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Title: Della guerra nazionale d'insurrezione per bande, applicata all'Italia - Trattato dedicato ai buoni Italiani da un amico del Paese
Author: Jorioz, Carlo Bianco di St.
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Della guerra nazionale d'insurrezione per bande, applicata all'Italia - Trattato dedicato ai buoni Italiani da un amico del Paese" ***


Maria Caglieris, Barbara Magni and the Online Distributed
produced from images generously made available by Biblioteca
Nazionale Braidense - Milano)



                                 DELLA
                            GUERRA NAZIONALE
                             D'INSURREZIONE
                               PER BANDE,

                         APPLICATA ALL'ITALIA.


                                TRATTATO
                      Dedicato ai buoni Italiani.

                                   DA
                          UN AMICO DEL PAESE.


                           Quousque tandem ignorabitis vires vestras!

                                            TIT. LIV. Dec. 1, lib. 6.


                              PARTE PRIMA.


                                   *


                                ITALIA
                                 1830.



Dedicatoria AGL'ITALIANI.


Da tirannico veleno travagliati, da gotica pestifera infezione
ammorbati, le vostre già robuste membra per effetto suo accasciate,
dalle gherminelle dello straniero, che nel vedervi patire gioisce,
accalappiati; voi nel lordume della servitù, della vergogna, del
disonore, fra pene e gemiti, la vita da secoli trascinate.

Eccovi un possente efficace, alessifarmaco frutto d'indefesso pensiero,
profonda meditazione, e lunga esperienza, il cui effetto sarà senza
dubbio infallibile, se con ferma risoluzione voi lo inghiottirete, ma
per ismaltirlo, una volontà decisa, ed uno stomaco forte si esigono.

Se voi quegl'Italiani siete, cui venne dal nostro sommo Alfieri il
Bruto dedicato, di mettere senza indugio questa italica panacea in uso,
punto non dubbiarete.

Se poi di stomaco debole, cui l'acutissima sua fragranza ripugni,
vi sentite; in quella fogna, quai rettili fangosi, a dibattervi nel
loto della torpitudine continuate; e quali or siete, il zimbello
de' tiranni, lo scherno degli stranieri, il vitupero delle genti
perpetuamente rimanete.

  State sani.

                                                            L'AUTORE.



PROTESTA DELL'AUTORE.


Abbenchè arduo, e spinoso intraprendimento quello venga reputato di
dare alla luce un trattato politico-militare, materia già da tanti
famosissimi scrittori, sulle cose di guerra, supposta per ogni verso
esaurita; ciò non pertanto incitato dalle grandi sciagure cui va, pur
troppo, l'amatissima e dolente patria mia soggetta, quell'amabile terra
cui come ben dice il nostro Foscolo, nè la barbarie de' Goti, nè le
animosità provinciali, nè le devastazioni di tanti eserciti spensero
nelle sue aure quel fuoco immortale che animò gli Etruschi ed i Latini,
mi decisi con animo risoluto ad intraprendere un lavoro, di metter mano
al quale, scrittore non alcuno aveva peranco in Italia pensato, e che
deve al mio parere di grandissima utilità per ammarginar le inasprite
sue piaghe, considerarsi, e qual salutifero balsamo servire.

Nè desiderio di lucro, nè odio personale, nè smania di dottrinale
rinomanza, nè alcuna particolare veduta pel tempo presente ed avvenire,
mi mossero a tale determinazione: ma l'ardentissimo ed inalterabile
amore del paese che nel mio cuore di continuo avvampa, e che ogn'altra
passione in comparazione sua divenuta volgare, assottiglia ed annienta.

Eccoti, o benevolo lettore, il primo saggio da me dato alle stampe:
sarà oggetto di grave censura, di avvelenata critica, di pungenti
ed amari sarcasmi, di rabbiose invettive, fors'anche di segreta ed
eccedente vendetta, cose tutte che potrebbero far tremar le vene ed i
polsi a chiunque per tutt'altro, che pel puro amor di patria prendesse
a scrivere; ma non colui che senz'altre mire ad indicare s'accigne
ai suoi compatrioti gl'adeguati mezzi per giungere all'appice della
gloria, della prosperità, e della grandezza! Mi sarà da tutte le
accademie, dalla loquace congerie di tutti i letterati, e rettori,
grammatici, pedanti, gramuffastronzoli, sersaccenti, e salamistri,
tanto rispetto alla purità della lingua, alla chiarezza delle idee,
alla concisione dello stile, quanto al sugo dei concetti, alla
proprietà delle frasi, bandita la croce addosso; mi rimprovereranno,
mi calunnieranno, lacereranno il mio nome, perseguiteranno la mia
persona e forse avverrà che armato del sanguinolento coltello de'
tiranni, sarà un qualche sicario per passarmi il cuore; io non pavento:
la coscienza della purità delle mie intenzioni tranquilla il mio
cuore; l'amore della mia patria mi rende qualunque maggior rischio
disprezzevole; chi tutto è consagrato all'Italia, non allibbisce ai
pericoli, ma con dolcissimo piacere pel bene di quella gli affronta; ai
pedanti arrabbiati non bado; perchè di essere ammesso nella repubblica
letteraria non mai pretesi nè pretendo; non scrissi per quella meta;
non composi un opera di letteratura, nè per acquistar fama d'erudito;
ma solo dalla perfetta conoscenza, della necessità in che si trova
l'afflitta Italia d'un sollecito, ed intiero cambiamento di sistema
eccitato, non meno che dalla certezza ch'ella possiede in se tutti
gl'opportuni mezzi per riescir vittoriosa convinto, ai precetti dettati
dalla mia esperienza, e meditazione accozzai quanto in molti libri e
nelle conversazioni con esperimentati duci che luminosi allori nella
guerra d'insurrezione per bande riportarono e nella famigliar pratica
di profondi statisti potei di vantaggioso al mio sistema rinvenire;
e ne feci un breve ma importante manuale di rigenerazione italiana;
gracchiate pedanti, gridate al plagio, al sacrilegio, all'empietà!
scagliate l'anatema contro un trattato che deve alla dappocaggine
ripugnare, contro un autore che dice delle verità le quali non siete
usi a udire, che forse offendono il delicatissimo timpano delle
indebolite vostre orecchie? Ululate vilissimi prezzolati scrittori!
vi compiango e me ne rido, io non bramo di essere considerato come
autore, d'uopo è all'Italia, che la dottorale beretta, la cappa
magistrale, in elmi, ed usberghi si cambino, e si riposi la penna per
dar luogo al luccicare dei brandi; mi vergognerei di far parte della
vostra cicalante brigata; sono le vostre lingue con catenelle d'oro
dai tiranni avvinghiate o paralitiche per la paura; dalle vostre penne
bagnate nel fango, altro che sozzura non cola; pochissimi di voi osano
palesare apertamente la verità, e da quei pochissimi benemeriti, solo
una debolissima scintilla, del tutto incapace di accendere quel gran
fuoco di che tanto gl'Italiani abbisognano, appena, appena, traluce;
io non sono letterato, Dio me ne guardi; abborro i parolaj, ma ho
la fondata pretensione d'essere di tutti quei mercaparole venduti
ai tiranni, o contenuti dal timore assai da più; i miei concetti,
sì per mancanza di tempo, attesochè gl'avvenimenti politici europei
esigono che io al più presto pubblichi questo trattato, e lo dia al
torchio senza neppure correggerne lo stile, come per insufficienza di
magistero, poco essendo nelle grammatiche e scientifiche discipline
ammaestrato, non sono certamente dolci, limati, e conditi con miele,
ma un idea Italiana, forte, robusta, ed ardente racchiudono; se una
tal essenza in quelli per avventura non risplenderà, nè sarà la mia
penna da imputarsi che bastevolmente non seppe i miei pensamenti
esprimere o se pure chi lo legge, non possedendo un animo italiano ma
pur troppo afforestierato, non sentirà in se generare dalla sua lettura
quei violenti stimoli, quei sublimi impulsi, quei forti sentimenti
di muovere, i quali è principal mio intendimento non a mia colpa, ma
bensì a se stesso dovrà la sua inefficacia in questo caso attribuire.
Sì lo ripeto: io non pretendo di venir in fama di letterato; (non
dev'essere in oggi la gloria della penna sufficiente) ma solo quella,
con ragione ambisco, di valoroso cittadino italiano, accerrimo,
implacabile, dichiarato nemico dei nemici dell'amatissima mia patria,
di ardentissimo suo campione, di vero suo figlio.......... Scrissi
contro tutti i nemici d'Italia in qualsivoglia parte del mondo si
trovino, se mai parlando in generale, a confondere alcune volte buoni e
cattivi la mia penna trascorse, sappiasi che ogniqualvolta io parlai di
stranieri, di popoli, di stati, etc., io non intesi di tutte imputare
le unità formanti la nazione, ma solo i gabinetti, e le genti che a
quelli danno mano, e sostengono; è pur anche questa distinzione ai
Tedeschi applicabile contro i quali più degli altri mi scatenai perchè
lo meritano, ma che non si deve ai tanti buoni, sopratutto a molti
popoli della Magna, che nutrono le stesse nostre opinioni estendere;
parlai contro una gran parte d'Italiani con proposito determinato
di offenderli, sperando di poterli con quel mezzo a luminose imprese
stimolare, sarei contentissimo se con isdegnosaggine se l'arrecassero
a male, gemerei se come bestie fossero alle punture nella parte più
delicata dell'onore loro insensibili...... Offesi i tiranni perchè il
mio paese atrocemente offendono; potranno farmi del male, togliermi
di vita, ma sarà tardi; non potranno più impedire l'effetto de'
miei precetti, ed io spirerò contento per quella patria che adoro,
soddisfatto di aver detto agl'Italiani chiaramente la verità, e loro
insegnato il modo certo di rendersi uniti, liberi ed independenti.
Dante, oppresso dalle sciagure, e disagi dell'esilio, Machiavelli
martoriato dai tormenti della tortura, Galileo perseguitato dalla
spaventevole inquisizione, Sarpi sotto il ferro degl'assassini papali,
e tanti altri grandissimi ingegni del nostro tempo raminghi, e poveri,
grandi, ed infelici, mi servono d'illustre modello d'amor di patria,
di gloria del vero, ed accrescono nel mio cuore, per disprezzare i
pericoli, la necessaria costanza; e riandando le pagine conservatrici
alla nostra memoria delle sublimi e splendide azioni degl'avi, scorgo
che nel ritiro, nell'esilio, e con la morte aprironsi quei magnanimi,
a vera gloria il cammino, e se avviene che la voce della verità
per lo mio mezzo tonante in Italia, un prematuro fine m'apporti, la
lusinghiera idea da me voluttuosamente nutrita, che una volta disceso
nella fossa, le meste lagrime di ottimi, valorosi, incorrotti, ardenti,
e veri amici di quella patria, per cui caddi immolato si mescolino alle
mie ceneri, mi conforta e mi alletta; essendo questo il maggior tributo
che io dalle mie opere aspetti, e della perdita di mia vita, il più
dolce, il più gradevole, il meritato compenso.

                                                            L'AUTORE.



DISCORSO PRELIMINARE.

                            Liberate diuturna cura Italiam.
                            Extirpate has immanes belluas, quæ hominis
                            Præter faciem et vocem nihil habent.

                              MACHIAVELLI. _Lettere Familiari_, LXVIII.


Non meno disonorevoli che inumane per avventura, ed empie, parecchie
massime nel presente trattato contenute, potranno a cert'uni parere;
come tali eziandio crediamo, da considerarsi, sarebbero, se nelle
guerre tra re e re ben di rado nazionali, o tra nazione e nazione per
particolari convenienze, la loro pratica si proponesse; imperciocchè
non mettendosi in quelle la libertà, o la politica esistenza di
un popolo intero in forse, aver non debbono l'oppressione, o lo
sterminio di nessuna delle parti belligeranti per iscopo; ma quando
di una insurrezione nazionale si tratta, all'unione del paese, alla
sua indipendenza e libertà, diretta, per quei sacrosanti oggetti, i
più essenziali ed i più cari agli uomini dabbene, intrapresa, quando
quegl'inalienabili diritti, dallo straniero e dai tiranni nazionali
conculcati, si vogliano fermamente colla forza riprendere; allora
ben lungi di doversi con tali sozze denominazioni qualificare, si
debbono in conto di giuste non solo ma di sante, dagl'insorti popoli
tenere. Deve la santità del motivo rendere di niun valore qualunque
considerazione di onore, d'umanità e di religione che ad un fine così
sublime, così sacrosanto si opponga.

Nessun Italiano certamente non havvi, che di sufficiente raziocinio
e di un cuore sensibile dotato, non s'irriti.....: non frema.....
non s'adizzi, ogniqualvolta si faccia ad attentamente considerare la
triste, vergognosa e ributtante situazione politica e civile, a che
trovasi la sua patria ridotta! di quel paese, che al dir di Giovanni
Muller, nella sua storia universale, sembra dalla natura destinato
ad esser la sedia dell'impero del mondo; il quale, per mezzo delle
sue spiaggie, così soggiunge, che comode communicazioni con tutte
le parti della terra facilitavangli, poteva senza difficoltà la sua
preponderanza mantenere; mentrechè il mare e le Alpi servivangli di
baluardo; i porti d'Ostia, di Ravenna e di Misène tutte le sue imprese
politiche e commerciali agevolavangli, era la varietà del terreno
all'agricoltura ed all'educazione degl'armenti vantaggiosissima; la
lunga catena degl'Appennini, dava a ciascuna provincia i vantaggi delle
montagne ad un tempo, e delle pianure, e numerosi fiumi l'esportazione
di tutte le produzioni del paese favorivano. Situata l'Italia quasi in
mezzo al mondo civilizzato poteva facilmente tutti i popoli invigilare,
e la sua posizione la metteva in caso di poter le provincie lontane
dal centro dell'impero prontamente soccorrere; ma che! avremo noi
d'uopo di riandare quanto viene da stranieri scritto rispetto al nostro
paese? Non è a noi tutti per avventura ben noto che sopra un suolo
dalla natura prediletto viviamo? E che tutte le fraudi, tristizie, e
trappolerie dello straniero, e dei tiranni nostrali non pervennero,
come ne tengono in cuore il pravo progetto, per anco ad inaridire? In
poche parti della terra esiste un clima più temperato, più dolce, e
nessun altro in Europa viene da' fisiologi più atto, più favorevole
allo sviluppo delle fisiche e morali facoltà dell'uomo per esperienza
stimato; oppure, sopra una montuosa superficie di nove mila leghe
quadrate, nati sotto l'influenza di quel beato clima, giacciono inerti,
e pazienti sotto la verga che li flagella, venti millioni d'uomini,
in una perfetta nullità politica all'estero, e ributtante oppressione
interna? Null'altro all'Italia manca se non la sua unione in un corpo
solo di nazione, indipendenza, e libertà; all'eccezione di quelle tre
necessità essenzialissime la mancanza delle quali, quanto d'altro si
possede rende di niun valore, ella in se contiene tutte le delizie
nel paradiso terrestre figurate, in nessuna parte d'Europa la terra è
meglio, che in quella coltivata, nè sono le scienze, e le belle arti
così estese, e ad un più alto grado di perfezione portate; è la sua
spiaggia di bellissimi, capaci e sicurissimi porti di mare abbondevole,
incontransi ad ogni passo città magnifiche, campagne deliziose,
paesi abbondanti e piacevoli; quantità di maestosi fiumi, e canali
navigabili, molte non meno spaziose che comodissime strade cose tutte
al ben essere ed alla miglioranza generale del viver civile utilissime;
ubertosa terra di prospere granaglie, di delicatissimi erbaggi, e
squisitissimi frutti produttrice, di gagliardi e saporitissimi vini,
di finissim'oglio il migliore d'Europa, di cocciniglia, zuccaro
e tabacco (se un buon governo volesse curare la sua coltivazione)
germinatrice feconda; in modo pure, le patate, lino, canape, seta
soprabbondano da poterne ancora molti altri stati a dovizia provvedere;
boschi e foreste che il miglior legno di costruzione per edifizi e
bastimenti forniscono; possede cavalli svelti, sani, e robusti, e
dopo quelli di Spagna, e d'Inghilterra in bellezza, e forza i primi
preziosissimi e rari metalli di moltissime diverse specie, fra le quali
oro ed argento, trovansi nel seno delle nostre montagne contenuti;
il sal minerale, il sal marino, le curiosissime e doviziosissime
zolfatare, potrebbero un estesissimo commercio agevolmente civire, e
chi mai da quanto veniam di esporre crederebbe che i posseditori di
tanti beni sù cui natura di spargere a mani piene i suoi doni senza
intermissione compiacesi, farne un buon uso non sappiano; e quella
felicità cui dalla stessa sono destinati, si lascino dagli aggiramenti
ed incannate di una mano di rustici ribaldi ladroni, sugl'istessi
occhi loro sfacciatamente involare? Eppure così è, percorrasi da una
parte all'altra l'Italia, volgasi l'occhio alle principali sue isole,
lo stato in generale degli abitanti attentamente s'indaghi, e ben
tosto la maggior parte di quelli oppressa dalla miseria scorgerassi,
e l'intero numero degl'Italiani vedrassi per le sostenute sciagure
avvilito, per mal costume anneghittito, e reso dai perfidi governi,
a rea ignoranza, a detestabili vizj ed all'immoralità propenso;
divisa la penisola in dieci piccole parti, chiamate stati, una peggio
dell'altra dal potere assoluto di un papa, due re, duchi, e principi
etc. governate, che in fatti altro se non umilissimi, e paurosissimi,
prefetti del sospettoso, e rapace imperatore d'Austria non sono, le
cui crudelissime ingiunzioni a puntino e senza replica obbediscono,
ed alla lercia pungentissima sferza tedesca per la loro eccessiva
codardìa, stanno rispettosamente sottomessi, ma siccome vogliono poi
quei tirannelli la regia loro autorità, al solo potere circonscritta
di far sfortuna ai loro popoli, in qualche modo esercitare, piombano
con malignità e continua rabbia sopra i poveri disgraziati, che il
cattivo destino fece nascere loro sudditi, e per la loro insaziabile
ingordigia satollare, ad arbitrio di prepotenza bistrattano; le loro
ricchezze con tanti sudori e veglie ammassate rapiscono, e di quelle
onde con i corpi gli animi loro ammollire astutamente si servono;
laonde a corrompere, e viziare l'onestà e buoni costumi tengono la
mira, coll'intenzione di snervare in quel modo il loro coraggio; una
volta giunti a tale, i vizj diventano bisogni od almeno lo pajono,
e quelli a qualunque costo svegliano e fomentano l'idea del loro
soddisfacimento; ed ecco dal governo l'ismodato amor di se stesso in
ogni cuore per quanto gli fia possibile creato, e vezzeggiato, in
modo che trovasi ciascuno allettato a vivere per se non meno che a
ricavare il particolar suo utile in danno della massa dei cittadini,
quindi l'uomo assueffatto a non curarsi del discapito che può agli
altri concittadini ridondarne, in opposizione alle massime dei governi
liberi, dove ognuno di contribuire per sua parte al ben pubblico
reputasi a gloria, dimentico del suo dovere ad altro non pensa che a
servirsi degli altri onde a man salva i creduti bisogni profusamente
soddisfare. Il lusso, come il più sicuro, ed il più aggradevole mezzo
per tenere i sudditi nella servitù è portato dagl'italici despoti in
palma di mano; e col danaro dal cittadino annualmente pagato, che senza
darne il menomo conto spendono e spandono, la voglia dell'oro in tutti
i cuori fan nascere; imperciocchè con quello premiano le azioni che al
sostegno del loro potere credono vantaggiose e fanno l'oggetto della
publica considerazione tutto nel possedimento di ricchezze consistere;
qualunque altro mezzo di ricompensa, perchè potrebbe col tempo idee
forti e generose risvegliare che alla lunga metterebbero il trono
in rischio di essere rovesciato, paventano; epperciò il perno sul
quale tutta la macchina dello stato si aggira, è l'oro; ed i tiranni
la migliore e maggior parte della nazione spogliano per la minore
la più vile ma ligia al loro potere arricchirne; laonde con un ben
stabilito giro di moneta, con le tasse e col fisco fanno sempre una
più grande quantità di numerario in cassa rientrare, di quanta stata
sia da loro all'immoralità per lo stipendio del vizio e l'avvilimento
della virtù prodigata. Quale dunque non dovrà essere il cordoglio
di quell'Italiano, che il pagamento di tante pesantissime tasse pel
salario de' suoi carnefici seriamente consideri? Tutte ordinate dal
solo capriccio del despota, che nè delle fondiarie, nè dalla carta
bollata, nè di quelle sui mobili, sulle porte, e finestre, sul vino,
sui comestibili di ogni specie etc., nè di mantenere a suo conto,
il giuoco della lotteria pel quale migliaia di famiglie si rovinano
ed evvi il certo guadagno pel governo, non ancora soddisfatto, vende
pur anche per suo esclusivo profitto il tabacco, sale, e polvere da
schioppo ne stabilisce il prezzo a sua volontà, e con gravissime
pene quel cittadino che ne vendesse, o ne introducesse anche per
proprio uso, punisce; senza mai dare al popolo, quello che veramente
paga, il minimo ragguaglio sull'entrata, e sulle spese!..........
Massima giustissima, da chiunque un pò di senno racchiuda in capo
come necessaria riconosciuta, e solo dai vili che sono dal despota
corrotti, o da quei fanatici, che opinano essere un re signore della
vita e delle proprietà dei sudditi, rispinta, quella, sì è, da tutti
gl'Inglesi e dalla corona pur anche addottata, e bandita cioè: che
spetti un diritto inalienabile a qualsivoglia suddito inglese, ossia
libero uomo, o franco tenitore, come dicono essi, di non dare la sua
roba, se non per proprio consenso; la camera dei comuni sola avere il
diritto come rappresentante il popolo inglese, di concedere alla corona
la pecunia di esso; essere le tasse liberi doni del popolo, dovere i
principi usare l'autorità loro, e la pecunia del comune ad uso solo,
e benefizio di questo; quanto sian le massime che dirigono i tiranni
d'Italia, da quelle dell'Inghilterra differenti non v'ha certamente chi
nol riconosca; e perchè mai dovranno dunque i discendenti dei Romani
al godimento di quel diritto rinunziare, per compiacere i stranieri, ed
una mano di rabbiosi imbecilli che si valgono dell'ignoranza del medio
evo, e del barbarismo di quel tempo per fargli credere che obbedir
debbono, e tacere? I loro capricci e latrocinj secondare (imperciocchè
come furto dev'essere l'azione di prendere il danaro senza consenso di
chi lo possede, e spenderlo senza darne conto, da ognuno considerata);
e coi nomi poi di legittimità, di paternità, di eredità etc., titoli
il niun valore de' quali è ora mai già in tutto il mondo ed anche dai
più scimuniti conosciuto trar vogliono gl'Italiani nell'opinione, che a
loro soli, tutti i diritti appartengano, e nessuno al popolo! E perchè
mai dovran essere gl'Italiani da meno degl'Inglesi, degl'Americani,
dei Francesi, et degl'Olandesi? Sono forse quei popoli d'un altro limo
composti, che possano l'esercizio di certi diritti, il vantaggio di
certe prerogative, la felicità provegnente da un certo sistema godere,
a che noi nati nella bella Italia punto non siamo capaci? Saranno
per avventura quelle istituzioni così sublimi, così complicate, così
intralciate che all'italico genio, non meno a ben conoscerle che a
metterle in pratica non sia dato d'arrivare? No certamente; e tutti
ben sanno quei che lo vogliono sapere, che gl'Italiani, già illuminati
e liberi quando tutte le dette nazioni erano ancora tra folte tenebre
di supina ignoranza ravvolte, e nei ceppi della schiavitù contenute,
le quali se non molti secoli dopo, quando già stanchi gl'Italiani
di dominare il mondo, e di vivere in repubblica a sottrarsi al giogo
non pervennero, posseggano quanto e più degli altri l'intelligenza,
il genio, l'alacrità, la perspicacia necessaria onde capire la
complicazione di un sistema popolare di governo, qualità che non
saranno mai a quelle ben formate singolari teste, per essere mancanti.
Qual dunque sarà la cagione, che quei citati popoli godono il vantaggio
d'un governo migliore di quello degl'Italiani? Quali peculiari doti
sopra gli altri li distinguono? Quai meriti straordinarj mettono forse
in mostra? Eccone a vergogna d'Italia, le cagioni: prima d'ottenere
un libero sistema passarono quei popoli per la trafila di molti guai,
ebbero grandissimi urti a sostenere, ma li respinsero; ebbero per molti
anni a patire, sopportarono miserie, disagi, afflizioni, e fatiche, ma
sempre con quello scopo in mira punto non si disconfortarono, vollero
fermamente, ed alla fine ottenne la loro costanza il ben meritato
guiderdone; mentre in quell'epoche menzionate non ebbero gl'Italiani
meno miserie, meno fatiche, meno guai a sofferire, ma senz'animo, e
senz'amor di patria, da vituperevole avvilimento soprappresi, piuttosto
a piegare, che a cozzare disposti, non sostennero mai, non respinsero
gli urti, ed a servire di strumenti d'oppressione allo straniero contro
loro stessi, ed i proprj fratelli volonterosamente assoggettaronsi,
per quindi la rovina del paese, il disprezzo e vergogna per loro, e per
tutta l'italica nazione in funesta ricompensa riceverne.

Per non aver dunque avuto l'unione, l'independenza e la libertà del
loro paese per meta, quei conquistatori dell'antico mondo, quegli
scopritori del nuovo, che poi a stranieri lo regalarono, quelle
fervide menti cui l'uman genere va debitore d'averlo con le scienze,
e le belle arti dirozzato, ed illuminato, quel popolo che può tanto
impareggiabili antecedenti a giusto titolo vantare, eccolo tenuto
dagli stranieri in niun conto, come inetto e vile, come l'ultimo del
mondo! Imperciocchè per nulla nella politica europea bilancia è in
oggi calcolato, anzi come mancante della prima virtù cioè quella di
saper essere libero, ed indipendente, trovasi disprezzato e deriso. Il
paese come cloaca di vizj, come culla d'impostori, codardi, raggiratori
è riputato, che esser dicono un paradiso abitato da diavoli; e mal
non si appongono, perchè sotto la ferrea rugginosa verga di tristi e
paurosi tiranni, come inerti machine, come servi oziosi ed effeminati,
privi dell'esercizio di qual sisia di quei diritti che possono agli
uomini riuniti competere, trascinano gl'Italiani una ignominiosa,
disonorata esistenza dai vili che circondano i tiranni viemmaggiormente
amareggiata; imperciocchè, siccome al dir di Polibio, al libro
secondo, i re per lor natura, non hanno nè amici, nè inimici, e che
il solo interesse loro è la misura della loro affezione, o del loro
odio: e che la posizione in che si misero dal 1814 in quà, è senza
dubbio alla felicità dei sudditi affatto contraria, ne avviene, che
i soli per cui si dimostra in quegli stati, considerazione o stima
sono gli amici del re i quali altri non sono, che i malvagi, viziosi
o deboli, e geme la parte buona della nazione all'insolenza di questi
vituperevoli stromenti della tirannia vilmente sottoposta. Ci dice de
Comminis al capitolo 12, libro sesto: che Luigi XI aveva paura di tutti
gli uomini, e particolarmente di tutti coloro ch'erano degni di avere
qualche autorità: sono i tiranni, che in oggi con le sostanze nostre
le loro ingordigia satollano, altrettanti Luigi XI, anzi peggiori
cui si potrebbe senza timore di sbaglio il detto di Sallustio con
ragione applicare: _Regibus boni quam mali suspectiores sunt; semper
que his aliena virtus formidolosa est_: vale a dire che paventano più
i buoni, che i cattivi, e temono una virtù che non posseggono. Sono
tanti Tiberj, che come dice Tacito, al libro primo dei suoi annali, non
era un odio antico, ma le ricchezze, la destrezza, i talenti eguali
alla sua reputazione, che avvelenavano i sospetti di Tiberio contro
Arrunzio: sono però in oggi i quattro quinti del popolo italiano tanti
Arrunzi, rispetto ai nostri Tiberj, per la qual cosa sempre più cresce
l'inasprimento del loro cuore e fassi la loro tirannia progressivamente
maggiore: in modo tale trovasi maltrattata la povera Italia che
se lo stato d'altri paesi d'Europa potrà per avventura più, o meno
sopportabile parere, quello dei governi della nostra penisola dal tempo
in che il malvagio Castelreagh in seggio ripose gli antichi smaniosi
tiranni, è tanto derelitto, rovinato, e vile, tutto và così di male
in peggio, che l'indispensabile necessità d'un grande cambiamento, di
un ordine di cose affatto nuovo, fassi più che altrove sentire; già
ben lo scorgono i tiranni, ma vogliono illudersi, la credono ancora
bastevolmente lontana, e si lusingano di poter tutta la loro vita in
quell'atroce sistema continuare, lasciando poi ai successori la bisogna
di porre ai loro imbrogli rimedio; s'addormentarono fin ora sopra un
volcano, perdettero favorevoli occasioni di stabilire buoni ordini
pel publico vantaggio, abbandonandosi scioccamente al pensiero dal lor
pazzo modo di vedere le cose suggerito, che in accordando poi qualche
maestrato, più nominale ch'effettivo, quando già i popoli siansi
levati a romore, di poterli con simile treccheria in ogni tempo a lor
piacimento abbindolare, da tutto il mondo è in oggi quella tattica ben
conosciuta, e disprezzata; troppo tardi aspettarono; l'ora fatale del
rendimento de' conti, sta lì, lì, per suonare e se gl'Italiani vogliono
agir da uomini, e non come abbietti bigi orecchiuti animalon da soma,
tutti alla sprovvista li coglie, da non potere schivare il giusto
castigo dell'esecrande loro nequizie che nella loro partenza da questo
mondo consiste; imperciocchè non debbono gl'Italiani a quei mostri
mercede alcuna; e sarebbe pur loro delitto di lasciar quelle cagioni
di tanti pianti, di tanti disastri, e di tanta infamia, per quel paese,
dall'infezione del mostifero loro alito avvelenato, una vita criminale
tranquillamente godere.

La soverchia paura ed il detestabile reo talento di queste belve le
mantiene sempre in continua tensione ed attività, e da ciò ch'erano
prima della rivoluzione di Francia ben differenti divennero; gemevano
è vero in quel tempo sotto il giogo del poter assoluto i popoli, ma
era quello assai mite; andavano i dominanti dietro agli usi antichi,
cui erano pure i sudditi da secoli abituati; era la tirannia di quei
tempi figlia del momentaneo capriccio ed il quasi patriarcale sistema
del governo, con alquante buone azioni, che mitigavano il dispotismo
continuamente la interpolava. Ma quella dopo il congresso di Vienna
in Italia stabilita, è senza dubbio una vera tirannia sistematica,
estratta da quanto vi era di despotico nelle leggi di Napoleone, alla
crudele finezza, che distingueva gli italici governi del medio evo per
nostro danno congiunta; tutto quanto sì nella rivoluzione francese,
e nella repubblica come negli elementi dell'antica monarchia, e dei
vecchi rimasugli della gerarchia romana, nel tempo della tirannia
degl'imperatori vantaggioso al potere riconobbero, al governo assoluto
sfacciatamente appropriaronlo.

La formazione del costosissimo, arcitirannico, e numeroso corpo
de' carabinieri reali in Piemonte, pontificj in Roma, gendarmi in
Lombardia, e Napoli, è una fralle tante piaghe dal napoleonico governo
ereditate, che non solo molestissima ed oppressiva com'era conservossi,
ma con tutta la malizia, e l'astuzia propria dell'inquisizione
studiosamente raffinata. Quel corpo il cui solo scopo esser dovrebbe
la persecuzione, e l'arresto dei banditi, ed assassini di strada,
sparso in tanti separati drappelli a picciola distanza, in modo di
potersi al primo segnale in forza rispettabile riunire, è senza
dubbio il più tormentoso e funesto alla tranquillità, e felicità
degli onesti cittadini; ciascun soldato pieno di boria e con rozzi
modi esercita nei villaggi, borghi etc., il potere assoluto alla
grossolana sui poveri pacifici ed onesti cittadini; ciascun comandante
in quanto al poter di far male un piccolo sovrano; le varie separate
suddivisioni del distaccamento danno conto delle loro funestissime
operazioni al comandante che trovasi al centro, questi al colonnello,
ed al ministero, egli è incaricato non solo di avere minutissima
conoscenza del procedere apparente, od occulto di ogni cittadino, ma
bensì perfino negl'interni pensamenti del suo cuore penetrare; deve
tener registrate le opere di ciascuno, sì dei tempi scorsi, come
del presente, di più le supponibili per l'avvenire; tutto dev'essere
chiaramente notato, e ne deve una esatta generale relazione al governo
frequentemente rimettere. Può, in via economica, senza sottoporre a
regolar giudizio, ammonire, arrestare, carcerare, incatenare, chiunque
non sia nobile, militare, o prete; vi esiste finora un solo esempio che
una sua disposizione arbitraria stata sia dal governo disapprovata, od
annullata. Questo tirannico magistrato, colle armi in dosso, che le
tre qualità di accusatore, giudice, ed esecutore in se riunisce, il
quale molte volte sul solo sospetto o per capriccio accusa, giudica,
e punisce peggiore d'un vil boja, perchè questo non fa ch'eseguire
la legge, mentre quello ad un tempo solo è spione, falso accusatore,
giudice ingiusto, manigoldo grossolano, e giustiziere infame in
continuo esercizio delle sue abbominevoli funzioni da tutti giustamente
abborrito, e temuto, esercita sulla privata morale delle famiglie una
perniciosissima influenza. Imperciocchè siccome non può dare alle non
meno estese che complicate sue incumbenze con mezzi chiari, onesti, ed
aperti una immediata esecuzione, trovasi nella continua necessità di
adoperarne dei vili, disonesti, e turpi; laonde per sapere gli affari
da casa delle famiglie, i pensieri di ognuno di quelle calcolare, gli
è necessario di tenere uno stuolo di spie, d'agenti provocatori etc.,
giornalmente assoldati, per l'aumento di quali spende nella corruzione
della gioventù, danaro a larga mano, da coloro stessi che sono
l'oggetto della persecuzione, e che di continuo lavorano per soddisfare
quelle tasse che servono a ribadire i loro ferri, annualmente pagato;
nulla è da questa vituperevole classe di ribaldi tenuto in riverenza,
i sacrosanti legami della famiglia non sono punto da essi rispettati;
ed anzi ad indebolirli, ed a forza d'oro ingangrenarli sottilmente
si adoperano; perciocchè nessun miglior modo per conoscere i pensieri
di tutti potrebbero trovare: il segretaro, il servo, la cameriera, lo
staffiere etc., sono comprati a denari contanti, e vien loro il regalo
aumentato a misura che più negli affari dei padroni s'internano, e più
importanti cose disvelano; dimodo che per ricevere frequenti donativi,
quando non hanno che dire, quei servi corrotti s'inventano menzogne,
e l'innocente vittima delle loro delazioni, senz'avvedersene, a poco,
a poco atrocemente sagrificano. Per mezzo del giuoco, delle donne, e
della crapula, seducono i giovinotti e, spesso il figlio, a palesare
i segreti del proprio padre e degli altri parenti con doni e larghe
promesse dispongono! Ecco quel giovine imprudente, forse l'idolo dei
genitori, la consolazione dei parenti, la speranza della famiglia,
da quei furfanti, circondato, allettato, e sedotto! Eccolo divenuto
un traditore di quella, e fors'anche l'involontario assassino del
proprio padre!........ Usano questi boja-inquisitori al servizio dei
tiranni, arti finissime per trascinare la gioventù in gravi pericoli,
od imbrogli, dai quali poi, in certo modo salvando i giovani, li
mettono verso di loro in debito di gratitudine e di confidenza;
inducono un inesperto garzoncello ad ingolfarsi nei debiti, onde quei
vizi da loro nel suo tenero cuore innestati soddisfare; teme questo;
e di farne una sincera ed aperta confessione ai parenti, che forte
lo rampognerebbero, si vergogna; non sà dove dar la testa; ad altri
non gli convien di rivolgersi che al seduttore; profitta il birro di
questo bel momento, se lo rende grato, e debitore; rinnova parecchie
volte il saggio; e quando il giovane gli si affeziona, ed ha tutta
confidenza in lui, a costo allora dell'onore, del dovere, e della
morale, con poca spesa lo compra!...... Non contenti quei mostri di
valersi di tanto nocevoli ed infami agguindolamenti per eseguire le
nequitose loro incumbenze, non risparmiano neppure le istituzioni
sagre, e molte volte fornisce il confessionale abbondante materia,
per ordire un'intricata tela di accuse! Non evvi al certo da far le
meraviglie se alcuni dei ministri dell'altare abusano qualche volta
del loro ministero, poichè i membri di quella corporazione al clero
inferiore appartenenti generalmente in Italia molto rispettabili, sono
tenuti in uno stato ben vicino all'indigenza, ed i prelati, vescovi,
e cardinali tutte le ricchezze della chiesa ingordamente assorbono,
quindi non è da stupirsi se abbagliati dall'oro che sono così poco
usi a possedere, e gli viene in abbondanza offerto, alcuni di essi a
danno di cattolici penitenti trafficano del sagramento in favore della
corona!...... In questo modo però la confidenza è bandita! I vincoli
morali che uniscono un uomo all'altro sono spezzati! Ognuno deve
comprimere lo sfogo de' suoi sentimenti, e nel più profondo del suo
cuore tenerli nascosti; ognuno si crede isolato in mezzo ad un mondo
di nemici coi quali deve usare la simulazione e l'inganno; i membri
d'una stessa famiglia l'uno dell'altro diffidano; teme il padre del
figlio, il fratello del fratello, l'amico dell'amico, ed il contrito
cattolico s'avanza tremante al tribunale della confessione, per timore
di essere da quello che siede in quel casotto qual mediatore tra Dio e
gli uomini, sotto colore di religione perfidamente tradito! Con questo
sistema di reciproca temenza, di generale dislealtà, più non vi esiste
contentezza nè calma per nessuno, e la menzogna, l'inganno, la frode,
la fellonia, ed infedeltà onde schermirsi dalle trame, insidie, e
lacciuoli tesi dalla tirannia sono dalla maggior parte della nazione
messe giornalmente in pratica. Questo! questo! è lo stato pacifico,
e tranquillo degl'Italiani che sono obbligati di vivere sotto quel
dolce, beato, paterno dominio dei legittimi re; che per la grazia
di Dio assassinano l'Italia....... Ben con ragione hanno gl'Inglesi
gelosissimi della conservazione della libertà individuale, la proposta
di una tanto perniciosa istituzione con forza rigettata ogniqualvolta i
ministri, per aumentare il potere della corona cercarono l'approvazione
del parlamento, cui fu sempre dai rappresentanti del popolo con saggio
avviso risposto, amar meglio il cittadino Inglese, di correre il
rischio nell'uscir fuori de' limiti della città di Londra, d'essere dai
rubatori assalito e spogliato, che al despotismo di quei sgherri armati
dalla inquisizione politica, un sol giorno assoggettarsi.

Oltre quella forza inquisito-militare, che in tutta Italia può
ascendere, a più di ventimila uomini, divisa in cavalleria, e fanti,
che i tiranni non credono per vivere tranquilli ancor sufficiente,
instituirono al di più una polizia estesissima, e rovinosissima
pel publico erario, che si vale dei carabinieri o gendarmi per
l'esecuzione de' suoi raggiri, e contrammine, usa le stesse arti,
accelera la corruzione della morale, mentre l'oppressione del povero
cittadino crudelmente raddoppia. Ma ciò che più stupisce, si è di
vedere che questi gendarmi, o carabinieri, e queste polizie sieno
composte d'italiani, e che la maggior parte degl'impiegati principali
di quegl'orribili e schifosi ministerj sieno scelti nella classe dei
nobili, e facciano quelli di buona volontà il vile mestiero d'insolenti
zaffi contro i loro fratelli, d'infami berrovieri dello straniero,
per tenere oppressa, ed avvilita la loro patria, d'insediatori
dell'innocenza, di persecutori della virtù!

Non meno funesta, nè meno insopportabile, fra le rimanenti napoleoniche
istituzioni devesi certamente la coscrizione annoverare; la massima
che ogni cittadino nasca milite della patria, è senza dubbio
giustissima, pesa egualmente sopra tutti, ed è affatto republicana;
ma quell'eccellente istituzione per un governo libero, se nel governo
assoluto viene trasportata, conseguenze affatto differenti ne debbono
emergere, le quali anzichè vantaggiose allo stato, perniciosissime
saranno per riescire; ogni cittadino nel governo republicano avendo
una parte attiva nell'esercizio della sovranità, chiaro ben vede che
lo star continuamente pronto, in qualunque situazione particolare o
civile si trovi, per lo stato con animo deciso difendere, tanto per
suo dovere, quanto per suo vantaggio gli appartiene; ma come puossi
una legge di republicana essenza nel differentissimo governo assoluto
trasportata, e con severità eseguita pazientemente sopportare! Mette
la coscrizione l'intiera massa di tutte le forze attive del popolo
nelle mani del governo, nel cui arbitrio sta di muoverla tutta, od in
parte a piacer suo, e così nel modo il più pronto, ed il più assoluto,
nelle nequitosissime tiranniche opere impiegarla e di manierachè
con quella formidabile forza a loro disposizione (della quale non
si servono i tiranni d'Italia, che per opprimere i sudditi, poichè
per la loro debolezza relativa, e viltà personale atti non sono a
muovere una guerra straniera), ne avviene che la parte attiva della
nazione, armata, ordinata, e comandata da persone ligie al tiranno,
invece di servire alla difesa della patria, per la qual cosa fù
la coscrizione istituita, serve in ajuto del tiranno ad angariare,
avvilire, calpestare quella nazione che dovrebbe soccorrere, difendere,
ed illustrare! Oltracciò, la parte del popolo da quella fornita,
viene di quei diritti, e vantaggi, che godeva nel tempo di Napoleone
defraudata; i soli pesi essendogli stati dai tiranni lasciati;
primieramente sappiamo che sono chiamati secondo le regole di quella
tutti i figli degli onesti cittadini a militare, senzachè alcuno
esserne possa esente, imperciocchè l'esenzione di uno deve a danno di
un altro ricadere; è dunque il più grande rigore nella sua esecuzione
dalla giustizia strettamente comandato; mantenevasi nei tempi scorsi
nel modo il più severo ma oggidì tutto va per parzialità e capriccio,
molti figli di nobili nascono offiziali, e sovente accade che già
si trovano di tenenti i più anziani ed ancor sono sotto la sferza
del pedagogo, affatto di cosa sia un uomo, un'arma, od una teoria
ignari; i nobili che si dedicano al foro, od all'amministrazione,
ed i ricchi, comprando un uomo per lo più cattivo, di mala fama, o
stupido e presentandolo in cambio delle loro persone facilmente da
quel peso si esimono; in modo che tutta la severità della legge piomba
sull'onesto cittadino, che o per disgrazie sofferte nel passato, o per
afflizioni presenti, o per appartenere ad una numerosa famiglia, o per
molte altre simili cagioni non si può in quel momento di due o tre
mila lire privare, onde sborsarle a quell'uomo che per rimpiazzarlo
si vende, epperciò quel povero infelice trovasi a servire, per anni
otto o dieci in un reggimento, come semplice soldato malgrado suo
costretto; perchè come non nobile, o non figlio di un qualche vecchio
servo plebeo, che abbia qualche grande viltà per servizio del padrone
antecedentemente commessa, non può neppure sperare avanzamento, poichè
lo scopo della carriera militare dell'onesto plebeo, se la sua condotta
con la necessaria ipocrisia, ed adulazione viene condita, ed è scevra
da qualunque rimprovero, consiste nell'essere poi alla fine sotto
tenente, ajutante di piazza, guarda porte, gendarme, carabiniere, o
birro! Imperciocchè, sebbene abbia tutto il merito, valore, talento,
e capacità immaginabili, nel tirannico sistema della truppa italiana
d'oggigiorno inventato per umiliare, disgustare, e spegnere il fuoco, e
lo stimolo di grandi talenti, ad altro, che alle pergamene, al raggiro,
ed all'opulenza ignorante la via dei gradi superiori non si apre; sono
quei dieci anni pel disgraziato coscritto, una serie di patimenti, e
disgusti; costretto di star sottomesso a' giovani offiziali che per lo
più non impararono ad obbedire, che l'amarezza del pane della servitù
non conoscono, che la legge col capriccio confondono, e credono i
peggiori modi, essere pel buon servizio del loro padrone, i più utili
ed i più addattati, come pure a vecchioni imbecilli, dei doveri, e
regole della professione delle armi affatto imperiti, che altro di
buono e di bello non veggono, se non quanto è vecchio, e comune, e si
approfittano della loro lunga esistenza, non meno per disgustare, che
per contenere lo slancio dei genj nascenti, sempre da loro (perchè
astrette a riconoscerne la superiorità) odiati e perseguitati;
quegli stupidi, per mezzo del raggiro, e delle umiliazioni al comando
inalzati, esigono con insolenza da' loro inferiori, quel tributo di
viltà, e d'adulazioni ch'essi per giungere, a tale e mantenere la
presente loro immeritata fortuna, ai superiori pagarono, e pagano. Si
trovano in quei reggimenti il figlio dell'onesto artigiano, e quello
del possidente, dell'agricoltore, e del negoziante, accozzati, la
maggior parte di quelli educati nella semplicità nell'esercizio di una
morale virtuosa, suscettibili di fare rapidi progressi nell'istruzione,
ed alla necessaria severità della disciplina militare addattarsi;
capaci, se fosse un pò di slancio al loro genio permesso, non solo
di eguagliare in tutto e per tutto i migliori uffiziali, ma di gran
lunga dietro loro lasciarli. Ma! Per la tristizia del tempo che corre,
sono questi robusti ed onesti giovani per la patria del tutto perduti,
quand'essere la vera sua speranza ragionevolmente dovrebbero, il
loro genio è compresso, il loro desiderio di pervenire all'egualità
degl'uffiziali è considerato delitto, e la loro sola prospettiva,
l'apice della loro carriera, è un impiego non meno vile, che
disprezzato! Poteva questo dannoso sistema di militare avanzamento, in
vigore in quasi tutti gli stati d'Italia, meno ingiusto parere, quando
erano i quadri dell'esercito da tutti i discoli, e malviventi dei paesi
riempiti, che mediante una modica somma di premio, sotto le bandiere
del re, per servirlo male, ed affliggere il pacifico cittadino, tanto
in pace che in guerra, volontariamente si arruolavano; egli è ben vero
che soldati di tal fatta, non dovevano, d'essere a gradi superiori
promossi, non che pretendere, sperare, perciocchè pel fatto solo di
entrare al servizio per una data somma convenuta, si obbligavano per
quel prezzo, a servire dieci anni come soldati, senza pretensione da
una parte, nè promessa d'avanzamento dall'altra, epperciò il re non era
riguardo ai gradi verso di loro, in veruna maniera obbligato, e se glie
ne accordava dovevasi una speziale grazia giustamente reputare; ottima
cosa era senza dubbio che quella genia di mascalzoni fosse per sempre
dagl'impieghi principali esclusa; e sarebbe stata imprudenza massima
di mettere la direzione della truppa, la salute del trono, e dello
stato nelle mani di gente immorale, scostumata, e priva di qualunque
virtù; ma in oggi, che sebbene sott'altro nome, fu la coscrizione,
contro la quale dai nemici di Napoleone tanto si gridava, rimessa in
vigore (a malgrado di quanto venne da quasi tutti i nostri tiranni
quando furono portati dalle bajonette straniere sù quei troni che
avevano per eccesso di paura vilmente abbandonati con grande solennità
dichiarato, vale a dire, la sua totale abolizione in perpetuo) che
per quella istituzione il peso su tutti i cittadini egualmente ricade
o dovrebbe ricadere, che di soldati galantuomini, ben nati, civili, e
capaci, sono le truppe nella loro totalità composte, perchè privarli
di quei vantaggi che solo possano render loro la disciplina ferrea, e
capricciosa meno pesante, e far loro le fatiche dell'attuale militar
servizio con pazienza sopportare? Ma no; ingiusto sempre il tiranno
esser vuol solo a riscuotere tutto il vantaggio che pel suo potere ne
ridonda, epperciò fecela in tutte quelle parti che potevano essere
favorevoli al cittadino mutilare, onde non mai gli fia possibile di
schivar d'essere sempre al privilegio, raggiro, ignoranza, ed al brutal
trattamento sottoposto. Ma che non avremmo da dire, se intendessimo
ad una ad una tutte le tirannie speciali a ciascun stato far palesi?
Oltre i limiti che ci siam prefissi, trascorreremo, e non sarebbero
varj in folio a tal uopo bastevoli. Come si potrebbero le nequizie
del malvagio immanissimo Francesco di Napoli rapidamente dimostrare,
il quale non contento di considerare il maggior numero de' suoi
disgraziati sudditi, come una genìa di furfanti, e come cospiratori,
e di continuamente malmenarli, fa ogni giorno in oscurissime, e
pestifere carceri, molti e molti distintissimi cittadini trascinare,
ove incatenati e tenuti a pane ed acqua, debbono aspettare degli
anni, nei soffrimenti, un ingiusto, capriccioso, inappellabile, atroce
giudizio di tribunali militari, che non si dilettano, che nel veder il
capestro in azione; più di quanto in un tempo non fossero quegli dei
figli di san Domenico in odio di virtù crudelmente accaniti; oltracciò,
temendo il lazzaronico tiranno, che possano i Napoletani qualche minimo
vantaggio dal commercio ricavare, addottò quell'antico sistema dei
Borboni di Francia, ch'ebbe non poca parte a muovere la rivoluzione
che mandò al patibolo Luigi XVI, cioè di appaltare le rendite dello
stato ad avidi publicani; sistema che sparge il mal contento in tutte
le classi de' cittadini, ed è ogni giorno d'irritevolissime e numerose
vessazioni permanente cagione. Di più quell'altrettanto sciocco quanto
barbaro governo stabilì il suo sistema proibitivo ad imitazione di
quello presso gl'Inglesi anticamente in vigore, senza neppure far la
necessaria distinzione delle mercanzie limitandosi a gravare, con
esorbitanti tasse ciò solo che lo stato sia capace di produrre, ma
tutte senza distinzione a pagare stupidamente sottopose.

Che non diremmo dello stato di quei poveri disgraziati costretti a
sopportare l'odiosissimo insopportabile giogo pretile? A chi non son
note le vessazioni dei puzzolenti austriaci nella Lombardia, e stato
veneto? Dei tiranni di Modena, di Lucca, di Parma, di Piemonte? E se
nel numero di tutti gli altri empj oppressori, non sarebbe cosa giusta
il gran Duca di Toscana frammischiare, debbesi però fare attenta
osservazione che tutto nel suo personale carattere consiste, non già
nelle istituzioni; e non meno lo stato precario di quel ben essere
che la necessità di un solido cambiamento in quel paese chiaramente
appare; perchè se come vi è tutta probabilità la successione venisse
ad estinguersi, quel ducato nelle unghie della rapace Austria
inevitabilmente cadrebbe, e lo stato infelice delle parti che gemono
sotto la sua barbarie, debbono servire d'esempio per ciò che in quel
caso abbiano i Toscani ad aspettarsi.

In breve assassinj giudiziarj, frode nella fabbricazione delle monete,
dilapidazione del publico danaro, latrocinj dei monti di pietà, e
dei banchi, abuso continuo di potere, per parte sì dei civili, che
dei militari; revisioni di cause già tempo addietro giudicate quindi
affatto in contrario per spirito di partito rigiudicate; spie,
polizie, gendarmi, etc., perplessità, e timore in ogni cittadino che
sempre stà in paura di violare le leggi che non conosce, nè mai potrà
conoscere, perchè nella maggior parte degl'italici stati non sono
che la momentanea espressione del capriccio di un qualche ministro,
o dell'imbecille tiranno: ecco brevissimamente accennato il triste
compartimento degl'infelici Italiani, dalla restaurazione dell'antica
tirannia in quà, e quale felicità abbiano per via della pace generale
guadagnata!...... rispettivamente poi alla considerazione politica che
l'Italia gode all'estero, egli è ad ognuno ben noto, non esser quella,
negli affari europei, nè per bene, nè per male, nè per frazioni in
particolare, nè in massa in un minimo calcolata; non essere l'Italia
che come una grassa, ricca e vile appendice dell'infame Austria tenuta
in conto; nulla rispetto alle armi, senza libertà, senza energia
popolare, passiva nella sua esistenza, e degna di sprezzo, imperciocchè
viene ora da tutte quelle nazioni che rozze, e barbare, furono nei
secoli antichi per tanto tempo sue schiave, beffeggiata, schernita, e
vilipesa mentre i venti millioni d'abitanti che possede, quei pronipoti
dei gloriosi romani, oggidì neghittosi, ed abbietti, disuniti, schiavi,
abbiosciati, scornati, e di gloria deficienti sono come tanti bamboli
dai gabinetti europei, baloccati, aggirati, e delusi.

Ecco lo stato d'abbiezione, di oppressione, di miseria in che si
trovano venti millioni d'abitanti, cui tutti i mezzi per godere i
pregi d'una buona vita e passarla felice, la natura in abbondanza
provvide; ecco lo straordinario fenomeno, quello cioè di vedere
l'ignoranza, rusticità, codardia e sozzura tedesca mettere il genio,
valore, entusiasmo, e civilità italiana sotto i lordi suoi piedi......
eppure questo incredibile fenomeno da molti anni pur troppo sussiste,
per via della mancanza d'unione, ed energia italiana provegnente
dalla continuata serie di calamità alle quali dovette da lungo tempo
soggiacere; dall'ignoranza delle sue forze, ad una certa sciocca
persuasione che i nemici astutamente cercavano di far nascere, e nella
mente dell'italiano alimentavano, cioè quella di non essere da se solo
a nulla di buono capace; dalle divisioni fra provincia, e provincia,
dai nemici d'Italia a bella posta eccitate, e mantenute; dalle false
massime di superiorità provinciale dall'una contro l'altra nutrite;
dai vizj, dal troppo amore dei divertimenti, dalle effeminatezze nelle
quali erasi la parte pensante della nazione, per mezzo degl'incitamenti
con molta finezza messi dai nemici in voga, lasciata trascinare; ecco
da dove proviene tutta la vergogna dell'amatissima nostra patria; noi
con fiducia nondimeno speriamo, che sieno in oggi tutte le illusioni,
e tali cagioni di servitù svanite e riprovate; ci lusinghiamo che
il popolo italiano abbia lo stato infame e vile, a che quelle lo
ridussero, finalmente conosciuto, che l'opinione di tutti gl'italiani
che posseggono un cuore generoso (e non son pochi) sia tutta non men
favorevole che ben disposta per l'unione, la independenza e la libertà
della penisola; che ognuno sia persuaso essere quel cambiamento una
necessità del paese; che ognuno conosca non potervi essere senza
quelle, per chi nasce su quel suolo nessuna durevole felicità;
questa buona opinione, con fondamento da noi supposta, è certamente
lusinghiera, e può essere di grandissimo vantaggio alla patria, ma
non già bastevole; il tempo è giunto in che debba il popolo i suoi
robusti pensieri con azioni patrie forti e generose accompagnare;
quando le ottime idee non sono a fatti accoppiate, inutili divengono,
e come se neppure esistessero; egli è pur tempo che dimostri una volta
al mondo, non essere gl'Italiani men forti, nè meno sagaci, nè meno
virtuosi degli altri popoli che li circondano; che cessi di mormorare
in segreto dall'abitudine e dai vizj forte incatenato; che cessi di
continuare qual coniglio nella meschinità, e dappocaggine; egli è tempo
che conosca la vituperevole mollezza d'animo degl'Italiani dei secoli
scorsi, che da quella riconosca la rovina d'Italia, e con odio estremo
l'abborisca; egli è tempo infine, che colga la propizia occasione di
trarsi dall'aggecchimento, in che si trova, e corra subitamente alle
armi con giuramento di quelle non deporre, finchè i nemici stranieri
ed interni fino all'ultimo distrutti, non sia pervenuto a stabilire
sopra una solida base l'unione, la independenza, e la libertà di
quella patria, che fù dalla natura come paradiso del mondo benignamente
creata.

Potrà per avventura un qualche malvagio, od imbecille, quella
ingiuriosa obbjezione opporci, che i nemici d'Italia compiacevansi
nei secoli scorsi di trombettare, cioè che non fossero gl'Italiani
atti alle armi, perchè troppo essendo dalle loro effeminatezze e vizj
spossati, erano resi deboli come donne; dovrebbe la voce dell'Europa
intiera testimone del valore italiano quest'ingiuria smentire non
di rado ancora dagli stranieri al dì d'oggi rinnovata, e sebbene
calunniosa, non dimeno dagl'Italiani ben meritata finattantochè non
siansi da quel fango della nullità e del vituperio che gl'imbratta
interamente, sbruttati; a quest'obbjezione tuttavolta noi risponderemo
che le relazioni, e le storie delle guerre da Napoleone in Italia,
Germania, Russia, Prussia, Spagna, etc., sostenute, bastano per
provarne la inconsistenza, imperciocchè a tutto il mondo fanno palese
che quegl'Italiani i quali sotto la grossolana, e bestiale direzione
dell'incomportabile Austria, e de' stupidi e maligni loro tiranni,
come pecore davanti i Francesi la davano bruttamente a gambe, furono
in quelle guerre parte, integrante, e forte dell'esercito napoleonico,
possono a giusto titolo fregiarsi degli allori in abbondanza da quelle
legioni mietuti, ed erano in ogni rispetto se non migliori, senza
dubbio ai loro conquistatori eguali; ma se ci si dicesse che quei prodi
sono al giorno d'oggi o già passati ad altra vita, o vecchi troppo
per guerreggiare, noi risponderemmo, che forse non saranno i presenti
Italiani come quelli tanto usati alle battaglie, perciocchè loro mancò
l'opportunità di acquistare sui campi della gloria la necessaria
sperienza, ma che non è il valore qualità esotica in Italia e che
ben al contrario ella è peculiare della gioventù attuale atta più di
qualunque altra ad intraprendere, e sostenere una guerra leggiera, per
bande, nella quale affrontando a bella posta con ardire i pericoli,
e rendendosegli famigliari, sarà luminosi trionfi per riportarne:
continui e difficili combattimenti nelle montagne dai Greci antichi
sostenuti, assaissimo contribuirono a renderli poi nelle battaglie
campali alla pianura vittoriosi; vinsero primieramente i Barbari, ed i
Sciti nelle gole dei monti e quindi appresso in pianura dense nuvole
d'Asiatici dissiparono, sui quali non meno una decisa superiorità,
che la certezza morale della vittoria, per quanto fosse il loro
numero, avevano in quel modo acquistata. Così faranno pure gl'Italiani
attuali, cui se forse manca per ora l'arte, non manca certamente
il valore, migliaia d'esempi non meno degli antichi tempi, che dei
moderni potrebbersi citare, tutti la bravura italiana comprovanti:
non meno gagliardi nell'esecuzione, che abili a comandare, e ben
dirigere, figurarono essi brillantemente nelle file francesi, ed al
buon successo delle conquiste di Napoleone, pure nostro compatriota,
perchè nato italiano, assaissimo cooperarono; e di quanti generali
ed uffiziali superiori distintissimi, che le pagine della gloria
francese illustrarono, quel paese nelle sue produzioni, da più di
tutti gli altri, non gli ha per avventura forniti? Non era forse
Italiano quel maresciallo Massena, figlio prediletto della vittoria,
dopo Napoleone il miglior duce degli eserciti francesi? E i Rusca, i
Fresia, i Seras, i La Villa, i Pino, i Lecchi, i Zucchi, i Severoli,
Pejri, Eugenio, Mazucchelli, Rossaroli, Russo, etc., e tanti e tanti
altri prodi, e valorosi guerrieri, non meno abili, non meno celebri
dei migliori generali francesi, che se non sopravvanzarono al certo
viddersi, più che del pari all'acquisto della gloria valentemente
camminare? Quei sciagurati che per le funeste sconfitte di Rieti e di
Novara dovettero all'ingiusta taccia di codardia soggiacere, mentre
tutto da mala direzione, e vicendevole invidia dei capi proveniva, non
provarono essi tanto in Ispagna, che in Grecia con tratti maravigliosi
di uno straordinario valore, non essere di quella nefanda imputazione
meritevoli? Pacchiarotti, Brescia, Cepi, Gaddi, Lubrano, Bussi,
Arrighi, e trecento altri prodi colleghi che in difesa della libertà
di Spagna, carichi di ferite, dando uno stupendo esempio di stoica
fortezza sul campo dell'onore combattendo spirarono, non erano essi
tutti di quelli che si trovarono in Rieti, od in Novara? E se volgiamo
l'occhio alla Grecia, non vediamo noi un Tarella lasciato in abbandono
dai Greci al campo di Peta, e per ogni parte dai Turchi furiosamente
assalito, far testa con un pugno de' stranieri ad un numero molto
maggiore di nemici, non tralasciando la pugna finattantochè non
cade sul posto che difende, da mille colpi trafitto? Un Raseri che
con mirabile arte la difesa di Missolungi diretta, dopo aver fatto
per mezzo di certe mine avvedutamente praticate, saltare parecchie
colonne turche in aria, e dopo aver per varie ore il passaggio della
breccia contrastato, combattendo da leone, perdè valorosamente la
vita! Un Basetti, che mortalmente ferito e dal sangue che scorrendo
da molte parti del suo corpo gorgoglia da capo a piedi cosperso,
tutta l'energia vitale a se rechiamando, con un incredibile magnanimo
sforzo stende ancora prima di spirare, nove Turchi al suolo, compiendo
con quell'eroico slancio d'impareggiabile valore, la sua virtuosa
e brillante carriera! Un Santa Rosa, che nell'isola di Sfacteria,
lasciato solo in fronte ad un numeroso stuolo di nemici, con raro
sangue freddo s'arresta, si rivolge ad un suo compagno cui impone di
ritirarsi e così soggiunge: Farò in oggi palese al mondo che uno eravi
almeno in tutto quest'esercito che non paventava la morte: ciò detto
spara un'archibugiata contro il nemico, dal quale viene immediatamente
circondato e tagliato a pezzi! Un Pecorara, modello di virtù cittadina,
che nello stesso modo abbandonato, combatte solo contro un drappello
di nemici che ferisce, e contiene parecchie ore, a cui essendo però
alla fine costretto di soggiacere, preferisce alla resa od alla fuga,
una gloriosa morte, è la sua testa inviata a Costantinopoli, attesa la
pertinacia da lui dimostrata nel combattere ove trovasi qual brillante
trofeo, d'indomabile nemico, al serraglio collocata! Un Rittatore
che, comandante d'una batteria, da forza maggiore assalito, si lascia
tagliar a pezzi sul cannone piuttosto che cederlo, od abbandonarlo? E
cento e cento altri che non finiremmo se tutti volessimo enumerarli?
Non potranno al certo essere quelli di codardo procedere accagionati,
come neppure quei loro colleghi, che pur con onore combatterono, ma che
non sappiamo se dobbiam dire per buona o per mala fortuna, loro non
toccò la sorte di morire! Non son codardi no quei migliaia di forti
rimasti a trascinare nella miseria, ed amarezze di ogni sorta quella
vita che alla patria consagrarono, e che pel suo miglioramento ancor
sarebbero ben contenti di sagrificare! Chiaro dunque appare che non
mancano gl'Italiani d'animo, spirito e capacità guerriera, ma che solo
trovasi questa, per la sozza schiavitù che gli opprime, come paralitica
intirizzita. Se quanto abbiamo di sopra esposto per intieramenle
convincere un qualche ostinato non bastasse, noi ci varremmo delle
parole del ben noto cavaliere Follard, nella sua storia di Polibio,
al tomo quinto, pagina 379, alle quali non potrebbesi, senza taccia di
scimunito o di mentitore, dei falli obbjettare: dappertutto, dic'egli
dove nascono uomini, nascono soldati, e se questi mancano, quando gli
altri abbondano, il torto è del governo, perchè nulla è più facile
che formare un'eccellente milizia, ed uffiziali per condurla, e ciò
in minor tempo che si crede; se ne vuole forse un bel esempio? Citare
Pelopida ed Epaminonda, che di un numero di Borghesi di Tebe, senza
nessuna esperienza di guerra, ne fecero dei soldati intrepidi, sarebbe
riandare cose troppo lontane; contentiamoci di citare Pietro il Grande,
Czar di Moscovia, il più grand'uomo che sia comparso al mondo dopo
gli antichi, che col mezzo di un'ammirabile disciplina, cambiò i suoi
sudditi per lo addietro dispregevoli in intrepidi soldati: portano
pure la stessa opinione, i più grandi politici conosciuti; Polibio e
Tacito, non meno che un'infinità d'autori antichi e moderni, sono dello
stesso parere; non v'ha dubbio dunque sulla capacità degl'Italiani
alle armi, e solo sono, e meritano di essere in niun conto per la
guerra dell'Europa tenuti, perchè non vollero fin ora, con uno scopo
onorevole per la nazione impugnarle; ma presa una volta quella tanto
sublime determinazione non molto lontana, e pervenuti a scuotersi, ed
infiammarsi, vedransi (noi siam persuasi) gli antichi prodigi di valore
dei mai sempre illustri avi nostri ben tosto con somma gloria ripetere.

Altri, educati alla scuola di Buonaparte, o timidi di cuore, o
pseudi-filosofi, più stranieri che italiani, non vogliono persuadersi,
che la nazione abbia l'energia, e volontà necessaria per digiogarsi
da se sola, senza che siale mestieri d'aver all'appoggio straniero,
ricorso, la loro mente presenta sempre ai lor occhi l'Italia ai tempi
dell'invasione di Carlo VIII di Francia, o di Buonaparte; essi altro
non vedono che quegl'Italiani ora dall'uno, ora dall'altro disprezzati,
e malmenati, che sopportando a capo chino e ginocchia piegate le
ingiurie degli stranieri; la mano del carnefice che gl'immolava,
umilissimamente baciavano! Non considerano questi che le circostanze
d'allora, erano da quelle d'oggi ben differenti; che il modo di
pensare, e di agire degl'Italiani è cambiato, che il loro genio si
allontana per adesso dalle scienze e le belle arti per addirizzare
le sue brame ad una più solida, e brillante gloria, cioè per quella
degl'antenati riacquistare, che qualunque buon italiano respinge con
isdegno l'idea di essere stromento, od agente dello straniero; ben
compresero per esperienza gl'Italiani essersi giustamente apposta
Madama di Staël, quando stabilì per massima che: la libertà non vuol
essere data, ma vuol essere presa: l'Italia più che qualunque altro
paese ha già provato quanto valga la libertà dagli stranieri accordata,
che quando, sotto Napoleone, scesero i Francesi dalle Alpi, le dissero
che venivano a trarla dalle sozze mani d'una razza di degenerati
dominatori, che come tiranni, non erano della sua stima, nè del suo
amore meritevoli; che agl'Italiani come liberatori si presentarono, e
dichiararono loro socj, loro uguali, e come loro liberti da schiavitù
redenti, cui per diritto il godimento della libertà, ed independenza
giustamente spettava! Erano queste parole certamente bellissime, ma
non furono che parole, e ben conoscono in oggi gl'Italiani altro che
buone parole inutili non doversi dallo straniero aspettare; e per
verità quali furono i fatti? Spogliarci, tenerci dipendenti, divisi,
schiavi, col nostro sangue, e con le nostre sostanze farci ad ajutare,
ed aumentare la loro gloria, contribuire, grande porzione della quale,
fu senza dubbio opera nostra, per poi con biasimevole mancanza di
generosità, nelle loro storie e relazioni di quell'epoca, finanche
dei meritati encomj che ci sono per giustizia dovuti, del tutto
defraudarci! Ecco la libertà regalataci dai Francesi! Che dovremmo noi
dire di quella che dagl'Inglesi potrebbe l'Italia sperare? Le promesse
e dispromesse di lord Bentink, la tergiversante, cupa, e turtuosa,
condotta di quel gabinetto in tutti gli affari d'Europa, quella che
tenne ultimamente rispetto al Portogallo avendo egli stesso consigliato
ed animato il tiranno Miguel, a rientrare in Lisbona, e tosto le truppe
sue, che quella città presidiavano ritirate, alfine di lasciare quella
feroce tigre in arbitrio di saziare le sue scellerate brame nel sangue
dei poveri Portoghesi, che quantunque tremanti, pel timore della mala
fede inglese, avevano però seguito l'impulso costituzionale in certa
qual apparenza dato dall'Inghiterra, e furono quindi, a bella posta ed
a sangue freddo, al saccheggio, al carcere, al fuoco, all'assassinio,
da essa crudelmente abbandonati! La liberalità, la virtù, l'umanità,
di quel ministero già, è a tutto il mondo ben nota e sopra tutto
la sua lealtà che dai fatti succitati chiaramente appare; noi non
vogliamo supporre vi esista nessun Italiano di senno, che in buona fede
speri nell'intervento di quella potenza, onde all'acquisto della sua
independenza, e libertà, pervenire. Trattare poi della cooperazione,
che a quell'uopo, si possa dall'Austria, Russia, o Prussia sperare,
ci parrebbe altrettanto ridicolo, per chi lo trattasse, come sciocco
per chi potesse pensarlo; infine consultino con attenzione le storie,
e guardino gl'Italiani se v'ha in quelle un solo esempio che le
bajonette straniere abbiano mai una divisa nazione unita, o resa forte
quando era debole, che le abbiano data l'independenza quando potevano
dominarla; e la libertà, quando più forte si potevano da quella come
schiava far servire? Sappiano gl'Italiani, che nulla hanno da sperare
dall'estero, se non catene o guai; che non saran mai felici, se non si
sentono da loro stessi capaci di quella felicità procurarsi, che mai
potrà dalle bajonette degli stranieri emergere! Chi non è da per se
atto a procacciarsi la felicità, e d'uopo, è ad uno più forte di lui
per ottenerla, sommessamente ricorrere, tardi o tosto sempre se ne avrà
da pentire, imperciocchè l'umiltà, e l'obbedienza che debbono sempre
il ricorso al forte accompagnare, mettono il ricorrente nell'intera
dependenza sua, egli se ne approfitta pel solo suo particolare
vantaggio, e nulla più si cura delle promesse fatte, di far felice il
debole imbecille che in lui aveva tutte le sue speranze, riposte.

Altri vi sono, che ben conoscono, il niun conto, in che si deve un
appoggio straniero, tenere, se veramente si ha per iscopo la felicità
d'Italia, che riconoscono pure la facilità d'acquistarla, se fermamente
la maggior parte degl'Italiani la vuole; ma che, per sciocchezza o
per debolezza di spirito, e di cuore, o per educazione assuefatti a
veder nero, ciò che in fatti è bianco, a considerare il giusto per
l'ingiusto, e così viceversa, dichiaransi amatori della cosa, ma non
dei mezzi da impiegarsi per ottenerla, e così dicendo nulla dicono
di vaglia, e coloro dansi per paurosi, colla maschera d'umanità, e
diritto, a divedere. Ci sia permesso, all'oggetto di persuadere questi
ripugnanti al nome di rebellione, di citare le parole del celebre
Wilkes, al parlamento d'Inghilterra, quando trattavasi della questione
americana; sappiate dunque, diceva egli, che una resistenza che riesce
a suo fine si chiama una rivoluzione, e non una ribellione; che il
nome di rebellione, sta scritto sul dorso del sedizioso, che fugge,
e quello di rivoluzione brilla in sul petto del guerriero vittorioso:
nel vincere dunque sta la sentenza riposta, non nei mezzi adoperati;
il male consiste solamente per noi nel mancare di cuore, imperciocchè
tutte le ragioni d'insorgere sono dalla nostra parte. Ben lor conviene
pure di conoscere, a quest'Italiani di parole, e non di fatti, i più
dannosi alla patria che forse vi esistano, ciò che dice il celebre
Locke! Cioè: che ogni governo legittimo deriva dal consentimento del
popolo, perchè siccome gli uomini sono naturalmente eguali, nessuno
possede il diritto d'ingiuriar gli altri, nella vita, salute, libertà,
o proprietà, e nessuno di quanti compongono la società civile, è
obbligato di star soggetto al capriccio degli altri, ma solamente
a leggi fisse, e conosciute, fatte pel benefizio di tutti: non si
debbono stabilire tasse, senza il previo consenso della maggiorità
espresso dal popolo stesso, o dai suoi delegati; i re, i principi, i
magistrati ed impiegati di ogni classe, non esercitano altra autorità
legittima, che quella stata loro delegata dalla nazione, e pertanto
quando quest'autorità non s'impiega in prò della communità, allora il
popolo ha diritto di riassumerla, in qualunque mani sia essa collocata:
saravvi alcuno che osi ancora opporsi al giudizio di questo valente,
e rinomatissimo scrittore? chi si opponesse, non potrebbe esentarsi
dalla taccia di scioccone imbecille, o di malvagio inumano; eseguiscono
i principi d'Italia, quanto dice Locke, esser loro dovere di eseguire?
No; commettono essi quei delitti pei quali, dice il citato autore, aver
diritto il popolo di riassumere l'autorità, e spogliare coloro che ne
sono rivestiti? Sì, senza dubbio; dunque noi abbiamo tutto il diritto;
quando si trova il buon diritto, colla volontà, e la forza congiunto,
i mezzi sono tutti buoni, purchè, chi con sfacciataggine lo conculca si
rovesci, e compiutamente si distrugga; noi siamo in quel caso e fin da
secoli; non può l'esistenza dei nostri nemici essere che passeggiera in
Italia, se noi lo vogliamo; perchè siamo assai di loro più forti, e la
base, sulla quale poggia il loro potere, altro non essendo che la forza
artificiale, al momento che si troverà questa da una maggiore opposta,
non potrà evitare di venir del tutto sobissata; non può l'antichità in
nessun modo la violazione del diritto confermare, solo rende necessarj,
più violenti rimedj, sono quelli dalla giustizia non solo permessi, ma
indicati, ed è cosa giusta, e doverosa lo avere al ferro, ed al fuoco,
ricorso, per questa inveterata piaga risanare, cioè per esterminare
i tiranni e svellere fin dalle sue radici, l'insopportabile tirannia;
aggiungasi eziandio quanto pure dal Locke viene in proposito soggiunto:
ma se una lunga serie di abusi, prevaricazioni, ed artificj, tutti
tendenti ad uno stesso punto, rendono visibile al popolo un disegno,
in maniera che tutti risentano il peso, che gli opprime, e vedano il
termine, a che sono condotti, non sarà da stupirsi se si solleveranno,
e depositeranno il potere in mani, che gli assicurino gli oggetti,
pei quali fù istituito il governo: a chi non son noti i raggiri, gli
artificj, messi continuamente in opera per tenerci divisi, poveri,
senza riputazione ed impotenti, alfine di non dar ombra ai vicini,
ed essere all'infame Austria eternamente sottomessi? Chi non lo vede?
Chi potrà negarlo? Si veggano i protocolli dei congressi di Vienna, di
Parigi, di Lubiana, di Trappavia, e di Verona, ed in quelli non solo un
disegno, non solo una tendenza, non solo un vago progetto di rovinare
l'Italia per sempre, scorgerassi, ma una condanna inappellabile,
definitiva, atroce da quei congressi pronunziata onde impedire che mai
più possa nell'avvenire risorgere, ed essere una volta fra le nazioni
rispettabili del mondo annoverata! Sono pure notorie le promesse
d'uffizio fatte da tutti quei principotti vili, che tiranneggiano
l'Italia, al loro padrone il tiranno d'Austria, _di non mai accordare
nessun cambiamento nel sistema di governo, che possa migliorare la
condizione dei loro sudditi_!

Che questa promessa esista, nessun lo nega, nessun lo pone in dubbio, e
ben si sa essere stata la principale cagione, perchè nel 1821, Vittorio
Emmanuele di Savoja abdicò la corona, ad ognuno deve dunque chiaro,
e manifesto apparire non solo il disegno ma la condanna eziandio,
della quale già ben se ne risente l'esecuzione! Era la politica dei
Persiani rispetto ai Greci quella di indebolirli, e mantenerli divisi;
la loro massima fondamentale di non permettere in Grecia l'aumento, e
la felicità di nessuno stato, che potesse divenire abbastanza forte,
onde a quello fosse poi agevol cosa, gli altri, a riunirsi contro
l'Asia, nell'avvenire trascinare; per via del vergognoso trattato
d'Antalcida, divenne il gran re, l'arbitro supremo del Peloponneso.
La politica dell'Austria, è rispetto all'Italia interamente la stessa
e da suoi alleati, che di vedere l'Italia avvilita, e serva sono
contentissimi, viene quella funesta politica sfacciatamente approvata,
per via dei succitati congressi: l'imperatore d'Austria, che par nato
ad infamare la stirpe umana, è pure l'arbitro esecrabile dei nostri
malavventurosi destini! Ma come fecero i Greci; che con la guerra
posteriore, la vergogna di quel trattato ripararono; così dovranno
pur fare gl'Italiani; per loro non vi dev'essere, del disegno di
rovinarli sempre di più, ed interamente, il minor dubbio; egli non è
solo visibile per l'avvenire, ma già si risente in giornata, si osservi
che per la massima di ristabilire l'Europa nello _statu quo_ addottata
nel congresso di Vienna, le due antiche republiche di Venezia e di
Genova avrebbero dovuto essere rimesse; ma siccome sebbene tiranne
ed aristocratiche nell'interno, mantenevano però all'estero in certo
qual modo viva la riputazione Italiana, furono a perpetua estinzione
condannate! Quella Venezia che nel medio evo padrona del Mare,
contavasi fra le maggiori potenze del mondo! Che possedeva ella sola
tante ricchezze quasi come tutte quelle riunite dei sovrani europei
di quell'epoca. Quella Genova emola dello splendore di Venezia, che
per tanto e tanto tempo si mantenne dalle molte, e forti tempeste che
minacciavano la sua rovina, illesa, e godeva pure in Europa grandissimo
credito, e ricchezza! Se furono invero ambedue da quella meteora
distrutte, che uscita di Francia per dare la luce all'Europa, invece
d'illuminare abbruciava, e dovette poi alle tenebre ed al pregiudizio,
che l'incalzavano, lasciare il luogo, era puranche giusto che fossero
queste republiche restaurate, ma siccome cambiando i loro ordini a
seconda dei lumi del secolo, avrebbero sebben parzialmente tuttavia
potuto in buona riputazione il nome italiano mantenere, furono da quei
congressi condannate a mai più risorgere, mentre nel potere tutti quei
re, principi, duchi, etc., in varie parti d'Italia ristabilivano! e che
diritto avevano quei sozzi tirannucci, piuttosto di quelle republiche
per essere dall'Europa in armi nell'antico seggio riposti? Furono le
republiche in principio dalla volontà popolare stabilite, ed avrebbero
dovuto essere come assai più legittime di questi manigoldi considerate!
Imperciocchè questi con la conquista, il raggiro, o l'astuzia,
pervennero anticamente al trono, e furono dalla forza cacciati, alla
quale, poichè tenevano assai più in pregio la vita che l'onore, con
massima viltà generalmente soggiacquero; e chi si nascose in una parte,
chi si ritirò in un'altra, nessuno volle neppur tentar di mettere la
sua vita in rischio, per la difesa di quel trono che abbominevolmente
sporcava, volevano scappare, e non combattere, ecco i loro meriti,
i loro diritti pei quali furono dagli alleati rimessi, espressamente
col fine di tenere l'Italia raumiliata, depressa, ed abbietta! Prima
però di abbandonare i loro sudditi nelle mani dello straniero affamato
di rapine e di sangue, dall'obbligo del giuramento dato alle loro
persone, quei tiranni gli sciolsero, ed esortarono a darne uno nuovo
al conquistatore! La qual esortazione d'un re fuggitivo non significa
nulla, perciocchè il nemico essendo padrone del territorio, se mai si
fosse vacillato, se lo sarebbe fatto prestare per forza, non pertanto
fummo legalmente sciolti dal giuramento dato a loro, ed il nuovo che
si fecero dare nel 1814, essendo portati dalle bajonette degl'alleati,
non è in nulla più valevole, di quelli prestati ad altri sistemi,
ed in altre congiunture; portandosi a guardar più in dietro; vediamo
che i nostri avi prestarono il giuramento alla forza, od all'astuzia,
raggiro, ed inganno, e noi seguitammo macchinalmente a servare quello
da loro fermato; vennero i Francesi, e ci obbligarono a darne un altro,
alla libertà Italiana; poscia dovettero i Piemontesi ed alcune altre
provincie, unite quindi alla Francia, cambiare nuovamente il loro
giuramento, e darlo alla libertà Francese; rovesciato un pò più tardi,
il governo republicano in Francia, e con l'imperiale in quel paese e
reale in Lombardia, e Napoli, etc., surrogato, dovettero gl'Italiani
spergiurare alla libertà, e giurare di essere fedeli all'impero ed
al regno; vennero sei cento mila alleati a distruggere l'impero, il
regno, etc., ed a mettere la superstizione, l'inganno, la viltà, i
pregiudizj, e l'ignoranza in trono, ed eccoci di bel nuovo giuramentati
ad essere fedeli in eterno, a questi nostri vecchi signori, dall'attual
generazione sconosciuti, e dai buoni Italiani abborriti! Or noi
diciamo, quale di tutti questi giuramenti dovrà essere per noi il più
obbligatorio? Sarà egli il più antico, od il più recente? se ci si dirà
essere il più distante, noi risponderemo allora, che sono invalidi
tutti quei giuramenti dai nostri avi, agli avi degli attuali tiranni
prestati; perchè noi dovremmo in questo caso servare quello prestato
alla republica romana, come la più antica e ben conosciuta potenza
italiana, che abbia in tutte le parti della Penisola dominato; se poi
ci si dice che sia da servarsi il più recente, noi non vediamo perchè
debbano gl'Italiani essere legati da un giuramento dato alla coazione
straniera, e non abbiano diritto, di darne e servarne uno volontario,
e recentissimo, che meriti veramente di essere servato, qual sarebbe
quello che si prestasse all'unione, independenza, e libertà d'Italia?
Ognuno deve da ciò essere persuaso, che nè il giuramento dato da noi o
da nostri avi per conto nostro, agli antichi dominatori in Italia, nè
quello al conquistatore straniero, nè quello ai restaurati nel 1814,
sia obbligatorio, perciocchè non furono da un movimento universale di
popoli in loro favore liberamente pronunziati, ma dalle armi straniere
colla forza richiesti, che a chiunque si negasse di voler loro prestare
il giuramento di fedeltà, e sommissione, avrebbero alla mannaja del
carnefice, sottoposto; viene da tutti i giurisperiti riconosciuto, che
un giuramento coatto è nullo, e da non servarsi; epperciò i tiranni
di Napoli, Ferdinando e Francesco, il tiranno Ferdinando di Spagna,
il tiranno Giovanni di Portogallo, sebbene in nessun modo fossero
stati a concedere certe moderate costituzioni forzati, se non dalla
loro speziale grandissima paura, non dimeno, per dare una idea di
giustizia al loro procedere, (che in fatti non era che un chiaro, e
patente tradimento per rovinare vieppiù i loro popoli), e per coprirlo
di un velo ipocrita riconobbero la suddetta massima, dichiarando
d'essere stati violentati, e non valere un giuramento dell'uomo, che
non è libero; ora noi ripetiamo, siamo forse noi liberi di rifiutare
il giuramento ai nostri tiranni quando lo richiedono? No certamente;
perchè se uno ardisce di rifiutare, lo mandano all'istante come ribelle
alle forche; dunque noi più di loro siamo da qualunque giuramento
svincolati, che sia da noi stato in addietro a loro prestato; oltracciò
ella è cosa certa, essere delitto servare un giuramento quando si
conosce quello essere contrario alla libertà, e dell'esercizio dei
diritti del popolo, impeditivo, di pregiudizio al paese, e funesto alla
felicità e tranquillità dei compatrioti; e tutte le persone convengono
che: _Judicio caret juramentum incautum; _ e che: _si vero sit quidem
possibile fieri; sed fieri non debeat vel quia est per se malum vel
quia est boni impeditivum, tunc juramento deest justitia, et ideo
non est servandum_: mettiamo dunque in non cale, anzi con tutto cuore
abborriamo quella formalità del giuramento prestato ai tiranni, alla
quale fummo nostro malgrado costretti, e che non è, se non per via
del tormentoso patibolo obbligatoria; come non sarà per ripugnare, ad
un cuore veramente italiano, d'essere da quella costretto a servire
i capricci d'un tiranno, ajutarlo nelle rapine; oppure dare la roba,
e fino la propria vita, per ingrassare un imbecille dominatore,
poltrone, e maligno, in detrimento della massa de' cittadini, e della
gloria della sua patria? Diasi dunque, ripetiamo, un nuovo giuramento
all'Italia! Sarà quello senza dubbio inviolabile, perciocchè ogni
cittadino verrà egli stesso ad eseguirlo, e mantenerlo personalmente,
interessato, non meno che a costringere tutti gli altri ad osservarlo,
mentre dall'osservanza esatta di quello, saranno il ben essere di
tutti, la felicità, e gloria del suo paese dipendenti!

Ci pare di aver sufficientemente provato che trovasi l'Italia
nell'ultimo grado di abbjezione, per essere stata da lungo tempo in
qua, negativa, o passiva negli avvenimenti europei; per la sua vile
prontezza nel sottomettersi a chiunque più forte di lei, falsamente
stimava; e per aver tutti i gabinetti d'Europa piuttosto alla sua
prosperità, elevazione, e grandezza contrarj che favorevoli, e
soprattutto alla sua unione in un corpo solo di nazione, decisamente
opposti; perciocchè se avviene un giorno che questa, sotto le stesse
leggi, sotto lo stesso impero si riunisca, che tutta la sua energia
attualmente dilatata, separata, e sparsa, ad un solo, e comune centro
sia rispondente, sarà in poco tempo, ad un tanto alto grado di potere,
di forza, e di grandezza per giungere, che i più potenti gabinetti
d'Europa nè possono, nè vogliono tollerarne l'idea, poichè bene
scorgono, che se non pel momento presente, certamente nell'avvenire,
questa nazione ardita, ed intraprendente, divenuta florida, e prospera
abbaglierebbe col suo splendore quelle che sono attualmente le più
resplendenti, la nostra influenza diventerebbe preponderante in
Europa, ed ecco il perchè, o apertamente o copertamente, tutti i
gabinetti sono, per così dire, di comun accordo congiurati a tenerci
avviliti, disprezzati, e di niun conto nella politica generale; abbiamo
veduto, come siamo, non solo obbligati a violare quel giuramento
dato alla forza, ma bensì a darne uno nuovo all'Italia, e ci pare
aver le obbjezioni più delicate che far si possano dai contrari alle
insurrezioni, con ogni scrupolo vittoriosamente respinte. Abbiam pure
dimostrato che non ci manca nè la forza, nè gli elementi per resistere
contro qualunque nemico, se veramente saremo armati di quella ferma
volontà, che ad un tal uopo è necessaria; soggiungeremo quindi, per
avvertimento degl'amatissimi nostri compatrioti, quanto dall'illustre
scrittore Raynald viene in proposito di rivoluzione consigliato, cioè:
che sollevato un popolo contra i suoi oppressori al momento che questo,
schiavo del despotismo spezza le catene, e commette la sua sorte alla
decisione del brando, è costretto di esterminare tutti i tiranni, di
annichilarne la razza, e la posterità, di cambiare per intiero quella
forma di governo, di che fù vittima da secoli: e se non osasse di
ciò fare interamente, sarebbe tardi o tosto ben punito di non essere
stato coraggioso che a metà, il giogo ricadrebbe con maggior forza,
e peso sulla sua testa, e la simulata moderazione de' suoi tiranni,
non sarebbe che una nuova insidia, dalla quale verrebbe accalapiato,
ed incatenato per sempre: ci è stata questa verità gl'anni scorsi in
Napoli, Piemonte, Spagna, Portogallo bastevolmente dimostrata; e da
quella persuasi tutti gl'Italiani, che non avranno mai felicità da
sperare se non insorgono, e fino all'ultimo, i tiranni che calpestano
l'Italia, siano essi indigeni o stranieri, non distruggano; che non
hanno bisogno di alcun appoggio straniero per divenir felici, nè
debbono aver timore degli eserciti nemici, che siano ad invadere il
nostro territorio disposti, fosse pur anche il loro numero d'un milione
d'uomini, se forti, e decisi metteranno in pratica i precetti da noi
in questo trattato minutamente esposti, e con argumenti ed estratti
storici, comprovati; dal quale, fatti delle loro forze capaci, potranno
trarsi da per se stessi, da quella fetida fogna, in che sono per essere
affogati, e faranno sì che la loro patria, occupi quella brillante
posizione in mezzo agli stati europei, a che viene dalla natura
favorevolmente destinata.

Dice un autore moderno: che ai soli popoli classici, è concesso
di riprodursi col loro proprio genio, o per via d'una recondita
essenza, propria della terra degli eroi, e del sapere; ben chè lo
straniero per sua convenienza gli privi dei loro mezzi, conoscenze,
e virtù, ed estenda il vizio, l'ignoranza, e la miseria. Si domanda
continuamente, che cosa sia la fenice d'Arabia, ella è l'Italia, che
sempre rinasce dalle sue ceneri! Sì! e tocca pure oggi a questa fenice
di rigenerarsi, svellendo il male dalla sua radice, se vuole la sua
intiera rovina prevenire, essa è ben conscia, che da qualche tempo,
i suoi tiranni la guardano con maggior avversione, e furore perchè
sanno di essere dagl'Italiani abborriti; che la sua rigenerazione
non potrà mai essere intiera, se uno solo lascierà in vita di quelli,
avvegnacchè alcuno possa imbelle, mansueto, o nullo parere; che nessuna
confidenza dovrà riporre in coloro, che la resero l'obbrobrio delle
nazioni, e la tengono come loro trastullo; essa ben vede che una
volta unita, independente, e libera, diverrà felice, e possente; che
il fertile suo territorio darà un triplo prodotto di quello d'oggidì,
che i costumi depravati, e molli, per via delle buone instituzioni
diverranno migliori; che il vizio sarà precipitato dal trono, ed alla
virtù verrà nel cuore di ognuno, un altare innalzato; che numeroso,
attivo, obbediente alle leggi da lui fatte, o consentite, felice il
popolo nell'interno; con la sanità, robustezza, e valore in una guerra
laboriosa con le fatiche acquistato, si farà rispettare dagl'esteri, e
quelle messi, che non saranno più scialacquate dai tiranni domestici,
o dallo straniero divorate, vorrà, e saprà ostinatamente difendere;
che venti milioni d'uomini uniti, liberi ed independenti, d'un genio
maraviglioso, godranno come nazione, fra le potenze europee quella
considerazione, che (quando schiavi deboli e divisi, non eccitavano che
la compassione, o il disprezzo di tutti) giustamente gli rifiutavano;
che spariranno le miserie, le iniquità, e vizj, per dar luogo al
regno dei lumi, della prosperità, dell'abbondanza, e delle virtù; che
tutte le parti della Penisola egualmente floride, egualmente contente,
avranno fra di loro facile comunicazione, ed utilità comune; dimodocchè
al primo cenno tutte le forze nazionali troveransi, laddove sarà il
pericolo tosto riunite, per defendere i confini ma non per estendersi;
essa già ben conosce i tanti e tanti beni che si dovrà a quell'uopo da
una generale insurrezione promettere. Accingiamoci dunque all'opera,
Italiani; svelgasi dalle fondamenta la gotica mole, facendola con
terribile, inaudito scoppio precipitare; rimangano gli stranieri, ed
i tiranni sotto le sue rovine sobissati, si annientino quei rapaci e
sanguinosi nemici d'Italia, il cui solo intento è stato, e sarà sempre,
di comandare, di sforzare, di uccidere, e di rapire, che mettono la
crudeltà, la menzogna, il tradimento, le invidie, le minacce, e lo
spavento indistintamente in uso, che producono le false, ed infide
amicizie, le paci simulate, e le pestifere, infinte lusinghe! Si celino
le loro ossa agli occhi d'ogni vivente, se ne perdano le vestigia,
e solo la loro memoria rimanga perpetuamente al cuore di ciascun
Italiano, cagione di fremito ed orrore....

Per giungere a quel punto, converrà insorgere contro i nemici, e
giurare di fargli una guerra eterna, ed efficace; sguainar con animo
deciso la spada e gettarne per sempre via il fodero. Non mai abbattuti
da rovesci, risorger sempre finchè non siano compiutamente annichilati;
trasportato l'Italiano da santissimo patrio furore, si slancierà con
il pugnale alla mano, contro il barbaro Goto, che a bajonetta spianata
l'attende, lo affronterà petto a petto, glie lo immergerà, tutto tutto
nel cuore, e strapperagli dalle mani quello schioppo, che gli è per
ammazzarne degli altri, necessario; abbandonate le pianure, in luoghi
scabrosi ed inacessibili raccolti gl'insorti, piomberanno da ogni parte
con furia, ed accanimento sull'atroce, sfinito ed affamato avversario;
risoluti gl'Italiani di morire piuttosto che al giogo infame degli
stranieri, e tiranni interni star sottomessi, assai più la servitù che
la fame temendo, disposti a cessare di esistere sulla terra piuttosto
che strascinar come schiavi una vita obbrobriosa, lascieranno come
dice il citato Raynald, il nemico, e suoi squadroni, battaglioni,
armi, vettovaglie, munizione, ospedali, etc., nelle pianure, e nel
cuore delle montagne, senza bagaglio, senza tetto, senza provigioni
ritireransi. Saprà la natura nutrirli, e difenderli, dimorino in
quelle, degli anni, se sarà d'uopo, per aspettare che il clima, il
caldo, l'ozio, le dissolutezze abbiano divorati e consumati quei
numerosi campi di stranieri, che non avranno più nè da sperare bottino,
nè allori da cogliere; scendano coi torrenti dai monti per sorprendere
il nemico nelle tende dove riposa, e distruggere le sue linee;
disprezzino finalmente gl'ingiuriosi titoli di briganti ed assassini,
che gli saranno dati dai nemici: ed in questo modo riporteranno una
certa e compiuta vittoria. Questo sistema applicato all'Italia, e
sviluppato in tutti i principali particolari, per quanto meglio a noi
sia stato possibile, forma l'oggetto del nostro trattato.

Eccovi dunque Italiani il metodo per guidarvi! La teoria delle vostre
operazioni, i precetti della sola guerra che in oggi vi convenga:
a voi tocca di mettervi in campo! Sventoli una volta lo stendardo
Italiano! Risorga l'europea fenice! Spieghi nuovamente l'aquila
del campidoglio le sue ali dal ferro straniero fin oggi a vergogna
nostra tarpate! Vendichiamo la nostra bellissima patria da tante
sofferte ingiurie, e cada non meno inesorabile, che intiera la nostra
vendetta sopra gli autori del suo scorno e delle sue sciagure!
che l'impuro sangue dell'abborrito tedesco, a quello della razza
degenerata de' nostri tiranni commischiato, ci asterga finalmente
dalle contaminazioni, che finora la nostra cara Italia bruttarono!
Venga con quest'olocausto dall'oppressione in perpetuo liberata! Col
fuoco e col ferro fino all'ultimo de' nostri nemici si distrugga, e
facciasi con questa intiera vendetta, qualunque dei gabinetti europei,
che avesse intenzione di inturbidare nell'avvenire il nostro riposo,
ragionevolmente paventare! I nemici nostri, gli sciocchi e deboli di
tutto il mondo, faranno le maraviglie, ci chiameranno ribelli, barbari,
assassini, briganti, violatori dei diritti, perchè non verranno da
noi tutte le pretese leggi della guerra osservate; noi sorrideremo
con disprezzo a queste stolte invettive, e direm loro che barbari,
assassini, briganti, e violatori dei diritti erano i sozzi Tedeschi,
e tiranni nostrali, che noi abbiamo trucidati o siamo attorno ad
esterminare; in fine che il nostro diritto è fondato sulle leggi della
natura da loro barbaramente conculcate! Cada, o Italiani, la spada
vendicatrice su tutti i delinquenti! Purghisi da quel turpe stuolo
d'infami il suolo della nostra bella penisola! Riviva l'antico valore
negl'italici petti! Vengano le virtù di Roma nel premiero loro seggio
riposte! Si corra tosto armata mano, all'alto, e glorioso acquisto
dell'unione, independenza, e libertà della nostra afflitta patria!
da che solo ne può essere ingenerato lo splendore, la gloria, e la
felicità d'Italia!



                                 DELLA
                            GUERRA NAZIONALE
                             D'INSURREZIONE
                               PER BANDE,
                         APPLICATA ALL'ITALIA.



CAPITOLO I.

IDONEITÀ DELL'ITALIA PENISOLA ALLA GUERRA PER BANDE.


Fra le varie obbiezioni, da coloro che sono alla guerra per bande
contrarj, per l'ordinario, ai favorevoli opposte, quando tiensi
di quella ragionamento, una delle principali si è che la fisica
situazione della penisola, per quel modo di combattere conveniente non
sia, perciocchè lunga e stretta l'italica penisolare configurazione
facilmente venir potrebbe da' numerosi eserciti stranieri attraversata,
i quali le varie insorte parti separando, le potrebbero con vantaggio
bloccare, alle loro communicazioni togliere la via, la loro azione
infievolire, parzialmente combatterle, ed alla fine annientarle,
mentrecchè la tonda superficie della Spagna, con la capitale nel
centro, e la sua grande estensione di terreno, da essere d'uno
all'altro opposto punto del littorale attraversata, opportunamente
la guarentiva; epperciò potere quest'ultima, quella guerra non
meno cominciare, che sostenere, alla quale non trovasi l'Italia
per la differenza della sua superficie addattata, questi salamistri
Barbassori, da pigrizia e timore signoreggiati, tale sentenza con
autorevol contegno ne deducono. Ma quanto assurde e prive affatto di
fondamento sieno tali obbiezioni, provare nel corso di questo capitolo
speriamo, e che precisamente anche più della Spagna trovasi a quel
modo di guerreggiare, il nostro territorio idoneo, e solo per ora
quella ferma volontà, ferocia, attività, e pertinacia mancare, che dal
popolo spagnuolo furono nella guerra dell'independenza in grado eroico
manifestate, onde trarre degl'immensi vantaggi profitto, che le nostre
montagne ci forniscono, intendiamo di fare ad evidenza conoscere.
L'Italia, dice un commendevole autore, in forma di umana gamba con
la parte più larga di se verso il settentrione; unita all'Alpi, che
dalla Francia e dalla Germania la disgiungono, e difendono; tutta per
lo lungo s'immerge nelle acque, bagnata per tre lati dal mare, cioè
dall'Adriatico e dal Ionio a levante: dal Tirreno e dal Ligustico a
ponente, e a mezzodì dal Ionio e dal Siculo; nel cui stretto sporge
l'estremo del piede formato dalla Calabria. A lei dunque serve di
fossa il mare, di mura l'Alpi, e di trincee inespugnabili l'Apennino
che da un capo all'altro scorrendole sul dorso, la divide per mezzo,
e poi verso il fine in due rami si sparte che vanno l'uno ad Otranto
e l'altro verso del Faro; la sua lunghezza, presa dal ducato d'Aosta
sino a Reggio di Calabria, è poco meno di mille miglia; la larghezza,
dalla bocca del Varo sino all'Arza, è di cinque cento; e nel mezzo,
cioè intorno a Roma, di cento e cinquanta. L'esser poi ella situata
nel mezzo della Zona temperata, tra il quarto e il settimo clima, le
fa godere un'aria temperatissima e salubre sotto un clementissimo
cielo: dove una superficie alla guerra per bande più addattata,
puossi per avventura rinvenire? Qual riquisito, se non la volontà
degli abitanti, a sì favorevole situazione sarà mai per mancare? Come
puossi un sito così montuoso, pieno di fiumi, di valli, e di foreste,
come disadatto per le bande, avere in conto? Non v'ha dubbio che i
numerosissimi fiumi da' quali ad ogni passo ed in ogni verso trovasi
quella superficie tagliata, e gl'infiniti secondari che nel Tevere,
nel Pò, nell'Arno, nell'Adige, nel Ticino, nel Mincio, etc. dai
monti scorrono ed a quelli congiungonsi, per quindi le loro acque nel
Tirreno ed Adriatico maestosamente sboccare, mille bizzarre sinuosità
descrivendo, ed in tante differenti guise rivolgendosi; grande e
convenevol agio, tenendosi in mezzo alle operazioni della guerra
leggiera, non possano giornalmente arrecare; che per le tante valli,
dalle circostanti cordigliere delle Alpi, dalle Marittime, Cozie,
Graie, Rezie, Leponzie, Carniche o Giulie, Liguri e Pennine, fino ai
monti del Sannio della Lucania, successivamente formate, non meno
che pei moltiplici fertili colli di Monferrato, Euganei, Etruschi,
etc., le foreste e selve di Piemonte fino a quelle dell'Apuglia, le
risaie, paludi, stagni, le maremme sanesi, paludi pontine, etc., e
molti laghi esistenti, nessuno sarà per negare non sia una simile
superficie per sua topografica situazione, più di qualunque altra,
alla guerra per bande veramente idonea, del tutto comprovato; coperta
questa da fiumi, laghi, foreste, colli, e monti, gli abitanti dei
quali sono i soli che dei turtuosi giri, e coperti andirivieni di quei
dirupati burroni, di quelle balze alpestri, di greppi inaccessibili
in profondissimi precipizi terminanti, delle vaste ed intricate selve,
degl'incavati e bassi sentieri da spinosissime macchie coperti, delle
incerte traccie onde passare nei profondi, ampi, e neri paduli, chiane,
stagni, e lagumi, il segreto posseggono, ed il nemico, che non mai
potrà perfettamente conoscerli, saranno sempre capaci di contenere, o
distruggere, il quale se da tale intricato laberinto, a molestare le
bande colà operanti, segua che puote, si ostina, ne dovrà senza dubbio
colla peggio sortire; perciocchè se nell'interno senza ben bene la
topografia del paese conoscere, marciando in ordine serrato e compatto
s'ingolfa, perirà tanto per la difficoltà del terreno, come per lo
pericolo che corre il soldato, se isolatamente si stacca, di trovarsi
ad ogni momento dagli abitanti circondato, i quali dalle più erte
vette, anche soli massi di pietra precipitandogli addosso, quando sù
pei macigni rampicarsi temerariamente si voglia, e coll'urto violento
di quelle, di schiacciarlo ai piedi, od alle falde, non mancheranno; ed
in secondo luogo quand'anche tutte le difficoltà, con sommo coraggio,
perseveranza, ed abilità superando, possa fino ad una sommità per
sua buona ventura poggiare, da lungi scorgendolo i difensori, e tosto
dispergendosi, per andarsi in altro simile e fors'anche più scosceso
luogo riunire, l'agio di guizzarli di mano facilmente ne avranno;
di niun effetto la sua spedizione diverrà, ed all'inetta truppa che
alla lunga non avrà capacità di resistere, sarà gravissimo danno
per arrecare. Poichè l'Appennino che per tutta la superficie della
penisola si estende, tali e tante convenientissime situazioni ci
presenta; non potrà dunque un esercito straniero, collocato in linee
traversali, le varie insorte parti d'Italia, in nessun modo dividere,
e siccome non puossi con un cordone di truppe, una catena prolungata
di monti circondare, nè come abbiam detto, in quelle ingolfarsi senza
la certezza di grandi patimenti, ed il pericolo di non venire a capo
del tentativo, non gli sarà possibile di giungere al termine d'isolare
le insorte parti, ed alle loro communicazioni serrare il passo: può
inoltre la forma bislunga ed il tanto esteso littorale della nostra
penisola bagnato dal Tirreno ed Adriatico, moltissime facilità alle
bande procurare, onde in quei punti dove il nemico si trovi più debole
di forze, rapidamente trasportarsi, ed all'improvviso arrivandogli
addosso, quello sorprendere, e distruggere; utilissima pur anche
esser questa situazione potrebbe, onde la fuga di quelle bande che
fossero da vicino inseguite, col mezzo dell'imbarco assicurare, e
quel sistema di guerra, che di sparire in questo luogo in fronte a
forze superiori consiste, per quindi in un altro punto moltiplicarsi,
dove si trovino inferiori, può con successo mantenere non meno che
agevolare. I numerosi fiumi navigabili, che con le loro sinuosità
in ogni direzione il nostro continente attraversano, e le selve che
alle sponde di questi, dai monti dove nascono, per le pianure dove
corrono, fino alla foce dove congiungonsi col mare, si prolungano,
debbono senza dubbio essere, per favorire i movimenti delle bande,
convenientissime considerate; come pure, le tanto estese paludi che
in molte parti della penisola esistono, nelle quali può un accorto, e
destro condottiero, con dimostrazioni e lusinghe il nemico attirare;
per quindi dell'immenso vantaggio, di colui che nel proprio paese
guerreggia (cioè di tutti ben conoscere i luoghi praticabili di quei
lagumi), trarre conveniente profitto; conciossiacchè se da un nemico
forestiero che non gli avrà mai veduti od almeno mai praticati, e dei
quali non potrà mai esserne perfettamente al fatto, fosse inseguito,
se astuto il condottiero lo cosa scaltritamente dirige, dovranno le
schiere avverse nel fango affogate senza fallo rimanere. Altri molti
argomenti avremmo in appoggio di quanto abbiam detto rispettivamente
ad essere la situazione topografica d'Italia la più idonea, ed
una delle migliori per la guerra d'insurrezione per bande, se in
numerosi particolari spiegativi entrare intendessimo, ma i principali
accennati, piucchè sufficienti crediamo, a chiunque in dubbio fosse,
sulla territoriale positura del paese, appieno persuadere. La seconda
obbiezione quella si è: che nell'inverno sarebbero, le bande sulle
nostre montagne, del bisognevole per alla lunga sussistere, scarse,
o del tutto mancanti. Egli è vero, che le alte vette delle Alpi sono
tutto l'anno di neve coperte, e che sino alle falde, in quella stagione
se ne vestono; ma noi a tale obbiezione vittoriosamente opporremo, che
i Pirenei trovansi pur anche nello stesso caso, e però le bande che per
molti anni tanto in estate, quanto in inverno con somma gloria stettero
contro i loro invasori, in armi, non per questo si sottomisero; hanno
pure le nostre Alpi una principale, e varie secondarie cordigliere,
coi loro contrafforti che in colline finiscono e come speroni di
quelle considerare, per la qualcosa non potendosi alla cresta della
principal cordigliera mantenere, non ne avviene però, che continuata
dimora, non possa una banda in quelle secondarie non meno, che sulle
colline stabilire; l'essere poi le Alpi, e l'Appennino di villaggi
fino ad una certa altezza seminati, gli abitanti dei quali tutto
l'anno rimanendovi prosperi, sani, e robusti si conservano, dovrà
chiunque convincere, che se vivono quelli, pure i volontarj delle bande
sussistere potranno, e se monti vi sono che o tutto l'anno, o parte di
quello, praticare non possansi, poco danno ancora ne sarà alle bande
per ridondare, perciocchè se quelle non possono, meno sarà possibile
al nemico di mantenersi, con la differenza, che conoscitori i nostri
volontarj, del terreno, ed assueffatti all'asprezza dell'atmosfera di
quei scabrosi luoghi, tutto in favor loro influirà contro i maledetti,
schifosi Tedeschi; e che più difficile a quelle sia, che al nemico, di
mancare dell'indispensabile sussistenza, non havvi il minor dubbio,
perchè quel poco nei boschi, o campi raccolto, sarà sempre dagli
abitanti dei villaggi, coi loro connazionali, coi loro difensori,
con quelli che pel popolo combattono, che con lo stomacoso, e lercio
straniero, disprezzevole servo, campione della tirannia, con maggior
piacere e soddisfazione diviso. Ecco dunque i due problemi che potevano
sull'opportunità del sito per condurre la nostra guerra, far titubare,
del tutto favorevolmente risoluti.

Ma chè andiamo noi lambiccandoci il cervello pell'idoneità della
superficie d'Italia di mostrare, quando la storia ci fa toccar con
mano, che già in certe parti di quella, tal sorta di guerra ad un
dipresso si sostenne; di fatti non vediamo noi quei Liguri (come
intrepidi e feroci dalle antiche cronache non meno, che da Polibio
descritti, non mai sommessi ai Tirreni padroni di quasi tutta l'Italia,
nè dai Galli tanto bellicosi soggiogati) avere per ottant'anni
continui, col metodo da noi indicato, alla formidabile possanza dei
Romani, padroni dell'antica Italia, della Sicilia, d'una parte della
Spagna, e delle Gallie ostinatamente resistito? E dove mai fecero tal
resistenza? dove si trova un tanto idoneo territorio, per favorire
coll'asprezza sua un pugno di valenti, contro i gloriosi eserciti
vincitori del mondo? Non sarà certamente a rinvenirsi fuori d'Italia;
ecco gli Appennini e i ligustici monti, che ancora fanci dell'antica
gloria genovese sovvenire, lo stato dei quali tutta quell'estensione
di terreno comprendeva, tra il Pò e l'Appennino esistente; i Genovesi
sugl'Appennini, nella parte denominata Lunigiana, e nella Liguria
occidentale, in oggi riviera di ponente, sempre in guerra, quasi alla
da noi proposta, eguale, con vigore, e successo mantenevansi: tal
popolo, dice Tito Livio, al libro trentanove, capitolo primo, era un
nemico lesto, ed attivo, che si trovava a tempo, dovunque, che non
lasciava ai Romani, nè riposo, nè sicurezza: e Strabone pure, al libro
quinto, osserva, che avevano poca cavalleria, ch'erano buoni soldati
armati gravemente, ma sopratutto eccellenti alla leggiera: infatti,
quegli ottimi valorosi guerrieri, favoriti dalle loro montagnose
situazioni, erano dai più numerosi eserciti tanto temuti, che appena
osavano quelli ai loro paesi avvicinarsi; e pervenne pur anche la
Lunigiana a liberarsi, nell'undecimo secolo dai Barbari, che nella
generale invasione d'Italia avevanla soggiogata; i sanniti, attuali
abbruzzesi, che tanto nei tempi antichi diedero che fare ai Romani;
i Calabresi che nei moderni per molti anni dell'immensa forza del
sorgente impero francese, si fecero beffe, oltre tanti, e tanti
altri esempi che ancora citar potremmo, tutti l'idoneità del nostro
territorio alla guerra di che teniamo ragionamento, assai chiaro
confermano. Quanto poi deve il già detto certamente avvalorare, la
certezza di fatti, cioè esistenza continua, di tante schiere di banditi
che per anni la nostra Italia infestarono, e tuttavia varie parti
di quella, ne sono anco in oggi vessate, dimodochè un solo stato in
quella, contare non puossi nel quale varie quadriglie di masnadieri,
non siansi per lungo tempo mantenute; od attualmente ancor non
esistano! Sulle Alpi che dominano il Mondovì, il famoso Michele Mamino
per sei o sette anni, contro la gendarmeria, e le numerose colonne
mobili francesi spedite a combatterlo si sostenne, aveva egli preso
il titolo d'imperatore delle Alpi, e l'autorità sovrana esercitava;
facevasi dai villaggi, e fino dalle città circonvicine, puntualmente
obbedire; imponeva balzelli, che per paura della sua banda, venivangli
a puntino pagati; finchè non cadde per mano d'uno de' suoi compagni
da cui fù per tradimento ammazzato. Altra sulle stesse montagne dal
ben noto Dragone diretta ebbe pure molti anni di durata, e solo per
aver dato alle promesse dei Francesi troppa fede, cessò d'esistere,
la non men celebre banda, detta di Narsole: di quanto, grave danno
non fù cagione ai francesi che la perseguitavano? E quanti anni non
ha essa durato, sebbene altro in realtà non fosse, che una masnada di
rubatori che correvano le campagne? e quanti francesi nella Frascea
vicino a Pozzuolo, tra Marengo e Novi non caddero, per le mani della
quadriglia del rinomato Maïno che per cinque o sei anni esistette? E
quella sì fattamente inseguita e temuta: che tanti gendarmi, colonne
francesi e dopo il ritorno del tiranno, tanti carabinieri piemontesi
distrusse, che sotto la direzione dei due fratelli Bosio, situata sul
monte Bracco, alle falde del Monviso dominante il paese di Barge, durò
più di dieci anni, e non fù mai possibile di annichilare, se non con
la morte data per inganno ad ambi i fratelli da loro stessi parenti,
al soldo della polizia sarda! In quanto alle altre parti d'Italia, chi
non sa, essere quel territorio, sempre, in ogni dove da tali masnade
infestato? Nelle pianure, alle rive dei fiumi, sulle colline, e sulle
montagne, trovarsene? La Lombardia, la Toscana, lo Stato Papale, e
Napoletano rigurgitarne? Parecchi capi delle quali al punto giunsero
di essere quai più famosi briganti d'Europa celebrati? Recentemente
un Massaroni nello stato papale, ed i fratelli Verdarello, nello stato
di Napoli pochi anni fa, tale celebrità s'acquistarono; i luoghi e le
operazioni di quest'ultimi, più specialmente accenneremo, potendosi da
quanto venne operato da uno, più o meno il resto agevolmente dedurre.

Gaetano Verdarello, e due suoi fratelli, nativi della città d'Andria
nella Puglia, soldati al servizio di Ferdinando, tiranno di Napoli,
quando dalle truppe francesi fuori del regno cacciato, avea in Sicilia
la sua dimora stabilita, disertarono, e nel territorio napoletano
portatisi, una banda a cavallo, di trenta e sei uomini, quasi tutti
disertori, misero tosto in piede: la Puglia Basilicata, gli Abbruzzi,
il contado di Molise, e più particolarmente il bosco di Montemelone,
la foresta, e valle di Bovino, erano da quella frequentate; contro
tutte le colonne mobili di truppa di linea francesi, di guardia
nazionale, e di gendarmi, che pel corso di circa sei anni, non
cessarono di perseguitarla, senza poterla mai prendere, nè danneggiare,
con estraordinaria protervia si mantenne; nel 1815, al ritorno del
tiranno in Napoli, dell'indulto generale dato a tutti i fuorusciti,
i Verdarello profittarono; ma penetrata dal Gaetano, l'intenzione
del governo, che temeva un tanto feroce uomo alla testa d'un certo
partito, ed avea deciso di farlo in beffe dell'indulto, trucidare, con
i suoi fratelli nella Puglia, ove formò un'altra banda di cinquanta
uomini, misesi di bel nuovo in campo; una colonna mobile di fanteria
e cavalleria di Napoletani e Tedeschi composta fù dal governo,
immantinenti ad attaccarlo spedita; avvertito a tempo di questa
spedizione posesi Gaetano in imboscata: lasciò la vanguardia tutta
di Napoletani liberamente passare; sui Tedeschi quindi, con furore
avventossi, quelli alla prima giunta messi in isbaraglio, i Napoletani,
che già eransi di troppo allontanati, alle spalle con vigore assalì,
ed a precipitosa fuga li costrinse; varie volte furono simili attacchi
ripetuti, ed ebber sempre la stessa riuscita; stanco alla fine il
governo Napoletano, della continuata esistenza di questa banda colla
forza, invincibile, a far pratiche col Verdarello si decise, e mandogli
una bellissima capitolazione a proporre, ma vennegli a tutte le
vantaggiose promesse negativamente risposto, e solo a negoziare qualora
il governo austriaco, la parola del tiranno, ed il trattato mallevasse,
mostravasi il capo della quadriglia propenso. Fra le tante sozze male
azioni che il regno di Ferdinando disonorarono, sonvene senza dubbio
delle crudeli, ed ai cuori onesti sommamente repugnanti, ma una di
questa più abbietta vergognosa, e vile non crediamo nel registro delle
nequizie di quel tiranno lazzarone trovare si possa; stretto dalla
pertinacia del Verdarello, il codardissimo governo di Napoli alle sue
pretese acconsentì, e fù il comandante Tedesco della piazza di Foggia,
certo Tilla, una convenzione in nome del lazzaronico tiranno sotto la
guarentigia dell'Austria a distendere, e firmare incaricato; conferiva
questa convenzione a Gaetano Verdarello, il grado di colonnello negli
eserciti del tiranno; tutti i suoi soldati come uffiziali, riconosceva;
ed assegnava una paga corrispondente ai loro gradi con obbligo però
di tenere quei cammini sgombri dai ladri. Furono da ambe le parti
pel corso di mesi sei le condizioni mantenute, finchè passando un bel
giorno Verdarello colla sua banda nel villaggio d'Ururi, diretto verso
la Puglia, troppo nel trattato confidente, senza quelle precauzioni,
che prima di essere al tirannico servizio solito era di prendere,
fù da un'imboscata di militi, tesagli d'ordine del governo dalle
finestre d'una casa, a schioppettate ammazzato. Basti questa narrazione
per provare, non sola la possibilità, ma ben anche la facilità di
ordinare, e mantenere le bande in campo; delle Calabrie, dei famosi
fra Diavolo, abate Pronio, e Giuseppe da Furia non parleremo, perchè
abbastanza per la loro resistenza, e pei luoghi dov'erano stabiliti,
sono a tutti notissimi; noi di proporre questi masnadieri, per esser
nel loro scopo imitati certamente non intendiamo, ma gli abbiamo ai
nostri leggitori, citati, affinchè si vegga, non essere il luogo, nè
i mezzi per la riunione, independenza, e libertà d'Italia, ma la sola
buona e ferma volontà degl'Italiani, mancante; riflettendo inoltre
che se gentaglia simile screditata, e da tutti aborrita, (perchè
il solo bene da quella operato, fra i moltissimi mali, consisteva
in ammazzare di tanto in tanto qualche straniero occupatore) buona
accoglienza in tutti i luoghi villaggi, e città per dove passava,
solita era siffatta canaglia di trovare; a cagione solamente del timore
che pel presente, o pell'avvenire incuteva, e se per tal modo, esatte
informazioni, vettovaglie, ed armi non mai gli mancavano; che facilità,
che accoglienza, che soccorso, non dovrà quella banda, composta di
veri amanti del paese, promettersi, il cui unico scopo sia lo sterminio
dello straniero, la patria dai cattivi purgare, e la libertà, unione,
independenza sinceramente bandire? Si verrà quella fuor di dubbio
nella capanna del contadino, nel tugurio del pastore, sotto il villesco
tetto del bifolco, nell'abituro del villico senza timore ricettata, e
con giubilo, anzi con trasporti di gioja, dai semplici, ma sinceri e
forti Alpigiani festevolmente accolta; a dovizia pure sarannogli dalle
città le bisognevoli grascie con frequenza mandate; ed ove del tutto
per mezzo del timore, al loro mantenimento tali masnade provvedevano,
cui gl'abitanti la richiesta retribuzione, per via di spaventevoli,
e villane minaccie porgevano tremanti, le bande rigeneratrici della
patria, dalla massa dei contadini, appoggio troveranno, offerte
volontarie, provviste, benedizioni ed applauso.



CAPITOLO II.

DELLA CAPITALE.


Dall'epoca della rivoluzione di Francia infino al giorno d'oggi,
misesi dai guerreggianti capitani, la napoleonica massima di marciare
a dirittura sulla Capitale dell'avversario, continuamente in pratica,
il possesso della quale metteva un termine alla guerra e faceva la
vittoria in favore di chi assaliva, dichiarare; ella è in oggi opinione
universalmente ammessa, che una volta la Capitale caduta, debbasi
aver la guerra per terminata; e ben si appone, perchè molti, e molti
esempi delle ultime passate guerre lo comprovano; e noi quando si
tratti di una guerra regolare, tra tiranno e tiranno, o tra re e re
costituzionale, e che non sia una guerra nazionale d'insurrezione non
possiamo, nè vogliamo il contrario asserire; perchè siccome nel primo
caso le principali risorse, per fornire l'esercito del bisognevole,
magazzeni, depositi di materiali, d'armi, e di munizioni, le casse
dello stato, e dei principali possedenti, e ricchi del paese, le più
distinte famiglie, e magistrature in quella trovansi raccolte; ne
avviene che se il nemico giunge ad impadronirsi di quell'emporio delle
risorse dello stato, manca la fonte delle provigioni pell'esercito,
cade in isfacelo il trono, e privo il principe degli elementi, pel
possesso, di quali pareva agli altri uomini superiore, ed agli occhi
degl'imbecilli un certo prestigio conservava, diventa un uomo come
gli altri, e sovente meno de' suoi sudditi, perchè assai più inetto di
loro, per la sua dappocaggine, paura, e stupidità vituperevole; così
lo stato è conquistato, e messo a soqquadro, per la sola caduta della
città ordinariamente la più corrotta, e fra tutte le altre la meno
energica, gli abitanti della quale sono per lo più dalle dilicatezze
d'una vita effeminata, e lussureggiante, che passano spensieratamente
nei bagordi, e vizj d'ogni specie, ammorbiditi, e snervati; per lo
chè diventano gracili di corpo, cagionevoli di salute, raggiratori,
paurosi, di sottili e timidi consigli, perchè conscii della loro
individuale debolezza; non resi pertanto da quella conoscenza, di
esser da meno dei provinciali, persuasi, dannosi sopra quelli, con
incomportabile jattanza, il vanto di superiorità, sui quali non hanno
diritto alcuno di primeggiare se non nei vizj e nella fiacchezza;
e vogliono senza esporre la loro vita alla durezza delle fatiche
di una guerra laboriosa, a tutti i loro compatrioti orgogliosamente
comandare; si cimenteranno forse con ardore in una zuffa passaggiera,
e si comporteranno anco gagliardamente, a ciò, dalle massime d'onore
stimolati; ma non avranno mai quella tanto commendevole, e tanto
necessaria ostinazione, che col prolungare la contesa, assicura
la vittoria, perchè il loro imbozzacchito dilicatissimo corpo non
potrebbe i disagj della guerra lungamente sopportare, verrebbe, la
loro bellezza dalle intemperie della stagione danneggiata, e del pari
la loro eleganza e morbidezza; sarebbe per la recovidità, semplicità,
ed energia del guerriero da lunga pezza assueffatto ai campi, ad un
continuo smacco soggetta; laonde sono gli abitanti delle capitali, e
sempre i più disposti saranno, a negoziare col nemico, ed a cedergli la
città; eppure secondo il modo di far guerra oggidì, dalla resistenza
o caduta della capitale, dipende la salute dello stato! la presa di
Vienna, e di Berlino diede varie volte il possesso della Prussia, e
dell'Austria a Napoleone; la presa di Parigi nel 1814 diede la Francia,
popolata da più di trenta milioni d'abitanti con molte fortezze ben
guarnite, e capaci di lunga resistenza, con l'esercito della Loira,
con altre molte legioni sparse in varie parti dello stato, che tra
tutte potevano a più di duecento mila uomini di truppa sommare, con
cinquanta mila guardie nazionali di Parigi, ed il decuplo se tutte
quelle delle varie città del paese si contassero, la diede in mano
di seicento mila stranieri settentrionali, che i maggiori possibili
danni gli cagionarono, ed il maggior insulto fecergli che mai si
potesse aspettare, cioè quello di costringerla a tenere sul trono
come padrone, uno di quei Borboni, ch'essa, o per isbaglio o per
inopportuna moderazione, aveva nel tempo de' suoi rivolgimenti politici
alla scure vendicatrice della patria, risparmiati; e migliaja d'altri
esempi di tal fatta vengono in appoggio di quanto abbiam detto; ma
s'egli è vero che nella guerra regolare in questi tempi, la presa
della capitale all'aggressore dia la vittoria, ciò però in una guerra
nazionale d'insurrezione non accade, quando il popolo è ben deciso di
respingere una invasione straniera, quando vuole disfarsi dei nemici
interni, perchè allora insorge, e non ha bisogno di avere tutti quei
mezzi nella capitale, concentrati, ogni villaggio, ogni città, per quel
modo di combattere, gli è capitale. La banda che nel circondario di un
villaggio, di una parrocchia prende il campo, in che un numero uguale,
o di poco maggiore al suo d'abitanti vi esiste, i quali mangiano,
dormono, in somma vivono, e che possono d'alcune armi provvederla, non
ha più d'uopo d'altro: non cura la capitale; nè se si sostenga, o sia
perduta un micolino gli monta; non pretende da lei nessun soccorso!
non essendo la sua esistenza in nulla da quella dipendente; non vede
nessun grave detrimento al paese, e di quegl'abitanti si ride che non
ebbero nè la forza, nè l'ingegno di respingere i barbari, e colle pive
in sacco le spanpanate e millanterie, in tanta viltà, ed umiliazione
cambiarono! ed in vece di perdersi di coraggio per ciò, la sua energia
del doppio aumenta; così deve succedere quando la guerra è nazionale,
e così sempre in quel caso succede; cadde Vienna, Berlino, Parigi, e
caddero i loro stati, perchè la guerra in quel tempo non era nazionale;
ma ridotta in cenere Moscow, non andò in precipizio la Russia, che anzi
la guerra prese un carattere più accanito, il popolo non abbandonò
le armi, finattantochè non fù l'invasore compiutamente distrutto, od
espulso. Cadde Madrid e precisamente dopo la sua caduta, quella guerra
per bande cominciò che varj eserciti francesi distrusse e finì dopo
sette anni di sudori e rischi, per averne la meglio i nazionali. Perchè
mai dunque tanta differenza da quelle altre, nel resultamento? Perchè
queste erano guerre nazionali e quelle no; in queste la capitale era
di nessuna importanza pel popolo, che per se stesso combatteva; in
quelle ai militari moltissimo rilevava, i quali vedevano nella perdita
della capitale la fonte degli ordini, degl'impieghi, dei gradi, delle
ricchezze, e dei ciondoli, per loro disseccarsi; epperciò un assai
maggior comodo ed individuale vantaggio, nel trattare col nemico,
e renderla a patti, trovano, sebbene con la crudele certezza della
rovina del loro padrone anzicchè fino alla morte, od alla compiuta
distruzione dell'avversario, difenderla. Di nessuna importanza per
la guerra nazionale d'insurrezione si è certamente l'esistenza di una
capitale, può quella far del bene se sussiste, ma non produce se manca
alcun male; di niun danno dunque dovrà essere all'Italia la mancanza,
per adesso, di una capitale centrale; potrà dalle tante che possede,
se le sono favorevoli qualche vantaggio ricavarne, se poi le saranno
avverse, ciò che non è da supporsi, non avrà il condottiero, per la
loro caduta nelle mani del nemico, affatto da temere, perchè alla
distanza di poche miglia da quella che soggiacque, ne può un'altra che
lo ajuti e sostenga, opportunamente ritrovare, con la probabilità che
i popoli del circondario di un altro, punto non s'intimidiscano per la
disgrazia da quella sofferta. Tale pur era l'andamento della Spagna,
nella guerra dell'independenza, giacchè, come ognun sa, è quella
penisola un aggregato di tanti piccoli stati, i quali erano anticamente
separati ed independenti come gli stati italiani d'oggidì, quasi
sempre fra di loro in aperta guerra; e che le loro leggi costumanze,
costumi, rimembranze istoriche, odii provinciali, ed il loro spirito
d'isolamento, pervicacemente conservarono. Trovavasi Madrid in mezzo
alla Spagna, senza quasi nessuna relazione con le altre città, e la
sua influenza non estendevasi al di là dei limiti della provincia di
Castiglia; credevasi Napoleone di possedere una gran cosa, di tenere
tutta la Spagna nelle mani avendo Madrid; ma grande tempo non tardò
ad accorgersi del suo falso calcolo, e persuadersi che in nulla il
possesso di quella capitale, lo favoriva, perchè sebbene la Navarra,
la Biscaglia, le Castiglie, la Gallizia, l'Arragonese, e la Catalogna
con molte truppe occupasse; a suo malgrado sù gli occhi stessi di tutti
questi eserciti, che avevano il loro gran centro in Madrid, migliaia
di bande si misero in campo, e tanto gli molestarono, che disperando
Napoleone di poter in sì fatto certame, a che avvezzato per anco non
era, luminosi ed immediati risultamenti ottenere, disgustato, lasciò
la penisola, dubitoso di perdere, o menomare in quel nuovo modo di
combattere, quella gloria ch'erasi fin allora in tante battaglie
campali giustamente acquistata, e seguito da poche truppe andossene
in Francia. Abbiamo come possa l'Italia, la guerra d'insurrezione per
bande sostenere senza una capitale centrale, bastevolmente dimostrato,
ma non dimeno se non è questa nel principio della contesa, necessaria,
o se anche non è in tutto il corso della guerra per esterminare i
nemici, affatto indispensabile, non si può però negare, che sia quella,
di una vitale importanza, onde le operazioni generali concentrare non
meno, che consolidare ed istabilire l'unione delle varie separate
provincie in uno stato solo. Percorrendo le relazioni della guerra
dell'independenza, così vedesi, essere in Ispagna successo allo
stabilimento della giunta centrale, la quale tanto quella guerra
promosse, e rese utile, che per la troppa sua dilatazione, e mancanza
di centro, già cominciava a decadere. Maggiore n'è l'importanza, pella
Italia, dovendo le varie parti in un corpo solo dopo tanti secoli
di separazione unire, per la qual cosa fassi una capitale centrale,
vieppiù necessaria, per quello stato formare non men, che dirigere.
Già pare di vedere tutti gli abitanti delle attuali numerose nostre
capitaluccie italiane, inarcar le ciglia, e gli occhi, e le orecchie
attentissimamente aprire, ciascuno sperando e pretendendo che quella
dov'egli è nato, per essere capitale della nuova Italia, si proponga;
sette ed anche più città della penisola concorrerebbero nella
pretensione di essere la capitale, ma siccome una sola è necessaria,
sei o più dovranno ad essere secondarie inevitabilmente rassegnarsi;
massime poi che queste presuntuose, sono fra tutte le città, quelle
che nella massa generale degli elementi di regenerazione italiana,
solo pochissimi, deboli, e di tenue vantaggio ne presentano; uno stolto
generale goto, altrettanto sozzo, quanto bugiardo, ed alcuni scrittori,
mossi o da malvagità o da sciocchezza, osarono sfacciatamente
dichiarare non essere cosa possibile, in un solo stato l'Italia
riunire, perchè male se ne potrebbe fissare la capitale! Oh svergognati
mentitori! oh scipitissimi pecoroni! tacete, anzicchè simili falsità,
simili sciocchezze con la vostra solita impudenza palesare! O voi
balordi, che in quel modo bestemmiate, perchè non aprite la storia
dei vostri antichi padroni? E se l'avete letta, non dovreste in
quell'errore inciampare, perchè ben chiaro si vede che l'Italia è stata
la padrona del mondo? E che questa aveva una bellissima, gloriosa,
venerabile capitale, che tuttavia esiste, e viene giustamente la città
eterna nominata? Che l'Italia non abbia capitale, potrete voi ancora di
buona fede asserire, quando quella possede, che fù il centro del mondo,
delle virtù, del valore, e della gloria? Tutte le stolte pretensioni
delle altre capitali, debbono all'aspetto di Roma sparire, dileguarsi!
Dove trovasi nel mondo intero, una città che tante eroiche ricordanze
presenti, così necessarie ad esser alla memoria della generazione
attuale richiamate? Tanti monumenti dell'antica gloria italiana? Tante
preziose reliquie di quei sommi che dobbiamo venerare, e porre ogni
pensiero, ogni sollecitudine e per degnamente imitare? Qual è quella
capitale, che abbia tanto mal fondato, ed impudente orgoglio, per
volersi a Roma in un minimo pareggiare? La culla di Bruto, di Cassio,
di Catone, di Virgilio, etc., non ha pari, non che in Italia, nel
mondo!

Quella fù, e sarà sempre la capitale d'Italia, quando gl'Italiani
avranno più in pregio la gloria, che la viltà. Alcuni giustamente
ci opporranno, che se quella città merita ad ogni titolo pe' suoi
antecedenti, di essere indisputabilmente la capitale, non n'è però
degna oggidì, perchè si trova la cloaca massima rigurgitante lordume
d'ogni vizio, d'ogni disonestà! e che male per futura capitale
dell'Italia unita, independente, e libera, quella si converrebbe,
che in realtà, è in oggi la capitale dell'impostura, del raggiro,
dell'inganno, fucina delle arti le più prave, e più sottili, per tenere
i popoli dalla fisica, morale schiavitù aggiogati, gli abitanti della
quale, figli per lo più della depravazione di costumi, cresciuti, e di
continuo, alla scuola della viltà, e della servitù educati, non sono,
che pei sozzi ed effeminati servigi capaci, e non posseggono le qualità
necessarie per essere abitatori della capitale di una guerriera,
virtuosa, e forte nazione, perlocchè la sola costanza, perseveranza,
e valore, in molte e ripetute disgrazie ch'essi non possono avere,
non sono ancora nemmeno bastevoli, ma d'uopo evvi pure di un deciso e
grande carattere nazionale, di un giusto orgoglio, e di un odio contro
la tirannia interna, dallo straniero armato, con profonda radice bene
abbarbicata, le quali virtù non sono, proprie dei _papalini_ abitanti
di Roma, che neppur per gabbo vogliamo coll'eroico nome di Romani
appellare, noi non potremmo senza mancare alla verità, alle surriferite
considerazioni valevolmente opporci, e nessuno potrà negare che la
maggior parte della popolazione di Roma sia di calcare quella terra,
che senza dubbio è polvere d'eroi, affatto indegna, poichè in mezzo
alle mura di quell'antica republica, che non contempla con ammirazione,
rimansene schiava ed abbietta. E che per la sua viltà sotto la sferza
dei preti, non è più capace di sentire gli stimoli della passata
gloria, nè di mirar con orrore la presente vergogna, suscettibile;
noi conveniamo. La popolazione è inetta, anzi, al nuovo stabilimento,
sarebbe nocevole; ma dovremo noi perciò il vantaggio di avere una
capitale che ha un tanto forte, e tanto possente prestigio morale
sugli animi agl'incitamenti di vera gloria sensibili, trasandare?
Dovremo noi, perchè quattro sciagurati abitano fra quelle venerabili
classiche mura, ad una capitale rinunciare, che tutte le qualità
possede per essere florida, e conveniente ad uno stato ben regolato dal
filosofo stagirita prescritte? Che non è nè troppo lontana, nè troppo
vicina al mare; acciocchè, come dice il succitato Aristotile, per la
troppa lontananza non resti priva dei molti commodi che quello suole
apportare, e non sia con la troppa vicinanza, ai pericoli d'assalti
improvvisi, ed alla corruzione ordinaria delle città, che sono porti
di mare, sottoposta; sarebbe il sito sanissimo, e buonissima aria
spirerebbesi, quando fosse ben ripopolato, e che fossero gli abitanti
attivi ed industriosi; perchè ben si sa che già lo era negli antichi
tempi, e si legge in Tito Livio, _saluberrimos colles_; sito che per
mezzo del fiume e delle strade può avere da ogni parte della penisola
e dal Mediterraneo abbondanza continua di vettovaglie; difficile ad
essere da popoli lontani all'improvviso assalito; e per la sua centrale
positura; quasi ad eguale distanza d'ogni provincia, nel caso di
facilmente con tutte le più lontane parti della penisola, ad un tempo
communicare e per tal modo con energia, e prontezza a tutte egualmente
sopravegghiare, dirigere e contenere! dove trovasi un'altra simile
città in Italia? Il solo intoppo negl'abitanti consiste! Si purghi
dunque il Panteon dell'antica gloria italiana dalle sozzure, che lo
infettano; si mandino in quella città, robusti, e decisi Romagnuoli
nei quali ancora una tinta si scorge dell'eroico carattere romano,
si uniscano loro dei Liguri, Piemontesi, abitanti degli Appennini,
Bresciani, Abbruzzesi, e Calabresi, Siciliani, Elbani e Sardi, tutti
fra gli abitatori dei monti, trascelti; e non crediamo di cadere
in isbaglio nel predire, che pel buon regime di governo italiano
ben ordinato, e con quella capitale, saranno le maravigliose gesta
degli avi nostri, per rinnovellarsi, e come fenice dal suo rogo, la
sfolgoreggiante gloria dell'antica Roma eccelsamente risorgere, mentre
gli eletti rappresentanti del popolo italiano, per prudenza, energia,
saviezza, e dottrina, superiori a chiunque, nell'unico, mirabile,
stupendo tempio del Vaticano congregati, faranno restar di maraviglia
sospeso il mondo, e sarà per tal modo il più magnifico edifizio in oggi
esistente, in ampia, e venerabil Aula del più luminoso parlamento del
mondo, gloriosamente trasmutato.



CAPITOLO III.

DELL'ONOR MILITARE.


Quel generoso sentimento, che destandosi nel cuor dell'uomo, alle
grandi, generose, e laudevoli opere lo sublima, facendo sì che la
publica estimazione dall'universale concessa come tributo alla virtù,
per lui divenga una vera necessità, esser l'onore, noi opiniamo. Ma
pell'ignoranza e per inveterate assuetudini, che spesso la natura
delle cose corrompono, e per sciocche, e false opinioni dalla barbarie
del medio evo generate, ed in retaggio tramandateci, reputasi in
un paese, virtù, ciò, che in un altro, vizio si considera, cosa
che punto non avverrebbe se la virtù nel far bene alla patria,
primieramente, e quindi agli uomini tutti consistere, fosse dall'umana
congerie, universalmente ammesso; e come virtuose quelle azioni non
si considerassero, che da un tale scopo si allontanano; e vizio tutto
quanto alla patria ed agli uomini nocumento arreca non si appellasse.
Però siccome una piccola parte degli uomini vuol vivere nella mollezza,
e lusso, e tenersi lieta, e contenta nelle corrotte usanze d'un viver
guasto e licenzioso, a spese dell'altra maggiore, e non men dominarla,
che calpestarla; ne avviene, che chiaramente la vera virtù, non sia
mai nè ben deffinita, nè da tutti conosciuta, nè dalla maggior parte
praticata se ad utilità non torna; epperciò ne consegue, che il suo
proprio significato o a seconda de' tempi e dei luoghi si altera, o
si trasforma in modo che un'azione, in America, dove gli uomini sanno
di essere uomini e praticano la vera virtù, come virtuosa, e degna di
laudi tenuta, sarebbe in Europa, dai tiranni d'Italia vituperata, e
fors'anche capitalmente punita; per esempio, l'Americano che, scorgendo
gli amministratori della cosa publica, senza darne conto, le rendite
dello stato dilapidare, in continue prevaricazioni, e concussioni
trascorrere, il giogo scuotere della legge; la giustizia fallare,
infine la publica, e privata morale in ogni sua parte corrompere, per
tali misfatti in giudizio gli appellasse, e stretto conto della loro
viziosa condotta, ne domandasse, sarebbe in concetto d'uomo virtuoso da
tutti, colà con ragione tenuto, e per lo contrario, se in Napoli, nello
Stato Papale, Lombardia, e Piemonte, dove simili opere nefande sono
abituali, ad uno degli schiavi di quei paesi, di solamente palesarle,
l'animo bastasse, sarebbe quegli come insubordinato, a grave castigo
soggetto, e per avventura di sediziose macchinazioni tacciato, appeso
anche alle forche. Ed ecco in quegli infelici paesi chiarita infame
quell'opera che virtuosa, e degna di grandissima laude, stata sarebbe
in America oltremodo stimata.

Da tale varietà di virtù, deve per necessaria conseguenza quella
dell'onore conseguire, epperciò saranno in Italia le azioni
cavalleresche degne dei tempi di Orlando, oppure le umili, e
contemplative di un san Luigi Gonzaga sommamente onorate, quando
saranno le virtù di Bruto, e di Catone biasimate, e beffeggiate; ignaro
un popolo servo, delle virtù ad un libero vivere civile necessarie non
meno, che dei segnalati vantaggi da quello ridondanti; le ricchezze,
lo sfoggio, e la sommessione al tiranno avrà in grande onoranza, ed
ossequio: mentre vedrassi lo stato povero dispettosamente vilipendere,
avere i robusti pensamenti a scherno, e rigettarli; finalmente
depressa, e conculcata da quei servi imbecilli la vera virtù, la sola
venerazione, ed omaggio verrà alla lussureggiante ricchezza, vilmente
retribuito. Posto abbiamo ciò che per onore intender debbasi, e
come sia quello nello stato attuale del mondo, da paese a paese, da
popolo a popolo, da una generazione all'altra, per la falsa maniera
di considerar la virtù, e d'interpretarne il significato a mutazione
soggetto. Come debbasi l'onore, da un militare, in un regolato esercito
e dal cittadino che per la liberazione della patria mettesi in campo,
intendere, non meno, che la differenza fra di loro esistente, passeremo
ad attentamente disaminare.

Come che, in alcune sue parti, in tempi, e luoghi differenti, sia
puranche, l'onor militare mutevole; avendo nondimeno il coraggio,
e l'ardimento per base generale, in tutti i tempi, ed in tutte le
parti, trovasi pressocchè uguale, qualsivoglia pericolo di arditamente
affrontare, vedere la morte in faccia, e non temerla, non aver al
numero, nè alla qualità dei combattenti, il pensiero rivolto, ma
solamente rintracciarli dove sono, ed anche a disvantaggio corrergli
accerrimamente addosso, una morte certa piuttostochè dar le spalle
al nemico, per la difesa della bandiera intrepidamente incontrare,
un palmo di terreno passo, passo, ed a costo della vita ostinatamente
contrastare, in ogni zuffa, in somma, tener la puntaglia; questo sono
le nobili qualità essenziali dell'onor militare, da doversi in un
regolar esercito sopra ogni altra cosa apprezzare, eccellenti pregi,
per se soli capaci, in favore di quello fra due combattenti eserciti,
che in maggior grado li possede; far la vittoria rivolgere; e la
storia ne insegna che molti grandi capitani dell'antichità, i quali
dubitavano in fronte al nemico (o non ancora conosciuto, od in maggior
forza giudicato), non fosse questo sentimento d'onore per vacillare,
hanno cercato di mettere la loro propria truppa nella stretta necessità
di combattere in luoghi dove non potesse retrocedere, collocandola,
ed all'onore, la disperazione, in quel modo sostituivano. Alessandro,
al passaggio del Gronico, posesi secondo la relazione d'Arriano, col
fiume alle spalle ed il numerosissimo esercito nemico in fronte; e
così ne viene da un suo commentatore la cagione, spiegata: la sua
in apparenza troppo avventurata impresa, essere più ragionevole che
temeraria coll'evento ei dimostrò, perchè, siccome con un nemico
nuovo, maggiore in numero, dovevano i suoi venir alle mani, volle
col mezzo della disperazione fortificarli, affinchè essendogli dal
fiume il passo alla fuga serrato, in altro che nella sola vittoria,
speranza non nutrissero di salute: ma non mettendo la guerra nazionale
d'insurrezione per bande, come la guerra regolare, nell'urto la
speranza della vittoria, deve da sentimenti d'un differente onore
essere guidata; l'unica principal mira del cittadino armato, a che
debbono essere tutte le sue opere dirette, la liberazione essendo, e
la futura felicità della patria: a misura dunque che più o meno, senza
badare alla qualità dei mezzi che adopera, in vantaggio di quella
s'affatica, il suo onore aumenta, o diminuisce. Fermo il soldato
regolare, sul posto impavidamente si sagrifica, ed alla fuga, di
essere scannato, preferisce, tornando quella morte, della sua memoria
in onore; diversamente da ciò, deve per lo più il volontario della
patria operare, punto non si vergogna quegli di dar le spalle al
nemico, di correre una dubbia sorte non crede onorevole, ed eziandio
in pari forza, ad affrontarlo non s'avventura, fugge alla sua presenza
e per maggiormente danneggiarlo, si nasconde; quanti soldati raminghi
cadongli nelle mani, a bell'agio, e senza pericolo distrugge, e si
schermisce occultandosi dagl'incalzanti drappelli onde poterne un
doppio numero all'indomani trucidare; non nel morire combattendo, ma
nel salvarsi a tempo, l'onore del volontario della patria consiste e
più onorato è quegli, che più nemici della patria distrugge.

Il maresciallo Govione di san Ciro, nelle sue memorie sulla guerra di
Catalogna, al capitolo quinto, parlando delle disposizioni, che prima
della battaglia di Valls, il generale spagnuolo Reding disegnava,
così si esprime: aveva il generale Reding passata una parte del
giorno 24 in consiglio di guerra per sapere come potrebbe evitando
una battaglia, a Tarragona pervenire; ordinò che il generale Martì
commandante delle truppe rimaste sotto quella piazza, fosse pure a quel
consiglio presente. Membri influenti portavano opinione, si dovesse
il combattimento evitare, ma per ciò sarebbe stato d'uopo mandar le
artiglierie ed i bagagli a Lerida, e ad uno, ad uno, per la via di
Prades, e per uno stretto sentiero che passando per Selva, termina
a Costantì le montagne attraversando, per così dire alla sfuggita
sfilare; dove si sarebbe, la riunione dell'esercito, dicevano essi,
tosto, e senza rischio operata. Aveva Reding quel consiglio rigettato,
che poteva ad un comandante di bande convenire, ma che avrebbe un
generale alla testa d'un esercito, certamente disonorato, dando a
quello del colonnello inglese Doile, ch'era di francamente le due
divisioni del settimo corpo attaccare, la preferenza: ecco da questo
valoroso Maresciallo, la esistente varianza, fra l'onore militare
del soldato regolare, e quello del volontario in bande, chiaramente
spiegata; fù Reding a Valls compiutamente sconfitto, per aver voluto
il suo onore immacolato serbare. Se fosse stato un Claros, un Rovira,
od un Empecinado, il partito più sicuro, di sfilare come fuggitivo
per quel sentiero, scelto senza dubbio avrebbe, evitando una battaglia
che come dall'opinione della maggior parte del consiglio appare, assai
maggiori probabilità in favore dei Francesi presentava; e pel vantaggio
di recargli nell'avvenire certo danneggiamento, avrebbe la taccia di
codardia, in quell'istante, con gusto sopportata. Convenire, che sia ad
un condottiero dicevole, per rispetto umano, o per ciò che possa essere
dal publico argomentato, oppure pell'ambiziosa speranza d'una vittoria
dubbia, di venir a giornata, sarebbe ad una imbecille, o almeno
inopportuna vanità, la sorte della nazione sagrificare; quella stolta
massima, che per conservar l'onore dello stendardo, debbasi qualunque
possa esserne il resultamento, una battaglia arrischiare, dandole anche
un'estensione, che noi siamo ben lungi di concedere, può solamente,
nelle guerre ordinarie, e di pura ostentazione, in che del sangue dei
popoli empiamente si traffica, per altrui utilità, o convenienze molte
volte al ben publico nocevoli, od almeno indifferenti, essere seguita:
ma quando per l'independenza, e libertà nazionale si combatte, un
delitto, una sacrilega empietà, quella sarebbe di sconsigliatamente in
un dubbio conflitto, avventurarla; e virtù sublime, obbligo sacrosanto,
quello di vincere con sicurezza, qualunque siano i mezzi per ciò
impiegati, sarà da considerarsi. Chiaro, le relazioni della guerra
dell'independenza spagnuola, ci fanno, che i condottieri di bande,
del punto d'onore negli eserciti regolari a capitale avuto, valorosi
seguaci, tutti con notabile pregiudizio della causa che difendevano,
vittime della loro intrepidezza rimasero; mentre per lo contrario molti
altri, che dall'opinione publica erano di codardia quasi accagionati,
si sostennero e molti ed utilissimi servigj alla patria prestarono.
Chiunque per liberare il suo paese dalla schiavitù, a guerreggiare
si piglia, dovrà quelle azioni soltanto, che un reale, e manifesto
vantaggio gli procacciano, per onorevoli, magnanime, e gloriose
considerare; e solo avere per celebri, comecchè maravigliose siano,
quelle, che dalla vera utilità della patria, si separano.

Era massima degli Spartani e da loro, negli affari di stato, e della
guerra, seguita, di far maggior caso dell'astuzia, e superchieria, che
del coraggio e lealtà; e Plutarco alla pagina 238, delle istituzioni
Lacedemoniche, dice che quando gli Spartani, alla finezza ed industria
de' loro generali, la vittoria dovevano, in rendimento di grazie,
immolavano un bove, ma quando credevano di doverla solamente al
loro coraggio, ed alla forza dalle armi, di sacrificare un gallo
si contentavano. Con quest'uso in apparenza bizzarro, volevano gli
Spartani, all'impiego dell'astuzia, piuttostochè della forza aperta,
i loro generali assuefare: l'oggetto a cui mira il cittadino armato,
dovendo sempre essere quello, di tutti i nemici, che opprimono il suo
paese, sterminare, sarà l'uso di qualsivoglia cosa indistintamente,
purchè a quelli possa nocumento arrecare, per lui onorevole; epperciò
d'impiegar l'armi, il raggiro, l'astuzia non meno, che l'uso proprio
una volta delle barbare nazioni di avvelenar le freccie, per la
maggior quantità possibile di nemici levar di vita, e come conveniente
mezzo tutto quanto ad ottenere il suo fine lo porti, quale opera
onorevolissima e degna della maggior laude valuterà, l'avvelenamento
delle farine, dei pozzi, e delle fontane, non meno, che il destro
cogliere d'attaccare individualmente il nemico quando abbandonato
a fallace fidanza, può in un tranello cadere, ed alla spicciolata i
soldati avversari trucidare, sono modi tutti che possono per avventura
al militare d'un esercito regolare disdire, ma che commendevoli, e
di grande onore debbono pel cittadino liberatore della patria essere
riguardati. Il fatto di Muzio Scevola di notte tempo nella tenda di
Porsenna, per assassinarlo introdottosi, che, andato per isbaglio
il meditato regicidio a vuoto, per mantenere quel re in inganno, e
spaventarlo, volle delle menzogna servirsi, tutto per altro in prò
di Roma rivolto, non v'ha chi come sublime e maraviglioso tratto di
amor di patria e come arduo, ma glorioso esemplare di virtù, non lo
citi, e con noi non convenga che se la militare lealtà a questi atti,
del tutto non acconsente, sono però per cittadino indispensabilmente
doverosi ed onorevoli. Altri non meno sublimi esempj di cittadino
eroismo, ci vengono dalle sagre scritture offerti, uno fra i quali
si è l'assassinio d'Oloferne, generale di Nabuccodonosorre primo, che
colla forza aveva gli Ebrei al giogo straniero assoggettati; giuocando
col general babilonico alla civetta, mise la bella Giuditta tutti
gl'inganni e femminili seduzioni in atto, e colle attrattive del
leggiadro corpo e venustà del suo sembiante nel petto, un fuoco di
ferventissimo amore gli accese, e tanto era di lei preso il superbo
capitano, che mai ben non sentiva se non quando a se vicina la vedea;
avveduta l'eroina di Betulia, quella fiamma a bella posta per la
liberazione della patria allumata, coll'esca di lusinghevoli carezze
nutricava, finchè giunto il buon momento, non riputandosi a vergogna
di essere da soldati, quando pel suo paese impiegavasi, d'opere
men che oneste accagionata, venutole fatto di trovare il generale
addormentato, colla sua stessa scimitarra spiccògli la testa dal
collo, e giunse per mezzo di quel tradimento, di quell'assassinio, la
independenza de' suoi compatrioti a riscattare. Sisara a tradimento
da un'altra donna ipocritamente umana perchè sotto apparenza di
zelo del bene di lui, trucidato, è pure in quelle pagine soggetto di
speciale commendazione, e Gezabele da suoi vassalli sotto il comando
del sommo sacerdote, dai ballattoj del palazzo precipitata, poscia
diviso e sbranato il suo corpo dato pasto ai cani delle strade; Matatia
e figli, che coll'inganno e la forza, il tiranno Antioco Epifane
cacciarono; l'insurrezione delle tribù contro Roboam successore di
Salomone, ci presentano tanti esempi, da quelle stesse scritture
autorizzati, co' quali la giustizia d'impiegare ogni mezzo, per la
patria da qualunque tirannia, straniera, o domestica liberare, viene
con publica testimonianza dalle sagre pagine provata, e non esser
punto disonorevol cosa, con tale sacrosanto disegno il pugnale, il
veleno, il tradimento, e la frode adoperare, chiaramente ci dimostrano.
Non malagevol cosa sarebbeci molti altri fatti, della storia sacra
e profana ancora, tutti una tale asserzione corroboranti, estrarre,
da infiniti autori commendati dalla universale opinione per secoli
ammirati, ed applauditi: ma piucchè bastevoli saranci al certo i
sovra esposti nella sagra scrittura consegnati, di quel popolo che
sotto gli ordini immediati di Dio continuamente operava, e furono quei
tradimenti ed assassinj dall'altissimo approvati, e benedetti. Saranno
dunque, speriamo, sulla necessità di riconoscere, ed approvare quella
differenza di virtù e di onore, fra il volontario della patria ed il
guerriero che milita secondo il sistema regolare di guerra, anche i più
scrupolosi persuasi e convinti.

Avvegnacchè il cittadino per la liberazione del suo paese
guerreggiante, debba i dettami di queste massime d'onor patrio
scrupolosamente seguire, gli avverrà nondimeno nel corso della
guerra, di dover pur anche quelle da noi già dette per essere dal
soldato regolare precipuamente praticate, mettere alcune volte in
uso, perciocchè, nel caso, per esempio, di trovarsi per malavventura
dal nemico sorpreso, e da ogni parte circondato, gli avverrebbe di
necessità imposto l'obbligo di venire all'urto, respingerlo, e farsi
strada col ferro, o sul posto morire, anzicchè arrendersi, e davanti
al nemico della sua patria grondante di sangue italiano, vilmente il
ginocchio piegare. Ecco dunque spiegato qual debba essere l'onore
del volontario della patria, alle massime del quale dovrà i suoi
procedimenti addattare, s'egli è veramente, la liberazione del suo
paese, di ottenere desideroso.



CAPITOLO IV.

ORDINAMENTO SEGRETO PREPARATORIO ALLA GUERRA D'INSURREZIONE PER BANDE.

COSPIRAZIONE.


Il mezzo più efficace, e decisivo, per un tirannico governo cui la
pubblica opinione sia contraria, rovinare, quello certamente delle
leghe cittadine si è, per via delle quali concordemente operando, gli
amici della patria agevolmente, ed in poco tempo possono il loro fine
ottenere. La lega cattolica, la setta degli Ugonotti; la lega de'
politici, furono quelle, che le guerre civili di Francia sulla fine
del secolo 1500 suscitarono, e mantennero; la lega degli Svizzeri,
quella fù che dall'oppressione austriaca gli liberò, la lega dei
Pitocchi, dei Guidoni, di Brilla, quella che nei Paesi Bassi, il primo
crollo diede alla potenza spagnuola, finalmente il Tugen-bund, nella
Magna nel 1812 fù quello che franse l'impero di Napoleone e mandollo
quindi in precipizio. Tutti i popoli dunque, che mossi da sentimenti
generosi hanno voluto il despotismo, che gli opprimeva, dalla loro
patria stirpare, ebbero a tali leghe ricorso; ma chi alle sette
publiche, chi alle congreghe segrete si rivolse; alle publiche coloro
i quali sotto un governo vivevano, che sebbene tiranno, le riunioni di
cittadini, però non vietava, ed alla facoltà di parlare, e scrivere non
metteva grande intoppo; alle segrete, quei popoli ricorsero, cui come
agl'Italiani ogni esercizio delle facoltà intellettuali era vietato, ed
altro diritto che di una semplice vegetazione fra il timore, e disagi,
non godevano; dei primi, furono i presbiteriani inglesi nel tempo di
Carlo primo, quando questi spinto, e principalmente diretto dal suo
favorito Buckingam introducendo il governo assoluto, ed il cattolicismo
favoregiando, di conculcare la magna carta, e la religione riformata
sovvertire, tentava, furono le confederazioni in Polonia contro i tre
invasori limitrofi, i quali posto il diritto delle genti in non cale,
a rapirgli la independenza, e la libertà, armata mano si portarono,
e ciascuno quindi una conveniente porzione del suo territorio
appropriatasi, fecero in tal modo un popolo guerriero ed innocente
dal numero delle nazioni europee scancellare; e se a respingere quei
ladri, non fecero le confederazioni buona prova, d'altra origine
ciò non provenne, se non dall'essere quelle anzicchè popolari, ad
all'universalità de' cittadini estese, ai soli nobili circoscritte; e
se furono i loro sforzi contro quei tre possenti nemici, infruttuosi,
ne fù la lentezza ed inazione dei capi, la precipua cagione; perciocchè
dall'opportunità, che già loro erasi affacciata, ed ancora stavano ad
aspettare, a tempo, il minimo profitto di trarne non si accinsero; ciò
che non ispirò confidenza agli amici, nè timore ai nemici, e fece loro
il tempo favorevole per agire, trasandare. I figliuoli della libertà
in America, coi loro sforzi, e con la loro attività, abbenchè popolo
coloniale, generalmente non creduto atto all'armi, povero, disarmato,
e mancante di molte risorse necessarie alla guerra, pure dal giogo di
quella che si titolava la madre patria a sottrarsi pervennero, ed a
rendersi la nazione più libera del mondo, con somma gloria riescirono.
Tutti questi popoli agivano publicamente, perchè non era in quelli
stati, di riunirsi per ragionare sulla situazione del paese, e sui
mezzi più adatti per migliorarla, di trattenersi interdetto.

Dei secondi, che alle congreghe segrete appigliarsi dovettero per un
libero civile vivere ed independente, nella loro patria ordinare,
furono i Francesi, che sotto la regola di franchi muratori con ben
custodito segreto accozzati, quella rivoluzione, pei principj messi
in chiaro lume, sublime, energica e tremenda, pei mezzi adoperati,
biasimevole nel suo fine, per la facilità con che fù da Bonaparte
calpestata, mossero, e diressero. La quale, come che aborto possa
denominarsi, non v'ha dubbio, stata non sia di un gran bene dalla
nazione attualmente sentito, e goduto, produttrice; minima parte
però di quello che avrebbe dovuto sperare, se quella libertà che
per un falso amor di gloria e d'un versatile carattere i Francesi
sagrificarono all'impero, ed a cadere sotto lo schifoso scettro dei
Borboni portaronli, consolidata si fosse. Gli Spagnuoli pure nella
guerra della independenza in che la gloria delle operate imprese de'
loro antenati, oscurarono, quando l'invasore francese, già padrone di
quasi tutte le fortezze, e delle città; e che una forza colossale,
dal prestigio della vittoria accompagnata, possedeva, energicamente
dal loro paese ributtarono, dovettero per giungere a tal fine, alle
congreghe segrete aver ricorso, e le _tertulias patrioticas_, in unione
colla setta dei cattolici fanatici partigiani dell'inquisizione, ma
nemici dello straniero, possono d'aver il loro paese dal flagello
dell'invasione salvato, darsi pienamente il vanto.

Finalmente i Greci, che col mezzo dell'Eteria, quell'ammirabile
insurrezione, che da otto anni eroicamente si sostiene, ed è sul
punto di essere consolidata, impresero, e guidarono coll'applauso del
mondo tutto che alla vittoria di un nano contro un gigante, stupefatto
sorride.

Tutti questi essendo stati nella difficile congiuntura, in che ora
trovansi gl'Italiani, misero quelle congreghe segrete in essere, e
giunsero dell'alto loro intendimento a buon fine. La direzione di un
tanto progetto da maneggiarsi con segretissima cautela, sendo mestieri
che le ragunate per le case, delle brigate di quei valorosi, che al
ben della patria cospirano, in ascoso si facciano, ed alla sfuggiasca,
assai più difficile deve riescire, ma quando ad una ferma volontà,
la prudenza, e l'energia s'accoppino, esser non impossibil cosa, i
summentovati esempi ci provano.

Come chè dell'immenso vantaggio di possedere maestrati eletti
dal popolo, avessero gl'Americani il godimento; e che la camera
dei borghesi di Virginia si fosse la prima contro l'Inghilterra,
protestata, non essere ciò bastevole, onde al fine giungere, che
proposto si erano, ad avvisarsi non tardarono, ed una lega col titolo
dei figliuoli della libertà fermarono, nella quale tutti coloro, che
decisi, ed energici, erano a dar l'impulso al gran movimento disposti,
volontariamente s'iscrissero; creò questa lega, una commissione,
che chiamossi di corrispondenza alla quale diedesi, di scrivere ai
principali personaggi del paese il carico, esortandoli a congiungersi
con loro in opinione ed in fatto; ciò ch'ebbe, fra non molto, un
compiuto effetto, e le varie provincie d'America di mano in mano
le une alle altre si collegarono; quindi in tutte le città, e terre
delle provincie istituendosi congregazioni di corrispondenza, da una
congregazione principale, che sedeva nel capo luogo dipendenti, si era
una specie di gerarchìa politica costituita, sei caporioni ciascuno
alla testa di una divisione, e capi secondarj alla testa delle molte
suddivisioni, il tutto guidavano. Dimodocchè data la mossa da quei
primi, ad un tratto essa alle divisioni communicavasi, quindi alle
suddivisioni, e così subitamente per tutto il paese si propagava;
fù da questa lega, la maravigliosa determinazione degli abitanti di
rinunziare a tutti quegli oggetti, che importati dall'Inghilterra
avrebbero potuto, essendo da essi comprati, dare un qualche guadagno
a loro nemici, menata ad effetto, e costantemente sostenuta. «Ognuno,
dice il Botta, anche i più ricchi, anche i più pomposi o sfoggiati,
allora per general modo si contentavano di portare vestimenta fatte
nel paese, o logore, piuttostochè di usare merci Inglesi.» E quella
determinazione gli recò, a privarsi financo di bere il tè, al quale fin
dalle fasce erano abituati, ed un reale bisogno era per loro divenuto,
ed a misura che dall'Europa colà giungeva, in mare lo gettavano.
Eroico sforzo al quale tutte le classi de' cittadini indistintamente,
e di proprio moto si sottomisero. Ed in tal modo misersi gl'Americani
per la loro stupenda rivoluzione inpronto; un numeroso, e forte
esercito levarono, e saldi fino al compimento della vittoria seppersi
conservare. Tutti i moltissimi necessari maneggi, tutte le disposizioni
per infiammare lo spirito publico, e ad un felice risultamento a
favore della libertà ed independenza del paese indirizzarlo, potettero
come già abbiam detto dagli Americani eseguirsi, e portarsi a buon
fine, perchè molte facilità dalla maniera dolce colla quale venivano
governati erangli porte, e pel godimento di varj dritti che furono
sempre dalla madre patria, così detta a quei Coloni conservati, e
rispettati. Ma tale non essendo la situazione degli Spagnuoli quando ad
intraprendere la guerra per la loro independenza si accinsero, perchè
dovettero, contro i Francesi già padroni della Spagna, insorgere; nè
quella dei Greci, che fin da secoli d'ogni ombra di libertà spogliati,
erano dai Turchi con sfrenato immanissimo despotismo afflitti e
malmenati; fù d'uopo dunque, a costoro, per giungere allo scopo stesso
degli Americani, di segretamente disporre, quanto venne da loro,
senza mistero praticato. Epperciò dalla grande _tertulia patriotica_
della capitale di Spagna, emanavano _tertulias_ principali nelle
provincie, le quali per mezzo di _juntas secretas_ in tutte le città,
terre, borghi, e villaggi si diramavano; in modocchè potevano così i
movimenti generali delle masse, agevolmente addirizzarsi; collegati i
patrioti, se non nei mezzi, almeno nel fine, con la numerosa classe
di preti, e frati di molto seguito, e potere in quel paese, la
quale ordinata in parrocchie e conventi l'intiera superficie copriva
della Spagna, a vicenda questi due grandi corpi sacro, e profano in
reciproco sostegno appoggiandosi, l'uno cogli scritti, e con tutti
i mezzi mondani di che poteva disporre poneva studio a persuadere
le persone illuminate, ed in prò della patria oppressa le loro menti
stimolare, non menocchè di fornire il necessario alle molte bande in
campo, per liberarla; e l'altro col potere, ed influenza che lo stato
ecclesiastico sopra l'animo dei contadini ignoranti gli somministrava;
il confessionale volgeva, come il più segreto, efficace, e sicuro
mezzo di cospirazione in prò della patria, contro chi allora nel paese
padroneggiava; e tanto conseguirono l'intento loro, che in breve la
superficie di quella penisola fecero tutta di ardimentose bande di
cittadini armati pullulare, e tutta la popolazione in generale, che
poi spiegò un eroismo maraviglioso, ed una pertinacia a tutta prova, a
scuotere gagliardamente pervennero. Usarono presso a poco degli stessi
modi, i Greci volendo in istato libero costituirsi, e far impeto,
contro l'oppressore ottomano; e fino dall'anno 1814, come viene dallo
storico signor de Poqueville riferito, cominciò a mettersi in piede
la grande lega segreta dell'_Eteria_, avendo essa pure per centro
la _synomotia ardente_, che sù tutti i punti del continente da essi
inteso di liberare, per irradiazione si spargeva; la quale poi alla
grande _epanastasia_, ossia rivoluzione, sì meritamente, pei moderni
Greci onorevole, diede avventurosamente origine. Chiaro da tuttocciò
argomento appare, che le nazioni per affrancarsi dalla tirannide
contro i loro iniqui oppressori insorte, tutte alle publiche o private
leghe si rivolsero. E che essendo noi nel caso degli Spagnuoli e dei
Greci, se non vogliamo del nostro desiderio restar schermiti, c'è
forza di avere a quest'ultime ricorso. Quando al sublime progetto di
regenerazione della patria, uno si appiglia, non mai potrassi quel
saggio proponimento menare ad effetto, avvegnacchè sia generalmente
il popolo ben disposto, senza un previo convegno fra cittadini a
levarsi i primi in difesa della patria determinati; perciocchè il
popolo senza un impulso uniforme, e concorde, di leggieri mettesi
in iscompiglio, ed ordinariamente avviene che con pochissima forza,
a pacificarlo, o sconfiggerlo, i tiranni pervengono. I tumulti che
in varie parti d'Italia, in Genova, in Napoli, etc., le tante volte
successero, per particolare convenienza d'alcun cittadino, per fame,
per respingere la bolla dell'inquisizione, per ridurre le gabelle sui
viveri, quella di Masaniello, etc., essendo solamente commozioni, e
non da patrio incitamento prodotte, ne consegue, che in accordando
subitamente tutte, o parte delle domande del popolo a rumore levato,
o movendo truppe regolari contro lo stormo, diradasi all'istante la
folla mancante dell'ordine conveniente, e poco dopo tutto è finito,
dimodocchè puossi ad un fuoco fatuo paragonare; ma deve il fuoco di una
insurrezione nazionale di principj essere ben guidato, lento, sostenuto
ed inestinguibile. Per regolare lo slancio generale, e portarlo a buon
fine, converrà dunque che i buoni, e decisi Italiani, una lega fermino
segretamente frà di loro; nuove non sono queste in Italia; perchè senza
riandare nel tempo antico quelle dei Guelfi, e Ghibellini, dei Bianchi,
e dei Neri, ed altre che sono lontane, abbiamo recenti esempi, che ci
fan fede; esser quelle nel nostro paese ben conosciute, e praticate
come sarebbero la carboneria che negli ultimi tempi fece tanto parlare
di se, quantunque non sia stata nel suo operato, felice, la lega degli
Adelfi, dei Filadelfi, e finalmente dei sublimi maestri perfetti. Tutte
queste in varie differenti maniere, le une con vedute più estese, le
altre più ristrette, alla liberazione della patria tendevano. Ora a
noi pare che tutte dovrebbero pel bene di quella a rinunziare alla
loro peculiare esistenza, ed in una sola nuova trasfondersi, ed affine
di potere con passo regolare, ed uniforme giungere allo scopo, sotto
una sola direzione frà di loro collegarsi; ella è cosa evidente, che
ciascuna in corpo separato operando, non potranno mai produrre un
effetto intiero, e le gravi, e delicate operazioni di una generale
insurrezione italiana, ben dirigere. Stabilito quindi un principal
centro in una qualunque città della peninsola, questo dovrebbe in
centri secondarj dai quali dipenderebbero altri di terza e quarta e
quinta classe, per irradiazione diramarsi, onde viemmeglio rimanere
capaci del sovraesposto. Supponiamo che i veri amatori della patria
un centro, o congrega principale costituiscano; dovrebbe quella,
primieramente il quadro geografico statistico della penisola che
conta venti milioni d'abitanti, ben osservare, e quindi quella in
quattro grandi partimenti eguali dividere ed a ciascuno dare il nome
di provincia, ad una congrega provinciale segreta la direzione di
quei cinque milioni d'abitanti affidarne, che secondo il calcolo di
venti per cento dovrebbe dare un milione di uomini atti a combattere;
ogni provincia in cinque cantoni, di un milione d'abitanti ciascuno,
dividere, che potrebbero duecento mila uomini mettere in campo; ogni
cantone in dieci distretti di cento mila, che venti mila combattenti
ciascuno, darebbero; questi distretti si diramerebbero ed in ogni
città, borgo, paese, o villaggio piccolo, o grande che fosse, avrebbero
una congrega a loro rispondente.

La congrega distrettuale corrisponderebbe con le assemblee di cantone,
queste con le congreghe provinciali, che dalla congrega principale
direttrice di tutto il movimento, dipenderebbero, così tutte le
subalterne al centro superiore rispondendo, la massa degli abitanti
d'Italia in tal modo divisa, e regolata, il movimento d'una macchina
tanto grande agevolerebbe.

Il dovere di queste congreghe, ed assemblee una volta costituite, sarà
di far giurare i capitoli della lega a tutti gl'Italiani ben disposti
in favor della patria; di fomentare in ogni modo lo spirito publico,
e quegli Italiani propensi alla guerra d'insurrezione ammettere alla
taglia; dare l'impulso alle masse; far sorgere bande in ogni parte,
e provvederle del bisognevole; in somma fare in segreto tutto quanto
verrà nel capitolo del governo provvisionale da noi proposto, e sarà
possibile nella loro critica posizione, di ben eseguire.

I capitoli della lega, dovranno obbligare al giuramento di combattere
fino alla morte, o alla riescita dell'impresa; di non mai negoziare col
nemico, ma con una guerra accanita, di giorno, e di notte senza dargli
riposo, del tutto esterminarlo; d'impiegare in quella non solo la forza
aperta, ma pure il veleno, e la fraude; di far la guerra a sue spese,
e non mai un soldo regolare pretendere, di non posare le armi fino alla
fine della guerra; gli altri capitoli comprenderanno la nuova forma di
governo da stabilirsi; la subordinazione ai condottieri, etc. Dovranno
questi capitoli nelle parti non ancora liberate davanti una delle
congreghe segrete, ed in quelle che di già lo saranno, al cospetto dei
primati, essere con solenne giuramento da ogni cittadino accettati,
e quindi a puntino eseguiti. Saranno in oltre quelle congreghe in
dovere di occuparsi dello stato politico interno, ed estero; tutto
sapere; a tutto provvedere; mantenere intelligenze nelle fortezze, e
presso i nemici, onde potersi impossessare delle prime, e distruggere
i secondi; osservare, che i giuramenti vengano eseguiti, e punir di
morte inevitabile tutti gli spergiuri; insinuarsi nelle truppe al soldo
in oggi della tirannide, e trar con loro tutti quei cittadini, che
caldi di amor patrio, di unirsi alla santa lega sono impazientemente
bramosi; in somma, e con iscritti, e con parole, e con fatti venire a
capo dell'opera, o morire.

L'esempio degli Spagnuoli che lavorarono a quell'uopo quando il proprio
paese, era dalle truppe francesi occupato, e che quando in apparenza
umili e tranquilli obbedivano nelle città agli ordini loro, numerose
bande di tutto punto provvedute, al campo mantenevevano provaci a
sufficienza l'agio col quale puossi eziandio in un paese sotto il
dominio del nemico, attivamente operare. Il maresciallo Govione di
San Ciro, nella sua opera sulla guerra de Francesi in Catalogna,
al capitolo sesto, dice che «la città di Barcellona aveva in campo
due battaglioni di Micheletti; gl'individui di quei corpi, senza
divisa entravano tutti i giorni in città, per ricevere la paga, gli
abiti necessarj, e le reclute per tenersi sempre al completo; mai
fu possibile al generale Duhesme di farne un solo catturare, tanto
era ben mantenuto il segreto». Notisi, che un'astuta, ed attivissima
polizia vegliava sù la condutta di tutti i cittadini nell'interno,
s'immischiava nei loro più minuti affari, a tutte le ore della notte,
con visite domiciliari gli sorprendeva, ed erano da due corpi di truppe
rispettabili, l'uno da dentro, e l'altro da fuori della piazza in
grande soggezione tenuti; e che qualità de soldati! Quelli che tutti i
re d'Europa, e le loro legioni mandarono a sbaraglio! Potrebbe alcuno
in leggendo il capitolo delle congiure del sommo nostro Machiavelli,
nel quale vengono minutamente descritte le numerose difficoltà che
al perdurle al effetto sono d'ostacolo, e quasi persuadono essere
cosa anzi che difficile, impossibile, di poterle portare a buon
fine, lasciarsi per avventura dal timor soprapprendere, ma se poi
maturamente questi rifletterà, gli sarà facile di persuadersi la nostra
congiura non essere come quella dal segretario fiorentino descrittaci,
maneggiata da particolari per loro privata individuale convenienza,
ed utilità; ma una di quelle grandi, e generose ispirazioni nella
quale tutti i cittadini pensanti, tutti i cuori benfatti, e capaci di
emozioni virtuose cospireranno, e che non si possono sperare se non
dai popoli che nell'incivilimento progrediscono. Quando la meta di
una congiura, il bene di tutti, e non la sola utilità di un qualche
cittadino concerne, è sempre assai più probabile, venga ben conservato
il segreto, ed una prova ne sia, la cospirazione del Piemonte nel 1821,
che contava circa trenta mila federati, i quali tanto bene il segreto
mantennero, che nè dal governo, nè dalla polizia mai nulla, se non al
momento dello scoppio, si traspirò; al quale inaspettato avvenimento,
oltremodo stupefatti ed impauriti rimasero, i rettori dello stato. Come
sarà noto ai cospiratori, la lega per tutto il continente italiano
esser generalmente accettata, e che se un traditore ad un principe,
il segreto, che lo concerne, scoprisse, a quella spezial parte,
potrebbe danno arrecare, ma non perciò, che il movimento in altre
parti seguisse, impedire, difficilmente chicchessia, al guiderdone
momentaneo, che può essergli dato dal principe, quello stabile della
patria sarà per postergare: trattenuto eziandio dal timore di dover
poi un giorno, e non lontano, caramente scontarlo, se in qualch'altra
parte della penisola sarà vittoriosa la causa nazionale. Non vogliam
però dire con ciò, che debbano i cospiratori tralasciar di prendere
tutte quelle precauzioni necessarie, affinchè non possa il loro
segreto, non che, la loro esistenza venir palesata, e conveniamo con
Trajanno Boccalini, che «nelle congiure bisogna prima essere sicuro
col pegno del rischio, di colui al quale si dicono» e che non debbonsi
in quella scambievole paura, ch'è il vincolo delle medesime, di
continuo mantenere. Ma solo è stata nostra mente di scemare con quelle
osservazioni il troppo timore dal quale, animi non abbastanza decisi, e
poco riflessivi cervelli, potrebbero lasciarsi invadere, ed impauriti
dal nome di congiura, o cospirazione, e dalla lettura dei pericoli,
che in quelle si corrono, fors'anche a bella posta dal nostro citato
autore, amplificati, ed esagerati, di compiere un obbligo per ogni
Italiano sacrosanto, vilmente tralasciare.

E quanto finalmente abbiam detto di doversi i cospiratori nelle truppe
degli attuali tiranni d'Italia insinuare, ella è cosa più difficile
in apparenza che in fatto; a tutti è ben noto, e gli avvenimenti
nell'anno 1820, e 21, ce lo confermarono, che forti, e generose idee
sono in quelle truppe germoglianti, e che la maggior parte della
gioventù ardente di cui sono composte, sarà senza dubbio al primo
grido di libertà, in favor della patria, e dell'uman genere, per
parteggiare. Ed avvegnacchè i tentativi del 1820 e 21, i primi che
da secoli si siano armatamente intrapresi con intenzioni italiane,
abbiano avuto un esito infelice e disastroso, e che i capi, e
maneggiatori di questi siano stati dai tiranni, che coll'ajuto della
perfidia, e dello straniero rimasero vincitori, esiliati, o carcerati,
o alle forche appesi; sarebbe un grave errore, perciò conchiudere,
siano per essere, attualmente gli eserciti Italiani tutti di persone
devote alla tirannia, ed ai persecutori d'Italia, composti, perchè
i condannati, e perseguitati, non furono, che una minima parte di
quella grande massa d'amatori della italica patria che prima delle
succitate rivoluzioni già esisteva, e soprattutto in Piemonte, dove
molti per la rapidità degli avvenimenti, che fin dal principio, il
nuovo stabilimento del governo rovesciarono, neppure il tempo ebbero
di manifestarsi, ed inerti od anche nelle file dei tiranni sotto
apparenza di nemici astutamente se ne rimasero; di fatto il numero dei
scoperti, e condannati dal tiranno ascende in Piemonte a circa tremila,
ed in quel paese prima della rivoluzione più di trenta mila federati
si contavano e così più o meno negli altri stati italiani accadde; un
forte numero dunque di prodi militari, che amano l'Italia, ed odiano
i suoi oppressori, ancora in quelle esecrande file si trova. Il quale,
a seconda dei progressi dell'opinione in quella penisola, dev'essersi
fatto considerevolmente maggiore. Laonde non sarà a quelle congreghe
molto disagevol cosa, di mettersi con uno o più uffiziali, per
reggimento, in contatto, ed a quei militari accostandosi, che per la
rettitudine del loro pensare, la prudenza del loro agire, o l'energia
del loro animo essere idonei alla difesa della patria, hanno per
certissimo; nella lega dei cittadini italici, prontamente annoverarli.

Abbiamo detto uno, o più uffiziali, siccome siamo persuasi non esser
di tanto nei reggimenti insinuarsi, ed allargarsi con molti di quelli
in parole, per riescire, necessario; e che anzi crediamo addursi
per tal modo troppo in forse, l'indispensabile segreto, e portiamo
opinione, che uno, o pochi uffiziali scelti con precauzione, e dotati
delle qualità convenienti per trar con loro il giorno stabilito, il
reggimento intero, o una gran parte di quello, sia quanto si richiede,
quand'anche uffiziali superiori non siano, ma solo sagaci, fermi,
prudenti, la stima godano dei soldati, ed abbiano in somma, influenza
e buon nome.

In prova di questa nostra asserzione, alcuni particolari accenneremo
della condotta di un uffiziale piemontese, a quel reggimento
appartenente, che il primo in Alessandria per la libertà, ed
indipendenza italiana si mosse, e quello fù, che nella mattina del 10
marzo, entrò alla testa del reggimento nella cittadella d'Alessandria.
Pel corso di varj anni, il modo di cooperare alla liberazione, ed
unione d'Italia, questi seco divisava; altro nella sua positione,
non poteva rinvenirne, se non quello di affezionarsi i soldati,
onde essere da quelli nel giorno pericoloso del tentativo ajutato,
e sostenuto; tre continui anni a tal uopo, il suo tenor di vivere
dirizzò; chiaro, sincero, ed animoso, nel trattare con ognuno; ma
cupo simulatore in ciò, che poteva al suo proponimento aver relazione,
ben lasciava i suoi italici sentimenti, il suo amore alla libertà, ed
independenza italiana traspirare, ma con avvisamento, e circospezione
tale, che pensieri affatto inerti, e solo desiderj, come quasi
ineseguibili da lui stesso riputati; ed al dovere di buon servitore
di chi reggeva il Piemonte, posposti comparissero; nell'esecuzione
del proprio dovere puntuale, ed attivo, contro i negligenti, ed
infrattori dei regolamenti di disciplina, severissimo si demostrava;
come quello, che il condiscendere al rilasciamento di quella, essere
il vero modo di affezionarsi il soldato, non credeva, poichè questi
la condiscendenza de' superiori, come una dimostrazione, d'affetto
per lui, non interpreta, ma bensì a dappocaggine, e trascuranza del
proprio dovere, glielo appone; se ne prevale, epperciò sfrenato,
licenzioso, e disonesto, diventa; cessa la subordinazione, ed il
dovuto rispetto; nello stesso tempo la stima perde, verso il suo
superiore, e quindi l'affetto, che n'è la conseguenza; epperciò chi
d'averlo in tal modo reso ligio alla sua volontà s'immagina, trovasi
nel giorno del cimento messo dal soldato, in abbandono, perciocchè
debole, ed incapace vien reputato; e quel soldato ch'egli credeva
guastandolo, far suo, è costretto di vederlo nel momento critico
sotto la direzione di un altro severissimo, accorrere, perchè da lui
più energico ed attivo considerato. Ma non dimeno, se dall'un canto
tutta la severità da una buona disciplina comandata, giammai dalla
retta giustizia allontanandosi, metteva rigorosamente in uso; da altra
parte, per quanto più possibile gli fosse, dei modi i più conducenti,
onde a se trarre gli animi degli ufficiali, e soldati, di servirsi non
tralasciava. Se uno de' primi alle strette di danaro si trovava, ciò
che non di rado succedeva, con la conveniente somma, che a titolo di
prestanza gli somministrava, senza mai più in seguito ricercarne il
rendimento, a sovvenirlo s'affrettava. Salvò in quel modo l'onore ad
alcuni ufficiali, che trovandosi al maneggio di fondi del reggimento,
avrebbero, in mancanza quel soccorso, inevitabilmente perduto la
spallina; quanto quelli grati gli fossero ed a lui intieramente devoti,
ben può ciascuno immaginarsi! per le particolari occorrenze sapere
dei sergenti e soldati, pur faceva continuamente diligenza, e se gli
veniva a notizia, quegli essere indebitati, valendosi d'un terzo amico
loro, con molta precauzione, e segreto, del pagamento incaricato,
immantinenti a loro insaputa, il creditore soddisfaceva; due vantaggi
in quel modo gli ridondavano; primieramente perchè quando il sergente,
o soldato giungeva a sapere, che il suo debito era stato in una
maniera delicata, che non offendeva il suo amor proprio, da lui pagato,
maggiormente se gli affezionava; e secondariamente, perchè confidandolo
ad un terzo, egli ben poteva supporre, che all'orecchio d'uno in altro
passando, a breve andare, sarebbe il segreto, in contezza di tutti
pervenuto, e la fama della sua beneficenza, viemmaggiormente estesa
e magnificata. Come quello, che aveva il nome di ben conoscere le
imbrogliatissime leggi del paese, era sempre dai soldati sottoposti
ai consigli di guerra, scelto per difensore, ed o con la ragione, o
con maneggio, o astuzie li salvava, o per mezzo de' molti amici, che
aveva nella capitale, ogni qualvolta uno di questi era dal consiglio
di guerra condannato, prima che la sentenza si eseguisse, dal Re la sua
grazia otteneva.

Incaricato per qualche tempo dell'istruzione delle reclute a cavallo,
armato di molta pazienza, con buone maniere, a rendersi da bel
principio quei giovani soldati amici, s'adoperava; ogni giorno nelle
cucine del quartiere ad assaggiare il pane e la zuppa si portava; se
il denaro dell'ordinario era tutto speso, senza che la minima parte
per altri oggetti fosse invertita, munitamente prendeva informazione;
e nel tempo, che il soldato mangiava, egli porgeva orecchio alle
sue lagnanze, lo confortava con buoni consigli, e bonariamente
affratellandosi con tratti confidenziali, una stretta momentanea
dimestichezza fra di loro si stabiliva. Soventi volte, finite le
militari incumbenze, una generale distribuzione di vino a sue spese,
per lo squadrone ordinava, ed in un coi quasi brilli soldati un
bicchiero ne tracannava allegramente, ma tosto dopo, alla consueta
disciplinaria rigidità, faceva ritorno.

Nel reggimento, dieci o dodici uffiziali esistevano, che avendo i
loro gradi con lo spargimento di sangue, con patimenti, e con merito,
e non per via di raggiro, viltà o privilegio acquistati, erano per
disprezzo, uffiziali di fortuna denominati, per istituto nei gradi
subalterni tenuti, senza speranza di poter mai essere neppure a quello
di capitano, promossi; trattati con poco rispetto dai comandanti ed
abborriti dal loro colleghi nobili, perchè come materia eterogenea,
li consideravano; solo con un umile, e servile procedere potevano
questi l'onore d'un benigno saluto di protezione, da quelli ottenere;
non sofferendogli l'animo di vedersi di continuo, ingiustamente
disprezzati, e di soli dover tutta la severità della disciplina
sopportare, avendo d'altronde la coscienza di non aver altro demerito
se non quello di esser nati plebei, egli pungeva il loro amor proprio,
ed a rintuzzare gl'insulti e minacce degli orgogliosi loro compagni,
gli stimolava, ogniqualvolta non potevano più contenere la piena del
loro cuore contro qualcuno, davano sfogo alla loro collera, per la
qual cosa continue risse ne provenivano, l'uffiziale di cui parliamo
valevasi dell'amicizia, a lui professata d'ambidue i contendenti
per barcheggiare in modo, da potersi nelle frequenti sfide, che di
conseguente succedevano in neutralità mantenere, veniva egli per
l'ordinario, dai due contrarj separatamente come padrino, o spettatore
richiesto, e si serviva del suo ascendente, sempre chè le cose non
erano spinte al punto di esigere imperiosamente lo spargimento di
sangue, onde mettergli fra di loro in buona pace. Pranzava coi nobili,
e quasi ogni sera cenava co' plebei; erasi con somma cura, l'affetto
del colonello tirato a se, e così una decisa influenza morale sul
corpo intiero degl'uffiziali, tacitamente possedeva. Della quale
non menandone vanto, mai fugli da invidioso alcuno contrastata; se
avveniva, che dal reggimento, a convito solenne, uffiziali d'altri
corpi, o personaggi d'alto affare si onorassero, non potendo i
nobili, da quello escludere i plebei, perchè pure erano uffiziali,
non permettendo di pagar la loro parte ma invitandoli, come se stati
fossero forestieri, li mortificavano, pungentissimo insulto, che coloro
i quali avrebbero pagato il doppio ben volontieri per non ricevere
quella cortesia, ad una apparente gratitudine obbligava. Tenevano i
nobili al teatro un palco in comune dal quale erano esclusi i plebei,
cui solo rimaneva, se volevano godere dello spettacolo, d'andarsi
nella platea col publico a tramischiare; tutte queste ed altre simili
cose di poco rilievo per se stesse; ma di continuo stimolanti, in
piede permanente, la discordia tenevano. Temendo quell'uffiziale di
doversi poi un bel giorno apertamente per una delle parti dichiarare,
pensò di porvi convenevol riparo, epperciò di tanto, in tanto
ambi i partiti, a casa sua, a festini, gozzoviglie, e divertimenti
cortesemente invitava, ove in sul mangiare, ed in sul bere, e nel
festeggiare, in lieta, e festevol brigata trovandosi tutti ad una
avvinazzati, in precaria unione si mantenevano. Preso, per sè solo,
oltre la sua porzione di quello con gli altri uffiziali, un palco in
allogagione al teatro, in quello senza distinzione di schiatta, gli
uffiziali tutti convitava, ed ogni sera, per maggiormente attirarli,
faceva sì, che le più belle e vezzose ballerine, e cantanti andassero
colà a visitarlo, e quindi fatta seralmente alla metà dell'opera di
squisite vivande, e finissimi beveraggi una lieta cena imbandire,
unitamente si banchettava; la qualità dei cibi, e la piacevolezza
della compagnia, continua, e dilettosa rendeva la concorrenza serale;
con questi ed altri tratti di tal fatta, fra i due partiti, senza per
un dei due venire a dichiarazione, si regolava. Ma se di mantenere
in apparenza l'unione gli conveniva; come quello, che sempre in
favor della patria speculava, ei conosceva benissimo, che nel fatto
questa sarebbe stata per essere nocevole al suo fine, perciocchè
se i plebei si fossero della loro sorte contentati, sarebb'egli per
avventura rimasto solo, e non avrebbe potuto all'occorrenza, sopra
l'appoggio di alcuno, le sue speranze fondare. Per ciò evitare, e
nel suo proponimento progredire, egli sotto pretesto di un qualche
affare, come per caso, dal capo armajuolo del reggimento con frequenza
si portava, dov'era informato, che quasi tutti gli uffiziali plebei
malcontenti, alcuni dei più stimati sorgenti, e vecchi caporali, a
pranzo, e a cena frequentemente attendevano; offerivangli quelli da
sedere, e partecipare alla mensa; fattosi un pò pregare, egli sempre
di sedersi a tavola al fine acconsentiva, ed in mezzo ai bicchieri, ed
alle barzellette, senza lasciarsi dalla troppa volontà, a trascorrere
in parole men che servili, trasportare, le quali il suo intendimento
fuor di tempo palesassero, tutto attentamente udiva, ed al racconto dei
maltrattamenti a che andavano quegli infelici soggetti, tema continuo
della loro conversazione, leggermente sogghignava; dal vino, e dalle
parole i commensali, riscaldati, prorompevano quindi in così veementi,
e chiare invettive contro il mal governo del paese, e la condotta dei
superiori, che una semplice delazione sarebbe stata sufficiente per
accusarli, ed anche come convinti di trame sediziose, punirli. Allora
vedendo quell'uffiziale, che trasportati dall'ira, avevano i termini
del dovere trapassati, e giunti erano al punto di poter essere da
una sola parola sua compiutamente rovinati, epperciò stare la loro
sorte nelle sue mani, mezzo in ischerzo, e mezzo seriamente, prendeva
la parola, ed alla pazienza esortavagli, loro diceva, che sotto un
governo interamente assoluto come quello del Piemonte, gli uni, cioè
i nobili, che circondano il trono col diritto di opprimere nascevano,
e gli altri, per essere oppressi, cioè i plebei, che debbono servir di
sgabello alla nobiltà; alla qual dura sentenza della sorte, non potendo
l'uomo destinare il luogo dove nascere, e determinare previamente la
classe a che vuole appartenere, forza gli era di sottomettersi, che
in un stato così ristretto qual era il Piemonte, non si poteva un
cambiamento vantaggioso al popolo per allora sperare, che per verità,
era quegli in generale malcontento. Ma che può fare, diceva egli un
solo popolo disordinato, contro tanti ben regolati guerrieri, i cui
commandanti, come da quanto avete detto, appare, hanno particolare
vantaggio a che il paese nell'oppressione si mantenga? Quindi loro
consigliava la prudenza, e a non esporsi così favellando con alcun
altro, inutilmente a severo castigo; soggiungendo che deplorava la loro
triste condizione, e che della confidenza in lui riposta, facendolo
così apertamente dei giusti motivi della loro afflizione partecipe,
credevasi degno; i commensali allora lo ringraziavano, e cominciavano
ad entrare nella discussione se si potesse, o no scuotere quel giogo,
ei lasciavagli in quella internare, e col pegno in mano, di quanto già
detto avevano, senza prendere ulterior parte, si alzava, e sortiva; ma
sempre avveduto non gli perdeva più d'occhio nell'avvenire e tostocchè,
o per istrada in parti remote, od in casa sua, od altrove, in uno di
questi s'imbatteva, da solo a solo, sul soggetto della discussione
passata, seriamente seco lui ragionava, facevagli toccar con mano,
quanti e quali mezzi fossero alla loro disposizione; quanto facile
fosse di riescire nella causa popolare, se l'esercito a favore di
quella si dichiarasse; insinuando la vera gloria di un militare che
abbia a schifo d'essere salariato sicario di un despota, nell'impugnar
le armi per la patria, consistere, per solo vantaggio di quella, e
non pei capricci d'un uomo, per un malinteso onore, o credula brama di
conquiste, esser cosa gloriosa di sguainar la spada; e così sui mezzi
possibili di muoversi a danno degl'oppressori, si dilungava, e quando
l'altro scorgeva a tutto intraprendere, persuaso, e deciso, coglieva
il momento opportuno, e con un giuramento terribile, di seguirlo
ed obbedirlo in ogni dove, cosa, e momento, se avvenisse un giorno,
che la liberazione d'Italia si tentasse, tenevalo legato, e dai suoi
cenni dipendente. Per tal modo senza mai correre il pericolo di essere
scoperto, continuamente inaspriti, ed a lui devoti manteneva gli uomini
cui favellava.

Incaricato un giorno dalla congrega segreta, di far affiggere in
tutti gli angoli della città dove si trovava, un proclama, col
quale i Piemontesi all'armi in favor d'Italia si chiamavano; giorno
precisamente in che trovavasi il re di passaggio andando a Genova, e
doveva in città alla mattina di buon ora, fare il suo solenne ingresso,
sparse il nostro uffiziale nel corso della notte, una quantità di quei
scritti nei quartieri, un'altra sugli angoli principali della città,
prima delle quattro del mattino ne affisse; trovossi alle cinque, ora
della riunione del reggimento, al suo posto, per andare all'incontro
del re, e come, nel rendersi al luogo di riunione, passa davanti un
angolo, dove uno di quei proclami stava da lui stesso previamente
affisso e molti vede a leggerlo, intenti, egli si stacca dalla testa
del suo squadrone, dà una occhiata allo scritto, dimostra somma
meraviglia, lo strappa e se lo prende. Tosto che sulla piazza d'armi
vede il colonnello comparire, spicca il suo cavallo al galoppo e gli
presenta il proclama, dicendogli, ch'essere il suo dovere credeva di
rimettergli quella carta, affinchè nella sua saviezza, quelle misure,
e disposizioni ordinasse le più atte ad impedire, che tali massime
sediziose un qualche serio effetto sulla mente del soldato operassero.
Trasportato il colonello dalla contentezza di essere stato il primo di
ciò, informato, lo colmò d'elogi, ed ebbe sempre una intiera confidenza
in lui, della quale mai gli avvenne d'abusare, ma ben gli servì, onde
poter con più sicurezza il suo santo progetto, a buon fine incamminare.

Erano tutti gli animi degli uffiziali, compreso quello del colonello,
concitati contro il maggiore, uomo pessimo, immorale, raggiratore,
senza fede, e pieno di millanterie, dalla Regina sommamente protetto,
perchè disertore dall'esercito napoleonico, erasi sotto le schifose,
puzzolenti bandiere austriache riparato; e di questo mezzo, per
mantenersi gli uffiziali amici, pure con profitto si valse; in
continua guerra contro di lui, ma con tal politica, con un calcolo
così maturato si mantenne, che ad ogni momento facevalo scomparire,
e lo rendeva sempre più esecrato, non lasciandogli mai appicco di
punirlo, nè di riprenderlo. Fù sempre, in quella lunga, e simulata
tenzone vincitore, e l'avrebbe finalmente, a sortire dal reggimento,
costretto, se non l'avesse la Regina fortemente spalleggiato. Dal
colonnello, una volta, della verificazione dei magazzeni, delle
vestimenta, e dei conti di quell'amministrazione incaricato, tanto
nella commessagli incumbenza internossi che, potette in una relazione
da lui sù quel particolare data al consiglio d'amministrazione del
reggimento, essere stato il soldato nei conti defraudato, ed essere
gli uffiziali delegati a quell'uffizio in unione con lo stesso
maggiore i ladri del suo avere, irrevocabilmente provare. Andò sossopra
l'uffizio, il capitano d'abbigliamento fù mandato in semestre, e rimase
per via della complicità del maggiore, l'accusa soffocata. Fù posto
il nostro uffiziale alla testa di quell'azienda, che solo accettò
provvisionalmente, non convenendogli per stare cogli artigiani, dagli
squadroni separarsi, e tanto quella sua operazione gli valse, che
l'affetto di tutti i soldati gli cattò, ed in ogni squadra, in ogni
camerata, con somma attenzione, ed applauso la suddetta relazione,
si leggeva, e rileggeva. Andava giornalmente ed anche più volte al
giorno, all'ospedale del reggimento, e colà senza affettazione, e senza
che per dovere apparisse, assiso sulla sponda del letto or di questo,
or di quell'altro ammalato, sulla maniera colla quale erano dagli
infermieri, ed altri impiegati serviti, affettuosamente gl'interrogava;
l'occhio volgeva alle distribuzioni, se di buona qualità erano, e ben
regolate; se le medicine efficaci, etc. Quindi nei particolari alla
persona cui parlava relativi, s'introduceva; in confidenza offriva, e
dava danaro a chi conosceva abbisognarne; s'incaricava di commissioni
per la sua famiglia; e sull'esito della malattia, con buone parole il
confortava; per lusingare alcun tanto il suo amor proprio, dicevagli
l'esistenza del Re sulla salute del soldato riposare, dover quella
prima cura degli uffiziali stimarsi, perchè senza soldati non vi
sarebbero reggimenti, e senza reggimenti non potrebbe sussistere il
governo, epperciò essere il soldato la prima, e la più necessaria
persona di uno stato; assisteva alla medicatura delle ferite, e sempre
ora questo, ed ora quello, in modocchè il malato ben lo intendesse,
al dottore specialmente raccomandava; in ultimo possedeva egli tutta
la confidenza degl'infermi, profittavano delle sue esibizioni, e per
tal modo, l'agente pei loro affari di famiglia, il loro vero amico, il
loro esecutore testamentario, era insensibilmente diventato. Quando
per avventura di partire col suo squadrone, in distaccamento, gli
avveniva, e di dover qualche tempo dal reggimento, separato rimanere,
egli allora trovandosi capo, quel sistema di condotta, più opportuno,
per affezionarsi il soldato non meno, che per assuefarlo ad essere
sempre in ogni ora, o momento senza saperne il perchè, pronto a sortire
in armi, e bagaglio, indefessamente, e con somma cura seguiva; alla
massa d'economia del reggimento, la stessa somma spedita dagli altri ed
anche maggiore rimetteva, il soldato ben pasciuto manteneva, e vestito
come gli era passato dal governo; ma il riso, le paste, etc.; egli
stesso all'ingrosso, e non al minuto giorno per giorno comprando, e
con altre simili operazioni aveva sempre un vistoso fondo nelle mani,
che in nessuna parte compariva, e siccome non voleva rubarlo, dava
ad ogni soldato per tutto il tempo del distaccamento, un convenevole
caposoldo, regalava i più diligenti, e nelle domeniche avendo stabiliti
giuochi di destrezza a piedi, ed a cavallo, dall'eccitamento de' premj
sostenuti, in caserma riuniti li divertiva; amavanlo, e stimavanlo
per tal modo i soldati, e quelli de' distaccamenti successivi, non
avendo uffiziali, che volessero, o sapessero quei fondi far sorgere,
ed all'uopo servirsene, avuta del ben essere goduto dagli antecedenti
notizia, si disgustavano, servivano male, e qualche volta ai loro
superiori anche si ribellavano, impazientivansi gli uffiziali di dover
da meno comparire di quello, ed i soldati d'essere sotto di lui con
tutto il cuore bramavano. Onde poter sempre tenere il suo squadrone
in pronto, per agire secondo la sua volontà, il nostro uffiziale lo
sorprendeva, e di giorno, o di notte, quando meno si pensava, udivasi
dal trombetta suonare a cavallo, ed in venti minuti di tempo tutto lo
squadrone doveva essere in armi, e bagaglio, dal quartiere partito,
senza nessun effetto di corredo dietro di sè in caserma lasciare, il
primo dragone a cavallo riceveva un premio, l'ultimo, alla prigione
per quattro giorni era inesorabilmente condannato; un quarto di
miglio lontano ad una esatta revista del bagaglio d'ogni individuo,
procedeva, gli effetti dimenticati al quartiere, erano in prò della
massa generale dello squadrone invertiti, notati erano i mancanti, ed
al ritorno subitamente surrogati, ma veniva al perditore, il gastigo
di quattro giorni d'arresto, inflitto, seguiva la rivista, un lungo
passeggio militare, il termine del quale era in qualche villaggio dove
nel mentre, che i cavalli mangiavano la biada ed il fieno portato da
ciascun dragone, all'anello della sella bistorto, ed aggomitolato; un
competente _asciolvere_ veniva a spese del comandante ad ogni soldato
distribuito, dopodichè ritornavasi lietamente in caserma; insomma ben
conosceva quell'uffiziale che il migliore, anzi il solo veicolo, onde
cose grandi, e sublimi operare, quello si era di farsi il maggior
numero possibile d'amici, che tutto quanto hassi in questa vita, e
sopra ogni altra cosa, la riputazione, e la stima, dall'altrui volere
dipendono, che l'uomo è di vivere continuamente, o con gli amici o
con nemici costretto, che in mezzo a questi ultimi non gli verrà mai
fatto di potere con fondata speranza di felice risultamento buone, ed
atte cose intraprendere; perchè ogni miglior impresa, verrà sempre a
tutta possa da loro impedita, incagliata, ed al popolo con falsi colori
dipinta, onde una sublime, magnanima e gloriosa azione, far, che un
basso raggiro per particolar convenienza praticato, mosso da volgare,
o vizioso incentivo, appaja, ed anzicchè la ben meritata approvazione,
e la singolar gloria, dalla vera virtù non mai disgiunta, che a buon
diritto le spetta, publico biasmo, e disprezzo generi, contro chi con
pure intenzioni valorosamente l'imprende. Della peculiare, e delicata
situazione di chi difficilissime cose desiderava portar a buon fine,
il detto uffiziale facevasi carico. Epperciò bel bello nel cuore di
coloro che l'avvicinavano insinuandosi col destato affetto, della lor
lingua s'impadroniva; salito in fama, gli si aumentava la stima, e con
questa il numero degli amici, notabilmente accresceva; tuttavolta durar
dovette non poca fatica onde questa sua brama conseguire; persuaso
egli, che la somiglianza di costumi, sia d'amore conciliatrice; ad
ogni umore, ad ogni sorta di gente si addattava; scevro di antipatia,
e fermo di volere il loro cuore cattare, studiosamente la dominante
passione di ciascuno de' suoi compagni investigata, la blandiva, e
vezzeggiava; ora parlava da savio, ora da volgare, pensava sempre
come il primo, ma per lo più come il secondo, si dimostrava; i giusti
encomj rendeva alla virtù trattando co' virtuosi, e ad una qualche
opera, non diremo men che onesta, ma anzi alla licenza tendente che
no, propostagli dagli oziosi, non si negava, senza mai però alla pania
del mal vezzo lasciarsi invescare. Per acquistare la buona riputazione
ed in essa mantenersi, i suoi propri difetti occultava, senza darsi
a vedere degli altri più savio, mai apparentemente negli affari
particolari de' suoi colleghi immischiavasi, ma per trar partito dai
loro difetti, passioni, abilità, e bisogni tenevasene segretissimamente
informato; non parlava mai di sè stesso; diceva cose piacevoli, ed
i compagni di tanto in tanto, e separatamente senza affettazione,
di prendere all'esca di begli atti, modi, e parole si studiava; mai
non mentiva, sebbene sempre tutta l'intiera verità non palesasse;
senza boria, nè maldicente, nè riprenditore, il tempo, e le cose
per addattarvi le sue azioni, di continuo studiava; di apertamente,
e chiaramente manifestarsi, e dare i suoi pensieri a conoscere,
avvedutamente sfuggiva, e gl'impegni soprattutto quando appariva
dubbia la vittoria, in tal maniera schifava. Con accortezza, cautela,
giudizio, ed acume, con simulazione operando, si serviva d'ingegni
ausiliarj per deludere l'arte con l'arte, ed essere alle contrarietà
superiore; e come quello, che ben conosceva, essere l'arte di saper
intraprendere a proposito in affari d'alto rilievo, la principale, e
decisiva, con calma le occasioni aspettava, e con profondo calcolo
le bilanciava, nel mentre, che con somma accuratezza si disponeva,
e coll'ingegno, le forze sue prima d'intraprendere, con quelle
dell'avversario, ponderatamente misurava. Con sì fatto seguitato,
ed invariabile procedere, gradatamente, e tacitamente a quel grado
d'influenza necessario portossi, onde poter un giorno di bisogno,
dare al reggimento in favor d'Italia la mossa. Infatti il giorno dieci
marzo 1821, destinato dalla congrega segreta per agire, alla testa del
reggimento dragoni del Re, con soli nove uffiziali subalterni, nella
cittadella d'Alessandria portossi; ove in unione con una brigata di
fanteria, fù lo stendardo della libertà italiana con gioia universale
inalberato. Quando si considera che quel reggimento, da tre quartieri
separati, si mosse nel centro d'una città chiusa, e popolata con
tutti i posti militari dalla brigata di Savoja creduta contraria ad un
movimento italiano, occupati; con una stazione forte di carabinieri a
piedi, ed a cavallo, che avevano le loro scuderie contigue a quelle
del reggimento in questione, e con un immenso stato maggiore di
piazza, un generale governatore, un generale di divisione, colonelli,
ajutanti, ed una furia di spie, lasciando in oltre a parte, ventisei
uffiziali del proprio reggimento, compreso lo stato maggiore, non vi
sarà certamente chi non venga da maraviglia compreso, quando facciasi
a considerare, che malgrado tanti scogli, tanti impedimenti, fosse
il reggimento a cavallo, alle due del mattino, tranquillamente in tre
separate porzioni uscito, e sulla piazza del grande ponte del Tanaro
riunitosi, sorprendesse il posto d'infanteria di Savoja, che stava a
guardia di quello e trattolo seco, senza, che neppur uno di contrarj
se ne sia accorto, la divisata operazione a compiere pervenisse.
Ecco abbozzata la regola di procedere d'un uffiziale cospiratore, che
voglia fermamente il reggimento a che appartiene, in favore della causa
della patria portare, sebbene siasi in ristretto esposta, e per l'amor
della brevità, molte, e molte delle sue operazioni siano da noi state
sotto silenzio passate. Crediamo quei cenni però bastevoli, onde dar
a divedere la vera via, che per giungere a tale scopo percorrere si
debba; e senza mancare alla verità, e senza raggiri bassi e comuni,
colla sola perspicacia, prudenza, ed una volontà ferma, e costante, un
felice compimento di magnanimi divisamenti ottenere.

Esposto come debba un militare a quell'uopo le sue azioni dirizzare, il
quale in una assai più dilicata posizione, di qualunque altra persona
si trova; con molta maggior facilità, un impiegato civile, un uomo
independente, potrà quella parte delle sopra indicate regole, che gli
compete seguire, e ad effetto la grande impresa felicemente perdurre.
Sovvengansi però sempre, il cospiratore, le congreghe, le leghe, tutti
insomma coloro, che in segreto al fine di preparare lo scoppio generale
si adoperano, che la prudenza, l'attività, lo zelo sono alla riuscita
necessarie, ma che non bastano se non sono con l'ostinazione unite. La
cospirazione perciò dev'essere perpetua, se un tentativo fallisce nel
suo effetto; se un ben combinato movimento è scoperto; se una parte
dei cospiratori viene arrestata; se altri sono mandati al supplizio;
nulla di tutto ciò deve indurre i rimanenti, di cospirare di nuovo a
rinunziare, ma cambiando le forme, i segni, coi quali fra di loro si
riconoscono, sbagliata, scoperta, distrutta, una cospirazione, deve a
quella immantinenti un'altra conseguitare, e sempre maggiore, e più di
prima formidabile rinascere; a capital delitto devesi la cessazione
delle pratiche, finchè un solo rimanga dei collegati, ascrivere.
Uno, due, tre, dieci, venti tentativi abortiranno, ma alla fine il
trentesimo riescirà; molte saranno per avventura le vittime, e di
qualità, egregie persone, uomini sublimi, dalla scure dei tiranni,
pel bene della patria, prima di riescire sagrificate; ma non dovrà
mai questo pericolo da chi ad una sì grand'opera si consagra essere
paventato. Freddo il cospiratore alle disgrazie della lega; o della
congrega, mai non si stancherà di operare, abbenchè delle sue opinioni,
un solo in Italia rimanesse, supposizione impossibile, perchè sempre in
quella, uomini generosi, che veramente le sono affezionati e la gloria
ambiscono di cooperare alla sua liberazione, avventurosamente rinverrà.

Non si ristaranno dunque i cospiratori per qualunque accidente loro
avvenir possa, dall'avventurarsi pell'esecuzione del gran disegno, ben
persuasi, che qualunque sia per essere il loro destino, cadano essi
sul campo della patria; o come Confalonieri, nelle oscure prigioni
dei tiranni imputridiscano; come Morelli, Silvati, Garelli, Laneri,
Andreoli, e Deluca, per le mani del carnefice sul patibolo periscano;
od al coltello o veleno degl'assassini, come Rossaroli per mala
ventura soggiacciano, oppure onde in pace godere le benedizioni, e le
ricompense della lor patria riconoscente sopravvivano, saranno sempre,
i loro nomi negli annali d'Italia distinti, e commendati, ed avranno
nel cuore dei posteri la condegna, e ben meritata apoteosi.



CAPITOLO V.

DELLA TATTICA. — QUALE SIA LA GUERRA DA ADATTARSI NELLO STATO ATTUALE
D'ITALIA.


Quando ad esporre, qual metodo di guerra, venir debba per un paese
trascelto, s'intraprende, d'uopo è la sua fisica, morale, e politica
situazione non meno, che l'attitudine sua a questa piuttosto, che
a quell'altra guerra favorevole, farsi a minutamente investigare. E
siccome sopra il miglior metodo di guerreggiare, anzi il più utile, ed
efficace da noi divisato, ed il solo atto a promettere agl'Italiani
un certo risultamento, è nostra mente di tenere un fondato discorso,
non possiamo a meno di non dare della moderna ed antica tattica,
un rapido abbozzo; e nè l'una, nè l'altra, di essere agl'Italiani
vantaggiosa, col mezzo di chiari, e convincentissimi argomenti e
storiche prove, assegnare con evidenza le ragioni; imperciocchè
ambe, ciò che un popolo insorto non ha, nè può avere, e che per lo
contrario abbondante, valevole e ben regolato trovasi nelle mani del
nemico, richiedono; converrà dunque alle importanti mancanze riparare,
all'arte una differente opporre, ed al tutto supplire con un metodo
affatto dissomigliante, ed a rendere inutile quello dell'avversario,
conducente; dimostrando che il fine certo, indubitato di tal metodo,
sia la vittoria di chi l'imprende; provare la necessità di appigliarsi
ad un nuovo metodo, e indicare quale questo per l'Italia debba essere,
sarà l'oggetto principale delle nostre disquisizioni nel presente
capitolo. Una guerra che devesi dalle regole conosciute della tattica
degli eserciti regolari europei allontanare, sarà senza dubbio per
riescire in Italia dove mai in sì fatto modo guerreggiossi, del tutto
nuova, ed a nessun altro cognita, fuorchè a quei militari i quali in
Ispagna, od in quegli altri paesi, dove più o meno quella imitavano,
dovettero agli effetti di quel metodo soggiacere; sebbene sia questo
nostro sistema sulle operazioni dei summenzionati popoli delineato,
si può non dimeno come affatto nuovo considerare, perchè realmente in
quei paesi, secondo principj generali prestabiliti, dalle bande non
operavasi, ma tutte allo stesso scopo dirette, nei mezzi (perchè non da
tutti i condottieri egualmente conosciuti, apprezzati, e concordemente
messi in uso), tutta volta differivano; ciò che di molto la buona
riescita della contesa prolungò, rese ai popoli la guerra più grave, e
dannosa, e soventi volte quando si sarebbe una pronta, e certa vittoria
ottenuta, dubbia la mantenne.

All'uopo dunque di render più breve, e più forte questa guerra, di
minor danno al paese, ed il trionfo della buona causa accelerare,
abbiamo noi in questo capitolo e nei seguenti le fisse, ed invariabili
regole preso ad indicare, le quali dovranno sempre però essere dalla
perspicacia del condottiere, alle occorrenze, ai tempi, ed alle
situazioni, convenevolmente applicate.

Consisteva principalmente la tattica dei Romani, in quell'ordine
profondo, che tutto col proprio peso arovesciava; ristretta la fronte,
gagliardamente dirigevasi contro il centro nemico, e dalla riescita
dell'urto, veniva la vittoria decisa; aperte le file sù varie righe
disposte, mutuamente si soccorrevano, e quando avveniva, essere
le prime dal nemico distrutte, filo filo, le altre a surrogarle
avvanzavansi; era il combattimento da presso all'arma bianca, ed ogni
individuo in quella poteva tutta la sua forza, e destrezza facilmente
dispiegare il vantaggio godendo della superiorità sull'avversario,
se meno agile, o coraggioso lo rinveniva; erano perciò in quel tempo
la tattica e la disciplina, d'un'assai maggiore importanza di quanto
adesso non lo siano; in breve, portato dai Romani tutto lo sforzo
sul centro là, il tutto si decideva, ed una volta quello rotto,
la battaglia era vinta, non erano i loro projettili così efficaci
come i nostri, nè avevano come questi un'azione decisiva, potevano
solamente convenire per ingaggiare il principio del combattimento,
e così un corpo d'esercito in rotta, non avrebbe potuto essere da
quelli sufficientemente protetto. Con questo modo di guerreggiare pel
quale il vero valore individuale doveva impiegarsi, pervennero quei
virtuosi nostri progenitori, a sottomettere quasi tutto il mondo,
e nessun popolo d'allora in quà, giunse, la loro virtù peranco a
pareggiare. Nell'infausta caduta della potenza romana, fu pure quella
dell'arte militare, involta; impossessatisi i barbari dell'Italia, ed
introdotto, e piantato il loro perniciosissimo sistema feodale, sulle
rovine dell'antico, e glorioso patriziato, siccome il popolo schiavo,
povero, senza onore, non poteva più avere attitudine alla guerra, lo
tennero a piedi, e per lo più disarmato, mantenendo i pochi di cui si
servivano, di pessime armi forniti; e quei barbari che quai ladroni
delle terre s'impossessarono (i più forti, i più birbanti dei quali,
formarono una classe che titolarono di nobiltà, e conti, baroni,
etc., si appellarono), essendo i soli ricchi perchè aveano spogliato
gl'Italiani, ed i soli che possedessero cavalli, misero in pregio
la cavalleria, e si ebbero i fanti nel maggior disprezzo; così nel
decimoterzo, e decimoquarto secolo, gli eserciti della maggior parte
delle potenze europee, in sola cavalleria consistevano; fù la sublime
romana tattica messa in obblìo, si può dire, che più in quel tempo non
si guerreggiava, perchè tutte le evoluzioni messe in non cale, altro se
non rapide irruzioni nel paese nemico da veri ladroni non facevansi,
lo scopo della vittoria alla distruzione, e rubamento della proprietà
de' vicini limitavasi, e tutto il vantaggio della celerità delle
marcie si ritraeva; i nobili feudatarj per intieri mesi e con enormi
spese, a riunire i loro nobili secondarj, s'affaticavano, e quindi la
guerra non durava che pochi giorni o settimane, per lo più senza un
decisivo risultamento, e tutti i mali di quella, uniti alla capricciosa
tirannia de' nobili, senza mai alcun vantaggio ritrarne, il mansueto
italico gregge, doveva pazientemente sopportare. Carlo VII, re di
Francia, fu il primo che per levarsi la noja, di quelle truppe inutili
e la soggezione dei feudatarj, che come al mal tolto compartecipi,
non volevano dai capricci del re, sottomessi rimanere, cominciò ad
assoldare truppe mercenarie, ed in Europa quel rovinoso, immorale,
malefico sistema delle truppe regolari permanenti introdusse. Portò
l'invenzione della polvere, una rivoluzione, nell'arte della guerra di
quei tempi; distrutto dall'artiglieria e moschetteria il prestigio de'
cavalli, ricominciarono i fanti ad essere di bel nuovo apprezzati; gli
Svizzeri, che per lo passato, a cagione della loro povertà, non avevano
mai potuto tenere cavalli, epperciò con somma cura sempre come fanti
si esercitarono, erano in quel tempo per la riputazione di superiorità
acquistata sopra la cavalleria, da quasi tutti gli stati ricerchi, ed
assoldati. Marciando quelli in battaglia serrata colle loro picche,
e spadancie, gli squadroni de' cavalli assalivano di fronte, e quasi
sempre rompevano; i Francesi, e Tedeschi, all'ordinamento di fanti
s'appigliarono, ma gli Svizzeri ad eguagliar non pervennero; gli
Spagnuoli solamente divennero a quelli di gran lunga superiori, e tutta
l'Europa d'ammirazione, e timore compresero.

Fù dai celebri Gustavo Adolfo di Svezia e Nassau nelle Fiandre, un
sistema di guerra regolare strategico (cioè guerra di movimenti),
inventato, e seguito, più d'ognuno in quel tempo dell'arte della guerra
conoscitori, ebbero la vittoria dovunque marciavano; i loro eserciti
ben regolati, divisi in geometriche frazioni, furono i primi di
quell'epoca, a porre gli alloggiamenti alla campagna, ed attrabaccare
non meno, che a venire con un metodo da lunga pezza andato in disuso,
ad una regolare giornata; l'uso mantennero delle picche, e persuasi
che nella densità dell'ordine, e nell'impulsione, la forza delle
fanterie consistesse, ebbero all'ordine profondo, ricorso. Acquistò
il nostro Montecucculi che era di questa scuola a fronte del celebre
Turenna, col quale a vicenda una guerra menavano di sottigliezze e
stratagemmi, grandissima gloria; Guibert, ci dice, quello essere stato
il tempo dei grandi generali, che alla testa de' piccoli eserciti,
grandi cose facevano; non pochi miglioramenti nella tattica furono
da Luigi XIV introdotti, e la sua guerra piuttosto che altro puossi
degli assedj appellare, pochissimi soldati, avveniva, che in quel modo
guerreggiando, perissero; andavasi nella fredda stagione agl'invernali
quartieri, e di combattere si tralasciava, erano talmente rare le
battaglie, che molte volte, varj interi anni in guerra passavansi senza
che neppure a far giornata si portasse il pensiero; tende, magazzeni,
impedimenti numerosissimi il materiale formavano d'un esercito,
che appena era di muoversi capace, d'enorme spesa all'erario, senza
giungere a decisivo risultamento, locchè il più delle volte portava
la rovina dello stato, il quale era dalla necessità, senza che i
due eserciti avversarj misurati si fossero, a far la pace costretto.
Abbenchè un regolar servizio di provianda fossevi stabilito, era quello
tanto malamente amministrato, che i viveri distribuiti al soldato
pel suo mantenimento, non bastavano, e diveniva un vero flagello dei
paesi per dove passava, di altrettanto più danno, e peso, quanto non
mai per marcie forzate, ma per regolari alloggiamenti si traslocava.
Però fù in quel tempo l'arte dell'attacco delle piazze ad un grado
tale di perfezione portato dal celebre Vauban, (che mise in pratica i
precetti d'un famoso ingegnere italiano, Francesco Marchè di Bologna),
il più lungo, e difficile di tali attacchi, non costava la vita che a
pochissimi soldati, e nessuna fortezza secondo quelle regole attaccata
poteva di cadere nelle mani dell'aggressore, scansare. Si adottò pure
in quel tempo la funesta e rovinosa massima di portare gli eserciti
e le artiglierie ad un numero esorbitante; non v'era propriamente una
tattica, per dare a quelle masse un regolar movimento; era il tutto dal
genio e talento del generale, che comandava, mosso e diretto; il nostro
principe Eugenio di Savoja, riportò giusti encomj, e fù di luminosi
allori fregiato in quel modo di guerreggiare.

Comparì finalmente Federico II, re di Prussia, creatore d'un'arte della
guerra affatto nuova; inventò l'ordine di battaglia obbliquo, addattò
la sua tattica al cambiamento dei projettili, e l'ordine profondo,
e serrato fù da lui con l'ordine sottile e disteso, surrogato; non
dovevano più i generali di quella scuola, aver per iscopo di rompere
il centro, ma bensì di estendere le loro posizioni per girare uno dei
corni dell'esercito nemico; il suo sviluppo prevedere, e facendo delle
ingannevoli dimostrazioni da una parte, su quello lasciato incautamente
sguernito, con maggior forza cadere, trarre da tutte le combinazioni,
che potevano essere al nemico dannose, giudiziosamente profitto, e
col mezzo di ben dirette evoluzioni, farlo cadere con avvedutezza,
nell'inganno; un corno del suo esercito avviluppare, e prendendolo per
tal modo a rovescio, dare di mano, in mano, addosso alle varie separate
porzioni de' suoi combattenti, e nella confusione dall'essere presi
alle spalle cagionata, distruggerle; far valere le artiglierie, in modo
collocandole, che unitamente agli schioppi, il loro fuoco dai lati al
centro incrociassero in modo che se l'avversario di portarsi all'urto
dell'arma bianca divisasse, rimanesse prima d'avvicinarsi, distrutto;
e se mai fosse per arrivarvi, malgrado il fuoco, abbastanza felice,
giunto al cozzare, troppo maltrattato, e dalle gravi perdite di tanti
uomini indebolito, dovesse sotto le bajonette d'un corpo intatto, in
isfinimento cadere, che a suoi piedi malgrado l'eroico suo valore lo
seppellisse. Dopo l'introduzione delle artiglierie, viene dunque la
sorte delle battaglie quasi sempre a quelle rimessa, e ben soventi,
più o meno forti si considerano quegli eserciti, che d'una maggiore, o
minore quantità di fuochi, possono disporre.

Fù la creazione di quella nuova tattica, di non poco giovamento al gran
Federico; le battaglie di Lissa, e di Hohenfriedberg, e molte altre
chiaro a divedere cel danno. Carlo Emmanuele terzo re di Sardegna,
principe guerriero e filosofo, buon generale, ed amministratore
instancabile nella fatica e coraggioso nel pericolo, fù distinto, e
celebre maestro in quella guerra; il cui sistema da tutti considerato
come il migliore, e da non potersi perfezionare, ebbesi fino alla
rivoluzione di Francia, in conto. Ma dovette in quel tempo alle masse,
la preminenza concedersi; spinte quelle colonne serrate dall'entusiasmo
republicano nelle pianure dell'Italia, e della Germania, sui quasi
impenetrabili cordoni austriaci ferocemente scagliavansi, gli fugavano,
e distruggevano. Erano dai generali della republica le colonne serrate,
alle linee distese, preferite, perciocchè maggiori difficoltà, per
queste conservare, si rivengono. Attaccavasi in una battaglia, per
l'ordinario un punto determinato; una brigata succedeva ad un'altra,
e così di mano, in mano, truppe fresche, il luogo delle respinte
occupavano, ciò che finalmente a forzare il posto, le abilitava,
e l'avversario costringeva a dar sulla loro fronte le spalle; e
tenendosi stretti in colonna serrata, e compatta, tutti gli sforzi
della cavalleria nemica per romperla, al nulla riducevansi. Il sistema
di queste colonne d'attacco, spinte su varj punti scelti a seconda
delle circostanze contro le linee contrarie, torna tutto il vantaggio
dell'ordine diretto, ed obbliquo della tattica di Federico, a nulla,
perchè, mai non potrebbe il nemico sù tutti i punti a riceverle,
egualmente, ben preparato trovarsi. Per formare di queste colonne
tutta una linea di battaglia, un numero enorme di combattenti si
esige, ma potrà sempre quella esser certa di rompere in varj luoghi
un nemico secondo un altro sistema collocato e talmente scompigliarlo
da doverne per necessità la sua generale compiuta rotta seguire.
Lo stabilmento d'un corpo composto delle migliori truppe, chiamato
di riserva da un abile generale commandato, è pure stata una delle
principali e vantaggiose invenzioni di quel tempo; se avviene che
sieno due linee battute, la riserva copre la loro ritirata, in molte
occasioni, ed alla battaglia di Marengo in particolare fù la vittoria
dalla riserva riportata, se poi sono vittoriose le linee, quella il
compimento dell'azione ajuta, ed alle truppe leggiere la presa d'un
maggior numero di prigionieri, di molto facilita; fece Napoleone il
miglior capitano di questi tempi, delle colonne d'attacco, grandissimo
uso, senza tralasciare di servirsi pure, non poche volte, di quanto
esservi di vantaggioso nella tattica di Federico giudicava; e senza
perdere i vantaggi dell'ordine obbliquo, dall'inviluppo, all'antica
massima dell'urto, l'arte militare richiamò; ben riconobbe non poter
l'urto personale all'arma bianca, a cagione dell'incrociato fuoco dei
projettili, sempre favorevolmente riescire, e di ottenerlo con l'urto
d'una quantità maggiore degli stessi, fermò il suo consiglio; ciò
che compiutamente al savio divisamento corrispose, e quindi dove i
vecchi generali solamente quattro, sei o dodici cannoni collocavano,
e fors'anche in luoghi dove non ne mettevano alcuno, egli quaranta,
ottanta, cento, etc., ne situava; questa massa di cannoni, che tutto
quanto aveva in fronte, spazzava, contro soldati che con pochi e coi
soli schioppi dovevano opporglisi, in suo favore necessariamente pender
faceva la vittoria.

Le stesse cagioni da che fù il cambiamento della tattica antica
prodotto, dovevano far sì, che dai nemici, quei nuovi modi per mezzo
de' quali, furono essi le tante volte sconfitti, e di che in ogni
battaglia ne riconoscevano con loro danno l'efficacia, si mettessero
pure in pratica; epperciò all'eccezione di quei vecchi generali
sempre nell'opporsi ad ogni novità ostinati, tutti allora, essere
il cambiamento del sistema tattico necessario, convennero; e chi più
presto, e chi più tardi tutti, di mettersi cercarono più o meno del
loro nemico all'eguale; di modocchè nella maggior parte delle attuali
guerre, gli stati combattenti con linee in colonna serrate, mirano,
una maggior estensione di terreno dell'avversario, ad occupare,
ed in quella maniera minacciarlo di circondargli ambi i fianchi
dell'esercito, onde le sue disposizioni sì offensive, che difensive
sconcertare. Epperciò ogni stato, che dichiara in oggi ad un altro
la guerra, si sforza a quest'uopo, nell'immenso numero di soldati
a superarlo, e porta al campo una enorme quantità d'artiglieria di
campagna, e volante, acciocchè prima di venirne alle strette, esser
possa la battaglia, decisa; così nella battaglia di Jena, già si
trovarono sù trecento mila combattenti da circa ottocento pezzi di
cannone impiegati, e viemaggiormente in aumento progredendo, si videro
in quella della Moscova, o Borodino, tra una parte, e l'altra duecento
e sessanta cinque mila soldati, e mille e trecento bocche da fuoco, in
non intermessa azione. Colà si prese la mai più veduta e sorprendente
disposizione di collocare in un sol punto trecento pezzi d'artiglieria,
i quali a scaglia contro le reserve russe in massa del centro
assalitrici, tutti assieme continuamente traevano, e dal tremendo
lor fuoco furono quelle affatto incenerite. Ciò diede a Napoleone
vinta la giornata; questa battaglia nella quale un numero enorme di
cannoni non mai per l'addietro neppur pensato, adoperossi, come la più
sanguinosa contasi, fra tutte quelle dopo l'invenzione della polvere,
successe; un tale reciproco sviluppo di forze rende molto più onerosa
per lo stato la guerra, di quanto poteva esserlo nei tempi passati.
La quantità di truppe non meno, che delle artiglierie, munizioni,
bagagli, e treno, che sono al loro seguito di trascinare costrette,
esige spese enormi; e per la necessità di stabilire magazzeni,
fortezze, etc., ciò che chiamasi base militare, indispensabile nella
scala d'operazioni dell'attual sistema di guerra, viene la celerità
dei movimenti intralciata, tutta la superiorità della disciplina, e
del coraggio, che presso gli antichi decideva della vittoria, al nulla
ridotta: ed il generale che maggior numero di combattenti, e maggior
quantità de' succitati elementi proprj all'attuale metodo possegga,
se a quelli, la capacità di maneggiarli senza confusione aggiunge,
può il buon successo della battaglia, come certo contare. Diventò in
questo modo, molto più micidiale, la guerra, senza niente più decisiva
riescire, poichè, tutti avendo lo stesso sistema abbracciato, questo,
generale divenne, epperciò si ottiene ora colla morte di centomila,
lo stesso risultamento, che anticamente, quando erano di minor forza
ambi gli eserciti, con quella di cinque mila, potevasi ottenere. Sarà
questo leggiero saggio sulla tattica da noi conchiuso, indicando come
Napoleone il segreto dell'arte della guerra intendesse, che si trova
dal signore di Segur, nella storia della guerra del 1812, al capitolo
VIII, pag. 193, così riferito: «Napoleone chiamò a se l'ajutante
di campo, questi lo trovò immerso in profonda riflessione, e quindi
sclamò: che cosa è la guerra? Un mestiere da barbari, in cui tutta
l'arte consiste nell'essere il più forte sopra un dato punto!» Ecco in
poche parole da quel sommo capitano la tattica attuale spiegata.

Ora volendo noi Italiani contro lo straniero che occupa il nostro
paese, ed i tiranni domestici, che ci maltrattano, insorgere, potremo
noi quel numero enorme di soldati regolari, e di costosissimi materiali
possedere, che da quanto abbiam veduto sono, se si vuol vincere
nel modo attuale di far la guerra, indispensabili? Dov'è l'erario
per le grandi spese, al mantenimento, vestimento ed armamento del
soldato, e per la fabbricazione del materiale necessario? Dove il
luogo di riunione; onde poter queste masse, con calma, e tranquillità
profittevolmente ordinare? Forse che una piazza forte, ed anche molte,
o tutte, per dichiararsi in favor della patria, saranno; ma ciò che
importa? Mai non potranno in quella fretta, in quella confusione, in
quella divisione di partiti, per vincere il nemico che non perderà
tempo a correrci addosso, il necessario bastevole fornirci; per
mettersi in misura di dargli una battaglia, e sperare la vittoria
mancaci senza dubbio il tempo non men, che i mezzi. Ma perchè non
possiamo ad una regolar battaglia immediatamente il nemico sfidare,
dovremo noi dunque, rinunziar ad insorgere? No; un'altra guerra, il
cui risultamento non possa esser dubbio, la sola per noi possibile, e
conveniente nello stato attuale d'Italia, sarà da noi avventurosamente
intrapresa, e sarà questa la guerra d'insurrezione per bande; dalla
qual sola l'unione della penisola, l'independenza, e la libertà,
potranno gl'Italiani ottenere; onde persuadersi che questa guerra
sola sia di produrre quel felice avvenimento, capace, ci converrà al
quanto estenderci per dimostrarlo. Ma siccome è cosa necessarissima,
che ognuno degl'Italiani se ne persuada ed a combattere in quel modo,
ed allo stesso, con altri servigj, a concorrere si disponga, non
tralascieremo, per quanto la ristrettezza di nostri lumi lo permetta,
di chiaramente dimostrarlo.

Mezzi d'ogni sorta, generali capaci, popolo disposto, combattenti
valorosi onde poter combattere, e schiacciare, gli abborriti nemici,
non sono in Italia certamente mancanti; ma la situazione politica
delle varie parti della penisola; le poche truppe regolari capaci
di entrar in guerra pe' paesi disseminate, la divisione di quella in
tanti stati; sono tutti alla riunione immediata d'un esercito regolare,
gravi impedimenti. Dal calcolo approssimativo delle truppe nazionali
d'Italia attualmente al servizio de' tiranni, puossi facilmente
dedurre, che lasciate le guarnigioni necessarie nei proprj paesi,
le rimanenti atte ad uscir per riunirsi ed in un determinato punto,
formare un esercito, ad un numero maggiore di cinquanta cinque, o
sessanta mila uomini non ascenderebbero; supponendo, che il Piemonte
possa mandare trentacinque mila combattenti, quindici mila Napoli,
e che tra la Toscana, Parma, Lucca, Modena ed i Papalini, si possano
dieci mila uomini riunire; ecco sessanta mila il numero disponibile
delle truppe che si potrebbero muovere; ma è pure da osservarsi,
esser queste in oggi mal commandate, senza spirito nazionale (parliamo
in massa perchè, ben sappiamo che individui sonvi, e molti, i quali
rodono in silenzio il ferro che gl'incatena, e gemono in segreto sul
vilipeso onore italiano, e sui mali della patria;) tal che nel loro
attuale ordinamento lor sarebbe non che difficile, anzi impossibile
per ispontanea volontà, e simultaneo movimento in un punto determinato
la loro riunione operare; senza essere, nella distanza, che avrebbero
a percorrere per congiungersi, dallo straniero, o partito tedesco
interno impedite, e separatamente battute. Neppure crediamo essere
un movimento simultaneo generale da sperarsi, perchè tante sono le
difficoltà particolari a ciascheduno stato, città, luogo, dove di
fare si tenta una rivoluzione, tanti gli avvenimenti che possono il
meglio combinato movimento, non solo ritardare ma ben anche sventare;
tante le contrarietà inaspettate fra gli stessi speziali elementi
d'azione, facili a sorgere, che uno scoppio simultaneo in uno stato,
provincia, o distretto non solo, ma in una stessa città può dirsi
difficile, anzi quasi impossibile. E parimenti in uno così esteso
spazio come la penisola italiana, in dieci stati differenti divisa,
che dieci centri sono di governo, di polizie, di carabinieri, di
spie, etc., tutti a render nulli gli sforzi di quegli eroi, che una
rivoluzione intraprendessero, intenti, tal cosa non è da sperarsi, e
non potrassi mandar ad effetto. Ammirabile, da desiderarsi, e degno
in vero di un popolo energico, e di gran mente un vespro italiano,
contro i Tedeschi e partigiani loro, certamente sarebbe; da quelle
macchie, che fanci vergognare ci sbruttarebbe; in un istante avremmo
delle grandi ingiurie, finora per la nostra dappocaggine sofferte,
giusta, e memorabile vendetta, e per la gloria di tal fatto, verrebbeci
aperto il cammino a ben fondata, e durevole felicità. Ma quei grandi
avvenimenti degni d'un popolo d'eroi, difficilmente si ripetono,
ai quali pure l'estesa superficie del nostro paese si oppone. Quei
sessanta mila uomini dunque, che riuniti, ordinati, e ben comandati,
e coll'andar del tempo aumentati, sarebbero di battere, vincere, e
distruggere i nemici d'Italia, capaci; non potendo per un simultaneo
movimento riunirsi, sono in oggi, attesa la loro posizione, di poco, o
niun conto in massa, per una guerra regolare, da considerarsi; altro
con fondamento a sperar non rimanci, se non che venga da uno, o più
stati, la bandiera della patria, inalberata, e che successivamente da
un paese ad altro estendendosi, la rivoluzione si renda generale; ma
prima di lasciarla a quel felice punto arrivare, i nemici del paese,
le loro forze tosto riuniranno, loro agevol cosa sarà di poter di
cento mila combattenti disporre, la confusione, e debolezza di tutti
i principj dei cambiamenti politici inevitabili, sarà da loro ben
calcolata, e messa a profitto, ed acciocchè non prenda il nuovo sistema
incremento, e non si consolidi, sopra lo stato insorto, con tutte le
loro forze piomberanno. Eccolo allora in procinto di soggiacere, dovrà
in tutta fretta alla poca truppa ordinata, che mantiene, un numero
grande di ardenti cittadini aggregare, amanti cordialissimi della
patria certamente, ma non usi alle armi, nè per anco alle veglie, alle
fatiche, ed al formidabile aspetto d'una battaglia campale assuefatti,
inevitabile, se il nemico la vuole, come la vorrà, e da non potersi
nella guerra regolare, a piacimento schermire, senza mettere in
pericolo la capitale dello stato, che deve in quell'epoca la base
delle operazioni militari, formare; ed ecco l'onor nazionale, e la
libertà della patria, con probabilità della vittoria in favore del
nemico nelle mani della cieca fortuna commessi, che come ognun sa ben
sovente li non degni ad alto leva, a basso lasciando i degnissimi.
Ora, perchè al momentaneo, incerto, e probabilmente sfavorevole
successo delle armi, quanto di più sacro, di più stimabile, di più
caro havvi agli uomini, in battaglia avventurare, quando mettendoci
in guerra per bande, il successo non è più dubbio e possiamo con
certezza, con minori rischj, sebbene con maggior tempo, soffrimenti,
ed attività continua, ottenerlo? Ma non è il tempo, quando viene per
il bene publico impiegato, punto da valutarsi, le fatiche, le pene,
e la stessa morte quando sono per la patria, sofferte, dolcissime al
cittadino dabbene riescono; ed è l'attività sommamente agl'Italiani
necessaria, per poterli dall'ozio ed effeminatezze in che marciscono
snighittire. E siccome altra riputazione, se non quella di buoni
pittori, scultori, e di saper ben trillare in una arietta, in Europa
non godono; non dobbiamo per un calcolo inconsiderato, per una fretta
inopportuna, la somma delle cose avventurare, quando, in altro modo, la
certezza abbiamo della vittoria; la independenza, e libertà acquistate
con sudori, assai più durevoli riescono, di quella, per favorevol
circostanza, senza pena, e senza sangue fondata. Se gli Spartani di
combattere soventi con gli stessi vicini, per timore d'insegnar loro la
maniera di far la guerra, evitavano, la contraria massima dobbiam noi
abbracciare. Una guerra lunga e continua ci converrà muovere, contro i
nostri nemici, finattantochè, per trarci dall'abbiezione in che siamo,
le virtù degl'avi nostri, abbiaci il lungo combattere, a riacquistare,
portati.

La forza reale, regolare italiana, non potrà dunque essere tutta in
un momento riunita, perchè anderebbe soggetta, prima di poter agire,
ad essere dal nemico attaccata, e separatamente distrutta, ed in
qualunque altro modo per separate frazioni insorga l'Italia, non le
converrà mai d'immediatamente, a campo aperto quei vecchi battaglioni
di Goti sfidare; coi quali non è mai permesso di venire a patti,
ma debbonsi distruggere. Egli è ben vero, che come sudditi di un
despota, di mente opaca, inattivi, e contenuti da irresistibile forza
d'inerzia, solo della loro fisica esistenza occupati, (vizio naturale
dei servi, i quali altro non hanno, che la cieca obbedienza per
legge, e l'oppressione per regola) trovandosi a fronte di combattenti
animati dal fuoco della libertà, e dallo stimolo della vendetta
di tante vecchie e gravi ingiurie che rende attiva tutta la loro
energia, debbono per certo a tali infervorati competitori resi per
l'accanimento insuperabili, le mille volte quelle carnose macchine,
inferiori trovarsi; epperciò non parrebbe dover dubbiosa riescire la
lotta. Eppure, quante volte non abbiam noi veduto popoli insorti,
cittadini da purissimo amor di patria stimolati, che, per mancanza
di tempo ad ordinarsi o perchè non vollero, o non seppero mettersi
a campo in bande, soggiacquero, e l'ordine e freddezza di vilissimi
servi, l'entusiasmo, e l'ardore vinsero di valorosissimi campioni
della patria! Percorrendo l'istoria della rivoluzione di Francia, che
tutta unita, con un solo centro, si trovava in una situazione politica
assai dalla nostra differente, e che al primo scoppio quando le fù
notificato il trattato di Pilnitz, tre milioni di cittadini armati,
ed equipaggiati contava, per la difesa della patria iscritti, noi
vediamo chiaramente che con mezzi eziandio così formidabili, con un
entusiasmo così manifesto, e generale, la prima colonna di truppe
sotto gli ordini del generale Biron, uscita contro la colonna tedesca
comandata dal generale Beaulieu, quando al campo di Boussie si trovò
per la prima volta in faccia al nemico, senza venir alle mani, ma sul
semplice dubbio di essere attaccata, si diede ad una precipitosa fuga,
perdette tutti i cannoni, lasciò moltissimi prigionieri, ed una parte
della truppa non si fermò fino a Valenciennes, e l'altra al campo di
Famars alla sfilata si rifuggì. E nello stesso tempo, il maresciallo
Teobaldo Dillon, uscito di Lilla con dieci squadroni, sei battaglioni,
ed i competenti cannoni, dirigendosi verso Taurnay, sulle alture di
Marquin, s'incontrò col generale austriaco d'Happoncourt alla testa
di soli tre mila uomini. Dillon in vece di attaccarlo sebbene fosse
di molto superiore in forza, misesi in ritirata, ma pur non dimeno
sorpresa la truppa francese da un subitaneo terror panico si sbandò,
e fra urli, e grida, se ne fuggì a Baisien, dove impiccò il colonello
del genio Berthois, e mise il maresciallo Dillon con le bajonette in
brani, ambedue sospetti di tradimento. Il generale Gouvion, attaccato
all'improvviso a Glisuelles dal generale Clairfait, avrebbe avuta la
stessa sorte, se non fosse giunto a tempo in suo rinforzo, il generale
Lafayette, che ristabilì il combattimento. Chiaro dunque appare, che
se una rivoluzione in una delle varie capitali d'Italia succedesse, e
fosse quella ad intraprendere una guerra regolare costretta, le truppe
di fresco raccolte, ed ordinate, comecchè ben disposte, e coraggiose,
correrebbero rischio di venire sbaragliate al primo fuoco di quelle
fredde masse di flemma già use, da molti anni a veder le sconfitte
più grandi, (quantunque nelle ultime guerre, in fronte agl'Italiani
che servivano la Francia, non abbiano mai di avvicinarsegli troppo,
avuto l'ardimento e siano soventi volte da quelli state rotte e del
tutto dissipate) attesochè proprio è delle truppe vecchie, per cattive
che siano, d'agire con maggior freddezza, prudenza, e ben considerata
condotta delle nuove, e sono per lo contrario l'impazienza, e la
precipitazione, le qualità d'una truppa regolare, quantunque formata
de' migliori soldati; ai combattimenti non avvezza, ma che per la
prima volta trovasi al fuoco. Sono di questi difetti, principali
cagioni, primieramente quel bollore particolare, di chi pieno di santo
entusiasmo alla difesa di quanto più apprezza al mondo, generosamente
si slancia, furore santissimo, germe delle grandi azioni, e sempre che
sia ben diretto, produttore degli eroi, ma quasi sempre alle insidie
della fredda prudenza soggiacente, secondariamente, quella mancanza
di confidenza relativa sì nei superiori, che nei compagni, la quale,
se non col lungo guerreggiare assieme, col trovarsi le molte volte
nei pericoli reciprocamente a sostenersi obbligati, non s'acquista;
la qual mancanza in un esercito nuovo immediatamente al fuoco nemico
esposto, genera immancabilmente titubanza, soprattutto poi, quando in
un momento di rivoluzione si forma, in che generalmente il sospetto
esiste che non sieno tutte le componenti unità guidate da quei puri
sentimenti, che per la difesa della patria si esigono. Infine, la poca
subordinazione, la trascuranza degli ordini tattici, i soli a render
formidabile una moltitudine d'uomini uniti, capaci, il rilassamento
della disciplina, e la mancanza di quel freddo calcolo, che per la
conoscenza del passato, pondera il presente, e l'avvenire prevede; sono
generali, e comuni difetti, ma di sì gran momento, che possono in un
istante, mandar tutto quanto in rovina, ed al nemico, sebbene inferiore
in numero, in entusiasmo, e coraggio, la vittoria assicurare; onde
di quanto ci siamo intrattenuti ad esporre, maggiormente convincerci,
diasi un'occhiata alla disfatta di Rieti, e di Novara, e si vedranno
quei guerrieri, che in Ispagna e Russia tanto si distinsero, ed i
Piemontesi soprattutto, dal miglior generale del secolo notoriamente
predistinti, da un pugno di pecoroni austriaci del tutto debellati.
E sebbene a produrre questa deplorabile disfatta, che ci coprì di
vergogna e ci rese agli occhi dell'Europa intiera dispregiabili,
abbiano assai più i maneggi interni, e le gherminelle dei nostri
compagni che alla testa del governo rivoluzionario si trovavano,
contribuito, non è però men vero ch'ebbero i succenati difetti, non
poca parte alla generale rovina. Memorabile esempio di quanto danno
possano essere dappersesoli cagione, quegl'inevitabili difetti d'una
truppa regolare, di fresco ordinata, lo possiamo nella storia di quella
tanto maltrattata nazione rinvenire, la quale come chè governata da
un'oppressiva aristocrazia, e da uno spirito cavalleresco guidata, se
non insensato, almeno per la libertà della patria inutile, nondimeno
quelle robuste virtù possedeva, che ognuno de' suoi cittadini degno di
vivere in uno stato libero qualificavano, vogliam dire, della Polonia,
che nel 1794 si levò in massa, e per otto intieri mesi, contro la forza
colossale delle tre potenze alleate, Russia, Prussia, ed Austria, che
al loro solito conculcando quei dritti, che sempre per loro invocano,
e non mai negli altri rispettano, l'avevano invasa, divisa, e con mano
ferrea l'opprimevano, fece maravigliosa resistenza. Avrebbe certamente
questa opposizione di tutto il popolo concorde, avuta una favorevole
riescita, se contentandosi di andar per le lunghe, si fosse in tante
bande separate messa in campo, le quali cogliendo tutte le occasioni
di danneggiare il nemico al sicuro, ajutate dalla cooperazione degli
abitanti della città, avessero i nemici ridotti a non essere padroni
che del terreno dalle proprie persone occupato, senza all'esito di
una battaglia, la somma delle cose avventurare. Ma per lo contrario,
dal mai sempre illustre e celebrato Kosciutzcko capitanati, vollero
a Macieiovice, (ove valorosamente con rabbia e furore combatterono),
il tutto mettere all'incerta sorte di un combattimento decisivo; e
compiutamente sconfitti, Kosciutzcko ferito e prigioniero, dovettero
per tale imprudente determinazione, piegare il collo a quel triplice
giogo, contro il quale, erasi tutta la nazione con mirabile entusiasmo
levata in armi; sconfitta, che ancora in oggi amaramente piange la
Polonia, e ne prova giornalmente le funeste conseguenze. E se poi
alla guerra della independenza spagnuola volgiamo l'occhio, con tanta
energia da quel popolo infiammato dall'amore di patria sostenuta, noi
vedremo i suoi generali, sebbene vecchi ed esperimentati militari,
alla testa di soldati che individualmente già con molto onore, si
erano varie volte in guerra trovati, ardenti per la difesa del paese
e dell'onore nazionale insultato, aver non dimeno nel corso di sei
anni di guerra la disgrazia di essere in dieci battaglie campali
sconfitti, le quali rotte avrebbero interamente dato all'invasore
il libero possesso della Spagna, se quel popolo generoso, e forte,
i mali della sempre vergognosa, e nocevole occupazione straniera,
come le inevitabili conseguenze della guerra, avesse vilmente
considerati, e si fosse come certe altre nazioni, e con ispezialità
alcune parti dell'Italia, a quelle sottomesso; anzicchè, come fece,
animato dall'odio, ed irritazione costante, insorgere, e mettersi in
campo per bande valorosamente decisamente: dopo aver in olocausto
alla libertà del paese, molti di quei generali offerto, che o per
paura, o per ignoranza, o per tradimento all'orlo del precipizio
condotto lo avevano. Per la qualcosa appena fuvvi una grande città
in Ispagna nella quale non sia stato un qualche vecchio generale
tagliato a pezzi, o strascinato per le contrade dal popolo arrabbiato;
un Cevallos in Vagliadolid, un Saavedra in Valenza, etc.; furono
fors'anche innocenti, ma necessarie vittime del furor nazionale.
Egli è doloroso il dirlo, ma quelle azioni atroci le prime cagioni
furono della determinazione del popolo a mettersi in bande, poichè lo
misero quelle stesse in una pericolosa posizione, e quel sentimento
di rabbiosa pertinacia gl'infusero, che unita all'energia, ed alla
simulazione, creò ed alimentò i mezzi onde venire del gran progetto
di sottrarsi al vergognoso dominio de' suoi vicini gloriosamente a
capo. Finalmente una valevole riprova, di quanto agli eserciti di
fresco riuniti, sia difficile, a quelli, che da lungo tempo militano
assieme, far testa; deve per noi essere quella famosa battaglia di
Waterloo, che in un istante della sorte della Francia decise. Noi
in quella vediamo le stesse truppe francesi, comandate dagli stessi
valorosi generali, che avevano in quasi ogni parte d'Europa a portato
il terrore, o si potevano con giustizia, come eccellenti maestri di
guerra riputare, in quella tattica da loro perfezionata, sotto il fuoco
del nemico profondamente periti, al quale furono sempre superiori,
ogniqualvolta con quella sola, senza il soccorso degli elementi, o
dei popoli insorti a loro danno, Buonaparte di batterli pretendeva.
Noi vediamo dunque siffatte truppe, sotto tale comando, mettersi
nondimanco precipitosamente in fuga, quando sorprese da un timor
panico, credettero che i quattro battaglioni i quali attaccarono la
posizione vicina al villaggio di Mont-St-Jean fossero rotti, ciò che
per verità ne aveva tutta l'apparenza, atteso il numero considerevole
di feriti, che per farsi medicare al retroguardo, le loro file
abbandonavano; alla qual vista tutta la truppa sbandatasi, aprì in
quel modo le porte della capitale della Francia, allo straniero che
essa abborriva, e alla dura legge che a lui piacque dettarle, con
estraordinaria quietudine si sottomise. Molti scrittori militari, e
politici si perdono in congetture sulle vere cagioni, che possono quel
funesto avvenimento aver prodotto, gli uni al tradimento dei generali,
altri a sbagli, e mala direzione di Napoleone lo attribuirono; noi
ben crediamo, che abbia in qualche modo il tradimento influito, ma
non però all'intiera dissoluzione dell'esercito; massimamente che
il tradimento tuttavia non è interamente provato, poichè in un paese
dove la stampa è libera, e dove l'onore militare in prima così puro,
e brillante, ebbe una tanta sozza macchia, si sarebbe certamente chi
montasse in bigoncia rinvenuto, e la prava condotta di quell'infame,
che per una sua vile particolare utilità, sacrificò la nazione, al
mondo intero palesasse, onde lo scorno di quella disfatta in tal modo,
se non togliere, almeno scemare. Ma nessuno finora, fece quel gran
segreto abbastanza chiaramente palese; molti lo lasciano travedere,
ma scorgonsi da considerazioni personali trattenuti, epperciò,
che il tradimento la principale cagione sia della rotta non puossi
in coscienza conchiudere; perciocchè attribuire al tradimento una
catastrofe così importante pell'Europa, e quello non bene spiegare,
e chiaramente provare, lo stesso sarebbe, come se il destino si
calunniasse; male si appongono coloro, che alla cattiva direzione
di Napoleone l'attribuiscono, perchè tutti i migliori tattici vanno
nell'asserire d'accordo, che meglio di quello che fù non poteva essere
stata diretta, e che le male disposizioni erano realmente quelle date
dal generale inglese, che fù quindi egli stesso abbastanza giusto, per
commendare il talento dimostrato dal capitano avversario non meno, che
la precisione dei movimenti, e la giustezza delle operazioni, a che
dunque dovrassi questa terribile disfatta principalmente attribuire, se
non a quel difetto inerente a tutti gli eserciti, quantunque composti
di truppe vecchie ed agguerrite, in fretta riunite ed ordinate? A
quell'oscillazione propria dei battaglioni, composti di soldati, che
ancor bene non si conoscono? a quella mancanza, come già abbiam detto,
di reciproca confidenza, frà le unità componenti le masse, e di queste
fra di loro, qualità bastevole da se sola per dar la vittoria, e che da
altro se non da una lunga abitudine di trovarsi assieme nei pericoli,
nelle sofferenze e nei piaceri, non puossi acquistare? Se la Francia
avesse seguito quel consiglio datole in un proclama da Napoleone
stesso, cioè di seguir l'esempio degli Spagnuoli, che a lei per modello
proponeva non meno, che a tutti quei popoli, che dell'independenza,
e libertà del loro paese fossero desiderosi, e se si fosse levata in
massa, per bande, non avrebbe dovuto al pagamento di quell'esorbitante
multa soggiacere, ed all'abborrito dominio de' Borboni, portati sulla
punta delle bajonette straniere, che per due volte, a suo malgrado, fu
costretta di ricevere e quai padroni obbedire, non avrebbe certamente
dovuto con pazienza sottomettersi.

A noi pare di aver con sufficiente evidenza provato, non doversi
immediatamente dopo l'insurrezione, una battaglia commettere; e
che quandanche porre si volessero gli esposti pericoli in non cale,
non sarebbe in Italia per la sua situazione politica, di riunire un
esercito regolare, per far testa a quello già esistente dei nemici,
possibile; ed esser perciò cosa necessaria, che gl'Italiani abbiano a
quella guerra leggiera ricorso, che la Spagna dall'invasione francese
di già liberò, ed il risultamento della quale non può essere dubbio,
quando tutta, o gran parte della nazione sia a quella santissima
impresa concorrente, contando venti milioni d'abitanti, sopra un
territorio fertile, circondati da mari e monti, e da quest'ultimi
pure attraversata; la nazione in generale pensi non solamente bene, ed
in favore della guerra, ma sia fermamente, ed ostinatamente, a voler
venire ai fatti disposta, (solo modo di lavare le sue onte col sangue
di quei vili che da tanto tempo la malmenano), inoltre non cessi di
costantemente, con un sistema fisso, ed invariabile operare, ed allora
qualsivoglia nemico l'assalisca, mai non potrà essere quella nazione
superata. Quando per mezzo di quel sistema delle bande, che debbonsi
progressivamente estendere, ed aumentare, renderassi generale il
fuoco, allora, tutte le nazionali energie si spiegheranno; tutte le
opinioni saranno allo stesso scopo dirette; tutte le azioni al gran
progetto concorreranno, ed a quell'insensato nemico, che di trionfare
si lusingasse, altra sorte non rimarrebbe, che di perir con vergogna.

Dai computi statistici communi ben si sà, che quando una intiera
nazione vuole mettersi in campo, può sopra il venti per cento di
cittadini abili alla guerra, e capaci di sostenere le fatiche,
fondatamente calcolare; dal quale computo si trovano le donne, i
vecchi, i fanciulli, gli infermicci, ed i malconformati, dedotti,
dai quali tutti, in una guerra come questa, si può una valevole, ed
efficace cooperazione benanche sperare. Ben puossi da tal calcolo
agevolmente vedere, che dai venti milioni d'Italiani, se ne potrebbero
quattro milioni, robusti, forti, ed abili a combattere, con successo,
senza grave difficoltà estrarre. Ora noi vogliamo, che la metà e
intiera di questa immensa somma si deduca, nella quale sia la porzione
d'Italiani, che forse parteggierà pell'avversario compresa, non meno,
che gl'indifferenti ed egoisti, i lenoni, ed istrioni, tutta gente, in
rivoluzione anzi nocevole, che vantaggiosa: numero da noi creduto, anzi
esagerato, che no, perchè difficilmente, uno potrà darsi a credere, che
due milioni di persone atte a guerreggiare, nate in Italia, sopportino
senza risentirsene e cercarne vendetta, lo scorno della patria, ed anzi
una parte di loro per tenerla derelitta in servitù dello straniero,
si sforzi! Nondimeno essendo una cosa dubbia, crediamo, aumentando le
probabilità contrarie e le cose nel loro più brutto aspetto ponendo,
poter con più certezza calcolare, ed i leggitori persuadere. Rimangono
ciò non pertanto, ancora due milioni di cittadini, che giovani,
robusti, ed arditi, sparsi in tante piccole bande sulla superficie
della penisola, armati, e decisi, delle gole, dei gioghi, delle forre,
colline, serre, e montagne, delle vette, degli stretti, e dei passaggi
dei fiumi, destramente s'impadroniranno, e quando più sicuro si
crederà il nemico, di tenergli, sempre dalle sue mani guizzando, ora
in fianco apparendogli, ora alle spalle, lo atterriranno, abbatteranno,
sposseranno, ed alla fine distruggeranno.

E dove si potrà un esercito nemico rinvenire, per battere due milioni
di combattenti decisi, quand'anche tutte le potenze europee, a danno
d'Italia si collegassero? Come muoverebbero, come pagherebbero un
formidabile esercito, capace di sconfiggere due milioni di virtuosi
che per le loro case, le loro famiglie combattono? Il nostro, per
lo contrario, sparso in bande, si muove, si sostiene, e riesce con
certezza: il suo mantenimento non costa, perchè il cittadino armato,
che nelle vicinanze della sua casa guerreggia, paga, non esige alcuna
provisione, ma da se stesso mantiensi, e col bottino fatto sul nemico:
ma un esercito straniero, come abbiam detto, numeroso, per battere due
milioni di combattenti, non si può muovere, nè pagare. Ci si dirà che
alle volte succede, che uno maggiore, viene da un minore battuto, e
noi conveniamo in questo; ma il nostro non è un esercito, sono bensì
nella guerra migliaja di piccoli eserciti, è un'intiera nazione di
venti milioni decisa, di qualunque nemico, che voglia occupare il suo
paese respingere, da quello che finora la maltrattò, prendere terribile
vendetta; e se quella nazione sarà ben diretta, non v'ha chi possa
superarla.

«La guerra, dice il conte di Bonneval, è un'arte delle più difficili,
per farla con successo, il coraggio, l'intrepidità non bastano; è
d'uopo il metodo, e se questo manca, abbenchè si possono avere delle
truppe numerose e valenti, è impossibile di vincere. Il loro numero,
il loro valore, non servirebbero, che a moltiplicare le perdite.»
Persuasi noi dunque della decisione, della forza fisica, e morale,
della capacità degl'Italiani, non meno, che del loro coraggio; persuasi
che altro loro non manca, se non il grido all'armi per dar ad una
generale insurrezione fausto principio, noi proposto ci siamo il vero
metodo loro indicare, per giungere alla compiuta vittoria. Tostochè
tutti eseguiscano ed in ogni benchè minuta sua parte s'uniformino ai
precetti che nei seguenti capitoli, saremo per esporre; con questo
metodo gl'inconvenienti, che possano provenire dalla superiorità della
tattica del nemico, eviteransi, supplire si potrà alla mancanza di
mezzi, e non solo uguale, ma superiore all'avversario diverrassi.
Affatto indipendente dalle necessità delle guerre regolari, questo
nostro sistema, vince, senza venire all'urto; più in marcie e movimenti
consiste, che in attacchi, e difese, non abbisogna di una forte,
e fissa base d'operazioni per agire, e l'oggetto a che aspira, può
compiutamente, e con somma immortal gloria ottenere.



CAPITOLO VI.

INDOLE E QUALITÀ ESSENZIALI DI QUESTA GUERRA.


Una qualsivoglia guerra nella quale pell'onore, o pel vantaggio di
tutti, o della maggior parte dei cittadini si combatta, tanto per
difendersi da un'ingiusta invasione, quanto, per un nemico assalire, il
cui procedere sia stato ingiurioso alla nazione, di nocumento a suoi
interessi, o venga da quello la sua esistenza, o la sua tranquillità
in pericolo posta, siccome tutti, o la maggior parte degl'individui
del paese concerne, sempre esser deve come guerra nazionale, stimata.
Può tal guerra, sì bene sotto un tiranno, come in uno stato libero
avvenire; ma senza dubbio, quando ha per iscopo di soddisfare i
capricci di un despota; appoggiare le disposizioni d'un conquistatore,
acciò le ingorde sue brame soddisfaccia; sostenere un usurpatore
della roba, e stati altrui, e così via discorrendo, ogniqualvolta si
tratta di combattere pel vantaggio d'un solo, separato da quello della
nazione, l'oggetto cambia.

La guerra di Agatocle, tiranno di Siracusa contro i Cartaginesi,
avvegnacchè fosse la sua persona da tutti i sudditi odiatissima,
era con tutto ciò, tanto rispettivamente alla difesa interna come
all'invasione del territorio di Cartagine, nazionale; poichè tutti
i Siracusani assai più l'occupazione straniera, della tirannia d'un
paesano per cattivo, perfido, e violento che fosse, temevano, siccome
d'assai minore nocumento, obbrobrio, primieramente, perchè meno
all'onore nazionale ripugna, che il danno per opera d'uno dello stesso
paese, e non per violenza esterna provenga, e cresca. E certamente
sempre un gran male la tirannide, qualunquesiasi, ma la straniera
seco maggior vergogna apporta, ed è insopportabile il suo peso;
secondariamente, perchè, il prodotto delle rapine, sempre sotto il
tiranno abbondevoli, se avviene, che sia quegli della stessa nazione,
nel proprio stato consumerà, ma se straniero, tutti i tesori, alla
sua capitale, vorrà senza dubbio spedire. Di ciò, un recente esempio
ci viene in acconcio dall'Italia offerto; quando Buonaparte, alla
testa dell'esercito francese, venne a spartitamente, in republica
costituirla, e che poscia ad una metà della nazione di credersi
francese, e per imperatore riconoscerlo, comandò, ed all'altra permise
di essere Italiana, purchè come a suo re di sottoporle si consentisse;
a Parigi, l'intero prodotto dei saccheggi, e devastazioni, dei tempj
di ricchissime suppellettili in grandissima copia doviziosi, spediva;
e dallo spoglio dei palazzi, e pubblici musei, i capi d'opera delle
belle arti, che attestano il genio italiano, ben futili ma soli
monumenti della sua gloria presente, mandava ad ornare le gallerie
di quella capitale. In terzo luogo, debbe avvertirsi che un tiranno
della propria nazione, circondato da gente del paese, e non come
lo straniero da stranieri, esser potrà più agevolmente cacciato dal
mondo, perchè sarà cosa assai più probabile, che quei schiavi da lui
beneficati, che gli servono di braccio, d'essere oppressori secondarj
de loro connazionali vadano un giorno vergognosi, e diano luogo nel
loro cuore a sentimenti più giusti e più umani, di quanto si possa da
stranieri sperare, che l'amor della loro patria, a far del male alla
nostra, di continuo sospigne; epperciò i primi potrebbero un giorno
alla nazione contro il tiranno accostarsi, ed in punto lo stato delle
cose cambiare; ma gli stranieri mai, perchè difendendo la persona del
tiranno, pure la lor propria causa sostengono. Finalmente, almeno gli
schiavi beneficati, essendo del proprio paese, il prodotto dei benefizj
si spande ai loro parenti, ed amici, e tuttavolta alcun poco, ai buoni
toccare ne può; ma per lo contrario, sebbene lo straniero alcuni natii,
in posti secondarj, impieghi, avrà sempre gran cura, che i principali
e la maggior parte sieno da' suoi ligj paesani, occupati. Ed è per
questa cagione, che i Siracusani ancorchè cordialmente il tiranno
Agatocle avessero in abborrimento, non pertanto contro i Cartaginesi
lo seguirono, ed ajutarono. Altri esempi di guerra nazionale sotto il
tiranno, offertici dalla storia moderna, quelli sono della Russia,
della Prussia e dell'Alamagna contro l'impero francese, che qual
colosso sopra loro piombando di annichilarle minacciava; e benchè
fosse a tutti ben noto, le leggi, ed il modo illuminato di governare
di quell'invasore, essere di gran lunga migliore di quello dei tiranni
antichi, pur nondimeno, l'offeso amor proprio nazionale, il timore
dell'annichilamento dello stato d'independenza, e dell'insopportabile,
e vituperevole dominio straniero, portò tutte le unità isolate, ad
unirsi al loro tiranno, per combattere l'aggressore.

Le stravaganti imprese di Alessandro, (detto il grande) le sue
spedizioni in Persia, e nelle Indie, la sua pazzia, di attraversare le
arenose pianure della Libia, per quindi con grande spesa il titolo di
figlio di Giove Ammone portarsi a comprare, ed esporre in quel modo
il suo esercito al rischio di perire di sete, e di fatica, ed al suo
nemico dar tempo di radunare nuove truppe, non furono certamente in
nessun modo nazionali, come neppure lo furono le conquiste di Carlo
XII, re di Svezia, grande suo imitatore, che per saziare la smisurata
sua ambizione, onde rapire i regni altrui, ostinatamente arrabattavasi,
senza delle migliori sue provincie, e del vantaggio di suoi sudditi
curarsi, che iniquamente tiranneggiò, quando avrebbe potuto con gloria
immortale nel godimento di quella libertà rimetterli da Carlo XI
conculcata, alla quale, nemmen dopo la famosa giornata di Pultava,
nella deserta provincia dell'Ucraina, dove lo Czar Pietro, quel pazzo
conquistatore sconfisse, ma dopo la sua morte, alla successione al
regno della principessa Ulrica, non fù dato di risorgere. E parlando di
quell'epoca per la Svezia, sì avventurosa; saranno sempre da coloro,
che hanno in pregio la libertà, con venerazione ed amore, gl'illustri
nomi dei Bibing, Horn, Ferfch e Creutz, rammentati, che colsero alla
morte di Carlo la favorevole occasione di richiamare in vigore la
calpestata libertà del loro paese. Tutte le guerre, che dai governi
costituzionali s'imprendano, sono per l'ordinario, od almeno esser
dovrebbero giuste, e nazionali, perchè siccome nei rappresentanti
del popolo la facoltà di accordare, o negare il danaro necessario
per intraprenderle, risiede; non pare possibile, a chi da onest'uomo
la pensa, che quelli esser possano così sciocchi, vili, o malvagi di
poter a sangue freddo la vita, e le sostanze dei loro committenti, ad
un mero capriccio, od al solo vantaggio di famiglia del re, che siede
in trono, sagrificare. Eppure, come che cosa da non credersi apparir
possa, viddimo non dimanco la Francia, nel 1825, muovere una guerra
ingiusta; sacrilega, vergognosa, e contraria al ben essere del popolo
francese, contro l'infelice Spagna, che nessun motivo le avea dato, di
nessun danno la minacciava, e che di potersene stare tranquilla, e quel
sistema che doveva renderla un giorno prospera, e fortunata, raffermare
si contentava. Pertanto onde sul trono di Francia, la famiglia Borbone
assodare, creò in quella guerra, un esercito per sostenerla contro
l'odio del popolo, che minaccioso giustamente la detesta. Offensive
o difensive le guerre dalle republiche, mosse, sono sempre nazionali,
per le stesse ragioni rispetto a governi costituzionali addotte, e non
correndosi in quei governi il pericolo, che possa il re col raggiro,
e la seduzione, una parte maggiore dei rappresentanti corrompere, ed
i fondi necessarj ottenere, onde una guerra opposta all'utilità della
patria muovere, e sostenere, poca differenza passa fra la guerra per
capricci d'un tiranno, e quella per vantaggio della nazione, intrapresa
dagli eserciti regolari, nella maniera di menarla, perciocchè solo
nella cagione, ma non nei mezzi differisce; salvochè nel secondo caso,
ciascun individuo di agire pel proprio vantaggio essendo conscio,
spiega una maggior energia, il generale trova più risorse alla sua
disposizione, e più facile la vittoria. Avendo cosa s'intenda per
guerra nazionale, accennato, e come possa puranche sotto il tiranno
accadere; passeremo a quella d'insurrezione che l'oggetto principale
forma del nostro trattato.

Gli uomini fino ad un tal punto, solamente sono docili, il quale
non puossi, senza rovinare, da chi gli domina trascorrere. Cedono,
ma d'essere avviliti non comportano, nè che alla lunga della loro
condiscendenza si abusi, consentono; possono bensì i popoli avvolti
tra le caligini degli errori, essere per qualche tempo, dalle fraudi
dei raggiratori, ingannati, ma non mai potransi del tutto abbacinare;
tostocchè del laccio che tengono al collo, pervengono ad accorgersi,
se ne sdegnano, desiderano un cambiamento, ed aspettano, che senza
scossa, o grave incommodo la fortuna glielo porti; ma colma finalmente
la misura della loro pazienza, viene, dall'oppressione il cieco furore
ingenerato, scoppia in allora ferocemente l'insurrezione, la forza
s'oppone alla forza e riceve la tirannica violenza il meritato castigo;
abbenchè un popolo insorgente, si trovi al primo tratto della riotta,
di stretti, e scarsi mezzi d'aggressione, nulladimeno lo spirito, il
cuore, l'anima energica, e pertinace possede, se da nobili sentimenti è
infervorato, forza capace, al mondo, di sottometterlo non esiste; non
andrà da rovesci parziali esente, ma gli stessi trionfi, e vittorie
de' suoi nemici gl'insegneranno la disciplina, e gl'infonderanno un
tale spirito cittadino, una tale virtuosa alacrità, che alla perfine il
trabocco sarà de' suoi oppressori. Un popolo dalla speranza di formarsi
in nazione unita, dall'independenza, e dalla libertà esaltato, che alla
ferma volontà di acquistarle, unisca una risoluta costanza nella presa
determinazione, è certo della vittoria, egli è invincibile. La difesa
della Grecia contro l'invasione di Serse, la salvazione del Campidoglio
quasi distrutto dai Galli, la rovina delle possenti arme d'Annibale,
ci danno a divedere, che sebbene sia molte volte la vittoria dono della
fortuna, tardi o tosto è poi sempre il certo guiderdone della costanza.

L'indole di questa guerra, è terribile, perchè ordinariamente
in conseguenza della disperazione s'intraprende, a che, o da un
occupatore straniero o dalla tirannia domestica, trovasi un popolo
duramente astretto. Epperciò debbono tutte le forze individuali in
qualunque siasi modo, affine di annichilare il nemico, essere messe
vigorosamente in azione, e tutte le così dette leggi della guerra,
cessano all'istante, che scoppia l'insurrezione. Ottenere lo scopo,
ecco la sola sua legge; tutti sacrosanti saranno i mezzi a ciò
adoperati, purchè sieno solamente a quello diretti; e precisamente i
procedimenti come barbari, nelle guerre regolari, riprovati, debbono
per atterrire, spaventare, distruggere il nemico, e liberare la
patria, essere di preferenza messi in uso. Questa guerra fu quella,
che l'esercito di Crasso, distrusse; che fece sotto Augusto le romane
legioni comandate da Varo, tutte in Germania perire; che anticamente
la Spagna liberò dall'occupazione dei Mori; e che nell'invasione
di Buonaparte, seppellì, al dir del signor Lemiere de Corvey, otto
cento mila Francesi, padroni di quasi tutte le piazze forti, città, e
territorio spagnuolo, e di quelle agguerrite legioni vincitrici di poco
meno, che dell'intera Europa, la rese vittoriosa! Questa gli Svizzeri
dal mai sempre odioso, ed insopportabile giogo della casa d'Austria,
sottrasse; le Fiandre dal gravoso dominio del possente Filippo secondo,
servì a digiogare, e finalmente rese gli Americani dalla schiavitù
britannica liberi, ed independenti. Non ebbero per lo più questi popoli
a fare che con lo straniero; ma l'Italia nella sua situazione d'oggidì,
convien pure che faccia una guerra complicata contro lo straniero,
che l'opprime, in parte colla presenza, ed in parte coll'influenza;
è d'uopo farla ben anche contro i tiranni, che sotto la sua malefica
direzione agiscono, ed altro che satrapi dell'Austria in realtà non
sono; e siccome quelli, coi danari, impieghi, ed il prestigio de'
titoli, che sebbene di poco valore, non cessano però di agire sulla
mente dei deboli, e degli sciocchi, hanno un partito devoto al sostegno
della loro tirannia, (ai minimi termini però in Italia ridotto) d'uopo
a questa sarà di quale straniero esterminarlo; poichè solo con la
intiera, ed immediata distruzione dei Tedeschi, e dei principi che le
varie parti separate d'Italia tiranneggiano, e del loro partito, potrà
con ragione sperare di stabilmente, l'unione di tutte quelle in un
corpo solo operare, ed avere independenza, e libertà.

Guerra complicatissima e piena di pericoli, e difficoltà, questa si
è certamente; esige per conseguenza da chi l'imprenda, una costanza
alla prova, ma da un assai maggiore compenso di gloria, e di stabile
felicità, sarà il cittadino vincitore, guiderdonato; epperciò
solamente da malvagi, effeminati, ed imbecilli verrà la vergogna, e
l'avvilimento, alla gloria, e ben essere che da quella ne ridondano
preferito. La massa dunque di quegl'Italiani, che non sono malvagi,
nè effeminati, nè imbecilli, che noi portiamo opinione sia la più
forte (se non in numero, certamente in qualità energiche, e sublimi),
in questa santissima guerra concorrerà, e non solo renderà certa la
vittoria, che quando fermamente si voglia, non può mancare, ma di
molto ne abbrevierà la durata; poichè dal concorso di tutti, s'aumenta
l'energia, e la forza, e quando questa ben diretta, sebbene sparsa,
maggiore di quella del nemico diventi, non v'ha dubbio, non sia quegli
per essere, ad irrevocabilmente soggiacere, costretto.

L'amor di patria, l'attività, e l'ostinazione, sono qualità essenziali,
non meno della guerra d'insurrezione per bande, sostenitrici, che il
certo veicolo della vittoria.

Ed infatti, tante sono le difficoltà, e contrarietà, che in questa
guerra s'incontrano, tanti sono i generi di seduzioni praticati;
tanto belle, lusinghiere e vantaggiose sono le segrete proposizioni
fatte dal nemico; che se il più ardente, e purissimo amor di patria
non n'è il solo, e principale motore, qualunque altro potesse essere,
farebbe l'umana fragilità, il cuore de' guerrieri, che combattono,
vacillare, e perdere di vista lo scopo. Se l'amor di patria, mancasse,
oppure si trovasse debole, caderebbe per necessaria conseguenza,
l'attività, che da quello riceve l'impulso, e quindi eziandio la
sempre incommoda ostinazione, che un animo forte, ed una mente ferma
esige, alle dolcezze offerte, e facilitate dal nemico, calcitrante,
per dar la preferenza ai disagi, e patimenti, che senza interruzione
si succedono, ma cui dal lungo sopportamento, solo può derivar la
vittoria. L'attività, e l'ostinazione sono i due principali mortiferi
veleni, che debbono gradatamente l'avversario spossare, il suo corpo
colossale, di giorno, in giorno estenuando, in una compiuta astenia
portare, onde poterlo, quando indebolito, non possa più far resistenza,
facilmente annientare; l'antidoto di questo veleno, sarebbe per parte
nostra il riposo, con la pessima aggiunta, che quella morte da noi
destinatagli, ci cagionerebbe. L'attività dev'essere ben regolata, in
modo, che non sia mai inutile, ed in uno sregolato furore non degeneri,
perciocchè quegli è il principale agente distruttivo della pertinacia,
che a qualsivoglia sinistro, o favorevole avvenimento imperturbabile,
al riposo del pari, ed alla disperazione, opposta, alle fraudolenti
concessioni del nemico, incontentabile, non ha essa in mira che
l'intera, e perfetta distruzione sua, e nè il terrore, nè le lusinghe,
nè le sofferenze possono di giungere al fine, che si è proposta, porre
impedimento, dal quale nulla è capace, che la sola morte di farla
traviare.

Derivazioni delle sopra espresse qualità, non meno necessarie alla
guerra d'insurrezione, sono senza dubbio la prudenza, il vigore, e
la previdenza, che aprono la via, e nel retto sentiero, il cittadino
insorto per la liberazione della sua patria, guidano, e fangli scorta.

La prudenza lo induce al calcolo delle sue forze, di quelle del nemico,
del tempo opportuno ad un attacco, e dei mezzi atti ad assicurare
la vittoria. Il vigore lo sostiene nell'incalzare il nemico, e tanto
molestarlo, che debba la parte avversa per forza cadere, la previdenza
gli mette anticipatamente sott'occhio, le operazioni future del nemico
istesso, i mezzi di profittarne, o almeno renderle nulle, di mettersi
al sicuro, di evitare un'azione in che possa esservi il dubbio di non
essergli superiore, non meno, che di torcere la felice opportunità, di
far temporeggiare l'avversario in suo prò, onde condurlo alla lunga ad
un breve e debole combattimento.

Dal complesso di quelle qualità, in grado eminente dal senato romano,
e più specialmente ancora dal dittatore Fabio Massimo possedute, fù
alla republica di Roma nell'imminente pericolo di esser soggiogata da
Annibale, nel più grave della sua esistenza, aperto alla salvezza,
lo scampo. Quelle parimenti resero l'immortale Gustavo Vasa, capace
di riunire i Dalecarliani a danno del Clero, e dei Danesi, che la
sua patria opprimevano, col qual mezzo riportò la vittoria, ambi
quegl'acerrimi nemici compiutamente distrusse e la libertà in Isvezia
sodamente fermò. Nei monti della Svizzera, al principiare del XIV.
Secolo, i cantoni d'Uri, di Schwitz e d'Underwald, i primi che lo
stendardo della libertà contro la potenza austriaca spiegarono; non
avrebbero riescito, se quelle virtuose qualità fossero in loro state
scarse, o mancanti. Lasciati soli per lo spazio di otto intieri anni
dagli altri cantoni, da tutti abbandonati, senza altre risorse, che la
loro decisione ostinata, non dimeno sempre evitando di venire ad una
battaglia, finattantochè non si conobbero all'armi bene ammaestrati,
contro i loro tiranni si sostennero, e quindi dopo quegli otto anni
di continua scuola in scaramuccie, in che avevano a disprezzare il
nemico imparato, la tanto memorabile, e gloriosa battaglia di Morgarten
presentarongli, nella quale una compiuta vittoria riportarono, e
stabilirono la libertà del loro paese. Alla fama di questa gloriosa
giornata da pochi montanari male armati, e sofferenti ogni sorta di
privazioni, brillantemente affrontata, e vinta contro un nemico in
numero eccessivamente superiore, ed un esercito agguerrito, e ben
disciplinato, di tutto il bisognevole, provveduto; il mondo intero
applaudì, ed immediatamente dopo, a quei tre non mai abbastanza
commendati cantoni, quei di Lucerna, e Zurigo, si aggiunsero, e quindi
Glaris, Zug, e Berna il loro esempio seguirono. Ecco dunque dall'amor
di patria, attività ed ostinazione di tre piccoli cantoni, gli
Austriaci con infamia da quel paese, che non era il loro, scacciati,
e la libertà e l'independenza di tutta la Svizzera, con fortissime
radici, piantate. Furono puranche quelle virtuose qualità compartimento
del principe di Oranges, Guglielmo primo, di quell'eroe, che contro il
governo del feroce Filippo secondo, rivoltatosi, capitanò con felice
successo il popolo, all'acquisto, e stabilimento della libertà ne'
Paesi Bassi. Delle loro diciesette provincie, solo sette, lo stendardo
dell'unione e libertà inalberarono; e non solo, senza il concorso delle
altre dieci, ma contro di esse, perchè, sebbene per forza, contro delle
sette agivano. Nove anni senza interruzione, sole contro la colossale
possanza della Spagna di quei tempi lottarono, finchè poi, il ducato di
Gheldria, il contado di Olanda, e di Zelanda, e le signorie di Uttreht,
di Frisa, di Over-Issel, e di Groninga, conosciute di poi sotto il nome
di Provincie-Unite, il loro trattato di unione, ai 23 gennajo 1579, di
commun accordo firmarono.

Per non riandare esempi di molto da nostri tempi, distanti, non
abbiamo che a volger l'occhio all'America, e vedremo, queste virtuose
qualità nell'immortale Washington, e negli Americani sotto la sua
direzione brillantemente risplendere nella lunga lotta sostenuta
contro gl'Inglesi, ed alla quale finalmente dovettero il conseguimento
della loro independenza, e libertà. Ma che non dovettero quei prodi
sofferire, onde a quel felice istante arrivare? Ecco quanto da Carlo
Botta viene in proposito riferito, al libro ottavo, pag. 159, della
storia di quella guerra: «Non solo si penuriava di vettovaglie, che
anzi in tutti gli altri servigi della guerra si provava un'estrema
scarsezza o piuttosto carestìa di tutte le cose. Mancavano soprattutto
le vestimenta tanto necessarie alla sanità, ed alla elevazion d'animo
de' soldati, i quali laceri, e nudi creduti gli avresti piuttosto
altrettanti _paltoni_ che difenditori di una patria generosa. Pochi
avevano una camicia, molti metà di una, la maggior parte, nessuna.
Molti, per difetto di calzamento, portavano nudi i piedi sulla gelata
terra. Coltri per la notte, poche se ne avevano, o nessuna. Quindi
è che molti ammalavano. Altri in buon numero, inabili per freddo,
o per la nudità ad alcuna militare fazione, per consentimento de'
capitani, se ne astenevano, i quali o gli lasciavano stare, senza
che ne uscissero mai, o nelle capanne, o nelle più vicine masserie,
gli collocavano. Poco meno di tremila soldati si trovavano in tal
modo per l'inclemenza della stagione, e per la miseria del vestito,
affatto incapaci a potere il debito loro operare.» Ed alla pag. 161
dello stesso libro: «Nè solo si travagliava per le cose sovradette, ma
ancora per la carestìa degli strami. I soldati rotti dalle fatiche,
infievoliti dalla fame, aggrezzati dal freddo nelle fazioni loro
diurne, e notturne, avevano nelle capanne in vece di letto la nuda
ed umida terra.» Ed infine alla pag. 164 susseguente: «E certamente
nessuna cosa si potrebbe ai disagi, che l'esercito Americano ebbe a
provare durante quest'inverno, equiparare, fuori della pazienza e
della costanza pressochè sovrumane, colle quali gli sopportarono.
Non è però, che molti disertando le insegne, non si conducessero,
in questo, spalleggiati dagli amici del re, all'esercito britannico
in Filadelfia. Ma erano questi per lo più Europei, i quali si erano
posti ai soldi dell'America. I natii con egregio esempio di bontà
cittadina, e forse ancora per la venerazione grandissima, ed amore, che
al capitano generale portavano, si mantennero perseveranti; ed amarono
meglio far dura con gli estremi della fame e del freddo, che mancar
in sì pericoloso frangente della data fede alla patria loro. A ciò
anche contribuì non poco la costanza dei capi dell'esercito, i quali
tollerarono in sè medesimi con allegro animo tutte le fatiche; e tutta
la strettezza del vivere in cui erano ridotti.» E di qual ostinazione
non ebbe duopo, quel modello degli eroi della libertà, l'immortale
Washington, per mantenersi saldo in mezzo a tante contrarietà che
minacciavano la sua rovina! Il succitato autore così si spiega alla
pag. 174 a questo riguardo: «Ma Washington, al quale tutte le narrate
pratiche non erano ascose, non solo non se ne sgomentava, ma non se
ne alterava; e non che si mettesse in mal umore contro la sua patria,
siccome sogliono fare in simili casi gli uomini o deboli di mente, od
ambiziosi, nulla rimetteva del suo zelo nel far ciò ch'egli credeva
al debito suo appartenersi. Certamente mostrossi in quest'occorrenza
molto vincitore di sè medesimo, e diè prova di animo temperato e
constante. Si trovava egli in mezzo ad uno esercito perdente, penurioso
d'ogni bene, afflitto dalla presente fame. Risplendeva nel medesimo
tempo Gates, per la fresca vittoria, e per l'antica fama della
militare sperienza, i diarj publici lo laceravano, le lettere anonime
lo accusavano, i Pensilvanesi nelle lettere publiche acerbamente il
riprendevano, i Mussaciuttessi gli puntavano addosso, il congresso
stesso nicchiava e pareva lo volesse digradare. In tanto impeto
dell'avversa fortuna conservava egli non solo la stabilità, ma ancora
la serenità della mente sua, e pareva, che tuttavia interamente della
patria, nè punto di sè stesso, fosse sollecito.»

Furono queste virtuose qualità puranche risplendenti nella condotta
di Mina, l'Empecinado, e Palarca, non meno, che in quella dei tanti
distinti condottieri di bande, che da maggio dell'anno 1808, fino ad
ottobre del 1814, senza governo stabilito, con pochi ajuti, e privi
quasi affatto di mezzi, non rallentarono mai il corso delle loro
energiche operazioni contro gl'invasori della Spagna e con maravigliosa
pervicacia pervennero a scacciarli dal territorio, ed una gran parte
distruggere.

I popoli dell'America meridionale, guidati dall'illustre Bolivar
non meno, che i Greci nella lunga, e sanguinosa lotta contro i
loro oppressori, ci provano queste necessarie qualità, essere loro
peculiari.

Per lo contrario, la mancanza o debolezza delle indispensabili
surriferite qualità, sarebbe per se stessa capace di far andare
l'operazione la meglio calcolata a soqquadro, ed in tal modo molti anni
di fatiche e ben ponderate combinazioni, in nulla non men, che in danno
tornare.

Minuzio maestro de' cavalli di Fabio Massimo, per mancanza di
ostinazione a seguire quella guerra lenta, faticosa, e poco brillante,
che il dittatore aveva di continuare divisato, come il miglior modo
per l'esercito Cartaginese consumare, mise la salute di Roma in forse,
ed era sul punto di rendere in un momento, nulli tutti i saggi disegni
di quel sommo capitano, se quegli colla previdenza non si fosse per
soccorrere al suo imprudente generale, con vantaggio, ed a tempo;
avvedutamente tenuto in pronto, e non avesse coll'attività, e vigore
le truppe d'Annibale, fin allora giudicate invincibili, sbaragliate.
Il celebre Cola d'Arenzo, l'amico di Petrarca, uomo di merito tanto
superiore a quello de' suoi contemporanei, trascinato da una stolta
ambizione, mancò della pertinacia necessaria a chi tali opere sublimi
intraprende. Abborriva egli, e non poteva tranquillamente sopportare
quella differenza, che fra il glorioso governo degli antichi Romani,
avi nostri, esiste, e quello attuale dei Papi tanto vituperevole, ed
obbrobrioso, per chi pazientemente lo sopporta, l'animo non soffrivagli
di vedere, anzi chè l'antica virtù, e grandezza d'animo, il vizio e
la viltà moderna in seggio; dall'umiliazione in che vedeva la sua
patria giacere, mosso virtuosamente a sdegno, a quella dirizzare
in via di libertà e di valore s'accinse; abbenchè persona privata,
mancante d'influenza, siccome non era nè un principe, nè un barone,
nè un gran signore, tuttavolta con modi stravaganti in vero, ma savj
e prudenti, nel suo intento pervenne a riescire. Ma tribuno della
nuova Roma, avrebb'egli dovuto la nobiltà gotica del tutto abolire, e
l'antico patriziato mettere in piedi, anzicchè qual distinto onore, la
sua aggregazione a quel corpo riputare. Ma ben dice il dotto Mably:
«La sua ambizione diventò volgare, e per fare il gentiluomo, la
qualità di tribuno che lo rendeva alla nobiltà superiore, pregiudicò;
disprezzato da quella che lo addottò, e della quale trovavasi l'ultimo,
fù dal popolo odiato perchè era dalla sua classe uscito, e così nulli
divennero tutti i suoi sforzi per la spirante autorità ravvivare.» Che
se per converso, foss'egli stato nel seguire i sentimenti, e principj
che lo avevano mosso, pertinace, si sarebbe immortal gloria acquistata,
e non avremmo noi a gemere di essere nel fango del vizio, del vituperio
dalla tirannide ammorbati.

Quell'isola, della quale il filosofo di Ginevra pronosticava dover
un giorno tutta l'Europa stupire, sostenne un'atrocissima guerra pel
corso di quarant'anni consecutivi contro i suoi oppressori, e tutte
quelle virtù, che rendono un popolo ammirabile, spiegò che a scappar
dalle mani dei Genovesi lo agevolarono. Ma non sì tosto conobbe, che
Luigi XV, re di Francia, colla perfidia propria dei re assoluti, ora
col titolo di protettore, ora con quello di neutrale ammantato, dopo
aver più volte le dichiarazioni di non volersi immischiare in veruna
maniera negli affari interni di quell'isola rinovate, era in un tratto
il suo feroce avversario e persecutore divenuto, per mettergli il
morso francese, e quell'independenza, frutto di cotanti patimenti, e
spargimento di sangue mandare in precipizio; si perdette d'animo, e
per mancanza di vigore, ed ostinazione, gli fù in un mese, il guadagno
di quarant'anni di combattimenti involato! Trasandando il generale
Paoli gli esempi degli antichi Romani, ed il dovere di vincere o morire
ch'eragli dal suo giuramento imposto, ritirossi a languire in Londra,
per quindi la sua vita con una morte oscura terminare. In vece che se
ostinato, imitato avesse il principe di Nassau in Olanda, comecchè
da quella comparativamente formidabile potenza assalito, avrebbe
per avventura potuto riescir vittorioso. Di fatti se soli pochi anni
avesse l'urto francese sostenuto, sarebbesi nell'epoca trovato della
morte di Luigi XV, cui successe al trono Luigi XVI, che siccome di
regolare da sè la somma delle cose dello stato, incapace, era in tutto
guidato dal signor di Vergennes, il quale avendo una politica liberale
addottata, si può supporre che progetti più vasti ruminando, avrebbe
alla conquista di Corsica rinunziato, se in vece di sottomettersi,
avessero i Corsi continuamente resistito. Oltracciò nel 1778 soli
anni dieci dopo la conquista di quell'Isola, fù tra la Francia, e
gli Stati-Uniti d'America, il trattato d'amicizia conchiuso, cagione
fortissima di nimistà fra quella, e l'Inghilterra, e portolle per
lunga serie d'anni, una contro l'altra ad accanitamente guerreggiare.
E se si fossero i Corsi quei dieci anni ancora sostenuti, sarebbero
stati senza dubbio dalla Francia lasciati in pace, od avrebbero
dall'Inghilterra onde dall'isola loro espellerla, possente soccorso
ottenuto; poichè sarebbe stata per le sue faccende utilissima cosa; e
finalmente se coll'appoggio di quella potenza, o soli, avessero alcun
altro poco durato, sarebbe l'epoca della famosa rivoluzione di Francia
sopraggiunta, e per le massime di libertà, ed egualità, che in allora
la guidavano, avrebbe quella i diritti della Corsica all'indipendenza,
riconosciuti, ed all'istante evacuata, lasciando quei prodi cittadini
in libertà colle loro leggi, e maestrati independenti, oppure
quell'isola, in caso contrario avrebbe sopra un valevole appoggio,
da quasi tutte le potenze principali d'Europa, potuto aver fondata
confidenza, perciocchè state ben contente sarebbero di ajutare chi
l'armi contro una nazione, che tutti i gabinetti erano a distruggere
intenti, moveva. Ma la mancanza di pertinacia per alcuni anni ancora la
contesa proseguire, la Corsica allo stato di colonia francese ridusse,
e tutta la gloria di tante famose gesta, a faccia della presente
schiavitù, qual fumo dileguossi.

Gli avvenimenti del 1820 a Napoli, e 21 in Piemonte, furono i primi
che abbiano lo spirito d'indipendenza, e libertà italiana, in modo,
che avrebbe potuto essere efficace, dai due punti i più distanti
della penisola ambidue concordi in massima, apertamente palesato.
Quello slancio ammirabile a sublime scopo diretto, all'afflitta, ed
avvilita Italia, nuovi giorni di gloria, e di felicità promettere
pareva, ma per la funesta sua riescita, di bel nuovo nella primiera
afflizione, ed avvilimento fecela vergognosamente impantanare. E di
tanto deplorabile disastro fù certamente principal cagione quella,
che infelicemente per caso e per ragione della superiorità del grado,
sempre nelle rivoluzioni militari ossequiata, furono alla direzione
principale degli affari dello stato, tratte persone, in apparenza, a
ben dirigere capaci, ed alla magnitudine delle bisogne preminenti,
ma che poi in fatto, inette, e da meno delle ponderose incombenze,
ch'eransi addossate, si riconobbero; di dubbio amor patrio, e
d'attività, vigore, e pertinacia deficienti. Due sole qualità, cioè
la prudenza, e la previdenza rimanevangli, ma per colmo d'infelicità,
in prò della patria non se ne valsero, e da smodato amor di sè stessi
solamente guidati, non furono prudenti, e previdenti, che per lo
scampo delle loro persone assicurare. Prima che si fossero alle porte
di Napoli, i schifosi Tedeschi presentati, il rinomato generale Pepe,
già erasi a Castellammare per la Spagna imbarcato; e circa il tempo,
che il generale Latour, ed il goto Bertischneider entrarono in Torino,
i generali piemontesi Regis, Ansaldi, e Vaudencourt, unitamente
al conte di Santa Rosa, ministro della guerra a Genova, pure i tre
primi per la Spagna, ed il quarto per la Francia s'imbarcarono. Privi
adunque i caporioni di quel tempo della maggior parte delle essenziali
qualità per la riescita delle imprese di gran momento richieste, non
è gran fatto da stupirsi, se quel sublime progetto essenzialmente
italiano, fù dagli stomacosi Goti, in un subito sossopra mandato.
L'accorgimento della maggior parte di coloro, che dai capi dipendono,
atto non è in rivoluzione, a quelle colorate cagioni penetrare, che
ad operare piuttosto in uno, che in altro modo li muovono. Propensa la
multitudine a credere calcolo ciò, che non è, che inerzia, moderazione
la debolezza, amor di patria temperato, e ragionevole ciò, che in fatti
non è, che amor proprio mascherato, non può fino alla catastrofe,
dello sbaglio in che cadde, rimaner convinto, quando già sobissata,
non è più di rimediarvi fattibile. Sorpresi, ed afflitti i veri figli
amanti della patria, quando lo stato infelice delle cose contemplano,
a che l'imperizia, o malvagità di coloro, ne' quali avevano la loro
confidenza riposta, li condusse; stretti da inaspettati avvenimenti
funesti, che si succedono, in quel generale sconcerto e non sapendo
in chi avere, di non essere ingannato, fidanza; debbono alla forza
nemica meglio diretta, per non poter altro, darla vinta; maledicono i
loro caporioni, e di andar più guardinghi un'altra volta nella scelta,
prendono deliberato proponimento. Ma intanto dispersi, ed erranti non
sapendo in tal frangente a chi far capo per averne un buon consiglio,
in vece d'appigliarsi al partito migliore, ciascuno individualmente
pensa a sè stesso, ed in quel momento, del tutto la patria trascura.
Tanto in ambe quelle parti d'Italia per l'incapacità o malignità dei
caporali successe. E per verità se i sette, od otto mila Italiani,
che in quell'epoca il paese in mani di strania gente, a discrezion di
fortuna lasciarono, si fossero in cambio di correre il mondo, ai monti
ricoverati, ed in quelli, formati in bande, si sarebbero per avventura
mantenuti, e potrebbero le cose nostre essere al dì d'oggi, di gran
lunga nel buon cammino avviate. Non puossi con giustizia a codardìa
l'abbandono della patria imputare, perchè sarebbe tale accusa dalla
loro valorosa condotta, in Ispagna ed in Grecia, smentita; ma alla
confusione, e diffidenza, dalla malvagità o mancanza delle qualità
essenziali della guerra d'insurrezione, nei capi che li dirigevano,
prodotte. Avveduto in oggi il popolo italiano, per l'esperienza de'
disastri in quel breve, e leggiero movimento sopra esposto accaduti;
maravigliosamente lo spirito publico afforzato; e notabilmente fattosi
il numero dei veri amatori d'Italia, maggiore, non avverrà, che
nell'avvenire in simili perniciosi difetti iteratamente ricada, ma le
da noi indicate qualità possedendo, al non cessare dal difendere la
patria fino all'estremo, forte si prefiggerà. Saranno alcune bande
sconfitte, le nostre città occupate, le nostre fortezze prese; i
nostri villaggi abbruciati; ma quella catena di monti, e di luoghi
inaccessibili, che per tutta la penisola prolungandosi la circonda, e
le provincie tutte l'una coll'altra congiunge, ci rimarrà, onde servire
ai Tedeschi di tomba.

Da evidente ragione, forza al mondo non esservi per conquistare, e
tenere soggetta una popolazione di venti milioni d'abitanti bastevole,
tutti gli Italiani convinti; ad acquistare l'unione, l'independenza, e
la libertà della loro patria perverranno.



CAPITOLO VII.

SISTEMA GENERALE DI QUESTA GUERRA, E QUALI SIENO I NEMICI DA COMBATTERE.


Ogni qualvolta di far la guerra si tratta, il primo pensiero, che alla
mente affacciasi di chi deve in quella aver parte, oppur dirigere, di
sapere si è, qual sia il nemico da combattere, e quindi la sua forza
e qualità con accuratissimo studio, a parte, a parte bilicare, onde
con prudente estimazione alla conoscenza di quella più debole de'
suoi mezzi personali, materiali, e locali, sicuramente pervenire, e
nel corso della medesima il maggior vantaggio riportarne. Ora se noi
ci facciamo quali sieno i nemici d'Italia, ad indagare, purtroppo
se non tutte, almeno la più gran parte delle potenze europee, essere
alla felicità di quel paese opposte, verremo da tal esame convinti.
Imperciocchè l'esistenza loro politica, ed independente, non meno,
che la loro grandezza, e prosperità, l'origine trassero dalla caduta
del romano impero, la cui possanza, ed estese conquiste, l'invidia
di tutti gli stati, e l'odio generale dei barbari (di tutte le più
belle contrade d'Europa conquistatori, e di quello distruggitori)
contro gli destarono; quindi da loro, come massima di convenienza
europea, fù stabilito di non mai permettere, che quel paese così
bello, così fecondo, culla d'uomini tanto grandi, per la sublime
ricordanza, tuttora riguardati con sommo rispetto, e venerazione da
quelli stessi discendenti dei nemici loro, e come maravigliosi modelli
di virtù rara, quasi nell'età presente, inimitabile, all'educazione
della gioventù, presentati, retto venisse un tal paese nei futuri
tempi da buone istituzioni. Nè mai vollero gli oppressori, che
fosse in un corpo solo riunito, ma bensì ognora tenuto in picciole
frazioni diviso, le quali stimolate ad essere sempre in guerra le
une colle altre, vicendevolmente distruggendosi, ne avvenisse ciò
che pur troppo secondo l'intento loro riescì, che deboli, e privi
di spirito nazionale, gl'Italiani, vili ed abbietti, in uno stato di
nullità, da non poter nè agli stati lontani, nè ai vicini dar ombra,
neghittosamente si mantenessero. E questa massima tuttora mantenuta,
e sempre da tutti i gabinetti gelosamente conserverassi, imperciocchè
l'esistenza di bellissimi ponti, strade, terme, acquedotti, estese
fortissime muraglie, archi, etc; monumenti eterni della grandezza di
quegli ammirabili eroi, che dal viaggiatore incontransi ad ogni passo,
richiamano di continuo in ogni parte dell'Europa, in Asia, ed in
Africa, alla mente degli statisti europei, sempre la massima di tenere
l'Italia divisa, ed oppressa. E siccome la terra, l'aria, la situazione
attuale della medesima non ha da quella degl'illustri progenitori
nostri producitrice, minimamente cambiato, ma solo quelle precellenti
istituzioni atte a formar uomini forti, in pessime, a rendergli deboli,
o viziosi mutaronsi; e che richiamando per avventura le antiche in
essere, potrebbero altri simiglianti eroi al giorno d'oggi riprodurre,
giacchè a tutti è ben noto dalle stesse cagioni, gli stessi effetti
generarsi, ne consegue dunque ch'essendo anzi per loro, dannoso, che
utile, di permettere l'esistenza d'una nazione, che potrebbe un giorno
combatterli forse ed oscurarli, potendo d'altronde serva, ed umile ai
loro cenni, e dispregj tenerla, saran sempre suoi nemici, nè mai potrà
l'Italia da loro, ajuto, e protezione per tal oggetto fondatamente
sperare. Ma se tutti i gabinetti, che sia oppressa l'Italia e d'agire
da se sola incapace, un certo vantaggio ricavano o trarre presumono,
tutti però l'utilità diretta, degna de' loro sforzi e sacrifici, non
ne vedono. Sanno benissimo i più distanti, ed esperti, non esservi
timore, dando esistenza all'italica nazione, di risvegliar in essa la
smania delle conquiste, imperciocchè tanto d'allora in quà, la faccia
dell'Europa, ed il modo universale di pensare, cambiò, che ridevol cosa
sarebbe, che gl'Italiani, riacquistando l'antica virtù, il riposo delle
altre nazioni intorbidare intendessero, dovendo anzi credersi che una
volta riuniti, e ben costituiti, essere non vorrebbero conquistatori,
e nei limiti stati loro dalla natura fissati, il frutto di buone leggi
in unione, pace, e felicità tranquillamente godrebbero; e quei che in
sì fatto modo ragionano, possono come indiretti nemici considerarci.
Ma i diretti, i più accaniti i perpetui nemici d'Italia, che de' suoi
patimenti, e della sua vergognosa umiltà fellonescamente gioiscono,
sono senza dubbio i gabinetti d'Austria, di Francia, e d'Inghilterra;
la verità di quanto ci facciamo arditi d'asserire, chiara vienci
dalla storia, dimostrata. Queste tre potenze con false promesse, e
con partiti da loro a bella posta suscitati; e quindi abbandonati, a
vicenda ingannando l'Italia, immolando sempre quelle persone che si
lasciavano dall'illusione dell'appoggio straniero abbindolare, altro,
da' secoli, che guai, disastri, ed i maggiori possibili danni, coi
loro trattati, e bajonette, a quel disgraziato paese non arrecarono. La
lunga estensione del littorale italiano, l'importante sua situazione,
il suo eccellente legno per la costruttura delle navi riputato il
migliore d'Europa, che in gran copia dai boschi della Romagna in
particolare si ricava, la riputazione d'ottimi marinari, di cui godono
gli abitanti lungo la costa da Genova fino a Venezia, ed essere stati i
Veneziani, e Genovesi, quando fiorivano le loro republiche, padroni del
mare, fa sì che l'Inghilterra più d'ogni altro stato, gelosa del suo
dominio, ad alleata naturale perpetua dell'Austria da cui nulla teme,
è sempre stata, e nè mai d'essere nemica d'Italia sarà per cessare,
checchè in qualche momento di crisi abbia, per meglio ingannarla
bandito, ed in futuro, a seconda della sua utilità, possa fallacemente
promettere. Gli esempi che ci offre la storia dal tempo di Brenno, fino
a Napoleone inclusivamente, tutti tendono a provarci, essere sempre
stati i Francesi nemici d'Italia, ed averla, ogni qualvolta, libertà,
ed independenza le promisero, solennemente ingannata con la prava
intenzione di appropriarsene il dominio, al primo acconcio momento.
Ma il nemico il più dichiarato, come il più pesante, il più funesto
ed abbomenevole, si è l'Austria, che coi puzzolenti suoi stipendiati
automi, e con la sua virulenta influenza per mezzo benanco di spurj
figli d'Italia, quella barbaramente malmena, e con dispregio calpesta.
Il nemico quello è, il più accanito, il più ributtante che ci tiene
sotto ferreo giogo, all'estirpazione del quale, con la forza e con
l'astuzia, trovasi ogni buon italiano, tenuto. Perchè sebbene siano
l'Inghilterra, e la Francia naturali nemiche d'Italia, possono alcune
volte per la loro posizione politica, (e siccome d'altronde sono più,
o meno rette da libere istituzioni, e sulle ministeriali operazioni
ha la publica opinione, forte influenza), possono, non diciamo,
proteggere, e sostenere, ma soltanto, ad essere, senza immischiarsi
del voto nazionale, i loro gabinetti trascinati l'espurgazione della
bella Italia dagl'immondi animali, che la infettano, a pazientemente
tollerare. L'Austria, che colla forza e cogli inganni, vuole a dispetto
degl'Italiani tener la nostra penisola schiacciata, oppressa, ed
avvilita, devesi per l'attual età, vera, e principale nostra nemica
riputare, ed al più presto energicamente combattere.

Persuasi noi dunque, che il nemico nostro immediato, ed attivo sia
l'Austria, volendo come dobbiamo, contro di lei insorgere, quanti e
quali mezzi ella da opporci possegga, attentamente pesar ci conviene.
Il maggior stato militare effettivo dell'Austria, è di seicento mila
uomini, sebbene in qualche occasione, alcune migliaia di più ne abbia
fatte nominalmente comparire. Or supponendo, che far volesse uno
sforzo, ed un grande esercito a combattere l'insurrezione italiana
spedire, a quel numero potrebbe quello esser portato? Sarebbe mai
per lei prudente, e convenevole di sguarnire le frontiere della
Polonia, della Prussia, e della Turchia, per quindi tutte le sue
forze contro l'Italia dirizzare? Certamente che no: e duecento
mila uomini pochissimi sarebbero per far fronte da tante parti; ed
eziandio, l'Alamagna, che altro non aspetta se non l'occasione per
isfuggire dalla sua influenza, tenere in soggezione. Rimarrebbero
ancora quattrocento mila, e di questi un cento mila, appena sarebbe
per le guarnigioni interne del paese, sufficiente. Anzi diremo
quasi di no; perchè la Boemia, l'Ungheria, l'Illiria, la Galizia,
la Lodomiria e la Transilvania che hanno tra tutte una superficie
di circa sedeci mila leghe quadrate, male sarebbero con i cento mila
rimanenti soldati guarnite. Ma per altro, così alla peggio supposto,
ecco a trecento mila combattenti l'esercito nemico ridotto; ora che
potrebbero far trecento mila uomini contro venti milioni d'abitanti, a
volerli esterminare risoluti! Da quanto abbiamo esposto nel capitolo
sesto, la forza disponibile italiana, fatte tutte le più minute, e
possibili deduzioni, monterebbe a due milioni di robusti, ed attivi
giovani armati per l'unione, l'independenza e libertà del paese,
di maniera che si troverebbero sette combattenti italiani per ogni
austriaco. La freddezza, e flemma di quei servi dell'imperatore,
nessuno certamente ignora. Possono bensì alcune volte con mediocre
successo in massa, in colonne serrate, ed in linea nelle pianure venire
alle mani, abbenchè poco favorevole anche in questo modo, debbagli
la rimembranza delle guerre ch'ebbero contro i Francesi, ed Italiani
uniti, riescire. S'è vero che in quelle, per qualche tempo le loro file
e righe mediocremente conservavano, non si può però neppure negare che
quando dalle truppe leggere franco-italiche, a far nascere intente la
confusione e lo scoraggiamento, nelle schiere, furono oppresse quelle
macchine, tosto si disordinavano, e si sbandavano; tanto è grande il
timore dal quale vengono, al rompersi le righe, assaliti que' soldati
che qual mandra di pecore in ispavento, chi quà chi là, dandosi
confusamente alla fuga, in tal modo si sparpagliano, che impossibile
in appresso riesce di poterle di bel nuovo riunire. E siccome sono
di quella emulazione, ed ambizione deficienti, delle grandi gesta
producitrice, ed altro stimolo, il loro coraggio non ha se non quello
del bastone del superiore, ne avviene che appena dal bastonatore
separate, diventano ad agir da per se stesso, del tutto inabili,
e tosto all'intiera volontà dell'avversario la cervice umilmente
sottopongono. Ben al contrario, gl'Italiani, tanto per proprio genio,
quanto pella santissima causa che sono per defendere; ogni qualvolta si
trovano isolati, nel pericolo, maggior energia previdenza, ed ardimento
rinvengono nel loro animo. Atti dunque solamente in massa, saranno
quei puzzolenti automi, del tutto a far testa contro di noi in guerra
d'insurrezione per bande, incapaci. Posseggono essi alcune truppe
leggiere come i cacciatori tirolesi, la cavalleria ungarese, etc., ma
in numero così ristretto, che neppure a continuare la guerra pochi mesi
in una sola provincia, non che in uno stato, basterebbe. Onde la loro
inferiorità in questo modo di guerreggiare, ad evidenza conoscere, non
si hanno, che le relazioni delle loro guerre, a consultare, dalle quali
chiaro si vede, che ogni qual volta questi animali ebbero sui monti
a combattere sempre furono vergognosamente colla peggio sconfitti, e
quelle poche volte, che all'arciduca Carlo, di fare alcuni lenti ed
inconsiderevoli progressi per somma fortuna riescì, fù sempre a costo
di uno straordinario spargimento di sangue, che più dannosi, che utili
rendevangli. Leggansi le relazioni delle loro guerre del 1795 e 1796 e
vedransi per la loro incapacità sulle montagne di Genova, compiutamente
disfatti; diasi un'occhiata alle loro operazioni militari nell'anno
1797, nei monti delle provincie da loro chiamate Ereditarie, ma che
noi chiamiamo usurpate, perchè gli stati non debbono essere patrimonio
di alcuna persona, e patentemente vedrassi, il cattivo risultamento
delle loro armi, la nostra asserzione comprovare. Volgasi per un
momento l'occhio ai Grigioni, e si vedranno nel 1799 in quei monti
a perdite considerevoli soggiacere; e nello stesso anno, in Zurigo,
pure da un esercito di molto inferiore in numero al loro, scorgeransi,
con altissimo disonore, compiutamente debellati. E senza dai monti
italiani allontanarci, la sola guerra del 1800 nelle montagne di Nizza,
dove una serie d'incredibili disastri, ed una condotta obbrobriosa
portarono la vituperevole loro disfatta, per provare le nostre
asserzioni basterebbe, ma troppo dovremmo il nostro capitolo estendere,
se i fatti d'arme in montagna dov'essi furono ignominiosamente, ed
a grandissima infamia loro sbaragliati, rotti, prigioni, ammazzati,
e quai vili, brutte, e limacciose bestie, schiacciati, ad estrarre
imprendessimo. Bastanci pertanto le succitate guerre, per provare,
che i nostri monti sono stati già più e più volte testimonj della
inabilità degli Austriaci in quella guerra, che già furono dal loro
sangue impuro abbondantemente irrigati, ed altre fiate potranno ancora
di quello abbeverarsi. Ed a maggior forza del già detto, aggiugner
debbesi, che nelle montagne di Genova, di Lombardia e di Nizza sempre
mai soggiacquero contro altri eserciti regolari, abbenchè con molto
minor vantaggio delle bande operassero, le quali più agili, svelte, ed
accorte, conoscono pure più perfettamente il terreno. Eppure, malgrado
ciò, pella sola circostanza delle differenti situazioni, misurandosi
con un nemico assai di loro più debole, andarono gli Austriaci a tanto
scorno soggetti! Con quanta facilità, con quanta certezza, non sarà
l'italica nazione per venire, in brevissimo tempo, dello sterminio
a capo, di quelle irragionevoli, straniere, ingorde, e sozze bestie
feroci?

L'ignavia del nostro principale nemico non meno, che la sua incapacità
ad una guerra leggiera ed animosa, dimostrata; il sistema generale
di questa, ad esporre passeremo; posto per base che tutti, o la
maggior parte degl'Italiani sieno di parere concordi nel voler, che
divenga la nostra Italia una, independente, e libera, oppure altro
che un immenso deserto non rimanga, dove gli scheletri di Tedeschi
e d'Italiani gli un sugli altri, ammonticchiati facciano all'età
future, la nostra gloria, e la infamia loro, manifestamente palese.
Dato che un tale glorioso, italico proponimento irremovibilmente
accada, servirà il presente sistema di norma, onde una pronta, certa
e luminosa vittoria, con brevi sforzi ottenere. Consiste questo nel
contrariare, e rendere tutti i principj, e le regole della tattica di
niun effetto. Hanno per esempio i precetti militari per fine d'impedire
la truppa dallo sbandarsi, ed a tutti gli avvenimenti provvedono,
che potrebbero a questo pericolo portarla. Sarà dunque alle nostre
bande d'uopo d'obbligare il nemico a sbandarsi, ed a tanto dal centro
strategico alla circonferenza distendersi, che i suoi raggi dalla
lontananza indeboliti, di poco o niuna resistenza sieno capaci, e che
per l'estensione dilatatissima della periferia, e loro allungamento,
possano fuori dalla communicazione col centro, venir da altre bande
tagliati e gli Austriaci a tutti i militari, ben noti per quel timore
di esser presi in fianco, portato ad un grado ridicolo, o stravagante,
saranno in questo modo ben tosto distrutti. Egli è vero che i loro
generali impiegano sempre una enorme quantità di truppe in guardie in
molti luoghi inutili, ed in ciò ch'essi chiamano la catena di posti,
ma non possono quelli se non per la sola speciale sicurezza del campo,
certamente distendersi, e non mai ad un raggio strategico d'operazioni,
perchè una linea impossibile sarebbe, e qualora poi di molto, quella
catena, si dilatasse, cosa molto difficile alle bande circondanti non
riescirebbe, il distruggere a poco, a poco quei posti staccati, ed il
grosso dell'esercito nell'inazione insensibilmente consumare. E che
si possa il nemico, ad estendere di molto i suoi raggi dal centro,
costringere, non cade il minor dubbio. Supponiamo, che un esercito di
trenta o quaranta mila uomini, per sopprimere l'insurrezione, ad un
punto determinato si porti. Abbisognerà quello d'artiglierie, treno,
munizioni da guerra, bagaglie e grasce, perchè ad un esercito regolare,
mantenersi senza questi mezzi, è del tutto impossibile; ed ecco il
generale a stabilire costretto una base militare, vogliam dire, un
centro come sarebbe una piazza forte od un campo trincerato, od un
paese difeso dalla natura stessa del terreno, etc., ed obbligato,
le sue operazioni al circolo de' suoi mezzi limitare. Ora, se viene
in lontananza circondato, tutto quanto esiste dal suo centro alla
periferia dove sono le bande, resta distrutto. E se le masse italiane,
saranno da un deserto, dalle fiamme degl'incendiati virgulti, e siepi,
dall'innondato piano, dal nemico separate, deve quegli coll'andar del
tempo patir notabile carestìa di vettovaglie, di strami, di tutto in
somma ciò ch'è necessario ad un esercito regolare; ed allora gli sarà
gioco forza di mandare i suoi distaccamenti, e ben numerosi, per mezzo
quel lago ardente a battersi con le bande, che al di là di quello
tengonlo accerchiato, onde procacciarsi di che sussistere. Ed ecco in
qual modo i suoi raggi tanto estesi, e separati dal centro, si possono
in breve agevolmente combattere, ed annichilare. Oppure s'appiglierà
egli al più prudente partito di abbandonar la sua posizione, e così
libera quella parte rimarrà dalla funesta sua presenza. Lo scopo oggidì
nella guerra regolare non si limita più a respingere il nemico, alla
possibile lontananza, ma bensì di occupare i luoghi che gli elementi
della sua potenza racchiudono; si vince solamente fino a un punto
determinato; si espelle da una posizione, e fino ad un'altra s'insegue,
sia dove sia giudicato a proposito di fermarsi, sempre tenendo il
pensiero a non consumare tutti i mezzi rivolto, avvegnacchè, quasi più
le cose, che gli uomini, sono nella guerra considerate. Ora gl'Italiani
conoscendo, che per sottrarsi ai mali da che sono travagliati, nessun
altro mezzo, se non una determinazione d'impedire l'avanzamento
del nemico, loro rimane; ritireranno ai monti le mandre i frutti, i
cereali, e lascieranno il terreno, arido, e devastato, romperanno le
strade; ed in quelle scaveranno grandi e profondi fossi trasversali;
nei passi, e luoghi angusti dove avranno la certezza, che il nemico
debba passare, praticheranno mine sotterranee, dando alla miccia lo
scoppio al momento probabile, secondo il calcolo, che il nemico siavi
sopra, e quand'anche lo scoppio prima, o dopo avesse luogo e non
gli cagionasse danno, sarà sempre d'un utilissimo effetto per noi, a
cagione che perturberà alla sua truppa la mente, e gl'infonderà panico
terrore. Dalle parti laterali dei fiumi, e canali si apriranno dei
grandi sfogatoi, affinchè colla diversione delle loro acque allaghino
la pianura dove intende l'avversario posarsi, se di rimanere in quei
pantani ostinatamente s'incapriccia, ne ricava la maggior molestia, e
l'aria mefitica che deve di corto l'allagamento seguire, perniciose
malattie, e quindi la morte gli cagioni! Su di tutta la superficie
della penisola italiana, questa cosa è ad operarsi facilissima,
essendo la stessa ad ogni passo da fiumi, e canali, attraversata. I
ponti che potrebbero facilitare al nemico il passaggio delle acque,
si faranno saltare in aria, si distruggeranno i molini ed i forni;
si avveleneranno i pozzi, e le fontane, tutte le messi non atte al
trasporto, le siepi, e gli alberi, le case sparse per la pianura, e
finalmente i villaggi stessi saranno incendiati. Per la qual cosa,
sprovvisto il nemico di ogni cosa, tutto all'intorno del punto da lui
occupato, sarà costretto di far venire convogli dal suo paese, ed
intanto, per la necessità delle vettovaglie obbligato di allungare
i raggi dal suo centro strategico, le bande alla maggior possibile
distanza dalla sua base, lo attireranno, onde viemmaggiormente
l'angolo obbiettivo, tra quelle e la sua truppa rendere acuto, e per
tal modo lo porranno nella svantaggiosa posizione di aver le spalle,
ed i fianchi scoperti, ed i convogli non assicurati. Laonde ad una
precipitosa fuga troverassi obbligato, se non vuole morire di fame,
o vedersi ribellare i soldati, ed anche finir per essere avviluppato
ed annichilato: «perchè, la fame, dice il conte di Bonneval, alla
pag. 513 delle sue memorie, è il più terribile nemico del soldato;
se da quello è tormentato, perde il coraggio, e la docilità. Egli è
vecchio proverbio, che ventre affamato, non ha orecchie.» I Barbetti,
ossiano gli abitanti dei monti alle frontiere del Piemonte, che dal
colle così detto della Croce, e valle di Lucerna, si estendono fino
all'Appennino alla parte di levante di Genova, seguivano a un di presso
questo sistema; i Calabresi quindi nella lunga, e memorabile difesa
che sostennero contro l'invasione francese, lo perfezionarono; essi
furono i primi che diedero l'esempio di quanto possa fare una ferma
volontà. Ed una provincia ristretta, ed un pugno d'uomini decisi,
così per varj anni ad intiere divisioni francesi resistettero, che non
colla forza ma cogl'inganni, e colla seduzione di una parte di loro,
solo a conquistarli pervennero. I Calabresi svelarono agli Spagnuoli
il gran segreto, che la vera forza, non tanto nel numero, e qualità
degli eserciti regolari consiste, come in quel patrio sentimento, che
da sè solo è abbastanza possente, a far sì, che ogni individuo d'una
nazione, la causa pubblica, come sua propria, consideri. I Russi, nella
guerra del 1812, lo adottarono anche in parte, ed il Sig.r Segur così
si spiega a questo proposito: «Ecco che nobili fuggono internandosi
coi loro servi nel paese, come all'avvicinarsi di un gran contagio, e
sacrificano ricchezze, abitazioni, e tutto quanto potea trattenerli,
o essere a noi vantaggioso. Essi pongono fra loro, e noi la fame, il
fuoco, e i deserti, giacchè una risoluzione sì importante prendevasi
contro i loro servi, non meno che contro Napoleone; così noi non
avevamo più a continuare una guerra di re, ma a sostenere una guerra
di classe, di partito, di religione, una guerra nazionale, e tutte le
guerre ad una volta.» E così operando, i Russi e gli Spagnuoli sopra
gl'invincibili battaglioni di Napoleone, ottennero la vittoria. Ben
vidde la giunta di Siviglia fin dal principio della contesa, che la
reale forza della Spagna, non consisteva negli eserciti, ma bensì
nel popolo; conobbe il governo centrale l'importanza di quel modo di
guerreggiare irregolare ed universale. Proclamò, questa essere _guerra
de Moros contra infieles_, ed in che maniera gli antichi Spagnuoli
avevano un'antica razza d'invasori esterminata. Quella giunta al
popolo ramentò tai cose, e bandiva, che ammazzando giornalmente i
nemici appunto come si volessero dal flagello delle locuste liberare,
salvar dovevasi il paese; che l'opera sarebbe lenta, ma sicura, e ne'
suoi progressi avrebbe la nazione all'apice marziale di que' tempi
portata, e che uscire in traccia degli _Hagarenes_, qual piacevole,
non men, che glorioso passatempo si considerava, loro indicando le
scaramuccie, imboscate, assalti, e stratagemmi, come le più necessarie
risorse della guerra domestica. In fatti dovunque gli Spagnuoli non
avevano esercito, la contesa assumeva questo carattere, e quando
i Francesi erano padroni del campo, e che in qualunque altro paese
avrebbero la loro conquista ferma e compita, ragionevolmente creduta,
da quel momento una faticosa guerra di distruzione cominciava, contro
la quale era di nessun vantaggio la disciplina, e che doveva, col
tempo, qualunque militar potenza, per grande che fosse, consumare.
Ogni giorno era un qualche posto degl'invasori sorpreso; qualche
scorta, o convoglio tagliato a pezzi; qualche banda di predatori messa
a morte, e ricuperato il bottino; i dispacci intercettati ed in somma
soddisfatta, la vendetta, e sparso il sangue reo! In nessuna parte,
se non nei loro grandi corpi, o dentro le città fortificate, erano
i nemici in salvo; e queste rimanendo isolate, dovevano alla lunga
tutte le provvigioni esaurire, e trovarsi nell'estrema circonstanza di
arrendersi, o morire di fame. In quasi tutte le provincie della Spagna,
e specialmente nella Catalogna, si era dagli abitanti delle campagne
l'uso introdotto di nascondere i grani in magazzeni sotterranei, sorta
di fosse, ben riparate al didentro, ed ermeticamente chiuse al difuori,
in modo, chè benissimo conservavansi, mentre assai difficile agli
invasori, di riconoscerle riesciva, e molte volte il nemico, sopra quel
prezioso oggetto, che andava con ardore cercando, e per quale usciva
dalle fortezze, incontro a pericoli d'ogni genere, ed a quasi certa
distruzione sua, senz'avvedersene passava, e ripassava. Ecco in qual
modo il generale Govione di san Ciro, al capo terzo del suo giornale
si spiega: «Era in quel tempo libero il settimo corpo dalla truppa
regolare di linea, ma avea non dimeno sulle braccia la popolazione di
tutta la provincia, ben armata, e che si trovava dappertutto in forza
contro i distaccamenti, che a cercar viveri o foraggi, lontani si
mandavano. Quando, dopo d'aver combattuto per respingere gli abitanti
armati di un cantone, che si battevano con altrettanto accanimento
per la causa della loro independenza, derrate rare ed indispensabili
pel loro sostentamento difendevamo, quando poi alla fine sovente con
perdite grandi per parte nostra eravamo pervenuti a rispingerli; ci
trovavamo ancor obbligati a perdere un tempo prezioso per rintracciare
i siti dove essi avevano la poca sussistenza, che lor rimaneva
nascosto, sovente un più gran numero di _somatenes_, appoggiato da
micheletti riveniva in forza; e prima della partenza, od in cammino,
perveniva a ritogliere i suoi comestibili, ed i distaccamenti spossati
dalla fatica, privi di cartocci, e con loro altro che i feriti non
portando, se ne rientravano. Erano qualche volta nelle loro incursioni
più avventurosi, ma per la mancanza di mezzi di trasporto, venivano,
di profittarne impediti. L'uso degli abitanti di conservare in quel
paese i loro grani in magazzeni sotterranei impossibili a scorgersi al
difuori, invece di tenerli ne' granaj; nella Magna, e nei paesi dove
quest'uso non è conosciuto, così facili a rinvenirsi, la difficoltà di
procurarsi quell'indispensabile comestibile singolarmente aumentava,
ed erano nelle città que' magazzeni, visibili, ed ordinariamente
vuoti, ma nelle campagne, a grande, e buona fortuna d'incontrarne uno,
dopo grandissime ricerche, s'ascriveva.» Tutto il sistema generale di
questa guerra, finalmente consiste nel ridurre il nemico a consumarsi
da sè stesso. Per giungere a quel fine, egli è dunque necessario,
dopo d'avergli levato ogni mezzo di sussistenza che potrebbe esserli
dal paese fornito, di sorprenderlo, ed inquietarlo nella sua marcia;
profittare delle posizioni vantaggiose, e del terreno favorevole;
attirare la guerra ai monti, alle selve, e nelle paludi; costringendolo
ad estendersi di molto dalla sua base, presentarsegli in fronte, e
quando egli si crede al momento di venire ad un'azione, abbandonarlo,
per attaccarlo in fianco, ed alle spalle; inseguirlo; avvilupparlo,
ed in ultimo, quando si conosce vicino a soccombere, da tutte le parti
assalirlo. Sparse le bande a grandissime distanze, debbono altrettanti
differenti generi di operazioni al nemico presentare; dileguandosi
esse, e riproducendosi, l'obbligheranno in una parte ad una guerra
offensiva, e difensiva in un'altra, a nuove specie d'operazioni lo
sforzeranno, che lo affatichino, ed inquietino, e che da lui, cure
affatto differenti, non meno pericolose delle altre, imperiosamente
richieggano. In somma debbono le bande coprirsi da suoi attacchi, ed
in ogni modo molestarlo; tirare la guerra in lungo; interrompergli
le communicazioni, interdirgli i passi difficili; tendergli ogni
specie d'insidie, evitando sempre dì lasciarsi cogliere nelle pianure
ed essere senza la certezza della vittoria a combattere costretti;
ma di monte in monte, sulle colline e nelle foreste, al passo dei
fiumi, e canali, senza posa strettamente inseguendolo, nelle paludi,
pantani, risaie, ed acque morte sospignendolo, ora con attacchi, ora
con vere o finte ritirate, ora disperdendosi, e quindi ad un tratto
riuniti di bel nuovo ricomparendo, in somma ora inquietandolo, ora
togliendogli, ed ora rendendogli animo. Circospetto in una tale fisica
e morale agitazione, il nemico terrassi, e quando i suoi soldati,
sfiniti, indeboliti, e aborrendo la guerra, non saranno più capaci,
che di un debole combattimento; furiosamente allora stretto da ogni
parte ben da vicino, gli mancherà l'animo, ed in luogo donde non possa
fuggire rincantucciato, dagli ardimentosi combattenti italiani verrà
inesorabilmente tagliato a pezzi.



CAPITOLO VIII.

DELL'ARMAMENTO E VESTIMENTO.


Nessuno può negare, che il primo oggetto necessario, e senza del
quale non puossi la guerra intraprendere, esser debba il possedimento
delle armi. Le due principali ed inevitabili necessità per menarla
ad effetto, sono senza dubbio il pane ed il ferro; con quelle sole
due, e con una pertinace volontà, il nemico, per forte che fosse,
debellare potrebbesi; ma la mancanza di una di quelle, ad andare
in rovina inevitabilmente costringerebbe. Nulla di meno la più
essenziale, e la più efficace necessità, si è quella del ferro,
perchè indubitatamente, ed anche in abbondanza trovasi col ferro, il
pane. Or dunque supponendo, che la ferma volontà esista, alla nostra
mente la difficoltà di provvedere il pane, si affaccia, perciocchè
siamo di ferro sprovveduti! Pertanto al progetto di venire coi nemici
d'Italia alle mani, ci sarà forza di rinunziare, mentre quelli sono
in punto di tutt'armi, coperti, ed è il nostro popolo, qual chi si
sta sicuro, inerme! Come mai una guerra, ci si dirà, tanto disuguale,
potrà ella muoversi, e nutricarsi? Come, nudi, e senz'armi, contro
quelli che tanta copia ne hanno, potremo noi per avventura far testa?
Difficilmente potrebbesi ad una tale obbiezione vittoriosamente
rispondere, se la storia non fosse là per indicarcene i mezzi, e
palesarci in qual modo abbiano gli Americani per sottrarsi al giogo
degl'Inglesi, le armi conseguite; come le bande spagnuole, per
l'oltraggioso orgoglio francese, rintuzzare; come i Greci finalmente,
per uscir dal laccio del Musulmano, abbianle rinvenute. Ad ognuno è ben
noto, che la rivoluzione d'America, di fatto, in Boston, l'anno 1790,
avendo avuto cominciamento, il popolo del tutto d'armi sfornito, un
distaccamento di soldati inglesi ben armato ebbe l'animo d'affrontare,
e con pallottole di neve, pezzi di ghiaccio, bastoni, pietre, insomma
con tutto ciò che gli venne alla mano, con successo assalendolo, a
quella diede capo; gli Spagnuoli pure con picche, lancie, forche,
etc., la impresero; i Greci in molte parti, con bastoni, pietre, e
coltella. E per altri esempi stranieri, nelle storie non razzolare,
quello ci basti dato il 5 decembre dell'anno 1746, dal popolo di
Genova contro gli Austriaci, quando i cittadini, di bastoni, pietre,
coltella, e strumenti d'ogni specie armati, dalla loro città venti mila
Tedeschi sotto gli ordini del generale Botta, tutti ben armati, e con
artiglierie, in un volger d'occhi discacciarono. Or questo ci prova,
che se per verità, havvi del ferro, a guerreggiare, gran mestieri,
non pertanto un popolo di ferma volontà soprabbondando, e per salvare
il suo paese ad ogni pericolo d'andar incontro, deciso, servendosi
in principio di altri stromenti, non avrà per procacciarsene, gran
fatica a durare. L'uso della frombola, delle freccie, delle lancie, e
picche, potrebbe all'appiccarsi della contesa, l'acquisto delle armi da
fuoco agevolare. Potrà ad alcuno, alquanto strano parere, che vengano
tali armi, per abitudine da tutti considerate come incapaci di alcun
vantaggioso effetto, contro quelle in uso oggidì, seriamente proposte.
Ben lungi noi siamo dal volerle, come necessarie per tutto il corso
della guerra, proporre, ma solo, come di un mezzo, facile a trovarsi, e
d'un effetto certo al primo slancio popolare, onde poterci delle armi
del nemico impossessare, ne facciamo menzione. Ed a provare quanto
possano quelle essere utili, valgaci alla memoria de' nostri leggitori
una nota delle riflessioni critiche sull'arte della guerra richiamare,
del sublime nostro Palmieri, e nell'eccellente trattato sulla scienza
della tattica del rinomato generale Rossarol Scorza commendatissima,
dove, parlando della frombola, così si esprime: «Nelle armi da presso,
il preparare è brevissimo, perchè costa d'una semplice azione; nella
frombola, l'azione di preparare, è composta di due azioni; primo
prendere la pietra, secondo, adattarla sulla frombola; nell'arco, è
composta di quattro, 1º Prendere la freccia; 2º adattarla sull'arco;
3º tenderla; 4º metterla in mira; allo schioppo, secondo i Prussiani,
di tutti i più solleciti, dopo che ha sparato fino all'impostarsi,
vi abbisognano dieci nove azioni, o tempi, come con voce dall'arte si
appellano, etc. Ma supposto (ipotesi molto parziale allo schioppo) che
ciascheduna azione componendo l'intiera azione del preparare, esiga
in tutte le armi un tempo uguale, l'azione di preparare lo schioppo
esigerà quasi cinque volte il tempo di quello dell'arco; quasi dieci
volte il tempo di preparare la frombola; e dieci nove volte il tempo
del preparare le armi da presso; e per conseguenza queste offenderanno
dieci volte, la frombola quasi dieci, e l'arco quasi cinque, nel
tempo stesso, che lo schioppo offende una volta.» Posto ciò, si
lascia al giudizio di chi può ordinare ed armare a suo volere le
truppe, il decidere se non sia meglio avere gli armati alla leggiera
colla frombola, in vece del fucile. Ma il solo dire al giorno d'oggi,
lasciate il fucile, e prendete la frombola colle palle di piombo, in
vece dei fucili, è lo stesso di eccitare il riso, e ciò, perchè ancora
noi siamo dal lampo, e dal tuono dello schioppo sorpresi per quanto lo
furono gli Americani per la prima volta che lo intesero, e lo viddero.
Non si dovrebbe però ridere, quando si riflettesse, che Vegezio ci
assicura che colla frombola comunemente e sicuramente si feriva alla
distanza di 600 piedi, distanza nella quale pochissimi colpiscono con
sicurezza col fucile; quando si ponderi che con quella, non vi è il
fumo che toglie la punterìa, e la scossa nel projettare, che in molti
facendo vacillare l'arma, ne falla il colpo; e finalmente che per
quanto testè si è dimostrato, un fromboliere tira dieci colpi, mentre
un fuciliere ne tira uno, e che perciò dieci frombolieri nel risultato
del trarre, pareggiano il projettare di cento fucilieri. Ed il mai
sempre illustre Beniamino Francklin in una lettera da lui scritta in
data 11 febbrajo 1706, al maggiore generale Lee, allo stesso modo di
pensare s'accorda, e sulla preferenza che agli archi, e freccie sopra
le armi da fuoco, darsi dovrebbe, così il suo intendimento espone:
«Desidero tanto come voi, che i nostri eserciti, di picche ed anche
dell'arco, e freccie si servissero. Sono quelle armi buonissime,
pazzamente messe in disuso. Egli è d'uopo di servirsi dell'arco, e
freccie, 1º perchè un uomo, può tanto aggiustare il suo colpo con
un arco, quanto con un fucile; 2º perchè può far partire quattro
freccie nell'istesso tempo necessario per tirare un colpo di fucile, e
ricaricarlo; 3º perchè l'oggetto a che deve mirare, non gli è coperto
dal fumo dalla parte che combatte; 4º perchè il nemico vedendo giungere
una nuvola di freccie, s'intimidisce, e si confonde, e ciò l'impedisce
d'essere attento a ciò, che fa; 5º perchè una freccia che penetri in
qualunque parte d'un uomo, lo mette fuori di stato di poter combattere,
finattantochè non gli sia stata svelta; 6º perchè è cosa assai più
facile di procurarsi archi, e freccie, che polvere, e piombo. Polidoro
Virgilio, parlando d'una battaglia ch'ebbe luogo tra gl'Inglesi, e
Francesi, nel tempo che regnava Odoardo III, fà menzione del disordine
cagionato all'esercito francese, a cagione d'una nuvola di freccie
scagliate dagl'Inglesi, ed alla quale dovettero questi la vittoria. Se
dunque le freccie producevano un tanto effetto quando gli uomini erano
coperti da un'armatura difficile a perforarsi, quanto danno al nemico
non apporterebbero quelle, oggidì, che non v'è più l'uso d'andar alla
guerra coll'armatura!» La storia della guerra dell'independenza in
Ispagna, ci fa vedere, che i condottieri delle bande, prima di aver
potuto trovare delle armi, aveano i volontarj con picche, lancie, e
forconi, provveduti. Nella guerra del 1812, vediamo che più di venti
mila soldati russi erano di picche armati, e che pure in gran parte,
i Landwer e Landsturm di varj stati dell'Allemagna, quell'armi usarono
con buon risultamento. Il generale Rostopchin in un indirizzo ai Russi
di armarsi d'asce, e soprattutto di forconi tridentati, forte loro
raccomandava. In fatti i più facili stromenti sono quelli al primo
scoppio da rinvenirsi, e possono le picche, e lancie essere in un
momento fabbricate, ad ogni passo alberi, e ferrari s'incontrano; e
quando in questo modo armata, comincia una banda ad incuter timore, ed
impor rispetto, potrà dai cacciatori, e da tutti quelli che posseggono
armi, prendere gli schioppi, spade, vecchie sciabole, pistole,
cavalli, arnesi, pei medesimi, ed in una parola tutto quanto possa
essere stimato utile per la guerra, esigere. Non difficil cosa, a ben
considerarle, deve questo parere, se si osserva, che quasi tutti i
cittadini sparsi sulla superficie della penisola, abitatori delle case
isolate, chi due, chi tre, e chi maggior quantità di schioppi per uso
proprio posseggano. Inoltre un paese per piccolo, che sia, non havvi,
il quale una certa quantità di schioppi per armare la guardia civica in
tempo di festa, o di guerra, non tenga nella casa del comune in serbo.
Il primo mezzo di armare i volontarj sarà dunque d'improvisamente sopra
quelle case, villaggi, o città, ch'essendo sguarnite di truppe non
possono opporre una regolar resistenza, piombare, e delle loro armi
impossessarsi.

Non sarebbero per avventura queste armi, al bisogno di tutti quanti i
volontarj, sufficienti, epperciò ad un altro mezzo non meno possibile,
sebbene al quanto più coraggio, ed ardimento esiga, ricorrere converrà.
Per l'attuale tirannico ordinamento; un numeroso corpo di birri a
cavallo, ed a piedi in piccioli drappelli di quattro, sette o dieci
uomini, comandati da un brigadiere, o sergente, suddiviso, in ogni
parte d'Italia si mantiene; sono questi drappelli a piccole distanze
ed in ogni direzione dello stato a che appartengono, situati, onde i
popoli in soggezione, ed obbidienza ai loro manigoldi, per mezzo della
paura, contenere. Cambiano questi birri in qualche parte denominazione,
ma il loro ordinamento, e servizio è lo stesso in tutte. In Napoli,
per esempio, si chiamano gendarmi; in Roma, carabinieri pontificj;
in Lombardia, gendarmi; in Piemonte, carabinieri reali; ma infatti
tutti con eguali nequitosi, modi, mirano allo stesso segno. Rende
questo loro ordinamento cosa facilissima alle bande di giungere
le armi necessarie a procacciarsi; perchè separatamente questi
posti all'improvviso assalendo, o quando tutto unito il drappello,
profondamente sono i birri addormentati, o quando a coppia a coppia
per le varie parti delle loro corrispondenze si diramano, sorprendere
e disarmare si possono, e le bande con le loro armi e spoglie, di
tutto punto fornire. Quindi poco a poco si potranno corpi più grandi
dal centro dell'esercito nemico staccati assalire, e nella guerra
andare avanti. In nessuna parte, meglio, che in Italia, puossi per
avventura un maggior numero d'armi rinvenire; perciocchè in tanti
piccoli stati, in apparenza indipendenti divisa, ciascun re, principe,
o duca regnante fabbrica nel proprio stato schioppi, sciabole, etc.;
e sempre un gran numero di quelle armi negli arsenali, o magazzeni
a bella posta fabbricate conserva, onde essere un maggior numero di
truppe, se lo esigessero i tempi, a mettere in armi, apparecchiato.
Ora se in una delle città dove quei magazzeni esistono, si facesse
un movimento insurrezionale, potrebbesi di subito un gran numero di
volontarj provvedere, e quindi delle fabbriche prendendo possesso,
mai più le armi sarebbero ai difensori del paese per mancare. Ma se
un movimento popolare della stessa città, delle necessarie armi le
bande non fornisce, d'uopo sarà che ai sopraccennati modi ricorrano,
ed una volta che alcuni già sieno armati, facilmente potranno il
rimanente necessario, dalle mani dei nemici cavare. Sorprendendo
alcuni piccoli distaccamenti o guardie francesi, armaronsi le bande
spagnuole, per la loro indipendenza acquistare, e le armi in quel modo,
di fondamento a tanti corpi, servirono, che quindi furono grandemente
esiziali allo straniero. A buon taglio vienci, di qui riferire, come
il celebre dottor Giovanni Palarca, medico di Villaluenga, ad armare
del tutto la sua banda, che tanto terrore nei Francesi infuse, sia
maravigliosamente pervenuto. Pieno d'entusiasmo per la salvezza del suo
paese che teneramente amava, già da lungo tempo, il progetto di formare
una banda di prodi, che fossero decisi a difenderla fino all'estremo,
andava il mentovato dottore ruminando, ma sempre dalla difficoltà di
poterla armare, era stato trattenuto. Un bel giorno, fatto per buona
ventura scorto d'aver i Francesi un distaccamento di venti dragoni da
Madrid a Parla, paese immediato a quello di sua residenza mandato,
onde quel punto guarnire, e cui dovevasi ogni otto giorni dare lo
scambio, egli non volle una sì felice opportunità, onde mettere in
esecuzione il maturato progetto, trascurare. Epperciò in una sua
cantina, di notte tempo sei o sette buoni amici tanto decisi com'esso,
riuniti, che tutti di commun accordo convennero dell'intrapresa, e
loro capo o condottiero lo chiamarono, a dare s'accinse i convenevoli
provvedimenti all'uopo. Armaronsi gli uni con pugnali, e con vecchie
lunghissime rugginose spade spagnuole gli altri, e con tali preparativi
tutti nel loro ferrajuolo ben bene imbaccuccati, quatton quattone,
dalla cantina uscirono, e ciascuno per un punto differente, a Parla,
verso il luogo previamente destinato, si diresse. Quindi nella
vicinanza dell'albergo riuniti dove tranquillamente, e senza timore
se ne stava il distaccamento di dragoni, Palarca, che di sorprendere
la sentinella, erasi l'incarco addossato, mentre quella coll'arma al
braccio confidentemente davanti la porta sù e giù passeggiava, a poco a
poco, in sembianza d'uno, che se ne andasse a sollazzo, passo innanzi
passo, le andava attorno, e quando vidde a portata, ed il soldato
dargli le spalle, getta di brocco il suo mantello a terra, sguaina
nello stesso tempo l'irrugginita spada, avventasi furiosamente alla
scolta, e ad occhi chiusi, conficcagli nelle reni, l'acciaro, così
esclamando: _Patria mia infelice, questa prima vittima ti sacrifico!_
Cade boccone a terra il dragone, entrano a questo segnale i compagni di
Palarca, immediatamente nell'albergo le armi del distaccamento vicino
alla porta collocate afferrano, e con quelle gli altri Francesi che
da forze immensamente superiori essere assaliti si figurano, a darsi
in poter loro costringono. Palarca ed i suoi compagni, da quel luogo
immediatamente partirono, e con loro i cavalli armi, e vestimento
dei dragoni condussero, lasciando perfettamente nudi quei pochi, che
non ammazzarono, poichè come novizi in questo genere di guerra, non
ebbero cuore di togliere dal mondo nemici che non si difesero. Ma
ciò nell'avvenire, avendolo riconosciuto per sommamente dannoso, più
non praticarono. La fama di questo avvenimento portò immediatamente
molti volontarj a Palarca, ed in questo modo un corpo di cavalleria
ad ordinare incominciò, che in meno di tre mesi, giunse a tale, che
un continuo batticuore ai Francesi cagionava. Moltissimi esempj di tal
fatta a noi facile di citare sarebbe, ma siccome non sempre le stesse
occasioni si possono presentare, gli omettiamo, e bastaci l'addotto.
Ma insisteremo nel dire che delle risorse del paese, tali e quali
si trovano, devesi profittare. Nessun paese, per piccolo che sia,
sarà affatto senz'armi, e quando un condottiere abbia già sotto di
sè alcuni uomini armati, agevol cosa di raccogliere quelle nel paese
esistenti, saragli; ma prima di giungere a quel segno usare d'astuzia
ed ingegno per procurarsene, converragli; e nel caso che non possa
impossessarsene, o che nel paese non esistano mezzi addattati per
mettere i suoi volontarj in stato di operare, esser dovranno da lui
inventati.

Quando nel 1808 scoppiò l'insurrezione in Ispagna, esistevano
pochissime armi, ed ebbero i condottieri a mille specie di stromenti
d'ogni genere, ricorso; onde con quelli, all'acquisto delle armi,
pervenire. Finalmente diremo doversi per avventura trovare il
condottiero, al cominciar dell'insurrezione alquanto intralciato ed
essere alla sua perspicacia, e prudenza riserbato di spianare gli
ostacoli e difficoltà, che siano al suo gran progetto per opporsi,
finattantochè, avendo già bastevol forza, si faccia dai paesi dove si
presenta, rispettare, e o di buon grado, o con violenza faccia sì,
che quanto di utile in quelli si trovi venga subitamente fornito.
Dati da noi in succinto i generali precetti, onde provvedersi delle
armi alla guerra d'insurrezione per bande, necessarie; trattare di
quali armi debba essere il volontario, che alla difesa della patria si
dedica, provveduto, ci sarà di mistieri. Le armi dalle varie giunte di
Spagna, per usarsi in questa guerra prescritte, non erano che due; lo
schioppo ed il _cuchillo_, ossia coltello lungo di banda, lo schioppo
per attaccare i convogli nemici per sorpresa, ed il _cuchillo_ pegli
attacchi notturni nelle contrade dei varj paesi; e fù per verità, nella
guerra di Spagna ai Francesi il coltello più del cannone, fatale. Noi
crediamo dunque, che debba essere il volontario provveduto d'un buon
schioppo con bajonetta del calibro d'un'oncia, affinchè le munizioni
del nemico possano essere profittevoli e d'un buon coltello di banda
ben acuto in punta, e tagliente da una parte, e che sia dall'altra, ben
forte ed abbastanza larga la costa, affinchè possa per tagliare piante
ed arbusti, eziandio servire; con un cartucciere alla cintura con
affibbiamento ristretto portante sessanta cartocci, con due taschette
laterali dello stesso cuojo, le pietre, e gli ordegni necessari per
ismontare lo schioppo, contenenti; ed un buon pugnale al lato sinistro
nella parte interna, e coperto dalla fodera del vestito; e solo
dalla sommità, al quanto sporgente. Pure a noi, per gli attacchi dei
convogli, etc., saranno le due prime per giovare ed il pugnale pur
anche nelle contrade, di notte, e nelle case potrà efficacemente valere
a quei volontarj, che da semplici contadini saranno vestiti, potendosi
nelle case introdurre, maggior facilità incontreranno per altrettanti
nemici mandar con Dio.

Il pugnale, arma essenzialmente italiana, ci fù in eredità da nostri
progenitori lasciata, onde si vendichi da noi l'oppressa Italia. Puossi
qual pugnale della ragione, il pugnale italiano appellare. Salvò quello
la libertà di Roma, allorchè forzata Lucrezia, la voce della ragione
ascoltò, che di volgerlo diss'egli al suo innocente seno, piuttostocchè
come la eccitava lo sdegno, nel petto del violatore immergerlo, e
n'ebbe con quel mezzo, grande, e memorabile vendetta, e Roma, libertà!
Era Virginio d'una figlia bella, e virtuosa, padre affezionato. Un
magistrato, frodando le leggi glie la rapì, e se dirigeva la natura
il colpo all'oppressore, la ragione, a percuoter la figlia lo indusse.
Così fa egli, da morte gloriosa a lei, e libertà alla patria. Cesare,
calpestatore delle leggi, amava un cor generoso, e gli prodigava
favori. La ragione sulla gratitudine riportò il trionfo, ed il tiranno
trafitto da Marco Bruto ch'egli beneficava, dovette al santo pugnale
soggiacere. Tanti atti sublimi dal pugnale operati, sempre dinnanzi
agli occhi di tutti gli Italiani che amano la loro patria, dovranno
rimanere. Tutti del pugnale della ragione s'armeranno, ed il petto dei
nemici, non men che quello di loro stessi percuotere, se fia al ben
d'Italia conducente, presteranno solenne sacramento. Poichè di tutte
le armi nella nostra guerra convenienti abbiamo ragionato, di accennare
la terribile artiglieria, che nei tempi attuali, nella guerra regolare,
decide quasi sempre la sorte delle battaglie, tralasciar non dobbiamo.
Ma di estendersi molto su di tal materia non ci occorrerà, poichè di
poco uso in una guerra che si fà alla spicciolata, sui monti, e si
continua senza venire a battaglia campale. Puossi considerare però,
che se non si possono dalle bande facilmente le artiglierie praticare,
di poca utilità saranno pure al nemico. Non dimeno, se per caso,
quegli a piantare una batteria, che potesse danneggiare un sito forte,
occupato da una banda, pervenisse, la cui occupazione fosse di grande
vantaggio considerata, non potendo le bande altri cannoni per imboccare
i suoi, e smontare le batterie avverse, opporgli, dovranno quelle
sagacemente varj corpi staccati ripartendo, con giri, e contro giri,
cadere sopra la truppa, che la difende, i cannonieri che le servono,
trucidare, ed inchiodare, sotterrare, e distruggere i cannoni, se non
hanno modo di trasportarli e servirsene. I Tedeschi, contro de' quali
principalmente abbiamo da combattere, le artiglierie come il principal
elemento della guerra considerano; e non come dai migliori tattici
vien prescritto di tenerle in conto, cioè come valevoli accessorii. Non
sono in conseguenza le truppe da quelle ajutate, ma al contrario sono
di guardarle, difenderle e piegarsi alle difficoltà dei loro movimenti
obbligate, dimodocchè da quanto ci viene dalle storie dimostrato,
moltissime volte la fanteria austriaca fu compiutamente per tal
cagione, disfatta. Questo loro difetto tattico non potrà ch'essere di
gran giovamento per noi, poichè difficilmente potranno le artiglierie
nelle montagne trascinare, e senza quelle, l'esercito assueffatto a
crederle assolutamente necessarie, si perde d'animo, e fugge. Se poi
nelle pianure le portano, dovendo a guardarle, un gran numero di truppe
impiegare, poche per correre i monti glie ne rimarranno; e se là sopra
a portarle pervengono, le colonne a difenderle concentrate in massa,
per mancanza del necessario al sostentamento degl'individui, e per la
continua molestia dalle bande circondanti arrecata loro, da sè stesse
si consumeranno.

Dice il generale san Ciro, che le bande spagnuole usavano certi piccoli
cannoni, a quali davano il nome di _violentos_, e quelle artiglierie
con una tale rapidità maneggiavano, da farle sparare almeno dodeci tiri
per minuto. Non potevano invero puntarle e non ricevevano da quelle
vantaggio, se non quando contro masse poco distanti le adoperavano.
Oltracciò, i più agili, e robusti loro cannonieri non potevano più d'un
quarto d'ora un esercizio così forzato sostenere. Quando dagli eserciti
alleati francesi e prussiani fù nel 1744 invaso il Tirolo, animato il
popolo tirolese da quell'amor di patria di che diede quindi nel 1809
maravigliosi esempi, in massa si sollevò; una catena di fuochi lungo
le sommità dei monti accesa, il segnale fù dell'insurrezione; le donne
nei nascondigli delle loro alpi il bestiame ritirarono; gli uomini
presero le armi, ed alla mancanza di cannoni, con tronchi d'alberi
vuotati al didentro e cerchiati di ferro, supplirono. Nella guerra
dell'independenza spagnuola furono messi in varie parti simili cannoni
parimenti in uso. Non sono però mai quelli di grandissima utilità, ma
possono alcune volte rendere dei buoni servigi. Un'altra invenzione
non meno straordinaria, ma di maggior conseguenza, perchè più facile
al trasporto, fù dalla banda di Mina, praticata. Tanto i Francesi la
superiorità degli Spagnuoli sulle loro truppe in un conflitto personale
riconoscevano, che mai contro loro, senza artiglieria, a pugnare
portavansi. Nel sistema da questi seguito di guerra irregolare, era
per loro, di opporgli armi eguali, impossibile; ma un Josè Suescan
Y Garcìa inventò di fissare tre canne di fucile ad un calcio e di
spararle col mezzo di un solo acciarino. Portavano queste, palle di
due oncie; ed alla prima prova che sen fece in un combattimento da
Cruchaga nelle vicinanze di Tafalla sostenuto, perfettamente, riescì
quella, ed a grande vantaggio degli Spagnuoli, che in piccolo numero,
furono di mille cinquecento fanti e cent'ottanta cavalli nemici,
vincitori. Fù nel fatto d'arme di Arlaban questa nuova invenzione
messa una seconda volta alla prova, ed ebbe un eccellente effetto, e
più dì trenta Francesi furono dalla prima scarica ammazzati, ed alla
seconda una colonna che si era formata sulla strada, fu interamente
dispersa. Qualora la necessità di opporre al nemico alcune artiglierie,
forte si vedesse, dovrebbero i condottieri, della summenzionata
invenzione servirsi, come pure di spingarde, obici, falconetti, e
di quei cannoncini che possonsi sul dorso di muli trasportare; ed
oltracciò potrebbero eziandio alcuni cannoni da quattro, sopra barelle
traghettarsi, al qual trasporto sarebbero dodici uomini, destinati,
da rilevarsi, di quattro, in quattro, ogni quattr'ore di cammino; e
potrebbe una centuria di artiglierie, ed un manipolo di treno essere
alla banda, aggregata; così potrebbesi in molti casi, eguale ed anche
superiore al nemico, per tal modo trovarsi. Conchiuderemo dunque
essere da mettersi in questa guerra in uso lo schioppo, la fromba,
la balestra, il dardo, il mazzafrusto, la spingarda, il falconetto,
l'obice, il cannone, le pistole come arme di getto, la bajonetta,
picca lancia, spadancia, spada, sciabola, vangone, falce, falciuola,
bicciacuto, ronca, mazza, scure, bidente, tridente, spiedo, stanga
di ferro, ed anche pugnale, coltello, squarcina come armi da presso;
ciascuna delle quali a piedi ed a cavallo come sarà più adattata, e
conveniente, dovrà essere con destrezza, maneggiata.

Dopo aver di quali armi si possa far uso in questa guerra, esposto,
a parlare sul modo di vestire dei volontarj, passeremo. Le più delle
bande in Ispagna, avevano divise a capriccio dei condottieri, oppure
delle dame, dei frati o delle monache condizionate; imperciocchè il
più delle volte successe, che le signore di Madrid, di Cadice o di
qualche altra città, esse stesse pei difensori della patria le assise
acconciavano; il panno coi propri fondi procuravano, e colle delicate
loro mani lo tagliavano e cucivano. Altre volte erano queste da un
convento di frati, o di monache, provvedute, e venivano quei volontarj,
secondo il gusto del donatore, vestiti. Altre bande entravano in campo
senza divisa, e con quelle dei nemici da loro spogliati, facendole
qualche piccola variazione, quindi si vestivano. Finalmente molte
le solite vesti contadinesche non mutavano, ed erano molto più delle
altre, sicure, perchè in una ritirata precipitosa, in un premeditato
scioglimento momentaneo, potevano facilmente le loro armi in qualche
siepe, o solco, o ammasso di rovine nascondere, ed in mezzo alle
file dei nemici senza essere scoperti, ed ammazzati, tranquillamente
passare. Era in generale l'amor della patria non solo ardente, ma puro,
e l'unica distinzione di che fossero ambiziosi, era quella d'un nastro
largo, e rosso con l'iscrizione: _Vencer o morir por patria_. Propone
il sig.r Lemiere per assisa delle sue truppe irregolari un camicione
di tela con cappello tondo, e largo da potersi rilevare da una parte, o
lasciar cadente tutto all'intorno. Non n'è cattiva l'idea, ma solamente
in Francia, eseguibile, perchè usano i contadini generalmente di
quel camicione; epperciò, nascondendo le armi loro, altro segno che
gli faccia scorgere dagli altri, non rimane. Ma in Italia dove non
è tal vestire fra il popolo, in uso, con sè gli stessi inconvenienti
come se i volontarj avessero una divisa qualunque, porterebbe, ed in
questo caso sceglierne una di miglior gusto potrebbero. Noi dunque
opiniamo, dovere per la generalità delle piccole bande, sopra tutto nei
primi tempi, che si mettono in campo, per evitare i sopra annunciati
inconvenienti, una divisa adoprarsi dalle bande di un numero grande di
volontarj composte, simile a quella di Mina; o di Hofer, onde, così
loro non sia facile di sparpagliarsi per individuo, ma solo siano
per drappelli, a sciogliersi costrette. Dovrà questa divisa essere
della maggior semplicità, senz'oro, nè argento; e in modo ritagliata,
che nella minima parte, la sveltezza, ed agilità del volontario non
impedisca; di color bruno affinchè nascondendosi nelle siepi e macchie
non venga pel colore del vestito dal nemico, scoperto. Le armi pure; sì
per le ragioni suddette, come per salvarle dalla ruggine, per quanto
si possa, esser dovranno abbronzate. Quelle bande dunque ch'esser
cosa buona stimeranno, porsi un'assisa in dosso, dovranno usare d'un
farsettino lungo fino quasi alla metà della coscia, e dalla cintura in
sù stretto alla persona, senza bottoni, ed al petto da lacci ed alamari
dello stesso colore, serrato. Calzoni lunghi sufficientemente grandi, e
tagliati diritti, dello stesso colore, scarponi alti fino al collo del
piede coperti dal calzone, senza calzetti, un piccolo berretto tondo in
testa, una bisaccietta nella quale stia un pane, una camicia ed un pajo
di scarponi tutto ben ristretto assieme, ecco la divisa dei volontarj.
Gli ufficiali non ne avranno una differente, ma solo potranno avere i
cordoni degli alamari in seta. Se tutti debbono tanto gli ufficiali,
come i volontarj essere nello stesso modo vestiti, conviene però
che vengano i gradi maggiori dagli inferiori con una distinzione,
manifestati, affinchè possa quell'obbedienza implicita al grado, e
non alla persona esistere, che forma la scala gerarchica di comando, e
sommessione; e tutte le parti onde concordemente agiscano pel movimento
del gran tutto, tiene assieme collegate. Porterà dunque il decurione
per distinzione del suo grado, un fiocco di piccola frangia nero sul
paramano d'ambo le maniche, il capo truppa un gallone di seta del
colore del vestito sui due paramani in punta. Il centurione porterà
un cordone di seta nera al collo, al quale saranno legati quattro
ramicelli di sarmenta, e due galloni come il capo truppa; il capo mille
sarà distinto con tre galloni come i suddetti, ed avrà la sciabola
sostenuta da un cordone di seta di colore d'amaranto. Il connestabile
sarà distinto con cinque galloni ad ambe le maniche, con una fascia
rossa ad armacollo. Porterà il tribuno legionario una medaglia in
forma di stella, di ferro ben lisciato, e lucido, sulla quale sarà
inciso un sole raggiante, ed in mezzo vi sarà scritto _rigenerazione
italiana_, da un cordone dei colori Italiani appesa al collo; quindi
porterà un paloscio sostenuto da un cordone d'amaranto a tracolla, ed
una fascia come il connestabile, ma dei tre colori italiani. I consoli
porteranno pure una medaglia come quella dei tribuni, ma d'acciaro
azzurro con l'istessa iscrizione. Oltracciò avranno una gran fascia
dei colori nazionali rosso, azzurro, e verde, ad armacollo, il vestito
stretto sopra l'anche da una cinturetta d'acciaro, ed in mano il
bastone consolare d'avorio. La distinzione di condottiero particolare
sarà una penna rossa e bianca, sulla fronte del berretto collocata;
quella del condottiero principale di distretto, una penna gialla del
color d'amaranto; quella del principale di cantone una penna pavonazza
e rossa; e quella del principale di provincia, due penne, una verde,
colla punta bianca, ed un'altra di color d'oro colla punta rossa;
quella del condottiero supremo sarà di tre penne dei colori nazionali;
il gran Celiarca porterà tre penne bianche, e tutti quelli che da lui
dipendono saranno con quelle distinti, chi da due, chi da una e chi da
un pennacchio dello stesso colore; i Celeri quest'ultimo porteranno,
con una piccola fascia bianca, alla parte superiore del braccio
sinistro; i Vigilatori un pennachiccolo bianco colla punta rossa, etc.

L'alto censore sarà tutto vestito di panno nero nello stesso modo degli
altri, tagliato e porterà tre penne nere; e fascia azzurra in cintura
con la stella tribunizia. Il gran questore sarà vestito di colore
azzurro e porterà le penne, e fascia in cintura verde. Coll'istessa
stella, la nappa dei colori nazionali, sarà collocata in mezzo della
fronte sui berretti.

Ogni banda iscritta sul registro del condottiero supremo, riceverà un
nome, ed un colore che non sia di quelli nazionali, ogni volontario ed
uffiziale, incluso il capo mille vestito in divisa, oppure appartenente
a quelle bande, che fanno la guerra in abito contadinesco, dovrà
portare attorno alla parte superiore del braccio sinistro, una lista
di panno del color indicatoli sulla quale sarà scritto il nome della
banda, il decurione la porterà bordata con un gallone, di seta rosso:
il capo-venti con due galloni, il capo-truppa con tre galloni due
rossi, ed un bianco in mezzo; il centurione con una frangia rossa;
il capo-mille con frangia dei tre colori. Gli altri uffiziali non
saranno tenuti a portarla. In questo modo trovandosi la banda vestita
contadinescamente, in pericolo, e dovendo nascondere le distinzioni,
sarà facile ad ognuno di sfibbiare quei bracciali, e rimanere senza
alcun segno militare.

Usavano gli Spagnuoli, e quasi tutti i popoli che fecero guerra
d'insurrezione, per ripararsi dal freddo, dalle intemperie, e per
coprirsi la notte alla serena, di portarsi in vece di cappotto una
coperta tessuta di lana, che essi chiamavano manta. Noi crediamo che
sia pure quell'uso buono per noi, e migliore del cappotto. Quella
coperta, quando non sarà per coprirsi, porterassi ad armacollo; e sulle
spalle e braccia si potrà distendere, in tempo di pioggia, di neve, e
di freddo.

I segni di riunione pei manipoli saranno un'asta con una mano in sulla
punta, ed al di sotto un manipolo di fieno. Per le coorti saranno
una bandiera dei tre colori nazionali, cioè con fondo rosso, bordata
all'intorno dai colori verde, ed azzurro intrecciati a volute.

Per le legioni saranno, l'aquila romana, in punta d'un'asta.

Le bandiere, etc., non si useranno, che quando i corpi siano riuniti
assieme per lunga permanenza, e non nel tempo, che le masse operano per
separate porzioni. Gli strumenti da usarsi saranno, la cornetta, o la
tromba; le arie da suonarsi, saranno sette, cioè:

  1º All'armi.
  2º La Marcia.
  3º L'attacco in fronte.
  4º L'attacco a destra.
  5º L'attacco a sinistra.
  6º La Raccolta.
  7º La ritirata.

Tutte queste arie, quando saranno per muovere specialmente quella
porzione di truppa a che il trombetta o cornetta, è addetto, si
suoneranno semplicemente, ma se al loro suono si vorrà che tutte le
bande di quel circolo d'operazioni, per qualche movimento combinato
generale, si muovano; allora si aggiungerà un ritornello, quale
indicherà, non essere un comando speziale, ma per tutte le bande, che
lo intendano.

La piva, la zampogna, il corno di bue, tutti in somma quegli stromenti
rusticani de' quali sogliono i contadini nelle campagne servirsi,
possono essere utili onde avvertire del passaggio d'una colonna
nemica, e de' suoi movimenti, per dare il signale a tutti i pastori,
e contadini di ritirare il bestiame, di nascondersi in luoghi sicuri o
di correre alle armi per molestarla. Sarà cosa facilissima ai comarchi,
ed ai condottieri principali, di mettersi d'accordo sulla scelta delle
arie, che debbono essere da tutti conosciute, onde le operazioni da
eseguirsi dai contadini sparsi pe' terreni, soprattutto quando la
cooperazione nazionale comincia a dimostrarsi, attivamente indicare.
In Ispagna fù quel sistema di grande vantaggio ai condottieri delle
bande, ed ai paesi, nel tempo della guerra dell'indipendenza, ed i
faziosi apostolici nella guerra ultima della libertà, l'avevano pure
con qualche profitto praticato, ma non tanto loro riusciva perchè poco
era la nazione in generale, a cooperare alla sua vergogna, e schiavitù,
disposta. Dice il sig.r Lemier, che nella guerra dei Chouans quando i
contadini vedevano passare le truppe republicane, fingevano di aver
cura della loro greggia e suonavano arie, con una specie di piva da
essi chiamata Bignoux, in uso in quel paese. Un certo numero di suoni
staccati e aggiunti all'aria, avvertivano gl'insorti del numero dei
soldati, che il distaccamento componevano. Si potrebbe dunque tal mezzo
impiegare, soprattutto, perchè dice il succitato autore, che in una
invasione, ognuno deve battersi, se può, e nel caso contrario, deve
ajutare coloro che si battono; tutto essendo permesso, e buono, quando
si tratta di liberare il paese dal giogo nemico.

Al muoversi dunque delle schiere avverse, udrassi da lungi nella
lor direzione, per le italiche campagne, il clangore dei rusticani
strumenti, che a vicenda coi ritornelli convenuti rispondendosi,
bel bello e successivamente aumentandosi, ai comarchi e condottieri,
il numero, e le operazioni dei barbari, paleseranno. Ognuno allora
all'esercizio del dovere che per la patria gli concerne, velocemente
accorre. Squillano per ogni dove le trombe, corrono i volontarj a
cavallo, e chi quà, chi là formansi in drappello, al suono della
cornetta riunisconsi a prima giunta i fanti; i tocchi a martello
della campana maggiore, i contadini nella campagna, del pericolo non
meno, che del dovere loro verso la patria, fanno avvertiti; il suono
campestre delle pive, e cornamuse, già chiaro viene alle orecchie di
tutti. _Non è dunque il barbaro, distante!_ Ordina il comarco le torme,
situa ognuno al luogo previamente destinato, sono le bande in positura
aspettanti, tutte le campane del luogo suonano a stormo, spuntano
i bersaglieri nemici, comincia il fuoco; immote le torme, muovonsi
le bande sù de' fianchi dell'avversario. Ecco le barbare colonne in
cospetto, i tocchi della campana precipitansi, tutti gli strumenti
ad un tempo suonano l'attacco generale, s'appicca la zuffa; da ambe
le parti viene questa con accanimento attizzata, seguono i tocchi
precipitati, giungono dal vicinato nuove torme in soccorso; il nemico è
debole; da ogni classe di persone, da armi di tutte specie attorniato,
in mezzo allo strepito delle archibugiate, allo squillo delle trombe
e delle cornette, al fragore del campanone, al cigolìo dei cozzanti
ferri, agli urli degl'insanguinati morenti ed alle feroci grida d'un
popolo in furore, si scompone, e soggiace. Suona a doppio il sacro
bronzo ed a festa, ognuno a quel tintinnìo si rallegra, è annichilato
il nemico, intuonasi l'inno della vittoria, e le liete voci del popolo
festeggiante, dall'armonia degli strumenti accompagnate, rendono di sì
fausto avvenimento, sincere grazie a Dio.



CAPITOLO IX.

DELLE VETTOVAGLIE.


La prima cura necessaria, il primo dovere che in una guerra qualunque,
si esige, quello certamente si è di provvedere al sostentamento di
chi deve guerreggiare. E come in una guerra irregolare dare a bisogni
opportuno compenso, quando una base militare generale, non esiste?
Senza magazzeni, senza commissarj che alla testa de' varj dipartimenti
sulla regolarità delle distribuzioni sopravvegghino? Senza frumentieri
e senza fornitori generali, e particolari dei viveri? Senza un
servizio, in somma, di regolare provianda? Debbonsi tutte queste
difficoltà, quando sulla condotta, e proseguimento della nostra guerra
si ragiona, certamente affacciare. Noi ben sappiamo e nessun militare
ignora, che gli eserciti moderni non hanno in mezzo di loro le sorgenti
della propria conservazione, ma bensì all'intorno, e che da questo
cambiamento, prodotto dalla differente qualità dei projettili d'oggidì
e dal genere di nutrimento del militare parimenti variato, venne la
indispensabile necessità di stabilire sulla linea d'operazione molti
successivi depositi, ed al giornaliero consumo, col mezzo di convogli,
opportunamente sovvenire. Epperciò carri pieni di quei generi, debbono
per quell'oggetto continuamente andar, e venire, come pure fa d'uopo
di molta truppa per difendere quella linea, che può facilissimamente
venir dalle bande insurrezionali tagliata, ed in conseguenza si
presenta l'acconcio di tosto il centro affamare. Egli è un uso
generale negli eserciti europei regolari, quello di vivere di pane, e
di biscotto; non può il soldato caricarsi di pane per più di quattro
giorni, e di biscotto per più di otto, ed anche in casi rarissimi.
Quando il maresciallo Massena, dopo la battaglia di Busaco, mise il
suo esercito dalla fortissima linea di Torresvedras, in ritirata,
caricò ciascun soldato per quindici giorni di viveri, ma ne avvenne
quindi, che il soldato dalle fatiche, e lunghe marcie, non meno che da
quella soprassoma soverchiamente lasso, ne gettò via una gran parte,
ed al quinto giorno già pativa di bel nuovo la fame. Non potendosi
nel campo, il pane, e biscotto preparare, perchè vi vogliono forni
per cuocerlo, e parecchi giorni per quelli construire, è necessario
che vengano alle spalle dell'esercito, ed a poca distanza del campo
magazzeni di riserba stabiliti, dai quali escano le regolari necessarie
distribuzioni di provianda. Oltrecchè, questo modo di guerreggiare non
si potrebbe in un'insurrezione nazionale, senza pericolo di grave danno
praticare, per la mancanza totale di magazzeni, e di quei regolati
dipartimenti, l'esistenza de' quali nel nostro caso, più danno per
avventura, che vantaggio, al paese arrecherebbero, la confusione
inevitabile in quei primi movimenti aumentando, in vece di toglierla.
Imperciocchè hanno quei commessarj, più ad arricchire sè stessi, che
al bene comune per l'ordinario la mira; di fatti quelli ch'erano alla
provianda dell'esercito republicano francese destinati, un chiaro, e
funesto esempio ce ne forniscono, tanto nella prima come nella seconda
volta che scesero a divastar l'Italia. Costoro spogliando i popoli,
e facendo patire la fame al soldato, si arricchivano, e questi per
adempire ai suoi doveri, e sussistere doveva sovente volte, al proprio
ingegno ricorrere. Rallentando questo complicato sistema i movimenti
di un esercito, limita le sue operazioni ad uno stretto, e diterminato
circolo, in diretta opposizione all'essenza della guerra per bande,
la quale richiede, che tutta l'estensione del paese, eccettuandone
la sola parte fisicamente occupata dal nemico, sia da innumerabili
piccoli corpi armati, coperta. Conviene dunque che il nostro sistema
di provianda sia da quello delle truppe regolari differente, e che le
bande portino i mezzi di mantenimento con loro stesse, o gli trovino
dappertutto, o limitatamente nel distretto, o cantone, o provincia che
armatamente percorrano.

Non vedesi nella storia antica, rimontando fino al tempo di Mosè, che
gli Ebrei, Greci e Romani, l'uso avessero di stabilire magazzeni di
viveri, depositi di foraggi, etc.; e si rileva dalla sagra scrittura,
che quando gli Israeliti sortirono dall'Egitto presero della farina,
e quella messa nei loro mantelli, ciascuno la congrua porzione sulle
proprie spalle caricossi: i consoli Romani distribuivano frumento,
alle loro legioni per quindici o venti giorni, ogni legionario portava
la sua provvisione in una tasca, e ciascuno con pietre o con piccoli
molini a braccio, il suo grano macinava, e quindi fattane una focaccia,
non in forni, ma sotto la cenere, o sopra pietre, o foglie di rame
la faceva cuocere. In oggi ancora un tal modo praticasi per tutto
l'Oriente, ed i selvaggi dell'America, pure ce ne offrono un valevole
esempio. Usano essi d'avviluppare la pasta in foglie, che coprono di
cenere calda, e quindi la mettono sopra carboni accesi; in Norvegia,
e presso molte altre nazioni fassi cuocere la pasta in pietre concave
a sufficienza riscaldate; gli Arabi cuocono il pane in mezzo a due
pietre ardenti; quello dei Tartari di Cercassia, è di farina di miglio
impastata con acqua, e cotta in una forma di terra; e quello della
più gran parte de' popoli dell'Africa è pure fatto in quel modo,
ed anche peggio. Napoleone in Russia, nell'anno 1812, mise pure per
qualche tempo questo metodo parzialmente in pratica, ed il signore
Segur, nella storia della guerra di quell'anno, ci dice che «quando
il sacco di farina, che portava il soldato era vuoto, si riempiva di
qualunque specie di grano si trovava, e si faceva macinare al primo
molino che s'incontrava, o pure da molini a braccio che seguivano ogni
reggimento, o che si trovavano nei villaggi, giacchè quei popoli non
ne conoscono forse altri. Era d'uopo impiegare sedici uomini, e dodici
ore per macinare con uno di questi molini il grano sufficiente per un
giorno a cento e trenta uomini.» Ecco il sistema da seguirsi per le
vettovaglie nel corso della nostra guerra. E perchè non introdurremo
noi pure l'uso di quei molini a braccio, già stati dal celebre nostro
Monteccuculi proposti? Perchè non si assueffaranno i nostri volontarj
a portare sulle loro spalle una provvista di vettovaglie per varj
giorni? Grano dappertutto, ed in abbondanza puossi rinvenire in Italia;
sobrio, e forte il volontario, non gli sarà difficile di provvedere
il suo sostentamento. Tranquillo il condottiero della banda per
venti giorni di sussistenza, potrà lunghe marcie intraprendere, e per
balze, anditi di riscontro, e giravolte, dal retto cammino a deviare,
mentre il nemico dovrà del tutto a guardar le strade maestre, per dove
debbono passare i suoi carriaggi, e sulle quali sono i suoi magazzini
stabiliti, occuparsi, e dagl'innumerevoli ostacoli, che possono dalle
bande essere al tragetto delle sue provvisioni e convogli frapposti,
difenderli. Non sarà al condottiero malagevole di rinnovarle,
potendone trovare ad ogni passo, massimamente se avrà cura d'imitare
gli Spagnuoli, che facevano magazzeni sotterranei nelle montagne,
invisibili al difuori come abbiam già nel capitolo settimo, riferito.
E come dal rinomato scrittor militare il sig.r Camillo Vacani, alla
pag. 171, del tomo 3, della storia delle gesta degl'Italiani in
Ispagna, viene pure in appoggio delle nostre asserzioni esposto. «Cosa
sommamente malagevole, dic'egli, fù sempre nella guerra di Spagna
il procacciare viveri alle armate, poichè o le valli non producono
ciò che basti per nudrirle, o vi hanno strade anguste, e facilissime
a difendersi, per le quali i trasporti di derrate sopra i ponti i
più infecondi dovrebbero aver luogo, o finalmente perchè l'accorto
contadino sa nasconderli sotto terra, fra pareti immurate, o dentro
scavi naturali dei monti, e si sa pur talvolta far trascorrere ove
più il lucro privato il profitto generale, e i bisogni generali lo
consigliano. Ed alla pag. 172, soggiunge: siccome d'ordinario ben
altrimenti degli antichi Romani i quali dall'uso induriti alle fatiche,
oltre le armi ed i bagagli solevano addossarsi per quindici giornate
di frugale sussistenza, i soldati moderni non usi a parco vivere, si
debbono sovente, e largamente provvedere, così gli ostacoli riuscivano
maggiori per tante, e sì frequenti provvigioni in terre o abbandonate o
per sè stesse sterili ed incolte. Nè vi avendo agevolezze di trasporti
per la penuria di soccorsi del paese e delle strade carreggiabili,
nessun sicuro, e ben provvisto magazzeno potevasi formare, o colle
armate poteva tener dietro addentro i monti, e nell'interno delle valli
più elevate, ove la guerra d'ordinario era più calda e continuata.»
Così pure i nostri condottieri, facendo, mentre sarà il nemico ad
intisichire, e finalmente a perir di fame costretto, potranno benissimo
le loro bande mantenere. Sarà forse taluno ai surriferiti precetti per
obiettare, che vivendo generalmente i nostri contadini di pane levato,
e cotto al forno, il loro stomaco abituato a quel genere di nutrimento,
non potrebbe uno differente più grossolano, digerirne: aciò, noi daremo
per risposta, non esservi abitudine la quale, quando a lasciarla,
l'uomo sia fermamente deciso, non si possa cambiare. Lo stomaco,
purchè non sieno repentine ma graduali e regolate le alterazioni,
si può come tutte le altre parti del corpo, senz'avvedersene, a ciò
assueffarsi. Non v'ha dubbio che la necessità o semplicemente una
volontà decisa, possano in brevissimo tempo lo stomaco degl'attuali
Italiani eguale ridurre a quello dei Romani, loro illustri progenitori,
che con la loro sobrietà e frugalità potevano, molto più facilmente
di quello che si usa oggidì, le truppe mantenere, pel qual mezzo
all'apice della virtù, della possanza, e della gloria, rapidamente
poggiarono. Cosa invero dolorosissima non meno, che vergognosissima
pell'attuale generazione italiana, quella sarebbe, di dover convenire
di una degenerazione di stomaco tale, che infinitamente più debole lo
renda di quanto lo fosse quello degli antichi Ebrei, Greci, Romani e
dei contemporanei Orientali, Americani e Norvegi, non meno, che dei
Francesi e di quegl'Italiani stessi che nel 1812, fecero la guerra
in Russia, e le privazioni e fatiche di quella, maravigliosamente
sopportarono. Ma per fortuna, non crediamo che siano i nostri Italiani
delle provincie e delle montagne alla sopposta vergognosa debolezza di
stomaco soggetti. E se attentamente quale sia il loro genere di vita,
indaghiamo, lo troveremo affatto dissimile da quello dei signori e di
quei giovani effeminati che vivono nelle città, e che ad altro non
pensano che ad indebolirsi il corpo, e a perdere la salute, vivendo
nelle antezze e profusioni d'ogni genere. La classe degli agricoltori,
pastori, massari, ed onesti e frugali abitanti dei borghi, e villaggi e
specialmente di quelli situati ai piedi o sui contrafforti dei monti,
che formano una considerevole massa d'abitanti, forse la più utile
in questa guerra, perchè scevra della maggior parte de' bisogni dei
cittadini, per loro giornaliero abitual nutrimento, non si servono
per lo più, che di polenta in alcune parti; di farro in altre; e gli
abitanti delle Alpi Cozie vivono il maggior tempo dell'anno di sole
castagne, e latte. Il famoso autore Carlo Denina, nel suo quadro
dell'alta Italia, ci dice «essere le castagne per un buon terzo di
quella, il principal notrimento di parecchi cantoni del Piemonte,
mentrecchè in altri il grano Turco è a moltissimi proficuo.» Ed in
tutti, ove più, ove meno, li vedremo vivere di farina cotta in acqua,
di castagne e di latte, etc., senza neppur pensare nè al vino, nè
al pane. Da questo noi potremo ben anche dedurre, che forse i più
atti e disposti alla frugalità e sobrietà necessaria in una guerra
d'insurrezione, che può essere lunga, debbonsi gl'Italiani considerare;
già in gran parte a nutrirsi di farina stemperata nell'acqua, cotta
senza lievito, e senza forni, ed a non sentire il bisogno di pane, fin
dalle fasce avvezzati. Epperciò si potranno meglio di qualunque altro
con alimenti eventuali, forniti dal caso, nutrire, e non saranno come
il nemico, agl'imbarazzi dei magazzeni, e salmerie per le vettovaglie,
le bande, soggette.

Supponendo talvolta, che lo spirito pubblico non sia ancora fino a
quel punto, che dovrebbe essere, acceso, e che non faccia preferire
per poco tempo, il vitto frugalissimo di semplice focaccia, alla
viltà, ed infamia di un'esistenza un pò più agiata ma di continuo
dai tiranni interni ed esteri posta in pericolo, ingiuriata, ed
avvilita; noi indicheremo nulla dimeno, quanti altri mezzi vi siano
onde procacciarsi le vettovaglie, affinchè per questa sola cagione non
vengano gl'Italiani dall'afferrare l'idonea congiuntura di ferocemente
insorgere contro gl'iniqui oppressori del loro paese, distolti.
Pertanto diremo che saranno le vettovaglie ai difensori della libertà
ed independenza dal popolo fornite. I governi provinciali ed i consigli
municipali delle parti del paese già liberate dalla presenza dei
nemici, e le congreghe segrete degli amici della patria nelle parti da
quelli ancora occupate, debbono per mezzo della contribuzione generale,
alla sussistenza delle bande esistenti nei loro municipi, distretti,
cantoni, provincie, con saggio avvedimento provvedere. Interessato il
popolo in una contesa che, per suo proprio vantaggio si sostiene, i
frutti della quale tutti debbono in suo prò ridondare, nessuno Italiano
sarà verso coloro, che per la patria versano generosamente il loro
sangue, nè tanto sconoscente, nè tanto snaturato, ed inumano, che di
contribuire per la sua porzione al sostentamento de' suoi liberatori,
empiamente si ricusi. Ammirabile fù il procedere de' contadini
spagnuoli nel tempo della guerra dell'indipendenza. Quanto spesso
non si privarono essi del solo pezzo di pane rimanente in casa, per
darlo al prode difensore del loro paese, in nutrimento? Quanto spesso
non diedero essi il loro ultimo real, con quell'allegra prontezza,
che altri nel dar denaro per un buon contratto, manifesta? Ecco in
qual maniera il maresciallo Govione di san Ciro si spiega a questo
proposito, al capo 3º, pagina 95 del suo giornale: «Si giudichi della
situazione del settimo corpo, non ricevendo, nè potendo ricevere alcun
soccorso dalla Francia, colla quale non aveva più comunicazione, non
avendo altre risorse di quello che può offerire un paese il quale come
si è osservato, non produce se non una parte del suo consumo, inoltre
già esausto dalla guerra, e dove i pochi viveri, che rimanevano erano
offerti dall'amor di patria de' suoi abitanti, alla truppa incaricata
di difenderli.» Ed il già citato scrittore delle gesta militari
italiane in Ispagna, così parimenti sù questo particolare, alla
pagina 173, volume 3º, si spiega «Sobrio com'è il soldato spagnuolo
più di quello di qualsivoglia nazione, poichè si pasce delle volte
unicamente di focaccia, o di aglio, e si soddisfa a lungo del solo
tabacco di cui fuma e fa grand'uso, soccorso in ogni punto da suoi
propri concittadini e avente soprattutto in Catalogna nelle piazze, e
castella da lui possedute, altrettanti magazzeni sicuri dagl'insulti
del nemico, procedeva più allegro, e ardimentoso, nelle parti nude
del terreno; ivi attraeva il nemico, lo stenuava di privazioni, lo
spossava con attacchi, e se non riuscivagli ogni volta, di forzarlo per
un modo, o per l'altro a ritirata, gli rendeva oneroso il soggiorno,
micidiale il raccogliere onde vivere, e di quasi nessun avvanzamento
nell'acquisto delle Spagne i sacrifici d'ogni sorta, cui per amor di
gloria, e disciplina, si esponeva.» Qualora poi succedesse, cosa da
non supporsi, che in qualche parte della penisola, non fossero gli
abitanti ad apportare il necessario pel sostentamento delle bande così
solleciti, essendo questa una necessità continua, ed indispensabile,
graviterà per forza sul paese. Tutto il talento di un condottiero
consiste nell'esigere i viveri con equità, ed evitare che pei paesi
che percorre, succedano eccessi nella loro esazione, e non vengano
depredati, limitandosi al puramente necessario, e sempre tenendo sopra
la loro raccolta, e distribuzione, un occhio severo, e vigilante; si
dovrà delle produzioni, tali quali le possede il paese, contentare,
facendo sì per quanto sia possibile, di farne cadere il peso sopra
de' paesi, che o non si sono decisi apertamente in favore della causa
della patria, o che sedotti dalle perfide suggestioni di alcuni de'
loro principali abitanti, gli sono contrarj, e cercherà, i paesi
favorevoli alla santa causa, dai pesi di provvista alleggerire; trarrà
dalle mancanze, ed anche dai delitti delle persone ricche e possenti,
convenevol partito, quando senza scandalo, nè pericolo, la loro
punizione possa sopra i loro beni cadere, e si procurerà in tal modo
mezzi per la sussistenza della sua truppa, i paesi amici alleviando da
questo aggravio. Ed infine la penuria a che si vedranno incessantemente
i suoi volontarj, esposti, se la guerra si prolunga, loro farà con
pazienza sopportarla; e li conterrà dagli eccessi, e delitti, che
possano tali miserie produrre. Don Isidoro Mir, in Ispagna, condottiero
d'una banda, ebbe sempre in questa sorta di maneggi un giudizio
fino e politica particolare. Non solo molti paesi, per dove passava,
non soffrivano, ma bensì, ed in ispezialità le classi povere degli
abitanti, vi guadagnavano. Facevasi egli dai paesi i più lontani,
e ritirati dal circolo delle sue operazioni, quasi continuamente le
vettovaglie condurre, sempre per tali esazioni quelli preferendo, che
per la loro prossimità ai punti occupati dal nemico, e per qualche
particolare accidente, stavano sotto la sua influenza, od essendo
alle sue massime propensi, la guerra che lor si faceva, con orrore, e
con disprezzo riguardavano. Un giorno, il caso presentossi, che uno
dei magnati di questi ultimi paesi, gli somministrò l'opportunità
di provvedere all'alimento della sua truppa, per più di due mesi,
calzarla, e quasi del tutto vestirla, senza nulla nè al paese di
residenza del reo, nè agli altri che per l'ordinario somministravano il
suo mantenimento, addimandare. Un giovane imprudente, allucinato dalla
bella mostra marziale dei Francesi, ed inseguito dalla sua famigliare
comunicazione con quelli in Talavera, dove spesso frequentava, sedotto,
promise al comandante francese di quel punto, di dargli lingua,
onde il destro agevolargli di sorprendere Mir; e col pretesto di
compartirgli un gran numero di camicie, ed altri effetti per la sua
truppa, invitò quel condottiero a trasportarsi al suo paese. Mir, a
questo liberale invitamento, come quel che sapeva per varie ricevute
relazioni, che quegli molto intimamente coi Francesi di Talavera se
la faceva, forte maravigliossi: accettò non dimeno l'invito, e marciò
alla volta di quel paese, non tralasciando però di prendere tutte
quelle precauzioni che dalla prudenza gli vennero dettate. Una di
quelle si fù, di far un giorno prima della sua partenza, un piccolo
distaccamento cautamente avanzare in osservazione di Talavera. In
fatti l'uffiziale che lo comandava, vidde alla mezza notte un uomo
giungere ben bene inferrajuolato ch'ei conobbe essere un cameriere
di gran confidenza del magnate di cui si tratta. Tosto lo arrestò,
e quindi facendolo spogliare, ed attentamente ogni parte delle sue
vestimenta esaminare, gli trovò nelle pieghe dell'abito, nascosto un
biglietto del suo padrone al comandante francese diretto, dal quale
vennero le sue perfide intenzioni, ed iniqui progetti in chiara luce.
L'uffiziale, tenendo prigione il portatore, mandò il biglietto a Mir,
che prima di arrivare al paese, lo ricevette, ed affrettando subito la
marcia, entrò, e subito preso il delinquente, prigione, se ne partì;
postolo quindi sotto giudizio in un consiglio di guerra verbale, stava
sul punto di essere sentenziato a morte, quando i suoi parenti tra
i quali v'erano molti, che godevano della riputazione di eccellenti
cittadini, con preghiere, ed allegando l'inconsiderata gioventù del
criminale, e soprattutto l'infamia, che credevano dovesse sopra loro
pel supplizio di un parente, giudicato come traditore della patria,
ricadere, cercarono d'impetrare il suo perdono da Mir, che solo poteva
con un atto di pietà, da quello stato terribile salvarli, offrendosi
di obbligare il reo a fare un sagrifizio de' suoi beni alla gravezza
del suo delitto, corrispondente, da che più utilità alla patria che
dalla sua esecuzione, sarebbe certamente stato per ridondare. Rifiutò
Mir primieramente la grazia, ma poi le surriferite circostanze, con
ponderazione riandando, e prestando, alle sollecitazioni di quei
parenti, utili, e fedeli cittadini, benigno orecchio, i quali secondo
il pregiudizio degl'ignoranti, si credevano per quell'esecuzione
disonorati, ed in fine temendo pure gli effetti probabilmente funesti
del loro risentimento, si decise ad ammettere le loro offerte, mosso
principalmente dalla considerazione che il reo teneva la maggiore, e
più disponibile parte de' suoi beni nella città stessa di Talavera,
circondario, occupato da una forte guarnigione nemica, ed in
conseguenza fuori della sua portata. Fu dunque il colpevole perdonato,
e con riconoscenza, ed ancora al di là, tutte le importanti condizioni
adempì, ciò che procurò a Mir i mezzi già riferiti, in quell'epoca
scarsissimi, la gratitudine di un gran numero di persone possenti volte
in suo favore, ed il concetto di umano, senzacchè perciò abbia poi
tralasciato di continuare verso gli altri il suo sistema di severità,
tanto in questa guerra necessario, sebbene il castigo dato a questi,
anzicchè moderato, stato sia sufficientemente severo, e di maggior
utilità al paese.

Se mai per caso, ad un condottiero avviene di passare in un paese,
che di tutto sia deficiente, ma nulladimeno gli abitanti abbiano
di che vivere, allora ripartirà i suoi volontarj nelle case, uno o
due per famiglia, con ordine agli abitanti di dargli una porzione
del loro vitto; se quella, di che mangiare per sè, possede, poco o
nessun dissesto le porterà di mantenerli per pochi giorni, e da questo
modo potrà il vantaggio ricavarsi, che sempre più affratellandosi
i volontarj cogli abitanti, la guerra si renderà viemmaggiormente
popolare.

Finalmente perspicace il condottiero, non mancherà di mezzi di
sussistenza, perchè abbondante il nostro fertile suolo, di quanto
abbisogni, agevolmente lo fornirà; ed essendo i volontarj della
patria, quali esser debbono, sobrj, pazienti, e dall'ardor di vendetta
stimolati, esiguo nutrimento richiederanno, epperciò loro servirà la
nuda terra, per letto; con robusta bevanda di sangue tiranno-tedesco,
la lor sete ammorzeranno, e saranno alle durissime loro vigilie, di
glorioso ristoro, l'unione, l'indipendenza, la libertà della patria.



CAPITOLO X.

DELLA PAGA E BOTTINO.


In una guerra pel bene della patria, intrapresa, nella quale tutte
le nazionali, energìe vengono dalla propria individuale volontà di
ciascun cittadino messe in azione; dove il sentimento sublime, che
a quell'opera sacrosanta efficacemente lo stimola, in lui svegliando
un fervoroso entusiasmo, lo riempie d'idee grandi, e generose, e non
deve lasciargli campo di sentire i bisogni volgari ed apprezzare
i piaceri, e le soddisfazioni comuni, pare che non pur favellarsi
della paga, ma nemmeno, pensiero di quella, andar per l'animo de'
combattenti dovrebbe. L'idea del salario porta con sè quella della
servitù, e per dar luogo all'avarizia, ed a pensieri di puro interesse
monetario personale, i nobili sentimenti deprime. Ferro, e pane, già
abbiam detto, dovrebbero essere le sole richieste di chi alla salvezza
della patria magnanimamente si consagra; e vile sarebbe colui, che per
impugnar le armi onde constituirsi una patria, la paga pretendesse.
Alla patria sola, e dopo l'acquisto di una stabilità certa, per ogni
ragione, il diritto di rimunerare colui che con tutte sue forze,
diede mano a portarla in quello stato, esclusivamente appartiene; e
neppure dovrebbe da un vero Italiano, spinto da alti, e sublimi patrii
sentimenti, venir tal guiderdone ricercato, perchè, l'essere al felice
istante della liberazione della patria, ed allo stabilimento della
sua felicità, scopo unico delle sue azioni, colmo de' suoi desiderii,
finalmente pervenuto, dovrebb'egli come ampio rimeritamento alle
sue fatiche, alle sue veglie, ai suoi patimenti, considerare. Solo
ai tiranni conviene di ben pagare i loro sicarj, perchè di quelli
si servono, per dare, ai loro pravi progetti esecuzione, e mandar
innanzi la ributtante loro tirannia; per estendere le frontiere dei
loro stati, per soddisfare ai loro capricci; per sostenersi eguali
agli altri tiranni. Debbono perciò in colui che per loro, ad impugnare
le armi, ed arrischiare la propria vita si destina, un interesse
artificiale, necessariamente creare. Laonde promovono nella truppa,
lo sfoggio, la lussuria, il lusso, ed ogni spezie in somma di vizj,
affinchè per soddisfarli, abbia il soldato bisogno di danaro, dal
quale dipenda, e pel quale venda la sua persona. Ed ecco in tal modo
per le nequitosissime tiranniche arti, la più onorevole, non men,
che utile, la più luminosa professione, in un mestiere disonesto,
vile, e quasi ridicolo trasformata. Infatti, chi può senza sentirsi
movere al riso, osservare gli attuali militari in moda attillati e
con vestiti sì fattamente cincischiati, che tutt'altro pajono, che
guerrieri? Ed è ben giusto, perchè altro veramente non sono, che
agenti ciechi, disprezzevoli strumenti del tiranno, ed il trastullo
dei cortigiani, che fangli, come burattini, sulle piazze ballare; ma
ben contrario a questi scherani, essendo colui, che per la patria
intraprende a militare, le sue volontà, e le sue opere, non avendo
altro fine, che la riuscita del gran progetto, si vergognerebbe quegli
di pensare ai vestiti, ai bagordi, ed alle dissolutezze, siccome vizi
che lo stabilimento di un libero vivere civile impediscono, ed alla
riputazione di chi da loro è dominato, grave arrecano danneggiamento.
Epperciò, non avendo tanti bisogni da soddisfare, mai non troverassi
nella necessità di uno stipendio.

I soldati Ateniesi sempre gratuitamente servivano, finattantocchè
Pericle introducendo il lusso, non gettò il primo germe della rovina
della repubblica, e di assegnare un salario ai difensori della patria,
non fece nocevolissimo divisamento. Prima di quell'epoca, in tutta la
Grecia guerreggiavano i militi a loro proprie spese; ma egli è bensì
vero, che in quei tempi, guerre che non fossero utili e necessarie, mai
non s'intraprendevano. In caso solo d'aggressione, o nella speranza di
far bottino, correvasi alle armi; ed agiva ogni milite per sentimento
di propria utilità, e gli eserciti pochissimo dal paese da dove erano
usciti allontanavansi.

Viene da Tito Livio riferito, che i Romani servivano a loro proprie
spese, nè mai pel loro proprio servizio fino all'anno 347; ricevettero
alcun salario, e possiamo dal sovra-esposto farci chiaramente capaci,
non esser quando si voglia, cosa impossibile far la guerra, senza
che sia l'assegnamento della paga, necessario. Anzi, quando quella,
pel vantaggio della patria, ch'è il bene commune dei cittadini,
s'intraprende, noi crediamo che la pretesa di una mercede in moneta,
debbasi a delitto ascrivere.

Ma facendosi poi a ponderatamente lo stato morale delle menti,
considerare, si vede che gli uomini d'oggidì credonsi di far la guerra
incapaci, se non hanno i sufficienti danari onde provvedere a certi
bisogni, cui furono dalle finissime arti della tirannìa bel bello
assoggettati. In oggi, per verità, dai buoni come nocevoli e proprj
dei vili, e schiavi, sono riconosciute e riprovate tali abitudini,
e sono essi bensì ad abbandonarle decisi, ma solo gradatamente, a
poco, a poco, non potendosi da quelle, senza rischio della salute,
tutt'ad un tratto sceverare. Ed osservando noi che le truppe de'
nostri nemici ricevono un abbondante soldo regolarmente pagato, e
che alcuni degl'Italiani (ad affrontare ogni sorta di patimenti, e
disagi pel futuro bene del loro paese, non ancora del tutto fermi
e decisi) potrebbero, sedotti dalle offerte dello straniero, e de'
tiranni interni, lasciarsi piuttosto ad abbracciare il partito del
nemico, che quello della patria trascinare, e massimamente, perchè
i nostri avversarj, coll'oro alla mano pronti sempre staranno, il
bisogno immediato, reale o supposto di quel milite a soddisfare, che
assai più a sè stesso, che a suoi compatrioti uniti porti affezione,
per tali considerazioni essere crediamo conveniente, che in qualche
modo possa di tanto, in tanto e moderatamente, avere il volontario
una piccola somma di danaro alla sua disposizione. Egli è pur troppo
non men doloroso che vero, non essere l'amor del paese, delle buone
leggi, dell'indipendenza, nè il rispetto dovuto a sani principj,
l'influenza delle massime virtuose, i sentimenti sublimi (motivi
tutti possentissimi per infiammare i cuori onesti) in oggi alle
masse, bastevoli eccitamenti; ma essere solamente atti, il sentimento
del particolar guadagno a nobilitare, unica molla sufficiente, onde
comunicare, a quelle masse la forza necessaria, e l'unico legame,
per tenerle solidamente unite. Tutto ciò, quando ad una massa, qual è
quella del popolo Italiano al giorno d'oggi, di tanto varj, e tanto
complicati elementi composta, volgiamo il pensiero, convienci di
seriamente calcolare.

Siccome dunque nello stato attuale del mondo, il personale guadagno
di danaro, è, parlando di masse, come il motore diretto, od indiretto
di tutte le umane azioni da considerarsi; così sebbene dobbiamo noi
credere che i condottieri delle bande, solo da sublimi sentimenti, e
da un'ardente amor di patria, sieno animati, e diretti, ci è oltremodo
necessario questo nobile, ed esclusivo modo di pensare, in una
parte di coloro che accorreranno sotto le bandiere della patria, di
francamente non riconoscere. Molti, col fine di profittare delle prese
fatte sul nemico, per fondare, od aumentare la loro fortuna, nelle
file de' forti s'arroleranno, altri per godere della paga, altri per
darsi ad una vita di profusione, e di licenza, prenderanno partito.
In tutte le insurrezioni nazionali, sopra tutto in quelle, che per la
progettata guerra esser debbono di lunga durata; sonosi veduti quegli
esseri, ed in abbondanza, che più per l'amor di sè stessi, che per la
patria, impugnavano le armi. Disgrazia è questa, quasi inevitabile,
perchè prendendo l'apparenza di ardenti campioni della patria, non
si possono quei cattivi, dagli altri veri, e desinteressati Italiani,
distinguere. Per forza dunque trar dovrassene partito, e per renderli
utili alla patria, in parte, a quelle ignobili propensioni generalmente
soddisfare. Non avrà dunque il milite della patria un soldo regolare,
ma una parte del bottino fatto sul nemico; tostocchè il governo
provvisionale di una provincia sarà stabilito, e verrà da quello un
competente soldo ai volontarj delle bande accordato, che non dovrà
essere pagato, se non alla fine della guerra, dopo la convocazione del
Parlamento nazionale, liberamente costituito. Questo metodo messo in
varie parti della Spagna, nel tempo della guerra dell'independenza,
in pratica, produsse ottimi risultamenti. Imperciocchè, da quanto dice
il nostro Pecchio nella relazione degli avvenimenti della Grecia nella
primavera del 1825: «Ogni individuo nei primi tempi di una rivoluzione,
ha un'esuberanza di coraggio e di ardire, ha un desiderio di vendetta
compressa, che non è possibile sottoporre ad un freno, nè ad una
legge di disciplina. Quindi ogni individuo trova un campo più vasto,
e più conforme alle sue passioni nel guerreggiare da volontario, e nel
disordine, e nel tumulto delle _gueriglie_. Ma l'entusiasmo per natura
sua è fugace, e dopo alcun tempo di sfogo, si rallenta, s'intrepidisce,
la vendetta si sazia anch'essa, e l'amor della gloria langue alla fine
come ogni altro amore.» È cosa dunque più che necessaria di mantenere
vivo un eccitamento di particolare guadagno, nel cuore di colui, che
per la lunghezza del tempo, per la durezza delle circostanze, o per
sazietà di vendetta, vacillasse nella sua prima risoluzione, ed in cui
l'amor della patria, per avventura languisse. L'essere creditore di
quel governo, che non è ancora costituito, e la certezza, che senza
lo stabilimento di quello, non mai si possano ricevere gli averi, deve
buoni effetti necessariamente produrre, e far sì, che quello il quale
sarebbe di abbandonare la causa della patria, di uscire dalla penisola,
o di passare nelle file del nemico, tentato; sapendo, che in quel modo
sagrifica varj mesi o anni di credito della sua paga, continuerà a
combattere nelle schiere dei buoni, e farà ogni sforzo per istabilire
presto, e bene, quel governo dal quale solamente potrà essere pagato.
Non dovrà essere la paga molto vistosa, non convenendosi, che tosto
stabilito il nuovo governo, si trovi con un debito enorme. Cinque soldi
al giorno almeno, o quindici al più, con un graduale aumento pegli
uffiziali; e sott'ufficiali, crediamo sia per essere una giusta paga.
Il milite, presentando titoli comprovanti il tempo del suo servizio,
sarà in ragione di quello, alla fine della guerra soddisfatto.

Stabilito come si debba rispetto alla paga praticare, ci converrà
passare a discorrere dei fondi de' quali dovranno i condottieri
servirsi, e del bottino, in generale, ed in particolare. Vediamo dalla
storia delle guerre dei tempi antichi, che non esisteva sin'allora
l'uso di pagare il militare, il quale per ricompensa delle sue
fatiche, e de' suoi servigi non attendeva, se non la parte del bottino
toccatagli in sorte. Sarà pure nella nostra guerra di mestieri, che
venga quell'uso richiamato in vigore, e che da quello solo s'alimentino
le bande. Ogni qual volta nelle città, borghi e villaggi per dove
si trovi passare una banda, od a portata delle sue incursioni, vi
siano fondi, tanto in moneta, quanto in grani, od altri effetti al
governo, che si vuol distruggere, appartenenti, debbono i condottieri
in preferenza di qualunque altro mezzo, pei bisogni de' loro volontarj
servirsene; ed esauriti questi, de' fondi dei corpi, confraternite, ed
altre istituzioni, dovranno immediatamente servirsi, che non si trovano
al soccorso dell'umanità sofferente destinati, perchè si correrebbe
il rischio di lasciarli alla disposizione del nemico, e per altra
parte, non possonsi ad altro miglior uso, che alla difesa della libertà
nazionale, certamente impiegare.

Quindi ai fondi comuni applicati alla polizia, e spese particolari
dei paesi, lasciando sempre il puramente indispensabile pel pagamento
del medico, chirurgo, maestro di scuola, ed altri impiegati, le cui
incombenze sieno il sollievo, e l'istruzione del povero, si porrà
mano; perchè tali fondi, all'eccezione di quanto per tali oggetti
viene impiegato, e ch'è ordinariamente di poca entità, sono gli
incerti dei raggiratori che hanno quasi sempre l'amministrazione del
paese. Finalmente a nessun titolo, se non per l'intiera deficienza di
qualunque altro mezzo, si potrà ai beni dei particolari, aver ricorso.
Per la qual cosa, dovrà il condottiero aver somma cura, che questa
gravosa, ed inevitabile tassa, si faccia per equitativa ripartizione,
affinchè tutti proporzionatamente colle loro facoltà contribuiscano.
S'intende però, ch'ei debba lasciar alle municipalità il diritto di
farne la partizione, e solo udire le lagnanze di coloro, che si possano
credere ingiustamente aggravati, esaminarle con maturità, e se le trova
fondate, mettervi all'istante riparo. Altri fondi esistono pure in
molte parti, chiamati pii, cioè, destinati ad opere pie, come al culto
di Dio, alla riparazione e lusso delle chiese, a messe, a processioni,
ed a mantenere alcuni ministri della Religione. Tutti quei fondi
debbono essere nelle mani del condottiero, senza eccezione, versati,
per una guerra sostenere nella quale per l'unione, l'independenza e
la libertà della nazione, si combatte. Qual culto migliore potrebbesi
rendere a Dio che quello di sostenere le sue opere, e collocare le
creature nella posizione, per la quale egli stesso creolle? Sarà forse
da considerarsi come cosa ragionevole, che si riparino i tempi, quando
la patria è in rovina, e che si faccia in quelli, pomposa mostra
d'un'insultante lusso, quando il popolo intiero geme nella miseria; e
nell'oppressione? Sarà ella cosa giusta, lo spendere in suffragio di
morti, capitali che tanto giustamente possonsi in un reale benefizio,
pei vivi, impiegare? Sarà egli giusto, ed onorevole, spendere i fondi
in processioni, l'origine delle quali, non fù altro che una stupida,
e superstiziosa vanità, solo atte generalmente, al divertimento, e
corruzione degl'ignoranti del popolo, mentre possonsi ad un uso non
meno utile che nobile, applicare? E finalmente dovrà ella prudenzial
cosa supporsi, che al mantenimento d'alcuni di quelli che si fregiano
da per sè stessi, del titolo di mediatori tra Dio e gli uomini, che
vivono nell'ozio, ed anche nel vizio (e che forse per essere vili
strumenti della tirannia, traviano, con le loro prave macchinazioni e
detestabili consigli, il popolo dal retto sentiero) è forse giusto io
dico, che s'invertano quei fondi sù de' quali tanto diritto tiene la
Patria, quando i suoi difensori mancano del necessario, e si vedono,
per ottenerlo, nella dura necessità di metter mano perfino ai beni dei
loro concittadini, fra i quali sono compresi gli amici, prossimani,
parenti e fino i loro genitori stessi? No; non mai dovranno quei fondi,
essere risparmiati, ma bensì del tutto esauriti, prima di cominciare a
servirsi degli altri già di sopra menzionati, e specialmente di quelli
dei particolari.

Fin dal tempo di Abramo, già eranvi rigorosissime regole per la
divisione del bottino stabilite; e sono in vero necessarissime per
evitare i gravi danni che potrebbero essere dalle querele sopra i
lesi interessi, cagionati. Per tanto un'equità incontrastabile non
meno, che il disinteresse il più generoso, debbono, presiedere al
compartimento sì delle prese fatte sopra del nemico, quanto sù di
qualunque altra utilità che possa nelle mani de' patrioti, cadere.
Terrà il condottiero, la mente alle seguenti regole indispensabili,
continuamente rivolta, e che il primo, eseguirà, tenendo dura la mano
alla esattissima loro esecuzione, se vuole avere i volontarj, che sotto
i suoi ordini combattono, affezionati alla sua persona, se da quelli
vuol esigere uno stoico disprezzo delle fatiche, un coraggio robusto,
e continuato, ed in fine se vuole nella gloriosa impresa del gran
progetto, riescire.

1º Ogni qual volta si perverrà a far bottino, dovrà questo essere,
tutto in un luogo, ammonticchiato, per essere compartito regolarmente.

2º Non si potrà cominciare ad occuparsi del bottino, fino a che il
combattimento non sia finito, e compiutamente deciso.

3º Riuniti i volontarj per la ripartizione, dovrà ciascuno
individualmente giurare di non aver nascosto, nè deviato nulla della
presa, ma di aver tutto nella massa comune sinceramente versato, e
se mai per caso, uno venisse di falso giuramento, convinto, dovrà
immantinenti essere messo a morte.

4º La decima parte del prodotto dovrà essere al condottiero supremo
rimessa, pel servizio generale della guerra, e dovranno i condottieri
particolari, e principali, esigerne, e conservarne le convenienti
ricevute.

5º Si preleveranno dalla massa generale, prima ancora di quella decima
di sopra espressa, le indennità ai feriti nel modo seguente. Cioè la
perdita fatta in combattere, di un braccio, di una gamba, di un piede,
sarà compensata da un regalo non minore di trecento lire italiane;
quella di un occhio, d'un dito, d'un orecchio, sarà pagata la metà, ed
in questa proporzione, tutti gli altri membri del corpo che possono
per via della guerra, venir danneggiati. Oltracciò il ferito dovrà,
durante lo spazio di due mesi, ricevere trenta soldi italiani al
giorno, per la cura delle sue piaghe; questi obblighi dovranno come
sagrosanti, considerarsi, e se il bottino di una volta, non fosse
sufficiente, dovrassi aver cura di far entrare il più presto quanto sia
stimato necessario, per coprire le spese d'obbligo, e così al dovere
soddisfare.

6º Prelevate le suddette somme, si disporrà del necessario, per la
comune utilità del corpo, avendone il previo consentimento della
truppa, e somma cura che i conti d'entrata ed uscita, siano ben
chiari ed a tutti i volontari, manifesti. Inperciocchè, in questo modo
non comportandosi, il condottiero, sebbene innocente, a rimproveri,
mormorazioni, e fors'anche a disgusti, e disgrazie, nelle ulteriori sue
operazioni, sarebbe senza dubbio esposto.

7º Il condottiero, e gli uffiziali non avranno diritto ad una parte
maggiore degli altri, anzi dovranno essere i più moderati nelle loro
pretensioni, e se alle volte la massa generale si trovasse molto
ristretta, dovranno in favore dei simplici volontari, alla loro parte
rinunziare. Con questo mezzo conserveranno il loro affetto, e li
troveranno sempre disposti a volonterosamente, in obbedienza ai loro
ordini, sacrificarsi.

8º Chi morrà combattendo, od in conseguenza di un'azione di guerra,
sarà come vivo, e presente considerato alla prima ripartizione del
bottino, che succede alla sua morte; e sarà la sua parte, mandata alla
famiglia, od a chi abbia egli previamente destinato. Qualora il morto
si trovi non aver più al mondo parenti conosciuti, e che non abbia
della sua parte disposto, quella si darà al volontario, che pel suo
amico il più intimo, sarà per giudizio generale, dichiarato.

9º Saranno compresi nello scompartimento, coloro, che trovandosi
legittimamente separati dal corpo, per oggetto di servizio, non abbiano
potuto contribuire alla presa.

10º Non sarà permesso ai volontarj d'impossessarsi d'effetti, che
possano imbarazzarli nelle loro marcie, e quanti di questa sorta si
trovassero che per la difficoltà del trasporto, non possano essere di
profitto, dovranno essere distrutti, per evitare che il nemico non se
ne serva, se però non avrassi l'opportunità di darli a paesi vicini, ed
amici, in consegna, dove non s'abbia a temere, che vengono di là presi,
e trasportati.

11º Nè la parentela, nè anteriori servigi, per grandi ed eroici
che sieno stati, nè il favore, nè la predilezione per colleghi e
confidenti, dovranno giammai in questo caso alterare l'equità della
distribuzione. Una rigorosa, retta, ed inflessibile giustizia, vi
dovrà presiedere. Tutte le parti saranno estratte a sorte, nè i vivi,
nè i feriti, nè i morti, dovranno in un minimo, essere defraudati,
nè in alcuna parte venir queste regole, cambiate, senza incorrere
nei più grandi pericoli, ed il resultamento della grande impresa,
follemente arrischiare. Gravi contestazioni, e doglianze imbarazzanti,
disturbi, diserzioni al nemico, ed anche combattimenti accaniti,
e sanguinosissimi, tanto degl'individui d'una stessa banda fra di
loro, come dell'una contra l'altra delle bande spagnuole, furono
dall'inosservanza di queste regole, prodotti.

Siccome questo sarà sempre la indispensabile conseguenza provegnente
dalla mancanza di giuste, ed inalterabili regole in questa materia,
dovranno per ciò a tal uopo i condottieri sostenere con ogni loro
sforzo questa esatta, e severa giustizia nella ripartizione, il
rilasciamento della quale, oltre di cagionare la loro infallibile
perdita, dolorosissimi, ed irreparabili danni alla causa della patria,
immancabilmente produrrebbe.



CAPITOLO XI.

DELLA DISCIPLINA. — PUNIZIONI E RICOMPENSE. — SISTEMA GENERALE DI
DEPURAZIONE.


Tanto si è già sulla disciplina tenuto ragionamento, tanto si sono i
particolari di quella da tutti gli scrittori sul buon governo della
truppa, sottilmente ponderati, che nulla quasi sù di questo proposito
ad espor ci rimane. Credono gli uni che aspramente, e col massimo
rigore trattando il soldato, con dure parole, carcere, e puranche col
bastone, e le verghe tormentandolo, e quindi qual bestia da soma quasi
oltre le forze affaticandolo, da ciò, del tutto, e non altrimenti,
ottener si possa obbedienza, attività, e sin anche valore. Sono
altri d'avviso di non doversi punire al campo in fronte al nemico,
ove il soldato da altro stimolo, se non dall'onore, e dal desiderio
della ricompensa esser mosso non deve, ma solo pel tempo di pace,
in guarnigione, debba il gastigo, riserbarsi. Epperciò dicono: «le
punizioni alla caserma, al campo il guiderdone.» Altri finalmente
più savj, più giusti, del pari che più benigni, ragionevolmente
stabiliscono dovere in ogni tempo, ed ogni luogo, la punizione ed il
premio, come le due gran molle della disciplina, essere considerate, la
quale, meno sul timore, la coazione, e l'avvilimento, che sull'onore,
l'emulazione, e la gloria, è di mestieri ch'abbia la sua base.

Tutt'i più savj scrittori sopra il militare servizio, convengono che la
disciplina tanto ad una truppa regolare, necessaria, mantener debbasi,
con una giusta distribuzione di pene, e ricompense ponderatamente
bilanciate, non meno, che col tenere il soldato di tutto il necessario,
fornito, e regolarmente pagato, nutrito e vestito: senza di che, non è
a chi comanda permesso di esigere da lui servizio, e subordinazione.
E pensano altresì che debba esservi un numero grande di ufficiali, e
bassi ufficiali che per mezzo del rigore, sempre ad una determinata
distanza dal soldato conservandosi, da quello siano rispettati, ed
obbediti. Onde ottenere questo risultamento abbisognano, senza dubbio,
impiegati civili, magazzeni, caserme, etc. Sono le bande, come truppe
irregolari, di tutto ciò deficienti, i loro uffiziali debbono essere
pochi, la cui autorità sia con somma moderazione, esercitata; i loro
quartieri, esser le case dei cittadini, e dei villani, le poche volte
che non serenano; e la loro propria esistenza per istituzione, incerta
ed errante, esclude lo stabilimento di magazzeni, ed impiegati. Ed
il loro armamento, vestimento, e viveri, esser debbono il prodotto
onninamente delle momentanee disposizioni del condottiero, il quale
con la maggior possibile equità, e prudenza, deve la provvista delle
sussistenze, e delle altre indispensabili cose pel ben essere de'
suoi volontarj, col minor gravame de' paesi amici, con sano avviso
conciliare. Avvi per l'ordinario, in questo genere di guerra, mancanza
d'ogni specie di regolari somministrazioni, e soccorsi, e manca in
conseguenza la facoltà di mantenere una severa disciplina. Inoltre
quella famigliarità, che fino ad un certo punto, fra il condottiero
d'una banda, i suoi uffiziali, ed i volontarj è indispensabile, la
necessità di usare d'una calcolata indulgenza in certa specie di
mancamenti, il più delle volte da un estremo bisogno cagionati, o da
un'imprudente sfogo d'uomini sempre in mezzo a durissimi affanni, e
privazioni d'ogni genere, in rischj, e pericoli, di continuo esposti
a perire; e finalmente quella quasi assoluta democratica eguaglianza
che l'anima dev'essere di questi corpi; tutto ci prova, essere,
per le bande, di mestieri, adoprare una disciplina da quella degli
eserciti regolari differente, non potendosi usare del rigore che, per
mantenerla si esige. Solamente dunque, contro questi le mancanze alla
fedeltà dovuta alla Patria, all'abbandono della guardia, sentinella,
e di qualunque altro delicato dovere che la comune sicurezza metta
in pericolo, al falso giuramento, ed agli atti non provocati contro
de' superiori, si dovrà negare indulgenza. E la punizione la più
esemplare, e la più rigorosa certa, ed inevitabile, deve tosto, dopo
della mancanza, inesorabilmente avvenire. La disciplina dunque delle
bande non sarà da istituirsi, sul modello di quella degli eserciti
regolari, ma converrà al condottiero, senza che il volontario sia
conscio della certa indulgenza, alcuni falli con sagace accortezza
tollerare; e per ottenere la subordinazione, senza la quale non potrà
mai un comandante vantaggiosamente operare, dovrà piuttosto della
confidenza che del rigore, valersi. Somma prudenza gli è in questo
caso certamente necessaria, ei deve un modo tenere, col quale ispiri
confidenza, e senza che i suoi secreti, le sue intenzioni, lo stato
delle cose, minimamente discopra; indurre i suoi volontarj a credere,
che tutto conoscono, senza mai nulla d'importante, palesar loro.
Dovrà pertanto, il carattere d'ogni individuo, le sue passioni, buone
qualità, i suoi vizj, e le sue virtù, attentamente studiare, valersi
di quelle, che possano essergli utili, lusingare pell'avvenire, quei
sentimenti, che potrebbero nel momento un qualche sconcio apportargli,
e non gli è dato di potere istantaneamente dissipare; accendere il
fuoco, dov'è spento, il troppo vivo, e pericoloso con dolcezza, ed
arte, scemare, a certe cose per sè stesse di poco o nessun pregio in
altri tempi, dare un'apparente grandissima levata, gli animi esacerbati
mettere con buone parole in calma anche quando la militar disciplina
di pronunziare vigorosamente sul fatto, comanderebbe, andar per le
lunghe, discorrere, e trattare, anzicchè decidere; evitare con la
persuasione, di essere posto nella circostanza di punire; con le
preghiere, con la buona maniera, e coll'amore farsi obbedire senza
ordinare; con la commiserazione, con saggi, ed accorti discorsi, e con
l'esempio, la truppa indurre a sopportare pazientemente i bisogni,
in vece di provvedervi. Finalmente, il condottiero, e gli uffiziali
di una banda, debbono far mostra di non vedere quegli eccessi, che
non giudicano essere di punir, conveniente. E se mai fossero tali, e
così publici, che per la loro posizione non potessero di castigarli,
tralasciare, procederanno con una molto indulgente moderazione, con
somma equità, con una assai chiara tendenza a risarcire, se fosse
possibile, qualunque pregiudizio del terzo, cagionato dal delinquente
e a far sì ch'egli stesso, della giustizia, e necessità della pena
impostagli, agevolmente si convinca, e giusto quel rigore, che gliela
infligge, riconosca. Negare non puossi che il sopra enunciato sistema
di disciplina delle bande, altro non sia, che un rilasciamento di
quello degli eserciti regolari, e che debba da per sè stesso, come
un male riputarsi. Nulla dimeno egli è uno di quei mali inevitabili,
il remedio proprio de' quali, il principale oggetto delle bande,
distruggerebbe, e ben presto sarebbe del loro scioglimento, cagione.
Egli è per conseguenza necessario, a quel male inevitabile chinar le
spalle, ma per quanto fia possibile, ne' suoi effetti diminuirlo, e
trarne ad un tempo quei sommi, e straordinarj vantaggi, che in una
guerra d'insurrezione nazionale, atto è a produrre, nella quale dovendo
il _tutto_ guadagnarsi, o prendersi, di nessun momento dev'essere un
male passeggiero, considerato, che, sebbene tale, tanto direttamente,
al fine che quella si propone, contribuisce.

Tutti quei capi di banda, che in Ispagna una disciplina rigida a
sostenere s'impegnarono, oltrecchè non ebbero la soddisfazione di
conseguire il loro intendimento, dovettero perciò i più crudi travagli,
ed anche disastri, sostenere. I di loro volontarj, cui per via de'
sopra indicati ostacoli, riesciva cosa impossibile di compiere le
condizioni dei loro rispettivi impegni, si prendevano certo licenze,
ed a cose sconce trascorrevano, che il carattere assumevano di gravi
disordini. Ma quei capi, anzicchè usare d'una certa indulgenza che
senza stimolare al male procurasse di diminuirlo volevano con estremo
rigore castigarne, i delinquenti. E urtati da una tale severità, se
non ingiusta, almeno inopportuna, disertavano, i volontarj, e nelle
file del nemico ad arrolarsi, per dispetto accorrevano. In Castiglia
fù per molto tempo colpevole di una tale imprudenza, il rinomato
Empecinado. Non potendosi soffrire la severità del condottiero, uno de'
più valorosi uffiziali della sua banda, con gran numero di volontarj,
disertò. Quegli lo inseguì; stretto il fuggiasco da vicino, passò alle
schiere francesi, e colà ricevuto a braccia aperte, e fornito di quanto
poteva renderlo superiore in mezzi al suo antico capo l'opposero.
Siccome il disertore esattamente conosceva la tattica, stratagemmi, ed
il paese, tanto bene quanto l'Empecinado stesso, avvenne che lo mise
molte volte in rotta, ridusse quest'utile capo di banda, a trovarsi
nei maggiori conflitti, e quindi, ad abbandonare il teatro delle sue
operazioni, finalmente il costrinse. D'una differente natura da quella
degli eserciti regolari, esser dovrà dunque la disciplina delle bande.
Essa più che dal rigore, sarà dall'arte del condottiero ottenuta, il
quale con maestrìa toccando le molle morali, varrassi, per giungere
al suo fine, dell'eccitamento di quelle nobilissime passioni, che
facendo nascere l'entusiasmo nell'uomo, hanno nelle guerre di libertà,
ed independenza, grandissimo potere sul suo cuore, e ad operare
cose maravigliose, lo dispongono. Sfuggendo quelle all'analisi dello
scrittore militare, ed essendo solamente proprie del talento di chi le
mette in uso, porger non puossi, sul modo di giovarsene, insegnamento.
Non già nel rigore, ma nell'amore, non già nella punizione corporale,
ma in quella morale, avrà la disciplina delle bande, la sua base.
L'onta d'un rimprovero publico, di una formalità umiliante, assai più
sarà dall'uffiziale, dal volontario, temuta, che gli arresti, o la
prigione. Laonde dal desiderio piuttosto della ricompensa che dalla
paura del castigo, saranno per sentire incitamento. Ed avendo noi
sulle punizioni, bastevole discorso tenuto, al guiderdone volgeremo il
pensiero.

Dalla maggior parte degl'autori militari, vennero sempre, come
essenzial parte della disciplina, le ricompense tenute in conto, e
se nel libro primo della Ciropedia, ci dice Senofonte, una politica
militare quella essere, di dare ai soldati che più nella guerra si
distinguono, publiche, non men che splendide ricompense, e se in tutti
gli eserciti attuali, son quelle stabilite (abbenchè viziosa sia la
loro distribuzione, più dai maneggi degli amici, dalla protezione
personale, dal capriccio di chi comanda, dipendente, che dal merito
di generose, e nobili azioni; da che ne ridonda essere gli eserciti
d'oggidì anzi licenziosi, che disciplinati, alla crapula piuttosto,
che alla virtù inchinevoli); altrettanto, e più ancora, in una guerra,
nella quale, come di sopra abbiam detto, più dallo stimolo delle grandi
passioni, che dal gastigo, è d'uopo ottenere la subordinazione, e
l'esattezza al dovere, e ricompense, sono come necessarie, anzi, come
indispensabili, da considerarsi. Due classi esistono di ricompense, le
une puramente onorifiche, le altre lucrative. In una guerra, l'anima
della quale si è l'entusiasmo, debbonsi le prime aver per gran cosa,
e segnalatissimi vantaggi originare. Chi sarà mai tanto stolto per
negare che le ricompense accordate dai Romani, non siano state della
loro gloria possenti cagioni? Quanti tratti di eroico valore nella
guerra della republica francese non produsse il dono di un pennacchio,
di un pajo di spalline rosse, di una sciabola d'onore, finalmente
d'un ciondolo in forma di stella? Non converrà dunque, che uno stimolo
alle grandi azioni sì fattamente incitatore, venga da noi trascurato,
ed opiniamo che la ricompensa delle armi d'onore, sulle quali sia
il nome inciso di chi la riceve, ed il perchè gli è stata accordata,
specificando l'azione, che di quella lo rese meritevole, sia la più
guerriera, la più conveniente in questo genere di guerra e la meno
alla corruzione, al raggiro, ed all'ingiustizia nel distribuirla,
sottoposta. Ed infatti, difficilmente si avventurerebbe un capo a far
incidere una menzogna, che potrebbe ad ogni momento essere smentita, e
l'onestà sua negli animi de' suoi compatrioti, d'assai contaminerebbe.
Sciabole, spade, pugnali, pistole, schioppi, d'onore, dunque sono le
ricompense puramente onorifiche da noi, le più convenienti in questa
guerra, giudicate.

Siccome non puossi, trattandosi di masse, pretendere, che le ricompense
puramente onorifiche, facciano sù di tutti gl'individui che le
compongono, quell'effetto, che producono sugli animi generosi, cui
più a cuore sta la salute della patria, che il proprio interesse, e
che per molti pur troppo non agiscono con vigore, se non vengono dallo
stimolo del guadagno reale in danaro, eccitati; sarà pure l'uso delle
ricompense lucrative, conveniente. Compartonsi queste per l'ordinario
in danaro od in terra; in danaro, come gratificazioni per una volta
sola o come pensioni pagabili annualmente per la vita, o trasmissibili
ai discendenti, o collaterali; in terra, dandone al meritevole
una competente porzione in proprietà, o per la vita, o per sempre.
Essendo il sistema di questa guerra, provvisionale, ne avviene che
le ricompense in danaro e come gratificazioni, per una sola volta, si
possono solamente accordare; lasciando però la speranza ai militi della
patria, anzi promettendo loro di fare ogni sforzo presso del governo
italiano, che verrà dopo la guerra regolarmente stabilito, affinchè
congrue porzioni di terra, per la vita, vengano a coloro distribuite,
che la patria alla gloria, e felicità recarono, ed alle vedove dei
volontarj, che combattendo per una così santa causa, intrepidamente
perirono. Difficil cosa non sarà a quel nuovo governo per essere di,
terra sufficiente rinvenire, onde una permanente sussistenza a quei
valorosi provvedere, imperciocchè essendovi attualmente in Italia
dieci principi regnanti, che tutti estesissime, e doviziosissime terre
posseggono, chiamate demaniali o patrimoniali etc., tutte per via della
guerra, diverranno beni nazionali, ed a quelle dei principali seguaci
dei Goti, o dei tiranni unite, formeranno una massa grande, e più che
sufficiente, per gli obblighi della nazione verso de' suoi difensori,
compiutamente soddisfare. Platone ci dice che una legge degli Ateniesi
portava, che quelli i quali rimanevano storpiati alla guerra, erano
alle spese dello stato, fino alla loro morte, mantenuti, e che lo
stesso accordava ai genitori, ed ai figli di coloro che essendo
morti combattendo, una famiglia povera, ed incapace di sussistere,
a discrezione de' loro compatrioti abbandonavano. Non potrebbesi tal
disposizione, in una guerra, come la nostra, praticare, ma, per quanto
sia possibile, cercammo nel capitolo antecedente d'introdurre il modo
che più le si possa avvicinare.

Esposto il genere, e la qualità di ricompense, che più addattate
al nostro sistema crediamo, solo ci rimane a soggiungere che non
dal condottiero solo, ma con la concorrenza del maggior numero dei
volontarj della banda, debbono quelle venir determinate, e conferite.
Ciò alquanto meno facile renderà il conseguimento, ma il loro pregio,
di molto ingrandirà, con maggior gloria, e soddisfazione per chi, degno
di quelle, sarà riconosciuto. La maggior solennità, il modo il più
imponente, sono, per la loro distribuzione, richiesti. Dice Erodoto,
esser stata costumanza degli Ateniesi, di riunire l'esercito dopo la
battaglia, onde ad alta voce, il premio del valore aggiudicare a colui,
che stimavano averlo meritato. E qual effetto, non deve sugli animi
avidi di gloria e pieni d'entusiasmo, un tal uso produrre?

Dopo d'aver trattato della disciplina, ci si affaccia, come necessaria
conseguenza, alla mente l'idea del generale sistema di depurazione
per tutta la penisola, onde allo stabilimento della sua independenza,
e libertà, bel bello abilitarla, tutti quegli ostacoli, che le si
appongono, gradatamente spianando. Ma qual gravoso dovere non è egli
per noi, d'essere dalla natura del nostro lavoro a trattare costretti
una materia, così penosa per un cuore sensibile! Così intricata, e
difficile! così aspra e cruda, per chi nutre sentimenti delicati!
Ma non debbe ella forse, di somma necessità, indispensabile, in una
guerra d'insurrezione, considerarsi? Qual penoso sentimento, non
viene ingenerato, quando fassi riflessione, di dovere per mezzo di
una insurrezione nazionale, l'unione, la libertà, l'indipendenza
del paese, colla strage vendicarsi, di dover intraprendere cose che
senza porsi, almeno in apparenza, in contraddizione con la stessa
libertà, non possonsi legalmente operare; cose da non potersi senza
quasi conculcare le leggi, eseguire; cose finalmente, che in tempi
tranquilli, per necessarie che fossero, all'umanità ripugnerebbero,
ma che per la totale distruzione della tirannia, e dello straniero,
assolutamente necessarie, ed indispensabili, nel disordine, prima del
ristabilimento della calma, debbonsi del tutto eseguire? Ed infatti
dopo di tale ristabilimento, non si potrebbero, senza offendere i
principj del nuovo sistema, tali cose operare e facendo perdere il buon
concetto ai cittadini insorti, grave danno alla causa apporterebbero.
La principale di quelle operazioni, si è l'esterminio di tutti quegli
uomini, che per la loro natura, circostanze, e pregiudizj, sono
al cambiamento decisamente contrarj, la commistione de' quali, coi
nuovi principj, impossibile si riconosce, e non sarebbe possibile, in
tempo di publico riposo, legalmente liberarsene, perchè delle stesse
leggi liberali (della cui protezione privarli, gravissimo scandalo
cagionerebbe) farebbonsi scudo. Converrà dunque, che in mezzo alle
turbolenze, ed al disordine, si spengano. Un'accurata investigazione
delle cagioni dei torbidi successi nella rivoluzione di Francia, che
a cambiare il sistema republicano in monarchico assoluto, qual era
l'impero di Napoleone, la costrinsero; non men che di quella della
caduta dei sistemi costituzionali di Spagna, Portogallo, Napoli, e
Piemonte, ci ha per troppo convinti, essere cosa sommamente dannosa,
e di quel sistema, che si vuol stabilire, precipuamente distruttiva,
quella di metterlo in piedi, ed esecuzione, prima di aver il terreno
preparato; cioè di aver scacciato fuori della penisola il nemico
straniero, e tutt'i nemici interni, levati dal mondo. Altrimenti,
quelli come in Francia, e quindi in Italia, e Spagna, serviransi della
libertà per rovinare la costituzione, e delle leggi, per abusarne.
Le formalità, e le prove, che in un sistema liberale affine di non
punire un'innocente si esigono, daranno campo ai traditori, di eludere
il giudizio, di evadersi, e salvarsi, per poi di bel nuovo, contro la
patria cospirare. Tanto fecero in Francia quei tristi, che riescirono
per mezzo di falsificazioni a far perdere il credito alla carta
monetata, ed alla moneta; con segrete macchinazioni acquistarono sulle
elezioni, che debbono essere fatte colla maggior libertà, una manifesta
influenza; e col terrore, e la corruzione, pervenivano a far eleggere
coloro che già da essi erano, per rovinare l'edificio costituzionale,
comprati; si servivano della libertà della stampa per avvilire, e
perdere nell'opinione publica, quella costituzione stessa, ed i più
caldi suoi partigiani da cui erano cordialmente protetti. In somma,
tanto in Francia, come in Ispagna, ed in Italia, lo stabilimento della
costituzione immediato al movimento rivoluzionario, andar fecela a
soqquadro. Consultinsi attentamente le istorie di quegli avvenimenti;
si parli con cittadini di buona fede, che siensi in quei paesi, ed
in quei tempi, ritrovati, e con non molta difficoltà, potrà ognuno
toccar con mano, essere stata all'ombra della costituzione, dai nemici
nell'interno del paese, le fila della contro-rivoluzione ordite. La
costituzione protettrice di tutt'i cittadini, di tutti gli amici della
libertà publica, alle macchinazioni de' partigiani dei privilegi, dei
nemici della libertà, faceva schermo e li favoriva! Converrà dunque,
che, con un sistema transitorio, con disposizioni provvisionali, con
misure energiche, forti, pronte, e generali, prima di mettersi in
vigore la benefica costituzione, che vede tutt'i cittadini eguali, e
tutti senza distinzione protegge, dalle virulente immondizie, il paese
con diligenza si depuri. Non puossi la durata di questo transitorio
sistema previamente determinare, perchè dalle circostanze, e dalla
prontezza, ed energia di coloro che sono preposti alla sua esecuzione,
del tutto dipende. Verrà tale utilissimo servizio ai condottieri
affidato, i quali dovranno quest'indispensabile, sebbene arbitraria
giustizia, con somma prudenza sommariamente amministrare, e non solo
con quelli, ch'essendo rei manifesti, non si possono per le circostanze
davanti ai tribunali tradurre, dovran essi esercitarla, ma bensì contro
quelli, che all'ombra della loro influenza politica, o religiosa,
al popolo, idee contrarie alla causa della patria, e favorevoli alla
tirannia, _surrettiziamente_ suggeriscano; con tutti quelli finalmente,
che condannati dall'opinione publica ben analizzata, e sicura, pel
loro astuto procedere non lasciano mezzo, per convincerli in giudizio,
e far la spada vendicatrice della legge, sul loro capo regolarmente
cadere. Egli è nei sopra indicati casi, che particolarmente si rende
necessario un condottiero d'un cuore duro, ed inaccessibile a qualunque
grido di pietà. Debbono i beni de' colpevoli, servire per le spese di
una guerra da loro stessi cagionata, e prolongata, e quando vi siano
motivi sufficientemente chiari per toglier loro la vita, non debbesi
quella in nessun conto risparmiare. Posseggono i condottieri mezzi a
dovizia, che non sarebbero leciti a giudici legali, per, la verità,
con quasi intiera evidenza, indagare; non meno che per conoscere la
condotta delle persone sospette, dei quali mezzi, onde esser sicuri
della rettitudine dell'altrui procedere, non dovranno giammai l'uso
tralasciare.

Questa specie d'amministrazione di giustizia, come già abbiam detto,
senza dubbio arbitraria ma di tutta necessità in una insurrezion
nazionale, produsse nella guerra dell'indipendenza spagnuola: (ed
in tutte quelle di tal genere così segnalati vantaggi produrrà)
che senza di essa, i Francesi avrebbero certamente trionfato. Tale
amministrazione costrinse tutt'i decisi partigiani dello straniero
a concentrarsi o agli eserciti nemici, o alla corte di Giuseppe
Buonaparte, e tolse in tal modo l'azione della loro influenza nelle
provincie, e fece sì, che coloro i quali erano alle massime del nemico
propensi, ma non ancor dichiarati, rimanessero neutrali, e che coi
loro beni, onde coprire le loro idee, a sostenere una guerra, che
disapprovavano, contribuissero; e fece senza necessità di forme legali,
quanti osarono opporsi al desiderio di che tutti cuori erano ripieni,
cioè della restaurazione dell'independenza nazionale, inevitabilmente
perire; somministrando sufficienti soccorsi in critiche circostanze,
che non si sarebbero con altri mezzi, ottenuti, e finalmente un tal
terrore infuse anche nei più determinati, che molti traditori si
viddero, loro malgrado a seguire l'impulso generale trascinati. Non
dimenticherà però mai il condottiero quella massima di guerra, e
di giustizia da Polibio al libro 5º riferita, cioè che «il diritto
di guerra permette il giusto rigore di mandare le città, le case e
gli uomini in distruzione, brevemente, di far tutto quanto possa il
nemico ridurre nell'impossibilità di nuocere, ma che la sola rabbia, o
demenza, possono portare a distruggere senza vantaggio.»

Egli è per altro d'uopo di convenire, che questa specie di giustizia
_prudenziale_, potrà forse alcune volte, mandare qualche innocente
al supplizio, o qualche imprudente, od indiscreto, il sagrifizio
del quale, quantunque giusto, potrebb'essere risparmiato. Ma questo
male riesce di pochissima entità in paragone, di quello, che, se un
procedere contrario si tenesse, ridondare potrebbe. In qualunque altro
genere di guerra, nel quale l'intiera libertà, e gli imperscrittibili
diritti di una nazione non si avventurassero, sarebbe questo sistema,
come barbaro, certamente da considerarsi. Ma quando cose tanto
importanti, e sacre s'avventurano, cosa molto più barbara sarebbe di
arrischiarle, per ostentare una moderazione inopportuna, e dannosa.

Conosciamo, pur troppo, che le passioni degli esecutori di
questo sistema, possono viziarlo. Ma quale umana istituzione
è mai dal pericolo di corruzione, sceverata? In qual faccenda,
quelle molle universali delle azioni degli uomini, non sono per
avventura intromesse? Per lo contrario; sarebbero forse liberi da
quell'influenza, i più legali tribunali, quando loro si presentassero i
rei di cui si tratta? L'esperienza ci prova il contrario. Sarebb'egli
dunque prudente di lasciar la patria soccombere, per evitare un
male, che deve sempre essere di corta durata? Sarebb'egli giusto
di mettere le cose, che sono le più sacre, e care agli uomini, il
bene generale, la libertà, ed esistenza politica di una nazione, a
rischio per liberare qualche innocente, o indiscreto, dall'essere la
vittima di un necessario disordine? No: le future generazioni, con
ragione un tal procedimento tratterebbero di barbaro, ed ingiusto.
Se dunque non puossi il pericolo evitare, se sarà indispensabile,
che, nell'orrendo abisso da coloro, che anelano la disgrazia della
patria, scavato, alcuni disgraziati innocenti si precipitino, cadano!
Saranno altrettanti involontarj Curzi, per la salute di Roma offerti in
olocausto.



CAPITOLO XII.

DELLA SPIAGIONE.


Perplesso continuamente, e come confuso, nelle operazioni da divisare,
ed eseguire, quel condottiero senza dubbio sarebbe, e correrebbe,
una banda, ogni giorno, il maggiore, ed il più imminente rischio di
essere sorpresa e distrutta, se dell'esatta informazione del paese
dove fa la guerra, dei vantaggi, che può trarre dalla sua situazione,
e la conoscenza perfetta dell'esercito nemico, quanto della sua stessa
truppa, il comandante d'una banda mancasse; al quale neppure debbono
i predetti conoscimenti bastare, ma deve altresì, il numero non meno,
che la qualità delle truppe contrarie essergli, per certissimi avvisi,
totalmente palese, come pure l'indole del generale nemico, e dei
principali comandanti; il sito dei quartieri generali, dei parchi,
delle riserve; la loro posizione negli alloggiamenti, se concentrati,
o divisi; i mezzi per avere strami, vettovaglie, e munizioni, dal
nemico praticati. Ei dee conoscere condizione, e provenienza de' suoi
trasporti, la giacitura, ed il servizio degli ospedali, se in quelli
molti ammalati vi siano, e quali le dominanti malattie; lo stato buono,
o cattivo del vestimento, e paga della sua truppa; le intenzioni del
generale avversario, se offensive o retrograde; il tempo, e qualità de'
suoi movimenti; se aspetta rinforzi, di che, quelli si compongono, e
da dove debbono venire; insomma deve di tutto quanto, sì nell'interno
nell'esercito che gli sta a fronte, di quanto all'interno si passa, si
pensa, e si dispone, avere minutissima notizia. Per giungere di cose
tanto essenziali, al perfetto conoscimento altro mezzo, che quello
della spiagione non havvi; con quella, ben diretta, possonsi tutti gli
schiarimenti di che, campeggiando, è grand'uopo, agevolmente ottenere.
La bussola quella dev'essere del condottiere, la quale, affinchè per
tema di traviare il cammino, fra le molte vie, dubitoso, e sospeso egli
non rimanga, per quale di esse sia da mettersi, dovrà fargli scorgere,
e per la via della vittoria, con sicurezza addirizzarlo. Da quella
insomma bene o male eseguita, la salute, o la rovina della banda,
onninamente dipende.

Punto non credevano gli antichi Ebrei, i Greci, ed i Romani nostri
progenitori, coll'essere, come spie, in tempo di guerra impiegati, la
loro fama contaminare. Dalla moderna nostra educazione vienci un certo
qual ribrezzo, alla sola idea di spiagione, ispirato. Pure in questo
parere, la nostra opinione concorre, quando in tempo di tranquillità,
e di pace, (il più delle volte per la ferrea verga dei tiranni contro
i suoi fratelli, sostenere) un cittadino, come infame delatore de'
suoi compatrioti, s'impiega. Crediamo, allora doversi vilissima,
e vituperosissima cosa, reputare. Ma siamo non per tanto da forti
argomenti persuasi essere la spiagione anzicchè degna di biasimo, al
sommo commendevole e meriti magnifico guiderdone, colui che col fine
di liberare l'Italia da' suoi oppressori, e renderla unita, libera, ed
independente, a quel dilicatissimo impiego, con deciso animo, metta la
sua opera; ed all'avviso dei già citati popoli, che quella come azione,
altrettanto gloriosa, quando accompagnata era da più grandi pericoli,
aveano in conto, per propria convinzione ci uniformiamo. I più distinti
e ragguardevoli personaggi di quei tempi, a portarsi fra i nemici,
per la spiagione esercitare, volonterosamente offerivansi, e fede ce
ne fanno gli antichi autori. Scorgesi dal libro dei giudici, come sia
Gedeone sceso nel campo di Madian nella qualità di spia, ed abbia in
sì fatto modo, utilità grande all'esercito cui apparteneva, arrecata.
Il decimo libro dell'Iliade, pur ci palesa, come Ulisse e Diomede, nel
campo de' Trojani furtivamente insinuatisi, abbiano con buon successo
alla spiagione atteso, e ci viene dal divino Plutarco, nella vita
di Sertorio riferito, che nel principio della sua carriera, quando i
Cimbri, e Teutoni avevano invasa la Gallia, di recarsi come spia, nel
loro campo, si era quel eroe, di buona voglia offerto; e che di fatti,
a ciò destinato, per portare il suo intendimento ad effetto, un abito
dei Galli addossato, nei termini i più comuni della loro lingua, ed
i più necessarj per un breve e passaggiero discorso, s'addottrinò,
e quindi nella turba nemica inoltratosi, coi Barbari si confuse, e
dopo d'aver tutto quanto colà si passava, e progettava, veduto, ed
inteso, a Mario ritornò che col premio onorollo, a guiderdonare il
valore, ed il coraggio, riserbato. Opera quest'era dunque, anzicchè
disdicevole, da quei sommi uomini laudevolissima, riputata, e come
tale, noi portiamo opinione, da tutti coloro doversi apprezzare, che
nella loro patria desiderano di nuovamente in vita, l'antica virtù de'
nostri antenati Romani richiamare. Non mancheranno, abbiam ragione
di crederlo, ardenti cittadini da patrio fuoco infervorati, che i
rischj della loro posizione, in prò d'Italia sprezzando, sotto qualche
pretesto, col mezzo di un travestimento, in simulata apparenza, onde
viemmeglio alla rigenerazione della patria cooperare, saranno nelle
file del nemico per introdursi. Con qualunque cittadino, che ad un
tal passo si determini, contrarrà pel fatto, il paese, un debito da
non mai potersi con danaro soddisfare. Imperciocchè a tali eminenti
servigi, maggiori, e più valevoli ricompense si meritano. Ben ci
guarderemo dunque, di dare a questi benemeriti, una denominazione
che siamo a disprezzare assuefatti, e che per verità, loro non
conviene seco l'idea d'una delazione mercenaria portando, e con più
appropriato vocabolo, informatori gli appelleremo. Da questi, più che
da alcun'altro a quell'uopo impiegato, si potranno le giuste relazioni
rispetto al nemico ricevere, quantunque debba il condottiero, a non
intieramente delle esagerazioni fidarsi, nelle quali per l'entusiasmo,
e la esaltazione di mente, vanno quei fervorosi cittadini, di frequente
soggetti, e debba sempre attenzione grandissima portare, perchè sendo
la maggior parte di quelli uomini da violente passioni stimolati,
potrebbero, diminuendo, od aumentando il pericolo, magnificando, o
disprezzando la disciplina, la forza, e la posizione del nemico, a
seconda dell'impressione buona o cattiva sù della loro suscettibile
immaginazione, prodotta, farlo in gravissimi sbagli irremediabilmente
cadere, ed essere per avventura, del proprio annichilamento, innocente
cagione. Oltre di questi informatori che mai in esteso numero, come
il bisogno richiede, potransi rinvenire, perchè sole persone virtuose
a quell'uopo convengansi, ed in ogni parte evvi di quelle penuria,
converrà dunque al condottiero di trarre a sè, per quell'uffizio,
persone d'ogni condizione, di ogni stato, d'ogni sesso. Epperciò
adocchiando le passioni di tutti coloro co' quali avrà da fare, (poichè
quelle, se in vece di far loro contrasto, si lusingano, l'animo oltre
ogni debito termine trasportano e di molto possono chi le mette in
atto, ne' suoi desegni ajutare) e di quel conoscimento opportunamente
valendosi, coll'esca dell'oro, l'avarizia dell'ecclesiastico, del
negoziante, del figlio di famiglia alletterà; la violenta passione
della donna innamorata; la disposizione inoltre, di quella portata
a galanteggiare, e ad ordire intricati maneggi, non metterà in non
cale; e di quegl'impiegati del nemico varrassi, ai quali essendo fondi
dello stato affidati, potrà supporre ch'abbiano di goderseli per conto
proprio, la decisa intenzione, e quei spiantati non meno, talmente
nella publica opinione screditati, che non possono più onestamente
vivere al mondo, non dimenticherà, come pure quegli uffiziali del
nemico che per cattiva condotta, per lusso, e giuoco, sono indebitati,
e vicini alla loro rovina, pe' quali, spaventati dal terribile avvenire
che loro si para davanti, ha certamente il danaro una straordinaria
attrazione, ed in fine di tutte quelle persone dell'esercito nemico
suscettibili di venalità, e disposte a servire ai nostri bisogni egli
trarrà il miglior profitto, che possa. Questa sorta di passionate,
immorali, e disoneste persone mai non sarà, che negli eserciti di
qualunque nazione sotto qualsivoglia più severa disciplina tenuti, sia
per mancare. La sagacità e penetrazione del condottiero, la sua maniera
indagatrice e prudente, non meno, che la opportuna distribuzione più o
meno abbondante di danaro, faranno sì, che verrà da loro, tutto quanto
saranno in istato di scoprire, communicato. Non possonsi tuttavia
col titolo di spie costoro qualificare, perchè non per mestiere, ma
solo per circostanza o per passione ad operare son mosse, e solo come
agenti salariati debbonsi avere, e neppure sarebbe ad un condottiero,
conveniente, ai loro detti intiera fede prestare, imperciocchè, siccome
gente immorale, che spesse volte sian costoro de' falsi agenti deve
prudentemente figurarsi. Eccoci ora per la gradazione del discorso,
alla classe delle spie per mestiere, che per lo più, sono servitori
di due padroni. E sebbene, come tali, per deficienza di prove, ancor
non sieno conosciute, quai doppi spioni però conviene, che prima
eziandio di scoprirsi, dal condottiero si suppongano. E se avviene,
che come doppie, tali persone si scoprano, debbono essere per le armi,
inesorabilmente passate. Converrà dunque al condottiero di tenere
ben l'occhio alle pratiche de' suoi agenti salariati, e delle spie,
di vedere con chi trattano, e che non vengano i nemici delle sue
operazioni e de' suoi veri divisamenti avvertiti, cautamente impedire.
La più grande arte, circospezione, e simulazione gli è necessaria.
Ei deve molte volte, quel che non è, e non intende di eseguire, far
a quella spia ch'egli suppone doppia, credere, e travedere, onde per
tal modo venga il nemico sù de' suoi veri progetti, tratto in inganno,
quindi baloccarlo, ed a fare movimenti a lui favorevoli, condurlo.

Essere persuaso dovrà, il condottiero e sempre tener fisso in mente,
che tutt'i mezzi per deludere il nemico messi in uso, saranno contro
di lui eziandio da quello adoperati. Mestieri dunque saragli di andar
guardingo, e con somma cura, perspicacia, e cautela prendere a tempo
le necessarie misure, acciocchè riescano i suoi efficaci, e vadino
quelli dell'avversario a vuoto. Sul particolare delle informazioni,
d'inoltrarci ommetteremo, essendo cose già da quasi tutti conosciute,
e per così dire comuni; ed anche, di entrare nella disquisizione,
ed enumerazione dei moltissimi particolari relativi a quanto coi
prigionieri, coi mercanti, viaggiatori, stranieri, ed altri, che
vengano dalla parte nemica, debba farsi, tralascieremo, tacendo altresì
delle corrispondenze da tenersi nel paese occupato dai nemici, degli
interrogatorj, dei disertori, tutte cose ben note; e conchiuderemo
con dire, che nè agl'informatori, nè agli agenti salariati, nè alle
spie, nè ai disertori, nè agli altri, a nessuno infine dovrà intera
fede prestarsi, ma dalle disposizioni, e relazioni di molti di quelli
separatamente interrogati, ed accuratamente esaminati, quando tutti in
una asserzione combinano, il condottiero potrà con dubbiosa credenza,
prendere la conveniente norma, finchè poi, da fatti palesi, vengagli
il principio dell'indicata operazione manifesto. Altra particolar
cura essenzialmente gli appartiene, cioè di antivedere, scoprire, e
porre a tempo al grave danno, riparo, che producono, certe persone
a bella posta dal nemico fra i suoi volontarj mantenute, le quali
con talenti, o ricchezze, od altre simili qualità attraenti, sotto
mascherate sembianze di ardenti amatori della patria inorpellati, bel
bello nella confidenza della maggior parte dei volontarj, ed uffiziali
artifiziosamente s'insinuano, e sotto colore d'officiosi amici,
pell'utilità dell'avversario, in ascoso s'affaticano. Epperciò a tal
nequitoso intendimento, fra gli uniti prodi vanno la zizania seminando;
al di cui fine, sotto pretesto di tener le parti di una qualche
immaginaria lesione d'ipotetico diritto, a bello studio con varie
speziose cagioni colorato, eccitano i malcontenti, e la divisione fra
di loro promuovono; e quindi, antichi odii fra provincia, e provincia
destando, la gelosia delle une contro le altre, per cagioni secondarie
di locale utilità fomentando, e le personali nimistà fra cittadini
e cittadini rinvigorendo, accendono per tal modo la discordia, e
l'alimentano, mentre sarebbe l'unione delle persone, e dei sentimenti,
al buon risultamento dell'intrapresa, un singolare vantaggio. Sovente,
doppi agenti, e doppi spioni dai due partiti, salariati, e ad entrambi
venduti, in ogni parte, in ogni cuore, un fuoco accendono esiziale, e
divoratore, ogni miglior cosa, ogni stabilimento il meglio inteso, ed
alla patria proficuo, sforzansi di distruggere, e tutto così guastando,
e gettando a terra, viemmaggiormente in ogni possibil modo, a tutte
quelle difficoltà dai capi, nell'ordinare, condurre, mantenere, ed
animare i loro partiti sempre esistenti, notabile portano, e nocevole
accrescimento.



CAPITOLO XIII.

DEI PRIGIONIERI.


Quanto l'indole della guerra d'insurrezione, differente sia da quella
regolare fra tiranno, e tiranno, fra re, e re, e fra republiche di
lunga mano esistenti, non v'ha, chi le cose ponderando, non sia
per, manifestamente in breve tempo, iscorgere, ed avendo già noi
nel capitolo sesto, di ciò lungamente argomentato, d'internarci in
più sottili disquisizioni sul particolare non ci occorre. Per altro,
quella parte ai prigioni correlativa, brevemente accennare, fà d'uopo.
I soldati che nelle attuali guerre regolari, e per altrui utilità
impugnano le armi, al campo, uno spirito di particolare vendetta, seco
loro non portano, ed i loro animi alla vista del nemico, della violenta
passione propria di chi pe' suoi lari combatte, non s'inacerbiscono.
Epperciò quella tanta umanità dopo la vittoria, quel buon trattamento
de' prigioni al giorno d'oggi in quasi tutta Europa messo in pratica,
dev'esserne l'immancabile conseguenza. Ma in una guerra d'insurrezione
in che ogni cittadino è tenuto di prendere una parte viva, e personale,
sarà tutt'il contrario certamente per avvenire. Niuna passione ha in
noi tanta forza, nè con sì possente impeto all'oggetto propostole ci
trasporta, quanto quella dall'amor patrio generata, e sollecitata.
Epperciò seco portando, il volontario armato una particolare animosità,
ed ogni giorno nel suo cuore, capitale odio contro i nemici della
patria maggiormente avvampando, darà con ragione in rabbiosi trasporti,
ed allo sfogo di una precipitosa, crudele, barbara vendetta, del
tutto abbandonerassi; la quale quanto sconcia cosa, e di riprension
degna in un esercito regolare sarebbe, altrettanto acconcia e di
laude meritevole, (poichè da purissimo, e ferocissimo amor di patria
prodotta) deve all'occhio dell'uomo dabbene apparire; per la qual
cosa, effetti nelle guerre regolari del tutto sconosciuti, ed inattesi,
dovranno dalle conseguenze della vittoria, senza dubbio emergere. Vago,
ed incerto essendo il metodo d'operare delle bande, perchè debbono
in continuo movimento mantenersi, sarà per loro indispensabil cosa,
quella d'essere da tutti gl'impedimenti, da tutt'i pesi, alleggerite
e per tal cagione non potranno, i prigionieri presi nella pugna,
seco loro tradurre, essendo chiaro che quelli recando gravissimo
imbarazzo, potrebbero la velocità dei movimenti ritardare, essere alle
operazioni d'incaglio, se sono molti, ribellarsi, o della facilità,
nella guerra leggiera, sempre esistente, per fuggire; (onde poi con
maggiore accanimento la guerra contro di loro seguitare) in destro
modo prevalersi. Come dovrà dunque un condottiero, quando gli avvenga
far prigionieri regolarsi? Dovrà egli per avventura, fatto loro un
solenne giuramento di non più servire contro l'Italia, prestare,
metterli generosamente in libertà? No certamente; perchè non essendogli
possibile nel gran numero di quelli, il nome, e figura dell'uom
liberato, sempre risovvenirsi, non potrà dargli il meritato gastigo, se
a quello, di spergiurare avverrà. Ed utile ammaestramento puossi dalla
storia ricavare, essere quei giuramenti tenuti a vile dai soldati,
quando vengono da forza superiore, soprattutto di popoli insorti, a
prestarli costretti. Costoro li prendono a ciancia, e quelle armi,
in loro mano liberamente rimesse, per castigare quella inconveniente
generosità, in nuovo, e maggior danno della patria, e di quello stesso
condottiero adoperano, e così deluso, rimansi il generoso, col male, e
colle beffe. Non è di poca pena al cuore, e porta all'animo dell'uomo
sensibile acerbissime trafitture, il dovere a chi in questa guerra
si mette, necessariamente palesare, che una insurrezione ne' suoi
principj, cattività non comporta, finattantocchè piazze, castelli, e
provincie, sieno, di chi per la liberazione della patria è insorto, in
sicuro, e quieto possesso.

Nella guerra d'insurrezione per bande, soprattutto nei primi anni e
finattantocchè non sia una forma stabile di governo consolidata, sarà
a chicchessia negato quartiere, e tosto che cadrà un nemico fra le mani
delle bande, verrà senza indugio alcuno trucidato. Dovrà esser questa,
una guerra di distruzione, e ne avverrà che non dando quartiere sarà
pure quello ai volontarj negato, e metterà in tal modo nella necessità
di combattere furiosamente fino alla morte, ed in loro quell'eroico
vigore manterrà, che ben sovente alla considerazione di potersi
arrendere, ed essere dal nemico ben trattati, vacilla o s'intiepidisce.
Certamente il quartiere alle guerre d'insurrezione mal conviene,
soprattutto nel primo anno, è un delitto il darlo, una infamia il
riceverlo. Quando i Tebani decisi e soli, pella libertà della patria
generosamente combattevano, il quartiere dal nemico loro pietosamente
offerto, con dispetto ricusavano, ed anzi durante il saccheggio della
loro città, i Macedoni, a levar loro la vita con pungenti sarcasmi,
provocavano! Imperciocchè que' grandi animi, la dominazione straniera
assai più crudele stimavano della morte stessa! Converrà nondimeno,
secondo la perspicacia, e saviezza del condottiero, per le nozioni,
e vantaggi che dalla conservazione di alcuni prigionieri in vita
potrebbe a lui ridondare, trarre di quelli un conveniente partito; e
quando una cagione, per lo migliore della guerra, militerà, dipenderà
sempre dal suo arbitrio, di salvarli o distruggerli. Un riscatto
forte, uno svelamento di progetti, e macchinazioni del nemico,
appoggiato a prove, e colla cooperazione personale del prigione, onde
a tempo, la verità, con vantaggio rinvenire; nozioni, trattative per
l'occupazione immediata d'un qualche speziale conveniente punto; e
mille altre simili circostanze utili al buon risultamento della causa,
possono a ridimandare, cambiare, ed anche ad esentare un prigioniero
dalla ben meritata morte, il condottiero, legittimamente indurre.
Egli non dovrà mai però in qualsivoglia caso trovar si possa, da
un sentimento di pietà, che in menoma parte, sia per essere alla
patria, pregiudizievole, lasciarsi commovere; nè alla balìa d'un vano
sentimento di generosità, che la sua ambizione gonfiando, esser possa
alla vera convenienza del paese, contrario, sottomettersi, ma deve in
ogni caso, dalla sola idea dell'utilità d'Italia esser sospinto; ed a
quel fine soltanto dirizzar le sue opere, ed in ben dovuta oblazione,
le sue sostanze, orgoglio, onore, ed esistenza, alla Patria, con
giubilo consacrare.



CAPITOLO XIV.

DELLA FORMAZIONE ED ORDINAMENTO DELLE BANDE.


Dopo del già detto nel capitolo 5º, dove della tattica trattammo;
dopo di una ripetuta e funesta esperienza, acquistata tanto in Ispagna
quanto in molte altre parti, deve l'osservatore militare e politico,
essere rimasto convinto, che le grandi masse di truppe in tutta
fretta riunite (affoltamento ad una insurrezione nazionale, inerente)
atte non sono a contendere, senza rovina, con nemici da lunga pezza
ordinati in battaglioni, squadroni, e reggimenti; stretti da una severa
disciplina da ognun di loro temuta, e rispettata, per la lunghezza del
tempo, divenuta, come altra natura; epperciò tenuti dall'abito, e dal
timore, in freno. Massima follìa sarebbe lo sperare di poter contro
questi, in battaglie campali, resistere. Fà dunque di mestieri, se
gl'Italiani vogliono fermamente rendersi uniti, indipendenti e liberi,
che, come gli Spagnuoli, ed altre nazioni, che pure in tal modo si
liberarono, a quella guerra leggiera per bande, abbiano ricorso. E
se non potrà, in siffatta guisa, impedirsi al nemico di occupare con
un esercito, il paese, si terrà però il potere, di quello nei limiti
de' suoi posti militari, tener serrato, ed un esercito tanto grande
per contenerlo, quanto per conquistarlo, sarà di mantenere forzato,
locchè alla fine dovrà senza dubbio farlo interamente rovinare. Poichè
dunque in una insurrezione, nulla sopra eserciti mercenarj puossi con
giudizio calcolare, i caldi amatori della patria, cui l'animo più non
regge di sofferire con pazienza le tanto lacrimevoli disavventure,
cui trovasi oggidì la povera Italia, soggetta, da per sè stessi,
quei mezzi giudicati necessarj a scuotere il giogo, che gli opprime,
individualmente cercheranno; ed una volta che diverrà quest'idea,
generale, e che sia la maggior parte degl'Italiani, di ciò persuaso, ne
avverrà che ogni provincia, ogni città, ogni uomo, sentirà fortemente,
quanto sia necessario di resistere all'avversario, e riboccante di
santissimo ardore, si affretterà, senza previo accordo o estraneo
impulso, a brandire le armi, e mettersi arditamente in campo. Un
numero di decisi Italiani riuniti, armati, e ben determinati a far la
guerra, quello, frà di loro, nel quale riconoscano maggiore capacità,
condottiero costituiscano! Quest'è la prima formazione delle bande.

Palarca, medico di Villaluenza, raduna in una cantina, trenta de'
suoi amici, si mette alla loro testa, portasi a sorprendere un
distaccamento di dragoni francesi, ne spoglia i soldati, e prende le
loro armi, e cavalli. Ecco la formazione della prima banda spagnuola.
La lega degli amici della patria, e le congreghe segrete, di che
a lungo abbiam già ragionato, gl'Italiani, a prendere le armi, e
mettersi al tempo calcolato più favorevole, in campo, celatamente,
stimoleranno; l'aumento delle bande promoveranno, e d'agire con
buone informazioni, per mantenersi in vigore, onde conseguasi il buon
successo, continuamente non mancheranno. Le bande collettivamente,
ed ogni volontario, al suo arrolamento in quella, da per sè, dovranno
con giuramento solenne, di continuare il servizio fino alla fine della
contesa, obbligarsi, come pure di non mai un soldo regolare pretendere,
ma di guerreggiare, sin tanto, che le loro facoltà glielo permettano,
a proprie spese ed in qualunque punto della penisola italiana, dove,
la loro presenza possa essere giudicata necessaria, e di maggior
danno al nemico, promettere di volonterosamente trasportarsi; di
voler fermamente la liberazione d'Italia; la sua unione in un corpo
solo di nazione; la sua perfetta independenza: ed obbligar parimenti
la loro fede, onde, cercando tutte le occasioni di rintracciare alla
spicciolata i nemici, quanti di loro gli cadano nelle mani, tosto
ammazzare. Tutta la banda insieme, prenderà solenne sacramento di, un
numero eguale di nemici, a quello de' volontarj di cui è composta,
in ogni mese sterminare. Ecco la sostanza del giuramento, al quale
aggiunger potrebbesi l'obbligo della subordinazione al condottiero,
etc.

Portò il secondo Congresso nazionale americano radunato in
Filadelfia, l'anno 1775, l'America, sul punto di rovinare, per non
aver la prima parte di questo giuramento stabilito dalla lega, in
bastevole considerazione avuta, nè con rigore mantenuta; avendo per
lo contrario, l'uso di pagare sei talleri al mese al soldato, con un
graduale aumento pei sergenti ed uffiziali, col peso insopportabile
all'erario, introdotto, e avendo inoltre il gravissimo sbaglio di
arrolare i soldati per condotte mensuali, ed annuali, sconsigliatamente
commesso. E per non esser quelli, a servire fino alla fine della
guerra, obbligati, trovossi l'illustre Washington molte volte in
sommo imbarazzo, e pericolo, pell'abbandono de' soldati, che, finito
il tempo del loro servizio, alle proprie case restituivansi, locchè
produsse, molte volte, insuperabile incaglio alle più belle operazioni
militari da quel sommo generale ed egregio campione della patria,
disegnate, od intraprese. Ciò, al dire del già citato Botta, fù per
anche publicamente biasimato dallo stesso Washington, che nel 1776
assicurava, in una lettera diretta al congresso «ch'egli opinava forte,
che sarebbe l'americana libertà in grandissimo pericolo posta, se la
difesa sua non si commettesse ad esercito, il quale dovesse durare sino
al termine di tutta l'impresa.» Quindi egli finalmente l'ottenne, ed il
buon risultamento di quella gloriosa guerra, compiutamente assicurò.

Perciocchè spetta alla seconda parte del giuramento, ch'è, di ammazzare
quanti nemici le bande, potranno, e cercare di distruggere in un
mese un numero eguale a quello di ciascuna di esse, dice il signor
Lemiere, questo essere stato il sistema dalle bande spagnuole nella
guerra dell'independenza, contro l'invasione francese, addottato e
seguito: «Cencinquanta o duecento di queste bande, dic'egli, sparse
per la superficie della Spagna, avevano giurato di ammazzare, ciascuna,
trenta, o quaranta Francesi al mese, ciò che sommava sei, o otto mila
uomini, dalla totalità delle bande mensualmente distrutti.» Ed in
seguito: «Siccome vi sono dodici mesi nell'anno, noi perdevamo circa
ottanta mila uomini annualmente, senza d'una battaglia. La guerra di
Spagna durò sette anni. Ecco dunque più di cinquecento mila uomini
ammazzati dalle sole bande. Aggiungansi le battaglie di Salamanca,
Talavera, Vittoria, e varie altre dalle truppe francesi, perdute; gli
assedj fatti dal maresciallo Suchet, la difesa di Saragozza, l'attacco
infruttuoso di Cadice, l'invasione, ed evacuazione del Portogallo, le
febbri e varie malattie alle quali andarono i soldati, soggetti, e si
potranno, senza pericolo di sbagliare, altri trecento mila soldati nel
periodo di sette anni, al numero de' morti aggiungere, locchè porta
la perdita di ottocento mila uomini, della più bella, ed agguerrita
truppa d'Europa, la migliore, che in quel tempo esistesse!» Se dunque
dalle bande, questa parte del giuramento, come lo osservarono le
bande spagnuole, religiosamente si osservasse, rimane matematicamente
provato, che in brevissimo tempo, sarebbe l'Italia dai suoi nemici,
affatto liberata. Supponiamo per esempio, che nel primo slancio, a
ventimila volontarj ascenda il numero dei combattenti. Potrebbero
quelli, nel corso di un anno, un esercito di due cento, e quaranta mila
uomini, recare a fine. Figurarci però non dobbiamo, che una popolosa
nazione posseditrice di quattro milioni d'uomini atti alle armi, al
solo numero di ventimila difensori, debba i suoi calcoli circoscrivere.
Noi fermamente opiniamo, che al triplo, eziandio, ed al quadruplo,
la sua forza operativa, fin dal primo scoppio, ascenderebbe, ed in
sì fatto modo, divenendo la guerra, forte, e breve, sarebbe tra poco
tempo, il paese, dalla straniera contaminazione, purgato. Non v'ha il
minor dubbio, che se accuratamente vadasi alle opportune congiunture in
traccia, non si presenti a ciascun volontario in particolare od alla
banda in massa, nello spazio di trenta giorni, l'acconcio di por mano
individualmente alla vita di un nemico, con la particolarità, che,
se gli viene il destro di cacciarne ai primi mesi un maggior numero
dal mondo, sarà incontrastabile al certo che loro rimane l'agio di
distruggerne un maggior numero, pell'avvenire.

La quantità d'uomini a che debba una banda ascendere, essere non può
con precisione stabilito. Dieci soli, fino a cinque mila uomini! Ecco
i due numeri estremi, e fra i medesimi, qualunque numero, si trova,
per una banda, conveniente, avuto però alla natura dei luoghi, degli
abitanti, delle risorse del paese, dove quella si decide di operare,
opportuno riguardo. La più numerosa banda, che in Ispagna abbia
esistito, quella si fù di Mina, di cinque mila combattenti circa, che
il Capo, fino al numero di dieci, o dodici mila, avrebbe con facilità
potuto accrescere, se ne avesse avuto il pensiero; ma ben s'apponeva
egli, affermando non potere in quel genere di guerra, un condottiero,
più di cinque mila volontarj, convenientemente maneggiare. Figlia
del tempo, e delle disgrazie, la vecchia esperienza, ci dimostra,
dover in generale, quei corpi staccati che noi chiamiamo bande,
essere di picciol numero di combattenti, composte. Il solo Mina,
per la combinazione di molte avventurose circostanze, che troppo a
lungo ci condurrebbe, l'enumerare, dalla metà della guerra in poi,
comandava un corpo ben grande di volontarj, che piuttosto, come una
colonna volante che irregolar banda doveva considerarsi, e combattè
con vantaggio e con gloria. Ma moltissimi condottieri delle bande
spagnuole fecero portenti, delusero il nemico in tutt'i suoi sforzi,
ed anzicchè insoffribili vessazioni alla patria cagionare, furonle
di non poca utilità, mentre, solamente un numero men che grande di
partigiani, o volontarj, comandarono. Nulla però o ben poco fecero di
vaglia, tostocchè coll'aumento delle loro forze, si resero maggiori,
e di quello stesso paese, che in buona fede intendevano difendere, in
flagello si convertirono. Imperciocchè, atteso il forte numero dei
combattenti della banda, inevitabili danni cagionarongli. Meno atti
ad occultare le loro operazioni al nemico, che già non li perdeva di
vista, e molte volte imbaldanziti i condottieri dal numero della loro
truppa, ad imprese temerarie si avventuravano, nelle quali, moltissimi,
a grave pregiudizio della causa publica, restarono vittime. Il celebre
Francisquete, e Ventura Ximenes nella Mancha, sin che non capitanarono
più di quaranta, o cinquanta uomini, giunsero a sì fattamente il nemico
intimorire, che più non osava di attaccarli. Ma quando a riunirne
cinque o seicento, ciascuno d'essi pervenne, entrambi, per mano di
quello stesso avversario, che prima gli paventava, sconfitti, con
somma vergogna infelicemente perirono. Lo stesso Isidoro Mir, uomo di
senno, e di capacità, alla testa di cinquanta, o sessanta volontarj,
cose, da far maravigliare, chiunque, avea operato, fra le quali non fù
certamente la meno celebre, quella di aspettare al varco il generale,
destinato a comandare in capo all'esercito francese della Mancha, con
tutt'i suoi ajutanti, e stato maggiore, e di farlo, in un con quelli,
suo prigioniero. Ma poichè lo stesso condottiero pervenne al comando di
due mila fanti, mille duecento cavalli, e quattro pezzi d'artiglieria,
i treni e carri dei quali, non meno che i cannonieri, e tutto il
necessario pel servizio della colonna, era stato creato, fabbricato,
e come per incantesimo dal convento di Guadalupe, provveduto; fù
nell'anno 1811, dal solo reggimento de' dragoni francesi sotto gli
ordini del colonnello Laffite in Cuerva, compiutamente battuto; e
superar dovette mille difficoltà, e pericoli per salvare la sua persona
da una tanto decisiva rotta, che quella divisione, come per magìa,
stata dai frati creata, ed ordinata, mandò in irremediabile rovina.
Orobio, il _Cojo_ de los Pedroches de Cordoba, e Chaleco, ci danno
tutti, e tre una convincente riprova di quanto abbiamo asserito. Periti
nell'Andalusia i due primi, il terzo, dopo la sua sconfitta, come per
miracolo, a salvarsi colla fuga, pervenne. Il Caracol nell'Estremadura,
l'Empecinado in Castiglia, ed altri molti in tutte le provincie di
Spagna, di cui il tragico fine, e disastrose rotte sono bastantemente
noti, punto non lasciano, sull'esattezza di questa osservazione,
almeno nella pratica, da dubitare. Vengono pure da una ben ponderata
riflessione, onde viemmaggiormente questa dottrina corroborare,
valevoli argomenti, somministrati. Per quanto l'abilità d'un
condottiero di banda, estesa esser possa, non sarà egli mai, atto a ben
maneggiarla, nè potrà quelle cose praticare a che debbono essere tali
corpi, esclusivamente dedicati, se si trova la banda molto numerosa.
Essa non deve dar battaglie, attaccare grandi masse, nè apertamente
assaltare le fortezze. L'unico fine delle bande non debb'essere, che di
stancare il nemico, tenendolo in continua agitazione, sforzarlo a star
sempre concentrato, ed astrignerlo a che, per la più semplice, per la
minima delle operazioni, debba dal suo esercito, grossi distaccamenti
separare.

Onde possano le bande al debito loro soddisfare, una continua, ed
occulta mobilità loro è necessaria. Ora, come potranno queste, se
forti in numero, fare nascostamente ciò che loro convenga, quante
volte presentando al nemico un oggetto visibile il nemico stesso,
forze bastevoli per incagliarle e quindi annichilarle, loro opporrà
certamente? Come sarà nascosta la marcia di una truppa, che a ragion
del suo numero non si potrà in un bosco, in una casa di campagna, od
in una caverna, durante il giorno, alla coperta ricoverare? Come si
potrebbe, esistendo un corpo numeroso, al necessario sostentamento
del soldato, molte volte due o tre giorni di seguito, in luoghi
deserti provvedere? Come potrebbero i suoi movimenti avere quella
indispensabile rapidità, se il maggior numero dee per sè stesso,
maggiori imbarazzi produrre? Come potrebbe il capo di un corpo
numeroso, conoscere fino all'ultimo i suoi volontarj, chiamarli per
loro nome, e con loro tenere una franca, ma dignitosa familiarità,
nella guerra per bande indispensabile? In nessun modo. Ella è dunque
cosa chiara, che se hanno le bande ad essere utili, se debbono i loro
movimenti essere pronti, conviene, che vengano da un esiguo numero di
volontarj composte.

Stabilito, che il numero de' volontarj componenti le bande, debba
necessariamente essere ristretto, passeremo all'ordinamento di quelle,
che dev'essere semplice. Ogni banda avrà un condottiero, sotto gli
ordini del quale, pel corso di tutta la guerra, dovrà rimanere. Sarà
questi o una persona d'influenza, che, riuniti varj de' suoi amici,
prenda il campo, ed allora ne sarà naturalmente il condottiero;
oppure sarà eletto dalla riunione di parecchi amici, che tutti di
comune accordo, senza agire per via d'influenza d'alcuno, solamente
per salvare la patria, prendano le armi, e verrà all'assoluta
maggiorità dei voti, nominato. Le funzioni, e titolo di condottiero
non appartengono ad un grado, ma non sono propriamente, che una
qualità, per la quale, trovasi a tutta quella gente riunita, superiore,
e vale come quella di comandante accidentale che maggiore, o minor
grado possiede, secondo il maggiore, o minor numero di combattenti
cui comanda. Sebbene sia questa guerra irregolare, non potrebbero
però nulla di conseguente in essa i volontarj operare, se fra di loro
con regolare ordinamento, legati non fossero, e non da superiori
cui prestassero implicita obbedienza, convenientemente diretti.
Imperciocchè in contrario, verrebbe il condottiero dalla confusione,
e disordine impedito di potere ad effetto, la meglio divisata
operazione menare. Tutte le nazioni, che una guerra d'insurrezione
per bande sostennero, e specialmente l'eroica Spagna nella lotta
dell'indipendenza, ebbero militarmente regolate. Ma per uno strano
errore, tentò la Giunta di Siviglia, secondo il sistema di regolar
milizia, le bande, tanto generalmente, che particolarmente, ordinare;
e diede perciò un lungo editto alla luce col quale, la forza popolare
_in partidas_, ossia bande regolari da formarsi di volontarj, ed in
isquadriglie da formarsi di contrabbandieri, divideva; ed a tutti
accordava regolarmente una congrua paga; ed alle leggi della disciplina
militare assoggettavagli. Tuttavolta guari ad avvedersi nell'effetto,
dello sbaglio, non tardò, e non essere le bande di una esatta
dipendenza suscettibili nelle speziali operazioni loro, per esperienza
riconobbe. Laonde con maggior senno, e con lo squillo generale della
patria tromba, dal sonno in che giaceva il popolo ignaro ed inerte, con
forte istrepito destò, e doversi quella considerare guerra de _Moros_,
e da tosto intraprendersi, solennemente bandì. Non debbono i gradi
emanare dal governo provvisionale, che può esistere o no; ma conviene
che vengano al più capace, al più caldo amatore della patria, ed al
più morale, dal condottiero della banda, conferiti col riconoscimento
ed approvazione successiva del condottiero supremo, senza che questi
abbia diritto d'immischiarsi nei particolari dell'ordinamento speziale
della banda, e finattantochè il Parlamento nazionale regolarmente,
e liberamente eletto, e costituito, non approvi od abolisca, dovrà
il tutto, provvisionalmente rimanere. Ogni qualvolta saranno dieci
volontarj per guerreggiare, uniti, dovranno essere comandati da un
decurione il quale non dovrà mai venir da una decuria, ad un'altra
cambiato, ma sempre con loro convivere ed al loro fianco, il nemico
affrontare. Due decurie formeranno un drappello comandato da un
capo-venti, due drappelli con un antesignano portante il manipolo di
fieno all'asta, ed un suonator di cornetta, formeranno un manipolo
comandato da un capo-truppa. Due manipoli formeranno una centuria, ed
avrà questa un centurione comandante oltre d'un centurione retroguida
che sarà secondo comandante della medesima, ed il numero degl'individui
ascenderà a cento, compresi gli uffiziali. Dieci centurie formeranno
una coorte comandata da un capo mille, la quale con l'aggiunta del
_vessillifero_, di quattro guarda-bandiera e d'un primo e d'un secondo
vigilatore, sui quali posa tutto il servizio della coorte, e la
perfetta esecuzione degli ordini del capo-mille, ascenderà al numero
di mille e sette. Dieci coorti formeranno una legione comandata da un
tribuno legionario avente in oltre quattro _Celeri_ per trasmettere
i suoi ordini, un _aquilifero, otto guard'aquile_, ed un _Celiarca_,
capo della direzione topografica, e del materiale della guerra. Cinque
legioni formeranno un esercito consolare, il quale potrà pure venir
aumentato, secondo i tempi, i mezzi, e le circostanze, e comandato da
un console, con un maggior numero di _Celeri_, e _Celiarca_. Finalmente
un condottiero supremo, con quattro condottieri principali di
provincia, venti di cantone, duecento di distretto, sarà il regolatore
delle operazioni generali della guerra. Ogni condottiero principale
avrà un consiglio di direzione topografica, e materiale di guerra, più
o meno grande, secondo l'estensione del suo comando. Il condottiero
supremo nominerà, e dirigerà il consiglio d'alta direzione topografica,
e materiale di guerra; si comporrà, del

                                _
  Condottiero supremo.           |
  Gran celiarca.                 | Avranno tutti questi
  Maestro delle artiglierie.     | altrettanti consigli particolari
  Topografo generale.            | sotto i loro ordini
  Tribuno capo di tutt'i fanti.  | non meno, che una sufficiente
  Maestro di cavalli.            | quantità relativa
  Tutt'i condottieri principali. | di celeri, per quanto
  Ventiquattro connestabili.     | loro spezialemente concerne.
  Quattordici celeri.           _|
                                _
  I membri del gran consiglio    |
    ambulante di guerra.         |
  L'alto censore, direttore di   |
    tutto quanto è relativo al   | Coi loro rispettivi consigli.
    buon governo.                |
  Gran questore, per quanto è    |
    relativo ai fondi, etc.     _|

Questo generale ordinamento, sarà dal condottiero supremo
con esattezza, ma solo rispetto alle operazioni combinate, e
sull'universalità delle bande, sparse sulla superficie del territorio,
messo in pratica. Non sarà, per esempio, necessario, che quelle bande,
il numero delle quali, in una provincia può tre o quattro eserciti
consolari formare, sieno riunite, ed agiscano regolarmente come
legioni, etc. Ma solo dal capo riconosciute, e per via di ciascun
condottiero di distretto, cantone, e provincia, secondo il detto
sistema classificate, ed in corrispondenza; potrà quegli, volendo
un movimento combinato, e parziale, operare, solamente quella tal
parte che giudicherà conveniente, avvertire, quella tal legione,
sola far muovere che si trova della combinazione a portata, se così
stima per lo migliore, e potrà, libere d'agire a loro talento nel
circolo speziale, dove fan guerra, per tal modo le altre lasciare.
Terrà dunque il condottiero supremo un registro generale delle bande
da lui riconosciute, colle quali in corrispondenza manterrassi. Nel
sopra espresso modo registrata, sarà, secondo il suo numero d'uomini,
ognuna su di quel sistema ordinata. Per esempio, una banda di dieci
uomini, che agisca da per sè, non sarà che una decuria, ed il suo
condottiero, non sarà più che decurione. Ma se questi l'aumenterà
fino a venticinque, diverrà per quel fatto, capo-venti se fino a
cinquanta capo-truppa, etc., e così in seguito; semprecchè non venga
dal condottiero supremo o principiale del circolo dove si mantiene,
avvertita di dover in tale o tal altro modo, a movimenti combinati,
cooperare d'accordo, ed in unione con tal altra decuria, o centuria,
etc. alla quale nell'ordinamento generale appartenga. Non dipenderà
per quelle date speziali operazioni da altri capi, e potrà qualunque
particolare impresa, da sè sola portare ad effetto, quando la giudichi,
al paese convenire.

In ragione dunque della sua forza nel sopra indicato modo, ciascuna
banda ordinerassi; ed eccettuando il caso di operazioni combinate,
per le quali dovrà obbedire agli ordini del condottiero supremo, dai
celeri suoi, o dai condottieri principali di provincia, cantone, o
distretto, gerarchicamente trasmessi, godrà ogni banda d'una perfetta
indipendenza. Non dovranno mai essere i condottieri da una banda,
all'altra, nè dalla loro rispettiva, rimossi o separati, ma sempre
dovranno con gli stessi volontarj vivere, mangiare, dormire non meno,
che combattere.

Possono essere le bande di soli fanti, di sola cavalleria, o di ambo
queste armi, composte, e tanto le une come le altre dovran essere nel
modo di già indicato, ordinate, e regolate.

Difficoltà grande per provvedersi di cavalli, quando si parla di
formare una banda di cavalleria, pare affacciarsi. E se mai il
sovra-esposto esempio del medico Palarca, la facilità di togliere i
cavalli al nemico, sorprendendolo, come noi crediamo, ad evidenza non
dimostrasse, aggiungeremo primieramente che possonsi avere cavalli,
se i volontarj sono d'un paese, dove quelli abbondino, e coi proprj,
si presentino, si riuniscano, e forminsi gl'individui in una banda
di cavalleria. Questo è il più facile modo, e secondariamente, si
otterranno, se conoscendo i cittadini la grande necessità di avere
alcuna di tali bande; malgrado, che il paese sia scarso di cavalli
atti a militare, ed i pochi esistenti deboli, o mal formati, siano ben
decisi a toglierli al nemico, pel desiderio di combattere a cavallo,
e con quelli posseduti da lui, si montino. Nell'ultima guerra di
Spagna contro i Franco-apostolici, ordinati quegl'Italiani proscritti,
che colà si trovavano, in un battaglione di granatieri sotto gli
ordini del colonello Pacchiarotti, ed in un corpo di lancieri sotto
quelli del conte Bianco, in Catalogna, per lungo tempo militarono. Ma
siccome non era quella truppa stata d'ordine del governo armata, ed
ordinata, perchè _las Cortes_ finattantocchè la rovina del sistema
constituzionale agli occhi di tutti certa non fosse creduta, alla
formazione di legioni straniere, negarono di rivolgere il pensiero,
e quando poi le ordinarono, soli pochissimi giorni d'esistenza in
Catalogna aver potettero; la Deputazione provinciale, le armi, e
necessarie assise per un battaglione di fanti a conto della provincia,
generosamente agl'Italiani fornì. Però, considerandosi essere cosa
necessaria, quella di avere anche cavalleria della propria nazione, e
molti uffiziali, di servire a cavallo desiderando, si decisero benchè
privi affatto di mezzi, a formare, ed ordinare un corpo di lancieri
italiani uffiziali volontarj; e per giungere al loro scopo, la divisa
da granatiere datagli dalla deputazione provinciale, alla foggia di
quella dei lancieri della guardia imperiale di Napoleone, ridussero,
ed il fucile, etc.; con sciabola, pistola, e lancia permutarono.
Contuttocciò un'altra maggior difficoltà loro presentavasi, e quella
si era di trovar cavalli, perchè neppur uno dal governo spagnuolo ne
potevano sperare. Pochissimi fra loro, siccome proscritti, avevano
danari sufficienti per comprare il proprio, anzi molti trovavansi,
d'ogni mezzo per montarsi, mancanti. Essi dunque al modo il più
difficile, ma il più guerriero, il più ardito, ma il più efficace,
ricorsero. A piedi collo schioppo alla mano nelle file del battaglione,
la cavalleria apostolica furiosamente assalivano, l'uffiziale, o
soldato nemico scavalcavano e sul posto trafiggevano. Quindi del suo
cavallo, arnesi, armi, e taglia s'impadronivano; così a poco a poco,
a misura che le scaramuccie, ed i combattimenti si succedevano, il
corpo formavasi dei lancieri italiani, ed ingrossava. Altri cavalli
poscia comprati coi fondi ricavati dal bottino, che tutto intiero a
quell'uopo si destinava, agli acquistati colle armi aggiugnendo, un
corpo sorse d'uffiziali volontarj lancieri maravigliosamente in breve
tempo formato, ed ordinato, che fù sempre da quanti Spagnuoli, e nemici
stessi lo viddero, per valore, energia, e sveltezza in agili fazioni
dimostrata, come per l'elegante assisa, che i volontarj adornava,
da tutti sommamente apprezzato, e stimato. Eccone abbastanza, per la
formazione delle bande di cavalleria. Presso del condottiero supremo,
e di tutt'i condottieri principali, vi sarà un numero di volontarj
a cavallo, disarmati, e vestiti alla foggia dei contadini, della
provincia, i quali serviranno per portare gli ordini verbali, o scritti
in cifra, da una banda all'altra etc. Questi saranno riconosciuti da un
segno di convenzione stabilito al cominciamento della guerra.

Alle falde dei monti, nello spazio tra un fiume, e l'altro, nelle
boscaglie, lungo quelle, sulle colline, e nelle pianure coperte
da siepi, o tagliate da paludi, etc.; che siano dai volontarj
perfettamente conosciute, possono ben mantenersi le bande di
cavalleria, essendo soggette alla necessità de' foraggi, etc. E possono
le bande a cavallo, sì pel trasporto rapido in groppa di fanti da
un punto all'altro del paese, come per valicare i fiumi, in questa
guerra grande vantaggio arrecare, non meno, che per quelle operazioni
ardimentose, e spedite, che, il nemico sorprendendo, l'istupidiscono,
confondono, e quasi sempre, quando sono ben dirette, un effetto
decisivo, e completo producono. Per lo più, in quelle portentose
incursioni succede, che un pugno d'uomini decisi e svelti, forti corpi
di truppa regolare distruggano, ed alcune volte della liberazione
d'una provincia, del possesso, o della caduta d'una piazza, della
cooperazione degli abitanti d'un paese, della rovina del nemico, e
del trionfo della causa, compiutamente decidano. Debbono i volontarj a
cavallo, essere d'un'attività, ed energia sorprendente, a tutta prova,
buoni maneggiatori dei cavalli, della sciabola, scure, lancia, e falce
a manico rovesciato, etc.; arditi, ed intraprendenti.

Le bande a cavallo, oltre del danno, che possono da sè sole nel circolo
speziale delle loro operazioni, al nemico arrecare, sono utili alle
bande de' fanti, onde i lati del cammino, boschi, selve, e foreste,
perlustrare, servire da corridori, trasportare i fanti in groppa. Non
mai in linea, ma sempre in _foraggiare_, debbe tal cavalleria caricare;
ed il loro ordinamento generale, dovrà essere diretto da un maestro
de' cavalli, dipendente dal condottiero supremo, e presso di lui,
residente.

In quanto alle particolari loro operazioni, la condotta di Palarca,
e don Julian, dovrà da un condottiero de' cavalli, essere imitata.
Quest'ultimo, quando venne informato avere _Ciudad Rodrigo_ un
rinforzo di vettovaglie, e soldati ricevuto, formò l'arditissimo
progetto di prendere, e portar via tutto il bestiame, ch'era stato
nella città introdotto, ed ogni giorno fuori della medesima, sotto la
protezione dei cannoni dei forti, al pascolo si conduceva. Ei giunse
determinatamente di gran carriera; sbaragliò la truppa che stava di
guardia; sprezzò il fuoco dei cannoni, che senza posa contro di lui
tiravano a scaglia; prese gran parte del bestiame e se lo portò via. Di
più il governatore generale Reynauld, alla vista della piazza e sotto
il tiro dei cannoni, credendosi sicuro, e avendo con una piccola scorta
passato l'_Agueda_, fù preso dal condottiero e menato in prigionia.
Oltre di ciò si potranno pure dal trattato del sig.r Lemiere sui
partigiani, molti ed utilissimi ammaestramenti sul modo da tenersi
dalle bande a cavallo in questa sorta di guerra, ricavare.



CAPITOLO XV.

DEL VOLONTARIO.


Ben differente da quell'essere infelice, a viva forza per servire
sotto le bandiere del tiranno dal seno della sua famiglia, trascinato;
o da quel vile scioperato, che per una convenuta mercede mette, per
un corso determinato di anni, la sua persona ad iniqua usura, e la
sua vita vende a basso prezzo, durante il qual tempo, con disonore,
ed impudenza, come infame prezzolato sicario del crudele dominatore,
alla cieca impiegasi contro de' disgraziati popoli, che per quella
cagione sono a gemere in segreto sotto la compressione di uno scettro
di ferro, miseramente costretti; ben differente, io dico, quel
cittadino debb'essere, che animato da sagrosanto entusiasmo, alla
patria i suoi averi, e la sua vita liberamente consagra, e per servirla
nella terribile contesa, e per la riescita del gran progetto, impugna
intrepidamente le armi.

Timido, impaziente, svogliato, sarà sempre mai quel giovine, che
strappato dalle braccia del padre, della madre, delle sorelle, dalle
dolcezze in somma, della vita di famiglia, si trova, malgrado le sue
inclinazioni, in mezzo a compagni ruvidi, e grossolanamente licenziosi,
trasportato, e tenuto d'obbedire ad una quantità di superiori aspri,
sofistici, e superbi, che un odio acerbo fangli contro del suo stato,
concepire in modo, che serve per violenza, e non eseguisce il suo
dovere, nè gli dà l'animo d'impararlo.

Dissoluto, immorale, oppressore deve necessariamente essere il sicario
prezzolato, onde, colla depravazione de' costumi, con vizii d'ogni
sorta, con l'oltraggio de' suoi concittadini, quella ripugnanza,
quell'orrore stordire, che fassi nel cuore d'ognuno sentire, ogni qual
volta all'esercizio di opere crudeli ed infami, trovasi impiegato.

Ma se le suddette qualità non possono a meno di essere l'inseparabile
attributo di chi stà dei nequitosi tiranni all'abominevole soldo, ben
contrarie quelle esser debbono del volontario della patria, che non
solo dev'esserne scevro, ma dichiarato, e continuo inimico.

Un animo costante, una forte decisione a sacrificarsi per la
felicità, e la gloria del suo paese, una pazienza a tutta prova, ed
il disprezzo della morte, sono le essenziali qualità, che debbono
il volontario distinguere, cui, quella di essere robusto, e buon
camminatore, personalmente valoroso, e saper con destrezza assestare
una schioppettata, deve pure accoppiare. La sobrietà e l'attività
debbono essere del pari in esso lui, qualità preponderanti; nè dee
ricusare di rimaner sempre all'aria aperta, senza tende, senza letto,
e sopra poca paglia, ed anche deve alcune volte sulla nuda terra,
interrottamente dormire; non mangiare, che il puro necessario al
sostentamento della vita; contentarsi di focaccia in mancanza di pane,
ed alle volte, farne pure ammeno, e con castagne, ed altri simili
frutti dal caso forniti, supplirvi. Cipolle, formaggio, olive, e ben
anche ghiande, un pò di carne, un pò di vino, se possa ottenersi, ma
che però non sia, pel volontario, un bisogno indispensabile, ecco ciò
che dev'essere il suo miglior nutrimento. Sarà pregio dell'opera di
proporre in parte, per esempio, quanto venne dei Romelioti e Sullioti,
nella relazione sugli avvenimenti della Grecia nel 1823, dal nostro
Pecchio, riferito: «Essi non conoscono nè tenda, nè letto, nè tetto:
il loro letto è il cappotto; una pietra n'è il capezzale; il tetto, un
cielo sempre sereno. Per tutto il tempo della campagna non si spoliano
mai, nè si mutano la camicia; sono quindi orribilmente _sucidi_. Ma in
compenso, le loro armi sono nitide, e splendenti sempre mai. Quando
si svegliano, il primo loro pensiero è di pulire e mettere, in tutto
punto, le loro armi. Sono estremamente vaghi di belle, e ricche armi.
Quest'armi, raggianti d'oro, e d'argento, con quella loro annerita,
lurida camiscia, fanno uno strano contrasto. Non hanno quindi nè
mocciglia nè sacco per riporre alcuna cosa. Ben fatti in tutte le
parti del loro corpo, sono forti come leoni, e svelti come caprioli. Ho
veduto i bei granatieri di Napoleone; conosco le belle guardie inglesi,
ma i Sullioti mi sembrano ancora più belli. Il loro portamento, i loro
gesti sono teatrali, essi sogliono combattere sparpagliati, ognuno
di loro sceglie il suo posto. Non sono avvezzi a combattere a corpo
scoperto; a guisa degli antichi che si coprivano collo scudo, essi si
appiattano dietro una pietra che li protegge. Purchè abbiano un pezzo
di pietra, essi sono invulnerabili. Talmente sanno essi accosciarsi
dietro e caricare supini il loro fucile; per ingannare i loro nemici,
quando sono distanti, sogliono mettere in vista il loro berretto rosso
discosto dal luogo dove sono nascosti.»

Dalla nobile, e semplice risposta del giovane Scita Anacarsi, nel
rifiutare i magnifici regali, che venivangli dal Cartaginese Annone
pomposamente offerti, puossi, onde conoscere quelle peculiari qualità,
che ad un virtuoso volontario si convengono, utile ammaestramento
ritrarsi: «Una grossolana pelle, diss'egli, mi serve sola per
vestimento, cammino a piedi nudi; dormo sulla dura terra, che per le
fatiche del giorno mi pare soffice, e commoda più di un letto; la fame
rende i cibi più volgari, e più frugali, saporosissimi, e gustosissimi
al mio palato. Conserva dunque i doni pe' tuoi cittadini, io non so che
farne!» Scevro da qualunque bisogno al di là dello stretto necessario,
quel volontario italiano, che avesse tanta virtù per attenersi a
quel genere di vita, con tutte le altre qualità, che furono dalla
natura a chi nasce in Italia, a larga mano compartite, unitamente
all'ostinazione indispensabile nella nostra guerra, tal volontario
diverrebbe senza dubbio, nell'età presente un oltre-maraviglioso eroe,
che rigenerando il suo paese, all'apice della gloria giungerebbe.

Persuaso, che l'ozio, ed anche il riposo snervano l'uomo, e
diminuiscono il suo coraggio, ei sarà loro acerrimo nemico, e terrassi
continuamente in attività. Un carattere fermo, un esercizio continuo,
una regolare sobrietà, impediranno, che gli soppraggiungano malattie.

Siccome, nel caso di essere dal nemico stretti, o circondati, è
mestieri, che ciascuno degli individui della banda, cerchi da per sè
stesso individualmente un modo di salvezza, ed alle volte passi per
mezzo dei corpi nemici, onde poi andarsi in un punto previamente dal
condottiero, stabilito, di bel nuovo a riunire; ne avviene, che la
conoscenza esatta, e minuta del paese, sia non meno al volontario,
che al comandante, necessaria, dovendo ambi due, dei passaggi meno
conosciuti, profittare, nelle selve foreste, rocche, e caverne,
momentaneamente nascondersi, all'erta dei monti poggiare, e pe' macigni
arrampicandosi, ricomparire all'improvviso, e quindi fuggire.

Sottomesso al condottiero, cui in ogni tempo, e luogo, presta implicita
obbedienza, inesorabile coi nemici, moderato ne' suoi bisogni, attento,
ardito, e prudente nel disimpegno de' suoi doveri, generoso ne' suoi
patrii sentimenti, ecco qual dev'essere il vero, il buon volontario,
in cui sta la salvezza, e la futura felicità della patria, onninamente
riposta.



CAPITOLO XVI.

DEL CONDOTTIERO.


Mal si apporrebbe, chiunque, al nome di condottiero di bande, di cui
tratterassi in questo capitolo, la norma di quei condottieri, la cui
esistenza nel _medio evo_ tanto afflisse l'Italia, e le fù di vero
disonore, ravvisare credesse. Uomini avari, ed immorali, senza patria,
senza sentimenti delicati, e senza amore per gli uomini, sempre al
miglior offerente vendibili, non men, che al nemico stesso, contro
cui combattevano, rovinando molte volte il padrone del momento,
per vantaggio dell'avversario da cui loro veniva maggior premio
segretamente proferto; uomini di poco valore, di molta tristizia,
non saranno mai dal condottiero delle bande armate per l'unione,
independenza e libertà della patria, presi per modello, nè in alcuna
parte delle loro azioni seguiti. All'opposto, il nostro condottiero,
ben lungi dall'agire, come quelli, per proprio personale vantaggio, non
avrà, che il bene della patria in mira, non penserà, che all'Italia,
non opererà, che pel maggior vantaggio di quella, bandirà dalla sua
mente ogni considerazione, che possa dalla sublime carriera, che
intraprese, discostarlo, oppure, la sua energia, e zelo pel sacrosanto
scopo, che si propose, affievolire.

Ella è principale proprietà delle rivoluzioni, di portare il vero
merito in alto, e coloro dei lor gradi spogliare, che per raggiro, od
impostura, astutamente gli usurparono, o che per sola eredità, quai
discendenti d'illustri antenati, di possederli pretendono. Egli è ormai
da ognuno, per esperienza riconosciuto, che le rivoluzioni mettono,
e sostengono gli uomini a quel posto, gli obblighi del quale, sono
di bene disimpegnare capaci, dimodocchè il nome d'un barone, conte,
marchese, duca e principe, quale un publico pregiudicio portava alla
considerazione _d'illustre_, e che per l'addietro, attesi solamente
i supposti meriti di successione d'avi, forse, nei tempi antichi,
virtuosi, sarà stato in dignità costituito, sparirà. E se il titolato,
per mezzo d'un singolar cambiamento, non abbraccia con energia e
coraggio, il partito della patria, cadrà costui meritamente nel fango,
ed al contrario un uomo, per l'addietro, sconosciuto, negletto,
e disprezzato, avrà per avventura, al maneggio degli affari dello
stato, ed anche al comando degli eserciti, a vece sua, innalzato!
Da ciò ricavasi, che in rivoluzione, e sopra tutto nella guerra per
bande, il nome non è niente; e solamente le qualità personali sono,
ed esser debbono, apprezzate. Quelle sole, in quel tempo, aprono
alla persona, il cammino a quel grado, o posto, che per propria virtù
giustamente gli spetta. Uomini della più bassa origine, divennero in
Ispagna capi attivi, ed intraprendenti, un bifolco, un pastore, un
pentolajo, fra i principali condottieri di bande, in quella penisola
si dimostrarono. Il Manco, ossia il zoppo, il Marchesino, il Medico
si resero non men celebri di quelli. Il dottore Rovira, e l'avvocato
Uobera, in Catalogna, oltremodo si distinsero; Don Giuliano Sanchez
possidente, era nella vecchia Castiglia, e nel regno di Leon, il
terrore dei Francesi; il notajo Don Ventura Ximenes, lo era tra
Badajoz, e Toledo; il contrabbandiere Longa, in Aragona; e quindi Don
Giovanni Martino, detto l'Empecinado, da Massaro divenne il miglior
maneggiatore di sciabola, che in Ispagna esistesse. E fù colui che dai
monti di Guadalaxara, portò le sue armi in ogni parte della penisola,
che rese vani tutti gli sforzi dei Francesi in Madrid, per distruggere
la sua banda, e mise in forse la vita dell'intruso re Giuseppe, in una
imboscata, che gli tese a Cogolludo. Finalmente, oltre tanti, e tanti
altri che citar potremo, ma che lasciamo pe' ristretti confini da noi
al presente trattato prifissi, fra quelli non meno valorosi, che utili
al loro paese, citeremo il Cid, il Lara di quell'epoca, l'attivo,
l'intraprendente Espoz y Mina, che per le sue gesta in Navarra, dovrà
sempre da chiunque voglia conoscere i doveri, ed il procedere di un
vero, ed utile condottiero di bande in favore della patria, essere,
qual prototipo, riguardato. Ecco, fra i surriferiti nomi, accanto ad
un marchese, e più alto ancora, brillare un pentolajo. E sebbene di
egual considerazione meritevoli, vedemmo dottori, e pastori, avvocati,
e villani, e sebbene tutti nel servigio della patria distintissimi si
mostrassero, nulla di meno, al prode Espoz y Mina inferiori apparvero,
che maraviglioso _bifolco_, lasciò la marra, e la vanga per brandire
la spada vendicatrice, ed, in grandissima parte, alla liberazione
della patria sua, disinteressatamente contribuire. Che altro era mai
il tanto celebrato Hofer, e certamente degno d'encomj, per propria
virtù, dal popolo, al comando del Tirolo insorto, destinato? Che altro
era quell'illustre vittima dell'amor di patria, e della perfidia
austriaca, se non un figlio di un oste? Eppure nell'oste Hofer,
quella pura virtù riluceva, che, noi crediamo, sarebbesi in principi,
duchi, etc., difficilmente rinvenuta. Imperciocchè la maggior parte di
quelli, non cercano d'imporne ai popoli, che con soli titoli fastosi;
e con ciondoli ridicoli, gli occhi della plebe abbarbagliare. Chiaro
da quanto abbiamo detto, appare, nè la famiglia, nè il nome, nè le
ricchezze, ma quelle personali qualità, che fondano la loro base
sopra l'amor di patria, giudizio retto, volontà di ferro, sostenuta
dall'attività, perspicacia e vigore, al condottiero, soltanto
abbisognare.

Egli è obbligo sacrosanto di qualunque condottiero, tostocchè per
sostenere la libertà, ed indipendenza della patria, nell'agone si
slancia, quello di compiere con buon successo la sua impresa, di non
mai, dovess'egli pur anche incontrare una morte certa ed oscura, dal
proponimento recedere. Le qualità, che vengono da noi, onde venirne
gloriosamente a capo, come indispensabili, giudicate, son le seguenti.

1º Un animo intrepido, incapace di cedere a qualunque disgrazia che
possa sopravvenirgli.

2º Una cautela, e vigilanza tale, onde l'uomo diffidando di tutti
e finanche de' suoi partigiani stessi, dimostri non diffidare di
chicchessia.

3º Un cuore severo, ed inaccessibile alle grida della pietà, da
qualunque parte possano venire, quando si tratta degl'irreconciliabili
nemici della unione, indipendenza, e libertà dell'Italia.

4º Una esatta conoscenza del paese, che scelga, il condottiero, per
teatro delle sue operazioni, e di tutte le sue risorse.

5º Un valore sempre prudente, e solo, nell'estrema contingenza,
animato, ed impetuoso.

Art. 1º. Un animo intrepido, ed incapace di cedere a qualunque
disgrazia che possa sopravvenirgli, debb'essere la prima qualità di un
condottiero di bande.

Nulla in una guerra evvi di più comune, o di più probabile, che
l'accadimento di certi eventi sinistri, alla più vigilante sagacità,
del tutto superiori. Dovendo per lo più essere le bande di piccol
numero di volontarj composte, ed isolatamente guerreggiare, loro
avverrà di trovasi alcune volte nel corso delle operazioni, contro
forze superiori, sprovvedutamente arrischiate, che gravi danni, e
rovesci di gran momento loro cagionino e pongano i volontarj nella
stretta necessità, per evitare una compiuta rovina, d'individualmente,
o per frazioni, sparpagliarsi. Tanto era ciò alle bande spagnuole
comune, che una sola non vi esistette, la quale non sia stata, le
molte volte sconfitta, e dispersa. Ma non per ciò perdevansi d'animo
i condottieri e con avveduto consiglio, la maggior cura avevano, di
sempre due o tre punti, nel paese dove operavano, ai loro volontarj,
previamente determinare. Quanti, superstiti rimanevano dal disastro,
immediatamente si riunivano. Ed ammirabile spettacolo, per verità,
ad ogn'uomo, quello si era di vedere gl'individui rimanenti d'un
corpo, per disastrosa catastrofe sperso, e fuggiasco, sulla cima di
ripidissima rupe, od aspro monte raccolti, nudi, non meno che dal lungo
digiuno e durissima fatica trafelati, per la perdita de' compagni
caduti accanto a loro, estinti, cordialmente afflitti, dimenticarsi
di tutt'i loro mali, e patimenti. Ed in un subito rinfrancavansi; e
partian di là stesso, per immediatamente portarsi a qualche arditissima
impresa di riescita, per l'ordinario, felice. Ed in fatti, tal banda,
i nemici in riposo, tranquilli, e nella persuasione, che quella truppa
fosse del tutto dissipata, e distrutta, improvvisamente coglieva.
Solevano dire i francesi, che il generale dal quale più danno era
in tutta la guerra di Spagna stato loro cagionato, chiamavasi il
generale _no importa_. Difatti quell'espressione era comunemente in
bocca di tutti gli Spagnuoli dopo di qualunque maggior disgrazia, ed a
ritornare di bel nuovo alla sanguinosa tenzone, quella gl'innanimiva, e
confortava. Dopo la perdita della battaglia d'_Almonacid_, nella quale
involta la banda di dugento uomini comandata da don Isidoro Mir, che si
trovava di _vanguardia_ all'esercito sconfitto, e che dovette pure nel
generale trambusto a catafascio disperdersi; quell'accorto condottiero
riunì di bel nuovo, in un istante una parte de' suoi volontarj, e non
più tardi del 12 agosto del 1809, che fù l'indomani della vittoria
riportata dai Francesi, sorprese tutti gli equipaggi, e feriti
del loro esercito non meno, che un distaccamento da quelli (affine
d'inseguire con meno imbarazzi il rimanente del corpo spagnuolo, che
si ritirava) lasciato a guardia del conquistato paese Almonacid; entrò
nella città; passò a fil di spada quanti Francesi dentro vi erano;
e tutti gli abitanti, che seppe essere loro partigiani; s'impadronì
di tutto quanto in abbondanza rinvenne. Ma oltre d'un tale segnalato
vantaggio, il miglior effetto di quest'ardita operazione, si fù quello
di rinvigorire lo spirito publico dalla perdita dell'intiero esercito,
notabilmente depresso. Questo medesimo condottiero nel 1810, partecipe
della sconfitta sofferta dall'esercito al quale apparteneva, tre
soli giorni dopo la rotta, varj suoi partigiani, e soldati dispersi,
sollecitamente accozzò, e quando i Francesi forzando le linee di
Despeñaperros, entrarono nell'Andalusia, cadde inopinatamente sopra
d'una forte guarnigione, che prima di tentare quel passo, i Francesi
avevano lasciata in presidio a Ciudad Real, la fece prigioniera, e come
vidde di non poter più agire colla sua banda, che tutta dovea alla
guardia dei vinti rimaner impiegata, de' quali, in tanta vicinanza
dell'esercito nemico, non sapeva che fare, quanti prigionieri aveva
nelle mani, senza distinzione passò a fil di spada, s'impossessò di
una vistosa quantità di equipaggi, e bagagli, dopo d'aver pure tutti
gl'impiegati civili, sì spagnuoli, che francesi, messi a morte, perchè
aveva avuto lingua, che pel nemico, quei primi parteggiavano. Invigorì,
questo avventuroso successo, lo spirito in tutta la provincia della
Mancha, che per disastri occorsi all'esercito, era se non cambiato,
almeno sommamente avvilito; ed il singolare vantaggio produsse, che
dieci o dodeci nuove bande presero nella provincia il campo, da quella
impresa, alla gloria stimolate. Finalmente quella stessa insensibilità
che anzi magnanimità più giustamente nomar dovrebbesi, si fù, quella
che intimorì gli Spagnuoli affetti ai Francesi, obbligandoli, se
non altro, a rimanere passivi spettatori della contesa; fù quella,
che le azioni, e combattimenti intrapresi da' nemici, ed a buon fine
colla maggior gloria portati, rese nulli, e molte volte di gravissimo
nocumento a loro stessi, si fù quella che convertì la Spagna tutta
in un semenzajo inesauribile di prodi guerrieri, che come i soldati
di Cadmo, parevano, atti al combattimento, sorgere dalla terra; ed in
somma quella si fù, che, in sette anni malgrado continuati patimenti,
sagrifizj, e sconfitte, i paesi, nel compimento de' loro doveri verso
la patria, indefessamente mantenne. Quella fermezza incapace di cedere
agli ostacoli, e rovesci, deve, per assoluta necessità, essere il
compartimento di un condottiero, e chiunque, una tale disposizione
d'animo vigoroso, in sè stesso esistere, non riconosca, gli è giuoco
forza, come inabile, a tal carriera riputarsi, non meno, che, al titolo
di forte, ed alla gloria, rinunciare. La qualità della sua truppa,
la quasi necessaria indisciplina, il numero ristretto della gente di
cui sono per l'ordinario questi corpi, composti, la necessità, in che
continuamente dovrà trovarsi, di provvedere da sè solo al vestire, ed
alimento della truppa, locchè comunemente presenta non poche difficoltà
in paesi dove la stessa insurrezione porta con sè un quasi assoluto
disordine; e finalmente le ordinarie vicissitudini della guerra,
con frequenza, in una situazione tanto critica lo porranno, che una
sola decisione a tutta prova, con disprezzo stoico dei pericoli,
e difficoltà, che lo circondano, ed in somma un animo intrepido,
potranno, con utilità della patria, fargli ottener la palma della
difficile impresa.

Art. 2º. Il condottiero d'una banda, deve avere una cautela, e
vigilanza tale, che diffidando di tutti, e fino de' suoi stessi
partigiani, non dimostri diffidare di chicchessia.

La più difficile qualità da rinvenirsi in un condottiero, si è quella
diffidenza generale di tutti quanti lo circondano, senza che nessuno,
di quella si accorga, ma anzi di tutto il contrario sia persuaso. Dar
regole certe, e sicure sopra d'una tanto importante materia, sarebbe
cosa del tutto impossibile. Lo stato della guerra, le disposizioni
del paese in generale, le più o meno prospere circostanze, in che
s'incontrino i suoi partigiani, il carattere delle persone con le
quali si trovi obbligato di trattare, il grado di più, o meno buon
concetto, in che l'abbiano, le sue anteriori imprese, collocato, ciò,
tutto riunito, deve la regola del suo procedere indicargli, senza però
mai obbliare, che la più profonda dissimulazione dev'esserne la base
fondamentale, e che d'infinito danno potrebbe essergli la confidenza,
abbenchè l'abbiano, fondatissimi motivi, potuta originare. Vienci
dal colonnello Don Claudio Escalera, nella guerra di Spagna, offerto
di tale consumata prudenza un pratico esempio. Ecco questi nell'anno
1812 con cento, e cinquanta cavalli un'incursione a las _Pedroches de
Cordoba_, luogo fatale a quante bande osarono penetrarvi, e che, le une
con molte forze, le altre con poche, tutte, in tal luogo, per l'azione
combinata di tre o quattro colonne volanti nemiche, ajutate dalla
perfidia d'alcuni abitanti postisi d'accordo con esse loro, perirono o
furono sbaragliate, e quasi sempre ignominiosamente battute. Il sito di
quel territorio, è una valle di sei o sette leghe di diametro, per ogni
lato dalla _Sierra Morena_, circondata, con tre sole strette aperture
d'ingresso, locchè ad una truppa la quale addentro s'inoltrasse,
pericolosissima la rendeva. Desiderando adunque Escalera di essere
utile alla sua patria, ed il riposo di cui là, godeva il nemico,
profittevolmente turbare, non meno che togliergli quell'inesauribile
emporio di viveri pel suo esercito; all'unico mezzo appigliossi, che
unito ad un valore prudente e deciso, poteva all'eseguimento de' suoi
disegni abilitarlo. Egli la più cieca confidenza in quelle stesse
persone dimostrando, ch'erano di connivenza col partito francese,
dalla publica opinione ragionevolmente accagionate, entrò nella
valle; la paura fece sì, che sebbene alcuni serbassero in cuore
l'intenzione di tradirlo, tutti ad offerirgli i loro servigi, con
affettata premura s'affrettarono. Escalera tutti cordialmente accolse
e lusingò, confidando con sincera apparenza i suoi progetti, che ben
lontani dal vero, manifestava. Gli uni si regolarono veramente bene,
e gli altri, cogli avvisi, ch'al nemico (relativamente alle loro prave
intenzioni) in buona fede mandarono, lo confusero ad un tal punto, che
tutti gli sforzi riuniti di quattro combinate, e numerose colonne,
non poterono in venzette giorni sterminare la banda, nè dalla valle
Escalera cacciare, ch'erasi coll'infanteria, dell'entrate impadronito,
nè impedirgli, che con un branco di prodi partigiani, si rendesse
d'un ricco convoglio di grano, padrone, del quale dispose quasi alla
vista del nemico, e che sorprendesse varii de' suoi distaccamenti, e
che, ritornandosene indietro, dieci perfidi confidenti dei Francesi,
come prigionieri, seco portasse. Non finiremmo, se descriver vorremmo
i particolari di questa spedizione, da per sè sola, di onorare la
memoria del condottiero, capace, che tanto avventurosamente ad effetto
la perdusse. Ci basti dunque pel nostro presente oggetto, il dire,
che la confidenza da quegli dimostrata con persone di cui doveva
con tanta ragione diffidare, unita ad incessante dissimulazione e
vigilanza, fu la principale astuzia, potente a confondere, e traviare
le incalzanti forze nemiche, e da lui maestrevolmente praticata.
Così trasse dai servigi degli uni, profitto, allucinò gli altri,
mantenendoli nell'inerzia, ed ingannò i perfidi decisi, che nello
stesso laccio teso da loro a suo danno, fece ingegnosamente cadere.
Perlocchè i Francesi, fattisi, per la riconosciuta falsità dei loro
avvisi, a credere di essere stati da quelli a bella posta ingannati, ne
fecero alcuni, come delinquenti, archibugiare. Gli stessi uffiziali,
e soldati d'Escalera, non erano in quei venzette giorni, consapevoli
di quanto dovevano all'indomane operare, nè mai essi sapevano, dove
si passerebbe la notte, nè dove si sarebbero rinvenute le razioni, ed
ignoravano la prossimità del nemico. Escalera, ed il suo secondo in
comando, soli erano in tale secreto iniziati, e vi furono delle notti
in che, due o tre volte si mutava il campo, collocandosi quasi in mezzo
a due corpi nemici, che all'albeggiar del giorno seguente, in direzione
interamente opposta, per attaccarlo, avviavansi. La diffidenza perfino
de' suoi stessi partigiani, è assolutamente indispensabile. Ed in
fatti si valsero i Francesi nella guerra dell'indipendenza, di alcuni
infami Spagnuoli, che fecero arrolare nelle bande nemiche, tanto per
servirsene come spie, quanto per cogliere le favorevoli occasioni,
onde i principali condottieri di quelle, proditoriamente assassinare.
Per buona ventura, in sì fatta guerra, siccome l'entusiasmo politico,
e religioso, camminavano uniti, pochissimi s'incontrarono, che ad
un tale infame servigio si prestassero, e quei pochissimi furono
per l'ordinario scoperti, come accadde a quelli, che nelle bande
di Palarca, dell'Empecinado e di Ventura Ximenes, con tal pravo
intendimento s'arrolarono. Egli è però con ragione da temersi, che
in una guerra intrapresa solamente contro la tirannìa domestica, e
straniera, un maggior numero di questi vili stromenti, in vituperoso
servigio di quella, si trovi. Epperciò rendonsi la diffidenza e
simulazione, viemaggiormente necessarie.

Art. 3º. Un cuore severo ed inaccessibile alle grida della pietà,
da qualunque parte possano venirle, quante volte si tratti degli
irreconciliabili nemici dell'unione, independenza, e libertà d'Italia.

Di quanti mali alla causa publica e di quante disgrazie ai campioni
della patria, non sarebbe cagione, il funesto errore di credere alla
possibilità di trar partito da' ciechi, ed interessati stromenti
della tirannia? Lungi sia quindi simile perniciosa idea dalla mente
di qualunque condottiero di bande, in una insurrezione nazionale.
I perversi, che sordi alla voce della rimorditrice loro coscienza,
trascinati da ismodato amor di sè stessi, hanno il partito della
tirannìa, disonestamente abbracciato, sono mille volte dello stesso
tiranno peggiori; sono ancora più insaziabili, più vendicativi, e
più irreconciliabili di lui, coi loro avversarj amici della libertà.
Epperciò essere indispensabile levargli di terra tutti, esterminandoli
senza pietà, è cosa bastevolmente provata, Giunio Bruto mandando
al supplizio i soli due figli suoi, perchè contro il nuovo sistema
congiuravano, Virginio ammazzando per la salvezza di Roma, la propria
unica figlia che teneramente amava, sempre esser debbono alla mente
del condottiero presenti, che non dovrà mai dare alle suggestioni
dei pietosi amici, favorevole orecchio, ed il di cui cuore, solo
ai laceranti gemiti della patria oppressa, deve battere, e violenti
emozioni sentire.

Art. 4º. Il condottiero di banda deve avere un'esatta conoscenza del
paese, che scelga per le sue operazioni, e di tutte le risorse di
quello.

Impossibile cosa sarebbe ad una banda, con successo, ed utilità
guerreggiare, nè potrebbe dalla certezza di essere ben presto
sconfitta, esimersi, se il suo condottiero mancasse della conoscenza
pratica del paese, che deve percorrere. Debbono i cammini, viottoli,
andirivieni, fiumi, guadi, monti, boschi, selve, caverne, antri,
etc., essere il continuo oggetto delle sue osservazioni. Ma siccome
non mai, od almeno solo rarissime volte, egli è possibile che un
sol'uomo, sia di tutte le suddette particolarità bene istruito, così
essenziali in un terreno spazioso, com'egli è indispensabile che sia
quello dove puossi una banda ad operare, sarà cosa conveniente, che
seco il condottiero tenga due, o tre partigiani onorati, natii, e
pratici del paese nel quale egli vuol far la guerra, affinchè possano
anche in oscurissima notte, per la buona via dirizzarlo. Debbono
questi essere da lui ottimamente trattati, e predistinti; se la cosa
è possibile, e se la loro volontà non vi si oppone, debbono far parte
della guardia famigliare del condottiero, che sempre li terrà al suo
lato, dispensandoli da ogni servizio, che non sia di questa natura, o
di quello di guide, nel quale ultimo, saranno più chè non si pensa,
occupati, e da essi sarà la salvezza della truppa, talvolta, per
dipendere. Qualunque sia la conoscenza del suo dovere, e del terreno,
che possa avere un condottiero, gli sarà sempre d'uopo di valersi
di questi ausiliarj subalterni. Il prode Empecinado che, durante una
lunga carriera di coraggiose imprese, alla testa della sua banda, è
considerato, d'avere maggior perdita numerica, ai Francesi cagionata,
di quella ch'abbiano essi in Talavera, od in qualunque altra battaglia
che nella penisola ebbe luogo, sofferta; Empecinado non operava mai,
se non aveva molte delle suddette guide volontarie con sè, e col
loro mezzo, egli potè, Giuseppe Bonaparte sì fattamente molestare,
che per poco della sua reale persona non impadronissi. Imperciocchè,
andato quegli col generale Belliard, ed una festevole brigata di dame
della corte, in allegro stravizzo all'Alameda, sei miglia distante
da Madrid sul cammino di Guadalaxara, tosto ch'erasi coi convitati
assiso a tavola, per delicatissimi cibi assaporare, avvertito
dell'avvicinarsi dell'Empecinado, dovette alzarsi, ed a briglia
sciolta dal suddetto strettamente inseguito, alla protezione del
presidio di Madrid, tremante rifuggire. Il condottiero impadronitosi
al ritorno, dell'imbandita mensa, alle spalle del monarca invasore
allegramente gozzovigliò. Il famoso medico Palarca, condottiero, non
meno di quello, sagace e valoroso, seco ebbe sempre tre o quattro
di quelle guide che come sue ordinanze perpetue, o per meglio dire,
come amici, o fratelli, in principio teneva, e quindi in premio della
loro fedeltà, ed utilissimi servigj, fece uffiziali. Erasi Palarca
proposto di far la guerra nelle vicinanze di Madrid. Epperciò più
particolarmente, alla sua banda, l'attenzione del nemico attirata; non
si stancava il Francese di perseguitarlo tenacemente con grandi forze,
in modo che ben sovente viddesi, fino la guardia reale di Giuseppe,
in movimento, per discacciarlo. Ridotto alcune volte ad un ristretto
spazio, circondato da una parte dal Tago tanto gonfio allora da non
potersi guadare, e dall'altra dal nemico, che già contava sopra un
sicuro trionfo, egli col soccorso delle guide, per non calcolati
andirivieni, che facilitavano il suo passaggio, in mezzo al nemico,
senza essere veduto, a guizzargli di mano perveniva e quindi da lì
a poco, burlandosi dell'avversario, alle porte di Madrid tornava
baldanzosamente a comparire. Quanti felici successi non dovett'egli,
alle sue precauzioni, ed alla conoscenza del paese, che aveano, le
guide, ed i confidenti! Senza di ciò, come avrebb'egli potuto ammazzare
varj uffiziali francesi, e prenderne altri prigionieri nell'istesso
Prado, delizioso passeggio dentro la città di Madrid, e mettere
varie volte, nella villa reale, la persona, e corteggio di Giuseppe,
in confusione, e pericolo?.... In breve, questa pratica conoscenza
del paese, che devesi dalle bande in una insurrezione nazionale,
necessariamente possedere, postocchè il terreno, dove devesi operare,
viene da loro stabilito, e per l'ordinario è sempre quello dove sono
nati, e cresciuti gl'individui che le compongono, lor dà un vantaggio
capace di far fronte, a quanti mezzi superiori, un nemico, sia paesano,
o forestiero, possa con la sua disciplina, e tattica opporre. Siffatta
conoscenza presenta alle bande l'occasione di portare danno al nemico
senza grande rischio; lor dà una incredibile facilità di evitare i suoi
attacchi; mette il condottiero al caso di eleggere le opportunità, di
vincere con vantaggio, e sicurezza, e di evitare qualunque incontro non
a proposito; e finalmente gl'infallibili mezzi facilita, onde a poco a
poco, ed alla spartita, sterminarlo.

I viveri, armamento, vestimento, tutte le sovvenzioni in somma
necessarie, dovendo essere per mezzo delle momentanee disposizioni
de' condottieri, del tutto rinvenute, si vede la necessità di aver
un'esatta, e minuta conoscenza delle risorse del paese, unita alla
prudenza, ed equità, in questa parte così essenziali.

Art. 5º. Un valore sempre prudente, e solo nell'estreme contingenze,
animato, ed impetuoso.

Coloro che solamente alla superficie delle cose si attengono, tacciano
il valore prudente, di codardìa, e questa ingiusta censura suole per
l'ordinario essere il maggiore ostacolo all'esercizio di tale virtù.
Ella è cosa sommamente difficile, che un uomo dotato di uno spirito
deciso per la causa che difende, e dapprima in concetto di prode e
valoroso, tenuto (riputazione con le luminose sue gesta giustamente
acquistata), ad una tanto ingiusta taccia, tranquillamente si
sottometta, e la lasci correre con disprezzo, senza cercare con qualche
fatto, capace anche di rovinarlo per sempre, di smentirla. Pochi
Fabj s'incontrano, che la salute di Roma, alla propria riputazione
anteponendo, ed insensibili alle continue mormorazioni dei loro
concittadini, il nemico, senza battersi, distruggano.

A nessuno, questa magnanima indifferenza, è più necessaria, che ad
un condottiero di bande. Le sue operazioni debbono essere affatto,
dall'opinione di qual si voglia censore, independenti; nulla dev'egli
intraprendere, qual uomo da un falso punto d'onore, trascinato. Il suo
scopo non dev'essere la gloria, o per meglio dire, non vi è gloria per
lui, che nell'esito felice della lotta, nella quale si è decisamente
lanciato! Tutt'i mezzi a tal'uopo, gli sono leciti e gli è vietato di
purgare dall'accusa il suo nome, abbenchè, fosse dalla più mal fondata,
e nera accusa macchiato, quante volte, per ciò fare, gli convenga, la
causa pubblica di minimamente arrischiare. La sua vanità, il suo amor
proprio, e per fino la stessa sua riputazione, debbono da lui essere in
olocausto, sull'altare della patria, generosamente offerte.

Nel capitolo dell'onor militare, abbiamo già più estesamente parlato
sopra di questa materia, ed abbiamo messo per base, che l'istituzione
delle bande deve avere per fine, in qualunque siasi modo, lo sterminio
dei nemici del paese, sieno essi publici, od occulti; e non di
procurare di vincerli con mezzi onorevoli, e regolari. Arrischiar
l'esito, per una inopportuna vanità, e ciò ch'è peggio, porre in
pericolo la salute della patria, dev'essere in questa guerra, come
mancanza all'onore, considerato. Lungi dunque da ogni condottiero,
l'idea di qualsivoglia impresa, combattimento, o disposizione per
quanto chiara, ed onorevole apparir possa, ma che non sia a tal fine,
esclusivamente diretta. Nulla deve, un condottiero, a commettere
un'imprudenza, che lo ponga in rischio, trascinare. Il suo dovere
consiste nel portare colpi sicuri, ed utili, abbenchè siano, dello
splendore di una gloria fallace, per essere manchevoli. La sua unica
cura, la sola meta delle sue opere, de' suoi pensieri, altro non
dev'essere, che lo sterminio dei tiranni, non meno, che dei loro
partigiani, difensori e strumenti. Egli, da tal proposito non deviando,
la regola infallibile del suo procedere sicuramente incontrerà. Oltre
le già espresse circonstanze, che forman l'essenza della guerra
per bande, il ristretto numero d'individui, che per l'ordinario
le compongono, la mancanza d'istruzione, e disciplina, esigono dal
condottiero cautela, e circospezione. Il riflesso, che la sua caduta
potrà scoraggiare una provincia, e l'aumento delle forze nemiche, in
altro utilissimo punto, agevolare, ed esser cagione dello smarrimento
negli amici della libertà del paese disseminati, la cui determinazione
per dichiararsi difensori di quella, da' suoi buoni successi per
avventura dipende, deve contenerlo. Qualunque sconfitta in Ispagna,
quantunque da potentissime, ed inevitabili cagioni prodotta, delle
quali, fosse il condottiero, innocente al par delle bande sempre
fedeli all'onore, nulla dimeno, non mancava di produrre smarrimento,
e freddezza nei paesi, e diserzioni nelle bande medesime, come pure
un'insultante orgoglio nell'inimico. E sebbene fosse il conseguito
vantaggio, disprezzabile, e di niun conto, malgradociò, agli occhi del
popolo, era con ben calcolata ostentazione, dai Francesi mostrato.
Quando don Isidoro Mir, in _Cuerva_, ad affrontare il reggimento di
dragoni francesi commandato dal colonnello Laffitte, avventurossi,
nella superiorità della sua forza confidando, fu a ciò fare sforzato
dal forte, e continuo mormorare dei cittadini, che avendo saputa la
sua intenzione di ritirarsi (come quello, che ben conosceva la qualità
della sua truppa), lo tacciavano di codardia. Non ebbe egli la forza
di mettere una sì pungente accusa in non cale; tentò la giornata e fu
la sua banda compiutamente distrutta. Nè solo il danno alla dolorosa
perdita di una banda, che di tanta utilità era stata alla Spagna,
limitossi, ma trascinò dietro di sè, la somma sventura, che, per
le stesse cagioni, pochi giorni dopo avvenne, vuol dire la morte, e
distruzione di Ventura Ximenes, e un mese dopo, quella di Francisquete.
Ed in fatti, liberato il nemico dalla soggezione che la banda di
Mir, colla sola sua esistenza, gli cagionava, dal momento che quella
cessò, e disparve, del tutto all'inseguimento delle già dette, si
potè liberamente dedicare. Per lo contrario, Cuesta nell'Estremadura,
Camillo Gomez nella Mancha, e Don Giovanni Abril in Castiglia, che
quando il nemico li cercava, mai non l'aspettarono, si sostennero tanti
anni, quanti durò la guerra, rendendo molti servigi alla nazione,
ed essendo stati a pochissimi rovesci, soggiacenti. Dalle ricevute
dello stato maggiore dell'esercito, nell'anno 1813, si rilevava, che
nel corso di anni quattro, aveva il primo rimesso più di due mila
prigionieri al quartier generale, senza contare il numero enorme di
Francesi da lui ammazzati, soprattutto nei primi tre anni della guerra
ne' quali non diede mai quartiere a chicchessia. E Gomes, oltre di aver
presi molti prigionieri negli ultimi anni, ed aver in tutto il corso
della guerra, ammazzati tanti nemici, quanti ne rinveniva dalle file
separati, che ammontavano certamente a più di sei mila, s'impadronì,
di sei, o sette convogli di viveri e munizioni. Abril, per tutto il
tempo della guerra, i Francesi costrinse, a tenere sempre impiegati,
sei, o sette mila uomini, alla guardia delle strade di Somo Sierra, a
Guadarrama, affine di conservare le loro communicazioni con Francia;
e, ciò malgrado, Abril gl'intercettò molti corrieri, li tenne soventi
volte, due o tre mesi, nell'impossibilità di ricevere notizie del loro
esercito della parte settentrionale di Spagna. Solo dunque in quei
casi estremi, nei quali per salvarsi da un inaspettato, ed involontario
accidente, sia cosa indispensabile, il tutto avventurare, stimata, deve
un condottiero, essere impetuoso, ed anche temerario. Dev'essere tale,
se dal suo quasi certo sacrifizio, potrà un bene tale ridondare, che
serva di compenso ai mali dalla sua perdita prodotti; se battendosi
fino all'ultimo estremo, potrà ad una piazza, o ad un punto importante,
soccorrere, impedire che un'altra già imminente a cadere, riceva
ajuto, contenere la marcia d'una colonna nemica, alla sorpresa, diretta
d'un'altra amica, da cui, l'esito della guerra, essenzialmente dipenda.
In questi, ed altri simili casi, deve qual nuovo Leonida, decisamente
perire, e nello stesso tempo i suoi volontarj, per la salute della
patria, sacrificare.

Finalmente la prudenza, e l'amor di patria del condottiero, debbono
regolare il suo valore; e le occasioni deve scegliere, nelle
quali convenga battersi od evitare il combattimento, senza, che le
mormorazioni malignamente, o in buona fede propagate dai cittadini,
abbiano anche in menoma cosa, nelle sue determinazioni da influire;
noi ripetiamo, che tutt'i mezzi per ottener la vittoria contro de'
tiranni, e l'occupatore straniero, sono giusti, e leciti; e che se
il condottiero metterà in uso le arti opportune, rare volte si vedrà
per conseguirla, nella necessità di sacrificarsi. L'astuzia, e la
vigilanza, gli renderanno facili ed utili oltremodo i trionfi, ch'egli
invano potrebbe pel solo valore sperare. Potrebbe questo ultimo
avventurare la sorte futura della nazione, e le arti bene usate, senza
pericolo, il cammino, per renderla felice, gli spianeranno, togliendo
di mezzo gl'ostacoli che potrebbero essergli d'impedimento. La tirannia
tiene sempre una forza regolare o propria, o straniera in suo favore,
senza la quale non si sosterrebbe. Volerla con isvantaggio urtare,
lo stesso sarebbe che voler piombare in rovina. Egli è per tanto
necessario, che l'arte alla mancanza supplisca, e che per assicurarne
l'esito, gli stimoli dell'amor proprio, del punto d'onore, della
generosità, e quelli pure della stessa pietà fino al conseguimento però
dell'alto disegno, si contengano.

Ecco, come meglio abbiamo potuto, offerto ai lettori, l'abbozzo
delle principali, ed indispensabili qualità, che un condottiero dee
possedere. Ben noi conosciamo, che molte altre secondarie, pure gli
abbisognano. Sebbene, non siano assolutamente necessarie, quest'ultime
ancora si troveranno ne' varj capitoli di questo trattato disseminate,
che tutti trattando di quella guerra, della quale deve il condottiero
esserne il principale agente, direttamente il prendon di mira.
Frattanto, noi opportuna cosa esser crediamo, quella di presentare un
quadro, nel quale la maggior parte delle qualità, che debbono essere
di un buon condottiero il patrimonio, con un solo sguardo si scorgano.
Noi a tal'uopo imprendiamo a dare un brevissimo saggio sulle azioni
del prode Mina, che, come modello ai nostri leggitori, osiamo di
presentare.

Don Francesco Espoz y Mina, figlio come si dice, di un bifolco, era
zio e successore di un altro Mina, che da studente in Navarra, all'età
di soli anni venti, percorse, alla testa di una banda, stupenda ma
breve carriera, perchè ben tosto nelle mani de' Francesi, cadde ferito
e prigioniero. Era Espoz y Mina, frà i venti cinque e i trent'anni,
allora quando al suo nipote successe. Tutto acquistò egli col suo
coraggio, pazienza, ed avvedutezza. Nulla possedeva egli, di quanto, un
generale, materialmente, costituisce. Ei non potea protezione offerire,
nè ricompense, nè pensioni, nè ritirate in caso di sconfitta. Mina non
aveva nè piazza, nè fucili, nè un tallero. Tutto in sè stesso, nella
sua energia, nella sua perspicacia, copiosamente rinvenne. I Francesi
lo denominarono il re di Navarra, perchè, sebbene fossero essi nel
possesso di tutte le fortezze, meno erano di lui, dal popolo obbediti.
Col mezzo de' suoi informatori, e dello spirito publico, che gli era
interamente favorevole, sapeva egli tutto ciò, che nell'esercito nemico
avveniva, conosceva i progetti che vi si formavano, ed a quelli dava,
prima che si eseguissero, convenevol riparo. In somma, un distaccamento
per piccolo che si fosse, non si moveva, non arrivava, non partiva,
che d'ogni movimento, non fosse Mina previamente informato. Sotto di
varj pretesti, ed in abiti contadineschi, alcuni de' suoi volontarj,
nell'esercito nemico, egli sempre manteneva, che lo tenevano appieno
istruito di quanto vi si operava. Ragguagliato di ciò, oltre la pratica
conoscenza del paese, consultava egli di continuo le migliori carte
geografiche, e topografiche, sulla situazione del medesimo, teneva
presso di sè molti confidenti, e guide dei luoghi peritissime, di
modocchè tutte le montagne della provincia, perfettamente conosceva,
i loro ceppi, le loro diramazioni, altezze, direzioni, pendio, strade,
andirivieni, burroni, selve e foreste non meno, che il sito dei ponti,
dei porti, dei fiumi, dei guadi, argini e pescaje, le coste marittime,
golfi, baje, cale, porti, promontorj e ponti di terra dalla parte della
Biscaglia; le pianure, le macchie, le lande, le valli, i laghi, stagni,
paludi, sorgenti e fiumi, la loro direzione, la rapidità del loro
corso, la loro larghezza, profondità, ed incasso del letto etc. Quindi
ad un'esatta e profonda comparazione passava, fra tutt'i vantaggi
presentati dalla natura, con quelli che per arte, ingegno, e lavoro
dell'uomo, si potevano, pel sostenimento della guerra ritrarre. Ei
conosceva per lo stesso mezzo, la qualità e quantità delle produzioni
del paese, materiali esistenti, non meno che il numero delle persone,
per età, per sesso, per classe e per proprietà. La sua mente, ed il
suo corpo eransi, come le circostanze della sua patria il richiedevano,
piegati. Al collo portava legata da un cordoncino di seta, una carafina
di cristallo piena di efficacissimo veleno, fermo nella intenzione
di usarne a danno del nemico, ogni qual volta s'en presentasse a lui
l'acconcio, onde avvelenare quei cibi, che a bella posta nelle sue
ritirate gli abbandonava. Ed eziandio nel caso, che ferito, e preso
dal nemico, non avesse più speranza di salvarsi, per attossicare sè
stesso, quel veleno serbava. In quelle poche notti, ch'ei non dormiva
alla serena, si coricava vestito, senza mai torsi le pistole dalla
cintola, nè lasciare il pugnale che, sotto l'abito, alla parte sinistra
del petto, nascostamente portava. Mina chiudeva, ed assicurava sempre
ben bene la porta della camera, e della scuderia, dove ad un breve
riposo abbandonavasi. Tre ore di sonno erano per lui sufficienti, ed
anche molte volte interpolatamente dormiva. Quando la sua camicia era
sudicia, egli entrava nella casa la più vicina, e là, con una netta del
padrone, cortesemente la cambiava. Onde più facilmente poggiare per
l'erta de' monti, e potersi pei ripidi ed angusti andirivieni delle
loro sommità, arrampicare; egli ed i suoi volontarj, calzavano certi
sandali, alla foggia dei frati, in uso in varie parti di Spagna. Era
il suo vitto, frugalissimo. Focaccia, ed acqua, per l'ordinario gli
bastavano: ma di tanto in tanto, quando gli ne veniva il destro, alle
spalle dei nemici moderatamente banchettava. La polvere da schioppo
necessaria per la truppa, in una spaziosa grotta, sita nel centro dei
monti, egli stesso fabbricava; e teneva in un villaggio segregato nel
mezzo delle montagne, un'ospedale a spese dei Francesi di tutto il
bisognevole, provveduto. Tentarono quelli varie volte di sorprenderlo,
ma sempre indarno, perchè il cuore di tutt'i contadini, era pel
valente difensore della loro patria, animosamente propenso. Riceveva
egli sempre a tempo, informazione dei movimenti dell'inimico ed al
primo sentore di pericolo, i contadini si caricavano gli ammalati,
ed i feriti sulle spalle, e portavangli su di rupi scoscese, dentro
luoghi inaccessibili, dove in perfetta sicurezza rimanevano, finchè
il Francese trovandosi deluso, ed in pericolo, si ritirava. Se gli
_Alcadi_ non faceanlo consapevole delle requisizioni, e dei movimenti
del nemico, o mancavano a qualche altro loro dovere, andava egli
stesso nella notte a sorprenderli, e fattili tosto dal letto balzare,
immantinente in camicia li faceva fucilare, od al campanile della
chiesa principale, appendere per la gola. Ei permetteva alcune volte
che i Navarresi commerciassero coi Francesi, ed aveva stabilita una
linea di dogana, alla quale il nemico si era sottomesso, e con questo
mezzo, molte provviste pei volontarj agevolmente si procacciava, che
altrimente gli sarebbe stato difficile di trovare. Mina esigeva dai
ricchi mercanti una somma di danaro pel passaporto, per la facoltà
di commerciare, etc., e con altre tasse sui ricchi ben pensanti, e
la confisca delle proprietà dei malpensati, che tosto presi, faceva
archibugiare, egli aveva sempre un fondo in cassa pei bisogni correnti,
ed anche di più. Allora quando rinveniva una spia del nemico, le
faceva da uno della sua guardia, tagliar l'orecchia destra, e quindi
in fronte, con le parole _viva la patria_, bollare. Durava quel marchio
in eterno, e nello stato della generale opinione potevasi, come la più
severa di tutte le punizioni, considerare. Quei sciagurati tanto si
vergognavano di esporsi agli sguardi de' loro compatrioti, marchiati
in tal modo, che molti sulle roccie, ne' luoghi rimoti dei monti,
tutti aggrinzati, e con segni di una fine disperata, morti di fame e
di freddo, si rinvennero. Mina non permetteva, che i volontarj suoi
fossero propensi alle donne, anzi aveva la riputazione di odiarle.
Nulla dimeno, solo come seducente cagione dell'indebolimento fisico
degli uomini, le temeva. Ei non permetteva il giuoco; e tosto, finito
il combattimento, ogni volontario aveva il permesso di appropriarsi
quanto seco poteva portare. Ma guai a colui, che avesse di metter mano
al bottino, prima, che la vittoria fosse dichiarata e compiuta, il
rapace ardimento! Ogni bajonetta portava segni del sangue francese; le
armi dei volontarj erano rugginose al di fuori, ma esigeva con somma
severità che fossero tenute nette al di dentro, e che le rotelle, e le
pietre dello schioppo, fossero nel miglior stato.

Sapeva quel condottiero, con accortezza applicare i mezzi alle
contingenze, ed in qualunque bisogno, ei nascere faceva le
convenienti risorse. Il suo valore si allontanava egualmente da
quella prudenza timida, che teme, e tutti gli inconvenienti prevede,
che da quell'inconsiderato ardore che tutt'i pericoli cerca e
gratuitamente affronta. Le armi, il raggiro, e l'astuzia, erano da
lui indifferentemente impiegati. Politico ad un tempo, e guerriero,
con la prudenza, ei lentamente preparava ciò, che di poi col suo
valore impetuosamente operava. Nuovo Filippo di Macedonia, i suoi
progetti da una politica impenetrabile maturati, sempre a proposito,
ed all'improvviso, comparivano. Una profonda riflessione e perfetta
conoscenza degli uomini, erano di pari grado al suo brillante coraggio,
e superiori talenti, in bella unione, accoppiati. Non istimava egli ne'
suoi subalterni, che quanto da purissimo amor di patria era originato,
e con la forza, l'attività, l'energia, ed un coraggio posto al di là
d'ogni calcolo, sceglieva sempre quando gli era permesso, il partito di
attaccare il nemico, piuttosto che d'aspettarlo; e non solo disegnava
egli sublimi, e quasi incredibili imprese sempre all'insaputa, che
sorprendean l'avversario, ma ben anco, ciò che quegli progettava, e
poteva progettare in avvenire, prevedeva, ed indovinava. Instancabile,
ed audace, ma sempre prudente, il prode Mina, ora sù d'un veloce
corsiero, ora sù d'un zoppicante ronzino, ora a piedi con lo schioppo
alla mano, sempre alla salvezza della patria, solamente diretto, mai
non si riposava, nè lasciava i Francesi riposare, e coll'attività,
e pertinacia, dopo sette anni di non interrotta guerra, pervenne pe'
suoi sforzi, pe' suoi talenti, ed amor di patria, a vedere la Spagna
libera dagli stranieri, al di cui scopo, con indefesso zelo, aveva
potentemente contribuito. Possano questi precetti, e questi esempj,
far sorgere valorosi costanti condottieri italiani, che in sè le
virtù, ed i pregi tutti di quello Spagnuolo riunendo, alla liberazione
dell'infelice Italia, gloriosamente pervengano!



Invito agl'Italiani.

SONETTO.


      Egra, gemente, frà gli affanni e l'onte,
    Dal Goto edace dilaniata e smunta,
    Cui d'empj figli è vil masnada aggiunta,
    Che appiana allo straniero, il doppio monte;

      Languisce Italia, che già fèo sì conte
    Quelle virtù gagliarde, ond'ella assunta
    Fù del mondo all'impero, acerba punta
    Diede a monarchi e ne calcò la fronte.

      Ma tanta madre a voi s'affida, o figli!
    A brandir l'armi in suo favor v'invita,
    E a riscattarla dai Tedeschi artigli.

      L'orme battete che il _Dover_ v'addita!
    Faccia belli, il _Dover_, tutt'i perigli!
    Italia è serva! ed amerem la vita?


FINE DELLA PRIMA PARTE.



                                 DELLA
                            GUERRA NAZIONALE
                             D'INSURREZIONE
                               PER BANDE,

                         APPLICATA ALL'ITALIA.


                                TRATTATO
                      Dedicato ai buoni Italiani.

                                   DA
                          UN AMICO DEL PAESE.


                           Quousque tandem ignorabitis vires vestras!

                                            TIT. LIV. Dec. 1, lib. 6.


                             PARTE SECONDA.


                                   *


                                ITALIA
                                 1830.



                                 DELLA
                            GUERRA NAZIONALE
                             D'INSURREZIONE
                               PER BANDE,
                         APPLICATA ALL'ITALIA.



CAPITOLO I.

PRIME OPERAZIONI E PROGRESSIVO AUMENTO DELLE BANDE.


Se difficile non meno, che pericolosa devesi la situazione di quel
condottiero considerare, che primo, spiegando il vessillo della
rigenerazione italiana, ed impugnando la spada vendicatrice della
patria oppressa, ardimentoso, e forte, tutta la formidabile potenza
nemica mettesi in capo a sfidare; non meno grande, però, non meno
soddisfacente compenso gliene ridonda, per la sublime riputazione di
essere stato il primo branditor dell'acciaro, disceso nel pericoloso
agone, onde una carriera, che sebbene di pericoli seminata, ha
nondimeno per iscopo certo la gloria, impavidamente percorrere. E
certamente, sarà la sua memoria, nei cuori dei cittadini plaudenti,
cooperanti, e grati, per essere indelebilmente impressa, e venerata.

Preso con una banda di venti o trenta volontarj il campo, dovrà il
condottiero portarsi ai boschi, od in mezzo ai dirupi dei monti, e, se
in pianure, nelle selve vicine ai fiumi, per istrade remote, e coperte
dalle siepi che lungo le medesime si estendono, occuperà posizioni.
Impadronendosi delle vie, per dove debbono i corrieri, le _diligenze_,
i procacci necessariamente passare, tutti quanti arresterà; e nè fia
che trascuri d'impossessarsi della corrispondenza del governo. E se
fra le persone viaggianti, alcuna essere nemica d'Italia, avverrà che
riconosca metteralla subitamente a morte. Da una ad altra posizione,
come lampo, trasferirassi, sempre tenendo presente, che la sua
salvezza, riuscita, ed esistenza, sono dalla sua attività, del tutto
dipendenti. Si farà dai possidenti de' territorj, tutto il necessario
alla sussistenza dei volontarj somministrare, cadrà improvvisamente,
or sopra d'un villaggio, or sopra d'un altro, sopra di borghi, o città
che non siano presidiate da truppe dalle quali, una qualche resistenza
possa essergli opposta, s'impadronirà dei fondi esistenti nelle casse
del governo, e con quelli, dopo d'aver stabilite relazioni con alcuni
abitanti dei varj paesi del circolo da lui per le sue operazioni
destinato, cercherà, in primo luogo, di comprare i capi delle truppe
ch'esistono in quelle parti, e se non potrà farlo coi capi, ai
subalterni con prudenza si rivolgerà, onde nè danno, nè distruzione gli
arrechino, se mai fossero contro la sua banda spediti. Manterrà inoltre
col rimanente delle somme, moltissimi informatori, agenti, e spie, in
ogni parte dove possa credere che si stia qualche cosa contro di lui,
preparando, come pure pagherà molti corrieri per ricevere le relazioni,
e tenere vive le intelligenze con gli abitanti dei paesi, e con le
truppe, se può; ond'essere della partenza, e forza delle spedizioni
dirette contro di lui, a tempo minutamente avvertito, e potere i nemici
nelle loro ricerche ingannare, e schivare. Un'altra porzione dei fondi
sarà pei bisogni dei volontarj, ed anche in soccorso dei miserabili in
quel circolo esistenti, dal condottiero disposta; locchè mettendolo
in fama di benefico, gli procaccierà la benevolenza dei contadini,
che, siccom'ei difende la causa del popolo, debbono essere in suo
favore disposti. Epperciò i viveri gli saranno sempre assicurati, gli
saranno a tempo, tutt'i moti e divisamenti del nemico, previamente
manifestati, sarà molto meno esposta la banda, ed asilo, non meno, che
alle sue bisogne provvedimento, saralle volentieri dappertutto offerto,
fornito, dimodocchè potrà la guerra con gran vantaggio sostenere,
e per lunghissimo spazio di tempo, prolungare. Dovrà la prima banda
stare in continuo moto, e non mai essere l'indomani, dove l'oggi si
trova, occulterassi un giorno in un bosco, un altro in un'isolata casa
nella campagna, in una villa, od in una caverna, e così manterrassi
celata, fino al momento di poter nascostamente uscire, ed una qualche
vantaggiosa impresa di non dubbia conclusione, operare. Seco non
terrà il condottiero più di dodici uomini, ed il rimanente in piccoli
drappelli diviso, ciascuno di essi ad una corta distanza opererà,
all'appressarsi del momento di fare una qualche rilevante operazione,
tutti ad un tratto si riuniranno. E quanti nemici cadranno nelle
mani, saranno da essi senza misericordia esterminati. Così nell'anno
1811, vicino ad _Abrantes_ in Portogallo, una banda isolata di pochi
volontarj, tagliò nei soli mesi di gennajo e febrajo, non meno di
trecento Francesi a pezzi. Inoltre la banda non attaccherà mai corpi
eguali alla sua forza, ma sempre infinitamente più deboli, e nel modo
summentovato, si manterrà in campo.

In due sole differenti maniere, potrà contro di questa prima banda,
il governo esistente, regolarsi. Primieramente nella speranza, che
manchi col tempo, nei volontarj, l'entusiasmo per esser privo del
suo maggior alimento, vuol dire e le persecuzioni, e le ingiurie;
farà per avventura sembianza di non curarla, e poscia frà non molto
tempo, con apparente moderazione, con aspetto dolce ed umano, con
simulata buona fede, proporrà un _indulto_ generale, e completo. Se mai
perverranno con queste arti, gli avversarj, a trarre l'insorta banda
nel laccio teso, e ad accettare il loro perdono, persuaderla, della
confidenza alle loro illusorie promesse prestata, s'approfitteranno,
e quell'opportuno momento coglieranno per separare i volontarj, o
sopra ognuno di loro alla spartita fermato, l'intiera vendetta del
brutale despotismo offeso, fare con iracondo, e spregievole sorriso,
rabbiosamente piombare. Animati dal puro, ed ardente fuoco della
libertà, ed independenza della patria, i volontarj, ogni lusinga,
ogni proposizione, ogni promessa metteranno in non cale, persuasi
che con tali nemici, non si dovrà mai negoziare e che la guerra non
si deve, che dopo la compiuta totale distruzione d'una delle parti,
come terminata, considerare. Secondariamente, l'altro partito a che
possono i nemici appigliarsi, quello sarà di correre addosso alla
banda, ed alla sua distruzione, prima che si aumenti, e diventi più
formidabile, ogni lor cura rivolgere; praticando a tal'uopo quanto
viene al libro terzo da Polibio raccomandato. Ei pensa che un esercito
aggressore debba cominciare con un'azione forte e strepitosa, il
primo risultamento di che, si è quello di spaventare il nemico, ed il
secondo di staccare, e conquistare i suoi alleati, con aggiunger a ciò
una impreveduta diligenza. Tale fu la condotta dei grandi capitani,
d'Annibale, Cesare, Emilio, Filippo, etc. E seguendo i precetti del
generale Santa Croce, il quale paragona le rivoluzioni alle fontane,
che vicino alla loro origine valicare si possono con facilità, ma che
lungi, da quella, nemmeno si possono, senza grande pericolo guadare;
spediranno i nemici truppe da ogni parte ad assalire vigorosamente la
banda. Ma dotato il condottiero di sottile avvedimento, ed a tempo
informato, con le sue false dimostrazioni, con la conoscenza del
terreno, e co' suoi rapidi, ed improvvisi movimenti, stancherà sì
fattamente la truppa, che da quella non sarà mai raggiunto. Se per
caso poi, come può succedere, venisse dalla necessità costretto a
combattere, allora prenderà posizione sopra di qualche inaccessibile
sommità dominante il contorno, o qualche burrone, etc., e di quella
trarrà partito, onde colla forza della situazione, quella maggiore
personale dell'avversario, con vantaggio equilibrare. Il tenente
colonnello Grant della legion Lusitan o Inglese al servizio di
Portogallo, con soli ottanta militi Portoghesi, all'arrivare del
generale Foi, alla testa di tre mila uomini messi da Francia per
andarsi ad unire a Massena, prese, vicino al villaggio di Enxabarda,
una posizione, che dominava uno stretto, per dov'era il nemico, di
passare forzato. Grant fece un continuo terribile fuoco addosso a'
Francesi che durò fino a notte inoltrata, e così ben diretto, che
nello spazio di quattro leghe si trovarono ducento, e sette cadaveri
de' nemici da quella mano di valenti, sul luogo trucidati. Profittando
della notte, potrà il condottiero sorprendere alcune volte il nemico,
perchè come dice Tito Livio al libro 7º delle Decadi: «La notte, e
sopra tutto l'ora della seconda veglia, è alle irruzioni favorevole.»
Oltracciò egli dovrà sempre valersi del bujo per mutare di posizione,
e valersi de' stratagemmi della guerra, onde il nemico, di continuo
sbalordire. E se mai gli avvenisse d'accorgersi d'un inaspettato
pericolo d'essere con isvantaggio, assalito, allora, e prima che il
nemico si trovi a portata di cadergli addosso, il condottiero assegnerà
un punto di riunione per un giorno determinato, e a suoi volontarj
darà ordine d'immediatamente sparpagliarsi. Ciascuno sen fuggirà per
conto proprio, ed al suo particolare ingegno, per la sussistenza,
e salvezza, dovrà ricorrere. Quei volontarj, che senza divisa, ma
in abito contadinesco campeggiano, potransi molto più facilmente
occultare, locchè unito alla perfetta conoscenza del terreno dove
guerreggiassi, farà sì, che con sicurezza, e celerità, si possano i
volontarj allo stabilito punto condurre. Tutti di bel nuovo riuniti,
ben lungi dal figurarsi di avere la loro militare riputazione in un
minimo danneggiata; ben lungi di essere dalla precedente dispersione
accorati, e pell'avvenire disanimarsi, vedendo anzi con quale facilità,
con quale immenso vantaggio per la patria, si possa, guizzando, scappar
di mano al nemico, maggior confidenza, ed ardimento saranno di giorno,
in giorno per acquistare. Se spossato è l'esercito da fatiche, o dal
governo, per altre incombenze, richiamato, come spesso succede, se
a lungo la banda si sostiene, ed avvisatamente balocca il nemico, se
questi si risolve ad abbandonare, per qualche tempo, l'inseguimento di
quell'inarrivabile, non combattibile banda, allora questa, prenderà
l'offensiva; e sempre sui fianchi, ed alle spalle, in ogni miglior
modo tribolandolo, taglierà a pezzi i soldati raminghi, assalirà
quelli che vanno al foraggio, o ad altre distribuzioni, tenderà agguati
contro degli esigui distaccamenti, sorprenderà le piccole guarnigioni,
e di giorno, e di notte continuerà un'accanitissima guerra la più
sterminatrice, la più distruttiva, che mai abbia in Europa avuto luogo,
senza mai, un solo istante, di molestarlo, tralasciare.

Il pericolo, che molte altre nuove bande corrano alle armi, farà sì,
che le truppe nemiche tengano nei varj villaggi, lungo il cammino
principale, dei distaccamenti all'oggetto di mantenere libere le
communicazioni. Un accorto condottiero, se quelle sono in minor forza,
non dovrà di attaccarli, e distruggerli, un momento trascurare,
se poi sono eguali, o superiori, dovrà far agire l'arte, e con
qualche stratagemma, farli minori diventare. Egli s'appiatterà, per
esempio, dietro ad una siepe, o casa diroccata, da quella darà ad un
capace, volontario, oppure ad un ben provato contadino, l'incarico
di portarsi con amichevole apparenza, con dimostrazioni officiose
ma prudenti, di appartenere al partito dei barbari, ad avvertire il
comandante nemico, che nella stessa direzione, ma in maggior distanza
del sito dove si trova la banda, imboscata, è stato da una schiera
di masnadieri, un corriere con dispacci assalito, e che la di cui
scorta, tuttor combattendo senza probabilità di vantaggio, lo ha
nel passar per quella via, incaricato di ricorrere, in suo nome, per
ajuto, a qualunque distaccamento gli fosse di rinvenire, possibile,
onde con tal soccorso, a certo annichilamento scampare. Dimostrando
un sincero e franco aspetto, tal uomo trarrà facilmente l'uffiziale
in inganno, il quale, a seconda dei suoi doveri, con una parte della
sua truppa uscirà, per accorrere del supposto corriere in soccorso,
e lascierà la rimanente parte in presidio del punto ch'è per lui
necessario di conservare. Ecco dunque divisa la sua forza, e senza
neppur fiatare non che muoversi, lo lascierà il condottiero in avanti
trascorrere, ma quando sarà quegli ben lontano, salterà, con tutta
la banda, fuori dal nascondiglio, e velocemente alla casa, dove sarà
la rimanente porzione del distaccamento acquartierata, s'avvierà.
Egli appiccherà tutt'all'intorno il fuoco; e se a star dentro, i
soldati nemici si decideranno, dovranno abbrustoliti certamente
perire. Se poi per opposta, prenderanno il partito di uscire a campo
aperto, non potendosi, per la ristrettezza delle porte, in massa
contro gli aggressori presentare, ma dovendo ad uno ad uno, alla
spicciolata saltar fuori, saranno successivamente dalla banda tagliati
a pezzi. Presi, per quanto gli fia dato, le loro armi, e danaro,
dovrà il condottiero correre di bel nuovo al macchione, e quando il
comandante deluso, colle pive in sacco si ritirerà, cadergli con furia
repentinamente addosso, e quel distaccamento con morte inevitabile
punire, come giusto castigo del suo delitto d'infettare il suolo
italiano.

Mille di questi accidenti e d'altra eziandio differente natura,
potranno presentarsi al condottiero, che astuto, ed intraprendente,
potrà pure a suo talento, moltissimi farne sorgere, quante volte sia
persuaso, quello essere il solo mezzo per sostenersi con onore, e
buona rinomanza ottenere, senza di che non potrà mai aumentare la sua
banda, farne levare delle altre, nè attirare a sè lo spirito della
popolazione, il quale solo può rendere la riuscita della contesa,
sicura. Laonde non tralascierà mai il condottiero di agire con vigore,
ardimento, ed avvedutezza. Ogni qualvolta in Ispagna, ad una banda
accadea di riuscire in qualche felice incontro vittoriosa, molte
altre nuove prendevano immediatamente il campo, e quella, che col suo
esempio le aveva fatte nascere, sforzavansi di superare. Sorpreso il
condottiero spagnuolo Mir nel 1809 in _Espinoso del Rey_, circondato
in una casa con soli quindici o venti volontarj, tostocchè si vidde
fuori d'ogni speranza di scampo, i compagni esortò a vendere cara la
loro vita, montò a cavallo, fece aprir la porta del cortile, e con
tanta intrepidezza, in mezzo ai nemici slanciossi, che un forte numero
ne ammazzò, ed altri molti ne prese prigionieri. Ei perdè in quel
conflitto sei o sette volontarj, ma oltrepassò i nemici, e si salvò. La
sola fama di questo avventuroso successo, fece sì che in pochi giorni,
più di cento, volontariamente si offersero di servire sotto de' suoi
ordini, e di cavallo, armi, munizioni, insomma di tutto il necessario
ben provveduti, gli si presentarono, mentre che molte altre bande,
nella stessa provincia, si misero subitamente in campo.

Vincitore ne' combattimenti di _Estella_, di _Arcos_, e di _Nacaz_,
nei quali fù l'inferiorità del numero, dalla perfetta conoscenza del
terreno, dalla sperienza degl'uffiziali, dalla intiera confidenza nel
valore, non meno, che dall'amor di patria de' suoi seguaci compensata,
entrò Mina nell'Arragona. Mentre che una parte delle sue forze,
sotto gli ordini di _Cruchaga_, a Saragozza si avvicinava, egli con
tre compagnie, e pochi cavalli, sorprese un distaccamento nemico di
centocinquanta due gendarmi, e vent'otto soldati di cavalleria, senza,
che un solo abbia potuto sfuggire. Tali successi lo resero in più d'un
modo agl'invasori sì formidabile, che Tedeschi, Polacchi, Italiani, e
perfino Francesi, per riunirsi a Mina, a stuolo dalle loro bandiere
disertavano. Ei nella sua banda ne incorporava alcuni, e la maggior
parte di loro in bande separate ordinava, da lui dipendenti, ed alla
sua volontà concordemente operanti. Quindici usseri, e quattordici
fanti francesi, nel corso di soli cinque giorni, gli si presentarono.
Oltracciò, quelli Spagnuoli chiamati _juramentados_, che servivano
sotto delle bandiere francesi, ed erano sempre intenti a cogliere la
prima opportuna occasione per unirsi ai loro compatriotti, a torme,
sotto di quelle del loro paese, da Mina con brillante valore sostenute,
lietamente accorrevano.

Straordinaria cura, somma vigilanza, ed attenta precauzione, rispetto
all'aumento della propria banda, ed alla formazione di altre, od
eguali, o della sua più forti, nelle vicinanze, sarà sempre al
condottiero necessaria. Ed in fatti alcune, o molte di quelle,
potrebbero, all'oggetto di esterminare la sua persona non meno, che
la banda, essere dal nemico stipendiate. Sicarj ed assassini possono,
con tale intendimento, essere dall'avversario, ad arrolarsi fra i
volontarj, mandati. Epperciò conviene ad un condottiero di starsi
sempre in sulle guardie. Gli attuali tiranni, che il comando, e le
risorse della nazione posseggono, hanno troppi allettamenti nelle lor
mani per attirare tutt'i moltissimi vili al loro partito, i quali o
per tiranneggiare, o per vivere di quegli abusi che temono di veder
presto finire, o per la speranza di poter trarre dai loro pravi
servigi conveniente partito, pel loro ideale vantaggio o grandezza,
a commettere qualunque più abominevole iniquità, punto non saranno
per iscrupoleggiare. Per la qualcosa, i condottieri principali dei
distretti, cantoni, e provincie, dovranno sulle bande, che a campeggiar
si porranno, ben bene aprire gli occhi, e se con sufficienti pruove,
a scoprire pervengono, che quelle, simulando amor di patria, agiscano
pel despotismo, debbono tosto correrle addosso, ed onninamente
annichilarle. Ciascun condottiero particolare di banda, dovrà pure
sempre tenere una prudente cautela, ed i volontarj, che gli si
presenteranno, per essere ammessi, con occhio penetrante osservare.
Con lusinghiere promesse di grosse somme, di luminosi impieghi, di
cariche principali, ben anco i nemici cercheranno, i volontarj, ed
il condottiero stesso sedurre, onde trarli a loro partito, od almeno
piegarli a deporre le armi. I forti cittadini, quelle offerte, che
macchierebbero il loro carattere di veri, e costanti Italiani, come
conviensi, sprezzeranno, ma quei deboli, sul cuore de' quali, le
attrattive di un bene particolare, avessero maggior possa, che il
gran progetto della liberazione della patria, e del bene generale,
non tarderebbero, della confidenza nei nemici del paese avuta,
certamente a pentirsi, e conoscere, appieno, che quelli non trattano,
che per guadagnar tempo, col fine di poterci vincere. E che sarebbe
mai la loro umanità, e moderazione, se non se il mortifero veleno
dell'aspide, il quale, addormentando, uccide? Epperciò il tutto si
ridurrebbe ad un'illusione, perchè mai non sarebbero i nemici per
porre confidenza in quelli, e se succederà, che apparente fede gli
demostrino, ciò solamente avverrebbe per potergli a più bell'agio
annichilare. Tali nemici lodano sempre la virtù col labbro, ma nel
loro cuore la esecrano, e chiunque in questa guerra, sguainando la
spada, non ne getta via il fodero, e pensa a trattati, ed a pace,
dovrà irrevocabilmente perire. Alla funesta catastrofe, che pose fine
alla vita del prode, e sagace ammiraglio Gaspare de Colignì, ed a
quaranta mila Ugonotti ammazzati in uno stesso giorno e nella stessa
ora, rivolgasi di grazia il pensiero, e basterà quel solo esempio, per
convincere chiunque, che i patti, le transazioni, le convenzioni, tra
i popoli insorti, ed i tiranni, ad altro non servono, se non a dare
maggior facilità a questi ultimi, per distruggere i primi. Finalmente
la condotta dei tiranni d'Italia, e di Spagna etc., negli ultimi
avvenimenti, e con ispezialità quella di Ferdinando di Spagna, può ad
ognuno, la fallacia delle loro promesse, i nequitosi loro procedimenti,
il dispregio, dei sacramenti, ad evidenza dimostrare. Imperciocchè si
vede, non essere stata mantenuta alcuna delle promesse, e giuramenti
da lui solennemente prestati, ma per lo contrario, quanti furono
abbastanza semplici per credere al loro adempimento, e sulla fede
del trattato riposare, furono con somma barbarie presi, malmenati,
ed inviati al patibolo, per mano del carnefice, a morire. Ognuno
sarà da ciò, e dalla lettura della storia moderna, bentosto persuaso
dell'inutilità, anzi del danno di aprire con simile razza di gente,
pratiche, e trattative. Serva quest'avvertimento, per mantenere i
condottieri, e le bande nel retto sentiero del loro dovere. Chiunque
impugnerà l'armi in favore del paese, non mai ad abbandonarle apprenda,
se non dopo della compiuta riescita del gran progetto. Quei vili, e
rabbiosi oppressori d'Italia, per la fiacchezza del loro braccio,
tutto, nel momento della paura promettono, ma non mai, svanito il
pericolo, il dovere di rispettare le convenzioni, riconoscono, e con
un'anima nera, empia, e feroce, si fanno della santità del giuramento,
sacrilega beffa. Desti nell'anima d'ogni Italiano, aborrimento, la
vergognosa idea di negoziare con quelle tigri! Possa dalla mente
di ognuno dei valorosi guerrieri difensori della patria, tale idea
interamente dissiparsi!



CAPITOLO II.

DELLE MARCIE, CONTRO MARCIE, RITIRATE.


Se tutta l'arte di questa guerra, nel comparire consiste, sulla fronte,
sui fianchi, ed alle spalle del nemico, e quindi scomparire, nel
farsi, ora sù d'una vetta, ora sull'altra inaspettatamente vedere, e
nel tener sempre l'avversario a bada, molestato e confuso, ne avviene
che le continue marcie, contro marcie, e ritirate debbono essere
quelle, che finalmente, a quel condottiero daranno la causa vinta, che
saprà con accortezza, velocità e prudenza, portarle ad effetto. Per
mezzo di queste ben dirette operazioni, mentre gli eserciti Francesi
giunsero fino a Gibilterra, le bande Spagnuole nel cuore della Francia
penetrarono, ed alle stesse porte di Tolosa imponevano balzelli; e
per tal modo a quelle colonne misero paura, che dovevansi per far
loro la guerra, in Ispagna introdurre. Pel mezzo indicato, bruciando
i villaggi, e devastando le campagne, portarono le bande nel 1810,
11, 12, nei dipartimenti dell'_Aude_ e dell'_Arriege_, lo scompiglio
e spavento, e fecero lo stesso Napoleone, oltremodo sorprendere, tal
che, al generale comandante in Catalogna, ordinava di porre in non
cale tutte le altre operazioni, per vantaggiose che fossero, onde
concertarsi col generale Reille, ed a lui unirsi con tutte le forze,
per salvare l'integrità dell'impero, ed alla difesa del medesimo,
prontamente accorrere. Per lo mezzo delle già dette operazioni, per
ultimo, si mantennero le numerose bande, che per la liberazione della
Spagna erano in armi, e nel loro intento, con somma lode, riescirono.
Dovendo il condottiero stordire, turbare, ed atterrire il nemico,
farsi credere forte, per quanto in numero è debole, l'apparenza
delle sue forze con le marcie, e contro marcie moltiplicando, dovendo
essergli vicino, quando è creduto lontano, e per l'opposto, lontano
quando è creduto vicino, fà d'uopo per quest'effetto, che sia in
attività continua, e che faccia la sua truppa velocemente camminare.
Se il condottiero si trova per esempio nella posizione A, vicino alla
posizione B occupata dal nemico, e che voglia quello sorprendere od
inquietare, dovrà, con una rapida marcia, portarsi al punto C, che sarà
il punto di congiunzione dei due lati di un angolo acuto, e con una
contro marcia veloce, al punto B, cadere addosso all'avversario, che
tranquillo se ne starà in riposo, credendolo al punto C. Serva questa
dimostrazione pel metodo da tenersi, in generale, nelle operazioni di
questa guerra.

Siccome le marcie de' volontarj sono un oggetto così essenziale,
ci converrà, di passaggio, alcuni particolari a quelle concernenti,
per minuto esaminare, sopra tutto, perchè in molti rispetti, dalle
regolari differiscono. Osserveremo primieramente, che ogni individuo
deve portare un fiasco impagliato oppur di cuoio, pieno d'acqua,
nella quale sia mescolata una quinta, o sesta parte d'aceto, affinchè
possa dissetarsi senza bere acqua delle fonti, che nocevolissima si
rende a chi nelle marcie ne beve. Ei non deve aver nulla nel suo
equipaggio che possa incommodarlo o farlo nel cammino ritardare;
un _antiguardo_ onde perlustrare il paese, ed un _retroguardo_,
per impedire che i volontarj s'arrestino, lascino dei _vacui_ nella
colonna, predino nelle case, nei giardini, nelle vigne, etc., sono
del tutto necessarii. Può il condottiero stare alla testa, al centro,
od alla coda della banda, ciascuno degli uffiziali, alla testa delle
rispettive porzioni di truppa da loro comandate. Debbono i fianchi
essere da corridori estratti dalla banda cautamente esplorati. Le
strade scoscese, ed aspre, saran le prescelte, perchè meno esposte, e
meno all'inseguimento del nemico soggette. Puossi bensì nel piano, sù
di molte colonne di fronte, marciare, locchè aumenta la rapidità dei
movimenti, ma sui monti è necessario che quelle sieno al minor numero
possibile ridotte. Le alture, le vette, le sommità, dalle quali si
possa scoprire il nemico, senza essere veduto, onde siano coperti i
nostri movimenti, esser debbono dal condottiero preferite, che dovrà
parimenti evitare d'inoltrarsi nei burroni, negli stretti, nelle
valli, dove possa essere veduto, e non vedere il nemico. Con aspri,
ed inopinati attacchi, si può costringere l'avversario a movimenti
circolari, a disposizioni d'attacco, e guadagnare un giorno di
marcia, per allontanarsi da lui. Sono questi precetti per la riescita
di qualunque marcia, contro marcia o ritirata, essenzialissimi. Ma
non potrebbero mai queste, bene eseguirsi, ed avere un favorevole
risultato, se i volontarj non si trovano essere ai nemici, che si
debbono combattere, di gran lunga, nel camminare, migliori. Che gli
italiani siano più agili, svelti e forti camminatori dei barbari,
non v'ha certamente chi lo metta in dubbio! Epperciò, esser loro
dovranno nelle marcie, infinitamente superiori. Parlando il Botta
di una spedizione comandata dal colonnello Tarleton contro degli
Americani, che riescì felicemente, così si spiega: «Malgrado della
stanchezza degli uomini e dei cavalli, dei quali alcuni, per questa
sola cagione, erano morti, e del calore della stagione, raddoppiò i
passi, e tanto fù presta la mossa delle sue genti, che venne sopra il
nemico in un luogo chiamato Wacsowes, trascorso avendo 105 miglia in
cinquanta quattr'ore.» Una simile marcia, essendo la truppa, spossata,
deve molto rapida, certamente parere, ma se volgiamo l'occhio a
quelle dei condottieri delle bande spagnuole, non ci stupiremo. E
per non parlare di quelle del tempo della guerra dell'indipendenza,
parecchie delle quali furono maravigliose, ci basti accennare fra le
molte del generale Milans nell'ultima guerra della libertà in Ispagna,
quella operata contro dei faziosi apostolici, l'anno 1822. Incaricato
quell'ottimo condottiero di scortare un convoglio fino al castello
di Hostalrich, col battaglione, e corpo de' lancieri, ambi composti
di proscritti Italiani, che tanto in quella guerra s'illustrarono,
e con alcuni distaccamenti spagnuoli; tosto, dopo del suo arrivo
in Matarò, fatto consapevole che un numero di faziosi, di molto più
forte della sua colonna, lo aspettava nelle vicinanze del suddetto
castello, per rapirglielo di mano, egli lascia il convoglio a Matarò;
parte con la sua truppa; si porta a San Celoni; viene in dietro
per Hostalrich, cade, all'improvviso, addosso ai faziosi in Pineda,
prendendogli a rovescio, ne fà un generale macello, e se ne ritorna
di volo a prendere il convoglio, che nel castello senza opposizione,
introduce. Questa contro marcia, in parte, notturna, di circa settanta
miglia, per balze, dirupi, e cammini scoscesi, effettuata nel periodo
di sole diciott'ore, salvò il convoglio, e sarà sempre, stupenda, e
degna di grand'encomio pel generale che la ideò, e per la truppa,
che la sostenne, da ognuno considerata. Non meno comandevole anzi
di maggiore elogio, meritevole, si è la marcia pure dal generale
Milans, alla testa d'un corpo d'Italiani, e Spagnuoli eseguita, che
da Matarò, scortando un convoglio di muli carichi, passando per aspri
cammini, e dirupi, si portò per marcie circolari, da Matarò fino a
Vich, e percorse in vent'otto ore di marcia più di novanta miglia di
seguito. Poscia i volontarj, digiuni, assetati, e sfiniti, dovettero,
tosto giunti alla distanza di quattro miglia da quel paese, venire
alle mani col nemico, ed allora duecento Italiani, e quattro cento
Spagnuoli, sconfissero, e misero in piena rotta approssimativamente
sei mila faziosi apostolici. Questa marcia straordinaria non meno,
che il successivo combattimento, in che tanto risplende il valore
Italiano, ci prova la loro attitudine in questo genere di guerra.
E che non avremmo noi da aspettare, se tanto fecero in una terra
straniera, quando per la patria, pegli amici, pei parenti, per la
felicità dei loro compatrioti, a combattere intraprendessero? Tosto
che le bande comincieranno a prendere incremento, e così dar ombra ai
nemici, non v'ha dubbio che questi da Italiani esecrabili, ajutati,
(i quali per agevolar loro la conoscenza del paese, infelicemente
non mancheranno) formeran tosto il progetto di dar loro la caccia,
come agli orsi, ed alle pantere, e disegneranno di rinchiudere tra le
montagne, quelle bande che più saranno rinomate. E per ciò conseguire,
essi riuniranno forti corpi di truppe, dalla periferia al centro, quel
determinato territorio irradiando, onde non possano le bande avere
favorevole probabilità di salvarsi dalle loro mani. Ma i condottieri,
che conosceranno tanto il terreno, e del pari coloro da cui saranno
incalzati, che non perderanno mai speranza, nè mai saranno di risorse
dal proprio loro genio create, deficienti, divideranno, ad imitazione
del celebre Mina, la loro truppa in piccole colonne mobili. Queste in
tante direzioni differenti, marcieranno; ma con istruzioni tali, che,
se mai si presentasse una favorevole opportunità, si possa la loro
riunione, in un punto stabilito, rapidamente operare. Sparpagliatisi
quei drappelli per le montagne, sarà loro cosa facile di guizzar di
mano al nemico, che pell'irregolarità del terreno per la scabrosità dei
siti, non potrà mantenere una catena di correlazione fra un raggio, e
l'altro delle truppe attaccanti, e sarà obbligato di tanto lontano, la
linea estendere, che la sua forza, per numerosa che trovisi, non sarà,
per coprirla, sufficiente, od altrimenti, dovrà tenersi concentrato
senza che alcun'oggetto, il richiegga. In questo stato di cose, i
nemici non anderanno d'accordo nelle operazioni da eseguirsi, si
confonderanno, tituberanno, e prima che si decidano in qual maniera
avranno da operare, e dove dovranno, per cercare la banda, che
disparve, indirizzarsi, l'avveduto condottiero avrà già la sua truppa
in un punto lontano, e fuori della scala delle loro operazioni, di bel
nuovo riunita. Essendo Mina nel pese di _Cerna_ nella attuazione sopra
descritta, il generale Reille, a _Tafalla_ e Caffarelli, a _Monreal_,
colle loro divisioni, ognuna in talmodo un'ora da lui distante,
portossi nel giorno seguente a _Sanguesa_, e siccome non v'era
apparenza, che il nemico disegnasse di muoversi, rimasevi l'intero
giorno. Ma prevenuto l'indomani mattina, che Caffarelli si avvicinava
a _Lumbier_, e Reille a _Caceda_, due punti, due ore da lui, distanti,
ci spedì immediatamente la sua cavalleria, lungo il fiume _Aragone_,
per attirare l'attenzione del nemico da quella parte, e marciò colla
fanteria ai monti di _Bigueza_. Seguitaronlo le due divisioni nemiche,
una sulla destra, l'altra sulla sinistra, e speravano di potere, in tal
modo, metterlo in mezzo a due fuochi. Ma buon calcolatore del tempo, ed
avveduto, Mina conobbe di aver il vantaggio d'una mezz'ora di cammino
sopra di loro, e non mancò di profittarne, onde giungere ad un altro
monte, e mettere la sua truppa in ordine per difendere la posizione.
La sera però, il nemico, sia scoraggito dall'asprezza del luogo, sia
nel pensiero di poterlo quindi con maggior vantaggio attaccare, sia
ingannato ne' suoi calcoli, si mosse in direzione opposta, e potendo il
condottiero spagnuolo avere, un pò di respiro, si porta al Villaggio
di _Veguezal_. Per fortuna dei nemici, giunsero il giorno appresso
dal distretto delle _Cinco Villas_, numerose truppe francesi di
rinforzo, ed i generali, di ciò soddisfatti, risolsero di attaccarlo
da tre parti, cioè dal _Puerto_, _Navascues_, e _Tiermas_. Mina, come
buon condottiero, n'ebbe sollecita, ed esatta informazione, e tutti
gl'ingannò; portandosi rapidamente ad _Zruzozqui_. Caffarelli non
tralasciò di seguitarlo fino ad _Artieda_, situata ad un'ora e mezza di
distanza. Nulla dimeno, malgrado tutta la perspicacia, e la velocità,
non potè, il prode condottiero, evitare il giorno dieciotto di giugno,
sulla strada d'_Aoiz_, di scontrarsi colla colonna di Caffarelli. Presa
immediatamente una buona posizione sopra di alcune vantaggiose sommità,
respinse con tanto vigore, l'attacco del nemico, che gli ammazzò più
di trecento uomini, ed ebbe, con questa vittoria, un giorno di respiro
sù de' suoi persecutori guadagnato. Gli venne il giorno 20 a notizia,
che Reille si era di nuovo unito a Caffarelli con lo scopo di venire ad
un combattimento decisivo. Allora Mina, come quello, che conosceva di
dovere per certo avere il peggio in un combattimento cercato da quei
generali, si decise a sparpagliare la sua piccola forza, ed in quel
modo le probabilità di guizzargli dalle mani, vieppiù moltiplicare.
Mandando Cruchaga con la terza parte delle sue forze, nella direzione
di _Roncesvalles_, egli, cogli altri due terzi, marciò alla volta
di _Zubiri_. Ei seppe, cammin facendo, che i Francesi erano stati in
_Aoiz_ al numero di 6000 fanti e 700 cavalli; e che in quel momento
erano così disposti, cioè, che 4000 marciavano sopra _Zubiri_, che
altri 2000 con 400 cavalli eran diretti verso la città di _Uroz_; che
Reille con 300 cavalli erasi portato a _Pamplona_, che inoltre 200
uomini reduci dalla scorta dei feriti, erano pure, con un rinforzo
di munizioni, avviati verso _Zubiri_. Abbenchè terribile si fosse
questa informazione, mangiò nulla dimeno, la truppa, il necessario
suo frugalissimo cibo, e malgrado una dirotta, ed incessante pioggia,
tornò indietro a _Larrainzar_, daddove Mina mandò la metà della forza,
che gli rimaneva, a _Bustan_, ed egli stesso, col rimanente, misesi
alla volta del villaggio d'_Illarse_ in cammino. Questa separazione
sebbene utile, non fù però, a diminuire il suo pericolo, sufficiente,
perchè i Francesi, cosa di molto più importante, il possesso della
sua persona sola, che la distruzione della truppa, giustamente
stimavano. Epperciò stavangli strettamente alla pesta; da _Illarse_
l'inseguirono fino a _Villanueva_ in _Araguil_, dove Mina arrivò
verso la mezzanotte, e partì alle due del mattino. Non più lungo fù
in _Echarri-Aranaz_, il suo riposo, di là pel _Puerto_ di _Tizatraga_
si indirizzò al _puerto_ di _Lezaun_, ed in quel luogo eziandio
stavagli quasi addosso, il nemico. Giunse finalmente a los _Arcos_,
ed il Francese stanco, e fuor di speranza di poterlo raggiungere,
fece alto ad _Estella_, dodici miglia da lui lontano. Non perse
Mina il tempo, richiamò le forze da _Roncesvalles_, e da altre parti
dove le aveva spedite. Queste in pochi giorni riunironsi, ed occupa
_Estella_, stata poc'anzi dai Francesi abbandonata. È forza ammirare
la continua mobilità di questa banda, la costanza, e perspicacia del
condottiero, l'ostinazione, e sobrietà dei volontarj, non meno, che
la loro disciplina, la quale faceva sì, che con sollecita diligenza
si recassero al tempo, e luogo prefisso, senza neppure, di andarsene
alle case loro, far pensiero, dinanzi alle quali molte volte, per lo
più, strettamente inseguiti, e per bande separate dispersi, dovevano,
trasferendosi al destinato punto, passare. Aborrirono essi l'idea,
che il ritirarsi individualmente in quelle, sarebbe stato l'unico
scampo cui si poteano appigliare. Tutto ciò, solo ad uomini che per la
loro patria, pel bene comune combattono, richiedere poteasi, e dagli
eroi potea unicamente operarsi. I patrii, e militari progressi di
Mina, l'avevano portato ad un punto, che ogni nuova bella operazione,
aumentando la sua celebrità, senza accrescere le sue forze, non
serviva, che a metterlo in maggior pericolo. Imperciocchè il nemico,
inasprito, faceva maggiori sforzi per giungere alla sua distruzione.
Truppe furono mosse dall'Aragon e dalla Navarra, per inseguirlo, e di
giorno, di notte, nelle valli, e nei monti, doveano dargli animosamente
la caccia. Il generale Harispe, con una divisione di tre mila fanti, e
duecento cavalli, occupò i punti di _Sanguesa, Galipienso_, ed altri
passi importanti nell'Aragona, ed il generale Panatier con un'altra
divisione osservava la _Ribera de los arcos_, _Estella_, ed il suo
circondario, e tre colonne mobili, per ogni direzione perseguitavanlo,
e marciavangli addosso. Il primo pensiero dell'eroe navarrese, quando
così davvicino trovossi circondato, si fù di baldanzosamente il nemico
attaccare. Ma ben bene la cosa bilicando, troppo debole di forze si
riconobbe. Per la qual cosa, dando le spalle al nemico, marciò pel
_Carrascal_ sopra _Pamplona_. Quando là vicino pervenne, due colonne
francesi a poca distanza gli si affacciarono, ed egli immediatamente
verso _Lumbier_ contrammarciò. Harispe i suoi movimenti previde.
Epperciò, Mina in _Zrurozqui_ trovossi l'inimico a fronte. Avevano i
volontarj nei tre precedenti giorni fatte rapide non meno, che lunghe
marcie. Pur non dimeno, con la loro solita indomita risolutezza,
alla battaglia si disposero, e seguinne rabbioso azzuffamento. Cinque
volte Harispe sulla posizione spagnuola vigorosamente slanciossi, e
n'ebbe sempre il peggio. La metà della cavalleria francese fù, ne'
suoi vani tentativi per rompere la banda, interamente distrutta.
Però, accortosi Mina d'un'evoluzione fatta dal nemico per tagliargli
la ritirata, raccolse, con sano consiglio, le truppe, e cominciò
in tempo, ed in buon ordine a ritirarsi, mantenendo sempre un ben
nutrito fuoco fino a notte oscura continuato. Quando, tutt'ad un
tratto, un'improvvisa, e folta nebbia coperse amici, e nemici, ed
in quell'oscurità i Francesi e Spagnuoli frammischiati e confusi,
facendo l'un l'altro, fuoco sui propri commilitoni, in tal confusione
s'ammazzavano. Ma freddo, e presto in tali eventi, il condottiero
suppone l'esistenza d'un passo difficile, lo trova, e velocemente
se ne impadronisce, situa in favorevole posizione la sua banda, ed
il nemico non l'osa inseguire. Mina seriosamente riflette, e vede di
non esservi probabilità di poter uscire dalle mani degli avversarj,
(che sono in un numero assai maggiore) da cui trovasi per ogni parte
circondato, e divide la sua forza per compagnie, e la manda in tante
separate direzioni. Egli stesso non si ritiene che soli venti uomini
a cavallo, coi quali entra nel territorio francese, e scorre nelle
vicinanze di _Roncesvalles Viscarret ed Albaceyla_, che mette a sacco e
fuoco. Pensava egli, con questa misura, di portare il nemico a perderlo
di vista, e l'attenzione sua distrarre, separare una parte delle sue
truppe, mettere lo sconcerto, e la divisione fra i comandanti, e potere
tosto, avutane l'opportunità, di bel nuovo i suoi compagni riunire, per
quindi, sul nemico, quando meno se lo aspettasse, con tutta la banda
piombare. In fatti non tardò molto a verificarsi ciò ch'egli supponeva.
La maggior parte dalle truppe spedite contro di lui, dovettero verso
Saragozza indirizzarsi, e Mina di ritorno in Navarra, la sparpagliata
banda immediatamente riunì. Tanto erano bene istruiti gli uffiziali e
volontarj, tant'era l'amor di patria sui loro cuori possente, che in
pochissimi giorni, l'intiera banda fù, come per miracolo, in allegria,
ed in buonissimo stato, acconciamente riaccozzata. Quanto di Mina si
è detto, potrà di utile ammaestramento, tanto ai condottieri, come
ai volontarj, servire, che in una guerra d'insurrezione per bande,
vogliano militare. Le marcie, contro marcie, e ritirate, in una guerra
di questa specie, in che si tratta sempre di marciare, contro marciare
e ritirarsi, o per combattere, o per evitare il combattimento, hanno
fra di loro pochissima differenza. Le marcie semplici; le contro
marcie di evoluzione, alla vista del nemico in pianura, le ritirate
sostenute e di fronte per passaggio di linee, etc., non potendo aver
luogo in questa guerra, ne avviene, che quasi tutte sono dello stesso
tenore. Però variano nelle loro parti, all'infinito, e non si possono
per quelle, dar regole determinate, essendo alle circostanze, al modo
dell'attacco ed agli accidenti del terreno, sottoposte. Una banda che
andando pei monti, e colline, s'incontri nell'avversario, potrà senza
disperdersi, dall'inseguimento andar salva, quando non sia da quello
strettamente circondata. Ed a tale effetto, dovrà il condottiero
situarla per decurie, e per iscaglioni, presentando al nemico una
fronte obliqua. Ogni scaglione di dieci uomini uniti col dorso in
dentro, formante un gruppo rinserrato di figura tonda, farà fuoco alla
sua volta. Il primo, dopo d'aver fatto fuoco, si volgerà la fronte
addietro, e per la linea perpendicolare, si porterà rapidamente a
collocarsi alla coda della colonna. Sarà quello dal fuoco del secondo,
sostenuto, che rimarrà, fino a che il primo sia quasi alla metà della
colonna. Quindi partirà, e sarà sostenuto dal terzo, e così seguitando,
una banda potrà per lunghissimo tratto ritirarsi. Questi scaglioni
di vetta, in vetta, di dirupo, in dirupo situati, cosa ben difficile
ad un nemico, certamente sarà di poterli non solo distruggere, ma ben
anche di loro avvicinarsi, e dovrà, per necessità della loro posizione,
e della difficoltà del terreno, andare a rilento, e sarà infine dai
medesimi bersagliato, e sconfitto, quante volte non lascia l'impresa,
ed una prudente ritirata non intraprenda. Servaci, per compimento
di questo capitolo, la esposizione della bellissima ritirata del
mai sempre commendevole brigadiere Don Gervasio Gasca, nella guerra
dell'indipendenza spagnuola, in che operò egli difficilissime marcie,
contro marcie, e con somma gloria, finalmente a ritirarsi pervenne.

Nominato dopo la caduta di Tarragona, il generale Don Luigi
Lacy, in vece del generale Campo Verde, al comando dell'esercito
distrutto, mentr'egli, per riaccozzare gli avanzi, s'adoperava, fù
pell'impossibilità in che si trovava, di sostenerlo, e mantenere i
cavalli, costretto a mandare un corpo di cavalleria ad unirsi ad un
altro esercito. Il brigadiere Don Gervasio Gasca comandava a quella
divisione composta di dodici uffiziali subalterni, novecento e ventidue
uomini e quattrocento novantanove cavalli, rimanenti dei reggimenti
d'Alcantara, dragoni di Numanzia, usseri spagnuoli, cacciatori di
Valenza ed usseri di Granata. Dovevano questi passare pell'Aragona,
nella parte libera del paese, ed incorporarsi nel primo esercito, che
incontrassero. La relazione di quella marcia dimostra benissimo la
perizia del nemico nel cogliere le posizioni per mantenersi nel dominio
militare del paese. Imperciocchè, sebbene fosse Valenza così vicina,
non dimeno dovè Gasca fare una marcia di sei settimane e percorrere
lo spazio di sette cento quaranta quattro miglia, prima di potersi
ad un esercito spagnuolo congiungere. Cominciò egli tale pericolosa
ritirata il dì 28 di luglio, coi cavalli, per mancanza d'alimento,
nello stato il più miserabile, e senza un soldo di danaro in cassa per
pagare il soldato, ed alle altre spese, provvedere. Le provvisioni,
ed informazioni, venivangli dal caso, dalla forza e dalla carità,
solamente fornite, perchè altro mezzo non aveva per procurarsene.

S'incontrò a Grans, con una piccola banda di nemici, che con parte
della sua forza trattenne, mentre il rimanente guadava l'_Esera_ per
_Barazona_. Facendo lunghissime marcie, onde prevenire l'avviso, che
avrebbe potuto ricevere il nemico, riuscì a passare i fiumi _Luenca_,
e _Gallego_, senza opposizione. Ma quando si trovò nel distretto
de _Las Cinco Villas_ di Aragona, egli conobbe, che i Francesi
da _Barbastro_, ed _Huesca_, erano stati in osservazione de' suoi
movimenti e riunivansi, per tagliare a pezzi la sua colonna. Allungò
allora le sue marcie, prese una deviata direzione, in modo che quelle
divennero circolari, e non marciò che di notte. Malgrado tutte queste
saggie precauzioni, non potè schivare di essere attaccato a mezza notte
nelle vicinanze del villaggio di _Luesca_ senza sapere da qual forza.
Ma pur egli conobbe che il fuoco veniva dal villaggio e da un'altura
che dominava il terreno, per dove la colonna passava. Gasca, d'animo
forte, voleva continuare la marcia e ad ogni evento, coll'avversario
cozzare; ma la colonna esitò. Essa si confuse, e non fù più possibile
al condottiero d'impedirne la fuga, e lo sbandamento. Nulla dimeno,
giudizioso e previdente, ei colse prima che quello si effettuasse, un
opportuno momento, per indicare un luogo non praticato, dove ciascuno,
o per individuo, o per truppa, dovesse nel termine di tre giorni
riunirsi. Ciò stabilito, egli pure con soli dodici uomini prese la
fuga. La ritirata fù precipitosa, ognuno pensò alla propria salvezza.
Nulla dimeno, al terzo giorno, tutti all'indicato punto di riunione, in
un luogo circondato da boschi, alle falde di un monte si ritrovarono.
Appena che la colonna tornò a marciare, un corpo di mille fanti e
trecento cavalli, sotto agli ordini del generale Polacco Clopiski,
s'affrettava ad impedirgli il passo del Gallego. Ma Gasca, per
evitarlo, si gettò rapidamente nella Navarra. E non potendo effettuare
il pericoloso passaggio dell'Ebro senza la cooperazione di qualche
banda, egli mandò immediatamente messi a Mina, onde richiedergli un
indispensabile ajuto. Per tre giorni, rimase in _Eybar_ ad aspettarne
la risposta, e tre distaccamenti di cavalleria di quel distinto
condottiero, il raggiunsero quindi, per dargli ajuto e servirgli di
guida. Fù la loro conoscenza del paese di sommo vantaggio; e con una
marcia rapida, ed inaspettata, si portò Gasca ad uno dei guadi del
fiume, le acque del quale erano gonfiate; locchè mise la truppa in
necessità di passarlo al nuoto. Il passaggio non dimeno ebbe luogo, ed
una marcia circolare, che durò dalle quattro pomeridiane fino alle otto
della mattina seguente, immediatamente intraprese, onde potersi tener
fuori di tiro dalle guarnigioni di _Tafalla_, _Caparroso_ e _Tudella_;
essendo divenuto allora meno imminente il pericolo, sebbene non meno
grande, Gasca faceva marcie più brevi ed a seconda degli avvisi, che
si procurava dei movimenti del nemico, ne variava la direzione. In tal
modo, dopo del corso di sei settimane di pericoli e disagi ricolme, che
pochi popoli potrebbero sostenere, all'eccezione di quelli, che pel
santo amor di patria imprendono a combattere, per la via convergente
di Guadalaxara e Cuenca, coll'esercito di Murcia si congiunsero; gli
Spagnuoli avendo in questa marcia perduto quattro uffiziali, cinquanta
tre soldati e dugentotredici cavalli, di cui la maggior parte fù, nella
marcia notturna, sul cammino di _Luesca_, smarrita, quando perdè di
vista la colonna: una parte dei cavalli, morì per istrada, spossata
dalla fatica e dalla fame.

Terrà dunque il condottiero, sempre fisso in mente, che deve sulle
marcie e contro marcie, tutta questa guerra posare; si sovverrà, che
con quelle, nel tempo della maggior potenza della republica Romana, i
Parti dall'esercito di Crasso si liberarono, e resero quindi la gita
di Antonio funesta e vergognosa; ei si sovverrà che con quelle, Arminio
potè resistere all'esercito di Germanico, e la salute delle legioni di
Cecina, sommamente mettere in forse; e che per ultimo, quelle diedero
la vittoria a Napoleone, nelle pianure di Marengo, che unite al suo
felice ardimento nel valicare il Po a Piacenza, e l'Adda a Lodi,
la strada a grandi, ulteriori, decisivi successi, gloriosamente gli
aprirono, nel mentre che, allo sbaglio da lui commesso, nell'essersi
contro de' precetti dell'arte militare, sù di Milano anzicchè sù di
Mantova, diretto, poser conveniente riparo. Da tali esempi ammaestrato,
entrerà con sicurezza il condottiero, nei non ancora in Italia
camminati sentieri di questa guerra, e potrà cogliere pregiatissimi
frutti di patrio profitto.



CAPITOLO III.

VALICO DI FIUMI.


Dovrà soventi volte al condottiero di una banda, senza dubbio,
accadere, sopra tutto in Italia, la superficie della quale si trova
in ogni direzione, e ad ogni passo, da fiumi attraversata, di essere
dal genere della guerra, costretto or d'impedirne il valico al
nemico, ed ora di doverlo per sè stesso effettuare. Oggetto dunque
di gran momento, e degno della maggior attenzione, dovrà questo, dal
condottiero essere considerato.

In varie maniere, sopra ponti fissi di pietra, o di legno, o sopra
ponti di barche, o zattere, o al guado, si possono i fiumi valicare.
Difficil cosa sarebbe per le bande, il passaggio d'un ponte, a viva
forza impedire, quantunque impossibile in varie occasioni, non sia
da giudicarsi. Non potendosi però, una eguale, o superiore forza
disciplinata opporre a quella, che il valico ne intraprende; non si
potendo in ben costruiti trincieramenti in fronte, all'imboccatura del
ponte, rimanere; i soli modi per noi possibili, atti per impedire al
nemico di passare il fiume in qualunque maniera lo tenti, sia sopra
ponte, sia al guado, sono i seguenti. Primieramente il ponte pel quale
l'avversario deve passare, non potendosi con regolar metodo difendere,
converrà che si faccia saltare in aria, prima, che quegli alla vista
del medesimo si presenti. Potransi pure praticar delle mine in modo,
che al passar del nemico, quando la truppa si trova dissopra, scoppj,
e si spacchi. Ma siccome gli avverrà di frequente, d'essere in penuria
di polvere per ciò eseguire, si dovranno allora, se il ponte è di
legno, segare le travi, o se si trova essere di mattoni, o di pietra,
in altro modo, tanto una parte indebolirne, che non possa il peso della
colonna nemica, sostenere, ma che rovini, e repentinamente cadendo,
quella malefica razza si sprofondi, e sotto rottami dello sfracellato
ponte, pel bene d'Italia, nel fiume irremissibilmente si affoghi.
Non potendosi avere il tempo di fare i sopra menzionati preparativi,
si renderanno inutili i ponti, collo distruggere due, o tre archi di
seguito.

Se il ponte sarà di legno, potrassi agevolmente incendiare; ma se il
nemico già trovasi in tal vicinanza, che il tempo non sia per far ciò,
sufficiente, si riempiranno dei battelli con materie combustibili,
e dalla parte superiore del fiume, verso del basso si lancieranno, i
quali, tosto giunti a poca distanza del ponte, si dovranno accendere.
Se quello sarà di barche, potrassi parimente col fuoco distruggerlo,
oppure lanciandogli contro, dei grandi alberi, i quali passando
in mezzo alle barche, scompaginandole, ne facciano andare alcune a
fondo. Battelli carichi di pietre, e di terra, e mille altre cose di
questo genere, possono a quell'uopo servire. Un ponte di barche verrà
con poca fatica distrutto, mandandovisi volontarj, che sott'acqua,
si portino a segare le corde con che sono quelle, assieme legate,
oppure ne perforino alcune che riempendosi d'acqua, vadano a fondo.
Quanto si è detto pei ponti di barche, può farsi, in parte, a quei
di zattere applicabile. Se l'impossibilità esiste della distruzione
dei ponti di pietra, di mattoni o di legno, si dovranno con grossi
tronchi d'alberi, con grandissimi sassi, con rottami d'ogni più brutta
specie, interamente ingombrare; praticar molti trabocchetti; piantar
piuoli in terra; i parapetti d'ambe le bande rovinare; in somma far
quanto, per impedire, od almeno ritardare o molestare il passaggio,
al nemico, sia per essere adatto. Non potendo le bande costruire
ridotti, spalleggiamenti, etc., nessuna opera fortificata, essendo
loro possibile d'avere, non possedendo sufficienti cannoni, nè una
forza bastevole per opporsi al passaggio del nemico, potranno tenersi
imboscate nelle selve, e foreste, che quasi sempre si trovano ai lati
dei fiumi, e sorprendere i primi distaccamenti, che passano, se pur
le bande si trovano in numero superiore alla colonna avversaria. Se
poi vi sono inferiori, lascieranno sfilare il nemico, ed i volontarj
quatti quatti, aspetteranno di poterlo attaccare alle spalle, e
distruggergli il _retroguardo_. Potranno pure a tal fine, dopo d'aver
incagliato il passaggio del ponte, portarsi con tutta velocità a
qualche guado dalla parte superiore od inferiore del fiume; o se quello
non si trova, passarlo al nuoto, e con un rapido movimento cadere alle
spalle del nemico, quando già abbia intrapreso, e quasi effettuato
il suo passaggio. Se varie combinate bande agiscono assieme, possono
le une da una parte e le altre dall'altra, con vantaggio molestarlo.
Se il passaggio del ponte si trova essere di somma importanza per la
cosa publica, allora il condottiero, anche senza tutt'i mezzi, ma col
suo coraggio, e decisione, lo dovrà fino all'estremo, pervicacemente
difendere. Nell'anno 1812, un corpo di dugento Spagnuoli, sotto
agli ordini di un commendevol capo, per nome Miranda, si pose in
una chiesa, situata all'imboccatura del ponte di _Alba de Tormes_,
e per lo spazio di due intieri giorni, tutto l'esercito Francese
contenne, che inseguiva lo Spagnuolo, ed Inglese combinato; locchè,
si può ben dirlo, ambi quegli eserciti salvò da una rotta, a che,
se non guadagnavano quei due giorni di marcia sù de' nemici, stati
sarebbero inevitabilmente sottoposti. Non ebbe però luogo il generoso
sagrifizio a che quel pugno di valenti erasi dedicato, poichè alla
terza notte, calcolando di aver dato all'esercito amico il tempo
necessario per allontanarsi, slanciossi Miranda con tutta la truppa,
che gli rimaneva, per mezzo al nemico, il quale attonito, e confuso ad
una tale inaspettata risoluzione, non fù d'impedire la sua ritirata,
capace, che con pochissima perdita, regolarmente si eseguì. Quando il
generale Cuesta fù da un corpo di dieciottomila Francesi assalito, i
suoi soldati regolari, secondo il solito, lo abbandonarono, ma una
banda di pressocchè seicento studenti, che al fuoco, per la prima
volta, si presentava, il ponte situato sulla strada di Burgos, per varj
giorni valorosamente difese, finchè, diretti più dal loro coraggio che
dall'arte di questa guerra, soverchiati dal numero de' nemici, furono
tutti al fine trucidati. Questa generosa risoluzione diede il tempo ai
militari sbandati, di riunirsi, e di recare al nemico, nell'avvenire,
gravissimo danno.

Onde impedire, che il nemico passi un guado, si dovrà, in primo luogo,
aver cura di far gonfiare il fiume in quel luogo stesso dove si suppone
ch'egli lo voglia passare, in modo, che straripino le acque. E se il
fiume si trova vicino a qualche palude, si faranno argini, o chiusure
al dissotto del guado, affinchè l'acqua, essendo contenuta, si gonfi al
luogo destinato. Si possono pure gettare nel fondo, triboli; piantare
piuoli, che siano gli uni lunghi, gli altri corti; tavole ripiene di
lunghi chiodi, erpici, strascini, scavare dei pozzi, e gettare grossi
tronchi d'alberi. Oltracciò puossi colla zappa rendere più erta la
ripa, che si trova dalla parte, a quella del nemico opposta. Quanto
alle operazioni militari della banda, per difendere il passaggio,
dovranno quelle essere le stesse di ciò che si è detto rispetto ai
ponti.

Avendo brevemente accennato il modo di difendere il passaggio de'
fiumi, sù di che poco ci siamo diffusi, quelle nozioni, alla guerra
tattica parimenti appartenendo, tratteremo pure in iscorcio del modo,
di che debbano le bande usare per tragittarli.

Non dovrà mai un condottiero avventurarsi a passare un ponte o
guado dai nemici regolarmente difeso, se a ciò dalla necessità non
trovasi costretto, ed allora solo, scagliandosi in mezzo di loro,
con impareggiabile ardimento, abbagliandoli colla sua temerità, egli
potrà, in un felice successo, fondatamente sperare. Ma dovrà sempre
preferire a passarli al nuoto, o con marcie, contro marcie, ingannando
il nemico, trovare ponti, o guadi, che non siano da quello calcolati,
e difesi. Senofonte, al libro primo delle Spedizioni di Ciro, dice
che in quel tempo, i soldati passavano l'Eufrate sù di certe zattere
ch'essi medesimi portavano con loro, ed in un momento, all'occasione,
costruivano, e nel modo seguente si spiega: «Ogni soldato portava con
sè una pelle, che gli serviva di coperta. Dovendo passare un fiume, la
empiva di fieno, o paglia, o d'altre materie leggiere, quindi ognuno,
la sua coperta ripiena, con quella dell'altro compagno, cuciva, e ne
aggiungevano assieme tutte quelle che necessarie credevano per formare
una zattera, in modo fra loro combaciate, che l'acqua non potesse
bagnare il fieno. Sopra queste, essi passavano commodamente i fiumi,
e trasportavano i loro viveri.» I Keleck coi quali in oggi ancora si
passa l'Eufrate, sono fatti quasi nello stesso modo. La pratica d'un
simile uso, quanto non faciliterebbe il valico dei fiumi? Esiste forse
alcuna cosa di più portatile d'un otro vuoto? Esiste cosa il di cui
peso sia meno considerevole di quello d'un otro gonfiato di paglia, o
d'aria? Egli è ben vero, che le schioppettate potrebbero facilmente
quella sorta di zattere affondare; ma non cesserebbero di essere
sempre utili pel valico dei fiumi a distanza del nemico. Ed inoltre,
potrebbero sempre separatamente servire, onde ajutare le bande sì a
piedi, che a cavallo, quando per passare i fiumi a nuoto, si dovessero
in quelli slanciare.

Il già più volte citato medico Palarca, non si trovò mai nel valico
dei fiumi confuso; anzi schernia ad ogn'istante il nemico, del quale,
tanto per la perfetta conoscenza del terreno, che per la precauzione,
da lui costantemente tenuta, in varie parti del Tago alcune barche
sommerse, delle quali, all'eccezione di lui, e de' suoi confidenti,
nessuno conosceva il luogo, di continuo se ne facea trastullo, ed
allorchè si trovava stretto da un qualche corpo, Palarca mandava,
alquanto prima, uno de' suoi intimi, con la gente necessaria per trar
fuori le barche dal fiume, quindi subito col rimanente de' volontarj
seguiva; passava l'acqua; sommergeva di bel nuovo le barche sempre in
un punto differente. Con segreto serbato co' suoi stessi volontarj,
quel condottiero faceva un gran giro, andava a rintracciar altre
barche da lui tenute in diversi luoghi affondate fuori del circolo
in che il nemico strettamente lo attorniava, e ritornava sopra di
Madrid, prima, che quegli sapesse d'aver egli ripassato il fiume. Col
suo ardimento, avvedutezza, e velocità, teneva sempre i Francesi sì
fattamente attoniti, confusi, e molestati, che, ancora con sicurezza,
poteva difficilissime cose operare. Allora quando il valoroso Mina
volle da Navarra, portarsi a Valenza, dovendo valicare l'Ebro, destinò
un luogo, dove fece tutto disporre per gettare un ponte sopra di quel
fiume. Si radunarono colà materiali in gran copia, ed egli stesso in
quella direzione si mosse, ma alla mezza notte tornando indietro,
s'indirizzò ad un altro punto lungi dodici miglia, entrò il primo
nel guado per iscandagliare la profondità dell'acqua, ordinò ad ogni
cavaliere di prendere un fante in groppa, e con tutta la sua banda,
potè in questo modo, il fiume felicemente valicare, mentre il nemico,
in triplicata forza, per assalirlo, dove credeva, che facesse il ponte,
fermo lo aspettava. Un altro modo più facile, fù alcune volte nel
tempo delle guerre di Napoleone, con felicissima riescita praticato.
Consiste questo nel far passare dall'altra parte del fiume, alcuni
volontarj al nuoto con funi, ed assicurate queste a forti piuoli fissi
sulla ripa da che si parte, e portate fino alla sponda contraria,
dovranno pure essere colà ad alberi, o piuoli, che porteranno con
essi loro, fortemente legate. Stese quindi, ed assicurate quelle funi
da una parte, e dall'altra, posta la banda in battaglia di fronte
al luogo dove intende passare il fiume, lo schioppo a traccolla; il
cartucciere attorno al collo; sfilerà per uno o per due, secondo la
quantità di funi stese, e ciascun individuo, afferrando, con le due
mani la corda tesa, e facendola verso del lato dove vorrà portarsi,
gradatamente scorrere, arriverà facilmente alla parte opposta, per
grosso, e profondo, che sia il fiume. Con questo metodo potrà sempre
essere valicato, purchè si abbia cura che le funi sieno forti ed i
piuoli, adatti, ed alla forza di quei che passano trascinati dall'onde,
resistenti, e con ciò porteranno, in qualche circostanza, pur anche il
corpo dell'uomo stesso sull'acque, parallelo.

Ecco in breve, come il valico de' fiumi si difenda, e come si operi;
molti altri particolari all'uopo avendo noi omesso, perchè alla guerra
regolare appartengono, e co' moltissimi trattati sulla medesima,
possono coloro istruirsi, che desiderano il modo conoscere, di quelli
perfettamente difendere, ed operare.



CAPITOLO IV.

DIFESA ED ATTACCHI DI CONVOGLI. — IMBOSCATE.


Una delle più frequenti dilicate operazioni d'un condottiero in questa
guerra, quella si è certamente della difesa dei convogli, e loro
introduzione nelle piazze, che di già, in favore della patria, si
sono dichiarate, non meno che l'attacco di quelli del nemico, questo,
il miglior modo essendo, per fargli patir la fame, ed alla ritirata
indurlo ed a morire.

Un comandante dunque di convoglio, terrà sempre la sua truppa in
cinque distinte porzioni divisa, una delle quali sarà di _antiguardo_,
l'altra di _retroguardo_, la terza di scorta al centro, la quarta di
perlustratori, e scorridori, la quinta di riserva, ed ogni frazione,
comandata da un uffiziale intelligente ed ardito. Sarà il convoglio,
composto di bestie di soma, o di carri, o di ambidue. Nel primo modo,
arriverà più leggiero, arriverà più presto, e sarà meno difficile
con quello, di schivar il nemico. Il secondo e terzo modo sono più
imbarazzanti, meno facili a nascondersi, ma possono i carri servire
allo stesso convoglio, di riparo e difesa. Se viene attaccato sulla
strada, il distaccamento della parte, dove cominciò l'attacco, si
difenderà, e se si scorge, che quello sia reale, e non falso, accorrerà
tostamente in ajuto, la riserva, la quale, impavida resisterà al
vivissimo fuoco del nemico, che respingerà alla bajonetta, ma non
inseguirà, ed in quel mentre dovrà, il convoglio, il suo cammino
continuare. Se sarà possibile al convoglio di carri, essendo attaccato,
d'entrare in qualche aja circondata da muri, in qualche cortile,
od almeno in qualche spazio quadrato, fuori mano dalla strada, si
collocheranno i carri in tondo, gli uni, accanto e contro, gli altri,
col timone in fuori, lasciandosi una sola apertura coperta da un carro
situato per traverso nell'interno a cavaliere, e fatta salire sopra
de' carri, la truppa del centro, la riserva in battaglia, dentro;
l'_antiguardo_ e _retroguardo_ uniti, schierati al difuori, ed i
corridori sulla fronte, e sulle ale, aspetteranno e respingeranno
l'attacco. Altri molti modi esistono di difesa, e di scorta, la
conoscenza de' quali ricavar potrassi dallo studio dei numerosi autori
d'arte militari, che di questa materia diffusamente trattarono. E noi
ci limiteremo ad accennare la commendevole maniera, colla quale Don
Giuliano _Sanchez_ introdusse un convoglio di vettovaglie, e munizioni
nella piazza di Ciudad Rodrigo, nell'anno 1811. Presentatosi quel capo
alla testa di dugento lancieri nel piano in fronte al nemico, sulle
cui linee di molto più forti, con decisione a tutta prova, e senza
indugio slanciossi, le pose in confusione, le ruppe, quindi con tutto
il convoglio, entro la piazza valorosamente penetrò. E sebbene abbia
dovuto, nella sua ritirata da quella, essere a perdite considerevoli
soggetto, impedì non dimeno, che la piazza, per fame soccombesse, e
preda del nemico divenisse. Il convoglio dal generale O'Donnel stato
nella piazza di Gerona introdotto, che ci viene con tutt'i particolari,
dal nostro Vaccani esposto, merita pure da noi una singolare menzione,
e potrà sempre ai condottieri, che quell'opera mediteranno, servire di
utile ammaestramento.

Per attaccare un convoglio, sarà pure la forza, in varie porzioni,
partita, con una riserva per sostenerle, e corridori per molestarlo da
ogni parte. E se le circostanze e il sito lo permetteranno, si dovrà
alla fronte, in fianco ed alle spalle, nel punto stesso animosamente
assalire, dovranno i scorridori entrare nel centro dei carri, dei
muli, etc., e la scorta non meno, che quei carrettieri ad arrendersi
renitenti, mettere a morte, e nello stesso mentre, il convoglio
spignere nella direzione della riserva generale, alla cui scorta e
difesa si dovrà consagrare. Ai ponti, stretti, boschi, cammini in mezzo
a' paludi, strade rotte, e piene di pantani, possonsi, con successo,
attaccare i convogli, soprattutto, se sono dal corpo principale del
nemico, distanti. Sono pure i giorni di pioggia, o di neve, a quel
proposito favorevolissimi.

Il modo il più frequente di attaccare i convogli in questa guerra, si
è quello dell'imboscata, come più facile e più sicuro. Marciando nel
più grande silenzio di notti, per lo più oscurissime, senza che un
bisbiglio neppure si faccia udire, recherassi il condottiero, con la
sua banda, nel luogo, lungo la strada già previamente da lui stabilito.
In un folto bosco, o frà macigni, etc., ei prenderà posizione, stando
vigile, ed aspettando, che il nemico si presenti. Avvertito da buoni
informatori, che fra un quarto d'ora, sarà quegli a tiro, dividerà il
condottiero, la sua forza in quattro porzioni, cioè una per attaccare
il nemico da un lato della strada, l'altra per lo stess'oggetto,
dall'altra parte; collocherà una terza per attaccarlo in fronte.
Tutte quante ad un tratto, fuori del bosco, saltando, con orribili
grida violentemente lo attaccheranno. La quarta, che sarà la riserva,
se scorge pendere, nel combattimento, la probabilità in favore degli
aggressori, e non essere il suo ajuto ad una delle tre frazioni, punto
necessario, sarà dal condottiero, alle spalle del nemico, a tutta corsa
mandata, onde tagliargli la ritirata, compire il fatto d'armi, e di
tutto il convoglio impossessarsi. Se verrà quest'attacco ben diretto,
e con ardimento e violenza eseguito, non v'ha dubbio che sia, contro
d'una truppa regolare, certa la vittoria. Se si avrà cavalleria, potrà,
con sommo vantaggio, essere nelle tre frazioni ripartita. Quella, dopo
la prima scarica dei fanti, cadendo con impeto addosso ai difensori del
convoglio, a colpi di sciabola, quanti più possa, ne ammazzerà. Nelle
relazioni della guerra, con tanta gloria, dal prode Mina, sostenuta,
trovansi ad ogni passo delle imboscate da lui tese al nemico, e per
l'ordinario sempre con prese frequenti di convogli, e di ricco bottino,
felicemente riescite. Tanto erano i Francesi da quella decisa banda
di difensori della patria, molestati, che mettevano per distruggerla,
ogni mezzo in opera. Per la qual cosa, fu Mina verso la fine di gennajo
1811, circondato da sette mila uomini. Ma quel leone non era già fatto
per potersi tanto facilmente trar nella rete. Epperciò la sua prima
disposizione fù quella di sparpagliare, secondo il solito, la banda
e determinare a' volontarj un punto di riunione. Con quello spirito,
che tanto lo rese agli usurpatori del suo paese, formidabile, stabilì
quel punto, sui monti immediati e dominanti. Ed avendo colà tutte
le difficoltà, superate che un vigilante, e possente nemico gli fece
sorgere, vi riunì, Mina, i suoi valorosi compagni. Ei sempre si trovava
da tutte le parti circondato, non vi era un punto ch'egli potesse
occupare senza essere subitamente assalito, nè in quello rimanere in
posizione e difendersi. Due mila uomini uscirono di Pamplona con una
cavalleria in proporzione, per discacciarlo da quei monti. Mina, come
quello, che conosceva non esservi altro scampo, che nell'assalire, non
li attese; mandò all'istante Gorriz al _Carascal_, verso la sinistra
della città, onde da quella parte, l'attenzione del nemico attirare,
con ordine di attaccare qualunque convoglio, o scorta, che per quella
strada passasse. Riescì tale disposizione perfettamente: le truppe
francesi, che si erano avanzate per più d'un miglio, furono tosto,
pel terrore cagionato da Gorriz, frettolosamente richiamate; cadde
alla cieca il governatore della piazza, nella fossa scavatagli, e
credendo che tutta la banda di Mina fosse, dov'era Gorriz, e le altre
strade fossero sicure, fece alla volta di Vittoria, un convoglio di
sessanta carri, con munizioni e vettovaglie, nel momento partire. Era
quello, scortato da duecento uomini, e ad un'ora approssimativamente
d'intervallo, era da altri mille, seguito. Trovavasi Mina, quando seppe
la partenza di quel convoglio, a tre ore di marcia, distante dalla
posizione conveniente per attaccarlo, coi volontarj digiuni. Ei lasciò
Cruchaga, il suo secondo in comando, col corpo principale della truppa,
e si mise coi cavalli, e due compagnie di fanti, a dirittura in marcia.
Ma, per quanto sia stata quella, precipitosa, il convoglio aveva già
il luogo, dov'egli intendeva di attaccarlo, trapassato. Nondimeno la
cavalleria corse a tutta briglia sopra la scorta, e quella, siccome
contava sulla forza maggiore, che a corto intervallo la seguiva, e
sull'assistenza eziandio della guarnigione di _Zurzun_ ch'era solamente
quasi mezz'ora da quel luogo, distante, abbandonò i carri, prese sopra
d'una vicina sommità, conveniente posizione, e preparossi alla difesa.
Impadronitosi Mina del convoglio, non ebbe tempo di compiutamente
distruggere la scorta. Era importante assicurarsi delle munizioni assai
più, che l'acquisto d'un ricchissimo bottino, per lui preziose. Ma per
ciò conseguire, la facilità non era certo assai grande. Da due parti,
l'avvicinava il nemico in forza, e da una terza giungeva la scorta per
assalirlo. Sopravvenne la notte, e tutt'i lati erano in fuoco; successe
una mischia generale; vennero i combattenti a pugnare a corpo a corpo.
Era cosa impossibile, in questo frangente, di salvar tutta la preda.
Mina pervenne a raccozzar la sua gente. Sarebbe stato ben contento di
poter distruggere le provvigioni, e ritirarsi in sicurezza, ma essendo
in un grido generale, di voler piuttosto perire che abbandonare oggetti
di tanta utilità, i volontarj prorrotti, gli fù forza aderire al loro
voto. Caricatisi gl'individui della banda, i cartocci sulle spalle,
ne portarono via il numero di sessanta mila, senza badare agli altri
affetti, fra i quali, pure oggetti esistevano di gran tentazione. Ma
si contentarono di trasportare, per quanto potevano, sole munizioni
di guerra; incendiarono i carri della polvere, bruciarono tutte le
rimanenti provvigioni, e colla preziosa loro preda, nei monti, da
dov'erano partiti, si ritirarono.

Un'altra non men commendevole presa di convoglio, e degna di essere,
come valevole esempio, esposta, dallo stesso Mina portata a felice
risultamento, si è quella, ch'ebbe luogo nel tempo, che il re Giuseppe
partì di Spagna, alla volta di Parigi per portarsi ad assistere al
battesimo del figlio di Napoleone. Aveva Mina volontà di molestare
quel re nel suo viaggio, ma non gli venne fatto, perchè troppo bene
quegli conosceva il pericolo, per non prendere, prima di avventurarsi
in viaggio, tutte le possibili, ed immaginabili precauzioni, ed
ordinare, che tutt'i luoghi pericolosi della strada, venissero da una
forza imponente occupati. Non dimeno Mina, sempre a quella, teneva
l'occhio rivolto. In questo frattempo, sei mila Francesi da Pamplona,
e Tudela, si disponevano a fare un movimento per discacciarlo da
_Ostella_. Dimostrando egli di essere dal loro superior numero,
impaurito, abbandonò quella piazza il 22 di marzo, e con tutta la
sua banda, fece nella provincia di Alava, un'incursione. Giunse con
tre de' suoi quattro battaglioni, e la cavalleria, nel mattino del
giorno seguente, ad Orbiza, primo villaggio, che in quella provincia
rinvenne. Il quarto battaglione passò per un'altra strada; ebbe Mina
in quel villaggio notizia essere Massena, con una scorta di due mila
uomini, aspettato in Vittoria, per dove si doveva alla volta di Francia
indirizzare. La speranza di poter le forze sue con quelle d'un generale
di tanta fama, una volta misurare, lusingava l'amor proprio di Mina,
ed i suoi pensieri furono al modo di frastornare la marcia di quel
maresciallo, immediatamente rivolti. Giunto la sera del giorno 24 verso
le ore cinque, al _Puerto di Azazeta_, si fermò fino a notte oscura,
pel timore, dovendo egli passare per le pianure vicino a Vittoria, di
essere in quelle veduto dal nemico, ed assalito. Evitò per la stessa
ragione, di entrare in alcun villaggio lungo il cammino; ed il giorno
25, alle quattro del mattino giunse in _Artaban_, montagna limitrofa
tra _Alava_, e _Guipezeva_; scelse il terreno; si mise in posizione;
collocò un battaglione sulla sinistra della strada nei boschi, due
sulla destra, e la cavalleria nel piano. Era sua intenzione di situare
il quarto, quando arrivasse, in un boschetto, onde sorprendere il
_retroguardo_ nemico. Esisteva là vicino, soli sei miglia distante
da Vittoria, un piccolo villaggio, tutti gli abitanti del quale senza
eccezione de' vecchi, giovani, malati, donne, bambini, furono subito
da Mina costretti a ritirarsi in un luogo da lui destinato nei monti,
onde nessun di loro potesse dare al nemico, delle sue operazioni
ragguaglio. Ei pose una guardia, con ordine di osservarli, e mantenerli
quieti, e tranquilli per lo spazio di ore otto, passando per le armi,
cioè alla bajonetta, chiunque puntualmente non obbedisse. Date quelle
disposizioni, giunse un informatore con la notizia, che Massena
era veramente arrivato a Vittoria, e che in vece di seguire il suo
cammino, si sarebbe colà fermato, ma che un gran convoglio, con un
generale in una carrozza, un colonello, un tenente colonello, e due
donne in un'altra, mille e cento prigionieri, ed una scorta di due
mila fanti, e due cento cavalli, era sul punto di partire. La speranza
di liberare i prigionieri, compensò la non riuscita de' suoi disegni
contro Massena. Non confidando implicitamente nell'informatore, per
sicurezza contro gl'inganni, ordinò che fosse ad una punta sporgente
di roccia, fortemente legato, quindi misegli una guardia con ordine
di trucidarlo, se mai tentava di fuggire; ma nello stesso tempo gli
promise una vistosa ricompensa, se la sua informazione si verificasse.
Non si stette guari sospeso. Verso le ore otto comparve _l'anti-guardo_
nemico di cento fanti, e venti cavalli, che passarono senza essere
molestati; un secondo distaccamento di trenta fanti, e dodeci cavalli,
passò nello stesso modo. Imperciocchè non voleva Mina, coll'attaccare
troppo presto, perdere l'oggetto, che si era proposto. Il grosso
della truppa coi prigionieri, un numeroso convoglio di carri pieni
di bottino, ed una delle carrozze, venne a poc'ora d'intervallo. Il
battaglione situato alla sinistra, cominciò il fuoco, gli altri due
dalla destra corsero addosso al nemico, e ne fecero una spaventevole
generale strage. Gettaronsi, alla prima scarica, i prigionieri
bocconi, per terra, evitando in quel modo, di cadere per mano de' loro
stessi amici. Mina corse alla carrozza per salvare i passaggieri; i
due uffiziali francesi rifiutarono di arrendersi, e colla sciabola
valorosamente si difesero. Uno fù ammazzato, l'altro, che si chiamava
il colonnello Laffitte, fù ferito, e fatto prigioniero in un con le
donne che accompagnava. Comecchè messi in confusione, e terribilmente
maltrattati, i Francesi, con la celerità d'una truppa ben disciplinata,
ed esperimentata, furono in un subito riordinati, seicento fanti, cento
cavalli del retroguardo, e l'altra carrozza, furono al primo fuoco
mandati in dietro. La carrozza con la cavalleria si ritirò a Vittoria;
la fanteria rimase, e si collocò sopra d'un'altura, da dove gli
Spagnuoli che davano compimento alla loro vittoria, forte molestava.
Dugento uomini della guarnigione francese di _Salenas_, vennero in
soccorso dei loro compagni, ma furono respinti, e fino alle porte di
quella fortezza, strettamente inseguiti. Il quarto battaglione di Mina
giunse troppo tardi, per essere a parte della zuffa, ed i volontarj
digiuni, e reduci da una marcia forzata di quindici ore; non dimeno,
ad inseguire il nemico, pure ai commilitoni si unirono. In questo
mentre, ebbero i Francesi da Vittoria nuovi rinforzi, la guarnigione
di _Salenas_ aumentata da una parte della guarnigione di _Mondragon_,
e da tutt'i punti circostanti delle vicinanze, si dimostrava di bel
nuovo in attitudine offensiva. Mina, con gagliardìa sostenne la pugna
ed ottenne di vincere la battaglia; durò cinque intere ore, senza
intervallo. Non avevano gli Spagnuoli, dalle dieci del mattino del
giorno antecedente, nè bevuto, nè mangiato, e pensò il condottiero
essere cosa giudiziosa di assicurare quanto aveva guadagnato, piuttosto
che ad una gloria incerta, quale sarebbe stata quella della loro
completa distruzione, correre stoltamente dietro. Per la qual cosa, in
un paese chiamato _Zalduendo_, distante sei ore dal campo di battaglia,
col bottino si ritirò. Persero i Francesi l'intiero convoglio, e più
di mille uomini, e fra gli uccisi fù rinvenuto un certo Val Buena,
per l'addietro ajutante di campo del generale Castannos, il quale,
rinnegata la fede alla patria, ed entrato al servizio degl'invasori,
erasi per le sue crudeli azioni contro de' suoi compatrioti, acquistata
una criminosa celebrità. Fù il bottino, doviziosissimo: mise Mina
pel publico servizio, una parte del danaro in serbo, e presero i
volontarj quanto fù loro dato trovare, e portare. Molti se ne viddero,
tutti curvati sotto il peso di un carico d'oro, frutto della rapacità
straniera, e dei saccheggi, che i nemici, d'apportare nella loro
patria, s'affrettavano.

Dalla desposizione del modo di procedere di Mina, ai casi e situazioni
differenti, adattandola, potrà il condottiero, una giusta idea
formarsi, del modo con cui si debbano i convogli attaccare, e delle
precauzioni necessarie per la buona riescita degli agguati, od
imboscate, per le quali, gran segreto, somma prudenza, ed un ben
diretto ardore, continuamente in questa guerra si esigono.



CAPITOLO V.

DIFESE DI STRETTI E BURRONI. — SORPRESE. — SCARAMUCCIE E STRATAGEMMI.


In una guerra che per lo più, negli alpestri monti, negl'intricati
boschi, in asprissimi dirupi, ed interminabili abissi devesi di
continuo alimentare, non sarà difficile, che ben sovente il condottiero
s'incontri nella necessità di opporre al varco degli stretti, burroni
etc., una valevole difesa. Prima di eleggere il luogo dov'egli
intenda di contrastare il passaggio al nemico, dovrà ben bene, il
sito calcolare, ed accuratamente osservare, se si trova in maniera
situato, che l'avversario non possa, girando la sua posizione, al di
là, per altre parti, trasportarsi, e rendere, per tal modo, di niun
effetto i suoi preparativi, ed inutile la sua permanenza in quel
luogo. Qualora sulla stessa linea de' monti, uno, o varj passaggi
esistano, dovrà il condottiero, se la sua forza non è sufficiente,
mettersi con altre bande d'accordo, affinchè vengano quelli, parimenti
difesi. Supposto dunque che il nemico, per procedere innanzi, o
indietro, a seconda delle militari operazioni da lui divisate, debba
necessariamente passare per quello stretto, si porrà il condottiero
in misura di opporgli una vigorosa resistenza, respingerlo, ed
impedirlo, se potrà, od in caso contrario, fargli la riuscita di
quel tentativo, a carissimo prezzo, pagare. Cercherà la banda, per
prima essenzial cosa, d'impossessarsi delle sommità dei monti, perchè
difficile, anzi impossibile crediamo, che possa da una banda, uno
stretto in pianura chiusa da un bosco, paludi, o canali, con molto
frutto difendersi, rovinerà il cammino, pel quale dovrà giungere il
nemico, onde spossarlo, e ritardargli la marcia. Ed a questo fine,
distruggerà i ponti, se ve ne sono, qualora di trovarsi in vicinanza di
canali, fiumi, o paludi, gli avvenga, rompendo le sponde, gli argini,
etc., le strade compiutamente allagherà, con alberi, tronchi, e travi,
piantati nella terra, e rivestiti di rovo, e di quante piante spinose
può ritrovare, costruirà delle barricate dell'altezza di varj uomini,
davanti le quali, farà un gran fosso; a molta distanza dalle barricate
farà dei grandi, larghi, e profondi tagli, da un lato all'altro della
strada, e della terra, che da quelli estrae, e parimenti, con travi,
e carri di molte pietre ricolmi (le ruote de' quali siano seppellite
nella terra ed i timoni legati assieme), innalzerà dalla parte opposta
del taglio, un'altissima, e ripidissima sponda che il nemico di passare
impedisca od almeno gli dia intollerabile molestia.

Prese queste precauzioni, il condottiero guarnirà le alture dei monti,
ed i volontarj colà situati, potranno, facendo un fosso circondato
di alberi coi rami, con tronchi, terra, etc., se ne hanno il tempo,
ripararsi a piè dei monti e ad un'altezza dominante la strada, e
spezialmente in quelle parti che ad uno stretto soprastanno, il capo
potrà, se gliene viene l'acconcio, far costruire dei ridotti laterali,
che non dovranno essere tondi ma quadri, lunghi, o triangolari; al
dissopra dei quali, potrà fare dei tagli nel monte da un semplice
parapetto coperti, tal che si debba, per entrarvi, dalla sommità,
per difficilissima via, calare; non dovendo essere perpendicolari
ai ridotti, ma diagonali, onde schivare, che rotolando le pietre
dall'alto a basso, l'amico, anzichè l'avversario, distruggano. Saranno
in quei tagli, situati dei volontarj, che di rottami, e grosse masse
di pietre, provvisti, con quelle, e con fuoco de' moschetti, dovranno
il nemico senza posa e con suo grave danno, infastidire. Prese tutte
queste misure, dividerà il condottiero la sua forza nei luoghi da
lui, atti a difesa, riputati, ed avrà sempre una spezial cura, che
ciascun distaccamento, non lasciando in servizio, che un terzo alla
volta, della truppa, possa i posti confidatigli, delle necessarie
guardie, vegghie, scolte, e velette, agevolmente guarnire. Delle
ventiquattr'ore del giorno, ne avranno in questo modo i volontarj, otto
di servizio, e sedici di riposo, la metà del quale sarà in pattuglie,
riconoscenze, etc., impiegato, ed ott'ore per mangiare, e dormire,
solamente rimarranno. Si regolerà in questo modo; tutte le volte che
avrà una forza sufficiente, per poterlo eseguire, e non sarà stretto
dal nemico, perchè in quel caso, non al riposo, ma solo alla gloria,
ed alla patria, si deve pensare. L'illustre Hofer nell'ardimentosa
sua guerra contro all'impero francese, ci offre varj esempi d'una
insurrezione nazionale, potente, gli stretti, burroni, etc., a
difendere. Ei mise in fuga una colonna di venti mila nemici, sotto agli
ordini del generale Lefebvre, e del principe ereditario di Baviera,
che per tre volte consecutive, diedero l'assalto alla posizione del
romitaggio di Hunterau, dove quel prode aveva la sua forza, riunita,
e trasse partito da tutt'i grandi vantaggi offertigli dalla natura
del terreno, dov'erasi fortemente trincerato; costrinse quei duci
a fuggire colla perdita di dieci mila morti, mille e cinquecento
prigionieri, otto cannoni, nella massima confusione; infine a Sterzing
Hofer di bel nuovo il generale Lefebvre, sconfisse, nell'inseguirlo
fino alle paludi di quelle vicinanze e cagionogli la perdita di mille
ottocento uomini morti, di mille cinquecento prigionieri, di molti
cavalli e di gran parte del suo equipaggio, pel qual disastro, fù quel
generale, costretto a tornare indietro fino ad Inspruck. Dopo di tutte
queste preclarissime gesta, Hofer venne informato essere una colonna
di dieci mila uomini, per trasferirsi a Prutz, passando per Landek,
paese cui non si può giungere, senza entrare in una valle, che per
lo spazio di tre leghe, si restringe, qual orrido tortuoso abisso,
da inacessibili, asprissimi greppi formato, in mezzo a due altissimi
monti d'onde, peramb'i lati del cammino, tali masse di roccie, sì
fattamente sporgono all'infuori, che pajono volersi, l'un coll'altro
congiungere, dalle quali la sottostante strada, lungo la sponda
del fiume Inn, che impetuoso e borbogliante scorre nella profondità
del burrone, viene signoreggiata. Presa in quelle ineguali sommità
sporgenti, convenevol militar posizione, ammucchiò il prode Hofer, per
lungo tratto, grandissimo numero di enormi macigni, tronchi d'alberi,
ed altre simili cose atte, pel loro peso, l'imprevidente nemico tosto,
nella profondità inoltrato, a flagellare. Passò l'_anti-guardo_ di
ottocento Sassoni, senza molestia e giunse a Prutz, che a suo grande
stupore, trovò da un assai maggior numero di Tirolesi, militarmente
occupato, che a posare le armi, senza indugio costrinserlo. Sedotto
all'istante un prigioniero, quel capo, indietro inviollo al generale,
con la relazione della caduta di Prutz. E di ciò, la colonna nemica,
avend'egli persuaso, nel fondo del burrone, con piena confidenza
s'intromise; alcune piccole bande di Tirolesi, a bella posta, onde
ingannare il nemico sulle vere intenzioni, lungo la valle situate, al
suo ingresso, arditamente si opposero. Viddesi fra quei difensori, un
canuto cittadino d'oltre ottant'anni con venerabile aspetto, situato
con le spalle al monte, che ad ogni archibugiata, un nemico del suo
paese trucidava, e seguiva in quel modo, riparato dai nemici. Ma
alcuni Bavaresi, s'arrampicarono alla sommità della rupe e da sopra,
per assalirlo si calarono. Tostocchè quello conobbe non essergli più
via di scampo, proruppe in un grido terribile, e con altere parole, i
due invasori che si avvicinavano, provocò, quindi coll'ultimo suo tiro
di schioppo, il primo di loro stese immediatamente a suoi piedi, ed
avventandosi poscia contro al secondo, a metà del corpo strettamente
abbracciollo. Valendosi il soldato della libertà delle braccia, forte
il percoteva, ma il rispettabile vecchio all'orlo dell'orrido dirupo,
invocato il nome di Dio, seco il nemico trascinando, disperatamente
nel profondo sbalzossi, e viddersi ambedue giù nell'abisso precipitare.
Tostocchè fù l'intiera colonna nello stretto inoltrata, una risonante
voce dalla cima d'altissima rupe laterale, pronunziò le seguenti
parole: «È opportuno il momento? Debbo io tagliare?» Cui, dalla vetta
dell'altro lato fù in tuono imperativo e forte, tostamente risposto:
«Sì: subito; periscano gl'infami!» A queste tremende e sconosciute
voci, le schiere nemiche a darne immediato avviso al generale spedirono
alcuno, ma troppo era tardi! In quello stesso punto, fra le universali
grida di tutt'i Tirolesi in quelle scoscese creste collocati, sassi,
pietre, tronchi d'alberi, grossi massi staccati di roccia, etc.,
furono, con orrendo principizio, dalle vette, per tutto il lungo delle
strette dov'era chiuso il nemico, lasciati cadere, che nel profondo
piombando, in modo spaventevole, più di sei mila Bavaresi, Francesi e
Sassoni, rimasero da tanto improvvisa, ed orrenda difesa, interamente
schiacciati.

Calarono sull'istante i vincitori Tirolesi nel burrone alla corsa,
per compire la vittoria, ammazzare i superstiti, ed impossessarsi del
bottino, nella quale operazione, vecchi, giovani, donne, ragazzi e fino
le bellissime donzelle, pur anche intente a distruggere il nemico del
paese, vedevansi, soddisfatte, festevolmente accorrere.

Esposto da noi in succinto, come si possa il passaggio d'uno stretto,
difendere, passeremo a trattare delle sorprese delle quali poco in
questo capitolo ragioneremo, dovendone in quello delle fortezze, far
motto. Non sarà peraltro mai disutile rammentare ad un condottiero, che
può, negli avvenimenti della guerra, essere una banda, senz'aver torto,
battuta, ma che sarà sempre da considerarsi colpevole, e degna di
vituperio quella che si lascierà, in qualsivoglia tempo, sorprendere.
Quindi, per quanto grandi, fastidiose, e picciole molte precauzioni
parer possano; mai non saranno di troppo. E se ad un volontario potrà
esser permesso di darsi, per un certo tempo, tranquillamente al sonno,
ad un condottiero non sono leciti che brevi riposi, e questi presi con
intervallo di tempo, nel giorno, quando il pericolo di essere sorpreso,
sarà di molto lontano. Tre ore od al più quattro di sonno, nelle
ventiquattro, debbono essere ad un buon condottiero bastevoli, dovendo
avvertire, che il suo Secondo non riposi mai nello stesso tempo, ma
che uno vegli, se l'altro dorme. Deve il condottiero farsi dappertutto
vedere, tutto conoscere, senza che mai non sia la sua ora di riposo,
conosciuta. Ordinariamente non si tenta una sorpresa, se non quando
si suppone, che l'avversario non prenda le necessarie precauzioni
per evitarla. Quando si ha notizia, che il condottiero troppo in sè
stesso confidi, o sia conosciuto per essere leggiero di testa, e nelle
occasioni difficili, sia soggetto a confondersi; quando la truppa
avversaria, debole, o cattiva, sia riputata; quando sia il comandante
assente od ammalato; quando gli abitanti siano dei loro difensori,
nemici; quando vi sia discordia nella truppa, in fine, quando da
quella non si faccia esattamente il servizio; se quindi, le strade,
vicine a quel luogo, sono coperte, ed il paese, disabitato, se vi sono
boschi, burroni, balze, col di cui favore possa, senza essere veduta,
appressarsi al nemico, e tutte le altre simili circostanze, o parte di
esse concorrano; allora per lo più di notte, ma in certi casi anche di
giorno, si tenta, o per stratagemma, od apertamente, la sorpresa.

Le storie di tutt'i tempi e di tutte le guerre, ne insegnano
abbastanza, essere la negligenza nelle precauzioni, causa principale di
gravi disastri e perdite di battaglie, che ben soventi la somma delle
cose rovinano e danno a quello dei combattenti, che secondo tutti i
calcoli dovrebb'essere perditore, la compiuta vittoria. Questo difetto,
nelle guerre civili di Francia, all'esercito degli Ugonotti, ordinario,
lo portò molte volte a gravi pericoli, e soprattutto nella battaglia
ch'ebbe luogo nel 1562 tra Spina e Blanvilla, diede all'esercito
cattolico vinta la giornata; locchè spinse il prode ammiraglio di
Colignì ad esclamare, che, per loro negligenza, era venuto tempo da
porre la salute non più ne' piedi, come per lo passato tentavasi fare,
ma nelle mani. Checchè dicasi, è certo che non mai sarà la vigilanza,
ad un condottiero, troppo raccomandata.

Usavano gli Spagnuoli, oltre moltissime altre precauzioni, di quella
di mettere alcune vedette sopra le sommità principali dei monti, dove
operavano. Eran quelle per l'ordinario, de' contadini stessi alla
buona causa devoti, ad una certa distanza, gli uni dalli altri, per
lo spazio di due o tre leghe collocati, e formavano una specie di
catena di corrispondenza. Il primo che vedeva l'inimico, sparava il
suo schioppo, e gli altri a misura, che quello a loro si approssimava,
facevano progressivamente lo stesso, in modo che, con difficoltà
potevano essere sorpresi, poichè pe' tiri venivano da lungi, avvertiti,
per qual direzione il nemico si muovesse. E per indicare, quello esser
più forte della banda o bande riunite, sparavano due tiri consecutivi.
Sebbene conoscessero i Francesi, essere quello un segnale convenuto,
non potevano però impedirlo, perchè udivano in vero, uno o due tiri
partire dalle sommità circondanti, ma non potevano dal loro cammino
deviare, od isolare soldati per inseguirli. Soprattutto, facilissima
cosa era ad uno o due contadini nascosti nei boschi, o nei rami d'un
alto e fronzuto albero, schivar le ricerche del nemico, massimamente,
che, fatti uno o due tiri, più non dovevano continuare. Gli altri
contadini appostati in seguito, avevano cura, prima di sparare,
d'attendere l'avvicinamento della colonna; primieramente per dare il
segnale giusto della sua forza, poichè quella avrebbe potuto in un
punto essere maggiore, ed in un altro, partendosi in due o tre frazioni
destinate a differenti propositi, divenir minore; in secondo luogo per
dare agli amici, segno della sua direzione, e del grado di rapidità
della sua marcia; in terzo luogo, per non indicare al nemico, con un
fuoco immediatamente successivo in quella data linea, il luogo dove
trovavasi la banda, impostata.

In breve poi tutto si riduce a che, un buon condottiero, deve tanto i
suoi movimenti, quanto le sue posizioni, le sue marcie e fino le sue
idee al nemico nascondere, nel mentre che per lo contrario, deve tutto
ciò sapere di lui. In questo modo potrà sorprendere l'avversario, e non
correrà il rischio di essere da quello, sorpreso.

Fra la sorpresa e l'imboscata, non havvi altra differenza se non che,
nella prima, si marcia sù del nemico, e nella seconda si aspetta
in un luogo coperto, e da lui non preveduto, al varco. Il generale
Milans, nell'anno 1822, alla testa di una piccola colonna composta la
maggior parte di proscritti italiani, ch'erano in Ispagna rifuggiti,
per conclusione della contro marcia, di che nel capitolo secondo di
questa parte già abbiam tenuto discorso, recossi alla sorpresa di
Pineda. Giunto un'ora prima dell'alba, nelle vicinanze di quel paese,
collocò il battaglione d'Africa sui contrafforti dei monti, che quella
terra circondano, onde osservare gli aditi, e la fuga del nemico,
per quella parte, impedire. La cavalleria, composta de' lancieri
italiani, e d'alcuni tenui drappelli spagnuoli, fù nella pianura delle
maremme, schierata. Eransi in quella notte, sette cento apostolici
di alloggiamento in Pineda, in grande gozzoviglia e sollazzevole
ballo (dato loro dagli abitanti del paese coi quali conveniano nella
opinione) con gran tripudio, intrattenuti. Aveane avuto Milans, dai
suoi informatori, sollecito avvertimento. Era, sul suo finire, il
festino, e già nel santuario, i bacchettoni apostolici alla messa
congregavansi, quando Milans credè opportuno di dare alla sanguinosa
divisata operazione, energicamente principio. Formati in colonne
d'attacco, preceduti dai corridori, entrarono gl'Italiani a bajonetta
spianata, e dopo aver tutte l'esterne, ed interne guardie dell'ingresso
in un baleno trucidate, giungono al centro del paese. Battono i
tamburi, squillano le trombe, invitano alla carica, e stanchi gli
apostolici dal ballo, dallo stravizzo della passata notte, scoraggiati,
attoniti, ed in chiesa fra loro confusi, chi da una parte, chi
dall'altra, corrono sonnacchiosi a munirsi delle loro armi. Oppone la
guardia principale della piazza, ostinata resistenza agli aggressori,
e dà campo ai commilitoni di rinvenir le loro armi. Malgrado
ciò, assalita alla bajonetta gagliardamente, soggiace al vigore
dell'attacco, e tutta perisce. Affoltansi gli apostolici, nell'uscire
armati dalle loro case, nè sanno dove far testa, alcun luogo riparato
per riunirsi non trovano; le colonne, ed i corridori colla bajonetta,
e colla sciabola, gliene tolgon l'acconcio. Per ultimo dai _liberali_,
ferocemente inseguiti, si riparano tremanti nelle botteghe, e nelle
case, e da quelle cominciano, per tutte le parti a sparare. In ogni
strada, in piazza, nei viottoli, nei cortili, non odesi, che il fragore
dei tiri di continuo, in ogni dove, spesseggianti. Arde il paese,
passeggia la morte in una fornace; snicchiano dai loro nascondigli ad
uno, ad uno, gli sbandati, sul limitare delle porte, nelle camere, nei
balconi, etc., quanti ne incontrano sul posto, trafiggono. Senza più
potersi difendere, spaventati all'idea dell'orrenda fine, che lor si
para davanti, trasportati dalla disperazione, pervengono i superstiti
a riunirsi in un angolo del cimiterio, da dove quell'affoltata torma
in iscompiglio, agli aditi dei monti s'addirizza, perchè sguarniti di
truppe li suppone, e spera potersi a salvamento recare. Ma si trova
il battaglione d'Africa in fronte, che con un ben diretto fuoco per
drappelli, ne spiana la metà del loro numero, a terra, e mette l'altra
in disordinata fuga. Di là corrono, anzi volano i rimanenti apostolici
alla sponda del mare, nella speranza di rinvenire sulle onde la loro
salvezza, ma colà in vece, inevitabile morte li aspetta. La cavalleria
ch'era sull'arenosa piaggia, schierata, spinge al loro appressarsi,
una carica a fondo, e con una spaventevole carnificina, mette il colmo
al generale sbaraglio. Fra i pochi cui, per momentanea ventura, è dato
di destramente i micidiali colpi delle lancie, schivare, neppure a
tanto macello bastevoli, alcuni gettansi a mare, ed altri di piccoli
battelli abbandonati s'impossessano, sperando la prossima morte, che
li minaccia, isfuggire od almeno allontanare. Uno stuolo di valorosi
lancieri italiani, scende in un batter d'occhio da cavallo, corre di
botto alla ripa, entra in alcuni dimenticati palischermi, e a destra,
a sinistra, in fronte, ed alle spalle, colle lancie da ogni parte
vibrando ripetute puntate, sprofonda gl'imbarcati fuggiaschi nel mare.
Tutti quanti di salvarsi a nuoto presumevano, ma sono dall'inesorabile
cuspide trafitti. La terra è seminata de' cadaveri. Il mare che prima
imbiancava per ripercossi marosi, ora tutto di sangue rosseggia;
nessuno dei combattenti apostolici ha schivato la morte; così la
sorpresa fù coronata dal più brillante successo.

L'imperterrito, ed avveduto Milans, presente in ogni parte, diresse,
da esperto condottiero, una sorpresa di tanto momento, che il
possesso del castello di Hostalrich assicurò, pell'introduzione del
convoglio di vettovaglie, e munizioni, di che sommo difetto pativa.
Stava il generale congratulandosi con gl'Italiani sullo strenuo loro
comportamento, ed esatta esecuzione de' suoi ordini, quando venne
avvertito, che una decina d'apostolici, fra i quali alcuni capi,
eransi nel campanile della chiesa rifuggiti. Vittorioso Milans, al cui
cuore umano di proseguire lo spargimento di sangue, forte incresceva,
immediatamente sul piazzale della chiesa, e sotto al campanile si
trasferisce, ove colla promessa di salvar loro la vita, esorta quei
miserabili ad arrendersi. In vece di rispondere a tali generose
proposte, sparano coloro una schioppettata per ammazzarlo, ma per
buona ventura sbagliano il colpo ed in vece sua, un Italiano, che al
suo fianco gli serviva d'uffiziale d'ordinanza, cade morto sul posto.
Milans da così ostinata temerità, e dall'attentato contro sua vita,
quand'egli con parole di pace lor prometteva la salvezza, giustamente
irritato, dà ordine, che quegli ostinati vengano colla forza ad
evacuare il campanile, costretti. Alto, e chiuso com'era, sarebbe stato
un attacco alla bajonetta, impossibile. Si decise dunque il generale,
a fargli appiccare il fuoco, e furono in un istante, tutt'i banchi,
confessionali, ed oggetti combustibili, in mezzo alla chiesa ammassati.
Si chiusero le porte, e si accese la bica; il subitaneo crepitar delle
volte dell'edifizio non tardò, l'effetto delle fiamme a palesare.
Aperte le mura, e distrutte le finestre, bentosto le stridenti vampe
annunziarono l'incendio generale. Ei fece arder le porte, che dal
campanile davano adito al santuario, le stesse corde delle campane
s'abbruciarono, il fumo era densissimo, nero, ed insopportabile.
Sul punto di soffocare, non hanno più i rifuggiti alcuna speranza
di scampo; allora si decidono ad implorare la pietà dei vincitori,
ma troppo tardi. Già il momento della clemenza è trascorso; deve una
giusta vendetta soddisfarsi; merita la morte dell'italiano, d'essere
con memorabil castigo caramente pagata. Col mezzo di altre corde, e
scale si facilita la loro uscita, ma per essere tutti al piede della
torre archibugiati: due colonelli, quattro frati, e due preti erano
costoro, che espiarono, morendo, i numerosi misfatti da loro, contro la
patria, commessi.

Qual capo d'opera delle sorprese, puossi questa giustamente annoverare,
nella quale di sette od ottocento apostolici ad un solo, di recarsi a
salvamento, non riuscì. Tosto che una solamente di tali operazioni, ad
un condottiero italiano riesca, si potranno dir debellate le fetenti
macchine tedesche le quali null'altro tanto temono, quanto le sorprese.
Colto dal sagace condottiero, il destro d'impadronirsi, e trucidare
i loro uffiziali, non troverà resistenza nei soldati, e potrà una
compiuta vittoria facilmente riportare. Ci rimarrebbe a dire, come una
banda si debba da una sorpresa difendere, ma siccome nel capitolo delle
fortezze, come in quello della difesa di un punto circondato da nemici,
di ciò a lungo terrem ragionamento, non aggiungeremo altri precetti,
e ci contenteremo di avvertire, che il più delle volte succede,
che chi va per sorprendere, si trova egli stesso dall'avversario,
sorpreso, sopra tutto se l'assalito è vigilante, se scorge gli
stratagemmi dell'aggressore, e mette convenevol riparo. Molte volte
pure succede, che cadendo con impeto deciso, ed ardito addosso al
nemico lo confonde, istupidisce, profitta del momento, e si salva.
Di ciò in appoggio, può la condotta di Mina in simili circostanze,
valevolmente servirci. Avvenne, che un giorno, essendosi Mina alquanto
dalla sua banda separato, con soli diciesette volontarj (locchè gli
succedeva soventi, secondo il sistema di sparpagliarla, quando troppo
strettamente si vedeva inseguito, o circondato), andò ad alloggiare in
_Sangaren_, nella casa di un abitante, dove, quando era di passaggio
per quel paese, abitualmente si posava. Avutane contezza i Francesi,
ch'erano in _Huesca_ di guarnigione, ivi un distaccamento di dragoni,
per sorprenderlo, immediatamente spedirono. Giunse quello al far del
giorno, quando Mina, disposto a partire, con una tazza di cioccolato
rifocillavasi. Avvertito dell'arrivo dei nemici, egli senz'armi, come
si trova, corre alla porta del cortile, con l'idea di chiuderla; ma
non appena vi giunge, che da due dragoni arrivati a briglia sciolta sul
limitare della medesima, già la trova occupata. Questi alla sua volontà
con vigore si oppongono; ed in tal frangente afferra egli una grossa
stanga, che per assicurare la porta nella notte, serviva, la maneggia
con destrezza, e tanto sulla testa dei due dragoni, come sù quella dei
cavalli, vibra colpi terribili. Così perviene a talmente confonderli,
che sono alla fine, di abbandonare la porta costretti, da lui
immediatamente chiusa, ed assicurata. Addossate quindi le armi, monta a
cavallo, solo da quattro de' suoi volontarj seguito, perchè gli altri
sparsi nelle case del paese, erano gli uni stati presi dal nemico, e
gli altri, ciascuno al proprio ingegno ricorrendo, eransi colla fuga
salvati. Mina comanda all'esitante padrone di aprir tosto la porta,
lancia di carriera il cavallo, cozza con violenza nel distaccamento
nemico, ruota da ogni parte la spada, ferisce l'uno, rovescia l'altro,
trafigge molti, e finalmente si reca illeso nelle vicinanze di _Egea
de los caballeros_, vi trova riunita la sua banda, ed alla testa di
quella, nello stesso momento riparte.

Nell'indomani, e nei successivi giorni, fece Mina, il giro di tutti
quei paesi, per dov'erano, i Francesi, passati, onde portarsi a
sorprenderlo, i di cui abitanti per malizia, od inavvertenza degli
_alcaldi_, e parrochi, non l'aveano di tal movimento, a tempo,
avvertito. Subitocchè in quei paesi del transito nemico, giungeva,
sul piazzale della chiesa, a sè chiamava l'_alcalde_, e parroco
delinquenti, e dopo d'aver loro fortemente la mancanza verso la patria,
rimproverata, facevagli ambedue al campanile della parrocchia, per
la gola, impiccare. Avvenne, che uno fra tanti di questi parrochi,
si trovò essere stretto parente suo, ma il forte Mina come buon
condottiero, che l'amor della patria a qualunque altro sentimento
anteponeva, e vedeva essere la sicurezza, e salvazione della sua
banda, e persona non meno, che la buona riescita della contesa, posta
nel rigore verso di quei due impiegati, al supplizio del campanile,
parimenti mandollo.

Gli agguati, come di sopra abbiam, detto, non sono che sorprese di
piede fermo, e difficilmente di queste, senza che all'agguato la mente
si rivolga, tener puossi ragionamento. Ma siccome in un altro capitolo,
già ne abbiamo a lungo trattato, ci contenteremo di esporre un solo
esempio, pure da quella celebre guerra dell'independenza, da noi
estratto.

Il condottiero Cuesta nella Estramadura, come quello, che conosceva
benissimo il terreno di tutt'i monti della provincia, e che di buoni
informatori si serviva, seppe, che una divisione di cavalleria, ed
altra di fanteria francesi, marciavano da _Taraicejo_ in direzione
del _Puente_ dell'_Arzobispo_. Agguatatosi nei monti di _Guadalupe_,
spiò la favorevole occasione, e come vidde, che il generale Maricy
comandante di quel corpo d'esercito, marciava co' suoi ajutanti di
campo, nell'intervallo delle due divisioni le quali per l'asprezza,
ed angustia del cammino si trovavano ad una certa distanza l'una
dall'altra; quatto, quatto, nascosto in uno stretto, dietro una siepe
lo stette ad aspettare; lasciò sfilare tutta la divisione di cavalleria
davanti a lui senza fiatare, nè lasciarsi vedere, e tosto, scoperto
il generale, si slanciò ferocemente sopra di lui, ed in un co' suoi
ajutanti che lo vollero difendere, lo mise a pezzi, e soddisfatto,
nascondendosi di bel nuovo, la disperazione dei comandanti dei corpi
d'ambe le divisioni, che non potevano vendicare la morte del loro
comandante, Cuesta rimase, con sommo giubilo, ad osservare.

Sono la sorpresa, l'agguato, e lo stratagemma, le più ordinarie
operazioni in questa guerra, da praticarsi. Va per lo più quest'ultimo,
sempre unito alla sorpresa. E lunga, difficil cosa sarebbe il
riandare i possibili stratagemmi, che dal principio della guerra nel
mondo, infino ad oggi, sono stati messi da' generali, e condottieri,
con profitto, in uso. Possonsi da Pollieno, e Frontino utilissimi
ammaestramenti, a quest'oggetto, ricavare, epperciò non esporremo
il modo di far credere al nemico di aver maggiore forza di quella,
che si abbia, facendo suonare le trombe molte, e separate, dove non
v'è truppa; di accendere fuochi nella notte, dove precisamente non
si serena, e tener la banda all'oscuro; di far montare gli abitanti
a cavallo, sebbene vecchi, od infermi, per far credere da lontano al
nemico, che si è forte in cavalleria etc., e molte altre dimostrazioni
di tal fatta che a quasi tutti d'altronde sono già note, non essendovi
scrittor militare, che non le abbia, trattando dei stratagemmi,
ripetute. Consiglieremo non dimeno i condottieri a servirsene, perchè
quantunque già conosciuti, non mancano quasi mai di produrre un buon
effetto mettendole all'improvviso, ed all'insaputa del nemico, in
pratica.

Aveva Mina ricevuto un soccorso di munizioni dalla giunta d'Aragona,
e pensò di subitamente servirsene, al qual effetto marciò alle porte
di Estella in quel tempo dalle truppe francesi presidiata. Prima di
giungere alla vista del paese, la maggior parte della sua banda,
dietro alle siepi, e boccone, per terra, nei fossi, e nei solchi
dei campi ei cautamente nascose. Quindi a portata della piazza, per
allettare i nemici ad attaccarlo, con pochi soldati presentossi. Ed in
fatti, cent'uomini della guarnigione pieni di jattanza, e con animo
di tagliare a pezzi quei pochi Spagnuoli, uscirono al loro incontro.
S'appiccò incontanente la zuffa, e quando già erano alle mani, fece
Mina un segnale; accorse il rimanente della banda di volo, ed in un
istante fù quel distaccamento, distrutto. Nuovi Francesi uscirono
dal paese per ajutare i compagni, ma troppo tardi: già erano i primi,
annichilati, ed i secondi non ebbero miglior sorte, dimodocchè, sotto
le stesse mura della piazza senza che un solo abbia potuto fuggire,
tutti inesorabilmente perirono.

Don Ramon de Ulzurrum y Eraso, comandante di uno dei battaglioni di
Mina, stava in _Echarre-Vranaz_ all'uopo di riunirlo, ed ordinarlo, e
non aveva ancora, che un centinajo di volontarj. Mandarono i Francesi
un distaccamento di quattro cento, e cinquanta uomini, affinchè, prima
di esser compiutamente formato, lo mandassero in rovina. Uscì Ulzurrum
dal villaggio, e quella mano di uomini, nascondendone il numero, con
tanto avveduto consiglio dispose, e con tanto vantaggio seppe il nemico
molestare, che i Francesi non osarono entrare nel paese, e con la
perdita del terzo della loro forza, fuggirono.

Per mezzo dei loro giusti calcoli, e dello stratagemma di far l'uno,
minore, e l'altro, maggiore forza comparire, riportarono i due citati
condottieri sui Francesi compiuta vittoria. Ora per l'ordine regolare
del nostro trattato, passeremo a parlare delle scaramuccie, ossia
_badalucchi_.

Una zuffa parziale di piccoli corpi, che s'incontrano, costituisce una
scaramuccia, per lo più di poca entità nelle guerre regolari, ma da
mettersi nella guerra d'insurrezione, continuamente in uso. Mina nel
tempo della guerra dell'independenza, scriveva, che risme di carta non
gli sarebbero bastate, per notare tutte le scaramuccie in ch'egli, e
la sua banda furono le tante volte impegnati, perchè ogni giorno, ed
anche due, o tre volte al giorno, di scaramucciare gli succedeva. Per
mezzo della scaramuccia, si molesta, si spossa veramente il nemico, e
si perviene a tanto infastidirlo, che perde alla fine il coraggio, e
la volontà di far la guerra. D'uopo è dunque al condottiero di essere
perseverante non men che sollecito nella ricerca delle occasioni,
di frequentemente col nemico _badaluccare_. La perseveranza, dice il
generale san Ciro, è il principio, e la causa di tutt'i buoni successi,
la sola guarentigia della loro durata, la virtù la più rara, la più
necessaria alla guerra la prima istruzione, ed il primo esempio che un
capo debba alle truppe, cui comanda. Perseverare dunque nel molestare
il nemico, a frequenti scaramuccie, obbligandolo, dovrà essere la
principale cura di un condottiero. Dall'ostinazione proverrà la
riuscita della nostra lotta; sconfitti, e dispersi quest'oggi, saremo
dimani di bel nuovo riuniti per iscaramucciare. Dice Polibio al libro
nono che: «L'ostinazione spossa il nemico e prepara il buon successo.»
Da quella sola, potrà l'Italia la sua rigenerazione sperare. Quel
carattere ostinato, che Mina dimostrò nella guerra dell'independenza,
quello si fù che gli diede finalmente la vittoria. Nessun condottiero
si trovava in una posizione più pericolosa della sua; erano tutte
le fortezze in Navarra da truppe Francesi guarnite, che pure tutto
il paese, che le circondava, possedevano. Non vi era un punto dal
quale Mina potesse ricevere soccorso, o dove gli fosse di ritirarsi,
possibile, le sole sue fortezze erano i monti, ed altre risorse non
aveva, che quelle dal suo ingegno, dalla sua pertinace volontà, dal
coraggio de' suoi compagni, e dall'amore de' suoi compatrioti, fornite.
A forza di scaramuccie, sorprese, ed agguati, impedì egli per lungo
tempo a Suchet di portarsi contro di Tarragona e Valenza, sempre gli
toglieva i convogli, e le sue comunicazioni interrompeva.

È massima di guerra, dice Tucidide al libro quinto, che colui il quale
attacca, il primo, rovina e spaventa il nemico. Era questa, messa in
esecuzione dai principali condottieri spagnuoli, perchè si ritiravano,
o dividevano la banda, se non si conoscevano in forza bastevole per far
resistenza. Ma se poi sapevano esservi grande probabilità di riescita,
allora non aspettavano di essere attaccati, ma primi, assalivano, ed
era passato in proverbio che «_quien pega primero pega dos veces_.»

Trovavasi Mina in _Mondigorria_ con tre de' suoi battaglioni e la
cavalleria, quando il generale Caffarelli, con due divisioni, una per
_puente de la Reyna_, e l'altra per la valle d'Echaurri, marciava
contro di lui. Il generale Reille, con una terza si avanzava dal
_Carrascal_; una quarta veniva da _Logrogno_ sopra d'_Estella_, tutta
la forza nemica mossa contro di lui, sommava ad otto mila fanti, e due
mila cavalli. Avvertito dei loro movimenti, non volle Mina con ragione
aspettare di essere attaccato, ma quantunque fosse di molto inferiore
in forza, pur si decise ad attaccare. In fatti, postosi in agguato,
vicino al _Carrascal_, onde assalire il generale Reille, lo attaccò
al varco, lo mise in piena rotta, ed a ritirarsi sopra _Tafalla_, lo
astrinse. Ma quando inseguendolo, già era giunto fino al villaggio di
_Barasoain_, tosto s'avvide che Caffarelli retroceduto da _Puente_, era
pervenuto a situarsi tra il battaglione comandato da lui, e gli altri
due, di maniera che, se Reille si fermava nella sua fuga, e riuniva una
parte della sua truppa, la colonna spagnuola si trovava in mezzo a due
fuochi, locchè di fatti ebbe luogo. Quattro mila fanti, e settecento
cavalli, che avevano un grande vantaggio sì pel numero, come per la
posizione, il prode Mina disperatamente attaccarono, ma per opra di
quel coraggio proprio a chi difende la patria con un indicibile vigore,
con la sola perdita di ventitre morti, quel condottiero, respingendoli,
liberossi. Un distaccamento di usseri pervenne, in questo frangente,
a circondare la sua persona, ed uno di loro gli vibrò un colpo, che
non potè, se non, abbassandosi di lungo sul cavallo, evitare, il quale
ad un tratto impennandosi, con uno slancio il fe' balzare di sella.
Rimessosi subitamente in piedi con tutta possa la diede a gambe. Per
buona fortuna, il cavallo seguì il padrone, che in sella prestamente
risaltò, e solo, inoltrandosi nel più folto de' boschi, dagli usseri,
che lo inseguirono fino alla notte, si salvò, i quali poi disperando
di più rintracciarlo, indietro se ne ritornarono. Così il valente
Mina, dopo d'avere per tre giorni, senza compagni, errato, di bel
nuovo a _Cerna_ ritrovò la smarrita banda. Ripeteremo dunque, che
debbono essere le scaramuccie, in questa guerra frequentissime, che al
condottiero conviene essere il primo a tentare, ed in quel modo fino
alla fine, perseverare.



CAPITOLO VI.

DIFESA DI UN PUNTO CIRCONDATO DA NEMICI.


Non rade volte accaderà, nella guerra d'insurrezione per bande, ai
condottieri di trovarsi in qualche punto da ogni parte circondato
da' nemici. In fatti, siccome nel numero si trovan costoro di molto
maggiore alla forza della banda, ed una data porzione del territorio
irradiano, per quanto astuto e previdente possa essere il comandante
di essa, non gli sarà sempre dato di poter perfettamente conoscere,
in tutto il tempo della guerra, quanti piccoli movimenti, quanti giri
e contro giri, ognuna di quelle colonne esegua, o sia per eseguire.
Egli è certamente di chi ha il carico di condurre una banda, principal
dovere di averne sempre le più esatte informazioni, ma ben sovente
accade, che sono gl'indispensabili mezzi per procurarsene, affatto
mancanti. Ed ecco allora, senza colpa di chi dirige, mal sicura la
posizione della banda, circondata da ogni parte, e nella situazione di
dovere, o con molta avvedutezza, guizzar di mano al nemico, o con un
eroico ardimento cimentarsi, ed a traverso le contrarie file, aprirsi,
colla forza, un passaggio, o con stoica, ed ammirabile fermezza, ogni
sua ultima speranza nel acciaro riponendo, sul luogo stesso assalito,
strage orribile degli aggressori facendo, eroicamente morire, col
vendere a sanguinolento prezzo quella vita del tutto alla santa causa,
consagrata, e che nè ad un condottiero, nè ad un volontario, sarà mai
permesso, con ignominiose operazioni, di conservare. Non intendiamo
però di esporre ciò che debba adoprarsi, un punto da' nemici occupato,
per circondare, potendosi ciò abbastanza dalle molte operazioni, di che
già ragionato abbiamo, con chiarezza e minutamente desumere.

Se improvvisamente, da ogni parte, una banda troverassi inseguita,
senza speranza di potersi od in pianura, o nei monti a maggior forza
incalzante, sottrarre; se si vedrà di troppo vicina alle schiere
nemiche, onde, sia per individuo, sia per truppa, poter cogliere
il destro di sbandare la sua forza ed in quel modo, dalla fronte
dell'assalitore sparire; null'altro, per opporre, una convenevole
resistenza, oppur salvarsi, le rimarrà, se non la sola risorsa di
prendere, in una casa isolata, in qualche antica chiesa, od abbandonato
castello, o ben situato villaggio, o sopra torreggiante bicocca nei
monti, opportuno ricovero, e quindi o dalle mani del nemico fuggire, o
quello con furia respingere, oppure se inevitabile piena le si volge
addosso, in un orrendo impasto di spoglie, di membra, e di amico e
nemico sangue, l'estremo patrio sospiro stoicamente, fuor dal petto
mandare!

Non parleremo di ciò che debba eseguirsi per mettere una casa,
un castello in istato di difesa, non indicheremo le finestre da
chiudersi, quelle da tenersi aperte, le porte da rinforzarsi con travi,
le _feritoie_, che tutt'all'intorno, e ad ogni piano conviene che
sieno praticate, perchè tali oggetti alla fortificazione passeggiera
regolare, appartengono. L'uso di tali precauzioni è pure, nella guerra
per bande, necessario, ma per le circostanze a che vanno soggette,
tutte ben di rado essere potranno adoperate. Nulla dimeno converrà
al condottiero di acquistare sù di questo, particolare, sufficiente
istruzione onde potersene, in tutto od in parte, all'occasione valere.
Dovranno, tosto che siasi preso possesso della casa, e sia posta
in stato di difesa, collocarsi al di fuori, le necessarie guardie,
sentinelle, vegghie, velette, scolte tutt'all'intorno del fosso (se di
farlo s'ebbe l'agio) non meno che alla porta della casa, sul tetto,
e ad ogni piano di essa. Gli uffiziali saranno ad ogni appartamento
ripartiti, ed uno di loro sarà destinato al comando in ciascuno
di quelli, la difesa del quale, colla sua vita malleverà. Correndo
l'appartamento terreno, maggior pericolo, sarà qual posto d'onore ed al
più intelligente, confidato. Saranno i volontarj in egual porzione, ai
varj piani, distribuiti. Una riserva sarà sempre pronta a rinforzare
i posti attaccati; presteranno i diversi comandanti, per quanto fia
loro possibile, soccorso ai piani assaliti, senza però, quello a loro
confidato, mettere in pericolo, nè di troppo sguarnire. Due uomini,
da ogni finestra impediranno al nemico di avvicinarsi, e colle armi
di getto con la bajonetta, spontoni, lancie, ed altre armi bianche,
le scale che il nemico avrà per salire ai piani superiori collocate,
faranno _ributtare_. Ciascuna _feritoia_ del piano terreno, sarà sempre
dalla canna dello schioppo d'uno de' volontarj, riempita, che saranno
rilevati a due per volta onde, col loro continuo fuoco, tenere il
nemico a convenevol distanza, e per tal modo d'impossessarsi di quel
buco, e di sparare dentro le sale, impedirgli. Tutte le _feritoie_
non occupate, dovransi accuratamente turare. Tosto che giungerà il
nemico, vicino alla casa, dalle finestre superiori, dal tetto, dai
merli, se ve ne sono, da tutti gli appartamenti dominanti, se gli
farà cadere un diluvio di cenere infuocata, calce viva bagnata al
momento, acqua bollente, sassi, travi con punte di chiodi sporgenti,
canestri pieni di pietre etc., violentemente addosso. E se malgrado
tutto ciò, e la resistenza fatta alle porte, alle barriere etc., il
nemico entrerà nella casa, i volontarj combatteranno nelle camere al
piano terreno, e quando non potranno più resistere, unitamente alla
riserva, retrocederanno alla porta di un'altra, ove, alla forza che in
quella trovano, uniti, al nemico il varco disputeranno, mentre quelli
del piano superiore, per moltissimi buchi, nel pavimento formati,
scaricheranno sul capo dei nemici, continuo fuoco, faranno piovere per
quei fori, piombo fuso, faranno cadere, copia soprabbondevole d'acqua
bollente, di cenere infuocata, di carboni accesi, e nello stesso tempo,
dalle _feritoie _ delle adiacenti camere, pei lati, un ben nutrito
fuoco _incrocichiando_, recheranlo in breve tempo all'esterminio. Ma
se malgrado tali sforzi, il nemico rimanesse superiore, la truppa, per
mezzo di scale a mano, che avrà nell'ultima camera del piano attaccato,
poste a quel di sopra, vi si raccoglierà ed una volta, saliti
tutt'i combattenti, tireransi sopra, le scale, onde non se ne possa
l'avversario servire, non dovendosi dubitare che prima dell'ingresso
dell'assalitore, si sarà posto il pensiero a rendere, rovinandole,
le scale della casa, impraticabili. La difesa del presidio situato al
primo piano, assumerà, in quel momento, un aspetto ancor più terribile.
Piombo, olio, acqua bollente, fuoco, pietre, ferro, razzi etc., che
come cataratte infernali, da ogni parte riempiranno la camera; dai
_boccaporti_, per dove si saranno ritirate le scale, grossi sassi,
travi, di continuo si scaglieranno e con un'attività raddoppiata, si
confonderà l'aggressore, quindi si sterminerà. Con accorte non meno,
che sollecite disposizioni, s'impedirà che materie combustibili, per
bruciare la casa, siano dal nemico, all'intorno ammassate. Debbono
essere i tiri all'uomo giustamente diretti, e non a caso sparati. Se la
casa si trova convenevolmente costruita, se gli appartamenti secondano
le operazioni, si effettueranno dalle camere attaccate, facendo un
giro in tondo, passando per le altre camere, onde giungere ad assalire,
nella casa stessa, il nemico alle spalle. Potrassi co' modi accennati,
la distruzione o la fuga del nemico, facilmente ottenere, purchè siano
con esattezza, ed a sangue freddo, praticati. Nel funesto caso poi,
che si debba inevitabilmente soggiacere, dovrà la banda morire ma non
mai arrendersi. Esempio memorabile di patrio valore, viene dalla storia
della rivoluzione di Corsica fornito, nella difesa fatta dal capitano
Abatucci, cugino del generale de Paoli, al forte di Vivario. Assalito
dai Francesi, quel prode, alla testa di soli trecent'uomini, qual nuovo
Leonida alle Termopile, porse all'universo un maraviglioso insegnamento
del modo, col quale debbasi la patria difendere. Fecero quei valorosi,
un orribile macello dei Francesi, finchè sopraffatti dal numero, fino
all'ultimo respiro, ferocemente combattendo, Abatucci e tutt'i suoi
ammirabili compagni lasciaronsi, anzicchè cedere, per la loro patria,
trucidare. Il caso di potersi arditamente scagliare sul nemico, ed
in mezzo alle sue file, aprirsi colle armi, un varco e giungere a
salvamento, potrà pure, alcune volte, presentarsi. Ogniqualvolta ne
scorga, un condottiero, l'opportunità, il dovere gl'impone di sempre
eleggere questo partito, prima di fare della sua vita, un generoso
sagrifizio alla patria. Imperciocchè, salvandosi, colle armi alla
mano, certo egli è, di poterle essere, per l'avvenire, di maggiore
vantaggio. Come ciò possa eseguirsi, viene dal cavaliere Follard, nelle
osservazioni sulla storia di Polibio, al tomo quinto, pagina 151, colle
seguenti parole, chiaramente spiegato: «Ciò che havvi di più raro alla
guerra, si è la difesa di una cosa da ogni parte, assalita. Carlo XII
fù nella sua, vicino a Bender, nel 1713, da un gran corpo di Tartari,
con tutto l'ardore, e la furia immaginabili attaccato; tutto fino il
cannone, fù impiegato per isloggiarlo, ma la difese quel principe con
un coraggio intrepido. Quando le appiccarono il fuoco, solamente uscì,
e al di fuori non meno, che al didentro fù egli, ai nemici terribile
in modo che riescì a salvarsi.» Uscendo quel principe di viva forza,
e con animo determinato, gli si facilitò il mezzo di aprirsi, passando
sui cadaveri, dei Tartari, la via, e lo scampo, mentre tutta la massa,
coll'assalitrice truppa sopraffatta da maraviglia, e spaventata, più
non osò attaccarlo, e senza molestia, libero di ritirarsi a piacimento,
lasciollo. Pochi anni prima di quell'avvenimento, nel 1706, il
maresciallo di Sassonia, illustre generale, la cui perdita tutt'ora ad
ogni militare rincresce, si trovava nella città di Lembourg, aspettando
una scorta, onde farsi, fino a Varsavia, città, dove, in quel tempo,
risedeva la corte, accompagnare. Siccome egli aveva avuto contezza,
che fra i Sassoni, e confederati, era stata una tregua, conchiusa,
pensò valersi di quest'intervallo, per intraprendere il suo viaggio,
e verso la fine di gennajo, con pochi uffiziali ed alcuni soldati, da
quella piazza partì, e come quello, che non sapeva essere stata rotta
la tregua, e che i Polacchi della sua partenza informati cercavano
d'impossessarsi della sua persona, in un piccolo albergo nel villaggio
di Craknitz con intenzione di pernottare, fece tranquillamente sosta;
alla qual volta, onde sorprendere in cammino il conte Floming, ch'erasi
pure avviato da quella parte, furono dai confederati, ottocento uomini
di cavalleria, spediti.

Stava il maresciallo per assidersi a mensa, quando gli venne detto,
che un gran numero di soldati a cavallo, era entrato nel villaggio, e
pareva, che verso la casa dov'egli si trovava, prendesse la direzione.
A tal notizia cominciò egli a dare le necessarie disposizioni per
opporre un valevole schermo. Se con sole dieciotto persone pensato
avesse di difendere tutta la casa, ciò condotto l'avrebbe a troppo,
la forza sparpagliare, ed impossibile ne sarebbe divenuta la difesa.
Epperciò, il cortile ed il piano terreno abbandonando, alla protezione
della parte superiore della casa, solamente appigliossi; pose due o
tre soldati per ogni stanza con ordine di traforare il pavimento, in
modo che potessero sopra chiunque nelle camere di sotto s'introducesse,
dalle innumerevoli buche sparare e coll'intendimento di poter in
qualche modo, quelli di dentro la casa, dalla stalla soccorrere, col
rimanente della sua forza, in quest'ultimo luogo appiattossi. Non
ancora quelle tali disposizioni eran compite, che incominciarono i
nemici l'attacco. Le porte del piano terreno furono le prime ad esser
atterrate, essendo le stanze tutte basse, i soldati del maresciallo con
certezza i loro tiri aggiustavano; e quanti, per entrare affacciavansi,
erano immediatamente ammazzati. Supposero i Polacchi quella parte di
casa rigurgitante di truppa, e nell'idea che fossero i piani superiori,
per essere più facilmente forzati, ad altra parte si volsero, ed al
fine di prendere a rovescio, e cadere sulle spalle dei difensori, alle
finestre delle camere più alte, diedero la scalata, ed affatto vuote
di gente le rinvennero. Mise tale disposizione, in grande imbarazzo
il maresciallo cui mancava il modo d'impedirla. Ei li lasciò montare,
ed in quell'atto, divisando, non esservi altro scampo se non di
entrare in quelle camere, con estraordinario ardimento, la spada alla
mano, dietro di loro, e con una vigorosa carica, loro correr addosso,
confonderli e sbigottirli, locchè spezialmente in un'oscurissima notte,
qual erasi quella, mancar non dovea di produrre felicissimi effetti.
Ed infatti all'oscuro, venendo dal coraggio, la numerica inferiorità,
surrogata, e la notte sempre a credere inducendo che il numero degli
assalitori, più grande di quello che in realtà si ritrovi, da sì fatte
considerazioni determinato da pochi intrepidi uffiziali, seguito,
perseguitò l'inimico. Una palla di moschetto, che lo ferì in una
coscia, dall'attacco nol distolse, nella prima stanza, che già trovasi
da numerosi nemici occupata, disperatamente si slancia. Mettonsi tutt'i
Polacchi nella maggior confusione, corrono alle finestre, ma chiunque
da quelle, con isveltezza, tosto non fugge, viene a gambe levate, nella
strada precipitato, o cade inesorabilmente al suolo, trafitto. Così
dopo pochi minuti un solo inimico vivente più non è possibile in tutta
la casa, rinvenire. Tentarono i Polacchi un secondo assalto, che non
ebbe un migliore successo, e furono di bel nuovo a ritirarsi costretti.
Quindi, a tenere la casa fino allo spuntar del giorno in istretto
blocco, si determinarono. Guari non tardò il maresciallo a comprendere
il loro disegno, e mentre medita sul miglior modo di fuggire, un
uffiziale gli si presenta per intimargli la resa, con minaccia di
tosto, in caso di rifiuto, la locanda non solo, ma l'intiero villaggio
abbruciare. Ordina egli con dignitoso contegno, allo straniero messo,
di subitamente ritirarsi, quegli con baldanza rifiuta, il maresciallo
_ciba_ la pistola,... la imposta... spara lo coglie al corpo, e cade
il parlamentario, sul luogo, ammazzato. Mandano, senza indugio, i
Polacchi un frate Domenicano d'una seconda intimazione incaricato, e
non appena sta egli per aprir la bocca, che un altro ben aggiustato
tiro, esangue al suolo, ad un tratto, lo stende. Riunisce tosto, dopo
di ciò, il maresciallo, tutta la sua gente e così prende ad esortarla.
Ben voi conoscete, o compagni, che ormai alcuna speranza di aver
_quartiere_, non deve in noi più esistere, sola, per nostra salvezza,
la spada rimanci, onde un varco, per mezzo delle file nemiche, alle
nostre persone dischiudere. Trovasi la massa delle loro forze a
bastevole distanza, profittiamo dell'oscurità, onde i boschi vicini
al villaggio nel più breve tempo raggiungere. Se nei posti avvanzati
dell'inimico ci avverrà d'incontrarci, nel maggior silenzio, tutti a
fil di spada gli passeremo. Partiamo dunque! Abbandonarono i difensori,
in numero di quattordici, la casa; a poca distanza di là, in una
guardia nemica s'imbatterono, ma per loro fortuna, stanchi gli uomini
che la componevano dalle fatiche del giorno, e credendosi in perfetta
securità, profondamente dormivano. Quatti quatti se ne passarono essi
frà gli addormentati guerrieri, e giunsero a salvamento. Chi avrebbe
mai supposto, che dieciotto persone, fossero di respingerne ottocento,
capaci, e da un violento attacco di notte, in una casa non fortificata,
non riparata, in una locanda, perfettamente salvarsi? Ma la freddezza
nel disporre, e l'ardimento nell'assalire, furono della riuscita,
principali cagioni. Ed è pur anche ben vero, che nulla può mezzi più
adatti ad una vigorosa difesa suggerire, quanto la disperazione degli
assaliti. Avendo il maresciallo, coll'uccisione dei due parlamentarj
polacchi, posto i suoi seguaci nella circostanza di non poter sperare
_quartiere_, li rese gagliardi ad affrontare qualunque pericolo, e
disposti a seguirlo dovunque, perchè alla salvezza di colui, che solo
sapeva dirigerli, e cui la loro propria era collegata, con forte anima,
cooperavano. Dovrà pure in quel modo, un condottiero, condursi, se
vuole i suoi volontarj, nell'accanimento mantenere. Vogliam dire, ch'ei
deve metterli nel caso, che se mai loro avvenga di cadere nelle mani
del nemico, corrano gli stessi pericoli, anzi abbiano la certezza di
dover tanto, quanto egli soffrirebbe, soffrire.

Quante volte non vi sarà più speranza di poter difendere la casa,
chiesa, castello, etc., ed ogni mezzo a quell'uopo sarà stato esaurito,
e con valore, la difesa fino all'estremo, prolungata, dovrassi il
loco, di notte, dalla banda, quietamente abbandonare. I volontarj
dovranno marciare in silenzio, nell'ordine il più serrato che sia
possibile, col condottiero alla testa. Si cadrà sulla parte del nemico,
che la più debole si consideri e se sarà d'uopo combattere, si dovrà
solamente fare uso delle armi bianche, senza arrestare la marcia in
avanti, onde non dar, col fragore dei tiri, nè avviso nè tempo agli
altri posti di venirsi con quello attaccato, a congiungere e mettere
al varco, impedimenti. Tosto superato il punto difficile, e con
avvedutezza passato, all'uopo d'ingannare il nemico, che certamente
manderà truppa in traccia dei fuggitivi, si dovranno i cammini meno
conosciuti, e _fuori mano_, seguire. Se di essere circondato in un
villaggio avverrà e se tempo non mancherà al condottiero di fare una
fortificazione passaggiera, egli trarrà dagli abitanti profitto se
gli sono favorevoli, e se contrarii, li conterrà. Dei mezzi che saremo
nel capitolo delle fortezze, per indicare e rispetto ai Comarchi, in
quello del governo provisionale, ei trarrà profitto, e se, per mancanza
di tempo, non gli sarà possibile di fortificarsi, li metterà, secondo
l'esigenza delle circostanze, più o meno in pratica. Solo del modo
da eleggersi, quando una banda, saprà, che una eminente positura nei
monti, da un nemico superiore in forza, trovasi circondata, ci rimane a
trattare. Sarà cosa facilissima per un condottiero, che dalla sommità
può l'arrivo del nemico attentamente guardare, mettere da lontano,
la sua forza di quello, in ponderato calcolo, e le sue disposizioni
osservandone, potere a tempo, la sua truppa in piccole porzioni
dividere, o per individui sbandare, e quindi in un villaggio, bicocca,
o punto qualunque lontano, fuori delle operazioni del nemico, spiarne
i movimenti. Ben soventi di trovarsi in simili circostanze a Mina
successe. Posero i generali francesi, varie volte ogni mezzo in opera,
per distruggere quelle bande, ed in un bel giorno, la loro forza, (il
numero di ventimila uomini eccedente, due mila cinque cento de' quali,
erano di cavalleria) da tutte le parti circostanti, all'intorno di
lui, riunirono. Certo il condottiero di non poter sostenere l'attacco,
al loro appressarsi, ma prima, che interamente la vetta, dov'egli si
trovava, circondassero, divise in tanti piccoli corpi staccati, la
sua banda, che con marcie, contro marcie e stratagemmi, pervennero
il nemico a perfettamente schivare. Per giungere a questo scopo, fù
loro inevitabile patir la fame e la nudità, non meno, che ogni genere
di fatica e privazioni pazientemente sopportare, da quell'indomabile
spirito di perseveranza, sostenuti, che dev'essere la caratteristica
virtù dei popoli, che vogliano l'indipendenza e libertà del loro
paese conquistare, virtù che gli Spagnuoli, in quella guerra, in un
grado eminente possedevano. Così quei corpi, rimasero, per l'intiero
corso di cinquantatre giorni, frà di loro separati ed a tante pene
soggetti. Il divino Plutarco nella vita di Crasso ci narra, come
Spartaco, essendo sul monte Vesuvio dai Romani comandati da Clodio,
circondato, liberossi co' suoi compagni. Da sopra la vetta d'un
monte, per un solo strettissimo, e difficilissimo sentiero guardato
da Clodio, e sue truppe, scendere solamente potevasi, tutte le altre
parti non essendo che ripidi, ed inaccessibili macigni da numerosi
ceppi di viti selvaggie coronati. Tagliarono i gladiatori i più forti
sarmenti di quelle, ed i più convenienti ai ruminati loro disegni, e
scale saldissime ne fabbricarono di tale lunghezza, che dalla cima
della rocca in terra, nel sottostante piano, posavano: pel qual
ritrovato, tutti quanti senza pericolo, discesero e dall'imminente
pericolo scamparono. Un solo ultimo rimase per distribuire le armi a
tutti e quindi, come gli altri, salvossi. Questa difficile operazione
fatta, senza essere da' Romani scoperta, mise i gladiatori in grado
di poterli, senza opposizione avviluppare, ed in fatti repentinamente
cadendo loro addosso, tanto con tale subitaneo, ed inaspettato attacco
li spaventarono, che i Romani in un momento sconfitti, ed i gladiatori
padroni del campo inimico, immediatamente rimasero.

Se poi il condottiero, altro scampo che quello di una ostinata estrema
e terribile difesa, non vede avanti di sè, dovrà, se ne avanza il
tempo, con ripari passaggieri fortificare. Se una casa, torre, etc.,
trovasi in quelle alture, la difenderà, come al principio di questo
capitolo abbiam detto. Se alcun fabbricato non saravvi, e se la sommità
non trovasi dalla natura stessa della rupe, difesa, ma solo di terra,
allora, se ne ha l'agio, potrà fare un ridotto, il quale in questa
circostanza crediamo conveniente dovere formarsi di forma tonda, e non
quadra, nè triangolare, etc., per essere atto ad una eguale quantità di
fuochi da ogni parte. E se di fare un ridotto con parapetto, banchetta,
fosso e spaldo non avrà il destro, potrà i mezzi tenuti da' Greci,
in quest'ultima guerra d'insurrezione, praticare, che come Pecchio
assicura non usano di far trinceramenti: «Ma quando vogliono combattere
insieme e fortificarsi, costruiscono, egli dice, un tamburo, che così
chiamano un campo chiuso da un piccolo parapetto di sassi posticci;
dietro questo parapetto fanno contro il nemico, un fuoco, che per lo
più è micidiale, perchè d'ordinario colgono bene nel segno. Il generale
Caratazzo, nel giorno dicianove aprile, postato col suo corpo in uno di
questi tamburi, fece mordere la polvere a più centinaja di Egiziani,
che si avvisarono di sforzare la sua posizione.» Nel caso di gran
fretta e necessità, crediamo che possa un tal modo di fortificazione
leggiera, praticarsi, sebbene sia da noi di cortissimo vantaggio pei
difensori, creduto. Molto migliore di questo, noi opiniamo che sia,
il tamburo conosciuto nella fortificazione passeggiera regolare. Se
poi malgrado di tutte le più saggie precauzioni, non verrà fatto a
quella banda di sostenersi, o salvarsi senza trattare col nemico, con
quell'eroica risoluzione, che dev'essere compartimento di chi alla
patria si consagra, non cederà, e saprà, in mezzo alle imprecazioni
contro agli oppressori d'Italia, ammazzando, morir da gagliarda.



CAPITOLO VII.

OPERAZIONI MARITTIME.


Presenta l'Italia un tanto esteso littorale da Nizza fino a Trieste,
che impossibil cosa sarebbe, d'una guerra nazionale d'insurrezion
per bande, ragionare, senza intrattenersi della parte marittima che,
per dare rapidità ai movimenti delle bande medesime, per sottrarle al
pericolo di essere dall'incalzante nemico raggiunte, per facilitare
il loro trasporto da una parte ad un'altra della costa, onde prendere
il nemico, a rovescio, in fianco, ed alle spalle, per salvarle dalla
prossima loro distruzione: deve di tanto inestimabile vantaggio,
riuscire.

L'Italia, prima distruggitrice della formidabile potenza marittima
Cartaginese invincibile, in quel tempo, riputata; ne' secoli scorsi,
due republiche per forza marittima potentissime, nel suo seno
racchiudeva, Venezia, e Genova, a vicenda, il tridente di Nettuno,
nel mare Mediterraneo si disputavano. La prima inimica tremenda della
Porta Ottomana, signoreggiava sulla maggior parte della Grecia, e
con lo smercio delle mercanzie tratte in gran copia dal levante, per
mezzo de' suoi numerosissimi legni naviganti in quelle acque, d'agi
e di beni, l'Italia, doviziosissimamente forniva; e delle gloriose
bandiere di Venezia e di Genova trovavasi il mare, coperto. Ma quella
Italia, che inventò la bussola, che diede al mondo un Colombo, un
Amerigo Vespucci, un Sebastiano Caboto, un Usumaro, compagno di Vasco
di Gama, un Morosini Peloponnesiaco, un Andrea Doria, e finalmente un
Carraccioli con tanti, e tanti altri illustri navigatori ed ammiragli
famosi, che nessun marittimo duce di altre nazioni europee pervenne
ad uguagliare, non che a vincere; quell'Italia, che malgrado le sue
divisioni intestine, e le cattivissime instituzioni che la reggevano,
in sul mare primeggiava, trovasi oggidì povera oltremodo di marina,
priva di riputazione, avvilita, e derisa da tutte quelle nazioni
marittime, che prima, la forza del suo naviglio, e la bontà de' suoi
marinari, meritamente rispettavano, e deve soffrir la vergogna di
vedersi dalla lista delle potenze marittime del tutto eliminata.
Noi possiam dire, senza pericolo di errare, che per terra o per
mare, essa non pesa un solo atomo nella bilancia d'Europa. Volgendo
il pensiero a calcolare la forza del naviglio di tutti gli stati
italiani, chiaro si vede che la sua marina di guerra non ascende a
più di novanta vele tra grandi, e piccole in buono stato. La marina
sarda-genovese, che si può denominar la più florida in questi tempi,
e che alquanto va crescendo, non oltrepassa il numero di venti sei
vele quadre, tutto compreso: la marina napoletana non giunge a dodici,
e la veneziana ne conta solamente cinquanta. Ma lo stato Papale, e
Toscano, essendone affatto privi, è manifesto che il naviglio di guerra
italiano, minutamente annoverato, non giunge alle novanta vele, che
abbiam di sopra indicate. Tutto ciò in tre distinte frazioni è diviso,
l'una dall'altra differentemente regolate, e la maggior delle quali,
all'immondo servizio della turpissim'Austria, capitale, perpetua
nemica della gloria, e prosperità italiana, trovasi vergognosamente
impiegata. Epperciò tal marina, senza spirito d'emulazione, senza
energia, è incapace pel piccolo suo numero, e per la sua posizione,
di sostenere quell'onore, con tante sofferenze, e con lo spargimento
di tanto sangue dagli avi nostri acquistato. Egli è però da supporsi,
che al momento di una insurrezione generale in Italia, queste novanta
vele da Italiani comandate, e dirette, non vorrebbero, con somma
infamia, e vergogna loro, essere del vizio, dello straniero, della
tirannide, obbrobrioso sostegno. Vogliamo noi credere, che tutt'i
comandanti, ed uomini di mare, abbraccierebbero il partito del loro
paese, e quello accanitamente difenderebbero, vantaggio di gran lunga
maggiore potendone sì al publico che al privato, ridondare. La marina
militare italiana, inalberando la bandiera dell'unione, independenza,
e libertà della patria, non rimarrebbero altri nemici da combattere,
imperciocchè, sendo l'austriaca marina d'Italiani composta, e seguendo
questi la via dal dovere loro indicata, si troverebbe quella potenza
affatto priva di naviglio, e non sarebbe più atta ad infestare le
nostre coste: anzi quelle novanta vele ci servirebbero a mantenere le
comunicazioni fra un punto e l'altro del littorale, al trasporto di
vettovaglie, armi, e munizioni dall'estero nei nostri porti: o nelle
baie, golfi, cale, seni, verrebbero onde il popolo combattente, di
quanto gli bisogna, prontamente provvedere, ed altresì per caricare
bande di volontarj, ed in quei punti rapidamente trasportarle, dove il
nemico, trovandosi assai più debole, si possa facilmente schiacciare:
quindi le bande tornando a navigare di bel nuovo, nel luogo, da dove
partirono, compariranno, dove forse il nemico più non le aspetta: così,
colla velocità dei movimenti, favorita dal trasporto marittimo, la loro
forza in mille modi, e differenti apparenze, troverassi moltiplicata,
e finalmente nella loro fuga, qualora inseguite dal nemico, saran
protette e salvate. Grande addunque sarebbe il vantaggio che la
marina militare potrebbe in questo modo nella guerra d'insurrezione,
al suo paese arrecare, e non v'ha dubbio, che sia quella disposta,
al primo grido d'unione, e libertà d'Italia, ad accorrere sotto agli
stendardi di quella patria, che ha d'uopo del maggior numero de'
suoi figli, onde spezzare il giogo straniero, ed anche dalla tirannia
domestica liberarsi. Ma nello stesso modo, che tutto a credere conduce,
essere gli uomini della marina di Sardegna, Napoli, Venezia, schivi
dal coprirsi dell'infamia, e del vituperio del mondo, e che anzi a
difendere, e sostenere la causa della loro patria, con entusiasmo, ed
ardimento, imprenderanno; tutta volta la prudenza, quella madre dei
felici risultamenti, vuole, che la questione, da ogni lato si esamini,
e che ad una supposizione contraria si giunga che al nostro cuore pesa
oltre modo, e di che il minimo indizio non abbiamo, ma che pure noi
dobbiamo per un momento ideare, onde non resti il nostro trattato,
in così essenzial parte, incompleto. Ammesso dunque che nella guerra
d'insurrezione, una marina nemica esista, e che questa delle tre
squadre, sarda, napolitana e veneta, o di una parte d'esse o d'alcuna
di quelle si componga, non avverrà che il felice risultamento della
guerra d'insurrezione abbia, per questa disgrazia, ad essere impedito.
Il solo danno consisterebbe in un ritardo nel perfetto compimento della
vittoria; perchè que' navigli, anzicchè trasportare le nostre truppe
da un punto all'altro, ne trasporterebbero le inimiche, ed anzicchè
fornir delle vettovaglie, armi e munizioni dall'estero, cercherebbero
d'impedirne l'arrivo, e quelle all'avversario apporterebbero. Malgrado
ciò, se il popolo italiano vuole veramente divenir libero; possono ben
anche tali pericoli, se non per intero eludersi, almeno diminuirsi.
Allo scoppio della italica rivoluzione, tutt'i capitani mercantili
nizzardi, genovesi, toscani, pontificii, napoletani e veneti, (che
secondo i calcoli più recenti, posseggono più di ventimila vele
quadre, pell'aumento ch'ebbero dalla spedizione di lord Exmouth
contro di Algeri, fin'oggi) seguendo il glorioso esempio dato nel
1821 e 22 dai Greci contro ai Turchi; la bandiera nazionale italiana,
festosi, nella vista della gran ventura della patria, inalbereranno.
Armeranno, costoro e metteranno i loro legni in istato di combattere,
quindi a seconda di quanto più sopra indicammo per le navi di guerra,
opereranno. Per via della loro picciolezza, saranno que' legni atti
vieppiù a condurre ad effetto le loro imprese, e altresì a deludere
la vigilanza dell'inimico. Si serviranno pure i capitani delle loro
carte e bandiere, ogni qual volta si troveranno sotto alla portata di
quello ed esser più forte di essi loro, giudicheranno. Quante volte
non potranno opprimerlo colla forza, avranno all'astuzia ricorso. Il
sistema di guerra marittima, non differisce, nelle massime generali, da
quello di guerra terrestre e solamente nei particolari, speziali alla
varietà dell'elemento, dee cangiarsi. Imperciocchè, alcune volte sarà
più facile al nemico di soverchiarci, se si trova a _sopravento_, o con
un legno più veliero del nostro. Allora ch'esauriti dal _portolano_
dell'italico legno, saranno tutti quei mezzi statigli dall'astuzia,
valore, e temerità suggeriti; anzicchè nelle mani del nemico vilmente
cadere, dovrà alla salute della patria immolarsi. Giunto all'estremo
istante in che vegga, non esservi altro scampo, che la resa; in vece di
ammainare la sagrosanta bandiera della patria e darla preda ai barbari,
lor farà egli un estremo e terribile saluto, dando fuoco al deposito
delle polveri nella _Santa Barbara_, e quindi a quella unito, ed al
bastimento, in onore della nazione, e beffa dei barbari, salterà il
prode Italiano, in mille pezzi per l'aria.

In tutt'i paesi, villaggi e borghi, lungo la costa marittima, si
metteranno in mare dei _mistici_, _liuti_, _schifacci_, _paranze_,
_bovi_, etc., armati di cannone, e con sufficiente quantità di gente;
si terranno quelli sempre vicino alla costa, per sorprendere le
corrispondenze del nemico; trasportare vettovaglie, etc. Oltracciò,
da tutti quei paesi littorali, pure si metteranno in mare _lancioni_
alla foggia delle _speronare_ siciliane, contenenti un centinajo di
persone armate, le quali staranno di giorno, e di notte permanentemente
a _bordo_, e faranno continui sbarchi sulla costa; tirando a terra il
loro _lancione_, ed in quella inoltrandosi. Per tal modo, manterranno
tutt'i paesi, e villaggi, che si estendono lungo la spiaggia, in
attività continua, rispetto e devozione al partito della patria. La
grande cura, la somma precauzione di chi comanda al _lancione_, sarà
di star ben avveduto, e prendere le sue misure, onde non gli venga la
ritirata al mare impedita. Epperciò non dovrà mai tanto dentro terra
inoltrarsi, che possa dal nemico essere scorto, e tagliato di fuori.
Questi _lancioni_ possono in mare portarsi nel tempo di notte sotto
ai bastimenti di alta portata e senza essere veduti, incendiarli o
farli saltar all'_arrembaggio_. L'ardita condotta dei _filibustieri_
nei mari d'America è degna di essere da noi nelle marittime operazioni
onninamente imitata; non diciamo nello scopo, perchè quelli al solo
soddisfacimento di licenziose brame, ad un ismodato desiderio di
far preda, anzicchè alla gloria e felicità della patria, miravano.
Ma che con ispirito patrio e veramente italiano intrapresa, debba
l'imitazione delle loro gesta grande giovamento alla riuscita della
contesa cagionare, non vi può esistere il minor dubbio. Il celebre
storico Rayual, parlando di questi famosi guerrieri marittimi, dice,
che formavano tra loro, molte piccole squadriglie di cinquanta,
cento, o cencinquanta uomini, che in una barca più o meno grande,
consisteva tutto il loro armamento, e là, notte e giorno, all'ingiurie
dell'aria esposti, non rimaneva a quegli straordinarj navigatori, che
un picciolissimo spazio per coricarsi. Essi non deliberavano mai per
attaccare un legno che si presentasse alla loro vista. Il loro sistema
era quello di correre all'_arrembaggio_: la picciolezza de' legni
e l'arte di maneggiarli, salvavagli dal pericolo dell'artiglierie
della nave nemica; non presentavano mai al suo fuoco altrocchè la
prora coronata dagli _scoppettieri_ che dirigevano tutt'i loro tiri,
agli _sportelli_ dei cannoni avversarj, così bene aggiustati, che
sgomentavano e rendevano i migliori artiglieri mal atti alla difesa.
Quand'essi avevano gettato il _grappino_, era cosa molto rara,
che il più grande bastimento, potesse loro sfuggir di mano. Quando
s'incontravano con un vascello spagnuolo, non tralasciavano mai di
attaccarlo e seguivano le flotte fino allo sbocco del _Bahama_, nel
qual tragitto, se un bastimento si allontanava dagli altri o restava
indietro, era certamente preso, ed i vinti, precipitati nel mare.
Pietro Le Grand, nativo di Dieppe, che aveva soltanto una lancia armata
con quattro cannoni e ventotto uomini; malgrado la disparità delle
forze, si decise ad attaccare il vice ammiraglio dei galeoni: e dopo
d'aver comandato che fosse il suo proprio legno nell'acqua sprofondato,
il sorprese e saltò a _bordo_ con tutti gli uomini. Fù talmente dalla
sua temerità l'equipaggio spagnuolo, stupito, che nessuno di fargli la
minima resistenza ebbe ardimento, ed egli stesso calando alla camera
del capitano, il trovò intento al giuoco, gli mise la pistola alla
bocca, e l'astrinse ad arrendersi a discrezione.

Che non avremmo da dire, se da noi si volessero le prodezze di tutti, o
della maggior parte di questi decisi combattenti marittimi, raccontare?
Le gesta sole del capitano Laurent, Montbars sopranominato lo
_sterminatore_, del Basque, dell'Olonese, Morgan, Vandhon, ci bastino
per indicarci la condotta, che debba tenere il _portolano_ marittimo,
che si consacri al riscatto d'Italia. Egli deve conoscere il pericolo,
e non temerlo, tutto risparmiare, e tutto avventurare, difendersi
ad un tempo, ed assalire. Il valore, l'artifizio, la temerità, la
disperazione stessa debbono in quella specie di guerra, essere, a
seconda de' casi, con accortezza del capo adoperate, e dovrà, solo,
più della morte, l'ignominia di restare la preda del sanguinolento
assassino d'Italia, sempre sempre temere.

Situate a distanze determinate nei paesi, e villaggi della costa
del continente, e delle isole, fuori dei villaggi, nei seni di mare,
alcune squadre di _lancioni_, di cui favelliamo, che debbono correre
nella distanza da una stazione all'altra, ed imitare nella attività,
decisione, valore, i citati _filibustieri_; non vi saranno più
certamente, lungo tutto il littorale italiano, pericoli da paventare.
I _brigantini_ mercantili, _fuste_, _barbotte_, _petacchi_, _mistici_,
_sciabecchi_, _bovi_, e _schifacci_, si estenderanno eziandio al
largo pel Mediterraneo ed anche più lungi, manterranno le provvigioni
alle fortezze ed alle bande; e dovendo urtare con bastimenti nemici,
seguiranno la condotta pei lancioni di già stabilita. Debbono tutti
questi legni essere serviti da marinari, che sentan lo stimolo d'un
ardentissimo, inestinguibile amor di patria, e d'un odio accanito
contro agli oppressori di quella, che gridi al cuore continuamente,
_Vendetta_! Debbono quelli essere a questa vita laboriosa, e senza
riposo indotti, non solo dall'incitamento d'una vita independente, e
dalla speranza del bottino, ma bensì da quelle fortissime passioni, che
il cuore dell'uomo altamente sublimano, e delle quali sono gl'Italiani
per divenire altamente capaci, com'è ben noto, pel santo scopo della
libertà della patria, tutti questi fratelli nella spiaggia italiana
si porgeranno nelle moltiplici e durissime operazioni, reciprocamente
la mano, e con quel costante coraggio, e perizia, compartimento degli
antichi dominatori del mare, che tanto spiccò negl'Italiani, abbenchè
ne abbiano da lungo tempo tralasciata la pratica, otterranno una gloria
anche maggiore di quanta ne abbiano i Greci, e gli Americani acquistata
nelle sanguinose contese, che per lo spazio di tanti anni in prò della
loro patria, intrepidamente sostennero. L'uso dei _brulotti_ non sarà
nemmen posto in obblio. Qualunque legno portante bandiera austriaca,
od una delle bandiere della tirannia d'Italia, se non verrà conosciuto
essere montato da Italiani patrioti e _mascherati_ colla bandiera
tirannica, sarà inesorabilmente predato; l'equipaggio, e _portolano_
saranno prontamente svenati, e lo stesso bastimento dai vencitori
armato in guerra, aumenterà la marina italiana; il suo carico servirà,
come bottino, in sostegno dei combattenti, e per le altre spese
di guerra. I capi dovranno eseguire con minuta esattezza quanto al
capitolo decimo della prima parte, ove si tratta della paga, e bottino,
si è scritto.

Si rispetteranno religiosamente tutt'i bastimenti delle altre nazioni,
purchè non si trovino carichi di merci, provvigioni, armi, o qualunque
siasi altra cosa utile all'inimico. In quel caso, il solo carico
sarà predato, e conservato, gli uomini, e bastimento saranno, con
inflessibil animo, precipitati _a fondo_. Non recan vantaggio le _mezze
misure_, allora quando un popolo insorge, anzi, accrescon la forza
dell'inimico. Se si lasciano vivere gli uomini dei bastimenti spogliati
delle merci, irritati quelli dall'atto giustissimo, ma per essi penoso
di torsi gli averi di chi serve all'oppressore, e scordandosi di
aver intrapreso un _contrabbando_ contro la nazione guerreggiante, si
sparpagliano per tutta l'Europa, e con le loro grida, e coi loro veri
o falsi racconti, vanno suscitando una schiera di nemici alla parte
belligerante che solamente usò de' suoi diritti, amplificando le cose,
con menzogne, e calunnie, straziando la fama di coloro che a ragione
operarono. Per lo contrario, se tutti quanti in un coi loro bastimenti,
nel mare discendono, loro si toglie l'acconcio di poter danneggiare
nell'avvenire, e d'altronde per aver recato soccorso agli oppressori
d'Italia, loro s'infligge il ben meritato castigo.



CAPITOLO VIII.

DELLE FORTEZZE.


Le fortezze che dagli uni si veggono, come indispensabili, e principal
forza d'uno stato, dagli altri come inutili, anzi dannose, riputate;
da Machiavelli e Guibert non corrispondenti nell'utile alle spese,
ch'esigono, dichiarate, da Paruta, e Bausmard inalzate alle stelle,
e di grande vantaggio considerate; nella guerra dei trenta, e dal
gran Federico in quella dei sette anni, come oggetto il più degno
di attirarsi le cure d'un generale, furono celebrate. Napoleone
all'opposito, capitano di mente vasta, e di grandi concepimenti,
conoscendo appieno che, dopo l'occupazione di tutto il territorio dello
stato, della capitale, del governo, e di tutte le risorse, che alla
difesa delle fortezze sono necessarie, quelle dovevano infallibilmente
cadere; come oggetti secondarj capaci di contribuire alla occupazione
del paese, non meno che ad assicurarne la conquista, solea
considerarle. Ma se possano fra i tattici, e politici sull'utilità loro
nei sistemi di attacco e difesa di uno stato in guerra regolare fra
nazione, e nazione, o fra re, e re, tali nocevoli dispareri esistere;
è però incontestabile che, se in una guerra d'insurrezione perviene
un popolo al principio della contesa, o quindi ad impadronirsene,
debbano le fortezze, di sommo vantaggio valutarsi. Imperciocchè ogni
castello, rocca, fortezza, o piazza forte, potrebbero, non meno di
base d'operazioni, alle bande del circondario, servire, che di deposito
per le armi, polvere, vettovaglie, in somma per tutte le munizioni sì
da guerra che da bocca, di punto di ritirata, qualora da ogni parte
strettamente attaccate ed inseguite; d'ospedale pegli ammalati; di
magazzeno pel bottino; di deposito pei cavalli; di arsenale per la
fabbrica d'armi, e polvere da scoppio: vantaggi tutti indisputabili,
che fortificando l'azione delle bande, possono la riuscita della
contesa sommamente agevolare. E conversamente, di piccolo o di nessun
nocumento saranno per essere le fortezze, se non si trovano dal popolo
acquistate. In fatti il sistema della guerra nazionale d'insurrezione
per bande, richiedendo, che tutta la superficie della penisola sia
in ogni parte, in ogni direzione da drappelli d'armati coperta,
che i villaggi, borghi, paesi, e città tutte all'annichilamento del
comune nemico tutte le loro forze accoppino; in sì fatta guisa non
sarà possibile a quello d'introdurre convogli nelle fortezze onde
all'inevitabile mancanza delle munizioni di qualunque specie supplire,
ed anche gli si renderan malagevoli, e pressocchè impossibili, od
almeno infruttuose, le _sortite_. Se queste a piccola distanza dalla
fortezza saranno spinte, dovendo _tutto_, secondo questo sistema,
essere devastato, o bruciato fino alla periferia dei raggi del centro
strategico nemico, nulla gli avverrà di trovare, e se a maggior
lontananza si deciderà di mandare i suoi distaccamenti, potranno esser
quelli fuori della piazza, facilmente dalle bande tagliati e per tanto
i spediti soldati, sempre nel rischio di essere tolti nel cammino,
da questo mondo, oppure dalle fatiche spossati, vedendo le loro
provvigioni predate, come tapini, al loro centro, malconci, e derelitti
ritorneranno. Difficil cosa sarebbe, il dire se nel 1810 fosse in
Catalogna il numero delle città spagnuole dai Francesi assediate od
occupate, maggiore a quelle dalle bande nazionali, bloccate. Infatti
le comunicazioni tra una piazza, e l'altra, erano talmente impedite,
che non potevano i Francesi una lettera da Barcellona, fino a Gerona
mandare, senza una scorta d'almeno cinquecento uomini per proteggerla,
ed ordinariamente succedeva, che nè la lettera, nè la scorta potevano
giungere al loro destino, ma bensì dovevano al luogo da dov'erano
partite far ritorno, tutte le volte, che loro era dato di potere la
loro quasi certa distruzione pel cammino, evitare. Oltracciò, tanto
grande vantaggio da questo sistema di guerreggiare ne ridondava, che
sebbene avessero i Francesi, mercè la loro disciplina e tattica, dieci
battaglie campali, nel corso di sei anni, guadagnato, e di quasi tutte
le piazze forti avessero il possesso; nulla dimeno, non fù loro, il
durevole dominio d'un solo distretto della provincia, possibile ad
assicurarsi.

Tanto pell'esistenza nei secoli scorsi del sistema feudale, quanto
per la divisione in che fin ad ora in differenti stati separati, fù
tenuta, non meno, che per le molte guerre intestine, e forestiere da
essa, per lo più a suo danno, ed a vantaggio degli stranieri sostenute;
trovasi l'italica penisola, d'antichi castelli gli uni mezzi diroccati,
gli altri ancora in buono stato coperta, sù d'eminenti punti, che
signoreggian le vie situati, che ai feudatarii nei secoli scorsi
appartenevano. Altissime torri, rocche di valevoli baluardi munite,
fortezze di doppio muro cinte, vecchie cittadelle sprovvedute ed
abbandonate, le une in pianura, le altre su rupi, che a profondissimi
burroni e stretti sovrastano, sparse, in non picciolo numero in tal
contrada rinvengonsi. Ma quantunque, ritrovinsi quei propugnacoli,
quasi del tutto negletti, smantellati, ed a discrezione di fortuna
in oggi dai possessori, lasciati, non per tanto impossibil cosa,
dando principio alla guerra d'insurrezione, sarebbe, ad imitazione
degli Spagnuoli, di riattarli, ed alla difesa come fortificazioni
passaggiere, con sollecitudine apparecchiarli. Molte fortezze, ci dice
il nostro Vacani, furono in quella guerra nella Spagna restaurate,
e resero servigi importanti alla difesa generale, tali insomma,
da dimostrare sempre più, quanto possa natura all'arte congiunta,
nell'avvalorare gli sforzi generosi d'una paziente, e coraggiosa
nazione.

Stabilito dunque, che di sommo vantaggio, nella guerra di che
trattiamo, sieno le fortezze, il conveniente modo di quelle prendere o
difendere che in mano dei nemici o della nazione possano esistere; per
quanto meglio ci fia possibile, ad esporre imprendiamo. Siccome non
può un condottiero in questa guerra, finattantocchè colonne volanti
o legioni di truppa regolare non siensi nelle provincie ordinate,
avere a sua disposizione cannoni, nè macchine od utensili necessarj
per un assedio, nè le varie qualità d'armi riunire, che per la presa
delle medesime, debbono l'una dall'altra in ajuto adoperarsi; nè
avviene che per stratagemma, o per convenzione segreta con alcuni
abitanti o difensori, potranno le bande, con successo, delle fortezze
e propugnacoli, generalmente impossessarsi. Ed in fatti, deve
degli stromenti necessarii ad un regolare assedio delle fortezze,
un condottiero scarseggiare, nè può impedire, che vettovaglie non
meno, che munizioni vengano in quelle, introdotte, nè far sì che per
insopportabile inopia e rabbiosa fame sieno ad arrendersi costrette.
Dovrà pertanto limitarsi di bloccarle, perchè quand'anche abbiano
provvigioni a dovizia, desutile mai non sarà di tenerle in blocco e con
quello il nemico molestare, ed in continuo servizio ed inquietudine
il soldato avversario mantenere. Mina al blocco di Pamplona, con
molti differenti modi, ora facendo sembianza d'attaccare, ora di
fuggire, etc., i Francesi, travagliava, ed a stare costrignevali sulle
loro guardie, di continuo rinchiusi. E se ad uscire baldanzosamente
avventuravansi, facevagli col peggio indietro tornare. Così dovrà
essere quel condottiero, come eccellente esemplare, da ogni altro
condottiero, imitato. Aveva egli con un manifesto, guerra a morte e
senza quartiere a qualunque Francese, uffiziale foss'egli, o soldato,
indistintamente dichiarata: in ogni luogo ed in ogni tempo, con armi,
o senza, in servizio o fuori d'azione, chiunque di quelli trovato si
fosse; immantinenti esser doveva coll'_assisa_ sua di reggimento, e
con una _bolletta_ sul petto portante l'inscrizione d'ordine di Mina,
con le gambe in sù, e la testa in giù, ad uno degli alberi, lungo
la strada, inesorabilmente appeso. Ogni casa, in che stato fosse un
Francese, nascosto, ad essere in cenere ridotta, era condannata, ed a
morte i padroni o gli abitanti di quella sentenziati. Se mai l'inimico
da qualche abitante d'un villaggio, esservi in quello dei volontarj,
avesse relazione, ricevuta, ed il numero di quelli non fosse maggiore
di otto; un balzello di cinque cento ducati a quel villaggio che
aveva informato, imponeva: e se qualche volontario fosse, per quella
cagione, in mano dei nemici caduto, dava espresso comandamento,
che a sorte quattro abitanti del villaggio si estraessero, ed in
quello stante si archibugiassero. Era Pamplona e tutt'i villaggi, e
case circostanti, dentro un raggio d'un miglio comprese, in istato
d'assedio chiarita, ed a passare dentro quella linea, la pena di morte
s'incorreva. Tenevano i distaccamenti a _stazzo_ in osservazione
della linea, l'ordine preciso di sparare addosso a chiunque oltre
i limiti stabiliti, di scorrere s'avventurasse: e se avveniva, che
la persona ferita o no, nelle loro mani giungesse, quella dovevano,
senza indugio, all'albero più vicino per la gola impiccare. Aggiungeva
inoltre, che qualunque persona con saggio avvedimento desiderasse
Pamplona, durante quel tempo, abbandonare, sarebbe stata con l'umanità
propria del carattere navarrese ricevuta, ma si doveva per ottenerne
il permesso, a Mina personalmente presentare. Erano i militari d'ogni
grado, a disertare invitati, con la promessa di lasciare a loro posta
la scelta di militare negli eserciti spagnuoli, andare in Inghilterra
od al loro paese ritornare. In qualunque di questi due ultimi casi,
Mina di condurli salvi ad uno dei porti della costa marittima, loro,
sopra sua fede, prometteva. Qualunque persona che avesse un disertore,
ucciso, o tradito, o ricovero ed assistenza avessegli negato; dovevasi,
tosto presa, da' volontarj, alla forca sospendere: ed a nessuno era
dai limiti del rispettivo villaggio, in arbitrio di allontanarsi,
senza d'un passaporto dell'alcalde, o _Regidor_, dal Parroco o da
qualche ben conosciuto abitante in vece sua firmato. Chiunque, senza
un regolare passaporto, fosse rinvenuto, comandava che fosse passato
per le armi. I tenitori d'albergo e locande, erano sotto pena di
morte, il passaporto a tutt'i loro ospiti, ed avventori, a domandare
incaricati: e chiunque valido non l'esibisse, dovevano arrestare, ed
alla più vicina banda rimetterlo. Se qualche villaggio sborsasse, od
i primati di quello, il pagamento della multa di quaranta _pesetas_
per settimana, imposta dai Francesi, ai parenti ed amici dei volontarj
sollecitassero; le proprietà di tutt'i magistrati, preti e persone
influenti di quel villaggio, doveano a discrezione confiscarsi, ed
una multa _ebdomadaria_ del doppio della somma di quella, ai padri,
fratelli e congiunti delle persone dai Francesi in Pamplona impiegate,
riceversi. Mina col suo manifesto imponeva, che in tutte le città,
valli, etc., di Navarra, esser doveva in ogni quindici giorni, la prima
e terza domenica del mese, in tutte le chiese dal prete officiante,
letto e pubblicato; ed ogni qual volta ed in qualunque luogo stato
fosse questo dovere trascurato od omesso; tutt'i magistrati, preti,
notaj o scrivani della municipalità e due dei più influenti abitanti
del paese, al supplizio inesorabilmente sentenziava.

Questi furono i principali modi da Mina, durante il blocco di Pamplona
praticati, che se indubitatamente non si possono come dolci e miti
riconoscere; è però giuocoforza il convenire, doversi quelli nel
genere di guerra di che trattiamo, come indispensabili, certamente
stimare. Imperciocchè quegli esseri malvagi nel di cui core l'amor
di patria non ha più forza, e quella, sono ad un vile timore, o
personale riguardo, per immolare disposti; togliere si debbono di
mezzo; ed al sistema di terrore dal nemico seguito, quello conviensi
di _altro terrore_, con giustizia opporre. Senza volerci nei molti
particolari sopra di questi modi, arrestare, perchè pure alla guerra
regolare appartengono; diremo non dimeno, che non mai una fortezza
piccola o grande attaccare dovrassi, senz'aver prima tentato, con
doni, con offerte, con promesse, da chi la comanda o dalla truppa, di
difenderla incaricata, d'averne la cessione. Dice Pausania, al libro
sesto, capitolo diecisette, «che i primi frà tutt'i popoli furono
gli Spartani, che abbiano a forza di danaro, la fedeltà dei generali
nemici, di sedurre tentato, ed a maggior gloria la vittoria venale,
che quella col coraggio acquistata, s'attribuissero.» Ma se poscia,
esauriti tutt'i mezzi di seduzione, duri vogliono i nemici alla difesa
rimanere, essendo conveniente il sito, e vantaggiosa l'occupazione
d'una data fortezza, giudicata, si dovrà da che vuol sorprenderla, con
disegni, con modelli, per relazioni e con le proprie riconoscenze,
perfettamente conoscere: quindi con una forza di molto superiore a
quella del presidio, assalirla. Il più profondo secreto deve da chi
comanda, essere mantenuto, ed il suo progetto, di quello in fuori, che
a surrogarlo, in caso di morte, già trovisi destinato, e dai capi delle
varie suddivisioni della sua truppa, in ciò che specificatamente e
particolarmente loro appartenga, a nessuno, senza correre il più grande
pericolo, dev'essere manifestato. Allorchè meno possano essere dai
difensori prevedute, debbono le sorprese dei propugnacoli, effettuarsi.
Le lunghe ed oscure notti d'inverno (dando tempo all'assalitore di
giungere inaspettatamente da lontano, e fare i suoi preparativi,
onde, due ore prima di giorno, dare la scalata alla piazza,) quelle
operazioni notabilmente facilitano. Il vento, il freddo, la pioggia,
rendendo pigre, ed intirizzite le vedette e le vegghie dei forti, a
chi va per assalire, danno favore. Deve il condottiero dell'ora, in
che il presidio le sue guardie _rileva_ e recasi ai baluardi a nuove
sentinelle di gente fresca posare; essere diligentemente informato,
ed alcune ore prima di quel momento, quando la guardia stanca bada
con minore avvedutezza alla difesa, con vigore attaccarlo. Varie bande
unite sotto al comando d'un solo condottiero capo di quella operazione,
potranno facilmente riescire. Sono queste sorprese ai fanti riservate,
ma in di loro ajuto, una qualche piccola banda di cavalli, per decidere
la zuffa nelle strade e piazze del paese, di molto converrebbe: ed
altresì, allora quando da una grandissima distanza, si dovesse a
quell'uopo, la truppa trasferire. Perciò nel loco distante due ore
dalla piazza che si vuole attaccare, ed ove per prendere alcuna posa
e mettersi in ordine pella divisata impresa, si fa il grand'alto,
in groppa i fanti trasporteransi. Delle guide, informatori, spie,
mercechè tali operazioni si maneggiano e delle necessarie cautele
per non venire ingannato, e mancare all'intento, non ragioneremo,
avendone in gran parte, nel capitolo 12 della prima parte, dove della
spiagione abbiamo trattato, abbastanza discorso. Accenneremo dunque
solo di passo, non doversi in quel caso le armi da fuoco mettere in
uso, ma nel più profondo silenzio, all'arma bianca, quanti nemici ai
posti avanzati s'incontrano, senza dare a nessuno di essi nemici campo
a sparare, o fuggire, debbonsi tutti ammazzare: ed aggiungeremo, una
volta giunti sulle mura, corpo a corpo e non colle armi di getto,
essere di combattere, conveniente, ma solamente potersi quelle con
vantaggio adoperare, quando già entrati nella piazza si vogliano gli
abitanti, e difensori per più prestamente alla resa costringerli,
con tiri spaventare. Tutt'i militari non solo, ma tutti gl'individui
portanti armi, esser debbono sul posto a dirittura trucidati. Ai soli
abitanti amici della patria, tranquilli e non a nostro danno armati,
debbesi concedere benignamente quartiere. Diremo in oltre, che per
evitare il difetto nelle sorprese assai frequente, vogliam dire, di
non essere state le scale ben calcolate, debbonsi quelle di sufficiente
lunghezza costruire, affinchè, fino sopra alle mura, giunger possano, e
doversi pure quelle a due uomini, preferire, perchè oltre al vantaggio
della maggior economia, molto più di coraggio, ed emulazione, deve
negli aggressori, che in due alla stessa altezza trovansi a montare,
indubitatamente infondere. Buona cosa pur sarà, se fattibile, di
portare falconetti e cannoncini sopra dorso di mulo o sopra barelle,
onde aprir le porte e le poterne, ed in mancanza dovrà farsi a
quell'effetto, valevole uso di petardi, portar fascine, per riempire
i fossi, che da una parte, o dall'altra del muro, possano rinvenirsi,
portar mazze, ferri, spontoni, etc., per rompere le porte di soccorso.
Debbonsi dividere le forze in cinque squadre: una pell'attacco reale,
un'altra pei falsi attacchi, la terza per far diversione, la quarta
per rimanere di riserva, la quinta infine per assicurare la ritirata
e guardare le spalle e gli stretti. Ognuna di queste, da un capo abile
ed ardito comandata, qualora non riesca l'attacco reale ed alcuno dei
drappelli dei falsi attacchi, ad entrare pervenga; alla gran corsa
porteransi allora i due terzi di tutte le altre a congiungersi con
quella, che già pone piede addentro, e mantenendo i rimanenti terzi
un fuoco vivissimo e terribile, sempre più avvicineransi alla piazza,
per l'attenzione delle truppe nemiche, sopra di loro attirare, ed
impedire che a quelle attaccate, arrecato sia soccorso. Una volta
nella fortezza entrate, dovranno le bande in tanti distaccamenti
suddividersi; uno alla guardia del luogo per dove si è penetrato,
immediatamente destinerassi, un secondo, per sostenere l'attacco, un
terzo onde la porta dalla quale deve entrar la riserva, tosto aprire,
un quarto per far il giro dei baluardi, un quinto per arrestare il
comandante della piazza, tutto lo stato maggiore, e passarlo di botto
per le armi, un sesto per assalire il corpo di guardia principale e
tutt'i soldati che lo compongono, esterminare, un settimo per coprire
la porta della cittadella o castello, un ottavo per lo stess'oggetto,
recherassi a quella dei quartieri, un nono per impossessarsi degli
arsenali e magazzeni, un decimo per occupare le contrade, un undecimo
dovrà mettersi in positura sulle piazze, un duodecimo arresterà tutt'i
principali militari, civili, abitanti ed impiegati del paese, sotto
guardia per custodirli. Avrà il condottiero questa fortezza, sorpresa
o per tenerla, o per abbandonarla. Nel primo caso, stabilirà il
presidio, e i danni portati dall'attacco, senza più altro aspettare,
riparerà: ma nel secondo, tutto quanto gli conviene, e può portar via,
non tralascierà di tosto acchiappare. Tutte le fortificazioni, egli
farà, in modo da non poter più essere restaurate, rovinare: ed altresì
invierà tutto quanto essere suppone al nemico di qualche utilità,
in pronta e totale distruzione. Così, la maniera di sorprendere una
fortezza, rapidamente accennata, senza degl'infiniti particolari ad
un condottiero necessarissimi, nella spiegazione ingolfarci, locchè
troppo a lungo ci condurrebbe, noi, coloro che sù di tal materia,
istruzione vorrebbero, allo studio di tanti trattati sulla tattica
inviamo, che del modo di portare tali sorprese ad effetto, imprendono
particolarmente a spiegare. Potrebbersi pure questi attacchi, di pieno
giorno, intraprendere: ma della decisa superiorità della propria truppa
e debolezza dell'avversa che senza pericolo di forte resistenza, si
potesse ridurre, sarebbe di averne la certezza, mestieri. Per mezzo
dell'astuzia e stratagemmi, puossi vincere la forza. Erodoto, al libro
sesto, ci dice che buono, come abbiam ricordato e legittimo, qualunque
mezzo potesse farli trionfare, gli Spartani consideravano, nè come cosa
sconvenevole, usare della perfidia, nè la fede col nemico violare,
per delitto avevano, quando della patria si trattava. Nel caso in
che noi ci troviamo e nel sistema della nostra guerra, noi pure aver
dobbiamo alle massime degli Spartani ricorso. E per impadronirsi d'un
propugnacolo, non solo cercherà il condottiero di distruggere colla
forza aperta il nemico, ma ben anche d'armi avvelenate, di carcasse,
di razzi alla congreve etc., a tal proposito, maestrevolmente si
varrà. Porrà opera inoltre onde materie fetide, sieno nella fortezza
introdotte e che dalla morbosa loro infezione, appiccaticcie infermità,
e maligna peste conseguano: con cautela i ruscelli, fontane, sorgenti,
polle, insomma le acque tutte capaci a dissetare i difensori, dal
loro ordinario corso devierà, o se fia che alcune lascii in quella
penetrare, somma userà deligenza onde sieno previamente attossicate,
e dolorosa subitanea morte a chi ne beve, succeda. Con astuzia farà
sì, che i soldati stessi del nemico, da promesse, e regali sedotti,
tolgano ai più influenti capi, agli uffiziali superiori, ed anche ai
subalterni, la persona; ma dovrà sempre stare all'erta di non venire
ingannato da chi, egli ingannare intenda. Molti altri sarebbero i
stratagemmi, e le astuzie che indicare si potrebbero: solamente però di
raccomandare la lettura di Pollieno, e Frontino che a lungo scrissero
su di tal oggetto, ci contentiamo.

Del modo di occupare una piazza per accordo particolare con qualche
individuo, che apra le porte, ed in quella le bande di soppiatto
introduca, a ragionare tuttavia ci rimane. Nella guerra nazionale
in cui le più grandi, le più forti passioni dell'uomo trovansi
con violenza eccitate, qualche astuto infingitore, che dal manto
dell'ipocrisia coperto, serva per qualche tempo al nemico, e quindi un
bel giorno, nelle mani della patria quella fortezza consegni, troppo
malagevol cosa al certo non sarà di rintracciare, sopra tutto se si
trova essere una piazza, in che d'abitanti civili numero competente,
vi sia. In caso poi, che nessuno vi esista dalle sublimi passioni
figlie dell'amor di patria stimolato, dovrà il condottiero a quelle
persone appigliarsi, che dall'affetto per l'oro signoreggiate, od
incostanti, o di una smisurata ambizione abbondevoli, o da un odio
violento, e cieco, o dal desiderio di vendetta, essere trasportate
s'avvegga, le quali baloccando, lusingando e vezzeggiando, potrà per
loro mezzo, la fortezza ottenere. Somma diffidenza nelle persone,
accuratezza nell'esame delle proposizioni, saranno dal condottiero
impiegate, ostaggi, deposito dei beni nelle sue mani, da quei che
debbono servirlo, come guarantigia della loro buona fede, non mancherà
di richiedere, doviziose rimunerazioni in caso di buon successo,
minaccia di esemplare castigo, e di morte infame in caso di rovescio,
apertamente profferirà.

Potrà il condottiero, per privato concerto co' cittadini, una mano
de' suoi volontarj, nella piazza, di celato, introdurre, ed in casa
della persona, con la quale tiene trattato, alloggiarli: potrà quella
in un bel giorno, una porta, una poterna, un acquedotto, una latrina,
per dargli il varco, all'ora, al momento dal condottiero determinato,
aprire: mentre dassi la scalata alle mura, nel bollor dell'attacco,
incendiando in varie parti la piazza, porgergli convenevole ajuto;
cospirare con gli abitanti, e per opinione, o per timore, in
cooperazione alla resa della piazza portarli, ed a ciò, colle armi
e coll'inganno cooperare. Se ferma è co' soldati la posta, potranno
le velette, e le scolte, senza sparare o gridare all'armi, lasciarlo
davanti le guardie quetamente passare, oppure ad un bel giorno, tutt'i
loro superiori benanche avvelenare, finalmente in quelli sta di poter,
senza rumore, la fortezza nelle sue mani, amichevolmente rimettere.
Ma sarà sempre con quelli più che coi _civili_, di far le pratiche,
pericoloso, ed assai maggiore diffidenza sarà con loro mestieri di
usare. Onde la parte, sull'acconcio modo d'impadronirsi delle fortezze
per privata consegna, di che preso abbiamo a tener ragionamento,
compire; citeremo in esempio la presa di Figueras, fortezza delle
più formidabili d'Europa, malagevole da pigliarsi se mai verun'altra
ne fù, dalla natura e dall'arte resa fortissima, che comandata dal
generale Guillot, al dire del generale San Ciro, alla pagina 272,
cadde in potere di una mano di contadini in numero assai inferiore alla
guarnigione dal rinomato condottiero, il dottore Rovira, capitanata.
Ecco il nostro dotto Vacani, come spiegasi a tal proposito: «Era
giustamente quell'epoca in cui l'armata di Catalogna veniva indebolita
della truppa più attiva, ed in cui l'armata d'Aragona, ricevuto quel
rinforzo, meditava maniera di adoperarlo prontamente, trovandosi
l'un comandante d'armata a Saragozza, l'altro a Barcellona, Suchet,
per radunare i mezzi, onde por mano al nuovo assedio, e Macdonald
per aprirsi carriera colle poche sue truppe nell'alta Catalogna e
liberare, se possibile, la linea d'operazione colla Francia: quando
gli Spagnuoli, riconosciuto il bell'istante e cogliendolo da astuti,
consumarono l'ardito loro piano di sorprendere Figueras. Erano in
questa piazza due guardamagazzini catalani, di nome Zean, e Palapos,
sotto al comando d'un capo commissario francese. Eglino avevano saputo
ispirare tal confidenza, ch'eran loro lasciate le chiavi non meno
de' magazzini interni che di quelli sotterranei che mettono ne' fossi
della fortezza per la piccola poterna praticata sotto al ponte levatojo
della porta principale. Il colonnello Rovira, di cui più volte si è
parlato, come di uomo feroce, ed intraprendente, sedusse facilmente
con pochissimo premio, quei due Spagnuoli, ebbe le chiavi di detta
poterna, anzi tanta trovò in que' due l'affezione alla causa nazionale,
che offerironsi spontanee ad esporre ad ogni azzardo la propria vita
per agevolargli il riacquisto della piazza, recandosi eglino stessi la
notte che si fosse stabilito, ai magazzini onde aprirne agli aggressori
l'accesso per didentro, e con accese faci illuminare ai loro passi il
sito, guidargli ai quartieri del presidio, e del generale, e render in
un istante solo, nulla la difesa ed intiera la vittoria. Ciò adunque
stabilito, si trascelsero da Rovira settecento tra i più arditi
micheletti dell'alta Catalogna, perchè affrontassero i primi pericoli
ed aprissero ad una più numerosa colonna di truppe regolari, comandate
dal generale Martinez, il passo alla conquista che gli sarebbe, in tal
modo, agevolata. Tutto era pronto al principiare di aprile, per che
si avesse in una notte ad eseguire la sorpresa: Macdonald rimanevasi
isolato in Barcellona, Baraguey d'Illers era debole, e diviso tra
Gerona, Hostalrich e la costa di Palamos, nè un più favorevole momento
offerto si sarebbe per venire al riacquisto di Figueras, senza il
timore di esservi di subito investiti. Non altro dunque, sembrava
che si aspettasse, se non che la riunione di tutt'i corpi Spagnuoli,
e la sortita dalla piazza della parte più attiva del presidio, che
propriamente consisteva negl'Italiani sotto gli ordini del capo
battaglione Mazzoni. Accadde di fatto che nel mattino del dì 9 aprile,
il governatore, allo scopo di raccogliere viveri d'intorno, e dissipare
alcuni pochi attruppamenti che dicevansi formati nella valle limitrofa
di Avinnonet, fece uscire la colonna italiana e porre a guardia dei
bastioni e delle porte alcuni di quelli uomini che, pel momento inabili
alla guerra, eran pure tenuti a deposito nel forte, perchè già volti
a guarnigione e perchè questo era da tutti riputato inaccessibile
a sorpresa.» E quindi l'istesso Vacani soggiunge: «Pertanto gli
Spagnuoli, avendo maturato il loro piano di sorprenderlo, si tolsero
il dì nove aprile, sotto gli ordini del colonello Rovira, dai monti
di San Llorens e di Llers ed arrivarono fra il bujo d'una notte
oscurissima e piovosa accanto all'acquedotto: di là salirono sullo
spalto dell'opera a corno di san Zenone, entrarono dal nove al dieci di
aprile non visti, nel cammino coperto, e mentre le guardie e sentinelle
mollemente invigilate, riposavano silenziose in profonda quiete, sulla
fede che loro era ispirata dall'altezza delle mura, e dallo stesso
generale, scesero nel fosso e di soppiatto chini chini, fucile abbasso,
le piastre al luccicare ricoperte, pervennero inosservati a toccar
meta alla poterna, ove sicuri dell'evento, strepitoso, giacevansi ad
aspettarli, i due Spagnuoli stipendiati nel forte da' Francesi.» Ed
infine così prosegue: «Tutti dunque, e uffiziali e soldati, anco i
più attivi, si giacevano inoperosi alla difesa, allorchè gli Spagnuoli
penetrarono ne' magazzini sotterranei e di là francamente si volsero
a disarmare la guardia napolitana che stavasi tranquilla a ponte
alzato e porta chiusa all'ingresso principale: colà scambiaronsi i
primi colpi di moschetto, i quali avvertirono non meno il presidio di
un pericolo imprevisto, che la riserva spagnuola sullo spalto, di un
successo già ottenuto. Accorre adunque subitamente quest'ultima sotto
gli ordini del generale Martinez in sostegno di Rovira per lo stesso
cammino ch'egli aveva battuto e che nessuno nel presidio, in quelle
tenebre profonde, sapeva indovinare, e fù sì lesta nello spandersi nel
forte in numero di tre mila combattenti, che in brevissimo tempo l'ebbe
tutto occupato e saldamente conquistato, nulla ostante che que' pochi
Italiani testè giunti dal difuori, radunandonsi i primi in sull'armi
a quell'insolito rumore, siensi fatti di contro agli aggressori ed
abbiano con essi impegnata una zuffa che fù breve ma animata, e costò
alle due parti un equal numero di combattenti: trenta cinque furono gli
uccisi o i feriti di quel drappello italiano nella mischia avvenuta
nel mezzo della piazza; gli altri soverchiati da una forza assai
maggiore, tentarono congiungersi con quelli raccolti tuttavia ne'
quartieri o rinchiusi nelle basse scuderie. Ma prevenuti sull'un punto,
e sull'altro dalla truppa spagnuola saggiamente divisa dall'avveduto
generale Martinez, assecondato sempre da Rovira, da Dorguines, e dai
due Palapos, dovettero essi pure soggiacere al disastro generale, e
già fatto inevitabile. Il governatore che, sebbene più d'ogni altro,
dovesse rispettare quel precetto: _Che alla guerra è più a temersi lo
stratagemma che la forza_, l'ebbe anzi a vile, fù preso nelle stanze
sue proprie, e nel tempo stesso furono presi tutti gli altri uffiziali
che stavano nel forte.» Trattato avendo dei modi onde impossessarsi
delle fortezze, che possono da un ardito ed avveduto condottiero essere
con vantaggio in questa guerra impiegati, ci sarà ora necessario
il metodo esporre per quelle difendere, quando sieno nelle nostre
mani, e vengano dal nemico attaccate. Ma siccome tutta l'arte della
difesa, nei precetti pella tattica consiste, e dei particolari, per la
nostra guerra, non ve ne sono; perciò quel comandante che alla difesa
d'una fortezza sarà dalla nazione destinato, dovrà quelli a puntino
conoscere, ed a quelli del tutto uniformarsi: fitto sempre tenendo in
mente che ogni pratica, ogni consiglio, ogni maneggio, ogni negozio,
quando per la patria si combatte, allo scopo della resa coi nemici
menato, deve a grave, ed imperdonabile delitto imputarsi. Nè breccie
aperte, nè mancanza di viveri, nè malattie, nè peste, nè caduta del
governo provisionale, nè mancanza di corrispondenze, nè mine, nè
terremoti, debbono, per tener dell'evacuazione trattato, in questa
guerra, sufficienti cagioni, considerarsi. A chi viene la difesa d'una
fortezza dal popolo affidata, l'obbligo di quella fino all'ultimo
sospiro difendere, e non mai col nemico pratiche usare, strettamente
appartiene. Nulla dimeno se uno o più dei sopramentovati casi
avvenissero, che la piazza in rischio certo ponessero di soggiacere
alla forza maggiore; allora una generale e vigorosa sortita, gli sarà
di tentare permesso, ed in quella, quanti più nemici cadrangli tra
le mani, esterminando, e quindi colla sua truppa e cogli abitanti
correre in bande ai monti, oppure con deciso accanimento combattendo,
gloriosamente morire. Solo però nell'estremo caso, dovrassi alla
generale sortita ricorrere e dopo aver date le disposizioni, affinchè
all'entrar del nemico nella fortezza, tutte ad un tempo scoppino le
mine, ed allora, allora ne venga quella dalle fondamenta distrutta.
Non trovando, in tal modo, il nemico nulla che di giovamento esser
gli possa, in un ammasso di rovine soltanto consisterà la sua faticosa
conquista.

Onde in possesso della nazione insorta, possa una fortezza cadere,
converrà che i soldati stessi, dal tiranno, od invasore, alla sua
difesa comandati (accortisi la vera gloria nel contribuire alla publica
felicità e non all'oppressione consistere) vergognandosi di contro
la loro patria adoperarsi, agli oppressori disubbidiscano, e per la
buona cosa si dichiarino; che dagli abitanti renitenti, i soldati
soverchiati, e compressi, vengano all'arrendimento costretti, e sian
le porte ai veri Italiani sbarrate; che i civili e i militari sullo
stesso oggetto d'accordo, a gara l'ingresso favoriscano nei modi
già indicati o che per ultimo, improvvisamente si occupino, se come
inservibili dai tiranni tenute, e nella nostra guerra, di somma utilità
considerate, facilmente (non avendo gente alla difesa) sorprese dalle
bande esser possano. Quelle fortezze nelle mani della nazione cadranno,
o al primo scoppio dell'insurrezione, o dopo d'essersi stabilito il
governo provisionale. Se nel primo caso, ai condottieri principali
e particolari operanti nella provincia e circondario, la cura di
provvedere alla loro difesa, senza dubbio appartiene. Se nel secondo,
sarà dovere dei consigli, assemblee, consulta etc., coi mezzi forniti
dalla provincia, o dall'intero stato, di sostenerle e difenderle.

Se una piazza isolata senz'abitanti, fia che venga della forza
nazionale militare, in potere; dovrassi, secondo i principj della
guerra regolare, sostenerla, ed ai condottieri dovranno sufficienti
difensori presi nella provincia essere aggiunti, che coi militari,
secondo il sistema regolare, agiscano ed alla difesa concorrano. Se
fosse il presidio numeroso ed aumento non comportasse; una competente
parte dell'antica guarnigione, con nuovi giovani dall'entusiasmo
guidati, scambiar con destrezza converrebbe, e la parte uscente, per
separati drappelli, ad altri propugnacoli inviare in guarnigione, ed in
campo, per bande, disseminare. Dovrà pur essere il comandante persona
dabbene e devota alla patria, che goda dell'intera confidenza della
nazione, ed aver dee guarentigie di antecedenti fatti che sua fedeltà
alla causa e capacità militare, pienamente mallevino. Se abitanti
nella piazza vi fossero per contrarj alla buona causa conosciuti, ben
bene esser dovranno osservati e contenuti. Ma se all'opposito quelli,
com'è probabile, da generosi sentimenti d'amor di patria animati
saranno; allora, quantunque sia le precauzioni sempre cosa buona da
considerarsi, nondimeno cesseranno di essere d'assoluta necessità,
e quegli abitanti che robusti e ben disposti, saranno di fare tutto
il servizio eguale alla truppa di linea capaci, in corpi regolari si
arroleranno e gli altri abitanti non arrolati nella linea, verranno
eziandio, come stanziali, in decurie e centurie ordinati, ed avranno
pure i loro luoghi per la defesa in caso di attacco, assegnati.
Quando la truppa fosse stata dagli abitanti a cedere costretta, perchè
quelli erano i più forti allora, dovendo i soldati ed uffiziali come
nemici della buona causa essere supposti, epperciò ammazzati, si dovrà
nella fortezza un competente corpo di truppe introdurre, all'uopo di
ordinare gli abitanti alla difesa ed in quella ajutarli e dirigerli.
In tutti gli altri suddetti casi, la truppa che occupa le fortezze,
difenderalle. Non disagevol cosa sarà al provisionale governo di
provvedervi: ma grandi e forti difficoltà, innumerevoli ostacoli,
a' condottieri e fortezze frapporranno. Imperciocchè dovranno essi
colla scarsità de' mezzi, quasi continuamente combattere. Non dimeno,
con perspicacia ed attività, dallo spirito publico assecondati, per
venirne a capo, insuperabile malagevolezza, non incontreranno. Le bande
guerreggianti nel circondario delle fortezze, fino a che non esistano
le colonne volanti e le legioni, come gli eserciti d'operazione, si
dovranno in sostegno e sollievo della piazza adoperare. Non essendo
lo scopo nostro di minutamente, i mezzi di cui si debba far uso per la
difesa, indagare ed esporre, perchè alla guerra regolare appartengono,
ci contenteremo poche maravigliose cittadine difese ai nostri leggitori
citare che durante la guerra di Spagna contro di Napoleone, fecero
il mondo intiero stupefatto rimanere: per la qualcosa saranno mai
sempre Saragozza e Gerona, come alti esempii di virtù patria, dalla
posterità venerate. Così il nostro Vacani spiegasi in proposito della
prima: «Finalmente richiesta a grandi sagrifizi per la causa nazionale
in questa guerra provocata contro l'imperatore de' Francesi, essa
sviluppò nella difesa quell'amore di patria per cui facevano prodigj
i Greci, ed i Romani, quello spirito stesso di pietà, e d'orgoglio
nei combattimenti onde s'illustrarono gli erranti delle crociate,
quell'odio alla tirannia che rese a libertà i Svizzeri, i Batavi,
gli Americani.» In fatti quai sforzi inauditi non fece? Ecco come
prosegue il già citato autore: «Quello che più de' far ammirare il
sangue freddo, e la virtù dei cittadini, si è lo aver essi trincerato
nell'interno della piazza, tutte le contrade, sbarrate le porte, e
le finestre delle case, aperti tutti i muri con troniere, praticati
passaggi difensivi dall'un punto all'altro, e trasformata ogni
casa in ridotto, ogni convento in cittadella, o piazza d'arme, od
arsenale, e fatto per tal modo dell'intiera città una rete di forti
inestricabile, essendo sodamente stabilito nella mente dei difensori di
non rendersi nè alla perdita del primo recinto, nè a quella del primo,
o second'ordine di ostacoli interiori, nè ancor che ristretti in poca
parte della città, ma di farsi agli estremi buon riparo di questa, per
passare sull'altra riva dell'Ebro nel sobborgo parimenti trincerato,
ed ove prolungar non si potesse la difesa, uscire al campo, per quel
lato men coperto da nemici, evadersi, e raccogliersi ne' monti a nuova
guerra.» Dalla pertinacia di quella difesa non men che da quella di
Gerona, puossi toccar con mano quanto sia di sostenersi una fortezza
capace, ove i cittadini colla truppa concorrono. Valgaci quanto dal
generale San Ciro, rispettivamente a questa seconda piazza, viene
alla pagina 285 del suo giornale, esposto, onde la nostra asserzione
corroborare: «Le più belle difese fatte dalle truppe, non si avvicinano
a quelle eseguite dagli abitanti, quando per un fanatismo qualunque,
i loro occhi sono stati chiusi a tutt'i pericoli ed il cuore di essi,
ad ogni timore. Senza cercar prove fuori di Catalogna, si paragoni
la difesa di Rosas con quella di Gerona. Nella prima non vi erano
che soldati, nell'altra i soldati erano sostenuti, o per meglio dire
dominati dagli abitanti. Prendiamo un esempio ancor più ristretto
nell'ultima di queste piazze. Il forte Monjuich non fù difeso che dalla
truppa di linea, e fù certamente ben difeso; ma dal momento che vi si
fece una breccia praticabile, o che i lavori degli assedianti furono
sufficientemente vicini per dargli speranza d'impadronirsene, e che la
riescita pareva possibile; fù tosto evacuato dalla guarnigione: mentre
chè, malgrado le quattro breccie esistenti nel corpo della piazza di
Gerona, breccie, che molti generali ed uffiziali superiori francesi
avevano giudicate praticabilissime, poichè trenta piazze nelle ultime
guerre s'erano rese in migliore situazione, senza che l'onore delle
guarnigioni incaricate della loro difesa sia stato menomato; malgrado
quelle quattro breccie, la guarnigione di Gerona, non si perdè d'animo
nel giorno diciannove settembre, seguente all'attacco vigoroso e
simultaneo di quattro colonne che si presentarono in pien giorno per
darle la scalata: e ciò perchè si trovava sostenuta ed incoraggita
dalla vista dell'intiera popolazione della città, bene o male armata,
e senza distinzione di stato e di sesso, che voleva concorrere nel
pericolo e guarniva i baluardi. La giberna e lo schioppo si vedevano
sulla sottana del frate e del prete, come sull'abito del crociato e del
simplice artigiano, la minima agitazione dell'aria faceva sventolare e
scoprire i nastri, coi quali si distinguevano le donne della compagnia
di santa _Barbara_, delle quali alcune acquistarono in quel giorno
la ricompensa e distinzione dei bravi. Quanti motivi di emulazione
per gli uomini che componevano la guarnigione! Potevan essi forse far
meno di quelle eroine dell'amor di patria? Potevano essi cedere in
valore alle donne? Si osservi presso questo quadro, una difesa alla
quale gli abitanti non prendano parte. Essi non pensano che alla loro
conservazione, a quella delle loro case ed industria, sollecitano ed
anche minacciano il comandante che fa la resistenza prescritta dal suo
dovere, ma che gli rovina e porta la distruzione della loro città.
Aggiungansi a ciò i loro sforzi, i loro maneggi per disanimare il
soldato, ammutinarlo, etc. Qual contrasto! Abbiamo noi per tanto ad
asserire, che la difesa d'una piazza non può essere intiera, quando
non sia fatto dagli abitanti ajutati dalla truppa regolare? Dobbiam
noi assicurare che non ve n'esiste, per poco che siano fortificate,
le quali non sieno, in quel caso, suscettibili della più lunga
difesa? E che una città come Gerona, non sarebbe mai stata presa, se
l'esercito destinato per la difesa di Catalogna, ed in conseguenza
per soccorrerla, avesse dimostrato un poco più di vigore, e se il
suo morale non fosse stato così depresso, com'era e doveva esserlo,
dopo la perdita di quattro battaglie seguite da altrettante rotte? I
difensori di Gerona hanno spiegata la massima energia e niente omisero
di quanto poteva procurar loro il vantaggio. Ritennero nella piazza
trecento disertori napolitani e sempre gli opponevano all'esercito
francese sulle breccie e nelle sortite, perchè conoscendo essi la
sorte che loro aspettava, se quello fosse vincitore, erano sicuri che
avrebbero combattuto con l'accanimento della disperazione: profittarono
dell'entusiasmo degli abitanti e se ne valsero con grande vantaggio.
Finalmente io credo loro non potersi contestare che abbiano fatto tutto
quanto un militare, od un cittadino bramoso di difendere una piazza
fino all'estremo, dovrà sempre fare quando sarà fortunato abbastanza
per incontrare tutte, o almeno parte di quelle circostanze, in che si
trovò il generale Alvarez, difensore di Gerona nel 1809.»

Puossi ancora un altro caso presentare che, sebbene difficile in una
guerra d'insurrezione nazionale; non dimeno è pure possibile, cioè
che la truppa d'una fortezza si dichiari per la patria, e che gli
abitanti sieno a quella contrarj. Allora dovrà essere spezial cura
dei condottieri di aumentare e fortificare la guarnigione, e tutte
le misure prendere, onde i danni che dalla sinistra intenzione degli
abitanti nascere potrebbono, con profitto evitare. Al qual uopo,
avendo il comandante che tutti si siano delle necessarie vettovaglie
forniti pel tempo determinato, esattamente provvisto; fuori della
piazza gl'inutili spingerà, sotto qualche pretesto tutti gli abitanti
disarmerà, facendoli con numerose pattuglie contenere, ond'esse,
circolando di continuo per la città, il buon ordine affermino, ed i
suoi regolamenti ed ordini facciano eseguire, per mezzo de' quali le
riunioni tumultuarie, gridi, domande e richieste collettive, le parole
sediziose, e tendenti a disanimare i difensori, saranno con severità
proibite. Per la qualcosa tutt'i trasgressori de' suoi ordini, (senza
emanciparsi il comandante, in detrimento della patria ed in pericolo
suo e della piazza, ad essere pietoso) dovranno con capital pena,
essere castigati. Farassi insomma da quegli abitanti temere, e per
ovviare alla commistione dannosa in tal circostanza dei cittadini colla
truppa, tutt'i meccanici del paese tenendo pel servizio della fortezza
salariati, in continuo lavoro intratterralli. Altri al servizio dei
forni, dei magazzeni e degli ospedali separatamente destinerà; tutti,
a recar cibo e bevanda ai soldati che sono alle mura, alle porte, alle
poterne, alle guardie avvanzate, previamente scelti, troveransi in
continuo movimento. Quanti rimangano degli abitanti, in tante squadre,
quanti quartieri vi sono nella città, dovrà ordinare. Resteranno
questi continuamente di guardia, ma solo un terzo alla volta d'attivo
servizio, onde l'incendio della città, prevenendo, impedire; di molle,
crocchi, accette, scale e secchie muniti, le palle roventi dal nemico
gettate, raccoglieranno, onde nell'acqua che a quell'uopo, in ogni
casa si terrà, tosto s'immergano, i progressi delle fiamme da una casa
all'altra (che pure colle pompe cercheranno di spegnere) tagliando,
rovinando, rompendo, opportunamente si arrestino. Ogni squadra dovrà
del suo quartiere occuparsi, e solamente in un caso urgente, e per
ordine del comandante, potranno alcune volte, i varii terzi in riposo,
essere, in un punto determinato, fuori del loro quartiere, chiamati
e riuniti. Con severità quest'ordine mantenuto, ciascun abitante
disarmato, al suo quartiere confinato, non potrà i volontarj con
artifizii sedurre, e nemmeno, il suo timore, malcontento e cattive
intenzioni agli altri concittadini comunicando, portar nocumento alla
causa e la difesa impedire.

In qualunque piazza, nella quale vi siano degli abitanti civili,
procederà il comandante, a far loro prestar un solenne giuramento,
prima d'intraprendere le operazioni. Tutti, di non mai cedere al nemico
la piazza qualunque possa essere la sua situazione, giureranno, a che
dovranno aggiungere la dichiarazione di doversi ammazzare chiunque
sia, la parola, _capitolazione_, per pronunziare. Oltracciò faranno
solenne sacramento di voler piuttosto un ammasso di gloriosi cadaveri
sepolti sotto le rovine degli edifizj e delle mura della piazza,
addivenire, che di vivere avviliti e coi barbari _negoziare_, che
veri e forti italiani, piuttosto che cedere, soffriranno e se d'uopo
sarà morranno; tutto meno acerbo della schiavitù, doversi da uomini
considerare!....... Se fosse la piazza investita ed attaccata, dovrà il
comandante, passo a passo, difenderla, e quando soverchiato dal numero
de' nemici, fia che si vegga, e che quelli, nell'interno, nel centro,
nella piazza della fortezza, già siano penetrati, e nè di salvarla, nè
di uscire, più non vegga speranza, ma solo di aprirsi disperatamente un
passaggio nelle linea dell'avversario gli rimanga; allora da sè stesso
nella parte principale, e da suoi confidenti nelle altre, alle miccie
delle molte mine, che prima dell'avvicinarsi del nemico avrà preparate,
e ben visitate, sarà la decisiva fiammella, con decisione, appiccata,
e così nemici, abitanti, e truppa tutti ai baluardi, edifici e mura
della piazza congiunti, con orrendo, e strepitoso scoppio, in generoso
sacrifizio alla patria, di botto in aria sfracellati, salteranno e
saranno per tal modo al nemico, le vittorie in Italia funeste!



CAPITOLO IX.

DELLE COLONNE VOLANTI E LEGIONI.


Se non havvi sulla certezza del felice risultamento della guerra per
bande punto a dubitare, certo egli è però che per natura sua, oltre di
essere penosa e lunghissima, perchè devono le bande solo in piccoli
combattimenti di quasi certo vantaggio, con minor perdita per parte
nostra alla distruzione del nemico attendere; deve da tutto questo
avvenire, che ben di raro, e fors'anche _mai_, si presentino quei
casi, che con un brillante attacco, con un'operazione anzi temeraria,
che ardita, un combattimento decisivo s'impegni, che porti ne' suoi
resultamenti la liberazione immediata d'Italia. Le bande non dovendo
dipendere dai magistrati locali stabiliti nelle provincie, cantoni,
distretti, etc., ma solo dal condottiero supremo per le operazioni
combinate; non potranno avere la forza necessaria e continuata per
eseguire tante numerosissime incombenze che ancora per accelerare il
bene della patria, rimangono. Sono esse in fatti e debbono esserlo,
di quella convenevole stabilità, onde far obbedire ai ritrosi ed i
malevoli annichilare, deficienti. Sebbene a quest'uopo debbano pur
tutte le bande essere intente; ciò non pertanto il sistema generale di
questa guerra, che ad una continua mobilità le costringe, impedisce,
che possano quelle operazioni effettuare, la di cui riuscita dipende da
una lunga permanenza in un luogo, e dalla riunione delle varie armi che
sostenendosi a vicenda, debbono concordemente operare.

Conobbero gli Spagnoli questa verità nella guerra dell'indipendenza,
ma non seppero tosto acconciamente al buon successo indirizzarsi.
Per verità, cominciarono a voler porre le bande sotto ad un regolare
comando, nominarono una giunta speciale direttiva delle bande, la
quale spedì colonelli, stati maggiori, etc., onde quei corpi staccati,
secondo il sistema di regolar disciplina ed evoluzioni ordinare.
Il colonello don Antonio Claraco y Sans, fù nel paese di Guadalupe,
provincia di Estremadura, spedito a prendere il comando delle bande,
e regolarle. In fatti più di quattro mila uomini egli accozzò in un
corpo, al quale diede il nome di regolare divisione dell'esercito.
Ma che quindi gli avvenne? Essendogli venuto a notizia, che un
distaccamento francese doveva nella vicinanza passare, gli si fece
con la sua colonna incontro. Non oltre passava quello, il numero di
ottanta quattro uomini a cavallo, che vedendosi in fronte di quattro
mila, rimase, non sapendo a qual partito si dovesse appigliare, alcun
tanto irresoluto: ma in quel frattempo accortosi dell'esitazione
a muoversi della divisione spagnuola, che fluttuante, fortissimo
panico timore dimostrava, fece ardita resoluzione di cagionarle
con un movimento temerario, grandissimo spavento e profitare della
confusione in che sperava di metterla, onde potersi ad opportuno
scampo aprire un cammino. Ordinò quindi il comandante francese la
carica, e sul centro della divisione impetuosamente scagliossi. Al suo
avvicinamento i soldati pseudo-regolari allibbirono; si scompose la
schiera, ogni drappello pensò alla propria salvezza, ed in un istante
furono i quattro mila uomini da ottanta quattro ussari compiutamente
sconfitti, lasciarono settecento morti sul campo di battaglia. Allora
il superstite avanzo disgustato di quel modo regolare di guerra, si
mise di bel nuovo in bande separate, rimandando gli uffiziali ch'erano
stati dal governo senza consentimento de' volontarj al loro comando
imposti; ed a poco a poco, trasse di quel oltraggioso scherno tarda
ma severa vendetta, facendo soffrire perdite enormi a quei Francesi
stessi, ottanta quattro de' quali bastarono per mettere quattro mila
Spagnuoli in piena rotta. Persuasi da quell'infausto saggio, i medesimi
non doversi, nè potersi le bande in modo, da battersi in linea e far
evoluzioni sulla fronte del nemico, regolare; ne rinunziarono l'idea.
Ma d'altra parte la necessità conoscendo in che trovasi un governo
qualunque di avere una certa forza di truppa tattica onde sostenere
le molte operazioni che le appartengono; con ben ponderato consiglio
fecero essi divisamento d'ordinare varj corpi composti di fanteria,
cavalleria ed artiglieria che divisioni, o colonne volanti appellarono,
i soldati de' quali erano vestiti e pagati dal governo ed agivano
secondo il sistema di guerra regolare per quanto la loro forza e le
circostanze, il permetteano. Poi che pegli sforzi delle bande, una
sufficiente parte del territorio italiano sarà dal Tedesco lezzo
purgata, ed una giunta provinciale già vi esista; un _connestabile_
delegato militare nominato dal condottiero supremo, si occuperà
dell'ordinamento di varie di queste colonne, più o meno forti, più o
meno numerose, a seconda dei mezzi che si troverà possedere: tenendo
fermo, però che ciascuna di esse porti con sè tutt'i mezzi tanto per
combattere, come per sussistere, e sia esente dalla necessità di una
base stabile. Gli uomini, che compor debbono queste colonne, dovranno
avere tutte quelle qualità, che ad un militare tattico si convengono:
e difficil cosa certamente non sarà di rinvenire in Italia molti di
quei valorosi, che possansi al servizio regolare con immenso patrio
vantaggio applicare. I duecento mila uomini, che alla gloria ed ai
disastri della Francia parteciparono, per anco non sono spenti. Sparsi
per tutti gli stati d'Italia, trascinano abbiettamente una miserabile
vita. Dai governi attuali, generalmente dispregiati, pochi di essi
furono al servizio dei prìncipi che ora tiranneggiano quel paese
ammessi, e non pochi di quelli, che nelle pianure della Prussia,
della Germania, di Raab, della Russia, e soprattutto sulle ineguali
montuosità della Spagna tanto si distinsero, in oggi, vicini ai loro
focolari nell'inopia e forzatamente neghittosi, giacciono fremendo e
deplorando la dura sorte, cui vedono l'onore italiano, condannato, ed
altro non aspettano se non la favorevole occasione, per islanciarsi
nel nuovo arringo di più risplendente gloria, e a prò della patria, per
ferocemente lottare.

Altri pure havvene non men valorosi, sebbene forse alcun tanto meno
esperimentati, per l'età loro giovanile impediti, nel tempo delle
ultime guerre, ad essere compagni degl'Italiani alteri degli allori
mietuti ne' campi della vittoria, che da quattordici anni in quà
la carriera delle armi, sotto agli attuali tiranni seguirono, e che
tanto per le conoscenze tattiche, acquistate, quanto pei loro sublimi
pensieri, potranno in quelle colonne volanti, recare inestimabili
servigii. Le operazioni di queste colonne come l'ordinamento loro,
piuttosto alla guerra grave, che alla leggiera spettando, e non essendo
intendimento nostro di parlare di quella; ci asterremo d'indicare le
loro incombenze. Solo conchiuderemo con dire, che dovranno i capi di
quella, far in sè stessi ritratto, dell'inclito Sertorio uno dei più
grandi capitani che abbiano esistito prima di Cesare, il quale come
quello che la guerra leggiera perfettamente conosceva, stancò e spossò
il grande Pompeo, del quale come se stato fosse un fanciullo, prendeasi
trastullo. Vienci dal divino Plutarco spiegato il metodo da quell'abile
e sagace guerriero con invincibile costanza tenuto. Non meno utile
insegnamento per quella guerra, potranno i capi, dalla vita ed
operazioni militari del prode Scanderbeg ottenere, che immortal gloria,
nel secolo 1500, acquistossi facendo la guerra contro ai Turchi, cui
erasi ribellato, e che gli elogi del papa, e di tutt'i regnanti di quel
tempo in Europa, ad una voce riscosse. Altrettanto degna di essere
altamente commendata, e per quanto il conceda la differenza delle
circostanze, applicabile da un capo di truppa regolare, in istato
d'insurrezione, sarà pur anche la condotta del celebre ammiraglio
Gasparo di Colignì. Quel grand'uomo comandando agli Ugonotti, perdute
quattro battaglie decisive; ad onta della cattiva sorte, seppe col
valore e con l'arti sue, vigorosamente risorgere, sempre a' suoi
nemici più formidabile presentarsi. Finalmente raccomandiamo ai
comandanti delle colonne volanti di studiare attentamente il metodo
adottato nella guerra dei sette anni, dal barone di Treuk alla testa
dei Panduri, del celebre Hofer nel Tirolo contro alla forza colossale
dell'impero francese e finalmente quella del già tante volte citato,
e mai sempre celebre Espoz y Mina nei due ultimi anni della guerra
dell'indipendenza: e da siffatti insegnamenti potranno tesori di verace
utilità guadagnare.

Quante volte poi il connestabile delegato militare della provincia,
veda pell'aumento progressivo di queste colonne volanti, non meno
che pell'esistenza di mezzi materiali, essere possibile passare
ad un ordinamento ancor più regolare; procederà, per ordine del
condottiero supremo, alla formazione di tutte quelle legioni che la
forza disponibile regolare della provincia, renderà con fornire i
mezzi, fattibile: e queste comandate da tribuni legionarj, composte di
tutte le armi corrispondenti, cioè di fanti, cavalli, ed artiglieria,
seco loro portando tutto il necessario al loro sostentamento; saranno
la base, il principio dell'esercito regolare italiano, che bel
bello ingrossando, compirà con brillanti e decisive operazioni, la
grand'opera della riunione, independenza e libertà dell'Italia.



CAPITOLO X.

PARTE ATTIVA DELLO SPIRITO PUBLICO. — COOPERAZIONE NAZIONALE.


Nei cuori della maggior parte degl'Italiani quella pura fiamma divampa
ch'all'acquisto dell'unione, indipendenza, e libertà della patria
sospinge: ma per la tristizia del tempo che trascorre, per confuso
intricamento delle circostanze, per la compressione prodotta dalla
forza nemica, per la diffidenza reciproca; ogni unità non poco paventa
di manifestarsi alla spartita, e di riuscire ai santi interessi del
popolo perniciosa, anzicchè profittevole. Pertanto, a buon dritto
lo sfogo dei sentimenti comprimesi, e col velo della simulazione, il
generoso impulso del cuore ardente, debbesi ad arte ricoprire: ma dai
primi prosperi successi delle bande, di bocca in bocca divulgati,
dall'entusiasmo magnificati e giustamente dal savio esaltati, e
benedetti; lo scoppio generale ridonda, che, qual torrente, lungo la
sua via rigonfiando, dalle rive trabocca, e tutto seco trascinando,
quanto si oppone al rapido e maestoso suo corso, involve, distrugge,
annienta. Poscia poi vittorioso si pacifica, e trionfante riposa.

Dal fatto d'arme di Lexington in America e dal combattimento del Bruch
in Ispagna, le provincie d'ambi quei stati, all'impiego immediato
d'ogni mezzo possibile d'attacco e difesa, si decisero. Gli amici
della patria da quel primo successo incoraggiati, ovunque alla guerra
più attiva si rinforzarono, nè deposero le armi se non quando il
decoro, e l'indipendenza di lei, rimasero assicurati. Così pure dopo
il primo felice successo delle bande, sarà in Italia per avvenire.
Da ogni lato, da ogni classe di persone, da ogni sorta d'armi, verrà
l'inimico sì fattamente assalito, che spaventato e confuso, non
troverà in alcuna parte della penisola nè respiro, nè salvezza. Allora
quando sopraffatto da maraviglia e dalla massa di contadini amici
della patria, che il canonico Montanà di Manresa, nelle vicinanze
del Bruch, contro la sua colonna raccolse; il generale Chabran preso
da grandissima paura, si decise alla ritirata, dice il nostro Vacani
che: «Quelli fra i villaggi da lui lasciati in ischiena, che avevangli
mostrato al suo passaggio un'accoglienza più amichevole, si fecero
pei primi subitamente a sbarrare le strade, troncar fossi, romper
ponti, ed a guernire di genti armate di sassi, di lancie, di fucili,
i tetti, le porte, e le finestre, onde ebbesi gran pena a ripassarli.
L'artiglieria, ed i bagagli andarono perduti; i corpi si disciolsero, e
se non che la notte sopraggiunse, e lo spavento ebbe in parte contenuto
gli abitanti, in parte messe le ali ai fuggitivi, pochi sarebbero
scampati.» Così seguita il citato scrittore: «Pervennero in quel
giorno i bellicosi Manresani, e gli abitanti dei vicini monti, e paesi
a liberarsi dalla presenza del nemico, avviluppandolo, e assalendolo
alla rinfusa in siti ad esso ignoti.» L'intera popolazione italiana
essendo dall'ardente, e sacrosanto fuoco dell'amor della patria,
d'alto coraggio accalorata; giunto il momento creduto favorevole,
tutti gl'individui alla cooperazione del sublime progetto di renderla
una, independente e libera, fervorosamente si accingeranno. Vecchi,
giovani, donne, ragazzi, tutti da quel generoso ardore ponderosamente
concitati, cercheranno in qualche modo di rendere alla santa causa,
valevole servizio, onde poi con ragione darsene vanto all'avvenire,
sclamando: «Io fui pur anco alla grand'opra della patria rigenerazione,
non disutile cooperatore!» Nessuno in tal momento neghittoso rimane,
un vecchio venerando, sebbene per l'età cadente debole e tremante,
si occupa non dimeno con entusiasmo, tutti gl'ingredienti per far la
polvere da schioppo, a raccogliere nell'angolo del suo focolare. Altro
canuto e decrepito ajutato dai ragazzi, stà liquefacendo piombo per
formare le palle, onde distruggere i nemici del suo paese, altro pur
vedesi tutt'occupato ad affilare i pugnali pei figli che si preparano
a portarsi al campo, e le armi vecchie della casa, gli schioppi,
tromboni, sciabole, spade, e coltelli pulisce dalla ruggine, ed in
buono stato ripone. Un altro forma lancie, picche, ed a ferrare un
grosso e noderuto bastone, onde renderlo atto a servire di massa,
è con tutt'i pensieri affaccendato. Tutti anelanti, non temono,
che il riposo, e l'inerzia: ognuno ha presto il suo schioppo onde
dalle finestre, tetti, e feritoie a bella posta nel muro della casa
praticate, a danno dei nemici del paese e a tempo, valersene. Tutte
intente si mirano la madre, la zia, la nonna a riunire vettovaglie,
a fare d'ogni sorta di camangiari copioso ammanimento, a preparar
filaccie, bende, e medicamenti pe' feriti, ad abbracciare e benedire
i loro figli, che alla difesa della patria s'avviano, cui il sacro
dovere impongono di morire se loro non arriderà la fortuna e di poter
quai veri Italiani liberi ed independenti, nel seno della famiglia
ritornare. I ragazzi, le fanciulle assise per terra a fare giorno e
notte cartocci, menano della patria ventura, lieta festa, e mentre
le mani sono al dovere impiegate, il cuore volto pure alla patria,
le move con soave incitamento al canto, e con dilettosa gioia, da
quelle ingenue e vezzose bocche vengono inni pel buon successo della
causa italiana articolati, e pateticamente intuonati. Attenta la
fedele consorte a riempire la bisaccia del marito, gli promette nello
stesso tempo di non restare passiva spettatrice de' suoi pericoli,
ma di cogliere pur essa il destro di essere utile al suo paese: la
moglie, il marito, le sorelle, i fratelli, le innamorate, gli amanti,
le amiche, gli amici, la madre ed il padre, esortano i campioni della
patria independenza a valorosamente per essa combattere, a salvargli
dalle mani dello straniero e dei tiranni, o di gloriosamente morire.
Accettano di buon grado i giovani robusti Italiani non inteneriti, ma
dalla grandezza del progetto esaltati, le armi loro porte dai padri,
le nappe dalle sorelle, le provvigioni dalle madri, e ad incontrar il
nemico, cantando, arditamente incamminansi. Ecco tutta l'intera nazione
correre spontaneamente alle armi, e seguendo l'esempio della spagnuola
nella guerra dell'independenza, con sublime ed eroica determinazione
in un subito sollevarsi. Ecco tutte le classi, tutte l'età, tutt'i
sessi non avendo che un solo voto contro ai nemici del paese, di comun
accordo marciare. Dice il Botta, che in America nel 1774 «non si udiva
da ogni parte, che romor d'armi, o suoni di pifferi, o di tamburi; non
si vedeva che gente, la quale con grandissima contenzione imparava
le mosse e l'uso delle armi: giovani e vecchi, padri, e figliuoli e
perfino le donne, in ciò tutti insistevano, chi per apprendere, e chi
per dar animo, e conforto: fonder palle, far procaccio di polveri,
erano occupazioni comuni diventate.» Tali pur diverranno le occupazioni
degl'Italiani, quando saranno di mandar ad effetto il gran disegno,
decisi.

Quella più gentile, dolce, leggiadra, ed attraente parte del genere
umano, quella dilicata, cortese, ed influente metà della nazione, le
donne, tutta posseggono la capacità per dare un opportuno e decisivo
impulso, all'esito felice della contesa, conducevole. Chi mai sarebbe
tanto insensato, che un'assoluta influenza sul cuore dell'uomo,
pretendesse a quell'avvenente sesso negare? Pochi sono i cuori,
che non sieno stati al suo impero soggetti, ed esenti di novamente
ricadervi. Quante non si commisero inaudite e sorprendenti azioni,
sì detestabili che laudevoli da uomini trasportati dal furore in essi
loro eccitato dalle donne che il misterioso segreto per signoreggiare
il cuore, non men che l'intelletto dei viventi, serbano appieno nelle
loro mani? Checchè di un qualche raro esempio di certuni che furono
delle donne abborritori, si possa dire, non è però non vero, e nessuno
potrà non concedere, che nel genere umano, le masse non siano in gran
parte dalla forza della loro attrazione, al lor dominio ampiamente
assoggettate! Cosa giusta, e convenevole! Quell'integrante parte
della nazione, fù per essere compagna, stimata ed amata dall'uomo,
fù posta giudiziosamente dalla natura, e può, dev'essere utilissima,
quante volte verso il bene generale e la felicità della patria, la sua
influenza indirizzi. Che non fecero, che non operarono, le illustri
donne americane, spagnuole e greche, in quelle stupende rivoluzioni
per la patria independenza e libertà intraprese ed a buon fine recate?
Ecco quanto ci vien detto dal sopramentovato Botta sulla mirabile
fortezza delle donne Caroliniane: «In mezzo a così fiera catastrofe,
le donne caroliniane diedero l'esempio di una fortezza più che virile;
e tanto amore dimostrarono di quella patria americana, che per me non
saprei, se le storie sì antiche, che moderne ci abbiano tramandato
la memoria di uguali, non che di maggiori. Non solo non tenevano a
male, ma e' si rallegravano e si gloriavano all'essere chiamate col
nome di donne ribelli, in vece di andarsene per le adunate publiche,
dove si facevano le feste, ed i rallegramenti, concorrevano a bordo
delle navi, ed in altri luoghi, in cui erano tenuti prigioni i
consorti loro, i figliuoli, e gli amici, e quivi con modi pieni di
cortesia gli consolavano, e riconfortavano. Stessero forti, dicevano,
non cedessero al furor de' tiranni; doversi anteporre le prigioni
all'infamia, la morte alla servitù; risguardar l'America, i suoi
diletti campioni; sperare, i mali loro, dover fruttificare, e produrre,
e confermare quella inestimabile libertà contro gli attentati dei
ladroni d'Inghilterra; martiri essi essere, ma martiri di una causa
sacra agli uomini, e grata a Dio.» Con tali detti ivano queste valorose
donne disasperando i mali dei miseri cattivi. Allorchè i conquistatori
nelle festevoli brigate e ne' lieti concerti convenivano, non accadea
mai che volessero le Caroliniane intervenirvi, e quelle poche che
facevano altrimenti, n'erano presso le altre disgraziate: ma che
arrivava prigioniero in Charlestown un uffiziale d'America, tosto il
ricercavano e con ogni sorta di più onesta cortesia e con ogni segno
di osservanza e di rispetto, il proseguivano. Altre nei luoghi più
segreti delle case loro convenivano, e quivi addolorate lamentavano
le sventure della patria. Altre i mariti loro incerti e titubanti
riconfortavano, sicchè preferiron essi all'interesse ed ai commodi
della vita un disagioso esiglio, nè poche furon quelle le quali venute
per la costanza loro in odio ai vincitori, furon dalla patria bandite
ed ebbero i beni posti al fisco. Queste nel prendere l'ultimo congedo
dai padri, dai figliuoli, dai fratelli, e dagli sposi loro non che
alcun segno dessero della fralezza; non sò se nel presente caso io mi
debba meglio dire maschile o femminile, gli esortavano e scongiuravano,
fossero di buono, e saldo proponimento, non cedessero alla fortuna, e
non sofferissero, che l'amore, che portavano alle famiglie loro, tanto
in essi potesse, che dimenticassero quello, di che erano alla patria
debitori. Quando poi, siccome accadde poco dopo, furono comprese in un
bando dato ai libertini, abbandonate colla medesima costanza le natie
terre ed esulando anch'esse, i mariti loro accompagnarono in lontane
contrade! ed anche sulle fetide, e schife navi gli seguitarono, che a
quelli servivano di prigione. Ivi ridotte in somma povertà nutrendosi
di vilissimi cibi, andavano con miserabile spettacolo mendicando il
pane; molte ch'erano nate ed allevate in mezzo alle ricchezze, non
solo ai soliti agi rinunziarono della passata vita, ed alla speranza
della condizione avvenire delle famiglie loro, ma ancora ai più grossi
lavori ed ai più umili servigj le disavvezze mani accommodarono. Tutte
queste cose facevano non che con fortezza, con allegrezza; l'esempio
loro confermò gli altri, e da questa fermezza delle caroliniane donne,
stette principalmente, che non venisse spento affatto nelle meridionali
provincie il desiderio, ed il nome della libertà. Da questo conobbero
anche gl'Inglesi che avevano alle mani un'impresa più dura di quello,
che prima si fossero fatti a credere. Imperciocchè il più manifesto
segno della generale opinione e dell'ostinazione dei popoli in qualche
publica faccenda, loro quello sia, che le donne ne siano venute a
parte, ed in questa abbiano posta la loro immaginazione, la quale se
più debole, e più variabile di quella degli uomini, quando in calma, è
bene molto più tenace, e forte, quando è mossa, ed accesa.» E se tanto
a giusto titolo, vengono da quell'autore le illustri donne americane,
per la forza del loro animo, la fermezza del loro carattere, la loro
carità spiegata al ben della patria encomiate; che non dovrassi dire
di quelle eroine spagnuole, che nella guerra dell'independenza presero
attiva ed efficacissima parte? Nel memorabile assedio di Saragozza,
formate in compagnie armate di pugnali, di picche ed alcune anche di
tromboni, in mezzo al fuoco micidiale del nemico, sotto una pioggia
di palle di moschetto, di cannone, di scaglie, con animo sicuro e
tranquillo, le une alla cura dei feriti accudivano, le altre tutta
la loro sollecitudine ponevano a recare acqua, vino e provvigioni di
ogni genere ai difensori della città. La sempremai rinomata contessa
_Burita_ di alta prosapia, giovane dilicata e bellissima, non meno
ardimentosa che gentile, aveva instituito un corpo regolare di donne,
e sempre in mezzo al fuoco il più tremendo, si vedeva in quelle
occupazioni ch'erano divenute il suo dovere, serenamente applicata.
Nè il corso di due intieri mesi d'imminenti pericoli, chè tanto durò
l'assedio, ai quali volontariamente si espose, la minor alterazione
sul suo vago aspetto e dilicatezza della persona produsse, nè nulla di
contrario o terribile fù mai, dal suo eroico proponimento, capace di
farla, non che retrocedere, deviare. Non meno bella, non meno decisa,
non meno attiva fù la signora _Fitzgerald_, comandante le compagnie
di donne alla difesa di Gerona. Così si esprime il nostro Vacani
parlando di quella difesa: «Persino le donne raccolte in compagnia
sotto il comando della _Fitzgerald_ si recarono alle brecce, o si
tennero in luoghi convenienti onde compire in modo il più sollecito,
ove il bisogno il richiedeva, e col coraggio, che in tutte traspirava,
il generoso uffizio di raccogliere i feriti, e recare soccorsi e
provvigioni ai defensori.» E parlando dell'assedio di Saragozza: «Nè
le dame stesse accostumate agli agi della vita sdegnavano di aggregare
i loro uffici più miti, e più pietosi, a quelli più vivaci della
difesa. Esse accordavano all'eroismo sventurato il soccorso delle
loro mani nel cicatrizzare le ferite di chi alla patria tutto, tutto,
apparteneva. V'ebbero quindi all'uopo sotto il comando della contessa
di _Burita_ alcune compagnie di nobili e plebee destinate a raccogliere
i feriti ed averne cura, a munire di provvigioni da bocca, e da guerra,
i soldati, e le guardie, ai posti i più avvanzati, ed a concorrere
insomma coll'armata in non men gravi operazioni indirizzate alla
difesa. E la gara che in esse s'introdusse nell'esercizio di queste
loro funzioni fù tanta, che molte armaronsi ben anco e tutti corsero
quei pericoli che agli uomini soltanto erano stati fin ad allora
riservati. Quindi stabilendo un'efficace emulazione nel coraggio, esse
tentarono non solo di eguagliarli, ma di superarli in quel difficile
aringo della gloria militare.» Esempio di maravigliosa carità della
patria, quello pure si fù che alcune cronache del tempo della guerra
dell'independenza spagnuola ci conservano, di una eroina dimorante in
Madrid, la quale poichè la funesta catastrofe dei due maggio, ebbe
luogo; avendo cinque uffiziali francesi d'alloggio in casa sua, da
violento desiderio di vendetta, da fervido e purissimo amor di patria,
da incontenibile livore contro agli oppressori della Spagna, esaltata,
e spinta, appigliossi alla terribile risoluzione di tor la vita a quei
cinque nemici ed unitamente alla sua persona non meno che a quella di
una vezzosissima sua figlia, in olocausto, sull'altare della patria,
con devoto affetto immolare. In fatti confidato il robusto progetto
e con mirabile decisione dalla venusta giovine donzella prontamente
approvato; misero tutte le loro arti più sottili e scaltrite in
giuoco, fecero delle tante femminili lusinghiere attrattive pomposa
mostra, usarono delle più affabili e seducenti maniere, onde le
loro vittime vezzeggiare, e rinfrancare, per poi quindi ferocemente
accopparle. Giovani, caldi, floridi, ed alla licenza, anzi che alla
castità propensi, non tardarono quegli uffiziali dell'inusitato e
cortese accoglimento a rallegrarsi, e secondo il loro costume della
dimestichezza avvantaggiandosi, francamente senza malizia, con elleno
a galanteggiare incominciarono. Arrivati a quel punto, perlocchè
non durò molta fatica, nè ad impiegar ebbe lungo tempo; fece tosto
l'illustre signora un lautissimo pasto imbandire, dei più squisiti, e
dilicati cibi, che si potessero nel paese trovare, fornito. Conoscendo
inoltre essere quegli uffiziali inclinati a gareggiare a chi più
_beva_ ed amatori dei più famosi vini, ne fece di varie qualità e dei
migliori provvista. Quindi con una chimica preparazione da lei all'uopo
ritrovata, che senza dargli cattivo sapore, nè cambiargli il colore,
nel vino infondere potevasi, l'avvelenò tutto quanto unita poscia un
bel giorno a mensa la giuliva brigata, la madre e la figlia a gara l'un
l'altra a gavazzare sforzandosi, varie e varie volte co' stranieri
bevettero, ed or con questo, or con quello, or con tutti assieme
facendo _brindisi_, con tali soavi modi, ripetute volte indussero
quegli uffiziali l'avvelenato liquore a traccannare. Ma non appena
giunti alla metà dello splendido convito, i dolorosi effetti del veleno
cominciarono negli uffiziali, che più delle donne avevano bevuto, a
farsi con violenza sentire. Il pallore del viso i contorcimenti del
corpo, lo stralunamento degli occhi, la lingua balbuziente, la parola,
che in ogni atto loro moriva fra i denti, a chiare note indicavano
il momento della vendetta essere giunto. Rizzatasi allora in piede la
valorosa donna in cui pure gl'indizj della vicina morte manifestavansi,
coll'accento di appassionata e spaventevole gioia, in queste voci
ruppe che furono, anzi che parole, fulmini sterminatori, agli animi
dei confidenti commensali. «Alfine, disse, la vendetta è compiuta: a
voi crudi oppressori del mio paese un sol quarto d'ora di vita più non
rimane. È misto al dolce vino da noi tutti bevuto, un violentissimo
veleno: sono ben serrate le porte, affinchè nessuno uscir possa, e
da noi, quanti siamo, sarà in questo luogo, l'ultimo sospiro esalato.
Noi adempimmo ad un santissimo dover cittadino, voi miserabili pagate
il fio di esser entrati in un paese che non vi appartiene: _Viva la
patria!_» Ciò detto, alquanto stette immobile, senz'alcuna cosa più
dire, ma scossasi quindi, corse al collo dell'amatissima figlia e sopra
un soffice canapè sdrajatesi, stringendosi vicendevolmente al seno
amendue, baciandosi avvinchiate, in un coi cinque ospiti stranieri, con
santo coraggio serenamente spirarono.

Qual singolar esempio d'animo eroico e ben rara virtù, sarà parimenti
la bellissima e forte Tirolese contessa di Sternbach in eterno stimata.
Videsi quella sorprendente donna, durante il corso della guerra,
nelle file degl'insorti suoi compatrioti, ed in allora commilitoni,
collo schioppo a traccolla, nudo l'acciaro balenandole in mano,
fare alla testa d'una eletta schiera incredibili prodigj di valore,
correre alla carica contro al nemico, disperatamente assalirlo e
compiutamente fugarlo, mostrarsi pure di tanto in tanto, ora sopra
una vetta ora sull'altra, guidando uno scelto stuolo di donzelle tra
di loro in bellezza, virtù, coraggio, ed amor di patria gareggianti,
e da boschi, cespugli, siepi e macchie fuori della vista del nemico,
con tiri ben aggiustati, senza posa molestarlo. E non poche volte di
quel modo leggiero di combattere non contente, mosse dalla piena del
loro cuore, e dal dolore inasprite, in linea viddersi l'abborrito
nemico affrontare; finchè dovettero nell'infausto, ma ognor memorabile
combattimento di Brixen, alla superiorità numerica della forza
francese malavventuratamente soggiacere, dalla quale fù per mezzo
della perfidia Austriaca, il Tirolo da tutte le parti invaso, ed i
suoi difensori all'improvviso circondati. Fecesi non pertanto in quel
giorno, sforzo, inaudito, ammirabile. Imperciocchè ognuno, essere cosa
impossibile di vincere il nemico in battaglia conosceva e non dimeno
tutti da furor di vendetta trasportati, maturarono risoluzione di
morire, ma sbranando tutta volta, e struggendo, strozzando i barbari
ch'eransi per assassinarli, nel Tirolo introdotti. Combatteva la
diletta moglie al fianco dell'amante marito, la tenera sorella al
gagliardo fratello d'accanto, la modesta figlia al lato del canuto
suo padre, e la innamorata in unione del promesso sposo andar vedevasi
all'antiguardo generosamente incontro ad una certa morte, poichè non
v'era scampo a salute. Trecento e venti giovani, ed eroine leggiadre
in battaglione regolarmente ordinate, con magnanima risolutezza e
valore combattendo, a varie cariche di cavalleria resistettero, ma
dovettero infine al numero e qualità della truppa nemica, che sempre
si rinnovava, inevitabilmente sottostare. Lor si offerse _quartiere_,
ma fù da quelle maravigliose donne ferocemente ricusato, vennero
per conseguenza di tal rifiuto, da una nuova carica di cavalleria
sconfitte, tagliate a pezzi e del tutto esterminate. Oh avvenimento
sempre mai memorabile negl'annali delle patrie sventure! Giorno di
lutto interminabile per tutti gli amici della libertà de' popoli!
Eppure quelle da tanto ardor di patria, si viddero animate, che mentre
questo crudelissimo scempio perpetravasi, le chiare ed argentine
loro voci spiranti sotto il coltello dell'assalitore si udivano con
dilettosa e patetica gioia, inni alla patria festosamente intuonare!
Dovrà sempre l'infelice sorte de' Tirolesi, come patrio testimonio,
mostrare, quanto infame, traditore ed esecrabile, sia il gabinetto
austriaco, istigatore e sostenitore di quelli, nella loro insurrezione
contro a' Francesi e Bavaresi, e che poi alla vendetta di Bonaparte
nel trattato dei 14 ottobre 1809, abbandonò que' patrioti così fedeli
e gagliardi. Al giogo francese non volendosi sottomettere il prode
Hierler comandante dell'_Iunthalb_ superiore, fece ancora un energico
tentativo il sette di novembre, onde con un repentino e disperato
combattimento, la fortuna della patria ristorare. Epperciò quando
già il nemico tutte le città militarmente occupava, presa occasione
dell'incendio del villaggio di Zirl, (di chè, sebbene avvenuto fosse
per opera dei Tirolesi, furono le truppe bavaresi accagionate) riuniti
i suoi compagni, e due battaglioni di ardimentose bellissime donne di
tutto punto armate che aprivano la marcia, cadde furiosamente di notte
addosso agli sbalorditi invasori ed ebbe ancora un giorno di vittoria e
vendetta. Nove mila nemici furono sul campo trucidati, sedici cannoni e
due casse furono il bottino dei vincitori. Evento gloriosissimo dallo
spirito patrio nazionale prodotto, che mosse il popolo a riunirsi e
combattere, quantunque il paese fosse tutto da nemici coperto, e che
avrebbe ancora potuto far risorgere la fortuna della patria, ma non
fruttò alcun bene, pel gran numero di forze francesi che sopravennero,
e più ancora per la mancanza dell'appoggio austriaco sul quale
gl'ignoranti montanari, avvezzi erano malavvedutamente a sperare.
Epperciò privi della necessaria confidenza in sè stessi, soggiacquero.
Il fatto d'arme per tanto di Zirl ed il successivo di Brixen da noi già
esposto, nei quali le donne del Tirolo più che spartane si dimostrarono
e brillarono di chiarissima luce, furono della gloria tirolese l'ultimo
ed onorato respiro.

Cuevillas, condottiero d'una banda spagnuola nella Rinja, era sempre
da suo figlio di circa dodici anni e dalla sua moglie di ventisei,
dappertutto accompagnato, e quella i migliori e più valorosi volontarj,
nel combattere sorpassava. In una scaramuccia tolse un giorno colle
proprie mani a tre francesi la persona. Quanto non fece in Grecia
quella prode Bobolina, alla testa della sua banda? Quanti Turchi
non distrusse? Quanti corpi nemici non mise in rotta? A qual genere
di vita duro e penoso, non dovett'ella per la liberazione del paese
sottomettersi?

Ora se tanti sublimi esempii di virtù patria, di robusto pensare,
di carattere virile, ci vengono dalle Americane, dalle Spagnuole,
dalle Tirolesi, dalle Greche forniti, dovremmo noi perciò dubitare
che possansi quelle virtù riunite nelle donne italiane rinvenire?
No, perchè l'indole appassionata, la vivacità della mente, l'ardore
generoso, la costanza nei proponimenti, sono peculiari qualità
che le nostre donne onorevolmente distinguono. Le sole opportune
congiunture per lo sviluppo di tante virtù, finora mancarono. Il nome
di patria italiana era in disuso, nessuno all'unione, independenza
e libertà di quella penisola pensava; o publicamente a ciò pensare,
dimostrava. Solo di piangere in segreto sulla triste sua situazione,
alcuni si contentavano. I rivoluzionarj motivi dell'anno 1820 e 21
delle due estremità del continente italiano, quei nobili e gagliardi
sentimenti, nelle nostre donne a destar cominciarono, ma lo scopo di
quelli non era con bastevole chiarezza manifestato e non davano per
sè stessi buona fidanza della loro riuscita, e per dar campo allo
slancio dei cuori magnanimi, tempo sufficiente non durarono. Eppure
già fin d'allora e con tutte le indicate contrarietà, alcune altamente
generose italiane, più non potendo il loro entusiasmo, risvegliatore
dei purissimi e caldi affetti contenere, avvantaggio della santa
causa, efficacemente il manifestarono. Quante immortali commendazioni
tributarsi non deggiono alla principessina della Cisterna che ricca di
fervido, profondo ed acutissimo ingegno, intenta con tenace costanza
agli studii severi, tanto sul volgar uso inalzata schiva, oltremodo
riflessiva; agli allettamenti del fasto, della grandezza della corte,
l'amor dell'umanità, la gloria della liberazione della patria, ad
ogni affetto antepose? Tal donna con la efficacia della persuasione
che dalla sua bocca forza maggiore acquistava, i suoi amici ad
intraprendere quella grand'opera incoraggiva, agl'infelici che alla
sconfitta di Novara dovettero per dura fatalità soggiacere, recava
soccorsi e illesi rendea dalle persecuzioni tiranniche, ai rimanenti
che saggie e nobili opinioni nutrivano, salutare conforto apprestava
e loro infondea coraggio, generose speranze: ed eziandio, dopo il
trionfo degli oppressori, vivo facea serbare il santo ardore di patria.
Dovremo per avventura obbliare la Porta, signorina leggiadra e gentile
che, astretto essendo il marito ad allontanarsi per alcun tempo dal
Piemonte, onde il primo furore della tirannide restaurata schivare,
le fu compagna all'esiglio, con forza veramente virile lo seguì, ed
i ghiacci perpetui delle scoscese Alpi che sono il confine di quel
paese verso la Francia, a piedi attraversò ramingando? Di quanti elogj
non è meritevole la contessa Fracavalli di Milano, che sola di notte
da quella capitale si partiva, passando in mezzo al detestato campo
alemanno, per recarsi ora in Alessandria, ora in Novara ad esattamente
i capi piemontesi, sulle forze, sullo stato del nemico ragguagliare
e scongiurarli di spingere almeno, almeno una riconoscenza, un
distaccamento, fare insomma alcuna piccola dimostrazione in favore
dell'Italia sopra Milano che con caldissima brama, nel suo recinto
li attendea? Ma que' capi, o non vi posero mente, o al nobile invito
opponean resistenza! Non saranno per tanto, in verun modo le italiche
donne alle americane, alle spagnuole, alle tirolesi, alle greche nel
sacrifizio per la patria, minori. Anzi allor quando le figlie d'Italia,
la spada sguainata per la vendetta e per la liberazione d'Italia,
vedranno lampeggiare in quelle infelici contrade, a tutte le donne per
amor patrio famose, le vedrem sovrastare. Sorgeranno altra volta nella
nostra classica terra quei prodigj di virtù de' quali le progenitrici
delle nostre donne, le matrone romane diedero a dovizia, spettacolo!
Così rivedremo fra noi signoreggiare la gloria intemerata e robusta che
facea più bella l'età passata. Così nell'Italia, le Porzie, le Clelie,
le Lugrezie, le Cornelie, vedremo mirabilmente rivivere. La natura
di guerra nazionale spinge vecchi, fanciulli, donne, tutte le genti,
a combattere in campo. Esistea nelle vicinanze di Madrid una banda
comandata da un vecchio detto l'_Abuelo_, ossia l'avolo. Uno dei più
intrepidi volontarj della banda, e che trovavasi sempre all'antiguardo
di Mina, non oltrepassava il quattordicesimo anno.

Non è dato fissare il grado di forza, di superiorità, cui lo
spirito, il core dell'uomo, armati d'un saldo e verace proponimento,
s'innalzano. Quando l'entusiasmo si fa generale, allora ogni
giorno, ogni momento, da qualche impresa stupenda, impossibile ne'
tempi di calma, viene certamente segnato. Allora quando i Francesi
dominavano in Madrid e la corte di Giuseppe sostenuta da una forte
guarnigione colà risiedeva, avvenne che i Mammalucchi della guardia
imperiale di Napoleone, distinta e famosa per uomini e per cavalli,
a quella capitale pervennero: giuntivi dalla porta di Alcalà, per
la grande strada detta la _Puerta del Sol_, (dove gli abitanti usano
d'intrattenersi e sulle notizie del giorno bucinare) tranquillamente
sfilavano. Varj gruppi vedevansi di quei cittadini nelle lor cappe
brune ravvolti che al mesto ma truce aspetto, di gente coll'animo a
cose nuove rivolto, offrian la sembianza. Gli uni a sommessa voce, con
numerose imprecazioni, mille mali pregando dal cielo a quella truppa
brillante, gli altri sulle miserie dell'oppressione discorrendo,
tutti attentamente la rimiravano. Sfilata la colonna alla volta del
palazzo, il cavallo restio d'uno di quei soldati, ora impennandosi,
ora da una banda, ora da un'altra gettandosi, lo deviava dal cammino
ed impedivagli di raggiungere i compagni, facendolo ad un bel tratto
distante dalla colonna, indietro rimanere. Allora uno Spagnuolo da
vero amor di patria sospinto, lascia incontanente i compagni coi quali
discorreva, getta via la cappa che gli toglie l'agilità, brandisce
un pugnale, che teneva nascosto, corre, spicca un salto, ed eccolo
al cavallo del Mammalucco in groppa: quegli sorpreso, vuol dar di
piglio alla sciabola, ma il tempo gli manca ed il mezzo. Stringe lo
Spagnuolo sì fattamente il corpo del nemico fra le sue braccia, che
gl'impedisce il respiro e vieta di muoversi, nel mentre che gli figge
il brandito pugnale ripetutamente nel cuore. Si contorce il Mammalucco
e dibattendosi, tenta l'estremo pruova: ma tutto è vano. Mortali son le
ferite, scorre da quelle con furia il borbogliante sangue: contraffatto
e pallido in volto, gli occhi chiudendo, nelle braccia dell'ardito
cittadino s'abbandona il nemico. Quindi la testa e le illividite guance
inchinando, dopo molti sospiri da singhiozzo accompagnati, tramanda
fra penosissimi aneliti l'ultim'aura di vita. Affrettasi lo Spagnuolo
a spogliarlo delle sue armi, e più preziose suppellettili, che si
appropria: con una forte urtata lo scavalca e gettalo strammazzone
per terra, afferra le redini del cavallo, volta faccia indietro,
ed a briglia sciolta, quasi di volo, fuori la porta di _Atocha_ si
addirizza, ove accompagnato dalle acclamazioni ed esultanze del popolo
attonito ed approvatore, sen corre ad unirsi alla prima banda che trova
presso a Madrid.

Un fabbricatore di merletti nella città di Vagliadolid, sentia con
ragione pe' Francesi un odio così mortale, che mai senza averne uno o
due tolti dal mondo, lasciava giorno passare. Ogni mattina al primo
albeggiare, alla caccia di Francesi regolarmente se ne usciva. Ma
siccome da truppe nemiche, con diligenza, le porte custodivansi, così
era per lui giuocoforza che nei luoghi dove avea la certezza di non
essere veduto, su per le mura s'arrampicasse. Tosto poi dall'altra
parte calato, d'uno schioppo che sempre nel sobborgo teneva nascosto,
si muniva e dopo di alcune ore d'utile caccia, tutto contento di aver
con le proprie mani alcuni Francesi tolti di vita, quietamente al suo
domicilio facea ritorno.

Eravi nelle vicinanze di Thomar un contadino dotato di una forza
prodigiosa e corrispondente ardire, che costretto di rinunziare alle
sue pacifiche occupazioni, gli venne dall'amore della sua patria
suggerito di ammazzar quanti più poteva Francesi, e delle loro spoglie
mantener la sua vita, com'essi di quelle dei Portoghesi, sfoggiatamente
vivevano. Quest'ardito difensore del suo paese, uccise più di trenta
nemici colle sue proprie mani senz'ajuto di alcuno, e predò più di
cinquanta cavalli e muli nel solo mese di febbrajo. Ei recava il suo
bottino in Ábrantes, e colà vendevalo. Per tutto il tempo, in cui
rimasero i Francesi nel paese, continuò la sua guerra singolare per
proprio conto, e tanta, le sue operazioni gli fruttarono celebrità, che
i Francesi misero ad un alto prezzo la sua testa senz'averla però mai
conseguita. Era l'abituale sua residenza, una caverna nei monti ove i
poveri abitanti delle parti adiacenti, nella speranza di trovare come
realmente trovavano, una perfetta securità, sotto la sua protezione, in
folla rifuggivano.

Un abitante di Ceballa, guatava sempre l'opportunità di poter un
qualche nemico trar dal mondo, ed ogni qual volta un distaccamento
francese di passaggio in quel paese giungeva, tosto portavasi egli
sulla piazza, ed i soldati nemici ad accettare l'offerta della sua
casa, senza di più stancarsi nell'attendere il biglietto d'alloggio,
affabilmente invitava. Spossati quegli uomini d'arme dalle giornaliere
fatiche, cotale spontanea esibizione, d'uno da loro, partigiano di
Francia riputato, con piacere accettavano. Egli, e la sua famiglia
con somma cortesia loro preparavano la cena, e con spiriti, e vini
_aromatizzati_, a poco a poco gl'inebriavano. Quando poi a' pieni
di vino, giungeva il sonno profondo, in compagnia del suo figlio,
senza che gli altri se n'accorgessero, dalla casa, uno alla volta
_di straforo_ estraeva. Quindi spogliatigli, portava i sonnolenti
alla sponda del Tago, dove il cominciato sagrifizio sanguinosamente
consumava. Toccò una sera tal vicenda ad un Francese affatto ancora
non ubriaco siccom'era creduto, e che i suoi sentimenti tuttavia
conservava. Avvedendosi quegli alla sponda del fiume del progettato
omicidio, nella speranza di potere al nuoto giungere a _Malpica_,
fortezza in fronte dell'altra parte situata e presidiata da guarnigione
francese, d'un salto nel Tago si slancia, ma non tralascia l'ardente
Spagnuolo il suo ardimentoso progetto. Laonde gettasi, sebbene vestito,
nell'impetuoso fiume, e col pugnale alla mano in alto levato, alla
malvagia vittima con ismania tien dietro; muove furiosamente le braccia
e le gambe, raddoppia di sforzi, onde nel cammino, il soldato superare.
Già già trovasi il Francese al punto di prender terra, già salvo si
crede, ma eccolo dal cittadino raggiunto, che cento volte nella schiena
gli conficca il pugnale. Nuota nel proprio sangue, l'assalito ad un
tratto; ma eccolo in breve, freddo ed esangue cadavere, supino a galla
d'acqua venire. Soddisfatta così la nazionale vendetta, lo Spagnuolo a
casa sua fa ritorno, ed abiti, armi e cavalli, alla prima banda che si
presenta, rimette, affinchè vengano ai combattenti distribuite.

In Valdepennas, paese che giace al trivio delle strade di Madrid,
Andalusia e Francia, epperciò a continuo passaggio di truppa soggetto,
viveva un cittadino che in mezzo al cortile di sua casa, aveva un gran
pozzo scavato, ove, di notte, tutti quant'i Francesi che in quella
trovavansi alloggiati, per forza dentro precipitava. Aperto un giorno
da alcuni soldati a caso il coperchio di tal pozzo, dal pestifero
lezzo ch'esalava, fecero di ciò che poteva essere, pensiero. Si misero
quindi con granchi di ferro a pescare in quella fetida chiavica e
membra dei loro compagni d'arme sù ne riportarono. Allora da rabbiosa
ira compresi, corrono addosso al padrone di casa, lo afferrano, ed a
scavezzacollo in fondo della cloaca il rovesciano. Poscia, per essere
maggiormente sicuri della sua morte, gettangli sopra, moltissime grosse
pietre, onde il ricoprano ed il pozzo riempiano. Partì l'indomani
il distaccamento: i parenti, onde estrarre il cadavere e dargli
onorevole sepoltura, tutti al fatal pozzo concorsero. Ma quale non
fù la loro maraviglia, la loro gioia, quando scoperto dalle pietre
che lo ingombravano, in piena vita e sano e salvo, il padrone di
casa rinvennero? Scampato da quell'infetto sotterraneo, ricominciò
di bel nuovo la sua guerra privata, che fino all'epoca della pace,
senza interromperla, continuò: nè manca ragione per credere, ch'oggi
ancor viva. Il calcolo già in altri capitoli esposto, fà conoscere
appieno che il numero di due milioni di agili e robusti giovani, assai
facilmente, dall'Italia alla guerra attiva, si può mettere in campo, e
che secondo il più accurato calcolo, sette di loro dovrebber spegnere
solamente un Tedesco: locchè senza fallo, renderebbe la guerra di
pochissima durata, se fosse immediatamente intrapresa. Ma siccome gli
ordini di quelli non meno, che la cooperazione alle loro nequizie,
di uno stuolo d'Italiani ribaldi, alquanto potranno la loro completa
distruzione ritardare; non saranno per tanto i diciotto milioni che
avanzano, per istarsene spettatori passivi, ed una contesa nella quale
si combatte pell'universale benefizio, con sangue freddo mirare.
Non pensiamo però che possa tal disgrazia avvenire. Imperciocchè i
due milioni combattenti alle rimanenti famiglie appartengono, ed il
padre, fratelli, sorelle, cugini saranno da un particolare stimolo
concitati a rendere con la loro cooperazione, più corta la guerra e
la vittoria più certa. E se tal motivo spingerà, come ragion vuole
che si speri, tutt'i venti milioni d'abitanti d'Italia ad entrare
nella patria tenzone; allora ogni trenta cinque o quaranta Italiani,
dovrebbero soltanto una di quelle schifose bestie ammazzare. Quanto
una guerra siffatta potrebbe per avventura durare? Pochissimi giorni
soltanto! Accesi dunque i cittadini tutti, o la maggior parte di essi
da quel santo entusiasmo che tanto s'accresce dalla coscienza delle
nobili azioni pel publico bene operate; tutti tutti, per individuo e
per massa, alla distruzione del nemico si aizzano. Noi abbiam veduto
per gli esempi accennati, come un sol uomo di saldo volere possa un
numero immenso di nemici distruggere. Gli animi caldissimi di tutti
che a quello scopo collimano, con un paziente, perseverante, tenace,
inflessibile ed invincibile spirito, alla salvezza della patria
diretto, individualmente non men che in massa, guerreggieranno. In
ogni paese, in ogni villaggio, in ogni città s'eleveranno gli stendardi
della patria, all'intorno de' quali gli abitanti del paese stringeranno
per combattere. I primati d'ogni paese tenere dovranno i nomi di tutti
gli abitanti, segnati e disposti in decurie, centurie e coorti, divise
per età, sesso e capacità, tutti di quelle armi provveduti, ch'esser
possano dalle circostanze, fornite. Ogni coorte, centuria o decuria
avrà, secondo la sua capacità, un luogo previamente assegnato, nel
quale al suono della campana, a stormo dovrà immediatamente convenire.
Uomini eletti all'uopo staranno di giorno e di notte appostati, onde
osservare se si presentano nemici, ed al primo apparire di qualche
banda di soldati, corrieri alle terre circonvicine, subitamente
spedire. Tale nel tempo della guerra dell'independenza, era in varie
parti della Spagna, l'ordinamento dei _somatenes_, ossiano torme.
Il generale san Ciro, alla pagina 21 e 22 del già più volte citato
giornale, così parla: «Furono gli sforzi della Catalogna nell'ultima
contesa, inauditi: armò ella quasi tutt'i suoi abitanti in istato
di portar le armi, sotto il nome di _somatenes_, specie di milizia
particolare a quella provincia: al primo tocco di campana, od a
qualunque altro segnale, si provvedevano essi di viveri per varj
giorni, si portavano alle posizioni riconosciute come le più forti
dei loro rispettivi cantoni, ed alla difesa del paese con, ed anche
più delle truppe contribuivano. Ordinò quella, quaranta _tercios_ di
micheletti, il _tercio_ era un corpo di fanteria leggiera più forte
d'un battaglione ordinario, si componeva di dieci compagnie: la sua
forza sommava a circa mille uomini; alcuni rimasero sempre al disotto
di quel numero, ed altri al dissopra. I micheletti erano scelti tra
i più agili dei _somatenes_ senza contare un numero considerevole
di reclute che fornì all'esercito regolare: a sue proprie spese,
già fin da otto mesi e senza alcuno sborso del tesoro, manteneva il
numero di quaranta sei mila uomini. I micheletti campeggiavano con la
truppa di linea e partecipavano a tutte le sue operazioni, mentrechè i
_somatenes_ guardavano le montagne, le strade, gli stretti, rendevano
le communicazioni impraticabili, perlustravano la marcia delle
colonne nemiche sulla loro fronte e sui loro fianchi, appoggiavano
tutt'i movimenti e proteggevano le ritirate dell'esercito regolare.
Gli stessi abitanti delle fortezze e piazze difendevano i baluardi,
locchè permettendo di scemare la guarnigione, rendeva disponibile
una maggior quantità di soldati. Compagnie di donne, ordinate in
Gerona, prodigarono nel corso dell'assedio, alla patria stupendi e
gloriosi servigi.» Da quanto viene detto da questo rinomato generale,
dovranno gl'Italiani ammaestrarsi, e conoscere qual essere debba
il modo atto allo scopo da tenersi nella rigenerazione d'Italia, e
quale la cooperazione delle masse. Oltre de' sopra indicati, servigi
indispensabili di molte altre specie, in questa guerra possono
dalla cooperazione nazionale essere a grande vantaggio della patria,
impiegati. Non parleremo della sollicitudine per far procaccio di
polvere da schioppo, d'ogni sorta d'armi, e di munizioni necessarie,
come debbansi quelle anche in ogni paese fabbricare, e con destra
maniera in luogo sicuro nelle campagne e siti nascosti in ogni paese,
ingannando la vigilanza del nemico, serbare. Indica Botta il modo
dagli Americani messo a questo proposito in uso, e ci dice che i
cannoni, le palle, ed altri strumenti da guerra, si trasportavano a
traverso le poste sulle carrette cariche di letame, la polvere dentro
i canestri, e le zane, di quelli, che concorreano al mercato, ed i
cartocci erano nascosti dentro le casse piene di candele. Per tal
maniera gli Americani, nell'intento loro gloriosamente riuscivano. Il
contadino che per seminare, il campo apparecchia: tutto a romper le
zolle e coll'aratro a solcar la terra occupato, fra le vicine porche,
da poca paglia coperto, carico e preparato il suo schioppo conserva:
passa un distaccamento nemico, egli nol guarda, oppure umilmente
abbassa il cappello, o il berretto. Tosto quello passato, se per
accidente, o per istanchezza, o per diporto, alcun soldato è rimasto
addietro, o se qualche ramingo per la strada solo, come sovente succede
negli eserciti, di passare si fida, _catelon, catellone_ dietro una
siepe, o boscaglie, il contadino s'imposta e stassene al macchione,
calcola ben bene il suo colpo, mira, spara, ed ecco il nemico a
terra disteso: spogliatolo tosto, nasconde il bottino, strascina frà
gli sterpi, o cespugli, ed in qualche profondo fosso il cadavere,
ricarica lo schioppo, e riprende tranquillamente il suo lavoro.
Stavano in Ispagna i contadini alle mosse de' Francesi di continuo
attenti: agguatavansi vicino alle strade maestre, sorprendevano
i corrieri e le ordinanze, e tanto molestavano i nemici, che gli
costringevano ad impiegare numerose scorte, locchè il loro esercito
notabilmente indeboliva: e malgrado quelle, tanto era il loro servizio,
pericoloso, che nel 1809, sedici corrieri furono un giorno in Bajona
imprigionati per avere negato di entrare in Ispagna. Imperciocchè a
tutti era noto in quel tempo, che appena uno fra sei, al suo destino
felicemente giungeva. Cadevano i contadini repentinamente addosso
a quei distaccamenti, che stimavano esser loro in forza inferiori,
e tutti quei soldati, eziandio gli sviati dall'esercito principale,
avevano la certezza di cader vittima d'una giusta vendetta. I posti
ed i presidj collocati per la sicurezza delle strade militari, erano
continuamente attaccati. I soldati costretti a fortificarsi in vecchi
castelli, chiese, o case isolate o nelle pianure, in abitazioni poste
all'ingresso di qualche villaggio. Gli Spagnuoli aveano sempre le loro
sentinelle ucciso, o portate via, e per ciò impedire, s'introdusse
l'uso dei _Block Houlles_, specie di torre tonda di legno circondata
da un fosso e con un cannone montato sopra un perno: si collocavano
pure in questi dei distaccamenti, ma, dice il Signor Lemiere, che
fù quell'invenzione di poca utilità, perchè gli Spagnuoli giravano
quei forti e le truppe obbligate a tener tante guarnigioni, erano
dal troppo servizio spossate. Soventi accadeva in Ispagna, che dopo
d'un combattimento, soldati nemici sbandati, entravano nei villaggi
a cercar nuove dei loro commilitoni. Non tralasciavano i contadini di
profittare di queste opportunità, e quei luoghi dove sapevano esservi
qualche banda, imboscata e dove supponevano dover quelli trovare una
morte inevitabile, loro precisamente indicavano: e quando pochi erano
i dispersi, sul luogo stesso li trucidavano. Se poi dall'esercito
invasore al fine di vendicare la morte dei compagni, nuove truppe si
spedivano, altro quelle non trovavano, se non un abbandonato villaggio
sul quale, col distruggerlo, la loro vendetta isfogando, non facevano
che le loro risorse pell'avvenire, notabilmente menomare. Prenda
l'accorto abitante italiano dal soldato che in casa sua s'alloggia,
sollecita informazione, per dove siano i suoi compagni diretti: quindi,
gli strumenti di campagna in ispalla caricando, se n'esca di casa come
se andar volesse a lavorare. Ma tosto fuori del paese, con alcuni amici
si congiunga, pongasi a qualche difficil passo del cammino, in agguato,
piombi sul distaccamento, che passa, lo distrugga; e quelle provvigioni
e quegli articoli, ch'erasi l'altro procurato nel saccheggio del
paese, tutto gli tolga ed alla casa riporti. Altri allegri garzoni,
in apparenza cortese, i soldati a bere con essi loro all'osteria, come
amici, invitino famigliarmente, e quando il bicchiere o boccale accosta
il convitato alle labbra, con un gran colpo sulla testa, stordiscanlo,
e nello stesso tempo, vengagli da un altro, fitto destramente un
coltello nel petto. Carri, uomini con barili, con botti di vino ed
acquevite si lasciano dal nemico sorprendere e predare. Ogni soldato
fatta la presa, vuole con quella ristorarsi; gode del bottino, e dassi
per dissetarsi in sul bere, ma la sua morte tracanni, perchè fù quel
vino, quel liquore a bella posta intossicato, e lasciato a bella posta
dall'ingordo nemico rapire.

Mille mezzi inoltre potremmo atti alla completa distruzione del
nemico facilmente proporre, ma ben sappiamo, che una volta, divenuto
l'entusiasmo generale, e guidata la nazione da una ferma volontà, gli
saprà essa medesima e migliori, ed in maggior quantità rinvenire.
Finiremo il capitolo coll'esempio eroico dato dagli abitanti di
Urda, paese situato nei monti di Toledo. Volendo pur essi il loro
debito verso la patria convenientemente pagare, e non avendone avuto
fin allora l'acconcio, simularono timore delle bande spagnuole, ed
al generale francese, che comandava in Manzanares, dimandarono in
grazia, che loro un battaglione inviasse e che nel paese stanziando,
dalle incursioni di quelle, che grande molestia loro arrecavano, gli
liberasse. Aderì con piacere il generale; giunse il battaglione, e
fù con apparente gioia ed affabilità universale ricevuto. Tutti del
bisognevole andavano a gara di provvederlo, ogni famiglia si prese un
soldato o due per alloggiarli nella propria casa: nessuno al quartiere
rimase. Uffiziali e soldati tutti separatamente ripartiti, con grande
baldoria fino alla notte gavazzarono, ognuno in quelle stesse case
dove aveva banchettato, si pose a riposare. Dormivano tranquillamente
i soldati, ma vegliavano gli abitanti, ed alla mezza notte ora
previamente convenuta tra di loro, o dall'alcalde stabilita, ogni
famiglia inerme, perchè il paese si trovava compiutamente disarmato, si
porta passo passo, vicino ai dormienti soldati, s'impadronisce delle
loro armi, con quelle, cadendo furiosamente sugli ospiti nel sonno
immersi, invocando la patria, con mille ripetuti colpi gli scanna.
In un quarto d'ora un solo straniero più non esiste in paese: si
riunisce il popolo e sulla publica piazza, il bottino immediatamente
divide e formasi colle armi degli ospiti una forte banda che prende
tosto il campo e tutti si dispongono ad abbandonare il paese al
primo sentore che il nemico da quella parte s'addirizzi. In fatti
varie volte in appresso, per vendicare sì acerbo insulto, le colonne
francesi si presentarono, ma sempre il paese trovarono abbandonato:
ma sempre da quelle montagne inseguiti e molestati fuggirono dopo
aver molto sofferto. Operandosi in siffatta guisa, e tutta la nazione
all'adempimento del gran disegno concorrendo, la guerra sarà forte,
breve, decisamente proficua: saranno i nemici ognor frastornati ed
impauriti, costretti a superare difficoltà d'ogni genere affatto nuove,
nè dal miglior tattico della guerra regolare calcolati, nè calcolabili.
Dovranno i nemici contro innumerevoli ostacoli cozzare fatti sorgere
da quell'odio, da quella disperazione diventata nazionale, ed a cui
la presente oppressione, opera degl'interni tiranni e dell'occupatore
straniero, debbe a viva forza stimolar gl'Italiani. Questo popolo
così bersagliato dalla sventura, e per cui la vendetta è dovere, se
fia che veracemente voglia l'unione, l'independenza, e la libertà
della Patria, senza dubbio conseguirà tanto bene. Potrà l'Italiano con
atto di sublime vendetta, un glorioso avvenire ch'emendi il passato,
prontamente lucrare, se come abbiamo indicato, per giungere ad una
compiuta, intera, e permanente vittoria, vorrà i suoi mezzi a tanto
scopo drizzare.



CAPITOLO XI.

DEL GOVERNO PROVISIONALE FINO ALLA PERFETTA LIBERAZIONE D'ITALIA.


Liberato dallo straniero, o dal nemico interno, un municipio,
distretto, cantone, o provincia; non tarderassi, quella, secondo il
sistema provisionale di governo da stabilirsi in tutta la parte libera
del paese, a costituire, onde dare all'insurrezione consistenza, la
guerra alimentare, delle risorse del paese trar partito, lo spirito
dei cittadini animare, sostenere ed allo scopo vantaggioso per la
patria, dirizzare, con esatte relazioni e con le necessarie provviste,
i condottieri delle bande ajutare, e bande nuove creare. Abbenchè
incompleto e nell'ordinamento suo, difettoso; ci diedero pur gli
Spagnuoli, del modo di stabilire un provvisionale sistema, un esempio
che può con leggi e misure transitorie, al popolo in armi, d'appoggio,
ed allo stabilimento del futuro regolare governo, di base fondamentale
servire. Il diciamo incompleto e difettoso, perchè il popolo nella sua
illimitata confidenza verso le persone che a membri di quelle giunte
nominò, e dal suo ardente amor di patria abbacinato; non badò a propor
restrizioni, nè limiti al loro potere, dimodocchè, una volta di quello
in possesso, que' membri nel vizio caddero a che tanto l'ambizione
umana è propensa, e solo da buoni ed immediati regolamenti esser può
evitato, o contenuto: vogliamo ragionare di quel proposito da essi
tenuto di estendere e mantenere, per quanto poteano, l'autorità lor
conceduta. Per tanto le giunte provinciali spagnuole, a poco a poco
si rilasciarono, e quell'amor di patria, che stato era della loro
esistenza cagione, al funesto e sempre pernizioso amore e spirito
di corporazione, concentrarono. Epperciò tosto che dopo la battaglia
di Baylen, con somma vergogna, l'esercito del generale Dupont fù ad
abbassare le armi costretto, e dopo che dovette Giuseppe Buonaparte
colle pive in sacco ritirarsi, e Madrid frettolosamente abbandonare;
da tanto strepitosi avvenimenti, coloro che componevano le giunte
aggirati, la generale espulsione dei Francesi dalla penisola, come
cosa certa ed immediata, inconsideratamente considerando, lasciaronsi
da un eccesso pregiudizievole di confidenza trascinare, che i mezzi
atti per ottenerla, a trascurare li spinse. Del tutto annighittiti,
anzicchè fare eroici sforzi per la liberazione della loro patria,
divennero tali giunte, le une delle altre, gelose e ciascuna, che il
bene generale si ottenesse col minor disagio possibile, desiderava.
Nulla dimeno, che abbiano quelle giunte provinciali, al primo impeto
dell'invasione resistito e con vigore, il nemico, per quanto fù loro
dato, respinto; ad ognuno è ben noto. Ed eziandio che non abbiano
esse cessato di agire con quell'energia, attività, ed amor di patria,
che primieramente le stimolava, e quello, a' riguardi, considerazioni
locali, e spirito di corpo, surrogato, non abbiano, se non dopo un
lungo possesso dell'illimitato potere, e dopo che nella loro mente si
fosse la falsa persuasione infusa dell'impossibilità della conquista
per parte dello straniero e la certezza ideale della sua rovina;
non v'ha osservatore politico alcuno in Europa, cui manifesto non
apparisca. Fù dunque il principale errore commesso dal popolo, nel non
limitare il tempo della durata ed estensione del potere delle giunte.
Perciò l'idea generale del loro stabilimento, che vantaggiosissimo,
la rivoluzione a consolidare, riputiamo, ci converrà d'afferrare, e
quelle parti che gli avvenimenti mostrarono essere difettose, sarà
di mestieri additare ed indi con giudizio e ben ponderata riflessione
correggere. Vorrebbe il Sig.r Lemiere, che la giunta centrale, la prima
fosse ad essere stabilita, e dal governo antecedente al movimento
popolare, nominata, dalla quale tutte le giunte provinciali etc.
emanerebbero. Ma siccome quell'autore, per un popolo dalla tirannia
interna, e dall'occupazione straniera oppresso, non iscrisse, ma bensì
per la Francia, come attualmente si trova, qualora fosse minacciata
ed una prossima invasione straniera paventasse; ne consiegue, non
essere quanto da lui si propone, per una guerra d'insurrezione nel
caso presente d'Italia, punto adottabile. Il suo sistema dei circoli
etc., tratti da quello della guerra della Vandea, non molto dal nostro
delle provincie, cantoni etc., differisce: ma in quanto all'origine
da lui data alle giunte, palesiamo intieramente opposta opinione.
Vorrebb'egli, che il re od il governo esistente, alle sue attribuzioni
e funzioni rinunziasse e dalla giunta centrale surrogar si facesse.
Quale esser possa il suo scopo per cambiare il governo preesistente con
uno _supplementario_ e provisionale, all'epoca dell'invasione, scelto e
nominato da quello che a lui cede il luogo; non ci è dato comprendere.
Chiaro a chi l'uman core conosca, apparirà certamente, dover assai
difficile cosa, per non dire impossibile, riuscire, che il prestabilito
governo a spogliarsi del potere per investirne la giunta centrale,
acconsenta: poichè in tal modo, publica confessione farebbe della
sua incapacità nel maneggio di guerra, epperciò indegno di comandare
ad altri uomini dichiarerebbesi. Imperciocchè da tutti è in oggi
essenzialmente riconosciuto, che chi al governo d'uno stato si trova,
deve saperlo difendere, e se non perviene dalla straniera invasione a
liberarlo, per quello, deve morire. E veramente qual codardo e stolto
personaggio non rappresenterebbe quel re che all'approssimarsi del
nemico, una Giunta centrale, del potere sovrano investisse, per andarsi
fuori del rumor degli schioppi e dei cannoni, a nascondere? E quanta
impudenza non dimostrerebbe quel re che nell'atto della difesa d'uno
stato, lungi dal pericolo tenuto si fosse e nascosto, col togliere dopo
ch'è tornata la calma, il potere sovrano dalle mani di quella giunta,
che coi suoi lumi, coraggio e fatiche, avesse la vittoria ottenuto?
Stabilirebbe forse il Sign.r Lemiere per massima, che debbano nel tempo
di pace gl'ignoranti e codardi dominare, gli uomini forti, retti ed
illuminati restare oppressi? Egli suppone per verità, che inaspettate
circostanze, le sue forze ad un tempo, e la sua potenza arrestassero:
locchè a nostro parere, suppone già invaso il territorio, o già
l'esercito fuori di quello, battuto, oppure la pusillanime fuga dei
principi come quella di Luigi XVIII e del conte d'Artois nel 1815 al
tempo dello sbarco di Napoleone, e le fughe nelle passate guerre del
tiranno di Napoli in particolare, e di tutti quei picciolissimi re,
duchi, e principi, che si occupano con indefesso studio, le sostanze
italiane a divorare. In qualunque di queste circostanze, noi portiamo
opinione che dovrebbe cessare di esser re, colui che non volesse o più
non potesse dirigere la guerra, ma non mai quella giunta nominare:
e come mai possa questa e non il re, sostenersi, e tutto il gran
movimento, regolare, non comprendiamo. Molte obbiezioni ancor più
forti alla mente ci si presentano, ma una troppo lunga digressione,
inutile pel nostro soggetto parendo, solo a rispondere alla nota della
pagina 112 del trattato suddetto, ci limiteremo, ove dice l'istesso
scrittore: «Dovrà senza dubbio quel consiglio centrale, essere stato
nominato dal governo e da quello averne ricevuto il potere, altrimenti
essere in ogni paese incivilito, un corpo incostituzionale, poichè
i suoi membri non avrebbero nessuna legale missione per formare un
governo provvisorio.» Secondo l'opinione del citato autore, il solo
governo preesistente, render potrebbe l'esistenza di queste giunte
legale: e noi di nuovo domandiamo perchè quel governo avrà egli d'uopo
di nominare una Giunta, quand'egli stesso farne le funzioni potrebbe?
Ma volendo supporre che veramente nol possa, passeremo a domandare
se altri mezzi egualmente ed anche più legali, per render valide
le operazioni di quelle Giunte vi esistano. Secondo il parere del
Signor Lemiere, non puossi ad altro giustamente ricorrere, com'egli
chiaramente si spiega. Ma noi gli opporremo ciò ch'egli per avventura
pensa e dire non osa, cioè che la vera, la pura, la giusta legalità
dal popolo emana e dovrà sempre emanare, perchè quegli è che fà la
guerra, ed è per lui, che si deve fare, che i re o governi preesistenti
non sono legali se il popolo non lo accorda, e che quando questi alla
direzione della somma delle cose, incapaci si veggono, tanto per
fortuiti accidenti, quanto per qualunque altra cagione; al popolo
spetta di nominare coloro che in sì pericolose congiunture debbano
sostenerlo e dirigerlo, ed in cui deve una illimitata confidenza,
riporre.

Tosto liberata una città, borgo, o villaggio, il condottiero o
condottieri, che in quelli entrarono, nella chiesa, o sulla piazza,
tutt'i capi di famiglia del paese riuniranno: e dopo d'avergli
fatto giurare nel modo il più solenne di abbandonare le case, ed
anche bruciarle se sarà necessario, di prima morire che all'unione,
independenza e libertà italiana rinunziare, ed in ogni possibil modo,
le bande in armi sostenere, non meno che di costringere tutti gli
abitanti abili a prender le armi, a correre alla difesa della patria
in pericolo, sotto pena d'infamia e di morte; deve regolarmente per la
nomina di un consiglio municipale fargli votare: quindi proceduto allo
scrutinio dei consiglieri ossia primati, uno fra quelli sceglierà che
il più idoneo alle circostanze del paese il condottiero riconosca, e
lo dichiarerà immantinenti _comarco_. Poscia quegli individui ed il
consiglio, porrà nell'esercizio delle loro rispettive funzioni.

Passando quindi alla liberazione di un distretto, nella città capitale
di quello, il consiglio distrettuale convocherassi composto da un
deputato di ciaschedun municipio appartenente al distretto e nello
stesso modo del consiglio municipale, _installato_, uno pure frà i
deputati verrà dal condottiero principale di distretto, scelto per
essere il preside del consiglio distrettuale.

Sarà pure il cantone da un'assemblea cantonale presieduta da un
prefetto, regolato, e questa nello stesso modo dei distretti nominata,
da un condottiero principale di cantone _installata_.

Finalmente dai deputati di tutt'i cantoni della provincia, verrà
nominato un deputato per cantone onde formare la Giunta provinciale,
che in conseguenza sarà composta di cinque persone, e sarà nell'istesso
modo delle assemblee e dei consigli, installata dal condottiero
principale di provincia cui pure un pretore, per dirigerla, spetterà di
nominare.

Ai quindici di marzo, dal consiglio distrettuale fino alla Giunta
provinciale inclusivamente, dovranno in ogni anno, tutti essere
per elezione, nel modo di sovra esposto interamente rinnovati,
e ond'evitare che troppo i membri al potere non s'affezionino, e
che col tempo, nocevoli, anzicchè vantaggiosi, possano alla patria
divenire. Il solo consiglio municipale, avrà la durata di tre anni,
come quello, che la mano negli affari più complicati e particolari,
aver dovrà delle bande e perciò, tante speziali intricatissime cose
conoscere, onde poter tutti gli avvisi e schiarimenti, ai condottieri
delle bande necessarj, comunicare con quell'esattezza e prontezza che
in circostanze di tanto momento richieggonsi. Sarà inoltre soggetto
a dovere il suo paese, abbandonare: ed ogni qualvolta non si creda
sicuro di essere dal nemico risparmiato, alle bande deve riunirsi. Fà
di mestieri che non sia ad una rinnovazione frequentemente sottoposto.
Minore vediamo il pericolo, se un consiglio municipale possa o voglia
del supremo e perpetuo potere impossessarsi, di quello, che, se in più
lunga permanenza si lasciassero gli altri magistrati, si correrebbe.
Minore eziandio per le Giunte provinciali, assemblee cantonali e
consigli distrettuali, credesi la probabilità, che siano ad abbandonare
tanto facilmente il paese, dove riseggono, costrette: essendo del loro
governo l'estensione, maggiore, cambiar potranno città, villaggio,
etc., per continuarvi le di loro adunanze. Meno ad un nemico agevol
cosa riuscirà un territorio alquanto esteso, che una semplice città o
villaggio, militarmente occupare.

Dal consiglio municipale assistito, dovrà il Comarco volger l'occhio
alla condotta di tutte le persone del paese per iscorgere se alcuno
comunicazione mantenga coll'inimico. Se a quello soccorra, ed in
qualunque modo assistenza gli arrechi, fia d'uopo arrestarlo ed alla
prima banda, che nel vicinato s'appresenti, consegnarlo, dalla quale
sarà, come un tant'enorme delitto di traditor della patria richiede,
giudicato e punito. Esatte notizie d'ogni movimento del nemico piccolo
o grande che sia, ripetutamente ai condottieri dovrà spedire, onde se
una manchi, l'altra pervenga se per caso passasse il nemico pel paese,
e la sua autorità come molte volte in Ispagna accadea, per ottenere
qualche requisizione, riconoscesse, dovrà il condottiero della banda
più vicina, ed il condottiero principale di distretto immediatamente
informarne. Ogni qual volta nel paese o circondario, volontarj ammalati
o feriti esistano, dovrà, fino alla loro guarigione, tanto pel vitto,
come per la loro infermità, prendere continua e somma cura, e qualora
abbandonar debba il paese, fargli sulle montagne negli antri al nemico
inaccessibili, trasportare, e per guarigione in quel luogo restare.
Insomma unitamente al consiglio municipale, dovrà il comarco e tutti
gli abitanti del circondario atti alla guerra, armare, ed in aumento
e soccorso delle già esistenti bande, mandarli, oppure, se ancora
non ve ne esistano, con quegli crearne. Potrà coll'approvazione
del condottiero principale, dei vecchi rimanenti, una guardia di
sicurezza, per ajuto nelle sue operazioni, istituire, che, sebbene
d'uomini infermicci ed al di là dei cinquant'anni composta, potrà
non dimeno, per la difesa del luogo, contro a' piccoli distaccamenti
nemici, e contro alcuni renitenti abitanti, se ve ne fossero,
divenir vantaggiosa: dovrà, per quanto gli sia fattibile, alle bande,
vettovaglie e munizioni, onde sostenerle, fornire, non meno che farle
di tutte quelle risorse partecipi che nella sua posizione gli verrà
fatto di ritrovare, o creare. Un uomo di guardia sulla torre più alta
del luogo, sarà continuamente da lui tenuto alla _veletta_, onde a
tempo dell'approssimarsi del nemico, essere avvertito e coi ripetuti
tocchi della campana a stormo, tutte le torme degli abitanti radunare,
e quindi l'avversario, quando probabilità fondata vi sia di poterlo
distruggere, correre ad annichilare. Due altri modi d'agire, in caso
contrario gli restano; l'uno d'inculcare agli abitanti di ricevere i
barbari sotto apparenza d'indifferenti, ed anzi come loro parteggianti,
coperti dalla più grande generale simulazione; l'altro di fuggire,
se non v'è miglior scampo, ne' boschi. Sarà sempre il primo caso,
possibile, quando per avventura quel villaggio o città ancor non siasi
dal nemico, apertamente difeso, e non siasi in armi levata. Potranno
i primati avvedutamente persuadere al nemico di aver alla forza
più immediata ceduto, ed in varj modi confidenza inspirargli. Tale
aggiundolamento riuscito; allora, _comarco_, primati, donne, vecchi e
ragazzi, i soli, che in questa guerra debbano a casa rimanere, a stuolo
al loro incontro, come se tutto fosse in pace, usciranno, e nella
sua permanenza, altro che i rustici canti del popolo, nei differenti
domestici lavori occupato, non udrassi. Ma tosto che il villaggio,
borgo o città troverassi dal nemico evacuata, le domestiche faccende a
che ognuno trovasi addetto, faransi all'istante sospendere. Ciascuno
fuori del nascondiglio dove stava celata, l'arma sua immantinenti
trarrà, ed a tormentare il nemico ed il suo retroguardo a distruggere,
accingerassi. Il secondo modo, quello cioè di fuggire ai boschi,
sempre nel primo impulso popolare sarà seguito, quante volte già
siasi il nazionale col nemico, battuto, quante volte sia un paese
aperto in pianura, e gli abitanti, dei necessarj mezzi di resistenza
deficienti. Tutti allora, senza eccezione, le poche indispensabili
suppellettili e particolarmente le loro armi e munizioni addossatisi,
nelle montagne intaneransi, ed in quelle, a guisa d'una tribù errante,
dall'amor del loro paese, dal desiderio di vendetta e dal sentimento
del loro dovere stimolati, dal comarco e primati diretti, la resistenza
fino all'estremo prolungheranno. Ed ogni volta, che loro in acconcio
cadrà di tendere insidie e ragne al nemico, non dovranno, queste
mai trascurarsi. Dalle bande quindi ajutati, una guerra senza posa
di giorno e di notte, con accanimento continueranno ed in valevole
compenso dei loro patimenti, quei vantaggi e dolcezze che da altro
non possono provenire, se non dall'approvazione del proprio cuore,
saranno per godere e delicatamente sentire. Molti villaggi, borghi
e città di Spagna nelle sopra espresse circostanze, in tal maniera
nella guerra dell'indipendenza, agirono. Generalmente parlando, quelle
città solamente agl'invasori si arresero, che sotto all'influenza
trovavansi della nobiltà e facoltosi possessori di grandi entrate.
Ma fervente la massa del popolo d'amor di patria, dopo esser cadute
per tradimento le città, i villaggi ancora difendeva, e quelli non
solo, ma da persone d'ogni età, d'ogni classe, d'ogni sesso, erano
pur anco le montagne ostinatamente difese. Fra tanti esempi che
facilmente potremmo citare, basteranno a nostro avviso, i seguenti.
Allora quando all'avvicinarsi di un distaccamento francese verso la
metà di febbrajo, conobber gli abitanti di _Villadrau_ in Catalogna,
di non poter alla sua forza resistere, nei monti detti di _Monsegne_
si retirarono. Invitati dal comandante francese di ritornare alle loro
case, risposero essere più contenti di rimanere dalla neve del monte
seppelliti, che all'odioso dominio dello straniero sottomettersi.
L'Alcalde di _Casares_ nell'_Alpujarra_ di Granata, acceso da quel
santo entusiasmo, che solo può venir dalla libertà ed indipendenza
della patria generato, sì tosto sepp'egli essere la Spagna da Napoleone
invasa, e già i Francesi per porre nel paese da lui amministrato,
il piede; sulla pubblica piazza, tutti gli abitanti del villaggio
ragunati, ad intraprendere una guerra mortale e continua contro il
nemico esortolli. A quel veemente e ardimentoso invito, un grido
generale di approvazione levossi, e tutti a seguirlo indistintamente
si disposero. Spettacolo maraviglioso! Ed il cuore d'ognuno, per duro
che fosse s'inteneria nel vedere migliaia d'abitanti, dal pallido e
cadente vegliardo fino al vezzeggiante fanciullo, tutti tutti d'armi,
vettovaglie, suppellettili necessarie, intenti a caricarsi. Chi in un
angolo le soprabbondanti vestimenta, provvigioni di casa abbruciava,
chi nell'altro, mobili, carrozze, carri e letti spezzava: chi le botti
degli squisitissimi vini di quelle contrade, rovesciava al suolo
sino all'ultima goccia. Infine tutte quelle cose, che incapaci di
trasportarsi avrebbero potuto servire al nemico, distruggeano. Vecchi,
giovani, fanciulli, donne, chi di schioppo, chi con pistole, chi collo
spiedo, chi con forcone e chi finalmente altro non avendo, con stanghe,
o bastoni, ciascuno sotto il peso della _soprassoma_, che porta sulle
spalle curvato; tutti del loro padre e loro condottiero, l'_alcalde_,
inni cantando dall'amor di patria ispirati, al seguito s'incamminarono.
Perspicace l'Alcalde al pari che intrepido, ai monti quella turma
condusse: e colà tutti coloro che atti a far una guerra lunga e penosa,
per movimenti rapidi ed arditi servir gli potevano, in truppa ordinò:
ed i vecchi, in varj appositi inaccessibili siti sovrastanti agli
stretti ed a burroni, dietro grandi massi di pietre, con sano consiglio
collocò: da dove senza muoversi, e da quelli coperti, potessero
con lo schioppo, fuori del pericolo di essere offesi, l'avversario
ammazzare. Nè solo alla difesa di quelle scabrose ed inarrivabili
positure, contentossi di rimanere, ma le moltissime volte, fino quasi
dentro _Casares_, che sebbene abbandonato e distrutto, dovettero i
Francesi per forza occupare, a dar loro molestia scendea. Volendosi
gl'invasori da quell'inquietudine liberare, d'attaccarlo con vigore
e distruggerlo divisarono, e contro a' quei dirupi, che qual base
d'operazione all'alcalde servivano, baldanzosamente recaronsi: nè solo
furono a combatterlo incapaci, ma neppur di raggiunger l'alcalde, nè la
posizione sedentaria della sua tribù, fù loro dato mai di rintracciare:
perchè quel patriota perfetto conoscitore del terreno da lui scelto
per operare, d'un'opportunità si valeva che dalla natura stessa
del luogo venivagli offerta, onde sparire dalla fronte del nemico,
senza che fosse a quello fattibile l'orme sue di seguire. Favorivalo
l'esistenza d'una spaziosa e lunga caverna, l'apertura della quale da
alti ed estesi sassi, posti a _cavaliere_ davanti, veniva in tal modo
coperta e ben difesa l'entrata, alla quale, se non per intricatissimi
e ripidi andirivieni di giungere non era permesso: perchè le sinuose
loro direzioni sviavano il nemico, non abbastanza conoscitore di quelle
aspre giravolte, ed a parte affatto opposta il facean pervenire.
Prolungavasi questa caverna dentro la rocca per lo spazio di due
miglia, e dall'altra parte per le viscere del monte passando, dava
adito ad un profondissimo _botro_. Aveva l'alcalde la sua colonia
in quella stabilita, e per mezzo delle scorrerie sui nemici, sempre
la tenne, a sufficienza di viveri provveduta. Tutti coloro, che le
marcie e gli attacchi erano inabili a sostenere, gli ammalati e vecchi
decrepiti, le partorienti ed i bambini, nella continua occupazione
vivevano di conservare e distribuire le vettovaglie e munizioni, ed
altresì di porgere a chi pativa, consolazione, alimento e medicine.
Così regolandosi quest'eroico Alcalde, per sette anni continui, cioè
fino alla pace, senza essere d'altro, che dal suo ardente amor per la
patria, perspicacia e costanza sostenuto, una maravigliosa guerra, non
men continua che mortale, a buon fine contro a' Francesi condusse. Quei
sublimi esempi di patria virtù, servano d'amara rampogna alle nazioni
vilmente inerti, che di servire a qualunque siasi padrone, purchè dai
loro abituali comodi e divertimenti non gli distolga; senza vergogna,
senza timore del vituperio si appagano. Pertanto i primati d'un paese
conosciuto non potersi difendere e compreso nel raggio strategico
del nemico, dovranno all'approssimarsi d'un suo distaccamento, ai
cittadini, di seguirli ai monti od ai boschi ordinare, sotto pena di
essere traditori della patria considerati. Tutte quelle provvigioni
d'ogni genere, che incapaci ad essere trasportate, potrebbero recare
giovamento al nemico, dovransi distruggere, e se tempo bastante
rimanga, vino, farine, pane, posti ne' nascondigli facili a rinvenirsi,
avvelenare. Finalmente, lasciate le strade piene d'impedimenti e
barricate, dal paese deserto ed interamente di ogni cosa servibile a'
nemici, spogliato, gli abitanti allontaneransi. E se alimento rimane di
che l'avido ad affamato invasore satollisi, la meritata morte da quel
pasto riceva! I publici e privati edifizi incendieransi, le fiamme ed
il fumo de' quali possano i barbari soffocare, od almeno, spargendo
nella sua truppa confusione, stanchezza, spavento, a levarsi a rumore
l'inducano. Ogni cosa insomma che al _comarco_ e primati, di opporsi
ai nemici del paese, idoneità qualunque sia per fornire, qual giusto
mezzo dalla provvidenza nelle loro mani, inviato, onde ottenere la
liberazione d'Italia, dovrà riguardarsi.

Il consiglio distrettuale e l'assemblea di cantone, nei limiti della
loro giurisdizione, all'adempimento delle già dette disposizioni
vigileranno e d'anelli intermediarj serviranno fra i municipj, e la
Giunta provinciale: in modo, che fra loro, quella scala gerarchica
esista del maggiore e minore, che attivi e agevoli le operazioni,
e che l'inferior magistrato all'implicita obbedienza del superiore,
costringa.

La Giunta provinciale eserciterà provvisionalmente il potere nei limiti
della sua provincia, ma non mai al comando e regolamento delle bande
si dovrà quello estendere. Imperciocchè non debbono da nessun'altro
dipendere se non dal condottiero supremo. I condottieri principali
sotto agli ordini del detto condottiero supremo, non dovranno dalle
Giunte dipendere. Ma se dal comandar alle bande deve astenersi, non è
però, dal dovere di fornir loro le vettovaglie e necessarie munizioni,
avvertimenti e consigli che possano abbisognare ai loro condottieri,
esonerata, non meno che dall'obbligo d'adoprare ogni mezzo atto a
procacciarle la confidenza del popolo della provincia. Dovrà della
massa di coloro che nelle cose patrie, nei cantoni, distretti, e
municipj esercitano una certa influenza, a poco a poco impadronirsi,
tutti gli avvenimenti probabili, tanto felici, quanto avversi che a
vantaggio o danno della provincia possano succedere, con avvedutezza
prevedere, amministrare pronto rimedio, e metter loro a tempo, se
sono della classe nocevole, opportuno impedimento: dovrà tutte le
risorse necessarie in una guerra lunga e penosa indagare, conoscere,
ed eziandio creare, spiare le occasioni, afferrarle, profittarne,
farle nascere, le opinioni che divergenti, possano portare una
parte dei cittadini ad abbandonare per particolar considerazione, il
partito della patria, ed anche, quando si trovasse sotto le bajonette
nemiche, a tradirla, dovrà con accortezza conciliare. Imperciocchè
gravissimo nocumento da quella divergenza potrebbe ridondare, che
ispirando all'invasore baldanza, farebbe sì che s'avanzasse e tutte
le vantaggiose circostanze dalla divisione dei ben pensanti cittadini
presentategli, con la sua forza mettesse a profitto, e senza nemmeno
dar loro il tempo di prendere lena, gli potrebbe tutti esterminare.
Affinchè tutti si armino i cittadini atti alla guerra, e che bande
si mettano nel maggior numero possibile in campo; dovrà energici
indirizzi pubblicare, sostenere con sovvenzioni d'arme e di vettovaglie
quegli abitanti che uniti in torme, abbandonato il paese, in massa ai
monti od alle selve rifuggono: dovrà invigilare, affinchè i prefetti,
presidi-comarchi, ed i loro rispettivi consigli attivamente e con
energia cooperino alla liberazione della patria, ed immediatamente ai
suoi ordini obbediscano, come pure in ogni miglior modo, lo spirito
publico animare, coll'annunzio di qualunque piccolo vantaggio dalle
bande riportato, e la cosa maneggiare, affinchè venga dalla pubblica
voce con esagerazione ripetuto e magnificato, ed in sì fatto modo
quelle speranze, a cagione della disfatta di qualche banda, per
avventura momentaneamente depresse, in isperanza di miglior fortuna
ravvivare. Nè ad inviar soccorsi alle sole bande della provincia dovrà
limitarsi, ma ben anche a quelle delle altre, che possono in libera
comunicazione con lei trovarsi, ed essere dalla giunta della loro
provincia tagliate fuori. Così le Giunte d'Arragona, e di Biscaglia,
si regolarono: mandando varie volte soccorsi a Mina, mentre quegli
nella Navarra campeggiava. Furono simili disposizioni ed indirizzi
messi pur anche da tutte le Giunte provinciali di Spagna, e da quelle
spezialmente di Badajoz, e di Siviglia, in uso: le quali dando il
grido di guerra, i trionfanti invasori a nuovo certame sfidavano e la
nazione spagnuola efficacemente destarono, che la difesa della sua
independenza continuò con tanto glorioso vantaggio. La Giunta tutto
disporrà onde si difendano i punti minacciati dal nemico e per far,
che gli esistenti in mano sua, siano dalla truppa nazionale ripresi,
darà le sue cure per l'approvvigionamento, delle piazze, rocche e
fortezze, di che trovasi la nazione in possesso: ed a tal uopo sarà
dal condottiero supremo un connestabile delegato militare, nominato,
con un consiglio di direzione, onde corpi regolari di fanti, cavalli
ed artiglieria, come colonne volanti, formare per la difesa ed attacco
delle piazze, che quindi poi in legioni ordinate, la base saranno del
nuovo esercito regolare. Finalmente a tutto il necessario provvederà,
affinchè la patria non soccomba, ed in una contesa di sì gran momento,
vittoriosa riesca. Dal condottiero supremo dovrà esser riconosciuta ed
i suoi non meno, che quelli a lui trasmessi dal condottiero principale
di provincia in suo nome inviati, dovrà puntualmente e senza obbiezioni
eseguire. Si manterrà in buona armonia ed in continua corrispondenza
con le altre giunte: e quando le tre quarte parti di ciascuna delle
quattro provincie siano libere, le giunte provinciali, alla nomina
della _consulta_ suprema procederanno. Di quanta vitale importanza
debba essere all'Italia lo stabilimento di _questa_, non v'ha chi nol
riconosca: sarà da quella, l'eccentrica generale azione della guerra,
concentrata, e la prima unica ed essenzial base diverrà dell'unione
italiana.

Male in Ispagna al suo stabilimento si provvide. Le varie giunte
provinciali recalcitranti si dimostrarono a spogliarsi della loro
autorità sovrana, per, la giunta suprema, investirne, alcune di
obbedire ai suoi editti ricusarono, altre i loro diputati con segrete
istruzioni di provinciale dependenza spedirono, in modo che avrebbe
dovuto la suprema, rimanere alle volontà di quelle, soggetta. Infine
la giunta di Siviglia si _eresse_ per propria volontà, e col voto solo
della provincia, in giunta centrale, e fù di seguito riconosciuta da
varie potenze d'Europa, ma non mai in tutte le parti della Spagna, fù
obbedita. Molte delle provinciali di aver il diritto allegavano, anzi
pur quello di formar giunta suprema centrale: le une il diritto di
anterior ordinamento affacciando, le altre quello di antico statuto,
o di convenienza de' luoghi e di tempi: dimodocchè quello stato di
oscillazione nel maneggio del potere, deve grave danno alla patria
produrre e la riescita della contesa ritardare. Onde prevenire siffatto
inconveniente, noi già abbiamo la frequente rielezione dei membri
delle giunte provinciali raccomandato, non meno che la di loro regolare
elezione, affatto dal modo praticato dagli Spagnuoli diversa. Per tanto
liberate le tre quarte parti del territorio delle quattro provincie,
calcolata la parte libera sull'estensione generale della penisola
e non in ispezialtà alle rispettive; le giunte di queste, ed ogni
assemblea di cantone invieranno uno dei cittadini che le compongono,
qual deputato alla consulta suprema: locchè porterà il numero di
quelli a ventiquattro, o ad un minore, se alcuni cantoni per via della
presenza del nemico, non saranno ancora stati constituiti. Deriverà
vantaggiosamente da questa elezione, che i deputati misti a quei de'
cantoni, non porteranno lo spirito di corpo delle loro giunte, e che la
suprema consulta eletta direttamente dalle cantonali assemblee, sarà
più popolare e potrà più da vicino, lo stato, le risorse ed i bisogni
dei cantoni conoscere. Tutte le volte che le giunte provinciali,
cantoni, distretti e consiglio municipale, un deputato, presso del
magistrato superiore nomineranno; per regolare elezione debbono
surrogargli un altro, traendone uno dall'_inferiore_ nel loro seno, ed
il consiglio municipale, scegliendo frà i padri di famiglia.

La consulta suprema sarà formata dal condottiero supremo che nominerà
il pretore massimo alla di lei presidenza, nella città di Roma. Ma se
per circostanze particolari avverrà che non possa o non convenga pel
momento alla suprema consulta, di colà stabilirsi; non tralascierà per
ciò di congregarsi od in una qualche ben munita piazza, od in una già
libera dai nemici, o ben difesa provincia.

La suprema consulta sarà di tutto il potere civile sovrano, tanto
rispetto alle provincie Italiane investita, quanto rispetto agli
affari d'Italia che han relazioni collo straniero: sarà quel suo
potere civile, il più esteso ed independente, che mai dar si possa.
Tutt'i magistrati saranno tenuti a darle ragguaglio delle operazioni
di essi: ma tal giunta non risponderà delle sue che innanzi al
condottiero supremo. Ed in ogni mese li dirigerà una esatta relazione
dello stato del paese e delle operazioni, invieralla ad ogni consiglio
municipale che ne darà convenevole e circospetta comunicazione ai
cittadini. Se i quattro quinti dei consigli municipali, esponessero
al condottiero supremo in nome dei loro amministrati, che la suprema
consulta operò contro il bene della patria e la dichiarassero priva
della confidenza publica; dovrebbe quegli all'elezione di una nuova
per intiero, nei modi stabiliti, immediatamente procedere. La suprema
consulta si rinnoverà per metà ogni anno. Saranno alla fine del primo,
tutt'i nomi dei membri che la compongono, posti nell'urna ed a sorte
ne verrà estratta la metà che in quel punto cesserà di funzionare,
uscirà dall'impiego, e le succederanno nuovi deputati dai cantoni e
giunte provinciali sù di cui è caduta la sorte del cambiamento, eletti
regolarmente, che all'istante riuniransi ad esercitare l'incarico.
Dopo del primo anno, certamente siffatta operazione di scrutinio, non
dovrà replicarsi. Ed in fatti usciranno dal corpo quegl'individui che
non furono nell'anno prima surrogati: e così d'anno in anno, sarà la
consulta, senza che lo stato ne riceva la minima scossa nè indugio, per
metà rinnovata. Così la nazione non temerà di trovare il potere nelle
mani di pochi perpetuato. Il pretore massimo, eletto dal condottiero
supremo, fuori del seno dei deputati, non durerà mai più d'un anno,
e da quello sarà sempre rieletto prima del 25 di decembre, in che
tutte quante le operazioni per l'elezione della consulta suprema,
dovranno essere affatto compite. Dovrà in quel giorno stesso, la parte
entrante prender possesso, e le bisogne del suo uffizio regolarmente
disimpegnare. Il dovere di questa consulta, i suoi lavori, il suo
scopo debbono essere diretti a soccorrere al condottiero supremo,
a discacciare il nemico straniero fuori d'Italia, e l'interno
estirpare. A tal fine, avrà ella un potere civile illimitato fino al
conseguimento dello scopo, onde fù stabilita. Ottenutolo, convocherà
solenne parlamento nazionale, cui dovrà il suo potere rassegnare, ed
immediatamente disciogliersi.

Tutti gli atti, disposizioni, stabilimenti, etc., ordinati e messi in
esecuzione dalla consulta suprema, saranno sempre provisionali e di
niun valore per l'avvenire, purchè non vengano dal parlamento nazionale
approvati.

Tutt'i poteri, e doveri nelle giunte provinciali concentrati, divenendo
queste soggette nell'atto della sua elezione, alla suprema consulta,
riceveranno da quella un regolare movimento, una direzione stabile, un
impulso uniforme e conveniente alla gran macchina dello stato. Tale
consulta comunicherà puranco coi gabinetti stranieri. Imperciocchè
divenendo l'Italia vittoriosa e forte, senza dubbio dalle potenze
vicine e naturali nemiche sue, da quelle stesse che se la vedono
debole, non le offriranno mai un soccorso per contribuire a renderla
unita, indipendente e libera, anzi sempre il nemico suo sosterranno;
riceverà, cangiata la sorte, proposte d'amicizia e di protezione.
Nulla di meno, quelle, non mai tralasceranno di suscitare tradimenti,
non meno che di appoggiare, e salvare i traditori. Persuase quelle
potenze, che la forza italiana si possa da sè stessa sostenere, e
che tutta la probabilità del buon successo inclini dal canto delle
armi rigeneratrici; invieranno agenti publici, o privati: e così
varj di quei cittadini conosciuti per essere ancora non affatto
scevri dall'infezione dell'antecedente stato di servaggio, al
danno dell'Italia assolderanno che per poco, o molto, venduti come
strumenti delle prave macchinazioni straniere, avranno principalmente
l'incarico di suscitar timori, divulgar false notizie, seminar la
diffidenza fra i cittadini, calunniare i migliori ed i preposti al
governo, e l'uno contro l'altro, quelli stimolare, sparger la beffa
sulle più belle cittadine intraprese di quel condottiero, che vero
amatore della patria, guerreggierà, non seguendo le romanzesche leggi
de' cavalieri erranti: e ciò per rapire a quel patriota l'opinione
che d'aumento notabile della sua banda sarebbe cagione e la via gli
spianerebbe a nuove luminose vittorie. Questi agenti avveleneranno con
falsa interpretazione i discorsi de' migliori fra i cittadini, e le
opere de' principali atleti difensori della patria, onde spargere la
diffidenza, confusione, malcontento, terrore e così movere fazioni,
e tener sempre gli animi divisi. Tuttocciò tenteran gli stranieri,
per essere invitati a porgere o per dare officiosamente amichevole
consiglio, e per offrire la protezione de' loro gabinetti. Saranno pure
incaricati gli stessi agenti pubblici o privati di propagare a suon
di tromba pel mondo, che il paese trovasi sull'orlo del precipizio,
di gridare all'anarchia, all'assassinio, alla violazione dei diritti e
patti, che legano gli uomini d'una stessa nazione fra di loro, abbenchè
sappian costoro che non possono in quel tempo i diritti, i patti aver
vigore, perchè cessarono, quando furono da coloro contro de' quali
l'Italia guerreggia, violati ed atrocemente conculcati, e che appunto
per lo stabilimento della unione, ha impugnato le armi. Esaurite poi
da quei prezzolati, tutte le invenzioni, i tranelli, i raggiri, le
risorse del maltalento, vedendo inutili tutt'i loro sforzi riescire,
e loro malgrado rifiorire ed acquistare novella forza l'Italia; gli
stranieri allora cangieranno direzione ad un tratto, non già l'aspetto
che sarà sempre stato di amici sinceri, ma ragionevoli e moderati,
sempre avendo la schietta e cordiale amicizia da' loro governi
decantato, sempre di perdoni e d'amnistie favellato. Per tanto prospera
addivenendo la fortuna d'Italia, quegli artifiziosi nemici offriranno
la di lor mediazione, onde fra le parti belligeranti stabilire un
trattato, con l'animo rivolto all'infame scopo d'impedire, che la
parte avversa all'Italia, venga interamente distrutta. Indebolendo
costoro la santa _energia_ degl'Italiani, addormentando colle lusinghe
la lor passione per una guerra gloriosa ed infondendo una sicurezza
fallace, dirizzeranno le cure a far risorgere il partito de' tiranni
e l'ignominia, l'oppressione, la calamità dell'Italia. Per giungere
a questo scopo, modificazioni al sistema addottato s'avviseran di
proporre, e se nessuno sarà ancor stabilito, uno che contenga il germe
della distruzione in sè stesso e che generi col tempo la confusione,
progetteranno: affinchè si possa far parere al mondo, che sia il
popolo italiano, incontentabile, e non per principj, ma solo per
ispirito d'insubordinazione e d'anarchia abbia levato rumore. E se
finalmente, malgrado ciò, non potranno nel loro intento riuscire, dopo
d'avere dato asilo ai tiranni d'Italia ed ai turpissimi loro seguaci,
dopo d'aver loro permesso di cospirare, col provvederli abbenchè
inutilmente, di denaro e tutt'altro, cercheranno almeno di potere
acquistare l'influenza sopra del nuovo governo, renderlo propenso ai
loro futuri disegni europei, e delle loro iniquità cooperatore servile.
Ed è pur questa infallibilmente la progressione generale di condotta,
che saranno i gabinetti stranieri limitrofi per abbracciare, se le
circostanze della politica del giorno, loro consiglieranno in ajuto dei
barbari e degl'italici tiranni a non intervenire coll'armi. La consulta
suprema non si lascierà dai maneggi ingannatori della politica esterna
abbindolare, sarà sempre chiara, sincera, leale nelle promesse, ma per
poco e soltanto per l'indispensabile, dovrà impegnar la sua fede. Sarà
d'uopo alla consulta coll'estero, andar per _le lunghe_, vezzeggiare
tutti coloro cui non potrà resistere, accrescere o scemare le sue
pretese, le parole o promesse calcolare a seconda del grado della sua
maggior possa o minore. Persuasa, che tutti gli altri gabinetti ad
ingannarla concorrono, e che nessuno volontieri e di buona fede, il
vantaggio d'Italia di promover desideri, dovrà, bilanciando, da tutti
quanti trarre possibil partito, ed a tutti il meno che ceder possa,
accordare.

Potrà finalmente la consulta, con molto profitto la sua alleanza
collo straniero, ma in nessun tempo, la sua independenza, unione
e libertà negoziare, che non mai, la minor diminuzione, ad onta
d'ogni, abbenchè grave pericolo, dovran sopportare. Venti millioni
d'abitanti decisi potranno conseguire e mantenere un tanto tesoro,
se non mai saranno l'aggressione dei nemici, abbenchè formidabili, a
paventare disposti. Dovransi nel periodo dell'insurrezione, tutti gli
ambasciatori stranieri licenziare. Imperciocchè accreditati presso
al governo antecedente, trovansi a tutti coloro che necessariamente
saranno del nuovo ordine di cose malcontenti, pur troppo d'opinione
congiunti e potranno, per contrariare le disposizioni rivoluzionarie,
di quei ribaldi valersi. Epperciò dovranno nel minor tempo possibile
allontanarsi dal territorio italiano. Esser dovendo, per la circostanza
del fatto, le relazioni con le potenze estere, interrotte; nessun
maggior danno, rimandando i loro ambasciatori, potrà ridondarne. Un
gabinetto cui essere amico d'Italia convenga, non troverà offesa in
questa generale disposizione: ma se all'opposto, com'è cosa probabile,
non vorrà essere amico per allora, all'insorta nazione; lascierà per
alcun tempo, e sotto altri pretesti, il suo ambasciatore, affinchè la
rovina della cosa publica, prima di partire, venga efficacemente da lui
disposta: e per ultimo ad altro quegli ambasciatori non servirebbero,
che a porre ostacoli all'andamento del governo che non fosse legalmente
dai rispettivi gabinetti riconosciuto. Pruova di quest'asserzione,
facilmente otterremo, purchè la condotta del ministero inglese in
tutte le rivoluzioni che da trent'anni sul continente successero,
attentamente si ponderi. Si vedrà quel gabinetto, durante la
rivoluzione di Francia, spedir a Parigi, lord Malmesburg, incaricato
di trattare i preliminari di una pace che non aveva intenzione di
conchiudere, ed altro non essere l'oggetto reale di questa missione
se non quello di ben da vicino lo stato della republica osservare, uno
stuolo d'agenti stabilire per rovesciarla, _centralizzare_ le mire dei
malcontenti di Francia, ed il partito inglese per la pace propenso,
abbonacciare. Ma di ciò, avuta il direttorio sollecitamente contezza,
a partire sul punto da Parigi tosto il costrinse. Nelle rivoluzioni
del 1820, e 21 in Ispagna, ed Italia, furono gli ambasciatori
dell'Inghilterra dai capi di quelle, come amici considerati, e con ogni
confidenza trattati. Eppure tutti in generale, ma particolarmente il
Signor Williams Acourt, prima in Napoli, poi in Ispagna, altro in fatti
non era che un astuto cospiratore contro la causa della libertà, che
per l'analogia colle istituzioni del suo paese in certo modo apprezzar
dimostrava, mentrechè spendendo a larga mano, comprava i generali che
comandavano agli eserciti, i semplici, gli ambiziosi, ed i paurosi
con parole ingannatrici, con promesse verbali ed inconsistenti di
modificazioni, con false lusinghe, con astute invenzioni, sotto colore
d'amicizia, sottilmente ingannava. La casa sua, punto di riunione
di tutt'i malcontenti, il centro addivenne, d'onde tutte le opere
astute dei malevoli, quasi velenosi dardi, partivano, che poi tanto
le fondamenta del sistema liberale agitarono che, con pochissimo urto
straniero fecerlo rovinare: ed al carcere, alla catena ed al supplizio
furono pur anche mandati coloro che alle parole di quel diplomatico
prestarono fede.

Nondimeno per essere delle disposizioni dei varj gabinetti d'Europa,
informati, converrà che venga un sufficiente numero d'agenti segreti,
dalla consulta spedito: i quali oltre all'illuminarla di quanto dai
governi europei rispettivamente al paese, si fà, si pensa, si dice;
con mezzi segreti, col favore delle molte persone che per l'Italia
parteggieranno, perchè ben differenti sono i pensieri dei popoli
da quelli lor governanti, possono facilitare l'invio d'armi di
munizioni necessarie alla guerra. Saranno alcuni di questi agenti,
sotto apparenza di proscritti, dal nuovo governo mandati, i quali
come persone di confidenza e d'ingegno e non conosciute per essere al
partito degl'insorti affette, sotto la figura di malcontenti, con i
proscritti arrabbiati e cospiratori si dovranno mischiare, e coi mezzi
più acconci, sempre divisi mantenerli ed al governo tutt'i loro fondati
progetti, le loro mire, azioni, appoggi e determinazioni raccontare.
Dovransi oltracciò inoltrare presso i governi, e la maggior possibile
confidenza loro sforzarsi di guadagnare: e da quelli, tutto quanto
possa essere utile a sapersi dalla consulta e condottiero supremo,
ritrarre. Alcuni altri sotto maschera di negozianti che per sola veduta
di commercio, abbiano il domicilio cambiato ma del nuovo governo in
apparenza moderati partigiani, maneggiando vistosi fondi, buon credito
nel paese, in cui dimorano acquistando, rettificare dovranno nella
publica opinione gli errori in che malignamente cercheranno i nemici
di farla cadere, difenderanno la sua riputazione, dalle calunnie, con
dignità, in mezzo ai varj partiti esistenti, si manterranno, e traendo
dalla posizione in che si trovano, il miglior partito per dar vantaggi
alla patria; potranno pure servir d'anello di comunicazione fra i
due governi, se l'acconcio venisse di trattare in favore d'Italia, ed
importanti non meno che utili negoziazioni proporre.

Omettiamo di parlare delle alleanze coi popoli che si fossero fin
d'allora dalla schiavitù liberati, dei soccorsi che somministrare e
ricever si possano, perchè, eccettuando gli Americani e forse i Greci,
nessuno rinviensi quest'oggi, politicamente parlando, in tal posizione.
E per ultimo non è nostro intento di entrare in tutt'i particolari sù
de' quali dovrà il governo provvisionale intrattenersi: ma solo alcuni
de' più indispensabili, accennammo per norma, di quei magistrati cui
spetta drizzare l'Italia per la via della gloria, onde perpetuare la
unione, independenza, e libertà, cui consacriamo le nostre cure.



CAPITOLO XII.

OPERAZIONI COMBINATE DI VARIE BANDE. — COMBATTIMENTI.


Abbenchè sia da noi già stato altrove stabilito che una banda,
rispettivamente alle speziali sue operazioni, debba della massima
independenza godere; nulla di meno avvertire fa d'uopo, che in
moltissimi casi, quando su di tutta la superficie della penisola,
troverassi il numero di quelle aumentato non poco sarà, di mestieri che
molte bande, o dello stesso cantone, distretto e provincie od anche
delle altre partizioni della penisola, operino concordemente, ed a
vicenda sostenendosi in qualche attacco fra di loro combinato, porgansi
amichevolmente la mano. Imperciocchè se debbesi costringere il nemico
ad allontanare i suoi distaccamenti dalla sua base militare, come sì
fatto risultamento potrebbesi da una sola banda ottenere? Ella è dunque
indispensabil cosa, che frà loro i condottieri accordandosi, tutti
uniti al vantaggio della difesa causa, concorrano. Non perderebbesi
per avventura, nel caso contrario la vittoria: ma la contesa, d'assai
più lunga durata e più pericolosa addiverrebbe. Per la qual cosa
dovranno i condottieri d'un distretto, cantone, o provincia, per quanto
il possano, fra di loro comunicare. E quando l'occasione di eseguire
combinate operazioni, avverrà che lor si presenti: agir dovranno
sotto la direzione di un solo, ch'eleverassi a condottiero in capo
del distretto, cantone, o provincia, cui tutte le bande dovranno,
per quella data operazione e finattantocchè il medesimo, loro non
restituisca la libertà d'operare a loro talento, implicitamente
obbedire. Nulla di meno quel condottiero principale nel distretto,
cantone, o provincia, non dovrà mai riunire queste bande per farle,
come truppa regolare e con evoluzioni, agire sulla fronte del nemico,
etc.; ma limiterassi ad indicar loro ciò che debbano operare, la via da
percorrere, i punti da difendere, la parte insomma che debbano avere
nella generale combinazione, al condottiero fuggirà la presunzione
di riputarsi tattico generale e di credere ch'ei possa da eguale
ad eguale, misurarsi coi comandanti nemici, nè a quei delle colonne
volanti e delle legioni, si dovrà pareggiare. Guerreggiare contr'essi
come un buon condottiero ed a sole operazioni di banda limitarsi; ecco
il partito cui deve appigliarsi: egli pensar deve di esser soltanto
un direttore generale strategico di quelle bande, che trovansi nel
circolo dov'egli è stabilito, e di esserlo unicamente pel tempo in
che grandi operazioni, quando la concorrenza di tutte le bande o di
molte di esse potrà servire vantaggiosamente alla patria, si dovran
combinare. L'esecuzione de' suoi ordini sarà sempre alle circostanze
locali soggetta, in che possa la banda avvertita d'agire, trovarsi: e
se quelle mettessero all'obbedienza forte insuperabile impedimento,
a tempo faranno il condottiero in _capo_ avvertito, onde a ciò di
provvedere non tardi. In somma sarà sempre ogni banda, in tutto quanto
si riferisca alle sue speziali operazioni, del tutto independente: ma
ogni qualvolta si tratti d'operazioni combinate, di movimenti generali,
dovrà dal condottiero in _capo_ implicitamente dipendere. Da quanto,
per le bande nei distretti, cantoni e provincie, abbiamo già detto, se
ne può dedurre ciò, che si debba per l'estensione tutta della penisola,
stabilire. Dirigerà un condottiero supremo, i condottieri principali di
provincia, cantone, etc., in tutto quanto siano le operazioni generali
d'Italia, per richiedere, e comanderà alle bande tutte, quante volte
dovranno combinatamente operare. Dovranno il condottiero supremo ed i
condottieri principali avere sotto ai loro ordini uno scelto e numeroso
consiglio di direzione della guerra, che, non secondo il sistema degli
stati maggiori e della tattica dovrà regolarsi, ma secondo quello
di guerra leggiera irregolare per bande, di un genere pei militari,
da quello a che sono stati usi per lo passato, del tutto diverso,
e d'un assai più delicato, grave e faticoso servizio. Epperciò una
trascendente perspicacia ed attività, saranno per chi alla direzione
della guerra trovasi destinato, qualità necessarie. Il condottiero
supremo nei distretti, cantoni e provincie, a misura che sorgano bande
in quei circondarj, nominerà i condottieri principali di esse.

Indicato avendo la generale direzione da seguirsi nelle combinate
imprese, accenneremo che entrando una colonna nemica in una provincia,
debbono per molestarla da ogni parte con buon successo, mettersi per
le mosse, fra di loro previamente i condottieri d'accordo: e se con un
attacco generale e violento, dal doppio della sua forza, potesse con
celerità essere tal colonna totalmente distrutta; dovrebbero allora
le bande piombandole combinatamente addosso, stritolarla e farla
così dall'italica superficie in un punto sparire. Ma per giungere a
tale scopo, dovranno senza dubbio le bande essere dal condottiero
supremo con maturo calcolo e previdenza dirette. Resterà sempre a
quell'uomo fitta nella memoria, quella massima di guerra da tutt'i
maestri dell'arte, ripetuta: «Non basta potere con vantaggio il nemico
assalire, ma debbesi da un buon capitano eziandio conoscere il modo di
mettersi de' suoi attacchi al sicuro.»

Quando volgesi alla tattica il pensiero, è incontrastabile, che
venga dai combattimenti la guerra, constituita, e dalla riuscita di
quelli la sorte degl'imperj dipenda. Non è per altro men vero, che
potrebbesi nel sistema della guerra d'insurrezione per bande, senza
essere indispensabile di combattere, un uguale risultamento asseguire.
Pur non dimeno, sia per un errore di calcolo nelle marcie, o per
false informazioni, o per isbaglio, o per fretta di più prontamente
la quistione decidere; quante volte nel combattimento un vantaggio
reale apparisca, sempre accade che in questa guerra pur anco vi siano
_affrontate_, più rare al certo che nelle altre guerre, ma che scansar
non si possono. Dato per tanto non essendo al condottiero d'evitare
il combattimento, dovrà in modo regolarsi di non venire a quello,
purchè non si conosca forte abbastanza, anzi superiore all'avversario,
ne' mezzi. Non mai dal condottiero ardito e prudente sarà temuto,
nè disprezzato il nemico! Le varie bande riunite, saranno in corpi
divise, onde reciprocamente al tempo della mischia si sostengano. Non
mai dimenticando la massima, che fra i due guerreggianti, quegli sarà
sempre vincitore, che, l'ultimo, avrà truppe fresche da far entrare
nella lotta; terrà sempre il condottiero preparata una valida riserva,
pel combattimento, all'uopo, rinforzare. Se l'esito sarà conforme
alla brama, egli eseguirà quanto insegna Tucidide al libro ottavo:
«La miglior arte non è quella che dà la vittoria, ma quella che ne
fa bene usare. Se il nemico si spaventa e fugge, inseguitelo.» Non
trascurerà parimenti quanto vien dall'insigne Polibio al libro quarto,
riferito: «Non basta l'avere spaventato e sorpreso il nemico: fa d'uopo
inseguirlo senza posa e non arrestarsi agli assedj.»

Se poi, di quanto abbiam supposto, conversamente accadesse, e che al
numero, alla forza delle disposizioni o ad improvvise ed incalcolabili
congiunture che non di rado alla guerra si presentano, o nell'amara
necessità di cedere si rinvenisse per la sconfitta; il condottiero non
dovrebbe per ciò disperare. Fù come abbiamo già detto, il generale
_no importa_ quello, che salvò la Spagna: vuo' dire la calma e la
costanza dopo i maggiori disastri. Pur ch'abbia il condottiero prima,
della zuffa, la savia precauzione usata di dare ai volontarj, a luogo
e giorno determinato, la posta ed il sito del ritrovo, prima dello
sbandamento, ad ognuno chiaramente indicato; tosto chè siano quelli
a siffatta operazione ammaestrati, non dovrà le funeste conseguenze
di una rotta, come la truppa regolare, temere. Non prostrerà, nemmeno
per un istante, le forze dell'animo, anzi, onde, qual nuovo Anteo,
maggior di prima rinascere, dovrà l'azione, l'energia raddoppiare.
Non dev'essere la nostra guerra, nè rispetto alle fisiche operazioni,
nè all'influenza morale, come la regolare, della quale Federico
Secondo favellando, disse a ragione: «Essere una battaglia perduta,
d'assai meno funesta pel numero degli uomini, che costa, quanto
pel cattivo effetto e lo scoraggiamento, che negli animi produce.»
Secondo il sistema delle bande, nessun funesto effetto hassi mai da un
rovescio, a paventare. Decisi fermamente i volontarj ed i condottieri
a volere la guerra fino all'intiero adempimento del gran progetto,
prolungare, oppure a intrepidamente morire; senza avvilimento, anzi
lieti, al sito del ritrovo, individualmente accorreranno e di bel
nuovo con sorprendente attività ed energia, il nemico al più presto
ricomincieranno a molestare, traendo profitto dalla trascuranza propria
ordinariamente di chi è vittorioso e si crede perfettamente sicuro.
Perlocchè sforzeransi di, minacciosi, all'improvviso tosto ricomparire.
Non avranno i volontarj della patria da temere i contadini delle
campagne, e d'essere nel loro cammino da quelli perseguiti, denunciati,
od assassinati, come loro succederebbe, se in paesi stranieri
regolarmente guerreggiassero e come ai Tedeschi ed ai loro partigiani,
dovrà in Italia senza fallo succedere. Imperciocchè lo spirito del
popolo, sarà dovunque alla causa della patria favorevole: a pro di
coloro che a rivendicare i suoi diritti ed a stabilire la sua felicità
si accinsero, che per lui soffrono e per lui combattono, anzicchè
per gl'ingordi oppressori del bel paese, mostrerassi infallantemente
disposto. Nei sette anni, della guerra dell'independenza, non puossi,
neppure con solo esempio citare, che uno Spagnuolo armato, sia stato
dai contadini tradito, o per falsa informazione in mano ai Francesi
mandato! Nè le promesse, nè le minaccie potevano, a tradire la causa
nazionale, l'altiero Castigliano condurre. Nulla gli era più gradito
che la vista d'un suo cittadino armato di schioppo, di spiedo, di
picca, oppur di scure in cerca dei Francesi: egli, come sagro dovere
considerava d'informarlo del luogo dove potrebbe rintracciare i suoi
compagni, dove frattanto gli sarebbe facile di rinvenire uno o più
Francesi, del sito conveniente per nascondersi, e prendere la mira,
onde senza suo proprio rischio, svenarli, e per ischermirsi dal loro
inseguimento, il sentiero migliore non meno che il tempo al buon
successo, favorevole, cortesemente indicargli. In somma, tutte le
informazioni atte a distruggere il nemico e la salvezza dei patrii
compagni ad assicurare, furono da quelli, esattamente fornite. Quante
volte, col più grande pericolo della vita, non hanno i contadini, nelle
proprie case nascondendole, intiere bande salvato! Quanti contadini
per aver dato asilo a qualche lor fratello; fuggiaschi, le fiamme dal
tetto delle loro case sboccanti, non vedevansi da lunge con istoica
tranquillità e disprezzo contemplare! E per avventura dovrem supporre
differenti dallo Spagnuolo i contadini d'Italia, tosto che intendano
che per loro si combatte, che non per causa forestiera ma italiana,
impugnarono i loro fratelli le armi? Che pel bene di tutti, e non di
pochi, fù l'irruginito brando sguainato? Vorremo insensati, o nemici
di loro stessi supporli, col credere che lo straniero, o gli sgherri
degl'interni tiranni, e non coloro che la loro persona, proprietà, vita
e lumi, al bene di tutti gl'Italiani onninamente consagrarono, fossero
i nostri contadini a favoreggiare inchinevoli?

Ma se alle volte, inaspettate congiunture la forza del numero e
l'abilità dell'avversario esser non potranno dal condottiero superate,
ciò, nel caso, che quegli le qualità richieste possegga, per rarissimo
devesi riputare. Nulla dimeno, si trovino i volontarj nell'acerba
necessità di cercare individualmente lo scampo. Non rade volte avverrà
che mossi da quel santo fuoco, nel cuore de' virtuosi, dall'amor
patrio destato, maggiori del volgo degli uomini si mostreranno, e di
molto, la forza nemica, sebbene di loro in numero assai più forte,
con luminosissima gloria sorpasseranno. L'eroico esempio offerto
dai volontarj di Mina nel combattimento che avvenne nelle vicinanze
di _Lleria_, può l'assunto da noi, evidentemente provare. Avevano i
Francesi di bel nuovo guarnigione in _Estella_, e quella di _Logrogno_
in considerabile modo aumentata. Occupava Sanatier con tre mila fanti
e quattrocento cavalli _los Arcos_; il generale Brun con due mila
fanti, e due cento cavalli santa _Cruz_, e Reille con una divisione di
egual numero, aveva presa posizione a _Llegaria_. In tal modo situati,
un perfetto circolo formavano. Mina era ad Aguilar, e nessun altro
mezzo di salvezza se non quello di rompere le linee del nemico, dalla
parte dov'era situato Reille, gli rimaneva: tentativo arditissimo,
che ad essere il suo retroguardo dalle due altre divisioni nemiche
attaccato, oltremodo esponeva. Abbenchè pericolosa una tal evoluzione
considerasse, pure non vedendo altro scampo; pure all'oggetto di
passare il ponte di Murieta che, a men d'un miglio, giaceva da Reille
distante, in oscurissima e piovosa notte, la sua marcia intraprese.
Trovossi al primo apparir dell'aurora con solo quattro compagnie,
avendo le altre, per cagione dell'oscurità e dirottissima pioggia,
la strada totalmente smarrita, nè fù a' numerosi stracorridori in lor
traccia mandati, fattibile di rinvenirle. Abbattutosi all'improvviso,
marciando verso _Abarzuza_, in un distaccamento di venti usseri che
scortavano _Salmerie_, con soli dodici uomini, alla prima giunta,
l'attaccò: vinse il convoglio, fece nove prigionieri, tre dei quali,
colle sue stesse mani, quando aveva già il suo cavallo ferito:
gli altri undici tutti furono da lui trucidati. In questo atto, i
battaglioni comandati da Cruchaga, che avevano per isbaglio dal cammino
deviato, trovaronsi sulla strada di _Lleria_ bagnati, stanchi, quasi
a piedi nudi, e furono da un forte distaccamento di cavalleria nemica
scoperti, che gl'inseguì, ed in luogo assai per loro svantaggioso,
li raggiunse. Misersi tosto quelli in atto di combattere, s'appiccò
la schermaglia, e seguinne un'accanitissima zuffa. Era il fuoco
degli Spagnuoli spaventevole, sforzavasi la cavalleria francese, ma
inutilmente, a caricare: erano i battaglioni di Mina impenetrabili.
Una nube di palle, al retro fronte la costringeva; ma per avventura
tristissima, sono le munizioni di quei prodi del tutto esauste! Un solo
cartoccio più non posseggono! Dovranno essi dunque al numero più forte
degli aggressori sottomettersi? Privi d'armi di getto, come potranno
dalla cavalleria difendersi? L'ostinazione, il coraggio e l'amor di
patria provvedono a tutto! Se mancano le armi di getto, verrassi
all'urto con le armi da presso; messo lo schioppo, a traccolla, o
gettatolo a terra, ogni volontario, la bajonetta brandisce. Uno o due
nemici da trucidare, in prima cogli occhi trasceglie, furioso quindi,
contro quelli si avventa; slanciandosi arrabbiato dentro misura,
da sotto, i colpi delle lancie schermisce, cento ripetute volte la
bajonetta con mirabile, prestezza nel corpo del cavallo conficca,
l'insanguinato palafreno, al suolo col lanciere trabocca: fà questi
per isvincolarsi dalle staffe e rialzarsi a difesa, ogni sforzo, ma
quel volontario gliene toglie il destro, gli si avventa sopra e con
le ginocchia, il petto gli preme, ed il micidiale strumento gli figge
e rifigge profondamente nel seno. Se con incredibili sforzi, con le
braccia, con le armi avviene al Francese di poter tuttavia far difesa,
nello Spagnuolo si fà maggior la ferocia, considerazione nessuna è
ormai capace di contenerlo, colpi mortali, dall'avversario con rovello
vibrati, sopporta anzicchè para: insanguinato dispregia le sue ferite;
ma si ramucchia coll'inimico, pungendolo, mordendolo, calpestandolo, e
con le mani la bocca squarciandogli, o strozzandolo isfogato nel sangue
straniero un odio nobilissimo, al cadavere sottoposto aggomitolato,
come leone vicino a morte ruggendo, esala l'ultim'aura di vita.
Trecento volontarj in questa disastrosa ma insigne fazione, con bella
gloria perirono: ma fù, in poc'ora, la colonna nemica intieramente
distrutta. Questo si fù il disastro più grave sofferto da Mina durante
tutta la guerra, ma molto minore di quanto dovevasi in lotta così
diseguale temere.

Trovavansi poscia il sovra esposto abbattimento, i volontarj da due
giorni digiuni, di pioggia, e di sangue fino al collo, bagnati, scalzi
e senza munizioni: ma noi diceva il condottiero costante, siamo veri
e buoni Spagnuoli, ogni cosa facciamo, tutto con pazienza soffriamo
ed anche pene maggiori, per la nostr'amatissima patria siamo preparati
a volonterosamente soffrire! E con un generale forte e cordiale _viva
l'independenza_, che per tutta la colonna, con dimostrazione di vero
giubilo risuona, tutti rispondono all'allocuzione del prode.

Ma perchè andremo le relazioni dei combattimenti degli stranieri
quà e là raccogliendo, se a mille gli esempj potremmo noi ricordare
di conflitti con somma gloria intrapresi, con fermezza eroica,
dagl'Italiani a lunga pruova durati? Sì: da quegli stessi italiani
che per funesta fortuna prodotta da una sinistra concatenazione di
casi: pell'ignoranza o la malvagità di coloro che al maneggio della
somma delle cose inopportunamente trovavansi, in Novara, ed in Rieti,
con la vituperevole taccia di codardia, alle armi degli oppressori
soggiacquero e furono a rifuggirsi e cercare amarissimo pane in terra
straniera, costretti. Divenuti oggetti di stima e di compassione,
tapinavano quegli oppressi in Ispagna. Quegl'Italiani, di essere
più alle parole che alla guerra, gagliardi, dalla malignità sempre
atroce al soccombente, accagionati, sebbene in piccolo numero, nulla
dimeno, allora quando in Catalogna, per la difesa della libertà di
Spagna guerreggiavano, tanto brillavano nei numerosi e quasi continui
combattimenti, che prima contro agli apostolici soli, e poi contro
ai Francesi di tal ciurmaglia protettori e collegati, sostennero,
che ammirazione di tutti, benedizione dagli amici della libertà,
puri allori e perenne gloria, nella sventura acquistarono! Vorremmo
pur tutti narrare i fatti, che tanto in quella guerra gl'Italiani
illustrarono, onde con esatto racconto forse da altri sin oggi non
intrapreso, la memoria di quegli esuli, a posteri raccomandare. Ma
nostro scopo non essendo ora di narrar quelle pugne, lasciamo ad
ingegno migliore del nostro, vasto campo a trascorrere. Onorevole
impresa sarebbe pur questa, e della fama lesa a torto d'un branco
d'Italiani, onesta vendicatrice. Noi sarem paghi di accennare i
luminosi e mai sempre memorabili conflitti di Lladò e Llers, onde
con la commemorazione di queste due sanguinose giornate, che tanto il
valore degl'Italiani proscritti palesano, il nostro capitolo sù tal
soggetto, con patrio elogio compire.

Era Mina in quel tempo, comandante generale della Catalogna, e come
quello, che un Montecucculi, un Federico, un Massena già credevasi
addivenuto, perchè stato eragli conferito il grado di generale in capo,
voleva trinciarla da grande ed in modo tutt'affatto diverso operare
da quello che, quando sovrastava ad una banda, trasse tutta Europa in
ammirazione, ed avevagli una così abbondante messe d'allori acquistata.
Lungo tempo però non tardarono gli avvenimenti a persuadergli, che non
dal grado ma solamente da lungo studio e meditazioni, la capacità d'un
generale proviene. Imperciocchè, quando contro a generali anziani,
ammaestrati alla scuola del miglior capitano del secolo, fu astretto
a comandare grandi evoluzioni di linea; quantunque di elementi che lo
avrebbero reso di molto superiore al nemico, abbondasse, da poco saggio
timore sorpreso, al nome solo di francese, allibbiva, di mantenersi al
loro cospetto, l'animo non più sentia la forza. Mina le armi nemiche,
qual bambino che sogna mostri, paventava, e come dal veleno della
_torpedine_ istupidito, di cozzare con la lor possa, più non osava:
e quell'antica, pura gloria che degno lo facea di venerazione, in tal
epoca, con viltà somma macchiando, rannicchiossi dentro Barcellona, e
colà rinchiuso, oppresso dalla paura che la conoscenza della propria
incapacità aveva in lui generato, non meno che da una smodata ambizione
stimolato, e l'animo suo dai popolari sarcasmi trafitto, a trattare
col nemico e a consegnargli la famosa piazza (che gli fù dalla patria
confidata, onde fino alla morte la difendesse), dopo una lunga e
vituperevole inazione, si spinse. Ma per eseguire il suo dispregevole
divisamento; gli era d'uopo, da quel paese, tutti coloro che avrebbero
a lui resistito coll'armi, per mezzo d'insidiose macchinazioni,
allontanare. Era in fatti Barcellona, di viveri provveduta, senza
breccie aperte, senza regolare assedio, ma semplicemente con pochissima
forza, bloccata, senza peste, senza diserzione, senza insurrezione:
anzi presentava il raro fenomeno di una fortezza, gli abitanti della
quale, volevano resistere. Ma il Generale puntate le artiglierie della
cittadella contro la città, ad arrendersi per forza, sotto pena di
essere da lui stesso incendiati, e mandati a soqquadro se altrimenti
pensassero, loro imponea. Agevol cosa riescir doveva la difesa di
quella piazza, capace per sè sola di sostener lungo tempo la libertà
della patria. Pertanto Mina, onde il suo pericolo scemare e liberarsi
dalla soggezione e contrasto di tutti coloro, che non fuggirsene,
com'egli pensava eseguire col sagrifizio dell'onore, ma la piazza fino,
all'ultimo, volean mantenere o morire. Immediatamente formando una
colonna composta tutta di animosi guerrieri, frà i quali brillavano
gl'Italiani, come al solito in prima linea, ordinò che si mandasse, e
sotto il comando del colonello Fernandez, a rinforzare la guarnigione
di _Figueras_, mandolla. Ch'ei volesse pur anche far cadere quella
piazza in potere del nemico, fece credere a molti. Siccome si trovava
quella piazza in penuria di grasce, così un rinforzo di bocche non
potea che distruggere le poche residuali vettovaglie ed affrettarne la
reddizione. Pertanto la spedizione di mille ottocento uomini si mosse,
dal menzionato colonnello comandata, di cui erano integrante parte
gl'Italiani sotto gli ordini del prode colonnello Pacchiarotti che
alla testa di tutti marciavano, preceduti da una compagnia d'uffiziali
col titolo di sacra, che apriva la via: ed in tutto, un battaglione di
granatieri, ed un piccolo corpo di lancieri, formavano.

Imbarcatasi nel porto di Barcellona, i militi sù varj piccoli
legni disposti, in gran silenzio, per mezzo alle navi francesi che
bloccavano il porto, senza essere scoperti felicemente passarono, e
giunsero salvi nelle vicinanze di Arenz de Mar dove approdarono. Tosto
sbarcata la divisione, immediatamente s'imbattè in otto carri del
nemico guidati da soldati del treno, che dal trasporto di vettovaglie
retrocedevano: furono gli uomini sugli stessi legni della spedizione,
inviati prigionieri a Barcellona, e distrutti quei carri, i cavalli
all'uso della colonna, si destinarono. Scelse Fernandez la via dei
monti, sempre ad un piccolo corpo di truppe più sicura e vantaggiosa,
ma non potè però la molestia di varie colonne francesi, evitare, che
uscite da Matarò, ed altre piazze, per otto continui giorni, e notti
alla sua colonna un solo momento di riposo non lasciarono: tal che per
ottenere che un momento la divisione potesse tranquillamente respirare,
sempre doveva il comandante ben calcolare il tempo delle fermate
del nemico, e di quelle, con avvedutezza, per dar ristoro alla sua
truppa, valersi. Ciò non pertanto, abbenchè lassi dal lungo e penoso
cammino, dalla fatica e dalla fame appenati, giungono finalmente alla
distanza d'un miglio da Lladò, paese in che seimila franco-apostolici
comandati dal campione dell'_ultracissimo_ generale Damas, collocati
sù di due linee, in favore dei preti e della oppressione, campeggiano.
Arresta Fernandez immantinente la divisione, la forma in colonna
d'attacco, esegue la sua marcia in avanti. Tosto giunta sopra un
ristretto piano, sulla cima d'una vetta in fronte al nemico schierato
a poca distanza in battaglia, ma da un profondo burrone frammezzo
esistente, separato, ordina il comandante alla truppa di nuovamente
arrestarsi. E per contenere le già indicate colonne inimiche, che
senza posa lo inseguono, schiera, _fronte ad dietro_, in attitudine
offensiva, i lancieri alle spalle, divide in tre colonne d'attacco la
truppa, ed al segnale da tutti gli oricalchi ripetuto, scagliasi nel
_botro_ la divisione alla carica, l'erta salita della parte opposta,
di gran corsa rimonta. Raggiunto il nemico, urtansi le schiere;
cozzano con violenza fra loro le avverse bajonette, ed ecco tosto
i franco-apostolici dalle due fortissime posizioni scacciati, e per
opera de' soldati della costituzione che neppure un colpo spararono,
eccoli strettamente inseguiti. Ma non è compiuto il trionfo: incontra
l'ala destra una forte resistenza alla terza posizione, dove trovasi
Damas, che inviperito, fuori di sè, fa ogni sforzo pel ristabilimento
della giornata. Richiama Fernandez la cavalleria, ed in ajuto dell'ala
in pericolo, di galoppo la invia. Giunti di volo da presso al luogo
dove ferve la mischia, danno i lancieri ai loro cavalli carriera, ed
una gagliarda carica spiccano a fondo: spingonsi con furioso impeto
addosso, rovesciano; calcano, incalciano ed oltrepassano finalmente
la linea. Dieciotto lancieri italiani cadon trafitti, ma la vittoria è
pur d'essi. Sbaragliati in tutte le lor positure i Francesi, veggonsi
i malcondotti vessilli dell'inquisizione e dei gigli, ambi contro la
costituzione riuniti, cadere vinti nel sangue ed ecco l'Italo-Ispana
colonna, del campo di battaglia meritamente signora. Mille cinquecento
uomini del nemico, in quest'azione perirono: il generale Damas si
salvò per fortuna. Imperciocchè di cadere fra le mani de' lancieri
italiani, che lo stringevano in mezzo, corse non leggiero pericolo, e
dovè ad un errore, lo scampo. Due de' suoi ajutanti di campo furono
colpiti, uno morì sul posto, e l'altro rimase gravemente ferito, e
parimenti un gran numero di uffiziali. La compagnia sagra combattè
con maraviglioso ardimento e ferocia. Sempre la prima ad affrontare il
nemico senza intrattenersi a rispondere al suo fuoco, impetuosamente
alla bajonetta se gli avventava, quei soldati a brani tagliava, e
dopo grande rovina, delle lor posizioni s'impossessava. In questo
modo, mille ottocento uomini affaticati, e da otto continui giorni
di sole radici e poche patate in fretta prese lungo il cammino nei
campi, miseramente nutriti, non avendo avuto altro che semplice
acqua per bere, male armati ed equipaggiati, misero più di sei mila
franco-apostolici di truppe fresche, fornite a profusione di tutto
il necessario, in piena rotta, a gran vergogna di essi, e sopra tutto
del generale, che per restaurare i roghi di Torquemada, ed il tiranno
Fernando, con tanta imperizia pugnava. Ottenner la fine dei forti,
combattendo, molti uffiziali italiani fra i quali il prode colonnello
Pierleoni, ed il capitano Francescoli: spezzata una gamba da una palla
di schioppo al capitano ajutante maggiore Ruggeri, questi a togliersi
piuttosto da sè stesso la vita determinossi, che lo scorno di cadere
nelle mani d'un abborrito nemico, a sopportare. Sciolto ad aperto
il suo sacco, ne tolse con maravigliosa serenità un rasojo, poscia
gl'infuocati sguardi verso la cara Italia volgendo, colle estreme
parole, dicea: «A voi, o Italiani, che in patria rimaneste, e per cui
moro, a voi tutti impongo di vendicare la mia morte sui tiranni che me
l'han cagionata. Sia così la mia vendetta da voi col sangue compita,
e la vostra futura felicità per secoli assicurata!» Ciò proferito,
coll'accento di cordoglio e d'intrepidezza, l'arma fatale gli aperse
le vene della gola, e col volto, co' pensieri all'Italia rivolti, a
poco a poco abbassò gli occhi, che si velavano e perduto ogni senso,
lasciò l'ultim'aura di vita. Il capitano Cassano e molti altri furono
sul campo gravemente feriti. Ma benchè grande sia stato l'eccidio delle
genti libere, fù però a quello degl'invasori, di gran lunga inferiore.
Congregò Fernandez nella notte i capi di corpo: la sua volontà di
marciare sopra Figueras e di penetrarvi, com'eragli stato dal generale
ingiunto, fè lor manifesto. Ma si opposero a tal proposta i comandanti,
lo stato derelitto della loro truppa, inopportunamente in lor sostegno
allegando. Il solo colonnello Pacchiarotti affermativamente rispose,
dicendo che il corpo italiano, a marciare il primo, e ad aprire colla
forza la via, come quello ch'era sempre ad attaccare ed a ferire
disposto, volontieri offerivasi. Ma ben calcolata la cattiva volontà
degli altri, pensò Fernandez di rimanere sul luogo, rinunciando al
progetto anteriore.

Mossasi all'indomane alle quattro del mattino, la divisione alla volta
di Llers, riconobbe al suo arrivo colà, con forte maraviglia, che il
nemico trincerato, e da rinforzi ricevuti da Gerona e dalle frontiere
della Francia ascendenti a circa dieci mila uomini di truppa fresca,
con due nuove batterie d'artiglieria, notabilmente fortificato,
sulla difensiva in _allunata_ positura, fermo attendealo. Non potè
Fernandez, per la ristrettezza delle sue forze, dal precedente fatto
d'arme appiccolate, che una sola colonna d'attacco formare, ed al fine
di pervenire ad aprirsi un varco, stretta in massa, contro al centro
nemico la spinse. Dalla loro linea semicircolare, cominciarono i
franco-apostolici un ben nutrito fuoco generale dalle corna al centro.
Trovavasi la divisione al punto dell'angolo, dove dalle ale i tiri
ad angolo retto, in forma di croce s'intersecavano, ma imperterrita,
l'armi in riposo, con truce calma, in avanti seguiva. Giunta la testa
alle trincee, vede che quelle superar non si possono, e guadagna
uno scampo. Laonde or da un canto, or dall'altro, nell'incertezza
di poter rinvenire un passaggio, in obliqua ed incerta direzione si
avvia: piovono di continuo da ogni lato le palle, e quella pioggia
vieppiù si addensa. Cadono ad ogni passo i morti, e i feriti sulle
ammucchiate membra degli estinti compagni superstiti, in un caldo lago
di sangue con ribrezzo camminano, e sopra un orrido impasto di terra e
di cadaveri, que' guerrieri sdrucciolando, si veggono, ad ogni passo
barcollare: spargesi lo scoraggimento in quella picciola truppa, ed
impaurita alfine a titubare incomincia... oscilla... finalmente si
sbanda: la colonna è sparita! Ma fermi e soli gli Italiani rimangono!
Soli! Perchè in piena rotta, sparpagliatisi i loro stranieri compagni,
volgono unicamente alla propria salute il pensiero e gli sforzi. Gli
Italiani proscritti, all'opposito, forti, senza speranza d'appoggio,
formano con serena intrepidezza il quadrato, ed al terribile fuoco
dell'avversario, con altro uguale rispondono. Invia ben tosto Damas
un ajutante di campo ad intimare la resa, e a dar loro di finir la
contesa, salutare ed amichevole consiglio. Essi fieramente rispondono
di non volere i patti della resa accettare, ma imporre: che il quadrato
ben deciso a morire, non cesserà di guerreggiare, finchè accordate non
vengano, senza diminuzione, quelle condizioni che siano dal colonnello
Pacchiarotti per essere al Damas manifestate. Ritorna con la risposta
l'aiutante di campo al quartier generale: nessuno, per attaccare
quel branco di valenti a corpo a corpo, bastevole ardimento possiede.
Tutti non dimeno da lungi cercano di annientarlo, perchè negli estremi
momenti, ancor lo paventano. Ma non peranche Damas, dalla paura del
giorno antecedente, ristabilito, ed oltracciò giovando ad esso lui
di sciogliere quel gruppo che ultimo, per la difesa della libertà
spagnuola, rimanea nella Penisola, e compire la guerra di Catalogna;
d'ammettere i patti che gli Italiani vogliono e non implorano, senza
indugio consente. Pertanto onorevole capitolazione, da quegl'intrepidi,
al generale franco-apostolico fu strappata, anzicchè ottenuta per
generosità militare. In quel memorabile combattimento, gli uffiziali
morti ed i feriti, furono moltissimi: e trà i primi si annoverano il
capitano Lubrano, Amati e Bussi; fra gli ultimi i colonnelli Fernandez
e Pacchiarotti medesimo. Il primo ristabilissi, ma l'altro colpito
in un ginocchio, sì pel difetto degli opportuni servigi che per la
violenza del male, frà gli acuti dolori della ferita e fra quelli anche
più acuti dell'anima italiana, nell'ospedale di Perpignano, inviando
egli pure coll'ultimo respiro, l'estremo pensiero all'Italia, degno di
tanta patria morì!

Queste morti generose addivengano seme di fortissimi eroi, che per
la liberazione d'Italia, le armi ferocemente brandiscano e ottengano
nobil vendetta di coloro che furono, per sola colpa d'amor di patria,
dal coltello dei tiranni, in quella sacra terra svenati! Possa fra
poco quel leggiadro paese, culla dell'antica gloria romana, patria di
anime eccelse e nutrite delle più care ed onorate memorie; nel sangue,
nella gloria, nella vendetta, nella maestà delle leggi, per età lunga,
rinvenir la salute!



CAPITOLO XIII.

CONCLUSIONE.


Abbiam fatto pruova d'indicar quei principii e quei lumi della
osservazione e della storia che possano con certezza, dalle fondamenta
il gotico edifizio della tirannide abbattere, l'attuale obbrobrioso
sistema rovesciare, i barbari che infestan l'Italia, distruggere e ai
turpi loro seguaci, recar finalmente la meritata fortuna. Ciò facendo,
ad un dovere adempimmo che addita al verace Italiano, la carità della
patria: a quello io vuò dire, di porgere, in tributo d'amore, di
verità, di giustizia, i frutti di lunghe veglie e della sperienza di
cui la sventura suol dotar le sue vittime, ai cittadini futuri. Noi
li diciamo _futuri_, perchè da un canto siamo ben lungi dal volere
il nome sacro di cittadino impartire a coloro che schiavi snervati
e viziosi, del loro giogo son degni: e dall'altro quei che forti e
decisi, stanno l'occasione al varco attendendo, non hanno nella Italia
contaminata, una patria che nel magnanimo desiderio del cuore, e
comporranno la futura razza italiana. Null'altro, se non l'esecuzione
del nostro sistema, oggi rimane ad intraprendere: ed a ciò siamo con
fervore, personalmente disposti, tostocchè dagl'Italiani, colla presa
delle armi e con ferma volontà, ce ne venga il destro, agevolato! Quel
momento, come il più bello della nostra vita considereremo, in che a
noi pure, al sublime intento, sarà dato di cooperare e per l'Italia
soltanto vivere, o per quella, a' suoi difensori, congiunti, esalare
combattendo, lo spirito. Agl'Italiani fratelli per tanto, di destar
la scintilla fatale ascosa nelle ceneri, oggi appartiene, la quale
accendendo ardentissimo foco, i nemici del bel paese, con terribile
scoppio, tutti consumi e distrugga.

Nulla rinviensi al mondo, cui l'istante di decisione non sovrasti, dice
il cardinale di Retz: ed è il capo d'opera del senno, quello di saper
tale momento, conoscere ed afferrare. Che se mai si cade in errore,
sopra tutto nelle rivoluzioni degli stati, sorge il pericolo, o di
non più scorgerlo, o di non più rinvenirlo. Vienci da mille esempii,
tal verità, confermata. Ora facendoci noi a considerare, che nè alla
caduta di Napoleone, quando un esercito italiano esisteva, il quale
inerte, dal vicerè e da alcuni suoi generali, lasciossi vergognosamente
a vil prezzo vendere all'Alemanno; nè alla marcia da Gioacchino, re
di Napoli, all'uopo, come diceasi, di unire l'Italia in un corpo solo,
intrapresa, nè alle astute suggestioni di lord Bentink e di colui che
bruttò maggiormente la nostra patria, vuò dire dell'arciduca Giovanni
d'Austria, cose tutte che sebbene con sinistra intenzione bandite,
potevano pure l'unione e l'armamento degl'Italiani facilitare, nè
al grido di libertà levato in Napoli nel 1820, nè a quello d'unione,
independenza e libertà dato nel 1821 dai Piemontesi, gl'Italiani in
massa e con ferma volontà, si avvisaron di scuotersi dall'ignominioso
letargo; potrebbe alcun dubitare, che questi propizii momenti, furono
da essi, se non disprezzati, almeno debolmente accolti, e più coi voti
che collo slancio della persona, col sagrifizio delle ricchezze, del
riposo e della vita, secondati: potrebbe alcun dubitare, noi ripetiamo,
che non fosser essi maturi e disposti a risoluzione sublime. Potrebbe
sospettarsi, e per avventura stimare, che avendo lasciato scorrer
l'Italia il gran momento di risurrezione, quello non sia per tornare,
e che il destino abbia decretato per essa, sempiterna ignominia.

Ma lo stato morale d'Italia profondamente osservando, si può un
chiaro veggente accertare, che le idee generose, i forti sentimenti,
le massime italiane, si sono dopo quell'ultim'epoca calamitosa, di
molto estese, addensate e rinvigorite. Laonde debbesi ogni dubbio, che
non siano gl'Italiani attualmente, per essere a qualunque sagrifizio
ed ardita risoluzione disposti, affatto dileguare. Rispetto poi al
momento, grazie rendiamo alla provvidenza, che vedendo averlo noi,
forse perchè in quel tempo della opportuna attitudine a quel grand'uopo
privi eravamo, lasciato le tante volte sfuggir di mano; un altro volle
pur non dimeno e più propizio e più alle nostre fortificate opinioni
adattato, farci al fin sorgere. In fatti, qual più favorevole momento
di questo, potrebbesi all'Italia, pell'esecuzione del gran disegno,
offerire, mentre alle porte di Trabisonda e di Costantinopoli, è
lo Czar delle Russie al momento d'insignorirsi della calpestata
corona dei Comneni e Paleologhi? Quindi, signore del Bosforo,
dell'Ellesponto, etc. può mettere l'Austria, l'Inghilterra e la Francia
nella tristissima situazione di dover da suoi cenni, pell'avvenire,
dipendere. Ma per ora, dovendo colà tutta la sua cura e forze
rivolgere, non potrà le masse de' suoi sgherri, in sostegno dei nostri
tiranni, dalla Scizia in Italia inviare! Or l'Austria, con ragione,
il maggiore ingrandimento di quella potenza sua naturale nemica, dee
paventare, perchè confinante, gigantesca rivale: e non potrà perciò le
sue frontiere della Bosnia e della Servia, che avidamente desidera il
Russo d'appropriarsi, sguarnire, per accorrere nel mezzo giorno, contro
le nazioni a combattere. E l'Austria pur vede tremando, la Prussia,
in segreto al Czar collegata, guatar con avid'occhio, l'occasione di
quadrare a spese del vicino, il sito del suo regno così malposto nel
core di tre formidabili stati: la Francia, l'Inghilterra, verso la
contesa dell'oriente, debbono pure tutta la loro attenzione dirizzare,
onde impedire che quell'enorme colosso distrugga l'impero ottomano e
dell'Ellenia s'impadronisca. Imperciocchè, una volta signore di quel
littorale, potrebbe in brevissimo giro d'anni, un numeroso _naviglio_
d'ottimi marinari fornito, allestire, che farebbe ben tosto le
marine inglesi, francesi ed austriache, dal Mediterraneo dileguare.
L'Inghilterra più d'ogn'altro governo, vedendo il pericolo della
vicina perdita delle sue possessioni delle Indie, che le sovrasta,
dovrà guerreggiare, e trascinare seco lei quei nostri principali e
più immediati nemici. Tali considerazioni fin d'ora, a tutt'i forti
impediscono di cadere addosso repentinamente all'Italia. Or che
l'opinione dominante dei Francesi, ed Inglesi molto influente (ma che
pur non è quella dei loro gabinetti, abbenchè governati con sistemi
costituzionali), tutta favorevole alla libertà dei popoli si mostra,
e le ostilità dai loro gabinetti contro di noi ideate, potrebbe per
avventura impedire, e finalmente or che arde la contesa del Portogallo,
e non è lungi la rivoluzione del popolo Spagnuolo, che al rimbombo
delle nostre imprese, si slancierà, senza dubbio, al riacquisto de'
suoi conculcati diritti, e così a quella contrada, tutta la possibile
attenzione di quei due gabinetti concentrerà, essendo gli avvenimenti
della penisola Ispana, per Inghilterra e per Francia di più delicata
importanza che le sorti di Italia, oggi che un'immediata invasione
straniera, tanto poco abbiam ragione di paventare, ora forse che quei
naturali nemici nostri verranno fra breve tra di loro a tenzone, e
ch'essendo noi venti millioni, se non siamo prodigiosamente codardi,
alcuno temere non dobbiamo, ed anche, senza le circostanze già
ricordate, potremmo rimaner saldi contro a tutta l'Europa, se per
caso improbabile, volesse contro di noi congiurare, oggi, ad onta
della fortuna che ci stende la mano, vorremmo torpidi e sonnacchiosi,
rimanere in catena? Vorremo noi occasione così bella, così opportuna,
così certa occasione, sconsigliatamente tradire? Italiani! la voce
ascoltate di un amico sincero e verace che vi dice ciò che consultando
voi stessi, vi troverete nel core: «Il gran momento è venuto.» Voi
afferrarlo dovete, od altrimenti, la miseria, rovina e degradazione,
pena di codardia, in ogni parte della penisola tanto invidiata e
favorita dal mondo, saranno inevitabili. Ecco allora il perpetuo, il
meritato destino di quella patria, cui consacrar vi dovete!

All'armi dunque, all'armi uomini, in cui batte un core italiano,
uomini che sentite nel petto quel palpito generoso che creò Scipione
e Camillo: l'ora di spiegare il vostro valore e la vostra costanza,
è di bel nuovo arrivata, ma l'occasione, chi mai l'ignora? è fugace:
l'ultima forse che vi si presenta, o Italiani, propizia. Essa vuol
esser presa di volo. Guai a noi se ancora questa lascieremo fuggire!
Guai ai nostri figli, se non ci avventiamo in oggi a spezzar le
catene che ognor più ci pesano! peserà sù di noi la maledizione de'
figli, e meritata maledizione! Piangeranno essi di non possedere
quell'occasione, che la nostra codardia ci fè trasandare. Noi saremo
derisi ed esecrati dai nepoti nel corso delle generazioni. Italiani,
correte senza indugio alla lotta! Leggonsi in questo trattato i mezzi
che al successo conducono. Quegl'infingardi non ascoltate, che per
vivere mollemente nel lusso a prezzo del pianto, del disonore de'
popoli, per bagordare senza risparmio, in braccio alla lussuria, in
sontuosi banchetti, e gavazzare colle vostre sostanze; l'abbandono
de' nostri diritti esser saviezza e la viltà prudenza, a persuadervi
s'accingeranno! Fate che quelle serpi della Italiana famiglia,
quegli oratori della tirannide, quei giannizzeri che fanno puntello
al despotismo che crolla, dalla nostra _futura_ patria spariscano,
e cessino di contaminare l'antica culla delle umane grandezze.
Tutti, tutti le armi con generoso istinto impugnate! E l'unione,
l'indipendenza, la libertà d'Italia, divengan tra poco, il premio sol
degno delle virtù risorgenti ne' figli d'una patria sì bella!


FINE DEL SECONDO ED ULTIMO TOMO.



NUOVE IMPRESE

Degl'Italiani.


ODE.


    Dal vendicato Tarpeo minacciano,
      Gli uguali ai padri Quiriti intrepidi:
      Si desta _Italia_ e impugna
      Il brando a sacra pugna.

    Roma risorge, Milan, Pertenope:
      L'onte, degli empii nel sangue lavano.
      S'alza fatal Bologna,
      E nuovo lustro agogna.

    Già Etruria, Taranto, Cotron si scuotono,
      Turin, Ferrara, la Donna adriaca.
      Nè grida all'armi in vano,
      L'alta città di Giano.

    Schiavi e Tiranni tremando fuggono;
      Là s'ardon navi, quà reggie fumano.
      Di gloria l'uom si pasce,
      La Libertà rinasce.

    Bella di spiche, di genti libere
      O Italia madre! Vittrice assiditi.
      Tra palme, il lauro prendi,
      E a nuove glorie attendi!

    Per te i costumi modesti e rigidi,
      Le pure gioje per te ritornano:
      E al tuo poter presiede,
      Immaculata fede.



INDICE DEI CAPITOLI.


  PARTE PRIMA.

  Discorso Preliminare                                Pag.   xvii

  CAP. I.    Idoneità dell'Italia penisola alla guerra
               d'insurrezione per bande                         1
   —   II.   Della capitale                                    18
   —   III.  Dell'onor militare                                32
   —   IV.   Ordinamento segreto preparatorio alla
               guerra d'insurrezione per bande                 45
   —   V.    Della tattica: quale sia la guerra da
               imprendersi nello stato attuale d'Italia        87
   —   VI.   Indole e qualità essenziali di questa
               guerra                                         125
   —   VII.  Sistema generale di questa guerra, quai
               sieno i nemici da combattere                   153
   —   VIII. Dell'armamento e vestimento                      186
   —   IX.   Delle vettovaglie                                206
   —   X.    Della paga e Bottino                             224
   —   XI.   Della disciplina punizioni e recompense
               sistema generale di depurazione                240
   —   XII.  Della spiagione                                  261
   —   XIII. Dei prigionieri                                  271
   —   XIV.  Della formazione ed ordinamento
               delle bande                                    276
   —   XV.   Del volontario                                   300

   —   XVI.  Del condottiero                                  306

  PARTE SECONDA.

  CAP. I.    Prime operazioni e progressivo aumento
               delle bande                                      1
   —   II.   Delle marcie, contro marcie, ritirate             17
   —   III.  Valico de' fiumi                                  39
   —   IV.   Attacco e difesa de' convogli                     49
   —   V.    Difesa e passaggio di stretti, e Burroni,
               sorprese, scaramuccie, stratagemmi              63
   —   VI.   Difesa di un punto circondato da nemici           91
   —   VII.  Operazioni marittime                             109
   —   VIII. Delle fortezze                                   123
   —   IX.   Delle Colonne volanti e Legioni                  159
   —   X.    Parte attiva dello spirito publico, cooperazione
               nazionale                                      167
   —   XI.   Del governo provvisionale fino alla
               perfetta liberazione d'Italia                  207
   —   XII.  Operazioni combinate di varie bande,
               combattimenti                                  243
   —   XIII. Conclusione                                      270



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come
le grafie alternative (gerarchia/gerarchìa e simili, nonché numerosi
nomi di luoghi, soprattutto spagnoli), correggendo senza annotazione
minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Della guerra nazionale d'insurrezione per bande, applicata all'Italia - Trattato dedicato ai buoni Italiani da un amico del Paese" ***

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