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Title: Vita di Guarino Veronese
Author: Sabbadini, Remigio
Language: Italian
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                           REMIGIO SABBADINI


                                  VITA
                                   DI
                            GUARINO VERONESE



                                 GENOVA
                 TIPOGRAFIA DEL R. ISTITUTO SORDO-MUTI
                                  1891



             Estratto dal _Giornale Ligustico_, anno XVIII.



VITA DI GUARINO VERONESE


Questa _Vita_ è condotta sull'Epistolario inedito di Guarino. Non vi
ho apposto note, perchè ne avrebbero accresciuto smisuratamente il
volume; dall'altra parte è stato mio intendimento di dare al racconto
biografico una forma, per quanto era in me, artistica, liberandolo
da ogni ingombro di citazioni e di discussioni e mantenendolo,
possibilmente, sempre oggettivo.

Le molteplici relazioni di Guarino col suo tempo, raccolte in gruppi
di maggiore o minor numero di anni, sono state ora intrecciate con la
biografia, ora rappresentate separatamente, secondo l'opportunità.
Da esse si vedrà come Guarino e il suo secolo si illustrino
vicendevolmente, ma senza che la personalità Guariniana ne rimanga
scemata o sopraffatta.

Nella storia dell'umanismo Guarino è una delle più grandi e simpatiche
figure; se io sia riuscito a ricomporla nella sua nativa interezza,
tocca al lettore il dirlo; a me basta la coscienza di avere a questa
ricomposizione consacrato non piccola parte della mia vita e sofferto
per essa «fami, freddi e vigilie».

  Catania 16 ottobre 1890.

                                                        R. SABBADINI.



Primi anni e primi studi di Guarino.

(1374-1402)


1. Da donna Libera e da mastro Bartolomeo dei Guarini nacque Guarino
in Verona nel 1374, l'anno della morte di Francesco Petrarca. Dalla
patria egli desunse il soprannome di _Veronese_. Aveva un fratello,
Lorenzo, il quale un bel giorno scomparve da Verona, senza che la
famiglia ne avesse poi più notizie. Rimasero i due fratelli sin dai
teneri anni orfani del padre. A Guarino l'immagine paterna tornava alla
mente come una nebbia e un sogno. Bartolomeo prese parte alla guerra
combattuta nel 1386 tra Francesco da Carrara, signore di Padova, e
Antonio della Scala, signore di Verona, la quale finì miseramente con
la disfatta dei Veronesi nella battaglia del 25 giugno presso a Padova.
Le soldatesche veronesi erano guidate da Cortesia Serego, capitano che
a dir di Guarino «di battaglie non se ne intendeva se non per quanto le
avea lette nei libri o vedute nei quadri». Mastro Bartolomeo fu fatto
prigioniero con altri ottomila e morì poco dopo tra i nemici. Allora
Guarino era appena dodicenne. I due figli rimasero sotto la cura della
madre Libera «il modello delle mogli e delle vedove», la quale da quel
dì in poi si consacrò tutta alla loro educazione.

2. Guarino fece i primi suoi studi naturalmente in Verona, dove ebbe
forse maestro di filosofia morale Paolo de Paolinis e condiscepoli il
Maggi e Giannicola Salerno, più giovani di lui, quegli stessi ai quali
fu più tardi in Verona venerato maestro. Dai suoi compagni fu subito
stimato ed amato per la sua bontà d'animo e per l'attività. Aveva
ingegno svegliato, memoria pronta e, ciò che soprattutto piace in un
fanciullo, bel modo di porgere e di recitare, nel che egli ammirava
tanto il suo maestro Crisolora. Era inoltre molto temperante e questo
contribuì a renderlo forte a sostenere le fatiche dello studio, al
quale egli si sentiva irresistibilmente chiamato. E siccome Verona
non poteva offrir mezzi più che per una educazione elementare, Guarino
dovette recarsi altrove a sentire dotti maestri, visitando a tale scopo
«molti luoghi d'Italia».

3. Fra quei «molti luoghi» va compresa la città di Venezia, nella quale
egli «gettò le prime basi del suo vivere, dei suoi costumi e della sua
educazione» e dove ebbe la fortuna d'incontrarsi nell'illustre patrizio
Paolo Zane, che, ripromettendosi molto dall'ingegno e dall'attività
di lui, lo prese a ben volere e gli fu largo di incoraggiamenti e di
sovvenzioni. E fra quei «molti luoghi» va compresa soprattutto Padova,
che allora come oggi era centro degli studi per quelle provincie che
noi chiamiamo venete. A Padova teneva scuola di retorica un illustre
maestro, Giovanni da Ravenna, cancelliere dei Carraresi. Tra gli
allievi del Ravennate dovette Guarino avervi trovati molti dei suoi
Veronesi, come Luigi Cattaneo, molti dei Veneziani, come Girolamo
Donati; ci dovette avere trovato lo Zabarella, Pier Paolo Vergerio, il
Polenton, Ogniben Scola e altri.

4. La scuola del Ravennate a Padova non era umanistica; l'umanismo
penetrò a Padova nel 1408 col Barzizza. Il latino del Ravennate era
quello dei teologi e dei giuristi, latino che più tardi chiamarono
barbaro e del quale Guarino ci dà questo saggio assai istruttivo:
«_Vobis regratior quia de concernentibus capitaniatui meo tam
honorificabiliter per unam vestram litteram vestra me advisavit
sapientitudo_». Guarino stesso nelle sue lettere adoperava il latino
barbaro; di che lo rimproverava più tardi il figlio Niccolò, a cui era
capitata fra mano alcuna di quelle antiche lettere del padre.

5. Terminati gli studi, si trasferì a Verona e ivi aperse una scuola
privata. Fra i suoi allievi di quel tempo fu certamente Guglielmo della
Pigna veronese. Costui nel 1413 si dottorò in giurisprudenza a Padova e
prima di quell'anno era stato alunno di Guarino: ciò non potette essere
che in Verona, perchè il Pigna non fu mai a Firenze.

6. Anche a Verona la cultura era al medesimo livello di Padova;
l'umanismo in Verona fu portato solo da Guarino nel 1419. Però non
mancava in questa città, alla fine del secolo XIV e al principio del
XV, una classe di persone studiose; e' era Marzagaia, morto assai
vecchio tra il 1431 e il 1432, che godeva la stima di Guarino, maestro
di grammatica e autore della voluminosa opera _De modernis gestis_
foggiata su quella di Valerio Massimo; c'erano alcuni della famiglia
Nogarola, la quale pare si fosse messa a capo di un certo movimento
letterario. Due Nogarola meritano particolare menzione, Angela e
Giovanni: quella zia, questo zio delle famose sorelle Ginevra e Isotta.

7. Angela Nogarola, che deve aver vissuto parte a Verona, parte a
Vicenza, scriveva versi latini, coi quali essa si indirizzava ai
principi di quel tempo, come Pandolfo Malatesta, Giacomo da Carrara,
Giangaleazzo Visconti; ai letterati, soprattutto vicentini, come
Niccolò Facino, Antonio Loschi, Matteo Orgian. Reminiscenze classiche
se ne incontrano, p. e. di Vergilio, Orazio, Ovidio, Lucano, ma il suo
stile non è classico e i versi rimati attestano quell'indirizzo ancora
barbaro, del quale si piaceva tanto il suo corrispondente vicentino
Matteo Orgian. Troviamo in lei anche qualche reminiscenza petrarchesca,
il che prova che essa non rimase estranea all'influenza del Petrarca.

8. Maggiore influenza senza confronto esercitò il Petrarca su Giovanni
Nogarola, ma non però il Petrarca latinista, sibbene il Petrarca
rimatore. Giovanni venne creato cavaliere nel 1404 insieme con l'amico
Giannicola Salerno; nel 1408 era tra i consiglieri della sua città. Fu
guerriero, poeta e congiurato.

9. Nel 1405 Verona dal dominio degli Scaligeri era passata a quello
della repubblica di Venezia. Il mutamento non dispiacque alla
maggioranza dei Veronesi, i quali furono da allora in poi tra i
più fedeli sudditi della Serenissima; ma rimase sempre in Verona un
partito, che agognava il ritorno all'antico dominio. Alla testa di quel
partito si mise nel 1412 Giovanni Nogarola, approfittando forse delle
tristi condizioni in cui versava il governo veneto per l'invasione
degli Ungheri. Ma il tentativo finì miseramente per il Nogarola, il
quale fu preso e nel 28 decembre dell'anno stesso condannato e nel
gennaio 1413 decapitato in Venezia.

10. È strano trovare stoffa di congiurato in un poeta amoroso
petrarcheggiante. I congiurati del secolo XV furono umanisti, che
s'ispiravano ai sentimenti attinti agli autori romani. Può darsi del
resto che il Nogarola abbia nel Petrarca, oltre che il poeta amoroso,
studiato e ammirato anche il poeta civile e che abbia esercitato sul
suo animo una certa influenza pure Cola di Rienzo. In ogni modo il
Nogarola ha anche cultura classica, come appare da qualcuna delle sue
poesie volgari.

11. Le poesie volgari del Nogarola, le quali ci sono arrivate in buon
numero, sono foggiate su quelle del Petrarca. Sono per la maggior parte
sonetti con qualche sestina e qualche canzone. Dal Petrarca, oltre il
nome di Laura, i pensieri, le strutture, toglie anche i versi interi.
La sua lingua ha molti elementi veneti.

12. Nè il Nogarola era solo in Verona; altri Veronesi poetavano in
volgare, p. e. suo fratello Leonardo, il conte Gregorio dal Verme,
Tebaldo Broglio e Giannicola Salerno. Del Broglio sappiamo soltanto
che nel 1405 fu dei commissari i quali andarono a Venezia a far atto
di sudditanza in nome di Verona al governo della Serenissima. Ben più
conosciuto è il Salerno, nato nel 1379 e morto nel 1426: buon letterato
e magistrato. Con tutti questi veronesi il Nogarola corrispondeva in
rima. Di qualcuno di essi abbiamo anche le risposte, come del Salerno,
il quale oltre alla poesia amorosa coltivava pure la satirica.

13. Il Nogarola carteggiava anche con amici di fuori, quali Antonio
Loschi, Antonio Alvaroto e Tommaso Cambiatore. Con questi due ultimi
corrispondeva in rima. Antonio Alvaroto era un valente giureconsulto
padovano, al quale sono indirizzati molti sonetti; ma non ci pervenne
nessuna sua risposta. Risposte e non poche abbiamo invece del
Cambiatore, che era amico del Salerno, poichè alcuni sonetti sono dal
Nogarola indirizzati in comune al Cambiatore e al Salerno.

14. Il Cambiatore è un uomo di qualche importanza. Nacque a Reggio e
studiò a Pavia sotto il Pinotti, zio materno. Fu giurista e magistrato.
Si occupava soprattutto di studi morali e di poesia volgare. Nella
poesia è petrarcheggiante. Tradusse in ottave l'_Eneide_. Morì tra il
1451 e il 1456. Insegnò legge a Padova nel 1409; e fu probabilmente
allora che conobbe il Nogarola. Era amico del suo concittadino Galasso
conte di Correggio, cultore degli studi cavallereschi. Teneva commercio
epistolare col modenese Gaspare Tribraco, col Bruni a Firenze, col
quale discuteva di questioni morali, con Pier Candido Decembrio a
Milano, al quale si raccomandava per un impiego presso il Visconti, e
con Guarino.

15. Di buona parte di questi rimatori era amico Guarino; ma non
pare che egli poetasse in volgare; egli batteva altra via, la via
degli studi antichi. A lui più che il Petrarca rimatore dovette
dare nell'occhio il Petrarca umanista. Ma più di tutto attrassero
l'attenzione di lui il nome e la fama di un grande straniero, del quale
si parlava molto allora in Italia: il greco Manuele Crisolora.

16. Il Crisolora era capitato a Venezia nel 1396 con una ambasciata
dell'imperatore di Costantinopoli; ma invece di parlare di politica,
incominciò a parlare di letteratura. Spirava per l'aria un nuovo e
forte risveglio degli studi classici; per il latino l'Italia potea
bastare da sè, ma per il greco aveva bisogno di un maestro. Quale più
bella occasione del Crisolora, venuto quasi per miracolo in Italia?
Ne approfittò subito Firenze, dove il Salutati alimentava la sacra
scintilla suscitata dal Petrarca; e nel 1397 Firenze aveva già il
Crisolora professore di greco.

17. Tre anni insegnò il Crisolora a Firenze. Nel 1400 arrivò in Italia
il suo imperatore, che faceva un viaggio politico per le corti di
Europa. Gli si accompagnò, cogliendo quel pretesto per fuggire la
pestilenza che infestava Firenze e anche per trarsi da una posizione
ambigua, che gli era stata creata in quella città da un certo
raffreddamento degli animi.

18. Col seguito dell'imperatore si trasferì alla corte del Visconti
in Milano. Di là l'imperatore proseguì il suo viaggio diplomatico per
la Francia e il Crisolora si fermò, invitato dal duca Giangaleazzo,
protettore delle lettere, a dare un corso di retorica e di greco nello
Studio di Pavia. Giangaleazzo aveva fatto pratiche col Crisolora
per chiamarlo a Pavia sin da quando egli insegnava a Firenze. Fra
gli scolari di Pavia ebbe Uberto Decembrio, segretario del candiotto
Pietro Philargis, allora vescovo di Novara, più tardi arcivescovo di
Milano e nel 1409 papa col nome di Alessandro V. Aveva il Crisolora
tradotta letteralmente in latino la _Repubblica_ di Platone; su quella
traduzione letterale Uberto ne stese una un po' più elegante. Più
tardi, nel 1438, la traduzione fu ripigliata da Pier Candido figlio
d'Uberto e ridotta a forma assai migliore. Pier Candido era allora
bambino di due o tre anni, eppure la «figura angelica», come egli la
chiamava di poi, del Crisolora gli rimase così impressa, che non se ne
dimenticò mai.

19. Guarino contava omai ventott'anni. Che aveva egli fatto sino
allora di buono? Quel poco di latino barbaro imparato a Padova era
ben meschino acquisto per uno, come lui, che si sentiva dentro un
irresistibile impulso a progredire. Capì che senza il greco non avrebbe
conchiuso nulla e perciò prese una energica risoluzione.

20. Morto nel settembre 1402 Giangaleazzo Visconti, il Crisolora lasciò
Pavia e si riunì a Venezia all'imperatore greco, che nei primi mesi del
1403 tornato dalla sua visita alle corti di Europa riprendeva la via
dell'Oriente. Migliore occasione non poteva offrirsi a Guarino. Ed egli
l'afferrò senza esitanza e si accompagnò al Crisolora per imparare da
lui il greco.



Guarino a Costantinopoli.

(1403-1408)


21. E qui comincia la vita nuova di Guarino. Egli forse trovavasi a
Venezia quando vi arrivarono contemporaneamente l'imperatore dal suo
viaggio diplomatico e il Crisolora da Pavia. Si accompagnò dunque al
Crisolora e con esso salpò da Venezia per Costantinopoli.

22. Le spese del viaggio le pagò a Guarino Paolo Zane, se pure non
se lo prese egli con sè, perchè lo Zane aveva per conto proprio e per
conto della repubblica veneta continue occasioni di andare in Grecia.
Arrivato a Costantinopoli, Guarino fu ospitato in casa dello stesso
Crisolora, dove egli servì come domestico, mancandogli certamente il
danaro per pagare la pensione. E non ebbe a pentirsene, poichè così
trattando anche con la gente bassa potè formar meglio l'orecchio alla
lingua greca.

23. Due erano in quel tempo i Crisolora a Costantinopoli: Manuele e
Giovanni, quello zio, questo nipote. Tutti e due furono maestri di
Guarino. La famiglia dei Crisolora era nobilissima e imparentata con
la dinastia dei Paleologi allora regnante. Per mezzo del Crisolora
fu Guarino introdotto nella famiglia imperiale, dove trovò cortese
accoglienza e fu preso a ben volere, specialmente da Giovanni,
figlio dell'imperatore ed erede al trono. Gli venne anzi offerta
dall'imperatore una posizione stabile a Costantinopoli, che egli però
rifiutò.

24. La casa del Crisolora era in un amenissimo sito e Guarino ricorda
con affetto i cipressi e l'orto pensile, dove andava spesso a studiare.
Grande ammirazione poi destò in lui «la città regale coi suoi due mari,
coi suoi sontuosi edifici, coi suoi monumenti d'arte;» e molto diletto
prendeva nel sentire dalle bocche dei bambini e delle popolane uscire
tanto fresca ancora e così grammaticalmente conservata la lingua di
Demostene e di Senofonte, egli che nel suo volgare italiano non aveva
riconosciuto più nessuna traccia dell'antica struttura grammaticale
latina.

25. Manuele Crisolora andava e veniva spesso da Costantinopoli a
Venezia per commissioni dell'imperatore; in quelle assenze Guarino
frequentava la scuola del nipote di lui Giovanni. I primi anni del
soggiorno di Costantinopoli furono da Guarino dedicati interamente
allo studio; ma poi dovette pensare anche al proprio sostentamento e fu
allora che si mise ai servizi del suo protettore Paolo Zane. E infatti
in un documento del 1406 incontriamo Guarino con la qualità di notaio
e cancelliere dello Zane. In quel tempo ottenne pure una magistratura
a Scio. È ovvio supporre che Scio, sotto lo giurisdizione di Venezia,
fosse in uno di quegli anni governata dallo Zane e che Guarino lo
seguisse come segretario.

26. Frutto degli studi di Guarino in Costantinopoli furono alcune
epistole in verso e in prosa e qualche traduzione dal greco 9 come
la _Vita di Alessandro_ di Plutarco e la Calunnia di Luciano. La
_Calunnia_ fu da lui mandata da Costantinopoli al patrizio veneziano
Giovanni Quirini. Tra le famiglie veneziane con cui era in intima
relazione va ricordata quella dei Barbaro, che ebbe poi tanta parte
nelle vicende della sua vita. Prima di partire per Costantinopoli aveva
conosciuto i fratelli Zaccaria e Francesco, quest'ultimo fanciulletto
ancora e che fu più tardi uno dei suoi più illustri scolari. Nel 1408
Francesco aveva manifestato il desiderio di percorrere la via degli
studi; era da poco venuto a Padova Gasparino Barzizza, il Nestore dei
maestri di quel tempo, e il Barbaro si preparava a frequentare la sua
scuola. In Venezia però, dove si aveva più fiducia nel traffico che
nella letteratura, il Barbaro veniva censurato, anzi beffato della sua
risoluzione. Egli si difendeva mettendo innanzi l'esempio di Guarino e
a lui scrisse dimandandogli un consiglio.

27. Guarino gli rispose incoraggiandolo a secondare imperterrito la
propria vocazione e a non curarsi dei sarcasmi della gente profana
e dedita all'interesse materiale: «essere le ricchezze un possesso
labile, sola la cultura non andar soggetta a perdersi; che il solo
vero bene è la virtù e che il sapiente è il re dell'universo». La
lettera è infiorata di citazioni da Cicerone, Vergilio, Ovidio, Esiodo,
Plutarco. Nello stile molto impacciato si nota un abuso di metafore. La
conclusione è che egli anela il momento di abbracciare e baciare il suo
Francesco e che tra poco tornerà sano e salvo, ma con la borsa vuota:
spera in lui e negli amici per trovare una occupazione da campar la
vita.

28. Nel 1408 dunque Guarino tornò da Costantinopoli. Ma la trovò
l'occupazione desiderata? Forse egli contava di trovarla in Venezia,
ma s'ingannò. Qualche mese si sarà ivi fermato e non più; nel 1409
egli era in Verona sua patria, dove recitò il discorso di congedo per
il podestà Zaccaria Trevisan. Però nemmeno a Verona si poté collocare;
e allora tentò una nuova via: andò a Bologna. A Bologna risiedeva la
curia pontificia: chissà che non l'attendesse colà la sua fortuna? Vi
arrivò nel febbraio del 1410.

29. Vi arrivò in compagnia di due greci: Demetrio e Giovanni. Demetrio
è quel Cidonio, che accompagnò sempre il Crisolora e che forse il
Crisolora nel partire il 1408 per la Francia aveva lasciato a Venezia,
con l'ordine di attenderlo colà o altrove. Chi fosse Giovanni, il
cavaliere greco, non so: pare che dovesse portar dei libri e invece non
portò che le sue vesti alla foggia greca, bizzarre, da quanto sembra,
e che eccitavano l'ilarità nella moltitudine e nella curia.

30. La curia raccoglieva in quel tempo i migliori elementi della classe
letterata d'Italia. Non vi si trovavano più i tre Veneti Zaccaria
Trevisan, Marino Caravello e Pietro Miani, ma c'erano il Rustici e
Bartolomeo da Montepulciano. C'era Bartolomeo della Capra, cremonese,
vescovo allora della sua città, poi di Pavia e da ultimo arcivescovo di
Milano, buono scopritore di codici; c'era Antonio Loschi, già famoso
umanista; c'era lo Zabarella, arcivescovo e poi cardinale di Firenze,
valente maestro e cultore di filosofia. Ma i due più belli ornamenti
della curia erano certo il Poggio, sempre sbadato e distratto, a
cui gli ozi di Costanza riserbavano così splendida fama, e il Bruni,
che sino allora aveva sviluppata la sua operosità specialmente nella
filosofia e nelle traduzioni dal greco.

31. In mezzo a questa gaia e colta società entra, novello ancora,
Guarino, quantunque non per tutti novello; qualcuno era sua vecchia
conoscenza dei tempi che era stato scolaro in Padova, come lo
Zabarella. E poi lo precedeva una valida raccomandazione, l'essere
stato alunno del Crisolora in Costantinopoli. Al Bruni fece sopra
tutti ottima impressione ed egli ce lo presenta senz'altro come giovane
dottissimo. Così Guarino potè stringere sin d'allora con gli umanisti
della curia quell'amichevole relazione, che crebbe poi negli anni
successivi per reciproca stima e scambio di lavoro letterario.

32. Al Bruni venne subito in mente che Guarino sarebbe stato un ottimo
acquisto per lo Studio fiorentino e infatti ne scrisse al Niccoli
facendogliene la proposta. La proposta fu subito accettata, perchè dopo
non molti giorni il Bruni riscriveva al Niccoli annunziandogli prossima
la venuta di Guarino a Firenze.



Guarino a Firenze.

(1410-1414)


33. Guarino pertanto nel marzo 1410 andò a Firenze, dove iniziò la
sua lunga e famosa carriera didattica. Ivi trovò buona accoglienza
e schietti amici e valenti scolari. Antonio Corbinelli gli offrì la
propria casa, nella quale Guarino divise col suo ospite liberale
«gli studi, i pensieri, il vitto, il sonno, i discorsi». Un amico
sincero ebbe nell'«ottimo e generoso» Palla Strozzi, con cui lavorava
in comune. Era in buoni rapporti con Angelo Corbinelli, «esemplare
come uomo di stato e come educatore dei propri figliuoli;» con Paolo
Fortini cancelliere della repubblica; con Roberto Rossi traduttore di
Aristotele; con Antonio Aretino già magistrato a Vicenza, con Biagio
dei Guasconi, con Girolamo Barbadoro, con la famiglia Boninsegni, col
monaco Ambrogio Camaldolese. Tra i suoi migliori scolari di Firenze
vanno ricordati i due Corbinelli e Giovanni Toscanella.

34. Oltre di questi amici c'erano in Firenze alcuni veronesi, come
Luigi Cattaneo, che fu in Firenze giudice della mercanzia nel 1411, e
il Giuliari, suo segretario. Nella metà poi del 1413 la vita letteraria
a Firenze si dovette maggiormente animare per la presenza della corte
di Giovanni XXIII; sebbene egli non potesse entrare in città, dove
entrarono però quelli del suo seguito. Qui rivide Guarino tutti gli
amici che aveva imparato a conoscere in Bologna e rivide anche il
venerato suo maestro Crisolora.

35. Con la società letteraria del resto che si raccoglieva intorno al
pontefice negli anni che la curia stette a Roma (1411-1413) Guarino era
da Firenze in continua corrispondenza, specialmente col Crisolora. Il
Crisolora, venuto la prima volta a Roma con Giovanni XXIII nel giugno
del 1411, rimasto ammirato della grande metropoli dell'Occidente,
approfittando dei suoi ozi scrisse una dissertazione dove mise Roma a
raffronto con Costantinopoli, la grande metropoli dell'Oriente, e ne
mandò una copia a Guarino. Guarino gli rispose ringraziandolo e facendo
le sue lodi.

36. Oltre che con la società letteraria a Roma, Guarino entrò per mezzo
di un suo vecchio amico in relazione con quella di Rimini, che metteva
capo al marchese Carlo Malatesta, «eroe della penna e della spada»; con
lui Guarino avviò scambio di libri.

37. Ma molto più vivi sono i rapporti di Guarino coi tre centri
letterari del Veneto: Verona, Padova, Venezia. I due veronesi Guglielmo
della Pigna e Luigi Cattaneo lo tenevano in relazione con la società di
Verona. Il Cattaneo studiava legge a Padova. A Padova regnavano allora
Gasparino Barzizza bergamasco e un condiscepolo di Guarino, Ogniben
Scola padovano, intorno ai quali si raccoglieva tutta l'attività
letteraria. Lo Scola specialmente era di una grande versatilità e,
si direbbe, elasticità. Corrispondeva col Bruni e con lo Zabarella,
che erano presso la curia papale, e con Antonio Capodiferro; coi
veronesi Giovanni Nogarola, Paolo Maffei, Luigi Cattaneo, il Giuliari;
coi veneziani Giovanni Micheli, Niccolò Contarini, Marco Lippomano,
Pietro Donati, allora (1412) protonotario e più tardi arcivescovo di
Creta, e coi due Barbaro, Francesco e Ermolao, zio e nipote: Francesco
giovinetto di ottime speranze, Ermolao poco più che bambino d'ingegno
precoce.

38. Con questa società gaia, mobile, studiosa aveva strettissimi
legami Guarino. Erano suoi amici tutti, che aveva avuto occasione di
conoscere o a Venezia o a Padova prima di andare a Costantinopoli o
nel ritorno; alcuni erano suoi confidenti, il protonotario Donati e i
fratelli portoghesi Alfonso e Valesio, alunni del Barzizza. Ed egli
si piace di rappresentare umoristicamente quella società padovana.
«Ai pranzi di Pietro Donati non s'imbandisce Cicerone, Fabio e
Macrobio, ma Alessandro, Perdicca e i sacerdoti Galli. A Padova si
adora per patrono il dio Bacco, a cui si fa festa tutti i giorni. E
gli iniziati del dio cominciano sin dal mattino a chiamare a raccolta
con certe facce rubiconde, con certi nasi maestosi e bitorzoluti,
con certi occhi lagrimosi! Ivi mattina giorno e sera sempre orgia.
Altro che il ginnasio di Socrate e l'accademia di Platone! _in illis
namque disputari solitum aiunt, in his vero nostris dispotari, immo
trispotari quaterque potari frequens patriae mos est.... Academici de
uno, de vero, de motu disserunt, hi nostri de vino, de mero, de potu
dispotant_.

39. Questa società però attraversò un brutto momento. Negli anni 1411
e 1412 le città venete Udine, Venezia, Verona furono funestate da
una terribile invasione di Ungheri; Padova, Vicenza, Verona vennero
conquistate e saccheggiate. Lo Studio di Padova si chiuse, il Barzizza
si rifugiò a Ferrara, lo Scola a Verona e di là a Cremona, i giovani
patrizi veneziani a Venezia. Guarino soffrì molto per i danni toccati
alla sua amata Verona; e fosse per questo o per non so quali altri
motivi, l'anno 1412 gli passò molto triste. «Tutti i favori della
sorte mi si mutano in contrarietà; i pensieri, le deliberazioni
sortiscono l'effetto opposto. Le mie più belle e più fondate speranze
mi sguisciano di mano come serpenti. Fa una bellissima giornata? Mi
metto in viaggio e giù acqua e grandine a rovesci: tutto mi succede
al contrario dei miei desideri. Sicchè eccomi qui errante e ramingo
mutar luogo ma non fortuna». E finisce invidiando all'amico Scola, a
cui scriveva così sconfortato, la costanza nelle avversità e l'anima
veramente stoica.

40. Par di vedere in Guarino come scossa e pericolante la sua posizione
di professore a Firenze; altrimenti non si saprebbero spiegare quelle
sue querimonie. Che egli avesse in quella città incontrate molte e
potenti amicizie, si è veduto; bastino i nomi di Antonio Corbinelli,
Roberto Rossi, Palla Strozzi, tutte persone autorevoli e a lui
sinceramente affezionate. Ma è anche certo che vi deve aver trovato
non poche ostilità. Se ne sente l'eco, un po' lontana ma abbastanza
viva ancora, in una lettera posteriore di alcuni anni. «Io chiamo in
testimonio Dio e i suoi santi, che nel tempo che io fui a Firenze
non sorse, direi, giorno, che io non fossi tormentato da brighe,
da insulti, da litigi. Vi è in codesta setta malvagia tanta smania,
anzi avarizia di gloria, non di quella vera, ma di quella effimera
e apparente, che pur di conseguirla non hanno alcun riguardo alla
riputazione altrui. Onde non lodano nessuno se non con frasi mozze e
soggiungendo sempre: — Si aspetta che faccia meglio per l'avvenire.
— Se ti sentono lodare uno, se ne hanno a male, brontolano, fanno i
visacci e, come se la lode data agli altri andasse a scapito della
propria, invidiano i lodati e mordono i lodatori. Di qui animosità tra
loro, odio contro gli altri. Queste non sono amicizie ma cospirazioni».
Conchiude: _at vero paucorum improbitas plus ad nocendum quam
plurimorum amor, modestia ad iuvandum pollet, praesertim cum fragile
patrocinium haberi soleat ubi apud huiusmodi ingenia per innocentiam
victitare studeas_.

41. A chi alluda qui Guarino, non si sa, toltone Lorenzo Benvenuti.
Si capisce bene che la vita di un uomo si intreccia con quella di
altri che sono illustri, di altri che sono oscuri; e di persone oscure
si tratta qui senza dubbio. Ma non era oscuro al contrario un altro
fiorentino, che osteggiò accanitamente il nostro Guarino: quello
stesso che lo chiamò allo Studio di Firenze e che fu poi forse causa di
farnelo partire, intendo il Niccoli.

42. Sul Niccoli i contemporanei e specialmente i suoi nemici, come
il Bruni e il Filelfo, non lasciarono sfuggirsi occasione di dire
tutto il male possibile e caddero in esagerazioni. Ma dall'ammettere
le esagerazioni al negare ogni fede alle loro, sia pur passionate,
asserzioni, ci corre un bel tratto. Fu sparsa dal Filelfo la notizia
che il Crisolora, Guarino, l'Aurispa, chiamati a Firenze dal Niccoli,
furono poi da lui stesso o per invidia o per ingenita malvagità mandati
via. Per l'Aurispa l'accusa è falsa, ma per il Crisolora, della cui
partenza da Firenze si adducono altri motivi, non è falsa interamente,
giacchè il Bruni in una lettera al Niccoli parla chiaro di animosità di
costui contro il Crisolora. Quanto a Guarino poi l'accusa è vera almeno
per metà; non sarà stato il Niccoli la sola causa per cui Guarino
abbandonò Firenze, ma una delle principali senza dubbio.

43. Il Niccoli aveva delle buone qualità; e un amatore degli studi
classici gli perdona molto, perchè molto ha fatto in vantaggio di
essi, specialmente col raccogliere e copiare manoscritti. Guarino
nella sua invettiva contro il Niccoli è un po' troppo crudele, quando
mettendolo in canzonatura lo riduce alle proporzioni di un asino
carico di libri. Già il raccogliere codici e materiali era merito non
piccolo per quei tempi di preparazione. Ma lasciando ciò, era forse il
Niccoli null'altro che un semplice e dozzinale copista? Egli studiava
e discuteva la forma delle lettere, facendo così opera utile, perchè
su questa via egli fu condotto senza accorgersi a trattare questioni
ortografiche. L'ortografia non è disciplina oziosa e lo mostrarono
tutti quegli umanisti, che se ne occuparono di proposito, dal severo
Barzizza al geniale Poliziano, non escluso Guarino stesso, che compose
più tardi un trattato sui dittonghi latini e uno sugli spiriti greci:
del resto nell'emendamento dei testi chissà quante volte egli non
avrà discusso seriamente questioni di ortografia. Il Niccoli aggiunse
due elementi nuovi a queste ricerche: il confronto delle forme latine
con le corrispondenti greche e il sussidio delle lapidi, le quali non
soffrono le alterazioni, a cui vanno soggetti i manoscritti.

44. Dove Guarino ha ragione è nella pittura che fa del carattere morale
del Niccoli. Il Niccoli era in verità uomo moralmente meschino, che
dava molto appiglio alla satira e alla caricatura. Quel vantarsi di
saper tutto e dar la baia agli altri, mentre poi egli si lasciava
cogliere grossolanamente in fallo, era uno dei suoi capitali difetti.
Suo difetto era pure una tal quale burbanza da superiore coi pari;
talchè si è tentati a prestare intera fede a Guarino, dove racconta
che il Niccoli gli domandò dei codici, spacciando nei crocchi che egli
fosse suo schiavo. Altro suo difetto era l'invidia e deve esser vero
il fatto narrato da Guarino, che venuto il Niccoli in gelosia di un
condiscepolo, a cui era inferiore per ingegno, volesse obbligare lui,
Guarino, a cacciarlo dalla scuola. Ma Guarino era uomo di carattere
e non si sarebbe a niun costo piegato a servire così bassamente i
fanciulleschi dispettucci del suo protettore. Guarino oppose energica
resistenza; e il Niccoli lo cominciò a perseguitare prima nei circoli
privatamente, poi pubblicamente con una lettera.

45. Guarino non recedette: _ut conviciari et maledicere petulans
superbumque arbitror, ita respondere et remaledicere civile fasque
iudico_; e rispose. Non possiamo dire se fosse più mordace la risposta
o la provocazione; ma la mordacità guariniana non fa certamente torto
alla tempra dell'uomo. Dopo tutto Guarino fu il provocato e quanto a
nobiltà d'animo ne avea da vendere al Niccoli e a molti altri. Pongasi
poi mente al concetto che Guarino si era formato dell'uomo di lettere e
si vedrà che distanza da lui al Niccoli. Egli ebbe ragione di spargere
il ridicolo sul Niccoli, che si rese schiavo degli sciocchi capricci e
delle prepotenze di una druda; ebbe ragione di affermare, che il volgo
non poteva non scandolezzarsi di un uomo, il quale delle lettere si
facea scudo a peccare: perchè nel concetto di Guarino il letterato deve
essere virtuoso, deve avere un alto valore morale, deve essere insomma
un uomo superiore.



Guarino a Venezia.

(1414-1419)


46. Il cozzo di Guarino col Niccoli era stato troppo violento e
quell'ostilità aveva acquistato maggior gravità diventando pubblica.
Il Niccoli nelle faccende dello Studio fiorentino avea gran peso e la
posizione di Guarino a Firenze dovette rendersi insostenibile.

47. Egli era colà ancora nei primi mesi del 1414; ma poco più
vi rimase. Giusto in quell'anno, verso la metà, capitò a Firenze
Francesco Barbaro, non si saprebbe dire per quali ragioni. Forse era
corsa qualche trattativa tra la famiglia Barbaro e Guarino da quando
questi cominciò a trovarsi a disagio in Firenze; forse il Barbaro
desiderò di conoscere da vicino quel centro di umanisti, così ormai
famosi per tutta Italia e con alcuno dei quali era probabilmente in
corrispondenza.

48. Comunque, a Firenze il Barbaro si sentì come in casa propria.
Sedicenne appena, com'era allora, aveva pur levato un certo rumore
intorno a sè per la precocità del suo ingegno e per il rapido progresso
negli studi; al che si aggiungeva la nobiltà e liberalità della sua
famiglia. Non era egli stato alunno di Giovanni da Ravenna, cancelliere
dei Carrara a Padova, non meno celebre dell'omonimo che insegnava a
Firenze? Non aveva egli udite le lezioni di Gasparino Barzizza, prima a
Venezia in casa propria, dove il Barzizza era stato ospitato, e poi a
Padova dove l'illustre umanista aveva piantata la sua feconda scuola?
Non aveva egli conosciuto a Venezia quel Manuele Crisolora, che aveva
insegnato a Firenze?

49. Ben a ragione pertanto il Barbaro respirò aria sua a Firenze e si
mosse liberamente in quel circolo di umanisti, che nè potevano poi
dimenticarlo, nè potevano essere dimenticati da lui. Ivi si strinse
in amicizia con Giovanni di Bicci dei Medici e coi due suoi figliuoli
Cosimo e Lorenzo, allora studiosi e più tardi fautori degli studi.
Conobbe Palla Strozzi, Roberto Rossi, i Corbinelli, Leonardo Bruni e
il frate Ambrogio Traversari, che di tutta quella schiera eletta gli
restò il più intimo. Con lui ebbe infatti negli anni successivi vivo
carteggio, che tenne strettamente legate le tre città le quali più di
tutte allora rappresentavano l'umanismo, Venezia, Padova e Firenze.

50. Nel luglio del 1414 mosse Guarino da Firenze col Barbaro verso
Venezia. Passando da Bologna, i due umanisti risalutarono gli amici
della corte pontificia. Giovanni XXIII sin dal febbraio del 1414 si
era stabilito in Bologna, donde partì poi il 1.º ottobre alla volta
di Costanza. Tra quegli amici Guarino e il Barbaro videro anche
il Crisolora, il quale anzi volle accompagnarli fino a Venezia.
Imbarcatisi sul Po i nostri viaggiatori percorsero felicemente il
fiume, ma quando entrarono nel mare furono colti dalla nausea. Come
mai, si domandarono, non si sofferse la nausea sul Po, bensì sul
mare? Allora il Crisolora, «tesoro inesauribile di dottrina», spiegò
ai compagni come cagione della nausea siano un senso esterno e un
interno: «l'esterno essere l'olfatto, perchè l'acqua marina esala odori
disgustosi, l'interno essere il timore, perchè il mare nasconde sempre,
anche sotto belle apparenze, minacce e pericoli». Noi ci figuriamo
Guarino pendere tutt'occhi e tutt'orecchi dalla bocca del Crisolora,
nel quale ammirava tanto quel filosofeggiare bonario e sentenzioso
anche sulle più minute questioni.

51. L'arrivo di Guarino a Venezia «fu un trionfo». Ivi egli era molto
conosciuto; ivi l'aveano veduto partire e tornare da Costantinopoli,
avea già intimi vincoli di amicizia con la famiglia di Paolo Zane
il suo benefattore, coi Donati, coi Barbaro e altre illustri case
patrizie. Inoltre la gioventù veneziana lo aspettava con ansia, perchè
tolte le momentanee apparizioni del Ravennate del Barzizza e del
Crisolora, una scuola propria e stabile ivi non si era ancora fondata.

52. Appena giunto fu intanto generosamente ospitato in casa Barbaro,
dove oltre a Francesco c'era il fratello Zaccaria con la moglie e il
figlio Ermolao, il piccolo portento d'ingegno, allora forse di sei
o sette anni. E Francesco Barbaro meritamente si gloria di questa
ospitalità offerta al grande maestro.

53. Ma Guarino ben presto si costituì la propria dimora, che
egli popolò di alunni privati, mettendo così le prime basi della
scuola-convitto. Non era egli forse stato un famiglio in casa del
Crisolora a Costantinopoli? e non praticava così a Padova il suo
collega Barzizza, provetto institutore? Il Barzizza teneva in casa
sua una parte dei suoi scolari, tra i quali forse quel Vittorino da
Feltre, che più tardi era destinato a dare il proprio nome a questa
instituzione. Ebbe a convittori figli d'illustri famiglie veneziane,
tre nipoti del cardinale Branda Castiglioni, un figlio dei marchesi
Malaspina e di qualche altro principe. Li faceva sorvegliare da persone
fidate, qualche volta dai suoi stessi figliuoli; destinava alla loro
istruzione appositi maestri: egli sedeva al timone, per dirla con la
sua frase, invigilando il buon andamento generale.

54. Così Guarino a Venezia. La sua casa era una famiglia di studenti,
talvolta assai numerosa: chiamava convitto (_contubernium_) la
famiglia, camerate (_contubernales_) gli studenti. Nell'invitare a
Venezia l'amico Paolo de Paolinis, professore di filosofia morale
a Firenze, così gli scriveva: «Vieni e faremo vita comune; comune
avremo il cibo, i discorsi, il sonno. Nè ti credere in ciò di recarmi
incomodo; tutto si acconcierà nel migliore e più agevol modo possibile.
Per te non faccio nessuna novità nè di apparecchi nè di cibi nè di
letti, nulla nulla; preparati a una vita da studente, alla quale tu sei
stato avvezzato, educato, cresciuto. Non ti prometto pietanze squisite,
vasi preziosi, ricca supellettile; mangerai rape e fave, berrai in
bicchieri di legno e adopererai posate alla buona. Condiremo ogni
cosa coi continui ragionari, con le risa, coi giuochi, col brio; così
Curio traeva in terra una vita celeste. Oro e argento non te ne posso
offrire, ma buon umore e lieta brigata quanta ne vuoi».

55. Appena posto piede in Venezia, Guarino scrisse al Barzizza, che
già dovea conoscere di persona, del suo arrivo e come sarebbe andato
a trovarlo a Padova; a cui con altrettanta squisitezza ed urbanità
il Barzizza rispose che sarebbe toccato a lui venirlo a vedere a
Venezia. Così si strinse fra i due umanisti quel legame di reciproco
affetto e stima, il quale fu veramente esemplare: che nè invidia nè
gelosia rallentò mai, anche quando il Barzizza si vide rubare, come
era naturale, dal nuovo collega gran numero di scolari «che erano
stati primi ad amarlo». È bello veder quel loro scambio di codici e
di pietosi sensi. Affettuose sono le condoglianze che Guarino fa al
Barzizza in morte della moglie, affettuosi e veramente paterni gli
ammonimenti che il Barzizza dà a Guarino sul mutar residenza e sul
cercarsi dopo tanto peregrinare un posto sicuro e stabile. Da buoni
colleghi si aiutano scambievolmente nei loro studi, professando l'un
per l'altro quella stima che meritavano, nel che il Barzizza dava
esempio di generosa modestia, proclamando Guarino il più dotto dell'età
sua e il vero modello della bontà e dell'onestà.

56. Questa stessa affettuosa corrispondenza troviamo negli scolari
delle due città vicine. Col Barbaro e col Giuliani, già allievi suoi
ed ora di Guarino, il Barzizza è sempre in carteggio: loda al Giuliani
l'orazione in morte del Crisolora, al Barbaro il _De re uxoria_, a lui
e al Giustinian le traduzioni dal greco. Comuni amici del Barzizza e di
Guarino restano il Corner e il Vettori, che ora fanno vita a Venezia, i
fratelli Giona e Lazzarino Resti, Alfonso portoghese, Filippo di Cipro,
che stanno a Padova; amico comune Cristoforo Parma, maestro vagante,
che un anno troviamo a Padova, un anno a Ferrara, un anno a Verona,
un anno a Venezia. Da Venezia Guarino si congratula degli studi di
Battista Bevilacqua, a cui raccomanda gli amici suoi; e da Padova il
Bevilacqua compiange in una affettuosa lettera a lui diretta la morte
di Zaccaria Barbaro. Passa da Venezia a Padova e da questa a quella
Pietro Donati, arcivescovo di Creta, ben voluto dai letterati delle
due città. Da Venezia Guarino mette in relazione Francesco Bracco, suo
camerata, col Donati, col Gualdo, col Barzizza a Padova e briga con
tutti gli amici di Firenze per far nominare alla magistratura della
mercanzia Filippo di Cipro, residente in Padova.

57. A Padova si erano incontrati alla scuola del Barzizza Giorgio da
Trebisonda, Francesco Filelfo, Vittorino da Feltre, destinati tutti
e tre ad occupare un posto cospicuo tra gli umanisti della prossima
generazione; e da Padova si partono l'un dopo l'altro tutti e tre: il
Filelfo a piantar scuola in Venezia, il Trebisonda a udirvi Guarino e
a fare il copista in casa Barbaro, Vittorino a imparare un po' di greco
dal dotto Veronese, a cui per compenso raffinò il gusto latino, facendo
così quello che il Platina felicemente chiama «scambio di merci».

58. Ma ciò che più tiene vive le relazioni tra Venezia e Padova è
la corrispondenza di Guarino con Girolamo Gualdo vicentino, a cui lo
legavano anche rapporti di famiglia. A lui manda gli scritti suoi, come
la lettera sulla vittoria di Gallipoli, e gli scritti degli amici, come
l'orazione funebre del Poggio per lo Zabarella, le traduzioni dal greco
e qualche lettera del Barbaro; e con lui scambia codici.

59. Nè in questi rapporti manca l'arguzia e la burletta, giacchè per
quanto gli umanisti fossero quasi sempre al verde e in lotta tutto il
giorno con le prime necessità della vita, pure la serenità e il brio
non venivano loro mai meno. Quegli che alimentava la gaiezza in questa
società era soprattutto il veneziano Giannino Corradini, che faceva
il medico a Padova; «l'amenissimo e argutissimo Corradini,» ammiratore
entusiastico di Guarino e delle sue lettere, al quale per ogni lettera
che riceveva mandava in dono una gallina. «Ma bada, gli doveva scrivere
Guarino, bada che questa mia non è nè lettera nè epistola, se no c'è
il pericolo che mi capiti qui all'improvviso una gallina. Del resto
vogliamo proprio fare il patto dello scambio delle lettere con le
galline? io già non mi preoccupo che me ne venga nausea; tu valente
medico non puoi mandare, naturalmente, cibi nauseosi. E intendi
bene: io non seguo la setta degli Stoici e dei Peripatetici, ma degli
Epicurei. Ho poi speciale antipatia per certi autori e simpatia per
certi altri: antipatia per Cicerone, Lentulo, Fabio, Macrobio, autori
insipidi; simpatia per Vitellio, Cepione, i sacerdoti Galli, Perdicca,
compagno di Alessandro, e Carneade, non il vecchio ma il giovane».

60. A Padova andava spesso Guarino «a celebrarvi, come egli diceva,
i sacri riti dell'amichevole sodalizio, del quale era consigliere e
ospite». «Di ritorno ier l'altro, o diletto Gualdo, dalla mia visita
al sodalizio di Padova, avevo d'innanzi agli occhi e mi risonava
ancora negli orecchi la vostra festività, la cortesia, il brio condito
di gravità; e tanto la mente mia si era immersa nel ricordo, che voi
mi eravate al fianco compagni del viaggio». In un altro ritorno da
Padova a Venezia si erano imbarcati Guarino, il Barbaro, il Giustinian
e il Giuliani. Chiese di salire con loro un vecchiotto, che fu lo
spasso della brigata. «Di che genere sei?» gli domandò il Giuliani.
«Maschile», rispose quegli. «Me ne ero accorto, riprese il Giuliani,
dalla barba bianca che ti copre il volto.» Allora il vecchiotto disse
che era maestro di scuola. «Ho capito, replicò il Giuliani, sei _ludi
magister_.» «Sì, e credo che ci chiamino così, perchè facciamo scuola
ai bambini, i quali amano i giochi (_ludus_).» Risata generale. Intanto
il Giuliani cavò di tasca un Persio e cominciò a leggere la sat. II:
_hunc, Macrine, diem numera meliore lapillo.» «Che significa numerare
meliore lapillo_»? domandò il Giustinian al maestro. E quegli franco
soggiunse esser nato dal costume antico di contare i giorni con le
pietre; perciò Persio inculca a Macrino di contare esattamente i suoi
giorni, ma con una pietra di valore, p. e. con del marmo. Altra risata
generale. E con queste corbellerie compirono la traversata, che non se
ne accorsero nemmeno.

61. Nulla di importante avvenne nel primo anno che Guarino fu a
Venezia, se ne eccettui l'arrivo nel gennaio 1415 dell'amico Valerio
Floro dalla Grecia, che si recava ambasciatore alla repubblica e di
là al papa a Costanza. Il Floro, a cui Guarino dedicò il trattatello
sui Dittonghi, gli era legato d'amicizia da parecchio tempo, come pure
Cristoforo vicentino, al quale Guarino partecipa la fausta novella
dell'arrivo del Floro. Per mezzo poi dello stesso Cristoforo abbiamo
occasione di vedere come erano sempre vive le relazioni di Guarino con
Antonio Loschi tornato di fresco (verso la metà del 1415) da Costanza
a Vicenza, dove si godette sei anni di tranquillità, aspettando per il
papato tempi migliori.

62. Ma ecco da Costanza giungere e propagarsi per tutta Italia una
triste notizia: il 15 aprile 1415 era morto colà Manuele Crisolora.
Fu un colpo terribile per Guarino, il suo più entusiastico ammiratore.
Il primo pensiero che gli corse alla mente fu di tessergli un elogio,
che fosse un monumento di gratitudine e di affetto; ma lo stordimento
per la sventura e l'altezza del tema ne lo distolsero. Da Costanza lo
aveva a ciò eccitato il Vergerio, ma gli risponde che le sue spalle non
reggerebbero al peso e addita piuttosto il Vergerio stesso come adatto
più di ogni altro all'impresa. Il Rustici e il Poggio si erano pure
proposti di dirne le lodi, ma non ne fecero poi nulla; e il Crisolora
restò senza l'elogio di qualcuno dei suoi scolari ed amici: meno
fortunato in questo di tanti che lo precedettero e che lo seguirono.

63. Però se tacquero gli scolari del Crisolora, parlò uno scolaro
di Guarino. Guarino infatti verso il luglio dello stesso anno (1415)
preparò una solenne commemorazione del Crisolora, affidando l'incarico
del discorso d'occasione al patrizio Andrea Giuliani. Il Giuliani non
fece un quadro biografico del Crisolora, ma ne tessè le lodi, tenendosi
sulle generali e tributando ardente e viva ammirazione all'illustre
defunto.

64. Il Barzizza da Padova lodò l'oratore, «che risuscitava i bei tempi
dell'eloquenza antica». Guarino poi disseminò in un momento l'orazione
del Giuliani, encomiandola altamente. Ne parlò nella lunga lettera
consolatoria a Giovanni Crisolora, nipote del morto, ne parlò nella
lettera a Giacomo Fabris giureconsulto veronese, la mandò agli amici
di Costanza e di Ferrara. A Verona la portò egli stesso verso la fine
del 1415 e in quell'occasione si parlò del Crisolora nel crocchio
degli amici, quale Niccolò Brenzoni, l'abate di S. Zeno, il Salerno,
il della Pigna; tra essi il Fabris aveva conosciuto il Crisolora, anzi
aveva avuto l'onore di ospitarlo in casa propria. E con l'orazione del
Giuliani lessero a Verona pure la lettera consolatoria di Guarino a
Giovanni Crisolora; e i due scritti riscossero i più sinceri applausi:
applausi tanto più vivi, quanto che il Giuliani era a Verona conosciuto
ed amato e già si era letto il giudizio dato sul suo discorso dal
Barzizza, la maggior autorità letteraria di quel tempo. Gli amici
veronesi avevano poi un'altra ragione di congratularsi col Giuliani,
perchè egli in quei giorni era passato a seconde nozze con una ricca e
virtuosa signorina veneziana.

65. Guarino in quel suo giro del 1415 toccò Padova, dove s'incontrò
con alcuni del circolo letterato ferrarese, seppure non prolungò il
viaggio fin proprio a Ferrara. Le relazioni tra Ferrara e Venezia
erano molto amichevoli. Era marchese allora di Ferrara Niccolò
d'Este, fautore dei buoni studi, il quale veniva di quando in quando a
Venezia per assistere alle feste pubbliche e ai tornei; e c'era stato
giusto di fresco nell'aprile del 1415 accompagnato dal suo aiutante
Uguccione dei Contrari e forse anche dal cavaliere Alberto della
Sale suo condottiero. In quella e in altre occasioni Guarino potè
incontrarsi con quei signori, qualcuno dei quali era anche dilettante
di letteratura, come il cavaliere della Sale.

66. Negli ultimi anni del secolo XIV le condizioni della cultura in
Ferrara non erano troppo floride, giacchè il Vergerio non conosceva che
un nome che in quel tempo (1392) facesse onore agli studi, Bartolomeo
da Saliceto. Le condizioni si migliorarono certo con la riapertura
dello Studio nel 1402. Negli anni 1411 e 1412 fece capolino a Ferrara
il Barzizza, che aveva mandato colà la numerosa sua famiglia, sia
perchè a Padova il vitto costava troppo caro, sia perchè l'invasione
degli Ungheri aveva portato lo scompiglio nelle città del Veneto. In
quelle visite il Barzizza conobbe molti personaggi della corte e pare
che ne abbia ricevuta buona impressione. Viveva ancora, ma decrepito,
Donato degli Albanzani, già segretario degli Estensi e istitutore
di Niccolò III. Vi era il suo amico Lodovico conte di S. Bonifacio,
studioso dei classici latini e specialmente dei moralisti; vi conobbe
Uguccione dei Contrari e strinse relazione con Bartolomeo Mella,
referendario del marchese.

67. Che qualche traccia non lasci il contatto, sia pur passeggiero,
di un umanista come il Barzizza, non si può negare; perchè un
certo impulso vien sempre dato, il quale si alimenta poi con la
corrispondenza epistolare. Ma più che il Barzizza lasciò traccia la
corrispondenza epistolare e la relazione personale di Guarino. Giacomo
Zilioli, che fu più tardi consigliere intimo del marchese, deve certo
a Guarino, se divenne liberal mecenate degli studiosi. E col giurista
Niccolò Pirondoli e specialmente col medico Ugo Mazzolati avviò Guarino
viva corrispondenza, che giovò moltissimo a promuovere gli studi in
Ferrara.

68. Col mezzo di comuni amici che andavano e venivano da Ferrara, come
Francesco Bracco, i Ferraresi erano messi a parte delle produzioni
letterarie che uscivano in Venezia. Così l'orazione del Giuliani e le
lettere di Guarino sulla morte del Crisolora e il _De re uxoria_ del
Barbaro furono a suo tempo trasmesse a Ferrara. Così Ugo Mazzolati
riceveva le versioni da Plutarco di Guarino e da lui si faceva emendar
codici. Ugo pose tale affetto a Guarino, gli pose tale stima, che
lo chiamava padre e si affliggeva se da lui non ricevesse almeno una
lettera al mese. A Ferrara godeva la stima di Guarino un altro medico,
Bartolomeo Mainenti; e ivi si trovò per qualche anno il grammatico
Cristoforo Parma, amico del Mazzolati.

69. Mentre Guarino moltiplicava e intrecciava così la sua attività e le
sue relazioni con Padova, Costanza, Vicenza, Verona, Ferrara, ferveva
il lavoro e l'operosità nella sua scuola a Venezia, dove i suoi alunni
facevano rapidi progressi e producevano ottimi frutti. Abbiamo parlato
dell'orazione funebre del Giuliani; nè fu la sola, perchè egli ne
compose un'altra in morte dello zio Paolo. Nel testamento però lo zio
aveva vietato qualunque pompa funebre e l'orazione non fu recitata; il
che non impedì a Guarino di pubblicarla all'insaputa dell'autore mentre
era a Costanza. Nel 1418 il Giustinian recitò l'orazione funebre per
Carlo Zen; due orazioni, l'una funebre in morte del diletto Corradini,
rapito nel fior dell'età all'affetto degli amici, l'altra per la
laurea del Perugino Guidaloti, avea pronunziate il Barbaro nel 1416 a
Padova. Il Barbaro levò assai più rumore per un altro lavoro, il _De re
uxoria_, uscito verso il maggio del 1416 e dedicato all'amico Lorenzo
dei Medici in occasione delle sue nozze.

70. Questo opuscolo morale, scritto in venticinque giorni, tratta delle
principali questioni attinenti al matrimonio: della sua essenza, della
economia domestica, del coito, dell'allevamento dei figli. Si intende
da sè che le massime non sono attinte alla pratica, ma all'erudizione
del suo precettore; però un elemento pratico c'era, quello attinto al
senno e all'esperienza di Zaccaria Trevisan, morto tre anni innanzi,
uomo ascoltato sempre con affettuosa riverenza dal giovinetto Barbaro.
In quel libro egli depositò tutta l'erudizione latina e greca, che
aveva acquistato nei due anni di scuola di Guarino. Erano purtroppo
lavori di semplice parata, condotti sugli esemplari classici, senza
anima e senza sentimento, senza un alito di quella vita che allora
viveano; la sola parte lodevole e durevole era l'acume dell'ingegno e
la vivacità della forma.

71. Il Barbaro fece nè più nè meno di quello che s'aspettava
il Barzizza, gran fabbro di lettere esercitatorie e di orazioni
accademiche. Il Barzizza infatti saputo della pubblicazione di quel
trattato, ne scrisse al Barbaro domandandogliene una copia. «Attendo
la tua Res uxoria, che sento aver tu pubblicato testè. E mi si dice
anche che il lavoro risponda degnamente al tuo ingegno e ai tuoi studi.
Non dubito punto che esso sia scritto con senno ed eleganza; giacchè
l'avrai certamente infiorato in molti luoghi di sentenze latine e
greche; ma desidero vederlo per poterlo giudicare più col mio giudizio
che con quello degli altri.»

72. Primo a riceverne copia fu naturalmente Lorenzo dei Medici e da
lui gli amici fiorentini che lo lodarono. L'ebbe e lo ammirò Niccolò
Pirondoli a Ferrara. A Costanza Guarino lo mandò allo Zabarella, presso
cui lo lesse il Vergerio, il quale poi ne scrisse parole di grande
elogio al medico veneziano Niccolò Leonardi. E da Guarino lo ricevette
anche il Poggio, che lo passò al Rustici e a Biagio dei Guasconi. Il
Poggio gli rispose che da quel saggio c'era da ripromettersi assai
bene del giovinetto autore, ma che egli più che mai nel leggere
il trattatello si era distolto dal pensiero di prender moglie,
considerando i gravi pesi di quello stato.

73. Questo quanto riguarda i frutti dati negli studi latini. Nè minori
furono quelli dati, specialmente tenuto conto della novità, negli studi
greci, i quali anzi in Venezia ebbero un vero fondamento e ricevettero
incremento solo per opera di Guarino. Tra la fine del 1415 e il
principio del 1416 il Giustinian aveva tradotto il Cimone di Plutarco,
rendendo così, come dice Guarino, testimonianza di gratitudine alla
memoria del Crisolora, che primo aveva aperta la via alla cultura greca
in Italia. Nel medesimo tempo il Barbaro tradusse l'_Aristide_ dello
stesso Plutarco. Questi due primi saggi furono subito mandati a Verona
al Salerno, che li avrà comunicati certamente agli amici di colà. Ben
presto seguirono due nuove versioni da Plutarco: del _Lucullo_ per
opera del Giustinian e del _Catone_ per opera del Barbaro. Le quattro
vite erano già pubblicate nella fine del 1416 e vennero spedite al
Traversari a Firenze e al Gualdo a Padova.

74. Questi studi greci, appunto perchè una novità, incontrarono qualche
opposizione a Venezia. Organo di tale malcontento si fece Lorenzo
Monaco, cancelliere di Creta, dando così il primo esempio della guerra,
che diventò poi famosa, tra la letteratura greca e la latina. Lorenzo
Monaco, già amico del Barbaro e ammiratore de' suoi lavori, quando
lo vide tutto inteso agli studi greci, gli scrisse una lettera per
dissuadernelo, cercando di mostrare che tanto lo studio del greco
quanto le traduzioni dal greco erano inutili. Il Barbaro replicò con
una lettera assai vivace, nella quale sostiene la necessità degli
studi greci e l'utilità delle traduzioni dal greco, appoggiandosi
all'autorità degli antichi e all'esempio dei più grandi traduttori
moderni, Guarino e il Bruni. Di questa lettera Guarino mandò una copia
al Gualdo a Padova, mentre da Firenze glie l'avea chiesta il Bruni, il
quale, paladino come era degli studi greci, voleva entrare in lizza a
rompere una lancia per essi.

75. La seconda metà del 1416 Venezia fu visitata dalla peste, lo
spauracchio di Guarino, uomo forte e coraggioso, meno che davanti
all'epidemia. Già sin dal maggio se ne vociferava e si diceva che
Guarino in compagnia del Barbaro si sarebbero rifugiati a Firenze.
Invece si rifugiarono a Padova, dove li troviamo al principio di
luglio. Vi venne più tardi anche Zaccaria Barbaro con la famiglia e
Vittorino da Feltre, che in quei giorni stava a Venezia. Nel tempo
della sua dimora a Padova Guarino ricevette dal Poggio la famosa
lettera sul supplizio di Girolamo da Praga e lo ricambiò con la sua
sulla vittoria di Gallipoli.

76. Era ancora a Padova sul finire dell'anno, ma non pare sia sempre
stato fermo colà, poichè almeno una volta fu certo a Verona. «Ho
errato qua e là, egli scrive, come uno Scita e un Nomade». E di ciò si
preoccupava non poco: «mi par mill'anni che finisca questa pestilenza
e che noi possiamo tornare ai nostri studi; giacchè come il vomere non
adoperato irrugginisce, così l'animo non esercitato illanguidisce.
Ormai intorno alle tempie spuntano i capelli bianchi, la vecchiezza
s'avanza (aveva allora 42 anni) a gran passi e lo scrigno è vuoto».
Eppure c'era chi lo faceva ancora (come in fin dei conti era veramente)
uomo fresco e voleva dargli moglie. Racconta egli che mentre stava a
Padova vennero da lui alcune persone, che dopo un preambolo preso alla
larga gli proposero un buon matrimonio. Guarino rispose celiando, che
le mogli non gli piacevano, se non finchè erano mantenute dagli altri;
che del resto la moglie egli l'aveva e cercava da un pezzo di far
divorzio: questa moglie era la povertà. Ma il proposito negativo non
durò molto tempo.

77. Di ritorno a Venezia nel 1417 tradusse il _Temistocle_ di Plutarco
e lo dedicò a Carlo Zen, il quale, quantunque più che ottuagenario,
trovava modo di occuparsi di letteratura; ma erano gli ultimi lampi
di una vita agitata, spesa in pro' della patria; e il dì 8 maggio
dell'anno seguente, 1418, chiuse la sua carriera mortale, accompagnato
dalla parola calda ed eloquente del Giustinian, che gli recitò
l'orazione funebre in mezzo all'ammirazione degli astanti. Assisteva
un pubblico sceltissimo, tra cui anche gli amici della corte di
Ferrara. Fu un nuovo trionfo per Guarino, il quale aveva ormai resi
celebri i suoi tre migliori scolari, educandoli così in pari tempo a
quella disinvoltura presso il pubblico, che è tanto necessaria a chi
si applica all'amministrazione dello stato. E tutti e tre riuscirono
uomini di stato, superiore a tutti il Barbaro, ma benemeriti anche il
Giustinian e il Giuliani. Il Giuliani anzi era già entrato da prima
nella carriera pubblica; e mentre studiava sotto Guarino aveva ottenuto
l'ufficio di cassiere in Padova. Alla fine poi del 1417 lo incontriamo,
probabilmente in qualità di ambasciatore della repubblica, a Costanza,
dove si era pure recato da Padova il Barzizza, con la speranza forse
di migliorare fortuna nella prossima elezione del nuovo pontefice, la
quale dovea por termine allo scisma.

78. Per tal modo furono raddoppiate le relazioni, già sì frequenti e
cordiali, tra Costanza e Venezia. Da Venezia infatti andavano di quando
in quando ambasciatori a Costanza, come il Floro, che aveano amici
comuni nelle due città; da Venezia partirono nel 1415 per il Concilio
i cardinali veneti; da Venezia passò, diretto a Costanza, Carlo
Malatesta, procuratore del pontefice veneto Gregorio XII. Tra Venezia
e Costanza erano attivi gli scambi di lettere e codici col Poggio, il
Vergerio, lo Zabarella, Bartolomeo da Montepulciano dall'una parte, con
Guarino, il Barbaro, Niccolò Leonardi dall'altra.

79. La corte pontificia era giunta a Costanza il 28 ottobre 1414 con
Giovanni XXIII e ne ripartì il 16 maggio 1418 con Martino V. Giovanni
XXIII quando vide non potersi più sostenere di fronte al Concilio,
fuggì di là il 19 marzo 1415, ma ripreso fu solennemente destituito
il 29 maggio dello stesso anno. A questo atto ne seguì un altro il
4 luglio 1415, cioè la rinunzia di Gregorio XII per mezzo del suo
procuratore Carlo Malatesta. Da allora in poi il Concilio, più libero
nella sua azione, discusse e approvò una serie di provvedimenti e di
riforme ecclesiastiche; da ultimo nell'8 novembre 1417 i cardinali e i
vescovi entrarono in conclave, dal quale l'11 uscì eletto Martino V.

80. Tra i personaggi di nostra conoscenza troviamo a Costanza il
cardinal fiorentino Zabarella, buon letterato e filosofo e generoso
mecenate degli studi, «l'asilo dei dotti», come lo chiama il Poggio,
sotto la cui protezione e al cui servizio stavano il Rustici, il
Vergerio, Bartolomeo da Montepulciano. C'era il vescovo Capra addetto,
come sembra, alla corte dell'imperatore Sigismondo; c'erano il Poggio,
il Crisolora, il Loschi, il Bruni, arrivato quest'ultimo in ritardo
verso la fine di decembre 1414: tutti quattro al servizio di Giovanni
XXIII. Altri di minor conto, ma che pur meritano di essere ricordati,
erano Biagio Guasconi, Caronda, Zomino da Pistoia, Bartolomeo del
Regno, Benedetto da Piglio.

81. Deposto Giovanni XXIII, i suoi segretari si trovarono squilibrati
e senza appoggio. Già prima della deposizione il Bruni, che aveva
odorato il vento infido, sin dal principio del marzo 1415 avea preso
il volo ed era tornato a Firenze, donde non si mosse più, attendendo
tranquillamente ai suoi studi prediletti. Anche il Loschi nel corso
del 1415 partì di là e si ritirò nella natia Vicenza aspettando tempi
migliori. In compenso nella seconda metà del 1417 quel circolo di
letterati si accrebbe del Giuliani e del Barzizza; ma nessuno potè
compensare due gravi perdite: quella del Crisolora nel 1415 e quella
del cardinal Zabarella il 26 settembre 1417, al quale il Poggio recitò
l'orazione funebre, comunicata poi a Guarino a Venezia e da Guarino
agli amici di Padova, città nativa dello Zabarella, dove avea tanti
anni studiato e insegnato.

82. Ci fu in queste relazioni tra Venezia e Costanza anche un piccolo
scandalo. Sul principio del 1416 Caronda sparse la voce che Guarino
avesse composto un libro, nel quale avea raccolto tutti gli errori
dei recenti traduttori dal greco; il Bruni naturalmente, come il più
attivo dei traduttori, vi era impegnato. Bartolomeo da Montepulciano
ne scrisse a Guarino chiedendogli una copia dell'opuscolo. Guarino
gli rispose meravigliato di una simile fandonia e se ne lagnò anche
col Poggio, che fece del suo meglio per cancellare ogni traccia della
malevola invenzione; e tutto per allora finì lì.

83. Dal soggiorno della corte pontificia in Costanza l'umanismo
ripete uno dei più grandi impulsi, venutogli con le scoperte di codici
latini, delle quali il Poggio fu l'eroe. Approfittando dell'ozio che
gli concedeva l'interregno pontificio egli intraprese da Costanza
alcuni viaggi, parte in Francia, parte in Germania. Quelli in Francia,
che furono i primi e li fece da solo, cadono nella seconda metà del
1415. Andò a Parigi, dove trovò un Nonio Marcello, che del resto era
conosciuto, se non letto, già innanzi, poichè fin dal 1407 si sapeva
esisterne una copia in Pavia. Trovò a Cluny un primo nucleo di orazioni
ciceroniane e un secondo a Langres.

84. I viaggi in Germania invece cadono negli anni 1416 e 1417. Il
centro di questa seconda serie di esplorazioni fu la badia di S. Gallo,
dalla quale egli mosse alle badie circostanti. Qui il Poggio ebbe
compagni il Rustici e più ancora Bartolomeo da Montepulciano. Anzi
Bartolomeo nel febbraio 1417 proseguiva per proprio conto le ricerche
e giusto in quel tempo scoperse a S. Gallo un Vegezio e un Festo.

85. Le notizie delle scoperte volavano subito per tutto, specialmente
a Firenze e a Venezia. Da Venezia il 6 luglio 1417 il Barbaro scriveva
al Poggio una lunga lettera di congratulazione, nella quale si trovano
nominati i migliori acquisti fatti: Tertulliano, Silio Italico,
Marcellino, Manilio, Lucio Settimio, Valerio Flacco, Capro, Probo,
Eutichio, Nonio Marcello, Lucrezio, Asconio Pediano, Quintiliano, oltre
ai suaccennati scoperti in Francia e a quelli di cui ci ha lasciato
notizia il Rustici, cioè Vitruvio, Prisciano (_Partitiones XII versuum
Aeneidos_) e Lattanzio (_De utroque homine_).

86. Questi autori o erano interamente ignorati o mal noti. A Venezia e
a Padova arrivò subito un Marcello, non dopo la metà del 1416; Guarino
e il Barzizza ebbero anche un Asconio, Guarino un Lucrezio. Ma i due
più preziosi acquisti furono Quintiliano e le orazioni di Cicerone. Un
Quintiliano l'ebbe Guarino dal Poggio, uno il Barzizza, probabilmente
dal cardinale Branda Castiglioni. Il Poggio poi scoprì un secondo
Quintiliano, di cui si impossessò e che portò o mandò in Italia: quello
stesso che ora si conserva nella Laurenziana di Firenze. Anche di
questo ricevette Guarino copia dal Poggio.

87. Per le orazioni di Cicerone invece Guarino e il Barbaro si
dovettero rivolgere al circolo fiorentino, con cui il loro commercio
epistolare non era meno vivo che con quello di Costanza, specialmente
per alcuni Veronesi, che dimorando in Firenze contribuivano ad
alimentare la corrispondenza tra le due città. Veronese era Galesio
della Nichesola, ufficiale della mercanzia negli anni 1416-1417;
veronese il Salerno, podestà nel 1418, col suo vicario Guglielmi;
veronese Paolo de Paolinis, professore di filosofia morale. Nel 1418
Guarino raccomandava per l'ufficio della mercanzia in Firenze Filippo
di Cipro al Corbinelli, allo Strozzi, al Barbadoro, al Boninsegni. E in
uno di quegli anni fece, in compagnia di suo zio Francesco, una gita a
Firenze il piccolo Ermolao Barbaro, che vi conobbe il Marsuppini, il
Traversari e gli altri. Guarino era tornato in pace col Niccoli sino
almeno dal 1416 e con lui e col Traversari scambiava codici.

88. Questo commercio avea di solito per intermediario il Barbaro, la
cui corrispondenza col Traversari era copiosissima. Il Niccoli mandava
a Venezia le orazioni di Cicerone scoperte dal Poggio e le _Epistole ad
Attico_, rendeva conto di un Tucidide vendutogli dall'Aurispa a Pisa,
di un Trogo scoperto dall'Adimari in Spagna e mandava le orazioni di
Demostene tradotte dal Bruni. Il Traversari poi inviava a Venezia le
lettere del Crisolora, copiava per il Barbaro l'_Agesilao_ di Senofonte
ed emendavagli un Lattanzio; traduceva la _Scala Santa_ e Grisostomo e
ne spediva copia a Venezia.

89. Da Venezia non erano meno generosi; di là partivano le nuove
produzioni del Barbaro e del Giustinian; di là Guarino spediva gli
opuscoli di Senofonte e il Barbaro colmava una lacuna al Livio del
Traversari. La ricca collezione del Barbaro, della quale presentemente
stava compilando il catalogo, fornì ai Fiorentini le lettere di Platone
e di Basilio, un Nicandro, Alessandro Afrodisio, un Apollonio, un
Filostrato, un Diogene. Anche Venezia ebbe la sua importante scoperta,
poichè Guarino nei primi giorni del 1419 trovò fra molti codici sacri
l'_Epistolario_ di Plinio in otto libri, antichissimo, ora perduto, e
che fu l'archetipo di una intera famiglia di codici Pliniani.

90. Tirata la somma, Guarino nel quinquennio che stette a Venezia
impresse un potente impulso agli studi. Quello fu un breve periodo,
ma un periodo aureo, in cui Venezia brillò come faro dell'umanismo.
A Venezia mettono capo le fila da Costanza, da Firenze, da Padova; e
Guarino le raccoglie e le compone in mirabile unità. Ma Venezia dovea
cedere presto il primato ad altre città, contentandosi di passare in
secondo ordine, vuoi perchè non era favorita da tutte quelle condizioni
che danno lunga vita a un centro di studi, vuoi perchè Guarino piantò
altrove le sue tende, lasciando però dietro di sè larghe tracce in
quella schiera di valorosi patrizi, che frequentarono la sua scuola.

91. Guarino si cominciò a sentire a disagio in Venezia sin dalla fine
del 1417; anzi trattava per avere un posto presso la curia pontificia.
Che volesse abbandonare l'insegnamento per cercarsi uno stato meno
precario e più durevole? Già si lamentava nel 1416 quando comparivano
i primi capelli grigi; e il Barzizza lo eccitava paternamente a
costituirsi una buona volta una posizione stabile. Quelle esitanze di
Guarino fecero rinascere la speranza nei Fiorentini di riaverlo, ma fu
vana lusinga.

92. Fallito il tentativo con la curia, Guarino mutò punto di appoggio e
rivolse le sue mire a Verona. Quanti vincoli non aveva egli a Verona!
Tutti gli amici, tutti i parenti, che lo amavano, che lo stimavano,
lo avrebbero voluto colà. Colà si era trasferito nella prima metà del
1418 il suo carissimo Cristoforo Parma, colà egli avrebbe desiderato
tirare da Firenze il veronese Paolo de Paolinis. Il suo diletto Maggi
e l'ottima madre metteano in opera tutti i mezzi per farlo venire a
Verona; e pare che egli cominci a cedere.

93. Le sue visite alla città natale diventano più frequenti: il Maggi e
la madre gli aveano proposto un matrimonio. Si offriva a Guarino quella
posizione, che egli poteva considerare ormai come stabile e definitiva,
il suo sogno era in via di avverarsi; egli avrebbe abbandonato la
vita del maestro errante, che piaceva tanto all'amico Cristoforo. Alla
fine di ottobre del 1418 egli torna da una visita a Verona lasciando,
come si dice, carta bianca alla madre e al Maggi; e il matrimonio è
combinato con Taddea Zendrata figlia di Niccolò.

94. Le nozze furono celebrate il 27 decembre dello stesso anno;
come dote gli vennero assegnate delle case in Verona e dei terreni a
Valpolicella. Non condusse però seco subito la moglie; il che non gli
impedì di difendere strenuamente, per quanto νεοθάλαμος, il matrimonio
quando Antonio Corbinelli pretendeva tra il serio e lo scherzevole di
dimostrargli, che esso nuoce agli studi. Verso il principio del 1419
prese moglie anche Francesco Barbaro, a cui poco dopo morì il fratello
Zaccaria: due nuove ragioni che distaccarono maggiormente Guarino da
Venezia.

95. Nel marzo 1419 Federico Pittato, cugino della moglie, gli scriveva
come ella lo sospirasse e come fosse aspettato a braccia aperte da
tutta la città. Spesi pochi giorni a sbrigare le ultime faccende e a
prender commiato dagli amici, Guarino già ai primi di aprile dovette
probabilmente trovarsi a Verona.



Guarino a Verona.

(1419-1429)


96. Ecco nell'aprile del 1419 Guarino in Verona sua patria, in
seno alla propria famiglia, nella casa dotale in contrada Falsurgo,
circondato dall'affetto della madre, della sposa e degli altri parenti
e degli amici. Non ha nessun incarico ufficiale per insegnare, ma
egli apre subito scuola privata, alla quale accorrono i giovani delle
migliori famiglie veronesi: i fratelli Verità, Lodovico Cavalli,
Lodovico Mercanti, Lodovico Polentino, Bartolomeo Pellegrini,
Bartolomeo Brenzoni, il Pisoni, il Maggi; da Bologna viene il Lamola.

97. Però questa scuola ebbe tristi auspicii, giacchè dopo poco più di
un mese a Verona si sviluppò la pestilenza; gli scolari si sbandarono,
i cittadini fuggirono e anche Guarino riparò nella sua villa di
Valpolicella, portando seco la famiglia propria e quella del suocero.
I fratelli Verità si ricoverarono a Cerea, il Brenzoni nella sua villa
omonima sul lago di Garda, il Pisoni e il Maggi a Riva di Trento; il
Lamola tornò a Bologna.

98. Guarino stava a Valpolicella già nel maggio. Era la prima volta
che egli piantava residenza nella villa e perciò si compiace di
ammirarla e di gustarne le bellezze. E non si può tenere dall'invitare
a partecipare di tanta gioia i suoi cari, come il parente Battista
Zendrata e Tommaso Fano e Zenone Ottobelli, cercando di adescarli con
una minuta descrizione del luogo.

99. Comincia dal clima. Clima dolcissimo e mitissimo. Con questi
calori eccessivi del giugno, scrive Guarino, altrove si muore, qui
invece par di essere in primavera. Di giorno serenità incantevole,
di notte si possono contare le stelle. Qui raramente spirano venti
impetuosi; sempre mossa e dolce è l'aria, che col suo susurro invita
al sonno. Qui si vive lunga vita e questi vecchi contadini sono
vegeti e robusti e nel pieno possesso delle loro facoltà mentali. E
la sua posizione? deliziosa. Valli apriche, nè profonde, nè scoscese,
coronate tutt'all'intorno da colline verdeggianti e fertili al pari
della pianura. Qua oliveti, là vigneti, altrove prati vestiti di erbe
e irrigati da numerosi e perenni ruscelletti e giù in basso l'Adige
serpeggiante.

100. Passando alla villa, essa è piantata su un dolce pendìo, nè troppo
alto da stancare chi ci voglia salire, nè troppo basso da impedire la
vista di un ampio orizzonte. Di dietro e ai fianchi è circondata da
colli in forma di anfiteatro, la facciata si apre davanti a una estesa
pianura, traversata dall'Adige, e in fondo alla quale torreggia Verona.
Questo l'esteriore della villa. L'interno offre buone stanze; ci è un
portico, dove all'estate si respira l'aria fresca e all'inverno si gode
un buon sole. Le finestre dànno alcune sui prati, altre sulla pianura,
altre sul fiume. Davanti ci è un'aia e nell'aia un pozzo ricco di
acqua.

101. Noi non vogliamo negar fede alla descrizione di Guarino; ma
ci sorprende che essa sia fatta quasi tutta con le medesime frasi
adoperate da Plinio nel descrivere la sua villa di Toscana. La
corrispondenza delle descrizioni ci obbligherebbe ad ammettere la
corrispondenza delle due ville; però io amo meglio credere che qui
Guarino abbia sacrificato un poco la realtà della sua villa alla
idealità di una descrizione foggiata su un modello classico come
Plinio.

102. Alla villa non mancavano feste di famiglia e visite di amici,
che andavano a godere la compagnia di Guarino; e Guarino stesso di
là faceva qualche escursione, come quella verso l'ottobre sul lago
di Garda, nella tenuta Brenzoni. Ivi restò una settimana e ricevette
una profonda impressione di quei luoghi montuosi, che egli vide forse
allora la prima volta. Ed è graziosa la scherzevole caricatura che egli
ne fa al Brenzoni, confrontando il carattere selvaggio di quei monti
col carattere mite della sua Valpolicella. Ma anche nella caricatura si
sente che Guarino ha colto in sul vivo quella natura orrida; e qui non
segue nessun modello classico. Tutto reminiscenze classiche è invece
il carme a Lodovico Mercanti sul lago di Garda, dove però spirano
sentimento vero i pochi versi che alludono alla parentela fra gli
abitanti del lago e i Veronesi.

103. Da Valpolicella tiene vivo carteggio coi suoi scolari, ai quali
raccomanda di ripassare le poche lezioni imparate, per non trovarsi
poi a disagio nella ripresa del corso. E scherza con essi, come col
distratto Pisoni, e impartisce savi consigli, come al Polentino e
al Pellegrini, e non rifugge dal correggere gli spropositi di lingua
latina, come a Lodovico Cavalli e a Giacomo Verità, ai quali spiega
come in latino non si adoperi, parlando a una persona sola, il voi
ma il tu. In tutte queste lettere ai suoi scolari tra i consigli
savi e le parole affettuose campeggia però una preoccupazione: la
preoccupazione della peste, sulla quale non si sapeano far prognostici
e che intanto gli impediva di tenere aperto il corso. È chiaro che
Guarino da quell'interruzione dubitava potergliene venir danno. Egli
non avea nessuna nomina ufficiale e forse cercava di guadagnarsela con
la simpatia e la stima, che gli avrebbe procacciato il corso privato.
Per questa ragione desiderava affrettare il ritorno a Verona, che fu
fissato per il 28 ottobre.

104. Il Maggi, che in tali faccende si mettea sempre alla testa,
reduce da Riva di Trento, e lo Zendrata e altri aveano progettato una
dimostrazione per il ritorno di Guarino e di sua moglie. Si erano
sposati a Verona nel Natale del 1418; indi Guarino era ripartito
solo per Venezia, dove stette fino a tutto il marzo del 1419. Non si
erano ben ricongiunti a Verona, che scapparono a Valpolicella. Chi li
avea veduti gli sposi novelli? chi li avea festeggiati? E Guarino, il
famoso maestro vagante, che alla fine rientrava in patria, chi l'avea
festeggiato, se dopo un mese poco più dovette interrompere le lezioni?
Era dunque giustissimo che il ritorno suo in città fosse accolto
con una ovazione. Guarino tentò tutti i mezzi per eludere, modesto e
riservato come era, le pratiche degli amici; ma possiamo credere che
gli amici abbiano vinto.

105. Rientrato in città Guarino sentì di trovarsi, come ho già detto,
in una posizione incerta; e infatti al Lamola scrive esortandolo
a tornare, chè per un anno almeno contava di fermarsi in Verona. E
intanto si dà le mani attorno per aprire solennemente il suo corso
scolastico 1419-1420 e domanda al Gualdo e al Barzizza Asconio Pediano
e Quintiliano. Intendeva fare un corso di retorica. E la prima orazione
inaugurale pronunciata in Verona prelude effettivamente a un corso di
retorica. Se Guarino non ebbe motivi di mutare il tempo, fu pronunciata
verso il Natale.

106. L'impressione prodotta nel pubblico deve essere stata
favorevolissima, perchè il Consiglio di Verona nel seguente anno
1420, il dì 20 maggio, con 45 voti su 50 nominò Guarino insegnante di
retorica per un quinquennio con lo stipendio annuo di 150 scudi. Gli fu
imposto di leggere le _Epistole_ e le _Orazioni_ di Cicerone; nel resto
gli si lasciava libera scelta. Così gli fu lasciata libertà anche di
dar lezioni private e di riscuotere per esse emolumenti.

107. E fu bene che Verona si fosse assicurato Guarino per un
quinquennio, giacchè in quell'anno stesso, non molti mesi dopo, sembra
che lo rivolessero a Venezia e a Firenze. Certo un invito formale gli
venne da Vicenza. L'anno seguente o al più tardi il 1422 lo invitò, e
con buone condizioni, alla sua corte anche il principe Gianfrancesco
Gonzaga di Mantova, prima che ci andasse Vittorino da Feltre. Ma
Guarino ricusò sempre, adducendo a tutti la medesima ragione, che
egli era impegnato con Verona, dove non insegnava tanto allettato
dall'interesse quanto indotto dall'utile dei suoi concittadini e da
carità di patria.

108. Verso la metà del settembre di quell'anno, 1420, passava per il
territorio veronese Lodovico Migliorati signor di Fermo, mandato da
Carlo Malatesta a dar soccorso al fratello Pandolfo, che era assediato
in Brescia dal Carmagnola. Guarino in nome della sua città indirizzò
una lettera al principe, pregandolo di risparmiare nel passaggio i
poveri contadini e le terre.

109. Nel 1421 la scuola di Guarino fu visitata e frequentata da due
celebri alunni forestieri: frate Alberto da Sarzana ed Ermolao Barbaro
veneziano. Frate Alberto fu con Bernardino da Siena l'uno dei due
monaci per i quali Guarino nutrì stima e venerazione illimitata, egli
che di fronte agli altri monaci, quali fra' Timoteo da Verona, pure
suo scolaro, e fra' Giovanni da Prato, si mostrò indipendente per
quanto rispettoso. E conobbe di persona anche Bernardino, quando andò
a predicare nella cattedrale di Verona l'anno seguente, 1422, anzi in
quei pochi mesi l'ebbe frequentatore delle sue lezioni. Frate Alberto
allorchè si presentò alla scuola di Guarino era uomo fatto e conosciuto
per la sua predicazione. Passato da Firenze, dove conobbe tra gli altri
il Niccoli, e da Padova e Venezia, dove conobbe i dotti Veneti, sopra
tutti il Giuliani e il Barbaro, giunse a Verona nel settembre 1421,
fornito di cognizioni sacre e di buone qualità oratorie; gli mancava la
cultura letteraria, un po' di greco e un po' di raffinatura nella forma
latina. Ciò fu quello che egli imparò da Guarino, al quale conservò
perenne riconoscenza ed affetto, tanto che ancora parecchi anni dopo,
nel 1434, lo chiamava non il suo precettore, ma il suo direttore
spirituale, perchè lo aiutava a vestir di bella forma i dettati divini.

110. L'altro scolaro, Ermolao Barbaro, figlio del fu Zaccaria e ora
sotto la tutela dello zio Francesco, venne a Verona qualche mese prima,
nell'estate del 1421. Ma questi era ancora fanciullino, tredicenne
appena, un portento di precocità intellettuale; eppure fanciullino
come era aveva fatto la sua brava visita a Firenze dove conobbe e si
fece «amici» il Traversari, il Niccoli, il Marsuppini. Ermolao fu più
tardi vescovo di Verona. Questi due nuovi scolari diedero dopo un anno
frutti della loro operosità: frate Alberto con un discorso pronunziato
a Verona nella festa del _Corpus Domini_ (11 giugno 1422) ed Ermolao
con la traduzione latina di Esopo dedicata al Traversari (1.º ottobre
1422).

111. Nell'agosto del 1421 Guarino lavorava intorno all'orazione funebre
per Giorgio Loredan, il vincitore di Gallipoli (nel 1416), caduto
vittima in quest'anno stesso di un agguato sulle coste siciliane.
Guarino aveva aggravato la mano sugli autori dell'agguato, ma il
Barbaro prudentemente lo consigliò a mitigare alquanto l'acerbità del
linguaggio, che nonostante rimase molto aspro. Non sappiamo se Guarino
sia andato a recitare l'orazione a Venezia, dove del resto si suppone
tenuta. Il Barbaro in quei mesi estivi peregrinava per il territorio
padovano, vicentino e veronese, fuggendo la peste che infestava
Venezia. Anzi a Montagnana il 1.º ottobre si incontrò con Guarino.

112. Due altri avvenimenti dobbiamo registrare in quest'anno: l'uno
fausto, l'altro tragi-comico. Il fausto è la nascita del primo figlio
Girolamo, venuto alla luce il 20 settembre. Gli mise nome Girolamo allo
scopo di perpetuare la memoria dell'amicizia con Girolamo Gualdo, a
cui scrive che, se non potrà lasciare al figlio eredità di sostanze,
cercherà di costituirgli un buon corredo di cognizioni. Ecco ora
l'avvenimento tragi-comico. Un tale Antonio Quinto, tipo di demagogo
da trivio, si intruse un bel giorno nel Consiglio di Verona e alla
presenza di tutti e del podestà e del capitano cominciò una filippica
contro Guarino, sostenendo che gli si dovea levare lo stipendio per non
aggravare inutilmente il bilancio del comune. Informatisi gli astanti
della sua condizione e come si fosse intruso, venne fatto uscire tra
i fischi universali. Fuori di Consiglio poi fu tutto quel giorno un
coro di lodi in favor di Guarino, specialmente da parte del Pasi,
provveditor del comune. Guarino come è ben naturale da questo incidente
guadagnò anzichè scapitare.

113. Buon successo ottenne la prolusione di Guarino del 22 maggio 1422
al _De officiis_ di Cicerone. Il Maggi ne volle una copia, accompagnata
da considerazioni sulla sua struttura retorica. Questo fu l'anno
della famosa scoperta delle opere retoriche di Cicerone, trovate dal
vescovo Landriani a Lodi e decifrate e trascritte a Milano per opera di
Gasparino Barzizza, di Cosimo Raimondi e di Flavio Biondo. La notizia
della scoperta giunse a Verona nel giugno e il 18 dello stesso mese
Guarino mandava al vecchio amico e collega Barzizza il suo scolaro
Giovanni Arzignano, quale ambasciatore del circolo letterato veronese,
a riportare una copia delle nuove opere ciceroniane. L'Arzignano tornò
col solo _Orator_, che fu subito distribuito agli amici.

114. Nell'autunno passò Guarino a Valpolicella, dopo due anni che non
c'era stato. La corrispondenza da Valpolicella ci fa conoscere due
nuovi e valenti scolari di Guarino: Giacomo Lavagnola veronese, che
battè poi la via delle magistrature, fu capitano a Firenze, podestà a
Siena e Bologna e senatore di Roma; e Tommaso Pontano, che frequentò di
poi i circoli di Venezia e Firenze, e professò a Bologna e nell'Umbria.

115. Alla fine del 1422 o al principio del 1423 nacque a Guarino
il secondo figlio Esopo Agostino. Nell'aprile 1423 si festeggiò
anche a Verona l'elezione del doge Francesco Foscari, tanto più
che egli era conosciuto colà, essendovi stato capitano nel 1421.
Guarino ebbe l'incarico di redigere a nome della città una lettera di
congratulazione. La monotonia delle solite occupazioni fu interrotta
quest'anno da una gran gita fatta per il contado veronese negli ultimi
giorni di luglio e nei primi di agosto. Vi prese parte una numerosa
comitiva di uomini e di donne: c'erano p. e. Guarino, lo Zendrata, il
Concoreggio, il Sabbioni, lo Spolverini, il Manfrin, il cui cavallo
fece per parecchi giorni dipoi le spese ai motteggi e alle risate
degli amici. Ci furono divertimenti di caccia, di pesca e soprattutto
gran mangiate. Nella brigata c'era una persona nuova per noi, ma che
d'ora innanzi diverrà nostro conoscente, Flavio Biondo da Forlì, esule
dalla sua patria, il quale errando da un paese a un altro in cerca di
un punto d'appoggio capitò eventualmente per pochi giorni a Verona.
Nell'autunno Guarino fece la solita villeggiatura a Valpolicella.

116. Ma ecco avanzarsi un anno tempestoso per Guarino, il 1424. I
timori della pestilenza si erano affacciati sin dai primi decembre
del 1423 e Guarino allora stesso pensava ad un eventuale ricovero. La
minaccia continuava verso la metà gennaio 1424, ma pare che poco dopo
sia entrata una sosta.

117. Intanto veniva il febbraio e Verona riceveva la visita
di un personaggio illustre, l'imperatore Giovanni Paleologo di
Costantinopoli. Era arrivato a Venezia il 15 decembre 1423. Ivi si
fermò un paio di mesi e in quel tempo fu ossequiato da Leonardo
Giustinian e da Francesco Barbaro, che adoperarono con lui il
linguaggio greco. Egli senz'altro riconobbe in loro degli scolari
di Guarino, nè si ingannava; e domandò notizie di Guarino, che egli
ricordava benissimo. Ripartito alla volta di Milano, fece sosta
a Verona, dove entrò il 21 febbraio, accolto solennemente dalle
autorità, salutato da un discorso di Guarino e ospitato nella badia
di S. Zen. Guarino ebbe così occasione di rinfrescar le dolci memorie
del suo soggiorno a Costantinopoli e di conoscere alcuni del seguito
dell'imperatore, coi quali più tardi strinse intima amicizia, p.
e. l'Aurispa. Fu in quella circostanza che egli seppe una cattiva
novella. Gli raccontarono come il Filelfo introdottosi in casa di
Giovanni Crisolora, nipote del morto Manuele, ebbe commercio impudico
con la moglie e indi sposò la figliola. Il Poggio riferisce alquanto
diversamente: che il Filelfo abusando dell'ospitalità offertagli dal
Crisolora gli viziò la figliola e che indi per interposizione di alcuni
mercanti italiani lo scandalo fu riparato con un matrimonio. Il giorno
dopo l'imperatore riprese il viaggio.

118. Ai primi di maggio troviamo Guarino già in villa; ciò significa
che la pestilenza faceva progressi. Questa volta non è la villa di
Valpolicella, ma di Montorio, altra bella posizione dei dintorni di
Verona. _Montorius_ è il _mons_ ὡραῖος, il _mons speciosus_, come
Polizella è πολύζηλος, il paese desiderato. Le stanze doveano essere
un poco in disordine ed egli pone subito mano a racconciarsi la propria
camera da letto, incaricando l'amico Faella di fornirgli da Verona dei
mattoni. A Montorio stava a suo agio, senza troppe preoccupazioni,
ora godendosi la campagna, ora studiando e corrispondendo con gli
amici e scolari, che erano chi in città, chi fuori. Tra gli scolari
ne incontriamo tre nuovi: un veneziano, Bernardo Giustinian, figlio di
Leonardo, amico di Ermolao Barbaro; un veronese, Bartolomeo Genovesi;
un fiorentino, Mariotto Nori, del quale avremo occasione di occuparci
ancora più tardi.

119. Da Montorio poi faceva frequenti escursioni nei paesi circonvicini
a trovarvi gli amici. Così il 26 maggio andò a visitare Giacomo
Lavagnola nella sua villa di Poiano; il 4 e 5 giugno fu a Zevio «a
rinfrescare l'amicizia» col Faella, che da forse un mese era stato
nominato vicario di quel distretto. Qualche giorno dopo dovette
incontrarsi a S. Sofia col Salerno e col Maggi e insieme con essi fece
la seconda passeggiata a Zevio. E questa seconda riuscì oltre ogni
credere dilettevole. «Sta bene lo studio, dice Guarino, ma di quando in
quando uno svago ci vuole: tanto per ristorare le forze e tornare al
lavoro con maggior lena. In fondo il frutto delle lettere non è mica
di amare la solitudine, ma anzi di fuggirla e imparare a vivere nel
consorzio degli uomini: non basta vivere, bisogna anche convivere». Il
Faella, che conosce il gusto dei suoi ospiti, li accoglie presentando
loro senz'altro un bel codice antico di santi padri. Non ci volea di
meglio per Guarino, che lo contempla avidamente e rispettosamente e
vi leggicchia dentro qua e là. Eccoli intanto a mensa i quattro bravi
amici: ma «mensa socratica», sobria e per compenso condita di motti
arguti, di urbanità, di citazioni classiche, di serietà e di facezie.
«Si siede non tanto per mangiare, quanto per ragionare». E dopo la
mensa non mancarono i canti e i suoni. Perchè doveano mancare? «Non fa
Vergilio cantare il crinito Iopa alla mensa di Didone? e Omero non fa
cantare Demodoco alla mensa di Alcinoo?»

120. Il 25 giugno passò dalla villa di Montorio a quella di
Valpolicella per assistere alla mietitura: «l'occhio del padrone
ingrassa il cavallo». Ivi trovò anche il tempo di tradurre i
_Paralleli_ di Plutarco e mandarli al Lavagnola. Ma non era trascorso
un mese dacchè stava a Valpolicella, quando Guarino sente parlare di
casi di peste anche nei paesi limitrofi alla villa. Visto dunque che
tanto in città, quanto nel contado non c'era più scampo, si risolse di
cercare altrove un rifugio e sceglie Venezia. Intanto andrà egli solo
a preparare il posto; indi tornerà a prendere la famiglia.

121. Partì il 28 luglio, pernottando a S. Martino in casa dell'amico
Concoreggio, per trovarsi pronto il mattino seguente di buon'ora. Andò
a Venezia, preparò il posto e dopo pochi giorni fu di ritorno a Verona,
dove trovò una brutta novità, la morte del padre di Battista Zendrata.
Fa intanto i fagotti e con la moglie e i due bambini va a S. Martino.
Ivi mette la moglie, incinta, su una mula, carica i due bambini in
due corbelli su un'altra mula, monta a cavallo anche lui e la carovana
si muove alla volta di Este per passare di là a Venezia. Ma che è che
non è, la famiglia di Guarino agli ultimi di agosto si trova a Trento.
Probabilmente appena messisi in cammino, ebbero notizia del divieto
ai Veronesi di entrare a Venezia, perchè provenienti da luogo infetto.
Allora Guarino mutò strada e si riparò nel Tirolo. Ivi portò anche la
suocera.

122. Si rifugiò dapprima a Trento, ma anche là dopo qualche giorno si
ebbero casi di peste; e allora egli mutò residenza e ancora ai primi
di settembre si trasferì in un paese vicino, a Perzen o Pergine.
Il paese gli fece un'ottima impressione. Già era di buon augurio il
nome stesso, da περῖ ζῆν (_pro vita_). «Bella la posizione. Sull'alto
del colle il castello, a basso le abitazioni, all'intorno campi ben
coltivati, verdeggianti prati, orti fiorenti. Scorre tra mezzo il paese
un fiumicello, che con le onde cristalline invita a bere e col mormorio
concilia il sonno; e lì presso tre laghi. Ivi divertimenti di caccia e
di pesca. Gli abitanti poi abbastanza ospitali e servizievoli». Questa
fu la prima impressione; ma dovette ben presto modificarla e infatti
più tardi sentiamo che egli giudica molto diversamente i Tirolesi,
chiamandoli barbari ed eterni beoni. Un tal concetto dei Tirolesi
egli del resto l'aveva alcuni anni innanzi, quando nel 1419 scrivendo
al Maggi, che stava a Riva di Trento, diceva di quegli abitanti coi
suoi soliti scherzi di parola: _ii non tam filiis vacant quam phialas
vacuant nec tam liberos patres erudiunt quam Liberum patrem hauriunt._

123. Ed ora al Maggi stesso compie il quadro: «Alcuni popoli ebbero
protettore Saturno, altri Nettuno, altri Apollo; qui il patrono è
Bacco. A lui è sacro tutto l'anno, anzi tutta la vita di questa gente;
ma c'è poi la sua festa solenne. Quel giorno, mattino mezzodì e sera, è
un continuo trangugiare inni a Bacco e tutti bevono e chi più beve più
crede campare. Uno tracanna i tre secoli di Nestore, un altro tracanna
la longevità propria e quella dei figli e dei nipoti. Chi vuota il
bicchiere tutto d'un fiato, vive lunga età; chi non lo finisce, guai
per lui! la vita gli si troncherà a mezzo. E io che vedo tutto ciò e
che ne sento nausea, devo far l'occhio ridente e batter le mani. Me
mi chiamano la gru, perchè ho il collo liscio e sottile. Questa gente
qui, uomini e donne, hanno il gozzo e taluni tanti piccoli gozzi, come
se portassero intorno al collo una collana di ova. E come ne vanno
superbi! e chi non ne ha, peggio per lui. Infatti ne vuoi sentire una?
Testè è rimasto vacante un posto di parroco. I candidati erano due e
il paese tentennava assai nella scelta, quand'ecco si presenta un terzo
competitore con un enorme gozzo. Manco a dirlo; è stato scelto lui, per
quanto fosse ignorante e poco costumato; ma l'uomo gozzuto qui è il
Messia». Altrove chiama porci i Tirolesi, aggiungendo che temeva non
gli accadesse quello che accadde ai compagni di Ulisse nell'isola di
Circe.

124. Fatta però la dovuta tara allo scherzo e all'esagerazione, nel
Tirolo Guarino non si trovò male, eccetto le preoccupazioni per il
prossimo parto della moglie e per la scarsezza del danaro. Ma per il
danaro pensava il suo parente Zendrata, che ora gli riscuoteva alcuni
piccoli crediti, ora si faceva anticipare la mesata dello stipendio.
Del resto Guarino ricorreva in ogni suo bisogno alla sagace e
affettuosa cura dello Zendrata, col quale corrispondeva frequentemente
per mitigare così il dolore dell'assenza. Si teneva in stretta
relazione anche col Maggi, al cui consiglio faceva sempre capo prima
di prendere qualche grave risoluzione. Nè dimenticava gli altri amici
che erano a Verona, quali i fratelli Cattaneo, Damiano Borgo, Leonardo
Alighieri, il Guidotti, il Nori, il Genovesi; o fuori di Verona, come
il Faella vicario a Zevio e il Salerno rifugiatosi per la peste a
Reggio.

125. Ma intanto a Verona si preparava una brutta sorpresa al nostro
Guarino. Un poco profittando della sua assenza, un poco della
circostanza che tra qualche mese gli scadeva il quinquennio, un poco
della maligna calunnia messa in giro da taluni che egli curasse più
gli scolari interni che non i pubblici: profittando di tutto ciò
qualche suo invidioso prese a muovergli guerra e tanto maneggiò che
il Consiglio del comune stava per pigliare la deliberazione di non
rinnovare il quinquennio a Guarino e di licenziarlo. Lo Zendrata e
il Maggi si adoperarono molto in quest'occasione per scongiurare
il pericolo; ma chi più di tutti ruppe una lancia per l'onore di
Verona e di Guarino, fu un suo discepolo, il quale pronunziò davanti
al Consiglio un bellissimo discorso, splendido monumento della
riconoscenza professata dal discepolo e dell'affetto inspirato dal
maestro. Peccato che il caso ci abbia negato il nome del generoso
giovane.

126. Comincia egli col dire che quella è la sua primizia letteraria e
che intende offrirla alla gratitudine che nutriva verso il precettore.
Traccia la vita di Guarino per sommi capi, rammentando i suoi primi
studi, l'andata a Costantinopoli, il ritorno, la condotta a Firenze,
a Venezia, a Verona. Ricorda gli onori e gli elogi tributatigli dalla
casa imperiale di Costantinopoli, dai suoi scolari, l'invito a Mantova
rifiutato, la magistratura di Scio. Mette in rilievo le benemerenze
civili di Guarino verso Verona, ma soprattutto il suo carattere morale,
di cui fa un quadro commovente, in particolar modo dove parla della sua
generosità nel perdonare o non nuocere ai suoi nemici e del suo amore
per la giustizia nel proteggere i deboli contro i prepotenti. Quanto
alla calunnia che Guarino prediligesse gli alunni interni a scapito
dei pubblici, la respinge sdegnosamente ed energicamente, egli che come
studente pubblico non si accorse mai di quella parzialità.

127. Questo fu un altro piccolo trionfo per Guarino, come nel 1421:
quantunque egli non avea bisogno di una simile soddisfazione, chè
gliene era stata data una da fuori, la quale potea ben compensarlo
delle misere invidie di qualche suo concittadino. Infatti nella prima
metà di novembre gli venne un invito da Venezia e uno da Bologna.
L'invito di Bologna «era più onorifico per l'antichità e la fama di
quell'Ateneo», l'invito di Venezia «era più lucroso per le vecchie e
rispettabili conoscenze» che vi avea Guarino. Egli stette in forse fra
le due città, ma nel medesimo tempo interrogava gli amici di Verona per
sentire gli umori del Consiglio; giacchè egli «preferiva un modesto
collocamento in Verona a uno lauto altrove». Il partito degli onesti
vinse e lo Zendrata esortò Guarino a ritornare in patria; ciò prova che
la rielezione era assicurata.

128. L'appianamento di questa difficoltà fu coronato dal parto felice
della moglie, la quale il 7 decembre a Trento, dove erano tornati da
Pergine sin dal 21 novembre, diede in luce un maschio. Guarino e i
parenti furono contenti del maschio e il padre gli mise nome Manuele
per gratitudine verso il suo antico maestro e perchè il figlio avesse
uno stimolo continuo a ben fare, se voleva rendersi degno del nome che
portava. Così Guarino può pensare al ritorno. Intanto partì lui agli
ultimi di decembre, lasciando a Trento la moglie e i bambini, per il
ritorno dei quali si sarebbe atteso che fosse passato il crudo rigore
invernale.

129. Era appena tornato Guarino, che il Consiglio nella seduta del
10 gennaio 1425 lo confermò per un altro quinquennio con le medesime
condizioni del primo. Però nelle considerazioni che accompagnano
la proposta ce n'è una nuova e che torna a lode di Guarino, dove
si dice che il Consiglio, «avendo inteso dei molti onorifici inviti
pervenuti a Guarino da altre città, reputava conveniente non lasciarsi
sfuggire un personaggio che era di decoro e di utilità a Verona».
La famiglia avrà forse aspettato la primavera; certo era di ritorno
nel principio dell'aprile. Guarino pertanto riprese tranquillamente
le sue occupazioni, intramezzate da qualche gita fuori. Così ne fece
una nell'aprile a Vicenza a trovarvi il Barbaro e il Biondo, ne fece
una nel luglio a Montorio e una terza a Venezia nel 16 ottobre per un
pubblico incarico.

130. Ma la gita a Montorio fu per una funesta circostanza, la morte
della suocera, che egli amava e apprezzava molto perchè virtuosa
quant'altra donna mai. «Le faccende domestiche erano per essa un
passatempo; avea senno e prontezza virile negli affari di maggior
gravità; conosceva bene il mercato, ponderava le parole, nelle liti era
rispettato il suo consiglio, in casa faceva ella da medico». Era morta
di perniciosa sulla fine di giugno e Guarino sentì bisogno di un poco
di pace campestre per mitigare il dolore della perdita. Nell'autunno
non andò egli a Valpolicella, mandò invece la moglie a sorvegliare la
vendemmia, poichè essa dopo la morte della madre «era diventata erede
come delle sostanze così delle incombenze materne».

131. Intorno all'agosto incontriamo a Verona il Giuliani coi figli
e con Filippo Camozzi, maestro di casa. Forse era venuto con qualche
pubblico incarico del governo di Venezia. Con altri due amici veneziani
si trovò Guarino agli ultimi di settembre: i due Ermolai, il Barbaro
già suo scolaro e il Donati. Il Donati veniva da Vicenza, dove stava
col podestà Francesco Barbaro, a visitare Verona che non aveva mai
veduto. Guarino gli fece da guida.

132. Quest'anno abbandonarono la scuola di Guarino due dei suoi più
famosi allievi: Martino Rizzoni veronese, più tardi maestro della
Isotta Nogarola, il quale andò nel settembre a Venezia come institutore
privato in casa Tegliacci; e Giovanni Lamola bolognese, che a un
dipresso nel medesimo tempo si ritirò a Bologna, di dove lo ritroveremo
nuovamente in corrispondenza con Guarino.

133. Nel giugno dell'anno seguente 1426 ci fu l'arrivo in Verona dei
figli Paolo e Bonaventura di Giacomo Zilioli consigliere del marchese
di Ferrara; essi venivano alla scuola di Guarino e con ciò si rendevano
più intimi i legami d'affetto della famiglia Guarini con la corte di
Ferrara.

134. Ma nello stesso mese un avvenimento triste conturbò l'animo di
Guarino: la morte di Giannicola Salerno, rapito nella età di soli 47
anni agli amici e alla patria, l'amico d'infanzia e il condiscepolo
di Guarino e più tardi il suo rispettoso e amorevole scolaro.
Incontrandolo poco innanzi un suo conoscente mentre andava a scuola
da Guarino: «Cavalier Nicola, gli disse, che vai a fare a scuola
a codesta età»? A cui Nicola: «A viver la vera vita, la vita dello
spirito». «E quando finirai»? «Quando sarò stanco di diventar più dotto
e più virtuoso». Guarino più che per i suoi meriti come magistrato,
lo ammirava per la sua grande virtù. Sono singolari i giudizi che del
Salerno hanno dato Lorenzo Giustinian e Bernardino da Siena: due monaci
che la chiesa ha beatificati. Il Giustinian diceva che chi amava Dio
non poteva esimersi dal venerare il Salerno. Bernardino poi dopo aver
avuto un colloquio col Salerno, nel partirsi da lui si battè il petto
esclamando: Povero me, che mi credevo che la virtù albergasse sotto
la cappa del monaco; sotto la cappa di quel cavaliere ce n'è tanta
da farmi arrossire. Quando morì era uno degli amministratori per la
guerra di Venezia col Visconti e nella carestia che in quel tempo
travagliava Verona egli si adoperò assai a provvedere di grano i suoi
concittadini. Guarino gli elevò un perenne monumento d'affetto in una
delle sue più belle orazioni, che egli recitò pubblicamente: «piangeva
egli e piangeva il pubblico che lo ascoltava». Indi la mandò al Rizzoni
a Venezia, perchè la diffondesse tra i comuni amici dell'estinto, quali
i Giustinian e i Barbaro.

135. L'autunno di quest'anno toccò a Guarino andare a Valpolicella a
sorvegliare la vendemmia. La moglie dovette stare a Verona per il parto
e l'11 ottobre diede in luce il quarto figlio, Gregorio. Nè «tra lo
spumar dei tini» dimenticò gli studi, chè tradusse in quei giorni il
Filopemene di Plutarco e lo dedicò al Maggi. E nemmeno mancarono le
riunioni geniali degli amici, che andavano a Valpolicella a passare
un paio di giornate. Anzi in una di quelle occasioni, dopo pranzo,
Guarino comunicò «per frutta», egli dice, una lettera da Firenze di
Mariotto Nori. Erano presenti il Lavagnola, il Genovesi, il Brugnara,
il Faella, il Maggi e altri. A Firenze per opera di un «uomo di vetro»,
di un «fanfarone» era successo un piccolo scandalo alle spalle di
Guarino; e il Nori gliene dava partecipazione. Guarino ben lontano
dall'adontarsene, lesse in crocchio e commentò la lettera, ridendo egli
il primo ed eccitando le risate dell'uditorio.

136. Nel 1427 Guarino fabbricò. I figli gli crescevano, egli dice, e
la casa doveva essere allargata. In effetto i figli crescevano, perchè
dal 1421 al 1426 gliene nacquero quattro e presentemente la moglie
era incinta del quinto, che nacque tra l'ottobre e il novembre e fu
anch'esso maschio, Niccolò. Guarino non sospettava certo che il numero
avrebbe continuato a salire fino ad arrivare nel 1441 a tredici: e
tutti vivi! Per un uomo che aveva preso moglie a 45 anni non c'era
male. I lavori della fabbrica lo importunarono alquanto. «Non mi
chieder lettere, scrive al Rizzoni, perchè le riceveresti piene di
polvere e di arena. Mattoni, cementi, calcinacci mi rintronano le
orecchie, mi offendono le narici; non prendo più libri in mano e son
quasi diventato muratore anch'io, sporcandomi tra i ferramenti e la
calce. Non vedo l'ora di uscirne».

137. Questo scriveva nell'agosto; nel settembre era a Valpolicella.
Ma nemmeno in villa gli die' pace la fabbrica; c'erano sempre dei
residui da ultimare, per i quali si serviva della cooperazione
dell'amico Benedetto Cremonese, maestro privato. Benedetto era amico
della famiglia Guarini e anche della gazza che formava la delizia
del piccolo Girolamo; anzi gliela mandò a salutare. Girolamo fu molto
soddisfatto dell'attenzione. Il secondogenito Esopo Agostino, che, come
il suo omonimo favolista greco, «si dilettava di fiabe e di apologhi
rusticani», andò in campagna a S. Floriano a trovare la sua balia, ma
ivi ammalò; poco dopo però era fuori di pericolo.

138. Da Valpolicella avea Guarino progettato un'altra gita, come quella
del 1419, al lago di Garda col Brenzoni, ma non si potè muovere, un
po' perchè avea continue visite di amici veronesi, un po' perchè il
numero dei convittori che portava con sè era tanto grande, che quando
uscivano «pareano uno stormo di uccelli o di locuste: dove trovar
mezzi di trasporto e alloggio per tanta gente?» La sera del 13 ottobre
vide dalla villa un gran splendore di fiaccole a Verona. Egli non ne
indovinava il motivo; seppe dipoi che si festeggiava la battaglia di
Maclodio, vinta il giorno avanti (12 ottobre) dal conte di Carmagnola,
condottiere al soldo della repubblica veneta, contro il Piccinino,
condottiere al soldo del Visconti.

139. Quel fatto d'arme levò gran rumore allora e commosse l'animo
anche del nostro Guarino, che ideò un'orazione in lode del vittorioso
condottiero. Intorno all'orazione lavorava nel principio del 1428;
nel febbraio era già compiuta. Dopo di aver detto nell'esordio che
anche il tempo presente non difetta di uomini illustri e che è giusto
rendere il dovuto omaggio alla grandezza del Carmagnola, Guarino
divide il discorso in due parti. Nella prima parte espone la vita del
condottiero, nella seconda ragiona delle sue virtù militari e civili.
Le virtù militari vengono messe in luce specialmente con la vittoria
sul Malatesta a Brescia (del 1421) e con la vittoria di Maclodio
(del 1427); le virtù civili col governo di Genova affidatogli dal
Visconti. Termina Guarino col celebrare la repubblica veneta, che seppe
comprendere e apprezzare i meriti del valoroso condottiero, quando
appunto egli era fatto segno all'invidia e alla calunnia.

140. La prima metà dell'anno 1428 corse tranquilla. Ma tra la fine di
giugno e il principio di luglio si manifestarono dei sintomi di peste
a Verona. I cittadini cominciarono a mettersi in salvo e gli scolari
disertarono le lezioni; allora anche Guarino provvide ai casi suoi e
si ricoverò a Valpolicella sulla fine di luglio. Ivi stette almeno un
tre mesi, attendendo sempre allo studio con gli allievi convittori,
e quando si assicurò che il pericolo era cessato, tornò in città. Nel
decembre i timori si rinnovarono e già erano corse pratiche tra Guarino
e lo Zilioli per cercare un rifugio in Ferrara.

141. Sui primi del 1429 abbiamo una sosta. Però nel marzo si riaffaccia
il pericolo: ci furono alcuni casi di morte. Che si farà? giacchè
Guarino sente che anche Ferrara è minacciata. Negli ultimi di marzo
le morti aumentano e Guarino ha ricevuto un nuovo invito di recarsi a
Ferrara. Questa volta alle premure dello Zilioli si sono unite quelle
del marchese; Guarino non può rifiutare e ringrazia. Ma come staccarsi
dai suoi Veronesi, che gli vollero tanto bene? Gli bisogna tempo: «non
uno strappo vuol essere, ma una scucitura»; aspettino almeno tutta
l'estate che egli possa accomodare le sue faccende.

142. Se non che il morbo incalza e il tre d'aprile Guarino si decide
alla partenza, domandando al marchese la lettera di passo per i suoi
stati; chiede al Consiglio di Verona la licenza di assentarsi con la
famiglia e gli viene concessa con deliberazione del 7 aprile. Qualche
giorno dopo imbarcò la famiglia e poche masserizie e per l'Adige prese
la via di Ferrara, dove lo troviamo già il 23 d'aprile.

143. Guarino in Verona insieme con le funzioni di maestro esercitò
anche quelle di cittadino. Non passò anno dal 1420 al 1428, in cui egli
non avesse un posto nelle pubbliche amministrazioni della sua città.
Fu dei 72 deputati _totius anni_ nel 1421. Fu consigliere aggiunto
nel 1422, consigliere effettivo dei 50 nel 1423, 1425, 1427, 1428;
consigliere dei 12 nel 1424, 1426. Nel 1425 fu della commissione per il
riordinamento dello spedale di S. Giacomo e Lazzaro.

144. Fece parte di parecchie ambasciate: di una a Vicenza nel 1425 per
una questione di acque che danneggiavano il territorio veronese; di
una a Venezia nel 1424 per una questione che aveva il comune di Verona
col clero riguardo alle collette. È questa probabilmente l'ambasceria,
nella quale Guarino «mise in opera tutta la propria energia,
affrontando anche coraggiosamente le suggestioni degli avversari».
Per la medesima questione tornò a Venezia nel 1425. Ambasciatore a
Venezia lo incontriamo anche nel 1428 per ottenere l'allontanamento di
alcune bande armate, che infestavano le campagne del Veronese. Quando
non poteva andare egli in persona, scriveva. Così scrisse a Francesco
Barbaro raccomandandogli l'interesse di alcuni Veronesi; scrisse
a Daniele Vettori parole forti e infiammate per muovere il governo
della Serenissima a mettere un riparo alle continue sollevazioni dei
contadini delle campagne veronesi; scrisse a Lodovico principe di Fermo
nel suo passaggio per il territorio di Verona pregandolo di risparmiare
i contadini.

145. Nelle occasioni solenni la parola dotta ed elegante di Guarino si
faceva interprete dei sentimenti universali della città, come nel 1423
per l'elezione del doge Francesco Foscari, nel 1424 per la venuta in
Verona dell'imperatore di Costantinopoli. Ogni anno poi all'entrare o
all'uscir di carica dei podestà e capitani, che la Serenissima mandava
a Verona, Guarino componeva quei discorsi d'uso, ai quali sapeva sempre
dare un certo carattere di originalità. Essi ci sono rimasti tutti; e
quanto piacessero allora, è dimostrato dal gran numero di esemplari
che ne furono tratti. Guarino faceva anche il consulente gratuito,
soprattutto quando era chiamato in lite qualche povero, che non aveva
i mezzi e tanto meno il coraggio di tener testa alle prepotenze di
qualche insolente.


146. Questo il quadro della vita e dell'operosità di Guarino negli
anni che dimorò a Verona. Ma Guarino non visse solo per Verona e per
i Veronesi, sibbene anche per gli amici e colleghi che avea di fuori;
anzi per un umanista la vita consiste più, si può dire, nel commercio
epistolare con gli amici di fuori, che negli avvenimenti del luogo dove
egli insegna. E noi infatti vedremo che una vasta e molteplice rete di
relazioni congiunge Guarino con un gran numero di città e di circoli
letterari, i quali saranno ora passati brevemente in rassegna. Così
avremo la seconda parte e il compimento del quadro.

147. Per cominciare dalle città della Serenissima repubblica veneta
e dall'estremo settentrione, incontriamo a Cividale nel Friuli un
gruppo d'amici, anzi di parenti di Guarino per parte di sua moglie: i
Gioseppi, famiglia oriunda di Verona, della quale vivevano due fratelli
Pietrobono e Costantino; aveano una nipote Bartolomea, cugina per parte
di madre di Taddea, moglie di Guarino. Era allora in Verona Lodovico
Ferrari, figlio di Cecilia, un giovinetto che studiava con Guarino,
cugino egli pure per parte di madre di Taddea e di Bartolomea. Le
relazioni tra i parenti di Verona e di Cividale erano cordiali, perchè
alla fine del 1423 Guarino avea ideato di rifugiarsi a Cividale per
la pestilenza. I Gioseppi avevano interessi a Verona, pei quali si
pigliava cura Guarino, che alla sua volta li teneva informati delle
proprie notizie, p. e. della morte della suocera, del numero dei
figliuoli, della salute della moglie. Nel 1428 la Bartolomea si sposò
a Giovanni da Spilimbergo, buon maestro di retorica, che insegnò a
Cividale e ad Udine; e da allora in poi si strinsero intimi legami di
amicizia tra Guarino e il maestro Giovanni. L'annunzio del matrimonio
fu dato da Giovanni stesso a Guarino, il quale rispose congratulandosi
e accettando la sua amicizia. Lettere di congratulazione scrisse anche
il piccolo Lodovico Ferrari.

148. Con Padova Guarino mantenne rapporti negli anni 1419-1420, finchè
ci si trovarono il Gualdo ed il Barzizza, al quale ultimo domandò
sulla fine del 1419 Quintiliano e Asconio Pediano, per cominciare
il suo corso di retorica a Verona. Ma quando il Gualdo si stabilì
definitivamente in Vicenza, sua patria, e il Barzizza nel 1420 si
trasferì a Milano, invitato dal Visconti ad insegnare colà, vennero a
mancare i principali vincoli che tenevano congiunto Guarino a Padova,
se si eccettui il breve tempo nell'estate del 1421, in cui ci soggiornò
il Barbaro, che era fuggito da Venezia per la pestilenza.

149. Vivissime sono invece le relazioni con Venezia. Di là giunse
nel 1419 la triste notizia della morte di Giona Resti, vittima della
pestilenza. Nel 1420 l'amico Cristoforo Parma, il maestro vagante,
lasciò Venezia e andò a insegnare a Vicenza, sua patria, chiamatovi
dalle continue insistenze dei concittadini, con gran dispiacere di
Leonardo Giustinian, il quale aveva affidato alla sua cura il piccolo
Bernardo. Il Giustinian quando dava a Guarino questa notizia, stava
a Murano, dove trascorreva tranquillamente i mesi del calore estivo,
riposandosi dalle fatiche dei pubblici uffici e cominciando ad
esercitarsi nel canto, che egli poi adattò alle _Laudi_, delle quali
divenne in seguito autore fecondo e famoso.

150. A Venezia il Barbaro, che non aveva ancora principiato la sua
carriera diplomatica e amministrativa, continuava a studiare e a
ricorrere a Guarino per lumi. Era anch'egli ammogliato e la sua Maria
già era diventata amica della Taddea di Guarino. E amici comuni erano
molti Veronesi, quali il Maggi, il Pellegrini, il Brenzoni, i Verità.
Nel 1421 il Barbaro peregrinò alcuni mesi a cagione della pestilenza
che infestava Venezia e si incontrò con Guarino nel 1 ottobre a
Montagnana. In quest'anno Guarino compose l'orazione funebre per
Giorgio Loredan. L'anno seguente un'altra morte di persona veneziana
lo rattristò, la morte di Bianca, modello delle madri di famiglia,
figliuola di Francesco Pisani allora podestà di Verona.

151. La venuta di Ermolao Barbaro a Verona avea resi più intimi i
vincoli di Guarino con la famiglia Barbaro. Era stata anzi progettata
una gita di Guarino a Venezia; ma siccome era d'inverno e tempo
piovoso, egli preferì, diceva, di andarci «con la penna piuttosto
che coi piedi». Del resto il Barbaro stava sulle mosse per recarsi a
Treviso ad assumere la pretura di quella città, che fu il primo suo
passo nella carriera pubblica. Entrò in carica agli ultimi di decembre
1422 e la depose nel decembre dell'anno seguente.

152. In quell'anno (1423) Treviso diventò un piccolo centro umanistico;
bastava il Barbaro per dar vita a un circolo letterario, ma ci capitò
anche il Giustinian. Vi andarono pure i due famosi minoriti, Alberto da
Sarteano, uscito allora dalla scuola di Guarino, e Bernardino da Siena,
che dopo aver predicato a Treviso passò nel settembre a Feltre e indi
a Belluno. Guarino invidiava al Barbaro e al Giustinian i colloqui coi
due monaci; e realmente i due patrizi veneti e Guarino appartenevano
a quella categoria di umanisti, che conciliavano la cultura pagana
con un sincero sentimento cristiano. Il Barbaro di natura sua tendeva
all'ascetismo e agli studi sacri; anzi dopo l'incontro con fra'
Bernardino prese l'abitudine di intestare le lettere da Gesù, di che
più tardi lo canzonava il Poggio; il Giustinian fu cantore di Laudi ed
ebbe un fratello beatificato, Lorenzo; Guarino era studiosissimo dei
testi sacri ed ebbe in casa un figlio sacerdote, Manuele.

153. A questa piccola ma eletta schiera si aggiunse Flavio Biondo,
che giunse a Treviso nella seconda metà inoltrata dell'anno stesso
1423. Il Biondo era andato nel 1422 da Forlì sua patria a Milano a
trattare in nome della sua città qualche pubblico interesse. Arrivò
a Milano appunto nel tempo che il Barzizza era occupato a decifrare
il codice Lodigiano delle opere retoriche di Cicerone. E approfittò
dell'occasione per trarsi copia del _Brutus_, che mandò al Giustinian
a Venezia e a Guarino a Verona. Così si mise in relazione con gli
umanisti veneti. Nel ritorno in patria si fermò a Ferrara, dove conobbe
quei letterati, tra cui il Mazzolati; e fu anzi col mezzo di lui che
fece recapitare il _Brutus_ a Guarino. Arrivò in Forlì al principio del
1423, quando già si preparava la sommossa contro gli Ordelaffi, alla
quale prese parte anch'egli. La sommossa scoppiò nel maggio, ma ebbe
infelice esito, perchè la città fu occupata dal Visconti. Il Biondo
con tutti gli altri complici dovette esulare. Errò in qua e in là;
nel luglio ci comparisce a Verona, più tardi lo rivediamo a Ferrara,
ad Imola; finalmente fu invitato a Treviso dal Barbaro, che lo prese
come proprio segretario. E così il Biondo trovò per qualche tempo una
posizione onorevole presso la repubblica di Venezia, di cui fu poi
fatto cittadino.

154. Saputo Guarino dal Casalorsi che il Biondo era tornato col
Barbaro da Treviso a Venezia, gli scrive per alcuni codici, che lo
prega di fargli avere da Pietro Tommasi. Il Biondo e il Tommasi dunque
si erano conosciuti. Nel gennaio e febbraio di quell'anno, 1424, i
Veneziani ospitarono l'imperatore di Costantinopoli, e il Barbaro e
il Giustinian lo accolsero con un discorso greco; il che tornò a lode
del loro maestro Guarino, il quale pochi giorni dopo vide parimenti
l'imperatore a Verona. Alla metà di aprile Guarino per un'ambasceria
andò a Venezia e rivide gli amici. Troviamo quest'anno alla sua scuola
a Verona Bernardo Giustinian insieme con Ermolao Barbaro, ma le lezioni
furono interrotte dalla pestilenza. I due allievi al primo affacciarsi
del pericolo si rifugiarono a Venezia, dove contava di recarsi pure
Guarino.

155. E ci andò infatti alla fine di luglio per apparecchiare il posto
alla famiglia, ma tornato a Verona dovette mutar direzione, perchè
Venezia chiuse i passi ai provenienti da luoghi infetti. Quando gli
amici di Venezia seppero del dispiacevole contrattempo e che Guarino
era confinato sulle montagne tirolesi, tutti unanimi, il Parma, il
Barbaro, il Giuliani, i Giustinian, sin dal principio di settembre
fecero pratiche presso Guarino per trarlo fuori di là in luogo migliore
e gli offrirono intanto Murano, finchè si fosse tolto il divieto. Non
accettò, forse perchè a Pergine si era accomodato abbastanza bene.
Qualche mese dopo Venezia offriva a Guarino un nuovo collocamento
come professore; la proposta partì dal Barbaro, dal Giustinian e
dal Giuliani. Guarino stette un po' in dubbio ma poi rifiutò, perchè
riconfermato a Verona.

156. Del 1425 andò a stabilirsi in Venezia il suo scolaro Martino
Rizzoni in qualità di institutore privato in casa Tegliacci. Guarino
lo mise subito in relazione coi principali suoi amici veneziani e
corrispondeva frequentemente con lui per sorreggerlo coi suoi amorevoli
e savi ammonimenti nei primi passi della nuova carriera e animarlo
nei primi scoraggiamenti. Infatti non tutti i figli del Tegliacci
corrispondevano alle cure del Rizzoni; ma il vecchio maestro gli
ripeteva di lasciar correre l'acqua per la china, inculcandogli l'uti
foro di Terenzio. A suo tempo poi interpose i propri buoni uffici
presso il Tegliacci per fargli ottenere un aumento di onorario. Nel
1426 Guarino si servì del Rizzoni per diffondere a Venezia l'elogio
funebre del Salerno. Così l'ebbero il Giustinian e il Barbaro. Il
Barbaro nella metà di quell'anno era stato ambasciatore a Roma e nel
ritorno a Venezia diede relazione a Guarino di una gita a Genzano
e dei codici greci che vide nel chiostro di quel paese. Di un'altra
ambasceria a Roma fu incaricato il Barbaro due anni dopo, nel 1428, e
in quell'occasione portò con sè il nipote Ermolao.

157. Nel 1427 ritornava da Costantinopoli a Venezia Francesco
Filelfo, il quale avviò pratiche con Bologna per ottenervi un posto di
professore. L'intermediario di queste pratiche fu Guarino.

158. Della stima che godeva Guarino a Vicenza fa testimonianza l'invito
venutogli di là nel 1420 ad occupare il posto di insegnante lasciato
libero dal Filelfo. Il Filelfo insegnò a Vicenza per lo meno l'anno
scolastico 1419-1420; nel marzo del 1420 partì da Vicenza per Venezia
e di là per Costantinopoli. Guarino, già nominato a Verona, non potè
accettare. Intanto facea pratiche presso quella comunità per succedere
al Filelfo Giorgio da Trebisonda, aiutato in ciò dalle raccomandazioni
di Francesco Barbaro e di Pietro Tommasi; anzi a questo scopo fece egli
una corsa a Vicenza nel gennaio. Il Trebisonda riuscì nel suo intento
e fu nominato professore a Vicenza.

159. Guarino e il Trebisonda si erano conosciuti a Venezia nel
1417-1418, dove per alcuni mesi il Trebisonda udì le lezioni di
Guarino; ma non furono in buoni rapporti di vicinato quando insegnavano
l'uno a Verona, l'altro a Vicenza. Il Trebisonda avea molta boria
greca, congiunta a leggerezza giovanile, e non conosceva il latino che
un po' grammaticalmente: tre circostanze che impedivano di renderlo
simpatico a Guarino. Quando gli scolari di Guarino passavano da Verona
a Vicenza, pare che il Trebisonda nell'accettarli alla sua scuola li
sottoponesse a un esame troppo pedantescamente grammaticale; e Guarino,
più stilista che grammatico e abituato ad elevarsi dalla parola al
pensiero e al sentimento, doveva aver concepito un certo disprezzo per
quell'uomo.

160. E a lui infatti allude con frasi coperte, ma molto acri, in una
lettera del 1421. Ivi parla di certi mostri d'uomini, che «arrivati
alle prime pagine della grammatica si dànno il pomposo nome di
scienziati. Essendo soli essi ignoranti, si credono giusto appunto
i soli sapienti e non par loro vero, quando si imbattono negli
allievi altrui, di dimostrarne la ignoranza, interrogandoli su quelle
pedanterie, che essi hanno imparato a furia di sgobbo e che sono
indegne di un uomo e da lasciarsi ai ragazzetti, quali sono le figure,
i casi, i gerundi e quisquiglie di simil genere. La sorte di gente di
tal fatta è che gli scolari entrano da loro rape ed escono carote». Il
Trebisonda rimase a Vicenza certo sino al termine del 1426, in ogni
modo non molto dopo, perchè nel 1428 era tornato per qualche tempo
in Grecia; e poi egli lasciò Vicenza, mentre Guarino stava ancora a
Verona. Anzi, diceva lui, la dovette lasciare per le mene di Guarino,
che era geloso del suo vicino collega; secondo invece una testimonianza
più attendibile, la vera ragione era che egli con le sue fanfaronate
avea nauseato i Vicentini.

161. Contemporaneamente al Trebisonda insegnò a Vicenza il vicentino
Cristoforo Parma, ma come institutore privato. Cristoforo era prima
a Venezia, ma i Vicentini fecero tante premure, che lo ottennero nel
1420, quantunque non deve aver molto incontrato. Qualche anno dopo
lo ritroviamo a Venezia. Negli anni 1420-1421 era in Vicenza Pietro
Tommasi, medico e letterato veneziano e vecchia conoscenza di Guarino.
Saputo Guarino che il fratello, già morto, di Pietro aveva composto un
trattato sulla povertà, gliene domanda un esemplare con uno dei suoi
soliti giochi: «arricchiscimi, gli scrive, della tua povertà, perchè
io possa conoscere sì grande virtù e imparare ad esercitarla di buon
animo». Il Tommasi lo aveva incoraggiato a tradurre in latino una
orazione greca di Manuele Crisolora, anche per rendere un tributo alla
memoria dell'illustre maestro. Guarino non la tradusse, ma per compenso
rispose al Tommasi affettuose parole in lode del Crisolora. A Vicenza
Guarino aveva molti amici, quali il Francaciani, Matteo Bissaro,
Niccolò Dotti, suo scolaro, e più di tutti Girolamo Gualdo, col quale
teneva viva corrispondenza, scambiando codici, mandandogli i propri
lavori, p. e. l'orazione funebre per il Loredan, e informandolo dello
stato della sua famiglia. Girolamo era come uno di casa e Guarino volle
perpetuare la loro scambievole amicizia mettendo il nome di Girolamo
al suo primogenito. Nemmeno nel 1424 sulle montagne trentine Guarino si
dimenticò di lui e da Pergine gli mandò le proprie notizie.

162. Più attivi si fanno gli scambi di Guarino con Vicenza nel 1425,
l'anno in cui vi andò podestà Francesco Barbaro. Era stato nominato a
quel posto sin dal 1424, ma quello fu anno di gran peste a Vicenza e il
Barbaro si trattenne a Venezia. Avea preso possesso della nuova carica
certo al principio del 1425 e portò seco il Biondo, come segretario, e
il nipote Ermolao; più tardi ci troviamo qualche altro della famiglia
Barbaro ed Ermolao Donati. Ivi Francesco Barbaro rinnovò l'amicizia col
Gualdo, che aveva conosciuto a Padova e a Venezia. Col Barbaro Guarino
corrispose frequentemente, soprattutto per raccomandazioni spettanti
al suo ufficio di podestà, sempre ben inteso con la clausola σὺν τιμῆ
σου. Col Biondo era pure in frequente relazione ora per codici, come
quello dell'Epistolario Pliniano, di cui l'arcivescovo Capra desiderava
una copia, e delle opere retoriche di Cicerone; ora per affari di altro
genere, come l'incarico dato dal Biondo a Guarino di cercargli dei
cavalli e un cuoco.

163. La risposta di Guarino sul cuoco comincia con un saluto culinario.
Indi segue dicendo che, voltate le spalle alla letteratura, si dedicò
tutto al mestiere della cucina. «Ho raccolto intorno a me una assemblea
di guatteri, vivandieri, parassiti e mangioni e ho messo loro innanzi
il nome del cuoco vescovile, quale candidato al posto da te offerto.
La candidatura fu accolta ad unanimità e con plauso. Quel cuoco netta
così bene i piatti, che quando non gli basta lo strofinaccio, chiama in
aiuto la lingua e anche i calzoni. È pure molto economico; così p. e.
se qualche animaluccio gli cade dalla testa nelle pietanze, si fa uno
scrupolo di levarnelo: sarebbe un assottigliare la porzione; parimenti
si dica di qualche goccia che gli si stacchi dal naso. E misura il
condimento, anzi per risparmiare il lardo adopera il sego. Uomo inoltre
quietissimo, chè dorme giorno e notte per le gran sbornie che piglia.
Lo chiamano Chichibio». È noto che Chichibio è il protagonista di una
novella del _Decamerone_.

164. Il Biondo aveva con sè la moglie e doveva far con essa una gita a
Verona, la quale sarebbe riuscita graditissima a Guarino, perchè così
le loro donne avrebbero avuto occasione di conoscersi. Ma il Biondo
non potè. Guarino in compenso gli mandò per qualche tempo a Vicenza
il piccolo Girolamo. Andò poi egli due volte a Vicenza: la prima
nell'aprile, la seconda nel giugno. Nella prima Guarino vide Giovanni
da Castelnuovo, maestro di retorica, che stava allora a Vicenza. La
visita gli fu restituita per parte degli amici di casa Barbaro dai due
Ermolai, il Barbaro e il Donati. Nella funesta occasione della morte
della suocera Guarino ricevette parole di sincera condoglianza e di
conforto dal giovinetto Ermolao Barbaro e dal Gualdo. Il Gualdo in quel
tempo partiva per Firenze, dove aveva ottenuto una magistratura, con
lettere commendatizie del Barbaro e di Guarino.

165. Da Vicenza partì più tardi, nell'ottobre, anche il Biondo per
andare a Padova come segretario di Francesco Barbarigo, nominato di
fresco capitano di quella città. Quel posto fu ottenuto dal Biondo
per mezzo dei buoni uffici di Guarino e del Barbaro. Il Barbaro si
trattenne molto ancora a Vicenza, sino cioè al principio dell'anno
seguente 1426, perchè attendeva alla compilazione e pubblicazione
degli statuti della città: lavoro poderoso e grandemente meritorio,
che immortalò la pretura vicentina del Barbaro. Alla fine del 1425 era
ultimato e Guarino, pregato dai Vicentini e dal suo diletto scolaro,
gli premise l'introduzione.

166. Nel 1426 il Gualdo tornò dalla magistratura di Firenze, portando
notizie di quella città. Nell'agosto del 1427 prese moglie. Alle nozze
era stato invitato anche Guarino, ma non potè andare. «Del resto,
gli scrive, non hai perduto nulla, perchè ad aprir certe brecce in
certi castelli ci vuole la tattica nuova di voi altri giovanotti; noi
veterani del secolo passato abbiamo una tattica ormai antiquata e che
adesso non serve più». E ritorna poi su queste allusioni scherzose
e un po' ardite: «Quanto sei valoroso patrono per i tuoi clienti,
altrettanto devi essere robusto guerriero con la tua Penelope; _decet
enim hisce primis congressibus ut quantum te lectio singularem, tantum
te lectus pluralem cognoscat. Qua in re culare, hui! curare volui
dicere, debebis, ut non solum tu uxorem duxeris, ut scribis, sed et
te uxor ducat, ut mutua sit vicissitudo_». Nel giugno 1428, quando il
Gualdo per la peste si era da Vicenza ricoverato a Sarego, Guarino
gli mandò in dono il suo S. Agostino, postillato da lui quando era
in Tirolo, perchè con quella lettura ingannasse le lunghe ore d'ozio,
traendone insieme frutti di pietà cristiana.

167. Non meno che tra Guarino e Vicenza, il Gualdo servì di anello di
congiungimento tra Guarino e Firenze. Egli andò due volte a Firenze. La
prima nel 1420 e fu una gita di piacere. In quell'occasione il Gualdo
conobbe personalmente fra gli altri il Niccoli e il Traversari, coi
quali parlò a lungo di Guarino. A Firenze aveano concepite speranze di
riaverlo, ma erano illusorie; Guarino «a niun costo sarebbe più tornato
a Firenze». Si parlò anche delle invettive pubblicate in quell'anno
contro il Niccoli da due suoi nemici, l'uno dei quali il Benvenuti,
quegli stessi che non avevano risparmiato nemmeno Guarino quand'era
in Firenze. Egli era già stato informato di tutto dal Niccoli e dal
Traversari, ma ora che il Gualdo di ritorno da Firenze gli fornì
notizie più minute, si sente oltre ogni credere nauseato.

168. La seconda volta che il Gualdo andò a Firenze fu nel 1425, quando
ottenne per mezzo dei buoni uffici di Francesco Barbaro la magistratura
della mercanzia in quella città; partì nell'agosto con lettere
commendatizie del Barbaro e di Guarino. Così Guarino ebbe occasione di
rinfrescar la memoria con gli amici fiorentini. Tornato il Gualdo nel
1426, gli scrisse di un certo scalpore sollevato da un tale a Firenze
contro Guarino, su di che dava maggiori ragguagli una lettera da
Firenze di Mariotto Nori.

169. Nè fu questo il solo screzio che ebbe Guarino nelle sue relazioni
con Firenze. Ce ne fu un altro, e quello veramente dispiacevole. Si
trattava del Bruni. Era stato riferito da persone autorevoli, ma pare
malignamente, che il Bruni a Firenze in presenza dei Medici e di altri
avea sparlato di Guarino in modo da ledergli l'onore. Del che egli
sdegnato scrisse, non al Bruni direttamente, e in ciò fece male come
egli stesso confessa, ma ad amici comuni, lagnandosi dell'offesa in
modo molto vivace e risentito. Per tal guisa l'incidente, che doveva
esser leggero, ingrossò e già si minacciava una rottura fra i due
vecchi e provati amici. Il Bruni pare sia stato il primo a muovere i
passi per toglier l'equivoco e scrisse, verso il febbraio del 1421,
al Salerno allora podestà a Siena. Il Salerno si interpose subito tra
i due contendenti e con buon esito, poichè Guarino rispose a lui, che
il malinteso era cessato e scrisse nel medesimo tenore al Bruni. Il
Bruni non rispose, ma non ce ne era bisogno: tutto era appianato di
tacito accordo; dall'altra parte stuzzicare certe ferite ancor fresche,
sia pure con retta intenzione, è sempre pericoloso; il silenzio è il
miglior partito. Del resto Guarino non mancò mai, scrivendo agli amici
di Firenze, di mettere i saluti per il Bruni. Quando poi si presentò
una favorevole occasione, la nomina del Bruni a cancelliere della
repubblica fiorentina nel 1427, allora Guarino se ne congratulò con lui
per lettera. E il Bruni rispose in guisa da dare ampia soddisfazione
al vecchio amico, toccandogli delicatamente dell'antico litigio e
ringraziandolo delle congratulazioni.

170. Del rimanente, tolti questi due screzi, le relazioni di Guarino
con Firenze furono sempre cordiali, soprattutto col Niccoli, col
Traversari, con Angelo Corbinelli, con Giovanni Boscoli e, meno il
piccolo incidente, col Bruni. Nel 1422 Ermolao Barbaro, suo alunno,
dedicò al Traversari la versione latina di Esopo. Nel febbraio del
1424 capitò a Firenze dal Traversari frate Alberto da Sarteano, che
gli parlò piacevolmente di Guarino. Nel 1423 andò a Verona a studiare
con Guarino Mariotto Nori, un raccomandato del Traversari. Il Nori era
stato qualche tempo prima commesso d'affari a Venezia di Palla Strozzi;
venuto a Verona, vi si trattenne un paio d'anni; indi passò alcuni mesi
a Mantova a copiar codici per i principi Gonzaga; tornò a Verona e di
là nel 1426 rimpatriò a Firenze.

171. Aveva una bella calligrafia, specialmente nella scrittura che
allora chiamavano «antica». Guarino andava in visibilio quando ne
parlava e gli fece copiare un Giustino. Era un bravo giovinotto, di
buona famiglia, ma aveva un difetto: l'instabilità congiunta a un
po' di vanità. Guarino lo chiamava figlio di Eolo sia perchè mobile,
sia perchè borioso; quando p. e. parlava de' suoi antenati, contava
miracoli e le sparava grosse quanto mai. Ma saputo pigliare per il suo
verso, gli si faceva fare quel che si voleva. Nel rimpatriare si fermò
a Ferrara, dove conobbe lo Zilioli, che gli propose la trascrizione
di un Servio antico e difficilmente decifrabile. Le pratiche durarono
a lungo in mezzo a molte incertezze, ma finalmente dopo più di un
anno la copia fu compiuta e l'eleganza e l'esattezza dell'esemplare
soddisfecero Guarino e lo Zilioli, compensandoli così del patito
ritardo.

172. Il numero degli amici di Guarino a Firenze è cresciuto negli
ultimi mesi del 1425 con l'arrivo dell'Aurispa, che fu nominato
professore di quello studio. Nel 1427 partiva da Verona alla volta
di Roma Marco Campesano; nel passaggio per Ferrara fu da Guarino
raccomandato allo Zilioli e nel passaggio per Firenze al Nori, al
Niccoli, al Boscoli.

173. Non molto intimi nè molto frequenti sono i rapporti di Guarino
con Roma, dove non c'è che il Poggio, che lo tenga in una certa
corrispondenza con la curia pontificia. E nelle sue lettere a Guarino
il Poggio non si dimentica del Barbaro, il quale del resto si trovò con
lui due volte a Roma: nel 1426 e nel 1428. Tutte e due le volte ci andò
come ambasciatore; nel 1426 di ritorno passando da Firenze riconciliò
il Niccoli col Bruni. Non mancavano poi Veronesi che andassero a
Roma; così nel 1421 ci fu il Salerno a prendere possesso della dignità
senatoria e a recitarvi il discorso di ringraziamento innanzi al papa;
nel 1425 c'era il canonico Filippo Regini, alunno di Guarino, nel 1426
un prete Alessandro che dava un po' da dire sulla sua condotta, e non
so in quale anno un altro prete, Antonio Malespina vicario del vescovo.
A Roma si recò, per non poter reggere al peso delle imposte, nel 1425
un amico del circolo fiorentino, Antonio Corbinelli, e in quell'anno
stesso vi morì, con gravissimo dolore e lutto di Guarino, che era
stato da lui ospitato in casa propria a Firenze e che l'amava come
un fratello. La triste notizia fu partecipata a Guarino dal canonico
Filippo e da Guarino al Barbaro, che parimenti stimava ed amava
l'estinto.

174. Guarino fece una gita a Mantova, che gli lasciò poco gradita
impressione, perchè in tre giorni che vi stette non seppe ben
distinguere se era giorno o notte. «Ivi non si vede che acqua e non si
odono che rane. Le case sono in maggior numero che gli abitanti; nelle
piazze si trovano le alghe e per le strade si inciampa nei porci».
Quando vi andò c'era il Giuliani, probabilmente con qualche pubblico
ufficio. A Mantova Guarino conosceva il vescovo. Nel 1425 eravi
vicepodestà un veronese, Galesio della Nichesola, al quale Guarino
scrisse una lettera, perchè rintracciasse una orazione di Cicerone
trovata in Verona e migrata colà.

175. Guarino godeva molta stima presso i signori Gonzaga, che lo
invitarono alla loro corte come institutore. Non accettò e poco dopo
fu invitato Vittorino da Feltre, suo alunno a Venezia, che nutriva
sempre amore e rispetto per il suo maestro. I buoni frutti della scuola
di Vittorino si videro ben tosto in una lettera che il principino
Lodovico, decenne appena, scrisse nel 1424 a Guarino. Guarino rispose
compiacendosi dei felici risultati e congratulandosi che dal maestro
inetto, che avea prima, fosse passato sotto la disciplina di Vittorino,
che egli chiama _optimus vir_ e _doctissimus magister_ e dal quale
gode di sentirsi lodato. «Del resto se mi chiama suo precettore,
più che merito mio, è bontà e gratitudine sua, il quale ottimo com'è
mi decanta quale desidererebbe che io fossi. E quel poco che io gli
insegnai, e quanto poco sia stato lo so io, egli lo esagera al punto
da far di una pulce un elefante. Prendilo pertanto, se hai fede in me,
a guida nella vita e nello studio e imita costantemente il suo esempio
ed egli diventerà per te quello che dice Omero di Fenice per Achille:
eccellente maestro di ben dire e di ben operare». Il principino gli
domandava una redazione corretta dell'_Orator_ di Cicerone e Guarino
gliela promette, appena avrà il modo e l'opportunità.

176. Anche a Brescia troviamo un piccolo nucleo di amici di Guarino;
ma è costituito non di elementi stabili, sibbene raccogliticci, ed
ha breve vita, dal 1427 al 1428; gli elementi appartengono al gruppo
veneziano. È il caso a un dipresso di Treviso nel 1423. Brescia fu, si
può dire, il perno delle operazioni strategiche della guerra combattuta
negli anni 1426-1428 tra Milano e Venezia. La Serenissima mandò a
Brescia in qualità di capitano Niccolò Malipiero, in qualità di podestà
Pietro Loredan. Il Loredan si portò come cancelliere il Biondo.

177. Il Biondo pertanto era stato nel 1425-1426 a Padova col Barbarigo
e ora nel 1426-1427 accompagnava il Loredan a Brescia. Ma in quest'anno
lasciò il servizio della repubblica veneta. Forlì dopo un triennio
di occupazione viscontea era stata sgombrata e consegnata in potere
del papa Martino V, che vi mandò a governarla Domenico Capranica. Il
Biondo così era libero di rimpatriare, anzi ottenne un posto presso
il Capranica e intanto avea fatto partire per Forlì la famiglia;
egli vi andò nell'agosto 1427. Guarino fu in frequente carteggio col
Biondo a Brescia, a cui si raccomandava ora perchè gli trovasse una
serva, ora perchè gli narrasse gli avvenimenti della guerra. Ma sugli
avvenimenti della guerra poteva informarlo meglio Battista Bevilacqua,
che aveva un comando nell'esercito sotto la condotta suprema del conte
di Carmagnola. E in effetto gli descrisse minutamente la giornata
di Maclodio; e della descrizione si giovò Guarino nel comporre
l'elogio del Carmagnola, del quale mandò copia al Bevilacqua perchè lo
diffondesse. Guarino avea progettato nel maggio di quell'anno, 1427,
una gita a Brescia a trovarvi il Biondo, ma non la fece. Non ne dovette
smettere del tutto l'idea, perchè in quel torno trattava col Capra,
arcivescovo di Milano, un abboccamento a Brescia, quantunque nemmeno
questa volta ci andò.

178. Col Capra entriamo nel circolo milanese. Il Capra fu fatto
arcivescovo di Milano nel 1414, ma non entrò in stabile possesso
della sua residenza che nel 1422. Prima di quel tempo avea preso
parte attiva al Concilio di Costanza, dove si trovò presente per la
elezione di Martino V. Indi fu incaricato di alcune ambasciate alle
corti europee, p. e. in Germania, donde tornava nel 1422 e fu allora
che fece l'ingresso a Milano. Nel principio del 1428 passò governatore
a Genova, dove stette circa un quinquennio; e poi prese parte al
Concilio di Basilea, ma per poco tempo, chè morì colà nel 1433. Fu uomo
illuminato, promotore degli studi, ricercatore di codici e perciò lo
vediamo in intimo e frequente commercio con gli umanisti. Guarino e
il Capra erano vecchi conoscenti, ma da molti anni non si scrivevano;
solo nel 1425 rinnovarono l'amicizia. In quell'anno il Capra, saputo
che Guarino aveva scoperto e divulgato il nuovo codice dell'Epistolario
di Plinio, gli scrisse pregandolo di allestirgliene una copia. Guarino
lo soddisfece servendosi dell'opera del Biondo. Nel 1427 andarono a
Milano Francesco Brenzoni e Filippo Regini canonico, veronesi; e in
quell'occasione ci fu scambio di lettere affettuose tra Guarino e il
Capra.

179. Guarino allora interpose l'arcivescovo perchè gli ottenesse da
Giovanni Corvini un Macrobio; ma l'interposizione non giovò a nulla; il
Corvini era stato battezzato dal Capra per un'arpia, poichè accumulava
codici senza farne parte agli amici. Nè era stato quello il primo
tentativo di Guarino per aver codici dal Corvini, specialmente un
Gellio e un Macrobio, ai quali fece l'amore parecchio tempo. Avea già
interposto il Casati, un milanese, conosciuto nel 1419 per mezzo del
Maggi, avea interposto lo Zilioli, ma sempre inutilmente. Da ultimo
Guarino cercò di mettersi in corrispondenza diretta col Corvini e
ciò fece nel principio del 1428, prestandogli un proprio codice. Ma
il Corvini anche questa volta duro; sicchè Guarino ebbe ragione di
risentirsene e dargli dello scortese, giurando che non gli presterebbe
più codici.

180. Giovanni Corvini era nativo di Arezzo, donde partì presto per
Milano e ivi entrò al servizio del Visconti come segretario. Morì
nel 1438. Aveva buoni rapporti con gli umanisti fiorentini, quali il
Niccoli, il Traversari, e coi milanesi, soprattutto col Barzizza, che
fu institutore di uno dei suoi figliuoli. La passione predominante del
Corvini era raccoglier codici, dei quali possedeva già una rilevante
collezione sin dal 1412, p. e. un Epistolario ad Attico, una commedia
latina a noi ignota e quel Gellio e quel Macrobio, a cui dava la caccia
Guarino.

181. A Milano in quel tempo veniva su un forte ingegno, che spiegò
grande operosità nel campo politico e nel campo letterario: Pier
Candido Decembrio, nato nel 1399 a Pavia. Ivi bambino dai tre ai
quattro anni aveva ricevuto le carezze di Manuele Crisolora, che
insegnava a Pavia nel 1400-1403. Nel 1413 il padre Uberto faceva
pratiche per collocarlo presso la curia pontificia, ma preferì poi
di metterlo al servizio del duca Filippo Maria Visconti; morto il
Visconti, il Decembrio passò nella curia. Negli anni 1420-1430 le
relazioni del Decembrio si fecero estesissime. Corrispondeva con
Ogniben Scola, che stava a Pinerolo, con Gerardo Landriani vescovo di
Lodi, coi Bossi di Como, con Feltrino Boiardo di Ferrara, col Loschi
a Roma, con Galasso Correggio e Tommaso Cambiatore a Reggio, con
Carlo Fieschi e Giovanni Stella a Genova e col De Marinis arcivescovo
di quella città, coi Medici, col Niccoli e col Bruni a Firenze. Non
parliamo dei letterati e uomini di stato del circolo milanese, come
Zanino Ricci, Guarnerio Castiglioni, il Becchetti, Cambio Zambeccari,
Antonio da Rho, il Capra, il Barzizza.

182. Nel 1425 strinse rapporti anche con Francesco Barbaro e con
Guarino. Nell'ottobre di quell'anno il Decembrio andò a Venezia, a
trattare con la Serenissima un acquisto di vettovaglie per Milano.
Contava egli di visitare a Vicenza il Barbaro e a Verona Guarino; ma la
partenza da Venezia fu affrettata e le due visite non furono fatte. Ciò
non tolse al Decembrio, tornato che fu a Milano, di scrivere all'uno e
all'altro e stringere per lettera quell'amicizia, che non aveva potuto
personalmente. Guarino corrispose volentieri all'invito e da buon
maestro correggeva gli errori di greco delle lettere del Decembrio, il
quale allora moveva i primi passi nella conoscenza di quella lingua.

183. Sulla fine dello stesso anno andarono ambasciatori a Venezia anche
il Corvini e il Barzizza. Il Barzizza intendeva parimenti di fermarsi a
Verona a salutar Guarino, ma ne fu impedito pur esso. Glie ne scrisse
un paio d'anni più tardi, chiedendogli scusa, nella occasione che
gli raccomandava Francesco Mariani, suo allievo, il quale si recava
a studiare il greco da Guarino. Il Barzizza stava a Milano sin dal
1420, come professore di retorica. Ivi nel 1422 rese un gran servizio
alle lettere, decifrando e dividendo in capitoli le opere retoriche di
Cicerone trovate a Lodi dal vescovo Landriani. Il codice fu portato al
Barzizza a Milano da Giovanni Omodei; il Barzizza lo fece esemplare dal
cremonese Cosimo Raimondi. In quell'anno stesso Guarino mandò a nome
degli umanisti veronesi il suo alunno Giovanni Arzignano dal Barzizza a
trarre una copia del nuovo codice. Ma per allora non si potè ottenere
che l'_Orator_. Solo più tardi, nel 1428, Guarino ebbe per mezzo del
Lamola un apografo intero ed esattissimo dell'archetipo di Lodi. E un
altro codice ebbe per mezzo del Lamola, il Macrobio cioè del Corvini.
Il Lamola era a Milano dalla fine del 1426, in cerca di nuova fortuna.
Ivi aveva trovato una occupazione presso Cambio Zambeccari e intanto
si era messo in relazione con l'arcivescovo Capra e con altri illustri
personaggi di Milano.

184. Avanti di andare a Milano il Lamola stava in Bologna, sua patria.
Quando seppe nel 1419 che Guarino era passato a Verona, andò alla sua
scuola, che frequentò sino all'ottobre circa del 1425. Così il Lamola
diffuse a Bologna la fama del suo maestro e Guarino intrecciò vivo
commercio epistolare con quell'antico e rinomato centro di studi. Assai
vi contribuì anche la presenza in Bologna del Salerno, che fu podestà
di quella città il secondo semestre del 1419, e si acquistò tanto la
stima pubblica, che allo scader dell'ufficio gli venne riconfermato per
un altro semestre, dal gennaio al giugno 1420, onore raro a concedersi.
Una bella prova della nominanza che godea Guarino a Bologna l'abbiamo
nell'offerta di una cattedra che gli fu fatta nel 1424 dai Bolognesi,
i quali del resto non si perdettero di coraggio al primo rifiuto e
rinnovarono qualche tempo dopo, verso il 1430, l'invito per mezzo di
Alberto Zancari amico di Guarino; ma anche la seconda volta rifiutò.

185. Bologna nel tempo che Guarino insegnava a Verona presenta un
vivace e molteplice movimento di operosità letteraria. Non ultima fra
le cause è la parte che vi presero l'arcivescovo Niccolò Albergati,
liberal mecenate, e il suo segretario Tommaso Parentucelli, il futuro
papa Niccolò V. Entrambi corrispondevano con gli umanisti di Firenze
e cercavano codici. Ma lo scovatore era proprio il Parentucelli, che
nei viaggi dell'Albergati nel 1427-1428 in Lombardia e a Ferrara,
dove trattava la pace come intermediario fra Venezia e Milano, visitò
chiese e monasteri in cerca di codici, p. e. il monastero di Nonantola
sul territorio di Modena e quello di Pomposa presso Ferrara, la chiesa
di S. Ambrogio di Milano, la Certosa di Pavia, la cattedrale di Lodi.
Scopritore e possessore di buoni codici era pure il Rinucci, segretario
del veneziano Gabriele Condulmier, amico di Guarino, il futuro papa
Eugenio IV e allora (1424) legato apostolico a Bologna. Troviamo a
Bologna altra gente di minor levatura, p. e. tra il 1424 e il 1425
Berto Ildebrandi, Andreozzo Pierucci senese, frate Andrea da Rimini,
Giovanni da Luni, Antonio grammatico, Giovanni Toscanella, un antico
scolaro di Guarino a Firenze, Tommaso Pontano, suo scolaro di Verona.

186. Un novello impulso fu dato agli studi in Bologna dalla
venuta dell'Aurispa. Egli tornava da Costantinopoli col seguito
dell'imperatore. Si fermò con lui a Venezia, a Verona, e con lui andò
a Milano, dove si trattenne sino al giugno del 1424. Di là prese la
via di Bologna. L'Aurispa giungeva coi suoi trecento codici greci,
con l'aiuto dei quali sperava di carpire da qualche città, p. e.
da Firenze, un grasso collocamento. Egli era esperto mercante di
codici e sapea trarre il maggior profitto possibile dalla sua merce.
Però le trattative con Firenze gli andarono fallite, almeno per il
momento; intanto dovette acconciarsi ad accettare una cattedra di
greco a Bologna. Guarino, che nel febbraio 1424 lo aveva conosciuto
a Verona, nel febbraio dell'anno dopo, di ritorno dal Tirolo, gli
scrive congratulandosi dell'onore che gli avevano reso i Bolognesi.
Le pratiche con Firenze ebbero miglior esito nel 1425; infatti nel
settembre dell'anno stesso l'Aurispa partì per quella città, dove aveva
ottenuto la cattedra di greco.

187. Prima che l'Aurispa lasciasse Bologna, vi capitò Antonio
Panormita, lo studente girovago, che dopo aver peregrinato per Firenze,
Padova, Siena, veniva a piantar le tende a Bologna. Con l'Aurispa erano
conoscenze vecchie; ivi rinnovarono l'amicizia, e il poco tempo che
stettero insieme lasciò traccia in alcuni epigrammi all'_Ermafrodito_,
al quale il Panormita dava allora gli ultimi tocchi.

188. La pubblicazione dell'_Ermafrodito_ a Bologna nel gennaio del
1426, se pure non uscì qualche mese prima, fu uno degli avvenimenti più
memorabili di quei tempi. Le poche voci, che in sul principio gridavano
allo scandalo, rimasero coperte dal coro universale degli applausi,
che partivano dagli umanisti spregiudicati, ammiratori della forma
disinvolta e facile e avidi di quelle nudità pagane, che aveano gustate
in Ovidio, negli epigrammi di Marziale, nei Priapei e un pochino anche
in Catullo. L'opposizione grossa e pericolosa sorse più tardi, quando,
calmato il primo entusiasmo, i minoriti dal pulpito ebbero agio di
scagliar l'anatema sul sacrilego libello. E dico anche opposizione
pericolosa, intendendo quella che fu mossa al Panormita dal partito
milanese, capitanato dal frate Antonio da Rho; poichè quel partito
aveva una certa autorità e presso il pubblico e nella corte e a furia
di punzecchiare scosse la posizione del Panormita in Pavia.

189. L'araldo dell'_Ermafrodito_ fu il Lamola, che lo spedì a Guarino
ad insaputa dell'autore stesso, e poi andò a Roma a diffonderlo tra
gli umanisti della corte pontificia, dove lo lessero subito il Loschi,
il Poggio ed altri. Guarino, l'uomo dei severi costumi, il paladino
del matrimonio, l'esatto osservatore delle pratiche cristiane, divorò
quegli epigrammi, dove si predicava tutto il contrario di ciò che egli
sentiva e professava, e ne fece propaganda a Verona. Il giudizio che ne
diede nella lettera al Lamola è rimasto famoso, possiamo dire, quanto
l'_Ermafrodito_ stesso.

190. Egli ammira la dolcissima armonia del verso, la spontaneità
della dicitura, la naturalezza della frase, la scorrevolezza del
periodo. Ma il componimento è lascivetto e alquanto procace. «E che
forse per questo si dovrà scemar lode all'ingegno del poeta? Apelle
e gli altri pittori dipinsero nude certe parti del corpo che devono
star celate: meritano perciò minor lode? Non ammireremo la valentia
di un artista, anche quando ci ritragga al vero e maestrevolmente un
verme, una biscia, un topo, uno scorpione, una rana, una mosca, che
pur sono bestie poco simpatiche, anzi moleste? Io per parte mia lodo
il poeta e applaudo al suo ingegno e mi diletto dei suoi motteggi,
faccio buon viso alle piacevolezze e approvo quella petulanza, che sa
di postribolo. Del resto io mi rido delle prediche di certi sciocchi,
i quali non vedono salvezza all'infuori delle lagrime, dei digiuni,
dei miserere e non sanno che altro è vivere altro è scrivere. Io do
retta invece al mio illustre compatriota Catullo, che ne sa qualche
cosa più di loro e che dice chiaro e tondo, come l'onestà e la decenza
si deva cercare nel poeta e non nei versi, i quali anzi dilettano,
quando siano un tantino lascivi e solleticanti. E Catullo era pagano.
Prendete un cristiano, S. Girolamo, scrittore severissimo e casto e
vedrete che anche egli adoperava frasi oscene, quali non adoprerebbe
il più sfacciato libertino». Termina proclamando il Panormita, poeta
siciliano, il redivivo Teocrito.

191. Da questo momento in poi si strinse tra il Panormita e Guarino
un'amicizia che durò, meno qualche piccola musoneria, cordiale e
inalterata. La corrispondenza tra i due umanisti si fece subito
frequente e il Panormita mandava codici a Guarino, come un Erodoto e
un Cornelio Celso. Di Celso pare sia stato il Panormita lo scopritore.
Certo lo pubblicò Guarino per il primo nel 1426 e l'ebbe da Bologna
per mezzo del Panormita e del Lamola. In ricambio Guarino fornì loro
le notizie fresche fresche delle strepitose scoperte fatte da Niccolò
da Cusa in Germania, tra le quali nientemeno che la _Repubblica_ di
Cicerone, che si risolse poi nel _Somnium Scipionis_. Niccolò da Cusa,
il futuro cardinale, era più conosciuto allora come Niccolò da Treviri;
aveva accompagnato, ventiquattrenne appena, nel 1425 in qualità di
segretario il cardinale Orsini nella sua legazione di Germania e avea
scoperto a Colonia un gran numero di codici: dicono ottocento.

192. Negli anni 1426-1428 con la società del Panormita a Bologna
c'era oltre il Lamola anche Bartolomeo Guasco, altro scolaro e maestro
girovago, che fece il mercante in Sicilia, poi il diplomatico, indi
il professore e finalmente di nuovo il diplomatico e che conosceva
gli umanisti bolognesi e fiorentini. Degli umanisti fiorentini parlò
al Panormita il Barbaro, passato da Bologna nell'ottobre del 1426,
di ritorno da Roma. In quell'occasione il Barbaro avea riconciliato
a Firenze il Niccoli e il Bruni. Nel 1427 si trasferì da Venezia a
Bologna la famiglia Tegliacci e con essa l'institutore Martino Rizzoni.
Al Rizzoni Guarino volea far conoscere il Panormita, affinchè d'accordo
gli procurassero un Prisciano, di cui era in possesso Alberto Zancari;
ma a quell'ora il Panormita non stava più in Bologna, essendo partito
per Firenze e Roma. Il commercio epistolare col Rizzoni è sempre
frequente; egli teneva informato Guarino delle novità bolognesi e
scambiava con lui notizie letterarie. Un bel giorno venne la malinconia
al Rizzoni e volea farsi monaco. Guarino glie ne scrisse, non proprio
dissuadendolo, ma dandogli a capire che ci pensasse bene e che prima
passasse parola con lui.

193. Il Rizzoni si trovò a Bologna col Filelfo, che vi era arrivato sin
dal febbraio 1428, passando per Ferrara, dove raccomandato da Guarino
fece conoscenza di quei signori e letterati e vi lasciò tanto buona
impressione, che nel 1429 lo invitarono ripetutamente a insegnare colà.
L'anno 1428 egli ottenne un collocamento a Bologna, per il quale sin da
Venezia aveva fatto premure presso Guarino. Quando Guarino seppe dal
Rizzoni, che il Filelfo si era collocato a Bologna, se ne compiacque,
ma gli rincrebbe che avesse accettato l'offerta per un solo semestre.
Non gli sembrava nè decoroso, nè vantaggioso. Addebitava al Filelfo,
pare, un po' troppo di fretta. «Con un collocamento così precario non
guadagna nè il professore nè l'insegnamento». Ma il Filelfo aveva altre
mire: egli mirava a Firenze che, partito l'Aurispa, ricco di codici ma
piuttosto povero di scienza, scorgeva nell'ingegno vasto e poderoso del
Filelfo un ottimo acquisto per il proprio Studio. E infatti nel 1429 il
Filelfo andò professore a Firenze.

194. Più che mai intimi sono i legami di Guarino coi letterati e la
corte di Ferrara. Guarino avea colà molti conoscenti, come Federico
Spezia, Stefano e Lelio Tedeschi, Giovanni Coadi, i cavalieri Alberto
della Sale e Feltrino Boiardo, Ugolino Elia, Niccolò Pirondoli, col
quale ultimo scambiava semi di ortaglia e di piante. «Desidero come
pegno di amicizia che le tue piante allignino qui da me, in modo
che col loro fiorire e crescere fiorisca e cresca l'amor nostro e
invecchiando verdeggi e verdeggiando invecchi. Consegnerai al latore
della presente alcuni noccioli di pesche duracine, ma badiamo bene! di
razza genuina e degni del donatore. Me li hai promessi e so dall'altra
parte che sei esperto coltivatore. È giusto poi che come dai miei
orti sono partiti semi e piante a colonizzare i tuoi, così ne partano
dai tuoi a colonizzare i miei. In tal guisa le pesche venute qui dal
suolo ferrarese potranno ripetere quella sentenza platonica (riferita
da Cicerone): noi non siamo nate solo per noi, ma anche per la patria
e per gli amici. E poichè tu sai ben coltivare i campi, devi anche
imitarli (come dice nuovamente Cicerone) nel rendere che essi fanno
il cento per uno. Vi aggiungerai anche dei semi di finocchio». Come si
vede, due citazioni ciceroniane in proposito di semi.

195. Fra tutti i Ferraresi i più assidui corrispondenti sono Ugo
Mazzolati e lo Zilioli. Il Mazzolati era intimo di Guarino sin da
Venezia; ora le relazioni diventano più cordiali e il Mazzolati tiene
informato il suo illustre amico veronese di ciò che avviene a Ferrara,
come della nomina dello Zilioli a consigliere del principe e degli
scandali a corte, p. e. la decapitazione della Parisina e la fuga di
Meliaduce, figlio del marchese; lo mette in relazione coi letterati che
capitano a Ferrara, come col Biondo, che alla fine del 1422 mandava
per mezzo di lui a Verona il _Brutus_ di Cicerone; gli invia qualche
codice da emendare, come un Gellio, uno Svetonio; gli regala delle
penne d'oca, di cui andava rinomata Ferrara, non fosse altro per
indurlo a scrivere più spesso; gli fa presente di pesci delle paludi
ferraresi per la quaresima. «I tuoi pesci, gli risponde Guarino, mi
sono arrivati quali messaggeri della imminente quaresima e mi hanno
avvertito che purtroppo i giorni della baldoria sono finiti e che
bisogna mutar dieta e sistema di vita, pensando un poco anche all'anima
e tenendosi a stecchetto col mangiare. Anzi a rendere gli onori di casa
ai tuoi illustri messaggeri ho destinato della gente non meno illustre,
p. e. un Cicerone, un Fabio, un Lucio, un Lentulo, un Macrobio, un
Cornificio, così saranno in buona compagnia».

196. Ma venne il giorno funesto che troncò questo legame di gaia
e schietta amicizia: nella prima metà del 1427 il Mazzolati morì.
«Perdita per me gravissima, chè era egli onest'uomo e fedelissimo
amico, il quale in me amava un figliolo, venerava un padre, rispettava
un maestro e io ho perduto in lui un padre, un figlio, un discepolo.
Mi conforta però che egli tal morì qual visse. E chi infatti visse,
più retto, più liberale, più fedele del mio Ugo? Ci è da trarre un
ammaestramento da questa morte: che noi dobbiamo trovarci pronti al
fatal passo, poichè da un momento all'altro siamo esposti a perire. Il
mio Ugo io lo amai vivo e lo amo morto».

197. L'altro grande amico ferrarese di Guarino era lo Zilioli,
consigliere intimo del marchese d'Este fin dal 1422. Egli era sempre
a fianco del signore, di cui Guarino lo chiama «il fido Acate». Nel
1426 mandò a scuola a Verona i due figli minori Paolo e Bonaventura.
Il figlio maggiore Ziliolo studiava a Ferrara, dove si dottorò in
legge nel 1427 insieme col suo fedel compagno Ugolino Elia, altro
corrispondente di Guarino. I due figli minori arrivarono a Verona
nel 1426. Fu loro dato per aio un Antonio da Orzinovi, chiamato il
Bresciano, che prima era stato copista a Padova e di là nel 1424 andò
a Verona da Guarino. Furono poi raccomandati specialmente alle cure
della Taddea, e in tal modo fra la Taddea e le donne di casa Zilioli
si strinsero legami d'affetto; e le Zilioli mandavano spesso regali
alla famiglia Guarino. «Abbiamo per legge d'amicizia, scrive egli allo
Zilioli, tutto in comune fra noi; mancava che mettessimo in comune i
figli, che come per nascita sono tuoi, così per adozione saranno miei.
Io li abituerò a vivere socraticamente, cioè con poco cibo e alla
buona. Ma il meno che darò loro in cibo lo compenserò in tanta maggiore
istruzione e dottrina, acciocchè te li restituisca più buoni e più
dotti di quando me li hai affidati».

198. Fra gli amici di Guarino, che in questo periodo di tempo andarono
a Ferrara o vi passarono, notiamo il bolognese Zancari e il Panormita,
che visitarono Ferrara, questi nel principio del 1427, raccomandato
e presentato da Guarino, quegli nel principio del 1428. Vi passò
Mariotto Nori quando tornava nel 1426 a Firenze; vi passò il Filelfo
nel febbraio del 1428, diretto a Bologna. Il Biondo vi passò almeno
due volte: la prima nel decembre del 1422, la seconda nel principio del
1428. La seconda volta egli avea con sè la famiglia; pare perciò che vi
si sia trattenuto a lungo. In questa occasione tanto il Biondo quanto
lo Zilioli trattavano con Guarino per trovare un maestro a Meliaduce
figlio del marchese. Lo Zilioli aveva suggerito una persona, ma Guarino
ne lo sconsiglia con frasi risolute; non sappiamo a chi si alludesse.
Piuttosto credo che Guarino abbia messo innanzi il nome dell'Aurispa e
si combina infatti che l'Aurispa si stabilì in quel tempo a Ferrara e
che appunto poco dopo fu nominato maestro di Meliaduce.

199. Tutta questa intimità e questi vincoli con Ferrara contribuirono
non poco a trarvi colà Guarino. Mancava solo una occasione ed essa
venne con la pestilenza. Guarino cercava un rifugio e gli fu offerto
a Ferrara. Egli accettò; ma c'era in lui l'intenzione di abbandonare
Verona? Probabilmente non avrebbe saputo dirlo nemmeno lui stesso. Di
Verona egli non si poteva lagnare; vi era anzi amato e gli dispiaceva
staccarsene. Senonchè una volta messo il piede in Ferrara, si trovò
quasi senza volerlo attratto nell'orbita di quell'astro maggiore; e
Verona rivide il suo Guarino come cittadino e come amico, non lo riebbe
più come insegnante.



Guarino a Ferrara

PRIMO QUINQUENNIO

(1430-1435)


200. Guarino giunse a Ferrara nell'aprile del 1429 e appena giunto
meditava di ripartirne, perchè anche ivi si era manifestata la peste.
Si rifugiò in un paese vicino, ad Argenta, nella casa di Luigi Morelli,
insieme coi figlioletti dello Zilioli, col loro institutore Antonio
Bresciano e con alcuni amici ferraresi. Nei primi giorni tutto camminò
bene; ma verso la metà di giugno Argenta fu invasa con violenza
dall'epidemia. Guarino senza indugio sparpagliò parecchi dei suoi
domestici, mandandoli chi qua, chi là, ma non potè evitare che tre
della sua casa fossero attaccati: il suo parente Giovanni d'Este, Paolo
Zilioli e l'institutore Antonio. Antonio si salvò, ma Giovanni e Paolo
rimasero vittime. Lo Zilioli ritirò subito in casa l'altro figlio,
Bonaventura.

201. La morte di Paolo fu un grave colpo a Guarino, ai genitori, ad
Antonio Bresciano, il quale fece di tutto per salvarlo e non se ne
potea dar pace. Il più forte fu il padre; la madre ne rimase tanto
desolata, che solo al veder persone che glie lo rammentassero dava in
smanie. Così l'11 novembre Guarino andò a Porto, su quel di Ferrara,
dove villeggiavano gli Zilioli per tenersi lontani dalla peste; procurò
bensì di nascondere la sua venuta, ma ciononostante donna Zilioli
lo seppe e questo bastò per rinnovarle l'acerba ferita. Il povero
Guarino sentì profondo dolore di quella perdita. Lo chiamava il «suo
Paolo». «Giovinetto di buona indole, d'ingegno, modesto, studioso e
che facea concepire di sè le più belle speranze. Oh quanto giovamento
mi aspettavo da lui per i miei figli!» Morì munito di tutti i conforti
della religione ed ebbe un accompagnamento se non pomposo, che non lo
permetteano le condizioni sanitarie, certo affettuoso.

202. Dopo la disgrazia di Paolo, Guarino cambiò di alloggio, andando ad
abitare nella casa di Giacomo del Bando. Nella casa di Luigi Morelli,
che fu chiusa, lasciò una parte delle masserizie e supellettili, le
quali più tardi, nell'agosto, gli furono rubate da un monaco, che vi si
era introdotto nonostante che fosse luogo infetto. _Quid non mortalia
pectora cogis, auri sacra fames_, esclama Guarino nel raccontare le
prodezze del frate, _homo religiosus, paupertatis professor!_

203. In sul principio di luglio si diffuse la falsa notizia della
morte di Guarino. La notizia giunse anche a Pavia, dove la udì il
Panormita da un prete venuto da Venezia, il quale l'aveva intesa colà
da certi veronesi. Il Panormita non si può trattenere dallo scriverne
all'Aurispa, che era in quel tempo a Ferrara, sfogando il proprio
cordoglio per sì grave perdita e tessendo sincere e magnifiche lodi di
Guarino, di cui esalta specialmente la modestia, i meriti letterari e
la bella abitudine che aveva d'incoraggiare gli studiosi e gli amici.
Conchiude eccitando l'Aurispa a comporre lui più degnamente l'elogio
dell'illustre defunto.

204. Effettivamente la notizia si era sparsa in Verona, dove e amici
e cittadini tutti lo piansero morto, esaltandone le virtù e i meriti.
Quando lo Zendrata si accertò della falsità di quella voce, ne scrisse
a Guarino, esponendogli quanto lutto avesse destato in Verona il triste
annunzio e congratulandosi, perchè annunzio di morte falsa è presagio
di vita lunga. Guarino lo ringraziò chiamandosi fortunato che a lui
vivo fosse toccato di sentire le lodi che gli sarebbero state tributate
dopo morto. Coglie nel medesimo tempo occasione di dire quant'egli
ami la sua città nativa, con la quale, anche peregrinante per diverse
terre in cerca di aria salubre, mantiene pur sempre affettuosa
corrispondenza.

205. Così egli si ricorda al compare Damiano Borghi, ad Agostino
Montagna, a Bartolomeo Brenzoni, al Maggi, agli Ottobelli, ai Fano. A
Verona si erano ricoverati anche alcuni amici di fuori, quali Stefano
Tedeschi e Tommaso Cambiatore, che stava allora traducendo in ottava
rima l'_Eneide_.

206. Lo Zendrata visitò Guarino ad Argenta, di dove passò nell'agosto
diretto a Forlì. Per mezzo di lui Guarino affittò la propria casa di
Verona. Ivi abitava la madre e per la madre sola era troppo vasta.
«Sarebbe opportuno prendere a pigione per lei la casetta di Antonio
Verità, che stava di faccia; la sua si poteva affittare per un paio
d'anni, chè tanti egli contava di rimaner fuori: così se ne sarebbe
cavato un certo profitto». Raccomandava però allo Zendrata di trattar
la faccenda con la madre molto delicatamente, sia per l'affetto che
ella portava a quella casa, sia perchè le rincrescesse l'assenza del
figlio da Verona.

207. Quando nemmeno ad Argenta si sentiva più sicuro per il diffondersi
del contagio, pensò Guarino di mutar paese e si recò nel 27 settembre
a S. Biagio a cercarvi un'abitazione e scelse quella di Paolo Rasponi;
poscia vi andò con la famiglia. Ivi rimase sino al 21 decembre, nel
qual giorno ritornò a Ferrara.

208. La vita di Guarino in questi ultimi mesi di fuga fu molto
angustiata. In famiglia continue malattie e morti: morti di amici
e malattie delle fantesche e dei bambini. Niccolò, l'ultimo nato,
ammalò di vermi e poi di febbre per la dentizione, Agostino e
Gregorio di febbre, Manuele di una caduta, poichè vivace com'era
giocando cadde e si ruppe la nuca. A Guarino toccava far da balia.
L'abitazione era ristrettissima. «Una sola camera serve da dormitorio,
da cucina, da granaio, da portico, proprio come la povera gente che
del medesimo abito si fa ora mantello, ora camicia, ora lenzuolo.
Spesso i bicchieri, le pentole, i piatti, i codici si disputano il
posto. Mi accade di stender la penna verso il calamaio e la intingo
nella saliera, intanto che i ragazzi mi fanno intorno uno strepito
d'inferno».

209. Uno dei pensieri che più affannavano Guarino era quello
dell'imminente parto della moglie; ma s'ingannò nei calcoli, perchè
il 9 ottobre comincia a vedere i segni del prossimo parto e nel
30 decembre la moglie non aveva ancora partorito. Come trovare la
levatrice? A S. Biagio ce n'era una abbastanza brava, ma nemica giurata
dell'acqua e troppo devota di S. Martino. E il giorno del parto che
sarà di lui? Avrebbe dovuto abbandonare il letto, nè solo il letto, ma
anche la stanza, poichè un'unica stanza avevano. Dove andare a dormire,
se nel paese non c'erano alberghi? alcuni lo consigliavano a rifugiarsi
in una stalla, che là starebbe caldo; egli invece preferiva di farsi
amico l'oste, affinchè la notte del parto gli desse alloggio. Oh perchè
non sono ostetrico io! esclama Guarino. Però, aggiunge, la moglie ha
fatto un patto con me, di partorire di giorno, così i miei sonni non
saranno turbati.

210. Tra i dispiaceri di Guarino vanno pure contate le disgrazie degli
Zilioli, i quali formano ormai coi Guarini tutta una famiglia. E con lo
Zilioli mettiamo insieme i suoi due generi: Niccolò Pirondoli e Ugolino
Elia. A Giacomo Zilioli morì prima la madre Teodora e quindici giorni
dopo il piccolo Paolo; al Pirondoli morì la moglie, figlia di Giacomo,
a Ugolino il piccolo figlio Girolamo, nipote di Giacomo; senza parlare
della malattia mortale di Giacomo stesso, felicemente curata dal medico
Filippo Pelliccioni. E in mezzo a tutti questi colpi l'animo dello
Zilioli si mantiene sempre imperterrito. Guarino gli scrive lettere
meste per compiangere le sventure di lui ed egli risponde dandogli
coraggio, sicchè Guarino deve più d'una volta esclamare: «ero venuto
a consolarti e sono invece consolato». Nei primi di novembre Guarino
cominciò a lavorare intorno all'elogio di donna Teodora, dal quale
ricaviamo ch'ella visse 65 anni, che si maritò a 16 anni con un Zilioli
ed ebbe da lui sette figli, di coi il primogenito fu il nostro Giacomo.
Guarino attinse queste notizie dai due Zilioli, padre e figlio. Egli
mette specialmente in rilievo la cura che donna Teodora aveva per i
poveri.

211. Guarino fu visitato di quando in quando da quelli di casa Zilioli:
nel luglio andò ad Argenta la contessa Pirondoli, moglie di Niccolò;
nel settembre ad Argenta e nel novembre a S. Biagio Ziliolo Zilioli.
Guarino fece una corsa a Porto per trovare Ugolino Elia. Giacomo
Zilioli mutava anche egli paese per fuggire la peste; ma gli affari lo
trattennero gran parte a Ferrara, dove Guarino gli raccomandava spesso
amici e conoscenti, p. e. Guido da Bagnacavallo imputato di furto, il
visconte di Argenta, calunniato malignamente di non aver assistito ai
funerali di Paolo; Giacomo e Pietro del Bando, Biagio e Domenico de
Martiis, don Antonio rettore di una chiesa di Argenta, Anna vedova di
Luigi Morelli. «Tu ti seccherai di tante raccomandazioni, gli dice
Guarino, ma la colpa è tua. Tu mi ami, mi stimi, la gente lo sa e
corre da me, affinchè io interceda presso di te. Dall'altra parte a
costoro io vado debitore di molti beneficii; quando e come potrei io
ricambiarli? Ricambiali tu per me, giacchè essi mi hanno servito con la
persuasione di servir te».

212. Tornato a Ferrara il 21 decembre si dà attorno a preparare il
corso delle sue lezioni. Rimpatriare non gli sembra prudente, così nel
cuor dell'inverno, coi bambini e con la moglie imminente a partorire.
Dall'altro lato la gioventù ferrarese lo invitava ad aprire scuola
a Ferrara. Non gli pare svantaggiosa la proposta e intende fare
l'esperimento.

213. Fu alloggiato primieramente in casa dei fratelli Strozzi: Niccolò,
Roberto, Lorenzo, Tito; dal 1437 in poi abitò casa propria, che era
stata degli eredi Boiardi e gli fu pagata dal marchese.

214. Poco dopo l'arrivo a Ferrara la moglie gli partorì una bambina,
Libera, che doveva essere tenuta a battesimo da Ziliolo Zilioli; ma
siccome era a Roma per un'ambasceria, così lo sostituirono il padre e
la moglie Caterina. Al battesimo assisteva anche il marchese Niccolò.
Per tal modo gli crescevano i Guarinelli ed egli aveva il suo bel da
fare ad attendere al loro allevamento e alla loro educazione. Girolamo
il primogenito, sugli otto anni, già cominciava a scombiccherare
qualche lettera, come nell'occasione che scrisse a Stefano Tedeschi,
anche a nome dei fratellini, per ringraziarlo di alcuni doni loro
mandati. I doni consistevano in formaggi, vino, vasellami; ma quello
che più dilettava i Guarinelli erano certe saliere con figurine
grottesche. Quelle figurine, quando essi si mettevano a tavola, erano
fatte segno a mille giochi e motti: i Guarinelli le chiamavano per
nome, le mostravano a dito, le castigavano, le ammonivano, mandavano
loro sorrisi e le contraffacevano. Il padre invece contemplava la
damigiana di vino, la quale egli votava molto parcamente, affinchè
gli durasse un pezzo: «così in luogo di essergli incentivo alla
intemperanza, essa gli era cagione di temperanza».

215. La cultura letteraria a Ferrara quando vi arrivò Guarino era su
per giù a quel medesimo livello, in cui si trovava nelle altre città
italiane avanti che vi penetrasse l'umanismo. Nelle scuole s'insegnava
come e quanto si poteva insegnare in una scuola medievale; il latino
che vi si imparava e vi si scriveva non veniva attinto alle fonti
classiche, ma alla tradizione e alla consuetudine curiale; era il
latino dei notai, dei glossatori, dei teologi; di greco manco l'ombra.
Di quelle condizioni della cultura ci lasciò un quadro desolante il
Carbone; ma ivi c'è della esagerazione retorica. E poi egli scriveva
nel 1460, in un tempo in cui Ferrara possedeva una delle più fiorenti
scuole umanistiche italiane. Di Mantova prima di Vittorino, di Padova
prima del Barzizza, di Pavia prima del Panormita e del Valla si poteva
fare il medesimo quadro.

216. Del resto anche prima che Guarino vi arrivasse, era penetrata a
Ferrara la sua influenza per opera di Ugo Mazzolati. Del 1422 poi vi si
era fermato qualche tempo il Biondo e alla fine del 1427 vi si stabilì
l'Aurispa. L'Aurispa aveva cultura latina e greca, avea tra l'altro
insegnato un anno nello studio di Bologna e un anno in quello di
Firenze, ma non era stoffa da caposcuola. I codici più che interpretare
ed emendare, li sapeva mercanteggiare; tutt'al più poteva essere un
institutore privato, un buon pedagogo. E infatti a Ferrara fu chiamato
dal marchese Niccolò quale institutore di Meliaduce, uno dei suoi
ventun figli bastardi. E dell'aver scelto l'Aurispa gli va data lode;
quantunque vi ebbe certo la sua parte Guarino.

217. Meliaduce era stato destinato dal padre alla vita ecclesiastica;
il figlio vi si oppose, anzi nel luglio 1425 scappò da Ferrara a
Milano: cosa che naturalmente levò scandalo. Ma finalmente vi si adattò
e vestì l'abito di abate del monastero di Pomposa vicino a Ferrara; fu
anche protonotario. L'Aurispa, che già nei suoi primi anni era stato
cantore nella collegiata di Noto, ne seguì l'esempio e nel 1430 vestì
l'abito religioso, ottenendo dal marchese il posto di priore della
chiesa di S. Maria in Vado, posto che non abbandonò mai per tutta la
vita.

218. Nel 1431 fu chiamato alla corte di Ferrara anche Giovanni
Toscanella e a lui fu affidata la educazione di Borso, un altro
figlio di Niccolò. Alla chiamata del Toscanella non fu probabilmente
estraneo Guarino. Borso fu uno dei successori del padre nel marchesato.
Parimenti Guarino venne invitato a Ferrara quale institutore di corte
e gli fu affidato Leonello, il figlio prediletto di Niccolò, che
gli successe immediatamente nel governo. Come si vede, Niccolò non
pensava da principio alla fondazione di un grande Studio pubblico,
ma a raccogliere in corte un circolo dei migliori maestri del tempo;
per l'appunto lo stesso scopo si era prefisso Gianfrancesco Gonzaga,
quando nel 1423 invitò alla sua corte Vittorino da Feltre. L'idea
dell'università sorse più tardi spontanea, dopo che già erano a Ferrara
tutti gli elementi per costituirla. E il primo, il più forte impulso
lo diede Guarino, il quale pur facendo il pedagogo di Leonello, apriva
un corso privato per la gioventù ferrarese desiderosa di entrare
nella nuova via degli studi classici; e intanto raccoglieva intorno
a sè altri ingegni, quali l'Aurispa, il Toscanella, il Cappelli, il
Marrasio, il Lamola, il Faccio, correggendo con essi testi e cercando
codici; e formava per tal modo un fascio di tutte quelle operosità
individuali, che prepararono il terreno all'università, nella quale
Guarino inaugurò nel 1436 il suo corso ufficiale.

219. Guarino a Ferrara assunse subito quella medesima posizione,
che egli aveva a Verona e che forma una delle sue più notevoli
caratteristiche. Egli cioè non è soltanto l'institutore del marchesino,
il maestro della gioventù, ma è pure l'ambasciatore confidenziale della
corte, l'oratore delle solennità sì principesche che cittadine. Così
nel palazzo di Belfiore la pasqua del 1430 il marchese insigniva del
cavalierato il veronese Paolo Filippo Guantieri, che andava magistrato
a Firenze, e Guarino pronunziava il discorso d'occasione. E con un
discorso egli salutava nell'anno stesso il ritorno di Ziliolo Zilioli
da Roma, dove era stato con un incarico del marchese. Il discorso è un
inno entusiastico alle virtù di Giacomo Zilioli e della sua famiglia.

220. Chi avrebbe allora pensato che soli quattro anni dopo, nel 1434,
i due Zilioli padre e figlio sarebbero stati per reato di tradimento
gettati nella torre di Castelvecchio? Strani contrasti nella sorte
degli uomini! Il padre fu strangolato l'anno stesso; il figlio fu
lasciato in carcere tredici anni, dopo i quali venne rimesso in
libertà, ma senza poterne godere i beneficii, perchè morì subito.
Monumento della sua prigionia ci resta una commedia, la _Michaelida_,
nella quale egli raffigurava il suo misero stato.

221. Nel gennaio del 1431 Guarino andò a Ravenna, accompagnato da
Brandelisio de' Boccamaiori, ad esprimere, d'incarico del marchese
Niccolò, le proprie condoglianze ad Obizzo da Polenta, signor di
Ravenna, al quale era morto il padre. Nel luglio del medesimo anno fu
creato vescovo di Ferrara Giovanni da Tussignano, e Guarino lo felicitò
con un pubblico discorso. Solenne fu pure l'avvenimento del marzo
1432, che provocò due orazioni, l'una di Guarino, l'altra di Paolo
Maffei. Due nobili spagnoli, nemici implacabili, si erano sfidati a
morte e dato l'appuntamento a Ferrara; l'8 marzo i due rivali erano
sul terreno per azzuffarsi, quando il marchese Niccolò con bei modi
si intromette e riesce a pacificarli. L'orazione del Maffei è una
eccitatoria al marchese perchè impedisca il duello, quella di Guarino
è una gratulatoria per la riconciliazione ottenuta.

222. L'anno seguente, 1433, passava per Ferrara l'imperatore Sigismondo
reduce da Roma, dove era stato incoronato. A Ferrara arrivò il 9
settembre e ne ripartì il 16. Il giorno 10 Leonello salutò l'illustre
ospite con un discorso scritto da Guarino. L'imperatore conferì le
insegne equestri a cinque figli del marchese, tra i quali a Leonello.
La cerimonia ebbe luogo il 13 settembre e in quell'occasione Guarino
disse un discorso in onore di Leonello. E il discorso non mancò in
altra occasione, pure fausta, quando nel febbraio 1435 Margherita
Gonzaga andò sposa a Leonello. Come dono di nozze Guarino gli offrì la
traduzione delle _Vite di Lisandro e Sulla_ di Plutarco.

223. Guarino, che amava molto i ragionamenti filosofici e religiosi,
aveva a Ferrara l'opportunità di appagare questo suo bisogno. Una delle
persone, con le quali si intratteneva di filosofia, era il milanese
Filippo Pelliccioni, medico della corte Estense e di casa Guarini,
quanto valente nella sua professione altrettanto dotto negli studi
letterari ed esemplare nei costumi. Una volta nel 1430 si trovarono
insieme nella villa di Belfiore, dove ragionarono di Platone. Frutto di
quel ragionamento fu un lavoro di Guarino su Platone, nel quale narra
la vita ed espone le dottrine dell'illustre filosofo greco. Il lavoro
fu dedicato al Pelliccioni.

223 _bis_. Del resto prendeva parte volentieri anche agli spassi,
specialmente se conditi di reminiscenze classiche, quale fu
la mascherata mitologica del carnevale del 1434. La ideò e la
allestì Giovanni Marrasio. Spirito bizzarro questo siciliano!
Dopo aver trascorso gli anni giovanili a Siena, amando e cantando
nell'_Angelinetum_ la sua bella Angelina, si ridusse nel 1430 a
Firenze, dove godè le simpatie di tutti quegli umanisti; ma fuggito di
là quell'anno stesso per la pestilenza, si recò a Padova a studiare
medicina, «in mezzo alle paludi e alle rane». Fece tre anni di
medicina; passò indi a Ferrara, dove si stabilì parecchio tempo; da
ultimo finì prete in Sicilia. Nella mascherata si vedeva un Apollo
con raggiera in testa e un manto sino ai piedi, un Bacco barcollante e
col tirso in mano, Esculapio con gran barba bianca, Marte e Bellona a
braccetto e armati, Mercurio con le ali alle calcagna, Priapo con una
canna in testa, Venere col pomo, Cupido con le freccie; e dietro a loro
le Furie, le Parche, Ercole, Cerbero e via via. Il Marrasio, in costume
di Bacco, declamò dinanzi al marchese un carme sulle maschere; rispose
poi per il marchese con un altro carme Guarino.

224. Memorabile fu in quell'anno (1434) anche la quaresima, nella quale
predicò a Ferrara frate Alberto da Sarteano, l'alunno di Guarino. Che
gioia non dovette essere per Guarino, dopo dodici anni che non rivedeva
il suo scolaro, e ora poterlo ammirare nella pienezza della sua
vigoria oratoria! «Che specchio di virtù quel frate! che fascino nella
sua parola, che erudizione, che scienza di cose divine ed umane, che
facondia, che fulmini contro i vizi!» Guarino forniva ad Alberto buoni
codici di testi sacri, p. e. il suo Lattanzio, e gli dedicò la _Vita di
S. Ambrogio_. E nei loro colloqui fra i tanti altri argomenti devono
aver toccato spesso dell'_Ermafrodito_ del Panormita, l'idea fissa di
frate Alberto, e c'è da supporre che il frate si sia fatto promettere
da Guarino la ritrattazione di quel giudizio sull'_Ermafrodito_, che
era diventato famoso e che aveva scandalizzato tante persone. E in
vero quando dopo la pasqua Alberto passò a Padova, scrivendo di là al
ferrarese Bendidio, lo pregava di chiedere a Guarino se si rammentava
della promessa fattagli: chè a Padova pur tra le persone rispettabili
il nome di lui non sonava troppo accetto, appunto per quel malaugurato
giudizio. Finalmente pare che Guarino abbia preso una risoluzione e nel
primo gennaio 1435 scrive la ritrattazione; scelse il primo dell'anno
e la scelta fu certo meditata: anno nuovo, vita nuova.

225. La ritrattazione è indirizzata al Lamola, lo stesso a cui era
stata scritta la prima lettera. Questa ritrattazione produce, direi,
una penosa impressione; sembra di sentire Guarino sotto il peso di
uno scrupolo, che non è sorto spontaneo dalla sua anima, ma che gli
fu suscitato da altri. Il pretesto poi della ritrattazione è puerile.
Finge infatti di avere ricevuto una edizione dell'_Ermafrodito_ con
la sua lettera premessavi come introduzione. Ma vide con grande suo
stupore che la lettera era mutila di alcuni passi, di quelli appunto
che temperavano, anzi distruggevano le lodi che egli aveva date al
Panormita. Egli aggiunge adesso i passi tolti, spiegando meglio il
suo concetto e pregando il Lamola che come aveva disseminato la prima
lettera, la quale avea fatto il male, così disseminasse anche la
seconda, la quale portava il rimedio. Ma Guarino si tradisce e qua e là
nella lettera si incontrano delle espressioni troppo trasparenti, nelle
quali egli dimentica che vuol correggere il suo antico giudizio e fa
chiaramente scorgere che lo ritratta.

226. Ma la cura principale di questo primo periodo (1430-1435) della
dimora di Guarino in Ferrara fu l'educazione del suo nobile allievo, il
marchesino Leonello, già destinato a succedere al padre nel principato.
Quando Guarino andò a Ferrara, Leonello aveva 23 anni. Era nato nel
1407. Avrà fatti i suoi primi studi elementari come si poteano fare
in una città dove ancora non eran giunti gli umanisti; indi il padre
lo mandò a scuola di guerra sotto Braccio di Montone: ciò fu nel
1422, quando Leonello aveva 15 anni. Tornò a Ferrara dopo la morte di
Braccio, nel 1424.

227. La base fondamentale del metodo didattico di Guarino era l'intimo
legame del maestro con gli scolari: legame di affetto reciproco,
di rispetto e di venerazione da parte degli scolari, di benevola
familiarità e dolcezza da parte del maestro. Il maestro poi dovea
soprattutto essere ai suoi scolari uno specchio vivente di onestà
e costumatezza. Questo metodo l'aveva imparato da Guarino a Venezia
Vittorino, il quale lo applicava e sviluppava presentemente in Mantova
alla corte dei Gonzaga. E all'efficacia di esso contribuiva non poco
la reciproca e costante stima e benevolenza di Vittorino e di Guarino,
che si riverberava nei loro allievi principeschi, quali Carlo Gonzaga
e Leonello d'Este, senza dire che Leonello era fidanzato di Margherita
Gonzaga, allieva di Vittorino, quella che nel 1435 egli condusse in
moglie.

228. Guarino è orgoglioso e geloso del suo alunno. Il suo nome non
morirà, perchè i posteri lo congiungeranno con quello di Leonello:
_Guarinus Leonelli_. «Io sono umile e oscuro; ma di rimbalzo la
mia oscurità verrà illuminata dal tuo splendore. Non vediamo noi il
pantano percosso dai raggi solari generare fiori bellissimi?» Lo vuole
sempre vicino a sè. Quando egli è lontano, Guarino è in continua
preoccupazione per la sua salute e lo invidia ai campi, che egli
percorre, agli amici, che lo accompagnano. Le frasi che egli adopera
verso Leonello sono quelle stesse di una madre verso il figliolo:
«Testolina gaia, dolcezza mia, volto amabile, aspetto adorato».

229. E Leonello in ciò lo secondava mirabilmente. Ecco come gli
risponde dalla villeggiatura di Porto: «Ieri, di giorno, stavo
leggendo il mio Cesare, soletto nella mia stanza; non volevo lasciarmi
sorprendere dalla sonnolenza di quest'afa estiva e nel medesimo tempo
ne provavo gran diletto. Ed ecco intanto giungermi la tua bella e
affettuosa lettera. Con che benevolenza, con che sollecitudine ti
preoccupi della mia salute! Ed è giusto. Se noi ci prendiamo cura,
per semplice istinto, di tutti i nostri simili, che non faremo per
quelli che ci sono legati da intimi vincoli d'affetto! Vedi dunque che
non è proprio il caso che tu debba scusarti. Tutt'altro! Bisognerebbe
non aver cuore per rimproverare l'affettuosa sollecitudine di chi si
preoccupa del nostro stato; anzi quella sollecitudine merita le nostre
lodi, il nostro plauso ed è la più bella prova che si è amati. E io
lo so che tu mi ami, non fosse altro per l'obbligo che ha ogni anima
ben nata di corrispondere all'amore, e l'amore mio per te è immenso,
ardente, come quello di un figlio verso il proprio padre, anche
perchè così vollero i nostri antichi, che veneravano quale un padre il
precettore».

230. E alle parole aggiungeva i fatti, giacchè ora donava al suo
maestro del grano, ora gli mandava le primizie della sua caccia:
caprioli, fagiani, quaglie. Quelle bestiole erano morte, eppure
venivano apportatrici di tante cose a Guarino, venivano messaggere del
suo Leonello ed egli le baciava ricevendole e preparava ad esse quella
onorata sepoltura che loro si conveniva: «bruciate sul rogo all'uso
antico e seppellite nello stomaco tra una lieta brigata di amici».

231. Leonello era appassionato per la caccia e Guarino gliela
inculcava: perchè nel suo insegnamento dallo sviluppo morale e
intellettuale non bisognava mai scompagnare lo sviluppo fisico. Questo
era un felice ritorno alla educazione greco-romana, applicata e diffusa
specialmente da Vittorino. E poi non è la caccia una preparazione
alla guerra, anzi una simulazione di guerra? «Ci si alza il mattino
per tempo, si affrontano i geli, gli ardori, la fame e la sete;
ivi attacchi veri e finti, imboscate e lotte, colpi di freccia e di
giavellotto: insomma una battaglia». E oltre la caccia gli consigliava
i giochi, p. e. il gioco della palla: «anche Alessandro e Scevola
si dilettavano di giocare alla palla. E buone sono le passeggiate in
campagna. I grandi Romani dopo le cure di Stato non si vergognavano di
prendersi un divertimento all'aria aperta; Scipione e Lelio nei loro
momenti d'ozio andavano sulla spiaggia di Gaeta a raccogliere gusci di
ostriche e a far mille chiassate».

232. E il nuoto? «Oh il nuoto oltre che refrigerare il corpo, gli
dona elasticità. Come è bello da una riva erbosa e verdeggiante
gittarsi in un fiume dalle onde cristalline e ora tuffarvisi, ora
lasciarsi trasportare supino dalla corrente, ora romper l'acqua con
le braccia. L'uomo che sa nuotare ha si può dire natura doppia: quella
degli animali di terra e quella dei pesci. Quanti illustri personaggi
antichi e moderni non furono valenti nuotatori. Basti ricordare Orazio
Coclite, che si salvò a nuoto nel Tevere dagli assalti di Porsena,
Cesare, che si salvò dall'insurrezione alessandrina a nuoto sul mare,
Alessandro.... Ma Alessandro era troppo imprudente e per essersi
bagnato nelle rigide acque del Cidno fu a un punto di perderci la vita.
Valga il suo esempio a renderti prudente, o Leonello».

233. Non meno che all'educazione fisica del suo allievo badava
Guarino alla sua educazione morale, avendo soprattutto di mira gli
ammaestramenti che si riferivano ai suoi obblighi di principe. A questo
fine gli tradusse due opuscoli di Isocrate, nell'uno dei quali sono
esposti i doveri dei sudditi verso il sovrano, nell'altro i doveri del
sovrano verso i sudditi. La virtù che più di ogni altra gli inculcava
era la clemenza, quantunque Leonello per natura sua fosse mite e
clemente e solesse ripetere la parola di Tito: non dovere un principe
lasciar partire nessuno dal suo cospetto senza conforto.

234. Ma dove Guarino concentrò la sua operosità didattica fu
nell'educazione letteraria; e qui trovò terreno fecondo e docile.
Leonello aveva veramente trasporto per gli studi; e Guarino fu
orgoglioso di affermarlo al Niccoli, quando nel 1431 passò da Ferrara.
E non solo coltivava la letteratura latina, ma anche la volgare e
le arti belle, la musica, il canto e la pittura. Fra le discipline
prediligeva la storia, fra gli autori Cesare, che era il suo ideale
come scrittore, come capitano e come uomo politico; e per questo
appunto Guarino gli fece una redazione dei _Commentarii_ di Cesare.
Gli traduceva gli autori greci, specialmente Plutarco, e gli cercava
codici. Alla ricerca dei codici prendeva parte anche Leonello, come
nel domandare al cardinale Orsini le nuove commedie di Plauto e nel
far venire da ogni dove manoscritti della _Storia naturale_ di Plinio,
della quale Guarino preparava una redazione, che fu terminata nel 1433.

235. Quando poi Leonello era fuori in villeggiatura, se incontrava
nelle sue letture qualche difficoltà, si rivolgeva al suo maestro, che
subito gli risolveva i dubbi e approfittava di quelle occasioni per
dargli massime e precetti. «Allorchè leggi non biascicar le parole,
ma pronunziale a voce alta; ciò oltre che aiutare la digestione,
imprime meglio nella mente i pensieri. Percorso un periodo, raccogline
mentalmente il contenuto: se non hai capito la prima volta, leggilo e
rileggilo, imitando i tuoi bracchi, che quando sentono la selvaggina
nelle stoppie e non riescono a scovarla, fanno e rifanno le medesime
peste. Terminato un capitolo, fermati un poco a riassumerlo tutto;
ma il riassunto non deve essere letterale, bensì baderai al senso;
letteralmente ripeterai solo i luoghi più salienti: una frase elegante,
un bell'aneddoto, un'arguta risposta. Sceglierai poi un giorno nel
mese a ripassarti tutti codesti luoghi. Opportuno sarà anche che tu
ti prenda un ripetitore, col quale riepilogare le lezioni imparate e
non dimenticar mai di notare in un quaderno le principali nozioni che
man mano acquisti nelle tue letture, ordinandole e classificandole.
Se ti manca il tempo, pigliati un ragazzo intelligente che ti copii e
disponga la materia».

236. Dei suoi studi classici Leonello ha lasciato documenti in alcune
orazioni e lettere. Le prime volte gliele sbozzava o gliele correggeva
Guarino, se forse non gliele componeva per intero, ma in seguito egli
potè fidarsi alle proprie forze. Non c'è da lodare ivi nè la scelta
dei concetti, nè la eleganza della forma; una certa facilità vi si
incontra, ma nulla più. Guarino vedeva in lui tutto bello, ma l'affetto
gli preoccupava il giudizio. In ogni modo lo stile ha tutto il colorito
Guariniano.

237. E ora che abbiamo esaminato l'operosità di Guarino in Ferrara,
usciamo di là e vediamo quali vincoli lo congiungono con altri centri
di studi. Col Friuli era in rapporti per mezzo del professore Giovanni
da Spilimbergo suo parente, che fino al 1432 insegnò a Cividale, indi a
Udine. Lo Spilimbergo gli chiedeva dei sussidi per l'illustrazione dei
classici latini, specialmente di Plauto, e Guarino lo teneva informato
delle ultime novità e nel medesimo tempo gli faceva delle benevole
esortazioni di carattere molto intimo: si direbbe che in famiglia ci
fossero delle discordie.

238. A Verona Guarino aveva tanti amici e parenti ed è naturale che
egli fosse in continua corrispondenza con la sua città natia. I Fano,
gli Ottobelli, i Lombardi, lo Zendrata, il Maggi, Galasio Avogari non
si dimenticavano di lui, che seguitava a indirizzarli e soccorrerli nei
loro studi. Ma nel febbraio del 1430 lo colpì una grave e inaspettata
sventura: gli morì la madre. L'aveva lasciata a Verona, donde la buona
vecchia non si era mai mossa. Era solita ammalare d'inverno, ma la
primavera le riportava la salute; questa volta le portò la morte. La
dolorosa notizia gli fu data dallo Zendrata giusto appunto quando egli
attendeva buone nuove di miglioramento. «È proprio così la nostra vita:
siamo destinati a morire. Lo so bene che il pianto è inutile, ma è un
legittimo tributo di affetto filiale». Sollievo nel grave lutto gli fu
l'essere stata la madre assistita premurosamente nella malattia e le
parole di sincera lode dettele sul feretro dal Maggi.

239. I Veronesi non si sapevano rassegnare di aver perduto Guarino
e cercavano di farlo rimpatriare. Pratiche erano state avviate a
questo scopo sin dal 1432; ma era il tempo in cui ardeva la guerra
tra la Repubblica veneta e il Visconti; e Guarino, per mostrarsi
grato dell'invito, rispose doversi aspettare migliore occasione.
L'occasione si presentò l'anno dopo, 1433, in cui fu conchiusa la pace.
Il Consiglio di Verona aveva portato lo stipendio da 150 scudi a 200
per allettare maggiormente Guarino. E l'affare pareva conchiuso e se
ne parlava a Ferrara, a Verona, a Venezia; quando tutto a un tratto
Guarino dà al Consiglio una risposta gentile sì, ma che toglieva
l'adito a ogni ulteriore speranza. Si capisce che nella deliberazione
ci entrava anche la questione economica, perchè Guarino prendeva a
Ferrara 350 scudi, ma il vero motivo fu che il marchese vi si oppose
risolutamente, desiderando che si compisse l'educazione di Leonello.
Allora Guarino seguitava ad essere maestro di corte.

240. Capitava poi a Verona or questo or quello, per cui Guarino
aveva occasione di mettersi in corrispondenza coi suoi concittadini.
Così nel 1430 vi fece una gita il marchese Niccolò per assistere
a un matrimonio nell'illustre famiglia dei dal Verme. Nell'autunno
del 1434 vi andò podestà Francesco Barbaro, al quale appunto allora
Guarino dedicò la _Vita di Focione_ tradotta da Plutarco. Il Barbaro
per la via dell'Adige arrivò a Lendinara, dove fu ospitato dal conte
di Sambonifacio, col quale parlò di Guarino, indi pernottò nella casa
di Guarino a Villa Bartolomea. Il conte di Sambonifacio era stato nei
suoi primi anni governatore di Padova, quindi fece la carriera militare
sotto Braccio di Montone; presentemente viveva ritirato nel suo
feudo di Lendinara, dove attendeva agli studi teologici, per i quali
ricorreva spesso ai consigli di Guarino. Tenne a cresima un figlio di
lui e così gli diventò compare.

241. Comica fu la comparsa a Verona nel 1433 di un Calabrese. Era
di statura piuttosto bassa, di persona smilza, gambe un po' storte,
volto di color terriccio, guardatura guercia. Costui un bel giorno
con un vestito stracciato e in stivaloni si presenta sulla piazza di
Verona, seguito da un gran codazzo di curiosi, e improvvisa dinanzi al
podestà un rimbombante discorso, infarcito di versi dei poeti d'allora.
Quando dagli astanti gli fu chiesto chi fosse, egli rispose: «sono
Antonio Panormita, poeta laureato, al servizio del duca di Milano».
Sarebbe curioso sapere se questo ciarlatano avesse veramente veduto
il Panormita e l'avesse praticato in modo da poterlo contraffare,
chè non è improbabile che il Panormita offrisse qualche appiglio alla
caricatura. Comunque, a Verona il nome del Panormita, da quando Guarino
vi avea diffuso l'_Ermafrodito_, era venerato; e i Veronesi fecero
a gara per rendere onore all'illustre ospite. Intanto qualcuno ne
scrisse a Ferrara a Guarino, il quale capito di che si trattava rispose
subito dando i connotati del vero Panormita. Seppero così che il vero
Panormita non era guercio e domandarono al Calabrese come avesse quel
difetto. Il furbo matricolato inventò che era stato per una malattia.
Gli domandarono il diploma della laurea poetica ed egli rispose che
l'aveva dovuta vendere per comprarsi da mangiare. E continuò a menare
per il naso i Veronesi, finchè Guarino non spedì a Verona una lettera
a lui diretta dal Panormita; allora si persuasero; e il ciarlatano andò
altrove forse a ripetere il gioco, poichè l'aveva già fatto anche prima
nel Piceno.

242. Intima, come si vede, e frequente era la corrispondenza di Guarino
col Panormita; e tale essa si conservò tutto il tempo che il Panormita
rimase a Pavia, cioè sino al principio del 1435, quando passò al
servizio di Alfonso d'Aragona. Anzi fu per mezzo del Panormita che
Guarino si tenne in stretta relazione col circolo letterario lombardo
di Pavia e Milano, ma più di Pavia.

243. Fra i tanti del circolo pavese, oltre il Panormita, conosciuti
da Guarino nomino Catone Sacco e Maffeo Vegio, luminari della
giurisprudenza, il secondo anche poeta e autore di libri educativi,
e Lorenzo Valla, che allora faceva il suo primo ingresso, diremmo,
ufficiale nella grande famiglia degli umanisti italiani.

Bello e veramente eroico quinquennio fu questo (1431-1435) per lo
Studio pavese! Francesco Pizolpasso, vescovo allora di Pavia e più
tardi arcivescovo di Milano, uno dei più dotti ecclesiastici del tempo,
pigliava parte attiva a quel movimento letterario; Francesco Bossi
vescovo di Como vi insegnava diritto. Era viva ancora l'eco della voce
venerata di Gasparino Barzizza, che aveva chiuso a Pavia nel 1430 la
sua lunga carriera di insegnante e la sua lunga vita, quando vi venne
a insegnare il Valla, presentato dal Panormita.

244. C'era tra costoro due una differenza di 15 anni, eppure il
Panormita già celebre non disdegnava di andare a sentire le lezioni
del Valla, giovanotto appena; se non che questa fraterna armonia non
ebbe a durare più di due anni. Intorno a quei due grandi si raccoglieva
una turba numerosissima di allievi ed insegnanti, che cercavano
godersi la vita alternando la serietà e l'operosità dello studio con
la gaiezza clamorosa e con la spensieratezza dei _convivia_ e delle
_compotationes_. Fu di là che il Valla lanciò nel mondo stupefatto
e scandalizzato il suo libro _Sulla voluttà_, in cui per la prima
volta venivano solennemente rivendicati e affermati i diritti del
senso sullo spirito; fu di là che il Panormita diffondeva per la prima
volta in Lombardia la conoscenza di Plauto. E tempo di fiere polemiche
fu quello: del Valla contro i giuristi, che egli mandava a imparar
grammatica; del Panormita contro i minoriti, che non gli sapevano
perdonare l'_Ermafrodito_; e da ultimo del Panormita contro il Valla;
poichè i due umanisti avevano troppa coscienza delle proprie forze e,
come suole avvenire, non poterono star lungamente insieme senza che
sorgesse l'invidia a dividerli.

245. Il primo passo a mettersi in relazione col circolo pavese lo fece
Guarino. Già da Ferrara a Pavia andavano e venivano spesso persone
d'affari e di studio e c'era quindi occasione di scriversi. Una di
queste occasioni si presentò a Guarino nel 1430, quando andava a Pavia
suo nipote Lodovico Ferrari. Quel nipote e sua madre Cecilia avevano
una questione di eredità ad Alessandria e Guarino li raccomandò al
Panormita, il quale parte con l'opera sua parte con la cooperazione
di alcuni personaggi della cancelleria ducale riuscì a dar loro vinta
la causa. Egli pose molto impegno nella protezione assuntasi e mostrò
sincero affetto ai due raccomandati, che egli chiamava scherzosamente
i suoi _Guarinastri_ e ai quali concesse ospitalità nella propria casa.

246. Verso il luglio dunque del 1430 Lodovico Ferrari andò a Pavia e
Guarino ne approfittò per mandare un saluto al suo Panormita, a cui
da qualche tempo non scriveva, e per dargli notizie della sua nuova
posizione a Ferrara.

247. La gradita impressione prodotta da questa novella sull'animo
del Panormita è da lui manifestata con queste caratteristiche parole:
«posso senza commuovermi sopportare l'inedia, le malattie, la povertà,
fin anco l'invidia degli uomini; ma non so padroneggiarmi davanti alla
propizia fortuna degli amici». Di ricambio egli annunziò a Guarino la
sua nomina di poeta aulico del Visconti e nel 1432 l'incoronazione
poetica per mano dell'imperatore Sigismondo. Ad ognuno di questi
annunzi l'animo di Guarino esultò di gioia.

248. Il Valla e Guarino non si erano ancora veduti; ma il Valla trovò
una occasione di andare a Ferrara a visitarvi l'illustre umanista, per
il quale nutriva sincera stima. Egli aveva pubblicato nel 1430 il suo
libro _De voluptate_ in forma di dialogo, nel quale gli interlocutori
erano personaggi del circolo romano e fiorentino: tra essi anche il
Panormita. Nel 1433 pubblicò la seconda edizione col titolo mutato
_De vero bono_ e mutò anche gli interlocutori, sostituendoli con
personaggi del circolo pavese e milanese, ma escluso il Panormita, col
quale allora era in discordia. Di questa seconda edizione il Valla
deliberò di far dono anche a Guarino e di portargliela in persona,
per aver così opportunità di stringere conoscenza con lui. Ciò fu nel
settembre 1433, quando il Valla si licenziò da Pavia. Il Panormita
cercò di predisporre l'animo di Guarino contro il Valla, prima che
costui arrivasse a Ferrara. Guarino però, uomo di molto buon senso
e prudente, rispose alto alto al Panormita, schermendosi con frasi
generiche, che non compromettessero la libertà del proprio contegno.
Il Valla faceva allora un giro per Ferrara e Firenze, donde si sarebbe
recato ad insegnare a Milano e a Genova. A Ferrara si trattenne un paio
di giorni.

249. L'accoglienza di Guarino deve essere stata soddisfacente, perchè
il Valla la ricorda con una certa compiacenza. Noi del resto sappiamo
che Guarino professava verace stima al Valla, a cui più tardi lodò le
_Eleganze_ con quelle parole, che il Valla ripeteva non senza orgoglio:
_Laurenti laurea et Valla vallari corona ornandus es_. E quest'amicizia
reciproca fu cementata da Girolamo Guarini, quando andò nel 1443 a
Napoli al servizio di re Alfonso, raccomandato al Valla. Si capisce
che quella visita a Ferrara sia stata sentita con dispiacere a Roma dal
circolo del Poggio, del Loschi, del Rustici, tutti nemici del Valla. A
Roma anzi dicevano che tra il Valla e Guarino si era un poco mormorato
del circolo romano e che Guarino erasi mostrato freddo verso il Valla:
voci nate, come è facile spiegare, dalla gelosia e in parte anche da
una erronea relazione che di quell'incontro mandò a Roma ad Antonio
Loschi il figlio Niccolò, il quale allora studiava sotto Guarino a
Ferrara.

250. In questo tempo Guarino oltre che per la sua fama di dotto e
venerato maestro, correva sulle bocche dei Pavesi e dei Milanesi
per una polemica, che gli venne sollevata contro da Pier Candido
Decembrio. La cagione più che letteraria era politica. L'orazione di
Guarino in lode del conte di Carmagnola, composta nel principio del
1428, si era divulgata per tutta la Venezia e la Lombardia, suscitando
sentimenti molto diversi, giacchè i Veneziani si compiacevano di quegli
elogi prodigati al loro gran generale, il vincitor di Maclodio, e i
Milanesi se ne rodevano, scorgendo elevato alle stelle il disertore
del Visconti. Quando Guarino passò a Ferrara, gli amici di Pavia e
di Milano facevano a gara per avere, col mezzo del Panormita, copia
di quell'orazione. L'ebbe anche Cambio Zambeccari e da lui Pier
Candido Decembrio. Allo Zambeccari, il cospiratore bolognese, che non
si preoccupava della questione politica, l'orazione piaceva; ma non
piacque al Decembrio, attaccato al partito ducale, tanto più che giusto
allora, nel 1431, si erano riaccese le ostilità fra Venezia e Milano.
E giusto allora sentivano a Milano la mancanza del Carmagnola, sicchè
il Decembrio non potè soffrire di sentirlo tanto lodato nel discorso
di Guarino. Intraprese dunque una confutazione di esso, indirizzandola,
non so quanto opportunamente, allo Zambeccari.

251. La confutazione, pedantesca, minuziosa, aggressiva, procede
passo passo col testo di Guarino, verso cui è talvolta molto acre e in
generale poco rispettosa. Nè l'orazione di Guarino ci perdette, bensì
ci guadagnò, perchè la confutazione la rese più ricercata e dell'una
e dell'altra si moltiplicavano gli esemplari. Guarino seguendo il
suo costume non se ne dette per inteso, ma ci fu chi pensò di prender
le sue difese: il Panormita. Egli infatti ribattè gli argomenti del
Decembrio, ritorcendogli contro i propri colpi, e tessè l'apologia
di Guarino. E il Decembrio non si diede vinto, ma replicò, lanciando
una invettiva contro Guarino e il suo apologista. La questione però
non ebbe altro seguito, poichè dietro consiglio del Panormita stesso
Guarino poscia, non si sa se con una lettera o con dei versi, disse le
lodi del Visconti, per mostrare che nelle lodi del Carmagnola non c'era
entrata la partigianeria. Ciò del resto dovea corrispondere anche agli
intendimenti del marchese Niccolò, la cui politica era conciliativa e
il quale non voleva dar motivi di disgusto a nessuno dei suoi vicini.

252. Partito da Pavia il Panormita, i legami di Guarino col
circolo lombardo si rallentarono molto, anche perchè il movimento
intellettuale si andava trasportando sempre più da Pavia a Milano e
quindi allontanavasi dal centro di attività, dove operava Guarino.
Il Panormita lasciò Pavia nel principio del 1435 e andò a Palermo,
sua patria. Ivi si fermò poco tempo, dopo di che si imbarcò a Messina
nell'aprile dell'anno stesso con Alfonso di Aragona e si diresse alla
volta di Gaeta. D'allora in poi egli fu attratto nell'orbita del re
Alfonso e le sue relazioni con l'Alta Italia e con Guarino diventarono
più rare. Anzi a Guarino nella partenza cagionò un grave dispiacere.

253. Guarino nel 1433 circa gli aveva prestato la propria copia delle
nuove dodici commedie di Plauto del codice Orsiniano, la quale il
Panormita si portò seco a Palermo. Quando di là si trasferì a Gaeta,
egli vi lasciò una parte de' suoi codici e tra essi il Guariniano.
Guarino avendo inteso della partenza del Panormita e come si era
portato via il proprio codice, se ne accorò profondamente e scrisse
a parecchi amici pavesi, i quali gli confermarono che il Panormita
non sarebbe più tornato. Per allora Guarino dovette mettersi l'animo
in pace. Quando poi nel 1442 Alfonso d'Aragona entrò vincitore in
Napoli, allora si diresse a lui con lettera, pregandolo di ottenergli
dal Panormita la restituzione del codice Plautino: invano. Si rivolse
direttamente al Panormita: invano; nuovamente al re Alfonso: sempre
invano. Gli fu forza aspettare l'anno 1444, in cui il Panormita fece
una corsa a Palermo. In quell'occasione riprese i suoi codici, tra i
quali il Plautino e lo rimandò a Guarino nei primi mesi del 1445.

254. Quanto penò ora Guarino a riavere il suo apografo di Plauto,
altrettanto avea penato prima ad avere l'archetipo Orsiniano. L'Orsini,
pur non sapendolo leggere, lo teneva gelosamente custodito presso di
sè e per parecchio tempo non ne fece parte agli umanisti, che d'ogni
dove gli rinnovavano gli assalti per cavarglielo di mano. Inutilmente
gli fu chiesto da Milano, inutilmente da Ferrara, donde partirono due
suppliche: l'una di Leonello d'Este, l'altra, molto caratteristica, del
nipote di Guarino, Lodovico Ferrari. Lo stesso esito ebbero le pratiche
del Traversari e del Niccoli da Firenze. Quante volte non ritentò a
Roma la prova il Poggio! ma sempre senza successo; tanto che in un
momento di cattivo umore protestò che ormai non l'avrebbe più preso,
nemmeno se gli venisse offerto. Guarino ricorse a un altro mezzo. Era
andato a Roma, con un incarico del marchese, il giovane giureconsulto
Ziliolo Zilioli; a lui si rivolse acciocchè facesse pratiche per avere
il codice: anche questa volta fatica sprecata. Solo Lorenzo dei Medici,
che si era recato nel 1431 a Roma con l'ambasciata fiorentina a fare
omaggio al nuovo pontefice Eugenio IV, solo egli riuscì con molta arte
a trar di mano all'arpia il codice e a portarlo a Firenze. A Ferrara
esso giunse, direttamente dall'Orsini, l'anno seguente 1432. Così
Guarino lo copiò e mandò il proprio apografo al Panormita.

255. Si è veduto Ziliolo Zilioli a Roma nel 1430. Per mezzo suo e per
mezzo di Meliaduce d'Este e del suo institutore Aurispa, andati a Roma
alla fine del 1431, Guarino ebbe occasione di rinfrescare le proprie
conoscenze coi porporati e con gli umanisti della curia, quali il
cardinale Albergati, il cardinale Capranica, il Poggio, il Loschi, il
Rustici. Ma la corrispondenza con quel circolo si animò di più, quando
Guarino lo ebbe più prossimo, giacchè nel giugno del 1434 la corte
pontificia si trasferì a Firenze.

256. Senza di che le comunicazioni tra Ferrara e Firenze erano già
prima assai vive, specialmente perché Ferrara era il consueto convegno
degli ambasciatori degli stati belligeranti italiani. Il marchese
d'Este manteneva con molta astuzia e prudenza la sua posizione neutrale
e veniva per questo sempre scelto come intermediario nei trattati di
pace. Così nel 1432 e nel 1433 ci fu convegno di plenipotenziari a
Ferrara; la prima volta vi andarono come incaricati della repubblica
fiorentina Cosimo dei Medici e Palla Strozzi, la seconda volta il
solo Strozzi: entrambi erano stretti da vincoli di antica amicizia
con Guarino. Nel 1431 era passato, di ritorno da Verona, per Ferrara
il Niccoli e si abboccò con Guarino, col quale ragionò di codici e
di studi; e nel 1433 era andato da Ferrara a Firenze il Lamola, come
institutore privato in casa Strozzi. Ora poi che la corte pontificia
stava a Firenze vi si recarono a far visita ad Eugenio IV i due
fratelli Estensi Leonello e Meliaduce, coi loro aiutanti il cavaliere
Feltrino Boiardo e il cavaliere Alberto della Sale.

257. Quegli anni nei quali la corte pontificia si piantò a Firenze,
prima dal 1434 al 1436, poi dal 1439 al 1443 nel tempo del Concilio,
costituiscono uno dei momenti più fecondi e più felici dell'umanismo
italiano. I letterati della corte papale si trovarono allora insieme
con quelli di Firenze, la culla del grande movimento umanistico,
dove erano nel massimo fiore il Traversari, il Bruni, il Niccoli, il
Marsuppini. Ne era partito o ne stava per partire il Filelfo, ma in
compenso veniva da Basilea l'Aurispa coi suoi nuovi codici scoperti
in Germania e specialmente col commento di Donato a Terenzio. E in
quell'intreccio di attività, in quello scambio di cognizioni e di
vedute si agitarono grandi questioni, che nel periodo umanistico
ebbero varia fortuna e spesso divisero il campo in due partiti.
Esse versavano sulla preminenza fra i capitani antichi, sulla natura
della lingua latina, sulla preferenza da darsi al latino o al volgare
italiano, sulla superiorità dei Latini o dei Greci. Le due ultime
furono cominciate specialmente a discutere nella seconda dimora della
corte pontificia a Firenze (1439-1443); le altre due furono discusse
nella prima dimora e propriamente nell'anno 1435, anzi su per giù nello
stesso mese: tra il marzo e l'aprile. In esse, la questione cioè sulla
preminenza fra i capitani antichi e quella sulla natura dell'antico
latino, si trovò impegnato anche Guarino.

258. Era a Firenze con la corte pontificia un giovane ferrarese,
Scipione Mainenti, amico comune di Guarino e del Poggio. Avea studiato
diritto civile a Bologna e di là era passato a Firenze nel 1429. Nel
1433 avea fatto la sua gita a Basilea, donde era tornato con alcuni
codici nel 1434. In quell'anno stesso si era dottorato a Bologna.
Fatta una breve sosta in patria, si era trasferito a Firenze, dove si
accompagnò alla curia che egli seguì poi sempre. Fu eletto nel 1436
vescovo di Modena e morì nel 1444. Scipione Mainenti era entusiastico
ammiratore del suo omonimo romano, tanto che il pio Alberto da Sarteano
ne lo rimproverava, sembrandogli che paganeggiasse un pochino troppo.

259. Per deferenza all'ammirazione dell'amico Mainenti il Poggio gli
scrisse una lettera, nella quale fra i capitani antichi dà la palma
a Scipione. A Scipione aveva dato la palma anche il Petrarca; Pier
Candido Decembrio invece presso a poco nel tempo stesso della lettera
del Poggio dava la palma a Cesare. Ciò era naturale nel Decembrio,
che rendeva così omaggio alla maestà Cesarea del suo Filippo Maria
Visconti. Ma il Decembrio a riscontro di Cesare poneva Annibale, il
Poggio al contrario confrontò Cesare con Scipione. Egli nella sua
lettera esamina anzitutto i giudizi degli antichi, indi la vita dei
due grandi capitani e viene alla conclusione che Scipione nella virtù
e nella rettitudine fu molto superiore a Cesare e che non gli fu
inferiore nella gloria militare.

260. Leonello reduce dalla sua gita di Firenze portò a Guarino a
Ferrara i saluti del Poggio e una copia della lettera sulla preminenza
di Scipione. Guarino lesse la lettera e ne rimase scandalizzato. Egli
scorse nel Poggio addirittura un detrattore, un calunniatore di Cesare,
un _Caesaro-mastix_ e gli scrisse contro una violenta confutazione:
«Come hai il coraggio di chiamar Cesare _parricida linguae latinae_?
No parricida ma _litterarum expolitor et munditiarum parens_». E cita
le testimonianze degli antichi, mettendo in chiaro quanta cultura ci fu
in Roma e dopo Cesare e sotto Augusto e durante l'impero e come Cesare
promosse molto gli studi. «Nè Cesare tolse le istituzioni repubblicane:
le vere cause della rovina di Roma furono l'avarizia e il lusso. E
se vi furono imperatori iniqui, ve ne furono anche di buoni; e Cesare
non è responsabile degli iniqui, come S. Pietro non ha colpa dei papi
malvagi che gli succedettero». Indi esamina l'adolescenza di Cesare e
mostra, contro l'asserzione del Poggio, che in essa Cesare diede ottimi
indizi di animo forte e generoso. «Perchè vai pescando, o Poggio,
tutte le accuse mosse a Cesare dalla malignità e che sono naturalmente
sospette e taci il buono di cui si ha notizia sicura? Perchè interpreti
malamente azioni di Cesare, che considerate da un animo imparziale
sono invece oneste? — Cesare si servì di largizioni per farsi eleggere
console. — Ma lasciando le largizioni, cosa allora comune, chi ha più
merito dei due: Cesare eletto con tanta lotta o Scipione eletto perchè
nessuno si presentava? Non vedo che si deva rimproverare a Cesare di
aver proposto il domicilio coatto dei Catilinarii, giacchè non fu egli
il solo; e Catone che lo osteggiò non era poi quell'irreprensibile
uomo, che potrebbe parere. — Ma si fece prorogare il comando della
Gallia. — E non pensi alla capitale importanza di quella guerra? Del
resto Cesare in guerra fu clementissimo e umano. — Ma si avvilì negli
amori di Cleopatra. — E Scipione non amò una schiava? Dici che fu poca
gloria vincere i Galli imbelli. Leggi il giudizio di Sallustio e mi
saprai poi dire se erano imbelli». Da ultimo Guarino difende Cesare
dall'accusa di essere stato il distruttore della libertà, mostrando
che la libertà di Roma era già morta da prima e che Cesare fu anzi
quegli che la difese. Conchiude che Scipione fu _vir bonus, civis
pusillanimis, imperator excellens_, che Cesare fu _civis magnanimus,
princeps prudentissimus, imperator excellentissimus_.

261. La lettera di Guarino fu intitolata a Leonello, l'ammiratore
di Cesare; e fu certo per deferenza a lui, se mise tanto calore e,
diciamolo, acrimonia nella confutazione del Poggio. Il Poggio replicò
indirizzando la lettera al Barbaro, da lui scelto arbitro della
contesa. Nel preambolo egli confessa di non sapersi persuadere come mai
Guarino abbia preso in sul serio una questione accademica, trattata
unicamente per esercizio di ingegno, e che vi abbia mischiata tanta
acrimonia; egli non trova altra ragione di tanto accanimento se non il
supporre che c'entrasse di mezzo Leonello: e non s'ingannava.

262. La replica del Poggio è molto moderata. Egli ribatte uno per uno
tutti gli argomenti di Guarino. Cicerone, Vergilio, Sallustio, Orazio
vissero sotto Cesare, ma nacquero e furono educati al tempo della
repubblica. Vi furono valenti grammatici sotto l'impero, ma tutti
insieme non valgono una pagina di Varrone; dopo morto Cesare non si
trova un comico come Plauto, un oratore come Cicerone; e questo dicasi
pure dei filosofi, dei giureconsulti. Da ultimo il Poggio con una
lunga serie di testimonianze antiche dimostra l'assurdità della tesi di
Guarino, che Cesare cioè non abbia distrutta la libertà di Roma, anzi
la abbia promossa.

263. Quest'ostilità terminò meno d'un anno dopo con l'interposizione
di Francesco Barbaro. La personalità era assolutamente esclusa
dalla disputa e l'amicizia tra Guarino e il Poggio fu delle poche
veramente costanti e sincere di quel tempo; fu quindi facilissimo il
riavvicinamento.

264. L'altra questione, non oziosa e accademica, almeno per noi, come
la prima, ma vitale e di un grandissimo valore storico, si aggirava
sulla natura della lingua latina. Ecco come è nata. Nel marzo 1435
in Firenze nell'anticamera del palazzo dove alloggiava il papa si
trovavano il Biondo, il Loschi, il Poggio, il Rustici, Andrea Fiocchi.
Discutevano sulla lingua latina e sulla sua natura, se cioè al tempo
di Roma antica gli illetterati e i letterati parlassero la medesima
lingua. In mezzo alla discussione comparì nell'anticamera il Bruni,
mandato a chiamare dal papa. Subito colleghi ed amici si rivolsero a
lui per sentire la sua autorevole parola. Fu allora che il Bruni lanciò
quel suo audace e famoso giudizio: il volgo romano antico parlava il
medesimo linguaggio delle nostre plebi presenti. La parola del Bruni
divise senza altro il campo in due partiti; stettero con lui il Loschi
e il Rustici, gli si dichiararono contrari il Biondo, il Poggio,
il Fiocchi. Più tardi si schierarono contro il Bruni anche Carlo
Marsuppini e Leon Battista Alberti. Ma intanto il Bruni dovette entrare
dal papa e la discussione rimase interrotta.

265. Portavoce del partito contrario al Bruni si fece il Biondo,
il quale tornato a casa pensò di ordinare e raccogliere le proprie
idee e quelle degli amici e dare ad esse forma di dissertazione. La
dissertazione uscì il primo aprile 1435 intitolata al Bruni.

266. Il Biondo pone la questione nei suoi veri termini; indi ribatte
gli argomenti addotti dal Loschi, dal Rustici, dal Bruni nella
prima discussione; da ultimo entra nel tema e sostiene la propria
tesi, appoggiandosi alle testimonianze di Cicerone. Egli ammette una
differenza di grado tra la lingua della classe colta e quella della
classe incolta. Quella differenza è dovuta in parte allo studio, in
parte al contatto con la migliore società. Ma tutti i Romani parlavano
il latino grammaticale, perchè così lo aveano da natura. La moltitudine
intendeva non solo ma sapeva anche apprezzare tanto le orazioni del
Foro quanto le rappresentazioni del teatro. Del resto non fa bisogno
per capire aver la cultura di chi parla: altro è parlare, altro
intendere.

267. Il Bruni rispose al Biondo in data 7 maggio. Ribattè l'argomento
degli oratori, dicendo che in senato e nei tribunali il pubblico era
di gente colta e che perciò parlava il latino letterario; il pubblico
del Foro era misto e quelli che capivano erano colti; del resto non
doversi dimenticare che gli oratori parlavano un linguaggio volgare,
che poi traducevano in linguaggio letterato per la pubblicazione.
Ribattè l'argomento del teatro, cercando di mostrare che il pubblico
non vi andava tanto a sentire la recitazione, quanto a vedere
l'apparato scenico e la mimica. La confutazione specialmente di questo
secondo punto è addirittura puerile. Però non manca una certa felice
intuizione. Il Bruni con tatto fine distingue, sulla scorta di Cicerone
e di Varrone, le forme volgari Bellius vella vellatura dalle letterate
_Duellius villa vectura_, ma è troppo poco.

268. Il vero argomento del Bruni è un sentimento soggettivo. Egli non
può nè persuadersi nè credere che altri, specialmente se istruito, si
persuada, che una donnicciola romana sapesse p. e. distinguere _filiis_
da _filiabus_, _c[=eci]di_ da _cecidi_ e parlasse il latino di Terenzio
e di Cicerone senza averlo studiato. Quel latino lo sapeva ben lui
quanta fatica gli era costato e non si rassegnava che a Roma si avesse
a così buon prezzo.

269. A Ferrara la questione si era pure agitata e Guarino ne
parlò spesso con Leonello, con Angelo Decembrio, col Boiardo e col
Pirondoli. Questi due ultimi pareva che stessero dalla parte del
Bruni; risolutamente col Bruni stavano Leonello e il Decembrio, i quali
notavano che in Roma c'erano scuole e maestri e che perciò la lingua
si doveva impararla; se il volgo la avesse posseduta per natura, erano
inutili i maestri e le scuole. Guarino invece si mise dalla parte del
Biondo. Egli ripiglia i due argomenti tratti dal Foro e dal teatro,
aggiungendo nuove citazioni e nuovi schiarimenti. Soprattutto riguardo
al Foro insiste sull'esistenza degli stenografi anche in antico e
ritiene perciò che noi abbiamo le orazioni quali venivano recitate. Si
indugia a lungo a dimostrare, con l'autorità specialmente di Cicerone,
che la latinità in Roma non si imparava, come sostiene il Bruni, ma
ciascuno la portava con sè nel sangue per eredità.

270. Distingue però i tempi primitivi nei quali la latinità si
parlava incoscientemente, dai tempi recenti, nei quali la si parlava
coscientemente cioè studiandola. I periodi della lingua latina secondo
Guarino sono quattro: il periodo di Giano, il periodo di Latino, il
periodo dei monumenti letterari e il periodo della decadenza. Nei
tre primi il latino è _litteralis_ e va man mano perfezionandosi, nel
quarto per influenza dei barbari si imbastardisce, perde la propria
fisonomia, si snatura e diventa _vulgaricus_. Solo qua e là nelle
provincie si incontrano ancor tracce dell'antica fisonomia _litteralis_
e in questo proposito Guarino cita alcuni esempi dallo spagnolo.
Dichiara da ultimo, che vi doveva essere una differenza tra la lingua
del volgo e quella dei dotti, il latino dei quali possedeva vocaboli di
una _secretior quaedam intelligentia_.

271. Su questa differenza, già notata dal Biondo, ritorna il Filelfo,
il quale ha trattato la questione in due lettere, schierandosi
contro il Bruni. Il Filelfo distingue in Roma un _sermo litteralis
grammaticus_ e un _sermo vulgaris latinus forensis_. Il _sermo
litteralis_ appartiene allo stile elevato, p. e. alla filosofia ed
alla poesia epica; così Cicerone adopera _calliditas_ per indicare una
facoltà intellettuale, dove che il popolo prendeva la parola in ben
altro senso; così Vergilio adopera _olli_ invece di _illi_. Il _sermo
vulgaris_ era la lingua usuale del senato, dei tribunali, del foro, dei
teatri, del parlar domestico; il _sermo vulgaris_ contiene naturalmente
delle sgrammaticature; p. e. Terenzio adopera _emoriri_ per _emori_.
Ma la differenza fra l'uno e l'altro _sermo_ è _admodum parva_; esempi
di _sermo vulgaris_ rispetto al _litteralis_ sono i genitivi _ornati_
_tumulti_ _senati_ _victi_ rispetto ai genitivi _ornatus_ _tumultus_
_senatus_ _victus_, le forme _barbaries_ _barbariei_ rispetto a
_barbaria_ _barbariae_. Così i grammatici non ammettono il nominativo
_nex_, che si può adoperare nel _sermo vulgaris_; non ammettono che il
solo ablativo _sponte_, dove che Cornelio Celso ha _suae spontis_.

272. Una obbiezione muove il Filelfo al Bruni sull'esistenza del
volgare italiano nei tempi di Roma antica, che cioè di esso non c'è
rimasto nessun monumento. Inoltre Guarino e il Filelfo, per mostrare
l'assurdità della ripugnanza che aveva espresso il Bruni ad ammettere
la grammaticalità del volgare romano, citano un fatto del quale essi
furono testimoni. Entrambi erano stati a Costantinopoli, Guarino nel
1403, il Filelfo nel 1427, e ivi aveano notato che il volgo parlava il
greco grammaticalmente, conservando cioè le terminazioni dei casi, dei
numeri, dei tempi, come si riscontra negli antichi autori greci.



Guarino a Ferrara

SECONDO QUINQUENNIO

(1436-1440)


273. Col 1435 Leonello esce dalla tutela pedagogica di Guarino,
quantunque il suo maestro non lo abbandonò mai anche dopo,
soccorrendolo sempre dei suoi consigli negli studi. Terminata così
la condotta, per la quale Guarino era stato invitato alla corte degli
Estensi, un'altra e non meno onorifica gliene offerse la città.

274. Con un primo decreto in data 29 marzo 1436 il Consiglio gli
assegnava di stipendio 150 ducati, non compresa la pigione di casa, per
la quale gli venivano pagate 100 lire marchesane. Naturalmente Guarino
fece delle rimostranze sullo stipendio, poichè egli come institutore
privato di Leonello riscoteva 350 ducati e ora come pubblico insegnante
ne avrebbe riscossi meno della metà. In un seconda deliberazione del 30
aprile il Consiglio gli assegnava per lo stipendio 400 lire marchesane
e gli lasciava le 100 per la pigione; così su per giù si arrivava a 300
ducati e Guarino potè accettare. La nomina valeva per un quinquennio
dal giorno in cui egli cominciava il corso. Le condizioni erano: due
lezioni nei giorni feriali, una nei giorni festivi e che il corso fosse
gratuito.

275. Guarino inaugurò il corso il 1.º maggio, ma fu corso breve; e
per giunta a S. Luca non si potè ripigliare, perchè Guarino era fuori
di Ferrara a cagione della peste. Nel decreto di nomina c'era la
clausola che in caso d'assenza per motivo di epidemia gli si sarebbe
pagato solo metà dello stipendio. Ciò prova che il morbo doveva già
serpeggiare nell'aprile. Nell'agosto Guarino si risolse a partire. Sul
principio di settembre avea mandato innanzi il figlio Girolamo ed egli
si apparecchiava al viaggio col rimanente della famiglia. Per luogo di
rifugio fu scelta la sua villa di Valpolicella. Ivi avrebbe riprese
per un momento le antiche abitudini, sarebbe tornato alle gradite
occupazioni della vendemmia, avrebbe riveduti i vecchi amici.

276. Quale delusione! gli parve di andare in paese nuovo, le vecchie
conoscenze non c'erano più, procacciarsene di nuove non era il caso;
laonde egli senza volerlo si sente trasportare col pensiero alla nuova
patria, «che gli è nutrice anzi madre adottiva», al suo Leonello, che
egli ama tanto e dal quale dovrà con suo rammarico star lontano per
più mesi. Come ingannare il tempo dell'assenza? con la corrispondenza
epistolare. Ma egli, Guarino, non vuol presentarsi con le mani vuote;
invierà dei frutti del suolo veronese, non però di quelli che pascano
il corpo, bensì che siano cibo allo spirito. E i frutti sono usciti
dall'intelletto di due vergini veronesi, le sorelle Nogarola, Isotta e
Ginevra.

277. Queste due donne sono fra le produzioni più caratteristiche del
periodo del rinascimento. In esse per la prima volta l'umanismo si
sposa alla gentilezza femminile, specialmente nella Isotta, che rimase
per questo riguardo insuperata; e con esse l'indirizzo Guariniano toccò
in Verona il suo apice. Non è solo ora che la nobile famiglia veronese
dei Nogarola fa la sua comparsa nella letteratura; già prima l'Angela
e Giovanni, il poeta petrarchesco, aveano levata fama di sè, ma vere
umaniste non sono che le due sorelle. Noi le possiamo dire uscite dalla
scuola di Guarino, quantunque non sia stato egli il loro maestro; ma
quei due fiori gentili sbocciarono sul suolo che egli aveva fecondato
e loro maestro fu un suo scolaro, Martino Rizzoni.

278. Martino Rizzoni, prediletto alunno di Guarino, fu alla sua
scuola di Verona sino al 1425, nel settembre del quale anno passò a
Venezia, dove si collocò come institutore privato nella famiglia dei
Tegliacci. Con essi era stato a Bologna negli anni 1427-1428; di là si
trasferirono a Firenze, finalmente verso il 1430 il Rizzoni tornò in
patria e ivi aperse scuola pubblica, che fu frequentata dalle sorelle
Nogarola. Un esame accurato delle lettere delle Nogarola e specialmente
della Isotta mostra evidenti le tracce dell'influenza Guariniana: la
stessa verbosità, gli stessi sentimenti, le stesse frasi, le stesse
reminiscenze poetiche innestate continuamente nella prosa. Però se
nella educazione delle due sorelle Guarino ebbe solo parte indiretta,
l'ebbe invece diretta nell'introdurle e presentarle ai circoli
umanistici del suo tempo.

279. Coi letterati veronesi le Nogarola si erano già messe in
corrispondenza, come con Giacomo Lavagnola, alunno di Guarino, che
sposò la loro sorella Bartolomea, con Damiano ed Eusebio Borghi
padre e figlio, con Giorgio Bevilacqua, che era andato a studiare
giurisprudenza prima a Padova, indi a Bologna e che non si potea
dimenticare di quella bellissima partita di caccia fatta insieme con le
Nogarola a Verona, nella quale «la più bella preda che egli riportò fu
la loro amicizia». Erano in relazione anche con Venezia, dove aveano
dei parenti, p. e. Antonio Borromeo, e con Vicenza, dove il maestro
Ogniben Leoniceno tradusse per loro un opuscolo di Grisostomo. Molto
giovò alla diffusione del loro nome la presenza di Francesco Barbaro,
che si trovò a Verona come podestà dall'ottobre 1434 all'ottobre 1435,
e al quale le due sorelle scrissero poi lettere. Quelle lettere si
leggevano avidamente in pubblico con gran plauso di tutti, i quali
proclamavano le Nogarola degne di esser figlie di Cornelia; Giorgio
Bevilacqua aggiungeva che la miglior gloria di Verona era stata sino
allora Guarino, ma che le due sorelle lo avevano oscurato. Per mezzo
del Barbaro esse fecero conoscenza col nipote di lui, il protonotario
Ermolao, e con Giacomo Foscari, figlio del doge Francesco; e scrissero
all'uno e all'altro. Ma più fortunate senza confronto furono le lettere
scritte al Foscari, perchè capitarono in mano di Guarino.

280. Le due lettere al Foscari sono dell'ottobre 1435 e ci
rappresentano forse i primi saggi letterari, coi quali le due sorelle
entrarono nel consorzio degli umanisti. Quelle due lettere furono
trasmesse l'anno di poi (1436) dal Foscari a Guarino, che allora
villeggiava a Valpolicella. Guarino ne rimase entusiasticamente
ammirato e rispondendo al Foscari esaltò l'eleganza e l'erudizione
delle Nogarola, chiamandole le «mosche bianche» di quel secolo, a
petto delle quali perdono e Penelope e Aracne e Camilla e Pentesilea.
«Sogliono i Veronesi lodare chi le nostre biade, chi le nostre frutta,
i nostri vini e i nostri olii, chi l'aria delle nostre campagne e dei
nostri colli; ma pare non si siano accorti di queste due fanciulle, che
sono il più bel frutto di cui possa andare orgoglioso il nostro suolo.
O giovani, state ora attenti a non lasciarvi passare innanzi da queste
due fanciulle, altrimenti si ripeterà a voi il motto antico: le donne
sono uomini e gli uomini sono donne».

281. Guarino mandò copia delle due lettere al suo Leonello, il quale
fu ad esse largo di altrettante lodi. Non è a dubitare che il Foscari
appena ricevuta la risposta di Guarino la trasmise all'Isotta, la
quale di quegli elogi si sentì profondamente tocca e solleticata e ne
prese ardimento a scrivere a Guarino. Ma come fare a indirizzarsi a un
tant'uomo, essa per la prima, appena iniziata negli studi letterari e
per di più donna? Nella lotta tra il pudore e la gratitudine vinse la
gratitudine ed ecco l'Isotta ringraziare Guarino delle lodi che egli
si degnò di prodigarle e che la tramanderanno ai posteri immortale
congiunta col nome di lui. Questa lettera è la più caratteristica,
la più elegante, la più erudita di quante ne scrisse l'Isotta. Vi
sono citati autori greci e latini, antichi e moderni, non escluso lo
stesso Guarino; il discorso è infiorato di aneddoti classici e di versi
latini. L'elogio che ella fa di Guarino supera in entusiasmo quello
che egli fece di lei; e compiange Verona che si lasciò sfuggire un così
illustre personaggio, l'onor degli studi e il più gran vanto d'Italia,
e chiama felice Ferrara e accorto Leonello d'Este, che se lo seppero
acquistare.

282. Guarino sul finire dell'anno (1436) ritornò da Valpolicella
a Ferrara, fermandosi a passare il Natale a Verona. Vuoi per le
noie della partenza e dell'arrivo, vuoi per le occupazioni che lo
sopraffecero nei preparativi del nuovo corso, egli non pensò nemmeno
che dovea rispondere alla Nogarola. Ma ci pensò ben ella, che di quel
ritardo ebbe a soffrire tristi conseguenze. Tutti a Verona sapevano
che ella avea scritto per la prima a Guarino. Gli uomini probabilmente
non ci avran fatto caso, ma le donne sì. L'invidia è soprattutto
una passione femminile; e chissà come le Veronesi doveano sentirsi
crucciare di quella fanciulla, che si era tanto sollevata al disopra
del suo sesso e che riceveva tributo di lodi da ogni parte. La Isotta
visse e morì vergine e nessuno può osare in sul serio di gettare
anche l'ombra del sospetto sulla condotta di lei. Ma le donne che
emergono fra le altre offrono purtroppo il fianco alla malignità; è la
sorte toccata a Saffo. Se pertanto le donne veronesi aveano malignato
sull'ardire, che esse chiamavano spudoratezza, della Nogarola nello
scrivere per la prima a Guarino, ora che Guarino non rispondeva, esse
si sentivano vendicate. Anche Guarino col suo silenzio dava ragione
a loro ed esse erano bene nel diritto di insultare la sfacciata: e la
insultavano veramente.

283. La povera Isotta si vide perduta e scrisse novellamente a Guarino,
mendicandogli una risposta, ma nel medesimo tempo accusandolo di poca
generosità, perchè egli, uomo, avea permesso col suo silenzio che si
recasse onta a una donna. La risposta di Guarino questa volta non potea
farsi aspettare e infatti partì il giorno stesso che egli ricevette
la lettera della Nogarola. Le scuse del ritardo venivano da sè: le
innumerevoli occupazioni scolastiche e domestiche. Le muove affettuoso
rimprovero d'essersi lasciata vincere dallo sconforto, dove che ella
col suo ingegno e con la sua dottrina aveva il dovere di mostrarsi
superiore al suo sesso oltre che nella cultura anche nella forza
del carattere. Le dà poi piena soddisfazione, confermando il proprio
giudizio favorevolissimo sui meriti letterari di essa e accordandole la
facoltà di servirsi della sua risposta per mettere a tacere i malevoli
e gl'invidiosi.

284. La parsimonia epistolare di Guarino verso la Nogarola fu
largamente compensata dai suoi scolari veronesi che studiavano con
lui a Ferrara, e in particolar modo da suo figlio Girolamo, da Luigi
Zendrata, da Tobia Borghi. Tutti tre questi giovanottini fecero le
loro prime prove nel campo letterario scrivendo ciascuno la sua brava
epistola alle Nogarola, sfoggiando la loro recente erudizione classica
e citando versi e bruciando un grano d'incenso all'ingegno e alla fama
delle due straordinarie fanciulle. E la Isotta, puntuale rispondeva
a uno per uno, ringraziando, lodando, incoraggiando. Il Borghi per le
nozze di Ginevra nel principio del 1438 compose un'egloga, della quale
mandò una copia alle due sorelle e a qualche altro amico di Verona,
come Galasio Avogari, che cominciava allora ad entrare nella repubblica
letteraria. L'Avogari studiava di preferenza Plauto e nei dubbi
ricorreva per consigli a Guarino. Il Borghi lodava molto lo stile di
lui. Apparteneva al circolo veronese degli Ottobelli, del Fano, degli
Zendrata, del Rizzoni, dei Mercanti, di Asino «il quale di asino non ha
che il nome e beati gli altri asini che fossero asini siccome lui».

285. Del resto il quinquennio 1435-1440 fu il periodo veramente
fecondo, veramente umanistico delle due Nogarola o meglio dell'Isotta,
perchè Ginevra nel 1438 pigliato marito, disse addio agli studi.
Nel 1438 stesso l'Isotta con la famiglia si trasferì a Venezia, per
sottrarsi ai pericoli della guerra che allora infieriva tra i Veneti
e i Milanesi. In Venezia potè conoscere da vicino i letterati di quel
circolo; con Verona si mantenne in relazione per mezzo di Damiano
Borghi; ma quando nel 1441 rimpatriò, essa era mutata di molto. Avea
sorpassata la trentina; si trovò sola senza la sorella, la sua compagna
di studio; a prender marito non volle pensare e così si abbandonò
interamente alle proprie tendenze ascetiche, che già fanno capolino
qua e là nelle lettere del periodo anteriore. L'ascetismo soffocò
in lei l'umanismo; il fenomeno non era isolato; un decennio prima
Gregorio Correr veneziano disertava gli studi e i circoli umanistici
per consacrarsi al culto di Dio.

286. Nell'aprile del 1437 Guarino ebbe una doppia prova di stima
e di affetto dal marchese, che lo fece cittadino di Ferrara e gli
pagò la casa allora comprata dagli eredi Boiardi. In riconoscenza di
tale generosità Guarino dedicò a Leonello la traduzione delle _Vite
di Pelopida e Marcello_ di Plutarco. E oltre che dal principe, egli
riceveva testimonianze di vero affetto e di stima dai suoi scolari,
tra i quali pubblica e clamorosa prova, che costò poi parecchie noie a
Guarino, glie ne dette un Andrea Agasone.

287. Costui nel marzo 1437 era andato per alcune faccende da Ferrara
a Venezia. Ivi, alunno come era di Guarino, nelle ore libere cercava
libri e ragionava di studi e del suo maestro, che era tanto amato a
Venezia. Fra le novità letterarie gli capitò in mano la _Retorica_
di Giorgio da Trebisonda, che era stata composta verso il 1435.
La percorse e con sua sorpresa si imbattè in quel passo, dove il
Trebisonda fa la critica stilistica della orazione di Guarino in lode
del Carmagnola. Si accorse che in quella critica c'era dell'acrimonia.
Nè vide male.

288. Il Trebisonda sin dal tempo che insegnava a Vicenza avea concepito
gelosia di Guarino, che allora insegnava a Verona; egli anzi credette
che il licenziamento da Vicenza fosse dovuto alle mene di Guarino.
Passato a Venezia, trovò occasione di dir male di lui, specialmente
quando gli fu mostrato l'elogio funebre per Teodora Zilioli, il quale
egli giudicò assai sfavorevolmente, non fosse altro perchè colui che
glielo mostrò proclamava Guarino il primo oratore d'Italia. Non gli
parve quindi vero di cogliere un'occasione qual si fosse per sfogare
il suo malanimo contro il grande oratore e l'occasione gli si offerse
nello scrivere la _Retorica_, dove criticò la più famosa delle orazioni
di Guarino, quella in lode del Carmagnola.

289. Andrea Agasone non potè trattenere lo sdegno e scrisse a un
condiscepolo di Ferrara, Paolo Regini, denunziando al pubblico lo
scandalo, inveendo contro «il vile calunniatore» ed eccitando la
scolaresca ferrarese a vendicare solennemente l'onore di Guarino. Non
è a dubitare che la lettera di Andrea andò in mano anche di Guarino e
che egli vietò a chiunque di immischiarsi nella faccenda, come non se
ne immischiò egli stesso. Ma se ne occupò bene per proprio conto il
Trebisonda, il quale buttò giù contro Guarino un'invettiva ignobile e
piena di insolenze e per giunta la dedicò a Leonello, quasi volesse
mostrargli quanto torto avesse avuto a concepire sì grande stima di
Guarino. Veramente il Trebisonda non potea scegliere più infelicemente
la persona, a cui confidare gli sfoghi della sua invidia, poichè è
tutta invidia quella che schizza dalla lettera. Si fece però forte
di un pretesto; infatti egli credette o finse di credere che Andrea
Agasone fosse Guarino stesso, il quale avesse per viltà cercato di
nascondersi sotto la maschera di un pseudonimo. Il cognome _Agasone_
potrebbe essere un pseudonimo, perchè in latino significa _mozzo_
ma non era pseudonimo il nome: in ogni modo non certo pseudonimo di
Guarino.

290. L'anno dopo Guarino e il Trebisonda s'incontrarono a Ferrara, dove
il Trebisonda si era recato al Concilio, essendo da poco entrato al
servizio di Eugenio IV; e in quell'occasione Guarino gli fece capire
che certe ragazzate non erano permesse ad uomini seri e che perciò
bisognava por termine alla polemica.

291. Il Concilio portò nel 1438 un insolito movimento a Ferrara.
In sul principio dell'anno arrivarono Eugenio IV con la sua corte
da Bologna e l'imperatore Giovanni Paleologo col suo seguito da
Costantinopoli. Quante vecchie conoscenze non rivide ora Guarino! il
Poggio, il Traversari, il Mainenti, l'Aurispa, il Rustici, il Biondo,
il Pisanello. E quante non ne strinse di nuove! quella di Leon Battista
Alberti, del Porcelli, del melanconico Lapo da Castiglionchio, morto
l'anno stesso; e fra i Greci del Bessarione, di Gemisto Pletone, di
Niccolò Sagundino, senza contare i dignitari ecclesiastici che in
tale occasione convennero a Ferrara. Ivi egli potè praticare da vicino
Eugenio IV, a cui dedicò la versione di due omelie di S. Basilio; al
Mainenti dedicò la versione della _Mosca_ di Luciano e scrisse un carme
in lode del Pisanello, che gli donò un quadro di S. Girolamo fatto da
lui e che allora appunto diede mano alle sue famose medaglie, aprendo
la serie con quella dell'imperator greco. Guarino si chiama superbo di
potere aver comune la patria con quel grande artista, il cui nome sarà
immortale come sono immortali le sue figure, nelle quali sa infondere
tanta vita.

292. Oltre a queste produzioni letterarie, a cui fornì pretesto la
presenza della corte pontificia in Ferrara, Guarino ebbe anche noie dal
Concilio, poichè dovette recitare un discorso di apertura e servire
d'interprete fra i Latini e i i Greci e correr di qua e di là or per
questa or per quella faccenda. Eppure a lui pareva di intorpidire e
di batter la fiacca: «malattia del resto che gli aveva appiccicata il
Concilio, che di tutto si occupava fuorchè di risolvere l'importante
questione, per la quale era adunato, l'accordo cioè tra i Latini e i
Greci, e che si cullava nella quiete e nei passatempi e la cui maggior
sollecitudine era di liberarsi da ogni sollecitudine».

293. E così in effetto il Concilio poco o nulla conchiuse a Ferrara,
donde levò, non appena terminato l'anno, le tende e le trasportò a
Firenze: si avanzavano due grandi nemici, la pestilenza e la guerra.
Dei due pericoli il più temuto era la guerra, che allora più che mai
si combatteva accanita fra Venezia e Milano; ma questo pericolo fu
dissimulato e venne messo invece in rilievo quello della pestilenza.
Giusto il contrario di ciò che succedeva a Guarino, il quale della
guerra non dovea preoccuparsi più che tanto, ma si preoccupava
seriamente della pestilenza. Sin dagli ultimi di settembre egli pensava
già alla fuga e aveva designato due luoghi: o Rovigo o Lendinara presso
il conte Sambonifacio, al quale si era raccomandato per l'alloggio. In
ultimo però preferì Rovigo, dove lo troviamo stabilito con la moglie e
coi dodici figli già nel gennaio del 1439.

294. A Rovigo stette l'intero anno, poichè il 23 decembre non ne
era ancora partito; e viene il dubbio se abbia colà tenuto scuola,
come avvenne altra volta, che in tempi di pestilenza lo Studio fu
trasportato per un anno da Ferrara a Rovigo; ma questo non pare sia
stato il caso nel 1439. Ad ogni modo Guarino ebbe continua occasione
di corrispondere con gli amici ferraresi, vuoi per congratulazione,
siccome quando Giacomo della Torre fu creato vescovo di Reggio e quando
a Soccino Benzi nacque un figlio, del quale egli era stato scelto
a padrino; vuoi per condoglianza, siccome quando morì il figlio a
Feltrino Boiardo. Altra luttuosa circostanza fu la morte di Margherita
Gonzaga, moglie di Leonello da appena cinque anni, mancata ai vivi il
7 luglio e per la quale Guarino scrisse un'orazione.

295. Con Leonello più volte ancora ebbe occasione di carteggio sia
per commendatizie, sia per ammaestramenti, quale quello sul modo
d'intestare le lettere. Qualche volta invece coglie il destro di dargli
ammonimenti civili. Così nell'agosto Leonello andava a caccia e si
credeva che arrivasse fino a Rovigo, ma tornò indietro, perchè non
trovava selvaggina. «Eppure, gli scrive Guarino, qui ci sarebbe da far
buona preda, non però di selvaggina, bensì di uomini, che val molto
di più. Questa brava gente ha per te e per la tua dinastia profondo e
sincero rispetto, pur non essendo tu mai stato in mezzo a loro; chissà
quanto ti amerebbero vedendoti qui. È saggio consiglio che i governanti
si mostrino di quando in quando ai loro sudditi, per dar loro una
sensibile prova d'affetto e per accertarsi delle loro condizioni e dei
loro veri bisogni».

296. Tal altra volta sono ammonimenti filosofici, che Guarino vuol
dare al suo allievo, ma incorniciandoglieli con un bozzetto. Un giorno
infatti di ottobre essendo Guarino uscito da Rovigo a passeggiare
sull'argine dell'Adige, si incontrò in un solitario: aspetto severo,
larghe spalle, lunga barba, fronte rugosa. All'abito lo riconobbe per
greco. Doveva essere uno dei tanti venuti con l'imperatore al Concilio
l'anno precedente. Scambiatisi il saluto, il Greco domanda a Guarino
che facesse a Rovigo; a cui risponde, che era fuggito dalla pestilenza.
Il Greco rimane scandalizzato di una simile pusillanimità in un uomo,
che avendo tanto studiato i classici avrebbe dovuto imparare da essi il
disprezzo della morte. Guarino da quell'animo schietto ed ingenuo che
era gli rispose, non senza uno spruzzo d'ironia, che il disprezzo della
morte in teoria lo insegnava anche lui, ma in pratica avea paura della
morte, la quale priva l'uomo di tanti beni e lo getta a marcire in una
fossa. Allora ripigliò il Greco, mostrando come la vita ha più guai che
beni e che paventare la morte è pazzia, perchè il corpo quando è morto
non ha più senso e l'anima immortale vola in cielo. E perchè non ti
uccidi dunque? replica Guarino, anche questa volta un po' ironicamente.
Il Greco gli oppose la massima, che della nostra vita non siamo padroni
noi, ma Dio solo. — Tutto questo ragionamento filosofico tra il Greco
e Guarino non è altro che la parafrasi di quanto è esposto nel _Somnium
Scipionis_ di Cicerone.

297. Tutta la corrispondenza di Guarino in quest'anno si riduce
al circolo ferrarese e al circolo veneto. Da Padova gli è venuta
l'offerta di una nuova amicizia, del Baratella. Antonio Baratella
nacque in Camposampiero nel Padovano, sulle rive del Musone, che
egli celebrò nella sua Musonea. Abitava una villa detta Lauregia.
Fu alunno del Barzizza e amico di Sicco Polenton e di Lodovico
Sambonifacio, il compare di Guarino; morì nel 1448. Nel 1439 stava
componendo l'_Antenoreis_, poemetto su Padova, quando gli venne tra
mano l'_Astyanax_ del Vegio. Allora concepì l'idea di cantare anche
Polidoro, un altro degli infelici troiani periti miseramente. E compose
la _Polydoreis_, intitolandola e mandandola a Guarino con una prolissa
accompagnatoria in versi. Guarino gli rispose anche in versi, ma secco
secco, limitandosi a dirgli che i suoi poemi erano degni di Vergilio,
ed eccitandolo a condurre a termine l'_Antenoreis_.

298. Del resto Guarino aveva ben altra voglia che di occuparsi di
letteratura e di poesia. L'anno 1439 fu per lui uno dei più fortunosi.
Ardeva la guerra micidiale di Venezia e Firenze contro il Visconti,
nella quale il marchese di Ferrara avea preso parte in favor di
Venezia, mandando nel campo veneto il conte Taddeo d'Este. Taddeo si
era trovato alla difesa di Brescia nel famoso assedio del 1438, nel
quale si immortalò Francesco Barbaro, allora governatore di quella
città in nome della repubblica veneta. Condottiero in capo del Visconti
era il Piccinino, il quale nella prima metà del 1439 fece scorrerie sul
territorio veronese; e in quella occasione ebbe a soffrire gravi danni
anche la villa di Valpolicella di Guarino. Glieli raccontò un Veronese
venuto di là: «cacciati i contadini, calpestate le messi, spogliata la
villa, gettati a terra i tegoli, scassinate le serrature; appena i muri
si erano salvati».

299. E questo fu nulla a petto di un altro dispiacere, che afflisse
Guarino in quell'anno malaugurato. Correva da qualche tempo per le
bocche di tutti un distico latino oltraggioso alla repubblica veneta.
Di quel distico fu da taluno designato come autore Guarino, il quale
quando gli fu riferita quella voce stava a letto malato di febbre
con due figliuoli. Lo assalse un indicibile dolore e uno sconforto
disperato, che trasfuse in un'angosciosissima lettera al Giuliani e
al Giustinian, ai quali protesta solennemente essere quella una nera
e vile calunnia e li scongiura di difendere presso il senato veneto
la sua innocenza. Naturalmente il Giustinian gli rispose, che non se
ne desse pensiero, perchè tutti a Venezia conoscevano la devozione e i
meriti di Guarino verso la repubblica; che del resto quel distico era
noto da un gran pezzo prima.

300. Ma intanto la pestilenza, la guerra, la febbre, il distico
finirono con lo stordire il povero Guarino, «come quel tale che
ricevuto un colpo nella testa da dotto che era diventò stupido e
perdette la memoria». A farlo risensare molto giovarono le lettere
dei suoi amici veneti, dopo che era tornato in Ferrara nel gennaio del
1440, quali Gabriele Tegliacci e Leonardo Giustinian, ma soprattutto
quest'ultimo, a cui rende grazie entusiastiche di essere stato
prosciolto dalla calunnia del distico. Nell'occasione che Guarino
scriveva al Giustinian, Girolamo suo figlio scriveva al figlio del
Giustinian, Bernardo, accludendogli nella lettera alcuni versi.
Bernardo rispose molto affettuosamente a Girolamo, congratulandosi dei
progressi che faceva negli studi e ricordando con vera compiacenza
i tempi, in cui essi erano stati insieme a Verona scolari del padre
Guarino.

301. Un altro Giustinian, il cavaliere Orsato, mandava a Guarino i
saluti del Barbaro, reduce a Venezia dalla guerra; ed ecco Guarino
congratularsi con l'illustre patrizio della gloria immortale
acquistatasi nella difesa di Brescia. «Non era più solo ormai Archimede
che obbligò Marcello, fino allora invincibile, a levar l'assedio di
Siracusa; anche il Barbaro insegnò al Piccinino, tante volte vincitore,
ad esser vinto, obbligandolo a levar l'assedio di Brescia. E tutto ciò
non tanto con la forza e la violenza, quanto con l'astuzia e l'ingegno,
con la mansuetudine e con l'affabilità, trattandosi dall'una parte
di respingere gli assalti degli assedianti e dall'altra di mantener
l'ordine e la perseveranza negli assediati. Meritata fu dunque
l'accoglienza trionfale che gli fecero i Veneziani».

302. Di qui ognun vede che Guarino, diversamente da altri umanisti, non
perdeva mai d'occhio tra le cure degli studi gli avvenimenti politici
del suo tempo. Ma nessuna guerra attirò tanto la sua attenzione e
gli tenne l'animo sospeso e angustiato, quanto quella dei collegati
contro il Visconti. E veramente delle guerre italiane che egli potè
vedere fu la più accanita e la più grave. Era però giusto che, come
ne seguì con ansia le varie vicende, così ne salutasse con gioia la
fine, specialmente quando la pace gli parve per sempre assicurata
con l'adempimento di una promessa, tante volte lasciata balenare e
tante volte delusa, del matrimonio cioè di Bianca Visconti col conte
Francesco Sforza. E nell'ottobre del 1441 finalmente si celebrò il
sospirato matrimonio, «che sarebbe stato all'Italia intera pegno di
perenne pace e di tranquillità dopo i miserandi disastri della guerra.
Si levi dunque giulivo l'inno nuziale ai ben augurati sposi: allo
Sforza, il sapiente reggitore del Piceno, il ristoratore della potenza
pontificia, fiorentina e veneta, il condottiero glorioso che tiene in
pugno tutta l'Italia; a Bianca, la candida stella nunzia di prosperità
all'uman genere, delicato rampollo della magnanima stirpe, che generò
Galeazzo, Bernabò, Giovanni, Filippo Maria; la novella sposa sabina,
che riconcilia i genitori coi mariti, la novella Giulia, che riconcilia
i suoceri coi generi».

303. Nel 1441 Guarino fu colpito da due disgrazie di famiglia. A Verona
gli morì più che sessagenario Battista Zendrata, cugino di sua moglie
e padre di Lodovico, suo scolare, il quale in questo tempo avea già
lasciato Ferrara ed era ritornato a Verona. Battista era stato molto
affezionato alla famiglia di Guarino, al quale avea reso in ogni tempo,
e specialmente nelle calamità, preziosi servigi e di cui fu sempre
l'intimo confidente e lo schietto consigliere. Anche Girolamo Guarini
lo amava molto e nella consolatoria che scrisse al figlio Lodovico
mostra profondo rammarico per la perdita del brav'uomo, di cui con
compiacenza ricorda le carezze ricevute quand'era piccino a Verona
e che ardeva dal desiderio di rivedere, desiderio ahi! bruscamente
deluso: «Dio ce l'ha dato, Dio ce l'ha tolto, sia fatta la sua
volontà». La lettera spira tutta la rassegnazione che noi siamo usi di
sentire nelle consolatorie di suo padre. Nè Guarino lasciò Lodovico
senza conforto e gli scrisse ricordandogli come oltre al diritto di
succedere nelle sostanze del padre, avea pure il dovere di succedergli
nelle virtù. E in effetto Lodovico fece onore alla memoria paterna e
come magistrato e come letterato.

304. L'altra disgrazia toccata a Guarino fu la morte di una bambina.
Era l'ultima di tredici figli, natagli da poco. Morì mentre egli
villeggiava nel tempo delle vacanze estive. Agli amici che gli recarono
la triste novella rispose da vero stoico: «Se fosse vissuta, l'avrei
avuta cara tra la corona degli altri figli, ma sia fatta la volontà di
Dio. I beni terreni devono considerarsi come le rose; finchè ci sono,
prendiamo pure diletto della loro presenza; quando sono scomparse, a
che pro' crucciarsi più di quando non esistevano ancora? Ringraziamo
intanto Iddio, che la puerpera abbia avuto un parto felice».



Guarino a Ferrara

ULTIMO VENTENNIO

(1440-1460)


305. Nel maggio del 1441 Guarino venne confermato professore in Ferrara
per un secondo quinquennio. Fu questo l'ultimo anno che servì sotto il
dominio del marchese Niccolò, il quale morì nel 26 decembre del 1441.
Morì a Milano, donde fu trasportato il 28 dello stesso mese a Ferrara e
quivi seppellito nella chiesa di S. Maria di Belfiore da lui edificata.

306. Pochi giorni dopo, nel 6 gennaio 1442, Guarino ne scrisse la
commemorazione in forma di lettera a Leonello. «La piena del dolore mi
ha fin qui tolta la facoltà di parlare e scrivere; ora dopo i primi
sfoghi, rimessomi dalla commozione, posso darti quei conforti, dei
quali io stesso avevo bisogno quando il colpo era troppo recente». E
gli fa un quadro lusinghiero delle virtù paterne. «Fu prudente nel
saper mantenere l'integrità del suo piccolo Stato in mezzo a Stati
potenti e ambiziosi e fra tante guerre, che gli romoreggiavano intorno.
Fu benigno e le porte del suo palazzo erano aperte a tutti i cittadini
che ricorrevano a lui. Fu mite nelle pene ed è notevole quella sua
risposta: che un regnante non deve mai esercitare la crudeltà, qualche
volta la severità, sempre la clemenza. Fu liberale e arricchì molti
dei suoi sudditi; soleva dire che la ricchezza dei re è costituita
dalla ricchezza dei cittadini. Fu grandioso e lo provano i monumenti
che egli seminò come gemme in città e nel territorio. Fu forte nelle
fatiche e lo attestano le guerre da lui sostenute nel primo periodo
del suo governo, mentre nel secondo periodo egli attese alle arti della
pace, acquistandosi anzi grandi meriti come moderatore e arbitro nelle
contese altrui».

307. Guarino qui è panegirista e perciò mette in rilievo le parti buone
e lascia nell'ombra le meno buone. Comunque, se p. e. sulla mitezza
e sulla benignità di Niccolò lo storico fa le sue riserve, un merito
incontestabile egli ebbe, quello di essersi costituito moderatore
nelle controversie degli altri principati italiani; e a quell'arte
egli va debitore dell'incolumità del suo Stato e della fama di principe
scaltro.

308. Il passaggio dall'un governo all'altro avvenne in Ferrara senza
scosse, tanto che Leonello non sentì nemmeno il bisogno di circondare
il proprio palazzo di guardie: «la guardia la faceva l'affetto dei
cittadini». Già prima della morte del padre era Leonello stato da lui
assunto collega nell'amministrazione e avea perciò avuto occasione di
mostrare le sue buone qualità, per cui era ben voluto dal pubblico.
«La sua faccia bella, la fronte aperta, gli occhi sereni, la statura
alta, la capigliatura bionda gli conciliavano la simpatia della gente.
Inoltre di belle doti morali, come la religiosità, il sentimento della
giustizia, l'accorgimento nella scelta dei propri consiglieri, avea già
dato prima luminose prove; e ciò era sicuro pegno e buon augurio che
egli si sarebbe dimostrato degno successore del padre».

309. Le previsioni si avverarono; anzi egli fu migliore del padre,
se non nella politica, certo in tutte le altre virtù e specialmente
nella protezione delle arti e delle lettere. E cominciò senz'altro dal
riformare l'università, chiamando da ogni dove illustri insegnanti;
basti notare tra i principali acquisti Teodoro Gaza, venutovi
nel 1444. La solenne inaugurazione del nuovo istituto fu fatta da
Guarino nel 1442 il 18 ottobre, festa di S. Luca, che era il giorno
consacrato all'apertura delle scuole. L'oratore assunse di dimostrare
che Ferrara per opera di Leonello era diventata la vera sede degli
studi; e passando in rassegna le discipline, che erano rappresentate
nell'università ferrarese, cioè la grammatica, la dialettica, la
retorica, la fisica, la filosofia, la medicina, il diritto civile e il
diritto canonico, mise in rilievo i pregi di esse e la loro reciproca
connessione.

310. Guarino faceva doppia scuola: pubblica e privata. Alla pubblica
dedicava il giorno, alla privata la sera. La lezione pubblica era
doppia, nella mattina spiegava un poeta e un prosatore latino, nel
pomeriggio leggeva ordinariamente greco. La sera e la notte erano
dedicate ai convittori, che egli teneva in casa; essi lavoravano sotto
i suoi occhi e l'avevano sempre lì presente e pronto a rispondere a
tutte le difficoltà che incontrassero.

311. Uno dei convittori più famosi e che merita di esser conosciuto
un po' da vicino fu Giano Pannonio. Il suo nome era Giovanni, ma egli
se lo latinizzò; il cognome Cesinge, con cui è comunemente chiamato,
è storpiatura di Csezmicze; era di origine ungherese e perciò assunse
il soprannome di _Pannonius_. Era nipote di Giovanni Vitez, che fu
cancelliere nella reggia ungherese, vescovo di Waradino, arcivescovo di
Gran e da ultimo, nel 1471, cardinale. Fu mandato dallo zio a studiare
sotto Guarino a Ferrara. Quando arrivò nel 1447 a Ferrara aveva un
dodici anni e in breve tempo diede prova d'ingegno vivacissimo e di
memoria straordinaria; s'impadronì ben presto del latino e del greco
e cominciò a pubblicare saggi poetici, che riscotevano il plauso
universale.

312. Giano aveva per il suo maestro un vero culto, come dimostra
il _Panegyricus_ composto in lode di lui, bellissimo monumento di
ammirazione, di riconoscenza e di amore. E non solo a lui, ma alla sua
famiglia egli nutrì schietta affezione. Così tanto nei fausti quanto
negli infausti eventi di casa Guarini sapeva trovare una parola sincera
di congratulazione o di condoglianza. Per la morte della Taddea compose
l'epitafio; per le nozze delle due figlie Fiordimiglia e Libera compose
l'epitalamio: Fiordimiglia sposò Guglielmo Calefini e Libera Salomone
Sacrati, entrambi cittadini ferraresi. Maggiore dimestichezza strinse
Giano coi figli maschi di Guarino e specialmente con Battista, che era
press'a poco della sua età, anch'egli ingegno svegliato e precoce, e
col quale «ebbe comuni gli studi, il tetto, la cella, il maestro».

313. Dopo di Giano altri ungheresi vennero a Ferrara, p. e. un Simone,
un Czepes, un Policarpo, che poi fu arcivescovo: una piccola colonia,
come si vede. Fra i condiscepoli di Giano e di Battista c'erano a
Ferrara p. e. Roberto degli Orsi di Rimini, Basinio da Parma, Galeotto
Marzio di Narni, i quali diventarono poi famosi.

314. Nei cinque o sei anni che Giano fu a Ferrara noi possiamo,
guidati dai suoi versi, gettar lo sguardo entro la vita e i costumi
della scolaresca Guariniana. Ivi si studiava con vera passione: «Noi
che dormivamo, dice Giano a Galeotto, sempre nella medesima stanza
e mangiavamo alla medesima mensa, quante volte non vegliammo insieme
fino alla mezzanotte, facendo violenza ai nostri occhi; quante volte
non ci alzammo tre ore avanti giorno, lasciando il dolce tepore del
letto». Vero è che capitava pure il caso (e quale studente potrebbe in
ciò scagliare la prima pietra?), nel quale i libri passavano dal tavolo
di studio alla bottega di un rigattiere ebreo; sorte toccata una volta
a un Lucano, a un Ovidio, a un Vergilio, ai quali Giano avea chiesto
inutilmente dieci scudi in prestito.

315. I convittori costituivano proprio una famiglia e Guarino facea
da padre, con la sua bonaria severità, lasciandoli liberi nei loro
leciti passatempi. Un giorno una brigatella di essi con a capo Giano
combinarono una refezione, alla quale invitarono anche Guarino. Ma
egli rispose che i giovanetti non dovevano essere turbati nella loro
baldoria chiassosa dalla musoneria di un vecchio; e Giano a replicare:
che la sua presenza, oltre all'essere l'onor della tavola, sarebbe
stata un freno a qualche trasmodamento dei commensali; che del resto
la sua burletta poteva dirla anche lui, quantunque vecchio, e che essi
aveano imparato giusto da lui come Tullio, Socrate, Catone con tutta la
loro serietà si permettessero di quando in quando lo scherzo.

316. Però i suoi giovanetti egli li teneva sempre d'occhio; e Giano in
una occasione che fu dai compagni portato, senza saperlo, in un cattivo
ridotto, minacciò di denunziarli a Guarino. Ma non sempre il buon
vecchio riusciva a evitare le scappatelle dei suoi scolari e talvolta
gliele facevano i propri figli e sotto gli occhi, in casa, come quando
uno di loro si prese troppa confidenza con la domestica; e Giano a
cantargli: «La tua indulgenza ti fa torto, o Guarino, e intanto sei la
favola della città; uno dei tuoi figli ti ha reso suocero della tua
fantesca e nonno; pensa che hai in casa delle figliuole da marito e
apri gli occhi».

317. Fra quegli scapatacci non mancava certo la satira, la quale
diventava anche impertinente, come quando Giano si prendea gioco del
suo confessore Lino, un frate francescano, o consigliava Rinuccio di
portar fuori le sue figliole, p. e. alle prediche di padre Roberto
o ai balli in piazza, se voleva maritarle. Talora la satira era di
buona lega. Con Lodovico Carbone, alunno di Guarino, Giano non se la
dicea troppo: «prima eri bragia, ora sei carbone, tra poco diventerai
cenere». Paolo poi gli dava a correggere i suoi versi, che egli
rimandava senza nemmeno un segno: «sfido! bisognerebbe segnarli tutti;
del resto tu non sai pronunziar bene il tuo nome, la prima lettera devi
aspirarla» (_paulus_ φαῦλος).

318. E si fossero fermati alla satira! C'era dell'altro. Molestavano le
donne maritate e davano la caccia alle facili donzelle. Quella Tecla,
che «quando cammina per le strade ha l'aria di una aitante matrona,
dove che in casa pare una civetta spennacchiata», quella Silvia, che
«va cercando in ogni studente il padre del proprio frutto», sono fino
a un certo punto macchiette che possono correre. Ma quando discendiamo
alle Lelie, alle Orsole, alle Lucie, allora il colorito degli epigrammi
di Giano diventa marzialesco, anzi addirittura priapeo, tanto che certi
vocaboli osceni egli non ha il coraggio di scriverli in latino e li
scrive in ungherese. Incliniamo del resto a credere che fossero più
parole che fatti, più imitazione classica che realtà, come era il caso
_dell'Ermafrodito_ di Antonio Beccadelli.

319. Questa la studentesca. Un altro scolaro di Guarino ci guiderà per
entro al circolo letterario ferrarese. Il circolo socratico, quale
fu idealizzato nei dialoghi platonici e quale rivisse in Roma p. e.
nei dialoghi di Cicerone e nelle _Notti attiche_ di A. Gellio, ebbe
una larga rifioritura tra gli umanisti. Rifiorì a Ferrara per opera
di Guarino, nel tempo specialmente del governo di Leonello d'Este, il
quale ne era il centro e l'anima; il relatore fu Angelo Decembrio con
la _Politia literaria_.

320. Angelo Decembrio, fratello di Pier Candido, dalla scuola del
vecchio Barzizza, dove si trovò fanciulletto, era passato a quella di
Guarino. Stava a Ferrara sino almeno dal 1438 e vi si trattenne per
tutto il tempo che governò Leonello, morto il quale, si trasferì alla
corte di Alfonso in Napoli e, morto anche Alfonso, a quella dei re
di Spagna. Compose epistole, panegirici poetici, elogi funebri, opere
grammaticali e la _Politia_, importantissima, perchè con essa diffuse
e rese popolare l'insegnamento e il metodo guariniano.

321. Nel circolo ferrarese c'era l'elemento vecchio e l'elemento
giovane. Fra i vecchi nominiamo anzitutto il maestro. Guarino. Gli
altri erano Uguccione Contrari, uno dei più autorevoli consiglieri del
marchese Niccolò, Giovanni Gualengo, i due cavalieri Feltrino Boiardo
e Alberto Costabili; il Boiardo avea tradotto in volgare _l'Asino_ di
Apuleio, il Gualengo si dilettava di fabbricare e in una sua villetta
del suburbio aveva imitato quella di Plinio. Fra i giovani notiamo il
principe Alberto Carpi, alto della persona ed eloquente, imparentato
con gli Estensi, Carlo Nuvoloni, i fratelli Nicola e Tito Strozzi,
Francesco Ariosto, Leonello Sardi e il cavalier Tommaso Morroni da
Rieti, maestro dell'arte mnemonica.

322. Alle riunioni del circolo non mancavano di quando in quando gli
interlocutori avventizi. Così vi faceva qualche comparsa il minorita
Agostino, ferrarese, buon predicatore e rispettato da Leonello e dagli
altri; ma non erano accettate le sue teorie sui danni che provenivano
dalla lettura dei poeti antichi. Tito Strozzi su questo punto non
voleva dar quartiere al monaco; Guarino, più moderato, lo confutava con
buone ragioni, alle quali il monaco non avea che ribattere, ma faceva
le sue riserve: «non c'è da fidarsi troppo con voi altri oratori, che
mutate il nero in bianco». E la brigata rideva.

323. Peggio quando capitava nel circolo un pedagogo, come dicevano
loro, o maestro di grammatichetta, come diciamo noi. Tito Strozzi lo
prendeva a frustate, se lo lasciavano fare. Verso quella genìa perdeva
la moderazione persin Guarino, il quale metteva in canzonatura le
loro pedanterie. Uno di essi a Ferrara, un tal Palamede, si vantava di
sapere a memoria tutto Vergilio e che, sentitone un verso da chiunque,
avrebbe continuato col seguente. Tito lo incontra e gli recita il verso
19 dell'_Ecl. I_: _Urbem quam dicunt Romam Meliboee putavi_; Palamede
senz'altro seguitò: _Stultus ego_. Tito non ne volle più: «te lo sei
detto da te».

324. Ma comica sopra ogni altra fu la comparsa nel circolo di Ugolino
Pisani. Si presentò nel suo consueto atteggiamento teatrale, con la
capigliatura arruffata e lunga barba. Portava a leggere una delle
sue commedie in prosa, nella quale gli interlocutori erano arnesi di
cucina; gli astanti se la passavano di mano in mano, ridendo sotto
i baffi e strizzando l'occhio. Però il volumetto era di una perfetta
calligrafia e rilegato elegantemente. Quel povero Ugolino era mezzo
pazzo e morì pazzo, appena quarantenne. Entusiasta di Plauto, scrisse
commedie in prosa, imitandone lo stile. Per pochi versi ottenne
nel 1432 l'alloro poetico dall'imperatore Sigismondo. Girò le corti
italiane ed estere, facendo il giullare, recitando le sue commedie,
prendendo parte alle mascherate ed eccitando la curiosità specialmente
delle donne. Gli era stato affibbiato il nomignolo di scimia letterata.

325. Il circolo si raccoglieva di solito nell'appartamento di Leonello,
dopo il pranzo; qualche volta anche inter pocula. Altre volte invece la
brigata si recava a caccia o faceva una gita nella villa di uno degli
amici o al palazzo suburbano di Belfiore o al castello di Bellosguardo;
e ivi o sotto un portico o all'ombra delle piante si intrattenevano in
amichevoli discussioni letterarie.

326. Le discussioni versavano su argomenti di vario genere. Erano
preferiti gli argomenti di letteratura romana e in specie la
letteratura poetica. I due grandi poeti di Guarino erano Terenzio e
Vergilio; da essi citava continuamente e su di essi fondava la prima
educazione dei suoi allievi. E per riverbero l'attenzione sua si
fermava molto anche sui commentatori di quei due poeti, cioè Donato e
Servio. Nè solo studiava Vergilio in sè, ma pure nelle sue attinenze
con gli autori che lo precedettero e che lo seguirono, specialmente con
gli storici, mettendo a raffronto tanto la materia quanto lo stile. Se
dovea spiegare agli amici la teoria degli omonimi, egli traeva ricca
messe di esempi da Vergilio. Se poi voleva proporre un maestro di
moralità, designava Terenzio.

327. Nel circolo venivano trattate importanti questioni estetiche, come
quella dei rapporti tra il sostantivo e l'aggettivo nel verso e l'altra
della vera natura della brevità sallustiana. Faceano argomento di
discussione anche la proprietà dei vocaboli, l'ortografia, i dittonghi;
qualche volta il tema era archeologico, come sulle corone, sui pesi,
sulle sigle, sui monumenti. Le interpretazioni si discutevano con la
massima minuziosità.

328. Frequenti erano le questioni critiche: anzitutto sull'autenticità
dei testi. Non è di Cicerone la _Rhetorica ad Herennium_ e il
libercolo sui sinonimi, non di Ovidio il carme _De Vetula_, non di
Giovenale la satira XVI, non di Seneca le lettere a S. Paolo, non
di Catone i distici morali, non di Cesare il _Bellum Alexandrinum_.
Dopo l'autenticità, l'emendazione dei testi. Molto lavorò Guarino per
colmare le lacune dei passi greci, particolarmente in Macrobio, Gellio,
Quintiliano, i due Plini. Egli ha un concetto assai chiaro dell'opera
dei copisti, i quali scambiano le parole l'una per l'altra (_iuvenis_
con _veniens_) o le mutano di posto, introducono nel testo le glosse
marginali o lo alterano con le proprie interpolazioni. E qui Guarino si
mette in cerca di codici, esercitando, fin dove può, coscienziosamente
la critica diplomatica; ma dove i codici gli vengono meno, ricorre alla
critica congetturale, chiamando in soccorso il nesso dei pensieri, i
principii estetici, l'uso peculiare dello scrittore.

329. Fornivano materia a quei discorsi anche gli autori contemporanei
e del secolo precedente. Il Valla era molto stimato a Ferrara e molto
studiato e i suoi principii grammaticali e stilistici facevano ivi
legge. Poca stima si aveva invece dei tempi, a cui appartennero il
Petrarca, il Boccaccio, il Salutati: tempi d'ignoranza e di lingua
barbara. Gli scrittori in volgare non erano apprezzati o tutt'al più
riservati da leggersi ai nonni e ai bimbi d'inverno sotto il camino. A
Dante poi non sapea Guarino perdonare la prolissità della _Commedia_ e
l'avere nel noto verso vergiliano _Quid non mortalia_ inteso _quid_ per
_cur_.

330. Ferrara nel 1447 ebbe una seconda visita di frate Alberto da
Sarteano, che vi predicò il quaresimale e l'ottavario dell'Ascensione.
Guarino non mancò di andare a sentire «la cignea voce di quel celeste
usignolo», il quale «quando inveiva contro i vizi diventava tromba,
anzi tuono». Il 7 maggio frate Alberto aprì l'ottavario con un discorso
sulla dottrina teologica. Passò in rassegna tutte le discipline antiche
e moderne, sacre e profane, mostrando la loro utilità e il diletto che
se ne ritrae sì per lo spirito che per il corpo e proclamando regina
di tutte la teologia. «Che profondità e vastità di erudizione in quel
discorso, che acutezza di giudizio, che fiume di eloquenza! pareva il
Po quando straripa; e parlò conservando sempre il suo timbro di voce
per quattr'ore di seguito e nessuno se ne accorse più che se avesse
parlato una sola ora».

331. Quale differenza tra questo monaco e Giovanni da Prato, che andò
a predicare a Ferrara la quaresima tre anni dopo, nel 1450. In quella
stagione Guarino leggeva Terenzio nella sua scuola. Non l'avesse mai
fatto! Il monaco furibondo lanciò dal pulpito i suoi fulmini contro
i poeti classici e chi li leggeva, li copiava, li spiegava nelle
scuole, li conservava in casa, prendendo soprattutto di mira Terenzio.
La questione sul poter leggere o no i poeti pagani non era sorta
allora, nè finì allora; ma la maniera come la risolse Guarino ha la
sua importanza, poichè egli riteneva che la lettura dei poeti classici
fosse non solo innocua, ma anzi scuola di morale.

332. Il monaco zelante dopo la predica scrisse una lettera a Guarino,
cercando di condurlo sulla buona via e insinuandosi nel suo animo
col protestargli quanto lo stimasse per il bene che gliene avea detto
Alberto da Sarteano. Guarino gli rispose rispettosamente, pigliando
le mosse giusto dall'argomento che da frate Alberto era stato trattato
tre anni innanzi. Alberto avea dimostrato che la teologia è la regina
di tutte le altre discipline, le quali la servono come ancelle.
«Or dunque, ragiona Guarino, se sono ad essa ancelle, bisogna bene
studiarle per conoscer meglio la teologia; ed è così che lo studio dei
classici ridonda a profitto della religione. Altrimenti incoglierà
ai ministri del culto ciò che incolse a quel tal prete, che io ho
inteso qualche anno fa, il quale predicando disse che gli _etnici_ si
chiamavano così perchè venivano dal monte _Etna_ e volendo nominare
_Cadmo_ ripetè più volte _Cadino_, suscitando le risate del pubblico».

333. La lettera è molto lunga e Guarino difende la sua tesi tenendosi
sempre nel campo dell'avversario e traendo perciò gli esempi dalla
storia ecclesiastica. Egli ricorda anzitutto come Mosè e Daniele prima
di comporre libri sacri si iniziarono alle scienze degli Assiri e
Caldei. Ma il perno della discussione si aggira su tre grandi padri
della chiesa, Basilio, Girolamo e Agostino, i quali, e sopra tutti
Girolamo, si avviarono agli studi teologici per mezzo degli studi
profani e mostrano nei loro libri continue reminiscenze di autori
classici. Girolamo poi giova alla causa di Guarino anche per l'alto
concetto in che teneva Terenzio, l'autore che è specialmente preso di
mira dal monaco. Guai a toccare Terenzio a Guarino, il suo prediletto
poeta, quello che prima di ogni altro egli leggeva e spiegava ai suoi
scolari. Terenzio era per lui il modello dello stilista elegante,
dell'oratore perfetto, dello squisito educatore. «Se i suoi personaggi
parlano e operano male, così richiede il loro carattere e non è da
imputarsi a lui. Bruceremo forse l'evangelista, perchè ci rappresenta
Giuda traditore di Gesù?»

334. Il monaco abbozzò una risposta, nella quale confuta punto per
punto le argomentazioni di Guarino, citando alla rinfusa autori
contemporanei, santi padri e filosofi pagani. Conchiude che, ammesso
pure che sia battuto lui, la causa rimane salva.

335. Del suo allievo Leonello, anche ora che è diventato principe, non
si dimentica Guarino e gli dedica pur sempre qualche lavoro, p. e. nel
1444 la traduzione dell'opuscolo di Plutarco _Sulla differenzia tra
l'amico e l'adulatore_, nel 1449 il trattatello sulla antica lingua
latina, nel 1447 uno schizzo sul modo di dipingere le muse. Leonello
era appassionato dell'arte e volle in quell'anno adornare dei ritratti
delle nove muse il suo studio di Belfiore. Per le pitture si servì del
Maccagnino, Guarino suggerì gli atteggiamenti e l'abito delle singole
figure, dettando per ciascuna un verso da scriversi sotto. Il pittore
seguì in parte i consigli di Guarino, in parte, come è ben naturale,
si attenne al proprio gusto. Quelle pitture furono vedute e descritte
da Ciriaco d'Ancona che si era, in uno dei tanti suoi viaggi, fermato
a Ferrara nel 1449.

336. Grande allegria ci fu a Ferrara nei mesi di aprile e maggio del
1444 per le seconde nozze di Leonello con Maria, figlia naturale
di re Alfonso d'Aragona, nozze veramente illustri che legavano in
parentela la casa d'Este col più potente degli Stati italiani; onde
ben a ragione Ferrara assistette in quei giorni a spettacoli di ogni
genere e vide d'ogni parte d'Italia accorrer moltitudine e personaggi
principeschi a rendere omaggio ai due sposi. Fra i principi convenuti
colà vanno nominati Oddantonio di Urbino, Gismondo Malatesta di
Rimini, il Malatesta di Cesena, Guidantonio di Faenza, Carlo Gonzaga
di Mantova, Rodolfo di Camerino. Andò a prendere la sposa Borso,
fratello di Leonello, imbarcandosi a Venezia su navi venete e sbarcando
ad Ortona, donde fece la via di terra fino a Napoli. Da Napoli partì
Maria d'Aragona ai primi d'aprile, scortata dal principe di Salerno
e salutata da un epitalamio di Girolamo Guarini, che allora era alla
corte di Alfonso.

337. Il 24 d'aprile giunsero a Ferrara e il giorno dopo nel castello
del marchese si compì la cerimonia nuziale, che fu presieduta da
Guarino. Egli domandò agli sposi se erano contenti di diventar marito
e moglie; indi Leonello pose l'anello matrimoniale in dito a Maria,
e Guarino recitò l'epitalamio d'occasione. L'ultimo d'aprile poi
si celebrò un altro matrimonio, di Isotta sorella di Leonello con
Oddantonio d'Urbino e anche questa volta Guarino recitò l'epitalamio.

338. Ma venne purtroppo il giorno del lutto, il giorno che Guarino
dovè intonare al suo illustre allievo il canto funebre. Leonello
ammalò gravemente nei primi di settembre del 1450. La città fu tutta in
costernazione e il vescovo ordinò pubbliche preghiere in ogni cappella,
in ogni chiesa, in ogni monastero. L'infermo era assistito dal marchese
di Mantova. Niccolò, il piccolo e unico figlio di Leonello, dodicenne,
era compreso anch'egli di tristezza per l'imminente pericolo e avea
fatto voto di dieci scudi al beato Bernardino da Siena, da pochi
mesi canonizzato, se il padre fosse guarito. «Dove li trovi i dieci
scudi?» gli domandava Guarino che lo teneva in custodia. E Niccolò:
«li chiederò a qualche amico di papà». La malattia fortunatamente
prese una buona piega e Leonello fu fuori di pericolo. Allora scoppiò
generale il giubilo dei cittadini e Guarino nel congratularsi con
Leonello della ricuperata salute propose di collocare tra i fasti,
da solennizzarsi ogni anno, l'8 settembre, il dì della guarigione. Ma
fu gioia passeggera. Altri pochi giorni furono aggiunti alla vita di
Leonello, il quale morì il 1.º ottobre dell'anno stesso, e a Guarino
non restò che recitargli l'elogio funebre.

339. La morte di Leonello sconcertò senza dubbio la posizione di
Guarino a Ferrara e i Veronesi ne approfittarono, per appagare un
loro voto, carezzato da tanto tempo, di riavere in patria l'illustre
concittadino. Anche questa volta, come nel 1432, ci furono le premure
private degli amici, le pratiche ufficiali del Consiglio veronese e
l'elegia di Verona, che invitava nel suo seno affettuoso il figlio da
tanti anni lontano. Guarino secondò quelle pratiche e ottenne che lo
stipendio gli fosse portato da 150 scudi a 200 e stava preparato alla
partenza; mancava solo la licenza del marchese. Ma la licenza non fu
accordata e Guarino fu riconfermato a Ferrara, donde ormai non contava
di muoversi più, avuto riguardo specialmente all'età avanzata.

340. Borso se non nella cultura, certo nell'amor delle arti belle
eguagliò il fratello; lo superò nella liberalità e nel lusso e
magnificenza dei ricevimenti. Basti ricordare le feste per l'arrivo a
Ferrara dell'imperatore Federico III nel 1452, di papa Pio II nel 1459
e per il matrimonio di Beatrice d'Este con Tristano Sforza.

341. Federico III nel 1452 fece il suo famoso viaggio a Roma e a Napoli
per ricevere dal papa la corona imperiale e per sposare donna Leonora,
figlia del re di Portogallo. Nell'andata giunse a Ferrara di gennaio e
tra le meraviglie che sorpresero gli astanti fu non ultima l'orazione
che recitò all'imperatore il piccolo Galeazzo Maria Sforza, figlio
del duca Francesco, fanciullo di otto anni. L'orazione gli era stata
scritta dal Filelfo. Di Guarino non sappiamo se abbia per l'occasione
fatto nulla, ma difficilmente un suo discorso sarà mancato. Non mancò
ad ogni modo un lungo carme latino del suo scolaro Giano Pannonio, il
quale con versi rimbombanti, con stile declamatorio e con immagini
esagerate tratteggia un quadro desolante delle condizioni d'Italia,
esprimendo le grandi speranze concepite per la venuta dell'imperatore,
dal quale si attendeva una nuova era di pace. Il discorso è messo
in bocca all'Italia, «che si prostra ai piedi dell'imperatore in
atteggiamento di nobile matrona, cinta di una corona di torri, vestita
a lutto, con le chiome sparse, battendosi il petto e piangendo e
singhiozzando».

342. Nel ritorno da Roma Federico III ripassò da Ferrara di maggio.
In questa seconda fermata Borso fu creato duca di Modena e Reggio e
Battista Guarini recitò davanti all'imperatore l'epitalamio per le
nozze di Bartolomeo Pendaglia con Margherita Costabili.

343. Non clamorosa come quella fatta all'imperatore, ma pur sempre
splendida fu l'accoglienza che ricevette Pio II, quando passò da
Ferrara del 1459 nel suo viaggio a Mantova, dove era intimato il gran
congresso per la crociata contro il Turco. Arrivò il 19 maggio e ne
ripartì il 25. Guarino salutò con un'orazione l'illustre pontefice «pio
di nome e di fatto, il ripristinatore dell'età dell'oro, il ristoratore
della cultura, il vero estimatore della virtù e del merito». Suo figlio
Manuele accompagnò i! papa al congresso di Mantova.

344. Parimenti sontuose furono le feste per il matrimonio di Beatrice
d'Este sorella di Borso con Tristano Sforza nell'aprile del 1455. Lo
sposo era figlio di Francesco duca di Milano, il quale mandò il Filelfo
a tenere il discorso d'occasione. Per il marchese compose l'epitalamio
Guarino, il quale fa una particolare allusione al nome cavalleresco
dello sposo; ciò che prova come egli stesso leggesse i romanzi
cavallereschi, molto in voga del resto alla corte di Ferrara.

345. Gli epitalami di Guarino e del Filelfo furono cagione di un
pettegolezzo tra i due umanisti. Fra essi non c'era grande intimità,
ma nemmeno ebbero mai a venire in discordia. Ora i maligni aveano
notato che all'epitalamio del Filelfo il marchese Borso era stato largo
di sole lodi, ma nessun regalo. In un crocchio di persone a Ferrara,
dove si commentava l'accaduto, a Guarino scappò detto che Borso si era
piccato, che il Filelfo avesse fatto il panegirico della famiglia dello
sposo, scarseggiando molto nelle lodi della famiglia della sposa. Ci
fu chi si prese la briga di riferire le parole di Guarino al Filelfo,
il quale sentitosi offeso nel suo orgoglio scrisse a Lodovico Casella
una lettera piena di insolenze contro Guarino. Egli poneva, come al suo
solito, la questione addirittura tragicamente: «che forse Guarino si
crede superiore a me?» Si capisce bene che Guarino non se ne diede per
inteso e il Filelfo dovette restare col suo groppo in gola.

346. Appena riebbe Guarino da Borso la primiera posizione che aveva
goduto sotto Leonello e potè riprendere le sue antiche abitudini,
pensò il vecchio umanista di pagare un tributo di riconoscenza al suo
illustre maestro Manuele Crisolora. Quel tributo parea dovessegli pesar
sulla coscienza come un obbligo sacro da soddisfare, essendo che di
tanti beneficati dal Crisolora nessuno gli aveva innalzato un monumento
letterario degno di lui. Ora più che mai la sua fantasia rievocava
la cara immagine del Greco, trasfigurata attraverso ai quarant'anni
trascorsi dall'ultima volta che lo aveva veduto vivo. Se lo rivedeva
risorgere dinanzi «bello della persona, le membra ben misurate e
proporzionate, il volto rubicondo e la bionda barba che accresceva
dignità all'aspetto»; e dalla faccia serena partiva ancora quel
sorriso intelligente e si sentiva tuttavia carezzato dall'affabilità
delle sue parole e dalla grazia dei suoi modi. Come si ingigantivano
i suoi meriti letterari! «Prima del Crisolora l'Italia era sepolta
nell'ignoranza, spezzato il filo della tradizione ciceroniana, barbaro
lo stile: il Crisolora aprì una nuova via agli studi, con lui comincia
il rinascimento della civiltà antica».

347. Preoccupato da questa idea Guarino si dà a raccogliere gli scritti
del Crisolora e le lettere indirizzate a lui o quelle che parlano di
lui, e si rivolge agli amici, come all'Ottobelli in Verona, al Poggio
in Firenze, pregandoli di cercargli e mandargli scritture in lode del
Crisolora. Così mise insieme l'orazione funebre del Giuliani, alcune
lettere sue e d'altri dirette al Crisolora o che trattavano di lui. Si
rivolse quindi ai propri figli, eccitandoli a scrivere commemorazioni e
panegirici del Crisolora; ed essi corrisposero subito ai desideri del
padre, poichè Niccolò, Battista, Girolamo, Manuele gli indirizzarono
affettuose lettere commemorative. A tutta questa collezione, della
quale ci arrivarono parecchi saggi, diede il titolo di Chrysolorina.

348. Nella _Chrysolorina_ dunque, intorno alla quale attese negli anni
1452-1455, Guarino ebbe collaboratori i propri figli, come li aveva
collaboratori nell'insegnamento all'università. Infatti Girolamo fece
un corso suo proprio, parallelo a quello del padre, sulla terza deca di
Livio. In nome del padre recitò Manuele l'orazione inaugurale nel 1444;
nel 1453 la recitò Battista, «il quale tra i figli di Guarino brilla
come Sirio e Boote fra gli astri minori. Egli già (nel 1453) monta la
cattedra come insegnante, parla nelle adunanze pubbliche come oratore e
affascina l'uditorio, e le aule e le chiese echeggiano dei suoi plausi,
intanto che il padre ne piange di gioia».

349. In ciò riconosciamo una tra le principali e più originali
caratteristiche del metodo di Guarino, quella di associarsi nel lavoro
i suoi discepoli e i figlioli, moltiplicando così la propria operosità
e rendendola più feconda e in certo qual modo perpetuandola dopo la
sua morte, poichè essi ne sarebbero stati gli eredi e i continuatori.
È questo il suo gran principio, che egli inculca e ripete ad ogni
momento nelle lettere, che i figli sono i legittimi eredi non tanto
delle sostanze paterne quanto delle amicizie e delle virtù. E infatti
uno dei suoi maggiori meriti fu l'essersi preparato un degno successore
nel figlio Battista, il quale dopo morto il padre occupò la cattedra
di lui, riempiendo del proprio nome e della propria operosità tutta la
seconda metà del secolo XV. Però dei figli di Guarino il solo Battista
fu vero umanista come il padre. Degli altri sei maschi Girolamo si
accosta più a Battista per carattere umanistico, quantunque più tardi
siasi dato alla carriera diplomatica. Anche Niccolò coltivò gli studi,
ma nulla produsse in quelli. I quattro rimanenti percorsero carriere,
le quali stavano in antitesi con l'umanismo, poichè Manuele si fece
prete, Gregorio medico, Leonello e Agostino notai. Agostino si applicò
alla mercatura ed ebbe il posto di maggiordomo presso il marchese di
Ferrara.

350. I figli di Guarino furono tutti educati sotto la sorveglianza
paterna, ma poi uscirono di Ferrara e andarono altrove chi a
perfezionarsi negli studi, chi a cercarvi una collocazione. Per tal
modo essi contribuirono non poco a rendere più vive le relazioni del
padre con gli altri centri letterari e con le varie città italiane.
E nell'esame infatti di quelle relazioni, le quali ora esporrò
brevemente, ci si presenterà spesso or l'uno or l'altro dei figli di
Guarino.

351. Cominciamo da Verona, dove essi andavano frequentemente a
curare gli interessi della famiglia o a villeggiare a Valpolicella.
È certo poi che Leonello, Niccolò, Gregorio, Battista si stabilirono
qualche tempo o a Verona o in villa. E ivi attendevano agli studi e
corrispondevano col padre, specialmente Niccolò e Battista. Niccolò
era già arrivato a conoscere il greco e per darne un saggio al padre
gli scrisse nel 1450 una lettera greca: e il padre se ne congratulò,
incoraggiandolo a continuare; nel 1452 egli carteggiava col padre per
la compilazione della _Chrysolorina_ e per una curiosa lite che si
dibatteva fra le città di Verona e di Brescia. Le due città vicine si
disputavano la proprietà del lago di Garda. Guarino risponde al figlio,
che la proprietà spettava a Verona, appoggiandosi all'autorità degli
scrittori romani, quali Catullo, Plinio, Claudiano.

352. Battista prendeva già parte, come una volta il padre, ai pubblici
affari di Verona; e nel gennaio del 1458 recitava il discorso di
commiato al podestà Niccolò Marcello. Nello stesso anno diede un buon
saggio dei suoi studi con la traduzione dell'_Agesilao_ di Senofonte,
dedicata a Ermolao Barbaro, l'antico scolaro di suo padre, allora
vescovo di Verona. L'anno dopo, 1459, pubblicò il _Libellus de ordine
studendi ac docendi_, nel quale rivela ottimo senso didattico e mostra
di avere in sè trasfuso il metodo paterno. Non bisogna dimenticare che
da poco era tornato da Bologna, dove aveva insegnato per due anni.

353. Ma non c'era di bisogno della presenza dei figli in Verona, perchè
Guarino mantenesse vivi e cordiali rapporti con la sua città nativa.
Si è veduto che Verona non dimenticò mai il suo Guarino, la quale
fece nel 1451 l'ultimo tentativo per riaverlo insegnante. Si davano
poi circostanze in cui il Consiglio veronese dovea trattare qualche
pubblico interesse col marchese di Ferrara e allora Guarino interponeva
i suoi buoni uffici presso il principe. I suoi vecchi scolari lo
ricordavano sempre, come l'Ottobelli, che gli cercava documenti per la
_Chrysolorina_, e Silvestro Landi, che redigendo lo statuto della città
di Verona fece nell'introduzione onorevole menzione del suo maestro. E
non mancava colà chi volesse erigergli un piccolo monumento; e questi
era il suo compare Damiano Borghi, che gli fece forse scolpire un
busto, per tramandare immortale il nome di lui.

354. A Venezia si trovarono per qualche tempo i figli Niccolò e
Gregorio. Niccolò accompagnava il marchese Carlo Gonzaga, di cui era
segretario; Gregorio si era recato colà nel 1451 un po' a perfezionarsi
nella medicina e un po' a conoscere quella città. Ma buon medico
per gli altri e non per sè si lasciò ferire il cuore da una bella
fanciulla, la quale gli rubava la pace e a cui desiderava dare la mano
di sposo. La madre della fanciulla fece serie opposizioni, ma mercè
l'interposizione di Francesco Barbaro le difficoltà furono appianate e
Gregorio impalmò la sua Antonia.

355. Col mezzo di questi due figli le comunicazioni di Guarino col
circolo veneziano erano tenute vive. Oltre che con Francesco Barbaro,
egli corrispondeva col figlio di lui Zaccaria, con Bernardo Giustinian,
col medico Niccolò Leonardi, con Marco Zane. In casa Barbaro ci fu nel
gennaio 1453 una festa di famiglia per il matrimonio di Paola figlia
di Francesco con Giacomo Balbi. Da Ferrara Guarino se ne congratulò
per lettera e Giano Pannonio compose per quell'occasione un lungo
panegirico di Francesco Barbaro. In quello stesso anno Giano andava a
Venezia raccomandato da Guarino al Barbaro; probabilmente era quello il
tempo in cui il Pannonio, lasciati gli studi letterari dell'università
di Ferrara, si recava a frequentare il corso di giurisprudenza
in quella di Padova. D'ora in poi i legami di Guarino col circolo
veneziano si rallentano o si spezzano affatto, essendo morto nel
principio del 1454 il Barbaro, che ne costituiva il nucleo.

356. Anche nelle relazioni di Guarino con la corte di Rimini
incontriamo un figlio suo, Girolamo, che nel 1448 dedicò a Gismondo
Malatesta una _Vita di Senofonte_. Guarino aveva avuto occasione di
conoscere personalmente Gismondo nel 1444, quando esso venne a Ferrara
ad assistere alle nozze di Leonello. Più frequenti diventarono le
corrispondenze tra Guarino e Rimini allorchè si recarono a quella corte
due suoi illustri scolari, Tobia Borghi e il Basini, stato allievo
quest'ultimo anche di Vittorino e del Gaza. A Rimini il Basini si trovò
in lotta con due rivali, il Porcelli napoletano e Tommaso Seneca da
Camerino, contro le cui maligne suggestioni egli dovea disputarsi la
grazia del principe, il quale alla sua volta prendeva diletto di quelle
guerricciole. Guarino era informato di tutto dal Basini.

357. Il Basini conosceva, come allievo delle scuole di Mantova e di
Ferrara, il greco, del quale erano digiuni il Porcelli e il Seneca.
Costoro due cercarono di mettere in cattivo occhio presso il principe
il loro rivale col pretesto che egli disprezzasse i Latini in
confronto dei Greci; il Basini rispose vittoriosamente, mostrando la
loro ignoranza e tessendo l'apologia degli studi greci. Qui scorgiamo
un'altra prova della superiorità della scuola guariniana e un nuovo
sintomo della guerra fra Greci e Latini. L'altro scolaro di Guarino,
Tobia Borghi, fu in Rimini storiografo di corte; infatti scrisse la
vita di Gismondo, specialmente per eccitamento di Guarino, che gli
delineò anche le principali norme per scrivere la storia, desumendole
da Luciano.

358. Fra i principi convenuti a Ferrara nel 1444 alle nozze di
Leonello ci fu Rodolfo di Camerino, fratello della famosa Costanza
Varano, una delle umaniste del secolo XV. Certamente Guarino ebbe
occasione di parlar di lei col fratello Rodolfo, quantunque egli già
la conoscesse per fama e per aver letto i suoi scritti. Avea levato
gran rumore la sua orazione recitata al conte Francesco Sforza e
alla sua sposa novella Bianca Visconti, quando nel 1442 andarono a
prender possesso della loro signoria delle Marche. Da allora in poi la
Costanza incoraggiata si mise in corrispondenza con principi, umanisti
e umaniste, come il duca Filippo Maria Visconti, Guiniforte Barzizza e
l'Isotta Nogarola. Guarino, che aveva ott'anni innanzi tributato il suo
omaggio alla Nogarola, non si lasciò sfuggire ora (1444) l'opportunità
di tributarlo con una lettera anche alla Varano, adoperando quasi le
stesse frasi e le stesse lodi e mostrandosi in certo modo mortificato
di presentarsele così da sè, senza averla conosciuta prima; che però
non ce n'era di bisogno, perchè egli era stato ammiratore dei suoi
scritti, dai quali l'aveva imparata a conoscere molto bene. Il pretesto
di scriverle gli fu fornito da un codice degli scolii di Cornuto a
Giovenale, che esisteva in Camerino e di cui le chiedeva una copia.

359. Con la corte di Urbino troviamo in relazione Guarino e il figlio
Battista. Duca di Urbino era Federico di Montefeltro, non letterato
ma protettore dei letterati, col quale Guarino carteggiava sin dal
1451. Ebbe poi occasione di conoscerlo personalmente nel 1457, quando
Federico e Gismondo Malatesta si abboccarono a Ferrara con Borso
d'Este, che essi aveano scelto per paciere; ma la pace non fu ottenuta.
Al duca Federico si accompagnava anche Ottaviano Ubaldini, entrambi
cresciuti in corte come fratelli. Ottaviano era letterato, fu allievo
di Vittorino da Feltre e si occupava di studi latini e italiani;
corrispondeva p. e. col Prendilacqua, col Filelfo e con Guarino;
quest'ultimo anzi gli mandò come institutore uno dei suoi scolari,
Marino Filetico. Battista Guarino si era incontrato con Ottaviano nel
1456, probabilmente in Bologna, e in quell'anno stesso gli emendò un
Catullo.

360. Dico in Bologna, perchè Battista insegnò in quell'università due
anni, 1455-1456, 1456-1457. Fu onore non ordinario per un giovanotto
appena forse ventenne esser chiamato a dettar lezione in quell'illustre
ateneo. Il discorso inaugurale del decembre 1455 fu un trionfo per
Battista. L'uditorio era affollatissimo; vi si notavano i rettori e
ragguardevoli personaggi fra i quali il cardinal legato. Il vecchio
Guarino, quando ne udì la relazione in piazza a Ferrara da uno che
veniva da Bologna, non potè trattenere dalla consolazione le lagrime.

361. In Bologna c'era giusto in quegli stessi anni un altro figlio
di Guarino, il canonico Manuele, che avea l'ufficio di segretario
presso il cardinal legato. Per mezzo di questi due figli Guarino
tenea viva corrispondenza col circolo bolognese. Senza di che egli
carteggiava con la famiglia Bentivoglio e col cardinal Bessarione,
che fu legato in Bologna dal 1450 al principio del 1455. Essendosi
recato a Bologna il suo scolaro Marco Aurelio, gli portò nel ritorno
i _Ricordi di Socrate_ di Senofonte tradotti dal Bessarione; con ciò
fu offerta a Guarino l'occasione di tributar meritate lodi al dotto
Greco e di rinnovare l'amicizia stretta in Ferrara nel 1438 al tempo
del Concilio. A Bologna predicavano di quando in quando due monaci
veronesi di quel tempo, fra' Timoteo e fra' Matteo Bossi. Timoteo trovò
in una di quelle circostanze, sembra, a Bologna la vita di S. Guarino,
che fu trasmessa a Guarino da un monaco bolognese, fra' Cipriano. Fu
un'immensa esultanza per Guarino l'aver trovato il suo santo omonimo
e fu fortuna per noi, poichè nel ringraziare Cipriano egli dà preziose
notizie intorno ai suoi primi anni.

362. Quel Timoteo era uomo istruito e abbastanza spregiudicato, perchè
scrisse un libro, la _Sacra rusticitas_, dove dimostra che lo studio
delle lettere non nuoce alla pietà cristiana. Anche lui però, come
tutti i minoriti, faceva la sua crociata contro il lusso, che allora
cominciava a diventare una vera piaga sociale. E predicò contro
il lusso nella quaresima del 1454 a Bologna, dove ebbe buon gioco,
avendogli prestato mano forte il Bessarione, che già tre anni innanzi
avea pubblicato ivi stesso un editto contro il lusso. Però gli attacchi
di fra' Timoteo erano specialmente rivolti contro le donne. Ciò parve
poco cavalleresco a taluno, che confutò il monaco, e a Guarino stesso,
il quale spezzò la sua lancia in favor delle donne.

363. Egli infatti ne scrisse a Santi Bentivoglio, capo partito a
Bologna, censurando l'eccessiva severità dei monaci, i quali parlavano
astrattamente, anzichè tener d'occhio le condizioni della vita pratica,
e notando che mentre gli uomini hanno mille mezzi per mettere in
vista i propri meriti, alle donne non è riservato altro mezzo che
l'ornamento. Due anni più tardi fra' Matteo Bossi rimproverò a Guarino
l'acrimonia di quella critica, ma Guarino gli rispose protestandogli
che la sua stima e il suo affetto verso fra' Timoteo non gli venne mai
meno e tutto finì lì.

364. Un altro figlio di Guarino, Girolamo, praticò la corte di Napoli.
Alfonso d'Aragona dopo sette anni di guerra riusciva finalmente
vittorioso del suo avversario Renato e nel febbraio del 1443 faceva
il suo ingresso trionfale in Napoli. Guarino sapeva che Alfonso era
re magnanimo e liberale, sapeva che egli proteggeva le lettere e i
letterati, sapeva che il Panormita e il Valla, suoi antichi amici,
stavano da parecchio tempo alla corte di lui e vide perciò che gli
sarebbe stato utile collocare a Napoli il proprio figlio Girolamo.
Ma tastò prima il terreno; infatti nell'ottobre 1442 scrisse al
re Alfonso esaltando le sue imprese guerresche, ma dando maggior
rilievo alle virtù dell'animo, come la fede, la religiosità, la
giustizia, la liberalità, la magnanimità e simili, e dimostrando che
egli non era, siccome volevano far credere, straniero nel regno di
Napoli, che la Spagna fu colonizzata dai Romani e diede poi a Roma
gli imperatori Adriano, Teodosio e Marco Antonio Vero. In un'altra
lettera Guarino concentra le sue lodi sulla protezione che Alfonso
accordava agli studi; e così si aperse la via a presentargli il proprio
figlio Girolamo, il quale partì per Napoli nell'ottobre del 1443
con una lettera di raccomandazione del padre al Panormita e con una
dell'Aurispa al Valla.

365. Alla prima lettera che Girolamo scrisse da Napoli al padre
questi rispose tracciandogli le principali linee della sua condotta in
corte. «Dopo Dio viene il re, indi il suo segretario; i voleri del re
devono essere tutti sacri per chi vive in corte. I cortigiani vanno
trattati con urbanità e in modo da non suscitare la loro gelosia».
Caratteristiche sono le regole che gli dà sul contegno da osservare
nelle conversazioni: «più che parlare ascolta; ma non avviare mai o
non secondare la maldicenza a carico degli assenti; mostra di fare gran
caso di ciò che dicono i presenti e non vantar mai la tua professione
in confronto dell'altrui; sappi essere ora serio, ora gaio, ma senza
trascendere in volgarità, e fa conto soprattutto che ogni tua parola
debba giungere agli orecchi del re». Gli raccomanda da ultimo di
fuggir l'ira e l'avidità del guadagno e di mantenere scrupolosamente la
segretezza.

366. I consigli del padre non caddero a vuoto e Girolamo seppe ben
presto acquistare la fiducia del re che lo creò suo consigliere e
segretario. Nè Girolamo si mostrò ingrato verso il suo protettore e
non trascurava occasione di manifestargli la sua riconoscenza; come
nel 1444 quando partiva da Napoli Maria per andare a Ferrara sposa
di Leonello, e nel 1447 che compose un carme in lode del suo re per
la riedificazione di Vibona (Monte Leone), alla quale aveva dato il
nome di Alfonsina. Di questo carme Girolamo mandò copia al padre, che
ne tolse pretesto per scrivere al re, congratulandosi di così bella
azione e discorrendogli a lungo intorno alla superiorità delle arti
della pace sulle arti della guerra, e trovando da ultimo il modo di
lodarlo non solo come mecenate ma anche come cultore degli studi e di
raccomandargli il figlio Girolamo.

367. Allorchè nell'ottobre del 1443 Girolamo era giunto a Napoli con
la commendatizia dell'Aurispa al Valla, quest'ultimo si affrettò a
scrivere a Guarino dell'ottima impressione che gli aveva fatta il
figlio, «il quale riproduceva esattamente il padre tanto nelle doti
fisiche quanto nelle morali». Nel medesimo tempo gli chiedeva una
copia del _Panegyricus_ di Plinio, offrendogli in ricambio il proprio
opuscolo _Sulla falsa donazione di Costantino_, il lavoro più oratorio
che egli avesse mai, a suo stesso giudizio, potuto scrivere. E fu in
verità ardimento degno dell'ingegno superiore del Valla e consentito
solamente a Napoli, dove il governo di re Alfonso lasciava libertà
di parola e proteggeva gli umanisti perseguitati dall'inquisizione
ecclesiastica. Quanta attività non aveva spiegata il Valla in quei
pochi anni dacchè stava alla corte di Alfonso! Oltre all'opuscolo sulla
_Donazione_, avea terminati i sei libri delle _Eleganze_ e i tre della
_Dialettica_, aveva preparato il libro delle _Adnotationes_ contro
Antonio da Rho, avea composti otto libri di confronti tra il testo
greco e il testo latino del _Nuovo testamento_, avea tradotto in prosa
latina i primi sedici libri dell'_Iliade_ e attendeva all'emendazione
del testo di Quintiliano.

368. Nel principio del 1447 re Alfonso stava attendato a Tivoli, donde
nel corso dell'anno intraprese la sua campagna contro i Fiorentini.
Nel campo si trovavano anche il Valla e Girolamo Guarini. Venuta la
stagione delle pioggie autunnali, i due umanisti pensarono di ritornare
a Napoli e presero la via di Siena. Ma s'imbatterono in una schiera di
briganti, dai quali il Valla potè scampare a stento, mentre il Guarini
fu catturato e maltrattato; poco dopo però si rincontrarono entrambi
incolumi a Napoli.

369. Il Valla nell'anno seguente, 1448, lasciò per sempre Napoli
e si stabilì a Roma, dove il regno di papa Niccolò V gli accordava
quell'ospitalità, che gli sarebbe stata negata da Eugenio IV. Girolamo
Guarini in quello stesso anno partì da Napoli, lasciando l'incarico di
spedirgli le valigie a Bartolomeo Faccio. Pare che se ne sia tornato
in condizioni non troppo floride, perchè il padre per fargli pagare lo
stipendio ha dovuto presentare una supplica al re. Nel 1450 Girolamo
aveva trovato un altro posto nella cancelleria di Modena. Il Faccio per
avere avuto in consegna le valigie di Girolamo ebbe frequenti occasioni
di scrivere al suo antico maestro Guarino, che egli amava e stimava
sempre e al cui giudizio sottoponeva i propri lavori. Un bel giorno
poi del 1451 le lettere del Faccio arrivarono non per mezzo del solito
messaggiero; il messaggiero era nientemeno che il Panormita in persona:
«a lui potrai chiedere, o Guarino, tutte le notizie che desideri di me;
io non ho segreti per lui». E Guarino abbracciò con effusione il grande
e stimato amico suo, che allora per la prima volta imparava a conoscere
personalmente. Il Panormita passava da Ferrara diretto a Venezia, dove
si recava ambasciatore del suo re. Lo accompagnavano Luigi Puggi e il
venticinquenne Gioviano Pontano.

370. Parimenti a Roma troviamo un figliolo di Guarino, Manuele, che vi
si stabilì per alcuni anni a perfezionarvi i suoi studi ecclesiastici;
oltre di che da Ferrara a Roma andava e veniva ogni anno l'Aurispa.
Manuele e l'altro figlio Girolamo furono da Guarino con special cura
raccomandati a Niccolò V nella lettera congratulatoria che gli scrisse
per la sua assunzione al papato.

371. La lettera ha un poco l'intonazione retorica di un'orazione, ma
essa esprime perfettamente i sentimenti suscitati in tutta l'Italia
dall'inaspettata elezione di Tommaso Parentucelli. Ognuno infatti
ammirava l'umile e povero figlio dei medico di Sarzana elevato al
massimo onore della chiesa, ognuno esaltava la sua pratica negli
affari, ognuno scorgeva in lui il rimuneratore del vero merito e
il dispregiatore del danaro, ognuno salutava in lui l'inauguratore
di un periodo di pace, ognuno encomiava la sua estesa e molteplice
dottrina. Questi sono i cinque grandi titoli, che la pubblica opinione
riconosceva al nuovo papa e questi sono i titoli messi in rilievo da
Guarino. Però mentre il ceto degli umanisti concepì larghe speranze
del nuovo papa per l'incremento della cultura, Guarino sembra di tali
speranze non aver sentore.

372. Se ne accorse invece più tardi, quando anch'egli divenne uno dei
tanti collaboratori del vasto piano di Niccolò V, di fondare una grande
biblioteca di traduzioni dal greco. E nella dedica a Niccolò V della
traduzione della _Geografia_ Straboniana Guarino mette in vista questo
merito del papa; ma non dimentica anche una particolare circostanza,
ossia che il papa con la traduzione avea di mira gli interessi della
religione, in quanto che badava soprattutto alla traduzione dei
testi sacri; e in ciò Guarino lo paragonava a Tolomeo Filadelfo, che
fece tradurre la bibbia dai settanta. Sicchè anche la _Geografia_ di
Strabone avrebbe dovuto servire agli interessi della chiesa. «Senza
dubbio; perchè la gente poteva vedere su quanta estensione di regioni
imperasse la chiesa, la quale in tal modo veniva ad aumentare il suo
prestigio». C'è veramente molta stiracchiatura, ma Guarino doveva aver
capito che al papa premeva di far credere così.

373. A Guarino dunque venne da Niccolò V assegnata la traduzione di
Strabone da nessuno prima tradotto. Sin dal 1448 Guarino domandava uno
Strabone al Filelfo; ma non pare che sin da allora avesse ricevuto
l'incarico dal papa; lo cercava forse per proprio uso. Non so se
l'abbia trovato subito; certo lo possedeva nel 1451. L'incarico gli
fu dato probabilmente nel 1452, perchè nel principio del 1453 la
traduzione era alquanto inoltrata. L'idea di quella traduzione nacque
in Niccolò V dall'aver egli saputo che si trovava in Roma uno Strabone
in possesso del cardinal Ruteno Isidoro. Ma siccome Isidoro nel maggio
1452 era partito con una missione per Costantinopoli, così avrà fatto
intanto cominciare a Guarino la traduzione sul proprio esemplare, il
quale era molto guasto: poi gli si sarebbe mandato l'altro da Roma,
come fu in effetto. Nel marzo del 1453 Guarino mandava a Giovanni
Tortelli alcuni saggi della traduzione; altri ne mandava nel settembre
dell'anno stesso; allora aveva quasi finito il libro quarto. Nuovi
saggi manda nel 1454, mentre annunzia che lavorava intorno al libro
sesto. Nel medesimo tempo Guarino chiedeva danaro. Gli pesava sulle
spalle una famiglia molto numerosa e per attendere alla traduzione avea
dovuto trascurare i propri interessi e lasciare alcune lezioni private.

374. Nel febbraio 1455 il lavoro avanza con gran lena; ma come dovette
essere rimasto il povero Guarino quando nel marzo intese la morte
del papa! Per la parte tradotta gli erano stati pagati mille scudi; e
per il rimanente che fare? Gli sapeva male troncare a mezzo un lavoro
così poderoso; onde si risolse a continuarlo e terminarlo per conto
proprio; avrebbe poi trovato il mecenate che lo pagherebbe. Terminò
la traduzione nel luglio del 1458. Cercò un mecenate a Firenze, forse
tra i Medici, a cui offrirlo, ma l'offerta non fu accettata. L'accettò
l'illustre patrizio veneto Giacomo Antonio Marcello, dei cui meriti,
specialmente militari, fa ampio elogio nella dedica. Il Marcello
alla sua volta dedicò l'opera a Renato di Angiò. Questo fu, dopo la
restituzione dei passi greci al commento vergiliano di Servio, l'ultimo
grande lavoro di Guarino.

375. Morto Niccolò V, col suo successore Calisto III, indifferente o
meglio contrario all'umanismo, Guarino non se la poteva intendere e
così si rallentarono i suoi legami con Roma. Già sin dai tempi dello
stesso Niccolò V degli umanisti amici di Guarino soli il Tortelli e il
Poggio aveano mantenuto regolare carteggio con lui.

376. Le sue relazioni col Poggio non hanno mai perduto della usata
frequenza e intimità. Nel 1447 il Poggio pubblicò la traduzione della
_Ciropedia_ di Senofonte. Ebbene, Guarino scrivendo al re Alfonso per
tutt'altro trovò il modo di nominare il Poggio e la sua _Ciropedia_,
per dirgli che quell'umanista in tarda età (67 anni) aveva, come a
Roma Catone, dato opera a studiare il greco e l'aveva imparato prima
che si venisse a sapere che egli lo studiava. La stessa lode fece
Guarino del Poggio al giureconsulto Francesco Accolti, che allora
professava a Ferrara, e la stessa lode ripetè poi direttamente al
Poggio, aggiungendogli esser tanto elegante e disinvolta la traduzione,
da sembrar proprio opera originale. Nel 1451 vide di mal occhio la
polemica tra il Valla e il Poggio, suoi amici, e unì la sua voce a
quella di Pietro Tommasi per riconciliarli, se non che furono sforzi
inutili i suoi, quelli del Tommasi, del Barbaro e del Filelfo; la
guerra finì soltanto con la partenza del Poggio da Roma.

377. Il Poggio lasciò Roma nel 1453, nel quale anno fu chiamato a
reggere la cancelleria fiorentina in sostituzione del morto Marsuppini.
E da Firenze non interruppe mai la sua corrispondenza amichevole con
Guarino, a cui chiedeva saggio della traduzione di Strabone e gli
mandava libri per il figlio Battista. Ci fu una piccola nube per una
falsa voce giunta all'orecchio del Poggio sul conto di Guarino e del
Perotti; ma fu tosto dissipata. «Scusami, o Guarino, se per poco ho
alimentato quel sospetto contro di te; la tua lealtà m'era ben nota».
E non diceva per complimento, giacchè nel 1456 trattava con lui per
mandare alla sua scuola in Ferrara i propri figli; «qui a Firenze,
caro Guarino, i figli non li può mandare a scuola chi vuol farli
educare a principii di sana moralità; perciò li affido a te». Stupenda
invidiabile gloriosa testimonianza di fiducia e di affetto, la quale
compendia tutto un mezzo secolo di una operosità didattica mai venuta
meno allo scopo, e di una amicizia che non ha riscontri in quell'età.

378. Nell'ottobre 1459 morì a Firenze il Poggio. Dei grandi campioni
dell'umanismo nati negli ultimi decenni del secolo precedente
erano rimasti a lungo superstiti il Poggio e Guarino; ora restava
Guarino solo. L'Aurispa, astro minore, due anni più vecchio di lui,
strascicava alla meglio la sua decrepitezza in Ferrara. Nel decembre
del 1459 l'Aurispa seppe che si era sparsa la falsa voce della sua
morte; egli ne rise, ma poco dopo, nei primi mesi del 1460, la morte
venne davvero. Al mancar d'ogni parente, d'ogni amico Guarino soleva
scorgere un ammonimento della brevità della sua vita, un'avvertenza a
tenersi pronto per il gran passo; ma nessuna morte deve averlo messo
sull'avviso come quella del Poggio e dell'Aurispa. Gli erano premorti
di pochi anni la moglie e i due figli Niccolò e Girolamo, entrambi nel
fior dell'età; egli era sugli ottantasette: poco più poteva tardare
anche la sua chiamata.

379. E infatti nei primi di decembre del 1460 ammalò di pleurite. Il
giorno 4 sentendosi prossima la fine, si munì dei conforti religiosi
e dettò il testamento: lasciava alle due figlie maritate le doti già
costituite, alle due figlie nubili e alla orfana di Girolamo 800 lire
per ciascuna; ad Agostino la casetta paterna in Verona e alcune terre;
a Manuele una parte della casa in Ferrara; a Gregorio la villa di
Montorio, alcune terre e un molino; a Leonello la casa di Valpolicella;
a Battista la casa grande in Verona. Quel giorno stesso circondato
e baciato dagli amici e dai figli, benedicendoli come Giacobbe,
placidamente spirò.

380. Il trasporto della salma provocò un piccolo tumulto. I rettori
dell'università si disputavano il primo posto nel corteo e la disputa
si incalorì tanto, che il feretro venne depositato e lasciato in mezzo
alla via. Allora Luigi Casella, scolaro dell'estinto, alzando gli
occhi ai cielo: «Vi ringrazio, o Signore, che avete permesso questo
scandalo per trarne un bene. L'onore di trasportare la salma doveva
essere riservato ai suoi scolari». E radunati altri allievi di Guarino,
quali Pietro Costabili, Niccolò Strozzi, Annibale Gonzaga, Francesco
Accolti, Pietro Marocelli, Francesco Forzati, si tolsero sulle spalle
il feretro e lo portarono alla sepoltura. Gli onori funebri gli furono
resi da un altro suo allievo. Luigi Carbone, il quale tessè al maestro
un entusiastico elogio, tratteggiando la sua vita, accennando le
varie residenze da lui occupate, nominando i più famosi suoi scolari,
esaltando le qualità del suo insegnamento e le sue virtù personali.

381. Il secondo giorno dopo la morte di Guarino, cioè il 6 decembre, il
Consiglio dei Savi con lodevole proposito gli sostituì nella cattedra
il figlio Battista, giudicato non inferiore al padre per abilità, virtù
ed eloquenza.

382. Nel novembre dell'anno seguente 1461 i figli di Guarino
presentarono un'istanza al marchese Borso per la erezione di un
monumento al padre. Borso nello stesso novembre diede parere favorevole
e il Consiglio dei Savi votò il monumento da erigersi nella chiesa dei
Carmelitani di San Paolo, alla sinistra dell'altare maggiore. Battista
comunicò la deliberazione al fratello Leonello, incaricandolo di far
preparare i marmi a Valpolicella. Il monumento fu costruito nel 1468.



INDICE DEI NOMI PROPRI NELLA VITA DI GUARINO

(i numeri indicano i paragrafi).


  A

  Accolti Francesco 376, 380.
  Adimari 88.
  Agasone Andrea 286, 287, 289.
  Agostino (Sant') 166, 333.
  Agostino (frate) 322.
  Albanzani (degli) Donato 66.
  Albergati Niccolò 185, 255.
  Alberti Leon Battista 264, 291.
  Alessandro Afrodisio 89.
  Alessandro (prete) 173.
  Alfonso e Valesio portoghesi 38, 56.
  Alighieri Dante 329.
     »      Leonardo 124.
  Alvaroto Antonio 13.
  Ancona (da) Ciriaco 335.
  Angiò (d') Renato 374.
  Annibale 259.
  Antonio (grammatico) 185.
  Apollonio Rodio 89.
  Apuleio 321.
  Aragona (d') Alfonso 242, 249, 252, 253, 320, 336, 364, 366,
                 367, 368, 376.
     »         Maria 336, 337, 366.
  Arezzo (d') Antonio 33.
  Ariosto Francesco 321.
  Arzignano (d') Giovanni 113, 183.
  Asconio Pediano 85, 86, 105, 148.
  Asino 284.
  Aurelio Marco 361.
  Aurispa 42, 88, 117, 172, 186, 187, 193, 198, 203, 216, 217,
            255, 257, 291, 364, 367, 370, 378.
  Avogari Galasio 238, 284.

  B

  Bagnacavallo (da) Guido 211.
  Balbi Giacomo 355.
  Bando Giacomo 202, 211.
     »  Pietro 211.
  Baratella Antonio 297.
  Barbadoro Girolamo 33, 87.
  Barbarigo Francesco 165.
  Barbaro (famiglia) 51.
  Barbaro Ermolao 37, 52, 87, 109, 110, 118, 131, 151, 154,
            156, 162, 164, 170, 279, 352.
     »    Francesco 26, 27, 37, 47, 48, 49, 50, 52, 56, 57,
            58, 60, 69, 70, 71, 73, 74, 75, 77, 78, 85, 87,
            88, 89, 94, 109, 110, 111, 117, 129, 131, 134,
            144, 148, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 158,
            162, 165, 168, 173, 182, 192, 240, 261, 263, 279,
            298, 301, 354, 355, 376.
     »    Maria 150.
     »    Paola 355.
     »    Zaccaria (vecchio) 26, 52, 56, 75, 94, 110.
     »    Zaccaria (giovane) 355.
  Barzizza Gasparino 4, 26, 37, 38, 39, 43, 48, 51, 53, 55, 56,
             57, 64, 66, 67, 71, 77, 81, 86, 87, 91, 105, 113,
             148, 153, 180, 181, 183, 215, 243, 297, 320.
     »     Guiniforte 358.
  Basilio (San) 89, 291, 333.
  Basini Basinio 313, 356, 357.
  Becchetti Giacomo 181.
  Bendidio Filippo 224.
  Bentivoglio Santi 361, 363.
  Benvenuti Lorenzo 41, 167.
  Benzi Soccino 294.
  Bessarione 291, 361, 362.
  Bevilacqua Battista 56, 177.
     »       Giorgio 279.
  Biondo Flavio 113, 115, 129, 153, 154, 162, 163, 164, 165,
           176, 177, 178, 195, 198, 216, 264, 265, 266, 267,
           271, 291.
  Bissaro Matteo 161.
  Boccaccio Giovanni 329.
  Boccamaiori (de') Brandelisio 221.
  Boiardi (famiglia) 213, 286.
  Boiardi Feltrino 181, 194, 256, 269, 294, 321.
  Boninsegni 33, 87.
  Borghi Damiano 124, 205, 279, 285, 353.
     »   Eusebio 279.
     »   Tobia 284, 356, 357.
  Borromeo Antonio 279.
  Boscoli Giovanni 170, 172.
  Bossi Francesco 243.
     »  Matteo 361, 363.
  Bracco Francesco 56, 68.
  Brenzoni Bartolomeo 96, 97, 102, 138, 150, 205.
     »     Francesco 178.
     »     Niccolò 64.
  Brescia (da) Antonio 197, 200, 201.
  Broglio Tebaldo 12.
  Brugnara 135.
  Bruni Leonardo 14, 30, 31, 32, 37, 42, 49, 74, 80, 81, 82,
          88, 169, 170, 173, 181, 192, 257, 264, 265, 266, 267,
          268, 269, 271, 272.

  C

  Calefini Guglielmo 312.
  Calisto III 375.
  Cambiatore Tommaso 13, 14, 181, 205.
  Camozzi Filippo 131.
  Campesano Marco 172.
  Capodiferro Antonio 37.
  Cappelli 218.
  Capra Bartolomeo 30, 80, 162, 177, 178, 179, 181, 183.
  Capranica Domenico 177, 255.
  Capro 85.
  Caravello Marino 30.
  Carbone Lodovico 215, 317, 380.
  Carmagnola (conte di) Francesco 108, 138, 139, 177, 250, 251,
               287, 288.
  Caronda 80, 82 (correggi Teronda).
  Carpi Alberto 321.
  Carrara (da) Francesco 1.
     »         Giacomo 7.
  Casalorsi Antonio 154.
  Casati 179.
  Casella Lodovico 345, 380.
  Castelnovo (da) Giovanni 164.
  Castiglionchio (da) Lapo 291.
  Castiglioni Branda 53, 86.
     »        Guarnerio 181.
  Catone 328.
  Cattaneo Domenico 124.
     »     Luigi 3, 34, 37, 124.
  Catullo 359.
  Cavalli Lodovico 69, 103.
  Celso Cornelio 191.
  Cesare Giulio 234, 259, 260, 262, 328.
  Cicerone 83, 86, 87, 88, 106, 113, 153, 162, 174, 175, 180,
             183, 191, 195, 296, 328.
  Cipriano (frate) 361.
  Cipro (da) Filippo 56, 87.
  Coadi Giovanni 194.
  Cola di Rienzo 10.
  Concoreggio Antonio 115, 121.
  Condulmier Gabriele 185.
  Contarini Niccolò 37.
  Contrari Uguccione 65, 66, 321.
  Corbinelli Angelo 33, 49, 170.
     »       Antonio 33, 40, 49, 87, 94, 173.
  Corner 56.
  Cornuto 358.
  Corradini Giannino 59, 69.
  Correggio (conte di) Galasso 14, 181.
  Correr Gregorio 285.
  Corvini Giovanni 179, 180, 183.
  Costabili Alberto 321.
     »      Margherita 342.
     »      Pietro 380.
  Cremona (da) Benedetto 137.
  Crisolora Giovanni 23, 64, 117.
     »      Manuele 2, 15, 16, 17, 18, 20, 21, 22, 23, 25, 29,
              31, 34, 35, 42, 48, 50, 51, 53, 56, 62, 63, 64,
              68, 73, 80, 81, 88, 117, 161, 181, 346-348.
  Cristoforo Vicentino 61.
  Cusa (da) Niccolò 191.
  Czepes Elia 313.

  D

  Decembrio Angelo 269, 319, 320.
     »      Pier Candido 14, 18, 181, 182, 183, 250, 251, 259.
     »      Uberto 18, 181.
  Demetrio Cidonio 29.
  Demostene 88.
  Diogene 89.
  Donati 51.
  Donati Ermolao 131, 162, 164.
  Donati Girolamo 3,
     »   Pietro 37, 38, 56.
  Donato Elio 257, 326.
  Dotti Niccolò 161.

  E

  Elia Ugolino 194, 197, 210.
  Erodoto 191.
  Esopo 110, 170.
  Este (d') Beatrice 340, 344.
     »      Borso 218, 336, 340-345, 346, 359, 382.
     »      Giovanni 200.
     »      Isotta 337.
     »      Leonello 218, 222, 226, 236, 239, 254, 256, 260,
              261, 269, 273, 276, 281, 286, 289, 294, 295, 296,
              306, 308, 309, 319, 320, 322, 325, 335, 336, 337,
              338, 339, 346, 356, 358, 366.
     »      Meliaduce 195, 198, 216, 217, 255, 256.
     »      Niccolò 65, 66, 141, 142, 214, 216, 218, 221, 240,
              251, 286, 305, 306, 307, 321.
     »      Niccolò (figlio di Leonello) 338.
     »      Parisina 195.
     »      Taddeo 298.
  Eugenio IV 254, 256, 290, 291, 369.
  Eutichio 85.

  F

  Fabris Giacomo 64.
  Faccio (Fazio) Bartolomeo 218,  369.
  Facino Niccolò 7.
  Faella Vitaliano 118, 119, 124, 135.
  Faenza (signore di) Guidantonio 336.
  Fano Tommaso 98, 205, 238, 284.
  Federico III 340-342.
  Feltre (da) Vittorino 53, 57, 75, 107, 175, 215, 218, 227,
                231, 356, 359.
  Ferrari Cecilia 147, 245.
     »    Lodovico 148, 245, 246, 254.
  Festo 84.
  Fieschi Carlo 181.
  Filelfo Francesco 42, 57, 117, 157, 158, 193, 198, 257, 271,
            272, 341, 344, 345, 359, 373, 376.
  Filetico Marino 359.
  Filostrato 88.
  Fiocchi Andrea 264.
  Floro Valerio 61, 78.
  Fortini Paolo 33.
  Forzati Francesco 380.
  Foscari Francesco 114, 145, 279.
     »    Giacomo 279, 280, 281.
  Francaciani 161.

  G

  Gaza Teodoro 309, 356.
  Gellio 179, 180, 195, 328.
  Genovesi Bartolomeo 118, 124, 135.
  Gioseppi Bartolomea 147.
     »     Costantino 147.
     »     Pietrobono 147.
  Giovanni (cavalier greco) 29.
  Giovanni XXIII 34, 35, 50, 79, 80, 81.
  Giovenale 328.
  Girolamo (San) 333.
  Giuliani Andrea 56, 60, 63, 64, 68, 69, 77, 81, 109, 131,
             155, 174, 299, 347.
     »     Paolo 69.
  Giuliari Cesare 34, 37.
  Giustinian Bernardo 118, 149, 154, 300, 355.
     »       Leonardo 56, 60, 69, 73, 77, 89, 117, 118, 134,
               149, 152, 153, 154, 155, 156, 299, 300.
     »       Lorenzo 134.
     »       Orsato 301.
  Giustino 171.
  Gonzaga Annibale 380.
     »    Carlo 227, 354.
     »    Gianfrancesco 107.
     »    Lodovico 175.
     »    Margherita 222, 227, 294.
  Gregorio XII 78, 79.
  Grisostomo Giovanni 88, 279.
  Gualdo Girolamo 56, 58, 60, 73, 74, 105, 112, 148, 161, 162,
           164, 166, 167, 168.
  Gualengo Giovanni 321.
  Guantieri Paolo Filippo 219.
  Guarini (dei) Bartolomeo 1.
     »          Battista 312, 313, 342, 347, 348, 349, 351,
                  352, 359, 360, 379, 381, 382.
     »          Esopo Agostino 115, 137, 208, 349, 379.
     »          Fiordimiglia 312.
     »          Girolamo 112, 137, 164, 214, 249, 275, 284,
                  300, 302, 336, 347, 348, 349, 356, 364, 365,
                  366, 367, 368, 369, 370, 378, 379.
     »          Gregorio 135, 208, 349, 351, 354, 379. Antonia
                  sua moglie 354.
     »          Leonello 349, 351, 379, 382.
     »          Libera (madre di Guarino) 1, 206, 238.
     »          Libera (figlia di Guarino) 214, 312.
  Guarini Lorenzo 1.
     »    Manuele 128, 152, 208, 343, 347, 348, 349, 361, 370,
            379.
     »    Niccolò 4, 136, 208, 347, 349, 351, 354, 378.
     »    Taddea 104, 147, 150, 197, 209, 214, 312, 378.
  Guarino (San) 361.
     »    Nascita, primi anni e primi studi 1-20. A
            Costantinopoli 21-32. A Firenze: sue relazioni
            interne ed esterne 33-45. A Venezia: sue relazioni
            interne ed esterne 46-95. A Verona: sue relazioni
            interne 96-145; relazioni esterne 146-199. A
            Ferrara, primo quinquennio: sue relazioni interne
            200-236; relazioni esterne 237-272. A Ferrara,
            secondo quinquennio: sue relazioni interne ed
            esterne 273-304. A Ferrara, ultimo ventennio:
            relazioni interne 305-350; relazioni esterne
            351-378. Sua morte 379-382.
  Guasco Bartolomeo 192.
  Guasconi Biagio 33, 72, 80.
  Guglielmi 87.
  Guidalotti Alberto 69.
  Guidotti 124.

  I

  Ildebrandi Berto 185.
  Isidoro Ruteno 373.

  L

  Lamola Giovanni 96, 97, 105, 132, 183, 184, 189, 191, 192,
           218, 225, 256.
  Laudi Silvestro 353.
  Landriani Gerardo 113, 181, 183.
  Lattanzio 85, 88, 224.
  Lavagnola Giacomo 114, 119, 120, 279.
  Lelia 318.
  Leonardi Niccolò 72, 78, 355.
  Leoniceno Ogniben 279.
  Lino (frate) 317.
  Lippomano Marco 37.
  Livio 88, 348.
  Lombardi 238.
  Loredan Giorgio 111, 150, 161.
     »    Pietro 176, 177.
  Loschi Antonio 7, 13, 30, 61, 80, 81, 181, 189, 249, 255,
           264, 266.
     »   Niccolò 249.
  Lucia 318.
  Luciano 26, 291, 357.
  Lucrezio 85, 86.
  Luni (da) Giovanni 185.

  M

  Maccagnino 335.
  Macrobio 179, 180, 183, 328.
  Maffei Paolo 37, 221.
  Maggi 2, 92, 93, 96, 97, 104, 113, 119, 123, 124, 125, 135,
          150, 179, 205, 238.
  Mainenti Bartolomeo 68.
     »     Scipione 258, 259, 291.
  Malaspina 53.
     »      Antonio 173.
  Malatesta Carlo 36, 78, 79, 108.
     »      Gismondo 336, 356, 357, 359.
     »      Pandolfo 7, 108, 139.
     »      signor di Cesena 336.
  Malipiero Niccolò 176.
  Manfrin 115.
  Manilio 85.
  Marcellino 85.
  Marcello Antonio 374.
     »     Niccolò 352.
     »     Nonio 83, 85, 86.
  Marinis (de) Pileo 181.
  Marocelli Pietro 380.
  Marrasio Giovanni 218, 223 bis.
  Marsuppini Carlo 87, 110, 257, 264, 377.
  Martiis (de) Biagio e Domenico 211.
  Martino V 79, 177, 178.
  Marzagaia 6.
  Marzio Galeotto 313, 314.
  Mazzolati Ugo 67, 68, 153, 195, 196, 216.
  Medici (de') Cosimo 49, 181, 256.
     »         Lorenzo 49, 69, 72, 181, 254.
  Mella Bartolomeo 66.
  Mercanti Lodovico 96, 102, 284.
  Miani Pietro 30.
  Micheli Giovanni 37.
  Migliorati Lodovico 108, 144.
  Monaco Lorenzo 74.
  Montagna Agostino 205.
  Montefeltro (da) Federico 359.
     »             Oddantonio 336, 337.
  Montepulciano (da) Bartolomeo 30, 78, 80, 82, 84.
  Montone (da) Braccio 226, 240.
  Morelli Luigi 200, 202, 211.
  Morroni Tommaso 321.

  N

  Nicandro 89.
  Niccoli Niccolò 32, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 87, 88, 110,
            167, 170, 172, 173, 181, 192, 234, 254, 256, 257.
  Niccolò V 369, 370, 371, 372, 373, 374, 375.
  Nichesola (della) Galesio 87, 174.
  Nogarola Angela 6, 7, 277.
     »     Bartolomea 279.
     »     Giovanni 6, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 37, 277.
     »     Isotta e Ginevra 6, 276, 277, 278, 279, 284, 285.
     »     Isotta 132, 281, 282, 283, 358.
     »     Leonardo 12.
  Nori Mariotto 118, 124, 135, 168, 170, 171, 172, 198.
  Nuvoloni Carlo 321.

  O

  Omero 367.
  Omodei Giovanni 183.
  Ordelaffi 153.
  Orgian Matteo 7.
  Orsi (degli) Roberto 313.
  Orsini Giordano 191, 254.
  Orsola 318.
  Ottobelli Zeno 98, 205, 238, 284, 347, 353.
  Ovidio 328.

  P

  Palamede 323.
  Paleologo Giovanni 117, 291.
  Pannonio Giano 311-318, 341, 355.
  Panormita 187, 188, 189, 190, 191, 192, 198, 203, 215, 224,
              225, 241, 242, 243, 244, 245, 246, 247, 248,
              250, 251, 252, 253, 318, 364, 369.
  Paolinis (de) Paolo 2, 54, 87, 92.
  Paolo 317.
  Parentucelli Tommaso 185, 371.
  Parma Cristoforo 56, 68, 92, 93, 149, 155, 161.
  Pasi 112.
  Pellegrini Bartolomeo 96, 103, 150.
  Pelliccioni Filippo 210, 223.
  Pendaglia Bartolomeo 342.
  Perotti Niccolò 377.
  Petrarca Francesco 1, 7, 8, 10, 11, 15, 16, 259, 329.
  Philargis Pietro 18.
  Piccinino Niccolò 138, 298, 301.
  Pierucci Andreozzo 185.
  Piglio (da) Benedetto 80.
  Pigna (della) Guglielmo 4, 37, 64.
  Pinotti 14.
  Pio II 340, 343.
  Pirondoli Niccolò 67, 72, 194, 210, 211, 269.
  Pisanello 291.
  Pisani Bianca 150.
     »   Francesco 150.
     »   Ugolino 324.
  Pisoni 96, 97, 103.
  Pistoia (da) Zomino 80.
  Pittato Federico 95.
  Pizolpasso Francesco 243.
  Platone 18, 88, 222.
  Plauto 234, 237, 253, 254, 284.
  Pletone Gemisto 291.
  Plinio il giovine 89, 101, 162, 178, 328, 367.
     »   il vecchio 234, 328.
  Plutarco 26, 68, 73, 77, 120, 135, 222, 234, 240, 286, 335.
  Poggio 30, 58, 62, 72, 75, 78, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86,
           88, 117, 152, 173, 189, 249, 254, 255, 258, 259,
           260, 261, 262, 263, 264, 291, 347, 375, 376, 377,
           378.
  Polenta (da) Obizzo 221.
  Polentino Lodovico 96, 103.
  Polenton Sicco 3, 297.
  Policarpo Giorgio 313.
  Poliziano Angelo 43.
  Pontano Gioviano 369.
     »    Tommaso 114, 185.
  Porcelli 291, 356, 357.
  Praga (da) Girolamo 75.
  Prato (da) Giovanni 109, 331, 332, 333, 334.
  Prendilacqua Francesco 359.
  Prisciano 85, 192.
  Probo 85.
  Puggi Luigi 369.

  Q

  Quintiliano 85, 86, 105, 148, 328, 367.
  Quinto Antonio 112.
  Quirini Giovanni 26.

  R

  Raimondi Cosimo 113, 183.
  Rasponi Paolo 207.
  Ravenna (da) Giovanni professore a Padova 3, 4, 48, 51.
     »         professore a Firenze 48.
  Regini Filippo 173, 178.
     »   Paolo 289.
  Regno (del) Bartolomeo 80.
  Resti Giona 56, 149.
     »  Lazarino 56.
  Rho (da) Antonio 181, 188, 367.
  Ricci Zanino 181.
  Rimini (da) Andrea 185.
  Rinucci 185.
  Rinuccio 317.
  Rizzoni Martino 132, 134, 136, 156, 192, 193, 277, 278, 284.
  Roberto (frate) 317.
  Rossi Roberto 33, 40, 49.
  Rustici Cencio 30, 62, 72, 80, 84, 85, 249, 255, 264, 291.

  S

  Sabbioni Cristoforo 115.
  Sacco Catone 243.
  Sacrati Salomone 312.
  Sagundino Niccolò 291.
  Sale (della) Alberto 65, 194, 256.
  Salerno Giannicola 2, 8, 12, 13, 64, 73, 87, 119, 124, 134,
            156, 169, 173, 184.
  Salerno (principe di) 336.
  Saliceto (da) Bartolomeo 66.
  Sallustio 327.
  Salutati Coluccio 16, 329.
  Sambonifacio (conte di) Lodovico 66, 240, 293, 297.
  Sardi Leonello 321.
  Sarteano (da) Alberto 109, 110, 152, 170, 224, 258, 330,
                  331, 332.
  Scala (della) Antonio 1.
  Scala santa 88.
  Scipione Africano 259, 260.
  Scola (della) Ogniben 3, 37, 39, 181.
  Seneca 328.
  Seneca Tommaso 356, 357.
  Senofonte 88, 89, 352, 356, 361, 376.
  Serego Cortesia 1.
  Servio 171, 326, 374.
  Settimio Lucio 85.
  Sforza Francesco 302, 341, 344, 358.
     »   Galeazzo Maria 341.
     »   Tristano 340, 344.
  Siena (da) Bernardino 109, 134, 152, 338.
  Sigismondo imperatore 80, 222, 247.
  Silio Italico 85.
  Silvia 318.
  Simone 313.
  Spezia Federico 194.
  Spilimbergo (da) Giovanni 147, 237.
  Spolverini 115.
  Stella Giovanni 181.
  Strabone 372, 373, 374, 377.
  Strozzi Lorenzo 213.
     »    Niccolò 213, 321, 380.
     »    Palla 33, 40, 49, 87, 170, 256.
     »    Roberto 213.
     »    Tito 213, 321, 322, 323.
  Svetonio 195.

  T

  Tecla 318.
  Tedeschi Lelio 194.
     »     Stefano 194, 205, 214.
  Tegliacci Gabriele 300.
     »      Giovanni 132, 156, 192, 278.
  Terenzio 326, 331, 333.
  Tertulliano 85.
  Timoteo (frate) 109, 361, 362, 363.
  Tommasi Pietro 154, 158, 161, 376.
  Torre (della) Giacomo 294.
  Tortelli Giovanni 373, 375.
  Toscanella Giovanni 33, 185, 218.
  Traversari Ambrogio 33, 49, 73, 87, 88, 89, 110, 167, 170,
               180, 254, 257, 291.
  Trebisonda (da) Giorgio 57, 158, 159, 160, 161, 287, 288,
               289, 290.
  Trevisan Zaccaria 28, 30, 70.
  Tribraco Gaspare 14.
  Trogo 88.
  Tucidide 88.
  Tussignano (da) Giovanni 221.

  U

  Ubaldini Ottaviano 359.

  V

  Valerio Flacco 85.
  Valla Lorenzo 215, 243, 244, 248, 249, 329, 364, 367, 368,
          369, 376.
  Varano (da) Costanza 358.
     »        Rodolfo 336, 358.
  Vegezio 84.
  Vegio Maffeo 243, 297.
  Vergerio Pier Paolo 3, 62, 66, 72, 78, 80.
  Vergilio 14, 205, 326.
  Verità (famiglia) 96, 97, 150.
  Verità Antonio 206.
     »   Giacomo 103.
  Verme (dal) (famiglia) 240.
  Verme (dal) Gregorio 12.
  Vettori Daniele 56, 144.
  Visconti Bernabò 302.
     »     Bianca 302, 358.
     »     Filippo Maria 138, 139, 153, 180, 181, 247, 259,
             302, 358.
     »     Giangaleazzo 7, 18, 20, 302.
     »     Giovanni 302.
  Vitez Giovanni 311.
  Vitruvio 85.

  Z

  Zabarella Francesco 30, 31, 37, 58, 72, 78, 80, 81.
  Zambeccari Cambio 181, 183, 250.
  Zancari Alberto 184, 192, 198.
  Zane Marco 355.
     » Paolo 3, 22, 25, 51.
  Zen Carlo 69, 77.
  Zendrata Battista 98, 104, 115, 121, 124, 125, 127, 204, 206,
             238, 303.
     »     Lodovico 284, 303.
     »     Niccolò 93.
     »     Taddea 93.
  Zendrata (suocera di Guarino) 130.
  Zilioli Bonaventura 133, 197, 200.
     »    Caterina (moglie di Ziliolo) 214.
     »    Ferrara 201.
     »    Giacomo 67, 133, 140, 141, 171, 172, 179, 195, 197,
            198, 200, 210, 211, 219, 220.
     »    Paolo 133, 179, 200, 201, 202, 210, 211.
     »    Teodora 210, 288.
     »    Ziliolo 197, 210, 211, 214, 219, 220, 254, 255.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Al paragrafo 268 è stata
usata la forma [=eci] in _c[=eci]di_ per indicare la sopralineatura del
testo.





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