò, i procaccianti, rubato il
pane dallo zaino del soldato della libertà, desiderando rosicchiarlo
a comodo, cavano motivo di raccomandare i passi prudenti. «La salute
stà nel camminare con riguardo», essi dicono; «chi va piano va sano.»
Ma in queste faccende la procede diversamente, e la verità sta nel
fatto, che qui col travaglio continuo acquistiamo poco. Tu hai a
figurarti che il cuore e il cervello della più parte degli uomini (e ad
immaginarti così non ti ci vorrà fatica) sieno duri quanto il granito
e più, e tu gli abbia a trapanare; certamente, per molto volgere che
tu faccia il ferro, t'inoltri poco, ma se allenterai l'opera, in che
ti avvantaggerai di più o farai più sicuro lavorio? Niente senza grande
travaglio di vita concedesi ai mortali, questo è vero; pure del pari è
falso che l'umanità non proceda al meglio, e che chi rallenta il passo
arrivi o più presto o più sicuro.

Come altresì vuolsi giudicare, non che falso, stolto e crudele l'avviso
di coloro i quali col predicatore screditano vanità di vanità tutto
quello che non si converta a presente godimento materiale: la materia
ci è, e pur troppo forma la più cosa degli uomini, ma ci hanno eziandio
fra questi chi il bene della materia appetisce meno di quello dello
spirito ed anco punto. Ora qui non preme definire spirito che sia, o se
duri immortale, o se così durando ricordi gli affetti del suo connubio
con la materia; certo si deve reputare che quelli i quali di questi
piaceri furono creati capaci sentono o immaginano la immortalità, la
lode futura nei posteri, il premio fra i celicoli. La sventura coglie
tanto Sardanapalo quanto Anassarco. Diodoro siculo ci racconta come
Sardanapalo re di Assiria si componesse da sè medesimo il proprio
epitafio, il quale diceva: «Sardanapalo figlio di Anacindadarasse
fondò in un giorno Anchialo e Tarso. Mangia, bevi ed ama; il resto
non vale un fico annebbiato.» Ed a ragione osserva Aristotile che,
eccetto la fabbrica delle due città, per tutto il resto l'epitafio
quadrava a pennello anco a un porco. Forse cotesta epigrafe egli dettò
fra un bacio di donna ed un bicchiere di vino; non immaginando dalle
mille miglia che un giorno, per sottrarsi agli scherni e forse agli
strazi del vincitore, egli avrebbe dovuto ardersi con la sua reggia e
i suoi tesori. Anassarco di Abdera segue Alessandro in Persia, dove,
con libera favella temperando la tumidezza dello eroe, opera sì che
tra i Persi appaia libertà la tirannide greca: caduto in potestà di
Nicocreonte, a cui in faccia osò dire tiranno, non si sgomentò al
supplizio di sentirsi pesto dentro un mortaio, e così sfida il malnato:
«Tu pilla la scorza di Anassarco, chè sopra la sua anima nulla puoi.»
E poichè Nicocreonte lo minacciava fargli strappare la lingua, egli
rispose: «nè anco questo sta in poter tuo»; e tagliatasela co' denti,
gliela sputa in faccia.

Entrambi per tanto con morte affannosa precipitarono nel sepolcro,
ma non vi ha dubbio che ella con paura ed agonia maggiori deve avere
percosso Sardanapalo, rotto ad ogni lascivia, che Anassarco, educato
nella rigida scuola degli stoici: nè questo solo; nello estremo
momento, nel quale si somma la vita trascorrendo con un baleno di
pensiero gli andati giorni, il re avrà sentito di certo o che moriva
tutto (e questo era il meglio per lui) o che sarebbe trapassato ai
posteri memoria di vituperio: all'opposto il filosofo esultò nella
idea, che, finchè storia durasse al mondo, quando si volesse portare
uno esempio di virtù invitta che per atrocità di tormenti non vacilla,
il nome di Anassarco sarebbe ricorso spontaneo sopra le labbra
degli uomini. Che amabile sia la gloria ai magnanimi, bene sta, e
confesserò vero del pari che di questi in ogni tempo fu scarso il
numero: tuttavolta, per grazia di Dio, vedova affatto di anime gentili
non andò mai la Italia, nè manco adesso in cui ella passa la più rea
stagione che l'abbia da remotissimo tempo assiderata, in grazia del
mondezzaio dal 1859 in poi venuto a galla; al quale non s'invidia la
infamia fortunata a patto che non tocchi la fama che nasce dalla virtù
infelice. Tutto non può pretendersi da tutti; chi pone diletto nei beni
della materia non può raccogliere anco gli altri dello spirito. Onde io
mi cruccio più che non convenga quando vedo un codardo porre la mano
sul retaggio dei virtuosi, parmi un furto di cose sacre: ma dove tu
consideri sottilmente il caso, nè ingiusto forse troverai nè soverchio
che quelli i quali hanno facoltà d'infuturare la vita, finchè durano in
terra, o non godano od anco soffrano; però tanto più importa che veruno
usurpi loro il guiderdone che la provvidenza gli concesse.

In questa nostra Toscana giusto nell'anno testè ricordato sorse
una luce balorda che con clamore grande salutarono alba di giorno
di libertà, e non fu nè manco barlume di aurora boreale: nè poteva
succedere diversamente, essendochè cotesto moto fosse partorito non
da virtù di popolo, bensì da viltà di principe, e se ne presentassero
pronubi signori impazienti non già di servaggio, ma di non essere messi
a parte della tirannide; uomini sviscerati, secondo il costume dei
gatti, non già del padrone, bensì della dispensa del padrone; patrizi
proseguiti dalla caterva di minori affamati in agonia di fare roba o
di rifarla con la pecunia pubblica, turpe gara di titoli, di ladronaie
e di servitù. Per abbindolare la gente, era pure forza comparire in
sembianza diversa; nelle leggende fratesche s'impara come il diavolo
per tentare santo Antonio pigliasse addirittura la faccia di angiolo;
così i nostri scroccatori della rivoluzione si diedero attorno a
raccogliere desideri gentili, concetti magnanimi, antiche voglie non
appagate mai per pararsene e comparire orrevoli; ordinaronsi statue
in onoranza dei grandi infelici e pitture e incisioni; le biblioteche
vollero si rifrustassero per rinvenirvi carte dei sapienti, le quali
poi rese di pubblica ragione avrieno cresciuto il tesoro della italica
gloria. Se le cose non pativano indugio, si videro fatte; ed anco
compironsi le altre per le quali l'artefice svelto, ricordando essere
nato in casa di Nicolò Grosso[1], volle la _caparra_; per le rimanenti,
fatta la festa, levato l'alloro: a questo modo dopo raccolte con sommo
studio le carte dagli archivi e dalle biblioteche pubbliche, le quali
unite con parecchie altre rinvenute nella Palatina ci potevano dare la
edizione completa delle opere del Machiavelli, rimasero in mano dei
collettori egregi senza costrutto, chè la spesa per la stampa non fu
mai stanziata: i nostri ciurmatori saliti in arcione non avevano più
bisogno che il Segretario fiorentino reggesse loro la staffa.

A Francesco Burlamacchi toccò per bazza la statua decretata nel 1859;
gliela rizzarono in Lucca nella piazza di S. Michele nel settembre del
1863, ed in cotesto giorno fece la orazione un professor Pacini, il
quale, a sentirlo, pare che cammini fra l'uova, pauroso di pestarle,
e ne aveva ben donde, però che la fama del Burlamacchi in quella
solennità si adoperasse a mo' d'incenso repubblicano da ardersi per
gloria della monarchia. Ed è poi falso quello che si affermò nella
epigrafe stampata in fondo a cotesta orazione, cioè: _che la paurosa
tirannide apponesse lungamente a delitto perfino la ricordanza dei
generosi morti per la libertà della patria_; dacchè la tirannide dei
Medici non solo consentisse che i generosi si ricordassero, ma ella ne
mantenesse viva la memoria, e questo dimostrai nella vita di Francesco
Ferruccio, raccontando come, nello apparecchio condotto a Porta a
Prato nella occasione delle nozze di Francesco dei Medici con la
regina Giovanna d'Austria, insieme coi simulacri dei fiorentini famosi
in armi, anzi accanto a quello di Giovanni delle Bande-nere padre di
Cosimo, facessero dipingere la immagine del Ferruccio; onde il Vasari,
comechè fosse prelibatissimo piaggiatore di corte, non dubitò salutarlo
_sfortunato, ma valoroso capitano_: più tardi, ornando le volte della
Galleria degli Uffizi, questi stessi principi ordinarono che fra le
figure degli illustri guerrieri fiorentini quella del pro' Ferruccio
comparisse. Quanto alla tirannide lorenese, allorchè in una delle
nicchie vuote degli Uffizi il Batelli stampatore collocò la statua
dell'eroe morto per la libertà della patria, ella lasciò fare e non
disse verbo. Cause vere per le quali il Burlamacchi ebbe la statua nel
1859 furono queste due, che ai patrizi servili parve bello sfruttare in
loro vantaggio la rinomanza dello infelice repubblicano, e che a quei
giorni, avendo essi l'erario nelle mani, poterono farlo co' quattrini
del pubblico.

A me per tanto corre obbligo di dettare come posso la vita di questo
grande infelice, perchè l'anima sua riceva il giusto premio di lode
ed esulti. Se volere fosse potere, da ora in poi il Burlamacchi non
invidierebbe, come Alessandro fece, Omero ad Achille, o forse (dirò
senza rispetto quello che sento) io non ho mai desiderato ed invocato
valore di lettere come adesso, conciossiachè si tratti vendicare
l'eroe lucchese non solo dalle ingiurie della fortuna, ma da quelle
smisuratamente peggiori della turpe genìa di barattieri patrizi e
plebei camuffati da uomini liberi: per me che mi trovo capace di
sopportare ogni più fiero guaio, la lode da costoro non sopporterei,
e credo fermamente che, se taluno di essi si avvisasse toccare il
mio sepolcro quando sarò morto, io resusciterò di punto in bianco per
agguantare la lapide e scaraventargliela nella testa.

I flagelli della umanità non si medicano, si distruggono; e finchè
le zecche e le marmeggie del 1859 non sieno disperse, non pensate nè
manco alla libertà confermata, alla rettitudine restituita, alla virtù
rimessa in fiore: giudicate l'albero dal frutto che ei dà. Come Catone
finiva ogni suo discorso col motto _Chartago delenda est_, così ogni
uomo dabbene dovrebbe conchiudere le sue orazioni esclamando: «Dei
patrizi e dei plebei i quali si chiamarono moderati e furono schiavi e
ladri vuolsi spento il seme.»



CAPITOLO I.

   Dicono Francesco Burlamacchi nato di piccola gente, e non è vero.
   — Il Dalli canonico ce lo dà per fallito, e perchè; così pure lo
   Ammirato e lo Adriani per piaggeria al principe; non diversamente
   il Botta, ma per pecoraggine: giudizio sopra questo scrittore,
   severo ma meritato. — Antichità della famiglia Burlamacca: donde
   il suo soprannome per opinione dei cronisti: quale fosse prima.
   — Questa famiglia, come degli ottimati, e guelfa è cacciata dal
   popolo; torna in patria, dove si distingue per uomini insigni e
   tiene sempre luogo onorato fra i maggiorenti. — Sue case e torri,
   patronati, sepolcri ed armi gentilizie; sostanza dei Burlamacchi,
   per quali cause scemata. — Francesco mercadante di seta; per ciò
   lo spregiano l'Ammirato e lo Adriani. — Fiorentini mercadanti
   tutti, così i Capponi, e così i Medici, i quali esercitavano la
   mercatura anco dopo fattisi principi. — Giovanni Bicci presta
   danaro sul pegno della tiara papale a papa Martino. — Dei
   genitori di Francesco, dei suoi fratelli e delle loro fortune. —
   Quali i suoi studi; allora fra semplici artefici s'incontravano
   con frequenza in Toscana dicitori in prosa ed in rima; stato
   presente di letteratura deplorabile in Toscana, in Firenze
   deplorabilissimo. — Fra Pacifico, zio di Francesco Burlamacchi
   e veneratore di fra Girolamo Savonarola, ne detta la vita; lo
   difende altresì nel dialogo chiamato _Didimo e Sofia_; insegna il
   modo di mettere in cervello l'enormezze romane, educa la gioventù
   e muore in odore di santo; educatore della gioventù lucchese e
   di Francesco. — Sue qualità fisiche e morali: chi fosse la sua
   moglie. — In che età entrasse Francesco nella magistratura; ed
   indi in poi tenne sempre il maestrato: non cerca mai uffizio, uno
   sì, e perchè. — Buoni ordinamenti della repubblica lucchese per
   difendersi dalle insidie dei potentati vicini. — Divisione della
   città per l'amministrazione e per la difesa, terzieri, gonfaloni
   e pennoni. — I Burlamacchi del terziere della Sirena adoprano
   questa immagine per cimiero. — Come ordinate le milizie; quante
   le armi e quanti gli armati così in città come in campagna;
   segnali diurni e notturni per convocare le milizie. — Francesco
   col favore di Giambattista Borrella viene eletto commissario
   delle armi. Quali i compagni di Francesco in cotesto maestrato,
   e quali i luoghi alla custodia loro commessi; larghezze del
   Burlamacchi per attirarsi la benevolenza dei soldati: a quanto
   sommassero le battaglie di campagna. — Si parla delle imprese
   felici e delle sventurate, e per quali cause le seconde possano
   acquistare lode pari alle prime. — Di Focione e del suo giudizio
   intorno alla guerra lamiaca.


Se Francesco Burlamacchi fosse nato di piccola gente presso la più
parte degli uomini, ai tempi che corrono, io giudico gli tornerebbe
a merito maggiore; tuttavia non vuolsi nè anco in questa parte darla
vinta agli scrittori, i quali s'immaginano vituperarlo affermandolo
artefice e plebeo. Si comprende ottimamente che un Dalli in certa sua
cronaca manoscritta[2] ce lo dia per fallito e mosso a pescare nel
torbido per tôrsi dalla fame; costui canonico era ed aveva un dente
contro Francesco, che i preti e le pretesche cose amava quanto il
fumo agli occhi: e, per preti e per femmine, morte non placa l'odio
immortale. Quanto a Scipione Ammirato, il quale dichiara il Burlamacco
ignobile, ma nel numero degli artefici che governavano Lucca[3], ed a
Giovambattista Adriani, che a sua posta lo ciurma artefice, come per
ordinario i Lucchesi sono[4], si capisce la ragia: entrambi aggreppiati
alla medicea mangiatoia, entrambi nudriti di principesca profenda,
dettavano quello che secondo il giudizio loro doveva piacere ai
padroni; ma non si capisce come Carlo Botta dopo tre secoli ribadisca
il chiodo quasi a sollazzo replicando ora che artefice era di suo
stato, ma secondo la usanza della repubblica capace di sedere ai
governi, ora che sebbene nato in basso loco, pure aveva sortito da
natura ingegno idoneo alle imprese eccellenti, in ultimo che, comunque
in opere manuali di continuo si occupasse, pure ritraesse maraviglioso
diletto dalle antiche storie.[5] Forse il Botta, a cui le rivoluzioni
mettevano i brividi addosso, non volle divulgare lo scandolo, che in
cosiffatte enormezze si contaminassero i patrizi, i quali, a quanto
pare, formavano argomento di ogni sua sollecitudine, sebbene talora
anco questi pigli a morsi. Certo spositore di fatti assai commendevole
hassi a stimare il Botta, della favella nostro cultore felice, ma
brontolone senza concetto; onde alla fine la lettura de' suoi scritti
genera fastidio, imperciocchè le storie si dettino per testimonio dei
tempi e per l'ammaestramento degli uomini, non già per isfogare le
proprie smanie, siccome costumano quelli che sono côlti del mal di
colica.

Or ecco ricercando quello che apparisce essere vero. Antichissima
e nobilissima la famiglia di Francesco Burlamacchi; a suo tempo
parlerò della discendenza di lui, la quale fu non meno dell'ascendenza
preclara. Comechè di questa famiglia non appaia memoria scritta prima
del 1224, e non occorra documento spettante proprio a lei innanzi
del 1262 (del quale anno ci avanza una pergamena di Trasmondino di
Baldirotto Burlamacchi, dove fra le altre disposizioni testamentarie
ordina lo seppellissero nella chiesa di San Romano), tuttavia non è
dubbio che da più remota antichità ella derivasse; imperciocchè si
ricordi come del 1218 ardesse l'archivio di San Salvatore, in cui gli
atti dei notari si custodivano, per la quale cosa chi non fu cauto
di provvederne copia per gli archivi della famiglia ne patì danni nel
credito e nella roba. Pertanto lo stipite primo della casa Burlamacchi
ebbe nome Buglione; il soprannome poi non fu in antico Burlamacchi,
sibbene Ansenesi; e donde e perchè cotesto mutamento avvenisse ce lo
conta un antico cronista.[6] Nel tempo che i Pisani tiranneggiavano
Lucca (dacchè le repubbliche dei tempi medii fossero più e peggio dei
tiranni oppressore ed oppresse) uno di questi Ansenesi si finse pazzo,
sicchè per tale comunemente stimandolo, potè sicuro senza sospetto
aggirarsi per la città portando a cintola un coltellaccio di legno
ed in mano una zampogna con la quale parlava negli orecchi di quanti
incontrava, e se non se ne fidava diceva follie, se all'opposto se ne
fidava, gli eccitava a buttarsi giù dal collo il giogo del servaggio,
ammonendoli a tenere certe pratiche che poste in opera con arguzia
avrebbero loro data vinta la impresa, come di fatto seguì, ed egli
allora, mutato il coltellaccio di legno in una buona spada di acciaio,
alla testa dei sollevati recatosi in palagio dove stanziava il console
di Pisa, senza tante storie lo trucidò. Da indi in poi nol conobbero
con altro nome, eccetto quello di _Burlamatto_, il quale alquanto
alterato conservarono i suoi posteri in memoria del caso, dismesso in
tutto l'antico cognome degli Ansenesi.

Quando il popolo prevalso al governo dei signori nel 1308 cacciò prima
di palazzo, poi di città le casate dei nobili, i Potenti e i Casatici,
chè a questo modo si designavano i signori di Castelli, fu mandata in
esiglio anco la famiglia dei Burlamacchi principalissima guelfa; sicchè
tu vedi quanto si apponga al vero Carlo Botta nelle sue storie quando
pretende di riffa Francesco plebeo.

Tornata in patria la famiglia Burlamacchi, occorre sempre ammessa al
governo della Repubblica ed insignita di uffici e di onori non solo
prima di Francesco, ma anco molto tempo dopo, come ricavo da certo
albero genealogico che ho per mano, il quale mi mostra un Paolino
morto nel 1824, e tengo per certo che ogni fiato di lei non sia anco
spento. Il Penintesi nelle Memorie[7] intorno alle principali famiglie
di Lucca ci afferma che ai suoi tempi quella dei Burlamacchi annoverava
non meno di quaranta gonfalonieri e centottanta anziani, fino d'allora
la rendevano preclara parecchi oratori spediti alle più cospicue
corti di Europa, non pochi cavalieri di Malta, col solito corredo di
ecclesiastici, i quali (come si sa) furono tutti matricolati per pietà
e per dottrina preclari, almanco a detta di chi scrisse di loro.

In antico ebbero stanza i Burlamacchi in certa torre fabbricata dentro
l'Augusta, fortezza posta da Castruccio Castracani in difensione di
Lucca, la quale fu demolita nel 1392 insieme con altre per cavarne
i materiali occorrenti a restaurare le mura della città, essendosi
molto tempo prima ridotta la famiglia Burlamacca a vivere in altra
casa prossima alla chiesa dei santi Paolino e Donato. La contrada
di San Paolino compariva in cotesti tempi capitalissima della città,
sicchè nel 1459 vi si contavano bene dugento torri, delle quali quattro
spettavano ai Burlamacchi, la prima a Filippo Burlamacchi, di fronte
a quella la seconda a Frediano che lungamente dimorò in Fiandra, la
terza sorgeva di contro alla chiesa di san Paolino, e la quarta poco
quinci discosto dal lato di tramontana: chiamasi il luogo quadrivio dei
Burlamacchi; le quattro torri l'una all'altra prossime poste in assetto
di guerra formavano fortezza inespugnabile secondo gli ordinamenti
militari di codesti tempi. Insieme co' Poggi essi esercitarono il
patronato della chiesa di Santa Maria di Filicorti, soli quello di
Santa Maria della Rotonda; i sepolcri della famiglia furono fuori della
chiesa di san Romano: fecero per impresa e fanno Croce azzurra in campo
di oro e per cimiero una Sirena. Varie nei vari tempi le sostanze loro:
nel 1530 i Burlamacchi si facevano ricchi di centoventimila fiorini
e più, senza contare la casa nè l'opificio della seta: Michele, che
morì nel 1529, lasciò di sua parte sessantacinque mila fiorini d'oro,
oltre il fondaco avviato, a Francesco e agli altri suoi figliuoli, i
quali per testimonianza del Penintesi avevano di già molto cresciuto il
capitale e lo andavano ogni giorno viepiù aumentando, se non fossero
loro cascati addosso due malanni, di cui il primo fu la rappresaglia
commessa a loro scapito dalla Repubblica fiorentina sopra le navi dei
grani che di Sicilia essi avevano tratto, e il caso più tardi avvenuto
a Francesco, per la carcerazione e morte del quale i negozi parte
cessarono e parte trapassarono in altri, non tenuto conto della moneta
spesa per salvarlo.

Francesco, come i suoi maggiori, esercitò l'arte della seta, la quale
con quella della lana fu dai Fiorentini rassegnata meritamente tra le
arti maggiori: onde ci appare il rinfaccio che l'Ammirato e Adriano
fanno a Francesco della sua condizione di artefice non pure strano,
ma temerario; imperciocchè gli ordinamenti politici della Repubblica
di Firenze appunto sopra le arti maggiori e minori si fondassero, nè
alcuno il quale a queste arti non fosse ascritto potesse avere stato.
I Capponi a Firenze non erano registrati alla matricola dell'arte
della seta, ovvero di Por San Maria? Le storie poi ricordano come
Nicolò Capponi, che fu lo antipenultimo gonfaloniere della Repubblica,
accudisse al traffico della seta, e tanto in lui poteva l'amore
dell'arte, o piuttosto del guadagno, che, contro il divieto della
legge, eletto gonfaloniere, usciva di palazzo alla chetichella per
vigilare se le donne gli avessero incannato la seta e le altre cose
dell'opificio andassero a dovere. Gli Strozzi per converso più che
alla seta attesero alla lana, ovvero all'arte di Calimala, e ne tennero
fondaco allora e prima e dopo di allora insieme al banco dei danari in
Lione, a Venezia ed in altre città capitali della Europa: anzi le case
Strozzi e Burlamacchi conservarono corrispondenza di affari lungamente
fra di loro. I Medici mercanti sempre furono e le ricchezze loro
cavarono dal prestare a usura; sembra altresì che facessero a fidarsi
poco, imperciocchè fra le altre cose si narra che se papa Martino V
volle danaro da Giovanni dei Medici soprannominato il Bicci, gli ebbe
a dare in pegno la tiara pontificale (chè allora la superbia papesca
non aveva per anco inventato il triregno); nè smisero i commerci
anco quando tennero il supremo dominio della Toscana, allora, comechè
principi fossero, parte ne assunsero in proprio, parte in società e
furono di gioie, di metalli, di grani e di altre siffatte mercanzie;
del pepe fecero monopolio, onde se essi mostrarono ed operarono che le
persone a loro aderenti mostrassero uggia pei commerci, certo e' fu nel
concetto medesimo del ghiottone, che sputa su la pietanza perchè, gli
altri commensali pigliandola a schifo, egli possa mangiarla tutta per
sè.

Da Michele e da Caterina Balbani nacque primogenito Francesco
Burlamacchi il 18 settembre 1498 e fu battezzato nella chiesa di
San Giovanni; dopo lui da cotesto matrimonio uscirono altri cinque
figliuoli. Stefano, che molto dimorò per causa di negozi in Francia,
tornato in patria, tolse per donna Antonia dei Nobili, con la quale
procreò una figliuola per nome Chiara; i ricordi dei tempi ce lo
attestano uomo di cuore e valoroso: Agostino recatosi in Francia
si fermò a Lione, e se lasciasse discendenza non è noto: Nicolao da
Lucrezia dei Nobili ebbe un figliuolo solo, il quale presa a tedio la
patria seguì a Lione lo zio Agostino, di cui niente altro sappiamo,
eccettochè, inteso tutto intero alla caccia, si acquistò fama di
robusto cacciatore pari a quella di Nembrod; secondochè avviene agli
uomini dediti ai diletti della materia, non patì mancamento di prole
così maschile come femminile, per via diritta come per via storta.
Paolo schivò le nozze, per diversi paesi tentò fortuna e sempre invano,
chiuse i suoi giorni, se non misero al tutto assai prossimo alla
miseria, a Ferrara.

Degli studi di Francesco Burlamacchi poco sappiamo: certo, se
argomentiamo dai libri che egli aveva in delizia, possiamo accertare
che molti e profondi dovevano essere, conciossiachè ci affermino quanti
di lui scrissero ch'egli si dilettava maravigliosamente di storie e
della lettura continua delle opere di Plutarco: ora le midolle del
lione si confanno solo ad Achille e lo nudriscono. Rarissimo nel secolo
decimosesto il giovane nato da genitori onesti che fosse alieno dalle
discipline gentili, e tu incontravi sovente fra gli stessi artefici in
Toscana bei dicitori in prosa o in rima e scrittori forbiti, e male mi
conduco a credere che anco nel popolo minuto fossero allora ignoranti
di lettere come adesso sono. Se io ricordassi che le ricerche, le
quali si chiamano statistiche, ci abbia chiarito come fra le provincie
italiane la Toscana sia la più infelice di tutte, e fra le città
toscane Firenze, solo allo scopo di palesare un fatto irremediabile,
senz'altro meriterei la taccia di maligno, ma io mi vi induco perchè
la Toscana e Firenze si vergognino, e, non considerata logora ormai la
fama che ci veniva dagli avi, attendiamo a procacciarcene un'altra con
la virtù e con le lodevoli fatiche nostre. Per ultimo sappiamo come
ponesse amore nel giovinetto Francesco lo zio fra' Pacifico domenicano
e lui con diligente cura ammaestrasse. Ora è da sapersi che questo
fra' Pacifico al secolo fu Filippo e fratello a Michele Burlamacchi, il
quale dimorando a Firenze pigliò usanza con fra' Girolamo Savonarola,
e tanto di esso e delle sue dottrine si accese che da lui in fuori
non volle avere altro confidente e maestro, per guisa che, vinto
da sdegno per le mondane cose a cagione della lacrimabile morte del
frate, rifuggissi a Lucca, dove al tutto disposto di dedicarsi a Dio
vestì l'abito di san Domenico nel convento di San Romano col nome di
fra' Pacifico. In questo fidato asilo meditando continuo da un lato
sopra la bontà di frate Girolamo e sopra i concetti di lui, che gli
parevano santi, dall'altro su la perversità degli uomini, i quali, come
di ordinario succede, non contenti di spegnere la vita di un uomo,
pare che non possano vivere se ad un punto non ne spengano la fama,
concepì l'ardito disegno di dettarne la vita e la condusse a termine.
Quest'opera, più volte stampata ed anco ai giorni nostri letta, fu la
prima che comparisse intorno al frate: la si trova scritta in buono
stile ed ha fornito agli altri se non tutte, certo la massima parte
delle notizie dello infelice riformatore: e come se questo fosse poco,
il nostro animoso fra' Pacifico prese senza sospetto nè rispetto alle
ire di Roma a difendere la reputazione del Savonarola, al quale fine
compose un dialogo fra _Didimo e Sofia_ diviso in più giornate, che si
conserva manoscritto nella libreria dei frati di San Marco di Firenze,
il quale io confesso di non avere mai letto. La tradizione ci attesta,
ed è di leggieri credibile, che fra' Pacifico per costumi severi e
carità di opere lasciasse rinomanza di santo: rassegnato ed umile,
come colui che, pigliando a combattere una potenza immane, presentiva
la lunga contesa e i danni delle battaglie; avventato poi ed acceso,
come quegli che presente del pari il futuro trionfo della sua fede.
Gli uomini, massime giovani, vaghi di sapere le vicende del mondo assai
volentieri frequentavano il convento di San Romano dove fra' Pacifico,
dopo avere appagato la curiosità loro, li metteva sopra la strada di
ragionare su le romane enormezze e detestarle, non anco eretici, ma
ormai non più cattolici. Francesco dal dire e più dal fare dello zio
frate pigliava norma a pensare ed esempio per sostenere con costanza
i propri propositi; gli ebbe riverenza come a maestro, affetto di
figliuolo, e quando fra Pacifico nel 1519 chiuse gli occhi alla vita,
egli se ne stette lungamente come cosa balorda nè pareva se ne potesse
consolare. Quanti scrissero la vita di Francesco, e sono parecchi,
comechè la più parte giacciano manoscritte nelle biblioteche di Lucca,
si accordano a descriverlo di bella persona, ottimo parlatore, vivace,
nel motteggiare arguto, pieno di sentenze, _d'indole repubblicante_,
donatore del suo, studioso a non offendere, diligente a farsi perdonare
la offesa, per natura e per arte dispostissimo a guadagnarsi la
benevolenza altrui, lento a meditare i disegni, nel proseguirli tenace,
nello adempirli fulmine: della fama oltre il dovere (se questo può
dirsi) innamorato, perchè nè cura di sè e dei suoi nè di sostanza nè
di nulla lo potesse reggere tanto che non si avventasse precipitoso
a conquistarla. Di ventisette anni tolse in moglie Caterina figlia di
Federigo Trenta già morto; nobili entrambi, anzi la Caterina dal lato
della madre, che fu Caterina Calandrini, procedeva nientemeno che dal
papa Nicolò V; nè si sa che ricevesse dote, almeno dal contratto di
nozze non comparisce,[8] procrearono insieme dodici figliuoli, sette
maschi e cinque femmine, di cui a suo tempo riferiremo le fortune e la
vita.

Quasi giovanetto Francesco prese ad esercitarsi nelle magistrature,
sicchè appena trentenne fu anziano; nel 1529 lo elessero deputato
insieme con Girolamo da Portico al principe Oranges al campo sotto
Firenze perchè le sue milizie osservassero i confini della Repubblica
e dovendo pure traversare la campagna si astenessero da fare danno;
nel 1530 poi andò ambasciatore insieme a Gherardo Macarini a Carlo V
per congratularsi della vittoria del suo esercito contro la Repubblica
di Firenze, e con qual cuore adempisse cotesto carico ognuno sel
pensi; nel 1533 lo promossero a gonfaloniere pei mesi di gennaio e di
febbraio; nè mai da quel tempo in poi si rimase senza essere adoperato.
Gli onori e gli oneri pubblici non cercò, quelli che gli vennero
compartiti accolse[9]; uno solo si diede con infinita diligenza a
sollecitare e l'ottenne, come quello che si attagliava ai suoi occulti
disegni, e fu il commissariato delle milizie della montagna; intorno al
quale ufficio importa sapere come la Repubblica di Lucca in mezzo a tre
repubbliche, Pisa, Genova e Firenze, tutte più potenti di lei e tutte
cupide di allargarsi a danno della meno forte, stava a buona guardia,
e se consideri la piccolezza sua stupendamente apparecchiata su le
armi. Sei cittadini tenevano lo ufficio della munizione, di cui era
perpetua cura che nei magazzini pubblici si conservassero tanti grani e
altre biade che ai casi ordinari non solo, bensì anco agli straordinari
sopperissero; ed altri sei andavano preposti allo uffizio delle armi,
i quali attendevano alla provvista della munizione da guerra, alle
artiglierie ed alle altre armi così da fuoco come da taglio, e per
attestato del Baroni si ha che nell'armeria se ne custodissero sempre
in copia bastevole per trentamila soldati. La città tanto pei fini
della difesa quanto per gli altri che ai giorni nostri si chiamano
amministrativi e politici andava divisa in terrieri, e ognuno di questi
in quattro gonfaloni o stendardi, i quali a loro posta avevano sotto
di sè quattro pennoni o caporali, e così in tutto quarantotto pennoni e
dodici gonfaloni. La bandiera usavano comune, bianca e rossa, di seta,
se non che ciascheduna portava per arroto in mezzo certo segno proprio
del suo gonfalone; San Paolino, ch'era il terziero dei Burlamacchi, nel
primo gonfalone faceva il segno della Sirena, e però anco i Burlamacchi
(e fu avvertito) usavano di questa immagine per cimiero su l'elmo, come
si può osservare in molte armi antiche di cotesta famiglia; i quattro
pennoni che sotto il gonfalone della Sirena si riunivano avevano nome
San Masseo, Santa Maria Cortelandinghi, San Giorgio e San Tomeo. Ad
ogni gonfalone era assegnata una parte dei baluardi perchè la vigilasse
e la difendesse, e su i cantoni di ogni strada occorrevano segnati i
nomi sia del baluardo, sia del gonfalone preposto a difenderlo, per
guisa che al rintocco della campana che sonava _accorruomo_ seimila
uomini potevano trovarsi in assetto di difendere la muraglia. Nè meno
solleciti accadevano l'avviso alle milizie del contado e lo assembrarsi
di lei alla custodia delle torri sparse qua e là per la campagna, chè
dalla gran torre del palazzo di giorno si facevano le fumate, e durante
la notte il segno si dava con le fiammate: le milizie di tutto lo
stato sommavano a meglio di ventimila uomini ottimamente ordinati da
uffiziali di buon nome, i quali tiravano il soldo dalla Repubblica.

Trovandosi pertanto comandante generale di tutte le milizie lucchesi
Giovambattista Boccella, personaggio di molta autorità in casa sua,
propose al consiglio della Repubblica che, avendosi a nominare i tre
commissari delle battaglie del contado, uno fisso e gli altri due
a tempo, per commessario fisso si eleggesse Francesco Burlamacchi,
e di leggieri fu vinto; molto a cagione del concetto di uomo capace
e zelatore del bene pubblico in cui lo teneva l'universale, e molto
eziandio per la ressa grande che Francesco ne fece tanto presso il
Boccella quanto presso i singoli cittadini componenti il consiglio;
però non è consentaneo al vero quello che occorre in parecchi
scrittori, voglio dire che Francesco si lesse a procacciarsi a
tutt'uomo questo ufficio in prossimità del tempo in cui sinistrò la
sua impresa, imperciocchè egli l'occupasse fino dal 1535 insieme con
Gherardo Penitesi, al quale fu confidato il presidio del passo al Ponte
di San Pietro, mentre il Burlamacchi prese a difendere la frontiera
dalla parte di Nozzano; del terzo commissario ignorasi il nome, solo
si conosce che le altre ordinanze stanziavano ai ponti di Moriano, dei
Colli e di Camaiore; e nè manco sembra vero che tutte queste battaglie
sommassero a duemila fanti; il Dalli, che lo poteva sapere, ci avverte
che arrivavano fino a sei mila, tutta buona e cappata gente.[10]

Di certo il Burlamacchi per la molta sufficienza sua si acquistò il
primato sopra non solo i compagni, ma altresì sopra il suo superiore
comandante generale, per modo che a lui deferivano: di vero egli non
ometteva veruna di quelle cose che fanno il capitano amato e temuto,
grazioso con tutti, vigile custode della disciplina, giusto ad un punto
e severo, più con lo esempio che col comando ordinatore ai soldati,
facile a rendere servizio, pronto a sovvenire del proprio, onde in
casa i suoi lo riprendevano spesso di questa soverchia liberalità, e
non è dubbio alcuno che in ciò spendesse con detrimento delle proprie
sostanze.[11]

Questo è quanto sottilmente ricercando abbiamo potuto rintracciare
intorno alla vita di lui fino al 1545; potevamo aggrupparci non
pochi particolari, se non veri nel senso che si trovino attestati da
pubbliche o da private scritture, certo verosimili, ma gli abbiamo
omessi con deliberato consiglio desiderando che quanto verremo
raccontando si tenga, diremo così, in concetto di religioso e di santo.

Ora poi, a fine di conoscere lo ingegno dell'uomo, vuolsi indagare
quale fosse lo stato della Europa e più specialmente della Italia
nostra; che cosa si sperasse e si temesse, quali gli umori sia per ciò
che tocca le faccende politiche, sia le religiose: dacchè giudicammo
(e da questo giudizio punto ci rimoviamo) che per lodare ovvero per
riprendere l'uomo che sé ed i suoi avventura ad una impresa zarosa
bisogni, senza attendere l'esito, esaminare se la era a conseguirsi
probabile e se proporzionata all'intelletto e alla potenza dello
agente, se utile allo stato, se onesta e se giusta; imperciocchè se
tutte queste cose si appuntino nella impresa, allora riuscendo a bene
ne avrai lode e vantaggi, e quando venga a sinistrare, non fie per
mancarti in ogni caso la lode che sempre accompagna la virtù infelice.
La fortuna senza consiglio appo i sapienti nulla vale; pel volgo sì,
ma di un tratto ella muta, e allora non basta nè manco all'ufficio
dei panni, i quali, secondo il dettato popolesco, rifanno le stanghe;
caduta la fortuna della mal pensata e disonesta impresa, null'altro
ti avanza eccetto il vituperio e il pregiudizio: a questo modo
Focione ateniese avendo dissuasa la guerra lamiaca, punto si commosse
allo annunzio dei prosperi gesti di Leostene capitano preposto alla
impresa, ed a coloro che per istraziarlo gli domandavano se avesse
egli desiderato di compire coteste strepitose azioni rispondeva:
«Certo sì, ma tornerei pur sempre a consigliare come feci.» E i lieti
inizi si convertirono poi in tristi lutti, perchè all'ultimo la guerra
andò perduta, e Leostene rimase spento; ma ciò non rileva: lo esito
buono o misero nè cresce lode nè la toglie, semprechè prima di recarti
addosso un gesto, tu avverta a tutte quelle cose di cui abbiamo tenuto
proposito qui sopra.



CAPITOLO II.

   Se una legge fissa governi le cose morali e politiche come
   le fisiche: difficoltà di rinvenirla. — Scienza politica
   fallacissima e perchè. — Quante volte nei suoi presagi politici
   sbagliasse il Machiavello; esempio solenne di giudizio errato
   accaduto ieri. — Burbanza e vanità delle cicalate che appellano
   _Filosofia della storia_; sistemi a vicenda divoransi. — Secolo
   XVI secolo _caposaldo_; comincia epoca nuova non anco compita:
   a qual patto i popoli cesserano le guerre. — Ciclo perpetuo dei
   medesimi eventi presagito dal Machiavello non è fatale: nuovi
   semi partorirono e partoriranno sempre nuovi frutti. — Speranza
   e pazienza veraci angioli custodi della vita. — Stato di Europa
   nel punto della storia nostra: conquiste normanne in Inghilterra;
   Inglesi conquistano la Francia. — A Carlo VII succede Luigi XI
   che compone il reame di Francia in arnese di guerra. Prosunzione
   dei giudici moderni; con quali norme hassi a giudicare dei tempi
   e degli uomini passati. — Come la religione diventi flagello
   del consorzio civile: colpe del cattolicesimo pervertitore di
   morale e impedimento al migliorare della stirpe umana. — Luigi
   XI morendo non si pente, anzi crede di aver ben meritato della
   monarchia e di Dio. — Se Ludovico il Moro e le donne di Savoia e
   di Monferrato fossero unicamente cause che i Francesi calassero
   in Italia, e sembra di no. — Stato d'Italia per colpa dei suoi
   principi dispostissima ad essere invasa. — I Francesi l'avrebbero
   conquistata e tenuta se non era la Spagna; la quale in breve per
   virtù e per fortuna si costituisce in potente reame. — I reali di
   Spagna; consentono a starsi in mezzo neutrali perchè Carlo VIII
   spogli gli Aragonesi di Napoli, poi sotto pretesto di soccorerli
   vanno a spogliarli essi. — Dura sentenza del Prescott contro la
   Italia e non giusta. — Tra il re di Francia e il re di Spagna
   cresce l'odio per la contesa dello impero: prevale la fortuna di
   Carlo, ch'è assunto imperatore; Francesco I è condannato nelle
   spese e perde la causa. — Larghezza di stato non fa grandezza.
   — Lo imperatore non arriva mai a soggiogare la Francia; se ne
   assegnano le cause diverse interne come esterne. — Carlo V come
   politico sommette ogni considerazione all'interesse, pure pende
   per natura al beghino. La libertà di coscienza in Germania
   si desiderava davvero, pure serviva a colorire il fine della
   libertà politica. — Pace inopinata di Crespy; in apparenza la
   Francia ne ha il meglio; vantaggi grandi che ne cava Carlo V.
   — Opinioni contrarie sopra cotesta pace: anche nelle famiglie
   dei contraenti genera dissidi. — Misero stato d'Italia. — La
   Francia procura tregua, non potendo pace, fra lo imperatore e
   il Turco. — Carlo scarrucola Francesco, e questi non se ne vuole
   accorgere. — Carlo si volta intero alle cose di Germania: convoca
   la dieta a Vormazia per istabilire il concilio, il quale abbia
   a definire le questioni religiose. — _Interim_ che fosse, e
   quando, ed a quali fini si concedesse. — I Tedeschi cresciuti di
   forze repugnano a mettere in compromesso il presente loro stato:
   e poi non hanno sicurezza recandosi a Vormazia: salvocondotto
   imperiale da non se ne fidare: quando salva e quando no;
   perse Hus e Girolamo da Praga; difese Lutero ma perchè: parole
   animose di Lutero recandosi a Vormazia. — Ferdinando re dei
   Romani sotto apparenze sante nasconde fine scellerato pel quale
   convoca la dieta a Vormazia. Altri fatti donde i protestanti
   desumono prova di animo ostile dello imperatore contro di loro;
   e segnatamente dal caso dello arcivescovo di Colonia. — Si apre
   il concilio di Trento; con quali intenti di Carlo. — Morte di
   Lutero; allegrezza dei cattolici e sbigottimento dei luterani; a
   torto entrambi; le cose apparecchiate, protratte per necessità
   di tempi poco si offendono per la morte di un uomo. — Paolo
   papa mette le mani nel negozio dell'arcivescovo di Colonia per
   arruffare la matassa allo imperatore. — Lo imperatore apre la
   dieta a Ratisbona; i protestanti vi si presentano per via di
   mandatari. — Se meriti lode di astuto il contegno tenuto da Carlo
   in cotesta congiuntura. — Trattato dello imperatore col papa,
   e patti della lega: girandole di Carlo e stizza del papa che si
   vede rubare il mestiere. — La Germania va in fiamme: apprestansi
   armi a combattere. — I Veneziani dissuadono il papa di porgere
   aiuto allo Imperatore, e buone ragioni che ne danno, ma invano.
   — Tradimento di Maurizio di Sassonia a carico del suocero e del
   cognato. — Conchiudonsi nozze, come sempre, favorevoli a casa di
   Austria. — Iattanze del langravio: numero stupendo di milizie
   raccolte. — Dannose dimore e peggio che inutili proposte dei
   luterani a Carlo; il quale, montato in furore, senza consultare
   la dieta, gli mette al bando dello impero. — I principi
   mandano l'araldo a intimare la guerra contro lo imperatore
   ed a protestare contro il bando. — Così le armi dello impero
   ingaggiate in guerra piena di pericolo, ottima la occasione per
   tentare novità in Italia, il Burlamacchi poi uomo da volere e
   sapere cogliere la occasione.


Forse una legge governa con ordine eternamente fisso così le fisiche
come le politiche e le mortali cose; ma se riesce arduo a scoprirla
nelle prime, disperato è poi nelle seconde e nelle terze; nulla fu
senza grande di vita travaglio concesso ai mortali; anco la natura
materiale s'inviluppa per entro veli impenetrabili, che a stento
ella si lascia strappare da dosso o per grande amore che porti, o
per grande violenza che altri le faccia. E lasciando la morale da
parte, per toccare della politica, ti si fa manifesta la difficoltà
di rintracciarne la legge da questo, che nonostante la molta scienza
dei passati eventi e la molta pratica delle faccende quotidiane,
male puoi presagire lo esito dei negozi prossimamente futuri, peggio
i lontani, ossia perchè ti avvenga di scambiare per causa quello
che insomma altro non è che effetto ossia che la sequela di ragione
indotta dal giudizio vada esposta a trovarsi scompigliata da altre
cause nè prevedibili nè prevedute; di questo somministrano esempi in
copia le antiche e le moderne storie; il nostro Giuseppe Ferrari ci
chiarisce come e quante volte s'ingannasse l'arguto ingegno di Nicolò
Machiavello sia giudicando la potenza dei Medici, o le sequele della
riforma, o il pericolo d'invasioni svizzere e turche in Italia, e via
discorrendo: di tanti recenti ne basti uno solo a noi e d'ieri; per
le superbe tumidezze francesi e per le procaccianti burbanze prussiane
l'universale bandiva prossima la guerra; l'acqua è in terra, dicevano
da per tutto, e pure i nugoli si sono tirati in su, ed abbiamo veduto
succedere alla temuta procella una quiete torbida che salutano pace in
mancanza di meglio.

Ma ciò che sembra più strano a concepirsi si è, che nè manco degli
eventi ormai compiti ed antichi ci riesca addurre ragione certa. Di
vero s'impadronì delle storie una maniera di argomentatori, e chi
tirandole da un lato, e chi dall'altro, chi sbattendole con ala che a
taluno pare di aquila e ad altri di pipistrello, se ne serve di materia
alle fantasie proprie o agli errori: di qui i sistemi filosofici, i
quali nati appena, come i guerrieri dai denti del dragone di Cadmo,
si combattono a vicenda e si uccidono: onde il secolo, che inclina
al positivo, comincia a mettere passione nelle scienze fisiche da
vantaggio che nelle filosofiche, nè a torto; imperciocchè nelle prime
quantunque poco avanzo egli ci faccia alla giornata, pure questo poco
mette da parte nel salvadanaio; così mano a mano crescendo di capitale,
noi lo vediamo adesso possessore di quello stupendo patrimonio che
tanti maravigliosi portati ha partorito, pure promettendone altri più
mirabili ancora. Dalle metafisicherie si diparte; non già, che le odii,
dacchè, agitando le braccia, se l'uomo non vola, ei fa esercizio utile
all'agilità dei nervi, ma sì per questo, che al chiudere delle tende
gli pare a modo del dio Odino avere perseguitato sopra le nuvole un
cervo di nebbia sopra un cavallo di nebbia.

Infiniti scrittori parlarono dei tempi intorno ai quali io pure mi
affatico, e mirifiche cose ci escogitarono sopra: certo cotesto fu
secolo caposaldo dei secoli; per lui incominciò nuovo ordine di cose,
che a mio senno non è anco compito, dacchè io creda che innanzi tutto,
cessate le conquiste e le sequele di quelle, bisogni che ogni popolo si
costituisca gagliardo di propria potenza: allora la forza genererà il
diritto, come il terrore ribadì tra tempia e tempia nell'uomo la idea
di Dio; dove tu attenda giustizia dallo amore, aspetta prima mirare in
branco pecore e lupi a pascere erba; e l'uomo ancora tiene del lupo più
che non credi, e il civilissimo due cotanti sopra quello che i diari
nostri costumano per vezzo appellare barbaro; non però di lupo, sibbene
di volpe, ma bestia sempre. Quando per tanto gli universi popoli si
troveranno armati di becco e di ugne, e tra sgraffio e sgraffio non ci
correrà divario o poco, fatti e rifatti i conti, conosceranno come sia
meglio per essi lasciarsi stare, barattarsi i frutti delle terre e le
opere delle mani loro: si ameranno forse (e se senza forse, magari!)
ma si rispetteranno di certo, e questo è quello che importa. Per ora
non siamo a mezza via; bisogna che molte nazioni si compiano, altre
che comincino a farsi: compite, si accorderanno prima per istinto,
poi per ragione, all'ultimo per via di trattati, i quali niente altro
faranno che ridurre in carta male ciò che avrà creato ottimamente la
necessità, e i barbassori di allora, in tutto pari a quelli di ora,
per avere scritto la fatale corrispondenza del genere umano reputeranno
davvero di averla fatta essi. Così tenendosi per mano i popoli con più
o meno celere, ma sicuro ed irrevocabile passo potranno camminare sopra
la via del miglioramento umano: dacchè la storia somministri questo
insegnamento solenne, che potenza ed intelletto pari creano reverenza
ed emulazione, mentre sbilancio o dell'una qualità o dall'altra in
un popolo a danno di un altro popolo lo spinge alla dominazione, alla
ingiustizia, alla barbarie e con assidua vicenda ad essere preda del
predatore: siffatto circolo fin qui agitò il mondo, e sembra che il
Machiavello lo giudicasse inesorabilmente eterno: adagio, a giudicare
il futuro che sta chiuso nel pugno di Dio; il Machiavello non potè
immaginare quali e quanti missionari sieno dell'accordo dei popoli il
telegrafo e il vapore; chi sa quante altre scintille sprizzeranno dalla
pietra percossa dal ferro: noi che giovani spregiammo la Pazienza, e
la Speranza, adesso vecchi propiniamo loro ogni dì nel sacrario della
famiglia, votiamo loro i capi a noi dilettissimi e le salutiamo veraci
angioli custodi della vita.

Di Francia uscì il ferro normanno che conquistò la Inghilterra:
Normanni contro Sassoni, Danesi ed Angli (dopo tante invasioni gli
aborigeni _Zimry_ senza dubbio i meno) furono vipere contro vipere;
dopo molte offese si persuasero che sarebbe stato più spediente per
loro unirsi a danno altrui e si unirono rivoltandosi contro il nido
che le aveva allevate; di qui la guerra inglese, le fiere battaglie
onde stette battuta la Francia, un re inglese consacrato re di Francia
a Parigi, un re di Francia prigioniero a Londra; ora poichè venga da
natura che la reazione sottentri immediata all'azione, al regno di
Carlo VII memorabile per codardia di re e per virtù di popolo succedeva
il regno di Luigi XI; del quale fu scopo ridurre la Francia in forte
e bello arnese prima per difendersi e poi per guadagnare: allora la
Francia appariva un cumulo di feudi, di cui i principi spesso pari e
talvolta superiori al re; fra loro o contro la monarchia senza requie
combattenti; causa perpetua di subbuglio in mezzo a lei, impedimento a
costituirsi gagliarda. Questo re adoprò le arti imitate dal Valentino
più tardi ma con esito felice: grande lo scopo, la fortuna propizia,
le vie praticate, trucissime talvolta, inique sempre: in Francia
veruno lo loda, e tutti si avvantaggiano della opera di cotesto re;
ipocrisia in contrasto o piuttosto d'accordo con la comodità. A parere
nostro vanno errati coloro i quali credono che i casi e gli uomini
dei secoli passati abbiansi a giudicare con le norme di giustizia
che professiamo adesso noi; arduo del pari è stabilire se la nostra
giustizia di oggi sarà giustizia domani; e comunque si pensi, chi
ragiona considera i successi in corrispondenza dei tempi e con le
qualità di sapere e di sentire degli uomini in mezzo ai quali cotesti
eventi compironsi. Non unico Luigi diede mano ai veleni, alle mortali
insidie, ai tradimenti; solo fu più avventurato degli altri; continuo
allora il gioco col quale invece di una moneta si buttava all'aria una
corona esclamando: _o morte, o vita_: quello che Luigi fece agli altri
o emuli o parenti o fratelli, se non lo avesse fatto egli, lo facevano
a lui: complice poi e instigatrice di delitti la religione: se, posti
da un lato tutti i beni e dall'altro tutti i mali di cui è madre la
religione fra i popoli, noi dobbiamo desiderare o no ch'ella cessi,
mi asterrò decidere, ma veramente voglionsi addirittura bandire al
mondo flagelli di Dio, quelle che come la cattolica nostra insegnano
ad aprire un conto corrente con la coscienza dove una partita di
bene compensi una partita di male, e bene si reputi la prodigalità ad
alimentare l'errore e gli apostoli suoi. Nè ciò che noi da maggiore
lume assistiti conosciamo assurdo ed anco sacrilegio, tale appariva a
Luigi XI, il quale, pervertito lo intelletto, credeva davvero che la
Madonna di Embrun ignorasse i suoi delitti, noti solo alla Madonna di
Parigi; così presso a morire, narrano gli storici egli non mostrasse
verun rimorso per le tante crudeltà commesse protestando averle stimate
necessarie pel vantaggio della monarchia, vale a dire di sè medesimo;
solo, mostrando qualche scrupolo per la morte del duca di Nemours,
parve un cotal poco pentirsi di aver fatto perire questo amico della
sua giovinezza.

Per questa guisa convertito il reame in arnese di guerra per forza di
cose era mestieri adoperarlo; i re vincere l'un l'altro con le opere
della pace non sanno; figli della prepotenza, da questa in fuori non
pongono fede in altro, nè la occasione a cui la cerca e può valersene
manca mai, anzi ella viene da sè: affermano gli storici che le Alpi
furono aperte alla Francia dalla chiamata di Ludovico Sforza e dalla
insania delle due donne, che Dio faccia triste, di Savoia e del
Monferrato, ed è vero; però giustizia vuole che si aggiunga che, dove
si fossero opposti anco tutti gli Italiani, mal vietate le Alpi sarieno
state sempre: di vero prima di voltarsi alla Italia la Francia tastò
la Spagna, ma per ben due volte se ne tornò indietro da Perpignano
con la testa rotta; onde, volendo fare esperimento delle proprie
armi, egli era naturale, che colà le adoperasse dove ne presagiva la
impressione più agevole. Il paese più atto a ciò compariva certamente
la Italia. Qui unico vincolo di unione fra gli stati nuocere altrui:
se taluno accennava levare il capo sopra gli altri, tutti addosso:
a cotesti tempi Dio ci voleva male davvero; lo ingegno si adoperava
dagli stati a ordire sottili insidie in detrimento scambievole,
le forze per affliggersi a vicenda; uno prevalendo su l'altro, non
seppe comporre una forte monarchia, ovvero, deposto ogni concetto di
primato, costituire una lega capace di opporsi con profitto ad ogni
invasione straniera: ci volea poco a prognosticare che questo mosaico
di frammenti non legati insieme, anzi discordi, ad ogni più leggiero
urto sariasi scomposto; nè questo ignoravano i Francesi, i quali però,
chiamati o no, io credo che sarebbero calati dall'Alpi; il consiglio
perverso dello Sforza accelerò forse e agevolò la impresa, ma la sua
origine hassi a derivare dalla necessità delle cose: e la Francia di
certo avrebbe vinto, nonostante il precipitoso retrogradare di Carlo
VIII, il quale non ha paragone che con la ruina del suo spingersi
innanzi, se frattanto non sorgeva una potenza la quale non pure valse
a tenerla in cervello, ma più volte la ridusse a un pelo di andare
sbrizzata come tazza di porcellana caduta per terra.

Questa potenza è la Spagna; divisa in più regni, lacerata dalle
fazioni, re in guerra fra loro, baroni in guerra contro i re e contro
il popolo; popolo combattente contro tutti; Saracini in casa ormai
radicati; occupanti le più belle provincie che essi felicitavano con
le arti, co' commerci, con la cultura ed anco co' costumi ad un punto
eroici e gentili: pareva non solo strano, ma impossibile che in simili
condizioni la Spagna mai si conducesse a formarsi in istato grande:
e tuttavia fortuna e senno operarono siffatto portento nel giro di
pochi anni. Col matrimonio di Ferdinando e d'Isabella i due regni
sparirono; la guerra contro i Mori, oltre ad affrancare lo stato dalla
presenza dello straniero, il quale quanto più vuoi industre e cortese,
tuttavia straniero era e causa perpetua di umiliazione e di debolezza,
giovò a ricondurre i baroni al guinzaglio e, rinforzati gli ordini del
governo, a scemare l'anarchia dei comuni: quindi si accese la febbre
delle scoperte, onde l'ardimento degli uomini toccò il sopranaturale,
e le ricchezze rapite somministrarono abilità di ammannire armi e di
soldare milizie; per ultimo le nozze di Giovanna con Filippo il Bello
di Austria recarono sul capo del figlio Carlo il retaggio di Austria,
della massima parte della duchea di Borgogna e la speranza della corona
imperiale.

Ormai la Francia e la Spagna sono salite in grado che, possedendo
entrambi orgoglio sterminato e modo di appagarlo, forza è che fra loro
contendano: signoria non pate compagnia; per venire in cozzo la casa
regnante di Napoli sbattacchiata dalla bufera francese era spagnuola e
congiunta dei reali di Spagna; adesso nè manco a fabbricarselo da sè
poteva occorrere più santo o più giusto pretesto per pigliare parte
a coteste guerre e spogliare i parenti dei loro stati, quanto quello
di accorrere a difenderli per impedire che altri ne li spogliasse:
vero è bene che Ferdinando e Isabella col trattato di Barcellona
aveva pattuito con Carlo VIII, che, mediante la restituzione della
Cerdagna e del Rossiglione già ipotecati a Luigi XI, di lasciare
in balìa di lui amici e parenti, ma simili contradizioni le sono
rifioriture nella politica degli stati e poi ormai la Cerdagna e il
Rossiglione erano stati restituiti, e l'appetito viene mangiando. Una
sentenza dura occorre nella storia di Ferdinando e d'Isabella dello
americano Prescott a carico della Italia, ma come dura non del pari
giusta; di fatto egli afferma: la Italia in cotesti tempi scuola magna
della infame politica così astuta come vile, fraudolenta ad un punto
e sfrontata, onde gli uomini del tempo si mostrano turpi di macchie
che per età non si lavano; ma nè Ferdinando di Aragona nè Luigi XI
avevano mestieri imparare in Italia, essi erano abbastanza matricolati
da loro, e lice a noi dubitare se con altre norme si governino adesso
gli stati in sostanza, quantunque il linguaggio sia del tutto mutato e
ci si faccia un grande consumo anzi scialacquo di umanità. La fortuna
delle armi non arrise ai Francesi, per cui ogni dì si fece più aspra
emulazione fra la Spagna e la Francia, la quale giunse al culmine
quando comparvero sopra la scena del mondo Carlo V e Francesco I a
contendere dello impero: giovani entrambi, entrambi cupidissimi, eredi
delle tradizioni dei loro antenati, forse spinti dalla necessità,
la quale sebbene composta di argomenti artifiziati urge tuttavia
come natura: l'uno e l'altro smanioso della monarchia universale di
Carlo Magno, che quegli pretendeva francese, e questi tedesco. Anco
nella contesa dello impero prevalse la fortuna di Carlo e fu salutato
imperatore. Francesco ci spese attorno una grossa moneta, ma gli
elettori si tennero gli scudi, non diedero i voti, e Francesco rimase
condannato nelle spese. Senza timore di sentirci smentiti affermiamo
la vita di questi due potenti essere stata un perpetuo duello per la
dominazione del mondo, e a Carlo parve prossimo il tempo di porre la
mano sul dominio del mondo, poichè alla Spagna, al regno di Napoli,
al ducato di Milano, alla Borgogna, ai Paesi Bassi, all'Austria,
all'Africa in parte e all'America ora si aggiunse l'essere capo dello
impero, e collegati con lui da un lato i principi germanici, dall'altro
i diversi stati italiani. Ma larghezza non fa grandezza; chi troppo
abbraccia meno stringe, un po' perchè la forza manca, e un po' perchè
la materia discorde e fra sè pugnace non si lascia agguantare: molte
le vittorie riportate da Carlo ed anco dal figliuolo Filippo contro la
Francia, e nondimanco riuscì loro impossibile soggiogarla, talvolta
invasero le provincie francesi o vuoi dalla parte d'Italia o vuoi
dalla parte di Borgogna, ma quindi ebbero sempre a sostare, e ad
accordarsi; e ciò perchè quanto più s'inoltravano e più occorrevano in
duri intoppi, quali sono la guerra popolesca, la diffalta dei viveri,
la desolazione, lo incendio: i danari mancavano, però il bisbiglio
sommesso poi il ribellarsi riottoso della milizia condotta al soldo, le
malattie ed altri che non si narrano guai: a non ritrarsene correvano
il rischio del tarlo che si ammanisce il sepolcro nel buco che scava.
Aggiungi due flagelli che minacciavano del continuo lo impero, i Turchi
e i luterani. Formidabili i primi, di tratto in tratto con danno pari
allo spavento invadevano la Ungheria e minacciavano Vienna, sicchè sul
più bello bisognava lasciare in asso le imprese e correre a rintuzzarli
se non si voleva che il Turco allagasse in Europa; questo per di
fuori, dentro limava l'autorità imperiale la setta luterana; e se si
affermasse che a Carlo poco calessero le faccende della religione, non
si direbbe il vero; devotissimo cattolico egli era, di ogni pratica
osservante; non passava giorno che non assistesse ad una messa, qualche
volta a due; si comunicava tutte le feste capitali dell'anno; almanco
un'ora il giorno meditava sopra i misteri della fede: può darsi che
il diavolo sovente lo tentasse intorbidando le pure linfe della sua
devozione con qualche immagine di futuro acquisto, ma la buona volontà
ci era; e tutto ciò senza pregiudizio di tenere in carcere papa
Clemente VII, di chiudere un'occhio perchè ammazzassero il figliuolo di
Paolo II, di minacciare il cardinale di San Marcello, che poi fu papa
Marcello I, di farlo buttare nell'Adige se non si rimaneva da sobillare
i padri del concilio perchè piantassero Trento, con altre cosiffatte
dolcezze. Oltre pertanto quest'odio feroce di beghino, lui moveva con
ispinta se non più veemente almeno pari la paura che i luterani sotto
pretesto di libertà religiosa gli scalzassero il trono: nè oggimai
questo punto rimaneva dubbio, nonostante le proteste e le dichiarazioni
in contrario di Lutero e de' suoi, le quali in simili congiunture
sempre si fanno, non si credono mai, e tuttavia sempre si rifanno;
onde, l'eresie ogni giorno più impigliandosi in Germania, crescea
per Carlo la necessità della guerra germanica, se pure non volesse
sopportare con pazienza che l'autorità imperiale illanguidisse, e con
essa mancasse la suggezione delle provincie dell'Austria: e tuttavia
Carlo si trovava travolto nella più acerba guerra che avesse mai
assunto con la Francia; nè le lusinghe per continuare mancavano; facile
come sempre la prima impressione in cotesto paese, arduo inoltrarsi.
San Desiderio ei prese, ma per inganno non per virtù: la stagione
iemale gli stava addosso; l'annona scarsa, l'erario vuoto, l'esercito
in procinto di ammotinarsi; male da questo lato, peggio dall'altro
tanto che Francesco scorato esclamava: «O mio Dio come mi fai pagare
cara questa corona che sperava tu mi avessi conceduta senza spine!» e
ormai ai voleri del destino si rassegnava; però ognuno dei combattenti,
secondochè succede, sapeva in qual punto lo affliggesse la scarpa; onde
di un tratto ne surse la più strana pace, quella di Crepy, che mai
si fosse vista: per essa la Francia ottenne vinta quello che appena
le sarebbe stato lecito sperare vittoriosa; le conquiste fatte da
entrambe le parti si restituissero; Carlo accordasse per moglie al duca
di Orléans o la figlia propria o quella di Ferdinando suo germano; se
la figlia, portasse in dote i Paesi Bassi, se la nipote, il ducato di
Milano; con altri più patti che al nostro assunto non preme ricordare;
però lo imperatore, astutissimo uomo, in virtù di cotesta pace ottenne
in prima la sicurezza che non lo avrebbe il re di Francia molestato
pel reame di Napoli nè per le Fiandre; non soccorso il re di Navarra,
quantunque congiunto, per lo appunto come aveva costumato Ferdinando
il Cattolico dirimpetto al re di Napoli; e' sono tutti di razza; per
ultimo o per via di pace o di tregua Francesco tolse il carico di
assettarlo col Turco; dall'altro lato Carlo lasciava Francesco ad
accapigliarsi con Enrico re d'Inghilterra per causa di Bologna, sicurtà
di fatti assai più efficace che di parole anco giurate: nè qui finirono
i vantaggi; chè in virtù di patto segreto tra loro convennero instare
affinchè il concilio si radunasse, e le mutue forze mettessero insieme
per isradicare la eresia, minaccia della tirannide così in Francia come
in Germania.

Poichè agli uomini dispiacciono o piacciono le cose secondochè loro
apportarono o presumono riportarne utile o danno, così questa pace fu
giusta simile stregua o celebrata o ripresa; nè fra gli strani solo,
sibbene anco nelle famiglie delle parti contraenti; al delfino seppe
mal di morte, onde, venuto in iscrezio col fratello D'Orléans, se ne
temevano guai: sicchè quando più tardi di un tratto cotesto principe
scomparve i cortigiani l'ebbero per provvidenza, volendo essi servire
sì, ma servire tranquillamente. Gli stati d'Italia seguaci delle sorti
di Carlo vivevano di pessima voglia presentendo scemata la propria
autorità e il giorno di non lontana ruina: all'opposto i parziali di
Francia aprivano la mente a superbe speranze o almeno quali era dato
concepire allora alla degenerata razza latina: opprimere di seconda
mano brani di popolo strappato di bocca al maggiore padrone straniero.

Di fatti la Francia tanto s'innamorò di cotesta pace che si mise
coll'arco del dosso a negoziare l'accordo fra lo imperatore e il Turco,
nè questo potendo ottenere, strappò una tregua, di un'anno prima,
poi di cinque. Chiunque non avesse perduto il bene dello intelletto
avrebbe conosciuto espresso che Carlo scarrucolava Francesco: tuttavia
questi non se ne voleva accorgere; quello che gli talentava doveva
essere, e i cortigiani tacevano: non si ha a sturbare il sire, nè pure
coll'annunziargli la necessità suprema della morte imminente; però
quasi sempre gli casca addosso come il nibbio che abbia chiuse le ale.
Al nostro assunto non preme riferire il diuturno inganno; basti solo
che la Francia alle ingiurie austriache quando potè non seppe o non
volle apportare riparo, quando poi o volle o seppe ella non potè. —

Carlo, assettatesi a questo modo le cose dintorno, prese ad attendere
alle faccende di Germania come uomo che vuole venirne al chiaro; e
davvero n'era tempo, perchè lo indugio pigliava vizio, e di che tinta!
Cesare aveva convocato la dieta a Vormazia con questo intendimento,
che quivi si deliberasse la necessità di un concilio dove si avessero
a definire le quistioni religiose, e poi al giudicato si stesse; che
insomma era lo adempimento di quello che due anni prima fu stabilito
alla dieta di Spira: ma da ora a quel tempo gran tratto ci correva;
imperciocchè allora facendo mestieri a cesare tenere quieta la
Germania, anzi cavarne sussidi per la guerra contro la Francia, con
editto imperiale aveva conceduto che fra tanto e finchè il concilio si
convocasse i protestanti senza molestia la religione loro liberamente
professassero; la quale concessione appellarono _Interim_, che appunto
nello idioma latino suona _frattanto_. Ai protestanti, che allora
non si sentivano abbastanza gagliardi, non parve vero quel po' di
respiro, e non istettero a guardarla tanto pel sottile: adesso poi,
sentendosi forti da sostenere l'assunto repugnavano mettere ogni cosa
in compromesso, considerando come Carlo non avesse più bisogno di
piaggiarli, all'opposto mirasse a finirli, e come nonostante i passati
e i recenti rancori ei si fosse accontato col papa ai danni loro, nè
si sapesse se il concilio da Trento in qualche città germanica si
trasportasse, e pareva che no, dacchè dopo il primo scalpore mosso
da cesare per siffatta decisione del papa, ei se n'era rimasto cheto,
onde a molti era entrato in sospetto che cotesti formicoloni di sorbo
facessero le forche. In fine convocato il concilio l'_Interim_ veniva
a cessare: per le quali cose tutte dal concilio rifuggivano come il
can dalla mazza; e avevano ragione da vendere, imperciocchè a Giovanni
Hus il salvocondotto imperiale tanto non gli fece scudo che i padri del
concilio di Costanza non lo pigliassero e ardessero; bene il medesimo
salvocondotto salvò Lutero quando si commise alla dieta di Vormazia,
ma, oltrechè il salvocondotto di Lutero fosse garantito da tutti i
principi germanici i nuovi convocati non si sentivano dell'umore di
lui, il quale dissuaso dall'andare coll'esempio di Giovanni Hus e
di Girolamo da Praga rispose incollerito: «Levatemivi dinanzi, che
io ci vo compire ad ogni modo, quando anco ci avessi a trovare tanti
diavoli quante sono le tegole sopra le case.» E poi in conchiusione,
quando pure volessero correre rischio del salvocondotto imperiale ora
tutela, ed ora insidia, Ferdinando fratello di cesare che faceva per
lui, di dare sicurezza non voleva saperne, onde si rendeva manifesto,
ch'essi andavano a mettersi addirittura in bocca al lupo. Ferdinando
secondo l'usanza vecchia e rinnovata sempre da cotesti messeri, e
quello che maraviglia di più, creduta sempre dagli uomini, i quali
nonostante perfidiano a volere essere chiamati animali ragionevoli,
dava apparenza onesta, anzi santa, a fini fraudolenti, e diceva: il
Turco stare sul collo alla Germania, sbrigatosi della guerra persica
tornerebbe più terribile che mai ai danni dei cristiani: durante la
brevissima tregua aversi a provvedere arme ed armati per dare buon
recapito a questo flagello di Dio: alla necessaria concordia per
conseguire tanto fine fare ostacolo le dissidenze religiose, difficili
a comprendersi, impossibili a definirsi, cagione di guai interminabili
a disputarsi: qui più che altrove essere mestieri che un consesso
augusto quanto autorevole dichiarasse le norme a cui i cristiani
tutti avessero a stare, ed a quelle si stesse; però finchè i Turchi
non fossero dispersi, ciò si mettesse da parte; ne parleremo a causa
vinta. — I papisti che sapevano o indovinavano la ragia esclamavano;
«perfettamente;» ma i protestanti di contrasto: «No davvero, prima
andiamo d'accordo, e poi saremo con voi: patti chiari amicizia lunga:»
alla meno trista si stabilisca subito una dieta, e finchè non vi si
decidano gli screzi sia prolungato l'_Interim_; bene inteso però,
che la si dovesse tenere in qualche città dello impero, nè il papa la
convocasse, molto meno la presiedesse egli, giudice e parte. — Da un
lato l'imperatore puntò i piedi, i protestanti dall'altro i piedi e le
corna; la ragione più da questa parte che da quella; la pertinacia pari
in entrambe; si sciupò tempo; parole a fusone, e, come di ordinario
accade, non conchiusero nulla.

Egli è da credersi che i protestanti avrebbono lasciato passare tre
pani per coppia se lo imperatore col mutare dei tempi non avesse mutato
animo dandolo a divedere troppo apertamente, ma ora premendo a costui
lusingare il papa contro i Protestanti schizzava veleno: più di ogni
altro valse a metterli in sospetto il caso dell'arcivescovo di Colonia:
questi, insigne per pietà e per dottrina illustre, prese a tedio i
romani errori, si piacque propagare nella sua diocesi le credenze dei
protestanti giovandolo in questo zelantissimi coadiutori Melantone e
Bucero, i quali trovarono non che atto il terreno, disposto; nemici
solo ed infesti i canonici della cattedrale, nè già per amore di dogmi,
bensì per moltissimo amore delle dignità e delle comodità loro, i
quali, subodorato il vento e conosciutolo favorevole, si appellarono
al papa come superiore chiesastico, allo imperatore come superiore
civile; questi senza dare tempo al tempo, timoroso che il papa non gli
preoccupasse il sentiero, tosto da Vormazia, dove allora si tratteneva,
mandò un decreto ai canonici perchè vigilassero la fede della chiesa
di Colonia e bandissero ribelle chiunque le contraffacesse, allo
arcivescovo perchè dentro trenta giorni si presentasse a Brusselle
per iscolparsi delle accuse messegli addosso. Oltre questo esempio,
spaventavano i novatori la persecuzione dei loro correligionari
nei Paesi Bassi, il divieto di salire sul pulpito ai predicatori
protestanti a Vormazia, la balìa ai cattolici di tirare a palle rosse
dalle bigonce e dagli altari contro i luterani.

Intanto si apriva il concilio di Trento; e lo imperatore, da quello
svelto ch'egli era, voleva menare il cane per l'aia per pigliare tempo
a compire gli armamenti e al punto stesso tranquillare i protestanti
per coglierli alla sprovvista, e quando pure si avessero a mettere
subito le mani in pasta, si cominciasse dalla riforma dei costumi e
degli abusi della Chiesa: ai dogmi si penserebbe più tardi: accetta
ai protestanti la riforma dei costumi, era agevole prevedere che nella
trattativa dei dogmi sarebbesi incontrato l'osso. Il papa dal canto suo
strologava per cavare il concilio da Trento, o se questo non poteva
conseguirsi indilatamente, si definissero gli articoli della fede.
Nonostante però quel fare alle braccia fra imperatore e papa, o per
cacciarsi sotto l'emulo o non esservi cacciato, insieme poi ordivano
fitto contro il comune nemico; in questa moriva Lutero, i cattolici
ne menano gazzarra, i luterani si accosciano, e a torto entrambi:
le necessità dei tempi si creano mano a mano come l'orologiaro fa
l'orologio; compito ch'ei sia, rimarrà eternamente fermo se taluno non
dia impulso al pendolo; all'orologio del tempo chi dia lo impulso non
manca, imperciocchè per uno dei moventi che caschi ne subentrano dieci;
e non lo trattiene scapito espresso anzi neppure la morte: quindi erra
chi pensa che creasse il moto colui che si trovò a imprimergli l'ultima
spinta; antichissima la materia del luteranesimo, Arnaldo, Savonarola,
Giovanni Hus, Girolamo da Praga ed altri parecchi lo avevano ammannito,
ma non ne vennero a capo, e per poco la fiamma che arse i corpi loro
non ne abbruciò la memoria; a Lutero arrise la fortuna, però da lui
si noma la riforma: da tutto questo se ne inferisce che la cosa messa
su lo sdrucciolo per via va senza mestiere che uomo la spinga dietro;
quindi la riforma procedè senza Lutero, come Lutero, caso mai avesse
mutato partito, non avrebbe potuto farla stornare un'oncia: chi desta
lo incendio non può spegnerlo poi.

Tuttavia il moto sarebbesi rallentato, o per indole della gente
alemanna naturalmente gingillona, o per le bindolerie dello imperatore,
maestro insigne di queste, se la troppa garosità della corte non
fosse venuta a sbraciare il fuoco e ciò accadde perchè, deferita a
Roma la causa dello arcivescovo di Colonia, al papa non parve vero di
cogliere il destro per ostentare autorità, e quindi di punto in bianco,
postergati i consigli, tenuti in non cale gli avvertimenti, ecco emana
una bolla che lo spoglia delle dignità ecclesiastiche e, previa la
consueta scomunica, scioglie i sudditi dal giuramento di obbedienza
a cui erano tenuti. I protestanti s'inalberarono: temendo ognuno per
sè, si rinforzò la concordia; tanto più veementi adesso quanto prima
avevano ciondolato; al timore del danno si arroge la stizza di vedersi
giuntati.

Con tali auspicii si apriva la dieta dello impero a Ratisbona: ci
convennero i principi alemanni parziali a cesare, i protestanti se ne
tennero lontani mandandovi in vece loro procuratori a rappresentarli:
pretesto per non andare le soverchie spese a cui non potevano sopperire
stante le angustie dei tempi, causa vera la paura di essere presi pel
collo. Dicono che lo imperatore alla dieta di Ratisbona dimostrasse
arguzia straordinaria, conciossiachè, invece di scuoprire i propri
concetti, li tenesse con bell'arte celati, invitando i principi
raccolti a palesare quello che sentissero e volessero, lui chiamarsi
parato ad eseguire quello che a loro fosse piaciuto deliberare; a me
sembra che questi sieno ganci diritti, dacchè ogni uomo si accorse
che la proposta dello imperatore ai principi cattolici rassomigliava
alla domanda dell'ospite all'oste: se ha buono il vino; pertanto ad
una voce sentenziarono a quanto sarebbe per giudicare il concilio di
Trento sacrosanto si avesse a piegare il capo sotto pena di sentirselo
tagliare. Molto meno poi si comprende questa astuzia a che cosa
approdasse quando ei subito dopo spedì per le poste il cardinale di
Trento a Roma per sollecitare gli aiuti del papa, chiamò milizie dai
Paesi Bassi, concesse a Giovanni e ad Alberto di Brandeburgo di levarsi
in armi per cavare, se loro riusciva, Enrico di Brunswich dal carcere
del langravio di Assia tenuto in conto di capo della lega di Smalcalda:
sovente si annaspa per non perdere il vezzo di annaspare, e tale loda
un atto nello imperatore che nel plebeo flagellerebbe a sangue. I
rappresentanti si fecero a trovare Carlo per essere chiariti sopra
gl'intendimenti suoi, ed essi domandando erano più che persuasi non
ne avrebbero spillato niente che valesse; lo imperatore, rispondendo,
fermo ad agguindolarli, se poteva: tempo perso e che tuttavia si perde:
forse perchè l'uomo, non potendo esercitarsi nella lealtà, si trastulla
volentieri con le apparenze di quella.

Stretti col papa i patti della lega, depositati i danari pei sussidi
su banchi di Venezia, convenuto il numero e la qualità dello esercito
ausiliario, accordati i capitani, distribuite indulgenze, messe
in pronto le scomuniche, promesso che per sei mesi non si facesse
pace, e dopo i sei mesi in verun modo senza il consenso del papa si
conchiudesse; bene fra loro detto e ridetto e replicato poi scopi
della guerra essere due o, per dire meglio, uno distinto in due atti
cioè il primo estinguere il veleno dell'eresia, il secondo spartirsi
le spoglie degli eretici; uno non si era mai fidato meno dell'altro,
però lo imperatore, bugiardo più di due re, bandiva essere trascinato
alla guerra pei capelli, non già per causa religiosa, Dio guardi! sacre
le coscienze, credesse ognuno come meglio gli talentasse, solo volere
richiamare all'osservanza dell'autorità imperiale alcuni tracotanti
che se la mettevano sotto i piedi; ciò essere non pure suo diritto,
ma obbligo espresso; diversamente, cessato o rilassato il vincolo
della confederazione, anarchia dentro, debolezza fuori. Queste cose
dava ad intendere Carlo come il pescatore gitta le reti: se chiappano,
chiappano; e pel fine di riuscire, potendo, a mettere le male biette
fra i protestanti, ed anco secondo le contingenze piantare il papa ed
accomodarsi con loro. Il papa stizzito perchè Carlo la trinciasse da
furbo _in capite_, mentre questo posto pretendeva egli (e a diritto,
imperciocchè dove lo imperatore volesse per sè il primato delle armi
e delle frodi, o che restava al papa?) spiffera tutto l'accordo della
lega facendo toccare con mano come lo imperatore mentisse, e scopo
principale della lega consistesse nella persecuzione a morte degli
eretici: tuttavia chi pensasse che a questo modo il papa procedesse
per pura stizza si apporrebbe male, forse la collera non era se non
colore per coprire il concetto di rompere il ponte tra i protestanti e
lo imperatore, talchè ogni via di accordo fra loro rimanesse almeno per
certo tempo irrevocabilmente chiusa. Questi tiri papeschi fruttarono
da un lato la presagita rottura, ma dall'altro eziandio augumento
di forze ai nemici, imperciocchè svegliatisi proprio su l'orlo del
precipizio si assembrassero ad Ulma per provvedere alla necessità
della guerra: presto andava la Germania in fiamme: le chiese, le
cattedre, i fori, e le campagne echeggiavano del grido popolesco (il
quale se durasse quanto è potente, non continuerebbe a strascinare
la sua catena il mondo) _Patria_ e _Libertà_; si arrolano soldati, si
muniscono terre, si mandano oratori agli Svizzeri ed ai Veneziani per
averli confederati, alla peggio amici coperti o neutrali. I Veneziani
scaltriti ricevono gli oratori a braccia quadre, e subito si mettono a
zelare gl'interessi dei protestanti con inestimabile ardore: cotesti
buoni Alemanni maravigliavansi possedere nei veneziani senatori così
sviscerati fratelli; il fatto era che i Veneziani, aborrendo cotesta
guerra come pericolosa alla Repubblica e alla Italia, ragionavano
così: se cesare vince, mangia il papa e noi; se perde, questi bestioni
di luterani inondano la Italia per vendicarsi del papa, e a tutti i
principi italiani tocca a pagare i cocci. Per queste cose non mancarono
di farne ufficio col papa per parole e per lettere, ma senza pro,
essendo ormai tratti i dadi.

I pelaghi di Carlo nella massima parte scorbacchiati qualche cosa
fruttarono sempre; se gli si smagliò in parte la rete, fu merito del
papa, e se la legò al dito: i principi brandeburghesi di Bareit e di
Aaspak pertanto lasciaronsi pigliare; Maurizio di Sassonia per non
parere pattuì con Ferdinando re dei Romani che si sarebbe mantenuto
neutrale di mezzo finchè l'elettore Giovanfederigo non dichiarasse la
guerra allo imperatore; in questa riuniranno le armi, ed assalito e
vinto lo elettore, terranno lo stato ai suoi aderenti ed a lui, poi di
santo accordo se lo divideranno: consiglio iniquo che partorì pessimi
frutti a Maurizio, però che chi comincia il conto con la cupidità
ordinariamente lo salda col danno. Cesare si valse eziandio delle
nozze, profittevoli sempre alla casa di Austria; di due sue nepoti una
allogò in casa di Baviera, l'altra in quella del duca di Cleves; vero
è che questa era stata promessa al principe di Navarra, ma l'interesse
scioglie bene altri nodi che questi non sono.

Di giorno in giorno crescono le offese. Il langravio Filippo, foggia
di Aiace germanico di forma gigante, armato da capo a piedi di
piastra e di maglia, andava iattando bastargli l'animo dentro tre mesi
rincacciare lo imperatore fuori dei confini germanici; insieme uniti i
principi collegati mandano intorno un bando: veruno si attenti pigliare
soldo sotto principe che il proprio naturale non sia; la sentenza
di cesare contro l'arcivescovo di Colonia (della bolla papale non si
parla nè manco) dichiarano irrita, nulla e come non avvenuta; straziano
di scede la corte romana e il vescovo di Augusta e, meglio di tutto
questo, fanno massa di gente in Augusta e in Ulma: maravigliosi il
numero delle milizie accorse e le cause tanto diverse che le mossero
ad assembrarsi sotto le bandiere dei protestanti; il vincolo dei
vassalli ai baroni tuttavia gagliardo in Germania, l'esercizio lungo
nelle armi avendo da quasi mezzo secolo combattuto ora dalla parte di
Francia ed ora di Austria secondochè la passione agitava o l'interesse
persuadeva, la pace di Francia con l'Inghilterra conchiusa in cotesti
giorni, per la quale di parecchi soldati, i quali dal menare le mani
in fuori altro non sanno fare, stavano disperati a qual santo votarsi;
ci era poi dove più dove meno la rabbia religiosa, che ubbriaca più
trista del vino assai: per ultimo il naturale istinto dell'uomo, che
lo spinge a ribellarsi contro la forza, finchè non arrivi il tempo,
e arriverà tardi, dove da un lato l'amore, dall'altro la conoscenza
compartiranno alla persuasione l'autorità che adesso usurpa la forza
congiunta con la frode, o no: insomma corre fama che nel giro di pochi
giorni si radunassero 70000 fanti, 15000 cavalli, centoventi pezzi
di artiglierie, ottocento cariaggi di munizioni, ottomila somieri,
seimila guastatori: il più bello e fiorito esercito che fosse stato
riunito fin lì, e bada che lo avevano posto insieme i soli principi
di Sassonia, Assia, Vurtemberga, Analto e le città imperiali Augusta
Ulma e Strasburgo. Se i collegati, rotti gl'indugi, avessero di subito
assalito lo imperatore rinchiuso in Ratisbona città luterana, epperò
tentennante, con soli attorno tremila Spagnuoli e cinquecento Tedeschi,
non ha dubbio che lo avrebbero facilmente oppresso; e tuttavia nol
fecero o perchè tardi per natura, o perchè sentissero una tal quale
esitanza a percotere prima una istituzione così venerata come il
sacro romano impero, o per qualunque altra causa a noi ignota. —
Gingillaronsi i protestanti a scrivere certa lettera a Carlo, la
quale non sarebbe stata accolta quando mai avesse contenuto proposte
discrete; figurarsi se piena di enormezze come cotesta era! Chiedevano
la pace generale della Germania, un concilio nazionale, e sia pure a
Trento a patto che a loro sia libero andarvi o no, e si componga di
padri o teologhi per metà cattolici, per metà luterani; siedano giudici
lo imperatore con gli altri principi laici di Germania, ed altre più
cose assai. Ghignò di rabbia Carlo al ricevimento di cotesto messaggio,
conciossiachè, sebbene con parole onorate, egli insomma contenesse
la proposta di renunzia alla corona, atto che per allora egli non
si sentiva voglia di fare; onde contro suo solito, ordinariamente
circospetto, non curando il pericolo dentro cui si versava, postergato
ogni obbligo di consultare la dieta, di propria autorità metteva al
bando dello impero l'elettore di Sassonia, il langravio di Assia e
chiunque si accontasse con loro, i vassalli sciolti dal giuramento,
chiunque avesse loro corso addosso per ammazzarli ed usurparne i
beni, invece di pena, avria conseguito grazia e favori. Di rimando
i protestanti spedirono al campo imperiale un araldo il quale con
tutte le solennità che ordinavano i tempi gli dichiarava i principi
collegati non riconoscerlo più per imperatore, e chiamare a decidere
cui di loro avesse torto giudice Dio: protestare contro il bando perchè
a quel modo decretato era atto tirannico e sovversivo delle libertà
del corpo germanico. — Carlo accommiatò l'araldo incombenzandolo dire
ai suoi signori: «simile protesta prima della battaglia non valere un
bagattino, e dopo anco meno, perchè la forza legittima ogni cosa.»

Pertanto la guerra era dichiarata: secondo i giudizi umani lo
imperatore si credeva l'avesse dovuta perdere; in ogni caso sarebbe
andata per le lunghe, ed entrambe le parti ne sarebbero rimaste offese
sì che quando anche ne fosse riuscito vittorioso Carlo, per parecchio
tempo non gli sarebbe rimasta balìa da levare un dito. La occasione
offeriva il ciuffo a chi volesse afferrarlo: il Burlamacchi voleva e
sapeva.



CAPITOLO III.

   Condizioni d'Italia. — Paolo III e suoi concetti per ingrandire
   il figliuolo Pierluigi: quali i costumi di questo scellerato,
   nè la storia li dichiara tutti; quanti stati il padre gli
   procurasse e su quanti mettesse gli occhi; Milano e Napoli
   desiderati invano: Siena insidiata. — Con quali arti i Sacerdoti
   abbiano messo assieme la roba: perchè i cardinali assumessero
   vesti di colore vermiglio. — Andrea Doria avverso a Farnesi; se
   avesse cause private s'ignora, pubbliche ne aveva e quali; si
   espongono gli argomenti per credere che Andrea non si sarebbe
   opposto ad un moto inteso a liberare la Italia dagli stranieri.
   — Venezia fino da cotesti tempi a quale stato ridotta; politica
   conservatrice sa dell'etico e perchè; ragione delle repubbliche
   aristocratiche; durare non è vivere, e mal s'intende di che cosa
   sappia la lode data da Vittorio Alfieri a Venezia; anch'ella
   non avrebbe impedito la cacciata degl'imperiali d'Italia; solo
   non avrebbe mosso un dito per affrettarla. — Di Savoia non
   importa parlare; piccolo stato egli era e ad ogni moto ostile.
   — Firenze sola a sostenere la causa della democrazia; da tutti
   abbandonata e tradita, massime dai Francesi; poi dal Doria, da
   Siena e da Lucca: condizione degli animi dei Fiorentini spenta
   la Repubblica. — Lorenzino dei Medici a cui parve Bruto, che
   cosa paia a noi. — Perchè Cosimo I abbindolasse il Guicciardino.
   — Quale ragionevolmente lo scopo di Cosimo I dei Medici. — Pure
   in Firenze, Lucca e Siena bollivano umori vogliosi di novità.
   — Cose di Siena per mostrare come potesse favorire il moto del
   Burlamacchi. — Fabio Petrucci cacciato; mutazione del reggimento
   verso il principato per opera di Alessandro Bichi, che viene
   ucciso; i suoi aderenti. — Contese tra il popolo e i noveschi.
   — Noveschi che fossero e quanto arieggino coi moderati moderni.
   — Governo popolesco che pensi e che faccia. — Noveschi tentano
   pigliar Siena, sono ributtati. — Il Trecerchi alla porta di
   _Santoviene_, e donde questo nome. — Il popolo si vendica. —
   Caso del Bellarmati o di suprema virtù o di avarizia suprema.
   — I Sanesi procacciando i propri vantaggi mentre il papa e lo
   imperatore si versano in angustie si stimano astuti: necessità
   grande che avevano per andare cauti; pure screzio tra nobili e
   popoli circa al doversi sovvenire Firenze, e il popolo vuole. —
   Carlo vinta la guerra si scopre favorevole ai noveschi: invia a
   Siena Lopez perchè agguindoli con le frodi; non riuscendo, manda
   Ferrante Gonzaga onde adoperi la forza; l'adopera. I noveschi
   tornano a prevalere; si armano; tumulto dove il popolo si conduce
   in parte da esserci oppresso: questo consiglia il capitano
   Borghese, ma non gli danno retta, ond'ei se ne va con Dio. —
   Nuovo tumulto, dove i noveschi vengono abbattuti; ne arrovella
   il Gonzaga, minacce e pretensioni: — Ardire di Mario Bandino e
   di Achille Salvi. — I Sanesi attendono risoluti a difenderli. —
   Lo imperatore richiama il Gonzaga e il Lopez, e viene a patti.
   I noveschi rimangono abbassati. — Il duca Alfonso Piccolomini
   di Amalfi surrogato al Lopez si mangia le paghe di 300 fanti.
   — Noveschi più volte si adoperano ai danni del popolo, il quale
   avutone odore, combatte i noveschi, e non li perde a patto che,
   inquisita la cosa, si puniscano i rei. — Alfonso di Pietro
   paga per tutti. — Sorge la tirannide dei Salvi venuta su per
   favore di popolo, poi avversa al popolo ed a tutti. — Miseria
   universale. — Comparisce l'Occhino; qualità di lui. — Congiura
   con i Salvi; questi pigliano il dinanzi mettendo mano alle armi.
   — Il duca Alfonso seda il tumulto. I Salvi perdono riputazione;
   ricercati a seguitare le parti di Francia per danari e promesse,
   si lasciano corrompere: gl'imperiali scoprono il trattato; Giulio
   Salvi prima fa scappare il negoziatore francese, poi lo arresta
   e lo consegna a Cosimo duca di Toscana. — Nuovi sospetti per
   parte degl'Imperiali. — Il duca di Amalfi è rimosso da Siena. —
   Monsignore Granvela preposto alla riforma di Siena manda innanzi
   lo Sfondrato a scoprire marina. — Riforma del Granvela in che
   consistesse ed a qual fine preordinata. — I noveschi tornano a
   galla: cominciansi le persecuzioni contro i Salvi e i popolari,
   che vengono interrotte per la notizia del naufragio della flotta
   imperiale ad Algeri. — La balía entra in carica; sue provvisioni
   in parte ottime e in parte strane: se la piglia con le donne,
   mentre tutto il male viene dagli uomini. — Giulio Salvi scade
   di credito, chiamato in Fiandra è messo prigione, più tardi
   lo liberano: della sua prigionia come della sua libertà non se
   ne danno per intesi i Sanesi. — Lo Sfondrato finchè promuove i
   noveschi lasciasi fare; più tardi, scoperto ch'egli favorisce
   il papa, è licenziato. — Gli subentra don Giovanni De Luna,
   che pure parteggia pei noveschi. — I Farnesi molestano Siena,
   per interposizione dello imperatore lascianla stare. — don
   Giovanni con la opera dei noveschi trama insignorirsi di Siena:
   tracotanza dei noveschi; il Tondi novesco ammazza il Bianchino
   plebeo e ne sorge tumulto. — Eccitamenti a romperla; capestri
   appiccati agli usci delle botteghe del popolo. — Apparecchi di
   nozze della figlia di don Giovanni sono argomento di sospetto.
   — I noveschi confidano fare eleggere capitano del popolo uno di
   loro, ed invece esce un popolesco; lacci tesi al popolo perchè
   concorra alle feste, e quivi a mano salva opprimerlo; avvisato
   ei gli evita. — I noveschi primi a rompere la guerra; battaglia
   cittadina descritta; vari casi di quella. — Cosimo duca di
   Firenze accosta le sue bande ai confini. — Milizie del contado
   in città; don Giovanni fa che le bande del duca si ritirino. —
   I popoleschi mandano oratore al marchese del Vasto perchè tenga
   bene edificato lo imperatore. — Consulta popolesca intorno il
   da farsi: diversi pareri; prevale quello di Antonio dei Vecchi.
   — Noveschi cacciati dal reggimento. Don Giovanni lascia Siena e
   cita a comparire in corte imperiale parecchi cittadini. — Guardia
   spagnuola cassata. — Città ripartita in tre soli ordini. — Luna
   manda oratori a congratularsi in Siena. — Baldanza dei popoleschi
   fondata sopra gl'imbarazzi di Carlo e su la protezione del
   marchese del Vasto, il quale mentre sta in Vigevano su le mosse
   per Siena di un tratto muore; dicesi per veleno propinatogli
   da Cosimo dei Medici. — Per la costui morte mutano di cima in
   fondo le condizioni di Siena; da capo torna la pratica in mano
   al Granvela nemico a vita tagliata del popolo. — I noveschi
   di nuovo a galla. — I cittadini citati da don Giovanni a corte
   inesorabilmente confinati parte in Lucca e parte in Milano; il
   Savini confinato comunque capitano di popolo per cordoglio ne
   muore; i cittadini gli surrogano nell'ufficio Enea suo figliuolo
   venticinquenne. — La città restaurata al governo dei Quattro
   Monti. — Guardia spagnuola prima di 400 Spagnuoli, poi a cagione
   del rammarichio dei cittadini cresciuta fino a 500. — Si mulina
   la fabbrica di un castello. — Sanesi frementi della novella
   tirannide e smaniosi di gittarsela giù dal collo.


Fin qui di Europa; adesso più peculiarmente d'Italia; innanzi tutti
del papa. Dopo il concilio di Trento con menzogna onesta i figli dei
preti appellaronsi nepoti, prima addirittura figliuoli; nè questo era
il peggio, chè il maggior danno consisteva nello sbranare un lembo di
stato per gittarlo sopra le spalle ignude di costoro; ai quali lembo,
invece di attutire la fame, cacciava addosso la smania di arraffarne
un altro; per uno, avuto in dono ne rubavano quattro; l'appetito
viene mangiando; e tuttavia nè anco questo si considerava il pessimo,
e pessimo veramente appariva quel buttarsi che facevano i papi in
abbandono dei figliuoli quanto più rei ed infami: e tale apparve Pier
Luigi Farnese figlio di Paolo III; di lui narra la storia nequissimi
fatti non meno che turpi, i quali negare è vano quanto indecente
ripetere, e pure sembra che qualcheduno dei più tristi ella ne taccia,
imperciocchè nelle storie di Benedetto Varchi occorra scritto come il
marchese Del Vasto lo cassasse con ignominia dalla milizia, nè per
quanto io mi sia dato cercare, mi venne fatto scoprirne la causa. A
costui pertanto, scerpandolo dal patrimonio della Chiesa, il papa
diede Castro; poi instò con focosa ressa perchè lo imperatore gli
concedesse il marchesato di Novara, e lo ebbe, piccolo sorso a tanta
sete! Allora il papa torna a schiantare il retaggio di san Pietro, che
povero e pescatore dalle reti e dalla barca in fuori altra sostanza
non ebbe nel mondo, e scissene Parma e Piacenza, ne compone un ducato
in prò del suo diletto Pierluigi. È noto come a questo sperpero della
sostanza chiesastica si opponesse tenace il cardinale Caraffa, che,
assunto papa, fece peggio di lui: ma il papa toccare questi beni in
sollievo della comunità cristiana non può, può toccarli e sprofondarli
in vantaggio degl'indegni congiunti: si conosce eziandio che tali
donazioni non avvengono senza fingerle permute utili, ed anco si dà
ad intendere che le siano proprio vendite: a turpe causa non fece mai
difetto pretesto degno, massime nella curia romana; ma fin qui non
nacquero le mani per contare il prezzo pagato dai figliuoli dei papi
per la terra acquistata dalla Chiesa.

E sempre intento Paolo ad ingrandire la famiglia, fantastica
conquistare Napoli contro allo impero, poi sollecita importuno e
irrequieto lo imperatore affinchè investa Pierluigi del ducato di
Milano, insidia Siena; a tal fine elegge il cardinale Farnese abbate
dell'abbazia delle Tre fontane su quel di Siena, meno per crescergli
il censo che per mettergli in mano il filo a ingarbugliare le cose.
Cotesto tramestío dei Farnesi aborrito dai principi italiani o per
astio o per istudio di concorrenza o per paura: contrastavano loro
Siena Cosimo e forse il marchese del Vasto, Milano Ferrante Gonzaga
e Andrea Doria, donde le mortali nimicizie contro di lui, le mutue
ingiurie, come esposi nella vita di Andrea, e per ultimo la parte presa
dal papa nell'omicidio di Giannettino e la parte di Andrea nella strage
di Pierluigi. In casa, il papa odiato perchè a sè tutto ed ai suoi a
scapito dello stato; a Roma forse meno che altrove, anzi da parecchi
riverito come quello che a molta gravità, alla pratica lunga dei negozi
ed al sapere accoppiava la grandezza romana; nelle provincie secondo il
solito esecrato, chè Bologna, Perugia, Ancona ed altre città non poche
membravano nel loro segreto le violenze e i tradimenti onde tolte dal
vivere o libero o autonomo erano state poste sotto al romano giogo, che
solo i preti chiamano soave. Lo dissi altrove e lo ripeto qui, tentando
pure che replicato venti volte gl'Italiani l'abbiano ad intendere una:
narrano che i Lacedemoni costumassero in guerra paludamento vermiglio,
perchè pugnando o non vedessero o si accorgessero meno del sangue e
non isbigottissero; se vero, è incerto: certissimo poi che i preti
elessero la porpora perchè altri non li mirasse imbrodolati del sangue
dei popoli e non li maledisse. Pertanto negli stati del papa molte
e vecchie e nuove le cause per desiderare novità, oltre la eterna
e distinta da tutte della naturale irrequietudine dell'uomo che lo
sospinge a non contentarsi mai dello stato presente; provvidenza o
fato, donde la inanità dei farabulloni, i quali di tratto in tratto
bandiscono chiusa l'era delle rivoluzioni: anco la morte è inizio di
nuova rivoluzione.

Genova o piuttosto il Doria si governava col volgare precetto, chi
stà bene non si muova. Se egli avesse motivo privato di odio contro
i Farnesi prima dello spoglio del retaggio del cardinale Doria che
i Farnesi operarono in Roma e della complicità loro nella congiura
dei Fieschi adesso non ci è dato conoscere; ma per avversarli a lui
bastava che e' volessero ingrandirsi, dacchè ben'egli si adattava
a servire per suo interesse un signore potente e lontano, vicino e
meno potente ei lo avrebbe combattuto; non pativa emuli, molto meno
superiori ricchi di superbia, non già di pecunia: ancora, Andrea Doria,
mutata parte, di francese si era fatto imperiale, e Pierluigi si sapeva
parzialissimo alla Francia, ossia che colà per naturale inclinazione
propendesse, ossia che con essa giudicasse dare miglior ricapito ai
suoi disegni, onde Andrea presentiva che di qui, se non provvedeva,
gli sarebbe caduto sulle spalle qualche grosso stroppio. Non già che ad
Andrea mancasse anima per maggiori concetti, ma ormai, non gli parendo
possibile di meglio, si teneva contento ad essere principalissimo
vassallo dello impero, padrone e guidatore delle sue armate; in patria
in apparenza uguale ai maggiorenti, in sostanza capo, e ciò perchè la
sembianza del principato genera invidia, e massime su i primordi ti
tocca logorare le forze e vivere in pericolo, mentre, chiamando i tuoi
cittadini a parte dei tuoi guadagni, ti ameranno, e, a patto che tu non
porti corona, a loro parrà non essere servi e ti obbediranno di cuore.
Però Andrea nemico di novità era, e ne aveva ben donde, ma distingui
quelle cui poteva dare impulso un principe italiano per ingrandirsi
alquanto dalle altre che prorotte da impeto di popolo avessero per fine
la restaurazione d'Italia a potentissimo stato: queste egli giudicava
inani a tentarsi, impossibili a compiersi; tuttavia è lecito credere,
che s'ei le avesse vedute niente niente attecchire, egli ci si sarebbe
gettato dentro anima e corpo per condurle a buon fine: almeno in
coscienza a me sembra avere a giudicare così.

Venezia fin da cotesto tempo si trovava ridotta alla parte di colui che
ripara con la mano il lume per tema glielo spenga il vento; sicuro, il
lume allora era di torcia, ma gli speculatori calcolavano di mano in
mano si sarebbe ridotto a moccolo: sapienza suprema di regno mantenersi
fermi; il moto in certe contingenze nuoce anco per acquistare: la
storia della repubblica va illustre per nuovi gesti che aumentano il
retaggio di gloria e stremano le forze dello stato: chi solo conserva
perde, perchè da per tutto il tempo va dintorno con la forbice, e
se non apponi ogni dì, ogni giorno scemi. Questo, a giudicare così
all'ingrosso, sembra il fato delle repubbliche aristocratiche: finchè
non possiedano tanto che basti tu le vedi adoprare conati stupendi
per procurarselo; ma acquistato ch'ei sia, pongono industria e
tenacità pari a difenderlo; donde avviene che durano molto. Però
durare non significa vivere come a popolo conviene, sicchè non si
sa che lode fosse quella che tributava l'Alfieri alla Repubblica
veneziana quando scriveva che, o decrepita o inferma o spenta, in fatti
ell'era la figliuola più longeva del senno umano, e voleva la Grecia
ci si adattasse: anco Titone ottenne durare immortale, ma essendosi
dimenticato di chiedere altresì eterna la giovinezza, all'ultimo ebbe
di catti che gli dei mossi a compassione lo convertissero in cicala. I
Veneziani però non si sarebbero opposti ad un moto inteso ad abbattere
il predominio imperiale sopra l'Italia; solo non lo avrebbero aiutato,
a cavallo al fosso aspettando gli eventi per regolarsi a norma della
piega ch'essi pigliavano. —

Della casa di Savoia non è da parlarsi nè manco; il duca riparava
in corte allo imperatore assai male in arnese, privo del paterno
retaggio, eccetto Nizza, che sempre gli si mantenne fedele e ne fu
rimeritata allorchè recisa dalla patria italiana la buttarono in gola
alla Francia, a mo' che i poeti finsero chiunque intendeva trapassare
a Dite dovesse gittare l'offa a Cerbero. Emmanuele Filiberto per
intercessione della Spagna rientrava in possesso dello avito ducato
dopo la battaglia di San Quintino, e subito s'imparentava co' reali
di Francia mostrando il viso dell'arme alla Spagna: sicuramente,
fra i tanti pregi che illustrano la stirpe sabauda non ismaglia la
riconoscenza, ma forse questo è vizio piuttosto del principato che del
principe: a giudicarne dagli istinti, un moto di popolo dai duchi di
Savoia non poteva aspettarsi altro eccetto odio e, se fosse stato in
potestà loro, persecuzione. La repubblica di Firenze certo non andò
immune da errori e nè da colpe, ma fu sola a sostenere la causa della
democrazia: nella mirabile impresa contro lo impero e il papato, doppia
ancora gittata nello inferno, onde la tirannide mantiensi a galla sopra
la terra, veruno la sovvenne, molti le nocquero, e primi fra tutti
i Francesi, i quali dopo averla tradita la irrisero: allora, come
sempre, tirati dallo interesse presente, non calse loro nè di onore
nè di fede, anzi neppure del proprio interesse di prossimo avvenire:
rinfacciati, inferocirono nella ingiustizia fino ad impedire che i
mercanti fiorentini di Lione le inviassero soccorsi di pecunia; potè
sguizzare fuori di Francia con qualche scudo italiano Luigi Alamanni,
ed indarno, perchè quello che non seppero fare i Francesi, Andrea
Borialo seppe, fermando Luigi su quel di Genova, togliendogli di ire
più oltre. Siena si professava imperiale, e Lucca altresì, onde esse
in sè atrocemente chiudevansi non dubitando neppure che, prevalsi in
Italia lo impero o il regno di Spagna, imperatore o re sariensi scosso
dal manto coteste repubbliche come due insetti schifosi sofferti per
cessata mondizie. Firenze giacque non tanto per virtù di forza nemica
quanto per iscoramento della sua solitudine; molto sangue ella sparse
su i campi di battaglia, e molto ne andò sperperando nello esilio, ma
il peggiore guaio le venne dal rappigliarsi che fece quello che rimase
in patria: la più parte dei cittadini si accartocciò sprofondandosi
nelle cure di famiglia e nelle industrie private; in taluno l'amore di
libertà, pigliata indole religiosa, diventò di operoso contemplativo,
scapitando di limpidità intellettuale quanto acquistava di cupezza
fanatica. Il popolo sopportò il bastardo di Clemente VII senza rancore
perchè, spento un tiranno, ne temè un altro più tristo, come accadde
pur troppo; ed anco perchè lo vedeva infierire di preferenza su
quelli che lo avevano aiutato a ridurre la patria in servitù; e non
il popolo lo trucidava, bensì uno de' suoi, non per amore di libertà
e non per odio della tirannide, sibbene del tiranno, e per talento di
succedergli; costui chiamò il popolo a libertà, ma al popolo giungeva
ignota cotesta voce, e così doveva essere, però che il popolo libero
non conosca chi non avendo nè anco il coraggio della strage si unisce
per consumarla un volgare scherano, e del suo fatto trema, e lungamente
dura lenone per riuscire traditore. A Filippo Strozzi, uomo corrotto
fino al midollo, poteva parere Lorenzino dei Medici un Bruto; a noi
no: ammazzatore a mezzo, non altro; ed anco a lui procede sviscerato
Vittorio Alfieri, il quale su cotesta strage compose una maniera di
poema che tuttavia stampano ma non leggono; tratto più da passione che
da ragione, scambiando la smania di opporsi coll'amore della libertà,
avveniva che il dabben conte pigliasse delle cantonate e di molte.
Cosimo successe diciottenne ad Alessandro, ma il tiranno non cresce per
età, quale lo trasse dalla pietra natura, tale muore Cosimino; gabbò
il Guicciardino, e gli fu agevole, perchè, innanzi ch'ei lo gabbasse,
per lo interesse, che assai poteva su cotesto uomo, egli gabbava
sè; e di ciò rimangono avvertiti i pusilli incoronati ch'eglino mai
arriveranno ad abbindolare un grande intelletto dove questi mosso da
passione non faccia prima géttito del suo ingegno. Più tardi quando
gli Strozzi, i Valori con altri fuorusciti vennero ai danni di Cosimo,
il popolo, levato appena il capo, disse: «La rabbia è tra i cani»; e
lo riabbassò. La tirannide vendicava la libertà; dopo avere fabbricato
il tiranno, cotesti cervelli balzani repugnavano servire; non vollero
dirsi soddisfatti della mercede loro elargita dal principe; parecchi
pretesero essere chiamati a parte della dominazione: ma poichè amore e
signoria non patono compagnia, il principato, non bastando a quietarli
l'oro che loro mise in mano, li saldò con la scure sul collo; e fece
bene. Che Cosimo aspirasse al dominio della Italia può darsi, ma fine
di regno non se lo poteva proporre; non si prestava la materia; quando
l'aquila austriaca spiegava poderose l'ale, a lui era dato appena fare
da falco; agguattato a Firenze, quinci rotava intorno a Piombino, a
Siena e a Lucca. Piombino acquistò e Siena, ma con tanto consumo di
mente e di forze che la carne non valse il giunco. Lucca non ebbe mai;
lei salvarono la forma oligarchica, lo spendere a tempo e la devozione
sconfinata allo impero; dissi salvarono, se può chiamarsi salute il
palpitare del passero fra gli artigli dell'aquila: tuttavia Siena,
Lucca Firenze raccoglievano in sè copia di umori per desiderare novità
e provocarle.

Parliamo di Siena. A Pandolfo Petrucci succede Fabio figliuolo, il
quale non sapendo governarsi nè con la benevolenza nè col terrore, cade
in discredito ed è cacciato; dopo il suo bando accadde grandissima
mutazione nel reggimento, chè dove prima si governava mediante tre
monti, ovvero ordini di cittadini cioè Nove, Popolo e Gentiluomini,
di un tratto, soppressi gli altri, ne rimase in piedi uno solo che
pigliò nome di Nobili e Reggenti; di tutto questo tramestio anima
Alessandro Bichi figliuolo di Iacopo, che nello assedio di Firenze
operò tanti e generosi gesti, il quale si andava destreggiando per
soverchiare altrui; nè gli fallì il disegno ponendo a fondamento di
sua grandezza l'aiuto di Francia: arduo a giudicarsi se la Francia
prospera lo avrebbe soccorso, ma percossa dalla fortuna a Pavia, lo
lasciò andare, ond'ei vi perse la sostanza e la vita. Restituisconsi
i tre ceti dei nove, del popolo e dei gentiluomini; parecchi dei
principali fautori del governo abolito si bandiscono, i quali mandano
a soqquadro il contado: una volta con Lucio Aringhieri ed un altra
con Giovambattista Palmieri essi congiurano per rientrare in Siena
con forza e con inganno, e ad altro non approdano che a far perdere
il capo ad ambedue. Data all'esercito di papa Clemente una stupenda
rotta, rapite ai Fiorentini e ai Perugini le artiglierie, quietarono
i Sanesi ogni apprensione di fuori, ma tornarono a infierire le
discordie dentro; perchè i partiti, se un poter forte li soprasti,
possono reggere per via di emulazione civile, ma se nulla li tenga
al canapo, irrompono in aperte contese; che se tu vedi i signori
smaniosi di comando, trovi eziandio il popolo intollerante di qualunque
freno; allora la plebe diede di fuora e corse addosso ai noveschi,
che troppo bene lo meritavano, imperciocchè questi, componendo una
consorteria soverchiatrice e ladra, avessero asciugato quanto danaro
avevano reperito nello erario, onde fu mestieri sopperire col rame ai
metalli preziosi portati via; e peggio ancora a patto di arraffare
e di opprimere congiuravano ad asservire la patria a Clemente VII,
il quale, purchè venisse roba, non guardava più alla via diritta che
alla storta; anzi un po' di sangue fa fare miglior presa alla calcina
con la quale si murano le tirannidi nuove; e Ancona informi; però
in questo tumulto la plebe vi pose le mani, ma non pochi nobili e
borghesi ci soffiavano dentro per emulazione dei nove. Gli storici
gentileschi deplorano la città cascata in mano ai ciompi, e tuttavia
miriamo questa gente grossiera e meccanica governarsi ottimamente;
munisce la città di mura e di torrioni, provvede alla diffalta della
pecunia pubblica, tiene ferma la città in devozione allo impero, la
difende dal principe di Oranges e da Pirro Colonna che la insidiavano.
I noveschi fuorusciti si mordevano le mani: un pezzo aspettarono che
il governo dei ciompi si sperperasse sotto i colpi delle loro scede,
ma poichè videro che costoro non se ne davano per intesi, ricorsero
ai fatti e, raccolto buon polso di armati, notte tempo avviaronsi
a sorprendere Siena: se non che trovarono i cittadini in punto di
riceverli secondo i meriti; gli storici affermano che della mossa
dei noveschi furono avvisati da Fabio Petrucci venuto a screzio col
congiunto Francesco uomo soperchievole e contumelioso. In questa
occasione si narra come un giovane dei Trecerchi, non curando pericolo
di essere morto dagli archibugi e dai sassi e nè anco di cadere
prigione, trascorresse fino alla porta Eugenia o _Santoviene_[12] e
quella percotendo con la mazza ferrata con gran voce sclamasse: «E noi
tante volte tenteremo che una basterà per tutte.» La balía popolesca
di Siena, vinto il pericolo, pensò vendicarsi, e gli riuscì, pigliando
Monte Benichi alla sprovvista, dove assai dei noveschi come in fidata
stanza si riparavano; avutili in mano, a varie pene li condannò. Fra
gli altri merita ricordanza questo caso: a Ippolito Bellarmati mettono
addosso la taglia di mille scudi con questo patto che, dove dentro
tal tempo non li paghi, gli verrà mozzo il capo; ed egli antepose
perdere la testa che i ducati: dicono che il facesse per amore della
famiglia (imperciocchè, sentendosi vecchio e di salute malescio,
considerasse che non valeva il pregio mantenersi in vita con la ruina
della famiglia), e sarà; ad ogni modo non mancano esempi nella storia
che altri a pari fato si conducesse per aspra avarizia, e mi riesce
disagevole persuadermi che per mille ducati potesse cascare in tanta
miseria la famiglia dei Bellarmati.

Nella guerra di Firenze per la libertà i Fiorentini mandarono oratori
a Siena per istringersi in lega. Siena tentenna e si destreggia,
parendole essere arguta; approfittando della occasione, cava di sotto
a Clemente papa ottimi patti; nè questi stava su lo spilluzzico,
chè, premendolo il bisogno non istava a guardare il nodo nel giunco:
agevole co' principi farsi promettere in bosco, farsi poi mantenere
in città gli è un altro paio di maniche: anco romperla coll'impero
tuttochè impegnato in guerre zarose per Siena la era faccenda da
pensarci due volte; molto più, che i noveschi in corte non rifinivano
di tafanare Carlo V perchè mettesse con le spalle al muro cotesta
plebe turbolenta; non desse retta alle sue lustre di devozione, così
costretta di fare perchè non poteva mordere; ella per istinto nemica
ad ogni potestà, mentre essi per diverso istinto erano alla potestà
naturale puntello, e dicevano il vero, ma predicavano al predicatore
che Carlo sapeva meglio di loro che col popolo non si può fare a
mezzo, perchè nelle repubbliche democratiche il popolo governa ed è
governato, mentre nelle oligarchie gli è come proprio istituto dei
signori, prepotenti ad un punto e servili, abiettarsi da un lato per
superbire dall'altro. Nondimanco vuolsi rammemorare che un oratore
fiorentino durante l'assedio presso i Sanesi sempre stette, e narrano
di più che ci spendesse un tesoro per tirarli a legarsi con Fiorenza; e
sarà, eccetto il tesoro, chè, sendone strema in casa, mal si comprende
com'ella lo potesse sbraciare di fuori; fatto sta che il popolo, il
quale si governa con la passione, voleva ad ogni costo sovvenire i
Fiorentini, mentre gli altri, usi a procedere col compasso in mano,
con ostinazione punto minore contrastavano, donde nacque tumulto, e
per poco stette che il Fantozzo plebeo non ammazzasse Gianfrancesco
Severini. Posto fine alla guerra di Firenze, lo imperatore comincia
ad allungare gli ugnoli contro la democrazia sanese, mandando a Siena
col modesto titolo di agente Lopez di Soria perchè così alla sordina e
di scancío procurasse ricondurci i nove; costui trovati sordi al suono
di cotesta campana i Sanesi, Carlo ci inviò don Ferrante Gonzaga, che
era in fama di piacergli le cose spiccie, e perchè le ruote girassero
meglio, i nove ci versarono dentro un quindicimila scudi; allora il
Gonzaga sorprende Lucignano e lo piglia, poi prosegue in Pienza e quivi
minaccioso stanzia; dei Sanesi chi teme, chi va su i mazzi, ma i primi
sono i più e prevalgono i partiti peritosi, sempre esiziali: insomma il
Gonzaga rimette i nove in Siena, li restituisce nelle sostanze e negli
onori; la città non in tre ma sì in quattro Monti si divide, Popolo,
Gentiluomini, Riformatori e Noveschi; il Lopez ai soldati nostrani
surroga spagnuoli, da prima pochi, poi mano a mano gli augumenta fino
a 400: all'ultimo tanto si armeggia per parte dei noveschi che è data
licenza ad Alfonso Piccolomini duca di Amalfi, capitano del popolo
e reputato zelatore della parte popolesca. I noveschi, sentendosi il
vento in filo di ruota, ambiscono a cose maggiori; chiedono le armi,
e il maestrato, invece di tôrle a tutti gli ordini dei cittadini, le
concede anco a loro; il capitano Giambattista Borghese, che vedemmo
nella vita del Ferruccio combattere infelicemente in Volterra contro
l'eroe fiorentino, ne fa incetta a Firenze e le manda ai noveschi,
poi tiene loro dietro: il popolo inasprito da quotidiane ingiurie si
rovescia per le vie provocando i noveschi, i quali bene in arnese si
stanno a riparo dei propri palagi, per lo che imbaldanzito il popolo si
caccia in parte dove dinanzi e dietro ha nemici; preso come dentro alla
morsa, poteva di leggieri opprimersi, e questo voleva, questo ad alta
voce domandava il capitano Borghesi, ma anco qui prevalsero i consigli,
i quali vergognando di mostrarsi vili pigliano sembianza di prudenti,
ond'egli incollerito esclamando: «Poichè voi non volete vincere, gli è
chiaro come l'acqua che volete perdere, e questo non voglio io», se ne
andò via senza pure chiudersi l'uscio dietro. E così fu, perchè indi a
breve, incamminandosi don Ferrante fuori del dominio sanese, e stando
l'animo dei popoli sollevato, accadde che un vento impetuosissimo,
diverte certe impannate, le sbatacchiasse sopra la tettoia di talune
botteghe del Chiasso largo; dal quale strepito il popolo commosso saltò
su a dare la caccia agli aborriti noveschi, di cui taluno ammazzò,
molti manomise, nè si rimase finchè non gli ebbe del tutto spogliati
dell'arme con tanta pertinacia volute e con tanta baldanza ostentate:
intendeva altresì mandarne a sacco le case, ma, abbonito da personaggi
autorevoli, ne depose il pensiero, non intieramente così che qualche
cosa a taluno non rimanesse appiccicata alle mani.

Don Ferrante, uso a volere le sue parole e più i suoi fatti, appena
udito il caso, tenendosi scornato, rifece i passi macchinando vendetta;
se non che, avvertito dal Lopez che si giocava di grosso a partita
mal sicura, si fermò a Cuna; quivi di un tratto furono a trovarlo i
noveschi con querimonie infinite; anco il Lopez lo metteva su, e non ce
n'era di bisogno; ond'ei fece intendere che se la città non si fosse
rimessa in lui interamente, guai! E quello che egli pretendeva era
la intera alterazione degli ordini della città, e poichè conferendo
assieme con gli oratori di Siena sovente scappava fuori in improperi
contro parecchi orrevoli cittadini sanesi, Mario Bandini e Achille
Salvi, sentendosi fra i vituperati, presero il morso ai denti e
recaronsi a don Ferrante dicendogli le proprie ragioni con maggiore
avventatezza che forse non conveniva. Don Ferrante rispose cacciando
entrambi in prigione, e ciò non solo per ira quanto perchè gli
accertava il Lopez che, levati di mezzo cotesti due potentissimi non
meno che turbulentissimi, il popolo aría dato le mani vinte. Pigliare
il popolo a contrappelo gli è come giocare ad asso o a sei: qui don
Ferrante fece asso; i Sanesi montarono in furore e con senno e celerità
mirabili strinsero il comando in mano a pochi, chiamarono le milizie
del contado, ne condussero nuove, eglino stessi con le armi assunsero
disciplina di soldato e dalle vigilate mura fecero prova che contro
al mare del popolo che vuole misera cosa è sempre un esercito regio,
rigagnolo di plebe o compra o cappata a forza alla quale si pretende
dare ad intendere che sia gloria per quattro quattrini al giorno ed un
pane di cenere apprendere l'arte di ammazzare gli uomini senza saperne
come senza curarne il perchè. Intanto il Bandini, rotta la inferriata
del carcere, fatta fune dei lenzuoli, calandosi giù se la svignava;
al Salvi indi a poco il Gonzaga per meno tristo consiglio rendeva la
libertà, scapitando e non poco di reputazione anco per questa parte,
dacchè all'autorità dello imperio male si provvede con la ingiustizia,
ma se chiarisci poi che come hai l'animo di commetterla ti mancano
le forze per sostenerla, allora di odiabile diventi contennendo, e il
disprezzo del popolo è l'agonia del potere.

Carlo, e con Carlo tutti i principi, non sapendo come uscire
d'impaccio, richiamato il Gonzaga, gli sostituiva il marchese
del Vasto; al Lopez il duca di Amalfi, accetto al popolo: ad ogni
differenza fu messo buono assetto; solo lo imperatore tentò far passare
che la balía si eleggesse dal suo rappresentante, e non l'ottenne;
allora avvisò un altro tiro, e fu, che la città votata di milizie
nostrane la presidiassero 500 Spagnuoli, e l'ottenne, se non che il
senato invece di 500 ne ammise 400, riputando follemente col tosare
la moneta avergliela barattata; però quello che non fece il senno
operò l'avarizia, dacchè, essendo stati stanziati al duca di Amalfi
scudi 6000 all'anno per sostentamento dei 400 pedoni, egli ne teneva
su soltanto 100 e degli altri 300 sgallinava le paghe: antico male la
flussione delle unghie, e a rari non si attacca. Quando lo imperatore
nel 1532, affrancatosi della guerra del Turco, venne a Bologna per
passare in Ispagna, non mancarono i noveschi di fargli calca dintorno
mostrando voglie prontissime a servirlo di coppa e di coltello in ogni
suo desiderio, solo alquanto gli sovvenisse a riaversi in casa, dove si
trovavano ad essere trattati poco men peggio di schiavi alla catena; ma
il marchese Del Vasto e il cardinale Piccolomini, attestando la loro
malignità ed il considerarsi servi se non insolentivano oppressori,
resero innocui i lamenti, ed anco la cura di negozi gravissimi e
la prescia di Carlo di portarsi in Ispagna fecero sì che per allora
riuscissero inani.

Dopo avvennero vicende grandi così in casa come fuori che non importa
narrare per lo scopo nostro, basti saperne tanto che, lo imperatore
essendo tornato in Siena, i noveschi inviperiti più che mai anfanarono
a mettere male biette perchè calpestati gli altri ceti di cittadini
desse loro braccio per comportarsi da tiranni; ma l'imperatore aveva
altro a pensare in quel torno, chè il Turco entratogli in Ungheria
minacciava Vienna; però appena uscito, le fazioni dei popolani e dei
riformatori deliberarono vendicarsi colle armi, le quali consentirono
a posare solo col patto che un magistrato eletto a posta ricercasse
sottilmente la cosa e venutone in chiaro i colpevoli multasse nel
capo; e così come vollero fecero; quattro deputati segreti, messe
la mani addosso ad un Alfonso di Pietro, torturaronlo e dopo la
confessione del reato imputatogli gli fecero mozzare il capo: uno pagò
per tutti, imperciocchè le fazioni sboglientite aprissero l'animo
a senso di misericordia, consentendo non si andasse più oltre nel
sangue. Le fazioni o vogliam dire i monti di Siena congiunti per domare
la insolenza dei noveschi dopo la vittoria, come sempre avviene,
partironsi, e ciò perchè la prosperità paia proceder nemica alla
modestia; e nè anco fu colpa di fazione, bensì di persona, la quale si
chiamava Giulio Salvi, che s'ingrandì con la plebe; costui, potente di
numerosa famiglia (i suoi fratelli sommavano ad otto, tutti prestanti
nelle armi), forte di aderenze, cupido, povero, magnifico, di persona
piacente, alle femmine grazioso, prese a comporre intorno a sè una
nuova consorteria di soperchiatori (tiranno non si fece, perchè gli
mancò lo ingegno o la potenza); sicchè in breve non poterono sopportare
i soprusi loro non dirò gli avversi, ma gli stessi parziali; offese nei
cittadini, violenze in femmine, furti in città, latrocinii in campagna,
omicidii da per tutto, e tanto era diventata infame la contrada che il
papa e il duca Cosimo provvidero i procacci per a Roma, tralasciata la
via attraverso il dominio sanese, per altra passassero; oltre a ciò
infestavano i Turchi, la carestia angustiava, insomma un subbisso.
I reggitori, sfidati di ogni terreno aiuto, correvano al cielo;
processioni, giubilei, indulgenze e la Madonna avvocata dei Sanesi
in giro; i frati di ogni risma in ballo, neri, bigi, bianchi e colore
marrone; cantilene a iosa: ma intanto che si consumavano torchietti non
si trovava grano; per arroto nella notte uscivano fuori i battuti che
si davano di sconce battiture sopra le spalle ignude, e ciò importava
consumo di cerotti, non già acquisto di pane. In questa occasione
compariva in Siena sua patria Bernardino Ochino rigidissimo frate e
per dottrina teologica preclaro: fu prima minore osservante, poi della
riforma dei cappuccini, ch'egli con sommo ardore promosse; poi con
pari zelo, anzi maggiore, si voltò contro Roma e di fiere battiture la
percosse. Roma lo scomunicava eretico, e se gli avesse potuto mettere
le mani addosso, lo avrebbe illuminato acconciandolo dentro una catasta
di legna, ma egli non si lasciò cogliere nè illuminare; e noi non lo
potendo salutare filosofo, lo celebriamo come uno dei più poderosi
demolitori della oggimai sazievole menzogna della religione cattolica
romana.

Poichè la gente si accôrse che il cielo badava ai fatti suoi, ella
avvisò cercare rimedio in terra. Parecchi cittadini dei principali
convennero a Crevole coll'arcivescovo per pigliare partito, i quali
dopo molto discutere, non ci trovarono altra via che abbassare la
superbia del Salvi con le armi, e a tale effetto recaronsi in varie
parti del contado per raccogliere gente ed avviarle a Siena; ma la cosa
non potè tanto tenersi celata che non la spillasse il Salvi, il quale,
a sua posta riuniti gli aderenti, si capacitò che di côlta sono buone
le sassate, epperò chi prima assalta ha un punto di vantaggio su lo
assalito; quindi subito mano alle armi, e così come dissero fecero;
gli emuli, côlti alla sprovvista, resisterono con ardimento supremo,
ma si vedeva chiaro che all'ultimo ne avrebbero tocche, se non che di
un tratto ecco versarsi per le strade il duca di Amalfi col presidio
spagnuolo per iscompartirli, e vi riuscì adoperandoci amorose parole
e picchi da orbi; se questi vincessero in virtù quelle, e se quelle
questi, non ci è noto; basti sapere che entrambi valsero per allora a
sedare il tumulto.

Lo imperatore di queste discordie cittadine non si pigliava pensiero
o poco, e forse anco che così fosse gli giovava; ma quando avvenivano
cose che toccassero i propri interessi, egli ed i suoi mostravano
i denti. Ora accadde che la fazione dei Salvi andasse di dì in dì
declinando, non già per solerzia altrui, bensì per vizio proprio;
chiunque intenda prevalere, se venuto a contesa non vince, perde;
impattarla non giova, gli è come persa. I Salvi si sentivano mancare
il terreno sotto e non si rendevano capaci delle cause; questo però
si faceva loro sempre più chiaro, che senza aiuto non potevano tirare
innanzi, e da parte dello imperatore se non erano anco inimicati alla
scoperta con lui, tuttavia di là miravano addensarsi la procella. Per
mala ventura loro capitò in Siena uno armeggione chiamato Ludovico
delle Armi, il quale si mise a sobbillarli: non dessero tempo al tempo;
scostandosi dallo imperatore si gittassero in balía della Francia, che
gli avrebbe accolti a braccia aperte; sotto la protezione di cotesto
potente reame si sarebbero potuti dire veramente e sicuramente primi;
e poi o che volevano mettere la generosa natura del re di Francia
con la crudele taccagneria di Carlo? Intanto ecco egli mandava loro
danari, ed essi gli agguantarono; inoltre promesse a carra, ed essi
le crederono, perocchè gradevoli fossero ed accomodate ai fatti
loro. Già anco condotte tra prudenti e pochi le congiure vengono per
ordinario a scoprirsi, pensiamo poi se tra giovani che si portino il
cervello sopra la berretta; però l'oratore di Carlo V a Roma, ammonito
partitamente della cosa, scrisse una lettera terribile al duca Alfonso
addossandogli tutta la colpa di coteste rivolture. Al duca erano
graditi i Salvi, ma i propri comodi troppo più dei Salvi; onde non è da
dire con quanta e quale squartata mandasse sottosopra messer Giulio;
che sbalordito non negò la pratica, ma l'appose al fratello Matteo e
intanto diede opera che Ludovico si cansasse; se non che, per questo
fatto tempestando il duca, costui con nuovo tradimento fece in modo
che Ludovico fosse prima sostenuto a Montevarchi, poi consegnato al
duca Cosimo, il quale avutolo nelle mani e chiusolo in castello, senza
mestieri tormenti, ritrasse da lui l'ordine della congiura; gli è ben
vero che Ludovico non si rimase da vituperare il Salvi per traditore
doppio, ma per allora il negozio rimase sopito: però ben la segna chi
la nota, e quinci a pochi mesi, essendo tornato di Francia Girolamo
Luti soldato di conto negli eserciti del re, i nemici del Salvi furono
agli orecchi degli agenti imperiali aizzandone il sospetto e l'acre
zelo del servitore pagato: ma per quanto imprigionassero il Luti e
con tormenti lo dirompessero, pure da lui innocentissimo non poterono
cavare riscontro al sospetto. Messere Giulio e il duca, per ischermire
il colpo, recaronsi in poste a Milano, dove era pur dianzi giunto
lo imperatore, ma questi li rimandò per la udienza a Lucca; colà gli
udì e con esso loro gli emuli, e concluse commettendo al Granvela il
negozio della riforma del reggimento di Siena: questi, non si sentendo
abbastanza informato per pigliare una risoluzione, licenziò tutti
dichiarando sarebbesi egli medesimo recato a Siena per assettare le
faccende; tuttavia come segno di vicino fortunale fu ordinato al duca
di Amalfi che, lasciato in asso il capitanato delle armi di Siena, si
riducesse nei suoi stati. Intanto giunse in Siena il senatore Sfondrato
per pigliar lingua degli umori e per indagare i fini ed i costumi
degli uomini: grandi anzi maravigliosi i conati delle emule fazioni per
tirarlo a sè, e segnatamente dei noveschi, a cui venne fatto indurre il
papa a pigliare in mano la difesa loro; ma egli, abbottonato fino al
mento, non lasciava trapelare nulla delle sue intenzioni: per ultimo
venne il Granvela, le accoglienze pari o forse maggiori di quelle che
a cesare, imperciocchè segno di speranze e di timori immediati egli
fosse: aperto disse sè essere mandato a moderare la città, ormai pel
governo pessimo, per la fellonia di taluni tristi e per non represse
iniquità venuta in uggia così ai prossimi come ai remoti; dal mattino
poteva conoscersi il giorno, tuttavia il capitano del popolo a fargli
di cappuccio e ringraziarlo di tanta degnazione; _lui_ facesse,
disfacesse _lui_; fin d'ora grata ogni cosa ed accetta purchè tornasse
nella massima esaltazione di S. M.; — breve, con più le altre formule
di cui trovi copia nel grande dizionario della umana viltà. — Allora
il Granvela squaderna il modello di riforma accompagnandolo di ragioni
santissime come sempre si suole in simili occasioni: il magistrato
avere ad essere copioso come quello che, pigliandovi parte molti,
si contenta maggior numero di cittadini, e poi allontana il pericolo
della tirannide; dunque la balía si componga di 40 cittadini, 10 per
monte, n'elegga il consiglio 32, egli ne nominerà 8; duri due anni
in carica; v'intervenga il capitano del popolo; quanto al criminale
si riformi così; gli sia preposto un capitano di giustizia, il quale
per quattro anni presenterà lo imperatore: in capo ad ogni anno
l'amministrazione di lui si sottoponga a sindacato. Queste con altre
cose di minor conto ordinò la riforma, che davvero non aveva bisogno
di essere ponzata tanto; un fine, e, per quanto si dice, presagito
dal Palmieri dell'ordine popolare, lo ebbe, e fu di abbattere la
soperchianza del Salvi, ma pose capo anco ad un altro che da lui non
era presagito nè voluto, perchè i noveschi ne ripigliarono gagliardia,
e i popolani ne rimasero avviliti. Ciò fatto, il Granvela disegna
fabbricare un castello come calcio in gola ai Sanesi; si rinforza
con milizie spagnuole chiamate da Firenze; per ultimo crea la balía;
quanto a sè per gli otto di sua elezione nomina altrettanti cittadini
apertamente avversi ai Salvi e al duca di Amalfi. Opere prime della
balía furono chiedere al consiglio che in lei la suprema autorità si
trasferisse e che le provvisioni di danaro stanziate pei pretesi meriti
ai cittadini si cassassero: la prima proposta come eccessiva rigettasi,
la seconda no; onde i Salvi e gli altri con ripetío e querimonia
infinita rimasero di un tratto privati di quelle che fruivano, e non
erano poche. Difficile è dire dove sarebbe giunto il Granvela, se in
questa perpetua altalena delle umane cose non fosse avvenuto un caso
il quale temperò e di molto il vino fumoso di lui; e fu lo immenso
disastro dello imperatore davanti Algeri. Allora, ripiegando le vele,
egli appiccò all'arpione la voglia del castello, renunziò a inquisire
pei reati commessi, insistè a volere confinati quattro dei Salvi, ma,
per non parere, confinò di riscontro quattro noveschi. La balía entrò
in carica e da prima operò bene; granata nuova spazza bene tre giorni;
vietò le armi a tutti e le conventicole notturne e l'andare per la
città la notte senza fanale; poi temperò lo smodato lusso delle donne,
perpetua e vana cura degli uomini, onde per disperazione all'ultimo
e per non dichiararsi vinti hanno bandito che il lusso è manna nel
consorzio civile, e ognuno faccia quello che meglio gli aggrada; e
proibì le maschere con abiti da frati e da monache, che, argomento di
sceda tre secoli fa, oggi presumevasi da intelletti guasti ritornare in
venerazione degl'Italiani.

Intanto maturavano i frutti della nuova riforma, e si chiariva a prova
come, per abbattere i Salvi, i popolani ed i riformatori si erano
tirati sul collo i noveschi, i quali seguendo l'antico costume usavano
ed abusavano del fresco favore della fortuna; per lo che tornarono
ad agitarsi peggio di prima, sopra tutti l'arcivescovo Bandini, il
quale, a quanto pare, non era farina da farne ostie. Lo imperatore
teneva suo rappresentante in Siena lo Sfondrato, che ormai procedendo
a carte scoperte favoriva la fazione novesca, nè in ciò era mal visto,
sicchè quando di lui si lamentavano per questo i popoleschi in corte
egli era come dicessero al muro, Messer Giulio Salvi senza virtù e
senza credito cascò come frutto fradicio; chiamato in Fiandra e messo
in prigione dallo imperatore, così poco i Sanesi attendevano a lui
che la sua prigionia conobbero unicamente dalla libertà concedutagli
quando Austria e Francia accordaronsi nel 1544. Poco dopo susurrarono
che lo Sfondrato lavorava in pro del papa per grandi promesse che ne
aveva ricevuto (e parve vero, dacchè indi a breve, ridottosi a Roma,
fu promosso cardinale): allora in fretta e in furia lo imperatore
diede il puleggio allo Sfondrato, sostituendogli don Giovanni di Luna
castellano a Firenze della fortezza di San Giovambattista. Errore
vecchio che dura sempre, senza sembianza di cessare per ora, egli è
che per mutare governatore si muti governo: però don Giovanni patrizio,
inzuppato di frenesie baronali, che in quei tempi reputavano vangeli,
e poi per conoscenza dello umore del padrone, appartatosi dai popolani,
si accostò co' noveschi; in questo pari affatto allo Sfondrato, da lui
diverso in questo altro, che con don Giovanni Roma si trovò chiusa la
porta in faccia; allora non potendo ella armeggiare per via obliqua,
venne fuori dirittamente il cardinale Farnese ad arruffare con certe
sue liti sopra le castella di Maremma; gli fu risposto che queste liti
erano state composte e come all'abbazia di Santo Anastasio, di cui
era abbate il Farnese, fosse stato per compenso conceduto il contado
di Montresoli; ma la prova della ingiustizia delle sue ingordigie
fu sempre l'argomento che valse meno in corte di Roma; lo imperatore
informato invitò il papa a non molestare i Sanesi, almeno per ora, ed
il papa appese la spada alla rastrelliera per tornare ad usarla a tempo
ed a luogo.

Accaddero intanto guerre alle quali i Sanesi talvolta presero parte e
tal altra no; all'ultimo ebbero sosta per istracchezza dei contendenti
più che per altro e con lo esito ordinario di tutte le guerre;
sperpero di anime, sperpero di sostanza pubblica, miseria presente e
disperazione futura; chi non perse, i principi adesso parchi perchè,
rifatti da capo danari e soldati, potessero continuare il trastullo
sanguinoso delle battaglie, gioco anch'egli per loro, dove invece
di carte adoperano uomini. In questa stracchezza universale che per
difetto di meglio chiamavano pace, don Giovanni venne in pensiero di
farsi signore di Siena, e, sinceri o no, lo spalleggiarono i nove
a patto di opprimere con lui gli altri monti; di qui la cresciuta
insolenza dei nove massime giovani, cui pareva grandigia conculcare
i popolani tantochè uno di loro certo Ottaviano Tondi freddò di una
coltellata un plebeo vocato il Bianchino; il popolo di subito saltò in
piazza urlando: _Ammazza! ammazza!_ e rincorse l'omicida, il quale con
la lingua fuori ripara nella chiesa di S. Agostino e poi si nasconde in
certe caverne dove non fu possibile trovarlo. I noveschi, atterriti dal
nuovo pericolo, si strinsero insieme in forte ed ordinata schiera: onde
i popoleschi, considerando che per allora ci era caso da andarne per
le rotte, si ritirarono a casa pur mordendosi il dito. Ma i nugoloni
abbuiavano il cielo, ed era facile giudicare la procella vicina; onde
i noveschi si affaticavano a tutto uomo ad afforzarsi, e sottomano don
Giovanni gli aiutava con ogni sua possa; poi, per parere imparziale,
avvisava i popoleschi a non lasciarsi cogliere alla sprovista, ed in
pubblico increpava ambedue; girandole da furbi gaglioffi per le quali
i pretesi uomini di stato arieggiano Bertoldo quando si nascondeva
dietro un vaglio; i popolari lo irridevano e si apparecchiavano di
cuore ad ingaggiare la suprema battaglia; la plebe stava co' popoleschi
inferocita dallo avere un bel mattino trovati appesi agli usci delle
botteghe loro mazzi di capestri, e le fu detto in minaccia della sorte
serbatole dove mai prevalessero i noveschi: certo è bene che parecchi
affermavamo, e non senza verosimiglianza grandissima, cotesto tiro
movere dai popoleschi; ma, considerando che il procedere in cotesta
maniera si adattava meglio ai costumi ed agli interessi dei noveschi,
così i noveschi senz'altro incolparono; avvertenza questa della
fallacia dello argomento di sospettare colpevole del reato quello a cui
giova; in siffatta disposizione di animi basta una favilla a suscitare
lo incendio, e la favilla non manca mai; adesso furono le nozze, che
belle e magnifiche ammaniva don Giovanni per certa sua figliuola la
quale andava sposa ad un barone napoletano: ci si dovevano fare giostre
e torneamenti, epperò ordinarono una spianata davanti la casa di don
Giovanni; la quale opera considerando i popoleschi, presero a mulinare
si stesse costruendo un bastione per impedire loro la entrata nella
contrada del Pantaneto, sospetto cresciuto da vedere come i noveschi
si fossero fatti forti nella casa di un Mancino dei Tommasi, quasi
serrame a impedire che il popolo trascorresse per la Costarella e
luogo acconcio così per soccorrere gli amici, che dal Terzo della
città intendessero passare per Camollia, come per essere sovvenuti
da loro: per altra parte i noveschi, avendosi a nominare in cotesti
giorni il capitano del popolo, tenevano per sicuro uscirebbe uno della
propria fazione, mentre all'opposto rimase eletto Giovambattista Umidi
popolesco: di ciò n'ebbero maraviglia e spavento; quindi da ambe le
parti non pure voglia ma necessità di venire a mezzo ferro. Intanto si
celebrano le nozze della figlia di don Giovanni, canti, suoni, balli
e banchetti splendidissimi; tutto questo pei signori, pel popolo si
ammanirono dopo il pranzo abbattimenti condotti dagli Spagnuoli, cose
stupende, non mai viste per lo addietro nè da vedersi più innanzi; ne
andarono le grida attorno con accompagnatura di tamburi e di pifferi,
e il popolo in onta alla smisurata sua curiosità non si mosse, fermo
alla posta egli stette con la mano sopra la spada: allora ne tentarono
un'altra, e fu di bandire che pel sette di febbraio si sarebbe data
sulla piazza una solenne caccia di tori; e sfoggiati allestimenti si
fanno i palchi mirabili per arazzi e damaschi, le livree dei giocatori
di vari colori, i tori scelti fra i più feroci delle Maremme, le
musiche continue, bisognava avere i piedi di piombo per tenerli
in casa; e il popolo i piè di piombo ebbe; agevole poi spiegare la
insolita immobilità sua solo che tu sappia come atroce disegno dei
noveschi fosse cascare addosso del popolo inteso allo spettacolo e
menarne strage, e della trama questo avesse pigliato odore.

Don Giovanni, vista la mala parata, il dì veniente mandò pei caporali
delle parti contrarie tentando raumiliarli con parole oneste affinchè
alla travagliata patria dessero pace, e provò contrasto dove lo credeva
meno, vo' dire dal lato dei noveschi; ai quali parendo stare bene in
istaffa, non consentivano cedere, onde il giorno otto di febbraio,
saltati nella strada in armi, essi presero a gridare: «_Imperio,
imperio, nove, nove_.» Di subito un correr di gente a precipizio; le
botteghe serransi in furia, ognuno va per armi; primo dei popoleschi
a mostrare il viso un Giuli, ma gli Spagnuoli sparandogli addosso il
ferirono; il Turamini investe Annibale Umidi e lo lascia in terra
per morto: i popoleschi pronti accorrono alla riscossa e condotti
dal Luti e da Landucci vietano ai noveschi irrompere dal Pantaneto.
Giambattista Umidi capitano del popolo, come quello che, allevato in
mezzo ai trambusti, quando accadevano, invece d'impaurirsene faceva
pasqua, ordina sonarsi a stormo la campana grossa del palazzo, appello
al popolo della patria in pericolo; di subito tu vedi versarsi un
formicolaio di gente armata per le strade, la quale ottimamente
condotta da prodi cittadini con irresistibile impeto si avventa contro
certa bastita fabbricata dai noveschi in Camollia: in meno che non dici
_amen_ la bastita è sfondata, i difensori dispersi, ma non giova loro
la fuga, chè raggiunti sono messi al taglio della spada; taluno si
rimpiattò, e non gli valse, rinvenuti per le stalle, quivi trovarono
la morte. In altra parte sei giovani noveschi più animosi che savi,
non potendo starsene addopati ai muri di casa Bonsignori, scendono su
la via e si cacciano dentro ai popoleschi, i quali sopraffatti dal
furiosissimo assalto cedono terreno, e gli altri incalzano, sicchè
pareva ormai che avessero la vittoria in pugno, quando di un tratto
una grossa banda di Fontebrandesi li percuote di fianco; per la qual
cosa mandati sossopra e respinti verso la casa, ebbero per ventura
trovarne la porta aperta per ripararvisi dentro: colà attendevano a
difendersi alla disperata, pure aspettando che i compagni del Terzo
della città corressero a soccorrerli; ma i compagni, visto il caso
buio, cagliarono. In questa il capitano del popolo Giambattista
Umidi chiama attorno di sè gli Spagnuoli; ma questi essendo stati
i primi a menare le mani contro i popoleschi, pensarono che andare
adesso a mettersi in mezzo a loro e' fosse come tornare a pigione
in bocca al lupo, però ricusarono netto: ora don Giovanni comanda
loro escano fuori per accompagnarlo a sedare il tumulto; ma pieni
di ardimento contro il popolo inerme e poco, ora che infuria come
mare in burrasca, essi ricusano anco più netto. Don Giovanni, non
volendo mancare al debito suo, non avendo sotto mano di meglio, si
circonda di taluni suoi parziali tra i popoleschi e i riformatori, e
con esso loro si accosta alla combattuta casa pregando posassero le
armi, non si facessero con le proprie mani giustizia, rispettassero
l'autorità, le leggi osservassero; a lui stava multare della meritata
pena i colpevoli, di cui il misfatto egli affermava, per testimonianza
propria, espresso. Urla e minacce accolsero la intempestiva orazione
mentre l'accompagnatura gli spulezzò dattorno: ei non si sbigottiva
per questo, anzi sceso da cavallo e solo si recò fino a piè della
porta della casa Bonsignori e quivi a mani giunte supplicò grazia pei
rinchiusi: qualche popolesco, sendochè gli atti generosi abbiano virtù
di commovere sempre fortemente il cuore del popolo, gli disse parole
cortesi, ma la più parte degli altri infelloniti, con occhi strabuzzati
e accese labbia, gridarongli: «Si levasse loro davanti, chè se no,
ce ne sarebbe anco per lui: quanto quivi accadeva era per colpa sua;
andasse via.» Don Giovanni non se lo lasciò intimare due volte; levò
le ciglia in su a guardare la casa, poi, borbottando un: _consummatum
est_, si ridusse in palazzo, il quale con molte guardie diligentemente
assicurò. Avendo intanto il popolo raccolta copia di fascine, disegnava
con esse incendiare la porta della casa e così ad un tratto espugnarla,
se non che quei di dentro, o per furore di morte vendicata, o per
isperanza di vita conservata, dalle finestre fioccavano archibugiate
da mettere in cervello anco i più animosi; il capitano Enea Sacchini,
vedendo che alla scoperta non riusciva l'assalto a bene, entrò co'
compagni nelle case dirimpetto, e quinci riparati dalle finestre
fecero un fuoco d'inferno; per la quale cosa gli assaliti sopraffatti
cessarono il trarre, sicchè, levate le offese, potè il popolo
accostarsi alla porta, arderla ed irrompere in casa. La rabbia del
popolo non ha paragone che con quella degli elementi; prece o minaccia
ugualmente inutili per lui; in quanti il popolo occorse, tanti scannò;
qualcheduno si arrampicò su i tetti, ma quivi raggiunti presero con
presentissimo pericolo a correre pei tegoli; e i popolani dietro con
non minore pericolo ad agguantarli e, presili, a rischio di rotolare
giù insieme avviticchiati, scaraventarli di sotto: le strade andarono
lunga ora funestate per pozzanghere piene di sangue umano e per membra
ed ossa lacere; nè la età novella salvò dal fato estremo il giovanetto
Giulio Orlandini, il quale, per miracolo uscito fuori e passata
felicemente una prima schiera di popolani, s'imbattè in una seconda che
da parte a parte con le alabarde lo traferì; più avventuroso Giorgio
Trecerchi, il quale, tratto a sè l'uscio di una cantina, si nascose
nel vano a triangolo che l'uscio si lascia dietro quando tocca la
parete parallela, ed i feroci, mentre cercavano da per tutto, lì non
frugarono. Nè vi fu casa di noveschi che rimanesse illesa; causa di
questo rovistare per ogni angolo la brama di trarre l'arme di mano
ai nemici; ma poichè nei tempi andati la medesima causa fu pretesto a
taluni di rapina, i caporali bandirono chiunque grancisse pagherebbe
del capo; e non solo le case dei noveschi furono perquisite, bensì non
andarono immuni quelle dei popolani, imperciocchè il popolo, informato
come taluno pietoso gli avessero raccolti, volle rivilicarle, e lì pure
trovatili, si difendessero o no, inermi ovvero armati, li trucidò;
poi mosse contro il palazzo di don Giovanni brandendo le armi e le
faci, e fu mirabile cosa che cotesto Spagnuolo, il quale fin lì aveva
dato buon saggio di sè, sfinito di animo non valesse a far contrasto,
al contrario ordinasse si aprissero le porte al popolo: questi entrò
digrignante i denti e prima che si palesasse il nemico vibrava il
coltello; tuttavia, cerca e ricerca, rovista da cima in fondo ogni
ripostiglio, non rinvenne persona, conciossiachè, come il Malevolti
racconta, i malcapitati noveschi (e pare impossibile!) aggrappandosi
su pei pilastri si rannicchiassero sopra i cornicioni delle finestre i
quali a sufficienza sporgevano in fuori, e colà stettero parecchie ore
in agonia, chè, essendo ormai calata la notte, non furono veduti.

A perpetuare il tumulto ecco giungere nuova che le battaglie del duca
Cosimo si appressavano ai confini, già si sa, per tutela delle persone
e per la quiete dello stato (che a cotesti tempi la causa della civiltà
non era stata ancora inventata.) La balía, e i popolani dando nei
lumi sbuffavano e non provvedeano. Giovambattista Umidi capitano del
popolo allora mandò alle terre del dominio perchè tosto spedissero
i loro uomini armati alla città; nella notte da Valdichiana e da
Moltalcino ne vennero mille, e gli altri dietro come onde del mare;
entrarono, circondarono il palazzo di don Giovanni, gli voltarono
contro due cannoni e si ammanirono a farne un falò. Don Giovanni
atterrito domandava al capitano: «Ed ora che novità è questa?» E il
capitano a lui: «La novità è che questa gente di qui non si muove se
le battaglie del duca di Firenze che voi avete chiamato ai danni della
città non sieno tornate prima nei loro alloggiamenti.» Don Giovanni
s'ingegnò di fare l'albanese messere, protestando di non saperne nulla
e che scriverebbe ben egli di buon inchiostro al duca che badasse ai
fatti suoi e non si desse pensieri del Rosso. Il duca, avvisato che
non tirava buon vento, ritirò le battaglie e spedì persona apposta
per ragguagliare a modo suo lo imperatore dello accaduto; non meno
solerte di lui il capitano Umidi inviava in diligenza un suo fidato al
marchese Del Vasto affinchè la città dalle calunnie dei malevoglienti
difendesse. Dato a tutto questo recapito, popoleschi e riformatori si
assembrarono nello arcivescovado per vedere un po' quali provvisioni
si avessero a pigliare; il Palmieri, che passava per testa forte e
dottore era e sputava tondo, disse che per opinione sua bisognava
stare alla riforma del Granvela (che universalmente si credeva
consigliata da lui) e di più tenersi bene edificato don Giovanni, il
quale commosso della attenzione avrebbe speso di buone parole presso
lo imperatore per giustificare il popolo. Messer Antonio dei Vecchi,
guardatolo un cotal po' alla trista e tentennando il capo, rispose:
«che rifar carte dopo aver vinta la partita la era cosa che costumavano
i giocatori nelle taverne, non già gli uomini di stato nei pubblici
negozi. Perpetui nemici i noveschi, perdonati più volte sempre più
infesti di prima, adesso di nuovo vinti ed a stento si sradicassero
così che non potessero più mettere il tallo nuovo sul vecchio: rispetto
a don Giovanni sappia messer Palmieri che gli oppressori di prima o
di seconda mano non perdonano mai chi abbia loro incusso paura, e
se nol sa o non lo voglia sapere, dia a rimpedulare il cervello.»
Parole veramente di oro in oro e accette all'universale. Però fu
approvato i noveschi, come soperchiatori incorreggibili e di ogni legge
intolleranti, si levassaro dal governo dello stato e, pena la vita,
cessassero di portare arme così in città come in contado. Don Giovanni,
rotti gl'indugi, prese il largo recandosi a Firenze e quindi a corte,
dove citò a comparire parecchi dei maggiorenti cittadini, i quali non
gli dettero retta. Dopo la sua partenza cassarono la guardia spagnuola,
paltonieri che mangiavano il pane dei cittadini a tradimento, quando
non lo intridevano nel sangue loro; a questo modo il reggimento
rimase spartito in tre ordini di cittadini: popolani, gentiluomini e
riformatori. — Qui le cronache e gli istorici ricordano un fatto il
quale molto conferisce a chiarire la nostra storia, vo' dire che i
Lucchesi inviarono a Siena due oratori, Bernardino Medici e Nicolaio
Liena, i quali in pubblico assai si dolsero dei trambusti che avevano
conturbato la città, in segreto poi esortavano i reggitori di mettersi
tutti d'accordo insieme per mirare se ci era verso di sottrarsi
all'abborrito dominio spagnuolo.

Oltre la naturale garosità, due cose rendevano così arditi i Sanesi:
la prima e principale le fortune difficili in cui Carlo si trovava
rinvolto nella Germania, la seconda la commissione dal medesimo Carlo
affidata al marchese del Vasto di assettare le cose di Siena. Il
marchese poi si giudicava dai Sanesi svisceratissimo loro, ed infatti
era, ma di amor di tarlo, che rode i crocifissi; sicchè correva comune
opinione che se il marchese veniva in Siena, di lì a poco se ne sarebbe
fatto signore, cosa a molti molesta, ed a Cosimo dei Medici fuori di
misura ostica, come quello che si vedeva furare le mosse: onde, che
è e che non è, il marchese, mentre a Vigevano stava in procinto di
partire, in mezzo a fieri dolori di ventre periva: in cotesti tempi
corse voce che Cosimo gli avesse fatto propinare certa sua acquetta la
quale per mandare al Creatore era un desío; ma io, se togli che Cosimo
di questi tiri era piuttosto innamorato che vago, e forte e grande
lo premeva lo interesse perchè il marchese sgombrasse dal mondo, e la
solenne sufficienza sua in fabbricare veleni, non ho altro riscontro
per confermare cotesta voce.

Dopo la morte del marchese, con vece alterna incominciò a dechinare la
fortuna dei popoleschi; lo imperatore in Germania prendeva alquanto di
respiro, sicchè gli fu dato di volgere un poco il pensiero all'Italia,
e questo fece per riagguantare quanto si era lasciato ire di mano, e
per ciò che spettava a Siena ne rimise subito la pratica al Granvela;
allora i noveschi si limano a mettere su questo ministro, che non
ne aveva bisogno, perchè di propria indole odiava il popolo, e gli
sapeva male che avesse, composta appena, lacerata la sua riforma; di
più quella licenza della guardia spagnuola molto diceva nel presente
e più lasciava intendere nel futuro; don Giovanni dal canto suo non
rifiniva da far fuoco nell'orcio, però meno per danneggiare altrui
che per magnificare sè stesso, esoso al popolo pel danno che gli aveva
arrecato, contennendo ai noveschi pel verun bene che poteva fare e loro
non fece, servitore sempre ma coll'occhio aguzzo al proprio vantaggio,
modello eterno dello impiegato di tutti i tempi e di tutti i luoghi il
De Luna.

Non ci fu più verso di venire a capo di nulla con lo imperatore;
indarno, oratori sopra oratori rifrustando su e giù le strade, egli
impose che i citati da don Giovanni a comparire davanti alla sua
corte, rimasti contumaci, andassero in confino. Questi furono tredici
in tutto, distribuiti per diversi luoghi: a Lucca mandarono tre dei
principali, messere Marcello Landucci, Giovambattista Umidi e messere
Antonio Del Vecchio, gli altri a Milano; ed essi obbedirono, eccetto
uno Francesco Savini, il quale non si potendo dar pace di avere a
lasciare patria, casa, la diletta consorte, il figlio unico e le
sostanze, preso d'angoscia, dopo pochi giorni se ne morì. Quanto
agramente dallo universale si sopportassero le novelle asprezze
imperiali si argomentò da questo, che, tenendo il defunto le cariche
di capitano del popolo, di priore dei magnifici signori e di capo
dei Dieci, dopo averlo con amplissimo funerale associato al sepolcro
e predicato dal pulpito, riunito il consiglio, tutte le cariche
esercitate da lui conferirono al suo figliuolo Enea, comechè appena
l'anno vigesimoquinto annoverasse.

Dopo ciò messer Francesco Grasso, una maniera di sbirro togato di
cui non fu mai inopia nel mondo, venne da Milano a Siena per dire
ai Sanesi che rimettessero i noveschi a parte del reggimento al
tutto come nel modello di riforma del Granvela, e si stanziassero i
danari per quattrocento fanti spagnuoli che lo imperatore intendeva
ci avessero a stare di presidio. I Dieci risposero cotesta essere
materia da deliberarsi in consiglio, e frattanto preso tempo inviarono
oratori per chiarire che la città non poteva sopportare l'aggravio
della spesa di quattrocento uomini; lo imperatore scrisse che se non
poteva pagarne quattrocento, ne pagasse cinquecento e si ammanisse a
riceverli se pur non volevano che campassero di busca: inverecondi!
però che, avendo gittati via centocinquanta mila fiorini di oro per
le feste dell'Assunta, i quali molto meglio sariensi spesi pel soldo
delle milizie e a murare un castello, adesso gli venissero innanzi a
far marina; e poichè gli oratori umilmente gli dichiaravano in _primis_
che, avendo speso danari in onore di Maria santissima, non pareva loro
averli gittati via, nè così doveva parere a lui, ch'era quella cima di
cattolico che tutto il mondo sapeva; e poi tra pagare soldati stranieri
e operai paesani ci correva un tratto, conciossiachè i soldati
stranieri intaschino la moneta e la portino fuori, mentre gli operai
nostrani la mantengono in casa con augumento delle industrie loro, le
quali poi formano parte della ricchezza pubblica; onde lo imperatore,
sentendosi stretto, per conchiusione ordinava gli si togliessero
dinanzi e cinquecento invece di quattrocento Spagnuoli accettassero
e pagassero. Allora i Sanesi, mirando che il capitano del popolo
non era stato eletto, si avvisarono di esercitare il proprio diritto
nominando il duca di Amalfi, sempre ben veduto da loro; e lo imperatore
lo cassò di rincorsa, notificando che a questo ufficio da ora innanzi
voleva provvedere egli: per ventura fu lasciato confermare l'Orsucci
lucchese nella carica di capitano di giustizia. Per tutti questi umori
dal Burlamacchi ottimamente conosciuti, massime se pensi alla antica
amicizia tra Siena e Lucca, ai medesimi pericoli ai quali esse andavano
incontro, ai vicendevoli servizi, allo scambio dei magistrati continuo
fra loro, ai fuorusciti Sanesi confinati a Lucca, alla fortezza che
come un freno in bocca ai Sanesi minacciavano Cosimo duca di Firenze
e don Ferrante Gonzaga, comprenderai di leggeri come Francesco
nostro dovesse fare assegnamento su loro per sussidio dell'altissima
impresa ch'egli si era recato addosso. Ora di Lucca, e non fie grave
a chiunque, levandosi dallo spettacolo delle miserie presenti, voglia
riconfortarsi nella contemplazione degli ardimenti antichi: prima con
poco o si vinceva o perdendo acquistavasi desiderabile gloria, ora con
grandi apparecchi o si perde o si acquista infamia immortale.



CAPITOLO IV.

   Stato di Lucca nei tempi medii pari a quello delle altre terre
   toscane: i servi si ribellano contro i feudatari e costituiscono
   il comune. — Imperatore e papa, considerati fonte di autorità
   nel mondo, talora facevano approvare dallo imperatore gli
   eletti dal popolo, talora no. — A Lucca i supremi magistrati
   appellavansi anziani: potestà, capitano del popolo e sindaco che
   fossero, che facessero, quanto durassero, donde si traessero.
   — Se ai consigli partecipasse il popolo intero. — I consigli
   erano due in Lucca e da cui presieduti. — Consiglio di credenza
   che fosse. — Le tasche dove s'imborsavano i cittadini eligendi
   quante fossero, e chi vi mettessero. — Agl'imperatori non cale
   la cessazione dei feudatari a patto di redarne i diritti a
   carico del popolo. — Lo impero sostenne fino all'ultimo feudi
   imperiali le repubbliche toscane. — Uguccione della Faggiuola
   e Castruccio Castracani vicarii imperiali a Lucca. — Motto
   acerbo dell'Alighieri, contro Uguccione. — Digressione intorno
   a Castruccio, e quante miserie nella sua prosperità apparecchia
   alla sua patria ed alla sua discendenza. — I Tedeschi lasciati
   da Ludovico il Bavaro mettono Lucca allo incanto: la compra lo
   Spinola mercante genovese, che la tiene poco e male; subentrano
   al dominio di Lucca uno dopo l'altro Giovanni di Boemia, i
   Rossi di Parma e gli Scaligeri, finalmente i Pisani nemici
   acerbissimi ai Lucchesi. — I Fiorentini si vendicano su Lucca
   delle ingiurie di Castruccio: in mezzo a questi tramestii le
   forme repubblicane non mutano: forme politiche non rilevano se
   manchi la sostanza della libertà. — Carlo IV vende la libertà ai
   Lucchesi; a quali patti ed a che prezzo. — I Lucchesi diventano
   fittaioli dello impero; poi con diuturna industria anco vicarii.
   — I nobili non vonno compagnia nel governo della repubblica,
   e il popolo li caccia via dai maestrati non già dalla città:
   rimedio unico per purgare gli stati dalle consorterie. — Legge
   proposta da Francesco Guinigi buona o trista secondo i tempi
   e gli uomini, e tuttavia necessaria. — Giovanni degli Obizzi e
   come rintuzza la improntitudine sua. — Statuto del 1372 nè libero
   nè tiranno, e seme di rancori. — Il maestrato dei conservatori
   della libertà prima si riforma, poi per la morte del Guinigi
   si cassa; gli surrogano l'ufficio dei Commissari di Palazzo,
   ma ad altro fine. Principia lo screzio fra i Forteguerra ed i
   Guinigi; moto dell'Obizzi spento nel sangue. — I Forteguerra
   esclusi dai maestrati. — Il senato s'industria rimediarci e
   come. — Bartolomeo Forteguerra viene alla prova delle armi;
   è vinto. — Il gonfaloniere Forteguerra da Forteguerra messo
   alle coltella. — Lazaro Guinigi si fa tiranno: instituisce una
   maniera di governo oligarchico d'interessi materiali. — Lazaro è
   ammazzato dal nipote di Bartolomeo Forteguerra, ma i Guinigi non
   cascano, anzi Paolo Guinigi si fa tiranno assoluto: sua viltà e
   sua avarizia; pure ha la Rosa di oro da Roma. — I Lucchesi lo
   combattono, lo vincono, lo condannano a morte; poi lo mandano
   prigione a Pavia, dove muore. — Riforma dello stato. — Pietro
   Cenami gonfaloniere, procedendo rigido più che non conveniva,
   è ammazzato: vendetta che ne pigliano i Lucchesi. — Nuove
   congiure. — Michele Guerrucci per non avere con che pagare le
   multe è decapitato. — Legge del discolato che fosse: ragione dei
   provvedimenti straordinari che gli stati pigliano nelle vere o
   credute necessità; e quando giovino, e quando no. — Condizioni
   della signoria di Lucca di faccia allo impero: privilegio di
   Carlo IV, impronta pitoccheria di Massimiliano I in contrasto con
   l'avara tenacità dei Lucchesi; per ultimo Massimiliano sbracia
   privilegi; Luigi XII anch'egli vuole quattrini per non far male.
   — Carlo V, e nuovo mercato per Lucca dovendo le concessioni
   imperiali finire con la persona che le fa. — Caso festevole
   avvenuto fra Massimiliano ed i Lucchesi per cagione di 1000
   scudi. — Lucca reputata sempre feudo imperiale. — Nuovi tumulti
   provocati dai Poggi: origine prima del tumulto il benefizio di
   Santa Giulia; l'Orafo creatura dei Poggi malmena la famiglia
   del vescovo. — I Poggi ammazzano il gonfaloniere Vellutelli,
   feriscono Piero e Lazaro Arnolfini; vogliono imporre gonfaloniere
   Stefano da Poggio, gli anziani rifiutano. — Cittadini armansi
   a sostenere gli anziani; questi, per tôrre capi ai sediziosi,
   li perdonano, contro gli altri procedono; diversità tra Genova
   e Lucca in proposito, se e quanto meriti lode per questo. —
   Tumulto degli Straccioni e perchè chiamato così. — Cause del
   tumulto. — Oligarchia borghese e suoi scopi miserrimi; esclusione
   dei cittadini dalle magistrature; riforme intorno allo statuto
   dell'arte della seta ed angherie ai tessitori; comincia il
   subbuglio: gli anziani, come suole, non cedono poco in tempo
   per cedere troppo inopportunamente. — Adunanza popolare nel
   convento di S. Lucia; e quello che ci si discorse: che cosa si
   deliberasse di domandare. — Cenami gonfaloniere ben disposto a
   concedere le cose richieste. — Feroci parole di Fabbrizio dei
   Nobili rimettono in compromesso la pace. — Di nuovo il popolo
   si aduna, ma non ingiuria persona. — Anziani mandano pacieri,
   e sono accolti male, i tumultuanti domandano pane; pure si
   viene a patti, e sembra composto lo screzio. Chi soffia dentro
   perchè lo incendio rinfocoli. — Cagioni di querele manifestate.
   — Si riforma il reggimento, nuove concessioni al popolo, e
   non si conchiude nulla; ne sono cagione i giovani scapestrati,
   principalmente quelli che avevano cessato il mestiero delle armi.
   — Malefizi dei giovani insofferenti di ogni freno. — Partiti
   larghi sono vinti dal consiglio per calmare gli spiriti, che non
   si quietano, ormai ostinati a vivere licenziosamente. — Congiura
   di cittadini a Forci presso i Buonvisi per occupare la città alla
   sprovvista e restituirci, come oggi si direbbe, l'ordine, e non
   riesce. — Pericolo che corre la città: i popolani spartisconsi;
   chi vuole sangue, chi no: nel contrasto non si fa niente, pure
   bisogna piegare davanti la volontà dei popolani; provvisioni su
   le chiavi della città. — Guardia alle porte dei più avventati. —
   I cittadini abbandonano la città: bandi per impedirli; i popolani
   pigliano le merci e i beni che tentano scansare dalla città. — Il
   maestrato propone uscire di palazzo e abbandonare lo stato: pietà
   di siffatto partito; un popolano si oppone, e rimette il cuore in
   corpo agli anziani profferendosi difenderli a tutt'uomo. — Preci
   solenni e processione statuita per ricondurre gli animi alla
   concordia; singolarità della processione; i preti tirano l'acqua
   al loro mulino. — Dio pei preti è _trino_ in cielo e _quattrino_
   in terra; gli aiuti divini o si fanno aspettare troppo o non
   giovano. — Signoria nuova, di cui fa parte Francesco Burlamacchi;
   partiti risoluti che piglia. — Festa della _Libertà_; la manda
   all'aria un popolano: conseguenze di cotesto scompiglio. — Nuove
   risoluzioni della Signoria proposte dal Burlamacchi; la plebe si
   ribella, che di un tratto si avventa alle case dei Buonvisi per
   abbatterle; parte di plebe contrasta, ne seguita una terribile
   zuffa: prevalgono i demolitori, che vanno per le artiglierie; i
   Buonvisi mostrano i denti alla bordaglia, che li lascia stare;
   nella notte però essi lasciano la città. — Assemblea universale
   per provvedere ai bisogni presenti; donde venga che gli uomini
   talvolta sono sapienti e animosi stando da sè soli, messi in
   mucchio diventano stolti e codardi: deliberazioni gravissime
   dell'assemblea vinte per virtù di popolani appartatisi dai
   licenziosi. — I partigiani dei ribelli, impediti di uscire
   dalle porte gittansi dalle finestre per avvisare gli amici,
   i quali corrono alle armi e tornano ad assediare il palazzo.
   — Gli assediati resistono. — Le leggi contro i sediziosi sono
   vinte. — Alberto da Castelnuovo vuol mandare all'aria il palazzo
   e non riesce per miracolo. — Gli assediati inviano a sonare
   a stormo perchè le compagnie delle bande cittadine traggano
   a liberarli; ma prima che vengano ingaggiano battaglia con
   quei del cortile: li finivano tutti, dove i sediziosi per tema
   di essere presi tra due fuochi non uscivano a guardare gli
   sbocchi delle strade. — I sediziosi cacciati dagli sbocchi, i
   difensori della Signoria si sparpagliano per la città; di ciò
   i sediziosi accortisi, fanno testa e tornano ad occupare il
   cortile: trista condizione degli anziani rimasti in palazzo; i
   Buonvisi fanno massa a monte San Quilico, ma gli anziani non
   sanno come avvisarlo; per devozione di Lunardo Pagnini sono
   avvertiti i Buonvisi; il difficile sta nello introdurli a Lucca.
   — Fede di prete Bastiano da Colle che si profferisce portare la
   chiave di porta San Donato affinchè sieno intromessi: avventure
   e disdette di prete Bastiano; finalmente trova Taddeo Pippi e
   si apre con lui: favore del Pippi, che si acconta col Dini, e
   per diverse vie si accordano di far capo a porta San Donato. —
   Orazione di Martino Buonvisi prima di muovere per Lucca. — Casi
   che ritardano e imbrogliano il cammino: il fiume con non poco
   travaglio è guazzato. — Consigli diversi di scalare le mura, o
   di ardere le porte: vanno a pigliare lingua a porta San Pietro,
   tornano assicurati si aprirà tantosto la porta san Donato. —
   Prestanza di Vincenzo da Puccio, finalmente schiusa la porta,
   il Buonvisi co' seguaci suoi sono intromessi. — Modestia del
   Buonvisi. — Descrizione dello ingresso. — Argutezze di Meuccio
   cuoiaio. — La sedizione vinta. — Fuga di alcuni sediziosi e
   morte di altri. — Acclamazioni al Buonviso; e grave riprensione
   del gonfaloniere, a cui egli risponde umanamente. — Crudeltà
   esercitate dai vincitori; condanne di morte, carceri ed esilii. —
   Il commissario imperiale tradisce i commessi alla sua fede. — Due
   preti giustiziati. — I poggeschi di nuovo perseguiti; altri preti
   più avventurati scappano. — Nuove vendette patrizie. Parallelo
   fra i rivolgimenti di Lucca e di Siena, e si adducono le ragioni
   per le quali compariscono diversi fra loro. — È mortale la paura
   che fai al potente comechè in suo benefizio. — Leggi predisposte
   a instituire la oligarchia lucchese. — Congiura del Fatinelli
   e del Baccigalupo: loro supplizio. — Stato degli animi di Lucca
   inchinevoli a novità, epperò a favorire il moto del Burlamacchi.


Ora importa che in succinto vediamo quali le disposizioni di Lucca per
opporsi, ovvero per favorire una impresa avventurata in pro della sua
libertà. La sua storia ab antiquo pari a quella delle altre repubbliche
toscane: colà come altrove il torrente barbarico lasciò una melma
di feudatari i quali trebbiavano il servo della gleba come questi
trebbiava il grano; se non che un dì avendo il servo fatto tesoro di
rabbia ed avendo acquistato senso di forza, si rivoltò e vinse i suoi
oppressori: di qui sorse il comune, che per necessità si ordinò da
prima a reggimento popolesco, stando lontani e in altre cure involti
il papa e lo imperatore, considerati come sorgenti di ogni autorità
sopra la terra. Quali per lo appunto gli ordini onde si governavano
noi potremmo chiarire, ma a un dipresso furono consigli presieduti
da un maggiorente fra i cittadini eletti dal popolo, per più o meno
durata sedenti in ufficio; questi, se lo imperatore si faceva sentire
(e qualche volta lo sentivano come la mola quando macina), procuravano
venissero da lui approvati, se no e con molta contentezza ne facevano
a meno; i nomi mutarono, ed ora appellaronsi consoli, tale altra
anziani e priori, ma in Lucca per ordinario _anziani: Ecco uno degli
anziani di Santa Zita, mettetel sotto_, come scrive Dante Alighieri.
Oltre gli anziani ebbero potestà preposti ai giudizi vuoi civili o
vuoi criminali, e capitani di popolo, negli inizi paesani, poi li
trassero di fuori, forse per causa di emulazioni procellose e forse
per iniqua parzialità: anco si legge del magistrato del sindaco, di cui
lo ufficio investigare l'operato di ogni ufficiale compito il termine
della sua condotta, imperciocchè tutte le cariche fossero temporanee,
ed esso pure si chiamasse da paesi stranieri. I parlamenti del popolo
intero rari e solo per approvare, e al popolo ne avanzava, ponendo
egli allora in massima parte lo studio della libertà nell'essere
governato con amore e con cura del suo vantaggio; e per me credo che a
molti, eziandio ai giorni nostri, basterebbe così: invece di assemblee
universali, istituirono due consigli, uno maggiore e l'altro minore:
in vari tempi il numero di ambedue vario, il primo presiedeva il
podestà, che, non pago di eseguire la legge, la faceva, per consueto
in compagnia e qualche volta anco solo; al secondo il capitano del
popolo: dal luogo dove si adunavano, quello dicevano di San Michele,
questo di San Pietro: eravi altresì un consiglio di credenza, non già
distinto, sibbene composto di cittadini meglio saputi e prudenti dei
due consigli, il quale trattava delle faccende destinate a rimanere
segrete. Per un tempo il consiglio minore, scelto fra giovani,
sopperiva alla mancanza dei consiglieri del primo, ma dopo ognuno ebbe
attribuzioni proprie. I consiglieri traevansi a sorte da due tasche
dove s'imborsavano i nomi dei cittadini che a norma degli statuti
n'erano degni; più tardi si aggiunse una terza tasca, la quale da capo
rimase soppressa.

Agl'imperatori poco importò che i feudatari sparissero quando restava
il popolo; anzi se, cessati i pastori rimaneva il gregge, guadagnavano
un tanto. Bene avrieno potuto le repubbliche toscane affermare con
la mano sopra la spada (chè a questo modo unicamente si afferma
bene) la propria autorità, ma non vollero, intese per gara stupida
a lacerarsi fra loro, o non seppero (perchè e' ci bisogna del buono
e del bello per fare capire al popolo che il padrone della terra è
_lui_, proprio _lui_). Però, quando gli stava per isguizzargli di
mano lo imperatore, ei si volgeva al papa; o guelfo o ghibellino,
gli era mestieri un attaccagnolo dove appiccare la libertà; per la
quale cosa queste repubbliche di proprio diritto non si costituirono
giuridicamente mai, e, per tacere di Siena, di Pisa e di Lucca,
anco Firenze i giureconsulti dello impero sostennero feudo imperiale
allorquando, prima di spegnersi la stirpe dei Medici, l'Austria ne
dispose come di cosa sua; difatti Uguccione della Faggiuola in qualità
di vicario imperiale tiranneggiò Pisa, e quando per tradimento di
Castruccio sorprese Lucca, ci entrò e la tenne con titolo e potestà
di vicario imperiale; nè con diverso titolo la signoreggiò poi lo
stesso Castruccio, allorchè Uguccione ebbe perduto a un tratto Lucca
e Pisa. Pari furono in Uguccione ed in Castruccio le voglie rapaci e
la prestanza nelle armi, superiore d'assai lo ingegno nel Castruccio;
e due capi dentro una corona non entrano; e poi, per antichi e per
novelli esempi, tristo o no il principe ch'ei sia, non perdona al
suddito il dono del regno; i doni che si fanno ai principi, se tali
da potere essere rimeritati, essi qualche volta rimeritano; se poi
troppo grandi, gli hanno in uggia quanto le ribellioni, di vero gli
uni e le altre fanno ricompensare dall'ordinario loro elemosiniere, il
carnefice; però Ranieri figliuolo di Uguccione rimasto a Lucca, come
più garoso del padre, essendo giovane, smaniando fare troppo presto,
fece male, perchè, messe le mani addosso al Castruccio stava per
mandargli il prete e il boia; e forse era meglio, ma il popolo, che
s'innamora di chiunque ha potenza di fargli male, saltò su i mazzi,
minacciando romperla se subito non si liberava Castruccio; di che
sbigottito Ranieri da un lato s'industria menare il can per l'aia e
dall'altro spedisce al padre Uguccione celeri messi a Pisa onde venisse
via: ma Uguccione, che assai compiaceva alle turpi parti del corpo,
massime al ventre, standosi a mensa rispose che non cascava nel quarto,
e finchè non fu pinzo e satollo non si volle quinci rimovere. Intanto
a Lucca il popolo armato si versava per le strade gridando libertà, e
quando ci entrò Uguccione, il meglio che gli rimanesse a fare fu di
fuggire, mentre Pisa, uscito appena, gli si ribellava al grido di:
_popolo, popolo, e libertà_, il quale, comechè, più spesso che non
dovrebbe essere, bugiardo, tuttavolta serbò e serba sempre virtù di
agghiacciare il sangue del tiranno.

Castruccio fu tale uomo da scavare le occasioni di sotto terra,
pensiamo se se le lasciasse fuggire di mano; gli diedero un compagno
che subito gli si strusse a canto a mo' di neve, ebbe potestà quanta
ne volle, gliel'assentirono tutti, popolo ed ottimati, acclamazioni
di piazza e voti di consigli: usarono i Lucchesi libertà pienissima
di costituirsi servi, caso che via via nel mondo si rinnuova. Se
alle piccole cose è lecito paragonare le grandi, Castruccio legò al
carro della sua fortuna Lucca come già Napoleone la Francia, uguali i
trionfi, l'ebbrezza e i rovesci; in questo il Lucchese più avventuroso
del Côrso, che quegli non vide la malignità del destino avverso, mentre
Napoleone l'ebbe a provare vivo; Castruccio vinse i suoi nemici sempre
o quasi, mirabile lo celebrarono, e veramente fu per moti celeri, per
subiti assalti, per sagaci ritirate, espugnò terre, vinse battaglie
nelle storie famose, si assoggettò Pisa, prese e riprese Pistoia,
trascorse fin sotto le mura di Firenze e per istrazio ci fe' correre
tre palii, uno di meretrici; qual civanzo ne trassero i Lucchesi?
Ludovico il Bavaro prima spoglia della signoria paterna i figli di
Castruccio e poi lascia su quel di Lucca i Tedeschi quasi belve in
pastura, i quali, fastiditi del soggiorno, anelando i patrii luoghi,
la mettono allo incanto, la offrono a Firenze che non la vuole, a Pisa
che anch'ella la rifiuta; all'ultimo come ciarpa vecchia la comprò
un mercante genovese, Spinola, che la tenne poco e male e ci rimise
le spese; gli subentrarono uno dopo l'altro Giovanni di Boemia, Piero
Rossi di Parma, lo Scaligero di Verona: venduta e rivenduta, che anco
dopo tanto tempo è una pietà leggere, per ultimo cascò nelle mani dei
Pisani acerbissimi ed eterni nemici dei Lucchesi, sicchè adesso che
hanno perduto perfino la gagliardia dell'odio con mutui dileggi si
trafiggono fra loro, tanto è fecondo nel cuore dell'uomo il seme del
male! I Fiorentini si ricattarono altresì contro i Lucchesi, e di che
tinta! e col cambio resero loro le scorrerie del paese, le uccisioni, i
guasti del contado e perfino i tre palii côrsi sotto le mura di Lucca,
compreso quello delle meretrici. Vuolsi notare che in mezzo a tutti
questi tramestii le forme apparenti della repubblica non mutarono,
stettero gli anziani, il capitano del popolo, il potestà ed i consigli;
la qual cosa dimostra quanto sieno poca cosa gl'instituti dovo manchi
la sostanza.

A Pisa tiranna di Lucca tiranneggiava il mercante Agnello, che caduto
dall'alto si ruppe ad un tratto una gamba e la tirannide; allora
sopraggiunse lo imperatore Carlo IV acclamato dai Lucchesi come
liberatore, ormai ridotti a tale da stimare libertà il mutamento di
servaggio: lo imperatore in _primis_ volle quattrini, e quindi concesse
loro le facoltà della zecca, dello studio, di conferire lauree e
parecchie altre coserelle a patto che nello impero restasse fermo il
diritto di superiorità in tutto e per tutto, compreso l'utile dominio.
Degli scrittori lucchesi taluno afferma da Carlo IV derivare la libertà
di Lucca, altri sostengono all'opposto ch'ei ribadì le catene vecchie,
e mi sembra che questi abbiano ragione: per ora fittaiuoli del proprio
paese diventano i Lucchesi; nè dai principi vuolsi aspettare mai
libertà diversa da questa.

Tanto vero così che lo imperatore avendo lasciato in Toscana
un suo vicario, questi in Lucca si recò in mano la elezione del
potestà, ricevè giuramenti, gli anziani non elesse ma approvò, e via
discorrendo; ma i Lucchesi si misero alla usanza del ragnatelo a rifare
la repubblica loro, ed ora agli anziani reputando spediente preporre
un gonfaloniere, lo fecero; poi l'autorità loro stabilirono; pian
piano anco di un po' di milizia si provvidero; ricomposero le tasche
per la elezione degli anziani; il fitto annuo venne rinunziato; che
più? ottennero il privilegio di essere padroni in casa propria, ma
come vicarii imperiali o, vogliam dire, rappresentanti di un padrone
straniero.

Nella composizione di questo reggimento fu provvisto che vi
partecipassero così nobili come popolani; ma a ciò non consentirono i
nobili, i quali nella potestà non si chiamando contenti di prevalere,
la presero tutta, e sta bene; vissero e vivono finchè possono vita di
consorteria i patrizi; tuttavia anco in seno al popolo si formano le
consorterie, e allora queste diventano non già forza, bensì cancrena
di popolo. Il popolo, dacchè i patrizi rifiutano uguaglianza, li
dichiara decaduti dal reggimento e si chiude un nemico nelle viscere:
veramente nemici sarebbero stati essi sempre, ma, esclusi a questo
modo, i patrizi per necessità dovevano agitarsi irrequieti: tutto ben
ventilato, a sperdere le consorterie io non ci vedo altro modo che
il bando dei consorti o permanente o temporaneo e fuori dello stato:
certo grave partito questo o copioso di danno, pure altro meno nocivo
non mi riesce trovare, ed è ruina espressa sopportarli chiusi dentro
il corpo sociale: per la quale cosa bene conobbe gli umori di costoro
il dabbene cittadino Francesco Guinigi quando per ischermirsi dalle
insidie patrizie propose un magistrato di cui unico fine fosse la
difesa della libertà, che fu chiamato dei _conservatori della libertà
e del buono stato_; accettarono ed elessero a farne parte lui primo. I
patrizi, accortisi della ragia, si diedero moto per istrozzare cotesto
magistrato sul nascere e levarono tumulto, se non che il magistrato
diede prova di essere nato co' denti, imperciocchè, agguantati quattro,
tagliò al primo il capo e la mano destra, gli altri licenziò col solo
taglio della testa. A Giovanni degli Obizzi precipio eccitatore del
tumulto, trovandosi fuori di città, intimarono stesse lontano; non
obbediva, audacemente rientrava, sostenuto con passione diceva: Questa
la ricompensa dello esilio sofferto durante la tirannide pisana? questo
il compenso della scemata sostanza? Così Lucca ristora i suoi figliuoli
del sangue versato per riacquistarle libertà? A cui rispondevano: Or
come per mercede della difesa libertà tu vuoi che ti soffriamo tiranno,
tu per te combattevi e non per noi, dacchè Lucca in potestà altrui non
poteva essere tua. — Tuttavia, oltre al confermargli il bando, da ogni
altra molestia si rimasero: costui bestemmiò il popolo ingrato; a me
par giusto.

Nel 1372 ebbe compimento lo statuto della repubblica; le forme
repubblicane sempre, ma per così dire l'aria repubblicana non vi
circola dentro, dagli uffici esclude i nobili e i cavalieri di
parecchie famiglie, gli Antelminelli e i consorti tutti, ma nè anche
ammette il popolo in generale e non pochi dei popolani ormai per
industrie proficuamente esercitate diventati cospicui. Non è da dirsi
se dai desiderosi di novità fosse inviso il magistrato dei conservatori
della libertà; e siccome di vero appariva eccessivo, come sono sempre
quelli i quali o una grande necessità od un grande timore suggeriscono,
così non fu difficile apporgli accuse; ad evitare le quali ne
raddoppiarono il numero e provvidero che solo un terzo per anno tenesse
lo ufficio: e a questo modo un tempo durò sostenuto dalla bontà grande
di Francesco Guinigi, ma egli cesse al fato comune nel 1384; allora
tornarono i mestatori a lacerare più perfidiosi che mai il magistrato
dei conservatori della libertà, e tanto pontarono che all'ultimo
ottennero si abolisse; ai conservatori surrogarono i commissari di
palazzo, ma erano altra cosa, imperciocchè lo ufficio di questi stesse
unicamente nel vigilare le fortezze e le faccende della guerra: di
qui incominciò uno screzio tra i Guinigi e i Forteguerra, cui piaceva
l'acqua torba per pescarci dentro, del quale tentò approfittarsi
Giovanni Obizzi fuoruscito mandando lettere ai suoi partigiani col
mezzo di due frati; il reggimento, che stava a orecchi tesi, n'ebbe
odore, e in un bacchio baleno acciuffa, tormenta e fa confessare i
delinquenti, dei quali i laici decapita, i chiesastici manda a Roma.
Giovanni degli Obizzi si era male apposto; i Lucchesi allora aborrivano
moversi non perchè stessero bene, ma perchè temevano trovarsi peggio,
sicchè con decreto amplissimo bandirono che le leggi veglianti sopra
i consigli e le imborsazioni rimanessero inviolabili nè alcuno si
attentasse arringare per riformarle: ma ecco mentre si guardano dalla
pioggia sopraggiunge loro addosso la gragnuola.

I Guinigi, massime Lazaro figliuolo di Francesco, reputandosi offesi
dai Forteguerra, tra cui primeggiava Bartolomeo dottore in leggi
ed estimato uomo d'assai, nella occasione che si aveva a rinnovare
la tasca per la imborsazione dei collegi si dimenarono in guisa
che poterono escluderne la più parte dei Forteguerra, e Bartolomeo
più volte gonfaloniere e anziano fecero noverare fra gli arroti o,
vogliam dire, supplenti, i quali costumavasi trarre dai giovani che
non avevano mai tenuto maestrato. Buonagiunta Schiezza fece la spia o
per levità o per tristizia; Bartolomeo meritamente ne mosse strepito
infinito, e seco quanti queste soperchierie detestavano; i quali umori
desiderando sopire sul nascere, il senato propose aggiungere una tasca
di ducento dieci cittadini dove gli esclusi sarebbero stati imborsati,
con avvertenza però che non avessero ad essere tratti se la prima
non fosse vuotata: pretesto di simile novità fu che, molti cittadini
stando fuori a cagione della morìa o per negozi, importava provvedere
affinchè gli uffici non rimanessero scoperti, ma Bartolomeo, invece di
quetare, s'incollerì due cotanti, e parendogli che quello non fosse
riparo bastevole alla ingiuria, lacerava la turpe pusillanimità del
senato; voleva al tutto cassa la imborsazione, i truffatori puniti;
sotto sembianza di giustizia la vendetta compita: tentaronsi diversi
modi di composizione, e taluni parvero tali da contentare chi ormai non
avesse fermo il chiodo di romperla; e questo per lo appunto era l'animo
di Bartolomeo, il quale, valendosi della congiuntura di Forteguerra
entrato gonfaloniere, ruppe in aperta contesa; gli mandò la virtù, e
la fortuna; prevalse il Guinigi, che, espugnato il palazzo, mentre il
gonfaloniere repugna a lasciarglielo sgombro, cade iniquamente spento
dai seguaci satelliti. In questo tumulto si nota un caso che male
s'intende, se pure non si spiega così, che il Guinigi, tutto inteso
a vincere, fece di ogni erba fascio per procurarsi satelliti, i quali
poi inferocirono per proprio conto, chè la mala compagnia grava sempre
non solo le spalle, ma bensì anco l'anima e la fama: parecchi vinti al
furiare della plebe ebbero asilo nelle case del Guinigi e furono salvi;
i fratelli Serangeli, lo stesso Bartolomeo Forteguerra rimasero spenti
a ghiado; dopo passato il Rubicone che avanza a Cesare? Diventare
imperatore o morire trafitto; a Lazaro occorsero ambedue i fati: fu
principe assentendolo unanimi gli sbigottiti cittadini; pochi emuli
bandì, fra questi Gherardo Burlamacchi antenato di Francesco, agli
altri concesse perdono. A dire il vero, ei si mostrò mite tiranno, ma
delle arti tiranniche si valse con inestimabile studio, condusse armi
straniere, poche e fidatissime le paesane, profuse grazie ai complici
meno per gratitudine che per allettamento a mantenerseli fedeli, si
circondò di guardie, anzi diede loro stanza nel suo proprio palazzo.
Non diverso dai prudenti tiranni, le forme del reggimento lasciò
illese, e tuttavia giunse ad alterarne la sostanza, conciossiachè
ridusse lo stato nelle mani dei borghesi, istituendo, per così dire,
una oligarchia d'interessi, da cui escluse i dottori di leggi, i
medici, i lettori di studio, insomma chiunque per dignità di dottrina
o per eccellenza d'ingegno presentisse dovergli un giorno procedere
avverso; nè può negarsi che secondo l'ordinario andamento delle cose
umane ei si apponesse. In odio agli emuli Lazaro tutto quello che da
loro emanava distrusse; perfino lo statuto penale stesso nella massima
parte da Bartolomeo Forteguerra in codesti tempi lodato, cui fece vie
più desiderare il nuovo sostituito e che all'ultimo venne richiamato in
vigore con plauso di quelli che lo composero: infine, perchè cotesta
antica soperchieria in tutto e per tutto alle nuove e alle nuovissime
rassomigliasse, con solenni apparecchi si resero grazie a Dio, quasi
per renderlo complice del reato. Dio pur troppo alle miserie nostre non
attende o non le cura; chè, se così non fosse, e dove meglio potrebbe
adoperare i suoi fulmini quanto a incenerire colui che, tradendo la
fede del popolo, se ne fa con violenza tiranno? Il vendicatore fu
Antonio Sbarra nipote ai Forteguerra: costui per condurre a fine il
disegno si fece famigliare di Lazaro, gli entrò in grazia, ne sposò
la sorella, e covata la vendetta sette anni, certa sera mentre Lazaro
si stava senza sospetto di lui a suono di pugnalate lo ammazzò. Nè a
lui nè alla patria giovò la Nemesi, ch'egli n'ebbe mozzo il capo, e
quella non ricuperò la libertà; i cittadini bollirono un cotal po',
ma non diedero di fuori; della quale ventura e della pestilenza che
allora infieriva approfittandosi, i Guinigi riserrarono gli ordini
oligarchici riducendo il reggimento in dodici del consiglio con balía
suprema sopra tutte le cose, da durare finchè non cessava il contagio.
Il contagio cessò, ma costoro non ismisero la balía: allora i cittadini
ripigliarono a brontolare e accennavano a peggio; li prevenne Paolo
Guinigi, che sostenuto dai soldati mercenari si costituisce tiranno;
cupido e avaro lo dice la storia e a tutta prova codardo; eccetto
questi meriti, altri non gliene sappiamo, ma l'avere accolto Gregorio
XII con gentilezza ed undici cardinali gli fruttò la _rosa d'oro_, dono
solenne dei sommi pontefici largito ai sostegni della Chiesa: di viltà
in viltà, dopo avere patteggiato co' ladroni del suo paese, giunse allo
estremo di tutto, che fu negoziare la vendita di Lucca ai Fiorentini;
e poichè tanta infamia non seppero tollerare, i Lucchesi, accontandosi
insieme, gli fanno impeto addosso e presolo lo giudicano: dichiarava
lo statuto che il magistrato reo di avere manomessa la libertà della
patria pagasse del capo; gli risparmiarono pietosi troppo il patibolo,
sì bene lo consegnarono al conte Francesco Sforza, che lo mandò a
Milano, donde trasportato a Pavia, quivi miseramente morì prigione.

Dev'essere la libertà gaudio divino, dacchè una sembianza di lei o un
grido che la chiami bastino a empire di dolcezza un popolo intero.
Le campane sonavano a gloria, sulle torri, dai balconi sventolavano
le bandiere, le pareti comparivano ornate di drappi stupendi per
oro contesto e per seta; di liete voci intorno echeggiava l'aere, i
cittadini frequenti per le vie abbracciavansi e piangevano e tutto
questo perchè s'invocava il nome della libertà. Si adunarono cento
padri di fediglia, i quali, dopo avere dichiarato che repubblicani
volevano morire siccome erano nati, elessero dodici cittadini cui
diedero balía di riformare lo stato, fra questi Pietro Cenami, della
ruina del Guinigi massima parte, che poi crearono gonfaloniere: ma
rei tempi soprastavano a Lucca, la quale non valse a districarsi da
guerre infelici e dalla più desolata carestia: bene accolse dentro
le sue mura vincitore Nicolò Piccinino e mostrò rallegrarsene come si
può per vittoria la quale non ti porta benefizio ed è vinta con armi
non nostre; ella abbattè le mura della cittadella Augusta, arnese di
tirannide, stimando che distrutto il covo fosse spenta la bestia; i
beni dei Guinigi confiscò, scarso compenso dei danni patiti; ai suoi
discendenti interdisse la terra, dove sarebbero tornati non figli
ma lupi; e poichè tristi cittadini, o per lo effetto dei loro mali
pensieri ovvero ad istigazione altrui, non posavano di macchinare in
iscapito della repubblica, si restituiva il magistrato per la custodia
della libertà ed in danno dello sciagurato Cenami, imperciocchè,
detestando gli scapestrati il rigido gonfaloniere, notte tempo
entratigli in quattro nella stanza dove ei dormiva dietro la scorta di
due anziani colleghi di Pietro che li guidarono, di mille punte lui
inerme ferirono e misero a morte. Il defunto con esequie spontanee
onorarono; i principali operatori della strage di lui decapitarono;
e la storia con dolore registra complice del misfatto un Giovanni
Burlamacchi, anch'egli dei maggiori di Francesco, e però condannato a
carcere perpetuo. Da ora in poi solertissima la vigilanza dei custodi
della libertà: onde il doppio tentativo di Ladislao Guinigi figlio di
Paolo per sorprendere Lucca riuscito a vuoto; del pari scopersero la
congiura di Michele Guerrucci, il quale, comunque anziano si fosse,
rifuggì legarsi con uomini di piccolo affare per sovvertire lo stato
in mezzo alla solennità di santa Croce; condannato nel capo, ottenne
grazia per intercessione del duca di Milano a patto che si riscattasse
con diecimila fiorini d'oro da pagarsi in due rate; arrivata la
scadenza della prima, non pagata la moneta, pagò col capo: di ciò
sendosi dolto il duca di Milano, come quello a cui parve non si avesse
avuto debito riguardo, i Lucchesi mandarono oratori per iscusarsi; se
ne sarebbero astenuti un'altra volta, per cotesta ormai non ci era più
rimedio.

Per ischermirsi da tante e siffatte insidie, a questi tempi venne
fuori la legge detta del discolato, da taluni come ottima difesa, da
altri come pessima lacerata: su la quale è da avvertirsi che necessità
non ha legge e che per insulso culto della libertà non si devono
lasciare le mani libere, e peggio poi armarle, ai nemici di lei perchè
la trucidino: la questione sta nell'adoperare i partiti straordinari
lealmente in pro' del vivere libero, e tanto si ottiene quando lo stato
si governa davvero a libertà; in caso diverso tu somministri i flagelli
per isferzare i buoni a vantaggio de' rei: a questo modo avvenne nel
nostro regno d'Italia due volte, perchè nè retti nè reggitori amano,
sanno o vogliono la libertà: di libertà a noi le veci e il sembiante,
ai figli nostri la sostanza. Ora ecco la legge del discolato che fosse:
di tratto in tratto i consiglieri erano chiamati a segnare una nota di
cittadini reputati perniciosi alla repubblica; tutti quelli che nello
squittinio occorrevano scritti in due terzi delle note si mettevano
da parte e si sottoponevano da capo alla votazione del consiglio se
avessero a bandirsi; dove si trovasse che in tre quarti dei voti erano
per bandirsi, durante tre anni cacciavansi fuori di stato.

Con simile argomento si otteneva che nei casi supremi, dove l'attimo
perduto a superare il pericolo genera esizio, l'animoso rettore non
venisse distratto da far presto e bene dalle invidie, dalle malignità
e peggio dalle più frequenti saccenterie d'inani mestatori. Il guaio
fu che a Lucca, remosso il pericolo, l'arnese piacque e si mantenne non
già in pro' dello stato, al contrario nello interesse dell'aristocrazia
in danno dei popoleschi perchè non fiatassero, molto meno operassero;
e conchiudo col dire che colui il quale crede che si possa governare
sempre in un modo mettilo a mazzo del pilota che vorrebbe navigare a
tutti i venti con una vela sola.

Prima di ripigliare il filo dei casi interni, a fine di chiarire quale
e quanta parte dei cittadini appetisse novità e perciò fosse disposta
a sostenere la impresa del Burlamacchi onde conseguire riforme nel
reggimento, con pochi cenni mi sbrigherò ad esporre come e perchè i
cittadini tutti avessero a desiderare di emanciparsi dalla subiezione
imperiale. Già dissi del diploma di Carlo IV; adesso aggiungo come
Massimiliano I imperatore, senza giudizio e senza danari, venuto
in fantasia di pigliare la corona a Roma e forse anche il papato,
di repente per suoi oratori domanda alla Repubblica imperiale di
Lucca gli mantenga attorno a sè cento fanti per un anno, gli paghi
venticinquemila ducati e per ultimo il deposito per le crociate e i
giubilei. A Lucca parve essere pecora nella siepe; e poichè pecora
non uscì mai dal pruneto se qualche briciolo di lana non ci lasciasse,
così invia oratori a tirarsi i capelli co' ministri imperiali; e' la
batteva tra il rotto e lo stracciato; assottiglia, assottiglia, più di
cinquemila ducati non vollero da una parte dare nè dall'altra poterono
prendere; e poi non isborsarono nè anco questi, chè allo imperatore
saltò il ticchio di non andare più a Roma, e i Lucchesi procederono
come costuma il marinaro, che, passato il pericolo, gabba il santo.
Ma lo imperatore più tardi torna a spillare quattrini dai Lucchesi,
non sapendo, per farne, a qual santo votarsi; le antiche ragioni non
si potevano addurre, ne propose nuove: gli pagassero subito dodici
mila scudi, ed egli avrebbe confermato loro i privilegi antichi.
Piacque l'offerta, non il prezzo, e qui da capo il mercato giudaico;
si convenne per novemila, ed egli da Padova con diploma ampissimo
conferma l'antica libertà di Lucca, le concede facoltà legislative
ed amministrative, autorità giudiziaria, il mero e misto impero;
rinnuova le largizioni fatte a Castruccio, i privilegi di Carlo IV,
renunzia all'annuo canone, il quale del resto non si pagava più fino
dai tempi del vicario imperiale Guidone, e per ultimo enumera tutte
le terre e castella che dovevano formare parte del dominio di Lucca
senza darsi per inteso se per violenza o per trattato si trovassero
in potestà altrui; e conchiude promettendo protezione e difesa con
tutte le forze dello impero. Ma la protezione dello impero proteggeva
poco; imperciocchè i Lucchesi, minacciati da Luigi XII, come quelli
che procedevano parziali a Massimiliano, e quindi a lui ostili, ebbero
di catti di comprare la protezione della Francia per trentaseimila
tornesi, e loro non parvero troppi. A Massimiliano successe Carlo V,
che di bene altri ugnoli si mostrò armato dell'avo suo; i Lucchesi gli
spediscono subito oratori per tenerselo bene edificato e chiedere la
conferma del diploma di Massimiliano. Il cancelliere Gattinara faceva
cascare la cosa dall'alto: negozio grave questo; molta ma molta somma
richiedersi all'uopo per ispianare le difficoltà. I Lucchesi sentivano
venirsi addosso i sudori freddi e guaivano miseria; ma il Gattinara
spietato gl'intronava sponendo come nella dieta di Vormazia, quando
si fermò la lega col papa, persone intendenti avessero dichiarato che
Lucca senza incomodarsi poteva contribuire per sua quota di spese fino
a 40000 ducati; e poi a lui essere noto di certa scienza che a Luigi
XII in più volte ne avessero pagati due tanti: ora volevano mettere
Luigi a petto di Carlo? Costui non pastore, non padre, non re, bensì
mercenario: e quanto a fede Carlo, prima di tradire la promessa,
avrebbe fatto falò di tutte le provincia dello impero senza lasciarne
pure una. I Lucchesi stretti alla gola lasciarono scappare la offerta
di novemila scudi; il Gattinara, compreso da orrore per lo avaro
sussidio, lungi da sè sdegnosamente lo rigettava; intanto correvano o
piuttosto si facevano correre voci sinistre: due baroni, uno tedesco
e l'altro spagnuolo, chiedevano Lucca in feudo e quattrini subito; lo
imperatore risoluto a romperla con la ingrata città, di voce imperiale,
coi fatti francese: allora i Lucchesi con le lagrime agli occhi
offersero quindicimila scudi in tre rate di cinquemila l'una, che poi i
mercanti lucchesi sottomano scontarono raspandovi su quattromiladugento
scudi. I re tirarono e tirano sempre via; il popolo paga. In ghetto non
si saria potuto negoziare meglio nè peggio di quello che lo imperatore
e i Lucchesi si facessero. Nè si creda già che narrando io queste cose
carichi le tinte; perchè trovi nelle storie che il povero Massimiliano
ridotto al verde supplicava i Lucchesi di un migliaio di scudi per
carità, ed i Lucchesi pur compiangendolo gli si buttarono in ginocchio
davanti a mani giunte esortando che per amore di Dio non li ruinasse:
quasi ruggine della natura lucchese in ogni tempo la spilorceria,
sicchè fra essi corre un proverbio strano ed è «che per pigliare
darieno il core.» Checchè sia del diploma di Carlo V confermatorio
quello di Massimiliano, e sebbene gli imperatori che di mano in mano
si successero non esigessero censo veruno per rinnovare le fatte
concessioni, tuttavia Lucca fu considerata sempre feudo imperiale, di
cui i privilegi potevano da ogni novello imperatore revocarsi, essendo
_de iure_ feudale le concessioni temporanee e però obbligatorie solo
durante la vita dello imperatore che le largiva o le confermava, e
pure, avendo e cuore e fronte di affermarsi repubblica, questa catena
al piede si portò Lucca fino al 1799.

In Lucca, come avvertimmo, essendo prevalsa al reggimento l'oligarchia
borghese, bene si accontavano con essa taluni nobili: ma pochi fiori
non fanno ghirlanda; i più restavano esclusi, fra questi i Poggi casata
copiosa di uomini e di ricchezze; costoro, lontani dai maestrati per
volontà altrui, dai traffici per superbia propria, si davano ad ogni
ragione diletti ed anco capestrerie; ozio e potenza furono sempre
mai supreme spinte a mal fare: a nuovi scompigli per causa loro andò
soggetta la patria, e la cagione questa. Un Arnolfino protonotario
apostolico standosene a Roma per tirare acqua al suo molino, ottenne
dal papa il benefizio di S. Giulia giudicato dei buoni: i patroni
del benefizio se ne arrecarono, e meritamente, e da per sè soli
non bastando a far contrasto, ricorsero per protezione ai Poggi e
l'ebbero; sicchè il rappresentante dell'Arnolfino quantunque, come
prete, tenace a tenere i denti stretti, per timore di averne le ossa
rotte, scappò; se il protonotario pestasse i piedi tu il pensa, e
poichè ne mosse fiero lamento agli anziani, e' fu mestieri che questi
ci pigliassero parte. Frattanto un Pietro dell'Orafo creatura dei
Poggi, per favorire un materassaio, insolentiva contro la famiglia del
vescovo: puniti entrambi, il materassaio obbedisce, l'Orafo no e se
ne richiama ai Poggi, i quali infelloniti investono il palazzo della
signoria e a coltellate ammazzano il gonfaloniere Vellutelli; altri di
loro, fatto impeto contro la casa di Lorenzo Arnolfino, e lui e il suo
congiunto Pietro bestialmente feriscono; ciò fatto, circondandosi di
scherani atterriscono gli anziani ed impongono sia eletto gonfaloniere
Stefano di Poggio: comechè avessero la morte alla bocca, gli anziani
rifiutano. Scesa la notte, attendono di qua e di là ad armarsi; ma
scemano i partigiani dei Poggi e di tanto si accrescono i difensori
della Signoria, che l'atrocità del caso a sangue freddo percosse la
mente anco dei meno buoni: alla dimane gli anziani potevano vincere,
pur non osarono, scesero a patti con gli omicidi ed impegnaronsi per
fede a lasciare partirsi illesi dalla città Vincenzo e Iacopo dei
Poggi, Lorenzo e Domenico Iotti perdutissimi giovani. Usciti costoro,
si adunava la pratica, dove il vice-gonfaloniere Parpaglioni orando
fervidamente conchiudeva si procedesse rigidissimi contro i rei tutti,
il perdono concesso ai quattro come estorto dal timore si revocasse. I
padri in parte accolsero la proposta, in parte no; i non perdonati si
giudicassero, i perdonati lasciassersi stare, ciò persuadere la fama
della Repubblica, austera mantenitrice della data fede. In guisa del
tutto contraria a questa praticò la Repubblica di Genova co' Fieschi a
istanza di Andrea Doria, ma Andrea troppo più prepoteva del Parpaglioni
sopra la volontà dei cittadini; e poichè noi biasimammo cotesto atto,
volentieri loderemmo questo altro, ma in coscienza non possiamo,
imperciocchè dubitiamo forte che i padri a tale si conducessero per
non parere vili volendo dare ad intendere che fosse da loro conceduto
il perdono con libertà di consiglio; e poi se una volta data si doveva
osservare la fede, giustizia di magistrato e costanza di cittadino
persuadevano a non impegnarla mai senza causa degna: ancora, non ci
riesce accozzare siffatta clemenza verso gli operatori della strage con
la ferocia dimostrata contro i compiici loro, dei quali nove mandarono
al supplizio, e sette erano dei Poggi; tra i giustiziati andò quello
Stefano di Poggio che i padri commossi dalla troppa improntitudine dei
faziosi rifiutarono gonfaloniere. I di Poggio continuarono ad agitarsi
un pezzo, ma i moti loro erano di coda di lucertola separata dal corpo
uno più languido dell'altro; alla fine quetarono.

Adesso vuolsi per noi raccontare la storia del tumulto degli
Straccioni, come quella che ci sembra piena d'insegnamenti politici:
e di un tratto notiamo che tale fu appellato perchè i tumultuanti
tolsero per bandiera uno straccio di stoffa nera quasi segno della
miseria che gli affliggeva e del cruccio dell'animo loro. Ormai regnava
e governava Lucca l'oligarchia borghese, se non pessimo, certo uno
dei più tristi reggimenti che si conosca: dura gente i mercanti,
cui se o pericolo o concetto grande non agitino, cuore ed ingegno
costringono dentro il cerchio breve di male appetita moneta. Primo
scopo pertanto di lei durare al timone, onde, avendo il coltello pel
manico, empiva le borse dei nomi loro e degli aderenti suoi; quindi
in essa la facoltà di eleggere anziani, senatori e i magistrati
tutti così dei minori come dei maggiori uffici, o direttamente co'
propri voti o indirettamente creando i deputati preposti a nominare
e ad ordinare i collegi: però innanzi tutto ella faceva la parte pei
congiunti e per gli aderenti; caso ce ne avanzasse, andava in cerca
di qualche citrullo nè carne nè pesce, ma non ce ne avanzava: la
plebe escludeva perchè, superba, le sembrasse imbrattarsi a prenderla
a parte del governo; escludeva i nobili perchè, paurosa, temesse
rimanere soperchiata: oltre questo, precipuo scopo assottigliare i
salari del popolo e più che poteva ridursi in mano ogni ragione di
lavoro. Il gonfaloniere e gli anziani, correndo il 13 gennaio del
1531, commisero a sei cittadini che riformassero l'antico statuto
dell'arte della seta, aggiungendo e tagliando quello che fosse loro
parso utile o dannoso: ed essi adempirono il cómpito; se non che, mossi
dallo scopo accennato di sopra, trafissero in più parti l'interesse
del popolo: a quanto ci è dato conoscere, questo era quello che
maggiormente offendeva: la facoltà tolta al popolo di lavorare seta
col suo telaio in casa; l'ufficio del marchio su le pezze levato
dalla corte dei testori; il prezzo diminuito alle opere in mal punto,
conciossiachè grande angustiasse a cotesti tempi la carestia il popolo
e quotidianamente crescesse. Il popolo, secondo il solito, guaiva,
qua e là in capannelli si adunava e sbuffando smetteva i lavorii; i
governanti, secondo il solito duri finchè non mirino il diavolo nel
catino intorandosi dicevano: si osservasse appuntino la legge, chè
cassarla o riformarla adesso gli era come darla vinta al popolo con
iattura inestimabile dell'autorità ed esizio del reggimento: intanto
i nobili e gli altri esclusi, infiammati di carità pelosa, soffiavano
in cotesto fuoco compassionando al popolo; lo tempestavano dicendo
ch'egli aveva ragione da vendere, ma che badasse a non farsi mangiare
come le ciliege una dopo l'altra; nell'unione stà la forza: ora il
popolo non intese a sordo, però mandato attorno lo invito, si radunò
il primo di maggio nella chiesa di San Francesco, dove aveva altare;
e poichè si trovò in maggior numero di quello che avessero i capi
presagito, questi deliberarono recarsi nel chiostro maggiore del
convento di Santa Lucia: quivi tutti a parlare, a interrompersi, a
contradirsi; sentenze e voci diverse e un brontolío come di caldaia
quando spicca il bollore. Matteo Vannelli capo maestro vedendo che
la veglia passava in accordature, recatosi sulla predella dell'altare
di S. Lucia così favella: «Orsù azzittatevi ed uditemi, chè a questo
mo' voi discorrete a vánvera: quanto sia iniqua la legge che ci hanno
messo addosso, inutile dire; pertanto stendiamo una bella e buona
scrittura dove si leggano specificati tutti i gravami che la legge
ci porta e domandiamone la emendazione; poi non sarà male metterci
in fondo a mo' di rammarichío che gli avi consideravano gli operai
come cristiani battezzati e fratelli da sovvenire sempre bene inteso
col loro vantaggio, non già come santo Bartolommeo da scorticare con
danno di loro e nostro; e ora che ho detto la mia, venga altri a dire
meglio di me, chè io ci avrò gusto.» Ed altri invero parlarono, ma non
aggiunsero un filo alla trama, onde i convenuti gridarono: «Andiamo al
grano!» E così deliberata la supplica, elessero diciotto capi maestri
tessitori, chiamandoli capitani, affinchè la presentassero e con quelle
più accomodate parole che sapessero raumiliassero i padri, onde essi
perseverassero nella umanità di cui avevano dato saggio pur dianzi,
quando per sovvenire il popolo dalle angustie presenti gli concessero
la proroga di quattro mesi a pagare i debiti. I capitani, accettato
lo ufficio, prima giuraronsi unione e fede, poi s'incamminarono al
palazzo, dove presentarono la supplica: il gonfaloniere Martino Cenami,
uomo dabbene, gli accolse con miti parole, e comechè dichiarasse segno
di contumacia e quasi di fellonia essere stato il costoro ritrovo
in Santa Lucia, nondimeno li confortava a starsi di buon animo, chè
sarebbero stati consolati: ond'eglino, scusandosi non avere mai inteso
offendere la legge per dolo ma bensì averla per ignoranza trasgredita,
si ritirarono; e forse per allora a cotesto modo si rassettava la
cosa, se, dopo partiti, gli anziani continuando i ragionari sopra quel
successo, Fabrizio dei Nobili agramente riprendendo la mansuetudine
del gonfaloniere, non fosse uscito fuori con queste parole: «Signori
miei per guarire a costoro il mal del capo ci vorrebbe un recipe di
capestri.» Di che turbatosi Matteo Vannelli, che a sorte ci si trovò
presente, raunato il popolo, lo ammonì a non addormentarsi in grembo a
Dalila; per la quale cosa il popolo bandì un'altra radunata pel giorno
di poi più solenne di quella già fatta: se riuscisse maggiormente
solenne male possiamo affermare, certo ella fu più numerosa e più
sediziosa; però che la gioventù, correndone la stagione, si era
dilungata per la campagna a cantare il maggio, ma questa volta non
con cembali e pifferi nè con arbori ornati di nastri e di fiori bensì
con picche, alabarde, corazze, elmi, tamburi, come se andassero a
battaglia ordinata non già a festa: e' fu ossentazione di terrore e
minaccia, non offesa, dacchè dal negare reverenza ai maggiorenti nei
quali occorrevano e dallo squadrarli torbidi con l'aggiunta di qualche
bottone in fuori, non torsero un capello a persona; anzi essendosi
dibattute in costoro Biagio Mei cittadino di alto affare, questi li
riprese un cotal poco acerbo: «Giovani, giovani, non si va fuori per
sollazzo con armi parate a nocere; andate su presto a deporle, se
pur non volete che qualche stroppio vi accada.» I petulanti giovani
si contentarono rispondergli: «Va per le tue carabattole, vecchio,
chè a noi quello che piace e giova vogliamo fare.» Ora questa frotta
di giovani, a quel mo' abbigliata, venne con infinito schiamazzo ad
ingrossare l'adunanza, e con essi di ogni maniera operai, i quali non
furono reietti, all'opposto accolti a braccia quadre, avendo inteso
che gli anziani avessero spedito in montagna perchè le squadre si
accostassero alla città e dessero spalla al bargello per farne una
funata.

I padri, vedendo crescere la tempesta, deliberarono mandare alla volta
del popolo quattro commissari per abbonirlo: cessasse il tumulto;
quanto aveva chiesto essergli stato largamente concesso; sul passato
si mettesse una pietra. Giunti però i commissari nella piazza di San
Francesco, ecco si videro accerchiati da una torma di furiosi i quali,
strabuzzando gli occhi, luridi e ignudi nelle membra, scarmigliati i
capelli, con le mani in alto, sbarrata la bocca ululavano: «Pane! pane,
cani!» E cominciava la faccenda ad abbuiarsi; per lo che quanto più
in fretta poterono accostaronsi all'altare, dove i commissari Ludovico
Bonvisi e Battista dei Nobili favellarono poche e scucite parole; più
efficace Giambattista Minutoli orò in questo senso: «Cittadini dabbene,
che armi? che minacce sono queste? Volete buttare all'aria la libertà?
E allora fatelo senza tanti arzigogoli, ma avvertite bene, per tôrre
un occhio a noi, voi verrete a cavarveli tutti e due; perchè in verità
io per me nel contegno vostro non mi ci raccapezzo. Voleste la proroga
per soddisfare i debiti, e l'avete ottenuta; vi doleste del caro dei
viveri, e per quanto stava in noi vi abbiamo sovvenuto; le riforme
intorno l'arte della seta vi davano fastidio, e noi le abbiamo casse;
alla maestà della legge contraffaceste e continuate a contraffare, e
di questi malefizi i padri vi largirono perdono e ve lo rinnovano per
mia bocca, compreso il presente. Ora dunque di che vi dolete? Di gamba
sana? Dubitate per avventura della fede nostra? Mi amareggia supporre
simile sospetto: ma, ad ogni modo, noi non offende, e voi avete torto;
imperciocchè se alla Repubblica nostra si può movere appunto, egli
è preciso per la tenacità sua talora soverchia ad osservare la fede
data; e valga il vero, per non portare qui in mezzo troppo antichi
esempi, chi di voi non ricorda la osservanza dei patti ai Poggi
omicidiari sacrileghi e sovvertitori delle sacre leggi della libertà?
Sicchè se avete nuove cose a chiedere, palesatele, onde noi vediamo
se sia spediente concederle; se poi non le avete, allora quetatevi ed
attendete ai lavori consueti, chè con questo sciopero per ogni dì che
passa ne va un tesoro, e a voi troppo più che a noi.»

Il popolo rispose che veramente si fidava poco: intorno al caro forse
i padri avranno creduto provvedere, fatto sta che i fornai dispensano
tuttavia ai poveri pane di vecce, e in testimonio sporgevano un tozzo,
dicendo che ne cibassero per giudicarne a prova, sicchè al Bonvisi
toccò ingozzarne due bocconi che dichiarò stomachevoli: però su questo
punto fu promesso solennemente si sarebbe apportato rimedio davvero;
il marchio delle pezze si rese alla corte dei testori; ad ogni operaio
fu concesso lavorare col suo telaio e per conto proprio; quanto a
prezzo della stoffa grave andante arieno avuto per la tessitura sei
bolognini a braccio, eccetto damaschi e roba a colori, chè allora si
sarebbero portati fino ad otto e, secondo la qualità, anco a dieci ed a
dodici rispetto ad ermesini e a taffettà, dei larghissimi a un colore
dieci bolognini; a più colori undici. Di dolci parole non si fece a
spilluzzico, sicchè anco per questa volta il popolo se ne andò a casa
lieto e contento.

I nobili esclusi dal reggimento, non pochi dei borghesi venuti avanti
per subiti guadagni, e i caporioni della plebe, come quelli a cui
pareva avere insaccato nebbia, vivevano di pessima voglia: tornando a
mettere su il popolo, temevano dare a conoscere troppo che lo facevano
per voglie ambiziose e avare, e quindi ritrarne beffe e danno; ma
stillando la cosa, conobbero che del modo di assicurare il popolo
non si era parlato e tornava inutile parlarne, imperciocchè tale
che appagasse riusciva impossibile trovarsi; di qui pertanto presero
partito per sommovere gli animi appena tranquilli del popolo: «chi
compra dalla pazzia ha per giunta il pentimento, susurravano attorno;
per che vi siete lasciati aggiundolare dai caporali vostri che sanno
di melone lontano un miglio. Chi assicura il popolo di non pagare lo
scotto all'oste? I bietoloni che sputano tondo sacramentavano non ci
vedere modo di scavare una guarentigia, mentre bastava volerla perchè
da sè ci cascasse in mano: sicuro! finchè la medesima gente regge
non ci è salvazione, ma questa gente non diciamo già si cacci via,
ma cessi di governare sola, si allarghino le borse degli eligendi:
perchè esclusi parecchi nobili per censo e per gesti preclari? perchè
non si contano nulla i borghesi più utili e più ricchi di tanti altri
fanulloni da molto tempo abilitati agli uffici? E plebe o non plebe,
che significa questo nelle repubbliche? Non siamo uguali davanti
alla legge? Non dobbiamo tutti avere parte così agli onori come agli
oneri dello stato? E perchè la plebe porterà sempre il vino e beverà
l'acqua? Ad ogni tratto che al popolo piaccia gitta un plebeo su la
piazza o sul campo da disgradare Tullio o Cesare. Allargandosi il
governo e mettendoci dentro le persone di sua fiducia piena, il popolo
conseguiva la sicurezza che leggi in suo detrimento non se ne sarebbero
deliberate, e alla men trista, avvertito in tempo, avrebbe fatto
stare i legislatori in cervello.» Di qui nuovi assembramenti e nuove
richieste, non enormi certo nè ingiuste; tutto altro: ma pretendere a
forza convertito in legge su nel palazzo quanto si delibera in piazza
è morte espressa di ogni reggimento civile; meglio vale buttare giù
il governo per rifarne un altro. Il consiglio messe a partito le
leggi, rimasero vinte tutte: invece di 30 i consiglieri furono 40
per terziero, in tutto 120; non ce n'entrasse più di 3 per famiglia;
proibito il cumulo degli uffizi; fatto posto a ben trenta popolani;
ai filatori data facoltà così di vendere come di comprare sete crude;
rinnovasi e con solenni riti si giura la promessa del perdono.

Adesso poi la si faceva finita davvero, ed i cittadini incontrandosi
per via rallegravansi, per contentezza sopra l'una e l'altra guancia
baciavansi; e s'ingannavano, chè il popolo è mare di molte onde
ed una volta agitato non posa se prima l'ultimo flutto non venga a
rompersi sul lido. Avanzava una gente di cui lo ingegno, il costume e
le opere provammo e ai giorni nostri proviamo tuttavia; io renunzio
a descriverla con parole mie, perchè parrebbe che voltassi addietro
la faccia dal 1867 per favellare del 1531, e forse me ne potrebbe
venire nota di maligno: riporto pertanto inalterate le espressioni
di Giuseppe Civitali, di cui la cronaca si conserva manoscritta negli
archivi del municipio di Lucca. «Dipoi suscitarono molti che, avendo
visto le cose dei testori andare bene, pensarono per la medesima
via arrivare a qualche loro disegno, che per inalzarsi agli onori
ed ottenere premi, se n'eccettui l'arme, altra via non avevano, e
questi erano certi giovani invero bravi ma piuttosto oziosi e nemici
a guadagnarsi il pane con onesti lavori che altro; i quali essendo di
fresco venuti dalla guerra, si erano disvezzati da ogni maniera di
negozi, e disegnando potersi mantenere bene in ordine in casa come
fuori quando gli correvano grosse paghe, volentieri si accostavano
a coloro i quali rimescolavano l'acqua per pescare nel torbido.» Con
simile peste in corpo, con cittadini che atterriti atterrivano, con
altri che alla chetichella mettevano legna sul fuoco, non parrà cosa
strana nè forte se la città in breve provarono al paragone men fida del
bosco; ogni dì subbugli e ferite e un chiudersi le botteghe e trarre
a rumore il popolo in piazza. Il soprastante delle carceri conciavano
pel dì delle feste, e quando i colpevoli dannarono alla multa ed
al carcere, rispondevano questi facendo manichetto e bravavano: gli
andassero a pigliare; dopo il soprastante ne veniva come per sequela
che bastonassero il bargello e i famigli, bazza se non gli uccisero;
un cotal più di rispetto l'ebbero pel mazziero della Signoria spedito
verso di loro per sermonarli, chè si contentarono rincorrerlo a
sassate: volevano nelle mani il potestà per insegnargli a camminare
diritto, e più del potestà studiavano agguantare il capitano del
popolo, però che si fosse vantato che se lasciavano fare a lui,
gli avrebbe ricondotti al canapo. Al consiglio, comechè composto di
caloscioni, pur venne la muffa al naso; ma veruno ebbe coraggio, non
che di arrestare, nominare soltanto i delinquenti; onde, per non dare
a conoscere la miseria in cui era caduto, il governo finse conoscerli
e perdonarli: ogni cosa a rotoli; non misfatto punito, anzi bastava
mostrarsi impronto ad esigere, non già a implorare perdono, perchè
venisse conceduto subito. Dopo siffatto esperimento non si sa che
fantasia fosse quella di ordinare che veruno si attentasse a portare
arme di giorno nè di notte; e fu per non detto: ancora si fece un
decreto per condurre una guardia di 100 fanti, e il popolo lo cassò;
ridevole e a un punto miserabile stato questo, che il consiglio dentro
il palazzo deliberava provvisioni che alla porta si annullavano,
mentre quello che alla porta il popolo ordinava confermavasi dentro, e
ciò perchè giù in cortile, guardia non chiesta, stanziavano continuo
da quattrocento tagliacantoni con la corda degli archibugi accesa,
i quali il consiglio presumeva cacciare con 100 fanti, e lo diceva,
e non solo lo diceva, ma lo bandiva perchè lo sapessero meglio. Le
quali inanità considerando io scrittore non solo nelle storie vecchie
ma sì nei rivolgimenti che mi sono passati sotto gli occhi, ho dovuto
persuadermi che lo intelletto umano va sottoposto ad eclissi come il
sole e la luna; e avventurato vuolsi celebrare colui che ne patisce
una volta sola in capo all'anno. Siccome però neppure agli aizzatori
tornava il perpetuo subbuglio, e a qualche cosa volevano approdare,
fecero chiedere che piacesse al consiglio mettere a partito: che i
forastieri d'ora in poi non avessero magistrato; la età degli anziani
sia non minore di anni 25, del gonfaloniere 30; al consiglio dei
Trentasette si aggiungano sei per terziero; le tasche vecchie cessino,
si facciano le nuove, e chi le deve fare fino da ora si elegga:
finalmente, come il _Gloria_ in fondo al salmo, perdono a tutt'oggi: le
quali provvisioni riuscirono vinte agevolmente. Anche questo partito
a cui satisfece e parve anco troppo, a cui no, essendo ormai risoluto
di vivere di rapina; continuarono le soperchierie dei popolani, gli
oltraggi, le morti, e vie e vie crescendo si diede mano agl'incendi e a
tanto giunsero di esorbitanza che chi loro feriva o ammazzava aveva ad
essere irremissibilmente punito, s'eglino i feritori e gli ammazzatori,
dovevano del pari irremissibilmente andare assoluti. Alcuni cittadini
accorgendosi ormai che a cotesto modo egli era pigliare il male per
medicina, in numero di nove si trovarono a Forci villa del Buonvisi e
fra di loro convennero di liberare da tanta abiezione il magistrato
della patria, dando ai popolani tale un picchio sul capo da farne
durare la memoria un pezzo; perciò, chiamati 500 fanti dalla Montagna
e 300 da Camaiore, disposero che arrivassero sotto la condotta di
Bernardo Pieroni sul fare del giorno alle porte della città quando si
apriva, dove irrompendo, sforzassero la entrata e difilati si recassero
al palazzo e lo custodissero tanto che nuova gente di fuori e i
cittadini nobili si armassero per ingaggiare battaglia. Ma il trattato
non fu tenuto segreto in guisa che la plebe non ne avesse fumo; per la
quale cosa mille armati di tutto punto si trovarono ad impedirne lo
ingresso: intanto anco gli avversari alla plebe armansi e si versano
giù per le vie; chi urla che i Camaioresi intromettansi, chi no;
schiamazzi e minacce per una parte e dall'altra; più volte abbassarono
le aste per ferirsi e più appressarono la corda al fucile per isparare
gli archibugi; sicchè la sgarrò proprio di un pelo che in cotesto
giorno le strade non corressero sangue: e nulladimeno non accadde
guaio; imperciocchè taluni cittadini, o timidi o prudenti, recatisi in
fretta su le mura, ordinassero ai fanti della campagna in nome della
Signoria si ritirassero, e quelli obbedirono: per questo accidente i
nobili sbaldanzirono e presero a sbandarsi; a cui fugge, i cani mordono
le gambe. La plebe gridava: Adesso è tempo di pigliarsene una satolla;
terribili gli urli: Sangue! fuoco! ma più terribile assai ciò che
tacevano, ed era: Arraffare. Ma a Dio non piacque che in cotesto giorno
andasse Lucca in ruina; la plebe, non tutta ladra, si divise; e siccome
ambedue le parti in mezzo all'ira tanto senno serbarono da conoscere
che, per poco si accapigliassero fra loro i nobili, gli avrebbero
di leggeri oppressi, ristettero prevalendo i consigli men rei; però,
rinfocolati i sospetti, la plebe volle si bandissero alcuni cittadini
invisi, e lo furono; volle si spedissero commissari a Camaiore che
per cosa al mondo non movessero senza comandamento del gonfaloniere e
degli anziani, e ne furono mandati tre, Cenami, Massei e Tirti; vollero
si licenziasse il Pieroni capitano di Camaiore, e fu cassato; e, ciò
che parve allora enormissimo, vollero che le chiavi della città ogni
sera si presentassero in palazzo, quivi dentro una cassa ferrata si
riponessero e con due chiavi si chiudessero, di cui l'una terrebbe
il gonfaloniere, l'altra il popolano Granucci; ancora, i giovani di
scarriera ordinarono alla meglio e loro commisero la custodia delle
porte col salario di quattro e più scudi al mese: fidatissima guardia
se altra fu mai, imperciocchè se veniva a cessare il governo che
vigilavano, finiva la cuccagna; qualcheduno poteva tradire, ma non
pareva facile però che fra di loro si guardassero, ed a corromperli
tutti ci voleva troppo. Procedendo le faccende in questa maniera,
ogni giorno più si coloriva il danno del diuturno disordine, il quale
principalmente pativano coloro che lo avevano soprattutti o desiderato
o promosso; dacchè i nobili, mano a mano spandendosi per le campagne,
attendevano a lavorare e a difendere le terre, e questo facevano, e
bene, non così i mercanti, che ormai come trarre profitto dai propri
capitali non sapevano, e non era il peggio, il peggio era la tremarella
continua che li rubassero: già parecchi erano spariti recandosi in più
tranquilla stanza: e sebbene il governo accortosene facesse ardua la
partenza, non per questo meno sgomberavano segretamente la pecunia e le
preziosità loro; la quale paura crebbe oltre ogni confine allorchè la
mattina vedevano le porte delle loro case segnate con tinta rossigna
della parola _desolabitur_: ma questa infelice provvidenza a parecchi
fu esiziale, imperciocchè i soldati preposti alla custodia delle
porte, o sia che per opera di spie lo scoprissero o per istinto lo
subodorassero di un tratto, avendo frugato ogni involto che fuori
della porta si trasportava, trovarono il frodo, il quale per amore del
bene pubblico (già s'intende) fra loro spartirono; chi si richiamava,
legnate; modo spiccio e, bisogna pur dirlo, sopratutto efficace per
fare star cheto chi dà fastidio: ancora, credendo di provvedere al
futuro, pretesero che venisse loro stanziato il salario di 10 scudi per
uomo a vita, e non sapevano che la rivoluzione dalla destra tiene un
pennello per dipingere quanto gli salta nella fantasia, e nella manca
una spugna per cancellare quanto il popolo non conferma.

Intanto i magistrati, indegni dopo le ultime prove della suprema loro
inettezza, vollero darne una di viltà; però deliberarono abbandonare
il palazzo, lasciando lo stato in balia della plebe, e Bonaventura
Micheli gonfaloniere, piangendo dirotto, ne mosse la proposta in
consiglio, la quale udita dagli astanti, non ce ne fu uno che non
recasse ambe le mani agli occhi e in singhiozzi non rompesse. Tutte
le cose umane più o meno affrettandosi giungono all'apice, donde non
potendo più oltre salire, forza è che scendano: e questo in Lucca fu
il punto supremo della insolenza del popolo, imperciocchè uno di loro
che all'acqua era stato e stava, non già alla tempesta, di repente
salito in ringhiera con modi acerbi, ma ad un punto affettuosi, garrì
gli anziani confortandoli a rimanere, non badassero alla improntitudine
di qualche farabutto, chè egli procedeva non solo senza, ma contro il
consenso dei capi; e di quest'altro gli assicurava, ch'egli con tutti
i parenti suoi e gli amici era disposto a mettere per la difesa loro a
sbaraglio la vita a patto che compissero a lor posta il proprio dovere
e non parlassero mai più di simile cosa.

Vedendo la cosa avviata bene, quasi per metterle il tetto, pensarono
ricorrere a Dio e ai santi, perchè, se non a cagione dei propri
meriti, almeno per loro misericordia, li tirassero fuori da tanti
affanni; perciò ordinarono prima di tutto un digiuno: veramente quale
corrispondenza passasse fra il digiuno e la concordia non si vede
adesso, ma allora ci si vedeva; poi allestirono una processione co'
fiocchi, quale non si era mai veduta pari per lo avanti, conciossiachè
nelle antecedenti più di due corpi in giro non si erano portati, e
questa volta furono cinque: oltre le bandiere delle contrade e molte
altre di privati cittadini, comparve il gonfalone della _Libertà_, dove
a caratteri da scatola tutti di oro si leggeva questo nome trapunto, e
lo portarono a vicenda tre popolani e tre nobili per vie più cimentare
la concordia. Chiuse la funzione un discorso spartito in parecchi punti
di quel famoso predicatore che fu fra Girolamo generale dei Servi, il
quale, per giudizio di quanti lo udirono, fu cosa da smovere il pianto
non, che alle belve, ai sassi. I preti, che da ogni legno sanno cavare
schiappe per farne bollire la pentola, indussero i padri a fondare
un altare alla Libertà e a questo altare assegnare un cappellano con
quattordici fiorini al mese, poi creare una seconda cappellania con la
entrata di sei e vitto intero alla mensa degli anziani. I nostri vecchi
sapevano l'arte, noi no; noi spogliamo i preti e vogliamo ci dicano
grazie; noi ne manteniamo uno esercito a spilluzzico, e però tutti ci
lacerano a morsi; valeva meglio tenerne pochi e assettare le faccende
in guisa che per amore della paga dicessero bene di noi; alla più
trista allora chi ci avrebbe benedetto, chi maledetto, mentre adesso
in coro ci bestemmiano e scomunicano co' ceri gialli. Dio, argutamente
sentenziò Federigo Campanella, pei preti è _trino_ in paradiso, ma qui
in terra è _quattrino_.

E' parve non senza mortificazione dei fedeli che in chiesa costumasse
come in cucina, dove i troppi cuochi sciupano il desinare; perocchè
gli animi non si racchetarono, e gli strappi non si rammendarono, anzi
tutto si arruffò peggio di prima, colpa di taluni sediziosi che di
essere ridotti al canapo non ne volevano sapere; finalmente a mezzo
marzo entrò il nuovo magistrato di cui per la prima volta fece parte
Francesco Burlamacchi, e questo parve disposto a volerne vedere la
fine, e, quasi per fare libro nuovo e conto nuovo, innanzi tratto
bandì perdono generale di quanto fosse detto ovvero operato fino a
tutto cotesto giorno, che fu il martedì santo: poi cassò la guardia
accogliticcia del palazzo, dando ad ogni uomo di mancia un mese di paga
perchè potesse rigirarsi e fare i fatti suoi; le chiavi delle porte
tornarono a custodirsi nel modo antico, ed ogni cosa parve riprendere
la consueta andatura. Avevano ottenuto molto, ma pel giorno della festa
della Libertà confidarono di comporre ogni screzio in modo permanente;
e questo dì venne: che razza di libertà fosse quella dei Lucchesi e
quanta causa avessero di rallegrarsene già vedemmo, ma per ordinario
la gente si contenta di poco. Per quel giorno dunque fu ordinata la
processione consueta, ma più solenne degli anni passati, dove si portò
attorno lo stendardo della Libertà tutto inorato ch'era una maraviglia
a vederlo; lo seguivano il senato, i dottori, i cavalieri e dopo gli
artieri e per ultimo il popolo in bella ordinanza. Dopo avere girato un
pezzo, convennero in duomo, e colà un canonico, il quale non si sapeva
bene se più sentisse di dottrina ovvero di santità, ma sentiva forte
di ambedue, sciorinò una orazione con la quale dimostrava espresso
che la libertà senza pace non si può dare, e pace senza libertà si può
dare anco meno; poi, agguantato un Crocifisso con due mani, cominciò
a trinciare benedizioni che pigliavano un miglio di paese; venne dopo
la messa tra suoni e canti mirabili, e finalmente l'ora del desinare,
sicchè la processione uscì dalla chiesa lieta e contenta che ogni cosa
fosse riuscita a così desiderabile fine. Ma il demonio non si diede per
vinto, chè anco una volta s'ingegnò di ficcarci la coda: onde accadde
che, essendo uscite di chiesa le prime regole dei frati, a Giannino di
Castelnuovo venisse fatto di vedere un Paolo Antongioli di Camaiore
vocato lo _Imbroglia_, nè si potendo tenere, gli corse addosso con
l'arme ignuda gridando: «Ecco uno dei traditori chiamati per mandarci
alle coltella.»

Di qui uno scompiglio da non si potere con parole descrivere;
svolazzare di tonache di più fogge e colori, ceri e lampioni in
fascio, cristi in pezzi, madonne rotte, chi urla e chi piagne, chi
bestemmia e chi prega; chi si fa largo giocando di calci e di pugni,
chi si rassegna a farsi calpestare mugolando allorchè qualche scarpa
ferrata gli ammaccava le costole; donne capovolte in mucchio addosso ai
frati, cui cotesta pareva strana novità; dei rimasti in duomo parte si
restrinsero come pecore sotto il leccio quando la procella imperversa,
parte dalle porte laterali spulezzarono a casa, dove arrivarono a tempo
che la minestra non raffreddasse: tuttavia il tumulto rimase lì, e la
processione potè ripigliare il cammino; ma la fu una cosa guasta, e
ad ogni uomo pareva mille anni di levarsi la cappa e correre a casa
perchè le mogli non istessero in pensiero; per tutto quel dì si ebbe
una pace torbida, piena di ansietà; la mano dei cittadini, virtù fosse
o paura (ma se virtù ci era, la paura vinceva di cento cotanti almeno),
ricorreva più spesso al pugnale che alla forchetta mentre sedevano a
mensa: finalmente, come Dio volle, per tutto il giorno e per la notte
appresso non accadde altro strappo.

La mattina per tempo, radunato il consiglio in cotesti giorni
cambiatosi, per opera principalmente di Francesco Burlamacchi, che
per la prima volta ne faceva parte, i padri deliberarono si ordinasse
che le armi si deponessero e tre dei più facinorosi si bandissero.
La mala bestia della plebe presente il morso, per ciò recalcitra con
tutte le forze; invano qualcheduno non cieco affatto contrasta, ella
lo scaraventa da parte, e buon per lui se non gli passa sul corpo;
e poichè il furore della plebe, se non le poni davanti un obietto da
abbattere, svapora, sorse una voce che chiedeva aversi a castigare i
Buonvisi, i quali prima aizzatori o soccorritori, ora sperimentano
nemici, ed era vero: forse li mosse amore di giustizia, ma è da
credersi poco, piuttosto io penso che lo studio del giusto fosse in
loro mescolato alla cupidità di primeggiare, ed era considerando che su
città ruinata altri non regna eccetto la desolazione, però intendevano
preservarla; subito con urli selvaggi una frotta di furiosi domanda
si atterrino i palazzi dei Buonvisi, tutta cotesta casata si cacci in
bando; a questi urli contrappongonsi altri gridi non meno formidabili:
«Lascinsi in pace i Buovinsi, a chi tocca loro un capello guai!» Sì,
no, e in fondo ai discorsi brevi un lungo rompersi di ossa con pugni e
con legni; vinse il partito degli assalitori, i quali per assicurarsi
la vittoria andarono a pigliare le artiglierie del palazzo; la forza
non valse a trattenerli, meno poi le parole; questi pezzi di cannone
trainati a braccia tu vedevi qua e là roteare a mo' di paglie: se non
che i Buonvisi non erano gente da lasciarsi cogliere alla sprovvista,
anzi avevano fortificato mirabilmente il palazzo e riempitolo di molti
uomini fidatissimi ed esperti nelle armi. La plebe, visto il palazzo
irto di archibusi sporgenti dalle feritoie, fece come il cane intorno
all'istrice, lo girò e rigirò e all'ultimo digrignando i denti andò pe'
fatti suoi. Tuttavia, venuta la notte, i Buonvisi, persuasi di cedere
al tempo, per amore che la città non s'insanguinasse si scansarono a
Monte San Quilico, luogo quasimente su le porte della città.

Essendo impertanto risoluti gli anziani di dar fine ai disordini con
qualunque partito, fosse pure insolito e straordinario, intimarono
un'assemblea di capi di famiglia dei chiamati o no a formare parte
del governo, e perfino preti, per trattare della salute della patria;
sommarono i convenuti a 1500, a cui il gonfaloniere rivolto espose:
«Non essere giammai corso tempo più calamitoso del presente nè mai la
città avere avuto tanto bisogno come ora del consiglio e del soccorso
di tutti i cittadini; però invocassero, prima di favellare, Dio,
siccome faceva egli esclamando: _Domine, labia mea aperies_.» — Poi
stato alquanto sopra di sè, riprese a dire, e non disse nulla, se
togli che la città era condotta al verde, che il medico pietoso aveva
fatta la piaga puzzolente e che ci bisognava provvisioni terribili;
ma quali avevano ad essere e da quali eseguirsi taceva; invitati e
supplicati gli astanti a palesare il proprio parere, uno su l'altro
se la sgabellava peritandosi. Strano caso questo e da me come notato
sovente, non ispiegato mai: se pigli uomo per uomo, ti accadrà
rinvenirlo animoso e sapiente; metti insieme due o trecento uomini
siffatti, e peggio se più, e piglieranno per ordinario deliberazioni
codarde e stolte: sembra che a stare in gregge si diventi bestie; onde
il titolo di onore _egregio_, il quale insomma che significa mai,
se non fuori del gregge? Il cronista Civitali, da cui desumo questo
racconto, forse per trafiggere la dappocaggine dei Lucchesi convenuti
all'assemblea, scrive che _tacevano aspettando che altri incominciasse
a consigliare, e però consigliavano i consiglieri a manifestare primi
il proprio consiglio_[13]. Allora salì in bigoncia Bonaventura Michele
e parve non orasse, bensì camminasse per mezzo alle uova, tuttavia,
comechè velato, aperse il concetto che il palazzo avesse a munirsi di
presidio capace di opporsi agl'impeti dei sediziosi; gli oratori che
gli successero a mano a mano presero cuore e favellarono più aperto;
un prete, il canonico Menocchi, riciso: all'ultimo uno avvocato,
messere Cesare dei Nobili, il quale con lunga diceria espose che si
sarebbe dato alla disperazione se non confidasse nella misericordia
divina, la quale avendo tante volte salva la Repubblica, non poteva
fare a meno di tutelarla anco questa: e prima di tutto si confessava
della colpa di avere favorito le ragioni dei popolari come quelle
che gli erano parse giuste, e di questo errore domandava a tutti
umilmente perdono; e qui cavatosi dal seno un batolo di taffettà
di seta nera, se lo cinse al collo in segno di pentimento, e non fu
certo penitenza grave: soggiungeva poi le intemperanze della plebe
avere trapassato ogni termine di possibile pazienza, onde l'avrebbe
fieramente perseguitata, come prima amorosamente l'aveva protetta; e
certo dopo tanta longanimità di perdono altro non restava che adoperare
il castigo, al quale si sarebbe potuto dare mano se come avevano il
volere così possedessero il potere: dunque qui voglionci armi provate
e fedeli che, messe a presidio del palazzo, ponessero il cervello a
partito di quaranta o cinquanta tagliacantoni usi a mandare a soqquadro
la città per campare di rapina. Conchiusa la orazione, si levò uno
schiamazzo di diverse voci, parte delle quali urlava: Non guardia!
non guardia! ed altre all'opposto: Buon consiglio! buon consiglio!
Ma il Boccella anch'egli popolano ricreduto sopra tutti bociava: E'
voglionci un quattrocento soldati forestieri almeno decisi di mettersi
allo sbaraglio, e per questo si mandi subito la proposta a partito;
anch'io era dei loro, ma il soverchio rompe il coperchio, e questo
stare continuamente su la corda non approda all'anima nè al corpo.
Tutti gli aderenti suoi, che non erano pochi, gli facevano bordone:
onde allora (come sempre avviene che ognuno porta acqua al mare) uno
dopo l'altro conchiusero per la guardia; accesissimi a volerla coloro
che più avevano palleggiato pel popolo, quasi studiosi di emendare il
fallo e di farlo dimenticare: anco gli artieri dopo tentennato un pezzo
convennero in questa sentenza; pure non si omettevano i supremi sforzi
per contrastarla dai pochi faziosi i quali sentivano come cotesta legge
era la corda che doveva stringerli al collo; se non che a sbigottirli e
a disperderli valse una parola ad alta voce bandita da certo tessitore
di drappi, forse detta per eccitarli a fare di tutto, la quale fu:
«_Addormentati, destatevi_»; e tre volte la ripetè, poi tacque; ai
sediziosi sembrò udire quasi la sentenza di morte, gli altri ne presero
baldanza per mandare a compimento le deliberate risoluzioni.

Pertanto gli anziani, licenziata l'assemblea popolare, convocarono
il consiglio degli eletti per ordinare le cose a norma di legge: bene
vollero ritenere tutti i convocati e ne li pregarono, anzi ordinarono
si chiudessero le porte per impedirne la uscita, ma e' fu indarno,
però che dei sediziosi i più spaventati si gittassero dalle finestre
per andare ad avvertire i compagni di fuori che per loro era spacciata
se la legge della guardia restasse vinta; la quale avvertenza siccome
verissima avendoli altamente commosso, si adunarono affannosi in cento
forse nella casa Matraini, altri in altri luoghi, ma non gran numero;
finalmente fra tutti messa insieme una assai grossa banda, di arme
così offensive come difensive ottimamente forniti, si avviarono verso
il palazzo decisi di tentare l'estreme fortune; giunti lì presso,
cominciarono a bersagliare con gli archibusi: dei cittadini rinchiusi
taluni si rannicchiavano come cosa balorda, ma i più, diventati audaci,
avrieno voluto rendere pane per focaccia, se non che mancavano le
armi; ma a questo provvidero e tosto, chè, fatta aprire al massaio la
stanza della munizione, quivi fornironsi copiosamente di picche, di
archibugi, di spade, di corsaletti, di rotelle, di celate, insomma
di ogni ragione armi. Le leggi temute quasi di rincorsa votaronsi;
ormai era fiera rotta. I sediziosi dopo alcuni sforzi si accorsero
quanto folle consiglio fosse quello di volere espugnare il palazzo:
però andarono ad appostarsi quivi dintorno, sparando un nugolo di
archibugiate contro qualunque si avvisasse cacciare il capo fuori dalla
finestra: però quantunque nella massima parte i partigiani dei faziosi
fossero usciti di palazzo gittandosi giù dalle finestre, pure taluno
ve ne rimaneva; fra questi uno Alberto da Castelnuovo, immanissimo
giovane, il quale con perverso animo volle e tentò dentro una medesima
ruina seppellire città e cittadini, il fatto e la memoria del fatto;
ond'è che, approfittandosi del parapiglia degli accorsi nella stanza
della munizione, lasciò cascare la corda accesa sopra un bariglione di
polvere aperto; s'infiammò la polvere e con veemenza pari al terrore
scrollò le mura, svelse il tetto balestrandolo in frammenti lontano per
centinaia di braccia; venti infelici ne andarono più o meno malconci
di dolorose ferite; e nondimanco così provvide il caso che il fuoco
non si appigliò agli altri bariglioni lì presso poco discosti. Il fiero
giovane, a cui forse non caleva salvarsi riuscendo, si salvò per essere
andato a male il suo disegno.

Conchiuse le deliberazioni e licenziato il consiglio, compresero che,
lasciando il palazzo, ci sarebbero entrati senza indugio i sediziosi, e
poi, ancorchè avessero voluto abbandonarlo, non saria venuto lor fatto,
imperciocchè costoro gli tenessero in certo modo assediati. Allora fu
pensato di mandare alla torre per sonare le campane a stormo, onde,
avvisati i cittadini del pericolo della Signoria, con le compagnie
dei gonfaloni traessero alla difesa del palazzo; il torrigiano, più
tristo di uno sbirro degli Otto, rispose che non si poteva fare senza
la fede del partito dei Signori; materia di stato cotesta e andarne del
capo: sopraggiunti altri cittadini, la fecero sonare per forza. Ai più
animosi dei rinchiusi in palazzo sembrava ostico di restare in prigione
a posta di una mano di paltonieri; dissuasi da cimentarsi, si tennero
un pezzo, poi, non potendo reggere al canapo, versaronsi giù nel
cortile; qui si diede principio alla battaglia; poco giovarono alabarde
e spade, nulla gli archibugi, e fu guerra a coltello; da una parte e
dall'altra morti e feriti, e forse si finivano tutti se a taluno dei
sediziosi non frullava in testa il pensiero che, traendo i cittadini
al suono della campana, correvano rischio di trovarsi presi in mezzo a
due fuochi; quindi saltarono fuori a pigliare gli sbocchi delle strade,
lasciando i feriti ad aiutarsi come meglio potevano.

Chi si trovò a cotesto caso afferma che pareva il finimondo, e noi,
che, se non a quello, ci trovammo presenti ad altri parecchi che gli
dovevano come goccia a goccia rassomigliare, c'immaginiamo facilmente
lo strepito dello incocciare delle armi bianche, il rimbombo degli
archibugi, il correre, il gridare, il minacciare e gli estremi
singulti; a questo unisci il rintocco delle campane di tutte le chiese,
quasi voce di Dio che si lamenta sopra le iniquità della sua creatura,
la quale poteva creare e sarebbe sempre a tempo a ricomporre migliore;
lo strillo dei fanciulli, le strida delle donne imperversanti per
le vie co' capelli sciolti, gli occhi storti e le mani levate; chi
domandava il marito, chi il padre; i vecchi piangevano maledicendo
alla sorte che gli aveva mantenuti in vita per renderli testimoni di
tanta calamità; a tutti pareva venuta la fine di Lucca, e avrieno dato
a patto, della persona un braccio, della fortuna il mezzo per salvare
il resto; ed invece proprio in cotesto punto si mutavano le sorti,
perchè i cittadini amorevoli del vivere civile si trovarono in tanta
copia da sforzare i riottosi, i quali dapprima furono respinti fino
nei borghi della porta di San Gervasio, dove fecero testa tentando
ricuperare il perduto, massime il cortile del palazzo, essendo stati
avvertiti come i difensori, spargendosi in varie parti della città per
combattere, lo avessero lasciato vuoto; di vero fatta una punta fin
là pervennero e l'occuparono. Gli anziani rimasti in palazzo adesso
si trovarono nel peggiore partito che avessero mai provato, dacchè i
cittadini ch'eransi divisi da loro per andare ad afforzarsi altrove
fossero rimasti d'accordo che in caso di pericolo gli avessero mandati
a chiamare; onde avvenne che, non sentendosi ammonire, ognuno attese
a raccogliere gli uomini della sua contrada, ad ordinare le bande
sotto i gonfaloni e a provvedere difese. In tanta angustia gli anziani
vennero a conoscere come i Buonvisi a San Quilico fossero giunti a
mettere insieme fra amici e aderenti loro e soldati tratti da tutte
le terre del dominio, massime da Camaiore, tanta gente da vincere ben
altra impresa che non era quella di levare la ruzza agli scapestrati
lucchesi: però la difficoltà stava nello avvisarli, e a questo per
buona ventura potè riparare Lunardo Pagnini, il quale uscito dalla
città in tempo opportuno, accadde fare in pro' degli anziani due cose
parimente utili; la prima avvisando i Buonvisi che stessero avvertiti
perchè da un punto all'altro avrebbero potuto essere chiamati, la
seconda nel sostenere un contadino spedito dai sediziosi con lettere
ortatorie a Regolo da Coreglia perchè venisse via con quanta più
gente potesse a fare spalla alle fortune cadenti degli amici. Intanto,
giunta la sera, i tumultuanti rimasti a guardia del cortile, non si
vedendo da nessuna parte ingrossare, persero l'animo, per la quale
cosa, ognuno pensando ai casi suoi, parecchi col favore delle tenebre
si dileguarono, rifugiandosi nelle case dei parenti e degli amici come
presaghi della prossima ruina, mentre altri all'opposto correva per la
terra smanioso per ricondurre gli amici alla tenzone.

Gli anziani ignoravano l'operato di Lunardo, e dove anco lo avessero
saputo, non avrebbe approdato a nulla, perchè era mestieri ordinare ai
Buonvisi che movessero; e nè anco questo bastava, chè l'osso giaceva
nel rimetterli dentro la città. Gittati gli occhi dintorno, non ci
videro persona a cui potessero fidarsi; per ventura seppero esserci
rimasto Bastiano da Colle, prete, semplice di costume, ma fedele molto
e della patria zelatore caldissimo; chiamatolo in camera, gli dissero:
«Bastiano, se ti basta l'animo, la salute della patria sta in te.» «Io
sono parato, rispose il prete, a dare per la patria quando occorra la
vita; però dite su che io mi abbia a fare.» Il gonfaloniere allora:
«Tu piglierai questa chiave ch'è della porta di San Donato e farai di
portarti in Quoieria, dove trovati Nicolaio Anchiani e Taddeo Pippi
conciaioli, dirai loro da parte nostra che s'ingegnino avvisare i
Buonvisi a Montequilici che movano tosto con tutta la loro gente, ed
arrivati che sieno alla porta, li mettano dentro per condurre a termine
la impresa che sanno.» Il prete, esultando di essere reputato capace
di apportare un tanto benefizio alla città, si gittò in ginocchione
dinanzi al gonfaloniere ringraziandolo umilmente del favore grande che
gli compartiva, e perchè, Dio propiziando, potesse riuscire a buon
fine il negozio, lui pregava che in nome della santissima Trinità
lo benedicesse; nel quale suo desiderio il gonfaloniere affettuoso
abbracciandolo e baciandolo lo compiacque; e dicono altresì che gli
astanti non potessero per tenerezza trattenere le lacrime.

Prete Bastiano, volendo battere il ferro quando era caldo, messosi
la chiave sotto la tonaca, per la via delle mura andò difilato in
Quoieria; occorse in Andrea da Decimo, il quale, sospettando fosse ito
costà a spiare mandato dai tumultuanti, lo squadrò a stracciasacco,
onde egli, accortosi della temperie, con lieta faccia gli disse:
«Figliuolo, io me ne vo per cosa di altissima importanza a casa
Anchiani, la quale non sapendo dove sia, prego voi che fin là mi
accompagniate e me la mostriate.» Arrivato là, per disdetta lo Anchiani
non trovarono, il Pippi nemmeno; onde il prete sbigottito, non sapendo
come rimediare, si aperse con Andrea da Decimo, cui cotesta parve una
grande cosa; però fu di parere consigliarsene con due altri cuoiai, ai
quali tutti il prete Bastiano scoperse la chiave raccomandandosi a mani
giunte che in tanta stretta non fossero per mancare alla patria. — La
fiducia alimenta il fuoco dello amore quando è avviato; onde cotesti
uomini grossieri non è da dirsi con quanta alacrità cercassero attorno
per trovare il Pippi od altra persona saputa che avesse capacità e
autorità per condurre la pratica. Come Dio volle incontrarono giusto
Taddeo Pippi, ch'era gonfaloniere della Sirena e persona la quale per
coteste faccende valeva oro; onde subito prete Bastiano ristrettosi
con lui, con parole concitate gli disse: «Taddeo, una grande fortuna ti
capita nelle mani, perchè in te sta la salute della patria e di tanti
signori che vanno per la maggiore: piglia, questa è la chiave della
porta di San Donato; qui fa di chiamare da San Quilico il soccorso
e di qui mettilo dentro; se riesci a tante (e, solo che tu voglia,
riescirai), oltre la lode dei presenti e la fama nei posteri, così
copiosi pioveranno sopra il tuo capo i favori e le grazie che anco
chiudendo gli occhi tu non te li saprai immaginare.» Taddeo prese
la chiave e, portatasela con le braccia in croce alla bocca, come si
costuma fare co' Cristi, dopo averla di alcuna stilla di pianto bagnata
così favellò: «Orsù con noi sia Dio e andiamo tosto, che lo indugio
piglia vizio.» Uscito co' suoi, gli venne incontro Meuccio Dini,
giovane di gran cuore, piacente e di seguito grande nella sua contrada,
inoltre non imperito nella milizia, dove egli aveva fatto brevi ma
onoratissime prove; a lui pure teneva dietro una banda di gioventù
gagliarda; da ciò tolse argomento il Pippi a bene sperare, sicchè da
lontano gli gridò: «Meuccio, questa libertà vi sia raccomandata.» A
cui Meuccio di rimando: «Per questa libertà voglio morire.» Allora
andaronsi incontro a braccia aperte e baciaronsi in bocca; poi stando
lì in piedi deliberarono Taddeo con la sua gente pigliasse la via delle
mura riuscendo a porta San Donato, Meuccio co' suoi avrebbe tenuto
la strada maestra. Intanto che queste cose accadevano in città, in
campagna a Monte San Quilico messere Martino Buonvisi, montato su di
un poggiolo, raccolti intorno a sè parenti, clientela, soldati della
repubblica e gente del contado che a frotta traeva costà quasi a festa,
così favellava; «Le cose di città, compagni miei, le sono andate male,
ma le potevano andare anco peggio; imperciocchè, con tante ingiurie,
con tanti malefizi, con tante atrocità, gli scellerati uomini che le
hanno commesse non hanno potuto impedire che i padri, per virtù loro,
non ponessero a partito, e il consiglio non vincesse la guardia del
palazzo. Ora però, se noi non aiutiamo i magnifici Signori, egli è come
se non si fosse fatto di nulla; essi compirono il debito, adesso sta
a noi soddisfare al nostro: essi ci hanno mandato ad avvertire che se
noi ci presentiamo alla porta San Donato, ci sarà aperta senza fallo;
dunque teniamo lo invito, e Dio provvederà; nè già crediate trovarvi
soli alla impresa, chè tanti del contado vi seguiteranno che per me
credo vi parranno anco troppi...»

Voleva dire di più, ma lo interruppe un grido dei volonterosi,
cui pareva mille anni essere condotti ai muri, ond'egli, invece di
spingerli, ebbe adesso a sforzarsi di trattenerli: andassero cauti per
Dio, procedessero ordinati se pur non volevano che succedesse loro come
ai pifferi di montagna; frattanto il Pippi, rassegnata alla meglio la
sua compagnia, si accosta alle mura con lo stendardo e dà il segno
agli amici di fuori, il quale avendo visto Bernardo Sinibaldi, che
stava in vedetta vicino ai fossi, corse via sulla sponda del Serchio
chiamando con alte grida il Buonvisi il quale dall'altra banda del
fiume si tratteneva; ma Lunardo Pagnini si cacciò col cavallo nel
fiume per portarne più tostano avviso, però, come avviene, la pressa
prolungava lo indugio, che, intralciatosi per le vetrici del fiume, mal
sapeva sbrogliarsene, onde a sua posta con gran voce chiamò Silvestro
Trenta, il quale per ventura lo udì; e quivi recatosi e sentito il
caso, persuase la sua compagnia a guazzare il fiume, e avvegnachè
avessero trovato rotto il canape della barca, per impedire che la
corrente li portasse via, piantarono forte parecchie alabarde in fondo
al fiume alle quali agguantandosi senza pericolo passarono; e ciò con
tanto maggiore animo essi impresero in quanto che, quasi per aizzarli,
innanzi ch'entrassero nell'acqua, Martino con certo suo piglio
soldatesco disse loro: «Figliuoli, chi non si sente capace non si metta
in ballo nè a rimanere si périti, chè buona prova può fare restando qui
con Ludovico a guardarmi la casa.» E' non ci fu caso, allora vollero
guadare tutti di stianto: a casa Ludovico rimase co' vecchi e co'
malati. Precedeva a tutti Martino, ma, giunti a tiro di archibugio,
Vincenzo di Puccio non patì che a quel modo andasse più oltre volendo
ad ogni patto mettercisi egli medesimo, e così camminando, arrivato
presso il torrione di Santa Croce, sostò alquanto per consultare il
modo da seguire, caso mai pigliassero a sfolgorarlo le artiglierie; il
Pissini opinava si avesse attendere che fosse più imbrunita la notte
per poi passare oltre rasentando le mura, ma il Puccio di riscontro:
«O che vuoi tu aspettare, sii benedetto? o non odi che suona l'un'ora
di notte? avanti, avanti, che il nemico avvertito potrebbe rinforzarsi
da questo lato; avanti.» E così di corsa arrivarono alla porta San
Donato, dove trovarono meglio di quattrocento uomini quivi precorsi
senza consiglio, ristretti come pecore; e, più grato del pari che
utile incontro, vi rinvennero alcuni giovani sperti in arme e di gran
nome, i quali, tornando dalle cacce delle marine, nulla sapevano dei
trambusti di Lucca, e, presane notizia così alla lesta, si proffersero
partecipare alla impresa capitani o soldati. Tuttavia la porta non si
apriva, sicchè cotesti giovani impazientiti sentivano scottarsi sotto
le suola il terreno; onde taluni procedendo con tumultuario consiglio
decisero portare in fretta paglia e fascine e con esse abbruciare
la porta; tali altri all'opposto rigettavano cotesto partito come
troppo lento e perchè avrebbe chiamato agevolmente a sè l'attenzione
del nemico; proponevano invece accostare alle mura lunghi pioppi con
piuoli traversi ed a questo modo scalarle, il che sarebbe stato ancora
più lungo: non attecchirono entrambi e, smesse le vie pericolose,
spedirono gente che con celere corso si affrettasse a prendere lingua
fino alla porta San Pietro, dove venne detto loro tornassero addietro;
pazientassero un poco, chè senza fallo si sarieno aperte le porte di
San Donato.

Udito questo, il Puccio, da quel saputo giovane che era, per trattenere
la moltitudine ed anco perchè entrando non commettesse disordine, tutta
quanta la dispose nel seguente modo: la prima battaglia fu di gente
armata di giachi, corazze, celate ed arme in asta, che egli medesimo
in capo fila conduceva; poi seguivano dugento archibugi, dopo questi
forse altrettanti con armi lunghe di varia ragione; per ultimo copia di
contadini, qual con vanga, qual con badile, qual con accetta, insomma
muniti di arnesi rustici, i quali secondo la occasione i cittadini
avrieno provato guastatori o saccardi: in tutto 1000 e più.

Per di dentro Meuccio Dini e Taddeo Pippi affrettandosi ognuno per
la sua via giunsero alla porta San Donato, dove chiamato Lodovico
Bernardini preposto alla custodia di quella e dategli le chiavi,
intimarongli aprisse, la quale cosa egli fece senza fiatare: a questo
modo quei di fuori con quei di dentro mescolaronsi, a braccia quadre
si strinsero al petto; i baciari, i dolci parlari non si contano, per
cui pativa di tenerezza ci era materia a un diluvio di lacrime. Poichè
le liete accoglienze furono reiterate le tre e le quattro volte, si
rimisero in cammino: Martino Buonvisi, sapendo come per ordinario la
modestia garba al popolo (e dico per ordinario, conciossiachè talvolta
incontri più l'arroganza secondo l'umore non già dei popoli ma del
popolo stesso dalla mattina a vespro), voleva porsi in disparte, ma non
lo sostennero il Puccio e il Pippi in cotesti primi amori stemperati,
e lo misero in mezzo alla battaglia accompagnato da una schiera di
fior di gentiluomini che gli facevano guardia. Tanti erano i lumi che
nelle contrade per dove passavano ci si vedeva come di giorno, le donne
dalla finestra sporgevano le lucernine accese a quattro lucignoli, o
candelieri, o lumi a mano; e perchè nulla mancasse di quanto serve
a chiarire, non lasciarono intatte nè manco le candele che i preti
donano alla festa della Candelara per ripigliarsele pel sepolcro la
settimana santa: nè gli stessi liberatori s'inoltravano sprovvisti
incontro al buio; al contrario chi recava fasci di sarmenti, chi
fascine e chi mazzi di paglia intrecciata; i morti pure erano stati
messi a contribuzione, però che dalle stanze mortuarie avessero tolto
le torcie a vento: breve, tanta era la luce che chi avesse veduto la
città di lontano avrebbe giudicato facilmente ch'ella fosse in balía
dello incendio. Per le case, per le vie, dalla gente di ogni età e di
ogni sesso si alternavano continui altissimi i gridi: Viva la patria!
viva la libertà! — Però in mezzo a cotesto baccano il cuoiaio Meuccio
non perdeva il giudizio, per modo che, appressandosi al palagio, ordinò
che la prima battaglia levasse via tutti i lumi a fine di giungere
improvviso, ed anco immaginò un altra astuzia, la quale fu che, mentre
la prima battaglia veniva oltre cheta e al buio, gli altri lontani,
i gridi rinforzassero e i lumi ravvivassero, confidando così che i
chiusi nel cortile, nel supposto che gli avversari loro si trovassero
sempre lontani, non abbassassero la corda su gli archibugi con morte e
ferite dei primi assalitori; i quali sempre più avvicinandosi, furono
ammoniti dal Puccio: «Adesso di rincorsa, ma larghi.» E ciò disse per
tema delle artiglierie, che immaginava apparecchiate nel cortile pel
palazzo. — Ma la paura davvero fu maggiore del danno; imperciocchè i
sediziosi, ridotti nel cortile, vista la grande moltitudine della gente
che veniva a combatterli, persero subito il cuore; gli altri intanto
cominciarono a grandinare palle così repentinamente che la guardia
dei sediziosi posta davanti alla porta del palazzo non ebbe tempo di
ripararsi dentro, sicchè in un attimo rimase tutta morta o ferita; dei
chiusi alcuni calatisi dalle finestre a tutta corsa fuggirono verso le
mura dalla parte del Bastardo, poco innanzi a cagione di vetustà o per
quale altro vizio ruinate, e quivi arrampicandosi per le macerie, con
fatica non meno che con pericolo, gittandosi alla campagna scamparono
la vita. I vincitori non omisero spingere costà uomini armati perchè
s'impadronissero dei fuggenti, ma arrivarono tardi, e poi si crede che
taluno mosso a misericordia facesse loro spalla memore del detto: che
finchè abbiamo denti in bocca non si sa quel che ci tocca; di quei che
rimasero in palazzo, parte caddero spenti sull'atto, pochi cercarono lo
asilo nelle chiese, invano; dei commessi errori si ebbero il meritato
castigo.

La plebe, e qui sta il guaio, la quale il bene e il male non comprende
laddove non sia rappresentato da una persona, messe da parte la patria
e la libertà, prese a gridare: «Viva i Buonvisi!» E poi per la plebe,
fin qui, variare principe o principato egli è mutare basto; non così
pei maggiorenti, a cui la forma del principato dentro la quale si
trovano piace come quella che dà fondamento alle dignità ed agli uffici
loro: però, mentre paiono i soli zelatori del bene comune, attendono
solo al proprio interesse; e Martino, che sel sapeva, diede subito
su la voce ai gridatori esclamando: «Qui null'altro deve acclamarsi
eccetto la libertà!» I quali gridi Furono con non poco turbamento uditi
dal magnifico gonfaloniere e dagli anziani, quasi augurio sinistro
di futuro danno; epperò commossi dentro ma in vista lieti gli si
fecero incontro e gli favellarono le seguenti parole, che io cavo dal
cronista e tali quali riporto, per la ragione altra volta allegata,
che studiandoci su io non saprei come meglio significarle: «Magnifico
messere Martino, voi siete il benvenuto quando, come crediamo, vi sia
la libertà raccomandata; ecci stato detto che si è gridato in Lucca
il nome della vostra casa; ora benchè, crediamo, sia contro vostro
volere, pure ci corre l'obbligo dirvi che questo non si conveniva nè
era da comportare, epperò sarebbe il caso che voi, unitamente a quelli
che vi accompagnano gridaste tutti unitamente: Viva la libertà, per la
quale noi siamo pronti a morire quando alcuno volesse contaminarla.»
Il Buonviso alquanto trafitto rispose con voce un cotal poco alterata:
«Io qui stommi non per altro che per la libertà, come debito di ogni
cittadino amorevole della patria; impertanto voi altri gridate pure
con me: Libertà! libertà!» E libertà gridarono, e il gonfaloniere se
ne chiamò pago, come se libertà si radicasse negli urli; tuttavia
questo ripiego venne in punto ad assicurare gli animi mareggianti,
imperciocchè non si sentisse altro che acclamare ai Buonvisi, e ciò
si temeva che fosse non senza segreto accordo: da cotesta benedetta
libertà lucchese erano germogliati fuori tanti tiranni che a temerne
uno nuovo non sembrava fuori di proposito. Una volta tranquillati sopra
questo, gli anziani largheggiarono in ogni maniera di dimostrazione
benevola, sicchè senza dar tempo al tempo con amplissimo decreto
dichiararono Martino Buonviso liberatore della patria, autore della
pace e padre del senato lucchese.

I patrizi lucchesi dovevano essere nella buona fortuna crudeli,
però che si fossero mostrati nell'avversa codardi, e crudeli furono.
Radunati in palazzo, proposero e vinsero le seguenti deliberazioni:
si cerchino, si sostengano e si esaminino co' tormenti i colpevoli del
rumore a San Martino il giorno della festa della libertà, dei tumulti a
casa del signore Marzilla commissario imperiale, dello insulto a casa
dei Franchi, del trasporto dell'artiglieria contro la casa Buonvisi,
in fine dello assalto al palazzo, estimato il più nefario di tutti i
misfatti; gli operatori di questo nel decreto appellavansi addirittura
_traditori della patria_; chiunque citato non comparisca, reo di lesa
maestà: e' ci correva da questo linguaggio a quello del dì in cui il
gonfaloniere piagnendo voleva uscire di palazzo e lasciare lo stato
ai cani, e lo avrebbe fatto se un popolano non gli rinfacciava la sua
viltà; ma così va la fortuna. Al tempo medesimo, per dare un colpo al
cerchio ed un altro alla botte, il perdono del martedì santo si tenne
fermo; fu ordinata la guardia delle milizie forestiere al palazzo,
intanto i più fidati cittadini lo custodissero; il prezzo del grano,
che valeva ventiquattro bolognini lo staio si diminuisse di sei;
poi per giunta i soliti fervorini di concordia, di amore di Dio, del
prossimo altresì, _et reliqua_.

Dopo i detti si mise mano ai fatti: primamente levarono di casa
al commissario imperiale, Giovanni Abul di Marzilla catalano, sei
cittadini che vi si erano rifuggiti, commettendosi alla fede di lui,
il quale gli aveva assicurati stessero di buon animo, avrebbe posto a
difenderli ogni sua possa e, occorrendo, la vita; e nondimanco quando
gli furono tolti di sotto strillò, tempestò e poi si tacque; indizio
certo per me che lo Spagnuolo mangiò a due palmenti, non parendo
possibile che i Lucchesi tanto cautelosi, e timidi volessero fare alle
cornate con un commissario dello imperatore; come primi presi, così
furono i primi giustiziati; i cadaveri loro rimasero parecchi giorni
appesi al campanile di San Romano a terrore del popolo; non sembra
che i condannati si estimassero rei, nè troppo li spaventasse la
morte, dacchè uno di loro, Ludovico Matraini, li confortasse con assai
acconcia e fiorita orazione con la quale pigliò loro a dimostrare:
«che non è vergogna morire per la patria; patria non è e non fie mai un
ordine di cittadini che per forza o per fraude soperchia gli altri.»

Dopo queste prime giustizie confidarono la facoltà di processare e di
punire al pretore e ad una balía eletta a tale scopo. Questo maestrato
procedè come procedono tutte siffatte falci fienaie della giustizia
umana: dodici condannò nel capo; stettero incerti su Bernardino
Granucci e per tredici ore fra loro batostarono, poi nel dubbio lo
uccisero, chè dichiararlo innocente menava in lungo e non era di buono
esempio: della confisca non importa parlare, chè allora seguitava le
condanne come l'_amen_ l'_oremus_: sei in galera a vita, sei a tempo,
a perpetuo carcere uno, a temporaneo quattro, sette relegati a vario
confino, tre a perpetuo esiglio; otto, per non parere, assolverono.
Dei cinquantacinque che citati serbaronsi contumaci, tre in perpetuo
bando, gli altri, se tornavano, messi a morte; confiscati i beni
a quarantacinque; quattordici ne uscirono illesi o per favore di
parenti o perchè anco la giustizia dove la batte la batte. Non la
risparmiarono a cotesti due preti, cristianelli di Dio, che avevano
trovato a farsi il covo, uno all'altare della Libertà, l'altro
alla mensa degli anziani; gli strozzò il boccone, e, siccome allora
usava, senza tanti rispetti, notte tempo strangolarono i sacerdoti
Giambattista di Daniello e Giuseppe da Matraia dopo averli sconsagrati
nelle regole. Essendosi rinfocolati gli odii contro i poggeschi, i
quali, dice il decreto, piuttosto come nemici che aspettano luogo
e tempo a nuocere che come cittadini grati ai beneficii ricevuti
vivevano, privaronli tutti per tre anni degli onori: più avventurati
assai dei preti Daniello e da Matraia furono due altri, uno Lorenzo
Matraino, il quale, trovandosi prigione dentro una stanza del palazzo
insieme a suo fratello Filippo, procurò gli fossero recati parecchi
lenzuoli da casa, ch'essi con infinita industria ridussero in fasce
ottimamente cucite dai lati, e mercè di quelle nel fitto della notte
calatisi inosservati, si ridussero in luogo di salvezza; più strano
caso fu quello di Paulino Granucci, a cui furono messi i ceppi, ma
trovandosi ad avere così sottili le gambe che sguazzavano dentro,
tanto s'industriò che giunse a cavarcele; allora con ardimento da fare
rimbrividire chi vide i luoghi saltò giù sopra un tetto e da questo su
di un altro, e così via e via, finchè di un salto non balzò in istrada,
donde corso difilato alle mura, con un altro salto si trovò in campagna
scampando la vita, e troppo bene se lo meritava. Pareva fosse tempo
di smettere, ma paura ed ira nella gente patrizia non così tosto si
attutano; cessata la volta dei colpevoli, venne quella degli aderenti
loro, citandoli a compire, pena la vita; ma essi conoscendo a prova
che dal presentarsi al tribunale iniquo ne veniva sicurissima morte, si
mantennero contumaci, però banditi tutti a perpetuo esiglio: esclusero
solo Bartolommeo Civitali, come quello che giovancello essendo fu
assistito dalla legge (e più da qualche suo consorte), la quale presume
che nella età tenerissima l'uomo si disponga a misfare non per dolo,
bensì per leggerezza. E tuttavia non pareva ai patrizi potere dormire i
sonni in pace se non si toglievano dinanzi agli occhi Vincenzo Granucci
e gli amici suoi, i quali non sapendo come agguantare, ricorsero al
discolato, a cui sottoposero sei nomi; quattro ne resultarono vinti, il
Granucci in capo. Nè pur qui finirono le vendette, le quali non cesso
riportare fino ad una, onde il popolo apprenda rabbia di ottimati che
sia; e non oppongano già che i patrizi mancarono, essi vivono e anelano
ricuperare il perduto; questo è perenne desiderio delle persone, più
duraturo nei corpi collettizi e negli ordini; onde considera, lettore,
quanto poco senno abbiano gli uomini di stato, i quali volendo disfare
un ordine di cittadini reputato infesto, gli tagliano i rami e non
lo svellono dalle radici; col tempo i rami ritornano ad aduggiare
più maligni di prima: o non toccare, o schianta. — Adesso si tenta
per via di straforo mettere le mani addosso ai più temuti di essi, i
quali andavano pure compresi nel perdono del martedì santo: sostenuti
Marchiò, Spinellone e Alfeo testori per causa di stato; questi accusano
parecchi loro compagni e da capo la casata Poggio; fine di questo
processo fu che a Riccardo del Fornaio mozzarono il capo; gli altri
condannati alla carcere o al bando; madonna Caterina Bartolomei di
Poggio fu licenziata con pagheria di 3000 ducati; che più? Ribelli
e banditi in due volte quelli che scalarono le mura; i primi furono
settantadue, i secondi venti.

Chi è venuto leggendo fin qui le rivolture dei popoleschi di Siena
e quelle dei popoleschi di Lucca non può astenersi da confrontare
fra loro le ragioni del moto, le guise di palesarsi e lo esito, e
si maraviglierà come, mentre il popolo sanese si proponesse fini più
eccessivi e gli ottenne, ai Lucchesi poi non venisse fatto conseguire
meno, assistiti da molta ragione; tuttavolta le cause quasi di per sè
medesime si fanno manifeste, e sono, che il popolo sanese, pigliando
parte nel reggimento, innanzi tratto sapeva quello che si volesse, ed
a che si proponesse portare riparo; era pratico del modo da tenere; da
sè si guidava, nè sarebbe riuscito abbindolarlo a persona; al contrario
i Lucchesi, uomini grossieri ed operai al salario dei mercanti, si
risentono per ingiuria materiale, voglio dire la parvità della mercede;
e neppure ella sarebbe di per sè sola bastata senza il caro del vivere;
ottenuto quanto appetivano, tornano a casa; aizzati da quelli che
esclusi dal reggimento volevano esserci messi a parte, per la seconda
volta ripigliano il tumulto per fine che o non li riguardava o poco;
rimuginata dal profondo la città, ribollono le ime fecce e vengono
a galla con confusione e minaccia di tutti; donde per necessità lo
screzio e lo accostarsi dei migliori a chi conserva, i quali, tutti
intesi a superare il mal presente, non badano al futuro, e percotendo
la licenza uccidono la libertà. Il principato, lo rappresentino uno
o pochi, ridivenuto saldo, non ammazza solo i colpevoli, bensì anco
quelli che gli fecero paura senza badare se lo abbiano difeso od anco
salvato; anzi quanto più potente, tanto più reo. Lo storico Zonara
racconta come lo imperatore Basilio cacciando corresse pericolo grande,
imperciocchè un cervo avendolo investito ed intralciategli le corna
nella cintura lo portasse via di sella, del quale successo un suo
fedele turbato trasse la spada e tagliatagli la cintura lo salvò;
Basilio in premio gli fece mozzare il capo, avendo la paura vinto
la gratitudine; la forma drammatica del caso lo rese famoso, ma con
semplicità maggiore alla occasione tutti i principati rassomigliano
allo imperatore Basilio.

Opera da folle sarebbe seminare e non raccogliere; e tale non era certo
il senato di Lucca, che per non perdere tempo mise fuori una legge
in virtù della quale si escludevano da tutti gli uffici e maestrati
così di onore come di lucro coloro che solo da dodici anni in qua
stanziavano in Lucca, nè unicamente essi, bensì i figli eziandio e
i discendenti loro in avvenire; da ora in poi chiunque venisse non
potesse per lungo domicilio acquistare diritto alcuno, eccetto quelli
di cittadinanza, ed anco non dai primi domiciliati, ma dai discendenti
loro in secondo grado: a questo modo i patrizi si apparecchiavano a
instituire la burlevole e nondimanco feroce oligarchia che per tanto
secolo mortificò Lucca; nè, a quanto sembra, mettevano troppa cura
ad infingersi; cotesta legge fu panno che mostrava aperto la corda.
Però gli oligarchi si trovarono sul punto di naufragare in porto, nè
si poteano lamentare, dacchè paia naturale che dove molti congiurano
a opprimere un popolo scappi fuori uno che s'industrii opprimere
tutti. Viveva in corte di Carlo V un cittadino lucchese nominato
Pietro Fatinelli, uomo di maneggio, procacciante e armeggione, il
quale, mettendo ora il piè da un lato, ora dall'altro, come costumano
gli spazzacamini, erasi inalzato assai su per la cappa della corte:
anticamente appellavansi venditori di fumo, e vi aveano leggi che
li punivano; adesso lasciansi stare, o perchè troppi, o perchè non
reputino più misfatti gli arzigogoli loro; e di vero fra i deputati
del nostro parlamento italiano io ce ne conosco parecchi, nel senato
qualcheduno. Ora siccome da lontano ogni cosa che riluca par di oro,
così i Lucchesi assai si valevano dell'opera sua, rimunerandolo di
buone mance e commendandolo molto; ond'egli invanito fuori di misura
stimò devozione le facili lodi di cui è largo ogni uomo cui prema,
comechè mediocremente, tenersi bene edificato un altro uomo: bolli
bolli, al fine egli venne nel pensiero di rendersene assoluto signore,
sicchè, côlto la congiuntura che l'imperatore si riduceva a Lucca per
conferire col papa, gli tenne dietro; dove giunto incominciò subito
a mettere mano alle sue girandole: ignoro se lo conoscesse prima o
se imparasse allora a conoscere il capitano Baccigalupo di Chiavari,
persona arrisicata ed usa a mettersi in simili cimenti; fatto sta che
con lui si accontava, e, riscaldandosi scambievolmente il cervello,
credevano la impresa bella e fornita; se non che, considerandola più
da vicino, conobbero com'essi si versassero nell'assoluta deficienza
di tutte le cose a questo fine necessarie, onde deliberarono tenerne
motto al conte Agostino Lando di Piacenza, persona di scarriera,
in fama di traditore e rapace; nè la fama apparve bugiarda, come si
comprende pel caso che sto per narrare e per l'altro più truce della
strage proditoria di Pierluigi Farnese. Costui pertanto non respinse
la profferta, finse al contrario accettarla, volle essere posto a parte
di ogni particolarità, poi, pattuito segretamente il premio col senato
di Lucca, gli mise in mano tutti i fili della trama: allora tesi i suoi
archetti, il senato si pose a uccellare, ed essendo capitato a Lucca il
capitano Baccigalupo, tosto il sostennero e sottoposero alla tortura,
di cui gli spasimi non potendo egli sopportare, confessò pianamente
ogni cosa ed ebbe per non perdere tempo mozza la testa; subito poi
fu spedito dal senato a Carlo V perchè gli desse modo di tagliarne
un'altra. Carlo, che di congiure era vago come il can delle mazze,
fece alcune lustre per non parere, in fondo poi egli aveva maggior
premura di consegnarlo che gli altri non avevano avuto di chiederlo:
glielo dava con riserva di volere rivedere il processo prima di venire
al taglio. Il senato la data fede osservò, lo imperatore trovò tutto
fatto a pennello: testa più testa meno non monta; e per salvare un capo
italiano davvero non valeva il pregio leggere un processo. Al Fatinello
e al Lando furono pagate le debite mercedi, al primo col ferro, al
secondo con l'oro.

Per tutti questi eventi di leggieri si comprende come Lucca andasse
piena di umori, per cui la massima parte e la più manesca dei cittadini
sentendosi offesa e temendo di peggio, doveva argomentarsi inchinevole
a qualunque rivolgimento che mirasse a sottrarla a questo miserabile
stato di cose: nè basta, le nuove dottrine religiose più che altrove
serpeggiavano in Lucca e presentavano ottimo punto di appoggio per dare
la leva alle varie vacillanti dominazioni d'Italia.



CAPITOLO V.

   La Riforma in Italia fa progressi e minaccia sopraffare il
   cattolicesimo. — Cause che la provocano. — Spettacolo quotidiano
   dei vizi del clero. — Santi padri, poeti, storici e letterati
   grandi tutti addosso a Roma. — Vallesi e albigesi se fossero in
   Italia e quanto durassero. — Benveduti dal clero nella Calabria
   e perchè. — Paganesimo della corte romana, da questo rimane
   indebolita la fede. — Imposture dei chierici e documenti falsi
   per la goffaggine loro di leggieri scoperti. — Lorenzo Valla e
   donazione di Costantino. — Versi di Battista Mantovano. — Lione
   X morendo non potè avere i sacramenti perchè gli aveva venduti.
   — Studi biblici: traduzioni, chiose e commentari. — Savonarola
   se possa considerarsi precursore, di Lutero. — Cesare Cantù e suo
   perfido libro degli _Eretici in Italia_; sue strane difese della
   chiesa romana. — Versioni italiane della Bibbia. — Smania di
   leggere libri dei riformatori. — Opinione stramba di fra Iacopo
   Passavanti su la traduzione volgare della Bibbia; così non la
   pensa Sisto V; al fine Roma approva la traduzione italiana della
   Bibbia, ma come. — Libri proibiti sotto nomi diversi dei loro
   autori penetrano nel Vaticano. — Curiosa avventura narrata dal
   cardinale Serafino circa Melantone, che si rinnuova per altri. —
   Copie di libri proibiti; guadagno e pericolo allettamenti per i
   librai ed i pirati. — Scoperte, viaggi e commerci nocciono alla
   soperchianza romana; nocciono altresì le guerre e il mescersi
   delle nazioni fra loro. — Improperi che si avvicendano. —
   Imperatore e papa. — Sacco di Roma; meraviglia dei Tedeschi di
   vedere gl'Italiani sopportare il dominio dei preti. — Spagnuoli
   ladri e cattolici superlativi. — Tedeschi ladri un po' meno
   e cattolici punto. — Scede al papato. — Scena accaduta sotto
   Castello Sant'Angiolo. — Giorgo di Furstemberg venuto dal fondo
   di Germania per impiccare il papa e i cardinali. — Arringa del
   vescovo di Bari agli auditori della Ruota Romana. — Ferrara. —
   Renata. — Modena i Grillenzoni, Ludovico Castelvetro ed altri; in
   Modena la Riforma si allarga. — Bologna; casi del frate Mollio.
   — Sparata dello Altieri. Commissione romana per la riforma dei
   costumi creata da Paolo III, e caso che ne fanno i preti, anzi
   quei dessi, che la composero. — Le città del patrimonio di San
   Pietro: disputa ad Imola tra un frate ed un laico. — Venezia
   mercanteggia di eresia come di droghe. — Progressi della Riforma
   costà. — I luterani per poco non professano la religione loro
   pubblicamente; provincie di terraferma in quale stato si trovino.
   — Milano giudicato da Paolo III. — Vita ed avventure di Curio
   Secondo. — Valdesio spagnuolo a Napoli svia l'Ochino dal cammino
   della Chiesa. — Siena città dei santi e degli eretici. — Ochino
   e donde il suo nome; sue vicende, peripezie e dottrine. — Pietro
   Aretino e l'Ochino. — La devozione delle Quarant'ore inventata
   dall'Ochino. — Smancerie del cardinal teatino all'Ochino. — La
   riforma a Pisa, a Mantova, a Locarno. — Digressione intorno
   al fanatismo religioso e politico. — Odio contro il papato
   nella universa Italia. — Donne eretiche in Italia. — Si parla
   della riforma nella città di Lucca: e cause per aborrire Roma
   in Lucca antichissime. — Pietro Martire, donde il nome e la
   patria; suoi studi: predica sul purgatorio. — Vicario di San
   Frediano a Lucca: suo apostolato costà; amici e studi suoi. —
   Paolo III a Lucca non molesta il Martire, e perchè. — Cardinale
   Contarini amico del Martire e tinto di eresia. Carlo V tiene
   al fonte Carlo padre di Giovanni Diodati volgarizzatore della
   Bibbia, e papa Paolo lo battezza. — Oscena guerra contro il
   Martire, perfidissime lettere del cardinale Guidiccioni lucchese
   alla Signoria di Lucca. — Disegno di Carlo V circa a tôrre la
   libertà a Lucca riportato dal Luito Balbani non è creduto dal
   Tommasi, e con poco fondamento. — Un frate è preso; a forza
   liberato dal carcere, nella fuga si rompe una gamba ed è ripreso.
   — Il Martire e l'Ochino lasciano la Italia; il primo è eletto
   professore a Strasburgo. — Chiesa luterana di Lucca percossa non
   dispersa: che cose le scrivesse il Martire tredici anni dopo la
   sua fuga. — Lucca donde cava il nome: cause per le quali a Lucca
   la Riforma più presto che altrove attecchì e più lungo durò. —
   La Riforma in onta alle apparenze di esito certo e alle paure
   di Roma venne meno in Italia. — Se ne indagano sommariamente le
   cause. — Inquisizione; Roma da prima osteggia la inquisizione,
   e perchè. — Persecuzioni a Modena. — Del Castelvetro e della
   infamia del Caro buon letterato ed uomo pessimo: nè chi vive
   in corte di Roma può essere diverso. — Sonetto del Caro contro
   il Castelvetro mandato a memoria per virtù dei reverendi padri
   barnabiti. — Confronto delle lapidi sepolcrali di ambedue.
   — Feroce e moltiplica persecuzione a Ferrara: Olimpia Morato
   fuggendo scampa. — Commissione del re di Francia alla zia Renata
   duchessa di Ferrara; sue angustie: messa in carcere, divisa dai
   suoi; il figlio Alfonso la manda via. — Questi il _magnanimo_
   Alfonso di cui canta il Tasso: in che pregio il _magnanimo_
   tenesse il Tasso. — Grandezza d'animo di Renata; sue figliuole.
   — Venezia tira partito dalla libertà di coscienza come da ogni
   altra cosa; ma poi spaventata dalle minacce di Roma piega:
   persecuzioni costà. — Terrore cattolico nell'Istria. — I Vergeri.
   — Caso miserabile di esuli veneziani dannati a morte per eresia.
   — Quali i supplizi veneziani. — Improntitudine dello inquisitore
   contro il duca di Mantova. — Ferocie clericali a Faenza ed a
   Parma; a Faenza il popolo dà di fuori e si sfoga. — Falsità
   pretine a Locarno; miserie dei Locarnesi spatriati. — Disputa
   tra il nunzio e le donne di Locarno. — Avventura di Barbara
   Montalto. — Altre atrocità pretine da clericali moderni, massime
   dal Cantù, non pure scusate, ma quasi lodate. — Roma avversa a
   Napoli la Inquisizione di Spagna perchè intende esercitarla da
   sè. — Lamentabili casi avvenuti in Calabria. — Sansisto e la
   Guardia colonne infami per Roma. — Corrispondenza tra Roma ed
   Austria, e poi tra Austria e Francia; digressione intorno alle
   condizioni presenti d'Italia. Testimonianze cattoliche intorno
   alle crudeltà sacerdotali da mettere non che ad altri pietà a
   Nerone. — Bartolomeo Fonzio mazzerato nel Tevere. — Paolo IV
   invaso da libidine di sangue: popolo romano rompe le statue di
   lui morto, mentre avrebbe dovuto rompere la testa di lui vivo. —
   I parziali di Pompeo Di Negri mercè settemila ducati ottengono
   che prima di bruciarlo lo strangolino: questo il Cantù afferma
   che i preti facessero senza quattrini: ma per essere creduti
   dal Cantù bisogna essere preti e carnefici. — Pio V più feroce
   di tutti: varie stragi a Como, a Torino, a Roma. — Paschali
   strangolato ed arso alla presenza del papa. — Altre persecuzioni.
   — Si torna a Lucca; diligenze per estirpare in cotesta repubblica
   l'eresie. — Lucchesi sciamano a frotte, massime i Burlamacchi:
   dove si rifuggissero; discendenza ed estinzione della linea di
   Francesco Burlamacchi.


Grande fondamento poneva altresì il Burlamacchi negli umori religiosi,
i quali dove più dove meno andavano allargandosi in Italia, ma però
con tanta perseveranza da persuadere ogni uomo avvezzo a speculare
che la Riforma sarebbe senza fallo prevalsa: di fatti veruna contrada
della cristianità compariva come la Italia disposta alla Riforma,
però che qui cadesse quotidiano sotto gli occhi lo spettacolo della
contaminazione della gente chiesiastica; e sebbene di molta autorità
fossero i santi padri che così in Italia come fuori rampognavano la
chiesa romana delle sue abominazioni, pure, se non più credito, certo
maggiore pubblicità di loro ottenevano i poeti, i filosofi, i politici
e di ogni maniera letterati, imperciocchè i successi che imprimono
carattere ai popoli prima di diventare fatti sieno idee, e queste
partonsi dalla mente agitatrice del mondo. Gli è vero che lo scherno
e la rampogna cadevano sopra vizi personali, ma tanto si dilatava il
numero dei contaminati che gl'innocenti erano eccezione; e poi Roma,
studiosa del profitto presente, così aveva ravviluppato le persone
con le cose, la forma con la sostanza, che districare male si potevano
allora, adesso peggio, ond'io sinceramente credo che, percossa la curia
romana, abbia a toccarne la Chiesa.

Ancora, seminii di rivolta e di opposizione occorsero sempre in
Italia; antichi sono fra noi gli albigesi e i valdesi calati dalle
Alpi in Lombardia e quinci allargatisi per la universa Italia fino
alla remota Calabria, nonostante le trucissime persecuzioni dei papi e
degl'imperatori, da Gregorio IX e Federigo II in poi legati a piantare
anco a mo' di stile la dominazione loro nel cuore dei popoli e poi
nemici implacabili a strapparsela di mano, nel secolo decimoquarto
duravano in Italia sovvenuti dai Boemi e dai Polacchi; in Calabria
erano l'occhio diritto dei preti cattolici e più dei frati; non già che
questi sul principio non avessero mostrato loro il viso dell'arme, come
quelli che li temevano venuti a soppiantarli, ma provatili in seguito
obbedientissimi a pagare le decime, e queste rinvenute grasse a causa
della stupenda industria posta dai medesimi nella coltura dei campi,
si erano adattati a vivere con essi in pace su questa terra, salvo a
mandarli allo inferno nell'altro mondo. Oggimai corre notizia comune
che gran parte della religione di Giove entrasse in quella di Cristo, e
questo travasare di fede come si fa del vino dall'una all'altra botte,
mentre nuoce alla prima, non approda alla seconda; e peggio poi quando
nella corte di Roma si palesò piuttosto il furore che la passione per
la favella e le antichità romane. Già fino dalla fanciullezza di Lione
X, allora Giovanni, il Poliziano si stizzava con la madre sua perchè
con la lettura del Salterio lo imbarbarisse; promosso pontefice, la
Chiesa comparve ingombra di una moltitudine di scrittori e di artefici
pagani a tale che non la casa di un pontefice, ma l'aula di Augusto
per lo appunto sembrava. Il Sadoleto con ciceroniano stile fulminava
la scomunica contro Lutero, il Bembo dettava forbitamente elegante
la bolla delle indulgenze; per lui non erano morti gli dii vetusti,
anzi nei suoi versi rivivevano Lucina ausiliatrice dei parti, gli
dei mani ed anco gl'inferi; alle cortigiane senza tante cerimonie
ponevansi per le chiese statue e monumenti, dove si avvertiva,
mediante solenni epitafi ciò farsi appunto pei meriti acquistatisi nei
meretricii esercizi; e simile culto alla maniera dei pagani dispose
gli animi a credere poco, a deridere molto, dissolvere col dubbio
e apparecchiare la filosofia. Veramente quando noi consideriamo i
casi umani, soprattutto desidereremmo che nè la tirannide mai nè lo
errore fossero mandati a contristare la terra; pure, dacchè un fato
ce gl'invia, dobbiamo altresì confessare che ci vengono accompagnati
col germe della loro distruzione in corpo: così quando Cosimo I volle
spegnere ogni aspirazione di libertà, procurando rimbambire le menti
con le baruffe grammaticali, ritemprò invece la lingua, anello di unità
fra i popoli italiani e pegno di futuro risorgimento. Arrogi le immani
falsità impunemente fabbricate dai preti ingordi nei secoli d'ignoranza
ed ora col nuovo lume degli studi conosciute e derise; primo e
infestissimo fra questi critici molesti Lorenzo Valla, il quale mentre
rende argomento di sceda la donazione di Costantino corre rischio di
essere bruciato vivo; fine che non poterono fuggire Girolamo da Praga
e Giovanni Hus, peggio di Cristo traditi da masnadieri che ardivano
affermarsi vicari e sacerdoti di lui:

    Venderecci fra noi gli altari e i templi
    Ceri, incensi, preghiere e sacerdoti,
    Venale il cielo, se lo paghi, e Dio.

come si lamentò Battista Mantovano nel suo poema _Della calamità
dei tempi_; e gli studiosi conoscono l'acerbo epigramma corso fra la
gente quando papa Lione morì senza sacramenti, di cui questo era il
concetto: ei non potè averli perchè gli aveva venduti. Successe a danno
della Chiesa la diffusione dei volgarizzamenti della Bibbia in diverse
lingue; donde poi chiose e commentari e confronti: nè le nocque meno
lo studio dei santi padri, i quali porgono testimonianza dei costumi
della prima chiesa di Cristo e della infamia della odierna chiesa dei
preti: la scienza adoperata a far lume allo errore si vendicò mostrando
la di lui turpezza alle genti. Ormai ognuno sentiva la uggiosità della
Chiesa, universale il malcontento e la voglia di ridurla a termine di
onestà; ma il modo non appariva, e più del modo restava ignoto l'uomo
che volesse e valesse iniziare la contesa. Il Savonarola forse era nato
per mandare sottosopra la chiesa romana; a taluno sembra di no, perchè,
considerata la maniera della sua contradizione, sembra intendesse
riformare il costume salvando il resto; ma anco Lutero cominciò da
piccoli inizi; ed una volta il frate posto sopra lo sdrucciolo, non si
sa dove sarebbe ito a finire, chè lieve scintilla gran fiamma seconda.
La Chiesa gli rubò la mano e lo fece ardere; Cesare Cantù, in certo suo
libro recentemente pubblicato col titolo _Gli eretici in Italia_, ci
fa sapere che egli giudica calunniatore espresso di santa madre Chiesa
chi afferma ch'ella facesse ardere vivi gli eretici: questo è falso;
la Chiesa prima di bruciarli gli faceva strozzare. Di tale indole le
difese del Cantù se non peggiori; su le fodere del libro un beghino
francese scrive che cotesto libro mancava alla Italia: certo prima che
il Cantù lo componesse non ci era; rimane a vedere quanto egli abbia
provveduto alla patria, alla verità e alla sua fama componendolo, e di
ciò basta ed è troppo.

A noi gente stracca di anima e di corpo male riesce comprendere quanto
allagamento traboccasse dallo studio della Bibbia; ei si cacciò come
il cuneo nel ceppo della tradizione e della dottrina chiesastiche;
dapprima Roma non ci avvertì, o se pure ci badava, mal poteva anco
da lontano presagire il guaio che le venne: dopo la stampa delle
Bibbie ebraiche onde furono famosi gli ebrei soncinati, venne il
furore delle traduzioni nelle lingue orientali: nella lingua volgare
nostra affermasi la traducesse ab antiquo Iacopo da Varagine vescovo
di Genova, ma non se ne trova traccia; dopo di lui la tradusse Nicolò
Malermi; più tardi Antonio Brucioli di Firenze; successero al Brucioli
traduttori biblici Santi Marmocchini, Zaccaria Rustici ed altri che
non si ricordano; chi lo può sapere ammaestra che nel decimoquinto
secolo se ne fecero nove edizioni, nel decimosesto venti: la smania
di possedere Bibbie e le chiose le quali andavano dettandoci su
alla giornata i teologhi non amici di Roma pigliava garbo e calore
di febbre. Il carmelitano Baldassare Fontana da Locarno in questo
modo raccomandavasi a certo pastore evangelico: «Con le lagrime
agli occhi e con sospiri noi che sediamo fra le tenebre supplichiamo
umilmente voi, cui sono famigliari gli autori dei libri della scienza
ch'ebbero in sorte penetrare i misteri di Dio, di spedirci i libri
dei grandi maestri, specialmente le opere del divino Zuinglio, dello
illustre Lutero, dello arguto Melantone, del puntuale Ecolampadio; sua
eccellenza Verdinyller fu da noi incombenzato di pagarvene il prezzo.»

Allora Roma, dal nuovo pericolo commossa, si diede a calafatare
le fenditure onde entrava l'acqua, ma tardi; fece dire per fino al
Passavanti, forbito scrittore dello _Specchio di vera penitenza_,
che il ridurre la Bibbia in questo nostro idioma volgare egli era
avvilirla; Sisto V non la pensava così, chè all'opposto ci mise mano
egli stesso e la voleva stampare, ma ebbe a sospendere a istanza della
Spagna, più papesca del papa. All'ultimo la Chiesa praticò una via di
mezzo: la si traducesse in italiano, ma però non si stampasse senza
commenti, che hanno che fare col testo quanto gennaio con le more, o
che mutano niente meno la negativa con l'affermativa, o viceversa.

Ma a cotesti tempi non correva stagione benigna pei compositori
di commenti; sicchè gli sbirri papalini tonsurati o senza tonsura
cacciavanli come belve in bosco: ma siccome la guerra si dichiarava ai
nomi, così fu agevole bucare la legge sopprimendoli ovvero alterandoli,
per la quale cosa i libri proibiti penetravano perfino nel Vaticano
e vi rimasero un pezzo, finchè, conosciutili, si gittarono via quasi
scorpioni fossero o rettili velenosi. Il cardinale Serafino certo
dì narrava a Scaligero maggiore una assai piacevole avventura. Erasi
stampata a Venezia l'opera dei _Luoghi comuni_ di Filippo Melantone col
titolo di messere Ippofilo di Terra Nera, cioè recando in volgare il
cognome greco Melantone, che suona appunto terra nera, e capovolgendo
il nome Filippo: piace il libro a Roma, dove per un anno intero vendesi
in pubblico anzi, spacciatasi la prima mandata, ne trassero degli altri
da Venezia; all'ultimo un frate francescano scoperse la ragia: da prima
se ne levò uno scalpore grande, e nientemeno si parlava di mettere
alla colla il libraio, il quale forse non avrà letto sillaba del libro;
ma poi non se ne fece altro e si abbuiò la cosa col bruciare tutte le
copie sopra le quali poterono mettere le mani. Così del pari accadde a
Lutero, di cui la prefazione sopra l'Epistola di san Paolo ai Romani e
il Trattato intorno alla giustificazione corsero un pezzo sotto il nome
del cardinale Fregoso e piacquero. Le opere di Zuinglio circolarono
un dì sotto il nome di Coricio Cogelio, e parecchie edizioni dei
Commentari di Martino Bucero sopra i Salmi vendevansi in Francia come
cosa di Aretio Felino.

Roma raddoppiava scomuniche da levare il pelo, e i librai audacia per
provvedere libri proibiti, chè dove vi hanno pericolo e guadagno due
maniere di gente corrono smaniose, i pirati e i librai, e non si sa
bene se spinti più dal primo o dal secondo movente.

Valsero (come ogni cosa vale che purghi la mente dagli errori e
allarghi lo intelletto) alla decadenza del tristo edifizio clericale
le scoperte americane, i viaggi, le scienze ed i commerci impresi
co' popoli comechè rimotissimi del mondo, e per altra parte valsero
le guerre, le discordie dei principi, l'odio delle nazioni e il
rovesciarsi delle une su le altre. Papa Clemente accusava Carlo, e non
era vero, di tepidezza, se pure non si doveva chiamare avversione,
alla chiesa cattolica, come anco di leggi pubblicate nei suoi stati
lesive della dignità non meno che degli interessi della santa sede;
Carlo di rimando rinfacciava al papa la guerra accesa da lui per bene
due volte a ruina di Europa e i perpetui sotterfugi per sottrarsi alla
riforma della Chiesa nel suo capo e nei suoi membri; avere voluto
e chiesto a sazietà si convocasse per questo un concilio generale,
e poichè vedeva che gli si dava erba trastullo, egli erasi risoluto
abolire nella Spagna la giurisdizione del papa, insegnando per quel
modo alle altre nazioni come gli abusi preteschi potessero correggersi
e l'antica disciplina restaurarsi senza bisogno di papa. — Troppo più
di questi bisticci nocquero al papato. Roma assalita e messa al sacco
e il mescolarsi insieme di tante e tanto varie nazioni. I Tedeschi non
si potevano capacitare come un popolo ingegnoso qual è e confessavano
che fosse l'italiano si rassegnasse a vivere soggetto ad un sacerdozio
sozzo ed odioso che lo faceva poltrire nella ignoranza trassinarlo e
scorticarlo a suo agio. Durante il sacco furono visti gli Spagnuoli,
cattolicissimi se altri mai ne vissero al mondo, esercitare violenze
immani e rapine senza requie, anzi dopo il pasto avevano più fame di
prima; non così i Tedeschi, i quali certo bevvero il vino altrui e
le altrui robe rubarono, ma sopratutto posero studio ad avvilire i
riti della Chiesa per modo che mentre cingevano d'assedio il castello
Sant'Angiolo questo fatto operarono: una torma di soldati vestiti da
monaci e da preti saltarono in groppa a muli, a cavalli; uno fra loro
appellato Grunvaldo, notabile per vaste membra, vestito da papa, con
un triregno di carta dorata in capo monta sopra una mula con arnese
alla grande; dietro a lui un altra comitiva di ufficiali immascherati
quali da cardinali, quali da vescovi, con cappello o mitra sul capo,
con vesti di vario colore a rosso o bianco o pagonazzo secondo la
dignità; accompagnava la processione una moltitudine di pifferi e
tamburi cui teneva dietro la folla del popolo rumorosa e festante; così
Grunvaldo benedicendo a destra ed a mancina arriva fin sotto Castel S.
Angiolo, dove scende dalla mula e subito su di una sedia gestatoria
viene tratto d'intorno a spalla di uomo; ora pigliato un ciottolone
di vino o rovesciandoselo in gola propina alla salute di Clemente, i
circostanti ne imitano lo esempio; poi impone ai cardinali il debito
di professarsi fedeli allo imperatore e li sottomette con giuramento
all'obbligo di non turbare da ora innanzi la pace dello impero con
le fraudolenti ribalderie loro; oggimai sudditi tranquilli senza
mescolarsi nel reggimento civile s'ingegneranno a vivere secondo i
precetti della Scrittura e lo esempio di Gesù Cristo. Ciò compito, si
mise con voce magna a predicare a parte a parte, narrando le infamie,
i parricidii, le scelleratezze, insomma tutti i delitti di rapina e
di sangue onde la chiesa di Roma venne in abominio degli uomini e di
Dio; e poi concluse obbligandosi di trasferire per via di testamento
ogni sua potestà a Martino Lutero, perchè trovasse maniera di assettare
questi sconci: egli solo capace a rattoppare la barca di san Pietro,
egli solo pilota idoneo a condurla in porto così sdrucita com'era per
colpa di coloro che, invece di custodirla, annegati nella gozzoviglia
e nella lascivia l'avevano lasciata andare per persa; e all'ultimo
disse: «Quelli che approvano le mie proposte alzino la mano in segno di
consenso.» Tutti levarono le mani così popolo come soldati gridando:
«Viva il papa Lutero! viva il papa Lutero!» E fortuna volle che il
papa e i cardinali non cascassero in mano a quella bestia di Giorgio
Furstemberg, uomo di ferro, che, partitosi dalla estrema Germania
a capo de' suoi lanzichenecchi, portava attaccato all'arcione della
sella un mazzo di capestri rossi ed uno d'oro, coi quali aveva giurato
impiccare i cardinali e il papa; e lo faceva, ma non gli capitarono fra
le ugne.

Ma via, gesti erano quelli e detti di gente iniquissima al papato,
nè parrebbe dovessimo farne caso, se scrittori contemporanei, anzi
magistrati, in occasioni solenni con termini del tutto pari non
avessero vituperato la corte di Roma.

Il vescovo di Bari Stafilo, arringando gli auditori della Sacra Rota
romana intorno alle cause dello eccidio di Roma, tra le altre cose
diceva a cotesti prelati: «Ma orsù rispondetemi: donde derivano tutti
questi casi? perchè tante sciagure ruinarono sopra di noi? Perchè tutta
la carne ci sta corrotta intorno alle ossa, perchè noi siamo non già
cittadini della città santa, bensì di Babilonia, la rea baldracca.
Mirate come tutte le profezie si avverino a danno suo. Isaia esclama:
— Oh come la città sacra, di giusta e fedele, diventò meretrice! un dì
in lei regnava la giustizia, ci regnano adesso sacrilegi ed omicidii;
prima l'abitava gente eletta e di virtù amica, adesso la ingombrano il
popolo di Gomorra, una razza di vipere, i figliuoli della corruzione,
sacerdoti infedeli e complici di ladri. — Nè mi si dica questa
profezia già compita, avendosi a referire alla ruina di Gerusalemme
avvenuta ai tempi di Vespasiano, imperciocchè (ve lo affermo io) il
futuro stesse tutto dipinto al cospetto del profeta; onde male si può
sostenere che la sua visione si riportasse ai successi prossimi alle
profezie piuttostochè ai più lontani. E di vero, se per noi si vorranno
ricercare argutamente le altre profezie, ci apparirà manifesto com'esse
si riferiscano a Roma, nè eccetto che a lei possano a verun'altra città
referirsi. L'apostolo san Giovanni nell'Apocalisse gli è chiaro come
l'acqua che accenna a Roma allorchè dice: — La grande città la quale ti
sta davanti è la città che regna sopra tutta la terra; ella giace sopra
sette colli. — Dunque qui si parla di Roma; il profeta aggiunge ch'ella
si posa seduta sopra fiumi di numero infinito, ed anco questo non si
può attribuire eccettochè a Roma, solo che voi vogliate porre mente
che fiume significa popolo; egli, il profeta, dice altresì: — Ella va
coperta con nomi di vergogna, ella è madre d'impurità, di fornicazione
e di vituperio. — Oh! qui poi si conosce espresso che dichiara Roma,
conciossiachè quantunque questi misfatti dapertutto compaiano, in verun
luogo come in Roma smaglino nella loro potenza satanica.»

Sebbene io non creda e non sia che a Ferrara s'incominciasse a
predicare la Riforma, pure è certo che quivi meglio che altrove
cestisse e quinci meglio che altrove si propagasse; perocchè Renata
figlia di Luigi XII e moglie di Ercole II la proteggesse; prima
ch'ella si partisse di Francia lei aveva nella dottrina dei riformatori
allevata Margherita regina di Navarra; giunta in Italia in compagnia
di madama di Subisa sua governante, contro la romana curia inviperita,
a mano a mano si circondava di gente fidatissima tutta congiunta alla
Subisa, come il suo figliuolo Giovanni, che fu poi uno dei campioni
della Riforma di Francia, Anna sua sorella ed il fidanzato di lei
Antonio de Pons conte di Marennes; più tardi ci venne Clemente Marot
poeta francese, che, obliato un giorno, oggi dà vita e moto alla
poesia di Francia per quanto ella ne possa andare capace, e per un
tempo vi ebbe onorata stanza in qualità di segretario della duchessa;
gli tenne dietro Leone Jamet, e per ultimo, sotto il finto nome di
Carlo Happeville, ci si condusse Calvino. Tutto questo tramestío non
si potè operare senza che Roma ne pigliasse fumo, e se ne sentisse
rovello non importa dire, sicchè tanto e tanto ella si maneggiò con
Ercole, uomo cui pareva essere principe perchè mandava la gente alla
forca per conto altrui, che questi si obbligò in virtù di trattato
col papa e coll'imperatore di bandire quanti Francesi si trovassero
in corte. Così Renata ebbe a separarsi con ineffabile affanno dalla
Subisa e dai suoi; il Marot esulò a Venezia; al Jamet riuscì passarsela
tra goccia e goccia rimanendosi al fianco della duchessa: ma innanzi
che si venisse a questo passo il seme era stato sparso, mercè la
dottrina dei letterati illustri chiamati a Ferrara a professare umane
lettere nella università ovvero ad istruire i giovanetti principi; e
comechè tutti luterani non fossero, tutti però le idolatrie romane e
la insopportabile superbia dei preti aborrivano; ricordansi tra i più
celebri Celio Calcagnini, Lilio Giraldi, Bartolomeo Riccio, Marcello
Palingenio, Marcantonio Flaminio, Chiliano e Giovanni Sinapi e Fulvio
Morato padre a quella Olimpia che tanto buona fama di sè sparse
nel mondo. Difficile sarebbe dire quanti alle dottrine luterane si
convertissero in Ferrara; pochi certo non furono, ma apertamente ne
apparve mutato il numero a norma della mutabile mente del duca, che
feudatario della Chiesa ogni acqua bagnava; importa eziandio ricordare
che, a seconda dei tempi, nobili in copia seguaci delle dottrine
novelle dalle altre parti d'Italia sotto la protezione di Renata, come
in fidatissimo asilo, a Ferrara ricoverarono.

A Modena, se avessimo a prestare fede al cardinale Morone vescovo
di cotesta città, la faccenda sarebbe ita anco peggio, avvegnachè
egli giudicasse la città intera imbrattata di luteranismo; ma ognuno
sa quanto i chiesastici costumino in pro' loro a impiccolire o ad
allargare le cose; e poichè o tu li prenda per un dito o agguanti loro
la mano, gridano lo stesso, e tu, quando ti capita, tienli per la mano
e pel collo; e poi putendo egli stesso di eretico sicchè ebbe a durare
un lungo processo ed a patire prigionia fino alla morte di Paolo IV,
forse con le dimostrazioni di zelo eccessivo s'industriava allontanare
il sospetto da sè: però sendo Modena città letterata, non fa maraviglia
se quivi troppo più che altrove occorressero nemici a Roma. L'accademia
modenese fondata dal Grillenzoni, smesso ogni altro tema, s'inabissava
nelle controversie teologiche: temuto sopra tutti, epperò unicamente
perseguitato quel Ludovico Castelvetro il quale recò nella critica
e nelle dispute filologiche l'acre sottigliezza della teologia, e
forse non ebbe animo buono, ma di lui due cotanti più tristo Annibale
Caro suo nemico, il quale gli scriveva libri contro con la medesima
intenzione che il boscaiolo tagliava fascine per servizio della
Inquisizione: Narrasi che i predicatori cattolici erano costà presi a
dileggio, sicchè dovevano a marcio dispetto lasciare il pulpito agli
avversari, i quali con la copia degli argomenti e con lo eloquio degno,
o sia che così fosse, o sia che così paresse, empivano di entusiasmo
gli ascoltatori. Al Bucero parve ormai cotesta città guadagnata alla
fede e gliene mandò lettere gratulatorie anco qui molti i dotti che
ragionano, il popolo che sente scarso. — A Firenze, donde già si
erano tirati due papi di casa Medici, e regnava Cosimo dei Medici, la
riforma non poteva aspettarsi lieti giorni nè gli ebbe, bensì generò
parecchi uomini che furono strenui confessori e martiri della religione
riformata, come Pietro Martire Vermigli, monsignor Carnesecchi, il
Bruscoli ed altri. Il Cantù ci fa sapere come il Bruscoli fosse spia
di Cosimo, e pur troppo sarà stato; che monta questo? forse voi altri
cattolici volete soli il privilegio di raccogliere nel proprio seno
traditori? E se costui hassi a stimare infame perchè spia, vorreste
salutare santo Cosimo che lo pagava? Ma di questo infelice parleremo
più tardi.

Chiamati dalla fama della vetustissima università, dotti e ignoranti
traevano dalle più remote parti di Europa a Bologna; i primi per
insegnare, i secondi per istruirsi; veruna terra meglio disposta di
quella alla dialettica dacchè il giorno per la filosofia non era ancor
sorto; mancava la favilla per appiccare lo incendio, e questa, non già
favilla ma torcia, fu Giovanni Mollio di Montalcino minore osservante.
Costui, dopo avere professato con molta rinomanza nelle più celebri
università d'Italia, si ridusse a Bologna, dove subito gli mosse guerra
l'astiosa dappocaggine del Cornelio metafisico; di qui una sfida a
disputare in pubblico, dalla quale il Cornelio uscì spennacchiato;
l'ira lo fece spia, e sta bene, perchè mediocre in lettere, moderato
in politica e spia siano tre focacce levate dalla medesima pasta;
sottoposto il povero frate al sindacato di quattro cardinali, ebbe un
santo dalla sua, perchè buono non lo rinvennero, e tristo da buttarlo
sul fuoco neppure; solo gl'interdissero la predica sopra l'epistole
di san Paolo, ma parlarono a sordo; allora il cardinale Campeggio lo
cacciò via dalla università; trovo anco scritto che certo Baldassare
Altieri mandava avviso ad un suo amico tedesco come un gentiluomo di
Bologna, quando si fosse dichiarata guerra al papa, stava pronto a
concorrerci a sue spese con seimila fanti da lui arrolati e pagati:
quantunque a me paia cotesta più che altro iattanza, pure, fatta
la parte sua alla esagerazione, si ha da dire che molti e potenti
vivessero in Bologna gli zelatori della Riforma. E giusto favellando
della necessità di riformare i costumi chiesastici e della voglia
che la curia romana aveva di farlo, merita essere da noi riportato un
caso il quale da un lato dimostra il credito grande che si tiravano
dietro le deliberazioni di cotesta città, e chiarisce dall'altro la
fede pessima dei papi. Taluni Bolognesi avendo scritto a Giovanni
Planitz ambasciatore dell'elettore di Sassonia in Italia circa la
necessità di convocare il concilio, questa lettera mise tanto il campo
a rumore che Paolo III per ischermirsi deputò tosto una commissione
di quattro cardinali e di cinque prelati affinchè avvisassero sul da
farsi; fra i cardinali il Caraffa. La commissione eseguì il cómpito
con prestezza pari a lealtà; moltissime colpe accennò e molti rimedi
propose; principalissima delle colpe da emendarsi dichiarò il cumulo
degli uffici di cardinale e di vescovo; il rapporto della commissione
si legge in parecchie raccolte ed ha per titolo: _De concilio de
emendanda Ecclesia iussu Pauli Tertii_; fu stampato, pubblicato per
comando del papa, ma nè papa nè cardinali lo mandarono nè manco per
ombra ad esecuzione; dei cardinali che lo composero quelli che erano ad
un punto vescovi continuarono a tenere mitra e cappello; il cardinale
Polo avendo a scegliere tra cardinale e primate d'Inghilterra, conservò
i due offici; e quel Caraffa così ferocemente rigido, diventato Paolo
IV, condannò quanto aveva proposto cardinale teatino. Gran brava gente
i preti! —

Non che la terra lombarda, pareva che san Pietro non potesse salvare
dalla contaminazione nè manco quella terra che i preti chiamano
_patrimonio_ di lui: e però la storia testimonia propense alla
Riforma le città di Faenza e d'Imola; in quest'ultima narrasi che un
predicatore affermando come veruno potesse acquistarsi il paradiso
tranne che in virtù delle opere buone, certo giovane gli arguì contro
gridando: «Bestemmia! La Scrittura dichiara Cristo avere conquistato
il paradiso con la sua passione e morte, e a noi donarlo per effetto
della sua misericordia.» Di qui s'impegnò la disputa, stando la gente
in cerchio dintorno ad ascoltarli; il giovane, o perchè fosse bel
parlatore, o perchè fastidissero il frate, sovente aveva plauso; di
che stizzito il frate di un tratto proruppe: «Va via, grullo, tu non
hai anco rasciutto il latte su le labbra, e ti attenti a ragionare di
divinità, mentre altre barbe che la tua non è tacciono comprese dalla
riverenza del mistero.» E il giovane al frate: «Di male in peggio; o
non hai tu letto nel Vangelo che Dio deriva la sua gloria dalla bocca
dei fanciulli?» Il frate scappò via scotendosi la polvere dei sandali,
come se Gomorra o Sodoma abbandonasse.

Venezia faceva il commercio di eresia come gli ebrei soncinati di
Bibbie; non che ella fosse priva di contaminazione, per dirla in
istile di curia romana, chè anzi più delle altre città italiche se ne
risentisse, ma in bell'armonia teneva unite borsa e coscienza; colà
riparando gli eretici italiani dettavano o traducevano e stampavano
opere che poi si esitavano con molto vantaggio e presto nella rimanente
Italia; colà più di tutti diffondevano la luce e la semenza del
Signore, per dirla in istile di Riforma, Pietro Carnesecchi e Baldo
Lupetino, entrambi salutati martiri allora, adesso fanatici. Con questi
si dava da fare un Baldassare Altieri di Aquila, a cui incolse bene
perchè segretario dell'oratore inglese a Venezia: a ragione per tanto
Lutero scrivendo a Giacomo Zeigler molto si rallegrava del profitto
cavato da cotesta città; di vero i protestanti osarono qui quello che
si erano peritati di tentare altrove, vogliamo dire, chiedere alla
scoperta la facoltà di professare pubblicamente il culto luterano.
— Da Venezia si riversavano simili umori nelle provincie di Bergamo,
Verona, Brescia, Vicenza, Treviso; ed è da credersi che se in cotesti
tempi un papa avventato avesse strinto troppo, gli si saria rotta la
fune in mano: che se qualche volta pencolando il doge la dava vinta
a Roma consegnandole taluno eretico, questo generava danno, ma poco,
ed anzi la voglia di vendicarlo o di operare in guisa che non si
rinnovasse rendeva vie più smaniosi i luterani a propagare le proprie
dottrine. Verranno i tempi sinistri; per ora il vento soffia secondo
nel gonfalone dell'eresia.

A veruna città seconda, a moltissime prima, Milano agitava irrequieta
la cupidità di rompere l'odiato giogo di Roma; da lei fino nei
remotissimi tempi apparve la voglia di opporsi al papato; e di lei
forte si lagna Paolo III scrivendo al vescovo di Modena, accusandola di
girsene dietro alla dottrina diabolica ed impura degli antichi eretici:
stava proprio a Paolo III padre di Pier Luigi Farnese adoperare la
parola impura; e' ci hanno vocaboli i quali scottano le labbra di
cui li profferisce; i preti poi, per quello che ne appare, non temono
scottature. Qui occorre, quanto più breve per me si potrà, esporre le
vicende di Curio o Curione secondo; imperciocchè le opere sue molto
potessero sopra gli animi dei Milanesi e dei Lucchesi. Egli nacque a
Chieri, donde si fece il suo cognome Curione, primogenito di ventitrè
fratelli; mandato a studio a Torino, quivi s'invaghì delle dottrine
dei riformisti, per professare liberamente le quali s'indettò con certi
amici suoi, passate le alpi, ridursi in Germania: presi in Aosta sono
chiusi nel castello di Caprano; dopo due mesi a Curio concedono stanza
nel monastero di San Benigno; colà gli prese il ticchio di aprire un
reliquario e cavatene le ossa, metterci dentro una Bibbia e con questa
leggenda: «Vedi l'arca dell'alleanza, la quale contiene i veri oracoli
di Dio e le veraci ossa dei santi.» Scopertasi la beffe, chiamata
a quei tempi sacrilegio, Curio, subodorando che i sospetti facevano
capo a lui, se la svigna a Milano; colà condusse donna di casa Isacchi
ed ottenne una cattedra dove si acquistò bellissima fama: costretto
a uscire di Milano per causa dalla invasione spagnuola, recossi a
Casale e quivi dimorò alquanti anni oscuro; la morte di tutti i suoi
fratelli lo persuase a tornarsi in Piemonte per raccogliere il paterno
retaggio; glielo serbava un cognato, a cui per averlo troppo lungamente
custodito ora sembrava proprio che fosse suo, onde invece di rendergli
il patrimonio gli fece il tiro di accusarlo di eresia; e Curio da capo
a scappare con arguzia e celarsi in Savoia. Certo dì trovandosi ad
ascoltare la predica di un frate domenicano a Castiglione, avvenne che
costui, seguendo il vezzo antico nè fin qui smesso di malmenare con
calunnie Lutero, affermava la sua dottrina allargarsi fra i Tedeschi
lurchi, perchè tollerante ogni libito più reo; a cui, non si potendo
più tenere, Curio contrappose a voce alta: «Tu menti» Visto e preso:
ai preti parve toccare il cielo col dito; pregustavano l'onore e
l'odore che sarebbe loro venuto dal leppo di un _atto di fede_ alla
spagnuola, non meno che calcolavano i frutti del terrore; il diacono
dell'arcivescovo di Torino si affretta a Roma per sollecitare la
condanna; intanto, per assicurarsi che non gli scappi, lo consegna al
fratello del cardinale Cibo, il quale da pari cura agitato te lo ficca
in prigione coi ceppi ai piedi; ora ecco, mentre pareva per lui perduta
ogni via di salvezza, sovvenirlo la fortuna: gli si gonfia una gamba
tanto che il carceriere, giovane epperò non affatto tristo, ci ravvisa
la necessità di liberarlo dal ceppo pesantissimo di legno: di che aveva
a temere egli? Non restava preso con quell'altro piede? E poi come
fuggirà il prigioniero? La sua carcere sta in mezzo a tre altre stanze
di cui una abita il custode, nell'altra albergano le guardie, nella
terza convengono tutti e mangiano. Vista l'arrendevolezza, se pietà
non la vogliamo chiamare, del giovane carceriere, il Curione pensa
nuova malizia; si finge infermo; una calza empie con la camicia ed
altre ciarpe, e il tutto attorce e comprime intorno ad un bastone che
a sorte trova nella prigione appresso al letto: ciò fatto, si ripiega
quanto può sotto la coscia la vera gamba, adattando al ginocchio
la gamba finta così che questa paia quella: poi sul bruzzo rompe in
gemiti. Il carceriere accorre profferendosi sollevarlo, e quegli lo
prega gli muti il ceppo dal sinistro al destro piede tanto che gli
dia tregua lo spasimo che lo trafigge; e il carceriere lo appaga;
parendogli poi quasi ridotto agli estremi, molto compassionandolo,
lo lascia solo; quando il sonno tenne custode e guardie, Curione pian
piano abbigliatosi va ad origliare alla porta della stanza; dormivano
tutti, e mentre tenta cauto la porta per somma ventura ella cede
al suo tocco, avendola lasciata socchiusa il carceriere o per oblio
o piuttosto per soccorrerlo caso mai ne avesse sentito il lamento;
entra nel tinello, dal tinello a tastone trova la scala, e giù per
essa come se avesse l'ale. Ma in fondo alla scala non era aperta la
porta, bensì sbarrata da enormi catenacci; risalì il misero la scala
notando sottilmente ogni cosa, come avviene a cui prema di salvare il
collo dal capestro: a mezza scala rinvenne una finestra; non correva
tempo per conoscere di quanto ella stesse sopra il terreno; profondo
il buio, ogni arnese mancava; avanti a sè gettò la cappa per ammortire
la caduta, poi quanto più può si spenzola fuori e all'ultimo si lascia
andare; senza danno cadde nel cortile; va difilato alla porta di
mezzo, sperandola chiusa unicamente per via di stanga a traverso, e
s'inganna, era serrata a catenaccio; allora si aggira intorno tastando
i muri, e trovatili lisci, sgomento e stanco si abbandona. In questa
ecco comincia a splendere in cielo un fuoco tramandante luce, la quale
quella della luna non appaiava, ma l'altra delle stelle vinceva; forse
erano stelle cadenti, o meteora altra cotale; fatto sta che per essa
potè speculare meglio le pareti e vedere nei canti come il muro nuovo
tirato su al lato il vecchio lasciasse certa crepatura dove non era
disperazione arrampicarsi con le mani e co' piedi; e questo tentò,
ma levato alquanto da terra il sasso a cui con le mani si aggrappa,
cede, ed egli giù a gambe levate, e il sasso sopra con grande fracasso.
Palpitante di terrore colà rimase un pezzo, temendo che allo strepito
del tracollo svegliate le guardie non gli riponessero le mani al petto;
di ciò fu niente; ripreso animo torna ad arrampicarsi, scavalca il
muro e, in casa di tale che egli nomina Filosseno Nucca ricoverandosi,
scampa la vita. Questo caso accadde senza intervento di angioli nè
di demoni; altri non crede che passasse a quel modo liscia e suppone
corrotti custode e guardie; poteva anco darsi, ma quando ci afferma
proprio lo stesso Curio che l'andò come la contano, non si sa perchè
non gli si deva credere, conoscendo fughe accadute tanto nei moderni
che negli antichi tempi troppo più di questa maravigliose e stupende:
egli poi narrando la propria storia, ne attribuisce il merito a Dio,
e ciò stà bene; dice che non fece voti, non imprese pellegrinaggi, in
somma nulla eccetto votarsi a Cristo supplicandolo che lo sovvenisse a
sostenere la guerra contro le passioni, col suo spirito lo trasse a sè,
lui adoperasse come il vasaio costuma della creta.

Nè finirono qui le sue vicende: dopo breve soggiorno a Salò fra i
suoi, si recava a Pavia, dove fu professore tre anni: ma alfine ebbe
a cedere allo sforzo del papa, che lo aveva tolto a bersaglio; riparò
prima a Venezia, poi a Ferrara, dove la duchessa Renata lo munì di
lettere commendatizie per Lucca, le quali accolte con favore, lui
promossero i cittadini professore nello studio. Nè qui trovò requie;
il papa sempre addosso, ond'ei l'ebbe a segnare col carbon bianco se
gli riuscì ricoverarsi prima a Losanna, poi a Basilea; una volta si
attentò tornarsene a Lucca per pigliarvi la moglie e i figliuoli, ma
gli sbirri della Inquisizione, che stavano su le intese, lo sorpresero
a Pescia mentre mangiava: vinto dalla paura alla vista di loro, si leva
in piede di scatto ed impugnato il coltello, spaventato, spaventava i
sbirri, i quali l'uno su l'altro aggomitolandosi, egli passa di mezzo a
loro, ed essi lo lasciano ire con Dio. Molte opere egli scrisse e molto
predicò; i riformati lo levano a cielo, i cattolici lo denigrano fino
allo inferno: uomo fu come gli altri, ma certo operaio indefesso e di
profitto grande da per tutto dove egli insegnò, massime a Lucca.


FINE DEL VOLUME PRIMO.



                                  VITA
                                   DI
                         FRANCESCO BURLAMACCHI

                                   DI
                            F. D. GUERRAZZI

                             VOLUME SECONDO



                                 MILANO
                  CASA EDITRICE ITALIANA DI M. GUIGONI
                                  1868



                        _Proprietà letteraria_.
                             Tip. Guigoni.



CONTINUAZIONE DEL CAPITOLO V.


Da tempo remoto, e lo accennammo di già, travagliava Napoli il seme
della eresia; ai Vadesi si aggiunsero i Tedeschi, venuti in Italia ai
danni di Roma, ma poi voltati contro la Repubblica di Firenze e contro
ogni cosa che in Italia sapesse di libertà, perchè papa e re bisogna
ch'e' s'intendano; l'un regge l'altro; s'ei si accapigliano, durano
finchè non si svapora nell'uno o nell'altro il vino dell'orgoglio;
rinsaniti, si rifanno su i popoli. Ai Vadesi ed ai Tedeschi successe
lo spagnuolo Valdes temuto per la bontà sua, lo ingegno, lo zelo
indefesso e sopra tutto per la efficace modestia, in virtù della
quale egli, pago che i suoi concetti si avvantaggiassero, si celava
ed altri a farsi chiaro sovveniva. Egli diè il tratto alla esistenza
del frate Ochino staccandolo dalla chiesa romana e di valorosissimo
amico lo rese nemico capitale; a molte chiese appartiene la storia di
lui del pari che quella di quasi tutti i compagni suoi, ma qui io la
riporterò sempre succinto, però che il Valdes lo levasse dalle dannose
dimore. Siena è la città dei santi; ma siccome non ci ha diritto senza
rovescio, così del pari è la città degli eretici. L'Ochino nacque da
Domenico Tommasini di Siena nella contrada dell'Oca, dove pure sortì
i natali Caterina da Siena, esaltata santa; di qui il soprannome
di Ochino. Ai giorni nostri avvertirono come la bandiera di cotesta
contrada porti i tre colori precisi della odierna italiana; Ochino
e Caterina derivano da parenti oscuri; padre di questa un tintore,
falegname quello dell'altro: giovine e propenso a malinconia Ochino
si rese frate minore, non rinvenendo regola più di questa severa; ci
stette poco, chè recatosi a Perugia, vi studiò medicina. In quel torno
istituirono i cappuccini, e poichè questi gli parvero più conformi
alla sua rigida indole, così volle vestirne l'abito; di qui in breve
(tanto fece profitto nello studio della divinità, e tanto lo sovvenne
natura) usciva atleta di Cristo acquistandosi fama di supremo oratore,
anzi divino. Carlo V dopo averlo udito proclamava ch'egli avria fatto
piagnere i sassi; lasciamo i sassi al suo posto, il Sadoleto e il
vescovo di Fossombrone non dubitarono metterlo a canto ai più famosi
oratori dell'antichità. Del vecchio peccatore cardinale Bembo non
importa rammemorare le smancerie; lui con ressa infinita egli ottiene
da Vittoria Colonna predicatore a Venezia, di lui e della sua eloquenza
s'innamora, della salute si piglia smaniosa cura fino a raccomandarsi
che dove occorra sforzino il suo Bernardine a cibare carni in
quaresima, altrimenti non potrà reggere alle fatiche apostoliche.
Forte percotevano la mente dei popoli la sua barba bianca, il volto
emunto, gli occhi incavati e fiammeggianti, le vesti squallide, il
costume rigido; camminava per colli e per pianure a piedi ignudi; il
capo ad ogni più rea stagione scoperto sempre; andava di porta in porta
accattando la vita; suo letto la terra, cortinaggio le frondi degli
alberi: tutti lo riverivano e levavano a cielo; per poco stette che
vivo non lo santificassero: dal comune andazzo si lasciò trarre fino
Pietro Aretino, il quale, con modo in cui traspare la schernitrice
perversità sua, scriveva al papa credere che non senza consiglio della
provvidenza tanto peccatore egli fosse scrivendo ovvero operando,
imperciocchè altrimenti l'Ochino non avrebbe ottenuto la gloria
imperitura di ridurlo ad abiurare i suoi tanti peccati. L'Ochino, in
virtù del credito grande che aveva, la cella concessagli per abitare
a Venezia convertì in convento dei cappuccini; ed all'Ochino eretico
vanno debitori i pii cattolici della devozione delle Quarantore, la
quale tuttavia si pratica con tanti benefizi dell'anima e del corpo
che ogni uomo li può vedere. Il papa gli aveva posto un bene pazzo, ed
a ragione; imperciocchè quale vendemmiatore più potente di lui nella
vigna di Cristo? La elemosina raccolta nella città di Napoli in una
sola predica toccò niente meno che i cinquemila zecchini. Ma l'Ochino
aveva già dato la balta; egli stesso scrivendo al Muzio lo informa che,
meditando, digiunando e in tutte le altre guise mortificandosi, era
giunto a scoprire tre cose: la prima, che, Gesù Cristo avendo saldato
col suo sangue ogni conto vecchio della umanità, bisognava reputare
eresia pretta la dottrina che dopo cotesto caposaldo gli uomini
avessero a faticare di nuovo per salvarsi con le opere: e veramente
starebbe così; ma ciò non torna a Roma, perchè se le opere non sono
più necessarie alla salute dell'anima, ella potrebbe chiudere bottega;
e dall'altra parte appaga più la ragione il concetto che ognuno debba
essere giudicato alla stregua del merito; di ciò colpa la proterva
intemperanza dei preti, i quali, volendo arare sempre coll'asino e col
bue, misero insieme cose fra loro contrarie deliberati di saldarle
insieme con la fede: sicuro! non fa mestieri travagliarci troppo a
cercare la razionalità delle proposte quando tu possa concludere: O
credi o t'impicco. La seconda delle cose scoperte dall'Ochino fu che
i voti frateschi, siccome empi, non tengono, e non ci ebbe a durare
fatica; la terza, che la chiesa romana è vituperio di Dio, ed anco
qui fu facile trovato. Se ne accorsero subito ch'ei balenava; dicono
lo aizzasse il Valdes a Napoli col mostrargli che nonostante le belle
parole a Roma lo avessero in conto del somaro che porta vino e beve
l'acqua; nè manco il cappello rosso gli avevano dato! Le sono novelle,
però anco sotto la tonaca del capuccino, come sotto il mantello di
Diogene, talora la superbia si rannicchia. Per tanto prese a fastidire
e messa e coro e orazioni; anzi a certo frate che, avendo notato com'ei
si astenesse dalla preghiera, gli disse: «Andando ad amministrare la
religione senza preci tu mi pari un cavaliere che vada senza staffe;
bada alla cascata», l'Ochino rispose: «Chi fa bene prega», sentenza da
legarsi in oro. Chiamato a Roma, pei conforti del Vermigli, non tiene
lo invito, al contrario, gittata la tonaca alle ortiche, si rifugge a
Ginevra; lo accolse esultante Calvino; ne dolse amaramente a Roma, la
quale gli spedì su le calcagna per ricondurlo, ma indarno; intanto si
pose mano a spegnerne gli alunni; dannato a morte un fra Bartolomeo da
Cuneo; tutta la religione dei cappuccini subito cernita per isceverarne
il grano dal loglio; per poco il papa non la soppresse affatto; le
querimonie della sua fuga andarono a cielo; gli scrisse il Muzio e il
Caraffa, prima cardinale, poi papa, ed è sollazzevole udire come questi
lo vezzeggiasse col nome di cerbiatto e lo allettasse al ritorno sul
colle degli aromi, il quale nel vocabolario della santa madre Chiesa
significa catasta di legna; poi séguita coll'imprecare ai vitelli di
oro e al culto degli alti luoghi; pesta mani e piedi perchè da ora
innanzi non ci abbiano più ad essere Roboamo e Geroboamo, Gerusalemme
e Samaria, ma sì un solo ovile ed un solo pastore; ragioni tutte, come
ognuno vede, una meglio dell'altra per persuadere i più tenaci. In
Ginevra l'Ochino fondò la chiesa riformata italiana; quivi scrisse e
stampò varie opere, tra le quali si ricordano i _Cento apologhi_, cui
caninamente mordono i preti perchè li scottano; peggio conciò Paolo III
in certa lettera la quale conservasi nella Laurenziana; lui matricida,
lui rotto ad ogni infame libidine, assassino e traditore dei complici
assassini, delle immanità del figliuolo Pierluigi Farnese partecipe:
della esagerazione in cotesti improperii ce n'è e di molta, perchè
preti e frati erano tutti spretati e sfratati o no, i quali se abbiano
avuto od abbiano fede non so; questo so, che carità non conobbero mai.

A Pisa città prossimissima a Lucca gli eretici si adunarono apertamente
in chiesa e vi celebrarono la messa; come argomentasse Mantova si
ricava dal breve mandato da Paolo III al cardinale Gonzaga col quale
lo ammoniva essere venuto a notizia come costà chierici e laici
si attentassero disputare su materie di religione intorno a cui
ognuno doveva tacere, imperciocchè egli e solo egli avesse ricevuto
commissione di ragionare per tutti. La eresia, ovvero la luce del vero
evangelico secondo gli umori diversi degli uomini, s'insinuò anco a
Locarno; dapprima scarsa, ma non per questo sgomentaronsi gli apostoli,
assai facendo capitale sopra gli esempi biblici, massime su quello di
Gedeone, il quale con iscarsa mano di forti abbattè Madian; linguaggio
consueto ai fanatici e dai religiosi passato ai politici per mala sorte
e con peggiore consiglio, perchè nelle faccende religiose il poco
apostolato opera come il molto, se non nella estensione, almeno nel
concetto, mentre nelle politiche quello che non basta gli è come non
fosse: colà si tratta di persuasione, qua di forza. Le città che si
sfasciano a suono di tromba occorrono unicamente nella Sacra Scrittura;
e ai tempi che corrono pochi e male armati e peggio nudriti Leonidi
soccomberanno davanti a molti bene ordinati, provvisti dei migliori
arnesi guerreschi ed ottimamente pasciuti; se ne vogliano rammentare
i volontari che corrono alla impazzata lasciando noi in dubbio se li
spinga generosità o piuttosto follia; dove poi li meni tedio di vita,
e' possono ammazzarsi a loro bell'agio a casa. A Locarno impertanto
i luterani crebbero e moltiplicarono; a maestri ebbero un Fontana, un
Benedetto da cotesto luogo, un Varnerio Castiglione, un Ludovico Runco
ed altri dei quali la fama vinse un Beccaria; dalla prossima Chiavenna
vi scesero a storme pastori; insomma Locarno, più che disposto a
seguitare il moto, ordinato ad imprimerlo e solenne.

E poichè troppo menerebbe a lungo discorrere parte a parte degli uomini
i quali promossero in Italia la corrente della riforma, basti per
lo scopo della nostra storia sapere come ormai non occorresse terra
dove un mutamento nelle cose della fede ed in ispecie nei costumi dei
chiesastici non si desiderasse; nell'Istria, a Genova, a Verona, a
Cremona, a Cittadella, a Brescia, a Civita del Friuli, in Ancona e
per fino nella stessa Roma pullulavano uomini ricchi di dottrina e
di costanza, deliberati a osteggiare la mostruosa instituzione che
ha nome papato. Nè meno degli uomini si mostrarono in questa bisogna
ardentissime le donne. Dell'Olimpia Morata già dissi; sopravvive oltre
la sua la fama della Manrichia di Bresegna da Napoli, di Lavinia della
Rovere da Urbino, della Maddalena e della Cherubina degli Orsini,
della Elena Rangoni dei Bentivoglio, della Giulia Gonzaga bellissima
di forme, onde corse voce che Solimano di lei per fama fieramente
invaghito commettesse ad Ariadeno Barbarossa rapirla, e questi,
obbedendo al suo signore, venuto in Italia si avventasse inaspettato
a Fondi, dove la Giulia aveva stanza, e per un pelo non la colse, chè
la donna svelta scappò in camicia; avventura piena di passione e degna
di figurare nella storia quando fosse vera. Tra le eresiarche pongono
altresì la Vittoria Colonna, e falsamente, perchè nelle cose della fede
ella balenò anco troppo, chè la tirava l'Ochino, ma il cardinale Polo
la tenne ferma al chiodo.

Però sopra Siena, sopra Ferrara, la città di Lucca noverava nel
suo seno protestanti palesi e più nascosti, i quali aspettavano la
occasione propizia per bandire apertamente la separazione di cotesto
stato dalla chiesa cattolica. Cagione principalissima di siffatti
umori predicano Pietro Martire, ed è vero, non però unica nè prima:
ricordinsi gli alunni lucchesi del Savonarola, ed in ispecie lo zio di
Francesco Burlamacchi spositore della vita del maestro ed istruttore
della gioventù. Ora, per favellare di Pietro Martire, dirò che e' fu
di Firenze e di casa Vermiglia, martire nominato perchè il padre suo
afflitto a cagione della morte di quanti figli gli nascevano votò
questo ultimo, se gli viveva, a san Pietro martire: gli sopravvisse,
ed egli da galantuomo tenne il patto. Il giovanetto studiò molto e
bene sotto Marcello Virgilio segretario della repubblica fiorentina
ed ebbe compagni illustri; mite di natura e al tutto inchinato alle
cose spirituali, si ridusse di sedici anni al chiostro dei canonici
regolari di Santo Agostino a Fiesole; dei beni terreni non gli calse,
anzi confortò il padre suo che la massima parte del censo avito legasse
all'_Albergo de forastieri_ in sussidio dei poveri; dotto di latino,
di greco e di ebraico, di ventisei anni imprese l'apostolato della
parola, la quale non impetuosa come quella dell'Ochino, bensì lene
scendeva nei cuori portandoci la divina persuasione; e poi, quantunque
in sembianza di vergine cristiana, pure gli arrideva la musa e quella
di ardentissimo affetto lo proseguiva; però a lui sopra gli altri amici
in delizia Benedetto Cusano grecista da Vercelli, volgarizzatore di
Omero, e il poeta Flaminio: dopo avere predicato con plauso in molte
terre d'Italia andò a Napoli abbate nel convento di San Piero in
Ara; quivi avendo annunziato che predicherebbe sul testo della prima
epistola di s. Paolo ai Corintii che dice: _col fuoco sarà provata
l'opera dell'uomo_, tennero per sicuro che si trattasse del purgatorio;
quindi si dilatarono le viscere ai romanisti, sicchè pensate quanta
la maraviglìa loro e più la rabbia quando udirono chiarire da lui
coteste essere parole simboliche ed accennare alla intera distruzione
dell'errore: di autorità non fece a spilluzzico, nei libri dei santi
come in quelli dei curiali si trova tutto e per tutto; i teatini,
potentissimi, lo accusarono allora al vicerè Toledo, ma egli sostenuto
dagli agostiniani non li badò; ricorso al papa, per quella volta la
sgarrava. Uscito da Napoli per colpa dell'aere maligno, peregrinò
visitatore del suo ordine l'Italia, richiamando con ineffabile dolcezza
i traviati su la diritta via; per ultimo venne priore di San Frediano
a Lucca, e poichè qui trovò le coscienze disposte, a viso aperto prese
ad esporre la sua dottrina; senza requie inteso a formare atleti i
quali valessero a sostenere la lotta co' difensori di Roma, chiamava
da Verona Paolo Lanciso famoso aristotelico ad istruire la gioventù
lucchese nella lingua latina, da Ferrara Celso Martinengo nel greco,
ed Emmanuele Tranellio nell'ebraico: guadagnò alla sua fede diciotto
frati, i quali come diciotto apostoli spedì d'intorno a diffondere,
come egli sosteneva, la luce della verità, e gli avversari affermavano,
le tenebre dell'errore. Con lui s'accontò, e fu acquisto potente,
don Costantino priore della Fregionara; egli sopra tutti infaticato
istruiva i giovani nelle umane lettere e in divinità spiegando il
Testamento nuovo ed i Salmi; nè giovani soli accorrevano ad udirlo,
bensì ancora cittadini di ogni maniera, patrizi e popolani: nello
avvento e nella quaresima predicava il solo Vangelo; nel rimanente anno
prendeva per testo l'epistola di san Paolo, cosicchè in breve si vide
fondata a Lucca una chiesa evangelica, di cui il Martire era salutato
pastore, e seguace la parte migliore dei cittadini, i quali, dotti
al pari che devoti, diedero in processo di tempo splendido segno di
attaccamento alla religione riformata. Mentre queste cose avvenivano
papa Paolo III si condusse fino a Lucca per conferirvi con Carlo V
intorno ai negozi di Europa, massime intorno alle faccende della fede;
e tuttavia, sebbene cotesto papa astutissimo conoscesse l'umore del
Martire, nè gli mancassero eccitamenti ad usargli mal tratto, egli
se ne astenne pensando al tempo immaturo e al seguito grande che il
Martire aveva in cotesta città; forse, vuolsi credere, che il cardinale
Contarini lo proteggesse, conciossiachè molto lo riverisse ed amasse
ed anche egli a Lucca si conducesse per tenere al Martire proposito
delle novità delle chiese germaniche; nè il Contarini andava immune da
qualche sprazzo della dottrina dei riformati.

Narrasi per Carlo Eynard, il quale dettò una breve monografia intorno
ai Burlamacchi, come Carlo V imperatore alloggiando nel palagio della
Signoria, certa notte a forza desto udisse per casa un gran tramestio
e un nicchiare, un gemere da mettere pietà; ond'ei chiamata gente le
ordinò andassero a vedere che cosa fosse accaduto e glielo riferissero;
tornato il messo in breve lo informava, una gentil donna avere testè
partorito con molta angoscia un figliuolo, di che egli rallegratosi,
significò volerlo tenere al sacro fonte ed imporgli il proprio nome.
Il papa fece la cerimonia; e cotesto pargolo fu poi Carlo figlio di
Michele e padre di Giovanni Diodati, capitalissimo fra i teologhi
protestanti e volgarizzatore della Bibbia, argomento di anatemi per
Roma e di ammirazione per quanti sentono amore alle umane lettere.

Pel Martire a quel modo non poteva durare e non durò, chè nemici
gli si serrarono addosso non solo i frati degli altri ordini per
emulazione, ma sì anco i suoi per vendetta dei riformati costumi:
quali arti adoperassero non porta specificare; fratesche erano, e però
la meno trista la calunnia. Di questo tempo ci avanzano tre lettere
del cardinale Bartolomeo Guidiccioni scritte da Roma alla Signoria di
Lucca, dove si lagna che i pestiferi errori della condannata setta
luterana, i quali pareano soppressi, abbiano dormito per destarsi
più gagliardi di prima: l'ammonisce che pigli partito su ciò presto
e bene, se non vuole tardi patire cosa che le dispiaccia: denunzia
le conventicole in Santo Agostino, che, note a Roma, notissime denno
essere a Lucca, e se la Signoria non provvede, vuol dire che esse
accadono lei sciente e consenziente — dopo nè anco un mese da capo il
buon cardinale loda la Signoria dell'egregio animo ch'ella dimostra e
la conforta di spedire subito oratore a Roma per giustificarsi; intanto
come caparra facciano prendere incontanente Celio Secondo Curione,
_che stà in casa Arnolfini ed ha tradotto in volgare alcune opere di
Martino Lutero, per dare cotesto bel cibo sino alle semplici donne
della nostra città, oltrechè da Vinegia e da Ferrara se ne intende di
lui pessimo odore; così è dar fare diligentia in quei frati di Santo
Agostino, maxime di ritenere quel vicario.... custoditi con diligentia
li potranno mandare a Roma, ovvero avvisare che li tengono a istanza di
Sua Beatitudine;_ passato un altro mese, torna a battere il ferro caldo
e dice: sentire inestimabile amarezza per l'augumento quotidiano della
perversa dottrina nella nostra città; in cotesta medesima mattina (26
agosto 1542) essere state lette nella _Congregatione_ otto conclusioni
luterane di don Costantino priore della Fregionara, le quali tanto
dispiacquero al papa ed ai reverendissimi deputati che gli hanno
commesso iscrivere a V. S. perchè lo facciano incarcerare _hic et nunc_
e incontanente spedirlo insieme all'altro frate di Sant'Agostino: ed in
questo modo et con diligentia operando sarà grande _purgatione del mal
umore della nostra città_: prega, come altre volte pregò, la Signoria
perchè si emendi da sè medesima _et non axpetti che altri la emendi_.
Tale la insolenza romana, a cui per mostrarsi adesso due volte più
impronta non manca la voglia, bensì la possa.

Il Beverini nei suoi lodati annali lucchesi a questo luogo racconta
come Luiso Balbani dimorando a Brusselles, avendo grande amistanza col
Granvela, potè senza essere veduto udire i ragionamenti tenuti fra lo
imperatore, il nunzio apostolico e l'oratore di Cosimo I, sul conto
della repubblica, i quali insomma mettevano capo a questo, che, là
dove la Repubblica non si emendasse, lo imperatore le avrebbe tolta la
libertà e sottoposta a Cosimo; dettando il Tommasi il sommario delle
storie di Lucca dà di frego a questo racconto, principalmente fondato
sopra la inesattezza di alcuni particolari che lo accompagnano; ma più
che ci si pensa sopra, e più conghietturandosi comparisce vero o ad
ogni modo supposto per costringere la Repubblica a qualche provvisione
esiziale alla religione riformata.

Intorno allo agostiniano così pertinacemente richiesto a Roma, anzi
alla morte, ecco quanto trovo scritto: i nemici del Martire, e per
converso gli amici di Roma, volendo tastare un poco l'umore del popolo,
ottennero facoltà dai commissari romani di sostenere questo frate,
che, sospetto di eresia, era confessore ed assai cosa del Martire; la
Signoria si strinse nelle spalle e lasciò fare; meno codardi alcuni
patrizi, ammiratori della pietà e della innocenza di quello, rompono le
porte del carcere e lo liberano, ma nella fuga lo sciagurato cadde, si
ruppe una gamba e fu ripreso per essere condotto più tardi a Roma quasi
in trionfo.

Indracati i satelliti romani mettono accusa formale contro il Martire
avanti la corte di Roma; spedisconsi messaggi a sobillare la gente
contro lui, i quali, come suole quando si tratta di mal fare, ottengono
seguito sopra l'aspettativa, e principalmente tra i frati agostiniani,
inveleniti contro il Martire perchè con la sua riforma gli aveva
ridotti al canapo e (poichè tornava, almeno pel momento) si dava loro
ad intendere agitassersi, la pristina libertà rivendicassero, chè in
questo caso il rompere impune in ogni più sfrenato libito; nè stette
guari che, convocata a Genova una congregazione generale dell'ordine
degli agostiniani, ella citò il Martire, a comparirvi: ma il Martire,
che quanto al nome ci stava, rispetto al fatto pare non gli garbasse,
ed accivettato era, ed anco pei conforti dei suoi amici, assetta
alla meglio le proprie faccende, poi si scansa a Pisa in compagnia
del Lacisio, del Trebellio e del Terenziano; quinci scrive agli
amici perchè procurino la libera partita a quanti dei correligionari
intendano esulare con lui; per ultimo rimanda l'anello, insegna del
proprio ufficio, affinchè non gli appicchino il sonaglio di avere
fatto suo pro' della sostanza del convento; da Pisa a Firenze, dove
con parlare succinto persuade l'Ochino a cansarsi a sua volta (la
quale cosa egli fece due giorni dopo di lui), da Firenze per le Alpi
retiche si conduce a Zurigo, a Basilea ed a Strasburgo, nella quale
città ebbe accoglienze quali si costumano fra i perseguitati, chè gli
uomini per amarsi bisogna che si sentano miseri. Appena pigliato un po'
di riposo a Strasburgo, dove gli allogarono con onorevole stipendio
una cattedra nella celebre università, scrisse alla chiesa riformata
di Lucca esponendo le cause ond'egli costretto abbandonò la dolce
patria italiana, e le faceva coraggio a perseverare nello amore del
Vangelo[14], che bene ella aveva tolto a norma della sua eterna salute.
Conosciuta la fuga del Martire, con la feroce bramosia di cui noi
che scriviamo avemmo ed abbiamo immagine viva nelle opere sbirresche
dei diversi principati fin qui succedutisi in Italia; sbirri sempre
comunque tu li nomini, li vesta o gl'_incrocicchi_ come si fa ai canti
per salvarli dalle lordure, ecco i cagnotti assediare il convento del
Martire, rovistarlo da cima a fondo, menare a vergogna i religiosi
in prigione, otto più lesti in gamba se la svignarono riparando in
Isvizzera: malgrado questa fiera persecuzione, la chiesa protestante
non andò dispersa, all'opposto come rovere sbattuta dal vento resistè
alla bufera romana sicchè il Martire scrivendo ben tredici anni dopo
ai fratelli lucchesi così si esprimeva: «Voi avete fatto per molti anni
tanto avanzamento nel Vangelo di Gesù Cristo che non era punto mestieri
io vi esortassi con lettere, ed altro non mi restava, eccetto questo:
che in qualsivoglia luogo mi trovassi, io vi levassi a cielo.... si
accrebbe poi la mia letizia quando seppi come, dopo finite tra voi le
mie fatiche, Dio vi avesse provveduto di maestri sapienti, zelatori
e considerati, in grazia delle virtuose cure di loro la opera impresa
andava a perfezionarsi.»

Comechè Lucca, giusta quanto ci narrano gli antichi cronisti, pigliasse
nome da _luce_, però che prima fra le città italiche aprisse gli occhi
alla luce del Vangelo, o forse appunto per questo, fu precipua fra noi
a durare nella dottrina luterana: cause speciali per lei erano la molta
anzi la troppa parte che gli oligarchi tenevano nello stato, ed essere
questi tutti o quasi dottissimi e per ciò alla bestiale prepotenza
romana fieramente avversi: la esperienza fatta dai reggitori che i
riformati d'irreligiosi, scapestrati e poco meno che atei diventarono
virtuosi e dabbene, dalle risse aborrivano, e, cessate le parti, i
cittadini ogni giorno più si rendevano fra di loro servizievoli, le
donne oneste: arrogi che il duca di Firenze, perpetuo nemico della
Repubblica, abiettavasi a Roma perchè prima gliene consentisse la
rapina, poi gliela consacrasse; onde i nostri vecchi sebbene di ossequi
non facessero a penuria col sommo pontefice, tuttavia in fondo, non
guardando più all'erta che alla china, desideravano che i luterani
affliggessero lo impero in Germania; ed intanto, per approfittarsi dei
tempi, si tenevano a cavallo al fosso.

Quello che avvenne al Martire nei diversi paesi dove lo trasse la sua
ventura e che facesse e come finisse a me non giova esporre; nè manco
dirò le vicende della Riforma in Italia: da quanto fu narrato e dagli
sforzi supremi dei papi e dei satelliti loro per isvellerla fin dalle
radici rimarrà chiarito il mio assunto, il quale è scopo capitalissimo
di questa vita, che Francesco Burlamacchi, non fantasticando cose vane,
al contrario ponderando i casi, i tempi e gli umori dei popoli, si
accingesse ad impresa, se non sicura, probabile; e se non riuscì, egli
è perchè la fortuna mal si accorda ai fatti virtuosi; degli eroi che
si accinsero a magnanime imprese i popoli esaltano più i felici, gli
infelici più rammemorano con pietoso animo; i primi in parte ebbero la
loro mercede nei gaudi della gloria, i secondi l'aspettano sempre dalla
ricordanza dei posteri, e l'abbiano.

E tuttavia, nonostante i casi e i giudizi di uomini peritissimi, come a
mo' di esempio del cardinale Sadoleto, il quale scrivendo al cardinale
Farnese nipote di Paolo III si sfogava perchè il papa, abbindolato da
pessimi piaggiatori, non si accorgeva della ribellione universale degli
spiriti e della rabbia di stracciare a morsi l'autorità papale; e il
cardinale Caraffa, poi Paolo IV, che dichiarava riciso la lue luterana
avere contaminato in Italia non pure gli uomini di stato, ma altresì
la massima parte dei membri del clero, nonostante i voti del Vallicola
e le speranze di Celio Curione, che, trionfando la vera religione
di Cristo in Italia, vedeva l'universo genere umano precipitarsi con
impeto fuori di misura maggiore a quello dei primi tempi della Chiesa
verso la santa rôcca di cui Cristo è castellano, verso le tre torri
difese dalla fede, dalla speranza e dalla carità; nonostante queste
ed altre cose, la Riforma in Italia, comechè avesse posto radice,
non prevalse, all'opposto rimase schiantata. Chi volesse ricercarne
le cagioni con sottile esame forse ne troverebbe a dovizia; io ne
riporterò alcune le quali mi si presentano sotto mano: prima di tutto
le persecuzioni implacabilmente feroci esercitate per via del tribunale
del santo Uffizio; lì per lì sembra strano come sul principio Roma
osteggiasse la istituzione di questo scellerato tribunale in Italia, ma
dopo un po' che ci pensi sopra, conosci che la cosa va pei suoi piedi;
ell'era la Spagna che presumeva mettere succursali del santo Ufficio a
Napoli e a Milano, e questo non faceva al caso di Roma, la quale tenne
sempre l'occhio alla penna per dominare e non essere dominata, onde
si mise dalla parte del popolo per ributtarla allegando con parole e
con sembianza compunte che troppo crudo si comportava la Inquisizione
in Ispagna perchè potesse consentire pigliasse piede in Italia; mentre
la ipocrita aveva provocato l'efferatezze spagnuole, e mentre qui fra
noi ella ne commise tali e tante non dirò da disgradarne quelle, ma da
comparire loro onorevolmente da lato: in questa guisa sotto pretesto
di tutelare la libertà la strozzano, e mentre volgono la passione del
popolo a respingere la Inquisizione spagnuola, i preti mascagni la
italiana consolidano: assodata che ella fu, imperversò come turbine;
avventuroso chi potè fuggire! quanti gli sbirri presero, gittarono
in carceri oscure ed ignote: oscure perchè l'anima dei prigionieri
sgomenta piegasse davanti al terrore, ignote perchè i congiunti e gli
amici al pensiero del sepolcro precoce si sentissero compresi di paura;
eccetto poche terre, dalle altre tutte lo esercizio del culto luterano
sbandito. Però, come succede, la persecuzione crebbe la costanza o la
ostinazione negli eletti, i quali secondo il costume degli antichi
cristiani continuarono a professare la propria religione in luoghi
riposti ed anco talora per caverne. A Modena per opera di alcuni
insigni prelati, fra i quali piace notare i cardinali Sadoleto, Morone,
Contarini e Cortese, tentarono accordo coi riformati di cotesta città,
e parve altresì si fossero assettati, ma egli erano tranelli, e forse
da entrambi i lati, chè mal bigatti provaronsi sempre i settari: più
tardi un Erri andato fino a Roma faceva la spia ai suoi concittadini,
e Roma lo rimandava sbirro, giudice e carnefice a Modena; parecchi
non istettero ad aspettarlo e si cansarono, di cui il più celebre è il
Castelvetro; fiero, acuto e senza cupidità nè paure, di Roma sentiva
quello che in ogni tempo sentirono gli uomini savi; ma ciò che più gli
nocque fu la batosta ch'ei sostenne coll'Annibal Caro a causa della
censura mossa da lui alla canzone: _Venite all'ombra dei gran gigli
d'oro_; dove al Caro parve toccare il sublime, mentre (per dirla col
concetto di Longino) _egli altro non fa che gonfiare le gote_: ai tempi
nostri appena gli uomini che appellansi moderati o consorti ci porgono
idea della infame rabbia che questi misero negli screzi politici, di
quella che i letterati allora ponevano nelle contese scientifiche:
sicari adoperavansi e veleni, peggio anco di questi la calunnia occulta
al Santo Uffizio per farti bruciare vivo, ovvero (come sostiene il
dabbene Cantù) prima strangolare e poi ardere. Dalle pessime di queste
arti non rifuggì il Caro: sempre il Cantù, per difendere il Caro,
afferma che non ce n'era mestieri, e può darsi, ma ciò non toglie
che il Caro, nato e nudrito fra i prelati, di coteste ribalderie non
si bruttasse; più tardi il Castelvetro andò a Roma per giustificarsi
delle accuse appostegli, se non che, vista la mala parata, si cansava
a Chiavenna, donde in seguito passò a Ginevra; chiamato da Renata non
tenne lo invito, comechè questa la propria lettiga per viaggiare con
comodità gli profferisse e gli mandasse danaro, cui egli ringraziando
respinse: condusse il Castelvetro la inferma vecchiezza a Basilea,
a Vienna e a Lione; ricondottosi in Chiavenna, quivi morì.[15] — A
Ferrara il triste sacerdote non rifuggiva (e qual cosa mai si tiene
dai sacerdoti per venerato o per santo?) da seminare la discordia
fra le famiglie; così giunse a pervertire ogni senso morale che il
tradimento fu giudicato meritorio; insidia la mensa dove si sedeva il
padre co' figliuoli; trabocchetto il talamo, non più fidato custode
dei ripostissimi colloqui dei consorti: un'aura di spia attossicò la
vita; raccolti per questo modo gl'indizi, il papa con breve del 1545
raccomandava gli accertassero con la tortura. Bene incolse alla Olimpia
Morata; che, invaghitosi di lei un giovane tedesco, se la tolse in
moglie e la recò lontana dalla terra crudele; gli altri finirono in
prigione; taluno attestò col martirio la fede abbracciata; nè debolezza
dei tardi anni nè tenerezza dei novelli nè sesso nè prosapia illustre
nè eccellenza d'ingegno nè rettitudine di vita trovavano, non dico
grazia, ma nè anco discrezione davanti la feroce improntitudine della
razza malnata che sacerdotale si appella.

Pietoso il caso della duchessa Renata, dove tu pendi incerto se più tu
deva ammirare la costanza della donna o la poltroneria del marito o la
temerarietà della curia romana. Il papa, per isforzare Renata, mise
su Enrico II re di Francia suo nipote, il quale le spedì a posta di
Francia maestro Oris inquisitore della fede, a cui, finchè giovanezza
gli arrise, piacque più il vino che il sangue, vecchio, più il sangue
del vino. La commissione del re al maestro inquisitore portava che
prima attestasse alla zia Renata la sua amarezza per vederla entrata
in cotesto laberinto di eresia; se ciò non valesse a ritrarnela,
l'obbligasse con tutta la sua casa di assistere alle prediche; dove
nè pure questo rimedio giovasse, allora si ponesse sola in luogo
appartato, e i famigliari suoi si processassero e condannassero. E
così fu fatto: la mutarono di carcere più volte, e così di compagnia
come di carcere; talora dubitarono che piegasse e s'ingannarono, stette
come torre ferma alle lusinghe, alle minacce e perfino alla separazione
dalle proprie figliuole; solo dichiarò credere alla _chiesa cattolica_,
sopprimendo _romana_; più duro del padre, il figliuolo Alfonso, per
non incontrare intoppi nella investitura del ducato da parte del papa,
intimò alla madre o si convertisse o se ne andasse. Esaù vendè la
primogenitura per le lenticchie, Alfonso la madre postergò al ducato:
vedemmo peggio, però senz'altre parole tiriamo innanzi. Ella si partiva
vecchia da Ferrara, dove era venuta giovane; il figlio che la esiliava
era quel magnanimo _Alfonso_[16] che fece cantare e imprigionare il
Tasso. Delle figlie di lei notissime Leonora e Lucrezia, massime la
prima, meno nota Anna, la quale sposò prima il duca di Guisa e, lui
morto, quello di Nemours, e più degna di esserlo per avere temperato
la rabbia cattolica contro gli ugonotti. Renata si chiuse a Montargis,
dove il suo castello meritò il nome di _Albergo di Dio_, lei quello
di madre degli afflitti; difese i perseguitati con la parola, con gli
aiuti e perfino con le armi; perchè un dì che il suo genero duca di
Guisa le intimava o cacciasse via gli eretici o avrebbe dato l'assalto
al castello, ella rimandò indietro l'araldo con questa risposta: «Và e
digli che incontrerà me prima sopra le torri del castello, e lì vedremo
se gli basterà il cuore di ammazzare la figlia di un re.»

Venezia arieggiò in parte l'Inghilterra; la libertà ella amò, ma
troppo più i guadagni, i quali adesso le persuadevano osteggiare ed
ora blandire Roma: in cotesto tempo correva stagione di blandirla, però
persecuzioni, disastri, ruine non contavano e nè le lacrime, purchè il
conto tornasse: molto meno il sangue; agli aristocratici mercanti il
sangue risparmia lo inchiostro rosso, il quale nella scrittura doppia
spesso utilmente si adopera.

La procella suscitata dalle istigazioni di Roma viene esposta con
colori foschissimi nelle lettere dello Altieri al Bullingero: «Ogni
dì cresce la violenza della persecuzione, arrestano in massa e in
massa condannano alle galere ovvero alla carcere perpetua: noi vedemmo
bandire cittadini con i propri moglie e figliuoli; i più felici hanno
dovuto la salvezza loro alla fuga: a tale stretta siamo noi che io
comincio a temere per me, io che fin qui potei offrire asilo altrui;
ma la volontà di Dio sia fatta, e la virtù si affina con la sventura.»
L'Altieri rappresentava a Venezia l'elettore di Sassonia ed altri
principi germanici: non è qui la occasione di narrare quale e quanta
la indefessa opera sua in pro' dei fratelli di fede; finchè gli fu
possibile tenne fermo; messo nell'alternativa di esulare ovvero di
professare la religione cattolica romana, scelse essere spatriato; ma
poi non gli bastò il cuore di allontanarsi, e si avvolse ramingo con
la moglie e il figliuolo dilettissimi entrambi per diverse terre del
dominio veneto; nel 1549 così scriveva da Brescia al Bullingero: «Sappi
che vivo in mezzo a continue paure; pericoli di morte mi circondano;
l'Italia tutta è perniciosa per me e per miei poveri figlio e consorte;
ogni dì aumentano i miei terrori, conoscendo espresso che i miei nemici
non poseranno finchè non mi abbiamo divorato vivo: rammentati di me
nelle tue orazioni.» Di lui non si ebbe più novella mai; forse chi
sa? anco di questo sventurato risponderebbero le cupe acque del Canale
orfano, se elle avessero voce e senso.

Se così a Venezia, peggio nelle provincie; nell'Istria un inquisitore
Grisone andava di casa in casa a rovistare ogni ripostiglio per
rinvenirvi libri vietati o Bibbie; minacciava multe, castighi ed
estremi supplizii; presi da terrore i cittadini si accusavano fra loro.
Questo che io dico ti somministri argomento della tetra inverecondia
di costui; sospetti a Roma i Vergeri, di cui Giovambattista era
vescovo di Pola; adesso per muovere il popolo contro loro il Grisone
salito in pergamo declamava: «Io vedete, se un nugolo di malanni vi
è cascato addosso? Viti, olivi, messi, tutti al diavolo: le mandrie
morte stecchite; nulla di salvo, e ciò perchè? Perchè voi sopportate
che un vescovo eretico in compagnia di eretici come lui vivano
qui in mezzo a voi. Smettete ogni speranza di sollievo finchè non
abbiano essi ricevuto la mercede a seconda dei meriti; perchè dunque
rimanete qui con le mani in mano? Affrettatevi, correte a lapidarli.»
Poco dopo cotesto vescovo di veleno, come fu sospettato, moriva; il
fratello Paolo scampava appena la vita; peregrinò per varie terre e
dopo avere sopportato strane venture riparò fra i Grigioni. Le romane
improntitudini alla perfine irritarono i patrizi più giovani in
ispecial modo quando giunsero a mettere a repentaglio la Repubblica
co' Grigioni: dalle ugne degli inquisitori liberarono un mercante
grigione e rimandaronlo a casa, invano empiendo il Nunzio cielo e terra
di querimonie: ma egli erano passeggieri miglioramenti seguitati da
peggiori ricadute; onde i protestanti Veneti ebbero ad abbandonare la
patria, riparando nella Istria; però anco cotesto asilo essendo loro
indi a breve riuscito molesto, comprarono una nave per girsene in cerca
di patria novella; e già partivano quando certo mercante creditore
di tre fra loro si provvide in giustizia per istaggirlo; e ciò non
potendo ottenere, stando la nave in procinto di partenza ricorse allo
inquisitore ed accusò tutti di eretici: presi, trasportati a Venezia
e convinti dello errore commesso, furono condannati a morte: fin lì
sentenze capitali non se ne erano viste a Venezia, eccetto in qualche
parte rimota di terra ferma meno vigilata dalla solerzia dei padri,
adesso funestarono anco la capitale: non fu di fuoco, bensì di acqua,
non ispettacolosa come piace ai preti, sibbene segreta secondo il
costume Veneto; notte tempo colà facevano passare il prigione dentro
una gondola dove lo aspettavano un prete e due sbirri, tutti insieme
pigliavano il largo di là dai castelli dove gli attendeva un altra
barca; accostatesi allora quanto basta le barche mettevano una tavola
traverso sopra le loro poppe, e su la tavola il condannato carico di
catene, con un pietrone ai piedi: dopo ciò le barche vogavano di forza
in senso opposto e l'infelice spariva nei gorghi delle acque. Se non
più famoso, più tormentato degli altri il padre Baldo Lupetino, il
quale traverso venti anni di doloroso carcere ebbe caro il giorno del
martirio come quello della liberazione.

Comecchè le storie vadano piene della crudele tracotanza sacerdotale,
pure in questa corsa traverso la Riforma in Italia mi sia permesso
soffermarmi a narrare come lo inquisitore a Mantova non si peritasse
mettere le mani addosso a persona congiunta di parentela col duca, il
quale credendo che la cosa fosse accaduta per errore o che bastasse un
suo cenno a comporla, mandò un messo con preghiera allo inquisitore
perchè lo licenziasse; ma costui, che al pari degli altri cercava
lo scandalo col fuscellino, rispose reciso: «non potere, e che al
duca faceva di berretta, è vero, come a suo naturale signore, ma che
il papa, di cui era in cotesto caso il rappresentante, stava sopra
tutti i duchi, re e principi di corona della terra.» A Faenza e a
Parma la Inquisizione fece anche peggio: nella prima di queste città,
sostenuta persona insigne per dottrina e per pietà, in odore di eresia
è messa alla tortura; negando l'accusa, moltiplicano i tormenti e, non
potendo spuntarla gl'inaspriscono al punto che fra atrocissimi spasimi
vi lasciava il meschino la vita: il popolo diede di fuori e in un
momento diventarono tritoli il palazzo, gl'istrumenti e gl'inquisitori
medesimi: furori che per essere giudicati divini bisognerebbe che
la passione consegnasse in mano alla ragione e si alternassero
regolarmente per ora in capo all'anno almeno due volte, per rendersi
poi necessari una volta appena in capo ad un secolo.

Piena di pietà è la storia dei riformati di Locarno. I preti
cominciarono da falsificare un documento in virtù del quale i
Locarnesi si professavano cattolici e co' riti della romana chiesa
si obbligavano vivere: quando i preti pretesero farlo valere alla
dieta dei sette Cantoni, surse una procella d'ira e di vituperio; non
però se ne commossero i preti, i quali tanto seppero dimenarsi che
ottennero: chi dei Locarnesi si convertisse cattolico rimanesse su
quel di Locarno; spatriati gli altri. Il giorno nel quale i Locarnesi
dovevano manifestare questa loro volontà, i protestanti presero a
difendersi; non furono ascoltati, dicessero netto se volevano o no
farsi cattolici: proruppero in no tanto sonoro che l'eco lo ripercosse
lontano lontano per la costa dei monti. A gittare legna sul fuoco
ecco giunge il nunzio del papa, il quale focosamente assilla deputati
svizzeri a farsi restituire dai Grigioni il Beccaria sovvertitore
dei Locarnesi per multarlo con le meritate pene; quindi a impedire
che gli esuli trasportassero seco i loro beni e figliuoli; questi,
sostenuti, diventassero a forza cattolici: i deputati concessero la
prima richiesta, ributtarono la seconda come eccessiva: il nunzio,
prosuntuoso al pari che soverchiatore, udito di certe gentildonne le
quali, assai avendo delle cose della fede fatto profitto, passavano
per luminari, volle provarsi con esso loro, e di leggieri fu vinto,
vuoi per forza di argomenti o per eleganza di eloquio; allora, il
malanimo convertito in odio, egli giurò la ruina di Barbara Montalto
principale su le altre; quando meno se lo aspettava, una turba di
scherani si avventa sul far dell'alba al suo castello e le intìma
seguitarla in prigione. Non si scompose la donna, solo implorò dagli
sbirri la lasciassero sola per decenza tanto ch'ella si vestisse:
annuirono entrando nella stanza accanto, dove aspettarono tanto che
impazientiti sforzarono la porta della camera per pigliarla, ma non
la rinvennero; frugarono da per tutto e sempre invano: affacciandosi
sopra la terrazza lei videro in mezzo al lago che seduta sopra una
barca, sventolando una pezzuola, li salutava. Il caso successe così:
ella abitava un antico castello di cui una via sotterranea metteva
capo al prossimo Lago maggiore: rugginosa per diuturno disuso era
la porta talchè sei uomini a stento l'arieno potuta smovere; ma il
marito essendosi fatto la notte precedente un mal sonno, provvide che
l'aprissero; nè di ciò contento, procurava altresì che ivi presso
stessero ammaniti i rematori della barca per cavare la famiglia di
pericolo; di ciò la donna consapevole deluse la pretesca rabbia; il
nunzio, per rifarsi, acciuffa certo mercante chiamato Nicolò, il quale
dallo errore di avere discorso con irriverenza della Madonna del Sasso
in poi di altra colpa non era reo; straziaronlo co' tormenti, poi
dannarono a morte: indarno supplicarono per lui i Locarnesi tutti,
massime cattolici; il nunzio non intese ragione, intorato ordinava
che lì per lì senza indugio di sorte si strangolasse e bruciasse. — E
neppur qui ebbero fine le atroci persecuzioni dei riformati locarnesi:
avendo convenuto fra loro di traversare il contado di Milano, furono
avvertiti che veruno gli avrebbe ospitati; se più di tre giorni si
trattenessero, sarebbero stati ammazzati, a gravi ammende sottoposto
chiunque gli sovvenisse ed anco per poco con loro favellasse. Scelsero
nel cuore del verno arrampicarsi su le Alpi; ma giunti a Rogoreto,
si trovarono chiusi dalla neve; lì stettero, e vincendo con isforzi
inauditi la rea fortuna, ci si sostennero fino a primavera, e questo
fu miracolo di amore; a primavera parte accolsero i Grigioni e parte
Zurigo, procurando per via di carezze fraterne consolarli delle passate
amaritudini.

A Napoli, lo abbiamo accennato, Roma avversò la Inquisizione spagnuola
per cupidità di primato; in altro modo proposta piacque, e romani
preti e frati furono spediti ad esercitarla: se più mitemente che in
Ispagna, adesso vedremo. Gli scrittori raccontano che la furia della
Inquisizione in cotesta nobile città si levò repentina come l'uracano;
a frotte legati, imprigionati, poi spediti a Roma, dove dopo averli
straziati co' tormenti bruciavano: presi da terrore i cittadini,
considerati rinnovarsi i tempi di Silla, dove causa di esizio era
più che la dubbia fede il certo possesso del podere di Arpino, in
compagnie cominciarono ad esulare: ben per loro se avessero condotto
a fine il disegno; se non che, giunti ai piedi delle Alpi, alzando le
ciglia in su, contemplarono l'acerbo cielo e la terra desolata; allora
gli assalse il desiderio del lieto aere natio, la dolce temperie e la
contrada dispensiera feconda di tutti i doni della natura: non ebbero
cuore di valicare le Alpi e tornarono a casa, dove patirono di ogni
maniera umiliazioni, ingiurie e patimenti, privi di conforto della
coscienza, che senza requie li chiamò codardi. Il papato, che tenne
e vorrebbe sempre tenere le granfie fitte in Roma e gli occhi da per
tutto, ora vede in Calabria la vetusta colonia dei Vadesi: erano circa
quattromila agricoltori e pastori, gente di fatica e di Dio, semplice
di cuore, innocentissima di opere; essi abitavano due terre San Sisto
e la Guardia; antica la loro fede, diversa affatto dalla romana: dopo
tanto secolo al papa saltò in testa di sottoporli all'alternativa di
farsi cattolici o di morire. Le vie di mezzo non usano a Roma: vennero
colà inviati due monaci; la storia ne ricorda il nome, io nol dirò,
monaci erano, e basta; questi da prima si conducono a San Sisto, dove
si mettono a predicare così: «Caccino via i loro sacerdoti, entrino
in grembo della chiesa romana, ascoltino la santa messa; questo per
ora, il resto impareranno più tardi; e se nol faranno per amore, di
tanto stieno sicuri, che lo avranno a fare per forza.» Alle parole
ebbre, i Vadesi di San Sisto raccoltisi insieme dissero. «Donde a noi
viene sì gran male? Da vivere dentro cerchia di mura fabbricate dalle
nostre mani; per tanto non istiamo a bisticciarci con cotesti uomini,
partiamci, lasciamo loro le nostre case, noi potremo vivere liberissimi
nei boschi.» E come dissero fecero. I frati se restassero mogi non
importa dire, pure ripreso l'animo, divisarono recarsi difilato alla
Guardia, dove appena intromessi ebbero cura di chiudere le porte;
quindi esposero la missione loro come avevano adoperato a San Sisto,
e mentendo aggiunsero che gli abitanti di cotesta terra si erano
tutti senza eccezione ridotti alla loro volontà; imitassero anch'essi
tanto bello esempio rinserrando l'antico vincolo di fratellanza fra
loro: abbindolati così indegnamente, assentirono, se non che, in breve
scoperta la frode, uomini donne e infanti irruppero verso la porta per
raggiungere i fratelli nei boschi. I frati fuori di sè tratti dalla
rabbia bestiale incitano il governatore a movere con forte mano di
milizie contro i profughi di San Sisto, i quali dall'alto delle rupi
dov'erano riparati supplicavano: non fossero micidiali del loro sangue;
da secoli abitare in pace coteste terre e quivi avere raccolto ogni
affetto come ogni sostanza; pure lascerebbero ogni cosa, niente si
porterebbero seco, tranne il necessario pel viaggio; li lasciassero
andare, non li costringessero per disperazione all'estreme difese: non
li badarono; s'immisero dentro le forre delle rupi, e quivi rimase
la più parte infranta dai massi sopra loro tracollati. Alla rabbia
sacerdotale allora si aggiunse non meno truce la superbia soldatesca;
vennero a corsa in Calabria nuovi soldati da Napoli, si bandirono
liberi dallo inferno e dalla galera quanti masnadieri in cotesti
tempi infestavano le strade pubbliche a patto che le scellerate armi
andassero a santificare con la strage degli eretici; ci asteniamo
descrivere gli orrori che ne successero; per naturale ferocia l'uomo
trascorre un pezzo in là; tu pensa dove mai egli arrivi, se creda che
quanto più imperversa immane e più si accosti al paradiso. Intanto i
frati mèssi di Roma, appiccato che ebbero il fuoco alla girandola, si
trassero da parte per fare una nuova giacchiata; fingendo deplorare
cotesti casi, confortano gli abitanti della Guardia di condursi al
cospetto loro per comporre cristianamente gli screzi; ed essi vanno:
settanta dei maggiori presi furono tratti in catene a Montalto e quivi
dallo inquisitore Panza torturati con infernale efferatezza non solo
per farli confessare in proprio danno, ma ed anco in danno dei fratelli
loro; nè riuscendo lo inquisitore, imbestiavasi nel martoriare cotesti
miseri, così che a Stefano Carlino, per la gran forza dei tormenti, le
viscere scoppiarono fuori del ventre. Un Mazzone fu pesto ed arso con
torce resinose, ed il suo figlio precipitato giù dal campanile di una
chiesa; Bernardino Conte, perchè, sendogli presentato il crocifisso
da uno di questi carnefici, rispose: «Allontanatelo dagli occhi miei,
chè il vostro Cristo non può essere il mio», prima spalmarono di
pece, poi bruciarono, nè più nè meno che ai tempi nostri gli Austriaci
costumarono in Brescia con lo Zima falegname; onde e preti e Austriaci
meritamente furono compresi da noi nel medesimo odio, che nè per
tempo rallenta, o per morte cessa. Ora agli Austriaci strumento della
rabbia sacerdotale si surrogarono i Francesi; tale sia di loro: molto
è il danno che ci apportarono, ma troppo maggiore lo strazio. Dio ci
assista, ma la virtù italiana, che si fece strada traverso le ugne
delle granfie dell'aquila austriaca, non morirà fra quelle dell'aquila
francese: però l'odio fra due nazioni destinate ad essere sorelle non è
naturale cosa; possa ricaderne la pena sul capo di cui ne fu la colpa.
Di sessanta donne messe alla tortura la più parte perì; tormentati
del pari i congiunti venuti da terre lontane ad implorare mercè pei
miseri cattivi: il terrore impietriva i cuori e le menti dei popoli.
Confessare o negare tornava lo stesso, ma confessare peggio; di fatti
certo Venninello per impetrare tregua agli spasimi della tortura
prometteva udire la santa messa; dunque, ne arguiva lo Inquisitore, su
lui possono i tormenti, quindi, dove s'inaspriscano, è concesso sperare
confessione più ampia a danno dei suoi compiici; mosso da simile
logica, così ordinò si martoriasse con lo arnese chiamato l'_inferno_
che dopo otto ore il misero esalò l'anima dolorosa. —

Io non pensava allargare tanto questo capitolo ma i casi accaduti nella
mia patria mentre lo stava scrivendo m'impongono il dovere di palesare
con qualche maggiore particolarità che cosa abbia ardito Roma qui in
Italia e che oserebbe adesso, se, in grazia del sussidio di Francia,
ella giungesse ad ottenere la pienezza della sua autorità: e i casi
che verrò riportando io non caverò mica da scrittori protestanti e
neppure con le mie parole esporrò, sibbene da scrittori cattolici
romani, i quali procedono avversi ai martoriati perchè tenuti da loro
in conto di eretici: così pertanto scriveva il segretario di Antonio
Caracciolo al suo padrone: «Illustrissimo signore: di quanto avvenne
qui circa agli eretici non mancai di tratto in tratto porgervi debita
relazione, ora poi mi occorre ragguagliarvi, dei terribili supplizi
eseguiti a danno dei luterani fino dall'11 giugno. A dirvela schietta,
mi è parso proprio un macello: venuto il boia, fece mettere in fila
i condannati; dopo ciò, preso certo straccio di tela, ne bendò uno e
trattolo su la piazza attigua alla fabbrica, ordinò s'inginocchiasse;
in meno che si dice amen allora con la manca lo acciuffa pei capelli
e con la destra gli sega la gola mediante un coltellaccio; compito
il primo ammazzamento, il carnefice va per un altro, col medesimo
straccio insanguinato lo benda, nel medesimo luogo lo strascina, e
nella medesima guisa lo scanna, e così di seguito, finchè, spossato di
forze e grommoso di sangue da capo piedi, non ebbe ingombro il terreno
di bene ottantotto cadaveri! Lascio considerare a voi l'angoscia
dell'animo mio alla vista del terribile spettacolo; mirabile poi la
pazienza e la mansuetudine con la quale cotesti eretici patirono il
supplizio; pochi sul punto di morire abiurarono la eresia, la più parte
perseverò in quella con infernale caparbietà: i vecchi perirono chiusi
nel silenzio, qualche giovane proruppe in gridi di dolore. Quando penso
al carnefice col coltello insanguinato tra i denti, tenendo in mano
lo straccio grondante sangue, afferrare con le braccia sanguinose le
vittime una dopo l'altra come montoni per portarli al macello, davvero
mi piglia il ribrezzo della febbre. Adesso adesso arrivano le carra
per caricare i cadaveri, i quali hanno da essere squartati ed appesi
sopra le vie maestre da un capo all'altro della Calabria; se il papa
e il vicerè non mandano ordini per temperare lo zelo del marchese
Buccianici, questi diserterà il paese: oggi ha emanato un decreto per
cui sarà messo al tormento un centinaio di donne e poi morte; così
pareggerà il numero degli uomini se non lo passa. Ora sonano le otto,
e voglio andare ad informarmi dei discorsi tenuti da cotesti eretici
indurati prima d'incamminarsi alla morte; mi si dice che taluno si
mostrò temerario al punto di non volere guardare il Crocifisso e nè di
confessarsi delle peccata; questi, messi da parte, saranno _bruciati
vivi_: sento che gli eretici da guastarsi qui in Calabria sommeranno a
seicento; costoro derivano dalla valle di Angrogna vicino alla Savoia,
difatti qui in Calabria gli appellano oltramontani; nel regno, senza
contare la Calabria, abitano quattro città, nè per quanto io sappia
essi si conducono male; hanno poche lettere, di costume preclari,
attendono intero alla coltura dei campi, e vicini a morte si mostrano
molto religiosi a modo loro.»

E Tomaso Costo nella sua storia di Napoli, confermando lo atrocissimo
caso, a questo modo dichiara: «A taluni segarono il collo, ad altri il
corpo a mezzo della vita, altri giù dalle rupi precipitarono; tutti
infine patirono atroce, ma pur bene meritata morte. Caparbietà pari
alla loro non fu vista mai; il padre mirava perire il figlio, il figlio
il padre; e gli scongiurati, invece di mostrare segno alcuno di dolore,
giubilando dicevano che andavano a fare da angioli presso a Dio; tanto
gli accecava il demonio impossessatosi di loro!»

Se così altrove, pensa se a Roma: però, profondo conoscitore dell'uomo,
il prete, considerando come la soverchia paura stupidisca, alternò
il supplizio scenico con la strage segreta; così chiamato a Roma con
salvocondotto Bartolomeo Fonzio veneziano, ad uso veneto cucito dentro
ad un sacco annegarono nel Tevere. —

Secondando lo impeto dell'avventata indole, Paolo IV aborrì come
codardi i partiti discreti; si compiacque dello scandalo esclamando
che la torcia doveva mettersi in cima al candeliere, non già tenersi
riposta sotto lo staio; però di un tratto sostenne principi,
principesse, preti, frati, vescovi, intere accademie e perfino
alcuni giudici del tribunale del santo Uffizio: procedendo più oltre
minacciò cernire il loglio dal grano anco nel sacro collegio, al quale
effetto commise si ricercassero intorno alla fede i cardinali Polo e
Morone, Foscarari vescovo di Modena, Luigi Priuli ed altri spettabili
personaggi. Riarso dalla febbre della superstizione, per istinto
feroce, inasprito dal contegno dei nepoti, ai quali troppo si commise
e i quali troppo perseguitò, cotesto papa presso a tirare l'ultimo
fiato non ebbe altro pensiero tranne quello di chiamarsi intorno al
letto alcuni cardinali e raccomandare loro che per l'amore di Dio la
Inquisizione nella sua interezza mantenessero; se non periva, egli
avrebbe intorno a sè seminato il deserto: appena lo seppe morto, il
popolo riduce in cenere il palazzo della Inquisizione, le sue statue
rompe e scaraventa nel Tevere; furibondo adesso quanto prima fu vile.
Il successore Pio IV da prima parve più mite; alla rovescia dei gatti,
i quali sul principio allungano gli ugnoli, i preti li ritirano:
ma di mano in mano se non peggio di Paolo, quanto lui contristò la
umanità; il tribunale della Inquisizione mise in luogo appartato oltre
Tevere, quasi vergognando mostrarlo: ma, nascosto o palese, tendeva ai
medesimi fini co' medesimi tormenti; quivi l'alemanno Filippo Camerier
conobbe e consolò l'anima afflitta di Pompeo Di Negri calabrese,
cui nè amore di congiunti nè opera di amici valsero a liberare da
fato inesorabile; solo, offerendo ben settemila scudi alla avarizia
sacerdotale, ottennero questo, che invece di _bruciarlo vivo_, prima lo
_strangolassero_, poi _ardessero_: ciò discrede il Cantù, che ogni sua
fede pone nelle testimonianze del carnefice.

Pareva di peggio non potesse accadere e non fu così: a due cose non
si trova fondo, allo inferno e alla crudeltà dei preti. Eletto il
Ghislieri a pontefice col nome di Pio V, mostrò fin dove possano
giungere la forza e il malvolere giunti al fanatismo. A costui non
parve abbastanza feroce Carlo IX nè la strage di san Bartolomeo
sufficiente olocausto al suo furore, sicchè scriveva lettere su lettere
a cotesto re minacciandolo dell'ira celeste, dove avesse risparmiato
un capo solo degli eretici, e fosse qualunque; e Spagna e Francia
contrastavansi allora cotesta belva di prete per avventarsela contro,
ed ella insanì per modo che un giorno mostrò i denti ad ambedue
pubblicando le sue costituzioni, delle quali espresso il sugo ai giorni
nostri leggemmo nel sillabo di Pio IX. Prima ardevano pel delitto,
adesso pel sospetto di eresia: non passava giorno che Roma non andasse
contristata da simili immanità; infinite le lusinghe perchè gli eretici
veri o supposti si ritrattassero; per questa sottomissione attendessero
non solo perdono bensì laude e premi; ma côlti al varco le promesse
irridevano; il barone Bernardo di Angola, che nella speranza di uscir
di pena confessò quello che vollero, ebbe a pagare pel riscatto della
vita bene ottomila scudi e poi fu condannato a perpetua prigionia, e la
segnasse col carbone bianco; non diverso toccò al conte di Pitigliano,
il quale, oltre a sfamare la pretina avarizia con mille scudi, ebbe
a ridursi a stare, finchè gli durò la vita, dentro un convento di
gesuiti.

Sconvolto ogni senso morale, lodevoli anzi santi si giudicarono i
fatti i quali si proponessero la esaltazione della Chiesa; tradimenti
e sacramenti del pari graditi a Dio. Certo gentiluomo modenese notte
tempo è chiamato in Castello Sant'Angiolo; ei va tremando per ogni
vena; condotto alla presenza del castellano, questi lo interroga
se egli avesse un parente del tal nome, il quale, condannato come
eretico in Modena, erasi rifuggito a Ferrara; il gentiluomo rispose
affermativamente; allora il castellano senza ambage gli dice: «Or bè,
adesso a voi tocca morire, ovvero scrivete al cugino che pel giorno
e alla tale ora si faccia trovare alla posta tale in Bologna per
conferire insieme su negozio gravissimo; scegliete.» Il gentiluomo
sopraffatto dallo spavento scrive, e tuttavia lo tengono sostenuto
fino ad esito del tranello; il quale pur troppo riuscì favorevole
alla perfidia pretesca, imperciocchè il cugino improvvido, male
affrettandosi per compiacere al parente, in breve cadesse nelle granfie
sacerdotali.

Lascio dei morti, minori in fama (pari tuttavia nel merito, e nel
merito come nel martirio furono Fannio faventino e Domenico della Casa
Bianca da Bassano) per parlare della fine di Mollio da Montalcino;
lui rendevano venerato presso la gente la scienza infinita e la pietà
insigne, quindi tanto più dalla curia romana aborrito, la quale gli
pose i suoi segugi dietro per agguantarlo, come di fatto lo raggiunsero
a Ravenna dove si stava acquattato: giorno fausto giudicarono cotesto a
Roma, dove venne tratto con istrepito di armati. — Ammanita una solenne
udienza della Inquisizione a cui assisterono con molti inquisitori
parecchi vescovi e sei cardinali, vi comparve il Mollio in compagnia di
non pochi altri sostenuti, nelle cui mani posero un torchietto acceso
appena entrarono in sala: letta l'accusa, concessero agli accusati la
difesa. Il Mollio si difese da sè: egli pertanto a viso aperto propugnò
la propria dottrina intorno alla giustificazione, alla confessione
auricolare, ai sacramenti; disse, com'è, empio ed usurpato il potere
che il papa si arroga, e finalmente, vôlto con piglio severo verso i
giudici, a questo modo gli apostrofò: «Se mai, o vescovi e cardinali,
avessi potuto persuadermi che la potenza da voi usurpata e le dignità
delle quali voi v'insignite rispondessero a taluno merito vostro,
io non vi vorrei arguire; ma poichè io conosco di certa scienza come
per voi sono state calpeste la temperanza, la verecondia, la onestà
e la virtù, così emmi forza significarvi alla ricisa che voi le
derivate non già da Dio, bensì dal demonio. Se fosse la vostra davvero
potestà apostolica, come presumete dare ad intendere agl'ingenui,
la dottrina e la vita vostre si rassomiglierebbero a un punto quelle
degli apostoli: ora non è così, i vostri atti portano tutti il marchio
della corruttela, della ipocrisia e della cupidità; ond'io non posso
astenermi da considerare la vostra chiesa asilo di masnadieri e caverna
di ladri. La vostra dottrina ch'è mai se non tessuto di menzogne?
La vita vostra non palesa chiaro che vi siete fatto Dio del ventre?
Voi siete sempre assetati del sangue degli eletti. Con qual fronte
voi vi vantate successori degli apostoli e di Gesù Cristo voi che lo
spernete nella parola e nelle opere, voi che trucidate i suoi fedeli
ministri, voi che costumate come se Dio non fosse in cielo, rendete
inutili i suoi precetti sopra la terra, fate forza alla coscienza dei
santi? Impertanto dalla vostra sentenza mi appello, e v'intimo, gente
sanguinaria e dolosa, a comparire dinanzi al tribunale di Cristo quando
i titoli vostri di superbia non abbindoleranno, e quando gli strazi ed
i carnefici vostri non atterriranno più la gente; ed in testimonianza
di quanto vi ho detto, ecco vi rendo quando voi mi avete dato.» E qui
scagliato in terra il torchietto che aveva nelle mani lo spense: forse,
anzi di certo, non avria avuto virtù per salvarlo più mite sermone,
tuttavolta e' pare che al Mollio come a Socrate in cotesta occasione
premesse meno difendere sè stesso che empire di vergogna i propri
giudici; ma co' preti la vergogna è sciupata.

Pomponio Algeri fu di Nola; studiò a Padova, ingegno sottile e
nell'arte critica supremo, se la morte acerba non lo rapiva alla
sapienza: tuttavia scolare compose certa operetta breve di mole, di
argomentazione potentissima, con la quale si riduce in polvere tutto
quanto i curiali romani anfanando ricavano dalle Scritture e dalle
decretali in pro' del papa: avesse egli dettato blasfemi contro Dio,
rilevava poco, Dio si difende da sè; contro il papa gli era ben altro
negozio: faceva pertanto mestiero spegnere cotesto aspide innanzi che
crescesse. Venezia servì da sbirro il papa; pure, sentisse rimorso o
pudore, non volle consegnare il misero giovane al papa, lo condannò
ella stessa cacciandolo in galera, donde pure ci ha redenzione. Ma
siffatti empiastri non talentavano al papa, amico dei partiti netti,
il quale focosamente instò presso il senato perchè glielo consegnasse:
a sbramare la belva poteva dargli una carogna il senato, ma temè
cimentarsi, però che cotesto maestrato ormai fosse destinato a scendere
di viltà in viltà dentro il sepolcro; quindi glielo inviava vivo e
incatenato a Roma, dove senza gingillare lo condannarono ad essere arso
vivo: morì a trentaquattro anni con tali segni di grazia divina che i
cardinali assistenti al supplizio per renderlo più solenne ne rimasero
spaventati pur pensando al tardo ma inevitabile giudizio di Dio.

Le spie stavano attaccate come l'ombra ai corpi dei sospetti, nè in
casa solo, ma fuori; così a Francesco Gamba da Como, frequentando per
suoi commerci Ginevra, essendo accaduto certa volta di celebrarvi la
cena in compagnia dei suoi fratelli nel Signore, al suo ritorno fu
preso e in meno che non si dice un _Credo_ condannato alle fiamme;
s'interpose l'ambasciatore imperiale, che a grande stento ottenne la
esecuzione della sentenza per qualche giorno si differisse, e cotesta
il misero ebbe a sperimentare importuna pietà, imperciocchè in quello
intervallo di tempo i frati non facessero altro che tambussarlo
con isciolemi e scede e di ogni maniera strazi, cui egli rispose
mansueto sempre: anco i parenti e gli amici gli diedero molestia, pure
tentando scrollare l'anima indomita con le considerazioni di affetti e
d'interessi terreni. Di tutto ei prevalse: dal volto dai gesti, dalla
dolce favella usciva uno incanto che investiva i cuori dei carnefici
postigli attorno e gli sforzava al pianto; li benedisse, li perdonò
supplice si volse a Dio perchè egli pure li perdonasse: tanto amore
gli nocque; gl'inquisitori, temendo l'effetto della sua facondia,
ordinarono che prima di condurlo al patibolo gli mozzassero la lingua,
come fu fatto: così tratto fuori, anco sul palco gorgogliò sangue e
preghiere pei suoi persecutori, quinci volse intorno gli sguardi e,
visto alla lontana un suo amico lo salutò della mano; subito dopo lo
strangolarono ed arsero. Tutti gli astanti piansero, eccetto i preti,
i quali ruggirono: essi ben potevano percotere questi uomini dabbene
con le pene degli scellerati, impedire che santi fossero e come tali
si venerassero non potevano. Poco è a dirsi del Varaglia piemontese,
già cappuccino, che mandato a convertire i Vadesi rimase convertito;
a tradimento preso, fu condannato a morte a Torino: morendo volle
spaventare come Scevola gl'inquisitori annunziando loro tanti essere
i suoi fratelli nella fede di Cristo che gl'inquisitori non saprebbero
trovare canapa nè legna a bastanza per istrangolarli ed arderli tutti;
ma gl'inquisitori, come Porsenna, non si atterrirono continuando a
strozzare ed a bruciare finchè la umanità non ebbe loro tronche le
braccia.

Vittima anco più pietosa di lui Luigi Pasquali di Coni: preso fino dai
primi anni di sua vita dalla dottrina dei riformati, studiò a Ginevra,
dove tanto si distinse che lo elessero predicatore ai Vadesi di
Calabria; avendo egli dato fede di sposo a Camilla Guerina, rispose non
potere accettare senza il consenso della fidanzata, la quale volentieri
lo accordava; andasse, obbedisse al Signore, ella lo avrebbe aspettato
fino al ritorno: egli allora si partì con Stefano Negrino. Dopo molto
travagliarsi, entrambi caddero in mano alla Inquisizione; il Negrino
lasciò morirsi di fame in prigione, e parve non il più animoso, bensì
il meno doloroso partito; all'opposto il Pasquali, dopo otto mesi di
prigionia a Cosenza, trasportarono a Roma: molto patì e tutto sostenne
con maravigliosa costanza, come si desume dalle lettere pietosissime
spedite da lui alle chiese perseguitate della Calabria ed all'afflitta
sposa; in una di queste lettere si legge il suo viaggio da Cosenza a
Napoli; è pregio della opera riferirla: «Dei nostri compagni quei due
che persuasero a ritrattarsi non hanno patito punto meno di noi, e Dio
sa che cosa gli aspetta a Roma. L'onesto Spagnuolo soprastante alla
nostra scorta ci volle far comprare la catena; a questo fine mi strinse
così crudelmente i polsi che le carni ne rimasero stracciate; pur
troppo mi accorsi che per riscattarmi dallo spasimo egli era mestieri
dargli quanto mi trovava a possedere di pecunia; poca cosa invero,
due ducati, appena bastevoli alle prime necessità; pure glieli diedi.
Durante la notte alle bestie somministravano paglia per corcarsi, a noi
no, ci toccava giacersi per terra; a Napoli ci hanno chiusi dentro una
carcere umida, fetente per la lunga dimora di luridi prigionieri.»

Il fratello del Pasquali accorso per salvare il povero fratello,
tale gli apparve quando prima lo vide al cospetto dello inquisitore:
«orribile vista! egli scrive; nudi il capo, le braccia e le mani
stracciate dai rigidi legami come di uomo che venga tratto alla forca;
tanta pietà mi vinse che, andandogli incontro per abbracciarlo, mi
vennero meno le forze: Fratelmo, egli mi disse, se cristiano sei,
perchè ti lasci abbattere così dalla sventura? O che ignori forse
come nè anco un capello cascherà in terra senza il volere di Dio?
Confórtati in Cristo, chè i mali presenti non hanno paragone con la
gloria avvenire. — Silenzio con coteste grullerie urlava l'inquisitore.
Quando fummo sul partire, mio fratello pregò costui a volergli
concedere carcere meno insopportabile; al che quegli rispose: — Io non
ho altra carcere per te. — Ma almeno vi pigli compassione dei miei
ultimi momenti, e Dio un giorno ve ne renderà merito. — È cortesia
mostrarmi villano con empi ostinati ed induriti come te. — Certo
dottore piemontese il quale si trovava in nostra compagnia si unì a
noi per iscongiurare lo inquisitore alla misericordia; fu tempo perso,
egli si rimase inflessibile. — Non vi sconfortate, allora soggiunse mio
fratello; voi vedrete ch'egli lo farà per amore di Dio. — Anco volessi
non potrei, tutte le prigioni adesso sono piene. — Ma via non tanto
che un qualche cantuccio non avanzi sempre per me. — E poi con la tua
lingua di vipera mi contamineresti le persone che ti stessero allato.
— Ebbene io vi prometto tacere. — Insomma hai inteso che tu non devi
uscire di qui? — Pazienza! — Conchiuse il mio fratello.»

Pochi dì innanzi di morire, Luigi, volgendosi al suo fratello, così gli
diceva: «Ringrazio Dio che nella mia lunga tribolazione e terribile
parecchi eletti spiriti non hanno avuto paura di mostrarmi la loro
benevolenza; te poi ringrazio particolarmente, mio dilettissimo
fratello, per le tenere cure che ti sei tolto per me. Per ciò che mi
spetta, Dio mi concesse la grazia di conoscere il nostro Signore Gesù
Cristo in guisa di sentirmi sicuro nella via della verità: conosco
che mi tocca camminare per lo angusto sentiero della Croce e mi trovo
disposto a sigillare la mia testimonianza col sangue: non temo la
morte, molto meno la perdita dei beni terreni, unito come sono di
cuore al mio Redentore e consapevole del retaggio che mi aspetta nella
vita celeste.» Il suo fratello, il quale sembra che sul retaggio della
vita celeste facesse minor capitale, instava presso Luigi affinchè
con qualche dichiarazione vedesse di salvare quella po' di sostanza
alla famiglia, e se ci fosse verso anco la vita; ma egli fiero: «O
fratello mio! il pericolo in cui tu ti versi mi angustia più di quanto
soffro e più dei patimenti che mi si apparecchiano. Ahimè! come lo
appetito disordinato delle cose terrene ti rende indifferente ai beni
del cielo!» Per ultimo, l'8 settembre 1560 lo trassero nella Minerva
a sentire leggere la sentenza che lo condannava a morte; e il giorno
dopo dentro una corte del Castel Sant'Angiolo, presenti il sommo
pontefice e i cardinali, prima lo strozzarono, poi l'arsero. I nostri
preti vietano ai fedeli assistere alle rappresentanze sceniche, però
che, se commedie, facilmente corrompono il buon costume, e se tragedie,
inferociscono gli animi: questa gente dabbene ha avvertenza a tutto. —

E ormai che entrammo in queste miserie più addentro che non ne avevamo
fatto disegno, come taceremo delle sventure domestiche? Cosimo primo
granduca, a quanto pare, non badava più al torto che al diritto; la
sua religione si rassomigliava più presto a quella di Margutte che
a qualunque altra; egli, comechè segretamente, stava ammanito a fare
il suo cammino anco con la vela della eresia; che da lui si tenesse
corrispondenza col Bruciolo già avvertimmo anzi se ne serviva di spia;
meglio però la connivenza di questo tristo co' riformatori resulta dal
suo carteggio con Pero Gelido da Samminiato, ch'egli spediva in Francia
a subodorare le rivolture politiche di cotesto paese, e si conosce come
lo servisse di coppa e di coltello tanto da passare ispia anco lui
non senza pericolo della propria vita; il degno uomo però adoperava
così senza un interesse al mondo; solo nella fiducia che Cosimo in
fondo in fondo si sentisse parziale per la dottrina dei riformati e
s'industriasse al trionfo della vera religione di Cristo; di vero egli
prega Dio che infonda in Cosimo il vero conoscimento della verità,
perchè sia arnese di persuadere al papa che, deposti ogni interesse ed
ambizione (il che torna lo stesso che persuadergli a disfarsi), voglia
una volta che di questa causa si conosca la verità, come farebbe se si
disponesse a congregare un concilio legittimo nel mezzo della Germania
e a presiederlo in persona, dove si riformasse la Chiesa davvero; di
che ne acquisterebbe gloria immortale presso gli uomini e la salute
eterna presso Dio: e se non lo vorrà fare, non importa, imperciocchè
accadrà in onta sua, trattandosi di cosa la quale come disse Gamaliel,
venendo da Dio, non può mancare.

A Cosimo tiranno coteste ciammengole non potevano andare; ciondolava
nel dubbio per agguantarsi lì per lì anco ai rasoi per non battere sul
lastrone, ma poi sentiva che la tirannide sacerdotale con la tirannide
principesca sono fatte per reggersi; e dove mai lo avesse dimenticato,
ecco là l'arcivescovo di Firenze Alessandro dei Medici suo cugino e
suo ambasciatore a Roma che glielo ricordava con esplicito sermone:
«Serenissimo signor mio, per la molta pratica che io ho delli umori
di cotesta città, a me pare che la devozione di fra Girolamo causa
duoi effetti cattivi, anzi pessimi quando vi si gettano come fanno al
presente: il primo è che quelli che vi credono si alienano dalla sede
apostolica, e se non diventano eretici, non hanno buona opinione del
clero secolare e dei prelati, e gli obbediscono mal volentieri, ed
io lo pruovo. L'_altra, che tocca Vostra Altezza, è che si alienano
dal presente felice stato, ed all'Altezza Vostra concepono certo odio
intrinseco, se ben la potenza e la paura li fa stare in cervello_. Ed
io ricordo che Pandolfo Pucci una volta, poco innanzi che si scoprisse
il suo tradimento, mi disse una mattina grandissimo bene di fra
Girolamo con mia grandissima maraviglia; so che leggeva le sue opere
con quegli altri congiurati.... I suoi devoti sono sempre queruli,
sempre si lamentano, e perchè temono a parlare del principe, parlano
dei suoi ministri et ordini, ecc.» E va bene: come tutte le libertà,
così tutte le tirannidi sono sorelle; a quei che si tirano su a
liberali e non ci credono o piuttosto fingono di non ci credere accade
di queste due cose l'una, o finiscono per diventare satelliti del
tiranno, o capitano male dopo avere ingannato sè stessi e la umanità.

Di monsignor Pietro Carnesecchi non si potrebbe dire bene tanto che
bastasse: indole umana, benigna e più, comechè nella pratica della
virtù rigidamente costante; egli dotto nelle greche e nelle latine
lettere, parlatore diserto, poeta insigne, consigliere argutissimo e
fedele, delizia di quanti il conobbero, tra i quali piace distinguere
quei due chiari intelletti che furono i cardinali Sadoleto e Bembo.
Gli fu amico Giulio dei Medici, esaltato poi a pontefice col nome di
Clemente VII, il quale lo elesse pronotaro apostolico e segretario;
con tre abbazie lo locupletò nel reame di Napoli, in Francia e nel
Polesine; avendolo a mandare allo imperatore Carlo V nel 1531, lo
accompagnò con questa commendatizia di cui non sapremmo immaginare nè
più calzante nè più affettuosa: «Noi ti raccomandiamo un cittadino
fiorentino, uomo di somma fede e di modestia singolare, il quale,
e pei suoi meriti e per l'animo a noi divotissimo e per nobiltà e
per virtù, amiamo quanto maggiormente possiamo.» E certo il papa
favellava sincero, imperciocchè perfino del proprio nome volle ch'ei
usasse; ed in cotesti tempi corse fama che la Chiesa pei consigli del
Carnesecchi si governasse. — Siffatto intelletto era impossibile che le
improntitudini romane sopportassero; convenuto sovente a Viterbo presso
il cardinale Reginaldo Polo in compagnia di Marcantonio Flaminio, si
pascevano _de illo cibo qui non perit_, ovvero di ragionamenti ribelli
all'enormezze di preti cupidi, feroci ed ignoranti; a Napoli prese
usanza col Valdes, l'Ochino, il Vermiglio e il Caracciolo; altrove
strinse amicizia col vescovo Soranzo, col Vergerio, col Rangoni,
Priuli, Merenda, Altieri, Celsi ed altri parecchi; mantenne più che
benevole corrispondenza con Vittoria Colonna, Margherita di Savoia,
Renata di Francia, Lavinia della Rovere e Giulia Gonzaga; generoso
ed umano sussidiò largamente i perseguitati; diceva anco a chi non
lo voleva sapere come a capacitare gli uomini ci vogliono buoni
argomenti esposti con amore, non già lo immane urlío «_abbrucia,
ammazza_»; pii ed innocentissimi affermava avere provato la più parte
dei protestanti; cui si ritrattava compiangeva di spirito debole e di
animo abbiosciato, all'opposto chi persisteva nella fede novellamente
assunta lodava, e fra questi levò a cielo il Valdes scrivendone al
Bonfadio; insomma disse ed operò in guisa che in cotesti tempi per
mandare alle fiamme un uomo dabbene ce n'era anco di troppo. Citato
a Roma nel 1546, il cardinale di Burgos lo esaminò intorno le sue
corrispondenze con gli eretici, i sussidi loro somministrati, le
raccomandazioni come precettori di tali che insinuatisi nelle famiglie
sotto pretesto d'insegnare pervertivano la coscienza dei giovanetti,
il favore fatto presso duchessa di Traietto in pro di due ospitati
perchè il vero evangelo bandissero alle genti; ventura per lui che
Paolo III beveva grosso ed impedì che il negozio inciprignisse:
ma pecora segnata ormai egli era; ito in Francia, tornarono ad
appiccargli le accuse; le quali a cagione della regina Caterina che
gli si professava parzialissima poterono attecchire anco meno che a
Roma. Poteva costà vivere tranquillo, ma i fati che strascinano gli
uomini più che questi non credono e certo poi più che non vorrebbero,
lo condussero di nuovo in Italia, farfalla intorno alla fiamma che lo
aveva a incenerire; egli mise stanza in Padova, città ch'ei giudicava
appartata dalle romane insidie epperò opportuna alla professione
pacifica delle sue dottrine: s'ingannava, anco là la curia prese
a perseguitarlo più implacata che mai; niente gli valse separarsi
dai viventi o chiudersi nella solitudine o studiare le parole e i
passi; l'odio, che non perdona mai, lo circondava come l'atmosfera.
Il Gelido con queste pietose parole dava contezza di lui al Bibbiena
segretario del duca Cosimo: «Molto spesso ragiono di lei con monsignor
Carnesecchi, il quale è abbandonato, si può dire, da ognuno, eccetto
da me, il quale tanto lo potrei mai abbandonare quanto la madre il
suo figliuolo, amandolo quanto si può amare un vero amico, e certo
non per beneficii che io abbia ricevuto o speri ricevere da lui, ma
perchè sempre l'ho conosciuto uomo dabbene e bonissimo, e se mai lo
ebbi tale, in questa sua afflizione, ch'è delle gravi che possono
accadere ad un uomo, perchè si perde la roba, l'onore e quasi la vita,
finisco di certificarmi che Dio è con lui e lo governa e lo consola
e lo fortifica, chè altrimenti non potrebbe tollerare questo colpo
mortalissimo con tanta costanza di animo e quasi con ilarità come con
effetto tollera. Si è ritirato in casa, che fa conto gli sia una onesta
carcere: conversa co' suoi libri e coi suoi pensieri per la maggior
parte divini e vôlti alle cose dell'altra vita, di maniera che, in
questa persecuzione che lo priva della conversazione degli uomini,
l'assuefarà a conversare con gli angioli, e così verrà a trarsi altro
frutto di questo suo esilio di quello che dal suo trasse Boezio o
qualsivoglia altro filosofo, perchè altra consolazione si trova nella
filosofia cristiana che nella umana.»

Fra Michele inquisitore a nome di Paolo IV citò il Carnesecchi a Roma,
ed egli mantenendosi contumace, senz'altra indagine venne scomunicato
il 5 aprile 1559; come a Dio piacque, a Paolo successe Giovannangelo
dei Medici col titolo di Pio IV, il quale sendogli amico, lo ebbe tosto
ribenedetto dichiarandolo buon cattolico ed obbediente alla Chiesa.
Allora, punto dal desiderio del natio luogo o nello intento di porsi
al riparo di più sicuro asilo, il Carnesecchi da Padova si trasferì a
dimorare a Firenze, dove visse in pace onorato da tutti e caro, come
credeva, a Cosimo fino alla esaltazione di Pio V; in quel torno, senza
che il Carnesecchi se ne addasse, una terribile procella si affoltò
sopra di lui. Rincresceva acerbamente a Cosimo che la morte gli cavasse
dalle mani un papa prima di averlo sfruttato secondo i suoi bisogni;
tanta era stata fin lì la sua prevalenza sopra la curia romana che
Pasquino espresse questa opinione universale effigiando Cosimo vestito
da papa col motto: «_ecce Cosmus Medices pontefex maximus_.» Col papa
amico pareva a Cosimo potere navigare sicuro pel pelago intricato della
politica ed anco alla occasione prepotere, imperciocchè i concetti
di Cosimo fossero grandi o almeno cupidi, e poi i contrasti per le
precedenze a cotesti tempi si mostrassero od avessero occasione per
mostrarsi più dispettosi che mai; e ciò o rispondesse alla fumosità
per virtù dei costumi spagnuoli diventata tanta parte del cervello
italiano, o piuttosto a segno esteriore di primazia proseguita
dai principotti con tanto maggiore smania nelle apparenze quanto
più impotenti a conseguirla in sostanza. Al duca di Firenze davano
continua molestia i duchi di Savoia, di Mantova e di Ferrara, massime
di Ferrara: mentre quel di Savoia era andato a pescare il titolo di
re fino a Cipro non senza riso dei potentati d'Italia e di fuori, e
fin d'allora Cosimo mulinava conseguire dal papa titolo e grado che
lo preponessero ai suoi emuli, come di fatti pei meriti suoi, tra i
quali non ultimo la consegna del Carnesecchi, acquistò e fu incoronato
granduca.

Pertanto il cardinale Pacecco scrisse al duca il 10 giugno 1566 una
lettera perfida come la sanno scrivere i preti: «Sarebbe peccato
grave per Cosimo se non desse al papa tutto favore perchè egli potesse
adempire il suo ufficio di vicario di Cristo: avendogli sua Beatitudine
parlato con molta premura di questo negozio, egli Pacecco avere
reputato spediente agl'interessi del duca accertarlo di due cose, la
prima che in tutta la cristianità non viveva principe il quale delle
cose della Inquisizione fosse zelatore come egli Cosimo, e questo
molto bene conosce da per sè la S. S. e lo predica; la seconda, che
non vi sarebbe cosa, per grave che fosse, che Ella non fosse disposta
a fare per suo particolare contento e consolazione: non si maravigli
poi della premura che si muove per un uomo, imperciocchè costui non
sia un uomo come un altro, e si nutre sicurezza di ricavare da lui
molte cose ed importantissime _e forse qualcheduna che fosse di suo
servizio_.» Preparato a questo modo il terreno, il giorno dopo Pio V
spediva al duca il maestro del sacro palazzo con una lettera scritta
tutta di proprio pugno: «Dilecte fili, etc. Ella pare innocente come
l'acqua; dia ad esso maestro la credenza che daria alla sua medesima
persona, e così la Divina Maestà lo benedica.» — Il maestro del sacro
palazzo non aveva altra commissione eccetto quella di farsi consegnare
il Carnesecchi, nè si partisse da Firenze se con esso seco non lo
trasportasse. Dalle carte del Carnesecchi poi si rilevò come gli amici
suoi di oltremonte più volte avessero mosso ressa appo lui ond'egli
da Firenze si cansasse, nè egli se ne era mostrato alieno, ma poi,
fidando nell'amicizia antica di Cosimo, bandito ogni sospetto da sè
come ingiurioso a così egregio principe, si era rimasto; e giusto nel
punto che il maestro giunse al palazzo del duca il Carnesecchi pranzava
coll'ottimo principe; il quale letta la lettera e udito il messaggio
senza scomporsi, mandato pel bargello, fece tradurre l'amico della
sua famiglia e suo dalla mensa ospitale al carcere dei malfattori. E
qui non vuolsi omettere di notare come cause della feroce persecuzione
contro il Carnesecchi fossero due: la prima la strenua difesa con la
quale il Carnesecchi pigliò sempre a sostenere la fama di Cosimo; di
che si ha notizia in una lettera del Gelido: «Tu ti devi ricordare che
tre anni fa predicò un frate di santo Agostino chiamato il Montalcino.
Costui pose tanto odio a monsignor Carnesecchi perchè un dì andò a
trovarlo in camera e con buon modo mostrò al padre che faceva male a
parlare del duca di Fiorenza manco che onoratamente: ma poichè egli era
uno dei più arrabbiati Sanesi che mai si potessero immaginare non che
trovare, cominciò a levare la voce e dare del tiranno per la testa in
modo che il Carnesecchi mi ha detto che bisognò gli dicesse a lettere
da scatola ch'egli era la più solenne bestia che andasse sopra due
gambe, e se lo levò dinanzi. Il frate andò a dolersene più volte col
cardinale Triulzio, ch'era qui legato, e trovando che non ne faceva
caso perchè amicissimo di monsignore, disse che troverebbe il modo di
rovinarlo. E domandato dal cardinale quello che pensava fare, rispose
che la inquisizione era aperta, e che a monsignore, parlando seco, era
scappata di bocca non so qual parola sopra un passo di santo Agostino
che sentiva dello eretico, ed insomma troviamo che questo frataccio ha
suscitata questa persecuzione.» E questo fatto sarà stato argomento
per Cosimo di vendicarsi del frate, ma nol fu per salvare il misero
Carnesecchi; la seconda causa si desume da certa lettera scritta dal
Babbi oratore toscano al duca Cosimo: «Mi disse iersera il governatore
di Roma che il Carnesecchi porta gran pericolo di vita, sebbene il
processo suo non è ancora maturo, ed ha un gran bisogno di aiuto:
quando campi la vita, _sarà murato_ in luogo che non si rivedrà, più
essendosi trovate fra le sue scritture minute di lettere che scriveva
pel mondo quando fu creato questo buon papa, detestando questa santa
elezione _e dicendo molto male di lui e di tutto il collegio_.»

E preti e donne non perdonano mai, costumava dire il cardinale di
Richelieu, che se ne intendeva. Trentaquattro furono gli errori
imputatigli (e quello che per avventura lo condusse a morte si tacque);
affinchè uomo conosca per quali cause trecento anni fa Roma ardeva,
strangolava, arrotava, mazzolava e squartava le creature umane, io
li vo' riferire: «L'uomo con la fede sola si giustifica; fede, e non
opere, necessaria alla salute eterna; facile però all'uomo graziato
della fede compire opere buone: quantunque inani alla salvazione
dell'anima, le buone opere otterranno maggior grado di gloria: per
natura inclinati al male e, avanti la grazia, al peccato: arduo
ed impossibile, senza grazia di Dio, copia di fede e di speranza,
osservare il decalogo, massime i due primi precetti di quello. Si stia
alla parola del Signore attestata dalle Scritture; delle indulgenze
nella Scrittura non occorre neppure una parola. Lo Spirito Santo non
presiedè a tutti i concili nè si mostrava chiaro intorno alla persona
legittima per convocarlo: quanti avessero ad essere i sacramenti non
sapeva: non obbligatoria la confessione: dubitava del purgatorio e
sosteneva apocrifo il libro II dei Maccabei, dove si giudica efficace
il suffragio pei morti. Che nella Eucaristia sia presente il corpo di
Cristo non nega, nega la transustanziazione e qui ciondola tra Lutero
e Calvino: sarebbe bene che anco i laici comunicassero sotto le due
specie. La Messa propizia solo per la memoria della passione di Cristo
o vero in quanto eccita la fede, per la quale unicamente impetriamo la
rimessione dei peccati. Per eccellenza il papa è primo vescovo, non
per autorità, la quale non può esercitare sopra le altre chiese, se
pure il mondo non gliela deferisca per rispetto a Roma. La più parte
degli ordini monastici aborriva, massime gli accattoni, cavallette
del pane del povero: le prediche dannose anzichè no, come quelle che
raccomandavano troppo le opere: turpe il celibato dei preti: iniquo
il voto di castità, la quale è dono di Dio: l'andare pellegrinando
randagio attorno vizio di vagabondo, non santità: la cernita dei cibi
assurda, non meritorio il digiuno; e poichè Cristo si era offerto
mediatore fra Dio e gli uomini, inutile la invocazione dei santi; con
altre giuntarelle che toccai disopra, perchè a suo danno si raccolsero
le briciole; le quali cose tutte adesso ci paiono opinioni in parte
plausibili, in parte oziose; ma i tempi portavano così, ed essi
letterati erano e dialettici e teologhi non già filosofi. Caduto in
malebranche, il Carnesecchi, per bene due volte atrocemente provato con
la tortura, confessò quello che vollero; spontaneo avrebbe detto tanto
che mezzo bastava per arderlo. Però tormenti non valsero a denunziare
complici, sè accusò solo. Cosimo, fosse vergogna o rimorso o piuttosto
astutezza, contando coll'esagerare il sacrifizio fatto al papa
ottenerne più lauto compenso, assai si dimenò per proteggerlo; e col
mezzo del suo oratore veniva supplicando il papa considerasse la nobile
prosapia dello accusato, il nome chiaro, la diuturna familiarità, un
_monte di donzelle del suo parentado da accasarsi_, la servitù alla
casa Medici, il grado illustre; e il papa, tutto bene considerato,
rispondeva: _che se avesse in mano uno che avesse morto dieci uomini
non mancherebbe darglielo e concederglielo; il Carnesecchi non potere;
e che se si avesse rispetto ai parenti ed alle famiglie, non si
sarieno fatte esecuzioni come si sono fatte in molti signori_. Onde il
Serristori, che sparvierato uomo di corte era, presa lingua, scriveva
al suo padrone per dissuaderlo da mettersi nella calca a farsi pigiare:
«Non ci è verso alcuno di aiutarlo, e ciò che l'E. V. facessero non gli
gioverieno, ma sì bene imbratterebbono in gran parte quella candidezza
e gran volontà che con le opere hanno mostro contro questa pestilenza
di eretici, per il che presso Sua Santità sono tenuti in concetto dei
più cattolici principi che sieno in cristianità, la religione, virtù e
giustizia dei quali da Lei si predica con ogni uomo.» E poi, secondo il
costume di tutti i tempi, che i vili, a cui il bene materiato piace,
sentono bisogno di tôrre ai magnanimi fino il compianto dei loro
simili, il Serristori denigra presso Cosimo il Carnesecchi come uomo
senza cervello che in mal tempo, invece di gittarsi giù di sfascio
ai piedi del papa ed implorare mercede, aveva tolto a difendersi;
insensato che si ostina a non ritrattarsi come tanti altri fanno: ma
forse il cortigiano con siffatte parole perfidissime veniva piaggiando
l'anima di Cosimo, la quale, lacerata dal rimorso, doveva trovare
qualche sollievo al truce tradimento dandosi ad intendere che al
postutto il Carnesecchi non era uomo che meritasse osservanza di fede.

Anco lui con lusinghe e con terrori tentarono affinchè si ritrattasse:
stette fermo, e ad una voce avversi e finti o timidi amici condannarono
la sua caparbietà, la quale se non era, l'ottimo pontefice gli avrebbe
fatto senz'altro la grazia. Qual mai grazia? Chiuso in perpetua
prigione in mano a frati fanatici, ovvero dentro una celletta _murato_;
chè il carcere solitario, privo di ogni consolazione, pieno di ogni
angoscia mortale, immaginarono i preti nello inferno dei loro pensieri
prima che scendesse nel cervello dei moderni[17] filosofi.

E poi ormai nel Carnesecchi, venute meno le cause del vivere, era
surta la voluttà della morte: chiunque per cause più o meno lodevoli e
sovente contennende si sente attaccato alla vita questo non pensa o non
crede, ma pur troppo si danno casi pei quali all'uomo la vita diventa
supplizio, refrigerio la morte. Il Carnesecchi, non che ritrattarsi,
quanti confortatori gli mandavano procurava che si ravvedessero
e, lasciato il sentiero dello errore, su la via del vero Evangelo
s'incamminassero; donde lo esasperarsi delle pretesche ire. Non sembra
che gli fosse letta la sentenza su la piazza della Minerva, bensì in
chiesa davanti la sepoltura di Clemente VII, che tanto lo ebbe caro;
quindi condotto in sagrestia, dove lo vestirono con la tunica gialla
dipinta a fiamme; ridicole cose adesso, allora feroci; il martedì, che,
fu il primo di ottobre 1567, portato in ponte, vi ebbe mozzo il capo, e
poi l'arsero.[18] Tutti gli storici notarono l'attillatura con la quale
ei si condusse a morte quasi segno di vanità o di follia; e questa
attillatura, stando alla relazione del Serristori, consistè nel vestire
camicia bianca e usare guanti nuovi e pezzuola pur bianca in mano;
costoro non sapevano o piuttosto fingevano ignorare come la mondizie
del corpo spesso renda testimonianza della purezza dello spirito.
Il papa Pio, per non far torto al nome, delle entrate riscosse e da
riscotersi de' suoi benefizi, che sommavano a circa cinquemila ducati,
fece grazia ai suoi parenti, ma le abbazie di Napoli e del Polesine
tenne per sè; quella di Francia sembra che non potesse agguantare. —

La viltà, che alla più parte degli uomini somministra le fasce dentro
le quali essi vengono ravvolti fin dal nascimento loro, operò in guisa
che gli amici lo rinnegarono, gratificando la tristizia del sacerdote,
la quale non patisce che dei suoi avversari sopravviva il nome ovvero
consente sì che duri, ma infame. Il Mureto, aveva composto un'oda
in plauso del Carnesecchi e stava in procinto di pubblicarla, se non
che, repugnando sconciare i fatti suoi, si consultò con taluni solenni
barbassori di santa madre Chiesa, che lo consigliarono pel suo meglio
a rimetterla nel fodero; ed egli comechè ciò costasse non già alla
sua amicizia ormai svanita, sibbene alla sua vanità, tenne lo avviso.
Del pari cadde l'animo allo stampatore Aldo Manuzio amico sviscerato
del Carnesecchi, che gli levò al sacro fonte un figliuolo, e nelle
collezione delle sue lettere stampata dopo la condanna di cotesto
infelice al nome di lui sostituì quello di _Pero_; anzi nel 1558 costui
dettò un magnifico panegirico del suo _caro Carnesecchi_ dedicato al
Mureto; più tardi non volendo sopprimere il panegirico, che gli pareva
gran cosa, e dall'altra parte aborrendo mettersi a cimento, surrogava
il nome di Molini a quello dello amico sventurato; ancora, nella dedica
di una edizione di Sallustio al cardinale Triulzio, il Manuzio così
favella del Carnesecchi: «Piero Carnesecchi protonotaro; personaggio
onorevole, preclaro per virtù e per dottrina facilmente primo su
quanti io mi abbia riscontrati nel corso della mia vita», ma nelle
edizioni posteriori alla sventura del 1567 nomi e lodi tu cerchereste
invano. L'atroce persecuzione durava tuttavia verso la metà del secolo
decimottavo, sicchè un Mancurti compatriota del Flaminio, pubblicando
certa edizione delle sue opere, giudicò spediente sopprimere le ode
intitolate al Carnesecchi, «per non esporsi alla censura della gente,
la quale aveva affermato eretico il Flaminio attesa l'amicizia che
professava al Carnesecchi.» Altre cose potrei aggiungere; me ne
passo, chè me piglia insopportabile il tedio alla vista di tanta
abiezione.[19] —

Dopo il caso del Carnesecchi fu rotto l'argine a Firenze; molti
fuggirono, e molti come suoi fautori furono spediti ammanettati a
Roma. Gl'inquisitori insanivano; non modo, non discretezza nè garbo:
alla rinfusa agguantano dotti ed idioti, e vessano d'interrogatorii:
i secondi, sentendosi ricercare sopra i più ardui misteri della
fede, restavano come trasognati; li destavano le multe e le minacce
di pene maggiori; lo scandalo giunse a tale che il granduca dichiarò
apertamente a Roma non avrebbe più oltre patito che del suo stato si
facesse così atroce governo. Lo contentarono sostituendo inquisitori
più discreti o più ipocriti, pannicelli caldi; ma gl'istituti rimasero
inalterati: anco i forestieri andavano soggetti ad infinite molestie
e guai a cui non riesciva dare certezza dell'esser suo. Per lo che la
Toscana diventava infame presso le genti: nè per questo diminuivano
anzi crescevano nel vulgo le credenze superstiziose d'incantesimi, di
malie, di apparizioni del diavolo e miserie altre siffatte; e (orribile
a dirsi!) pochi mesi dopo la strage del Carnesecchi a Siena furono
_arse cinque streghe_ accusate (e la sentenza aggiunge _convinte_) di
avere renunziato al Battesimo, essersi messe in balía del diavolo ed
avere ciurmato diciotto fanciulli. Ludovico Domenichi, prete, assai
rinomato nella storia della letteratura per avere dettato se non belli
almeno molti scritti, fu posto al tormento; e siccome si ostinava a
negare, gl'inquisitori imbestiavano a dilaniarlo; al fine potè più
la caparbietà sua che il fratesco furore; fu condannato alle Stinche
a vita; donde tratto per favore di Paolo Giovio mutò il carcere in
convento. L'arte tipografica, già fiorente, cessò; gli stampatori
proposero vendere tutti i libri pel costo reale e con perdita ancora
del dieci e del quindici per cento, poi li bruciassero; di andare
innanzi non ci era altro verso, non si volendo ormai più veruno
esercitare in così bella, nobile e facoltosa arte, mentre in altri
luoghi è favorita, aiutata e privilegiata; nè più si trovano fattorini
per ammaestrarli e servirsene se non per lo più vilissimi e figli di
sbirri. Il Torrentino riparava in Pavia, i Giunti a Venezia; nè per
quanto eccellenti segretari alle intemperanze procurassero mettere
argine, ne venivano a capo perchè ormai gesuiti e preti stringevano
nelle mani loro le viscere della Toscana come dentro una tanaglia di
ferro; il lamento femminile delle granduchesse beghine troncava l'ale
ad ogni conato, e un Cioli faceva più danno in un'ora che il Vinta e
il Picchena benefizio in un anno; i gesuiti, dopo avere estorta non
so quale eredità a Montepulciano, vi si piantano; poi non bastando
loro, si lasciano intendere «che hanno posto la mira ad altri luoghi
senza avere riguardo alla distruzione delle case, delle famiglie e
delli abitatori che ne succederebbe, et non vogliono per li frutti
dei terreni che hanno preso e che sono loro controversi concorrere
alle imposizioni anticamente postevi per le spese delle strade, ponti
fontane ed altre cose comuni. Oltre di questo si dichiarano assai
apertamente di applicare l'animo ad altre eredità, ingegnandosi e
procurando che i congiunti ai quali esse appartengono ne rimangano
privati, e così nutrendo le discordie e le disunioni tra i parenti
per loro proprio interesse. Da questi modi di procedere sono venuti
in tale odio segreto appresso la maggior parte di cotesto popolo
che se noi non ci avessimo posto freno, sarebbe intervenuto a' detti
gesuiti qualche strano accidente e peggiore di quello che successe
già molti anni quando a furore di popolo ne furono cacciati mediante
una segreta conventicola fatta contro di loro.» Nè si creda mica che
questa lettera dettasse un cervello torbido di quei tempi o, come
oggi si direbbe, un rompicollo; ella era scritta il tre dicembre 1606
dal granduca Cosimo II al suo oratore a Roma. A tanto di protervia
giunse Roma che nella moría del 1630, mentre a gara il principe e i
più facultosi dei cittadini profferivano i privati loro edifizi in
supplimento dei pubblici per le purghe e le quarantene, e mentre anco
i frati sovvenivano con ogni maniera di caritatevole soccorso, quando,
costoro vennero richiesti anzi supplicati di concedere pei medesimi
offici i locali di cui non si servivano, urlarono allo spoglio e
all'assassinamento. Roma inorridì per la violata immunità ecclesiastica
e senza indugio scomunicò quanti ci avessero partecipato, veruno
escluso. Poco dopo per clemenza somma Sua Santità consentì a ribenedire
i violatori a patto chiedessero perdono; agli ufficiali di sanità ed
ai Fiorentini brillavano le mani, e questa volta l'avrebbero fatta
vedere a cotesti preti sfacciati, ma alle granduchesse ava e madre
per siffatti rumori pareva dovesse subissare il mondo: in ginocchio
dunque al padre dei fedeli, al vicario di Gesù Cristo, a colui che
tiene in mano le chiavi del paradiso per aprirlo o per chiuderlo
a cui meglio gli talenta: però gli uffiziali di sanità ebbero a
domandare perdono per avere adoperato umanamente senza il beneplacito
del papa; e Roma, trovato il terreno morvido, spinse la sua temerità
fino a costringere lo stato a restituire le somme contribuite dai
chiesastici per la salute comune, ed a stabilire per principio che
a spese del pubblico erario dovessero sovvenirsi e preti e frati in
occasione di straordinarie calamità. In Toscana, dopochè Cosimo I si
abiettava davanti a Pio V, si andò di male in peggio; quegli credè
che, genuflettendosi al soglio pontificio, il papa gli avrebbe posto la
corona sul capo, ed invece costui gli mise il collare al collo; da quel
tempo in poi i granduchi furono considerati a Roma gli sbirri della
Inquisizione, ed il Galluzzi scrittore sciatto e servile ciò nella
sua storia conferma, e quando parla di Urbano VIII narra come egli pur
fosse in possesso di siffatta bassezza quando a posta sua gli tenevano
sostenuto in carcere a Firenze Mariano Alidosi signore del Castel del
Rio, a cui per cagione di eresia voleva confiscarsi cotesto feudo, il
quale _de iure_ si devolveva al granduca. Il nome del papa metteva per
paura a soqquadro Firenze, come poco anzi per tutta Italia aveva fatto
quello del re Gustavo Adolfo di Svezia; a tale ignominia in poco più di
un secolo il principato ridusse gli animosi spiriti fiorentini.

Accostiamoci a Lucca. Antonio della Paglia da Veroli prestantissimo
ingegno celebrarono i suoi contemporanei nelle lettere umane, e la
posterità confermò, ma sopratutto fu pio, in divinità dottissimo
e d'imperterrito animo; nemici ebbe molti, e chi non gli ha fra
i virtuosi? Superare altrui in dottrina e in virtù sembra peccato
sottoposto a pagare questa multa; così preordinò il destino, e le
querimonie non montano: soffri, sii grande e taci.

Gli stranieri raccolgono amorosi le nostre memorie. Ora non fanno molti
anni un Young da Oxford mi chiedeva notizie intorno al Paleario, e con
soddisfazione dell'animo mio vidi averne pubblicata la vita a Londra
nel 1860 con lettere originali e documenti; noi Italiani per ora siamo
incuriosi delle nostre glorie e delle nostre sventure; colpa l'avere
scambiato l'aurora boreale coll'alba del vero giorno della libertà.
Aonio visse un tempo a Siena maestro di greche e di latine lettere;
quivi gli diè gravezza un nugolo di pedanti astiosi, erano trecento;
dodici si proffersero accusatori, dei quali capo un Orlando Marescotti;
egli si difese con mirabile orazione in senato, niente delle accuse
negando, bensì esponendo quanto inani e maligne si fossero; tuttavolta
gl'increbbe il mal sicuro ostello e molto bene raccomandato dai
cardinali Bembo e Sadoleto s'incamminò a Lucca, dove la cittadinanza
lo accolse a grande onore e con larga mercede lo elesse professore di
lettere greche e latine, conferendogli di più il carico di arringare
due volte all'anno in occasioni solenni. Anco qui non tacque l'ira
nemica e gli avventò contro un Marco Blaterone; ma vegliava per lui la
benevolenza dei cittadini, la quale, non patendo lo indegno strazio,
bandì il Blaterone, che tutto invelenito si recò a Roma per aizzargli
contro i frati domenicani. Il Cantù, denigratore inverecondo di ogni
gloria che non sia clericale, afferma che, essendogli stato preferito
a concorso l'Ammirato prima, poi il Bandinelli, sdegnoso dopo dieci
anni di dimora lasciò Lucca: all'opposto io trovo che in Lucca non
cessarono mai di amarlo e di rispettarlo: molto profitto avere fatto
con i suoi scritti e co' suoi sermoni; solo essersi consigliato di
ridursi a Milano, però che costà sotto l'ale dell'aquila austriaca gli
paresse stare più sicuro, e poi perchè la crescente prole lo indusse
ad accettare il maggiore stipendio proffertogli: a Milano stanziò
sette anni; stava bene e si mosse, e male gl'incolse contradire al
proverbio. Recatosi a Bologna mentre la febbre sanguigna di Pio V
gli mostrava in ogni uomo di lettere un nemico, riescì agevole a cui
gli aveva messo da tempo antico la mira addosso comprenderlo nella
persecuzione universale; andò ad arrestarlo frate Angiolo da Cremona
inquisitore, che trattolo a Roma lo chiuse nel carcere di Tordinona;
se fosse posto al tormento ignoriamo: le accuse palesi sommarono a
quattro: il purgatorio negato; ripreso il costume di seppellire nelle
chiese; scherniti il vivere ed il vestire fratesco; la giustificazione
posta da lui nella sola fede verso la misericordia di Dio, il quale
perdona pei meriti di Gesù Cristo; ma più gravi colpe, comechè
taciute, a suo danno il poema intorno la immortalità dell'anima, il
quale, levato a cielo un giorno da uomini insigni non meno che pii
e luminari della Chiesa, oggi alle froge bestiali di Pio V putiva di
eretico; il trattato _del benefizio della morte di Cristo_, anch'esso
un dì giudicato dalla Chiesa libro meritorio, ed ora proibito come un
tizzo di carbone infernale: non mancarono e nè mancano anco ai tempi
nostri scrittori che non a lui, bensì a certo benedettino, chi dice di
Mantova, chi di San Severino, lo attribuiscono, ma certo egli è che la
dottrina di cotesto libro l'Aonio professava e predicava; per ultimo le
molte epistole spedite nella più parte d'Europa e sopra tutto la famosa
accusa contro i Romani pontefici ed i loro seguaci: veramente questa
vide la luce solo ventisei anni dopo la sua morte, però che il dabbene
uomo ebbe avvertenza di mettere in salvo tutte le sue scritture prima
di essere arrestato, tuttavia è agevole persuaderci che per detto suo
e degli amici si conoscesse; essa contiene venti testimonianze o capi
di accuse; il De Sanctis la pubblicò volgarizzata a Torino nel 1861:
vorrei raccomandare agl'Italiani che la leggessero, e ne varrebbe il
pregio davvero, ma gli è tempo sprecato finchè il sonno e la vergogna
dura: il Paleario si raccomanda che se i popoli potranno costringere il
papa a presentarsi ad un concilio dove si tengano conferenze di ogni
maniera cristiani, a cui venga fatta facoltà di parlare liberamente
al cospetto dei grandi e dei legati delle città; e se in coteste
conferenze fie stabilita equità di giudizi e con la parola di Dio si
torranno gli abusi e le controversie religiose, sicchè possibile sia
che le chiese sanate formino un corpo solo; allora prega i depositari
della sua accusa a consegnarla ai difensori dell'Evangelo ed a
presentarla al concilio generale libero e sacro come testimonianza di
un uomo pio che morendo non voleva davvero mentire a Cristo. «Questa
testimonianza, egli aggiunge, e l'atto di accusa saranno da voi
lanciati colà come fulmine che abbatterà l'anticristo. Fratelli, ve
ne supplico, mettetelo alle strette, non gli date tempo a ordire suoi
inganni: lo iniquo rimanga confuso sul colpo, in mezzo al concilio,
alla presenza dei principi grandi. Allora leggete e rileggete la mia
testimonianza coll'atto di accusa; fate sia lungamente discussa ed
esaminata, e così la chiesa di Dio sarà purgata.»

Nei ricordi della Misericordia di San Giovanni decollato dei Fiorentini
di Roma si trova scritto che Aonio perisse pentito e confessato,
chiedente a Dio perdono dello errore suo; e così pure sostengono il
padre Lagomarsini e gli abbati Lazzeri e Tiraboschi; le sono ciurmerie
pretesche: di che si aveva a pentire cotesto venerando vecchio? Così
rammenda col fil bianco la ciurma sacerdotale che il ricucito si mostra
lontano un miglio; difatti il Laderchio continuatore del Baronio ci
lasciò scritto: «Quando furono chiariti che cotesto figliuolo di Belial
stava tenacemente attaccato al suo errore, e che ormai non ci era
verso per ricondurlo alla luce, lo condannarono alle fiamme, affinchè
al supplizio di un momento tenessero dietro gli eterni castighi»; e
nel foglio dopo ci attesta quali fossero i sensi del Paleario e quali
le novissime parole ai suoi giudici: «dopo tutte queste testimonianze
che voi udiste, o cardinali, sorgere schierate contro me, ogni difesa
torna inutile; ormai per me sono deliberato seguitare in tutto il
precetto dello apostolo san Pietro, il quale ci dice: il Cristo ha
sofferto per noi lasciandoci uno esempio da seguire, il Cristo che
non commise mai alcun peccato nè dal suo labbro uscì mai parola
d'inganno. Quando lo avvilirono d'ingiurie non contrappose ingiurie,
quando lo bistrattarono egli non minacciò, bensì si diede in balía di
coloro che lo condannavano ingiustamente. Pronunziate impertanto il
vostro giudizio, condannate Aonio, fate il debito vostro ed empite di
contentezza il cuore de' miei nemici.»

Dalle lettere brevi che scrisse in procinto di morte alla diletta
consorte ed ai cari figli assai chiaro si dimostra come lui pigliasse
vaghezza di morire, e sentisse proprio bisogno riparare in parte dove
nè la vista nè l'udito delle scelleragini umane lo funestassero: «Non
vorrei, carissima consorte, egli scrive, che tu pigliassi dispiacere
del mio piacere nè a male il mio bene. È venuta l'ora che io passi
di questa vita al mio Signore padre Dio. Io ci vo tanto allegramente
quanto alle nozze del figlio del gran re.... Sicchè, consorte
dilettissima, confortatevi della volontà di Dio e del mio contento,
e attendete alla famigliuola sbigottita, che resterà di allevarla e
custodirla nel timor di Dio ed esserle madre e padre. Io era già di
settant'anni vecchio e disutile; bisogna che i figli con la virtù e
col sudore si sforzino a vivere onoratamente.» Ed ai figli altresì
raccomanda «che sebbene il mezzo col quale a Dio piace chiamarlo a
sè possa loro parere amaro, pure, essendo di sua contentezza somma
e piacere, li prega a volersene anch'essi contentare; lascio loro in
patrimonio virtù e diligenza, e quelle poche facoltà ch'essi hanno....
l'ora mia si avvicina; lo spirito di Dio vi consoli e vi conservi in
sua grazia.» Che razza di eretici fossero questi non si comprende,
e nondimanco l'atroce potestà che adesso ci vorrieno riaggravare sul
collo li condannava al fuoco! Così Aonio Paleario di 70 anni vecchio,
esempio di ogni cristiana virtù, dalle sacerdotali iene l'8 luglio
1570 era prima strozzato, poi arso. — E nè anco questo bastò, chè un
Latino Latini da Viterbo curiale ebbe cuore di celiare sopra le ceneri
di Aonio per via di uno epigramma il quale insomma diceva ch'egli,
avvisando di tôrre dal suo nome Aonio la T, pensò potere scansare la
forca, la quale però dopo dieci lustri gli tornò in capo, con più il
capestro ed il rogo.

Molti a Lucca i seguaci della riforma, e dei maggiorenti, sicchè
reputarono fare a fidanza, anzi essi rampognarono superbamente chi
fuggendo cercava asilo in contrade straniere, e levarno i pezzi
addosso a coloro che si erano lasciati ire fino a ritrattarsi; ma
altro è parlare di morte altro è morire, ed alla svolta si provano i
barberi. Di repente sorse la fiera persecuzione di Paolo IV; i timidi
e gl'interessati, che come a Lucca altrove sono i più, diventarono per
paura feroci; non santità di legge osservata, non forma di giudizio,
fatta una funata dei sospetti, empite le carceri; gli arnesi del
tormento riforbiti e ostentati a pompa; allora gli spavaldi cagliarono,
si picchiarono il petto, e detestando pubblicamente l'errore, alla
meglio si aggiustarono; a molti riuscì fuggire: allora Pietro Martire
cui avevano proverbiato per essersi messo a tempo in salvo scriveva:
«O come mi rimarrò io dal pianto, pensando alla terribile procella la
quale ha desolato la fiorita chiesa di Lucca senza lasciare pure orma
di lei! Quelli che di voi non avevano contezza forse vi hanno temuto
troppo deboli per resistere alla bufera, ma io non avrei mai creduto
che voi vi sareste tanto vergognosamente abiettati; e a voi erano pure
noti i furori dell'anticristo e il pericolo che minacciava i vostri
capi quando ricusavate fuggire e prevalervi di ciò che taluno di voi
chiamava il rifugio del debole, ed io consiglio di prudenza in tempi
perversi. I laudatori della vostra costanza dicevano: Questi animosi
soldati di Cristo a piè fermo aspetteranno la gloria di affermare a
prezzo di sangue e di martirio il progresso del Vangelo nel proprio
paese, non patendo a verun patto di comparire secondi ai magnanimi
esempi somministrati loro quotidianamente dai fratelli di Francia, del
Belgio e d'Inghilterra. Ah quante speranze svanite! Quale argomento di
esultanza agli empi nostri oppressori! Più che con le parole col pianto
egli è forza deplorare questa dolorosa vicenda.»

Nè, a vero dire, i pericoli che correva Lucca erano vani, e già lo
accennammo. Cosimo smaniava allargarsi; troppa piccola veste la Toscana
per lui, quindi stava alle vedette per coglierla in fallo e così dare
la balta allo inquisitore perchè gliela consegnasse. Il Caraffa e
il Ghislieri a patto di schiantare la eresia avrieno dato fuoco, non
che al genere umano, al mondo; sicchè all'oratore veneziano Fedeli,
come altrove fu avvertito, Lucca pareva una povera quaglia sotto allo
sparviero. La repubblica ciondolava con astutissimo consiglio tra
lo scansare i pericoli di fuori, non disperare quei di casa, tenersi
bene edificata Roma e non cedere alle improntitudini di lei: insomma
fine della disuguale scherma fu, che Lucca respinse incrollabile la
Inquisizione e i gesuiti da casa sua: imperciocchè Salvatore Guinigi,
spedito a Roma per istornare la venuta loro a Lucca, scrivendo
all'Offizio su la religione dichiarava: «aver considerato come cotesti
huomini fossero di qualità che quando mettono il piede in un luogo
fanno come il riccio e cercano sempre tirare a loro; che _teatino_ non
vuole dire altro che _tira a te,_ e perciò non pigliano nella loro
religione furfanti o poveri, ma cercano subornare giovani ricchi e
che possano portare molto utile; e chi li ha per vicini non si tiene
padrone del suo, perchè se _li viene_ volontà di allargarsi, bisogna
star forte: chi ha vigna vicina alla loro, bisogna che commetta al
vignaruolo che chiuda la porta subito che li vede, perchè applicandoci
l'animo saria perduta; e che il fine loro è di mangiar bene e bevere
meglio e di governare tutte le cose tanto nel temporale quanto nello
spirituale con malissima sodisfatione dello universale e con pericolo
che un giorno non ne segua qualche pericolo notabile.»

Comechè pusilla e trepidante, Lucca in questo tenne il fermo; e quando
Alessandro Guidiccioni, per gratificarsi Roma, indegno cittadino,
macchinava contro la sua patria sbottonando da per tutto che non ci
si poteva dar sesto se non ci si piantava la Inquisizione, il governo
lo dichiarò nemico della città; così del pari adoperò contro Lorenzo
del Fabbro, pessimo uomo, il quale andava attorno accattando segnature
sotto una supplica a Roma per ottenere il benefizio della Inquisizione;
volle per di più bandirlo; la Inquisizione lo difese, e il governo
per non romperla lo lasciò stare; e quando Pio IV volle levare al
governo l'esame dei libri proibiti ed altri uffizi, egli con un mondo
d'industrie procurò tranquillarlo, siccome ottenne. — A mano a mano che
soffiava il vento emanò leggi da prima miti e, per quanto ne sappiamo,
messe in esecuzione alla buona di Dio: ma poi bisognò smettere il fare
la gatta di Masino; le leggi di mano in mano diventarono terribili e
misero i denti davvero.

Le leggi promulgate dal consiglio furono queste: la prima del 28 marzo
1525; per essa si provvede che i possessori di libri luterani i quali
si recusino a consegnarli dentro giorni 15 dalla promulgazione della
legge agli anziani paghino la multa di ducati cinquanta; la seconda
del 12 maggio 1545: con questa si ordina: non leggansì libri vietati,
nè anco per ischerzo favellisi di cose religiose; chi trasgredisce, la
prima volta paghi scudi 50; la seconda gli si confischino i beni, e se
non possiede beni per 100 ducati, vada in galera sei anni; la terza,
patisca la perdita dei beni, il fuoco ed altre pene. Pareva che dopo il
fuoco altre pene non ci avessero ad essere, ma non è così. I possessori
di libri proibiti dentro quindici giorni dalla notificazione del
decreto o li portino al vicario del vescovo o glieli mandino col mezzo
del suo confessore, ovvero gli abbrucino; se disobbediscono, confisca;
e così del pari il libraio che provvede di fuori libri siffatti;
corrispondenza vietata con tutti gli eretici, massime coll'Ochino e col
Martire; non si mandino loro danari, non si servano; lettere da essi
mandate si portino dentro tre giorni all'Uffizio di Religione composto
del gonfaloniere, dell'Uffizio della Onestà, e di tre cittadini eletti
dal Consiglio maggiore; se no, confisca. L'accusatore rimane segreto
e guadagna la terza parte delle multe e delle confische; il reo che
accusa il complice va impunito. La terza legge venne promulgata
il 24 settembre 1549; per lei fu modificata la provvisione del
1545; all'Uffizio si aggiunsero due altri consiglieri; si prescrive
aduninsi una volta per settimana; chi manca paghi un fiorino di oro;
considerato che le pene troppo gravi erano rimaste inani, di ora in
poi i trasgressori paghino la prima volta 100 ducati di oro; se non
pagano dentro dieci giorni, in carcere per sei mesi; la seconda volta
si multino 500 scudi e privinsi in perpetuo degli uffici di onore e
di utile del comune; se non pagano, oltre la privazione degli uffici,
in prigione tre anni; la terza volta ne vadano la confisca e la vita.
Le donne anch'esse sottoposte a queste pene; le loro doti confiscate,
salvo lo usufrutto del marito innocente. I libri non approvati dal
vicario proibiti. I cittadini si abbiano a confessare e comunicare
nei tempi dalla Chiesa indicati; chi manca la prima volta sia dannato
in 100 scudi di ammenda, e se non paga entro dieci dì, stia sei mesi
in prigione, la seconda dugento scudi, e se contumace a pagare, si
abbia un anno di carcere; la terza ne vada la vita perchè, dichiara
la legge, _chi non muove l'honor commuova il timor della pena_. Le
medesime pene incolgano a cui cibi carne nei giorni proibiti senza
licenza del vicario; nella quaresima non si macellino carni boccine nè
agnelline nè caprettine, pena dieci ducati di oro, eccetto la settimana
santa per la provvista di Pasqua; frate sfratato veruno tenga per
famiglio in casa sotto l'ammenda di cinquanta ducati di oro. La legge
del 27 ottobre 1558 vieta commercio e di ogni maniera corrispondenza
per tutto il mondo con quelli che la Inquisizione dichiarò eretici, e
il consiglio ribelli, e ai trasgressori ne vadano la prima volta 500
scudi di oro, la seconda la vita: parrebbe che bastasse, ma no; per la
terza volta sono comminate le pene prescritte dagli statuti contro i
ribelli: per la quale cosa è dato supporre che anco morti agli occhi
della Inquisizione si poteva commettere peccato. Nel 19 dicembre
1561 per legge fu concessa facoltà all'Uffizio di aprire casse,
valigie, bauli e lettere per venire in chiaro della eresia; e qui
multe pecuniarie, si lascia stare la vita. In quel torno promulgarono
altresì un'altra legge per la quale fu dichiarato che i discendenti
degli eretici per due generazioni si ributtassero da qualunque ufficio
sia di onore, sia di utile del comune, e così dentro come fuori della
città e dello stato: iniquissima legge che condannerebbe gl'innocenti
pel colpevole, ma accettissima al papa, il quale vicario di Cristo
non è di certo, il Dio che perdona, bensì vicario del Dio di Moisè,
forte, prepotente, geloso, che visita nel suo furore la quarta e la
quinta generazione di quelli che l'odiarono; accetta tanto che, pur
volendo in qualche maniera mostrare l'animo grato alla repubblica, le
mandò in dono la rosa d'oro, e il principe Colonna fu commesso con le
maggiori solennità di presentargliela. Più enorme di tutti il decreto
del 9 gennaio 1562: per questo si proibisce agli eretici ed ai ribelli
di frequentare Italia, Spagna, Francia, Fiandra e Brabante, dove per
ragione di commercio soglionsi condurre i buoni cattolici lucchesi;
chiunque gli ammazzi riscuoterà la taglia di 300 scudi; se l'omicida
è ribello, abbia grazia; se non ribello, la chieda e la ottenga per
altro ribello. Buoni tutti, ma questo decreto poi commosse le viscere
paterne di Pio IV e di Carlo Borromeo che dicono santo: sicchè il papa
non potè stare alle mosse e con amplissimo breve segnato Fiorebello
Lavellino mandava al consiglio essersi smisuratamente rallegrato della
sua sapienza e pietà, ch'egli non saprebbe immaginare documento che
meglio di quello tutelasse l'onore di Dio e la salute della patria;
e che perciò senza dubbio alcuno Dio sovverrebbe una città dove così
pura e così sincera si conserva la sua religione. Quando Roma ti
loda, non ci è caso, o fosti stolto o iniquo. Come parve al papa non
parve questo editto preclaro a Caterina di Francia nè a Carlo IX, i
quali ne fecero le loro dimostranze alla repubblica, che si scusò con
certe ragioni che valsero ad attutare cotesti principi meritamente
gelosi del diritto di sovranità sopra i propri dominii; nel 1566 le
antiche leggi confermaronsi e si estesero anco per Ginevra; nel 1568
s'ingiunse che, albergatori o no, tutti facessero la spia al forestiero
che alloggiavano in casa. Nel 1570 si pubblicò una nota di eretici
da evitarsi, i quali furono: «Giusfredo Bartolomeo Cenami, Giuseppe
Cardoni, Antonio Liena, Cesare Mei, Michele di Francesco Burlamacchi,
Lorenzo di Alò Venturini, Nicolao Franciotti, Salvatore dell'Orafo,
Gaspero e Flaminio Cattani, Benedetto Calandrini, Giuseppe Iova e Marco
da Rinucci[20]; più tardi ci si aggiunsero Francesco Cattani con tutta
la famiglia e il genero Rustici, Vincenzo Mei con la moglie ed i figli,
Cristoforo Trenta, Girolamo Liena, Nicolao e Guglielmo Balbani, Gaspero
da Massaccuccoli e Francesco Bonaventura Micheli.

E noi, frugando pei ricordi dei tempi, troviamo come Roma si
sbracciasse a soffocare in Lucca ogni anelito di libertà religiosa:
così il vescovo nel novembre del 1555 arresta e processa sottoponendolo
al tormento Rinaldino soldato di Guardia, e dopo averlo costretto ad
abiurare in duomo sopra un palco, vestito di giallo, con torchio di
cera gialla in mano, lo mandò legato a Roma al Santo Offizio; nel 1556
il vescovo per comandamento di Roma cattura come sospetti di eresia ed
ostinati a non ritrattarsi Girolamo Santucci, Giovannipiero da Dezza e
Giovambattista Carletti, e gl'invia a Roma, donde furono relegati nelle
proprie case. Del pari per ordine espresso di Roma nel medesimo anno il
vescovo fece citare pubblicamente dal pulpito in duomo sotto pena della
vita e della confisca da applicarsi alla Camera apostolica per intimare
loro che si costituissero nelle carceri del Santo Offizio a Roma,
Nicolao e Girolamo Liena, Nicolao Balbani, Gaspero da Massaccuccoli,
Cristoforo Trenta Guglielmo Balbani, con altri parecchi; e poichè
rimasero contumaci, l'eccellentissimo consiglio li dichiarò ribelli e
ne confiscò i beni; di più, nel medesimo giorno impose le pene a cui
in qualsivoglia maniera per lettera o per messaggio corrispondesse con
loro; e non si potendo sfogare in altro, così volendo la Inquisizione
di Roma, gli arse in effigie nel gennaio del 1559 sopra la piazza di
San Michele: sei mesi prima Michele di Alessandro Diodati, chiamato
a Roma, era chiuso in carcere, dove si logorò fino al pontificato di
Pio IV: e poco dopo con solenne e grottesca cerimonia presi pel collo
ebbero ad abiurare in duomo non pochi cittadini, fra i quali un frate
sfratato dei Servi. Nel 1575 venne in Lucca un visitatore da Roma
mansueto in vista e col pretesto di riformare il clero in ciò che per
avventura contenesse in sè di malsano; di repente poi chiese ed ebbe
braccio per arrestare otto cittadini, i quali, eccetto il Turretini,
che si salvò, inviaronsi al Santo Offizio a Roma con le catene alle
mani ed ai piedi: visitò case, rovistò armari per trovare libri
proibiti, predicò, confessò, comunicò, fece il diavolo a quattro, ma
non ebbe seguito tranne fra plebe e femminucce pinzochere. Nel 1576 la
Inquisizione prescrive al senato gli mandi a Roma Francesco Arnolfini,
il quale, mostrando come sarebbe suprema iattura pe' suoi interessi
partire su due piedi, ebbe a dare malleveria di 1000 scudi che sarebbe
andato: meglio per lui si fosse messo in salvo perdendo i mille
scudi; ei volle andare e si trovò sommerso nelle carceri del Santo
Offizio: trascorso appena un mese, mandò la Inquisizione per messere
Nicolao Pighinucci e messere Antonio Minutoli; il consiglio pauroso li
consegnava, ed essi incontrarono la sorte dell'Arnolfini. Per causa di
religione nel seguente anno furono citati Giuliano, Filippo e Benedetto
Calandrini, madama Elisabetta vedova di Nicolao Diodati, Carlo di
Michele Diodati, Michele di Francesco Burlamacchi e messere Giuseppe
Iova: poco dopo fu proibito parlare e scrivere ai seguenti ribelli per
causa di religione Paolino Minutoli, Venanzio Bartolomei, Regolo del
Venoso, messer Filippo Rustici, Scipione Calandrini, Lodovico delle
Tavole, Matteo Civitali e messer Simone Simoni medico: il 4 novembre
del medesimo anno dichiarano ribelle Giuliano Calandrini; nel 21 detto
fu citata madonna Chiara di Paolo Arnolfini e condannata per dieci anni
in casa; per dieci anni in prigione Giovanni Nuccorini, e Giovanni
da Pariana nella testa; nel decembre processarono Iacopo di Chimento
barbiere; venti giorni dopo citarono madonna Elisabetta e il figlio
Nicolaio Diodati e Carlo di Michele Diodati; nel febbraio del 1568
citarono parecchi cittadini, fra i quali due donne, madonna Francesca
Cattani, la moglie di Filippo Rustici, la moglie di Vincenzo Mei e
Flaminia figlia; nel marzo dichiararono ribelli madonna Elisabetta,
Pompeo e Carlo Diodati, nell'aprile citato sotto pena del capo e della
confisca Biagio Mei; nello agosto, oltre a parecchie capitali condanne,
fu commesso di procedere contro la moglie di Luiso Guidiccioni, e poco
prima avevano citato, sempre sotto pena della confisca e del capo, le
madonne Maria Massei ed Elisabetta Micheli. Queste poi sono le famiglie
lucchesi le quali spatriate andarono a porre la stanza loro a Ginevra.

Vincenzo Mei con moglie e figli, Filippo Rustici con moglie, Paolo
Arnolfini, Nicolao Barbani con la figlia, Francesco Micheli con
la moglie e tre figli, Maria vedova Massei, Cristoforo Trenta col
figlio, Guglielmo di Carlo Balbani, Girolamo Liena Nicolao da Lucca
con moglie, Giovannantonio legnaiuolo con moglie e figli, Gregorio
Arrighini, Scipione di Giuliano Calandrini ministro della Valtellina,
Giovanni Domenici, Vincenzo del Muratore, Vincenzo Bonicelli, Regolo
del Venoso, Giovanni Pìerellini, Regolo Benedetti con moglie e figlia,
Paolino Minutoli con la moglie, Giorgio Baroncini, Simone di Simone
medico, Giovanni e Ludovico Simoni, Salvatore Franceschi, Giuliano
Calandrini con la moglie, Elisabetta Arnolfini con tre figli, Benedetto
Calandrini con la moglie e Maddalena Arnolfini, Pompeo Diodati con la
moglie, Carlo Diodati, Giuseppe Iova, Virginio Sbarra, Arrigo Balbani,
Cesare Balbani, Antonio Liena, Ansano Pranconi, Francesco Turretini con
altre cinque famiglie del medesimo casato, madonna Elisabetta vedova
Bartolomei, Timoteo Rustici, Paolino Terricciola, Francesco Cattani con
moglie e cinque figli, Vincenzo Minutoli, Giovanni Lunardo, Domenico
Colla, Giovanni Barsotti e Giovanni Diori; con parecchie altre famiglie
di basso lignaggio; due famiglie Arnolfini ripararono a Londra ed
una a Bordò; tre ne rimasero a Ginevra; il Lucchesini nella storia
letteraria di Lucca ricorda taluni dei discendenti di questi esuli i
quali sè o la patria illustrarono coltivando con plauso universale le
scienze e le filosofiche discipline. Dei Burlamacchi, oltre Michele
figlio di Francesco, posero domicilio in Ginevra Fabrizio Burlamacchi:
due famiglie del medesimo nome cercarono asilo in Amsterdam e lo
trovarono. Ho letto in qualche libro che in Giovan Giacomo Burlamacchi
chiarissimo pubblicista, di cui il libro intorno al _Diritto naturale_
leggiamo tuttavia con profitto, si estinguesse nel 1748 la famiglia
Burlamacchi: ciò non sembra esatto; il pubblicista Burlamacchi scendeva
da Michele uno dei figli di Francesco, ma questi n'ebbe cinque, e
Federigo produsse più degli altri la sua discendenza; l'ultimo fiato
fu Margherita nata nel 1717 che sposa a Francesco Gaetano Spada morì
nel 1740; ma a lei sopravvisse Cesare padre, però che mi occorra notato
ch'egli cessasse nel 1753.

Oltre questa feroce ed irrequieta persecuzione, altre cause impedirono
che la Riforma prevalesse in Italia; il popolo nostro nel complesso
cura poco le credenze religiose; poco si esalta del paradiso e meno
teme lo inferno; sembra attaccato al culto ed è; e più era una volta,
perchè a lui garbano gli apparati scenici, e lui unicamente percotono
le rappresentanze plastiche; in chiesa i giovani italiani s'innamorano
e i loro amori coltivano; più quando le città difettavano di teatri
e di ritrovi: l'opera buffa se costumasse di giorno, ammazzerebbe
la messa, massime se data gratis: intanto il teatro diurno nelle
ore vespertine ha disfatto i vespri: pinzocheri e beghini durano e
dureranno finchè alla corona e al rosario non surrogheranno qualche
altro balocco per le mani e per lo spirito meno fastidioso di quelli.
Arrogi che, essendo ristretto il numero dei riformati, nè la fede della
più parte di loro giunta al furore del fanatismo, bene si ebbero a
deplorare martiri, ma troppi meno che nelle persecuzioni dei cristiani:
ancora, le dottrine dei riformati comparivano astruserie ed infatti
erano; poco il volgo c'intendeva o nulla, quindi agevolmente prestava
le orecchie ad ogni maniera di calunnie, comechè stranissime, contro di
loro; la Riforma, se bene considerate, vi apparirà faccenda di lusso,
privativa di letterati magni, fuori dalla intelligenza del volgo. Nè
io certo mi dolgo che la Riforma non allignasse in Italia: certo ella
è qualche cosa, come quella che alle abiette superstizioni di Roma
si contrappone e di molte ciurmerie onde ella contrista il genere
umano la scema, tuttavolta non lo incammina sopra il retto sentiero
della verità. L'Italia, vero Anteo delle nazioni, imperciocchè quando
percuote la terra, quinci risorga con rinnovato vigore, alle fiamme
dei roghi per ardere gli eretici accese la fiaccola della filosofia
sperimentale, titano che senza soprammettere monte a monte assalisce
il cielo e Dio quali li crearono la feroce cupidità dei sacerdoti nè
teme fulmini, chè ella gl'incatena e se ne serve a mo' di corsieri
legati al suo carro: nè granito nè credenze nè spazi infiniti nè
terrori reggono dinanzi all'azione del suo trapano fatale; tutto ella
fora; da per tutto penetrano aria e luce. Galileo Galilei approdò
meglio all'umano intelletto che non arieno fatto mille Ochini e mille
Vermigli; gli scritti di costoro ormai pochi leggono o nessuno, mentre
il seme gittato dal Galilei ogni momento feconda di più e s'inalza
al firmamento, penetra nel centro della terra, il creato sottopone a
numero e a misura, strappa inesorato lo involucro così allo errore
come alla verità, e ridotti entrambi ignudi, dimostra del primo la
schifezza, della seconda la sostanza divina. Sopra le tracce di Bacone
e di Galileo ecco divampare per tutta Italia uno ardore di rompere il
giogo delle pretesche menzogne, scoprire il vero, debellare gli errori:
ogni uomo da per sè provava e riprovava; ma più efficaci assai furono
l'esperienze quando si ordinarono con norme certe e scopo prefisso
mercè la istituzione dell'accademia del Cimento: «ella fu, sentenzia
sapientemente uno storiografo toscano, che diede l'ultimo crollo ai
peripatetici ed abbattè insensibilmente la tirannide dei frati sopra
le scuole.» Nel museo fiorentino dentro ben costrutte bacheche oggi
si conservano gli strumenti che primi servirono al Galileo e agli
accademici del Cimento per l'esperienze loro: quando gli uomini in
certi giorni solenni dell'anno fie che movano a venerarle come le
uniche, le vere reliquie sacrosante della verità, allora esultate; il
regno dello errore sarà finito, e noi misero armento delle tirannidi
principesca e sacerdotale incamminati sopra il sentiero che per diritto
tramite conduce a Dio.

Ma tutto ciò, sia in bene o in male, ai tempi del Burlamacchi non era
ancora avvenuto; in parte latente, in parte manifesta, la Riforma
travagliava l'Italia; potenti uomini e principi la promovevano, i
più eletti ingegni s'industriavano propalarla con le parole e con
gli scritti, stava in bilico di trionfare; chi aveva bisogno che
prevalesse se ne faceva la vittoria sicura. Lucca, come dimostrammo,
principalissima fra le città italiane zelatrice delle nuove dottrine,
e la famiglia di Francesco, e Francesco stesso fra i primi, primissimo
su tutti. Adesso con difficoltà somma se ne rintracciano i vestigi a
sommo studio soppressi dalla paura, dallo interesse ed anco dall'opera
assidua dei nemici della Riforma: difatti indi a poi Lucca diventò, e
forse anco adesso rimane, la città più contaminata di beghineria fra
le altre della nostra penisola; per me credo provato abbondevolmente
il mio assunto, che la impresa di Francesco Burlamacchi poggiava sopra
diramazioni segrete, ma oltre ogni credere estese, ed aveva troppo
maggiore probabilità di riuscita di quella che gli scrittori dei tempi
paurosi o venduti ci danno ad intendere e che lettori superficiali
mostrano di credere. —



CAPITOLO VI.

   I moderati del 1859 erigono al Burlamacchi una statua, ma
   non ne dettano la vita, e perchè. — Concetto del Burlamacchi
   repubblicano e avverso al potere temporale. — Sua prudenza ed
   arti adoperate a procacciarsi compagni nella impresa. Sebastiano
   Carletti chi fosse; prima operaio nel fondaco Burlamacchi, poi
   soldato sopra le galere di Lione Strozzi; viene a Lucca, va a
   Marsiglia per tirare lo Strozzi nella congiura. — Cesare Benedino
   è messo a parte della impresa: chi fosse; come lo adoperasse
   il Burlamacchi, che lo tratta più largamente di quello che la
   Repubblica fiorentina non trattasse il Machiavelli. — Generosità
   del Burlamacchi. — Gli Strozzi e l'indole loro; Bastiano Carletti
   va a Marsiglia per conferire col priore; non ce lo trovando,
   lo raggiunge a Parigi. — Ragioni diverse delle congiure. —
   Bastiano va in Iscozia ed in Inghilterra col priore, e succede
   una sosta alla congiura: gesti del priore costà. — Favorito
   da Francesco I, ma poco accetto ad Enrico II, e perchè. — Lo
   pospone nel comando dell'armata ad altro capitano meno degno;
   non per questo si ribella, come il Doria, e perchè. — Lione
   Strozzi, priore di Capua come il padre suo Filippo, si giudica
   fosse ateo. — Il Carletto, tornato a Lucca, ferma una posta fra
   Lione Strozzi e Francesco Burlamacchi a Lucca; ma Lione balena;
   pure va a Venezia per aspettarlo. — Il Burlamacchi è eletto
   commissario delle milizie di montagna: quando queste milizie
   venissero instituite: reputazione di questo ufficio e vantaggi
   che porge ai disegni del Burlamacchi. — Va a mettere pace tra
   San Quirico e Castelvecchio, ma è pretesto; messa da banda la
   pace, schizza a Bologna: quivi lasciato il servo, va a Ferrara,
   dove conferisce co' riformati; poi s'incammina a Venezia dopo
   avere da capo lasciato il servo Bati a Francolino, ma poi ce lo
   raggiunge; motivi presunti onde così costumasse il Burlamacchi. —
   Quello che avvenisse a Venezia secondo che depose con giuramento
   in giudizio Bartolomeo da Pontito detto il Bati. — Differenza di
   forma e d'ingegno fra il Burlamacchi e lo Strozzi. — Conferenza
   fra questi due. — Il Burlamacchi espone a parte a parte l'ordine
   della congiura e il modo di riuscirvi: Lione approva, ma piglia
   tempo per la esecuzione della impresa; pericoli e vantaggi dello
   aspettare, e per converso dello affrettarsi. — Il Burlamacchi
   torna a Lucca, dove attende a confermare gli amici ed a crescere
   il numero dei suoi seguaci: esce degli anziani; subito dopo lo
   eleggono gonfaloniere con universale soddisfazione. — Manda più
   volte il Benedino a Venezia sotto pretesto di comprare tinte, per
   sollecitare lo Strozzi, che gingilla senza prendere nè lasciare.


Per le cose fin qui discorse abbiamo fatto manifeste le cause e gli
argomenti sopra i quali faceva capitale Francesco Burlamacchi per
condurre a buon fine la disegnata impresa; onde ora si accorgeranno
i lettori quanto ella fosse audacemente pensata e come potesse essere
con ottimo consiglio eseguita. Adesso la iscrizione lapidaria corrosa
dagli anni e dal malvolere degli uomini alterata è restituita nella
sua prima lezione, sicchè ogni uomo può leggerla pel suo verso. Coloro
che governarono la Toscana nel 1859 e negli anni seguenti eressero al
Burlamacchi una statua; aríeno adoperato meglio se taluno fra essi
ne avesse dettato la vita per rivendicarlo dalle infamie di storici
venali; poi dopo, se pur volevano, inalzargli la statua; ma questa
altri, non essi scolpirono, altri non essi pagarono, mentre la vita
è mestieri concepire e dettare con la propria virtù. Ancora, senza
odio come senza dispetto, è chiaro com'essi intendessero onorarsi
coll'onorare un magnanimo che volle l'Italia nostra potente e sgombra
dagli stranieri, nè s'ingannarono; ma io pongo pegno che se ne
sarebbero rimasti se avessero o creduto o saputo che Francesco nostro
in questo era fermo, che verun reggimento si confacesse alla Italia
dal repubblicano in fuori, e noi non avremmo salute mai se prima
la nequissima potestà temporale dei sacerdoti non fosse per sempre
abolita. A cotesti tempi siffatta sentenza correva fra gl'Italiani con
la dignità di assioma: la insegnarono con gli scritti il Machiavello,
e il Guicciardino; dopo trecento e qualche anno la sapienza dei padri
diventò errore, lo ingegno follia, e ciò in grazia dei pleclari ingegni
che la età nostra rendono lieta, anzi immortale.

Vuolsi sopratutto ammirare nel Burlamacchi la prudenza; imperciocchè
fin dove gli bastarono le forze, e glielo consentì la materia, egli non
si servisse di anima viva; i discorsi che teneva alle brigate intorno
alle austere gioie della libertà, al godimento che l'uomo sente in
sè nel sagrificarsi per la patria, ed alla fama perpetua che prosegue
gl'incliti gesti miravano a questo: se dal consenso ardente, e se dal
fiammeggiare dello sguardo di taluno degli uditori, poteva comprendere
che lo avesse acceso di affetto pari al suo, cercava accontarsi con
quello, e scrutatolo fino dentro alle ossa, se lo provava quale se
l'era promesso, lo metteva a parte della impresa: per ciò non si pensi
che i suoi disegni palesasse interi, bensì quanto bastava a rovinare
lui, non già la impresa e molto meno gli aderenti suoi. — Uno di quelli
a cui fu mestieri aprirsi intero fu Sebastiano Carletti calzaiuolo, il
quale da prima fu operaio nella bottega dei Burlamacchi e poi militò
sopra le galere di Lione Strozzi priore di Capua, e tuttavia militava:
dove avendo mostrato intendimento buono e valore non ordinario, era
venuto in grazia del priore; da cui essendo sorto con la sua armata
nel porto di Marsiglia per istanziarvi alcun tempo, ottenne il congedo
di recarsi a Lucca: qui giunto, il Burlamacchi co' suoi trovati lo
sperimentò, ed avendolo rinvenuto al caso oltre la speranza, deliberava
scoprirsi a lui, e così fece. Bastiano, come quello a cui le ingiurie
patite dal suo capitano più assai delle proprie cocevano, intendendo
come la burrasca doveva innanzi tratto scaricarsi in Toscana e quivi
schiantare la mala pianta della tirannide medicea, non è a dire se
confermasse ne' suoi concetti il Burlamacchi, al quale si profferse di
tornarsene tosto a Marsiglia per tenerne proposito col priore; a cui,
egli affermava, non sarebbe parso vero di operare cosa che a un punto
giovasse alla patria ed alla sua antica sete di vendetta soddisfacesse,
o, come si dice, di pigliare due colombi ad una fava.

L'altra persona alla quale il Burlamacchi si scoperse fu Cesare
Benedino da Pietrasanta, che, dopo avere esercitato un tempo
onorevolmente la milizia, pose stanza in Lucca, dove con molta lode e
non poco profitto attendeva a tingere sete così greggie come lavorate;
il quale mestiere in cotesta città, stante il grande commercio
serico che vi si faceva, non era mica giudicato vile, all'opposto di
altissimo rilievo; ed essendo egli uomo bravo, e per la molta gente
che teneva a salario non meno che per l'amorevolezza sua verso gli
operai, assai lo seguitavano. Questo il Burlamacchi o con lettere da
bruciarsi appena lette o con messaggi verbali spediva ora a Pisa,
ora a Pescia o a Pistola, sovente a Firenze ed anco a Bologna e in
altre parti di Lombardia: perchè quantunque il Benedino disagiato
non fosse dei beni di fortuna, tuttavia il Burlamacchi non consentì
mai che egli ci rimettesse del suo, e dai ricordi del tempo ricaviamo
che ora di due e tale altra di tre scudi lo rimborsasse per le spese
fatte nei frequenti viaggi, e così con maggiore larghezza di quella
che la repubblica fiorentina costumasse con Nicolò Machiavello, al
quale, sebbene inviato per suo oratore publico, pure ella lasciava
penuriare per tre lire o quattro. Abbiamo altrove accennato, e qui
ripetiamo, che il Burlamacchi, se non tracollò affatto, molto nocque
alla sua sostanza a cagione delle molte spese incontrate a sostenere
il suo disegno; e ciò serva di esempio ai nostri padri della patria,
i quali non moverieno per la sua salute un dito, se prima non vengano
assicurati di guadagnarsi il dieci per cento almeno. Chi fossero gli
Strozzi e quali la indole e lo intento loro dicemmo: mutati i tempi,
epperò mutati non già gli affetti, bensì i modi di significarli, di
Strozzi adesso vediamo pieno Firenze; zelatori di tirannide sotto
il velame di libertà a patto di essere eglino stessi tiranni o, se
tanto non lice, tiranni almeno di seconda mano per perseguitare, ma
sopratutto per arraffare. Sventura grande pel Burlamacchi ch'egli
avesse o reputasse avere mestieri di loro! Bastiano pertanto rompendo
gl'indugi fu spedito a Marsiglia per conferire col priore e persuaderlo
a volere mettersi dentro alla impresa coll'opera, col consiglio e co'
danari: caso mai quegli assentisse, gliene porgesse avviso col mezzo
di lettera la quale, fingendo versarsi intorno a negozi mercantili,
così gli annunziasse: non posso tirarmi indietro da confessare il mio
debito verso la vostra ragione, il quale somma a cento ducati, che mi
obbligo satisfarvi insieme con gl'interessi dovuti a seconda che voi
giudicherete onesto, mano a mano che mi capiterà un buono avviamento
di poterlo fare. Però Bastiano comechè usasse diligenza, non trovava
il priore a Marsiglia per essere egli partito per Parigi; colà lo
raggiunse, ed appena lo ebbe tastato, trovò il terreno sollo per modo
che non solo la vanga ci sarebbe entrata ma il manico; per la quale
cosa avvisò, il Burlamacchi nella guisa fra loro concertata, onde
questi aspettava il Carletti a gloria per precipitare il negozio,
avendo egli considerato come delle congiure quelle che mirano a
spegnere il tiranno o colui che si reputa tale riescano sempre, quante
volte l'omicida non confidi il suo disegno ad anima viva e loco aspetti
e tempo a vibrare il colpo: tuttavia se conseguono la strage dell'uomo
aborrito, sovente l'uccisore rimane spento, nè da quel sangue germoglia
sempre la libertà o perchè, accadendo il caso alla sprovvista, gli
animi dei cittadini non si ordinarono ad approfittarsene, o perchè più
spesso che non si pensa al tramonto della tirannide non segui l'aurora
della libertà; le altre congiure poi (e non le laudabili) le quali si
propongono a scopo mutare il governo per necessità bisogna palesare a
molti, e ciò talvolta nuoce, tale altra no o poco: nuoce se la congiura
deve condursi per sorpresa e quando la universalità dei cittadini
ci repugni ovvero ci vada di male gambe; non nuoce o poco quando la
imminente rivoluzione venga come sequela d'interessi che hanno mestieri
di mutare, però che allora corra veracissima la sentenza la quale dice
delle rivoluzioni succedere sempre quelle che sono presagite.

Però il ritorno di Bastiano non fu sì presto come avrebbe voluto, e la
cosa desiderava, imperciocchè se ne andasse col priore in Iscozia e in
Inghilterra per mandato del re di Francia Enrico II, dove condusse a
buon fine parecchie onorate imprese, fra le quali quella di espugnare
il castello di Santo Andrea, e presivi gli omicidi del vescovo di
Santo Andrea, tutti mise senza misericordia a morte. Di Scozia navigò
su le coste di Francia per sovvenire alla fortuna di Bologna marittima
che pericolava per lo assedio messoci dagl'Inglesi. Siffatto ritardo
riuscì funesto ai disegni del Burlamacchi, perchè cotesto anno andò
perduto, ed egli facesse capitale grandissimo del malcontento dei
popoli a cagione della penuria del grano, di cui era stato infelice
il raccolto in Toscana: sopra gli altri poi ne arrovellavano i Pisani
un po' per la ruggine antica e più perchè il governo per provvedere
Firenze aveva portato via da Pisa quanto grano trovava lasciandola
nella estrema miseria; così si arrivò al nuovo raccolto, e la occasione
andò perduta, nè dall'oceano Leone e il Carletti tornarono prima del
decembre. Ignoro, e poco m'importa cercarne la ragione vera; fatto stà
che il priore dopo cotesta impresa venne in iscrezio col re di Francia;
gli scrittori del tempo affermano senz'altro come Lione Strozzi andasse
meglio a genio di Francesco I perchè grave, circospetto, a moversi
lento, tardo a parole, e Piero Strozzi garbasse di più ad Enrico,
come quello che procedeva avventato, di mano pronto e di detti troppo
più; taluno aggiunge che il re gli fece torto conferendo l'ufficio di
capitano supremo del mare ad altra persona la quale non era reputata
capace nè manco a reggergli il bacile quando si levava la barba; però
lo lodano per essersi comportato in cotesto frangente con maggiore
lealtà di Andrea Doria, perocchè non si ribellasse al suo re nè in
veruna altra guisa gli nocesse, la quale cosa troppo bene egli avrebbe
potuto fare sia pigliandogli alla sprovvista Marsiglia ovvero altra
città di Provenza, sia rubandogli parte delle galere od anco legandosi
coi corsari di Barberia per disertare le coste di Francia; mentre
egli all'opposto, tolte seco due sole galere che erano sue, se n'andò
a Malta per servire la cristianità contro i nemici della fede. Vero
è però ch'egli lasciava la famiglia e la sostanza sue in Francia, nè
possedeva forza di galee quanto il Doria da dargli balía di combattere
solo; e per ultimo non era dietro il canto un imperatore il quale
avesse fatto le larghe profferte che Carlo V fece al Doria; prima di
attribuire un gesto alla virtuosa volontà dell'uomo tu scruta arguto
quanta forza ebbe su lui la rancorosa impotenza. Gli antichi scrittori
ci narrano altresì certa particolarità del suo ingegno la quale merita
essere da noi notata, ed è, che egli sentisse meno che dirittamente
delle cose di religione, non mica a modo dei luterani, bensì secondo
la dottrina di suo padre Filippo, il quale apparteneva alla setta di
coloro che l'anima col corpo morta fanno.

Il Carletto di ritorno a Lucca si ristrinse col Burlamacchi, a cui
disse da parte del priore che se a Francesco parea mille ore, a lui
sembrava mille anni di mettere le mani in pasta per vendicare il sangue
del padre; però desiderava udire dalla sua bocca a parte, a parte
tutta la trama per poterla poi sovvenire con piena conoscenza di causa:
quanto prima si sarebbe recato a Venezia; quivi gli darebbe la posta
per conferire strettamente insieme. Per questo messaggio levato a nuove
speranze il Burlamacchi più volte mandò il Carletto a sollecitare il
priore, parendogli trovarsi su la brace; ma il priore, o sia che stesse
ad uccellare gli eventi o sia che in vista non trascurasse verun filo
per dipanare la matassa ed in sostanza lo estimasse partito disperato,
non ci andava di buone gambe; pure alla fine gli mandò a dire che nello
aprile lo avrebbe aspettato a sua posta a Venezia.

La fortuna, la quale si diletta a tirar su la gente per precipitarla
da maggiore altezza, adesso favorisce il Burlamacchi appianandogli
la via a farlo eleggere commissario delle milizie di montagna, le
quali non furono punto ordinate in questa occasione, siccome presume
il Leo nella storia degli Stati Italiani, bensì vennero instituite
fino dal maggio del 1541. Questo ufficio conferiva al Burlamacchi
molta autorità, e maggiore egli divisava pigliarsene; oltre questo
vantaggio, egli ne traeva un altro forse più utile del primo, ed era
stare, andare, inframmettersi nelle faccende altrui e farsi grazioso
senza nè anco destare ombra di sospetto negli avversari suoi, però
che il cittadino o buono o reo potrà piuttosto procedere innanzi al
sole senza ombra che nella sua città senza emuli; nè egli era uomo
da lasciarsi cascare di mano la occasione, anzi acciuffandola subito
pei capelli, udendo come gli uomini di San Quirico avessero screzio
con quelli di Castelvecchio, si palesò disposto a recarsi costà
approfittandosi del senso di mansuetudine che ispira nell'animo di
ogni cristiano la ricordanza della passione del Redentore, affinchè,
messi giù gli odii e gli sdegni, si dessero la pace: di ciò molto i
cittadini lo commendarono, molto più ch'egli per amor di Gesù Cristo
renunziava a fare la Pasqua a casa in mezzo alla famiglia, ch'era
il suo cuore, per la quale cosa, avuto a sè Bartolomeo da Pontito
soprannominato il Bati, o che egli fosse suo ordinario famiglio o che
di lui si servisse quando andava attorno per negozi, lo condusse seco,
e ciò fu il giorno del giovedì santo. A vero dire, non sembra ch'egli
a procurare la pace si sbracciasse troppo, e s'intende, imperciocchè
se le pratiche attecchivano, gli era mestieri trattenersi per condurle
a conchiusione, e la sua mossa a San Quirico doveva essere pretesto,
non fine de' suoi disegni: arrivato la mattina traccheggia fino a sera
per adunare il Comune, il quale raccolto egli arringò come uomo cui non
pareva vero lasciare il suo uditorio più incaponito di prima: questo
poi gli venne agevolmente fatto, tirando la natura dei Lucchesi anzi
che no al cocciuto; onde, dopo averlo ascoltato, con parlare succinto
gli notificarono che se li magnifici Signori comandavano la pace,
essi comechè ne fossero vaghi quanto il cane delle mazze, pure come
figliuoli di obbedienza arieno chinato il capo; dove poi gli avessero
lasciati liberi, allora preferivano perdere vacca e moglie, pecore
e figliuoli piuttostochè porre giù l'odio contro i Castelvecchiesi.
Ottenuta questa risposta, ebbe a sè il famiglio ordinandogli mettere in
sesto le cavalcature. «O non sarebbe meglio, notava il Bati, che noi ci
fermassimo fino tutto domani per tentare nuove vie di conciliazione? io
ne ho visto rabberciare ai miei dì delle più scassinate di queste.» No,
no, risposegli il Burlamacchi, con cotesta gente gli è lo stesso che
camminare per rena; io li trovo tuttavia acerbi; lasciamoli maturare un
altro micolino al sole.

Montati a cavallo, il Bati, che precedeva Francesco, si volse dal lato
di Lucca, pur pensando avere a tornarsene a casa, ma il Burlamacchi,
fermato per un braccio il famiglio, gli susurrò nell'orecchio: «Non è
costinci che tu hai a passare» «O, signore, da dove avremo a passare,
noi? Da questa in fuori io non ci conosco altra via.» «Per Lucca,
sì, ma tu hai da ire a Bologna.» «A Bologna?» «Sì, e forse un poco
più in su: tanto a casa a fare la Pasqua non mi aspettano, ed io mi
sono deliberato di recarmi fino a Ferrara per passarmela con la mia
sorella.» E il Bati a lui: «Andiamo pure nel nome di Dio.» Misersi
pertanto senza indugio in cammino e furono il venerdì sera a Vergato;
il sabbato mattina desinarono al Sasso, dove chiamato a sè il Bati
gli disse; «Santi Bati, a me occorre essere ad ogni modo stasera in
Ferrara. Fa' una cosa: tu verrai a bell'agio; procurami intanto una
cavalcatura fresca, chè io m'ingegnerò di mandare a compimento il mio
desiderio.» E come disse fece: perchè così sollecito e prima del Bati
intendesse arrivare a Ferrara non è ben chiaro, tuttavia si comprende
che egli precorresse il famiglio per conferire co' riformati di
Ferrara fuori della presenza, anzi senza la saputa di lui; imperciocchè
bisognasse camminare guardinghi, non già perchè allora i professanti
le dottrine luterane corressero pericolo in Ferrara o ne corressero
troppo, ma sì perchè veruno pigliasse sospetto del fatto loro. Di
vero Bati, che la notte precedente aveva pernottato in San Piero a
Casale, quando la mattina di Pasqua giunto in Ferrara se recò a cercare
Francesco nella casa del cognato di lui Giovambattista Lamberti,
trovò che si n'erano iti a messa, dov'egli pure andando, ritrovollo
in chiesa: di ritorno a casa assai lietamente desinarono, insieme
trattenendosi in ragionamenti di negozi, massime sete; però il Bati
tenne per fermo che fra due giorni, al più tre, arieno insieme ripreso
il cammino verso casa; e s'ingannava, che Francesco, mentr'egli stava
per mettersi in letto, nel dargli la buona notte, alzato il dito così
gli favellò: «Bati, prima che sia giorno procura di trovarti in piè e
di andare per una carretta la quale ci conduca con meno disagio e con
più prestezza che sia possibile a Francolino. — A Francolino? disse
Bati, e che andremo noi a pescare fino costassù? — Ci si lavorano
sete, e ti so dire delle buone; il mio cognato non può allontanarsi dal
fondaco; e siccome facciamo a mezzo, vado per lui a vedere se ci sia
verso d'incettare i bozzoli.»

E via a Francolino: arrivano, smontano allo albergo, dove Francesco
lascia Bati e se ne va fuori in traccia, com'ei diceva, di setaioli
e marruffini; nè stette molto che, tornato a casa tutto cruccioso,
imprecava la sua mala ventura, la quale non gli faceva trovare le
persone desiderate da lui, come quelle che si erano condotte al mercato
di Venezia, conchiudendo così: «Ormai che mi trovo dentro, non mi fie
grave di spingermi fin là al ballo; che ne di' Bati? Già come si va
a Roma per Ravenna, così si può arrivare a Lucca per Venezia; andiamo
pure.»

Montati in barca, vogando di lena il martedì dopo Pasqua scesero a
Chioggia, dove Francesco, senza perdere tempo, noleggiata una gondola,
saltò in quella ordinando: «A Venezia, e di voga arrancata, chè non
mancherà la mancia.» E a Bati che del pari stava per buttarsi giù
disse: «No, tu statti e vientene a bell'agio su qualche barca di
pescatori. — Ma dove vi troverò io? — Va franco, io farò in modo di
trovare te; non dubitare.» E sì dicendo si partì da lui. Adoperando in
questa guisa parmi manifesto che il Burlamacchi studiasse di tenere
celate le sue pratiche al famiglio, onde non mettere, in caso di
sinistro, a repentaglio tanti Lucchesi co' quali aveva a conferire,
per avventura noti al Bati; ed in fatti, quando le cose volsero al
peggio, egli non ressa alla paura della corda, però, interrogato
appena, svesciava quanto aveva in corpo forse con qualche giunterella
di suo, sicchè ne andavano a cagione delle sue accuse per le rotte,
oltre a Bastiano Carletti, Giuliano Marescalco e ser Nicolò Vanni;
degli altri non seppe indicare il nome, nonostante, avvertendo essere
di quelli che, sotto colore di pellegrinaggio alla Santa Casa di
Loreto, si era spinto fino a Venezia. Bati narra che egli arrivò a
Venezia il giorno dopo su le diciannove ore, non sapendo a qual santo
votarsi, quando di un tratto gli fu addosso Francesco alle colonne di
San Marco dicendogli: «Qui ti aspettava.» Ordinatogli poi gli tenesse
dietro, fecero ricapito nella casa del gondoliero che aveva menato
Francesco, e quivi ebbero buona stanza, buon letto e meglio cena. Che
tramestasse durante il giorno il suo padrone, il Bati non seppe dire,
e la notte nè manco; solo ricordava che la notte precedente al dì
della loro partenza, dopo avere cenato in casa all'ospite insieme a
Bastiano Carletti, questi uscì fuori e passato qualche tratto di tempo
tornò dicendo a Francesco che potevano andare; per la quale cosa se
ne partirono, però innanzi di passare la soglia Francesco voltatosi
addietro lo avvertiva: «Rimanti qui ad aspettarmi, chè tanto fuori di
te non ci sarà bisogno.» Rimasto solo, egli si addormentò appoggiando
il capo sopra la tavola su la quale aveva cenato: verso mezzanotte gli
ruppero il sonno dalla testa due uomini che entrarono nella stanza,
uno dei quali teneva un lume in mano; lo riconobbe tosto pel Carletti;
l'altro era Francesco, che torbo in sembiante gli disse: «Tu hai
fatto un sonno; or va a finirlo a letto.» E Bastiano, messo in casa
Francesco, si partì da lui senz'altre parole che con un _buona notte_.

Noi sappiamo per filo e per segno ciò che il Burlamacchi in cotesta
notte disse e fece, non a modo dei tragedi e dei novellieri, bensì di
certa scienza, ricavandolo nella massima parte dai suoi interrogatorii.

Francesco Burlamacchi e il priore Lione Strozzi in luogo appartato
incontraronsi per concertarsi sul modo di mandare a compimento il
disegno dal primo proposto al secondo. Era il Burlamacchi di membra
ottimamente formato, ma scarso anzichè no, tuttavolta destro e
pazientissimo alla fatica; sbarbato, rasi i capelli, nelle vesti
semplice; arguto nel volto, arguto nel dire, parlava lento, preciso
come uomo che dimostri un teorema di matematica; l'altro all'opposto,
di lato petto e di potenti spalle, barbuto e chiomato; nella faccia,
pel collo e per le mani di quel colore di rame che il sole ardente e
l'esalazioni saline partecipano ai marinari; breve il dire e concitato
come uomo assueto al comando; facile alla ira, gagliardo sì ma
soverchio nelle manifestazioni della sua gagliardia: insomma il primo
dava più che non prometteva, alla rovescia il secondo; perchè quanto si
sparnazza nella esagerazione si sottrae alla sostanza delle cose.

Pertanto il Burlamacchi gli espose il suo concetto essere liberare la
Italia da' suoi trenta tiranni e dal tiranno peggiore di tutti gli
altri posti in mazzo, il papa; non mica in odio al cattolicesimo da
lui aborrito, ma che per ciò non intendeva perseguitare, vincendosi
la coscienza degli uomini per via di persuasione, non già con la
soperchieria. In lui agitarsi unico il senso di carità patria; mentre
due erano certo i furori che spingevano l'animo del prode priore, amor
di patria e il grido del sangue paterno tuttavia invendicato. Sopra una
cosa però bisognava andar chiari, la quale consisteva in questo, che
egli non avrebbe dato nè ricevuto aiuto per istituire una monarchia;
l'Italia nata per le repubbliche, vuoi democratiche, vuoi oligarchiche
o vuoi aristocratiche, difettose tutte, non però quanto la monarchia, e
quelle per vizio di uomini piuttostochè per vizio d'instituto, questa
per vizio d'instituto anzichè di uomo, essendo cosa veramente lesiva
alla dignità della cittadinanza consegnare cuore e cervello in mano
ad una dinastia di padre in figlio _per omnia sæcula sæculorum amen_,
nel concetto che se uno è buono, l'altro a prova sarà trovato meglio:
chè se la monarchia vorrai ridurre a temperata, ella si assottiglierà
a giungere per via di corruzione là dove trova ostacolo per arrivare
con la violenza, ed è peggio perchè questa ti cresce l'odio e coll'odio
ti mantiene la facoltà di possibile vendetta, mentre quella ti castra
come un pecoro, che lecca la mano a cui gli taglia la gola; onde
delle due tirannidi, cioè la netta e l'annacquata, la rigida e la
mansueta, scegli quella tutta di un pezzo; imperciocchè nelle tirannidi
violenta, spento il tiranno, le più volte ti rivendichi in libertà,
nelle astute, se ammazzi il tiranno, sopravvive la servitù. Repugnare
poi alla composizione di una sola e grande repubblica in Italia come
quella che, divisa e durata per secoli con istituti, voglie, intenti,
commerci, in fine con tutto quanto forma la trama del vivere civile se
non contrario, almeno diversissimo, non si sarebbe potuto ordinare in
modo uniforme: secondo lui, avrebbe dovuto costituirsi in federazione
di repubbliche, debole stato in vero, di faccia ai potentissimi che si
erano formati o stavano per formarsi a canto alla Italia, dove non si
fosse rinvenuto un ordine di governo il quale, lasciando alle singole
repubbliche facoltà e modo di reggersi liberissime su certi conti, per
altri poi le stringesse in vincolo siffattamente poderoso che dentro
paressero molte e fuori una sola; nè lo ingegno italiano comparire fin
lì impoverito tanto da non sapere immaginare di simili arti di stato.
— Lione, ch'era prete, anzi frate, dacchè l'ordine dei cavalieri di
Rodi, al quale egli come priore di Capua apparteneva, si considerasse
monastico, rispose che quanto a papa ei se ne curava come della prima
palla che gli passò vicino al naso; lo lasciasse con ambedue le potestà
spirituale e temporale, ovvero gliele togliesse, a lui non premere
nulla: rispetto al governo da darsi all'Italia pensava non dipendere da
loro, nè per ora potere presagire come sarebbero rimaste le faccende
e lo stato degli animi adatti a sostenere un reggimento piuttostochè
un altro: sembrargli strana la fantasia di taluni che si professano
sviscerati della libertà e poi anticipatamente fermano tra loro la
forma di governo che intendono impartire al popolo; e non capiscono
che libertà costretta e tirannide sopportata arieggiano così che paiono
sorelle nate ad un parto: quanto a lui però repubblica o monarchia, una
sola repubblica ovvero parecchie non premergli affatto; questo altro
poi importargli, vendicare il sangue del padre e costituire l'Italia
in istato da sostenere l'urto di Francia e di Lamagna: avrebbe inteso
volentieri come questo si potesse conseguire e qual parte ci avesse
egli a pigliare.

Allora Francesco Burlamacchi peculiarmente gli favellò dello stato non
pure d'Italia, bensì della Europa con assai più di acconciatezza che
io non abbia saputo fare in questo libro, di che assai si maravigliò
il priore, conoscendo a prova quale e quanta fosse la sagacia di
lui; e poichè, concordando nei generali su quello che gli era andato
esponendo, desiderò conoscere nei particolari il modo di ridurre in
atto il disegno, quegli rispose: — «Anco qui l'obietto è doppio, in
casa e fuori; in casa penso io ad appiccare fuoco alla girandola,
fuori dovete pensare voi prima, ed un poco io. Il modo di riuscire in
casa, uditelo, è questo: voi avete a sapere come io sia Commissario
delle Ordinanze delle battaglie di Montagna; quantunque io abbia dalla
primissima età esercitato in patria con diligenza ed amore parecchie
magistrature, altra mira io non ebbi eccetto quella d'impadronirmi
di cotesto arnese; nè mi fu avversa la fortuna, chè Giovambattista
Boccella anziano e comandante generale, avendomi messo fede, tolse
sopra di sè di farne la proposta in consiglio e spuntarla, come di
vero accadde. Creato commissario, mi applicai con tutti i nervi a
prevalere su gli altri e mercè di non piccolo sforzo ne venni a capo,
imperciocchè a loro preme buscare la paga e scansare la fatica; però
io governo a mio talento a un bel circa sei mila soldati, buona e
cappata gente; a Borgo a Mozzano ne stanziano 1400; al ponte a Moriano
200, altrettanti a Colle e al Ponte di San Pietro; altre altrove. Ora
Lucca nella massima parte è disposta a seguirmi; all'altra parte non
manca volontà ma coraggio; ma forse anco la prima, se non riesco, mi si
volterà contro: le sono cose note, la fortuna lega e scioglie. Amici
fidati si accontano meco per tutta Italia, precipuamente a Pescia,
Pistoia, Prato, Barga e Pisa: nè mancano a Firenze: i fuorusciti
Sanesi non hanno mestieri eccitamenti, pure io mi studio a fare sì che
non assonnino, tenendoli sempre agitati fra la speranza e il timore;
taccio di Perugia, di Bologna e, che più? di Roma. Il mio disegno
semplicissimo è questo: sul finire di aprile o sul principio di maggio,
e così mentre il malcontento dei popoli dura a cagione della carestia
del grano, la quale non può essere anco lenita dalla nuova raccolta,
sotto pretesto di rassegna mi riconsiglio radunare tutte le ordinanze
sul prato grande che giace fra le mura di Lucca e Sant'Anna, pigliarne
il comando e indirizzarlo dove io intendo.....» Qui lo interruppe
Lione dicendo: «Ma, se non erro, i commissari di queste ordinanze sono
parecchi: o come potrete voi comandarle tutte?»

«Veramente sono tre, ed havvi eziandio il comandante maggiore Boccella
ch'io vi ho detto: ma ciò non rileva; già vi affermai ed ora vi ripeto
che gli altri commissari assai deferiscono a me, pure ciò metto da
parte; io procurerò che le ordinanze tardino a venire, sicchè la
rassegna non si faccia che la sera verso il calare del sole; poi tanto
le tratterrò sul prato che, venuta l'ora del chiudere le porte, gli
altri commissari, smaniosi di tornarsene a casa per cavare la moglie di
pena, se ne vadano pei fatti loro e mi lascino solo.»

«Bene sta, soggiunse Lione; ma come vi ripromettete che vi seguitino le
ordinanze? Le poneste a parte del disegno, ovvero lo ignorano?»

«Ignari tutti, e non vi ha alcuno che non lo sappia; conosco gli animi
e le voglie loro, essi i miei, senza parlare c'intendemmo; taluno poi
dei caporali saprà quanto occorre a suo tempo: per ora giova che sia
così. Ad ogni modo, scesa la notte, io darò loro ad intendere, ed essi
ci crederanno o fingeranno crederci, di condurli alla mia villa di
Santa Maria in Colle, ma intanto che saremo in cammino mi farò arrivare
un cavallaro della Signoria apportatore di lettere che comandino ai
commissari andarsene subito subito con tutte le milizie a guardare i
confini a cagione di minacciate scorrerie dei soldati del duca Cosimo
dal lato di Pisa: a questo modo confido condurre la gente senza intoppo
di sorte sul monte San Giuliano, al tutto sprovvisto di presidio;
potrei passare anco da Ripafratta, anch'ella indifesa; tuttavia qualche
soldato a guardia ci hanno pure messo, ed io intendo arrivare a Pisa
inaspettato: nondimanco avrei eziandio provveduto che il colonnello di
Camaiore con la sua ordinanza si aprossimasse al monte Quiesa, e quinci
costà a monte prendesse la via di Pisa per farci la massa della gente
onde volgermi grosso a Firenze quanto più mi verrebbe fatto.»

«A Pisa voi non potrete giungere che a notte avanzata: come farete a
penetrarvi? forse come Arato vi provvederete di scale?»

«Non ce ne ha mestieri, avendo io notato come a Pisa non si costumi
a modo di Lucca, voglio dire che le chiavi delle porte si consegnino
tutte le sere alla Signoria, e fino alla mattina a giorno non si
aprono: costà si lasciano le chiavi in mano ai gabellieri, i quali,
quando arriva qualche gentiluomo in posta e chiede essere intromesso,
gli aprono senza difficoltà. A voi, uomo uso agli sbaragli, mi passo
dire il restante; i gabellieri non resistono, andiamo oltre; si
oppongono, disperdonsi; scorrendo la città si chiama il popolo col
vetusto grido che fece e confido farà palpitare Pisa come se fosse
tutta di carne ed avesse un cuore: — Popolo, popolo e libertà! — Non
sorgerà inaspettato, io ve lo giuro, nè desterà verun Pisano dal sonno,
chè tutti lo attenderanno a gloria....

« — E la cittadella?

« — Alla cittadella, rispose il Burlamacchi abbassando la voce,
adesso[21] è preposto Vicenzio del Poggio di nazione lucchese e
mio devoto; dove mai ne fosse rimosso, poco preme, scarsissimo è il
presidio, e il nostro moto deve subito dilatarsi a mo' di polvere
cacciata dal vento pei campi aperti; lasciativi in questo caso un
trecento soldati dattorno, con gli altri mi avaccerò per Firenze, dove
spero entrare senza colpo ferire perchè il duca preso alla sprovvista
si troverà povero di partiti, la gente levata a smania di libertà,
il tiranno traballante in casa, fuori minacciato di essere chiuso dal
contado in arme, i nemici sul collo e armati di ferro e di furore, gli
amici lontani; se mai gli metteremo le mani addosso....

« — Lo consegnerete a me....?

« — Lo consegneremo a voi. —

« — Ma e noi come potremo sovvenire la impresa?

« — In molte maniere: primieramente apparecchiando le vostre galere e
sorgendo con gente da sbarco la foce dell'Arno per gettarla a terra al
primo annunzio del successo rivolgimento: anco potreste levar gente
in Pontremoli e in Garfagnana, e di questa pigliare il comando lo
strenuissimo messer Piero; io procurerò gli si aggiungessero le bande
della montagna di Pistoia, ed anco gli cedo di grato animo il comando
delle mie. — Mi hanno altresì informato che messer Ieronimo Pepoli, il
quale adesso milita come capitano generale dei Veneziani, uomo di molto
seguito su la montagna bolognese, potrebbe tornarci di grandissimo
sussidio dove noi sapessimo tirarlo dalla nostra.»

« — A questo non bisogna pensare nè manco», rispose acerbo Lione,
sicchè il Burlamacchi, senza poterne penetrare le cause, si accorse che
aveva messo un dito dove gli doleva; però riprese:

«Un'armata francese in qualche porto del Sienese sarebbe la mano di
Dio....

« — Dei Francesi non bisogna fare capitale; essi non si movono mai se
pure non abbiano il guadagno in mano o il malanno sul collo.»

« — Pazienza, faremo da noi: però importa che voi mi forniate di
danaro; non troppo, ma pure non soverchio per me che ho da spartire
con cinque fratelli e fin qui ho speso sempre del mio: basterà un
quattordici o un quindicimila ducati.»

« — Questi non mancheranno, ma per voi quale premio vi serbate?»

« — Io? La coscienza di fare opera buona in pro' della patria e della
libertà: la fama che mai non si scompagna dalle onorate imprese,
sia che la fortuna le avversi, o discorde da sè le secondi.» E
alzati gli occhi, gli ficcò in quelli di Lione; entrambi gli sguardi
s'incontrarono così vibrati che, se fossero stati ferri, avrieno
mandato faville.

« — Messere Francesco, Dio vi aiuti come siete un'anima romana per
miracolo rimasta sopra la terra: or ditemi e quando avvisereste di
mettere mano alla impresa?»

« — Più presto che faremo, e più avremo venture a pro' nostro. Vi
toccai della diffalta dei grani, la quale, oltre al malcontento che
genera nei popoli, impedisce si approvvisionino le piazze; e poi
corriamo un'altro pericolo, ed è che siccome i cittadini si succedono
nella nostra repubblica agli uffici con vicenda brevissima, così
io posso sortire anziano per due mesi ed allora cesso di esercitare
durante cotesto tempo il commessariato delle milizie, chè i due carichi
vietasi cumulare; ancora, senza presumere soverchio di me, potrebbe
accadere che mi eleggessero gonfaloniere, chè allora lo stroppio si
faria maggiore, avvegnachè al supremo magistrato non sia concesso
finchè dura in carica uscire di palazzo: non vi assicuro che ciò
non avvenga, ma questo allora non accade senza pericolo e sempre con
difficoltà grandissima. Degli altri pericoli non tocco: quanto a me
ormai ho messo a repentaglio la vita, ma voi prudente conoscete quanto
sia funesto protrarre di simile ragione imprese: a maggio fioriscono le
rose, a maggio torni a germogliare la libertà della patria.»

A Lione parve, e veramente era, troppo breve il tempo, conciossiachè
fosse di mestieri apparecchiare i danari, che si prevedeva non dovere
essere pochi, avendosi, oltre quelli domandati dal Burlamacchi, a
provvedere per le galee del priore, per le bande che avrebbe messo
insieme, per le armi, per le munizioni e per le altre necessità tutte
che si tirano dietro faccende di tal sorte. Non potere egli fratello
cadetto imbarcare casa sua in ventura tanto zarosa, senza prima farne
motto a Piero, il quale per essere maggiore, e per altri rispetti
bisognava consultare.

Più che tutto poi gli faceva forza il pensiero che adesso non si
verificasse il dettato che il pericolo sta nello indugio; perchè ormai
l'elettore di Sassonia essendo vicino ad ingaggiare battaglia con Carlo
imperatore, per quanto era dato supporre, lo avrebbe vinto, conducendo
egli, secondochè porgeva la fama, niente meno che ottantamila fanti
e diecimila cavalli: se questo presagio si avverava, a parere suo si
sarebbe di molto agevolata la impresa e vinta quasi a man salva. Al
contrario il Burlamacchi osservava: «Io per me credo all'opposto, e, se
non vi tedia, vi chiarisco in breve delle ragioni della mia sentenza:
delle due cose l'una, o lo imperatore vince, ovvero perde: se vince,
di siffatto negozio non è più a parlarne; neppure se perde, non per
questo andrà in pezzi lo impero e molto meno casa d'Austria; subentrerà
alla guerra grossa la guerra varia, moltiplice, minuta, nella quale i
soldati italiani, massime ausiliari, non saranno adatti nè desiderati;
però i superstiti torneranno in Italia, dove, comechè stremati,
pure si troveranno bastanti a presidiare le città che adesso ne sono
sprovviste; onde a noi la impresa riuscirà più difficile e certo non
senza molto sangue, che adesso si potrebbe risparmiare.»

Lione se rimanesse o no persuaso ignoriamo, questo altro sappiamo,
ch'egli confermò lì su due piedi mancargli denari e le altre
provvisioni di cui già aveva toccato: il Burlamacchi tornasse a Lucca
a studiare il buono esito del movimento; dall'altra parte egli Lione
non si sarebbe rimasto di affaticarsi notte e giorno perchè ogni
cosa andasse presto e bene. Su questo lasciaronsi dopo reiterate
salutazioni ed augurii buoni. Lione rimase maravigliato della virtù
e della sagacia dell'uomo, dicendo poi che ad emulare ed anco vincere
gli antichi personaggi a lui non era mancato che la fortuna. Tornato
a Lucca senza dare ombra della sua andata a Venezia, con la consueta
cautela gli antichi amici confermò, altri si mise intorno a cercarne,
non solo in Lucca, bensì fuori nelle città toscane, massime a Firenze;
se non che, mentre si affatica nel suo intento, ecco la fortuna
tirare lui repugnante in su per farlo cascare di più alto; quello che
presagiva avvenne; pel luglio e per lo agosto del 1546 fu tratto dei
Signori e indi a breve, morto prima di entrare in ufficio Baldassare
Montecatino, con universale soddisfazione lo elessero gonfaloniere:
pareva che questo ufficio dovesse agevolargli il disegno, ed invece fu
causa della sua ruina; e in breve dirò il come. Intanto, considerando
com'egli solo non potesse fare e che chi ha tempo non aspetti tempo,
con lettere e con messaggi serpentava Lione a Venezia a battere il
ferro caldo: non essere mestieri tanti ammanimenti, chè il danno dello
indugio non compensava il vantaggio delle forze maggiori, le quali si
avrieno potuto raccogliere; e perchè qualcheduno gli stesse d'intorno
a non lasciarlo assonnare, ci mandò Cesare Benedino dandogli una
cambiale tratta sopra Lione di scudi centocinquanta, che gli venne
senza eccezione debitamente estinta: al suo ritorno interrogato che
cosa fosse ito a fare a Venezia e perchè tanto ci si fosse trattenuto,
rispose essere andato per provviste di tinte, di cui è copia in cotesto
mercato per venirci da tutte le parti di levante. Però anche questi
nuovi eccitamenti non approdarono a nulla, dacchè il priore, o per
volontà propria o per commissione altrui, girava nel manico, ponendo
innanzi per procrastinare ora questo ed ora quell'altro pretesto.



CAPITOLO VII.

   Le passioni umane di che ragione sieno. — Chi fosse Andrea
   Pessini, e suo carattere morale. — Cagione per la quale il
   Pessini si consiglia di nocere al Burlamacchi. — Imprudenza del
   Benedino, che in lui si confida; il Pessino cavalca a Firenze;
   tradisce patria ed amico rivelando tutta la congiura al duca
   Cosimo, che ha paura e dissimula. — Tristizia dei tempi, ai
   quali possono solo paragonarsi i nostri. — Se possa, essere
   vero che il Pessino confessasse al Benedino il suo tradimento;
   com'è verosimile se ne accorgesse il tradito; il Benedino ne
   porge notizia al Burlamacchi; quali le parole e le deliberazioni
   di lui; è statuita la fuga e il modo per eseguirla. — Scrive
   lettera alla Signoria con la quale purga da ogni complicità
   amici e parenti; se solo accusa: generosità adoperata verso
   l'Umidi sanese, e codardia del medesimo. — I magnanimi sensi del
   Burlamacchi derisi dai bracchi del principato. — L'Umidi svela
   la congiura a Bonaventura Barili cancelliere della Signoria. —
   Provvisioni del Burlamacchi per accertare la fuga, ed ordini che
   dà a Baccio donzello. — Il Burlamacchi tarda a presentarsi alla
   porta San Pietro, e discorsi che ne hanno fra loro Baccio e il
   Benedino. — Preteso imbroglio dei preposti alla custodia delle
   porte se verosimile. — Francesco esce di palazzo a sera, aspetta
   nel cortile il cugino Garzoni, che venuto esce con esso; racconto
   del Burlamacchi inverosimile, ma fatto a posta per salvare il
   cugino Garzoni: come si può supporre che accadesse il caso. — Il
   Burlamacchi, trovando impedita alla fuga la via, torna indietro;
   va a casa sua; consulta di parenti, che lo consigliano rientrare
   in palazzo. — La Signoria manda per esso, ed egli va: terrore
   e viltà dei Signori non intesi della congiura, smanie paurose
   dei complici; tutte si appuntano a danno del Burlamacchi. —
   Magnanimità di questo, che dichiarava ignari tutti della sua
   trama, egli solo colpevole; dopo molte ambagi gli anziani lo
   fanno condurre alle sue stanze e guardarlo a vista; distrugge
   carte e ogni altro testimonio della sua impresa. — Consulta del
   consiglio, dove si propone sostenere prigione il Burlamacchi:
   esquisite cautele che si adoperano perchè non fugga e non si
   ammazzi. — Giusti timori degli anziani esposti; mandansi oratori
   ai diversi principi ed al concilio di Trento; a Cosimo spediscono
   il più astuto dei cancellieri. — Raccomandazione ai cittadini
   lucchesi stanziati in paesi stranieri di difendere dalle accuse
   la Repubblica. — Colloquio fra il cancelliere lucchese e il duca
   Cosimo; la batte tra pirata e corsaro: non si conchiude nulla.
   — Il duca per isgarrarla invia alla Repubblica oratore messere
   Agnolo Niccolini, e si conchiude anco meno.


Le passioni sembra che nel nostro cuore nascano gemelle; o se pure sola
ci comparisce una passione, tosto ella da per sè si feconda e ne genera
altre: questo dicasi così delle buone come delle ree finchè l'uomo
non riesca conformato pienamente secondo la propria natura. Altrove
affermai come in gioventù sia più cosa la libidine, nella vecchiezza
l'avarizia; ma e l'una e l'altra si ammogliano ad altre parecchie.
Però sovente crede chi osserva alla grossa che sia accaduto nelle
passioni un tramutamento, e non è; rimangono invece quali erano, e o si
applicano diversamente, ovvero, non essendo state considerate oltre la
scorza, ora paiono diverse.

Questo accadde al povero Cesare Benedino, il quale aveva preso
dimestichezza con certo Andrea Pessini e, reputandolo buono non meno
che bravo, lo amava per traverso la vita. Andrea, frequentando la gente
manesca, aveva una tal quale prestanza acquistata, ma più di lingua che
di mano; pure anco di mano: compagnone oltre il dovere; a passatempi
e a stravizzi immancabile; era più facile a Lucca trovare una osteria
senza la immagine del Volto Santo che senza il Pessini, giocatore
e perditore disperato; prodigo del suo, contro la ordinaria indole
dei Lucchesi, non liberale, onde in un punto stesso o con intervallo
breve lo provavano taccagno e sciupone; ma fra la gente pari sua
godeva fama di generoso, imperciocchè in compagnia la vanità vinceva
la sordidezza, se si giudicava inosservato, allora la sordidezza
pigliava il sopravvento alla vanità; siccome poi ogni giorno più la
sua sostanza si riduceva al verde, l'agonia della imminente inopia gli
andava scanicando lo intonaco di onestà, e più ampie nella bruttezza
si palesavano le turpitudini dell'anima sua. Forse se Cesare avesse
potuto stargli del continuo allato, si sarebbe accorto di cotesta
trasformazione; ma essendosi egli assai travagliato in continui viaggi,
poco ci aveva avuto usanza negli ultimi tempi; però quando prima lo
vide, malgrado gli ammonimenti gravissimi di non aprirsi se non a
persone di fede provata, riputando ch'ei fosse proprio il caso, gli
confidò il disegno del Burlamacchi, sicuro di averlo compagno alla
impresa. Il Pessini senza farsi pregare ci entrò dentro fino al manico
per la ragione che i garbugli approdano ai malestanti, e presentendo
quasi per istinto che un qualche brindello gliene sarebbe rimasto in
mano; da una parte e dall'altra raccomandazioni e promesse e sacramenti
di prudenza e di audacia, di segretezza e di solerzia per procacciare
congiurati alla impresa: cose tutte che stanno insieme come l'acqua col
fuoco, ma che paiono agevolissime a conseguirsi dalle menti esaltate.

Ora, mentre Andrea ustolava per mancanza di danaro, avvenne un caso
mercè del quale sperò rimpannucciarsi e andare avanti aspettando
il meglio. Era rimasta orfana in età pupillare Giulia figliuola
di Bastiano Giustiniani di Rôcca Tagliata sua nipote, assai bene
provveduta di sostanza; ond'egli, senza frapporre tempo, andato a
torsela, se la recò a casa non si dando pensiero se lo potesse o no
fare e se alla giovane garbasse ovvero repugnasse starsi con lui. Gli
è più che verosimile, anzi l'ho per certo, che se la fanciulla fosse
stata ignuda di ogni ben di Dio, i parenti sarieno rimasti coll'acqua
in bocca, e gli zii paterni o avrebbero finto non ricordarsene od anco
giurato di non essere parenti; ma l'interesse riscalda il sangue, onde
saltò su un Agnello Pessini come più prossimo congiunto a pretendere la
tutela per sè. Non mi è chiaro del perchè questa causa fosse sottomessa
alla decisione del Burlamacchi; forse in Lucca il magistrato supremo,
ch'era il gonfaloniere, come in Inghilterra nei tempi antichi il re,
esercitava giurisdizione sopra la persona e i beni dei pupilli: fatto
stà che il Burlamacchi, pigliata cognizione della faccenda, sentenziò
non Andrea, bensì Agnello avesse ad essere tutore dell'orfana e per
sequela amministratore della sostanza di lei, ad Agnello e non ad
Andrea spettasse il diritto di custodirne la persona e nella propria
casa ricoverarla. — La sentenza era giusta, ma la giustizia o la
ingiustizia delle decisioni non importa ai litiganti, i quali non
badano ad altro che al danno o al lucro: e il danno tanto più mordeva
doloroso Andrea quanto maggiore il fuoco della miseria gli scottava i
piedi; e poi per mente accecata qual'era quella di costui c'incastrava
benissimo il sospetto che Francesco Burlamacchi gli avesse fatto torto,
conciossiachè Agnello gli fosse per parentela congiunto e la sua casa
in qualità di avvocato difendesse. Pertanto mossero Andrea Pessino
a vendicarsi del Burlamacchi la persuasione di patita ingiuria, la
miseria venuta in fondo e la cupidità di rifiorire in auge, sicchè,
come vedete, di cause ce n'erano anco troppe: poteva avvertire al danno
ch'egli apportava alla patria, ma il Pessini e chi gli rassomiglia non
conoscono la patria: anco doveva percotergli la mente la cara immagine
dello amico, ma non ci pensò neppure. Calata la sera, se la svigna
da Lucca e, tolto a nolo un cavallo, cavalca forte prima a Pisa, poi
a Firenze, dove giunto la mattina per tempo senza pure scotersi la
polvere da' panni, si presenta al palazzo del duca Cosimo chiedendo con
ardente pressa volergli favellare per cosa di stato. Il duca, che, a
mo' dei tiranni, massime dei nuovi come lui, dormiva nella guisa dei
lepri, ordinò di subito s'intromettesse, ed il Pessini dopo essere
stato frugato dal capo alle piante entrò nella stanza, dove a parte a
parte espose la trama ordita dal potente ingegno del Burlamacchi; la
quale udendo, il duca si turbò nel profondo, pure uso a contenersi fe'
vista di dare in risa sgangherate sclamando di tratto in tratto: «Oh
che pazzo! oh che grullo!» ma dentro tremava[22].

E pur fingendo di tenere la cosa per inveceria, si buttò giù da
letto, e vestitosi in meno che non si dice un _Credo_, ragunò i suoi
segretari, i capi dell'arme e i cittadini complici col principato
per avvisare insieme intorno ai provvedimenti da pigliarsi in così
momentoso accidente. Al Pessini fu intanto ordinato di non partirsi da
Firenze, allogandogli stanza in apparenza onorata, in vero prigione;
e così rimase finchè non fu chiarito il caso: allora il duca gli diede
ufficio in corte e stipendio a bastanza largo. Cotesto pane d'infamia
ed intriso di sangue avrebbe dovuto bruciargli le viscere; a lui non
bruciò nulla: bevve e morì; questo il suo epitafio sopra la tomba: la
fortuna in ciò gli fu cortese che lo spense quando rilassato non poteva
più bere nè satisfare alle parti turpissime del corpo: la coscienza
in lui non visse o, se pur visse, era morta prima di lui: che fosse
fama non seppe mai, e se lo avesse saputo, non correvano tempi che
avesse valore: preti e Spagnuoli e tiranni domestici; gara di titoli
e di servitù; il valore ristretto nel braccio del sicario, chiesa e
bordello, empio tutto, e più di tutto la religione; rei gli amori, rei
gli affetti; in mezzo a questi elementi di vita civile a che pro la
fama?

Taluno dei cronisti racconta come il Pessini, dopo consumato il
tradimento a Firenze, tornasse a Lucca, dove, rimorso dalla coscienza,
tirato da parte il Benedini, lo ammonisse di quello che aveva fatto
raccomandandosi a mettersi in salvo. Ciò non sembra consentaneo al
vero; imperciocchè il Pessini avrebbe dovuto repugnare da un lato a
simil passo per tema di avere per risposta di un coltello nel cuore;
e dall'altro il Benedini, uomo di arme e animoso, quantunque artefice
adesso, era ben difficile che si tenesse le mani. La comune opinione
apparisce più vera, la quale riporta che il Benedino, confidato appena
il segreto al Pessini, questi prendesse a mostrarsi meno, ed anzi
gli parve ch'ei lo scansasse; parlandogli della impresa lo trovava
svogliato e più volte si mostrò con lui intimorito del male che
potesse incoglierlo per non avere rivelato la congiura: per la quale
cosa il Benedino, presolo in sospetto, incominciò a codiarlo, sicchè
tosto venne a sapere com'ei si fosse allontanato da Lucca; di che egli
concepì spavento grande, temendo, come pur troppo ei si apponeva, che
ei fosse andato a porgerne avviso al duca di Firenze; e reputandosi
come giudicato, tutto commosso si portò a trovare Francesco, a cui con
molte lacrime, chiedendo perdono, aperse ogni particolare del caso.
Francesco, a sua posta turbato, dopo essere stato alquanto sopra di sè,
disse:

«Dal principio della congiura io giudicai che la fallita impresa
aveva ad essere la mia tomba, ma ad uomo cristiano non lice darsi la
morte; questo, che fu reputato eroico presso i gentili, condannano
gli evangeli sacrosanti; e per altra parte aborrisco gli strazi a
cui mi sottometteranno se mi pigliano; nè mi posso ripromettere che
la natura non ceda alla gran forza dei tormenti, donde verrebbe a
me infamia, altrui danno: arrogi che veruno crederà, se io non lo
affermi apertamente, la mia patria innocentissima della congiura, onde
questo mal falco di Cosimo ne caverà argomento di calunniarla presso
l'imperatore che il papa e tante ne dirà e tante ne inventerà che
non si rimarrà contento finchè non l'abbia ridotta in servitù, scopo
supremo che con tutti i nervi prosegue. Or dunque facciamo il viso
dell'arme alla fortuna avversa. Tu sai, o Cesare, come io di palazzo
non possa uscire, chè a me gonfaloniere lo vietano le leggi, e la notte
stieno chiuse le porte della città: però non posso tentare di salvarmi
con frutto, eccettochè verso l'un'ora notte e così alquanto prima che
tirino i chiavistelli e portino la chiave in palazzo: per la quale cosa
tu fa di trovarti a cavallo, con altro cavallo a vuoto per me; procura
che sieno buoni corridori ed abbiano balía per durare; e con lo aiuto
di Dio ci salveremo. La porta donde mi consiglio uscire fie quella
di S. Pietro; verrò _imbalacuccato_; e per segno, affinchè tu possa
riconoscermi, porterò o panno o piuma bianca al cappello. Or va' pei
fatti tuoi e non ti peritare; il peggiore dei mali è la paura, che a'
veri e non piccoli arroge i falsi sterminati.»

Rimasto solo, scrisse lunga e circostanziata lettera alla Signoria,
nella quale, dopo narrata la impresa cui disegnava condurre a
compimento, sè chiamò solo in colpa, veruno fin lì congiurato con lui,
perchè, essendo lontano da eseguirla, si era guardato da confidarsi
a persone che per tristizia o per levità di animo avessero potuto
tradirlo: e poichè sopra gli altri egli praticava coi fuoriusciti
sanesi, allettato dai piacevoli loro costumi e dalla dolce favella,
così gli correva l'obbligo, per isgravio di coscienza, dichiarare come
a veruno di essi avesse scoperto il concepito disegno: non recassero
loro molestia, chè sarebbe stata, facendolo, pretta perversità. Non
istessero a sbracciarsi in indagini a danno dei cittadini, i quali egli
intendeva cogliere alla sprovvista e strascinarli seco con la forza,
il terrore e la maraviglia. — Tutto ciò esponeva con efficacissime
parole ed affermava con solennissime proteste. Dopo questo, chiamato a
sè Giovambattista Umidi, che, come dicemmo, per anni e per esperienza
aveva credito capitale presso i fuoriusciti sanesi, gli confida il
caso in cui ei si versava e poi lo conforta a starsi di buono animo,
avendo procurato di scolpare lui ed i compagni suoi da ogni addebito:
a questo fine gli fece leggere la lettera che lasciava per la Signoria;
ed aggiunse consigli e norme in virtù dei quali egli ed i compagni suoi
potessero tirarsene fuori senza un pericolo al mondo.

Insomma l'egregio uomo fu visto affaticarsi smanioso perchè quanti si
accontarono con lui andassero immuni da ingiuria, sopprimendo ogni
traccia di congiura ed ogni indizio a carico dei cittadini: certo
intese a salvarsi, però con questa ragione, che, dove mai la fortuna
lo tradisse, il capo suo pagasse per tutti; onde il Cini nella vita
di Cosimo dei Medici, nel raccontare questo caso, oltraggia Francesco
perchè, «così scioccamente tardando e pensando a salvare più i Sanesi
che sè stesso, sè miseramente perdeva.» Bene stà, chè al servo del
tiranno le opere generose dell'uomo libero, quando non paiono delitti,
sono errori. L'Umidi, imbelle per indole, abbiosciato per la età,
alla ingrata notizia batte i denti; per amore di pochi giorni di vita,
ecco perde le cause del vivere e la fama; della mente cieco, tremando
per tutte le membra, si parte dal gonfaloniere e vassi difilato da
Bonaventura Barile cancelliere della Signoria e gli spiattella ogni
cosa, sè con le lacrime agli occhi affermando innocentissimo di ogni
trama. Che mai questa viltà partorisse or ora vedremo.

Approssimandosi al tramonto il giorno 26 agosto 1546, il Burlamacchi,
chiamato a sè Baccio Pierini, donzello preposto a custodire le chiavi
delle porte nella camera allato a quella dove dorme il gonfaloniere,
così gli disse: «Da' retta, Baccio, a quanto sono per dirti e bada di
non fallire; quando stasera sarai per serrare la porta di San Pietro,
fa di traccheggiarti alquanto più dell'ordinario, e quando vedrai
appressarsi per passare un uomo, turato non gl'impedire la uscita,
anzi anco al commissario della porta ordinerai da parte mia che lo
lasci andare oltre liberamente, imperciocchè si mandi fuora da noi per
cose che importano a noi ed ai segretarii nè manco tu e il commissario
curatevi conoscerlo, che tale è la volontà nostra: hai capito? —
Messere, sì, e sarà fatto.»

E Baccio veramente da fedele servitore adempì quanto gli era stato
comandato: andò di passo nell'ora assegnata alla porta, si trattenne
a ragionare col commissario della buona raccolta primaticcia, su
le speranze della serotina, e co' discorsi menava il can per l'aia;
all'ultimo affacciatosi alla porta, vide Cesare Benedini incavallato
con un altro cavallo a mano con le staffe incrociate su la sella;
onde sospettando ch'egli stesse alla porta per aspettare l'uomo del
gonfaloniere, gli disse aperto;

«O Cesare, state aspettando costì l'uomo che ha da mandare il
gonfaloniere?» A cui il Benedino rispose: «Per lo appunto, ma si
fa tardi, e lo aspettare mi tedia; pregovi in cortesia che inviate
subito subito un targetto dal magnifico per sollecitarlo a spedire
il messaggio, perchè qui a lungo con la porta aperta non possiamo
aspettare.»

«Giusto, gli è quello che diceva ancora io; io farò come avvisate.»

Per la quale cosa, chiamato ad alta voce il targetto Gattaiola, gli
ordinò andasse difilato al palazzo per dire al gonfaloniere che non
mettesse tempo tra mezzo a spedire il suo uomo. Qui dicono taluni
cronisti che il targetto prima di partirsi per fare la commissione
avvertisse il commissario a non lasciare che persona alcuna uscisse
fuora di città; non già che stesse in facultà sua dare siffatti
comandamenti, ma così volle il destino o piuttosto la provvidenza
per preservare dagli estremi mali la città; e si ravvisò inoltre il
dito di Dio in questo altro accidente, e fu, che il targetto non solo
diede l'ordine senza facoltà, ma lo diede alla rovescia; ed aggiungono
ancora che così pure intendesse Baccio; in siffatta guisa la raccontano
parecchi cronisti, ma a me queste cose paiono novelle.

Fatto stà che il gonfaloniere uscì di palazzo alle ventiquattro ed un
quarto, e sceso nel cortile, vi si fermò alquanto aspettando Ludovico
di Garzone Garzoni suo cugino, a cui poche ore prima aveva dato la
posta; e siccome costui indugiava, e ad esso premeva partirsi, gli
mandò un targetto per sollecitarlo; indi a breve essendo comparso
Ludovico, uscì insieme con lui dal cortile per la porta di dietro,
la quale egli aveva ordinato tenessero aperta a suo libito: su la
soglia egli licenziò i targetti che andavano seco, i quali costumavano
accompagnarlo ogni volta notte tempo recavasi a casa sua.

Ricavo dalle dichiarazioni fatte da Francesco nel suo processo come,
andando per via, egli per la prima volta significasse al cugino i suoi
disegni, il caso successo e la necessità di sottrarsi con la fuga
allo imminente castigo; dal quale proponimento il Garzoni si studiò
con ogni maniera persuasioni distorlo, ma egli come uomo deliberato
non gli diede retta, proseguendo sempre il suo cammino finchè, giunti
in prossimità della porta di San Pietro, egli tolse commiato da
lui, avviandosi solo verso quella tutto turato dentro una cappa, col
cappello chino sul volto. Costà giunto mentre domanda passare, glielo
vietano; il donzello Baccio cerca e non trova; insiste su l'ordine
trasmesso dal palazzo di lasciare libero il passo ad uomo che esca
imbacuccato, e rispondono di palazzo essere stato ricapitato loro
l'ordine opposto, vale a dire s'impedisse a tutta persona l'uscita:
messo così con le spalle al muro Francesco si diede a conoscere, ma non
approdò: allora, accortosi della sciagura, rifece i passi.

Comechè questo racconto noi caviamo dalla Cronaca manoscritta del
Civitali, non che dalle medesime confessioni di Francesco Burlamacchi,
assai di lieve si comprende com'egli sia monco ed alterato; invero
grave cosa è credere a tutta quella gaglioffaggine del donzello e del
targetto che intendono alla rovescia; ad ogni modo in caso ordinario
aríeno pur dovuto obbedire al gonfaloniere ora che se lo vedevano
lì dinanzi per farli capaci della diritta: parmi chiaro che ormai
al commissario della porta fossero giunti ordini terribili della
Signoria per impedire la fuga del Burlamacchi; che se non mandarono
rinforzo di gente per arrestarlo, forse lo si vuole attribuire a paura
di mettere il paese a soqquadro, ovvero alla perplessità nella quale
i governi cascano quante volte colpiti da vicende inopinate abbiano
a prendere provvisioni supreme; e dal modo in cui il Burlamacchi fa
entrare nel negozio il cugino Garzoni tu vedi aperto com'ei tiri a
salvarlo; e valga il vero, o che montava porre il Garzoni a cotesta
ora bruciata a cognizione della congiura? O che premeva al nostro
Francesco farsi accompagnare fin presso alla porta dal cugino? Temeva
forse smarrirsi? Ignorava le vie di Lucca il Burlamacchi lucchese? Di
palazzo imbacuccato certo non uscì; ciò avrebbe messo in suspicione
i targetti: per me la posta venne assegnata al Garzoni per dare ad
intendere ai targetti recarsi forse a cena in casa di lui e quindi non
avere mestieri di altra accompagnatura; e in casa del cugino certamente
andò od in altro più riposto luogo per mutare vesti e chiudersi nella
cappa. — Conobbe Francesco per le tante disdette come la fortuna
intendesse dargli l'ultimo crollo; onde senza sbigottirsi, accelerato
il passo, raggiunse il Garzoni, col quale si ridusse alle proprie
case, le quali tuttavia stanno in piedi a Lucca; nè sentendosi capaci
a deliberare in cotesto tumulto, mandarono per Pietro Burlamacchi
altro cugino di Francesco, che, venuto ed udito il caso, fu di avviso
si avesse a consultare Nicolaio suo fratello. Piacque il consiglio,
sicchè insieme uniti andarono a casa Nicolaio: colà, messa da parte
ogni intempestiva querimonia, esaminata sottilmente la bisogna, spedita
gente a speculare le mura e andatici eglino medesimi, con dolore
inestimabile conobbero chiusa alla fuga ogni via: per meno reo partito
confortaronlo a tornarsene in palazzo; di quanto fosse per succedergli
poi non si pigliasse soverchio pensiero, imperciocchè con le aderenze,
con le raccomandazioni e co' danari e' si facevano forti di levarlo
d'imbarazzo: poichè non si presentava meglio, necessità non dà scelta;
però, mentre ripiglia gli abiti civili a fine di recarsi al palazzo,
ecco arrivare in casa Girolamo di Spagna coadiutore di cancelleria a
significargli di presentarsi subito subito nel collegio degli anziani
per trattare di negozi di stato. E il Burlamacchi non frapponendo
indugio alla chiamata andò tosto e rinvenne gli anziani allibbiti
starsi accalcati attorno a Bonaventura Barili, che per la ventesima
volta ricantava loro quanto aveva partecipato a lui il vile Umidi.
La paura talvolta si appunta con la virtù per suscitare nell'uomo la
ferocia; e la Signoria di Lucca adesso era eroica di terrore: tremava
pensando che lei incolperebbero complice del Burlamacchi; proteste e
giuramenti non varrebbero a salvarla dal sospetto di reggere il sacco
al gonfaloniere; come poteva egli nascondersi sempre agli occhi suoi?
Se essa non complice, connivente almeno; e chi tale regge non merita
reggere; forse non andrebbe immune da pena; ad ogni modo quelli gli
ultimi giorni della Repubblica insidiata da Cosimo, in uggia allo
imperatore. In cotesto amore di patria si mescevano il pensiero dei
gravi balzelli che si tira sempre dietro il principato, la perduta
autorità e le pungenti subiezioni dello schiavo; se ci era via di
scampo, questa, non altra: dimostrare con atti atroci animo rigido
contro il Burlamacchi, imperciocchè non sarebbe stato verosimile che
i complici di lui volessero fare a fidanza sopra la sua sofferenza nè
avessero a temere che nelle smanie del dolore non rivelasse la verità:
certo la storia rammenta parecchi uomini e talune donne capaci di
siffatto eroismo; ma per ordinario sopra le sublimi virtù, anzi divine,
non si fa capitale; nè disposto a ciò egli od altri credeva: bisognava
altresì che gli strazi comparissero a prova reali, onde Cosimo non
ne cavasse argomento di malignare che l'erano lustre, epperò movesse
istanza affinchè a lui lo consegnassero, chè egli avrebbe saputo
spremergli sangue e verità. In questa sentenza concorrevano i più,
come quelli che procedevano sinceri; taluno no, i quali pur troppo si
trovavano con Francesco indettati, e nondimanco, per rimovere da loro
ogni indizio, ora si mostrano più arrabbiati degli altri; non pietà gli
si usi, non rispetto; tanto maggiore sia l'asprezza quanto più grande
la fiducia: qual mestieri processo? A che interrogatori e difese? Col
frenello alla bocca si conduca sotto la forca e impicchisi.

Tu pensa, lettore, qual tremito nei muscoli patissero costoro; come
per poco non si sfiancasse nei lor petti il cuore quando mesto sì, ma
tranquillo si presentò dinanzi ad essi il Burlamacchi. Egli prevenne
ogni disonesta ricerca; chiesto ed ottenuto silenzio, a parte a parte
tutta la trama narrò ponendo diligentissima cura nello affermare sè
solo colpevole, non avere compagni, anzi averli aborriti perchè fosse
tutta sua la gloria della impresa: e parve bene dei magnanimi antichi
quando affermò tutto piacergli nel suo tentativo, l'animo, il fine,
la stessa morte; rincrescergli, e Dio sa quanto! se dovesse dalla non
riuscita averne danno o molestia la sua povera patria.

Coloro che col Burlamacchi non avevano mai consentito nè consentivano
adesso, ammirarono la costanza e la generosità dell'uomo; gli altri
non ammirarono nulla e, vie più temendo ch'egli mutasse di proposito,
instavano perchè della capitale e meritata pena senza indugio si
multasse; ma i primi prevalevano dicendo: Adagio ai ma' passi, e
posto il dito giusto sopra la piaga replicavano: Il subitaneo castigo
parrebbe vendetta, non giustizia, e peggio ancora gli avversari nostri
non senza ragione sospetterebbero: lo hanno morto perchè non parli,
sendo tutti tinti della medesima pece. Così mareggiando in diversi
pareri produssero la veglia fino alle sei della mattina; allora,
sentendosi rifiniti dalla fatica e dalla commozione, deliberarono
andare a riposarsi, non però prima di aver preso tutte le cautele
affinchè il Burlamacchi, fuggendo, non portasse via il più potente
documento della propria innocenza, la vita di lui: ormai avevano
compreso tutti come il miglior mezzo di scolparsi fosse levare le mani
tinte nel suo sangue gridando: «_Non è colpa in noi_!»

Pertanto gli anziani consegnarono il Burlamacchi a Sforza mazziero
perchè lo conducesse nelle stanze del gonfaloniere e quivi lo guardasse
a vista in compagnia di due targetti; se gli fuggisse, pena la vita.
Prima cura di Francesco ricondotto nelle sue stanze fu cercare la
lettera che innanzi la sua uscita di palazzo aveva scritto alla
Signoria e trovatala bruciò: rovistato quindi e frugato ogni cosa,
quanto gli occorse che potesse indurre remoto sospetto distrusse;
assicuratosi che veruno documento avrebbe detto più o diverso da quello
che avrebbe voluto confessare egli, dettò la dichiarazione la quale
per me sarà riportata nel seguente capitolo; poi adagiatosi sul letto,
dormì. Ma non dormirono gli anziani, stanchi invero, ma fieramente
agitati da passioni diverse; però prima assai dell'ora in cui eransi
data la posta convennero in palazzo; la paura non ha palpebre. Innanzi
tratto ognuno portava nuova provvista di odio contro il Burlamacchi,
cagione che il quieto loro vivere adesso si trovasse esposto a cimento,
quindi suprema cura di tutti porlo in sicuro: per la quale cosa,
radunato il consiglio maggiore, misero a partito, che fu vinto con
tutte le fave, dal palazzo si trasportasse Francesco Burlamacchi nella
torre con buonissima guardia, la quale lo custodisse a vista giorno e
notte perchè non pure ei non fuggisse, che questo credevano difficile,
ma nè anco potesse darsi la morte. A tale uffizio preposero Iacopo
Lioni mazziere, dandogli certo numero di targetti che di due ore in
due ore mutassero, e così vispi sempre lo tenessero d'occhio; ancora
fecero espresso comandamento al mazziere che non pigliasse da casa sua
nè da altri cosa alcuna così al vivere come al vestire necessaria, chè
tutto aríeno provvisto gl'illustrissimi anziani. Di più costituirono
Alberto Capparoni maestro di casa della Signoria alla custodia della
torre, dandogliene la chiave, e lo stesso Burlamacchi consegnandogli
per istrumento pubblico: il Capparoni accettò l'ufficio, o perchè non
potesse fare a meno, o perchè piace a cui sta sotto saltare quando
capita sul collo ai superiori, sia pure carceriere o carnefice; però ci
pose per patto che gli fornissero gente da poterle rilevare, sicchè la
squisita vigilanza non venisse mai a languire.

I padri, consultato il negozio con più maturo consiglio, trovarono
sempre maggiore argomento di spaventarsi: pareva loro impossibile
che, correndo tempi pieni di mutazioni e vivendo uomini per natura
e per abito sospettosi, si piegassero a credere Lucca incolpevole,
anzi affatto inconscia della trama del suo gonfaloniere: se il papa
o se l'imperatore pigliavano in odio la Repubblica, questa poteva
apparecchiarsi a fare il suo testamento; e presso entrambi doppia
l'accusa, epperò più difficile la difesa: al papa sarebbe premuto più
la eresia, meno la ribellione, allo imperatore viceversa; la batteva
tra la corda e la mannaia: quindi non è a dirsi se cotesti padri
sentissero salirsi il freddo su per le ossa. Più che tutto tremavano
di Cosimo duca di Firenze, genio malo; per istinto tigre, per potenza
gatto; Tiberio nano, pure, non potendo sbranare, rodeva; e questa
sua facoltà esercitava quotidianamente ai danni di Siena e di Lucca:
a Siena rôse pur troppo: parricida, incestuoso, di eretici amico
e ausiliatore, e nonostante questo ligio ai pontefici, zelatore di
religiose susperstizioni e traditore del Carnesecchi. In tanto estremo
loro non sovvenne lì su due piedi più sicuro consiglio oltre quello di
mandare subito oratori ai principi italiani per giustificare la città e
tenerseli bene edificati, sicchè tosto ne spedirono a Napoli, a Roma,
a Genova, a Ferrara, a Bologna ed a Mantova: più solenne ambasceria
fecero allo imperatore, nè trascurarono il concilio di Trento,
presso cui ebbero difensore interessato sì ma efficace il cardinale
Guidiccioni. Però sopra gli altri premeva Cosimo; onde statuirono
spedirgli il più astuto dei loro cancellieri, e tale giudicarono che
fosse Gherando Macarini: ancora mandarono significando ai cittadini
lucchesi i quali o per ragione di mercatura o per vaghezza ovvero
per ufficio si trovavano sparsi pel mondo che, per quanto avessero
cara la patria e la grazia del senato, attestassero presso principi
e repubbliche della innocenza della repubblica nello attentato del
Burlamacchi; così i Lucchesi studiavano purgarsi dalla partecipazione
del gesto generoso con la solerzia che il reo mette a scolparsi del
delitto. I Lucchesi eseguirono il comando del senato con amore, se
con frutto non so; fecero quello che i nostri diarii fanno, però
gratuitamente, la quale cosa i nostri moderni diarii non fanno.

Il cancelliere Macarini, giunto alla presenza di Cosimo, con prolisso
discorso gli espose lo accaduto; il quale dopo ch'egli ebbe udito
con singolare pazienza, rispose: «Lo sapeva; la è stata una follia,
una cosa da non darsene pensiero: non ci ha mestieri sforzo di fede
per andare persuasi che i Signori lucchesi, così compassati, usi a
non movere passo senza il pegno in mano, volessero ficcarsi giù a
scavezzacollo in siffatto selcieto. Cancelliere, non istate a spendere
più altre parole, voi predichereste ai convertiti.»

Al cancelliere Macarini venne tanto di cuore vedendo come agevolmente
fosse riuscito nella sua commissione; e quasi stava per giudicare
Cosimo migliore della sua fama, accorto sì, ma giusto principe, quando
questi sempre con voce blanda soggiunse:

«Però, cancelliere dolcissimo, voi comprenderete di leggieri col vostro
savio intendimento che, come io, non tutti la crederanno secondochè voi
la contate e com'è; però il meglio sarebbe che voi consegnaste a me il
Burlamacchi, ond'io facessi fabbricare il suo processo qui in Firenze
dai miei giudici; così veruno dubiterebbe che io ne avessi spremuto il
vero, e vi so dire ch'io lo so spillare.»

«La non pare proposta che cammini bene in gambe, imperciocchè ogni
stato vada giustamente geloso della sua giurisdizione, e la Signoria
Vostra Serenissima è qui per insegnarmelo», riprese il Lucchese
mascagno.

«Certo questo non si può negare, ma nei casi straordinari è mestieri
regolarci come possiamo, non come vogliamo.»

«Però io non mi persuado perchè altri deva diffidare della lealtà della
Repubblica, molto più che noi circonderemo questo processo di tali è
tante cautele da appagare i più sospettosi.»

«Ed io pure adopererei come proponete voi: anzi io non mi oppongo a che
i giudici sieno tanti e tanti; cioè mezzi lucchesi e mezzi fiorentini.»

«Serenissimo, non sono i giudici quelli che mettono in pensiero,
bensì la tortura, l'eculeo e gli altri tormenti di cui voi siete in
abbondanza fornito.»

«Forse ne vanno sprovvisti i vostri?»

«No, ma voi sapete che tutto sta nello adoperarli.»

«Or bene io mi obbligo, per fede a rendervelo vivo.»

«Serenissimo, rispose il Macarini guardandolo dentro gli occhi,
nell'attimo che precede la morte l'uomo non è vivo?»

«Voi, ben me ne accorgo, a verun patto consentite consegnarmi il vostro
gonfaloniere. Volete sapere che cosa ne dirà l'universale? Dirà che
voi repugnate a lasciarvelo scappare di mano per paura ch'egli confessi
cose le quali palesino la ribellione di cotesta vostra repubblica alla
maestà dell'impero ed alla dottrina di santa madre Chiesa.»

«Serenissimo, per quanto mi è dato conoscere, io vi assicuro diversa
affatto la causa per cui i Signori rifuggono dal commettere in balía
vostra la vita di Francesco Burlamacchi.»

«E quale dunque? Parlate.»

«Per obbedienza al comandamento della Serenità Vostra io parlerò:
penso, e, così dicendo, se non imbrocco, rasento il vero, che i
miei Signori temano che voi per forza di tormenti facciate dire al
Burlamacchi non quello ch'è vero, bensì quello che gioverebbe al vostro
fine di disservire la Repubblica presso l'imperatore e il pontefice.
Per altra parte a me fa difetto la commissione per negoziare simile
faccenda: piacciavi, se così vi talenta, indirizzarvi alla Signoria.»

E Cosimo, che non si dava agevolmente per vinto, quindi a breve spedi
suo oratore alla Repubblica messere Agnolo Niccolini, uomo sagace,
devotissimo a lui, onde aguzzasse il suo ingegno per farglielo avere.
Il panno mostrava troppo la corda, sicchè da un lato cresceva la
tenacità a negarle alla stregua che dall'altro diventava più intensa la
smania di volerlo. Parole molte, anzi infinite, scaltrimenti sottili
e scherma da disgradarne i più scaltriti negoziatori, profferte
e carezze, tutto riuscì invano: oltre alle ragioni già riferite,
il Niccolini allegava come veruno meglio del duca fosse impegnato
a scoprire proprio come la fosse ita la faccenda; e veruno essere
provveduto meglio di lui degli arnesi adattati a questo. Lucca, luogo
oltre ogni credere male acconcio a formare il processo; imperciocchè,
messa da parte qualunque complicità dal lato dei concittadini e dei
parenti del Burlamacchi, egli era naturale almeno che i congiunti,
gli amici ed i clienti della sua casa e suoi di ogni pruno facessero
siepe per arruffare le prove e sottrarlo al castigo: si lasciassero
servire. Ma i Lucchesi, che non si volevano lasciare servire, volendosi
salvare dall'ardente molestia, altro scampo non trovarono che dirgli:
il fatto del Burlamacchi come attentatorio alla maestà dello impero
doversi denunziare a cesare, il quale nel suo consiglio ordinerebbe
quello che avessero a fare. — Cosimo sentì la botta; rise sottile,
nè potendo pararla, risposo: «Giusto! Anco a lui pareva così: non si
potevano i Signori riporre in migliori mani di quelle di cesare»; e
volse raddoppiati i suoi conati in corte dello imperatore per avere il
Burlamacchi, argomento per lui di terrore e arnese buono ad allargargli
il principato.



CAPITOLO VIII.

   Lucchesi, paurosi che il caso del Burlamacchi possa danneggiarli,
   fanno profferte vilissime a cesare. — Due volte mandansi oratori
   ai principi per tenerseli bene edificati. — Manoscritto originale
   del processo si conserva negli archivi di Lucca. — Quali le
   aderenze del Burlamacchi nelle città toscane. — Corrispondenze
   co' Sanesi quali. — Sua virtù a scolpare l'Umidi, che pure lo
   aveva tradito. — Confessa lui essere buono cattolico, e non
   ci si crede. — Testimonianze soppresse ed ora restituite. — E
   messo al tormento, altezza di animo dimostrata da lui in cotesto
   frangente. — Scrive allo imperatore ed al gonfaloniere di Lucca:
   della prima lettera non trovammo traccia; forse conservasi negli
   archivi di Vienna; pure se ne conosce il contenuto e si dichiara:
   si riporta la lettera del Burlamacchi al gonfaloniere. — Che cosa
   egli e gli Strozzi intendessero fare di Cosimo duca di Firenze.
   — Torturato da capo. — Smanie di Cosimo per avere nelle mani il
   Burlamacchi. — Lettera del duca Cosimo in corte allo imperatore
   per ottenere il suo intento. — Ferrante Gonzaga governatore di
   Milano manda un commissario imperiale per rinnovare gli esami del
   Burlamacchi. — Martoriato di capo: da sè spogliasi e si adatta
   alla corda. — Minacciato della prova del fuoco, da cui per pietà
   il commissario si rimane. — Terminato il processo, il commissario
   torna a Milano con due istanze contrarie: il duca voleva il
   Burlamacchi, e la Repubblica non glielo voleva dare. — Richiesto
   a Milano: squisite diligenze per custodirlo e perchè: si consegna
   con pubblico contratto: è messo in prigione onesta, ma dopo
   pochi giorni condannato a morte. — Tentativi degli amici e dei
   parenti del Burlamacchi per liberarlo. — Il Gonzaga dà buone
   parole; memoriali allo imperatore. — Andrea Doria raccomanda il
   Burlamacchi allo imperatore. — Per salvare Francesco, spendono
   in corte i parenti più di 36m. ff. — La moglie del Burlamacchi,
   la madre e l'amica di Cosimo pregano costui per la salvezza di
   Francesco, e risposta del duca. — Tentasi la fuga: disdetta onde
   non potè avere luogo: se vero o verosimile il caso. — Compagni
   di prigionia; chi fosse il marchese Giulio Cibo Malaspina. —
   Vengono per la tirannide le vendemmie di sangue: quali le cause
   che mossero cesare a incrudelire, e tra queste le principali.
   — Ultimi particolari della vita di Francesco Burlamacchi. — Sua
   sepoltura; potrebbero rinvenirsene le ossa. — Sebastiano Carletti
   si salva. — Fine miserabile di Cesare Benedino decapitato 14 anni
   dopo la congiura. — Commiato dello Autore.


Affannosi per paura, i Lucchesi mediante autorevoli oratori
significavano a cesare avere incominciato gli esami del Burlamacchi;
essere parso per maggiore solennità spediente aggiungere agli ordinari
auditori di Rota diciotto cittadini dei primi non che il magistrato dei
segretari; però, qualora egli temesse di parzialità per lo accusato,
confessarsi paratissimi tutti a consegnarglielo, a patto però che in
qualche città imperiale e da giudici suoi si esaminasse, ma in balía
del duca Cosimo per cosa al mondo non si commettesse: ovvero, se meglio
gli talentasse, ponesse un suo commissario a capo del tribunale di
Lucca. Dagli oratori spediti ai principi non ricevendo confortanti
novelle, spedirono altri personaggi di maggiore autorità presso i
medesimi e presso altri stati per propiziarsene i principi; di questi
ricorda il nome la Cronaca manoscritta di Nicola Tucci, ed io qui li
scrivo: il dottore Cesare Nobili andò al duca di Ferrara, Vincenzo
suo fratello alla città di Bologna; il dottore Bernardino dei Medici
al duca di Mantova; presso il pontefice furono deputati tre, Vincenzo
Parensi dottore, Francesco Cenami e il cardinale Guidiccioni vescovo
di Lucca; presso i legati apostolici e gli ambasciatori dei principi
concorsi al concilio di Trento il vescovo dei Nobili.

Intanto erano incominciati gli esami; questo processo si conserva
a Lucca nello archivio di stato, e fu impresso nella monografia
del Minutoli comechè con parecchie lacune: da questo ricaviamo come
Francesco Burlamacchi, toccati gli evangeli, si obbligò con giuramento
di confessare la verità senza mestieri torture; quello ch'ei disse
nella massima parte fu da noi riferito nel precedente capitolo;
non complici rivelò non compagni, eccetto il Benedino e il Carletto
impossibile a celarsi; nel secondo interrogatorio, oltre Bastiano,
denunciò Giovambattista Carletti; interrogato perchè nel suo primo
esame lo avesse taciuto rispose: «Per dargli tempo a mettersi in
salvo.» Incentivo alla impresa la continua lettura delle vite di
Plutarco, massime dei quattro incliti capitani Timoleone, Pelopida,
Dione ed Arato, i quali con pochissima gente avevano operato grandi
cose: su questi pensieri essere rimasto sei mesi e forse un anno senza
aprirsi con persona: non si pente del concepito disegno, sfortunato
sì, non ingeneroso; solo gli dorrebbe d'ineffabile amarezza se dovesse
recare nocumento alla carissima patria ed ai cittadini diletti:
disse ignorare la causa per la quale gli fu contesa l'uscita; non
incolparne persona; tale ravvisa essere stata la volontà di Dio. E
tale favellò il magnanimo per non lasciarsi dietro una maledetta
traccia di rancori e di vendette; poco mostrò calergli la morte;
anzi, mancata la impresa, rincrescergli la vita; ben premergli
la fama e questa sperare si sarebbe mantenuta perenne fra i pochi
gentili presso cui fortuna non vale virtù. — Certo avere di lunga mano
disposta la materia acquistandosi da per tutto aderenze e cercando
ogni via di mettersi in grazia alla gente non solo di Lucca ma fuori,
massime nelle città toscane; così in Pisa, pigliando occasione dal
sequestro di non so quali bestie e di taluni contadini, rinnovò col
provveditore dei Capponi l'amicizia antica durata fra le due case;
essersi reso benevolo a Pescia il capitano Bastiano Galeotti col
pregarlo di tenergli al fonte battesimale un suo figliuolo, ed indi
in poi coltivato con lui buona amistanza. In Barga noverare amici
sviscerati Cristoforo Merighi e il fratel suo, come quelli che in
grazia di lui erano stati richiamati dal bando e mercè ampissimo
indulto rimessi a casa; se però togli simili offici di amicizia,
onde ei riputandoli amorevoli, confidava che in caso di bisogno gli
avrebbero fatto spalla o almeno non abbandonato; nè anco per ombra aver
loro fatto subodorare il concepito disegno. Immaginava che i quattro
gentiluomini sanesi rilegati a Lucca gli dovessero essere parziali sul
fondamento che vivendo essi fuoriusciti di patria, non sarebbe loro
parso vero di ritornarci per via onorata; però con messere Antonio
Vecchi avere favellato una volta sola e di novelle del tutto aliene al
suo concetto. Col cavaliere de' Landucci parlò due volte, una a San
Gemignano, l'altra in palazzo, ed in ambedue gli tenne proposito di
questa sua opinione dimostrandogli quanto buona e santa cosa sarebbe
se la riuscisse; al che egli rispose: «Qui sta il punto.» Egli,
per fargli toccare con mano come con minori forze maggiori imprese
fossero tentate e compite, gli mandò il Plutarco raccomandandogli
leggesse le vite dei quattro magnanimi quivi segnate; se non che il
Landucci alcuni giorni dopo gli rese il libro dicendogli ch'ell'erano
fantasticherie cotesti racconti buoni per farsi a veglia; egli avergli
maladettamente in uggia. Al Sergardi ne tenne proposito due volte o
tre ma su le generali, come sarebbe a dire; che divina impresa sarebbe
unire la Toscana in uno stato solo, nella quale ognuno dovrebbe
chiamarsi contento di mettere la roba e la vita; a cui il Sergardi
rispose sempre: «Pur troppo, ma i tempi correre ormai contrari a simili
disegni.»

Fu interrogato su l'Umidi, lo indegno uomo che per viltà rese male
per bene, e al Burlamacchi per sicuro avrà sussultato fieramente il
cuore nel vederselo comparire davanti; ma che sarebbe virtù se non
vincesse queste prove? Francesco, senza pur mirarlo in faccia, onde il
suo sguardo, malgrado lui, non lo avvilisse, e badando a non alterare
la voce, confessò sul conto suo nè più nè meno di quello che depose
intorno al cavaliere dei Landucci; vo' dire com'egli fosse non pure
alieno, ma schernitore del disegno immaginato da lui; depose altresì
essere buono e fedele cattolico, non avere mancato di confessarsi e
comunicarsi cotesto anno a Ferrara; e questo avere fatto costantemente
negli anni scorsi.

Ciò non era vero quanto al sentirsi buon cattolico, circa all'essersi
confessato e comunicato può darsi, ma l'erano lustre per parere;
ed a questo proposito parmi importante a sapersi come un Tomeo
Maniscalco testimone interrogato intorno alla fede del Burlamacchi così
rispondesse: «dixe che un giorno vidde il ditto Francesco passeggiare
in una chiesa con frate per dui hore in circa, et li parava che
ragionassero dei lutherani e non sa di che ordine fusse quel frate,
ma che era vestito di nero per quello che si ricorda.» Di ciò non
occorre traccia negli atti del processo mandati fuori per le stampe dal
Minutoli, come pure della risposta data dal Bati allo interrogatorio
se sapesse il suo padrone essersi confessato a Ferrara: «dixe non
saperlo»: però i Cronisti manoscritti Tucci, Penintesi Dalli ed altri
parecchi difendono a spada tratta il Burlamacchi dall'accusa di eresia;
l'affannosa difesa somministra il più veemente indizio della colpa;
poichè in cotesti tempi in Italia era colpa e meritevole di morte
non professarsi cattolico apostolico romano. — Questo suo primo esame
conchiuse affermando che la sua impresa, se la non si fosse scoperta,
sarebbe riuscita per fermo, ed a giudizio suo oggi lo crede più che
mai.

Fin qui sembra che non adoperassero tortura; a questa ricorsero il
primo di settembre: in quel dì egli confermò le cose già dette, altre
ne aggiunse le quali riferimmo nel capitolo antecedente; negò risoluto
aver complici; interrogato se unendosi agli Strozzi avesse concepito
qualche convegno di spartirsi con esso loro la Toscana, risoluto
risponde: «No mai, era mio intento metterla in libertà e conservarla
con la buona voluntà del popolo, e esso disegnava vivere da cittadino
privato.»

Apporta inestimabile contentezza all'animo del lettore contristato da
tanti esempi di odierna viltà la bella natura di Francesco, che, di
nulla pensoso tranne della cara patria, a cui teme riuscire troppo
molesto, si studia purgarla da ogni sospetto di connivenza con lui,
sicchè in mezzo ai tormenti attesta: «solo di questo avere assicurato
il priore di Capua, che, quando si fosse venuto al menar delle mani,
la città di Lucca era necessitata favorire la impresa con armi e con
denari, perchè non si saria potuta giustificare che senza il consenso
suo si fosse mostro un tale accidente.»

Restituito in carcere, chiese ed ottenne dai padri facultà di scrivere;
al quale scopo gli furono concessi due fogli, dove vergò due lettere
una per Carlo V imperatore e l'altra pel gonfaloniere e gli anziani:
della prima non occorre nei nostri archivi vestigio nè vi si può
trovare, perchè fu lettera segreta e diretta allo imperatore: tuttavia
ci è dato argomentare che cosa contenesse; imperciocchè, interrogato
nel 3 settembre dagli esaminatori sul tenore della medesima, rispose
che dove gli fosse riuscito il disegno di unire insieme la Toscana,
egli si sarebbe condotto, ovvero avrebbe o mandato o scritto a S.
M. lo imperatore per pregarlo di venire dalle parti di qua e vedere
di mettere un po' a sesto le faccende della Chiesa, riformandola dai
molti abusi che ci sono e riducendola ad uniformità di opinioni; il che
_poteva riuscirgli con levarle l'entrate lassandole godere a quelli che
l'havevano adesso, e doppo la morte loro l'applicasse o al pubblico o
a sovventione di poveri segondo che li fusse parso meglio, che questo
harebbe contentato gli Alemanni e riduttoli alla obbedientia sua, li
quali non desideravano altro. Et che lo harebbe essortato a pigliare
la via di Roma e con lo aiuto di detti Alemanni e della Toschana a
farsi imperatore di Roma, parendogli sia male si domandi imperatore
dei Romani e che non li comandi; e che questo gli sarebbe facilmente
riuscito con soprascritto aiuto e con avere lì vicino il reame di
Napoli e della parte in Roma._

Di leggieri si comprende che coteste erano girandole per ingrazianirsi
lo imperatore, e a noi sembra per lo manco strano che con essi si
augurasse il Burlamacchi di agguindolarlo, molto più che quegli aveva
voce o noce di essere maliziato più di volpe vecchia; ma anco delle
volpi se ne piglia, e vedremo che cotesto partito inefficace affatto
non fu; forse se altri casi non cospiravano a danno del Burlamacchi,
aveva salva la vita[23]. Se però non ci fu dato rintracciare la lettera
del Burlamacchi allo imperatore, che forse non sarebbe difficile
rinvenire negli archivi di Vienna, miglior ventura ci toccò di quella
mandata al gonfaloniere, la quale, come cosa di molta rarità, qui offro
stampata al lettore:

                 «MOLTO MAGNIFICO SIGNORE GONFALONIERE.

«Io ho desiderato havere modo di scrivere per la causa che VS. vederà,
et questo è per potere scrivere una lettera a S. M., la quale ho
scritto e sarà con questa, e il modo che avesse a tornare in benefitio
grande di quella non l'haveo conferita a persona, ma me l'haveo
serbata in me, pensando che, avendo effetto la impresa, tutto havesse
a riuscire, nè mi è parso dirla alli signori giudici di Rota e altri
cittadini; et quando la Signoria Vostra et i secretari la vorranno
udire, non li dispiacerà. Et il mandare questa lettera a S. M. non mi
pare che possi tornare in danno alla città, anzi utile, e mandarla per
mezzo di Niccolò Burlamacchi, che potrà farci andare Gherardo in poste,
e anco havesse questa spesa siando stato lui et Pietro causa che sin
qui so che non mancherà di sopportarla, et anco parendo potrem mandarla
per dui vie, uno per via ordinaria e l'altro per via di Svizzeri e
di Agusta; che non potendo andare da S. M. quelli nostri amici di là
non mancheran fare di ottenere chi vi andasse, e a SV. quanto posso
mi raccomando, e come dissi a tutti con contento, ho che, havendovi
tutti per amici e parenti alcuni, so che del mal mio ne havete tutti
dispiacere quanto io. Et a Dio piaccia di tenere VS. in sua buona
guardia.»

                                                    _Di VS. Serv._
                                                FRANCESCO BURLAMACCHI.

In parte questa lettera corre senza sintassi; ma con lui che aveva le
braccia slogate dalla tortura e temeva peggio non si vuole procedere
troppo difficili. Questo a me, sembra che si palesi chiaro come il
Burlamacchi, secondo la opinione di quanti Italiani ebbero fior di
senno, pensò come la Italia non potesse avere salute mai dove il
cattolicesimo dalla sovranità temporale non si sceverasse. Un'altra
dichiarazione fece il Burlamacchi che certo si poteva risparmiare,
conciossiachè non gli venisse affatto creduta, nè egli potè augurarsi
che gliela credessero, ed è che, occupata la Toscana e messe le mani
addosso, non avrebbero fatto punto male al duca Cosimo: al contrario,
ridottolo in condizione cittadinesca, oltre lasciargli i beni propri,
gli aríeno egli e gli Strozzi stanziato 20 / m S. di pensione, ponendo
in sua balía lo stare o l'andare. Se fra gli Strozzi e i Medici, emuli
antichi, debitori scambievolmente e creditori d'ingiurie, di sangue
e di guasto negli averi, potessero correre le cose a quel modo lascio
che giudichi chi legge. Per ultimo conchiusero col solito _gloria_: «Li
signori essaminatori, per cognoscere meglio la verità, comandarno che
detto costituto fosse legato alla corda, tormentato e in alto levato
e quassato se a lor signori parrà. Et alzato da terra in alto per il
_cavaliere_ e suoi birri; domandato di nuovo, dixe non avere altro che
dire, e havere detta tutta la verità. Et allora comandarno che fusse
quassato, e di nuovo interrogato replicò come di sopra e non havere
altro che dire. Et allora li prefati signori examinatori, vedendo la
risposta, costantia e perseveratione del ditto costituto così senza
tortura come con torture, comandorno esso costituto essere sciolto e
riposto nelle ditte carceri con animo di continuare l'examine se a loro
parrà conveniente e cosa consona alla ragione».

Ma Cosimo non si poteva dare pace di non avere il Burlamacchi
nell'ugne; e tu lo vedi irrequieto a far fuoco nell'orcio perchè glielo
consegnino, mentre aveva detto e ripetuto a squarciagola il Burlamacchi
_sciocco, folle_; la sua potenza assodata così su le armi e nel cuore
dei sudditi da non temere crollo di fortuna nè malevoglienza di uomini,
adesso dalle sue stesse lettere ti chiarirai com'ei non credesse punto
a quello che diceva, anzi sbertava i Lucchesi, i quali anfanavano per
dare ad intendere il Burlamacchi uomo che avesse mandato a rimpedulare
il cervello; «davvero, scrive Cosimo, quanto sia verosimile che il
gonfaloniere è persona capricciosa et pazza, lo dimostra il luogo
supremo che tenea di quella Signoria, l'officio di commissario della
militia loro.» Dichiara come, mosso non tanto dallo studio del proprio
interesse quanto per servizio di Sua Maestà, mandasse subito oratori
a Lucca perchè gli consegnassero il Burlamacchi; alla quale inchiesta
avere i Signori lucchesi opposto sempre pertinace rifiuto, _come quelli
(pensiamo noi) che debbono sapere che costui ha in corpo molto più di
quello che loro hanno mandato fuora, e non vogliono si propali, maxime
che dei compiici e fautori ce ne debbono essere assai della loro città
et d'altronde, e forse persone d'importanza_; per ciò si raccomanda
che nel modo stesso che S. M. compiacque i Lucchesi del Fatinello
ponendolo nelle costoro mani affinchè lo esaminassero e punissero, così
lui Cosimo gratificasse del Burlamacchi per esaminarlo nelle sue mani
perchè si sappia lo intero di questo trattato _e per il suo e per il
nostro interesse_[24].

Per levarsi dattorno cotesto assillo, don Ferrante Gonzaga governatore
di Milano, certamente per ordine di Carlo V, giudicò opportuno spedire
persona esperta e fidata a rinnovare gli esami a Lucca con la speranza
che tanto sarebbe bastato all'indole sospettosa del duca. A tale uopo
mandò a Lucca un dottore Girolamo Belloni da Casale di Monferrato
col titolo e il nome di commissario imperiale; trovo in qualche
cronista rammentato come costui innanzi di recarsi a Lucca passasse
per conferire con Cosimo da Firenze, e può darsi; certo egli è poi
che, terminati gli esami, ritornò a Firenze, senza dubbio per darne
al medesimo particolarmente ragguaglio: se altro fra loro rimanesse
stabilito ignoriamo.

Pertanto il senatore Belloni ripigliava gli esami del Burlamacchi la
sera del mercoledì 13 ottobre 1546, i quali, continuati nei giorni
14 e 18 del medesimo mese, furono chiusi nel dì successivo 19. —
In questi esami egli confermò in sostanza le cose già confessate;
altro non poter dire; dove bisogni, si chiama pronto a patire il
martirio e tutto quanto al signor commissario parerà di ragione: però
nella notte del diciotto ottobre egli non fu estratto di carcere,
all'opposto il commissario andò nella prigione del palazzo di Lucca,
dove stava custodito il Burlamacchi, ed ordinò che quivi adattassero
il curlo. Qui interrogato se avesse detto la verità e se avesse
cosa da aggiungere ovvero mutare, poichè ebbe alle diverse domande
rispettivamente risposto sì o no, al commissario cesareo parve bene
ch'ei fosse spogliato, legato ed alzato, onde con la prova della
tortura confermasse ovvero smentisse lo esposto.

Qual cuore fosse quello del nostro eroe nel vedersi in così misero
stato, pensi chi legge; pure, chiudendo in sè la passione, non turba
il sembiante nè aggronda i sopraccigli; da sè spogliasi, da sè si pone
alla corda[25]; dove legato, lo alzano da quattro braccia sopra il
pavimento e quivi lo lasciano a cotesto modo sospeso. Il commissario,
passato alcun tempo, al fine che il peso del corpo aggravandosi
slogasse le braccia e ne stirasse angosciosamente i muscoli, con voce
pacata riprese: «Dite la verità degli altri complici più di quello
che abbiate detto, massime dei signori Sanesi.» E il magnanimo a sua
posta: «Ah! signor commissario, che io sono morto, le ho detto la
verità, ahimè!» Il commissario allora, per rispondere al richiamo che
cotesto infelice faceva alla sua pietà, ordinò lo sollevassero qualche
altro braccio di più e poi lo lasciassero ire giù a piombo[26]: questo
chiamavasi squasso ed anco strappata; e se i meschini sentissero
strapparsi, Dio ve lo dica per me.

Il giorno dopo il buon senatore tornava ai tormenti per ispuntarla:
così gl'insegnava il suo mestiere, ed è precetto antico che bisogna
battere il ferro quando è caldo; nè io di lui mi dolgo nè lo maledico;
a quel mo' in cotesti tempi persuadeva la scienza, e noi meritamente
lo riprendiamo barbaro; forse e senza forse più tardi gli uomini
censureranno incivile quello che adesso la scienza insegna come dogma
dalle cattedre: un po' di modestia non fa male a nessuno, nè anco alla
scienza.

Pertanto il commissario entrato nella carcere del Burlamacchi il 19
ottobre 1546, di nuovo lo ricercava a dire tutta ed intera la verità:
a cui il tormentato rispondeva traendo guai: «Ahimè! Signore, che cosa
volete che io dica se tutto quello che sapeva fu da me liberamente
confessato? Forse quanto confessai alla mia morte non basta? Non avete,
signore, la cosa chiara? Di grazia fatemi tagliare più presto la testa
che tormentarmi tanto; non vedete ch'io sono tutto stroppiato?»

Il commissario soggiunse: «Dio sa se me ne duole nell'anima, ma le
mie istruzioni m'impongono che con le ultime prove io mi adoperi a
strapparvi di bocca la intera verità, che voi pur troppo mi celate in
parte:»

«Nulla vi ho celato.»

«Forse quanto a voi sì; no per certo quanto ai vostri compiici.»

«Vi ripeto che non mi diedi compagni; temendo m'invidiassero l'alta
impresa di _ridurre in buon vivere e in libertà questi cristiani_.»

«_Questo non toccava a voi._»

«_Toccava allo imperatore._»

«_Perchè dunque non ne lasciavate la cura a S. M.?_»

«_E qui sta il mio errore_: io ho rotto, io pago. Quale tormento mi
avanza a patire?»

«Ahimè! oltre ogni immaginativa orribile: vi chiuderà il
_cavaliere_[27] le gambe in grossi e pesanti ceppi, sicchè siate
costretto a tenerle ferme, e dopo avervi unto di sego le ignude piante
dei piedi, vi ci accosterà mano a mano carboni ardenti finchè tutte non
le abbia abbrustolite il fuoco....»

«Orribile cosa invero.... Dio mi aiuti! io sono nelle vostre mani.»

Allora il commissario ordinò lo scalzassero e portassero il fuoco:
intanto che gli serravano dentro i ceppi le gambe, lo andava stringendo
perchè dicesse intera la verità; terrori mesceva a speranze, minacce a
preghiere; ma l'altro imperterrito ripeteva:

«_Signore, io non so che mai dirvi altro, perchè ho detto tutta la
verità, e mai dirò altro di quello che ho detto_[28].»

«Il che vedendo, aggiunge il processo allegato[29], lo prefato signor
commissario e cognoscendo la ferma costantia del detto Burlamacchi,
atteso li tormenti hauti e lo apparato del foco fattoli come sopra,
e anchora attesa la età e delicatezza del suddetto Burlamacchi, che
non patirìa tanti tormenti se altro sapesse, ordinò fusse lassato e
non tormentato: e così fu dimisso in detta carcere con la medesima
custodia.»

Compito il processo secondochè parve al senatore Belloni, se ne tornò
a Milano portatore di opposte istanze, le une per la parte di Cosimo
intorato più che mai a volerlo nelle ugne, le altre dei Signori di
Lucca a non volerglielo dare; s'egli questi più di quello favorisse
ignoro; forse avrà preso lo ingoffo da ambedue le parti e poi avrà
lasciato andare l'acqua per la china; anco a quei tempi pigliavasi, non
quanto adesso, ma quasi. — Però Ferrante Gonzaga, in apparenza amico
a Cosimo, in cuore lo aveva caro quanto il fumo agli occhi; onde è
dato presumere che in cotesta come in altre occasioni lo disservisse;
di vero venne comandamento espresso dallo imperatore che il prigione
si trasportasse a Milano e quivi senza dare luogo ad altre prove,
esaminata la causa, pronunziassero la sentenza. Se fosse stato di oro,
non si sarebbe posta maggiore diligenza a custodire nè a consegnare il
Burlamacchi: alla tremenda paura del senato lucchese premeva che quello
sventurato arrivasse in vita a Milano per remuovere ogni suspicione
e calunnia; colà giunto vivo, quanto più presto si poteva cessasse.
Impertanto venne di Lombardia a prenderlo il bargello con due squadre
di sbirri; i Lucchesi lo mandarono guardato da una compagnia di
milizia ai confini; colà trovarono il notaro ser Francesco Pauli, che
a richiesta del commissario lucchese rogò atto pubblico di consegna;
il quale il bargello lombardo ebbe a segnare prima che in sue mani
depositassero Francesco nostro. Senza impedimento che ne importunasse
il cammino, arrivato a Milano, fu messo in onesta carcere in castello,
concedendogli fino dal primo giorno facoltà di moversi liberamente pei
piazzali, ma, quasi in contrasto alla non bieca accoglienza, dopo pochi
giorni gli fu letta la sentenza con la quale veniva condannato nel capo
lui e Giovambattista Carletti, che insieme con esso era stato tradotto
a Milano. Per quanto è dato giudicare, sembra che lo imperatore
adoperasse a quel modo per sottrarsi alle molestie di Cosimo, pensando
che smettesse ogni pensiero su lui, come uomo ormai sfidato e morto.

Gli amici e i parenti del Burlamacchi, commossi dal pericolo di quel
caro capo, tutti si posero a tentare qualunque via per salvarlo:
ora vedremo come nulla per loro si pretermettesse e come nulla o per
malvolere degli uomini o per disdetta di fortuna approdasse. Da prima
a bene sperare furono cagione le parole confortevoli di don Ferrante
Gonzaga, a cui essendo stato indiritto messere Domenico Sandonini per
propiziarlo alla causa del Burlamacchi, n'ebbe in risposta: quetassero
l'animo agitato, però che il dabbene uomo rimarrebbe per alcun tempo
e forse lungo prigione, ma camperebbe la vita; nè si fermarono a
questo gli amorevoli ed i congiunti di Francesco, chè supplicarono il
consiglio di Lucca a fare loro abilità di sottomettere memoriali a S.
M. lo imperatore ed al duca Cosimo affinchè volessero graziare il reo
della vita, attesochè avesse cotesto fallo commesso più per ignoranza
che per malignità e nulla mandato ad esecuzione, onde i suoi concetti
si riducevano a meri sogni ed a immaginazioni senza danno pubblico nè
privato. Parve la domanda giusta al senato, che facilmente la concesse;
e composti subito due memoriali per virtù di ragioni e per garbo di
dettatura notabili, gli affidarono a Girolamo Lucchesi suo cugino,
il quale senza perdere tempo si mise la via fra le gambe andando a
presentarli ai principi a cui erano rivolti: e poichè se di alcuna
cosa si patisce penuria nelle corti, non è certo di buone parole,
così il Lucchesi di queste ebbe piene le bolge; però, non si fidando,
i benevoli di Francesco persuasero Niccolaio suo fratello, il quale
più che volentieri ne tolse il carico, di recarsi a Genova presso il
principe Andrea Doria e quivi tanto destreggiarsi con lui da potergli
cavare di sotto lettere commendatizie per quanto possibile fosse
premurose da presentarsi allo imperatore, essendo ormai noto pel mondo
quanto godesse credito il principe nella corte imperiale: e a vero
dire Andrea, sentendo compassione dell'uomo, non fu restio a scrivere
lettere caldissime in pro' di lui. Giunto in corte Niccolaio, esperto
troppo che colà come altrove, ma più là che altrove le ruote senza olio
non girano, cercò gratificarsi co' doni i maggiorenti, i quali quanto
larghi a promettere così mostraronsi scarsi a mantenere, chè il vender
fumo è pure mestiere speciale a cui sta in corte: io trovo nei cronisti
lucchesi che la casa Burlamacchi gittò a tale effetto in cotesto fondo
fino a trentaseimila ducati, e mi paiono troppi; ma siccome aggiungono
che per così eccessivo dispendio i Burlamacchi impoverirono, siamo in
certa guisa costretti a crederli. Silvestro Trenta fratello di Caterina
moglie di Francesco consigliò la desolata di andare a gettarsi ai
piedi di Cosimo per impetrare la grazia del marito; il Minutoli scrive
che la donna prima implorasse e ottenesse il patrocinio della madre
di Cosimo, mentre il Mazzarosa afferma che non alla madre si rivolse
ella, bensì all'amica, forse la Cammilla Martelli; ed io credo l'ultimo
perchè la voce della madre suona potente, ma nei cuori disposti a
bontà, mentre per una ragione o per un'altra anco i tristi si commovono
talora alle supplicazioni dell'amante. Cosimo però spettava alla
specie dei rarissimi presso cui l'amante conta poco, la madre nulla;
onde, infastidito per le istanze reiterate delle donne, le respinse
borbottando: «Badassero ai fatti loro, chè gli stati non si governano
con la pietà delle lagrime donnesche.»

Non aveva l'imperatore graziato la supplica dei Burlamacchi nè l'aveva
respinta; ed essi vivevano di quella vita atroce che or teme ed ora
spera, e così allo spirito come al fisico fa lo effetto di cui con
subita vicenda passa dallo ardore al gelo; noiosa allora diventa la
mensa, sazievoli i familiari colloqui, il letto siepe: si strinsero
insieme tutti e risolverono tentare gli estremi conati perchè
Francesco, uscito dal castello di Milano, potesse ricoverarsi in
Francia: di denari non si facesse a spilluzzico, quello che ci voleva
si spendesse; dove era andata la galera andasse il brigantino; il punto
stava nel trovare gli arnesi. Come s'ingegnassero non è noto: nella
storia di Antonio Mazzarosa occorre un cenno di questo caso là dove
scrive che fu avviso toccare più potente molla che le lacrime donnesche
non sono, vale a dire l'oro, ed avrebbe sortito esito propizio se
per mero errore non fosse stata sospesa l'accettazione della lettera
di cambio; per la quale cosa perduto il momento, non si potè più
riagguantare la occasione; ed io, volendo chiarire il senso oscuro di
siffatte parole, ho rinvenuto nelle _Memorie delle famiglie lucchesi_,
opera che si conserva manoscritta nella biblioteca di Lucca, dettata
da Nicolò Penintesi, i particolari della fatale ventura, e come gli ho
ricavati così gli scrivo. Narra pertanto la cronaca «Come i parenti
del Burlamacchi non perdonassero a qualunque gran somma di danaro
per salvargli la vita, e mentre vi aguzzavano intorno il cervello per
riuscirvi non senza molta speranza, per non dire certezza, si scoperse
uno accidente che rese la liberazione di lui, almeno per via della
fuga, affatto sfidata. E questo caso fummi raccontato molte volte da
Tomaso Burlamacchi trovandomi io a Lione. E' fu appuntato in Milano
che fossero tratti marchi 400 di oro di sole, che erano 8 30/m di oro
di sole a Lione, con la banca Burlamacchi, nella quale serviva come
giovane di contare il suddetto Tomaso di assai fresca età, ma per
essere della famiglia e nipote dei magnifici ministri facevano portare
a lui un quadernuccio delle accettationi delle lettere di cambio che in
un giorno deputato si sogliono accettare nella piazza di Lione, a cui
fu ordinato dai Maggiori, secondo l'uso delle predette accettationi,
quali lettere di cambio dovesse subito accettare e quali tenere
sospese; ma quando fu all'atto pubblico dell'accettatione che segue
alla presenza d'infiniti testimoni di diverse nazioni che accorrono
a tal fatto, Tomaso equivocando (così almeno dicea a me) sospese le
tratte dei 400 marchi che doveva accettare, mentre all'opposto ne
accettò altre che doveva respingere, onde i presentatori della lettera
spedirono subito per la posta corriero a Milano con lo avviso della
sospensione.» — Di che indispettiti coloro che avevano le mani nel
trattato, resero impossibile la fuga del Burlamacchi di già abbastanza
difficile.

Francesco incontrò nel castello di Milano parecchi gentiluomini di cui
la storia tace il nome, eccetto quello del marchese Giulio Malaspina,
col quale prese usanza, sicchè spesso trovandosi insieme, si narravano
le scambievoli sventure, e l'uno andava l'altro confortando. Dei casi
del marchese Giulio non importa discorrere; ne scrissi largamente nella
vita di Andrea Doria, e là chi ne sente vaghezza potrà riscontrarli;
basti tanto che alle prime ribellioni lo spinse Cosimo perchè gli
tornavano, per le seconde, che non gli tornavano, egli fu sbirro, chè,
arrestatolo proditoriamente a Pontremoli, lo consegnò allo imperatore
come si manda il bue al macello. —

Lo imperatore Carlo V, fondatore della odierna tirannide e con
paura e pericoli grandissimi uscito appena incolume dalle ribellioni
germaniche, odiava qualunque sommossa capace a scomporre l'ordine di
cose stabilito da lui, non amava Cosimo, aborriva la Francia, ma più
di questi aborriva chiunque la regia potestà offendesse per conto
proprio: concedasi ai re soli disfare i re, e ci pigli parte anco
il popolo a patto che glielo comandi il re e sotto la condotta del
re; allora servo devoto e degno di encomio; all'opposto se il popolo
sorga contra il re per suo interesse e spontaneo, diventa ribelle e
degno di scure sul collo. — Veramente Giulio non tentò ammazzare il
Doria in benefizio del popolo, ma per necessità gli era forza ch'egli
si commettesse in balía di lui. Adesso era venuto per Carlo il tempo
della vendemmia della tirannide; tutti quelli che gli avevano messo
spavento avevano a morire. Taluno afferma che egli ordinasse la morte
del Burlamacchi perchè, per tenersi bene edificati i Signori di Lucca
e il duca Cosimo, ai primi avesse promesso di non dare il prigione,
al secondo di consegnarglielo; onde trovandosi per le focose istanze
di questo in imbarazzo, come mezzo termine per cavarsene, comandasse
tagliassero il capo al Burlamacchi e così farne un fine: forse anco
simile considerazione avrà contribuito, ma non ce n'era mestiero;
bastava la paura e la persuasione comune a tutti i principati di
provvedere alla propria salute co' bagni di sangue: anco il sospetto
che nelle congiure del Burlamacchi e del marchese Cibo Malaspina vi
avesse parte la Francia può darsi che abbia dato la spinta a Carlo:
breve, questo può dirsi, che ragioni per ispegnere i prigionieri ei ne
aveva di avanzo.

Dalle cronache manoscritte del Canonico Dalli si ricavano i
seguenti particolari intorno agli estremi ed alla morte di Francesco
Burlamacchi, i quali come percossero me, così penso che varranno a
commovere altri. Don Ferrante Gonzaga, quando meno se lo aspettava e
contro le sue previsioni, ricevè lettere imperiali che gli ordinavano
procurasse, senza mettere tempo di mezzo, Francesco Burlamacchi e il
marchese Giulio Cibo Malaspina si giustiziassero; al Gonzaga, che assai
favoriva la causa loro, parve ostico il boccone, tuttavia, sendogli
forza trangugiarlo, inviò tosto un suo mandato al castellano del castel
di Milano con una lettera la quale gli commetteva il supplizio dei due
meschini. Il messo arriva in castello mentre il marchese, che giovane
era e ben disposto della persona, giocava alla palla con altri prigioni
che stavano (come si dice in idioma di carcerato) alla larga, e il
Burlamacchi insieme con altri si tratteneva a vederli. Il castellano
gli fece chiamare in fortezza, ed essi andarono a tutto altro pensando
che a dover morire: appena arrivati i guardiani li separano e chiudono
in luogo segreto; tanto fu eseguito per ordine del castellano, a
cui crepava il cuore per doglia, così grande amore aveva posto nel
Burlamacchi e così teneva in pregio, sicchè a significargli che si
apparecchiasse a morire non gli bastò l'animo, onde si raccomandò ad un
valente religioso che in destro modo glielo facesse intendere.

Il Dalli afferma che il Burlamacchi andò a morte confessato, e può
darsi, ma non certo pentito. La mattina seguente ebbero il capo
mozzo nella piazza del castello il Burlamacchi, il marchese Cibo e
Giovambattista Carletti, e fu come ho avvertito di già, il 14 febbraio
1548; dove mettessero il Carletti uomo plebeo ignoro, il marchese e il
Burlamacchi furono sepolti nella chiesa del castello, sicchè volendo
si potrebbero cercare con molta probabilità di trovarle, le sue ossa
e dare loro insieme a quelle del Ferruccio onorata sepoltura in Santa
Croce; e il suo tempo verrà, non ora; adesso bisogna che sgocciolino
gl'istituti e gli uomini nemici al popolo, anzi alla umanità. — A
questo modo, dopo avere narrato la miserabile strage del Burlamacchi
e del Cibo, sentenzia il canonico Dalli, finirono per _ghiribizzi
fantastici_, nè un canonico ai giorni nostri giudicherebbe diverso. —

Sebastiano Carletti, preso vento a tempo, si salvò in Francia, nè di
lui si seppe più novella mai, almeno non la registrarono la storia nè
i ricordi dei tempi. — Avanza a dire di Cesare Benedino, a cui incolse
la mala ventura: per sua disgrazia credè che la rabbia di Cosimo si
fosse attutita; anco i serpenti dopo il pasto posano addormentati, ma
il tiranno non chiude mai le palpebre: sicchè il Benedino si affidò di
aggirarsi in questa ed in quell'altra città come farfalla intorno al
lume e si arse le ale, imperciocchè un suo compare lo tradiva menandolo
alla mazza; preso da Cosimo, lo provò con le più atroci torture per
cavarne fuori notizie che approdassero ai suoi disegni in danno di
Lucca, ma poichè lo ebbe stritolato e lacero senza poterne spillare
cosa che volesse, lo buttò al carnefice, il quale lo scemò del capo
nella piazza di Santo Apollinare lì presso il palazzo del bargello 12
anni dopo la morte del Burlamacchi e 14 dalla tramata congiura. Nella
cancelleria dello antico magistrato degli Otto un dì si trovava il
suo processo; adesso dove si conservi ignoro; questo so, che nulla di
particolare ci era da cavarne, imperciocchè ei molte cose sapesse non
tutte nè le più riposte; tra le mie note rintraccio la sua sentenza e
la pubblico in conferma della verità di quanto fu da me esposto[30].

Qui finisce la quarta delle vite e forse l'ultima degli uomini illustri
italiani in politica ed in arme che io aveva promesso dettare; ora
conviene che io mi fermi, colpa molta dei tempi e parte mia. Ai nepoti
degeneri atroce ingiuria il racconto della virtù dei padri. Quanto a
me, confesso apertamente che altri potevano dettare queste vite con
maggior senno, non già con più diligenza o con più amore. Delle quattro
quelle che si accostano maggiormente soavi all'anima nostra le vite di
Francesco Burlamacchi e di Francesco Ferrucci: questo più famoso perchè
amici e nemici della meritata lode lo proseguirono: chè se nello andato
secolo e nel primo terzo del presente se ne infievolì il nome, più
che del principe fu colpa di popolo, il quale se nella schiavitù perde
mezza l'anima, qual maraviglia poi se perde la memoria, ch'è una delle
molte facoltà di quella? E il Ferruccio fecero splendido l'audacia
dei consigli, le vinte battaglie, la solerzia stupenda, lo inopinato
scoprirsi gran capitano e non meno grande politico, per ultimo la sua
morte sul campo, dove giacque sì, ma riposando il capo come su di un
guanciale sul corpo estinto del capitano nemico, prosapia di principi e
riputato dei primi fra gl'illustri uomini di arme del tempo; breve la
sua vita, ma luminosa, simile alla stella cadente che staccatasi dal
firmamento precipita in mare. All'opposto il Burlamacchi perì mentre
la sua impresa non per anco uscita dal concetto e dallo apparecchio
stava per diventare fatto: ei fu pari al minatore, il quale, dopo che
con fatica infinita penetrò nelle viscere della terra per estrarre il
metallo prezioso, rimane di un tratto sepolto per lo scoscendimento
di quella; ovvero simile al Crotoniate che, mentre tenta fendere il
mal ceppo della tirannide, resta preso nello squarcio ed è divorato
dai lupi: amici e nemici si accordarono a denigrare la sua impresa
come follia, sicchè per poco stette che la terra gittata sopra il suo
cadavere non seppellisse ad un punto la sua fama: e non per tanto,
tutto bene considerato, per me giudico Francesco Burlamacchi non pure
superiore al Doria e all'Ornano, ma sì eziandio allo stesso Ferruccio:
di vero questi trovò armi parate, la guerra accesa, popolo inferocito
nel proponimento di sè incenerire e la patria piuttostochè sopportare
da capo la tirannide di Clemente VII principe e papa; rinvenne altresì
emuli generosi, argomento efficacissimo acciò la virtù scintilli; fama
sicura, vita inclita e morte onorata. Francesco Burlamacchi solo si
sente vivo in Italia ormai fatta cimiterio e non dispera richiamare
i morti alla vita, nè solo alla vita, ma anco alla potenza e alla
gloria, concetto al tutto divino; manca di armi e le appresta con
arguzia suprema onde il sospettoso tiranno toscano non ci abbadi, e
i suoi stessi concittadini non indovinino lo scopo: sbalordisce la
operosità con la quale raccoglie forze e la sagacia onde fa sì che
tutti ignorino il suo disegno, e lo conoscano pochi e non intero.
Pesa con la diligenza che l'orafo pone a bilanciare l'oro lo stato
della Europa, le armi e i fini dei diversi potentati, le sequele della
riforma; niente viene trascurato di quanto attenga alla materia ovvero
allo spirito, più peculiarmente indaga la Toscana e la Italia: dopo
accertato il corso stava per isciogliere la vela. Il suo concetto,
gagliardo di verità perchè composto con la sapienza dei grandi che
lo precederono e con la sua; partiti per condurlo a termine quali si
vogliono per necessità e che trascurati partoriscono sicura ruina.
— Con la libertà egli intese conquistare la potenza della patria;
libertà di coscienza sovvertendo Roma, che nella stessa mano presume
stringere Croce e mannaia, e libertà civile, affrancando la Italia da
ogni tirannide principesca così domestica come straniera; quanto ai
partiti pratici questi e non altri: il popolo si travagli a costruire
lo edifizio del popolo; importa che il popolo uscendo dalla secolare
ed abbietta servitù si purghi con la sventura, con gesti disperati e
con la effusione del sangue corrotto; a mondarlo dalla sozza lebbra
non basta la piscina miracolosa, ci è mestieri la propria virtù. Desta
quanto sai, anco squassandolo pei capelli, il popolo dal letargo in
cui lo immerse il servaggio, dove tu non gli sgranchisca col pensiero
la mente, con lo affetto il cuore, col moto il sangue, tu avrai fatto
la prova di rizzare in piedi un cadavere. Questo non piacque: un dì
salutarono il popolo padrone perchè si eleggesse padrone, e dopo la
sceda dei Giudei, i quali, messa la corona di spine sul capo a Gesù, lo
salutavano re percotendogli il volto con la ceffata, mai nel mondo fu
vista in ignominia la pari; il popolo certo era chiamato a versare il
suo sangue, e lo versò ma a mo' dello stagno che si cola nel buco ad
assicurare l'arpione dove attaccano la catena: successero miserabili
saturnali di prepotenza, di codardia di cupidità e di altre più ree
passioni, donde nacquero odio, infamia e miseria: per ciò sorse un
grido, che a taluno parve motteggio, ed altri abbaiò, il quale fu:
«Stavamo meglio quando stavamo peggio:» questo il _mane, techel, fares_
dei tempi: non si creda già, come asserirono falsamente, che un uomo
pescasse il detto e ne imboccasse il popolo; il popolo sa vestire i
suoi concetti di forma da disgradarne anco Dante. _Adesso il popolo
non crede più che per mutati ordini politici si miglioreranno le sue
sorti, o non gl'importa, o non ci bada_; persuaso è di questo, che fin
qui andò di male in peggio; per la quale cosa oggi presente che bisogna
trasformare lo stato dell'umano consorzio; in questo nuovo intento
migliore arnese fia quegli che patisce di più: non importa frequentare
gli studi alla università per avere fame, ed un singulto di affamato
insegna più di cento lezioni di professore; però una volta quando si
andava a caccia di forme politiche, e credeva che giovasse così, il
popolo si preponeva letterati, uomini di scienza, gente insomma che
andava per la maggiore, e dietro ad essi camminava nella fiducia di
essere condotto per la retta via; oggi il popolo si chiama legione, a
lui non fanno letterati, nè li cerca; basta a sè e non vuole essere più
abbindolato: di qui la sazietà degl'istituti parlamentari come quelli
che ai casi soprastanti non si affanno; tanto varrebbe adoperare un
vaglio per attingere acqua dal pozzo: i governi smaniano a scoprire
gli agitatori del popolo, ed essi altro non mostrano che la inanità del
loro intelletto; il popolo si agita da sè; mettano in carcere il popolo
se sanno, o se meglio loro capiti, ci mettano la fame; ma nè anco
questo basta, egli è mestieri imprigionare il moto fatale che affatica
il consorzio umano e lo spinge a sconquassarsi per ricomporsi poi.
Dove da me volesse sapersi le guise dello scompaginamento, quali le
ruine che ingombreranno per un tempo gli stati, e quale l'ordine nuovo,
confesso ignorarlo, ed io mi spavento meno della trasformazione che del
modo col quale sarà operata. Un tempo forse con prudenza e con senno
si sarebbe potuto provvedere sollevando gli argini mano a mano che le
acque crescevano; si sono volute impedire con una chiusa a traverso,
e le acque per ora riottose la scavalcano per iscassinarla più tardi.
Oggimai per noi (e me lo credano gli uomini della mia età, esperti
pur troppo a nostro danno con gli accidenti della lunga vita) oggimai
per noi non vi ha più gloria a raccogliere e nè contentezza; la nostra
sapienza ha da ridursi indi in poi a questo: nello studio di morire con
manco rimorsi che ci fie possibile. —


FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME.



APPENDICE


LETTERA INEDITA DI FRANCESCO BURLAMACCHI


«Molto magnifici Signori. Da poi che intesi Andrea Pissini essere
andato a Pisa e di lì auto cavalli per andare a Firenze a rivelare
quello che io avevo ragionato con Ciesari di Benedino alla Excelentia
del Duca di Firenze, parendomi di avere errato; conosciendo che
a vostre S. M. dava disturbo, affanno e spesa, pensai salvarmi.
E così aveo ordinata la cosa, secondo me, benissimo. Ma siando
piaciuto a Dio di fare che non seguisse così come l'aveo hordinata,
bisogna ringraziarne Dio, che le S. vostre magnifiche ne saranno più
giustificate. E ancho che a me habbi a esser di pregiudisio più che
non sarè stato se fussi stato fuora (che come si dicie è meglio essere
uccello di boscho che di cabbia), nè averò pasiensia e sforzeromi di
andarmi accomodando alla volontà di Dio, _sine quo factum est nihil_:
e dirò alle S. V. M. la cosa come stà.

Avendo lecto molti libri di storie e considerato che quando un paese è
unito insieme e che stia d'accordio, in quel paese si stà sicuramente
e però allegramente, e inoltre lecto che la Toscana antichissimamente
è stata in quella unione che io attendevo di fare, mi pareva che,
potendosi fare, fusse cosa avesse a tornare in gran benefisio della
città delle M. S. V. e conseguentemente di tutta la Toscana. E così
andavo pigliando piacere di pensarvi, andavo da me considerando se
ci fusse modo a farla. E così siando stato in questo pensiere, andai
pensando che fusse bene far quelle ordinanse di montagna; chè quando
si feciono quelle del piano non ero in quella considerazione[31].
E parendo al generale della città che fusse così bene per poterci
difendere el paese, si vinseno. E siandosi vinte, mi pareva che
fusse stato assai. E così andai poi vedendo di essere fatto uno de'
commissari di quelle hordinanse di montagne. E così siando stato fatto
avendo questo pensiere, ne parlai con Ciesari di Benedino, mostrandoli
el modo che secondo me era facile a succiedere; al quale, per essere
stato soldato, prestavo qualche fede. E così siando parso ancho a lui,
ne andavo ragionando e pensando, se mai fusse tempo di metterla in
effetto, che era al presente, per molte opportunità che concorrevano;
e così consigliavamo quanto fusse da fare. E in questo è accaduto che,
avendoli ditto la importansia che era di tener la cosa secreta, lui
parendoli che fosse secreto assai ancho che la conferisse con Andrea
Pissini, la conferì secho. E lui avendo ricevuto dal M. Consiglio,
secondo però gli pareva, torto della suplica che si lesse in Consiglio
e che si determinò sopra: che la fanciulla, che era in casa sua, nipote
di Agnello, avesse a stare in quel luogho che allo spettabile officio
delle vedove paresse honesto e buono; o vero parendoli avere ricevuto
torto da me, che l'avessi passata o consigliato la si passasse fra
le M. S. V. e da poi si mettesse a Consiglio, s'è voluto vendicare
contra tutta la città e contra me; che bastava vendicarsi contra di
me; e farne advertite le M. S. V.: e quelle mi aren dato quel castico
fusse parso ragionevile: dove che al presente bixognerà ghovernarsi
altramente, e le S. V. M. ne faranno quello parrà più espediente per la
città che bisogna ben consigliarla.

El modo che aveo pensato fare era questo. Di far venire l'ordinansa
della Vicaria del Borgo qui in la città, così come eran venute quelle
del Bagno e di Villa. E questa era di più numero di giente che altra
ordinansa, perchè in questa è compresa la Vicaria di Gallicano, e
tutte sono sotto il colonnello Gian Tommaso. E perchè vi è molti di
quelli che sono sotto ditta hordinansa, che sono molto discosti, facevo
pensieri, ed ancho tornava meglio a quello volevo fare, ordinar che
fosse la mattina al ponte a Moriano, e lì vedere che avesse buono
rinfrescamento o da poi farla venire el giorno in la città. E potendo,
che credo sarè stato facile, ci arei condutto la hordinansa del Ponte a
Moriano, che el commissario Nicolao Bernardi non penso avesse mancato.
E così facevo conto di farla venire qui in la città che, fatta la
mostra, si fusse partita alle 22 hore e meso, o 23; e riduttola in
prato, dove facievo conto di darli da mangiare; e passar così el tempo
fino a mezz'hora, o una hora di nocte, e da poi hordinar che andasseno
per la via di Santa Anna a passare al ponte a Salissimo e a Pontetetto,
e di là qui, e poi andarsene in montagna. Quando fussero là mostrar che
vi fosse stato nuove delle gente del Duca, e così inanimatoli condurli
alla volta del monte San Giuliano e da poi a Pisa. E avrè avuto la
banda del Colle e così quella del Pon San Pieri, talmente che saremmo
stati 1800 fanti. E inoltre avrè hordinato a Camajore che fusse partita
la banda di là e venutane a Chiesa; e di là andarsene a Pisa. Talmente
che con quella giente, e col dar nome della libertà, si può tenere per
certo che gli arè incitati a pigliare l'arme, e insieme con noi andarne
alla volta di Firenze. E anche aveo pensato mandar a far 500 fanti a
Pontremoli, et esser el primo su l'armi e al dar danari: quali danari
cioè lire 4 per fante con prometter buona paga, pensavo non avessen
a manchare. Di verso Pescia facievo conto che la banda di Villa e del
Bagno vi andassen, e non penso avessen mancato li colonnelli, maxime
scrivendoli io che ero commissario, e siando stato in quel luogo che
sono stato[32], talmente che poteva facilmente andar tutto bene.

A Castelnuovo ancho e per la Garfagnana facievo pensieri far come
a Pontremoli, di sorta che la cosa si potea tener a 15 soldi per
lira[33].

Le opportunità che erano sono queste: li cattivi portamenti del Duca
contra li suoi sudditi, che tutti erano malcontenti, e ogni poco di
cosa che si fusse visto non mancavano di attacarceli: non avere un
soldato solo in tutto el suo stato: e anche non esser gente in Italia:
et esser io commissario: et essere stato nel luogo vostro: e avere
preso (faciendo conto di far questo) amicisie a Pescia, a Pistola, a
Bargha e a Pisa; talmente che si poteva sperarne buona fine, e così
fatto la cosa, far conto si vivesse in questa Toscana securamente e
allegramente.

Questi sono stati ragionamenti, e ne avevo parlato con questi
gentiluomini senesi generalmente, ma particolarmente con M.
Giambaptista Humidi, e con M. Marciello, quali mi sconfortavano, et
io gli assegnavo le ragioni che pareno vi fossero; e se cie li avessi
potuti condurre, che noi di qua e lor di là, in un medesimo tempo
ci fossino missi in arme, si potea dire el giuocho vinto. Ma non è
piaciuto a Dio! Pur non s'era pensato ancho di avere licensia dalle
S. V. M., di condur qua la banda che si aveva a condurre; nè anche
parlatone, aspettando la opportunità. E forsi sarè indugiato e non
fatta; che homo si poteva pentire e dismetterla. Le S. V. M. ànno
inteso el ragionamento e pensamento; quelle deliberino quello che si ha
da fare: che Dio piaccia al meglio spirarle!»


NOTE


[1] Questi fu un ingegnoso fabbro fiorentino il quale non metteva mano
a verun lavoro, e fosse pure il principe, se prima non gli lasciavano
la caparra; onde ebbe il soprannome di _Caparra_: egli fece gli anelli
e gli altri ornamenti di ferro del palazzo Strozzi.

[2] Nella Biblioteca di Lucca.

[3] _Storie fiorent._ lib. 33.

[4] _Storia de' suoi tempi_, lib. 5.

[5] _Storia d'Italia, di seguito al Guicciardini_, lib. 5.

[6] Baroni. _Armi delle famiglie nobili di Lucca_, t. 8, ms. nella
Biblioteca lucchese.

[7] Ms. nella biblioteca di Lucca.

[8] Contratto di nozze rogato il 29 ottobre 1525, ind. XIV, notaro
Giuseppe da Piscilla.

[9] Miscel. Lucen. ms. nella Biblioteca del Municipio.

[10] Dalli can., Cron. di Lucca compilata sopra la più antica di
Salvatore Dalli ms. nella Biblioteca del Municipio.

[11] Spada Alessandro, Storia lucchese ms. fino al 1594: «operò tanto
essere nominato dei 3 commessari di esse milizie, nel quale uffizio
si mostrò diligentissimo e cortesissimo, ond'era dai soldati amato,
ed i suoi colleghi a lui si riportavano.» _Civitali_ Giuseppe, Storia
di Lucca fino al 1572 ms.: «si faceva molti amici, facendo piacere a
ciascheduno, spendendo anco del suo patrimonio e con evidente danno
della sua famiglia, e trascurava le sue faccende con mala sodisfatione
dei suoi.»

[12] La è strana la etimologia del _Santoviene_: e dicono che i Sanesi
aspettando il capo di san Ausano, il quale aveva ad essere intromesso
in Siena dalla porta Eugenia, quivi in gran numero convenissero, e
standovi su le spine a causa della impazienza, di tratto in tratto per
cosa che vedessero movere alla lontana gridavano: «Il santo viene», per
lo che, smesso il nome di porta Eugenia, prese l'altro di Santoviene.

[13]

    «_E dico che di dir non mi dà il cuore,_
    _E lascio dire a un altro dicitore_.»

                        MALMANTILE — 6 CANTO.

[14] _Martiris_ Epistola universis ecclesiæ lucensis fidelibus, 1543.

[15] Io scrittore ricordo come nella primissima età frequentando
la scuola dei padri barnabiti di Livorno, mi tafanassero per farmi
pigliare in odio il Castelvetro come uomo empio, zotico ignorantissimo
e maligno, e se più ne sai, più ne metti; mercè loro consegnai alla
memoria questo primo sonetto della corona del Caro contro messer
Castelvetro Ludovico che ancora non ci è voluto uscire, e ormai non ci
uscirà più:

    «O vituperio della umana gente!
      I sacri studi e le onorate scole,
      Onde ha l'alma virtù perpetua prole,
      Ond'è simile a Dio la nostra mente,
    «Contamina un sfacciato, un impudente
      Veglio immaginator di ombre e di fole,
      Di cui lo stil, lo inchiostro e le parole
      Son la rabbia, il veleno, il ferro e il dente.
    «Questo empio vecchio per fare empio altrui
      Coi caduti dal ciel nostri avversari
      Venuto è in terra fuor dei regni bui.
    «Quinci turba le cattedre e gli altari
      E muove guerra ai santi, e tu da lui
      Misera età senno e valore impari!....»

Singolare è il confronto degli epitafi di questi due più che avversari
nemici: si mette su quello del Caro come principalissimo vanto _la
fedeltà_ ovvero _servitù_ a Pierluigi Farnese e al cardinale Alessandro
suo figliuolo; su l'altro del Castelvetro si scrive come conforto
del decennale esilio che _libero_ riposa, in _libera_ terra, dove
_liberamente_ morì.

[16] Il magnanimo Alfonso era anco poeta; difatti avendo Torquato Tasso
richiesto la provvista del vino al dispensiere del duca, questi rispose
in rima:

    «Una botte di vin sia data al Tasso,
    «E mangi e beva e dorma e vada a spasso.»

E bene stà: i poeti di corte non hanno a fare altro, e ringrazino Dio
se non li mettono in gabbia a cantare. Anco in Inghilterra il _salario_
del poeta di corte fu ed è una botte di malvagìa all'anno.

[17] Nella relazione di questo caso mandata dall'oratore Veneto
residente a Roma al senato si legge: «Furono i rei diecisette, dei
quali quindici _abiurati_, restando condannati, chi _serrati in
perpetuo fra due muri_, chi in prigion perpetua, chi in galea perpetua
o per tempo, ed alcuni appresso in certa somma di danari per la
fabbrica che si ha da far....»

[18] Il Laderchio annalista papalino desidera che il Tuano referendo
la condanna del Carnesecchi avesse dichiarato s'ei fu arso vivo o
morto, e poi afferma come la Chiesa non abbia mai condannato persona a
perire vivo fra le fiamme; però egli stesso nel volume seguente XXIII,
pag. 200, emenda l'error suo su questo particolare. Il buon Cantù,
che tante cose sa, questa finge ignorare, e ciò a profitto di quella
scellerata curia di cui si costituiva campione: _nec tali auxilio, nec
defensoribus istis tempus eget_.

[19] In certa oda ad _Petrum Carnesecchum_ del Flaminio soppressa per
cautela del Mancurti occorrono questi versi:

    Non loci tamen ulla temporisve
    Intervalla, tuos mihi lepores,
    Non mors ipsa adiment. Manebo tecum,
    Tecum semper ero tibique semper
    Magnam partem animæ meæ relinquam.

I quali recati nel volgar nostro suonano così: «nè di tempo spazio
nè di luogo nè la morte stessa fie che mi tolga le grazie tue; sempre
teco starommi e teco sempre sarò e a te pur sempre di questa anima mia
lascerò gran parte.» Questo altro non prova se non che le bugie possono
significarsi tanto bene in latino quanto in italiano; vero è che l'oda
fu soppressa dal Mancurti, ma il Flaminio non avrebbe operato diverso,
sendo uomo pusillanime e rimesso secondatore dei tempi.

[20] Furono pubblicate anco due note di libri proibiti, come si ricava
dal Manuale della Cancelleria del 10 luglio 1545 fog. 57, e dal libro
delle Riformagioni nello Archivio di Stato, Arm. 45, n. 18. fog. 39.

  Antonio Brucioli
  Pietro Martire Vermigli
  Fra' Bernardo Ochino
  Giovanni Ecolampadio
  Simone Hessy
  Giusto Iona
  Giovanni Leonicero
  Giovanni Vicleffo
  Giovanni Delenio
  Giovanni Pomeranio
  Leone Iude Bullingerio
  Erasmo Sarcerio
  Osvaldo Miconio, Lucemario
  Giovanni Bomelio
  Sommario di scritture
  Ermano Bodio, e tra le altre
    opere la sua Unione dei dissidenti
  Libri tre della penitenza

  Filippo Melanetonio
  Ottone Brunsfegio
  Ulderico Zuinglio
  Giovanni Brismanno
  Andrea Carlostadio
  Ulrico Uttenio
  Martino Bucero
  Giovanni Hus
  Pietro Artopeo
  Lamberto Pellicano
  Heirischio
  Giovanni Brenzio
  Charicio Cogelio e Aricio
  Arsace Schoffer
  Martino Lutero
  Dottrina vecchia e nuova, volgare
    e latina di Urbano Regio
  Giovanni Hepino
  Ochino, della Confessione
  Vita nuova, e certa sua semplice dichiarazione

Pasquillo in Ispirito, e tutti gli altri contenenti eresia, ovvero
opinione di eresia, precipuamente condannati dalla santa chiesa
romana per dichiarazione dello spettabile Officio. Finchè li proibì la
Chiesa questi libri cercaronsi, compraronsi, con pericolo si tennero e
lessero: oggi li vietò la filosofia, e cascarono giù nell'oblio, donde
veruno varrà a trarli fuora.

[21] Vedi la Dichiarazione autografa di F. Burlamacchi su questo
proposito nel Cap. ultimo.

[22] Nuove ricerche ci hanno fatto conoscere come in Lucca fosse
instituito l'Ufficio delle vedove e dei pupilli: ora davanti a questo
fu discusso il piato fra i Pessini, che venne primamente composto per
via di transazione, cui non volendo osservare quel malanno di Andrea,
Agnello ricorse ai magnifici Signori, i quali tutti il 23 agosto 1546
decisero la transazione si adempisse: onde par vero, almeno in parte,
che Andrea Pessini non del solo Francesco Burlamacchi, bensì della
intera Signoria volesse vendicarsi.

[23] Nel capitolo antecedente ho detto che il Burlamacchi quando
tornò in palazzo ebbe cura di abolire la lettera che scrisse innanzi
di lasciarlo per provvedere alla sua salute con la fuga, deponendola
sul tavolino di camera sua; tuttavia reputò spediente sostituire alla
lettera distrutta certa narrativa che il diligente signor Lione Del
Prete rinvenne e pubblicò nel tomo 12 p. 309 2.º S. dello Archivio
Storico italiano: gli è certo che la lettera doveva contenere cose
buone a dirsi, se riusciva la fuga e buone a tacersi se questa andava
come andò fallita: però simile scrittura deve considerarsi se non
simulatrice, almeno in parte dissimulatrice del vero; nondimeno in
tanta scarsezza di documenti relativi alla vita del Burlamacchi qui la
metto, come quella che, nota a pochi, pure emana autenticamente da lui.

[24]

                   COSMUS MEDICES DUX FLORENTIÆ.

Le vostre del 4 sono state gratissime al solito per i molti avvisi.....

Quel che a noi occorre dirvi dell'occorentie di qua si è che dopo che
fu scoperto el trattato del Burlamacchi confaloniere di Lucca del quale
per le nostre de 29 del passato vi demmo avviso, furono inviati qua
da noi prima un secretario et dipoi dui ambasciatori di quella città
per persuaderci che la cosa non havesse fondamento alcuno faciendola
leggiera quanto più si poteva, con allegar che detto confaloniere è
persona capricciosa et pazza, il che quanto sia verisimile lo demostra
il luogo supremo che teneva di quella signoria et l'officio di
commissario della militia loro. Noi, premendo la cosa per l'interesse
nostro et non punto meno per quello di S. Maestà nella coniuntura che
ella si trova di presente, giudicammo expediente di ricercare quei
Signori che si contentassino di darlo in mano nostra per insin a tanto
che noi l'havessimo fatto examinare con intervento et presentia di
qualche uomo loro et questo per bene intendere e' particularj della
cosa et chi erano i compiici et fautori, et per tale effetto mandammo
a Lucca uno del nostro consiglio a fare ogni istantia possibile che ce
lo concedessino con promessione di rimetterlo nelle mani loro subito
che si fussi esaminato. Ma nò ce l'hanno voluto concedere, come quelli
(pensiamo noi) che debbon sapere che costui ha in corpo molto più di
quello che loro hanno mandato fuora, et non vogliano si propali maxime
che de compiici et fautori ce ne debbono essere assai della città loro
et d'altronde, et forse persone d'importanza. Haviamo fatto noto el
tutto a S. M. dalla quale speriamo sì come ella fece gratia a quei
Signori del Fascinello (sic) per lo interesse della città loro vorrà
anco che Costui sia examinato fuor di Lucca nelle mani nostre o in
altro luogo conveniente, perchè si sappia lo intero di questo trattato
et per il suo et per il nostro interesse, et ci è parso dare anche
conto di tutto questo a voi per vostra informatione perchè sappiate di
che maniera e' Lucchesi si deportino verso di noi in questo negotio et
la satisfazione che lo animo nostro può e deve prendere di loro.

Gli avvisi più freschi che habbiamo della corte......

  Da Firenze Alli XI di Settembre 1546

                                               EL DUCA DI FLORENTIA.

[25] Et subito postosi da se medesimo alla corda spoliato e dopo ligato
e alsato per brasa quattro o circa da terra e quivi stando sospeso ecc.
— Processo negli archivi di stato.

[26] Et allora alzato, squassato, ecc. — Id.

[27] _Cavaliere_, come si è visto di sopra, i Lucchesi chiamavano il
boia: proprio così; io non ci metto su nè olio ne sale.

[28] Si noti che la massima parte delle parole, in ispecie poi quelle
che pongo in bocca al Burlamacchi, furono tolte dal processo originale.

[29] Di nuovo avverto il processo originale fatto al Burlamacchi in
Lucca si trova nello archivio di stato, Serie A Armario 4, N. 44;
occorre stampato nella Biografia del Minutoli, ma in parte manchevole:
perchè ciò facesse ignoro. —

[30] Sentenza di morte di Cesare Benedino. «6 luglio 1566 C. Cesare
di Niccolaio Benedino da Lucca, per havere da più tempo in qua insieme
con Francesco Burlamacchi cittadino lucchese in diversi luoghi havuto
intelligenza di macchinare et perturbare il pacifico e quieto stato e
benessere di S. E. S. con intrare di notte armata mano in la città di
Pisa et quella furtivamente tôrre a essa S. E, e con animo perverso
entrare in più luoghi dello stato sollevando et facendo movimenti
in danno di quella, et essere andato a Venezia e conferito il loro
malanimo a banditi e ribelli di quella, come più appieno appare nella
sentenza, fu condannato ad essere decapitato in su un palco perciò da
farsi nella piazza di S. Pulinare et la testa messa sur una picca.

A dì detto fu es: lib: 299 e 42.

Veduto il processo et l'esame fatto dal capitano Cesare di Niccolaio
Benedino da Lucca, dove in sostanza si contiene che il prefato
capitano insieme con Francesco Burlamacchi cittadino lucchese dello
anno....... o più vero tempo in Lucca et in più e diversi altri luoghi
havere havuto intelligentia di macchinare et perturbare il pacifico et
quieto stato e bene essere dello Illmo Signor nostro il signor duca di
Fiorenza et di Siena, con entrare di notte, armata mano, in la città di
Pisa e quella furtivamente torre alla prefata E. S. con animo perverso
d'intrare in più luoghi dello stato e sollevando il popolo fare molti
e diversi movimenti in danno et pregiuditio di S. E. I. et dei suoi
fedelissimi sudditi, et a questo effetto più volte è andato a Venezia
e conferito questo loro cattivo animo e pensamento con più sbanditi e
ribelli della prefata S. E. I. e fatti più altri discorsi e cattivi
effetti tendenti solo a mettere in esecutione il malo intento loro,
come più largamente et a pieno appare nel detto processo, examine et
costituti in un libro a parte nella cancelleria di detto magistrato.
Et veduta la ratificatione fatta per lui davanti al magistrato e tutto
quello che fu a vedere et a considerare, et volendo intorno a ciò fare
conveniente e meritevole giustizia acciocchè di tal suo fallo mai più
per tempo alcun possa gloriarsi, ma la sua pena passi in esempio agli
altri. — Per ciò lo condanniamo ad essere menato in sulla piazza di
S. Pulinare presso al palazzo della residenza di detto magistrato,
dove per il ministro d'iustitia in su un palco a ciò deputato gli
sia tagliato _il capo dalle spalle sì et in tal modo che l'anima dal
corpo si divida_ (non si può negare a cotesti giudici il merito di
significare precisamente il proprio concetto) _e la testa fitta_ e
confitta in su una picca su detto palco per termine di tre o quattro
ore, al tutte le predette cose con ogni et.»

A dì 15 luglio et.

[31] Le ordinanze della Montagna furono stabilite il 17 maggio 1544.
Notisi che da quel tempo il Burlamacchi meditava il suo disegno; e
da quanto dice può credersi che a questo effetto egli n'eccitasse la
istituzione.

[32] Allude qui alla carica di gonfaloniere che avea ricoperto.

[33] Intendasi _Per tre quarti assicurata_, ossia _di molto probabile_
riuscita. È un modo di dire che può sembrare strano, ma che trovasi
nel Machiavelli e in altri cinquecentisti. Notabile questo Ricordo di
messere Francesco Guicciardini CCLX: — Chi ha governo di citta, o di
popoli, se li vuole tenere corretti, bisogna ch'e' sia severo in punire
tutti e delitti, ma può usare misericordia nella qualità delle pene,
perchè dai casi atroci, e quelli che hanno bisogno di esemplo in fuora,
assai è ordinariamente se gli altri delitti sono puniti _a 15 soldi per
lira_.



INDICE


DEDICA. Pag. 5.

PROEMIO. Pag. 7.

   Decadenza dei popoli graduata: difficilmente risorgono: e se
   risorgono, sentono per lungo tempo il sepolcro. — Viltà nostra di
   che danni operatrice nel secolo decimosesto; diversità che passa
   tra dominatore che ti regge in casa e dominatore che ti regge di
   fuori. — I papi prima dominatori, poi soci, all'ultimo aguzzini
   dei re. — I mutamenti religiosi o sovvertono le condizioni dei
   popoli o le confermano e perchè: Quello che dapprima Leone X
   pensasse della riforma. — Cristianesimo in onta alle apparenze di
   subiezione è ribelle, protestantesimo nonostante la sembianza di
   ribelle è servile. — Per quali cause gl'Italiani si mostrassero
   parziali alla riforma religiosa. — Condizioni della virtù
   militare in Italia durante il secolo decimosesto: molta e a suo
   danno. — La Italia non può morire, e lo ha dimostrato: circolo
   delle umane cose se vero; umanità sempre in moto verso il meglio.
   — Sardanapalo ed Anassarco, e parallelo fra loro. — Immondezzaio
   moderato che ha avvilito la Italia dal 1859 in poi. — Non
   avendo nè potendo avere credito da per sè, i moderati sfruttano
   l'altrui, ma per poco; finchè non si fanno forti su le manette. —
   Dove, come e perchè il Burlamacchi si avesse la statua, per virtù
   dei moderati. — Orazione del professore Pacini ed iscrizione
   bugiarda: fatti che lo provano: verun tiranno si mostrò astioso
   quanto i moderati in Toscana. — Della setta moderata vuolsi
   disperso il seme, se intendiamo che la buona morale risorga,
   senza la quale restaurare la vita del popolo è niente.

CAPITOLO I. Pag. 19.

   Dicono Francesco Burlamacchi nato di piccola gente, e non è vero.
   — Il Dalli canonico ce lo dà per fallito, e perchè; così pure lo
   Ammirato e lo Adriani per piaggeria al principe; non diversamente
   il Botta, ma per pecoraggine: giudizio sopra questo scrittore,
   severo ma meritato. — Antichità della famiglia Burlamacca: donde
   il suo soprannome per opinione dei cronisti: quale fosse prima.
   — Questa famiglia, come degli ottimati, e guelfa è cacciata dal
   popolo; torna in patria, dove si distingue per uomini insigni e
   tiene sempre luogo onorato fra i maggiorenti. — Sue case e torri,
   patronati, sepolcri ed armi gentilizie; sostanza dei Burlamacchi,
   per quali cause scemata. — Francesco mercatante di seta; per ciò
   lo sfregiano l'Ammirato e lo Adriani. — Fiorentini mercadanti
   tutti, così i Capponi, e così i Medici, i quali esercitavano la
   mercatura anco dopo fattisi principi. — Giovanni Bicci presta
   danaro sul pegno della tiara papale a papa Martino. — Dei
   genitori di Francesco, dei suoi fratelli e delle loro fortune. —
   Quali i suoi studi; allora fra semplici artefici s'incontravano
   con frequenza in Toscana dicitori in prosa ed in rima; stato
   presente di letteratura deplorabile in Toscana, in Firenze
   deplorabilissimo. — Fra Pacifico, zio di Francesco Burlamacchi
   e veneratore di fra Girolamo Savonarola, ne detta la vita; lo
   difende altresì nel dialogo chiamato _Didimo e Sofia_; insegna il
   modo di mettere in cervello l'enormezze romane, educa la gioventù
   e muore in odore di santo; educatore della gioventù lucchese e
   di Francesco. — Sue qualità fisiche e morali: chi fosse la sua
   moglie. — In che età entrasse Francesco nella magistratura; ed
   indi in poi tenne sempre il maestrato: non cerca mai uffizio, uno
   sì, e perchè. — Buoni ordinamenti della repubblica lucchese per
   difendersi dalle insidie dei potentati vicini. — Divisione della
   città per l'amministrazione e per la difesa, terzieri, gonfaloni
   e pennoni. — I Burlamacchi del terziere della Sirena adoprano
   questa immagine per cimiero. — Come ordinate le milizie; quante
   le armi e quanti gli armati così in città come in campagna;
   segnali diurni e notturni per convocare le milizie. — Francesco
   col favore di Giambattista Borrella viene eletto commissario
   delle armi. Quali i compagni di Francesco in cotesto maestrato,
   e quali i luoghi alla custodia loro commessi; larghezze del
   Burlamacchi per attirarsi la benevolenza dei soldati: a quanto
   sommassero le battaglie di campagna. — Si parla delle imprese
   felici e delle sventurate, e per quali cause le seconde possano
   acquistare lode pari alle prime. — Di Focione e del suo giudizio
   intorno alla guerra lamiaca.

CAPITOLO II. Pag. 37.

   Se una legge fissa governi le cose morali e politiche come
   le fisiche: difficoltà di rinvenirla. — Scienza politica
   fallacissima e perchè. — Quante volte nei suoi presagi politici
   sbagliasse il Machiavello; esempio solenne di giudizio errato
   accaduto ieri. — Burbanza e vanità delle cicalate che appellano
   _Filosofia della storia_; sistemi a vicenda divoransi. — Secolo
   XVI secolo _caposaldo_; comincia epoca nuova non anco compita:
   a qual patto i popoli cesserano le guerre. — Ciclo perpetuo dei
   medesimi eventi presagito dal Machiavello non è fatale: nuovi
   semi partorirono e partoriranno sempre nuovi frutti. — Speranza
   e pazienza veraci angioli custodi della vita. — Stato di Europa
   nel punto della storia nostra: conquiste normanne in Inghilterra:
   Inglesi conquistano la Francia. — A Carlo VII succede Luigi XI
   che compone il reame di Francia in arnese di guerra. Prosunzione
   dei giudici moderni; con quali norme hassi a giudicare dei tempi
   e degli uomini passati. — Come la religione diventi flagello
   del consorzio civile: colpe del cattolicesimo pervertitore di
   morale e impedimento al migliorare della stirpe umana. — Luigi
   XI morendo non si pente, anzi crede di aver ben meritato della
   monarchia e di Dio. — Se Ludovico il Moro e le donne di Savoia e
   di Monferrato fossero unicamente cause che i Francesi calassero
   in Italia, e sembra di no. — Stato d'Italia per colpa dei suoi
   principi dispostissima ad essere invasa. — I Francesi l'avrebbero
   conquistata e tenuta se non era la Spagna; la quale in breve per
   virtù e per fortuna si costituisce in potente reame. — I reali di
   Spagna; consentono a starsi in mezzo neutrali perchè Carlo VIII
   spogli gli Aragonesi di Napoli, poi sotto pretesto di soccorerli
   vanno a spogliarli essi. — Dura sentenza del Prescott contro la
   Italia e non giusta. — Tra il re di Francia e il re di Spagna
   cresce l'odio per la contesa dello impero: prevale la fortuna di
   Carlo, ch'è assunto imperatore; Francesco I è condannato nelle
   spese e perde la causa. — Larghezza di stato non fa grandezza.
   — Lo imperatore non arriva mai a soggiogare la Francia; se ne
   assegnano le cause diverse interne come esterne. — Carlo V come
   politico sommette ogni considerazione all'interesse, pure pende
   per natura al beghino. La libertà di coscienza in Germania
   si desiderava davvero, pure serviva a colorire il fine della
   libertà politica. — Pace inopinata di Crespy; in apparenza la
   Francia ne ha il meglio; vantaggi grandi che ne cava Carlo V.
   — Opinioni contrarie sopra cotesta pace: anche nelle famiglie
   dei contraenti genera dissidi. — Misero stato d'Italia. — La
   Francia procura tregua, non potendo pace, fra lo imperatore e
   il Turco. — Carlo scarrucola Francesco, e questi non se ne vuole
   accorgere. — Carlo si volta intero alle cose di Germania: convoca
   la dieta a Vormazia per istabilire il concilio, il quale abbia
   a definire le questioni religiose. — _Interim_ che fosse, e
   quando, ed a quali fini si concedesse. — I Tedeschi cresciuti di
   forze repugnano a mettere in compromesso il presente loro stato:
   e poi non hanno sicurezza recandosi a Vormazia: salvocondotto
   imperiale da non se ne fidare: quando salva e quando no;
   perse Hus e Girolamo da Praga; difese Lutero ma perchè: parole
   animose di Lutero recandosi a Vormazia. — Ferdinando re dei
   Romani sotto apparenze sante nasconde fine scellerato pel quale
   convoca la dieta a Vormazia. Altri fatti donde i protestanti
   desumono prova di animo ostile dello imperatore contro di loro;
   e segnatamente dal caso dello arcivescovo di Colonia. — Si apre
   il concilio di Trento; con quali intenti di Carlo. — Morte di
   Lutero; allegrezza dei cattolici e sbigottimento dei luterani; a
   torto entrambi; le cose apparecchiate, protratte per necessità
   di tempi poco si offendono per la morte di un uomo. — Paolo
   papa mette le mani nel negozio dell'arcivescovo di Colonia per
   arruffare la matassa allo imperatore. — Lo imperatore apre la
   dieta a Ratisbona; i protestanti vi si presentano per via di
   mandatari. — Se meriti lode di astuto il contegno tenuto da Carlo
   in cotesta congiuntura. — Trattato dello imperatore col papa,
   e patti della lega: girandole di Carlo e stizza del papa che si
   vede rubare il mestiere. — La Germania va in fiamme: apprestansi
   armi a combattere. — I Veneziani dissuadono il papa di porgere
   aiuto allo Imperatore, e buone ragioni che ne danno, ma invano.
   — Tradimento di Maurizio di Sassonia a carico del suocero e del
   cognato. — Conchiudonsi nozze, come sempre, favorevoli a casa di
   Austria. — Iattanze del langravio: numero stupendo di milizie
   raccolte. — Dannose dimore e peggio che inutili proposte dei
   luterani a Carlo; il quale, montato in furore, senza consultare
   la dieta, gli mette al bando dello impero. — I principi
   mandano l'araldo a intimare la guerra contro lo imperatore
   ed a protestare contro il bando. — Così le armi dello impero
   ingaggiate in guerra piena di pericolo, ottima la occasione per
   tentare novità in Italia, il Burlamacchi poi uomo da volere e
   sapere cogliere la occasione.

CAPITOLO III. Pag. 67.

   Condizioni d'Italia. — Paolo III e suoi concetti per ingrandire
   il figliuolo Pierluigi: quali i costumi di questo scellerato,
   nè la storia li dichiara tutti: quanti stati il padre gli
   procurasse e su quanti mettesse gli occhi; Milano e Napoli
   desiderati invano: Siena insidiata. — Con quali arti i Sacerdoti
   abbiano messo assieme la roba: perchè i cardinali assumessero
   vesti di colore vermiglio. — Andrea Doria avverso a Farnesi: se
   avesse cause private s'ignora, pubbliche ne aveva e quali; si
   espongono gli argomenti per credere che Andrea non si sarebbe
   opposto ad un moto inteso a liberare la Italia dagli stranieri.
   — Venezia fino da cotesti tempi a quale stato ridotta; politica
   conservatrice sa dell'etico e perchè; ragione delle repubbliche
   aristocratiche: durare non è vivere, e mal s'intende di che cosa
   sappia la lode data da Vittorio Alfieri a Venezia; anch'ella
   non avrebbe impedito la cacciata degl'imperiali d'Italia; solo
   non avrebbe mosso un dito per affrettarla. — Di Savoia non
   importa parlare; piccolo stato egli era e ad ogni moto ostile.
   — Firenze sola a sostenere la causa della democrazia; da tutti
   abbandonata e tradita, massime dai Francesi; poi dal Doria, da
   Siena e da Lucca: condizione degli animi dei Fiorentini spenta
   la Repubblica. — Lorenzino dei Medici a cui parve Bruto, che
   cosa paia a noi. — Perchè Cosimo I abbindolasse il Guicciardino.
   — Quale ragionevolmente lo scopo di Cosimo I dei Medici. — Pure
   in Firenze, Lucca e Siena bollivano umori vogliosi di novità.
   — Cose di Siena per mostrare come potesse favorire il moto del
   Burlamacchi. — Fabio Petrucci cacciato: mutazione del reggimento
   verso il principato per opera di Alessandro Bichi, che viene
   ucciso; i suoi aderenti. — Contese tra il popolo e i noveschi.
   — Noveschi che fossero e quanto arieggino coi moderati moderni.
   — Governo popolesco che pensi e che faccia. — Noveschi tentano
   pigliar Siena, sono ributtati. — Il Trecerchi alla porta di
   _Santoviene_, e donde questo nome. — Il popolo si vendica. —
   Caso del Bellarmati o di suprema virtù o di avarizia suprema.
   — I Sanesi procacciando i propri vantaggi mentre il papa e lo
   imperatore si versano in angustie si stimano astuti: necessità
   grande che avevano per andare cauti: pure screzio tra nobili e
   popoli circa al doversi sovvenire Firenze, e il popolo vuole. —
   Carlo vinta la guerra si scopre favorevole ai noveschi; invia a
   Siena Lopez perchè agguindoli con le frodi; non riuscendo, manda
   Ferrante Gonzaga onde adoperi la forza; l'adopera. I noveschi
   tornano a prevalere; si armano; tumulto dove il popolo si conduce
   in parte da esserci oppresso: questo consiglia il capitano
   Borghese, ma non gli danno retta, ond'ei se ne va con Dio. —
   Nuovo tumulto, dove i noveschi vengono abbattuti; ne arrovella
   il Gonzaga, minacce e pretensioni: — Ardire di Mario Bandino e
   di Achille Salvi. — I Sanesi attendono risoluti a difenderli. —
   Lo imperatore richiama il Gonzaga e il Lopez e viene a patti.
   I noveschi rimangono abbassati. — Il duca Alfonso Piccolomini
   di Amalfi surrogato al Lopez si mangia le paghe di 300 fanti.
   — Noveschi più volte si adoperano ai danni del popolo, il quale
   avutone odore, combatte i noveschi, e non li perde a patto che,
   inquisita la cosa, si puniscano i rei. — Alfonso di Pietro
   paga per tutti. — Sorge la tirannide dei Salvi venuta su per
   favore di popolo, poi avversa al popolo ed a tutti. — Miseria
   universale. — Comparisce l'Occhino; qualità di lui. — Congiura
   con i Salvi; questi pigliano il dinanzi mettendo mano alle armi.
   — Il duca Alfonso seda il tumulto. I Salvi perdono riputazione;
   ricercati a seguitare le parti di Francia per danari e promesse,
   si lasciano corrompere: gl'imperiali scoprono il trattato; Giulio
   Salvi prima fa scappare il negoziatore francese, poi lo arresta
   e lo consegna a Cosimo duca di Toscana. — Nuovi sospetti per
   parte degl'imperiali. — Il duca di Amalfi è rimosso da Siena. —
   Monsignore Granvela preposto alla riforma di Siena manda innanzi
   lo Sfondrato a scoprire marina. — Riforma del Granvela in che
   consistesse ed a qual fine preordinata. — I noveschi tornano a
   galla: cominciansi le persecuzioni contro i Salvi e i popolari,
   che vengono interrotte per la notizia del naufragio della flotta
   imperiale ad Algeri. — La balía entra in carica; sue provvisioni
   in parte ottime e in parte strane: se la piglia con le donne,
   mentre tutto il male viene dagli uomini. — Giulio Salvi scade
   di credito, chiamato in Fiandra è messo prigione, più tardi
   lo liberano: della sua prigionia come della sua libertà non se
   ne danno per intesi i Sanesi. — Lo Sfondrato finchè promuove i
   noveschi lasciasi fare; più tardi, scoperto ch'egli favorisce
   il papa, è licenziato. — Gli subentra don Giovanni De Luna,
   che pure parteggia pei noveschi. — I Farnesi molestano Siena,
   per interposizione dello imperatore, lascianla stare. — don
   Giovanni con la opera dei noveschi trama insignorirsi di Siena:
   tracotanza dei noveschi; il Tondi novesco ammazza il Bianchino
   plebeo e ne sorge tumulto. — Eccitamenti a romperla; capestri
   appiccati agli usci delle botteghe del popolo. — Apparecchi di
   nozze della figlia di don Giovanni sono argomento di sospetto.
   — I noveschi confidano fare eleggere capitano del popolo uno di
   loro, ed invece esce un popolesco; lacci tesi al popolo perchè
   concorra alle feste e quivi a mano salva opprimerlo; avvisato
   ei gli evita. — I noveschi primi a rompere la guerra; battaglia
   cittadina descritta; vari casi di quella. — Cosimo duca di
   Firenze accosta le sue bande ai confini. — Milizie del contado
   in città; don Giovanni fa che le bande del duca si ritirino. —
   I popoleschi mandano oratore al marchese del Vasto perchè tenga
   bene edificato lo imperatore. — Consulta popolesca intorno il
   da farsi: diversi pareri; prevale quello di Antonio dei Vecchi.
   — Noveschi cacciati dal reggimento. Don Giovanni lascia Siena e
   cita a comparire in corte imperiale parecchi cittadini. — Guardia
   spagnuola cassata. — Città ripartita in tre soli ordini. — Luna
   manda oratori a congratularsi in Siena. — Baldanza dei popoleschi
   fondata sopra gl'imbarazzi di Carlo e su la protezione del
   marchese del Vasto, il quale mentre sta in Vigevano su le mosse
   per Siena di un tratto muore; dicesi per veleno propinatogli
   da Cosimo dei Medici. — Per la costui morte mutano di cima in
   fondo le condizioni di Siena; da capo torna la pratica in mano
   al Granvela nemico a vita tagliata del popolo. — I noveschi
   di nuovo a galla. — I cittadini citati da don Giovanni a corte
   inesorabilmente confinati parte in Lucca e parte in Milano; il
   Savini confinato comunque capitano di popolo per cordoglio ne
   muore; i cittadini gli surrogano nell'ufficio Enea suo figliuolo
   venticinquenne. — La città restaurata al governo dei Quattro
   Monti. — Guardia spagnuola prima di 400 Spagnuoli, poi a cagione
   del rammarichio dei cittadini cresciuta fino a 500. — Si mulina
   la fabbrica di un castello. — Sanesi frementi della novella
   tirannide e smaniosi di gittarsela giù dal collo.

CAPITOLO IV. Pag. 113.

   Stato di Lucca nei tempi medii pari a quello delle altre terre
   toscane: i servi si ribellano contro i feudatari e costituscono
   il comune. — Imperatore e papa, considerati fonte di autorità
   nel mondo, talora facevano approvare dallo imperatore gli
   eletti dal popolo, talora no. — A Lucca i supremi magistrati
   appellavansi anziani: potestà, capitano del popolo e sindaco che
   fossero, che facessero, quanto durassero, donde si traessero.
   — Se ai consigli partecipasse il popolo intero. — I consigli
   erano due in Lucca e da cui presieduti. — Consiglio di credenza
   che fosse. — Le tasche dove s'imborsavano i cittadini eligendi
   quante fossero, e chi vi mettessero. — Agl'imperatori non cale
   la cessazione dei feudatari a patto di redarne i diritti a
   carico del popolo. — Lo impero sostenne fino all'ultimo feudi
   imperiali le repubbliche toscane. — Uguccione della Faggiuola
   e Castruccio Castracani vicarii imperiali a Lucca. — Motto
   acerbo dell'Alighieri, contro Uguccione. — Digressione intorno
   a Castruccio, e quante miserie nella sua prosperità apparecchia
   alla sua patria ed alla sua discendenza. — I Tedeschi lasciati
   da Ludovico il Bavaro mettono Lucca allo incanto: la compra lo
   Spinola mercante genovese, che la tiene poco e male; subentrano
   al dominio di Lucca uno dopo l'altro Giovanni di Boemia, i
   Rossi di Parma e gli Scaligeri, finalmente i Pisani nemici
   acerbissimi ai Lucchesi. — I Fiorentini si vendicano su Lucca
   delle ingiurie di Castruccio: in mezzo a questi tramestii le
   forme repubblicane non mutano: forme politiche non rilevano se
   manchi la sostanza della libertà. — Carlo IV vende la libertà ai
   Lucchesi; a quali patti ed a che prezzo. — I Lucchesi diventano
   fittaioli dello impero; poi con diuturna industria anco vicarii.
   — I nobili non vonno compagnia nel governo della repubblica,
   e il popolo li caccia via dai maestrati non già dalla città:
   rimedio unico per purgare gli stati dalle consorterie. — Legge
   proposta da Francesco Guinigi buona o trista secondo i tempi
   e gli uomini, e tuttavia necessaria. — Giovanni degli Obizzi e
   come rintuzza la improntitudine sua. — Statuto del 1372 nè libero
   nè tiranno, e seme di rancori. — Il maestrato dei conservatori
   della libertà prima si riforma, poi per la morte del Guinigi
   si cassa; gli surrogano l'ufficio dei Commissari di Palazzo,
   ma ad altro fine. Principia lo screzio fra i Forteguerra ed i
   Guinigi; moto dell'Obizzi spento nel sangue. — I Forteguerra
   esclusi dai maestrati. — Il senato s'industria rimediarci e
   come. — Bartolomeo Forteguerra viene alla prova delle armi;
   è vinto. — Il gonfaloniere Forteguerra da Forteguerra messo
   alle coltella. — Lazaro Guinigi si fa tiranno: instituisce una
   maniera di governo oligarchico d'interessi materiali. — Lazaro è
   ammazzato dal nipote di Bartolomeo Forteguerra, ma i Guinigi non
   cascano, anzi Paolo Guinigi si fa tiranno assoluto; sua viltà e
   sua avarizia; pure ha la Rosa di oro da Roma. — I Lucchesi lo
   combattono, lo vincono, lo condannano a morte; poi lo mandano
   prigione a Pavia, dove muore. — Riforma dello stato. — Pietro
   Cenami gonfaloniere, procedendo rigido più che non conveniva,
   è ammazzato: vendetta che ne pigliano i Lucchesi. — Nuove
   congiure. — Michele Guerrucci per non avere con che pagare le
   multe è decapitato. — Legge del discolato che fosse: ragione dei
   provvedimenti straordinari che gli stati pigliano nelle vere o
   credute necessità; e quando giovino, e quando no. — Condizioni
   della signoria di Lucca di faccia allo impero: privilegio di
   Carlo IV, impronta pitoccheria di Massimiliano I in contrasto con
   l'avara tenacità dei Lucchesi; per ultimo Massimiliano sbracia
   privilegi; Luigi XII anch'egli vuole quattrini per non far male.
   — Carlo V, e nuovo mercato per Lucca dovendo le concessioni
   imperiali finire con la persona che le fa. — Caso festevole
   avvenuto fra Massimiliano ed i Lucchesi per cagione di 1000
   scudi. — Lucca reputata sempre feudo imperiale. — Nuovi tumulti
   provocati dai Poggi: origine prima del tumulto il benefizio di
   Santa Giulia; l'Orafo creatura dei Poggi malmena la famiglia
   del vescovo. — I Poggi ammazzano il gonfaloniere Vellutelli;
   feriscono Piero e Lazaro Arnolfini: vogliono imporre gonfaloniere
   Stefano da Poggio, gli anziani rifiutano. — Cittadini armansi
   a sostenere gli anziani; questi, per tôrre i capi ai sediziosi,
   li perdonano, contro gli altri procedono: diversità tra Genova
   e Lucca in proposito, se e quanto meriti lode per questo. —
   Tumulto degli Straccioni e perchè chiamato così. — Cause del
   tumulto. — Oligarchia borghese e suo scopi miserrimi; esclusione
   dei cittadini dalle magistrature; riforme intorno allo statuto
   dell'arte della seta ed angherie ai tessitori; comincia il
   subbuglio: gli anziani, come suole, non cedono poco in tempo
   per cedere troppo inopportunamente. — Adunanza popolare nel
   convento di S. Lucia; e quello che ci si discorse: che cosa si
   deliberasse di domandare. — Cenami gonfaloniere ben disposto a
   concedere le cose richieste. — Feroci parole di Fabbrizio dei
   Nobili rimettono in compromesso la pace. — Di nuovo il popolo
   si aduna, ma non ingiuria persona. — Anziani mandano pacieri,
   e sono accolti male, i tumultuanti domandano pane; pure si
   viene a patti, e sembra composto lo screzio. Chi soffia dentro
   perchè lo incendio rinfocoli. — Cagioni di querele manifestate.
   — Si riforma il reggimento, nuove concessioni al popolo, e
   non si conchiude nulla: ne sono cagione i giovani scapestrati,
   principalmente quelli che avevano cessato il mestiero delle armi.
   — Malefizi dei giovani insofferenti di ogni freno. — Partiti
   larghi sono vinti dal consiglio per calmare gli spiriti, che non
   si quietano, ormai ostinati a vivere licenziosamente. — Congiura
   di cittadini a Forci presso i Buonvisi per occupare la città alla
   sprovvista e restituirci, come oggi si direbbe, l'ordine, e non
   riesce. — Pericolo che corre la città: i popolani spartisconsi;
   chi vuole sangue, chi no: nel contrasto non si fa niente, pure
   bisogna piegare davanti la volontà dei popolani, provvisioni su
   le chiavi della città. — Guardia alle porte dei più avventati. —
   I cittadini abbandonano la città: bandi per impedirli; i popolani
   pigliano le merci e i beni che tentano scansare dalla città. — Il
   maestrato propone uscire di palazzo e abbandonare lo stato: pietà
   di siffatto partito; un popolano si oppone, e rimette il cuore in
   corpo agli anziani profferendosi difenderli a tutt'uomo. — Preci
   solenni e processione statuita per ricondurre gli animi alla
   concordia; singolarità della processione; i preti tirano l'acqua
   al loro mulino. — Dio pei preti è _trino_ in cielo e _quattrino_
   in terra; gli aiuti divini o si fanno aspettare troppo o non
   giovano. — Signoria nuova, di cui fa parte Francesco Burlamacchi;
   partiti risoluti che piglia. — Festa della _Libertà_; la manda
   all'aria un popolano: conseguenze di cotesto scompiglio. — Nuove
   risoluzioni della Signoria proposte dal Burlamacchi; la plebe si
   ribella, che di un tratto si avventa alle case dei Buonvisi per
   abbatterle; parte di plebe contrasta, ne seguita una terribile
   zuffa: prevalgono i demolitori, che vanno per le artiglierie; i
   Buonvisi mostrano i denti alla bordaglia, che li lascia stare;
   nella notte però essi lasciano la città. — Assemblea universale
   per provvedere ai bisogni presenti; donde venga che pii uomini
   talvolta sono sapienti e animosi stando da sè soli, messi in
   mucchio diventano stolti e codardi: deliberazioni gravissime
   dell'assemblea vinte per virtù di popolani appartatisi dai
   licenziosi. — I partigiani dei ribelli, impediti di uscire
   dalle porte gittansi dalle finestre per avvisare gli amici,
   i quali corrono alle armi e tornano ad assediare il palazzo.
   — Gli assediati resistono. — Le leggi contro i sediziosi sono
   vinte. — Alberto da Castelnuovo vuol mandare all'aria il palazzo
   e non riesce per miracolo. — Gli assediati inviano a sonare
   a stormo perchè le compagnie delle bande cittadine traggano
   a liberarli; ma prima che vengano ingaggiano battaglia con
   quei del cortile; li finivano tutti, dove i sediziosi per tema
   di essere presi tra due fuochi non uscivano a guardare gli
   sbocchi delle strade. — I sediziosi cacciati dagli sbocchi, i
   difensori della Signoria si sparpagliano per la città; di ciò
   i sediziosi accortisi, fanno testa e tornano ad occupare il
   cortile: trista condizione degli anziani rimasti in palazzo: i
   Buonvisi fanno massa a monte San Quilico, ma gli anziani non
   sanno come avvisarlo; per devozione di Lunardo Pagnini sono
   avvertiti i Buonvisi; il difficile sta nello introdurli a Lucca.
   — Fede di prete Bastiano da Colle che si profferisce portare la
   chiave di porta San Donato affinchè sieno intromessi: avventure
   e disdette di prete Bastiano; finalmente trova Taddeo Pippi e
   si apre con lui: favore del Pippi, che si acconta col Dini, e
   per diverse vie si accordano di far capo a porta San Donato. —
   Orazione di Martino Buonvisi prima di muovere per Lucca. — Casi
   che ritardano e imbrogliano il cammino: il fiume con non poco
   travaglio è guazzato. — Consigli diversi di scalare le mura, o
   di ardere le porte: vanno a pigliare lingua a porta San Pietro,
   tornano assicurati si aprirà, tantosto la porta san Donato. —
   Prestanza di Vincenzo da Puccio; finalmente schiusa la porta,
   il Buonvisi co' seguaci suoi sono intromessi. — Modestia del
   Buonvisi. — Descrizione dello ingresso. — Argutezze di Meuccio
   cuoiaio. — La sedizione vinta. — Fuga di alcuni sediziosi e
   morte di altri. — Acclamazioni al Buonviso; e grave riprensione
   del gonfaloniere, a cui egli risponde umanamente. — Crudeltà
   esercitate dai vincitori: condanne di morte, carceri ed esilii. —
   Il commissario imperiale tradisce i commessi alla sua fede. — Due
   preti giustiziati. — I poggeschi di nuovo perseguiti; altri preti
   più avventurati scappano. — Nuove vendette patrizie. Parallelo
   fra i rivolgimenti di Lucca e di Siena, e si adducono le ragioni
   per le quali compariscono diversi fra loro. — È mortale la paura
   che fai al potente comechè in suo benefizio. — Leggi predisposte
   a instituire la oligarchia lucchese. — Congiura del Fatinelli
   e del Baccigalupo: loro supplizio. — Stato degli animi di Lucca
   inchinevoli a novità, epperò a favorire il moto del Burlamacchi.

CAPITOLO V. Pag. 189.

   La Riforma in Italia fa progressi e minaccia sopraffare il
   cattolicesimo. — Cause che la provocano. — Spettacolo quotidiano
   dei vizi del clero. — Santi padri, poeti, storici e letterati
   grandi tutti addosso a Roma. — Valdesi e albigesi se fossero in
   Italia e quanto durassero. — Benveduti dal clero nella Calabria
   e perchè. — Paganesimo della corte romana, da questo rimane
   indebolita la fede. — Imposture dei chierici e documenti falsi
   per la goffaggine loro di leggieri scoperti. — Lorenzo Valla e
   donazione di Costantino. — Versi di Battista Mantovano. — Lione
   X morendo non potè avere i sacramenti perchè gli aveva venduti.
   — Studi biblici: traduzioni, chiose e commentari. — Savonarola
   se possa considerarsi precursore di Lutero. — Cesare Cantù e suo
   perfido libro degli _Eretici in Italia_; sue strane difese della
   chiesa romana. — Versioni italiane della Bibbia. — Smania di
   leggere libri dei riformatori. — Opinione stramba di fra Iacopo
   Passavanti su la traduzione volgare della Bibbia; così non la
   pensa Sisto V; al fine Roma approva la traduzione italiana della
   Bibbia, ma come. — Libri proibiti sotto nomi diversi dei loro
   autori penetrano nel Vaticano. — Curiosa avventura narrata dal
   cardinale Serafino circa Melantone che si rinnuova per altri. —
   Copie di libri proibiti; guadagno e pericolo allettamenti per i
   librai ed i pirati. — Scoperte, viaggi e commerci nocciono alla
   soperchianza romana; nocciono altresì le guerre e il mescersi
   delle nazioni fra loro. — Improperi che si avvicendano. —
   Imperatore e papa. — Sacco di Roma; maraviglia dei Tedeschi di
   vedere gl'Italiani sopportare il dominio dei preti. — Spagnuoli
   ladri e cattolici superlativi. — Tedeschi ladri un po' meno
   e cattolici punto. — Scede al papato. — Scena accaduta sotto
   Castello Sant'Angiolo. — Giorgo di Furstemberg venuto dal fondo
   di Germania per impiccare il papa e i cardinali. — Arringa del
   vescovo di Bari agli auditori della Ruota Romana. — Ferrara. —
   Renata. — Modena i Grillenzoni, Ludovico Castelvetro ed altri: in
   Modena la Riforma si allarga. — Bologna: casi del frate Mollio.
   — Sparata dello Altieri. Commissione romana per la riforma dei
   costumi creata da Paolo III, e caso che ne fanno i preti, anzi
   quei dessi, che la composero. — Le città del patrimonio di San
   Pietro: disputa ad Imola tra un frate ed un laico. — Venezia
   mercanteggia di eresia come di droghe. — Progressi della Riforma
   costà. — I luterani per poco non professano la religione loro
   pubblicamente; provincie di terraferma in quale stato si trovino.
   — Milano giudicato da Paolo III. — Vita ed avventure di Curio
   Secondo. — Valdesio spagnuolo a Napoli svia l'Ochino dal cammino
   della Chiesa. — Siena città dei santi e degli eretici. — Ochino
   e donde il suo nome; sue vicende, peripezie e dottrine. — Pietro
   Aretino e l'Ochino. — La devozione delle Quarant'ore inventata
   dall'Ochino. — Smancerie del cardinal teatino all'Ochino. — La
   riforma a Pisa, a Mantova, a Locarno. — Digressione intorno
   al fanatismo religioso e politico. — Odio contro il papato
   nella universa Italia. — Donne eretiche in Italia. — Si parla
   della riforma nella città di Lucca: e cause per aborrire Roma
   in Lucca antichissime. — Pietro Martire, donde il nome e la
   patria; suoi studi; predica sul purgatorio. — Vicario di San
   Frediano a Lucca: suo apostolato costà; amici e studi suoi. —
   Paolo III a Lucca non molesta il Martire, e perchè. — Cardinale
   Contarini amico del Martire e tinto di eresia. Carlo V tiene
   al fonte Carlo padre di Giovanni Diodati volgarizzatore della
   Bibbia, e papa Paolo lo battezza. — Oscena guerra contro il
   Martire: perfidissime lettere del cardinale Guidiccioni lucchese
   alla Signoria di Lucca. — Disegno di Carlo V circa a tôrre la
   libertà a Lucca riportato dal Luito Balbani non è creduto dal
   Tommasi, e con poco fondamento. — Un frate è preso; a forza
   liberato dal carcere, nella fuga si rompe una gamba ed è ripreso.
   — Il Martire e l'Ochino lasciano la Italia; il primo è eletto
   professore a Strasburgo. — Chiesa luterana di Lucca percossa non
   dispersa: che cose le scrivesse il Martire tredici anni dopo la
   sua fuga. — Lucca donde cava il nome: cause per le quali a Lucca
   la Riforma più presto che altrove attecchì e più lungo durò. —
   La Riforma in onta alle apparenze di esito certo e alle paure
   di Roma venne meno in Italia. — Se ne indagano sommariamente le
   cause. — Inquisizione; Roma da prima osteggia la inquisizione,
   e perchè. — Persecuzioni a Modena. — Del Castelvetro e della
   infamia del Caro buon letterato ed uomo pessimo: nè chi vive
   in corte di Roma può essere diverso. — Sonetto del Caro contro
   il Castelvetro mandato a memoria per virtù dei reverendi padri
   barnabiti. — Confronto delle lapidi sepolcrali di ambedue.
   — Feroce e moltiplice persecuzione a Ferrara: Olimpia Morato
   fuggendo scampa. — Commissione del re di Francia alla zia Renata
   duchessa di Ferrara; sue angustie; messa in carcere, divisa dai
   suoi: il figlio Alfonso la manda via. — Questi il _magnanimo_
   Alfonso di cui canta il Tasso: in che pregio il _magnanimo_
   tenesse il Tasso. — Grandezza d'animo di Renata; sue figliuole.
   — Venezia tira partito dalla libertà di coscienza come da ogni
   altra cosa; ma poi spaventala dalle minacce di Roma piega:
   persecuzioni costà. — Terrore cattolico nell'Istria. — I Vergeri.
   — Caso miserabile di esuli veneziani dannati a morte per eresia.
   — Quali i supplizi veneziani. — Improntitudine dello inquisitore
   contro il duca di Mantova. — Ferocie clericali a Faenza ed a
   Parma; a Faenza il popolo dà di fuori e si sfoga. — Falsità
   pretine a Locarno; miserie dei Locarnesi spatriati. — Disputa
   tra il nunzio e le donne di Locarno. — Avventura di Barbara
   Montalto. — Altre atrocità pretine da clericali moderni, massime
   dal Cantù, non pure scusate, ma quasi lodate. — Roma avversa a
   Napoli la Inquisizione di Spagna perchè intende esercitarla da
   sè. — Lamentabili casi avvenuti in Calabria. — Sansisto e la
   Guardia colonne infami per Roma. — Corrispondenza tra Roma ed
   Austria, e poi tra Austria e Francia; digressione intorno alle
   condizioni presenti d'Italia. Testimonianze cattoliche intorno
   alle crudeltà sacerdotali da mettere non che ad altri pietà a
   Nerone. — Bartolomeo Fonzio mazzerato nel Tevere. — Paolo IV
   invaso da libidine di sangue: popolo romano rompe le statue di
   lui morto, mentre avrebbe dovuto rompere la testa di lui vivo. —
   I parziali di Pompeo Di Negri mercè settemila ducati ottengono
   che prima di bruciarlo lo strangolino: questo il Cantù afferma
   che i preti facessero senza quattrini; ma per essere creduti
   dal Cantù bisogna essere preti e carnefici. — Pio V più feroce
   di tutti: varie stragi a Como, a Torino, a Roma. — Paschali
   strangolato ed arso alla presenza del papa. — Altre persecuzioni.
   — Si torna a Lucca: diligenze per estirpare in cotesta repubblica
   l'eresie. — Lucchesi sciamano a frotte, massime i Burlamacchi:
   dove si rifuggissero; discendenza ed estinzione della linea di
   Francesco Burlamacchi.

CONTINUAZIONE DEL CAPITOLO V. Pag. 5.

CAPITOLO VI. Pag. 97.

   I moderati del 1859 erigono al Burlamacchi una statua, ma
   non ne dettano la vita, e perchè. — Concetto del Burlamacchi
   repubblicano e avverso al potere temporale. — Sua prudenza ed
   arti adoperate a procacciarsi compagni nella impresa. Sebastiano
   Carletti chi fosse; prima operaio nel fondaco Burlamacchi, poi
   soldato sopra le galere di Lione Strozzi; viene a Lucca, va a
   Marsiglia per tirare lo Strozzi nella congiura. — Cesare Benedino
   è messo a parte della impresa: chi fosse; come lo adoperasse
   il Burlamacchi, che lo tratta più largamente di quello che la
   Repubblica fiorentina non trattasse il Machiavelli. — Generosità
   del Burlamacchi. — Gli Strozzi e l'indole loro; Bastiano Carletti
   va a Marsiglia per conferire col priore; non ce lo trovando,
   lo raggiunge a Parigi. — Ragioni diverse delle congiure. —
   Bastiano va in Iscozia ed in Inghilterra col priore, e succede
   una sosta alla congiura: gesti del priore costà. — Favorito
   da Francesco I, ma poco accetto ad Enrico II, e perchè. — Lo
   pospone nel comando dell'armata ad altro capitano meno degno;
   non per questo si ribella, come il Doria, e perchè. — Lione
   Strozzi, priore di Capua come il padre suo Filippo, si giudica
   fosse ateo. — Il Carletto, tornato a Lucca, ferma una posta fra
   Lione Strozzi e Francesco Burlamacchi a Lucca; ma Lione balena;
   pure va a Venezia per aspettarlo. — Il Burlamacchi è eletto
   commissario delle milizie di montagna: quando queste milizie
   venissero instituite: reputazione di questo ufficio e vantaggi
   che porge ai disegni del Burlamacchi. — Va a mettere pace tra
   San Quirico e Castelvecchio, ma è pretesto; messa da banda la
   pace, schizza a Bologna: quivi lasciato il servo, va a Ferrara,
   dove conferisce co' riformati: poi s'incammina a Venezia dopo
   avere da capo lasciato il servo Bati a Francolino, ma poi ce lo
   raggiunge; motivi presunti onde così costumasse il Burlamacchi. —
   Quello che avvenisse a Venezia secondo che depose con giuramento
   in giudizio Bartolomeo da Pontito detto il Bati. — Differenza di
   forma e d'ingegno fra il Burlamacchi e lo Strozzi. — Conferenza
   fra questi due. — Il Burlamacchi espone a parte a parte l'ordine
   della congiura e il modo di riuscirvi: Lione approva, ma piglia
   tempo per la esecuzione della impresa: pericoli e vantaggi dello
   aspettare, e per converso dello affrettarsi. — Il Burlamacchi
   torna a Lucca, dove attende a confermare gli amici ed a crescere
   il numero dei suoi seguaci; esce degli anziani: subito dopo lo
   eleggono gonfaloniere con universale soddisfazione. — Manda più
   volte il Benedino a Venezia sotto pretesto di comprare tinte, per
   sollecitare lo Strozzi, che gingilla senza prendere nè lasciare.
   —

CAPITOLO VII. Pag. 125.

   Le passioni umane di che ragione sieno. — Chi fosse Andrea
   Pessini, e suo carattere morale. — Cagione per la quale il
   Pessini si consiglia di nocere al Burlamacchi. — Imprudenza del
   Benedino, che in lui si confida; il Pessino cavalca a Firenze;
   tradisce patria ed amico rivelando tutta la congiura al duca
   Cosimo, che ha paura e dissimula. — Tristizia dei tempi, ai
   quali possono solo paragonarsi i nostri. — Se possa essere vero
   che il Pessino confessasse al Benedino il suo tradimento; com'è
   verosimile se ne accorgesse il tradito; il Benedino ne porge
   notizia al Burlamacchi: quali le parole e le deliberazioni
   di lui; è statuita la fuga e il modo per eseguirla. — Scrive
   lettera alla Signoria con la quale purga da ogni complicità
   amici e parenti; se solo accusa: generosità adoperata verso
   l'Umidi sanese, e codardia del medesimo. — I magnanimi sensi del
   Burlamacchi derisi dai bracchi del principato. — L'Umidi svela
   la congiura a Bonaventura Barili cancelliere della Signoria. —
   Provvisioni del Burlamacchi per accertare la fuga, ed ordini che
   dà a Baccio donzello. — Il Burlamacchi tarda a presentarsi alla
   porta San Pietro, e discorsi che ne hanno fra loro Baccio e il
   Benedino. — Preteso imbroglio dei preposti alla custodia delle
   porte se verosimile. — Francesco esce di palazzo a sera, aspetta
   nel cortile il cugino Garzoni, che venuto esce con esso: racconto
   del Burlamacchi inverosimile, ma fatto a posta per salvare il
   cugino Garzoni: come si può supporre che accadesse il caso. — Il
   Burlamacchi, trovando impedita alla fuga la via, torna indietro;
   va a casa sua; consulta di parenti, che lo consigliano rientrare
   in palazzo. — La Signoria manda per esso, ed egli va: terrore
   e viltà dei Signori non intesi della congiura; smanie paurose
   dei compiici; tutte si appuntano a danno del Burlamacchi. —
   Magnanimità di questo, che dichiarava ignari tutti della sua
   trama, egli solo colpevole; dopo molte ambagi gli anziani lo
   fanno condurre alle sue stanze e guardarlo a vista; distrugge
   carte e ogni altro testimonio della sua impresa. — Consulta del
   consiglio, dove si propone sostenere prigione il Burlamacchi;
   esquisite cautele che si adoperano perchè non fugga e non si
   ammazzi. — Giusti timori degli anziani esposti; mandansi oratori
   ai diversi principi ed al concilio di Trento; a Cosimo spediscono
   il più astuto dei cancellieri. — Raccomandazione ai cittadini
   lucchesi stanziati in paesi stranieri di difendere dalle accuse
   la Repubblica. — Colloquio fra il cancelliere lucchese e il duca
   Cosimo; la batte tra pirata e corsaro: non si conchiude nulla.
   — Il duca per isgarrarla invia alla Repubblica oratore messere
   Agnolo Niccolini, e si conchiude anco meno.

CAPITOLO VIII. Pag 149.

   Lucchesi, paurosi che il caso del Burlamacchi possa danneggiarli,
   fanno profferte vilissime a cesare. — Due volte mandansi oratori
   ai principi per tenerseli bene edificati. — Manoscritto originale
   del processo si conserva negli archivi di Lucca. — Quali le
   aderenze del Burlamacchi nelle città toscane. — Corrispondenze
   co' Sanesi quali. — Sua virtù a scolpare l'Umidi, che pure lo
   aveva tradito. — Confessa lui essere buono cattolico, e non
   ci si crede. — Testimonianze soppresse ed ora restituite. — E
   messo al tormento, altezza di animo dimostrata da lui in cotesto
   frangente. — Scrive allo imperatore ed al gonfaloniere di Lucca:
   della prima lettera non trovammo traccia; forse conservasi negli
   archivi di Vienna; pure se ne conosce il contenuto e si dichiara:
   si riporta la lettera del Burlamacchi al gonfaloniere. — Che cosa
   egli e gli Strozzi intendessero fare di Cosimo duca di Firenze.
   — Torturato da capo. — Smanie di Cosimo per avere nelle mani il
   Burlamacchi. — Lettera del duca Cosimo in corte allo imperatore
   per ottenere il suo intento. — Ferrante Gonzaga governatore di
   Milano manda un commissario imperiale per rinnovare gli esami del
   Burlamacchi. — Martoriato da capo: da sè spogliasi e si adatta
   alla corda. — Minacciato della prova del fuoco, da cui per pietà
   il commissario si rimane. — Terminato il processo, il commissario
   torna a Milano con due istanze contrarie: il duca voleva il
   Burlamacchi, e la Repubblica non glielo voleva dare. — Richiesto
   a Milano: squisite diligenze per custodirlo e perchè: si consegna
   con pubblico contratto: è messo in prigione onesta, ma dopo
   pochi giorni condannato a morte. — Tentativi degli amici e dei
   parenti del Burlamacchi per liberarlo. — Il Gonzaga dà buone
   parole; memoriali allo imperatore. — Andrea Doria raccomanda il
   Burlamacchi allo imperatore. — Per salvare Francesco, spendono
   in corte i parenti più di 36m. ff. — La moglie del Burlamacchi,
   la madre e l'amica di Cosimo pregano costui per la salvezza di
   Francesco, e risposta del duca. — Tentasi la fuga: disdetta onde
   non potè avere luogo: se vero o verosimile il caso. — Compagni
   di prigionia; chi fosse il marchese Giulio Cibo Malaspina. —
   Vengono per la tirannide le vendemmie di sangue: quali le cause
   che mossero cesare a incrudelire, e tra queste le principali.
   — Ultimi particolari della vita di Francesco Burlamacchi. — Sua
   sepoltura; potrebbero rinvenirsene le ossa. — Sebastiano Carletti
   si salva. — Fine miserabile di Cesare Benedino decapitato 14 anni
   dopo la congiura. — Commiato dello Autore.

APPENDICE Pag. 183.



  [Illustrazione: ALBERO DELLA FAMIGLIA BURLAMACCHI]



  Edizioni della Casa Editrice di M. Guigoni

  VITA
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  FRANCESCO PREDARI

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Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così
come le grafie alternative (morìa/moría e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici.





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