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Title: Storia degli Esseni - Lezioni
Author: Benamozegh, Elia
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia degli Esseni - Lezioni" ***


(Università degli Studi di Torino - Sistema Bibliotecario
d'Ateneo, Scienza dell'antichità, filologico letterarie
storico artistiche)



NOTE DEL TRASCRITTORE:

—Corretti gli ovvii errori di stampa e punteggiatura.

—Le note a piè di pagina, che nell’opera originale erano raccolte alla
 fine di ogni capitolo (lezione) sono state trasferite dal Trascrittore
 all fine del libro.

—Sono presenti in questa opera una quantità di dizioni multiple, in
 specie per le traslitterazioni dall’Ebraico; considerata anche la
 singolarità dell’ortografia utilizzata dall’Autore e nell’impossibilità
 di stabilire univocamente la corretta dizione, tali forme multiple sono
 state conservate.

—Gli accenti, l’ortografia e la sintassi utilizzate dall’Autore sono
 alquanto ricercate e rispondenti alla forma erudita della lingua
 italiana in uso all’epoca della stesura dell’opera. Tale forma
 prevede anche una variabilità nelle forme che sono state in massima
 parte conservate laddove non siano state considerate palesi errori
 tipografici.

—L’indice non è presente nell’opera originale; ne è stato prodotto ed
 aggiunto uno a cura del Trascrittore.



                         Proprietà letteraria.



                                STORIA

                             DEGLI ESSENI

                                LEZIONI

                                  DI

                            ELIA BENAMOZEGH

                          RABBINO-PREDICATORE
      E PROFESSORE DI TEOLOGIA NEL COLLEGIO RABBINICO DI LIVORNO.

[Illustration: LOGO]

                               FIRENZE.

                          FELICE LE MONNIER.

                                 1865.

                 Tipografia dei Successori Le Monnier.



PREFAZIONE.


Le Lezioni che ora si pubblicano, risalgono all’epoca per me tuttavia
di dolce rimembranza, in cui mi era dato esporre alcune parti della
_Storia della Teologia ebraica_ ad una eletta schiera di giovani
livornesi, i quali, con perseveranza non comune in questa nostra città
dedita ai traffici, seguirono le mie conferenze per circa tre anni.

Queste cose stimava opportuno premettere, a spiegare la forma non
troppo consueta di questa Storia, ed a giustificarla eziandio.
Perciocchè non mancherà taluno, e forse non senza fondamento, il
quale osservi che più acconcia sarebbe stata la forma semplicemente
espositiva. Ma oltrechè per satisfare a questo bisogno sariami stato
d’uopo rifare quasi interamente il mio lavoro, parevami ancora che
ciò non sariasi potuto operare senza compromettere in qualche modo le
sue sorti. Chè il subietto presente sia per sè grave, e forse arido
per i lettori comuni, non vi ha, credo, chi nieghi. L’erudizione
storica, e teologica in ispecie, è cibo di pochi; e per farlo accetto
ai più, sarà forse senza niuna utilità uno stile men disadorno, più
drammatico e vivace quale s’addice a _Lezioni_? I fatti e le idee
che altronde riescirebbero ai schifiltosi indigesti, non divengono
pascolo più gradito, ove ai condimenti si mescano della imaginazione
e del sentimento? Non solo, e il dico a costo di parer puerile, gli
Esseni studiando con amore e con fede, perciocchè in essi intravvedeva
i predecessori della buona nostra Teologia, io sentiva nella nobile
indagine impegnate la Ragione e la Critica, ma la imaginazione altresì
e il sentimento, e spontanea dal labbro sgorgavami la parola viva e
affettuosa. Mai parvemi così vera ed acconcia la sentenza platonica,
non essere il bello che lo splendore e la veste del vero.

A che però, diranno altri, venir fuori con questi vecchiumi? Appena
trovano venia presso i comuni lettori le politiche o letterarie
lucubrazioni:—qual sorte mai dovrà toccare agli _opliti_ della scienza,
alle scritture gravemente armate, alle dotte e severe indagini della
Storia e della Teologia?—La Dio mercè però, questo linguaggio diventa
di giorno in giorno più raro. A dispetto di chi vorrebbe confinare la
mente umana nello studio e nell’amore delle quisquiglie letterarie e
degli arcadici vezzi, come i tiranni invitano il popolo a seppellire
le più generose potenze nelle tazze soporifere di Bacco, di Momo e di
Venere, l’uomo anela a cose più alte. Gli argomenti che, or si può dire
pochi lustri, erano il patrimonio di pochi, diventano ogni giorno più,
quasi comune proprietà. Le menti s’iniziano alle più alte e scabrose
indagini. Libri che altra fiata sariano giaciuti in eterno polverosi
negli scaffali delle Biblioteche, girano adesso per le mani di tutti:
avidamente si leggono, in ogni lingua si traducono: ed ove per mole
e scienza soverchie disdicano ai comuni intelletti, epitomi se ne
fanno e compendi. La scienza si fa piccina per trasfondere la vita nel
popolo, come Elia si contrae sul corpo morto del figlio della vedova, a
comunicargli la vita.

La storia presente non solo prende a considerare serio argomento, ma è
parte nobilissima e tema di gran momento nella questione religiosa che
ora preoccupa e divide gli animi nel mondo intero. La _Storia degli
Esseni_ è fonte ricchissima di documenti atti a spiegare l’origine
del _Cristianesimo_; e qualunque concetto di questo si formi, niuno
vi ha che si attenti di negare per la Storia di questa religione, la
importanza dello studio dello essenico Istituto. Perciò tu vedi tutti
i libri che prendono a trattare di quelle origini, assegnare posto
segnalatissimo all’esame dell’Essenato. Parevami dunque non fare,
anche per questo verso, inutile opera, mandando fuori questi miei
pensieri intorno una Scuola tanto studiata e tanto degna di studio;
e sopratutto non venire meno alle leggi di opportunità. Un altro
resultato, o ch’io m’inganno, mi sarà lecito sperare da questo mio
lavoro.—Nelle ebraiche scritture da me finora pubblicate, vuoi in forma
polemica come le repliche contro l’antico Leone da Modena e l’illustre
amico professor Luzzatto, vuoi nelle mie Note al _Pentateuco_, vuoi
infine nel mio _Essai sur l’origine des Dogmes et de la Morale du
Christianisme_ premiato dall’_Alliance israélite_ di Parigi, pienamente
soscrissi e, quanto seppi e potei, crebbi forza alla sentenza intorno a
cui convengono non che gli scrittori ortodossi, ma i critici eziandio
più indipendenti, come Munk, Frank e Jost ed altri moltissimi, che,
cioè la Teosofia cabbalistica, che coltivò il nostro gran Pico
Mirandolano, ebbe per antichi rappresentanti gli Esseni e lo Essenato.
Questa Storia è destinata a porgere nuovo tributo a questo gran vero,
mercè un perpetuo confronto che si va facendo fra le une e gli altri.

E non meno parevami adempiere all’officio di buon italiano. Che se
ogni individuo ed ogni ceto debbono contribuire, per ciò che lor
spetta, a maggiore onoranza e gloria della Patria comune, perchè
questo dovere non incomberà egualmente agli Israeliti e alla scienza
israelitica? L’Italia ha il diritto di avere una _Scienza ebraica_
filologica, storica, teologica, erudita, quale da gran tempo posseggono
altre Nazioni sorelle; e in special modo la Germania. Ma a chi spetta
principalmente arricchire di questa gemma la sua corona, se non agli
Israeliti per cui l’Italia tanto fece e fa tuttavia? E chi tra gli
Israeliti più debitore di questo giusto tributo se non il Rabbinato? Il
quale in tanto lume di pubblicità, in tanto nobile pugnare di dottrine
e sistemi, in tanto strenuo combattere a trionfo del vero, deve a sè,
all’Italia, al mondo, alle sorti avvenire del genere umano, di alzare
la voce a proclamazione e difesa del suo Credo.

Nell’adempire però, nei limiti delle mie scarse forze, a questo
dovere, un pericolo sopratutto mi toccava cansare, quello cioè di
venir meno al rispetto delle altrui opinioni e di religioni dalla mia
diverse. L’ho io sempre felicemente evitato? Certo che costante mio
intendimento fu di fuggirlo, e certo del pari che per le continue e
delicate occasioni che ad ogni tratto mi si paravano dinanzi, ardua
impresa era il superarlo continuamente. Se mai talvolta la parola o
il pensiero suonano, più che non s’addice, liberi e severi, spero non
mi si vorrà apporre a colpa quando si rifletta che tra la tolleranza
fraterna da una parte, e la libertà dello speculare e la veridica
parola dall’altra, angusto e difficile è il calle, e rado è che tu
non pieghi talvolta o a un linguaggio alquanto severo, o a qualche
dissimulazione del vero. Fra i due mali, qual’è il lettore illuminato
che non preferisca il primo? La vera reciproca tolleranza è quella
che sa amare e stimare gli altri, pur serbando intatto il culto delle
proprie dottrine. Anzi, vero amor fraterno non si dà quando alto non
proclamisi ciò che vero si crede. Il primo diritto dei nostri simili, è
quello di udire da noi la verità.

Dopo le cose esposte, non mi rimane che a dire intorno i motivi di
questa pubblicazione. Non è sete di onoranza, che scarsa mi riprometto,
sì pel picciol merito dell’opera, come pel poco conto in cui questi
studii si tengono generalmente; non è amor di guadagno, che non si
trova per queste vie; non è vanità letteraria, che più agevolmente
e più sicuramente si può satisfare con più amene produzioni; non è
nemmeno quello che tanti autori protestano, la pressa dei loro amici
che non gli dan tregua se non ne veggono le opere su per le stampe. È
lo stesso motivo che m’indusse a sobbarcarmi spontaneo al ministero
religioso, che mi fe’ e fa lavorare intorno a subbietti difficili,
ingrati, spinosi; senza altro rimerito che il buon testimonio della
coscienza: _l’amore del sapere e della verità_.

  _Livorno, Maggio 1865._

  ELIA BENAMOZEGH.



                  INDICE

                                  Pag.

  PREFAZIONE                        iv

  LEZIONE PRIMA                      1

  LEZIONE SECONDA                   10

  LEZIONE TERZA                     19

  LEZIONE QUARTA                    34

  LEZIONE QUINTA                    45

  LEZIONE SESTA                     66

  LEZIONE SETTIMA                   75

  LEZIONE OTTAVA                   101

  LEZIONE NONA                     119

  LEZIONE DECIMA                   137

  LEZIONE DECIMAPRIMA              152

  LEZIONE DECIMASECONDA            185

  LEZIONE DECIMATERZA              203

  LEZIONE DECIMAQUARTA             236

  LEZIONE DECIMAQUINTA             247

  LEZIONE DECIMASESTA              261

  LEZIONE DECIMASETTIMA            271

  LEZIONE DECIMOTTAVA              284

  LEZIONE DECIMANONA               292

  LEZIONE VENTESIMA                300

  LEZIONE VENTESIMAPRIMA           311

  LEZIONE VENTESIMASECONDA         323

  LEZIONE VENTESIMATERZA           335

  LEZIONE VENTESIMAQUARTA          346

  LEZIONE VENTESIMAQUINTA          357

  LEZIONE VENTESIMASESTA           368

  LEZIONE VENTESIMASETTIMA         378

  LEZIONE VENTESIMOTTAVA           388

  LEZIONE VENTESIMANONA            399

  LEZIONE TRENTESIMA               409

  LEZIONE TRENTESIMAPRIMA          419

  LEZIONE TRENTESIMASECONDA        430

  LEZIONE TRENTESIMATERZA          437

  LEZIONE TRENTESIMAQUARTA         446

  LEZIONE TRENTRESIMAQUINTA        457

  LEZIONE TRENTESIMASESTA          468

  LEZIONE TRENTESIMASETTIMA        478

  LEZIONE TRENTESIMOTTAVA          483

  LEZIONE TRENTESIMANONA           495

  LEZIONE QUARANTESIMA             502

  LEZIONE QUARANTESIMAPRIMA        512



LEZIONE PRIMA.


Io debbo, diletti giovani, nell’esordire, revocare alla vostra mente
quei giorni al mio cuore carissimi, in cui per la prima volta erami
conceduto, la parola mia indirizzarvi. Voi il rammentate. Non appena
i primi passi muovevamo pel lungo e difficil sentiero, che il bisogno
faceasi sentire imperiosissimo, di una logica e razionale divisione del
nostro assunto. Simile alle colonne miliarie, che all’animoso viandante
additano il cammino percorso, e nuova lena gl’infondono e nuova speme;
noi pure, o signori, il cammino nostro in tre grandi stadj, in tre
grandi epoche, in tre grandi divisioni partimmo.

Nulla per ora delle ultime due calendoci, diremo solo della prima
epoca, del suo principio, del suo termine.

Quale era, o signori, la prima epoca della storia della ebraica
teologia?—Era quella che dalla Mosaica rivelazione partendo, si stende
per tutto quello immenso intervallo, che da quel fatto memorando
trascorre, sino alla cessazione della nostra vita politica, sino, che
dico, o signori? sino al suggello dei Profeti e delle tradizioni, sino
alla compilazione del Talmud. In questa epoca, o signori, noi risalimmo
sin dove alcuna traccia per noi si scorgesse di movimento religioso,
di dogmatica vicissitudine; sin dove un sistema ci apparisse che un
compiuto avesse e particolare sembiante, di Dottrina e di pratica.
In quei remotissimi tempi, una setta ci fermava, ed era quella dei
Samaritani.

Noi togliemmo ad esame tutto ciò che ad essa appartiene, e comecchè
parecchie cose fossero da noi e per brevità, e per incompleta notizia
pretermesse, non è sì, o signori, che una cognizione voi non ne abbiate
acquisita generale e sommaria. Mestieri è ora muovere il piede in cerca
di nuovi liti e nuove genti, mestieri è, discendendo per la serie
dei secoli, quella setta, quella scuola tôrre a subbietto di studio
che prima si presenti, dopo i discorsi Samaritani. Voi ricordate, o
signori, di questa setta il nascimento. Ella sortì i natali in quella
epoca al popol nostro esiziale, quando la sua nazionalità venne per
la prima volta vulnerata, quando la via si apriva dell’esilio, quando
le dieci tribù schiudevano quel cammino di dolori e di spine, che le
rimanenti due tribù non avriano tardato a calcare.

Le ricerche nostre, o signori, debbono dunque oggimai da quell’epoca in
poi esercitarsi. Dobbiamo i tempi a quelli posteriori interrogare, e le
voci studiosamente raccogliere che ci porge la istoria. Quali furono
le vicende della ebraica religione nei secoli a quello successivi? La
risposta, o signori, troppo più tarderà ad udirsi, che alla vostra
impazienza non si convenga. Invano il chiederete all’esistenza incerta
e languente del primo tempio; invano alla cattività babilonese, invano
ai primi periodi del tempio secondo. Egli è, o signori, nei tempi di
mezzo della nuova Restaurazione, egli è durante le lotte fraterne degli
Asmonei, che la nuova scuola, la nuova setta apparisce con Giuseppe,
sul teatro della istoria. Egli è allora soltanto che la presenza ci è
dato costatare d’una forma nuova in seno alla ebraica religione.

Non vorrei però, o signori, che le parole mie fossero da taluno
fraintese. Quando io parlo di questo protratto silenzio, quando noto
una sì grande lacuna nella storia religiosa del popol nostro, quando
dico che solo collo storico Giuseppe la esistenza ci si appalesa di
nuova scuola; dire non intendo, o signori, che per tutto questo lungo
intervallo, le sètte da Giuseppe rammentate esistito non abbiano; che
quella specialmente che offrirà tra non molto al mio dire subbietto,
non spinga alte e profonde le sue radici in una ben altrimenti remota
antichità; che più vetusta esistenza non conti di quella che la
istorica menzione parrebbe assegnarle. No, o signori, questo nè dico
io nè penso. Che anzi le successive nostre conferenze vi chiariranno
abbastanza, come, a senso mio, certe scuole, certi istituti a cui i
documenti non porgono che una età posteriore, spingano oltre le loro
barbe negli strati, per così dire, più profondi del suolo ebraico; che
altro la cronologia dei documenti, altro quella sia veramente della
storica esistenza; che, benchè per nomi, per forme, per sembianze
diversi, i moderni agli antichi istituti si riappicchino mercè l’unico
genio, l’unica mente e, come oggi si dice, l’unico spirito. Ma questo,
o signori, sarà piuttosto corollario ultimo e postulato supremo dei
nostri studj, anzichè premessa da noi gratuitamente anteposta al
nostro discorso; sarà frutto anzichè radice; sarà comignolo anzichè
base e fondamento al nostro edifizio. Per ora, o signori, l’ordine
delle nostre trattazioni sarà quello ch’emerge dall’esame eziandio
più superficiale dei monumenti esistenti, sarà quello che scaturisce
dall’ordine, dalla successiva menzione delle sètte. Per ora, o signori,
quella stimeremo più antica che anzi le altre figura nelle istorie dei
tempi. Per ora quel nascimento soltanto le supporremo che la età ci
concede, della istorica menzione. Criterio falso, arbitrario, siccome
vedete, e che tanto vale a parer mio quanto il fissare che uom volesse
d’un’individuo i natali in quell’ora, in quella epoca, che le forze
sue attuava sul teatro del mondo.—Ma noi, o signori, mentre ogni altro
sussidio ci vien meno, di questa data ci staremo contenti. Quale è la
setta che, nell’ordine di storica menzione, dopo quella immediatamente
figura che non ha guari insieme studiammo? Per ritrovarla, mestieri
è non solo valicare, siccome dissi, molti secoli e regni, ed imperi
diversi vederci prima scomparire dinanzi; ma penetrare eziandio è
mestieri nella santa città di Solima, e penetrarvi come vi dissi
mentre la guerra è bandita tra i due contendenti e rivali Asmonei. Che
spettacolo, o signori, non ci offre allora la santa città! Direste una
grande, una immensa officina in cui le arti tutte si adopran solerti
di guerra e di pace. Vedreste le divisioni politiche armare l’animo,
il braccio dei cittadini. Vedreste il fratello contro il fratello, e
talvolta, oh sciagura! il fratello ligio a strana signoria, contro il
fratello della patria libertà difensore. Vedreste alle politiche, le
religiose dissenzioni innestarsi, e quelle a dismisura esacerbare; per
quella legge che fa più vive ed accanite le lotte di religione, quanto
più il subbietto intimamente ci appartiene, e nulla più intimo di ciò
che ha seggio nel più segreto dell’animo; d’onde, o signori, la ferocia
unica anzichè rara delle guerre di religione. Vedreste tutte le forze
morali, religiose, intellettive, nazionali, civili, del popol nostro
in uno stato di aperta tenzone, di febbrile e prodigiosa esaltazione.
Vedreste un disordine, un antagonismo, un’anarchia; vedreste un caos
da cui il _Fiat_ divino dovrà forse a suo tempo suscitare un nuovo
mondo, e tutti gli elementi più generosi fervere in uno stato di
soluzione, nell’aspettativa di quel disegno, di quella forma, che
tutte dovrà forse comporle e armonizzare in bell’ordine.—In mezzo, o
signori, a Gerusalemme in travaglio, in mezzo al romore delle armi, al
disputar dei Dottori, al piatire dei rivali, al ruggito delle fazioni,
inoltratevi, se vi dà l’animo, per le vie mal sicure di Gerusalemme,
impegnatevi per le sue vie, e se il pugnale non paventate dei
sicarj,[1] i più cospicui luoghi visitate della città e dei suburbj.
Qui è la setta dei Sadducei, e queste le sue aule. Nuovi giardini
d’Epicuro, primi furono tra noi a preludere a coloro che _l’anima col
corpo morta fanno_.—Non son questi che noi cerchiamo. Ecco, o signori,
i centri, le accademie ove _rivive la sementa santa_, del Farisato,
eccone le porte, ecco a traverso le grate le immagini austere, le
fronti sublimi dei Dottori e dei Scribi.—Inchiniamo e passiamo.

Ma ecco, o signori, nella parte più queta, nella regione più silente
della città rumorosa, pacifico presentarsi e maestoso abituro. Qui un
alternarsi di silenzio e di canto. Qui l’ordine, qui la regola, qui
la misura presiedere ad ogni atto, e tutta la interna e la esterior
vita informare. Qui le tempeste muggono alle porte incatenate; qui
si frangono impossenti i marosi delle civili discordie; qui l’animo
si leva a quelle alture in cui le nubi, come accade sulla cima dei
monti, ti si addensano ai piedi anzichè sulla testa, e quasi partecipe
della gloria di Dio, l’uomo assunto a tanta altitudine cavalca le
nubi e calpesta le folgori. Qui si maturano i grandi pensieri, qui
si elaborano le grandi dottrine, che esciranno salve ed illese dal
gran naufragio.—Che casa è questa, o signori, che gente è cotesta che
l’abita? È cielo questo, è questa anticipazione di Paradiso? Sono
angioli cotesti, sono mortali?—.... Sono gli _Esseni_.—Esseni! nome
nuovo, inaudito forse per alcuni di voi.—Nome che l’Ebreo non dovrebbe
mai obbliare, come a delitto imputeriasi al Greco Platone disconoscere
e l’Accademia; come all’Italo, Pitagora e gli Stoici; come ad ogni
popolo la più grande gloria, e il prisco vanto intellettuale de’ suoi
proavi.

Gli Esseni!—Venerando nome per tutti quelli appo i quali sono in onore
Sapere e Virtù. Nome carissimo per noi figli, per noi eredi di loro
fama. Nome, lasciatemi aggiungere, nome santo per chi in essi vede,
come io già veggo, come voi spero tra non poco vedrete, negli antichi,
nei venerandi Esseni il fiore, il Patriziato, il Grado supremo nella
Gerarchia Farisaica;—Il Farisato rivolto alla speculazione del sommo
vero e alla pratica del sommo bene; la falange, come la Macedone,
degli Immortali[2] che tra le fila si reclutava della comune farisaica
milizia.—Io so, o miei giovani, che sì dicendo, io proclamo cosa che
il mondo non era usato sin qui ad udire; so che, come ogni idea nuova,
avrà pregiudizj, errori e rispettabili convinzioni da combattere. Io
so, o signori, che grave debito io mi assumo di somministrare a questa
mia teoria, carte e diplomi in regola per viaggiare pacificamente
per il mondo. Per ora mi contento di un _salvo condotto_. La
identità dell’Essenato col Farisato negli ultimi e supremi suoi
stadj, sarà, spero, frutto di una continua dimostrazione nel corso
di questa istoria; anzi, la storia stessa ne sarà la più concludente
dimostrazione. Epperò, appunto, egli è questo tema siffatto, a cui
troppo disconviene tempo e spazio ristretto. Il suo tempo, è tutto
quello che noi spenderemo intorno gli Esseni. Il suo spazio, tanto
si allargherà, quanto lungi andranno di questa storia i confini.—Per
ora, il nostro passo dee procedere regolato e metodico. Noi abbiamo
pronunziato un nome bello, un nome onorando, e, se mel permettete,
dirò ancora onorante. Ma che vuol dire questo bel nome? Che significa
la gran parola di Esseni?—Il suo significato logico, dottrinale,
storico, provvidenziale, non ha che una sola possibile definizione.—La
storia stessa della _bella scuola_, così da or innanzi la chiameremo.
Il significato però che adesso cerchiamo è quello più ristretto del
vocabolo stesso; il significato gramaticale, filologico della parola,
il valore suo puramente etimologico. Questa è la definizione che noi
andiamo cercando. Ma questa, qualunque essa sia, non è tale che non
debba necessariamente colla prima connettersi; che anzi, l’armonia tra
le due definizioni, è tale criterio, che la verità dee porre in sodo
dei nostri resultamenti. Noi cerchiamo la definizione del vocabolo, ma
questa, per essere vera, dee armonizzare colla definizione della setta,
che è l’istoria. Una definizione gramaticale che non fosse la natia
espressione, e quasi lo invoglio naturale della definizione logica, un
nome che non esprimesse lo Essere, sarebbe improprio, sarebbe supposto,
sarebbe falso.—Il nome è il Corpo, l’esteriorità dell’Idea, come il
Corpo è l’esteriorità dello Spirito.—Ecco il criterio che noi dobbiamo
a guida proporci nelle ricerche che saremo per fare sul nome di Esseni,
nella cerna che fare dovremo degli infiniti supposti, delle origini
multiformi a quel nome assegnate.

Egli è perciò, o signori, che prima meta ci proporremo nelle nostre
ricerche il nome di _Esseni_. Stabilita di questo nome la definizione,
discorreremo delle _origini_ dell’Essenato; cercheremo di stabilire
una data almeno approssimativa del suo nascimento, di additare le
fasi più cospicue della sua esistenza, di seguirne le vestigia più
o meno sensibili pel corso dei secoli. Determinata degli Esseni la
_origine_ e la _Istoria_, parleremo delle loro _istituzioni_ e di tutto
quello che queste concerne, delle _leggi_ loro costitutive, della
loro organizzazione, del loro genio, delle lor costumanze, insomma,
o signori, della loro vita sociale.—Dopo la vita sociale, altra vita
non meno della prima preziosa, sarà subbietto delle indagini nostre;
voglio dire, o signori, la loro vita intellettuale; le loro _credenze_,
i loro _dogmi_, i loro _principj_. Qui è, o signori, ove meno
pienamente potremo appagare la nostra sete di cognizioni; qui è ove
una grande lacuna romperà in gran parte il filo coerente della nostra
esposizione; qui è dove chiaro apparirà negli effetti quel sistema
prediletto agli Esseni di sottrarre agli sguardi curiosi parte almeno
delle dottrine più riservate. Qui è ove noi, giunti alla soglia del
tempio, dovremo se non indietreggiare sconfortati, certo non più che
pochi e timorosi passi avanzare nel recinto del Santo, e solo, a così
dire, di sbieco gettare di tratto in tratto qualche sguardo furtivo
per entro alla cortina, che la piena ed intera fruizione ci contende
degli inviolati misteri. Esaurito, o signori, il Dogma, narrata quanto
meglio si può la vita intellettuale degli Esseni, quella prenderemo a
descrivere che pratica o, come dire vogliate, _rituale_ si appella,
ove i riti, la forma del loro culto, il numero, l’indole delle loro
osservanze tutte, l’esercizio pratico delle loro credenze, tutti in
bell’ordine ci si offriranno dinanzi schierati. Noi avremo allora
tutta intera ricostituita la personalità degli Esseni.—_Esistenza_,
_Pensiero_, _Azione_, tre sommi indivisibili elementi di ogni Ente
morale, che nella _Origine_, nel _Dogma_ e nel _Culto_, ogni volta si
convertono che di Setta o religioso Sodalizio è discorso.

Per ora, o signori, del nome degli Esseni.—Una falange di dotti
si contenderà la gloria di averne l’appellazione decifrata. Voi
ascoltateli con quella riverenza che si deve all’ingegno, e col
rispetto che esigono le loro fatiche spese a restaurare una gloria che
a voi, giovani israeliti, più che ad ogni altro appartiene. A noi,
il falso dal vero discernere, a noi raccorre gli elementi del vero
disseminati talvolta per entro i falsi sistemi; a noi il rintracciare
in tanta distanza, in tanto pugnare di ostili pareri, il primitivo
e genuino senso del vocabolo _Esseni_.—E dove a noi il cielo arrida
propizio, potrò dir di me stesso, come per Laura il Petrarca:

  Forse avverrà che il bel nome gentile
  Consacrerò con questa stanca penna.



LEZIONE SECONDA.


Vi promisi, o signori, che subbietto della presente conferenza
saria stato la origine, il significato di questo nome di _Esseni_,
di quel nome col quale venne la scuola presente invariabilmente
contraddistinta. Aggiunsi, o signori, che molte sono, che sono discordi
le congetture che di questo nome furono in tutti i tempi proposte. Io
vengo ad adempire la mia promessa, vengo a schierarvi in bell’ordine
innanzi le moltissime congetture che nella presente disquisizione il
primato contendonsi.—Uomini celebri ci hanno trasmesso delle loro
meditazioni il portato; nomi cari e venerati alla scienza non esitarono
disputare lungamente intorno l’origine di questo vocabolo. Saremo
noi rispetto ad essi più avari di attenzione, di quello ch’essi il
furono verso di noi di lucubrazioni e di veglie? Io dico, o signori,
per voi che nol saremo.—Levino, dunque, la voce e ci dicano dei loro
studi il portato. Ci dica per primo il Salmasio in qual guisa egli
giunse a credere il nome di _Esseni_ da quello derivato di una città
e regione che questo nome portava di _Essa_. Ci dica poi il Basnage
su qual fondamento egli la opinione del Salmasio negava, affermando a
dirittura, nulla traccia averci l’antica geografia tramandato della
esistenza della supposta regione. Ci dica, infine, la buona critica
tra il Salmasio che afferma e il Basnage che dinega, chi meglio al
vero si sia apposto. Cel dica, o signori, la Rabbinica Enciclopedia,
e in particolare il Talmud. Cel dica, in secondo luogo, il deposto
degli antichi geografi e l’autorità dei viaggiatori. Cel dica e la
paziente disamina dei Filologi, e la scienza talmudica (e nello
invitarvi a bere con me a questo fonte, nel potere ad autorità invocare
il libro che tanti e tanti ebbero ed hanno in dispetto, difendere io
non mi so da un innocente sentimento di orgoglio, che il rigoroso
ascetismo del Passavanti non temeva qualificare di _santa superbia_):
cel dica il Talmud in quei tanti e concludentissimi passi da me con
grande studio raccolti, ove, ad onta dell’asserzione del Basnage, la
esistenza di una regione così chiamata vien posta in splendidissima
luce. Cel dica il trattato di _Sanhedrin_, ove di due Dottori si
narra che, a determinare le Neomenie e le feste, convenivano insieme
a moltissimi altri, in una spezie di concilio che una città vedeva
allor celebrare, la quale il nome reca veramente di צסיא _Asia_: cel
dica ivi stesso, ove di un altro Dottore si narra R. Meir, il quale
in altra congiuntura si recava nella stessa אסיא _Asia_ all’effetto
medesimo. Cel dica nel trattato di _Mesiha_, ove invitando un Dottore
alla fuga, onde all’obbligo sottrarsi di ministrare a certi offici
edilizj, _Tuo padre_, così gli dicono, _rifugiossi in Asia, e tu
cerca riparo in Laodicea_. Che più, o signori? Cel dicano quei passi
ove, volendo far comprendere ai contemporanei a quali popoli, a quali
terre corrispondono i popoli, le terre nel _Genesi_ rammemorati,
ci offre il più curioso ed interessante spettacolo dei primi degli
iniziali conati che la scienza etnografica andava facendo per organo
dei Dottori, e nuovo lustro e nuovi raggi aggiunge se è possibile
alla loro corona. Il Talmud babilonico—il gerosolimitano, il Comento
perpetuo che si chiama _Medrasce_, opera pur essa Palestinese, la
Parafrasi di Gerusalemme, tutti, o signori, i primi albori ci offrono
della Etnografia nascente, cresciuta, come sapete, ai nostri tempi
gigante; e tutti della presenza attestano della contesa צסיא _Asia_.
L’attesta il Babilonico in _Batra_, laddove ingegnandosi tradurre con
nomi nuovi l’antico _Cheni_, _Chenizi_, _Cadmoni_, da Dio ad Abramo
promessi nella sua discendenza, ci offre nel secondo di questi nomi
il desiderato _Asia_. L’attesta il Talmud di Gerosolima, laddove a
_Cheni_ sostituisce _Asia_,—a _Chenizi_ _Apamea_,—e _Damasco_ al
_Cadmoni_. L’attesta il Medras alla sezione 44, ove si riproducono
i nomi stessi se non l’ordine istesso del Gerosolimitano. L’attesta
infine il Parafrasta di Gerusalemme, ove il nome istesso ci porge di
Asia, in ciò solo però dagli altri discorde, che lo equivalente egli
ne fa dello antico _Aschenaz_. Innanzi, o signori, a questo bello e
generoso adoprarsi dei Dottori a far convergere al luminoso centro
delle Scritture tutti i rai dello scibile, due pensieri l’animo mio
tutto intero si assorbivano. Io dissi da principio: È egli possibile,
dopo tanti e solenni esempj, più a lungo il divorzio protrarre tra
la scienza e la fede; e protrarlo (lo che è a dismisura più enorme)
sull’autorità fondandosi e sull’esempio degli stessi dottori?
Ripiegando poi l’animo mio verso il subbietto in discorso, io dissi
a me stesso: Volle il Salmasio il nome Esseni da quello di _Essa_
originare.—Lo negò il Basnage, e solo il Talmud parve al primo dei
due consentire. Dovrà ella la questione rimanere in pendente? Dovremo
noi la sola autorità del Talmud opporre al Basnage, a costo di udirci
intimare solenne declinatoria? Immaginate voi, o miei giovani, l’ansia
che assalisce il viatore quando, dopo mille disinganni, qualche caro
pronostico gli ripromette la terra vicina? Or bene, tale io mi feci
nella ricerca di una rovina, di una memoria, anzi di un vocabolo
solo. Questo nome, o signori, finalmente spuntò. Non solo _Tolomeo_
asserisce essere stato il nome di _Asia_ particolarissimo alla Frigia,
ma l’autorità eziandio mi soccorse ben tosto di nomi, di autorità
ben altrimenti sonori, che non è in oggi l’esautorato Tolomeo. Egli
fu il celebre orientalista _Klaproth_, che mi mise il primo sulla
buona via. Egli, nella Cronaca caucasiana da esso pubblicata, mostra
lo stabilimento in quelle regioni sino da epoche remotissime di un
popolo detto _Osi_, o meglio _Asi_, come piuttosto crede il suddetto
Klaproth. Non basta. Il Dubois era più esplicito; egli, nel suo _Voyage
autour du Caucase_, questo formalmente ci fa sapere, cioè che il nome
di _Asia_ ha esistito in epoca remotissima, qual denominazione locale
particolarissima della parte settentrionale della catena caucasiana.[3]
Perchè tanto studio a rivendicare la esistenza di tale sconosciuta
regione? Forse, o signori, perché io soscriva interamente alla origine
dal Salmasio immaginata? Il processo del mio dire vi mostrerà che così
non è veramente. E perchè? Perché niuno, che io mi sappia, antico,
originario legame il nascimento della Setta congiunge colle province
dell’Asia minore. Ora, o signori, chi non lo sa? egli è proprio
delle sètte quel nome assumere che più aperto n’esprima il genio, e
il principio nativo, in quella guisa istessa che ognuno di noi quel
nome porta con sè chè recò in sul nascere. E tanto esser dee avvenuto
per quel degli Esseni. E poi, o signori, quante altre e potentissime
ragioni non avversano la ipotesi del Salmasio! L’avversa il costume
che ebbero, sto per dire generale, tutte quante le Sette, di tôrre a
preferenza quel nome o che il fondatore ricordasse, o che più alla
mente pingesse l’indole, il carattere, il genio ideale, anzichè il
luogo, la patria, il paese ove prima ebbe i natali. Così voi dite, o
signori, Platonismo, Epicureismo tra i pagani, e voi leggete tra le
cristiane eresie i nomi di Ario e Nestorio, le dottrine del Triteismo
e del Monoteismo, e tra le filosofiche scuole voi usate rammemorare
l’Idealismo, il Sensualismo, il Panteismo.[4] L’avversano, o signori,
tutte quelle buone e salde ragioni che ci consigliano, come in seguito
vedrete, a preferire diversa sentenza; e finalmente, l’avversa la più
seria, la meno oppugnabile difficoltà che si potria contro un sistema
suscitare. E sapete qual’è?—La prova del contrario. Invero, che dicono,
le più antiche memorie della setta? Ove per la prima volta lo storico
con gli Esseni s’imbatte, ove li trova, ove ne nota la prima presenza,
i primi atti, la prima dimora? Altro che Frigia o Bitinia o altra
qualsivoglia gentilesca contrada! E’ sarebbe come chi cercasse fuor di
Roma il Campidoglio, l’Acropoli fuori di Atene, e il cuore umano fuori
del centro vivificatore ove ha stanza ed imperio. La patria naturale,
dirò anzi, necessaria dell’Essenato, è _Palestina_; e Palestina
registra veramente la istoria qual primo teatro della loro storica
apparizione. A Palestina aderirono costantemente gli Esseni, in quella
guisa istessa che la più nobile parte di noi al frale aderisce per
conservarlo in vita sin dove _il militar le fu prescritto_. Egli n’era
l’anima, il genio personificato, condensato, ristretto; quindi tanto
più espressivo: genio nazionale e religioso, ma religioso e ieratico
sovra tutto, per i tempi volgenti a politico sfacelo, e pel predominio
da lungo tempo avverantesi negli ordini ebraici dello spirito sulla
materia, del generale sul particolare, dell’eterno sul temporaneo, del
Cielo sopra la terra. Egli è quindi nel giro della patria Palestinese
che l’origine e il significato dobbiamo cercare del nome di Esseni.

Ma per entro agli stessi confini di Terra santa, non è così unanime
il sentire, che tutti in una origine si quietino gli indagatori delle
Esseniche antichità, nei confini di Palestina. Tra le quali, una mi
piace per questa sera considerare, che non piccola fama nè piccolo
stuolo di seguaci si trasse dietro nel consorzio degli eruditi. Chi
il merito vanti del primato non so, ma egli è un fatto però che non
pochi furono di coloro a cui tra gli Esseni e i _Baitusei_, altra
religiosa setta di Palestina, parve vedere una perfetta identità.
L’udì forse per la prima volta l’Italia, e dalla bocca l’udì di un
Ebreo, di un Rabbino, di un Italiano. Egli era il nostro concittadino
_Azaria De Rossi_, o, com’egli si diceva ebraicamente, _Min aadomim_,
che nel secolo decimosesto seppe coltivare con tal successo la storia
e l’erudizione Greca e Romana, che la fama ne corse e dura tuttavia
onorata nel mondo erudito. Or bene, o signori, Azaria De Rossi fu
quello che propose la identificazione perfetta dei Baitusei del Talmud
coll’istituto degli Esseni. Non basta; egli ne vide il nome nel nome
dei Baitusei. Questo nome di Baitusei, si scrive in ebraico _Baitusim_,
o _Betusim_, secondo altra lezione. Or bene, l’occasione era troppo
bella per un ingegnoso etimologista, e il De Rossi non era uomo da
lasciarla fuggire. Egli scrisse in due parti il vocabolo Baitusim;
divise _Bet_ da _Usim_. Di _Bet_ egli fece _Casa_, _Istituto_,
_Sodalizio_, _Società_; di _Usim_ fece il nome proprio, l’appellativo
istesso di Esseni. Ecco che cosa fece il De Rossi, schiudendo in questa
via la strada a quelli che in processo di tempo la percorsero intiera.
Vi entrò per primo il Fuller, che alla sentenza soscrisse del nostro
Rabbino. Vi entrò quasi ai nostri tempi il Gfroëre, dotto tedesco,
nella celebrata sua isteria, _Critica del cristianesimo primitivo_,
a pagine 347; e tanto reputò la congettura avverata, che precipuo
argomento ne trasse a provare tra le due sètte perfetta, intera
omogeneità di carattere. Convien dire però, o signori, che tale non
sembrasse a parecchi altri, nè di minore rilievo, che delle origini
Esseniche presero a trattare. Io non dirò di altri che il precessero;
ma se ultimo fu, certo non meno formale si pronunziò contro l’asserta
origine Baitusea, l’illustre Franck, che onora in Parigi il nome e la
dottrina Israelitica. Egli, il Franck, nella terza parte dell’opera sua
la _Kabbale_, ou _Philosophie religieuse des Hébreux_, formalmente la
respinge. Io credo che in questa, come in altre cose moltissime, abbia
colto nel segno.—No, o signori, fintanto che luce non sarà tenebre, nè
il giorno in notte converso, Baitusei ed Esseni non saranno giammai una
cosa sola, un istituto, un sodalizio. Riflettete all’opinione costante
universa prevalente negli antichi e nei moderni tempi della esistenza
di un individuo, di un eresiarca famoso per nome _Baitos_, fondatore o
vogliam dire caposetta della fazione Baitusea;[5] esistenza, o signori,
che, come vedete, la possibilità perfino ci toglie di scindere, di
notomizzare l’indiviso e personale distintivo dell’eresiarca Baitos.[6]
Riflettete, infine, che i Baitusei non sono tali sconosciuti e
incompresi settarj, che sia lecito alla ventura fantasticare sul conto
loro; che note non ci sieno le lor dottrine, note le divergenze dal
centro ortodosso, noti i caratteri, note le costitutive e naturali
fattezze,[7] e troppo ristretto quindi e troppo angusto il vallo
riservato ad arbitrarii connubii.



LEZIONE TERZA.


Vi dissi, o signori, come il Fuller aveva dapprincipio sottoscritto
alla opinione del nostro De Rossi, e come esso prestò omaggio
alla etimologia Baitusea. Ma che? ben presto s’avvide su quanto
fragile fondamento posasse la preaccennata opinione. Narrò ai dotti
impazienti come il vocabolo Esseni significasse uomini _ritirati_,
_ascosi_, e poco mancò non dicesse solitarj e romiti. Non è difficile
ch’egli dedotto avesse il nome Esseni dal vocabolo _Asam_, che
in ebraico significa ripostiglio; o, meglio, che dalla radice ne
ripetesse l’origine, che l’idea esprime veramente di _tesaurizzare_
e _nascondere_, siccome Isaia (XXIII) aveva detto, di questo
vocabolo giovandosi, _lo ieazer veló iehasen_. La nuova etimologia
del Fuller riunisce ella, o signori, tutte le desiderate condizioni
di credibilità? Rispond’ella a tutte le esigenze grammaticali,
critiche, storiche e dottrinali? Quanto alla prima, io vo’ dire alla
convenienza grammaticale, sarebbe ingiustizia il dirne male. Ben
altre etimologie, e ben altrimenti arbitrarie, furono propalate qual
prezioso e pellegrino trovato. Ma potranno dirsi egualmente contenti
la critica, la istoria, e il genio e l’indole generale delle sètte? La
critica potria invero, ponendoci un poco di buona volontà, chiamarsi
contenta; potrebbe ricordarsi la critica come i Talmudisti dicessero
appellativo glorioso quello di _hobesé bet amedras_, che suona gli
_studiosi reclusi_; come uno tra essi celebratissimo recasse il nome
di Hanen il recluso, _Hanen anehba_; come di parecchi si narri nel
Talmud di Gerusalemme, avere eglino menato della vita gran parte, nel
fondo di una grotta, _tamir bimhartà_: e infine potrebbe con cert’aria
di trionfo notarsi come i diletti di Dio, i suoi servi, i suoi fedeli,
siano detti a dirittura nei Salmi, i reclusi di Dio, i nascosi di Dio.
(_Salmo 83._)

Ma che per ciò, o signori? Io ripeterò ciò che parmi aver detto
altre volte. Questi curiosi ravvicinamenti, questi tratti di luce,
queste inaspettate e brillanti conferme, possono, in progresso di
tempo, avere sovrapposto sul fondo primitivo un nuovo senso che nè al
vocabolo ripugnava nè al costume degli Esseni. Ma può esserne stato,
o signori, cotesta la naturale e propria e primitiva intelligenza?
Io non lo credo; e per addurre due potentissime ragioni, ella è, in
primo luogo, la considerazione per me capitale che gli Esseni così
facendo, dissentito avrebbero dall’andazzo comune di ogni setta, la
quale quel nome a preferenza si appone che il genio intimo e la natura
sua propria e il carattere prominente stia a significare, anzichè un
uso o una qualunque consuetudine, per quanto grande e peculiare si
voglia imaginare. Ella è, in secondo luogo, la formale e contradittoria
deposizione della istoria, la quale, siccome a suo tempo vedremo, non
solo della vita reclusa, del genio cenobitico non fa costume proprio
inseparabile dagli Esseni, ma gli Esseni stessi ci addita talvolta
negli affari e nelle transazioni mischiati della umana società, e bella
e grande parte sostenere sì nelle politiche, come nelle religiose
faccende.—Il fatto, o signori, la reclusione, la vita cenobitica, cade
qual integral requisito dell’Essenato; e con esso cade la etimologia
del Fuller sur esso fondata. Altra ne escogitò lo Scaligero, e fu
quella di _Santi_. Che ciò significhi il nome di _Esseni_, non oserei
sostenere, comecchè io vada persuasissimo che tra i nomi che recarono
gli Esseni, fu quello di _Santi_; come, da un lato, ne fanno fede
le numerose menzioni che sotto questo nome appunto ne fa il Talmud,
segnatamente là ove si parla della Santa Società, _Keilla caddiscia
di biruslem_; e come, dall’altro, non meno concludenti ne soccorrano
all’uopo i tanti passi degli Evangeli, in cui i primitivi cristiani,
usciti senza meno dagli essenici chiostri, s’intitolano _Santi_; e
_Santi_ è tra i nomi che gli storici attestano avere i cristiani
nei primi tempi recato, molto prima che _cristiani_ si dicessero in
Antiochia.

Strana cosa avvenne poi ad un antico padre della Chiesa cristiana, a
S. Epifanio. Non è già che la cognizione della vera e sana etimologia
gli facesse difetto, che anzi egli la conoscea benissimo, egli la
propose, la insegnò; ma non quotando nel possedimento del vero, cercò
il nuovo ed incappò nell’errore. Stava a cuore ad Epifanio, siccome
stette di poi ad altri moltissimi della sua religione, di noverare
il nobilissimo Istituto tra quelli che la chiesa generò nei primi
secoli; di cristianizzare, per così dire, lo Essenato, di svellere
la gloriosissima pianta dal Monte Sion per innestarlo al tronco
cosmopolita del cristianesimo, e questa cara e bella gemma strappare
alla corona di Giuda. Però non rifinirono antichi e nuovi dottori
cristiani di cercare alle loro pretensioni argomento; cercarlo nei
fatti, cercarlo nelle dottrine, e di queste vedremo; cercarlo poi
nell’etimologia, e di questa adesso vediamo. Il primo a dar il segno
della propaganda retrospettiva, fu, come dissi, Epifanio. Egli nel
nome Esseni trovò Iesse genitore di Davide; anzi, in grazia di esso,
il nome di Esseni in quello mutò più alle sue viste affaciente di
_Iesseni_. Gli parve poco. Gli parvero troppo remoti, troppo indiretti
i rapporti coll’oggetto che preso si aveva di mira. Egli osò; e di un
balzo superò ogni distanza, e di un balzo strinse, confuse, identificò
l’Essenato o il Cristianesimo; e quello, come questo, derivò dal nome
di Gesù, e gli Esseni disse da Gesù appellati, siccome quelli che alle
dottrine sue preso avevano ad ubbidire. Dante, o miei giovani, disse in
alcun luogo della Commedia, negarsi talvolta dagli uomini ossequio a
quel _ver che ha faccia di menzogna_; nè la mente errò, così dicendo,
del divino Poeta. Dante, avria potuto dire con egual verità, che
spesso quest’ossequio si concede, si prostituisce a _quella menzogna
che ha faccia di verità_. Ma quella di sant’Epifanio ha ella almeno,
o signori, di verità la sembianza? Io dico che ella reca distinto
il suggello dell’errore, dell’arbitrario. Chi mi sa dire, invero,
quale delle due sue interpretazioni riesca più a udir tollerabile?
È ella forse la prima, è ella quella che da Iesse padre di Davide
l’appellazione ripete degli Esseni? Ma qual rapporto, di grazia, fra
l’antico Betlemmita, e il grande e il dotto istituto degli Esseni? È
ella la seconda che da Gesù, il nome conia di Esseno, di Essenato? Ma
vuol dunque egli, sant’Epifanio, la baia dei fatti nostri? Che un padre
della chiesa, che un Epifanio non voglia soscrivere alla sentenza di
parecchi tra i moderni che Gesù vogliono anzi educato, ispirato nella
società degli Esseni, questo di leggieri si comprende; ma quello che
non si comprende, questo si è, o signori, cioè come ignorasse Epifanio,
che mentre gli Esseni mangiavano, bevevano e panni vestivano, il
modello d’onde tolsero, al dire di lui, a foggiare il nome loro, il
preteso denominatore della setta, giaceva tuttavia latente in grembo al
futuro; ch’è quanto dire che Gesù Cristo non esisteva: e non occorre
aggiungere che, salvo quei rarissimi casi in cui tutto collima ad
attestare la verità di un supposto, non è concesso a chicchessia,
fosse pure un santo, detrarre o aggiungere una jota, siccome egli fa,
veramente nel nome che si vuol decifrare. Or, chi ha egli abilitato
Epifanio a cangiare il nome di Esseni in quel di Iesseni? Ecco, o
signori, le cause, le gravissime cause che ci interdicono lo assentire
alle arbitrarie interpretazioni di Epifanio.

Vi fu, o signori, chi accettando la lezione di questo Padre, e
chiamando lo antico sodalizio _Iesseni_ piuttosto che _Esseni_,
una interpretazione v’innesta che ha, se non altro, l’apparenza di
plausibile. Volle il _Nilo_ che Esseni si dicessero nel significato
di Dotti e di Savi. D’onde una siffatta etimologia? Egli vide la
Sapienza denominata nelle sacre scritture col nome implicito di
_Ies_; dico, o signori, implicito, perchè la forma e lo involucro
esteriore suona piuttosto _Tuscia_, comunque universa predomini la
opinione, inchiudervisi qual radice il vocabolo significantissimo
di _Ies_. Che vuol dire _Ies_, o signori?—_Ies_ è il vocabolo che
esprime l’Idea più astratta, l’Idea, sto per dire, più ideale—l’Idea
massima—l’_Essere_—l’_Essere_ metafisico, incondizionato,
indeterminato, e come direbbe il Rosmini, l’_Ente Possibile_.—Ma _Ies_
esprime eziandio, voi già l’udiste, l’Idea di Scienza, di Dottrina, di
Pensiero per eccellenza; attalchè, per una ammirabile e notevolissima
sinonimia, acchiude nel proprio senso il duplice significato di
Essere e di Pensiero. Voi non potreste misurare la immensa importanza
di questo bellissimo trovato filologico senza molte indispensabili
precognizioni filosofiche; che dico? senza alle più alte cime poggiare
della odierna filosofia Alemanna, senz’almeno toccare del rinnovatore
delle filosofiche discipline, di Cartesio, che poneva a base del suo
sistema il famoso _Cogito, ergo sum: Penso, dunque esisto;_—senza
risalire almeno a Platone che, nel decimo delle leggi, domandava _che
cosa è l’Essere Primo?_ e rispondeva l’Essere Primo, è l’Idea—è il
Pensiero;—senza accennare almeno ai Dottori, i quali videro nel _Ies_
promesso ai giusti in Paradiso, _leanhil oabai_ IES, l’Essere Perfetto
e il Perfetto Pensiero, cioè la _Visione_.[8]

È egli questo lavoro, o signori, che intraprendere si possa e compire
tra due parentesi? Il vostro buon senso ha già risposto per me. Io
voglio soltanto che impariate da questo esempio, quale sterminata
latitudine abbracciano le lettere ebraiche; come in fondo ad un oscuro
vocabolo ti si apra non di rado agli sguardi atterriti tale profondo
e smisurato abisso, da darti, al solo vederlo, il capo-giro; come gli
spregiatori di queste _frasche_ pretese, sieno tanto savi quanto il
villano che d’uno sguardo non degna la minutissima polve stellare che
si chiama _Nebulosa_, alcune poche palate anteponendole invece del
suo caro concime. Fatto è, o signori, che _Ies_ adombra l’Idea di una
scienza sublime, di una scienza nella sua perfezione immanente; e chi
solo ne dubitasse potria vedere i più rigidi ed esclusivi gramatici, il
Kimhi tra gli altri, nei suoi Radicali.

Si apponeva egli, o signori, il nostro Erudito nel derivare da questo
vocabolo, l’origine di quel di Esseni? Senza dubbio, che qualche giusta
e calzante analogia milita in favor suo. Il favorisce, o signori,
l’Ebraico _Jesciscim_, al plurale _Vecchi_, o come altrimenti si
voglia, _Anziani_, nei quali, dicono i Proverbi, posta ha seggio la
Sapienza: _bisciscim hohma_. Il favorisce lo esempio dei Pitagorici,
coi quali non pochi nè lievi riscontri ci offrirà il nostro Essenato,
che il nome i primi coniarono ed assunsero eglino stessi per
tempissimo, di _filosofi_, ossia cultori ed amanti della sapienza:
e quando ogni altra analogia venisse meno, quella sorgerebbe viva e
parlante di tutto il Dottorato Ebraico, che la caratteristica distinse
mai sempre di _Hahamim_, savi. Dirò anzi di più, che per questa come
per alcuna fra le altre etimologie da noi rigettate, noi rechiamo
sentenza che i nomi che vi si volle trovare, se non esprimono il
senso di Esseni, pure tornano in acconcio al grande Istituto, e per,
alcuni almeno, probabilmente il contraddistinsero. Di questo novero
è il nome di Savi, di Dotti; diciamolo a dirittura, di _Gnostici_.
Noi che crediamo gli Esseni antenati dei Cabbalisti, la cui scienza
essi chiamarono _Gnosi_ o _Scienza_ per eccellenza, come chiamarono
la propria e il Cristianesimo e le prime Eresie; noi che ricordiamo
nel Talmud cento parlantissimi casi in cui il nome di _hohma_ o
Gnosi è usato manifestamente nel senso di Dottrina Acroamatica, non
potremmo negare la convenienza di questo nome all’istituto degli
Esseni. Ma è egli questo che il nome loro significa? Chi non lo
vede? _Ies_, _Iascisc_, _Tuscià_, nel senso pure più favorevole alla
imaginata derivazione, sono vocaboli che appartengono principalmente
al linguaggio sublime, allo stile, per così dire, nobile, poetico,
aulico, aristocratico della Scrittura. È ella questa la officina ove i
nomi si coniano per l’ordinario, che scuole e sètte contraddistinguono?
La Storia vi risponde al contrario. Parole vive, parole usate,
correnti sulle labbra del popolo; parole pregne di senso, multiformi,
multilatere e in sommo grado comprensive; ecco, o signori, il materiale
donde si foggiano i nomi, le qualificazioni delle sètte. E tale non
è la proposta derivazione.—Ella è troppa dotta, troppo classica,
troppo studiata, per esser vera. È anche, dirò di più, troppo biblica,
troppo scritturale, per tornare in acconcio nella epoca Rabbinica per
eccellenza, nella quale sotto questo nome ti apparisce a prima volta
lo Essenato;—per consuonare con quella lingua dai Dottori parlata, che
se non è il dialetto Ebraico-rabbinico dei tempi posteriori, è certo
immensamente distante dal biblico purismo; con quella lingua insomma
che mirabilmente tramezza

  Fra lo stil de’ moderni e ’l sermon prisco.

Ancora, o signori, ulteriore esame ci attende, e noi abbiamo finito.

Egli è un curiosissimo passo che la mia stella propizia mi parava
dinanzi nel volgere e rivolgere a questo uopo le carte; un passo, io
dico, sugli Esseni rilevantissimo, nella più dotta descrizione che
della Grecia vetusta ci abbia tramandata l’antichità, in un autore
greco egli stesso, in Pausania. Egli, nella descrizione dell’Arcadia,
discorrendo del celebre Tempio di Diana Imnia nella regione degli
Orcomeni, alcune cose va esponendo di cui disconoscere non si potrebbe
la importanza. Narra Pausania, come stabilito fosse dalla legge che
la sacerdotessa e il sacerdote, non solo circa il commercio carnale,
ma in tutte le altre cose ancora dovessero serbare la castità per
tutto il tempo di vita loro; che nè il bagnarsi, nè vivere secondo
gli altri, nè entrare nemmeno nella casa di un privato fosse loro
consentito. Giunto a questo punto, Pausania esce fuori con queste
parole che io vi raccomando, che riproduco testualmente, ed alle quali
vi prego attendere tutti in orecchi.—_Io so_, dice Pausania, _che
queste cose_ (ch’è quanto dire il celibato, la solitudine e la vita in
tutto singolare di sopra rammentate) _osservano presso gli Efesi, per
un anno non per tutta la vita coloro i quali sono Estiatori di Diana
Efesina, e che dai cittadini, Esseni, sono chiamati_ Tanto è. Pausania
ha pronunziata la gran parola! La parola di Esseni! e l’ha profferita
a proposito non già di Solima e delle sue sètte, ma di Efeso, ma del
culto di Diana, ma del prisco Politeismo.

Ove siam noi, o signori, e che cosa significa questo stranissimo
incontro? Siamo in Efeso? Siamo in Palestina? È Diana che qui si adora,
è l’Eterno che qui si cole? Sono Ebrei cotesti, sono Pagani? Voi siete
già, o miei giovani, non è egli vero, alquanto sorpresi. Or bene,
permettete che vi dica che tutto non avete udito. Avete udito, è vero,
i sacerdoti di Diana Efesina qualificati Esseni; intenderete adesso,
cosa più strana, intenderete un Dio, un Dio del Paganesimo, il più
grande degli Dei dell’Olimpo, l’Ottimo, il massimo Giove, _Esseno_ egli
stesso esser chiamato. Chi gli diede questo nome inatteso? Chi operò
questo strano connubio? Egli è il poeta Callimaco, a cui gli antichi e
i moderni tempi concessero fama di dottissimo nelle greche antichità.
Egli è Callimaco che così si esprime nell’Inno a Giove che reca il
suo nome. Callimaco, che insieme a Pausania ci attesta la presenza
in seno al paganesimo di un istituto, dirò di più, di uno _stato_ di
straordinaria perfezione che dai popoli, dai poeti, Esseni ed Essenato
eran chiamati. Che vuol dir ciò, o signori, e quale è dello Essenismo
la chiave? La chiave, o signori, è pronta. L’Edipo si è trovato.
Egli è lo _Scoliaste_, ch’è quanto dire l’autore delle _Scolie_ o
commenti alle Poesie di Callimaco. Egli lesse come noi il Giove
_Esseno_ di Callimaco; ad esso, come a noi, sembrava strano, incompreso
l’epiteto; ma egli meglio di noi nelle greche lettere erudito, potè
coglier più davvicino nel segno.—Narra lo Scoliaste, come il vocabolo
_Esseno_—notate, o signori, singolarità,—fosse vocabolo _vecchio_,
usitato in Efeso; e di che lingua credereste? Forse della lingua greca?
della lingua popolare? Signori no, dice lo Scoliaste, della lingua
_Religiosa_. E che significa in questa lingua, di grazia, il nome
Esseno?—Significa, ripiglia il nostro chiosatore, significa Re delle
Api, e in questo senso fu conosciuto, fu usato nei prischi tempi.
Però non guari andava, continua lo Scoliaste, che il senso assunse di
Re, di Monarca in generale, e Monarchi e Re furon detti Esseni. Ma una
nuova trasformazione il vocabolo Esseni attendeva, e non è la meno
importante. Venne tempo in cui per dir Re, Sacerdote, Principe dei
sacrifizj, Preside nei sacri agapi o nei religiosi conviti, _Esseno_
generalmente solea dirsi. Esseno, quando l’officio si voleva indicare
che in Atene eserceva il Re Arconte; Esseno, quando quello che in Roma
sosteneva il _Rex Sacrificulus_.

Questi sono i fatti, o signori, e dei fatti interprete fedelissimo
finora mi sono reso. Èmmi dato perciò muovere un passo più oltre? potrò
io scoprire quali relazioni possono avere stabilito questa comunanza di
nome, e in parte questa comunanza d’idee, tra l’Essenato Palestinese e
il sacerdozio dell’Asia Minore? Io confesso che non mi sento da tanto,
nè tanto mi consentono le notizie di cui io dispongo, nè le forze nè
il tempo nè la già stancata pazienza vostra. Il fatto, o signori, è
grande e vistoso, e tale da provocare gli ingegni più felici, e da
meritare le indagini più accurate. Noi lo lasceremo per altra volta
intentato: forse non ci sarà disdetto rivolgerci sopra altra fiata la
mente. Per ora mi basta chiamare la vostra attenzione sopra questi tre
punti, secondo me, capitali. Il primo riguarda il luogo. Quale è il
luogo ove udiste risuonare il nome di Esseni? È, voi lo sapete, l’Asia
Minore; quell’Asia, cioè, ove vedemmo sin dalla prima lezione sorgere
una città per nome _Asia_, da cui fu creduto per alcuni derivato il
nome di Esseni; ove traevano, come avete veduto, i più eletti campioni
del nostro Dottorato a celebrarvi la fissazione e la proclamazione
delle feste, e la intercalazione del nuovo mese. Questo è, o signori,
il primo punto. L’altro fatto di non minore rilievo, è il vocabolo
ebraico _Hassen_, il quale non solo, come l’Efesiano Esseno, suona in
genere _forte_, _illustre_, _magnifico_; non solo è posto al fianco
di _Nezer_, Corona, e vi officia qual sinonimo, secondo il genio del
parallelismo ebraico, _chi lo leolam hasen veim nezér ec. ec._; ma,
ciò che pone il colmo alla nostra ammirazione, è il vedere nei salmi
Dio, Dio nostro, il Dio vero chiamato Dio _Hassin_, in quella guisa che
facendosi organo del pensiero ieratico dei sacerdoti di Diana, chiamava
Callimaco il greco Giove, Giove _Esseno_; parola non greca, non
popolare, ma vocabolo vecchio, ma vocabolo della _lingua religiosa_,
siccome udiste dalla bocca di Callimaco stesso.[9] E questo è il
secondo punto. Venga il terzo adesso, e chiuda di queste riflessioni la
serie.

Il terzo è quell’accordo mirabile di cui misurare non potete sin d’ora
la estensione, ma che vedrete tra non molto evidente tra parecchi dei
costumi agli Esseni di Efeso da Pausania assegnati, e quelli di cui la
Storia favella degli Esseni Palestinesi. Il Celibato—La Solitudine,
e sopratutto l’officio, il genio religioso che rappresentano, sono
altrettanti legami che l’una all’altra stringono le due lontane e
sconosciute istituzioni. Quale è la conseguenza che da tali fatti
scaturisce spontanea? Io dissi come troppo soffriamo inopia di
ulteriori notizie per decidere autorevolmente delle origini recondite,
per assegnare di queste curiose coincidenze la prima cagione. Noi da
questa doverosa riserva non ci partiremo. Hanno sempre, hanno tutti a
questo proposito seguita una sì facil a un tempo e sì difficil virtù?
Mi duole dirvi che non fu sempre seguita. Sedotti da queste parventi
e preziose analogie, si attentarono alcuni autori a sentenziare
a dirittura la medesimezza, che dico, o signori? la filiazione e
derivazione immediata della società degli Esseni palestinesi dalla
corporazione sacerdotale degli Esseni di Efeso; e ciò che vi parrà
senza dubbio enorme, non temettero di asserire l’origine e il carattere
intimamente pagani del grande, del bello istituto degli Esseni. Siamo
noi condannati a sottoscrivere ciecamente ai costoro novellamenti?
Siamo noi così al verde di prove, di argomenti, che dobbiamo accettare
l’origine pagana che agli Esseni si vuole assegnare? Fortunatamente,
nol siamo; e che nol siamo veramente, non è da ora che il potete
vedere; non è da ora che noi dobbiamo affrontare la grande questione
della _origine_. Se ne ho fatto menzione da ora, sapete, o signori,
perché? Perché questa strana, questa folle pretensione, non d’altro
prendeva, a così dire, le mosse, che dal fatto di una concordanza
etimologica, da una pretesa identità di vocabolo. Vedete che cosa vuol
dire una falsa etimologia. Eccone, gli effetti. E quali effetti! La più
grande mentita alla istoria; la più solenne contradizione ai principii
più ricevuti; la più grande eresia storica che sia mai uscita da labbro
mortale. Aveva io ragione di crollare, anzi tutto coll’etimologia, le
basi degli avversi sistemi? Aveva io ragione di attaccarmi corpo a
corpo alle parole, e bandire, per così dire, una guerra gramaticale?
Guerra che ha forse avuto presso di voi l’aria di puerile, di
sofistica, di pedantesca; ma che pure è suggerita imperiosamente
dall’assunto, e che noi con queste parole abbiam condotto a buon fine.

Prima però di chiudere questa discussione sul valore del nome Esseni,
non possiamo tacere di un dotto Israelita vivente, distinto non meno
per l’insigne officio che egli onora, che per la scienza e l’erudizione
sua vastissima. Egli è questo l’illustre signor S. J. Rapoport,
Rabbino maggiore di Praga. Egli, nel suo gran Lessico Rabbinico, _Ereh
Millim_, e di cui solo una brevissima parte mandò già alla luce,
tocca del significato del nome _Esseni_ ove ragiona del vocabolo
_Iso_, che s’incontra di frequente nel Talmud; ch’egli fa derivare
dal greco [Greek: isos] _Amico_, _Confidente_, e da cui, egli dice,
_si trae a buon diritto uno dei due soli significati plausibili del
nome dell’antica società degli Esseni_.[10] Egli ci promette di meglio
svolgere il suo concetto al vocabolo _Haber_. A noi torna sommamente
gradevole il poter annoverare il dottissimo uomo tra quei che
vorrebbero vedere nei _Haberim_ del Talmud gli Esseni medesimi, siccome
pare volere accennare l’illustre israelita, e se male non ci apponiamo,
egli è questo un nuovo omaggio a quella identità essenico-farisaica che
sarà obbietto di perpetua dimostrazione nel presente lavoro. Quanto
al nome di _Iso_, amico, confidente, d’onde il nome di Esseni sarebbe
derivato, non parmi trovato così felice come pare al dotto autore.
Scarsa e dubbiosa consonanza col nome di Esseni o Essei concordemente
usato dagli antichi; improbabilità che per designare un _particolare
sodalizio_, quel termine si sia adottato che vale a significarne ognuno
qualsiasi; le allusioni che sotto il nome di Assé o Asia vedremo fare
dal Talmud alla società degli Esseni, locchè prova come nella mente
dei contemporanei meglio da _Asia_ medico, che da qualunque altro il
nome suo derivasse; sono queste, o signori, considerazioni, e tutte
gravissime, se non erro, che ci tolgono di potere sottoscrivere alla
sentenza del signor Rapoport. Non pertanto, ella è quella che noi
abbracceremmo volentieri, se altra non fosse che meglio ci paresse
riunire le condizioni della verosimiglianza, e s’ella non è la vera,
ella è certo la migliore di quante abbiamo udito sino qui profferire.

Che ci resta ora, o miei giovani? Saziare gli occhi nel dolce aspetto
di verità. Trovare, additarvi che cosa intesero gli Esseni dandosi
questo bel nome che la virtù e la sapienza loro han renduto immortale.



LEZIONE QUARTA.


Io vengo, o signori, a mantenere la mia promessa. Il nome di Esseni
deporrà questa sera ogni velo che ne contende la vista, e tutto ci
apparirà quale prima immaginaronlo gli antichissimi Esseni. Che cosa
significa questo nome? _Esseni_ (diciamolo una volta, ed all’asserzione
seguano immediatamente le prove) Esseni fu detto da _Assia_, o Asse,
che nella lingua Aramea, nella lingua talmudica, nella lingua da
Babilonia a Gerusalemme importata e quivi a favella promossa pressochè
generale, significava _Medico_, _Risanatore_, o come dire vogliamo in
greco idioma, Terapeuta. Voi fate, o miei giovani, le meraviglie ed
avete ragione. Io non mi sono ancora abbastanza spiegato per avere il
diritto d’essere a prima fronte creduto da voi; la mia ipotesi non ha
fatto ancora le sue prove, non vi ha presentato i suoi certificati in
buona regola per concederle incontrastato della mente vostra l’accesso.
Il vostro pensiero europeo, occidentale, positivo, analitico, non può
farsi issofatto un’idea degli arditi, dei bruschi passaggi, delle
repentine conversioni dal senso proprio a quello improprio di una
parola; e tanto meno potrebbe al primo sguardo afferrare tutta la serie
infinita di applicazioni, di accessorj, di ramificazioni, in cui l’Idea
madre si traduce di mano in mano; in cui, quasi in un ampio ed opaco
mantello, si va sempre più nascondendo all’occhio dei riguardanti.
Leviamo un lembo di questo velo,—mostriamo un raggio di quell’evidenza
di cui brilla, a senso mio, la presente interpretazione. Io dissi
esser ella eminentemente consentanea alle idee, alle forme dei sommi,
antichi predicatori dell’Ebraismo. Ma che cosa è l’Ebraismo? L’Ebraismo
non solo è una Religione, non solo una Civiltà, non solamente una
politica, una legislazione, una letteratura; ma, tollerate che io lo
dica, ed ho prove nelle mani, è anche una Terapeutica, un’arte, una
scienza salutare. Lo è dei corpi,—lo è degli spiriti. Lo è dei corpi
in doppio modo, in doppio senso, per doppio scopo. Pel primo, ella non
fa che antivenire coi suoi celesti preservativi i mali onde i popoli
vanno afflitti; ella promette per bocca di quanto ha di più adorabile,
_che tutte le piaghe, le infermità dell’Egitto sarebbero senza possa
sopra i suoi fidi seguaci; che Dio, ne sarebbe il grande archiatro, il
gran medico, il gran Terapeuta_.[11] Ella annunzia, qual conseguenza
del culto di Dio, _il pane e l’acqua salutiferi, la remozione d’ogni
malore, non orbamento, non sterilità, e sopratutto una vita longeva_;
ella, infine, tutto il suo culto adombra sotto una frase che l’idea ci
offre viva, spiccata, di una salutar disciplina; anzi, che significa
a dirittura Terapeutica nel nome, o signori, di _Terafim_, la quale
comecchè rivolta fosse ad uso idolatrico, pure in principio alla fede
vera appartenne, e il magistero degli oracoli divini e tutto l’insieme
del culto valse a designare;—in quella guisa che _Kesem_, e forse
per avventura anche _Nahas_, prima di essere espressioni colpevoli e
termini idolatrici, furono vocaboli innocentissimi di religione;—in
quella guisa che l’idolatria stessa non è che abuso e adulterazione
ed apoteosi parziale di un principe ortodosso. Ella annunzia per
bocca di Salomone, che le sue dottrine, il suo culto, sarebbero il
palladio della salute corporea, e l’antidoto più efficace contro
di ogni maniera infermità,[12] ed in questo senso, o signori, ella
è interna, occulta, indiretta operatrice di sanità. Chi volesse di
questo pronunziato sindacare il valore, chi volesse, al lume eziandio
naturale, indagare di questi influssi le cause, troverebbe occasione
di belle e amabili speculazioni. Montesquieu, e prima e dopo di esso
moltissimi come lui, comecchè non così di reciso, videro nel clima, e
poi nelle _Istituzioni_, la causa delle grandi e delle infinite varietà
etnografiche fra popolo e popolo. Curiosissimo, poi, sarebbe studiare
delle varie Religioni gli svariatissimi influssi sul corpo dell’uomo, e
quella predicare sovrana tutrice dell’umano benessere, che più al segno
si avvicina. Dico cotesto per persuadervi come le vantate pretensioni
che udiste poc’anzi, non siano aerei edifizi che non poggino sovra basi
reali e ferme.

Certo, o signori, questa Igiene per così dire trascendentale, estolle
il capo sino al più sublime dei cieli, e certe segrete armonie suppone
tra il corpo e lo spirito, le quali la scienza non sospetta nemmeno:
ma se il capo si erge al cielo, i piedi posano in terra; se i suoi
principj sono sovraumani e sovrasensibili, i suoi effetti, le sue leggi
di second’ordine, il suo teatro, la sua applicazione sono sensibili,
sono palpabili, nè la scienza li revoca in dubbio. Ma qui non si ferma
il carattere per così dire terapico di nostra fede. Ella non è soltanto
come vedeste un’Igiene, non solamente contra i morbi assicura e
guarentisce, ma i morbi combatte sopravvenuti, ma la salute restituisce
perduta, ma ella è una vera e propria Terapeutica che lo scopo suo
prosegue con due ordini di mezzi.—Sono i primi mezzi naturali,
scoperti, naturali medicamenti che il genio enciclopedico universale
delle antiche Religioni restrinse ed accolse in grembo ai tempj, fece
banditori primi i Sacerdoti, ed a cui il carattere sacro appose, al
primo apparire, di religioso e divino trovato. Sono i secondi quei
mezzi cui l’arte umana verrebbe meno; sono quella dittatura instantanea
che l’uomo ispirato assume, Dio consenziente, sopra il Creato; sono
la taumaturgia propriamente detta; sono le guarigioni prodigiose
del Vecchio Testamento; è Elìa, è Eliseo nell’atto di riaccendere
la fiaccola che è per spegnersi nel povero infante. Chi furono, di
questa doppia Terapìa, umana e divina, gli organi, i professori?
Furono i Sacerdoti ed i Profeti.—I Sacerdoti, che più dimessamente
procedono, e l’arte principalmente considerano e praticano dal lato
umano; i Profeti a cui spetta per eccellenza la medicina straordinaria
taumaturgica, che, nuovi Prometei, rapiscono di tratto in tratto il
foco celeste per riallumare la lampada della vita. Vedete però, o miei
giovani! sacerdozio e profetismo conscj ambedue delle prerogative,
non vogliono rivali, non tollerano che altri l’impero divida che
esercitan sui corpi. Non fu accademia così ostile alla importazione
di nuove teorie, alla consecrazione di nuovi farmachi, che più nol
fossero Sacerdoti e Profeti contro la medicina non officiale, non
sacra, non religiosa. I Re d’Israele sono presi a biasimare perchè,
piuttosto che consultare il Signore, gissero a interrogare la scienza
spuria dei medicastri (Croniche II, Cap. XVI, 12), e, se crediamo ai
nostri dottori, Ezechia Re santo avrebbe soppresso un intero trattato
di Medicina che sotto il gran nome si ammantava di Re Salomone; ed
allo stesso Ezechia affetto di scabbia, non sdegna il grande Isaia di
prescrivere egli stesso quell’impiastro di fichi che ridonargli doveva
la sanità. Ma Profeti e Sacerdoti cessarono.—Cessò forse la Medicina
religiosa, nel doppio suo genio naturale e divino? si estinse forse
con essi, o trasmigrava nei successori dei Profeti, dei Sacerdoti?
Così è, ai Profeti, al sacerdozio tenne dietro il Dottorato, e il
Dottorato raccolse di ambedue il retaggio nella doppia Medicina
naturale e miracolosa che insegnava ed esercitava congiuntamente.
Naturale nelle infinite vestigia che di essa reca il Talmud, e tutta
l’enciclopedia rabbinica dei primi secoli; arte se volete meglio che
scienza, cieco empirismo anzi che principj e metodiche deduzioni,
ma pure, o signori, tutti di medicina gli officj e tutte le parti;
prodigiosa però in quelle guarigioni portentose taumaturgiche che
sono, a così dire, uno strascico dell’Èra profetica, e che l’impero
rivelano non del tutto dismesso dell’uomo perfetto sovra le forze
create, che la Genesi augurava sin da principio (Genesi I, 28).[13]
Ora, questa duplice Terapia, quest’uso simultaneo di mezzi così
dispari, di semplici e di scongiuri, di virtù naturali e di angeliche
potestà, questa terrena e celeste farmacopea, ella è, sappiatelo a
dirittura, ella è il più vistoso, il più manifesto distintivo della
scuola che togliemmo a studiare. Non è da ora, o miei giovani, che a
noi è dato il vederlo; ma verrà tempo, e non è lontano, in cui queste
cose ci saranno manifeste. Vedrete gli Esseni a questa duplice Terapia
dar opera solerte; li vedrete studiar sulla natura, sulle virtù dei
semplici e sulla composizione dei farmachi; li vedrete studiosi sui
libri della recondita Medicina dagli avi loro trasmessa; li vedrete in
una parola _Esseni_ in tutta la forza della parola, che è quanto dire
_Medici_—Medici, risanatori per eccellenza.

Questo è il primo senso in cui si dissero gli Esseni medicatori e
Terapeuti. Ma non vi fu un altro, che il primo immensamente sopravanza
in altezza, in nobiltà? Sì, vi fu; e tanto il primo trascende per
ogni verso, quanto l’animo il corpo trascende, quanto la sanità, la
purità e la interna armonia dello spirito, quelle vincono di gran lunga
che il frale riguardano. Gli Esseni non furono soltanto i Medici del
corpo, ma Medici si dissero pure dell’animo umano. Era egli cotesto
nuovo officio, nuovo vocabolo nella lingua religiosa dell’Ebraismo?
Dite piuttosto che era antichissimo; che la Bibbia rigurgita di simili
esempi; che lo spirito non meno che il corpo fu sempre dall’Ebraismo
considerato siccome un ente che a tutte le vicissitudini soggiace,
buone e triste, della vita; che ha la sua salute, le sue infermità,
le sue crisi, le sue cadute, le sue ristorazioni, e quindi una vera e
propria scienza mediatrice. Ma dite piuttosto che univoci attestano
di queste idee predominanti i Profeti; che lo attesta Davide quando
chiedendo la remissione delle colpe, e la rigenerazione dell’animo
suo, chiede farmaco e guarigione, _Guarisci l’anima mia, chè a te
peccai_;[14] che il Perdono è da Isaia dichiarato qual suprema
sanatoria;[15] che lo stesso Isaia parlando nel nome di Dio, ci
presenta il peccatore amnistiato qual malato medicato e guarito[16],
che lo attesta, infine, Geremia e quasi al sommo reca la forza
dell’argomento, quando il Profeta istruttore chiama col nome istesso
di _Rofé_, Medico; e farmaco dice per avventura e teriaca preziosa
la dottrina di lui.[17] Sono elleno men di questi frequenti, meno di
queste eloquenti le prove che dai Rabbini si traggono? Hanno eglino
con manco predilezione usate in questo senso traslato, in questo senso
metaforico l’idea, il vocabolo di Medicina e i suoi derivati? Sarebbe
ignorare assolutamente dei Dottori la fraseologia, il disconoscere di
questa Idea, di questi traslati, gli esempj parlanti. Volete sapere che
cosa sono le religiose dottrine per i nostri Rabbini? Sono potentissimi
cardiaci pei cuori infermi; sono collirj pegli occhi oftalmici, e
antidoto, in breve, efficacissimo contro ogni malore. Ho io bisogno di
avvertirvi che così magnificando delle religiose dottrine i privilegi
a tutt’altro intendevano che ad una vera e propria virtù curativa?
Voi già comprendete, o signori, a che cosa si allude. Si allude sotto
il corpo allo spirito, si mira a traverso le infermità corporali, a
quelle infermità che affliggono la parte migliore di noi medesimi:
all’occhio della mente ottenebrato, al cuore fatto recesso d’ogni
vizio. Che più, o signori? Se un dottore trova agli ignoranti della
legge difesa nel dì della Resurrezione, egli chiama questo trovato
Medicina, _e trovai per loro guarigione nella legge_:—se il pregio si
vuol accennare trascendente di uno studio disinteressato, _Farmaco_ si
dice cotesto di vita Eterna, _Sam haim_; come tossico mortale si dice
il suo contrario, ch’è quanto dire ministero religioso sostenuto per
argento, _Sam ammavet_. Che volete di più? Non solo è il linguaggio
tal quale ve lo descrivo, non solo idee siffatte di Terapia ricorrono
ad ogni tratto, e più che non dissi ne riboccano gli antichi rabbinici
monumenti; ma ciò che infinitamente si lascia dietro ogni prova, ciò
che è lo specchio vivo e parlante dell’Essenato salutare e medicativo,
è l’attitudine esteriore—sono le forme curiosissime, sono gli
atteggiamenti espressivi, parabolici, figurativi, che prendeva talvolta
il dottorato insegnante. Avete udito d’Isaia che seminudo percorre le
vie di Gerusalemme, ed in sè raffigura gli Ebrei da esso vaticinati,
che fuggono dalla spada babilonese? Avete mai letto di Ezechiele che,
in realtà o in visione, si giace or da un fianco or da un altro, e
i cibi ingolla che l’umor satirico divertirono per lungo tempo del
filosofo di Ferney? Or bene—non dissimili da queste immagini parlanti
ci offre talvolta il dottorato mimiche rappresentazioni, e la medicina
n’è il subbietto. Vedete questo rivendugliolo che, andando attorno
per i villaggi che coronano _Sippori_, non rifinisce di gridare a
squarciagola e quasi con piglio ciarlatenesco—chi vuol della vita lo
elisire, venga e compri? _Man bae lemizban sam haim._ Chi è costui e
quale è il mirabilissimo specifico che proferisce? È un farmacista,
dice semplicemente il Medrasce, e nulla dell’esser suo aggiunge di più.
Ma il farmaco che cosa è? Il farmaco ve lo darei in mille a indovinare.
Pure se punto vi cale saperlo, salite qui.—Il pseudo farmacista è già
nelle stanze entrato di un dottore il quale affacciatosi al noto grido,
gli fece cenno dalla finestra, salisse pur su, che un confratello avria
trovato con cui alternare i saluti e le soavi parole. Che cos’è, o
gentil farmacista il Farmaco che tu ci vendi? Alla quale domanda ratto
trasse fuora un salterio che sottopose agli occhi del dottore, dove
questi detti si leggono significanti—_chi è l’uomo che ami la vita,
che giorni chiegga per esser felice? La lingua sua guardi dal male,
le labbra dalla menzogna, ec._ (_Vaicra Rabba, sez. XVI._) Ecco il
farmaco vantato. E pure, qual vero e proprio farmaco lo bandiva per
terra e castello. E pure, a quel grido gran calca fattaglisi intorno
di incettatori, la innocente frode per avventura disvelava, e testo
prendeva di là ed occasione a moralizzare le turbe, in quella guisa
che il fondatore del Cristianesimo ci dipingono gli Evangeli andando
attorno per le campagne e le moltitudini accorrenti concionando di
tratto in tratto dalla sommità di un poggio.[18] Vi pare che sia
abbastanza decisivo cotesto esempio? E pure una circostanza vi manca
sapere, ed è la più concludente. E quale è, o signori? É il nome vero,
il vero ufficio e il vero carattere dello pseudo farmacista. Già voi
sospettate che qualche cosa di più nobile sotto i panni si asconda
del cerretano: già i fatti presenti parlano troppo in favor mio; ma
la provvidenza ci serbava ancor più.—Per una di quelle singolari
coincidenze che nei libri rabbinici si dànno in mille volte, ciò che
implicito rimase nel _Medrasce_, trovammo esplicito nel Talmud; ciò che
col nome fittizio, supposto, quivi si designa di _Rohel_, col vero e
genuino nome si accenna nel Talmud. In una parola, nel fatto stesso, ma
più brevemente dal Talmud raccontato, il _Rohel_ non è più _Rohel_, il
cerretano non è più cerretano, ma è un vero e proprio dottore, un vero
e proprio Fariseo, nomato _Alessandro_.

Aveva io ragione quando diceva, il concetto che suggerì l’appellazione
di Esseni, profonde, vaste gettare le radici nei Profeti e nei
Rabbini, nella Bibbia e nella tradizione? Io credo, e non è troppo
presumere, che queste prove da sè basterebbero. E pure non sono le
sole; vi sono analogie, vi sono concetti, vi sono appellazioni non
dissimili nell’istesso paganesimo. Che dire della Biblioteca Egiziana?
Domandatene ad Orapollo e poi a Bossuet, che la narrazione ne riferiva.
Essi attestano concordi, come le Biblioteche si chiamassero in Egitto
con nome che in quella lingua suonava medicina dell’anima. Domandatene
Diodoro Siciliano. Egli parlando del sepolcro di Osimandia, vi dirà
che tra gli appartamenti di quel palazzo era una sacra Biblioteca alla
quale queste parole soprastavano incise: _Medicina dell’anima_. E per
ultimo, le buone ragioni si guadagnarono i buoni autori;—la buona causa
trovò buoni avvocati che la difendessero. S. Epifanio, che conobbe il
vero, e amore del nuovo trasse fuori del cammin dritto; il sig. Munk,
che nella _Palestina_ alla interpretazione nostra fa ossequio; il
_Salvador_, che esplicitamente vi assente nella grandiosa sua opera
_J. C. et sa doctrine_, ed altri molti che sarebbe lungo annoverare;
tutti intesero egualmente nel vocabolo di _Esseni_ quel concetto di
sublime, di superlativa _Terapeutica_, che noi v’intendemmo; tutti
vi prestarono ferma e ragionevol credenza: _a guisa del ver primo
che l’uom crede_. Ella è, infine, una deposizione il cui valore non
sarebbe possibile dissimularsi. Non è da ora che non possiamo insistere
sulla identità originaria degli Esseni coi Cabalisti. Sull’autorità
di scrittori gravissimi, ci permettiamo aggiungere quanto verrà più a
lungo trattato nel corso di questa istoria, ponendone i titoli in una
luce che non si potrebbe più sfolgorante. Intanto non è fra gli ultimi
indizii che a questa identità ci conducono, il fatto per più d’un verso
eloquentissimo, che nel Zoar il nome di _Assia_ vien conferito a un
dottore Cabbalista; e ciò che è più, nel senso che qui si accenna,
di medico spirituale, di Risanatore delle anime. E tanto si legge in
quell’opera a proposito di R. Samlai (_Zohar, vol. III, 75, 2._)



LEZIONE QUINTA.


L’origine degli Esseni doveva essere, voi lo sapete, subbietto delle
nostre ricerche, quando il nome fosse stato da noi rintracciato
che il nostro istituto contraddistinse. Questo nome, o Signori, la
derivazione di questo nome fu da noi recata a quella evidenza che si
poteva maggiore. Qual’è ora il compito nostro? Io già vel diceva.
Ella è la origine, la origine storica dell’Essenato, l’epoca della
sua formazione, le cause che precedettero al suo nascimento, il luogo
d’onde prima trasse i natali. Era la prima disquisizione, più ch’altro,
gramaticale. È la presente, ricerca storica, e ricerca gravissima.

Noi abbiamo di fronte, non amici da abbracciare, ma nemici da
combattere. Noi avremo il paradosso, il pregiudizio, la mala fede da
superare, pria di poter penetrare nei vestiboli di verità. Quali sono
questi pregiudizj? Eglino sono così svariati di forme, come sono eguali
in bruttura. Egli è, in primo luogo, il pregiudizio _Pagano_; che è
quanto dire l’origine pagana gratificata allo istituto più ebraico che
abbia mai esistito. Chi lo avrebbe pensato? Chi avrebbe detto che di
origine _pagana_ dovesse supporsi lo _Essenato_? E pure nulla di più
vero, di più dimostrato. Egli è il _Buhl_, il celebre storico della
Filosofia, che ne fa fede. Grazie al cielo, non è il Buhl che noi
dobbiamo combattere. Non è egli l’autore di paradosso siffatto; ma
egli lo ha registrato, gli ha dato luogo nella sua istoria; e se la
memoria non erra, non l’ha, come pure avrebbe dovuto, sotto il peso
schiacciato della sua autorità. Quale è la causa di tale aberrazione?
Su quai fondamenti, su quai pretesti riposa la pagana derivazione? Io
credo che non sia difficile indovinarlo. Voi vedrete quando del culto
ragioneremo, e delle adorazioni degli Esseni, come fuggito non abbiano
costoro ai morsi della più svergognata calunnia. Voi li vedrete, sopra
basi inconsistenti accusati, processati e per peccato condannati
d’_Idolatria_; li vedrete posti al bando del Giudaismo, e le note
contender loro e le prerogative di Monoteisti e di Ebrei. Li vedrete,
in una parola, accusati di prestare idolatrico omaggio al _Sole
nascente_. Noi vedremo allora di che sappia l’accusa inconsiderata;
noi rivendicheremo la bontà, la purità della loro credenza. Ma che
cosa si esigeva di più per porre gli intemerati Esseni in mala voce,
per additarli al mondo quali idolatri, e la fama accreditare tra i
contemporanei, tra i posteri, di una origine viziosa, di una origine
pagana? Voi vedete le basi vacillanti dell’accusa. Avrò io mestieri
di spendere parole soverchie a giustificarli? Dovrò io ricordare le
atroci calunnie onde furon bersaglio le israelitiche credenze, siccome
allora vi accennai, che del culto Samaritano tenevamo parola? Dovrò
dirvi dell’adorazione del firmamento che non pochi tra i Poeti Latini
favoleggiarono dei nostri proavi; del teschio che, al dire di essi,
nel recesso si adorava del Tempio di Dio, del famoso Asino che il gran
Tacito non dubitava di erigere a sommo obbietto del nostro culto?

Or, che miracolo se gli Esseni pur essi del grande onore parteciparono
di subire le accuse pagane, e se nell’accusa furono involti pur essi
del popolo nostro, essi che del popol nostro la più eletta parte
formavano e la più santa?

Ma un altro, credo, e non lieve pretesto, potè l’adito schiudere
alla imputazione mostruosa; voglio dire, o miei giovani, di un passo
di Flavio concernente gli Esseni, che tratto a peggior sentenza
ch’egli non dice, commentato dall’ignoranza e dalla malizia, potè
per un istante autorizzare la insensata imputazione. E quale è il
passo di Flavio? Egli è quello ove, parlando della essenica scuola,
e precisamente nel lib. XII delle Antichità, quella definisce come
una setta di _Giudei Pitagorici_. Il nome di Pitagorici non fu invano
pronunziato. Egli avrà sedotte le menti superficiali, egli avrà fatto
vedere ciò che Giuseppe non vi ha posto giammai, ch’è quanto dire
l’origine pagana. E pure, quant’era facile comprendere Giuseppe senza
costituirlo reo di tanta enormità! Che voleva dire Giuseppe? Egli
voleva far comprendere ai suoi lettori, ch’è quanto dire al mondo
pagano, ai Romani, ai Greci, a tutti quelli che degli Ebrei nulla
sapevano che non fosse dalla passione travisato, che cosa fosse quel
bellissimo istituto di cui egli, il grande istorico, si professava il
ferventissimo ammiratore. Egli lo dice un Istituto Pitagorico foggiato
all’ebraica. Egli lo dice un Pitagorismo israelitico, un Pitagorismo
ortodosso, siccome Filone fu detto _Platone filonizzante_, siccome
Porfirio chiamò lo stesso Platone un _Moisè atticizzante_.

Aveva egli ragione così giudicandolo, è ella esatta la sentenza
di Flavio? Noi in seguito lo vedremo. Ma quanto non dobbiamo noi
l’ignoranza ammirare, ammirare la mala fede di chi le parole di
Giuseppe innocentissime torse a così rea sentenza?

Noi non saremo i detrattori degli Esseni. Non saremo nemmeno i
loro adulatori. Non diremo neppure come da taluno fu detto, che
Pitagora essendosi recato, come ognun sa, in Oriente, colà cogli
Esseni s’incontrasse, che ne adottasse i principj, che l’Italico
sodalizio erigesse poi sul modello di quel di Solima. Questo fu
detto, e caldamente propugnato dai Frati Carmelitani, i quali vedendo
nell’Essenato l’origine del loro ordine, vollero fare altresì di
Pitagora un copista dei loro supposti antenati, e Carmelitano pur esso
coi _tria vota substantialia: obbedienza, povertà e castità_.[19]
Novelle son queste da muovere a riso, nè più seria meritano veramente
nè più lunga disamina.

Potremo dire lo stesso di altra origine che l’ingegno moderno pegli
Esseni fantasticava? Io credo che più profonda cotesta si esiga e
più protratta disquisizione. Il nome, il tempo, la fama dell’autore
vogliono che noi alcune parole ci spendiamo d’intorno. Qual’è il nome?
Il nome non potrebbe essere nè più famoso nè più interessante, e
(aggiungo volentieri) nè più specchiato nè più caro al popol nostro.
Egli è il _Salvador_, che primo tra gli Israeliti francesi dei tempi
nostri, salì sulla breccia, e tutto il fuoco sostenne il primo
delle falangi avversarie. Il tempo fu quello dei grandi religiosi
dibattimenti della Francia moderna. L’opera è quella che più fama destò
di sè in Europa, e soprattutto in Allemagna, ove precorse, ove augurò
la terribilissima scrittura dello Strauss.

Or bene, nella _Vita di Gesù e la sua Dottrina_, il nostro _Salvador_
dal proprio têma? condotto, scende a parlar degli Esseni. Egli chiede
a sè stesso degli Esseni l’origine; e qual ne segue risposta? Certo
non tale quale per noi si vorrebbe. Egli chiede del tempo, ed il tempo
egli lo vede, durante la invasione Siriaca, quando i successori di
Alessandro osteggiarono aspramente il popolo nostro, e sotto Antioco in
ispecie. «_Son origine la plus probable_, dice il Salvador, _remonte
à l’époque de l’invasion des Syriens._» Quali le cause che allora lo
istituto creavano? Non sono cause propriamente, dice il Salvador, ma
piuttosto _fortuito concorso di circostanze_. «_È una turba_, sono sue
parole, _è una turba di famiglie che rovinate dalla guerra, desolate
dalla continua violazione dei luoghi sacri, e degli atti alla credenza
loro oltraggiosi, ai quali venivano costretti; vanno in cerca di un
asilo nelle regioni alpestri della Giudea._» Quale è l’origine del loro
culto? Eccolo qual ei ce lo narra. «_È l’impossibilità di compiere
in quelle solitudini, riti e sacrifizj, o, come dire si voglia, il
culto esterno, ella è cosifatta impossibilità che l’animo rivolse
ad un’altra specie di culto, ad un culto più interno, alla continua
elevazione dello spirito, mercè la pratica della giustizia e gli
offici di carità._»—D’onde poi, secondo il Salvador, quella singolare
comunanza di beni, che fu peculiare distintivo dell’Essenato? Quali le
cause che la produssero? Furono, ad udirlo, «_l’incertezza della vita,
minacciata mai sempre dalla spada nemica, fu la necessità di provvedere
di sostentare tanti vecchi, tante donne, tanti fanciulli_.»—Ecco le
cause, conclude trionfalmente il Salvador, che ispirarono loro la
comunanza dei beni, che la stabilirono allora e poi in seno agli
Esseni, e ch’egli dice nel suo idioma «_ne tarda pas à devenir une
règle principale de leur institut_.»—Noi abbiamo parlato del Salvador,
come d’uomo si conviene della sua tempra, del suo ingegno. Noi gli
abbiamo tributato elogi non ipocriti, non servili e non avari. Ma noi
abbiamo perciò stesso la libertà pienamente acquistata di sindacare
la bontà, la ragionevolezza delle sue dottrine. Mi duole il dirlo, il
Salvador ha soggiaciuto al genio predominante del suo paese, del suo
tempo, e più assai al genio dei suoi vicini Tedeschi. Egli sente, come
essi, alto profondo orrore di tutto quello che per poco trascende le
età più moderne della istoria; egli è uno di quelli che i tempi, gli
uomini, gli istituti più antichi modernizzarono; egli è uno dei grandi
atleti che stringendo a così dire tra poderose ritorte le statue, i
monumenti, che sorsero all’aurora dei secoli, si sforzano e sudano e si
affaticano a tirarli a tempi a noi più vicini; egli è uno di quelli che
fanno vedovi i primi secoli dei fatti più illustri, degli uomini più
venerandi; che fanno, nell’ordine della cronologia, ciò che le moderne
nazioni civili fanno in ordine allo spazio, togliendo obelischi,
sfingi, sarcofagi e d’ogni maniera anticaglie, a quei paesi ove l’arte
li generava, e decoro illustre ne fanno di musei, di biblioteche, di
capitali. Egli è di quelli che fanno il vuoto nelle origini, e gli
uomini e i fatti condensano, accalcano in angustissimo spazio di tempo,
con quanta sapienza e ragione, non so.

Fuori dei tempi antichi, ogni romanzo è buono a costoro. Anzi, la
storia sol perchè è antica, è romanzo, e il romanzo solo perchè è
moderno, è la istoria.—Io ho detto romanzo, e lo mantengo. La teoria
del Salvador, con sua buona pace, non è che romanzo. E se vi aggrada
come me osservarlo, vedetelo immantinente. Io potrei appuntare per
primo il Salvador, non di plagio, chè la di lui probità letteraria me
lo contende, ma di aver disdetto, voglio credere involontariamente,
l’onor del trovato a chi si appartiene. Potrebbe dire una critica
meticulosa, che male non avrebbe fatto il Salvador a narrarci chi
fu il primo a porre innanzi la ipotesi menzionata; a dirci, che fu
il _Drusio_ colui che primo gliene offriva l’idea; che fu esso che
andando in cerca, siccome noi dell’origine degli Esseni, insegnava come
questa si dovesse riporre ai tempi d’_Ircano Asmoneo_, quando la parte
perseguitata si ricovrò nei deserti, e colà di buon’ora s’assuefece ad
un tenore di vita durissimo, nel quale dipoi perseverò volentieri. Il
sistema del Drusio non è quello, ben io m’avveggo, del nostro Salvador,
il quale differisce siccome udite in ordine al tempo, e risale ad
un’epoca non di poco anteriore a quella dal Drusio seguita. Ma
finalmente, che cosa non hanno di comune i due sistemi, ove si eccettui
la differenza notata? Io ardisco dire che hanno tutto in comune, e
che bene avrebbe fatto il Salvador a dividere con chi di ragione la
responsabilità del sistema. Egli però nol fece, nè io insisterò di
soverchio. È egli almeno probabile, è egli almeno accettabile il
sistema dal Salvador propugnato? Io gli chieggo del culto essenico la
origine, ed egli l’impossibilità mi addita dei sacrifizj e del culto
esteriore; al quale ei dice, un culto più elevato si sostituì _in
ispirito e verità_.—Di buona fede è egli questo raziocinare per filo
e per segno? Che cosa suppone il ragionamento Salvadoriano? Suppone,
se io non erro, che nè sacrifizj nè culto esteriore appo gli Esseni
esistesse. Che se così non fosse, che cosa suonerebbe questa sognata
sostituzione? Io dico dunque che lo suppone.—Ma che dice la Istoria,
alla quale ogni reverenza si dee ed ogni ossequio? Conferma ella la
ipotesi del Salvador, ed una setta negli Esseni ci raffigura quale
egli ce la dipinge, destituita di culto esteriore e di sacrifizio?
Nulla affatto. La storia parla alto, parla solenne contro la teoria
irriflessiva del Salvador, ed un amore ed uno studio ci offre presso
gli Esseni del culto esterno, da disgradarne ogni più raffinata e
squisita pietà. Ma che volete? Il Salvador pecca per troppa bontà.
Egli ama gli Esseni, egli li stima, nè confine egli pone alle lodi
che al bello Istituto profonde nel suo libro: epperò gli dà troppo
del suo, epperò di quelle vesti li abbiglia che più talentano al
suo genio filosofico, al suo gusto, al suo favorito sistema. Epperò
li va profumando con quegli unguenti razionalistici che ponno farli
accogliere, festeggiare nei dotti consessi. Rimane però a sapersi se
del presente generoso gli Esseni si chiameranno contenti.—Io proseguo e
chieggo al Salvador: d’onde, secondo voi, la comunità degli averi? Che
cosa risponde il Salvador?—Dalla incertezza della vita, dalla necessità
di provvedere a tanti vecchi, a tante donne, a tanti fanciulli.—Eppure
il mondo non l’aveva finora capita così. Si credeva finora che nulla
vi fosse di più egoista della _necessità_, nè di più avaro della
_miseria_. Si credeva finora che l’abnegazione, la generosità, e
soprattutto il rinunciamento assoluto di ogni bene, non albergassero
precisamente colà, ove la fame manda i suoi orribili latrati, e dove la
prepotente mano del bisogno, stringe i cuori ad ogni senso di pietà, e
non occorre dire d’abnegazione. Benedetti razionalisti! Quanti miracoli
non sanno fare! Eglino ti cavano un effetto dal suo opposto con quella
disinvoltura con cui Mosè trasse dalla rupe le acque. Ma eglino, i
razionalisti, ci hanno insegnato a dubitar dei miracoli, e questo basti
perché i loro miracoli eziandio da noi si rifiutino.

Ma su.—Io voglio menar buone al Salvador tutte le anzidette repugnanze.
Voglio dire che il culto esterno tra gli Esseni non vi fosse, e che
dalla brutta fame sia uscito fuora il più sublime prodigio di carità.
Ma il nodo gordiano non è qui. Sapete invece dov’è? È nel passaggio da
questo stato temporario, provvisorio, forzato, ad uno stato durevole,
ad uno stato definitivo, ad uno stato volontario. Mi spiegherò
ancor più. Bisogna che ci dica il Salvador in qual guisa, per quale
sconosciuta ragione, una condizione così miserevole, così eccezionale,
così a malincuore subìta dai poveri emigrati, si tramutò, ad un colpo
di magica verga, in un’associazione regolare, stabile, religiosa, dotta
e venerabile, come fu quella che veggiam negli Esseni. Se questo il
Salvador non ci narra, se egli non ci svela il transito miracoloso,
sapete che cosa io crederò? Io crederò che non appena rimossi gli
ostacoli, non appena gli impedimenti sgombrati, non appena restituita
la pace e la libertà, non appena le vie si dischiusero del ritorno
ai poveri fuoriusciti, che ognuno riedendo pacificamente a casa sua,
avrà ripreso il godimento degli antichi diritti; e l’esercizio delle
prische faccende. Ecco che cosa credo, ecco quello che suggerisce il
più comunale buon senso. Per trasformare un’orda di fuorusciti in un
istituto ammirando quale fu l’Essenato, ci vuol altro che parole!
Ci vuol ragioni! E che cosa ci dà in compenso il Salvador? In qual
guisa si districa egli dagli intricatissimi lacci?—Ecco, come: Quello
stato, egli dice, era provvisorio, era precario, ve lo confesso. Udite
pellegrinità di trovato. Ma, egli aggiunge in sua favella: «_Mais ne
tarda pas a devenir une des règles principales de leur institut._»
Volete più? Se più esigete, sareste davvero indiscreti. Quel _ne tarda
pas_, ch’è l’anima del concetto, è fatto proprio per contentare anco
gli ingegni più schizzinosi. Egli è proprio un miracolo; ma un miracolo
di coreografia, non dialettico procedimento. Questo si chiama in Parigi
_glisser sur les questions_. Ma io dico piuttosto, che fa scivolare,
che fa sdrucciolare gli inesperti, e che il minor pericolo che può
incoglierci, sia quello di nulla imparare.

Noi abbiamo, se ben mi appongo, abbastanza crollato il sistema del
Salvador. Or bene, lo credereste? Egli è ancor più fragile di quel
che credete, e quando pure potesse avere le superiori sembianze del
colosso di Nabucco, certo che i piedi, che le basi di creta non
mancheriano. Tali le prove, tali i fatti sono che vi addurrò, che il
sistema del Salvador riporrete certo tra gli onorati defunti. Non
lo credete?—Ebbene, o miei giovani, togliete in mano il libro del
Salvador, e la citazione osservate alla quale tutto egli affida il
peso del suo sistema, e ditemi che ve ne pare. Non dovrebbe essere,
non è egli vero, una colonna, una piramide, un atlante? Oibò, è
canna, e fragil canna. Qual’è la citazione del Salvador? Egli è un
passo del libro dei Maccabei, ove si narrano i primi effetti della
irruzione Siriaca in Palestina. Come suona quel passo? Dice per
l’appunto così: «_E si ridussero gli sbandati Israeliti ad abitar
nelle caverne ed in ogni luogo ove potessero un asilo trovare......
Allora parecchi tra quelli che cercavano giustizia, trassero al
deserto onde abitarvi._»—Qui finisce la citazione Salvadoriana, che
dal 1º e dal 2º Capitolo fu tratta del primo libro dei Maccabei.
Ma noi non sbaglieremo dicendo che il Salvador così facendo, si
affidò più a quanto di proprio avrebbe supplito il lettore, a quanto
avrebbe la immaginazione suggerito in compimento, che a quanto sta
veramente registrato nei Maccabei. Diffatti, a questo punto arrivati
della istoria, allo spettacolo di tanta gente che fermano stanza nel
deserto, dopo le parole in ispecie del Salvador, che cosa vi suggerisce
la fantasia? La fantasia s’impadronisce di questo dato, di questa
emigrazione dalla storia narrata, e vestendola secondo il suo stile
di colori fittizj, ed allargandola ed ampliandola, e preoccupando il
campo dell’avvenire, e parlando ove la storia si tace, già dimostra
in questo pugno di fuorusciti il germe della grande istituzione; già
ve li addita stanziati definitivamente in quelle solitudini; già li
stringe in religiosa consorteria; già dal semplice soggiorno alla
convivenza trapassa, quindi dalla convivenza alla scelta di una vita
comune, da questa all’organamento sociale, al culto, alle dottrine; e
così di grado in grado salendo, ed elemento ad elemento soprapponendo,
fa sorgere quasi per incanto il grande, il bello istituto degli Esseni.
Io non so se mi vorreste più generoso; ma io tutto ammetterei, quanto
può di fantastico offrirci, di gratuito, questa ipotesi, quando almeno
la base istorica, quell’esilissimo storico addentellato, che pur or
ricordammo, rimanesse saldo, inconcusso, rimanesse in piedi. Che
sarebbe però, dilettissimi, se pur esso svanisse; che sarebbe se il
gigantesco edifizio tutto vedessimo sull’arena fondato; che sarebbe se
tutte le nostre immaginarie scoperte andassero miseramente in frantumi,
come le fantastiche supputazioni di colui che sopra pochi miseri
vetrami la fortuna sua fondava?—Certo che bene avremmo di maraviglia
argomento, come un ingegno svegliato, probo, erudito come il Salvador,
si lasciasse tanto aggirare dall’orror dall’antico, tanto dagli spiriti
razionalistici, sino a disconoscere la inanità del sistema proposto.
Quale è di questo sistema la base; quel _quid_ senza di che sarebbe
a _zero_ ridotto; quel polline, quell’embrione d’onde si vuol tutto
l’Essenato prodotto? Egli è senza meno, e voi lo sapete, quel nucleo
d’Israeliti i quali dalla Macedone spada incalzati si ridussero
raminghi per lo deserto. Or bene. Mi spiace per voi, mi spiace per il
Salvador, mi spiace per quei poveri Israeliti. Il preteso embrione non
giunge alla prima fase di gestazione. Il polline muore sullo stelo per
effetto di una brinata. Senza figura, quel pugno d’Israeliti su cui
si fondava così alto e immenso edifizio, non scorsero pochi giorni
che raggiunti, circuiti, assaliti, ed infine distrutti dai Macedoni
persecutori, spariscono miseramente dalla superficie della terra.
Dove son iti i germi dell’Essenato, dove sono i primi rudimenti, dove
i portentosi sviluppi? Se ne desiate novelle, chiedete piuttosto ai
generali Siriaci, che vi mostreranno in risposta la spada tinta di
sangue. Chiedetene, se ne volete più mite responso, alla storia stessa
dei Maccabei, allo stesso 2º Capitolo citato dal Salvador, ai versi
stessi che quasi immediatamente conseguitano a quelli dal Salvador
indicati; e queste parole vi leggerete, che pur esser dovrebbero suggel
ch’ogni uomo sganni:

«_Coloro dunque_ (cioè i soldati Siriaci) _gli assalirono con
battaglia in giorno di sabato, sì che morirono, essi e le loro mogli, e
i lor figliuoli e i lor bestiami, fino a mille anime umane._»

Avete inteso?—Non uno rimase vivo; non uno da cui potesse sorger per
miracolo l’Istituto degli Esseni; non uno di coloro che furono, secondo
il Salvador, semenzajo del grande Istituto. L’esito, la catastrofe
sarebbe veramente comica, sarebbe ridicola, se tetra e lagrimevole
troppo non fosse.

Giunti a questo punto, in presenza a questa terribile e sanguinosa
confutazione, che cosa più dovremo aggiungere? Certo che noi potremmo
dire al Salvador, che pria della origine supposta, pria che di questa
emigrazione si narri nel libro dei Maccabei, già di una valorosissima
consorteria ivi stesso è menzione, che si noma dei _Hassidim_, e
che tutti i segni reca manifestissimi dell’Essenato, onde cerchiamo
l’origine. Ma innanzi alle ricordate deposizioni dell’istoria, ogni
argomento vien meno. Egli è per questo che noi abbiamo il fine
raggiunto della nostra via? Debbo dirvi che no. L’argomento che ci
siamo proposti vuole che ancora altre origini consideriamo, altre
opinioni. Non è invano che si prende grave argomento a trattare. Dirò a
voi come Dante ai suoi lettori:

  _Conviene_ ancor seder un poco a mensa,
    Perocchè il cibo rigido ch’_ho_ preso,
    Richiede ancora ajuto a _sua_ dispensa.



LEZIONE SESTA.


Qual’è l’origine, la origine storica degli Esseni? Ecco l’oggetto delle
nostre passate, delle nostre presenti ricerche. Noi movevamo, nella
lezione passata, in traccia di questa origine; noi vedevamo il Salvador
riporla nella invasione dei Siriaci, nelle emigrazioni specialmente che
questa invasione cagionava tra gli Ebrei di Palestina. Noi domandavamo
a noi stessi quanto si apponesse il Salvador così sentenziando, e la
risposta fu tale, se ben ricordo, che male potrebbe il sistema del
Salvador riaversi.—Mestieri è oggi proseguire nel divisato cammino;
mestieri è pure, quelle qualunque opinioni che a spiegare l’origine
degli Esseni furon proposte, chiamare egualmente a sindacato. Qual’è
il sistema che noi dobbiamo oggi esaminare? Egli è un sistema che se
l’ingegno, la fama, il sapere, fossero sempre infallibile criterio
di verità, solo vero e legittimo sistema dovrebbe cotesto da ora
bandirsi. Noi abbiamo dinanzi uomini cari a noi e onorandi per la fede
comune, per servigj segnalatissimi ai buoni studj prestati; abbiamo
tra i nostri l’illustre autore della _Kabbale_, il Frank; l’autore
chiarissimo della _Palestina_, il Munk; e infine abbiamo tale che
torreggia gigante fra tutti quanti gli si appropinquino, abbiamo un
uomo che vale per mille, un uomo, (tollerate la riabilitazione di una
frase) un uomo che si chiama _Legione_, abbiamo _Vincenzo Gioberti_.

Il Munk, il Frank, il Gioberti, ecco i grandi, i terribili avversarj
che dobbiamo questa sera combattere. E che cosa, di grazia, dicono i
tre chiarissimi uomini dalla origine degli Esseni? Tutti egualmente
in una sentenza convengono, tutti in una origine consentono l’origine
Greca, l’origine Alessandrina, l’origine Egiziana. Che cosa s’intende
dire per questa origine da me con triplice nome designata? S’intende
dire che gli Esseni o, per dir meglio, l’Essenato, ch’è quanto dire
l’Istituzione, le Dottrine, il Genio degli Esseni, siano tutti
provenuti da quella filosofia, da quella scuola, che parte greca,
parte orientale, avea posto da lungo tempo suo seggio nella Metropoli
dell’Egitto, nella erede di Atene, in Alessandria. Ecco che cosa
vuol dire origine Alessandrina. E dove professano i tre insigni
uomini rammemorati la opinione ch’io dico? La professa il Munk nella
bell’opera che sulla Palestina dettava (a p. 519), laddove, dopo aver
con succinte indicazioni degli Esseni trattato, conclude dicendo, molto
andare la loro Istituzione debitrice agli istituti; alle scuole dei
filosofi egiziani. Lo confermava poi in una nota alla pagina istessa
ove a buon diritto redarguendo la teoria del Frank, ci dipinge gli
Esseni quasi mediatori e sensali tra le dottrine in Egitto imperanti,
e la ebraica ortodossia di Palestina. Noi avremo in avvenire occasione
di noverare il Munk tra i più valenti propugnatori di non poche
capitalissime verità riguardanti gli Esseni. Noi avremo luogo di
tributargli largo, sincerissimo ossequio per essere stato animoso
banditore di tre principj che crediamo nella Storia degli Esseni
rilevantissimi, per aver apertamente insegnata la filiazione e quasi la
identità degli Esseni col Farisato, per aver sanzionata l’antichità,
la contemporaneità della teologia Cabbalistica, e sopratutto per
avere tra questa teologia e la scuola degli Esseni dimostrate quelle
intime, profondissime attinenze che sono, secondo me, uno dei pregj
più esimj della scrittura del Munk. L’occhio della mente sua, sempre
veggente,[20] travide queste attinenze, le notò, le insegnò; e i germi
da esso deposti nella opera sua, debbono quando che sia larga messe
fruttare di preziosissime conclusioni. Noi non saremo tra gli ultimi
a secondarne il dettato, a riconoscerlo, a salutarlo qual possente
alleato. Per ora, come dicemmo, nella questione presente della origine,
èmmi forza trattarlo quale avversario. Io dissi che non è il solo,
ma poderosi atleti accompagnarlo. Uno di essi è il Frank. E dove
soscrisse il Frank alla origine in discorso? Nell’opera già ricordata
della _Kabbale_. Egli, nella terza parte del suo libro, in quella cioè
da esso alla comparazione dedicata tra la dottrina dei Cabbalisti ed
i sistemi affini contemporanei, sembra inchinare assolutamente alla
origine Alessandrina. Parlando degli Esseni e dei Terapeuti, egli dice
apertissimo: _l’une et l’autre_ (che è quanto dire Esseni e Terapeuti)
_l’une et l’autre étaient nées en Egypte_. L’una e l’altra, sortito
avere i natali in Egitto. Io vi dico forse cosa che vi stupirà. Voi
udite quanto esplicito si pronunzj il Frank in favore della tesi
avversaria, quanto deliberato consenta all’origine Egiziana. Eppure
(stranissima anomalia!) egli sarà il Frank istesso, egli sarà lo stesso
libro della _Kabbale_, e la stessa parte sarà del suo libro, e senza
forse la pagine istessa, che i più forti, i più saldi argomenti ci
forniranno ad infermare, a distruggere la teoria prediletta, la origine
fantasticata. Io credo che gli argomenti perchè tratti dall’avversario
nulla scapiteranno, se non invece immensamente più ratti e più
infallibili ci meneranno allo scopo. Ma chi è il terzo, che _sovra gli
altri come aquila vola_? Io dissi che è V. Gioberti.—E dove toccava
il Gioberti della istituzione degli Esseni? Egli ne parlò nella
_Filosofia della Rivelazione_; in una di quelle opere che la morte non
concessegli di pubblicare, e che i postumi anatemi non valsero che a
render più cara, più ricercata. In quest’opera della Filosofia della
Rivelazione (a p. 181 dell’opera stessa), laddove prende colla sua
usata grandiosità a trattare della pretesa missione unificatrice del
Cristianesimo, e quindi (quali rappresentanze di due opposte idee)
della presenza in Palestina della dualità Ebraica e Gentilesca, che
dovevasi pel futuro Cristianesimo unificarsi, così il grande intelletto
si esprimeva: «_Presso i Giudei a’ tempi di G. C. vi eran due scuole.
L’Alessandrina, filosofica, acroamatica, sottile; la Palestina,
tradizionale, positiva. La prima esprimeva il genio Indopelasgico e
Greco; l’altra, il genio Semitico._»

Voi l’udite, Gioberti sta risolutamente per la origine Alessandrina;
imperocchè di null’altro egli può aver inteso colla sua scuola
acroamatica e sottile, rappresentante il genio Greco o Indopelasgico,
tranne della scuola della Consorteria degli Esseni.

Noi avremo, dunque, a lottare non solo coi due preclari scrittori il
Frank ed il Munk, ma ancora contro la mente più vigorosa che generato
abbia l’Italia moderna. Fortunatamente però non è così. Noi possiamo
a buon diritto declinare Gioberti quale avversario, noi possiamo
rimuoverlo rispettosamente dallo steccato, noi possiamo risparmiarci il
pericolo, e non è lieve, di tenzonare con atleta siffatto. E perché?
Per una ragione semplicemente, e che voi di leggieri comprenderete.
Perché Gioberti non è responsabile della verità dell’asserto; perché
egli, a guisa di tutti quelli che versando sopra una particolar
disciplina, si giovano delle ricerche e dei trovati altrui, qualora
di altre discipline si tratti, tolse agli uomini, agli scrittori
speciali; tolse, per esempio, al Munk, tolse al Frank; come ad altri
di simil fatta tolse per avventura il supposto sul quale la teorica
sua fondava della unificazione Cristiana; ch’è quanto dire, toglieva
da essi la origine Greca Alessandrina dell’Essenato, senza porsi per
questo mallevadore della verità del supposto, come fatto non si sarebbe
mallevadore se tolto avesse, verbigrazia, al Champollion la notizia
dei Monumenti Egiziani, o dai Fisici imparato avesse cosa che fosse
dipoi chiarita fisicamente inesatta. Sapete sopra chi gravita intera
la responsabilità dell’asserto? Sovra coloro che tolsero a subbietto
delle loro ricerche, disquisizione siffatta; sovra di quelli che ne
trattarono exprofesso. Sopra gli scrittori Israeliti in ispecie,
siccome quelli che più eruditi si suppongono nelle proprie antichità;
ed ai quali più facilmente che ad altri si presta credenza, i quali
dovrebbero, se non isbaglio, penetrarsi più che non fanno di questa
verità; cioè, che gli occhi, che le menti dei dotti sono più che ad
altri, ad essi rivolti, siccome ad organi ed interpreti fedelissimi e
naturali di tutto lo scibile israelitico, e che grave però loro incombe
il dovere di procedere circospetti non poco nelle loro sentenze. Non
sono eglino i rappresentanti legittimi, e quasi non dissi gli oratori
d’Israele nel consesso dei dotti? Tali almeno sono dall’universale
estimati.—Che cosa dicono il Frank ed il Munk? Dicono che il nostro
Essenato deve all’Egitto, alle idee dell’Egitto, il suo nascimento.
Porganci dunque le fedi di nascita, che le vediamo; porganci, cioè,
quelle prove che a così credere li inducevano, e se ne vegga il valore.

E prima, difendere non mi so da un pensiero che vulnera, a parer
mio nella parte più sensibile la opinione in discorso. E qual’è? È
il superfluo, è il vano, è l’inutile di tale opinione. Voglio dire
che questa ipotesi che combattiamo, ove pure si prescinda dal suo
intrinseco valore, manca senza meno del primo e indispensabile
requisito di ogni asserto, la sua necessità. È egli necessario
per ispiegare l’origine degli Esseni, fare siccome fanno costoro
un’escursione in Egitto? Fermamente io credo che non lo è.—E chi
è quello che me lo insegna?—Strana cosa, ma pure verissima. È il
signor Frank istesso, è quello istesso volume ov’egli di volo depose
la sua professione di fede riguardo agli Esseni. Ed in qual guisa
ce lo insegna il signor Frank? Disputando intorno all’antichità
delle dottrine, della scuola dei Cabbalisti. Egli fu quello, e già
ve lo dissi, che più risoluto tra i moderni scese nello steccato a
propugnarne l’antichità. Egli non si diè posa fintantochè non rimise
l’antichità della scienza in quella evidenza intuitiva che era
stata pria delle moderne discettazioni. Ciò fece il signor Frank, e
saviamente faceva, a parer mio. Perché non fu conseguente? Perchè
avendo in casa più che non era mestieri a rendersi conto della
derivazione degli Esseni, andò attorno a cercarne la culla sulle rive
del Nilo? Perché non quetare nella origine propria e casalinga, quando
tutti gli elementi ei ne chiudeva in pugno coll’antichità cabbalistica?
Perché torcere gli occhi da quelle strette attinenze alle quali
ossequiava sinceramente la buona fede del Munk, nè il signor Frank
istesso osava negare? Ecco la prima lagnanza che contro l’origine
Alessandrina mi è dato rivolgere. Si comprende in una parola, in una
frase; cioè, _non è necessaria_.

Non basta questo. Un argomento vi ha che, a senso del signor Frank,
dimostra l’autonomia delle dottrine cabbaliste, cioè la loro origine
indigena, nazionale, Palestinese; e questo argomento è la lingua.

La lingua, egli dice, di quella dottrina, è l’ebraica, e l’ebraica
aramea, ch’è quanto dire, la lingua allora usitata in Palestina.
Qual’era, per contro, la lingua dei filosofi Alessandrini? Era
il greco idioma, il greco esclusivamente. Non è questa, dice il
Frank, prova dell’autonomia Cabbalistica? Io non voglio discutere
l’argomento del signor Frank, ma lo prendo per quel che vale, e così
argomento. O la lingua prova, o nulla dice. Se prova, perché non vale
egualmente rispetto agli Esseni, dei quali non si è mai detto nè si
poteva dir veramente che altra lingua usassero in Palestina, che non
fosse l’ebraica, o quella qualunque allor usitata?—O non prova; ed
allora, perchè concedergli di prova le sembianze e gli effetti?—Pare
impossibile! Vi sono nel libro prelodato del signor Frank, nella
scrittura della _Kabbale_, e in quella parte istessa, e quasi a
contatto della malaugurata origine Alessandrina, tali inattese, tali
decisive confessioni, e tale offrono manifesta repugnanza colla origine
istessa, che davvero non si comprende come uno scrittore illustre,
qual’è il filosofo francese, non l’abbia avvertita.

Vedete, in fatti, il signor Frank precludersi colle sue mani la via
a spiegare non solo, ma nemmeno a comprendere la sognata origine
Alessandrina. Vedete egli stesso elevare una barriera materiale,
insormontabile, che il passaggio persino contende, onde prendere
nello Egitto lo Essenato. Vedete egli stesso porci le armi alla mano,
con queste parole: «Dallo istante (egli dice, e traduco a verbo),
dall’istante in cui la scuola Neoplatonica prese a fiorire nella nuova
capitale dell’Egitto, sino alla metà del secolo IV dell’E. V.; epoca
nella quale la Giudea vide morire le sue ultime scuole, i suoi ultimi
Patriarchi, le ultime faville della sua vita intellettuale e religiosa;
quali rapporti troviamo tra i due paesi, tra le due civilizzazioni
da essi paesi rappresentate? Ove, durante questo tratto di tempo, la
filosofia pagana fosse penetrata nella Terra Santa, e’ bisognerebbe
naturalmente supporre la intromissione degli Ebrei di Alessandria. Ma
gli Ebrei di Alessandria sì scarsi rapporti aveano coi loro fratelli di
Palestina, che assolutamente ignoravano le istituzioni Rabbiniche, le
quali tra gli ultimi occuparono luogo così cospicuo, e che trovavansi
già radicate tra essi oltre due secoli innanzi l’E. V.»—E quali prove
reca in mezzo il sig. Frank ad avvalorare l’asserto?

Prove reca, bisogna pur dire, che desiderar non potrebbonsi più
luminose. Egli reca la intera Enciclopedia ebraica alessandrina, ove
assoluta campeggia la ignoranza delle cose e degli uomini Palestinesi.
Reca, tra gli apocrifi, il libro della Sapienza, di origine, di autore
Alessandrino. Reca l’ultimo libro dei Maccabei, foggiato come pare
indubitato sulle rive del Nilo, ed il silenzio ci addita e la ignoranza
assoluta di tutto quello che Palestina riguarda. Ignoranza dei più
grandi uomini, che alta e sonora levarono fama di sè; ignoranza di
Simone il Giusto, dei più celebri tra i Tannaiti; delle grandi scuole
di Hillel e Sciammai; e sovra tutto, ei dice, ignoranza di costumi,
d’idee, di tradizioni. Ma il Frank non è uomo da darci dimostrazioni
incompiute. Egli prova, e si può dire con egual nerbo, con egual
verità, la ignoranza reciproca nella quale gli Ebrei di Palestina
vivevano di tuttociò che in Egitto avveniva, di tuttociò che concerneva
i loro fratelli di Alessandria. Lo prova la oscura, l’alterata
cognizione che i dottori possedevano della traduzione dei Settanta; lo
prova il silenzio strano, incomprensibile, nella Misnà e nel Talmud dei
nomi più insigni, delle grandi, delle somme illustrazioni israelitiche
dell’Egitto; silenzio di Filone, silenzio di Aristobulo, e silenzio
infine di tutte le opere anzidette, concette e partorite all’ombra
delle scuole Egiziane. Lo credereste? Egli è in mezzo a quest’osanna
perpetuo, alla impossibile comunicazione tra Palestina ed Egitto, egli
è in mezzo a questo concorso imponente, maestoso di prove, contro
l’origine Alessandrina, egli è qui, qui per l’appunto che l’origine
Alessandrina degli Esseni si pone dal signor Frank siccome quel vero,
che mestieri non ha di esser provato.

Voi lo udiste; voi vedeste con quanta urgenza di prove l’illustre
autore innalzi tra Palestina ed Egitto tale una muraglia, rispetto
alla quale, quella famosissima della Cina ti pare un trastullo. Che
credereste ora che faccia il sig. Frank? Egli crede citare la massima
delle prove, e cade invece, se così è lecito pensare di un tant’uomo,
nel massimo degli equivoci. Egli cita in prova della non avvenuta
comunicazione tra Palestina ed Egitto, il silenzio dei Rabbini intorno
gli Esseni, intorno i Terapeuti. Perchè, egli chiede, perchè questo
silenzio? Perchè gli Esseni, ei dice, origine avevano egiziana, e nulla
che fosse egiziano dai Rabbini si conosceva.—Sogniamo o siamo desti?—È
egli il sig. Frank che tale profferiva sentenza? E pure, dovuto avrebbe
ad una piccola circostanza avvertire, che tutta avrebbe mandata a
soqquadro la sua argomentazione; ch’è quanto dire, avria dovuto
avvertire, che se la ragione può valere pei Terapeuti dimoranti in
Egitto, non lo può in nessun modo pegli Esseni in Palestina stanziati;
pegli Esseni che viveano tra le stesse mura e sotto gli occhi stessi
dei dottori, i quali se non ne fecer menzione, a tutt’altra cagione
bisogna imputarlo, che non a quella della pretesa origine egiziana.
La quale origine egiziana tuttochè fosse vera addimostrata, nulla
avrebbe impedito che dai dottori gli Esseni si conoscessero, e di essi
a dilungo favellassero, siccome quelli che comune con essi avevano e
patria e soggiorno e convivenza. Che se non lo fecero, non ci dite,
di grazia, perchè traevano dall’Egitto la origine; chè così dicendo,
offendete, non ch’altro, il più comunale buon senso.—Ma che dico il
buon senso? Dovrei dire la vostra istessa teoria, il vostro sistema
istesso d’isolamento, di separazione dell’Egitto. E come no? Voi dite
gli Esseni Egiziani. E bene sta. Ma dove abitavano cotesti Esseni?
Abitavano pure in Palestina; dunque di Egitto trasmigrati si erano
in Palestina, o almeno le idee loro dall’Egitto passate erano in
Palestina, perchè uomini od idee, nel caso nostro, è tutt’uno. Ma se
passarono, se dall’Egitto trasferironsi in Palestina: che segno è? È
segno che questi rapporti da voi negati, esistevano veramente. È segno
che le dottrine cabbalistiche possono avere quelle stesse vie percorso,
che lo Essenato percorse. È segno che tutto l’apparecchio dialettico
da voi posto a sostegno della _autonomia_, della _originalità_
cabbalistica, ruina ad un tratto. È segno che coteste due cose da voi
sostenute, non possono insieme capire. È segno che bisogna scegliere,
che bisogna ottare.—Volete gli Esseni derivati d’Egitto? Ed allora non
negate tralle due regioni i rapporti. O meglio vi talenta ricusare tra
Palestina ed Egitto ogni legame, ed allora rinunziate alla origine
alessandrina dello Essenato. Volere e l’uno e l’altro, è al di sopra
di ogni creata possanza: stare, per così dire, sulle due sponde a
cavallo, è opera più che umana; conciossiachè del solo colosso di Rodi,
si narri poggiare ad un tempo i suoi piedi sulle due opposte rive. Ma
il colosso di Rodi è favola meglio che storia. E bene, o miei giovani,
se ne accorse quel perspicace intelletto del _Munk_, il quale nella
sua _Palestina_ (a p. 519) tali parole dettava sul conto del Frank,
le quali comecchè di gentilezza condite, non lasciano per questo di
contenere l’avvertenza che noi al signor Frank dirigiamo. «Sembra,
dice, in verità avere il signor Frank indebitamente negletto l’officio
che gli Esseni ponno aver sostenuto, quali mediatori e sensali, tra
l’Egitto e Palestina.»

Questa si chiama conseguenza, e noi volentieri la ossequiamo, quale
diretta e legittima illazione del principio da ambidue consentito, cioè
della origine alessandrina dell’Essenato. Noi possiamo però separarci
dalla costoro sentenza, senza per questo incorrere nella taccia di
contraddizione. Noi neghiamo col signor Frank la comunicazione tra
Palestina ed Egitto; ma neghiamo altresì ciò ch’egli non fa veramente,
cioè la origine alessandrina dello Essenico istituto.[21]

Io vi dissi che gli argomenti dal signor Frank invocati a
sostegno della _autonomia_ cabbalistica, militavano con non minor
urgenza in favore dell’autonomia degli _Esseni_. Giudicatene voi
stessi.—Ignoravano, egli dice, i dottori di Palestina, i loro
confratelli di Egitto. In qual guisa le scuole pagane avriano
conosciuto? Non è egli, io aggiungo, cotesto validissimo argomento
in favor eziandio della originalità degli Esseni? Ma più. La lingua
greca, dice il signor Frank, era in onore: sì, ma appo gli Israeliti di
Palestina non era però familiare. Vedete, egli aggiunge, vedete Flavio
che pure nella scienza pagana ci sembra tra i coetanei il più erudito.
E pure, chi il crederebbe? è Flavio stesso che ne depone, è la sua
confessione, sono le sue parole: _Mestieri egli ebbe di chi nella greca
favella lo erudisse, quando prese a dettare le sue istorie.—Mestieri
ebbe di porsi al fianco tale, che nella lingua dei Greci quelle nozioni
possedesse, di cui egli era digiuno. Mestieri fu che le istorie sue al
costui sindacato sottoponesse._—Non basta. Flavio non recita sol di sè
stesso la confessione, ma la ignoranza egli autentica altresì di tutti
i suoi contemporanei, i quali al dire di lui poco in generale delle
lingue curandosi, poco eziandio coltivavano lo idioma dei Greci; e se
l’idioma, dice il Frank, era così trascurato, come potevano meglio
conoscere le dottrine in esso idioma vergate? Bene, a parer mio,
argomenta il signor Frank, e non meno bene noi stessi argomentiamo.

Io torno e domando. Avvi nulla in questo raziocinio che a capello non
si acconci alla istituzione degli Esseni? Avvi nulla che più manifesto
resulti della loro autonomia?—Ma più oltre spinge il signor Frank la
intrapresa argomentazione, e più oltre con esso noi pure procederemo.
Che cosa dice il signor Frank? Poniamo, egli dice, che la lingua si
conoscesse. Poniamo che queste materiali difficoltà che noi vedemmo
frapporsi alla comunicazione dei due paesi, non esistessero; mettiamo
anzi, che liberamente le idee alessandrine in Palestina circolassero, e
quelle di Palestina nello Egitto avessero accesso. Sarebbe per questo
più probabile l’adozione delle dottrine dei Greci tra gli Ebrei, tra i
dottori di Palestina? Lo nega il signor Frank per ciò che le dottrine
cabbalistiche concerne, ed ha ragione. Chiama il Frank a rassegna, e
concludenti ed infiniti sorgono alla sua voce, fatti, assiomi, decreti,
anatemi, che tutti attestano concordi l’errore, la repugnanza in cui
si avevano tra i dottori antichissimi le dottrine dei Greci. Egli
chiarisce assurda, impossibile la pretesa consecrazione di teorie
forestiere; egli restituisce alla teologia cabbalistica i suoi titoli,
la sua ingenuità, la sua cittadinanza.

Io credo che niente più grecizzante sia il nostro Essenato, il
quale, come vi accennai sino dall’esordire, tra le più distinte
file si reclutava del nostro dottorato; che n’era, a così dire, il
_substratum_, la _quintessenza_, il patriziato, e quindi doveva tutte
parteciparne le viste, tutte le repugnanze. Finalmente, vi ha un
argomento al quale come ad _ultima ratio_ ricorre il signor Frank; nè
male veramente si appone, sendo questo, e per esso e per noi, decisivo.
Egli è l’argomento cronologico. Prova il Frank che R. Iohanan Ben
Zaccai, grande Patriarca della misteriosa _Mercabà_, molto tempo
innanzi fioriva che una scuola si schiudesse in Alessandria, che un
solo filosofo vi facesse udire delle sue dottrine la voce. E non solo
R. Iohanan Ben Zaccai, ma un dottore ad esso posteriore, R. Gamliel,
quella scuola alessandrina precedette di tempo, conciossiachè da
lunga pezza egli fosse già morto quando i primi albori spuntavano di
filosofia nella città di Alessandria. Or bene (cosa meravigliosa e pur
vera!), non si avvide il signor Frank, che questa stessa cronologica
repugnanza si oppone a dirittura a qualunque preteso rapporto tra
l’Essenato e gli Alessandrini; che questa anteriorità ch’egli a buon
diritto conferisce ai dottori sulle scuole di Alessandria, di gran
lunga maggiore, vantano meritamente gli Esseni, siccome quelli che, a
confessione del medesimo signor Frank, erano, come attesta Giuseppe,
generalmente conosciuti non solo ai tempi superiormente indicati
di R. Gamliel e di R. Iohanan, ma in tempi assai più per antichità
ragguardevoli, ch’è quanto dire ai tempi di _Gionata Maccabeo_, quando
150 anni dovevano ancora passare pria che di Cristiani si parlasse,
pria che le scuole alessandrine risuonassero di quelle dottrine, che si
vogliono generatori, balj del grande Essenato. E questo è argomento che
davvero vi sembrerà categorico. Nè ciò basta.

Quando più saremo innoltrati nelle presenti esposizioni, molte
cose vedremo che a confermare varranno la impossibile derivazione
straniera del grande istituto degli Esseni. Vedremo la loro forte e
rigida organizzazione, i gelosi insegnamenti, le lunghe prove, le
incomunicabili dottrine, la perpetuità, la immutabilità dei dettati e
tutto; insomma, vedremo quello che costituisce una forte, un’autonoma
personalità, ove il genio spicca della _originalità_ anzichè della
_imitazione_, del profondo e concentrato sentire anzichè della
espansione, della interiorità anzichè della esteriorità. In una
parola, noi vedremo come non solo tutti gli argomenti dal signor
Frank accampati, ma ben altri ancora rendano sommamente improbabile
quella greca paternità, che pel Munk, pel Frank e per V. Gioberti si
volle agli Esseni assegnare. Adesso venga pure avanti nella prossima
conferenza l’origine cristiana, che non la temiamo. Faccia pure
l’estremo di sua possa, chè rimarrà ancor essa sconfitta. Tutti i
campioni che ella potrà mettere in campo, non salverannola dall’ultimo
eccidio. Dirò come David nell’atto di affrontare Golia: «_Ed io pure il
Leone, ed io l’Orso percossi a morte._»—Quando si è avuto l’onore di
convincere d’inesattezza gli autori questa sera rammemorati, si può a
buon diritto sperare di venire a capo di altri eziandio. E sin da ora
ai difensori della origine Cristiana potrò dire con Dante:

  Ch’a più alto lion trassi lo vello.



LEZIONE SETTIMA


Movendo in cerca della origine storica, della derivazione degli Esseni,
due furono finora i sistemi che abbiamo discusso. Quali questi sistemi
si fossero, voi certo lo ricordate. Fu quello in primo del Salvador,
che questa origine pone durante la invasione dei Siriaci sul suolo
Ebraico. Fu quello in ultimo che sotto gli auspizj ci si offriva del
Frank e del Munk, i quali la origine veggono entrambi dell’Essenico
istituto nelle scuole, nelle idee, che la greca civiltà trapiantato si
ebbe sulla terra di Egitto. Qual fu il giudizio che emerse dal duplice
esame? Io non so se sbaglio, ma parmi avere abbastanza dimostrata la
improbabilità di ambedue i sistemi.—Avvi ancora un terzo da esaminare;
e quello si è che agli Esseni, all’Essenato un’origine attribuisce,
un carattere assolutamente cristiano. Potremmo noi senza citarlo in
giudizio procedere risolutamente alla dimostrazione di quella origine
che crediamo più vera? Io credo che nol possiamo. Nol possiamo, perché
troppo si disdice ad accorto strategico, lasciarsi fiero e numeroso
nemico dopo le spalle. Nol possiamo, per le smodate pretensioni che
accampa, per la fama, per l’autorità dei suoi campioni; ed infine,
permettete che io aggiunga, per il legittimo e dolce desio di un
trionfo. Io ricordo però come il Profeta ammoniva, non prima doversi
celebrare vittoria, che l’arma non si discinga debellatrice. Mestieri
è dunque combattere, e combattere virilmente. Il campo conoscete,
conoscete del litigio la causa; solo vi manca di conoscere gli
avversarj, e dopo gli avversarj, le armi, gli argomenti proposti, e
infine i poderosi argomenti della difesa.—Quali sono gli avversarj?
Si può dire arditamente che nè maggiori potrebbero essere nè più
cospicui. Qui è per primo Eusebio, il quale nel secondo libro delle
_Istorie Ecclesiastiche_ non dubita di affermare, non altro aver
voluto Filone ritrarre, laddove degli Esseni prese a discorrere, che
la Chiesa Cristiana allora nascente. Eusebio che aggiunge (e di che
sappia l’asserzione vedremo fra poco) che il nome di Terapeuta vale
a dire il nome in Egitto equivalente a quel di Esseni, anzi la greca
traduzione del vocabolo Esseni, fosse comune appellativo dei primi
Cristiani, anzi che questo nome di Cristiani assumessero.—Qui Epifanio
che dice risolutamente, aver Filone nei Terapeuti dipinto il modello
e i prischi tentativi del monacato cristiano; qui S. Girolamo che,
per andare per le corte, converte di motuproprio al Cristianesimo
il nostro Filone, che storico degli Esseni, Egiziani ed Essena egli
stesso, fu quello le cui memorie togliamo anch’oggi qual guida, almeno
principalmente nella cognizione dell’antico Essenato; qui il pseudo
Dionigi Areopagita, che seguendo ciecamente l’andazzo dei suoi, giunge
sino a chiamare un monaco a cui scrive, col bel nome di Terapeuta;
qui Sozomeno, storico dei primi secoli dell’E. V., che alla sentenza
medesima aderisce, solo per correttivo aggiungendo aver forse gli
Esseni qualche vestigio conservato di riti giudaici; qui un cardinale,
il _Baronio_, che a dimostrare la verità dell’antico Cristianesimo
dei Terapeuti, così argomenta. Egli avverte il silenzio che degli
Esseni si conserva assoluto per tutto il corso degli Evangelj, ed
a questo silenzio non trova il Baronio che altre cause si possa
assegnare, tranne coteste due. È la prima, dice il Baronio, la identità
degli Esseni colla chiesa Cristiana. È la seconda la posteriore loro
apparizione alla predicazione evangelica. Ma la seconda, aggiunge
il Baronio, si oppone alla storia, che la esistenza degli Esseni
ricorda sin da’ tempi anteriori: dunque, sola è vera la prima, solo il
Cristianesimo degli Esseni basta a spiegare il silenzio evangelico.
Voi udiste l’argomentare del Baronio; udrete tra poco, come dice
l’Alighieri, _l’argomentar che gli farò avverso_. Per ora seguitiamo la
nostra rassegna. Io debbo un solo ancora ricordarvi degli avversarj,
e questi è il P. Montfaucon. Chi era il Montfaucon? Egli appartenne
al dottissimo ordine fratesco, alla regola di quel _grande che fondò
Cassino_, e fu Benedetto. Il Benedettino Montfaucon, che visse nel
secolo erudito del 700, lasciossi così appieno infatuare dal preteso
Cristianesimo dei Terapeuti, che a provarne ad esuberanza la verità, si
accinse, siccome credo per primo, alla traduzione di quelle opere di
Filone ove dei pretesi Cristiani, dei Terapeuti, è parola.

Ecco gli avversarj. Quali sono i loro argomenti? Parte ve ne dissi,
e questi più particolarmente appartengono agli autori rammemorati.
Parte adesso ne udirete, e sono quelli che più di frequente si
veggono dagli avversarj imbranditi.—Quali sono questi argomenti?
Sono tutti, si può dire, fondati sopra qualche supposta analogia
fra i costumi, le leggi, la società, il genio dei primi Cristiani,
e quelle dipinture che degli Esseni ci lasciava Filone. Ella è ora
la gerarchia che s’invoca dei Terapeuti, ove tutti i diversi ordini
sembra a costoro vedervi della Chiesa nascente; ora le guarigioni
dagli uni e dagli altri miracolosamente operate, i beni ai poveri
distribuiti, l’erario e gli averi comuni, l’amore delle chiose, dei
commenti allegorici, il predominio del senso mistico sul letterale;
eglino sono i digiuni, le macerazioni; ed infine, egli è il celibato.
Ecco gli argomenti nemici; ed ecco i nostri. Egli è, in primo luogo, la
contraddizione in cui cadde Eusebio, quegli stesso che primo vedemmo
accreditare tra i Cristiani la voce del Cristianesimo Terapeutico. Or
bene, tanto fu possente la verità, che lo stesso Eusebio non potè in
qualche luogo dell’opera sua contrastargli l’ossequio. Voleva Eusebio
provare come tra gli stessi Ebrei, nella stessa chiesa primitiva,
allignasse lo spirito, la tendenza al ritiro, alla vita solitaria,
alla contemplazione. Or che credete che faccia Eusebio? Egli cita
gli Esseni; gli Esseni che, a senso suo, attestano l’antichità del
genio cenobitico in Israel; gli Esseni che, per provare l’assunto,
devonsi supporre Israeliti eglino stessi; gli Esseni, infine, che lo
stesso Eusebio dovrà tra non molto dichiarare Cristiani. Si può dare
contraddizione maggiore di questa? Eusebio però non si contenta di
asserire, egli pretende inoltre provarne il Cristianesimo. Quali sono
le prove? I Cristiani, egli dice, ebber nome Terapeuti, anziché quello
assumessero definitivo di Cristiani. È egli vero, costante, il fatto
da Eusebio allegato? Parecchi antichi ne mostrarono la falsità. Lo
mostrò, tra gli altri, il Basnage provando sino all’evidenza, come
il nome Cristiani venisse dalla Chiesa adottato anziché il menomo
sentore avessero i nuovi credenti della esistenza nemmeno del nome
Terapeuti; ch’è quanto dire che i cristiani tal nome ricevessero nella
città di Antiochia, prima che altrove fosse predicato il Vangelo, pria
che Marco Apostolo fondasse la Chiesa Egiziana, della quale si volle
trovare i primi elementi nella scuola, nell’istituto dei Terapeuti. Che
se il nome di Terapeuta lo vediamo tra i Cristiani usitato, siccome
veramente il vedemmo, a denotarsi scambievolmente, che prova ciò?
Prova soltanto che la parentela, che la consanguineità Terapeutica
fu antico vanto, vanto preteso della Chiesa Cristiana; prova soltanto
che imbevuti siccome erano della origine Terapeutica, si gratificavano
scambievolmente di sì bel nome per una illusione che io chiamerei
volentieri illusione retrospettiva; prova soltanto che il credersi
dai Terapeuti originato, era un onore che avidamente si agognava. E
poi, chi meglio di voi conosce il senso lato, vasto, capacissimo del
nome Terapeuta, del nome di Essena? Voi sapete che cosa significa;
significa Medico, Risanatore, e Risanatore dell’anima, delle passioni;
ch’è quanto dire un concetto vi presenta che ogni religione, ogni
setta, ogni scuola, per poco che abbia amore di sè, per poco che
alto voglia infondere in altri il senso della sua eccellenza, si
approprierà volentieri, siccome quello che meglio adempie all’officio
nobilissimo per quel vocabolo additato. Che maraviglia, dunque, che il
Cristianesimo se l’appropriasse e che il togliesse, senza per questo
accennare precisamente ad una origine, ad una filiazione qualunque? Vi
ha ora l’argomento del Baronio, che dobbiamo giudicare con processo
sommario. Che cosa diceva il gran cardinale? Egli argomentava il
Cristianesimo degli Esseni dal silenzio degli Evangelj. Diceva il
Baronio: due sono le sole cause plausibili di questo silenzio: o
gli Esseni sono Cristiani, o ai tempi evangelici non esistevano.—Ma
l’ultimo dei supposti è falso, perché gli Esseni esistevano veramente,
dunque è dimostrato che gli Esseni sono Cristiani.—Dante, quando
nell’VIII canto del Paradiso volle parlare di _Sigieri_, che insegnato
aveva logica in Parigi, disse di lui che nel vico degli Strami

  Sillogizzò invidïosi veri.

Io non so in qual vico abbia sillogizzato il Baronio. Certo che i suoi
non sono invidiosi veri; piuttosto invidiosi falsi. Io potrei, a
combattere il Baronio, valermi degli argomenti del Basnage; ma non me
ne valgo per la ragione semplicissima, che credo un solo il vero, il
massimo degli argomenti, e questo non lessi scritto in alcun luogo. Non
dirò con Basnage al Baronio: badate che la rete del vostro dilemma, non
abbia in alcun punto a smagliarsi; badate che la setta degli Esseni non
era numerosa, e quindi può essere passata inavvertita; che il ritiro
in cui vivevano li sottraeva al rumore, alla pubblicità, e quindi
agli affari ed alla conversazione degli uomini. Ciò non dirò perchè
credo questi argomenti insussistenti; perché credo che le sètte, le
scuole, non si _contino_ ma si _pesino_, che non valgano per _quantità_
ma per _qualità_; perché credo che il ritiro negli Esseni non fosse
così assoluto quanto si vuol far credere; perché credo che il ritiro,
la solitudine, serva talvolta a farti più rimarcare, e come oggi si
dice, a farti brillare per la tua assenza; e perchè, finalmente, il
non imbarazzarsi nelle faccende altrui, non è sempre infallibile
preservativo onde tu non sia molestato, accadendo infinite volte
che per quanto tu ami cansare piati o litigj, pure tanto frastuono
e baccano ti fanno d’intorno, che sei costretto finalmente a metter
fuor dell’uscio la testa per chiedere di grazia che cosa si voglia del
fatto tuo. E per questo non vo’ che il Baronio abbia facil vittoria
dei miei obbietti. Piuttosto vorrei sapere in qual guisa non siasi
degnato nemmeno considerare una terza alternativa, la quale rispettando
la storia e spiegando il silenzio degli Evangelj, non costringa per
questo a cristianizzare il grande istituto. E qual è l’alternativa in
discorso? È la possibile, la pensabile identità dell’istituto Essenico
con uno di quelli che il Vangelo rammenta, e che vissero cogli Esseni
ad un tempo, coi Sadducei, cogli Scribi, cogli Erodiani, coi Farisei,
con una insomma di quelle sètte di cui è menzione negli Evangelj. Io
credo, e voi già da un pezzo il presentite, come il più bello e più
grande resultato delle nostre conferenze, la dimostrazione perpetua
di queste mie lezioni, sarà il ritorno dell’Essenato in grembo a
quella scuola più vasta che ha nome dai Farisei; e questa identità,
la ragione, la storia, l’eloquenza dei fatti ci faranno debito di
consentire. Ma se per noi è dovere di ammetterla, pel Baronio era
dovere il discuterla. Perché non la discusse? Perchè propose dilemma
che non è dilemma? È inutile il cercarlo. Il perché voi già lo sapete,
perchè voi già ripeteste con me le parole di Dante.—Il Baronio, come
Sigieri, ma in senso molto diverso _Sillogizzò invidiosi veri_.[22]

E non solo il Baronio, ma moltissimi altri vedeste sotto quel vessillo
raunati. Quali sono le loro prove? Io ve l’esposi di già ad una ad
una, e ad una ad una verranno qui invocate in giudizio. Si parlò di
gerarchia, si vide tra quella dei Terapeuti e quella dei Cristiani
analogia di nomi, di officj, di organismo. Che vuol dire ciò? Vuol
dire, dicono gli avversarj, che i Terapeuti sono Cristiani: vuol dire,
aggiungo io, che questi tolsero a imitare i Terapeuti, in quella guisa
che tutte le idee e istituzioni, e il sacerdozio e i riti e tutto,
tolsero ad imitare dell’Ebraismo; vuol dire almeno che Terapeuti e
Cristiani, sendo da un corpo solo concetti e partoriti, offrono tra
loro quelle affinità di sembianze che sono proprie dei fratelli, dei
consanguinei. Ma non è sola la gerarchia: si citano le guarigioni
miracolose, si dice che proprie furono dell’una setta e dell’altra,
dei Cristiani e dei Terapeuti; e da questa comunanza la identità si
conclude dell’uno e dell’altro. Parvi che rettamente concludasi? Io
credo fermamente che a questa stregua, che a questa misura, poco meno
di mezzo mondo diverrebbe Cristiano; che il diverrebbero i Dottori, i
Farisei grandi taumaturgi, come ognuno conosce; che il diverrebbero
i sacerdoti pagani, che di simili guarigioni andavan superbi; che lo
diverrebbe Vespasiano, di cui si narra la portentosa restituzione
della vista ad un cieco mercè la saliva; che il diverrebbe Apollonio
Tianeo, che circa quel torno empieva il mondo dei suoi miracoli. Ma
più ci dicono: vi è di più; vi è la repartizione dei proprj beni ai
poverelli, vi è l’erario comune o, in termini moderni, il comunismo,
quale si praticava dalla Chiesa Cristiana. Ci chieggono; vi par cotesto
argomento che basti? Sì, io rispondo, se la povertà volontaria fosse
nata col Cristianesimo, e pria e fuori di esso non se ne vedessero gli
esempj. Sì, se il monacato _Buddistico_, se i _Bonzi_, se i _Fachiri_
non lo praticassero in Oriente. Sì, se tutto lo stato ebraico non
fosse stato una spezie di pacifico comunismo, il cui alto proprietario
o signore supremo era Dio. Sì, se i dottori non ce ne offrissero
l’esempio proprio siccome quello che nei Cristiani si ammira; e se,
finalmente, il Cristianesimo non potesse aver tolto anche quest’idea
in prestanza all’antico Essenato. Che diremo poi dell’amore, delle
allegorie, della esegesi mistica che si cita per quarto? Sarà egli
più stringente argomento dei suoi confratelli? L’esegesi mistica! Ma
l’esegesi mistica era il vezzo, era l’andazzo, era il gusto comune
dei tempi d’allora. Lo era presso i pagani, quando si accostavano
a spiegare i capolavori dei loro poeti; lo era presso i dottori, e
le traccie ne durano immense, ne durano sensibilissime nei grandi
monumenti che ci trasmisero, dove ad ogni piè sospinto ti si accalcano
in folla le allegorie, le parabole, i miti, le tropologie, infine tutto
quello che la veste esteriore costituisce delle dottrine riservate, e
come dice Gioberti, della _scienza acroamatica_ dell’Ebraismo. Dovremo
noi soffermarci ai digiuni, alle macerazioni, che si dicono comuni?
Noi questo solo diremo, che se digiuni e macerazioni dovessero essere
assunti a criterio d’identità, l’origine degli Esseni non dovrebbe
a lungo cercarsi, perchè bella e pronta noi l’avremmo tra i dottori
trovata, ove in un ramo soltanto, notate bene, in un ramo soltanto
della loro scuola, tali si vedono prodigiosi e prodigati digiuni, da
disgradarne le più raffinate macerazioni della Tebaide. Sarà egli più
felice argomento il celibato, che qual distintivo comune a provarne
s’invoca l’identità? Il celibato, per ciò che riguarda gli Esseni,
non può essere inteso assolutamente ma parzialissimamente; quindi
non prova. Quanto ai Terapeuti, che sono gli Esseni Egiziani, il
fatto corre alquanto diverso; epperò il raziocinio offre alquanto
più del verosimile. Ma quanto a veder bene non è fallace! Non tanto
perchè i Terapeuti non praticassero il celibato, chè veramente il
praticavano, ma sopratutto (curiosissimo a dirsi!) perchè i Cristiani
allora nol praticavano, perchè tempi eran quelli ancor distanti dal
fervor religioso che spinse gli uomini nei chiostri, nei cenobj, nei
romitaggi; perchè Paolo allora bandiva, dovere il vescovo vivere senza
colpa colla donna sua; insomma, perchè il celibato cristiano non era
ancor nato.

Gli argomenti a favore sono caduti: adesso cominciano gli argomenti
contrarj: la guerra difensiva è terminata, adesso si vuol prendere
energicamente la offensiva. Quali sono di oppugnazione le armi? Sono
parecchi pensieri, e tutti serj, e tutti stringenti. Ella è, in
primo luogo, le tendenza di ogni parte, di ogni setta osteggiante ad
appropriarsi quanto vi ha di bello e di buono nella setta, nella parte
rivale. Dante è guelfo per i guelfi; è ghibellino pei ghibellini.
Maimonide è cabbalista pei cabbalisti, è antimistico pei loro nemici.
Aristotile, Platone ed altri ancora, se fossero stati conosciuti,
sarebbero stati dai nostri dabben proavi, giudaizzati e colle debite
forme circoncisi. Seneca fu battezzato da S. Paolo, o da chi per esso,
e tanto eco ebbe di sua conversione la fama, che la tesi fu trattata di
recentissimo innanzi l’illustre Accademia Parigina in un libro che vide
poi per le stampe la luce; nè di questo dirò più sillaba, avendone io
a dilungo parlato, in una lettera che or sono alcuni anni, pubblicava
l’_Educatore_. Nè agli Esseni incolse dissimile ventura. Parevano
così santi, così dotti, così esemplari, che non si potè più a lungo
tollerare il loro Ebraismo. E così un bel giorno furono presi e fatti
Cristiani; come Cristiano fu fatto Giuseppe, come Cristiano fu fatto
Filone, e come Gamliel e come Akiba furono debitamente cristianizzati e
in terra santa seppelliti nella chiesa di S. Francesco di Pisa.

Ma di queste fole più non si parli. Diciamo piuttosto di argomenti più
serj. E serissimo, a parer mio, è quello che si trae da Giuseppe e
Filone[23] Io già ve lo dissi, Giuseppe e Filone furono i due scrittori
che tolsero con qualche diffusione a narrare della scuola, delle
dottrine degli Esseni; e l’ultimo in spezial modo, che due interi libri
dettava a descriverne lo istituto, oltre quelle diffuse nozioni che
qua e colà sparse si trovano per avventura nelle opere rimanenti. Or
bene, Giuseppe e Filone non sono soltanto gli storici, gli espositori,
i descrittori del grande istituto, ma ne sono eziandio, e in grado
eminente, i panegiristi, gli encomiatori, i lodatori. Non cessano e
Giuseppe e Filone di laudarne la virtù, di celebrarne le dottrine, di
encomiarne il costume; e tanto profuse e tanto magnifiche riescono
di costoro le lodi, che grave ingenerarono sospetto nell’animo ai
posteri, non forse più che verità consentisse, di gioconde e gaie tinte
spargessero il quadro ad attirare la stima, l’ammirazione, l’ossequio
del mondo gentile. Dite di grazia. Potevano e Giuseppe e Filone con
tanta pompa favellare di un istituto _Cristiano_, d’un Istituto che
cattedre ed altari elevasse contro la pristina fede; il potevano essi
che nacquero e vissero e morirono nella più pura ortodossia?[24] Il
poteva Giuseppe, che non rifinisce di laudare la scuola farisaica,
ch’è quanto dire la scuola che più apertamente si osteggiava dal
Cristianesimo; il poteva Filone, che la vita consacrò e gli studj e le
fatiche alla esaltazione del nome, della fede ebraica, e che la età
senile non trattenne dalla famosa ambasceria a Cajo Caligola, dove
alta e solenne levò la voce in difesa dei patrj riti e della patria
salute? Che se Filone e Giuseppe, Ebrei pronunciati, non potevano tante
lodi prodigare se non ad Ebrei; se gli Esseni, ebrei essendo, non
lasciavano di possedere parecchie doti, qualità, costumi, istituzioni
che il Cristianesimo si appropriò, come desumere da queste simiglianze
la identità? Come non avriano potuto essi che queste cose possedevano
di proprio in antico, come non avriano potuto continuare a ritenerle
senza farsi Cristiani? Certo che il potevano e certo ancora che i
generosi encomj dei due grandi Israeliti fanno fede pienissima contro
ogni supposta apostasìa. Però Filone di lodarli non si contenta. Due
libri ei scrisse, come vi ho detto, di cui il primo consacrò agli
Esseni, l’altro dedicò ai Terapeuti. Il primo suona: _Ogni onest’uomo
è libero_, il secondo si chiama, _De vita contemplativa_. Or bene,
il prima è prova come a senso di Filone, Ebrei fossero gli Esseni,
poichè di costoro favellando, il nome apertamente e la qualificazione
gli assegna di Ebrei. Si può dire altrettanto dei Terapeuti che prese
a têma della seconda opera sua? Certo che sarebbe meno esplicita la
deposizione Filoniana, se non sapessimo che la vita contemplativa forma
come una parte seconda del primo libro rammentato; più, se nel passare
dagli Esseni ai Terapeuti, se nel prendere di quest’ultimi a favellare,
una frase ei non usasse ove i legami, la parentela delle due sètte
apparisce manifestissima; se, infine, concorde non sorgesse oggimai
una voce ad ammettere tra Terapeuti ed Esseni, non solo alcun tratto
di somiglianza, ma salvo qualche varietà d’indirizzo, una sostanziale
e perfetta identità; se di questo universale ossequio facendosi
interprete, non ci ammonisse il _Jules Simon_, nella _Istoria della
scuola di Alessandria_, così dicendo: _Il est plus que vraisemblable
que les Thérapeutes sont des Esséniens voués à la contemplation_;
e ciò che più monta, se queste parole precedute non fossero da un
coscienzioso esame sul preteso cristianesimo dei Terapeuti. Che se
Ebrei sono gli Esseni a confessione di Filone, se i Terapeuti altro non
sono che Esseni contemplativi, chi non vede come le insegne di Ebrei
più ai Terapeuti non disconvengano, che non agli Esseni?

È egli Filone il solo a proclamare degli Esseni lo ebraismo? Per
ventura, non è il solo. Una voce vi ha, s’è possibile, più autorevole,
che l’attesta. E qual è? La voce della cronologia. Attendete, e con
qualche diligenza mi seguite, chè si tratta di cifre. Quando nacque
Filone? Nacque, e ne abbiamo certezza, l’anno 724 dalla fondazione
di Roma. Quando scrisse le opere in discorso, quando parlò, quando
l’elogio compose dei Terapeuti? Egli dice che era, allor giovanissimo.
Giovanissimo, accennerebbe ai 20 a 30, ma pure diamogli, se così
volete, anni 40, i quali addizionali ai 723 dalla fondazione di Roma,
costituirebbero la somma di 763. In che anno della romana fondazione
nacque Gesù? Nacque il 753, ch’è quanto dire non più di anni dieci pria
che Filone a scriver si accingesse le opere sue; non più che dieci anni
prima del grande e sublime ritratto che ci porge Filone dell’Essenato
Egiziano, coi suoi romitorj, colle sue leggi, colle sue tradizioni,
col suo culto purissimo, e, ciò che più urge al fatto nostro, colle
sue istorie, coi suoi libri antichi, colla venerata memoria dei suoi
predecessori.

È egli possibile, dopo prove siffatte, parlare di Terapeuti Cristiani?
Però vedete astuzia! Noi citammo Filone e i suoi encomj; encomj
incomprensibili in bocca ad un Ebreo, ove i Terapeuti supporre si
vogliano cristianeggianti. Or bene, che credereste che facciano gli
avversarj! Con un colpo di mano ci rapiscon Filone. Audacia direte
enorme, se altra fu mai. Ma pure la è così. Se Filone credeste
finora Ebreo, disingannatevi. Egli è Cristiano, e davvero Cristiano,
testimone S. Pietro che in Roma vedutolo, lo convertì. Ma la buona
gente non guarda tanto per la sottile, nè spinge più che tanto le sue
indagini. Non cerca, per esempio, se il preteso Cristiano ci abbia di
cristianesimo alcuna traccia tramandato nelle opere sue; che strana
cosa ed incredibile veramente sarebbe questa, se tutto lo zelo ed il
fervor del neofita una sola parola posta non gli avessero in bocca,
non dico di elogio, di venerazione, di fede, ma nemmeno di semplice
ricordanza, di semplice citazione. Non veggon cotestoro che invano
tutto questo si chiederebbe alle opere Filoniane, che per quanto si
stendono, non menzione vi ha di G. C., non di Pietro il conversare
preteso, non dei Vangeli, non dei dogmi cristiani; ove dogma cristiano
non vogliam dire la teoria del _Verbo_, comune non solo alle religioni
orientali, ma propria altresì di Platone suo donno e maestro; non
infine di quel dogma menzione, sul quale tutto s’appunta l’edificio
cristiano, voglio dire l’Incarnazione o, come Gioberti il chiama, il
dogma teandrico. Che se occhi non han costoro per vedere, non hanno
nemmeno orecchi per udire; per udire, per esempio, Giuseppe quando,
sopravvissuto a Filone, di Filone parla con la riverenza ch’ei sentiva
per un tant’uomo; quando lo dice insigne nella sua nazione, quando
leva a cielo l’attaccamento di Filone alla fede, alla patria, a
tutto Israele. Avria così di Filone favellato Giuseppe, se Filone
conchiuso avesse la vita nella apostasia, nella fede cristiana?
Certo che non avrebbe; e certo egualmente che le lodi di Filone sul
labbro a Giuseppe, come quelle degli Esseni in bocca a Filone, come
tutti gli altri accennati argomenti, sono una catena ben connessa,
ben stretta, ben coerente, che c’interdicono, degli Esseni parlando,
i limiti varcare e i confini dell’Ebraismo. Io potrei valermi del
dritto di rappresaglia; potrei sotto ai vessilli riparare del Salvador
e sancire quella derivazione che egli propone delle idee cristiane
dall’Essenato; potrei dire con esso: _son organisation et ses mœurs
occupent un rang très élevé parmi les causes qui pendant la jeunesse de
Jésus imprimèrent la première impulsion à sa pensée_; potrei far eco ad
_Adolfo Esquirol_, il quale non dubitò sentenziare: «Les Evangélistes
se rattachent par leur Maître à la secte des _Esséniens_.»[25] Potrei
tutte queste cose togliere a dimostrare; e comecchè tornerebbe agevole
con corredo non esiguo di prove sussidiarle, ciononostante mi rimarrò,
che dette influenze esteriormente esercitate dall’Essenato, qui non è
luogo a trattare. Ci basti che inviolati ne sieno i sacri recinti, ci
basti che pura ed intemerata e legittima ne sia la origine, ci basti
che del più puro sangue sia egli concetto del corpo ebraico.



LEZIONE OTTAVA.


Grande ricerca, o signori, imprendevamo, ed è questa la origine degli
Esseni. Noi esautorammo le false, le spurie derivazioni che pregiudizi
multiformi ci volevano imporre, noi respingemmo _là dove il sole tace
di verità_ l’origine pagana, e dopo questa l’origine alessandrina, e
per ultimo vedemmo di che sapesse la cristiana paternità. Mestieri è
ora rivolgere a migliore indirizzo le nostre forze, mestieri è pure
ch’_a correr miglior acque alzi le vele omai la navicella del mio
ingegno_. Però se il còmpito nostro riesce tuttavia grave e scabroso,
quanto però non ci si presenta e più piana e più secura la via! Noi
conosciamo gli scogli e li eviteremo; noi sappiamo come circoscritta, e
per ciò stesso più sicura sia al presente l’opera nostra, noi sappiamo
come esclusi, eliminati per sempre il Paganesimo, la filosofia, e il
cristianesimo quai padri presunti del grande Essenato, non ci resti che
una fede a cui chiederlo, un popolo ove cercarlo, una filosofia a cui
riferirlo, e questa è la filosofia, la fede, il popolo Ebraico. Ma se
sappiamo che il campo ove nacque fu l’Ebraismo, ci resta a conoscere
il _dove_, il _quando_, il _come_ e quel germe particolare e quel
particolare terreno conoscere ove il gloriosissimo albero allignava;
ch’è quanto dire la origine propria, la origine propriamente detta
del grande istituto degli Esseni. Però due cose si distinguono in ogni
corporazione, in ogni istituto, e quindi duplice è il modo con cui
considerare se ne può la origine. Dissi due cose, e ve lo provo. È la
prima la parte per così dire _ideale_, _rudimentale_, gli elementi che
costituiscono ogni corpo sociale, le pietre a così dire distaccate
del grande edifizio, le molecole primitive di cui è composto, i
materiali di cui fu fatta la fabbrica.—L’altro aspetto, è la fabbrica
in sè stessa, e il tempo, la data, l’origine, della sua esistenza
complessiva indivisa, definitiva; l’origine, starei per dire, della
combinazione dei diversi elementi costitutivi in un tutto ordinato,
organico, positivo, esteriore. Quindi due origini quando degli Esseni
si parla: origine degli elementi delle parti loro costitutive, e
questa è l’origine prima:—Origine poi della personificazione della
incarnazione di questi elementi in un ente sociale, e questa è
l’origine seconda. Io chiamerò la prima _origine dell’Essenismo_ o
_Essenato_ in quanto accenna ai caratteri ed alla genealogia storica
dei principj; io chiamerò la seconda _origine degli Esseni_ in quanto
meglio allude agli uomini in cui l’Essenato divenne persona, e alla
genealogia storica dei suoi professori. Facciamoci dalla prima di
queste origini, dall’origine dell’_Essenato_ ossia dei caratteri, delle
idee, del genio delle istituzioni degli Esseni. Io credo che voi non
disconoscerete la importanza di questa ricerca. Quando pure avverso
fato ci contendesse il rintracciare la seconda di queste origini,
cioè l’incominciamento storico, individuo, complessivo della setta,
ei sarebbe acquisizione preziosissima la storia, la origine degli
elementi di cui si compose. Ma il fato ci arriderà benigno meglio
che non estimate; e lo studio che siamo per fare al presente, verrà
compito, integrato da quello che faremo di poi; e l’origine delle idee
vedrà immediatamente seguirsi l’origine della loro personificazione
in un sodalizio. Io chiedo adunque all’Ebraica antichità gli elementi
dell’Essenato, e che cosa mi risponde l’Ebraica antichità? Ella mi
risponde, offrendomi una istituzione in cui, siaci lecito il dirlo,
gran parte si dipinge dei caratteri e dell’Essenato, ed ove tranne
l’associazione, l’organizzazione sociale, e tranne il celibato, la
fisonomia splendidamente rifulge di precursori, di preparatori del
grande Istituto. Qual’è questa istituzione? Ella è l’istituzione
del Nazirato. Non so se voi quanto sia mestieri conosciate che
cosa è Nazirato: fatto è che nè conosciuto nè apprezzato egli è a
parer mio quanto pure si dovrebbe. _Nazirato_ era quello stato di
religiosa separazione in cui volontariamente si poneva ognuno che
più particolarmente si volesse a Dio dedicato. Si dedicava, o miei
giovani, al Signore con tre specie di voti che i precipui obblighi
costituivano dei Nazirei. S’interdiceva in primo luogo non solo il
vino ma l’aceto, ma l’uva istessa, e stando alla parola _Scehar_
ogni bevanda eziandio inebriante. S’interdiceva in secondo di rader
un sol capello della chioma, la quale doveva al termine del suo voto
recidersi tutta ed al fuoco bruciarla del sacrifizio che il Nazireo
offeriva; s’interdiceva per ultimo di venir menomamente a contatto con
un cadavere, nè qualunque altro genere contrarre di impurità che da
quel derivasse. Di questi tre voti, di questi tre obblighi, due vediamo
comuni agli Esseni; comune cioè la interdizione del vino, siccome a
suo luogo vedremo, comecchè da talun contestata; comune l’orrore da
ogni corporea impurità, come più estesamente sarà da noi dimostrato;
e se comune non vediamo egualmente la intangibilità della chioma,
egli è perchè la perpetua consacrazione, il vincolo non temporaneo
degli Esseni la rendeva impossibile, e soprattutto perchè la legge
dei Nazirei _formalmente ne assolveva coloro che la intera vita
sacravano_, siccome meglio dalle cose sarà chiarito, che in appresso
diremo. Voi comprendete già come questi strettissimi obblighi, uno
stato costituissero pegli Esseni di particolare santità; ma quanto più
questi voti non acquisteranno valore se li vedrete dovunque applicati
ove una maggiore si esiga o più esquisita perfezione religiosa! Se li
vedeste per esempio iterati e tra i doveri annoverati dei sacerdoti;
se esplicita invocassi l’inibizione che ai sacerdoti interdice l’uso
degli inebrianti ogni qual volta l’alterno servigio li chiamava
attorno il santuario: se vi mostrassi _Nadab_ e _Abiù_, i due infelici
figliuoli di Aaron, divorati da un fuoco miracoloso solo per aver,
secondo la tradizione, libato del vino al loro ingresso nel tempio;
se vi citassi infine la legge che vuole i giudici _pro tribunali_,
sedenti sobri per tutto quel giorno di liquore ebriante; se vi dicessi
con Ezechiele che i sacerdoti non debbano radersi assolutamente la
testa, ma sì tanto della chioma rispettare che bella mostra faccian
di sè nel pubblico servigio; se tale vi citassi una frase in Geremia
ove la capigliatura, la lunga chioma è detta serto, è detta corona; se
passando poi al tema delle impurità, vi mostrassi i Nazirei equiparati
nelle rigide osservanze non solo al volgo dei sacerdoti, ma al grande,
al sommo pontefice egli stesso il quale solo esso in questo ai Nazirei
somigliante, doveva non solo da ogni impurità tenersi lontano, ma
nemmeno gli estremi offici rendere ai prossimi parenti, al padre,
alla madre, al fratello, alla sorella, pei quali invece al sacerdote
volgare era conceduto immondarsi.[26] Che più? Se vi mostrassi a certi
effetti, in certi casi e secondo certe opinioni, il Nazireo allo
stesso pontefice sommo in santità sovrastare, quando cioè pontefice
e Nazireo imbattutisi per caso in cadavere derelitto era imposto al
sommo pontefice rispettare la santità del Nazareo e la propria dignità
obliare per rendere gli ultimi doveri a quel corpo infelice. Certo, che
dopo avere tutte le anzidette cose udito a ricordare, certo esclamerete
che ben grande doveva essere nella mente del divino leggidatore, del
Nazireo il concetto. Che sarà poi se i termini intenderete con cui sul
conto suo si esprime? E quai termini! _La corona di Dio è sul capo
suo_, vi dice aperto il sacro testo.[27] Non basta: Per quanto dura il
suo Nazirato _sacro_ è desso al Signore. Termini che nè diversi, nè più
pomposi suonano pel sacerdozio, termini chè chiaramente la parentela,
l’affinità ti rivelano, che volle Iddio stabilita tra il Nazirato e il
sacerdozio, tra il Nazirato sacerdozio incoato, virtuale, temporario, e
il sacerdozio Nazirato attuale e perpetuo. Voi udiste parlare di corona
sacra a proposito del Nazareo, e di sacra corona intenderete parlare a
proposito del sommo pontefice. Voi udiste il Nazareno qualificato sacro
al signore, e _sacro al signore_ recava in lettere d’oro sul frontale
inciso il sommo pontefice. I sacerdoti sono ministri dei sacrifizi, e
ministri esclusivi, chi non lo sa? Ma pure se vi fu uomo che tutte le
ordinarie regole conculcando dei sacrifizii, si sia eretto a pubblico,
a solenne immolatore, e se eretto si sia comecchè nè sacerdote nè in
luogo celebrante al culto di Dio dedicato; se uomo cotale vi fu, ei
fu un Samuele, ei fu un semplice levita, ei fu un Nazareno; e se in
progresso di tempo, e se dei redivivi Nazareni, e se infine degli
Esseni fu detto siccome da Giuseppe apparisce, che fuori del tempio
sacrificavano, chi sa che lo esempio di Samuele ad accreditare non
sia valso una opinione siffatta! Fatto è che il carattere sacro,
religioso e quasi ieratico non fu mai ai Nazarei disdetto: non lo fu
nemmeno ai tempi malaugurati della invasione siriaca. Quando, secondo
un preziosissimo testo dei Maccabei, nel primo di questi libri al
capitolo 3º, ritiratisi gli Ebrei fuori di Solima seco recano dalla
santa città a Maspa, ove s’adunano e si accampano, tutto chè di più
sacro e prezioso avessero nel tempio di Dio; quando siccome si esprime
il testo istesso dei Maccabei, _bandito un generale digiuno e postisi
dei sacchi attorno e della cenere in sul capo, spiegano i libri della
legge, arrecano le vesti sacerdotali, le primizie e le decurie e
fanno venire innanzi i Nazirei_, quando non sapendo in qual luogo più
sicuro riparare tanto tesoro, esclamano, dice il testo, _con gran voce
dicendo: Che faremo a costoro e dove li meneremo? Conciossiachè il
tuo santuario sia calpestato e profanato, e i tuoi sacerdoti sieno in
cordoglio e in afflizione_.

Io credo che non pochi insegnamenti abbiamo fin qui acquistato;
abbiamo veduto tra gli antichi Nazirei e gli Esseni parecchi correre
luminosissime attinenze, e tra ambedue altresì, e il sacerdozio
costituito in Israele; abbiamo in tanta antichità rinvenuti parecchi
degli elementi onde si formò di poi il nostro Essenato. Ma qui non
finisce la vena feconda del Nazirato vetusto, qui non hanno fine i
mirabili riscontri tra esso e’ moderni Nazirei che si chiamano Esseni.
Solo che meglio vi piaccia la natura indagarne, solo che le frasi dei
nostri Profeti, laddove dei Nazirei tolgono a ragionare, non vadano,
come avviene, perdute nel torrente di una irreflessa e precipitosa
lettura. Un passo principalmente vi ha di cui non si potrebbe
ragionevolmente inforsare la importanza. Egli è il Profeta Amos quando
rinfaccia ai coetanei suoi la ingratitudine onde ripagavano le insigni
beneficenze di Dio, quando ricorda loro il portentoso riscatto, le
spirituali divise con cui rivestilli, quando in ispecie ricorda i doni
profetici, le fatidiche ispirazioni; quando esclama in nome d’Iddio,
_E pure io fui quello che i figli vostri costituiva profeti e i giovani
vostri costitutiva Nazareni. Non è forse così, o Popolo d’Israel,
dice il Signore? Ma voi che faceste? Voi propinaste ai Nazareni il
vino conteso, ed ai profeti intimaste dicendo: Non profetate._ O io
m’inganno, o nuova sembianza è cotesta che assumono i Nazareni. Non
solo gente sacra e quasi sacerdotale, siccome vedemmo, ma gente, si
può dire arditamente altresì, gente profetica. Chi conosce il genio
della lingua Ebraica, la replicazione del concetto, nelle due metà del
versetto, le predilette sinonimie, il parallelismo frequentissimo,
non porrà menomamente in dubbio che nella mente di Amos, Profeti
e Nazireni, il vino dai Nazareni libato, e la esautorazione del
Profetismo non si unificassero a dirittura in un solo concetto. Per
chi è autonomo nei giudizi questo è d’avanzo. Per chi ama invece
poggiare sulle autorità ne avremmo a citare di soverchio. Potremmo
dire del Parafrasta Caldeo che con significantissima sostituzione
pone invece della parola _Nazireni_ il vocabolo Arameo _Malfin_ che
suona _insegnatori_; potremmo invocare il venerabile _Rasci_ che tale
ci offre definizione di cotesti del profeta, che più acconcia, più
precisa, più completa non si potrebbe dare degli Esseni medesimi;
quando dice cioè ch’erano i Nazirei separati dalle comuni costumanze,
e tutti dediti alla legge di Dio. Potremmo dal labro pendere di
Abenesra ove col consueto laconismo, ma altamente espressivo pel caso
nostro, _Nazirei_ dice _che consacrai a riprendervi, a santificarvi_.
Potrei chiamare a testimonio l’Abrabanel che dice il _Nazireato esser
preparazione allo spirito santo_, che aggiunge _essergli stato il vino
propinato onde lo spirito divino non scendesse sopra di essi, nè quindi
potessero vaticinare_.[28] Or che cosa sarà s’io vi dicessi che gli
Esseni andavano celebri per i loro vaticini e che non poche delle loro
predizioni ci sono da Giuseppe riferite, siccome a suo luogo vedremo?
Certo che vedreste allora nell’antico Nazirato, nelle doti profetiche
di cui va insignito un elemento nuovo dell’Essenato moderno, una pietra
nuova del grande edifizio, un preludio alle Esseniche predizioni: e che
sarà poi se vi farò toccare con mano nuovi riscontri nelle circostanze
più particolari della vita, nell’abito per esempio, nel regime tra
l’Essenato e i Nazirei; il sacerdozio antico e il Profetismo? Certo
non negherete che sarà un passo di più verso la mèta a cui aneliamo,
il ritrovamento delle parti integrali, degli elementi del grande
Istituto. Or bene, volete sapere degli Esseni l’abbigliamento? Mirate
ai Profeti ed ai Nazirei; due luoghi vi sono aurei tutti e due,
luminosi tutti e due per chi ha gli occhi per vedere, dove il costume
esteriore ci vien dipinto, ma di volo con un sol tratto, di Profeti
e di Nazirei. Costume uniforme dei Profeti, colà abbiamo, laddove
predicando Amos il discredito in cui saria caduta l’ispirazione, _tanto
vil cosa_ aggiunge _sarà reputata, che niuno vorrà simulare nemmeno il
portamento esteriore di un Profeta, che niuno più addosserà un mantello
peloso_.—Chi ha orecchi ascolti: un _mantello peloso_, ecco dei Profeti
la divisa, il destintivo. Che se non contenti di aver trovato, se così
è lecito dire, dei Profeti il figurino, ne voleste uno proprio di carne
e sangue in cotal foggia vestito, potrei io esitare un istante, potrei
io non vedere sorgere immantinente ai miei sguardi il severo, l’ispido
_Elia_, l’uomo come il descrive il sacro storico, l’uomo peloso, l’uomo
dalla cintura pelosa, Elia il Jesbita; Elia il solo superstite tra i
Profeti di Dio, Elia che al sol vederlo in questo arnese caratteristico
esclamano tutti? _Elia attisbi u?_[29] Ebbene mirate nell’autobiografia
di Flavio Giuseppe ciò che del costume va esprimendo dei più rigidi tra
gli Esseni, e mi saprete dire se troppo disforme da quello procedesse
tra i profeti usitato. Ma i men rigidi, i più urbani tra gli Esseni
come vestivano essi? Ah! egli è qui ove ritornano in campo non solo i
sacerdoti come gli Esseni _bianco vestiti_, ma ciò ch’è più, ritornano
in campo gli stessi Nazirei e un nuovo e parlante rapporto ci offrono
colla società degli Esseni. È tal cosa la Scrittura, o miei giovani,
che se uomo non tende l’orecchio del continuo a spiarne non ch’altro le
più fuggevoli espressioni, gran parte sperpera, miseramente perduta,
delle sue ricchezze. È un mondo che si rivela per cenni ed enigmi,
è la figlia del Re, secondo la magnifica parabola Zoaristica, che
solo rivela la faccia sua bellissima, dopo avere con ripetuti cenni
ed ammicchi l’attenzione e l’ansia provocate del suo amadore.[30]
Testimone l’esempio che abbiam tralle mani. Chi avrebbe detto che la
Bibbia contenesse perfino l’antico costume dei Nazirei? Eppure nulla
di più esatto, la Bibbia lo contiene, in una locuzione, in una idea
incidentale, ma pure lo contiene. Povero Geremia! Ei lamenta perdute
tante cose e carissime! Ma non dimentica, credete per questo, cose di
men rilievo, per esempio i bellissimi Nazireni e le loro vesti. _Dove
n’andaste_, sclama nel dolor suo, _Dove, o Nazareni dalle candidissime
stole più della neve bianche, bianche meglio del latte?_ (Treni cap.
IV, v. 7.) Perocchè glossa il venerando Rasci i _Nazirei e i Farisei_
(notate questo contatto e ponetelo in serbo per altro tempo) _i Nazirei
e i Farisei mostravansi al di fuori tersi e puri_ COLLE BIANCHISSIME
LORO VESTI, _alla neve somiglianti, siccome alla neve si assimigliano
le vesti dell’antico dei giorni, e siccome infine è costume dei
Ilasidini_; ed anche quest’ultima frase ponete in serbo, giovani miei.
Ed ecco il costume degli Esseni, il costume dei più miti tra essi
somministratoci dall’antico Nazirato, dal Nazirato consenziente anco
in questo col sacerdozio ministrante nel tempio di Dio.[31] Ma io
dissi che negli antichi profeti un vestigio ritrovato avremmo della
tavola degli Esseni, del regime degli Esseni. Dissi ben poco; doveva
dire e la dietetica e la dimora e la scelta del luogo. Vi è un passo
nel secondo dei Re ove la scuola dei profeti, _i figli dei profeti_
come allor si dicevano, banchettando a cielo aperto ci permettono
di osservare di che cosa si formassero le consuete imbandigioni. Io
veggo primi rammentati i legumi; e legumi pure erano il cibo favorito
nell’essenico refettorio, veggo radiche ed erbe qua e colà dai Profeti
stessi raccolte su per i campi; ed erbe e radiche alternavansi talvolta
negli essenici prandi. Che più? La scuola profetica abita non solo
sotto il medesimo tetto, tralle stesse pareti, ma soggiorna eziandio
lungi dall’abitato _presso le rive del Giordano_; e non sarebbe
temerità s’io dicessi che non del tutto andò errato Gerolamo quando
nelle frasi del testo intravide eziandio la costruzione di separate
cellette.

Aveva io ragione di sperare larga suppellettile di elementi, di
preludi, di presentimenti Essenici nella storia dei Nazireni, in
quella del sacerdozio, in quella dei profeti che tanta parte offron
pur essi della fisonomia dei Nazireni? Ma vi ha un’obbiezione che voi
potreste fare e ch’io perciò appunto amo di prevenire. Potreste dire:
il Nazirato era voto e vincolo; ma voto e vincolo a tempo, ch’è quanto
dire era assai diverso dall’Essenato che una consacrazione importava
la quale continuar doveva quanto la vita lontana. E benissimo vi
apporreste se tra Nazirato ed Essenato non corresse a senso mio divario
alcuno; se io dicessi le stesse forme, le stesse leggi essersi per
tanto corso di secoli dall’uno all’altro tramandate senza alterazione
alcuna. Ma ciò nè dissi nè poteva io dire in verità. Sebbene che dico?
È egli poi vero che il voto dei Nazireni fosse sempre temporaneo
come voi dite? Certo che così pensò e scrisse un uomo dottissimo il
_Munk_ nella _Palestina_. Ma con sua buona pace sia detto: il Munk
s’ingannò a partito. Non solo la tradizione attesta il contrario, non
solo esempi vi sono luminosissimi di Nazirato perpetuo, e basti citare
i nomi famosi di Sansone, di Samuele, e nei tempi Rabbinici di Elena
la pia Regina degli Adiabeni;[32] ma sopratutto il testo stesso su cui
pare il Munk affidarsi, se non dice aperto di un Nazirato a vita, non
parla nemmeno di tempo, non prescrive termine, nè limitazione prefigge.
Si dirà ancora che non vi fu Nazerato perpetuo? Io credo che la sua
esistenza non possa revocarsi in dubbio, e quindi un nuovo elemento,
un nuovo apparecchio emmi lecito intravedervi della grande e dotta
congregazione degli Esseni.

Io non lascerò, o miei giovani, l’argomento dei Nazireni, anzi che
non vi abbia fatto toccar con mano come oltre le regole, le leggi, le
istituzioni, il nome stesso di Nazireno sinonimizzi mirabilmente con
tutti quelli che in ogni tempo recarono gli Esseni, con tutta la ricca
suppellettile di nomi con cui a senso mio furono contradistinti. Primo
tra questi, e già in parte ve lo accennai altra volta, si è quello di
_Fariseo_; nome che nella sua vastissima comprensione anco l’Istituto
abbracciava degli Esseni siccome quello che dei Farisei era culmine
ed apogeo. Or che vuol dire Fariseo? Vuol dire _separato_. E come
direste separato nella lingua biblica, nella lingua della scrittura?
Direste precisamente _Nazir_; col qual nome avrebbe qualificato Mosè i
Farisei se al tempo suo fossero esistiti, in quella guisa che Farisei
avrebbero potuto qualificare i dottori i Nazireni?[33] Vi pare assai?
Udite ancora. Io vi dissi altra volta e ve lo proverò in seguito,
come speciale designazione degli Esseni fosse ai tempi Rabbinici
il nome di Hasidim. Volete ora vedere i Hasidim trasformarsi in
Nazireni? Certo che la metamorfosi vi parrà avventata. Pure nulla di
più preciso se aprite il Talmud al primo di _Nedarim_. Dove leggerete
questa confessione preziosissima; _che i primitivi Hasidim solevano di
frequente votarsi a Dio in Nazireni_.[34] Volete più? Certo che voi
discretissimi non esigereste di più: ma pure proviamoci: proviamoci a
recare il sinonimo di Nazir con Essena a quella evidenza che si può
desiderare maggiore. Voi vedrete tra non molto come il Talmud, come i
monumenti Rabbinici più antichi tracciano, siccome fu creduto finora
sul conto degli Esseni, come questo silenzio formasse sempre argomento
di legittima sorpresa per chiunque si facesse ad osservarlo, e come
questo preteso silenzio, fosse creduto, fosse ammesso non solo dai
dotti, dagli eruditi di ogni maniera, ma eziandio dai succedituri
Rabbini, dai dottori che sursero e scrissero dopo il Talmud i quali
quando ebbero contezza, strano a dirsi! per mezzo dei moderni scrittori
della esistenza di un antica setta fra loro per nome Esseni, quando di
essa ebbero come di peregrina e inaudita scuola a favellare, che nome
credereste che gli apponessero? il nome di _Nazireni_! Tanto pareva
loro confacersi agli Esseni l’antico nome di Nazireo, tanto al genio
rispondere il genio, la vita, le leggi alle leggi e alla vita.

Un grande insegnamento emerge, se io non sbaglio, dalle cose dette
sin quì, ed è questo: che senza ammettere una generazione diretta od
omogenea, grande però, massima parte di tutti gli elementi che la
vita composero e la esistenza dell’Essenato si trovano contenuti e
come in germe rinchiusi in seno al Nazirato ed al Profetismo. Purità,
sobrietà, dottrina, ispirazione, vita solitaria e cenobitica, costume,
dietetica e persino il nome loro caratteristico. Si può dire per
questo che tutte abbiamo le parti costitutive dell’Essenato? Io non
oso dir tanto: vi ha un elemento nella organizzazione degli Esseni
di cui traccia non solo nei Nazireni non si discopre, ma che pure
ardua, se non impossibile impresa, sembra trovarne vestigia nella
ebraica antichità; che dico? Che pare a dirittura contraddire alle
leggi, ai costumi, allo spirito generale dell’Ebraismo. E questo è
il _Celibato_. Il celibato fu egli dagli Esseni praticato? Ove sia
stato praticato, ha egli radici, ha egli origine nel genio, nella
storia, nel passato dell’Ebraismo? Io mi affretto a dirvi per ciò che
concerne la prima dimanda, come il celibato fosse istituzione sì degli
Esseni; non tale però che da tutti fosse egualmente praticata. Quando
delle leggi loro favelleremo e del loro Istituto, vedremo come gravi
restrizioni debbano accompagnare la divulgata sentenza che a tutti gli
Esseni indistintamente attribuisce il celibato. Pure si praticò; e se
non tutti come il più perfetto consideravanlo degli stati, certo che
appo taluni era in grande onore. D’onde quest’onore? D’onde questa
dissonanza dalla voce dei secoli che proclamava invece tra gl’Israeliti
maledetto, infame il celibato? Ardisco dire che l’ebraica antichità
non è sorda assolutamente al nostro dimando. Io vi so dire che certi
fatti vi sono e certe frasi i quali attestano manifestissimo che se pel
comune degli uomini, per le condizioni più comuni della vita sociale,
lo stato coniugale è lo stato più onesto, più meritorio, più religioso,
pure si dànno certi stati così sublimi, certi uomini così trascendenti,
certi momenti così augusti, in cui la virtù della continenza,
temporaria e passeggiera talvolta, si stende però altre fiate ad un
epoca così vasta, e talvolta abbraccia così una vita intera, che male
il nome si potrà contrastargli ed il carattere di _Celibato_. Quali
sono questi fatti e questi precetti? Un occhio penetrante li scuopre a
prima giunta nel gran campo delle scritture; una mente alquanto erudita
li ritrova nel grande emporio delle Tradizioni. Ecco i Dottori cui
amore stringe della vita speculativa, della vita ipermistica dispensati
formalmente dal matrimonio: ma di questo non dirò di vantaggio,
perciocchè non appartiene a rigore all’epoca delle origini. Ecco un
colloquio interessantissimo tra il sacerdote di Nobbe e David che
chiede cibo per sè e pei suoi. Ecco il sacerdote obbiettare come i
sacri pani non potessersi offerire a coloro che da contatto donnesco
non si fossero astenuti. Ecco David replicare essersi tutti da tre
giorni serbati continentissimi. Ecco Giobbe che pria di bandire i
Riti e il sacrifizio domestico, impone ai figli, apparecchiarvisi con
rigorosa castità. Che più? Ecco il gran fatto, il fatto più culminante
nella storia dell’Ebraismo, ecco la promulgazione della legge ed ecco
ciò che impone Moisè? Egli comanda si separi ognuno dalla donna sua
e tre giorni di severissima continenza li predispongano al condegno
accoglimento della parola di Dio. Volete più? Vi ha una tradizione
preziosissima certo non coniata in grazia dell’Essenato, ma che pure
torna mirabilmente in acconcio pel caso nostro, e la tradizione
riguarda Moisè. Si volle, si disse, che da quel punto in cui Dio fece
suonare quelle parole sacramentali «Ed ora qui rimanti con me;» il
gran profeta avesse letto nel volere divino l’obbligo di sequestrarsi
da ogni carnalità e di vivere oggimai la vita dei Celesti, e le sole
voluttà omai pregustare che il novello stato gli offriva nel consorzio
di Dio.[35] Che volete? Fosse consiglio della solitudine, fosse desio
di scuotere a dirittura ogni polve terrena, fosse vaghezza di una
perfezione superlativa, fosse persuasione di esquisita misticità, gli
Esseni nostri, allo stato aspirarono eccezionale dei grandi uomini
e dei grandi momenti nella vita dell’Ebraismo; aspirarono a fare
una regola, una legge dell’anormale e dell’eccezione, agognarono ad
ottenere del continuo quella istantanea elevazione in cui si tennero i
santi antichissimi in breve ora del viver loro; e invece di libare un
sorso della vita beata, vollero votare interamente la tazza. L’erezione
dello stato eccezionale in regola inflessibile, del transitorio
nell’immanente costituì tra gli Esseni il Celibato.[36] Questi sono i
germi, questa l’origine che ci offre la Bibbia. Quando parleremo della
istituzione in se stessa, avremo un altro termine fecondissimo di
raffronto, i Dottori e le Tradizioni; e il Celibato diverrà allora se
occorre anco più comprensibile. Per ora noi abbiamo fornita parte non
indifferente di nostra via, abbiamo notati, registrati nell’antichità
Ebraica gli elementi dell’Essenato. Abbiamo descritta la _embriogenia_
del grande Istituto. Otto giorni ancora e gli elementi disgregati,
inorganici, impersonali diverranno un ente vivo, storico, parlante,
organico, personale; in cui tutti o quasi tutti s’incarneranno i
discorsi elementi. Noi possiamo dire oggi: questi sono gli elementi
dell’Essenato. Noi potremo dire allora: questi sono degli Esseni i
progenitori, gli antenati. Noi diciamo oggi, ecco le pietre, ecco i
materiali: noi diremo allora, ecco la fabbrica, ecco il palagio, o
almeno: ecco le fondamenta.



LEZIONE NONA.


Se prepotente io non sentissi il bisogno di giungere più ratto che
ci è dato a la mèta prefissa, la tela che noi andremo questa sera
svolgendo troppo maggiore argomento ci offrirebbe che quello di una
sola conferenza. Le cose che ho a dirvi sono molte, sono gravi, sono
di grande momento, sono la ricostruzione storica dell’Essenato per
tutti i tempi favolosi, incerti, storici della sua esistenza, sono la
storia della sua incarnazione durante i lunghi secoli che precederono
l’Essenato propriamente detto, egli è infine l’_albero genealogico_
del grande istituto. Io stringerò il molto in brevissimi termini, io
vincerò il desiderio che pur provo vivissimo di farvi assaporare di
ogni parte il valore di farvi misurare sol collo sguardo gli amplissimi
orizzonti che ad ogni tratto ci si schiuderanno dinanzi, nè a questo
bisogno meglio che desiderio, verrei men di certo se io non contassi
sulla vostra penetrazione, sul vostro acume. Supplite voi al manco del
mio dire; intendete meglio che io non possa spiegami. Fecondate colla
mente ingegnosa i dati che vi vado porgendo, indovinate quello che
per brevità io taccio, andate più lungi colla mente di quel che a me
sia conceduto lo andare colle parole; e sopratutto stringete tutte in
un fascio le cose che sono per dirvi: sia la vostra mente un filo,
anzi sia poderosissima catena che tutte unifichi le cose che sono per
dire; alla seconda vi ricordate la prima, alla terza prima e seconda;
nè giunga del mio dire la conclusione, senza che le precedenti cose vi
stiano tutte dinanzi all’occhio della mente schierate, così io sarò
breve senza pericolo, e voi istruiti sarete senza disagio.

Voi lo ricordate. Abbiamo trovato nelle passate conferenze gli elementi
dell’Essenato, adesso ci è d’uopo trovare l’Essenato medesimo.
Abbiamo veduto i suoi principii, adesso ci è mestieri vedere i suoi
antenati; veduto abbiamo la storia delle sue idee, ci conviene adesso
la storia studiare dei suoi precursori. Dove cercarla? Non vi dirò le
laboriose investigazioni che emmi costata la costatazione di questa
origine, la sua ordinazione, la sua confermazione. Voi stasera, o
miei giovani, coglietene il frutto, ed il saperlo sarà il mio premio.
Dove cercarla? Cercarla io dico colà ove l’origine si cerca di quanto
vi ha di più nobile e venerando in Israele, dove si cerca l’origine
della Reale Dinastia Davidica cioè nell’innesto di un ramo pagano sul
ceppo ebraico,[37] nella Moabita Rut che fu madre del Regno siccome
leggiadramente chiamaronla i Dottori; dove si cerca l’origine di alcuno
tra i Profeti stessi, siccome Obadia che di pagano che era si fece
ebreo secondo i Dottori, dove si cerca l’origine dei più illustri tra i
Dottori i quali pressochè tutti sortirono a confessione di loro stessi
i natali da progenitori pagani: tra i quali si potrebbe citare per
tutti il gran Proselita Onchelos, il più popolare tra tutti i Dottori.
Cercarla infine tra i Pagani al Giudaismo conversi, cercarla nella
nobil famiglia dei Proseliti. Perchè così abbia disposto il Signore,
perchè non sia gentil pianta nell’ebraico giardino che un ramo non
rechi innestato dell’agreste e selvatico Gentilesimo; troppo vorrebbesi
lunga e protratta disamina perché ci sia qui lecito il tentarla. Io
domando solamente se l’Essenato deve al Proselitismo la sua origine,
se in questo solo senso avvera l’opinione di coloro che gli Esseni
dichiararon _Pagani_. Quale è tra i Proseliti che ricorda la Storia,
il santo seme, onde poi allignò il rigogliosissimo albero? Io non so
se ben m’apponga, ma io credo che il nome non vi riesca ignoto. Avete
mai, o miei giovani, udito parlare di Jetro, di _Jetrò_ il sacerdote
di Madiani, il suocero di Mosè, il suo consigliere, lo approvato dal
Signore, il primogenito tra i conversi, e secondo un antico Rabbino
spagnuolo _David di Leon_, l’iniziatore di Mosè alla vita religiosa,
alla propedeutica religiosa; tanto che se Mosè dir si può il padre di
nostra fede, Jetrò se ne può dire l’avo? Io dissi primogenito tra i
conversi e n’ho ben d’onde. Ho per me la tradizione che lo attesta,
ho per me la formula quasi della sua abjura laddove all’udire il
portentoso egresso di Egitto esclama ammirato: _Ora sì riconosco che
grande è l’Eterno al di sopra degli altri Dei._ Ho per me l’atto
istesso con cui al culto s’inizia nuovamente abbracciato, quando a
Dio appropinqua olocausti ed ostie pacifiche, quando alla sacra mensa
banchettan festanti assieme al Neofita, Mosè, Aronne e gli anziani
tutti d’Israele; ho per me l’onore unico da nessun altro partecipato,
tranne Jetro, di essere istitutore della Ebraica Magistratura, Dio
consenziente non solo, ma encomiante; ho per me le parole mirabilissime
di Mosè ove si confessa, quasi non dissi al grande suocero inferiore,
quando cioè istantemente lo supplica di procedere seco lui per lo
deserto, quando Jetro rifiuta dicendo: _No, che solo al paese mio
tornerommi e alla mia patria_; quando senza lasciarsi ributtare
al primo rifiuto torna Mosè e prega e scongiura, quando il titolo
onorandissimo prodigagli il gran Profeta di suo duce, di suo conduttore
e, secondo la forza dell’ebraico vocabolo, di _occhio suo_. Ho per me
i dottori quando dicono che ridottosi al suo paese non quietò il gran
Proselita sino a tanto che non ebbe il culto degli idoli estirpato
dalla sua famiglia; e questo è Jetro, e questa è la sua conversione.
Ma della sua famiglia altresì io parlai e della di lei conversione.
Dove ne sono le prove? Parlai dei dottori e delle lor tradizioni, ma io
doveva dire la scrittura, la Bibbia in quei fatti momentosissimi ove
si fa parola della discendenza del gran Proselita, ove ti apparisce la
sua figliolanza costituita veramente in società distinta, sì, ma pure
dimorante in seno agli Ebrei, ove per gran fortuna possiamo passo a
passo seguire le vicissitudini tutte dei Jetroiti, ove al tempo istesso
che vi leggiamo la loro storia, una esatta dipintura ci si porge
altresì della successiva, della lenta formazione di un dotto di un
Religioso Istituto in quella famiglia. Io oso dire che non è senza una
particolare provvidenza che la Bibbia ci ha serbato memoria di questo
fatto, che di tratto in tratto ha deviato dal suo prescritto cammino
per toccare delle fasi in vari tempi percorse dai discendenti di Jetro.
Quali sono questa fasi? In qual guisa vi si può come in ispecchio
mirare la secolare concezione dell’Essenico Istituto? Ecco il come ed
ecco i fatti.

Ecco il libro dei Giudici che non appena pochi passi ha mutati nella
sua narrazione, non appena alle conquiste ha esordito dopo Giosuè
operate, esce fuora con queste parole: _Ora i figli di Cheni suocero
di Mosè trassero dalla città dei Palmizi coi figli di Giuda al
deserto di Giuda che è posto a mezzodì di Arad, e andò e pose stanza
appresso al popolo._—Che parole son queste e che significano? Se io
non erro, non troppo vi saranno riuscite per ora accessibili. Però
tranquillizzatevi; questa difficoltà non è in voi, è piuttosto nel
testo istesso, è la mancanza di antecedenti che spianino la via alla
sua intelligenza, è l’isolamento in cui il verso stesso si trova in
seno al contesto, è quel piombare che ti fa subitaneo in sulla testa
senza troppo sapere d’onde provenga, è quell’apparire istantaneo a
guisa di lampo che pare scaturir di seno alle tenebre, per ricadere
nelle tenebre, è quell’oscurità innanzi a cui resta perplesso,
esitabondo ognuno comecchè erudito proceda nel sacro Idioma; nè se
dovessi tutte le cause narrare di questa oscurità non saprei veramente
venirne a capo. Però l’oscurità sentiamo, e la sentiamo gravissima;
proviamo a diradarla. Si parla qui dei _Cheniti_, dei figli di _Cheni_.
Chi sono i Cheniti? Sono certo Cheniti quei popoli di cui Dio accenna
ad Abramo nella solenne promessa. Ma _Cheniti_ sono, si chiamano
pure i discendenti di Jetro, vuoi che Jetro appartenesse all’antico
popolo dei Cheniti, siccome vuole il Munck, vuoi come meglio a parer
mio opinarono il _Gesenius_, _il Bohlen_, _il Tahu_, come ad essi la
tradizione consente, che Cheniti si dicessero da Jetro, appellato esso
pure Cheni, vuoi finalmente che _Cheni_ si dicessero da _Chen_ nido,
pel nido che facevano per campi e per selve siccome comprese il Zoar.
Fatto è che i discendenti di Jetro si dicono _Cheniti_ e che sotto
il nome stesso ci si riveleranno in appresso i loro successori. Ma
che cosa è la _Città_ dei _Palmizi_? Città dei Palmizi è _Gerico_;
Gerico chiamata negli ultimi versi del Pentateuco col nome istesso
usato dai Giudici; _Gerico_ situata poco lungi dalle sponde del lago
Asfaltide. Ma in qual guisa li Jetroiti veggiamo stanziati in Gerico?
Come dalla città lontanissima di Madian loro patria nell’Arabia Petrea,
le orme seguirono di Israel sino nel cuore di Terra Santa? Nessuno lo
spiega, e nessuno il narra, tranne la _Tradizione_. Ma quanto bene
la Tradizione! Per la tradizione Jetro dopo i primi rifiuti, cesse
finalmente alle istanze del divino Mosè. Jetro, i suoi figli, la
sua famiglia ricovrarono all’ombra del popolo Ebreo, battagliarono
nelle sue battaglie, trionfarono nei suoi trionfi e le piagge dilette
vider pur essi della Cananea conquistata. Ma quale gli attendeva
laggiù guiderdone? In qual guisa si sdebitarono gl’Israeliti della
promessa Mosaica che Jetro voleva a compartecipe dei beni, delle terre
acquisite? Coi suburbi, colle campagne di Gerico, dice la Tradizione;
le quali terre dovuto avrebbero li Jetroiti serbare in custodia sino
a tanto che fosse il Tempio edificato, e la metropoli destinata, la
quale, proprietà nazionale dovendo essere meglio che tribunizia,
mestieri pure era porgere alla Tribù spodestata una adeguata indennità,
e questa doveva essere il territorio di Gerico, la stanza antica
dei Jetroiti. Ma questi, voi lo vedeste, partiti da Gerico traggono
altrove. Dove vanno? Vanno, dice il testo, nei deserti di Giuda che
sono a mezzodì di Arad, e in mezzo al popolo fermano stanza. Che luoghi
sono cotesti? Voi vedeste poc’anzi come Gerico fosse posta sulle rive
o a quel presso, del lago Asfaltide. Or bene; il deserto di Giuda,
Arad istesso, la nuova dimora dei Jetroiti, non piega sulla carta
dalla linea contrassegnata, e l’epoca stessa gloriosissima di Debora
troveralli abitare sui luoghi medesimi. Che monta ciò, potreste dire?
Nol direste però se tutto aveste già ascoltato; nol direste se io vi
mostrassi come gli Esseni di cui adesso cerchiamo l’origine, quegli
stessi luoghi abitassero in tempi tanto più posteriori, che gli antichi
Jetroiti occuparono in tempi così antichi; nol direste se vi ripetessi
le parole di Plinio nel Cap. 17 del libro 5, laddove degli Esseni
parlando, li qualifica _Gens socia Palmarum_, gente dei Dattolari
amica, nè più celebre di Gerico e della riva del Giordano s’ebbe
giammai in fatto a Palmizi; nol direste se vi mostrassi in Plinio
stesso al luogo istesso, come la città ove ai suoi tempi abitavano
gli Esseni fosse Engaddi, Engaddi posta essa pure sull’Asfaltide
sulla linea stessa di Gerico e Arad, come vi mostra la carta, Engaddi
famosa pur essa pei suoi Palmizj d’onde il nome derivolle più antico
di _Kazazon Tamar_; nol direste finalmente se udiste Plinio istesso
additarvi qual residenza altresì degli Esseni moderni _Masada_,
città anch’essa meridionale di Palestina, anch’essa posta in riva
all’Asfaltide, come di leggeri potete osservare nella Geografia del
_Dufour_. Attalchè Gerico, Masada, Engaddi, Arad formano sulla carta
una linea continuata che rasenta il Mar Morto, muove dall’ovest in
direzione del Sud, e dove negli antichi e moderni tempi ebbero stanza
gli Esseni ed i loro proavi _Jetroiti_. Ed a che fare traggono i
Cheniti ad Arad? _Ad abitare_, dice il Testo, _in mezzo agli Ebrei_,
a convertirsi, dice il Gersonide, definitivamente all’Ebraismo. E
presso chi particolarmente riparano gli emigrati? presso _Jahbez_,
dice la Tradizione, presso Jahbez, conferma la Bibbia nel 1º delle
Cronache, come fra poco vedrete. Chi era _Jahbez_? Era Dottore, era
Scriba, era Profeta, chè tutti e tre i caratteri solevano a quei tempi
andare congiunti,[38] ed alla Tribù dotta, massima, reina, apparteneva
di Giuda; in cui doveva secondo l’antica benedizione perpetuarsi lo
scettro, e l’oracolo promulgarsi della legge di Dio, a cui il titolo
di maestra leggidatrice si concedeva nel libro dei Salmi; _Jehuda
mehokeki_ in cui rifulse mai sempre il primato sulle sorelle Tribù.
Che se tale era pure l’origine, qual’è il Ritratto che di lui medesimo
ci fa la Scrittura? Io oso dire che il libro delle cronache tali usa
gravi, significantissime espressioni sul conto suo, che in tutto
il corso dell’opera stessa, non se ne veggono per alcuno altro le
simiglianti. E bene le avvertirono i nostri Dottori i quali osservarono
e giustamente; come da Adamo da cui esordiscono le cronache sino a
Jahbez, niuno si trovi che abbia fatto così nobilmente favellare di
sè. E come favellano intorno a _Jahbez_ i libri summentovati? Essi
dicono _E fu Jahbez sopra i suoi fratelli onorandissimo_. Non basta.
Il testo biblico reca manifeste le tracce di un gran VOTO da Jahbez
pronunziato, voto che rimane per sventura incompreso poichè la promessa
fatta al Signore restò implicita, restò sottintesa, ma che tutti i
caratteri porge, come diceva, visibilissimi di un gran voto. Jahbez,
dice il Testo, invocò il Dio d’Israel e così disse: Se tu mi benedirai,
o Signore, se amplierai i miei confini, se la mano tua sarà in mio
aiuto, se mi camperai dal male, onde non abbia a dolorare..... Ebbene
che cosa aggiunge, che cosa promette Jahbez ove Dio lo ascolti? Vano
il cercarlo! Il Testo lo tace, gli Interpreti non sanno dirci se non
che _voto_ vi fu, ma rimane ignorato; e lo stesso Rasci non seppe
dettare che le frasi seguenti _ed egli votò quel che votò_, ch’è quanto
dire come più non c’è dato sapere. Sebbene questo sappiamo; che Dio
ne adempì pienamente le voglie, e quindi se voto vi fu, siccome par
dimostrato, se la preghiera fu accetta, il voto fu anch’esso adempiuto.
Ma perchè traggono i Cheniti a fianco a Jahbez? I Giudici tacciono;
ma la tradizione e le cronache lo dicono esplicito. Che dice la
Tradizione? A imparare la legge, a fondare una scuola. Che aggiungono
le cronache? Parole aggiungono che tutto il valore hanno di una grande
conferma, di una grande rivelazione; un tratto di luce, vivo, acceso,
che balena e sparisce; una stella che brilla un istante e quindi la
ricuopre la nube, un suono che rompe per un istante la monotonia di un
canto uniforme, parole ed idee che non siamo usati incontrare in mezzo
le viete ed aride genealogie delle cronache e che rivelano la presenza
dell’elemento scientifico intellettuale teologico, nell’epoche più
remote della nostra esistenza. E quali parole poi perciò che riguarda
i Cheneti e la origine degli Esseni!

Prende il Cronista a narrare le genealogie di Giuda, a ricostituire
il passato d’ogni famiglia, a riconnetterla cogli antichi anelli
di cui si parla nel Pentateuco. A un certo punto della genealogia
ascendente, esce fuora con queste parole: _Ora famiglie di Scribi di
Dottori abitavano presso Jahbez le quali dicevansi, le quali sono i
Cheniti che discendono dal fondatore dei Recabiti._ Gran parole, o
signori, e quante cose non s’imparano dalle parole citate! Vedete
le famiglie di Scribi Solferim da Sefer libro in quella guisa che
_Letterato_ si disse un tempo ognuno che _legger_ sapesse; Soferim che
i Lessici interpretano _coloro che espongono e spiegan la legge_, QUI
LEGE DESCRIBENDA ET ESPLICANDA VACAT, Soferim che lo stesso _Kimhi_ al
luogo istesso delle cronache non può a meno di comentare _che scribi
erano e Dottori della legge_. Vedete i nomi stessi delle famiglie
discorse, tutti significanti e parlanti secondo il valore che traggono
dal sacro idioma. Vedete _Tirhatim_ da _tarha_ porta sinonimo in
Ebraico, siccome è noto, di _Aula, di Corte, di Magistrato_ e che noi
Europei usiamo ancora quando diciamo la _Porta_ Ottomanna, e quindi
vedrete nei Soferim la _gente Aulica, magistrale e Patrizia_. Vedete
la Mehiltà di Rabbi Ismael libro più antico del Talmud e forse più
venerando, ove della parola tirhatim come delle altre che seguono tali
si offrono graziosissime etimologie che più in acconcio non potrebbero
tornare ai predecessori degli Esseni; anzi che dico? che a niun altro
possono attagliarsi se non a costoro. _Tirhatim_ dice la Mehiltà da
tarha _porta, conciossiachè abitassero alle porte di Gerusalemme_.
Meraviglioso a dirsi! Sappiamo da Giuseppe che una porta eravi ai
tempi suoi in Gerusalemme che si chiamava _la porta degli Esseni_.
Che più? Tirhatim dice la Mehiltà da strepito, suono, preghiera,
perchè le preghiere loro eran accette. Giuseppe vi citerò e Filone
dai quali sappiamo come in altissimo pregio fossero tenute le costoro
intercessioni. Volete piuttosto, continua la Mehiltà, che significhi
i _Chiomati non Rasi_ ed allora vi ricorderò ciò che, non è molto,
io vi diceva intorno al costume dei Nazareni _Jesco più antico, e
dei Cheniti ed un tempo e degli Esseni medesimi_. Ma ecco gli altri
nomi, ed ecco non meno belle ed appropriate derivazioni secondo la
Mehilta: ecco Scimhatim da _Sciamah_ ascoltare, ubbidire, e quindi gli
ubbidienti, i sommessi, come a dilungo discorrono gli storici intorno
agli Esseni, reverenti sovra ogni altro, all’autorità dei maggiori e
dei capi, siccome a suo luogo vedremo. Ecco _Suhatim_ e con bello e
significante corteo di preziosi sensi che a nessun altro, ardisco dire,
possono tornare confacenti se non agli Esseni. Suhatim che deriva, dice
la Mehilta, da _Saha_ conciossiachè da ogni unzione si astenessero;
e mirabile veramente! la storia tutta attesta concorde essere stato
l’orror degli unguenti costume peculiarissimo del nostro Istituto,
come anche questo a suo luogo vedremo. Ecco lo stesso Suhatim derivare
da Capanna _Succa_ perchè vita menavano, dice la Mehilta, solitaria e
romita; ed a chi meglio potria l’indicazione tornare a capello se non
agli Esseni?

Questi sono i nomi delle famiglie. Voi li udiste: Tirhatim, Simhatim,
Succatim. Ma quale n’è il nome di stirpe, il nome generico? Il testo
lo dice, nè tollera dubbiezza: _sono essi i Cheniti_, i Cheniti che,
come veduto abbiamo nel libro dei Giudici, sono i discendenti di Jetro,
e più specialmente, aggiunge il testo, sono tutte da quel derivati
che la grande famiglia fondò dei Recabiti, _Abbahim me-hamà abi bet
rehab_. Quando più oltre avrem proceduto, vedremo chi sono i Recabiti;
li vedremo famosi solitari ai tempi di Geremia, li vedremo in una
società costituiti che tutte reca in rudimento le future sembianze
della società degli Esseni, in quella guisa che nel fanciullo stanno
ascose in potenza le fattezze, le membra dell’uomo adulto. Per ora le
cose dette ci bastino; e più oltre proseguiamo nel corso dei secoli a
trovarne i vestigi. Li vedemmo ai tempi dei primi Giudici. Ma Giudici a
Giudici si succedono; ed una donna, donna di genio, una donna profeta
sorge in Israel. Voi la nomaste, ella è Devora. Dove sono li Jetroiti?
La storia ne parla, e ad una nuova emigrazione accenna, operata dal
centro della Palestina meridionale alle regioni del Nord. Voi conoscete
la storia di Devora, i suoi giudizi, le sue battaglie, i suoi trionfi.
Ma non so se ricordate egualmente _Jaele_, Jaele l’ucciditrice di
Sisara, Jaele che volle essere infame per tradita ospitalità, pure
di salvare la patria diletta, Jaele che fu benedetta in quel canto
famoso ch’irruppe dal petto della gran donna vittoriosa Taelmoghe, come
udiste di _Heber il Chenita_ che insieme ai fratelli viveva allora in
Israel. E dove sono i fratelli, la famiglia, la società? in questo
verso sono che la narrazione precede delle battaglie di Devora, dei
suoi trionfi. Come suona il verso? _Ora Eber il Chenita separato si era
dai Cheniti fratelli, dai figli di Obab suocero di Mosè e tese aveva le
sue tende nella pianura di Sananim ch’è presso Chedese_, ch’è quanto
dire all’estremità boreale di Palestina, nel Territorio di Zebulun
e di Neftali e presso quel Chedes istesso che fu patria al capitano
Barac. Voi l’udiste, i tempi dai primi Giudici trascorsi non estinsero
la nobilissima stirpe. Vivono i Cheniti, vivono in Israel, nella loro
fede, nella loro alleanza, in loro ausilio; e vivono, ciò ch’è degno
di nota, sotto le tende e vivono nelle campagne.[39] Vedremo più tardi
i loro ultimi successori ai tempi di Geremia viversene pur essi per
valli e per monti, e nella quiete riparare pur essi di pacifiche tende.

Ma il gran fiume della Istoria Giudaica ripiglia il suo corso, e noi
pure con esso. Dopo Devora e Giudici, e guerre, e pace, e servitù,
e riscatti, si succedono incessanti. Ecco Elì, ecco Samuele, ecco
l’antica ebraica repubblica in monarchia trasformata, ed ecco Saul il
monarca novello, ed ecco infine la guerra di Amalek. Tempi ed eventi
sono trascorsi in gran numero. Sarebbe mai per avventura de’ Jetroiti
smarrita la traccia? Tranquillatevi, essi vivono, e vivono quali i
loro antichi predecessori vedeste poc’anzi. Dove sono? Sono qui,
sono nel centro tuttavia da’ proavi abitato, sono a mezzogiorno di
Palestina, a mezzogiorno di quell’istesso Arad di cui fu menzione nel
libro dei Giudici, sono come allora sulle rive del mar Morto, e come
allora precisamente sono anche adesso limitrofi, finitimi a Amalek.
Ma la guerra santa contro Amalek è bandita; al nuovo re n’è commessa
l’impresa: ed egli già scende a fare strenua prova di sè contro ai
nemici di Dio. Che farà Saul? Rivolgerà egli contro i Cheniti le armi?
Forzerà il passaggio? La quiete dei loro abituri conturberà col romore
di guerra? No! pieno di rispetto pei figli di Jetro non forza il
passaggio che sarìa? violenza; non lo chiede nemmeno poichè di guerra
non vuole offrirgli nemmeno l’aspetto, la mostra; non li invoca in suo
aiuto, non li spinge alle armi conciossiachè egli sappia troppo alieno
officio essere a quei solitari i ludi di Marte: ma che fa Saul? Fa
ciò che qualunque capitano avria fatto con religiosi, con sacerdoti,
con solitari. L’invita a sgombrare. _E disse Saul ai Cheniti: su via
partitevi da Amalek onde con esso non siate involti, conciossiachè tu
abbia usato carità con tutti i figli di Israele, quando trassero fuori
della terra d’Egitto: e si partirono i Cheniti d’infra Amalek._

Ma che? E Saul e Cheniti e Amalek rapiti sulle ali del tempo, più non
si lascian vedere ai nostri sguardi: quella generazione è passata, e
tempi sorgon ed uomini e fatti nuovissimi. Ecco David, ecco Salomone,
ecco il reame d’Israel scisso in due parti, ecco i re di Giuda e i re
d’Israello. Ecco Elia profeta, ecco Acabbo, ecco Jehu, che dal profeta
Eliseo riceve missione cruenta, missione di lavare nel sangue l’onta
della famiglia di Acabbo. Ecco Jehu accingersi all’opera di sangue,
ecco il trono di _Ahab_ rovesciato e Jezabele che dall’alto di un
balcone _Salve!_ dice, _o Jehu! Omicida del suo Signore_; ecco Jehu che
dopo avere il trono purificato si prepara a purificare gli altari, che
verso Samaria s’incammina per farvi la immane ecatombe dei 400 falsi
profeti trucidati nel tempio, nella festa di Baal. Gran cose, gran
fatti, grandi vicende, ma dove sono li Jetroiti? Eccoli nel personaggio
più cospicuo dei suoi tempi, in quello che farà mutare sembiante a
tutti i Cheniti, che li stringerà finalmente in un sodalizio, che sarà,
se non il Fondatore, il Restauratore di quell’Istituto, che lor darà
leggi, e regole, e divieti che saranno di poi rigorosamente osservati.
Chi è costui? Egli è _Jonadab figlio di Rehab_ che in un memorabile
incontro strinse amicizia e patto fraterno col rammentato Jehu. Muoveva
questi a Samaria, e nella mente volgeva, come vi dissi, terribili
progetti contro i profeti di Baal. Muoveva superbo dei riportati
trionfi, della dinastia rovesciata, del regno conquiso. Chi è questo
che gli si fa incontro? Egli è _Jonadab Ben Rehab_, Jonadab a cui Jehu
siccome a maggiore fa riverenza il primo, da cui chiede l’amicizia, la
stima, l’ausilio, da cui riceve lieta testimonianza d’affetto e con cui
infine trattolo in sul carro si avvia insieme alla capitale del regno.

Quante cose da osservarsi! Il primo salutare di Jehu che non isdegna,
comunque altero per i recenti successi, inchinare l’umil privato
Jonadab ben Rehab; protestargli devozione ed affetto, ed affetto eguale
da Jonadab supplicare; la risposta amorosa sì, ma laconica dignitosa
oltremodo di Jonadab ben Rehab; il volerlo al fianco suo compagno,
auspice dell’opera che imprende; ed infine una forse meno interessante
analogia, ma pur curiosissima tra il fatto presente e quello tanto
più antico di Melchisedech ed Abramo, Jehu è l’Abramo moderno come
Jonadab vi rappresenta Melchisedech: Abramo e Jehu riedono trionfanti,
e Jonadab e Melchisedech, gli uomini di Dio, i devoti all’Altissimo, ne
ricevono gli ossequi; e Jonadab infine e Melchisedech, per completare
il raffronto, sono ambedue di sangue, di origine pagana.

Ma che più tardiamo? Il tempo volge di nuovo le sue ruote veloci. Qual
mutamento! Quanto vuoto, quanta emigrazione, quante rovine! Il regno
d’Israele è caduto, le dieci tribù vanno schiave in esilio e solo _come
capanna in vigna, come giaciglio in campo di cocomeri_[40] resta ultimo
baluardo di libertà la figliuola di Sionne. Dove sono li Jetroiti? Il
nome qui, confessiamo il vero, non si trova; ma si trova qualcosa più,
si trova il ritratto, si trovano i caratteri. Chi n’è il pittore, chi
li descrive? Maestro e sommo pittore delle memorie antiche e dei fatti
avvenire, il profeta Isaia. Egli è un passo dell’ultima parte del suo
libro di cui non seppi giammai rendermi conto abbastanza, e che solo
principiai a comprendere quando il pensiero rivolsi a’ Jetroiti, ai
Recabiti che tra poco ci descrive Geremia, in una parola, agli antenati
dei nostri Esseni. Si apre il capitolo 55 con una profezia consolante
pei profughi di Babilonia. _Osservate giustizia_, grida Isaia, _operate
equità; conciossiachè è prossima la mia salute e la giustizia mia
a comparire. Beato_ _l’uomo che farà questo, che a quel che dico
si atterrà, che si guarderà da profanare i sabati, che la mano sua
tratterrà dal fare ogni male._ Ecco però il punto oscuro, anzi a parer
mio il centro luminosissimo. Continua Isaia: _Non dica il_ FIGLIO DELLO
STRANIERO CHE AL SIGNORE SI È UNITO: _separato mi ha il Signore dal
popolo suo; non dica l’_EUNUCO: _ecco io sono albero che non fa frutto:
perciocchè così dice il Signore agli_ EUNUCHI _che osserveranno i miei
sabati, che ameranno ciò che io amo, che si atterranno al mio patto; io
darò loro_ NELLA CASA MIA E TRALLE MIE MURA _seggio e fama migliore di
figli e di figlie; fama eterna darò loro, che non avrà fine_.

Ecco il testo d’Isaia ed eccone il senso. Per chi parla il Profeta?
A chi allude? Chi è lo _straniero unitosi al Signore_ che rassicura?
Che sono questi _eunuchi_ sconosciuti, inauditi in tutta la Bibbia?
Che cosa sono questi sabati, in cui particolarmente si ripone degli
eunuchi la speme? Qual’è la casa, quali le mura di Dio ove agli stessi
eunuchi seggio si ripromette e fama imperitura? E che cosa è la fama
istessa e le generose promesse, e la perpetua durazione della gloria
del nome di questi _eunuchi_? Io chiesi tutto questo agli interpreti,
ai glossatori antichi e moderni, e che cosa risposermi glossatori ed
interpreti? Nulla che non sia comune, vago, generalissimo; nulla che
solva condegnamente e pienamente i gravissimi problemi accennati;
nulla che dia moto, vita e senso alle parole del gran profeta, nulla
che non riveli in tutti un grande imbarazzo. Niuno pensò ai Cheniti,
niuno pensò ai Recabiti che Geremia ci ritrarrà, da lungo tempo stretti
organizzati in società; niuno s’avvide che qui il profeta evidentemente
favella di _proseliti ab antico_ vissuti in Israel, di proseliti
tratti seco loro in esilio, involti nella stessa sventura, ed a cui
il bisogno si sente di far suonare alta e solenne la parola della
speranza; niuno disse: Ma gli eunuchi sono gente ignota in Israel: non
di essi menzione in tutti i libri ispirati: non possibile nemmeno la
loro esistenza in Israel, di fronte al solenne inviolabile disposto
della legge di Dio, che interdice assolutamente ogni evirazione; niuno
concluse: Mestieri è dunque intendere di un _Eunucato_ volontario di
un _voto di continenza_; niun ricordò come il nome di _eunuco_ usasse
una religione insigne a denotare il celibato dei sacerdoti, niuno
avvertì come Policrate vescovo di Efeso nella sua Epistola a papa
Vittore, il chiamasse recisamente _eunuco_ e _uomo pieno di Spirito
Santo_; e per ultima negligenza niun pose mente al titolo che volontari
assumevansi i Farisei di _eunuchi_ comecchè nè evirati fossero nè il
celibato guardassero così rigorosamente siccome gli Esseni,[41] ma solo
per il costume come dissi continentissimo; niuno attentamente badò
all’espressioni del profeta, ove eunuco e proselita sono posti non solo
a contatto ma considerati i medesimi nei timori, nelle promesse, nelle
speranze; e tranne i predecessori degli Esseni, io non so veramente
dove eunucato e proselitismo siansi insieme trovati; non videro come
qui si vuol dire che il rimanersi senza prole non minacci la loro
esistenza, conciossiachè questa si fondasse non già sulla procreazione
materiale ma sulla perpetua aggregazione di nuovi fratelli, dei
discepoli, dei seguaci, dei figli nello spirito e nella fede; non
notarono poi come il vaticinio sia mirabilissimamente commentato dalla
storia, e Isaia giustificato da Plinio. Da Plinio che in quel famoso
passo del 5º libro, dove, come udiste, degli Esseni discorre, queste
parole lasciò scritte memorandissime. _Essi_, dice Plinio, (_gli
Esseni_) _non vengon mai manco, perché tutto giorno si riducono a viver
presso di loro quelli che tirati sono ai loro costumi; e così_ (gran
parole!), _e così per migliaia di anni_ (che diranno Munk, il Franck,
il Salvador che li fan giovanissimi?), _e così per migliaia d’anni,
cosa incredibile a dirsi_ (è Plinio che si stupisce), QUESTA NAZIONE È
ETERNA DOVE NON NASCE PERSONA.[42] Isaia Profeta! sono profezie le tue
o sono storie? E tu Plinio, è la storia che tu ci narri o il vaticinio
che ripeti del grande _Isaia_? Tanto, e Profezia e Storia, e Plinio ed
Isaia, procedono mirabilmente concordi.

Io vorrei stasera spingere più oltre le nostre ricerche, e il
preziosissimo frammento studiare con voi di Geremia profeta. Egli è un
gran cap. il cap. 35 di Geremia per la quistione che ci preoccupa! ed
agio vuole e sviluppo maggiore meglio che ora nol consentan le forze.
Io farò punto: ma prima di accommiatarvi, un’altra volta ancora vo’
ripetervi le parole di Plinio. Ricordatevi, o miei giovani, dell’aureo
detto. _E così per migliaia di anni, cosa incredibile a dirsi! questa
nazione è eterna dove non nasce persona._



LEZIONE DECIMA.


Muovendo dai tempi più antichi della Istoria del popolo nostro, noi
chiedemmo ad ogni secolo, ad ogni grande epoca, degli Esseni contezza.
La storia ebraica, la scrittura, i profeti, ci risposero in guisa
che non avremmo forse sperato in quistione che le vicende proprie
nazionali degli avi nostri non toglie di mira. L’ultimo ad erudirci
nell’ultima nostra conferenza, l’ultimo a mostrarci degli Esseni o
meglio dei loro precursori il passaggio, si fu Isaia. Isaia vide più
regi succedersi sul trono di Giuda, e l’ultimo che la voce udì del
sommo ispirato, anzi, che ne riportò, come non è molto vi accennai,
guarigione completa, si fu Ezechia. Ma come tetri e procellosi
procedono i tempi dopo Ezechia! Dopo di esso Manasse, dopo di Manasse
Amon e dopo Amon un re pio, un re che le tradizioni riprese del suo
bisavo, il re Iosciau, Iosciau è sul trono, e alla restaurazione si
adopra, si affatica del culto di Dio. Ma chi regna nella pubblica
piazza, chi conciona le moltitudini, chi fulmina i vizi e la idolatria
imperante, chi fa suonare alta, paurosa minaccia di guerra, chi predice
servitù e quindi riscatto; in una parola, chi profetizza? Il profeta
è Geremia e i suoi discorsi, i suoi scongiuri, i suoi anatemi, i suoi
vaticini sono in quel libro raccolti che s’intitola da Geremia. Ma
un capitolo in questo libro vi ha che dissi altamente interessare la
origine degli Esseni, e questo è il capitolo 35. Là, gli antenati degli
Esseni ti appariscono davvero costituiti regolarmente in società, con
una regola particolare di vita, con memorie, con tradizioni, e quel
che più monta, con voti, voti solenni, inviolabili, imprescendibili
che egualmente avvincono ogni suo membro. Là tu vedi i _Cheniti_
sinora da noi contemplati, meglio come nomade e separata tribù che
qual religiosa società, tutte di società e religione assumere qualità
e sembianze. E chi lo dice? Lo dice Geremia; anzi egli è Dio stesso
che quasi in mostra offre i gran _Recabiti_ ai contemporanei ed ai
posteri. _Va’_, dice il Signore a Geremia, (udite che tutto in nostra
favella trasferisco il capitolo rammentato perché tutto da capo a
fondo rigurgita di preziose indicazioni): _Va’ alla casa dei Recabiti
e parla ad essi, e menali alla casa del Signore in una delle stanze
laterali, e porgi loro a bere del vino. E presi Jazania figlio di
Geremia figlio di Abazinia e i suoi fratelli e tutti i suoi figli,
e tutta la famiglia dei Recabiti e menali alla casa del Signore;
nella stanza del figlio di Amon figlio di Igdeliau, l’uomo di Dio,
ch’è presso le aule dei principi, ch’è sopra alla stanza di Maseiau,
figlio di Sciallum il tesoriere. E posi innanzi ai figli della casa
dei Recabiti ampolle piene di vino e tazze; e dissi loro: bevete del
vino. E’ risposero: non beremo del vino, perciocchè Ionadab figlio
di Rehab il padre nostro c’impose dicendo: non bevete vino voi ed i
vostri figli in eterno. E case non fabbricate, nè grani seminate, nè
vigne piantate, nè possedete alcun che, ma in tende abiterete tutti i
vostri giorni affinché viviate molti dì sulla faccia della terra ove
siete pellegrini. Ed ascoltammo la voce di Ionadab figlio di Rehab
padre nostro, in tutto quello che ci comandò, di non bere vino tutti i
nostri giorni, noi, le nostre donne, i nostri figli e le nostre figlie;
e di non fabbricare case, per abitarvi nè vigna, nè campo, nè sementa
alcuna possedere._ Voi udiste parlar di donne e di figlie, voi udiste
ancora nelle passate lezioni di donne Nazaree. Troppo, direte pertanto,
siam lungi dal celibato degli Esseni. Eppure le donne non furono al
tutto escluse dal nostro istituto. Nol furono nello stato di matrimonio
per moltissimi degli Esseni siccome ne ammonisce Giuseppe, i quali il
matrimonio anzi praticavano e pregiavano assaissimo. Nol furono poi
per gli stessi celibi contemplativi; i quali schiudevano di frequente
le porte loro alle donne affiliate che chiamavano, come dice _Filone_,
col nome di _Terapeutidi_ (Pridaux 5. 92.) _Ed abitammo_, continuano
i Recabiti, _entro alle tende, ed ascoltammo e facemmo quello che
comandò Ionadab nostro padre. E fu quando salì Nebuhadrezar re di Babel
contro la terra, e dicemmo: andiamo, entriamo in Gerosolima per causa
dell’esercito dei Casdei, e dell’esercito di Aram; ed abitammo in
Gerusalemme._ E questa risposta per l’appunto voleva il profeta. Egli
si volge allora al popolo che udito aveva sino all’ultimo i Recabiti,
e dall’esempio loro trae argomento ad acerbe rampogne. Vedessero, ei
dice, i fedelissimi uomini come i comandamenti serbati avessero di
un mortale, _di Ionadab Ben Rehab_; vergognassersi di avere eglino
le volontà di Dio derelitte, le parole del padre immortale tenute a
vile, ed altre simili querele che si omettono per brevità. Solo vi
piaccia udire la conclusione; quando cioè Geremia, finito che ha di
favellare al popolo, si rivolge di nuovo ai Recabiti e così dice: _Ed
alla casa dei Recabiti_, disse Geremia, _così parlò il Signore degli
eserciti Dio d’Israele. Poiché ascoltato avete il comando di Ionadab
vostro padre ed osservaste i suoi precetti, ecco così dice il Signore
degli eserciti Dio d’Israele: non mancherà uomo a Ionadab Ben Rehab
che ministri innanzi a me per tutti i tempi._ Qui termina il capitolo
35 e qui finisce ancora tutto quello che intorno ai Recabiti ci
offre il libro di Geremia. Io volli testualmente riprodurre l’intero
capitolo, sì perchè pare a me nella nostra indagine rilevantissimo;
sì perché possiate adesso con più vantaggio seguirmi mentre andrò a
parte a parte sponendovene i singolari documenti, e le preziose notizie
sprigionando che in seno racchiude. E quante e di qual peso notizie!
Lo è persino il nome che recano, il nome di Recabiti il quale attesta,
se non m’inganno, come la loro esistenza sociale rimonti ad epoca ben
più antica di Ionadab che fu sol discendente di quel _Recab_ da cui
s’intitolarono i _Recabiti_, che diede probabilmente una forma che
molto si avvicinava a quella che assunser di poi, e che finalmente,
siccome chiaro apparisce dal 1ºo delle Cronache, visse in epoca che
non ardisco determinare, ma che pure di molto precesse e Ionadab e i
Recabiti di Geremia. Voi l’udiste: per comandamento di Dio alle loro
stanze questo si conduce, e intimato loro la commissione che ricevuto
aveva, tutti dal primo all’ultimo li conduce a offrire di sè grandioso
spettacolo negli atrii di Dio. Che bel momento fu questo! che scena!
che solennità imponente! in cui fu visto il tenero, il patetico
Geremia, messosi alla testa della nobilissima schiera, apporre come
a dire il divino suggello alla loro istituzione; ed essi offerire a
modello di fedeltà, di obbedienza, di costanza al popolo riunito:
costanza vera, perpetuazione quasi incredibile in mezzo ad una società
più vasta qual era l’Ebraica, che da ogni parte li circondava. Poichè,
sappiatelo una volta, i Recabiti di Geremia sono i discendenti di quei
Cheniti che vedeste ai tempi di Devora, i pronipoti di quei medesimi
che ai tempi dei primi giudici lasciarono i palmizi di Gerico; e
per dir tutto in una parola, sono la vera e legittima figliolanza di
Jetro, il grande, il vetusto proselita. Ma quanto diversi però dai loro
proavi! e quanto più ai figli loro, agli Esseni, somiglianti che non
ai padri! Qui vedete l’_astinenza dal vino_ che data da Jonadab; il
quale secondo la legge del Nazirato che vi feci conoscere, ne trasmise,
come pare, di mano in mano gli obblighi nella sua discendenza; siccome
dato era veramente a ogni padre di così praticare; siccome fece _Anna_
per lo infante _Samuele_; siccome i genitori, auspice l’angiolo,
fecer pel famoso Sansone; e siccome infine, ne convengono autori
gravissimi, tra gli altri il Pastoret il quale a dirittura asseriva:
_i Nazirei senza dubbio diedero l’idea dei Recabiti_. Ma qui oltre
al Nazirato altre cose vedete e di non manco rilievo. Qui la vita
solitaria e campestre che menavano costantemente i Recabiti, anzichè
le cause da loro stessi accennate, le invasioni nemiche non fossero
venute a strapparli alla loro solitudine per riparare ai tempi di
Geremia entro le mura di Gerusalemme; qui il voto di _povertà_, o per
dir meglio il voto _di nulla possedere_ in proprio, ma tutto avere
in comune fra loro, che chiaro in quella frase breve ma esplicita,
_velò hiè lahem_ ti apparisce; qui l’impronta di virtù, di santità,
che loro appone il profeta per bocca di Dio, e la sanzione che loro
reca in premio dal Cielo, del loro istituto, di loro vita, tali frasi
usando sul conto loro che altro senso tollerar non potrebbero, siccome
avvertiva il _De Jurieu_, se non quello di apertissima commendazione;
qui un carattere che fu particolare agli Esseni e per cui furono ad
una voce celebrati da Giuseppe, da Filone e da quanti degli Esseni
presero a trattare, io vo’ dire la riverenza ai maggiori, il culto
che professavano verso i loro antenati, del quale veggiamo il primo
esempio e forse il primo tipo in quella venerazione onde son laudati,
per Ionadab, figlio di Rehab, pei suoi dettati, per le sue leggi;
e quando partitamente discorreremo delle qualità delle virtù degli
Esseni noi vedremo Giuseppe e Filone tenere un linguaggio che per poco
differisce da quello di Geremia, l’uno e l’altro levando a cielo, come
diceva, il loro rispetto ai maggiori: e qui infine la promessa di
Dio. E qual promessa! La quale sarebbe andata fallita, se poco stante
dai tempi in discorso quella società allora così illustre non avesse
di sè lasciato vestigio alcuno, se riprodotta non si fosse sotto il
nome di _Hasidim_, se quindi l’altro non avesse assunto di _Esseni e
Terapeuti_, e se infine la scuola, la società degli Esseni non si fosse
perpetuata in tutti i secoli, e se al presente non durasse tuttavia,
se la esistenza augurata da Geremia non si verificasse sempre, dopo
mille trasformazioni nella esistenza dei Farisei. Io dissi esistenza,
ma questa è la parte men grande del vaticinio, doveva dire anco il
modo, anco lo stato che Geremia gli promette. Qual’è il modo, qual’è
lo stato? Voi l’udiste. Che parole! che officio, che grandezza! Io
ardisco dire che se l’idioma ebraico non lascia di essere ebraico, se
un concorso innumerevole imponente di esempi non dice il falso, se
le analogie più parlanti non c’inducono in errore, se v’è criterio
in una lingua per discernere acconciamente il preciso significato di
una frase, io oso dire che male non mi apposi nel traslatarlo quando
parlai di _offici, di ministerio, di sacerdozio_, giacchè tutte
queste tre cose, ma queste tre cose soltanto, accenna la locuzione in
discorso. E se vaghezza vi prendesse di fare con me escursione pei
campi della scrittura, oh quanti non avreste a raccorne luminosissimi
esempi! Volete sacerdozio? E qui avete per la tribù di Levi, pel suo
officio sacro sacerdotale la frase stessa, le stesse parole, siccome
pei Recabiti leggete: _Laamod lifnè adonai lesciaredò_ ec. O meglio
vi talenta l’idea di intercessori? Ed allora ve l’offrirà Ezechiele
quando dice: _se pure Mosé e Samuele intercedessero appo me non più
accetterei questo popolo_, come appunto pei Recabiti leggete: _im
iaamod Moscè usmuel lefanai_; ec.; o vi piace meglio un’altra volta
udire del sacerdozio? E ve l’offriranno i _Giudici_ quando parlando
del pontefice, di Pinehas: E _Pinehas_, dicono, _figlio di Elazar omed
baiamim aem_ come per l’appunto dei Recabiti si legge _omed lefanai_.
Volete profezia, volete udire come qualifica la scrittura l’officio
del profeta? ve lo dirà Elia nel celebre suo giuro quando esce fuora
inaspettato dicendo: _Viva il Signore innanzi a cui ministrai; non
vi sarà per questi anni nè rugiada nè pioggia che io nol voglia_;
in quella guisa che udiste per Recabiti.[43] E la profezia si è
adempiuta alla lettera. Sacerdozio, profetismo, tutto fu riposto, fu
concentrato nei successori e poi nei continuatori dei Recabiti, prima
nei _Hasidim_, primo nome che assunsero dopo quello di Recabiti,
quindi negli Esseni, parte eletta, parte dotta e santa e ieratica del
Farisato, quindi negli eredi degli Esseni, nei professori delle loro
dottrine, nella scuola speculativa ascetica superlativa dei Farisei,
nei Ben Iohai, nel Rabbeno Aj Gaon, nel Nacmanide, nel Cordovero, nel
Loria ed in quanti altri le orme calcarono di quei Santi, di quei
Dottori.

Ma noi siam lungi ancora da questi modernissimi tempi; ed a quelli
convienci restituire che a Geremia seguitarono. Geremia visse non poco
dopo la distruzione del primo Tempio; però la riedificazione del Tempio
non vide. Da Geremia alla prima apparizione degli Esseni sotto tal
nome, poniamo che ci corra un dugent’anni, quali sono gli anelli che
questi due estremi congiungono della catena? Quali gl’intermedi che
possan dare alla storia che costruimmo, quella continuità che, diciamo
il vero, non le mancò sino all’istante presente? Egli è doloroso ma
pur necessario il confessarlo: è questa l’epoca che più povera resulta
di documenti per la storia degli Esseni: è quasi una lacuna nel loro
passato, tanto più deplorabile quanto i cenni che immediatamente
avrebbero preceduto la loro apparizione nell’Essenato, avrieno
mirabilmente giovato a cogliere il punto di passaggio dall’antica alla
forma novella; e porto avrebbero ultima e solenne conferma a tutte le
cose precedentemente discorse. Però è necessario fare tre specie di
avvertenze che immensamente diminuiranno la vostra sorpresa; e se non
colmeranno interamente il vuoto, almeno lo spiegheranno e tutto ciò
gli torranno che può avere di ostile, di negativo alla tesi da noi
sostenuta, alla genealogia degli Esseni. La prima è che mentre sino ad
ora avevamo documenti contemporanei, adesso mancano assolutamente, nè
la Bibbia nè la Tradizione contengono alcun volume che a quell’epoca
appartenga, attalchè non so vedere veramente in qual guisa degli Esseni
o dei loro predecessori si poteva fare menzione. Nulla dunque di più
naturale, di più necessario della mancanza di questa menzione. La
seconda avvertenza si è, che per quanto io abbia detto assolutamente
che di questi tempi non esiste memoria, pure non si vuol intendere la
mia sentenza in guisa che qualche lembo non si sollevi, che un barlume
non ti apparisca dell’Essenato nell’epoca in discorso. Io chiamo un
barlume il fatto di Daniel che per 23 lunghissimi anni stando a Rasci,
di pane eletto non si ciba, non mangia carne, non beve vino, nè usa
nessun unguento dal quale rifuggivano, come udiste, gli Esseni. E
questo faceva Daniele per carità della patria infelice, e per chiedere
fine alle sue desolazioni, in guisa che in questo senso soltanto può
essere vera l’ipotesi del Salvador che le patrie desolazioni abbiano
dato l’origine all’Essenato. Un barlume poi io credo che abbiamo nei
Paralipomeni. I Paralipomeni sono opera di Esra posteriore a Daniele,
ed è probabile sentenza quella in cui oggi conviensi, e di cui è
qualche cenno nel Talmud, che dopo Esra i più antichi della magna
congregazione recato abbiano a compimento il libro delle cronache.
Or bene, in guisa si esprimono le cronache intorno ai Recabiti, che
pare veramente come a quei tempi tuttavia sussistessero. Vuol far
capir l’autore quali fossero le tre famiglie _Tirhatim_, _Simahtim_,
_Succatim_ che presero stanza presso _Iahbez_, e lo vuol far capire con
allusione più moderna. Che dice per questo? Dice che sono identici ai
_Chinnim_: ma i Chenim stessi possono essere ignorati, quindi necessità
di riferirli a nome anche più moderno, a nome contemporaneo. E qual è
questo nome? È quello di _Recabiti_. _Abbaim mehamat abi_ BET REHAB.

Però queste cose andavamo tra noi meditando pria che ci si partisse
dinanzi nell’atto stesso di dettare la presente lezione, una breve ma
significante indicazione rabbinica, poi un frammento preziosissimo
di un autore il cui nome non suonerà io spero sconosciuto ai vostri
orecchi. Qual’è in primo luogo l’indicazione? Ella è quella contenuta
nella sezione 98 del Berescit Rabba, opera anteriore al Talmud, e dove
chiaro apparisce che tra i primi Tanaiti eranvi alcuni che, come si
credeva generalmente, discendevano da Jonadab Ben Rehab.—Dunque io
dico: i Recabiti non cessarono di esistere anco in tempi posteriori
agli Esseni, e nulla pertanto si oppone che questi da quelli sieno
derivati. Ma v’è di più: voi ricordate come io avessi luogo parlandovi
dei Samaritani di rammentarvi Beniamino di Tudela, i suoi viaggi, il
gran conto che si fa generalmente dai dotti delle sue relazioni. Or
bene, egli è un passo nel _Pellegrinaggi_ di Beniamino dove prende a
narrare di ciò che vide, di ciò che osservò nel _Iemen_, nell’Arabia
Felice. Lo credereste? Egli parla dei Recabiti, egli li vide, egli ne
osservò, ed egli ne narra altresì i costumi. Le sue parole sono troppo
preziose perchè io non ve le citi. _Di là movemmo_ ei dice _verso
la Terra del Iemen a settentrione, e dopo un viaggio di 21 giorno
pei deserti, pervenuto essendo in quella regione, vi trovai i Giudei
che si chiamano_ RECABITI _e in Ieman hanno imperio. Aron il Nasi vi
risiede ed è grande città._ Narra poi Beniamino i loro commerci, le
loro scorrerie, e quindi aggiunge: _E danno poi la decima di tutto
quanto posseggono ai Dottori della legge che stanno del continuo nei
pubblici studi, ai poveri d’Israele ed ai loro Farisei che fanno lutto
per Sionne e Gerusalemme, che non mangiano carne, non beono vino,
e vestono logori abiti; ed abitano in spelonche, e tutti i giorni
digiunano, tranne i Sabati e le Feste._ Ecco le parole e l’attestato
di Beniamino. Quando viveva il famoso spagnuolo? Certo nel mille o
a quel torno; che è quanto dire in tempi infinitamente posteriori a
Geremia ed alla società degli Esseni; in tempi che provano come lungi
dall’essersi precedentemente estinta la famiglia e l’istituto dei
Recabiti, perdurasse invece non solo dopo il profeta che li descrisse,
non solo in epoca immediatamente anteriore e contemporanea ai nostri
Esseni, ma per secoli eziandio parecchi dopo di essi; cioè prova in
una parola come la filiazione da noi voluta degli Esseni dai Recabiti
riceva quella conferma che noi credevamo invano desiderare, ma che pure
la Provvidenza ci porse, quando meno l’attendevamo.[44]

La terza ed ultima avvertenza è quest’una. È lo stato in cui lasciammo
i Recabiti ai tempi di Geremia, stato se altri fu mai rigoglioso,
florido, vivacissimo; stato che a tutt’altro accenna che a deperimento
e rovina; stato che ove pure ad una declinazione accennasse,
questa declinazione si sarebbe naturalmente protratta tant’oltre
da ricongiungere l’estinguentesi Recabismo col nuovo, col nascente
Essenato. E queste sono le tre avvertenze che vi promisi.

Giunto a questo punto, e quasi meco stesso meravigliato del gran
compito che ho fornito, che altro mi resta a fare per condurre a fine
l’impresa? Null’altro a parer mio che citar le autorità che militano a
favor mio, che per diretto o per indiretto fanno risalire l’Essenato
agli antichi Cheniti, ai discendenti di Jetro. Primo tra le autorità io
annovera Plinio; Plinio nella _Storia Naturale_ in quelle parole ove
agli Esseni attribuisce un’esistenza di secoli, Plinio che in tal guisa
alla origine apre le porte da me sostenuta sinora. Io pongo poi per
secondo il _Serrario_ il quale, è giusto il convenirne, diede il primo
il segno di questo sistema e forse con buoni argomenti il convalidava
comecchè condannato io fossi a rifare il lavoro, non potendo dell’opere
sue giovarmi, che non posseggo. Io pongo infine per ultimo un inatteso
alleato, la _Mehilta_. Voi udiste finora da me, voi avrete certo udito
da ognuno e gli autori tutti vi avrebbero a gara ripetuto, come i
libri Rabbinici tacciano assolutamente dell’Essenato, e grave problema
riuscisse a risolvere ognora, questo silenzio. Or bene voi potete
dire adesso ad ognuno che vi dimandasse, che questa menzione esiste
veramente, che gli Esseni non sono ignorati dai nostri Dottori; non
basta; potete dire che il cielo ci riserbava due scoperte ad un tempo,
che gli Esseni presso i nostri Dottori non solo eran conosciuti; ma,
lo che più monta pel fatto nostro, erano come legittimi e diretti
successori considerati degli antichi _Recabiti_. Potete dire che queste
cose si trovano certo per vie non troppo comuni e battute, ma non
per questo men belle e men importanti; potete dire che se ai grandi
intelletti è dato scoprire nei cieli immensi un astro novello, al mio
umilissimo quest’onore solo fu conceduto di scuoprire nel cielo Ebraico
la società degli Esseni. Io dissi la Mehilta. Ma che cosa è la Mehilta?
È un opera più antica del Talmud, opera di un _Tanna_ antichissimo, di
R. Ismael, opera di cui solo una parte è giunta sino a noi sul libro
dell’_Esodo_. Aprite la Mehilta alla sezione di _Jetro_ e vi troverete,
come dice Vico, un _luogo d’oro_ che suona così. _Avvenne una volta che
uno_ DI COLORO CHE BEONO ACQUA _avendo fatto nel tempio un sacrifizio
si udì una voce dal santissimo che diceva così, colui che accettò i
loro sacrifizi nel deserto accetterà anche questo in quest’ora_.

E notatelo bene, giovani miei, queste parole non sono isolate; il passo
che avete udito non è senza precedenti e conseguenti. Lo precedono
immediatamente tutte le indicazioni da voi udite sui Cheniti che
abitavano pei _deserti_, che tolsero poi a dimorare presso _Iahbez_ nel
deserto di Giuda, e lo seguono immediatamente le parole di Geremia sui
Recabiti, sul loro avvenire. Il fatto che udiste narrato è un fatto ai
Dottori contemporaneo, è una allusione agli Esseni allora esistenti,
è una identificazione di questi Esseni coi Cheniti, coi Recabiti; è
insomma tutto quello di che noi bisogniamo. Questo breve frammento
è un prezioso e grande trovato; ma non è il solo. Quando meglio ci
addentreremo nella società degli Esseni, uno o due altri ne rinverremo
ove non più colla perifrasi testè udita _i bevitori di acqua_ si
additano gli Esseni, ma colla vera e propria loro denominazione.
Questi pochi e sparsi frammenti sono il più bel gioiello delle nostre
conferenze; e se io ne ho potuto adornare le mie lezioni, a voi si
deve in gran parte che a queste indagini rivolgeste l’animo mio; e
sopratutto a quel padre dei lumi senza di cui niuna cosa che valga
si può fare in niuna disciplina, e molto meno nel culto delle lettere
sacre, ove prima condizione è il culto e la stima del suo grandissimo
obbietto, e nelle quali meglio che in niuna altra cosa si può dire con
Petrarca:

  Non si fa ben per uom quel che il ciel nega.



LEZIONE DECIMAPRIMA.


Io vengo a proseguire l’opera incominciata. Noi abbiamo degli Esseni
studiato già e il nome e quello che più c’interessava, l’origine loro.
Noi abbiamo, a parer mio, trovato in mezzo a tante etimologie la vera
etimologia, e tralle tante congetturate origini la vera origine. Per
svolgere ordinatamente il nostro assunto conviene che io vi riduca a
memoria il piano, l’ordine, la seguenza che imponemmo al nostro dire.
Io vi promisi sin dalla prima lezione che dopo il nome, dopo l’origine
degli Esseni noi avremmo preso ad esame la loro costituzione, le loro
leggi, le lor sociali discipline; e le loro costituzioni, leggi e
discipline formeranno oggi il soggetto che io prenderò a trattare. Egli
è naturale che dopo avere conosciuta per nome la cosa che vogliamo
studiare, se ne cerchino le leggi costitutive, le leggi che presiedono,
che regolano la sua esistenza. L’Essenato è persona, persona sociale,
collettiva, morale, certamente, ma pur persona. Noi sappiamo come si
chiama, sappiamo d’onde tratto si abbia il nascimento; che ci resta
ora a sapere? Le leggi della sua esistenza, i principii regolatori
della sua associazione. Però, vi ha uno studio che deve per sua natura
andare innanzi alle cose accennate, ed è lo studio, ed è l’esame del
teatro in cui sorse, in cui ebbe stanza il grande Essenato, in cui
scelse, in cui fermò la sua residenza. In questa guisa, procedendo noi
dalle cose, dalle circostanze più generali a quelle più proprie, più
intime, più speciali al grande istituto; andremo sempre più intorno
ad esso stringendo il cerchio delle indagini nostre: in questa guisa
potremo dire che nulla di quello ci può sfuggire che può per diretto o
indiretto riguardare l’Essenica associazione.

Qual è dunque il teatro in cui nacque, in cui crebbe, in cui ebbe vita
il grande Istituto? Notate, o miei giovani, che io non chiedo la loro
patria. La loro patria è conosciuta, e questa è la Palestina. Chiedo la
loro residenza, il loro soggiorno che dal concetto di patria molto come
sapete è diverso. Lo chieggo in primo luogo a Filone siccome quello
che tanto studio pose nella storia dei suoi cari, dei suoi ammirati
Esseni. E che cosa mi risponde Filone? Mi risponde con un passo
dell’opera sua, che se non coglie precisamente nel segno, pure non
lascia di avere il suo valore e grande valore nella presente quistione.
Egli addita gli Esseni ai suoi lettori Pagani, e _se riscontrare_, ei
dice, _volete la fedeltà della mia dipintura, mirateli ovunque sono
diffusi pel grande, per l’immenso vostro impero; mirateli tra i Greci
e tra i barbari, ove vivono dispersi_. E così dicendo Filone, voi
di leggeri comprenderete come venga a stabilire senza meno la loro
universale diffusione non solo nell’Impero Romano ma eziandio al di là
dei suoi confini, fra quei popoli che i Romani seguendo l’esempio dei
Greci qualificavan col nome di Barbari: (cioè secondo la genuina sua
significazione _forestieri_ forse da vocabolo Arameo, siccome io da
molti anni congetturai che suona uomo di fuori, gente straniera.) Gran
parole son coteste di Filone e che compiono il concetto vero, storico
degli Esseni qual ce lo aveva Plinio accennato nella sua storia. Plinio
e Filone sono i due Restitutori del vero carattere della società degli
Esseni. Plinio dove pone in sodo la loro antichità, dove, come udiste
altra volta, gli assegna un’_antichità_ di secoli e secoli, Filone in
questo luogo dove sancisce, autentica la loro _universalità_, Plinio
restaura l’Essenato nel tempo gli rende la sua _antichità_, Filone lo
restaura nello spazio, cioè gli rende la sua _universalità_. Ma in
qual guisa cotesta universalità, cotesta diffusione si acconcia al
nostro Istituto? come a quelle idee che pure da parecchi storici si
avvalora d’isolamento, di concentrazione, di _particolarismo_? Come
a quel concetto sinora predominante che volle gli Esseni limitati,
circoscritti ai confini Palestinesi? Come? intendendo pegli Esseni
ciò che noi intendiamo, ciò che essi son veramente, ciò che sarà
continuamente dimostrato dal corso di questi studi. Intendendo cioè
per Esseni la parte più alta, più nobile, più dotta, più spirituale
del Farisato pel quale veramente e pel quale soltanto è vera alla
lettera la sentenza Filoniana; pei quali, e pei quali soltanto, si
poteva dire che sparsi, che diffusi, vivevano tra Barbari e Greci. Il
poteva Filone se gli Esseni fossero diversa scuola, diverso Istituto
da quel Farisaico? Poteva dire per essi che eran diffusi tra Barbari
e Greci; poteva dirlo di fronte al silenzio generale, al silenzio
specialmente di Plinio, e di fronte infine all’esempio degli altri
settari i quali, vuoi pel numero scarso, vuoi per poca virtù espansiva,
se ne vissero sempre ristretti, rannicchiati tra i patrii confini?
Ma quanto bene poteva dirlo se gli Esseni non sono altro che il più
bel fiore che il patriziato dei Farisei! Quanto appropriate per essi
le parole _tra i Barbari e Greci_! Essi col grand’Illel in Babilonia
anzichè in Palestina non emigrasse, e essi in Damasco con Rabbi Iose
il Damasceno; essi in Egitto con Filone stesso, coi Terapeuti e coi
Dottori Egiziani che figurano nella Misna come Anael l’Egiziano, e
con quelli che ivi stesso si narrano pellegrinanti in Egitto; essi in
Nisibi in Persia con R. Ieuda ben Betera che è il discendente di quegli
Eroici Betera che allo straniero Illel cessero la posseduta dignità
di Nasi, solo perché più d’essi erasi mostrato nelle patrie leggi
erudito; essi in Media con Nahum il Medo; essi in Arabia, in Grecia
e in Italia con Ribbi Akibà che queste regioni visitò e che lascio
ricordate; ed essi nell’Asia minore in Laodicea, in Antiochia, in
Assia dove traevano, come altra volta vi dissi, a sedere in concilio,
e dove morì il grande Rabbi Meir, come più tardi vedremo; essi nelle
Gallie non solo col rammentato Rabbi Akibà che ne ricorda i paesi, i
costumi, la lingua, ma anche con Dottori, dalle _Gallie_ denominati
_demin gallià_; ed essi infine in Roma. In Roma non solo colla sinagoga
già lungo tempo stabilitavi, non solo coi più celebri nostri Dottori
che la visitarono e preziosissime indicazioni ne lasciarono scritte,
ma principalmente per due tra essi, per due grandi Farisei che da Roma
s’intitolarono e in Roma ebbero stanza durevole e cattedra e maestrato.
L’uno è _Todos_ o _Teodozio_ che il Talmud chiama _Todos Is Romi_,
Teodozio il Romano, quel desso di cui si narra nel Talmud di Pesahim,
come a ricordare forse il sacrifizio pasquale, istituito avesse tra i
fratelli di Roma l’uso di cibarsi d’agnello arrostito nei vespri di
Pasqua; quel desso a cui s’intimava, pena la scomunica, di cessare
da quell’uso; quel desso che per animare i Fedeli al martirio soleva
citar loro l’esempio dei Zefardehim Rane o Coccodrilli, che al cenno di
Dio, comecchè irragionevoli fossero, si gettano nei forni ardenti del
popolo Egiziano. L’altro poi è Rabbi _Mattia ben Haras_ ch’ebbe seggio
e cattedra in Roma e fu per lunghi anni Pastore e Dottore di quella
chiesa con tanta celebrità, che quando volle il Talmud offrire l’idea
di una cattedra e di un pastore modelli disse fra gli altri: _Zedek
Zedek tirdof; ahar_ R. _Mattià ben haras leromì_.

Se qui, o miei giovani, fosse il luogo, vorrei mostrarvi come il
soggiorno di Roma, il suo consorzio, la sua civiltà inspirassero
talvolta il linguaggio di R. Mattia, siccome il registra il Talmud;
vi mostrerei le nozioni mediche che vi raccolse e che bellamente
applicava all’osservanza dei riti, lo specifico contro la idrofobia
che egli addita nel _fegato del cane idrofobo_, la gravità somma ch’ei
concedeva alle infiammazioni della trachea onde voleva il sabato per
quelle impunemente violato, la indicazione del salasso nelle tracheiti
istantanee da eseguirsi anche di sabato; e sopratutto mostrarvi come
cogliesse nell’esperienza degli uomini e delle cose romane, nelle
repentine cadute e nelle repentine elevazioni dei Cesari, quella
sentenza che voi recitate al tornare di ogni primavera e che suona;
_fatti coda ai leoni e non capo alle volpi_; e come infine dallo stesso
soggiorno di Roma gli fosse quel detto suggerito troppo necessario a
praticarsi nella città delle continue rivoluzioni: _Sii il primo a
salutare ogni uomo_. E dove non recarono le loro idee, la loro presenza
i Dottori antichissimi? Persino qui nella nostra Toscana, e come a
me fu dato, ch’io mi sappia il primo, notare in _Pitiliano_ quando
muovendo inverso Roma ne traversavano le vie _d’onde_, dice il Medrase,
_udendo il frastuono, il trambusto lontano della città lasciva,
sclamarono: se questa è la grandezza, o Dio! dei riprovati, qual è
quella che tu tieni in serbo pei tuoi eletti?_[45]

Che se gli Esseni erano universalmente diffusi, se questa diffusione ad
altri non può convenire che ai più illustri membri del Farisato, se la
identità ne rimane perciò stesso sempre più confermata, vogliam dire
per questo che un centro non vi fosse dal quale raggiassero per ogni
dove i grandi lumi dell’Essenato, e dove vivessero secondo le norme
del loro Istituto? Ciò non si vuol dire, che anzi la storia attesta il
contrario, attesta cioè come vedemmo, che patria del nobile sodalizio
fosse la patria Palestinese; non basta: attesta ancora che dell’istessa
Palestina una parte sola fosse quella ove la società a preferenza
abitava, e dove le sue scuole e dove fossero tutti i suoi centri, i
suoi romitaggi. E qual’è questa parte? È la parte meridionale, è tutto
quel tratto di paese che lasciando al nord Gerusalemme, è circoscritto
a levante dal Lago Asfaltide, in ripa al quale, o poco stante, si
ergeva anticamente Gerico la città dei palmizi dove abbiamo veduto
abitare i Cheniti e dove infine più al sud è notata sulla carta Arad
dove prese succesivamente ad abitare la discendenza di Jetro. Colà,
dice Plinio nel quarto libro, si vedevano gli Essenici abituri. Non
basta: egli accenna per nome alcune città ove a preferenza avevano
stanza _Masada_ p. e. _Engaddi_ l’antica, detta pur essa così pei
palmizi che vi abbondavano; d’onde poi quella celebre frase con cui
Plinio caratterizza gli Esseni, _gente_ dicendoli _delle Palme amica_.
_Gens socia Palmarum._ Io dissi che in quei dintorni preso avevano
eziandio antichissimamente ad abitare i progenitori degli Esseni, i
vetusti Cheniti. Doveva dire di più; doveva dire che su quelle rive
vissero, fiorirono le più distinte scuole dei profeti, siccome abbiamo
dai Re, che su quelle piagge sorgeva prima della conquista di Giosuè,
una città che il nome reca caratteristico di Kiriat Sefer _la città dei
libri_, il quale poi in quello fu tramutato di Debir non meno del primo
significante, perciocchè suona il _seggio della parola, dell’oracolo_;
siccome egualmente appellavasi il _Santo dei santi_ il seggio
dell’oracol di Dio, l’_oracolario_, appunto perchè di là emanavano i
venerati responsi. Gioberti lo notava scrivendo: _Fra le città cananee
vinte da Giosuè vi è Chiriat Sefer detta poscia Debir; questo nome può
farci subodorare un antica cultura. Forse era l’Archivio dello Stato_
(Protologia 371).[46] Doveva dire che tutta quella regione andò celebre
per l’ingegno, pel sapere dei suoi abitanti; che là sorgeva Patria di
quella donna che i profeti dicono _savia_, forse una Terapeutide, la
quale col dolce parlare placò il paterno risentimento di Davide, quella
stessa città di _Tekoa_ che per l’olio che produce squisito fu creduta
perciò stesso dai Dottori educare la più colta e svegliata popolazione.
E qual meraviglia se nello stato medesimo una regione si distingueva
per ingegno ferace, se Cicerone diceva l’aria di Atene sottile e quindi
più degli altri popoli greci gli Ateniesi vivaci e briosi, se diceva
l’aria di Tebe pesante, quindi ottusi e rozzi i Tebani? Se Platone ogni
giorno ringraziava gli dei per averlo fatto Ateniese e non Tebano,
comecchè Tebe ed Atene città fossero, come sapete, ambedue di una
stessa provincia?

Che se il mezzogiorno di Palestina fu soggiorno gradito, ordinario
della società degli Esseni, del dottissimo Istituto, che l’antica fama
d’ingegno accrebbe a quelle regioni, ci sarà egli dato rintracciare
come nella Bibbia le antiche, così nei Dottori le moderne vestigia del
loro passaggio? Io ardisco dire che lo potremo. Voi udiste come per
noi fu altra volta falso addimostrato il parere di coloro che dicono
tacersi affatto i Rabbini della società degli Esseni. Voi udirete in
avvenire citazioni, se è possibile, anco più concludenti. Quelle però
che adesso vi espongo ne sono un preludio, un apparecchio di cui non
potreste disconoscere la gravità. _Vuoi tu veramente far acquisto
di scienza?_ dice il Talmud: _volgiti a mezzogiorno._ Che vuol dire
_volgiti a mezzogiorno_? Vuol dire forse tenere la persona nell’orare
rivolta da quella parte? Così certo la intesero alcuni, ignari come io
credo, del vero senso. Ma quanto meglio i più antichi! Quanto meglio,
p. e., l’autore del _Aruch_ Rabbi Natan figlio di Iehiel tesoriere di
papa Bonifazio! Quanto meglio, dico, R. Natan non coglieva nel segno
quando diceva interpretando il passo Talmudico: _Vuoi tu fare di
sapere tesoro? Va’ presso i Dottori che hanno stanza a mezzogiorno di
Palestina e impara da essi la scienza._ Udite ora Simeone il Giusto,
Simone che per tanti anni gloriosamente ministrò nel sommo pontificato.
_Giammai_, egli diceva, _io volli le labbra accostare al sacrifizio dei
Nazirei, tranne una volta quando vidi al tempio presentarsi un Nazireno
dal mezzogiorno_ (e voi sapete quali rapporti stringano, secondo me,
gli Esseni al Nazirato) _il quale_, continua Simone narrando per
filo e per segno tutto lo accaduto, _mi disse come simile a Narciso,
specchiatosi un giorno in una fonte s’innamorasse del suo bel volto;
come indi vergognandosi del vano sentire, facesse voto di Nazirato,
e come infine venisse adesso a bruciare l’antico oggetto del suo
orgoglio, la bellissima chioma, nelle braci ardenti del sacrifizio_. Ma
poco è questo. Voi udiste poc’anzi l’autore del Lessico Aruh parlare
dei Dottori più insigni che vivevano nel _Darom_, a mezzogiorno di
Palestina. Or bene uditene adesso menzione dalle labbra istesse dei
Talmudisti; e dove, o miei giovani? Nell’ultimo capitolo di _Tamid_.
Là si narra di un famoso abboccamento intravvenuto tra Alessandro il
Macedone e alcuni tra i più illustri dottori in Israel: e come si
chiamano questi Dottori? Si chiamano i _savi del mezzogiorno_. E su che
cosa si aggira il loro favellare? Sopra parecchi e gravi argomenti in
cui Alessandro la celebrata sapienza loro pone al cimento, e che troppo
attestano l’indole, il genio speciale dei gravi studi dell’Essenato.
Chiede Alessandro le relative distanze dal Sole alla Terra; chiede
quale creato prima, se il Cielo o la Terra; chiede quale dei due abbia
preceduto, la luce o le tenebre; e se a tutte le precedenti inchieste
ottenne risposta, a quest’ultima però si udì intonare un modestissimo
_Nescio_. Perchè non risposero gli Esseni mentre il testo mosaico sì
chiaro favella? E qui permettete una piccola digressione che pure
ha la sua importanza. Perchè io ridomando non risposero al testo
conforme? Il Talmud tanto posteriore all’avvenimento, ne chiede, ne
indaga il perchè, ma mestieri è pur confessarlo, troppo mostra nella
risposta l’incertezza, l’imbarazzo nelle idee, troppo nella risposta
si scorge la distanza dei luoghi e dei tempi.[47] Perchè veramente non
risposero? Il perchè ce lo dirà Aristotile, il maestro di Alessandro,
l’interrogante. Ci dirà Aristotile, per parlare col linguaggio del
Ritter, _que les anciens Théologiens étaient en général persuadés que
le meilleur sort du pire, l’ordre du désordre, puisqu’ils faisaient
naitre toute chose de la nuit et du chaos_. Avete inteso? Dalla notte
e dal caos, ch’è quanto dire ch’erigendo in persone reali questi Enti
fantastici, ne crearono altrettanti primi principii, altrettante
Divinità cosmogoniche, e Notte e Caos adorarono quai numi. Poteva darsi
silenzio più opportuno? Potevano essi i Dottori _del mezzogiorno_,
che sono a parer mio gli Esseni, risolvere secondo Mosè la quistione,
concedere cioè alle Tenebre il primato di creazione senza concedere
perciò stesso il principio d’onde la Teogonia greca prendeva le mosse,
senza pericolo, senza conferma d’Idolatria?[48]

Io vorrei, o miei giovani, più a dilungo soffermarmi a studiare con
voi altre cose e bellissime che contiene il precitato frammento del
Talmud.[49] Mel contende il bisogno di procedere ordinato e spedito
alla mèta proposta, mel contendono gli altri non meno gravi, i
parlanti attestati che degli Esseni del Sud ci porge il Talmud. E
dove? È il primo a pagina] 70 di Pesahim, dove si narra di un Ieuda
ben Dostai che, sendo venuto a contesa intorno alla convenienza
del sacrifizio in giorno di sabato, si separò, dice il Talmud, dal
centro Gerosolimitano, ritirossi egli e il figlio suo nella Palestina
Meridionale dove assieme ai Farisei _ivi stanziati_, notate la frase,
protestò contro la decisione dei Colleghi e più assai contro _Semaja e
Abtalion_ due antichissimi Dottori anteriori di assai all’E. V; lo che
prova quanto antico fosse _Ieuda ben Dostai_ e quanto la raccontata sua
separazione. È il secondo a pag. 23 di Zebahim dove e’ s’introducono
ad esprimere una opinione circa la materia delle impurità di cui
sapete omai i nostri Esseni tanto gelosi.[50] E infine è il terzo se
non erro nel _Rabba_, e non temo di aggiungere il più interessante, il
più prezioso di tutti. Io vorrei, o miei Giovani, che sapeste che vuol
dire _Aggadà_, vorrei potervi esporre a parte a parte tutti i dati che
mi hanno da lungo tempo persuaso non altro essere in bocca ai Dottori
che la veste, la forma popolare, esoterica, parabolica, dirò anche
iperbolica delle dottrine loro più riservate, la _Mitologia_ nel cui
seno vive rinchiusa la _Teologia_,[51] vorrei sapeste da ora, come gli
Esseni, e specialmente quelli tra essi che si dicevan contemplativi,
andassero sopra ogni altro famosi per lo studio, per la cultura, di una
gelosa e segreta Teologia come più tardi intenderete. Or bene! Che cosa
dice il Medras? Dice non solo come disse il Talmud che al mezzogiorno
di Palestina una scuola intera vivesse di Dottori illustri; ma dice
di più, dice cioè che loro speciale, loro precipua occupazione era
la coltura dell’_Agadà_, e dice infine che i più eruditi Rabbini non
isdegnavano ad essi ricorrere per la interpretazione dei Testi; e in
queste parole lo narra: _Disse Rabbi Ieosciuah ben Levi: di queste
verso richiesi tutti i maestri dell’Agadà che vivono in mezzogiorno,
e niuno me ne porse risposta adeguata._ Che più? Non è persino il
Zoar istesso, che altra non cen fornisca e solenne conferma, il Zoar
l’Emporio delle idee Cabbalistiche, il Repositorio delle più recondite
tradizioni, il Zoar che in più luoghi appella ad una scuola di Teologi
Mistici che abitavano il Sud e che chiama apertamente, _i compagni
nostri, i soci nostri, che abitano il mezzogiorno_. Compagni, soci!
Che gran parola! Non vi dice punto alla mente la bella frase? Non vi
accenna ad una consorteria, ad un corpo, ad una società, a cui tutti
appartenevano egualmente? di cui tutti si dicevano indistintamente i
compagni, i soci, i fratelli? Io avrò luogo più tardi di ritornare su
questa frase preziosa, e la Misna e il Talmud e il Zoar ne proveranno
ad esuberanza, se già non l’hanno provato, il significato che per noi
gli è concesso, e che suona sì favorevole come vedete alla identità
Essenico-Cabbalistica da noi propugnata.

Noi dicevamo in principio di volerci occupare del luogo, del teatro
ove ebbe stanza principale la società degli Esseni. Noi sappiamo già
qualche cosa della loro dimora; sappiamo da Filone che per quanto un
centro di convergenza avessero, pure i loro raggi si estendevano, voi
lo udiste, _tra Barbari e Greci_; sappiamo da Giuseppe che questo
centro era in Palestina e nella parte meridionale di Palestina;
sappiamo in ultimo che queste due indicazioni, ve l’ho provato, si
attagliano a meraviglia ai Farisei, alla parte speculativa filosofica
mistica dei Farisei.[52] Ma se la parte abitavano gli Esseni di
mezzogiorno, quale presero ad abitare a preferenza, le città o i campi?
qual vita menarono a preferenza, solitaria od urbana? cittadinesca o
anacoretica? Solitaria, vi risponde Giuseppe nel secondo delle Guerre
Giudaiche, ove dice _amare costoro a preferenza la solitudine, i campi
ove avevano eziandio domicilio_; solitaria, vi risponde Filone (_De
vita contemplativa_) quando dice dei Terapeuti che per la massima
parte vivevano fuori di Alessandria presso ad un lago; solitaria, vi
dice Plinio quando li pone ad abitare poco lungi dal lago Asfaltide;
e solitari pure ragion vuole che fossero i grandi contemplativi; che
non a caso scelsero gli Esseni per loro stanza la quiete, la pace, il
silenzio dei campi. È là, è nella solitudine, è nel libero e forte
ripiegamento dell’animo sovra sè stesso, è nella concentrazione di
tutte le nostre morali facoltà, tanto lungi dallo sperperamento
cotidiano della vita cittadinesca, è là che l’anima si tempra a forte,
a maschio sentire, che lo spirito si eleva nei grandi pensieri, che
l’immaginazione spicca libero e naturale il suo volo, ed è là che
si educavano, che si dovettero educare gli Esseni contemplativi.
Credete che siano ubbie coteste mie, che faccia a guisa dei poeti il
panegirico della solitudine, e come i poeti, ponga i piedi sul vano,
sull’aereo, sull’imaginario? Io ne voglio a giudice, a testimone l’uomo
più competente, la scienza più positiva e per ciò stesso più decisiva;
voglio che lo udiate per me da un medico, e da un medico filosofo, e
chi è questo? È il Descuret in quell’aureo trattatello della _Medicina
delle passioni_. Sentite come si esprime il Descuret. _Lo scrittore_,
ei dice, _può acquistare in società facilità e stile brillante,
eleganza e gentilezza di frasi, ma giustezza di vedute, profondità
e concatenazione di pensieri, fuoco e vita nel discorso, trovano
origine per consueto nel ritiro, nella meditazione. I più grandi
scrittori hanno creati i loro immortali capolavori nella pace della
solitudine, tanto atta ai concepimenti del genio._ Che cosa si contiene
in questo squarcio, che io non abbia detto, e che cosa che a capello
non si acconci al nostro Istituto? Il quale non solo nel preferire e
rive e campi, obbediva al proprio genio, ma sì ancora si conformava
fedelmente al genio ebraico, alle tradizioni ebraiche, ed agli esempi
ebraici. Io dico cosa che forse parravvi strana, e appunto per questo
non la direi, se non avessi argomenti di avanzo, e se tanti non ne
avessi da dovere perciò stesso affrettare anco più il mio passo. Dissi
il genio ebraico, la fede ebraica, amare i campi; e come no? Abramo
prega e sacrifica all’aria aperta sopra un monte; nel silenzio, nella
solitudine pianta boschetti, e là sacrifica e là adora il Signore, nel
che è imitato di poi dal suo figlio Isacco: Isacco per pregare lascia
l’abitato e trae su per i campi orando dice il Testo, orando conferma
la tradizione e orando, conferman pure essi i Samaritani per quanto
non ligi al certo alle nostre tradizioni. Giacobbe ha visioni, prega,
fa voti in una solitudine nelle vicinanze di Luz o Bet El. Agar ha
visioni promesse e prodigii nel deserto di Beer Scebah; Mosè pascola,
medita per quarant’anni, e poi ha visioni, rivelazioni portentose
nelle solitudini dell’Oreb; se Mosè vuol orare al Signore, egli trae
fuori dall’abitato e colà alza all’eterno le palme; se ha in Egitto
rivelazioni, le ha nei campi lungi dalla città. La legge, la legge
di Dio non è data nè in Egitto nè in Palestina, ma nel deserto, per
accennare, dicono i Dottori, alla copia che gratuitamente fa di sè
ad ognuno; per non far nascere, dicono altri, tralle tribù gelosia,
rivalità. Eliseo fonda la sua scuola profetica nelle prossimità del
Giordano, e quivi vedeste in altra lezione adunarsi la bella scuola di
quel Signore dell’altissimo canto, i Recabiti di Geremia, progenitori a
senso nostro degli Esseni, Ezechiele, che fuori di Terra Santa patisce
difficoltà a profetare, trae fuori pei campi e profetizza. Che diremo
poi se dai Bibblici trascorreremo agli uomini e ai tempi rabbinici?
Qui gli esempi si accumulano, si affollano e in guisa tale che appena
è tempo di accennarli; qui nel _Ieruscialmi_ (Scebihit 6.) parecchi
esempi come di Ieuda Js Cozi, che si ritira in una spelonca e dice
addio al mondo per viversene a Dio soltanto;—qui nel 2º di Sciabbat
il fatto più cospicuo, il fatto modello, il tipo degli anacoreti,
il grande Essena _Rabbi Simone ben Iohai_ che per tredici anni vive
solitario in una grotta, ove si fa così perfetto nella legge di Dio,
che al rivedere il suocero dopo tanti anni, tutto che estenuato si
fosse nella persona, non potè a meno di esclamare: Beato me che
malconcio mi rivedi, poichè ricco cotanto esco dal mio romitorio; ed
ove infine secondo i Cabbalisti meditò gran parte delle cose contenute
nel Zoar. Qui il Zoar istesso, e questo è grave assai, poichè attesta
sempre più quella conformità di genio che è base all’identità da
me sostenuta, qui il Zoar, ove si può dire senza tema di errore,
non è colloquio, non è incontro, non è polemica, non esposizione
che non avvenga o all’ombra di un palmizio, o presso i recessi di
una spelonca, o in un campo seduti, o sul ciglio di un fiume, o in
una rustica abitazione. Non basta; qui il Zoar che non solo vi dice
essere tutte queste cose avvenute laddove avvennero, ma che il fatto
vi offre altresì preziosissimo di stanza, di soggiorno, di domicilio
che in quelle solitudini avevano i soci, i fratelli come tra essi si
chiamavano, della società cabbalistica. Egli è questo un fatto, un
gran fatto a cui non si potrebbe prestare abbastanza attenzione, nè
io dubito che un dotto di buona fede non ne trarrebbe argomento a
gravissime reflessioni. Aprite il Zoar, apritelo nel vol. 2º a pagina
13, dove non solo vedrete come i Cabbalisti dimorassero nella pace dei
campi, ma le vestigia vi troverete eziandio luminosissime di ben altre
sorprendenti analogie che vorrei tutte analizzare, ma che per ora non
mi è dato. Troverete consorteria, organizzazione sociale, e sopratutto
vi troverete libri acroamatici ove i misteri si contenevano della
Religione; i quali libri non si mostravano che di volo e ai meglio
provati, appunto come accadeva in seno al nostro Essenato;—apritelo
nello stesso volume 2º, a pag. 183. Che cosa vi vedrete? Vedrete Rabbi
Simone, Rabbi Eleazar suo figlio, Rabbi Abba, Rabbi Iose che procedono
per via. Chi è questo che gli si fa incontro? È un vecchio ed ha per
mano un fanciullo: al solo vederlo dice Rabbi Simon a Rabbi Abba:
_Cose nuove apprenderemo da questo vecchio. Chi sei tu_, gli chiede
quando è vicino, _e d’onde sei? Ebreo io sono_, risponde l’altro, E
LA MIA DIMORA è TRA I FARISEI DEL DESERTO OVE DO OPERA ALLO STUDIO
DELLA LEGGE. _Gioì Rabbi Simone e disse: Sediamo; conciossia che Dio
a noi t’abbia inviato, deh! non ti spiaccia farci udire delle parole
nuove, ma antiche_ (Che bell’antitesi novità e antichità ad un tempo!)
_che piantaste laggiù nel deserto intorno a questo settimo mese_.
Allora sorge il vecchio e colle parole esordisce di Mosè ove agli
Israeliti ricorda l’assistenza divina per lo deserto, e in mezzo alla
sua sposizione esce fuori con questa aperta allusione ai suoi, alla
setta di cui era parte: _E noi egualmente ci separammo dall’abitato
per vivere nei deserti onde meditarvi la legge_, CONCIOSSIACHÈ NON
SI COMPRENDANO DAVVERO LE PAROLE DI DIO SE NON NEL DESERTO; quindi
riprende il santo vecchio il divisato argomento, e tante e sì belle
cose va dimostrando sui giorni e sui riti pasquali che l’anima elevano
ed il pensiero al solo fraintenderle; tanto vanno improntati di una
sublime e trascendentale metafisica. Che sarà poi quando udirete il
termine con cui il Zoar conchiude la narrazione? _Intanto_, dice il
Zoar, _piangeva Rabbi Simone; ed era pianto di gioia: levarono tutti
gli occhi e videro cinque di quei Farisei che dietro al vecchio
procedevano per raggiungerlo; alzaronsi tutti. Disse Rabbi Simon: Dinne
il nome tuo—Rispose lo straniero: Neorai il vecchio, conciossiachè
altro più giovane Neorai sia fra noi.—Disse Rabbi Simone ai nuovi
venuti: Qual’è il vostro cammino?—Noi seguiamo, risposero, il santo
veglio le cui acque noi beviamo del continuo per lo deserto. Allora gli
si appressò Rabbi Simone e baciollo,[53] e disse: Luce tu ti appelli,
e luce è con te_: nè guari andò che accommiatitosi da quei solitari
ripresero i tre Dottori il loro cammino. Questi sono i due fatti che
volli citarvi appunto perchè sendo registrati nel libro più illustre
dei Teosofi nostri o cabbalisti, tolgono sempre più a confermare quella
identità che fu ed è mio officio il dimostrarvi fra l’antica scuola dei
nostri Teologi e l’Istituto degli Esseni.

Egli è forse per questo che gli altri rabbinici monumenti ci porgano
meno significanti gli esempi di questa predilezione dell’amore del
ritiro, della quiete dei campi e del sommo suo confacimento agli studi
ed agli atti di Religione? Tutt’altro. Vi dissi, non è molto, come
esempi non pochi vi fossero d’insigni Dottori in ambedue i Talmud che
chiesero al silenzio, al ritiro, l’acquisizione dei misteri e delle
religiose dottrine,[54] e solo perchè meglio gli individui riguardavano
le istituzioni, gli usi e i generali costumi, ne feci separata e
preventiva menzione. Ma quanto più non tornan all’uopo efficaci gli
esempi generali, gli usi, le istituzioni, le leggi stesse da questo
spirito informate! Le leggi, quando sentenziano che ove tra i coniugi
sorgessero contestazioni sulla scelta del domicilio, a quella parte
si debbe piuttosto attendere che preferisce alla città i villaggi,
_conciossiachè_, dice il Talmud, _il soggiorno delle grandi città torni
non poco alla morale periglioso, pei costumi pel solito più molli e
più rilassati_. Le idee più intime dei nostri Dottori quando ponendo
in bocca alla Chiesa Israelitica quelle parole di Salomone: Deh, gli
fan dire (Talmud Tract Irrubin) al Signore; deh non giudicarmi come
gli abitanti delle grandi città, tra i quali è violenza, lussuria
e maldicenza; ma usciamo ai campi, (notate queste parole) ove ti
mostrerò i cultori della tua legge che meditano del continuo e tra
angustie la tua parola, mattiniamo alle vigne, cioè (continua il
Talmud) ai tempj ed agli studi dove vedremo la vite fiorire, cioè la
Bibbia coltivarsi: e così via discorrendo. Ma quali parole quelle
che attribuisce alle città i vizi discorsi! E quanto bene consuonano
con quel che dice Filone a proposito del ritiro e delle solitudini
dei Terapeuti; maravigliosa consonanza in verità! _Primieramente_,
dice Filone, _abitano in campagna e schivano le città grandi, a
cagione del mal costume che in esse regna per ordinario, persuasi che
siccome si contrae una malattia col respirare un aria infetta, così
i mali esempj degli abitanti fanno impressione indelebile sull’animo
nostro_. Ma io dissi anche gli usi generalissimi, anche istituzioni
permanenti. Potrò io dimostrarlo? Sarei io in grado di provarvi che
tanto spinsero oltre l’amore pei campi, da farne il prediletto, il
durevole, il venerato soggiorno? Facilmente, solo che io vi rammenti
la benedizione di _Meen Scebach_. Che cosa è questa? Voi lo sapete,
perciocchè l’udite la vigilia di ogni sabato. È quella benedizione
che dopo la preghiera sommessa pronunzia il Ministro e che non è,
a veder bene, che un compendio o sommario della istessa _Amida_.
Che cosa è questa benedizione e perchè istituita? Chiedetene al
Talmud, ai Ritualisti, chiedetene ad ognuno, ed ognuno vi dirà quello
che andiamo cercando; cioè vi dirà che ai tempi misnici, ai tempi
talmudici gli oratorii, gli studi sorgevano tutti in mezzo ai campi,
lontano dall’abitato, nella solitudine e nel silenzio; vi diranno che
all’orazione vespertina convenivano da ogni parte i fedeli, che parte
solerti giungevano a tempo e la preghiera cominciavano e finivano col
popolo tutto, parte trattenuti dai negozi o dal cammino protraevano le
loro orazioni alquanto più tardi. Perché non rimanessero soli costoro
fuori dell’abitato, che cosa fecero? Istituirono il _Meen Scebah_ che
mandando un poco più alla lunga la orazione offriva agio ai ritardanti
di terminare prima che il popolo si partisse. Un gran fatto emerge da
tutto questo; ed è la presenza delle antiche sinagoghe e dei pubblici
studi nella solitudine; ch’è quanto dire un nuovo riscontro col costume
presso che generale degli Esseni, dei Terapeuti.

Io non vi dirò adesso ciò che scrisse Beniamino di Tudela nelle sue
peregrinazioni. Ebbi luogo di ricordarvelo quando voleva provare la
provenienza Recabitica del nostro Istituto, e spero che non l’avrete
obliato. Narra Beniamino di aver veduto nel Iemen tra le numerose
popolazioni israelitiche di quella regione, uomini, Dottori, Asceti
che perseveravano nell’antico costume degli Esseni, nella solitudine e
nel ritiro. Non vi dirò nemmeno come i nostri meno antichi moralisti,
p. e., il _Hobod Allebabod_, che fu non ha guari trasferito in
italiano, il Rescit hohma di un Cabbalista discepolo del Rabbi Isaac
Loria, facciano tutti e due menzione di una scuola di religiosi che
predilegeva l’isolamento e la vita anacoretica, l’ultimo in ispecie
che fa menzione siccome tale di un _Rabbi Abraham apparus_ che vita
menava non disforme da quella più sopra descritta. Queste cose
pretermetterò volentieri poichè ho fretta di giungere all’ultima
quistione; non ultima però al certo per lo interesse che desta, ed
è quest’una. Rimane egli tra noi tuttavia traccia veruna di questi
antichissimi costumi e degli Esseni e di una frazione dei Dottori?
cioè, v’è nulla che tragga l’Israelita dal romore delle città per
levare la sua mente colla vista della natura, col silenzio, colla
maestà del creato, a pensieri più celestiali? Io ardisco dire che vi
è, vi è almeno nei libri, conciossiachè e belle e nobili istituzioni
sien cadute fra noi in disuso, ed un gran brivido mi mettesse un
giorno per l’ossa il _Lamennais_, quando lessi nel suo Romanzo _les
Amshaspandas et les Darvands_ quella frase terribile _les Hébreux ont
perdu le sens de leurs institutions_. Dopo avere tante cose perduto,
perdere ancora il _senso delle proprie istituzioni_ pareami troppo
orribile cosa in verità; e vedendo tanti e tanti inconsci assolutamente
di aver perduto il senso delle nostre istituzioni, pensai non forse
avvenisse nella perdita del senso morale, come avviene nei sensi del
corpo che non sappiamo d’averla perduta. Fatto è che la memoria, che
la reliquia esiste; ed esiste in un uso a noi incognito, ma che pure
praticato fu dai Talmudisti, e che solo fu in progresso ed è forse in
qualche parte ancor praticato dalla scuola Cabbalistica, io vo dire il
_Ricevimento del sabato_. Che cosa è ora? Egli è ora pei più un canto
incompreso, egli è per pochissimi lo stare per qualche istante ritto
colla persona, l’inclinare un poco a destra, un poco a sinistra, un
leggiero dimenare di capo; e tutto è detto. Che cosa era e che cosa
dovria essere? Era purificarsi anzi tratto il corpo, era vestirsi di
candidissimi pannilini, (vi ricordi il bianco uniforme dei Nazarei,
le stole dei sacerdoti, le candide vesti degli Esseni, e tra poco,
vedrete anco le bianche insegne degli Esseni moderni, dei Cabbalisti,)
e sopratutto egli era uscire all’aperto, rinfrancare lo spirito coi
vastissimi orizzonti, colle aure purissime, colla maestà del tramonto,
rannodare le antichissime tradizioni patriarcali, salutare il sabato
imminente, la sposa mistica che s’avvicina. Così fecero i Talmudisti
quando dicevano l’uno all’altro _esciamo ad incontrare la sposa_. Così
il verace continuatore delle loro tradizioni l’_Aari_, quando per
attestato dei suoi discepoli (conciossiachè egli o poco o nulla abbia
scritto), vestito di quattro abiti bianchi a guisa dei sacerdoti,
traeva fuori per le campagne di Safet, città boreale di Palestina, e
alternando i salmi di David e il mistico poetare, riceveva il sabato.
Così a tempi più tardi i Dottori di Sionne perseverando nell’uso antico
cercavano pei campi la mistica sposa. L’autore del _Hemdat iamim_,
Cabbalista se altri fu mai, gran scrittore, gran moralista, dolorando
come divelto dalla cara Sionne non potesse dar opera, come l’usato,
all’amabile rito, così si esprime in suon di lamento: _e nei giorni del
mio esilio quando la sorte mi divelse dalla Eredità del Signore, nei
luoghi ove ramingai pellegrino, non fummi per molte cause conceduto
di proseguire nell’antico costume; sibbene questo io faceva: traeva
fuori al vestibolo della sinagoga ove vasto e libero ti si schiude
l’orizzonte, ed atto all’accoglienza della sposa, e colà io leggeva il
Ricevimento del sabato._ Avete inteso? È l’aria aperta, è il libero
orizzonte, è la vista del creato che sta a cuore al pio Dottore; egli
a questo spediente si appiglia non potendo far meglio: ma ciò ch’ei
fare vorrebbe, ei lo ha detto, ei lo dirà anche meglio nelle parole
che seguono: _Ed ove ti sia conceduto, ascendi sulla cima di alta
montagna, provvedi che il luogo sia puro, e colà recita il Ricevimento
del sabato._ Quanto diversi i tempi presenti! Le persecuzioni, le
reclusioni, le tirannie fecero certo gran male e più male alle anime
che ai corpi, perciocchè se la Religione si conservava nei Ghetti, a
caro prezzo si conservava; a prezzo di divenire rachitica, atrofica,
impotente, ingenerosa, a prezzo di perdere quel fare nobile, grandioso,
poetico, sentimentale che le è proprio. I Ghetti caddero, è pur vero;
e gli uomini ne uscirono frettolosi, ma vi dimenticarono preziosissima
gemma, _la Religione_. La Religione è sempre in Ghetto; e sempre tra
le angustie, tra le tenebre, tra la melma di quei schifosi meati. Meno
infelici i soggetti dello Islamismo! i quali le pratiche religiose
spiegano impunemente alla luce del sole; i quali possono mostrare
davvero che sia, che possa la fede ebraica. Il Fariseo Cabbalista che
ascende la montagna per salutare il giorno santo, è cosa grandiosa
per chi la intende, per chi _non ha perduto il senso delle nostre
istituzioni_; è più grande di Byron che si affida su barca leggera
al mar tempestoso per essere spettatore e forse vittima della natura
infuriata, che vuol assaggiare la morte tanto per poterla descrivere;
è più grande di Iacopo, la creatura del Foscolo, che cerca per balzi e
dirupi emozioni fortissime. E perchè dico più grande? Perchè i poeti
cercan nella natura, nelle sue grandi scene, le sorgenti del Bello,
mentre i poeti teologi dell’Ebraismo ve lo recano, ve lo diffondono:
conciossiachè vi rechino, non vi cerchino le grandi idee ed i grandi
effetti; conciossiachè viva nel loro petto Dio creatore della natura,
fonte suprema del bello e del sublime; conciossiachè abbiano in petto
il tipo increato del Bello al cui raffronto sorgono giudici meglio
che spettatori del Bello creato. In una parola, i poeti ricevono il
raggio di Dio riflesso dalla natura, i poeti teologi dell’Ebraismo
diffondono sulla natura il divin raggio riflesso dall’anima loro.—La
natura divinizza i poeti—non è così? ma i poeti teologi dell’Ebraismo
divinizzano la natura.



LEZIONE DECIMASECONDA.


Parecchie cose furonvi conte finora intorno agli Esseni. Oltre il
nome, l’origine, di cui a dilungo parlammo, sappiamo dove abitavano—il
mezzogiorno di Palestina—sappiamo ancora, lo abbiam veduto nell’ultima
lezione, come abitavano, ch’è quanto dire solitari nella quiete dei
campi. Se queste cose come le avvenire, maggior tempo richiesero a
trattarsi che per avventura non sembra dicevole, lieve è lo scuoprirne
la causa. Ella è quel duplice e complessivo lavoro che noi imprendemmo,
e quel volere ad ogni passo, ad ogni nuovo elemento della loro
esistenza, trovare nuova conferma a quel postulato supremo che vi
enunciai dapprincipio, la restituzione dell’Essenato a quella scuola
più vasta che s’intitola dai Farisei; e più specialmente a quella
frazione che dagli altri si distingueva e per l’austerità della vita
e per la sublimità degli studj. Rinunciare a questo scopo nobilissimo
sarebbe certo ridurre a più angusti termini il nostro lavoro, ma
sarebbe altresì rinunciare a quel benchè modesto resultato che ci è
concesso sperare dalle nostre fatiche, a quell’unico titolo che possono
queste lezioni vantare alla estimazione dei dotti. Ella è dunque
stasera una nuova circostanza di lor vita esteriore che noi dobbiamo
apprezzare. È quella predilezione e quell’amore che gli Esseni ebber
mai sempre per le piagge, per le rive dei fiumi. Se meno gravi, se
meno concordi fossero gli attestati degli antichi autori, io dubiterei
non forse il caso meglio che la elezione avesseli per ordinario fatto
stanziare sulla ripa dei fiumi. Ma il potremmo pensare, dopo che
_Plinio e Filone_ abbiamo ascoltato? Che dice Plinio? Plinio parla
specialmente degli Esseni di Palestina, e quanto ei dice al capitolo 5
del libro XVII solo ad essi dobbiam riferire. Ora, se non m’inganno,
io ebbi luogo di accennarvi in altra lezione, quanto Plinio ci narri
in proposito. Egli asserisce come gli Esseni vivessero tutti quanti in
riva al Lago Asfaltide ossia Mar Morto, e _solo_ egli aggiunge _tanto
se ne discostavano quanto tornava indispensabile a cansare le mefitiche
esalazioni di quel lago insalubre_. Or che sarà se intenderete Filone
lo storico dei Terapeuti dirci altrettanto dei suoi solitari? Certo
direte che non è senza grave cagione che così accadeva. Or bene; aprite
Filone nella _Vita contemplativa_, e poichè vi avrà dette come taluni
di quei religiosi dimorassero qualche volta nelle città, queste parole
nonostante ne intenderete apertissime. _Ma i principali_, dice Filone,
_si ritirano quasi tutti in un luogo che hanno fuori di Alessandria
vicino al Lago Mereotide sopra un’eminenza, che fa il luogo securo e
dove l’aria è salubre_. E qui i Terapeuti non potrebbero mostrarsi più
che non si mostrino conformi ai loro fratelli palestinesi. Com’essi
parte vivono in società e parte in ritiro, com’essi amano le campagne,
i luoghi salubri, sopratutto com’essi ancora prediligono le rive. Havvi
a quest’uso un perchè? Erano eglino gli Esseni, i Terapeuti nella
scelta di questi luoghi guidati da un principio, da una tradizione, da
un esempio che glieli additasse? La storia, il culto, la religione,
la letteratura ebraica ci rispondono propizi. Non dirò come le acque
fossero sempre simbolo, immagine venerandissima in bocca ai profeti,
simbolo d’Ispirazione quando alludono alla futura effusione dello
spirito, simbolo di Beatitudine quando Dio è presentato qual sorgente
perenne di acque vive, simbolo di Dottrina quando _spargansi_, dice
Salomone, _le tue acque per ogni dove_, intendendo della propagazione
dei buoni studi. Non dirò nemmeno come non solo atto si stimano a
lavare di ogni corporea impurità, d’onde le infinite e multiformi
abluzioni di ogni maniera immondizia, ma bensì la virtù lor si conceda
altresì di santificare e predisporre ai più nobili offici di religione,
siccome vediamo aperto nelle ripetute abluzioni del sommo Pontefice nel
giorno di Espiazione. Non dirò come la vista del mare, la navigazione
si dican capaci di preparare gli animi all’acquisizione del (Hassidut),
e già sappiamo gli Esseni dirsi _Hasidim_ d’onde l’adagio _i marinari
per la massima parte essere Hasidim_. Non dirò infine come le rive
fossero dai Dottori desiderate dopo la Terra Santa, siccome il più puro
ricetto a ospitarne le ossa, siccome vediamo in Ribbi Meir, il quale
per attestato del Talmud di Gerusalemme _essendosi addormentato_ (bella
metafora[55] per dir trapassato!) in Assia, luogo come altra volta
intendesse dell’Asia minore, lasciò detto ai Discepoli _Deh! vogliate
seppellirmi in riva al mare_. Che se questo brevemente trapasso per non
tediare, come potrei tacere di cose che tanto a questo sovrastano per
gravità? Come tacere che per dottrina tradizionale, per esempi grandi
cospicui della Bibbia, il solo luogo atto dopo la terra santa alla
fruizione di profezia, sono i lidi del mare o le rive dei fiumi? Come
non dire che se Ezechiele profetò, tutto che fosse oltra i confini di
Palestina, ei fu solo perchè, dice la tradizione, acconciamente vi si
dispose stando in luogo purissimo cioè sulla riva del fiume _Chebar_?
Come non dire che se Daniel ebbe visione, e non in Palestina, ei
fu, dice egli stesso al cap. VIII, sul fiume Ulai? Come tacere del
capitolo X dove, se ci si narra l’ultima sua visione, ella è pure in
riva ad un fiume, il fiume Tigri? Come tacere che se festa vi era in
cui si stimava potere l’ispirazione conseguire, quella si era in cui le
libazioni di acqua si praticavano;[56] non troppo dissimile da quanto i
Pagani favoleggiarono intorno la profetica virtù dell’onda _Castalia_,
dell’_Ippocrene_, dell’_Aganippe_ e del _Lebitrio_? Come non ricordare
ciò che dice Massimo Tirio parlando dell’oracolo Jonico. _Lo Ipopteta_,
ei dice, _della Jonia dopo avere attinto e bevuto l’acqua del sacro
fonte predice lo avvenire_? E come infine tacere dell’atto più
importante della monarchia israelitica della unzione del nuovo Re? La
qual cerimonia, è la Bibbia che lo attesta, si faceva e doveva sempre
farsi, aggiunge il Talmud (in Oraiot), sulla riva di un fiume, in
quella guisa appunto che vediamo nei Re praticato, in Salomone, il
quale per ordine di Davide condotto presso a _Ghihon_, piccola riviera
che scorreva vicino a Solima, vi fu solennemente sacrato e proclamato
monarca? Ma quanto non riescono al confronto insignificanti cotesti
esempi ove ad un fatto grande significantissimo si riferiscano, di cui
la Tradizione ci ha serbato memoria! Perocchè tra i Pagani, nei tempj
loro più venerandi, negli oracoli più famosi, non altrove, sorgesse
l’altare, non altrove si locasse la Pila, a inspirarsi del Nume che
colà abitava se non sull’orifizio di un pozzo, questo sapevamo e per
storici antichi e per moderni: sapevamlo sopratutto dal _Clavier_
(_Les oracles des anciens_) di cui non ha guari scorsi le pagine, ove
in una dotta Memoria presentata all’Accademia sugli _Oracoli degli
antichi_ tolse a dimostrare con squisita erudizione, il fatto da me
accennato nei due più famigerati tempj ed oracoli di Grecia antica,
in quello cioè antichissimo di Dodona e in quello di Delfo. Il
sapevamo da Origene il quale dice la Pitia essere posta sull’orifizio
della fonte Castalia; da Euripide nella _Ifigenia in Tauride_, dove
facendo Apollo parlare, sì gli fa dire: _Il mio Santuario divino sulla
corrente Castalia_.—Da Temistio che scrive: _Gli Anfizioni furono
i primi fondatori di Delfo, un pastore del Parnaso sendosi trovato
invaso dallo spirito profetico del fonte Castalio_; da Nonnio nei
suoi Dionisiaci, che disse: _L’acqua divina della previdente Castalia
era in ebullizione_; da Ovidio che all’antro della Pitia dà il nome
di _antro Castalio_; e infine da Pausania che così si esprime nella
descrizione di Delfo: _Volgendo a sinistra all’uscire dal tempio di
Delfo voi trovate la tomba di Neottolemo; un poco più in alto si vede
una pietra che non è grandissima. È unta con olio; ogni giorno ed i
giorni di festa è coperta di lana grassa. Questa pietra è, dicesi,
quella che fu fatta inghiottire a Saturno invece del figlio e che poi
in questo luogo rejesse. Ritornando di là verso il tempio, tu osservi
la fontana Cassoti_ (altro nome della sorgente Castalia) _essa è
circondata di un muro poco alto, in cui è praticata una porta per cui
si crede che quest’acqua si conduce per vie sotterranee nel santuario
del Dio e ch’è dessa che ispira le donne che vaticinano lo avvenire_.
Così tutti gli scrittori summentovati dell’oracolo Delfico. Possiamo
dire altrettanto di quel di Dodona? Sì, se portiam fede a Servio nel
commento a Virgilio, il quale al libro terzo dell’Eneide sopra il
v. 406 così si esprime: _Questo paese di Dodona è sui confini della
Etolia. Gli antichi vi consacrarono un tempio a Giove ed a Venere.
Presso al tempio, immane quercia sorgeva, a quanto sen dice, dalle cui
radici una fonte scaturiva, il cui mormorio per divina ispirazione una
vecchia donna per nome Pelia interpretava. Ex cuius radicibus fons
manabat qui suo murmure instinctu deorum diversis oracula reddebat_. E
questi furono i due più celebri oracoli della greca antichità, e questo
il modo dei loro responsi; nè da questi differirono altri infiniti,
comunque meno famosi; non quello dei Branchidi nell’Asia minore di
cui così favella Jamblico nel libro sui Misteri: _Una donna appo i
Branchidi predice lo avvenire, vuoi tenendo la verghetta in origine
donata da qualche Iddio, vuoi assisa sopra il tripode, forse ancora
i suoi piedi o il lembo del suo vestito stanno immersi nell’acqua,
e infine il Dio a lei si comunica col vapore di quest’acqua_. Nè
quello differiva dei _Colofoni_, al dire di Jamblico, che ne discorre
in questa guisa: _Quanto all’oracolo dei Colofoni, ognuno conviene
che egli è per mezzo dell’acqua che ci si annunzia lo avvenire. Una
fonte vi ha in un edifizio sotterraneo. In certa notte dopo parecchie
cerimonie e sacrifizj, il Profeta bee l’acqua del fonte, e non veduto
da quelli che vennero a consultarlo predice lo avvenire_.

Ma quello che colmare vi dovrà di stupore, quello che io temo forte
vi sarà riuscito sinora ignoto, siccome quello che poco eziandio è
divulgato tra i cultori delle lettere sacre, egli è questo fatto
curiosissimo, il fatto cioè che non altrove era situato il grande
altare dei sacrifizj nel tempio di Dio, tranne _sulla bocca di un
pozzo_, pozzo, dice Rascì nel Talmud (14º di _Succa_), che riceveva
tutte le libazioni che si versavano sull’altare; pozzo che si chiama
_Scitin_ nel Talmud e che si proclama antico quanto il mondo, _Scitin
nibrau miscescet ieme berescit_, d’onde il curioso anagramma berescit
_bera-scit_; pozzo, secondo i dottori accennato da Isaia, ove
paragonando Israele ad una vigna dice: _e vi fabbricò il suo padrone
una torre, e questo è l’altare_; un pozzo vi scavò, _e questo è la
cavità sottostante_; pozzo, interpreta il _Moarscià_, ch’era come la
scaturigine di tutte le acque mondiali, ristretta, contenuta ai piedi
dell’altare, sì perchè (stupendo pensiero) imponendovisi sopra quasi
suggello l’altare di Dio, rispettin le acque i naturali confini, nè più
irrompino a inondare la terra; sì perchè vengano benedette le acque
dalla sorgente di ogni benedizione, e le libazioni scorrano all’oceano
quasi sangue novello perpetuamente infuso nelle arterie del Globo. E
questa è parlantissima analogia oltre le altre già menzionate, oltre
altri fatti in gran numero che ometto per brevità col costume che
vediamo prevalso tra gli Esseni di ogni colore di abitare le rive. Ma
quanto non amerei che più a lungo mi fosse dato d’insistere sull’ultimo
e supremo fatto da me accennato di sopra—il pozzo sacro su cui poggiava
l’altare! Non solo i tempj e gli oracoli greci potrei chiamare, come
dissi, a rassegna, ma molte altre idee con questa principalissima
concomitanti potrei accordare, vedreste le idee dei Pagani su quel
pozzo, su quelle acque poco procedere dissimili da quelle da _Moarscià_
enunciate, comecchè il solo genio delle dottrine talmudiche gliele
abbia ispirate; potrei mostrarvi come ogni qual volta si dava ai
Pagani un pozzo profetico, non mancava un idea, una tradizione che lo
accompagnasse, voglio dire la credenza comune in Grecia, comune in
Fenicia che da quell’orifizio, da quel condotto, fossero tutte scolate
e tutte inghiottite le acque del Diluvio quando si ritirarono; e che il
tempio e l’altare e l’oracolo quivi eretto, fosse un perpetuo religioso
scongiuro contro le onde frementi; vorrei dirvi come quell’intimo
comunicare dello altare di Dio colla profondità della terra, quel
veicolo che univa l’ara alle viscere più segrete del Globo, riceva lume
e tolga senso principalmente dalle dottrine dei Pitagorici. I quali
non solo chiamavano il fuoco centrale _torre di fortezza_ (Pyrgos)
come i dottori appunto, cosa sorprendente! chiamarono il centro della
terra il sito dell’altare col nome _Migdal_, _torre di fortezza_, ma
ciò che più monta chiamavano i Pitagorici quel centro stesso _altare
dell’universo_ come appunto nel centro della terra secondo i Dottori,
sorgeva l’altare e il fuoco perpetuo quasi vampa projetta e quasi
prolungamento del fuoco centrale di cui favellano i Pitagorici. Ma di
questo basti per ora; basti lo avere provato come nemmeno in questa
circostanza, in questo costume, nell’amor delle rive si dipartissero
gli Esseni dal comune pensare e dalle idee predominanti tra i
Farisei.[57]

Rimettiamoci dunque in cammino e procediamo spediti. Che cosa abbiam
fatto sinora? si può dire senza errore che poco più abbiam fatto
fuorchè aggirarci intorno agli Esseni senza mai investirli. Nome,
Origine, Patria, Regione, Solitudine, Sito particolare, tutte cose
senza meno opportune, ma che non sono ancora gli Esseni. Tempo è che
gli Esseni stessi consideriamo più davvicino. Ma anche adesso conviene
procedere ordinatamente e a grado, conviene sapere se sono tutti
omogenei o in qualche parte diversi fra sè; in altri termini conviene
sapere se classi vi erano, e quali, e quante nel grande Istituto. E
qui non potrei senza colpa dissimularvi che le notizie che intorno
al subbietto ci son pervenute, procedono a senso mio così confuse e
talvolta eziandio così contraddittorie, che dura cosa è mettere ordine
e luce in tanta repugnanza di idee.

Voi non volete certo sobbarcarvi a una sottile disamina, nè io lo
esigo. Vi risparmierò dunque il Processo, vi risparmierò altresì i
considerandi della mia sentenza; questo solo vi dirò, che a quanto ho
potuto capire dal confronto dei Testi, due classificazioni debbono
ammettersi nel nostro Istituto. Notate che dico _due classificazioni_
e non _due classi_, dico due ordini di classi, due gradazioni,
due gerarchie. La prima riguarda la maggior o minor purità a cui
s’obbligavano nel contatto delle cose esteriori, e si deve intendere in
quel senso tutto _ritualistico e positivo_ a cui accennano i Trattati
sulla materia. E in quest’ordine d’idee, in questa gerarchia quattro
gradi o classi rammenta la storia in seno agli Esseni. E principalmente
ne favella Giuseppe nel libro secondo delle _Guerre Giudaiche_, dove
così si esprime: «V’ha d’essi secondo il tempo della loro professione
quattro differenti classi; e i più giovani sono talmente inferiori agli
anziani, che se accade che uno di classe più alta ne tocchi uno della
più bassa, convien che si lavi come se avesse toccato un incirconciso.»
Resta ora a parlar della seconda classificazione della seconda
gerarchia. Ma prima di procedere più oltre, e seguendo il nostro stile,
domandiamo a noi stessi: se egli è vero che gli Esseni non altro sono
che una frazione, la più sublime frazione dei Farisei, siccome per me
si estima; mestieri è pure che di questa quadruplice divisione non
solo appo i Farisei resti serbata memoria, ma che i Farisei stessi
a dirittura se l’approprino, voglio dire che di se stessi narrino i
Farisei ciò che degli Esseni i loro storici ci raccontano. Dov’è questa
menzione, e in qual guisa se la appropriano i Farisei? Voi comprendete
che ove la divisione esista realmente, laddove poi ai Farisei istessi
sia applicata, fatto non indifferente sia cotesto in verità, per la
identità da noi propugnata tra Essenato e Farisaismo. Ora dov’è la
quadruplice divisione? Voi la troverete a capello nel 2º capitolo di
_Haghiga_ dove leggerete le seguenti espressioni: _bigde am aarez,
medras lapparuschem, bigde paruscum medras leohele maaser scheni,
bigde, ooele maaser sceni medras leohele teruma, bigde ohele teruma,
medras lacodes, bigdes codes medras lehattat_.

Dove più cose sono da osservarsi; prima la _quadruplice_ gradazione
di purità rispondente ai quattro gradi di purità nella società degli
Esseni, per ciò che riguarda il reciproco contatto; e dico quattro
nel testo Misnico; giacchè ognuno comprende come coloro che sono al
di fuori del farisato, cioè _bigde amaarez_, non possano ammettersi
in conto. Il fatto poi dalla Misna rivelatoci come vi fossero uomini
tra i Farisei che senza appartenere al ceto sacerdotale, come Iohanan
Ben Gudgheda ivi stesso rammemorato, od anche al ceto sacerdotale
appartenendo come Iose ben Ioezer che vien chiamato col nome
significantissimo di _Hasid_, come dico, tali vi fossero che in tutti
i loro rapporti quella rigida osservanza serbassero di purità, ora
qual si conviene al sacro cibo di _Teruma_ come Iose il Hasid, ora
qual si addice anzi alle offerte stesse approssimate agli altari, come
l’altro, Iohanan Ben Gualgheda. E questa è la prima classificazione e
la memoria ed il segno che di essa è rimasto nei libri rabbinici. Ma
io dissi, se ben vi ricorda, come duplice classificazione distinguesse
gli Esseni. Qual’è la seconda classificazione? Ella è quella che
riguarda, non già come la prima il diverso grado di purità, ma ciò
che più monta, il genio riguarda e l’officio diverso delle classi
che la società componevano. E quante erano queste classi? Eran due.
Si dicevano i primi _Esseni pratici_, si dicevano i secondi _Esseni
contemplativi_. Che cosa erano gli _Esseni pratici_? Eran coloro che
senza troppo gittarsi nel turbine delle faccende mondane non lasciavano
però di conversare familiarmente cogli uomini in società; che non
solo praticavano il matrimonio, ma lo predicavano eziandio santo e
legittimo, e conforme sopratutto alle mire provvidenziali per la
conservazione della specie umana; erano coloro di cui così favellava
Giuseppe nel 2º delle Guerre: «_V’è ancora un altro ordine di Esseni
che ha l’istesso metodo di vita, i medesimi costumi e le medesime
regole, toltone l’articolo delle nozze, questi dicono che sia tôrre
alla vita umana una delle sue parti più considerabili, lo impedirne
la successione col non ammogliarsi, e che se tutto il mondo fosse
di questo parere il genere umano presto correrebbe al suo fine. Ma
spendono tra anni ad esplorare gli animi delle lor spose; e quando
sono state tre volte in questo tempo purgate conchiudono che sono atte
ad aver figliuoli, e le sposano._» Queste sono le parole di Giuseppe
intorno agli Esseni che si dicono pratici. Se fossero a voi famigliari
i libri e le sentenze dei nostri Dottori, trovereste siccome io
trovo, una mirabile uniformità di linguaggio tra gli Esseni, secondo
Giuseppe e i Dottori più celebrati, intorno la necessità, il dovere
del matrimonio; tantochè se non mancano esempj, come altra volta vi
dissi, di celibato volontario ascetico in seno ai Dottori, non si può
negare che il comun genio e le prevalenti dottrine non consentano
piuttosto col genio, colle dottrine di quella parte di Esseni che si
nomano pratici. Ma una seconda divisione nell’Essenato vi additava,
ed è quella degli _Esseni contemplativi_. Che cosa sono gli Esseni
contemplativi? Sono quelli che ponevano ogni amore nello studio e nella
vita contemplativa, quelli che passavano i loro giorni, dice Filone,
a meditare i libri sacri e la filosofia dai maggiori imparata; che
continuamente rinchiusi nelle loro cellette, nè uscivano, nè parlavano
con chicchessia, e che _di fronte alle speculazioni e allo studio_,
continua Filone, _ogni altro religioso dovere tenevano a vile_. Queste
sono le due classi, e questo il ritratto che ce ne offre principalmente
Giuseppe. Filone istesso non lascia di autorizzare la esistenza di
questa duplice classe. Filone, come altra volta vi dissi, scritto
aveva due libri l’uno «_ogni uomo onesto è libero_» e parlava degli
Esseni l’altro, _de vita contemplativa_ e vi trattava dei Terapeuti;
ma ciò che grandemente interessa la questione presente, si è il modo,
si è la frase con cui Filone trapassa dal 1º libro al 2º da quello
cioè che concerne gli Esseni a quello che riguarda i Terapeuti. Egli
usa parole che non solo confermano la esistenza della duplice classe
da noi accennata, ma ci additano altresì la speciale composizione
dello Essenato Palestinese ed Egizio e quale e nell’uno e nell’altro
predominasse degli accennati elementi, _Pratico_ o _Contemplativo_.
_Avendo già_, così dice Filone all’esordire del 2º libro, _avendo già
fatto parola degli Esseni_ (e già aveva detto precedentemente come
cotesti la Palestina avessero a patria), _i quali menano una vita
pratica e attiva, conviene al presente ch’io tratti di quelli che si
danno alla Contemplazione_. Che cosa vedete in queste parole? Non solo
vedrete la identità generica, la suprema medesimezza degli Esseni e dei
Terapeuti che taluno volle revocare in dubbio; non solo vi vedrete la
distinzione delle due classi, ma ciò che al tempo stesso non vi potrà
non apparire manifesto si è, come benissimo avvertiva l’illustre sig.
Munk, il prevalere del pratico elemento tra gli Esseni di Palestina
come la preponderanza che aveva la parte contemplativa tra i Terapeuti,
ch’è quanto dire tra gli Esseni di Alessandria. Nè altrimenti poteva
procedere la bisogna. L’Egitto, e specialmente l’Egitto siccome fatto
lo avevano la greca filosofia e le religioni orientali, era la patria
naturale, propria di ogni ascetismo comecchè trasmodante. Il celibato,
la solitudine, il disprezzo del mondo, il divorzio di ogni civile
consorzio, erano piante che in niun altro terreno meglio avriano potuto
attecchire che nel terreno egiziano. Non così per Palestina, dove se la
vita contemplativa non cessava di essere in onore grandissimo, non era
di quella tempra viziosa, esclusiva che colpisce di paralisi ogni più
attuosa facultà, e le più prestanti e rigogliose aspirazioni consuma
in un misticismo vaporoso. La vita contemplativa dei Dottori non
procedeva per lo più scompagnata dall’esercizio della umana attività,
dalla santificazione del corpo, mercè il culto esteriore, dalla
santificazione del mondo e dei piaceri e delle occupazioni del mondo,
mercè il suggello e quasi non dissi il crisma che gl’imponeva la fede.
Misticismo, vi era chi lo nega? Ma era quello di buona lega, quello che
non scinde, non smembra, non mutila l’uomo a favore delle facoltà sue
superlative, ma che tutto l’uomo, i pensieri come le opere, gli studj
come la pratica, il corpo come lo spirito, prende a santificare, e
tutto, anche le opre più vili, gli fa praticare in _ispirito e verità_;
era quel misticismo sincero, di cui nobilissimamente discorreva
Vincenzo Gioberti presso a cui s’impara più d’Ebraismo che non per
avventura presso a tanti sedicenti israeliti scrittori, quando nella
_Filosofia della Rivelazione_ dettava queste parole, a cui ogni buon
Israelita potrebbe soscrivere «_La vera vita contemplativa implica
l’attiva, o esterna e sensata. L’attiva perchè la somma anzi l’unica
attività, è quella del pensiero. L’esterna perchè questa è necessaria
a svolgere l’intelligente e a passare allo stato di mentalità pura;
gli orientali e gli ascetici che rigettano la vita esterna e collocano
la vita contemplativa nella mera passività, non s’intendono di vera
contemplazione._» E Gioberti ha ragione per l’oriente eterodosso.
L’oriente ortodosso però, i Profeti e Dottori, comecchè recassero
la vita contemplativa sino alle sue ultime conseguenze, non la
fuorviarono mai dalla via che conduce al perfezionamento dell’uomo
intero, e Paradiso e Civiltà se non eran per essi due termini
sinonimi, certo eran strettamente correlativi. Moralmente parlando
l’Ebraismo aveva collocato da lungo tempo la terra in cielo, pria
che nascesse Copernico. E questo era il misticismo palestinese, e
questo principalmente il suo Essenato, in cui la parte maggiore si
componeva, voi la udiste, di quei Dottori, di quei fratelli, che
tutto che vivessero e conversassero tra gli uomini in società, e
nozze contraessero, e gioje e dolori e vicende coi fratelli tutti
dividessero, ciononostante tale inflessibile regola presiedeva ad ogni
loro atto, tali i vincoli che li univano comecchè disgregati talvolta,
tale l’unità di vita e di mire a tutti comune, che per essi non sarebbe
profanazione ripetere ciò che fu detto per quel Dio che sì nobilmente
adoravano: che la sua circonferenza non è in nessun luogo e che il suo
centro è da per tutto. Non si vuol dire con ciò che _contemplativi_
veri, proprj, esclusivi, non esistessero in Palestina, e se io lo
dicessi, non solo Giuseppe, ma i Dottori stessi, ma il _Talmud_, ma
_il Zoar_ sorgerebbero a smentirmi. Ciò che dico questo si è, ch’eran
pochi, non solo, ma che anche nel concetto universale era quello
uno stato di sovrumana perfezione, a cui non avrebbero potuto senza
periglio aspirare che pochissimi, a cui natura avesse conceduto la
forza di vivere sulla terra la vita dei Celestiali. Ma pure esistevano,
e se esistevano, mestieri è per essi come pei Pratici, rinnovare quella
inchiesta che non cessammo di ripetere ad ogni nuovo elemento che ci
si porse dinanzi della Essenica esistenza. Havvi di questa distinzione
memoria tra i nostri Dottori, consuona questa duplice divisione di
Pratici, di Contemplativi, con quel che di sè narrano i Dottori delle
proprie divisioni? Abbiamo insomma, anche da questo verso, ragione di
credere alla identità da noi propugnata delle due scuole di Esseni e di
Farisei? La prossima conferenza ce ne darà adeguata risposta.



LEZIONE DECIMATERZA.


Di due sorta classificazioni studiammo nella società degli Esseni
nella conferenza passata: abbiamo veduto in che cosa consistesse la
prima, e come getti le sue radici in una identica distinzione che la
Misna ci additava in seno al Farisato. Abbiamo veduto in che cosa
consistesse e su che principalmente si fondasse la seconda distinzione;
distinzione di officio, di genio, di peculiare indirizzo, per cui
in due principalissime categorie si dividevano tutti gli Esseni, in
_Pratici_, in _Contemplativi_. Erano i pratici coloro che del tutto
non si separavano dal mondo. Eran i contemplativi coloro che all’amor
dello studio, al ritiro, alla contemplazione sacrificavano ogni altro
culto, ogni affetto, ogni ambizione: di queste due classi noi abbiamo
costatato, quanto era mestieri, l’indole, il carattere particolare;
abbiamo veduto come più si affacesse ai primi la patria Palestinese,
e come piuttosto si acconciasse ai secondi il soggiorno di Egitto. Se
questa fosse semplice e nuda esposizione della Essenica organizzazione,
se non ci fossimo sin da principio proposti di restituire il nostro
Essenato al più vasto seno, alla più vasta scuola dei Farisei, se non
dovessimo porre questa identità al raffronto di ogni fatto che si
presenta, e da quello nuovo argomento derivare in favor nostro; se
questa restituzione non fosse di sommo, di capitale interesse nella
storia religiosa del popolo nostro, forse noi, postergato questa sera
l’argomento presente, procederemmo difilati più oltre. Però grave
debito c’incombe e lo adempiremo. Noi dobbiamo sperimentare quanto
e come regga al confronto dei fatti il nostro supposto, dobbiamo
vedere se la distinzione di cui si favella nella società degli Esseni,
risponde ad altrettale distinzione in seno al Farisato; in una parola,
dobbiamo anco una fiata vedere se la propugnata identità non è una
favola. Io chieggo dunque: conobbe egli il Farisato distinzione
siffatta? Havvi tra esso una scuola, un sistema che sia e che si
appelli _contemplativo_? Havvi al tempo istesso un altro che le
dottrine professi e il titolo rechi di _Pratici_? Io oso dire che la
distinzione esiste, e tale esiste che meglio non potrebbe allo scopo
conferire. Esiste in tutta la estensione della Enciclopedia Rabbinica
dei primi secoli, esiste nei fatti, negli uomini, nelle dottrine e
infine sotto due principalissime forme due modi di storica rimembranza.
Prima forma io chiamo quei casi innumerevoli in cui l’una o l’altra
scuola, i Pratici o i Contemplativi s’introducono ad agire, a parlare
isolatamente, separatamente dalla scuola e dal sistema contrario,
così che noi esamineremo successivamente, passando prima in rassegna
tutto ciò che nella Rabbinica Enciclopedia allude agli uomini, ai
fatti, alle dottrine dei _Pratici_, e poi ai fatti e agli uomini che
si dicono _Contemplativi_. Ma quanto più vivo interesse, quanto più
efficacia nella forma seconda! In questa _Pratici_ e _Contemplativi_,
sistema e sistema, dottrina e dottrina più non ti appariscono lontani
e disgiunti; ma con bella e parlante antitesi interloquiscono ambedue
ad un tempo; e fede fanno ad un tempo della loro esistenza, e la
distinzione pongono più chiaramente in rilievo in virtù del contrasto.
E prima, che nome recano negli scritti Rabbinici le due scuole? Che
nome pei primi i Pratici?—Ora il nome di _Iere het, che temono il
peccato_, ora quello più espressivo di _anse maase, gli uomini della
pratica_, i _Pratici_, come udirete dagli esempj. Che nome recano i
Contemplativi?—Il nome principalmente di _Hasidim_. Noi dell’uno e
dello altro conosciamo i nomi; dove ora le dottrine, dove i fatti e
dove gli uomini? Dove in primo luogo i Pratici?—Eccoli quando predicano
l’insufficienza della sola speculazione; quando vogliono lo studio
delle cose divine congiunto alla pratica dei doveri sociali _iafe
talmud tora im dereherez, im en dereherez en tora_; quando dicono
l’uomo non doversi dalla società sequestrare _leolam tee datho sceladam
meurebat im abiriot_; quando insegnano nessuna virtù tornar gradita
comecchè trascendente; quando dal centro vivificatore si sequestri,
dalla religiosa comunanza, dalla chiesa di Dio; quando levano a
cielo la necessità del lavoro _ghedola melaha scemehabbedet bealea;
ghedolim baale umaniot_ l’amore dell’industria, la fatica del corpo
e i benefici influssi di una vita laboriosa ed attiva alla salute
dell’anima. Dove sono i Contemplativi? Vedeteli nel Talmud in _Sotà_
ove coi più celebri Dottori si lamentan perdute altresì le più rare
virtù, e dove specialmente con _Iose ben Catnuta_ si dice oscurato il
lustro dei Hasidim; vedeteli nel Talmud Gerosolimitano, ove di un’opera
e di un titolo si accenna, che non so come si potrebbe desiderare più
appropriato pel caso nostro; è la menzione di un’opera che il titolo
reca di _Misnat hasidim_, ed in cui tutto ed al sommo c’interessa,
persino una curiosa variante. Interessa una citazione che ivi stesso
è riprodotta dell’opera in questione, e dove in brevi ma espressivi
tratti ti si dipingon le fattezze dei Contemplativi; ove si legge,
p.e.: _se tu per un solo giorno mi abbandoni, io ti abbandonerò per
due_, volendo dire come l’assiduità e la perseveranza sia precipua
somma condizione nei sacri studj; e noi sappiamo qual ritratto ci
abbia Filone lasciato della applicazione istancabile dei Terapeuti
ai cari studj. Dissi persino una variante, e ve lo provo. Io lessi
_Misna hasidim Lettura o tradizione dei Hasidim_ per che così recano
parecchi autorevolissimi testi, per che così par confermato da altri
passi talmudici, come tra poco intenderete, e perchè finalmente,
quando pure si meni buona la diversa lezione, pure il senso rimarrebbe
a parer mio invariato. Ma qual è la seconda lezione? Leggono invero
alcuni testi _Meghillat Setarim_ invece di _Misnat hasidim_. Ma che
vuol dire _Meghillat Setarim_? Vuol dire _il volume dei Misteri_. Io
non so s’è dato afferrare da ora l’attinenza che corre strettissima fra
le due lezioni. Bisognerebbe che precorso aveste in parte il mio dire.
Bisognerebbe che voi sapeste come i libri degli Esseni fossero tenuti
in gelosissima custodia, nè ad altri ne fosse comunicata contezza,
tranne ai più fidi, ai meglio provati. Comprendereste allora l’origine
di questa variante; vedreste siccome io veggo come naturalmente siensi
presentate ambedue le lezioni, e vedreste ancora come se la vera e
originale lezione non è al certo che una, pure non può essere senza
grave cagione ammessa, introdotta la seconda lezione, e questa cagione
e questa origine e la somma convenienza di libri, di opere esotteriche
quando si parla di Esseni; siccome quelli che la storia accenna
veramente possessori e custodi di libri siffatti.[58]

Ma in altre parti ancora della Rabbinica Enciclopedia lasciarono di
sè vestigia i _hasidim_. Lasciaronle nel Talmud Babilonico ove a
chiunque, ed eziandio a quei Dottori che alle più rigide regole non
soggiacquero del Hasidut, e solo allo strettissimo _Jure_ mostrino
di attenersi, si suole maravigliando interrogare, ella è forse
cotesta la _Misna dei hasidim_? Quasi dicessero, egli è questo il
fare severo, irreprensibile dei hasidim?—Lasciaronla nel trattato
_Berahot_, dove degli antichissimi hasidim si narra il lungo orare,
e le protratte preparazioni, e la giornata quasi interamente sacrata
agli uffici di devozione quando si dice: _Gli antichi hasidim un’ora
spendevano in preludio a preghiera, un’ora nell’orare, un’altra
pria di congedarsi da Dio e così facevano tre volte al giorno._ Ove
dunque gli studi e dove l’industria per vivere?—Si ripiglia lo stesso
Talmud: sendo costoro _hasidim_, il poco studio fruttava assai e lo
scarso industriarsi sopperiva al bisogno. O io sbaglio, o questo
passo del Talmud è un bizarro accozzamento di antiche tradizioni e
di più moderne spiegazioni. Mestieri è che sappiate che cosa sia il
Talmud Babilonico; come fuori fosse compilato di terra santa, come
gli autori che dierongli la forma sua definitiva, nè la Palestina per
avventura vedessero mai, nè i partiti, nè le vicende più importanti gli
fossero conte di Palestina; quindi i non rari anacronismi nella storia
palestinese, i fatti storici a quella relativi narrati in confuso, e
quindi infine il sentenziare presente. Per tradizione conoscevano per
avventura gli antichissimi _Hasidim_ e li ricordano, udito avevano
la vita a perfezione religiosa atteggiata, e così la dipingono;
le orazioni lunghissime, la giornata spesa in devozioni e tale la
narrano in verità, obbliarono però o non udirono come la speciale loro
organizzazione, la comunanza dei beni, il lavoro in comune, questo
tenore di vita straordinario gli consentissero, cioè le lunghissime ore
trascorse in offici pietosi, quindi le più tarde e forzate spiegazioni,
il ricorrere al prodigio, l’attribuire ad una grazia ognor rinnovata
ciò ch’era effetto della loro istituzione, e quindi il bizzarro
accozzamento di un fatto vero e di una ragione arbitraria, di una
tradizione verace e di una interpretazione gratuita.[59] E lasciarono
di sè manifeste vestigia in Hasidim, in quella eccezione singolare per
cui un ceto intero dei cultori della legge viene formalmente dispensato
da ogni pratica religiosa, siccome apertamente dispensa il Talmud da
ogni religioso dovere coloro che fanno unica somma loro occupazione
la meditazione della legge, o come dice il Talmud, _che altra
professione non eserce tranne lo studio_; e quando infine per colmo
di maraviglia volendo citare il Talmud un uomo, una scuola che alle
condizioni tutte abbia adempito necessarie a questa dispensa, il gran
nome cita e la gran scuola ad esempio.[60] R. Simon ben Johai e i suoi
compagni, insegnandoci al tempo stesso nella citazione preziosissima
e il carattere ascetico, speculativo, studioso, eccezionale di quella
famiglia e la preziosa indicazione della esistenza istessa di una
scuola da quel gran nome capitanata, e infine la bellissima coincidenza
delle due dispense, quella che il Farisato consentiva al Ben Johai ed
alla scuola sua da ogni pratica osservanza, e quella che gli Esseni
rispettavano nel più perfetto del loro Istituto da ogni pratica
esteriore;[61] e quindi nuova e preziosissima conferma e della identità
generale della Farisaica colla Essenica scuola, e tra i medesimi
Farisei una più speciale affinità colla scuola mistico-teologica, dei
cabbalisti di cui fu principe e restauratore Simon Ben Johai. Ma io
vi dissi che non solo disgiuntamente lasciarono di sè vestigio nei
Rabbinici monumenti ed Esseni pratici ed Esseni contemplativi; dissi
ancora, e vado a provarlo, che la coesistenza in seno al Dottorato
di questa duplice ramificazione, resulta anco più spiccata, anco più
manifesta in tutti quei luoghi, e sono molti e sono parlanti, nei quali
gli uni figurano a costa degli altri, in cui Pratici e Contemplativi si
fanno lume, si spiegano, si suppongono scambievolmente, ora Dottrina
contrapponendo a Dottrina, ed ora professori a professori. E dove fan
questo? Dove in primo luogo l’antitesi delle dottrine? Antitesi, io
dico, chiarissima nel Talmud Berahot, dove Pratici e Contemplativi
scendono a disputare.—E qual’è del disputare l’obbietto? Niente meno
che la quistione grandissima che tra essi verteva, voglio dire la
eccellenza maggiore di ambo le vite, della vita _pratica_ e della vita
_contemplativa_. Voi comprendete il gran momento di questo trovato.
Ma che sarà poi se il nome intenderete dei disputanti, se vi dico,
per esempio, che l’avvocato della vita pratica, della vita socievole
è Ribbi Ismaele, e se aggiungessi di più che l’apologista della vita
contemplativa è R. Simon Ben Iohai? Certo che in questa disputa,
in questi nomi vedreste l’impronta del vero.—Certo direste, ma non
invano, il Ben Iohai è sempre nelle pagine del Talmud l’infallibile
rappresentante della vita, delle dottrine, della società degli Asceti.
Certo, direte, che i vincoli che le sua alla scuola stringevan degli
Esseni, vincoli dovevano essere forti, numerosi, strettissimi. Ma che?
La verità si fa strada da sè, e non fa d’uopo che lasciarla parlare
per rimanere convinto. Udiste poc’anzi un cabbalista, un Fariseo, R.
Simon Ben Johai, attribuirsi, patrocinare il sistema, la vita, le idee
degli Asceti. Udite ora un altro Fariseo, un altro Cabbalista gli
stessi principii propugnare e le stesse dottrine: e chi è cotesto?
Egli è Ribbi Akiba, il cui nome nei fasti cabbalistici suona non meno
celebre del suo celebratissimo discepolo Ribbi Simon Ben Johai. Ma
quanto del disputare il campo non si estende! Quanto più ampliata la
discussione! Quanto più il tema elevato! Non si tratta già di sapere
soltanto se la vita pratica, la pratica sociale debba entrare qual
elemento, qual ausiliare alla vita dell’anima; ma si tratta sapere se
la _pratica_ in generale, la sociale come la religiosa, la civile
come la spirituale, se sottostia, se sovrasti alla vita speculativa,
studiosa, contemplativa. Era pur grande consesso cotesto ove siedevano
i più illustri tra i Tanaiti, tra le mura di _Lydda_ in Palestina dove
il gran tema fu proposto—_Qual sia delle due più eccellente, la vita
pratica o la vita contemplativa._

Chi sostenne la prima, chi difese la pratica? R. Tryphon. Chi antepose
la contemplativa? Voi l’udiste. Egli è R. Akiba, il visitatore
del mistico _Pardes_,[62] il maestro di Ben Iohai, il corifeo del
Misticismo. Or che sarà se vedremo la caratteristica del _Hasidut_
apposta a R. Akiba in tre luoghi del Talmud, vale a dire il distintivo
e l’appellazione essenica come noi presumiamo? Nel primo (Berahot
27), secondo la lezione di R. Nissim nell’_Ammafteah_ (25. 2), in cui
si dice che chiunque vede R. Akiba in sogno aspiri al _hasidut_. Nel
secondo (Sanedrin XI), ove il verso dei salmi: radunatemi i miei pii
(_hasidai_) s’interpreta per _R. Akiba e suoi compagni_. Il terzo
infine ove per significare, come quel Dottore si dilunghi talvolta
dalle abituali sue dottrine, si dice: _Abbandonò R. Akiba il suo
hasidut._

E non sono persino le più minute circostanze che non abbiano in questo
racconto il lor valore. Per esempio quel _Mesubbin_, quello stare
a mensa seduti, quello alternare il pane del corpo col pan dello
spirito, quel discutere a mensa, quanto non vi riescirebbe prezioso se
potessi dir tutto! Se vi dicessi che questo era il costume proprio,
proprissimo della società degli Esseni, a quanto ne attestan Filone e
Giuseppe; che dico? se vi narrassi come non dissimile procedesse il
costume dei _Zoaristi_ i quali per lo più, mentre a mensa sedevano, un
testo togliean a interpretare della legge, e il sobrio pane mescevan
col più soave dei condimenti, la _scienza_.[63] Ma di questo più
diffusamente a suo luogo. Dovrò io citare dopo questi luminosissimi,
esempi per avventura di men rilievo? Dovrò dire di due altri campioni
che la pratica o la contemplativa vita tolgono a propugnare nel 4º di
Kidusin? Difende la prima R. Meir quando l’obbligo inculca ai genitori
d’insegnare al figliuolo un mestiere: propugna l’altra ivi stesso
Ribbi Neorai quando dice: _Ogni arte rigetto, ogni mestiere, e solo
il figlio mio inizierò allo studio._ E chi è Ribbi Neorai? singolare
a dirsi. Vedeste R. Akiba, vedeste Ben Iohai, ambo Farisei non solo,
ambo cabbalisti, farsi organi, farsi rappresentanti delle idee degli
Esseni. Vedetene ora un terzo! Poche, forse non altre volte è di questo
Dottore menzione tra i Rabbini, tranne questa ed altra fiata nella
Misna di Abot. Ma quanto però e come significativamente nelle pagine
del Zoar! Ove _R. Neorai_ è uno dei più famosi anacoreti, anzi è quegli
stesso che voi, non è molto, udiste rammemorare tra coloro che il Zoar
ci narra abitare la solitudine, e solo nelle feste solenni alla città
convenire. E quella fiata istessa che n’è parola in Abot, quanto non
ha ella la fisonomia e il linguaggio di un Essena! Curioso a dirsi!
Niuno, che io mi sappia, lo notò; eppure notabilissime suonano le sue
parole. Chiede R. Neorai che muovasi esule lontano per istudiare la
legge, e oh meraviglia! nel Zoar è egli stesso Ribbi Neorai che la gran
sentenza profferiva che con questa torna a capello, cioè non altrove
potersi con frutto meditare la legge se non nell’esilio, se non nella
solitudine. È la menzogna, è il caso che ha create siffatte armonie?
No, è la verità che solleva un lembo del suo velo, è l’armonia che,
tolto l’ostacolo, prorompe sonora fra la Misna e il Zoar, fra tutte e
due poi è la società degli Esseni in quella guisa che due stromenti
accordati all’unisono, mandano l’un l’altro amica risposta.[64]

Dissi nella passata lezione come non solo le dottrine degli Esseni,
ma gli uomini eziandio sono posti nel Talmud talvolta in contrasto;
non solo la _Pratica_ e la _Contemplazione_ figurano una a fianco
dell’altra, ma i _Pratici_ eziandio, ma i _Contemplativi_ vengono ad un
tempo designati, e in bella e parlante antitesi presentatici quasi due
ordini diversissimi. E dove? Tempo è che il veggiamo, che il veggiamo
in Abot, ove il Bur è detto non potere essere Jèré het (che teme il
peccato), nè l’ignorante poter farsi (Hasid). Ma che cosa è Bur?
Chiedetelo a tutti gli interpreti, e tutti vi risponderanno concordi,
vi diranno che Bur è colui non solo che di ogni scienza procede
destituito, ma le attitudini e qualità eziandio non ha dell’uomo
civile.—E che cosa si dice del Bur?—Che non sarà Ièré het, che è quanto
dire che non sarà non solo negli studi felice, ma nemmeno uomo civile,
uomo pratico, uomo socievole. Che cos’è il _Am Aarez_? Voi l’udiste,
egli è l’idiota, egli è l’ignorante. E che cosa non sarà il _Am Aarez_?
Non sarà, dice il Misnico testo, _hasid_, ch’è quanto dire non sarà
uomo studioso, dotto, contemplativo, e ciò che più fa bella l’evidenza
di questa chiosa, si è il nome _hasid_, nome che voi da lungo tempo
udiste qual sinonimo di Essena, nome che quello precesse eziandio di
Esseni, siccome gravi autori, e tra altri Scaligero, ce lo attestano,
e nome infine che quale specialissima designazione di una setta viene
ricordato nei Maccabei.[65] Vi par egli che io proceda nel ragionare
stringato? Vi par piuttosto che troppo generosa conceda significazione
all’appellativo di Ièré het. Vi par egli che non sia ancora troppo la
sinonimia dimostrata, colla parte _pratica_ del nostro Istituto? Or
bene udite ancora, e continuate poi se vi dà l’animo, a dubitare. Udite
pria in _Sotà_ dove tra i mali che la Era, che la venuta precederanno
del re Messia, due ceti, due ceti religiosi si ricordano che dal loro
antico lustro miseramente decaderanno. E come si chiamano i due ceti?
Si chiamano i primi _Soferim_, e ad essi si attribuisce la scienza che
allora sarà invilita _vehohmat soferim tisrah_. Si chiamano i secondi
Ièré het e si dice che _allora saranno in obbrobrio_. Non vi dice
nulla questo nome di Soferim? Eppure i Soferim di _Jah bez_, i Nazirei
chiamati dal Targum Soferim, il vederli procedere qui di conserva coi
Ièré het, dovrebbero a creder mio farvi pensare. Ma voi chiedete più,
e la verità non dice mai, _basta_. Havvi nella Misnà (per altri è
Barraità) un frammento antico, preziosissimo che sotto il nome corre di
R. Pinehas Ben Iair e che si chiama _Barraita di R. Pinehas Ben Iair_.
Si può chiamare in verità la _Scala dei santi_. È una descrizione dei
gradi per cui dalle più infime virtù si può raggiungere le più eccelse,
le più trascendenti senza interruzione, senza salto, ma per una
transizione naturale, facile, necessaria. Di tutti i gradi di santità
ivi notati, che sono assai, due osserviamone tra i più cospicui, i
quali sono il Hasidut e l’Irat het, _la pietà eroica_ e il _timore del
peccato_. Qual posto occupano nella scala dei santi, e quale l’una
rispetto all’altra? Il loro posto è il massimo, e dopo il culmine
della scala che è lo Spirito Santo, io trovo come gradi sottostanti,
più alto il _Hasidut, la pietà eroica_, quindi più basso lo Irat
het, _il timor del peccato_. Ma non solo massimi ambedue, ma ciò che
troppo più monta pel caso nostro, sono contigui, l’Irat het _timor del
peccato_ precede, il _Hasidut_ vi conduce, vi predispone. _Hasidut_ n’è
lo stadio successivo, la fase ultima, conducente, educante al _Ruah
acodesc_, spirito santo. Che cosa si volle dunque per Irat het? Non
certo quel _timor del peccato_, come ognuno intende, ch’è virtù di nome
e di fatto puramente negativa, che consiste meglio nello scansare il
male, che nello esercitare il bene. E perché dico questo nostro _Irat
het_ virtù non volgare? Per molte ragioni che me lo persuadono. Me lo
persuade in primo la sua contiguità al _Hasidut_, grado se altro fu
mai eccellentissimo e che, come udiste, mena direttamente allo spirito
santo, _Ruah Acodesc_. Me lo persuade poi eziandio non solo le virtù
che conseguitano, ma le virtù ancora che lo precedono, ma i gradi
eziandio inferiori, i quali tutti, troppo, come vedrete, sovrastano
al volgare timore, perchè possano di quello meritamente considerarsi
preparazione. Precede non solo il _Farisato_, lo stato dei Farisei, le
virtù farisaiche, lo che già accenna, come intendete, a una parentela
strettissima tra ambidue; ma il precede anche la _anava_, come udiste,
l’_umiltà_, sublime se altra fu mai nella gerarchia teologica delle
virtù e appo a cui il timor di Dio è chiamato altrove dai Dottori
suo vile calzare, _achob lesandelà_; e il precede insieme anche _la
santità_, siccome del _timore del peccato_ essa pure avviamento e
prodromo. Che cosa dunque vuol dir ciò? Vuol dire, se io non erro, che
colle parole _che teme il peccato_ intesero i Dottori uno stato morale
che generato è pure dal Farisato, e che di gran lunga eccede tutte le
virtù sottostanti, la _purità_, la _umiltà_, ed anche la _santità_,
e che è affine, e ch’è contiguo, e ch’è conducente al _Hasidut_ cioè
a quello stato, a quel grado onde ebbe nome la società degli _Esseni
Contemplativi_ negli antichissimi tempi. O io erro, o fatti sono
cotesti che altamente depongono in favor mio. Che sarà poi se il nome
intenderete dell’autore della Barraità in discorso? Voi vedeste e
vedrete costantemente i Dottori più insigni della scuola cabbalistica
farsi nelle pagine del Talmud gli oratori, gli avvocati delle idee,
delle massime dell’Essenato, vedeste Rabbi Simon Ben Iohai, contro a
R. Ismael, Rabbi Akiba contro Ribbi Tryphon, Rabbi Neorai contro R.
Meir, e Ben Iohai e Ribbi Akiba e R. Neorai al tempo stesso cabbalisti
e rappresentanti e organi dei principi dell’Essenato. Vedetene adesso
un altro nell’autor della _Barraità_. E chi è l’autore della Barraità?
Voi l’udiste: è Rabbi Pinehas Ben Iair, non solo il suocero di R. Simon
Ben Iohai, non solo veneratissimo nel Talmud, ma quel che più monta,
celebratissimo nel Zoar, le cui parole, le cui dottrine sono ivi con
venerazione registrate, e le parole e le dottrine sono esse pure della
scuola teologico-mistica dei Cabbalisti. E tutto questo a caso? È a
caso che di tratto in tratto sorgono nel Talmud due idee parallele,
concomitanti, talvolta opposte, antitetiche, ed alle idee corrispondono
dei pratici, dei contemplativi? È a caso che gli avvocati della
_contemplazione_ nel Talmud sono sempre quegli stessi che più vanno
rinomati pel loro ascetismo? È a caso che tutti i loro nomi primeggian
nel libro del Zoar? È a caso che niuno al contrario vi figuri dei loro
avversari, non _Ismael_, non _Tryphon_, non _Meir_? Io credo che non è
caso. Quel che non è certo a caso son le parole che seguono: e chi ne
è l’autore? È lo stesso _Pinehas Ben Iair_. _Dal giorno ei dice, che
fu il tempio distrutto furono confusi_ I SOCI, I FRATELLI E I LIBERI
_e cuoprironsi il capo e decaddero_ I PRATICI. Chi sono i _soci_, i
_liberi_, e chi sono i _pratici_? Io lo chiesi agli antichi interpreti
e quale n’ebbi risposta? Per pratici l’idea vaga generalissima di
religiosi; pei _soci_ o pei _liberi_ sensi che, o nulla significano,
o se qualcosa significano, giovano non poco al mio assunto. Ma quanto
bene nel nostro sistema! _Soci_ (_Haberim_), sono i _Soci_ i fratelli
della società e della Essenica _Frateria_; i _Pratici_, sono i
_Pratici_ la frazione più urbana, più cittadinesca dell’Essenato. Ma
chi sono i liberi. Benè-horin? Ah chi sono i liberi? Ve lo dica per
me un’aurea indicazione da _Filone_ serbataci; quando parlando della
costituzione degli Esseni narra di quelli che di fresco introdotti
nella società, consumavano il noviziato nel servire, nel ministrare ai
provetti, ai maggiori.[66] E come dice Filone che si chiamavano dagli
Esseni, cotesti? Si chiamavano _Liberi_, sì, si chiamavano _Liberi_
volendo, siccome ei dice, con un nome contraddistinguerli, che ogni
carattere servile escludesse dalla loro persona al quale non poco
avrìa indotto a credere i riguardanti, l’officio veramente servile
in cui ministravano. Ma liberi essi erano, Benè-horin, e dicevansi
liberi comecchè umilmente ministrassero a mensa ai veri _soci_, ai veri
fratelli.[67]

Voi vedeste già molte volte ed ora stesso aperta vi fu mostrata la
esistenza di _Pratici_, di _Contemplativi_ in seno ai Dottori. Non mi
resta che chiamare la vostra attenzione sopra un altro fatto soltanto,
ma cospicuo, ma rilevantissimo fatto; ove non solo questa duplice
ramificazione riprodurrassi e più distinta e spiccata; non solo vedremo
Esseni _Pratici_ ed Esseni _Contemplativi_; ma ciò che a dismisura più
monta, li vedremo parlare, agire e certi atti caratteristici eseguire
che Filone ci narra, propri, particolari agli Esseni. Dissi un fatto
perchè invero ambi s’identificano, si confondono, si unificano in
un solo fatto, ma per ora sono due, l’uno fornitoci dagli Esseni è
narrato da Filone, l’altro fornito dal Farisato è raccontato dalla
Misnà. Qual’è il fatto da Filone narrato? È una festa ed una festa
da ballo, ma di quelle ch’è capace di dare un Istituto religioso, un
sodalizio quale era l’Essenico. Narrarvi per filo e per segno tutte
le circostanze di questa festa da Filone descritta, troppo più a
lungo ci menerebbe che nol consentan l’ora e le forze. Pure mestieri
è che le cose più rilevanti vi sien conte. Festa era questa che
celebravano i Terapeuti, in una delle solennità religiose che resta
difficile determinare, ma che ogni analogia ci persuaderebbe essere
i _Tabernacoli_. E dove si celebrava cotesta festa? Si celebrava,
dice Filone, nell’aula del chiostro che lor serviva di Tempio. Colà
si riuniva la numerosa famiglia dei Terapeuti, e indossata ognuno la
bianchissima stola, sedeva ad una mensa, donne ed uomini separatamente
da ambo i lati, dove tutti prendevano cibi parchissimi, d’onde carne
e vino erano assolutamente banditi, ove ministravano quei _Liberi_ di
cui vi discorsi, ed ove i sacri ragionamenti allietavano ed istruivano
i commensali. Soddisfatto il bisogno del corpo, ognuno levavasi. Il
Presidente intonava un Inno alla gloria di Dio composto da esso o da
qualcuno dei predecessori, e tutta la compagnia lo cantava con lui,
quindi i giovani recavano in mezzo una tavola, per memoria di quella
ch’era in Gerosolima nel vestibolo del Tempio; quindi i balli, e al
ballo uniti e suoni e canti; e ballo e canto protraevasi insino a
giorno. All’alba, tutti come un sol uomo volgevansi al sole nascente,
e supplicato da Dio il buon giorno e la luce della verità, ognuno si
ritirava nella sua cella ove riprendeva le usate occupazioni. Questa
è la festa che narra Filone, e questo è il fatto che vuole essere
adesso paragonato alla storia che di una gran festa ci han trasmesso i
Rabbini. Qual’è questa festa? Ella è quella che si celebrava, dice la
Misnà, (_in Succà_) nei vespri del primo giorno dei Tabernacoli, e che
fama altissima lasciò di sè in tutta la Rabbinica Enciclopedia sotto il
nome di _Simhat bet Ascioaba_ e di cui il nostro _Simhat Attora_ non è
che pallida copia e debile reminiscenza. Dove si celebrava il Simhat
bet Ascioaba? Si celebrava in quella parte del Tempio che si chiamava
_l’Atrio delle donne_ perché alle donne era quello il limite assegnato,
che non poteano valicare. In quell’atrio, dice la Misnà, stabilivasi
_grandissimo ordine, Ticun gadol_. Che vuol dire quest’ordine, dice
il Talmud? Vuol dire, risponde, che l’atrio stesso in due parti era
diviso ove uomini e donne potuto avrebbero assistere alla festa
separatamente. Ma quanto splendido non c’è descritto l’apparecchio!
specialmente perciò che riguarda i candelabri, i doppieri, i lampadari
infiniti che gettavano per ogni parte del Tempio, degli atrî e di
tutta la montagna d’intorno, torrenti di luce. Vi basti dire, dice la
Misnà, che non v’era casa, non cortile, comecchè distante dal Tempio
in Gerosolima, che un raggio non ricevesse della sacra montagna che
tutta pareva divampare in un mare di fuoco. Piacerebbevi egli, o miei
giovani, che ove conceduto ne fosse l’accesso, quelle aule visitassimo
e quegli atrî santissimi? Orsù, entriamo ed osserviamo. Che spettacolo
è questo! Non solo la vastissima sala splende per miriadi di luci,
non solo un dolce suono mandano i Leviti, oggi in gran completo dalla
loro numerosa e svariatissima orchestra, non solo il caro idioma dei
sacri libri risuona in bocca agli astanti nelle lodi, negli inni che
celebrano all’Altissimo; ma che cos’è quest’agitazione che veggo: sogno
io o son desto? È pure un ballo! Un ballo nella casa del Signore! Un
ballo che al canto si marita, si marita al suono istesso dei sacri
strumenti, dei sacri cantici, e che pare ad un culto rivolto, ad un
oggetto pur esso santissimo! Tersicore negli atrî del severo Dio di
Solima non avrei pensato io giammai. Eppure è così. E chi sono i
danzanti? giovani forse? adolescenti? pensate! Altro che giovani!
Ravvisateli bene, sono venerabili aspetti, sono canuti, sono Dottori,
sono le stelle più fulgide del Farisato, _ogni altro eccettuato_,
dice Maimonide, sono essi soltanto, essi soli; sono, diciamolo una
volta colle parole testuali della Misnà, sono due ordini di Dottori,
i _Hasidim_ e i _Pratici_, sono essi i quali, in uno slancio di gioja
celeste, in un’estasi di mistico amore, intrecciano dotte e mistiche
danze, raffigurando nelle armoniche cadenze quello che gli antichi
tutti vollero raffigurato nelle danze religiose, vuoi l’armonie delle
sfere, vuoi l’armonia più segreta dell’animo umano e delle sue facoltà,
vuoi insomma qualche altro consimile intendimento, che lungo sarebbe
voler constatare. Sì, sono essi, sono i _Hasidim_, i _Contemplativi_
e gli _Anscè Maasè_, alla lettera i _Pratici_, i quali santificavano,
riabilitavano nel culto del vero Dio le danze che narrava il Paganesimo
dei Dattili, dei Telchini, dei Coribanti, delle Baccanti. Non sappiamo
noi da Luciano egual costume appresso ai Greci? Non è il più bel
premio di una mente culta e religiosa quello di potere riposare in una
uniformità ammirabile tra il mondo Ebraico e il fiore del Paganesimo?
Non abbiamo bisogno in mezzo a tante discrepanze, a tanti antagonismi,
un po’ di armonia, un po’ di pace tra Ebraismo e Paganesimo che
valgano a costatare che ogni filo non era spezzato tra l’uno e
l’altro? Oh! come è bello, per tanto, udire Luciano a descriverci le
paganiche danze! «_La danza di Bacco_ (ei dice) specialmente nella
Jonia e nel Ponto è esercitatissima; _e vi ballano persone nobilissime
e i principali della città, che lungi d’averne punto rossore, si
compiacciono meglio di questo esercizio, che della nobiltà degli uffici
e della dignità dei maggiori._» (ed. Capol., vol 3, 206) Non par egli
udire l’apologia di David che danza innanzi l’arca, e i Dottori che
lo imitano nella festa della _Scioaba_?[68] Sublime invero, santo
Coribante R. Simon Ben Gambliel, il quale, dice il Talmud, quando
tripudiava nel tripudio della Scioaba, otto faci teneva in mano e
l’una e l’altra successivamente scagliava in aria e tutte in cadenza
regolarmente riafferrava, senza che niuno dei moti complicatissimi
fallisse il segno. Ma non solo io li veggo con ordinate movenze menare
un ballo, ma parole io odo e canti dal labbro loro sgorgare. Che
parole son coteste? Porgete l’orecchio e l’eco lontano ne addurrà la
Misnà—Dicono i Contemplativi, dicono i Pratici che incanutiti eran
nella fede, nello studio—_o felice gioventù, che la vecchiezza nostra
non fai arrossire!_ Ma altri pure altra lode proferiscono, e lode
diversa—Che lode è questa? _Felice vecchiezza, che il fallo emendasti
di gioventù._

È questa la festa, e questo il ballo, e queste sono le parole della
_Scioabà_. Qui separate le donne,—qui il tempio convertito in sala
da ballo,—qui musica, qui canto, qui ballo e qui infine cantanti e
danzanti; chi? I _Hasidim_ e _Anscè Maasè_, cioè quei due ordini che
abbiamo superiormente veduto per altri fatti moltissimi corrispondere
al doppio essenico ordine di _Pratici_ e _Contemplativi_, che da
Filone nella succitata descrizione della festa ci vengono nella
stessa attitudine raffigurati, nello stesso luogo, allo stesso
oggetto, nell’atto istesso di cantare e ballare. Ma quando avviene
questa festa? Avviene di notte, avviene durante una festa religiosa,
e di notte e durante una festa religiosa quella avveniva da Filone
descritta. E quanto dura la festa? Tutta la notte, dice Filone, sino
all’alba spuntata; e tutta la notte risponde per la sua, la Misnà; e
ne fa fede—non vaga lontana tradizione, ma uno degli assistenti, uno
dei santi danzatori, quell’eccellentissimo Dottore che i colleghi
soprannominavano grecamente lo _Scolastico scolastica deoraità_: io vo
dire _R. Ieosciua Ben Hanania_ il quale nel Talmud si esprime così:
_Dice Ribbi Ieosciuah Ben Hanania quando gioivamo nella festa della
Scioaba_ (che sublime mestizia in queste parole. Il tempio non era
più!) _non vedevamo_ (traduco a verbo), _non vedevamo sonno cogli occhi
nostri: e come? La prima ora del giorno pel sacrifizio cotidiano,
di là all’orazione mattutina, di là al sacrifizio addizionale, di
là all’orazione dei Musafim, di là alle accademie, di là alla mensa
festiva, di là ai vespri, di là al sacrifizio vespertino, e di là sino
al mattino seguente nei tripudi della Scioabà._ Ed anche in questo,
voi lo vedete, la festa di Alessandria e quella di Solima procedean
conformi. Che facean poi al mattino? Per quei di Alessandria così dice
Filone: _All’alba tutti volgonsi verso il sole nascente, e pregano
Dio che conceda loro una buona giornata e la luce della sua verità_.
Così gli Alessandrini. Che cosa facean in Solima? La Misnà ce ne ha
serbata fedelissima memoria. _Al canto del gallo_, ella dice, _il corno
mandava un triplice suono,[69] e così suonando e strepitando, procedeva
la comitiva muovendo verso la porta che guarda ad Oriente. Giunti che
erano alla porta che guarda ad Oriente, volgeansi tutti da Oriente a
Occidente; e così diceano: I padri nostri che vissero in questo luogo
volgeano, come dice Ezechiele, il tergo alla casa del Signore e la
faccia loro indirizzavano ad Oriente, all’astro del giorno: ma Noi a
Jah sono rivolti i nostri occhi_; e ripetevan dicendo: _Noi a Jah, ed a
Jah i nostri occhi_.

Che cosa vedete qui? Tutto procedere appunto come tra i Terapeuti
procedeva; tranne una cosa, la parte a cui si volgeano. Gli _Ebrei_,
i _Dottori_, _gli Esseni_ di Palestina, memori della profanazione che
i loro proavi fatto avevan del tempio del Signore, l’idolatrico culto
introducendovi delle stelle del cielo, memori dell’attitudine che
prendevano nell’adorazione del maggiore astro, che Ezechiele descrive e
rinfaccia; giunti ch’erano al punto in cui dovevan pregare, prendevano
la contraria positura e il tergo volgeano al sole nascente e gli occhi
miravano e la persona al Santo dei Santi che la parte più occidentale
occupava del santuario. Pegli Ebrei invece, pei Terapeuti Alessandrini
avveniva il contrario. Fosse che a guisa di tutti quelli che vivono
fuori di Terra Santa, a guisa nostra anch’oggi, si volgessero nel
pregare ad Oriente, fosse che inesatta giungesse loro contezza del modo
di pregare della Metropoli, fosse eziandio che il lungo soggiorno
dello Egitto, la lunga conversazione cogli infedeli, la diuturna
separazione dal cuor della fede, facesse prendere al loro culto una
tinta d’Idolatria, siccome l’eco ne perdurava e perdura in scrittori
gravissimi che l’adorazione del _Sole_ gli attribuiscono; fatto è, che
in questo sol punto tra il culto Essenico di Palestina e quello dei
Terapeuti d’Egitto tu ravvisi un’antitesi. Del resto, la somiglianza
non potrebbe più esser perfetta, e sopratutto non potrebbe più che in
questa festa spiccare il doppio ordine di _Pratici_ e _Contemplativi_
che fu mio officio sinora mostrarvi nella _storia_, nella
_discussione_, negli _atti_, nel _culto_, com’ora vedeste degli antichi
Dottori.—E quindi sempre più splendida sorgerà quella conclusione che
viene dimostrata perpetuamente dalla nostra esposizione; la identità
dell’Istituto degli Esseni colla parte più dotta e più santa del
Farisato.



LEZIONE DECIMAQUARTA.


Noi dobbiamo oggi proseguire nello studio delle esseniche istituzioni
per passare quindi alle dottrine e quindi al culto. Si parli dunque
delle Istituzioni, e per procedere con quell’ordine che più io stimo
acconcio, cominceremo da onde appunto cominciava l’Essena nell’atto
di votarsi alla società, ch’è quanto dire cominceremo dal Noviziato.
Ebbero eglino, gli Esseni, un noviziato? Imposero eglino ai nuovi
venuti, un tirocinio speciale, una propedeutica religiosa prima di
largir loro il nome e le prerogative di socio e fratello? Ebbero
eglino un noviziato a guisa di pressochè tutti i religiosi istituti
antichi e moderni, a guisa segnatamente del Pitagorico istituto, col
quale tanto amava di raffrontarli il nostro Giuseppe? Sì, rispondono
le più autorevoli testimonianze, le quali non solo di questo
noviziato attestano la esistenza, ma la durata ancora ne ricordano,
la divisione, le prove a cui sopponevansi, lo scopo a cui si mirava.
Il noviziato durava tre anni, ma questo periodo di anni tre si
distingueva in due parti, o per dir meglio abbracciava due gradi che
successivamente percorreva lo iniziato. Durava il primo un anno intero,
e in quell’anno le virtù che più si volevano splendidamente provate,
erano continenza e temperanza, nè per luminosa che ne emergesse la
prova, poteva dirsi ancora assolutamente qualificato fratello. La più
intima comunanza che conoscessero gli Esseni, la tavola comune, il
refettorio, non si asseguiva che dopo altri due anni dl tirocinio più
severo. Pria di sedere al fianco a’ fratelli nei sacri agapi intorno
al desco venerato, due altri anni dovevano ancora trascorrere dove,
come pare probabile, nulla di sè lasciar doveva desiderare il nuovo
fratello. A capo di due anni diveniva Essena compito. Noi abbiamo
di sopra toccato del noviziato religioso nelle antiche consorterie,
noi abbiamo detto come da quelli non differisse il nostro Istituto.
Che dico? Noi potevamo farvi toccare con mano non solo i rapporti
che da questo lato lo avvicinano ai Pitagorici, ma ad altri infiniti
istituti accennare, antichi e moderni. Potevamo dire della iniziazione
sacerdotale dello Egitto, del Noviziato tuttavia superstite nel
sacerdozio Braminico, ove una rigida preparazione si esige da coloro
tra i Brami, che all’amministrazione voglion dedicarsi del sacro culto,
e sopratutto avrei potuto additarvi nelle società religiose derivate
dal Cristianesimo una immagine fedelissima di quello che tanto tempo
innanzi praticavano i nostri Esseni. Ma questi riscontri, comecchè non
destituiti di alta e feconda significanza forse più chè non credesi,
debbono ad altri cedere il campo che di gran lunga sovrastano e che
compiono quanto abbiamo a dire intorno l’essenico noviziato. Io spero
che non l’avrete dimenticato. Fu e sarà nostro officio, ad ogni passo
che muoviamo nella esposizione della scuola, trarre dalle viscere
del subbietto, sempre nuove, sempre maggiori conferme, a quel fatto
rilevantissimo che resulta a parer mio dalla più scrupolosa disamina
dello Essenato, la identità dell’Essenato medesimo colla parte più
dotta e più squisita dei Farisei. Voi lo ricordate; il metodo da noi
prescelto a provare siffatta identità fu, se non isbaglio, il più
rigoroso. Chiedere al Farisato tutto che di proprio, di organico si
trova nell’Essenato, e ove nulla si trovi nel secondo che il primo non
contenga, chiarire vera e fondata la propugnata identità. Il noviziato
sarà egli occasione di conferma o di dubbio? si trova egli tra i
Farisei come la storia ce lo addita in seno agli Esseni? Se non il
chiedessimo che alla Bibbia, la Bibbia ce ne offrirebbe un esempio, un
tipo parlante nel sacerdozio. Il sacerdozio aveva un noviziato, e se
questo noviziato anzichè tre durava invece cinque anni, non cessava per
questo di essere vero e proprio noviziato. E d’onde questo noviziato
resulta nei libri sacri? Implicitamente dal testo; esplicitamente poi
dalla tradizione. Ella è nel testo una di quelle contradizioni che non
tollerano conciliazione se non mercè il dettato della tradizione. Sono
due testi che sembrano escludersi a vicenda. Per l’uno il sacerdote
ministra nei sacri offici all’età di venticinque anni, per l’altro
solo ai trenta adempie agli offici del sacerdozio. Che cosa sono
questi cinque anni di differenza? Sono, dice la tradizione, il periodo
di noviziato. Ma noi dobbiamo chiederlo altresì ai dottori, dobbiamo
cogliere nei loro usi, nei loro dettati l’essenico noviziato almeno
in germe. Saremo noi tanto felici di rinvenirlo? Io spero che voi
non esigerete una perfetta e circostanziata identità. Comprenderete
benissimo come una frase, un cenno sia d’immenso rilievo quando si
tratta, come in questo caso, di due scuole che non fu mai usato di
confrontare, di cui niuno sospettò o almeno asserì non solo la identità
ma nemmeno la somiglianza. Ora, io oso dire che questo cenno esiste, ed
esiste nel Talmud di Hollin, ove togliendo a ragionare del tempo in cui
il discente può veder dei suoi studj profitto alcuno, altri fondandosi
sul noviziato sacerdotale, questo tempo pongono dopo anni cinque;
altri in più brevi termini restringendolo lo limitano a soli tre; e tre
erano, come udiste, gli anni di noviziato prescritti al nuovo Essena.

Ma questi anni vedeste in due periodi partirsi; ed il secondo che
dicemmo più lungo, nuova prova e solenne preparazione al cibo comune,
al refettorio. Che cosa significa questa speciale importanza alla
tavola conceduta? Solo allora la comprenderete quando lo spirito
della antichità e lo spirito dei rabbini vi sarà familiare; quando li
udirete proclamare la tavola, imagine, ricordo, rappresentanza dello
altare di Dio; quando la mensa santificata dalla legge divina li
udirete parificare alla mensa dello Eterno, e i commensali qualificare
commensali di Dio; quando vedrete queste idee a maggior altezza
poggiare per opera e nel sistema dei cabbalisti successori legittimi,
a parer mio, dell’antico Essenato. I quali parecchi usi e procedimenti
ebbero a mensa che poi vedremo radicarsi negli antichissimi istituti
dell’Essenato, e più solenne appalesare fra essi quella identità
che è perpetuo subbietto del nostro argomentare. Intenderete allora
come supremo onore e grado supremo d’iniziazione fosse tra essi la
commensazione in comune, e come niuna prova per essi si trascurasse
onde riconoscere se degno fosse l’ospite nuovo di questo onore. Il
volevano sapere perchè delle idee partecipavano gli Esseni e dei
costumi dei Farisei; perchè i talmudisti, i farisei primo studio
ponevano, quando trattavasi di banchettare, nel sapere chi avrebbe
a fianco loro seduto a mensa, perchè questa indagine solevano fare
immancabile coloro che i talmud designano col nome di _Nekiè adaat
sce-biruscialaim_ gli animi delicati di Gerusalemme; perchè i farisei
avarissimi erano della loro persona, quando si trattava di porsi a
tavola con chi castigatissimi non avesse i costumi e l’animo culto;
perchè carattere precipuo si predica nel fariseo, il non prodigarsi in
conviti plebei; perchè il farisato irrideva con appellazioni derisorie
a quei degeneri dottori che ponevano cattedra nei Prandj e aringo
prediletto agognavano le laute imbandigioni perchè li chiama in suon di
scherno scaldaforni e leccapignatte.[70]

Nè questi titoli avriano certo convenuto agli austeri membri
dell’Essenato. Ma provatane, come dissi, la continenza, trovato degno
di sedere alla mensa fraterna, nel novero senza più era introdotto
dei fratelli e dei socj. Allora un bel nome lo attendeva ed oh quanto
da quelli testè citato diverso! Lo attendeva il nome, il titolo di
_libero_; e perché? Perché libero solo allora estimavasi l’uomo
che i vincoli più forti avea se non rotti, allentati, che alla
terra lo avvincevano; perchè libero si diceva, come disse Platone,
eziandio quello soltanto che alla legge subordinava il volere; e
forse come altra volta accennai, libero altresì si diceva perchè
gli uffici umilissimi in cui i giovani ministravano un carattere
a torto lor non annettessero di mercenari o di schiavi. Ma quanto
non consuonano coteste idee colle idee dei farisei! La libertà vera
riposta nell’affrancamento dello spirito da ogni maniera mondanità, è
teoria se altra fu mai farisaica per eccellenza; liberi _Benè korim_
udiste chiamati dai Dottori nel Talmud (Sotà) coloro che a fianco
essendo posti dei _Kaberim_, a ragione, come dissi altra volta, ci
rappresentano i giovani Esseni, i neofiti della setta, coloro che
Filone espressamente insegna liberi dagli Esseni appellarsi, liberi
di quella libertà che i dottori dissero discesa, scolpita sulle
tavole della legge; duplice libertà per cui l’uomo e lo spirito si
affranca dal giogo di morte, ed il corpo si sottrae alla signoria
dei Potenti del Mondo _harut mimmalach amavet umiscibud malkijot_.
Libertà che gli Esseni conseguivano e colla perfezione dello spirito
e colla fuga e coll’abbandono del mondo, libertà di cui i dottori
favellarono quando dissero che chiunque si toglie il giogo della
legge di Dio si affranca al tempo stesso di ogni giogo terreno, delle
terrene dominazioni che nulla ponno oggimai su quello che nulla più
chiede alla terra, e tra gli uomini vive come se non vivesse; giogo
sociale che dissero _hol derek erez_, in cui i bisogni e la servitù si
compendia, che la società impone ai membri suoi e dai quali l’Essena
solo poteva dirsi affrancato, e quindi dello Essena soltanto deggiono
aver inteso i dottori quando quello dissero andare immune da ogni peso,
da ogni legame sociale, _ol dereh erez_, il quale sobbarcato si sia
al giogo della legge di Dio, ch’è quanto dire, siccome io intendo,
che abbia, siccome l’Essena faceva, tutto l’esser suo consacrato ad
una vita di ritiro, d’abnegazione, di abbandono. Che il _sottrarsi
ad ogni giogo sociale_ a niun altro può si bene attagliarsi come
all’Essena che fugge il mondo nel silenzio e nella pace del sacro
chiostro. Oh quanto bene ancora non si addice al carattere alla storia
dell’Essenato quella virile indipendenza da ogni umana podestà, _ol
malhut!_ Oh! quanto acconcie non soccorrono all’uopo le parole di
Giuseppe lo storico, quando degli Esseni favellando, non rifinisce
di esaltare la fortezza dell’animo, la imperturbabile resistenza che
seppero ognor contrapporre alle sevizie, alle persecuzioni, ai martirj
di Roma imperante! E queste stesse laudazioni di Giuseppe non sono
elleno la miglior conferma di quella identità d’Esseni e Farisei ch’è
perpetua dimostrazione di queste conferenze? E chi altro se non i
Farisei saranno questi audaci sfidatori della romana tirannia? Chi
se non quelli che gli annali empierono del giudaismo della eroica
loro resistenza, delle lotte incessanti, dei trionfi, dei supplizi
più ammirandi delle stesse vittorie, delle morti cento volte più
invidiabili della vita più prosperosa? Chi se non i Farisei, chi se non
gli stoici di Palestina con cui ama tanto di compararli Giuseppe lo
storico, e con cui tanti e sì profondi ci offrono punti di attinenza
non meno di questo rilevantissimi, voglio dire il durare impavidi di
fronte al fantasma terribile, implacabile, della romana tirannide?
E chi tra i Farisei medesimi meglio in sè riproduce la bellissima
caratteristica; chi più altiero levossi sulla mala signoria; chi
profferiva più terribile sentenza sui vizi del governo imperiale;
chi meglio resisteva al prestigio, al bagliore di quella ipocrita
civiltà, se non quella parte di Farisei con cui, a parer mio, più
specialmente, più intimamente s’identifica il nostro Essenato, ch’è
quanto dire la parte teologica, mistica, ascetica del dottorato
ebraico? Singolare a dirsi! Il Talmud ci ha conservato un frammento
prezioso in cui il carattere e le opinioni politiche si dipingono di
tre tra i più grandi dottori in Israele; in cui tu puoi vedere di
ognuno il vario sentenziare su quell’impero, che teneva allora il mondo
sotto i suoi piedi; in cui ognuno rivela le proprie impressioni tali
quali internamente esperimentavali a quello spettacolo di grandezza,
di forza, di ricchezza, di lusso, di sapere governativo, di polizia
cittadinesca! E chi sono i grandi interlocutori? Sono Rabbi Jeudà
soprannominato lo eloquente o meglio il primo tra i parlatori, _Ros
amedabberim_; è l’altro Rabbi Iosè; ed il terzo è R. Simon Ben Iokai.
Favellavano essi dell’impero romano, delle sue leggi, dei suoi usi,
della sua civiltà. Sorge R. Jeudà ed esclama: Oh quanto sono belle
le opere di questo popolo! Quanto senno nel governare i sudditi!
Quanta cura del loro ben essere! Qui aprono strade che la città in
se stessa e le città le une alle altre e tutto l’impero congiungano
fra le sue parti; qui a valicare fiumi erigono ponti; qui di ogni
maniera comodità arricchiscono il paese, e bagni e teatri e passeggi
aprendo a ristoro, a vaghezza, a diporto degli abitanti. Il cuore di
R. Jeudà era ebreo; chi ne dubita? Ma la mente sua non poteva non
ossequiare quel prodigio di arte, di grandezza che l’impero ostentava
agli occhi dei popoli vinti. Alla generosa apologia tace R. Iosè, ma
Simone favella, anzi Simone rugge, Simone tuona e come terribilmente!
Sì; elevano costoro ponti ma per preporvi commissari all’esazione dei
pedaggi! Sì; aprirono strade, ma per gettarsi come torrenti sul mondo
intiero. Sì; schiusero vie, ma per alloggiarvi i loro agenti, i loro
proconsoli, le loro meretrici. Sì; aprirono bagni, teatri, passeggi, ma
per snervarvi i popoli colle blandizie, e per conchiudere colle parole
del testo, _tutto che fecero, a pro di sè operarono_. Ma Roma era tutta
in orecchi, e in ogni angolo, in ogni città, in ogni ritrovo protendeva
la rete del suo spionaggio.—Insieme ai tre dottori eravi un quarto, e
questo quarto era Ebreo, e questo quarto era il delatore di Roma. Roma
seppe poco stante ogni cosa, seppe la lode, il silenzio, la invettiva,
e Roma di li a breve sentenziò: Giuda che esaltò sia esaltato, _Jeudá
sceillá itallé_; Iosè che tacque, tragga in esilio, _ighlé lezzipori_;
Simone che sparlò, perda la vita. Narrarvi le cose che seguirono, la
fuga di Simone, la caverna, gli studi e probabilmente la coordinazione
delle sue dottrine; non è di questa conferenza l’officio. Ma che animo,
che mente, che cuore, che indipendenza di spirito! E che riscontro
mirabilissimo colla nota caratteristica che Giuseppe attribuisce agli
Esseni! L’indipendenza di Simone lo condusse se non al supplizio
estremo, a vita peggiore che morte per tutt’altri che lui; ma qual
conforto! Nella sua solitudine ei poteva dire a sè stesso: quando i
secoli avranno delle cose presenti abolita ogni traccia, Roma non sarà
più; ed uno dei miei più tardi discepoli narrerà ai fratelli ammirati
le mie prove, i miei dolori, il mio coraggio, la mia gloria. Questo
discepolo non oso dire chi sia, ma questi fratelli siamo noi, siete voi
stessi.[71]



LEZIONE DECIMAQUINTA.


Noi abbiam detto nella passata lezione, come il noviziato degli Esseni
constasse di due parti o periodi che dir vogliamo, e come secondo fosse
quello che preceder soleva l’ammissione al refettorio. Noi abbiamo
così conosciuto la durata, la gradazione del noviziato; ne abbiamo,
a così dire, veduta sinora la parte esteriore. Mestieri è che meglio
in esso ci addentriamo a scuoprirne la verace natura; mestieri che il
valore, la guarentigia morale ne sindachiamo; mestieri che al fatto più
cospicuo assistiamo che la intima essenza costituiva del noviziato.
Qual’è questo fatto, qual’è l’atto più solenne a cui il nuovo Essena
era chiamato a adempiere? Egli era in una parola, un giuramento. Non
so se io vada errato, ma il giuramento per se stesso, la sua formula
avventurosamente conservataci per intero, le parti tutte di cui è
composto, la precisa e minuta descrizione di tutti gli obblighi che
il Neofita si assume, la viva dipintura che vi si asconde della vita
e del genio dell’Essenato, il suo carattere insomma, di sommario, di
catechismo, di compendio di tutte le esseniche istituzioni ne fanno,
se io non erro, un documento unico nel suo genere e di una tale
significanza che vano sarebbe il disconoscere. Potremo noi a tanto
trovato rimanerci indifferenti? Potremo non istudiarne a parte a
parte gli articoli di cui è composto? Potremo noi non rimirare quasi
in vivo speglio la società degli Esseni nell’atto più espressivo e più
compendioso della vita sociale, e come a dire nel suo credo, nel suo
atto di fede, nel suo programma? Ecco perchè ho meco stesso deliberato,
a costo ancora di mandare più che non volessi per le lunghe il nostro
corso, esaminare partitamente il giuramento in discorso; ecco perchè
senza por tempo in mezzo mi accingo a dirittura al lavoro. Ma prima
siamo con noi medesimi conseguenti. Noi vogliamo, non è egli vero,
gli Esseni per nulla diversi, anzi identici assolutamente a quel
farisato in cui si contengono come parte nel tutto? Ora se questa
identità non è menzognera, non solo i Farisei avranno pure essi un
noviziato, e ciò vi fu (cred’io) abbastanza dimostrato, ma avranno
ancora, lo che più monta, l’equivalente della essenica iniziazione;
avranno un atto per cui noverati venivano nel bel numero, per cui al
patto sociale, ai suoi doveri, ai suoi dettati promettevano leale
osservanza. Eravi nulla di questo in seno al farisato? Se vi era! Basta
gettare ancorchè superficiale uno sguardo sulle pagine talmudiche
per convincersene immantinente. Basta aver udito a parlare dei Dibrè
habrut, e della iniziazione a questa consorteria chiamata _cabalat
dibrè habrut_, l’assunzione, l’accettazione dei doveri sociali. È vero
che la memoria che ne serbò il Talmud va quasi sempre improntata di
quel carattere pratico, esecutivo, rituale, ch’è genio specifico di
quasi tutto il Talmud; è vero che non conosciamo siffatta consorteria
che dal lato suo positivo cerimoniale; è vero che la parte organica,
ideale, dottrinale di questo habrut, è rimasta nel Talmud ricoperta
da densissimo velo; ma quante d’altra parte non ci offre col nostro
Essenato parlantissime analogie! Basti accennarvene le più cospicue,
intorno alle quali mi abbisognerebbe dettare un trattato per esaurir
tutta quanta la vastissima materia. Vi basti in primo luogo che le più
ovvie resultanze delle memorie talmudiche altamente ci attestano come
nel mentre che cotesti _haberim_ o soci si radicavano profondamente
in seno ai Farisei, e da essi, vita, dottrine, soci, indirizzo e
tutto accogliessero onninamente, cionnonostante del farisato medesimo
formassero quasi elettissima schiera, ed a certi doveri e pratiche
gissero sottoposti a cui sottoposti non erano il comune dei Farisei.
Testimone quel rilevantissimo passo della Misnà ove a chiare note si
distingue il semplice Fariseo, il semplice Talmid haham, da quello
che ivi stesso si noma _Haber_; e le norme ivi stesso si dettano e
le regole che dovranno all’ammissione presiedere dello stesso Talmid
haham, prova se altra fu mai irrecusabile, a parer mio, come a senso
della Misnà Talmid-Haham e Haber non sono sinonimi; ma il primo di
semplice Fariseo alla più elevata condizione può trapassare di Haber, e
come io intendo di Essena di Terapeuta. Curiosissima indagine sarebbe,
tutte le parti della rabbinica enciclopedia perscrutare ove dei
Haberim è menzione, ove questa società innominata, indeterminata, ha
lasciato di sè traccie sensibili. Vedreste in primo affaticarsi i tardi
comentatori come il Maimonide a giustificare l’appellazione di Haber ai
Farisei conceduta, e ragioni così esigue, sì aeree allegare _che dopo
il pasto hai più fame che pria_. Siccome quella V. G. che il Maimodine
proponeva non per altro, dicendo, chiamarsi i dottori Haberim o soci se
non per che _fida e durevol società è la loro_, quasichè non resultasse
da tutto il Talmud lo speciale e superlativo indirizzo dei _Haberim_;
e quasi infine generale denominazione fosse cotesta dei Farisei, e non
piuttosto ad una parte di essi peculiarissima, siccome ho abbastanza,
se non erro, provato. Vedreste poi la memoria dei Haberim tornar
frequente e rinomata nelle pagine del Talmud, li vedreste nel trattato
Niddà, comechè fosse da lungo tempo il sacrifizio abolito, nelle
antiche lustrali aspersioni perseverare colle ceneri della vacca rossa.
_I Haberim_, dice il Talmud, _tuttora aspergono di acque lustrali
in Galilea_. Vedreste dottori contraddistinguersi con questi nomi e
intitolarsi come dai Haberim _Zeirà demin Habrajà_. Vedreste in altri
luoghi i dottori dirsi in generale Haberim, non perchè tutti lo fossero
attualmente, ma perchè tutti erano capaci di divenirlo. «Haberim
Machscibim elu Talmidim scemachscibim zè lazè baalakà» Vedresti nel
trattato Sciabuot, cap. 4, i dottori l’un l’altro scrivendosi, col
noto nome appellarsi di Haber e con quello diverso sì, ma equivalente,
di Amit. Vedreste due fatti che più davvicino ci accostano alla
consorteria degli Esseni: in primo luogo nel Talmud quelle larve, quei
fantasmi che in sembianza umana era dato di suscitare apertamente
dirsi _fattura dei Haberim_, lo che a dirittura ne mena il pensiero
al carattere ascetico taumaturgico del nostro istituto. Vedreste
poi non più nel Talmud, ma lo che è più, lo che è tutto nella nostra
disquisizione, vedreste nel Zoar, che è quanto dire nell’Emporio del
cabbalismo, un fatto semplicissimo ma d’una immensa rilevanza a parer
mio, ed è questo: che la sola, la comune, la indistinta denominazione
che tutti recano i dottori cabbalisti, quella e non altra si è di
Haberim, o come in dialetto arameo ivi costantemente si legge, Habrajà.

Io non so se mi faccio illusione, ma più che non fôra mestieri parmi
aver argomenti accumulato a provare l’esistenza di un legame, di un
vincolo sociale in seno al farisato. Lo prova il carattere e il nome
tanto significantemente ripetuto di Haber, lo prova di più l’atto di
ammissione di iniziazione, che i libri rabbinici chiamano, come vi
dissi, _cabbalat dibrè Habrut_ e di cui le norme, le forme tutte sono
prescritte nella Misnà e nel Talmud.

Abbiamo perciò esaurito quanto di più concludente ci offrono gli
antichi rabbinici monumenti? Oso dire che rispetto alle cose che
intenderete, poco parrarvi l’udito sin ora. Io vi dissi, e non è
molto, che sino quasi ai nostri tempi non si credeva in generale
che le opere rabbiniche dei primi secoli dell’Era volgare niuna
traccia contenessero di Esseni e di Essenato. Oggi però si comincia a
sospettare il contrario e non poco studio si rivolge a quante vestigia
per avventura ne conservano i libri talmudici. Io credo aver posto la
mano su tale memoria che mentre attesta come vedrete la identità degli
Esseni e dei Haberim, ci fa udire forse per la prima volta sul labbro
ai dottori vivo e parlante il nome di _Essena_, ed in circostanze
e ad uno intendimento siffatto che il valore ne accrescono a mille
doppi. Giudicatene voi stessi. Narra il Talmud gerosolimitano come
un _Assià_ (alla lettera medico o terapeuta) chiedesse ad un dottore
la comunicazione del nome di Dio, come questi lo interrogasse se
mai avvenuto gli fosse di profittare degli averi altrui, come a ciò
replicasse l’Asseo dicendo essere uso cibarsi della decima che si
prelevava sulle derrate, e come infine concludesse il dottore dicendo:
non potersi comunicare il santo nome di Dio a chi riceva d’altri
qualsiasi cosa in dono. Quanti dubbi, quante domande non provoca il
frammento citato! Chi è questo medico o Terapeuta così voglioso di
conoscere addentro _i nomi di Dio_ quasi fossero aforismi ipocratici?
Che è questo inaudito cibarsi della decima in chi non appartiene
alla tribù di Levi? Che cosa significa questa condizione posta alla
desiderata comunicazione—il nulla ricevere in dono? Ma quanto bene,
se si accettano le nostre premesse! Avremmo allora nell’_Assià_ del
Talmud il vero e proprio nome dei nostri Esseni; nella sua domanda, una
domanda che nulla più confacente ad uomini che studiavano le arcane
cose contenute nella legge di Dio, e sopratutto i nomi divini, i nomi
degli angioli che apertamente impromettono di gelosamente custodire nel
loro giuramento d’amissione, e tanto più a costoro conveniente s’egli è
vero ciò che noi reputiamo verissimo, che non altro fossero gli Esseni
che gli antenati dei cabbalisti ai quali mirabilmente si acconciano
siffatte speculazioni. Ma che cosa, direte, è la decima di cui si
cibano? Ovvio lo intenderla purchè vi piaccia con me convenire che non
altro sono gli Esseni, non altro quindi il nostro _Assè_ o Assià del
Talmud, che i Haberim o soci talmudici, gli uomini delle raffinate
purità. Perciocchè di questi si legge nello stesso Talmud di Gerosolima
(Sota cap. 9) che della decima si cibavano al pari dei poveri e dei
leviti.

Non solo: ma il nome di _Haberim_ soci è dato dallo stesso Talmud
(Nedarim VI) a quei Harasc e Masgher (alla lettera falegnami e
fabbriferrai) che si narra nei Re essere stati trasferiti in numero di
mille per ordine del vincitore da Gerusalemme a Babilonia. E finalmente
un visitatore d’infermi, anzi un loro assistente, era detto nel Medrasc
(Berescit Rabbà sez. XIII) appartenente al ceto dei Haberim; senza
dire di altri luoghi moltissimi in cui tal nome ritorna; segnatamente
nel Talmud già citato (Ghittim Iº) ove i _Haberim_ o soci si fanno
interpreti delle dottrine di R. Jeosciuah. Ben Levi, uno dei dottori i
più manifestamente cabbalisti di tutto il Talmud.

Io dissi non ha guari come il carattere di questa iniziazione talmudica
partecipi in grado eminente del carattere generale del Talmud, che mira
unicamente ad un complesso di osservanze più minute, più rigorose,
alla costituzione di una frateria vivente con regole più severe di
purità religiosa; dissi in fine che la iniziazione onde è discorso non
si mostra nei libri talmudici, che dal lato suo rituale e positivo,
per la semplicissima ragione che il lato rituale e positivo è quello
che universalmente primeggia nelle pagine talmudiche. Quindi è, che
solo brevi fugacissimi lampi ci è dato vedere per entro al Talmud
della interiorità, del midollo del lato ideale dottrinale dogmatico,
dell’istituto medesimo e sotto l’opaco velo talvolta adombrato
dell’essoterismo dei riti. Egli è per questo che dovremo credere
null’altro esser i Haberim del Talmud che uomini più gelosi degli
altri del governo del corpo, dei reciproci contatti, del lecito e
dell’illecito? Io credo che la conclusione sarebbe assurda in principio
ed assurda in fatto, e come oggi si dice _a priori ed a posteriori_.
Perchè dico assurda in principio? Perchè egli è contro ogni sana
induzione il supporre un’organizzazione, vuoi sociale, vuoi religiosa,
un complesso di pratiche, una regola di azioni senza alcuni grandi
principî che siano di quell’organismo la vita, l’anima, il pensiero,
il genio supremo; perchè non appena mi vien fatto di udire il verbo
dell’uomo, di assistere all’esercizio ragionevole dei membri suoi,
di udirlo parlare, muoversi, agire, io sono senz’altro e per questo
solo criterio fondatissimamente autorizzato a supporre in lui comechè
invisibile, un principio ragionevole che le azioni ne governi, un
complesso di idee di pensieri che sieno come le molle dell’azione che
mi si spiega dinnanzi, in una parola l’anima di quel corpo. Ho detto
che sarebbe anche un errore di fatto. Perchè s’egli è vero, come ho
già detto, che l’elemento dottrinale del talmudico _Haberut_ sia in
gran parte invisibile, non è sì che altri monumenti, altri attestati,
altre sorgenti non soccorrano all’uopo; non suppliscano a quanto ha di
manchevole la storia talmudica del _haberut_; non completino di esso la
verace fisonomia e quella non restituiscangli che nei libri talmudici
fu unicamente abbozzata. E dove si trova questo? Lo si trova ove deve
naturalmente, ove non potrebbe a meno di trovarsi: nel libro del
_Zoar_: che è quanto dire in quel libro che adempie verso le dottrine,
il dogma, la teologia, l’acroamatismo, quell’ufficio medesimo che il
Talmud verso la pratica, il rito, l’essoterismo.[72] Per modo che il
Zoar e il Talmud ci forniscono per parte loro una metà per ognuno della
fisonomia del _Haberut_, e quella appunto che alla indole speciale
si attiene di ognuno: le quali parti poi insieme combinate non solo
bellamente si connettono, si completano, si integrano, prova se altra
fu mai della loro intima originaria unità, ma ci danno ancora il vero
e fedele ritratto che andiamo cercando. Che voglio dire pertanto?
Voglio dire che il Zoar ci offre la iniziazione al _Habrut_ da quel
lato che manca precisamente nel talmud dal lato dogmatico, voglio
dire che il Zoar contiene per gran ventura pochi, ma preziosissimi
fatti, in cui la iniziazione di cui si parla assume il colore proprio
al genio dell’opera; e più palesi ne rivela le armonie coll’istituto
che studiamo colla società degli Esseni.[73] Io lo credo fermamente.
Percorrendo con occhio diligente le pagini del _Zoar_, parecchie altre
non meno gravi dimostrazioni, non meno appropriati esempj si potrebbe
scuoprire. Ma chi potrebbe a tanta opra non venir meno? Io non pretendo
aver ogni ricerca esaurita; e pure due grandi esempi mi fu dato
trovare, due grandi scene di cabbalistica iniziazione, due ritratti
parlanti dello _Epopsi_ essenico-cabbalistico, l’ultimo specialmente
che per la maestà e stupenda semplicità vince ogni credere. E il
primo al vol. 2º p. decimoquarta, ove tu vedi il maggiore dei Hyà,
Rabbi Hyà Rabbà, tutte subir le prove, le esitanze, le trepidazioni;
e infine il premio dei nuovi iniziati; ove lo vedi soffermarsi alla
porta del capo-scuola e per parlare il linguaggio dei misteri, del
Jerofante; qui naturalmente non altri che R. Simhon ben Johai ove
una cortina il divide dal seggio e dalla scuola venerata, ove ode
la voce delle sacre dottrine e vaghezza il prende di penetrare, ove
l’esitazione s’impadronisce dello stesso ben Iohai non sapendo se degno
sia il nuovo venuto di partecipare ai santi misteri, ove tu vedi il
figlio suo R. Eleazar profferirsi di fare da Epopta, da introduttore
al dotto straniero, dovesse ancora, siccome testualmente si legge,
restarne incenerito; ove una voce si dice allora essersi udita la quale
con parole che tuttavia riescon dure ad intendersi, sembra volere
il soverchio zelo affrenare del giovane dottore; ove lo straniero
rinnuova il pianto e le suppliche; ove aperta infine la cortina, si
rimane nonostante lo straniero esitabondo non osando penetrare; ove
infine levatosi R. Simone, egli stesso introducelo, e vedendo il nuovo
iniziato gli occhi tenere sommessi e il capo chino per timidezza
soverchia, ordina al figlio suo, udite singolarità! di fare a R. Hyà
quell’atto così celebre, così comune a tutte le società che vivono di
segreto, voglio dire, la chiusura e l’aperizione della bocca.

Ma quanto il secondo sovrasta d’incomparabile maestà! Egli appartiene
a uno di quei due antichissimi frammenti la cui autenticità l’ossequio
ebbe eziandio di coloro che più dubitosi procedevano intorno all’opera
in generale; e che sotto il nome sono conosciuti di due Iddarot.[74]
È in quella che il titolo riceve di maggiore, che il venerato maestro
R. Simone intendendo i più sublimi misteri ai discepoli rivelare,
è sovrappreso dapprincipio da cruda perplessità; non sa se parlare
o tacersi; chiede una parola che a dire lo conforti; e questa
parola si fa finalmente sentire. Egli è R. Abbà il futuro scriba e
compilatore del Zoar[75] che supplicante gli dice: Deh! o maestro,
ti piaccia liberamente favellare perciocchè si trova scritto: «I
misteri del Signore sono per coloro che lo temono» e cotesti fratelli
tutti timorosi sono di Dio; e in altri augusti consessi sedettero e
felicemente ne uscirono. Sedette R. Simone e pianse. Quindi sclamò:
Guai se svelo e guai se mi taccio! I soci che si trovavano là si
tacquero. Ma sorse R. Abbà e disse: «Piaccia a te, o maestro, di
svelarci i misteri, perciocchè dice la scrittura: il mistero di Dio è
per chi lo teme. Ora questi nostri compagni tutti temono Iddio e già
furono introdotti nella camera del tabernacolo.» Allora dopo avere
tutti gli assistenti passati in rassegna, tutti in circolo si posero
intorno al maestro. Le mani loro ei raccolse e fra le sue le strinse,
e poi quasi in atto di giuramento tutti levaronle al cielo, il cielo
chiamando a testimone della sete che tutti consumava per la parola di
Dio. Quindi, dice il Zoar, trassero ai campi la prediletta dimora,
e là, dice il testo, all’ombra degli alberi sedettero tutti; e il
venerato maestro dopo avere in piedi orato, sedette pur esso. Ma egli
è qui dove si vede quel riscontro che io dapprincipio avvertiva tra il
giuro degli Esseni e il sacramento dei cabbalisti. Perciocchè, dice il
Zoar, non appena seduti impose loro il maestro che le mani di nuovo
ognuno fra le sue ponesse,[76] _sul suo petto_ come legge un testo,
_sul proprio cuore dei giuranti_ come legge un altro; e dopo aver tutte
in un fascio strette le mani ai discepoli, terribilmente prorompe con
quella spaventosa imprecazione con cui i leviti sulla montagna di
Ebal dovevano la vendetta di Dio invocare sul capo degli Idolatri, e
_maledetto_ con essi ci grida _colui che immagine o scultura facesse
opera di arte e tenesse celata_; volendo con questo premunire i
discepoli contro ogni arbitraria e personale intrusione di umani
opinamenti, di umane innovazioni nel giro del misterioso insegnamento:
prova tra mille come da ogni straniera importazione profondamente
abborrissero i Patriarchi del cabbalismo, e come stranamente vadano
errati coloro che la origine del cabbalismo ripongono nelle anteriori e
contemporanee scuole di filosofia orientale.

Ma la fedeltà non è unico dovere che il maestro imponga ai discepoli:
egli ricorda loro immantinente _come la riserva, il segreto comandato
dalla legge nelle cose del mondo, nelle cordiali espansioni dell’amico
che il cuore ci apre; a mille doppi allora più doveroso che Dio stesso
ci apre, a così dire, la mente sua sacrosanta, ci inizia ai suoi
misteri, ci fa copia dei suoi segreti, i quali voglionsi con quella
gelosia custodire che basti agli sguardi sottrarli dei curiosi, degli
indegni e dei profani_. Quante cose egualmente preziose contenute
in questo mirabile esordio! Quale inesausta miniera di peregrine
indicazioni! Oltre la maestà del quadro, e a tutto dire il pregio
estetico di questo prologo sublime, innanzi a cui impallidiscono
le più vivide gemme della classica antichità; quanti bellissimi
documenti per noi per la società degli Esseni, per la identità da noi
propugnata! Prima di tutto il giuramento; tema della presente lezione,
il giuramento che chiaro spicca e luminoso dal fondo del quadro. E
poi quante conferme, quanta maniera di prove, quante nuove e minute
attenenze! Il grado più eccelso della iniziazione cabbalistica, il nome
di _soci_, di _fratelli_ così parlante, così chiaramente alludente ad
una consorteria, ad un legame sociale. L’amore dei campi e degli alberi
ombrosi, il mistero comandato, l’orrore delle innovazioni così proprio,
come vedremo, agli Esseni medesimi; e finalmente quella attitudine con
cui si dipingono colla mano sul petto. Verrà tempo, quando parleremo
del culto e delle pratiche degli Esseni, che la storia antica,
ignara assolutamente del Zoar e delle sue dipinture, ci parlerà di
una attitudine curiosa inesplicata che soleano prender gli Esseni,
una mano lasciando andare sul fianco, l’altra al cuore premendo,
allora il ravvicinamento fra il Zoar e la vita degli Esseni si farà
spontaneamente, naturalmente nell’animo vostro; si farà senza neppure
che a così fare siate guidati per mano, ed allora crederete anche voi
alla identità delle due scuole.

  «A guisa del ver primo che l’uom crede»



LEZIONE DECIMASESTA.


Noi abbiamo nelle passate conferenze accennato all’Essenico giuramento.
Dobbiamo adesso questo giuramento osservare più da vicino; dobbiamo
brano a brano sottoporlo a disamina; dobbiamo al tempo stesso a
quell’ufficio comparativo adempire che imprendemmo a principio,
rilevarne cioè le idee, gli obblighi in seno al Farisato nei suoi
volumi, nei suoi dottori, onde quella identità emerga sempre più
luminosa che fu nobilissimo compito di queste lezioni.

Principalmente dicono le istorie: giurava il nuovo Essena _Adorare e
onorare Iddio, e giustizia e carità serbare alle sue creature_.

Parvi egli sterile insegnamento cotesto?

Parvi egli che queste idee a prima vista sì ovvie, sì comunali, così
oggi universalmente consentite—non offrano per nulla argomento alla
critica ed alla istoria? Così veramente sarebbe se le glorie nostre,
le nostre dottrine fossero state sempre nostre credute, se niuno
avesse preteso redare l’unico retaggio glorioso che i padri nostri ci
trasmisero, il _maestrato di Religione_; se il primato niuno ci avesse
conteso nella proclamazione delle più sacrosante verità religiose e
morali; se quando lo Evangelo insegnava _Ama Dio sopra ogni cosa e il
prossimo tuo come te stesso_, ognuno applaudendo alla santità della
massima, all’eco fedele della ebraica morale, non si fosse l’ebraismo
fraudato della legittima priorità che gli spetta; se si fosse ognuno
di Mosè ricordato quando _l’amore_ prescrive _di Dio al disopra di
ogni cosa terrena più degli averi, più degli affetti, più della anima
nostra_; quando imprecando alle vendette private prescrive _l’amore
del prossimo come se stesso, fosse pur egli nemico nostro_, siccome
manifesto appare dal contesto; se rammentato avesse Illel, lo stipite
glorioso del Dottorato palestinese; quando al gentile che anelava alla
cognizione della legge—_Ama_, gli rispondeva, _il prossimo tuo come te
stesso. Ecco tutta la legge. Il resto n’è la chiosa_; di Rabbi Hachibà
quando insegnava: _Ama il prossimo tuo come te stesso; ecco della
legge l’assioma supremo «Ze Kelal Gadol battorà»_ di Ben Azzai quando
riponeva cotesto assioma nel dettato mosaico: _Ama il Signore Iddio
tuo come tutto il tuo cuore_, l’altro elemento in tal guisa fornendo
della morale evangelica. Se infine, per tornare agli Esseni, obliato
non si fosse il giuramento che tra essi il novizio prestava ove la
morale evangelica costituisce il prodromo, la base dell’Etica degli
Esseni.—Proseguiamo l’esame intrapreso. Essi giuravano dopo le cose
anzidette _di non nuocere a chicchessia, sia per propria volontà, sia
per dovere di ubbidienza_, e noi vedremo in seguito, quanto fedelmente
osservassero gli Esseni gli obblighi assunti, vedremo quant’oltre
spingessero l’orrore del _nuocere_ altrui sino al punto d’interdirsi
il maneggio e la fabbricazione delle armi da guerra; sino al punto di
non offrire ad altri ne manco indirettamente i mezzi di distruzione; e
nuova e inaspettata armonia allora sorger vedremo tra Esseni e Farisei.
Per ora una idea, una parola sorge degnissima di nota nel paragrafo
ricordato. Voi l’udiste, il dovere dell’ubbidienza. Come intendevano
gli Esseni il dovere dell’ubbidienza? In quella guisa appunto che i
Farisei. L’obbedienza non cieca, non gesuitica, non assoluta, non
la teoria assurda, immorale, che annulla l’arbitrio, la libertà, la
responsabilità umana sotto il giogo macchinale inintelligente di una
autorità collettiva. L’obbedienza sino all’ara, sino al dovere, sino
al santuario della coscienza e come dicevano gli antichi _Usque ad
aram_. Obbedienza ove cose non s’impongano contro la voce di Dio e
della coscienza _En scialiah lidbar aberà_. Obbedienza che al suddito,
alla creatura non conceda quel primato che si deve al Creatore _Dibré
arab vedibré attalmid, dibré mi sciomein_? Obbedienza che ha un
limite insuperabile nella nozione chiara del dovere che favella alla
coscienza; tanto, che ove il sommo magistrato della nazione imponga
l’esecuzione di cosa che osti direttamente ai principj ricevuti, la
rivolta, la disubbidienza, non solo è chiarita giusta e legittima,
ma pur anche doverosa, _Bet din scesciaghegù veorù laakor guf
migufé torà veasa akaal al piem, bet din peturem, vehol ehad veehad
haiabim_. Obbedienza che non solo la conformità per tal guisa ci
manifesta tra Farisei ed Esseni, ma quella non meno tra ambedue e i
Pitagorici; dei quali dopo aver alquanto discorso l’illustre Gioberti
nella _Protologìa_, così seguitava dicendo:—_Ciò basta a mostrare,
che intento del pitagorismo non era di spegnere e snervare il genio
individuale nazionale e le virtù native dei soci, ma di avvalorarle,
che l’individuo non ci era soggetto a una obbedienza cieca, nè immolato
a una falsa unità innaturale, e che insomma la compagnia di Pitagora
non era come quella di Gesù_. Obbedienza infine che svela quanto
erroneamente si vada del continuo identificando spirito farisaico e
spirito gesuitico, quasi due aspetti di un sol tutto, mentre nulla
havvi, a mirar bene, di più ostile, di più repugnante.

Giuravano poi di serbar la fede ai magistrati, ai rettori dello Stato,
conciossiachè senza la volontà di Dio stimavano non fosse stabilita la
loro potestà. Che cosa s’intende per _Maggiori_, per _Magistrati_ e
per _Rettori_? S’intenderà forse pegli Esseni, i principi e dominatori
stranieri che Dio prepose al governo di Palestina; dei principi tra
cui gli Ebrei emigrarono dopo la distruzione del Tempio? Io non saprei
categoricamente rispondere: ma se pure così s’intendeva, ella non è
la prescrizione degli Esseni senza precedenti, senza esempj grandi
autorevoli nella ebraica antichità. Non lo è nei profeti, dove Geremia
il popol suo premunisce contro la disperazione, la irritazione e le
tentazioni vane perigliose dello esilio, siccome quello che voluto e
preordinato era da Dio pietosissimo alle mire ultime e adorabili della
sua provvidenza, dove li esorta di cercare nella salute del popolo, tra
cui emigrarono, la propria salute, nel suo bene il proprio bene, e una
seconda patria riconoscere ovunque li balestrasse fortuna, preludendo
con questo consiglio a quel genio cosmopolitico che i padri nostri
spiegarono nella loro dispersione; genio e fattezze assumendo secondo
lo speciale asilo in cui ripararono senza pregiudicare però all’intima
propria speciale caratteristica di ebreo; e con maraviglioso magistero
in uno accoppiando e il cosmopolitismo più generale e il più stretto
e rigido particolarismo di nazione e di fede. Non lo è in secondo
luogo nei dottori fedeli in tutto e continuatori legittimi dei profeti
loro predecessorj, quando sotto il flagello eziandio della spietata
dominazione romana ammonivano i fratelli a pregarne da Dio la salute,
la conservazione per quella ragione grande, filosofica, umanitaria, che
sotto alla più orribile tirannide vede sempre la fautrice dell’umano
e civile consorzio, l’ultimo vincolo della società perigliante, e che
ogni più barbaro reggimento preferisce alla sociale dissoluzione e alla
vita ferina e eslege delle genti selvagge.—Raro esempio di meravigliosa
abnegazione e di stupenda imparzialità di giudizio che fa tacere i
più legittimi nazionali risentimenti di fronte all’ultimo e supremo
bene della società in pericolo, quando nel Medrasc Coelet in nome di
Dio scongiuravano i fratelli a tollerare pazientemente i decreti,
fossero pure dei più acerbi che loro imponessero i nuovi padroni, che
non ne scuotessero insofferenti il giogo comunque durissimo.—Che se
poi per l’autorità a cui giuravasi dagli Esseni obbedienza, vorremo
piuttosto intendere l’autorità religiosa, i maggiori, gli anziani, i
principi della Scuola, e’ non sarà senza grave autorità fra gli antichi
che a così intendere ci ammonisce. Io vo’ dire di Filone; il quale
parlando del giuramento essenico, lo spiega appunto in quel senso che
non ha guari udiste, che è quanto dire degli anziani, dei dottori,
dei sacerdoti, ed al voto dei più tra i soci, tra i riuniti fratelli.
In questo senso sarà egli mestieri cercarne esempj precedenti,
similitudini nelle dottrine, nei fatti della storia dell’Ebraismo?
Io oso dire che nulla havvi di più naturale, di più proprio, di più
speciale nell’Ebraismo, non solo dell’ossequio, della riverenza dovuta
ai grandi, ai dotti, ai magistrati della nazione; ma quello che più amo
farvi notare perchè men conosciuto, si è l’ossequio, si è la deferenza
all’opinione comechè dalle proprie, dalle comuni differenti. Testimone
R. Josè che, interrogato come avesse da Dio meritato di vivere così
longevo, rispose tra le altre cose di non aver mai preso a vile i
dettami dei suoi colleghi comunque dal parer suo differissero; che
così oltre ei spingeva l’ossequio, al parere altrui, che non ostante
destituito ei fosse di carattere sacerdotale, esercitato nonostante
ne avrebbe i pubblici offici, quando così fosse piaciuto ai colleghi.
Testimone R. Achibà, quando sostenuto da lungo tempo in prigione, e
vedendosi venire allo stremo quel poco d’acqua che giornalmente gli
si forniva, preferì piuttosto impiegarla all’abluzione delle mani
come volevano i colleghi, che valersene ad estinguer la sete che il
divorava, come aveva egli stesso altra volta opinato. Testimone il
discepolo suo, R. Simone, quando uscito dopo 13 anni di reclusione da
una oscura caverna, sgridò colui che in onta all’opinione dei suoi
colleghi andava mietendo alcune spiche cresciute nell’anno sabbatico,
nonostante che si giovasse, come ei si scusava, dell’autorità dello
stesso Simone. Testimone Accabià figlio di Maalalel, che dopo avere in
onta ai colleghi costantemente sostenuto alcuni principj, sendo vicino
a morire chiamò il figlio suo, e l’abbandono gli impose delle tesi
proposte.

Ma gli Esseni non si contentavano di praticare il rispetto ai maggiori,
alle autorità vuoi politiche o religiose; essi ne davano la teoria.
Ei dicevano, e voi l’udiste, che l’autorità era essenzialmente
d’istituzione divina, e come quella che era da Dio preposta al governo
degli uomini tributavangli reverenza. Il credereste! Erano i Farisei
non solo nella pratica agli Esseni conformi, ma lo erano eziandio in
teoria. Ei credevano niuno poter venire assunto al reggimento degli
uomini, se a questo officio non fosse stato anzi tratto destinato dal
cielo; ei credevano che non solo a questa prerogativa partecipassero i
principi e rettori delle nazioni, ma qualunque altra benchè subordinata
autorità, e come essi testualmente si esprimono, eziandio gli esattori
di balzelli, e come allor si diceva, i Pubblicani.—

Noi abbiamo veduto quali principj professassero gli Esseni sulle
autorità costituite: vediamo adesso come ne intendessero e
praticassero l’esercizio. Giurava l’Essena nella sua ammissione,
che ove egli dovesse un giorno comandare ad altrui, si guarderebbe
dall’imperare con fasto, con alterigia. Come intendevano i Farisei
l’esercizio dell’autorità? Ei volevano nel soprastante scopo nobile e
puro, e tutto rivolto a gloria e a servigio di Dio, _vehol aosechim
ghim azibur ijù osechim immaeim lescem sciamaim_. Essi esigevano
una pazienza, una longanimità nei Rettori del popolo a tutta prova;
di subire dei soggetti i capricci, le rivolte, gli scherni e l’odio
ancora; e per tutto in breve compendiare, di sostenere imperterrito
quel fantasma che spaventa i falsi amici del popolo, e che è sfidato
e vinto dai suoi amici veraci, la impopolarità «_Al menat sceischehlù
ethem; al menat sceibzù ethem_,» essi imprecavano a quei maestrati,
a quei superiori che spargono di sè terrore e spavento in cuore ai
soggetti, _veassotem resciaim ascer natenú hittitam beerez haim; zè
parnas amattil emà al azibur_. Essi benedicevano invece alla memoria di
quelli che il gregge di Dio pascolavano con verga di mansuetudine e di
clemenza, _col parnas scemanhig et azibur benahat, zohè umanigam leolam
abbà_. Essi proclamavano, or sono 30 secoli, quando la forza reggeva
a sua posta i popoli soggetti, quando l’unico diritto degl’imperanti
era il diritto del più forte, quando si credeva generalmente il popolo
esser fatto pei principi anziché i principi pei popoli; essi quella
teoria politica proclamavano onde si onora il secolo nostro, che è base
dei governi più civili, e che nel principe considera unicamente il più
eccelso ministro, il più eminente servitore dello Stato, della nazione,
_vehi serarà ani noten lahem? Scihbud ani noten lahem_.

Giuravano poi d’amare sempre la verità, e di svelare i mentitori.—La
verità! Niuna cosa più amarono nè più riverirono in atti e in parole
i Farisei.—La verità impone Mosè proseguire in ogni cosa «_Midebar
scecher tirhak_.» La veracità posero per condizione i dottori onde
conseguire la visione di Dio, da cui dissero separati in eterno i
mentitori. Verità praticarono, e verità rigidissima, nelle civili
transazioni; testimone quel Rab Safraà che avendo in cuore aderito
ad un prezzo propostogli, ricusò quell’aumento che immediatamente
profersegli il compratore standosi contento di quello che aveva per
lo innanzi in cuor suo accettato. Testimone quell’altro, che essendo
uscito a diporto fuori della città, ed essendosi con altro dottore
a caso imbattuto che tolse a ringraziarlo per essergli, siccome
credeva, uscito ad incontrare, ingenuamente confessò non aver egli
avuto siffatto intendimento. Testimone quell’orrore in cui ebbero
ogni ipocrisia e simulazione alla quale sotto il nome imprecarono di
«_Goneb dahat Abiriot_.» Sino al punto d’interdire ogni apparenza che
un simulacro offrisse di Pietà o Religione non sentite; che dico? che
ponesse in luce o divulgasse pratiche eziandio realmente osservate;
testimone tra gli altri lo esempio di quel dottore non troppo dai
nostri tempi remoto, che trovandosi in amica brigata un certo giorno
che trascorreva in digiuno, ed essendosi ad ognuno presentata ospitale
bevanda, amò meglio troncare, che palesare la particolare sua devozione
ai circostanti. Tanto è vero che a niuno meno che ai nostri antichi
dottori si potrebbero quelle accuse attagliare che una Religione
rivale non cessò di scagliare in capo ai Farisei. E quanto non riesce
la loro veracità più ammirabile al confronto! Al confronto dico di
un popolo allora esistente che lo stringeva da ogni parte colle sue
leggi, colle sue istituzioni, coi costumi; che aveva dato al mondo la
sua letteratura, la sua scienza, la sua lingua, e che maestro sedeva
allora di civiltà alle genti. Voi l’avete nomato: ella è la Grecia,
la Grecia il cui carattere del mendacio, dice uno scrittore inglese,
passò perfino in proverbio, che Luciano e Giovenale rimeritarono colla
ironia e col vilipendio; e che in niun luogo così manifestamente si
appalesa come in un passo di Plutarco, ove togliendo a dimostrare la
opportunità di vincolarsi talvolta con certi voti agli Dei, egli novera
tra i voti, possibile tra i laudabili, quello di astenersi per un anno
dal vino e dalla lussuria, e quello infine di interdirsi per un certo
tempo ogni menzogna: prova a parer mio manifesta come l’eloquio dei
Greci ordinario, abituale, non solamente tollerasse, ma quasi non dissi
esigesse, l’ingrediente indispensabile della bugia. Ecco quale era
l’ambiente morale in cui vivevano i Farisei, ecco l’esempio che porgeva
la pagana civiltà, ed ecco quali seppero in mezzo a sì grand’infezione
conservarsi; puri, veridici, odiatori del falso e del simulato, della
maschera d’ogni maniera. Ed ecco nobilissimo pregio ove, a differenza
_dei popoli dominanti_, convengono insieme Esseni e Farisei.

Ma gli Esseni non solo vogliono che si ami, che si pratichi veracità;
esigono ancora, e voi l’udiste, che si svelino i mentitori. E i
mentitori svelati vogliono essi pure i Farisei quando insegnano _mizvà
lefarsem et ahanefim_, quando dicono cioè dovere ognuno strappare la
maschera di faccia agli ipocriti, doverne mostrare i vizi e l’abiezione
denudata, dovere trarre d’inganno coloro che presi sono dal fàscino dal
bagliore di una falsa virtù.

Giuravano gli Esseni di serbare _le mani incontaminate da ogni illecito
lucro_, che è quanto dire da quei raggiri, da quelle trappole che pur
sono tollerate in società, e che non sono giudicabili che dal fòro
interiore. Il nostro Farisato non ha bisogno di chiarirsi innocente
di siffatte bassezze: quindi in fatto di lealtà non può subire
comparazione: egli aspira al primato. È egli per ciò che questo brano
dell’essenico giuramento nulla dice, nulla ammaestra, nulla insegna?
E pure preziosissimo documento vi è racchiuso, nè a voi perspicaci
sarà difficile lo scuoprirlo. Vedrete in quello la prova come quella
_Comunanza di beni_, onde andarono così famosi gli Esseni, non fosse
così universalmente dagli _Esseni_ praticata, che una parte almeno di
essi non si permettessero di possedere; vedrete in esso le traccie
sensibili di una privata _proprietà_ a cui si giurava inviolabilità e
rispetto.—Vedrete infine quella istituzione attenuata che può a prima
giunta parervi ostacolo alla perfetta e intera identificazione tra
Farisei ed Esseni, la _Comunanza di beni_.

Noi siamo giunti quasi alla fine dell’essenico giuramento. Se le cose
che intorno ad esso mancano a dirsi fossero di più lieve momento
che non lo sono, noi avremmo quest’oggi al tutto esaurito l’esame
proposto.—Ma le ultime formule del giuramento dell’iniziato accennano a
fatti, a costumi imponentissimi. L’arcano delle dottrine.—Il silenzio
e il segreto ai profani.—L’insegnamento agli iniziati.—I libri.—I nomi
degli angioli.—Cose tutte il cui nome soltanto accenna la importanza.
Egli è per questo che ad altra volta ne serbo la trattazione, e che
intorno a queste mestieri è, come Dante diceva, un’altra volta ancora
«_sedere a mensa_.»



LEZIONE DECIMASETTIMA.


Il giuramento degli Esseni fu da noi nelle precedenti lezioni
sottoposto ad esame, e trovato in ogni sua parte conforme alle
idee, alle pratiche di que’ Farisei dai quali crediamo avere gli
Esseni tratta l’origine. Pure una parte tuttavia restava a vedersi
dell’essenico giuramento, che è quella per cui l’istituto Essenico
sino adesso veduto quale sociale sodalizio si palesa dal suo lato
scientifico religioso dottrinale; in cui l’insegnamento, il mistero
era carattere precipuo solenne peculiarissimo; per cui spiegasi più
luminosa quell’attenenza da noi certamente propugnata fra la scuola
farisaica e la società degli Esseni. Giuravano gli Esseni di nulla
nascondere ai fratelli dei misteri della setta, di nulla agli altri
rivelare ove n’andasse eziandio della vita, e nei casi di legittimo
insegnamento di non comunicare le dottrine sociali se non nella guisa
in cui fur ricevute, e finalmente di conservare studiosamente i libri
della setta e i nomi degli angioli. Gran parole son queste, vuoi per la
intrinseca loro significazione, vuoi per i preziosissimi ravvicinamenti
che ci offrono col sistema dei Farisei. Permettete che noi riandiamo
gli articoli a parte a parte.

In primo luogo, l’obbligo di insegnamento di comunicazione ai fratelli
delle dottrine sociali. Avvi nulla che meglio consuoni colle teorie dei
Farisei? Io oso dire che non si potrebbe dare analogia più manifesta.
Per essi il maestro, il dottore, chi avaro procede degli ammaestramenti
ai discepoli, _triste messi raccoglierà di maledizioni dalle labbra dei
pargoli, e da quelli eziandio che stanno ascosi nell’alvo materno. «Col
ammoneagh alakà, mippi talmid, affilù obarim»_ ecc. ecc. _ei frauda lo
innocente del retaggio dei padri suoi, della legge, patrimonio comune
di tutto Israel_. Per essi quella solamente si chiama _Legge di Grazia_
(_torat hesed_) _che ama diffondersi, che si spande, che si comunica,_
(_Torà al menat lelamed zò torà scel hesed_) titolo che a sè unicamente
arrogava una religione che da noi trasse l’origine.[77]

Per essi _colui_ all’opposto che _si fa de’ figli altrui istruttore
meriterà di sedere nel consesso e delle speculazioni fruire dei
celesti: «col ammelamed et ben haberò terà zoké veiosceb biscibà scel
maghta» i egli potrà ogni più duro decreto squarciare col merito suo,
«affilù gozer ghezerà mebattelà.»_ Per essi il vanto maggiore onde
possa andare glorioso un Dottore, quello si è di aver molto insegnato,
testimone il maggiore Eliezer, che prossimo a morire levò al cospetto
dei discepoli radunati le due braccia in suono mestamente esclamando:
O braccia mie che quasi due aste del santo volume, poichè la lettura
si è consumata, siete prossime a ripiegarsi![78] Molto a svolgere vi
stancaste i sacri libri per imparare, molto più vi affaticaste nello
insegnare. Deh sia la pace nel mio riposo!

Che se santo è l’obbligo d’insegnare a chi indegno non sia, se dal
lato positivo tanta veggiamo conformità col giuramento e colla pratica
degli Esseni, sarìa egli lo stesso in ciò che il giuramento contiene
di negativo, nel divieto cioè di comunicare le dottrine religiose
agli indegni, agli stranieri. E questo pure a veder bene è comune
ai Dottori; comune quando pronunciavano il divieto di comunicare la
legge, le sue dottrine, i suoi misteri agli idolatri, non già perchè
avari procedessero dei veri posseduti, ma per la ragione semplicissima
che i Gentili volevano e credevano salvi senza le speciali conoscenze
dell’ebraiche dottrine, le quali l’officio e il carattere sostenevano
verso i Gentili di dottrine jeratiche sacerdotali, e di inviolabile
acroamatismo, a cui accostarsi solo era lecito per le vie gelose e
riservate di una regolare iniziazione; comune quando ci narrano di
un discepolo cacciato per indiscreta propagazione di cose udite già
erano vent’anni, come dei Pitagorici si narra che parecchi soci ebbero
espulsi per indiscreta divulgazione dei loro misteri. (Ritter, I,
300) Comune quando _la legge comunicata allo indegno, alla pietra
parificavano, che gli adoratori di Mercurio o del Siro Meeracles
deponevano sui mucchi a loro onore innalzati nei capi strada_. E
quando più specialmente togliendo di mira quelli che espressamente
si dicono _Sitrè Torà_, _Misteri della Legge_, e che sono appunto a
parer mio le dottrine di cui eran pubblici depositari e cultori gli
Esseni, precise e severe regole imponevano alla loro trasmissione,
virtù, qualità richiedendo particolarissime nello iniziato, come a
dilungo può dimostrarsi in _Haghigà_, e di cui non è qui luogo a
discorrere. Che sarà poi se gli specialissimi libri rammenteremo e le
regole dei cabalisti? Certo che l’analogia sarà più parlante, se vera
è quella identità che non ho cessato di propugnare fra le due sette;
certo che troveremo allora nel Zoar frasi siccome quelle che nel
terzo volume si leggono della grand’opera ove il verso dei Proverbi
_chebod eloim aster dabar_ «si onora Iddio serbandone i santi misteri»
ai misteri si applica ed all’insegnamento dei cabalisti, nè troppo
saprei dire veramente a chi altro si potrà meglio riferire che agli
arcani di religione, alle norme eziandio attenendosi della Esegesi più
imparziale. Troveremo nell’istesso volume un verso solo che sembra
suonare contradditorio, autorizzando e vietando al tempo stesso la
propagazione dei misteri d’Iddio, seco stesso pacificato, distinguendo
gl’iniziati, i soci _kabrajà_, gli entrati ed esciti a salvamento,
come si esprime il Zoar per l’ordinario, dagli indegni, dai profani,
dagli inesperti, _leekol lesobà velimhassè attik_. Troveremo a coloro
imprecato che trasmettono (per tradurre testualmente) i misteri delle
leggi, i misteri della tradizione della Genesi, e della ortografia dei
misteri di Dio ad uomini indegni; troveremo infine l’essenico divieto
ripetuto ad ogni tratto e qual tutela e palladio raccomandato per la
conservazione delle riposte dottrine.

Ma il giuramento degli Esseni un’altra clausola conteneva che noi
dobbiamo esaminare. Non solo volevano generosa trasmissione agli
iniziati, non solo volevano ogni cognizione interdetta a chi nol
fosse; ma volevano fedele eziandio ed inalterato lo insegnamento; ma
giuravano eziandio di comunicare le dottrine religiose _nella guisa
stessa_ che erangli state insegnate. Potrebbe darsi riscontro più
evidente coi costumi, colle regole, colla pratica dei Farisei? Havvi
nulla di più provato, di più costante della fedeltà, quasi non dissi
servile, che ponevano i Farisei nella trasmissione delle ricevute
dottrine? Eppure non si comprese come cotesta bellissima sia e
perentoria dimostrazione della veracità della tradizione; e pure gli
uomini che si facevano scrupolo di ripetere perfino gl’idiotismi dei
loro maggiori, si accusarono di inventori e falsari; eppure non si vide
infine quanto Esseni e Farisei procedano per questo verso eziandio per
conformità ammirabili; eppure le infinite prove che ne somministrano
i Farisei furono travolte in oblio; si obbliarono quelle formule che
tornano ad ogni passo nel Talmud; che sono il preludio obbligato di
ogni recitata tradizione; che di maestro in maestro, di trasmissore
in trasmissore risalendo, ascendono sin dove le superstiti memorie lo
permettono; si obliarono quei dottori che per niuna cosa andarono tra
i posteri così famosi come per essersi ogni opinione interdetta che
dal proprio maestro non avessero ricevuta come si narra in _Succà_,
se non erro, per Eliezer il maggiore: _sciellò amar dabar sciellò
sciamagh mippi rabbò micòdem_. Si obliò come tra i peccati che causa
sono _della cessata insidienza di Dio in Israel_ quello si annoveri,
_la propagazione di dottrine non ricevute_; e nulla, a mirar bene, di
più ragionevole; conciossiachè la tutela e la possessione del vero
eterno siano il segno della presenza di Dio infra gli umani; si obliò
lo scongiuro che il restauratore della Teologia, Ben Johai, il Socrate
del cabbalismo, dirigeva ai discepoli, ai _suoi Kabrajà_, instantemente
esortandoli non volessero lasciarsi di bocca uscire una parola di
religione, che saputa ed udita non avessero da uomo autorevole, o
come dice il Zoar, da Albero magno. _Bemattutà minaiku de la tafcum
mipummaihu milà deoraità dilà scemahtun meillanà rabrebà_; e quel
titolo obbrobrioso si obliò che ai propagatori di novità imponevano i
dottori, _adoratori_ chiamandoli di _Simulacri_ veri e propri, e di
quel comando violatori che è secondo nel Decalogo, dove la fattura
s’interdice di imagini e sculture; _dehol man demappich beoraità ma
delà jadagh vela chibbel merabbò alé chetib lo taasé lekà pessel, la
taghbed lak oraità ahrà delà jadagh velà amar lah rabbah_.[79]

Ma gli Esseni, voi lo udiste, volevano esatta e fedele la trasmissione
delle loro dottrine, e quindi a questo fine preordinarono il
giuramento. Perciò imposero la fedeltà della orale trasmissione come
abbiamo veduto, e perciò stesso introdussero quell’altro _inciso che
di conservare imponeva, di custodire con cura, con fedeltà i libri e
scritture dell’Essenato_. Che vi par egli che abbia pensato e praticato
a tal proposito la scuola dei Farisei; che idea vi formate della loro
fedeltà bibliografica? Ah! che se io volessi trattare dell’argomento
in tutta la sua ampiezza bene più oltre ne spingeremmo i confini che
l’ora ed il tema non lo consentano. Ricorderemmo il deposto biblico,
il suggello di autenticità che reca manifesto, ed a cui piacquersi
di porgere ossequio i dottori eziandio della Chiesa cristiana, ed
una schiera infinita di critici di ogni stirpe e religione; i lavori
prodigiosi colossali dei _Massoreti_ che resero ogni alterazione
impossibile col tessere l’elenco minuto circostanziato delle frasi,
delle parole, delle lettere di tutta la Bibbia, e queste ed altre
infinite cose riandando, potremmo offrire della farisaica fedeltà
luminosa testimonianza. Ma noi ci contenteremo di scendere da tanta
altezza, e le più antiche e gravi prove trasandando ci acqueteremo
nelle più modeste. Ricorderemo il divieto soltanto di conservare
eziandio un libro che non fosse corretto, e quindi l’obbligo della
rettificazione, e della soppressione. _Assur leasciot sefer sceeno
mugghè miscium al taschen beaoleha avlá_, e soprattutto ricorderemo
un passo del Talmud di Gerosolima nel trattato di _Chetubot_, che
mentre conferisce da un lato a sempre maggiore dimostrazione dello
scrupolo e delle esattezze bibliografiche dei Farisei, ci offre da un
altro lato tutto il carattere ed il valore di una vera _Rivelazione_.
Io non oserei questo vocabolo adoperare se non avessi sempre letto
in autori gravissimi, qual fatto costante dimostrato, _il silenzio
dei Dottori intorno gli Esseni_; se le ricerche eziandio più moderne
non si fossero arrestate innanzi questo fatto strano incomprensibile,
se infine il luogo da me citato del _Jeruscialmi_ a quei pochi
ma rari e preziosi luoghi non appartenesse, che nella rabbinica
enciclopedia alludono, a parer mio, manifestamente alla società degli
Esseni. Giudicatene voi stessi. Vuole il Talmud accennare quei libri,
quegli esemplari da cui si può impunemente togliere criterio per la
trascrizione dei libri sacri, accennarli insomma quai libri modelli.
_Rab Kannà amar lemedin misefer mugghé._ E quali sono, credereste,
quei libri modelli? Sono quelli, aggiunge il Talmud, _quei libri che
libri s’intitolano da un Esseno o Esseo_ come più precisamente legge
il Talmud. «_Chegon illen deamrin sifroi de Assè._» Strano a dirsi!
Quando i chiosatori tolsero a darci di questa frase l’intelligenza,
che cos’avvenne? Essi ignoravano o in quel punto obliarono che nei
secoli misnici, talmudici, eravi una scuola famosissima che si diceva
degli Esseni, che come gli stessi farisei avevano libri; che come essi
scrupolosamente ne praticavan la custodia, che la gelosa conservazione
eragli imposta per giuramento e tutte queste cose obliando, girono in
cerca di meschine, di assurde interpetrazioni. Si disse: eravi allora
celebratissimo scriba che il nome portava di _assè_, i cui libri si
prendevano per modello delle copie trascritte, e di quest’uomo intese
favellare il Talmud quando disse _Sifroi de Assè_. Ma dov’è questo
_Assè_ nella storia? Dove sono i luoghi in cui di esso si ragioni nel
Talmud? Come il singolare parlante nome reca egli appunto di Assè, e
come infine il solito inseparabile aggiuntivo non si legge di Maestro
o di Rab? Ma quanto meglio nel nostro sistema! quanto più naturale,
storica, espressiva, piena di vita e di verità la frase talmudica ove
degli Esseni s’intenda, ove si ammetta niun più acconcio esempio aver
potuto citare il Talmud di esattezza e religione bibliografica, che
lo esempio pubblico famosissimo della bibliografia degli Esseni! Il
qual esempio vediamo citato in verità nella frase summenzionata, che
mentre conferma la fama di periti e probi bibliografi che vantavano
gli Esseni, e che è l’oggetto specifico di questa lezione, ci offre
al tempo stesso uno dei più pellegrini luoghi che la storia degli
Esseni vanti nelle pagine Rabbiniche, siccome quella che prova contro
l’opinione generalmente accettata, la cognizione degli Esseni presso i
Dottori.

Ma gli Esseni promettevano nel loro giuramento altra cosa non meno
preziosa conservare, e voi lo udiste, _il nome degli angioli_. Chi
è che questo giuramento ci ha trasmesso e quindi anco la frase
presente? Egli è Giuseppe Flavio che grecamente dettava le opere sue,
e grecamente in pari modo narrava dell’essenico giuramento. Come
suona nell’originale la frase di Flavio? Suona ella così chiara, così
formale che nè incertezza nè contradizioni abbia tra gli interpreti
ingenerato? Io vel debbo confessare. Le parole di Giuseppe furono
diversamente comprese dai suoi traduttori. Ove Basnage, ove Munk,
ove altri moltissimi leggono, come udiste, _il nome degli angioli_,
l’antico traduttore francese _Arnauld d’Andilly_, e forse altri che
io non conosco, intesero e tradussero, _il nome di coloro dai quali
furono i libri ricevuti_, che è quanto dire il nome dei loro antichi
autori. A quale delle due diverse lezioni dobbiamo attenerci? Io
non vi obbligherò a sì lungo e duro processo; piuttosto più breve e
spedito cammino preferiremo, e prendendo in esame or l’una or l’altra
lezione, dimostreremo come qualunque versione ci piaccia anteporre,
sempre naturale e luminosa sorgerà tra gli Esseni e i Farisei nuova e
concludentissima attinenza. Piacevi la versione _d’Arnauld d’Andilly_?
Volete che si tratti degli scrittori, degli autori antichissimi della
scuola il cui nome si volle scrupolosamente conservato? Ed allora
potrei io tacere quei luoghi autorevolissimi, ove di questa regola
e costume si costituisce obbligo, dovere impreteribile? Non sono i
Dottori che insegnarono che chi degli antichi autori i nomi ricorderà,
è fattore di Redenzione? Non sono essi che ammaestrarono desiare
ardentissimamente le anime dei trapassati udirsi ricordate in quanto
insegnarono in questo mondo? Non imposero essi ad ognuno immaginare
presente nell’atto d’insegnare l’autore dell’antico dettato. _Leolam
jekaven adam baal scemuà lefanav._ Non posero eglino stessi il precetto
in pratica risalendo per lo usato nella recitata tradizione, di autore
in autore, tutti per nome distinguendo sin dove la superstite memoria
lo permetteva? Io vorrei potere farvi qui apprezzare il doppio oggetto
che, sì facendo, si proponevano i Farisei; l’ossequio che in tal modo
amavano prestare agli antichi maestri, lo spediente che per tal guisa
usavano efficacissimo a serbare inalterate le religiose tradizioni
perpetuando le vetuste trasmissioni, e quasi i titoli e diplomi di
legittimità invariabilmente accompagnando alle loro dottrine. Ma questo
troppo più oltre ci menerebbe che il tempo ed il tema non lo consentano.

Voi lo udiste; udiste come non sia la sola versione che si ammise in
Flavio. Si volle e per moltissimi e forse pei più autorevoli, che
la frase di Flavio suoni diversamente cioè _nome degli angioli_. Io
vorrei che poteste quanto è d’uopo misurare tutta la importanza di
questa frase, che ricordaste come la esistenza, nei tempi di cui
parliamo, di una scuola che professasse il culto di una recondita
teologia, fu subbietto ed è tuttavia di lunghe, ostinate e dottissime
controversie, e come in ultimo questa frase gettata nella bilancia
non può non farla, a creder mio, inclinare dalla parte del vero, del
diritto. Ma queste preziosissime circostanze basti lo avervi accennato.
Noi dobbiamo solo domandare: Saremo noi così felici nel rinvenire di
questo giuramento il riscontro nei Farisei, come non infelici fummo,
se io non erro, nelle cose discorse? Troveremo noi l’obbligo tra i
Farisei di conservare dottrine arcane e certi nomi di Dio venerati?
Io non rifinerei giammai se qui dovessi tutto quello esporvi che ci
porge di analogia il Talmud; e benchè di significato fecondissimo
e di momento stragrande meglio che altri non crede, nonostante non
riguardando da presso l’argomento presente, e potendo con un singolo
esempio tutto ad un tempo provare, ogni altra talmudica citazione
preteriremo.[80] E qual è questo esempio di cui favello? Egli è tratto
da quel libro che nell’officio comparativo che abbiamo intrapreso non
potremmo desiderarsi più concludente. Egli è il Zoar al volume 3º
sul fine, ove oltre moltissime attinenze che è facile notare colla
società degli Esseni, oltre il narrarvi di un libro di un Asseo per
nome _Cattinà_, oltre il citarne le parole che a guisa di commento pare
avesse dettato sull’ultimo canto di Moisè, oltre il riferirvi tutto
quanto in quell’opera si prescriveva sui doveri del medico, oltre il
rivendicarvi la legittimità dell’arte salutare contro i sofismi che in
nome di una religione fatalistica ne proscriveva l’esercizio, oltre lo
accoppiarvi nella stessa persona, mirabile a dirsi! la cura del corpo e
la cura dell’anima, carattere precipuo distintivo della società degli
Esseni, oltre il parlarvi di un medico o Assià celebratissimo che più
si diceva operare guarigioni colla preghiera che non colle arti sue,
qualità se altra fu mai convenientissima agli Esseni, oltre a tutto
questo, ed è già molto e rilevante, si aggiunge: quel libro esser stato
veduto, esaminato prima da un Nomade, da un Solitario. _Tajaha_ il
quale redatolo dall’avo suo, dice tutte le dottrine mediche contenute
fondarsi sui misteri della legge, prescriversi certi mezzi curativi che
non sono precisamente nè umani nè scientifici; e poi lo stesso libro
veduto, esaminato per ben dodici mesi da uno dei più celebri dottori
Zoaristici, da R. Eleazar, che da quella lettura riportò, siccome egli
narra, un senso di venerazione e terrore. Ma ciò che più davvicino
riguarda l’argomento presente, la gelosa conservazione dei nomi degli
angioli è il fatto, di cui depone il Zoar istesso.—Il contenervisi
in quel libro registrato il nome degli angioli, l’aggiungersi da
R. Eleazar, vero e scrupoloso Essena, che quei nomi non parevangli
esattamente ordinati, cose tutte che rispondono pienamente a quello che
vedemmo praticato presso gli Esseni.

Noi abbiamo esaurito il tema del Giuramento, abbiamo parte per parte
esaminato questa specie di programma che ogni Essena dovea soscrivere
e giurare al suo nascere all’Essenato, e lo esame intrapreso tornò,
come dovea, a sempre maggior conferma di quella identità tra il
Farisato Cabbalistico e gli Esseni, che fu costante argomento delle
nostre dimostrazioni. Adesso un nuovo lavoro ci chiama, un nuovo
esame; l’esame delle istituzioni organiche, fondamento del nostro
istituto. _La comunicazione dei beni, il celibato, gli usi e la vita
pratica del chiostro._ Ecco gli argomenti che ci occuperanno nelle
successive lezioni.—Prove maggiori ci attendono, a me di studio, di
indagini serie, a voi di cortesia sempre crescente. A chi valica un mar
tempestoso nulla più vale a ispirargli coraggio che una voce amica, che
un volto, un’espressione che gli auguri dalla riva propizie le aure.



LEZIONE DECIMOTTAVA.


Il sistema che abbiamo seguito nella esposizione della storia degli
Esseni ha almeno il pregio, se io non erro, di essere naturale. Noi
abbiamo quell’ordine esterno seguito che l’Essena seguiva nel passaggio
che dalla vita faceva del mondo alla vita ascetica e contemplativa
del chiostro. Passava dal mondo all’Essenato con un tirocinio di tre
anni, e questo tirocinio studiato abbiamo sotto il nome di noviziato.
Varcato così le soglie dell’istituto, un atto secondo e più intimo
celebrava soscrivendo agli obblighi che lo attendevano nella vita
claustrale, e questi obblighi e questo impegno abbiamo considerato
sotto il nome di _giuramento_. Entrato così nel novero dei soci e tutti
i doveri adempiendo, e che cosa dovrà formarne delle nostre ricerche
subbietto? Certo, i doveri appunto che adempiva, le istituzioni a cui
s’uniformava, le leggi che ne regolavano la vita. Ma in questa stessa
disquisizione un qualch’ordine dobbiamo pure serbare. Dobbiamo da
quelle istituzioni esordire, che prendevano lo iniziato al suo entrare;
dobbiamo poi a quelle volgere la mente che lo iniziato accompagnavano,
e che gli atti tutti informavano della sua vita sociale.

Una istituzione, singolare istituzione, attendeva lo Essena alla
porta. Al suo giungere non solo i vizj, non solo l’errore doveva
deporre, ma una mano invisibile lo spogliava di tutti i beni eziandio,
e questi ora alla comunità appartenevano, all’erario sociale, ora in
favore ai congiunti quasi per morte si rinunciavano: così Giuseppe
nelle _Guerre giudaiche_. Ma lo Essena se di ogni presidio terreno
si spogliava, ci trovava nella società una madre la quale per mezzo
di socj a questi uffici preposti, e che la storia rammenta sotto il
nome di _Economi_, provvedeva incessante agli abiti, al vitto, ai
bisogni dei figli. E questa istituzione si dice _Comunanza di beni_.
Furono in questo senza predecessori gli Esseni? Non ebbero modelli,
esemplari tra il fiore dei Pagani, nelle patrie ricordanze e nei
Dottori contemporanei? Vediamo gli uni e gli altri. I Pagani! Chi
potrebbe dimenticarlo?—Chi potrebbe porre in oblio a questo proposito
i _Pitagorici_? I quali oltre le altre moltissime analogie, in parte
vedute e che in parte vedremo ancora colla società degli Esseni, questo
pure parlantissimo riscontro porgevano col nostro istituto nella
_Comunanza di beni_. Il Ritter, I, 299, crede che la comunità dei beni
sia piuttosto dei moderni Pitagorici che degli antichi; ad ogni modo
non nega l’istituzione. Ed ai Pitagorici somigliavagli pure il nostro
grande correligionario Flavio Giuseppe quando ai suoi lettori pagani
voleva porgere un termine di comparazione coi suoi cari solitarj.—Che
Flavio Giuseppe non a torto, così sentenziando, si apponesse, abbiamo
veduto altre volte e vediamo oggi non meno; ma forse altro meno atteso
resultamento racchiudesi nel citato ravvicinamento, se gli Esseni
sono ragionevolmente posti a fianco dei Pitagorici, se il carattere e
le istituzioni hanno comuni indivisi. Se i Pitagorici, a confessione
di valentissimi autori, hanno comuni le fattezze coi cabbalisti, chi
non vede per nuova via accostarsi, abbracciarsi, confondersi in uno
_Cabbalisti ed Esseni_? Se è vero in matematica che due quantità uguali
a una terza sono uguali fra loro, chi non vede la verità di questo
altro ragionamento? Esseni e Cabbalisti sono eguali a Pitagorici—dunque
Esseni e Cabbalisti sono eguali fra loro—sono sopra un tipo stesso,
un’idea sola improntati?

Il Paganesimo, noi lo abbiamo veduto, ci ha dato i Pitagorici quale
ordine, quale istituzione affine alla società degli Esseni. Che cosa
ci darà l’Ebraismo, la storia dell’Ebraismo? Voi lo sapete; parliamo
qui di una linea sola della fisonomia degli Esseni, della comunanza
dei beni, del voto di povertà. E dove meglio potrìaquesta istituzione
ravvisarsi che trai Leviti ed i Sacerdoti? Sacerdoti e Leviti secondo
le leggi mosaiche nulla possedevano.—Sola fra tutte, la tribù di
Levi fu di ogni retaggio in terra santa destituita, sola fra tutte
vivea del Tempio e dei proventi del Tempio, sola fra tutte avea per
ogni _avere sortito l’Eterno, la sua Dottrina, il suo Culto_. E
questa è visibilissima attinenza tra Esseni e Leviti. Ma non è sola,
voi lo ricordate. Quando parlavamo dell’astinenza dal vino, quando
degli abiti, dei candidi pannilini, quando degli studj e della vita
contemplativa, ei furono sempre i Leviti che tutti questi caratteri
ci offrirono comuni agli Esseni. A questi caratteri un nuovo dobbiamo
aggiungere, e questo è il voto di povertà, la comunanza dei beni. I
Leviti appartengono alla biblica antichità e quindi recano i caratteri
ed il genio essenico nelle epoche più vetuste di nostra esistenza. Sono
soli i Leviti in quel periodo di nostra storia a offrire cogli Esseni
questa nuova similitudine? Sarebbe errore il crederlo, riflettendo ai
Recabiti dei quali parecchie cose udiste per lo passato. Certo spero
non avrete dimenticato come nelle espressioni di Geremia io vi facessi
osservare una frase la quale altro senso non può avere che il voto di
povertà, che la comunanza di beni. Così prima Leviti e Sacerdoti e poi
i Recabiti di Geremia preludono, come in altri infiniti anco in questo
carattere, alla società degli Esseni.

Ma l’Ebraismo, voi lo sapete, ha due ère, due grandi, e come oggi si
dice, organici periodi; Bibbia e Talmud, Profeti e Dottori, ispirazione
e scienza, parola scritta e parola parlata. Abbiamo veduto della
comunanza di beni gli avvisi nell’epoca prima; vediamone adesso i
segni, il passaggio nella seconda. Questi segni e queste vestigia di
due constano principalissimi ordini: idee e fatti, teorie ed esempj,
principj e pratica applicazione. Si trova la povertà insegnata in
principio, si trova poi in fatto applicata, esercitata. La povertà
proclamata in principio, e questo è già molto; ma assai più sarà,
se non sbaglio, quando vedremo a chi riferita, quando vedremo qual
portano nome i suoi professori. Io ebbi parecchie volte occasione di
ripeterlo, l’ho secondo me innalzato al grado di fatto presso che
dimostrato. Il nome con cui pei rabbini si distingue l’Essena è quello
di Kassid, e riandando tutte le prove da me in mezzo recate, troppo più
oltre la bisogna procederebbe che non fa di mestieri. Questo per certo
riteniamo, come l’abbiamo ad esuberanza provato, che il nome Hasid è
sinonimo in bocca dei Dottori a quello che Giuseppe Flavio ci trasmise
di Essena e Terapeuta.

Or che sarà se oltre i contrassegni infallibili onde questi nomi per
noi si confusero, s’identificarono, questo pur esso si aggiungesse
della comunanza dei beni? che sarà se oltre le condizioni tutte che
abbiamo veduto comporre la personalità del _Hasid_, quello pur esso
udissimo annoverarsi della povertà volontaria? E pure oso dirlo, nulla
di più ovvio, dirò anche, di più ripetuto. E la parte più popolare
del testo Misnico, e il trattato più accessibile, più conosciuto, più
recitato di tutta la vasta raccolta, è quello che ricorre eziandio
sulle labbra dei parvoli, che prezioso ne acchiude e perentorio
insegnamento. E pure non si comprese; e pure tanto può di luce ed
evidenza diffondere uno storico ravvicinamento. E pure era tanto
facile comprenderlo quando si fosse agli Esseni pensato, quando si
lesse nel Testo: _Colui che dice il mio è tuo, il tuo è tuo_, egli è
_Hasid_; vi fu nessuno che dubitasse che sì dicendo si alludesse ad
alcun che di storico, di reale, di organico istituto? Quando si lesse
ivi stesso per contrapposto: _Colui che dice il mio è tuo e il tuo
è mio_; vi fu nessuno che pensasse a quei famosi progetti che dopo
Platone e Licurgo correvano per il mondo di repubbliche, di città
socialistiche; chi esaminasse se in questa frase approvato o riprovato
fosse il sistema dai nostri dottori? Certo ch’io mi sappia, nessuno: e
se qui il luogo fosse di trattarne per disteso, quanto non riescirebbe
interessante l’ultimo di tai raffronti eziandio? Platone, Licurgo,
Fourier, Saint-Simon, Blanqui, Owen, giudicati dai dotti Ebrei non
sarebbe tema di piccol momento senza dubbio. Ma di questo si taccia
per lo migliore. Solo ci piace insistere sulla prima parte del testo
Misnico, su quel rinunciamento a cui s’allude dei proprj beni in favore
dei poveri. Strana, insulsa, parassita allusione ove un fatto non vi
fosse stato contemporaneo a cui si riferisse, quando si fosse di una
virtù favellato che nessuno praticava, quando si fosse voluto soltanto
un ideale tratteggiare a cui niuno si fosse accostato, quando a fianco
delle altre tre classi reali, esistenti, positive, si fosse una quarta
accompagnata che condannata fosse stata a rimanere esclusivamente
teorica.

Ma noi dobbiamo mostrarla questa virtù in azione, dobbiamo passare
nel dominio dei fatti, dobbiamo toccare degli uomini, degli atti,
delle circostanze che di questa essenica istituzione ci offrono in
numero infinito ad esempio i dottori, e così avremo le due grandi
parti della storia ebraica poste a contributo. E prima un tratto
caratteristico che si legge in _Cammâ_. Si narra d’un uomo, che le
pietre che la casa ingombravangli, andava rotolando sulla pubblica
via. Chi passa, direste, in quel mentre? Passa, dice il Talmud, un
_Hasid_, ch’è quanto dire tale che il titolo stesso recava che noi
abbiamo altravolta ad esuberanza provato, proprio propriissimo degli
Esseni, e con mal piglio apostrofandolo si narra che così gli dicesse,
o _Raca_, o Sciocco! _per che le pietre sgombri dal dominio nostro per
gettarle nel tuo verace dominio_? Voi lo udiste. Egli il haisid chiama
suo dominio il dominio comune, la via pubblica, la proprietà comunale;
egli chiama invece dominio non suo la casa, la propria dimora, la
privata proprietà, in quella guisa a un dipresso che quel poderoso
intelletto di Proudhon difiniva un _furto_ la proprietà. _La propriété
c’est le vol_, e spiegava il _Lo tignob_ del Dicalogo come se dicesse
piuttosto _non possedere_. Chi avrebbe pari linguaggio tenuto se non
un Essena, ch’è quanto dire appunto un Hasid, uno di quei cotali che
sotto questo medesimo nome di Hasid ci palesarono in mille incentivi la
società degli Esseni? Ma gli esempj non scarseggiano, che anzi ve ne
sono di avanzo. Fra gli antichi un Monobaze principe degli Adiabeni,
che si dice avere i suoi averi ai poveri distribuito, e Monobaze era,
curiosissimo a dirsi! figlio di quella _Elena_ regina degli Adiabeni
che noi, favellando altra volta del Nazirato, trovammo affiliata
all’ordine dei Nazirei,[81] che è quanto dire, quell’ordine che tante
e sì parlanti analogie vedemmo offrire colla società degli Esseni;
alla quale il figlio suo Menobaze avrebbe in quella guisa aderito che
i principi e monarchi aderiscono alle più illustri consorterie del
loro Stato. E qui pure un _Ribbi Isbab_ di cui si dice essersi di ogni
avere spogliato in favore dei poveri; qui Ribbi Iohanan che traendo da
Tiberiade alla vicina _Zippori_ e giunto presso un campo, voltosi al
suo compagno di viaggio, _questo_, disse, _era mio e lo sarebbe tuttora
se non avessi ad esso preferita la vita studiosa, contemplativa_. E
qui un fatto, un gran fatto che solo dalla storia dell’Essenato, delle
sue istituzioni, del suo voto di povertà, può ricevere lume adeguato,
ed aspetto di verosimile, voglio dire la manìa che invase, l’andazzo,
il trasporto generale ai primi albori del cristianesimo, di togliersi
indosso il grave giogo di povertà, ed eleggersi volontaria indigenza;
che dico? il genio stesso, le parole formali dell’autore del nuovo
culto quando diceva: _più agevole il passare di un elefante per la
cruna d’un ago che un ricco varcare le soglie del cielo_. Quando alle
turbe di seguirlo desiose, imponeva dicendo: _Dividete tutto il vostro
ai poverelli e seguitatemi_; quando _gli ultimi_ diceva _dovere essere
i primi nel regno dei Cieli_; ed altre infinite somiglianti sentenze
che tutte, consuonano coi principj dello Essenato allora in fiore.

Potremo dubitarne? Potremo dire che il Cristianesimo, che il suo autore
non abbia volgarizzato le teorie ed i precetti del grande istituto?
Potremo appuntare coloro di errore che colsero tanti strettissimi
legami fra le due sette? Potremo dire che non bene si apponesse un
poeta francese, non ha guari tolto alla patria, quando il fondatore
del Cristianesimo chiamava recisamente _un philosophe Essénien_? Certo
che non potremo, se punto ci cale della verità; ma tutti intenti
nello spettacolo di sì gran filiazione, diremo ai grandi fondatori
del nuovo culto, ai figli un poco degeneri degli Esseni, ai nipoti un
poco ingrati dei Farisei, ciò che Dante disse dei grandi ingegni, _che
vostra arte a Dio quasi è nepote_.



LEZIONE DECIMANONA.


Se la comunanza dei beni fu propria istituzione della società degli
Esseni, come veduto abbiamo nella passata lezione, non meno tralle
altre distinta procedeva, per un altro suo particolare istituto, _il
celibato_. Il celibato fu ed è tuttavia fama avere appartenuto, come ad
altri, così a quello antichissimo istituto eziandio, e gli appartenne
in verità, purché si voglia in questa sentenza procedere colle debite
distinzioni. Che il celibato praticassero una parte, la più ascetica
delli Esseni, nessuno negò, anzi formalmente asserironlo tutti quelli
che degli Esseni presero a trattare da Giuseppe sino ai nostri giorni.
Ma quanto a partito s’ingannerebbe chi volesse a questa regola astretti
tutti quanti gli Esseni! Vi confesso il vero, giovani miei, quando le
prime, le più superficiali nozioni acquistando del grande istituto, mi
venne fatto di leggere questa regola severissima; quando pensai tutti
dover gli Esseni rigorosamente conformarvisi; un dubbio mi assalì,
e dissi fra me: che sarà del mio elaborato sistema, dei raffronti
perpetui dei Farisei, della strettissima parentela, anzi della
perfetta identità tra i due Sodalizj, se il celibato fu invero proprio
costitutivo elemento di quello istituto? In qual guisa gli Esseni
identificare con quei Dottori, che levavano al cielo il matrimonio,
che il gridavano mezzo, condizione di spirituale eccellenza? Ed allora
un certo scoramento mi prese, e dubitai un istante della bontà del
sistema. Ma quanto ingiustamente! La contradizione che si parava
gigante a traversarmi la via, veduta più davvicino, meglio studiata,
meglio analizzata, simile ai giganti che vide l’Eroe della Mancia,
si convertiva in mulini. E per due ragioni e per due diversi lati
deponeva lo scoramento, e quello immenso intervallo che pareva il
celibato frapporre tra le due sette sorelle, era in parte da ognuna
di esse superato e ricolmo. Farisei ed Esseni che il celibato faceva
così discrepanti si porgevano da lungi una mano fraterna, e muovendo
ognuno verso dell’altro fornivano una parte di quella distanza che
dividevali. Si accostavano gli Esseni ai Farisei togliendo al celibato
quel carattere organico, fondamentale che parevagli attribuito, nè
i Farisei meno davvicino agli Esseni si appressavano, parecchi e
grandi e autorevoli esempj porgendosi non solo di celibato fortuito,
involontario, ma di celibato studiatamente voluto, e amato e osservato;
e qual grado eminentissimo reputato di spirituale perfezione. Ma
parlino i fatti più di me eloquenti. Parli Giuseppe che la preziosa
distinzione stabilisce tra Esseni ed Esseni, tra quelli che al celibato
si attenevano, e quelli che, comunque veracissimi Esseni, non pertanto
non solo il celibato non professarono, ma il matrimonio ad esso
preponevano per molti rispetti. _Havvi_, dice Giuseppe, _altra specie
di Esseni che convengono coi primi, nell’uso degli stessi cibi, negli
stessi costumi e nelle stesse leggi, e in nulla ne differivano_, notate
preziosissime parole, _tranne perciò che riguarda il matrimonio, a
cui il rinunciare stimano quanto estinguere dalla faccia del mondo la
specie umana_. E questo è il punto in cui Esseni al centro farisaico
convengono. Ma Esseni, voi direte, vi furono nonostante i quali il
celibato praticarono ed a regola parziale sì, ma pure venerata eressero
del loro istituto. Nè io lo nego, nè il potrei. Lo attesta Giuseppe,
come vi dissi; lo attesta Filone pei suoi _Terapeuti_, e lo attestano
infine i due pagani Plinio e Solino. Ma quanto lo stesso attestato di
questi due ultimi, che pure sembra osteggiarne, non reca un’aspettata
conferma al nostro sistema! Quale è questo sistema? Voi lo sapete;
l’identità suprema tra Esseni e Farisei. Ma chi erano i Farisei e
qual concetto di sè porgevano al mondo pagano? Certo di quelli che la
immensa maggioranza rappresentavano della nazione, il fondo a così dire
della Ebraica società, il popolo vero, il popolo Ebreo. Udite ora le
parole di Plinio. Egli non rifinisce dallo stupirsi, egli celebra quale
inaudita meraviglia che una nazione per secoli e secoli si perpetui,
nella quale, per dirla colle sue parole stesse, _non nasce nessuno_.
Che cosa vi dicono queste parole di Plinio? Certo che un attestato
vi porgono rilevantissimo, come altra volta vi feci osservare, della
rispettabile antichità dello Essenico istituto, e come stranamente
siano andati errati coloro che circa a quel torno gli assegnarono il
nascimento, mentre Plinio favella di secoli e secoli. Ma non vi pare
che le parole citate confermino la propugnata identità? Vi par egli che
Plinio avrebbe così favellato, che avrebbe ad una setta, e scarsissima
di numero, il pomposo nome assegnato di popolo e nazione; vi par egli
che del suo perpetuarsi avrebbe fatto le meraviglie, se gli Esseni come
i Sadducei fossero uno scisma, un membro putrido e divelto, anziché il
fiore e la eletta della nazione? se nel concetto di Plinio e Solino,
Essenato ed Ebraismo farisaico non fosse tutt’uno? Vi par egli che
luogo vi fosse a gridare _mirabilia_ pel durare, comunque lunghissimo,
di uno Istituto ove, s’egli è vero che niuno nasceva corporalmente,
pure moltissimi erano i nascenti per le vie di affiliazione e di
noviziato? Se d’altra parte Essenato ed Ebraismo non fossero stati
nel concetto di Plinio una sola cosa, e se il suo errore da questo
appunto provenuto non fosse, dalla naturale identità tra gli Esseni,
espressione più alta dell’Ebraismo Farisaico, e lo istesso Farisaico
Ebraismo?

Ma nè queste nè altre simili inattese conferme da un obbligo ci
dispensano imperiosissimo; dallo spiegare in qual modo il celibato,
almeno parziale, si concilia colla identità dei due Istituti. E
qui mestieri è di buon grado il concediate. Se ci volessimo di una
semplice analogia accontentare, egli è gran tempo che sarìa stata
da noi indicata; se ci bastasse il dimostrare che i Farisei se non
ebbero il celibato, n’ebbero almanco lo spirito, n’ebbero almeno le
lunghissime astinenze, n’ebbero almeno l’applicazione temporanea ai
grandi stati, ai grandi momenti della vita religiosa; gli esempj altra
volta da noi ricordati sorgerebbero all’uopo opportuni, ed il Farisato
di nuovo ricondurrebbero tra le braccia dell’Essenato; sorgerebbero
gl’Israeliti separati da lunga mano dalle loro donne nell’aspettazione
di Dio rivelato; sorgerebbe Mosè sacratosi secondo i dottori a perpetuo
celibato perchè la voce udì che gl’intimava _Rimanti con me_, e di
cui bello indizio comecchè indiretto ci fornirà il gran fatto, che
dopo i due figli avuti pria della sua vocazione, niuna altra prole di
lui rammemorino le istorie. Sorgerebbe David, il quale al sacerdote
di Nob ripugnante di ammetterlo alla mensa d’Iddio protesta _esso ed
i suoi da parecchi giorni da ogni venere astinenti_. Sorgerebbe, lo
che è più, una schiera di Dottori Talmudici dei quali si narrano le
lunghe separazioni dalle donne loro, sino ai dodici, sino ai venti e
più anni, per vivere della vita studiosa appo qualche famoso dottore
lontano; nè tra questi sarìa da pretermettere Rabbi Achibà che un
carattere particolare ci offre notabilissimo nello appartenere a quei
quattro privilegiati che si dicono ammessi al _Pardès_; ch’è quanto
dire iniziati alle più alte speculazioni di una recondita Teologia.
E questo, ne converrete, sarìa già molto, e molto del còmpito nostro
noi avremmo fornito. Ma se il sistema nostro è vero, se resiste a
tutte le prove, dobbiamo volere di più: dobbiamo chieder una precisa
e formale dispensa dal matrimonio, dobbiamo chiedere una precisa e
formale sanzione del celibato: Non basta; dobbiamo chiedere, perchè
sia congenere e quindi identificabile perfettamente coll’Essenico
celibato, dobbiamo chiederla quale virtù ascetica, trascendentale, qual
mezzo di superlativa perfezione religiosa, quale sacrifizio di ogni
affetto carnale ad un affetto morale sopramondano. Parvi egli che io
proceda meco stesso più che non s’addica indulgente? Parvi egli che
più potrebbe esigere il più severo Aristarco? Parvi egli che se questo
trovato avremo, avremo tutto trovato? Ebbene, noi lo abbiamo trovato;
abbiamo il Talmud, e dopo di esso un lungo ordine di Trattatisti, i
quali tutti, dopo avere tra i precetti di Dio annoverato il matrimonio,
pure stabiliscono una eccezione, e questa eccezione è pegli _Asceti_,
è pegli uomini che pongono ogni loro amore nella _Contemplazione_, per
quelli, dice il Talmud, che lo esempio vogliono seguire di _Ben Azai_.
Che nome è questo, e qual nuovo raggio di luce diffonde sull’argomento?
Chi era Ben Azai? Il credereste! Era anch’esso uno dei quattro che
sopra gli altari si dicono nel Talmud ausati a’ più eccelsi voli della
speculazione teologica; era pur esso uno dei quattro che entrarono
nel _Pardès_, ed esso, oh meraviglia! è Ben Azai, è il modello del
celibato in bocca ai Dottori, ed egli stesso fu celibe, come celibe o
quasi celibe fu Rabbi Achibà, come celibe fu Ben Zomà, se non erro,
tutti componenti il gran consesso del Pardès. È egli a caso cotesto?
È a caso che non solamente si trova il celibato autorizzato praticato
nel Talmud, ma lo che è di gran lunga più importante, si trova appunto,
si trova esclusivo in quel consesso, in quei Dottori che se antenati
ebbero i Cabbalisti negli antichi tempi, sono dessi di certo? È egli a
caso che lo stesso argomento che prova la presenza del celibato trai
Farisei, prova egualmente la particolare affinità degli Esseni con
quella parte di Farisei che furono precursori, progenitori della grande
scuola di Cabbalisti, tanto che si può dire che lo argomento che a noi
saria bastato, sorge di nuova luce rivestito che ne prova la verità e
meglio e più urgentemente conclude di quello che chiedevamo? Io credo
che uno dei migliori criterj di verità, per giudicare di un sistema sia
appunto cotesto, quando cioè affaticandoti a solvere una repugnanza
apparente, non solo il filo trovi che ti trae d’impaccio, ma quasi per
mano ti riconduce a rivedere, a riconoscere, a ricostatare tutte le
altre parti del visitato edifizio provando al tempo istesso il tutto
colla parte e la parte col tutto, e intimamente armonizzando non solo
colla idea in controversia, ma con tutti gli altri caratteri del tuo
sistema.

Abbiamo veduto lo stato economico degli Esseni, la comunanza di beni,
il loro stato, in parte coniugale in parte celibatario. Adesso dobbiamo
più davvicino osservare la vita privata, le costumanze, le abitudini.
E prima di ciò che riguarda il loro esteriore, la loro persona. Quali
erano i loro abiti? Noi abbiamo di questo argomento toccato laddove
della origine discorrevamo del nostro Istituto. Voi lo ricordate.
Questi abiti non erano per tutti uniformi, e forse cercando di questa
diversità la origine, la troverete per avventura in quel doppio ordine
di Esseni che abbiamo veduto comporre il grande istituto _Pratici e
Contemplativi_. Vestivano altri di ruvide pelli, secondo ne ammonisce
Giuseppe nell’_Autobiografia_, altri poi procedevano ammantati di
bianchissimi lini. Noi chiedevamo, voi lo rammentate, all’antichità
ebraica, alla storia, al culto ebraico di questo duplice costume i
precedenti. Vedevamo l’origine del primo nell’uso generalmente adottato
dai profeti, e che n’era siccome pare il principal distintivo. Vedevamo
l’origine, il modello dei _candidi lini_, in parecchi e venerande
istituzioni in Israel; il vedevamo tra i sacerdoti che di bianco lino
vestivano nell’interno del Tempio; il vedevamo tra i Leviti, tra i
Nazirei, presso i quali un verso preziosissimo delle Lamentazioni
ci attestava egual costumanza; il vedevamo nelle rappresentazioni
degli esseri angelici quando i profeti ce li dipingono biancovestiti,
quando in Daniel _l’antico dei giorni_ ci è presentato cuoperto di
veste bianca qual neve; il vedevamo tra i Dottori, specialmente in
uno tra essi celebratissimo R. _Iehudà Bar Ilhai_, del quale si narra
che approssimandosi il sabbato indossava candida veste onde _non
dissimile_, dice il Talmud, _appariva dagli Angeli_. Che sarà pure se
lo epiteto intenderete, col quale questo santo Dottore vien designato?
Certo non negherete che niuno più parlante modello da paragonarsi agli
Esseni. L’epiteto di cui si parla egli è quello col quale, a senso
nostro, si designava dai Dottori lo Istituto degli Esseni, l’epiteto
di _Hassid_. E _Hassid_ è detto nel Talmud questo stesso Ribbi _Ieudà
Ben Ilaì_ di cui vediamo la singolare conformità esteriore col costume
degli Esseni. Fatto di gran rilievo ove specialmente si consideri che a
detta del Talmud, ogni qual volta il nome, l’epiteto ricorre presso gli
antichi, di _Hasid_, egli è di questo stesso Dottore di cui si è voluto
parlare. Ma non è egli il solo di cui si narri il _bianco vestire_. I
Dottori di Babilonia si distinguevano pei _candidi manti_; onde erano
detti, perciò appunto _Malahè asciaret_, secondo avverte il Talmud in
_Chiduscim_ ed in _Nedarim_. Ed oh quanto non torna all’uopo nostro
significante la voce _Hassid_! Voi lo vedeste le mille volte come l’uso
storico speciale che di questo vocabolo fecero gli antichi consuoni
sempre coll’istituto degli Esseni, tanto che, ciò che i Dottori
dissero, narrarono dei _Hassidim_, è vero alla lettera, dei grandi
solitari. Ma non è perfino il nome stesso di Hassid che non acchiuda
in seno una squisita convenienza coll’uso, col costume in discorso. Il
senso suo cotanto vago, cotanto generale, pure talvolta si determina,
si fissa, si circoscrive e l’idea ci offre bene chiara, bene specchiata
di _candore_ e _bianchezza_. Ce l’offre quando è adoperato in senso
di _onta_ siccome quella che in ebraico si dipinge col pallore e la
_bianchezza del volto_; _Malbin_. Ce l’offre poi nel nome _Hassidà_ che
il traduttore Arameo traslata a dirittura la _bianca_; _Havarità_ per
il bianco colore delle sue penne.

Sono queste alcune linee di quel grande sistema d’identità che abbiamo
cercato di dimostrare del continuo in queste Lezioni; ma la precipua
sua forza sta nell’insieme, nell’armonia delle sue parti; in quel
vicendevole connettersi, spiegarsi, completarsi, che fanno tutti i
suoi elementi, ed in cui l’animo non può fare a meno di ammirare o uno
strano capriccio del caso, o un titolo ed un carattere innegabile di
evidenza.



LEZIONE VENTESIMA.


Dopo avere nella passata lezione descritto l’esteriore costume degli
Esseni, le loro vesti ora candide quai sacerdoti, ora aspre e pelose
quai solitari e profeti, diremo adesso degli usi loro, della pratica
della vita privata. Grande era il conto che gli Esseni facevano della
mensa comune, delle comuni imbandigioni. E nel farlo fedeli erano
alle patrie idee, alle patrie tradizioni, e fedeli eziandio a’ più
cospicui, a’ più religiosi istituti della pagana antichità. Delle prime
faccia fede la Bibbia che ove avvenga chi di solenne banchetto faccia
menzione, sempre un gran nome, un nome santo, gli conferisce, quello
di sacrifizio,[82] faccian fede i dottori che a dirittura asseriscono,
la mensa ove presiede la fede tenere degnamente le veci dello altare
di Dio, e le imbandigioni il luogo tenere di sacrifizio espiatorio. Le
quali idee comecchè leggansi nelle più autorevoli opere de’ prischi
dottori, pure e forse per ciò stesso, consuonano a maraviglia colle
teorie cabbalistiche; prova ad un tempo che tralle prime e le seconde
anziché divario, come altri presume, grandi invece ci corrono e
sensibili affinità, e che gli Esseni anche per questo verso esprimono
con mirabile fedeltà il genio non solo della scuola de’ Farisei, ma più
specialmente di quelli che la età moderna distinse sotto il nome di
Cabbalisti.

Dissi però di costumi, eziandio, di idee pagane da queste non dissimili
de’ nostri Esseni. E qui potrei, le greche e le barbariche istorie
invocando, far mostra di facile erudizione. Potrei citare e Persia e
Atene e Sparta e le Repubbliche pressochè tutte di Grecia antica, ove
i pranzi comuni, ora al grado si elevarono di pubblica, di sociale
istituzione, ora, lo che è più, di religioso cerimoniale. Ma su queste
e altre simili ricordanze trapasseremo per brevità. Solo dirò con
Plutarco che la _mensa_ dice _rappresentazione e figura della Terra;
l’una e l’altra di forma sferica concepite_. Ma Plutarco dice di più:
egli aggiunge che perciò stesso, _Vesta_ da taluno _si appellava la
mensa_, e Vesta era simbolo di _fuoco centrale_, dell’altare, della
torre di fortezza, come altra volta vedemmo appellato esso fuoco
centrale; e quindi al nome mirabilmente corrispondente di _Mizbeak_
che reca ne’ nostri libri la mensa, ed ambedue e _mensa_ ed _altare_
come tra i pagani così tra noi indicanti un unico principio. Tra i
primi Vesta, il fuoco centrale, la vita del mondo, e tra noi l’Ente
Metafisico che i Dottori chiamano _Malhut_, e che tutti i caratteri
offre appunto or ora discorsi. Sono questi arbitrari accozzamenti o
armonie spontaneamente prorompenti dal cuor del subbietto? Per ora
ci basti il fatto enunciato, il concetto uniforme che della tavola
formaronsi, e la Bibbia e i migliori tra i pagani, e gli Esseni, e
i più eruditi scrittori del paganesimo quale Plutarco. Nè Plutarco
è il solo. Cicerone prende a posta sua la parola, ed arguto quale
egli esser suole in fatto di etimologia, accenna la superiorità del
latino che _convivio_ chiama il banchetto quasi vivere insieme, sul
greco che lo qualifica _simposio_ quasi bevere insieme. Ma che avrebbe
Cicerone pensato se del nome ebraico avesse avuto contezza? Egli
avrebbe certo trovato lo equivalente di simposio nell’ebraico nome di
_mistè_, e quindi inferiore anch’esso al _convivio_ latino. Ma quanto
più splendida qualificazione avrebbe egli ravvisato nel nobilissimo
_Zebach_? Che se il primo ogni volgare accenna ed anche licenzioso
banchetto, il secondo ai grandi, a’ solenni allude e religiosi convivj.

Nè quelli degli Esseni avrebbero questo nome demeritato. Non lo
avrebbero pel silenzio profondo che durante il pranzo regnava
d’intorno, e di cui celebre esempio ci offrono pur essi i Farisei,
quando esigono in principio non doversi per ragione di igiene
conversare mangiando; del qual divieto solo allora comprenderemo lo
spirito che a memoria ci ridurremo l’attitudine che prendevano a quei
tempi sui letti loro i commensali. Non lo avrebbe poi, aggiunge Filone,
pei dottrinali trattenimenti che, conchiuso il pranzo, si intavolavano
tra i commensali. Ma quanto non suonano preziose le frasi Filoniane,
specialmente ove si badi alle circostanze a cui si accenna. Non solo ei
dice che si proponeva a mensa una questione tratta da’ libri sacri; ma
egli ne addita l’indole peculiare, ei dice quei discorsi _composti di
allegorie sulle sacre scritture_. Nè di questo si accontenta Filone: ma
trapassando al criterio generalissimo con cui dagli Esseni si procedeva
nella interpretazione delle scritture, la _legge_ dice _considerano pur
essi qual’Ente animato i cui precetti sono il corpo; e spirito e mente,
le allegorie_. Abbiamo ben udito? Sono elleno coteste le espressioni
testualissime di Filone? È egli questo il concetto che della scrittura
formavansi Terapeuti ed Esseni? Che se così è, che cosa resta per
identificarli a’ Teologi del Farisato, ai Cabbalisti? Non sono essi che
lo esempio ci offrono continuo luminoso di dotti ragionamenti a tavola
intrapresi? Non ne riboccano ad ogni pagina e Talmud e Medrascim ed
il Zoar sopratutto? Che dico? Non sono eglino soli, soli i Cabbalisti
gli autori, e propugnatori del gran principio esegetico dagli Esseni
bandito, _la duplice natura della legge di Dio spirituale e corporea_?
Non sono eglino appunto che all’animale somigliandola (nel 3º Volume
del Zoar) i precetti dicono appunto come gli Esseni dicevano, _il corpo
della legge_, e le allegorie, non meno com’essi ancora ne dicono, lo
_spirito_?

Ma se la teoria degli uni a quella degli altri perfettamente risponde,
ciò che aggiunge Filone, non pare, se ben si mira, di manco rilievo,
e forse meglio che le grandi affinità varrà a stabilire tra i due
istituti la medesimezza, siccome quello che poggia non già sopra
certe somiglianze che possono essere effetti di cause congeneri, ma
sopra alcune circostanze singole arbitrarie che rivelano una medesima
provenienza. Egli è Filone che parla, Filone che dice come, conchiusa
la sposizione allegorica quando trovata sia laudabile, ognuno applaude.
E questa circostanza ove la troveremo? Nel Zoar se la cercherete, ove
vedrete non una nè dieci, ma cento e mille volte seduti i dottori
Cabbalisti al desco comune, lunghi e dotti tessere ragionamenti, i
quali conchiusi, sono ora i baci fraterni che fanno fede del cuore
appagato, ora certe frasi che tornano immancabilmente dopo ogni
festeggiato discorso, e che suonano, a mo’ d’esempio: _Se la vita ci
fosse stata solo, per questo udire, largita, già ne sarìa di avanzo_.
«_Illù la atena leàlmà ella lemiscmagh dà, dai_.»

Nè i dotti ragionamenti nè gli applausi erano la sola parte che negli
Essenici banchetti si dava alle lettere, si dava allo spirito. Eranvi
altresì i canti, vi erano gli inni. I quali, dice Filone, coronavano
gli Essenici _Agapi_ colle lodi di Dio, e colla memoria de’ suoi
benefici. Questo inno era tal fiata opera personale del Patriarca,
del Presidente; tal’altra era dettato di qualche antico poeta,
perocchè i poeti, dice Filone, hannoci lasciato de’ versi metrici
_spondei esametri_ ed inni che accompagnano le sacre danze. Dove
sono gli inni a mensa cantati nell’antico Farisato? Il Talmud non li
disconosce in verità, per quanto per la indole dell’opera stessa non
troppo, se non isbaglio, ne son numerosi gli esempi.[83] Pure già ne
è dato l’uso travederne sino da remotissimi tempi: che dico? sino
da’ tempi profetici, sino nella Bibbia. La quale volendo dire come
nell’ultimo nazionale esizio cessato sarebbe ogni tripudio, annunzia
come non più a suon di canto, sarìa il vino ne’ conviti libato: d’onde
traevano i dottori argomenti a interdirne l’uso dopo l’esilio. Pure la
interdizione non è tale che l’uso non ti apparisca di quando in quando
nell’istesso Talmud: testimone quel banchetto ove invitato Rab Hasdà a
sciogliere giojoso un canto trista invece intonava e lugubre elegia.
Ma questi, per quanto non ispregevoli esempj, poco sono, se gli Esseni
sono non solo Farisei ma Farisei cabbalisti, se la identità di cui
abbiamo finora discorso non è una favola.

Ebbene il Cabbalismo, i suoi usi, i suoi personaggi ne danno la più
parlante, la più espressiva imagine della Essenica costumanza. Io non
so se sbaglio, ma se il Talmud, se tutta la biblioteca rabbinica de’
primi secoli fa per avventura menzione di un poeta rabbino, di un poeta
fariseo, questi è un solo, chiaro, celebre se volete, ma pure un solo.
E questo unico poeta chi è egli? Egli è uno de’ più eminenti della
teologia cabbalistica, egli è il _cervello_, la _mente_ della _scuola_,
come Ribbi Abbà ne fu lo scriba, ne fu lo scrittore; egli è in una
parola il figlio stesso del grande maestro, egli è Ribbi Eleazar figlio
di Simone che fu, dice il Medrasc, _Carobì vetanoi upoeti_. E ciò che
più monta, egli è che di questo officio, di questo carattere di poeta
non fa fede il Zoar, parte interessata nella questione e monumento
esautorato dagli anticabbalisti, ma fanno fede libri a niuno sospetti,
di indubitata autenticità, di imparzialità manifesta. I quali lo dicono
fregiato delle triplici doti, come vedemmo, di _Poeta, Oratore e
Rapsoda tradizionale_ e il vogliono ancora _perito cantore_ e identico
a Ribbi _Elleazar Hisinà_ per non parlare della tanta controvertita
identità col poeta nostro, conosciuto più tardi sotto il nome di
Callir o di Calliri, intorno al quale tanto dottamente s’affaticarono
i nostri moderni eruditi. E questo è senza meno antichissimo e per
ciò stesso concludentissimo esempio di analogia, Esseno-Farisaica ed
Esseno-Cabbalistica. Ma quanto più prossimi e più comuni gli esempi se
per poco scendiamo in ordine di tempo! Quanto illustre ce n’offrirebbe
l’esempio dico di magnifiche poesie, parte più specialmente
consacrate alla _mensa_, parte alla preghiera, alla liturgia, e tutte
stupendamente improntate di una siffatta elevazione che rende a mille
doppi mirabile il poetico magistero. Fra i primi non si potrebbe
non menzionare il Loria _principe de’ moderni_ Cabbalisti, prodigio
di speculativa fecondità, comecchè nulla abbia scritto ma tutto lo
insegnamento suo abbia trasmesso oralmente. Che dico nulla scritto?
Egli scrisse pure qualche cosa, e queste sono brevi e mistiche poesie
dettate in linguaggio Arameo e destinate alla mensa sabbatica. Gli
altri poi sono egualmente Cabbalisti ma scrittori esimj nella purissima
favella della scrittura. Possiamo dire che se a ragione vi ha chi possa
dire di aver generato la _mistica poesia ebraica_, la più bella che io
conosca, ella è senza meno la Italia nostra. La quale se non avesse in
questo genere dato la vita che a _Moise Zaccut_ di Venezia, avrebbe già
un titolo glorioso alla riconoscenza de’ cultori della santa lingua.
Bisogna leggere le poesie del Zaccut e persuadersene. Bisogna avere
qualche sentore delle Dottrine cabbalistiche, bisogna avere anche il
gusto dell’ebraica poesia, per ammirare il magistero stupendo, con
cui concetti sublimissimi sono vestiti di forma non meno sublime,
ed in cui non sai veramente discernere se più l’idea conferisce
alla venustà della forma, o la squisita magnificenza di questa alla
grandezza e nobiltà del concetto. A me poi la lettura di quelle poesie
cabbalistiche dettate nel più puro idioma della scrittura produce un
effetto singolarissimo. Mi pare che un grande abisso sia ricolmo, mi
pare un grande intervallo superato, mi pare in un istante la distanza
soppressa, che i Profeti divide da’ Dottori, da’ Dottori cabbalisti.
E quando vedo quanto la forma profetica scritturale si attagli al
concetto cabbalistico, quando vedo e l’uno e l’altro immensamente
più belli, più grandi farsi al contatto, e quasi la parola biblica
incarnarsi, immedesimarsi col concetto cabbalistico, allora la unità
primitiva e della _parola_ e _dell’idea_ rivelata, la sintesi che ha
preceduto l’analisi, la separazione sofistica, mi si rivela in una
luce, in una evidenza intuitiva che non si potria la maggiore.

Ora di due altri punti che il sistema, che la forma e l’ordine
concernono della tavola essenica. Questi due punti sono in primo,
l’ora, e poi l’abito che a tavola indossavano. L’ora dicono gli
storici era la sesta. Dopo avere, dicono essi, lavorato sino a 5 ore
si bagnavano nell’acqua diaccia, e bagnati che erano si riunivano per
il pasto. Entravano nell’aula ove cibavansi, con aria solenne, quasi
fosse in un tempio; sedevano nel più profondo silenzio, e prima e dopo
il pasto i sacerdoti pronunziavano una preghiera. Le parole udite sono
pregne di allusioni, di reminiscenze, di analogie farisaiche; analogia
l’ora al cibo assegnata; questa ora era pegli Esseni la 6ª e lo era
egualmente pei Farisei; i quali, prescrivendo e determinando a ciascuno
l’ora di sedere a mensa, assegnano a’ Farisei la 6ª ora del giorno,
quella stessa che udiste sulle labbra di Filone particolare agli
Esseni; analogia la lavanda, l’abluzione che gli Esseni praticavano
nella sua forma più religiosa, _Tebilà_, e che i Farisei non imposero
che nella sua forma più mite l’abluzione delle mani _Tebilat Iadaimi_;
analogia il concetto grande ed augusto che si formavano del refettorio
al quale si accostavano come _ad un tempio_, consuonando in tal guisa
col farisaico dettato che la tavola parificano all’altare, e il
_carattere gli assegnano espiatorio che era proprio all’ara di Dio.
Sciulkan scel Adam mechap per ghalav_. Analogia infine la benedizione
che si dice pronunziata prima e dopo il convito, e di cui abbiamo
continuo quotidiano l’esempio innanzi gli occhi.

L’ultimo de’ punti accennati non merita meno la vostra attenzione.
Se gli Esseni indossavano abiti particolari durante il pasto egli è
perchè nobilissimo siccome udiste si formavano concetto della mensa
comune, alla quale siccome i sacerdoti all’altare, così essi non si
appressavano che con abiti specialissimi; egli è perchè, nè si dee
dissimularlo, tale correva allora comunissimo l’uso tra i più distinti
Romani i quali andavano, dice uno storico, _al pranzo vestiti di un
abito più o meno leggiero secondo le stagioni e che serviva solamente
per la tavola_. E nomi pure recava distinti, pomposi: si diceva _vestis
cœnatoria_, _triclinaria_, _convivalis_ e in una parola _sintesis_.
Presentarsi al festino senza quest’abito sarebbe stata inescusabile
malcreanza. Cicerone fa un delitto a _Vatinio_ di esservi venuto in
abito nero comecchè convito funebre fosse quello. Quando il convitato
avesse mancato d’indossare l’abito comune, il padron di casa glielo
prestava come prestavanlo, al dire di Capitolino, Alessandro e Settimio
Severo ai loro commensali. Ma l’uso in discorso è di gran lunga più
rilevante ove ad un uso si raffronti, bello per mirabile identità
de’ _dottori_ Cabbalisti. I quali appunto come gli Esseni, appunto
come i più grandi tra i Gentili, non si avvicinavano alla mensa che
dopo aver vestito abiti esclusivamente alla mensa sacrati, applicando
all’atto della commestione ciò che i Farisei del Talmud praticavano
in ordine alla preghiera, per la quale lindi e puri serbavano abiti
peculiari. Ma ciò che più mi ha colpito, che meglio ha posto agli occhi
miei in rilievo questo nuovo argomento d’identità fra le due scuole,
si è appunto, vel confesso ingenuamente, ciò che per altri sarebbe
stato per avventura soggetto di dubbio e di esitazioni, voglio dire
quell’apparente mancanza di continuità nella pratica di quest’uso tra
i Farisei, quella lacuna storica che tu ravvisi tra l’antichissimo
Essenato e i moderni Cabbalisti, e per cui dopo aver letto di quest’uso
la pratica in una società da tanto tempo estinta, tu lo ritrovi senza
che ti sia dato discuoprirne le orme, vivo, attuato nella scuola
cabbalistica. Se i Farisei, dissi fra me, da’ quali potuto avrebbero i
cabbalisti quest’uso imparare non lo conobbero; se i Cabbalisti non si
addarono unqua dell’esistenza neppure, e tanto meno delle istituzioni
degli Esseni in quella guisa che niuno di se stesso può vedere il
sembiante; e se non ostante gli antichi usi degli Esseni si riproducono
senza il vincolo farisaico in seno a’ Cabbalisti e si riproducono ne’
dettagli eziandio più minuti della pratica giornaliera, egli è segno
che la vita de’ primi si è ne’ secondi trasfusa, che cambiando nome,
forma e certi caratteri altresì deponendo, si perpetuò l’Essenato, si
rinnovò ne’ Cabbalisti moderni, tra i quali tu ravvisi certi usi i cui
storici precedenti mancano affatto nei predecessori naturali degli
Esseni, nella Bibbia, ne’ profeti, ne’ Farisei, e di cui tu trovi
invece il tipo antichissimo nella società degli Esseni.

Che se questo fatto ed altri di simil tempra non provassero
l’identità, che cosa proverebbero e quale più rimarrebbe spiegazione
escogitabile? Certo che altra sola rimarrebbe possibile, ma tale che
per la sua assurdità niuno vorria menar buona. Bisognerebbe supporre
che in seno ad una stessa nazione, _gli Ebrei_; sotto gli influssi
di una medesima religione, l’Ebraismo, in breve sotto l’azione di un
concorso di cause identicissime, due istituti siensi generati, che
tutto o pressochè tutto vantano comune, _dottrine_, _genio_, _pratica
giornaliera_, _usi_, _costumi_ e nonostante non si tocchino, non si
combacino, non s’identifichino fra di loro, e nonostante sieno due
riproduzioni _fac simili_ di uno stesso tipo, due manifestazioni
successive di uno stesso principio, di uno stesso genere. Io credo
questa ipotesi inammissibile. Io credo che nella stessa guisa che nella
vita di un popolo, di una fede, di una scienza, ogni principio, ogni
germe nasce una sola volta, vive di una sola vita, e morto ed esaurito
mai più comparisce in quella guisa medesima che la Grecia ebbe un sol
Platonismo, una sola _Stoa_, un sol _Peripato_; l’età moderna un sol
_Cartesio_, un sol _Leibnizio_, un sol _Spinoza_, un sol _Kant_, nè
saria stato possibile che due ve ne fosse perchè nulla d’insulso, di
inutile si produce in natura, così io credo che l’Ebraismo non ebbe nè
poteva avere che un sol Essenato, come non ebbe che un sol Farisato,
un solo Sadduceismo, un sol Caraismo; e che questo Essenato cangiò sì
di nome col cangiare de’ secoli, senza cangiare però di natura, e le
fattezze antiche serbando tutt’ora riconoscibili.



LEZIONE VENTESIMAPRIMA


Le istituzioni degli Esseni ci hanno sinora occupati. Celibato,
comunanza di beni, abiti, refettorio furono da noi nel novero posti
delle loro istituzioni; e come tali studiati. Potremo noi obliare il
lavoro l’esseniche occupazioni? Potremo noi il carattere e l’esame
disdirgli di organica istituzione quando le regole dell’istituto come
tale lo consideravano, come tale ai socî lo imponevano? Io credo che
nol possiamo. Troppo era per essi essenziale il lavoro perchè possa
da noi pretermettersi. Il lavoro, dice il _Salvador_, era una delle
tre basi su cui la società si fondava, e queste basi erano _Lavoro_,
_Carità_, _Contemplazione_. Le quali basi attentamente osservando, mi
venne fatto dimandar a me stesso: sarebbe egli possibile che di questa
triplice caratteristica si faccia parola nelle antichissime sentenze
di _Abot_? Sarebbe possibile che un equivoco, sino adesso perpetuato,
ci abbia conteso la vera e genuina intelligenza della parola _Abodà_,
e che non ad altro se non alla essenica organizzazione allude il testo
antichissimo, quando tre dice essere le basi su cui poggia il mondo,
il sociale edifizio, _Carità_, _Lavoro_, _Contemplazione_? Io non
ardirei asserire che così sia veramente, che a questo e non ad altro
abbia alluso la _Misna_ e che la parola _Abodà_ sin ora intesa come il
culto esprimente e il servigio di Dio, stia piuttosto a significare
lavoro, come pure il potrebbe. Tanto io non ardisco, ma ciò che si può
a dirittura affermare, egli è che la congetturata interpretazione può
stare a fronte di altre mille che la critica moderna partorisce ogni
giorno; egli è sopratutto il conto grandissimo in cui il lavoro si
tenne presso gli Esseni.

Ma qual lavoro? certo non il commercio per cui gli antichi professarono
dispregio anziché altro; per cui parve condegno agli Egizj, agli
Indiani, antichissimi popoli, rilegarne i professanti sino alle ultime
classi sociali. Per cui i Greci stessi non ebbero che parole di
biasimo e di sdegno, che lo dissero proprio peculiare officio della
classe servile, e non solo in pratica l’ebbero a vile, ma vile ancora
l’ebbero in teoria i filosofi, i publicisti, come a bastanza apparisce
nel 7º libro della _Politica_ di Aristotile, e come dal nostro stesso
Flavio Giuseppe apertamente risulta, il quale più obbediente ai
paganici pregiudizj che alla storica verità, disse che gli stranieri
soltanto praticarono appo noi il commercio ai tempi di Salomone; troppo
disdicendo a popolo nobilissimo inchinare la mente ai pensieri, agli
officï della mercatura. Queste frasi provano almeno una cosa, provano
il concetto che del commercio prevaleva, ai tempi dello Essenato, il
quale, siccome quello che aspirava a sovrumana perfezione, non poteva
a quegli offici ossequiare che dallo universale e dal volgo medesimo
erano dispetti.

Che se il commercio non era la occupazione prediletta dei rigidi
solitarj, potremo dire lo stesso dell’agricoltura? Egli è certo che
Filone attesta il contrario. Ricorda _Filone_ come gli Esseni si
compiacessero attendere eglino stessi ai rusticani lavori, e le terre
eglino stessi coltivare alla società pertinenti. Nè certo consuonavano,
in questo, i lor costumi con quelli dei più famigerati popoli del mondo
antico. I quali non meno che il commercio ebbero a vile l’agricoltura,
e l’uno e l’altra affidarono a mercenarj, a schiavi. Testimoni gli
Indiani che solo all’infime classi sociali concessero il lavoro dei
campi; testimone l’Egitto, la Grecia, e Sparta segnatamente; e se una
eccezione dovesse farsi fra i popoli antichi, ei sarebbe senza meno
pei Cinesi e pei Romani. Ma dove oblio il popolo nostro? Che agricola
per eccellenza, non alle conquiste, non alle arti, non alle scienze,
poco ai commerci rivolse la mente, ma tutte si ebbe le sue cure la
coltivazione della terra: e le terre feconde e le mèssi e i frutti
abbondanti, si udì per secoli e secoli riprometter qual premio della
sua fedeltà, e per contro suonar terribile, continua minaccia al
peccato, la sterilità e la terra ingrata ai prodigati sudori.

Nè l’agricoltura fu meno in reverenza appo i Dottori. I quali non
solo la consigliarono qual onesta, utile occupazione; non solo eglino
stessi talvolta la praticarono (nella più corrotta epoca dello Impero
romano rinnovando le virtù dei Cincinnati), ma preludendo alle grandi e
famose quistioni, sorte ai nostri giorni tra i più celebri Economisti,
in due campi, in due scuole si divisero; l’una il primato concedendo
all’agricoltura, l’altra a questa anteponendo i commerci e le
industrie; l’una _vaticinando_ il definitivo trionfo dell’agricoltura,
l’altra all’aspetto florido dei campi anteponendo il fervore,
l’attività dei commerci e dell’officine. (V. Talmud Mezihà.)

Ma gli Esseni, e voi l’udiste, l’agricoltura onoravano ed esercitavano
come esercitata ed onorata fu in progresso di tempo da illustri
e famosi sodalizi che sul tipo dell’antico essenico istituto si
modellarono nella Chiesa cristiana, a ritiro, a solitudine, a
contemplazione. E non solo ricorda la storia onorata, e praticata
da essi l’agricoltura, ma ricorda altresì lo studio che gli Esseni
facevan solerte delle virtù e proprietà dei semplici, dei vegetabili
specialmente in quanto potevano offrire di terapeutico, di curativo,
dediti, come veduti li abbiamo, non meno a risanare gli spiriti
che a restaurare nei corpi la perduta salute, siccome la doppia
significazione ce lo avvertiva da bel principio del loro nome di
_Esseni o Essei_, palesemente originato da quel di _Assia_ medico e
terapeuta. Nel quale studio ebbero non so dire se a imitatori o modelli
la setta dei Pitagorici, che non solo della origine si occupò e della
cura dei morbi, ma che lo studio e l’applicazione predilesse dei
semplici e della musica, della prima specialmente, per la epilessia o
morbo sacro, e per i morsi dello scorpione.

E che diremo dei Dottori? Se di questi volessi distintamente favellare,
e se troppo la materia non soverchiasse, questo sarebbe il luogo
di riandare quei molti e preziosi esempj che per entro si colgono
alle pagine del Talmud, ove i semplici, i rimedj tratti dal regno
vegetabile, si veggono studiati, celebrati e costantemente messi in
opera dai più antichi Dottori; sarebbe il luogo di fare nell’ordine
botanico ciò che il dottore _Rabbino Levinson_ fece, non ha guari,
rispetto alla zoologia, e dettare una _Botanica talmudica_ siccome
egli scriveva una _Zoologia talmudica_, che ebbe l’onore di essere
letta e pubblicamente laudata dal principe dei naturalisti moderni, dal
venerabile _Alessandro di Humboldt_.

Ma coteste sono opere meglio che lezioni, meglio che digressioni,
e noi dobbiamo stimarci felici di costeggiare le rive anziché ai
pericoli avventurarci di lunghe navigazioni.—Ci basti che il Talmud,
che i Medrascim ci porgono di questo studio e di queste terapeutiche
applicazioni l’esempio, e sopratutto ci basti che l’uno e l’altra
ci sieno porti dal _Zoar_. Il quale siccome quello che rappresenta
il Cabbalismo e i suoi Dottori, meglio torna all’uopo opportuno per
quella identità dimostrare, che è costante e prediletto argomento
delle nostre lezioni. E che il _Zoar_ ce lo porga, ne son testimoni
quelle frequenti allusioni alla natura, alla proprietà delle piante,
degli alberi in ispecie, e del palmizio segnatamente, del quale si
descrivono le maravigliose proprietà sessuali così esattamente dai
moderni chiarite, e presentite se io non erro, sino dall’antichissimo
_Empedocle_, filosofo greco delle scuole antisocratiche: testimone il
2º vol. a pag. 15, ove si tenta una classificazione dei vegetabili
improntata, non v’ha dubbio, di caratteri mistici, trascendentali,
ma pure senza meno un tentativo di classificazione: testimone il
fatto di cui vi feci non ha guari menzione, in cui di un medico si
favella, di un _Asia_, che un libro possedeva preziosissimo per lo
studio dei semplici, e per la cura dei morbi; e infine, testimone lo
stesso 2º vol. a pag. 20, ove si parla in termini apertissimi della
_distillazione_. Gran che! quando rilessi di recentissimo questa pag.
20, quando intesi a favellare di _distillazione_ non era molto tempo
trascorso dacchè le pagini aveva svolto di un trattato di _Fisica_
elementare, ove con termini più che non era mestieri laconici, si
attribuiva l’origine, l’onore della _distillazione_ agli Arabi,
ai Musulmani. Io dico il vero; quelle parole mi avevano tratto in
errore: aveva creduto che gli Arabi, della distillazione inventori,
fossero gli Arabi del Medio-evo, i conquistatori della Spagna e della
Sicilia, i coetanei di Averroe o di Avicenna. Epperò dissi fra me:
qual occasione, qual festa, qual trovato non sarebb’egli cotesto per
gli anticabbalisti? Come facile il provare la età modernissima del
_Zoar_ che del moderno trovato favella, della _distillazione_? Perciò,
che feci? Usai, perdonate la mia franchezza, usai un’astuzia; ma non
temete; una pia e religiosa astuzia, _pia et religiosa calliditas_,
un’astuzia innocente; scrissi all’illustre amico Professor Luzzatto,
siccome a quello che più splende tra i moderni cospicuo per la guerra
intimata al _Zoar_ e ai Zoariti; e senza favellargli del _Zoar_ e del
suo contenuto gli chiesi semplicemente se nulla poteva dirmi della
origine della distillazione; e se i libri rabbinici più antichi ne
facessero, ch’egli sapesse, menzione alcuna. Mi rispose con quella
sincerità che lo distingue: _della distillazione non ne so nulla_.
Io non aveva nulla guadagnato; e i miei dubbj perseverarono, più che
mai fastidiosi, quando una buona ventura venne a tempo a togliermi
d’imbarazzo. Le indicazioni da me pur lette nel trattato di Fisica
elementare erano incomplete. Non gli _Arabi del Medio-evo_, ma i più
antichi loro predecessori, eran quelli di cui si era voluto favellare,
e questi stessi appreso avevano l’arte del distillare dalle orde
tartariche. Ecco il Zoar tutelato, ed ecco al tempo istesso riprova
degli studj e delle cognizioni comuni tra Esseni e Cabbalisti.

Io dissi non ha guari come larga mèsse di cognizioni, d’idee mediche,
potria dai libri talmudici raccòrsi e dalle opere contemporanee, e
come tanta ne sia la copia, che da ogni particolar citazione mi saria
rimaso. Pure egli è un passo tra mille che sarebbe colpa tacere,
perchè più davvicino riguarda i nostri Esseni: che dico? egli è uno di
quei pochissimi in cui a parer mio i Dottori alludono manifestamente
all’Essenato ed ai suoi costumi. E dove è? È nel trattato _Sciabbat_ a
pag. 133, ove parlando di un farmaco composto di _cera_ e _resina_ e
per non so quale malore indicato, si aggiunge che questa indicazione fu
comunicata da _Rabbà_ ai suoi uditori in un pubblico sermone, ma che
(udite, significantissime parole!) a quella indiscreta propalazione,
la scuola di _Beniamino l’Asseo_ die’ segno di dolore e di sdegno
squarciandosi persino le vesti, ch’è quanto dire, come io intendo, che
uno dei farmaci che formavano parte della _Materia medica_ riservata
gelosa dell’Essenato fu propagato, vuoi a pubblico vantaggio, vuoi
per indiscreta osservanza degli Statuti sociali, da Rabba in Mahoza,
e tanto più mi confermo in questa sentenza, in quanto veggo lo stesso
_Raba_ nella stessa _Mahoza_, esporre al pubblico la misteriosa lettura
del nome di Dio, ed esserne ripreso da un _Sabà_, da un Dottore
anonimo, lo che prova e la indole di _Rabà_, e il suo sistema di
propalare i segreti della scuola, e la presenza nell’uno e nell’altro
caso, di persone, di Dottori che protestano contro la divulgazione
delle dottrine sociali.

Ma di questo basti per ora. Bisogna dire degli altri offici a
cui sacravano le ore i nostri Esseni, come detto abbiamo sinora,
dell’agricoltura, dello studio dei semplici, e della pratica medica.
Gli Esseni non abborrivano dai mestieri. Filone ci ammonisce come
parecchi di loro si dessero ad opere manuali non isdegnando passare
dallo studio al lavoro, e dal lavoro allo studio; ed altra e
parlantissima analogia al tempo istesso offerendo coi più antichi e
venerandi tra i Farisei. I quali ogni arte o mestiere reputavan nobile
purchè onestamente esercitato: nè di tanto è mestieri che io vada
oggi esempj accumulando, sì perchè è il fatto per se stesso notorio,
sì perchè non è molto che fuori di qui ne parlai pubblicamente a
disteso, esempj recando sì numerosi e autorevoli da persuaderne, se
bene estimo, i più dubitosi. Ed altrettanto fecero pur essi gli Esseni
al dir di Filone. Non sì però che certi mestieri severamente non
s’interdicessero, nè a niuno di essi fosse dato rivolgere lo ingegno e
la mano. E quali erano i mestieri interdetti? Ve lo dica Filone colle
parole stesse del testo. «Tu, egli dice, non troverai tra costoro
niuno artista che voglia lavorare intorno una freccia, un dardo, una
spada, un elmo, una corazza, uno scudo nè di alcuna spezie di armi, di
macchina, o strumento che serva alla guerra.»

Che vi dirò? Quando lessi queste] parole in Filone io ringraziai
Iddio, e lo ringraziai di cuore. Lo ringraziai in primo per avermi
posto nella buona via inspirandomi il mio favorito sistema d’identità
_essenico-farisaica_; e poi lo ringraziai di non avere comunicato vana
infondata congettura ai miei uditori. E se di tanto lo ringraziai, ne
ho ben d’onde. Perocchè egli è questo uno dei punti più culminanti ove
_Esseni_ e _Farisei_ s’incontrano, si abbracciano, s’identificano.
Come gli Esseni, aborrivano i Farisei, come un antico _Baraita_ lo
attesta, dal fabbricare, dal vendere, dallo affilare spade o armi
qualsiasi, da vendere o fabbricare ceppi, catene, collari, ad uso
di guerra; e se qualche contestazione si produce egli è a proposito
degli scudi.—Ne vogliono gli uni lecita la vendita, la fabbricazione
perché armi sono puramente difensive. Ne vogliono gli altri interdetto
lo spaccio perchè, notate singolare ricordo, perché, dice il Talmud,
quando nel bollor della pugna ogni arma è spezzata, è caduta, si suol
non di rado battagliare cogli scudi; che dico? non è lo scudo soltanto
che fu subbietto di disparere tra i Farisei, egli è il cavallo, il
cavallo che per alcuno si dice strumento di guerra, per altri come
tale non si qualifica. Vogliono i primi che venderlo non sia lecito,
perciocchè, notate quest’altra storica singolarità, egli avviene non
infrequente, dice il Talmud, che il prode cavaliero ammaestri il focoso
animale a finire con calci e coll’orribile calpestare i nemici caduti
in battaglia, e quindi a buon diritto estimare si debba bello e forte
arnese di guerra, e terribile guerra. Ecco due capi soltanto intorno
a cui si avvolsero discordi le dottrine, le opinioni farisaiche;
lo _scudo_ e il _cavallo_; pel resto per le altre armi o strumenti
qualsiansi, che a strage, a schiantare, a oppressar possano essere
rivolti, una fu la voce, una la sentenza per interdirne la fattura, la
propagazione.

Nè qui si fermava lo scrupolo farisaico: vollero all’israelita
interdetto il vendere ai Pagani _orsi_, _leoni_, _pantere_, _elefanti_,
che facevano allora frequenti comparse negli stadj, nell’anfiteatro
e nel circo, a sollazzo della plebe corrotta e servile; e sotto ai
cui morsi, ai cui artigli cadevano trafitte, sanguinose, migliaja
di vittime; vollero interdetta la cooperazione dell’Ebreo alla
edificazione di quelle basiliche o tribunali ove si rendevano allora
iniqui e ipocriti giudizj; di quei luoghi di supplizio ove tanti
innocenti sostenevano crudeli martirj; di quegli stadj ove l’uomo
contro l’uomo, o la belva contro dell’uomo venivano scatenati a
trastullo di un popolo feroce e corrotto; e infine di quelle cupole
balnearie che ornavano gli edifizi destinati ai pubblici bagni, e che
la _Misnà_ chiama _chippà_; _volta o cupola_ dove pare che la imagine
fosse sculta o dipinta di qualche paganica divinità, spesso di _Venere
afrodisea_, come mi è dato dedurre da una preziosissima Misnà in
_Aboda Zarà_. Ed egli è là che Raban Gamieil vediamo alle prese con
un Proclo detto _filosofo_, che io dissi, se non erro, altra volta
identico per avventura a quel Proclo che fu seguace di Iamblico e di
Plotino nella schiera dei nuovi Platonici.—Questo orrore di ogni arme,
di ogni strumento di omicidio vediamo altresì in due leggi, in due
pratiche, biblica l’una, rabbinica l’altra, prova tra altre mille della
medesimezza del genio, dello spirito che informa ambidue. È la prima
la prescrizione che si legge nell’Esodo per cui a comporre l’altare
di Dio, pietre s’impongono intiere e dal contatto immuni di ferro o
scalpello: è l’altro il consiglio di rimuovere ogni ferro, ogni arma
dalla mensa privata quando conchiuso il pasto ci accingiamo a benedire,
appunto per quell’analogia che abbiamo altra volta notata tra l’altare
e la mensa, nel concetto, nei principj e nelle pratiche eziandio di
Esseni e di Farisei.

Ma questi abbiam veduto non solo abborrire dal nuocere al corpo,
interdicendosi il commercio dell’armi, ma dal nuocere altresì allo
spirito, ai costumi, astenendosi da por mano a basiliche, a _cappelle_,
a tempj pagani. E del come osservassero il presente divieto, illustre
ce n’offre un esempio lo storico _Giuseppe_, anzi Ecateo Abdiretano
dallo stesso Giuseppe rammemorato nella risposta ad Apione, quando
narra di un governatore di Babilonia per nome Alessandro, che volendo
riedificare il tempio di Belo ed obligati avendo i suoi soldati a
cooperarvi colla persona recando i mattoni necessarj allo edifizio,
gli Ebrei furono i soli che a quest’opra si ricusarono; nè minaccie
poterono nè castighi persuaderli; tanto che furono alla perfine
dispensati. Nè meno scrupolosi osservatori ci appariscono infatto
dell’armi, non solo ogni fabbrica o vendita interdicendosi di armi da
guerra, ma anche il portarne indosso considerando qual disdicevole
cosa. E chi lo dice? Egli è lo stesso Giuseppe che ce lo attesta e
con parole non meno formali: «Dal divieto delle armi nasce, egli
dice, che quando vanno attorno da una città in un altra, per i
latrocini solamente si armano, e da questo caso in fuori niun’arme
recano indosso.» Voi lo udiste, Giuseppe è esplicito. Gli Esseni non
recano armi tranne in luogo di imminente pericolo. Ma ciò che non
meno riesce esplicito, egli è la doppia bellissima analogia che ne
offrono i Farisei e i Farisei Cabbalisti. La prima ci è offerta dalla
_Misnà_, la seconda ci è porta dal _Zoar_. È la prima in _Sciabbat_
laddove indagando quali sono gli arnesi d’impune trasporto fuor del
recinto murato, s’interdice la _spada_, _l’asta_, _la alabarda_ e non
sì tosto mostra R. Eliezer di volere assolto chi li trasportasse,
perchè egli dice _tornano spesse fiate ad ornamento_, che i Dottori
ad una voce insorgono, e _non ornamento_, gridano, _ma disdoro sono
coteste, conciossiachè sia scritto. E nei giorni del Re Messia le
spade saranno in vanghe converse, le aste in falci mutate, perchè le
armi più non impugnerà popolo contro popolo, e l’arte disimpareranno
del guerreggiare_. Se _l’Abate di S. Pietro_, se _Cobden_, se _Bright_,
se tutto il congresso della pace fosse stato a quei tempi, e Cobden e
Bright e tutti i promotori della pace universale sariano stati Farisei.

Ma io dissi di un secondo esempio che il Zoar ci porge, e questo è
di gran lunga più interessante perciocchè ci offre ad un tempo e la
regola e l’eccezione; la regola di non impugnare le armi nei tempi e
luoghi quieti, normali, la eccezione nei luoghi e nei tempi torbidi
ed anormali, e l’uno e l’altro si veggono come dissi nel Zoar in un
fatto ivi narrato. In cui _R. Hja_ e _Ribb Josè_ per via procedendo
veggono un uomo venire a loro incontro.—Egli recava indosso un manto
sacro ornato nei quattro angoli delle frange di obbligo.—Però sotto
a quello si travedeva una cintura e dalla cintura pendergli di ogni
maniera micidialissime armi. A quella vista sclama R. Hija: grande
giusto è cotesto, o grande impostore—e qui notate come potesse e
dovesse a senso di R. Hija essere giusto e pio in sommo grado cotesto
che pure in sì strana guisa se ne giva armato di tutto punto.—Ma
l’incognito si appressa, e salutato dai due Dottori, al saluto non
risponde. Discostatisi dallo straniero i Dottori, ripigliano le dotte
e sante consuete conversazioni.—Ciò che non potè il saluto poterono
le parole sante dai Dottori profferite. A quel suono gli si fà lo
straniero dappresso, e salutatili come l’usato: Deh mi dite, lor
chiede, o Maestri, qual giudizio vi formaste della mia scortesia quando
da voi salutato, al saluto non corrisposi?—Forse, dicemmo, pregavi,
forse meditavi, ripresero i Dottori. Allora datosi a conoscere, prese
lo straniero a narrargli le sue avventure; come andando un dì per
cammino e imbattutosi in un masnadiero ne ricevesse molestia, come
non conoscendo chi essi si fossero avere di essi pure sospicato, come
da ciò provenisse il tacer suo, e dallo essere in quello istante
immerso in qualche meditazione. E volendo dar loro prova, chi egli
si fosse, prende a ragionare sur un verso dei Salmi ove si palesa
veramente per ciò che era, per Dottore, e Dottore cabbalista.—Qual
fatto e qual comento! qual comento dico all’uso, alla pratica da
Giuseppe e da Filone narrata pei nostri Esseni, di non gire mai
colle armi sulla persona tranne ove muovendo di luogo in luogo se ne
munissero per propria difesa.—E qual eloquente conferma della identità
essenico-cabbalistica, se ben si mira agli autori del _Zoar_ ignari al
tutto della esistenza degli Esseni se essi medesimi nol sono, e quindi
alla impossibile imitazione! Nè più bella infine potrebbe sorgere
presunzione in favore dell’autenticità di quel libro ove schiette e
genuine si son dipinte le figure, i costumi delle sètte contemporanee,
tali quali il nostro tardissimo confronto li fa sorgere dopo 18 secoli
vivi e parlanti al paragone, e che niuna impostura avrebbe potuto
togliere a contraffare perchè mancava il tipo istesso da imitare
nella mente del falsario, nulla cognizione particolare avendo avuto i
posteriori Dottori dell’antica società degli Esseni, e nulla quindi di
essi avendo potuto prendere ad imitare.—Bacone diceva: Poca filosofia
fa l’uomo incredulo, molta lo fa religioso. Noi diremo a nostra posta:
_Poca critica_ fa credere apocrifo, falsato lo _Zoar_, molta critica lo
chiarisce autentico.



LEZIONE VENTESIMASECONDA.


Colpa sarebbe, e colpa non lieve, se discorrendo degli Esseni e delle
loro occupazioni quella trasandassi che agli studj si riferisce,
specialmente, quando di un Istituto si parli eminentemente studioso
qual fu l’Essenato. Degli studj dunque si parli e tanto più a
proposito in quanto avendo in animo di toccare dei dogmi loro, delle
loro credenze, saranno gli studj, se io non erro, facile e naturale
transizione per cui dai lavori e dalle occupazioni loro trapassiamo
a ragionare delle dottrine e dei dommi; participando gli studj e del
carattere di occupazione e di quello di dottrine e credenze.

E prima del modo. Il quale facile torna lo argomentare quando si pensi
alla vita solitaria ed agreste che menava la parte contemplativa
dell’_Essenato_, nella pace dei campi, all’ombra amica degli alberi
e sulle rive che tanto vedemmo altravolta la società prediligere.
Il qual modo era pur quello che vediamo ai Dottori seguire non rade
volte nel Talmud, quasi sempre nel _Zoar_, che maggiori deve per sua
natura offrirci analogie, e maggiori infatto le offre col nostro
istituto; dove i Dottori, i Maestri affidano i loro misteri alle
tacite rive dei fiumi, all’ombra dei boschi ed al cupo orrore delle
caverne, o alle falde inaccesse di qualche altissimo monte. Sistema
tanto dal nostro diverso cui la vita cittadinesca stringe da ogni
lato colle sue braccia di ferro, e che tanto conferisce non solo alla
elevazione e perfezionamento dello intelletto, ma alla conservazione,
all’incremento della salute corporea. Nè voglio altri a testimone che
il più grande pensatore d’Italia moderna, Vincenzo Gioberti, che nel
2º della Protologia tali dettava concise ma eloquenti parole. _L’uso_,
diceva, _la vivacità, la celerità della mente giovano alla salute,
non le nocciono come si crede. Rousseau disse: L’homme qui réfléchit
est un animal dépravé. Falsissimo. Esempio di Giulio Cesare e in
generale degli antichi. Non lo studiare, ma il modo dello studiare
moderno rovina il corpo. Elementi necessarj allo studio, l’aria e la
luce. L’aria e la luce giovano alle facoltà dell’intelletto ed al
corpo unitamente. Studiare a cielo aperto fra gli arbori, lungo le
acque correnti o almeno in camere ben areate. I nostri dotti sono più
dilicati delle donne_. Fin qui Gioberti.—Voi l’udiste, egli voleva _lo
studio a cielo aperto fra gli arbori_ e tale era appunto lo studio
degli Esseni e dei Cabbalisti. Egli lo vuole _lungo le acque correnti_
e non solo gli Esseni prediligevano le rive, ma i Dottori notarono come
lo spirito profetico riempia, ispiri, i suoi ministri a preferenza
lungo le acque correnti, sicura prova come tutto ciò che valga ad
esaltare le potenze dell’intelletto conferisca eziandio in sommo grado
alla più facile fruizione della profetica intuizione, testimone per
tutte la _musica_ di cui si valsero qual prima promozione alle cose
celesti i profeti d’Israele, di cui gli effetti psicologici sono da
ognuno esperimentati, e per cui non pare sia al tutto menzognero il
dettato dei Pitagorici: _L’anima essere un’armonia_.

Che se questo è il modo dagli Esseni seguito, vediamo l’oggetto, e a
così dire la materia dei loro studj. Bisogna pur confessarlo. Vi è una
disciplina, per cui gli Esseni non professavano nè stima nè amore, e
questa è la _logica_. Ecco come ne parla Giuseppe: _Quanto allo studio
della filosofa_, dice lo storico illustre, _lascian la logica a quelli
che si dilettano di quistioni di parole, e la tengono per inutile
affatto all’acquisto della virtù_.—La logica, pria si può dire dei
nostri tempi, non fu che un’arte, e bella pagine di storica filosofia;
sarebbe quella che notasse le vicende, per cui l’arte logica ascese per
gradi a quel posto eminentissimo che occupa oggi nei sistemi eziandio
più trascendentali formandone poco meno che la volta suprema, e il
sostegno massimo dello edifizio. Lungo il discorrere le ragioni del
mutamento e come la logica dallo essere un semplice interno regolamento
del pensiero, sia divenuta la legislatrice suprema dello scibile e
tutte da essa s’informino le parti della universal metafisica. Ma se
in antico era un’arte, non sempre era arte ragionevole ed onesta.
Testimone Socrate che coll’arguto suo conversare confuse, vinse la
logica dei sofisti, e per parlare di cose meno dall’Essenato remote,
anzi a dirittura contemporanee, testimone la logica delle scuole
accademiche ed in _ispecie dei Pirronisti_ che se ne valsero a
detrimento di ogni sapere e di ogni virtù, togliendo, col dimostrare
il pro e il contro, valore alla umana ragione, ed ogni autorità ed
ogni sanzione alla morale.[84] E questo è già prezioso rilievo per
ciò che riguarda gli Esseni, mostrandoci a dito l’origine di quel
dispetto, in cui ebbero gli Esseni la logica così abusata. Ma egli è
nulla, di fronte alla mirabile conformità che in questo come in altre
infinite occasioni veggiamo sorgere tra gli Esseni e i Farisei. I quali
ultimi non meno che i primi, severamente imprecarono contro la logica
depravatrice del secolo, esortando a tenere discoste dall’attossicata
bevanda le labbra dei giovanetti. _Minhù benehem min Aeghion_.
Singolare a dirsi! questa voce _Eghion_ che unica suona, se non
erro, in tutto il Talmud, fu torta dal suo verace senso a significare
ora lo _studio della Bibbia_ ed ora altra cosa. E pure il suo senso
di logica è innegabile, e se non sempre fu dai posteriori dottori
confessato n’avevan ben d’onde. Erano eglino filosofi di professione
e la logica studiavano ed amavano qual nobilissima scienza. Ma devoti
eran pure al Talmud ed osservatori sopratutto delle sue prescrizioni.
Il Talmud, aveva detto _Eghion_ e se per _Iggajon_ inteso si fosse qual
veramente dovuto avrebbero la logica colle sue pretensioni, coi suoi
abusi, che sarìa stato dei nostri platonici, dei nostri peripatetici,
dei nostri insomma filosofi di ogni ordine, d’ogni colore? Certo che
sarebbero stati in odore tenuti di Eterodossi. Ma se Iggajon volesse
dire altra cosa, se dire volesse lo studio biblico, la grammatica, come
oggi si dice l’Esegesi biblica, allora la Logica sarebbe salva, e i
suoi scrittori potuto avrebbero svolgere in pace i suoi volumi. Ecco
l’origine della fraintesa interdizione, l’origine istessa che fece
intendere nell’istesso Talmud per _hohmà ievanit_ tutt’altro di ciò che
significa veramente, vale a dire, la scienza, la cultura, la civiltà
tutta del popolo greco.

Ma non solo della Logica furono poco studiosi ed amanti gli Esseni,
ma se le mie congetture non son temerarie del tutto, un altro genere
pure di disciplina non raccolse per avventura la stima e l’attenzione
dell’Essenato. Se un passo del Talmud Babilonese non m’induce in
errore, tanto poco studiosi si mostravano gli Esseni della rituaria
quanto poco di attenzione concessero alla Logica istessa. Io vel
dissi, or non è molto, e spero ne avrete conservata memoria. Un
tratto vi è nel Talmud ove ci è sembrato vedere apertissima allusione
agli studj medici dell’Essenato. Egli è là ove a proposito di certi
misteri terapeutici svelati da un dottore, a pubblico benefizio, si
narra che la _scuola di Beniamino l’Asseo squarciossi per dolore le
vesti_: indicazione se altra fu mai parlantissima del genio _terapico
e riservato_ della Società degli Esseni. Or bene, un altro luogo si
ha nel Talmud ove la stessa scuola di Beniamino l’Asseo è ricordata.
Ed a che proposito, se il sapete? A proposito del poco conto che per
taluno si faceva della scienza dei riti e di chi la coltiva. E chi ci
è offerto di tal disistema ad esempio? Ci è offerta la scuola appunto
di _Beniamino l’Asseo la quale_, dice il Talmud, _quando voleva porre
la inferiorità in rilievo dello studio dei Riti: a che giovano,
esclamava, i suoi cultori? Forse hannoci mai permesso un corvo? Forse
ci hanno unqua interdetto una colomba?_ Non so se io erro, ma il passo
in discorso parmi a quel novero appartenere di prove, di memorie, di
documenti, i quali provano come antica perpetua sia stata tra noi
quella _gara legittima, nobile, religiosa tra i cultori del Rito, e
i cultori del Dogma, tra i Teologi e i Ritualisti_, gara di cui si
veggon le traccie nello stesso _Talmud_, ove il _Maasè mercabà_, ossia
la scienza del Dogma è talvolta chiamata _Dabar gadol_ di fronte a
quella dei Riti che il nome reca di _Dabar Caton_; gara che trasparisce
nel _Zoar_ ove i _Marè Misnà_ sono posti a riscontro, in grado però
inferiore ai _Marè Cabbalà_, questi chiamati _Efrohim_, i primi
chiamati _Bezim_ quasi a indicare uno stato spirituale _embrionico_;
ove la scienza dei riti è chiamata il _Corpo_ della legge mentre quella
del dogma si è appellata l’_Anima_, lo _Spirito_; ove la dialettica dei
talmudisti è presentata qual duro e scabro esercizio dell’intelletto
e personificata nei durissimi offici che sostennero gli Israeliti in
Egitto, la forma del _Calvahomer_ nel _homer_ e nei _lebenim_, il
_libbun alaha_ lo sceveramento e ultima formulazione della legge. E
gara per ultimo i cui effetti veggonsi tuttavia perdurare non solo
nei dissensi che sorgono talora tra i dogmatici e i ritualisti, ma
eziandio in quella non dirò antipatia ma certo non piena cordialità nè
stima soverchia che invano si desidera tra i cultori dei due studj, e
il cui difetto non è l’ultimo tra le cause che ostano alla perfetta
riabilitazione degli studj dogmatico-cabbalistici.

Ma queste sono le parti a cui meno gli Esseni sacravano il loro tempio
e il loro studio: egli è d’uopo vedere quali quelli si fossero, e
quale il metodo a cui a preferenza si applicavano. Possiamo dirlo
arditamente; le preferenze non meno che la educazione, gli studj
adottati non meno che i rejetti provano sempre più la identità tra
Farisei ed Esseni da noi propugnata.

Precipua e diletta occupazione era pegli Esseni la interpretazione
delle Sacre Scritture, la _Sacra Esegesi_, come oggi direbbesi. Ma
quale Esegesi? Egli è quì ove la parentela più chiaramente si mostra
tra Farisei ed Esseni. L’Esegesi, la interpretazione allegorica, ch’è
quanto dire quella istessa che formava e forma le delizie del più
puro Farisato e in ispecial modo di coloro tra essi che si dicono
_Cabbalisti_. E non solo gli Esseni nella pratica, ai dottori nostri si
conformavano, ma ciò che merita tutta l’attenzione dei dotti, quello
che suona veramente significante egli è il rapporto che gli Esseni,
al dire di Filone, stabilivano tra la lettera della legge ed il suo
spirito, o per dir meglio tra la chiosa letterale e la interpretazione
allegorica. Essi, dice Filone, comparano la legge ad un animale i cui
precetti sono il _corpo_, e l’allegoria lo _spirito_, in quella guisa
che lo stesso Filone, terapeuta esso pure, chiamava nella _Migrazione
d’Abramo_ l’allegoria _anima_, e la lettera _corpo_ della legge; e
in quella guisa pure che _Aristobulo_, ebreo filosofo contemporaneo,
seguiva il sistema delle allegorie scritturali, e _Aristea_, che
volendo dipingere il genio ebraico dei tempi suoi, ci offre nel Sommo
Pontefice Eleazaro un modello degli interpreti allegoristi della
Scrittura. Ora ch’il crederebbe? Gli Esseni, Filone, Aristobulo, sembra
quasi che abbiano veduto lo _Zoar_, e lo abbian copiato, tanto il loro
dire suona conforme alle parole dello _Zoar_, il quale non solo è
quasi una perpetua conferma del loro dettato, mettendolo continuamente
in pratica coll’allegorizzar la scrittura, ma questa pratica stessa
erige in _Teoria_: non basta, si vale della stessa imagine, della
stessa similitudine di cui si valse Filone, si valser gli Esseni, a
indicare la relazione tra i due sensi scritturali, il _litterale_
e lo _allegorico_. Pel Zoar sezione _Beaàlotèha_ come per Filone e
gli Esseni i precetti della legge ne sono il corpo, _gufà deoraità_,
l’allegoria ne forma lo spirito, _Nismeta de-oraita_. Anzi per far più
completa la similitudine imagina lo Zoar una veste che tutta ricuopre
il corpo della legge, santissima veste tessuta dei racconti, delle
istorie, degli episodj, onde tutto va cosparso il divino volume, e che
ne formano quasi il manto e l’involucro esteriore come i precetti ne
sono il corpo, e come le allegorie ne sono lo spirito.[85] Non è questo
il luogo di occuparci più specialmente di questo senso scritturale
che diciamo allegorico, della sua origine, della sua legittimità,
delle vicende che ha subìto. Se questo ne fosse il luogo, io dovrei
additarvi nella storia della esegesi scritturale due specie di
allegorismi, l’uno, il buono, il legittimo, l’ortodosso che anziché
colla lettera pugnare e tanto meno escluderla, con essa si concilia e
armonizza perfettamente, e questo è l’allegorismo del _Zoar_ e degli
Esseni, l’altro lo spurio, l’eterodosso che pugna anzi colla lettera
e col corpo della legge, e sulle rovine s’inalza del senso pratico,
letterale, storico della scrittura, ogni loro realtà dileguando nel
vaporoso orizzonte di un fantastico allegorizzare; e questo è il
simbolismo di Filone tra gli Ebrei; di Origene tra i Cristiani e più o
meno di tutti i Padri ed Esegeti della chiesa, i quali stretti, più che
loro non talentasse, dal senso preciso, pratico, esecutorio, positivo
delle leggi e dei Profeti dissero, figure parabole, similitudini ciò
che l’Ebraismo credette sempre e sempre seguitò a credere e praticare
quale propria e formale indicazione di fatti o di azioni materiali
e positive. Gioberti distinse il duplice allegorismo, ma non si
accòrse la sua gran mente, siccome quello che egli chiarisce ostile,
anticristiano, eterodosso, sia stato per primo introdotto, praticato,
e qual arma di guerra impugnato dal Cristianesimo contro l’antica
ortodossia, esautorando di ogni senso reale ed esecutorio tutti i
precetti di Dio, e reducendo a vani tipi, e figure e parabole, la
storia, i riti, i precetti; insomma tutta la parte reale e positiva
della antica alleanza.[86]

Ma ciò che abbiamo superstite della Esegesi degli Esseni, non si
stringe soltanto alle cose suesposte. Altri punti culminanti ci
rimangono avventurosamente da porre a confronto col sistema dei
dottori e nuove conferme dedurne della propugnata identità. Testimoni
le etimologie greche, il senso greco che gli Esseni al dire di Filone
solevano assegnare a certe frasi, a certe parole della Scrittura. Per
Filone, _Piscion_, _Havilà_, che quai nomi l’un di fiume e l’altro di
paese, si leggono nei primi del Genesi, sono grecamente foggiati e
quai vocaboli grecizzanti, intesi, interpretati dallo stesso Filone.
E non solo i due ricordati vocaboli, ma per dirla colle parole del
_Frank_, _c’est généralement sur les termes de la traduction des LXX et
des étymologies purement grecques que se fondent ses interpétrations
mystiques_. Ma ciò che non vide o non notò il professore di Parigi,
ella è la consonanza perfetta col sistema d’esegesi farisaica.
Curiosissimo a dirsi! Un fatto vi ha che non abbastanza riscosse
sin’ora l’attenzione dei dotti, ma che pure la merita in sommo grado.
I Farisei, i Dottori, i Rabbini di Palestina, non v’è cosa che più
prediligano nel deciframento delle espressioni scritturali, che il
ricorrere alla lingua greca, alle greche etimologie. Se la parola
_Nof_ non suona loro abbastanza intelligibile, il greco idioma gli
porgerà nel vocabolo _Ninfa_ il senso di _vergine_, di _fanciulla_, di
_amante_. Se il vocabolo _Meherote-em_, suona loro duro a intendersi,
la lingua greca glielo farà aperto col vocabolo _Mahaera_, _Spada_,
o arme qualunque da taglio. Che più? Una disposizione legale di
prim’ordine, una questione di vita e di morte, una dispensa dalla pena
capitale si deve nel Talmud, a una greca etimologia, e per non dire
ancora di altri moltissimi, se il cedro ebbe tra tutti gli altri frutti
benché formosi, la preferenza nella festa di _Sucot_, egli è perchè la
parola _Adar_ suona affine coll’_Idro_ greco, acqua, e quindi accenna
al cedro che al dire del Talmud cresce a preferenza in riva alle acque
sulle sponde dei fiumi. Ed ecco, se io non erro, abbastanza espressiva
analogia nel sistema interpretativo, considerato eziandio nei suoi più
minuti dettagli.[87]

Che se ciò paresse scarsa affinità tra le due scuole, non lo sarebbe
certo lo spirito, il genio esegetico che si mostra in ambidue
improntato di un sol conio. E chi un esempio ne volesse quanto più si
può categorico, il chieda a Filone. Il quale, Terapeuta egli stesso,
e del sistema dei Terapeuti illustre modello, non solo nel sistema
etimologico concorda coi Farisei, ma ben anche nello spirito, nel
genio delle interpretazioni scritturali. Testimone per tutti quel
passo nella _vita di Mosè_, ove toglie ad esporre le cause per cui
tacque il divino legislatore sui diritti dei padri alla successione
dei figli. _Le Législateur se tait_, per dirne il senso con un autore
francese, _sur le droit des pères à hériter des enfans_. _Mais, dit
Philon, comme la loi de la nature veut que les enfans soient héritiers
des parens, et non les parens ceux des enfans, la législation se tait
sur ce qui serait désastreux et malsonnant_. La legge tace, secondo
Filone, ciò che suonerebbe sinistro e ingiocondo a udirsi. Or bene. Io
affermo arditamente che se vi sono interpretazioni che vadano di questo
spirito, di queste tendenze informate, elleno sono senza meno quelle
dei nostri dottori, pei quali se il testo accenna con una perifrasi,
anzichè in modo più diretto, gli animali impuri, egli è per istudio
ed amore di castigato linguaggio; se lo stesso giaciglio si noma per
l’uomo _letto_, per la donna _sedile_, egli è per rimuovere ogni
pensiero di oscenità; se l’imbrunire _luce_ si chiama anziché tenebre,
egli è per esordire con meno tristo vocabolo; e pei quali finalmente
è principio ammesso, accettato, _doversi ogni idea trista, luttuosa,
inonesta circondare di ombre discrete, che ne velino la bruttezza
e l’orrore. Petah debareha iair_. Che dico? Non è persino il caso
di successione quello appunto che forma subbietto dell’osservazione
Filoniana che non si contempli dai Dottori in _Batra_; e cosa assai
più singolare, ella è la stessa ragione da Filone messa innanzi, che i
dottori assegnano al caso stesso ivi considerato, argomento che più non
potrebbesi concludente in favore dell’indole comune delle due scuole.

Che se poi dagli studj per sè già abbastanza conformi, vogliamo al
sistema trascorrere di esposizione, alla forma esteriore, al _metodo_
dei loro studj; non solo troveremo questo metodo, punto da quello
dissimile dei dottori in generale, ma più specialmente simigliante
a quello dei _Cabbalisti_. A noi più non rimangono i libri degli
Esseni; ma ci resta _Filone_, il quale, e degli Esseni ci narra il
costume, e nei suoi libri ci offre, Essena egli stesso, un autorevole
esempio del far comune dei suoi confratelli. Ci narra il metodo di
esposizione, agli Esseni peculiare, nel libro da esso dettato _sulla
vita di Mosè, lib. 7, e lib. 2, pag. 81_, dove dice che la tradizione
orale conservata appo gli anziani d’Israel _Presbiteron_ (d’onde il
prete cristiano) era comunemente insegnata sul testo della Scrittura;
che è quanto dire lo stesso ordine assumeva della medesima Scrittura,
e di essa forma vestiva e ordine di comento. Ci offre pur _Filone_
in sè stesso l’esempio di questo generalissimo costume, non seguendo
nei suoi libri un filo logico e ordinato di _pensamenti_, ma piegando
piuttosto l’ordine alla successione dei testi od argomenti scritturali.
_Filone_, dice un illustre scrittore, _Filone non ha un corpo completo
di dottrine; espone i suoi pensamenti in ordine d’interpretazioni
simboliche alla Scrittura_. Ora che altro è lo Zoar? Egli è appunto ciò
che or ora udiste qual definizione delle opere Esseniche e di quelle
di Filone, una serie di pensieri esposti in ordine d’interpretazioni
simboliche alla Scrittura. Tanto è vero che ciò che all’uno
conviene, non meno conviene all’altro eziandio, e che la gran scuola
farisaico-cabbalistica è quel mare vasto ove il sistema di Filone mette
la foce, e dove l’intero Essenato «_ha pace con i seguaci sui_.»



LEZIONE VENTESIMATERZA.


Istituzioni, dottrine, e pratiche, furono la triplice divisione da
me sino da principio assegnata alla storia degli Esseni. Noi abbiamo
coll’esame delle occupazioni loro chiusa la prima parte di questa
storia: la storia delle esseniche istituzioni. Delle occupazioni
degli Esseni ultimi comparivano all’esame gli studj, lo spirito, il
metodo da essi negli studj seguito. Tempo sarebbe quindi che passando
alla seconda parte di questo lavoro noi citassimo a giudizio le loro
dottrine, i dogmi e le credenze al cui esame ci ha in qualche modo
spianato la via la conoscenza dei loro studj, del loro genio esegetico,
dei loro metodi. E pure, un’ultima ricerca rimanci ancora ad esaurire
pria di tôrre ad esame i dogmi e le credenze degli Esseni. Questa
ricerca si attiene ancor più davvicino alle loro dottrine, siccome
quella che anzichè trattare della forma degli studj si occupa piuttosto
della materia, dell’oggetto dei loro studj; in una parola delle
sorgenti, delle fonti dalle quali attinsero com’è naturale le loro
dottrine. Egli è questo, se non isbaglio, un punto di contatto e di
natural transizione tra la prima e la seconda parte di questa storia,
tra la storia delle loro istituzioni e quella non meno interessante,
delle loro dottrine. A chi chiederemo le sorgenti, le fonti da cui gli
Esseni attinsero le loro dottrine? Chi ne darà contezza dei libri da
cui tolsero gli Esseni, la regola del loro credere? Questa notizia
ce la darà pel primo Filone, tanto col suo proprio esempio, quanto
coi preziosissimi ragguagli che più direttamente egli stesso ci offre
dei libri, delle fonti dell’Esseniche dottrine. Ce la dà, col suo
proprio esempio quando, Essena egli stesso, ci offre in sè la imagine,
il modello dei meno celebri confratelli. Filone era Essena, e da chi
tolse Filone principalmente le sue dottrine? Certo che molto egli deve
alla greca filosofia, alla Platonica in ispecie, perciò che riguarda
sopratutto la forma, ma ove si voglia nelle viscere penetrare del suo
sistema quali ne diremo le fattezze, e quale l’origine? Certo che alla
sentenza soscriveremo di un autore tanto più nelle asserzioni sue
autorevole, quanto niuno altro si prefisse scopo al suo lavoro, se non
quello di storica verità. E questi è il Frank, il quale colpito dalle
profonde analogie che al sistema dei Cabbalisti congiungono le dottrine
degli Esseni, e dopo avere escluso che i primi siensi fatti imitatori o
plagiarj dei secondi, queste parole dettava significanti che raccomando
alla vostra attenzione: _Ne serait-il pas juste de penser que Philon a
trouvé ces doctrines toutes faites dans certaines traditions conservées
parmi ses corréligionnaires, et qu’il n’a fait que les parer des
brillantes couleurs de son imagination?_ E quanto il Frank si apponga
in questo giudizio, il vegga ognuno in questa apertissima confessione
di Filone medesimo; il quale in modo che non si potrìa più esplicito
va egli stesso additando ciò che per il Frank non era sinora che nudo
e mero conghietturare. _Philon lui-même nous assure avoir puisé à la
tradition orale conservée par les anciens de son peuple._ E questo dice
Filone nella _Vita di Mosè_ sul principio del 1º libro, ove veramente
appella ad una tradizione orale conservata appo gli anziani d’Israele
ch’egli qualifica _Presbiteron_, d’onde il prete cristiano, e ch’era
comunemente insegnata sul testo della Scrittura. Ed ecco una prima
capitalissima fonte all’Esseniche dottrine, la _tradizione_.

Ma questa non è sola fonte, o per dir meglio non veste sempre
esclusivamente la sua forma verbale che più gli è comune. Pegli
Esseni non è sempre come pei semplici primitivi Farisei, una orale
trasmissione che sarìa sacrilegio deporre per iscritto. Ella veste,
anzi ella assume la forma scritta; e mentre la voce del Maestro era
il solo organo che avesse nei prischi tempi l’insegnamento farisaico,
gli Esseni per contro vantavano libri, e libri che spingevano anche a
tempi a quelli anteriori la loro origine. E questa preziosa contezza
n’è data da uno che nell’esseniche vicende non si potria più esperto,
da Filone medesimo, il quale attribuisce alla setta dei Terapeuti dei
libri mistici di una remotissima antichità. Parole testuali e di senso
fecondissime delle quali impareremo fra poco ad apprezzare il valore.
E non solo Filone, ma Giuseppe nelle Guerre Giudaiche, al libro 20,
al § 12, degli Esseni favellando, dice a dirittura che studiavano con
zelo i _libri degli antichi_, parole che suonano esplicita conferma
a quanto disse Filone dei suoi _Terapeuti_. E questa è la seconda
sorgente dell’Esseniche dottrine, i libri dei loro antichissimi, o per
dir meglio la tradizione stessa deposta e formulata per iscritto.

Ora che abbiamo veduto, constatato questo duplice fatto, l’esistenza
e la formulazione di una religiosa tradizione presso gli Esseni,
tollerate che solo vi accenni da lungi la importanza e la grandezza
delle sue conseguenze. Due poi ne emergono capitalissime, di cui
siate, se vi piace, giudici voi medesimi. Riguarda l’una la tradizione
rabbinica in generale; contempla l’altra più specialmente quella che
mistica o cabbalistica si appella. Chi non vede la prima? Ella è una
prova estrinseca e tanto più concludente della necessità e legittimità
di una tradizione; ella è un attestato dai rabbini indipendente, di
quel principio in ogni tempo dai rabbini sostenuto, la tradizione;
ella è un ausiliare, non cerco, non provocato, non interessato,
della tradizione e dei tradizionalisti. E pure ammirate la forza del
pregiudizio! Il Franck, che queste cose riferisce, non vide o vedere
non volle la conseguenza che ne deriva, chiara, limpidissima in favore
dell’antichità della tradizione. Per esso come per il Jost, celebre
storico, come per altri nostri e non nostri dottissimi della Germania,
le tradizioni nostre, le tradizioni rabbiniche non più oltre risalgono
di due secoli innanzi l’E. V. Due cento anni prima del cristianesimo
nacquero, se lor si crede, quelle tradizioni che poi fecero e fanno
tanta parte integrale dell’ebraismo. E pure gli Esseni, e quel ch’è più
i Terapeuti d’Egitto, accennano, alludono e religiosamente inchinano a
una tradizione, a libri tradizionali. D’onde in essi della tradizione
contezza, se alle origini non risale dell’ebraismo? forse glie ne
giungeva notizia allora allora di Palestina? Mai no, dice il Frank, e
dice bene, perchè tra Palestina ed Egitto relazioni intime dottrinali
non esistevano; ed anche perchè, aggiungo io, un sistema specialmente
religioso ch’è in sul nascere, una tradizione che manda allora appena i
suoi vagiti, che s’insinua allora allora di contrabbando nelle antiche
credenze, non può avere tanto di credito, d’influenza, d’autorità da
trapiantarsi in regioni lontane e barbe gettare così profonde come
tra i Terapeuti ha gettato; e sopratutto per che i Terapeuti spingon
tant’oltre l’antichità dei loro libri tradizionali da trascendere di
gran lunga quella data che pel Jost, pel Franck e per altri, segna
delle tradizioni rabbiniche il nascimento. Ma di queste cose si taccia
per ora per brevità, e solo ci basti avere come da lungi accennato a
un ordine di prove che nuovo e vastissimo campo ci apre d’apologetica
tradizionale.

Che diremo poi del secondo passo, della esistenza in tanta antichità,
di libri, di opere tradizionali appo gli Esseni? E pure nulla di più
provato, e nulla al tempo stesso di più sorprendente. E perchè dico
sorprendente? perchè, vera verissima anomalia è cotesta ed eccezione
alla regola farisaica; perchè rovescia da capo a fondo quel principio
così trito così comune per cui si credeva e si crede assolutamente
interdetta ai primi tempi rabbinici la redazione tradizionale; perchè
inconcusso, generale, inviolato pareva quell’assioma rabbinico che
suona _le orali cose non potersi scrivere, e le scritte non potersi
oralmente insegnare_; perchè infine prima della _Misnà_, prima di
tutte le opere talmudiche, prova il fatto presente la esistenza di
libri tradizionali presso gli Esseni. E se mestieri fosse di prova
dopo le citazioni ricordate, allegheremmo il Jost nella recentissima
_Storia del giudaismo e delle sue sètte_. Il Jost è vivente autore
consultatissimo, e per quanto non mi fu dato leggerne le scritture
perchè dettate in tedesco, non è sì che oltre la conoscenza personale
dell’uomo insigne, e di cui mi onoro, qualche contezza non siami
pervenuta delle idee nell’opera contenute. Ecco che cosa dice il Jost:
_Les Esséniens_ (ei dice) _n’observaient pas si rigoureusement les
scrupules rabbiniques sur la transcription de la loi orale, et les
Meguillat Setarim mentionnés dans le Talmud ont été écrits par des
Esséniens_. Non dirò dell’ultima congettura dei _Meghillat Setarim_, di
cui spero avere non ha guari mostrato la ragionevolezza e probabilità
quando mi fu dato produrre quella parlantissima variante che alle
parole _Meghillat Setarim_ sostituisce, come nel Jeruscialmi, Meghillat
hasidin, nome, come ognun vede, più direttamente allusivo alla società
degli Esseni. Ma quanto più non avrebbe il Jost al suo assunto giovato,
se oltre ai _Meghillat Setarim_ da esso allegati, citato avesse qual
vestigio della essenica bibliografia, nel Talmud quei casi numerosi
parlanti, che nei due Talmud, nei Medrascim, in tutta, a dir breve, la
biblioteca rabbinica de’ primi secoli, fanno fede apertissima di altre
opere, di altri libri. E forse li avrà il Jost rammentati, forse non
avrà obliato quei _Sifrà deagadtà_ che ricorrono tanto di frequente nei
libri talmudici, che figurano quali opere di gran lunga più antiche
della stessa Misna, che il Talmud ci mostra in mano dei più antichi
Tanaiti, e che collo stesso carattere, colla stessa vetustà figurano,
mirabile a dirsi! nel _Zoar_ medesimo, che li cita, li commenta ed ai
più antichi e venerandi uomini ne attribuisce la redazione. Le quali
cose potuto avrebbero più urgentemente concludere in favore del Jost,
e più luminoso farci apparire il gran fatto di Libri tradizionali
esistenti pria dell’epoca comunemente assegnata alla redazione delle
tradizioni. Alla luce di questo gran fatto, che cosa diviene una
delle più forti obiezioni, e quasi a dire l’_Achille_ che contro lo
_zoar_ e le sue dottrine sieno state dirette dagli avversarj? Pareva
a costoro impossibile che sotto l’impero di una legge così severa
che ogni scrittura interdiceva delle tradizioni, mentre niuno ancora
pensava a violarne il rigore, colle prime raccolte della _Misnà_
non solo le tradizioni si scrivessero, ma quelle in ispecie che più
sembravano segrete e gelose, le parti più sublimi della religione,
i terribili misteri della _Mercabà_. E pure quest’argomento, che
anche senza il fatto presente della società degli Esseni non saria
rimasto senza risposta, al confronto di questo fatto, a paragone dello
esempio illustre, provato, del nostro Essenato, nulla più conserva
di terribile, e quella confutazione riceve più concludente, che mai
sariasi potuto desiderare.

Che se provato non ostante il fatto, pur si volesse di questo fatto
medesimo, di questa strana eccezione indagare le cagioni, facile
sarebbe le cause additarne più verosimili. Se diceste in qual guisa
quel mistero, serbato per la tradizione comune, non lo fu per le più
gelose e per le più rispettate, ecco che cosa risponderei. Vi mostrerei
la forma nella quale queste ultime tradizioni furono dettate, la
forma che assunsero in tutte le opere scritte, forma se altra fu mai
metaforica per eccellenza, in cui l’allegoria procede così uniforme,
così complicata, e in cui sì denso velo ricuopre il pensiero recondito,
che tutta la penetrazione sfida dei più oculati ove alla parola scritta
non soccorra l’insegnamento orale del maestro, a tal chè si può dire
che niuna maggiore divulgazione procurare poteva la scrittura a cotal
tradizione, che già non avesse pria di essere per iscritto deposta.—E
non è questo il luogo di maggiormente diffondersi intorno questo
argomento; ma se lo fosse, facil sarebbe mostrarvi di questo procedere
dei dottori parlantissima analogia nei primi tentativi di redazione
tradizionale, nei primi saggi Misnici talmudici ove questa stessa forma
parabolica vediamo prevalere, ed ove le più antiche formule suonano
brevi, oscure, talvolta metaforiche siccome i famosi _Simanim_ di cui
va copiosa la Biblioteca Rabbinica dei primi secoli.

Ma di questo si taccia per lo migliore, ed il corso riprendiamo della
nostra storia. Noi sappiamo le fonti d’onde i dogmi loro attinsero gli
Esseni: giusto è che alla cognizione dei dogmi stessi trapassando,
quel cenno ne facciamo che le scarse memorie e il mistero appunto
ond’erano circondati, ce lo consenton maggiore. E quando si parla di
credenze, mestieri è pure di quelle eziandio favellare che falsamente
agli Esseni si attribuirono, sì perchè mondati procedano d’ingiuste
imputazioni, e sì perchè non è raro il vedere che sotto una calunniosa
imputazione alcun che si asconda di vero e di fondato, d’onde a guisa
di malinteso abbia rampollato l’errore, il dogma supposto, e quindi la
fama che accusava, in documento si converte in qualche guisa di storica
verità.—Gli Esseni, come gli Ebrei in generale, furono appuntati di
supposte adorazioni. Lo furono di adorare il Sole, e sopra un passo
di Giuseppe Flavio fu fondata l’accusa. Io non istarò a decifrare il
vero senso delle parole flaviane. Grecisti insigni vi si provarono, e
quanto vi siano riusciti lo dicano i dubbj tuttavia perseveranti. Io
farò meglio. Io supporrò chiara e limpida l’espressione di Flavio; io
dirò che a dirittura egli attribuisca agli Esseni, siccome veramente
io credo che gliele attribuisca, l’adorazione del Sole. Saranno per
questo gli Esseni idolatri? dovremo intendere Flavio come lo intese
il Prideaux, a rigor della lettera? Io credo che sia avvenuto al
Prideaux ed a chi lo segue, ciò che avvenne agli antichi Missionarj
Gesuiti nell’Impero cinese. Dove avendo udito i più famigerati filosofi
insegnare la fede nel nulla, tornarono pieni di sorpresa e di ira
raccontando dovunque in Europa che i filosofi Cinesi facevano pubblica
professione di ateismo e nullismo. E quanto i buoni Padri andassero
errati, quanto goffamente frantendessero la fraseologia dei Cinesi,
facile sarebbe qui dimostrare se l’ora e l’argomento lo permettessero.
Io credo che un qualcosa di simile sia pegli Esseni avvenuto. E a così
credere già sarebbermi argomento sufficiente le tante prove e gli
esempj cospicui che il Sole ci mostrano sotto un senso allegorico,
lo mostrerebbe il Pastoret quando, a proposito degli Esseni, il
Sole dice non essere stato per molti popoli che il Rappresentante
dell’Ente Supremo; lo proverebbe l’uso, onde parla il De Jurieu nei
termini seguenti: «De là est venue la coutume de se tourner toujours
du côté de l’orient dans tous les sacrifices qui se faisaient aux
dieux célestes,» e di cui è discorso nel XII dell’_Eneide_, v. 172;
lo proverebbe il costume prevalso nei prischi tempi nella Chiesa
cristiana, di volgere verso l’oriente, e che solo Leone I condannò
come intollerabile superstizione; lo proverebbe Fausto Manicheo quando
compara Cristo a Mitra, il Sole Persiano, e dice, i doni recati dai
Magi all’infante Gesù quelli essere appunto che gli orientali al Sole
offerivano come oro, mirra ed incenso; lo proverebbe Ermogene che alla
fine del II secolo referiva il culto di Cristo a quello del Sole, e
il corpo di Gesù credeva assunto nell’astro del giorno; lo proverebbe
Dante quando al Iº del Paradiso chiamava poetando Dio Sole degli
Angioli:

  E Beatrice cominciò: Ringrazia,
    Ringrazia il Sol degli Angeli, che a questo
    Sensibil t’ha levato per sua grazia;

lo proverebbe la Bibbia quando Dio chiama Sole il Talmud, quando narra
di chi ad un Cesare che richiese di vedere Iddio mostrò il Sole ultimo
dei suoi Ministri; e tutte queste prove già grandemente infermerebbero
l’accusa contro gli Esseni articolata di adorazione del Sole. E
poi quanti fatti nel culto ebraico potuto avrebbero dare origine a
quest’accusa! Basti dire dell’orazione al cui proposito appunto, e
tanto più è notabile, rammenta Giuseppe l’adorazione in discorso. Basti
dire dei _Vatichin_, forse altro nome degli Esseni, che studiavansi
principiare col sorger del Sole la prece di mattutino in adempimento
del verso; basti dire della perfetta orientazione del Tempio di
Gerosolima, intorno a cui, dice il Talmud, tanto affaticaronsi gli
antichi Profeti affinchè la porta di Oriente ricevesse i primi raggi
del sole; basti dire il nome stesso che quella porta recava di porta
del Sole; basti la lastra d’oro tersissimo che votò Elena regina e
Nazirea, affinchè in luogo si situasse che ai primi raggi del sole
infinite mandasse scintille nunziatrici ai sacerdoti del rito che
cominciava. E se questo fosse il luogo di tal raffronto, aggiungerei
della perfetta orientazione, oggi costatata, delle Piramidi, che oltre
il loro carattere funerario, fa grandemente dubitare non forse qualche
rapporto possano offrire col culto del Sole, con Osiri Dio infernale e
Giudice delle anime nello Amenti come Cristosole scende in Inferno e
ne trae le anime dei giusti, e giudice sederà de’ risorti nel giudizio
finale.

Ma mirate la forza del vero! Egli è soltanto, egli è principalmente
al confronto della simbologia cabbalistica che cessa ogni possibil
recriminazione, che tacciono, anzi, e ciò di gran lunga più monta,
che si spiegano, che s’intendono le accuse in discorso e che con
tutta verità, con tutta precisione, si può dire degli Esseni che
adoravano il Sole.—E certo lo adoravano perchè furono dei Cabbalisti
progenitori, e certo ne fecero, come ne fanno i Cabbalisti, emblema,
simbolo, principalmente nella loro Teologia; e certo non solo il sole,
ma la luna, ma i pianeti tutti fecero parte della loro simbologia,
siccome S. Girolamo lo attesta, rincarando sopra Giuseppe e dicendo
gli astri tutti avere gli Esseni adorato.—S. Girolamo pare che compia
l’accusa, ed invece non fa altro che finire il ritratto degli Esseni,
che identificarli assolutamente coi Cabbalisti, che porre, a dir breve,
l’ultima mano a quella identità da noi propugnata. Perciocchè mestieri
è che il sappiate, non solo il Sole, simbolo fra ogni altro cospicuo,
ma la Luna, ma Giove, ma Marte, ma Venere, ma Mercurio, e se ai tempi
loro conosciuto fosse stato Urano, anche Urano avrebbero tolto a far
parte della ricca e complicatissima loro Simbolica. Ecco i veri astri,
il vero sole, la vera luna che adorarono gli Esseni, il sole e la luna
e gli astri del cielo dei Cabbalisti, ecco l’accusa; che accusa si, ma
solo la identità dei due sistemi e delle due scuole, al difuori della
quale io oso dire che ogni sforzo spenderebbe invano la critica a
dare una spiegazione plausibile a questo culto strano idolatrico, che
austeri gravi autori non temono di attribuire alla più scrupolosa e
severa scuola che sorta sia nel seno dell’ebraico monoteismo. Ecco la
chiave per capire ciò che ha di vero il sistema del Dupuis che trova in
Cristo il sole, e negli apostoli i 12 segni dello Zodiaco; la chiave ne
è la parentela tra Cristiani ed Esseni, e tra questi ed i Cabbalisti.



LEZIONE VENTESIMAQUARTA.


Sotto le forme di un’adorazione idolatrica, di un’apparente astrolatria
del culto del Sole, noi abbiamo trovato una nuova analogia coi
Cabbalisti, e al tempo stesso l’origine di quest’accusa, della supposta
adorazione del Sole. Possiam dire che non è persino l’errore che
non rechi in qualche modo il suo tributo al nostro sistema, e non
concorra esso pure al più grande e più luminoso trionfo del vero. Noi
abbiamo iniziato un sistema di critica storica intorno agli Esseni
che, spero, vedremo parecchie altre volte vittorioso alla prova,
dileguando quelle nubi che si frappongono alla contemplazione del
vero, additando la sorgente di altri malintesi, e sotto l’aspetto
paradossale di altri culti, di altre formule non meno strane nè
indecifrate, accennandoci la equivocata e malcompresa simbologia dei
Cabbalisti. Noi andiamo a vederne prova novella. Noi abbiamo un altro
culto, un’altra accusa, un’altra idolatria da spiegare, la quale non
reggerà, spero, al contatto del criterio da noi assunto alla storica
interpretazione dell’Essenato, più che non resse l’altra accusa
d’astrolatria, l’adorazione del Sole. Strano a dirsi! furono accusati
gli Esseni d’adorare creature mortali, individui umani quali siam noi;
di adorare due fratelli, il cui nome ci fu per ventura conservato,
Elxai e Jessaus, di adorare eziandio le due loro sorelle, Marta e
Martana. Queste cose udiva l’antichità e non ne stupiva. Erano ancora
poco distanti i tempi nei quali il cielo si popolava d’intere famiglie
di dèi e di dee, di padri e figliuoli, di fratelli e sorelle; nè
mancavano nella mitologia orientale e in quella di Grecia e di Roma
gli esempj di numi scesi incarnati, e cogli uomini stessi conversanti
in guerra, in amore, in politica, coi legislatori, coi guerrieri e
colle ninfe dei boschi. L’Oriente ce ne porge tuttavia distinte le
traccie. Il Lama, il gran Lama del Tibet, chi non lo sa? è creduto
incarnazione perpetua di Budda, e ciò che non è men vero per esser
men conosciuto, egli è che al fianco del Lama si adora dai Tibetani
la Lamessa, incarnazione, siccome egli di Budda, così essa della sua
virtù, del principio suo femminile, della sua energia, di quella che
i Cabbalisti dicono _Coah_. Nè i tempi dei nostri Esseni correvano
meno propizi a siffatte aberrazioni, e le incarnazioni erano, si può
dire, allora le credenze alla moda. Testimonio, per non dire di altri,
quel _Simon_ mago da Dante nostro apostrofato coi miseri seguaci, il
quale non solo adorato era qual uno degli Eoni o delle emanazioni di
Dio, ma la donna sua modello, siccome dicono, non troppo specchiato di
onestà, riscoteva eziandio al suo fianco pubblici divini omaggi qual
Dea; reputata essendo qual sua virtù e qual emanazione ella stessa
del femminile principio. Ho io mestieri parlare del cristianesimo?
Religione all’Essenato contemporanea, ella si fonda sul dogma capitale
della incarnazione dell’uomo-Dio, che contiene, come dice Gioberti,
in germe tutto il cristianesimo, e questo tutti sanno e perfettamente
concordano. Ma se il cristianesimo ebbe il suo Elxai, ebbe ancora il
suo principio femminile, la sua Martana, la sua incarnazione femminile.
Chi il crederebbe? Si accusano oggi i Gesuiti di aver effemminato il
cristianesimo introducendovi il culto di Maria, e troppo più alto
elevando, che non s’addica, il seggio di Colei che fu a Cristo e
figlia e sposa e madre, secondo la sentenza Manzoniana. Tuona contro
di essi Gioberti, e adulteratori li chiama insieme ad altri del dogma
e della fisonomia del cristianesimo. E pure, sel tolleri in pace la
sua grand’anima, i Gesuiti, se non hanno ragione, non hanno nemmeno
tutta la colpa che gli si vuol affibbiare. Il culto di Maria è antico
antichissimo più che non si crede. E non solo fu culto secondario e di
dulia, ma primario e di latria, se si risale a’ prischi secoli e presso
i cristiani d’Oriente, specialmente fra gli Arabi. Perciocchè non solo
ci parla S. Epifanio della setta dei Colliridi, che ponevano la Vergine
Madre al pari di Dio e culto rendeangli di vera divinità, offrendogli
una focaccia in forma di serpe, d’onde il nome loro di Colliridi: ma
sino nel famoso concilio Niceno furono padri che sostennero la divinità
della Vergine dicendo, due divinità doversi adorare, oltre il Padre, il
Cristo e la Vergine. La quale associazione del culto di Dio a quello
di Maria diede origine alla setta dei Marianiti, e che sotto questo
nome figura nel concilio di Nicea, e più o meno prospera protrasse
la sua esistenza fino al 6º secolo dell’èra volgare, in cui eranvi
tuttavia cristiani che facevano della Vergine una Dea, chiamandola
membro e compimento della Trinità. Il quale errore, come quello di
Simone il Mago, come quello attribuito agli Esseni, fu una deviazione
e una corruzione dei principj Cabbalistici; come deviazione congenere,
benchè serotina, fu quella che eresse in oggetto di culto divino il
Pseudomessia Sciabetai Zebi, e ciò ch’è di gran lunga più degno di
nota, la sua donna istessa, quale incarnazione femminile di una delle
divine emanazioni, come probabilmente frutto dello stess’albero fu il
culto della Dea ragione, o sapienza, o Hohmà, personificata in una
prostituta per quella corrente segreta che univa le Francomassonerie
allora erompenti alla luce cogli antichi istituti Pitagorici e
Cabbalisti. E come finalmente un esempio preclaro ci s’offre ai tempi
profetici dell’adorazione di una Dea, della Regina dei cieli, Regina
coelorum, come oggi è chiamata la Dea Maria, e contro di cui tuona
Geremia dicendo: I figli raccolgono legna, i padri accendono il fuoco,
e le donne con grano e farina compongono focaccie e fanno libazioni
alla Regina dei cieli. Posto ciò che hanno di comune tutti questi culti
diversi, dobbiamo domandare a noi stessi: caddero eglino gli Esseni in
questo culto idolatrico che gli s’attribuisce; adorarono essi in due
fratelli in due donne carnali, in una creatura mortale la incarnazione
di un principio divino? precipitarono essi nell’errore di Simon Mago,
dei Marianiti, di Sciabetai Zebi, e di tutti i fautori in generale
delle avatara o incarnazioni indiane, orientali, greche, cristiane;
o non piuttosto mantennero il dogma cabbalistico nella sua purità,
serbando inviolati i confini tra l’ideale e il reale, tra la mente e il
corpo, tra il divino e l’umano; e se accusa vi fu, solo a malinteso,
solo ad equivoco si dovrà imputare? Io credo che nulla ci autorizzi a
menare l’imputazione per buona. Se gli Esseni parlarono di fratelli e
di sorelle, se ne dierono i nomi, se ossequiaronli quai numi, nulla ha
tutto questo di sorprendente per chi per poco abbia svolto le pagine
dei Cabbalisti, presso i quali, come Oromaze e Arimane tra i Persiani,
come Osiri e Tifone tra gli Egizj, come Giove e Plutone tra i Greci,
tutti fratelli ma nemici ed antagonisti tra loro, così tra essi Jacob
e Esau, personaggi storici quanto altri fur mai, prendono nonostante
veste simbolica e stanno a significare due idee, due principj tra essi
contraddittorj, e che non è qui luogo di costatare, di definire. Non
sono persino i due nomi che la tradizione ci trasmise dei due fratelli
dagli Esseni adorati, che non stiano in qualche modo a provare la
bontà del supposto. Elhai è nome mirabilmente conservato, ed oltre
il suo senso biblico usitatissimo di Dio vivente, appartiene alla
nomenclatura cabbalistica delle Sefirot, e sta a significare quella
in ispecie che il nome reca di Jesod, il qual nome a parer mio fu
riprodotto nel nome essenico di Jesseus, se pure lo stesso essenico
Jesseus, come par più probabile, non sia il José Rabbinico identico
al biblico Josef, che è lo schema storico rappresentante appunto la
Sefirà di Jesod. Che se questi sono i fratelli Essenici e il loro nome,
che diremo delle loro sorelle adorate, Marta e Martana? Non solo qui
ritornano non meno espressive in campo le analogie pagane, Isi e Nefti
in Egitto, Giunone ed Ecate in Grecia, e via discorrendo, ma tornano
non meno e forse anche più parlanti le analogie cabbalistiche. Marta
e Martana sono nomi quasi integralmente conservati, e ci offrono le
fattezze quasi inalterate dei nomi cabbalistici Martà e il Meerat del
Zoar, come Mariana è corruzione della Matranita Cabbalistica, la prima
accennata, secondo il Zoar, nel Jei Meerat, l’altra sinonimo di donna
e signora; come, mirabile a dirsi, il nome greco di Giunone, _Hera_,
fu sinonimo di donna e signora, ed ambo sorelle; l’una buona e l’altra
rea; l’una autrice di bene, l’altra di male; l’una identica a Lilit
regina delle tenebre, l’altra identica alla talmudica Scehinà; l’una
nel suo nome istesso recante il segno della esecrazione Meerat da
Meerá, anatema maledizione, l’altra Matranita, da _Matar_, guardiana e
custode. Però, affrettiamoci a dirlo, gli Esseri or ora ricordati non
furono solo enti metafisici e mere astrazioni; per quella concordanza
che è propria dei Cabbalisti trovare tra l’ideale e il reale, essi, gli
Esseni, tolsero dalla storia i personaggi rammentati, e ne fecero copie
e rappresentanze dei loro esemplari e prototipi celestiali. E comecchè
non sia officio di queste lezioni discorrere della storia degli Esseni,
ma solo della loro teologia, pure per quella connessione che vedemmo or
ora tra la storia e il dogma, ed anche pel valore secondo me insigne
di questo tratto della loro istoria, non sarà male che per noi se ne
faccia qui stesso breve menzione. Egli è a S. Epifanio che noi dobbiamo
le presenti indicazioni. Nel suo libro delle Eresie egli rammenta come,
imperante Trajano, l’istituto degli Esseni subì una modificazione,
o come oggi direbbesi, una riforma. E chi ne fu, al dir d’Epifanio,
l’autore? Ei fu un Essena per nome Elxai, del quale ci referisce il
Padre istesso in tre sommi capi le riforme introdotte. Egli è gran
ventura per la storia degli Esseni, che un momento così interessante
della loro esistenza ci sia stato conservato colle sue più minute
circostanze, e fra poco vedremo di quante conseguenze sia fecondo per
il sistema nostro d’identità cabbalistica. Ci narra Epifanio le riforme
introdotte, e queste sono in numero di tre. Consiste la prima nello
insegnare ch’ei fece ai seguaci a giurare per le cose create, pel sale,
per l’acqua, per la terra, come se fossero, dice Epifanio, altrettante
divinità. Consiste la seconda nella condanna ed abolizione del celibato
e quindi nella riabilitazione del matrimonio. La terza poi suona
alquanto più dura ad intendersi, ma spero riceverà non scarso lume dal
nostro sistema. Secondo S. Epifanio, _Elhai_, il riformatore della
scuola, avrebbe insegnato ai seguaci la dissimulazione idolatrica,
che è quanto dire, a simulare culto, ossequi, adorazione ai numi del
Paganesimo quando altrimenti non potesse farsi senza presentissimo
pericolo della vita. Noi abbiamo qui nelle parole di Epifanio un
documento importantissimo, i cui rilevantissimi insegnamenti mestieri
è analizzare a parte a parte. Abbiamo in primo luogo cenno, memoria di
un’epoca di crisi religiosa per lo Essenato, in cui gli ordini antichi
subirono una qualunque siasi metamorfosi per opera d’un capo-scuola,
d’un riformatore per nome _Elhai_; e questo fatto non potrebbe non
consuonare mirabilmente col maestrato cabbalistico che si assegna nel
_Zoar_ a R. Simone Ben Johai, e coll’immenso impulso che si dice da
esso alla teologia comunicato, onde il suo secolo qual secolo ci si
offre impareggiabile negli Annali dello istituto. Ed abbiamo la data.
La quale, fissata da Epifanio sotto l’impero di Trajano, consuona con
quella che segna il fiore, l’apogeo della scuola cabbalistica, e colla
predicazione e riforma di _R. S. B. J._; fatto altresì di massimo
rilievo in quanto stabilisce eziandio una concordanza cronologica, fra
la riforma di una parte dell’Essenato e quella narrata dal _Zoar_ della
scuola cabbalistica per opera di _R. S. B. J._ Ma qual’è della Essenica
riforma l’autore, e qual nome ei reca in bocca ad Epifanio? Egli è
_Elhai_, che oltre l’offrirci non ispregevole concordanza di suono con
_Ben Johai_, col qual nome semplicissimo è designato non rade volte nel
Talmud e nel Zoar, è nome pregno altresì di altre preziose indicazioni,
che tutte alla persona collimano e ne riconducono di _R. S. B. J._
Poiché, s’egli è vero che voi udiste, or non è molto, essere questo
nome divino, e speciale appellazione della ottava _Sefirá o Eone_, non
è men vero che anche nel suo senso più ovvio di _Dio vivente_ si addica
in sommo grado al principe dei Cabbalisti, a _R. S. B. J._ Non voglio
qui confortare l’asserto con lontane ma pur vere analogie bibliche
e talmudiche, comechè grandemente ne rimarrebbe giovato l’assunto;
ma mirando senza più al cuor del subbietto, io recherò in mezzo tali
prove ed esempj tolti a dirittura al _Zoar_ istesso, dei nomi cioè
di Dio applicati per magnificenza di traslato al divinissimo uomo,
che ognuno, spero, dovrà dirsi dell’argomentare contento. Or eccone
uno. Se la mente non erra, è il caso in cui il Zoar chiama con nomi
divini il gran maestro della scienza divina, ed è là ove chiedendo _Man
aadon adonai_? risponde a dirittura, _Da ù R. Simone ben Johai_, testo
empio, scandaloso, e degno subbietto alle recriminazioni infinite che
levarongli contro, ove colla grossolana s’interpreti e inescusabile
ignoranza dei tempi, degli uomini, del linguaggio, delle dottrine,
ma innocentissima e naturalissima espressione, se di tanto vorremo
consultare la Bibbia, che appunto per avere prodigato gli epiteti
celestiali agli uomini, alle cose terrene, fu causa benchè innocente
che altri fraintendendone il significato ne torcessero il senso fino a
trovarci le traccie di dottrine dall’Ebraismo le più aliene.

Abbiamo veduto la data, il personaggio, il nome del riformator degli
Esseni, e tutti coincidono col riformatore dei Cabbalisti. Troveremo
egual concordanza nella materia stessa della riforma?—Veggiamo i
particolari conservatici da Epifanio. Insegnò, ei dice, ai seguaci a
giurare per le creature, pel sale, per l’acqua, per la terra, quasi
fossero Enti divini, parole che suonano strana, mostruosissima accusa,
ove alla lettera si capiscano per un dottissimo e nobilissimo istituto
del quale ci trasmisero gli antichi i sensi più elevati monoteistici,
in fatto di religione. Ma il sistema nostro, oso dirlo apertamente,
è il solo che lasci un senso possibile alle parole di Epifanio, che
purghi gli Esseni dalla taccia d’idolatria senza distruggere d’altra
parte, anzi confermando e spiegando un attestato così esplicito, così
grave qual è quello di Epifanio. La simbologia, le figure, i tipi
cabbalistici saranno per noi il filo conduttore, il filo d’Arianna.
Nella cui varia e ricchissima nomenclatura i nomi di _sale_, di
_acqua_, di _terra_, figurano tra i primi quai terreni rappresentanti
e tipi e figure delle virtù, degli attributi, delle emanazioni divine,
e di cui facile sarebbe qui riprodurre le rispondenze cabbalistiche, se
opera vana non mi paresse avvolgermi in ricerche puramente nominali,
il cui senso non è qui certo il luogo di sindacare, di stabilire. Per
lo scopo nostro, per la interpretazione del documento di Epifanio,
bastano le cose discorse riguardo al primo soggetto delle rammentate
riforme. E basterà non meno ricordare la seconda innovazione
rammentata da Epifanio. La quale consiste nella condanna e abolizione
del Celibato. Io vi prego ridurvelo alla memoria. Quando passavamo
in rassegna le istituzioni degli Esseni, quando in queste volevamo
trovare quell’identità da’ nostri perpetuamente propugnata tra _Esseni_
e _Cabbalisti_, quando ci imbattemmo nel Celibato, un ostacolo ci
parve sorgere a proseguire nella favorita nostra dimostrazione, e a
rimuoverlo adoperammo fatti, argomenti che non sono, se io non erro, da
prendersi a vile: ma quanto meglio non riesce allo scopo, quanto più
naturale e piena eliminazione della difficoltà in discorso non è egli
il fatto presente, la condanna, l’abolizione del Celibato? La quale
non solo meglio identifica l’Essenato coi Farisei, ma più specialmente
lo immedesima coi Farisei Cabbalisti, i quali a segno tale rincararono
nel Zoar sulle prescrizioni del matrimonio e della propagazione della
specie, che certe frasi così severe vi corrono, che ebbero bisogno
di miti ed attenuanti interpretazioni? Ed ecco il secondo capo della
riforma di _Elhai_ coincidere appuntino colle idee e col sistema dei
Cabbalisti. Che sarà poi del terzo punto della Essenica riforma,
della dissimulazione idolatrica che si dice ammessa, sancita dal
riformatore _Elhai_? E in qual guisa potrà una sì strana concessione
consentire colle idee e coi principj di Ben Johai, di quegli che
crediamo identico all’Essenico _Elhai_ e che è uno dei più grandi e
famosi dottori tra i Farisei? E pure io non credeva a me stesso quando
l’opinione testè udita io lessi nelle _Agaot Maimoniot_, attribuita a
_R. S. B. J._ E perchè meglio comprendiate di chi si tratta, mestieri
è sapere come, secondo le opinioni più comuni, più accettate, tutti
i precetti di Dio, vuoi positivi vuoi negativi, possono impunemente
prevaricarsi quando vero e presentissimo si corra pericolo della vita,
tranne tre soli, la cui osservanza deve anteporsi alla vita istessa
e sono: _Idolatria_, _Incesto_ ed _Omicidio_. Ora aprite Maimonide
nel trattato d’Idolatria, e mentre nel testo Maimonideo troverete la
decisione formulata nel senso appunto or or ricordato, volgendo per
poco gli occhi alle note che vanno attorno al testo, e che si dicono
_Agaot_ o _Scoree_ Maimonidee, leggete a proposito delle tre eccezioni
rammentate: _Ad onta dell’opinione di R. Simone che disse prevarichi e
non muoja_, ch’è quanto dire, per parlare col linguaggio di Epifanio,
ad onta del riformatore degli Esseni _Elhai_ che insegnò fra l’altre
cose ai seguaci dissimulazione nella _Idolatria_.

Noi abbiamo compiuta gran parte del nostro assunto; abbiamo trovato
l’origine delle voci accusatrici che corsero nell’antichità contro
l’idolatria degli Esseni; abbiamo trovato l’_Edipo_ della pretesa loro
astrolatria; e della loro antropolatria eziandio, ossia dell’adorazione
degli esseri umani. I quali furono ad un tempo virtù divine e storici
personaggi, ma l’uno e l’altro furono senza mischianza idolatrica,
senza incarnazione alla foggia del Cristianesimo e del Buddismo, ma
in virtù di quel rapporto che insegnarono i Cabbalisti esistere fra
un grand’uomo e una grande idea, fra l’ideale divino e il sensibile
umano, fra le idee eterne che risiedono in Dio e la loro esplicazione
e sviluppo mondiale per opera or di questa or di quella espressione
e veste finita di una idea infinita.—E tutte queste cose vedemmo e
vediamo sempre più ridondare al trionfo di quella identità che stimammo
guida sicura e fedele in queste nostre ricerche. Ma Epifanio con una
frase compie il ritratto di _R. S. B. J._ quando dice che _Elhai_
lasciò un libro ai seguaci delle sue profezie, e questo libro, se il
giudizio non erra, non è certo il Zoar tal quale ora si trova, in cui
tanti diversi e posteriori vestigi tu riconosci al grande Teosofo, ma è
certo la prima idea, il primo saggio, il primo nucleo, il primo germe
di essa opera, e sopratutto i pensieri, le dottrine e la distribuzione
fra i discepoli dei vari offici di redazione; è quell’opera per cui
disse il gran maestro nell’ultima grand’assemblea: _Rabbi Abbà scriva,
ed Eleazario mio figlio mediti o detti_; è l’opera da cui potrebbe
uscire ed uscirà la restaurazione e il rinnovellamento dell’Ebraismo.



LEZIONE VENTESIMAQUINTA.


Escluse, spiegate le credenze ingiustamente attribuite agli Esseni,
trovata l’origine degli errori che gli si apposero, noi dobbiamo
procedere all’esame delle loro dottrine, di quelle intorno a cui niun
dubbio sorse a impedirci l’ammissione.—Noi cominceremo da quella parte
che riguarda l’uomo, la sua natura, il suo destino, i dogmi tutti
che si attengono all’uomo, ai suoi rapporti con Dio e col Mondo;
da quella parte insomma delle scienze filosofiche che si chiama
Antropologia. La quale formò sempre parte di tutte le religioni,
quando si studiarono sopratutto di conciliare la libertà dell’uomo
e la potenza di Dio, l’arbitrio e la grazia, l’azione di Dio e la
responsabilità dell’uomo.—Il quale problema essendo stato subbietto di
una triplice soluzione, così dà origine a tre scuole, a tre sistemi,
a tre modi di concepire i rapporti morali, etici di Dio coll’uomo.
Fu per gli uni la libertà immolata all’azione di Dio; fu dagli altri
ogni influenza negata al divino volere; fu pei terzi l’azione di Dio
e quella dell’uomo in guisa contemperate che la responsabilità intera
rimanesse all’uomo, senza ledere la universalità e pienezza dell’azione
divina. Ora queste tre soluzioni che si verificano in ogni età, in ogni
religione, che ebbero rappresentanti in seno al Cristianesimo, nei
cattolici, nei giansenisti e calvinisti, e nei pelagiani, si verificò,
dice Giuseppe, nel giro delle credenze ebraiche, e furono dalle tre
scuole rappresentate che più illustri sorsero nell’Ebraismo.—Proclamava
il Farisato _destino_ ed _arbitrio_—_grazia_ e _libertà_. Volere di Dio
e volere dell’uomo, quali forze insieme cooperanti all’atto dell’uomo.
Pretesero i Sadducei, autonomo assoluto il libero arbitrio.—Vollero per
ultimo gli Esseni, aggiunge Filone, che ogni atto dovesse referirsi al
destino.—Qui vediamo cosa che sembra a prima vista osteggiare il nostro
sistema d’identità essenico-cabbalistica. Vediamo gli Esseni procedere
distinti dai Farisei: non basta, li vediamo discordi in una delle
quistioni più capitali che siensi divise le coscienze negli antichi
e odierni tempi, e se dovessimo stare alla scorza delle espressioni
flaviane, ne dovremo concludere non solo la distinzione delle due
scuole, ma la loro ostilità eziandio. Ma quanto ingiustamente! Egli è
certo che bene s’appone Giuseppe quando i Farisei disse conciliatori
e partigiani della grazia e dell’arbitrio. Basta volgere uno sguardo
alle pagine talmudiche per vedervi alternativamente costatata l’azione
reciproca combinata dell’_arbitrio_ e del _volere di Dio_ nelle
azioni dell’uomo, e che parrebbemi opera soverchia in questo lungo
rammemorare. Ma non meno, a veder bene, s’appone Giuseppe quando
gli Esseni dice, tutte le umane azioni riferire al destino.—Ma qual
destino? Io non so che cosa abbia inteso così dicendo Giuseppe.—Forse
concepì il _destino_ degli Esseni, nel senso volgare, dello stoicismo
contemporaneo e del paganesimo, forse a significare cosa ben diversa
di una cieca fatalità, si valse di un _vocabolo_ che forse il più
acconcio, benchè inadeguato, suonava allora a significare l’essenico
concetto. Checchè ne sia, la formula essenica non potrebbe meglio
consuonare colle dottrine dei Cabbalisti, i quali soli proclamarono
in seno dell’Ebraismo un principio che vano sarebbe cercare nel
Talmud, cercare nei Medrascim, ed in qualunque altro libro estraneo
alla scienza dei Mistici; forse perchè solo armonizzando colle
rimanenti loro dottrine può deporre quel senso immorale e fatalistico
che altrimenti avrebbe immancabilmente. Quando il Zoar, referendosi
a libri e dottrine ad esso anteriori, insegnava: _Tutto dipendere
dal Mazal—fosse ancora la Legge di Dio deposta nell’Arca_—annunciava
quel principio che meglio consuona col dogma essenico asserito da
Flavio, e tanto più intimi ne svela i rapporti quanto più speciale e
peculiarissimo ai Cabbalisti appartiene.

Se questo ne fosse il luogo, non malagevole tornerebbe il mostrare
quanto il Cabbalistico _Mazal_ si dilunghi da quello che comunemente
s’appella _Destino_. E forse non andrebbe errato chi volesse trovare
nell’antico _Fato_ dei Greci alcun che di consimile al _Mazal_
cabbalistico, non essendo, a quel che pare dalle antiche teogonie,
destituito il greco di ogni intelligenza e volontà, e solo in tanto
distinguendosi dalla folla degli Dei, che a differenza di essi siedeva
il Fato in regioni ove le passioni e le lotte umane non giungevano a
disturbarne gli impassibili e sovrani decreti. Quello ch’è certo si
è, che il senso, la etimologia della parola Mazal bene dà a divedere
a chi la intende quanto intimamente si connetta colla Dottrina
dell’Emanazioni, null’altro a mirar bene significando che _influsso_,
_emanazione_, o come dire vogliamo _discorrimento_.

Ma noi dobbiamo procedere oltre nell’esame degli essenici dogmi, e
poichè dell’anima umana abbiamo preso in prima a discorrere, dopo avere
stabilito quei rapporti che a Dio la congiungono, al dire degli Esseni,
mestieri è pure che di quei rapporti pur noi si favelli che, secondo
gli Esseni, al suo corpo istesso la congiungevano. E intorno a questo,
Giuseppe e Filone son categorici. Per essi, o per dir meglio per gli
Esseni di cui ci riferiscono le credenze, se l’anima al corpo si unisce
egli è a suo malgrado, egli è, dicono essi, per una certa _invariabile
attrattiva_ che la spinge a subire tutte le vicende della vita terrena
insieme al corpo. Ora chi potrebbe negarlo? Chi potrebbe dire che
non siano queste le idee, e i più ovvj insegnamenti dei Farisei?
Non solo la Misnà, e la più popolare della intera compilazione, ne
intima la verità del principio _al corhah attà nozar_, ma i Rabbini
posteriori prendendo a svilupparne i dettati, siccome è loro stile, e
drammatizzando la troppo austera semplicità del placito minico, dicono
di un Angiolo che invita le anime a rinserrarsi nel femminil chiostro,
nell’atto della concezione; dicono delle repulse, delle resistenze
che l’anima gli oppone, siccome quella ch’è rifuggente dalle turpezze
e infermità della carne; e dicono infine che agli inviti ed alle
esortazioni succede la forza, un vero _compelle intrare_, ma intimato
questa volta dal Dator della vita. E qui sarebbe il luogo, dopo le
mostrate analogie col farisato, di far scendere in campo Platone e
la sua scuola, da cui appunto s’intitola principalmente la discorsa
teoria della unione forzata col corpo; e tra i Dottori e gli Esseni da
una parte e Platone dall’altra, quei rapporti additarne che corrono
forse speciosi e parventi meglio che profondi e reali. Ma di rammentare
Platone un dotto rabbino olandese mi dispensa, l’antico Menascè ben
Israel. Il quale nella dotta e pia sua opera, _Nismat Haïm_, non mancò
di notare, versato qual egli era nelle filosofiche discipline, come
la _Misnà_, come il _Medrass_, quello stesso insegnavano che aveva
insegnato Platone quando dicevano che gli spiriti scendevano riluttanti
a rinserrarsi nel corpo. Il _Menascè ben Israel_ avrebbe potuto
aggiungere anche i Pitagorici, i quali, come avvertiva il Ritter nel
primo volume della _Storia della filosofia_, precorsero a Platone in
questo modo di concepire l’unione dell’anima col corpo. Se non che,
come io dissi non ha guari, l’analogia tra Platone e gli Esseni e
i Farisei è più apparente che reale; e se questo fosse il luogo di
rilevare la distinzione profonda che divide le due Teorie, tanto più
volentieri lo farei quanto più la Teoria platonica ci offre della vita
terrena un concetto punitivo e sinistro, che non entrò giammai nei
pensamenti dei Farisei e tanto meno dei Cabbalisti. Ma di queste cose
ci basti qui lambire soltanto la superficie, dovendoci pel compito
nostro interdire ogni benchè seducente digressione che troppo lungi ci
meni dal subbietto in discorso.

Che se questi sono dell’anima i rapporti con Dio e quelli col corpo,
in qual guisa ne compresero gli Esseni la natura e l’essenza?
Distinsero, se bene m’appongo, la sua parte materiale da quella che
dissero il _Noo_, ovvero intelletto. E la parte materiale dissero
essere il sangue.—A queste parole chi non ricorda Mosè? Aveva pur egli
stabilito, in termini che più non si potriano formali, l’_anima essere
il sangue_. E non solo Mosè, che della immaterialità delle anime umane
o si tace, o di oscuri accenni si accontenta; ma i Rabbini pur essi,
che questa immaterialità riconobbero, dissero come Mosè l’_anima_,
l’_anima del corpo_, il _principio vitale_, il _pneuma_, come oggi si
direbbe, essere nel sangue; prova se altra fu mai concludente come a
torto si vorrebbe intendere l’espressione mosaica com’escludente la
immaterialità delle anime, dappoichè i Rabbini che a questa formalmente
ossequiarono, non si astennero dall’usare la stessa espressione che
Mosè aveva usato prima di loro. E non solo la riproduzione della frase
mosaica n’esclude la interpretazione materialistica, ma quel senso ce
ne offre più adeguato che i Dottori intesero nell’adoprarlo. Il quale
si connette colla triplice divisione che fecero dell’anima i Dottori,
i Cabbalisti; distinguendone tre gradi o tre parti, la prima che
dissero _vegetativa_, l’altra _sensitiva_, la terza _intellettiva_. E
la prima forse è quella che dissero parte materiale, e posero il suo
seggio nel sangue. Ma non solo sentenziarono del principio di vita
e del suo seggio, ma di questo seggio istesso, ma del sangue ancora
dierono la teoria fisiologica. Il sangue pegli Esseni era composto di
due elementi, di aria e di fuoco. Il quale principio non solo meglio si
comprende al paragone dei sistemi medici agli Esseni contemporanei, ma
se io troppo non oso, un senso tuttavia potrebbe avere anco nei sistemi
dei giorni nostri. La storia della antica medicina, specialmente quella
dottissima di _Giusto Hecker_ professore berlinese, ricorda sistemi
pressochè agli Esseni contemporanei, che ammettevano nelle arterie
circolante una specie di pneuma o spirito vitale, rispondendo con
singolar disinvoltura a coloro che obbiettavano l’esperienza la quale
mostra l’arteria ferita mandare sangue. Chi volesse poi in linguaggio
moderno tradurre l’essenica dottrina, la combinazione di aria e di
fuoco, potrebbe pensare alla _combustione_ ed all’_ematosi_, ambidue
effetto della respirazione, la prima palesantesi nella emissione del
_carbonio_, la seconda consistente nella ossigenazione, ch’è quanto
dire nell’introduzione dell’ossigeno nella massa sanguigna.

Ma gli Esseni, noi lo abbiamo veduto, riponevano in un principio
diverso la causa, l’origine del pensiero. Questo principio immateriale
è chiamato da Filone il _Noo_ e talvolta _Pneuma_ o _spirito divino_,
ed in mancanza di ragguagli più diretti della essenica nomenclatura
dobbiamo contentarci delle indicazioni di Filone, che può avere, come
dicemmo altravolta, rivestito di forme greche l’ebraico pensiero,
ma che lo mantenne, così è lecito credere, immune di sensibile
alterazione. Però non è sì che questa fedeltà _filoniana_ qualche
volta non si smentisca, e che obbedendo forse alla necessità in cui
era di far comprendere ed accettare dal mondo pagano le dottrine
dell’ebraismo, non si valga talvolta di espressioni un po’ equivoche,
testimone quando parla della natura dell’anima, quando dice le anime
umane della stessa natura essere degli angioli; anzi quando null’altra
differenza addita tra le une e gli altri, se non la discesa ed il
soggiorno nel mondo dei corpi.—Per Filone può l’anima discendere
ed abitare nei corpi una sol volta, può altre fiate ripetutamente
vestire la forma carnale, può infine restare in eterno immune da ogni
coabitazione e commercio coi corpi.—E in quest’ultimo caso, dice
Filone, ei sono gli angioli, anzi e’ sono i genii di cui parlano i
filosofi.—Se Filone intese parlare con filosofico rigore, egli ha
torto nel senso dell’ebraismo. Il quale tanto profondamente distinse
la natura dell’angelo da quella dell’uomo, che niuna più famosa
disputazione narrano gli annali dell’ebraismo di quella che a proposito
s’impegnava della preminenza dell’una e dell’altra. Nella quale i nomi
più famigerati figurano non solo del Talmud e dei Medrascim, ma dei più
celebri posteriori Dottori eziandio, quali furono, a mo’ d’esempio,
_Rabbenu Saadia_, _Abenesra_, ed una schiera illustre di dottori
cabbalisti. Ma quanto ad un tempo fedele e felice interprete ai Pagani
non si mostra Filone delle antiche dottrine degli avi suoi, quando
parla del soggiorno delle anime!—Udito avevano i Pagani i lor filosofi
insegnare, avere le anime dei trapassati per abituale loro soggiorno
l’atmosfera, o come allor si diceva l’aria intermedia; e basta leggere
il Ritter e i cenni ivi contenuti sulle scuole antisocratiche, per
vedere quanto comune fosse tra gli antichi questo pensiero sulla sede
degli spiriti. Or bene che credete che faccia _Filone_? Egli traduce
nel linguaggio del paganesimo ciò che aveva letto nella Bibbia, non
già delle anime de’ giusti ma di quelle dei riprovati, ciò che disse
_Abigaille_ accennando alle sorti eterne dei nemici di David, i quali
dic’ella: _Andranno balestrati in qua e in là, come pietra nella
balestra_, ciò che gli era giunto da Palestina qual eco della mitologia
rabbinica, che ripone nell’aria intermedia gli spiriti che vi nuotano,
dice il Talmud, in numero infinito; e per toccare di alcun che di più
serio, ciò che aveva imparato nelle dottrine essenico-cabbalistiche,
avere le anime residenza nella _sefirà_ che si chiama _Jesod_, e che
per colmo di maraviglia, reca in quelle dottrine il nome di _Rakia_,
di atmosfera, alla quale, dicono essi, alluse Mosè quando parlò _degli
uccelli che volano per l’aria_ pei quali intesero le anime che hanno
sede e radice nell’atmosfera divina cioè nel _Jesod_, come Dante
chiamò l’angelo, nella Commedia, _divino uccello_. E siccome tutte
queste cose aveva udito e imparato Filone, così quando scrivendo per
i Pagani volle dire del seggio delle anime, dir volle in guisa che la
terminologia convenzionale restasse intatta, che udito avea dai maestri
di religione, in guisa che rispondesse alle idee che d’abantico avevano
i Pagani addottato forse per un’equivocata interpretazione dell’antica
simbologia patriarcale, e disse, come udito avete poco anzi, aver le
anime seggio nell’atmosfera. Ma se i dotti intendevano per _rakia_,
atmosfera, tutt’altro che l’aria che ne circonda, se intendevano
la _matrice_, il _repositorio_ delle anime umane, anzi l’_anima
universale_, il _Paramatma_ degli Indiani, la _Psiche_ di Platone, non
è sì che il popolo non intendesse della vera e propria aria che ne
circonda, non è sì che gli stessi cabbalisti segnatamente l’_Aari_
non dicesse di vedere le ascensioni e le discese degli spiriti umani
nell’aere circostante, non è in somma che Filone non fosse interprete
fedele, ancorchè alla lettera interpretato, delle credenze almeno
popolari degli avi nostri.—Però eran tra i due popoli, tralle due
mitologie una differenza essenziale. Pei Pagani era l’aere seggio delle
anime indistintamente, fossero esse buone o ree uscite da questa vita.
Pei nostri, per l’_Aari_, per i cabbalisti, egli è seggio soltanto
di quegli spiriti che la sorte balestra errabondi e incerti negli
spazzi infiniti, indegni del cielo per che non l’han meritato, indegni
ancora dell’inferno e de’ demonj che vi soggiornano per che _troppa
onoranza avrian d’elli_. Io vorrei che tutto comprendeste il poetico
magistero dei teologi nostri ed insieme la profondità filosofica che
vi si acchiude: prova, se pur altra ne occorresse, che la poesia non è
che una filosofia potenziale e implicata, come la vera filosofia non è
che poesia esplicita ed attuale, ed altra differenza non correndo tra
esse se non quella che corre fra il pensiero intuitivo e il pensiero
riflesso.—Chi non vedesse di questi pensieri e teorie cabbalistiche
che la corteccia, chi non risalisse ai principj che dominano tutta la
scienza, altro non si vedrebbe che vaghe sì e piacevoli finzioni in cui
il cielo, l’aria e l’inferno sono designati qual triplice seggio delle
anime beate, sospese, e di quelle penanti: ma per poco che si risalga
ai principj, qual metamorfosi! Fra i quali, principio capitalissimo
per l’ordine morale cosmologico, provvidenziale, egli è quello che
ogni cosa terrena dice _copia_, _ombra_, _riflesso_ di una idea che
vive eterna e sta nella mente divina, principio che ammette anteriore
e superiore a questo mondo dei corpi, in Dio, cioè nell’assoluto,
nell’infinito, un mondo ideale che è la parola interna di Dio, il
_Logos endiatetos_ di Filone, il piano architettonico, il prototipo
celeste, il disegno infinito anzi la verace realità, l’essere verace di
cui le esistenze corporee non sono che ombre che si proiettano dalla
mente di Dio, che figure che passano come le ombre degli astri che si
proiettano nell’ecclisse come le vesti di cui parla il Salmista, che i
rami estremi del grand’albero della creazione il quale ha le sue radici
nell’intelletto divino nell’eterno esemplare, vero _Olam abbà_, vero
_paradiso_, vera _beatitudine_. Ora, se rispetto al nostro pianeta,
tre si distinguono principalissime regioni; se vi ha la regione
celeste dimora degli astri; se vi ha l’aria intermedia, l’atmosfera
che tramezza tra il cielo e la terra; se vi ha, come è provato in
_Geologia_, un fuoco centrale, un centro incandescente che è il centro
terreno perpetuamente in fusione, e se, ricordatelo bene, il mondo
fisico è esemplato sul modello divino; se tutto ciò ch’esiste quaggiù
ed ogni forma e relazione delle esistenze tra loro, ed ogni stato
terreno risponde a uno stato celestiale supremo che lo ha generato,
come l’originale crea la copia; se è vero che non è che il pensiero di
Dio estrinsecato, come il pensiero di Dio non è che la creazione stessa
mentalizzata; se è vero che la internità del Cosmo è l’idea di Dio,
come la esternità dell’idea è il Cosmo, è la creazione; chi non vede la
efficacia, la verità del simbolo, quando tolsero a significare lo stato
dei Beati, il cielo o la regione suprema, lo stato dei sospesi, l’aria
intermedia, e quello dei riprovati l’inferno, o come suona il vocabolo
stesso, le regioni _infere_ ultime, fisicamente incandescenti, del
nostro pianeta? Egli è questo uno dei simboli che dovrebbe piuttosto,
secondo Gioberti, nomarsi _Tecmirio_, dappoichè fra il simbolo e
la cosa simboleggiata non corre solo una relazione e similitudine
arbitraria e puramente fantastica, ma una relazione intima, logica,
soprasensibile, appunto come la relazione ch’esiste fra l’originale e
il ritratto.

Noi abbiamo gran parte esaurito di ciò che concerne la psicologia
degli Esseni, le credenze intorno l’anima umana, i suoi rapporti con
Dio, quelli che ha col corpo che veste quaggiù, la sua essenza, la
divisione delle sue forze, e infine il suo soggiorno. Io vorrei potere
porre compimento a questa parte della Dogmatica degli Esseni, se non
che l’ora breve mi fa protrarre ad altro giorno lo studio di altri due
punti non meno interessanti, la _metempsicosi_ e la _resurrezione_,
secondo gli Esseni. I nuovi studj non faranno che confermare l’antico
nostro sistema d’identità _essenico-cabbalistica_. Noi udiremo, come
abbiamo udito sinora, l’eco lontana delle dottrine cabbalistiche
ripercuotersi a traverso dei secoli, e giungere sino a noi che eravamo
sinora assuefatti al silenzio di quelle dottrine nei primi secoli
dell’E. V. Quel sistema che pareva non esistere in quell’antichità,
si mostrerà per organo degli Esseni non solo esistente, ma vivente e
parlante, e tanto più andremo persuasi col _Frank_, con il _Munk_, col
_Ritter_, coi dotti veramente nella questione imparziali, quanto antico
sia quel sistema teologico nel nostro popolo.



LEZIONE VENTESIMASESTA.


Prendendo noi a trattare della Dogmatica Essenica, e di questa avendo
anzitratto discorso di quella parte che si attiene alla Psicologia
ossia alle dottrine sull’anima, noi abbiamo, se ben vi ricorda, due
punti riservati alla odierna trattazione, e sono la _metempsicosi_,
vale a dire la trasmigrazione delle anime, e la _risurrezione dei
corpi_, quali furono intese e credute dalla società degli Esseni.
Io oso dire che se altro punto di contatto non fosse tra Cabbalisti
ed Esseni che la credenza alla metempsicosi, se questo solo ci
rimanesse documento dell’illustre sodalizio, egli sarebbe già un
gran passo compiuto in questa via d’identità essenico-cabbalistica,
in cui ci siamo impegnati. E pure nulla di più provato per ciò che
riguarda gli Esseni. I quali ossequiarono, al dir di Filone, al dogma
anzidetto quando discorrendo della sorte divina che incogliere può
agli spiriti immortali, parte dissero, lasciare la vita terrena per
mai più ritornarvi, parte iteratamente vestire queste carni mortali,
secondo una legge providenziale diversamente dispone. Io farei opera
interminabile se qui dovessi il solo novero ricordare dei popoli
illustri antichi e moderni, di sistemi filosofici, di teorie eziandio
socialistiche che al dogma inchinarono della metempsicosi, e comecchè
opera non vana, ma utilissima e profonda sarebbe questa, ciononostante
rimarrommene per brevità, sì perchè mestieri è pure che entro i limiti
di una storica esposizione mi circoscriva, sì perchè è tale questo
delicatissimo argomento, intorno a cui ogni ragione ne comanda riserva.
Ma io non posso da due cenni astenermi che troppo degni mi sembrano
invero di ricordanza. È il primo quella bella conferma che dalla
descrizione di Filone emerge, pel concetto che degli Esseni offriva
ai suoi lettori _Flavio Giuseppe_ quando li diceva simili, affini ai
_Pitagorici_. Giuseppe, che io mi sappia, non dice esplicito ciò che
disse _Filone_; non assevera formalmente la metempsicosi presso gli
Esseni, ma dice solo essere costoro i _Pitagorici_ dell’ebraismo, come
i Farisei ne dice gli _Stoici_, e come i Sadducei seguaci egli dice
di _Epicuro_. Ma quanto è il suo dire eloquente! Poichè il nome solo
dei Pitagorici fa fede, se io non erro, a bastanza della presenza
della _metempsicosi_ in seno agli Esseni, non essendo dogma a parer
mio per cui siano andati più distinti e famosi i Pitagorici, di
quello appunto della trasmigrazione delle anime. E se alcuno di ciò
dubitasse, ogni dubbio svanirebbe, ne son certo, dopo la lettura del
_Ritter_. Il quale è il solo, se io non sbaglio, fra gli storici della
filosofia che più proceda meticoloso, e secondo me, spesso ingiusto
per troppa esigenza nella critica dei testi, nella scelta dei fonti,
quasi interamente esautorando di ogni critico valore gli scrittori
tutti che per poco furono posteriori agli immediati successori di
Socrate; i quali pure sono, come ognun sa, le più ricche e preziose
miniere di storici ragguagli intorno le più antiche scuole eziandio
antisocratiche, qual fu per esempio quella appunto italo-greca che
si disse dei Pitagorici. E pure al _Ritter_ non bastò l’animo negare
l’esistenza del dogma della metempsicosi fra i Pitagorici; tanto
sembrava a lui stesso caratteristico della scuola, e tanto altresì
a _fortiori_ sembrar doveva al nostro Giuseppe che questo special
distintivo della scuola aveva, senza meno, presente quando diceva ai
suoi lettori pagani essere i nostri _Esseni_, i nostri _Cabbalisti_
i _Pitagorici_ dell’ebraismo. L’altro punto che voglio toccare di
volo, riguarda più davvicino il dogma in se stesso, ed a cose ed a
uomini si riferisce a noi coetanei. Io non uscirò riguardo al dogma
dalla riserva che mi sono imposto: ma chi potrebbe al tutto trattenere
le parole quando il più imponente e vasto pensiero che capir possa
nella mente dell’uomo si vede ad una critica soggiacere frivola,
superficiale e buona appena per una finzione da romanzo? Ciò che non
posso tacere è lo strano spettacolo che mi si offerse non ha guari nel
_Journal des Débats_. In Parigi, nel secolo decimonono, nel grande
trambusto e commovimento di religioni, di filosofia, di sistemi d’ogni
maniera, si udì una voce che sorse a rivendicare l’antico dogma della
metempsicosi, e questa voce fu del _Martin_, nell’opera che chiamava
_Cielo e Terra_. Ma il _Martin_ doveva subire pena condegna al grave
fallo. Nella terza pagina del _Débats_ ove si fanno le _apoteosi_ e gli
_autodafè_ delle opere nuove, un filosofo, uno dei guerrieri riservati
per le grandi occasioni, doveva fare del _Martin_ e della opera sua
adeguata vendetta. Io vorrei potervi qui proporre le obiezioni colle
quali si pretese schiacciare l’opera del Martin, e giacchè le mille
voci del giornalismo recarono dovunque l’eco ripetuto della disputa
insorta, io non so chi ci tenga di mescere a quelle infinite voci
anco la nostra. Ma io nol farò, solo per non protrarne all’infinito
l’opera assunta. Questo solo dirò, che ciò che tornavami a vedere
più doloroso si è il nome che sottostava a quel lavoro di critica
filosofica. Io ebbi parecchie volte occasione di nominare il _Franck_,
e con quale stima e venerazione per me si facesse, ditelo voi che ne
foste le mille volte i testimoni. Io credo e crederò sempre l’opera
del Frank sulla _Kabbale_ ottimo servigio reso alla scienza e alle
credenze ebraiche, e Dio volesse che l’illustre Luzzatto e consorti,
anziché occuparsi a denigrarla, mirassero a compirla, a perfezionarla.
Ma se gli antichi dissero _sed magis amica veritas_, io non posso
questa volta trovare nè bello nè serio l’officio dal signor Frank
adempito. Non bello, perchè male s’addice allo storico e apologista
dei Cabbalisti, al discendente degli Esseni, stendere l’atto d’accusa
della metempsicosi; non serio, perocchè non è difficile trionfalmente
replicare alle obiezioni ivi stesso suscitate dal Sig. Frank. Le
quali, parte consistono nelle antiche e più comuni confutazioni del
dogma, parte nuove ma tutt’altro che inoppugnabili. Ma questo ed altro
simile abbiamo detto trapassare in silenzio, ed al proposito nostro ci
atterremo. Solo piacemi ora toccare del secondo dogma in questione: è
il dogma della _Risurrezione_. Per non avere trovato esplicitamente
insegnata l’esistenza di questo dogma presso gli Esseni, alcuni moderni
critici specialmente imbevuti del genio ipercritico dell’Allemagna
lasciarono libero il freno al loro congetturare a _priori_, e dalle
idee che formavansi gli Esseni dei rapporti primigeni dell’anima col
corpo, crederono poter dedurre la negazione del dogma resurrezionale
in seno agli Esseni. Vi ha in Parigi un giornale letterario che si è
tolto l’assunto d’informare la Francia dotta, religiosa, letteraria dei
grandi lavori che giornalmente s’imprendono, si compiono nella vicina
Germania, che per ciò appunto si noma _Rivista Germanica_ e che per ciò
appunto dovrebbe ricercarsi e possedersi dovunque, che per mancanza di
rapporti più immediati, non è concesso attingere direttamente alle vive
e abbondanti fonti della scienza ed erudizione germanica. Or bene; nel
nono numero di quest’anno istesso 1858, trovai inserito un articolo
di sommo interesse per le nostre ricerche, e che all’autore Michel
Nicolas, professore di Teologia in Montauban, piacque d’intitolare _Gli
antecedenti del Cristianesimo_. In un articolo che si chiama _degli
antecedenti del Cristianesimo_, il nome degli Esseni non poteva non
figurare in luogo eminentissimo, come difatto vi figura; e molte delle
questioni da noi lambite, vi sono profondamente e maestrevolmente
trattate. Ma sia vaghezza di fare meno che è possibile tributario il
Cristianesimo della società degli Esseni; sia non avere compreso le
strettissime affinità tra gli Esseni ed i Farisei; sia la mania di
argomentare per vie insolite e non battute trasandando i raziocinii
più ovvii e più alla mano, fatto sta che secondo Michel Nicolas gli
Esseni non conobbero o negarono il dogma risurrezionale. E perché così
giudica il Nicolas? Perchè egli crede incompatibile il principio della
unione forzata col corpo, col ritorno dell’anime a vivificare i corpi
una volta abbandonati, perchè egli crede il distacco da tutte le cose
corporee essere stato il perpetuo conato, e la perfezione ideale che
l’Essenato si proponeva senza pensare che le tendenze anticorporee
dell’anima a sè stessa lasciata, non montano nulla nè agli ordini
universali della Provvidenza di Dio, la quale può volere la seconda
e ultima volta come volle la prima, quell’unione che non si compiva
nè compirassi che a malgrado dell’anima; senza pensare che il dogma
risurrezionale implica per sè stesso la rigenerazione, e per dirla
tecnicamente la _Palingenesi_ dell’Universo, e quindi il ritorno alla
purità primigenia di quella carne che non è, secondo l’Ebraismo, rea
per sè stessa ma che tal divenne per un principio a lei esteriore;
e quindi per ultimo corollario che l’antipatia o antagonismo fra
lo spirito e la materia potrà e dovrà cessare allora, quando la
primigenia armonia sarà ridonata, della quale furono preludii e quasi
presentimenti Mosè sul monte e soprattutto Elia, Elia che s’incielò
vestendo tuttavia carne mortale, per lo cui insigne privilegio io credo
che presegga alla culla dell’uomo come angiolo della creazione, ed alla
sua tomba come angiolo della resurrezione, quasi perpetuo iniziatore
e ierofante della vita mortale, identico al greco Mercurio, all’Erme
egiziano, al Sireo o Cane Celeste, guida e conduttore delle anime. E,
mirabile a dirsi, i Cabbalisti dierono il _cane_ per simbolo ad Elia
e nel nome suo trovarono aritmeticamente il nome _Cheleb_, ambedue
sommando egualmente _cinquantadue_, e prima di essi i Talmudisti
muovendo evidentemente dagli stessi principj dissero le grida gioiose
e gli scherzi dei cani annunziare Elia che entra in città. Ma io mi
sento trascinare senz’addarmene punto, da digressioni certo nè inutili
nè volgari, ma che troppo il libero corso arresterebbero dei nostri
studj. Noi dicevamo come a torto negasse agli Esseni il Nicolas il
dogma di risurrezione. E fortunatamente non siam soli a così opinare.
Il Nicolas stesso s’incarica d’informarcelo. _Telle n’est pas_,
egli dice, _l’opinion de M. Hegenfield, qui dans un ouvrage récent_
(e che si chiama l’_Apocalittica ebraica_) _attribue aux Esséniens
la composition des Apocalypses Juives, ou du moins les range parmi
les Juifs qui s’occupèrent le plus des idées apocalyptiques_. Ora
le apocalissi, le idee apocalittiche importando per lor natura il
supposto di un ciclo apocalittico, di un cielo palingenesiaco, ossia di
rigenerazione cosmica, universale, egli è chiaro come gli autori delle
apocalissi non potevano disconoscere un dogma che tanto davvicino si
attiene alle loro teorie, anzi che n’è parte inseparabile, che vediamo
immancabilmente figurare in tutte le superstiti apocalissi, vuoi spurie
o legittime, quali sono, a mo’ di esempio, il libro di Daniel e
l’apocalissi o rivelazione di Giovanni. Ma contro l’opinione ricordata,
e ch’è la nostra, potrebbe alcuno argomentare; potrebbe dirsi: Filone
e Giuseppe sono i soli o almeno i principali storici dell’Essenato.
Ora Giuseppe e Filone quando favellano degli Esseni non parlano della
Risurrezione, non l’annoverano tra le loro credenze, non ne fanno parte
del sistema lor teologico, con qual diritto attribuirgliele, e come la
lacuna colmare di nostro arbitrio? Ma quanto labile quest’obiezione! Se
io volessi, per sovrabbondanza di prova, far tesoro di argomenti, di
repliche vittoriose, sareste voi piuttosto stanchi d’udire, che non io
di favellare. Potrei citare l’autorità del medesimo Nicolas quando, in
altro punto del suo lavoro mi porge egli stesso le armi onde al nulla
ridurre la forza della sua negazione, quando misurando il grado di
contezza che dell’illustre istituto possedevano Giuseppe e Filone, dice
del primo: «_Joseph, qui avait passé un an dans la société, n’avait
pas franchi le premier degré de Noviciat, et ne connaissait pas par
conséquent le fond de ses doctrines_;» e del secondo aggiunge non men
categorico: «_et Filon, comme Neander le fait remarquer, les présente
non tels qu’ils étaient en réalité, mais tels qu’il lui convenait
qu’elles fussent pour que les Grecs éclairés vissent dans les Esséniens
des modèles de sagesse pratique_.» Il Nicolas dice assai, dice anche
troppo secondo me, nè io accetterei in tutta la sua estensione il suo
asserto se non colle più delicate restrizioni e riserve. Ma finalmente
che valore dopo queste parole può avere il silenzio di Giuseppe, di
Filone quando tacciono della Risurrezione, perchè veramente di silenzio
si tratta anziché di esplicita e formal negazione? E quante cause non
possono avere questo silenzio cagionato, anche allora che gli Esseni
avessero ossequiato, come hanno a parer mio veramente ossequiato, al
principio di Risurrezione. Può esserci stata ignoranza in Giuseppe
e Filone, come il Nicolas istesso ci autorizza a supporlo, comecchè
poco invero io inclinerei ad ammetterla trattandosi specialmente di
dogma popolare ed esoterico anziché di insegnamento acroamatico.—Può
essere stato studio, desio sincero di non urtare violentemente i
pregiudizj pagani ai quali nulla più tornava assurdo e mostruoso ad
udirsi che il risorgimento dei morti a vita eterna, testimone il riso,
lo scandalo che suscitarono nel mondo pagano le prime predicazioni
del Cristianesimo, quando annunziarono Cristo risorto dai morti, e
primogenito, come gli Apostoli dissero, del Regno futuro, e se non
temessi di riuscire troppo diffuso, non mi sarebbe difficile recare
in mezzo prove ed esempj di silenzii discreti, di opportune varianti,
di calcolate infedeltà, concesse, ammesse, usate in grazia appunto
dell’opinion dominante di cui, per non dire di altri, fu cospicuo e
manifesto esempio, ed è tuttavia, la traduzione dei Settanta.—Ma le
cose anzidette, che molto han pur di probabile, del verosimile, debbono
cedere il luogo al provato ed al vero, alla ragione che io credo solo
storica, solo reale, che può essere stata coadiuvata sì dalle altre
citate, ma che sarebbe egualmente vera, decisiva, perentoria, quando
pure fosse sola. Ed è questa che Giuseppe principalmente ed anche
Filone, quando parlano degli Esseni, quando dei Sadducei, Farisei ed
altre sètte dell’Ebraismo, solo quelle cose ricordano che distinguono
la setta in discorso, dal comune dell’Ebraismo, solo quella parte
pongono in luce della sua fisonomia, che discorda dalle generali
fattezze dell’Ebraismo; quello in somma che hanno di speciale, di
esclusivo. E poi, chi volesse con un sol fatto spogliare di ogni
valore il silenzio di Giuseppe e Filone, chi volesse sin dalle barbe
sradicare la negata resurrezione degli Esseni, basterebbe citare
i Farisei, ai quali non è nessuno che negar possa il dogma della
risurrezione, tanto vanno colmi i loro libri di espliciti insegnamenti
di questo dogma. E pure, guardate Giuseppe. Egli parla a lungo dei
Farisei, come parla degli Esseni, dei Sadducei; ne narra i costumi,
le credenze, le somiglianze colle scuole analoghe del Paganesimo, ma
nè un sol cenno nè un sol motto avviene che dalla penna gli sfugge
intorno il dogma in discorso. Per certo questo silenzio non è a caso,
sia che tacere abbia voluto ai Pagani un dogma che destato avrebbe il
riso e lo scherno dei loro filosofi, sia, come dissi poc’anzi, che di
quelle cose soltanto abbia preso a favellare che eran subbietto di
controversia, tacendo delle altre generalmente consentite; sia infine
ambedue le ragioni anzidette, fatto è che il silenzio di Giuseppe
nulla prova riguardo ai Farisei, e nulla egualmente conclude rapporto
agli Esseni, i quali come tutti gli Ebrei, e forse più di tutti gli
Ebrei, diedero, come fecero i _Cabbalisti_, luogo eminente al dogma
resurrezionale. Che se a tutte le ragioni finora discorse aggiungete
il silenzio del Talmud, che nel mentre narra le dispute dai Dottori
sostenute contro i settarj d’ogni maniera in favore di questo dogma,
non è mai che tra essi faccia menzione dei nostri Esseni; se aggiungete
il dogma della metempsicosi che, per chi bene lo intende, suppone qual
ultimo suo corollario la immanente ultima e definitiva unione delle due
nature; se pensate a certi fatti e credenze generali dell’Ebraismo che
gli Esseni non potevano ricusare sendo esse il fondo e il patrimonio
comune dell’Ebraismo, e che menano difilati, per poco che vogliamo
essere logici, al dogma in discorso; se pensate, a mo’ di esempio, ad
Adamo, creato in principio immortale, a Henoh di cui si tace, anzi si
nega fino a un certo segno la morte, ad Elia rapito in corpo ed anima,
nella vita celeste, ai singoli fatti dalla Bibbia narrati, di uomini
da morte a vita risuscitati, a Mosè che disse: _Ani amit va-ahaié_,
ad Anna che cantò: _Morid sceol vaiaal_, che cala nel sepolcro e ne
riscuote i caduti, a Isaia che poetò: _Ihiù meteha_ ec. a Ezechiele che
profetò: _Inneni poteah et Kibrotehem_, per non dire di Daniel, che
una critica troppo ardita potrebbe dire sconosciuto o non ammesso dai
nostri Esseni, e che è il profeta della risurrezione per eccellenza. Se
pensate a tutti i fatti e alle credenze narrate, chiaro vedrete come
troppo precipitosa sentenza abbia proferito il Nicolas, quando volle
la Risurrezione ignota, negata dall’Essenato e come per esso e per chi
opina con lui potrebbe dirsi con Petrarca:

  Ben fa chiunque impara sino al fine.



LEZIONE VENTESIMASETTIMA.


Se degli Esseni abbiamo studiato sinora ciò ch’insegnarono, rapporto
all’anima, alla sua natura, ai suoi destini, parmi questo luogo
conveniente di studiare altresì ciò che insegnarono delle straordinarie
manifestazioni delle facoltà psicologiche nelle predizioni, nelle
profezie di cui andarono gli Esseni celebri per il mondo. Giacchè narra
la storia parecchi e famosissimi casi, in cui gli Esseni annunziarono
da lungi un avvenire, che non mancò giammai, dice Giuseppe, di
avverarsi.—Si avverò, dice Flavio nel decimoterzo delle _Antichità_,
quando _Giuda_, Essena di nazione, per esprimermi com’esso s’esprime,
predisse la morte d’Ircano nella torre di Stratone; e tanto superlativo
si formava concetto del medesimo _Giuda_, che non teme Flavio di
aggiungere, per valermi della traduzione francese di Arnauld d’Andelby:
_que ses prédictions ne manquaient jamais de se trouver véritables_.—Si
avverò, oltre altri casi moltissimi narrati da Flavio, in quello
veramente memorabile d’Erode il Grande, quando un Essena per nome
_Menahem_ che menava, dice Flavio, una vita sì virtuosa che lodato era
da ognuno e che aveva da Dio ricevuto il dono di profezia, vedendo
Erode ancor fanciullo studiare insieme coi bambini dell’età sua, gli
disse che avrebbe un giorno regnato sopra gli Ebrei. Quando Erode
inalzato al trono si vide al colmo della prosperità, ricordossi di
Menachem e delle sue predizioni, e chiamatolo presso di sè, trattò da
quind’innanzi con segnalato favore tutti gli Esseni. Sono queste parole
pressochè testuali di Flavio Giuseppe, nelle quali misi uno studio
particolare di fedeltà onde le conseguenze storiche dottrinali che ne
dedurremo, sieno sopra basi fondate, solide, incrollabili.—Questi fatti
provano, non è dubbio, come gli Esseni s’occupassero di predizioni;
e qual credito insigne godessero tra i lor coetanei eziandio più
illustri, di veridici vaticinatori delle cose avvenire. Ma l’ultimo
dei fatti narrati, l’episodio dello inalzamento di Erode al trono di
Giuda, prova inoltre due cose; prova quanto ingiustamente sia stato
sinora creduto tacersi affatto gli antichi Dottori della società
degli Esseni, dacchè, singolare a dirsi, al fatto or’ora discorso
si allude manifestamente nel Talmud, come fra poco vedremo. E prova
poi altra cosa. Prova quella identità che non ho cessato un istante
di proclamare tra gli Esseni ed il Farisato, non altro essendo i
primi, a parer mio, che la parte eletta ed i teologi della scuola.
Ora chi non vedrà e l’una e l’altra cosa nel Talmud di _Kaghigà_? Ove
descrivendo le prime primissime origini delle controversie dei Farisei,
e i primi tra i Dottori ad erigersi tra essi antagonisti, narra qual
prima coppia ch’ebbe discorde il sentire in fatto di religione, un
Illel, l’antico il famoso Illel, che il chiarissimo Luzzatto crede
identico al Pollione di Giuseppe, e per secondo non già Sciammai
che non intervenne che tardi, ma il nostro, lo storico, l’Essena
_Menachem_ che precorse a _Sciammai_ nel rabbinico patriarcato e che
solo a _Sciammai_ cesse il luogo, l’ufficio, quando la sorte chiamollo
altrove, come vedremo. E perchè dico il talmudico Menachem identico al
nostro, all’Essena Menachem di cui parla Giuseppe? Perchè è il Talmud
stesso che ce lo insegna, per chi bene lo intenda, il quale, dopo
aver detto che a Menachem sottentrò nell’officio _Sciammai_, chiede a
se stesso.—Che cosa avvenisse di Menachem _leehan iazà_.—E Dio volesse
che fosse la risposta concorde. Ma no! Da Menachem al Talmud, o per
dir meglio, ai personaggi che qui interloquiscono nel _Talmud_, _Abaje
e Rabbà_, non solo più di tre secoli eran trascorsi, ma l’esilio, lo
spostamento delle accademie e dei centri studiosi avevano di tale
dubbiezza avviluppate le cose che immediatamente precessero la grande
catastrofe, che si vedevano sì, ma come gli obbietti si veggono per
l’aer caliginoso. Che volete pertanto? _Abajè e Rabbà_ rispondono sì,
ma onninamente discordi, alla domanda del Talmud. Dottori ambidue
Babilonesi, nati, cresciuti lungi da Palestina patria di Menachem,
ognuno di essi narra le cose tali quali le aveva udite per avventura da
una tradizione discorde. Per _Abaje_, Menachem uscì _letarbut rahà_,
frase talmudica che vale quanto _apostatare_ od uscire dal grembo della
ebraica ortodossia.—Per _Rabbà_ invece se Menachem non è più tra i
Dottori annoverato, egli è perchè (notate prezioso ricordo!) fu assunto
al servigio e ministero del Re, il quale come ora vedremo non è, nè può
essere altri se non _Erode il Grande_.—Ora di fronte al dubitar del
Talmud chi oserà asserire che le cose avvenissero come noi le dicemmo
avvenute? Quando due opinioni tenzonano, come vediamo, con egual forza,
chi ci autorizza a stare piuttosto alla seconda che non alla prima, e
soscrivere alla versione favorevole di _Rabbà_, piuttosto che a quella
a noi ostile di _Abaje_?—Ah! il perchè è facile a dirsi, e voi uditolo,
spero, mi darete ragione. Due sono gli argomenti capitalissimi che ci
persuadono vera, preponderante la tradizione di _Rabbà_. È il primo
un principio che corre comune e divulgato assai tra gli studiosi del
Talmud, che ovunque cioè una controversia si verifichi tra _Abajè
e Rabbà_, egli è al secondo che dobbiamo attenerci, tranne pochi
singoli casi nominativamente eccettuati dallo stesso Talmud. Che nelle
quistioni critiche storiche, anco dogmatiche, questo criterio non
abbia avuto sempre forza di legge, concedo anch’io volentieri, ma con
qual giustizia, con qual coerenza?—Certo con quella stessa giustizia
e coerenza che manomise nello studio del Talmud tuttociò che non ha
rapporto immediato colla pratica religiosa, senza pensare che ove di un
albero tu trascuri le radici, il tronco, i rami ed anco le foglie, è
vana opera occuparsi del frutto che non crescerà mai, o crescerà misero
e tristanzuolo, quale lo fece il mal governo dello stupido cultore.

A noi però che recammo sempre nell’animo la sintesi, la reintegrazione
della scienza ebraica in tutte le svariatissime sue parti, teoriche e
pratiche, non è lecito adottare criterio diverso nel rito da quello
che nella storia, nel domma, nell’esegesi adottiamo, e in queste come
in quelle diciamo e continueremo a dire _Ilheta che rabà_. E questo è
argomento che abbastanza identifica il Menachem del Talmud coll’Essena
Menachem, di cui Flavio discorre. Ma qual’è il secondo? Il secondo è lo
stesso Talmud che ce lo fornisce, ed è tale, che ove pure si volesse
niun valore concedere alla massima già esposta che dà ragione a _Rabbà_
contro _Abajè_, basterebbe per se solo a far prevalere l’opinione del
primo contro il dir del secondo. E perchèé? Perchè reca un inaspettato
ed autorevolissimo ausilio alla tradizione del primo, in un’antica
Barraità, che oltre essere opera di Dottori Palestinesi conterranei di
Menachem, è di gran lunga più antica del Talmud e dei suoi autori, e
quindi maggiormente si avvicina all’epoca di Menachem, e più veridica
e sincera ne ragguaglia dell’avvenuto. La Barraità o testo misnico si
pronunzia a dirittura in favor di _Rabbà_, e quella ragione assegna
al ritiro di _Menachem_ che _Rabbà_ assegnava, vale a dire i nuovi
offici che fu chiamato a sostenere in corte di un Re che non può essere
altro che Erode, TANA _nammè akì iazà Menahem laabodat ammelech_. Non
basta. La Barraità ci conserva memoria di una circostanza taciuta dallo
stesso _Rabbà_, e che più compiutamente risponde alla narrazione di
Giuseppe. Certo voi non lo avete obbliato. Oltre i favori personali
che asseguì _Menachem_, narra Giuseppe il credito, l’estimazione in
cui salirono, la mercè sua, gli Esseni: e come (sono sue parole) _da
indi innanzi trattasse con segnalati favori i nostri Esseni_. Or bene,
la Barraità pare che faccia eco alle parole di Flavio, e dopo aver
detto come udiste di Menachem che passò al _servigio del Re_, queste
parole aggiunge memorandissime che a voi raccomando: _E con esso
passarono allo stesso servigio ottanta coppie di giovani dottori in
serico ammanto_—segno della nuova dignità a cui furono assunti, secondo
era stile degli antichi principati rivestire i nuovi eletti di abiti
distinti, secondo si legge in Assuero e in Faraone. Ma questi due
argomenti, per quanto grandi, non sono i soli: ve ne sono altri due
che grandemente favoriscono il nostro sistema: l’uno è la concordanza
cronologica dei due fatti, l’altro è la produzione di un’autorità
tanto più concludente quanto più inconsapevole e spontanea. Che cosa
è la prova cronologica? È quella che dimostra come il _Menachem_, di
cui parla il Talmud, visse appunto in quel tempo in cui visse, al
dir di Giuseppe, il _Menachem_ degli Esseni, il favorito di Erode,
rendendo tanto più probabile la loro identità, quanto più strano
sarebbe ammettere al tempo istesso due _Menachem_ ambo dottori, ambo
favoriti da Erode, ambo seguiti da lunga schiera di Dottori favoriti
com’essi. Or bene: noi abbiamo un punto fisso di partenza nel calcolo
cronologico, ed è la data dell’esistenza d’Illel collega di Menachem.
Il quale visse e sostenne il patriarcato cento anni prima della
distruzione del tempio, nel quale tempo deve aver vissuto e figurato
lo stesso Menachem che gli fu collega nel dottorato, anzi capo della
scuola avversaria, alla cui testa si pose, dopo di esso Menachem, il
più famoso _Sciammài_. Questo punto dimostrato costante, che cosa ci
resta a fare per compire la dimostrazione e provare sincronici i due
Menachem? Dobbiamo, se non erro, provare che il Menachem di Giuseppe
visse, fiorì giusto cento anni prima dello esilio. Or bene: aprite
Giuseppe, e dove è menzione del fatto della predizione di Menachem
troverete notato dall’Arnauld d’Andelby essere ciò appunto avvenuto
nell’anno 40 prima dell’era volgare, la quale avendo preceduto circa
un 60 anni la distruzione del tempio, torna l’istesso che dire cento
anni prima della distruzione, ch’è quanto dire quella stessa data in
cui, secondo il Talmud, veduto abbiamo esistere, fiorire il talmudico
_Menachem_.

Ci resta ora ad allegare l’autorità la quale indirettamente, e per ciò
stesso tanto più concludentemente, depone in favor della identità dei
due Menachem. Io non so se ne abbiate contezza. Ma oltre le opere di
Giuseppe in greco dettate, e che furono tradotte, si può dire, in quasi
tutte le lingue dell’Europa, ve ne ha un’altra in puro ebraico distesa,
che mostra di appartenere allo stesso autore, ma della cui autenticità
molti dubbj sorsero e durano tuttavia. Or bene in quest’opera ebraica,
nel _Josifon_, al cap. 55, dove si parla della restaurazione del Tempio
per opera di Erode, narra pure la famosa predizione del regno fatta
da Menachem ad Erode ancor fanciullo.—Ma come la narra? Certo come la
narrava l’antico Giuseppe, tranne solo una frase che nel primo non
esiste e ch’è per noi il più luminoso attestato della identità dei due
Menachem. E là, ove nominando per la prima volta il profeta _Menachem_,
oltre porlo nel novero dei _hasidim e hahamim_, cenno, come vedete,
di gran rilievo, lo qualifica a dirittura _collega di Sciammai_, lo
che è appunto ciò che andiamo cercando, null’altro potendo essere un
_Menachem collega di Sciammai_ se non quello che appunto come collega
di _Sciammai_ è qualificato dai Talmudisti. Se poi a tutto questo
aggiungete che Erode fu, secondo il _Josifon_, secondo il Talmud, e
secondo il greco _Giuseppe_ intimo dei Farisei, sotto le cui bandiere
acquistò e conservò la corona; che fu stile generale, costante dei
Dottori farisei l’annunziare da lungi i grandi destini, specialmente
ai fanciulli come _Gamaliel a Giosuè_ ancor fanciullo prigioniero in
Roma, come Rabba di cui leggesi in Berahot ai due discepoli che aveva
commensali; che più particolarmente si occuparono di vaticinare il
regno ai futuri monarchi, come Rabban Joanan Benzaccai a Vespasiano
ed a Tito, come Ribbi Achiba a Barcohaba, l’_Arminio_ di Palestina,
se pensate che tutti i Rabbini posteriori come il Seder Adorot che
lessero nel _Josifon_ il fatto di Menachem, l’intesero qual personaggio
identico di fatti al Talmudico Menachem; se tutto questo aggiungete,
avrete un fascio di prove così stretto, così aderente, che insieme al
racconto talmudico, rispondente al racconto flaviano, insieme alla
concordanza cronologica dei due avvenimenti, forma tale congerie di
fatti così cospicui da costituire una vera e propria dimostrazione
evidente, da provare soprattutto questi due fatti capitalissimi: la
conoscenza che ebbero degli Esseni i Dottori nostri contro la sentenza
comunemente adottata, e la identità appunto di Esseni e di Farisei,
dappoichè questi ultimi dei primi favellano in guisa nel loro Talmud,
come se proprj fossero del Farisato gli Esseni, propria la loro storia;
proprie le glorie, e proprio tutto ciò che ad essi si attiene.

E poichè abbiamo preso a narrare le loro predizioni, mestieri è pure
che d’altro qui si favelli che merita pure tra quelle narrate luogo
cospicuo; e forse pegli autorevoli deposti, merita anzi sovra tutte il
primato. Voi avete udito Giuseppe narrare delle esseniche predizioni.
Or bene: Giuseppe, siccome quello che visse un anno nella società
degli Esseni, doveva pure pretendere al Profetismo, e difatti Giuseppe
apertamente v’aspira. Che dico? Narra egli stesso nel 3º libro delle
Guerre Giudaiche come, stretto d’assedio in _Jotapat_, predisse agli
abitanti che la città cadrebbe dopo 47 giorni di resistenza in poter
dei Romani, e ch’egli stesso sarebbe caduto vivo in poter loro. Non
basta.—Ciò che il Talmud narra di _R. Johanan Ben Zaccai_, ciò che
udiste poc’anzi da questo Dottore qual presagio di prossimo regno
a Vespasiano, ed a Tito, Giuseppe di sè stesso lo narra. Racconta
Giuseppe come condotto nel campo nemico, e presentato a Vespasiano,
questi deliberasse inviarlo a Nerone allora imperante; come a sua
notizia pervenuto l’intendimento di Vespasiano, alla presenza di Tito e
di altri due testimoni lo ammonisse dicendo, lasciasse pure d’inviarlo
a Roma perciocchè Nerone ed i suoi successori poco avrebbero ancora da
vivere; sapesse che egli solo dovrebbe ormai riguardarsi qual Cesare,
giacchè egli, Vespasiano, e dopo di esso Tito suo figlio sarebbero
saliti sul trono. Mentiva nel racconto Giuseppe, e fama volle usurpare
di profeta agli occhi dei posteri? Così sentenzierebbe una critica
superficiale, ma quanto ingiustamente! Poichè se il caso favorisse il
temerario annunzio del prigioniero, o piuttosto, le potenze recondite
dell’Essena, dell’iniziato, si risvegliassero all’occasione, questo
non saprei accertare; ma che Giuseppe non abbia peccato per frode,
ella è tal cosa che sfida ogni dubbio in contrario. E sapete chi me lo
dice? I contemporanei o poco posteriori a Giuseppe, i Pagani nemici del
nome ebraico, quelli che raccolsero di bocca alla fama il prodigioso
vaticinio, come correva allor rumoroso sulle labbra di tutti; egli è
Dione Cassio nel libro 66; egli è Svetonio nella vita di Vespasiano
al 12º libro; e se Tacito non si può annoverare qual testimone della
profezia di Giuseppe, si può qual autorità allegare di una predizione
almeno congenere. Ella è quella di cui favella nel 2º libro delle
Storie, parag. 78. _Sorge_, egli dice, _tra la Giudea e la Siria un
monte che si chiama Carmelo, il Dio che in quel luogo si adora reca il
nome stesso_ (qui Tacito sentenzia a sproposito). _Nulla statua di quel
Dio e niun tempio: un altare solo si erge e il rispetto lo circonda.
Vespasiano vi andò e sacrificò. E mentre volgeva nella mente i suoi
piani, il sacerdote, consultate le viscere dell’animale, gli disse:
Qualunque sia il pensiero che ti preoccupa sappi che ti attendono
un vasto palagio, senza limiti possedimento, e lo imperio di genti
innumerevoli._ Ecco ciò che Tacito racconta. E certo qui di Giuseppe
non è memoria; ma se tutte le circostanze valutate del racconto di
Tacito; se fate la parte dell’ignoranza nel Dio Carmelo, che non
ha mai esistito; la parte del paganesimo nelle consultate viscere
dell’animale Beto, sconosciuto e riservato nell’Ebraismo; se cernete
infine la narrazione tacitiana di quanto v’ha d’inesatto, d’eterogeneo,
rimarrà questo fatto per sè stesso parlante, la _predizione del regno a
Vespasiano annunziata in Giudea da un Ebreo, da un sacerdote_. Il quale
fatto posto a confronto colla predizione attribuita dal Talmud a _R.
Johanan Ben Zaccai_, con quella che a sè stesso attribuisce Giuseppe,
verrà con essi fuso, assimilato e tutt’insieme faranno un solo fatto,
un sol vaticinio, le cui varianti sono in _Giuseppe_, in _Tacito_, e
nel _Talmud_, in cui ardua opera sarebbe quella parte d’onore assegnare
ad ognuno, che per diritto gli spetta.

Checchè ne sia, gli Esseni si occupavano di predizioni. Ma gli Esseni
vantano un testimone di gran lunga più illustre, un pagano dottissimo,
un celebre filosofo, il quale conferma le avverate predizioni degli
Esseni, e che interdice a chi glie ne pigliasse vaghezza, di prendere
non troppo sul serio le esseniche predizioni. E questi è Porfirio,
uno dei più grandi neoplatonici che siano sorti nei primi secoli
del Cristianesimo. Il quale al dire di Giulio Simon nella _Storia
delle Scuole di Alessandria_, non solo conobbe gli Esseni e le
loro predizioni, ma le confessò veridiche e confermate dal fatto.
Confessione di gran rilievo, e per la religione e per l’ingegno non
comune del filosofo pagano, il quale meritò che nel _Trionfo d’Amore_
di esso poetasse il Petrarca:

  Porfirio, che d’acuti sillogismi
  Empiè la dialettica faretra.



LEZIONE VENTESIMOTTAVA.


La storia delle predizioni degli Esseni ci ha occupato nella passata
lezione, qual corollario della loro antropologia, qual parte della
loro dogmatica. Ma di queste predizioni noi non abbiamo fatto che
la storia reale esteriore, particolare, di alcuni singoli fatti. Ci
manca saperne la teoria, la forma con cui procedevano gli individui
che se ne occupavano a preferenza. La forma prediletta, peculiare agli
Esseni, era l’interpretazione dei sogni. E chi ne ammonisce è Flavio
Giuseppe nel 17º delle Antichità, cap. 15, dove narra di _Archelao_
che esposto il suo sogno ad un’Essena, ne ode la predizione della sua
futura caduta la quale avvenne veramente com’era stata dall’Essena
vaticinata, sendo stato all’epoca prefissa relegato da Cesare in
Vienna città delle Gallie. E non solo gli altrui sogni toglievano
a subbietto delle loro predizioni, ma di una spezie di rivelazione
fornivano altresì nei loro sogni medesimi.—Alla quale e’ pare che
si preparassero con le diurne meditazioni, se prestiam fede a certe
parole che sul proposito ne trasmise Giuseppe. Pensano, egli dice, a
Dio del continuo, attalchè nei loro sogni altro nella fantasia non
sorge loro che le bellezze e le eccellenze delle perfezioni divine,
e bene spesso dormendo fanno discorsi mirabili di questa divina
filosofia. Queste sono testualissime parole di Giuseppe. E benché
siamo nella regione dei sogni, si tratta di cose seriissime più che
non credesi, e da fare molto a lungo vegliare. Noi non solleveremo le
gran questioni psicologiche, religiose e fisiologiche altresì, che
emergono naturalissime da quel curioso fenomeno che si chiama il sogno.
Il volgo che crede ovvio, semplicissimo tuttochè non comprende, crede
il sogno uno stato, una condizione fisico-morale, spiegabilissimi. Ma
per i dotti! I dotti sieno essi filosofi, moralisti, medici, fisiologi,
non hanno creduto il fatto così semplice come il volgo s’immagina. I
loro libri, le congetture, i dispareri, e specialmente la grandissima
questione si può dire odierna del sonno magnetico e quella più antica
dei sonnambuli, fanno fede come qualche cosa vi sia là entro che resta
tuttavia indecifrato. Ma queste cose basti accennare, e come da lontano
additare, senza più oltre soffermarvici che l’argomento non comporta.
Piuttosto diremo dei sistemi delle scuole, che credettero i sogni
capaci, suscettibili d’interpretazione, fra le quali quella figura per
prima che fu tanto meritamente da Giuseppe equiparata all’istituto
degli Esseni, la scuola dei _Pitagorici_. E chi ce lo insegna è tale
che già altre volte abbiamo veduto anche troppo circospetto nella
scelta e nella critica delle memorie antiche, è il Ritter nella _Storia
della filosofia_. I Pitagorici dunque anche per questo verso porgono
la mano ai nostri Esseni, e nuovo punto ci offrono di contatto col
grand’Istituto nella interpretazione dei sogni. E se io dovessi di
tutto discorrere di quei tempj, di quegli oracoli, che in Grecia tutta,
e fuora eziandio, girono famosi per sogni, che colà si procuravano,
s’interpretavano, io farei opera interminabile benchè grandemente
curiosa e istruttiva. Piuttosto è da vedersi il Clavier nella Memoria
letta all’Accademia di Francia _sugli oracoli antichi_; e se non fosse
troppa temerità per me l’esprimere un voto il quale è forse a quest’ora
adempito, io vorrei che qualche scienziato, appo il quale non sono in
conto di fole le prodigiose indicazioni di alcuni malati sottoposti al
sonno magnetico, studiasse i rapporti di questi sogni, di queste cure
istintive, e quasi direi _autoterapie_, colle famose cure di Epidauro,
ove i malati dopo diuturne preparazioni ricevevano la notte in sogno
i presagi e le indicazioni dell’esito finale dei loro morbi. Ma gli
Esseni non hanno solamente l’antichità a complice del loro sistema di
predizione. I tempi moderni ci somministrano esempj grandi, cospicui,
vuoi di uomini gravi che non del tutto rifiutarono le indicazioni dei
sogni, vuoi di fatti storici straordinarj che molto dànno da pensare
sulla natura e sul valore dei sogni. Fra i primi non citerò _Menasceben
Israel_ che un capitolo dottissimo consacrava dell’opera sua alla
materia dei sogni, e solo nol citerò perchè sendo egli alla perfine
Teologo e Rabbino, meglio alle sacre autorità appartiene che alle
profane, delle quali soltanto per adesso ci occupiamo. Nemmeno citerò
Galeno che narra di un uomo, al quale parevagli in sogno avere una
coscia di pietra e che divenne dopo pochi dì paralitico.—Nemmeno dirò
di Plinio il quale riferisce di Cornelio Rufo, a cui avvenne di credere
in sogno d’aver la vista perduta, e che si destò cieco per amaurosi;
nemmen parlerò di Corrado Gemed, che sogna d’essere morso in seno
da un serpente, e che gli nasce in fatti sotto l’ascella un bubbone
pestilenziale che lo rapisce in cinque giorni di vita; e di questi ed
altri simili tacerò, perchè sanno sempre alcun poco d’antico e perciò
stesso per i più sanno ancora di incredibile, di stravagante. Ma quanto
più singolare a vedersi non è l’ossequio di alcuni dei più illustri
moderni! Fra i quali riluce per splendore d’animo e di mente Beniamino
Franklin di cui così parla il materialista Cabanis. «_Io conobbi_,
egli dice, _un uomo savissimo e istruitissimo, l’illustre Beniamino
Franklin_, che credeva essere stato più volte ammonito in sogno degli
affari che l’occupavano. La sua testa forte e d’altronde libera di
pregiudizj, non aveva potuto premunirsi da ogni idea superstiziosa
quanto a questi interni avvertimenti.» Così sentenzia Cabanis. E pur,
vedete curiosissimo scherzo di fortuna, o piuttosto grave monitorio
di provvidenza! Era riserbato al corifeo del materialismo moderno, a
Voltaire, all’uomo che involse ogni cosa in un riso universale, il
porgere, e porgere, lo che più monta, nella sua stessa persona luminoso
attestato della efficacia o almeno della tuttor enigmatica natura dei
sogni. Tutti sanno come opera sua sia la _Enriade_; ma non tutti sanno
un curioso episodio nella genesi di quel Poema. Vi è un capitolo che
è opera sì di Voltaire, ma non già di Voltaire desto, ma di Voltaire
dormiente. Anzi di Voltaire che sogna, e nel sogno prosegue l’opera
incominciata nel giorno, e destato si trova più ricco di un capitolo
nella tessitura di quel Poema. Non si legge che Voltaire abbia preso
da indi innanzi a rider meno dei sogni; la sua filosofia non era
ancora passata allo stato di pregiudizio, perch’egli come degli altrui
pregiudizj se ne facesse irrisore: ma si legge bensì di un altro, di un
vivente, che io non metto certo a paro di Voltaire, perchè troppo lo
amo e rispetto, ma che pure non ci offre a veder bene meno sensibile
anomalia. E quando dico anomalia per Luzzatto il prestar fede ai sogni,
non è certo per quei sogni storici straordinarj, profetici in cui Dio
parla all’uomo che sogna, come parlar può e parla difatti all’uomo
ch’è desto; ognuno che creda alla rivelazione, che creda alla Bibbia,
non può senza incoerenza, senza empietà, discredere a questa specie
di sogni; ma dico dei sogni in generale, di quelli che tutti possiam
conseguire, della natura loro semiprofetica, del valore loro proprio
naturalissimo, e non solo qual mezzo, qual veicolo d’ispirazione.
Le quali cose, se non ammesse, quasi consentite dal nostro Luzzatto
provano due cose ad un tempo, che le idee Cabbalistiche quando non
entrano in certi spiriti per la gran porta, vi entrano per certi calli
obliqui ed oscuri pertugi, e quasi non dissi di contrabbando.

Che se dalle autorità e dagli esempi scientifici trapassiamo
agli esempi, ai precedenti, ed alle autorità bibliche talmudiche
cabbalistiche, vedremo come sempre gli Esseni radicarsi nella più
venerata e autorevole antichità ebraica. Io stimo soverchia opera
citare gli esempi e le autorità della Bibbia, tanto mi sembrano ovvii
e conosciuti. Il sogno non solo lo vediamo figurare in fatto quale
suprema manifestazione dei divini voleri, e presagi dell’avvenire
in Giacobbe, in Giuseppe, in Faraone, ma egli è altresì, qual grado
infimo sì, ma pur legittimo annoverato di profezia, ogni qual volta
della gerarchia si favella dei veggenti, e della profetica gradazione;
testimone il verso ove Dio parlando ad Aronne e Miriam, chiama a fruire
delle sue ispirazioni chiunque per visione o per sogno si sentisse
capace di aspirarvi; testimone Saulle, che consultò invano il Signore,
dice la Bibbia, per tutte le vie per le quali è consultabile, per
la _via dei sogni_, della _profezia_ e dell’_oracolo degli Urim_,
testimone Giobbe ove qual mezzo di cui Dio si vale per svelare agli
uomini le sue intenzioni, parla dei sogni e delle visioni notturne,
e di questi tratti chi volesse nella Bibbia raccôrre, ne troverebbe
più ch’io non dica espliciti e numerosi. E il Talmud in questo come
in altre cose procede alla Bibbia conforme. Non solo il carattere
semiprofetico del sogno vi è confessato _halom ehad miscisceni
bannebuà_; non solo il rimanere per sette giorni senza sognare vi è
chiarito qual indizio di anima non buona; non solo un lungo novero vi
è tessuto delle cose che indicano in sogno lieto o sinistro presagio;
non solo i sogni vi si dicono subordinati alla loro interpretazione,
massima incomprensibile se non si intende alla luce della pratica
essenica che i sogni considerava qual esteriore incentivo, alla mente
ispirata dello interprete, non solo si narra de’ Cesari che ai Dottori
ricorrevano per la interpretazione dei sogni; non solo mirabilmente
conferma il deposto rabbinico una satira di Giovenale, la VI se non
erro, ove racconta degli sciocchi Romani che la interpretazione dei
sogni chiedevano agli Ebrei colà dimoranti; non solo tutto questo,
ma quello speciale carattere eziandio da Giuseppe attribuito alle
esseniche visioni quali ispiratrici di discorsi e ragionamenti
filosofici, dottrinali, rifulge non meno nei sogni dei Farisei. Nei
quali non è raro il vedervi Dottori ammoniti a ritrattarsi di una
interpretazione, a più esatta formarsi l’idea di una impurità, a
meglio comprendere la pratica di un rito; e ciò che più fedelmente
riproduce la fisonomia dei sogni profetici dell’essenato, è quello che
vediamo tra i cabbalisti e tra quei Dottori eziandio che senza fare
del misticismo precipuo scopo dei loro studj, ne ammettono almeno la
veracità e i titoli. Singolar cosa ma pur verissima, oltre gli esempi
non oscuri, non scarsi che ne porge lo Zoar, di sogni istruttivi,
dottrinali, rivelatori, quali appunto furon quelli dei nostri Esseni,
ella è una pratica tra i cabbalisti e tra i loro aderenti, che meglio
a capello non potrebbe ritrarre la pratica degli Esseni.—Se qualche
urgente bisogno li spinge a consultare l’avvenire; non basta, se
qualche dubbio in capo gli tenzona intorno ad un subbietto vuoi
dogmatico, vuoi rituale, o in qualche siasi maniera religioso, ella
è una via autorizzata, accreditata in cui si mettono speranzosi,
anzi fiduciosissimi nella bontà del responso, ed è quella che dicesi
_sceelat halom_.—Nel riposo dei loro sensi, nella concentrazione delle
forze loro psichiche, spirituali, eglino credono l’anima capace di
comprendere cose che nello stato di veglia saria tornato loro duro a
comprendere. E ciò che non è meno singolare a notarsi egli è, come
questa specie di responsi siano stati disposti in iscritti e per le
stampe eziandio pubblicati, siccome fa fede, per non dire di altro, la
edizione non ha guari mandata fuori in Conisberga di un’antichissima
compilazione di tai consulti, e di cui informava il mondo israelitico,
nel prezioso suo giornale bibliografico _Mazchir_, il mio dotto amico
Marco Steischneider di Berlino.

Ma noi abbiamo detto, se non erro, abbastanza della forma particolare
che assumevano a preferenza le predizioni dei nostri Esseni, la
forma di sogni profetici: dobbiamo dire ora chi erano coloro che
nell’Essenato più credeansi capaci di tale straordinaria irradiazione
profetica. Giuseppe, il grande storico dell’Essenato, quì pure
soccorre all’uopo opportuno, e naturali e più consultati interpreti
dell’avvenire ci addita quei fanciulli che sino, egli dice, dalla loro
tenera età venivano alla profezia educati collo studiare dei sacri
libri dell’Essenato.—Voi l’udiste, sono i fanciulli al dire di Giuseppe
che rendono i responsi sulle cose avvenire in seno agli Esseni, o
per dir meglio ei sono i profeti tra gli Esseni, che sino dalla loro
fanciullezza si vanno al grande officio educando di profetare. Se vaghi
voi foste di pellegrina erudizione, se vi piacesse nella esposizione
nostra soprassedere, onde a popoli e a religioni antichissime chiedere
esempi e fatti, analoghi a quello che vediamo tra i nostri Esseni, ci
converrebbe fare in questo punto lunghissima sosta, e tutte citare
le istorie che i fanciulli ci narrano, consultatissimi nel mondo
pagano, e ciò che sarebbe più curioso ad udirsi, in seno eziandio
del Cristianesimo. Se v’ha scrittura che abbia tolto a insegnare
exprofesso i vari modi di consultare lo avvenire, egli è il Clavier
che ebbi luogo di citarvi altravolta. Se le sue pagine svolgerete,
troverete copia più ch’io non dico di fatti, di esempi, in cui erano i
fanciulli quai veridici oracoli, stimati e consultati eziandio delle
cose avvenire. E specialmente tra gli Egizi ed i Greci.—Ma ciò che più
davvicino s’attiene ai nostri Esseni, egli è la storia dell’ebraismo.
La quale nelle due sue grandissime epoche, Biblica e Rabbinica, non
scarsi, non oscuri ci offre esempi congeneri a quelli che udiste
nell’Essenato. Che i profeti sin da fanciulli si arrolassero nella
sacra milizia, che prendessero sino dalla più tenera età ad esercitarsi
nel sacro aringo di profezia, ella è cosa che emerge dai sacri libri
per poco che si consultino. Basta pensare ai _Bene annebiim_, che a
suono di musica sacra, concitatrice, magistrale schiudevano il petto
ai grandi pensieri, ai grandi affetti, scala e prodromo di profezia;
basta pensare a Samuello, votato dalla madre sua appena trienne al
servigio e al culto di Dio, che ignorando ancora che ci fosse al
mondo profezia, ispirazione, ebbe in quella scena di una sublimità ed
amabilità senza pari, il primo assaggio di quella profetica elevazione
che dovea collocarlo a fianco di Mosè ed Aronne; pensare a Giosuè, che
tuttavia fanciullo, siccome io interpreto, già ministrava nel divin
culto; pensare a Giuseppe che ebbe sogni e visioni profetiche, mentre
inconsapevole del loro senso, andava ingenuamente riferendoli a chi lo
astiava; pensare ai Nazirei che si reclutavano principalmente tra i
giovanetti, e che non alieni procedevano, siccome vedemmo altra volta,
dal profetico officio, e soprattutto pensare a un verso di _Joele_,
ove presagendo i doni profetici restituiti in Israel, augura i figli
nostri e le figlie e gli impuberi stessi, ai gradi eccelsi, sublimati
di profezia.

Ma l’epoca Rabbinica non meno feconda procede di analogie e di esempj
parlanti, che tanto più intima provano la parentela tra Farisei ed
Esseni.—Chi per poco volse lo sguardo al Talmud, già comprende quello
che io dico, già le citazioni previene, e già corre colla mente alle
legittime conseguenze. Non si potrebbe tanto esigere di somigliante,
d’identico tra Farisei ed Esseni, che più la storia, che più il Talmud
generoso non porga. Se il fanciullo è proclamato stromento condegno
di profezia dai nostri Esseni, tale non meno è gridato dai dottori,
dai talmudisti. Se gli Esseni i fanciulli profeti consultavano a
divinazione del futuro, ed essi pure i Farisei li consultavano,
dei quali infinite si narrano nel Talmud le domande ai fanciulli
rivolte, colla frase solita sacramentale: _Pesok li pesukih_. E chi
volesse riandare nel Talmud tutti i singoli fatti che depongono della
esistenza di tal costume, opera farebbe lunga interminabile, tanto
ne vanno gremite le pagine di quella grande compilazione. Nè io il
farò, troppo standomi a cuore la speditezza di questa istoria. Solo,
ingenuamente ve lo confesso, vi ha un fatto nel Talmud Babilonico che
grave troppo sarebbemi sotto silenzio trapassare, e di cui pertanto
piacemi fare in questo luogo breve menzione. Egli è là, ove si
narra di alcuni fanciulli che sendo entrati secondo il solito nella
scuola, nell’accademia e tardando tuttavia a venire i loro maestri,
si dierono a favellare sull’alfabeto, sul nome, sulla forma eziandio
delle lettere ebraiche; a trovare cenni, allegorie, moralità nella
figura e nella posizione relativa delle lettere nell’alfabeto, tralle
quali non poche si leggono locuzioni, sentenze che duro riesce,
malgrado gli interpreti, tuttavia ad intendere, e che a parer mio
non altrove possono trovare intelligenza adequata che nel sistema e
nella terminologia dei cabbalisti. Or bene, se a prima giunta cotesti
potessero parere non altro, che felici o forse anco capricciosi
trastulli, non così dopo avere udito il maestro che sopravvenne. Il
quale, presa ch’ebbe contezza delle costoro combinazioni alfabetiche,
non ebbe scrupolo di sentenziare a dirittura, cose simili non essersi
unqua udite dai tempi di Giosuè figliuolo di Nun. Ei pare che noi
assistiamo ad un consesso, ad un esercizio di giovani Esseni, il luogo
sacro, la solitudine, l’abbandono di quei fanciullini, e quindi lo
spontaneo sbocciare delle loro idee, l’alfabeto, testo della puerizia,
tolto a materia, a incentivo di più serie lucubrazioni, le parole
glorificanti del maestro sopravvenuto; e sopratutto la convenienza
anch’oggi sensibilissima delle frasi, delle imagini di quei parvoli
colle frasi e colle imagini dei cabbalisti, ci sono altrettante
linee, espressioni, fattezze riconoscibilissime della grande scuola
dell’Essenato, ed altrettanti diplomi di consanguineità tra Farisei
ed Esseni, tra questi ed i cabbalisti. I quali, _e questo fia suggel
ch’ogni uomo sganni_, ammisero, celebrarono nei loro annali fanciulli
celebri, straordinarj che verificarono nell’ordine religioso quei
portenti che le passate e le moderne età, videro non infrequenti
nei fanciulli, prodigiosi per ingegno prematuro, specialmente in
matematica, qual fu a mo’ di esempio il _Mangiamele_. E benchè copiosa
messe mi si offrirebbe dinanzi, se tutti volessi percorrere i vasti
campi dei cabbalisti, pure di due fatti, di due fanciulli porteni
farò menzione, l’uno antico, l’altro moderno. È il primo quel famoso
_Ienocà_ di cui si legge nello _Zoar_, nella lezione _Balac_; e l’altro
quel _Gaddiel Naar_, non meno celebre per la precoce santità. E questo
è, se non erro, abbastanza per confermare anche per questo verso
l’identità _Essenico-Cabbalistica_. E qui pertanto potrei far punto, ma
nol farò sintantochè non vi abbia un’altra non meno preziosa storica
attinenza, additata nel fatto suaccennato dei fanciulli talmudici. Voi
non avete certo obliato la filiazione o almanco le grandi attinenze
tra Cristianesimo ed Essenato. Or bene, fra i Vangeli apocrifi ve ne
ha uno, se non erro l’arabo vangelo, ove il fanciullo Gesù, non solo
è presentato disputante coi dottori della legge, ma nell’atto ci è
mostrato altresì di studiare, di scuoprire ancor fanciullo, nella
_forma_, nel _nome delle lettere ebraiche_, i misteri della legge di
Dio, ch’è quanto dire quello stesso esercizio che vedemmo prediletto
dai fanciulli talmudici, e che noi crediamo esatto esempio, e pratica
essenica per eccellenza, e come tale tolta a modello dal fanciullo
Gesù, allievo dei nostri Esseni, o almeno dai vangelisti che ne
scrisser la vita.

Quest’ultimo riscontro non è men prezioso degli altri precedentemente
ricordati. Egli è indizio, sintoma, di quell’armonia che solo il vero
può produrre nell’esame e nella considerazione dei fatti, ed alla
cui vista s’ingenera nell’animo dello studioso quel senso medesimo
indefinibile di ben essere, che s’ingenera nel corpo dall’armonico
funzionare di tutti i visceri, che non sapresti dire se risieda in
questa parte od in quella, ma ch’è la resultante, ossia il quoziente
della simultanea azione e riazione di tutte le parti.



LEZIONE VENTESIMANONA.


Le predizioni degli Esseni, da noi studiate nelle passate lezioni,
chiusero quella parte dell’Essenica dogmatica che noi dicemmo
antropologia, ossia la scienza dell’uomo.—Egli è pertanto nella sfera
istessa delle dottrine degli Esseni tale un subbietto, che se non è del
dominio istesso dell’antropologia, molto a questa si avvicina, e gli è
per questo che un luogo gli assegneremo immediatamente successivo, e
che dopo le cose discorse stimiamo qui opportuno doversi a dirittura
trattare. E questo è la _Morale_, l’_Etica_ degli _Esseni_. L’Etica,
la scienza dei costumi, forma parte integrale di ogni sistema vuoi
filosofico, vuoi religioso; nè si può dare religione, filosofia
completa che nella stessa guisa che le basi propone della Metafisica,
quelle eziandio non fondi della Morale, stringendo in alcune formule
supreme generalissime, il primo principio, l’Idea madre, da cui
tutto il sistema s’ingenera dei diritti e dei doveri dell’uomo.
Qual’era l’etica degli Esseni, e quai furono i suoi principii, o
come detto abbiamo, le supreme sue generalissime formule? Qui è ove
Filone ci trasmise memoria preziosa dei suoi Terapeuti, gli Esseni
d’Egitto.—Filone che i Terapeuti conobbe, e nel novero di essi
professò e praticò i principii della scuola, Filone può insegnare ed
essere udito. I Terapeuti, dice Filone, triplice base assegnarono
alla morale, o per dir meglio in tre principii generali compendiarono
la scienza dei costumi. E questi tre principii erano appunto tre
amori.—Insegnarono l’amore di Dio, l’amore della virtù, l’amore
degli uomini; e dall’amore triplice che tutto congiunge e stringe ed
unifica, fecero derivare tutta la serie dei morali principii, ed il
mondo crearono sociale, politico, morale, religioso, in quella guisa
che le antiche cosmogonie e la nostra eziandio riserbatissima, tutto
l’universo fecero emergere dall’amore eterno. Fedele al sistema sin
dall’origine intrapreso, io dovrei qui citare _Bibbia_ e _Rabbini_,
dovrei cercare i precedenti, i germi, le segrete radici dell’essenato
nella Bibbia e nei Dottori. E pure l’esame di questi ultimi basterà
al duplice intento: i Rabbini per sè risponderanno non solo, ma
pur anco per la Bibbia, anzi le idee bibliche che nel codice santo
vestono forma popolare oratoria esortativa, prendono nelle loro labbra
la forma severa di dottrina.—Quando Mosè nelle bellissime concioni
del Deuteronomio spandeva fiumi di eloquenza,—aveva pure dopo la
confessione di _Dio Uno_, insegnato l’amore di Dio, profondo, attuoso,
illimitato; aveva pure altrove, dopo imprecato alla vendetta, favellato
dell’amore fraterno; ma dov’è in questi due principii la maggioranza
incontrastabile, la legittima preminenza, e quella paternità che
vantano a buon diritto su tutti gli altri sociali e religiosi doveri?
Certo che nullo esteriore distintivo per tali costituisceli nelle
pagine bibliche: e forse se a questi esteriori contrassegni si
avesse rispetto, ei converrebbe l’officio di assioma, di principio
assegnare a tanti comandi che un seggio occupano più illustre, che
più enfatica hanno l’enunciazione, e che duplice e triplice vantano
ripetizione nelle pagine del Pentateuco. Ma quanto facile tutto questo
a intendersi, quando di esso libro si sia la natura e destinazione
compresa! Il quale, e questa è convinzione che profondissima io reco
da molti anni, essendo un libro meglio oratorio, esortativo, politico,
ceremoniale che scientifico, dommatico e dottrinale, non serba appunto,
secondo è stile degli oratori, dei politici, quell’ordine e successione
logica rigorosa tra principio e conseguenza, quella gerarchia di idee,
di pensieri che solo ha luogo nei trattati didascalici, insegnativi,
ma le idee, i principii, le conseguenze, gli assiomi, i corollarj si
affollano promiscuamente sulle labbra dell’oratore, dell’ispirato,
del politico, e rompono in lampi e tuoni di eloquenza, o in formule e
prescrizioni politiche cerimoniali; solo quell’ordine e successione
serbando meramente esteriori, che son richiesti dal subbietto pratico,
sociale, politico, cerimoniale a cui i grandi principii della religione
e della morale sono applicati. Ora quest’officio d’ordinazione, di
ricostituzione logica della Bibbia egli è ai dottori che appartiensi;
ei sono i dottori che vi dierono opera, sì perché rappresentando
eglino, per rapporto all’Ebraismo, l’epoca della riflessione succedanea
a quella dell’intuito, ad essi per diritto appartiene la gerarchia
delle idee, sì perché sendo eglino depositarj della tradizione
retrosalgono in certa guisa ai biblici primordii, assistono alla genesi
delle idee, ricollocano ogni cosa al suo posto naturalissimo, sono per
sè stessi _anacronici_ anzi _omnicronici_; e sono sotto questo rispetto
più antichi dei tempi biblici, e i padri e genitori spirituali dei
contemporanei eziandio di Geremia e di Ezechiello.

Or bene: i tre amori che gli Esseni posero a base della loro morale,
quelli che vi feci conoscere in germe, in confuso, nelle parole
mosaiche, sono quelli che i dottori eressero a principio, a formula
suprema non solo delle umane e sociali, ma delle religiose virtù
eziandio: e se fra gli Esseni e i dottori corre una differenza
qualunque, ella è questa sola. Egli è lo avere questi ultimi
divisamente considerato ciò che gli Esseni considerarono indiviso; egli
è il proporre che fecero or l’uno or l’altro dei tre grandi amori qual
unico supremo criterio di morale; egli è il dividersi le opinioni sulla
preminenza dell’uno, e dell’altro; egli è il contrastarsi che fanno la
morale sovranità, quando gli Esseni, invece, indiviso, collettivo ne
volevano l’impero. Pei dottori se tutti convengono esservi un principio
regolatore di nostre azioni, non tutti convengono sulla scelta di
questo. Se per l’uno è _l’amor di Dio_ indicato nel Deuteronomio, per
l’altro è _l’amor del prossimo_ nel Levitico comandato, pel terzo è il
_sacrifizio_ adombrato nei Numeri, per l’ultimo infine è l’unità _di
origine_, e la fraternità universa insegnata nel Genesi.—Per tutti è
una formula generalissima da cui tutti emergono sociali e religiosi
doveri, e forse non andrebbe errato chi dicesse non escludersi per
l’uno il principio dall’altro proposto, ma potersi tutti questi criterj
conciliare in sintesi amica, non altro avendo ognuno proposto che una
parte della comun tradizione.

Che se l’Etica farisaica e l’Etica degli Esseni si congiungono, si
unificano in tant’altezza e sublimità di pensieri, chi potrà vantare
più al lor confronto primato, sovreccellenza di dottrine morali?—Certo
non il Vangelo, il quale è di tanto posteriore agli Esseni, anzi sua
creatura e figlio, e che nelle scuole crebbe, si educò dei nostri
dottori, come fedele ne abbiamo espressione in Gesù disputante coi
dottori nel Tempio.—Ciò ch’è vero, ciò che ingiusto sarebbe disdire al
Cristianesimo, egli è in primo luogo la figliuolanza, la derivazione
dell’Essenato fatta eziandio più chiara dall’uniformità dei morali
principj; egli è in secondo luogo la propagazione che per il mondo
gentile avvenne la mercè sua della purissima morale essenico-ebraica,
facendo patrimonio di tutti, ciò ch’era stato sin a quel punto tra i
Pagani retaggio esclusivo di pochi eletti.

Giunti a questo punto, l’ordine di questa istoria ci condurrebbe
naturalmente a parlare dei dogmi delle dottrine teologiche dei
nostri Esseni. E qui invero vasto, e qui nobilissimo aringo ci si
schiuderebbe dinanzi. Ma perchè nol poss’io tutto percorrere? Gli
Esseni che chiusero ai profani l’accesso delle loro credenze, poco o
nulla lasciarono agli storici tralucere delle loro dottrine. Egli è
per questo che quelle tenebre istesse che contendevano ai coetanei la
cognizione dei loro dogmi, a noi pur la contendono: egli è per questo
che anzichè lasciare il freno alle ipotesi, io amo meglio confessarmi
ignorante. Certo non si potrebbe negare. Vi sono due sistemi grandi,
celebri, antichissimi che gran parte potrebbero restituire delle
dottrine dell’Essenato, in cui le idee, lo spirito, si trasfusero
del grande istituto, e che perpetuarono sino a noi non pochi di quei
segreti di cui furono gelosi i nostri Esseni. Questi sistemi veduto
abbiamo parecchie volte soccorrerci all’uopo nelle lacune storiche
dell’Essenato; questi sistemi sono quel di _Filone_, e l’altro di
gran lunga più momentoso dei _Cabbalisti_, ambidue intimi dei nostri
Esseni, ambedue risponderebbero eloquenti ove interrogati fossero,
con scienza, con critica imparziale, con quel tatto particolare
che sa ricostituire i sistemi mutilati corrosi dal tempo, come in
paleografia si ricostituisce una iscrizione con parole e frasi mutilate
e sconnesse. Il faremo noi? Io confesso l’opera al di sopra delle
forze mie; e se non infelice provammo qualche tentativo di siffatta
ricostituzione nel corso lungo di queste lezioni, ciò nonostante ella
è tale la generale restituzione del dogma essenico, che infinite vi si
oppongono e gravissime difficoltà, il campo vastissimo delle indagini,
la miscela nel filonismo operatasi di idee greche e platoniche, le
tenebre densissime che involgono tuttora la teologia dei cabbalisti,
e sopratutto le difficoltà proprie naturali di questo genere di
lavori.—Egli è per questo che lasciando a tempi, a ingegni meno
infelici il gigantesco lavoro di cui parlo, non più oltre spingerò
per ora le mie indagini che le dirette notizie a noi pervenute non
lo consentano. E queste, bisogna dirlo, sono poche se non al tutto
insignificanti. Riguardano esse meglio la espressione, la veste
esteriore che la sostanza delle idee; meglio l’imagine che involge il
pensiero che non il pensiero medesimo. E pure, forse sbaglierò, ma
credo fermamente che allo scopo da noi prefisso, alla dimostrazione
della identità essenico-cabbalistica più monti la omogeneità della
forma, che la medesimezza delle dottrine, meglio la imagine che è
per sua natura meramente arbitraria che il pensiero che può nascere
spontaneamente uniforme in scuole diverse. Ora io oso dirlo. Chi
cercasse nel superstite simbolo già degli Esseni le imagini, i tipi che
ha comuni coi Cabbalisti, larga mèsse raccoglierebbe di parlantissime
analogie: testimone ciò che dice Filone avere appreso da un _seguace
di Mosè_ intorno un uomo che si diceva _Oriente_; ove per seguace di
Mosè egli senza meno intende uno dei nostri Esseni. I quali, oltre
alla somma venerazione che professavano per quell’uomo di Dio, come
attestano in molti luoghi Giuseppe e Filone dal nome suo intitolandosi,
meglio vi sembreranno il gran titolo meritare di Mosaiti, se ciò che
dissi nelle prime lezioni ritornerete alla memoria, ed ove seguendo le
traccie ultime che gli Esseni lasciarono nelle istorie, mi avvenne,
se ben vi ricorda, di rammentare _Beniamino di Toletola_ ed i suoi
viaggi. Vi dissi allora come narrando egli le pellegrine cose da
lui vedute sulle rive dell’Eufrate e del Tigri, di uomini pure va
raccontando ch’ei vide menare vita austerissima, anacoretica; ch’ei
chiama a dirittura _Benè Moscè_ ossia _Mosaiti_, e che pel ritratto
somigliantissimo noi dicevamo allora ultimo vestigio lasciato nelle
istorie dalla primitiva forma del grande istituto.—Io non aveva allora
letto per anco uno degli ultimi numeri del buono e dotto giornale
_Magghid_. Ma quale fu la mia sorpresa scorrendo un recentissimo
articolo di quel periodico! In esso con bella e giudiziosa erudizione
si prova appunto ciò che io non osava proporre che quale ipotesi; si
prova cioè non altr’essere i _Bene Mosciè_ di cui favellarono i nostri
viaggiatori del Medio evo, di cui parlò _Beniamino di Toletola_, di cui
parlava eziandio _Eldad adani_; che gli ultimi e sbandati successori
dei nostri Esseni. Ch’io mi sappia, niuno finora recò in mezzo il
nome che loro impone apertamente Filone, niuno avvertiva qual peso
immenso rechi nella critica bilancia la deposizione di tal uomo. E
pure Filone non potrebb’essere più esplicito, tanto più che di niun
altri può intendere Filone per _Mosaìti_ che dei nostri Esseni; e
pure nulla più osta all’uso, allo stil di Filone che il supporre in
questo nome significato il popolo ebraico ch’egli mai sotto il nome
non designava di _Mosaìti_. Ma se Mosaìti sono indubbiamente, come
vediamo, gli Esseni, che cosa di essi dice il nostro Filone? Ei dice,
e voi l’udiste, che un uomo, un essere riconoscevano, che si chiamava
_Oriente_. Io vorrei che voi aveste potuto leggermi in cuore quando
la prima volta imbattevami in questa frase, la sorpresa, la dolce
sorpresa che provai in quell’istante.—Ma quanto per voi facile ora
stesso l’imaginarlo!—Pensate ai gravi dubbii promossi sull’antica
data del _Cabbalismo_; pensate al confronto non mai intrapreso
tra gli Esseni d’indubitata antichità, ed i _Kabbalisti_ gridati
da alcuno modernissimi; pensate che una delle emanazioni divine
si chiama appunto nella fraseologia cabbalistica ora CHEDEM, ora
MIZRAH, ch’è quanto dire _Oriente_; pensate che nei libri Talmudici
che alludono ad ogni tratto, checchè ne dicano critici ingiusti, alle
idee cabbalistiche, che nel Talmud, io dico, Dio stesso è chiamato a
dirittura _Chedem Oriente_; pensate a questo e poi mi dite che cosa
avreste provato al mio posto leggendo dei _Mosaiti_ di Filone, che
dicevano esserci un essere che si chiamava _Oriente_. Certo che la
sorpresa, l’aspettazione sarebbe stata già grande. Ma quanto più grande
dopo lette le parole gravissime di Filone, che seguono!—Nelle quali
dopo aver detto testualmente che questo nome non s’addice ad uomo
mortale, che si parla della imagine immateriale di _Dio_, dimostra
poi a lungo non altro essere quest’Oriente che il _Pensiero_ e la
_Parola_ eterna di Dio, che l’_archetipo delle cose_ create, che il
_mondo intelligibile_, modello, come vi dissi in una recente lezione,
del mondo sensibile. A queste parole chi per poco abbia fruito della
riposta nostra teologia, non può a meno di sentirsi colmo il petto
di soavità ineffabile, la quale sempre e sempre più andrà crescendo
colla lettura di Filone quando dirà essere questi il verace uomo, come
verace _Adam_ il chiamano i cabbalisti, _Adam aelion_, e nella parola
_Adam_ trovano il _Scem Ma_ che si appunta nello stesso principio;
quando lo chiama _sommo sacerdote_, come sacerdote supremo _Coen
gadol_ il chiamano i Cabbalisti, e più altre infinite cose che per la
natura loro astrusissima e gelosa _bello è il tacer, siccome il parlar
colà dov’era_. Ora, da tant’altezza conviene calare a regioni più
basse; e pure nuovo documento ne trarremo a provare, mercè la identità
dei segni tra le due Scuole, l’unità, la medesimezza della origine.
Quando parlerò delle pratiche esseniche, e sarà questa l’ultima parte
di questa istoria, ne farò allora, siccome a luogo opportuno, nuova
menzione; ma egli è un uso, una pratica degli Esseni, che esprimendo
una delle forme, uno dei segni più comuni del loro pensiero, mestieri
è pure che qui abbia luogo condegno. La destra, dicevano buona, sacra,
fausta eziandio; la sinistra gridando invece rea, impura e nefasta:
quindi alcune regole pratiche che muovevano dallo stesso principio:
quindi lo sputare a destra interdetto: quindi la destra qual segno
di onore conceduta al maggiore. Queste pratiche verranno in campo a
tempo opportuno, e vedrete quanto in esse eziandio vi sia di Biblico,
di Rabbinico, di Farisaico; ma ciò che si vuole qui apprezzare, è il
simbolo la destra e la sinistra, tolte, l’una qual sinonimo di bene,
l’altra qual imagine rappresentatrice del male.—Nel qual simbolo, due
ebbero famosissime scuole i nostri Esseni.—Certo più a discepoli che
a maestri ebbero in primo luogo i Pitagorici che nella loro _Decade_
posero _Destra_ e _Sinistra_ quali idee ed espressioni antagonistiche.
Ebbero poi, e questo è più rilevante, i teologi cabbalisti, i quali
come gli Esseni, come appunto i Pitagorici, posero a loro posta
nella _Decade_ loro il _Jamin_ e il _Semol_, quai principj avversi
antagonistici, nella guisa stessa dei due principj del dogma _iranico
Otmuzd e Arimane_; ma colla gran differenza che mentre i Persiani ne
costrussero il Dualismo facendo due Esseri, due Dei, due principj
indipendenti, l’Ebraismo serbò intatta l’unità suprema di azione,
di piano, di ultimo fine, come lo stesso simbolo il prova di Destra
e Sinistra, quasi due braccia che si radicano nell’unità del corpo,
e ad una mente sola obbediscono, ad un solo volere. Io potrei qui,
a proposito di Destra e Sinistra, recare in mezzo due luoghi d’oro
che attestano la presenza fra noi delle idee cabbalistiche nei tempi
talmudici—l’uno tratto dal Talmud in Scebuot, l’altro, non v’imponga
il brusco passaggio, nelle _Clementine_—opera semiapostolica di cui fu
fatta recentissima edizione, non saprei dire se in Berlino o Parigi.
Fatto è che tutti i lettori del _Debats_ del 25 di agosto passato,
potuto avrebbero avvertirlo in un seguito di articoli, se anche i
giornali fossero letti con quel nobilissimo intendimento di trovare
dovunque le sacre vestigia della verità.



LEZIONE TRENTESIMA.


Questa Lezione chiude la seconda parte della Storia degli Esseni,
quella che riguarda la loro dogmatica. E comunque troppo più a lungo
sarebbe proceduta la presente trattazione, se completo ci fosse stato
trasmesso il sistema lor teologico, ciononostante e perchè ciò non è
avvenuto, e perchè duro troppo tornerebbe al presente ricostituirlo
per intero coi frammenti del Filonismo e del Cabbalismo, egli è perciò
che, più breve forse che il tema non comporta, riesciva l’esame, la
sposizione della loro dogmatica. Questa lezione dirà quel poco che ci
rimase dei nomi divini tra gli Esseni gelosamente serbati, della loro
Fisica o Cosmogonia, del concetto nobile superlativo che si formavano
gli Esseni delle proprie dottrine, e in ultimo quell’autorità sarà qui
riprodotta, che attesta in generale la concordanza da noi propugnata
fra il sistema degli Esseni e quello dei Cabbalisti.

Voi non lo avete certo dimenticato. Quando parlavamo della istituzione
degli Esseni, quando toccavamo degli Iniziati, del giuramento che lor
s’imponea, noi trovammo, nella formula del loro giuro, l’obbligo di
conservare scrupolosamente _i nomi degli Angioli_.—Non basta: io vi
feci notare allora come sempre le intime corrispondenze fra Cabbalisti
ed Esseni; ma se luogo vi è di questa menzione meritevole, egli è senza
meno il presente, nel quale si favella della Dogmatica degli Esseni,
e dove per diritto debbono entrare i sacri nomi onde si parla; i quali
benchè rechino il titolo di _nome degli Angioli_, pure per poco che
le frasi si conoscano, e le appellazioni dei _Cabbalisti_, alludono
manifestamente ai nomi, agli attributi di Dio e delle sue emanazioni.
Non per questo ripeterò le cose già dette, ma se oltre le discorse
analogie in proposito, oltre la nomenclatura angelica solo esistente
nei due sistemi che diciamo identici se oltre il carattere fra loro
comune di nomenclatura gelosa, riservata, vi può essere qualche cosa
che meriti ancora attenzione, che destar possa la curiosità degli
studiosi, che sappia, se non erro, di novità, che sia, se oso dir
tanto, una verace scoperta, ella è la citazione presente, che appunto
pel suo insigne momento vi ho serbato per la presente lezione. Quante
volte non abbiamo udito gli storici sentenziare, della niuna contezza
che i dottori nostri si ebbero dell’Essenato; quanto subbietto di
meditazione e sorpresa e quante volte altresì abbiamo côlto in fallo
la pretesa ignoranza e mille cenni ed allusioni rintracciato fra i
dottori dei nostri Esseni. Io credo che i dotti di buona fede non ne
ricuseranno la importanza, le conseguenze. Ma per la citazione che qui
si dice, il potrebbero quando pure il volessero? potrebbero continuare
come s’è fatto finora a proclamare muti, inconsapevoli, i Rabbini dei
nostri Esseni. Il provino se pure il possono. Provino a cancellare
quanto è scritto nel III _di Jomà_ nel _Talmud di Gerusalemme_. Provino
a far sì che non si legga come vi si legge—_di un Asseo di Sipporì in
Palestina che disse a Rab Papà figlio di Hamà: Vieni e ti comunicherò i
santi nomi di Dio.—Rispose l’altro: Nol posso. E perchè? Perchè mi cibo
delle decime; e chi li apprende, non può mangiare il pane di nessuno_.
Qui tutto parla con eloquenza irresistibile dei nostri Esseni. Il nome
di _Assè_ più manifestamente e irrecusabilmente essenico dello usato,
perocchè scritto in guisa (_Assé_) che non si potrebbe confondere con
_Asiâ medico_ il quale esigerebbe un _Alef_ finale che qui non esiste;
lo assurdo che semplicissimo medico s’intrometta nei nomi di Dio, e
tanto addentro se ne addottrini da erigersi a maestro di teologia di
un dottore; il luogo patria dell’Essenato, la Palestina _Sipporì_ in
ispecie, nelle cui vie per singolare coincidenza abbiamo veduto nelle
prime lezioni aggirarsi un _Rohel_,—venditore di farmaci, sotto la
maschera del farmascita riconosciuto abbiamo un della setta;—_nomi
di Dio_ che gelosamente si comunicano, come si comunicavano tra gli
Esseni; e per ultimo, il gran rifiuto fatto da _R. Papà_ per la
eloquentissima ragione, ed _essenica_ per eccellenza, che non essendo
egli della scuola, non vivendo della vita sociale, vale a dire,
com’egli dice, cibandosi alla tavola altrui, non sentivasi degno
aderire all’offerta.

Ora di ciò che insegnavano gli Esseni, dell’origine delle cose, degli
elementi primitivi della fisica o cosmogonia che facevano parte del
loro sistema. E qui mestieri è prendere a guida Filone, e ciò ch’egli
sul proposito insegnava. Filone professò la fisica della scuola
_Jonica_ di Talete di Mileto; e se di Grecia e Talete unicamente
favellò, non è già che l’Oriente non offra esempj più antichi ed
illustri; ma solo perchè la scuola Jonica esercitò più diretta
influenza sulla formazione dei sistemi successivi, e protrasse la sua
azione sino ai tempi di Filone, che in Grecia e in Palestina attinse
gli elementi della sua filosofia. Filone dichiarò l’_acqua_ materia
prima di tutte le cose, e se Defendente Sacchi disse deridendo avere
così detto Talete perchè l’acqua vedeva entrare in gran parte nella
vegetazione delle _zucche_, il principio di Talete, non solo offre
grandi analogie colle cosmogonie antiche Orientali, ma si riappicca
alla cosmogonia mosaica, si riflette nel sistema dei dottori.—Ciò che
più monta, nel sistema e nella simbologia dei Cabbalisti, e non lascia
di avere un senso, un valore, una riproduzione nei sistemi scientifici
odierni di geologia e cosmogonia.—Delle prime, delle affinità, delle
relazioni colle cosmogonie dell’Oriente, non parlerò perchè troppo
vasto il campo delle ricerche. Ma come tacere delle altre! Della
cosmogonia Mosaica che chiaro e spiccato offre il principio Essenico
che mostra nell’acqua lo stato primigenio e l’origine di tutte le
cose.—Dei dottori Talmudisti che ragionando sul Genesi, meglio ancora
posero in luce e più precisamente formularono il principio cosmogonico
di Mosè; che fecero uno studio geloso, riservato, formulato dei primi
capitoli della Genesi, che chiamarono _Maasè Berescet_; che oltre al
senso fisico, cosmogonico che ha il racconto Mosaico, ne rivolsero le
frasi, e il vocabolo _acqua_ rivolsero a significare l’idea filosofica
astrattissima di _sostanza_, quando dissero dei _Maim aelionim_ e
dei _Maim attahtonim_, quando _Rabbi Achibà_, in un dettato aureo
momentosissimo ed attamente deponente in favore dell’antichità
cabbalistica, diceva ai discepoli: _Quando a contemplare giungerete
le pietre marmoree purissime, non dite: acqua! acqua!_—Dei dottori
Cabbalisti che fecero eco alla simbologia dei dottori e del vocabolo
_acque_ fecero applicazione estesissima in senso multiforme; e infine
del senso che potrebb’aver tuttavia nella scienza moderna. La quale si
divide anch’oggi in due campi nemici, sull’origine delle cose; e dà
quindi luogo a due diversi sistemi di geologia. Si forma il primo di
quei geologi che credono la terra avere _ab ovo_ presentato una massa
fluida, che andò di mano in mano indurando, e che per questo appunto si
chiamano _Oceaniti_ o _Nettuniani_. Si forma l’altro di quei geologi
invece, che ammettono nell’origine uno stato di incandescenza, che
andò di mano in mano raffreddandosi e che per questo appunto si dicono
_Plutonisti_.

E non solo gli Esseni, e con essi Filone e con essi Talete, e la scuola
Jonica in generale, e con essi per avventura i Talmudisti e la Genesi,
ma con essi ancora, se ben lo intendo, il _Signor dell’altissimo
canto_, l’antichissimo Omero. Il quale con una frase che diè molto a
pensare agli interpreti, e che parvemi sempre cosmogonica e geologica
per eccellenza, chiama frequentissimamente gli Dei col titolo
d’_oceaniti_; null’altro volendo significare a parer mio, che lo stato
primitivo della materia caotica dalla quale sursero le forze tutte
della natura o, per parlare colla lingua dei Greci, _gli Dei maggiori
e minori_, i quali com’è facile provare coi filosofi e coi poeti alla
mano, altro non erano in verità che quelle forze istesse personificate,
primogenite sì della creazione, ma figliuole pur esse della gran _madre
natura_, che nel suo stato primitivo, confuso, disordinato, portava il
nome di _Caos_; il quale _Caos_ vediamo infatti figurare a capo delle
greche teogonie, anteriore agli immortali medesimi, padre e generatore
antichissimo di tutte le cose. E questo basti della fisica e cosmogonia
degli Esseni, potendo ognuno, che più a lungo _sedere volesse a mensa_
sull’argomento, consultare _Filone_ da cui i brevi cenni abbiamo
imparato che qui si espongono.

Ora che conchiuso abbiamo quel che concerne la dogmatica degli Esseni,
o per dir meglio, quel poco che di essa ci resta, dobbiamo far due
cose: dobbiamo prima dire del concetto che delle proprie dottrine si
formavano gli Esseni; dobbiamo dire in ultimo, del concetto che noi
stessi ce ne dobbiamo formare. Voi lo avete le mille volle udito.
Se v’è nulla di vero, di dimostrato nella storia degli Esseni, è
la loro parentela coi _Cabbalisti_.—Se i Cabbalisti ebbero padri
antecessori, ei sono gli Esseni. Se gli Esseni ebbero figli discendenti
continuatori, ei sono i _Cabbalisti_. Or bene: questa verità che non
ho cessato di proclamare, è posta, se è possibile, in luce ancor più
sfolgorante dal giudizio, dalla stima, dal concetto che di sè, che
delle proprie dottrine si formavano gli Esseni.—Ch’è quanto dire
il giudizio che di sè tuttavia e delle proprie dottrine si formano
i _Cabbalisti_. Concetto grande, altero, superlativo, se altro fu
mai; concetto che fa della loro _dogmatica_, la sola vera, la sola
divina, la sola rivelata; dogmatica che ingenera nei suoi professori
il vanto pubblicamente spiegato di possedere intiero, esclusivo il
_midollo_, il _secreto_, la vera essenza del Mosaismo, che fa loro
riguardare come profani i fratelli loro di religione che discredono
o disconoscono la verità dei loro dogmi, e che per stringere tutto
in breve detto, gli meritava e gli merita tuttavia dagli avversarj
l’epiteto di _esclusivi_, _d’intolleranti_, mentre, com’ho provato
nella mia ebraica operetta, niuno più meritossi invece il nome di
_tollerante_, se si tratta delle persone; e niuno più legittimamente di
essi mostrossi _intollerante_ se si tratta delle avverse dottrine. Or
bene questo giudizio qualunque esso sia, egli è quello, ve lo diceva,
che di sè e delle proprie dottrine si formavano gli Esseni. E nel
riferirvelo userò parole non mie, non arbitrarie, non parafrastiche,
ma rigorose, testuali, quali uscivano da penna per nulla interessata
nella presente questione, e che consuona mirabilmente coi vanti
poc’anzi uditi dalle labbra dei _Cabbalisti_. E questa penna è quella
del Nicolas, professore in Strasburgo, che tali scrive nella _Revue
Germanique_ memorande parole, nelle quali vi scongiuro ammirare
la perfetta conformità coi vanti dei Cabbalisti:—_Les Esséniens
prétendaient avoir le secret du Mosaïsme_:—non basta—_et regardaient
comme des profanes ceux de leurs corréligionnaires qui étaient
privés de cette connaissance_.—Ma volete di più? volete misurare il
valore dell’argomento, volete vederne la forza probatoria? Or bene;
riprendete il Nicolas, e vedrete che da questo fatto medesimo, da
questo vanto, da questo concetto, che di sè formavansi gli Esseni,
egli prova, egli conclude trionfalmente, e che? forse la derivazione
stessa dei Cabbalisti? No! ciò è poco, perchè il proverebbe nella
questione parziale; ma prova e conclude da questo fatto la derivazione
dall’_Essenato_, di quella setta di filosofi che si dissero _Gnostici_,
i quali non dissimile vantazione menavano pur essi delle loro dottrine:
la illazione pare evidente; l’argomento che vale pel Nicolas, vale
anche per noi, e se si può dimostrare la derivazione del _Gnosticismo_
dai più antichi Esseni, potrà quella eziandio dimostrarsi dei dottori
_Cabbalisti_.

Ma io vi diceva che oltre il concetto che di sè formavansi gli
Esseni, e questo abbiamo veduto, quello altresì, quel giudizio,
quella sentenza avremmo dovuto non meno esaminare, che noi stessi
ragionevolmente dobbiamo recare sulla dogmatica degli Esseni. Io
credo che sia necessario formarsene un concetto generalissimo, e
tanto mi par necessario, quanto non avendo potuto noi esaminarne
i dogmi, parte per parte ci convenga più precisa, ed accertata,
formarsi una idea dello insieme in quella guisa che Mosè non potendo
entrare nella terra promessa, si fermò a lungo a contemplarla sopra i
monti di Moab, e in quella guisa medesima che un pittore non potendo
studiare per minuto una fisonomia che gli fugge, cerca di cogliere in
quell’apparizione fugace l’espressione generale e il tipo supremo sul
qual è coniata. Ora questo concetto, questo giudizio generalissimo
non sarem noi che il proporremo. Dopo tutte le cose anzidette,
dopo avervi tutta la mente mia fatta aperta, sulla consanguineità
cabbalistica, troppo parrebbemi aver sembianza di giudice parziale
e troppo quindi disdicevole a me stesso proporvi un giudizio.—Ve lo
proporrà un filosofo, un libero pensatore—un francese del secolo XIX,
ve lo proporrà il Frank. E ve lo proporrà a proposito di Filone e del
suo sistema, del quale le intime attinenze conosciamo da lungo tempo
colla scuola degli Esseni, tantochè, ciò che di Filone favella il
Frank dovrà essere intesa quasi degli Esseni istessi ei favellasse,
null’altro essendo, a veder bene, Filone, che il filosofo della setta,
l’interprete dell’essennato al mondo pagano, e se così emmi lecito
esprimermi, _l’Apostolo dei Gentili_. Ora udite come intende il Frank
i rapporti tra Filone ed i Cabbalisti. Come si esprima reciso, e
com’egli, d’altronde se riservato, non tema di usare niente meno che
queste parole: _Tous les principaux traits de la philosophie de Philon
se retrouvent dans le Zohar avec moins d’éclat et de profondité_.—Sì,
se intende metodo ed arte—no, se intende splendore e altezza d’idee
e di eloquio. Ma il signor Frank non è uomo da sentenziare senza un
perchè, ed eccolo testuale: _Comme Philon, le Zohar s’appuie sur les
traditions juives interprétées symboliquement; comme lui, il est tout
à la fois mystique et panthéiste. Cet Eusoph supérieur à l’Être et
à l’intelligence, le mystère des mystères, l’inconnu, l’ineffable,
rappelle le Theos Agnostos de Philon: le Juif Alexandrin et helléniste
a dit en grec ce que les Juifs de Jérusalem ont dit en hébreu_; e così
via discorrendo, ponendo continuamente a riscontro i due sistemi.
Ma il signor Franck non è solo a pensarla siffattamente. Il signor
Frank che, per lo assunto da lui intrapreso, per quella specie di
riabilitazione che tentava del Cabbalismo, potrebbe sembrare a taluno
pregiudicato, e forte nonostante di tutta la forza della scienza
germanica contemporanea, ed ha per se il fiore, l’eletta dei più
valenti e autorevoli critici dell’Alemagna. Il Nicolas, di cui udiste
non ha guari menzione, e che compendiava quanto di meglio provato
resulta dalle ricerche di quei dottissimi, usa parole che non la
cedono certamente a quelle che udito avete del signor Frank, e che a
parer mio anco più urgentemente concludono in favore dell’assunto,
avendo preso il Nicolas a parlare non già di Filone singolarmente, ma
di tutti gli Esseni, e della scuola direttamente. Della quale così
si esprime: _Deux philosophies_, fort analogues, me paraissent être
sorties de l’_Essénisme_: le _Gnosticisme et la Kabbale_. On peut
supposer que les _Esséniens_ qui embrassèrent le Christianisme, s’en
firent une conception conforme à leurs principes antérieurs, et ce fut
le _Gnosticisme_; et que ceux des Esséniens qui _restèrent_ Juifs,
continuèrent les spéculations de leur secte, et ce fut la _Kabbale_.
Parole vere e belle, e che compensano con usura le pretese ingiuste,
mel perdoni la sua amicizia, del nostro illustre Luzzatto.—Ma contro
di questi non abbiamo solo i nomi ricordati;—abbiamo tale che, per
quanto suoni nuovo per avventura ai vostri orecchi, si levò altissimo
fra tutti i moderni filologi tedeschi, e questo è il Baur. _M. Baur_,
continua il Nicolas, _les regarde_ (riguarda Gnosticismo e Cabbalismo)
_comme deux productions semblables, qu’on est obligé de ramener à une
source commune_.

Ora chi potrebbe dubitarne più oltre? L’esame analitico da me
intrapreso e in quella parte attuato che era possibile, l’idea generale
che alla sua vista ci si ingerisce, le autorità più competenti, più
spassionate, tutto prova la identità da noi propugnata. E questa
identità fu da noi perpetuamente dimostrata nella sposizione delle
due prime parti di questa Storia, _Istituzioni_ e _Dottrine_; e che
qui hanno termine. La terza parte della storia dell’Essenato che ci
rimane a vedere, ella è, e voi lo ricordate, la storia del _culto_,
degli _usi_, delle _pratiche_ del nostro istituto, ed alla quale
colla successiva lezione daremo principio. Esaurita questa ultima
parte, e spero tra breve, noi avremo terminato lo studio di una gran
scuola, risoluto, quanto lungi si stesero le nostre forze, un problema
difficilissimo; e con amore e studio grandissimo notomizzato il corpo
venerandissimo, le cui istituzioni sono l’_organismo_, le cui dottrine
sono il _cervello_ e la _mente_, le cui pratiche sono il _cuore_ e
la _volontà_. Ma in questa autossia, ciò che abbiamo trovato, non fu
tutto materia. Broussais, così narra la fama, sendo prossimo a finire,
stupiva i circostanti con queste parole: _Infiniti corpi notomizzando
e di tutti le segrete parti collo scalpello ricercando, mai mi avvenne
trovare l’anima dell’uomo_. Infelice! che s’ei l’avesse trovata,
l’anima non sarebbe. Noi però siamo più felici di Broussais.—Abbiamo
trovato nelle indagini nostre l’anima dell’Essenato, il suo spirito, il
suo genio, la carne delle sue carni, l’ossa delle sue ossa, il sangue
delle sue vene, l’alito, come dice la _Bibbia_, delle sue nari, e
questi è il genio, lo spirito cabbalistico.—L’Essenato è morto; ma il
cabbalismo, intima essenza dell’ebraismo, per quanto a terra disteso e
di sudario funebre rivestito, e le nenie li facciano intorno e mortorio
stragrande gli avversarj di ogni colore, e _i neri fraticel, e i bigi e
i bianchi_, ciononostante come il profeta sepolto, di cui si narra nei
_Re_, non solo vive d’una vita interiore, ma ai grandi morti eziandio
la comunica al solo contatto.—Noi abbiamo posto gli Esseni al contatto
del grande sepolto; al contatto del _cabbalismo_; ed a quel contatto,
oh miracolo! l’Essenato è risorto.



LEZIONE TRENTESIMAPRIMA.


S’egli è vero che ai sospirosi naviganti l’animo si rinfranca al
pensiero della meta vicina, egli non è senza più celere fiducioso
muovere il passo verso il termine desiato, che io tocco stasera la
terza parte della _Storia degli Esseni_; dopo avere studiate le loro
istituzioni e i loro dogmi, io chiamo a rassegna le loro _pratiche_, la
loro _vita_. Ma la vita sociale come la vita dello individuo, gli atti
dell’una come gli atti dell’altra, possono in tre grandi ordini e sommi
capi dividersi secondo il triplice oggetto a cui la vita e gli atti si
riferiscono; vi è la vita religiosa che comprende gli atti, le opere
che hanno Dio e la Religione per obbietto; vi ha la vita privata che
le opere inchiude che all’uomo istesso si riferiscono, i suoi abiti,
le sue virtù, le regole che a sè medesimo s’imponeva, e che hanno per
ultimo fine lo individuo, la persona medesima; vi ha infine la vita
pubblica, la vita esteriore, quelle opere tutte abbraccia nel proprio
seno, che al prossimo, alla città, al mondo intero si riferiscono. Egli
è per questo che per amore di ordine, di chiarezza, di brevità, io ho
in tre parti distinto lo studio della essenica _vita_. Vita religiosa,
ossia _culto_: Vita privata, ossia _abiti_ e _virtù_: Vita pubblica,
ossia _rapporti esteriori_. Di queste tre parti, la prima, vuoi per
l’argomento fecondo, vuoi per dignità, vuoi per logica preminenza,
merita il primo posto, e volentieri glielo concedo. La vita religiosa
dell’Essenato si esamini dunque nelle sue parti. E perchè l’ordine si
ramifichi nelle più minute parti eziandio del subbietto, si dica in
primo del culto che a Dio si rendeva, e del culto istesso quella parte
in prima si consideri che riguarda i _luoghi_ religiosi, i _tempi_, gli
_oratorj_.

Vi è una frase in Giuseppe, che per bene intendere ci conviene che
vi riduciate a memoria i tempi in cui visse, in cui fiorì il grande
istituto. Qual fu il secol d’oro dell’Essenato? fu quello, si può
dire, che più famoso rimase per le calamità infinite che piovvero sul
nostro popolo, il primo secolo dell’era volgare. Ei fu allora, nel
precipite declinare del nostro sole all’occaso, nella dissoluzione
estrema di ogni legame politico, all’ombra del tempio che minacciava
rovina, che lo spirito, il pensiero, il genio dell’ebraismo, come
fiamma che stia per ispegnersi, mandò pria di finire un ultimo raggio,
e quel raggio fu l’_Essenato_. Ora tra gli Esseni che sopravvivono alla
morte di ogni nobil cosa fra noi, e lo eccidio ultimo che minaccia
la patria, vi è un testimone; testimone della grandezza degli uni e
della miseria dell’altra, della vita possente, rigogliosa del primo,
e della disperata e violenta agonia dell’ultima; e questo testimone è
Giuseppe. E che cosa dice Giuseppe che dell’uno e dell’altro stato fa
nei suoi libri fede continua? Dice parola che mi fece per non brev’ora
meditabondo; e il cuore m’empiva di poi eziandio d’ogni indicibile
melanconia. Quando Giuseppe, parlando delle pratiche esseniche, dice
che gli Esseni non entravano nel tempio per timore di profanarsi
al contatto della folla che ingombravalo, parevami nell’udirlo una
cosa:—Mi pareva vedere nell’_Essenato_ il genio irato dell’ebraismo
trarsi in disparte dall’orribile scompiglio sopravvenuto; parevami
trincierato nella sua solitudine imprecare alle passioni, ai peccati,
al disordine che infuriavano; parevami, preso in dispetto il tempio,
fuggirsene lungi, come fuggita se n’era la gloria di Dio ai tempi
di Ezechiele; e come fuggire accennava dal secondo tempio eziandio
quando per entro alle sue mura, come narrano Ebrei e Pagani, udissi
quel suono, quel calpestio, quella voce di partenza che disse: Esciamo
da questo luogo. Io vel confesso ingenuamente. Il primo senso che
io colsi nelle parole flaviane, non fu sì vero, sì profondo, non fu
questo che io dico: parevami, e male parevami, che qui si trattasse
di qualche cosa di ordinario, di normale; parevami volesse dirmi
Giuseppe, non riconoscere gli Esseni, non ossequiare almeno in pratica,
il culto pubblico, la casa di Dio, il tempio di Gerosolima. Ma quanto
ingiustamente! E non solo perchè gli Esseni, Ebrei quanti altri mai,
non potevano ragionevolmente disertare tempio ed altari; non solo
perchè le cause da Giuseppe assegnate, accennano manifestamente a
temporaneo ed eccezionale abbandono, per istudio eccessivo di purità,
ma soprattutto perchè la storia parla eloquente, perchè troppo anzi
giustifica il ritiro e la diserzione dell’Essenato. Bisogna leggere
le storie per persuadersene. Bisogna leggere delle passioni che si
scatenavano ignobili, brutte, furiose nel sacro recinto, del sacerdozio
venale, ambizioso, intrigante, vendereccio, lussurioso; bisogna leggere
degli eccidj commessi sui gradini del tempio, degli altari di Dio
conversi in campo di battaglia dalle fazioni che laceravano la patria;
delle bruttezze, delle enormità d’ogni maniera che un popolo, che un
sacerdozio feroci, farneticanti commettevano all’ombra del tempio. È
miracolo dunque se gli Esseni quando Giuseppe parlava, ch’è quanto
a dire, allora appunto che le scene discorse si spiegavano in tutta
la lor turpitudine, fuggissero lungi da quelle mura contaminate,
dalle mura del tempio? È miracolo, quando sapremo le regole rigorose
inflessibili che avrebbero dovuto vegliare, e che avevano infatti in
altri tempi vegliato alla purità di quel tempio, quando sapremo dalla
tradizione che ce lo narra, che tante parti eranvi nel tempio quanti
gradi vi erano nel popolo di purità, che altro per esempio era il
luogo ai Gentili dischiuso, altro agli immondi per contatto di morti,
altro ai _Tebulè jom_, altro ai _Mehusserè caparà_, altro alle donne,
altro agli uomini riservato, ed altro infine ai sacerdoti? E quando
pure queste regole comuni, per ognun doverose, non fossero state ad
ogni istante manomesse dal disordine, dall’anarchia imperante, non
avevano eglino, gli Esseni, specialissime regole di purità, che non
essendo generalmente osservate avrebbero pericolo corso di violazione
quando commisti alla folla dei devoti fossero entrati nel tempio?
(Vedi Lezione XII.) Ma se Giuseppe accennava di porci in imbarazzo
coll’asserzione che abbiamo adesso storicamente giustificata, non
meno a prima vista riesce duro a comprendersi quanto egli aggiunge
immediatamente. Quando Giuseppe dice apertissimo che gli Esseni
sacrificavano nelle case loro, nei loro chiostri, nel loro ritiro,
non vi par egli che osti, non solo al deposto della tradizione, ma
eziandio ad un testo formale, ove s’interdice il sacrifizio fuori del
recinto sacrato? E veramente all’uno e all’altro osterebbe Giuseppe, e
non solo dalla legge ingiustificato, ma contraddetto parrebbe ancora
dalla storia contemporanea, che non ci mostra in Palestina a fianco
del tempio pubblico nazionale di Gerosolima, nè altri tempj, nè altro
altare, nè altro culto. Che cosa dunque volle dire Giuseppe quando
parlava dei privati, dei domestici sacrifizi dell’Essenato? Io ci ho
lungo tempo riflettuto, e solo due possibili spiegazioni mi sovvenivano
all’uopo opportuno. Voi lo avete udito più volte. Oltre gli Esseni
di Palestina, oltre gli Essenici Chiostri di Terrasanta, vi erano
gli Esseni di Egitto, quelli che udito abbiamo chiamar _Terapeuti_,
erano le case, i ritiri di Egitto. Or bene, la storia ci ha serbato
un fatto, un gran fatto, per la storia degli Esseni, per la questione
presente segnatamente. E questo fatto è la esistenza di un tempio in
Egitto, foggiato appunto su quello che inalzavasi in Palestina, di esso
contemporaneo e rivale, ed ove il sacerdozio, il culto e sacrifizj
e le forme istesse architettoniche dell’edifizio porgevano imagine
fedelissima del modello palestinese. Furono eglino al tutto estranei i
Terapeuti di Egitto, se non altro alla elevazione, alla conservazione
almeno dell’ossequio, che ivi riscoteva generalissimo il tempio
egiziano, il tempio di Onia? Io non lo credo: non lo credo, perchè i
Terapeuti avrebbero fatto allora scissura ai fratelli alessandrini, nè
la storia ci autorizza a menar buono il supposto: nol credo, perchè
l’Esegesi tradizionale del verso citato può non aver esercitata, a
tanta distanza del centro ortodosso, l’azione sua proibitiva; non lo
credo, perchè i Terapeuti di Egitto, per quanto a parer mio Esseni
trapiantati in terra straniera, ciononostante come pianta divelta
dal suolo natio, non lasciava di offrire sembianza alquanto degenere
dall’originario sodalizio per la miscela di idee greche od egizie colà
operatesi; e non lo credo infine per un curioso cenno che la mia stella
propizia mi offriva in Maimonide. Maimonide, oltre la grand’opera
rituaria che lo ha fatto sì celebre nel Rabbinato, è autore di un
comento misnico che scrisse all’età di venti anni, e che dettava come
altre sue opere, in purissimo arabo. Or bene, in questo comento che io
dico, al 13º di _Menahot_, e là appunto ove nella _Misnà_ si favella
del tempio egiziano, del suo fondatore per nome _Honiò_, io trovo in
Maimonide preziosissima indicazione. Quando dice della fuga di _Honiò_
in Egitto, quando narra del favore trovato da esso nella corte dei
Tolomei, della grand’opera intrapresa, del nuovo tempio, dei seguaci,
degli aderenti che secondaronlo, sapete chi egli annoveri tra i
cooperatori e ajutatori del nuovo Esra? Egli annovera _una sètta_, sono
sue parole, _Kaptzar_. Un pensiero mi sorrideva, mi tentava, e comecchè
da principio non osassi confessare nemmeno a me stesso, pure a poco a
poco presi coraggio, ed ora a voi lo espongo. Sarebbe egli possibile
che nell’informe vocabolo si nascondano i _Copti_?[88] Ma io oso dire
di più: oso dire che non al tutto sarebbe oggi stesso difficile seguire
quello strano rivolgimento di casi per cui gli antichi _Terapeuti_ di
Egitto divennero in bocca a Maimonide la sètta dei Copti. E questo filo
conduttore, questo filo d’Ariana nel nerissimo laberinto ce lo porge
la storia. La quale ci addita nei Copti l’antichissima, la primitiva
chiesa cristiana di Alessandria fondata da _Marco_; che ci narra la
confusione sino ab antiquo avvenuta, e di cui vi tenni parola nelle
prime lezioni, tra i Cristiani di Egitto e i Terapeuti colà stabiliti:
le strane pretese d’identità spiegate sino ai nostri giorni dai dottori
della Chiesa, e fondate unicamente sopra tale confusione; e infine il
nome di _Terapeuta_ usato positivamente nei primi secoli qual sinonimo
di cristiano, di monaco, di solitario. Che cosa dunque avvenne a parer
mio? Vi era una tradizione sino a Maimonide perpetuata, del concorso
prestato ad _Onio_, al suo tempio, al suo culto, dai terapeuti di
Egitto. Di questa tradizione _Maimonide_ ebbe contezza. _Maimonide_
che dimorava in Egitto, ch’è quanto dire nella patria stessa dei
Terapeuti, nell’antica sede del tempio _Onico_, colse in Egitto stesso
dalla storia, dalle tradizioni egiziane il fatto in discorso; ma lo
colse corrotto, alterato, degenere, quale i secoli e la ignoranza lo
avevan ridotto. E così alterato e degenere lo trasmise ai nipoti. Di
Terapeuti ebrei si era fatto Terapeuti cristiani di questi, con facile
e legittimo transito, e solo l’antico nome traducendo con più moderno
vocabolo, si era fatto i _Copti_.—E i _Copti_ appunto disse Maimonide
cooperatori di _Onio_. E i _Copti_, ch’è quanto dire i Terapeuti, gli
Esseni d’Egitto, ebbe forse di mira Giuseppe quando parla dei privati,
dei domestici sacrifizj da loro praticati. E questo è uno dei due
sistemi possibili per ispiegare Giuseppe. L’altro è più breve, e non
vi so dire se meglio persuasivo. I sacrifizj di cui parla Giuseppe
sarebbero patrj, indigeni, palestinesi, sarebbero proprj degli Esseni
di Gerosolima; e se la legge a tali sacrifici si opponeva non è tale
nè sì generale il divieto che un caso solo non se ne eccettui, che
non sia anzi permesso raccomandato, ed a cui potuto hanno dar opera i
nostri Esseni secondo Giuseppe. E questo caso è quando non l’Ebreo,
ma è il Gentile, ma è il Pagano che offre. Allora ogni barriera si
abbassa; allora non più tempio, non più recinto, non più limiti che
circoscrivino l’adorazione umanitaria; allora la natura quanto è vasta,
un campo, una riva, la cima d’un colle, son tempio condegno al culto
di Dio; allora, secondo nostra fede, non solo il gentile può scegliere
luogo a sacrificarsi qual più gli talenta, ma ciò ch’è sovrammodo
degno di nota, egli è il permesso all’Ebreo conceduto, di dirigerne,
di regolarne l’esecuzione, di prescriverne i modi più accetti, di
additarne il rito voluto, legittimo e già determinato dalle nostre
leggi;[89] allora vediamo i Dottori Talmudisti sul fine di _Zebahim_,
mettersi tutto cuore e tutta anima a secondare le pie vedute di nobili
e signori pagani della madre di Sapore, monarca di Persia, insegnar
loro il modo di sacrificar più accetto, ad assistere personalmente
al sacrifizio, a predicarlo meritorio, e in certa guisa parzialmente
antivenire quel ministerio sacerdotale che sarà proprio e naturale
d’Israele, alla fine dei tempi.

Ma noi dei sacrifizj essenici ragionando, abbiamo trovato, se la
congettura non erra, un loro tempio, il tempio di _Onio_ in Egitto.
È questi il solo che pretenda all’onore dell’Essenato? Io credo che
di due altri tempj ragioni la storia che più o meno possan vantare
essenica cittadinanza. È l’uno quella famosissima _Proseuca_ o
_Sinagoga_ che sorgeva, non saprei dire se presso a Tebe o nelle
mura di Alessandria, e di cui è menzione pomposissima nel _Talmud_
di _Succà_, con qualche curiosa variante, tra il Babilonese e il
Gerosolimitano, e che rovinò per ordine, dice il Babilonico, di
Alessandro, per ordine, dice il Gerosolimitano, e dice meglio, di
Trajano l’empio, _Traghianos arasciah_. Sono le altre quelle sinagoghe
di cui udiste parlare in altre lezioni a proposito della vita campestre
dell’Essenato, quelle _Proseuche campestri_, come le chiamano i
dottori, ed in cui parevami e parmi ancora vedere memoria degli antichi
oratorj dell’Essenato.

Ora una parola della _Preghiera_ Essenica ed avremo finito. Pregavano
gli Esseni, dice Giuseppe, al sorger del sole, gli è quanto dire in
quell’ora istessa in cui pregavano i _Vatichim del Talmud_, altro nome
dei nostri Esseni, e di cui videro i dottori nostri cenno in quel
verso che dice _Irauka im Sciamesc_. Non basta: Giuseppe ci porge
nuovo riscontro colla preghiera dei dottori. Gli Esseni, ei dice, non
parlano di alcun affare prima del sorger del sole. E i Farisei pure,
e lo dicono e lo raccomandano e lo osservano. Per essi, non solo gli
affari, ma il conversare, ma il saluto istesso è interdetto pria che il
sole risorto e l’anima ridesta mandino il saluto alla eterna fonte di
ogni salute: tanto che vi furono e vi sono tanti Esseni senza saperlo,
che imbattutisi per via prima di orare in un amico, usano frase che
non è saluto ma è preghiera. Ma ciò che l’animo non ardiva sperare,
ciò che parrebbe superare ogni aspettazione, egli è la esistenza, la
conservazione tuttavia nella Liturgia ortodossa di un _Inno_, di un
_Canto_ superstite dell’Essenato. E pure di questi miracoli, ed altri
maggiori, è capace la bella e feconda per quanto ardita erudizione
germanica. Se uomo vi è capace di dar credito e faccia di verità ad una
ipotesi egli è senza meno il _Nestore_ dei Rabbini tedeschi, il dotto
e celebre Rapaport, gran Rabbino di Praga. Ora secondo il Rapaport vi
è una preghiera tra quelle che si recitano nel sabato, che appartiene
all’antica Liturgia degli Esseni; ed è quello un ordine alfabetico che
incomincia _El adon_. Credo l’opinione del Rapaport assai verosimile,
e ciò che vi parrà singolare, per quelle ragioni appunto che altri la
osteggiò. E questi è un dotto e piissimo Rabbino Tedesco, tolto, non è
molto, ai vivi, il _Zebi Tro Haiot_. Il Haiot nell’_Imrè Binà_ trova
la congetura del Rapaport inverosimile, e per quella ragione appunto
la credo tale, che dovuto avrebbe persuadergli il contrario. Egli
trova nel _Fur_ una diversa lezione nella preghiera in discorso, trova
che là ove leggiamo _Raà veitkin_, _vide e formò_, leggere si debba
invece _raà veictin_, _vide e impicciolì_ la forma lunare; e siccome
tale lezione si fonda sopra un’_Agadà_ del Talmud babilonico, ove si
dice che la luna dicadde nella gerarchia degli astri, e di stella che
era divenne satellite, egli crede che non si possa a buon diritto
supporre nelle preghiere esseniche menzione di questa leggenda. Dico
il vero, il raziocinio del Haiot, non dirò mi sorprese, sarebbe poco,
mi empì di stupore. Possibile dissi fra me! Possibile che tanto abbia
egli negletto ed obliato così scrivendo! che abbia obliato come alla
perfine la lezione di cui favella non é la sola; ed ove l’altra, punto
all’_Agadà_ allusiva, si addottasse, resterebbe la congettura del
Rapaport incrollata! Possibile che abbia posto in oblio, come l’Agadà
della _degradazione lunare_ sia eminentemente Cabbalistica: e come
tale, e come uno dei punti più culminanti del Cabbalismo talmudico,
sia portata in trionfo dai teosofi antichi e moderni. Possibile che
non siasi ricordato come appunto la lezione da lui proposta prevalga
tra essi alla lezione contraria; possibile che abbia posto in non
cale un fatto momentosissimo, e che solo basterebbe a dar ragione a
Rapaport; voglio dire la importanza conceduta, i lunghi ragionamenti,
le speculazioni Cabbalistiche che fa il _Zoar_ su questa preghiera
di EL ADON: è possibile infine come non abbia veduto che non altro
essendo gli _Esseni_ che i Cabbalisti antichissimi, se vi è scuola a
cui s’acconci la preghiera in discorso che possa dire altamente _vide
e impicciolì_ ec.; eglino sono senza meno i nostri Esseni, a cui in
verità e tanto meritamente l’attribuiva il rabbino di Praga. Ma se
causa vi è di tanto oblio, ella è questa una: il non avere a bastanza
il Haiot riconosciuto la identità da noi propugnata tra Esseni e
Cabbalisti; l’aver trovato disdicevole ai primi ciò che avea trovato
dicevolissimo ai secondi; e se il Haiot vivesse ancora, tanta era la
sua pietà e la dottrina, che, oso dirlo, egli avrebbe plaudito ai
nostri sforzi, e trovato avrebbe col Rapaport essenica per eccellenza
la preghiera di _El adon_, perchè potuto non avrebbe negare essere la
sua lezione per eccellenza cabbalistica.



LEZIONE TRENTESIMASECONDA.


I tempi, i sacrifizj, le preghiere dell’Essenato ci occuparono
nelle passate Lezioni. Noi dobbiamo con passo misurato e rapido a
un tempo procedere oltre; dobbiamo di quell’argomento favellare che
più dappresso si attiene alle cose discorse; dobbiamo, a dir breve,
ragionare delle _Feste_. E prima del Sabato Essenico, siccome quello
che torna più di frequente e in cui più luminose spiccano le analogie
farisaiche. E queste sono parecchie e di non lieve momento. È la
prima quella che riguarda il _Muczè_. Che cosa è il Muczè? È quel
divieto pel quale ogni uso e contatto eziandio ci è interdetto di
quegli oggetti, che un officio adempiono proibito nel sabato.—Qual
sarebbe a mo’ di esempio una vanga, una scure, delle legna, delle
monete, divieto principalmente farisaico e tradizionale. E pure,
gli Esseni il conobbero, e non solo conosciuto ma praticato era dal
grande istituto, se stiamo a Giuseppe, il quale, con parole che più
non si potrebbero esplicite, asserisce a dirittura non solo astenersi
gli Esseni nel sabato da ogni opra servile, ma non osare _cambiar
nemmeno un utensile di posto_, ch’è quanto dire il vero e preciso
_Muczè_ farisaico. Ma le cose che seguono non solo offrono nuova
conferma alla identità favorita, ma anche solo da questa traggono la
sola luce e intelligenza possibile; tanto senza la tradizione nostra
tornerebbero incomprensibile. Quando Giuseppe, dell’Essenico Riposo
favellando, dice che da ogni necessità naturale si astenevano se
non costretti, che cosa volle dire Giuseppe? Oso dire che le parole
di Flavio riuscirebbero strane, ridicole eziandio, ove al contatto
non siano poste della tradizione farisaica.—Ma poste di questa a
riscontro, qual cambiamento! Non è dessa che l’uso interdiceva dei
_purganti_ nel sabato ove pericolo non corrasi della salute? non è
dessa, che alludendo ad uso allor comunissimo, proibiva eziandio quegli
_emetici_ che non solo a ristoro della salute perduta, ma per istudio
eziandio di crapula, d’intemperanza solevano prendere i _parassiti_
romani? Certo che è dessa, è la tradizione che di tali cose ragiona,
ed essa pertanto ci offre quella sola intelligenza possibile all’uso
essenico che ricorda Giuseppe.—Ma il terzo punto che concerne il sabato
essenico, non meno degli altri eloquente depone in favor nostro. Se gli
Esseni, come attesta Giuseppe, portavano abiti distinti nel sabato,
se onoravano anche nella loro persona il riposo sabbatico, che segno
è? Egli è segno che gli usi, che le pratiche, che le interpretazioni
eziandio adottavano dei Farisei, perchè appunto egli è da una
interpretazione a _Isaia_, che trassero i Dottori l’obbligo di recare
vesti distinte particolari nel sabato.

Per le Feste, non è questa la prima volta, che ne udite parlare.—Quando
cercavamo la derivazione essenica dagli antichi _Hasidim_, voi lo
ricordate. Noi parlavamo di una festa Terapeutica in cui mille
spiccavano analogie colla festa della _Scioabà_; e noi lasciavamo
allora indeciso se, salvo il ceremoniale e il solennizzare che era
senza dubbio conforme, la stessa festa, lo stesso giorno fosse dagli
uni e dagli altri in modo così conforme solennizzato. Ciò che allora
mi pareva dubbioso, mi sembra oggi, non so se a torto, indubitato. Io
credo che salvo il Rito, e lo ripeto che era conforme, la Festa di cui
parla Filone, quella non sia di cui parla il _Talmud_, non sia cioè
la festa dell’autunno, la _Scioabà_, ma sia per contro la Festa delle
_Settimane_ del Pane terreno e del Pane celeste, della terra e del
cielo fecondi, la festa di _Sciabuot_. Io oso dire che se avessi dovuto
scegliere a libito mio, qual festa tornar potesse più acconcia al mio
sistema, quale più di ragione mi fornisse nelle mie congetture, io non
avrei altra festa potuto scegliere se non questa. E pure non l’arbitrio
mio, ma le autorità irrecusabili degli antichi ce lo attestano.

E non solo attesta, come dissi, che quella festa era la festa delle
_Settimane_, ma due grandi insegnamenti eziandio ne somministra
nell’esporne in primo luogo la teoria e in secondo luogo nel narrarne
la pratica. La teoria! Io oso dire che non potrebbe essere più
consentanea al vero spirito della Bibbia, e alle più famigerate teorie
cabbalistiche. Quando Filone espone le Dottrine terapeutiche sulla
festa del _Sciabuot_, ci pare l’eco fedele delle idee più frequenti e
più proprie dello _Zoar_; ci pare, ciò che è veramente, che uno sia
l’insegnamento, una l’origine, una la scuola. Quando Filone fa dire ai
_Terapeuti_ il Sette numero santissimo, e quindi santissima la _Settima
Settimana_ dopo l’èra nazionale della Pasqua, quando lor fa dire la
_Settima Settimana_ casta e sempre vergine, dice cosa che inchiude
un mondo d’idee cabbalistiche, che accenna in mille guise a quelle
riposte dottrine, che riproduce in modo esattissimo, non solo i simboli
e le espressioni più favorite, ma li produce in modo che più non si
potrebbe opportuno. Perocchè egli è appunto intorno all’argomento del
_Sciabuot_, che si accumulano, che si affollano nei libri teosofici le
idee, i simboli uditi poc’anzi in nome dei Terapeuti, che tu odi, come
udito abbiamo dagli Esseni preconizzare, glorificare il Settenario, e
quello venerare nella Settima settimana, che ricorrono, come ricorsero
appo gli Esseni, i nomi, gli appellativi per la Settima settimana di
_casta_ e _vergine Bat Scebah_, _Betulat israel_; e che la festa del
_Sciabuot_ tu odi come intendevamo or ora dagli Esseni, chiamata il
Settenario Sacro e solenne nel Ciclo Annuale.

Ma io dissi che non solo la teoria, ma anche la pratica da Filone
narrata non riuscisse meno preziosa pel nostro assunto. Io vorrei avere
tra i miei uditori coloro che tolsero a testo delle loro declamazioni
l’uso prevalso tra noi di vegliare la notte intera in letture, in
meditazioni devote, la notte di _Pentecoste_, la notte, dice il _Zoar_,
in cui la _Sposa s’apparecchia pel talamo nuziale_; vorrei che fosse
tra gli altri il nostro venerando Luzzatto, e ch’egli, a cui niuno
può far da maestro, vedesse quanto giova lo studio dell’Ebraismo
_extrarabbinico_, qual’è a mo’ d’esempio la storia delle sètte, per
la rivendicazione di certi veri che non prendono faccia di menzogna
se non quando sono isolati da tutte le manifestazioni contemporanee
dell’idea religiosa. Egli che nel suo recente _vicuah_ apriva la scena
con un pio consesso, con una veglia religiosa per mostrarne, s’intende,
la inanità e la fatale rovina col rovinare della base che è lo _Zoar_
che la preconizza; egli così schietto e disinteressato cultore del
vero, venga e veda. Veda i Terapeuti, che noi abbiamo sempre predicato
antenati dei Cabbalisti, darsi in quella sera istessa in cui si danno
i loro tardi nipoti, non già a quelle letture, a quelle pratiche
istesse, a quel programma inalterato che vediamo oggigiorno seguito,
perchè chi questo esigesse, esigerebbe l’assurdo; ma darsi a _preci_,
a _canti_; e poichè nel recinto del Tempio di Gerosolima i _Hasidim_
si davano pure alle danze, ed essi ancora i Terapeuti, come attesta
Filone medesimo, intrecciare parole, e poi all’alba, come udiste altra
volta, di nuovo orare, e tutta insomma quella notte trascorrere in
offici che se non hanno la forma istessa dei tempi moderni, ne hanno
lo spirito. E poi, potrò io tacerlo per timor di sorprendervi? potrei
negare che quella danza istessa, che urta tanto gli abiti, le idee,
i pregiudizj contratti, che vi sembra, me lo figuro, sfidare tutti
gli sforzi che io spendo a trovarne le vestigia fra noi, è tuttora
visibile in qualche parte di mondo, ove si voglia frugare per entro
ai costumi dell’universal ebraismo. E perchè dovrò tacere ciò che io
ho veduto? Perchè non dirvi non solo che l’uso di danzare in _Simhat
torà_ è costume predominante tra gli Ebrei di Africa e di Oriente, ma
che nella mia più tenera infanzia io stesso ne fui spettatore? E il
santo e pio _Coribante_ era un dottore che Livorno vide prima opulente
e generoso sino alla prodigalità, e poi povero e anche più generoso,
che amai fanciullo, e stimai e rispettai giovinetto siccome quello
che mi parve di cuore e mente nobili elevatissimi, e che, a rovescio
del ritratto di Petrarca che disse _sotto biondi capei canuta mente_,
conservò già vecchio la candida, la fervida poesia del cuore: egli
dotto, ingenuo, facondo, civilissimo familiare in Londra de’ lord
John Russel e del Duca di Cambridge, cultore anzi adoratore di ogni
sapere, ma più adoratore della patria nostra antichissima che sospirò
negli anni suoi tardi, dove trasse, stanco dei favori e dei disfavori
della fortuna, e dove pochi giorni dopo il suo arrivo morì di morte
repente, per un _bacio_ divino dicono sublimemente i dottori, _Mitat
Nescicà_ il giorno stesso di _Sciabuot_ mentre compieva l’atto suo più
favorito, mentre parlava. Ed ei danzava e nel suo privato oratorio
con leggiadrissimo e piccolissimo Pentateuco alla mano, rinnovava
la scena dei Terapeuti, ed io fanciullo stupefatto guardava, e poi
risi, e più tardi pensai, ed ora intendo.—E voi pure, ne son sicuro,
intendeste. Intendeste come la danza dei Hasidim _veossè Maasè_ nel
tempio di Gerosolima, la danza dei Terapeuti che narra Filone, la
danza del santo dottore che ora udiste, sia un atto solo ripetuto in
luoghi e tempi diversi, l’espressione identica di un sol culto, di una
sola scuola, che si chiama ora _Hasidim_, or Esseni, or Terapeuti, ora
e proprio ora Cabbalisti sempre gli stessi e sempre diversi, sempre
gli stessi nella sostanza, sempre diversi nella forma e nei nomi. E
sopratutto intenderete il solenne insegnamento, ch’emerge dal soggetto
principale del confronto presente, le veglie esseniche e cabbalistiche
di _Sciabuot_ in pari modo osservate dalle due scuole tra i primi, tra
gli Esseni in alta e incontestabile antichità, tra i secondi in tempi a
noi più vicini, ma che posti coi primi al contatto ne formano seguito
e anella indivisibili, osservate da entrambi per le stesse ragioni,
espresse da entrambi cogli stessi simboli, trascorse da entrambi in
atti religiosi se non al tutto conformi.

E ciò che vi parrà, ne sono certo, aperto contrassegno di verità è
il linguaggio che tiene lo _Zoar_ a proposito delle veglie medesime.
Non basta allo _Zoar_ datare le veglie in discorso da R. Simone e dai
suoi colleghi, ciò che bastato sarebbe a un impostore. Lo _Zoar_ con
uno sguardo retrospettivo, che non è comune troppo nelle sue pagine,
ricorda tempi, uomini, esempj, più antichi come più antichi certo del
_Ben Johai_ furono gli uomini, i tempi, gli esempj dell’_Essenato_, nei
quali e pei quali le veglie in discorso erano già state introdotte in
Israel. E con quali parole ricorda lo _Zoar_ quei tempi più antichi!
Con frase che designa direttamente il grande Istituto, se le tante cose
dette in queste lezioni sul vocabolo _Hasidim_ non furono invano. E se
nol furono, come non credo, chi non sarà di dolce sorpresa assalito
leggendo nello _Zoar_ di _Emor_ queste parole: _E per ciò i Hasidim
antichissimi non dormivano in questa notte_: in cui la parola _Hasidim_
non comune nello _Zoar_ è acconcia propria speciale che nulla più
all’epiteto _Cadmaè antichi_ che segue dappresso, essendo, come dissi
più volte, il nome di _Hasid_ proprio ai _Cadmaè_ cioè agli antichi
progenitori dei Zoaristi, agli Esseni e Terapeuti, anteriori certo allo
_Zoar_ e allo stesso R. S. B. J. E non solo il passo citato favella
dell’uso in discorso, ma la Prefazione eziandio dello _Zoar_ a pagina 8
diffusamente ne parla. Parla dell’uso come da lungo tempo introdotto,
degli uomini che si davano opera, e che sono evidentemente non già i
Farisei indistintamente, ma quella parte più eletta che si chiamano
_habrajà dibnè ekalà deeallà_. Si parla di nozze, di tripudj nuziali
e quindi l’idea risveglia di danze e di canti; si parla di paraninfi,
della mistica sposa che sono i dottori rammemorati; si parla nei
libri posteriori della recitazione del _Cantico dei Cantici_ mistico
Epitalamio, e quindi sommamente consenziente alle idee preaccennate.
Si parla di _Tebilà_ nel mattino seguente di _Sciabuot_, come abbiamo
veduto i _Terapeuti_ di Filone dopo i riti notturni purificarsi con
generale abluzione, e questo è notevolissimo riscontro come vedete.
Infine uno dei punti delle pratiche stimate meno autorevoli dei
Cabbalisti riesce così storicamente rivendicato.



LEZIONE TRENTESIMATERZA.


La prima parte della essenica vita, della essenica pratica, vuole
essere qui terminata, la vita, la pratica religiosa.—Dopo i tempj,
i sacrifizi, le preghiere studiate nella prima Lezione, dopo i
sabati, le feste studiate nella successiva Lezione, vuolsi qui far
menzione di due fatti che la storia degli Esseni ci ha tramandati, e
che possono agevolmente in un fatto convertirsi. Riguardo al primo,
l’essenico giuramento, non quello che lo iniziato pronunziava al suo
ingresso, ma quello comune, ordinario, legale che si prestava innanzi
ai giudici. Se stiamo a Giuseppe, gli Esseni reputavano spergiuro il
giuramento istesso comunque veridico.—Giuseppe non si spiega di più,
ma le analogie farisaiche, la legislazione ebraica del giuramento non
solo spiegano, ma limitano e circoscrivono nei termini del vero, del
verosimile l’asserzione di Giuseppe. Gli Esseni non possono avere
considerato spergiuro quel sacramento prestato in modo legittimo _pro
tribunali_, ed in quei casi, in cui non solo la legge il consente
ma imperiosamente lo esige. Se questi pure avessero involto gli
Esseni nella comune riprovazione, se detto avessero colpevole un atto
chiarito da Moisè innocente, e talvolta altresì doveroso, potrebbero
più dirsi veraci Ebrei, come pure lo erano eminentemente i nostri
Esseni? potuto avrebbero al tempo stesso tributare quella venerazione
stragrande all’uomo divinissimo che pur tributavano a segno, come
dice Giuseppe, di proclamare sacrilego chiunque meno che reverente
favellasse dell’uomo di Dio.—Che se la ragione, la storia, i fatti più
ovvj escludono questa lata, assurda interpretazione di Flavio, che cosa
resta nella sua asserzione? Nulla a parer mio che mai sia, non solo in
grado sommo conciliabile colla legge e le tradizioni farisaiche, ma
anche che da esse e solo da esse tragga luce ed intelligenza adequata.
Restano i giuramenti insulsi comunque veridici, lo affermare con
sacramento fatti notorj incontestati, di colonna marmorea, come dice il
Talmud, che è di marmo, di fatti pubblici incontesi che sono avvenuti,
e quella insomma molto diversa dal falso giuramento che reca il nome di
vano ed insulso e si dice legalmente _Sebuat Sciav_. Ma questo stesso
quanto non giova al nostro assunto! Se ricusato avessero gli Esseni la
tradizione farisaica, se dello spirito dei dottori non fossero pieni,
se una sola scuola non avessero con essi formato, avrebbero eglino
col solo, col nudo testo alla mano, il giuratore insulso dichiarato
spergiuro? Io ne dubito, e tanto più esiterei ad ammetterlo quanto più
i testi sembrano favorire l’equivoco tra il _Sciav_ e il _Sceker_, e
presentarle ambidue come identiche espressioni di un sol giuro. E se
ogni altra prova mancasse, basterebbe questo fatto soltanto, basterebbe
vedere la duplice versione del Decalogo servirsi sempre del vocabolo
_Sciav_ nel quale non potrebbe non vedersi il vero spergiuro, il falso
giuramento. Che se la sola tradizione, il solo farisaico può avere agli
Esseni amministrata la legale nozione del giuramento insulso, che sarà
poi ove nello stesso giuramento vero legittimo, necessario vedeste
le due scuole porgersi amica la mano, e se i Farisei non disdicendo,
come disdir non potevano, il giuramento legale, pure li vedeste
ristringere nei limiti che più poterono angusti. Se ne circoscrissero
l’applicazione, ed anco nei casi indispensabili lo infamarono? Vi è un
luogo d’oro nel _Tanchumà_ ove il prescritto del Deuteronomio «_ad esso
ti attaccherai e pel suo nome giurerai_» ove l’autorevole, il legittimo
giuramento è a tali e tante condizioni subordinato, di morale, di
religione, di virtù pellegrine, che pochi sarebbero coloro che nei
secoli più perfetti ne sarebbero degni.

E sono quelle che precedono il verso citato, il _pel nome
suo giurerai_.—Il timore di Dio nella sua più vasta e nobile
significazione—il culto perfetto—l’attaccamento, l’amore in cui i
dottori pongono il colmo della perfezione religiosa. Ecco secondo i
dottori chi può impunemente subire del giuramento la prova. Ma oltre
i limiti e la repugnanza nell’applicazione, oltre le condizioni di
morale squisito imposte al giuramento,—i dottori nostri ai litiganti
che invocavano in causa il giuramento, imposero il titolo infamante
di _Resciaim_, _empj_, e non solo tali li dissero sui loro libri, nel
loro foro interiore, ma legale e pubblica sanzione dierono a questo
titolo ingiurioso nel fôro esteriore, e lo dierono quando statuirono
tra le formalità del giudizio civile, che dopo avere il giudice colla
solenne formola del _Scun_ o vuoi _Monitorio_, intimato alla coscienza
del giurante le gravi pene dalla legge sancite, e la voce del Sinai
minacciosa ripetuta ancor una volta al cospetto dei litiganti, che ove,
dico, le parti insistessero nullaostante nelle loro pretese, che tutti
ad una voce intuonassero i presenti quel verso con cui Mosè allontanava
dalle tende ribelli turbe innocenti e: _Lungi_, dicessero, _lungi dalle
tende di cotesti malvagi; nè vi appressate a cosa che loro spetti,
affinchè involti non siate nel loro sterminio_, volendo alludere alla
colpa presunta di ambo le parti, colpa d’insulso o di falso giuro, nel
debitore, colpa d’irregolare procedimento e d’imprudente fiducia nel
reclamante, e tutti e due causa più o meno colpevole della invisa e
dolorosa necessità di giurare.

E queste paionmi già abbastanza eloquenti antologie tra Farisei ed
Esseni. Ma ciò che vado ad aggiungere è, oso dirlo, di bene altra
importanza. Se ciò che prova la identità generica dell’Essenato colla
scuola de’ Farisei, egli è, com’è veramente, di non lieve momento,
che saranno quelle prove che distinguendo l’Essenato dal comune dei
Farisei lo confondono, l’identificano specialmente con quella parte
di essi che si dicono Cabbalisti? Se tra il silenzio del farisato
talmudico e la formale e solenne asserzione del farisato cabbalistico,
vedremo gli Esseni a questi ultimi associarsi e con essi alta e solenne
levare la voce in favore di un principio, di un divieto, di una legge
taciuta dei Farisei, non sarà egli il più bello, il più urgente, il
più irrecusabile argomento in favor della identità propugnata? E che
direste se questo singolare fenomeno si avverasse, se un divieto
sconosciuto al Talmud, strano, paradossale eziandio secondo il
Talmud, fosse dagli Esseni e insieme dai Cabbalisti, e da essi solo,
solennemente affermato? E pure nulla di più vero, di più dimostrato.
E pure, se ognuno volesse dire a sè stesso, tutto il valore della
concordanza presente la identità essenico-cabbalistica, non sarebbe più
un problema, e pure se questo fatto solo emergesse dal confronto delle
due sètte, bastare dovrebbe a ingenerare grave sospetto d’identità,
alla critica più severa. E questo fatto spicca luminoso in Giuseppe,
in Filone e poi nel gran Codice Cabbalistico, nel libro del _Zoar_.
In Giuseppe quando interpreta il verso dell’_Esodo Eloim lò tekallel_
quando vi trova, singolare a dirsi! il divieto di maledire, di
bestemmiare eziandio i numi gentili. In Filone quando il verso stesso
nel modo istesso interpretando, ci trova il rispetto dovuto eziandio
alle straniere divinità. E nel _Zoar_ infine, in quel luogo d’oro ove
_R. Abbà_, il compilatore stesso della grand’opera, scrive parole
memorandissime che nessuno sospetterebbe potere trovare in libro così
ascetico; e che perciò stesso si può credere informato di uno spirito
di gretta, di meschina, di esclusiva osservanza. E pure quanto vaste
e grandi sono le idee! E non solo la teoria il fatto viene ivi stesso
a confermare ed attuare il principio; e la conferma e l’attuazione
per felicissima coincidenza, è opera non di uno, di _sei dottori
Cabbalisti_, e tra questi più esplicito proclamator del principio, il
dottore dei dottori, R. Simon Ben Johai. Io traduco e voi giudicate,
e giudicando spero non troverete troppo enfatico il mio annunzio.
Disse R. ABBÀ: «_Ognuno che bestemmiato abbia lo suo Iddio, ricade
sopr’esso il suo peccato. Vieni e vedi; quando furono gli Israeliti
in Egitto, conobbero quei duci della natura che presiedono sopra i
popoli universi, ed ognuno di essi fatto se n’era un Dio speciale.
Quando furono a Dio stretti col vincolo della fede_.—(vera etimologia
di religione, come dice Cicerone, a ligando), _ed appressolli Iddio al
suo servigio, da quei numi si separarono ed avvicinaronsi alla fede
suprema e santa_. E perciò è scritto: _Ognuno che bestemmiato abbia lo
suo Iddio, ricade sovr’esso lo suo peccato; imperocchè comunque Iddii
alieni siano cotesti, cionnonostante avendoli io costituiti a duci per
governare la terra, chiunque bestemmi, o dispregi il nome loro, certo
sovr’esso ricade il suo peccato, perciocchè miei servi e ministri sieno
essi nel governo delle cose create: ma chiunque bestemmia il nome di
Dio, non solo come gli altri iniquamente opera, ma la presente e la
eterna morte sarà al suo fallir pena condegna_. E questo è il principio
ben chiaro, bene esplicito, bene eloquente, e per eccellenza essenico,
come vedete, senza che io spenda altre parole per comentarlo. Ma io
vi dissi che, per non comune ventura, alla teoria seguiva nel _Zoar_
immediatamente la pratica, ed il fatto viene in buon punto a dare il
più bel comento al principio. Ed eccolo testualissimo. _R. Simone
procedeva per via, e con esso erano R. Eliazar, R. Abbà, R. Hijà, R.
Josè e R. Jeudà. Giunti che furono ad un laghetto di acqua_ (notate che
le _parole testuali sono orribilmente oscure_ e i più grandi interpreti
eziandio confessano di andarci a tentoni), stese la mano R. Josè per
raccogliere nel pugno acqua per bere, sendo egli assetato, ma preso da
impazienza, forse per l’acqua melmosa, o perchè stette, come vogliono
altri, per sdrucciolare: _O Lago!_ sclamò, _deh tu non fossi!_—Dissegli
R. Simone: _Reo è il tuo parlare; ministro è questo della natura, e rea
cosa è il vilipendere i ministri di Dio, e tanto meno si dee farlo,
per quelle creature veracissime ch’esistono per legge del supremo
imperante_. Nel quale passo per cogliere tutti i preziosi reconditi
documenti, mestieri è molte cose ricordare; ricordare il culto paganico
dei fiumi e dei laghi, e meglio dei genj che ai fiumi e ai laghi
presiedevano e in grazia del qual culto proibirono i dottori macellare
animali di ogni maniera in riva all’acqua, quasi fosse omaggio prestato
alle Najadi, e ai Tritoni; ricordare poi il culto in genere all’acqua
prestato dagli _Arabi_ contemporanei che i dottori dicono _Cadriim_;
ricordare il conto grandissimo che gli Esseni facevano delle rive, lo
spirito profetico che si sviluppa secondo i dottori più agevolmente
sull’acque correnti, e di cui a dilungo parlammo; ricordare le acque,
simbolo veneratissimo, come dicemmo in non remote lezioni, presso i
Talmudisti, i Cabbalisti in ispecie; e soprattutto notare quel bel
pensiero di R. Simon Ben Johai, che non è persino i più vili oggetti
della natura corporea, su cui un raggio non si diffonda, benchè
pallido e lontano, della gloria di Dio, nella quale tanto più davvicino
si illustrano, si beatificano quelle che il _Zoar_ dice _Creature
veraci_, che vivono nella legge del Supremo Imperante, ch’è quanto dire
gli Esseri Ideali, gli intelletti separati, come dicea la scolastica, i
quali vivono in Dio come Paolo disse _in Dio viviamo_.

Noi abbiamo conchiuso quanto a dir avevamo sul culto religioso degli
Esseni, o per dir meglio di quella parte delle loro pratiche, che a Dio
si riferisce. Però mestieri è che io ricordi, quando nelle primissime
lezioni favellavamo dell’origine dell’istituto, molte cose discorse
abbiamo al culto di Dio attinenti, che per non menare troppo a lungo la
nostra istoria, o furono qui per brevità trapassate, o solo un cenno ne
fu dato a rinnovarne la rimembranza. Fra questi sono gli Inni religiosi
che la storia narra posseduti dai Terapeuti, che dicevano redati dai
loro antichissimi, che cantavano, come vedemmo, nelle feste e nei
pranzj, e di cui trovammo corrispondenza tra i Cabbalisti antichi e
moderni, e specialmente in uno dei grandi protagonisti del _Zoar_, nel
figlio stesso di _R. Simone Ben Johai_ che non il _Zoar_, sarebbe poco,
ma il _Jerusaalmi_ chiama _Pajat e Carob. e Tannaj_.

Fra queste le danze sacre, non quelle dei Terapeuti di cui discorso
abbiamo anche troppo ora a dilungo, ma quelle dei _Hasidim Veaosè
Maasè_, di cui favella la _Misnà_, che avevano a teatro le aule del
tempio, quella di _Illel_ che diceva danzando _Im aní can accol can_,
parole pregne rigurgitanti di sensi cabbalistici siccome vorrei
dimostrarvelo, se l’ora lo consentisse; quelle che dice il Talmud
meneranno gli spiriti beati intorno all’Eterno, _Sole_ della vita,
come la _Rosa_ dantesca si muove in giro danzando intorno il sole
degli angioli, come Dante diceva, e se più oltre volessimo spingere
lo sguardo, le danze astronomiche degli antichi, siccome astronomiche
erano quelle dei _Terapeuti_, quali raffigurano, dice Filone, nelle
loro danze, udite bene una imagine dei cori e delle armonie celesti, lo
che solo potremo intendere quando sapremo la Teoria dei _Pitagorici_,
coi quali tanto confonde e assimila _Ilario_ i nostri _Esseni_, e che
vollero gli astri muoversi secondo le leggi della musica, e tra pianeta
e pianeta viddero quelle stesse distanze musicali che _Pitagora_ il
fondatore si dicea avere trovato, tantochè il roteare degli astri
formava, a detta dei Pitagorici, quella che essi chiamavano, e che
restò celebre nella storia della filosofia, col nome di armonia delle
sfere. Ora il nostro secolo—gli Arago, gli Herschell, i Leverrier
non credono più all’armonia delle sfere. Ma l’armonia pitagorica, a
cui niuno secolo potrà discredere se non è suicida, è quella che i
pitagorici annunziarono al mondo quando dissero anche per l’anima umana
essere l’_Anima_ un’_Armonia_. Parola profonda che vorrebbe un volume
per comentarla, e che basterebbe a provarla quella divina potenza che
è in noi d’intendere, di cogliere ogni maniera di logica, di musica,
di morali armonie. E voi ne date prova luminosissima comprendendo sì
bene quelle che io tanto disarmonicamente vo proponendovi tra le grandi
scuole del nostro popolo, tra gli Esseni, i Farisei e Cabbalisti, i
quali sono i veri astri che si muovono nell’orbita eterna, che Dio loro
ha segnato negli splendidi, nei sereni cieli del vero e del santo.[90]



LEZIONE TRENTESIMAQUARTA.


L’ultima parte della Storia degli Esseni, quella che riguarda il loro
culto, la loro pratica, fu da noi in tre parti secondarie divisa,
parte religiosa, parte privata, e parte pubblica. Della prima abbiamo
parlato quanto meglio ci è stato concesso: ora diremo della seconda, di
quella che ci narra i costumi e le virtù eziandio private dei nostri
Esseni. Egli è d’uopo poi che d’una cosa io vi prevenga. Molti fatti vi
sono alla privata vita appartenenti dei nostri Esseni, che in questa
parte della loro storia non avranno menzione, e non l’avranno per la
semplicissima ragione che per la natura loro organica fondamentale
l’ebbero, e l’ebbero diffusissima, allorchè della prima parte ci
occupavamo di questa storia della istituzione dell’Essenato. Allora,
voi, lo ricordate, la tavola e i particolari tutti ad essa attinenti,
gli abiti e le loro varietà, il celibato, e lavori, le occupazioni, gli
studj furono subbietto, che a dilungo trattammo, ma che non lasciano
per questo di essere vere e proprie esseniche pratiche. Per che allora
piuttosto che adesso ne facemmo menzione? Perché meglio tra gli
istituti annoverati che tra le pratiche? Io già ve lo dissi, perchè
non solo mere e nude pratiche son esse, ma vere e proprie istituzioni,
ma elementi integrali della essenica esistenza, e perciò tra le
istituzioni le abbiam collocate. Di queste dunque più non si parli, e
sol di quelle si faccia menzione che questo carattere non ci offrono
organico, fondamentale.

E prima, la nettezza, la proprietà.—Era essa, dice Giuseppe, studio
precipuo dei nostri Esseni; e ad essa particolarmente miravano nel
sodisfare ai naturali bisogni. Noi siamo in pien Mosaismo, quando
Moisè raccomanda di tener sgombro il campo di ogni immondizia, quando
vuole che niuna traccia rimanga alla luce del sole, delle impurità
corporali, quando, ciò che più monta, la scrittura designa l’atto
vilissimo con una parola che dipinge l’attitudine stessa che prendevano
i decentissimi Esseni, quando lo chiama _Cuoprimento di piede,
leassek et raglau_, non fanno altro e Scrittura e Mosè che preludere
alla rigida _proprietà_ o decenza dei nostri Asceti. Ma che direte
quando vedrete, siccome è proprio di ogni idea primitiva, radicarsi
l’elogio, il dovere della proprietà, in una parlante e bellissima
sinonimia? Vi è una parola nella lingua ebraica che attesta quale
idea nobile elevatissima si formassero i primi suoi parlatori della
proprietà corporale, e questa parola è _Nachi_. Nachi in ebraico
vuol dir certo _proprio_, _netto_, _decente_, ma sapete che altra
idea eziandio vi si acchiude? L’idea di una nettezza ben altrimenti
superlativa, l’idea di purità, d’innocenza, di morale irreprensibilità.
Avvi forse lingua che offra fenomeno così fatto? Or che diremo dei
nostri dottori? I quali s’ebbero in pregio la proprietà corporale; lo
dicano quei placiti infiniti che si leggono nei loro volumi, e per
tutti lo dicano quei due eloquentissimi testi che vado ad esporvi.—È
l’uno quel tratto curiosissimo del Medrasc ove traendo partito dagli
usi contemporanei, dalla custodia gelosissima che si faceva su per
le piazze, delle imagini, delle statue, dei ritratti dei Cesari,
conclude _a fortiori_, quanto più ragionevolmente si debba il corpo
nostro serbare netto, proprio, decoroso, poichè il nome pure meritossi
d’imagine e similitudine di benaltro Augusto, di Dio sempiterno. Ma
se il passo, esso citato, è ammirabile per leggiadro confronto, per
storiche allusioni, per un _sapore_ di _contemporaneità_ che solletica
piacevolmente, quanto l’altro non sovrasta per più speciale attinenza
coi nostri Esseni? Spero che non l’avrete obliato. Vi è in fondo
al _Talmud_ di _Sotà_ un frammento preziosissimo per questa storia
che porta il nome di Barraità, di _R. Pinechas Ben Jair_. In questa
_Barraità_ non è frase, non parola che non interessi, e grandemente, il
nostro istituto. E in parte lo vedeste voi stessi quando vi additai in
quella scala, che tale è veramente, di morale perfezione, il Hasidut
(che è lo stato in cui vissero i nostri Esseni) occupare quasi la cima
di quella morale gerarchia, e condurre immediatamente al Ruah acodes
o _Spirito Santo_, che è quasi la transumanazione dell’anima umana,
mentre vive nel corpo. Or bene: il primo grado di quella mistica
scala, la porta quasi che mena alle aule celesti, è appunto la virtù
che ora ci occupa, la _proprietà_. E se a questo aggiungete il nome
che porta in fronte scritto la citata _Barraità_, quel nome che tanto
dice di R. Pinechas Ben Jair, il suocero amatissimo di R. Simone Ben
Johai principe dei Cabbalisti e Cabbalista egli stesso, e dei più
insigni come si vede nello _Zoar_; se aggiungete le altre non meno
belle analogie discorse in altre lezioni, ei non sarà senza grande
ammaestramento che la proprietà, virtù tanto Essenica per eccellenza,
forma quasi il vestibolo per cui si entra nelle più segrete parti
del grande edifizio. Ma i dottori non si limitarono a predicare e
celebrare la _proprietà_ in modo generalissimo:—la loro mente così alta
non sdegnò scendere basso, molto basso; e le più minute applicazioni
studiare, e tutto prescrivere determinare nella vita dell’uomo la
_proprietà_ consentanea.[91]

Ma Giuseppe un’altra minuzia ci ha pure conservata della essenica vita,
che ha certo il suo pregio. Quando noi ragionavamo dei superstiti
simboli dell’_Essenato_, di quelle forme a così dire oggi vuote di
senso, ma ove il pensiero essenico si era una volta rinchiuso, voi lo
ricordate certamente, noi facevamo allora menzione di quel principio
di antagonismo, che gli Esseni esprimevano coi nomi di _destra_ e
_sinistra_, la prima chiamando fausta e buona, l’altra rea e veramente
_sinistra_; nè posso qui tacere, giacchè l’omisi a suo luogo, che
questo antagonismo venivano eziandio esprimendo talvolta coi nomi di
giorno e di notte, simbolo se altro fu mai cabbalistico per eccellenza,
come fa fede la celebre dualità o _Sigezie_ che il nome reca appo
i mistici di _Giorno_ e di _Notte_, _Middat iom umiddat lailà_. Or
bene: quando di _Destra_ e _Sinistra_ favellava, io vi dissi allora
che una pratica essenica da quel principio s’ingenerava, e di cui
a luogo suo ne avrei tenuto proposito. Questo luogo è il presente,
e la pratica essenica, onde si parla, ci offre nuova occasione di
ammirare lo spirito e gli atti uniformi di due scuole che furon
sin’oggi credute diverse, e che l’esperienza e l’esame intrapreso
perpetuamente identifica. Quando Giuseppe ci parla del rispetto che
gli Esseni avevano per la destra, quando dice che si astenevano dallo
sputare da quel lato, fu nessuno che sospettasse le analogie bibliche e
farisaiche? Delle prime non dirò, che troppo più lungi ci condurrebbero
che non vorremmo. Ma come tacere delle altre? E se pure tacere volessi
di quei tanti infiniti casi, in cui negli atti di religione la
_destra_ vantò il primato, come tacere del caso in termini da Giuseppe
accennato? Chè tale esiste veramente, e per perfetta medesimezza
ammirabile nelle pratiche farisaiche. Pei dottori, pei Farisei lo
sputare, specialmente nella preghiera, se è concesso di _dietro_, se è
concesso a _sinistra_ non è concesso a _destra_; e il divieto più che
non si crede antico muove non solo dai più _antichi Trattatisti_, quali
sono _Maran_ e _Muram_, ma vanta esplicita menzione nel _Jeruscialmi_,
che è quanto dire nel più antico dei due Talmud. Ma il rispetto alla
destra non finiva con questo e Giuseppe stesso ce lo ammonisce.
Reputavasi, ei dice, grande increanza porsi in mezzo o a destra dei lor
maggiori. E quest’uso, perpetuatosi fino a noi, ha antica e manifesta
sanzione nel Galateo dei dottori. Per essi, tre che vadan per via, in
mezzo si ponga il maestro, a destra il maggiore, a sinistra il minore.
E non solo il consiglio non potrebb’essere più perentorio, ma il titolo
con cui infamano chi lo prevarichi, conferma, se è possibile, l’indole
essenica di tal prescritto.—Chi procede, dicono altrove, a diritta del
suo maestro, è Bur. Ora che cosa è Bur? Noi il chiedemmo altra volta, e
la risposta ci venne eloquente da un frammento d’Abot.—È l’opposto di
_Jerè ket_; e _Jerè ket_, e questo non meno ci fu fatto palese, è il
primo grado che all’altro più eccelso mena di _Hassid_.

Ma le cose discorse finora debbono cedere il luogo a considerazioni di
gran lunga più rilevanti. Il silenzio essenico, il silenzio imposto
ai suoi membri come dovere sociale, è più che un uso, più che una
consuetudine; e non poco ristetti dubbioso se tra le istituzioni meglio
che fra le pratiche non avessi dovuto annoverarlo. Dovunque però
collocare si voglia, non si potrebbe disconoscerne la importanza; basta
ricordarsi ciò che disse Giuseppe. Quando Flavio, porgendo ai Pagani
una imagine delle sètte ebraiche, diceva gli Esseni _i Pitagorici
dell’Ebraismo_, diceva una breve parola: ma quanto eloquente! Noi
abbiamo le mille volte veduta l’asserzione flaviana alla prova, noi
la vediamo anch’oggi a proposito del _silenzio_, e sempre vera e
sempre confermata dai fatti. L’istituto dei _Pitagorici_ è celebre per
la virtù del silenzio comandata ai suoi membri, ed a niuno meglio, a
parer mio, se ne addice la pratica, siccome quello che, a somiglianza
delle consorterie sacerdotali antiche di Oriente e di Occidente, serbò
sempre inalterate le fattezze ieratiche tradizionali, religiose per
eccellenza, che in parte ma meno profonde si trasfusero nei sistemi
susseguenti dei Platonici, e degli Stoici antichi e moderni. Ma se
_Pitagorici_ erano gli Esseni, al dire di Giuseppe, _Pitagorici_,
erano a detta sua, _dell’Ebraismo_, ed è in questo, ed è nelle viscere
dell’Ebraismo, nella sua storia, nelle sue idee, nei suoi dottori
che dobbiamo investigare le origini del lor _silenzio_, e tanto più
imperiosamente a noi ne corre strettissimo l’obbligo, siccome quelli
che abbiamo incessantemente proclamata la identità generale di Esseni e
di Farisei, e quella specialissimamente di Esseni e di Cabbalisti.—La
storia ebraica consta di tre grandi momenti—_Bibbia, Dottori esoterici
e Cabbalisti_; ed è in tutti che noi dobbiamo cercare le segrete radici
del _Silenzio_ dell’Essenato. La Bibbia è il tesoro del pensiero antico
nazionale dell’Ebraismo, ed è appunto siccome tesoro che solo nelle
parti più ascose, nelle segrete profondità della lingua, nei misteri
della grammatica, nella genesi ideologica delle idee nazionali, che tu
trovi, ardisco dire, tutta la successiva esplicazione della dogmatica
ebraica, e come mi è avvenuto non poche volte di avvertire, anche i
riti e le leggi tradizionali. Ora la lingua ebraica porge colla sola
denominazione del _Silenzio_ una idea che si trova poi espressa,
formulata nelle opere dei Rabbini; e cosa veramente ammirabile, senza
che gli stessi Rabbini vadano minimamente consapevoli del possente
ausilio; e nemmeno che sappiano lo affratellarsi delle due idee in
seno al vocabolo sinonimo; prova, se altra fu mai, della ingenuità e
schiettezza e autorità della parola tradizionale. Io potrei sin da
ora additare il vocabolo in discorso, ed insieme scendere come si
fa negli scavi scientifici al lume di una critica sagace nelle più
profonde sue viscere; ma a costo di stancare la pazienza, ne differisco
l’enunciazione sino a tanto che le cose che ho a dire ne facciano più
innegabile, e il senso e le conseguenze che ne deduco.

Ma oltre il vocabolo in discorso, Salomone celebra la virtù
del Silenzio.—Oltre alcune idee, disseminate nei proverbi,
l’_Ecclesiastico_ par che preluda a quel dettato che corse famosissimo
per le contrade di Europa, e che suona _parum de Principe, nihil de
Deo_. Salomone però è più discreto, ei vuole che poco se ne favelli.
Non ti affrettare a pronunciare sentenza intorno a Dio, perchè Dio è in
cielo, e tu sei sulla terra; però sieno poche le tue parole. Ma quanto
ingiusto sarebbe confondere il suo consiglio col proverbio rammemorato,
e quanto più ingiusto confonderlo con quell’ipocrita e vile e codardo e
irreligioso silenzio sulle cose divine, che molti predicano, non solo
savio e prudente consiglio, ma anche per colmo di sacrilegio, religioso
dovere! Questa specie spuria, vigliacca, degenere di _Silenzio_ non è
ebraica. Ella è propria di quelle _Fedi_ le quali, inalzandosi sulle
rovine della ragione, non trovano nè trovar possono salute che nel
silenzio, che nel mutismo della ragione; di quei dogmi che esigono, che
predicano la _fede cieca_, termine assurdo, contraditorio, sconosciuto
nell’Ebraismo, il quale nè comprende, e nè pure il potrebbe, in qual
modo la fede che vuol dire _consenso dell’intelletto_, e quindi
_razionale_, possa essere al tempo istesso _cieca_, che è quanto dire
_irrazionale_. Ella è propria di quei tempi, di quelle età infelici
in cui la ragione fuorviata dichiara guerra alla fonte d’ogni ragione,
a Dio eterno; ai tempi di _Voltaire_, di _Diderot_, di _Holback_, e
quindi scusabile in qualche modo, almeno nei timidi intelletti, nel
secolo che ci ha preceduto; e quindi scusabile ancora nella bocca di
quell’animo più intemerato che fu Salomone Fiorentino. Il quale ben
fece ad essere così ricco come lo narra la fama di preziose virtù, di
pietà ingenua semplice veracissima, di costumi specchiati, di probità
senza pari, per fare almeno ai posteri obliare che ei fu autore di
quell’assurda, vile, blasfematrice sentenza che suona, _adora e taci_.
Ah! in quell’istante Fiorentino non fu ebreo, se pure non vuolsi a
sua discolpa allegare che ei fece virtù in quell’istante di una dura
necessità, non potendo libera, irrefrenata muovere la lingua contro di
quello che lo spingea a battaglia. Ma ebreo, almeno nell’espressione,
non fu. Non fu interprete veridico dell’_Ecclesiastico_, perchè solo
le umane speculazioni l’_Ecclesiastico_ interdice, e quelle temerarie
e folli irruzioni nei campi del _Divino_, che la ragione tenta tal
fiata senza guida, senza norma, senza la stella polare della parola
rivelata; siccome appunto l’indole dell’opera e le idee tutte che
entrano nell’_Ecclesiaste_ mirano, com’è noto, a sfiduciare la mente
umana nelle sue proprie ingenite forze, e ad ispirare uno scetticismo
salutare che può senza fallo paragonarsi a quella specie di scetticismo
religioso che professarono Biagio Pascal e Michele Montaigne. Non fu
consentaneo allo spirito dei dottori che se il silenzio levano al
cielo, e questo è il punto ove volevamo venire, egli è il silenzio
delle cose vane, terrene, puramente mondane; egli è quello di cui
intesero quando dissero: _Mà ummanutò scel adem baolam azzè iassim azmò
cheillem_, non quello che eccettuarono in termini apertissimi quando
aggiunsero: _Jakol af ledibrè torà chen, talmud lomar teddaberun_;
egli è quello a cui accennarono quando dissero ogni parola che esca dal
labro dell’uomo un’eco avere nello eterno ed ogni pensiero aspirare,
e come il fuoco secondo gli antichi, come vuole la sua natura alle
cose del cielo, egli è quello che un dottore in Abot (notate luogo
acconcissimo alle esseniche memorie, siccome quello che _codice_
udimmo altravolta chiamato _dei hasidim_) proclama, dopo la lunga sua
esperienza e conversazione farisaica, il farmaco più salutare, frase se
altra fu mai opportuna al genio medico, terapeutico; come anche questo
vedemmo dell’antico istituto, egli è il silenzio che nel medesimo
_Abot_, notate indizio sopra indizio, un gran dottore R. _Achibà_, che
per colmo di maraviglia è dottore insigne dei Cabbalisti, ed uno dei
quattro visitatori del mistico giardino, egli è il silenzio che ivi
è detto—siepe e riparo alla scienza—non antidoto e spegnitoio, come
altri vorrebbe farne, e di cui bellamente interpretando, ce ne porge
circoscrivendolo una idea adeguata il Bartenora, dicendolo silenzio
sì ma solo delle cose mondane _bedibrè aresciut_; ed egli è quello
infine che i dottori consigliavano agli esordienti, come appunto i
Pitagorici lo consigliavano dicendo _Asket, as veahar eah Kattet_.
Silenzio tutto, come vedeste, di cose, di bisogni, d’interessi, di
avvenimenti, di pensieri mondani, non di bisogni, d’interessi, di
pensieri comunque morali scientifici dottrinali teologici e per tutto
dire religiosi. Nei quali beni lungi d’imporre un codardo mutismo, vuoi
per raffinata superstizione, vuoi per timidezza di cuore, lasciarono
libero il pensiero e libera la parola purchè i semiti non travalichi
della rivelazione, e tanto liberi lasciarono e l’uno e l’altro, e tanto
profondo scolpirono l’abito di libertà nell’animo del nostro popolo,
che un bel giorno questo si è creduto potere in piena sicurtà di
coscienza-dogmatizzare a sua posta, e purchè il corpo assoggettasse ai
precetti di Dio, scotere impunemente lo spirito, foggiarsi dogma come
Parigi si foggia i suoi figurini; e questa libertà dissero non solo
filosofica, ma religiosa e sopratutto, vedete pregio che ignoravamo!
privilegio tutto proprio ed esclusivo di nostra fede. Noi abbiamo
posto il dito sopra una cangrena terribile che consuma e rode la vita
superstite in Israele, e se questo il luogo fosse di chiamare com’Elia
i falsi Profeti alla prova, fossero presi costoro come gli antichi
a centinaia, mandassero pure grida come gli antichi forsennate, il
fuoco celeste non sarebbe per loro. Ma l’anarchia dogmatica, a cui
pretendono costoro, prova una cosa, e i miseri non se n’addanno; prova
che la libertà è passata per quella via.—Come le ceneri che attestano
la preesistenza del fuoco,—come il corpo esanime fa fede che vi abitò
uno spirto immortale, così l’anarchia presente fa fede dell’antica
libertà. E quale libertà! Pei dottori, il dettato che udiste poc’anzi
_Parum de principe, nihil de Deo_, se sarebbe stato nella prima sua
parte un consiglio di prudenza, saria stato senza meno nella seconda
un consiglio d’inferno—pel quale solo disse Dante _luogo d’ogni luce
muto_, e la parola è luce del Mondo.—Per essi nella sfera vasta,
vastissima della Bibbia e della tradizione, la parola umana, è giusta,
legittima anzi regina e sovrana, e se gli imposero silenzio, come
vedeste, nelle mondane faccende, ei fu fra le altre cagioni perchè non
un atomo spendesse delle sue forze che non fosse per Dio, nè vollero
che pel mondo molto tacesse se non per che di Dio e della fede sua
molto parlasse.—In quella sfera se i dottori rifar dovessero il verso
di _Fiorentino_, se crear dovessero un grido, una parola d’ordine, come
si dice, non sarebbe _adora e taci_, ma _adora e parla_. In quella
sfera la libertà è santa intangibile, anzi a Dio carissima anco nei
suoi voli audaci, anche allora che ignara, come dice Omero, della
lingua degli Dei, ne strazia le forme e le locuzioni bellissime,
vale a dire quando erra involontaria, quando merita di essere _molto
perdonata perchè molto ha amato_. Allora dicono i dottori, Iddio non
solo perdona, ma infinito amore lo prende per quell’anima che balbetta
il suo verbo immortale in quella guisa che un padre non rifinisce di
baciare e ribaciare il piccioletto figliuolo quando le prime voci
emettendo sciupa le forme del linguaggio nativo. _Vediglò alai aabà_.
Nè altrimenti avviene allora che agli spiriti audaci ai quali disse
il mondo sorridere sempre benigna fortuna ed amore, ed a cui dicono
i dottori sorridere non meno Dio verace fortuna e primo amore. Noi
abbiamo veduto il _Silenzio_ essenico approvato, predicato dai Farisei
in teoria. In quest’altra Lezione lo vedremo in pratica.



LEZIONE TRENTESIMAQUINTA.


Trovare le idee, i costumi degli Esseni conformi alle idee bibliche
e, ciò che più monta, ai costumi, alle idee farisaiche, trovare come
trovato abbiamo nell’ultima Lezione il _Silenzio_ essenico in quei
Farisei d’onde trasse, a parer mio, l’Essenato l’origine, egli è certo
assai per la storia dello Istituto, è poco per noi che nel Farisato
medesimo abbiamo specialmente identificato i nostri Esseni con quella
parte di Farisei che si chiamano _Cabbalisti_. Se il nostro sistema non
è bugiardo, le analogie tra le due scuole dovrebbero, nè meno esplicite
apparire nè men numerose. Se _Esseni_ e _Cabbalisti_ sono tutt’uno,
gli ultimi non meno che i primi deono avere come squisita virtù
proclamato il _Silenzio_. E proclamato l’hanno quanto basta a darci
piena, assoluta ragione. E tanto iterati e diffusi ne sono gli elogi,
i pregi, le utili conseguenze, che io farei opera interminabile se qui
tutti volessi i testi riprodurre che negli antichi e nei moderni libri
del Cabbalismo parlano in favor del _Silenzio_. Pegli uni come per gli
altri due sono gli atti dell’umana generazione, corrispondenti alla
doppia natura dell’uomo, la _Parola_ ed il _Coito_, il germe spermatico
ed il germe ideale, la concezione della carne e la concezione dello
spirito, ambo unificati nelle lingue moderne, nella parola _Concetto_,
ambo, e ciò che è più ammirabile, confusi, identificati nelle parole
_Jadagh_, _Pensiero_ e _Coito_.—Generazione di carne e generazione
di spirito e quindi dal seno istesso della lingua ebraica, intera e
splendida sprigionasi la teoria cabbalistica.[92] Per essa due sono
i segni dell’alleanza, due i patti, due gli organi fecondatori, il
_Berit allasaon_ e il _Berit amaor_, ambi porgenti vana e colpevole
ridondanza, ambi recanti da natura prepuzio, come stupendamente
accenna la Scrittura medesima nel _Aral Sefataim_, ambi suscettibili
di emendazione e circoncisione; anzi, notate meraviglioso riscontro,
ambidue chiamati nel loro stato perfetto con una sola parola che
suona _milla_, quasi dicesse la _Corretta_, la _Circoncisa_, nulla
ostando la più lieve o più grave pronunzia, perchè ambidue unificati
gramaticalmente in una sola radice, perchè d’ambi dicono i Lessici
tedeschi _Fortasse Malat idem facit quae mul abscindere_: e noi
possiam dire dopo le cose discorse senza _forse_, senza _fortasse_, e
perchè finalmente l’organo della parola e l’organo della generazione
oltre essere unificate nelle antiche pagane rappresentazioni del
_Fallo_, parola generatrice, sono manifestamente adombrate nella prima
_Misnà_ dell’antichissimo Sefer Jezirà, ove sono posti in armonico
contrapposto, il _Milat alascion_ e il _Milat amaor_, nella quale
iterazione della parola _Milat_ volle senza meno l’antichissimo
autore accennare a quella comunanza di espressione, quella di cui
adesso parliamo. Ed ambi, sommessi a gelosa custodia, tanto che pei
Cabbalisti non meno è colpevole chi la parola invano disperde, che
chi spreca inutilmente il _liquor seminale_, ambi sendo egualmente
colpevoli di fallita generazione, che è mira suprema di natura, nel
mondo dei corpi come nel mondo delle idee; nè qui certo avrebbero
fine le bellissime analogie se a talento mio potessi nell’argomento
spaziare. Non tacerei di quell’aureo riscontro che ci porge tra le
altre la Mitologia dei Greci in Mercurio Dio della parola e del
_Fallo_ fecondatore, che Cicerone chiama per ciò stesso _itifallico_,
e ch’era adorato in Samotracia, in Beozia, nell’Attica, e nel
Peloponneso, identico all’Erme itifallico dei Pelasgi, rappresentato
nell’Attica e nell’Arcadia col simbolo del _Fallo_ che Creuzer crede
identico a _Pane_ suo figlio (di cui tutti sanno l’officio e i simboli
fecondatori), e ch’egli chiama _principe de fécondité et source de
toute vie, de la vie physique et animale aussi bien que de la vie
intellectuelle!_ (Religions des Antiq. Hermes, in Mercur. 676.) Ma
perchè troppo è per sè l’argomento fecondo, di queste come di altri non
men leggiadri relievi, si taccia per lo migliore.

Ma i Cabbalisti parlano di una virtù del _Silenzio_, che troppo parmi
accennare al carattere dottrinale degli _Esseni_, dei _Pitagorici_,
perchè io possa senza colpa tacerla. È l’efficacia che gli assegnano
al conseguimento dei misteri divini; è l’economia delle forze
intellettuali serbate tutte alla contemplazione di quegli altissimi
veri; è lo accesso che forzano col loro concentramento nelle parti
più recondite della scienza religiosa; è insomma una sublimazione
straordinaria dell’Intelletto, parole son queste del R. Loria.
_Umittenaè assagat akokma scezarih lemaet beddiburò velistok col mà
sceiuhal chedè scelò leozi sikà betelà_. La quale virtù del _Silenzio_,
dicono essi, può giungere sino alla fruizione dello _Spirito Santo_,
sino a quel grado di _Ispirazione_ che è _Ruak Acodes_, sino a rapire
la mente in quella regione beatissima della scienza divina in cui la
mente non ode, nè vede, nè sente più nulla, o per dir meglio sente
ed ode il silenzio, la quiete, la pace, che sono proprie di quelle
attitudini dove l’anima resta assorbita in estasi soavissima al
santuario del silenzio della _Mahasabà_, della suprema _Kokmà_, dove
tutta la scienza dell’uomo si risolve in una grande ma soavissima
interrogazione, e dove al _Mi_ (chi?) infinito che l’anima manda in
uno slancio d’amore, non s’ode che un’eco eterna che replica _Mi_,
come l’unico obbietto omai conoscibile.[93]—Ed a chi vera e santa non
credesse la teologia dei Cabbalisti e che pure nel giro si rimangono
dell’Ebraismo, la Bibbia si leverebbe, e insegnando loro ciò che i
Cabbalisti insegnano: Uomini, gli griderebbe, di poca fede, venite e
vedete. Vedete il Silenzio indicatore della presenza di Dio.—Nella
poeticissima e profondissima ad un tempo visione di Elia, in cui il
_vento_, il _fuoco_, il _tremoto_, non sono che precursori del Nume che
s’avvicina, che esteriori vestiboli del riposto Sacrario, e solo nel
Silenzio, anzi per antitesi maravigliosa, nella voce del Silenzio _col
demama_ stare la maestà dell’Eterno, la essenza di Dio, appunto come il
Silenzio dicono i Cabbalisti stare in cima alla scala delle cognizioni
celesti. Vedete la intima identità, dai Cabbalisti ravvisata, fra
la scienza ultima estatica, intuitiva e il Silenzio, sola condegna
espressione di quella nella lingua stessa dei Profeti, nell’idioma
antico d’Israel, siccome quello che è semenzajo, come non mi stanco di
dire, delle antiche credenze dell’Ebraismo. Ora nell’idioma ebraico
v’è una parola, e questa parola è _Haras_, e Haras, ammirate la forza
del vero, è radice significante in pari modo _Silenzio_ e _saper
magistrale_, _tacere_ e _meditare_. _Pensiero_ e _Silenzio_, perchè il
pensiero per eccellenza è tacito e silente, e perchè come udite dai
Cabbalisti, la sede del Silenzio è altresì sede della _Mahasciabà_ e
della suprema _Kokmà_.

Ma la pratica farisaica, ed è tempo che ne parliamo, attesta in modo
ben altrimenti eloquente la identità che non cessammo di propugnare
tra le due scuole, e ciò che tornerà di gran lunga più rilevante, la
identità specifica peculiare fra Cabbalisti ed Esseni. Obliamo per
un istante la Storia e domandiamo a noi stessi: Se il nostro sistema
non è bugiardo, se i dottori Cabbalisti del Talmud sono veramente,
come crediamo, i medesimi _Esseni_, che cosa dovrebbe mostrare la
Storia? La Storia, in mezzo alla gran corrente del _Farisato_, dovrebbe
mostrare, come ci mostra natura in alcuni vastissimi mari, una corrente
secondaria, distinta, particolare, che segue inalterata sua via, in
mezzo a mille correnti paralelle o traverse, e in questa corrente
mostrar dovrebbe non solo i caratteri del Cabbalismo Talmudico, è
questa impreteribile condizione, ma per finire di persuaderci, anche
la pratica del _Silenzio_ distinta, costante, particolare e pressochè
esclusiva in questa istessa corrente. Noi abbiamo formato un voto,
abbiamo detto ciò che la mente più esigente potrebbe chiedere al
sistema che abbiamo adottato. I fatti ci daranno ragione? La Storia
dei Farisei accenna a molti centri, a molte linee, a molte scuole di
dottori diversi, e se tra questi ve ne sono tali che i caratteri, che
i contrassegni ci porgan legittimi incontestabili della linea del
centro, della scuola _Farisaico-Cabbalistica_, ella è quella senza
meno, che incominciando coll’antichissima _R. Johanan Ben Zaccai_
e poi con _R. Eliezer Agadol_, segue con R. Akibà suo discepolo,
continua con R. Simone Ben Johai discepolo del medesimo _Akibà_, e
ferma almeno, a quello che io ora mi sappia, con _Rab_ o _R. Abbà_
scolaro di R. Simone. Ora vi è un fatto luminoso a cui vano sarebbe
chiudere gli occhi, e questo fatto è la celebrata e particolare virtù
in questa serie di Farisei Cabbalisti, in queste cinque generazioni di
Farisei nell’amore del _Silenzio_. E chi lo attesta non è lo _Zoar_,
non è uno dei parziali a quella teosofia, è il _Talmud_, quel solo
giudice competente fra noi e gli avversarj del Misticismo.—Egli è il
Talmud in _Succà_ che narra dello stipite della gran scuola di _R.
Johanan Ben Zaccai_ non aver egli parlato mai parola profana; egli
è il _Talmud_ che pone in bocca al suo discepolo _Eliezer_ la stessa
lode; egli è il Talmud che chiama R. Akibà _Ozar Balum_; tesoro chiuso;
egli è il _Talmud_ che di R. Simone Ben Johai dice _tohen arbé umozé
chimhà_, _macina molto e poco espone_, vale a dire, _molto medita
e poco parla_, o come di sè medesimo ei dice nello stesso Talmud:
_Figli miei, imparate le mie regole perch’esse sono_—_prelevazione
di prelevazione_—vale a dire, le più elette delle regole di _R.
Akibà_; e se non è il Talmud che narra la stessa pratica di _Rab_,
perchè, della teoria niuno di esso più esplicito, è qualche cosa, oso
dire, più del Talmud concludente.—Voi lo ricordate, per completare
la serie ci manca un anello, ci manca _Rab_; e non narrandolo il
_Talmud_, non ammettendo noi qual parte interessata la deposizione
dei _Cabbalisti_, non ci resta che una sola possibile autorità, e
questa, grandissima, irrecusabile, gli avversari del Cabbalismo. Ci
accade in questa ricerca, come altre volte non poche ci era accaduto:
che andando in cerca di una prova, ne abbiamo trovate altre ancora
che non cercavamo.—Ei fu quando arrivammo alla persona di _Rab_
che assistemmo al più singolare spettacolo che sin ora ci si fosse
parato dinanzi.—Trovammo prima diffusa comune nei posteriori libri la
memoria di _Rab_ come celebre per la virtù del _Silenzio_, e volendo,
siccome è mio stile, risalire alle fonti, ne chiesi vestigia ai libri
talmudici, ma senza frutto. Allora tenendo una via opposta, scesi dal
Talmud ai succedanei scrittori, e il primo in cui trovassi menzione
del Silenzio di _Rab_, il primo che mi fornisse l’ultimo anello della
serie farisaico-cabbalistica, ei fu il più grande avversario del
cabbalismo, ei fu _Maimonide_. E non solo, come dissi, completa la
genealogia cabbalistica col ritratto di _Rab_, ma il modo, le frasi
con cui ne favella sono sommamente eloquenti per chi le intende.
Attesta in primo luogo il _Silenzio_ di Rab, quando scrive nel Comento
di Abot: _E fu detto per Rab, discepolo di R. Hijà, che non profferì
parola inutile tutti i giorni di vita sua_. Il qual deposto formulato
in _Abot_, ripetuto e destituito essendo nell’Opera Magna, nel 2º dei
Morali (Deot), come dissi di ogni sanzione scritta nei libri talmudici,
e parendo quindi inesplicabile al Caro, gli suggeriva ivi stesso queste
parole di sorpresa, d’ignoranza: _Ma per quello che a Rab si attiene,
non saprei dire per adesso ove ne sia l’origine_. Pure, _Maimonide_
lo asserì formalmente non solo in due libri diversi, ma ciò che parrà
ancor più rimarchevole, in due epoche non poco distanti di vita sua,
avendo il Comento intrapreso all’età di 20 anni, e il testo Maimonico a
quella dei trenta.

Ma tutto questo è poco, di fronte a quello che segue, malgrado la
mancanza di sanzione talmudica, malgrado la rispettosa denegazione del
Caro, un altro antico, meno certo antico di Maimonide, ma più antico
del Caro, il luminare dell’Africa, Ribbi Semhon bar Zemak, nel Comento
ad Abot ripete alla lettera le parole maimoniche riguardo a Rab, benchè
suo stile non sia copiare servilmente il gran Cordovano, e benchè
vada egli distinto per una solida e smisurata erudizione talmudica.
Ma io dissi che non solo la tradizione estratalmudica rispetto a
Rab si trova in Maimonide, ma che eziandio qualcosa trovato avremmo
soprammercato. E questo è il preambolo che precede l’asserzione in
discorso. E l’epiteto con cui qualifica gli antichi dottori distinti
per la virtù del Silenzio, è lo appellativo che noi dicemmo storico
antichissimo della scuola degli Esseni, l’appellativo di _Hasidim_
allorchè non poteva tanto mostrarsi Maimonide avverso alle dottrine dei
Mistici, che ei non soggiacesse talvolta, come altre fiate eziandio,
alla forza del vero, e non divenisse organo inconsapevole di una verità
utile e preziosa alla causa loro. Noi potremmo dire qui terminato ciò
che a dire avevamo intorno l’essenico silenzio, trovato, come vedeste,
conforme in teoria e in pratica al silenzio dei Farisei, e dei Farisei
Cabbalisti; pure vi è qualcosa di più, e di più concludente. E se delle
cose dette una sola non resistesse alla prova, ciò che io vado a dire
basterebbe non solo a provare la comun pratica del silenzio tra Esseni
e Farisei, ma formerebbe prova bella, benchè indiretta, della somma
omogeneità di pensieri e di genio fra il _Ben Johai_ del Talmud, e il
gran dottore del Misticismo. Se io mi illuda, giudicatelo voi. Voi
sapete i dubbi suscitati sulla legittima figliolanza del Misticismo
dalla sacra antica fonte _Ben Johai_. Sapete quindi qual valore immenso
prezioso abbia per noi ogni tratto che nel _Ben Johai_ del Talmud ci
rivelavano somiglianza coll’ispiratore del _Zoar_. Sapete eziandio
qual’opera bella, decisiva, per quanto erculea, sarebbe quella che
facendo astrazione dal _Zoar_ come se non esistesse, ricomponesse coi
soli esclusivi elementi talmudici la gran figura di R. Simon Ben Johai,
e da quel sacro capo sempre col martello talmudico facesse emergere,
come Pallade bella e armata dalla testa di Giove, il sistema intero
del _Zoar_, almeno nelle linee sue più preminenti, opra a cui vorrei
volgesse qualcuno il pensiero, poichè le forze mie piegano non solo
sotto il peso dell’opre, ma persino sotto il peso dei desiderj. Ora,
questo desio generalissimo applicabile a tutte le parti, vuoi teoriche,
vuoi pratiche, del gran sistema, ci è dato vedere adempiuto in due
luoghi d’oro del _Jeruscialmi_, ove nell’uno si legge il pensiero,
nell’altro la pratica di Ben Johai. Voi udiste come del santo dottore
dicesse il Babilonese: _molto egli meditare, poco favellare_. Ora udite
come egli stesso della parola umana sentenziò nel _Jeruscialmi_.
_Se presente io fossi stato presso il Monte Sinai, avrei chiesto al
Signore che altra fosse la bocca con cui uom parlasse delle cose del
mondo—altra quella con cui delle cose di Dio_. Qual idea della parola!
E quanto feconda anche nelle minime sue parti l’enunciazione! In primo
io veggo tutta la mente ardita taumaturgica del principe dei Cabbalisti
in questo ardito consiglio—veggo la teoria massima dei Cabbalisti
dell’officio di _Concreazione_ all’uomo assegnato—il principio
eminentemente farisaico e cabbalistico della rettificata natura, vale
a dire della emendazione che all’uomo incombe nelle parti anormali
imperfette delle cose create, e da cui trae origine l’ARTE nella sua
più lata significanza, la quale non sarebbe pertanto una semplice
imitazione di natura, come vorrebbero i Realisti in Estetica; ma meglio
un ritiramento della natura istessa alle eterne norme del bello ideale,
come vogliono gli Idealisti, e veggo sopratutto l’idea ch’entro vi sta,
come seme racchiusa, che il Silenzio è l’atto più nobile e naturale per
tutto quel che concerne le cose mortali.

Ma queste cose basti lo accennare, ed il cenno già troppo grave ne
offre materia a pensare perchè di soverchio ci estendiamo. Questo
solo non tacerò; quando lessi il voto che formava R. Simone Ben Johai
delle due bocche, sovvenivami in quel punto, non di un voto, ma di
un presagio che fece Fourier. Fourier, che tante cose predisse in
avvenire, diverse da quelle che oggi vediamo in natura, disse fra le
altre, come natura avrebbe un giorno pagato un antichissimo debito che
aveva coll’uomo contratto, dandogli un occhio di dietro come ben due ne
aveva davanti, e che tanto dovrà tornargli in acconcio per cansare i
pericoli che lo minacciano di dietro eziandio: io non so quanto valga
il presagio di Fourier, ma il voto, il rammarico di R. Simone Ben
Johai suona ben altrimenti nobile e grande.

Ma io dissi come non solo la teoria ne porgesse del Silenzio il
Jeruscialmi sulle labbra del gran Maestro, ma ben anco la pratica. E la
pratica splendida emerge da quel fatto ivi stesso narrato, quando il
signor Dottore considerando, specialmente nel sabato, quanto indegna e
servil opra fosse ogni discorso profano, pregava silenzio ai domestici,
e perfino alla madre sua, fatto più che non credesi significante, non
solo per lo studio che ci preoccupa e con cui chiare si vedono le
attinenze, ma ancora perchè mi offriva, già sono molti anni, l’unico
mezzo che io trovassi a spiegarmi quel concetto, quella dipintura
maninconiosa che del sabato ebraico fecero i Poeti latini, mentre tutto
pare per contro spirare festa, spirare allegria. Ma anche questo è
nuovo campo che noi rasentiamo e fuggiamo di volo.

Ciò che resta innegabile è la nuova e non meno parlante analogia,
non solo fra la teoria, come veduto abbiamo nella passata Lezione,
ma ancora nella pratica del Silenzio fra Esseni e Cabbalisti, come
abbiamo veduto nella presente. E comunque questo nuovo amplesso fra
le due scuole si operi in seno al Silenzio, e comunque per onorare il
Silenzio essenico troppo più di parole abbiamo speso che il nome non
tolleri, non meno provata però ne emerge la suprema identità tra Esseni
e Farisei.



LEZIONE TRENTESIMASESTA.


Noi dobbiamo ora occuparci degli essenici libri, di quelli di cui
usavano e di quelli da cui s’astenevano, del numero dei loro pasti,
del regolato alternare del mangiare e digiunare, e infine del sistema
dell’imbandire. Io sarò breve, non già perchè la materia scarseggi,
ma piuttosto perchè troppo di soverchio ne abbonda, e quindi è
mestieri riguadagnare in brevità e speditezza d’esposizione quel
tempo che non si può senza ingiustizia fraudare ai fatti, ai rilievi
interessantissimi onde avremo da favellare.—Ma la brevità perchè non
torni pregiudicevole, due esige impreteribili condizioni. Bisogna
che sia chiara, ed a questo m’ingegnerò provvedere. Bisogna poi che
l’attenzione e la perspicacia, l’ingegno degli uditori ne colmi le
lacune, ne svolga i germi, e intenda in un cenno un pensiero, in
un pensiero un argomento, un raziocinio, in un raziocinio tutte le
conseguenze potenzialmente in quello racchiuse. E questo è officio
vostro, a cui non vorrete venir meno di certo quando più ne urge il
bisogno. E prima dei cibi;—di quelli onde gli Esseni si guardavano come
da cosa vietata.—È fama, e voi spesso l’avrete udito, ed io stesso
ne reco ferma credenza, avere gli Esseni dalle loro mense bandita la
_carne_ ed il _vino_. E pure se le prove dirette si consultano, se le
memorie e gli espliciti attestati, non vi è cosa forse meno provata
di questa. Se io non erro, egli è San Girolamo pel primo che favella
di questo astenersi da carne e da vino. E Dio volesse che San Girolamo
così parlando si facesse organo egli stesso di un’opinione, di una
tradizione allora corrente. Avrebbe almeno tutta l’autorità e tutto il
critico valore che può aver San Girolamo. Ma no; sventuratamente San
Girolamo, parlando in questo caso degli Esseni, accenna a Giuseppe; a
Giuseppe, il quale, a detta di lui, avrebbe quest’uso, quest’astinenza
attribuita agli Esseni nel Trattato ch’ei scrisse contro Apione. Io
vel confesso, non ebbi io stesso la pazienza di scorrere di nuovo da
capo a fondo la non breve _Apologia_ flaviana: ma autori, ma testimoni
gravi, asseriscono formalmente che questo fatto, questa memoria nel
Trattato contro di Apione, per quanto si cerchi, non si trova. Dovremo
perciò negare e dubitare del fatto? Io credo che non lo dobbiamo. In
primo luogo chi ne assicura che il Trattato contro di Apione non sia in
qualche parte manchevole, che non sia stato in qualche parte mutilato,
che le frasi insomma da San Girolamo accennate non esistessero, siccome
egli asserisce, negli antichissimi manoscritti? E San Girolamo è per
sè autorevole non poco, autorevole pel tempo in cui visse non tanto
dagli Esseni remoto, che la contezza veridica se ne potesse alterare;
autorevole per la dimora, il teatro stesso delle esseniche gesta, in
_Terra Santa_; autorevole poi e in grado eminente per la familiarità,
sto per dire, in cui visse quel Padre coi più dotti Rabbinici dei tempi
suoi, tra i quali scelse maestro nelle Scritture: e tanto addentro
entrò nei pensieri, nella conoscenza dei dottori contemporanei, che
ebbe fama e meritossi rimproveri da _Agostino_ di _giudaizzante_.
Taccio poi della intima filosofica convenienza di quest’uso presso gli
Esseni, perchè essendo questo argomento, come si dice, _a priori_, può
parere a taluno arbitrario, comunque sia stile dei più grandi storici
dei sistemi supplire alle parti manchevoli coll’analogia dell’insieme,
in quella guisa istessa che in una iscrizione a metà cancellata dal
tempo, si suppliscono le lettere dileguate coll’ajuto di quelle che
precedono e di quelle che seguono. Ma come tacere dei precedenti
biblici tradizionali, d’onde l’essenico uso può aver germinato, e che
servono eziandio fino a un certo punto di argomento in favor della sua
esistenza? Biblico precedente io chiamo quell’implicito divieto ad
Adamo imposto da ogni cibo animale, al quale solo si veggono conceduti
i _vegetabili_, quale alimento, ed al quale primitivo sistema dietetico
possono avere voluto gli _Esseni_ restituirsi, siccome quello che
anteriore al peccato, meglio pareva loro consentire a quel grado di
perfezione a cui aspirava lo Essenato. Biblico precedente l’astinenza
onde fa fede la tradizione, e fino a un certo segno confermata dal
testo, e dagli Israeliti osservata per lo deserto da ogni cibo animale
che non fosse stato all’altare appressato qual sacrifizio, attalchè
per questo tempo poteva dirsi a rigore ogni banchetto essere un
vero _zebah_, un sacrifizio. Biblico precedente l’astinenza da ogni
inebriante licore imposta ai sacerdoti durante il servizio, imposto
altresì, come ricordammo altre volte, a coloro che voti facevano di
_Nazirato_ e Nazirei si appellavano; e biblico precedente finalmente
la storia grande interessante dei Recabiti di cui abbiamo, non ha
guari, mostrato le intime attinenze col nostro istituto. Tra le quali
primeggia l’astinenza, onde qui si favella; l’astinenza dal _vino_
da _Jonadag_ recabita imposta a tutta la sua discendenza. Che sarà
poi se dagli esempj biblici trascorriamo ai tradizionali disposti? I
quali il vino vietarono al giudice prima che sieda _pro tribunali_
a pronunziare giudizio, non solo nelle criminali ma nelle civili e
rituali cause eziandio; il vino vietavano egualmente a quello che si
accinge alla preghiera, e _abominazione_ quella prece qualificarono che
da una mente scaturisce conturbata dal vino. Ma i dottori ci offrono
un documento ben altrimenti prezioso: ci offrono memoria non solo
di leggi antiche che a certi offici, a certe situazioni interdicono
l’uso del vino, come vedemmo, ma la memoria ci porgono eziandio di una
_sètta_, di una _scuola_ la quale, dice il Talmud, non appena colse al
nostro popolo l’estremo esizio, crebbesi grandemente di seguaci, che
l’uso s’interdicevano di _carne_ e di _vino_. _Misceharab bet ammicdas
rabbù paruscim scellò ehol basar vescellò listot iain nitpal laem R.
Jeosciua veaamar laem_ ec. E come si chiama questa sètta in bocca ai
dottori? Mirabile a dirsi! Il nome ella reca appunto di _Farisei_, e la
frase ebraica _Rabbù paruscim_, crebbero i Farisei, se bene la intendi,
rivela abbastanza come la esistenza dello istituto risalga più oltre
dell’epoca indicata, e quindi consuona anche per questo verso colla
società degli Esseni la quale, come i Farisei del Talmud, si asteneva
da _carne_ e da _vino_, com’essa si reclutava cotidianamente di nuovi
membri, e com’essa finalmente possono dirsi, siccome ad esuberanza fu
per noi continuamente dimostrato, veri e proprj Farisei.

Ma i dotti indagatori delle sètte vi troveranno altra cosa eziandio.
Vi troveranno ciò che finora fu creduto impossibile a trovarsi: una
memoria, un vestigio, una abbastanza chiara e manifesta allusione a
quell’Essenato che finora si disse dai talmudisti ignorato; a niuno
allor che io sappia potendo meglio convenire che agli Esseni in
discorso, i caratteri dal Talmud assegnati ai rigidi Farisei che da
carne si astenevano e da vino, come appunto gli Esseni. E non solo
la carne e il vino s’interdicevano, ma se prestiam fede a Filone che
dei più rigidi dei Terapeuti narra i costumi, un solo pasto facevano
in tutto il giorno, e questo per lo più composto di _radiche_, e
di _pane_ e _sale_. E chi a queste parole non lo ricorda; chi non
ricorda il _pane_, il _sale_ e l’_acqua_ colla misura, a cui ogni
studioso deve starsi contento, secondo i morali di Abot? E come poi
parlante, espressivo, e di nuova analogia fecondo, l’uso comune
necessario del sale negli essenici prandi. Perocchè ei fu da lungo
tempo notato come costoro tenessero quale inviolabile costumanza
lo accompagnare la imbandigione, il loro pane in ispecie, con due
condimenti indispensabili, il _sale_ e l’_issopo_, attalchè la presenza
di questi due ingredienti si può stimare a buon diritto qual pratica
obbligatoria seguita sempre, ed allora segnatamente seguita che solenne
si imbandiva la tavola nei giorni di festa. Ora la importanza rituaria
del sale nelle pratiche nostre, non vi sarà chi neghi ove sentore abbia
alcuno delle nostre leggi. Ricorderanvi il sale da Mosè comandato qual
compagno indispensabile di ogni sacrifizio, sia pubblico sia privato,
e col pomposo nome fregiato di _patto ed alleanza del Signore_. Che
dico? a significare elevato quale acconcissimo simbolo l’alleanza
eterna, la legge da Dio sancita, che appunto col nome vien designata
di _Patto di sale_, _Berit melah_. E siccome non tanto quanto altri
s’imagina, distà dalla legge di Dio la primitiva e semiortodossa
gentilità, ricorderravvi altresì e con un senso di maraviglia a quelle
grandi prove ripenserete, che in seno ai Pagani medesimi non solo l’uso
istesso ti rivelano comune e rispettato, ma il concetto altresì te ne
mostrano riprodotto nella sua interezza. Ripenserete alla così detta
_mola salsa_, che Eustazio definisce _farina di orzo mista con sale_,
e di cui si aspergeva la vittima intiera; cerimonia tanto essenziale
ad ogni specie di sacrifizio, che di essa parlando non temeva Plinio
di asserire: _Maxime in sacris intelligitur salis auctoritas;
quando nulla conficiuntur sine mola salsa_: parole che suonano quasi
identiche a quelle del _Levitico_. Ripenserete a Omero, che non è quasi
descrizione di sacrifizio che di questa _salagione_ non favelli: a
Virgilio che nelle _Egloghe_ e nel 4º della _Eneide_ ne fa esplicita
menzione il testo, che da _mola salsa_ deriva il vocabolo _Immolatio_,
tanto stimavasi questa cerimonia essenziale, da qualificarne come
qualifica _Immolatio_ tutta l’azione del sacrifizio: a Ovidio nel 1º
dei _Fasti_ che alla cerimonia del salare attribuisce una particolare
virtù a render i numi propizj

  _Ante deos homini quod conciliare valeret
  Far erat, et puri lucida mica salis._

Ma ciò che è più, ma ciò che di molto maggior rilievo è per noi,
ripensar ai Farisei ed ai Cabbalisti,—ai Farisei, che nel Talmud
rammentano, consacrano l’uso di porre il sale a mensa; ai _Tosafot_
nel trattato di Berahot, che sull’opinione raziocinando di alcuno dei
talmudisti che la presenza del sale verrebbe omessa quando il pane
bianco e sano non lo richiegga, voglion essi, i _Tosafot_, e concludono
impreteribile la presenza del sale, che in termini apertissimi dicono
_Sacra_ e palladio di purità, _leaabir ruach raà_, e soprattutto ai
Cabbalisti che alle tutte anzi dette cose lo soscrissero, e sulla
necessaria presenza del sale rincararono eziandio. E non solo da
questo lato si manifestano i Cabbalisti insieme ai Farisei parenti e
consanguinei all’antico _Essenato_, ma tali pure per un altro verso
si manifestano i Cabbalisti, e tanto più concludentemente quanto più
soli ed esclusivi. E quando? Quando sul vegetabile presero a ragionare
che insieme al sale udiste accompagnare il pane essenico, quando
ragionarono sull’_issopo_. Del quale mentre tacciono, a quanto io mi
sappia, i Talmudisti, nè si leggono per contro certe parole nello
_Zoar_, che non solo la lode ne contengono, e tale che a dirittura
le stesse qualità purificanti gli comunicano che al sale furono
attribuite, ma che eziandio, e per ciò stesso fanno grandemente
dubitare non forse i Cabbalisti lo stesso uso ne facessero a mensa, che
degli Esseni ci fu narrato, il sale, udiste, fugare ogni malefizio;
e dell’issopo ecco che cosa si legge nel _Zoar_:—_L’issopo rimuove
ogni spirito malefico, e lungi ne caccia ogni influsso colla sua virtù
salutare._ Ma che dico lo _Zoar_? Doveva dire la _Bibbia_; doveva
dire _Mosè_, che forse in niuno altro argomento più chiaramente ci
apparisce informato dallo spirito medesimo dei Cabbalisti: nè meglio
addimostra che il genio della Bibbia e dei dottori è unico, medesimo,
indivisibile. E quanto nella Bibbia frequente, raccomandato, solenne
l’uso, la virtù del vegetabile ricordato! Ecco il primo sacrifizio
dagli Ebrei celebrato in Egitto, ed ecco l’_Issopo_, eccolo intinto
nel sangue dell’agnello, e gli stipiti con esso contrassegnati ed i
battenti delle israelitiche dimore. Ecco il sacrifizio del lebbroso,
ed ecco egualmente l’_Issopo_. Ecco il rito della _Vacca rossa_, e
non meno interessante ecco l’issopo. E non solo è vero che l’_issopo_
spiccava qual principale disinfettante nei riti biblici, che di esso fu
fatto nelle locuzioni poetiche il simbolo più espressivo della virtù
purificativa, del lavacro spirituale, della morale disinfezione. Così
David penitente quando esclamava: _Purificami con issopo e diverrò
mondo_. Quando prova con questa sola eloquentissima allusione, e la
virtù che a quel vegetabile s’attribuiva, sino al punto di farne
simbolo del perdono di Dio, e nel tempo istesso la perpetuità, la
continuazione ai tempi davidici dei riti, delle leggi mosaiche,
in quella forma appunto in cui si leggono scritti oggi stesso nel
Pentateuco.

Ma il pane onde cibavansi gli Esseni, almeno quelli che abitavano
l’Egitto e che si dicevano _Terapeuti_, merita che speciale
considerazione gli si conceda, grazie a una singolare circostanza che
lo distingueva. Il credereste? Gli _Esseni_, quelli in ispecie che si
dicevano _Terapeuti_, si cibavano giornalmente, regolarmente, di quel
pane stesso onde noi ci nutriamo otto giorni dell’anno, di pane senza
lievito, in una parola, di pane _azzimo_.—Io non istarò a speculare
filosofiche teorie: starò contento ai fatti, ed i fatti parleranno
eloquenti abbastanza; sorgerà la storia patriarcale e dirà come
comune alimento fosse tra i patriarchi il pane azzimo; sorgerà tutto
il levitico, tutta la legislazione sacerdotale, e dirà come _tutti i
pani, tranne uno_, che sotto qualunque forma e per qualunque oggetto
si offrivano a Dio, e sull’altare e sulla mensa di preparazione,
fossero tutti di _pane azzimo_; e il lievito qual abominato presente
fosse bandito severamente dall’altare; dirà ancora come i sacerdoti
in officio non d’altro pane si cibassero ogni giorno che di azzimo
pane, sendo loro nutrimento i pani di proposizione che toglievansi
ogni sabato dalla mensa di Dio; sorgerà la pratica secolare che ci fa
vivere ogni anno per otto giorni della vita degli Esseni, della vita
dei sacerdoti, e del pane esclusivamente ci nutrisce che stimavasi
solo degno di essere a Dio presentato, del pane azzimo. E sorgerà in
fine lo _Zoar_.—Dico il vero. Non fu senza qualche trepidazione, che
io presi a svolgere le pagine di quel libro, temendo non dovesse nel
maggior uopo venir meno lo storico raffronto, tanto più che niuna
memoria sovvenivanci di simile pratica o teoria nella scuola dei
Cabbalisti. E la pratica non vi era veramente, ma vi era la _teoria_.
Non vi era la pratica, perciocchè, siccome ebbi luogo sin da principio
di accennarvi, dividevansi gli _Esseni_ in due ordini distinti,
_Pratici_ e _Contemplativi_, e i dottori nostri al primo dei due
appartenevano, mentre l’altro figura sì nel libro di _Zoar_, ma solo
in distanza, e quale maggior raffinamento del medesimo sodalizio, di
cui solo di tratto in tratto vediamo i membri entrare in scena, quando
dal fondo delle loro solitudini passano qual ombra fugace in mezzo ai
loro colleghi della città. E tra questi più rigidi probabilmente si
praticava l’uso del _pane azzimo_ per cotidiano alimento. Ma ciò che
io non osava sperare, e che pure apparvemi luminoso nel libro _Zoar_,
si è la _teoria_ mercè la quale in termini apertissimi si conclude
che dovriasi a rigore tutti i giorni invariabilmente imbandire sulle
nostre tavole il pane azimo. Anzi lo _Zoar_ stupisce, lo _Zoar_ ricerca
per qual motivo quel pane eletto non sia il pane giornaliero di ogni
israelita, e la risposta è tale, che lascia intatto il principio,
anzi che più e più lo conferma, ed oso dire ancora che il filo
preziosissimo ci porge per cui dalla teoria zoaristica, la parte forse
più ascetica dell’Essenato, scese alla pratica di cui si favella. Lo
_Zoar_ risponde, ma come? con una similitudine. Egli imagina un Re
che un servo suo fedelissimo abbia insignito di un titolo onorando,
e che a questo titolo, a quest’officio vadano annessi certi _segni_,
certi fregi particolari. Quando dovrà il servo i gloriosi segni
indossare? Certo, ripiglia lo _Zoar_, che per quanto a suo talento
possa quandochessia rivestirsene, ciononostante ei non avviene per
l’ordinario che la persona se ne adorni se non nelle grandissime e
solennissime congiunture, quale sarebbe a mo’ di esempio il giorno
anniversario della sua assunzione a tanta dignità. E pongasi pure,
secondo lo _Zoar_, che il _pane azimo_, segno distintivo della nostra
elezione, non debbasi, appunto qual abito peculiare e distinto,
indossare se non nelle grandi, nelle grandissime occasioni. Ma siamo
coerenti, e dal principio deduciamo, se vi piace, sino all’ultima
conseguenza. Chi potrà negare al servo premiato di recare, se così
gli piace, indosso i segni continuamente della sua dignità? chi potrà
negare uno stato di perfezione religiosa in cui ciò che per altri si fa
per breve tratto di tempo ed a lungo intervallo, si faccia per contro
da chi vive in quello stato, in modo continuo, regolare, abituale; e
ciò ch’è stato eccezionale pegli uni, sia normale pegli altri? Certo
che la conseguenza emerge chiara e legittima dalla teoria stabilita, e
chiara quindi e legittima emergeva pei più spirituali tra gli Esseni,
quel cibo cotidiano di pane azzimo a cui il resto dei fedeli non è
astretto che per pochissimi giorni.



LEZIONE TRENTESIMASETTIMA.


Che più? Una religione che secondo ogni probabilità trasse le sue prime
ispirazioni dalla società degli Esseni, che stende oggi i suoi influssi
sul mondo civilizzato, il _Cristianesimo_, ci offre il più illustre
vestigio dell’antica essenica costumanza esaltata, divinizzata, ed al
grado assunta del più sublime dei sacramenti, nel sacrifizio dell’
_Eucaristia_. Il pane eucaristico è pane _azzimo_, nè potrebbe essere
da questo diviso; e per quanto la storia delle Eresie ci offra memoria
delle quistioni a questo proposito suscitate, ciononstante, l’uso
prevalse sempre conforme alla vetusta pratica degli Esseni.

Tra essi i più austeri tutti i loro giorni trascorrevano in digiuno,
e solo a sera prendevano il loro parchissimo pasto. Nella quale
rigorosa astinenza ebbero a compagni non solo i più austeri dei Farisei
talmudisti, ma quelli eziandio che del _Zoar_ sono autori od attori.
L’ebbero nei Talmudisti a cui ci si offre ad esempio un figlio di
_Rabbinà_, del quale si narrano i giorni tutti trascorsi in digiuno,
salvo il giorno della Pentecoste e la vigilia del giorno d’espiazione.
L’ebbero nel _Zoar_ e più illustri e più numerosi, in tutti quei
dottori che si veggono passare parecchi giorni senza prendere alcun
nutrimento, assorti com’erano in profonde meditazioni, di cui la
storia dell’antica filosofia ci porge esempi non pochi e tra gli
altri di Socrate. Del quale si narra che non solo, mentre assisteva ad
un banchetto, era sì vivamente colpito da un pensiero che ogni moto
perdeva e lungo tempo immobile perdurava, ma che in mezzo eziandio al
romore dei campi restava dall’uno all’altro mattino immobile al luogo
istesso, e solo i raggi solari gli ricordavan l’ora della preghiera.
Nè qui vuolsi due circostanze della essenica vita pretermettere perchè
più o meno all’ordine, alle regole della mensa si riferiscono. È la
prima quel divieto che interdiceva agli Esseni ogni specie di unzione
dalla quale si riguardavano come d’abominevole cosa. Nè la menzione
volli di questo divieto disgiunta dall’argomento presente per una
semplicissima ragione, perchè appunto le unzioni odorifere entravano
tra le generali costumanze dei tempi dopo il pasto conchiuso, come fra
poco vedremo. Ora dobbiamo domandare a noi stessi. D’onde e perchè
questa interdizione fra gli Esseni?—Quale l’origine e quale lo spirito;
e quest’ultimo costatato, più agevole, cred’io, scuopriremo la prima.
Lo spirito è l’orrore di ogni mollezza, di ogni effeminato costume, è
quel medesimo che non pochi precetti informa della legge di Dio, quello
che la interdizione suggeriva onde all’uomo si fa divieto indossare
femminile costume, di radersi i segni della virilità, l’onor del
mento; e non solo come udiste di avvolgersi in ammanto donnesco, ma di
addottare eziandio modi, ed usi, ed acconciature di donna. Testimone
lo specchio proibito dai Talmudisti, perchè lo specchio a quei tempi
era peculiare costume di femmina, siccome la pagana letteratura lo
attesta, e come in ispecie si vede da Apuleio. Al quale un suo censore
rinfacciando l’uso di quel arnese troppo a filosofo disdicevole,
sclamava meravigliato: _habet speculum philosophus; possedit speculum
philosophus_. Ma ciò che più interessa a sapersi, egli è in qual
guisa la pensarono i dottori intorno all’argomento presente, intorno
all’unzione. Si può dire generalmente come i dottori distinsero in
fatto di unzione quelle che dalla nettezza sono richieste, dalle altre
che hanno la mollezza per consigliera. Le prime ammisero; nè forse, se
il tempo lo concedesse, tornerebbe ingrato rammemorare come tra queste
noverare si debba l’uso dagli stessi Romani adottato di ungersi dopo
il pasto con olj odoriferi, e che ripetutamente vediamo ricordato nei
libri Talmudici. Le altre che mirano, come dissi, a semplice diletto
carnale interdirono specialmente a coloro che professione fanno dei
sacri studj, pei quali reputarono abominevole il mostrarsi per le
pubbliche vie per profumi olezzanti e per olj odoriferi, consentendo in
questo come in infinite altre cose colle esseniche osservanze.

Ma io dissi di un’altra circostanza, alla mensa attinente, e di cui
vado a darvi immediatamente contezza, singolare a dirsi!—Non vi è
pratica dell’essenico istituto, non è parte della loro istoria che
meglio la consanguineità manifesti tra esso e lo antico istituto dei
Cabbalisti. Egli è quì che si vede ad un tempo come l’ultimo spinga
le sue radici sino alla più alta e profonda antichità, ed egli è quì
egualmente che i due istituti si porgono sul capo ai semplici Farisei
amica la mano, e ciò che il comune dei Farisei rigettava e rigetta
ammettersi, sanzionarsi, e con ogni possa difendersi da Esseni e da
Cabbalisti, prova manifesta come gli Esseni non siano Farisei se non in
quella misura, e sino a quel punto che i Cabbalisti lo sono, nè temano
da quelli dissentire quando nè dissentano i Cabbalisti, nè separarsene
quando i medesimi se ne separano. Io non ne chieggo ad esempio che il
fatto presente ove vediamo i Cabbalisti permettere, anzi comandare
ciò che i Farisei interdicono, e gli Esseni ad imitazione dei primi
egualmente permettere e comandare. Vietarono i Farisei tenere la
tavola con pane imbandita dopo il pasto conchiuso, temendo non forse
potesse cotesto uso precipitare in una pratica idolatrica, di cui si
fa veramente menzione nel culto di Roma, e di cui le traccie risalgono
sino ai Profeti che simil pratica rinfacciano ai coetanei loro, che
la tavola, dicono essi, imbandivano oziosa in onore di Gad, _Ahorekin
laggad sciulkan_. Ora, sia diversa tradizione, sia interpretazione più
larga dello antico divieto, sia meno timore di trascorsi idolatrici;
fatto è che i _Cabbalisti_ a quest’uso non si oppongono. E non che
opporvisi, instantemente lo raccomandano per la sera e pel giorno
di sabato, volendo la mensa in quel giorno continuamente imbandita
con pane dopo il pasto rinnovato: d’onde un disputare infinito tra
i semplici Farisei e i Farisei Cabbalisti, e d’onde in fino nuova
arme portai ai nemici dello _Zoar_ a osteggiarne la santità e il
valore. Ma io vorrei invitare amici e nemici a legger Filone. Il
quale nè più nè meno una _eguale identica_ pratica narra dei nostri
Esseni, la cui mensa, egli dice, vedevasi specialmente nei dì festivi
perpetuamente imbandita, e pane vedevasi sopra ordinato a somiglianza
della _mensa_ ch’era nel Tempio, e ch’è tipo che i Cabbalisti stessi
tolgono ad imitare nella mensa loro.—Se gli avversarj dello _Zoar_
hanno imparzialità ed amor del vero, come hanno scienza ed erudizione
insigne, riflettano a questo fatto, a questo gran fatto. Pensino allo
_Zoar_ che in onta al Talmud, in onta alle sue esplicite interdizioni,
in onta agli interpreti, ai ritualisti antichi e moderni, proclama
innocente, pia, autorevole una costumanza che gli altri dicono vana,
perniciosa, paganizzante. Pensino alla ignoranza _certa, provata_ in
cui vissero i nostri dottori di questo inaspettato ausiliare, cioè
della società degli Esseni. Pensino _all’ esplicita_ menzione che
veggiamo in Filone dell’uso contrastato; alla indubitata antichità,
al potentissimo ausilio che questa conformità reca ad un tempo ed
all’antichità delle teorie zoaristiche ed alla loro identità, colle
dottrine e colle pratiche esseniche: pensino a tutto questo, e poi ci
dicano se le stesse anomalie che a suo danno impugnarono, non riescano
a prova maggior dell’antichità di quel libro, e se di esso, come Dante
di San Domenico, dire non si potrebbe acconciamente che percosse

  L’impeto suo più vivamente quivi
  Dove le resistenze eran più grosse.

  _Parad._ XII.



LEZIONE TRENTESIMOTTAVA.


La seconda parte della Storia dell’essenico culto, quella che riguarda
gli abiti e le virtù della setta, ci occupava nelle precedenti lezioni,
e ci occuperà eziandio nella presente. E particolarmente diremo delle
virtù per cui andavan distinti.—Quando parlammo delle dottrine degli
Esseni, toccammo altresì della loro morale, e i principj indicammo
speculativi dei loro costumi.—Ora dobbiamo dire in ispecie di quelli
che a se medesimi si riferiscono, e che hanno principio e termine
nell’uomo interiore.—Quando vollero gli Esseni insegnare la legge
generale di ogni virtù personale, dissero che la maggiore tra esse
virtù, la più generale, la più comprensiva consista nel domare le
proprie passioni, nell’imperio di se medesimo. E se l’illustre signor
Munk, il quale ci narra degli Esseni la morale suprema, si fosse dei
Farisei ricordato, e delle sentenze in ispecie consegnate in _Abot_,
trovato avrebbe la formula essenica in quel dettato degli antichi
padri, _ezeu ghibbor accobes et izrò_, come in altri moltissimi forse
anco più espressivi, che qui lungo saria ricordare.

Ma se ogni rea passione volevano domata, ve n’era una che più
ispirava orrore agli Esseni, e che credevano il più grande nemico da
superare; e questa era la _collera_. Nè potrebbe essere diversamente,
se i Pitagorici sono gli Esseni del Gentilesimo, come gli Esseni
i Pitagorici dell’Ebraismo, al dir di Giuseppe, niuna passione più
della _collera_ doveva essere da loro abominata. La quale vincere era
còmpito particolare di ogni buon Pitagorico; e tanto innanzi vennero i
seguaci di Pitagora nel conseguimento di questa virtù, che la memoria
restonne celebre nei filosofici annali, e che Carlo Ritter non temeva
di asserire: _Le triomphe des Pythagoriciens sur la colère est célèbre_.

Mostrato abbiamo la verità dell’asserto flaviano, _la pitagorica
parentela_; sarà d’uopo che la bontà proviamo ora del nostro sistema?
Secondo il quale, e voi il sapete, oltre l’origine che con tutte le
ebraiche scuole vanta l’Essenato, comune nell’epoche e nelle opere
della Bibbia, più specialmente s’identifica, a parer mio, colla grande
scuola dei Farisei, e in questa stessa segnatamente, colla frazione
più eletta dei _Teosofi_ o _Cabbalisti_. Or bene, se il nostro
sistema non è erroneo, la collera dovrà apparirci esecrata non solo
nei libri biblici, ma nei farisaici e cabbalisti eziandio; anzi in
quest’ultimi specialmente un carattere particolare dovrà assumere,
che meglio consuoni col genio e colle virtù degli Esseni, mostrandoci
l’ira avversa specialmente a quella eccellenza contemplativa, a quella
santità e purezza di speculazione ch’era il più proprio e più grato
officio dei gran solitarj. Io oso dire che tutti i tratti anzidetti
escogitati soltanto in desiderio si verificano storicamente a cappello.
Non dirò lungamente della Bibbia, la quale siccome libro popolare e
soterico non mira, almeno esteriormente, che alla morale o sociale
pervezione dello individuo, e solo per via di accenni allude, di
tratto in tratto, ai lati più nobili e segreti della umana coscienza,
all’intelletto, alle sue leggi, al suo culto, alle dottrine che ne
formano lo alimento. Pure la Bibbia, i Proverbi in particolare
ci presentano la collera, non certo sotto quei varj, moltiformi e
veracissimi punti di vista, sotto cui i dottori la presentano nei loro
libri, ma sempre quale passione esiziale all’uomo sociale, al suo
corpo, ai suoi amici, ai suoi interessi, al suo onore. Ma i dottori
vengono, e le parole bibliche, e i fatti stessi, come quadri, dalle
tenebre sottratte, acquistano luce colore verità e merenza. Vengono
i dottori, e la collera non solo è predicata micidialissima all’uomo
corporeo, come la Bibbia stessa pareva indicarlo, come la Storia e la
Medicina concordi lo attestano, ma, siccome non è vero scientifico
che non abbia il suo limite in un vero contrario, così non tardarono
a trovare nella collera stessa un farmaco alla salute, quando la
fiamma onde l’anima s’avvampa, è accesa, dicono essi, non già nel
fuoco d’inferno, ultima e vile teoria, _Zoamà_ dell’igneo torrente,
_Near di Nur_ che traversa il Creato, ma in quello puro della celeste
scaturigine, vale a dire nello sdegno generoso a difesa del vero,
dacchè, per un concetto bellissimo, l’Inferno stesso pigli origine
dal Cielo, e il fuoco che vi consuona non sia altro che il sudore
delle _Hajot_ ch’estollono il trono di Dio, vale a dire la Cloaca
massima dell’Universo.—Or quest’effetto terapico di una collera nobile
generosa, la Medicina lo ha notato, e molte cure si notano, come
asseriva il medico Dementi, conseguite di vecchie e croniche malattie
per l’effetto subitaneo salutare di un accesso di collera. Ma la
collera non meno all’anima, secondo i dottori, che al corpo è nociva,
e non meno alla morale che alla intellettuale perfezione. Alla morale,
quando dissero: _Dio stesso è preso a vile dall’iracondo, Afillù
schehinà ena hasciubà chenegdò_; quando aggiunsero _tanto empio essere
lo iracondo quanto lo idolatra_; quando insegnarono sommo antidoto al
peccato il non adirarsi. Che diremo degli effetti sull’intelletto?
Per _essi l’iracondo non potrà mai istruire_, e questo notate trovarsi
in Abot, vale a dire nel Codice dei _Hasidim_, e sommamente confacente
al genio studioso e contemplativo degli Esseni. Per essi _la collera
mette in bando la scienza, e intorpidisce lo intelletto_.—Per essi
Mosè stesso non si sottrasse da questi effetti della collera e vide
venir meno il suo saper rivelato dopo un moto di sdegno.—Per essi,
e ciò più davvicino s’attiene alla società degli Esseni, se tra le
due scuole rivali di _Sciammai_ ed _Illel_ la seconda prevalse qual
norma suprema in Israel, egli è perchè tra le altre virtù della scuola
Illeliana, quella splendeva massimamente di una mansuetudine a tutta
prova; fatto di gran rilievo, se ponete mente come la mansuetudine
degli _Illeliani_ e il carattere opposto dei _Sciammaiti_ non siano,
a ciò che pare, un fenomeno accidentale, ed uno scherzo del caso, ma
parte integrale del loro genio speciale, poiché rimonta ai due grandi
fondatori di ambo le scuole; e la docile natura degli _Illeliani_ come
il genio severo e sdegnoso dei _Sciammaiti_ si vedono già spuntare in
tutta la loro interezza nel docilissimo e mansuetissimo _Illel_ come
nello sdegnoso e severo _Sciammai_.—Ma se ciò è già molto per condurci
bel bello dalle idee farisaiche alla società, alle leggi dell’Essenato,
un passo più grande avrem compito quando ricordato avremo ciò che si
legge in _Sciabbat_ a proposito della mansuetudine _Illeliana_. Fra
poco, quando toccheremo della _collera_ qual aborrita passione dai
_Cabbalisti_, vedremo le prove che i più venerandi tra essi imponevano
ai nuovi venuti, contro la passione odiatissima in tempi in cui le
dottrine loro erano chiuse ancora in istrettissimo cerchio, e che di
uno o due secoli precedono il _Mille_ dell’Èra Volgare. Ma dall’8 o 900
dell’Era Cristiana ai giorni dell’antico Illel corrono più di mille
anni, e nonostante vi è un fatto narrato nel Talmud Babilonico nel
2º di _Sciabbat_ in cui, ove tu guardi con occhio fermo penetrante e
scevro di pregiudizj, non potrai non ravvisare le fattezze comuni, alle
posteriori prove dei Cabbalisti, alle prove più antiche che imposero
certo gli _Esseni_ ai loro seguaci.—Ma io però lo confesso, il mio
modo d’intendere il fatto in discorso immensamente si dilunga da
quello che fu ammesso sin’ora dai chiosatori; e s’egli è vero, com’è
verissimo, che a niuno sia interdetto proporre nuovi e più acconci
sensi alla parola tradizionale, altro non resta, per assicurare il
trionfo del vero, se non vedere ove più sia di ragione, di critica,
di plausibilità, di carattere storico. Il fatto in discorso è ovvio e
trito fatto tra i Talmudisti. Sono due uomini, dice la _Barraità_, che
scommettono di venire a capo della pazienza e mansuetudini Illeliane;
che prendono tutte le loro misure per riuscirgli in mille modi
importuni, che scelgono un giorno di venerdì mentre Illel si radeva
i capelli, che bussano alla porta sua e con gran pressa chiedono se
a caso vi fosse Illel. E Illel, che ricompostosi in fretta gli esce
incontro festoso, che chiede a loro che cosa desiino; sono essi che
gli propongono una serie di domande degnissime di nota, in quanto
preludono alla bellissima moderna scienza _etnografica_, vale a dire
allo studio dei popoli in relazione alla regione da essi abitata, e
di cui, se io non erro, solo in Aristotile si vede tra gli antichi un
primo albore.—Ma queste domande sono fatte ad _Illel_ in guisa che un
moto ne provochino d’impazienza, una parola, un accento; perchè fatte
dopo iterato congedo, con intervallo dall’una all’altra, e coi ripetuti
preamboli ad ogni novella domanda. Ma nè moto, nè accento, nè segno
alcuno dà a divedere _Illel_ d’animo concitato, ma sempre a metà raso
accorse alla porta, sempre dolce favella, col nome di figlio sempre li
chiama, sempre cortese risponde, e non solo cortese, ma ragionevole e
sapiente, come mi fu dato osservare non so se più lieto o sorpreso, in
guisa che mille offre analogie colle soluzioni che Aristotele stesso,
se non erro, nella _Politica_, propone agli stessi problemi.—Lo dissi
e lo ripeto, il senso storico ch’io veggo nel fatto di _Sciabbat_, non
è quello che tutti intesero i chiosatori finoggi, e forse gli ultimi
compilatori del Talmud che tanto vissero lontani e dai luoghi e dai
tempi dell’antico _Illel_, non si addarono o poco del carattere verace
del fatto narrato, ed in guisa lo presentarono che nè mostra in essi
una coscienza chiara luminosa del suo vero senso, nè è capace nemmeno
d’ingenerarla ad una lettura superficiale, e senza il concorso di
dati, di elementi estratalmudici. Pure io non m’astenni nè mi astengo
dal proporvelo, sì perchè è principio di critica liberalissimo nei
nostri studj—potere ognuno liberamente discutere sul senso talmudico—,
sì perchè se non al tutto andava errato Ernesto Renan, quando disse
potere la ebraica filologia moderna più e meglio penetrare la biblica
intelligenza che non i secoli per avventura men dall’origine discosti,
egli è certo però che, vuoi nella Bibbia, vuoi nei Dottori, questo
fatto si verifica allora, e solo allora che il nuovo senso è tratto
dall’Emporio tradizionale che è la corrente perenne ed il pensiero
intimo nazionale, che precede, accompagna e segue tutte le opere
scritte, l’atmosfera in cui nuotano, la luce in cui sono rischiarate.
Nel giro tradizionale la ragione ha libero il moto, libera scelta,
libera adozione, e mentre gli è dato produrre ivi quel giro con quei
dati, con quegli elementi, tutte le combinazioni, tutte le forme, le
figure possibili, che sono _Scibghim Panim_, e l’immenso _Poligono_ di
cui favellano i Dottori, non può a buon diritto _creare_ nè nuovi dati,
nè nuovi elementi appunto come nella materia, ove libero s’esercita
nel combinare incessante l’ingegno del chimico, ma in cui vano sarebbe
tentare la creazione eziandio di un atomo.—Sendo il corpo e l’idea, la
materia fisica e la materia ideale _campo_ e _limite_ nel tempo stesso
alla ragione dell’uomo,—campo ove libero si muove—limite ove libero si
ferma, e campo e limite adombrati nel bel vocabolo _Ghebul_, che con
mirabile sinonimia significa a un tempo _limite_ e _campo_.

Noi però siamo ancora nei confini del puro e semplice farisaismo
talmudico. Prima di passare alla più speciale considerazione del
farisaismo cabbalistico, che è quello con cui in ispecial modo
s’identifica la società degli _Esseni_, mestieri è che di due altri
rilevantissimi cenni favelliamo altresì, tratti dal seno del farisato
talmudico, e che serviranno di naturalissima transizione al campo alla
scuola più speciali del farisato cabbalistico. Questi cenni non sono
di eguale significanza, troppo il secondo sovrastando, come agevole
comprenderete. È il primo una frase che precede una sentenza, che non
ha guari udivate quando per sommo preservativo al peccato additavano i
dottori l’allontanamento dall’Ira, _Lò tirtah velò tehetà_. E il nome
del dottore, a cui si dirige l’insegnamento e il titolo di _Hasid_
che reca manifesto e che non troppo frequente ritorna nelle pagine
talmudiche, _Rab Sallà Hasida_. Ma che cosa è il nome del dottore
ammonito di fronte a quello di chi ammonisce;—che cosa è _Rab Sallà
Hasida_ di fronte al nome di _Elia_, del profeta immortale che di un
balzo leva la mente a una visione semiprofetica, che ci rapisce di
un tratto nel vero e naturale orizzonte dell’_Essenato_, delle sue
visioni, della sua vita contemplativa, che un nuovo anello ci porge tra
i due istituti, tra Esseni e Cabbalisti, nelle comuni visioni, nelle
comuni apparizioni di Elia profeta; e che dopo avere insieme stretti
Esseni e Cabbalisti, insieme poi gli radica, li riappicca nelle più
vive e pure fonti del farisato antichissimo. Oso dire che lo incontro
di questi nomi di _Elia_ e _Rab Sallà Hasida_, è lo incontro di due
idee che insieme si spiegano, s’illustrano di bellissima luce, la quale
poi è levata a grado ancor maggior di potenza dall’oggetto istesso
che pone a fronte i due individui; oggetto, legge, precetto essenico
per eccellenza, l’orrore, l’esecrazione della collera. E questo,
come vedete, è già transito facilissimo dal puro e semplice farisato
al farisato cabbalistico, in quanto ne porge nel titolo di _Hasid_
nell’incontro dello _Essena_ con _Elia_, e sopratutto nell’idea che li
pone a contatto, altrettanti sbocchi e riuscite naturalissime alla più
speciale scuola dei Cabbalisti.

Ma che parlare di questi transiti, quando una via regia ci si para
dinanzi nello stesso Talmud? Formiamo secondo il solito un voto, e
vediamo se sarà adempito. Imaginiamo che cosa di più preciso, di
più parlante potremmo desiderare nel Talmud, che nell’odio stesso
alla passione dell’ira ci offrisse un mezzo nuovo d’identificare
_Cabbalisti_ ed _Esseni_.—Diciamo a noi stessi: Se il Talmud suppone,
come non è dubbio, una scienza segreta acroamatica che si chiama ora
_Sitrè torà_, ora _Maase Mercabà_, ora _Pardes_, ora la trasmissione
del nome _Mesirat ascem_; s’egli è vero, come dicemmo le tante
fiate, che quella scienza, quella scuola segreta, è la scienza e la
scuola dell’Essenato; se è provato come gli Esseni imponessero la
fuga dell’ira qual morale apparecchio indispensabile alle dottrine
gelose; se in pari modo l’imposero i Cabbalisti; se l’uno e l’altro
sono quegli stessi nel Talmud designati, come cultori del _Pardes_,
della _Mercabà_, dei _Sitrètòrà_ o qual altro nome si abbia la riposta
teologia; in una parola se il sistema nostro non è bugiardo, che
cosa dovrà trovarsi nel Talmud? Dovrà trovarsi, se non erro, la fuga,
l’astensione, l’orrore della collera qual condizione impreteribile
alla comunicazione della _Mercabà_, dei _Sitrè torà_ e sopratutti dei
_Nomi_ sacrosanti che tanto gelosamente vedemmo custoditi eziandio
dagli Esseni. Questo, nulla di più nulla di meno, dovremo trovare
nel Talmud, ed ove realmente si trovi, ed ove l’ira vi sia additata
qual sommo ostacolo da superare nello ingresso del _Pardès_, o la
logica e la critica non sono più che nomi privi di senso, o il
sistema nostro riluce di nuovo, d’inusitato fulgore. Ora l’ipotesi
escogitata in desiderio è una bella e preziosa realità. È un testo
chiarissimo e luminosissimo in _Kedduscin_ ove aperto s’impongono
fra le altre, qual condizione indispensabile alla comunicazione dei
nomi divini, l’età virile, e poi _la fuga dell’ira_. Queste parole
non hanno bisogno di chiose perchè troppo eloquenti depongono in
favor nostro. Egli è per ciò che per la porta che dischiudono, pel
passaggio che ci offrono alle idee cabbalistiche, noi entreremo
difilati ad udire dalle costoro labbra non meno solenne ed esplicita
la condanna dell’_Ira_. Ora del _Zoar_ e del suo attestato. Chiede
il _Zoar_ a qual segno si debba cercare o fuggire la compagnia di un
uomo, e risponde: nell’ira. _Se l’anima santa_ ei dice, _custodisce
illesa nell’ira, se non la divelle dal suo riposo, se in luogo suo
non vi pone un Dio alieno, un idolo, questi è l’uomo perfetto, questi
è il servo fido al suo Signore_, ma ove fosse al contrario, ci sarà
l’uomo ribelle al suo Signore, ed a cui (notate le seguenti parole
che l’idea ci destano dei _Habrajà_ Zoaristici che rispondono, come
dissi altra volta, ai socj dell’_Essenato_), _ed a cui è interdetto
avvicinarsi nè con esso associarsi_. Ma ciò che altrove dice lo _Zoar_
merita più attenzione.—Dopo aver chiamato, come udiste, la collera
vera idolatria, _Èl Zar, Sitrà okarà_, conclude con parole che, oso
dire, sono a parer mio un lampo vivissimo di luce che progettandosi a
traverso i secoli frapposti sulle antiche linee del grand’_Essenato_,
ce ne fa cogliere in un amplesso istantaneo di luce le vere fattezze e
i fili segreti che lo congiungono agli uomini, alle teorie del _Zoar_.
E per comprendere questo tratto di luce, due parole d’indispensabile
prefazione. Ricordatevi di un fatto, e questo fatto sarà la chiave con
cui potrete penetrare nell’intelligenza del _Zoar_. Il fatto e l’uso
che abbiam veduto presso gli _Esseni_ di cibarsi cotidianamente di
pane azzimo, e questo è il punto di partenza.—Ma ciò non basterebbe
senza che una idea intermedia non venisse a stringere, a legare tra
essi l’uso essenico del pane azzimo e parole che udirete del _Zoar_,
e questa idea è idea farisaica per eccellenza, è il lievito preso,
considerato qual simbolo naturalissimo di ogni passione che suoni
_tumore_, _gonfiezza_, la collera, la superbia particolarmente.—Da
questo punto di vista, con questo duplice filo alla mano, udite le
parole dello _Zoar_ a cui accennava. La fuga dell’ira era l’oggetto
delle più calde sue esortazioni. Per mostrare l’Ira qual vera e propria
idolatria, il _Zoar_ invoca l’autorità della Bibbia, e per ciò, ei
dice, egli è scritto: _Eloè Massehà lò taase lah_, e poi si legge
immediatamente: _Et kag amazzot tismor_. Ma che intenda lo _Zoar_ con
queste parole, qual rapporto abbia l’idolatria col _kag amazot_, qual
rapporto abbiano ambedue col soggetto in discorso, coll’_Ira_; nè il
_Zoar_ lo dice, nè i più autorevoli commentatori lo spiegano, nè troppo
parmi suoni agevole a comprendersi.—Solo ha un senso se ci torniamo
alla mente e l’uso essenico di cibarsi di pane azzimo, e il simbolo
del _lievito_ qual espressione di collera e superbia. Premessi i due
fatti ricordati, quanto non riesce piano e naturale il ragionamento
dello _Zoar_! Ei vede nella Contiguità ossia _Semikut_ dei due comandi
il cenno del principio suo favorito.—_L’iroso essere idolatra_—; egli
vede il testo esordire colla idolatria materiale esteriore, sensibile
nell’Eloè masseha, e senza sbalzo e senza lacuna proseguire nella
idea stessa d’idolatria, non più fisica certo ed esteriore, ma morale
e interna nel divieto di ogni lievito, _Et kag amazot_; ch’è quanto
dire, oltre il suo senso positivo e letterale, lo schifo, la fuga della
collera, della superbia da cui gli Esseni si guardavano, e in figura e
in realtà; in figura coll’odio che ispiravano per la passione dell’ira,
in realtà colla massima estensione che davano al precetto in discorso,
cibandosi, come vedemmo in fatto che si cibavano, cotidianamente
di pane azzimo. Il _Zoar_ con una frase suppone, e la significanza
simbolica del lievito qual simbolo di collera, e ci addita al tempo
stesso la via per la quale poterono gli Esseni allargare il precetto
in discorso sino a formarne regola comune ordinaria di loro vita. Ora
dagli antichi ai più moderni Cabbalisti trapassando, seguiamo di queste
idee le vestigia sempre più manifeste. Non solo per essi le virtù alla
collera opposte, la dolcezza, la mansuetudine, la sopportazione delle
ingiurie, sono apparecchio a ricevere lo spirito divino, sono anzi
i più eloquenti maestri della scienza riposta; non solo si legge in
nome dei più antichi Cabbalisti quai furono i _Cichittilia_ spagnuoli;
non solo eglino stessi dicono averlo trovato scritto nei libri dei
Cabbalisti, che meritarono di pervenire alla scienza divina; non solo,
dico, per essi uno dei preliminari più grandi e più necessarj è la
sopportazione delle ingiurie, è la fuga della collera ma ciò che più
monta, è quello che segue, ove risalendo a un’epoca antichissima, al
mille dell’_Era volgare_, vediamo la prova contro la collera prevaler
qual uso tra i più grandi dei _Cabbalisti_. E grandi invero sono per
esempio _Rabbi Jeuda chased_, più antico di Rasci, e grande non meno
il maestro suo _Rabbi Jaacob Eschenazi_. E dell’uno e dell’altro ecco
ciò che si legge nel _Rescit Kokmà_, libro prezioso non solo per la
dottrina morale, ma per i frammenti e le memorie di gran lunga più
antiche che di frequente racchiude:—«_Avvenne che il hasid Rabbi Jacob
Eschenazi, che era straordinariamente erudito nella scienza_ (intendi
la Teosofia o _scienza per antonomasia_), _volendo insegnare la sua
dottrina a Rabbi Jeudà chasid, provollo prima riguardo alla collera._—»
Ma ciò è poco rispetto a quello che segue: «_Ed era tradizionale
costume appo loro_ (intendi Teosofi)_ di non trasmettere la scienza, se
non a chi provato essendo negli effetti dell’ira, non s’adirasse. Ora
fu provato pertanto R. Jeudà chasid il quale, per molte volte riuscito
vittorioso, la settima però restò soccombente._» Queste parole brillano
di una luce propria innegabile, nè bisogno hanno di venire illustrate,
ogni parola o comento non facendo che oscurarle. Solo piacemi additarvi
un punto, non men bello nè luminoso, ma che nel fulgore dell’insieme
potrebbe sfuggirvi, come le stelle si ecclissano alla luce del sole.
Ed è l’epiteto _Hasid_ invariabilmente appiccato al nome dei due
Cabbalisti, del dottore e dell’addottrinato del _Hasid R. Jacob
Eschenazi_, il maestro; e del _hasid R. Jeudà_ suo discepolo. Se tutte
queste cose sono a caso, io mi taccio; e solo dirò che se ciò è a caso,
non è più assurda quella ipotesi che altri mise in campo per provare
la necessità di un ordinatore del mondo, e che non è più impossibile
che imborsando tutte le parole del vocabolario latino ed estraendole ad
una ad una, ne venga fuori il capo d’opera della letteratura latina,
_L’Eneide di Virgilio_.—Se il caso può partorire le armonie che vediamo
nello studio degli _Esseni_, non v’è nulla di assurdo che possa fare
ancora il prodigio indicato.



LEZIONE TRENTESIMANONA.


La storia della vita essenica costava di tre parti distinte. La vita
religiosa, la vita interna, la vita pubblica esteriore. Delle prime
due parti abbiamo ragionato abbastanza, rimane a vedere della terza
ed ultima che dicemmo _vita pubblica ed esteriore_. Vi ha però un
tratto della vita loro, intima privata, che serve quasi di ponte e di
transito naturalissimo allo studio, dei loro rapporti esteriori, ed è
il rispetto reciproco che professavan tra essi i membri dell’Essenato.
Questo rispetto fu sì grande, sì costante, così proprio all’Essenato,
che un tratto forma sensibilissimo della essenica fisonomia, che
menzione segnalatissima meritava dallo storico della setta, Flavio
Giuseppe. Giuseppe vide il rispetto, la deferenza che usavansi tra essi
i membri dell’Essenato, ed ai posteri lo trasmise, e trasmettendolo,
nuovo e parlante argomento ci porse della identità tra Farisei
ed Esseni, da noi propugnata. Se v’ha carattere deciso spiccato
prominentissimo nella scuola dei Farisei; egli è questo senza meno,
egli è il rispetto che la scuola imponeva tra colleghi e compagni; egli
è il precetto che si legge in Abot, il Codice dei _Hasidem_, di amare,
riputare qual proprio l’onor del compagno; egli è l’onoranza dovuta
al compagno qual duce e maestro per quello inevitabile incremento di
scienza che si consegue negli studj, nelle disputazioni comuni; egli
è il titolo di familiare all’Esterno conceduto in Pesahim a quelli che
tributano lode e dimostrazioni onorevoli ai compagni loro nei dotti,
consessi; egli è il vanto che menavano i più grandi tra i Tanaiti,
di non aver mai tolto a vile l’opinione dei colleghi, sino al punto,
dice alcuno tra essi, di officiare qual sacerdote abbenchè sacerdote
non fosse; egli è il flagello che dicesi menò strage nella immensa
scolaresca di Akibà, sol per aver un solo istante obliato il dover
sommo del Farisato, il rispetto reciproco e per cui dura tuttavia un
vestigio di lutto tra la Pasqua e la Pentecoste; ei sono infine gli
esempj grandi cospicui che ci offrono del reciproco rispetto i lumi
più grandi del Farisato, e ciò che più monta, per eloquentissima
coincidenza, i dottori più celebri del Cabbalismo, Rabbi Akibà quando
profonde in carcere la scarsa misura d’acqua per bere, ad uso di un
lavacro doveroso soltanto, a detta dei suoi colleghi, perchè, com’egli
disse, meglio era subire le torture della sete che dar pubblico
segno di indisciplina e disobbedienza; _R. Simon_, il corifeo del
cabbalismo, quando sgrida, non appena uscito dal suo più che decenne
nascondiglio, colui che contro la volontà dei colleghi, e ciò che
più monta, in coerenza alla sua propria opinione, raccoglieva poche
spiche spontaneamente cresciute nell’anno sabbatico. Ma tal rispetto,
comunque osservato universalmente tra i nostri Esseni, non era
tuttavia in pari modo distribuito tra loro. Fra gli Esseni d’Egitto,
che la Storia conosce col nome di Terapeuti, v’era una classe che
forse non differisce dai sacerdoti stessi che ministrarono nel Tempio
di _Onia_, di cui ebbi luogo non è molto di favellare e che il nome
reca appo Filone di _Presbiteroi_, d’onde, come dissi altra volta,
il prete cristiano. Ora i _Presbiteroi_ di Filone erano i più degni
e più meritanti di tutta la scuola, certo i più dotti, e ciò che più
monta è ciò che aggiunge Filone, concedersi quel titolo al merito
senza riguardo di età. E questo è pretto e puro farisaismo. Presso i
quali se la vecchiezza è in somma onoranza, come presso la Bibbia,
come appresso i più civili e più nobili popoli dei tempi antichi, non
è sì che la scienza non faccia venerando per prematura canizie anche
l’uom giovanissimo, che non lo anteponga al vecchio ignorante, e che
per tutto ciò che s’attiene ai consessi studiosi, unico criterio di
preminenza non sia la scienza maggiore, e solo nei mondani convegni si
accordi alla vecchiezza, comunque indòtta, la preminenza.

Ora lo studio della vita esteriore ci dee le soglie far varcare del
grande Istituto, e dall’esame dei rapporti reciproci dobbiamo procedere
a quelli che gli Esseni legavano cogli uomini, col mondo, colla Società
esteriore. La storia ci ha conservato memoria di due rapporti, che
due Stati contrassegnano opposti, estremi nelle sorti dell’Essenato,
la libertà, la grandezza, il potere da una parte, la sventura, la
persecuzione, il martirio dall’altra. Nell’uno come nell’altro, nella
trista e nella lieta fortuna, uno è il volto, uno il carattere, uno il
tipo, quello dei Farisei. Come gli Esseni, dei quali chiaro attesta
Giuseppe le civiche e governative dignità, le città governate, come
_Giovanni Essena_ governatore di Jamna, come gli Esseni ebbero i
Farisei onori, potenza, impieghi, uffici pubblici, edilizj politici
eziandio dal governo romano, o dagli efimeri principati della Giudea;
e senza ripetere ciò che fu detto di _Menahem_, chiamato, dice il
Talmud, insieme ai discepoli al servigio di Erode, parecchi esempj
si potrebbero fra i dottori citare non solo di regie e imperiali
amicizie, ma di offici pubblici sostenuti, e di cui lo esempio non
è raro vedersi anco nella storia moderna, nelle corti d’Europa, nei
ministri dei Re di Francia, nei tesorieri e medici della corte papale,
tra i quali splende qual vivido astro, _Rabbenu Iehiel_ del 9º secolo
dell’Era Volgare, tesoriere del Papa allora regnante. Ma le cariche,
di cui parla Giuseppe, datano da tempi più antichi, da quando ogni
barlume d’indipendenza non era svanito, dai primi tempi del dottorato
talmudico, e forse dai tempi gloriosi della guerra d’indipendenza.
Di tempi così antichi, scarsi sono ed incerti le memorie talmudiche,
e quindi scarse ed incerte le analogie che andiamo cercando. Non sì
però che qualche vestigio non ne rimanga. Testimoni _Menahem_ e la sua
scuola di cui abbiamo parlato, e testimoni quei primi venerandissimi
_Tanaim_ che aprono la serie del dottorato in Abot, un _Antignos Is
soho_, vale a dire Signore rettore di _Sohò_, un _Joseben soezer_
rettore di Zeredà, un _Rabb Halafta_ rettore di _Chefarhanama_, un
Rabb Eliezer rettore di _Bartota_, un Rabb Levitas rettore di _Jabuc_,
un _Nehunià_ capo di _Chefarabatli_; tutti, come concordi attestano
i chiosatori, investiti di pubblico, di civile officio, indicato nel
vocabolo Is, Signore e Duce. Ma gli esempj e la pratica non solo
all’uopo soccorrono, vi è anco il principio, il costume, l’enunciazione
generalissima del fatto dai dottori proclamato. Il fatto voglio dire di
Dottori, di Farisei, di Esseni, che son tutt’uno per noi, preposti al
governo, al maneggio de’ pubblici affari. E non solo una volta, ma bene
tre esplicite e chiarissime menzioni ne ricorrono nei libri talmudici,
e non solo i Farisei in generale ne sono, come dissi, gli enunciatori,
ma quelli in specie che recano manifesti i segni dell’affiliazione
cabbalistica, e di cui udito abbiamo altra volta la voce e veduto gli
esempj preziosi, autorevoli. Ma uno poi di questi luoghi accennati
brilla di una luce tutta propria, speciale, sfolgorantissima, ed al
novero appartiene di quei pochi, ma salienti tratti di luce che ci
rivelano nel Talmud le traccie dell’Essenato, e che se non soli perchè
corredati, accompagnati da quelle costanti e perpetue analogie da
noi additate, sono però come soli in mezzo agli astri minori, come i
visceri vitali, come i centri organici nervosi in mezzo al continuato
organismo, come i nuclei stellari nella materia delle nebulose, come i
grandi avvenimenti nella istorica successione, come le epoche organiche
genesiache nella formazione della terra; un concentramento di luce,
di forza, di vita, di azione e di pensiero. Io dissi che tre sono i
luoghi in discorso. Ma se tre sono i luoghi e tre le forme, uno solo è
il pensiero, uno solo il fatto che sotto vi giace, ed a cui si allude;
il fatto della presenza dei Dottori, dei Farisei al governo della
città, il pensiero di fuggire la città da essi governata. Io non starò
a notare le grandi riflessioni che questo pensiero ci suggerisce, le
vere cause che condussero i più grandi tra i Farisei ad abdicare ogni
politica superioranza, ma il fatto resta, ed il fatto ci basta. Quando
_Rabbi Akibà_ volle lasciare al figlio alcune regole di condotta per
bene vivere nel mondo, fralle altre cose che raccomandògli sì è quella
di non abitare un luogo al cui governo siano _Talmide hahamim_, vale
a dire veri e proprj _Farisei_. Quando _Rab_ volle fare nel Talmud di
_Sciabbat_ una scala, una gradazione di merito fra le umane signorie,
pose in primo luogo l’araba signoria, dopo l’araba la romana, dopo
questa la persiana o cabaritica, e dopo questa la farisaica. Ma il
terzo luogo vince di gran lunga i due ricordati; ed è, come dissi, un
dei fari, dei punti luminosi che guida chiunque si faccia a cercare nel
mare talmudico l’antica scuola degli _Esseni_. L’autore è quel medesimo
della scala politica testè udita, è il medesimo _Rab_, il pensiero
è il medesimo, ma l’espressione, ma la forma, quanto più eloquente!
Esorta egli com’esortava _Akibà_ il figlio suo, ma invece del vocabolo
_Talmid Haham_ un altro è posto in luogo suo, e questo è il nome di
_Assè_. _Non abitare città alla cui testa sia un Assè_. Parola grande
storica che suona rarissima in tutto il Talmud, e che doveva quindi
tornare strana, bizzarra all’orecchio dei chiosatori ignari o incuranti
della esistenza stessa di una scuola per nome _Essenato_. Quindi in
_Rasci_ e nel _Karuh_, un linguaggio perplesso e come a tentoni: ma
poi la mente loro dopo breve bagliore, mirate forza del vero! si fissa
come aquila nel sole, nella contemplazione dell’unico senso, vero,
storico, razionale, e la gran parola pronunziano d’identità fra _Talmid
haham_ e _Assè_, e nell’_Assé_ del Talmud non altro veggono che lo
stesso _Talmid haham_, vale a dire veri e proprj Farisei. Ei fu per me
un conforto, un diletto che non saprei dirvi. Oltre il passo talmudico
che ha un’importanza senza pari per la storia dell’Essenato, e che è
come il suggello posto al nostro sistema d’identità, e che niuna umana
potenza ci può rapire, mi doleva non poco dover anch’oggi scostarmi da
quegli uomini santi e venerandi che sono Rasci, e l’autore del Lessico
_Aruh_ e in genere i Rabbini del Medio-evo. Da oggi in poi potremo dire
senza che niuno sia oso di contraddirci, che per l’uno come per l’altro
_Assè_ vuol dire e può voler dire ch’egli è uno dei nomi con cui il
_Fariseo_ si distingue, ch’è quanto dire, per assumere un linguaggio
storico, che gli Esseni non sono che parte nobile sì, ma pur parte del
gran corpo dei Farisei.

Ma la considerazione di questo gran fatto non vorrei ci togliesse
vaghezza di volger il pensiero a cose men grandi; la beltà delle
forme si vede nelle grandi come nelle piccolissime linee, e ciò che
è vero, è vero in tutto, nelle massime come nelle minime parti. Se
il fatto che ci narra il Talmud, se il nome nuovo che accampa, quale
denominazione dei Farisei, sono, più che dir si può, eloquenti,
non lo è meno il nome degli uomini che il fatto proclamano. L’uno è
R. Achibà, il maestro del Ben Iohai, grande e felice visitatore del
_Pardes_, ed egli stesso vivente esempio della ingerenza politica dei
Farisei, nella parte grandissima che prese, nel supremo ed infelice
conato d’indipendenza, in cui _Ben Cozibà_ fu il braccio glorioso, in
cui Achibà fu il capo, il pensiero, il profeta, l’ispiratore, e che
soleva dire per l’infelice _Barcocheba_ avere di esso pronosticato
Balaamo quando disse: Ecco spunta una stella (_Cokab_) da Giacobbe.
L’altro che abdica il valore politico è Rab, vale a dire R. Abbà lo
scriba, il redattore, il collaboratore anzi dello _Zoar_, il discepolo
prediletto di R. Simon, il Beniamino della scuola, il _portavoce_ del
gran maestro tanto nella tradizione comune, quanto nella recondita,
tanto nel Rito come nel _Dogma_, nel rito colla redazione del _Sifrè_,
opera di Rab, pensiero del Ben Johai _Setam Sifré R. Simon Ben Johai_,
nel dogma colla redazione dello _Zoar_, opera egualmente di R. Abba o
Rab che è pensiero egualmente del _Ben Johai_. E ambidue eloquentissimi
nomi perchè appartenenti al maestrato supremo del cabbalismo, i quali
uniti all’idea che esprimono, essenica per eccellenza perchè allusiva
agli storici esteriori rapporti dell’Essenato, formano un concorso di
prove, di memorie innegabili in primo luogo della identità tra Esseni
e Farisei cabbalisti, e in secondo luogo delle vestigia tuttavia
sussistenti nei libri talmudici del grande Istituto. Vedremo nella
seguente lezione quanto gli Esseni abbiano comuni coi Pitagorici, il
genio, gli uffici, la vita politica, e come grandi si mostrino nella
sventura e nel martirio, non meno che nella prosperità e nella gloria.



LEZIONE QUARANTESIMA.


Se gli Esseni prendevano parte al governo dello Stato, se molti offici
sostennero, come disse Giuseppe, non fecero, come veduto abbiamo
nella passata Lezione, nulla di cui esempio illustre non c’offrano
i Farisei, e nulla altresì, come vedremo in questa lezione, che non
facesse il grande istituto dei Pitagorici, ai quali paragonavali
Flavio. Voi lo ricordate, Giuseppe disse gli Esseni i _Pitagorici_
dell’Ebraismo, e quanto bene si apponesse così dicendo, voi lo vedeste
in quei casi infiniti in cui le leggi, i costumi, il genio delle
due scuole s’incontrano nel corso di queste lezioni, e lo vedrete
eziandio nell’argomento presente, sol che vi piaccia invocare le più
accertate e comunali nozioni intorno la storia antica dei Pitagorici.
Se v’ha punto incontroverso nelle vicende di quella scuola, se v’ha
cosa che costituisca profondo reciso, divario tra gli antichi e i
moderni Cenobj, egli è il genio pratico, attivo, sociale, politico dei
Pitagorici; la parte grande, eminente che presero sino dall’origine
nelle sorti, nelle costituzioni della patria loro; delle città in
ispecie di Magna Grecia, ove ebbero sede famosa e illustre. Basta dire
di Pitagora stesso, tra i cui caratteri splende quello di legislatore
degli Italioti; di Archita, di Eudosso, pitagorici antichi essi pure,
i quali, al dire di Diogene Laerzio, dierono leggi a parecchie città
che abitarono. Il quale genio ed officio politici perpetuaronsi nella
scuola sino agli ultimi giorni della sua esistenza. Se v’ha scuola
antica che meglio le fattezze riproduca dei Pitagorici, che più abbia
di somiglianza, d’affinità coll’Essenato e col Cabbalismo, ella è senza
meno la scuola dei Platonici. Ed a Platone non è niuno che negar possa
il carattere, il genio e la scienza di statista, di cui fece studio
precipuo nelle Leggi, nella Repubblica, ed è a Platone che il gran
placito si attribuisce: Non potersi dare stato perfetto se non dove
il principe è filosofo o il filosofo principe; ed è di Platone che il
Ritter, dopo costatato il pregio e la inclinazione politica, conchiude
in questa guisa: _On voit donc que Platon considère la société civile
comme quelque chose d’utile au particulier, et qu’il croit que c’est
une œuvre louable que de prendre part aux affaires de l’État_. Queste
cose ci diano una idea più adequata dell’Essenato, se frainteso
avessimo sino adesso il suo genio, se creduto avessimo gli Esseni
non dissimili da quegli asceti antichi e moderni, che maledicendo il
mondo e la vita mondana, fuggono lungi dall’umano consorzio solo per
piangerne e imprecarne i vizj, i delitti; che non dànno niun valore
alla vita politica, che stillano nei cuori l’indifferenza, l’apatia,
lo scetticismo politico, che aprono quindi il varco a sensi abbietti
e servili, e quindi operando contro il proprio scopo, non offrono
più per cibo alle menti che il più vile materialismo; oh quanto non
saremmo andati, così giudicando, lungi dal vero! L’Ebraismo, che è il
più perfetto e sublime connubio tra la politica e la religione, era
là per evitarne gli eccessi; e gli Esseni e i Terapeuti e qualunque
altra scuola che nel suo seno sorgesse, non poteva a meno di essere
ebrea, e quindi eminentemente pratica e politica per eccellenza. Perchè
non lo fosse, perchè facesse divorzio dalla vita esteriore, bisognava
che prima facesse divorzio dallo stesso ebraismo, che si separasse
dal suo grembo, che ne rompesse la possente unità; e, mirabile a
dirsi! la storia ci conferma il dettato della ragione, e ci mostra nel
cristianesimo la prima setta che fatto abbia divorzio dall’_ebraismo_,
e nello stesso tempo che abbia fatto divorzio dalla vita politica.

Ma la ingerenza politica che la storia ci mostra nella società degli
Esseni, mise in luce quella virtù più preziosa che gli fece magnanimi,
eroici, tetragoni nelle persecuzioni, e che nuovo e bel riscontro ci
offre colla setta madre dei Farisei. Se Farisei ed Esseni vedemmo
confusi, immedesimati nelle opere del pensiero, delle leggi, delle
pratiche, della morale, delle storiche vicende, confusi ancora e
immedesimati li vedremo nella sventura; e se comuni ebbero gioje,
sapienza e virtù, comuni avranno ancora dolori e martirio. Giuseppe
che ci narrava le prime, ci narra i secondi; e in seno alla sventura,
in mezzo ai roghi e sotto le crudi bipenni, ci fa vedere gli Esseni
e’ Farisei stringersi ancora una volta, unificarsi in un amplesso di
amore. E non solo il fatto principale da Giuseppe narrato lo attesta
ad evidenza, ma le circostanze tutte eziandio che ne costituiscono
l’epoca, i caratteri, le cause dei gloriosi martirj. E se io vado
errato così giudicandolo, ditelo voi, quando udito avrete le parole
di Flavio che io tolgo testuali dal traduttore francese. «_La guerre
que nous avons eue contre les Romains a fait voir en mille manières
que leur courage est invincible. Ils ont souffert le fer et le feu,
et vu briser tous leurs membres plutôt que vouloir dire la moindre
parole contre leur Législateur, ni manger de viande que le Seigneur
défend, sans verser une larme pour tâcher d’adoucir la cruauté de
leurs bourreaux._» Qual ritratto, e quale più proprio e conveniente
ai Farisei! Se ad una ad una tu togli ad esame le circostanze da
Giuseppe narrate, non una vedrai che non si attagli mirabilmente al
lungo e glorioso martirio dei Farisei. Se all’epoca tu guardi, ed è la
guerra d’indipendenza, egli è appunto nelle nazionali riscosse, nelle
crude rappresaglie dei vincitori, che il più puro e sacro sangue si
versava dei Farisei; se al genere guardiamo di morte, al _ferro_, al
_fuoco_, ai _membri lacerati_, ove è strazio che meglio lo strazio
riproduca dei Farisei? se la costanza religiosa nell’indurarlo, ove
è, non dico costanza, ma sereno, ilare e quasi esultante coraggio che
quello superi dei Dottori farisei menati al supplizio? se al ciglio
asciutto, all’orrore di ogni supplica, di ogni bassezza, ei furono tali
nei Farisei, fu sì grande l’animo impavido, ei fu tale il prestigio del
sovrumano contegno che il cuore ammolliva eziandio dei manigoldi; e non
pochi casi si leggono nella storia del martirio, di Dottori che vinsero
i loro carnefici, che ricevendone la morte del corpo, li ripagarono
colla vita dell’anima, e di pagani carnefici ne fecero, per prodigio di
fede, martiri pur essi alla volta loro, e martiri israeliti.

Un’altra storica indicazione della scuola, e avrà termine l’esame del
grande Istituto. Come tutti gli uomini sobri, temperanti e viventi di
una vita spirituale, come tutti i Cenobj antichi e moderni, l’Essenato
esso pure andò famoso per la vita singolarmente longeva dei suoi
seguaci. E chi lo attesta è lo stesso Giuseppe, quando dice che la
maggior parte degli Esseni perveniva all’età di cento anni; e così
dicendo non fa che preludere ai cenni, agli attestati talmudici sui
Farisei. Chi volse solo per poco lo sguardo al Talmud, sa quanto suoni
preziosa pel nostro sistema la deposizione di Flavio; chi lesse nel
Talmud quant’oltre giunse per l’ordinario la vita dei Farisei; chi reca
ancora l’eco distinto di quella frase così ripetuta nei due Talmud:
_Per qual merito vissuto hai vita così longeva_; chi vide quella
straordinaria durata attribuita ai più celebri tra i farisei, e innanzi
a cui resta sgomenta e perplessa la critica istessa; chi queste cose
ebbe per un istante considerato, vedrà nella longevità essenica narrata
da Flavio un nuovo e non lieve riscontro colla scuola madre dei farisei.

E qui ha termine l’esame intorno dell’Essenato. Nell’ufficio da
noi assunto duplice fu il nostro scopo. Esporre la storia tutta
dell’Essenato, e al tempo stesso trarre a mano a mano dalle viscere
stesse di essa storia le prove, i titoli, gli argomenti di quella
identità da me propugnata tra Farisei ed Esseni, e più specialmente
tra gli Esseni medesimi e quella classe di Farisei che si dicono
_Cabbalisti_. Quanto lungi si stese l’esame dell’Essenato, quanto
profondo s’addentrava l’occhio nella contemplazione della sua
_origine_, delle sue _istituzioni_, dei suoi _dogmi_, delle sue
_pratiche_, nelle grandi come nelle piccole parti del grande edifizio,
nelle sue piccole e minute ramificazioni, continuo, splendido,
eloquentissimo risultava il fatto, il gran fatto da noi proclamato,
la _identità essenico-cabbalistica_. Io non presumo avere il grande
subietto esaurito; credo però avere la buona via additata a chi più
pronto l’ingegno, più propizie le occasioni da natura abbia sortito.
Però, coll’esame interno, colle prove intrinseche dell’Essenato non
finisce la dimostrazione della identità essenico-cabbalistica da noi
proclamata. Conclusa eziandio la storia loro, resta un ordine di
prove, che non ha nè può avere attinenza coll’esame interno del grande
Istituto, e che si fonda sempre sopra poche ma momentose circostanze,
che solo esteriormente all’Essenato si riferiscono. Si possono queste
prove dividere in tre capi distinti. Si fondano le prime sopra il
silenzio di antichi autori e monumenti intorno l’_Essenato_, silenzio
che torna eloquentissimo in favore della identità in discorso, come
vedremo tra breve. Consistono le seconde in alcune frasi preziosissime
degli antichi storici delle nostre sètte, le quali depongono, come
vedremo, non meno in favore del nostro assunto. L’ultima e terza
prova è tutta cronologica, ch’è quanto dire, si fonda sopra la
durata che narra la storia delle due scuole, e mostra un sincronismo
significantissimo tra Esseni e Cabbalisti, un sorgere, un declinare
o piuttosto un ascondersi simultaneo che depone altamente in favor
nostro. E prima del silenzio: del quale vorrei che comprendeste
pienamente il valore. Che vuol dire un argomento tratto dal silenzio
semplicissimo dei monumenti? Vuol dire consultare gli storici, i
monumenti contemporanei, interrogare coloro che per officio storico,
per posizione, per carattere, per rapporti necessari, sono i naturali
e proprj narratori delle sètte contemporanee; vuol dire cercare tra
le scuole, di cui v’è menzione, la scuola degli Esseni, ed ove solo
degli Esseni si serbi un singolare silenzio, ove ogni altro motivo di
questo tacere sia eliminato, concludere logicamente, trionfalmente la
identità della setta della scuola taciuta, con quella fra le scuole
rammemorate colla quale maggiori e più sentite corrono le somiglianze,
le analogie. Determinato così il valor teorico dell’argomento in
discorso, vediamolo alla prova nel presente subietto. Due sono i libri
ove a buon diritto ci dovremmo attendere una esplicita e diffusa
menzione della società degli Esseni, per i tempi, per le lotte, per il
subbietto istesso che evocare dovrebbero ad ogni istante la presenza,
la memoria dell’Essenato. E questi due libri sono i monumenti ebraici
e cristiani contemporanei, il _Vangelo_ e il _Talmud_; e per _Vangelo_
intendiamo tutti gli scritti evangelici, e per Talmud le opere tutte
della Enciclopedia Rabbinica dei primi secoli dell’E. V. Parlano eglino
i Vangelisti, parlano eglino i Dottori nostri del grande Istituto? Sì
certo che ne favellano ove il nostro sistema si adotti; quando si vegga
cioè in tutti quei luoghi ove è menzione degli asceti talmudici, un
vestigio dell’Essenato; ma ciò che chiediamo, è diretto agli avversarj;
a coloro che tentati fossero di ricusare la identità da noi proclamata,
ove chiariti fossero inefficaci gli argomenti sin qui allegati, egli
è a costoro che noi chiediamo, se il nome essenico vi è pronunziato,
se diretta propriissima rimembranza ricorre nei libri citati, e la
risposta non potria essere dubbiosa. Tacciono i Vangelisti tutti della
società degli Esseni; tacciono gli immensi volumi talmudici; e se
il silenzio loro è rotto tal fiata da quei brevi comunque parlanti
accenti in cui il nome si ode, per un istante, del nostro istituto,
egli è da una parte troppo scarsa memoria di tanta scuola, egli è
dall’altra così spiccante il carattere farisaico in tal menzione, che
anzichè rivocare in dubbio la identità tra le due scuole ne formano
invece la più bella conferma. In una parola: il silenzio è generale e
costante nei Vangeli, presso che generale eziandio e costante nei libri
talmudici. Donde questo fenomeno singolarissimo, d’onde quest’anomalia
storica, questa lacuna nella schiera numerosa, illustre delle sètte che
intervengono, che parlano, che agiscono, che disputano, che si laudano,
che s’infamano scambievolmente, nei Vangeli, nei libri talmudici?
Grande è il problema e tale che l’attenzione si meritò dei più grandi
scrittori. Non dirò che del Basnage, il quale, siccome noi, chiedeva
a sè stesso in qual guisa si tacesse il Vangelo, della società degli
Esseni. Come rispose il Basnage alla grave domanda? In modo, è uopo
dirlo, ch’è ben lungi dal sodisfare, benchè duplice soluzione abbia
proposto alla presente ricerca. Disse in primo luogo come gli Esseni
non uscendo dai loro ritiri per disputare con Gesù, non fossevi quindi
occasione di rammentarli nelle dispute evangeliche. S’appose egli il
Basnage così sentenziando? Io forte ne dubito. Che gli Esseni amassero
la vita contemplativa non si nega, ma quanto andrebbe errato chiunque
far ne volesse altrettanti solitarj e anacoreti della Tebaide! Lungi
dal separarsi dal consorzio sociale, lungi da fuggire il mondo e la sua
vita, niuno meglio di essi conciliar seppe la vita attiva e la vita
contemplativa, niuno più volontario si sobbarcò ai doveri, agli offici
politici, sociali; e se v’è carattere che più distingua gli Esseni
di Palestina dai Terapeuti d’Egitto, egli è appunto quel genio, più
spiccato nei primi, quella speciale predilezione per la vita pratica,
esteriore ed attiva. D’onde dunque il silenzio degli evangelici? Dallo
scarso insignificante numero degli Esseni, dice in secondo luogo
il Basnage. Ma quanto inconsideratamente! Non vide il Basnage come
menzione vi sia negli scritti evangelici di sètte ben altrimenti oscure
che non gli Esseni, qual fu a mo’ di esempio quella degli _Erodiani_
ivi rammemorata: non vide, come l’Essenato sia, a detta di Flavio,
insieme ai Farisei ed ai Sadducei, una delle tre grandi divisioni in
cui si partiva l’Ebraismo contemporaneo: non vide come le sètte non
si contino ma si pesino; e non vide infine come l’Essenato, sendo per
sua natura ascetico superlativo, non poteva non offrirsi numericamente
inferiore alle altre sètte, perchè non molti sono gli uomini i quali
aspirano a una vita, a una perfezione straordinaria.

Ma per tacere del Basnage, io lessi del silenzio degli Evangeli una
ragione che, se non è certo più solida di quelle esposte sin ora,
è certo più di esse speciosa, e poco manca che a prima giunta non
ti seduca.—Ad udire certuni, se gli Evangeli non favellano degli
Esseni, egli è perchè mentre il Cristianesimo pugnava colle altre
scuole, mentre dichiarava la guerra agli _Scribi_, ai _Farisei_ ed
ai _Sadducei_, fu tutto _stima_, amore, concordia colla società degli
Esseni, da cui nacque, con cui ebbe comuni e la sostanza e la forma
esteriore, il dogma, il culto, le istituzioni.—Non è ella cotesta
la parodia, e la contraffazione del vero? Noi diciamo tutto questo
dei Farisei, noi spieghiamo il silenzio farisaico colla identità
essenico-farisaica, come il sistema che combattiamo spiega il silenzio
evangelico colla identità fra Cristiani ed Esseni, e forse potrebbe
credersi che non possiamo combattere la identità essenico-cristiana
senza per ciò stesso ferire la identità essenico-farisaica, ambe
poggiando sullo stesso argomento, il silenzio talmudico e il silenzio
evangelico. Se così fosse, io mi troverei in un bivio pericoloso: non
potrei impugnare l’arme contro il nemico senza ferire me stesso, senza
soffocare prima di nascere uno degli argomenti più concludenti del
mio sistema. Saremo noi condannati a rinunciarvi? Io non lo credo,
purchè si voglia mirare a una radicale differenza che corre tra i due
casi. S’egli è vero che il Cristianesimo ebbe rapporti strettissimi
coll’antico Essenato, se s’inspirò in quella scuola, se ne trasse i
caratteri più prominenti, se tutto questo e anco più concedessimo agli
avversarj, ci rimarebbe sempre un punto di divergenza che eglino stessi
non ci potrebber negare. Che dico? che non potrebbero contestare senza
moralmente suicidarsi, senz’abdicare a ogni titolo di storica, di
religiosa considerazione; vale a dire la rottura, lo scisma dall’antico
ebraismo. Se il Cristianesimo non si separò dagli Esseni, se rimase
una sol cosa con essi, se non dilungossi dal grembo ortodosso, e se
per questo ne tacciono gli Evangeli, ch’ei rifaccia tutta la via che
da noi lo divide, che risalga la corrente che lo ha recato da noi sì
lontano, che si riduca infine nella ebraica periferia, se pure la
pretensione ei vuol mantenere di essere lo stesso Essenato.—Ma se
_nuova_ è la legge, _nuovo_ il testamento, se proclamò sino dal nascere
falso ciò che vero confessavano gli Esseni, e vero quello che falso, se
rigettò la tradizione ch’era l’anima dell’Essenato, se dichiarò irrite
le leggi cerimoniali, se annunciò l’umanazione del verbo incognita e
blasfematoria agli Esseni, perchè dunque degli Esseni non si favella,
perchè non si veggono con essi quelle dispute, quelle lotte che cogli
altri si vedono così frequenti?

Ma su, pognamo che vero sia tutto quello che dagli avversarj si chiede,
che nulla ci corra tra Cristiani ed Esseni, che il Cristianesimo sia
lo stesso che l’Essenato, e che per questo non vi fosse luogo di farne
menzione negli Evangeli. È egli per questo a bastanza spiegato il
silenzio evangelico? Non dovrebbe anzi per ciò stesso invocare a ogni
tratto gli Esseni? Non dovrebbe fondarsi sopra un passato venerabile,
ammesso ortodossissimo, qual fu l’essenico Istituto? Non dovrebbe
cuoprirsi colla sua egida? Non dovrebbe valersi del loro nome per
mostrare com’ei fosse meno novatore di quel che lo reputavano?

Che se le ragioni allegate dal Basnage non valgono a spiegare il
silenzio evangelico, se tutte le ragioni anzi avrebbero dovuto indurre
gli Evangelisti a parlarne, se nonostante niuna menzione se ne legge,
non resta che una possibile spiegazione, ed è quella che si fonda sulla
identità degli Esseni con una di quelle scuole di cui è veramente
menzione negli Evangeli. Tra le quali niuna più offre caratteri
innegabili d’identità col nostro Istituto di quella dei Farisei. Il
nostro sistema dunque non ha soltanto i caratteri intrinseci di verità;
ma giova ancora a spiegare alcuni problemi storici finora insoluti.



LEZIONE QUARANTESIMAPRIMA.


Nella passata Lezione veduto abbiamo il silenzio degli Evangeli intorno
la società degli Esseni e la sua spiegazione. Ma il silenzio evangelico
non è il solo a deporre in favor nostro. I libri talmudici, noi lo
abbiamo veduto, non sono certo così sterili di dati, di cenni più o
meno diretti della società degli Esseni, come sinor fu creduto, ma
non ci porgono però le esseniche allusioni che ove siano secondati
dal nostro sistema, e pertanto ne suppongono fino a un certo segno
la verità. Possiamo però supporre per un istante che tutti i cenni,
le allusioni talmudiche siano come non fossero; possiamo dire che il
silenzio talmudico sia così profondo, così completo come finora fu
ammesso. In questa ipotesi stessa, come spiegarne il silenzio? Come
avvenne che il Talmud così pieno di allusioni alle sètte contemporanee,
ai _Sadducei_, ai _Minei_, ai _Galilei_, alle divisioni e suddivisioni
dei _Farisei_, ai _Cuttei_ o _Samaritani_, ai _Dualisti_, alle sètte
primitive del Cristianesimo, niuna ci offra menzione di quella ben
altrimenti nobile illustre famosissima dell’Essenato? Il nostro sistema
ha già risposto al grande problema. Ma ove pure negar si volessero i
resultati, in qual guisa spiegarne il silenzio? O io erro, o l’unica
possibile soluzione è la identità degli Esseni con una delle scuole
del Talmud rammentate, per cui di questa favellando, di quella pure
implicitamente si favelli. Ed ove tra quelle di cui si parla nei libri
talmudici discernere si voglia quella che meglio ai caratteri risponde
dell’Essenato, io credo che ogni critico di buona fede non esiterà a
rispondere; e nella eletta parte dei Farisei, nei Teologi della scuola,
vedrà i fedeli rappresentanti dell’Essenato nei libri talmudici. Ed
ecco come per due vie opposte si giunga alla mèta medesima, come tanto
nell’ipotesi del silenzio talmudico, quanto in quella della esistenza,
ivi stesso di parlantissimi cenni giungere si debba inevitabilmente al
medesimo resultato, vale a dire alla identità degli Esseni colla più
eletta parte dei Farisei.

Ma il Vangelo e il Talmud non sono i soli ad attestare col loro
silenzio la identità da noi propugnata. Vi è un altro non meno
significante documento in proposito che col suo silenzio egualmente
depone in favor nostro, e questi è _Giustino_. S. Giustino, da cui
molto si può imparare intorno la polemica _ebraico-cristiana_ dei primi
secoli, ci offre un elenco delle sètte allora esistenti nell’Ebraismo.
S. Giustino conosceva gli Esseni; non basta; ei fa l’onore di
annoverare tralle sètte dell’ebraismo quelle eziandio che infinitamente
più oscure dell’Essenato non lasciarono, si può dire, di sè memoria
se non il nome; e pure gli Esseni soltanto sono quelli di cui si tace
assolutamente da Giustino. Questo silenzio non può avere altra causa
tranne quella da noi accennata; vale a dire l’identità degli Esseni con
alcuna delle sètte ivi stesso da Giustino rammemorate, e pei caratteri
innegabili di strettissima affinità con quella dei Farisei, di cui sono
gli Esseni la parte più nobile e più illustre.

Ma oltre le prove tratte dal silenzio degli _Evangeli_, del _Talmud_ e
di _Giustino_, vi è un passo nel nostro Giuseppe che, per chi ben lo
intenda, depone altamente in favor della identità da noi propugnata. Ed
è quello nelle _Guerre Giudaiche_ al Cap. XII, ove narra Giuseppe il
nascimento di una quarta setta creata da un Giuda, del quale egli narra
le gesta e la vita. Giuseppe così si esprime: _Questo Giuda fu autore
di una quarta setta di cui la prima è quella dei Farisei; la seconda
dei Sadducei; la terza degli Esseni, ch’è di tutte la più perfetta_.
Giuseppe, voi lo udite, chiama la setta degli Esseni, _di tutte quante
la più perfetta_. Giuseppe ne loda, ne esalta i pregi singolarissimi;
Giuseppe, il _Fariseo_ confessato, il _Fariseo_ illustre, l’apologista
eziandio dei Farisei. Io lo chieggo agli uomini di buona fede: avrebbe
egli così parlato Giuseppe, avrebb’egli chiamato la setta essenica
_di tutte la più perfetta_, se gli Esseni come i Sadducei dissentito
avessero profondamente dai Farisei, se formato avessero una scuola
nemica, se la parte anzi non fossero stata più eletta, più illustre del
farisato medesimo?

Noi abbiamo finora veduto quanto valga il silenzio degli Evangeli,
del Talmud, di S. Giustino, e quanto le parole stesse di Giuseppe in
favore della identità da noi propugnata. Qui non hanno però termine
gli argomenti estrinseci che formano di questa lezione il subbietto.
Vi sono quelli che abbiamo detto _cronologici_ e _storici_, e di
cui vado adesso a darvi contezza. E sono a due punti riferibili, i
più prominenti della essenica esistenza, a due momenti principali
di loro vita, a quelli che contrassegnano l’apogeo e il perigeo,
lo stato più florido e la decadenza, o per dir meglio la scomparsa
dello istituto dalla scena del mondo. Ed ambi ci forniscono novello
argomento in favore del nostro sistema. Il momento più bello della
esistenza dell’_Essenato_ egli è quello senza meno, in cui scrisse
Filone, vale a dire il primo secolo dell’Era Volgare. Allora l’Egitto
e la Palestina offrivano, nel duplice ramo di _Terapeuti_ ed _Esseni_,
tutte quelle istituzioni, dottrine, tutti i costumi di cui si fecero
storici Giuseppe e Filone, e le offrivano in tutta la pompa e la forza
del loro sviluppo. Allora _Esseni_ e _Terapeuti_ avevano e studiavano,
al dire dei medesimi, libri speciali, veneratissimi trasmessigli dai
loro maggiori. Ma che dico? Scorrono già due secoli: siamo ai tempi di
Alessandro Severo, e di Porfirio filosofo; e Porfirio non rifinisce di
laudare l’istituto degli Esseni, e tante sono le lodi che gli profonde,
che il cardinale Baronio non esitava di asserire, confortato eziandio
da altri indizj, non potere non essere esso Porfirio di origine, di
nazione israelitica. Tanto che non si può muover dubbio che sino nel
terzo secolo dell’Era Volgare vi era l’Essenato, pieno di vita ed
in perfetta possessione delle sue istituzioni e dei suoi libri. In
qual guisa sì repentina scomparsa? In qual guisa si ecclissò il sole
essenico, si può dire in sul meriggio? In qual guisa scomparvero ad
un tratto le sue istituzioni ed i suoi libri? Che lo istituto siasi
spento senza seguire le leggi regolari, ordinarie di ogni vita sociale,
senza percorrerne le fasi tutte di declinazione e di decadenza, è già
tal supposto che nulla può darsi di più strano, di più inverosimile,
è già per se stesso uno dei più parlanti riscontri colla parte più
eletta, superlativa, teologica, della scuola dei Farisei. La quale
presente nei libri più antichi del Rabbinato talmudico, presente nella
Misna, nei Medrascim, nell’uno e nell’altro Talmud, sparisce poi dalle
scritture rabbiniche posteriori, sparisce collo sparire del Dottorato
talmudico, e sparisce, lo che più monta, in quel punto istesso in cui
sparisce dalla storia la società degli Esseni, e col simultaneo suo
sparire giova mirabilmente ed al sistema d’identità da noi propugnato,
ed a rispondere trionfalmente allo argomento degli avversarj i quali
trar vorrebbero dal silenzio del Rabbinato postalmudico nuovo pretesto
a negare l’antichità, l’autenticità cabbalistica. Noi torneremo
sull’argomento presente quando il secondo punto toccheremo della loro
scomparsa. Noi dobbiamo notare adesso un nuov’assurdo ch’emergerebbe
dal rifiuto del nostro sistema. Se gli Esseni e i Terapeuti non sono i
medesimi Cabbalisti; se la scuola non si è perpetuata sott’altro nome
nella scuola dei Cabbalisti; se i loro libri, le loro opere, i loro
scritti, che redato avevano, come dice Filone, dai loro maggiori, che
formavano, come attesta egli stesso, oggetto precipuo, amatissimo dei
loro studj, non si perpetuarono, non si trasfusero in quelle opere che
la scuola serbò gelosamente dei Cabbalisti; se questi libri ai tempi
di Filone, ai tempi eziandio di Porfirio, erano in fama grandissima, e
oltremodo studiati e venerati presso gli Esseni, in qual guisa spiegare
la loro subitanea e completa scomparsa dalla superficie del mondo;
in qual guisa libri diffusi, meditati, venerati non lasciarono di sè
traccia veruna? Io comprendo che libri preziosi celebratissimi siensi
in breve ora perduti, che sieno stati anzi distrutti, o per scarsezza
di esemplari svanissero dalla faccia del globo; ma che libri, non solo
religiosi, non solo autorevoli, ma libri eziandio incarnati colla
esistenza stessa di un istituto vivacissimo, anzi, colla fede, colle
dottrine di un popolo tuttavia vivente; che libri i quali esprimono,
senza meno, il grado più eccelso del suo intellettuale sviluppo, siensi
perduti in modo sì intero, sì assoluto, sì irreparabile, egli è tal
fenomeno bizzarrissimo ch’io non riesco a comprendere. Ma se i libri
essenici sono quei medesimi che compongono la Biblioteca cabbalistica,
o almeno se le idee, se le dottrine che li contessevano, si travasarono
sott’altra forma nelle opere e negli scritti dei teosofi; in fine se
il nostro sistema non è bugiardo, l’asserzione di Filone non è più
contraddetta dai _fatti_, e il più strano fenomeno che siasi mai dato
nella istoria cede il luogo al più normale e verosimile andamento
nella seguenza dei fatti.

Ora diremo del secondo punto di contatto che ci offre la Storia tra
le due scuole nel momento in cui spariscono dalla scena del mondo;
gli uni, i Cabbalisti, dai libri posteriori al Talmud; gli altri, gli
Esseni, dagli storici, dai cronisti posteriori a Giuseppe e Filone,
ai primi Padri della Chiesa e Porfirio. Io dissi, non ha guari, che
meglio che scomparsa, meglio che estinzione, si dovrebbe chiamare
questo sottrarsi degli _Esseni cabbalisti_ dalla scena del mondo
un’_ecclissi_ temporaria, un ritiramento nelle più segrete latebre
dell’Ebraismo, uno ascondimento precario a guisa di quei fiumi che
ad un tratto avvallando e sprofondandosi nelle viscere della terra,
si aprono una via sotterranea per miglia non poche, onde erompere di
nuovo alla superficie del globo e lo antico corso seguire alla luce
del sole. Due cose sono da notarsi in questo fatto importante: la
causa che lo ha prodotto; lo insegnamento prezioso che ci porge, e
i nuovi riscontri in favore della identità da noi sostenuta. Della
causa si vorrebbe discorrere con ampiezza maggiore di quella che qui è
concessa, tanto parmi rilevante e connessa coi più grandiosi problemi
della storia contemporanea. Pure è bene che qui ne abbiate almeno un
cenno. E per averlo meno inadeguato che è possibile, mestieri è che vi
riduciate a memoria come tre grandi avvenimenti segni la Storia circa
all’epoca istessa, vale a dire, nel terzo o quarto secolo dell’èra
volgare. Il primo è il trionfo definitivo del Cristianesimo. Il secondo
è la formulazione definitiva della tradizione nei libri talmudici. Il
terzo è la scomparsa, è l’eclissi di una dottrina che fatto aveva per
lo mondo romore stragrande sotto tre forme particolari, ma una sempre,
e la stessa nella sostanza; e le tre forme sono l’_Essenato_, il
_Cabbalismo_ e la _Filosofia alessandrina_ rappresentata da _Ammonio
Sacca_, da _Platino_, da _Porfirio_, da _Samblico_ e da _Proclo_.
Questo sincronismo, questa contemporaneità dei tre grandissimi eventi,
non è a caso. In gran parte, si può dirlo arditamente, i due ultimi
fatti, la _formulazione della tradizione, e la scomparsa dell’Essenato,
del Cabbalismo e dell’Alessandrinismo_, essere conseguenza più o meno
diretta del primo e momentosissimo fatto, voglio dire il _trionfo del
Cristianesimo_. Il quale dopo avere a lungo lottato coll’Ebraismo
da cui tratto avea il nascimento, colla civiltà e colla filosofia
alessandrina con cui ebbe più di un tratto di somiglianza, finì col
prevalere sulle due forme rivali, sulla forma religiosa trionfando
dell’opposizione del Giudaismo, sulla forma civile e filosofica
trionfando della opposizione dell’Essenismo. Vinti nel mondo esteriore,
spodestati dal Cristianesimo trionfante, _Essenismo_ e _Giudaismo_,
disperando oggimai di lottare e di vincere, pensarono almeno a
conservarsi, a custodire pei tempi avvenire il pensiero, l’idea di
cui erano depositari. Ambi lo fecero, ma ognuno in quel modo che più
tornava acconcio al suo genio, ai suoi destini: l’_Essenismo_ depose
la stola di sacerdote e ispirò le lettere, le scienze, la filosofia
della società riformata per comparire di nuovo ed invadere, ad èra
meglio opportuna, il dominio istesso della religione e del culto.
L’_Ebraismo_, che il trionfo veduto aveva della forma sorella, ma
non meno per questo rivale, che appunto per le affinità che tra esse
correvano, doveva ragionevolmente temere di essere da quella avvolto,
circonfuso, assorbito, che vedeva il mondo confonderli, immedesimarli
nella stessa esecrazione o nello stesso rispetto; l’Ebraismo avendo
invano combattuto, osteggiato ciò che dal Cristianesimo lo divideva,
pensò a difendersi, a premunirsi contro di quello che al Cristianesimo
il congiungeva. Se durante le lotte ci furono le discrepanze a temere,
ci furono per contro dopo il trionfo le somiglianze. Quell’ombra
vana, quel ricordo lontano, quel simulacro di Ebraismo che la Chiesa
ostentava, era il pericolo massimo per la esistenza del nome ebraico.
Quel centro possente di Pseudo-Ebraismo che si andava formando in
Costantinopoli e in Roma, era un’aperta voragine dove precipitate
sarebbero il nome e la fede ebraica, dove gli animi ebraici inquieti,
perplessi in quell’istante critico di rottura fra le due forme, e non
sapendo da qual parte fosse il vero, l’antico Ebraismo avrebbe con
facile apostasia disertato gli antichi vessilli. Quindi nei Dottori,
nei Padri del popolo, il grande studio di definirsi, quando quello
spettacolo grande che somiglia ad un esercito avvolto nelle tenebre
per vie nuove e inesplorate, che per riconoscersi, per distinguersi
dagli inimici, moltiplica i contrassegni con assise, con motti, con
armi diverse; quindi in una parola lo studio, come dissi, di definirsi:
definirsi nelle leggi, negli usi, nelle credenze colle più precise
e formulate sanzioni dell’opere scritte, e al tempo istesso con
concentramento, con ritiramento della vita e del pensiero ebraico nelle
più segrete latèbre del popolo nostro. A quel moto di espansione che
prodotto aveva i _Filoni_, gli _Aristobuli_, i _Flavii_ e le lotte
rabbiniche colle sètte contemporanee, sottentrò un moto contrario di
ripiegamento sopra se stessi, e per meglio conservarsi, e per meglio
serbarsi intatti e possenti per l’avvenire. Ma questo internamento del
pensiero ebraico si verificò in quella misura che più si richiedeva,
secondo l’importanza e la gelosia delle dottrine. S’egli è sensibile
in tutte le parti dello scibile ebraico, egli è sommo e cospicuo
per ciò che riguarda la parte più riservata di quelle dottrine, la
riposta teologia che si chiama _Essenato_ nella Storia, che ha nome
tra i Rabbini di _Cabbalismo_. Dopo il trionfo del Cristianesimo il
silenzio è completo intorno gli Esseni, non meno completo intorno
la scuola i cui fasti sono contenuti nel Talmud sotto il nome di
_Pardes, Sitre tera Maase Mercaba_. Se questo è il fatto, e fatto
accertato, non meno ovvia riesce la spiegazione dopo le cose discorse.
Ambi, _Essenato_ e _Cabbalismo_, o per dir meglio il Cabbalismo sotto
il duplice nome, non appena fatto avevano di sè mostra nel mondo,
non appena ne furono alquanto divulgati i misterj, non appena si fe
segno di voler deporre i veli opacissimi che il nascondevano, che il
romore si levò grande tra gli Ebrei e fuori, che i dogmi ne furono
fraintesi, che gli insegnamenti abusati, che le teorie mischiate a
teorie sconosciute e straniere, e che dallo strano mescuglio sorse un
_Pseudo-Essenato_, un _Pseudo-Cabbalismo_ che si disse Cristianesimo,
e che non fu altro in origine che un Cabbalismo equivocato. Quando la
lotta pubblica esteriore finì col trionfo del Cristianesimo, videro i
Dottori nostri quali amari frutti raccolto avevano dalla non troppo
gelosa custodia dei loro misteri, dalla non troppo gelosa scelta dei
loro cultori. Quindi l’antico e vero Cabbalismo si ritira innanzi il
più fortunato rivale, quindi un silenzio, un segreto più assoluto, e
per cansare ogni contatto col Cristianesimo vittorioso, e per togliere
ogni causa di nuovo abuso, di nuovi errori, di nuovi scismi e quindi
quell’ecclissarsi instantaneo dal mondo rabbinico del Cabbalismo
talmudico, che sarebbe il più difficile e insolubile problema se non
avesse la più ovvia e natural spiegazione nei fatti e nei pensieri
discorsi.

Ma non solo perdiamo il Cabbalismo di vista col trionfo del
Cristianesimo, ma l’Essenato eziandio cessa di comparire sulla
scena del mondo, nell’epoca istessa in cui l’altro scompare; grande
insegnamento, e che sarebbe già per sè stesso fecondo, ove ancora ogni
altra circostanza mancasse che nel tramontare delle due scuole nuovo
segno non ci additasse d’identità. Ma questa circostanza esiste, ed
esiste troppo eloquente perchè qui non si accenni. È il nome che narra
la Storia aver recato gli Esseni sul declinare di loro esistenza, è il
nome che unanimi gli assegnano gli ultimi storici della scuola, il nome
di ABITANTI DEL CIELO. Se gli Esseni si dissero _abitanti del Cielo_,
se la Storia fedele registrava questo epiteto, ci pare che abbia
voluto fornirci la più bella gemma con cui suggellare possiamo questo
monumento di amore, di studio, di ammirazione ch’elevato abbiamo in
onore della gran scuola. Non dirò del nome già abbastanza parlante di
_Angioli_, _Malahe_, _Aseiaret_, recato indistintamente dai più dotti
dei Farisei, e che veduto abbiamo usato eziandio dal Cristianesimo
nascente, quando i suoi vescovi chiamavansi col nome di Angioli. Ma
tacere non si deve di una più propria, più speciale, più decisiva
appellazione; e più decisiva perchè unica in tutta la Biblioteca
talmudica, e sopratutto perchè quell’unica volta è posta in bocca di
quello, che se Esseni v’ha tra i Dottori, è l’Esseno per eccellenza,
voglio dire _R. Simone Ben Jhoai_. Egli è là ove, deplorando lo scarso
numero dei seguaci, le fila diradate del _Pardes_, il declinare sempre
più sensibile della scuola, pronunziava la grande, la eloquente parola.
Diceva R. Simone Ben Jhoai: _Veggo gli_ ABITANTI DEL CIELO _in numero
scarso. Se dieci sono, io e il figlio mio siamo tra i dieci. Se due
sono, io e il figlio mio, siamo quei due._ E questo nome di ABITANTI
DEL CIELO l’usa Ben Jhoai, l’Essena per eccellenza, l’usa allora
appunto che vuol accennare alla decadenza della scuola, vale a dire
allora appunto quando la Storia accenna averlo assunto lo Essenato, e
l’usa nel Talmud, libro non dubbio, non controverso, e che autorevole
favella agli amici come agli avversari della verità cabbalistica.

Ah! dopo questo prezioso trovato, possiamo chiudere contenti questa
Storia dell’illustre Istituto; possiamo dire addio contenti a quegli
spiriti beatissimi; possiamo togliere commiato da costoro che nel
dipartirsi ci invitano a salutarli col titolo di ABITANTI DEL CIELO;
possiamo riconoscere in essi, i nostri Dottori più illustri e più
santi; e col dolce nome salutarli di _Padri_ e maestri del nostro
popolo.

Ed a voi una parola ancora pria di separarci. Se fu bello ed onorevole,
se fu soave all’animo mio il vedere i miei esordj incoraggiti con tanta
affluenza di uditori; se titolo giusto si acquistarono pur essi alla
mia gratitudine, egli è certo che l’onore più grande, che l’affetto
più sentito spetta a coloro che perseverarono. Grazie vi sien rese, e
grazie sincere. Voi muoveste costanti nella via in cui m’inoltrava;
voi porgeste assidui l’orecchio alle mie Lezioni; voi comprendeste
quanta importanza si nascondesse per entro a certi studj, che ai
frivoli, ai semidotti, agli _ameni_ anco nelle lettere e negli studj,
potrebbero sembrare per avventura destituiti di ogni momento; voi
toglieste a cuore l’onore di questa città che dopo essersi annunziata
al mondo iniziatrice di nuovi studj, imitatrice della seria letteratura
germanica, riscuotitrice del sonno che ne gravava le ciglia, sarebbe
caduta senza di voi, in onta e in deriso presso l’Ebraismo universale.
Imperciocchè, s’ella è vera sentenza per ogni culto, ella è verissima e
santissima pel culto ebraico. Il vero Tempio, le vere glorie, le vere
bellezze, il vero decoro meglio che nei marmi e nei fregi esteriori,
sono nell’uomo interno, nel suo sapere, nella sua cultura, negli studj
in cui si adopera, nel Tempio, a tutto dire, dell’animo suo, senza di
cui ogni pompa esteriore è vana e ridicola ostentazione di _Fede_, di
_Religione_ bugiarda.

                                 FINE.



                                 NOTE:

[1] Sicarj si chiamavano i _terroristi_ ebrei che volevano spinger
la resistenza alla signoria straniera sino all’estremo e con tutti i
mezzi. I Vangeli, se non erro, vi alludono.

[2] Udremo fra non molto Plinio, qualificare gli Esseni col nome di
_gente che non muore mai, e tra cui niuno nasce_.

[3] A quai paesi corrisponde la nordica regione del Caucaso? Se io non
vado errato, ai paesi anticamente conosciuti sotto i nomi di Frigia
e Bitinia. E questi paesi che nomi recano nella Santa Scrittura?
Null’altro, dice il Bochart, e dopo di esso autori parecchi, che
quello di Aschenaz. E per quanto _Askenaz_ suoni diverso nella
lingua ultima dei Rabbini, e nel valore che l’uso da lungo tempo gli
annette, quello cioè di Germania; nonostante, ai Dottori, organi
veri, legittimi di tradizione, non mai avvenne usare per Germania
_Askenaz_. Che dico? Sono essi per contro che il suggello appongono
alla Interpretrazione del Bochart, e tutto il peso vi aggiungono del
numero e della tradizione. Abbiamo detto, non è molto, il Parafrasta
di Gerusalemme tradurre Aschenaz per Asia: ora non è egli solo che
all’uopo ci ajuti. Egli è il _Rabba_, che l’_Askenaz_ della Scrittura
ci presenta in Asia. Egli è altresì il Talmud di Gerusalemme, che
_Asia_ egualmente sostituisce ad _Askenaz_. Non basta: ma, cosa più
sorprendente, vi ha un nome d’un popolo tra i figli di Jafet e tra
i popoli Giapetidi, che il nome reca di Tubal. Ora, o signori, che
cosa è Tubal? _Bitinia_, vi risponde aperto il Talmud Jerosolimitano;
_Essenia_, vi risponde aperto egualmente il Medras. Duplice asserzione
che a vicenda si rischiara, che a vicenda s’illustra, che ci rimena col
pensiero alla Bitinia, che, secondo Tolomeo, il Klaproth e il Dubois,
fu specialmente contrassegnata col nome di _Asia_. Egli è, insomma,
quel cumulo maggiore di prove che sia lecito desiderare onde mettere
in sodo la esistenza di una particolare regione denominata Asia, e per
giustificare il Talmud.

[4] Si dice, è vero, Scuola _eleatica_, _cirenaica_ ed _itala_; ma non
si dice, od appena, _eleati_, _cirenaici_ ed _itali_.

[5] Vi sono alcuni testi rabbinici antichi, che farebbero credere
essere stati piuttosto i discepoli di Zadoc e Baitos, ch’eglino
medesimi, i fondatori delle sètte di questo nome. Ma posto ciò
eziandio, riman ferma la esistenza storica di Baitos, e la derivazione
da esso del nome della setta. Quanto ai Sadducei, setta a questa
collaterale, la critica moderna si è permessa da poco in qua un
congetturare senza limiti e senza freno. Lo spirito caraitico e
antitradizionale che informa alcuni distinti suoi corifei, fece trovare
nel nome di Sadducei un senso eminentemente encomiastico, facendolo
derivare da Zaddik, _giusto_. Altri fece risalire i _Sadducei_ a
_Zadok_, antico sacerdote a’ tempi di Salomone, e vide per conseguenza
in essi un partito _sacerdotale_. Il Sig. _Renan_, nella recente sua
opera _Vie de Jesus_, fece altrettanto rispetto al _Baitusei_, che
volle derivati da un _Böethus_ pontefice di questo nome. Sarebbero,
dunque, e _Sadducei_ e _Baitusei_ della famiglia sacerdotale. Qualunque
sia il fondamento di questa congettura, egli è certo che il sacerdozio
costituiva ai tempi di G. C. un partito ostile ai _Farisei_, tanto
per le tendenze politiche, quanto per le dottrine religiose. E di ciò
abbiamo autorevoli documenti nel Talmud, nè il sig. _Renan_ ne dissente
minimamente. Solo ci pare ch’ei non tragga tutte le conseguenze che da
questo fatto derivano, nella discussione dei grandi problemi ch’ei si è
proposto. Ma qui non è luogo a parlarne.

[6] Il nome talmudico Baitos è identico al _Bœthus_ pagano. Vi fu un
Bœthus stoico, contro cui scrisse Porfirio un Trattato sull’Anima. V.
_Enneades de Plotin, trad. par Bouillet: Paris_. Vol. II, p. 68.

[7] Il Talmud è pieno di allusioni alla setta dei Baitusei; e quanto
di essa si legge, delle dottrine e costumanze, nulla offre di analogo
a quanto sappiamo d’altronde di certa scienza intorno la società degli
Esseni.

[8] L’illustre sig. Frank, autore della _Kabbale_, notò a buon
diritto come nella identificazione suprema dell’Essere e del Pensiero
precorresse la Teologia ebraica alle ultime dottrine prevalse in
Germania. Ciò che ci reca ad una più alta antichità, che ne fa
risalire alle Bibliche sorgenti, e che perciò stesso rivela nelle
viscere dell’idioma biblico l’arcana dottrina teosofica che per entro
vi circola, è questa sinonimia profonda di Essere e Pensiero nella
radice _Ies_, onde qui si discorre. In un ordine poco diverso d’idee
abbiamo, nel verbo _Iadah_, conoscere, un’altra non meno ammirabile
sinonimia di _Conoscenza_ e _Amore_. Noi renunciamo a citare il nome
di Benedetto Spinosa, e ciò che nella sua _Etica_ pertratta. È noto
come i due attributi della Sostanza sieno per esso il _pensiero_ e la
_estensione_; e ciò che vi ha di acroamatismo ebraico nelle dottrine
di Spinosa, ciò che costituisce la sua deviazione dall’acroamatismo
ortodosso, ci studiammo di porre in luce in un articolo in idioma
francese dettato, nel quale prendemmo a rilevare alcune mende nelle
quali ci sembrò incorrere l’illustre sig. Emilio Saisset, nell’egregio
suo lavoro pubblicato dalla _Revue de deux Mondes_ intorno a
_Maïmonide_ et _Spinosa_.

[9] Solo nel secolo scorso, e tra gli Enciclopedisti sarebbe suonata
una eresia filologica l’additare nell’Ebraico l’origine di un
vocabolo greco. Erano costoro così lungi dall’immaginarne perfino la
possibilità, che tra le più speciose obbiezioni che mossero contro
la originalità e santità delle sacre scritture, sì fu il nome di
Giove pagano, che dissero origine e modello del nome ineffabile del
Dio d’Israel, senza riflettere che gli Ebrei avrebbero dovuto andare
a cercare il tipo immaginario non già in Grecia ove Giove ebbe nome
_Zeus_, ma in Roma, anzi in Etruria, sin dove lo raggiungono gli studj
moderni. Per essi, il Sole delle origini non sorgeva più dall’oriente;
e bene stava cotesto ragionare in bocca di chi cantò per Caterina
Seconda:—

  C’est du nord qu’aujourd’hui nous vient la lumière.

I progressi della scienza hanno ricollocato nell’oriente la sorgente
della luce morale, siccome non cessò mai di essere il fonte della luce
che ci rischiara; e basta aprire un lessico moderno per comprendere ad
un solo sguardo qual parte segnalatissima sostenga l’idioma ebraico,
e in generale sostengono le lingue semitiche, nella formazione delle
lingue occidentali; comecchè si collochino nella famiglia delle
indo-germaniche, e se ne cerchi la prima derivazione o almeno la forma
loro più antica, nella lingua sanscrita.

[10] Quanto volentieri rendiamo omaggio alla non infelice
interpretazione del nome Esseni dal greco _Isos_ amici, confidenti;
altrettanto ci ripugna il credere, come vorrebbe persuadercene
l’illustre Rabbino, che lo stesso vocabolo greco abbia derivazione
ebraica, e tragga origine dall’incertissimo _Hoze_ o _Hazut_ d’Isaia,
XXVIII, 15, 18, spiegato nel senso greco di Amicizia e Confidenza.
Basti dire che l’esempio ebraico è unico in tutta la Bibbia in questo
senso, mentre appena un uso frequente, quasi universale, basterebbe
ad autorizzare il supposto di un passaggio dall’ebraico al greco; che
questo senso stesso è almeno problematico, stando il _Gesenius_ per
altro, il quale non tollera questa assimilazione coll’Isos greco; e
che infine meglio che la interpretazione dell’uno o dell’altro a noi
arriderebbe l’ipotesi che qui non si tratta, nel _Hoze_ o _Hazut_
d’Isaia, che di un sinonimo assai più antico, più nobile e più puro
del _Galui_ di Geremia, Cap. XXXII, 11, che vale probabilmente quanto
_attestato_, o almeno documento pubblico che accerti la esistenza di
un contratto: e vale alla lettera, _Scuoperto_ o _Aperto_, come Hoze o
Hazut suona pure alla lettera, _quello per cui si vede_, o _veduta_.
Ove non si voglia dire piuttosto che il _patto_ per eccellenza,
l’alleanza con Dio, essendo sancita per opera di una rivelazione,
questa viene usata come sinonimo di patto nella parola Hoze o Hazut,
per indicare l’alleanza col genio della Morte o dell’Inferno. Inoltre,
parci l’illustre Rapoport caduto in una strana illusione quando
trova affine al _Hoze_ d’Isaia, l’arabo _Haz_, stringere patto,
unirsi; mentre è evidente che questo verbo arabo non ha rapporto che
coll’_ahaz_ ebraico e coll’_ahad_ arameo, _stringere_, _unire_.

[11] _Esodo_, cap. XV, v. 26.

[12] _Proverbi_, cap. III, v. 8.

[13] Vi fu tra i Dottori chi intese in questo senso la signoria
predetta dal Genesi all’uomo sopra le altre creature. Non si può negare
che la frase nulla scapita, così intesa, della sua sublimità.

[14] Salmo XXXXI, v. 5.

[15] _Isaia_, VI, v. 10.

[16] _Isaia_, LVII, v. 18.

[17] _Geremia_, VIII, v. 22.

[18] Opera infinita e certo non capace di stringersi in una nota noi
faremmo, ove volessimo tutte riandare le analogie che la predicazione
evangelica, il primitivo cristianesimo, ci offrono colla società degli
Esseni. Forse ne sarà dato accennarne alcune, e solo di volo nel
seguito di questa istoria. Ciò che possiamo sino da ora additare al
lettore istruito, sono le numerose figure, imagini, locuzioni tratte
dall’esercizio della medicina che ricorrono in bocca al Fondatore
del Cristianesimo, le cure ch’egli prodiga agli infermi, la _Salute_
onde s’intitola la nuova dottrina; indizj tra altri infiniti, che
persuasero gravissimi autori antichi e moderni a vedere nell’Essenato
la prima origine d’onde uscì il Cristianesimo evangelico. Nello scorso
secolo, Bahrdtt e Venturini furono i più eminenti rappresentanti di
questo sistema; e gli studj susseguenti nulla valsero a renderlo meno
probabile.

[19] Amici solo del vero, e rinunziando alla spuria gloria di aver
ammaestrato Platone e Pitagora che alcuni Padri sognarono in favore
dell’Ebraismo, ci acquistiamo il diritto di ripudiare egualmente
una non meno falsa sentenza; cioè che l’Oriente semitico sia andato
a scuola dei Greci, dei Romani, e anche degli Etruschi e antichi
Italiani. Sistema dismesso dopo i tentativi invano assaggiati dal
Biscioni, dal Mazzoldi, in favore delle _origini italiche_; ma che il
sig. Gherardi tentò d’inverdire in un’opera recente, che ha, se non
altro, il merito dell’eleganza e della erudizione. Ci duole aggiungere
che non ne ha altri, e che vi manca quella nota impreteribile in ogni
storica pertrattazione non solo, ma anche di un buon romanzo, la
_verosimiglianza_. L’ebraismo ha una gloria più legittima e non men
bella da vantare; quella di aver ammaestrato per mezzo della primitiva
rivelazione i maestri stessi di Pitagora e di Platone, i legislatori, i
Tesmofori e i poeti-teologi di Grecia e d’Italia: e questa e la Grecia
a loro posta hanno titoli più legittimi che non il primato sull’oriente
semitico; quello di avere sviluppato quei germi che l’Oriente vi
dispose, in guisa che invano sariasi desiderato da popoli diversamente
temprati, conciossiachè, nella guisa stessa che non ogni terreno è
capace di fare allignare ogni sorta di pianta, così non ogni popolo è
capace di fare fruttificare certi principj. I Dottori nostri, colla
teoria loro dei _Sarim_ o _genj de’ popoli_ tutti necessarii e che
nel loro insieme costituiscono la vera e completa _Mercabà_, cioè il
carro che Dio stesso conduce e guida, gittarono le basi della più alta
_filosofia della storia_ che capir possa in mente mortale.

[20] Il dotto signor Munk è sventuratamente afflitto da quasi completa
cecità.

[21] I fatti dall’illustre sig. _Frank_ allegati, se provano
improbabilissima un’influenza decisiva tra le due capitali e le due
civiltà, non bastano però ad escludere ogni qualsiasi ascendente.
Questo anzi è provato da quelle non scarse nozioni che di Alessandria
e del suo ebraismo tralucono negli scritti dei dottori, e da quelle
comunicazioni che la mercè dei viaggi intrapresi da varj cospicui
dottori, non cessarono di rinnovarsi di tratto in tratto tra i
due paesi. Il Talmud è ricco di notizie intorno all’organamento
dell’ebraismo nella capitale dei Tolomei. Si rende ragione dei
tribunali ebraici di Alessandria (Talmud Ketubot 25, 1), si magnifica
la ricchezza delle sue _Basiliche_ e delle Cattedre su cui siedevano
pro-tribunali settanta dei più cospicui fra i cittadini; si descrive la
magnificenza e le forme del culto, sino ai più minuti particolari della
costruzione di quel tempio (Talmud Succa Babilonico e Gerosolomitano).
Si mostra contezza delle loro arti (Moed Katan 26), degli abusi,
delle prepotenze che si usavano sulle fidanzate altrui (Mezihà 104,
1), dei loro costumi dissoluti (Medras Ester in principio), della
loro propensione alla magia (Ibidem e Kidduscin 49, 2). Ma ciò che
più monta, sono i viaggi che si narrano dal Talmud colà intrapresi in
varie epoche dai dottori Palestinesi. Non parleremo di _Onia_, che
sugli esordj del secondo tempio, si recò dalla Palestina in Egitto, e
vi fondò quel tempio che ne porta il nome. Si disputa nel Talmud se il
tempio elevato da Onia in Egitto fu tempio dedicato al culto del vero
Dio, o a un culto idolatrico. La prima opinione sembra prevalere. Ciò
che importa non meno sapere, è una curiosa aggiunta che il Maimonide si
permette fare nella storia del soggiorno di quest’Onia in Egitto, della
quale, a quanto io mi sappia, non vi ha memoria negli antichi monumenti
rabbinici. Il Maimonide, nel suo comento alla Miscnà (Trattato
Menahot), ragionando di Onia, ne fa sapere che trovato avendo costui
in Egitto una setta per nome _Kabtazar_, con essa si accontò o per
dir meglio si fece suo capo. _Kabtazar_ è invero il nome che si legge
almeno nel comento stesso voltato dall’arabo all’ebraico. Però era
naturale in me il dubbio che qualche altro nome ben altramente storico,
sotto queste mentite sembianze si nascondesse. Infatti, la idea mi
occorse che per questo nome guasto e corrotto di _Kabtazar_, si volesse
significare per avventura i _Copti_; e per quanto la congettura mi
sembrasse non infelice, pure non mi attentai a soscrivervi seriamente
se prima non ebbi e l’attestato di antico documento e l’adesione di
uomo competentissimo. Questo è l’illustre amico mio sig. Salomone Munk,
socio dell’accademia delle Iscrizioni e belle lettere di Parigi, al
quale m’indirizzai in cerca di notizie; e che con isquisita benevolenza
risposemi nei termini seguenti: «Quant au mot Kabtazar, sur le quel
vous me faites l’honneur de m’interroger, c’est tout simplement une
faute d’impression, ou une faute de copiste dans la version hébraïque
de commentaire de Maïmonide. La véritable leçon est _Kobt Masr_,
et comme vous l’avez bien deviné dans un premier moment il s’agit
ici des Coptes anciens ou des Egyptiens indigènes, par opposition
aux Grecs qui depuis Alexandre s’étaient établis en grand nombre en
Egypte. Maïmonide veut dire qu’Onia gagna un grand nombre d’Egyptiens
indigènes, qu’il convertit au Judaisme. (È questo fatto principalmente
che Maimonide introduce nella istoria, senza che si possa scuoprire
d’onde derivato). Les mots _Kobt Masr_, sont généralement employés
par les auteurs arabes pour désigner les anciens Egyptiens sous les
Pharaons ou leurs déscendants à l’époque des Grecs et celle des Arabes.
Encore aujourd’hui on appelle ainsi les chrétiens d’Egypte que nous
designons ordinairement par le nom de coptes, et que descendent d’une
race mêlée? d’anciens Egyptiens et de Grecs. (Qui il dotto sig. Munk
trascrive il testo arabo, e aggiunge.) J’ai fait copier ces mots arabes
d’un manuscrit de la Bibliotheque imperiale que j’ai apporté moi même
d’Egypte en 1810.» Senza più oltre aggiungere di Onia, è celebre il
viaggio di Jeosciuah Ben Perahia, quegli stesso che a detto del Talmud
fu precettore di Gesù, il quale insieme al maestro si sarebbe recato
pur esso in Alessandria. Il Talmud ci conservò la Epistola che da
Gerusalemme fu spedita alla Sinagoga d’Egitto per affrettare il ritorno
del prenominato dottore. Ella è così concepita: _Da me, Gerusalemme
città santa, a te Alessandria. Lo Sposo mio dimora presso di te, ed io
me ne sto in solitudine._ Il dotto sig. rabbino Rapoport, nel suo Erech
Millin altra volta citato (pag. 101), pare volere confermare questo
viaggio di Gesù in Egitto con quanto narrano i Vangeli della fuga in
quel paese. È noto però come questa avvenisse nella più tenera infanzia
del fondatore del Cristianesimo; mentre il viaggio onde si narra nel
Talmud sarebbe stato eseguito nella sua gioventù, anzi poco prima della
sua rottura colla Sinagoga. Tuttavia non è a tacersi che di questo
viaggio eseguito da Gesù nella età virile, narravano i Carpocraziani,
antichissimi eretici, quando dicevano: «Que J. C. avait choisi dans ses
12 disciples, quelque fidèles amis, auxquels il avait confié toutes les
connaissances qu’il avait acquises dans le Temple d’Isis, ou il etait
resté près de treize ans a s’exercer à une étude pratique, dont on lui
avait donnée la théorie pendant son enfance instruite et formée par
les Prètres egyptiens.» (La Maçonnerie considerée comme le resultat
de la Relig. egypt. juive et chrét., par R. D. S.; vol. I, pag. 289).
Ciò pone almeno in salvo la buona fede dei Talmudisti, e l’antichità
della tradizione di cui si fecero interpreti. Ella è attestata da un
documento non meno antico, l’_Evangelo di Nicodemo_. In questo, tra
le altre cose, gli Ebrei accusano Gesù che «arrivé à _certain âge
fut contraint de chercher fortune en Egypte, ou il apprit quelque
secret_; qu’il retourna dans son pays en Judée, et que par ce moyen il
fit de la magie» (Ibid. vol. I, pag. 445). Il Talmud Gerosolimitano
racconta di un altro viaggio posteriore, che Jehouda Ben Tabai ed un
suo discepolo intrapresero nell’Egitto. Simone Ben Sciattah, capo dei
Farisei, fuggì in Egitto per torsi alla persecuzione del cognato suo,
il Re Janneo, amico dei Sadducei. Quindi R. Jeosciuab Ben Hanania,
soprannominato _lo Scolastico_, visitò pur esso l’Egitto; e il Talmud
racconta dei colloqui avvenuti colà tra il dottore Palestinese e gli
Ebrei ivi stabiliti. Un altro dei più illustri Tanaiti, R. Johanan
Asandellar, era di Alessandria (Talmud Gerosolomitano, Haghiga cap.
III). Più tardi, troviamo domande in fatto di riti, dirette da
Alessandria ai dottori di Palestina (Talmud Gerosolomitano, Kidduscin
cap. III), e circolari da questi alle Sinagoghe di Alessandria (Talmud,
Irrubin cap. III). R. Abhu, familiare nella Corte di Cesare, vi si
recò esso pure e v’introdusse l’uso delle Palme nel primo giorno dei
Tabernacoli caduto in Sabato (Ibidem). Tutti questi viaggi, dei quali
il più antico è appena contemporaneo a Filone, non possono avere
esercitato un’influenza decisiva nè sopra la di lui filosofia, nè sulla
istituzione dei Terapeuti, che Filone descrive come da lungo tempo ivi
stanziati e stretti in consorteria; e la ignoranza almeno parziale di
quanto accadeva in Palestina, è prova in Filone di non aver subìto se
non indirettamente l’ascendente palestinese. Forse anche meno probabile
è l’altra ipotesi di un’azione qualunque esercitata dalle dottrine
alessandrine sulle idee in Palestina, e quindi nella formazione della
dottrina cabbalistica e dell’Essenato. Chi rifletta alle rare occasioni
di contatto tra i pensatori delle due sinagoghe; all’autorità e
preminenza che dovevano avere necessariamente i dottori di Palestina
sulle sinagoghe straniere; alle antichissime menzioni che vengono fatte
di una scienza acroamatica nei libri talmudici, rappresentandola come
già esistente fin dai tempi d’Iliel; soprattutto alle antichissime
tracce dell’Essenato non solo in Giuseppe Flavio e in Plinio, ma, ciò
che più monta, in Filone e forse anco nei Maccabei; agevolmente andrà
convinto, che se molte strettissime attinenze, se molte somiglianze
parlantissime si rinvengono tra Filone e i Cabbalisti da una parte,
e tra Terapeuti ed Esseni dall’altra, si debbono fare risalire a
quell’epoca più antica in cui gli Ebrei si staccarono dal centro
palestinese per andare ad abitare le sponde del Nilo, ove recarono
seco, insieme al Testo della Legge, i germi di quelle tradizioni, che
subirono poi sì ricca e rigogliosa vegetazione sul patrio suolo di
Palestina.

[22] La identità suprema di Esseni e Farisei che la storia presente
contribuirà spero in parte a mettere in sodo, e che antichi e moderni
autori di buon grado consentirono, non ne toglie di considerare la
prima di queste scuole siccome quella parte che per le sue dottrine e
le sue tendenze, diede più particolarmente origine alle istituzioni
e ai dogmi cristiani; ed anche di questo sembra che la critica
indipendente vada sempre più convincendosi. Questa prerogativa degli
Esseni-Kabbalisti di aver generato il Cristianesimo da ma diffusamente
trattata nel mio _Essai sur l’origine des dogmes et de la morale du
Christianisme_ ci porge una naturalissima spiegazione di questi due
fatti accennati nel testo; il primo è il nome di Terapeuti preso dai
primi Cristiani, il secondo molto più momentoso è il silenzio degli
Evangeli intorno la Società degli Esseni, silenzio non altrimenti
esplicabile. Ma agevole torna il comprenderlo purchè si ammetta ad un
lato che gli Esseni non erano che la parte più eletta, la _frazione_
speculativa del Farisato, e che era quella da cui meno dessentiva
la nuova dottrina. Non è nemmeno improbabile che _i Dottori della
Legge_ di cui si parla ripetutamente nei Vangeli siano la indicazione
di questa parte del Farisato. Nel _Saggio_ sopra rammentato mi sono
ingegnato di porgere di questa congettura non pochi nè lievi indizi,
tratti dai Vangeli e dai libri rabbinici.

[23] Opera infinita, certo non capace di stringersi in una nota
noi faremmo, ove noi volessimo tutte riandare le analogie che la
Predicazione evangelica e il primitivo cristianesimo ci offrono colla
società degli Esseni. Forse ne sarà dato accennarne alcune, e solo
di volo nel seguito di questa istoria. Ciò che possiamo sino da ora
additare al lettore istruito, sono le numerose figure, immagini,
locuzioni, tratte dall’esercizio della Medicina, che ricorrono in
bocca al Fondatore del Cristianesimo; le cure che egli prodiga agli
infermi, la _Salute_ onde s’intitola la nuova dottrina, indizj tra
altri infiniti che persuasero gravissimi autori antichi e moderni a
vedere nello Essenato la prima origine d’onde uscì il Cristianesimo
Evangelico. Nello scorso secolo Bahrdt e Venturini furono i più
eminenti rappresentanti di questo sistema, e gli studi susseguenti
nulla valsero a renderlo meno probabile.

[24] Questo fatto, segnatamente per ciò che s’attiene a Filone, torna
tanto più ammirabile quanto più erano tempi i suoi di gravi dissidenze
religiose in Palestina. L’essersi serbato puro il nostro Filone di
ogni labe eretica, non è ella nobilissima testimonianza dell’antichità
e verità dell’ortodossia farisaica che Filone redò dai suoi maggiori
trasportata in tempi più antichi in Egitto? Quanto al fatto stesso,
vale a dire l’ortodossia di Filone, ci sembra indisputabile.
Può trovarsi qua e colà nelle sue opere alcune, vuoi dottrine o
interpretazioni che dissentono dalle dottrine e chiose prevalenti tra
i Farisei; ma in primo non si può negare che il Farisaismo stesso era
a quei tempi scisso in cento diverse frazioni le quali, tenendosi fra
loro in bilico creavano in seno all’uniformità generale una varietà
così pronunziata nei particolari, che avrebbe oggi faccia di paradosso
e di eresia. In secondo luogo non è lecito pretermettere che Filone
vivendo lontano, e ciò ch’è più, sequestrato dal centro religioso
di Palestina, non poteva a meno di offrirci nelle opere sue qualche
dissonanza colle idee colà dominanti. Nè faremo caso di altre cagioni
non meno urgenti che produssero questo cotal disaccordo; la traduzione
greca dei sacri libri diversa in gran parte dal Testo ebraico e sola
conosciuta da Filone, lo scopo da esso propostosi nel dettare le opere
sue, quello cioè da far conoscere le dottrine e la storia ebraica
ai Pagani e che ispiravagli tal volta un linguaggio più acconcio a
persuadere i suoi lettori pagani, che fedele alle vetuste dottrine
degli avi suoi. Nonostante è innegabile che il genio, la sostanza,
le tendenze di Filone e delle sue opere sono a dirittura farisaiche.
Opera immensa sarebbe il raffronto tra le dottrine dell’uno e quelle
degli altri. Momentosissima poi quella che si assumesse l’officio di
trovare nelle costui dottrine i principali lineamenti, e non poche
volte le formule istesse della teologia farisaica, o acroamatismo
(_Cabbalà_) impresa che il signor Frank tentò in parte nella sua
_Kabbale, éd. de Paris_. Basterà qui che noi facciamo un breve assaggio
delle strettissime attinenze che corrono fra Filone, e i Farisei o
la tradizione in generale e ciò in una delle meno illustri delle
opere filoniane _la vita di Moisè_ che noi preferiamo, trovandosi più
agevolmente in mano ad ognuno per le recenti edizioni che ne vennero
fatte. Ora noi mostreremo in brevissime note ciò che di singolarmente
somigliante si trova in quest’opera tra le nozioni storiche, i giudicj,
le dottrine eziandio di Filone, e quelle che suonarono famose tra i
Farisei e che solo i loro libri, posteriori di gran lunga a Filone, ci
attestano; prova se altra fu mai che la loro data risale molto più alto
dei libri che le contengono, e che la lealtà dottrinale e religiosa dei
Farisei repugna al supposto di una invenzione e alterazione per parte
loro.—Divideremo i nostri rilievi in due parti—prima tutti quelli che
si riferiscono a storia—poi quelli che si attengono a dottrine.

A pag. 3. Dice di Moisè «Allora nato questo bambino pareva che dallo
aspetto promettesse non so che più dell’ordinario.» Non si dee tacere
che idee conformi si leggono nei monumenti tradizionali sul testo che
dice _E vide_, (la madre) _ch’egli era bello_. Ora si dice, che nacque
circonciso; ora che al suo nascere un gran splendore invase la stanza;
ora che fu veduta con esso la _Schehina_. _Tob_ che qui significa
probabilmente bello, ha pure il senso di buono, e buono è nome che Dio
ha nella teologia riposta dei Farisei, come il _Primo_ e l’_uno_ di
Plotino corrispondente al _Padre_ del Cristianesimo, e alla _Sapienza_
o _Sofia_ dei Teosofi ebrei (Kabbalisti) ha esso non meno il nome di
_Buono_ (Agathos).

A pag. 18 «_Dopo le quali nozze egli incominciò ad essere pastore
preparandosi in cotal guisa al principato, perciocchè l’arte pastorale
ci dispone al regno, cioè al regime di uomini, greggia mansuetissima;
siccome quelli che hanno i loro animi inchinati alle cose della guerra
prima si esercitano nella cacciagione.... onde il Pastore ha certa
somiglianza col Re. Anzi, per quanto io ne sento, non seguendo la
comune opinione ma ricercando la verità, e rida chi vuole, solo colui
può essere perfetto Re che ottimamente sa quello che si richiede a
governare un gregge._ Ora chi non resterà sorpreso leggendo nel _Scemot
Rabbà_ le parole seguenti. _Come fu provato Moisè? Nell’arte sua di
Pastore. Così pure fu provato David e fu trovato egregio pastore
conciossiachè egli traesse addietro i più forti tra il gregge per dar
luogo a’ più deboli di cibarsi; mandava pure innanzi al pascolo le
più tenere pecorelle perchè trovassero l’erba più delicata; quindi le
vecchie a pascere l’erba mezzana, infine le giovani e forti a cibarsi
della parte più dura. Ciò vedendo disse Iddio; questi che sì bene
sa appropriare ad ogni età e temperamento il suo cibo sarà pastore
del mio popolo. Così Mosè non fu altramente esperimentato. Dissero i
nostri maestri: mentre stava Mosè pascolando la gregge di Ietro per i
campi, fuggigli un agnello, ed avendolo rincorso lo trovò mentre si
dessetava in un laghetto d’acqua. Disse allora Moisè: Non sapeva che
tu corressi per la sete che ti molestava. Sei tu stanco? e così detto,
lo prese, e messoselo sulle spalle se ne ritornava. Lo che veduto Dio,
disse: Poichè tanto hai di pietà nel governo del gregge degli uomini,
tu sarai pastore del mio popolo Israel._» e più oltre, «_Dio non
concede agli uomini grandezze se prima non sono provati nell’infime
cose. Così due grandi uomini furono in vili offici esperimentati, e
trovati fedeli, salirono a’ più magnifici stati. Fu David esperimentato
nella pastorizia, e vedendo come ad ogni poter suo evitasse i colti
onde di rapina non si cibassero le sue pecore, fu fatto pastore di
popoli. Moisè pur esso, dice il Testo, pascolava le gregge dietro il
deserto perché le pecore sue non vivessero sugli altrui campi; quindi
fu chiamato a pascere Israel, essendo scritto: Tu guidasti qual gregge
il tuo popolo per mezzo di Mosè e Aaron._» I fenomeni portentosi che
accompagnarono il nascimento di Mosè possono essere suggeriti dal desio
comune di dare una tinta maravigliosa all’origine di uomini comunemente
venerati. Ma il presente raffronto ci sembra ancor più significante.

A pag. 41. Era l’acqua del fiume mutata in sangue, ma non agli Ebrei
perciocchè attingendovi questi, diventava buona da bere. Quest’ultima
circostanza taciuta dal Testo si trova solo nella Tradizione.

A pag. 78. _Perciocché allora più mostrava di veder la bestia che
l’uomo, il quale si dava vanto di vedere non pure le cose mondane,
ma esso rettore e creatore dell’universo._ Al vanto dl Balamo che si
dice _conoscitore della Mente di Dio_ (_Veiodea daat Elion_) i Dottori
domandano _or come conosce la Mente di Dio colui che nè anco sa cosa
voglia la sua giumenta?_

A pag. 108. _Quivi_ (I Dottori interpetri della legge per ordine di
Filadelfo) _rapiti dallo spirito, profetavano non diversamente, ma
tutte colle medesime parole non altrimenti che se alcuno avesse dettato
a ciascheduno invisibilmente._ Il Talmud parecchi secoli dopo Filone,
e ignaro certamente dell’attestato di questi, ripete le stesse cose.
Non è prova il deposto di Filone della preesistenza delle medesime
tradizioni ai Dottori talmudici e non pone suggello alla loro veracità?
Questa esattezza nel riferire le tradizioni storiche ci è arra della
dote medesima nel riferire le tradizioni dottrinali. Ognuno comprende
come la _verità del fatto_ sia considerazione estranea alle conclusioni
che qui si traggono, perocchè la lealtà farisaica rimarrà dimostrata
ogni qualvolta le loro narrazioni si palesino concordate dai più
valenti scrittori, non pochi secoli vissuti innanzi a loro.

A pag. 119. _Di tale affetto di conversar con donna erasi spogliato
Mosè già molto innanzi, quasi infin da quel tempo che incominciò a
ricevere lo Spirito Divino, per esser sempre apparecchiato ad ascoltare
gli oracoli della voce divina._ Circostanza taciuta assolutamente nel
Testo mosaico, nè vi ha frase che l’autorizzi. I soli a parlarne,
a giovarsene eziandio per ispiegare non pochi passi del Pentateuco
sono i Dottori. Donde tolse Filone questa circostanza? Io non so
imaginare altra fonte che quella d’una tradizione nazionale anteriore
alla emigrazione degli Ebrei in Egitto. Avesse anco attinto Filone
nel centro Palestinese, rimarrebbe tuttavia verissimo che i Dottori
talmudici nulla dissero che non corresse per le bocche ad ognuno,
parecchi secoli innanzi; e che non pochi dettati i quali sembrano
appartenere al patrimonio letterario dell’epoca loro, hanno radici in
un’antichità che non eravamo usi sospettare. Alla pagina istessa Mosè
è dichiarato, _bello e forte di corpo_. Ed anco di questo, solo la
tradizione è maestra che appunto in Mosè trova il prototipo di tutti i
Profeti siccome quello che era _forte_ ricco e sapiente.

A pag. 120. _In quei giorni ch’egli_ (Moisè) _nel monte dimorò,
imparava tutti i misteri del Sacerdozio._ E questo è purissimo
farisaismo, che vuole la Legge e i misteri della Legge imparati da
Moisè nei giorni ch’ei stette sul monte.

A pag. 137. _Esse dunque_ (le Donne) _avevano dedicati a Dio
spontaneamente gli specchi avanti i quali erano avvezze ad abbellire
la faccia come primizie dell’onestà del matrimonio._ Che dal Testo
apparisca essere veramente specchi cotesti, e dalle donne offerti, può
darsi, ma l’intenzione e il pregio di tale offerta quali si descrivono
qui da Filone, non si leggono che nei Dottori i quali vi veggono come
Filone il simbolo e lo Stromento dell’amor coniugale onde tanto crebbe
il popolo di Dio in Egitto.

A pag. 161. _Insegnando_ (nel sabato) _il principe_ (Moisè) _a guisa di
Dottore ammaestrando e dimostrando a ciascuno l’officio suo il quale
uso dura anche al dì d’oggi presso i Giudei._ Nessun vestigio nella
Bibbia di questa pratica; sibbene nella tradizione la quale fa risalire
a Mosè la istituzione di cui si tratta e l’insegnamento al popolo nei
Sabati e nelle Feste del Riti odierni.

A pag. 162. _Stando Moisè sospeso nè sapendo con qual maniera di morte
che a lui si convenisse, dovesse punirlo._ Il Testo dice semplicemente
che non sapeva qual pena dovesse infliggergli. Ella è solo la
tradizione che ponendo in Mosè la certezza della pena di morte, gli
fa sol dubitare in qual maniera dovesse essere eseguita. Le parole
di Filone consuonano quindi perfettamente colla tradizione, meglio
assai che col Testo il quale tollera che si supponga in Mosè il dubbio
piuttosto, se fosse o no reo di morte. Ma la mèsse che noi andiamo
a raccogliere del raffronto fra dottrine e dottrine è di gran lunga
maggiore e più importante.

A pag. 3. Filone fa notare come Mosè _fu il settimo per ordine dal
primo il quale venuto da straniere contrade diede principio al popolo
ebraico_. Qui tutto è farisaico 1º L’importanza conceduta ai _Numeri_.
2º La Santità del numero Sette. 3º L’osservazione medesima per ciò che
riguarda Mosè è non meno esplicita nei Dottori, i quali adducono qual
prova della stima in cui questo numero è tenuto, la elezione di Mosè
_settimo_ nella serie dei Patriarchi.

A pag. 20. Filone trova nella visione del pruno che arde senza
consumarsi un senso allegorico «_il fuoco che non consumava la materia,
dimostrava che coloro non dovevano morire i quali dalla violenza dei
nemici erano calcati_.» Questa interpetrazione è proposta e autorizzata
dai Dottori.

A pag. 22. _Dirai primieramente loro, che Io sono colui che è,
acciocchè imparino la differenza tra colui che è, e quello che non
è; nè verun nome potersi convenevolmente dire di me del quale solo è
l’Essere. E se egli avvenisse che per essere essi d’ingegno tardo,
volessero sapere come io mi chiamo, mostra loro non solamente me esser
Dio, ma Dio ancora di tre personaggi ec._ Qui si noti:

1º Filone dà perfettamente ragione alla più antica sentenza che vide
nei due nomi più augusti di Dio—_Ehie_—_Avajà_—il concetto dell’Essere;
e vince colla sua luce il falso bagliore di interpretazioni quali sono
quelle proposte dal Prof. Luzzatto vuote di ogni merito, tranne quello,
di essere da lui derivate.

2º L’_Essere_, qual nome di Dio e superiore a quello stesso
quadrilettere, consuona mirabilmente con quanto insegnano i Teosofi
ebrei (Kabbalisti) i quali veggono nell’_Ehie_ o Essere, la
denominazione di una _Sefirà_ o _Emanazione_ superiore a quella che
reca il secondo di questi nomi.

3º Tanto conferma Filone aggiungendo _che ove per ingegno tardo
volessero saper come Io mi chiamo mostra ec._, dove si allude
manifestamente al quadrilettere usato dal Testo in quella circostanza e
chiamato Dio d’Abramo ec.

A pag. 28. _Dieci afflizioni caddero sopra il paese, acciocchè quelli
che avevano commesso ogni scelleraggine con perfetto numero di flagelli
fossero battuti._ Qui non solamente torna in campo il valore dei
numeri, non solo il numero _dieci_ è il prediletto dai Dottori e dalla
Bibbia eziandio, ma ciò ch’è più, la teosofia recondita degli Ebrei
trova nei _dieci flagelli d’Egitto, l’espressione, la imagine delle
dieci emanazioni impure, specie di Antischemi ch’essi oppongono alle
divine emanazioni_.

A pag. 29. _Cotali_ (flagelli) _però in tre ordini furono divisi._ Ogni
Israelita legge nei vespri pasquali l’antica sentenza di R. Iehuda che
divide i dieci flagelli in tre serie, _Dezah_, _Adas_, _Beahab_. Questa
gratuita partizione diventa così, più vecchia di circa due secoli.

A pag 54. _La vitale virtù della palma non come le altre piante e
riposta nelle radici ma nel sommo messa, come ii cuore nel mezzo dei
Rami la quale intorno intorno è custodita, come un Re dalle sue genti._
Osservazioni dei Dottori a proposito della Palma festiva i quali
aggiungono volere essa per questo significare _l’unità d’aspirazione
d’Isdrael verso l’Altissimo_. Quanto alla Palma, ecco come si esprime
il Sharon Turner I, 122, nota: «Vi è una tribù di piante chiamate
_monocutiledone_ dove dall’avere un solo lobo per seme, appartiene a
questo, l’ordine naturale delle Palme.»

A pag. 82. È sensibile in Filone una interpretazione farisaica di
un locuzione di Balaam. Questi aveva detto per Israele «_popolo che
qual lione si alza, nè riposa finché abbia divorato la preda_. I
Dottori spiritualizzando il verso lo applicarono alle _preghiere,
alla Confessione di Dio che l’Israelita ripete, nel levarsi e nel
coricarsi_. Si oda ora Filone: _nè ciò fatto anderà a riposare, ma
vigilando canterà versi che significheranno la sua vittoria_.» Ecco
altri _tre secoli_ di antichità alle più umili o neglette tradizioni
farisaiche.

A pag. 104. Il Testo Biblico vieta le opere nel giorno di Sabato. Una
esegesi razionalistica potrebbe non vedervi, che le opere le quali
affaticano il corpo, non atti che si compiono quasi per trastullo,
quale sarebbe cogliere un frutto, strappare una fronda ec. Filone però
non è tra questi. _Concede ancora il settimo giorno agli alberi e a
tutte le piante qualche alleggiamento, perciocché in tal dì è vietato
levarne le frondi e le foglie e raccorre alcun frutto._

A pag. 120. Filone traduce il _Micdas_ di Mosè (Tempio) per _città
sacra_. Donde ciò? Una delle tradizioni farisaiche nella Misna vuole
appunto che tutta la città di Gerusalemme sia detta Micdas e ne abbia a
certi effetti le prerogative.

A pag. 122. Il numero _Cinquanta santissimo_. Eccolo dunque col sette e
col dieci, terzo tra i più venerati numeri nella teosofia tradizionale:
degno pure è di nota l’epiteto di _santissimo_. Infatti il numero
cinquanta appartiene alla emanazione _Bina_ che ha per distintivo la
santità _Kodes_, come altre, la _verità_ (Emet), la _carità_ (Hesed) e
via discorrendo.

A pag. 124. _Il giacinto rassembra nel colore l’Aere._ E questo è il
_Tehelet_ del Pentateuco e appunto come Filone dissero i Dottori, il
_Tehelet somiglia all’Aere_. Pare dunque che a questa doppia autorità
dobbiamo starcene, piuttosto che a problematiche analogie tratte
dall’Etiopico come vorrebbe un Filologo scrittore del giornale Ebraico.
_Maghid._ Anno 7º 13 e 14.

A pag. 127. _In tali figure_ (dei Cherubini sovrapposti all’arca)
_crederò che dimostrino le due antichissime ed incomprensibili potenze
di colui che è la vera essenza, una delle quali crea, l’altra governa;
per quella vien chiamato Dio, con cui tutto l’universale fabbricò
ed adornò ma per la regale è chiamato Signore._ Testo preziosissimo
perchè informato senza meno delle idee teosofiche farisaiche. Basti
dire (senza grandi sviluppi che il luogo non consente) che della sacra
decade o dieci Emanazioni divine, la sapienza ch’è la vera essenza,
come dice Filone, e appunto per ciò chiamata _Ies_, Essenza, si
parte nei suoi due attributi, o in un _figlio_ ed una _figlia_ come
si esprime il linguaggio simbolico di essa teosofia, e questi figli
appunto sono in quella scienza stessa rappresentati dai due _Cherubini_
che poggiavano sul arca del Patto. Or quali idee esprimono essi?
Tali osiam dirlo, che concordano mirabilmente con quanto Filone va
significando. Il primo portato o figlio, è appunto la potenza creatrice
che _l’universo fabbricò ed adornò_ il _Demiurgo_ dei Platonici e come
_Creatore_ è pur anco _Rivelatore_ e fonte dei prodigii, conciossiachè
egli abbia dato le leggi al mondo; anzi che per esse leggi lo governi;
ed è rappresentato dal nome tetragramma di _Avoja_, il secondo
attributo o _figlia_, è alla lettera _la potenza regale_, come dice
Filone il _Regno_, _Malhut_, e come il nome lo significa, presiede
al governo del mondo. Per questo officio lo chiama Filone _Signore_
e appunto per ciò ha per suo distintivo in quella Teosofia il Nome
d’Adonai o Adon, e per far più mirabile l’analogia, il nome persino
onde nel Testo Greco si vale Filone il greco titolo di _Kirie_ Signore,
e appunto nel suo senso greco di Signore, conciossiachè sia cotesto uno
dei residui della lingua greca di cui si giovò lo stile familiare e la
teosofia dei Farisei.

A pag. 130. _Aveva_ (il sommo Pontefice) _una piastra d’oro a guisa
di corona scolpita di quattro lettere, di quel nome il quale è lecito
d’udire e nominare nel sacrificio, solamente a quelli che gli orecchi e
la lingua hanno colla sapienza purificato._ Da cui tolse Filone questo
divieto di profferire il nome quadrilettere se non nel Tempio? Non
certo nella Bibbia che di ciò non favella; sibbene nella tradizione
farisaica che appunto dispone doversi nel Tempio invocare Dio col nome
suo quale si scrive, e fuor del tempio con quel di _Signore_ e che per
l’autorità di Filone si palesa veridica e più antica di parecchi secoli.

A pag. 131. Ciò che segue è d’importanza ancor maggiore. «_Tal nome
dicono i Teologi essere di 4 lettere forse perché significa i primi
numeri, uno, due, tre, quattro, perciocchè nel quaternario tutto si
contiene, e punto, e linea, e superficie, e solidità._» Si noti in
primo luogo come Filone non sia tanto qui originale spositore, ma si
faccia bensì interprete di ciò che _dicono i teologi_. Non sembra con
queste parole mostrarci a dito la sorgente a cui attinse? Che sarà se
troveremo pure gli insegnamenti conformi? In fatti i _Teologi_ ebrei
veggono nelle quattro lettere del nome divino, nè più nè meno di ciò
che vi trova Filone, o per dir meglio, ciò che vi trovano i _Teologi_ a
cui accenna. Queste lettere sono la _Iod_, la _E_, la _Vau_ e la _E_.
Ora per la prima intendono la emanazione _Sapienza_ detta ora, Uno (ed
in ciò consuona coll’_Uno_, o _Buono_ di Plotino e dei Neoplatonici)
ora, _punto_, (_Nekudda_;) per la seconda, vogliono significare la
emanazione _Bina_ o intendimento, chiamata per la stessa simbologia
matematica ora _due_ ora _linea_ (_Kau_;) per la terza accennano alla
sesta emanazione il _Logo_, _Daat_ o _Bellezza_, Tifheret, che è detto
il terzo patriarca, Israel a cui è promessa _larghezza_ senza confini
(_Nahala Beli Mesarim_) la quarta lettera, raffigura il _Regno_ ultima
emanazione, (_Malhut_) chiamata _Guf_.... Corpo Solido, Profondità
(Omek) ed anche quarto sostegno del trono, _reghel rebihi_. Aggiungiamo
per i dotti, che qui in Filone come nelle prime evoluzioni del domma
cristiano le due triadi principali della serie emanativa, Corona,
Sapienza, Intendimento da un lato, e Sapienza, Logo e Regno dall’altro,
si compenetrarono e confusero in guisa da sostenere talvolta l’officio
gli uni degli altri.

A pag. 136. _Parimente nel Razionale, il quale alla regione_ (Logos)
_ogni cosa disponente, si rassomiglia, perciocchè faceva mestieri che
il sacerdote che all’universal Padre porta preghi, adoperasse per
avvocato il perfettissimo suo figliuolo, ad ottenere degli errori
perdono._ Il razionale è come ognuno sa un quadrato di porpora
giacinto ec., che il sommo pontefice recava sul petto. Questo come
tutte le altre parti del culto ha un senso simbolico, teosofico nella
scienza recondita e nel suo gran codice il Zohar. Qual è questo senso
nel razionale? Non so se m’illuda, ma parmi l’identità e non solo
l’analogia d’idee, evidentissima. L’emanazione Tifheret, o _Logos_ è
per i Teosofi la ragione (_Daat_, _Logos_) il _figlio_, e per aggiunta
_perfettissimo_ (_Ben_, _Tam_, _Tamim_.) Chi direbbe che ciò appunto
significa il Razionale per i Teosofi? Eppure nulla di più dimostrato
per chi legga nel Zohar, vol 2, pag. 230 e nel Meore Or. Di fronte a
questa splendida conformità non insisteremo sull’officio di _Difensore_
e per dirla nel linguaggio cristiano e che probabilmente Filone
adoperò, di _Paracleto_ attribuito a esso figlio, Ragione. Diremo solo
che neppur esso manca per completare la rassomiglianza fra il Logos o
Ragione di _Filone_ e il figlio o Ragione dei Teosofi Ebrei. Notiamo
ancora di fuga che il nome di Razionale derivò, a quanto pare, a questa
veste dall’_epitetto Mispat di giustizia_ che porta nel Pentateuco.

A pag. 145. _Nè potendo fare di non credere all’oracolo, come mezzano
e arbitro del divino concetto._ Fraseologia incomprensibile se non si
raffronti allo stile ed ai simboli teosofici dei Farisei, pei quali
l’oracolo o l’eco, è lo _Spirito Santo_ il _Regno_, chiamato appunto
Mezzano (_Sirsur_, _emzahi_, _Malah_) _Interprete_, _Turcimanno_
(Torgheman) del divino concetto, cioè dell’_Idea_ del Logo, della
Ragione.

A pag. 157. _Più oltre passando ed il_ TUTTO _bestemiando, niente
addietro lasciò._ Bestemmiare il _tutto_ è frase che vuole spiegazione.
Se la traduzione del greco è esatta, non è possibile astenersi dal
vedere in questo _tutto_ o _Pan_, uno dei nomi più legittimi di
parecchie tralle emanazioni farisaiche col tutto.

Ibid. La legge del Sacrilegio interpretata dai Dottori esige che il
bestemmiatore si faccia ad esecrare il nome dl Dio, col nome di Dio
stesso, Dio invocando contro Dio medesimo; e come dice il Talmud
(_Iacchè Iosà et Iosè_) forma che altra non fu mai non so se più
mostruosa o paradossale. Ma tanto più concludente se si troverà in
Filone. Si oda lo stesso, a pag. 157.... _la sfrenata bocca obbedendo
ec., sogliono senza dubbio bene spesso, o uomo, qualche mostruosa
sceleraggine commettere. Or dimmi saravvi chi esecrerà Dio? Quale
altro Dio a questa esecrazione chiamerà? Non chiamerà egli stesso
contro lui stesso?_ Queste parole non han bisogno comento. Offrono un
eloquentissimo indizio di quella fratellanza d’idee che noi asserimmo
tra Filone e i Farisei.

A pag. 158. Quando Moisè dice «_Ognuno che avrà maledetto il suo
Dio porterà il suo peccato._» Filone intende pegli Dei dei Gentili,
aggiungendo, _acciocchè nessun discepolo di Mosè si avvezzi a stimar
poco il nome di Dio che sempre stimò_. Giuseppe Flavio consente in
quella intelligenza del Testo Mosaico col nostro Filone; ma finchè non
fossero che questi due scrittori, un dubbio naturalissimo potrebbe
sorgere non forse volessero per siffatta guisa amicarsi la opinione dei
Pagani, e fare da essi estimare la legislazione mosaica. Ciò che ne
interdice di così giudicare ella è l’autorità del Zohar, doppiamente
preziosa, vuoi perchè chiarisce ingenua e spontanea la interpretazione
dei due scrittori greci con essi consentendo, vuoi perchè ne porge un
nuovo anello onde connettere costoro, e specialmente Filone, colla
teologia acroamatica e coi principii che ispirarono al zohar la stessa
interdizione di Giuseppe e Filone. Vedi mie note critiche al Pentateuco
nell’opera mia Ebraica Em lamicra, Levitico Cap. 24.

A pag. 159. La tradizione trova mal fatto chiamare il proprio genitore
per nome, sia egli presente o lontano, e quando pure si qualifichi con
qualsiasi titolo onorifico. Non è egli in sommo grado parlante trovare
la stessa inibizione in Filone? «_Perciocchè_ (egli dice) _neppure il
nome dei mortali genitori_, QUELLI CHE OSSERVANO LA PIETÀ _ardiscono
nominare, ma lasciando per riverenza i nomi propri, dei naturali si
servono, chiamandoli Padre e Madre._

A pag. 160. Chiama vera filosofia, alla quale l’Ebreo attende il giorno
del Sabato, quella che in sè questi soli tre capi contiene, _opinioni_,
_detti_, ed _opere_. È degno di nota, da una parte come la tradizione
esiga il riposo sabbatico, non solo nelle opere ma eziandio nei _detti_
e nel _pensiero_, astenendosi da parole o cogitazioni che non siano
di preghiere o di studio; e dall’altro come il culto perfetto secondo
i Teosofi ebrei consista appunto nella consacrazione dei _pensieri_,
dei _detti_, delle _opere_, al servizio divino _Mahasabà_, _Dibbur_,
_Maasè_.

A pag. 170. La legge di successione registrata nel Libro dei Numeri,
tace del Padre, come erede del proprio figlio. Si oda Filone....
_perciocchè pazzia sarebbe credere che lo Zio come fratello del
Padre fosse erede del figliuolo ed il proprio padre non fosse erede
del figliuolo; ma perché la legge di natura comanda che i figliuoli
succedano nei beni dei padri e non i padri in quei dei figliuoli, di
questi non parlò come di cosa di tristo augurio e contrario all’amore
paterno._ ACCENNÒ _nondimeno tacitamente che quel benefizio che ai
zij permette doversi ai Padri ancora esser conceduto_: Triplice
conformità coi Talmudisti. 1º Nel riconoscere nel Padre il diritto di
successione al figlio, nonostante il silenzio del Testo. 2º Nel valore
conceduto alla causa di questo silenzio; cioè come cosa di tristo
augurio; ragione che il Talmud stesso invocava nel trattato Batrà,
_Cap. 3º_.—; 3º nel convenire che fa Filone, avere Mosè _tacitamente
accennato_ questo diritto del Padre; sistema d’interpretazione in uso
presso i Farisei i quali dal proibito incesto colla nipote, traggono
per illazione _de minori ad majus_ quella della figlia stessa e dalla
parola _Scèero_ che si legge nel Testo Mosaico concludono doversi
attendere anzi tutto al diritto del padre, verace _parente_ e _carnale_
come _Scèero_ appunto significa.

Noi abbiamo fin qui indagato nella intima natura di questi raffronti,
il pensiero comune tra la tradizione farisaica e Filone; e crediamo
avere il risultato risposto pienamente alla nostra aspettazione.
Rimarrebbe però a desiderarsi che oltre queste concordanze di fatto
che offre Filone colla tradizione, ci ponesse egli stesso sulla via
per risalire alla origine della tradizione e qualche cosa dicesse
che accennasse appunto avere egli da questa fonte attinto che noi
presumiamo. Ognun vede la grande importanza di questo deposto di
Filone, se pur vi fosse. Avventurosamente egli esiste ed è nei termini
seguenti ai quali vuolsi gran peso concedere. «_Ma io la invidia di
costoro trapassando desidero esprimere di un tal uomo quello che mi
hanno insegnato i Sacri libri che egli lasciò.... e che_ IO HO APPRESO
DA ALCUNI VECCHI DELLA NOSTRA GENTE I QUALI SEMPRE ALL’ANTICA LETTURA,
ALCUNA COSA SOLEVANO AGGIUNGERE, ONDE MAGGIORMENTE LA VITA DI LUI HO
POTUTO CONOSCERE.» Questa preziosissima confessione pone il suggello
a quanto fu da noi intieramente dimostrato per via di raffronti e la
sorgente tradizionale non poteva essere meglio dimostrata a dito, di
ciò che si fa in queste parole.

  (_Vita di Mosè in principio._)


[25] _Revue des Deux-Mondes_, V, 745.

[26] Questo studio rigorosissimo di purità sino al punto di preterire
doveri sì sacrosanti ci può far comprendere il valore di certe parole
del Fondatore del Cristianesimo. _Lasciate i morti seppellire i loro
morti. Chi non odierà il Padre, la Madre, il fratello per amor mio non
sarà degno di seguirmi. Donna, questi sono mia Madre e questi i miei
fratelli._ Non è nostro officio sindacare di queste sentenze il valore
_morale_; sibbene il _critico_. Ora noi fondatamente asseveriamo non
d’altronde derivare se non da quel concetto che di se medesimo mirava a
far prevalere e che altrove abbiam già veduto informare le sue parole;
quello cioè di _Tempio vivo e vero ed erede delle prerogative tutte del
Tempio reale allora esistente_. Quindi per naturale illazione tutti
i doveri che cessavano alle soglie del Tempio non potevano più avere
niun diritto alla sua osservanza nè a quello dei seguaci. Vediamo
infatti non per altro motivo giustificarsi da Gesù le infrazioni del
sabato e delle leggi dietetiche se non dicendo esservi allora presente.
_Qualcheduno maggiore del Tempio._ Notabilissimo poi è che il _Zoar_ dà
la qualità di _Tempio_ al Dottore Cabbalista (Vol 3º Sez. _Zau_); nuovo
indizio delle origini _essenico-cabbalistiche_ del Cristianesimo.

[27] Risulta dal Testo sacro per duplice motivo e in duplice senso,
chiamarsi il Nazireo con questo nome, nel senso di _separazione_ e
nel senso di _corona_. Ciò prova come la nomenclatura biblica sia
_polisensa_, e come bene si appongano i dottori, cercando, oltre la
indicazione biblica, altro senso nel nome di quei personaggi. Non meno
questo fatto resulta evidente nei nomi apposti ai figli di Giacobbe;
per esempio, Giuseppe, ove anche il senso di _ritrarre_, _cessare_
l’onta dell’orbamento, è accennato dal Testo stesso, allato dell’altro
più appariscente di _aggiungere_, _aumentare_; e di altri non meno,
come avvertimmo nelle nostre note al Pentateuco in lingua ebraica (_Em
lammicrà_, Genesi, cap. I). Questa multiformità di sensi può darci la
chiave di alcune anomalie, non ancora perfettamente risolute; qual è, a
mo’ d’esempio, la poca convenienza che si nota tra certi nomi biblici
nella loro _attual giacitura_, e la etimologia che ne assegna la stessa
Scrittura; così _Cain_ mal consuona col _Canisti_, da cui si vuole
derivato; _Noè_ con _Jenahamenu_, _Samuel_ con _Seiltiv_, ed altri,
che nel nostro sistema avrebbero avuta altra significazione, eziandio
taciuta dal Testo. Si spiegherebbe ancora come siano rimaste in credito
certe derivazioni pugnanti colla esplicita dichiarazione del Testo,
qual è, ad esempio, la origine del nome _Mosè_, secondo la Scrittura,
dal verbo ebraico _Masa_ e secondo Filone (_Vita di Mosè_) dal nome
egiziano d’acqua, _mos_. Non è improbabile l’ipotesi che i primi
cristiani siansi detti _Nazareni_, nel senso di Nazirei, piuttosto
che in quello di _originarj della città di Nazaret_, etimologia poco
ammissibile, e per avventura immaginata quando l’antica origine
dell’Essenato, cominciò a venir meno nella memoria degli uomini.

[28] Chi sa che l’atto di Geremia nel propinare il vino ai Recabiti non
sia una di quelle solite parodie onde i profeti solevano contraffare
le prevaricazioni del popolo per fargliene rimprovero. Avremmo quindi
l’iniziazione e il magistero profetico nei Recabiti eziandio, ai quali
era dato il vino come antidoto, siccome ai suoi coetanei rimprovera
Amos; e intenderemmo meglio le promesse fatte ai Recabiti da Geremia
che suonano così magnifiche. È strana dopo le cose dette fin qui
l’opinione di coloro che si ostinano a vedere nell’uso generoso del
vino una preparazione necessaria e consueta all’officio di profezia tra
il popolo nostro.

[29] L’origine essenica del cristianesimo trova un eloquente riscontro
nella foggia di vivere e di vestire del Precursore che da un lato
risponde al suo prototipo di Elia di cui adempie le parti; dall’altro
non meno bene si confà all’antico uso dei profeti e degli Esseni.

[30] Dante è Maestro in siffatte similitudini; solo che alla Sapienza
rivelata, alla Teosofia si sostituisca la _filosofia_ detta da esso
«_la bellissima e famosissima figlia dell’imperadore dell’universo_.»

[31] A chi volesse vedere nella _purità e bianchezza_ dei Nazirei in
Geremia, la delicatezza o candor della pelle, dimanderemmo ci dicesse
perchè singolarmente si specificano qui i Nazirei. La similitudine
poi della _Neve_, usata, come nota Rasci in Daniel, a indicare la
purità delle vesti, non è tralle menome prove che mostrano quanto
bene il padre di tutti i chiosatori si sia egregiamente apposto
nell’interpretare per le vesti.

[32] È questo uno degli infiniti esempj in cui la Pratica posteriore a
Mosè soperchiandone i dettati o diversificandone l’indizio manifesto di
una tradizione è coimperante in Israel colla legge scritta. Infatti la
Storia biblica ci mostra in pratica il _Nazerato perpetuo_. Ma dov’è
egli preveduto e regolato nel testo mosaico? In nessun luogo.

[33] Abbiamo udito la scrittura parlare di santità a proposito dei
Nazirei. Ora è bene che si sappia che ogni qualvolta il nome di santo
è usato nel senso di astinenza o di perfezione religiosa la traduzione
aramea è sempre _Parus_. L’atto stesso del votarsi al Nazirato
_Iafli_ è tradotto dal Parafrasta Caldeo _Jefares_; da ciò il nome
dell’angiolo apparso al padre di Sansone se in ebraico è detto _Peli_
in arameo è tradotto _Meforas_; nè altro è da intendersi nel titolo
di Meforas dato dai Rabbini al titragramma se non il nome _separato_
e _distinto_ per eccellenza. Qui sarebbe luogo di diffondersi sopra
una obiezione speciosa che questo nome di _Parus_ potrebbe suscitare
contro l’antichità del Zohar. Tra le tante vestigia di tempi moderni
che i critici vollero trovarvi, ora nello stile ora nelle dottrine, non
mi venne fatto d’imbattermi in una che tutte le vince in speciosità
e verosimiglianza e che pure mirabilmente si solve alla luce delle
cose accennate. Le intelligenze superiori angeliche sono dette nel
Zoar _Periscian_: vale a dire intelligenze separate. Ora per poco
che si abbia contezza della filosofia aristotelica, specialmente del
peripatetismo arabico, facile sarà ricordarsi come in questi sistemi,
_intelligenze separate_ siano dette le intelligenze angeliche perchè
immateriali e incorporee. Come non dubitare di una traccia della
filosofia araba e della sua fraseologia nelle pagine del Zoar? Nelle
mie note su quel libro in lingua ebraica osservai che non v’ha ragione
di credere piuttosto a una derivazione arabo-aristotelica e quindi
posteriore, che ad una origine greca, platonica o aristotelica e
quindi più antica, ove meglio non si accetti la originalità del Zohar
nel coniare questo epiteto. Ora aggiungo che il _Parus_, usato dalle
tradizioni aramee per indicare la santità in genere, conviene che
nulla più, alla frase ed all’uso che il Zohar ne ha fatto, trattandosi
d’intelligenze angeliche chiamate dai Profeti antonomasticamente Santi;
e che il _Mefaras_ del Parafrasta Ionatan applicato all’angiolo è di
una convenienza difficile a vulnerarsi col Perisan del Zoar inteso per
gli angioli.

[34] Il Talmud pare, è vero, non alludere che ad un oggetto speciale
esclusivo, cioè di porsi in grado di offrire una specie di sacrifizio
che solo la merce del Nazirato avrebbe potuto presentare. Tuttavia chi
conosca come il Talmud Babilonico sia stato scritto più di sei secoli
dopo i più bei tempi dell’Essenato; in terra, e tra costumi tanto dai
loro diversi, non stenterà a credere che lo scopo universalissimo del
_Hasidim_ nel farsi Nazirei, o per dir meglio la medesimezza dei due
personaggi siasi circoscritta nel Talmud e considerata da un solo punto
di vista.

[35] Vegga il lettore tra i raffronti da noi stabiliti nella nota 3,
pag. 90, tra Filone e la tradizione farisaica, la memoria di questa
volontaria continenza mosaica nel filosofo alessandrino. Ragion di più
per farle acquistare peso e autorità.

[36] Questa stessa trasformazione dell’eccezione in regola del precetto
morale in Cerelo, costituisce uno dei passaggi originarj dall’Etraesmo
al Cristianesimo.

[37] Questa bellissima idea, che Paolo presentò ai Pagani nella
similitudine dell’ulivo selvatico, appartiene in origine ai dottori
interpretanti la promessa ad Abraham: _E saranno in te benedette tutte
le genti della terra._ Il verbo ebraico _venibrehu_, che suona _saranno
benedetti_, è suscettibile dell’altro senso d’_innesto_, ed è appunto
su questo che i Dottori insisterono veggendovi l’_innesto_ di tratto in
tratto operatosi, di un ramo gentile sul tronco ebraico.

[38] Le istituzioni e gli offici sono come le scienze. Dapprima confusi
e concentrati in una sola persona, non cominciano a distinguersi che in
progresso di tempo. Perciò il sacerdozio fu anticamente centro in cui
conversero tutti i rami del sapere e tutti i sociali maestrati, appunto
siccome quello che tutti sovrasta. L’ebraismo stesso, per quanto
non abbia seguito la legge comune, lenta, regolare del progresso, e
sia sorto, come avverte l’autore del Kuzari (libro meditato pure da
Guido Cavalcanti, come ci ammoniva l’illustre Mamiani), a guisa delle
creazioni in un _Fiat_; pure non è sì che la legge di unione primitiva
non si verifichi in esso ancora comecchè per breve istante. Difatti è
sentenza dei dottori corroborata eziandio da qualche cenno del Testo
che nei sette giorni d’inaugurazione del tabernacolo il ministero
sacerdotale fosse assunto e concentrato temporariamente in _Mosè_
siccome Jerofante e Iniziatore, il quale da quell’ora in poi tornò
semplice Levita e subordinato ad Aaron.

[39] Non si attribuisca questo _vivere nelle tende_ a costumi tuttavia
rozzi e primitivi. Nè i Cananei sposseduti, nè gli Israeliti erano
allora in tal grado di barbarie da non aver ancora case costruite.
Esempj di case anteriori a questi fatti non mancano nella Bibbia. Sin
dai tempi di Mosè egli promette loro nella Palestina _Case piene di
ogni bene che voi non avrete ricolmo_; prevede e regola _la costruzione
di nuove case_ e impone il _riparo_ sul tetto. Contempla e prescrive le
regole per purificare le case colla demolizione delle antiche _mura_, e
colla introduzione di nuovo _materiale_. Egli è quindi indispensabile
credere che se ai tempi tanto più posteriori di Devora i Cheniti
abitavano sotto le tende, così facessero non per altra cagione di
quella che indusse a così fare i loro nepoti a’ tempi tanto più moderni
di Geremia, che il vide e li lasciò viventi _fuori della città sotto le
tende_.

[40] _Isaia_, cap. 1.

[41] Lo avere questa sentenza origine nel Zohar, lungi dal detrarre del
suo valore ne accresce anzi il pregio per ognuno che ricordi essere a
senso nostro non altro gli Esseni che i predecessori dei Kabbalisti
o Teosofi moderni, appo i quali si troverebbe pertanto la stessa
denominazione di _Eunuchi_.

[42] Questa lezione era da lungo tempo scritta quando mi venne fatto
d’imbattermi nel florilegio talmudico (En Israel), ediz. Königsberg,
e preceduto da bella e dotta introduzione di scrittore moderno.
L’autore, ragionando intorno ai versi d’Isaia di cui è parola, esce
fuora con questa interpretazione, che se non coincide appuntino colla
intelligenza che qui si attribuisce al Testo, pure di molto le si
avvicina, e stabilisce un principio e accenna una idea generale che non
può trovare la sua realtà concreta, il suo adempimento storico, che
nella ipotesi nostra. Ecco le sue parole: «_Vuole Isaia significare
come allora vi fossero uomini assai che renunciato avevano ad ogni
piacere mondano, nè tolto avevano donna; ma attendevano in solitudine
con grande amore al culto religioso, nel Tempio divino, e tanto
avveniva altresì degli stranieri, vale a dire dei Gabaonti._»

[43] Pel lettore che sa di ebraico non fan mestieri spiegazioni. Pegli
altri, diremo solo che tutto il ragionamento presente tende a provare
come il verbo _Omed lefanai_ usato in Geremia a proposito degli Esseni,
è suscettibile, in forza degli arrecati esempi, dei sensi che qui si
accennano.

[44] Tra i trasportati in Babilonia, la storia biblica annovera
_charas veamasgher_ alla lettera _falegnami e fabbroferrai_. La
tradizione ne fa altrettanti _maestri e dottori_; ed è notabile:
primo, che Masgher può avere senso di claustro, di reclusione, e poi
che il Talmud Gerosolimitano su questo verso (Nedarim, IV) chiosa
_Ellu ahaberim_, _Sono questi i soci_. Quanto questa frase convenga
agli Esseni ognuno il vede; e non si sarà dileguato dalla memoria
dei lettori quanto congetturava il dottissimo R. Rapoport intorno al
senso della parola _Esseni_ che vale al dire di lui quanto _socio_,
_compagno_ da _Jso_ Arameo. Sotto altra forma l’appellativo di socio
è attribuito ai Farisei nel nome Amit (Talmud Tract Sciabuot, cap.
IV). Quanto alla identità originaria di Esseni e di Recabiti non
d’altronde sembra muovere l’Heckers, (Istoria della medicina, 42) se
non da tale premessa, quando scrive: «_Gli Israeliti, spezzato il
giogo di Babilonia, si dedicarono alla vita contemplativa e solitaria
e fondarono la setta degli Anacoreti_ (Geremia XXXV), _i quali privi
delle scienze naturali operano colla fede e cogli scongiuri cure
portentose_.» Qui ognun vede come Recabiti ed Esseni pongano in comune
i loro caratteri.

       *       *       *       *       *

Prima di abbandonare la questione dell’origine degli Esseni, facciamo
qui alcuni rilievi che recenti letture ci suggerivano. Il senso da
noi dato agli _Eunuchi_ d’Isaia, quello di precursori ed antenati
degli Esseni, fu avvertito da un Critico alemanno autore del _Biccoret
Attalmud_, pag. 273; se non che non diè valore ai _Proseleti_ che
allato degli _Eunuchi_ figurano nello stesso luogo d’Isaia (cap.
56), e ch’è indizio eloquente dell’origine da noi propugnata. Quanto
all’origine dai Nazereni, mentre è consentita da valenti scrittori
tra cui il _Graetz_, è invece combattuta dall’autore sopra ricordato.
Ond’è che non sarà discaro udirne le ragioni, e pesarne la forza. Egli
si giova di quanto si legge nel Talmud (_Nedarim X_) _essere usi gli
antichi Hasidem di far voto di Nazer_; dunque ei conclude, eran costoro
_Kasidim_ (cioè Esseni) prima che si votassero Nazirei. Il lettore
ricorda come cotesto passo fosse da noi noverato tra gli indizi che ci
favoriscono. Questo senso ostile che gli si vuol dare non ci par serio;
sia perchè può avere appunto inteso il Talmud di svelarci l’origine e
il carattere primitivo dei Hasidim; sia perché il Talmud stesso per le
ragioni altrove accennate, può non aver avuto un’idea assai chiara di
una origine puramente storica e di piccolo o niuno religioso momento.
Il Talmud altrove (Chidduscin, 71) offre un curioso passo che diè
luogo ad un antico comentatore (Moarscia) a trovarvi un’allusione agli
Esseni sotto il nome di Nazirei. Il Talmud così si esprime «Colui che
dicesse: Sarò Nazireo _se non svelo i vizj di origine delle famiglie,
sia Nazireo e non le sveli_.» Qui il Moarscia chiosa dicendo: _Si
dee intendere mercè quanto scrive Giuseppe, esservi stato durante il
secondo Tempio una setta detta dei Nazirei, che amavano la solitudine
e i deserti per non cadere nel peccato di maldicenza. Perciò si legge
che se taluno dicesse sarò Nazireo se non svelerò ec. sia Nazireo,
poiché tale n’è invero il costume per quanto sia cotesto un voto non da
tutti laudato a cagione delle astenenze che importa. Tuttavia peggior
cosa sarebbe se per annullarlo si permettesse la maldicenza. Quindi si
taccia e sia Nazireo._ Questo senso dà noia all’autore rammemorato del
Biccoret Attalmud: (pag. 279) ma s’è vera la intelligenza ch’egli ci
porge, non si comprende come rimanga fermo il voto e sia Nazereo mentre
la condizione apposta, cioè quella di propalare le turpitudini delle
famiglie non si verifica nè si permette che si verifichi. Quindi ci
pare probabile il cenno agli Esseni che vuol trovarvi il _Moarscia_; ed
in ogni caso, è questa prova novella come non appena i nostri scrittori
ebbero a narrare o a ragionare degli Esseni, li qualificarono senza
esitanza quali veri e propri _Nazirei_, ossequio spontaneo e tanto
più concludente in favore della loro affinità originaria. L’autore
medesimo, non a bastanza penetrato dei vincoli strettissimi che
uniscono il Farisato nei suoi gradi più eminenti colla società degli
Esseni, va in cerca di contradizioni tra l’uno e l’altra. Fra queste
pone il _bianco vestire_ in onore nella seconda, in odio presso i
primi, e cita il Talmud Sota 22 e Meghilla 24. 2. Ma che cosa si legge
invero in ambo i luoghi? Nel primo: _Il tribunale supremo si vendichi
di coloro che si cuoprono di Gundé?_ Che cosa è _Gundé_? Per l’autore,
così pare, _abito bianco_. Non così però per _Rasci_ il quale chiosa
addirittura _abito nero_. Volesse pur dire _bianco_; non sarebbe altro
che un denunciare la ipocrisia di coloro che prendevano le sembianze
esteriori degli _Ottimi_ senza averne le virtù. Il secondo suona _Chi
dicesse non officiero nel Tempio con abiti di colore non officii
nemmeno coi bianchi_. E i comentatori: perché era il bianco vestire
costume dei _Minim_ (eretici); ma 1º Non si vuol egli distinguere
tra il bianco vestire _volontario_ degli Esseni e l’_obbligatorio_
di questi Minim? Sappiamo non meno che gli Esseni vestivano talora
diversamente; di sacco p. e. 2º Probabilissimo è poi che in _Minim_
s’intenda i _primi cristiani_ come talvolta significa veramente; e se
così fosse, nulla di strano che il costume adottato da costoro tornasse
odioso a quegli stessi che lo avevano usato poc’anzi. È questo nella
natura dell’uomo, e corroborato da esempi? nostrali. Il Decalogo fu
soppresso nella orazione del mattino a cagione dei Minim; anche qui
probabilmente cristiani, che ridussero tutta l’antica legge al solo
Decalogo. 3º Infine insigni _Farisei_ vestono di bianco nel Talmud e
ne vanno ivi stesso celebrati, come ragionando del costume vedremo. Si
dirà ancora ch’era tal costume in odio?

[45] Un fatto generale ci avrebbe forse potuto dispensare da tutte
queste particolari citazioni; ed è la _presenza di Sinagoghe ebraiche
per tutta la distesa del romano impero_, le quali supponevano certo a
capo loro Rettori e Dottori. La storia evangelica ed apostolica è piena
di fatti che provano questa presenza, dovunque l’Evangelio fu predicato.

[46] La tradizione che ha per stile di trasformare nell’antica storia
ebraica gli avvenimenti guerreschi e politici in fatti dottrinali,
o in morali controversie, vede nella promessa di _Caleb. Chiunque
avrà battuto Kiriat Sefer e l’avrà presa, daragli Ahsà la figlia mia
in donna_, una ricompensa promessa a chiunque avesse molte leggi
restituite che erano cadute in oblio dopo la morte di Mosè. Nulla
di più paradossale a prima giunta di questa interpretazione; ma
quando riducasi a memoria che cosa questo nome di _Kiriat Sefer_
vuol significare, e quanto saviamente avvertiva Gioberti, facile
lo accorgersi come i dottori non abbiano inteso che appigliarsi
ad un felice addentellato in cui la espressione storica si presta
mirabilmente alla chiosa tradizionale; anzi con questo senso sino a
un certo punto s’identifica; volendo dire che colui che sarà da tanto
da sottentrare nell’officio che Kiriat Sefer adempiva nel concerto o
Antizionato dei popoli Cananei come _Archivio dello Stato_, e potrà
essere utilmente consultato in quella città come lo erano i suoi
abitanti Cananei, sarà rimunerato ec. Potremmo aggiungere che in questa
trasformazione di guerre politiche in lotte spirituali i dottori nostri
non si dilungarono punto dal genio che predomina nelle più antiche
epopee orientali.—Ma qui lasciamo per brevità; fidente che il lettore
compia il nostro pensiero, solo che attenda per breve istanti a ciò che
sono i poemi indiani del _Mahabaratta_ e del _Ramayana_.

[47] Vedi per la giustificazione di questo supposto, quanto è riferito
più oltre in nota a proposito di ciò che narra il Talmud sulle
occupazioni dei _Hasidim_.

[48] Simile circospezione ci viene narrata nel Talmud (Meghilla) dei
Traduttori del Pentateuco in greco per ordine di Filadelfo.

[49] Il citato frammento del Talmud forma subbietto di profonda
indagine nel rammentato Lessico _Ereh Millim_ del dottissimo sig.
Rapoport Rabbino di Praga. Ci sia permesso anzitutto costatare
coll’illustre autore la grande antichità di quel frammento, ch’egli
crede redatto o almeno formulato molto innanzi al Talmud in qualche
raccolta d’_Agadot_, che, come è noto, precorse il Talmud, e da cui
questo l’avrebbe copiato. Sono fondamento a questa plausibilissima
congettura, varie singolarità filologiche proprie ai libri Agaditici,
e che l’autore saviamente pone in luce. Quello che non potremmo mai
consentire al gran critico, si è la pretensione da esso accampata
di vedere nei savj e dottori del mezzogiorno, con cui Alessandro
favella, uomini _pagani_ anzichè _ebrei_, e più specialmente sacerdoti
_etiopici_ o _Brami_ indiani. Il testo ha un bel opporsi a questa
interpretazione mercè le parlanti intercalazioni che corrono fra
domanda e risposta. Il nostro autore con un colpo di magica verga le
dichiara posteriori addizioni al testo più antico; nel quale egli non
crede doversi ravvisare niuna traccia d’Ebraismo. Questo concetto
che l’illustre autore si forma degli interlocutori di Alessandro,
capovolgendo le basi su cui poggia tutto il nostro argomentare nel
testo, e facendo sparire una delle vestigia più splendide, che a senso
nostro abbiano lasciato gli Esseni nella Biblioteca rabbinica, merita,
anzi esige, che con qualche pazienza vi ci soffermiamo d’intorno, e lo
esaminiamo più davvicino. Si noti anzi tratto come:

Fra i neologismi nota il Rapoport _Atristun_ di cui dice non esservi la
radice nell’antico lessico _Aruh_. E pure egli non avrebbe dovuto che
gettare lo sguardo sopra _taris_ (bis) per vedere (in fine) il verbo
_taras_ col suo esempio tratto dal Talmud (Jevamot 121. 1).

Osserviamo ora le traccie d’ebraismo nel racconto Talmudico che il
Rapoport crede estraneo alla primitiva leggenda, e solo aggiunto,
vuoi nell’atto della redazione Talmudica, vuoi da copisti posteriori.
Lasciamo per ora quanto vi ha di arbitrario _a priori_ nello
scindere una narrazione omogenea in tanti frammenti di cui altri
avrebbero appartenuto al tessuto primitivo, ed altri sarebbero stati
introdotti posteriormente. Guardiamo solo se questo criterio comunque
inverosimile, è applicabile al fatto concreto.—In primo luogo, la
locuzione _Ziknè Anegheb_ non contiene veruna indicazione che miri
piuttosto ai pagani che ebrei.—Anzi il nome _Ziknè_ implica una
idea di venerabilità che male si affà, in bocca ai dottori, ai savj
gentili. Essi hanno altre locuzioni per indicare questi ultimi, e
non si comprende come qui se ne siano discostati; per esempio quella
di _savj gentili, hahme umot Aolam; Flosofim_, che sarebbero state
qui tanto più opportune, quanto meglio avrebbero posto in rilievo
l’opposizione che segue dei dottori israelitici (_Vakakamim omerim_)
intorno alla distanza dal cielo alla terra. Non ne conviene lo stesso
autore quando confessa che l’epiteto di _Zikné Anegheb_ ad indicare i
sacerdoti etiopi ed i brami, è _nuovo ed unico_ nello stile rabbinico?
Egli, è vero, non ne conclude che una maggiore antichità; ma non so
quanto sia lecito trovare anormalità, laddove la locuzione sembrerebbe
regolarissima ove intesa come noi la intendiamo, pei dottori dimoranti
nel sud di Palestina.

Potremo dunque noi vedere in questi _Zikné Anegheb_ altri che i dottori
meridionali celebri appo i Rabbini, par la loro squisita sapienza,
come attestano le citazioni, recate nel corpo dell’opera? Il Rapoport
crede che ciò non solo si possa, ma si debba. Per esso altro è _Negheb_
(mezzogiorno) da cui qui s’intitolano, altro _Darom_ (altro nome di
mezzogiorno) da cui altrove si qualificano. (op. cit., pag. 73, 1). Con
quanta ragione però non saprei dire, dappoichè è ovvio, che _Negheb_
e _Darom_ son due nomi egualmente approvati per mezzogiorno o sud;
come Iam e Maarab per occidente; e come levante e oriente nel nostro
idioma, onde, tanto vale Ziknè Anegheb quanto Zikné Darom. Si dirà che
altrove dissero per la parte meridionale di Palestina piuttosto Darom
che Negheb? Ciò non si nega, ma se prova qualcosa, ei prova piuttosto
l’antichità di questa tradizione che usa di un vocabolo che sa di
Arcaismo. Ma vi è nel Talmud un caso a cui pur non badò il Rapoport
per triplice ragione, conchiudente in favor nostro, non solo perchè
_Negheb_ vi è usato per mezzogiorno di Palestina; non solo perchè tutto
il frammento affetta uno stile ricercato e arcaico, ma anche perchè
fu usato appunto quando s’intese a significare (come nel nostro caso)
la gran scienza dei dottori meridionali. Narra il Talmud (Irubin pag.
53) di varj dottori che affettarono talvolta uno stile figurato e
antiquato, e tra gli altri accennando ad un collega che si era ritirato
nel Darom presso quei valenti teologi, per impararne la dottrina, si
dice «Nitiaaz bemahtir _veinghib limfiboscet_» _si volse al sud verso
Mefiboscet_, lochè, secondo comenta Rasci, vuol dire:—Si partì pel
mezzogiorno di Palestina verso i _Zikné Darom_ sopra gli altri tutti
dottissimi, e perciò detti Metiboscet per la sua gran scienza ch’era
causa a David di vergogna. Le conseguenze si fan vedere ad ognuno. 1ª
Negheb, pel mezzogiorno di Palestina. 2ª Impronta di vetustà come nel
nostro caso. 3ª Infine usato ad indicare, a celebrare i dottori di
quelle regioni.

Il sig. Rapoport, come dicemmo, crede che questo sia uno dei casi in
cui si riferiscono dal Talmud le dispute o le divergenze occorse fra
i savj gentili e quelli d’Israel. Ma se questa fosse la intenzione
talmudica, non già colla semplice designazione di _Vakahomim omerim_
avrebbe indicata la dottrina israelitica, che ritorna solo allora che
sorge controversia fra i dottori israeliti medesimi, ma coll’altra
più peculiare ed esclusivamente usitata di _vekakmè israel omerim_
come ad esempio nel Talmud (_Pesakim_) ove è questione del moto delle
sfere e degli astri.—Non si nega per questo che la menzione della
dottrina del _Kakamim_ ed il ragionamento che segue non possano essere
stati aggiunti posteriormente al racconto primitivo, ma in ogni caso
provano ad esuberanza come a senso di chi operò tale aggiunta, e che
non può esser posteriore al Talmud, i savj con cui parlò Alessandro
fossero israeliti. E se ciò resulta da una aggiunta, resulta non meno
da una frase inseparabile dal tessuto primitivo, ed è quella di _Ziknè
Anegheb_ come abbiamo veduto. Altro indizio non meno appartenente al
tessuto primitivo è la prova che i _savj del mezzogiorno_ traggono
dalla genesi (_Scenneemar_) a provar l’anteriore creazione del cielo.
Avrebbero ciò fatto savj gentili? Il sig. Rapoport dirà che anche
questa è una intercalazione arbitraria. Ma in primo, ella fa troppo
parte integrale della redazione primitiva, per autorizzare il supposto;
e poi, prova ad ogni modo come il Talmud, anzi le versioni anteriori
al Talmud tenessero per fermo non altro essere i _Zikné Angheb_,
che dottori israeliti.—Questi alla domanda di Alessandro, quale tra
luce e tenebre abbia preceduto, si tacciono. Il Talmud dà a questo
silenzio un motivo che non si acconcia che ad uomini israeliti. E qui
come ognun vede il carattere israelitico investe l’ordine stesso dei
fatti, ed appare manifesto in uno dei suoi più singolari incidenti.
Si dirà qui pure che il silenzio loro ebbe altro motivo, e che il
Talmud ne escogetò tale che consuonasse colla origine israelitica
degli interrogati? Ma allora conviene trovare quale sia questo _altro_
motivo: e in ogni modo sarà una conferma di più, che il Talmud non
dubitò mai dell’ebraismo di quei dottori.

Ecco però l’argomento capitale, l’_Achille_ dell’illustre Rapoport;
ma che però, come l’eroe di questo nome, ha veramente vulnerabile il
calcagno.

Alessandro nel dialogo in questione conclude con questa domanda:
«_Perchè ci avete voi combattuto?_» E i dottori:—_Satan
vinse._—_Ebbene_, dice Alessandro, _voi sarete uccisi per regio
comando_.—Ed essi:—_Il potere è in mano dei Re; però ai Re non si
addice mentire._—Qui il sig. Rapoport pone, e non a torto, in rilievo
quanto la opinione che in questo _combattere_ intende un dissenso
religioso, il perseverare nell’Ebraismo, sia comento piuttosto forzato;
ma non avremo però bisogno per fuggire da questa chiosa improbabile
ricorrere ad una vera e propria guerra, la quale verrebbe, a senso
suo, da Alessandro rimproverata ai sacerdoti indiani, quali istigatori
di quella tra esso e Poro combattuta. Perocchè noi diciamo: Come non
un cenno, nè del teatro, nè della causa di questo rimprovero, nella
narrazione talmudica? Bisogna dire o che di gentili qui non si può
parlare, o almeno che gli autori della redazione che noi abbiamo
sott’occhio intesero per questi _savj del mezzogiorno_, veri e proprj
Israeliti; resultato al quale inevitabilmente riusciamo, da qualunque
parte prendiamo le mosse. Ma è poi inesplicabile la conclusione del
dialogo senza la divergenza religiosa, o la vera e propria guerra?
A credere mio, una terza via, ed è la buona, ci viene indicata dal
_Moarscià_, il quale vede nel rimprovero d’Alessandro un lamento
superbo della libertà colla quale avevano avvilito ogni più cara
cosa, onde egli andasse superbo;—la _Scienza_, quando risposero _che
il vero savio è l’uomo previdente_, e quanto poco egli lo fosse, gli
avvenimenti il dimostrano; il _valore_, il coraggio, quando dissero
_vero prode colui che vince le passioni_, nè di questa maniera di
prodezza ebbe Alessandro. Gli _averi, i beni, la potenza_, quando
chiamarono, _solo ricco colui che è lieto e sodisfatto di quanto
possiede_.—Qual più amara ironia della vita e delle idee di Alessandro!
Ma esso è preso più evidentemente di mira in altre loro sentenze.
S’ei chiede qual sia il modo di goder la vita essi rispondono di
mortificarla. S’ei cerca il mezzo di tornare agli uomini accetto,
essi gli additano il sistema opposto a quello che ei seguiva,
quello cioè d’odiare il regno ed il potere. Ed è appunto per questa
costante censura di tutti i suoi atti, e del suo genio, ch’ei chiede:
«Perchè mi combatteste?»—E si noti che _Atrastun_, che è il verbo
che noi traduciamo per _combatteste_, deriva da _Taris_, scudo, arma
esclusivamente difensiva, ed ha un senso peculiare che si addice
molto più a una lotta verbale, a una _ardita confutazione_ o meglio
_apologia_ o diatriba, che a una lotta a mano armata. Basta dire che
il Talmud chiama _Targati_ (_Baalà Terissin_) i _campioni più abili
nella controversia religiosa_ (Talmud Berakot) e che quell’altra sola
volta in cui questo verbo è usato nel Talmud (Jevabot, 121) è appunto
nel senso che noi crediamo, vale a dire di un’ardita _opposizione
scientifica_, come a un dipresso noi diciamo oggi _Polemica_ da
_Polemo_ guerra in Greco a significare ogni maniera di _Controversia_.
Che rispondono i _Zikné Anegheb_ ai lagni del Macedone? _Satan
vinse._—Per quelli che veggono nella sua domanda un senso religioso
ciò vuol dire:—«Satan vi vince e seduce coi sui errori, quindi fra
noi opposizione nel sentire religioso»—e questa interpretazione, come
si disse delle orazioni di Demostene, pute di lucerna. L’altra del
_Moarscià_ non è meno infelice; il senso suo significa, _Noi tuoi
avversari_ (Satan) _ti vincemmo colle ragioni_. E pel sig. Rapoport
che vuol Alessandro lamentarsi delle loro istigazioni alla guerra,
che cosa significa? Egli nol dice. Per noi il senso ci pare ovvio.
Alessandro si lagna del loro ardito linguaggio. Essi si scusano
dicendo. «Satan vinse.» Vale a dire, fu un mal genio che c’ispirò
questo parlare a te increscioso.—L’idea del _predominio di Satan_ per
significare una sventura che incoglie è usata nel Talmud dal medico
e astronomo Samuel, _Satanà bitrè ummé la sciallit_; e ciò che più
monta, ragionando come ragionano i dottori del mezzodì, con un pagano,
vale a dire coll’amico suo Ablat, che noi abbiamo gravi motivi per
credere non altri essere che lo stesso celebre _Plotino_ fondatore
della scuola Neoplatonica di Alessandria.—Un altro segno che questi
savj sono sacerdoti tebani, è pel Rapoport (pag. 71) il suggerimento
che porgono ad Alessandro per poter penetrare senza pericolo nei
deserti affricani. Notiamo come poco innanzi (pag. 69) ei vi vedesse
piuttosto etiopi o brami, e che ora divengono sacerdoti tebani come
più atti a porgere di questa specie consigli. Non sarebbe però questa
la prima volta che nel Talmud, filosofi e principi pagani ricorrono ai
dottori ebrei per lume e direzione; testimone fra gli altri i messaggi
che Antonino inviò ripetutamente a Giuda il santo per consultarlo
intorno ad affari di stato.—Ciò che non dee tacersi però si è, come
per espressa dichiarazione del Talmud questi suoi consiglieri, con
cui di nuovo confabula al suo ritorno, sono _Rabbanan_, vale a dire
i _nostri maestri_. Sono essi che vedendolo sorpreso perchè tutto il
suo argento e l’oro non bastasse a contrappesare un _occhio_ che aveva
riportato dalla sua visita in paradiso, gli porgono il consiglio di
provare a porvi sopra un po’ di terra.—Lo che fatto, torna al suo peso
naturale. Ora non è difficile scuoprire in questo significantissimo
consiglio la impronta della precedente conversazione con Alessandro, lo
stesso indirizzo morale, che in quella apparisce. E se autori del primo
sono _Rabbanan_, mestieri è credere che eglino stessi siano i primi
interlocutori.

Fosse pure provato che un doppio strato d’idee, di locuzioni si
distinguono nella redazione talmudica, che il primo appartiene ad età
più antica e nulla abbia di ebraico, l’altro ad epoca più moderna e
abbia israelitica impronta: ciò che non potrà in ogni caso negarsi si
è, che a senso dell’_ultima_ e _definitiva_ redazione talmudica tutte
le cose quivi narrate _si riferiscono ai dottori ebrei abitanti nel
mezzogiorno_. Ora quando pure ciò non avesse nessuna realtà storica,
basterebbe, nonostante, al nostro supposto, e bisognerebbe vedervi
egualmente un’allusione all’_Essenato_ colà abitante. Giacchè non è
possibile che il Talmud attribuisca tutti i fatti e gli incidenti
occorsi tra Alessandro e i sacerdoti tebani, ai dottori abitanti del
mezzogiorno, se ai tempi medesimi che quest’alterazione si operava,
nella tradizione più antica, non fossero esistiti dottori i quali tutte
le qualità riunissero atte a rendere verisimile l’applicazione che ad
essi si faceva di ciò che spettava in origine ai brami o ai sacerdoti
d’Egitto. Non è possibile, in una parola, che il Talmud rapisca ai suoi
veri proprietarj una veste per ricuoprirne un _Ente imaginario_. E ciò
basta, come diceva, per vedere nella _intenzione_ dei redattori del
Talmud una allusione trasparente allo Essenato. Questo resultato, non
è critica che ci possa rapire, ove pure si meni buona la ipotesi dello
illustre Rapoport.

[50] Il comento _Tossafot_ osserva (loc. cit.) come dal contesto
apparisca esser gli anziani del mezzogiorno, dell’ordine dei _Taneiti_.
Il sig. R. Rapoport Erek Millin, alla parola Alessandro a p. 73.—crede
poter fondarsi su quanto si legge (Talmud ivi pag. 22.) _Tacah lehu Res
Lachis lidromaé_; per dedurne che appartengono piuttosto all’ordine
successivo degli Emoraiti. Veramente la frase Talmudica non prova; e
tanto meno, quanto non si osserva nel contesto quella forma dialogica
che sarebbe stata seguita ove Res Iachis (degli Emoraiti) avesse coi
dottori del mezzogiorno confabulato. Ma ove pure fosse provato che vi
erano _dottori meridionali_ che appartenevano all’ordine e all’epoca
degli Emoraiti, ciò non osta affatto al supposto che fossero Esseni,
siccome noi veramente crediamo, poichè Esseni esistevano in Palestina
tanto ai tempi tanaitici quanto a quelli più tardi degli Emoraiti.
Anzi, a veder bene, questo trovarsi nel Talmud dottori designati
coll’epiteto semplicissimo di _meridionali_, tanto in tempi antichi che
in altri posteriori, prova che si volle con ciò alludere piuttosto a
una _famiglia_ di savj che aveva _stanza comune e legale e conosciuta_
in quella contrada, che non a una dimora arbitraria che avrebbe
lasciato sempre incerto, di quai dottori a preferenza si favellasse.

[51] L’ebraismo biblico non ha mitologia. Ciò fu da lungo tempo notato
e valse a provare sempre più la sua divinità e la superiorità dei
nostri sacri libri sulle mitologie paganiche. Però di questo fatto
vero in generale non è qui luogo a parlare. In ogni modo questo
invertimento d’epoche nella storia dall’ebraismo, questo precedere
inatteso, irregolare del vero, e dello storico, del proprio,—al mito,
alla finzione, al figurato;—questo tardo comparire della mitologia
nello Ebraismo che non comincia fra noi a spuntare che colla cessazione
dell’era profetica, e col principiare dell’era rabbinica, è fatto
eloquentissimo che dovrebbe dare grandemente a pensare. Non par egli
mostrarci a dito che fino a quest’epoca ultima, la mente ebraica,
il pensiero umano si rimase ozioso, supplito com’era da una potenza
superiore che ispirandolo a suo grado, gli risparmiava naturalmente
quelle fasi, quelle transizioni che lasciato a se stesso non può a
meno di percorrere; e che appena cessata questa azione straordinaria
sul pensiero ebraico, vale a dire al cominciamento dell’era rabbinica,
la mente ebraica si trovò a quel punto istesso in cui la mente pagana
si sentì all’esordire della sua civiltà, e cominciò allora soltanto a
svolgersi per tutte le fasi che le sono naturali? Noi non facciamo qui
che accennare una idea, la quale esigerebbe il massimo sviluppo, a cui
siamo certo preparati, ma che il luogo non comporta. Ciò valga soltanto
a spiegare la parola _Mitologia_ di cui ci siamo valsi ad indicate la
_Letteratura Agaditica_ del Talmud.

[52] Vi è in ambo i Talmud un frammento che sembra ostare alla
superiorità da noi attribuita ai meridionali, nella scienza
dell’_Agadà_, e quindi sopprimere uno dei punti di contatto che tra gli
Esseni abitatori di quelle regioni, e la scuola dei teosofi cabbalisti,
abbiam creduto ravvisare. Pure dopo breve esame parvemi vedervi
piuttosto ragione di confermarmi sempre più in questo supposto. Ecco i
due frammenti preziosi anche per altre conclusioni che sarebbe ovvio
inferirne, se qui ne fosse il luogo.—Nel Babilonese si legge (Pesakim
V. 62). _R. Samlai presentossi e R. Johanan dicendogli: Insegnarmi,
ten prego, il libro delle Genealogie. (Sefer Johassin). Risposegli:
D’onde sei tu? da Lydda. E ove dimori? In Neardeà. Non è lecito dunque_
(replicò) _insegnarlo, ne a quei di Lyddà, ne a quei di Neardeà._—E nel
Gerosolimitano al luogo istesso.—_R. Samlai presentossi a R. Jonatan
dicendogli: Insegnami, ten prego, l’Agadà. Risposegli: Ritengo per
tradizione dei miei maggiori, di non insegnare Agadà, nè a’ Babilonesi
nè ai meridionali, perchè sono alteri, e nella legge dappoco._ Tacciamo
di molte altre rivelantissime considerazioni che il confronto dei due
testi ne suggerisce;—della equivalenza di _Sefer Jokassin_ (Talmud
Gerosolimitano) e d’_Agadà_ (Babilonese); di una non meno pronunciata
avversione pei Babilonesi che si riscontra nel Zohar; dell’_alterigia_,
ostacolo all’insegnamento della Agadà; come la _umiltà_ fu titolo e
pregio singolarissimo per penetrarne i segreti come più oltre vedremo;
della importanza che assume l’Agadà in ambo i frammenti; del carattere
tradizionale e antico di questa trasmissione a segno d’avere ricevuto
per tradizione le regole della trasmissione medesima; del personaggio
di R. Samlai—qui studiosissimo dell’Agadà, e celebre nelle pagine del
Zohar (76, 2.) come maestro di penitenza, sotto il nome eloquentissimo
di _Asià_, medico o terapeuta;—della identità del _Darom_ (mezzogiorno)
del Gerosolomitano con Lydda (Lud) del babilonese frequente soggiorno
dei teosofi nel Zohar, e d’altre per avventura non meno importanti
considerazioni. Domanderemo soltanto come conciliare la scienza, la
celebrità altrove vantata dei dottori _meridionali_ nelle dottrine
dell’_Agadà_ con questo rifiuto d’insegnarliela, che sorprendiamo
in bocca a R. Jokanan o Jonatan? Specialmente ove si abbia occhio
al motivo che di questo rifiuto si narra—_l’alterigia loro e la
inferiorità nella scienza religiosa_. Ma la obbiezione si tramuta in
prova, solo che si attenda al comento di Rasci, il quale, non saprei
dire troppo il perchè, non vede nel motivo allegato al rifiuto che
un _pretesto_, e riduce per conseguenza la negata trasmissione a un
giudizio poco favorevole che dell’attitudine personale del richiedente,
avrebbe fatto R. Jokanan o Jonatan. Difatti si legge in Rasci—_che
non ebbe di mira così dicendo che a respingerlo con un pretesto—o
meglio perchè Babilonesi e meridionali non hanno sicura genealogia
in Israel_.—Ognun vede come nella prima alternativa l’ostacolo è
scomparso; ma non tutti veggono a prima giunta come nella seconda sia
trasformato in appoggio. Non si comprende invero come Babilonesi e
meridionali non hanno sicura genealogia in Israel, dappoichè sappiamo
che _Essa non si partì da Babilonia, finchè non la lasciò quasi
farina schiettissima_; come si esprime il Talmud e che il _Darom_ o
_Lud_ era parte di Palestina ove pare inconcepibile che vivessero
uomini _interamente_ d’origine _spuria_ o _dubbiosa_. Ma si comprende
benissimo ove in questi meridionali almeno si veggano i nostri Esseni,
discendenza, siccome più sopra vedemmo, dei Recabiti e ramo gentile
innestato in Israele, la gente aliena _Benè Nekar_ di cui parla Isaia.
Può darsi dunque che dopo tanti secoli scorsi dai Recabiti e dopo il
continuo incorporarsi alla società loro di tanti elementi israelitici,
quelli che erano conosciuti per discendenti da quei proseliti (che
allor ve ne fosse lo sappiamo da R. Iosè, che è detto nel Talmud
apertamente _della prole di Jonadab ben Rekab_) fossero tenuti in conto
di meno degni di penetrare le dottrine _agaditiche_.

Checchè ne sia, ci sia lecito prima di passare ad altri fatti di
osservare alcuni indizj che nel testo talmudico di Zebakim ove si parla
di Jeudà Ben Dostai, e di cui si fe’ parola nel testo, ci conducono per
altre vie alla società degli Esseni.—È il primo il nome _peculiare_
che il Talmud dà a questo Ieudà ed ai suoi, di _Parouscim_ farisei
per eccellenza, nome che essendo comune a tutti i dottori, e che da
se stessi si dànno, non può essere inteso che come una più onorifica
designazione: quasi i più _farisei_ tra i _farisei_. Il secondo è il
fatto che il comento di Rasci pone in luce quando dice che Ieoudà e il
figlio elessero stanza lungi da Gerusalemme _per non recarvisi nelle
feste, nè sacrificare l’agnello pasquale, nè gli altri sacrificj di
Haghigá_. Non par egli porgerci la chiave di quel dato singolarissimo
che ci somministra Giuseppe intorno gli Esseni dicendoci che _non
entravano nel tempio per sacrificarvi_; e che tanto sembra opporsi alla
identificazione loro colla parte più eletta dei farisei? Avremmo dunque
nel fatto di _Jeoudà ben Dostai_ la spiegazione di questo astenersi,
e in guisa l’avremmo da dissipare ogni nube che sembra elevarsi sulla
identità da noi propugnata. Non si dimentichi che Jeoudà è più antico
di Giuseppe, di quasi un secolo e mezzo.

[53] Poche linee più sopra, il gran maestro della Teosofia piange
di un pianto di gioja. Qui è il bacio che officia come segno di
fraterna approvazione. Ambo, a parer mio, indizj significantissimi.
L’uno e l’altro provano come questi farisei così posti in mala voce
per formalismo, per insensibilità, per ipocrisia, fossero d’una
sensibilità, così esquisita da prorompere frequentissimamente in quelle
dimostrazioni spontanee che ne sono il più efficace argomento; e che
d’altra parte tanto bene si acconciano a quel _Misticismo_ che noi
vediamo nelle loro dottrine. Chi scinde i dottori zoaristici, i mistici
dai dottori talmudici, non poco dee durare fatica a spiegare quella
pronta, vivace, energica estrinsecazione dei proprj affetti che negli
uni come negli altri apparisce ad ogni tratto.

Ma se la gioja, il pianto, il bacio fraterno, attestano
indistintamente qual cuore si avessero questi farisei calunniati,
l’ultimo specialmente, il _bacio fraterno_, ha una significazione
particolarissima in quanto accenna a quella filiazione di cui altre
volte toccammo del primitivo cristianesimo, e dei suoi più eminenti
rappresentanti, dalla famiglia dei mistici farisei e dei teosofi,
si appellino essi _Esseni_ o _Kabbalisti_. Non è troppo il dire che
spesso più nelle piccole analogie che nelle grandi, più nelle minute
circostanze che nelle linee più prominenti, si vede la vera affinità
e derivazione dei sistemi; perciocchè le prime come più particolari
più urgentemente ne fanno fede che non le seconde, siccome quelle che
essendo più generali, è più agevole il supporne la fortuita apparizione
simultanea in varj sistemi. Così, a mo’ d’esempio, il _bacio_ di cui è
discorso. Chi conosce il Zoar sa che non v’è cosa che vi torni più di
frequente.

Ma ciò che più monta si è che negli altri monumenti rabbinici come
Misnà Talmud, ecc. o non vi si nota, o se tu ve lo scorgi, egli è
_solo in quei casi in cui dei Misteri è parola_.—Per esempio della
Mercabà o carro di Ezechiele (V. Talmud trat. Heghigà, 14). Non è
questo eloquente indizio che questa forma di approvare e di salutare
era peculiarissimo un genere di studj, a quelli cioè dove ebbe culla
il Dogma Cristiano? Che sarà se vedremo poi il _bacio fraterno_
apparire _nei Vangeli_ e tra i fondatori della fede cristiana come
saluto consigliato e approvato? _Salutatevi_, dice Paolo, (Ep. ai Rom.
sub fine) gli uni gli altri con _santo bacio_.—E così I. Corint. XVI,
20.—2ª Corint. XIII, 12.—1ª Tessal. V, 26.—I. Piet. V, 14.—Nè mancò
neppure chi lo avvertisse. «_Dès l’origine de l’Eglise la coutume
s’introduisit parmi les Chrétiens dans leurs Assemblées de se donner
le baiser de paix._ (Bergier. Diction. de Theolog. III. 571.)» Forse
non sarebbe erroneo aggiungere che quest’uso fa fede d’un’antichità
particolare di quel consorzio, se si dee giudicare dagli esempi della
nostra Europa, in cui non è raro vedere il _bacio_ essere il saluto
per eccellenza e la forma di esso più antica. Oggi pure in Inghilterra
tanto è dire _salutare_ che _baciare_. «_Sous le règne de Henri VII,
quand les arrières grand’-mères des douairières actuelles d’Angleterre
saluaient un parent, un ami, ou même un étranger, c’était en échangeant
avec lui un innocent baiser._ Le mot _salute_ est resté en anglais
comme synonime de _Kiss_ ou de baiser.—Revue Britannique, Mars 1860, p.
91.

[54] La mèsse è talmente abbondante, che non crediamo con quanto
fu detto averla esaurita. Plinio aveva detto (lib. V, VIII,) degli
Esseni, _Gens socia Palmarum_. Ora, oltre la residenza che abbiamo
veduto scelta dai Teosofi nella regione delle Palme, il mezzogiorno
di Palestina, non si dee tacere come nel Zoar ci si offrano spesso
que’ contemplativi a ragionare all’ombra dei palmizj _tuté diclé_;
che notarono la _sessualità_ di quei vegetabili non solo, ma di tutte
le creature dell’universo in questi termini. _R. Eleazar e R. Hisà
andavano per via, e vedendo due palmizi, l’uno maschio l’altro femmina,
disse R. Eleazar a R. Hisà: Certo, tuttociò che vegeta sulla terra, è
maschio e femmina non solo, ma eziandio tuttociò che cresce in seno al
mare._ È noto come Empedocle fosse il primo ad osservare la sessualità
delle piante; ed Empedocle presenta più di una analogia nelle sue
dottrine in generale coi teosofi nostri, sulle quali ameremmo fermarci,
ma che i limiti di quest’opera ci contendono. Diciamo solo come il
gran poeta e filosofo nostro Ben Gabirol, conosciuto e citato da
tutto il Medio Evo sotto il nome di _Avicebron_, come con grandissima
sodisfazione dei dotti, avvertiva l’illustre sig. Munh di Parigi, è
reputato dal suo abbreviatore e traduttore Ben Falakira seguace fra
tutti gli antichi a preferenza di _Empedocle_. E ciò torna tanto più
verosimile in quanto sappiamo per confessione dei critici stessi più
indipendenti, che tra Ben Gabirol e la Dottrina Cabbalistica o teosofia
corrono numerosissime affinità a tal punto che fu creduto il primo
modello e la seconda la copia. Ma ciò non toglie che questa particolare
conformità del Zoar alle teorie botaniche di Empedocle, non abbia il
suo valore. Quanto ai Dottori Essoterici abbiamo già avuto luogo di
vedere nel raffronto da noi istituito tra le loro dottrine e quelle
deposte nel libro di Filone _de vita Mosys_ come della intima struttura
delle Palme favellassero come favella la scienza odierna. È inoltre
narrato nel Medras Rabbà, il fatto di due Palmizj che divennero fecondi
quando ogni ostacolo fu rimosso che li divideva, lo che consuona
mirabilmente con quanto narra il Verati, vol IV, p. 268. «È veramente
degno di attenzione, scrive il Prof. Gaetano Savj, ciò che si racconta
della Palma maschio di Brindisi e della Palma femmina di Otranto.
Questa da lungo tempo pareva ed era sterile, ma allorquando ambedue
furono cresciute a segno che gli spadui si trovassero al di sopra degli
ostacoli che si frapponevano alla diretta comunicazione fra loro, la
femmina abbonì dei frutti.»

Abbiamo nel testo veduto gli oratorj posti in mezzo ai campi. Là pure
si studiava e s’insegnava ai discepoli. E nulla vi ha di più frequente
non solo nel Zoar, ma nei libri essoterici non meno, che i Dottori
meditanti o insegnanti ai discepoli all’ombra di un palmizio o di un
fico. E molto sarei inclinato a credere che da questo uso derivarono
le similitudini tolte dalla vita dei campi a significare la scienza
sacra, le sue parti, e i suoi cultori. Forse anche altre allusioni si
annodano nel nome _Pardes_, giardino, dato alla Teologia arcana, ma è
probabilissimo che tanto esso quanto l’idea correlativa di _guastare
o sbarbicare le piante_ per indicare la introduzione d’errori, o la
negazione di alcune verità, non d’altronde abbiano presa occasione
a così dirsi. Non è da questo diverso il nome di _Cherem_ (Vigna)
dato alle scuole, ed alle accademie. Se pure non vogliasi vedervi
una _Vigna_ vera e propria ove si studiava, lo che non pare affatto
inverosimile, egli è certo però che la interpretazione che si dà a
questo nome, (antichissima, a dir il vero, perché origina dal Talmud
Gerosolomitano) e che significherebbe un luogo distribuito e diviso
a guisa di Vigna, non è molto atta a sodisfare la buona critica. Non
sarebbe piuttosto una derivazione o una reminiscenza della situazione
delle scuole e delle accademie in mezzo a campi ed a vigne? Nè la
similitudine quietò in questa idea generale, ma scese analiticamente
a distinguere parte a parte i prodotti delle vigne e dei campi, ed a
designare col nome di ognuna di esse, una delle parti più cospicue
della scienza religiosa. Così il _fiore della vite_ adombra la
bibbia.—_L’agresto_ la Misnà.—_Il melogranato_ il Talmud (Irubim,
Cap. II, V, ivi Moarscià che connette questa similitudine coll’altra
generica della _Vigna_.) E altrove il grano _Dagan_ significò
l’_Alakà_, il _Rito_ la _legge_, e il vino _Tiros l’Agadà_ (si noti
come Agadà a senso nostro sia la veste leggendaria della Teosofia; e
come la Dottrina evangelica che non fu in origine che una Teosofia
propalata prenda il nome nei vangeli stessi di _Vino_): Infine l’uomo
pieno di scienza varia fu detto _Escol_ Grappo (Sotà sub fine), come
l’indotto, il volgo fu chiamato col nome di _pampani_ che valgono a
conservare e difendere i grappoli (_ibhun rahamé aalaia deitcaiemùn
atcalajà_.) E per quanto valenti critici come il Rapoport vogliano
vedere negli _Aschelot_ (Sotà ibid) una corruzione o ebraizzamento di
_scuole_, pure, tutto considerato, non si può a meno di conservare a
questa locuzione, almeno come senso fondamentale e primitivo, quello
proprio di _Grappolo_.

[55] Questa locuzione è comunissima nei due Talmud, e in generale
nell’antica Biblioteca Rabbinica. Egli è da quest’uso che Gesù apprese
a dire a proposito di Lazzaro morto, _Lazzaro nostro amico dorme_.
(Gio. XI, 11). Ma ciò che torna incomprensibile egli è che uomini
israeliti com’erano i discepoli, abbiano potuto fraintendere, e
capire vero e proprio sonno, replicando: _Se egli dorme sarà salvo_
(anche così dicendo si mostrano seguaci della terapeutica talmudica).
Questo equivoco non troppo naturale in uomini che ascoltavano tuttodì
_dormire_ per _morire_ e che dovevano in quest’ultimo senso tanto più
interpretarlo, essendo Gesù a quell’ora troppo da Lazzaro lontano, per
saperne tutte le più minute vicende (la morte siccome cosa troppo più
importante poteva da essi presumersi conosciuta per chiaroveggenza
profetica), farebbe credere che ei fu soltanto appo lo scrittore
del quarto Evangelo, siccome dai tempi alieno e dai luoghi ch’ebbe
nascimento, e ch’egli per induzione analogica pose a carico dei
discepoli.

[56] Questo avveniva nella festa dei Tabernacoli, ed era in quei giorni
che ricorreva la straordinaria esultanza ove, dice la tradizione,
prendevano parte quasi esclusiva i _Hasidim_ (nome a senso nostro più
antico degli Esseni) ed i _Pratici_ come fra poco vedremo; lo che
ci riconduce per altra via, alla predilezione degli Esseni per le
acque. Il Talmud dice apertamente che si nomava festa della _Scioabà
perchè di là attingevano (Scioabim) lo Spirito Santo, siccome è
scritto: Attingerete acqua con esultanza dalle fonti della salute_; e
questo fatto come queste parole stringono in un sol fascio. _Hasidim_
antica appellazione degli Esseni, la libazione delle acque; e la
ispirazione onde furono celebrati gli Esseni, unione sopra ogni altra
eloquentissima. Non taceremo come questa festa e questo Testo Rabbinico
spargano gran luce sopra un passo del quarto Evangelo. (Cap. VI, V.
37.) _Or nell’ultimo giorno, che era il gran giorno della festa_ (dal
V. 2 apparisce che questa festa era quella dei _Tabernacoli_) _Gesù
stando in piè gridò dicendo: se alcuno ha sete, venga da me e bea._ V.
38. _Chi crede in me, siccome ha detto la Scrittura, dal suo ventre
coleranno fiumi d’acqua viva._ V. 30. _Or egli disse questo dello
Spirito il quale riceverebbero coloro che credono in lui._

1º Si noti la qualificazione di grande data all’ultimo giorno dei
Tabernacoli, appunto come i Dottori lo chiamano il _giorno del grande
Osanna_. Ma questo titolo ha un valore speciale in bocca a Gesù,
perciocchè prova come non siamo andati errati in una Scrittura Ebraica,
diretta a confutare le idee del Signor professore Luzzatto, quando
asserimmo che il carattere penitenziale e solenne di questo giorno
risale a tempi antichissimi. Fra gli altri cenni, questo dei Vangeli
non è l’ultimo, mostrando Gesù, che invita in quel giorno a convertirsi
alla sua fede, e chiamandolo GRAN GIORNO appunto come il Talmud
Gerosolimitano chiamato GIORNO per eccellenza, e lo pone al fianco del
_Capo d’Anno_ (vedi mia opera citata). Non è da trascurarsi neppure
come il _gran giorno_ dei Vangeli per l’ultimo dei Tabernacoli, abbia
non poca analogia col nome _gran digiuno Zomà Rabbà_ dato dal Talmud al
10 di Tisri.

2º Gesù dice _Se alcuno ha sete, venga a me e bea_. Come non vedere in
queste parole un’allusione, vuoi alle acque che si pregavano in quei
giorni copiose per tutto l’anno, vuoi alla libazione delle acque nel
Tempio che non si faceva mai, tranne quei giorni istessi? E si noti
che Gesù proclama questo nel _Tempio_ (V. Giov. VII, verso 14-28), ove
questo rito si celebrava, e si mostra per ciò stesso fedele a quella
trasformazione ch’egli mirava a operare nel culto ebraico sostituendo
_sè stesso_ al Tempio, e appunto chiamando sè medesimo col nome di
Tempio, tanto quando _promette distruggere e rifabbricare il Tempio
in tre giorni_, quanto allora che per giustificare i discepoli che
profanavano il sabato, cita l’esempio dei Sacerdoti che eseguivano
ogni illecita opera nel Tempio, e aggiunge: «_Ora io vi dico in verità
che vi è qui qualcuno maggiore del Tempio._» Gesù trasporta dunque
nel senso figurato delle sue proprie dottrine il rito materiale che
allora si celebrava, e neppure così facendo si dilunga dalle dottrine
farisaiche, conciossiachè siano esse appunto che hanno detto «chiamarsi
quella festa _Scioabà_ perchè _vi si attingeva lo Spirito Santo_.»
Ecco il senso metafisico innestato sul rito delle libazioni. E qual è
il verso che s’invoca dai Dottori a sostegno? Quello appunto che dà
Gesù. È vero che verso come quello da Gesù rammentato, non si trova
affatto nella sua giacitura in tutta la Bibbia, ma è innegabile del
pari che il verso a cui si mira (per qualsiasi ragione alterato) è quel
che si legge in Isaja XII, V. 3 (non X, 4 come vuole Diodati) vale
a dire _attingerete acqua con esultanza dalle fonti della salute_,
che diventa in bocca a Gesù, _dal suo ventre coleranno fiumi d’acqua
viva_. A spiegare la quale differenza, basta osservare che Gesù applica
a sè stesso, ciò che il profeta intende per la salute politica e la
morale, e i Dottori per la ispirazione. Quindi è che le frasi ebraiche
prestandosi mirabilmente a tal metamorfosi—le fonti (_Mahianè_) da
cui si attingerà l’acqua divengono—il _Ventre_ del Messia—dicendosi
in ebraico per ventre _Mehé_ per fonte _Mahian_—ed anche _Mahiane_;—e
la salute _Jesciuha_ è sostituita dal sottinteso Messia Gesù—chiamato
_Jeosciua_ che suona all’orecchio come all’intelligenza, quanto Jeseuha
(Salute). L’imagine poi di _ventre ricettacolo di dottrina_, se
suonerebbe impropria nelle nostre lingue, che per la scienza progredita
esprimono più esattamente la situazione d’ogni viscere, è per contro
comune e approvata nel biblico e nel rabbinico idioma, dicendosi nel
primo: _la tua legge nel mio ventre_. (Salm.) _Vetorateha betoh meai_
e nel rabbinico: _Gioisci, o mio ventre_, per dire vo superbo di aver
raggiunto la verità.—Questa trasformazione torna tanto più accettabile,
ove si riduca a memoria quanto più sopra dicemmo, dell’intendimento
a cui mirava _Gesù_ di sostituire o anteporre _Sè stesso_, le sue
_dottrine_ e la sua _autorità_ al _Tempio_. Ma sopratutto torna
qui opportuno notare, come la teosofia cabbalistica, che a senso
nostro forma il fondo delle dottrine degli Esseni, e del primitivo
cristianesimo, chiami _fonte o pozzo di acqua viva_ Beer maim haim
non solo il Tempio di Gerusalemme, (V. Naemanide e com. al Pent. Sig.
Vojerà) ma il suo prototipo, emanatistico—la Sefirà chiamata _Regno
Malhut_ e Tempio che è nella serie delle emanazioni—il principio della
incarnazione, la umanazione del Verbo o Logo (Tilheret) lo che spiega
come Gesù Avatara, chiami sè stesso _Tempio_, e a sè stesso arroghi
l’epiteto di _fonte o pozzo d’acqua viva_. Si vegga anche nello stesso
Vangelo di Giovanni, il colloquio di Gesù colla Samaritana e le parole
significantissime che Ei vi pronunzia. Soprattutto non si dimentichi
che lì come qui, è Gesù che proclama sè _vera sorgente salutare,
vera acqua, vero pozzo_ capace di dissetare. Nella scena del Tempio,
come in quella del pozzo colla donna Samaritana, non saria possibile
disconoscere le allusioni ai fatti, e alle dottrine dell’Ebraismo, e
l’influenza _mitica_ apparisce qua e colà evidente. Nel Tempio non
solo, come dicemmo, Gesù ha di mira la ispirazione che in quei giorni
reputavasi diffondersi sulle menti a guisa delle acque, che allora
appunto l’unica volta in tutto l’anno si spargevano appo dell’altare;
ma non si può negare nemmeno che qualche allusione non voglia egli fare
eziandio al pozzo, su cui posava l’altare e di cui toccammo nel Testo.
Nel colloquio colla Samaritana al pozzo, il _Mito_ non è a parer mio
meno sensibile. Chi ne voglia diffusa dimostrazione la troverà nel
mio _Essai sur l’origine des dogmes et de la morale du christianisme_
(Manoscritto premiato nel concorso dell’_Alliance israélite
universelle_ di Parigi). Solo ci piace qui di aggiungere, come la donna
Samaritana si dica avere avuto _sette mariti_, numero e circostanza di
conto indubitatamente cabbalistico, onde il principio d’_Incarnazione_,
il _Regno_ chiamato anche _Pozzo_, si dice il principio femminile
di tutte le _Sètte_ superiori emanazioni, e perciò stesso chiamata
ora _figlia dei Sette Bat Sebah_, ora l’_ottava_ (Sceminit. Esmun
egizio). Quanto al _pozzo_, un autore che se ne intendeva appartenendo
egli alla Società dei _liberi muratori_, così s’esprime «_Les puits
étaient des emblèmes communs à toutes les initiations. Dans tous les
temples égyptiens où on initiait, il y avait le puits où descendait le
néophyte.... La Maçonnerie considérée comme le résultat_ ec. per R.
D. S. vol. 2. p. 65.» La esistenza dei segni dell’esoterismo e della
iniziazione nel Tempio di Gerusalemme, malgrado le apparenze contrarie,
dovrebbe ammonirci come sia verissimo ciò che altrove dicemmo, cioè che
la sola differenza tra il metodo pagano e l’ebraico in ciò consiste,
che il primo pose l’esoterismo e il mistero nella teologia e la
divulgazione nella mitologia, mentre il secondo fa patrimonio comune
della teologia e pone il mistero nella mitologia, siccome quella che
serve d’_involucro_ non alla _sostanza_ ma alla _scienza_ dei Dogmi.
Per modo che si può dire che il paganesimo non è che un ebraismo a
rovescio.

[57] Alle cose esposte nel Testo vogliamo aggiungere come della
sorgente che era nel Tempio ragioni eziandio Aristea nei frammenti
riportati da Eusebio. (Prep. evang. ed Paris, vol. 2, pag. 51) _Cette
eau_ (che terge il sangue delle vittime) _provient d’une source
placée dans l’intérieur: source intarissable et abondante_ ec.; come
i Dottori eziandio predilegevano le Rive come sede atta ai buoni
studi, leggendosi nel Talmud Oraiot 3: _quando leggete o meditate,
fatelo, presso ai fiumi; così, in quella guisa che scorrono le acque,
scorreranno pure le vostre cognizioni_; e finalmente come questa
simpatia e quest’uso condusse i primi cristiani a prediligere essi
pure le rive, di cui non vogliamo citare qui che un solo esempio.
_E nel giorno del Sabato_ (si legge negli Atti, cap. XVI, V. 13)
_andammo fuor della città presso del fiume dove_ SOLEVA ESSERE IL
LUOGO DELL’ORAZIONE, e _postici a sedere, parlavamo alle donne quivi
raunate_. Una lettura del Vangelo mostrerà come quest’amor delle rive
risalga sino allo stesso fondatore del Cristianesimo, il quale tolto lo
ebbe senza meno alla Scuola Essenico-farisaica a cui appartenne.

[58] Queste cose andavamo tra noi stessi conghietturando privi, come
siamo, del gran sussidio della letteratura germanica, quando la sorte
ci fe’ imbattere in un illustre ausiliare, dell’amicizia del quale ci
onoriamo, ed è il sig. _Jost_ nella _Storia del Giudaismo e delle sue
sètte_. Ecco la traduzione delle sue parole recate in idioma francese:
«Les Esséniens n’observaient pas si rigoureusement les scrupules
rabbiniques sur la transcription de la loi orale, et les Meghillat
Setarim mentionnés dans le Talmud ont été écrits par des Esséniens.»
Il Redattore dell’_Univers israélite_, che riproduce queste parole, a
torto aggiunge: «Nous ne connaissons quant à nous que les Meghillat
Setarim de R. Hija:» dico a torto, perché altre pure ve ne sono,
e la nostra del Talmud Gerosolimitano è tra queste. Che si tratti
poi di volumi _scritti_ e non di _libro_ ed _opera_, lo attesta il
verbo _Catub_ che nel citarli si adopera, come il nome di _Meghillà_
indicante invariabilmente _volume_ e non _opera_, come saviamente
avvertiva giù _Rasci_ sul Talmud (Irrubin).

Come astenerci dal rammentare altro autorevolissimo erudito tedesco
(specialmente in tutto che tende a favorire l’antichità della teosofia
ebraica, alla quale si protessa avverso), ed è lo _Zünz_ di Berlino
il quale così esprimesi, Cap. VII.: _Altra opera pregerolissima andò
perduta la quale ragionava di Morale e di Civiltà_ (Dereh Erez): _è
chiamata talvolta Meghillat Setarim_ vale a dire _libro in cui si
ragiona di misteri; tal altra Meghillat Hasidim, il libro dei Hasidim.
Quindi apparisce come questa opera non di leggi rituali soltanto
favellasse, secondo che altri pensò, ma più e meglio di Morale e di
Dottrina; e tanto significa il nome che reca, e quello eziandio che per
entro vi è contenuto._ Due punti pertanto emergono dall’opinione del
Zünz 1º Che _Meghillat Setarim e Meghillat Hasidim_ non sono due opere,
ma una soltanto; 2º Che reca il nome di _Setarim_ pei misteri ch’ella
conteneva. L’autore del _Rabia ed. Ofen_, 1837, benché di gran lunga
più ortodosso del Zünz, non consente nelle conclusioni rammentate,
e crede che lo Zünz siasi indotto a credere alla identità delle due
opere pel fatto che il _Ialcut Simeoni_, pag. 73. 2, chiama _Meghillat
Setarim_ ciò che altre opere (Talmud Gerosolimitano e Sifré) chiamano
_Meghillat Hasidim_. È lecito credere però che non solo questo sia
il motivo che della identità fece persuaso lo Zünz; sibbene ancora
l’intima convenienza di libri misteriosi ai _Hasidim_ noti nella storia
come proavi degli Esseni, come accennammo e accenneremo più volte. Ma
il nome di _Meghillat Setarim_ significa veramente libro de’ misteri,
come vuole lo _Zünz_, o piuttosto libro apocrifo (naseoso), come pare
intendere _Rasci_ ed altri, e come oppone il Rabia? Noi inclineremmo a
credere come il primo, per certe analogie rabbiniche che lo persuadono.
Difatti _Meghillat Setarim_ ha la stessa forma che _Bet Assetarim_. Ora
è indubitato che quest’ultimo lungi da significare il luogo riposto,
suona invece il luogo ove stanno le parti riposte; così _Meghillat
Taanit_, significa _il libro ove sono descritti i digiuni_, e non
il _libro digiuno_.—_Meghillat Joasin_ suona il _libro che contiene
le Genealogie_ e non il _libro Genealogico_,—Meghillat _Sammamanim_
vuol dire il _libro ove sono descritti i profumi e gli aromi_, e non
il _libro profumato_.—_Meghillat Kinot, il libro che contiene le
elegie_ e non il _libro elegiaco_. Non si vuol dire con questo che
il _Meghillat Setarim_ non fosse libro _riposto_ oltre il contenere
dottrine _riposte_, che ansi il primo fatto è conseguenza del secondo;
nè si vuol negare che contenesse anche disposizioni rituali, ma non si
deve nè si può concludere, come fa il _Rabia_, dal fatto che non sono
citate che queste nel Talmud, che altro non vi si contenesse, stante
che il supposto da cui si muove, cioè il carattere misterioso delle
altre dottrine, impediva che queste pure si citassero. Inoltre vi sono
certi caratteri persistenti in tutte le citazioni che del Meghillat
Setarim si fa nel Talmud, che formano a parer mio grave indizio della
sua parentela Essenico-cabbalistica. Basti osservare: 1º Che nei tre
luoghi onde di essa è menzione nel Talmud (Sciabbat p. 6, 2, e 96. 2
Mezia 92, 1) egli è sempre _Rab o R. Abba_, che dice averla letta e ne
riferisce i dettati; ed è sempre presso R. Hija ch’ella fu trovata.
Ora Rab e R. Hija sono due personaggi eminentemente teosofici, l’uno
come redattore presunto da Zoar di parte di esso, l’altro come uno del
soci (Haberim) e interlocutorio. 2º Il _Mazati_ (_trovai_) onde si vale
invariabilmente Rab nel riferirne il contenuto, tanto poco conviene ad
una raccolta di ricordi rituali che dovevano essere frequentissimi e
molto letti e studiati, quanto bene si acconcia a libri e dottrine per
loro indole misteriose. Altrettanto si dica del _Vecatub ba_ (Ed era
in quello scritto) locuzione che torna nel Talmud solo allora che si
tratta di libri esoterici come il libro di Balaamo (Sanhedrim XI), e
quando la citazione non è consentanea al subbietto generale dell’opera.
Lo stesso _Isi ben Ieuda_ le cui parole si citano registrate in quel
volume: vi è grave ragione di credere che sotto uno dei sette nomi che
reca in Pesahim (113, 2) appartenga agli studiosi dell’_Agadà_, vale a
dire della scienza esoterica.

[59] I dottori Talmudici, se quando ripetono le ricevute tradizioni
sono _Autorità religiosa_ nell’Ebraismo, non così quando _spiegano_, e
sono allora discutibili come qualunque altro dottore. Ciò intesero ab
antico i più antichi loro successori, i quali spinsero soventi volte
l’ardimento sino ad interpetrare il _testo misnico_ diversamente da ciò
che fecero i _Talmudisti_, lo che è bene altrimenti grave che non il
trovare inesatta la spiegazione di un fatto per loro stessi remoto, e
del quale non era imposto loro il ricordo quai maestri di religione. Di
questa e maggior libertà usarono anche largamente i moderni, comecchè
in fama di Ortodossi quale il _Rapoport_ nel suo _Ereh Millim_ altra
volta citato.

Quanto all’orazione protratta e quasi continua che nel Talmud si
attribuisce ai Hasidim, non è a tacersi un curioso raffronto che
ci porge la storia delle Eresie. S. Epifanio rammenta due ordini
di _Messaliti_, nome notoriamente derivato dall’Arameo _Zalla_ o
_Zalle_ pregare (V. Bergier Dict. de Theologie vol. 3º p. 246), i
quali s’imponevano la preghiera continua, che credevano adempisse le
veci di ogni altro dovere. Non è difficile ravvisare nel più antico
di questi due ordini le fattezze dei nostri _Hasidim_, coi quali se
non s’identifica assolutamente, pare senza meno un ramo Cristiano del
più antico ceppo Ebraico. È vero che S. Epifanio dice di questo più
antico ordine nè Cristiano essere, nè Ebreo, nè Samaritano; ma si
rifletta alla distanza di luogo e di tempo che divideva Epifanio dai
nostri _Hasidim_, alla vita eccezionale e in tante parti discordante
dalla comune Ebraica che menavano i nostri _Hasidim_, o Messaliti, e
chiaro si vedrà come l’asserzione di Epifanio non ci toglie la pensata
affinità tra i suoi Messaliti ed i Hasidim del Talmud; onde non è da
redarguirsi Scaligero se negli stessi eretici vede una frazione degli
Esseni. (V. Bergier, _Ibid._)

A costo poi di precorrere in parte le cose che saremo per dire, il
testo talmudico, onde qui si ragiona, ci mena irresistibilmente, per
l’affinità delle idee che qua e colà si acchiudono, a far menzione
sino da ora di parecchi e preziosi testi antichissimi riferiti nel
Talmud, ove sotto un altro nome eloquentissimo si allude, a creder
mio, alla società degli Esseni; e che sono da porsi fra quelle tante
memorie che debbonsi oggi restituire alla storia degli Esseni contro la
divulgata sentenza che l’Enciclopedia rabbinica dei primi secoli non
rechi della società degli Esseni niun vestigio. Questo nome che offre
invariabilmente l’idea comune e in sommo grado rilevante di _Società_,
di _Sodalizio_ assume non dimeno tre forme: differenza che a senso mio
ad una sola cagione debbesi ascrivere, alla diversa origine e stile
dei testi che ne fanno menzione. Queste tre turme sono: 1º _Cheillà
Caddescià di beruslem_ (Santa Società ch’è in Gerusalemme); 2ª _Edà
Chedoscià_ (Santa Società); 3ª _Bene Akeneset_ (figli della Società).
Incominciamo per dire (e per quanto negativo, ci sembra fatto di gran
calibro) che le interpretazioni date sinora o sono vaghe o mal sicure;
che p. e. per la _Keillà Caddiscià_ mentre il Talmud Gerosolimitano
(Mahaser Sceni, cap. 2º) intende due soli dottori ivi nominati
(interpretazione, come ognun vede, tutt’altro che seria o verosimile),
il Talmud Babilonico ci pone nella impossibilità di sottoscrivervi
porgendoci non pochi esempi in cui la stessa _Santa Società_ (_Keillà
Kaddiscià_) si distingue evidentemente da uno almeno de’ due Dottori,
onde a detta dello altro Talmud è composta, a segno di figurare al
suo fianco come indipendente e distinta (Vedi Talmud Bezà e Iohasin
Lettera Iod al nome Iose ben Mescuillam). Che per la _Edà Chedoscià_
(Santa Società) il suo nome si legge nel Medras koelet, ove, oltre
altre preziose indicazioni che proveremo fra poco convenientissime
ai nostri Esseni, si domanda: _E perchè si chiamano Santa Società?_
Dopo queste parole occorrono due varie lezioni. La prima è quella del
Lessico _Aruh_ (alla parola _Kaal_) ove si risponde e perchè dividevano
in tre parti la loro giornata, la prima dedicavano alla preghiera,
la seconda allo studio, la terza al lavoro, altri dicono perchè
studiavano nell’inverno e lavoravano nella state.» L’altra versione
legge dopo la domanda ricordata: _Perchè sono R. Iose ben Mesciullam
e R. Simon ben Manasia i quali tripartivano la loro giornata_ ec.
L’autore dell’Aruh non ha i nomi proprj rammentati, e niun dubbio che
la sua lezione sia da preferirsi non essendo luogo a rammentare chi
_fossero_, dopo aver domandato perchè si _nomassero Santa Società_.
Checchè ne sia, abbiamo qui un motivo del nome loro che mirabilmente
si addice al nostro Istituto del quale sappiamo come la _preghiera, lo
studio_ ed il _lavoro_ dividesse tutto il loro tempo, come più oltre
vedremo. Si avverta però che mentre queste indicazioni si attagliano
agli Esseni, non è possibile convenire col Medras Koclet che per ciò
solo prendessero il nome di _Santi_, non essendovi in questo tenore di
vita niun carattere che meriti il nome di _Santo_ per eccellenza, e
che non sia comune ad altra maniera di dottori. Infine il terzo nome
ch’è quello _Bene Akeneset_ ricorre come abbiamo detto nella misna
_Zabim_ 3, p. 2. E qui ancora, siccome quello che suona straordinario
ed eccezionale, non solo creò interpretazioni disparate, ma diè luogo
a differenti versioni. Così il Maimonide nel Comento legge _Bet
Akenesset_ il _Tempio_; ma chi legga attentamente il testo di leggieri
s’accorgerà come il senso venga da questa interpretazione forzato, non
essendovi memoria che i lebbrosi e gli affetti di gonorrea avessero
luoghi apportati nei tempj. Assai meglio però l’altro comento di _R.
Simson_ che legge come noi _Bene Akenesset_ e intende _oheli hulleen
betaará_ vale a dire _coloro che non si cibavano che di cose pure,
alieni da ogni immondo contatto_; lo che da una parte identifica i
_Bene Akenesset_ con altro ordine e nome molto più comune nel Talmud,
quello di _Haberim o Socj_ che avremo luogo di ripetutamente citare
in questa storia, i quali appunto questo tenore di vita conducevano,
e dall’altra porge la mano ad un preziosissimo passo del Talmud
Gerosolimitano ove un _Asseo_ (Asia) possessore e insegnatore di nomi
divini misteriosi si dice cibarsi di Maaser.

[60] Possiamo ragionevolmente esitare a riconoscere sotto questi varj
nomi la società degli Esseni? La loro convenienza non potrebbe essere
più manifesta. Il nome di Keillà Caddiscià, Santa Società, che fra gli
altri luoghi si legge nel Talmud di Ioma 69, 1, reca tutti gli elementi
necessarj a costituire il nome vero e proprio dei nostri Esseni. Chi ha
sentore dello stile misnico e talmudico non può non fermarsi al nome di
_Keillà_, unico, meglio che raro, per designare una Società qualunque,
e che nel nostro caso tanto per la sua anormalità, come per la identità
costante dei suoi supposti componenti, accenna meglio ad un consorzio
regolare ed organico, che ad un adunamento precario e accidentale.
Quanto poi eloquente l’epiteto di santo che in tutte le lingue sta ad
indicare una perfezione religiosa, superlativa, e che nell’Ebraico
è l’equivalente dell’Arameo _Faruscim_, Farisei. Potremmo d’altra
parte tacere che il _più antico nome_ onde si distinsero i Cristiani,
propaggine secondo noi dell’antico Essenato, fu appunto quello di
_Santi_ come sovrabbondantemente attestano Vangeli ed Epistole ad ogni
tratto? Nè recar deve fastidio la indicazione topografica di _Biruslem
in Gerusalemme_, poichè se è indubitato che gli Esseni ponessero stanza
sulle _rive del Giordano_ sappiamo non meno di certa scienza, come
Gerusalemme ne ospitasse parecchi specialmente dei _Pratici_. Che anzi,
a parer mio, tale indicazione lungi dal dilungarci dall’Essenato, più
e più ce ne avvicina, non potendosi comprendere come in un’epoca qual
è quella in cui si fanno le citazioni in discorso, in cui Gerusalemme
avea cessato di essere sede della autorità Rabbinica sottentrandogli
in questo ufficio or Tiberiade ed ora altra città di Palestina, venga
indicata costantemente Gerusalemme qual centro della _Santa Società_,
se questa non si distinguesse spiccatamente dalla comune scuola dei
Farisei, e non fosse per natura più aderente ai luoghi antichi,
meno nomade di quello che erano le grandi individualità, ma pur non
altro che individualità del comune Farisato.—Il secondo nome di _Edà
Keduscià, Santa Società_ offre lo stesso senso e torna egualmente a
capello ai nostri Esseni. Più curioso e più nuovo è quello di _Benè
Aheneset_, gli uomini della Società, abbandonato, se non erro, sinora
in un canto nell’oscuro e negletto trattato Misnico di Zabim cap. 3º
e che non meno si acconcia al nostro consorzio come evidentemente si
ricusa ad ogni altra interpretazione, come più sopra accennammo.

Che se i _nomi_ suonano in sommo grado espressivi al nostro uopo, ciò
che più monta però, e che non mi è dato qui che in parte lambire, si è
una indagine delle dottrine che in nome di questa Keillà Kaddiscià, o
Edà Caddiscià o Benè Akeneset si recano in mezzo negli antichi libri
Rabbinici onde si vegga sino a qual segno queste dottrine o idee si
attaglino alla persona degli Esseni. Il secondo di questi nomi figura
nel _Medrasc Koelet_; e ciò che merita di avvertire si è che qui come
in Ioma, pag. 69, 1, Bezà, p. 27, egli è Giuda il santo, il Redattore
della Misnà che riferisce la loro dottrina, lo che prova la grande loro
autorità ed antichità ed insieme la identità della Keillà Kaddiscià
del Talmud colla _Edà Chedoscià_ del Medrasc; e che tanto in Rosc
Ascianà 19, 1, quanto in Iomà (loc. cit.) egli è R. Ieosanah Ben Levi
il personaggio più Cabbalistico e misterioso di tutto il Talmud, che
è l’ultimo depositario delle loro tradizioni insieme a R. Simon Ben
Pazl, altro dottore il cui nome e la cui storia sono celebri nelle
pagine del Zoar. In due luoghi poi (Berahot, cap. I Rosc Ascianà, 19,
1.) ricorre la forma autorevole ed antica _ehid_, _attestò_, che non
si usa se non quando è riferibile ad antichi personaggi. Non sono
nemmeno da pretermettersi le dottrine che in nome loro si recano in
mezzo.—Il lavoro raccomandato insieme allo studio, e la vita loro
stessa porta ad esempio (Medras Koelet) il nome di sposa che ivi reca
la legge, e sopratutto le decisioni attenenti al Calendario e ai
computi Astronomici (Rosc Ascianà, 19, 2.) che non vanno mai disgiunti
nei libri Talmudici dalla scienza Acroamatica, che ne hanno tutta la
riserva e il mistero e che per ciò stesso sono detti pur essi (_Sod_)
Mistero.

[61] Ei fu sempre e dovunque proprietà inseparabile dal Misticismo, la
incuria e il dispregio delle pratiche. Il Talmud rivelandoci in seno
ai Farisei una scuola che ad ogni pratica si credeva ed era stimata
superiore, ci attesta per ciò stesso la presenza del Misticismo, non
potendosi mai credere che se altri studj non si conoscessero tra essi
se non quelli che il Talmud acchiude in seno, e che si riferiscono
unicamente alla pratica, tanta fosse la stima che se ne faceva da
anteporli alla pratica stessa, il mezzo non potendosi mai qualificare
superiore allo scopo al quale conduce. Nonostante se il fenomeno
comune ad ogni misticismo si verificò pure nel misticismo Palestinese,
come vediamo, saria ingiusto disdirgli un’indole al tutto diversa da
quella prevalsa in altre parti di Oriente. Mentre in queste era la
contemplazione oziosa talvolta ridicola, la inerzia delle facoltà
mentali, o come con più nobile nome si chiama la estasi, la quale era
il sommo grado della perfezione perché conducente all’assorbimento in
Dio, o _Nirvana_; in Palestina invece era lo _Studio_, la _Scienza_,
la speculazione attiva, il moto mentale, il _discorso_ nel suo doppio
senso, l’_Alaha_ in una parola, sia che si riferisse alla pratica, sia
che alle dottrine, la quale sola aveva virtù di dispensare, quando
diveniva _Abito permanente_, dalla pratica dei doveri religiosi
specialmente ove avea per obbietto l’acromatismo, la parte più nobile
dei sacri studj. Non potrebbesi mai abbastanza insistere sulla presenza
di questi fatti e queste dottrine in Palestina nel secolo che il
Cristianesimo cominciò ad operare il suo distacco dal centro Ebraico,
proclamando prima con Gesù e poi con Paolo la inutilità della legge e
delle opere. Più bello, indizio non potrebbe darsi di quella verità
perpetuamente da noi dimostrata nell’_Essai sur l’origine des Dogmes et
de la Morale du Christianisme_ (premiato nel concorso dell’_Alliance
Israélite_ 1863), vale a dire che non d’altronde originarono le
dottrine cristiane se non dal centro Essenico-Cabbalistico ove il
Cristianesimo imparò di buon’ora ad anteporre la scienza teosofica
alla pratica dei precetti, la quale scienza ei propose all’universale
sotto il nome di Fede (_Pistis_), agli eletti, sotto quello di _Gnosis_
come superiore e dispensatrice di ogni dovere, e costituendo così,
mercè la divulgazione dei dogmi riposti, _tutto il mondo Ebraico e
gentile_ in quello stato di perfezione peculiare ed anormale in cui
l’Esseno-Kabbalismo poneva pochissimi eletti. Se qualche cosa ci sembra
dimostrato, nelle tenebre delle origini Cristiane, questo transito ora
accennato ne pare dimostratissimo, e lo stimiamo chiave unica capace
di aprirci il senso di quella rivoluzione che scisse il Cristianesimo
primitivo dalla Ebraica ortodossia. Basti per ora questo cenno del
vasto e nobilissimo subbietto.

[62] Nome di origine persiana che i Greci adottarono, tipo del nostro
_Paradiso_ e che fa parte della lingua Biblica e Rabbinica. In questa
ultima sta sovente a indicare la scienza o teologia recondita, e
genera una sequela di metafore secondarie come ad esempio lo strappare
le piante ecc. Facendo la scienza sinonimia di Paradiso, i dottori
identificarono in guisa mirabile la beatitudine e la contemplazione, e
furono in ciò imitatori e seguaci di Mosè che nel suo Paradiso pose la
scienza, con tutti i suoi pericoli e con tutti i suoi diletti. Forse
non si andrebbe lungi dal vero dicendo che il Paradiso Mosaico porse
ai dottori la prima idea del loro _Pardes_, che vale quanto il _Gan_ o
_Ganeden_ della Genesi.

Sarebb’egli possibile disconoscere nei vangeli la traccia dell’antico
essenico costume, quando Gesù volendo col suo esempio mostrare come
i maggiori debbano farsi servi ai minori, lava egli stesso i piedi
ai discepoli, primo atto a cui procede l’ospite innanzi di sedere a
mensa? A noi pare vedervi una reminiscenza della scuola Essenica in
cui il fondatore del Cristianesimo era stato educato, come un fatto
congenere ci pare ravvisare in quegli esempj che ci offre il Talmud
di antichi dottori che a segno di umiltà ministrano a mensa ai loro
colleghi seduti, esempj che se da una parte si collegano alle esseniche
costumanze, dall’altra ci additano nell’Ebraismo rabbinico le origini
delle scene evangeliche.

[63] Il sacrifizio ebraico come il pagano erano una vera e propria
_Comunione eucaristica_, una partecipazione alla mensa di Dio in quanto
il fedele e i sacerdoti si cibavano di parte dell’animale immolato,
mentre l’altra era arsa sugli altari. Per tal guisa l’_ara_ era una
_mensa_ religiosa, e il nome di _mensa_ porta veramente in Ezechiele,
come per converso la tavola ivi stesso porta il nome di altare. Egli è
per ciò che i dottori furono interpreti fedelissimi delle idee bibliche
quando la mensa comune dissero stare invece dell’altare, e la scienza
farvi la parte del fuoco sacro o della presenza del nume, quando la
fecero come l’altare _propiziatrice ed espiatrice_, e sopratutto
levaronsi ad altissimo e nobilissimo pensiero i Teosofi nostri quando
videro nella commestione l’atto per cui la materia si eleva allo
stato di mentalità mercè il processo di _Assimilazione_ onde i corpi
inferiori si assimilano all’organismo dell’uomo. Non d’altronde hanno
origine le metafore evangeliche, se pure dapprincipio non furono
intese alla lettera, della Tavola in cui Cristo berà del frutto della
vite insieme ai discepoli; che ha il suo tipo e la sua fonte in una
_identica_ metafora dei Rabbini i quali dicono l’_Eden_ essere il
vino conservato nei suoi grappi sino da sei giorni della creazione,
che la coppa ne sarà benedetta da David (Padre e tipo del Cristo) nel
banchetto finale, ed altre simili. Potrebbesi tacere a questo proposito
del sacrifizio eucaristico, e de’ suoi strettissimi vincoli con tutte
le idee sopraccennate? Il lettore già ne coglie le grandi attinenze, e
ci dispensa dal maggiormente diffonderci nell’ampio e nobile argomento.

[64] R. Neorai nei varj luoghi in cui di esso è menzione offre tutti
i caratteri dell’Essena Kabbalista. Egli ha un giuramento poco noto
altrove: _pel Cielo Asciamaim!_ (Berahot, 53), che ci spiega come Gesù
il condannasse appunto vedendola usata tra i suoi quando disse _non
giurate nè pel Cielo nè per la terra_ ec. e si connette mirabilmente
colla supposta adorazione del _Cielo_ che agli Ebrei in generale ed
agli Esseni in particolare fu attribuita dai Pagani chiamandoli persino
col nome di _Cœlicoles_, onde poi si distinse una setta Cristiana che
come le altre non rappresenta che una setta _frammentaria_ dell’antico
complesso organico, delle dottrine e della simbologia dei Teosofi
Esseni (V. per la storia fra noi del simbolo _Cielo_, mie note al
Pentateuco, Em Lammicrà, Genesi Cap. I.). Egli è identificato con _R.
Elazar Ben Arah_ personaggio eminentemente teosofico o Kabbalistico
nel 2º di Haghiga (V. Talmud Sciabbat p. 147); egli ha gli istinti
democratici come tutti i Farisei (Sanhedrin 20), ei predice pei tempi
messiaci, discordie intestine tra figlia e madre, tra suocera e nuora,
quali si leggono nei Vangeli espressioni Cristiane dello Spirito
Essenico (_Ibid. 97_), e infine egli ammette una sovrumana efficacia ai
nomi divini tratto ad un tempo Essenico Kabbalistico e, oso dire, anche
cristiano; perocchè al nome _Gesù_ si attribuisca sino nei Vangeli una
straordinaria e miracolosa potenza.

[65] Il Nicolas (_Des doctrines qui ont précédé etc._, T. 6º p. 86) non
sa come porre d’accordo l’identità degli Esseni cogli antichi Hasidim
rammentati nei Maccabei, quali strenui difensori della patria libertà,
coll’orrore per la guerra e l’esclusivo studio delle arti pacifiche che
Giuseppe appone agli Esseni suoi contemporanei. Vi sono pure due fatti
che attenuano grandemente il valore dell’obbietto. In prima, non si
può negare che la difesa nazionale sia tale dovere religioso eziandio
nell’Ebraismo, da obbligare chiunque ad esso appartenga; e più chi più
rigorosa se n’è imposta la osservanza. E poi Giuseppe stesso attesta
che gli Esseni procedevano _armati_, del quale uso siamo in procinto
di trovare un maraviglioso riscontro nel _Zoar_ e nei suoi personaggi,
e tale da rendere quasi inevitabile la parentela dell’Essenato coi
Teosofi Ebrei o Kabbalisti. Non possiamo tacere di un autorevole
ausiliare che troviamo nell’illustre amico nostro signor S. Munk
socio dell’Istituto; il quale nei suoi _Mélanges de philosophie juive
et arabe, pag. 468_, ci offre da un lato una dichiarazione preziosa
intorno la identità originaria della _Kabbale_ o Teosofia Ebraica e
dell’_Essenismo_; dall’altro ci reca la testimonianza di un dotto
correligionario tedesco, essere gli Esseni i _Hasidim_ del Talmud.
La prima così suona: «_Les Esséniens avaient donc une doctrine dans
laquelle à côté de certaines spéculations métaphysiques, l’Angélogie
jouait un rôle important. Il est probable qu’ils cultivaient certaines
doctrines qui plus tard_ FAISAIENT PARTIE DE LA KABBALE, _doctrines
puisées à des sources diverses et qui ont inspiré les premiers
fondateurs de la gnose._» La seconda così si esprime: (ivi in nota)
«_M. le D. Frankel a essayé de démontrer que les Esséniens sont souvent
mentionnés dans le Talmud sous le nom de Hasidim_ (pieux), _et il a
fait d’ingénieux rapprochements entre les notices de Joseph et divers
passages talmudiques._ Voy. Zects Christ für die religiosen interessen
des Iudenthums 1847, Décemb., p. 441 et suiv.» Noi non conosciamo gli
studj del Sig. Frankel.

[66] Le qualità di _Ministro_ e _Discepolo_ andarono riunite
nell’antichità Biblica e Rabbinica. Nella prima Giosuè discepolo di
Moisè è chiamato suo _Ministro_ (Mesciret), e nella Rabbinica abbiamo
la esortazione al maestro di non astenersi dal fare ministrare il
discepolo a proprio servigio; anzi lo studio della legge orale che più
dell’altra esige e suppone l’addottrinamento magistrale, è chiamato
_Scimmusc_ Ministerio. In senso opposto il Maestro riunisce le due
caratteristiche di _precettore_ e _maggiore_, e la parola _Rab_ tanto
significa. Non ne abbiamo noi pure Europei un esempio eloquentissimo
nel nostro Maestro, Maître, _Signore_ e _Precettore_ ad un tempo? Si
vede nel testo come questi iniziati e novizj si dicessero _liberi_
per torgli ogni imputazione servile. Basti pure ricordare come i
figli si dicessero latinamente _liberos_ e come _figli_ chiamino
egualmente i Profeti e i Dottori i loro discepoli (Banim). Ma se
nell’_officio_ servile dei discepoli convengono Esseni e Dottori, non
meno convengono nello studio di escludere il sospetto di _condizione_
servile gli Esseni e i Farisei, nel dar loro il nome antonomastico
ai _Liberi_ e più ai Farisei particolarmente nell’escludere dagli
offici in cui il discepolo ministrar debbe, quelli che sono per lor
natura esclusivamente servili. Entro questo limite, l’antico costume
essenico-farisaico ebbe imitatori in Parigi nel secolo decimoquarto
quando gli scolari di quella Università servivano come di paggi ai
professori.

[67] Vedremo più oltre quando e come acquistassero gli Esseni questo
nome di _liberi_, e vedremo non meno come per altri rispetti oltre
quello qui menzionato si meritassero tal nome. A questi altri motivi
vogliamo qui preludere con quanto si legge in Plotino (Enneades,
vol. I, pag. 472, e pag. 185, nota 1ª): «_L’homme est libre quand il
exerce la faculté de l’âme raisonnable, quand il s’élève de l’ordre
physique qui règne dans l’univers aux choses intelligibles qui ne
dépendent de rien. Il est soumis à la nécessité et il devient une
partie de l’univers quand il exerce les facultés de l’âme raisonnable
et du corps. La Nécessité ou Fatalité est l’ensemble des circonstances
extérieures, savoir l’influence des astres._» E (vol. 2º, 3ᵐᵉ Enneades,
pag. 17): «_Quand l’âme prend une détermination et l’exécute parce
qu’elle y est poussée par les choses extérieures, qu’elle cède à un
entraînement aveugle, sa détermination et son action ne doivent pas
être regardées comme libres..... Au contraire, quand elle suit son
guide propre, la raison pure et impassible, la détermination qu’elle
prend est vraiment volontaire, libre, indépendante, l’action qu’elle
fait est réellement son œuvre, et non la conséquence d’une impulsion
extérieure._» E più oltre: «_Donc quand elle manque de prudence, les
circonstances extérieures sont cause de ses actes: on a raison de dire
alors qu’elle obéit au destin comme une cause extérieure._» Per meglio
comprendere ciò che Plotino intende per destino, eccone la definizione
di _Iamblico_, che il sig. Bouillet (Enneades. Paris, 1859, vol. 2º,
pag. 16, nota 1ª) dice potere servire di Comento alle frasi di Plotino:
«_Toute l’essence du Destin consiste dans la Nature: j’appelle nature
la cause qui est unie au Monde, et qui contient unies au monde toutes
les causes de la génération etc._» Plotino stesso avverte come si debba
«_compter au nombre des causes extérieures l’influence qu’exerce le
cours des astres._»

S. Agostino che, come dimostrò altrove il Bouillet, si valse
grandemente delle idee di Plotino, scrisse pur esso: _Libertas nulla
vera est nisi beatorum et lex divina adhærentium_. Gli stoici pure
avevano detto: _Solum sapientem esse liberum_. E persino Aristotile
disse con frasi più peculiari: _Homo sapiens dominabitur astris_. Non
sono quasi le stesse parole dei Dottori nostri, che udremo fra poco?

In ciò dunque consentono egualmente gli scrittori rammemorati:

1º In quanto ripongono la vera libertà nella conformità del volere alla
legge divina.

2º In quanto considerano lo stato opposto come stato di subbiezione al
destino.

Ora è innegabile che oltre al consenso che ofirono queste dottrine col
nome di _liberi_ che gli Esseni si davano, e di cui vediamo traccia nel
_Benè horim_ del Talmud (in Sotà), tornano a capello con moltissime
altre idee e dottrine che i pratici del Talmud e dei Rabbinici dettati
in generale incontrano ad ogni passo. Così in _Abot_ la libertà è
detta retaggio esclusivo di chi accetta il giogo della legge. Così la
classica distinzione rabbinica tra _figlio e schiavo_, la quale, ove
si comprenda alla foggia dei Kabbalisti o Teosofi ebrei che veggono
nel figlio quello che non accettando che l’imperio divino è superiore
alla natura e al destino, e nello schiavo il suo contrario o un grado
almeno inferiore, presenterà un’affinità ancor più singolare colla
teoria morale di Plotino; ed è che l’uomo, che colle opre e coi
pensieri si è fatto superiore alle attrattive, alle forze esteriori,
non è più soggetto alle leggi della natura e del fato, e in premio e
in conseguenza della libertà morale da sè procacciata, acquista una
libertà più sublime sul mondo fisico ch’ei domina, anzichè esserne
dominato. Ciò inteso i dottori, sia quando fecero da Dio dire ad
Abramo, già circonciso e tuttora ossequiente alla scienza astrologica,
_Esci dai tuoi pensieri, Abramo non generava, Abraham genererà_, sia
quando aggiunsero che Dio nella visione in cui gli promise la prole
lo elevò al di sopra delle stelle, per significare la libertà da
esso acquistata dalle leggi e indicazioni degli astri; infine quando
aggiunsero non vi essere fato o legge astrologica per Israel; che
rappresentano i _liberi_ i veri _figli di Dio_. Non sarebbe difficile
che anche queste ultime idee si trovassero in Plotino. Ciò ch’è
innegabile, si è come il primo Cristianesimo abbia attinto a queste
sorgenti, alle sorgenti Israelitiche, tanto il concetto di _figli di
Dio_ in opposizione a schiavi della Legge e del Peccato, quanto l’idea
concomitante di libertà dalla legge e dal mondo, doppio pensiero che in
niuna parte meglio traluce che negli scritti e nelle parole di Paolo,
il più dotto Israelita del primitivo Cristianesimo, quegli _che studiò
la Legge ai piedi di Gamaliel, il Fariseo figlio di Fariseo_ com’ei
si qualifica. Però il concetto nel passare nel Cristianesimo subì una
modificazione; anzi si arricchì di un elemento al tutto nuovo, cioè
la Libertà _dalla_ Legge invece della libertà _della_ Legge, la quale
fu considerata insieme col _Mondo_ come la potenza che la virtù del
Redentore avea vinto ed abolito sulla terra. Chi si faccia a studiare
con occhio critico le epistole di Paolo, chiaro vedrà come _Legge_ e
_Mondo_ procedano appo lui di conserva, e siano in pari modo bersaglio
delle sue invettive. D’onde questa dilatazione dell’antico concetto
Ebraico e se abbia o no radici nell’Ebraismo stesso, è subbietto
grave troppo perchè qui si tratti, e di cui altrove abbiam disputato.
Aggiungiamo solo come l’adagio stoico: _il solo sapiente essere libero_
abbia riscontro con altro della stessa setta: _il solo sapiente essere
re_ ed entrambi nei Dottori, gli stoici dell’Ebraismo, come li chiamava
Giuseppe.

Gli antichissimi Esseni Kabbalisti, e quindi i primitivi Cristiani,
sono creduti da alcuni autori progenitori della _Francomassoneria_
e Frammassoni eglino stessi. Questo sistema ch’ebbe ed ha dotti
patroncinatori, non manca di verosomiglianza solo che si ammetta o
che le dottrine riposte dei Massoni sono quelle stesse dei Dottori, o
che quelle degenerarono col lungo avvicendarsi di secoli. Ove ciò si
consenta, non negheremo che vi sono non solo nei libri esoterici ma
negli essoterici eziandio dei primi Farisei, curiosissimi indizj di
quest’antica identità. Non è qui luogo a farne menzione. Solo diremo
alquanto di ciò che si attiene al soprannome di _Liberi_, dato agli
Esseni, ai Terapeuti nello stesso Talmud come si vede nei testo. Ora
è noto come i Frammassoni _dicansi Liberi Muratori o Francs-Maçons_.
Quale è l’origine di questo epiteto di _Liberi o Franchi_ che tanto già
suona conforme ai _Liberi_ dei Terapeuti ed ai _Benè horim_ del Talmud?
Sentiamo un dotto scrittore della _Società_, in un’opera che, se avesse
tanto ordine quanto mostra ingegno e dottrina, potrebbe noverarsi tra
le prime del genere; il Reghellini di Scio nella _Maçonnerie considérée
comme le résultat de la Religion égyptienne, juive et chrétienne_. Ei
crede (vol. 2, pag. 97) che i Liberi Muratori cominciassero ad esserlo
di fatto dando opera ai lavori architettonici, e che quindi alla loro
corporazione si aggiungessero soci _liberi_, o come si dice onorarj:
«_Après ce qu’on vient d’exposer, la corporation des Maçons étant la
plus illustre, elle devait être par conséquent la plus recherchée: il
était facile à des hommes de qualité et à des lettrés de s’y faire
admettre; et comme ces individus n’étaient pas de la profession, ils
furent distingués des autres par le titre qu’on leur donna de libres
ou francs._» Potrebbe forse escogitarsi simile ragione pel nome di
_liberi_ dato agli Esseni; e dire che così fossero chiamati perchè non
_Medici Assia_ eglino stessi e non ancora astretti a tutti i doveri
sociali? O per avventura non sarebbe meglio intendere nei _Liberi
Muratori_ o nei Francs-Maçons lo stesso senso che si annette a quel
degli Esseni, vale a dire o un epiteto che stia ad escludere la vera e
propria servitù nei novizj, come vuole Filone, o che accenni a quella
_libertà morale spirituale_ che campeggia così solenne nelle dottrine
kabbalistiche, neoplatoniche, gnostiche e cristiane come più sopra
dicevamo? Al lettore l’ardua sentenza.

[68] Platone non isdegnò occuparsi nelle leggi (lib. VII) delle danze
sacre. «_Le legislateur_, egli dice, _assortira ces danses, aux autres
parties de la musique, les distribuira en suite entre toutes les fêtes
et les sacrifices, donnant à chaque fête la danse qui lui est propre_
ec.» (edit. Paris, 1842).

Il concetto del Ballo fu preso a simboleggiare _il moto, l’aspirazione_
delle anime verso Dio, il perpetuo conato dei Beati;—e ciò nei
_Dottori_ ebrei, nei Padri della Chiesa, e finalmente in Dante. Nei
primi quando dissero _Dio intimerà un ballo ai beati in Paradiso e
stando egli nel centro, ognuno mirerà ad esso dicendo: Ecco Dio a cui
aspirammo «Atid acadosc baruh u laasot Mahol lazadichim—be—gan—eden_
ec. Nei Padri, là ove si legge in S. Basilio (Omil. sul rendimento di
grazie). _Ti manca alcun figliuolo? Ti restano gli angioli coi quali
menerai danza intorno al trono di Dio._—E il gran Dante nel _Paradiso_,
come è noto. L’Israelita che nel santificare tre volte Dio ogni giorno
solleva il Corpo da terra tre volte, è erede e discepolo senza saperlo
di tutta la grande e buona antichità ebraica e gentile. Tanto è vero
che l’ebraismo adempie mirabilmente a quell’officio di _Nido_ di _Neno_
che è distintivo di vera religione (religio a ligando) come volle
Cicerone.

[69] Non sarebbe inverosimile che la predizione di Gesù a Pietro
_Prima che canti il gallo tu mi avrai rinnegato tre volte_—sia una
applicazione a se stesso, _vero e nuovo Tempio_—com’egli altrove si
chiama, di ciò che ivi si praticava nel culto di Dio: volendo dire che
il canto del gallo anzichè schiudere la giornata religiosa ad essere il
segnale degli officii del tempio che cominciavano con triplice suono
di corno, sarebbe stato anzi preceduto da triplice rinnegamento: tanto
la Divinità da lui rappresentata sarebbesi inchinata alle più profonde
umiliazioni. Non dimentichi il lettore quanto fu da noi provato
(Lezione XII, Nota 2) intorno la sostituzione che Gesù insegnava di se
stesso al Tempio, qual fonte d’ispirazione.

[70] Ecco la chiave dei lamenti e rimproveri che i vangeli ci narravano
dirigere i Farisei contro il costume di Gesù, di sedere cioè a mensa
con pubblicani e con malfattori. Nessuno più dei Farisei si adoperava
alla conversione dei peccatori; opera che magnificarono nei loro
libri più di qualsiasi altro ufficio di pietà; ma non credevano che
si potesse senza imprudenza, e senza fallire lo scopo istesso che
proponevansi, scender fino a tanta familiarità.

[71] Nessuno negherà che la vita contemplativa ed ascetica non sieno
sommi educatori dell’animo a libertà e indipendenza di sensi, siccome
quella che insegna a vincer gli altri col lottare con se stesso. Da
ciò nacque la gran forza di resistenza che spiegò il Cristianesimo nel
suo nascere e che imparò là dove attinse tutto ciò che forma il suo
corredo dommatico e il suo pratico indirizzo. Vi è però un pericolo
a cui rado è che fuggano i mistici, e che solo l’ebraico per la sua
intima connessione con una religione che era al tempo stesso una norma
civile e politica, potè avventurosamente cansare. Difatti gli spiriti
mistici onde si prova in varj tempi il nostro popolo, e più in quelli
di cui discorriamo, non lo spinsero mai a quegli eccessi in cui caddero
tutti quelli che calcarono le stesse orme; ma seppe mantenere più o
meno l’equilibrio fra la vita attiva e la vita speculativa, fra la
mente ed il corpo. Quanto al fatto di cui si fa menzione nel testo,
alla conversazione tra i dottori risaputasi dal governo di Roma, e
della successiva fuga di R. Simone, e della lunga dimora in una grotta,
vogliamo solo aggiungere che forse in questo cenno troverebbe largo
campo di esercitarsi una parte dei critici moderni i quali affermarono
che lungi da morire Gesù sulla croce, sopravvisse lunghi anni a
quel supplizio, protetto e nascoso dal silenzio e dal mistero degli
essenici chiostri. Chi sa che non si dica altrettanto dei tredici anni
che visse R. Simone Ben Johai lungi e salvo dal decreto romano che
l’aveva condannato a morire? Certo che questo scampo prodigioso non si
presta meno acconciamente all’ipotesi di un rifugio in qualche riposto
asilo degli Esseni fratelli, tanto pel tempo non breve, quanto per i
mezzi ch’ebbero esso e il figlio di vivere in tanto abbandono. Quando
ciò possa consentirsi, tanto più intelligibile parrà la tradizione
corrente tra i cabalisti che là meditasse e coordinasse R. Simone le
sue dottrine e la sua teosofia. Ed oltre al tempo, all’ozio, all’asilo,
specialmente se essenico che tanto bene si presta, non mancano nel
testo talmudico e medrascico cenni che provino come ben altro uomo
uscì il nostro dottore dal suo asilo di quello che vi fosse entrato,
specialmente per ciò che si attiene alla dottrina, santità e religiosa
eccellenza.

È degno di nota il rifugio che anzi tratto si procurano nel _Be
Medrascià_, nell’accademia secondo il Talmud Babilonese (Sciabbat cap.
2), e che dee esser stato luogo e rifugio di un indole affatto speciale
per poter sfuggire alle ricerche del governo romano.

Il genio ascetico e taumaturgico si palesa nel padre e nel figlio
appena usciti dopo tredici anni dal loro asilo, quando si sdegnano al
solo vedere uomini occuparsi di lavori agricoli (Ibid), nelle punizioni
che infliggono e nelle guarigioni che operano egualmente prodigiose;
nella figlia della voce (_Berat Calà_) che odono annunziare tanto la
caduta di un uccello nelle reti del cacciatore quanto il suo scampo
(Medrasc Scemot Rabbà sez. 79), e che ha un eloquente riscontro in
voci ed annunzj consimili che si narrano uditi dagli uomini stessi nel
Zoar; mentre malagevole sarebbe trovarne dell’indole stessa nei libri
talmudici. Nè è da tacersi la singolare conformità della illazione,
che da questi fatti trae Simone con un analogo pensiero dei Vangeli.
_Se un uccello non cade nella rete senza espresso decreto di Dio
sarà egli possibile che ciò avvenga per l’uomo?_ Gesù si valse dello
stesso esempio degli _uccellini_ per assicurar ai suoi discepoli il
sostentamento per la domane. La grandezza religiosa e scientifica
a cui s’inalzò dopo il lungo ritiro, si mostra nel vanto che di sè
proferisce, dicendo al figlio: _Bastiamo noi due pel mondo intiero_
e che ha riscontro e interpretazione eloquente in altra sentenza da
lui profferita in altra occasione quando disse: _Veggo che gli uomini
della Camera_ (Benè Alià) _sono scarsi. Se sono due_, noi siamo quei
dessi. (La Camera di cui qui si parla è lo stesso delle _Camerette_
dei Vangeli, in cui Gesù dice _che si comunicano le cose segrete_);
si mostra nella replica che ci fa a _R. Pinehas Ben Jair_ il quale
deplorava vederlo nella persona così malconcio: _Beato te che tale mi
vedi, che se così non mi vedessi, tale io non mi sarei a quest’ora_; e
il Talmud chiosandone il senso aggiunge che prima del suo ritiro, ad
ogni domanda che Simone faceva, R. Pinehas dava 12 risposte; ma dopo
quello, ad ogni domanda del secondo opponeva Simone 24 risposte, lo che
nel linguaggio iperbolico talmudico significa che la scienza di questi,
sopravanzava di gran lunga quella del suocero.

[72] Questo riempire che fa il Zoar la lacuna istorica che offre il
Talmud in fatto dei _Haberim_, il cui carattere, officio, definizione
riuscirebbero vaghi incompleti senza il soccorso del primo, è prova
tra mille altre che l’uno e l’altro non formano che un solo corpo di
dottrina e si appellano e si completano scambievolmente. È questa in
piccolo una immagine dell’officio che sostiene la dottrina cabbalistica
o teosofia verso tutto l’ebraismo pratico, cioè quello di fornirlo di
una originale e connaturale dogmatica.

[73] _Talmid_—_Kaham_—titolo che si danno i Farisei negli
antichi monumenti Rabbinici (Misnà, Talmud ec.) e significa
_scolaro_;—_discepolo di dottore_ meglio che _dottore_. È espressione
suggerita da umiltà; e non si comprende come uomini siffatti potessero
agognare al titolo di _Rabbi_, e ad essere _tali chiamati su per le
piazze_, siccome di tanto li appuntano i Vangeli. Altra importante
considerazione ci offre il tempo in cui predicava Gesù. Poichè,
secondo attestano memorie autenticissime, il titolo di _Rabbi_ lungi
dall’essere allora comune fra i dottori, si veggono anzi i più
famigerati capiscuola che in quel torno fiorirono, recare nelle opere
rabbiniche _il nudo_ e _semplicissimo loro nome_. Quindi grave dubbio
ne emerge che anche da questo lato meglio che la impronta dei tempi in
cui quei discorsi si dicono proferiti, quella rechino invece dell’epoca
in cui i Vangeli furono redatti; e gli autori di questi facciano usare
a Gesù un linguaggio che solo ai loro proprii tempi si addiceva.
Checchè ne sia, il nome _Talmid Kaham_ ha molta analogia, quanto allo
intendimento che lo dettava, con quello di _Filosofo_ o _amante di
sapienza_ che si davano i savi pensatori di Grecia, differenti dagli
altri che per presunzione diceansi _Sofi_ o _Sofisti_.

[74] Non ha guari ricordavamo le parole di Simone Ben Johai nel Talmud
in cui _se erano due gli uomini della Camera, questi_ egli diceva
essere _esso ed il figlio_. Or chi non rimarrà sorpreso vedendo il
consesso più augusto del Zoar designato collo stesso nome di _Camera
Iddarà_? Può darsi conferma più bella di questa? E si può ancora
ragionevolmente dubitare che R. Simone Ben Johai non sia la stessa
mente che informa lo Zohar? Si dirà che l’autore qualsiasi di questo
libro si prefisse studiatamente un linguaggio che si affacesse al
supposto autore? Ma questo studio contrasta con altre dissonanze
_cronologiche_, _storiche_ e _filologiche_ che escludono nel suo
redattore l’intenzione di crearsi una forma ed uno stile artificiale; e
tanto più rimane escluso nel nostro caso che il senso di _Camera_ nel
nome _Iddarà_ fu poco avvertito generalmente ed altre interpretazioni
ebbero corso le quali però non reggono ad una indagine severa. Non
vogliamo infine tacere di un’altra curiosa analogia che ci offre il
nome stesso di _Benè Alià_ con cui nel Talmud si designano, secondo
me, gli speculatori e teologi del Farisato. Questo nome alla lettera
significa _quelli del luogo alto_ o delle _regioni superiori_, nè per
altro fu così la Camera chiamata se non perchè occupava appunto la
parte più alta dell’abitazione. Ora chi non troverà mirabilmente a
queste idee conforme, la seguente di Platone nel Teeteto (Ediz. Paris,
pag. 64). _Mais, mon cher, lorsque le philosophe peut à son tour
attirer quelqu’un des hommes vers la_ RÉGION SUPÉRIEURE etc.

[75] L’illustre amico mio, signor professor S. D. Luzzatto, scriveami
non è guari, e credo anche stampasse, _non potersi credere_ autentico
un libro ove si parla di _Compilazione scritta_, quando ogni redazione
tradizionale era tuttavia interdetta nell’ebraismo. Risposi:
doversi distinguere la tradizione legale e rituale dalla tradizione
teologico-agaditica: se per la prima è lecito affermare (comechè forse
non senza gravi restrizioni) che si mantenesse esclusivamente orale
per assai tempo ancora; non così per la seconda, della quale sappiamo
avere esistito per tempissimo varie compilazioni, di cui a dilungo si
ragiona nel libri talmudici. Ora s’egli è vero, come è indubitato, che
l’_Agadà_ non è, come altrove notammo, che il _nome_ e la _forma mitica
e leggendaria della recondita teologia_, ognuno comprende come a nulla
approdi la ricordata obbiezione.

[76] Non dimentichi il lettore:

1º Che ogni qualvolta narra il Talmud una cura prodigiosa operata a
contatto; è sempre la _mano porta e ricevuta_.

2º Che Epifanio V ci ammonisce come «les gnostiques (i quali non sono,
come provammo nell’_Essai sur l’origine des Dogmes ec._, che la parte
cabbalistica o Essenica degli Ebrei convertiti al Cristianesimo) se
connaissaient entr’eux à leurs manières de se prendre la main.»

[77] Chi sa ancora se questo nome di _legge di grazia_ non deriva
nei Vangeli appunto da quella divulgazione che Gesù operò fra le
moltitudini pagane e israelitiche delle dottrine misteriose dei
Farisei, come non ci stancammo di dimostrare nell’opera francese
altrove citata.

[78] Quanto è bella la imagine del libro divino a indicare l’uomo
dotto e virtuoso! Galileo chiamò la natura il libro di Dio. L’uomo
non meritò meno questo nome in specie appo gli antichi che lo dissero
Microcosmo. Nè questo è solo il luogo ove il Codice della Rivelazione e
l’uomo vengono dai Dottori ravvicinati. La separazione dell’anima dal
corpo è comparata al volume rivelato che va preda alle fiamme; quindi
l’obbligo dei segni di lutto che s’impongono agli assistenti.—Sulla
bara dell’uomo dotto si poneva ab antico, quale insegna del suo nobile
officio, il codice mosaico, e dicevasi:—Costui ha osservato quanto in
questo libro è scritto.—Ed ove tu sottilmente consideri, vedrai come il
dogma del verbo incarnato non sia che una esagerazione del principio
incessantemente proclamato dai Dottori, la immanenza nel cuore e nella
mente dell’uomo del Verbo Divino.

[79] Vorremmo che i negatori della tradizione, vuoi talmudica, vuoi
teologica, riflettessero seriamente a questo orrore di novità che
trasparisce in questi luoghi, e in altri infiniti che si omettono, e si
domandassero in qual guisa è compatibile tal ripugnanza col supposto di
origine moderna nell’una e nell’altra. In qual guisa l’una e l’altra
tradizione appena nate, avranno potuto spacciarsi quali antichissime,
rigettare ogni aspetto di novità, chiudere per sempre quella fonte da
cui scaturirono, senza contraddire al proprio principio e senza temere
di essere volti in deriso? I Dottori chiamano altrove quest’obbligo di
far risalire, quanto più si può, ai primi autori la dottrina che si
espone _«lescialscel et ascemuà» svolgere la tradizione_.

[80] Senza impegnarci in diffuse dimostrazioni accenneremo qui di volo
le massime capitali conclusioni a cui riuscimmo ed a cui riescir deve a
parer nostro, ogni spassionata indagine sugli Elementi d’Angelogia, e
dei nomi divini che contiene il Talmud.

1º I confini che separano i nomi angelici dai divini sono tutt’altro
che fissi e insuperabili, ma anzi mobili e permutabili; onde ogni
ostacolo è rimosso alla identificazione _dei nomi degli Angioli
essenici, coi divini ed angelici talmudici_.

2º Che la scienza di questi nomi costituisca nel Talmud una dottrina
gelosa ed acroamatica, anche questo non patisce eccezione per chi ne
abbia consultate le pagine: nè patisce eccezione pertanto la identità
di metodi in ambo le scuole.

[81] Fra i Terapeuti, si trovavano le _Terapeutidi_, donne iniziate;
nell’istituto pitagorico eranvi le numerose e celebri _Pitagoresse_.
Vedi Ritter, _Hist. de la phil. ancienne_, vol I, 298.

[82] Questa designazione ha origine in seno all’Ebraismo dal divieto
di cibarsi di carne che non fosse stata sacrificata, ma è certo del
pari che presso tutti i popoli le prime immolazioni, e quindi le prime
imbandigioni di carne furono _conviti sacri_. Sterminata opera sarebbe
se tutto volessimo dire che a ciò si attiene.

[83] Nel Talmud si condanna l’uso di prendere i versi del Cantico dei
Cantici e piegarli a uso di Epitalamio nei banchetti, nuziali o no.—Si
tratta di applicazioni ad amori umani? Si tratta invece di poesie
mistiche intessute di quelle frasi?

[84] Preziosa per quanto non avvertita menzione della Setta Accademica
nella Misnà di Chelim nelle parole _Scel cat cademin i Zò_. Ci basti
accennarla soltanto, troppo oltre conducendoci una piena dimostrazione,
che ad altro luogo serbiamo.

[85] Ciò ch’è anche più degno di nota egli è, come questo ricorrere
al _greco_ qual fonte di ebraiche etimologie, è seguito anche dai
teologi cabbalisti nella nomenclatura delle loro emanazioni. Vogliamo
qui citare un solo esempio ma singolarissimo. È noto come Platone e
i nuovi platonici eziandio chiamassero Dio come Primo, come Ente col
nome di _En_. Ed egli è questo il nome che il principio equivalente
porta in quella nomenclatura e nel senso stesso di _Unità_. Ecco uno
degli anelli che congiungono i moderni teosofi coi loro più antichi
predecessori.

[86] Fatto che nulla più avverato e che resulta luminoso nella
enciclopedia rabbinica da un _complesso imponente_ di fatti e
considerazioni che ci siamo studiati porre in luce in una nostra
_Introduzione generale storico-critica a tutti i Monumenti della
tradizione_. Un solo fatto citeremo qui ad esempio, il nome di _Misnà_
che sempre recò la tradizione e che suona quanto _Ripetizione_ appunto
per che lo insegnamento se ne faceva _ripetendo il testo_.

[87] Giusto però è confessarlo. Il Cristianesimo non sempre fuorviò
dall’antico sistema esegetico, non sempre immolò, almeno in teoria,
il senso litterale all’allegorico. Il Medio-evo cattolico ammise il
quadruplice senso dei Dottori, non solo interpretando la Scrittura, ma
nelle opere di grande calibro quale, ad esempio, la Divina Commedia.
Ed anche il Protestantesimo nel suo inizio. In due versi furono
compendiati i quattro sensi

  Littera gesta docet, quid credas allegoria,
  Moralis quid agas, quid speres anagogia.


[88] Questa mia congettura intorno alla vera lezione di Maimonide
otteneva, poco dopo scritte le presenti pagine, una splendida conferma.
Ognuno sa come l’originale del Comento Maimonideo sia stato scritto
dall’autore in lingua Araba. Ora essendomi io diretto all’illustre
orientalista Sig. Salomone Munk, attualmente Professore di lingue
Orientali nella _Sorbonne_, per qualche schiarimento senza tacergli
però la ipotesi mia, n’ebbi per gran ventura a risposta come in un
Manoscritto Arabo del Comento stesso, da lui recato dall’Egitto nel
1840, si leggeva anzichè l’enigmatico _Cabtazar_, _Copt-maser_, vale a
dire i _Copti di Egitto_.

[89] Nel caso che qui si contempla, il _Rito_ è noachide. Vi è però
dottrina nella _Misnà_ secondo la quale il rito stesso israelitico può
essere praticato fuori del Tempio e cooperante un Israelita: e l’autore
di questa dottrina è _R. Simon Ben Iohai_. Qual nome eloquente!

[90] Abbiamo taciuto di un uso essenico che ricorda Giuseppe, quello
cioè di portar le mani, l’una tra la barba ed il petto, l’altra
sospesa ai fianchi. È questo un punto che mi affaticai invano a
chiarire. Forse qualche analogia ci offre Champollion Figeac quando
nell’_Egypte_ scrive dei sacerdoti egiziani: «Les anciens disent
qu’il résultait de ce costume éclatant de blancheur, de la gravité
habituelle de la physionomie, de la démarche et des paroles des
prêtres, un extérieur imposant que complétait _le repos forcé des
bras et des mains habituellement_ cachés dans les plis des vêtemens.
Les Monumens confirment cette observation faite par les anciens (p.
113).» Aggiungasi che nei Monumenti egiziani si veggono i subordinati
presentarsi al loro superiore e signore «_ayant_, dice Champollion
(Egypte, 185. I.) _leur main droite posée sur l’épaule gauche, et leur
autre bras pendant en signe de respect_.»

[91] Una gran parte di queste _Regole_ portano nel _Talmud_ un nome
pregno di senno, quello di _Cabbalà_. Si legge in Berahot queste
parole che porgiamo alla meditazione degli ebraizzanti _Annan Cabbalà
debet akissè seniutà usticutà_. I forzati e inutili tentativi degli
interpreti, e tra gli altri di _Rasci_, provano ch’egli è solo dal
nostro ordine d’idee che la frase in questione può ricever lume e
verità.

[92] I termini che si riferiscono alle fasi dell’uno e dell’altra
generazione seguitano correlative. Così _Ara_ si dice per _gestazione_
e _meditazione_, onde l’_Irur_ rabbinico.

[93] Per bene comprendere tutto questo, si avverta come una delle
emanazioni cabbalistiche porti i nomi ad un tempo di _Mi_ (chi?), di
_Sceticà_ (_Silenzio_), di Mahasabà e Kohmà (Pensiero e Sapienza). Chi
subodorò alcun che della teologia dei Gnostici sa benissimo come i nomi
di Sofia Superiore e di _Sige_ o Silenzio sieno proprj dei più supremi
_Eoni_ o Emanazioni. E poi si dica che la teosofia cabbalistica è cosa
moderna!





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