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Title: Alla finestra - Novelle
Author: Castelnuovo, Enrico
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Alla finestra - Novelle" ***


                             ALLA FINESTRA


                                NOVELLE

                                   DI
                           ENRICO CASTELNUOVO

               _Seconda edizione, con numerose aggiunte._



                                 MILANO
                       FRATELLI TREVES, EDITORI.
                                 1885.



                         PROPRIETÀ LETTERARIA.

                         Tip. Fratelli Treves.



AVVERTENZA DEGLI EDITORI.


_Questo libro non è una semplice riproduzione di quello da noi
pubblicato con lo stesso titolo nel 1878, e completamente esaurito.
L'autore ne tolse alcune novelle ed alcune ne aggiunse. Tolse
quelle che gli parevano più scadenti, aggiunse altre inserite già in
precedenti raccolte, del pari esaurite e da lui credute non indegne di
rivedere la luce._

_Così dei sedici lavori che si trovano oggi riuniti sono riprodotti
dalla nostra prima edizione i seguenti:_ Alla finestra, Le chiacchiere
della nonna, Nevica, La gamba di Giovannino, Il fratello del
grand'uomo. Due ore in ferrovia, La democrazia della signora Cherubina,
La confessione di Doretta, La pagina eterna.

_Invece _Un raggio di sole_ e _Il colpo di stato di Clarina_
appartengono al volume _Racconti e bozzetti_ stampato nel 1872 a
Firenze dal Le Monnier; _Lo specchio rotto, Il parassita indipendente,
Il maestro di calligrafia, L'orologio fermo, La lettera di Margherita_
sono tolti dai _Nuovi racconti_ editi a Torino nel 1876 dal Casanova._

_È insomma una scelta fatta dall'autore tra varie sue pubblicazioni e
speriamo che la scelta non sarà sgradita ai lettori._



ALLA FINESTRA


I.

Alla finestra ci si sta negli altri paesi per veder la gente che passa;
in molte parti di Venezia ci si sta sopratutto per discorrere. E chi
conosce questa città singolare non deve farne le meraviglie; parecchie
delle nostre _calli_ sono così anguste che la camera dell'inquilino
dirimpetto è assai spesso la cosa che si vede meglio affacciandosi
al verone; le finestre si aprono le une nelle altre e paiono strette
in sodalizio di mutuo soccorso; tu guarda qui, io guarderò costà.
In queste viuzze, d'inverno, le donne si ammiccano dietro i vetri,
si salutano con la mano; nella buona stagione, appena possono, si
appoggiano al davanzale e mandano innanzi quei dialoghi che non hanno
nè principio nè fine, e che il nostro Goldoni coglieva sul vero. Si
ciancia di tutto: del tempo e dell'economia domestica, delle funzioni
della chiesa e delle tresche della vicina, del grasso e del magro,
delle bizzarrie dei bimbi e dei numeri del lotto, del cappello che
la tale aveva domenica a messa e del rincaro del pollame, del puzzo
dei _rii_ e del travaglio che danno le zanzare. In mezzo a queste
chiacchiere innocenti si formano adagio adagio i pettegolezzi, le
permalosità; indi mille soggetti di commedia che aspettano l'autore
comico. Talora fra le due finestre, se da una parte vi è un uomo,
s'inizia un intrigo galante che andrà a terminare nel matrimonio,
oppure si risolverà in nulla come una bolla di sapone. Ma in tal caso,
disgraziate quelle due finestre! Esse si terranno il broncio fin che
non muti l'uno o l'altro degli inquilini.

Fra le tante _calli_ che vi sono in Venezia ce n'è una chiamata
_Calle lombarda_. Il perchè di questo nome domandatelo agli eruditi;
noi profani non sappiamo assolutamente che cosa ci abbia da fare la
Lombardia. Da un lato, e precisamente a destra di chi ci entra, nè
ci si entra che da una parte sola, sorgono alcune casupole disuguali,
povere e affumicate; di fronte c'è il muro posteriore di un palazzone
del seicento, la cui facciata guarda sul Canal grande, e un braccio
di questo muro facendo angolo retto col lato principale viene ad
occupare i due metri che fronteggiano l'imboccatura della _calle_, e
le dà appunto in tal modo il carattere di via cieca. Il palazzo, dalla
famiglia che l'ha edificato, è conosciuto sotto il nome di Cà Dareni
e sul Canale fa abbastanza bella mostra di sè. Verso la _calle_ invece
esso non presenta che una muraglia sgretolata, nelle cui fessure cresce
il musco, e che finisce in un cornicione sotto il quale han posto il
nido i colombi. La porta, un po' piccina per quella mole ciclopica,
ha un pregevole martello di bronzo raffigurante un Prometeo legato
alla rupe. Sopra la porta, a tre piani diversi, ci sono tre finestroni
difesi da grosse inferriate. Sono i finestroni delle scale. Del resto,
lungo tutto il muro, per quanto è alto e largo, non ci si vede che una
finestra, precisamente all'estremità interna del vicolo. Essa dà luce
ad un gabinetto, che viene a terminare una fila di stanze, l'ultima
delle quali guarda il Canalazzo e le altre guardano un _rio_. Il muro
di Cà Dareni è alto e le catapecchie di rimpetto son basse, ragione
per cui il sole conforta le lucertole che sbucano dalle screpolature
del palazzo e non manda mai un raggio benefico alle creature umane le
quali abitano nelle catapecchie. Quanto alla _calle_, essa nuota nelle
tenebre tutto il giorno, ma è rischiarata la notte da un fanale a gaz
posto sull'angolo. Nondimeno la mancanza assoluta di sole mantiene il
selciato in una condizione semipaludosa che fa acquistare ai passanti
la buona abitudine dei piediluvi. Dico passanti così per dire, perchè
in verità non vi passano che gl'inquilini delle case e del palazzo,
quando se ne eccettui forse qualche coppia sentimentale che trova il
luogo propizio alle sue espansioni. Si sbaglierebbe però a credere che
la _calle_ fosse sacra al silenzio. Prima di tutto vi sono i rumori
esterni, perchè la _calle_ sbocca in una stradicciuola non larga ma
brulicante sempre di gente. Poi c'è il fruttaiuolo sulla cantonata che
vale per dieci. Dal giorno in cui la prima castagna raccolta sui monti
arriva a Venezia fino al giorno in cui è lecito arrostire castagne,
egli vende i suoi marroni caldi, e richiama i compratori gridando
a squarciagola — _Di bollio! Ma di bollio!_ Egli intende così di
esprimere in pretto toscano che i suoi marroni bruciano anzi _bollono_,
secondo la sua elegante dicitura. D'autunno egli lascia l'ufficio
di urlare alla moglie, la quale magnifica in note di soprano sfogato
la zucca santa e baruca, e non si stanca mai di ripetere _Cò negra!
Ma cò negra!_ Finalmente nelle sere d'estate i due coniugi a vicenda
proclamano ai quattro venti i meriti delle loro _angurie_ (cocomeri).

A ogni modo, nella _Calle lombarda_ la conversazione è languida. Ciò
dipende dall'esser tutte le finestre, meno una, da una parte sola,
dimodochè per vedersi bisogna sporger la testa fuori del davanzale
e rischiare di prendere un torcicollo. Aggiungasi poi che in questa
infelice condizione di cose _siora_ Annetta può discorrere con _siora_
Gertrude che le sta _muro con muro_, ma stenta a scambiare i suoi
pensieri con _siora_ Veronica che abita quattro finestre più in là.
Una conversazione generale è difficilissima e non si tiene regolarmente
che il sabato dopo l'estrazione del lotto. Quando uno dei monelli che
assistettero all'estrazione in piazzetta, passa davanti all'imboccatura
della _calle_ con le sue polizzine di numeri in mano e gridando _Cò
bei! siora_ Annetta, _siora_ Gertrude, e siora Veronica balzano tutte
alla finestra e una di esse chiama il ragazzo, cala il panierino col
suo centesimetto e ritira la lista di cui legge poi ad alta voce il
contenuto. Allora si discute sui numeri che naturalmente si trovano
assurdi perchè non si è guadagnato, e si conclude che oramai non _c'è
più regola_, e che anche la cabala è diventata vecchia e bisognerebbe
cambiarla.

Abbiamo già detto che sul muro del palazzo, oltre ai finestroni
delle scale a cui non s'affaccia mai nessuno, si apre una finestra.
Precisamente di fronte ad essa, sulla linea delle casupole, c'è una
finestretta molto invidiata dai vicini perchè è la sola che possa
vedere dentro Cà Dareni. Non s'invidia però la persona che da tanti e
tanti anni siede a quel posto e non se ne muove che per coricarsi sopra
un letticciuolo lì presso. Povera Gegia!


II.

Fino a dodici anni ella era stata un amore di bimba. Aveva lunghi
capelli biondi, occhi grandi e bruni e una personcina svelta, elegante,
su cui i cenci facevano l'effetto di sete e di trine. Mòrtale la mamma
mentr'essa era ancora in cuna, ella fu l'orgoglio del padre, gondoliere
presso una famiglia signorile, il quale, rimasto vedovo, aveva preso in
casa una sorella nubile per attendere alla fanciulla. Filippo (egli si
chiamava così) godeva di una singolare reputazione presso i barcaiuoli
come quegli che aveva vinto il primo premio in due _regate_, e che
conosceva tutte le regole dell'arte sua. Lo nominavano padrino nelle
sfide, lo invocavano a giudice nelle contese e quando una parola era
stata detta da Filippo, nessuno rifiatava più. Egli era inoltre un
avvenentissimo uomo e si pavoneggiava nella sua livrea blù coi galloni
d'oro. I bimbi lo guardavano con ammirazione e le donne più ancora dei
bimbi. Egli faceva buon viso alle donne ed al vino, ma mostrava d'amar
sopratutto la sua Gegia, che a nove anni sapeva leggere correntemente,
conosceva la _dottrina_ come un canonico, e dava scacco matto per
bellezza a quant'erano le fanciulle della parrocchia. L'accompagnava
ogni domenica a spasso e di tratto in tratto la conduceva a visitare
i suoi padroni che le regalavano o una chicca, o una moneta, o una
vesticciuola. Di questi doni la moneta era il meno gradito per lei,
giacchè suo padre la metteva in tasca ed ella non ne sapeva più
notizia.

Anche i Dareni, patrizi molto boriosi e molto bene incamminati verso
il fallimento, si degnavano di sorriderle e di carezzarla e avevano
perfino consentito alle loro bambine d'invitarla a casa. La Gegia ci
era entrata come in un castello di fate, era corsa per la lunghissima
sala, aveva visto gli specchi e i lampadari di Murano su cui si
frangevano i raggi del sole, aveva visto i quadri coi parrucconi e le
poltrone dai grandi schienali dorati, aveva visto infine il conte Luca
alzar dalle pieghe della _Gazzetta di Venezia_ il suo naso monumentale,
tirar fuori di tasca un fazzoletto di colore e soffiarsi con uno
strepito da svegliare i morti. Ma il suo maggior gusto era stato quello
di chiamare a nome dalla finestra del palazzo che dava sulla _calle_
tutti i bambini di sua conoscenza e di salutarli con un _bondì_ pieno
di degnazione. Le aveva fatto poi un effetto singolare lo spinger gli
occhi da colà entro la stanzuccia della sua casa.

Quest'amicizia della Gegia coi _zentilomini_ suscitava certo qualche
malumore, qualche invidiuzza, ma in complesso ella era benvoluta
da tutti. Era buona, servizievole, facile ad affezionarsi, e la sua
_aria di contessina_ non le faceva sdegnare la compagnia di quelli
ch'erano da meno di lei. L'avevano carissima anche nella fabbrica di
_conterie_ ove ella era entrata a undici anni e ove si distingueva
per la sua assiduità al lavoro e per la sua intelligenza. Il signor
Menico, il vecchio commesso che distribuiva le paghe il sabato, le
pizzicava volentieri la guancia e ogni tanto le donava un cartoccio di
perle colorate ch'ella portava a casa come un trofeo e con le quali
si conquistava il cuore di tutti i bimbi del vicinato, comprese le
contessine Dareni.

Quest'ultime però dovevano sparir presto dalla scena. Un bel giorno si
seppe che il palazzo andava all'asta e che i Dareni si stabilivano in
campagna. Infatti essi si dileguarono in silenzio lasciando dietro a
sè un lungo strascico di debiti. Le contessine non si curarono punto di
salutare la Gegia e la finestra sulla _Calle lombarda_ si chiuse.

La Gegia ne provò un vivo dolore, ma in quell'età le afflizioni non
durano a lungo e l'ingresso del nuovo parroco avvenuto dopo alcune
settimane la compensò ad usura della conversazione che le era mancata.
Che spettacolo quell'ingresso! Tappeti a tutte le finestre, iscrizioni
per tutti i muri, festoni lungo le strade, e baracche sui _campi_
ove si friggevano i _galani_, e si vendevano giocatoli. Il babbo, che
nella pompa della sua livrea la teneva per la mano, aveva speso dieci
centesimi per comperarle una specie di girandola, e l'aveva poi presa
in collo in mezzo alla folla affinchè ella potesse veder meglio ogni
cosa. In questa posizione eminente ella aveva letto quattro versi
scritti in color verde sul muro della canonica nei quali si faceva
giocare con molto spirito il nome e cognome del nuovo pastore:

    _Dei parrocchiani il core_
    _Conforti Don Vittore,_
    _Il cor dei parrocchiani_
    _Conforti Don Milani._

Le donnicciuole gridavano in estasi: _Siesta benedeta! Co'ben che la
leze! Co'bela che la xè!_ Alla funzione in chiesa ella aveva poi saputo
attirare perfino l'attenzione del parroco, che s'era informato con
molta premura di lei.

A rendere ancora più memorabile quella giornata, la Gegia seppe che
il palazzo Dareni era stato appigionato ad una famiglia forestiera,
dimodochè fra poco si sarebbe riaperta la finestra prospettante quella
della sua casa.

Ma, prima che ciò avvenisse, la fanciulla infermò di un male strano.
Il medico della parrocchia non ci capiva nulla, un altro dottore
che Filippo fece venire a veder la figliuola, disse che c'era un
rammollimento della midolla spinale, che sarebbe occorsa una cura
lunga, una di quelle cure che la povera gente non può fare a casa sua,
e per le quali ci sono gli ospedali apposta. Ma alla parola ospedale
la Gegia gridò come un'ossessa, Filippo dichiarò che sua figlia non
andrebbe _in quei luoghi_, e le comari della _calle_ dissero a una
voce e con molta solennità che i medici non ne indovinano una. Si
ricorse quindi ai sapienti consigli di una empirica, la quale si rese
mallevadrice della guarigione in quindici giorni. E siccome le febbri
che avevano prima travagliato la fanciulla andarono via via rimettendo
della loro intensità fino a sparire del tutto, così si cantò vittoria.
_Siora_ Veronica, la moglie del falegname, giocò al lotto i numeri
della guarigione, e guadagnò un ambo.

Fatto si è che la Gegia non tardò a poter essere levata dal letto e
messa sopra una sedia, ma non c'era caso di farle fare un passo. Sarà
debolezza — dicevano il padre e la zia e le vicine; ed aspettarono.
Ma il tempo, il gran medico, non seppe giovare in nulla alla
povera creatura. Le sue gambette che parevano fatte al torno si
assottigliarono, s'incurvarono; pareva che un soffio maligno avesse
arrestato lo sviluppo della leggiadra pianticella.

Con la beata spensieratezza della sua età, ella non dubitò un momento
che sarebbe guarita; si metteva piena di fede certi empiastri che
le erano suggeriti dalla ciarlatana, e faceva assegnamento sulla
buona stagione. Il male l'aveva colta d'autunno, poi era sopraggiunto
l'inverno, ma dopo l'inverno veniva la primavera, e con la primavera,
chi non lo sa? rinasce tutto a questo mondo.

Intanto s'era fatta trasportare nella cameretta, la cui finestra
guardava nella _calle_, e prospettava quella del palazzo Dareni. Questa
cameretta si apriva sulla scala, e aveva servito fino allora come
luogo di passaggio, ma la Gegia la preferiva alla stanza ove aveva
dormito per lo addietro, appunto per poter vedere i nuovi inquilini del
palazzo e sentire nella _calle_ le voci dei suoi compagni di giuoco.
Ed ogni mattina, o si strascinava ella stessa carponi, o si faceva
collocar dalla zia sopra una sedia vicino alla finestra. Teneva uno
sgabello piuttosto alto sotto i piedi, e con una ciotola di conterie
sui ginocchi e un mazzetto d'aghi in mano passava tutta la giornata
a infilar perle. Dietro i vetri foschi e giallastri si vedeva così da
mane a sera la sua testina di Madonna, più spesso curvata sull'opera
sua, talora volta all'insù a cercar l'azzurro del cielo, e talora
intenta a guardar dentro il palazzo che s'era riaperto.


III.

Era venuta ad abitar Cà Dareni una ricca famiglia tedesca e il
gabinetto di fronte alla cameruccia della Gegia serviva di abbigliatoio
ad una ragazza di tredici anni, già alta di statura e in via di
acquistare proporzioni matronali. La chiamavano Lotte (Carlotta), aveva
occhi azzurri, capelli castani, di cui le scendevano due lunghe treccie
giù per le spalle; le rosee guancie davano l'immagine della salute.
Con un po' di tempo sarebbe certo divenuta una bella ragazza. Quando
vedeva la Gegia le sorrideva. Ma la vedeva poco, perchè era d'inverno,
ed essa sollevava di rado le cortine, e più raramente ancora apriva la
finestra.

La buona stagione non portò alla Gegia alcun miglioramento. I fanciulli
del vicinato ripigliarono i loro giuochi nella _calle_, le rondini
tornarono a far sentire i loro trilli armoniosi, ma ella era inchiodata
nella sua sedia a infilar perle. Un dolore inatteso le aveva poi recato
lo strano contegno di suo padre verso di lei. Nei primi tempi della
sua malattia egli le aveva prodigato ogni sorta di cure; adesso, non
isperando più ch'ella guarisse, era freddo, ingrugnato, le teneva il
broncio. Gli è che Filippo, nel fondo, era un grande egoista. Aveva
amato sua figlia finchè la bellezza di lei, gli elogi che le venivano
diretti, lusingavano il suo orgoglio; adesso la commiserazione ch'ella
destava negli antichi conoscenti muoveva la sua stizza, gli pareva
un'offesa; adesso sarebbe stato lieto di poter dimenticare che aveva
una figlia. Aveva amato il suo sorriso, non amava la sua mestizia e le
sue lagrime; l'aveva amata ritta, svelta della persona, vispa delle
movenze; non sapeva più amarla così rattratta, così pallida, così
diversa insomma da quella ch'ella era. E cercava ogni pretesto per
venire a casa meno che fosse possibile. Finalmente disse un giorno
che d'ora in poi doveva passar la notte nel palazzo dei padroni, ed
era vero, ma era vero altresì che aveva sollecitato egli stesso questo
favore e che per ottenerlo s'era offerto di far la guardia al _padrone
vecchio_, il quale contava più di settant'anni, e aveva bisogno che
qualcheduno gli dormisse nell'anticamera. Presa questa risoluzione,
Filippo lasciava trascorrere anche una settimana senza veder la sua
figliola e credeva di adempir largamente a' suoi doveri di padre
pagando la pigione di casa, e dando a sua sorella un piccolo peculio
per mantenere sè e la Gegia. Ma queste poche lire non avrebbero bastato
nemmeno a toccar la metà del mese, se non vi si fossero aggiunti i
quattrini che la fanciulla continuava a guadagnarsi anche dopo la
malattia col suo mestiere di infilatrice di perle. E l'ottimo signor
Menico le portava in persona ogni sabato il suo salario, e non poteva
capacitarsi che la più vispa delle sue operaie fosse ridotta così.
Ma in cospetto di lei si mostrava pieno di fiducia, le discorreva dei
miglioramenti introdotti nella fabbrica, dei nuovi locali che si erano
aperti, e del posto ove la si sarebbe messa, quando fosse guarita.
Ella stava intenta ad ascoltarlo, e sperava, e rinfrancata dalle sue
visite, subiva con animo paziente l'abbandono del padre e gli umori
bisbetici della zia Marianna. Costei non era cattiva ma brontolona,
ed era affetta da una sordità che cresceva ogni giorno. Diceva che la
Gegia non aveva voce affatto, ma s'arrabbiava poi s'ella gridava un po'
forte, come se avesse da discorrere con una sorda. E nella sua stizza
si chiudeva in cucina e faceva al gatto lunghe e feroci requisitorie
contro la nipote, che sentiva benissimo le impertinenze a lei dirette,
e sospirava.

Nell'aprile di quel primo anno di malattia, una bella mattina, la Lotte
spalancando le imposte si affacciò al davanzale della sua finestra.
Aveva un bianco accappatoio sulle spalle e doveva ancora pettinarsi.

Ella vide la Gegia nel solito posto.

La Lotte aveva imparato un po' d'italiano, e raccogliendo tutte le sue
cognizioni, chiese:

— Come ti chiami?

— Gegia, signora.

— E stai sempre a quella finestra?

— Sempre.

— O perchè non ti muovi?

La poveretta arrossì, e sentì venirsi le lagrime agli occhi.

— Sono malata — rispose.

— È vero. Sei un po' pallida. O che cosa hai?

— Ho male alle gambe.

— Da un pezzo?

— Da sei mesi.

— Oh, ma guarirai certo.

— Sì, spero, quest'estate.

Da quel giorno le conversazioni fra le due finestre si rinnovarono
spesso. La Lotte era riconoscente alla fanciulla della buona cera
ch'essa le faceva. In quel tempo (era nel 1862) i Tedeschi non erano
avvezzi in Venezia ad esser trattati con cordialità.

— Che cosa fai? — domandò un dì la forestiera alla Gegia, vedendola
occupata in un lavoro diverso dall'ordinario.

— Faccio un sottolume di perle a colori.... tanto per distrarmi.

— Dovresti vendermelo.

— Oh! Venderglielo, no.

— Perchè?

— Perchè vorrei regalarglielo.... se non si offende....

— Poverina! No, che non m'offendo.... Ma tu non sei ricca.

— Oh questa roba qui non val nulla.

— Senti, Gegia, accetto il tuo regalo ad un patto.

— Quale?

— Che tu mi permetta ch'io t'insegni un lavoro che ti distrarrà ancora
di più.

— Oh magari? E sarebbe?

— Vedrai.

Così dicendo la Lotte si ritirò dalla finestra e scomparve.

Di lì a pochi minuti la Gegia sentì bussare all'uscio della scala, chè
quanto alla porta di strada essa soleva rimaner socchiusa gran parte
del giorno.

Tirò il cordone ch'era a portata della sua mano ed aperse.

Quale fu la sua maraviglia allorchè si vide dinanzi la Lotte in persona
accompagnata dalla cameriera, che per dir la verità aveva un'aria scura
ed uggita!

— Non c'è in casa nè il babbo nè la mamma — disse la ragazza — e ho
voluto prendermi un po' di vacanza. — Poi rivoltasi alla cameriera,
soggiunse in tedesco. — Dà qui. — La donna tolse, brontolando, un
involto enorme di sotto il braccio, e lo consegnò alla sua padroncina
che lo posò sopra il tavolino, e lo aperse. C'erano fogli di carta di
tutti i colori, forbici, fili di ferro, ecc., ecc. La Gegia guardava
esterrefatta.

— Non capisci? Voglio insegnarti a fare i fiori di carta?

— Oh! — esclamò la Gegia, battendo le mani per la contentezza.

— Non c'è da sedersi in questa camera? — ripigliò la tedesca. E in pari
tempo andò in cucina, ove la zia Marianna stava attizzando il fuoco,
prese due seggiole di paglia, una per sè, l'altra per la sua cameriera,
e senz'aggiunger parola tornò dalla Gegia.

La sorda, sbalordita da quell'apparizione, le corse dietro col ventolo
gridando: — Ehi chi è là? Chi è là?

La Lotte diede in una risata sonora.

Quando la donna riconobbe la signorina dirimpetto cominciò una filza
di scuse e di complimenti. La ragazza le rispose qualche cosa, ma
visto che l'altra intendeva a rovescio non si occupò più di lei, e si
consacrò tutta alla sua lezione.

— To' — diss'ella ad un tratto picchiandosi il fronte. — Ci manca
il meglio. — E con un ordine breve e con un gesto imperioso mandò la
cameriera a prendere quello che le mancava. Costei uscì borbottando e
in un paio di minuti fu di ritorno con un mazzolino di fiori. C'era una
camelia bianca cinta di violette.

— Ecco — osservò la Lotte pigliando il mazzolino — gli esemplari
dipinti e gli stampi sono belli e buoni, ma quando non s'abbiano i
fiori vivi davanti non se ne fa nulla.

La Gegia mostrava una singolare attitudine ad imparare, e la sua
maestra la lasciò dopo un paio d'ore assai soddisfatta.

— E questa roba? — chiese timidamente la Gegia.

— Che roba?

— Questa carta, questi modelli?

— Ti regalo tutto, diamine.

— Oh, ma è troppo....

— Ti ripeto che ti regalo tutto, e basta. Non sono avvezza a sentirmi
contraddire. Del resto anche tu mi regali il sottolume.... Via, non vo'
sentir altro, — e le pose la mano alla bocca, — ripiglieremo la nostra
lezione domani, posdomani, quando vuoi. — Le carezzò i capelli e senza
lasciarle tempo a rispondere fu fuori della porta.

La Gegia era tra commossa e confusa. Pur pensava che non poteva
trascurare troppo il suo mestiere, e che avrebbe quindi dovuto
rallentare un po' la foga della sua amica. Ma non ce ne fu punto
bisogno; la Lotte era stranamente volubile, e corsero parecchi giorni
prima ch'ella riparlasse dei fiori di carta. Intanto la Gegia faceva
singolari progressi da sè, e non ci volle molto prima ch'ella ne
sapesse quanto la maestra.

Una volta la Lotte comparve con un signore vestito di nero.

— Ho condotto qui il nostro medico, — ella disse, — voglio ch'egli ti
veda.

La Gegia arrossì.

— C'è quella noiosa di tua zia?

— No, è fuori.

— Tanto meglio.

Il medico non sapeva una parola d'italiano, onde la Lotte doveva
servirgli d'interprete. Fu un interrogatorio in tutte le regole
sulle origini del male, sui sintomi, sulle sofferenze, ecc., ecc.
All'interrogatorio succedette un esame. Il dottore fece uno sproloquio
alla Lotte in tedesco, indi si ritirò con lei.

Per quel giorno la Lotte non si lasciò vedere alla finestra del
gabinetto. Il dì appresso ella ritardò a sollevar la cortina.

E la Gegia aveva tanta impazienza di saper da lei che cosa aveva detto
il dottore!

Finalmente, quando le due fanciulle si videro, la Lotte pareva
imbarazzata.

— Dunque? — chiese la Gegia, — il medico?....

— Ah! Il medico disse che.... guarirai... con un po' di tempo.

E la Lotte finse che qualcheduno la chiamasse per poter allontanarsi
subito dalla finestra.

Fatto si è che il medico aveva giudicato la malattia della fanciulla
non esser guaribile. Se fosse stata ricca, se avesse avuto i mezzi da
fare una cura lunga e regolare, ci sarebbe stato da tentar qualche
cosa, ma nelle condizioni in cui ell'era bisognava rinunciarvi. La
Lotte se ne dolse vivamente, ma ella non poteva pretender che la sua
famiglia sostenesse per un'estranea le spese d'una cura come quella che
il dottore reputava necessaria; così era forza ch'ella si rassegnasse.
Del resto si finisce sempre col rassegnarsi ai mali degli altri.

Quanto alla Gegia, ella non poteva a meno di dare un triste significato
alle parole mozze della sua protettrice. Si disperò e pianse. Ma ella
era in una età nella quale le illusioni ripullulano facilmente; aveva
sperato nella primavera e poi nell'estate, e adesso andava via via
persuadendosi che la primavera era stata troppo rigida e che l'estate
era troppo soffocante.... Forse in autunno, chi sa? o, in ogni caso, a
un'altra primavera.


IV.

Succedette un inverno freddissimo. Nevicava ogni secondo giorno, e la
Gegia stava rannicchiata sulla sua sedia collo scaldino allato tanto da
poter posarvi di quando in quando le mani che intirizzivano. La neve,
cacciata dal vento, si era rappresa sugli sporti, sulle inferriate,
nelle screpolature del muro di faccia, e spenzolava dal cornicione del
palazzo come il drappo d'un baldacchino, e orlava le imposte della
finestra della Lotte che appena ogni due o tre giorni sollevava un
momento le cortine e salutava con un cenno l'amica. Giù nella _calle_
c'era un gran baccano. I monelli si rincorrevano gettandosi addosso
la neve a manate, e la Gegia sentiva quel chiasso, sentiva le palle
di quel bombardamento da burla frangersi sulle porte e sui muri, e il
gridio dei fanciulli, e le voci corrucciate dei babbi e delle mamme, e
pensava con che voluttà si sarebbe ella pur commista all'ilare schiera.
Ma a dover stare così immobile, infilando perle alla luce colata che
scendeva dall'alto, quei fiocchi bianchi che venivano a posarsi in
silenzio sul suo davanzale le mettevano una malinconia da non dirsi.
E salutò con entusiasmo i venti di marzo che portavano via le ultime
traccie di neve, e salutò i colombi, che rinfrancati, non uscivano più
dal loro nido soltanto una volta al giorno per andare al tocco delle
due in piazza San Marco, ma passeggiavano sul cornicione, traversavano
la _calle_ e si posavano sulla sua finestra a beccolarvi le briciole di
polenta ch'ella spargeva colà apposta per loro.

— Come sono interessanti quelle bestiuole! — esclamò una mattina la
Lotte affacciandosi al balcone dopo tanti mesi, e come se ripigliasse
un discorso interrotto pochi minuti prima. — E che bene si vogliono!
E che baci si danno!... Che cos'hai, Gegia? Perchè mi guardi come una
bestia rara?

Ciò che la Gegia guardava era il gran mutamento operatosi nella sua
amica durante quell'inverno. I suoi occhi azzurri avevano acquistato
un'espressione nuova; parevano divenuti più grandi, più profondi;
le lunghe treccie non le scendevano più infantilmente giù per la
schiena, ma le erano raccolte intorno al capo; il vivo rossore delle
sue guancie aveva ceduto il posto ad un leggero incarnato, la faccia
già un po' troppo piena e paffuta s'era affilata alquanto e ridotta
di un bell'ovale; il collo lungo, ben tornito, sottile, si posava
superbamente sopra un magnifico giro di spalle degne d'esser modellate
da uno scultore. Dall'autunno non era forse cresciuta in altezza,
ma sembrava che fosse, tanto aveva acquistato ormai l'aspetto d'una
ragazza fatta.

La Gegia le esternò la sua ammirazione; ella fece spallucce e sorrise.
Era avvezza ormai a ben altri omaggi!

— Ho continuato a intagliar fiori di carta, — osservò la povera
inferma, credendo di dir cosa grata alla Lotte. — Oh come debbo esserle
riconoscente per le lezioni che mi diede!...

— Bah! — rispose la tedesca con indifferenza. E mutò argomento. — E
io ho ballato, cara mia ho ballato tutto questo inverno, ciocchè è
meglio che far fiori di carta. Avevo ballato anche negli anni scorsi,
ma non tanto, e non col gusto di quest'anno.... Che effetto singolare
quell'esser portate in aria.... Tutto si confonde insieme, il suono, la
luce, l'alito....

Ma si fermò a questo punto, chè le parve di veder una nube sulla fronte
della sua disgraziata interlocutrice. Tolse da un vaso un mazzolino
di fiori, e presa la mira lo gettò in camera della Gegia. — Ti servirà
pei tuoi lavori, — le disse. Poi, dimentica del riserbo delicato che le
aveva fatto poc'anzi interrompere il suo discorso, soggiunse: — Ma non
ti darei per tutto l'oro del mondo quella viola lì. — E additò un fiore
che era in un bicchiere, posato sul marmo del suo lavamano. — Oh quella
viola non la darei a nessuno, a nessuno.

E si allontanò canticchiando la ballata di Goethe:

    _Es war ein König in Thule_
    _Gar treu bis an das Grab...._

La Gegia non era in grado di fare uno studio psicologico nè sugli
altri, nè su sè stessa; ella capiva soltanto che in quei pochi mesi un
mondo di pensieri nuovi, di nuove impressioni, di nuovi affetti s'era
spalancato dinanzi alla Lotte, e che in quel mondo ella ci era entrata
come una regina. Ormai a parlare con lei le sembrava di discorrere con
una persona che fosse sulla punta di un campanile; tanto ci correva
tra loro! La fortunata fanciulla (chè, grande e grossa com'era, non
toccava ancora i quindici anni) aveva la coscienza della sua bellezza,
della sua forza, e la lasciava trasparire con la baldanza dell'età
sua. Bisognava veder la mattina, quando faceva la sua _toilette_, come
si compiaceva a guardarsi nello specchio! Certa di non aver di fronte
altri che la Gegia, ella spesso non si curava nemmeno di abbassar le
tendine e terminava di vestirsi a finestre aperte. Eppur la Gegia la
divorava cogli occhi come se fosse stata un giovinotto, ed ammirava
quelle spalle che parevan tagliate nel marmo, e le curve del seno mal
dissimulate dal candido lino, le braccia ignude fin sotto le ascelle e
arrovesciate dietro la nuca ad annodare le diffuse treccie dei lunghi
capelli. E sentiva in cuor suo come un misto d'invidia, di desideri
ancora mal noti, di sfiducia desolata e profonda. Era ella pur nell'età
in cui nella fanciulla si sveglia la donna, e acquistavano un senso per
lei tante frasi udite, tante cose vedute, e il sangue le correva nelle
vene più infiammato, più rapido. Adesso capiva davvero il cinguettìo
delle coppie innamorate che ad ora tarda venivano a dirsi qualche
paroletta furtiva sotto la sua finestra, e adesso intendeva ciò che
significava l'esser _novizze_, come le si narrava or dell'una, or
dell'altra delle ragazze, che, un po' più grandicelle, avevano, anni
addietro, giuocato con lei. E, coricatasi, vegliava a lungo pensando,
e si voltava e rivoltava nel suo letticciuolo; poi quando cedeva alla
stanchezza e chiudeva gli occhi, i sogni si calavano in frotta sul
suo capezzale. Era, in sogno, bella anche lei, bella come la Lotte,
aveva anche lei il suo _moroso_, era fidanzata.... Poi si destava in
sussulto, la fredda realtà le si parava dinanzi, e piangeva.

Una notte, nella quale non le riusciva di quietarsi, intese aprire
adagio adagio le imposte della finestra dirimpetto. Tese l'orecchio
e distinse la voce della Lotte, a cui una voce d'uomo rispondeva
dal basso. Stettero forse cinque minuti a scambiarsi delle parole in
tedesco; poi si udì lo scoccare di due baci, di due baci innocenti,
intendiamoci, perchè l'uno scendeva da un primo piano alla strada,
l'altro saliva dalla strada a un primo piano. Ma i baci _mandati_ fanno
più strepito dei baci _dati_ e quel suono impedì alla Gegia di dormire
anche il resto della notte. La mattina poi, quando la Lotte si affacciò
alla finestra, ella le mise addosso certi occhi, che quella, contro il
suo solito, divenne rossa, parve confusa, ed abbassò il viso.

La Gegia non potè a meno di lasciarsi scappar dal labbro. — Oh sia
sicura che non dirò niente.

— Di che cosa? — rispose la Lotte facendosi di tutti i colori.

— Oh bella.... di questa notte.

— Che intendereste dire? — replicò la tedesca rizzando il capo in aria
corrucciata ed altiera.

Alla Gegia vennero le lagrime agli occhi. — Scusi, — balbettò, — io non
ci ho colpa.... non dormivo....

— Passate la notte alla finestra?

— No, no.... ma sentivo ugualmente... Del resto non potevo capir
nulla.... Non capisco mica il tedesco, io.

— Ebbene! che male c'è? Era il cameriere di una mia amica che veniva a
domandarmi se la sua padroncina aveva lasciato da me il suo ventaglio.

Non ci voleva un grande acume a capire che questa era una bugia, ma la
Gegia non aggiunse parola. La Lotte chiuse la finestra dispettosamente,
e non si fece più vedere per alcune ore. Ma sulle due ricomparve con
cera rabbonita, si guardò intorno e chiese alla Gegia — C'è nessuno da
te?

— Sì, c'è la zia — rispose l'altra cui non pareva vero d'essere
interrogata amichevolmente.

— Che seccatura!

— Oh, la sta sempre in cucina e sente appena le cannonate.

— Ebbene, vengo, dopo tanto tempo, a darti una nuova lezione di fiori.

E queste ultime parole le pronunciò ad alta voce, come se desiderasse
che fossero intese.

La Gegia aveva lasciato dormire da alcune settimane quei suoi lavorucci
di carta, e teneva tutto chiuso in un cassetto del suo tavolino. Aveva
bisogno di guadagnar quattrini e perciò doveva attendere a infilar
perle e preparar qualche ninnolo di conterie, che il buon Menico
vendeva per lei. Adesso tirò fuori dal tavolino la carta a colori, i
modelli e gli arnesi che le erano stati regalati dalla Lotte, e stette
in aspettazione della bella vicina.

— Buondì, Gegia — disse la Lotte entrando senza preamboli, e voltandosi
con una certa compiacenza a raccoglier la coda della sua lunga vesta di
percallo, che s'era impigliata nell'uscio. — Stamattina fui cattiva, ma
che diamine? Se ti sentivano.... Basta.... _À quelque chose malheur est
bon_.

— Le domando scusa di nuovo...

— Ci hai creduto alla storiella del cameriere?

— Ma.... sì.

— Baie! Hai una testolina troppa svelta.

La Gegia non rispose. Dopo una pausa di qualche secondo, ella disse: —
Non siede?

— Chè! Bisogna ch'io me ne vada subito.... I miei genitori sono andati
a fare una visita. Se tornano e non mi trovano in casa, sto fresca.

— Ah! Credevo fosse venuta per i fiori — osservò la Gegia guardando un
po' mortificata tutta la roba ch'ella aveva messo sul tavolino apposta.

— No, no, i fiori non c'entrano — replicò la Lotte. E si diresse verso
un cassettone sul quale erano collocati alcuni gingilli in conterie. —
Oh! il bel panierino! Oh il bel monile! Come mi piacerebbe averli!

— Li prenda.

— Purchè non sia come l'altra volta, sai. Voglio pagarli.

— Valgono così poco...

— Alle corte. Se non lasci ch'io me li pigli e li paghi, vado in
collera.

— Che debbo dirle? Faccia lei.

— Così mi piace. — Involse i due oggetti nel fazzoletto bianco, poi
si avvicinò alla Gegia e le diede una moneta chiusa diligentemente
entro un pezzo di carta. Infine, chinandosele all'orecchio, le disse:
— Se domani viene qui una donna portando _qualche cosa_ per me, mi
prometti di passarmi quella cosa dalla finestra? — E per prevenire ogni
obbiezione, soggiunse: — Ho un panierino di paglia che farò scorrere
lungo una cordicella di cui ti getterò uno dei capi. Mi prometti?

La Gegia non s'era ancor formata un'idea chiara di ciò che le si
domandava. Aveva un confuso barlume che ci fosse qualche cosa di male,
ma come risponder di no alla Lotte, che, bella e gran signora com'era,
aveva tanta degnazione per lei? Così, divenendo rossa, articolò un sì
appena percettibile.

— Grazie! — disse la Lotte. Le passò la mano sui capelli e soggiunse: —
I bei capelli che hai! E anche il viso è bellino... Sembri una Madonna.

Indi, senz'altri indugi, sgusciò via rapida e leggera com'era venuta,
e la lasciò mezzo sbalordita.

Ma lo sbalordimento della Gegia s'accrebbe, quando, rimasta sola, ella
spiegò la cartolina che aveva ricevuta e vi trovò un napoleone d'oro.
Senza saper precisamente il perchè, ella si sentì montar le fiamme al
viso; credette per un istante a uno sbaglio, ma poi si ricordò che
quella cartolina era preparata, e che doveva essere stata preparata
appunto per evitare le obbiezioni ch'ella avrebbe mosso senza dubbio
nel ricevere un compenso tanto maggiore del prezzo di ciò ch'ella
dava. Non erano, no, i suoi gingilli che le venivano pagati con quel
napoleone d'oro; era il servigio che si era chiesto da lei e ch'ella
aveva promesso di rendere. Oh se avesse potuto ritirar la sua parola!
Se avesse potuto consigliarsi con qualcheduno! Ma con chi? Suo padre
non capitava quasi mai a casa, ed era diventato poco men d'un estranio
per lei; colla zia Marianna bisognava rinunziare a discorrere, tanto
era sorda; il signor Menico ella non lo vedeva che di lì a cinque
giorni. E poi poteva tradire il segreto della Lotte? E se, dopo tutto,
la Lotte non le avesse chiesto che la cosa più naturale del mondo? E se
avesse voluto beneficarla? Aveva ella il diritto di essere orgogliosa?
Di rifiutare un piacere a chi glielo domandava con tanta grazia? Ma
se non fosse un piacere onesto? Onesto! E sapeva ella veramente ciò
ch'era onesto e ciò che non era? Chi glielo aveva insegnato? Torturata
da questi dubbi, la Gegia passava quel napoleone d'oro da una mano
all'altra quasi fosse rovente, e si guardava intorno come a cercare
un'ispirazione che non veniva, un buon suggerimento che nessuno le
dava. Ma quando vide entrare la zia Marianna, la fanciulla ripose
istintivamente la moneta nel cassetto del suo tavolino; non era a lei
ch'ella avrebbe potuto confidarsi. La zia Marianna era brontolona
per indole; quel giorno poi ella accusava cento malanni, prevedeva
che sarebbe caduta inferma e che l'avrebbero spedita all'ospedale. E
si lamentava in anticipazione della sua cattiva stella e del pessimo
cuore degli altri. La Gegia era avvezza a questi pronostici e a questi
lamenti; pur quel giorno ne fu colpita più del consueto; pensò che
una volta tanto la zia poteva dire la verità e che s'ella infermava
sul serio sarebbe convenuto fare ogni sacrifizio per salvarla dallo
spauracchio dell'ospedale. In questo caso i quattrini non sarebbero
stati mai troppi e quel famoso _marengo_ avrebbe servito a fare una
buona azione. Così si decise a tenerlo, lieta forse in cuor suo d'aver
trovato un motivo che giustificasse a' suoi occhi un tale proposito.


V.

Il panierino tragittò più d'una volta fra le finestre lungo la
cordicella. I bimbi della _calle_, ne ridevano e salutavano questi
passaggi aerei coi loro frizzi; le donnicciuole facevano i loro
comenti, tanto più ch'esse avevano visto una femmina ignota salire
replicatamente della Gegia. Nondimeno le cose sarebbero andate
liscie se un bel giorno il paniere non si fosse piegato troppo da
una parte e non avesse lasciato cadere il suo prezioso carico nella
via sottoposta. Il carico, che consisteva in una semplice letterina
scritta in carta sottile, fece parecchie leggiadre giravolte prima
d'arrivare in istrada, ma alla fine andò a terminare in grembo ad un
monello che giuocava sullo scalino di una porta. Si può immaginare
l'agitazione delle due ragazze. L'una, la Lotte, spintasi fuori con
mezza la persona dalla finestra, seguiva collo sguardo il volo del suo
biglietto; l'altra, la Gegia, che non poteva muoversi dalla sedia, lo
seguiva col pensiero e non era la meno inquieta. — Ps! Ps! — fece la
Lotte al ragazzo, vedendo che in quel momento non c'erano altri nella
_calle_. E avvicinate le mani alla bocca in modo da raccogliere il
suono, gli disse: Vieni subito al portone che scendo io. — Lasciò la
finestra e fu presto sulle scale. Il fanciullo, cui non pareva vero
di prendersi una mancia dalla signorina, aveva prontamente obbedito
e, tenendo delicatamente fra le dita il biglietto, aspettava che il
portone si aprisse. Volle sfortuna che in quel momento arrivasse dalla
strada nientemeno che _Herr Graf_ von Rheinstadt, il padre della Lotte.
Come costui vide il garzoncello all'uscio di casa sua, gli domandò
brusco che cosa volesse. L'interrogato, tra pella confusione, tra pel
dubbio di non farsi intendere in veneziano, si spiegò a gesti segnando
prima la finestra della Gegia, poi quella del palazzo e sforzandosi
a descrivere con la mano la caduta della lettera. Ma prima che la
spiegazione fosse compiuta, la porta si aprì, comparve la Lotte, la
quale rimase pietrificata alla vista del suo maestoso genitore. _Herr
Graf_ credette d'aver capito abbastanza, strappò il biglietto dalle
dita del ragazzo e a titolo di mancia gli amministrò uno scappellotto.
Indi, spingendo avanti di sè la figliuola, entrò in casa e si tirò
dietro il portone con gran fracasso. Di lì a poco la cameriera tedesca,
che, mesi addietro, aveva accompagnata la Lotte in casa della Gegia,
venne alla finestra del gabinetto della sua padroncina, rivolse alla
povera inferma uno sguardo velenoso e le gridò due volte _Unverschämte!
Unverschämte!_ (svergognata). Indi chiuse le imposte. Nello stesso
tempo il ragazzo ch'era stato così mal ricompensato dei suoi servigi
pensò di sfogar la sua stizza andando sotto al balcone della Gegia e
urlando: — Tutto per colpa tua, brutta storpia! brutta....! E qui c'era
una parola brutta davvero che il lettore mi dispenserà dal ripetere.

Quando la cosa si divulgò nel vicinato, le femminuccie della _calle_
si mostrarono tutte piene di scrupoli virtuosi. Il giudizio meno
ostile alla Gegia fu quello di _siora_ Veronica. _Poverazza! Bisogna
compatirla. Non la pol far ela e la tien terzo ai altri._ E il
barcaiuolo Filippo, informato della faccenda, s'infiammò di un sdegno
veramente magnanimo. — Quella lì, vedete — egli disse, parlando della
Gegia — dopo una roba simile, io non la conosco quasi più per mia
figlia. — Onde gli spiriti timorati convennero che Filippo era un
_uomo giusto_ un uomo il quale, _in materia d'onore_, non guardava in
faccia nemmeno alle sue creature. In quanto alla zia Marianna, ella
aveva subodorato qualche novità. Ma siccome nessuno voleva perdere il
fiato con lei, così alle sue interrogazioni si rispondeva gridandole
nell'orecchio: — _Domandate a vostra nipote_. Era un altro martirio per
la Gegia che diceva con voce supplichevole: — _Mi lasci stare. Ma mi
lasci stare._ E la sorda si ritirava in cucina sbuffando e ripetendo su
tutti i tuoni: — _Mi par d'essere in una gabbia di matti_.

In quale stato d'animo fosse la Gegia è facile immaginare. Il
rimprovero che la sua coscienza le aveva già diretto faceva sentir più
acerba la sua puntura dopo che la disgraziata ragazza trovava intorno
a sè la riprovazione degli altri. Perchè così nel biasimo come nella
lode che l'uomo dà a sè medesimo accade ben di rado che si astragga
affatto dal giudizio altrui, e la coscienza dell'individuo, per altera,
per illibata che sia, muta i suoi responsi col mutar dell'ambiente
in cui vive. Ma la Gegia, in mezzo alla sua mortificazione, aveva
un altro pensiero che la crucciava. Era il pensiero della sua amica
alla quale ella non sapeva che punizioni si fossero inflitte. A veder
sempre chiusa la finestra, ove la bella giovinetta soleva venir così
spesso a conversare con lei, ella sentiva stringersi il cuore. Certo
la Lotte era stata mandata via di casa, forse la si era cacciata in
un ritiro, povera creatura! La Gegia se la figurava già vestita di
saio, coi capelli corti, come, da bambina, aveva visto le monache nel
convento delle _Terese_. E anche lei, anche la Lotte, doveva dunque
rinunziare al mondo, doveva rinunziare all'amore! _Anche lei!_ Chi
può assicurarci che nel pronunziar questa frase le Gegia non provasse
in cuor suo quell'amaro conforto che è pur nella certezza del dolore
diviso? Chi può assicurarci che ella non fosse in preda a quella
strana contraddizione, che, mentre sveglia in noi tutto lo spirito di
sacrifizio necessario a toglier di pena un amico, di farebbe accogliere
come un disinganno la notizia che l'amico non ha nulla sofferto?

Questo disinganno, se era tale, la Gegia non tardò a subirlo. Pochi
giorni dopo l'avvenimento della lettera, ella sentì salir dalla strada
la voce della Lotte, il fruscio della sua vesta, lo scoppiettar del
suo riso. _Cò presto la ghe xè passada!_ dissero le comari della calle
vedendola vispa, ilare, elegante. Il romanzo della Gegia era andato
in fumo, la sua amica era sempre felice, ed ella piangeva a lagrime
dirotte.

Col chiudersi della finestra di facciata s'era chiusa per la Gegia una
gran parte del suo piccolo mondo. Ella passava intere giornate senza
scambiare una parola, chè con la zia Marianna era inutile discorrere
e le sue vicine non capitavano che di rado a visitarla. E poi queste
visite erano quasi sempre una fonte di mortificazioni per lei. Ogni
momento le si diceva: — Sai, la tale si marita a Pasqua e la tal'altra
fa l'amore con questo o con quello. — E qualche volta era la fidanzata
stessa che veniva a darle la buona nuova. Veniva tutta in fronzoli,
fresca, rosea, ridente, mostrando le _buccole_ che le aveva regalato
_el novizzo_, vantando, col freddo egoismo dei felici, la buona ventura
che l'era toccata e descrivendo in lungo e largo i suoi piani per
l'avvenire.

Povera Gegia! E pensare che queste ragazze erano, da bimbe, men
belle di lei. Pensare che suo padre, il quale allora l'amava, non si
stancava di ripetere: — Come la mia figliuola non ce n'è una in tutta
la parrocchia! — Adesso ella conservava ancora un pallido ricordo di
quel suo profilo di vergine, conservava i suoi bei capelli biondi,
i suoi grandi occhi bruni. Ma quegli occhi erano scemi dell'usato
splendore, e giravano intorno null'altro esprimendo che una mestizia
quasi rassegnata; ma le guancie avvizzite avevano ormai la tinta
giallastra della cera. Nel suo complesso aveva il curioso aspetto di
una bambina vecchia. La statura, la sottigliezza delle braccia, la
curva appena visibile del seno, le avrebbero fatto dare tredici anni
al più, ma guardandola in viso, specialmente se vinta dalla stanchezza
ella chiudeva un istante gli occhi, si sarebbe detto: È una donna di
trenta. Nel fatto, al momento di cui parliamo, non ne aveva che sedici.


VI.

Era il principio del 1866. L'aria era piena d'elettricità. Si sentiva
vicina una nuova guerra, l'ultima forse, quella che dopo tanti amari
disinganni avrebbe finalmente riunito Venezia alla patria comune.
Non si discorreva d'altro; due nomi che da sì lungo tempo erano nel
cuore di tutti, tornavano sulle labbra e si ripetevano dagli adulti,
dalle donne, dai fanciulli con una baldanza che nulla valeva a
temperare: _Vittorio_ e _Garibaldi_. I muri erano coperti ogni notte
di questa iscrizione bizzarra: _Viva VERDI_. Era un anagramma a cui
il celebre maestro di musica prestava ben volentieri il suo nome, e
significava _Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia_. La polizia aveva un
bel dar di bianco al voto sacrilego; era lavoro di Sisifo. I monelli
canticchiavano sommessamente per le strade l'inno di Garibaldi; gli
adolescenti aspettavano con impazienza che venisse il giorno opportuno
di passare il confine; dietro le vetriate dei merciai facevano capolino
le stoffe verdi, rosse, bianche, mal dissimulate dalle lane e dalle
sete d'altri colori.

Di tutto questo rimescolìo la Gegia capiva qualche cosa delle
chiacchiere delle vicine, ma le informazioni più esatte le riceveva dal
signor Menico, quand'egli veniva il sabato a pagarle la sua settimana.
Il signor Menico era stato guardia civica nel 1848-49, e se lo tiravano
in lingua raccontava come uno degli ultimi giorni dell'assedio, essendo
in fazione davanti una caserma in Cannaregio, da cui si vedevano i
forti, una palla di cannone era piombata sul tetto d'una casa vicina,
e dopo molti giri e rigiri era caduta a due passi da lui portandosi
dietro la grondaia. — Capite? a due passi! egli diceva. E ingrossava
la voce e tentennava il capo con aria d'importanza come a significare:
Una cosa simile è toccata a pochi! Malgrado di ciò il signor Menico
non era un leone, e con la teoria che _i muri parlano_, egli lasciava
volentieri da parte la politica. Ma adesso, con la Gegia, egli si
faceva coraggio e dopo averle chiesto regolarmente se la zia Marianna
continuava ad esser sorda, le raccontava le novità del giorno, e le
assicurava sulla sua parola d'onore che questa volta i Tedeschi se
ne sarebbero andati davvero. Glielo aveva detto persona che non era
solita ad ingannarsi. E la Gegia a poco a poco andava infiammandosi
per questa idea della patria che non le riusciva ben chiara, ma che
pur doveva essere assai bella, e che forse l'era tanto più accetta
quanto più le dava da pensare e la distraeva dalla muta contemplazione
delle sue miserie. Del resto, gl'infelici sono rivoluzionari per
loro natura. Chissà che il mondo cambiando non diventi migliore
per essi, chi sa che le loro pene non si alleviino, che l'egoismo
altrui non si corregga! Se avessero domandato alla Gegia: credi tu
che _gli Italiani_ restituiranno il vigore alle tue membra, faranno
giungere alla tua finestra il sole alla tua anima sitibonda l'amore?
ella avrebbe, sospirando, risposto di no; ma poichè nessuno glielo
chiedeva, ella si nutriva, inconsapevole, di dolci illusioni. Pur
la martellava un pensiero, il pensiero della Lotte che, quantunque
dimentica di lei, ella non aveva cessato di amare. Che sarebbe avvenuto
della giovinetta col mutar delle cose? Avrebbe ella dovuto soffrire?
S'era pur scritto anche sul muro di Cà Dareni — _Morte ai tedeschi_
— e quando nella _calle_ giungevano gli accordi del pianoforte
della Lotte e il suono del suo canto, i monelli, ormai imbaldanziti,
urlavano _Canta, canta, che presto te tocarà pianzer_. Oh se la Gegia
avesse potuto consigliarla a fuggire! Ma non ci fu bisogno del suo
consiglio, perchè una settimana prima della dichiarazione di guerra
il conte di Rheinstadt risolse improvvisamente di andarsene con la
famiglia. La Gegia non ne sapeva nulla quando una mattina vide aprirsi
improvvisamente la finestra del palazzo e comparire la Lotte in abito
e cappellino da viaggio.

— Addio, Gegia.

— Oh, va via? — rispose questa, che avrebbe voluto dirle tante cose.

— Sì, addio di nuovo, chè se i miei genitori sanno che sono venuta di
qua, mi fulminano.

— E — balbettò l'altra — non ci vedremo,... più?

— Sì, di qui a un mese.... Questa volta metteremo presto giudizio ai
matti....

— E se si vince noi, invece?

— Chi? noi...? Oh, anche tu, Gegia, — esclamò la Lotte col tuono del
_tu quoque, Brute_. Poi soggiunse ridendo: — Va là, che non c'è questo
pericolo. — E volò via. Pochi minuti dopo un servitore che rimaneva a
custodia del palazzo venne a richiudere le imposte.

Nel 1866 Venezia attraversò un periodo di alcune settimane che fu tra i
più curiosi ed originali che si riscontrino nella storia. Abbiamo mille
esempi dell'ansietà di un popolo che attende da una guerra il proprio
riscatto e di questa guerra segue con animo intento le varie vicende,
ma non son molti i casi nei quali una intera città per venti e più
giorni esulta della indipendenza conquistata sotto gli occhi dei nemici
che si trovano ancora entro le sue mura, e che di feroci e spietati
ch'erano prima diventano indifferenti e quasi benevoli e assistono, con
l'arma al braccio alle dimostrazioni fatte contro il loro governo. Uno
spettacolo simile l'offerse Venezia dalla metà di agosto al 19 ottobre
di quell'anno 1866. Sottoscritto l'armistizio, si trasse come un gran
sospiro dai petti. Finalmente! Finalmente se ne vanno! Dopo tante
disillusioni, dopo tante lagrime, dopo tanto sangue è giunto il gran
giorno! e la vita del paese era tutta in questo pensiero, e ciascuno
aveva bisogno di espandere la sua gioia, di narrare agli altri ciò
che gli altri sapevano, e di farsi narrare ciò che un momento prima
egli stesso aveva narrato. Le cose ripetute cento volte non perdevano
mai della loro novità, erano come una musica divina che l'orecchio
non si stanca di intendere. Nè si parlava più a bassa voce come per
lo addietro, nè si cercavano i crocchi fidati degli amici; era amico
chiunque favellasse italiano. Si consumava la giornata nelle vie, in
piazza, ai caffè. Di tratto in tratto circolava per le bocche una voce.
Son passati pel Canalazzo, son scesi al Municipio o al Comando militare
due, tre ufficiali del nostro esercito venuti a trattare degli alloggi,
delle formalità della consegna, ecc., ecc. Talvolta era vero, talvolta
no; nondimeno bastava il dubbio perchè nessuno rimanesse fermo, ed
era un correre, un urtarsi, un farsi strada a furia di gomiti per
giungere sino al luogo indicato, ove molto spesso si restava con un
palmo di naso, perchè gli ufficiali o erano già partiti, o non erano
neppure arrivati. Ma se spuntava un kepy, le grida, gli applausi non
terminavano più, e lungo il passaggio della gondola che accompagnava i
parlamentari alla stazione la gente si accalcava ai traghetti, sulle
_fondamente_, alle finestre, sventolando i fazzoletti e salutando di
giocondi _viva_ i fratelli che entro pochi giorni sarebbero venuti a
fermar stabile dimora in Venezia. E le bandiere tricolori, preparate a
migliaia nel segreto delle pareti domestiche, cominciavano a mostrarsi
qua e là come se non potessero tollerare più a lungo l'ipocrisia di
quel nascondiglio e anelassero all'aure aperte e serene. In qualche
luogo solitario e remoto della città si addestrava intanto con serietà
eroicomica una larva di guardia nazionale, vestita d'uniformi di
fantasia, armata di fucili di legno, che i fucili buoni non erano
ancora permessi e forse avrebbero fatto paura ai guerrieri, e già si
disegnavano in lontananza le ambizioncelle del pizzicagnolo aspirante a
caporale, e del chincagliere che si sentiva chiamato agli alti destini
di luogotenente.


VII.

Di questo moto, di questa vita un'eco giungeva sino alla buia ed
angusta viuzza abitata dalla nostra Gegia e interrompeva la triste e
monotona esistenza della poveretta.

I grandi avvenimenti rendono espansivi e loquaci, e le vicine,
perdonatole nella loro infinita clemenza lo scandalo del biglietto,
salivano adesso più sovente da lei a chiacchierar delle cose del
giorno. Inoltre una sua amica d'infanzia che aveva la commissione di
parecchie bandiere tricolori per l'ingresso _degli italiani_, sentì che
non poteva fare a meno di un aiuto e richiese la Gegia s'ella volesse
lavorare con lei e spartire i guadagni. L'offerta fu accettata con
entusiasmo, chè in quel tempo l'arte delle conterie dava alla Gegia
ben poco da fare ed ella aveva supplicato invano suo padre di crescerle
la mesata. Siccom'ella non si poteva muovere, l'altra trasportò da lei
il proprio laboratorio, e le due ragazze stavano insieme dall'alba al
crepuscolo a tagliare, a cucire quelle enormi pezze di lana, che coi
loro vivi colori parevano illuminare la malinconica cameretta. L'amica
della Gegia era una giovine vispa ed allegra e si divertiva un mondo
a ridere a spese della zia Marianna, la quale non sapeva raccapezzarsi
in mezzo a quelle novità. Si aveva un bel gridarle nell'orecchio che i
Tedeschi andavano via d'amore e d'accordo; ella ripeteva sempre che li
aveva visti per la strada con la loro brava baionetta al fianco e che
bisognava aver perduto il senno a far le bandiere tricolori mentr'essi
erano qui.

— Ne ho conosciuti di quelli che andarono sulla forca per meno, — ella
soggiungeva, ed era vero. Ma non c'era caso di farle intendere che i
tempi erano cambiati. Ella scrollava le spalle e si ritirava nel campo
trincerato della sua cucina ove la si sentiva brontolare: — Che il
Signore ce la mandi buona! Sono impazziti tutti!

Il signor Menico invece, dacchè non v'era più dubbio sulla prossima
partenza degli Austriaci, era diventato un eroe, e non era contento
della soluzione pacifica delle cose. — Credete pure, _tose mie_, — egli
diceva alla Gegia e alla sua compagna, — che ci voleva un altro poco di
sangue.

— Com'è cattivo, signor Menico! — osservavano le ragazze tra il serio
e il faceto.

— Cattivo! Cattivo! — egli rispondeva, prendendo tabacco. — Non è
cattiveria.... È che noi altri uomini del 48 siamo fatti così. Quando
si son vedute le bombe a due passi.... capite.... eh!... Non racconto
frottole.... vi sono testimoni.

Anche il padre della Gegia, Filippo, faceva in quei giorni men rare
apparizioni nella camera della figliuola. I maligni susurravano che
non gli dispiacesse fare il galante alla Pina, l'amica della Gegia, la
quale era piuttosto belloccia ed appetitosa.

— Quel Filippo, — soggiungevano le donnicciuole con un sorriso
indulgente, — benchè non sia lontano dai cinquanta, sta sempre dietro
alle gonnelle. È vero ch'è un uomo da poter piacere ancora meglio di
tanti zerbinotti.

Una volta egli magnificava alle due ragazze la nuova livrea che avrebbe
indossato il giorno dell'arrivo del Re.

— Oh come pagherei a vederlo in gran gala, — esclamò la Pina.

— Paghereste a vedermi, _fia mia_? — egli replicò chinandosi verso di
lei tutto ingalluzzito. — Ebbene, volete venir quel giorno a palazzo?
Dirò ai padroni che siete una mia parente e vi troverò un posticino
sulla _riva_ o a una finestra perchè possiate assistere allo spettacolo
e veder davvicino anche me.

— No, no, questi sotterfugi non mi vanno a genio.

— Eh che scrupoli.... Via!

— No, no e no.

— Andiamo, bella ragazza, non pigliate il caldo. Fatemi piuttosto
sapere per quel giorno dove sarete, a che finestra, a che _traghetto_,
e io farò il possibile perchè la gondola passi da quella parte, e
quando sarò presso vi farò un segno, che, capite, coi padroni in barca,
non posso mica chiamarvi....

— Diamine, s'intende. Ma, quando sarà?

— Il giorno preciso non è ancora stabilito. Bisogna prima che entrino
le truppe.

— E queste entreranno?...

— Il 19 del mese. — S'era già in ottobre.

— Che spettacolo sarà anche quello! — esclamò la Gegia.

C'era un tal fondo di mestizia nella sua voce, che la Pina ne fu
commossa, e soggiunse:

— Poverina! Che peccato che tu non possa veder nulla! — Indi battendosi
il fronte con la palma, continuò: — A proposito; dicono che lasceranno
andar la gente nell'entrata del palazzo di fronte che guarda sul
Canal grande. Sapete, Filippo, che bella cosa dovreste fare? Un po'
prima di andare in gondola coi padroni, venir qui, trasportar la Gegia
abbasso, trovarle un buon posto, e poi, più tardi, passare a prenderla
e riportarla su.

Mentr'ella parlava, la Gegia la guardava prima con maraviglia, poi
con commozione e con riconoscenza. Dopo tanti anni avrebbe potuto
davvero uscire dal suo tugurio, risalutare il sole, riveder l'azzurro
del cielo? Avrebbe potuto mescolarsi alla gioia degli altri, vivere
un giorno nel mondo, ella, la sepolta viva? Ma quando i suoi occhi
s'incontrarono in quelli del padre, ella capì che aveva sognato.

— Ma, Pina, che idee vi saltano in capo? — proruppe Filippo con aria
infastidita. — Come volete che la Gegia, nello stato in cui si trova,
vada in mezzo a quella calca? Sono momenti in cui rischiano di rompersi
le gambe anche i sani, e lasceremo schiacciar lei ch'è malata?... Un
bel servizio che fareste alla vostra amica!... Quanto a me poi avrò
proprio tempo di portare in collo la gente....

La Pina stava per replicare, ma l'altra le accennò che tacesse.

— Basta, — ripigliò Filippo in tuono più dolce, — quasi quasi andavo in
collera con voi, e io con le belle _tose_ voglio esser sempre in buoni
termini.

Ma la Pina non gli diede retta e si voltò da un'altra parte. Alla Gegia
intanto colavano due grosse lagrime per le gote, e Filippo che non
voleva veder musi lunghi uscì dalla stanza, dicendo: — Ecco ciò che si
guadagna a tener discorsi senza sugo.


VIII.

Son passati sei mesi, sono entrate le truppe, è arrivato il Re, è
arrivato Garibaldi, la città a poco a poco è tornata nel suo stato
normale, e la _Calle Lombarda_ ha ripreso un aspetto più calmo.
Nondimeno le bandiere sventolano ancora dai balconi per qualunque
pretesto, e gli _organetti_, che meriterebbero un po' d'indulgenza
dai signori perchè sono l'orchestra del povero, vengono di tratto in
tratto a suonare sotto la finestra della Gegia l'inno di Brofferio
o quello di Garibaldi. È l'unica distrazione che le abbiano recato
i tempi nuovi; ella non si è mossa neppur nei dì più solenni; non
ha visto i bersaglieri, non ha visto il Re, non ha visto l'eroe di
Marsala. Ha tutt'al più un'idea delle _camicie rosse_, perchè Maso,
un ragazzo ch'era cresciuto sotto i suoi occhi ed era andato ad
arruolarsi volontario nel maggio 1866, reduce in patria, volle farsi
ammirare nella sua divisa dai vecchi suoi conoscenti e salì anche
dalla Gegia. Del resto, ella non si occupa di politica, non legge nè
il _Rinnovamento_, nè il _Corriere di Venezia_, quantunque li senta
gridar dalla strada, non è informata nè delle tendenze radicali del
fruttaiuolo il quale sparla volentieri del Governo, nè delle tendenze
reazionarie di _siora_ Veronica che comincia a vedere in pericolo la
religione e teme si voglia assassinare il Papa. La solitudine si è
rifatta intorno a lei; non ci sono più gli Austriaci, ma per essa il
mondo è com'era prima. Aveva sperato senza saper precisamente nè per
che ragioni sperava, nè che cosa sperava; ora che tutti quei bei sogni
si sono risolti in nulla, la vince uno scoraggiamento infinito. Si
prova spesso, tanto per ingannare il tempo, a cantar qualche aria che
le ha insegnato la Pina, ma la sua voce esile, dolce, simpatica, muore
nelle lagrime. Ed ella guarda la finestra chiusa del palazzo Dareni, e
ripensa alla Lotte che con tanta sicurezza le aveva detto di tornare e
ormai non sarebbe tornata più.

Non andò molto infatti che i proprietari del palazzo lo appigionarono
ad altri. Una parte ne fu presa da certo dottor Galeni, avvocato di
grido, il quale consacrò ad uso di studio due stanze sul _rio_ e il
gabinetto respiciente la _calle_. La Gegia, che seguiva con grande
attenzione questi preparativi, vide una mattina l'avvocato, persona
grave e dall'aria diplomatica, accompagnar nel gabinetto un giovine
alto, macilento, e vestito di panni sgualciti.

— Si metterà qui, — disse l'avvocato accennando al suo interlocutore
il tavolino appoggiato alla finestra. — Qui c'è penna, carta e
calamaio. Adesso le porteranno un documento da copiare e vedremo la sua
calligrafia.

Ciò detto, il dottor Galeni uscì.

L'altro sedette, si guardò intorno, rimboccò le maniche del vestito,
mise nell'asticciuola una penna nuova, che premette prima sull'unghia
del pollice sinistro, quindi lambì con la lingua e finalmente immerse
nel calamaio. Dopo fatti questi preparativi, egli segnò alcune cifre
sopra un foglio e parve soddisfatto dell'opera sua. Intanto un uomo di
mezza età venne nel gabinetto con una carta in mano.

— Copii da qui sin qui, — egli disse posando la carta sul tavolino e
ponendo il dito successivamente sul punto da cui doveva cominciare e su
quello ove doveva finire la trascrizione. — Quando ha terminato passi
dal cavaliere.

— Col manoscritto? — chiese il giovane timidamente.

— Già. Non si tratta appunto di questo?.... E badi che il cavaliere non
vuole che ci siano pentimenti e scancellature.

Il cavaliere, com'è agevole intendere, non era altri che l'avvocato
Galeni, insignito appunto in quei giorni dell'ordine de' SS. Maurizio
e Lazzaro.

Rimasto solo, il candidato si accinse con grande impegno al lavoro che
doveva decidere delle sue sorti. Tanta era la sua paura di distrarsi
ch'egli non alzava mai gli occhi dal foglio, ma scriveva con la fronte
increspata e morsicandosi il labbro inferiore.

Dopo una mezz'ora, egli diede un'occhiata complessiva al suo compito
e con qualche trepidazione uscì dal gabinetto per sottoporre la sua
scrittura all'esame del principale. Quand'egli tornò, era un altr'uomo.
Il saggio era riuscito soddisfacente e Carletto Miglioli era stato
assunto all'altissimo ufficio di giovine di studio presso l'avvocato
cavaliere Galeni collo stipendio cospicuo di _trenta_ lire al mese e
con l'obbligo di lavorare soltanto sette ore al giorno, dalle nove alle
quattro.

Bisogna riconoscere che il buon Carletto era uomo di facile
contentatura. Il giovine d'avvocato, almeno in Venezia, è il _paria_
della società, da' cui non riceve altro compenso che quello di esser
chiamato _giovine_ tutta la sua vita fino ai cent'anni inclusivi, se
ha la poco invidiabile fortuna di arrivarvi. Egli può scegliere due
strade, una dritta, ed una tortuosa. Seguendo la prima, egli adempie
coscienziosamente a' suoi doveri, copia con meccanica esattezza le
scritture forensi, porta ai clienti le lettere, del principale, si
mantiene un perfetto galantuomo, e nel termine di un lustro al più
perviene allo stato di piena indigenza e di compiuto idiotismo.
Seguendo la seconda egli aggiunge alle sue mansioni altri piccoli
uffici, assume certe cause minuscole che l'avvocato disdegna, si fa
consigliere dei negozianti che vogliono fallire senza inciampare
negli articoli del Codice penale, e aguzza così il poco ingegno e
campa alla meno peggio, ma diventa in pari tempo un tipo esoso di
_azzeccagarbugli_, uno degli esseri più sfuggiti dai galantuomini.

In media il giovine d'avvocato guadagna meno del più modesto artigiano,
ma ha d'altra parte l'inestimabile vantaggio di dover vestire con una
certa cura affine di non esser preso in isbaglio per un facchino quando
si reca nelle aule tribunalizie, e di non offendere con una _toilette_
troppo democratica i nervi della moglie dell'avvocato quando ella viene
nello studio del consorte. È vero che qualche volta all'abbigliamento
del subalterno provvede la liberalità del principale, che cede al
_giovine_ la roba usata. Allora il _giovine_, secondo la sua statura,
ha corte o lunghe le maniche, lunghi o corti i calzoni, e secondo il
suo diametro acquista nel suo vestito l'aspetto di un naufrago che non
riesce ad emerger dall'onda, o quello di un fiume che non può più stare
fra le sue rive.

Tra il signor Carletto e la Gegia non si tardò a scambiarsi ogni
mattina il saluto. E al saluto tenne presto dietro qualche parola.

— Gran bella giornata — disse una volta il giovine alzando gli occhi
dalla carta e guardando il cielo ch'era tinto del più limpido azzurro.

— Beato lei che può passeggiare — rispose la Gegia.

— Passeggiare! Passeggiare!... Il troppo moto fa appetito.

— Tanto meglio.

— Eh signora Gegia, tanto meglio per chi può soddisfarlo. Ma chi ne ha
pochi del mese....

Rituffò la penna nel calamaio e si rimise a scrivere.

La Gegia ricominciò anch'ella a infilare le sue perle. Di lì a poco
ella chiese: — Ha famiglia?

Carletto mise un punto su un _i_, forbì la penna sulla manica, e poi
rispose: — La mia vecchia mamma.... Povera mamma!... Magari vivesse
sempre.... Non so rassegnarmi all'idea di star solo.

— Via, signor Carletto — disse la ragazza — loro uomini hanno sempre
qualcheduno che _gli_ vuol bene. Se non ci fosse la mamma ci sarebbe la
sposa.

— Oh sì, con un franco al giorno.

— È poco, assai poco, ma una brava massaia risparmia più che non
costi.... Veda, per esempio, una moglie la divezzerebbe da quel brutto
vizio....

— Che vizio?

— Quello di forbirsi la penna nel vestito.... Sa, gli abiti non si
conservano mica a quel modo....

— Ha ragione, lo dice anche la mamma, povera vecchia.... Ma per
quanto faccia ci ricasco sempre.... Oh dove siamo? — egli ripigliò
come fra sè. — Sicuro, sicuro.... Ecco il punto. — E lesse per meglio
raccapezzarsi: _Non è vero e si nega essere l'istromento dotale fatto
in modo da ingenerare equivoci. L'istromento dotale della sullodata
nobil donzella, in data 8 giugno 1850 rogito Paolucci, dice chiaro:
sono assegnati alla sposa di dote sessanta mila fiorini austriaci_....
Corbezzoli. Sessanta mila fiorini! Ha inteso, signora Gegia?

— Altro che inteso! Ma, così va il mondo! Chi troppo, chi troppo poco.

— A chi un milione di capitale, a chi una lira al giorno di stipendio.

— Ma potrà avere un avanzamento.....

— Noi giovani d'avvocato si resta sempre a un punto.... Basta, finiamo
questa scrittura.

La Gegia chinò gli occhi sulle sue perle e non aggiunse parola.

Una mattina il giovine depose sul davanzale della finestra un vaso
d'erbarosa.

— O cos'è quella, roba? — chiese la Gegia sorridendo.

— Un capriccio mio. Mi piace tanto l'odore dell'erbarosa che ho voluto
avere uno di questi vasi sul balcone dello studio.... La mamma ci ha
lasciato il cuore a veder scompagnata la sua collezione.

— Ha una collezione di piante?

— Dico così per dire. Ci sono altri due vasi, uno d'erba cannella,
l'altro di cedrina È il nostro lusso. Ogni mattina la mia vecchierella
va a guardarseli, li rimonda, li odora, ogni dopo pranzo li inaffia....

— C'è sole almeno a casa sua?

— Oh sì, grazie a Dio.... sulla finestra della mamma ce n'è a tutte le
stagioni. Stiamo in una catapecchia, proprio sotto il tetto, ma sole ce
n'è.... La non si muove mai di casa, la povera mamma; o che farebbe se
non avesse il sole?

La Gegia sospirò.

— E qui non capita mai.

— Dice davvero?

— Mai, fuori che un quarto d'ora al giorno per due settimane di giugno.

— Sicuro, è questo enorme palazzone qui che fa ombra.

— Carletto! — gridò una voce imperiosa dal di dentro!

— Vengo, vengo.... È l'avvocato che chiama — disse il giovine correndo
dal suo principale.

Di lì a poco egli tornò al suo posto con un fascio di carte sotto il
braccio, borbottando: — Oggi sto fresco. C'è da lavorare fino alle sei.

Scrisse per un'ora senza fiatare; poi alzò gli occhi e disse: — Ieri
cantava, signora Gegia. Perchè oggi è così silenziosa?

— Ho paura di disturbarlo.

— No, in verità; mi fa tanto piacere a sentirla e lavoro lo stesso....
Ha una voce così dolce.

La ragazza arrossì; e con una voce tremola dapprincipio ma che poscia
si fece più sicura intuonò l'aria della _Traviata_: _Ah forse è lui che
l'anima_, ecc.

— Oh la _Traviata_! Come mi piace!

— L'ha sentita?

— Una sola volta.... Che opera!


IX.

Era stato per una settimana un tempo diabolico. Quantunque fosse
d'aprile era caduta un'acqua gelata, accompagnata da un vento di
tramontana che metteva i brividi e trasportava in pieno gennaio. S'eran
dovute tener chiuse le imposte, e la Gegia e il signor Carletto si
erano appena salutati con un cenno del capo.

Il primo giorno in cui ricomparve il sole, la Gegia si trovava come
il solito per tempissimo alla sua finestra. Ella aveva una certa
impazienza di ricominciare gl'interrotti colloquii e aspettava le nove.
Ma le nove suonarono e Carletto non venne.... Nè alle dieci, nè alle
undici, nè a mezzodì. La pianta d'erbarosa beveva allegramente i raggi
del sole e una bianca farfalla, venuta non si sa di dove e smarrita in
quel vicolo solitario svolazzava contenta intorno alle sue foglie.

Sul mezzogiorno venne la serva dell'avvocato a tirar le cortine. La
Gegia si fece coraggio e chiese: — Non s'è visto stamane il signor
Carletto!

— Mi pare — rispose l'altra ch'era sgarbata e aveva una grande
antipatia per la _zoppa chiacchierona_, com'ella chiamava la Gegia — mi
pare che se ci fosse l'avrebbe visto prima di me.

La ragazza non rilevò il tuono scortese della risposta, ma soggiunse:
— È malato forse?

— Che vuol ch'io sappia? — replicò la fantesca stringendosi nelle
spalle.

— Non mangi oggi? — chiese a ora di pranzo la zia Marianna alla Gegia
quando vide che non toccava nemmeno le vivande.

— No, non ho fame.

— Come? — fece la zia accostando l'orecchio.

— Non ho fame.

— Se non ti piace, non so che farci.... Che vorresti ch'io ti
preparassi? Un piatto di fegatini?.... Povera scema!

— No, zia, non ho detto che non mi piace, ho detto che non ho fame.

— Pollame? Oh sì, proprio.

La zia Marianna era più sorda del solito e la Gegia dovette rinunziare
a farsi intendere.

Nella sera venne per pochi istanti anche il barcaiuolo Filippo, le cui
visite si facevano sempre meno frequenti. Quando s'accorse dell'umor
nero della Gegia, invece di confortarla, corrugò la fronte, prese
da un cassetto due o tre oggetti che gli occorrevano e se ne andò
brontolando: — C'è un bel gusto a venire a casa. Una è sorda come una
campana e quell'altra ha sempre la cera scura e contrita.... Vorrei
sapere che cosa le manca....

Povera Gegia! Che cosa le manca? L'aria, la luce, il movimento, la
vita, tutto.

La ragazza passò una notte angustiatissima. Ella non poteva scacciare
il pensiero di Carletto. Se fosse malato assai? Era così pallido! E
faceva una vita!

Ma il sentimento di lei non era che un sentimento di pietà o vi
si mesceva un altro più soave, più dolce, un altro di cui ella non
osava render conto a sè stessa? Sarebbe possibile ch'ella, la povera
rattratta, si cullasse in vaghe fantasie d'amore? E a che pro, infelice
ch'ell'era? Chi avrebbe chiesto un sorriso dalle sue labbra, una
stretta dalle sue braccia?

La Gegia lo sapeva anche troppo, ma nondimeno appena alzata ella non
istette dieci secondi senza volger gli occhi verso la finestra di
faccia, e quando vide comparire Carletto non potè a meno di farsi
rossa, di lasciar cader l'ago e le perle e di batter festosamente le
mani gridando: — Oh! è qua, signor Carletto.

— Buon giorno, signora Gegia.

— Fu malato!

— Ebbi un po' di febbre.... Sfido io! Con questi tempi. — E tossì.

— Le è rimasta la tosse?

— Oh passerà.

Indi, svolgendo le carte che aveva sul tavolino, — Oggi c'è razione
doppia, — egli disse.

— Povero signor Carletto.... Invece per ristabilirsi le occorrerebbe
l'aria, il sole....

— I discorsi che faceva la mamma ieri.... Ma io le rispondevo: Abbiamo
torto a lagnarci.... C è dirimpetto al mio studio una ragazza che non
può muoversi mai.... E alla sua finestra non ci arriva un raggio di
sole....

— Ha pensato a me?

— Sicuro. E la mamma pronta: Hai ragione, Carletto.... Quella povera
ragazza è a peggior partito di te.... E dille ch'io pregherò la Madonna
che la faccia guarire....

— Oh benedetta!...

— E dille, continuò la mia vecchia, che non si scoraggi e che la
Madonna ha fatto ben altri miracoli che questi....

— Grazie, grazie di queste parole, — replicò la Gegia con le lagrime
agli occhi.

— Oh come volentieri la ci verrebbe ella stessa a ripetergliele se non
fossero ormai due anni che non fa le scale.

— Ma si figuri.... Speriamo che i pronostici della sua mamma si
avverino, e se Dio vuole ch'io mi possa muovere da questa sedia, il
primo luogo ove andrò, dopo la chiesa, sarà a casa sua....

— E che festa le si farebbe!

Carletto aveva tanto da lavorare che non fu detta quasi più una
parola in tutto quel giorno; ma la Gegia provava in cuore una dolcezza
ineffabile e nuova. Carletto aveva pensato a lei, aveva parlato di lei
con sua madre. Ella non voleva guardar più in là, non osava chiedere
a sè medesima se le sue belle fantasie fossero mai destinate a prender
forma; perchè guardare il domani, se l'idea del domani non poteva che
amareggiare le gioie dell'oggi?

Oh se le fosse dato guarire! Era giovine tanto! Aveva tempo ancora di
amare, di godere!

Nel dopo pranzo sentì nella _calle_ la voce di Maso, quel giovine
ch'era stato con Garibaldi, e ch'ella aveva riveduto, dopo il suo
ritorno, tre o quattro volte.

— Maso! Maso! — ella gridò.

— O che mi chiama, Gegia?

— Sì, potreste venire un momento da me?

Il giovinetto fece in quattro salti le scale.

— Mi fareste un gran piacere senza dirlo a nessuno?

— Dica liberamente.

— Conoscete la Filomena, Maso?

— La conciaossi, quella che anni fa veniva a curarla?

— Sì, quella appunto.... Se poteste cercarla e mandarmela?

— Anche subito.

— Grazie, Maso.... Basterà che venga domani sulle dieci, all'ora che
non c'è la zia.

— A proposito, e dov'è adesso la signora Marianna?

— Dorme col gatto in grembo.... di là in cucina.

Il giovine sorrise e poi domandò peritoso: — Vuol riprendere la sua
cura?

— Sì, Maso, vorrei tentare. Mi pare impossibile ch'io non debba guarir
mai.

— Ha ragione, — rispose l'altro con la baldanza della sua età. — Provi,
provi, abbia pazienza a curarsi e vedrà che tornerà anche lei come le
altre. Oh la Filomena ne ha fatte delle cure, più assai dei dottori
con tutto il loro latino. Coraggio, Gegia, se lo ricorda di quando si
correva insieme?

— Se me lo ricordo! E la nostra gita al Lido.... quell'estate?...

— Ah sicuro.... Quanti anni sono?

— L'anno prima ch'io m'infermassi.... d'estate.... Mi par ieri, c'era
il babbo che aveva una giornata di libertà, c'era tuo padre buon'anima
e la tua mamma, oh guarda che adesso ti do del _tu_ come allora....

— Si figuri.... Ma è quello che deve fare....

— Purchè tu faccia lo stesso....

— Eh mi ci proverò.

— E c'era anche la Pina, — continuò la ragazza, — eravamo insomma una
brigata d'otto o dieci. Ci dirigemmo a San Nicolò del Lido, tirava un
venticello fresco ch'era una delizia e la barca andava su e giù, su
e giù.... Mi par di vedere ancora una dozzina di barche di pescatori
che, in fila, si dirigevano al porto.... Avevano il vento in poppa,
le vele spiegate, certe vele a rattoppi, giallastre, rossiccie, con un
emblema per ciascuna, o la Madonna, o un Santo, o un cuore, o un mostro
marino.... Le ci sfilarono davanti una dopo l'altra queste barche, e
noi si gridava «Buona pesca!»

— Che memoria ha! — esclamò Maso.

— Oh Maso, — replicò la Gegia, — tu hai visto tante cose nel mondo,
io ne ho viste così poche.... È naturale che me ne rammenti. — Indi
riprese animandosi sempre più: — A un punto il babbo perdette la
pazienza e disse: Come si va adagio! E afferrò il remo d'uno dei
barcaiuoli e si mise a vogar lui.... Allora sì ci parve di volare
sull'acqua.... E il desinare sotto il gran platano, lo hai presente?

— Un poco....

— Soltanto il principio, siamo intesi.... Perchè ho una gran paura che
noi ragazzi fossimo brilli dopo il primo bicchiere....

— Lo credo anch'io, — proruppe Maso ridendo, — perchè ho una vaga
reminiscenza che quel famoso albero mi volesse cascare ogni momento
sulla testa.

— Ma! Per me le son cose finite.... E intanto ti trattengo qui con
queste chiacchiere, e chi sa quante belle _tose_ ti aspettano.

— Oh mi canzoni — disse Maso. E soggiunse:

— Dunque andrò per la Filomena.

— Sì, grazie.... E scusa, sai.

Il giovine sgusciò via.


X.

Era altrettanto facile di guarire la Gegia, quanto di far passeggiare
per la piazza il campanile di San Marco; nondimeno la ciarlatana si
guardò bene dallo scoraggiare la inferma; la rimproverò anzi di non
aver fatto nulla da un paio d'anni, ma le soggiunse che ciò non rendeva
punto disperata la cosa e che perseverando nei rimedi ella avrebbe
potuto ricuperar pienamente l'uso delle sue gambe. Indi le ordinò certi
empiastri di sua recente invenzione, che s'erano chiariti efficaci
in casi più gravi del suo. E la Gegia sperò e ubbidì ciecamente alle
prescrizioni della ciarlatana, dando fondo per pagarla a poche lire
ch'ella aveva risparmiate in più anni. Non toccò per altro il napoleone
d'oro che le era stato regalato tanto tempo addietro dalla Lotte;
questo napoleone, che le rimordeva di quando in quando la coscienza,
ella aveva destinato di serbarlo ad un'opera buona, di farlo servire a
vantaggio di qualchedun altro.

A Carletto la Gegia non disse nulla della cura intrapresa. Bensì a
lunghi intervalli si lasciava sfuggir qualche parola che accennava
all'idea della guarigione, faceva qualche progetto per quando fosse
guarita.

Così pure, da pochi giorni e precisamente dacchè Carletto le aveva
riferito il colloquio avuto con sua madre intorno a lei, ella aveva
ripreso ne' suoi ritagli di tempo un'occupazione smessa da un pezzo:
quella dei fiori di carta.

Un dì Carletto se ne accorse e le chiese: — Anche i fiori sa fare con
quelle sue manine?

— Sono inezie.... Ho imparato da una signorina tedesca che abitava
costì....

— Come son belli!

— Le piacciono?

— Tanto. E lavora per commissione?

— Sì — rispose la Gegia abbassando gli occhi e sorridendo.

— Lo sa, signora Gegia — disse Carletto alcuni giorni dopo — che mi son
fatto fare il ritratto?

— Mi canzona? Il ritratto?

— In fotografia.... C'è un mio amico che s'è messo a fare il fotografo
e ha voluto usarmi questa cortesia. Me ne diede sei copie.

— Davvero? — soggiunse la Gegia e non osava chiedergliene una. Poi,
sforzandosi di parer disinvolta. — Sarà una sorpresa che vorrà fare
alla sua amorosa....

— Ma se non l'ho, io, l'amorosa.

La povera Gegia non osava sperare di esser lei la preferita; pur le era
un gran conforto il sentire che il cuore di Carletto fosse libero. E si
fece coraggio a dire:

— Già che ne ha sei copie, potrebbe darmene una?

— Sicuro che gliela darò.

— L'ha con sè?

— No, la porterò domani.

— Si ricordi, sa — disse la Gegia a Carletto, quando questi alla solita
ora si mosse per andarsene.

— Oh non dubiti.

Di lì a un'ora si bussò alla porta della Gegia.

— Chi è? — disse la ragazza.

— Sono io, sono Carletto che le porto oggi stesso il ritratto. Posso
entrare?

— Vengo, vengo — disse la Gegia tutta confusa di questa visita che le
metteva addosso uno strano turbamento.... Non ch'ella potesse temere
della sua riputazione. Prima di tutto c'era nella camera attigua la zia
Marianna: poi chi si sarebbe sognato di attribuire un intrigo galante
a lei, la storpia, la paralitica? Ella pensava invece che Carletto
non l'aveva vista sino allora che dalla finestra; egli poteva crederla
impedita nei movimenti, non rattratta com'era.

Depose in fretta sopra il tavolino che le stava allato la ciotola di
perle e gli aghi, si ravvolse le gambe in una coperta di filo, tanto
per nascondere alla meglio la parte inferiore della persona; quindi
tirò la funicella che girava tutto intorno alla parete e di cui uno dei
capi pendeva vicino allo stipite della finestra, a portata della sua
mano, l'altro era legato al saliscendi dell'uscio.

Carletto entrò.

— Perdoni la libertà, signora Gegia — egli disse — ma ho pensato
che domani debbo andare al tribunale per conto dell'avvocato e
trattenermivi forse tutto il giorno. Così volli anticipare e farle oggi
una visitina.... Eccole il ritratto.

E le porse una fotografia molto mediocre, che per vero dire non adulava
l'originale, nè faceva un grande onore all'artista.

Carletto aveva stimato opportuno di farsi ritrarre in piedi, locchè
dava maggior risalto al taglio disgraziato del suo soprabito e
alla cortezza fenomenale de' suoi calzoni, dono generosissimo del
principale, ch'era nomo di statura al disotto della mezzana. Inoltre
per la paura di mandar a male la grand'opera col più piccolo movimento,
il suo corpo aveva perduto ogni morbidezza di contorni ed era rigido
e stecchito come quello di un assiderato. Le braccia tese scendevano
fino all'altezza dell'anca, facendo un leggiero angolo acuto col
busto, e le mani aperte a ventaglio parevano preoccupate sovra ogni
cosa di persuadere il mondo ch'esse avevano il numero giusto di dita,
tanto un dito era discosto dall'altro. Ad aggiunger grazia all'insieme
contribuiva il fondo che figurava un giardino. — Giacchè debbo viver
sempre tra quattro muri, voglio stare almeno all'aperto in ritratto
— aveva detto il giovine al fotografo, e questi, per compiacerlo, lo
aveva addossato ad un paravento su cui erano dipinte due magnifiche
palme.

La Gegia ch'era artista per istinto avrà notato senza dubbio queste
stravaganze, ma non volle contristare con le sue critiche il buon
Carletto, e lo ringraziò molto della sua premura. Senonchè, mentr'ella
parlava, non potè a meno di osservare nel suo interlocutore un certo
che d'impacciato, una preoccupazione non naturale, una singolare
inquietudine dello sguardo. Parve ch'egli stesso trovasse necessario di
giustificarsene, perchè, quando i suoi occhi s'incontrarono in quelli
della Gegia egli divenne rosso e balbettò: — Guardavo quei fiori lì sul
tavolino.

La ragazza ben s'accorse non esser questa se non una scusa; tuttavia
volle accettarla per buona, stese il braccio a prendere i fiori
ch'erano ancora sciolti e se li pose in grembo.

— Oh la bella rosa — esclamò Carletto. — Verrebbe voglia di
odorarla.... E questo gelsomino!...

— Oh il gelsomino è facile; cinque pezzettini di carta bianca, guardi
il garofano piuttosto.

— Ma davvero! Com'è brava!

— È affar di pratica.

— Che lavoro c'è! Almeno glielo compenseranno bene.

La Gegia sorrise e disse: — Sa per chi preparo questo mazzolino?

— No in verità. Come potrei saperlo?

— Ebbene, spero che la sua mamma non avrà difficoltà ad accettarlo.

— La mia mamma? — esclamò Carletto.

— Sì — soggiunse la Gegia con accento commosso — da quando ho sentito
che discorrono qualche volta di me con la sua mamma, m'è venuta l'idea
di regalare a quella povera vecchia un lavoro mio.... Non ci vedremo
mai; ella non si muove più di casa, io non mi muovo di questa camera,
ma almeno.... io che sono la più giovine.... io che se fossi sana
dovrei andarla a trovare.... pregherò questi fiori di far le mie veci.

Mentre diceva così, annodava rapidamente il mazzolino con un sottile
filo di ferro, e con la manica del vestito si asciugava due grosse
lagrime che le colavano giù per le gote.

— Oh Gegia, com'è buona! com'è gentile! — disse Carletto, volendo
prenderle la mano.

Ella si schermì con uno di quegli atti istintivi della donna che nega
per consentire, e con un movimento un po' brusco della persona lasciò
scivolare la coperta che teneva sulle gambe.

— Oh perdoni — disse il giovine. E raccolse la coperta da terra e
gliela stese addosso amorevolmente. Pur non potè a meno di avvertire,
meglio che non avesse fatto sino allora, la sproporzione del
corpicino di lei; onde le parole gli morirono sulle labbra e restò lì
imbarazzato, confuso.

— Dunque li accetta questi fiori perla sua mamma? — ripetè la povera
Gegia macchinalmente, tendendogli il mazzolino e senza osar nemmeno di
guardarlo in viso.

— Oh se l'accetto! Sì, con tutta la gratitudine — egli rispose
prendendoglielo dalla mano, che questa volta, egli strinse davvero
nella sua.

— Vada via adesso — ella replicò tenendo il capo voltato verso la
finestra e accennando con la mano che le restava libera. — Vada via,
potrebbe venire la zia Marianna.

Egli esitò ancora un istante; poi disse: — Grazie ancora una volta,
Gegia, e a rivederci. — E se ne andò.

Oh se la Gegia fosse stata una ragazza come tutte le altre, certo egli
non le avrebbe ubbidito così presto!

Appena egli ebbe chiusa la porta, la giovine appoggiò i gomiti al
tavolino, nascose il viso fra le palme e ruppe in un pianto dirotto.

Il pingue gatto soriano ch'era in cucina e durante questo colloquio
aveva cacciato più volte il muso attraverso lo spiraglio dell'uscio e
s'era sempre tirato indietro alla vista di un estranio, ora si avanzò
adagio adagio sulle sue zampe vellutate, venne fino alla Gegia, si
fermò un momento a guardarla; poi le saltò sulle ginocchia.

— Povera bestia! — esclamò la Gegia. — Povera bestia! — E lo accarezzò
con una tenerezza assai maggiore dell'ordinario, tantochè il micio
non si mosse di là, finchè la zia Marianna non venne in persona a
prenderselo.

In quel giorno la Gegia aveva capito due cose: ch'ella amava Carletto,
e che non avrebbe mai potuto essere amata come sono amate le altre
donne.

Carletto le aveva detto — _A rivederci_ — ma c'era da scommettere
ch'egli non aveva in animo di tornarla a visitare; certo egli intendeva
dire soltanto che si sarebbero riveduti dalla finestra.

Dalla finestra egli le porse infatti i ringraziamenti di sua madre pel
dono dei fiori, ma non le fece altre visite, ed ella non cantò più;
nè egli le chiese perchè non cantasse. Capiva forse di essere andato
troppo avanti e non gli pareva onesto di lusingare la passione ch'egli
aveva creduto scoprire nella Gegia. Così il primo colloquio intimo
che i due giovani avevano avuto era stato anche l'ultimo, e il primo
scambio di cortesie successo tra loro aveva contribuito a rallentare
anzichè a stringere le loro relazioni.

Poi sopraggiunse l'inverno coi suoi freddi, le sue nevi, le sue
pioggie, e Carletto e la Gegia non si videro per più mesi che
attraverso i vetri.


XI.

Quando venne la buona stagione e le due finestre tornarono ad essere
aperte, la Gegia notò che Carletto era immensamente deperito. E invero
egli aveva una tosse ostinata.

— L'inverno mi fa sempre male — egli disse alla sua vicina — e non istò
ancora perfettamente.

— Non vuol curarsi.

— Ho preso tanti pasticci, più che altro per far piacere alla mamma....
Ma il meglio sarà ch'io resti in casa un paio di giorni.... Ne ho
chiesto licenza all'avvocato.

La Gegia sentì una trafittura al cuore. Le parve che una voce le
dicesse ch'ella non avrebbe più rivisto Carletto.

— E quali giorni ha scelto per istare a casa? — ella domandò.

— Comincierò domani ch'è domenica; spero così martedì o mercoledì
al più tardi di rimettermi al lavoro.... A ogni modo, senta, se per
mercoledì non vengo allo studio farò di tutto per passare un momento da
lei.

Era, dopo la visita dell'anno addietro, la prima volta ch'egli si
proponeva di venirla a trovare a casa.

— Oh signor Carletto, è troppo buono — ella disse — non vorrei che
queste cattive scale l'affaticassero.

— Non si dia pensiero, le farò adagio.... Se sapesse quante volte la
mamma mi ha detto ch'io ho mancato con lei.

— Con me! — sclamò la ragazza arrossendo. — O come mai?

— Sì; perchè non son venuto di persona a ringraziarla dei fiori.

— Lo sa che non deve far complimenti.... Verrà quando potrà.

Il mercoledì la Gegia passò una giornata agitatissima. Era forse
tornato a brillare un raggio di speranza nel suo povero cuore? Pensava
ella davvero a un ricambio della sua infelice passione? O piuttosto
la sua inquietudine era dovuta soltanto al timore che la malattia di
Carletto fosse più grave di quello ch'egli non credeva o non fingeva
di credere, tantochè egli non fosse in grado d'uscir di casa nè quel
giorno nè il giorno appresso, nè mai forse, mai più?

Se il pensiero che angustiava la sventurata ragazza era questo, ella
non si apponeva certo a torto. Non solo Carletto non comparve nel
mercoledì, ma il giovedì mattina la Gegia vide la serva dell'avvocato
che consegnava a un uomo maturo il vaso d'erbarosa.

Ella ebbe appena la forza di chiedere: — O non viene oggi il signor
Carletto?

La donna, sgarbata secondo il suo costume, scrollò le spalle senza
rispondere, ma l'incognito prese egli la parola. — No sicuro, non viene
oggi e non sa quando verrà.... Per questo ha mandato a prendere il vaso
d'erbarosa.

— Ma che cos'ha?

— Febbre e tosse.... Un affar lungo.

— Ma non mica serio?

— E chi può dir nulla? È attaccato al petto.

E, salutata la Gegia, si allontanò.

Ella, sopraffatta dal dolore, colse appena un frammento di dialogo tra
la fantesca e il messaggero di Carletto.

— Chi è quella ragazza?

— Oh _un bel feudo_!... Ha perdute le gambe.

La Gegia non aveva tempo di sentirsi mortificata da queste parole; il
suo pensiero era corso alla camera ove languiva il solo uomo che per
un istante aveva mostrato di provar per lei qualche cosa di più che
un sentimento di sterile compassione... Oh così avesse potuto volare
ella stessa a soccorrerlo, a vegliarlo! Così avesse potuto morire in
vece sua, morire sotto i suoi occhi, ridonandogli la vita e la sanità!
Che faceva ella nel mondo? A chi era necessaria? Non al padre, non
alla zia; egli invece aveva una vecchia genitrice di cui era il solo
conforto, egli poteva ancora trovare qualcheduno che lo amasse!

La tormentava inoltre l'idea delle strettezze in cui Carletto si
trovava sicuramente. Poveretto! Se la sua malattia era lunga, come
ne avrebbe sopportato le spese? Ed ella ripensò alla moneta donatale
dalla Lotte; a che opera buona l'avrebbe destinata se non a questa di
soccorrere Carletto e la sua mamma?

Il sabato, quando il vecchio Menico venne da lei come il solito, ella
lo supplicò di ascoltarla con pazienza e di prepararsi a darle una
prova del suo affetto per essa. Gli raccontò la storia del napoleone
d'oro, il voto ch'ella aveva fatto d'impiegarlo un dì o l'altro in tal
cosa che le facesse perdonare a sè medesima il modo in cui lo aveva
ricevuto; gli parlò di Carletto, della sua malattia, dei suoi imbarazzi
economici e del bisogno ch'ella sentiva di essergli utile. Finchè era
sano, ella non aveva avuto il coraggio di offrirgli nulla, ma adesso
ch'era infermo, ogni esitanza le sarebbe parsa colpevole, ed era certa
che Carletto non avrebbe rifiutato un aiuto da lei. Perciò, s'era vero
ch'egli le voleva bene, egli stesso, il signor Menico, doveva assumersi
quest'ufficio delicato, doveva andare da Carletto, informarsi della sua
salute, vederlo e fargli accettare quel po' di denaro. No, s'egli stava
in forse di compiacerla, ella non avrebbe più creduto nemmeno a lui,
avrebbe detto, povera disgraziata, che nessuno, nessuno aveva pietà
di lei sulla terra, Menico, ch'era di cuor tenero, finì col cedere
e adempiette così bene all'incarico che la Gegia gli sarebbe saltata
al collo se il saltare fosse stato cosa da lei. Quand'egli le disse
che a parer suo Carletto non istava poi tanto male come si voleva far
credere, quando le soggiunse che il suo napoleone era stato accolto con
lagrime di riconoscenza e aveva risparmiato alla madre del giovine la
necessità d'impegnare un filo d'oro ereditato da suo marito, la Gegia
si sentì quasi felice. È pur vero che noi non possiamo sbarazzarci
affatto dell'amor di noi stessi nemmeno negli slanci più generosi
dell'animo, e la soddisfazione di lenire un dolore altrui ci fa sovente
dimenticare che sarebbe assai meglio che questo non ci fosse.

Di lì ad alcune settimane il signor Menico tornò a visitare l'infermo.
Aveva ancora la tosse e un filo di febbre, ma era pieno di speranze. La
finestra della sua cameretta era spalancata, e il sole veniva a lambire
il suo letticciolo, e le dolci aure di primavera accarezzavano la sua
fronte.

— Che cosa le mandi a dire alla Gegia? — chiese a Carletto la vecchia
madre che gli sedeva vicino e lo guardava teneramente.

— Che sto meglio, e che mi alzerò domani e uscirò presto di casa
giacchè ormai siamo in aprile e non ho più paura.

— Oh sì — soggiungeva la madre. — La primavera è un gran balsamo per te.

— Chi sa, domenica forse — ripigliò il malato appoggiandosi su un
gomito — potrò andare a messa... E chi sa che non mi spinga fino dalla
Gegia...

— Bada — interruppe la vecchia — non troppe cose in una volta.
Ci andrai lunedì dalla Gegia... E bisogna che tu vada anche
dall'avvocato...

— Sicuro; perchè egli mi passa sempre lo stipendio e mi conserva
l'impiego... Insomma, o domenica o lunedì, se dura questo bel tempo la
signora Gegia mi vedrà senza fallo.

Il buon Menico, nel riferire questi discorsi alla ragazza, tentennava
un po' la testa, come a significare ch'egli non credeva a questa
rapida guarigione; ma la Gegia gli diceva che egli era sempre stato
un pessimista ed ella aspettava senza fallo Carletto per lunedì. Non
isperava nulla per sè, non s'illudeva più nel bel sogno d'essere amata:
le bastava rivederlo.


XII.

Senonchè, fino dalla mattina di quel lunedì atteso con tanta impazienza
ella s'accorse che per quel giorno almeno le era forza rinunziare alla
visita del convalescente. La temperatura s'era abbassata da un punto
all'altro; pareva tornato l'inverno. Veniva giù un'acqua fitta, spirava
un vento freddo che soffiando di tratto in tratto più forte faceva
sbatter le imposte e moveva in giri capricciosi il fumo dei camini.
Oppressa da una malinconia tetra, invincibile, la Gegia non trovava il
verso di mettersi al lavoro. Ella stava immobile a sentir lo scroscio
della pioggia, a guardar le goccioline che si formavano dietro i vetri
della sua finestra chiusa e colavano a guisa di lagrime. E pensava a
Carletto che aveva tanto bisogno del sole e a cui forse una giornata
come questa ritardava di qualche settimana la guarigione... Forse egli
era rimasto a letto, forse contemplava anch'egli mestamente il cielo
color della cenere e si ravvolgeva entro le povere coltri per ripararsi
dall'aria umida che penetrava nella sua camera attraverso le imposte
sconnesse.

Assorta nelle sue tristi fantasie, la ragazza non sentì bussare una
prima volta alla porta. Quando si bussò di nuovo:

— Chi è? — ella chiese in sussulto.

— Amici. Non istà qui una signora Gegia?

— Sì — ella rispose e tirò il cordone.

Entrò un ometto di bassa statura con un pastrano che gocciolava da
tutte le parti e sotto il quale pareva ch'egli nascondesse qualche
cosa. La fisonomia non era nuova alla Gegia, ed ella che vedeva così
poca gente, non tardò a riconoscerlo per la persona a cui la serva
dell'avvocato Galeni aveva consegnato il vaso d'erbarosa. Egli veniva
senza dubbio da parte di Carletto, ed è facile immaginarsi come
battesse in quel momento il cuore della povera paralitica.

— Ah! Ho avuto il piacere di vederla un'altra volta — soggiunse il
nuovo arrivato, levandosi il berretto e scuotendolo in modo da spruzzar
d'acqua i mattoni del pavimento. — Sant'Antonio Abate! Che brutto
tempo... Basta; ho un incarico poco allegro per questa signora Gegia...
È lei, non è vero?

— Sono io!... Che c'è mai?

— Un incarico di Carletto.

— Di Carletto! — esclamò la ragazza impallidendo. — E come sta?

— Eh, sta meglio di noi adesso.

— Ma si spieghi... per carità... non mi faccia credere...

— Cara la mia _tosa_, ci vuol pazienza... Il Signore lo ha chiamato a
sè.

— Morto? — gridò la Gegia. — Morto?

— Pur troppo. Stamattina alle 9.

— Oh Dio!

— È morto come un santo...

— Ma non istava meglio?

— Era spedito dal medico da un pezzo, ma son di quei mali!... Ancora
ieri s'è provato ad alzarsi.... Iersera poi si sentiva più debole e
ha voluto confessarsi e comunicarsi.. Io che sono il sacrestano della
parrocchia avevo seguito il prete, e quando Carletto s'accorse ch'ero
là, mi disse: — Girolamo, più tardi, di qui ad un'ora, passate da
me. — Così ho fatto... Il poverino stentava a respirare, ma appena
mi vide mostrò una gran consolazione e mi disse: — Girolamo, dovete
farmi un piacere. — Mille, viscere mie, io gli risposi. — Figuriamoci,
l'ho visto nascere, e suo padre ed io eravamo come due fratelli. —
Ebbene — egli ripigliò dopo aver preso fiato — di facciata al portone
dell'avvocato Galeni ci sta una povera _tosa_ di nome Gegia, ch'io
vedevo ogni giorno dalla finestra dello studio e che ha sempre mostrato
molta premura per me. Quando sarò morto, e ormai sento che non passerò
la giornata di domani, portatele quel vaso d'erbarosa ch'è lì sul
balcone e che siete andato a riprendere poche settimane or sono...
povero Girolamo, tant'era che non vi facessi fare che un viaggio
solo... portateglielo per memoria mia, e salutatela tanto, e ditele
ch'io pregherò il Signore e la Madonna perchè la facciano guarire delle
sue infermità... e che si ricordi qualche volta di me...

— Oh me ne ricorderò sempre, sempre — proruppe la Gegia in mezzo ai
singhiozzi.

L'altro intanto aveva deposto sopra una sedia la pianta d'erbarosa e si
soffiava romorosamente il naso con un fazzoletto blù.

— Si dia pace... non faccia disperazioni... Tanto ha finito di
patire... Se avesse visto com'era ridotto...

— Povero giovine! Povero giovine! Così buono!

— Oh buono sì... E timorato di Dio, sa... Non come tanti... Egli veniva
sempre alle funzioni... Don Agostino, quando lo ha lasciato iersera,
disse a me: — Quello lì va in Paradiso dritto.

— E la sua mamma?

— Oh le mamme, si sa, stentano a rassegnarsi... Ma anch'ella stamattina
mi disse asciugandosi gli occhi: — Vi raccomando di eseguir la
commissione del mio Carletto... E la saluterete anche per me, quella
_tosa_.

— Grazie, grazie... oh come pagherei a potermi muovere e a venirla a
trovare!... Ma è inutile!... E come vivrà adesso?

— C'è una sua sorella maritata con un orefice, e quella si è obbligata
a passarle un tanto... Poi ha ancora quei quattro stracci di suo
marito.

— O senta — replicò la Gegia — io sono una poveretta, ma se la mamma
di Carletto dovesse trovarsi nella miseria, io darei tutto quello che
ho per sollevarla... Glielo dica, sa, per l'amore che portava a quel
giovine... glielo dica... E adesso, scusi, mi dia qui quel vaso.

Ella prese e guardò quella pianta come si prende e guarda un bambino;
poi la depose dolcemente ai suoi piedi, si frugò nelle tasche e
trattone un biglietto da due lire, lo porse al sacrestano.

— Giacchè è tanto buono; faccia dire una messa al nostro defunto anche
per me... Lo hanno già portato in chiesa?

— Oh no, lo porteremo domani... E sia tranquilla che si faranno le cose
per bene... Le ripeto che tutti lo amavano... e ci sarà un funerale da
povera gente... ma decoroso...

Sono trascorsi alcuni anni, e la Gegia passa ancora le giornate
al solito posto. Non sorride mai, non canta più, ha già qualche
cappello bianco e qualche ruga sul fronte. Guarda spesso verso la
finestra dirimpetto e i suoi occhi si bagnano di lagrime. Ella non sa
persuadersi che un dì o l'altro non debba tornare Carletto a quella
finestra e dirle:

— Buon giorno, signora Gegia.



LE CHIACCHIERE DELLA NONNA


«Egli le sì gettò ai piedi esclamando: Vi amo!»

Quando l'Adelina ebbe letta questa frase, ella posò dispettosamente
il giornale sopra la tavola e disse: — Qui termina l'appendice, e
bisognerà aspettare fino a domani. Non potevano stampare una riga di
più e farci sapere che cosa abbia risposto la signora Clotilde?

La nonna sorrise. — Povera signora Clotilde! Ella si trova in una
situazione difficile e vogliono lasciarle un giorno da pensarci su.

La contessa Olimpia (la chiamavano _contessa_, quantunque a rigore
ella non avesse più diritto a portare il suo titolo di famiglia dopo
essersi sposata con un ricco banchiere) era una bella vecchietta sulla
settantina. Occhi vivi e intelligenti, sorriso arguto e benevolo,
persona svelta ancora ed elegante, a malgrado dell'età. Quel giorno
ella aveva in capo una cuffia bianchissima con nastri verdi scuri
e indossava un vestito di seta nera che dava risalto al candore del
carnicino e dei polsini insaldati. Adagiata in una poltrona a molle,
coi gomiti appoggiati ai bracciuoli, con la testa protesa in avanti
come chi ascolta, la contessa Olimpia aveva seguito attentamente la
lettura della nipote.

L'Adelina poteva avere diciannove anni, ed era leggiadrissima di
volto e di forme. Somigliava alla nonna negli occhi bruni, mobili ed
espressivi; ma quegli occhi avevano una qualità che quelli della nonna
non potevano avere, il fuoco della giovinezza.

Nonostante il mezzo secolo e più che le divideva, le due donne
s'intendevano e s'erano sempre intese fino dal giorno in cui l'Adelina,
appena venuta al mondo, dopo aver strillato in braccio della levatrice,
della balia e del babbo, s'era acquetata sulle ginocchia dell'ava.
Nonna e nipote erano la gioventù della casa; i genitori e le sorelle
dell'Adelina appartenevano alla razza di quelle creature linfatiche,
che sono già vecchie a vent'anni e che non corrono mai rischio di
smarrirsi per via, perchè camminano dentro un fosso.

La contessa Olimpia, ava paterna dell'Adelina, aveva conosciuta e
goduta la vita, aveva esercitato intorno a sè il fascino della grazia e
della bellezza. I maligni pretendevano che a rivangar nel suo passato
si potesse trovar qualche momento di oblio; era certo però ch'ella si
conservava una persona simpatica, atta a compatire e a intendere gli
altri, pronta a fare un sacrificio con animo sereno e viso ridente.
Un suo difettuccio era quello d'essere un po' loquace, e questo
difettuccio aveva la disgrazia di combinarsi con uno della nipote,
d'essere un po' curiosa.

Quando dico la nipote, voglio parlare dell'Adelina; chè le altre due
erano floscie e insignificanti come i loro rispettabili genitori, e la
nonna trovava che non c'era sugo a discorrer con esse.

— Eppure — osservò l'Adelina — gli uomini sono molto più arditi nei
romanzi che nella vita reale.

— Uhm! — fece in tuono dubitativo la contessa Olimpia.

— Non sei del mio parere, nonna? Ma scusa, per esempio, a badare ai
libri, ci sarebbe ogni momento qualcheduno che si getta ai piedi di
una donna.... E ho notato che la donna ha tre sistemi diversi....
Ti ricordi della novella del _Monde Illustré_ del mese scorso?
Quel cavaliere s'inginocchia davanti alla marchesa. Ella scuote il
campanello, e dice al servo: _Eclairez Monsieur_. Questo è un sistema
che non si può adottar che di sera.

— Pazzerella che sei. Smetti.

— _Sistema secondo_. _Egli_ le si getta ai piedi secondo il solito,
_ella_ si alza sdegnata: Signore, voi violate le leggi dell'ospitalità;
v'intimo di uscire.... Qui almeno non c'entra la servitù.... È vero che
qualche volta il signore non esce.

La nonna rideva.

— _Sistema terzo_. _Egli_ fu come sopra; _ella_ lo rialza
cortesemente.... Mi pare un sistema da persone educate, ma è anche il
più pericoloso.

— Sai, Adelina, che se la tua mamma ti sentisse....

— Misericordia!... È appunto per questo che parlo quand'ella non c'è.

— Bell'onore che fai alla nonna.

— La nonna è più indulgente.

— Troppo indulgente.

— Non mi hai insegnato tu quella bella sentenza d'una scrittrice
francese: _Tout comprendre c'est tout pardonner?_

— Ho fatto male a insegnartela. Certe cose non devono interpretarsi
alla lettera.

— Sii buona, nonnina.... Dunque tu dici che anche nella vita reale gli
uomini si gettano spesso ai piedi delle donne....

— Io non ho detto nulla....

— Ma l'hai lasciato capire.... È singolare.... A me non è accaduto
mai....

— Oh Adelina.... Non ti vergogni? Sei poco più di una fanciulla.... E
vorresti?

— Tanto per vedere.... Deve fare un certo effetto.... Che effetto fa?

La contessa Olimpia non potè a meno di ridere. — Sai che è una domanda
impertinente?

— Nonna, nonnetta, nonnina bella, se la cosa accade qualche volta, è
impossibile che non sia accaduta anche a te....

— O vediamo un po' la ragione, signora dottoressa.

— Perchè basta guardare il ritratto a olio appeso in salotto per dire:
questa donna, nella sua gioventù, era affascinante. O gli uomini di
quel tempo avevano un gran cattivo gusto, o....

— Zitto, zitto, adulatrice.

— Nonna, nonnetta, nonnina bella, levami questa innocente curiosità;
non s'è gettato nessuno ai tuoi piedi?

— Ma insomma?

— Il nonno, buon anima, che non ho mai conosciuto?

La contessa si strinse nelle spalle. — Lui?... Oh no.... Tuo nonno era
un uomo serio e posato che attendeva ai suoi affari.... Egli chiese la
mia mano ai miei genitori che gliel'accordarono.... Non c'era nessun
bisogno ch'egli mi si inginocchiasse davanti.... Avevo allora sedici
anni.

— Fosti sacrificata, povera nonna.

— No, no.... Mi trattò benissimo....

— Ma aveva molti anni più di te....

— Pur non era vecchio....

— Ma non lo amavi.

— Non si ama mica quando si vuole.... Si viveva in buona armonia,
quantunque ci fosse tra noi una gran diversità di carattere. Egli era
freddo, calmo, positivo; io ero impetuosa, entusiasta, poetica;...
egli avrebbe preferito una vita ritirata, io invece andavo pazza pei
divertimenti, pei teatri, pei balli.... Dopo tutto, se uno di noi
poteva lagnarsi era lui; perchè egli non aveva voluto impormi i suoi
gusti ed io gli avevo imposto i miei.

— Quanto pagherei ad averti vista in quei tempi, la mia nonnetta!

— Non pagheresti nulla, perchè se tu mi avessi vista allora, saresti
adesso all'incirca come me, con settant'anni sulle spalle, le grinze
in viso e i capelli bianchi in testa.... Del resto, consolati, tutti
dicono che mi somigli....

— Dovevi esser più bella, dovevi vestire con un gusto squisito.

— Sì, non vestivo male.... E non ispendevo mica tesori.... Ma, sai,
il buon gusto è una cosa che non s'impara; o lo si ha, o bisogna
rinunziarvi....

— Certo tu eri la regina di tutte le feste....

— La regina è troppo, ma, non lo dissimulo, ero tra le signore più in
voga....

— Lasciamelo dire di nuovo; a costo di non esser più giovine adesso,
avrei voluto vederti quand'eri fra i venti e i trent'anni, avrei
voluto vederti nei balli, circonfusa di veli, splendente di gemme,
vagheggiata da cento adoratori, superbi di raccogliere un tuo guanto,
un fiore caduto dai tuoi capelli, assetati d'una tua parola, d'un tuo
sorriso....

— Eh ragazza mia, vedi che cosa è rimasto di tutto ciò.

— È rimasta una bella nonnetta.... E poi i ricordi non valgon nulla?....

    — .... Nessun maggior dolore
    Che ricordarsi del tempo felice
    Nella miseria....

— Sì, lo dice Dante; ma tu mi hai fatto leggere l'altra settimana una
poesia di De Musset che ha un'opinione contraria:

    Un souvenir heureux est peut être sur terre
        Plus vrai que le bonheur.

— Lei ha sempre la sua risposta pronta....

— Non è vero, nonnetta mia; che gli uomini ti venivan dietro come tanti
cagnolini?

— Sicuro che mi venivan dietro.... E c'era qualcheduna che ne aveva
una rabbia.... La contessa Aureli specialmente. Era bella, ricca,
più nobile di me che avevo macchiato il mio blasone maritandomi a un
banchiere, e avrebbe voluto tener senza contrasto lo scettro della
moda.... Ma per forza o per amore, doveva dividerlo meco.... Eravamo
rivali, le due illustri rivali.... Il lunedì ella riceveva in casa
sua, il sabato ricevevo io. Naturalmente ella veniva da me, io andavo
da lei, non ci si poteva soffrire, ma si stava sempre insieme, per
sorvegliarci a vicenda.... Se io non c'ero, ella aveva un gran circolo
attorno; al mio arrivo tutti si alzavano e mi si faceva un posto presso
la mia intima amica.... Il circolo si ricomponeva ma si badava a me....
La bellezza dell'Aureli era più regolare della mia, ma io piacevo di
più; ella era più colta di me, ma la sua cultura era mal digerita....
la chiamavano l'_oca dotta_.... io invece avevo fama di essere una
donna di spirito.... in quel tempo.

— Anche adesso, anche adesso.

— La contessa Aureli ambiva di farsi presentare gli uomini ch'erano
in auge per una ragione o per l'altra, i forestieri sopratutto; già
piuttosto che al vero merito ella guardava alla fama.... A ogni modo,
ella riusciva ad aver le primizie di queste conoscenze, e noi, maligne,
si diceva ogni lunedì: stasera l'_oca dotta_ ha esposizione di animali
rari. Infatti ella era lì in mezzo alle sue celebrità che poi conduceva
alla sua volta negli altri _salons_, dondolandosi e gracchiando come il
volatile domestico di cui le si era dato il nome: _Cuà, cuà, cuà_....
Povera Aureli!... A questi uomini illustri ella mi dipingeva in
anticipazione quale una buona donnetta, un po' frivola, un po' vana....
Ond'io ero guardata sulle prime con qualche diffidenza.... ma non
tardavo a prendere la mia rivincita.... In mezzo al corteo dell'Aureli
c'era il buono e il cattivo, l'argento puro e l'argento _cristophle_,
ed io sapevo distinguerli così presto! Dell'argento _cristophle_ non mi
curavo affatto, lo lasciavo tutto alla mia dolcissima amica; io badavo
al buono e ti assicuro, Adelina mia, che gli uomini di vero ingegno
non davano retta alla contessa Aureli, ma a me.... Che le valevano
le sue citazioni dal greco e dal latino, le sue frasi lambiccate?...
Io ero spontanea, incisiva, originale nelle mie osservazioni; avevo
uno schietto entusiasmo per ciò che era grande, per ciò ch'era bello,
avevo uno sdegno profondo per tutto ciò ch'era ignobile.... — Voi avete
una fisonomia vostra, voi siete _voi_ — mi disse un giorno una certa
persona alla cui stima la contessa Aureli ci teneva di più. — Ella è
come l'acqua che s'adatta a tutti i vasi, come lo specchio che riflette
tutte le immagini e non ne trattiene nessuna, come l'eco che ripete
tutti i suoni.... La si ammira un momento, e si passa;... quanto a voi,
vi si ammira.... e si resta.

— Nonnetta mia, come parlava bene quella _certa persona_! Chi era?

— Che t'importa il nome, la mia fanciulla? Quella persona è morta in
esilio molto prima che tu nascessi....

— In esilio?

Una nube passò sulla fronte della contessa Olimpia; l'Adelina le si
avvicinò, sedette sopra uno sgabello a' suoi piedi e si pose in ascolto
senza batter palpebre.

— Eh Adelina, strani tempi eran quelli! Feste e baldorie alla
superficie e sotto i piedi un vulcano. Quanti giovanotti azzimati,
all'uscir d'un ballo, trovavano un commissario di polizia che li
conduceva in prigione e di là allo _Spielberg_. Dopo il 1848 si
cospirava con la speranza di riuscire; prima si cospirava con la
certezza di sacrificarsi, e d'esser chiamati pazzi dagli spiriti
positivi.... Allora ci voleva davvero una fede gagliarda, allora ci
voleva una forza di carattere!... Uno di questi forti caratteri era....
era lui, quegli di cui ti discorrevo.... Apparteneva a una cospicua
famiglia di Lombardia, era stato raccomandato alla contessa Aureli,
l'avevo conosciuto presso di lei.... Non si sarebbe certo supposto
ch'egli fosse un cospiratore. Era gioviale, elegantissimo, adorno di
tutte le doti di società, parlatore facile e arguto, pianista distinto,
e all'occasione perfino poeta estemporaneo. Io ero tentata di crederlo
frivolo.... E invece egli era tra gli affigliati più attivi della
_Giovine Italia_.... Si parlò per la prima volta di politica in un
gran ballo dato da una delle nostre famiglie patrizie. C'era l'Aureli,
c'ero io, c'erano tutte le signore della _high-life_, come usano
chiamarla adesso, e c'era anche lui. I padroni di casa avevano poi
stimato opportuno di comprendere tra gl'invitati alcuni ufficialetti
austriaci.... Io ero italiana nel fondo dell'anima; mi faceva male
la vista dei nostri oppressori; tremavo che uno di quegli ufficiali
mi si facesse presentare e mi impegnasse per una _polka_ o per una
quadriglia.... Avrei voluto andarmene, ma come fare? Come avvertire mio
marito, che s'era ritirato nella stanza da fumo insieme ad altri uomini
seri?... Intanto gli ufficialetti trovavano liete accoglienze presso
parecchie signore; l'Aureli mi passò vicino a braccio di un tenente;
ma non c'era pericolo ch'ella me lo presentasse; era un principe, ed
ella voleva tenerlo tutto per sè.... Girai gli occhi intorno; cercavo
istintivamente _lui_.... il conte.... Forse egli poteva venirmi in
aiuto.

— Ah! Era un conte?

— Sì... Lo vidi alla fine appoggiato allo stipite di una porta, e,
appena egli rivolse lo sguardo dalla mia parte, gli feci segno col
ventaglio di avvicinarsi. — Siete accigliato stasera? Che avete?
— Nulla, contessa, ma me ne vado. — No, non andate — soggiunsi —
impegnatemi invece per tutti i balli che ho disponibili.... Qui c'è il
mio libretto.... Riempite i vuoti col vostro nome... Lo so che ballate
poco, ma si tratta di rendermi un servigio... Vi spiegherò poi...
Fate presto. — E gli posi in mano il libretto... Non c'era tempo da
perdere, perchè proprio in quel punto la padrona di casa si fermava
davanti a me con un ufficiale a braccio. — Avete un _valzer_ o una
_polka_ pel barone? — ella mi chiese, presentandomi il suo tedesco
di cui non rammento più il nome. — Grazie, sono impegnata — risposi.
— Per tutti i balli? — Per tutti. — Il barone non mi perdonerà certo
d'essere arrivata troppo tardi — ella disse. L'ufficiale aggiunse
qualche complimento in pessimo italiano. Poi si allontanarono insieme.
Io respirai. — Era per questo? — domandò il conte, che s'era tenuto
alquanto in disparte. — Sì, era per questo; non volevo ballare
con un ufficiale austriaco. — E io volevo andarmene appunto perchè
c'erano gli ufficiali austriaci. — Adesso siete contento di rimanere?
— Contentissimo; vi ringrazio e vi ammiro... più del solito. —
L'orchestra intuonò un _valzer_. — È il quarto ballo, è mio — esclamò
il conte. Io mi alzai, egli mi cinse la persona col braccio, e ci
slanciammo, cullandoci sull'onda dei suoni, in mezzo alle coppie che si
urtavano, s'intrecciavano, si confondevano in una ridda vorticosa...
Ah! la musica di quel _valzer_ la ho ancora negli orecchi... E posso
dire di aver presente tutta la festa come se fosse una cosa di ieri,
onde al bisogno saprei descrivere perfino le _toilettes_ delle signore,
una per una... Che ciarliera di nonna, non è vero, Adelina?

— Parla, parla, mi diverto tanto.... E il conte?

— I miei sentimenti patriottici esercitarono sul suo animo un fascino
maggiore della mia bellezza. Ebbi da lui confidenze che non avevano
avuto i suoi più intimi amici, ed io sola, fra quante erano le sue
conoscenti in Venezia, seppi che tempra di eroe egli avesse e quali
cure ansiose e profonde si celassero sotto il suo sorriso.... Ero
superba e tremavo... A ogni suo viaggio, e di questi viaggi a me erano
ben noti gli scopi, temevo ch'egli non tornasse più..... Mi ricorderò
finchè io viva d'una sera d'inverno.... Quanti inverni sono passati da
allora, Adelina mia!... Il conte era partito da due mesi e non ne avevo
notizia. Subito dopo pranzo m'ero ritirata nelle mie camere, e me ne
stavo nel salottino da lavoro sentendo di fuori scrosciar la pioggia
e il vento gemere sinistramente all'imboccatura del rio. M'ero messa a
sfogliare un libro, poi avevo preso in mano il ricamo; poi, infastidita
anche di questo, m'ero adagiata sulla poltrona davanti al caminetto.
Ad un tratto s'aperse l'uscio dietro di me, e mi voltai in sussulto.
— Sono io — disse una voce ben nota. Sentii che eravate qui e sono
venuto senza lasciar tempo al servo di annunziarmi. — Voi! — esclamai,
correndogli incontro. — Ma perchè trasformato così? — Il conte (era
lui) non aveva più la sua folta barba. Egli si guardò attorno e mi
chiese: — Siete ben sicura che nessuno ci ascolti, che nessuno ci
sorprenda? — Chiusi gli usci di dentro. — Ebbene? — La polizia è sulle
mie traccie — egli soggiunse. — Questa notte m'imbarco. — Dio mio!
Questa notte! E lasciate l'Italia? — Per sempre forse — egli rispose
cupamente. — Non ci vedremo più? — diss'io congiungendo le mani. — È
per questo che scelsi la via di Venezia.... Per Genova mi sarebbe stato
più facile l'imbarco, ma non vi avrei dato l'ultimo addio.... Come
siete pallida, Olimpia.... e come siete bella nel vostro pallore!....
Figgete in me i vostri occhi stupendi ed il lume soave me ne resterà
nell'anima per tutta la vita.

— Oh nonna, sentirsi parlare così!

— Egli era tanto eloquente ch'io pendevo rapita dalla musica di quella
voce, dal fascino di quegli accenti.... Egli, il forte, egli che aveva
la fibra d'un eroe di Plutarco, egli avvezzo al comando, egli era lì
supplichevole davanti a me, povera donna.... Di fuori infuriava la
burrasca, di fuori lo attendevano insidie infinite, la carcere forse,
forse il carnefice, nella ipotesi men triste l'esilio; era in poter
di me sola, prima che egli partisse, di versare qualche dolcezza su
quell'anima esulcerata.... Oh certo, le coscienze rigide, inflessibili,
mi condannano...

— Io no...

— Tu! Che ne sai tu della vita, o fanciulla?

Vi fu qualche istante di silenzio.

— Finisci la storia, nonnetta mia — disse timidamente l'Adelina.

— Conveniva romper gl'indugi. Ogni soverchio ritardo poteva esser
fatale. Il conte volle che, in presenza sua, abbruciassi alcune
lettere. — Voi foste la mia confidente — egli disse infine.... In quei
tempi, Adelina mia, non ero la gran chiacchierona che sono adesso. — Le
cose che vi ho rivelate seppellitele nella vostra memoria, i nomi che
avete intesi dimenticateli; se vi si interroga sul conto mio mostrate
di avermi conosciuto solo come uomo di società... È impossibile misurar
le conseguenze di una parola imprudente... E voi siete madre, non
dovete affrontare inutili rischi.... — Quand'egli si decise a partire,
erano le dieci...

— E giunse in salvo?

— Sì, prima a Corfù, poi in Inghilterra... Ma la nostalgia l'uccise
dopo tre anni.... Che cosa fai, Adelina?

— Nulla; rasciugo con un mio bacio quella lagrimetta che ti riga la
guancia....

— Basta; cose vecchie, cose vecchie — disse la nonna, scrollando la
testa come a cacciar via i pensieri importuni. — E lei, signorina, è
contenta di avermi tirato in lingua anche oggi?.... Faccio male, faccio
assai male; bisognerà che mi metta un bavaglio alla bocca....

— Nonnetta bella...

— Che c'è?

— Vorrei sapere...

— Ha saputo anche troppo, signora curiosa.

— Una domanda.... una sola.

— Via, sentiamo.

— _Quella sera_, dove mai s'era cacciato il nonno?

— Il nonno dormiva ogni sera nella sua camera dalle otto alle dieci.

— Ecco, dal suo punto di vista, sarebbe forse stato meglio ch'egli
avesse dormito dalle sei alle otto.



NEVICA


Il termometro segna appena un grado sopra zero, il cielo è coperto
di nubi bianche di cattivo augurio, spira un'aria rigida e acuta; che
ragione può avere il signor Odoardo di starsene alla finestra della sua
camera da studio alle nove della mattina? È vero che il signor Odoardo
è un uomo robusto e ancora nel fior dell'età, ma via, non bisogna far
troppo a fidanza con la propria salute, nè tirarsi i malanni addosso.
Ahimè, ahimè, la ragione mi par d'averla scoperta. Dirimpetto alla
finestra del signor Odoardo c'è la finestra della signora Evelina, e
la signora Evelina ha gli stessi gusti del signor Odoardo. Anch'ella è
li a prendersi il fresco, appoggiata al davanzale, in veste da camera,
con le sue chiome bionde e ricciute che le cascano ogni momento sulla
fronte e ch'ella respinge indietro con una leggiadra scrollatina di
capo. La strada è abbastanza angusta e si può benissimo conversare da
una parte all'altra, ma col tempo che fa non ci sono che due finestre
aperte, quella del signor Odoardo e quella della signora Evelina.

Non c'è che dire: la signora Evelina, venuta da qualche settimana
ad abitare nella casa di facciata e una magnifica vedovella, i suoi
capelli sono oro filato, la sua carnagione è un impasto di latte e di
rosa, il suo nasino volto un poco all'insù non è greco sicuramente,
ma è più gustoso che se fosse greco, la sua bocca fregiata di denti
bianchissimi par che inviti ai baci, e i suoi occhi poi, i suoi occhi
azzurri hanno la trasparenza di un cielo sereno, ed ella sa girarli in
un modo! Nè le bellezze della signora Evelina finiscono lì; che persona
giusta, spigliata, che linee morbide, eleganti, che manine, che piedi!
Ah, signora Evelina, signora Evelina, comincio a credere anch'io che
il signor Odoardo non abbia tutto il torto di starsene alla finestra a
pigliare il fresco invece di chiuder le imposte e di mettersi vicino
alla stufa che arde romorosamente nella stanza. Di lei piuttosto
mi meraviglio, perchè in fin dei conti il signor Odoardo non è un
brutt'uomo, ma è poco distante dai quarant'anni, ed ella non ne ha che
ventiquattro. Così giovine e già vedova! Povera signora Evelina! È vero
ch'ella ha una gran forza di carattere. Volge il sesto mese della sua
vedovanza ed ella s'è omai rassegnata, quantunque il suo defunto marito
le abbia lasciato appena quanto basta per vivere modestissimamente.
Però la signora Evelina non ha imbarazzi di figliuoli, è sola, è
padrona di sè e non dovrebbe esserle difficile di passare a seconde
nozze, con quegli occhi, con quei capelli, con quel nasino volto
all'insù. Non c'è niente di male a confessarlo, la signora Evelina
aspira al matrimonio, e se il nuovo marito non fosse più di primo pelo,
pazienza!

Ora non è inutile a sapersi che il signor Odoardo è un uomo agiato, ed
è vedovo anche lui... Che combinazione!

Si sposino dunque, e che la sia finita!... Già è la conclusione
ordinaria di queste faccende.

Si sposino! È presto detto... Il signor Odoardo è ancora perplesso.
Se si fosse trattato di levarsi un capriccio ho una gran paura che la
perplessità gli sarebbe svanita. _Errare humanum est._ Ma la signora
Evelina è una donna seria, non vuole frascherie, vuole un marito...
oh la signora Evelina è una donna positiva; sa far girare le teste
degli altri, ma sa tenere a posto la propria. È così furba la signora
Evelina.

Se è così furba, la spunterà. A forza di ronzarle attorno, il signor
Odoardo terminerà col bruciarsi le ali. Questo è senza dubbio il suo
parere, gentile lettrice, e non le dissimulo che è anche il mio. Così
non può durare sicuramente. Le visite del signor Odoardo alla signora
Evelina sono troppo frequenti; adesso ci si aggiungono anche i colloqui
dalla finestra. Bisogna prendere una risoluzione, e il signor Odoardo
ha una gran paura che la risoluzione gli sarà strappata più presto
ch'egli non vorrebbe, in giornata forse, quand'egli si recherà a casa
della vedova.

L'uscio della camera da studio del signor Odoardo è proprio dirimpetto
alla finestra. Perciò una corrente d'aria fredda che gl'investe la
persona l'avverte che l'uscio fu aperto. E mentr'egli si volta, sente
una voce cara e simpatica che gli dice:

— Addio, babbo, vado a scuola

— Buon dì, Doretta — risponde il signor Odoardo chinandosi a baciare
una vezzosa fanciulla tra gli otto e i nove anni, e nello stesso tempo
dalla finestra dirimpetto la signora Evelina grida anche lei:

— Buon dì, Doretta.

La Doretta che aveva già fatto una smorfia a vedere il babbo in
conversazione con la vicina, ne fa un'altra a sentirsi salutare. E
biascica di mala voglia:

— Buon giorno.

Poi, mogia mogia, col suo panierino infilato al braccio, ella se ne
va a raggiungere la donna di servizio la quale l'attende in andito.
La Doretta si sente un gran pizzicore negli occhi, e basterebbe un
nonnulla a farla piangere.

— Mi piace tanto quella bimba — dice la signora Evelina con la
più dolce inflessione di voce che si possa immaginare — ma le sono
antipatica.

— Oh non creda... La Doretta è ritrosa per sua natura.

Il signor Odoardo risponde così, ma nel fondo del suo cuore è persuaso
anch'egli che sua figlia non ha nessuna tenerezza per la signora
Evelina.

Intanto il freddo si fa sentire più acuto, e il vento porta in giro
qualche piccolo fiocco di neve. Non c'è caso, a meno di voler rimanere
intirizziti, bisogna mettersi al riparo dall'aria.

— Nevica — dice la signora Evelina guardando in alto.

— Oh era da aspettarselo.

— Ebbene, vado a sbrigare le faccende di casa. A rivederci... Verrà a
trovarmi più tardi?

— Sì mi procurerò questo piacere.

— A rivederci.

La signora Evelina chiude gli sportelli, saluta nuovamente dietro i
vetri con un cenno del capo e con un sorriso, poi si dilegua.

Il signor Odoardo rientra anch'egli nello studio, e accorgendosi che
fa molto freddo, caccia legne nella stufa, e inginocchiato davanti allo
sportellino rianima il fuoco col soffietto. La fiamma divampa allegra,
romorosa, e manda vivi bagliori sulla parete.

Di fuori continua a cader qualche fiocco di neve. Forse non farà più di
così.

Il signor Odoardo con le mani nelle tasche dei calzoni, con la testa
china al suolo, misura in lungo e in largo la stanza. Egli è turbato,
profondamente turbato. Sente che è in un punto critico della vita,
sente che in pochi giorni, in poche ore forse si deciderà di tutto il
suo avvenire. È egli innamorato sul serio della signora Evelina? Da
quanto tempo la conosce? Sarà buona come l'_altra_, saprà essere una
seconda madre per la Doretta?

S'ode un suono di passi nell'andito. Il signor Odoardo si ferma in
mezzo alla camera. L'uscio si apre di nuovo, e la Doretta, rossa
in viso, col cappuccio di lana calato sulla fronte, col soprabitino
abbottonato fino al collo, con le mani incrociate e nascoste entro le
maniche, corre verso il babbo.

— Nevica, e la direttrice ci ha mandate indietro.

Ciò detto, la fanciulla si leva il cappuccio e il soprabito e va a
riscaldarsi alla stufa.

— La stufa brucia, ma la camera è fredda — ella esclama.

Infatti, colpa la finestra rimasta aperta una buona mezz'ora, il
termometro non segna che 5 gradi Réaumur.

— Babbo — ripiglia la Doretta — oggi voglio restar reco tutto il giorno.

— E se il babbo avesse da attender ai fatti suoi?

— No, no, smetti per oggi.

E la Doretta, senz'aspettar risposta, va a prendersi i suoi libri, la
sua bambola e il suo lavoro. Indi sciorina i libri sullo scrittoio,
adagia la bambola sul canapè e colloca il lavoro sopra uno sgabello.

— Ah! — ella esclama con aria d'importanza. — Che bella cosa che oggi
non ci sia scuola!... Così avrò tempo di ripassar la lezione... Ih!
guarda adesso come nevica.

Nevica infatti. Prima è un pulviscolo bianco, molto minuto, ma molto
fitto, che mosso in giro vorticoso dal vento, viene a batter sui vetri
con un suono secco, metallico; poi il vento rimette della sua violenza,
i fiocchi si fanno più larghi e cadono silenziosi, incessanti,
monotoni. La neve si distende come un soffice tappeto sulle vie, come
un lenzuolo sui tetti, s'insinua nelle spaccature dei muri, s'accumula
sui davanzali delle finestre, involge le sbarre delle inferriate,
s'arrovescia e resta sospesa a festoni dagli orli delle grondaie e
delle cornici.

In istrada deve far sempre un gran freddo, ma la camera si
riscalda rapidamente, e la Doretta montando sulla sedia osserva con
soddisfazione che il termometro è salito a undici gradi.

— Sì, cara — risponde il signor Odoardo — e l'orologio segna undici
ore. Va a ordinare che ci preparino la colazione.

La Doretta obbedisce, e rientra di lì ad un momento.

— Babbo, babbo, sai la novità? La stufa del salotto non vuol ardere e
tutta la stanza s'è riempiuta di fumo...

— Allora, bimba mia, facciamo colazione qui.

Questa savia risoluzione empie di gioia l'animo della Doretta, che
s'affretta a recar la notizia in cucina, poi in tre o quattro viaggi,
porta ella stessa dal salotto da pranzo alla camera da studio le
posate, i piatti, la tovaglia e i tovagliuoli, e con l'aiuto del
servo apparecchia la mensa sopra un tavolino del babbo. Com'è allegra
la Doretta! Come s'è dissipata la nube che un paio d'ore prima le
ottenebrava la fronte! E come adempie bene agli uffici di casa!

Il signor Odoardo la guarda con compiacenza, e non può trattenersi
dall'esclamare:

— Brava Doretta!

È innegabile, la Doretta è tutta la sua mamma. Anche la sua mamma era
un'eccellente massaia, un modello d'ordine, di pulizia, di buon garbo.
Ed era leggiadra come la Doretta, quantunque ella non avesse i capelli
biondi e gli occhi affascinanti della signora Evelina.

Insieme al servo che porta la colazione, entra un nuovo personaggio, il
gatto soriano Melanio, il quale non manca mai ai pasti della Doretta.
Il gatto Melanio è vecchio; ha visto nascere la Doretta e la onora
della sua protezione. Non c'è mattina che egli non miagoli all'uscio
della sua camera come a domandarle s'ella ha passato bene la notte,
non c'è sera ch'egli non le tenga compagnia fino all'ora in cui ella
si corica. Ogni volta ch'ella esce egli la saluta con un leggero _gnau
gnau_; ogni volta che egli la sente venire le corre incontro e le si
stropiccia intorno alle gambe. A pranzo e a colazione, quand'ella fa
colazione in casa, egli si mette vicino alla sua seggiola e aspetta in
silenzio ch'ella gli dia i rilievi della mensa. Però il gatto Melanio
non ha l'abitudine di visitare lo studio del signor Odoardo, ed egli è
piuttosto meravigliato di trovarvisi in questo momento. Dal canto suo
il signor Odoardo accoglie con una certa diffidenza il nuovo ospite, ma
la Doretta interviene in favore dell'animale e si fa mallevatrice della
sua onesta condotta.

È un pezzo che la Doretta non mangia di così buon appetito. E dopo
ch'ella ha fatto onore alla sua colazione, ella sparecchia la tavola
col garbo e con la prestezza con cui l'ha apparecchiata, e in pochi
minuti la camera da studio del signor Odoardo è tal quale era prima.
Rimane bensì il gatto Melanio che si è accomodato accanto alla stufa e
al quale la Doretta ottiene la grazia di essere lasciato tranquillo....
finchè non disturbi.

A forza di andare e venire la camera si è raffreddata di nuovo. Il
termometro è disceso di un grado e mezzo e la Doretta per farlo salire
vuota quasi tutta la paniera delle legne nella stufa.

Come nevica, come nevica! Non sono più fiocchi staccati, è come se una
tela bianca a trafori si svolgesse continuamente davanti agli occhi. Il
signor Odoardo comincia a credere che non gli sarà possibile di far la
sua visita alla signora Evelina. È vero che non c'è che un passo, ma
bisognerebbe sprofondarsi quasi fino alle ginocchia. A ogni modo, chi
sa? Può essere che più tardi smetta di nevicare. Già è appena suonato
il mezzogiorno.

La Doretta è colta da un'idea luminosa:

— Se rispondessi ora alla lettera della nonna!

Di lì a poco la Doretta è nella poltrona del babbo, davanti alla
scrivania, con due guanciali sotto al sedere per istar più alta, con le
sue gambine penzolanti nel vuoto, con la penna sospesa in mano, con gli
occhi fissi in un foglio di carta rigata su cui non si leggono finora
che due parole: _Cara nonna_.

Il signor Odoardo, addossalo alla stufa, guarda la figliuola e sorride.

Pare che la Doretta abbia finalmente trovato il modo di cominciare,
perchè ella rituffa la penna nel calamaio, abbassa la mano sulla carta,
corruga un poco la fronte, e spinge fuori la punta della lingua.

Dopo alcuni minuti di lavoro assiduo, ella alza il capo e domanda:

— Che devo dire alla nonna circa all'invito di andar a passare qualche
settimana con lei?

— Dille che adesso non puoi, ma che ci andrai nella primavera.

— Insieme con te?

— Insieme con me — risponde macchinalmente il signor Odoardo.

Certo però, che s'egli fosse fidanzato con la signora Evelina questa
visita alla suocera gli recherebbe non lieve imbarazzo.

— Ho finito — esclama la Doretta con aria trionfante.

Ma a questo grido ne succede un altro, mezzo di dolore, mezzo di rabbia.

— Che c'è?

— Uno sgorbio.

— Vediamo.... Che fai, scioccherella?... Adesso non c'è più rimedio.

La Doretta era corsa con la lingua sulla macchia d'inchiostro e aveva
sciupato il foglio.

— Bisogna ricopiare — ella osserva mortificata.

— Ricopierai stasera. Dà qui intanto.... Non c'è male, non c'è
proprio male. Ci sarà da aggiungere e da levar qualche lettera, ma in
complesso, per una bambina della tua età, si può contentarsi. Brava
Doretta!

La Doretta riposa sugli allori, giuocando con la bambola. Ella veste la
sua _Niní_ con l'abitino di lusso e la conduce a far visita al gatto
Melanio. Il gatto Melanio, che sonnecchia con gli occhi semiaperti,
si mostra piuttosto annoiato di quegli omaggi, si rizza sulle quattro
zampe, piega ad arco il corpo flessuoso e poi si raggomitola, voltando
la schiena alla visitatrice.

— Ah, Melanio è poco gentile oggi — dice la Doretta mentre riconduce la
bambola verso il canapè. — Ma non tenergli il broncio; egli non è mica
sempre scortese; dev'essere effetto del tempo.... Anche a te, _Niní_,
fa sonno questo tempo, non è vero?... Andiamo a dormire.... Così...
dormi, dormi, piccina.

_Niní_ dorme. La sua testa di legno riposa sopra un guanciale, il suo
corpicino di cenci e di crine è involto da una coperta di lana, le
sue palpebre sono abbassate. Poichè _Niní_ alza ed abbassa le palpebre
secondo che si trova ritta o giacente.

Il signor Odoardo guarda prima l'orologio e poi guarda fuori della
finestra. Sono le due suonate e nevica sempre.

La Doretta ha un'altra idea.

— Babbo, sta a sentire se so bene quella favola di La Fontaine: _Le
corbeau et le renard_.

— Sentiamo pure la favola — risponde il signor Odoardo, prendendo dalle
mani della fanciulla il libro aperto alla pagina 18.

La Doretta comincia:

    _Maître corbeau, sur un arbre perché,_
    _Tenait en son bec un fromage._
    _Maître... maître... maître...._

— Avanti.

— _Maître_....

— _Maître renard_.

— Adesso mi ricordo:

    _Maître renard, par l'odeur alléché,_
    _Lui tint à peu près ce langage:_
    _Hé! bonjour...._

A questo punto la Doretta interrompe la sua declamazione perchè il
babbo non bada a lei. Infatti il signor Odoardo ha chiuso il libro
sull'indice e guarda da tutt'altra parte.

— Ebbene, Doretta — egli osserva distrattamente — perchè non prosegui?

— Ecco, non dico altro — ella replica ingrugnata.

— Ih, che permalosa! Che cosa c'è?

La bimba, ch'era seduta su un panchettino, s'è alzata in piedi, e ha
capito benissimo perchè il babbo non le dia retta. Nevica meno, e di là
dalla strada, dietro i vetri della finestra dirimpetto, è comparsa una
testa bionda, è comparso il busto della signora Evelina.

Coraggiosissima donna! Ella spalanca gli sportelli, e con una paletta
di ferro sbarazza in parte il davanzale dalla neve. I suoi occhi
s'incontrano con quelli del signor Odoardo; ella compone le labbra a un
sorriso, e tentenna il capo, come a significare; Che razza di tempo!

Bisognerebbe esser proprio incivili per non dire una parola alla
intrepida signora Evelina. E il signor Odoardo, che non è incivile,
cede alla tentazione di socchiudere un momento la finestra.

— Brava, signora Evelina, non ha paura della neve.

— Oh, signor Odoardo, che tempo indemoniato!... Ma, se non m'inganno,
c'è la sua Doretta con lei.... Buon dì, Doretta.

— Doretta, vieni qui, vieni a salutar la signora.

— La lasci stare, la lasci stare, i bimbi fanno così presto a buscarsi
un reuma.... Ah, non c'è caso, bisogna chiudere.... Capisco che per
oggi devo rinunziare alla sua visita....

— Ma.... Vede che strade!

— Eh, uomini, uomini.... Si dicono il sesso forte.... Basta... a
rivederla.

— A rivederla....

Si richiudono gli sportelli da una parte e dall'altra, ma questa
volta la signora Evelina non iscompare. Ella è lì seduta accanto alla
finestra, e poichè adesso nevica meno, il suo profilo stupendo si
disegna nitidissimo dietro i vetri. Dio! Dio! Com'è bella la signora
Evelina!

Il signor Odoardo passeggia per la stanza di pessimo umore. Gli pare di
far male a non andare dalla seducente vedovella e gli pare che farebbe
peggio ad andarvi. Sul fronte della Doretta s'è calata nuovamente una
nuvola, quella nuvola stessa che vi si era calata la mattina.

Non si parla più della favola di La Fontaine. Invece il signor Odoardo
brontola infastidito:

— È sempre freddo in questa benedetta camera.

— Sfido io, — replica la Doretta con un po' di acredine nella voce, —
apri la finestra ogni momento.

— Ah! — pensa il signor Odoardo — vediamo di scavar terreno.

Ed avvicinandosi alla Doretta, la piglia per una mano, la conduce fino
al canapè, e se la pone a sedere sulle ginocchia.

— Orsù, Doretta, perchè fai così cattiva cera alla signora Evelina?

La bimba diventa rossa, si confonde, non sa che rispondere.

Il signor Odoardo continua:

— Che cosa ti ha fatto la signora Evelina?

La Doretta si scontorce, vorrebbe nascondere il viso, e balbetta:

— Nulla mi ha fatto.

— Eppure non le vuoi bene.

Silenzio profondo.

— Ella invece te ne vuol tanto.

— Non me ne importa....

— Che sgarbata!... E se tu ci dovessi stare con la signora Evelina?

Qui la fanciulla prorompe:

— Non voglio starci, non voglio starci mai.

— Oh, queste sono sciocchezze — ammonisce in tuono severo il signor
Odoardo, deponendo a terra la Doretta.

Ella si scioglie in un pianto dirotto.

— Ma insomma.... È questa la compagnia che fai al babbo?... Basta così,
Doretta.

Il signor Odoardo ha un bel dire, la Doretta ha bisogno di piangere. I
suoi occhi bruni nuotano nelle lagrime, il suo piccolo petto è ansante,
la sua voce è rotta dai singhiozzi.

— Che capricci! — esclama il signor Odoardo arrovesciando il capo sui
guanciali del canapè.

Il signor Odoardo è ingiusto, e ciò ch'è peggio, egli dice una cosa
di cui egli stesso non è persuaso. Egli sa, egli deve sapere che
quelli della Doretta non sono capricci. Egli deve saperlo meglio che
non lo sappia ella medesima, la quale forse non sarebbe in grado di
spiegare ciò ch'ella prova. È il presentimento d'un pericolo nuovo,
è la ripetizione di un antico dolore. Ella non aveva ancora sei anni
quando le è morta la mamma, eppure gliene è rimasta una impressione
incancellabile nell'anima. E adesso le pare che la mamma le torni a
morire.

— Quando avrai finito di piangere, Doretta, verrai qui — dice il signor
Odoardo.

La Doretta, rincantucciata, piange meno ma non ha finito di piangere.
Proprio come fuori. Nevica meno, ma non ha finito di nevicare.

Il signor Odoardo si copre gli occhi con una mano. Quanti pensieri gli
si affollano alla mente, quanti affetti si combattono nel suo cuore!
Oh se potesse scacciar via l'immagine della signora Evelina! Ma non
gli riesce. Quelle ciocche bionde egli le vede ancora, vede ancora
quelle pupille azzurre, quel sorriso lusinghiero, quella persona tutta
grazia e armonia. Egli non avrebbe da dir che una parola e la signora
Evelina sarebbe sua, verrebbe a rianimare la sua casa solitaria, ad
empirla di vita, d'amore. Per virtù di lei egli ringiovanirebbe di
dieci anni, crederebbe di essere come quand'era fidanzato la prima
volta. Eppure no, no. Come la prima volta non poteva essere. Egli era
allora ben diverso da quello di adesso, e _l'altra_, oh anche _l'altra_
era diversa molto dalla signora Evelina. Com'era modesta e vereconda!
Quanto riserbo di vergine perfino ne' suoi trasporti d'amante! Come
erano belli i rossori improvvisi che le tingevano il volto, com'era
dolce l'incanto di quelle sue lunghe ciglia pudicamente abbassate! Egli
l'aveva conosciuta nella intimità delle pareti domestiche, semplice,
timida, buona figlia, buona sorella, come doveva essere buona moglie
e buona madre. L'aveva amata qualche tempo in silenzio ed ella aveva
amato parimente lui. Un giorno, passeggiandole a fianco in giardino,
egli le aveva preso la mano con impeto subitaneo se l'era portata alle
labbra, dicendole — Le voglio tanto bene. — Pallida, tremante, ella era
corsa a gettarsi in braccio alla mamma con un grido — Come sono felice!

Oh bei tempi, oh bei tempi! Egli era poeta allora, egli susurrava
nell'orecchio della sua fanciulla con l'accento della più sincera
passione:

    T'amo più che non s'ami umana cosa,
    Sei la speranza mia, sei la mia fè,
    Se' il mio Dio, la mia patria e la mia sposa.
    Non amerò nel mondo altri che te.

Versi bruttini, ma che facevano palpitare di voluttà la giovine
fidanzata. Oh bei tempi, oh bei tempi! Oh lunghe ore passate come
un lampo in soavi colloqui, oh segreti dell'anima che l'anima scopre
a sè stessa soltanto per rivelarli alla persona diletta, oh carezze
desiderate e temute, oh rabbiette fuggitive, oh lagrimuccie rasciugate
coi baci, oh sgomenti pudichi, oh ingenuità sante, oh abbandono d'un
amore puro ed ardente, chi può sperar di trovarvi due volte nella vita?

No, la signora Evelina non può rendere al signor Odoardo ciò ch'egli
ha perduto. No, questa vedova disinvolta, che dopo sei mesi va alla
ricerca del secondo marito, non può ispirargli la fede che _l'altra_
gli aveva ispirata. Oh donna del primo amore, perchè morire? I morti
non hanno più nè baci, nè carezze, e i vivi hanno bisogno di carezze e
di baci.

Chi parla di baci? Uno tiepido e lieve se n'è posato or ora sulle
labbra del signor Odoardo e lo ha fatto trasalire. — Ah!... Sei tu,
Doretta? — È lei, è la Doretta, che non dice nulla, ma che vorrebbe
far la pace col suo babbo. Ella appoggia la sua guancia alla guancia
di lui, egli tiene stretta la sua testina perchè la non gli scappi.
Anch'egli tace; che dovrebbe dirle?

Si va facendo buio e gli occhi del gatto Melanio cominciano a brillare
nell'angolo della stanza, vicino alla stufa. Il servo picchia all'uscio
e chiede se deve portare un lume acceso.

— Riaccendete intanto il fuoco, — dice il signor Odoardo.

Le legne cigolano, scoppiettano, mandano faville e poi finiscono ad
ardere con una gran fiamma, con un suono uniforme, possente, come il
respiro d'un gigante addormentato. Nella mezza oscurità i riflessi
luminosi guizzano sulle pareti, fanno spiccare i rabeschi delle
carte, corrono fino a lambire lo spigolo dello scrittoio. Le ombre
s'allungano, s'accorciano, s'ingrossano, s'assottigliano, gli oggetti
paiono mutare continuamente di dimensioni e di forme. Il signor Odoardo
lascia andare i suoi pensieri a briglia sciolta, e passa in rassegna
gli anni trascorsi a fianco della moglie virtuosa, ricorda la cuna
della sua bimba, e i primi vagiti, e i primi sorrisi; sente, ahimè!
l'ultimo bacio della sua donna moribonda, l'ultima parola articolata
dal labbro di lei: Doretta. Oh no, egli non può fare infelice la
sua Doretta! Pur non è sicuro che il fascino della signora Evelina
non lo vinca di nuovo; pur teme egli stesso che al riveder domani la
bellissima ammaliatrice si dileguino i suoi virili propositi.... C'è
forse un mezzo, uno solo!

— Doretta, — dice il signor Odoardo.

— Babbo.

— Devi ricopiar questa sera la lettera per la nonna?

— Sì.

— E non preferiresti invece di andarci tu dalla nonna?

— Con chi? — chiede la bimba angosciosamente e, mentre ella attende la
risposta, il suo cuoricino batte d'un palpito affannoso.

— Con me, Doretta.

— Con te? — ella esclama quasi non credendo a sè medesima.

— Sì, con me, col tuo babbo.

— Oh babbo mio! — ella grida, e le sue piccole braccia cingono il collo
del signor Odoardo, e le sue labbra lo coprono di baci. — Oh babbo mio,
buon babbo. Quando si parte?

— Domattina, se non ti fa paura la neve.

— Anche subito, anche subito.

— Subito no. Per bacco, non vorresti nemmeno pranzare?

E il signor Odoardo, svincolandosi dolcemente dall'amplesso della
figliuola, si alza, suona il campanello e ordina che portino il lume.
Quindi con un moto istintivo egli guarda ancora una volta dalla parte
della finestra. Nella casa dirimpetto tutto è buio, il profilo della
signora Evelina non si disegna più dietro i vetri. È sempre brutto
tempo, cade sempre qualche fiocco di neve. Il servo chiude le imposte,
tira le cortine; nessuno sguardo profano penetra ormai nel santuario
domestico.

— Tanto fa desinar qui, — dice il signor Odoardo. — In salotto sarà una
Siberia.

La Doretta mette in rivoluzione la cucina con la strepitosa notizia
del suo viaggio. Prima si crede ch'ella scherzi; quando non si può
dubitare che ella affermi il vero, si osserva sommessamente che il
padrone dev'esser impazzito. Partire nel cuore dell'inverno, con un
tempo simile! Almeno si aspettasse una bella giornata!

Ma che importa alla Doretta dei commenti della servitù? Ella non
capisce in sè dalla gioia, canticchia, saltella per la stanza e viene
ogni momento a dar un altro bacio al babbo. Poi versa la piena de' suoi
affetti nel cuore del gatto Melanio e della bambola _Niní_, alla quale
promette di portar da Milano un vestito nuovo.

A pranzo non fa che parlare della sua gita, mangia pochissimo, domanda
sempre che ora è e a che ora si parte.

— Temi di perder la corsa? — chiede il signor Odoardo sorridendo.

Eppure, quantunque egli lo dissimuli, non è meno impaziente di lei.
Ha bisogno di andar lontano, lontano. Forse non tornerà fino alla
primavera. Perciò ordina che gli preparino il bagaglio come se dovesse
rimanere assente almeno due mesi.

La Doretta si corica presto, ma non fa che ravvoltolarsi nelle
coltri, e svegliar venti volte la cameriera per domandarle: — È tempo
d'alzarsi?

Anche il signor Odoardo è desto quando il servo alle sei della mattina
viene a chiamarlo.

— Che tempo fa?

— Brutto, signor padrone.... Su per giù come ieri.... Anzi io direi che
se non avesse proprio urgenza di partire....

— No, Angelo. Ho urgenza.... È inutile.

                             . . . . . . .

Alla stazione ci sono pochissimi viaggiatori avviluppati nei mantelli
o nelle pelliccie; faccie scure, assonnate. Tutti si lagnano del tempo,
del freddo, dell'ora; tutti protestano che senza un gran bisogno non si
sarebbero alzati così di buon mattino. Un solo viso è ridente, una sola
persona è vispa, la Doretta.

Lo scompartimento di prima classe in cui entrano il signor Odoardo e la
Doretta è gelato, malgrado delle cassette d'acqua calda su cui posare i
piedi, ma la Doretta trova che la temperatura è deliziosa, e se stesse
in lei aprirebbe il finestrino per veder meglio fuori.

Una scampanellata, un fischio, e il convoglio si muove. Negli occhi
della Doretta si dipinge una gioia ineffabile.

— Sei contenta, Doretta?

— Oh! Tanto....

Dieci anni addietro, con una giornata migliore, ma parimenti d'inverno,
il signor Odoardo intraprendeva il suo viaggio di nozze. Gli sedeva
di fronte una giovine, che somigliava alla Doretta quanto una donna
può somigliare ad una fanciulla, una giovine leggiadra, composta,
soavemente amorosa. Anche a lei il signor Odoardo aveva chiesto
nell'istante della partenza. — Sei contenta, Maria?

— E anch'ella gli aveva risposto. — Oh! Tanto....

— Proprio come la Doretta.

Si corre, si vola. Addio, addio per sempre, signora Evelina.

                             . . . . . . .

È forse morta di disperazione la signora Evelina?

Oh no. La signora Evelina ha un ottimo temperamento e una buonissima
casa. L'ottimo temperamento le impedisce di prender le cose troppo
sul serio, la buonissima casa le offre mille distrazioni. Non tutte
le sue finestre si aprono dalla parte ove abita il signor Odoardo.
Ce n'è una, per esempio, che dà su un giardinetto appartenente ad un
rispettabile celibatario il quale nei giorni di sole viene a fumarvi
la sua pipa. La signora Evelina trova che il rispettabile celibatario
è una persona a modo, e il rispettabile celibatario, che esercita le
funzioni di liquidatore di avarie, trova che la signora Evelina ha un
gran bel paio d'occhi ed è assai ben costruita, con materiali solidi,
da poter meritare la classificazione 313 I. I. nei registri del _Bureau
Veritas_. Ne viene che il celibatario guarda qualche volta in alto
e la signora Evelina guarda qualche volta abbasso. Però la signora
Evelina osserva che la stagione non è propizia alle conversazioni
all'aria aperta, e invita il vicino a venirle a fare una visita. Il
vicino esita, la signora Evelina rinnova l'invito. Come resistere a
una bella signora? In fin dei conti una visita che conseguenze può
avere? Nessuna, e l'ottimo liquidatore si loda assai dell'accoglienza
ricevuta, tanto più che la signora Evelina gli ha dato facoltà di
venire un altro giorno con la sua pipa. Ella ama infinitamente l'odor
della pipa. È proprio una donna perfetta la signora Evelina, una donna
quale ci vorrebbe per un uomo d'affari che non fosse deciso a rimaner
celibe tutta la vita. Del resto, pensa il liquidatore, è verissimo
ch'egli è deciso a rimaner celibe, ma chi gl'impedisce di cambiare
d'opinione?

Fatto si è che quando il signor Odoardo ritorna con la Doretta dal
suo viaggio di tre mesi, egli riceve la comunicazione del prossimo
matrimonio della signora Evelina Chiocci, vedova Rombaldi, col signor
Archimede Fagiuolo, liquidatore di avarie.

— Fagiuolo! — esclama la Doretta. — Fagiuolo!

E questo nome le desta un'ilarità sconfinata. Ma se badate a me,
ciò che la mette in buon umore non è tanto il _marito_, quanto il
_matrimonio_ della signora Evelina.



UN RAGGIO DI SOLE


L'ultimo lembo dello strascico d'un vestito di seta spariva dietro
l'uscio del salotto di casa Mellari. Una signora innanzi negli anni,
ma con la fisonomia piena di vivacità giovanile, seguiva il dileguarsi
di quello strascico con uno sguardo lungo, tenero, appassionato; uno
sguardo quale non hanno se non le madri per le loro figliuole e le
avole per le loro nipoti. Ed era appunto una nipote della padrona di
casa colei che aveva lasciato in quel momento la stanza.

La signora Anna, moglie del professore commendatore Everardo Mellari,
sola in un angolo della camera, sedeva ad un tavolino su cui stavano
alcuni libri legati, un servizio da te, un astuccio da lavoro e un
moderatore di porcellana acceso; perchè, se non lo abbiamo ancora
detto, lo diciamo adesso: erano le dieci di sera. Intorno a una tavola
molto più grande collocata proprio nel mezzo dell'ampio salotto,
rischiarato da una lucerna appesa al palco, e tutta sparsa di opuscoli
e di giornali, discutevano di economia e di giurisprudenza sei uomini,
con certe inflessioni nasali e una maestosa solennità degna di chi
è socio di almeno cinque Accademie. Le sentenze si succedevano a
regolari intervalli come le cento e una salve d'artiglieria alla
nascita d'un principino. Vuole però giustizia che si facciano in questo
gruppo le debite distinzioni. Delle sei persone ivi raccolte quattro
avevano aspetto fossile, e il più fossile di tutti era un giovine non
ancora trentenne, uno di quei gingillini della scienza che camminano
servilmente sulle orme altrui, e si credono dotti quando hanno letto
una _memoria_ papaverica dinanzi a un'assemblea sonnacchiosa. A costoro
par grave di non avere che venti a trent'anni, e simulano i modi e
la posatezza dell'età matura, gonfi, pettoruti, noiosissimi. Sul loro
labbro non v'è sorriso, nei loro occhi non v'è luce, nella loro parola
non v'è affetto, mummie prima di nascere.

Il professore commendatore Everardo Mellari, che al momento della
nostra narrazione passava i sessanta, aveva avuto anch'egli il gran
torto di non prendere la vita che da un lato solo, dal lato cioè dello
studio e della meditazione, trascurando quella verità detta senza
reticenze dal Giusti:

    Se fa conoscere — le vie del mondo
    Oh buono un bricciolo — di vagabondo!

Però in lui una intelligenza elevata, una dottrina profonda e un
cuore ottimo e tenace nelle amicizie facevano perdonare quel po' di
compassato e di convenzionale che v'era nel suo carattere. Quanto
alla persona, ella somigliava all'indole ed all'ingegno, ed era quindi
piuttosto poderosa che aggraziata.

Dissimile affatto dagli altri, e tale che lo si sarebbe detto una
stuonatura in quel concerto di dottoroni, stava in piedi appoggiando
una mano alla spalliera della seggiola del professore Everardo, e
tenendo con l'altra dinanzi agli occhi un giornale senza apparire
troppo concentrato nella lettura, il signor Maurizio Dardi, il più
vecchio e fidato amico di casa Mellari. Anch'egli fra i sessanta e i
settanta, ma ritto, sottile, aitante delle membra, con una fisonomia
briosa ed ironica spesso, con uno sguardo vivo, intelligente, pieno di
fuoco, con dei capelli che ormai quasi bianchi del tutto conservavano
la curva elegante della giovinezza e che si arricciavano di tratto in
tratto con con una tal quale aria di provocazione come se volessero
dire: — Oh se sapeste quante manine gentili ci hanno fatto scorrere
fra le loro dita! — Dal complesso poi della persona tuttora attraente e
dal vestire lindo e accurato, si vedeva l'uomo che aveva molto vissuto
nella miglior società.

Il signor Maurizio aveva egli pure seguito con lo sguardo il dileguarsi
del vestito di seta, e quando l'uscio si fu rinchiuso, con un movimento
rapidissimo si fece accosto alla signora Anna, trasse un profondo
sospiro dal petto come chi si sente sollevato da un peso, e avvicinando
una sedia al tavolino, disse: — Si può fare un po' di conversazione con
voi, signora Anna?

Ella che se ne stava fantasticando si scosse, e con un sorriso pieno di
benevolenza: — Figuratevi! — rispose. — Vi confesso anzi che mi pareva
impossibile di vedervi in mezzo a tanti uomini seri.

— Grazie del complimento. Però, ve lo dico col cuore in mano, vostro
marito solo lo digerisco, ma in compagnia con quegli altri no e poi
no. Everardo mi va ripetendo sempre che io sono uno scapato come a
vent'anni, e che egli stesso non sa spiegarsi come, tanto dissimili
d'indole, noi abbiamo potuto rimanere amici tutta la vita. E in verità
la cosa fa meraviglia anche a me.... Ma, vedete, a Everardo io perdono
tutto.

— Oh bella! Siete voi che perdonate? — interruppe la signora Anna.

— Sicuro, perchè, in fin dei conti, queste esistenze seppellite in
mezzo alla polvere delle biblioteche sono esistenze sbagliate. Bandire
il sorriso dalla vita val quanto bandire il sole dall'universo.

— Oh diamine! Siete sentenzioso... Su via, cattiva lingua, di chi avete
a dir male stasera?

— Di molte persone, ma se non vi dispiace, mi limiterò ad una sola.

— Molti i chiamati e pochi gli eletti — osservò sorridendo la signora
Anna. — E chi è oggi l'eletto?

— È una _eletta_.

— Una donna?

— Per l'appunto.

— E chi dunque?

— Voi stessa.

— Io!

— Sissignora... Credete davvero ch'io sia stato ad ascoltare in
tutto questo frattempo le dissertazioni sulle imposte indirette di
quell'amenissimo dottor Belgini, che, se si sta alla fede di nascita ha
ventinove anni, e se si vede e si sente, ne ha almeno sessanta?

— Ma via, screanzato, parlate piano,

— Oh siate certa che non ci odono — rispose il signor Maurizio
accostando però la sedia a quella della sua interlocutrice e abbassando
alquanto la voce. Indi continuò:

— O vi par forse probabile ch'io abbia prestato una grande attenzione
agli apoftegmi giuridici partoriti con tanto _aplomb_ dal consigliere
Marino, il quale, allorchè ha parlato, si volta a destra e a sinistra
come per dire: _Avete mai inteso nulla di simile?_

La signora Anna fece uno sforzo per non ridere, e con un tuono
malizioso soggiunse a mezza voce;

— Non c'è forse il commendatore Brullo?

— Oh! — proruppe il signor Maurizio — quello è un bell'originale. Non
v'è cosa che non gli sia accaduta, non v'è paese in cui egli non sia
stato, non v'è idea che prima di venire agli altri non fosse venuta
a lui. In casi eccezionali egli fa delle concessioni. Stasera, per
esempio, si discorreva della Groenlandia. Egli osservò: _Io dovevo
andarci_. Maravigliato d'un tuono tanto rimesso: _Eppure io tenevo per
fermo_, diss'io, _che ci foste già stato_. Credete forse ch'egli abbia
capito ch'io mi burlavo di lui? Tutt'altro. Prese le mie parole per un
complimento.

— In fin dei conti poi c'è Everardo — concluse la signora Mellari con
accento serio e senza ironia di sorta.

— Ah sì, c'è Everardo — rispose con l'accento medesimo il signor
Maurizio — e ad Everardo ci faccio di cappello, ma, ve lo ripeto, a
quattr'occhi, e quando posso levargli la crosta dell'accademico. Via,
non v'impazientite. Ricevendo in casa sua de' pedanti gli tocca divenir
qualche volta pedante anche lui per ospitalità... Ma, insomma, voi mi
fate parer maldicente...

— Oh poveretto, non siete mica tale — esclamò la signora Anna. — E, a
proposito, non dovevate dir male di me?

— Ah, questo sì, e comincio subito.

La signora Anna avanzò alquanto la sedia, e appoggiando il gomito al
tavolino fece puntello al mento con l'avambraccio, e si pose in atto di
benevola aspettazione.

— Dovete dunque sapere — principiò il signor Maurizio con un tuono
scherzoso che temperava la asprezza apparente delle parole — dovete
dunque sapere, mia cara amica, che io ho inteso gran parte del vostro
colloquio con vostra nipote, e che fra voi e lei avete detto delle
solenni corbellerie.

— O sentiamole un po' queste solenni corbellerie.

— Non mi negherete che la Evelina vi dicesse male di suo marito.

— Male poi no... Faceva alcune rimostranze.

— Or bene: quanto a me che del matrimonio...

— Risparmiatemi le vostre teorie. Già lo si sa che voi l'avete a morte
col matrimonio.

— Falsissimo. Io la credo una ottima istituzione a benefizio dei
celibi. Che cosa farebbero i celibi se non fossero gli ammogliati?

— Eh vergognatevi di questo cinismo.

— Sono meno cinico di quel che credete, amica mia, e mi sarebbe facile
il provarlo. Ma ora ripiglio il filo del discorso. Quanto a me dunque
che sono un celibatario ostinato ed impenitente, non ho nulla a ridire
se una moglie si lagna di suo marito. Ciò sta nell'ordine naturale
delle cose. Ma io mi metto dal punto di vista vostro, di una donna cioè
che ha un culto per l'istituzione del matrimonio, e non posso a meno
di strabiliare vedendo come voi lasciate tener quei discorsi a vostra
nipote, e abbiate anzi tutta l'aria di secondarla.

— Oh se non avevate che a farmi questo sermone, mio venerabile signor
censore, potevate davvero risparmiarvi la briga. In primo luogo, io non
ho secondato niente affattissimo; e poi gli è appunto perchè ritengo
che il matrimonio e la famiglia siano cose sacrosante che m'irrito
quando ne vedo fraintesi gli obblighi dall'una parte o dall'altra.

— Queste sono frasi. Io credo invece che il matrimonio, per non finire
in una catastrofe, debba essere un lungo esercizio di reciproca
tolleranza. Tolleranza intendiamoci, non già del vizio e della
dissolutezza, ma di tutti quei difettucci, di tutte quelle imperfezioni
che ciascuno dei due coniugi vede indubbiamente nell'altro. Oh via,
veniamo al fatto: di che cosa si lagna vostra nipote?

— Sapete che siete curioso? Io potrei mandarvi pei fatti vostri, e
non dirvi nulla; ma voglio esser tre volte buona, e vi risponderò
schiettamente che Evelina ha ragione. Un uomo che ha una sposa come
Evelina, un fiore di gioventù, di bellezza, un angelo di bontà e
d'innocenza; un uomo che possiede una donnina simile e la trascura, e
non le consacra tutto ciò che v'è di migliore nella sua anima e nel suo
ingegno, meriterebbe.... eh lo so io che cosa meriterebbe. Il meno che
possa toccargli è che sua moglie si dolga di lui.

— Voi siete una vestale che conserva il fuoco sacro. Ancora bollente
come a vent'anni! Io vi ammiro.

— Eh ammiratemi meno, e ascoltatemi di più. O che vi pare che Evelina
avrebbe ad esser contenta? A sedici anni appena, la maritano (e un
po' di colpa ne ho anch'io) a un giovine sui cinque lustri, operoso,
valente, onesto, ma tutto pieno della sua ambizione, tutto preoccupato
dei suoi buoni successi. Egli è ora di qua, ora di là, oggi a Firenze,
domani a Milano, domani l'altro a Napoli, sempre a raccogliere
applausi, a mietere allori, a proferir discorsi, a tener conferenze, e
che so io, e dopo quindici mesi di matrimonio è molto se sta tre giorni
la settimana presso sua moglie per annoiarla coi racconti delle sue
glorie e de' suoi trionfi. Oh caro mio, non v'è nulla di più egoista
dei così detti uomini grandi, non v'è nulla di più gretto e meschino.
Nel santuario della casa che dovrebb'essere aperto agli affetti, alle
confidenze, alla celia, essi portano la loro vanità personale; al
pettegolezzo senza malizia e senza conseguenze della vita domestica
essi sostituiscono il pettegolezzo pieno d'acrimonia e di fiele della
vita pubblica e letteraria, e fanno cento volte desiderare il modesto
impiegato, l'umile uomo d'affari che, dopo adempito il suo ufficio
quotidiano, reca alla sua famiglia la parte migliore di sè; il sorriso
del suo labbro, la poesia schietta della sua anima. Perchè questa è la
gran differenza tra gli uomini comuni e quelli di maggior levatura; che
i primi cercano di piacere alla moglie perchè sanno che non possono
avere applausi da nessuno fuori di lei: gli altri, abbagliati dallo
splendore che li circonda, non vedono che tenebre e squallore nelle
pareti domestiche.

— Per bacco! — proruppe il signor Maurizio — stasera voi siete più
eloquente di Mirabeau. Ma mi permettete di rispondervi?... In quello
che voi dite c'è molto di vero; non v'ha dubbio, ma l'arma che avete
brandita è un'arma a due tagli, e badate di non ferirvi da voi. Quando
una giovine possede, come Evelina, uno sposo di un merito superiore,
ella non ha che un mezzo per non divenire infelice. Ella non può
impedirgli di raccogliere i frutti del suo ingegno e della sua dottrina
e di essere acceso dalla febbre del buon successo: ella deve lasciarsi
irradiare dalla sua luce, ella deve associarsi alle sue ambizioni. La
neutralità le è proibita, perchè nella moglie l'esser neutrale vuol
dire essere ostile. S'ella non si accalora pei trionfi del marito,
il marito la trascura, ed ella finisce coll'odiar quella gloria che
avrebbe dovuto riflettersi su di lei. I due coniugi vivono allora
in due mondi diversi, le loro anime non hanno punto di contatto, e,
credetemelo pure, mia ingenua amica, quando i corpi sono costretti a
stare insieme senza che le anime si confondano, non può nascerne altro
che il tedio scambievole... Ma via, siamo giusti; come volete che un
uomo, esposto a tutte le seduzioni del mondo, blandito, accarezzato
in mille guise, riesca a trasformarsi di punto in bianco, e diventi
semplice, modesto, spensierato, appena egli abbia varcato la soglia
domestica? Ma una moglie saggia previene i pericoli, e poichè non può
mutare il marito muta sè stessa.

— Oh! volete farne un'erudita?

— Che! Voi sapete meglio di me come una donna di garbo possa prender
parte agli studi di suo marito senza perder nulla della grazia e della
semplicità nativa. Tutto sta che la sua trasformazione le sia dettata
dall'affetto verso il consorte, e non dalla smania di dottoreggiare
con gli altri: che in quest'ultimo caso non avete già dinanzi a voi una
persona colta, ma una noiosa pedante sul fare di quelle che si vedono
spessissimo nella società italiana, così diversa dalla società inglese
e tedesca, ove l'eleganza dei modi, le aspirazioni ad un ideale elevato
sono le cose più naturali e spontanee del mondo.

— Ma voi parlate sempre degli obblighi della donna: l'uomo non ne ha
dunque nessuno?

— Sì che ne ha; ma io vi ragiono dal lato della felicità e della pace
coniugale. E vi dico con la convinzione più profonda che l'uomo, anche
se fallisce a' suoi obblighi, può trovar nella gloria, nell'ambizione,
nel buon successo mille compensi, ma la donna, se non sa crearsi la
felicità nel tetto domestico, non vi trova che la sventura o la colpa.

— Di che frasi sonore mi rintronate il capo! La colpa! Le donne
virtuose sanno rimaner tali anche nell'infelicità.

— Nell'infelicità sì, — rispose vivamente il signor Maurizio,
sorridendo a fior di labbro, — e quando un grande dolore, quando
un grande disinganno occupa l'animo, io credo che la donna abbia
in questo disinganno e in questo dolore una salvaguardia contro le
tentazioni. Nel _Paolo Forestier_ dell'Augier v'è un tipo di donna la
quale, per vendicarsi dell'uomo che adorava e che l'ha abbandonata,
si getta nelle braccia di un altro ch'ella disprezza, precisamente
nel giorno e nell'ora in cui deve accadere il matrimonio del suo primo
amante. È un concetto bizzarro che si fonda sopra l'ipotesi d'un fatto
possibile forse, ma non verosimile. Ciò che invece, a mio parere,
mette la donna sempre al limitare della colpa si è quella condizione
malaticcia dell'animo che non è la gioia e non è il dolore, vaga,
indefinita, vaporosa come il crepuscolo, piena di desideri che non
sanno acquistar forma e contorno, piena di malinconie che non hanno
nome e non saprebbero spiegarsi a sè stesse. Una donna che dice: —
_sono incompresa_, — molte volte comincia col non comprender sè stessa,
ed è in quello stato di perplessità che costituisce un eterno pericolo.
Chi non sa che cosa si voglia accetta facilmente gli esperimenti,
perchè suppone che l'ideale sognato possa capitare quando meno si
crede. Gli è appunto il caso della vostra Evelina. Le è sfuggita una
frase ch'io colsi benissimo: — Capisco — ella disse — che fra lui e me
non c'è modo d'intendersi. — Ora, questa frase, sia che racchiuda un
profondo scoramento o una smisurata superbia, rivela in vostra nipote
l'intenzione di lasciare che le cose vadano per la loro strada. La sua
anima non è più occupata da suo marito....

— Ma chi vi dice queste cose?

— Lasciatemi finire. Il suo cuore è una casa vuota, e una casa vuota
può sempre trovare un pigionale nuovo.

— Oh Maurizio — esclamò la signora Anna alquanto risentita, e facendo
atto di alzarsi in piedi — basta di ciò. Voi sapete quanta libertà
abbiate in questa casa, e come io vi consideri più che di famiglia:
ma ogni confidenza ha un limite, e io non posso concedervi queste
supposizioni sul conto di Evelina. Sermoneggiate me quanto vi piace, ma
lasciate stare quell'angiolo.

— Via, non siate cattiva — rispose il vispo vecchietto, tenendo la
signora Anna pel lembo dell'abito e non permettendole di muoversi dalla
seggiola. — Rispetto la vostra tenerezza di nonna, e non vi dirò per
questa sera nulla più sul conto di Evelina. Ma senza insistere sul caso
speciale, vi ripeto che degli angeli ne ho visti perder l'ali parecchi,
e molte virtù naufragare, e molte altre salvarsi per un accidente; che
so io! per un soffio di vento o per un raggio di sole.

— Che cosa c'entrano il vento ed il sole?

— Oh se c'entrano! — soggiunse il signor Maurizio, stropicciandosi le
mani — volete proprio che ve la racconti la storia d'un raggio di sole?

La signora Anna sorrise, die' una rapida occhiata all'orologio che
stava sulla _consolle_ e segnava le dieci e mezzo, e poi, voltasi al
suo interlocutore: — Avete una voglia matta — rispose — di narrare
una delle vostre storielle che sono assai più numerose de' giorni
dell'anno. Posso concedervi tre quarti d'ora. Ma patti prima, mio caro.
Voi avete l'abitudine delle impertinenze, e io non ne voglio; avete
certi frizzi di cattivo genere, e io non amo sentirli; onde, o voi
state nei termini, o andate a raccontare le vostre frottole al caffè od
al casino.

— Accetto le condizioni. E anzi perchè non vi sia il caso che io le
dimentichi, vi prego ogni volta ch'io stessi per uscire di strada, di
richiamarmi all'ordine come se voi foste il presidente di un'assemblea.
— Si guardò attorno, e, adocchiato sul tavolino un paio di forbici, le
sospinse fino alla signora Anna, dicendole: — Questo sarà il vostro
campanello. Quando voi alzerete queste forbici, capirò che bisogna
ch'io renda più castigate le mie espressioni.

— Siete pure il gran fanciullone — sclamò la signora Anna. — Ora
parlate.

— Adagino, adagino. Ho pur io una condizione da imporvi.

— Sentiamola un po'.

— Che quando io serbi quei modi di gentiluomo che mi prescrivete,
voi mi lascerete andare sino al fondo della mia storia, anche se per
avventura si trattasse di cosa che vi fosse già nota.

— O come potrebbe essere?

— Chi sa? Non è poi impossibile che l'abbiate udita a raccontare da
qualchedun altro.

— E in questo caso voi vi sta a cuore di farne la seconda edizione?

— Mi sta.

— Ebbene, sia pure come vi aggrada.

— Ho la vostra parola?

— Ma sì, ma sì: vi occorre altro?

— Datemi la mano?

— Dio buono! Quante formalità! Si direbbe che voleste iniziarmi a
qualche loggia massonica. Eccovi la mano.

La signora Anna porse al Dardi una manina che l'età non aveva nè troppo
dimagrata nè troppo ingrassata; una manina giovine, se si potesse usare
questa frase, tanto ne erano ben tornite le forme, e morbide e delicate
le tinte, e pieni di una nervosa irritabilità i movimenti. Il lepido
vecchio parve molto compiacersi di quella stretta, e poich'ebbe tenuta
per alcuni secondi nella sua destra la destra della signora Anna si
soffiò due volte il naso, e si raschiò la gola come chi si accinge
a una perorazione accademica. Ella intanto, da avveduta massaia,
accendeva la macchina del tè, dicendo scherzosamente:

— Perchè non accada ch'io pigli sonno durante la vostra chiacchierata,
mi preparo a bevere una seconda tazza.

— Questa disgrazia non accadrà, maligna che siete, me ne fo
mallevadore. E comincio. Vi avviso però che quello ch'io faccio è il
racconto d'un racconto. Un amico a cui la faccenda è toccata, me la
narrò in tutti i suoi particolari. È una storia vera, capite?

— Oh che bella verità, passata per due filtri; quello dell'amico e il
vostro!

— La storia rimonta a poco meno di quarant'anni addietro — continuò
il signor Dardi senza preoccuparsi dell'interruzione. — Il mio amico
che ora è vecchio come me.... e come voi, era allora giovane e bello
com'ero io.... e come eravate voi in quel tempo.

— Questo non ha che fare.

— Egli aveva da poco finito i suoi studi all'università lasciandovi
fama d'ingegno piuttosto vivace che peregrino, di coltura piuttosto
varia che profonda. Comunque sia, in un tempo nel quale alle università
si studiava pochissimo, egli poteva ragionevolmente passare tra i
giovani più valenti, e quelli ch'erano tali davvero lo accoglievano
a braccia aperte nei loro crocchi ove il suo buon umore costante
contribuiva a tener allegra la brigata. E, fra parentesi, vi
contribuiva anche un po' la sua borsa, perchè egli era ricco e gli
studenti ricchi possono contarsi come le mosche bianche. In complesso
era davvero una eletta brigata di giovani, disseminatasi poscia qua e
là secondo le necessità della vita o i capricci del caso. Per una di
quelle bizzarrie che non sono sì rare, il mio amico s'era legato di
più intimo affetto con quello che, fra tutti gli altri del gruppo, si
discostava maggiormente da lui pel carattere. Quanto egli era festevole
e spensierato, altrettanto l'amico suo era serio e meditabondo, nè
la tempra del loro ingegno era meno dissimile di quella della loro
indole. L'uno andava qua e là succhiando il miele da tutti i fiori,
amava la poesia, la musica, la pittura; l'altro coltivava con assiduità
piuttosto germanica che italiana gli studii filosofici, giuridici,
storici. Ma, singolare a dirsi eppur vero, quegli che possedeva una
natura d'artista aveva un fondo di scettico incorreggibile, l'altro
sotto le gelide apparenze celava una buona fede da non potersi
immaginar la maggiore. Quanto alla severità della sua indole, e alla
rigidezza claustrale de' suoi costumi, vi basti sapere che non c'era
mai stato caso, mentre eravamo studenti insieme all'università....

— O che cosa c'entrate voi?

— Avete ragione. Adopero la prima persona credendo di far parlare il
mio amico.

— Che amicizia! La vi fa persino dimenticare la vostra identità
personale, come dicono nei giornali di giurisprudenza di mio marito.
Proprio come Oreste e Pilade!....

— Via, mi fate perdere il filo con le vostre malignità. Che cosa
dicevo? Ah dicevo che gli sforzi fatti per addomesticarlo erano
falliti, che non era stato possibile di renderlo soggetto alle
debolezze della sua età! A ventitrè anni, egli era....

La signora Anna mosse un momento le forbici e il signor Maurizio cambiò
metro.

— Ma ciò poco importa. Nemmeno le quistioni politiche, e qui spero che
mi lascerete parlare, lo preoccupavano più che tanto. In quel tempo
singolare nella quale dalle poesie del Baffo e del Buratti (oh non fate
smorfie perchè le avrete lette anche voi) si passava alle liriche del
Berchet; e alla porta dei teatri e delle sale da ballo vi aspettava
talora la sedia di posta che doveva condurvi allo Spielberg, in quel
tempo in cui pareva non esservi posto nella vita che per la _farsa_ e
per la tragedia, il nostro originale era riuscito a tenersi ugualmente
lontano dalle seduzioni del mondo elegante e da quelle allora assai
più nobili, ma assai più pericolose, delle società segrete. E non era
diffidenza, chè, come dissi, il suo animo era alieno dai sospetti; e
non era viltà, chè egli non aveva sortito natura codarda; era soltanto
quella sua grande passione dello studio che soverchiava in lui gli
altri affetti e gli altri pensieri, e lo rendeva noncurante di molte
cose che esercitavano un fascino sulla comune dei giovani.

Potete immaginarvi come rimanessero i suoi compagni quando seppero un
giorno ch'egli era perdutamente innamorato. Come! E di chi? Queste
domande correvano di bocca in bocca, e per uno o due giorni tutti
malignavano dicendo: Sta a vedere che grossa corbelleria egli ha
commesso!

— _Egli!_ — interruppe la signora Anna. — Abborro gli anonimi.

— Volete proprio che ci mettiamo in regola con lo stato civile? Ebbene:
il mio amico lo chiameremo Ugo, e all'amico del mio amico imporremo
il nome di Alberto. Alberto adunque, poichè di lui si parla in questo
momento, non aveva commesso quella grossa corbelleria che gli si
attribuiva. Certo egli aveva avuto un gran torto ad innamorarsi sul
serio, ma almeno non s'era appigliato nè ad una brutta, nè ad una
civetta, nè ad una stolida; com'era pur verosimile in un uomo che aveva
sì poca pratica di queste faccende.

— O che non aveva forse gli occhi codesto signor Alberto?

— Occhi da erudito, mia cara Anna, buoni da decifrar palinsesti, e
capaci di fermarsi con maggior compiacenza sopra un'iscrizione in
lingua sanscrita che sulle forme divine della Vergine di Milo. A ogni
modo, la fanciulla amata da Alberto era tale da affascinare qualunque
anima d'artista. Non ve ne farò la descrizione. Mi basterà dirvi che
gareggiavano in lei la bellezza, l'ingegno e la grazia. Era una grazia
schietta, spontanea, che spirava da tutta la persona come l'olezzo
dal fiore, era un ingegno vivo, elegante, poetico, era una bellezza
piena a un tempo d'abbandono e di fuoco, di soavi malinconie e di
celesti sorrisi... E quella fanciulla non aveva, io credo, che sedici
a diciassett'anni....

— Ih! come vi riscaldate: si direbbe che parlaste di una vostra
innamorata di ieri.

— Cara mia, le cose paiono vicine o lontane secondo che sono più o meno
scolpite nella memoria....

— Parlerete, io spero, della memoria del vostro amico.

— Certamente, — rispose il signor Maurizio con disinvoltura, quantunque
quella inchiesta suggestiva lo avesse un po' sconcertato. — Ma io mi
investo ne' casi suoi.

— Siete pure il prezioso amico, — insinuò con un filo d'ironia la
signora Anna. — Ma, a proposito, il nome di questa Dea?

— Diamole nome Giulietta.

— O c'è un Romeo?

— Può darsi: non precipitate.

— Già capisco tutta la vostra storia peregrina. È uno dei soliti
innamoramenti.

— Ma per carità, mi avete promesso di non interrompermi. Lasciatemi
adunque tirare innanzi. La bella Giulietta, sorpresa dalla
dichiarazione di un giovine ch'ella aveva conosciuto il dì innanzi,
cominciò coll'esserne sgomenta, ma poi quella sua anima delicata e
gentile non potè a meno di rispondere a un affetto così vivo ed onesto,
così rispettoso nella sua violenza, e così lusinghiero per l'amor
proprio di lei. In generale anche le donne leggiere e che non vanno
pazze per l'ingegno piegano il capo dinanzi al buon successo: e Alberto
era fra i giovani più celebrati della università e tra quelli a cui si
augurava un più splendido avvenire. L'indole severa del suo intelletto
e dei suoi studi non era invero tale da affascinare una giovinetta
sedicenne, ma d'altronde come respingere un uomo del suo valore? Come
ributtarlo da sè, s'egli, tra mille, aveva scelto lei, modesta ed
oscura? Ecco perchè la fanciulla, pur non dividendo l'entusiasmo del
suo amante, porse orecchio benevolo alle sue parole e promise a sè
stessa che col tempo lo avrebbe ricambiato di uguale trasporto. Come si
rimovessero gli ostacoli frapposti dalla famiglia, come il matrimonio
si concludesse quando Alberto aveva appena ricevuta la laurea, sono
cose di cui non mette conto tener parola. Eppoi sapete ch'io non posso
scendere a troppo minuti particolari per non tradire il segreto che mi
è confidato. Questo bensì vi dirò, che gli amici di Alberto, dopo le
sue nozze, si sentirono sollevati da un gran peso sullo stomaco, perchè
egli li aveva noiati fuor di misura co' racconti della sua gelosia, de'
suoi dubbi e delle sue escandescenze. In alcune anime l'amore scende
come una pioggia benefica sulla terra preparata a riceverla; le compie,
le rallegra, le avviva, le fa capaci di spargere intorno a sè una gioia
pacata e serena: in altre invece esso irrompe come l'uragano sopra
un suolo granitico in cui l'acqua non filtra lentamente ma s'arresta
alla superficie formando larghe pozze e rigagnoli: anzichè assimilarsi
al loro organismo, l'amore crea in queste anime uno stato inquieto,
morboso, e toglie alle loro manifestazioni quel gentile riserbo,
quella verecondia soave che le mostra ricordevoli oltre che del
proprio pudore anche del pudore dell'essere amato. Alberto era, nelle
sue confidenze, pettegolo, indiscreto, qualche volta persino brutale;
tanto lo sgomentava la trasformazione esterna che s'era operata in lui,
tanta era la disarmonia, da lui non perfettamente compresa, fra questa
passione e il resto dell'esser suo.

«Allorchè egli divenne marito, le tendenze ingenite del suo animo e del
suo ingegno ripresero il disopra. Come coloro che, dormendo, ricevono
una impressione fisica che si mesce ai loro sogni, tantochè quando
si svegliano, ogni altra parte del sogno svanisce fuori di quella
impressione che è viva e reale, così Alberto, ritornato in sè stesso,
vide dileguarsi l'incanto che lo aveva posseduto e solo restargli
a fianco, bella e gentile, più che desiderata compagna, la moglie.
Ambizioso per indole, Alberto scorgeva in lei piuttosto un inciampo
che un aiuto alla sua carriera, e gli mancava l'arte di nascondere ciò
ch'egli sentiva. Giulietta invece, la quale, come accade alle fanciulle
virtuose, aveva, dopo il matrimonio, preso a voler più bene che mai
all'uomo che aveala fatta sua, rimase profondamente mortificata di
questo cambiamento, ma col riserbo misto di dignità ch'era il fondo
del suo carattere non si faceva scorgere e chiudeva in sè il suo
dolore. Tanto inesperta da non prevedere ciò che era avvenuto, ella
non sapeva per anco, a malgrado della sua intelligenza, scoprire i
mezzi di ripararvi. Non sapeva ancora che, mescolandosi agli studî ed
alle aspirazioni di suo marito, divenendo un valido sussidio de' suoi
lavori, ella avrebbe potuto riafferrare quell'amore che le fuggiva.
Le afflizioni senza lamento non hanno nemmeno la sodisfazione d'essere
intese dagli altri, o, se sono intese, porgono un facile appiglio a chi
vuol far le viste di non avvedersene. Chi non si lagna non soffre, dice
l'egoista, e chi ha la vita troppo affollata di occupazioni è spesso
egoista. Il tempo che è la stoffa del lavoro e della produzione è anche
la stoffa dei sentimenti. Se chi nulla fa nulla aggiunge al capitale
materiale della società, chi non riposa mai non aggiunge nulla al suo
capitale di gentilezza e di simpatia. A ciò gli economisti non hanno
pensato.

«Non erano corsi due mesi dalle nozze, che Alberto e Giulietta vivevano
in un'orbita diversa: egli tutt'inteso a' suoi studî; ella in una
solitudine malinconica che lasciava buon giuoco ai pellegrinaggi
della sua fantasia. Quantunque non ne andasse pazza, avrebbe gradito
i piaceri delle sue coetanee: i teatri, le feste, i ritrovi geniali;
ma suo marito o non aveva agio di condurvela, o conducendovela,
si rincantucciava con tanto di muso in modo da toglierle tutto il
divertimento. Nondimeno, ella avrebbe potuto passarsene. Spirito culto,
riflessivo, tranquillo, ella anelava essenzialmente a quella felicità
che nasce dal continuo scambio d'impressioni e di pensieri tra due
persone che si apprezzano e s'amano, e, sposandosi, aveva creduto
che questa felicità non dovesse mancarle. Vedendosi delusa nella sua
aspettazione, si trovava simile a chi s'accorge a mezzo il cammino
d'aver smarrito la via, nè sa qual nuovo sentiero debba prendere per
arrivare alla meta. Intanto compieva di per sè la manchevole educazione
del chiostro, faceva disordinatamente, febbrilmente, accatastando
lettura su lettura, gli studî ch'ella aveva sperati comuni con suo
marito. Già libri non ne mancavano nella sua nuova dimora.

«Aveva, più che le abitudini, gl'istinti dell'eleganza, e abbenchè
uscisse di rado assai, era sempre accuratissima nel vestito e
nell'acconciatura. Questa sua innata eleganza ella aveva saputo
infondere non in tutta la casa, ma in uno stanzino che era il suo
nido, il suo tempio. Era uno stanzino appartato del primo piano a
cui si giungeva anche per una scaletta laterale che da un andito
contiguo metteva in giardino. Le pareti d'un azzurro chiaro erano
fregiate di stucchi bianchi, e pure a stucchi era il palco leggiermente
arcuato....»

La signora Anna si scosse e chiese:

— O come sapete voi tutti questi particolari?

— Oh bella! Me li ha detti l'amico. Ma vi prego di non farmi perdere
il filo del racconto. La finestra del gabinetto (ve n'era una sola, ma
grande) dava sul giardino cinto da un muro basso, e di là dal quale
erano altri giardini più vasti, più signorili, con bellissimi abeti.
In un punto la verdura era men fitta e lo sguardo indovinava un ampio
orizzonte. I mobili.... debbo parlare anche dei mobili?

— Come siete noioso! Lasciateli lì i mobili, e venite al punto.... O
se non volete venirci presto, smettiamo, chè già capisco che non val la
pena di continuare.

— Via, non v'impazientite. L'avete forse intesa ancora questa storia?
A ogni modo dovete stare ai patti e lasciarmi dire. Sarebbe la prima
volta che manchereste alla vostra promessa.

— È vero. Proseguite, ma senza digressioni.

— Sarà difficile, perchè non è mio costume. La mia fantasia va sempre
caracollando e mai al galoppo. Ella ama far sosta qua e là, e cogliere
i fiori pendenti dagli arbusti lungo la via: le corse precipitose alla
Mazeppa non son fatte per lei.... Però torniamo a bomba, lasciando
stare i mobili. Vi chiedo grazia soltanto per una biblioteca d'acero
a lustro, piccina, graziosa, elegante, che era l'altare di quel
tempietto, tutto silenzio e raccoglimento. La giovine vi teneva i suoi
libri, una cinquantina di volumi al più, ma scelti e legati con ottimo
gusto. Ed ella stava lì soletta le lunghe ore del giorno, ora leggendo,
ora fantasticando alla finestra, certa, o quasi, di non veder giungere
suo marito fino all'ora del pranzo. Visite ne faceva poche, e quindi
poche ne riceveva, perchè le era troppo tedioso il sentirsi dire che
una sposina non doveva fare una vita così ritirata, e perchè abborriva
da quel sistema comodissimo che hanno tante mogli di lasciar sparlare
dei loro mariti senza negare nè assentire.

«Il mio amico che abbiamo detto di chiamar Ugo non abitava la medesima
città, ma veniva di tratto in tratto a visitare il suo compagno
di studî, ed era accolto festosissimamente anche dalla Giulietta
che vedeva una volta tanto una faccia aperta e gioviale. In quelle
sue visite che non solevano durar più di tre o quattro giorni egli
alloggiava sotto il tetto di Alberto, portandovi un soffio di vita,
un'eco del mondo esterno a cui quella casa pareva chiusa del tutto.
Ugo era elegante, frequentava i teatri, le società, e quindi non gli
mancavano mai argomenti da discorrere. Figuratevi! Erano quelli i
tempi della Pasta a della Malibran, della _Norma_ e dell'_Otello_. La
Giulietta, che amava tanto la musica, non aveva mai potuto persuader
suo marito ad uscir per una settimana da quella loro misera cittadina
di provincia e condurla a vedere gli spettacoli della capitale. Onde,
quando Ugo gliene parlava, ella sentiva venirsi l'acquolina in bocca,
e pendeva de' suoi labbri con una curiosità piena di emozione. Non c'è
da maravigliarsi di questa parola. A que' tempi in Italia i trionfi
musicali destavano un vero entusiasmo. Lo dissi già prima; non c'erano
che due cose da fare: o cospirare, o divertirsi; o andare in carcere, o
andare a teatro.... semprechè non si preferisse di andare in entrambi i
luoghi. Alberto chiamava frivolezze questi discorsi, ma, in ogni modo,
poichè egli aveva ottimo cuore, riceveva l'amico suo a braccia aperte,
e quando questi gli diceva a tu per tu ch'egli aveva torto a trascurare
sua moglie, giovine, bella, adorna di tutte le virtù, gli dava un mondo
di ragioni, scusandosi soltanto col pretesto delle sue mille faccende e
della serietà de' suoi studi. Comunque sia, la presenza d'Ugo, ch'era
forse uomo un po' leggiero, ma certo vivacissimo e pronto d'ingegno,
era una vera provvidenza per quella casa. Per la Giulietta, egli non
provava che una viva amicizia, e poi la sincera e devota affezione che
lo legava ad Alberto avrebbe soffocato nell'animo di lui ogni altro
sentimento. Quanto maggiore la sicurezza tanto maggiore la confidenza:
confidenza fraterna, e quasi infantile.... Io non capisco, la mia cara
amica, perchè andiate agitandovi sulla sedia, mentre non mi sembra di
dir cosa che sia o possa parervi sconvenevole punto. Perciò vi supplico
che ve ne stiate buona e tranquilla, poichè la mia eloquenza, per
mantenersi, vuole il raccoglimento dell'uditorio.

— Siete un grande originale — rispose la signora Anna, sorridendo
fuggevolmente. — E se vi dessi una tazza di tè, non mi risparmiereste
la seconda metà della vostra storia?

— Accetto la tazza, ma continuo.

La signora Anna die' una scrollatina di testa come se volesse dir
nuovamente: _Che matto_! e versò il tè al suo lepido interlocutore.

— Un giorno — riprese il signor Maurizio tra un sorso e l'altro — il
mio amico arrivò in casa d'Alberto inatteso, e quindi più festeggiato
che mai. Si deliberò di fare pel dì seguente (ch'era una domenica) una
escursione a una villa poco discosta, e si passò la sera pregustando il
divertimento del domani. La Giulietta non era mai stata più ilare, nè
Alberto più espansivo, nè Ugo più amabile....

— Ve l'ha detto lui?

— Sicuro!

— Beati gli uomini franchi!

— Al mattino del dì appresso (era in primavera avanzata, poco importa
il mese) Ugo fu in piedi all'ora stabilita, e fece la sua _toilette_
con grande accuratezza e sollecitudine vicino alla finestra aperta
della sua stanza che dava anch'essa sopra il giardino. Faceva un
bellissimo tempo: però l'orizzonte non era tutto sereno, e qualche
nube percorreva il cielo con insolita rapidità a simiglianza di persona
affaccendata. La moda di quarant'anni addietro, e voi lo sapete meglio
di me, non era la moda dell'anno 1870, e se il mio amico vi comparisse
dinanzi acconciato nella foggia di quel dì, voi non potreste certo
trattenere una sonora risata. Un cappello di paglia con cupola alta
e larghe tese orizzontali, un vestito color caffè con le maniche
attillatissime e col bavero di smisurata altezza, una cravatta bianca
che si attortigliava al collo come il serpente del Laocoonte, e che
scendeva a riempire tutto lo sparato del panciotto chiaro di fondo
e stampato di gran fioroni gialli, un paio di calzoni d'una tinta
sentimentale stretti alla gamba ecco a un dipresso il figurino del
mio amico in quel giorno memorabile. E in quel giorno, ve lo assicuro
io, egli era bello, e aveva ben ragione di sorridere guardandosi
nello specchio. La giovinetta che acquista la coscienza della propria
bellezza non può vincere un vago presentimento di arcani pericoli, e
in mezzo all'orgoglio del sapersi regina chiede talvolta a sè stessa
se il suo scettro non sarà bagnato di lagrime. Nei mille occhi che
l'affisano, nelle mille labbra che si muovono a susurrarle una parola
gentile, ella indovina un'insidia al suo pudore, alla pace dell'animo
suo; insidia che tanto più la sgomenta quanto più le versa nel cuore
un'incognita voluttà. L'uomo invece, a torto o a ragione, non è
assalito da questi scrupoli: l'avvenenza è per lui un dono che non ha
mistura d'amarezza; un sorriso non gli fa salire i rossori sul volto,
uno sguardo non gli fa chinare la fronte. Nel suo aspetto raggiante è
la gioia del dominio o la certezza della conquista; sulla sua bocca sta
il grido di Schiller — _Ich bin ein Mann, wer ist es mehr_? Io sono un
_uomo_, chi lo è più di me?

«Ecco ciò che Ugo, contemplandosi nello specchio, andava in quel
mattino ripetendo a sè medesimo.

«Mise il capo fuori della finestra, aspirò a larghi tratti l'aria
frizzante della campagna, e cominciò a solfeggiare la deliziosa romanza
dell'_Anna Bolena_:

    Oh! non voler costringere
    A finta gioia il viso,
    Son belle le tue lagrime
    Siccome il tuo sorriso,

con quel che segue. Proprio sotto della sua finestra un'imposta
si aprì, e un bel visino arrovesciato apparve sul davanzale. Era
Giulietta.

« — Bravissimo — esclamò la giovane con quella sua vocina melodiosa ed
insinuante.

« — Oh diamine! già vestita, — rispose Ugo balzando subitamente, senza
saperne il perchè.

« — Ma certo; e già nel mio santuario — soggiunse Giulietta accennando
al suo gabinetto da lavoro e da studio. — Quegli che non è pronto è
Alberto, il quale, per miracolo, vuol terminare una scrittura prima
di partire. Anzi dovreste fare una bella cosa, andare a sollecitarlo
voi stesso; già a me non abbada. — Guardò l'orologio e disse. — Sono
le sette e mezzo. Mi pare che bisognerebbe mettersi in carrozza fra
un'ora. Andate, andate, — Fece un cenno garbato col capo, sorrise in
modo da mostrare, certo senza volerlo, una doppia fila di denti candidi
come l'avorio, e sparì.

«Vi sono cose curiosissime a questo mondo. Ugo aveva visto Giulietta
un centinaio di volte, e la gli era sembrata, come a tutti, un'assai
avvenente donnina; ma, bella come in quel momento, egli non l'aveva
trovata mai. Del resto, bella o brutta, egli non ci aveva che fare. Si
guardò un momento nello specchio, e scorse un leggiero rossore diffuso
nelle sue guance; onde divenne ancora più rubicondo, perchè arrossì
di avere arrossito. Nondimeno, obbediente al comando ricevuto, fece in
quattro salti le scale, e andò nello studio dell'amico.

«Alberto era difeso da un intero sistema di fortificazioni. Aveva
dinanzi a sè un tavolino su cui i libri stavano ammonticchiati
l'uno sull'altro sino ad altezze portentose; ai lati due scaffali
pieni anch'essi di libri e di scartafacci. La poderosa persona era
sprofondata in una scranna a bracciuoli assai bassa e larga, foderata
di pelle nera, e tre o quattro sedie appoggiate al tavolino con le
due gambe anteriori all'aria come persone svenute costituivano le
opere avanzate della fortezza. Alquanto miope, egli teneva la testa
china in modo da toccar quasi col naso la carta; con le dita sudicie
d'inchiostro si carezzava i capelli che parevano acquistare a poco a
poco delle dimensioni spropositate come il can barbone di Fausto.

«Ugo non potè trattenersi dal ridere quando entrò nella stanza. Ma
Alberto non si scompose menomamente, e rivolto all'amico: «Vuoi udire
— gli disse — questo passo d'una memoria sulla legislazione mineraria
che debbo mandare stasera all'_Antologia_ di Firenze? Io muovo dalla
considerazione che il possessore del soprassuolo....

« — Senti — interruppe Ugo — la tua considerazione sarà giustissima,
ma mi pare che non sarebbe mal fatto di rimettere la legislazione
mineraria ad un altro giorno, e di disporsi alla partenza. Si fa, o non
si fa questa gita?.... Ebbene: che cosa c'è?

« — Nulla, nulla — rispose Alberto, sollevando alquanto il capo e
ravviando la chioma disordinata — penso alla grande mutazione che si
è fatta in te da qualche tempo a questa parte. Tu non ti appassioni
più per niente, e basta discorrerti di una questione seria perchè tu
mi scappi di mano come un'anguilla. O dove sono i bei giorni nei quali
si passavano insieme lunghe ore a ragionare de' nostri studi? Allora
si trovava pur la maniera di vincere il tuo scetticismo. Lasciatelo
dire... tu ti sciupi, l'aria della città ti fa male, la vita elegante
ti ammazza l'intelligenza, gli amici scipiti ti riducono al loro
livello....

«Così dicendo tuffò la penna d'oca nel calamaio, e poi la portò con
tanto impeto sulla carta che ne cadde una grossa goccia d'inchiostro,
la quale imbrattò tutto il foglio. Con la rapidità del lampo, Alberto
vi corse sopra con la lingua, locchè finì col dare a quella macchia
l'aspetto di una stella cometa.

« — Grazie pe' miei amici, che sono, o erano almeno, anche i tuoi —
disse Ugo con un grande inchino. — E a proposito di che mi fai questa
patetica perorazione? Io capito qui a ricordarti un impegno che hai
preso iersera con me e con Giulietta... capito anzi per ordine di
lei...

«Alberto fece una piccola smorfia col labbro, tantochè l'altro
soggiunse:

« — Non ti darà noia, spero a sentirti parlar di tua moglie?

« — Hai ragione, hai ragione: il torto l'ho io che mi sono
ammogliato... E non mica per lei — continuò poscia in un tuono di
onesto candore — ...... non mica per lei che è un angiolo, ma per me
che non ero fatto pel matrimonio. Ho bisogno di studiare io, ho bisogno
di farmi una riputazione.... altro che di andare a spasso con donne.»

La signora Anna si morse le labbra, e proruppe:

— Proprio così diceva?

— Proprio così. Vi fa maraviglia forse?

— Punto, punto: continuate.

Il signor Maurizio non se lo fece ripetere un'altra volta e riprese.

« — Ma Ugo era invece un uomo estremamente compito, e lascio pensare a
voi se rimproverò il suo amico di queste sue parole. Fatto si è che, a
capo di cinque minuti, Alberto che s'era ritto in piedi ed era uscito
fuori delle sue fortificazioni, pose una mano sul braccio di Ugo (che
la sbirciò con inquietudine per vedere se fosse sporca d'inchiostro) e
concluse così il suo discorso: «Fammi questo piacere; sinchè io termini
di scrivere, e in meno d'un'ora spero d'essere sbrigato, va a tener
compagnia alla Giulietta, e pregala che mi scusi, e dille che dopo
verrò con voi altri, e staremo tutta la giornata di buon umore. E non
si parlerà più di cose serie....»

«Le ultime parole furono pronunciate spingendo leggiermente Ugo verso
l'uscio, tantochè questi capì l'antifona, e se la svignò.

«Egli si avviò per un corridoio che conduceva ad un salottino,
dal salottino passò in un'altra stanza, ascese pochi gradini, e si
trovò dinanzi a un gabinetto che aveva l'uscio aperto. Era quello il
soggiorno preferito da Giulietta. Ella sedeva con un libro in mano
volgendo il dorso alla porta in modo da non poter vedere chi entrava.
Però, al suono dei passi d'Ugo, girò rapidamente la testa, si fece
rossa, e disse:

« — Oh! siete qui?

« — Appunto; e non dovevo rendervi conto della mia ambasciata?

« — È vero: e dunque?

« — Vuol finire un lavoro, ma promette che in un' ora sarà sbrigato.»

«Giulietta scrollò leggiermente le spalle in atto di impazienza,
mormorando: « — Sempre così.»

«Vi fu un momento di silenzio, durante il quale Ugo fisò uno sguardo
abbastanza lungo sulla simpatica donnina. «Vergini e spose, griderei
io, se per avventura fossi un predicatore, diffidate degli sguardi
lunghi. Gli occhi che cominciano a guardare con curiosità finiscono
a guardare con desiderio e allora...» Ma qui non siamo in chiesa, e
posso risparmiarvi il sermone. Vi dirò piuttosto che la mia Giulietta,
sempre cara e leggiadra, era quel giorno più seducente che mai. Ella
indossava un abito di mussolina _lilla_, col corpetto tagliato sul
davanti dell'incollatura e guernito intorno intorno di una trina
sottile e candidissima, la quale armonizzava col roseo della fresca
carnagione. Una lista di raso violetto oscuro, movendo dal punto in cui
si chiudeva il corpetto, scendeva sino alla cintura snella, attillata e
stretta da un nastro della medesima stoffa e del medesimo colore: indi
bipartivasi, e così divisa in due si prolungava sul dinanzi fino alla
base del vestito. Le maniche erano secondo la moda d'allora, rigonfie
nel mezzo e strettissime ai polsi. Ella era calzata....»

— Per carità, Maurizio, si direbbe che aveste copiato un figurino —
interruppe la signora Anna.

— Se non volete saperne della calzatura, mi permetterete almeno di
parlarvi dei capelli, neri, lucidi, e fini ch'erano una maraviglia
a vedersi. Essi non erano imprigionati in una di quelle bizzarre
acconciature che si usavano allora, ma si sollevavano a buffi sul
fronte, per ricader poscia dietro la nuca in apparente disordine
e avvolgersi intorno ad un bel pettine di tartaruga, così piccino
ch'io non so — diceva il mio amico — come esso potesse essere argine
sufficiente a quel mare in tempesta. Un bocciuolo di rosa che era tra i
primi della stagione, colto forse il mattino stesso da una pianticella
precoce, faceva capolino al lato sinistro poco sopra l'orecchio,
staccandosi con leggiadro contrasto dalla tinta delle chiome d'ebano.
In verità, avere una sposa così, e preferirle la legislazione mineraria
come faceva il nostro amico, è un peccato imperdonabile, pel quale non
v'è al mondo sufficiente penitenza.

« — Ebbene, prendete una sedia — disse Giulietta — e fatemi un po' di
conversazione. Se no, io finisco col perder l'uso della parola... Non
siete mica dotto voi? — soggiunse poscia con una specie di sgomento
infantile.

« — Non sono davvero — rispose Ugo sorridendo. — Ma, perdonate, non
ista a voi di mostrarvi tanto sospettosa della dottrina, cinta come
siete da biblioteche e, quel che più vale, con un libro in mano....

In fatti ella aveva sulle ginocchia un volumetto socchiuso sull'indice,
nell'atto di chi interruppe solo momentaneamente una sua lettura.

« — Ah! questo libro — ripigliò la giovine — è un libro anche per voi
che siete poeta.

«E glielo porse aprendolo appunto alla pagina su cui teneva il dito.

«Ugo lesse.

    «_O mes lettres d'amour, de vertu, de jeunesse,..._»

« — _Les feuilles d'automne_; una primizia — disse poi continuando a
leggere.

« — Una primizia affatto. L'ebbi ieri dal libraio. Io non me ne
intendo, ma mi pare tra le più belle cose di Vittore Hugo. Ma quel
mio benedetto Alberto non ci ha gusto per questa roba: ha sfogliato
il libro in fretta e in furia, e poi lo gettò in un canto senza che si
capisse se gli sia piaciuto sì o no.

« — Ha torto.

« — Non è vero? — proruppe vivamente Giulietta — ha grandissimo torto,
perchè la poesia, quando è bella, è qualche cosa che tocca l'animo e ci
fa più grandi e più buoni. Vedete; io non so stancarmi di leggere quei
versi che vi stanno sotto gli occhi, e (mi direte fanciulla) ho frugato
nei miei vecchi quaderni, e provai quello che prova il poeta....

« — Sì, ma egli richiama i suoi diciott'anni, e voi, se è lecito
investigare l'età di una donna, li avete appena sentiti suonare....

« — Forse — rispose Giulietta — ma in noi la vita è più precoce, e i
nostri quattordici anni corrispondono ai vostri diciotto. O le soavi
fantasie, o i cari sogni de' miei quattordici anni! Lungo i corridoi
del convento, nel giardino, sotto il pergolato, a braccietto d'un'amica
o in frotte di cinque o sei seguite a stento dal passo grave e ammonite
invano dalla voce nasale d'una monaca gialla e stecchita; che schietta
allegria, che ridda irrequieta di speranze, di desiderii, d'affetti!
Come si deludeva la disciplina claustrale, come si subiva senza rancore
e senza tedio quella sequela interminabile di pratiche religiose che
ci erano imposte! La campana del convento veniva ad ogni tratto a
interrompere il corso dei nostri pensieri ma non ne lacerava la tela.
Le fantasie accarezzate dell'anima sotto i rami frondosi delle acacie
e dei carpini, mentre il vento mormorava, e gli uccellini, cantando,
saltavano d'arbusto in arbusto, ci seguivano poscia pei bruni corridoi
e sui rustici banchi della chiesa. Nelle penombre delle ampie navate,
nel raggio di luce che, scendendo dal finestrone a colori, andava a
spezzarsi sul fusto d'una colonna o sugli angoli d'un confessionale,
c'era un mondo misterioso ed affascinante che riempiva di sè il nostro
spirito, che ci faceva sorridere e piangere quasi tutto ad un tempo.
Le labbra mormoravano intanto la solita salmodia, ma la mente era
altrove, il prete cantava messa, ma noi stavamo più compunte di viso
che d'anima. E, si sospirava alla cara libertà, e al calar della sera,
guardando il muro che ci contendeva tanta parte dell'orizzonte, si
gridava tra noi fanciulle — O non cadrà mai quel maledetto muro, o non
potremo mai andare dove ci piace e adoperare a pro di qualche cosa e di
_qualcheduno_ tutto quello che sentiamo qui dentro?

— E chi avrebbe voluto esser Giovanna d'Arco, e chi santa Teresa, e chi
Laura o Beatrice, perchè, di contrabbando, erano entrati in convento
Dante e Petrarca, e, Dio cel perdoni, anche l'Ariosto....

«Giulietta s'interruppe un istante, arrossì leggermente e poi ripigliò:
— E si diceva: la bella cosa che dev'essere l'avere un poeta che sia
tutto per voi, e vi scriva de' versi che passeranno all'immortalità;
onde, dopo tanti secoli il vostro nome confuso col nome di lui ricorra
frequente su mille labbra gentili e faccia piangere de' cari occhi
malinconici! E come dev'esser bello il morire per esso, lo spirare
l'ultimo fiato fra le sue braccia!... oh insomma quante deliziose
sciocchezze si dicevano in quel tempo!...

«La giovine, discorrendo, si era accesa singolarmente nel volto e
l'ondeggiare delle bianche trine sul petto mostrava quant'ella fosse
agitata.

«Ugo non sapeva che rispondere, perplesso dinanzi a questa volubile
facilità di parola, ma guardava trasognato la sua interlocutrice che
gli appariva sotto una luce affatto nuova.

« — E in quell'età — proseguì ella, abbassando la tendina per ripararsi
dal sole che cominciava ad entrar nella stanza — in quell'età la penna
corre spontanea sulla carta per riprodurvi le idee che vi germinano
nella mente, spesso puerili, ma più spesso generose; maligne giammai,
poichè a me pare che il tempo della malignità principî quando si
principia a dubitare di sè. Credere in sè medesimi vuol dire credere
anche negli altri..... — Tacque un momento, giocherellò col fiocco
della tendina, quindi bisbigliò a mezza voce... — E poi?

«Ugo, sempre più attonito, insinuò timidamente: — O sareste divenuta
scettica, così presto?

Ella scosse il capo con una certa espressione di tedio, e disse: — Che
so io?... vorrei vedere l'effetto che produrrebbe ad uno il diventar
più piccolo della persona, se mai questo fenomeno fosse possibile. Io
tengo per fermo che sarebbe un effetto analogo a quello che si prova
nel sentirsi diminuir l'animo e l'ingegno. Ciò accade a me. Sì, sì;
non istudiate una galanteria; ciò accade a me con una progressione
che mi sgomenta. La mia immaginazione s'è fatta sterile, il mio cuore
alberga dei rancori, dei sospetti che un giorno non avrebbero potuto
allignarvi.

« — O Giulietta — proruppe Ugo — voi sposina di pochi mesi, voi che
avete raggiunto ciò che dev'esser l'ideale di una fanciulla par vostra,
unendo la vostra sorte alla sorte d'un uomo degno di voi, avete già di
questi scoramenti nell'anima?

«Ella sorrise tristamente, dicendo:

« — Ma sono scorata appunto perciò, appunto perchè, avendo conseguito
ciò che dovrebbe essere la felicità, mi sento oppressa da una
malinconia nuova e invincibile. Ho unito la mia sorte a quella d'un
uomo che avrebbe onorato del suo nome ben altra donna che me. Eppure,
che sono io nella sua vita? Ho io saputo prendere il posto della
più piccola fra le sue ambizioni?... O miei poveri sogni, come siete
svaniti! — E accompagnò la frase con quel gesto della mano, e quel
movimento delle labbra con cui suolsi accennare a una cosa che sfuma.

«Io vorrei pigliare a quattr'occhi il più virtuoso uomo che vi sia
sulla terra, intendiamoci bene, un uomo che abbia vissuto, e che
in omaggio a una virtù ideale non abbia soffocato tutte le proprie
passioni, vorrei avere sovr'esso una potestà che lo inducesse a nulla
celarmi, e vorrei chiedergli quale effetto egli proverebbe sentendo una
donna attraente e leggiadra lagnarsi, in un istante di soave abbandono,
della sua esistenza coniugale. Scommetto cento contr'uno ch'egli mi
risponderebbe che nella sua prima impressione vi fu un lampo di gioia
satanica. Egli l'avrà prontamente repressa, io l'ammetto, e qui sta la
differenza tra l'uomo onesto e chi non è tale; ma non avrà potuto far
sì che quelle rivelazioni non lusingassero il suo amor proprio, non
gli aprissero l'anima a una speranza colpevole. Questa donna che vi
mette a parte delle sue sofferenze ha dunque un alto concetto di voi,
questa donna che vi parla del vuoto del suo cuore crede dunque che voi
potreste riempirlo!... Mia cara amica, Ugo era virtuoso, ma uomo... Ed
ora permettetemi di prendere un'altra tazza di tè.»

La signora Anna si era fatta pensosa: appoggiando il gomito al tavolino
sosteneva con una mano il capo, e con l'altra moveva macchinalmente le
forbici che le stavano dinanzi.

— E non potreste venire a dirittura alla morale della vostra storia?

— Oibò, oibò — rispose il signor Maurizio aprendo la chiavetta della
macchina e chinandosi alquanto a guardar con occhio di compiacenza lo
spillo dorato che si precipitava nella tazza. — Protesto contro chi mi
volesse togliere la parola. — E continuò: — Ugo era virtuoso ma uomo,
ho detto poco fa. E quello stato cominciava a riuscirgli piuttosto
imbarazzante. D'altronde a una certa età vi è una paura che assedia
l'uomo: è la paura d'essere ridicolo. Ora, prendetevela col mondo
finchè volete, ma non vi è dato negarmi che un giovinotto il quale si
lascia sfuggire il destro d'insinuarsi nell'animo d'una bella donna
passa per ridicolo presso alla grande maggioranza de' propri simili.

« — Povera Giulietta! — egli mormorò dolcemente avvicinandosele
alquanto.

«Ella lo guardò, e poi gli chiese:

« — Non sarete mica così se prenderete moglie voi?

« — Se trovassi una Giulietta, no certo.

«La giovine si fece rossa rossa e vi fu un istante di silenzio. Indi
balzò subitamente dalla sedia e disse:

« — Scendiamo in giardino. Sentite come fa fresco.

«Ugo la precedette officioso nell'andito, aprendo per lei l'uscio a
vetri che dava sulla scaletta. Scesero entrambi.

«Ai due pilastrini dell'ultimo gradino erano due vasi di geranii.
Giulietta si abbassò con la persona ad odorarne i fiori cosparsi di
rugiada: i capelli bruni le svolazzavano sul collo candidissimo, le
trine ondeggianti lasciavano indovinare allo sguardo le curve dilicate
del seno. Una panchina di marmo si trovava all'altro capo del giardino
sotto un padiglione d'acacie. Giulietta prese là via più breve per
giungervi, attraverso un praticello smaltato di margherite: l'erba
era umida, ond'ella raccolse le vesti, e le tenne sollevate alquanto
sopra il piede. Si assise sulla panchina e Ugo le fu vicino. Di repente
cominciò a soffiare un vento gagliardo, e delle grandi masse di nubi
si videro avanzarsi rapidissime sull'orizzonte. Il sole brillava
per poi tornava a nascondersi un istante in uno squarcio azzurro del
firmamento, poi faceva capolino di nuovo, sinchè scomparve del tutto.
Gli alberi dondolavano il capo con un gemito sordo, la polvere saliva
con un moto turbinoso, le gallinelle sbucando dai cespugli correvano
sbigottite a ripararsi nel pollaio. Ugo e Giulietta si affrettarono a
rientrare in casa: stettero in forse se prendere un'altra scaletta che
metteva allo studio di Alberto, ma questi comparve sulla soglia per
assicurare le imposte sbattute, e fe' loro segno che lo lasciassero
ancora un poco tranquillo. Onde ritornarono dond'erano venuti, con una
mano tenendosi uniti, con l'altra facendosi scudo agli occhi contro
la polvere. Quand'ebbero salito i pochi gradini che conducevano al
gabinettino di Giulietta, si volsero indietro un istante come per
guardare l'insieme dello spettacolo.... Io non so se tutti lo provino,
ma mi sembra che il trovarsi all'aperto allo scoppiare d'un uragano
abbia un fascino indescrivibile... Si direbbe che la vita fisica
si raddoppi. Spirar quell'aria frizzante e piena d'elettricità che
v'investe la persona e gli abiti, veder tutte le cose mutar tinte e
contorni secondo l'oscurarsi o schiarirsi del cielo, e il rabbonire,
o l'imperversare del vento, essere, insomma, in mezzo a tutta quella
commozione della natura, vi fa provare, non so perchè, un senso
d'orgoglio. È un orgoglio irragionevole, lo capisco, perchè in fin dei
conti non si compie menomamente un atto di coraggio, ma non sarà la
sola cosa di cui non si possa rendersi ragione a questo mondo.

«I due giovani non poterono rimanere a quel mondo che pochi secondi.
La temperatura s'era fatta più rigida, il cielo più buio, la pioggia
sembrava imminente, e anzi aveva principiato a caderne qualche grossa
goccia isolata. Si ritirarono di nuovo nello stanzino di Giulietta, e
si posero un istante al davanzale della finestra, rapiti in apparenza
nella scena che avevano dinanzi agli occhi, ma in fatto assorti in ben
altri pensieri. Pure nemmen lì poterono trattenersi, quantunque agli
ultimi lembi dell'orizzonte ricomparisse il sereno, e la pioggia avesse
cessato; tanta era ancora la furia del vento.

« — Che tempo indemoniato! — disse Giulietta con un accento di vaga
inquietudine.

«E si ritrasse alquanto.

« — È vero, — rispose Ugo seguendola.

«La finestra si chiuse con impeto e poco mancò che le impannate non
andassero in frantumi. La rosa che Giulietta aveva intrecciata ai suoi
capelli cadde a terra col gambo spezzato. Si chinò a raccoglierla,
ma Ugo era stato più pronto di lei e l'aveva ghermita, dicendo: —
Lasciatela a me. — Intanto l'uscio, che fino a quel punto aveva serbato
un'assoluta neutralità, si serrò per propria iniziativa con grande
furia e fracasso.

«Giulietta si scosse impaurita, tanto che il suo compagno stimò
opportuno di sorreggerla.

«Ella si svincolò, e disse con voce rotta e velata: — O Dio, si
soffoca. — Fece alcuni passi verso la porta, smarrita, confusa; poi si
arrestò ad un tratto e ruppe in un pianto dirotto.

« — Giulietta, Giulietta, che avete mai? — esclamò Ugo correndo a
sostenerla.

«Fece un debole tentativo per allontanarlo da sè, ma quindi ristette
come persona sfiduciata delle proprie forze e si lasciò condurre sul
divano.

« — Giulietta, Giulietta, perchè piangete? — continuò a chiedere Ugo,
piegandosi su di lei, e sfiorandole con la bocca i capelli.

«Ella sollevò alquanto il viso, egli si abbassò un poco di più: le
loro mani s'erano intrecciate, le loro labbra stavano per toccarsi;
quand'ecco... il più virtuoso e impertinente raggio di sole che si sia
mai cacciato nei fatti altrui inondò d'un tratto la stanza.

«Una bomba che scoppia in mezzo a un gruppo di soldati non produce un
effetto più subitaneo. Quasi nello stesso punto Giulietta ritrasse
il viso vergognosa, sgomenta, supplichevole, e Ugo, rizzandosi con
la persona, lasciò andare la mano di lei ch'egli teneva nella sua
mano. Molti e molti anni dopo egli mi confidava i pensieri che gli
erano passati nell'anima in quell'istante solenne. Vi sono di questi
momenti che decidono dell'avvenire, e nei quali le impressioni più
disparate si succedono, si accumulano, si combattono nella mente con
la rapidità della folgore, lasciandovi un solco che il tempo non potrà
cancellare. E abbenchè la vecchiezza inesorabile lo abbia raggiunto,
infiacchendogli le membra, imbiancandogli la chioma, Ugo rivive ancora
a quei sentimenti, a quelle impressioni. Egli la vede ancora, la donna
bellissima, com'ella era in quel giorno, spaventata, indifesa contro
le seduzioni che ella infantilmente aveva evocate, la vede ancora con
la chioma disordinata, con gli occhi pieni di lacrime, di voluttà, di
terrore, con le labbra scolorite, tremanti, che parevano dire: — Se tu
non hai pietà di me, io non ho più forza per resistere. — Ugo rammenta
ancora la lotta breve ma terribile ch'egli dovette durare, quando a
fronte della sperata ebbrezza dei sensi, egli pensò all'ignominia di
cui stava per macchiarsi sorprendendo la virtù di una soave ed ingenua
creatura, al disprezzo eterno ch'egli avrebbe provato di sè medesimo
se avesse tradito l'ospitalità di un amico d'infanzia, al lutto che
sarebbe piombato per colpa sua in quella casa. Due voci gli parlavano
al cuore: l'una gli diceva — _osa_ — l'altra lo ammoniva — _fuggi_.
— Beato lui che udì la voce più onesta, beato lui che, composto il
volto a una dignità dolce a un tempo e severa, potè fisar con ferma
pupilla la smarrita giovinetta, e prendendole ambe le mani, esclamar
— _Perdonate_. — Uscì frettoloso di quella stanza senza più guardar
indietro a sè, e sceso nello studio dell'amico suo subì pazientemente
la lettura della sua memoria sulla legislazione mineraria, facendo le
viste di approvarla quantunque avesse ben altro pel capo. Il tempo
minaccioso aveva fatto metter da parte la gita ideata, onde Ugo ed
Alberto s'intrattennero a lungo di vari argomenti. Non oserei dire
che le risposte d'Ugo fossero tutte a proposito, ma l'altro era così
dolcemente maravigliato di poter discorrere de' suoi soggetti favoriti
che non s'accorgeva nemmeno delle distrazioni del suo interlocutore.
Il fruscio d'una veste femminile interruppe quel colloquio, e una
vaga e spigliata personcina comparve sulla soglia. Era Giulietta. Ugo
impallidì, ma quand'ebbe posto gli occhi sulla donna leggiadra, vide
ch'ella non serbava più traccia del passato turbamento, ch'ella era
tornata la semplice e leale Giulietta del tempo addietro. E si propose
di non esser da meno di lei. Ella si fece strada in mezzo a quella
grande confusione di seggiole, e venne direttamente verso suo marito
che, infatuato nella discussione com'era, avrebbe avuto una voglia
matta di corrucciarsi, ma fu disarmato dalla bellezza di lei e da un
certo che di malinconico che v'era nel suo sorriso.

«Giulietta pose una mano sulla spalliera della seggiola e guardando
gli scartafacci pieni di scancellature che stavano in disordine sul
tavolino, chiese:

« — Si potrebbe sapere che cosa hai scritto di bello questa mattina?

«Egli si girò con mezza la persona, e fisando sua moglie con faccia
sorridente, le porse l'ultimo foglio che aveva vergato, e le disse:

« — Guarda.

« — Oh, Dio buono — esclamò Giulietta — chi vuoi che possa capir nulla
in mezzo a tutti questi sgorbi?

« — E bisogna pur che capiscano — rispose Alberto — perchè questo
manoscritto, come tu lo vedi, deve andare a Firenze.

« — Impossibile, impossibile; ce ne va di mezzo il tuo decoro.

« — Carina mia, convien fare di necessità virtù. Sai pure che non ho
segretario.

«Giulietta si chinò verso suo marito, e bisbigliò a mezza voce:

« — E se mi provassi io medesima a copiare questi tuoi geroglifici? Tu
lodavi tanto la mia calligrafia.

«Alberto la guardò trasognato.

« — È la prima volta che tu mi fai una di queste offerte.

« — Perchè è la prima volta che tu mi fai una di queste confidenze.

« — Ma parli proprio sul serio?

« — Serissimamente.

«Alberto, egoista come tutti gli uomini affaccendati, non se lo fece
dire due volte, ma dando anzi una più larga interpretazione alle parole
di lei, soggiunse vivamente:

«Sei la più cara e gentile sposina del mondo. Dunque sarai proprio il
mio segretario?

« — Veramente non avevo detto questo — osservò ella con grazia — ma,
insomma, non voglio dire di no.

« — Ah mio caro Ugo — proruppe Alberto fuori di sè per la contentezza
— quando tu capiti in casa mia ogni cosa mi va a seconda.

«Ugo scrollò le spalle un po' infastidito da questo complimento,
e la Giulietta si fece di porpora. Ma Alberto, da buon marito, non
vi pose mente, e fu per tutto il giorno d'una festività insolita ed
esemplare, manifestata in ispecial modo nella disinvoltura con cui
lasciò mettere in canzone da Ugo i suoi difettucci d'erudito. E in Ugo,
lo si vedeva a mille miglia, l'allegria non era mica di schietta lega.
Mordace per indole, egli condiva in quella occasione i suoi frizzi
con qualche granellino di dispetto. Bisogna scusarlo. Certo egli si
era levato con onore da una grande difficoltà, certo egli doveva, per
esser imparziale seco medesimo, confortarsi nel plauso della propria
coscienza; ma via, siamo sinceri, alla sua età non son già quelle le
vittorie che si accolgono con entusiasmo. A quella guisa che le città
non fanno luminarie per ricevere un esercito il quale si sia ritirato
spontaneamente da un assedio ingiusto, i giovinotti di venticinque a
ventisei anni non menano troppo scalpore d'un'avventura lasciata andare
per riguardi di moralità. Malissimo, direte voi, e avrete ragione; ma
il mondo è così e non lo si cambia.

«Si accomiatò da Giulietta con una cordialità senza affettazione
e con un riserbo senza imbarazzo. Aggiunger parole sarebbe stata
una goffaggine, e nè dall'una parte nè dall'altra si fece allusione
all'accaduto.

«Però Ugo lasciò scorrere parecchi mesi prima di rivedere i suoi
amici, per quanto Alberto lo sollecitasse con lettere frequenti,
e si maravigliasse del suo strano contegno. Finalmente, non senza
peritanza, cedette all'invito. Alberto era sempre lo stesso; espansivo,
affettuoso, ma in pari tempo pieno di sè, e de' suoi studi, e della
sua crescente riputazione, e beato di poter lasciar sdrucciolare
fuori delle tasche del soprabito o dei calzoni le lettere degli uomini
illustri che mantenevano seco una corrispondenza epistolare. Giulietta
invece appariva grandemente mutata. Forse ella era meno florida e men
bella di prima, ma una calma più soave le si diffondeva sul volto;
forse il suo sguardo era meno affascinante, ma più fermo e più sicuro.
Si capiva ch'esso non ondeggiava più fra cento immagini vaporose e
sfumate, ma mirava invece a una meta, a uno scopo.

«Stava assai di rado nel suo antico salottino, e invece soleva
trattenersi lunghe ore nello studio di Alberto che ormai aveva bisogno
di lei. E quello studio aveva cangiato interamente aspetto. Non v'era
più lo spaventevole disordine del tempo addietro, nè le sedie con le
gambe all'aria, nè i libri sparsi in confusione sulla tavola come le
rovine d'una città devastata, nè la parete tutta piena di macchie
d'inchiostro. Un occhio attento, una mano discreta avevano saputo
riparare a questi guai, e rimettere i libri nei loro scaffali, e ridar
pace e simmetria alle sedie, e regolare i bruschi movimenti della
penna di Alberto che quando si trovava fra le sue dita aveva un fremito
nervoso e mandava spruzzi d'inchiostro da tutte le parti. Insomma in
quella stanza si sentiva il soffio vivificatore della donna.

«E la donna c'era; raccolta, composta, per lo più taciturna, quantunque
serena; ella era lì aiutando suo marito senza ostentazione e senza
pedanteria, e assegnando a sè una parte femminile e modesta; quella
del buon angelo della casa. Il suo ingegno naturalmente perspicacissimo
s'era nudrito di nuove cognizioni vivendo in quell'atmosfera di studi;
ma ella non lo lasciava parere, e nulla aveva perduto della semplicità
d'una volta.

«Allorchè il mio amico fu per prender congedo, Alberto gli strinse la
mano, e gli disse:

« — Fra sette mesi ci sarà una persona di più in casa nostra. Ricordati
che tu devi esser padrino al neonato.

«Ugo esitò un istante, ma quando s'incontrò nello sguardo calmo e
sicuro di Giulietta capì che il passato era svanito per sempre, che
_quel cattivo quarto d'ora_ non sarebbe mai ritornato. Se la sua vanità
fu punta, la sua coscienza ne rimase più tranquilla, e rispose di
sì.... Ah, cara Anna, ma se non ci fosse stato quel raggio di sole?...
Oh! nel corso della sua vita ormai lunga e volgente al suo termine,
se sapeste quante volte l'amico mio si è indirizzato questa domanda;
se sapeste quante volte egli ha benedetto quel raggio di sole che
salvò lui dalla colpa e una cara persona dall'onta, che gli permise
di guardare l'amico suo senza vergogna e di stringergli la mano senza
rimorso.»

La signora Anna, ch'era stata silenziosa ed immobile per alcun tempo,
si scosse, e disse con una certa emozione.

— Ma al vostro amico non è mai venuto in capo che la virtù di quella
donna potesse resistere anche senza l'aiuto d'un raggio di sole? Egli
la stima sì poco da voler ascrivere a un caso fortuito s'ella non
macchiò il suo onore, s'ella non tradì la sua fede?

— Cara Anna — rispose il signor Maurizio — voi avete nella vostra
piccola biblioteca un romanzo ch'è tra i più belli che si pubblicassero
in questi ultimi anni, _Monsieur de Camors_. Rileggetevi l'episodio
della signora Lescande, buona, vereconda, tenerissima di suo marito,
eppur così miseramente caduta. Non sempre la purezza dell'animo e
la severità dei principi bastano a salvare la donna, che è tanto
meno preparata alla difesa quanto più è inconscia del male. La donna
sregolata cerca la colpa, ma s'avvede quand'ella viene; la donna
onesta la fugge, ma non riconoscendo nè gli aspetti ch'ella riveste,
nè le sorprese ch'ella prepara, la incontra talvolta per via allorchè
stima d'esserne le mille miglia lontana. Date per compagna alla virtù
una operosità feconda e contenta di sè, e ne avrete fatto una rocca
inespugnabile.

— Or via — disse la signora Anna con un garbato movimento del capo, e
prendendo la mano al suo interlocutore — or via, gettiamo la maschera.
Voi avete voluto darmi una lezione rifacendo, un po' a vostro modo, una
storia di quarant'anni addietro. La mia memoria è meno felice della
vostra, e vi confesso che molti degli incidenti da voi narrati, o mi
sono sfuggiti, o non mi sembrano d'una scrupolosa esattezza. Nondimeno,
la lezione io me l'ero meritata, e ve ne ringrazio. La Giulietta di cui
parlate può avere avuto un momento di debolezza, ma non ebbe e non avrà
mai riluttanza a confessare i propri errori. La Dio mercè, essi non
sono di quelli che hanno bisogno d'esser ravvolti d'un pietoso mistero.
Ella non si rammentava d'essere stata salvata da un raggio di sole, ma
si rammenta bensì che non trovò la pace dell'animo finchè non diede uno
scopo alla propria esistenza, un sicuro indirizzo ai propri pensieri.
È vero, Maurizio; sotto la vostra buccia di scettico si nasconde un
animo nobile ed elevato, e non è la prima volta ch'io debba far tesoro
dei vostri consigli. È vero, i pericoli che minacciavano Giulietta
quarant'anni fa, minacciano forse oggi Evelina, e non tutti gli uomini
possono aver la lealtà del vostro Ugo...

— Dite piuttosto che non sempre capita un raggio di sole così a
proposito.

— Non ischerziamo: lasciatemi credere piuttosto che i due personaggi
del vostro racconto avevano entrambi abbastanza virtù da arrestarsi
sull'orlo del precipizio....

— Ma di che diamine andate discorrendo da mezz'ora a questa parte?
— saltò a dire il professore Everardo che aveva chiuso in quel punto
una sapientissima dissertazione sull'_habeas corpus_ inglese, e che
finalmente stava per alzarsi dalla seggiola.

— Oh bella — rispose sorridendo il signor Maurizio — si discorreva d'un
milione di cose. E si diceva, oltre al resto, che il marito della tua
nipote ha un grandissimo torto.

— E quale, di grazia? — soggiunse Everardo, avvicinandosi.

— Quello di somigliarti;... di ricordarsi di tutto, fuorchè di avere
una moglie.

— Ma io di mia moglie me ne sono ricordato.

— Ah sì — interpose la signora Anna — da quando ella si è risolta a
farti da segretario.

— E perchè Evelina non potrebbe far lo stesso con suo marito?

— Lo farà, lo farà: vedrò io medesima di persuaderla. Me ne ha
consigliato Maurizio.

— Pare impossibile — osservò il Professore — Maurizio con
quell'affettazione di spensieratezza ha sempre de' buoni consigli da
dare.

— Sicuro, e se fossi stato in tempo di darne uno a te e a tuo nipote,
vi avrei dato quello di non prender moglie.

— E perchè?

— Perchè siete bravissime persone, arche di scienza, membri di
più accademie, insigniti di più ordini, ma non siete nati per fare
i mariti. Via, non ti corrucciare — concluse il signor Maurizio,
levandosi da sedere, e mettendo una mano sulla spalla del professore
Everardo — gli uomini grandi vedono troppo di lontano, son presbiti, e
invece per esser mariti bisogna veder da vicino, esser miopi.

— L'ho sempre detto anch'io — osservò con gravità il commendatore
Brullo, aspirando una grossa presa di tabacco.

— C'era da scommettere — borbottò il signor Maurizio — che l'aveva
detta lui anche questa!

Il dottor Belgini, imperturbabile come Farinata degli Uberti, disse
dopo essersi raschiato in gola:

«Del resto, caro professore, io non sono certamente della vostra
opinione sul carattere e le origini dell'_habeas corpus_....

La signora Anna guardò alla sfuggita l'orologio e stimò opportuno di
chiamare a raccolta:

— Signor Belgini, del vostro _habeas corpus_ parlerete un altro giorno:
intanto, se non vi dispiace, venite tutti a bevere una tazza di tè.

Si avvicinarono al tavolino, e con dottrinale posatezza sorbirono la
bibita aromatica preparata dalla padrona di casa.

Nell'uscire, Maurizio si fece all'orecchio della signora Anna e in
tuono semiserio le disse:

— Ricordatevi del raggio di sole.



LA GAMBA DI GIOVANNINO


Io non avevo nulla di serio da rimproverare all'Adele....

(Prego il lettore di credere che non sono io, autore, che parlo; in
quanto a me, quest'Adele non la ho conosciuta nemmeno di vista. Parla
il signor Roberto Cefali, ingegnere e possidente, marito della signora
Adele).

Io non avevo nulla di serio da rimproverare all'Adele; l'Adele non
aveva nulla di serio da rimproverare a me, ma non potevamo soffrirci.
Ossia, bisogna esser giusti, ero io che non potevo soffrir lei;
l'Adele era così flemmatica da non esser nemmeno capace di una vigorosa
antipatia. Discorrendone co' miei amici, io la chiamavo _poggiapiano_,
non già perchè la credessi fragile. Dio guardi, ma perchè nel muoversi,
nell'aprir la bocca, la mi aveva sempre l'aria d'una persona che ha
paura di romper qualche cosa.

Confesso ch'ero un giovine alquanto leggero; m'ero ammogliato
spensieratamente e adesso mi atteggiavo a vittima del matrimonio.
Alla mia età, col mio ingegno (scusate la modestia), col mio titolo di
dottore in matematica, con una discreta sostanza, con un'indipendenza
assoluta (chè pur troppo i miei genitori eran morti da un pezzo) avrei
potuto far la prima figura nel mondo, senza quella benedetta consorte
che non aveva un filo d'ideale. Basti dire che durante la luna di
miele, quando avevo l'ingenuità di leggerle i miei versi, non ci fu mai
caso di strapparle un grido d'ammirazione. Non vorrei che questa fosse
stata la prima origine della mia antipatia. Si dice sempre: _Cherchez
la femme_. Io direi: cercar la donna va benissimo, ma non è male cercar
la ragione delle cose anche nella vanità umana. Vanità ferita, vanità
soddisfatta, ecco la sorgente di tanti amori e di tanti odi. Come
vedete, diventando vecchio, son diventato filosofo.

Insomma era difficile trovare un connubio più annoiato del nostro.
Quando eravamo insieme, l'Adele ed io, ci si sbadigliava in faccia
ch'era un piacere a vederci. L'arrivo di Giovannino non cambiò questa
situazione interessante; tutt'altro. L'Adele volle esser la balia del
suo bambino; si fece camera a parte durante il tempo dell'allattazione,
e poi non si provò nessun bisogno di tornar alle prime abitudini. Tocca
a lei a parlare, — dicevo io nella mia sapienza, mentre cercavo fra
le quinte del teatro numerose distrazioni al mio talamo solitario. Ma
l'Adele non parlava; oh sì era dura più d'un macigno. Come la maggior
parte delle mogli virtuose, le bastava d'aver un figliuolo.

Bisogna confessare che Adele amava il suo Giovannino e ne aveva
grandissima cura; gli era sempre intorno a lisciarlo, a mutarlo di
biancheria, a farlo saltare sulle ginocchia. A me pareva ch'ella
giocasse alla bambola. Io nutrivo per mio figlio un affetto pieno di
dignità; ero un uomo troppo superiore alle svenevolezze. I grandi
sacrifizi, le grandi virtù, quelle le capivo benissimo e mi ci
sentivo adattato... ma il secolo è tanto prosaico! E sì che Giovannino
cresceva bene; a tre anni e mezzo era bello, vispo, un vero bocciuolo
di rosa che avrebbe fatto la delizia d'un uomo più serio di me. Ma
io gli badavo poco; anche quel bimbo, poveretto, mi pareva complice
dell'esaurimento della mia fantasia. Nè egli mi faceva troppo feste;
non aveva in bocca che la sua mamma. Con l'Adele ci bisticciammo
appunto a proposito di Giovannino, nè ricordo nemmeno perchè, tanto
la ragione era futile. Una parola tira dietro l'altra. — La bella vita
che si fa insieme! — disse l'Adele. — E allora ognuno se ne vada dalla
sua parte, — risposi. — Oh quanto a me, — ella soggiunse. Io colsi la
palla al balzo e spiattellai la mia idea di separazione; ella divenne
un po' pallida, ma quando seppe che tutto si compirebbe in silenzio e
che le avrei lasciato Giovannino fino a dodici anni, senz'altro obbligo
che di mandarlo da me quindici giorni ogni sei mesi, concluse che,
forse, per me, era meglio così. Io compii il suo pensiero. — Meglio per
tutti e due. — Poi continuai: — Bisognerà scrivere a tuo padre che ti
venga a prendere. — Gli scriverò io stessa domani. — Non occorre dirgli
tutto. — No, certo; gli dispiacerebbe. — Si trova un pretesto. La tua
salute... il bisogno d'un po' d'aria nativa... anche a Giovannino il
cambiamento farà bene... — Oh, Giovannino non può star meglio di così.
— Non importa, son cose che si dicono... Una volta arrivati, a grado a
grado, si mettono le faccende in chiaro.

Ella non rispose, ma parve persuasa delle mie osservazioni. Io uscii
leggero come una piuma. Ero sul punto di riacquistar la mia libertà, e
pensavo al miglior modo di usarne. Ormai m'era concesso tutto fuorchè
prender moglie. E questa impossibilità non m'era affatto sgradevole.
Del resto, io non intendevo certo di nasconder il mio stato coniugale;
non ero poi un furfante a questo segno. Ma lo ripeto; l'essenziale era
l'esser libero. La presenza di Adele, che, a parlar sinceramente, era
tutt'altro che brutta, mi tagliava i nervi e le ali. Fatalità!

I miei amici, tutti scapoli, si congratularono meco della mia
risoluzione. A questa bisognava venirci; quando non si sta bene insieme
il meglio è dividersi — fu la profonda sentenza d'un dottorino in
filosofia ch'era il Solone della brigata. Poi ognuno disse la sua.
Il più vecchio tra noi aveva trentadue anni; io, ammogliato con un
figlio, non ne avevo che ventisette. M'ero sposato a ventidue anni e
mezzo, prima ancora d'aver compiuto gli studi universitari. Si può dar
di peggio? — A quell'età non si è responsabili delle proprie azioni, —
disse il nostro sapiente. — Verissimo, non si è responsabili.

La mia coscienza era tranquilla, il mio spirito era elastico come non
era stato da un pezzo. Voglio esser sincero; quella sera si sturò una
bottiglia di sciampagna in onore della mia emancipazione, si bevette a'
miei futuri trionfi letterari. Chi poteva dubitare di questi trionfi?
Gli altri, forse; io no sicuramente.

Ero uscito di casa subito dopo desinare; rientrai a notte avanzata. Con
mio grande stupore mia moglie mi venne incontro.

— Giovannino è caduto, — diss'ella, — e ha riportato una terribile
contusione a un ginocchio.

— Caduto? Come? Dio buono!... I bimbi... si sa... bisogna avere un po'
d'attenzione.

— Non ne ha colpa nessuno, — ella rispose calma ma seria. — Chiamai
subito il medico.

— Soliti casi. Bastava un bagno d'arnica.

— Non è vero... Il medico dice che bisogna star a vedere...

— Oh!... I medici...

— Ha fatto una fasciatura e tornerà domattina.

— Roba da nulla... Perchè stai alzata?

— Perchè quel benedetto bimbo non s'è quietato un momento.... Sentilo
come strilla.... Vado di là.... Vuoi vederlo?

— Adesso mi pare inutile... Lo vedrò domani.

E mi ritirai nella mia camera ch'era all'angolo opposto
dell'appartamento. Ne chiusi bene i due usci in modo da non sentir
rumore di sorta, e dopo essermi spogliato, mi cacciai sotto le coperte.

— Le donne! — riflettei tra me, — fanno un chiasso d'inferno per ogni
bazzecola. E i medici gettan olio sul fuoco... Tutto per darsi aria
d'importanza, tutto per tirar acqua al proprio mulino... Il mondo è
pieno d'egoisti.

Stirai le braccia voluttuosamente, mi acconciai meglio il guanciale
sotto la testa, e non istetti molto ad addormentarmi, persuasissimo
di tre cose: _primo_, che Giovannino non s'era fatto quasi niente;
_secondo_, che l'Adele aveva esagerato il male apposta per darmi noia;
_terzo_, che io ero la sola persona savia ed equanime della famiglia.

La mattina, alzatomi abbastanza tardi, mi recai nella camera di
Giovannino, dove mia moglie aveva vegliato tutta la notte. Giovannino
si lamentava sommessamente, ma era rosso in viso, e aveva un po' di
febbre.

Il medico esaminò la gamba, ch'era tutta gonfia intorno al ginocchio,
e ordinò l'applicazione delle sanguisughe.

— C'è frattura? — io chiesi.

— Frattura, no...

— Quando non c'è frattura.... — diss'io gravemente.

— Oh! — rispose il dottore. — Ci son contusioni peggiori delle fratture.

— Che strambo gusto hanno i medici di metter le pulci nell'orecchio! —
io pensai.

Ad ogni modo, finchè non ci si vedeva chiaro, non era possibile
scrivere a mio suocero che venisse a prendersi l'Adele.

E Giovannino non migliorava punto. Era sempre gonfio, non poteva
appoggiare la gamba in terra, non poteva muoversi senza provare uno
spasimo. Avvezzo com'era a correre e a saltar tutto il giorno, doveva
essere una gran pena pel povero piccino quello starsene duro stecchito
nel letto o sul canapè. Pochi giorni avevano bastato a fargli perdere
i suoi rosei colori, a infossargli le guancie, a illanguidire i suoi
occhi vivi e lucenti. L'Adele non si moveva più dal suo fianco, faceva
di tutto per tenerlo allegro, e ogni volta ch'io uscivo mi diceva: —
Porta dei balocchi nuovi a Giovannino. — E lo diceva come la cosa più
naturale del mondo, come se fosse proprio un obbligo per me di andar in
persona nei negozi dei giuocatoli, e come se tra me e lei non si fosse
ormai d'accordo di separarci. Dal canto mio che dovevo fare? Comperavo
i balocchi a dispetto delle grasse risate de' miei amici. Altro che
l'emancipazione! Questa malattia di Giovannino era pure un brutto
contrattempo.

La cosa andava in lungo. Il medico curante desiderò un consulto, e
chiamammo uno tra più distinti chirurghi del paese, il quale, dopo
molti preamboli, concluse che s'era formato un tumore, che il bambino
doveva aver tendenze linfatiche, che occorreva per lo meno una cura
lunga, e altre allegrezze consimili.

Da quel momento la gamba del povero Giovannino fu martoriata in tutte
le maniere. Empiastri, vescicanti, tagli, iniezioni caustiche, ogni
mattina c'era una nuova tortura.

Era uno strazio superiore alle mie forze, tantochè quando veniva
il dottore, io sentivo un bisogno prepotente di prender aria. Mia
moglie, beata lei, col suo carattere flemmatico poteva assistere
alla medicatura, tener ferma la gamba del povero malato, e meritarsi
il titolo d'infermiera modello. Quand'io, addolorato davvero dalle
sofferenze del bambino, lasciavo scapparmi dal labbro due o tre
imprecazioni, ella trovava ancora il modo di sorridere, e di dire: Che
ci si guadagna a prendersela con la Provvidenza?

Del resto io non mi meravigliavo della sua calma ma della sua
robustezza fisica. A primo aspetto, la si sarebbe giudicata piuttosto
una donna gracile, ma conveniva pur ch'ella avesse una fibra d'acciaio
per non ammalarsi vegliando quasi tutte le notti, standosene sempre
chiusa fra quattro muri. Ero molto più patito io che pure mi coricavo
regolarmente ogni sera e passavo fuori di casa la maggior parte della
giornata. Questione di temperamento, di nervi: mia moglie non aveva
nervi.

Erano passate quattro settimane dacchè Giovannino s'era fatto male
alla gamba, e il nefasto tumore che gli si era formato non accennava
menomamente a guarire. I due medici alla cura si mostravano un po'
imbarazzati a rispondere alle nostre interrogazioni; _speravano_ che
tutto sarebbe finito bene, ma dovevano convenire che la cosa tirava
assai in lungo, e che s'erano manifestate delle complicazioni inattese.
Su un milione di cadute che fanno i bimbi, appena una porta simili
conseguenze. Questo colpo di fortuna era toccato a noi.

L'Adele, seria ma tranquilla, espresse il desiderio di sentire un terzo
parere. Questa volta si ricorse a un chirurgo celeberrimo d'un'altra
città, uno di quegli omenoni le cui parole valgon tant'oro. E lo dico
senza metafora.

Egli esaminò per un'ora buona la gamba di Giovannino, toccando,
premendo, introducendo la sonda senza misericordia. Giovannino avrebbe
fatto pietà ai sassi. Io sudavo freddo e dovetti uscir di camera a tre
riprese. Mia moglie, tenendo strette le mani del povero martire, non
faceva un movimento, non diceva una parola. Aveva gli occhi asciutti,
le labbra inchiodate.

Dopo l'esame locale vi fu l'esame generale che parve dar risultati
soddisfacenti. Malgrado delle sue tendenze linfatiche, Giovannino era
robustissimo. I tre medici si ritirarono in un angolo della camera a
conferir tra loro; poi suggerirono d'accordo una nuova cura. Se non
riuscirà nemmen questa.... — disse il dottor Allinori, ch'era l'ultimo
chiamato.

— Allora? — chiese mia moglie con un filo di voce.

— Allora sarà necessario pensare a qualcos'altro — soggiunse il
chirurgo senza spiegarsi di più.

Quand'egli s'accomiatò, io lo seguii nell'andito, gli misi in mano un
biglietto di banca di grosso taglio, e susurrai: — Ebbene?

— Eh, si fa un altro esperimento...

— Ma non crede che se ne verrà a capo?

— Speriamo di sì... Se no bisognerà prendere un partito estremo...

— Quale?

— Oh!... Adesso è inutile... Se ne riparlerebbe...

— No, dica dica... Quale partito?

Il dottor Allinori abbassò la voce.

— L'amputazione.

S'intese un grido represso. Era mia moglie. Ella ci era venuta dietro
in punta di piedi, e perchè l'andito era buio, aveva potuto avvicinarsi
inavvertita e sentir la terribile parola pronunziata dal dottore.

— Signora, signora, — disse costui dolente dell'accaduto. — Non si
sgomenti... Sono eventualità remote... Noi medici dobbiamo preveder
tutti i casi.

L'Adele si era già ricomposta.

— Lo so, — ella rispose. — Ma tornerà, non è vero?

Si stabilì che il dottor Allinori sarebbe tornato di lì a quindici
giorni. E intanto si sperò nella nuova cura.

L'idea dell'amputazione era orribile. Io non riuscivo nemmeno a
concepire quel demonietto di Giovannino senza una gamba. E dire che
quelle sue belle coscie di rosa e di latte, que' suoi polpacci sodi
erano il grande orgoglio di sua madre, la quale, appena capitava
un conoscente, non sapeva far di meglio che alzare il gonnellino
del bimbo e magnificarne le forme piene e rotonde. Tutte cose ch'io
avevo apprezzate poco finchè Giovannino era sano, ma che apprezzavo
moltissimo oggi che la fatalità veniva a colpir così crudelmente
la povera creaturina. Sì, lo confesso, ora soltanto cominciavo a
provar davvero il sentimento della paternità; la gamba di Giovannino
m'apparteneva; io non dovevo permetter che il ferro d'un chirurgo la
tagliasse. E cercavo di tirar dalla mia parte mia moglie, di strapparle
una feroce, una decisiva protesta contro la barbarie che si tramava a
nostro danno. Ella si contentava di rispondere: — Speriamo che non ce
ne sia bisogno.

Giovannino non soffriva sempre. Egli aveva i suoi lucidi intervalli,
in cui rideva, scherzava come una volta. Avevamo fatto fare apposta per
lui una carrozzetta a molle, da tirarsi a mano, ch'era una maraviglia.
E quando il tempo era bello, lo si conduceva in giardino e anche
fuori di casa, ed egli beveva avidamente l'aria libera e il sole, e si
deliziava nel profumo dei fiori e nel volo capriccioso delle farfalle,
egli che, fino a poco tempo addietro, era una farfalla ed un fiore.
Bisognava tenerlo fermo sul sedile, perch'egli, dimenticando il suo
male, avrebbe voluto ogni momento saltar giù e mettersi a correre
come facevano gli altri fanciulli. O perchè doveva egli esser diverso
dagli altri fanciulli? Del resto, egli non aveva alcuna coscienza
della gravità del suo stato. Calcolava sempre di alzarsi _domani_,
di tornar _domani_ quello ch'era una volta. La sua mamma secondava
queste fantasie; io, quand'ero presente a tali discorsi, duravo fatica
a frenar le lagrime. Allorchè la bambinaia era stanca di tirar la
carrozza, Adele, ch'era la sola ad aver autorità sul piccolo malato
e che doveva quindi stargli sempre a fianco per impedir ch'egli si
movesse, mi diceva: — Roberto, mettiti un po' tu al posto della Lisa.
— Io obbedivo, e principiavo a far confidenza con mio figlio. Era pur
bello Giovannino! Il vento scompigliava sulla sua candida fronte i
suoi ricciolini biondi e tingeva in rosa le sue guancie pallide. Gli
occhi perdevano per un istante la loro espressione di sofferenza e
riacquistavano un raggio dell'antica luce. I suoi braccetti sottili si
agitavano con voluttà e le sue manine battevano una contro l'altra.

— Com'è bello! — esclamai un giorno davanti all'Adele.

— Oh! — ella rispose. — Adesso?

E le sue pupille s'inumidirono e parvero guardar nel passato.

Ella intendeva dire: — Una volta era bello!

E io una volta ci badavo appena!

Ogni mattina, anche quando non veniva alcuno dei dottori, l'Adele
medicava la gamba del bimbo, ed ella si disimpegnava dell'ufficio
delicato con una sicurezza, con una calma, con una sollecitudine
ammirabili. Si sarebbe detto ch'ella fosse vissuta dieci anni in
un ospitale come assistente chirurgica. Era innegabile; mia moglie
aveva le sue buone qualità, ed era per lo meno strano ch'io volessi
separarmi da una donna simile, mentre tanti mariti... basta.... Ma
d'altra parte, c'era quella benedetta incompatibilità di carattere. E
poi la separazione era desiderata dall'Adele quanto da me!... Beninteso
che non si poteva pensarci finchè durava la malattia di Giovannino.
Quand'egli fosse guarito, sarebbe stata altra cosa.... Ma se non
fosse guarito?... Era una idea ch'io respingevo da me, ma che tornava
inesorabilmente ad angosciarmi.... Se non fosse guarito?... Certo
allora la separazione sarebbe stata ancora più facile; che vincolo
avrebbe tenuti stretti l'Adele e me?... Se non fosse guarito?... Oh!
Era orribile!

Io che non mi sentivo in grado di star presente alla medicatura,
domandavo sempre all'Adele: — Dunque? — Ma pur troppo nè da lei, nè dai
medici mi riusciva ottenere una risposta favorevole.

La nuova visita del dottor Allinori ebbe un risultato sconfortantissimo.

— Pur troppo non c'è nessun miglioramento, — egli disse, rispondendo
agli sguardi ansiosi dell'Adele e di me.

E tentennò il capo e discorse sottovoce co' suoi colleghi.

— Si può aspettare ancora un poco, — egli concluse prendendomi da
parte. — Chi sa?... La natura fa miracoli.... Ma se il miracolo non
viene, è inutile, bisogna ricorrere all'ultimo mezzo che suggerisce la
scienza.

Gli altri assentirono.

— L'amputazione! — esclamai.

La tremenda parola m'abbruciava la lingua e io attorcigliavo
rabbiosamente il fazzoletto intorno alle dita.

Mia moglie non tardò a raggiungerci. Ella aveva indovinato tutto. Mi
pose la mano sulla spalla, e bisbigliò:

— Coraggio!

Era lei che faceva coraggio a me!

— Urgenza vera non ce n'è, — riprese il dottor Allinori. — Ma non
bisogna attender che il male sia eccessivamente progredito, se non si
vuol trovare il corpo esausto di forze.... Io devo esser qui di nuovo
verso la fine della ventura settimana, e allora....

— Sono poi sicuri di salvarlo con l'amputazione? — interruppe mia
moglie con voce più ferma di quella che avrei avuto io.

— La sicurezza assoluta non si ha mai, ma si può avere una sicurezza
relativa.... Se il bambino non fosse robusto, se tutti i suoi visceri
non fossero sani, se il male che gli si è manifestato non avesse
avuto una causa traumatica, confesso che non oserei consigliar questa
prova.... che è grave.... Ma insomma, nel caso nostro, un sessanta per
cento di probabilità favorevoli ci deve pur essere.

— Un sessanta per cento! — diss'io cupamente. — E gli altri quaranta?

— Caro ingegnere, — ripigliò il dottore, — siamo in burrasca e non
dobbiamo farci illusione.... Un sessanta per cento di probabilità
favorevoli val meglio che un novantanove per cento di probabilità
sfavorevoli.

— Dunque non c'è altra uscita? — chiesi di nuovo con l'angoscia
nell'anima.

— Se in otto o dieci giorni non nasce una crisi benefica, non ne vedo
altre, — replicò il dottore. — Almeno questo è il mio parere. Che ne
dicono i miei colleghi?

I suoi colleghi dicevano quello che diceva lui. Parevano due pappagalli.

Non ne potevo più e uscii dalla camera, mentre mia moglie ripeteva al
dottore Allinori:

— Dunque lei tornerà nella settimana ventura?

Nella giornata colsi un momento in cui Giovannino dormiva per parlare
a quattr'occhi con l'Adele.

— No, no, — dissi, — i medici possono predicar finchè vogliono, noi
non dobbiamo lasciar tagliare la gamba a Giovannino. Farne uno storpio,
farne un infelice... no, no, non lo dobbiamo assolutamente.

— Ma se ci muore?

— Sarà una disgrazia, sarà una disgrazia immensa, ma non avremo
commesso una barbarie.... Non lo avremo sacrificato al nostro
egoismo....

— Roberto! Roberto! E si può lasciarlo morire? — ella proruppe con un
grido straziante.

Io volevo risponder di sì, ma invece mi presi la testa fra le mani e la
scossi con violenza.

— Maledetta la medicina, maledetti i medici. Tutti ignoranti, tutti
impostori, tutti ciarlatani!... Uno non ce n'ha da essere a modo?

A un tratto scattai dalla sedia esclamando con logica ammirabile:

— Voglio consultarne un altro ancora.... sarà il quarto.... Tanto
fa.... Andrò a cercarlo in capo al mondo, se occorre.

L'Adele non mi contraddisse, ma evidentemente ella non isperava nulla
da questo nuovo consulto ch'io ero deciso a fare, non sapevo ancora con
chi.

Passò qualche giorno prima ch'io fissassi le mia scelta fra le tre
o quattro celebrità che m'erano state additate. Diedi finalmente la
preferenza a uno ch'era allora in gran voga e che abitava in Firenze, e
risolsi di fare una corsa io stesso in quella città affine di condurlo
meco.

— Portami un gingillo nuovo da Firenze, — disse Giovannino.

Egli aveva intorno a sè una collezione di giocatoli, parte interi,
parte sciupati. C'era una dozzina di soldatini di piombo, c'eran
fantocci che a dar loro una spinta facevan prodigi acrobatici, e
agnelli belanti, e sorci che si caricavano e correvano per la camera,
c'era un convoglio di strada ferrata, un paio di cavalli zoppi, un
pesce dalle squame d'argento, un teatrino cogli scenari a colori, una
cucina di stagno, alcune scatole di cubi da costruzione, una lanterna
magica coi vetri rotti, tutta roba accumulata giorno per giorno
in questi mesi di malattia. Ma qualunque cosa Giovannino ci avesse
chiesto, l'Adele ed io ci saremmo gettati nel fuoco per contentarlo. Io
gli promisi il gingillo nuovo, ed egli mi baciò sorridente. Era magro,
era pallido. Povero Giovannino! Quel sorriso su quel volto bianco e
sparuto mi fece un senso!...

— Torna presto, — mi raccomandò l'Adele accompagnandomi fino alla scala.

— Posdomani son qui.... E tu, se c'è qualche cosa di nuovo, telegrafa
all'_Albergo del Nord_.

— S'intende.

Ci stringemmo la mano senz'aggiunger parola. In verità nessuno avrebbe
creduto che noi fossimo due coniugi risoluti a dividersi.

Il diavolo ci aveva messo la coda. Io avevo fatto i conti senza la
politica; il mio Ippocrate era senatore, e come tale si trovava a Roma.
In quel momento devono essermi scappate fuori delle grandi eresie. Devo
essermela presa coi medici senatori, e fin qui manco male, ma poi devo
aver imprecato anche al trasporto della sede del governo a Roma, e, Dio
non voglia, persino al regime parlamentare.

Stetti un po' perplesso sul da farsi, ma m'ero tanto incaponito
nell'idea di questo consulto che finii per prendere il treno diretto
per Roma. Naturalmente, prima di partire, telegrafai all'Adele affinchè
non si mettesse in pena pel mio ritardo.

A Roma, un nuovo contrattempo. Era domenica e il mio grand'uomo
era andato a pigliar aria a Frascati. Lo si aspettava di ritorno
la sera a mezzanotte. E io fin dalle undici ero nel suo salottino a
contare i minuti. A mezzanotte e un quarto il luminare della scienza
medico-chirurgica italiana arrivò e parve bastantemente annoiato di
trovar gente in casa sua. Quando gli ebbi esposto il motivo della mia
venuta e la mia intenzione di condurlo meco:

— Impossibile, — egli disse, — assolutamente impossibile. Domani va
in discussione al Senato il codice sanitario, e io devo sostenere il
lavoro della Commissione di cui faccio parte.

— Ma posdomani?

— Oh non son cose che si spicciano in un giorno, — egli rispose con una
cert'aria, come se volesse dire: «da che mondo viene?» Poi soggiunse,
guardando verso un uscio che doveva esser quello della sua camera da
letto: — Mi dispiace....

Io non sapevo risolvermi ad andar via, e volli almeno riferire
succintamente il caso, e sentire un parere.

— Quando non si vede il malato, — egli disse, — è molto difficile
pronunciarsi. Ma la cura seguìta mi par la migliore. Lei è benissimo
appoggiato.... il dottor Allinori sopratutto è un uomo di polso....
Dissentiamo su alcuni principii fondamentali della scienza, ma nel
resto siamo d'accordo.... In questo caso poi avrei fatto anch'io come
lui.

— Ma adesso? Che farebbe adesso?

— Eh, ritengo che farei l'amputazione.

— Si alzò dalla sedia, mi accompagnò cortesemente fino all'uscio,
rifiutò qualunque compenso per le sue chiacchiere e mi diede la buona
notte.

Di lì a un paio di settimane, forse, se avessi ancora avuto bisogno di
lui, avrebbe potuto venire... Grazie tante.

— Bel costrutto ch'io avevo cavato dal mio viaggio a Roma! Ero assente
di casa da quattro giorni e non sapevo nulla di Giovannino. L'Adele,
anche volendo telegrafarmi a Roma, non avrebbe saputo dove dirigermi
il dispaccio, perch'io m'ero dimenticato di dirle ove andavo ad
alloggiare. Le inviai un altro telegramma annunziandole che rinunciavo
per forza al nuovo consulto e che mi rimettevo tosto in cammino per
ripatriare. Mi facesse trovar notizie alla stazione di Firenze.

Alla mattina presi la prima corsa per l'Alta Italia. Fatalità su
fatalità! Un disgraziato ritardo a Orte ci fecer perder la coincidenza
a Firenze. Bisognava aspettare cinqu'ore.

Trovai alla stazione un telegramma così concepito:

    _Non ci sono guai. Ti attendo. Hai ricevuto un altro dispaccio
  che ti spedii due giorni fa all'Albergo del Nord?_

                                                             ADELE.

Un altro dispaccio? Non seppi resistere alla curiosità di leggerlo e
presi un _fiacre_ che mi conducesse al _Nord_. Avevo tempo d'avanzo
d'andare e tornare. Ecco il dispaccio che s'era incrociato col mio
e che quindi era stato spedito prima che l'Adele sapesse della mia
partenza per Roma:

    _Il dottore Allinori, il quale anticipò la sua venuta, dice che
  non c'è più tempo da perdere. Torna subito, subito, subito._

Queste parole mi misero la morte nell'anima. Cos'era successo di nuovo?
È vero che il dispaccio posteriore era molto più tranquillante, ma in
ogni modo, senza una grave ragione, Adele non mi avrebbe scritto così.

Non c'era tempo da perdere! Ciò significava che era necessario di far
tosto l'amputazione, quell'orribile, quell'abbominevole amputazione!
E mi si chiamava ad assistere a tanto strazio, si voleva ch'io fossi
presente mentre si storpiava mio figlio!

Non c'era tempo da perdere! E intanto io avevo fatto perdere due giorni
con la mia gita a Roma, e ne facevo perdere un terzo colla mancata
coincidenza di Firenze! Mi pareva di vederlo il dottor Allinori,
in camera del malato, coi suoi strumenti di tortura in mano, non
aspettando altro che la mia venuta per tagliare senza misericordia.

E se non ci fosse più tempo davvero? Se i miei indugi fossero stati
fatali? Se ormai io non avessi che da veder morire Giovannino? Volli
persuadermi di nuovo che era meglio vederlo morto che storpio, ma non
ci riuscii. Anzi mi adirai meco stesso per le mie esitanze passate e
dicevo:

— Sì, sì, lascerò che gli facciano l'amputazione, lascerò che gli
facciano tutto quello che vogliono pur che me lo salvino.

Viaggiai in uno stato d'inquietudine, d'ansietà ch'è facile immaginare.
Alla stazione non c'era nessuno; infatti non si sapeva con che corsa
sarei arrivato.

Giunto a casa, salii le scale in un lampo. Adele m'aveva sentito e
m'era venuta incontro sul pianerottolo. Il suo aspetto mi fece paura,
ella era bianca come un cencio lavato.

— Ebbene? — chiesi con voce soffocata.

— Ora dorme. Speriamo.... Entra.... Dio, povero Roberto, come hai la
cera scomposta!

— E tu Adele, se ti guardassi nello specchio.... Ma cos'è nato? Dimmi
tutto.

— Adesso; vieni dentro.

Mi lasciai condurre macchinalmente in salotto da pranzo.

— Avrai fame, — osservò l'Adele andando verso la credenza.

— No, non ho fame, non ho nulla. Voglio saper la verità vera su
Giovannino. Dov'è il dottore Allinori?

— È partito.

— Come partito? Bisogna richiamarlo subito. Non c'è tempo da perdere,
me l'hai telegrafato tu stessa.... Non mi oppongo più, sai, non mi
oppongo più all'amputazione....

— Ah no! — ella esclamò con un accento di gioia che mi parve molto
singolare, in quell'istante, alla vigilia d'una prova così terribile.

— Ma facciamo presto, — soggiunsi. — Voglia il cielo che non si sia
aspettato anche troppo.

— Roberto, — ripigliò l'Adele afferrandomi tutte due le mani, — tu mi
perdonerai dunque?

— Perdonarti? Perdonarti che? Parla per amor del cielo.... C'è qualche
disgrazia che non osi parteciparmi?

— No, te lo giuro, disgrazie no.... Anzi....

— Sei così imbarazzata.... Oh insomma voglio veder Giovannino.

E mi svincolai a forza da lei.

— Un momento, — ella gridò. — Ascolta.

Mi trattenni sulla soglia.

— Ti telegrafai a Firenze che il dottor Allinori diceva non esserci
tempo da perdere, e, aggiungevo: _torna subito, subito, subito_.

— Sì.

— Quel telegramma non l'hai ricevuto allora?

— No. Ero partito per Roma, e lo trovai al mio ritorno, di passaggio
per Firenze.

— Esso s'è incrociato con un dispaccio tuo che mi annunziava appunto
questa partenza per Roma senz'indicarmi dove potessi farti avere mie
notizie.

— È vero; l'avevo dimenticato.

— Pensa com'io rimanessi apprendendo che, invece di tornare
immediatamente, ti allontanavi.

— È stata una fatalità.

— Il dottor Allinori aveva consentito a rimanere un giorno, ma non
più d'un giorno, perchè serii impegni lo chiamavano altrove. Poi c'era
urgenza.... le cose s'erano aggravate nella settimana.... d'ora in ora
poteva formarsi la cancrena.

Io cominciavo a presentire il vero, ma non avevo forza di articolare
una parola. Ero tutt'orecchi, respiravo appena.

Mia moglie continuò:

— Mi si disse: signora Adele, si sente in grado di prender sopra di sè
una grande responsabilità?

— Dio! Credo d'aver capito.

— Ma me lo salveranno? — io gridai. — E i medici tutti e tre d'accordo:
Sì, glielo salveremo, vedrà. Abbia fede in noi, abbia fede nella
Provvidenza.... Se non ci lascia fare, quello è un bambino morto.
Morto! Intendi, Roberto? Morto!

— E tu?

— Io risposi: la grande responsabilità me l'assumo. Facciano.... Ti
vien male, Roberto?

— No. Continua.... L'amputazione?

— Fu eseguita or sono due giorni.

L'Adele era ritta davanti una seggiola tenendosi forte alla spalliera.
Io mi copersi il viso con le mani ed esclamai:

— Povero il mio Giovannino! Povera creatura! E ha potuto resistere?

— Gli si fece respirare il cloroformio. Egli mi guardò co' suoi begli
occhi pieni d'affetto e di sgomento, e mi disse: «Mamma, cos'è questo?
No, mamma, no.» Scosse il capo due volte, alzò la mano come chi vuol
scacciar via un insetto molesto, e poi cadde in un letargo. Allora....

— Oh taci. Eri presente?

— Volevano mandarmi in un'altra camera. Figurati se ci sono andata.
Rimasi là sino alla fine, pochi minuti, un secolo, non so.... Vidi
tutto, sentii tutto.... oh il suono stridulo di quella sega l'ho
qui nell'anima.... quel sangue lo vedrò scorrer sempre, sempre.... E
quando l'operazione fu terminata, e quella povera gamba che aveva tanto
patito fu gettata in un angolo come un inutile arnese, oh te lo giuro,
credetti che la mia forza d'animo m'abbandonasse e fui lì lì per cadere
come corpo morto. Ma mi sostenne un pensiero. Giovannino era assopito;
bisognava farlo rinvenire. Non dovevo esserci io, la sua mamma? Ce
ne volle a svegliarlo, sai. Due volte i medici si guardarono muti;
io guardavo loro; che momenti! che spasimo! Alla fine il bimbo mosse
un poco le braccia, aperse a fatica gli occhi e mi cercò, oh mi cercò
subito. «Mamma, non voglio più quel cattivo odore.»

— Ma alla gamba non si sentiva uno strazio?

— No.... allora no.... Più tardi....

— Oh basta, basta....

E mi misi a piangere come un fanciullo.

— Adesso, — ella soggiunse per consolarmi, — egli non sente quasi più
dolore; s'è rassegnato alla perdita della sua gamba; dice: «Brutta
gamba, han fatto bene a buttarti via.»

Io seguitavo a piangere.

— Proprio non mi perdoni? — ella riprese timidamente.

— Perdonarti? — io proruppi. — Perdonare io a te?... Sei tu che devi
perdonarmi, Adele....

E avrei continuato. Ma ella m'impose silenzio.

— Non una parola di più, Roberto, non una parola, per carità.... almeno
finchè Giovannino non sia fuori di pericolo.... Sei convinto che ho
agito pel meglio e mi basta. Qualunque cosa tu soggiungessi, mi sarebbe
oggi di cattivo augurio.

— E questo pericolo fino a quando durerà?

— Altri otto, altri dieci giorni, non si può dire con precisione. S'è
avuta tanta pazienza, abbiamone ancora.

                             . . . . . . .

Gli otto, i dieci giorni passarono, non senza che di tratto in tratto
Giovannino ci desse qualche ragione d'inquietudine e mettesse in
pensiero i medici. Ma, in capo a due settimane, ogni traccia di febbre
svanì, e il sedicesimo giorno, un mercoledì, oh me lo ricorderò sempre,
il dottor Allinori, che era venuto a visitare il suo piccolo malato,
strinse la mano a mia moglie in aria di trionfo, esclamando:

— Non glielo avevo detto, signora Adele, che lo avremmo salvato? Metta
dunque il suo cuore in pace dopo tante burrasche; il suo Giovannino
è salvo. Pur troppo egli crescerà senza una gamba, ma crescerà sano
e diverrà un bel ragazzo ugualmente. — Quindi, indirizzandosi a me,
soggiunse, da quell'uomo franco ch'egli era: — E lei, ringrazi sua
moglie; senza la signora Adele, il fanciullo sarebbe morto da un pezzo.

Io n'ero tanto convinto che mi voltai verso l'Adele dispostissimo a
gettarmele ai piedi. Dovetti invece correre a sostenerla. Le sue forze
che avevano così mirabilmente resistito al dolore, sembravano non saper
resistere alla gioia. Alle parole del medico, ella era divenuta prima
rossa, poi bianca come la cera: s'era sforzata di sorridere, di dir
qualche cosa, ma invano. Fu allora che, sentendosi mancare il terreno,
ella cercò un appoggio, e sarebbe caduta s'io non fossi stato pronto a
sorreggerla.

— Non sarà nulla, sarà la commozione, — disse il dottore, facendole,
fiutare una boccetta d'ammoniaca.

Ella si risentì, si passò la mano sulla fronte e susurrò con un filo di
voce. — È una cosa del momento.... Ma son così debole, così stanca....
Andrei a letto.... Non c'è Norina?

— La chiameremo, ma intanto son qua io.

E la condussi quasi di peso nella sua camera, ove non c'era che un
letto, ove da quattro anni ella dormiva sola come una fanciulla, come
una vedova, peggio ancora, come una ripudiata. La spogliai con l'aiuto
della Norina, e coricata che fu, le rassettai io stesso le coltri
intorno alla persona, e sedetti accanto al suo capezzale.

— Veglierò io, — dissi alla cameriera, — andatevene pure.

Vegliai tutta la notte, pensando a Giovannino ch'era guarito,
ahimè, a qual prezzo! all'Adele che stava forse per ammalarsi, ma
sopratutto pensando alle colpe enormi che avevo sulla coscienza, e
all'impossibilità di espiarle.

Io aveva potuto disprezzar l'Adele, aveva potuto preferirle delle donne
da trivio, avevo potuto proporle una separazione!

Ella aveva finito col prender sonno; il suo respiro, affannoso sul
principio, s'era fatto a poco a poco calmo e regolare: l'espressione
della sua fisonomia era tranquilla; eppure io ero tanto inquieto!
Ogni dieci minuti m'alzavo dalla sedia e andavo e guardar l'orologio
dell'Adele ch'era posato sul cassettone vicino al lume da notte, e il
suo uniforme _tic tac_, non so perchè, mi riempiva di tristezza. _Tic
tac_, _tic tac_. I secondi succedevano ai secondi, ma le pulsazioni nel
mio cuore eran molto più rapide!

Era strano. Non mi pareva d'esser degno di trovarmi a quell'ora nella
camera di mia moglie, che era pur stata la mia camera nuziale, ma
ch'io avevo stolidamente abbandonata. Quel profumo di donna onesta che
spirava intorno m'involgeva tutto, mi penetrava per tutti i pori. Io
carezzavo con la mano il semplice vestito dell'Adele gettato attraverso
la spalliera d'una poltrona, toccavo la sua biancheria raggomitolata
a' piedi del letto e involontariamente il mio pensiero correva ad
altre alcove men pure, piene di una luce insidiosa, piene d'odori
acuti, inebbrianti, sotto i quali s'indovinava però l'aria putrida
e malsana. Vedevo agitarmisi davanti agli occhi le turpi visioni di
nudità procaci, di veli ingialliti dai vapori della bettola, d'abiti
dissimulanti le rattoppature sotto i lustrini, e mi vergognavo all'idea
d'essermi ravvoltato in quella sozzura, io, marito, io, padre! La mia
donna, la madre del mio bambino era lì, ma non avrei osato d'alzare
un lembo delle sue coperte, non avrei osato deporre un bacio sulle
sue labbra, più caste di quelle d'una vergine. Le ero vicino perchè la
credevo malata; ma ella avrebbe potuto, svegliandosi, cacciarmi via e
dirmi: Che libertà ti prendi? che fai, di notte, accanto al mio letto?

L'alba cominciava a penetrar nella camera attraverso le imposte
socchiuse, e affacciandosi alla finestra si vedeva l'orizzonte listarsi
di rosa. Un po' prima delle sei, l'Adele si mosse, aperse gli occhi e
scorgendomi ritto al suo capezzale, diede un sobbalzo. — Tu, Roberto.
Che ora è?

— Son quasi le sei.

— Ti sei alzato così presto?... Giovannino forse non istà bene?

— Giovannino ha sempre dormito, Giovannino dorme sempre come un angelo,
— io risposi accostando l'orecchio all'uscio della camera attigua ove
c'era il fanciullo con la bambinaja.

— E allora, — ella soggiunse cercando di raccapezzarsi, — non
capisco.... Perchè sei qui?

— Ma tu come stai? — io chiesi.

— Oh.... Adesso mi ricordo.... Jersera debbo aver avuto un capogiro....
Ormai è passato.... Era una cosa da nulla.... Non c'era ragione che tu
ti alzassi prima di giorno.

— Non mi sono alzato, — dissi timidamente,

— Com'è? dov'eri? Eri uscito di casa?

— Ero.... qui.

— Sei rimasto qui tutta la notte?

Non risposi nulla, ma il mio silenzio valeva quanto una risposta
affermativa.

— Oh.... Roberto! — ella esclamò. — E mi fissò in viso i suoi belli
occhi inteneriti.

Non ne potei più e mi gettai in ginocchioni appiedi del letto e,
rompendo in singhiozzi, dissi tutto quello che mi stava sull'anima da
tanto tempo. Le parole non me le rammento; so che non mi risparmiai
nessun'accusa, che non tacqui nessuna bruttura della mia vita. E davo
all'Adele i titoli più dolci: la chiamavo angelica, santa, divina, la
dicevo salvatrice di nostro figlio, degna d'un uomo che avesse saputo
comprenderla mentre io....

Ella faceva di tutto per calmarmi.

— No, Roberto, non è vero, ho avute le mie colpe anch'io; ero fredda,
ero sprezzante, mi pareva di abbassarmi a confessarti il bene che ti
volevo.... la disgrazia del nostro Giovannino ci avrà corretti tutti e
due.... Ci ameremo di più e in questo amore intenso cercheremo tutti e
due l'espiazione dei nostri peccati....

L'Adele parlava de' suoi peccati!

— Non mi respingi dunque? — io insistevo. — Non la esigi tu stessa la
separazione...?

Ella non mi lasciò finire la frase. Chinandosi con mezza la persona
dalla sponda del letto, mi cinse il collo con le sue morbide braccia;
i suoi lunghi e folti capelli, sprigionatisi dalla cuffia che li teneva
stretti, scesero a lambirmi le spalle, le sue lagrime si confusero con
le mie, mentr'ella ripeteva con voce commossa:

— Povero Roberto, hai patito tanto anche tu in questi mesi!

I primi raggi del sole tremolavano sulla parete, una luce allegra
innondava la stanza; di fuori gli uccelletti salutavano la primavera.
E la primavera esultava nel mio cuore.

                                   *
                                  * *

Son passati da quella mattina degli anni parecchi. Giovannino porta
con disinvoltura la sua gamba di legno; è di statura piuttosto alta,
di viso bellissimo, di umore uguale e sereno, è buono, è intelligente,
è studioso. Alla scuola lo proclamano sempre il primo della classe; i
suoi condiscepoli lo adorano, i suoi professori lo amano e lo stimano
ed egli dice con un po' di baldanza: — Posso far quel che voglio,
fuorchè il militare. — È l'unica allusione ch'egli faccia alla sua
disgrazia.

Giovannino ha dei fratelli minori, vispi, sani, con tutte le loro
membra intatte, e si può credere se l'Adele e io abbiamo cara
quest'allegra nidiata di bimbi ch'è la miglior prova della nostra
riconciliazione. Eppure, quando sentiamo batter sul pavimento la
gamba di Giovannino, c'invade una tenerezza più profonda, una corrente
elettrica passa attraverso di noi e ci ravvicina. Noi ci sforziamo di
non mostrar nessuna preferenza, ma Arturo, ch'è il più malizioso dei
nostri figliuoli, dice qualche volta: — Oh se parla Giovannino, gli si
dà sempre ragione.

Il nostro primogenito ricambia liberalmente l'immenso affetto de' suoi
genitori. Forse egli predilige un poco sua madre. E come potrebb'essere
altrimenti? Le impressioni della prima infanzia non si scancellano;
sua madre lo adorava quand'io affettavo verso di lui una indifferenza
superba; e nella sua lunga infermità, chi lo assistette, chi vegliò al
suo letto, chi seppe sorridergli, pur avendo la morte nell'anima?

Cinta da un ambiente di simpatia, l'Adele ha smesso l'eccessivo
riserbo che la faceva apparir fredda e insignificante. Non v'ha nessuno
ormai che non pregi la rettitudine e la sicurezza del suo criterio,
e quando in casa mia si raccolgono alcuni amici fidati, è invalsa
la consuetudine di lasciare a lei l'ultima parola in quasi tutte le
discussioni. E la sua parola è sempre così temperata, così giusta!

Io ho trentacinque anni; ella ne ha trentadue, e ci amiamo come due
sposi novelli, anzi nel caso nostro, ben più che quando eravamo sposi
novelli. E dire che fummo in procinto di separarci! Ah! Giovannino non
saprà mai che miracoli la sua gamba abbia fatto.



IL FRATELLO DEL GRAND'UOMO


Il signor Isidoro non è un grand'uomo, proprio no. Nessuno tra' suoi
intimi amici ha mai arrischiato una proposizione così temeraria,
nessuno tra' suoi conoscenti ha mai avuto il più lontano sospetto
d'una cosa simile. Ma se il signor Isidoro non è un grand'uomo, egli è
fratello di un grande uomo, e questa fortunata combinazione lo toglie
alla sua oscurità. Il commendatore senatore Filiberto, fratello del
signor Isidoro, è uno tra i personaggi più imbottiti di titoli che
vi siano in Italia, e bisogna confessare che questi titoli egli non
li deve alla fortuna, ma al merito. S'egli è oggi un pezzo grosso,
è divenuto tale a forza d'ingegno, di studio e di perseveranza, e
anche riconoscendogli i suoi difettucci conviene fargli di cappello
e dire che egli è figlio delle sue opere. I suoi lavori scientifici
gli apersero le porte delle principali accademie, la sua eloquenza gli
aperse la carriera politica ov'era destinato a salire ai primi posti,
gli eccelsi servigi resi al paese fregiarono il suo petto di croci.

Se il signor Isidoro non fosse stato fratello di un commendatore e
senatore, egli sarebbe cresciuto tranquillamente in mezzo alle cassette
di petrolio, ai barili di acciughe e alle botti di zucchero della sua
casa Claudio Ferrarecci e figli, negozianti in più rami, casa fondata
dal nonno suo, il signor Claudio, e continuata sotto la medesima
ragione dai discendenti di costui. Tutt'al più il signor Isidoro
avrebbe obbedito alla sua naturale inclinazione pavoneggiandosi dinanzi
ai suoi avventori e trinciando giudizi sulle cose del giorno nella
cameretta blù del caffè al _Mercurio Risorto_, ordinario convegno dei
più cospicui rappresentanti del commercio locale.

Ma il signor Isidoro è fratello di un grande uomo, e ciò gli impone
obblighi speciali e lo sforza a sollevarsi sopra le cassette di
petrolio, i barili di acciughe e le botti di zucchero, e a tener
d'occhio la situazione.

Sarebbe errore gravissimo il credere che il periodo più brillante
dell'anno sia pel signor Isidoro quello in cui suo fratello viene a
riposarsi in grembo della famiglia. Certo, in siffatte occasioni,
il signor Isidoro si tiene stretto quanto più può ai panni del
commendatore e senatore, e allorchè gli è a fianco saluta gli amici con
un benevolo cenno della mano e con un sorrisetto di superiorità. Certo,
in quell'epoca meglio che mai, egli può allargare la cerchia delle sue
conoscenze, perchè il commendatore Filiberto incontra naturalmente per
via molte persone autorevoli; e l'altro, se non è ancora in relazione
con esse, tanto si agita, si dimena, si raschia, si soffia il naso, da
attrarre la loro attenzione e da costringere il commendatore ad aprire
una proposizione incidente e a dire a bocca stretta: _Mio fratello_. Il
signor Isidoro s'inchina, ammiccando con l'occhio, come a significare:
Egli è celebre, io no, perchè non ho voluto.

Soddisfazioni magre. In complesso, quando c'è il commendatore senatore,
il nostro signor Isidoro è sacrificato, è schiacciato. Tutta la luce
si concentra sul grand'uomo e a lui ne resta pochina davvero. Poi gli
tocca tacere, e che supplizio è per lui! Poi gli tocca assentire ogni
volta che il fratello parla, e anche questo gli pesa, perchè nel resto
dell'anno egli dice sempre: Io sono indipendente.

Senza contare un'umiliazione più grossa. Talora, anche in mezzo della
strada, il commendatore Filiberto, volendo conferire con qualcheduno,
lo manda via senza tanti preamboli, e il signor Isidoro dopo uno
di questi brutti congedi si trova assai sbilanciato. Qualcheduno,
vedendolo, gli chiede maliziosamente: — E vostro fratello? — Avevo un
affare e ho dovuto lasciarlo — egli risponde scambiando le parti. Ma la
bugia gli lega la lingua, ed egli incespica, diventa rosso e coglie il
primo pretesto per svignarsela.

È ben altra cosa quando il commendatore Filiberto è alla capitale.
Allora il signor Isidoro diventa il legittimo rappresentante del
grand'uomo, allora porta le ambasciate di lui a Caio ed a Tizio, ha
ingresso libero dal prefetto, dal sindaco, dai giornalisti. E coi
cittadini autorevoli per posizione o per influenza ama mostrarsi in
pubblico, e li visita in teatro, e delizia della sua conversazione le
loro consorti, nè abbandona il palco finchè non ha potuto in un modo o
nell'altro affacciarsi al parapetto ed esser ben sicuro che trenta o
quaranta individui almeno l'han visto. Le signore arricciano il naso
e non nascondono la loro noia ai rispettivi mariti, ma i rispettivi
mariti sono uomini pubblici, e il signor Isidoro è fratello di un
uomo pubblico, di un uomo grande, influente, che ha lo zampino nei
ministeri, ch'è un po' ombroso e con cui non bisogna guastarsi.

— Bella seccatura questi uomini grandi! — dice la consorte del sindaco,
che ha la lingua lunga.

La _prefettessa_, più prudente, si guarda attorno e soggiunge a bassa
voce. — Io li venero e li rispetto, ma vorrei che fossero figli unici.

Del resto, il commendator Filiberto non tien mica in gran conto il
fratello e non gli affida mai uffizi i quali richiedano un singolare
acume d'ingegno. L'indole degli incarichi è, su per giù, la seguente:
consegnare in proprie mani una lettera chiusa, annunziare che il
commendatore arriverà in tal giorno alla tale ora, e fissare un
abboccamento, portare qualche rettifica alla redazione di un giornale.
Ma il signor Isidoro attraversa la città come una nube grave di fulmini
e sa dare a ogni inezia le apparenze di affari di stato.

— Novità? — gli si chiede per via vedendolo così misterioso e impettito.

— Ma!... Io non so nulla.

— Queste elezioni, eh?

— Chi può farsi un criterio?... C'è una confusione....

— Confusione grande, non è vero?

— Altro!... Vengo via adesso dal Prefetto dopo una conferenza di un'ora.

— Nespole! Di un'ora?

— Sì... Oh!... Chiacchiere!... Quel benedetto uomo non mi lascerebbe
mai andarmene pei fatti miei.... Io gli dico sempre: _Tu_ sei un
individuo meraviglioso, lavori tanto e trovi anche tempo da far queste
lunghe cicalate.

Scopo del signor Isidoro, come si capisce, è quello d'incastonare
nel discorso il pronome personale _tu_, a testimonianza della sua
dimestichezza col Prefetto.

Pur si vorrebbe ricondurre la conversazione sul primo terreno. —
Dunque, di queste elezioni, che dice il signor Prefetto?

— Uhm!... Sa... dice e non dice....

— Capisco.... Lei non vuol parlare....

— Oh non creda! — interpone il signor Isidoro facendo il bocchino da
ridere. E si accommiata lietissimo di lasciare nel suo interlocutore la
convinzione ch'egli sappia molte cose, ma _non voglia parlare_.

Talvolta lo si ferma per domandargli notizie del grand'uomo.

— E il commendatore sta bene?

— Bene, grazie.

— E non lo si vedrà per ora da queste parti?

Il signor Isidoro piega la testa da un lato, la sprofonda nella spalla,
alza le due mani fino all'altezza delle orecchie, e tenendole aperte
con le palme in fuori dice: — Mah!

— Potrebbe farmi il piacere, — prosegue timidamente l'altro
guardandosi le punte delle dita — di fargli pervenire una lettera?...
A mandargliela sciolta.... m'intende già.... uomini come il suo
signor fratello ne ricevono ogni giorno a dozzine, e molte vanno a
finire nella paniera.... Invece per mezzo d'un fratello che gode....
meritamente.... di tanta influenza.... è un'altra cosa.

Il signor Isidoro fa il prezioso, solleva dubbi, scrupoli, obbiezioni,
ma finisce col lasciarsi persuadere, e conclude: — Insomma, mi mandi la
lettera.... Vede, se ho fatto difficoltà non è per la cosa in sè.... ma
pare che si voglia esercitare pressione....

— Dio guardi....

— E io invece non ho mai voluto ingerirmi in nulla.... Non ho voluto
favori, nè onorificenze....

— Se avesse voluto....

— Non dico questo.... ma infine.... Gli è che io preferisco
l'oscurità.... Basta, siamo intesi....

Detto ciò, il signor Isidoro si allontana pomposamente, superbo di
vedere sollecitata la sua protezione.

Il signor Isidoro legge dalla prima all'ultima riga i discorsi che suo
fratello pronuncia in Senato, legge i fogli politici tanto ministeriali
che di opposizione, e se in questi ultimi vede qualche volta tartassato
il grand'uomo, spiega una temperanza, un'equanimità da lasciare
edificato l'uditorio.

— Io non appartengo a nessun partito.... io sono indipendente.... non
guardo in viso a nessuno, io.... Mio fratello è una bravissima persona,
ma anch'egli i suoi errori li avrà commessi.... Io non ho certo tutte
le sue opinioni, nemmen per idea, e posso dire che nelle occasioni
gli ho detto l'animo mio, e in qualche caso egli non ebbe a dolersi di
avermi abbadato.... Non lo dico già per vantarmi.... Tutto dipende dal
non essere uomo di partito....

— Sicuro; il partito rovina tutto, — osservano, sorseggiando il caffè
i sapientoni del _Mercurio Risorto_.

Durante un cosidetto rimpasto ministeriale si diffuse la voce che
il commendatore Filiberto potesse esser chiamato a formar parte del
Gabinetto. Bisognava vedere il signor Isidoro in quei giorni. Che
maestà olimpica nella sua persona, che gravità piena di significato
nelle sue frasi, che eloquenza nei suoi saluti e nelle sue strette di
mano!

Gli adoratori del sole che sorge gli si affollavano intorno più
ossequiosi che mai, serii s'egli era serio, faceti s'egli era faceto,
sollecitanti il suo patrocinio con lo sguardo e con le parole.

— Chiacchiere dei giornali, — diceva l'egregio uomo, — tutte
chiacchiere.... Non c'è nulla di positivo.... Mio fratello non si è
ancora deciso.... Ha scritto anche a me per domandare il mio parere....
Io sono franco.... l'ho sconsigliato....

— Oh.... questo poi....

— Ma, caro signor Isidoro....

— Sì, sì.... Il potere?.. Brighe, fastidi.... niente altro.... Esser
servi di tutti, avere una folla di nemici, vedersi messi in berlina
per le gazzette, ecco ciò che significa stare in certi posti.... Meglio
l'essere oscuri, mille volte meglio.... Almeno io la ho sempre pensata
così.

Ma mentre parlava in pubblico su questo tuono, il signor Isidoro
scriveva due volte al giorno al senatore commendatore per eccitarlo
a romper gli indugi, ad accettare il portafoglio, a dar questo nuovo
lustro al nome dei Ferrarecci.

La combinazione ministeriale in cui doveva entrare il commendatore
Filiberto andò fallita, e svanirono con essa le splendide prospettive
del signor Isidoro. Egli cercava di fare il disinvolto e diceva: —
Meglio così.... L'avevo sconsigliato anch'io....

Quindi riscaldandosi da sè, come avviene sovente, egli si scagliava
contro la politica. — Io predico sempre a mio fratello che si
ritiri, che di gloria ne ha ormai abbastanza, che avrebbe diritto
di riposarsi.... Tanto e tanto nessuno gli è grato perchè si ammazza
lavorando da mattina a sera.

Però quando un giorno un suo conoscente gli fece la burletta di dirgli
a bruciapelo: — Mi assicurano di aver letto in un giornale che tuo
fratello rinuncia a tutti i suoi uffici e rientra nella vita privata,
— il signor Isidoro divenne bianco come un cencio lavato, corse prima
a casa a veder se ci fossero lettere del commendatore, poi al caffè a
leggere i fogli e non ebbe pace finchè non acquistò la certezza che in
quella notizia non c'era ombra di vero.

Eppure, alla stretta dei conti, che cosa ci guadagna il signor Isidoro
dalla posizione di suo fratello, se in tanti anni non è stato fatto
nemmeno cavaliere della Corona d'Italia? Non inarchi le ciglia, gentile
lettrice; pare impossibile, ma è così. Il commendatore Filiberto,
scrupoloso com'è, vedrebbe malvolentieri accordato a un membro della
sua famiglia uno speciale favore che si potesse ritenere attribuibile
all'influenza di lui. Meglio quindi non recargli questo dispiacere,
perchè se il dare una croce costa poco, il non darla costa ancora meno.

Infine, siam giusti, il signor Isidoro è persona discreta. Gli
basta farsi credere depositario di segreti che non ha, stromento di
concessioni che non può ottenere, gli basta sopratutto poter seccare il
prossimo all'ombra della riputazione fraterna. E in quest'ultimo punto
egli riesce a maraviglia, ve lo assicuro. Ci riesce quando vi trova
per la strada e quando viene a visitarvi a casa, ci riesce quando vi
dice le sue opinioni e quando vi domanda le vostre, ci riesce quando è
loquace e quando è taciturno, quando parla grave e quando vuol essere
arguto, quando è lusinghiero e quando è accigliato. Dio buono! Ho paura
che ci riesca anche quando inspira le pagine d'uno scrittore. Signora
lettrice, se si è annoiata davvero, non se la pigli meco, ma ne dia
la colpa a _lui_, al fratello del grand'uomo. Egli ha tanti di questi
peccatacci sulla coscienza che si può affibbiargliene un altro senza
rimorso.



IL COLPO DI STATO DI CLARINA


Quando Clarina se ne avvide, cominciò coll'esserne stupita, poi gliene
dispiacque, e finalmente, a forza di pensarvi, giudicò che la cosa era
naturalissima, che doveva farsi, e doveva farsi anzi per mezzo suo.

— Se ne avvide? E di che? E che modo di raccontare è questo?

Il lettore ha ragione. Mi pento, e comincio secondo le regole....

                             . . . . . . .

Il salotto da pranzo non è nè troppo grande, nè troppo piccolo, è
ammobiliato senza lusso, ma con discreta eleganza: un lume a petrolio
in mezzo alla tavola vi spande un sufficiente chiarore.

Regna un silenzio profondo, interrotto soltanto dal crepitar della
fiamma nel camminetto. In una poltrona vicina alla tavola è sdraiato il
signor Emilio bell'uomo che a vederlo non mostra più di quarant'anni,
sebbene abbia già qualche capello grigio in testa, e qualche piega
un po' risentita sulla fronte. Del resto, ha fisonomia, oltre che
simpatica, intelligente e leale. Tiene, in bocca il sigaro, in mano una
gazzetta, ma nè fuma, nè legge.... il _rêve_, come dicono i Francesi, o
_el fila caligo_, come si dice espressivamente in Venezia. Dirimpetto
a lui, e fissandolo ad ogni tratto senza lasciarsi scorgere, è seduta
la Clarina, avvenente ragazza sui diciotto, seppure li ha, con occhi
pieni a un tempo di vivacità e di dolcezza, labbretti di rosa fatti
apposta per sorridere e per dare e ricever baci, e folti capelli
di color castagno, colore che dai poeti (ad eccezione dell'Aleardi
nell'_Ora della mia giovinezza_) non si vuol celebrare, ma che
incornicia in guisa mirabile un leggiadro visino. È pallida alquanto,
ma non datevi pensiero, io non ho punto intenzione di farvela morir
tisica, e se fu malata, oggi sta perfettamente. Infine, ho l'onore di
presentarvi l'Angelica, zitellona che ha compito ormai i nove lustri,
che tiene il _quid medium_ tra la cameriera e la dama di compagnia,
che ha visto nascere la Clarina e morir la povera mamma di lei, e che è
trattata a buon dritto come un membro della famiglia. Oltre all'affetto
sviscerato pe' suoi padroni, l'Angelica va distinta per tre qualità;
un abborrimento smisurato pel matrimonio, una tenerezza grandissima
per un pingue gatto soriano che porta il nome singolare di Artaserse
(nome impostogli dalla padroncina in un momento di fervore per la
storia di Persia) e un'abitudine inveterata di dormire tutte le sere
d'inverno dalle sette alle otto col sullodato animale sulle ginocchia
nella stanza ove stanno Clarina e suo padre, a cui l'Angelica dice di
voler tener compagnia. Altro che compagnia! Ella dorme come un serpente
boa dopo che si è ben pasciuto. In questo momento però ella è tuttora
svegliata, quantunque il capo cominci a divenirle grave, e il silenzio,
in lei inusato, accenni all'approssimarsi di Morfeo. Il gatto Artaserse
con occhi semichiusi le sonnecchia in grembo, e solo di quando in
quando mette fuori la lingua a leccarsi i baffi, umidi ancora di
qualche ghiotto manicaretto; le corse precipitose e un miagolio erotico
di altri gatti sul tetto delle case vicine rompono la quiete della
stanza. L'Angelica dà un balzo sulla sedia con notevole incomodo del
tranquillo Artaserse il quale si sente minacciato nella sua posizione.
Nondimeno la bestia, se oso chiamar così un quadrupede tanto stimato,
ritrova presto il suo centro di gravità, e l'Angelica cacciandogli la
mano entro il morbido pelo e carezzandogli il muso con quell'espansione
che non volle usare con nessun uomo al mondo, esclama: — Beato te,
Artaserse, che non hai di queste seccature! — Il ben pasciuto animale
non si preoccupa dell'allusione offensiva, ma torna a socchiudere
gli occhi, e a russare. Il signor Emilio sorride fuggevolmente, e la
fanciulla dà una scrollatina di spalle.

Suonano le sette all'orologio dell'andito. È l'ora in cui l'Angelica e
il suo micio sogliono addormentarsi davvero, è l'ora delle confidenze
tra padre e figliuola.

Ma stasera le labbra di entrambi sono suggellate. _Tic tac_, _tic tac_;
battono i secondi, passano i minuti, le ultime bragie scoppiettano nel
camminetto, i due dormienti empiono la stanza del loro grave respiro,
ma la Clarina ed il signor Emilio non dicono una parola.

Finalmente Clarina si alza dal suo posto, comincia col dare
un'occhiatina al termometro appeso alla parete vicino alla credenza,
poi fa un rapido cambiamento di fronte, e sfiorando appena il tappeto
co' suoi piedini leggieri, va a sedersi accanto al signor Emilio, gli
mette un braccio intorno al collo, gli leva di bocca il sigaro e di
mano il giornale e bisbiglia: — Babbo.

Egli alza su lei il viso atteggiato a infinita dolcezza, le ravvia con
la mano i bruni capelli sulla fronte, e dice: — Clarina mia, ti senti
proprio bene stasera?

— Come un pesce. O perchè sono un po' pallida mi crederesti ancora
malata?

— Dunque non c'è proprio più nulla, nulla?

— Ma nulla affatto. Vuoi vedermi ballare?

— Eppure, via, non me lo nascondere, non sei del tuo umore consueto.

— Oh bella! A vederti così serio gli è naturale. Me ne sono accorta,
sai....

— Di che? — interruppe il signor Emilio, arrossendo subitamente.

— Del tuo cangiamento d'umore, — rispose Clarina, facendosi rossa alla
sua volta.

— Ah!... — esclamò egli, come se fosse sollevato d'un peso. —
T'inganni, Clarina.

— No, babbo, è così.... Oh ma io non sono indiscreta; so che non ami
di essere interrogato su questo proposito, e mi taccio.... È un tuo
difetto, ma ci vuol pazienza. Del resto, è vero, non son ilare nemmeno
io... Penso....

— A che cosa?...

— Non saprei spiegarlo, è una folla di pensieri che mi si accumulano in
mente.... Ma, prima di tutto, penso ad _una_ che non ho conosciuta....

— A tua madre, povera Clarina?

— Sì, babbo, e quando rifletto che sei rimasto così solo....

— Solo, bimba mia? Non ci fosti sempre tu?

— Oh è un'altra cosa, — mormorò la fanciulla, chinando gli occhi a
terra, e mettendosi un dito sul labbro. — Chi sa ch'io non sia invece
un inciampo?...

— Clarina, — proruppe con accento severo il signor Emilio, — t'ho io
mai dato il diritto di parlarmi così? Vaneggi forse stasera?

— Babbo, babbo, non prendere in mala parte le mie parole, — disse
supplichevole la vezzosa giovinetta, chiudendogli la bocca con un bel
bacio. — Credimi, ho tanti peccati verso di te.... Voglio dire.... ma
mi lasci proprio cominciar da principio?

— Su, parla, la singolare fanciulla che sei.

— Son quindic'anni e più, non è vero? da _quella sera_? La povera
mamma così bella, e buona, e giovine, domandava di me. — _La Clarina
dorme_, — le dissero. Ella sorrise con mestizia, susurrò a fior di
labbra: — _Or ora dormirò anch'io_, — si volse dolcemente sul fianco,
portò la mano sotto il capo, e si addormentò.... per sempre.... Nella
stanza contigua, pargoletta di due anni e mezzo, dormivo io pure, ma
d'un sonno diverso.... Ero io pure piegata da un lato, avevo io pure
la mano sotto la testa, precisamente come _lei_.... Me lo disse tante
volte l'Angelica.... Tu, poichè tentasti invano di rianimar co' tuoi
baci quella tua cara, ti trascinasti fino alla mia cameretta, e là,
abbandonata la persona sopra una sedia vicino al mio letticciuolo,
posasti il capo stanco sulla mia coltrice, cercando nelle linee del
mio viso le sembianze della povera estinta, e sentendo nel mio respiro
un alito della sua vita. L'Angelica, occupata in più tristi cure, non
venne mai nella stanza, tanto solitaria, tanto fievolmente rischiarata,
quanto la stanza vicina era piena di moto e di luce sinistra. L'alba,
penetrando attraverso le persiane, trovò me dormente e te vigile
accanto, e quand'io mi svegliai, fu per te il mio primo sorriso che,
subito dopo, per quel che mi assicurano, si mutò in pianto dirotto.
Vedendo poscia altri bimbi in condizioni simili, mi parve capire che
in quell'età la sventura non s'intende, ma s'indovina.... non si sa
perchè si pianga, ma si sente bisogno di piangere.... Tutti codesti
particolari io li ebbi in parte da te, in parte dall'Angelica; se non
son veri, dimmelo....

— Sono verissimi, ma non so perchè tu mi faccia questo discorso....
Sono ricordi penosi....

— Devi permettermi di parlare: ho il cuore che mi trabocca.... Quando
siamo rimasti così, tu ed io, tu avevi venticinque o ventisei anni;
t'eri ammogliato giovanissimo. Eri bello, gagliardo, intelligente,
operoso; potevi avere il mondo per te, potevi ricominciare la vita
come si ripiglia una strada un momento interrotta.... ma c'ero io, così
gracile, eppure così insuperabile intoppo...,

— Oh! Clarina....

— Si, intoppo. Perchè nessuno si frapponesse a noi due, tu hai voluto
rimanere solo, perchè io non dovessi subire le vicende di una esistenza
avventurosa, tu ti sei negato il soddisfacimento di ogni onesta
ambizione: potendo essere, pur che tu lo volessi, felice e celebre, hai
prescelto di essere derelitto ed oscuro.... Oh lo so, lo so quello che
tu vuoi dire: che il mio amore ti compensava di tante altre cose....
E fino a un certo punto lo credo anche.... ma non è tutto.... io ero
cresciuta amandoti di un amore appassionato, ma sospettoso, egoista.
Non solo credevo di poter bastare a quanto v'era d'affetto nell'anima
tua, ma mi pareva anzi che tu non avessi diritto a domandare di più;
che tu dovessi appagarti de' miei sorrisi, divertirti de' miei giuochi,
andar pazzo pe' miei capricci. Ero superba, ma ero anche gelosa di
te. I giorni che tu venivi a prendermi a scuola erano per me giorni di
festa. Quando t'inchinavi a baciarmi in presenza delle mie compagne, io
mi guardavo intorno pavoneggiandomi tutta, come se volessi dire alle
altre: — Quale è di voi che abbia un così bel babbo? — Vedi; tu hai
conservato la tua elegante persona, sei ancora un bell'uomo, non c'è
che dire (non ridere!) ma c'è qualche impertinente filo bianco nei tuoi
capelli, c'è qualche grinza sulla tua fronte. Allora, dieci, o dodici
anni fa, eri nel tuo pieno splendore....

— Oh che bimba! — disse il signor Emilio, carezzandole i capelli.

— Ma, — continuò imperturbata la Clarina, — ma se tu poi pigliavi sulle
ginocchia un'altra fanciulla, e anch'ella per quel tuo fascino arcano
ti sorrideva festosa, non ti so dire quanta stizza io provassi. Già
te ne sarai accorto, perchè io non facevo complimenti.... Un giorno
solenne per la mia vita fu quello in cui, divenuta ormai grandicella
(aveva, credo, dieci anni) potei uscire di casa attaccata al tuo
braccio. Mi conveniva stare un po' in punta di piedi, ma avrei fatto
altro che quello! Io ritengo che mi sarei fatta volentieri precedere
per le vie da un tubatore che annunziasse ai popoli la grande novella.
Ben se ne rammenta l'Angelica che sa quali esigenze io avessi in
quel dì pel vestito e l'acconciatura. A forza di star dinanzi allo
specchio mi persuasi (vedi vanità) che, se io andavo superba del mio
_cavaliere_, tu non potevi scontentarti della tua _dama_. Lungo la
strada s'incontravano signori e signore a cui tu facevi bellissime
scappellate, mentre io salutavo con un sorriso di degnazione. Mi
ricordo di aver tossito due volte passando dinanzi alla fruttaiola
che stava sull'angolo per richiamar la sua attenzione sull'importante
spettacolo. Ma la volgarissima donna occupata a smerciare un panierino
di fragole, non se ne diede nemmeno per intesa. Dopo quel giorno
io non credo d'averti lasciato tranquillo una settimana. Bisognava
far sempre quella famosa passeggiata, bisognava sempre mostrarsi al
colto pubblico. Già io non sapevo nemmeno concepire che tu potessi
desiderare un miglior trattenimento di quello del condurmi a passeggio,
e quando tu mi adducevi un'occupazione, o un impegno, io mi annuvolavo
subitamente. Era però ben altra cosa se qualche sera tu ti proponevi
di rimanere in casa a tenermi compagnia. Allora, s'era d'estate, ci
mettevamo sul bel terrazzo che dà in giardino, lì in mezzo a quelle
piante di limoni che spandono una sì grata fragranza; e, s'era
d'inverno, stavamo qui in questo salottino, proprio come adesso,
senonchè l'Angelica allora non pigliava sonno così facilmente. Ed
io t'interrogavo sul passato, e tu mi parlavi della mamma, e me la
descrivevi con tanta evidenza che mi pareva sempre d'averla dinanzi
agli occhi, bella, elegante, gioconda. E ad ogni uscio che s'apriva e
a ogni fruscìo di veste che mi feriva l'orecchio mi pareva impossibile
che non dovesse esser _lei_, proprio _lei_ che mi venisse dinanzi e
dicesse: — Son qui, Clarina. M'hai aspettata un pezzo, non è vero?
ma ormai starò sempre, sempre con te. — E così del suo soffio e della
sua immagine io avevo popolato la casa, e spesso mi faceva l'effetto
come s'ella fosse davvero con noi.... E allora m'accorsi che le mie
gelosie eran per lei, che io dovevo custodire in nome di lei le pareti
domestiche da ogni intromissione profana. Con questo pensiero mi
parve di nobilitare il mio ufficio di guardiana ombrosa ed arcigna.
L'Angelica mi secondava benissimo, e tengo per fermo che due creature
meno ospitali di noi non potessero trovarsi in tutta Italia, a cercarle
col lumicino. Non puoi immaginarti che profonda antipatia io sentissi
per quella signora Agliani che è poi andata a stabilirsi in Torino. Con
la scusa ch'eravamo condiscepole con la sua bimba, e che per cagion
nostra, vi eravate incontrati più volte alla scuola, ella t'invitò a
farle visita.... che sfacciataggine!... e poi, sempre per accompagnare
quella sua figliuola lunga e sottile come un giunco, ella veniva ogni
momento nel nostro giardino, e raccontava ch'era vedova, senz'appoggi,
col cuore vuoto, ecc., ecc. Che cosa me n'importava a me di questa
roba? Basta, babbo, purchè tu non mi sgridi, ti confesserò che un
giorno instigai l'Angelica a metterle farina invece di zucchero nella
tazza del caffè....

— Oh che sgarbata! — disse il signor Emilio tra il serio e il faceto.

— Più tardi l'Angelica mi raccontò che la signora Agliani aveva messo
gli occhi su te per farsi sposare, ma che tu non hai voluto nemmeno
pensarci per cagion mia.... Eppure, babbo, quando di fanciullina
divenni ragazza, e si svegliaron in me nuove fantasie e nuove idee,
e mi si affacciarono agli occhi i languidi barlumi d'un mondo ancora
inesplorato, e sentii l'irrequietezza dei quattordici a quindic'anni,
principiai ad accorgermi che per te dovevano esservi altri orizzonti,
altri desiderii, altre speranze. Ma il primo movimento dell'animo mio
non fu generoso: fu un accrescimento di sospetti. Mi pareva sempre che
tu dovessi dirmi da un momento all'altro: — Cara la mia Clarina, io
ti voglio un gran bene, ma tu non mi basti. — E se tu parlavi a bassa
voce con l'Angelica, e se facevi ridipinger le stanze, o ricevevi
un'ambasciata inattesa, io ero lì con tanto d'occhi e d'orecchi
nella paura di una rivelazione sgradevole. Oppure entravo nella mia
cameretta, e pensavo alla mia mamma, e piangevo....

— Sciocchina! — interruppe il signor Emilio. — Perchè immaginarti ciò
che non era? O, in ogni modo, perchè non venir franca da me, e dirmi:
— Babbo, _nessun altro_ deve entrare in casa nostra: _Clarina non lo
vuole!_

— Ah! Perchè? Perchè? Perchè in mezzo a tutto io sentivo una specie
di rimorso del mio egoismo; e avrei voluto esser più buona, più
ragionevole, più generosa.... ma non c'era caso.

— Andiamo bimba mia, datti pace, io ti voglio bene ugualmente, e se tu
mi hai preso per confessore, io ti assolvo. Ti basta?

Con queste parole, il signor Emilio diede un gran bacio a Clarina
e fece atto d'alzarsi. Ma ella premendogli la mano sulla spalla
gli impedì di muoversi dicendo.... — Chè? Chè? Siamo ancora al
principio....

— Al principio, di che cosa?

— Oh bella! del mio racconto.

— Davvero? Parla allora.

— Ti ricorderai che la mia selvatichezza aveva qualche eccezione. Due
anni fa io andavo ancora al collegio. Ero una delle alunne più grandi
e quindi più saggie, di quelle che ricevono le confidenze delle maestre
e tentano d'isolarsi dalle loro condiscepole. In quel tempo appunto si
allontanò dalla scuola per prender marito quella bella e sentimentale
signora Adelina che c'insegnava il francese e la musica. Io ero
vissuta con lei in qualche dimestichezza, e anzi ci fu un tempo ch'ella
esercitava su di me un fascino irresistibile. Non so che cosa nasca
in voi altri uomini quando siete adolescenti; so che in noi giovinette
accade spesso di provare un non so che di romantico, d'ineffabile per
qualche persona del nostro sesso che riempie alcune delle condizioni
del nostro ideale. Ci dispiace quasi di non essere uomini per poter
dirle: — Se siete malinconica, io cercherò di farvi sorridere; se siete
sola, io vi terrò compagnia; se avete bisogno d'affetti, io v'amerò;
Ecco la parola.... l'ho detta.

— Sai, Clarina, che stasera per una ragazza....

— Parlo troppo, non è vero? Me ne accorgo anch'io, ma bisogna che tu
mi lasci parlare.... Oh la signora Adelina! Con quella persona svelta,
con quegli occhi neri, grandi, soavi, con quell'aspetto così gracile,
con quel viso così pallido! Ah il pallore e la gracilità, non lo nego,
avevano gran parte nella mia simpatia. Ci sarebbe voluto poi di tratto
in tratto qualche leggero colpo di tosse, e non già una malattia di
consunzione, (Dio guardi!).... ma una lontana minaccia. Da questo lato
la signora Adelina era alquanto restìa a compiacermi, ella non aveva
mai un dolore di capo, mai un po' di languore, ed era fornita di un
grande appetito. Nondimeno, io l'ero sempre ai panni, e m'aspettavo
ogni giorno che dovesse accaderle qualche strepitosa avventura.
Perciò, in mezzo a tutta la mia ammirazione, non volevo condurla
troppo spesso a casa, parendomi che nulla dovesse resistere alla sua
virtù affascinatrice.... Fetonte non fece un maggior capitombolo di
quello che io mi facessi un giorno che la signora Adelina mi chiamò da
parte annunciandomi ch'ella voleva dirmi qualche cosa in segreto. Mi
preparai a una rivelazione straordinaria, orgogliosa fuor di misura
dell'onore di cui mi si credeva degna. Supponevo che vi sarebbero
lagrime, svenimenti e singhiozzi, e, quanto a me, ero già commossa
in anticipazione. La signora Adelina mi condusse nel salotto ove la
direttrice soleva ricevere le famiglie delle alunne, e ivi con faccia
più ilare ch'io non avrei voluto, mi disse:

— Dunque, la mia bimba, ci lasciamo.

— Oh! — fec'io con voce tremula.

— Sì, cara, io mi marito. Il mio sposo non è nè troppo giovine,
nè troppo bello, ma è benestante, ha fondi propri, ha uno stato
assicurato, e io non potevo aspettarmi meglio di così..... Che cos'hai,
Clarina?

— Nulla.... il dispiacere della vostra partenza. — balbettai confusa.

— Coraggio, coraggio! — rispos'ella ridendo — verrai a trovarmi a X....
nella nostra farmacia....

Di male in peggio. Quest'uomo nè bello, nè giovine, era anche
farmacista! E Adelina acconsentiva a sposarlo, e Adelina non si
strappava i capelli, e Adelina non isveniva nelle mie braccia!...

T'assicuro, babbo, che questo fu uno de' maggiori disinganni della mia
vita.

— Senti, Clarina, — interruppe il signor Emilio, — tu racconti le cose
con bastante buon garbo, ma io non so intendere ove tu voglia riuscire.

— Pazienza, e arriveremo. Quindici giorni dopo la partenza della
signora Adelina giunse nella scuola la istitutrice che doveva
sostituirla. Grande curiosità nelle alunne; soddisfazione poca. Già
era impossibile agguagliare la signora Adelina. La nuova venuta, la
signora Fanny, doveva essere più vicina ai trenta che ai venti, e
dicevano anzi che anche i trenta li avesse passati. Il tipo di lei
non era perfettamente italiano, e invero era nata di madre inglese.
Era piuttosto alta della persona, aveva gli occhi azzurri, e i capelli
biondi che le scendevano in lunghe anella sul collo. Questa dei capelli
era forse la sua maggior bellezza, era certo l'unica sua vanità. Il
suo volto era alquanto affilato, e aveva un fondo di malinconia: sulla
sua fronte era la traccia di molti dolori patiti, mista a un non so che
di risoluto e virile che imponeva il rispetto. Vestiva semplice, quasi
dimessa, e non mi ricordo d'aver visto mai un colore smagliante nel suo
abbigliamento. Poichè ella adempiva egregiamente all'ufficio suo, e, da
questo lato, convien dirlo senza reticenze, era di gran lunga superiore
alla signora Adelina, non tardò a conciliarsi la stima di tutta la
scuola. I suoi modi dolci, benchè un po' riservati, l'assennatezza
de' suoi discorsi da cui traspariva una cultura fuor del comune ne
facevano un perfetto contrapposto della signora Adelina così gaja, così
giovanilmente spensierata, così proclive a scherzare con noi.

Avvezza a chiedere la tua opinione su tutto, e a farne un grandissimo
conto, t'interrogai anche riguardo alla signora Fanny, dopo un primo
colloquio che tu avesti seco. Tu mi rispondesti con breviloquenza
telegrafica.

— Ti pare una signora di garbo?... io chiesi.

— Molto — fu la tua risposta.

— E bella?

— Punto.

Era quello ch'io desideravo. La signora Fanny, donna di assai garbo,
ma punto bella, poteva essere ammessa in casa nostra. Clarina decideva
così nella sua onnipotenza. E così avvenne. Siccome io lasciavo allora
la scuola, la signora Fanny avrebbe continuato a darmi lezioni di
lingua inglese e di musica. Quanto più io la conoscevo, tanto più la
compagnia di lei m'era gradita e istruttiva, e perchè tu pure avevi
agio di apprezzarla nei frequenti colloqui, una certa dimestichezza si
andò formando tra voi. Oh! Quantunque siano passati ormai tanti mesi
non dimenticherò mai una sera del penultimo autunno....

— Quale, Clarina?

— La signora Fanny veniva anche allora come viene adesso spessissimo
a visitarci verso le otto. Quella sera faceva un tempo magnifico,
spirava un'aria mite, il cielo era d'una limpidezza cristallina.
Sedemmo tutti e tre sul terrazzo. Di discorso in discorso, tu fosti
tratto a raccontare del tuo matrimonio e della tua felicità così
presto svanita. Incuorata dalla tua espansione, la signora Fanny volle
ricambiartene con uguale confidenza e ti narrò d'un suo unico amore
finito miseramente. Ella era stata più infelice di te, perchè non aveva
convissuto nemmeno un giorno con la persona diletta. Una palla a San
Martino le aveva ucciso sul colpo il fidanzato: ella non aveva potuto
nè chiudergli gli occhi, nè deporre un fiore sulla sua tomba. Era una
storia semplice come la tua: nulla di singolare, nulla di fantastico;
ma questi due dolori così schietti e sinceri che per un momento si
mischiavano insieme nello sfogo delle confidenze reciproche avevano in
sè una potenza ammaliatrice contro cui io non sapevo resistere. Mentre
voi parlavate, io piangevo in un angolo del terrazzo. Tu ti alzasti
pel primo e porgendo la mano alla signora Fanny le dicesti: — Abbiamo
tutti e due delle memorie da custodire, una specie di fuoco sacro da
alimentare: ciò forma fra noi un vincolo fraterno. — Ella non rispose
nulla, ma strinse la mano che tu le offrivi, passandosi il fazzoletto
sugli occhi. Poi si alzò anch'ella dalla sedia, venne presso di me e
mi baciò in fronte. Io le gettai le braccia al collo abbandonandole il
capo sulla spalla, e lasciai sgorgare le mie lagrime liberamente.... Tu
eri rientrato nella stanza....

Oh come io mi sentivo meglio dopo quel vostro colloquio! S'era formato
tra voi un legame che nulla turbava, che non feriva nessuna delle
mie ricordanze, che non destava nessuno dei miei timori. Il cammino
della mia vita, dal quale tu avevi con tanta sollecitudine sviato gli
ostacoli e le amarezze, mi era reso ancora più facile: io avevo un
altro braccio a cui appoggiarmi, un altro cuore in cui versare ciò che
traboccava dal mio.... Egoista! Egoista! Sciocca ed egoista!

— Perchè ti accusi in tal guisa, Clarina? Ciò che ti rese tanto felice
non esiste ancora? Non siamo sempre ottimi amici, la signora Fanny ed
io? Non ti vuol ella il bene d'una volta? E che può farti pentire se tu
cerchi in sì caste emozioni la tua felicità?

— La mia felicità? Ma sono io sola sulla terra, ma non ho obblighi che
con me stessa, ma non ho da guardar che a me sola? E tu non ci sei per
nulla nella mia vita?

— O che c'entro io in tutto ciò?

— Senti, babbo, bisogna proprio che tu non mi giudichi male da quel che
ho fatto sinora... Adesso mi son ravveduta....

— Ma tu parli per indovinelli, Clarina.

— Mi spiegherò, purchè tu mi lasci discorrere tutto d'un fiato, purchè
tu non m'interrompa, e non faccia nè _ih_, nè _oh_, nè esclamazioni di
sorta alcuna.... Tu ti ricordi benissimo il caso stragrande che si fece
da te e dall'Angelica della mia ultima malattiuccia.... Quanto a me
ritengo che non ci fosse il menomo pericolo....

— Oh ce n'era, ce n'era — uscì a dir vivamente il signor Emilio,
rannuvolandosi in viso, e stringendo a sè la ragazza come per tema di
qualche novella insidia. — Non lo disse forse anche il medico?

— Bella ragione! Ma ciò poco monta. Fatto si è che pareva non dovessero
esservi nè cure, nè riguardi sufficienti per me. E io te ne ringrazio,
sai, e ne ringrazio anche l'Angelica la quale per una figliuola non
avrebbe potuto fare di più. In quei giorni la signora Fanny veniva
spessissimo a informarsi di me, a salutarmi, e vedendo quante brighe
tu e l'Angelica vi davate per amor mio, e come vi negavate il sonno e
il riposo, s'offerse a dividere in giusta misura con voi le fatiche
e le veglie. O perchè ella cogliesse meglio nel segno, o perchè
fosse di carattere meno apprensivo, fatto si è ch'ella era molto più
tranquilla, e quindi poteva con minor dispendio di forze prestare
opera efficacissima. Ella volle rimanere parecchie notti nella mia
stanza, sempre fedele esecutrice delle prescrizioni del medico,
sempre indovinando ogni mio desiderio. Quand'io la vedevo pender su
me e rassettarmi le coperte, e bagnarmi le tempie infuocate dalla
febbre e guardarmi con que' suoi occhi intelligenti e tranquilli, e
calarsi giù giù sul mio capezzale fino a che qualche riccio dei suoi
capelli biondi veniva a sfiorarmi la fronte, mi pareva come se la
povera mamma vegliasse lei presso il mio letto.... Già la malattia
aveva traversato quella che voi chiamate la crisi, e piegava verso
una soluzione felice; nondimeno io mi sentivo immensamente debole: i
miei giorni trascorrevano in lunghi sopori, i miei occhi s'aprivano a
fatica, ond'io scorgevo, come attraverso un velo di nebbia, gli oggetti
che mi passavano innanzi, e, pure avendo la coscienza di quanto mi
avveniva d'intorno, non sapevo uscire dalla mia condizione d'inerte
spettatrice....

Era una di quelle notti. La signora Fanny aveva a poco a poco lasciato
cader la testa sulla sponda del mio letto: ella dormiva vicino a me:
io sentivo il suo dolce respiro aleggiarmi tepidamente d'intorno, io
sentiva la fragranza della sua morbida chioma diffusa. La lampada
da notte posta sopra un tavolino in un angolo spargeva una luce
tremula e fioca nella stanza, allungando talora con guizzi improvvisi
l'ombra delle sedie, degli armadi e del letto. L'uscio si aperse.
Eri tu, nè me ne meravigliai: quelle tue visite erano cosa solita.
Ti approssimasti in punta di piedi, mi mettesti la mano sulla fronte;
poscia, inchinandoti lieve lieve su me, mi baciasti a fior di labbra
la bocca. La signora Fanny era sempre assopita. Tu rimanesti alcuni
secondi immobile a contemplarci; poscia ti vidi abbassarti di nuovo e
deporre rapidamente un bacio sopra i capelli di lei. — (Qui Clarina
pose la mano sulla bocca del signor Emilio che voleva parlare). —
Ti rizzasti con un moto subitaneo, sospettoso quasi, e uscisti dalla
camera.... Quello ch'io provai non so dirtelo:... al primo istante fu
maraviglia....

— E di che mai, Clarina? — interruppe il signor Emilio, allontanando la
mano con la quale ella voleva chiudergli le parole in bocca. — Seppur
quello che credi aver visto non è un parto della tua fantasia, che cosa
vi sarebbe da stupire se io mi fossi lasciato vincere dall'emozione
vedendo un'estranea far teco le veci di madre?

— No, babbo.... Il dì appresso, quando il medico ti disse che potevi
smettere ogni apprensione, ti vidi nella tua contentezza baciar
l'Angelica quantunque avesse attorno un grande odor di cipolla, e
perfino la zia Lena quantunque fosse più brutta del consueto; ma era un
altro modo di baciare....

— Orsù Clarina, tu fai discorsi inutili, e anche un poco sconvenienti
per una ragazza.

— Ci vuol pazienza. Ho incominciato, e bisogna che dica tutto, e che tu
ascolti tutto. Descrivere lo stato dell'animo mio in quella notte, dopo
che tu uscisti della mia stanza, sarebbe impresa assai assurda. Dissi
che il mio primo sentimento fu di maraviglia. È vero. La dimestichezza
formatasi tra la signora Fanny e te non aveva mai passato quel limite
oltre al quale comincia la galanteria. V'era nella vostra amicizia un
non so che di contegnoso che pareva dire. — Fino a questo punto, sì;
più in là, no. — Alla meraviglia (perchè dovrei negarlo?) successe
un granellino di rancore verso la signora Fanny. La donna ch'io amavo
senza sospetto, la donna alla quale io avevo parlato e contavo parlare
tante volte ancora della mia mamma, s'intrometteva invece fra me e
lei, distruggeva il mio bel sogno, diveniva una rivale di quella che
io non avevo mai conosciuto, ma che avevo imparato da te ad amare con
tutte le potenze dell'anima. Io sentivo sotto le palpebre chiuse gli
occhi gonfiarmisi di lacrime, io sentivo affollarsi nella mia mente i
rimproveri che avrei indirizzato alla signora Fanny, appena ne avessi
avuto la forza. Ma in verità, questa forza l'avrei mai avuta? Non sarei
stata disarmata dalla dolcezza e dalla serena mestizia del suo volto?
Da quella fronte severa che il dolore aveva potuto solcare, ma che la
vergogna non aveva mai fatto arrossire?

Nel mentre io m'abbandonavo a queste fantasie, ella si era svegliata,
quasi vergognosa che il sonno l'avesse colta, e dopo d'essersi piegata
su di me per veder s'io dormiva (e, tra per la mia debolezza, tra per
gli affetti che si combattevano nell'animo mio, io fingevo davvero di
dormire) guardò l'orologio, tolse la lampada da notte dal tavolino
e schiudendo le invetriate la posò sul davanzale e la spense: indi,
aperti alquanto i registri delle persiane, lasciò entrare nella stanza
un po' d'aria e di luce. Appoggiata allo stipite della finestra, stette
colà qualche minuto, immobile, ritta, pensosa, stringendo sul petto
la veste discinta.... I primi chiarori dell'alba facevano risaltare
di più il pallor naturale del suo viso, la brezza mattutina agitava
lievemente i suoi biondi capelli che le scendevano giù pel collo in
vago disordine. Nel fissarla attentamente, con un occhio a cui le
inattese rivelazioni di quella notte accrescevano la virtù indagatrice,
io m'accorsi che, se la signora Fanny non era bella, le traccie della
bellezza v'erano ancor sul suo viso, ma sepolte, per dir così, sotto lo
strato che vi avevano deposto i lunghi anni di patimenti. E non so s'io
m'ingannassi, ma mi pareva che qualche lampo almeno di quell'avvenenza
dovesse brillar nuovamente, solo che la gioia tornasse nell'anima alla
poveretta. A che pensava ella in quell'istante? Forse a' bei sogni di
fidanzata quando ella intrecciava la ghirlanda pel suo giorno di nozze?
Forse al campo sanguinoso di san Martino ove il suo diletto cadeva per
non rialzarsi mai più? O sospirava vedendosi omai al confine estremo
di giovinezza, con le rose del volto sfiorite, con l'anima deserta
d'affetti, e costretta a viver sempre d'una memoria? O sentiva un
arcano bisogno d'amare, d'essere amata prima che il tempo inesorabile
gliene contendesse perfino la speranza?.... Povera signora Fanny! Una
lacrima le colava lentamente dal ciglio: ella si passò la mano sulla
guancia per asciugarla, poi si tolse bruscamente alla sua fantasia, e
tornò da me. Io feci le viste di svegliarmi allora, e pentita d'aver,
fosse pure un istante, accolto nel mio cuore de' sentimenti ingenerosi
verso di lei, feci uno sforzo supremo, e presa la mano ch'ella mi
tendeva, la portai alle labbra coprendola d'ardentissimi baci.

— Calmati, calmati, Clarina mia, — mi diss'ella, — perchè agitarti così?

— Perchè sento, — io risposi, — che non potrò mai renderle la centesima
parte di quello che ella ha fatto per me.

— E che ho fatto, piccina? Non è mica un merito quello di volerti
bene. E poi, noi altre vecchie zitelle, dobbiamo pure affezionarci
a qualcheduno. E quando vediamo soffrire delle creature giovani,
leggiadre come tu sei, ci pare, assistendole, di assistere i figli che
avremmo potuto avere.

Sedette vicino a me, carezzando la mano che io lasciavo cader penzoloni
dal letto, e non aggiunse parola.

— Io era ancora troppo debole per continuare il colloquio, ma
fissavo con occhi intenti quel suo volto pensoso, e quand'ella si
alzò nuovamente, e dinanzi allo specchio ricompose alquanto il suo
abbigliamento e ravviò sulla fronte i capelli disordinati, io le tenevo
sempre dietro con lo sguardo e, più ancora, con l'anima. E pensavo
agl'incidenti di quella notte, e a un'altra esistenza isterilita in
gran parte per colpa mia. Si, v'era un'altra persona che s'avvicinava a
quello stadio della vita in cui le maggiori dolcezze non sono più che
una memoria ed un desiderio, v'era un'altra persona che per me aveva
logorato i suoi anni più belli, compressi i suoi palpiti più ardenti,
anticipato l'età in cui ogni passione si spegne naturalmente... Oh
babbo: ho bisogno di dirtelo? Quella persona eri tu. Espiare i miei
torti, riparare a due sventure in un tempo, qual nobile impresa non
era la mia? Quanto più io ero stata fino allora sospettosa, egoista,
tanto più sentivo corrermi l'obbligo di essere ormai il buon angelo
della casa, di farmi uno stromento di quella felicità che avevo voluto
impedire. Ebbene, babbo, da quell'istante io non ebbi altro pensiero.
Ciò che tu provassi per la signora Fanny ormai io lo sapevo....

— Ma tu t'inganni, Clarina, ma tu deliri, — proruppe il signor Emilio,
visibilmente commosso.

— No, non m'inganno e non deliro, e nulla potrebbe sradicare questo
convincimento dall'animo mio. Quello ch'io non potevo sapere ancora
con ugual sicurezza era ciò che pensasse la signora Fanny. Da
quell'istante, usando un'arte ond'io non mi credevo capace, spiai
accortamente ogni suo atto, ogni parola, ogni sguardo.... e infine....

— Infine, che cosa? — chiese il signor Emilio, mal potendo nascondere
la sua agitazione.

— Zitto! — gridò Clarina, tendendo l'orecchio.

Il campanello di strada aveva suonato, il gatto Artaserse con un
immenso e incivile sbadiglio si era ritto sulle quattro zampe arcuando
portentosamente la schiena, tanto da parere un dromedario, l'Angelica
s'era scossa ella pure, dicendo con rara ingenuità: — Oh!... hanno
suonato.... Ero lì lì per addormentarmi.... — Intanto s'intese aprire
e poi chiudere l'uscio della scala, e un passo di donna si fece sentire
nell'andito.

— E proprio la signora Fanny, che viene a farci la sua solita visita,
— disse Clarina, muovendosi in fretta per andarle incontro.

— Bada, Clarina, — interpose serio serio il signor Emilio, — che non
voglio fanciullaggini. E tutta la tua cicalata di questa sera dev'esser
come non avvenuta.... Già, io uscirò di casa.... — E si alzò in piedi,
inquieto, turbato.

— Un momento, un momento, — susurrò la vispa ragazza, con accento
deciso.

Era appunto la signora Fanny, vestita a bruno, e con una fascia di lana
violetta intorno al capo e alla bocca.

— Come siete rossa in viso, signora Fanny! — esclamò Clarina,
aiutandola a levarsi d'intorno lo scialle e la fascia. — Fa proprio
freddo fuori?

— Si gela.

— Ebbene; si metta presso al camminetto. Su, Angelica, falle posto.

La zittellona si levò un po' brontolando, e tenendo fra le braccia il
preziosissimo micio che dava segni non equivoci di disapprovazione.

Mentre la signora Fanny stava per sedersi, la Clarina disse con
indifferenza e come se si trattasse d'una cosa da nulla:

— A proposito, signora Fanny, la sa la notizia?

— Quale?

— Che il babbo è sul punto di riprender moglie.

Queste parole caddero nella stanza come un fulmine, e gli effetti da
esse prodotti ebbero un carattere di _contemporaneità_ che non si può
rendere nella narrazione.

— Misericordia! — gridò l'Angelica esterrefatta, lasciando cadere il
pingue Artaserse, che, sorpreso dell'insolito trattamento, corse a
rifugiarsi sotto la credenza soffiando in un modo affatto ostile.

Il signor Emilio die' un balzo prorompendo in tuono di rimprovero: —
Clarina!

Ma intanto la signora Fanny era divenuta bianca come un lenzuolo, e
aveva afferrato convulsamente con una mano la spalliera della seggiola,
mentre si passava e ripassava l'altra mano sugli occhi, come per
diradare la nebbia che vi si andava addensando.

Clarina le fu addosso in un attimo, e gettatele le braccia al collo (la
signora Fanny s'era lasciata cader sulla seggiola) le disse con lacrime
dirotte: — Oh perdona; lo sapevo che tu dovevi essere la mia mamma. Era
il babbo, cattivo, che, pur volendoti bene, non si persuadeva a niun
costo di ciò ch'io avevo indovinato....

La signora Fanny mise un grido ineffabile, e questa volta svenne
davvero.

Le furono tutti attorno, l'Angelica che non capiva sillaba
dell'avvenuto, il signor Emilio, ormai inabile a simulare, e di
null'altro sollecito che di confermare le indiscrezioni della
figliuola, e la Clarina finalmente, giuliva, trionfante, come un
generale che ha vinto una battaglia.

Il resto ve lo potete immaginare. Solo vi dirò che, al finire di quella
sera così piena di emozioni, il signor Emilio, abbracciando teneramente
Clarina, le disse: — Sai che il tuo si può chiamare un _colpo di
Stato_?

— Lo so, ma se fossero tutti di questo genere, il mondo non avrebbe a
lagnarsene.



DUE ORE IN FERROVIA


Io non sono azionista di nessuna società ferroviaria, non ho garantito
(ci mancherebbe altro,) il prodotto chilometrico di nessun tronco,
non mi appassiono troppo nelle questioni del riscatto e dell'esercizio
governativo, non ho un trasporto straordinario per le frasi di metodo
sul _fischio della locomotiva che è l'araldo della civiltà_, ecc.,
ecc.; eppure vi dico: viaggiate in strada ferrata. Non c'è un modo
migliore di raccogliere osservazioni, di tener desta la fantasia. E non
è punto necessario di accingersi a viaggi lunghi, di andare da Venezia
a Pietroburgo e da Pietroburgo a Parigi. Basterà di tanto in tanto una
breve corsa di un paio d'ore.

Se volete seguire per intero il mio consiglio, prendete il biglietto
di seconda classe e scegliete i treni omnibus. Vi spiego subito il
perchè. La terza classe è troppo incomoda; troppi uomini che sanno
d'aglio, troppe donne sgangherate, troppe galline che legate insieme
per le zampe e cacciate sotto i sedili fanno uno strepito d'inferno.
La prima è troppo compassata; troppi Inglesi che consultano la guida
del Baedeker e il dizionario tascabile, troppi senatori e deputati che
discorrono di politica, troppi banchieri, troppi conti, troppi baroni.
Nella seconda classe invece trovate la maggior varietà di tipi, quindi
la più ricca fonte di osservazioni.

Quanto al treno omnibus, per chi non ha fretta, esso è di gran lunga
il migliore. Coi treni diretti la compagnia non si muta che a grandi
intervalli; invece coi treni omnibus è un continuo succedersi di figure
diverse, come per effetto di una lanterna magica.

— Ma, — direte voi, — se s'incontra una compagnia piacevole che gusto
c'è a mutare?

Questa domanda mostra in chi la fa una grande inesperienza del vero
carattere del viaggio in ferrovia dal punto di vista ond'io amo
considerarlo. Anche astraendo dal fatto che le compagnie piacevoli non
sono le più comuni, è indubitabile che l'impegnarsi in un dialogo nuoce
al raccoglimento necessario all'osservazione.

Nel viaggio di ferrovia, come io lo intendo, è utilissimo il non
imbattersi in nessuna persona di conoscenza, e l'andare a rilento
prima di mettersi a conversare cogl'ignoti. Il carattere dei proprii
simili s'indovina meglio quando tacciono che quando parlano con gente
veduta per la prima volta. E, in strada ferrata, il meglio che si può
fare a questo scopo è di rannicchiarsi in un angolo, aprire un libro e
guardar di sottecchi. Non è poi una grande indiscrezione; a ogni modo
è una indiscrezione che, qual più qual meno, commettono tutti. Che in
compartimento si sia in quattro, in otto o in dieci, è certo che questi
otto, sedici o venti occhi s'incontreranno con piglio scrutatore.

Si principia sempre nella stessa maniera. Le sacchette, le valigie
portatili, gli ombrelli, gli scialli sono collocati alla meglio sulla
reticella, le donne raccolgono le sottane, gli uomini si stringono
quanto più possono, qua e là è bisbigliato qualche _scusi_ sommesso,
a cui succede un cerimonioso _oh la prego_; poi tutti si lagnano
della Società ferroviaria che vuole stipare la gente nei carrozzoni
come le sardelle in barile, tutti rilevano con impaziente ironia gli
interminabili gridi di _partenza_ senza partir mai; c'è l'uomo arguto
che paragona la macchina che si provvede d'acqua ai cavalli a cui si
dà la biada; c'è la donna di spirito che al sentir il campanello, al
cui suono si parte davvero, dice con un sorriso pretenzioso: _Ecco il
campanello della messa_. Finalmente il convoglio esce dalla tettoia e
si stabilisce un certo silenzio. Guardiamo un po' intorno a noi.

Trovo a questo proposito i ricordi d'una gita recente. Chi è quella
signora dall'aria sentimentale, seduta presso il finestrino a sinistra
con un libro in mano? Prima di tutto un'occhiata di sbieco al libro.
Se non si può vedere il titolo contentiamoci per ora dei connotati
esteriori. Formato in-12.º, coperta gialla; ahimè! indizio gravissimo,
sulla coperta una macchia d'unto. La lettrice dovrebbe essere una
cameriera. La letteratura della cucina ha quasi sempre questo segno
caratteristico. Una cameriera? Eppure le vesti sono abbastanza
eleganti. Si, ma quando le si osservi con un po' di attenzione si
vedrà che sono vesti piuttosto fruste; senza dubbio gli abiti usi
della padrona. Però il _vis-a'-vis_ maschile (un giovinotto in calzoni
caffè e latte e panciotto bianco a fiori lilla) non ha questi sospetti
o è superiore ai pregiudizi di casta e comincia a slanciare alla
viaggiatrice certi sguardi di fuoco che fanno temere un incendio.
Il primo raggio di sole che entra nella carrozza dà appiglio alla
conversazione: — Vuole tirare la cortina?... Aspetti.... Ecco qua. —
Poi c'è un buffo di vento importuno. — Vuol chiudere il vetro? — Se non
disturba a lei. — Anzi, le pare? Ecco fatto. — Questi due sono messi in
movimento. Lasciamoli stare.

Proprio di fronte a me c'è un bellimbusto in guanti chiari che par
poco soddisfatto della compagnia. Nella signora che legge egli ha
fiutato la cameriera e non vuole sprecare per essa le sue occhiate
da conquistatore, nè si degnerebbe a ogni modo di competere con quel
tipo di garzone di negozio che le fa la corte; la sua vicina immediata
ha una circonferenza di due metri e una buona quarantina d'anni sulle
spalle, e una giovine che è con lei e siede alla mia sinistra è magra
e gialla come una carota. Il bellimbusto, esaminate tutte queste cose,
si leva i guanti. Fra la signora magra e la cameriera patetica siede
un uomo di mezza età e in occhiali, che tiene spiegata davanti a sè
la _Gazzetta dei Prestiti_. Dirimpetto a lui, il numero dei quattro si
compie con un vecchietto sudicio e tabaccone che va mangiando ciambelle
e raccoglie e beccola le briciole che gliene cadono giù pei calzoni.

E il treno cammina, e gli alberi piantati lungo la strada paiono
correrci incontro rapidamente, e i fili del telegrafo per una
strana illusione ottica sembrano alzarsi e abbassarsi a vicenda,
e i cantonieri ritti, impalati dinanzi alle loro garette, fanno il
segnale d'obbligo, e la macchina fischia, rallenta il suo corso e si
ferma alla prima stazione. Movimento. La signora grassa e la signora
magrissima discendono. Un _oh_ di soddisfazione esce da tutti i petti.
Si amerebbe che scendesse anche il vecchietto sudicio, ma egli rimane
e seguita a mangiar ciambelle e a raccoglierne le briciole con la
punta del dito bagnata sulla lingua. Restano due posti vuoti. Chi li
prenderà? La gente passa davanti allo sportello e guarda dentro. Poi
si ritira. Non le piace la compagnia. Il bellimbusto è inquieto e pare
in forse di cambiar vagone. Quand'ecco il conduttore che precede due
passeggieri e addita loro i due posti. Entra prima un signore maturo e
urta nelle gambe della cameriera esageratamente protese verso quelle
del suo _vis-a'-vis_. Al signore maturo tien dietro una giovinetta
vispa, saltellante, vestita di percalle bianco e celeste, la quale
con un passo di grazia evita l'ostacolo che arrestò un istante il suo
signor padre e viene a sedersi proprio vicino al giovinotto elegante.
Costui si ricompone, infila di nuovo i guanti e prende un atteggiamento
pari alla circostanza. Il convoglio si muove. Il giovinotto, prima
di riaccendere il sigaro che si è spento, chiede alla sua vicina se
il fumo la disturba, e la vicina risponde con un garbatissimo — _No,
grazie_.

Il signor padre intavola un discorso con la persona grave che ha in
mano la _Gazzetta dei Prestiti_. La questione d'Oriente è il tema
della conversazione. — Povero Abdul Aziz! Dicono che si sia suicidato,
ma chi ci crede? — Lo avranno ammazzato, non ne dubiti. In Turchia
si ammazzano tutti i sultani — dice il lettore della _Gazzetta dei
Prestiti_, che è stato a Costantinopoli e conosce gli usi orientali.
— Quell'Ignatieff — osserva l'altro con aria di mistero — voleva farla
ai Turchi. — Sì, e i Turchi l'hanno fatta a lui. — C'è l'Inghilterra.
— Un osso duro — Altro! — L'Inghilterra vuole l'integrità dell'impero
ottomano. — Se la vuole! ha letto l'articolo dello _Standard_, organo
di Derby? — No signore. — Lo legga e vedrà. — Brutti affari. Perchè la
Russia pesca nel torbido. Gran potenza anche la Russia. — Cospetto! —
Ma in mare l'Inghilterra la supera. — Non si può dir nulla come andrà
a finire. — Non si può dir nulla. — Il meglio è stare a vedere.

Mentre i due politicanti deliberano di stare a vedere, il bellimbusto
cerca di attaccar conversazione con la ragazza vestita di percallo, ma
non riesce a cavarle di bocca che monosillabi. Allora egli si studia di
produrle impressione in altra maniera, estrae di tasca un libro, e se
lo pone sulle ginocchia in modo che la vicina ne veda il frontispizio
e capisca che è un libro francese. Quando egli è ben convinto che la
giovinetta ha acquistato questa importante cognizione, egli si mette
a leggere, di tratto in tratto ripiega il volume sull'indice della
destra e guarda nel vuoto come persona che medita. Ma non c'è caso; la
fanciulla non gli abbada e invece interrompe il padre nel bel mezzo
delle sue disquisizioni politiche per chiedergli se prima di uscire
di casa si sia ricordato di ordinare alla serva che dia da mangiare al
canarino.

Il mangiatore di ciambelle ha lasciato cadere la testa sulla spalliera
del sedile e dorme con la bocca semiaperta e con la barba piena di
briciole. La cameriera e il suo galante continuano a intendersela molto
bene e colgono ogni occasione per toccarsi le mani. Il giovinotto
_chic_ comincia a invidiare la sorte del compagno di viaggio meno
esigente.

Nuova fermata e cambiamento di scena su tutta la linea. Discendono
padre e figliuola, la cameriera, il bellimbusto, l'uomo della _Gazzetta
dei Prestiti_ e il vecchietto sudicio. Si resta per un momento in due:
il don Giovanni di cucina ed io. Il don Giovanni di cucina, dopo aver
seguito con l'occhio sin fuori della stazione la cameriera patetica,
vede ch'io non posso certo risarcirlo di tanta perdita, e si rannicchia
di malumore nel suo cantuccio.

_Secondi avanti_, grida il conduttore; _sei posti vuoti_. Ed ecco in
primo luogo due signore in lutto strettissimo, poi una famigliuola di
tre persone, marito, moglie e un bimbo di tre anni. Il marito mette
a posto una sacchetta, una valigia di cuoio spelata, due ombrelli,
uno sciallo, una cappelliera di cartone. Senza dubbio è un impiegato
traslocato. Per due volte egli porta macchinalmente la mano al
taschino del panciotto, e la ritira con un gesto che non tradisce la
più schietta soddisfazione dell'animo. Si rischia poco a scommettere
che il pover'uomo ha impegnato in questi ultimi giorni l'orologio. La
moglie ha un cerchio ribelle, che per quanto ella faccia, prende le più
strambe posizioni e tiene alzata la gonna fino al collo del piede. Non
ci guadagna proprio nulla. Il piede della signora è brutto per sè ed è
reso ancora più brutto da un paio di stivali da uomo. Saranno stivali
dimessi dal marito. Il bimbo che sarebbe bellino non brilla neppur esso
per buon gusto nell'abbigliamento. Invece c'è da scommettere che egli
non istarà mai fermo, e comincia a cascarmi addosso appena il convoglio
si rimette in moto. Poi piagnucola perchè non è presso al finestrino,
nè può vedere gli alberi. Affine di chetarlo, lo faccio venire nel mio
angolo, lo sollevo ritto sul sedile e lo tengo perchè non cada. Ma di
lì a un minuto gli viene una voglia irresistibile di tornar dalla mamma
e senza cerimonie eseguisce il gran passaggio sulle mie ginocchia.
Scandalo e scuse dei genitori. Il marito mi conferma a bassa voce che è
un impiegato traslocato. Non osa lagnarsi del suo destino perchè teme
lo si traslochi un'altra volta. Tanto e tanto bisogna ringraziare il
cielo che non sia accaduto di peggio. Era a Treviso e va a Lecce. Una
bagatella di oltre a mille chilometri di distanza: ma se lo mandavano
in Sicilia?

Mentre lo ascolto distratto, la mia attenzione si ferma sulle due
signore vestite a bruno. Son giovani ancora, non però giovanissime,
e hanno un aspetto triste e patito. Non parlan nemmeno fra di loro e
tengono il viso basso e il velo calato. A un punto una d'esse, come
per un segnale convenuto, tocca con la mano il ginocchio dell'altra, e
alzando il velo spinge la testa fuori del finestrino. La sua compagna
fa lo stesso. Vinto dalla curiosità, guardo anch'io da quella parte.
Non vedo sulle prime che una lunga distesa di campi; poi fissando la
pupilla in lontananza, mezzo nascosta da una macchia d'alberi, discerno
a fatica una casetta bianca sormontata da una banderuola metallica
che scintilla ai raggi del sole. È là che le due donne appuntano
gli sguardi, nè li rimuovono finchè la casetta bianca non scompare
dall'orizzonte. Allora una d'esse, la più giovine, quella che ha
l'aspetto più addolorato, si porta rapidamente una mano alle labbra e
invia un bacio alla cara visione. Poi entrambe riabbassano il velo e
ritirano il capo nell'interno della carrozza. Quella stessa che inviò
il bacio passa, sotto il velo, il fazzoletto, e si copre gli occhi.
Intanto il mio vicino discorre del progetto Depretis sul miglioramento
della sorte degl'impiegati, ma io non gli do retta. Penso al dramma
intimo di cui le due viaggiatrici abbrunate portano seco il facile
segreto, penso alla casetta bianca ove pochi giorni addietro qualcuno
dava l'ultimo addio alla luce, penso a questo atto così universale,
così costante della morte, eppur sempre così nuovo, così misterioso,
così terribile.

— Adesso non si può; a momenti, alla prima stazione — dice la signora
_impiegata_ al suo bimbo. Il bimbo strilla un poco, quindi s'acqueta e
ripiglia i suoi pellegrinaggi da una parte all'altra della carrozza.
Fa caldo, la conversazione s'interrompe, le teste diventano pesanti,
gli occhi hanno una tendenza a socchiudersi. Quand'ecco il silenzio
è interrotto da una fiera protesta del giovinotto dai calzoni color
caffè e latte, il quale, mentre sonnecchiava, sentì lungo le gambe una
impressione assai poco gradevole e incolpa del fatto il fanciullo, che
ad avvalorare i sospetti, si trova precisamente da quella parte.

I genitori si profondono in iscuse, ma la vittima non si calma così
presto.

— Non si conducono in viaggio bambini di questa età.

Questa proposizione stravagante fa montar la mosca al naso al _Travet_.

— Oh sì.... Anzi un funzionario traslocato non condurrà seco la prole.

— E allora bisogna sorvegliarla, — replica il giovinotto guardando con
stizza i suoi calzoni caffè e latte che presentano l'aspetto di una
carta geografica.

Questo era il punto vulnerabile, e l'impiegato slancia un'occhiata
fulminea alla sua metà che stava catechizzando il fanciullo
e brontolava quasi parlando a sè stessa. — Sorvegliare....
sorvegliare.... Son cose presto dette... Un folletto di tre anni....
Vorrei che il signore fosse al mio posto.

— Sicchè, a sentir la signora, dovrei ringraziare... chieder scusa io.

E giù un'altra occhiata alle gambe.

— Non dico questo; anzi scusi, ma santo Iddio, senza un po' di pazienza
a questo mondo.... Ce ne abbiamo tanta noi impiegati.... E poi, stia
certo, non lascia macchia....

Il battibecco minaccia di non finir più quando il fischio della
locomotiva annunzia l'avvicinarsi di un'altra stazione. Era quella a
cui dovevo scender io e per buona ventura della famiglia del _Travet_
anche il giovinotto, vittima del fatale accidente.

— Corpo di Satanasso! — esclama costui levandosi in piedi e guardando
sempre quei benedetti calzoni. — Come si fa adesso?

— Perdoni, non ha un _plaid_? — dico io intervenendo nella questione.

— Sì, signore.

— Lo tenga in modo che le cada sul davanti.... Così.... Benissimo....
Adesso non si vede nulla.

— Ma un bel gusto, sa, con questo caldo a tenersi il _plaid_ fino ai
piedi.

— Crederanno che abbia le febbri intermittenti.... Il peggio sarebbe....

— Che si vedesse.... Capisco....

— Dunque dei due mali il minore.... Oh non c'è tempo da perdere.... Qui
il treno non si ferma che un mezzo minuto.

— Scende qualcuno? — dice il conduttore affacciandosi allo sportello.

— Sì, due.

E siamo in terra d'un salto.

— Ecco due posti, — ripiglia lo stesso conduttore voltandosi verso due
viaggiatori, che dopo essersi accommiatati con molti baci da un gruppo
di parenti e di amici cercavano una carrozza di seconda classe in cui
salire.

Questi due non lasciano dubbio alcuno sull'esser loro. Sono due
sposi novelli. Lo si vede all'aspetto raggiante, al vestito accurato,
all'abbandono soave con cui la giovinetta si appoggia al braccio del
valido marito. Entrati che sono nello scompartimento essi rinnovano
l'addio agli amici e ai congiunti. I loro volti ilari che si toccano
quasi nel vano del finestrino fanno un singolare contrasto con le
fisonomie malinconiche delle due signore abbrunate: il loro saluto
alla lieta schiera che li ha accompagnati alla stazione è ben diverso
da quello che le due donne avevano mandato prima alla casetta bianca
perduta nella campagna; per la coppia felice l'avvenire è tutto gioia
e speranza. Chi sa che vicende le riserbi la sorte?

Il treno s'è dileguato, ma ancora si vede fra gli alberi il suo
pennacchio di fumo. È scomparso anche il viaggiatore dai calzoni
color caffè e latte. Il guardiano della stazione (una piccola stazione
intermedia) mi squadra con curiosità dalla testa ai piedi. Che cosa
faccio? Che cosa penso? In verità non faccio nulla, non penso a
nulla.... Ma, dopo tutto, in due ore di ferrovia, che avvicendarsi
di persone, che contrasto di faceto e di serio, e per chi conosce
la voluttà del sorriso e delle lagrime, che miniera inesauribile di
sensazioni!



LA DEMOCRAZIA DELLA SIGNORA CHERUBINA


La signora Cherubina Spiccioli, moglie del signor Innocente Spiccioli,
negoziante arricchito alla Borsa, aveva inaugurato da tre venerdì il
suo nuovo salotto. Un amore di salotto con tappeto di felpa, tendine di
seta, mobili con dorature ed intagli. Sulle cantoniere cento gingilli,
sulla mensola un magnifico orologio a dondolo con puttini di bronzo
che ne reggevano il disco, pendente dal soffitto una gran lumiera di
cristallo; alle quattro pareti quattro nitidissimi specchi di Francia,
in cui la signora Cherubina aveva la soddisfazione di vedersi riflessa
quattro volte.

La signora Cherubina Spiccioli era anch'essa addobbata sfarzosamente
come il salotto e si pavoneggiava sopra una sedia foderata di velluto,
appoggiando i piedi sopra un piumino di lana a fiori. Aveva alla destra
la signora Veronica Somariva, moglie di un pretore, e alla sinistra la
signora Pasqua Orsolini, consorte di un farmacista, vestite entrambe
abbastanza dimesse e atteggiate a un ossequio riverenziale che avrebbe
dovuto lusingare la vanità della signora Cherubina.

Ma la signora Cherubina era in quel giorno di pessimo umore, perchè
la contessa Basili che era la pigionale del primo piano, non le aveva
ancora restituita la visita. E il pessimo umore della signora Cherubina
si manifestava in escandescenze democratiche.

— Sì — ella gridava inferocita — bisogna finirla con questo sciocco
pregiudizio della nobiltà. Chi sono queste schizzinose che non si
degnano di stare con noi? Non sono anch'esse di carne e di ossa
come noi altre? Vogliono imporci perchè si chiamano marchese,
contesse, duchesse? O credono forse che non si sappia che c'è stato
l'ottantanove?

— L'ottantanove — interruppe la signora Pasqua — è uscito anche
nell'ultima estrazione.

— O signora Pasqua, che dice mai? — esclamò ridendo la signora Veronica
ch'era un po' donna di lettere; — non si tratta di un numero del lotto,
ma di un anno.

La signora Pasqua si fece rossa, ed estraendo il fazzoletto da un
manicotto di pelo di gatto si soffiò romorosamente il naso.

Ma la signora Cherubina, senza curarsi di quest'incidente, continuò,
gonfiando la voce:

— E si dice che siamo in un'epoca di libertà, in un'epoca di
uguaglianza! È un obbrobrio.... Una casta a parte in questo secolo!....
In nome di che?... Sono più belle di noi?.... Sono più virtuose?
Domandiamolo ai loro mariti.... Più eleganti? Io credo che noi altre
(parlo di quelle che possono) si vesta come si vestono loro... E noi
si paga il conto... E le nostre case (parlo sempre delle famiglie che
possono) non sono forse addobbate come le loro?... Mi guardi il cielo
dal citarmi ad esempio, ma vorrei sapere se questo salotto non è tale
da potervi ricevere chiunque, fosse anche l'imperatore del Mongol!...
Un tappeto, signora Veronica, che mi costa la bellezza di sette lire
al metro, e il negoziante m'ha giurato che ne vendè uno di simile
alla marchesa Liani.... Anche le tendine son tali e quali quelle della
baronessa Rodolfi.... Abbiamo lo stesso tappezziere.

La signora Pasqua e la signora Veronica si sdilinquirono in parole
d'ammirazione circa al tappeto e alle tende della signora Cherubina.

— No, no — rispose costei schermendosi modestamente. — Dico per
dire.... che in fin dei conti noi siamo _chic_ quanto loro, e questa
superbia muove lo stomaco... So io quello che ci vorrebbe — ella
soggiunse in tuono misterioso e solenne: — Un novantatrè ci vorrebbe.

— Avrà da aspettarlo un pezzo — era sul punto di dire la signora Pasqua
considerando che questo numero non era compreso nella cabala. Ma per
sua fortuna ella ricacciò le parole nella gola.

— Basta, mi perdonino questo sfogo — ripigliò la signora Cherubina
facendosi fresco con un fazzoletto di battista profumato di _patchouli_
— e discorriamo d'altro. Come vanno le feste di ballo al casino?

— Ma! bene — rispose la signora Veronica. — Iersera c'erano
cinquantacinque signore... Dovrebbe venirci anche lei, signora
Cherubina. Il cavaliere suo marito è socio!

— Sì.... voleva anzi condurmi.... Verrò forse.... Ma non so come sia,
le feste di società mi piacciono poco.... Dico il vero, c'è troppa
mescolanza... Io sono democratica, mi pare che non ci possa esser
dubbio in proposito; ma quel trovarmi a contatto di certa gente....
Via, mi dica che signore di conoscenza c'erano.

— Tanto per non dimenticarmi, c'ero io....

La signora Cherubina chinò leggermente il capo con aria di degnazione.

— E poi?

— C'era la signora Pasqua.

— Oh per me — disse la persona nominata raggomitolandosi tutta per
eccesso d'umiltà.

La signora Cherubina fece una smorfia quasi impercettibile.

— Le due Azzolini — continuò la signora Veronica — due belle ragazze.

— Quelle che han per madre una contessa Ruspi di Ferrara? — chiese
premurosamente la signora Cherubina.

— Appunto... C'era anche la madre.

— Ah c'era anche lei.... Una donna che si conserva bene....

— Non dimentichi la signora Coradelli — suggerì la moglie del
farmacista alla signora Veronica. — Una sposa.... bellina tanto.

— Quale Coradelli? Sposa di chi? — interruppe la signora Spiccioli
arricciando il naso.

La signora Pasqua, intimidita dall'accento e dal gesto della padrona
di casa, rivolse alla signora Veronica uno sguardo supplichevole che
significava:

— Venga in mio aiuto.

La _pretoressa_ tentennò il capo come persona che comprende essersi
toccato un cattivo tasto; pure messa alle strette diede alla signora
Spiccioli la spiegazione voluta.

— La moglie di Gaetano Coradelli, il negoziante... quello ricchissimo.

— Negoziante di oggetti di guttaperca! — esclamò la signora Cherubina
nel massimo scandalo. — È proprio vero?... E poi si lagnano se non
si va alle loro feste?... Ma non c'è una commissione di scrutinio
al Casino? Ma accettano dunque il primo venuto purchè paghi sessanta
lire all'anno? L'ho sempre detto io che questo è un paese ove non è
possibile la vita di società. Io sono democratica, ma questa non la
posso mandar giù. Il signor Coradelli!.... Un uomo che vende fianchi
artificiali e che cingendo la vita della sua ballerina può riconoscer
la roba sua sotto il vestito!...

Espresse queste savie considerazioni, la signora Cherubina Spiccioli si
avvolse silenziosamente nella sua maestà di regina offesa.

— Che continuazione di belle giornate! — osservò la signora Veronica
per rianimare il dialogo.

La signora Cherubina non rispose, ma con un cenno del capo mostrò di
partecipare all'opinione della sua interlocutrice. Quindi, tornando al
suo tema favorito:

— Ecco — soggiunse — se si potesse mettere insieme una società della
buona borghesia, una società a modo, come io la intendo.... una società
insomma da farla tenere a queste signore contesse e marchese....
rendendo loro la pariglia....

— Col non invitarle — disse la _pretoressa_.

— Nemmeno una.

In quel punto il servo sollevò la portiera e annunziò la contessa
Basili.

La nobil dama insignita di questo nome cospicuo si presentò sulla
soglia e fece il più compito inchino che possa immaginarsi.

La signora Cherubina diventò rossa come un gambero cotto, si alzò
tutta d'un pezzo, come se le fosse scattata sotto una molla, nella gran
furia inciampò prima nel piumino, poi in un lembo del proprio vestito;
nondimeno riuscì a mantenersi in equilibrio e corse verso la nuova
arrivata. La signora Veronica e la signora Pasqua si levarono in piedi
esse pure.

— Contessa — balbettò la signora Spiccioli stentando a trovar le
parole, tanto era commossa. — Quale onore!... Ha voluto disturbarsi.
Davvero che non osavo sperare.... La prego, s'accomodi.... qui, vicino
a me.

E le additò la sedia davanti alla quale stava ritta la signora Pasqua
che dovette cedere il posto e accomodarsi un po' più lontano. La
contessa Basili si guardò intorno con l'occhialino, poi disse:

— Prima di tutto ero venuta per fare un dovere.

— Un dovere! che dice mai? — interruppe la signora Cherubina,
conservando quella magnifica tinta scarlatta di cui ella si era suffusa
al giungere della illustre pigionale del primo piano. — Un dovere?...
È tutta bontà sua.

E strinse con effusione la mano alla contessa.

Intanto la signora Veronica e la signora Pasqua allungavano il collo
come due colombe in amore per vedere di essere presentate alla gran
dama. Ma la gran dama si limitava a guardarle di tratto in tratto
con l'occhialino, e la signora Spiccioli non aveva nessuna voglia
a far sapere alla contessa che ella era in qualche intimità con la
moglie di un farmacista e di un pretore. La contessa era prossima ai
quarant'anni, aveva la bocca un po' grande e il naso un po' lungo,
usava senza troppo risparmio il nero sulle ciglia e il minio sulle
gote, onde un giudice imparziale l'avrebbe detta piuttosto vecchia
che giovine, piuttosto brutta che bella. Ma la signora Cherubina era
in estasi; nelle orecchie intente, negli occhi umidi e imbambolati,
nell'atteggiamento tutto della persona le si leggeva l'ammirazione
sconfinata, profonda, simile a quella che un devoto o un artista
potrebbe sentire davanti a una Madonna di Raffaello.

— Lei mi confonde — ripigliò la contessa con un sorrisetto. — Volevo
dire che la mia visita aveva anche un altro scopo.

— Un altro scopo?... Parli, signora contessa, mi comandi... ove posso...

— Noi daremo, lunedì quindici, una festicciuola.... senza pretesa...
e io sono qui a pregarla di volerci favorire con suo marito.... Sarà
per le dieci di sera... Mi dice di sì? — soggiunse la contessa con voce
melliflua ed insinuante.

Il ritardo della signora Cherubina nel rispondere dipendeva
dall'eccesso della gioia. Essere invitata dalla contessa Basili in
persona, alla presenza della signora Somariva e della signora Orsolini
che potevano rendere testimonianza del suo trionfo, era tal fatto da
togliere il dominio di sè anche a una donna più forte della signora
Spiccioli.

— E come potrei dire di no, signora contessa? — ella rispose finalmente
con l'accento con cui la Ristori avrebbe potuto declamare la _Francesca
da Rimini_.

— Siamo intesi dunque — ripigliò la contessa. E poi si mise a
conversare di cose indifferenti.

La signora Pasqua e la signora Veronica, visti riuscir vani tutti gli
sforzi per richiamare l'attenzione della padrona di casa sopra di loro,
non tardarono ad accommiatarsi, senza che la signora Cherubina dicesse
una parola per indurle a prolungare la loro visita. Dovevano oramai
essere persuase della sua superiorità; la loro presenza non giovava più
a nulla.

— Ha visto? — disse la signora Pasqua alla signora Veronica appena
furono giù delle scale! — A proposito di democrazia! Ci ha lasciate
andare quasi senza salutarci.

La _pretoressa_ schizzava veleno, ma rispose seccamente: — È una
indegnità. — Poichè ella era convinta che se non vi fosse stata la
moglie del farmacista la presentazione avrebbe avuto luogo per lei. E
non oserei affermare che la signora Pasqua, malgrado la sua singolare
modestia, non avesse un'opinione analoga a quella della signora
Veronica.

— Chi sono quelle due signore? — domandò la contessa Basili alla
signora Cherubina quando rimase sola con lei.

— Oh! — disse questa con noncuranza. — Una certa signora Somariva e una
certa signora Orsolini... Sa... vecchie conoscenze.

E si affrettò a mutare discorso.

Di lì a qualche minuto la contessa Basili si alzò per andarsene e la
signora Cherubina, dopo avere tirato il campanello con tanta forza
che gliene rimase in mano la nappa, volle accompagnare l'eccelsa
visitatrice sino al fondo dell'anticamera ove le ripetè in mille modi
i suoi ringraziamenti. Poi tornò trionfante in salotto e fiutò con
ineffabile compiacenza il profumo di muschio che la contessa aveva
lasciato dietro di sè. Finalmente, giacchè non le capitavano altre
visite, ella passò nel gabinetto attiguo e scrisse una riga alla sarta
ordinandole di recarsi tosto da lei.

La signora Cherubina intervenne sfolgorante di gemme alla festa
della contessa Basili ed ebbe la insigne soddisfazione di ballare con
parecchi giovinotti della gran società, e di essere presentata ad altre
due contesse e ad una marchesa. Onde il nuovo salotto di casa Spiccioli
non istette molto a popolarsi di gente _comm'il faut_, cosa dalla quale
la salute della signora Cherubina ritrasse maggior giovamento che non
ne avesse ritratto l'anno addietro da un mese di cura alle acque di
Recoaro. Nondimeno la signora Cherubina è sempre democratica, e se una
contessa non le restituisce presto la visita o non la invita ai suoi
balli, ella sente un fremito repubblicano nell'anima e invoca un altro
_novantatrè_.



LA CONFESSIONE DI DORETTA


— Oh bravo il signor Anselmo, — disse Doretta andando incontro al
nuovo venuto e prendendogli le mani nelle sue. — Capita a proposito.
Al confessionale io non vado, ma a un vecchio amico di casa, a uno che
m'ha visto fanciulla e che può quasi esser mio padre....

— Grazie.

— Di che?

— Di quel _quasi_.

— A lei insomma, — continuò la giovine, — sono disposta ad aprir
intieramente l'animo mio.... Sarà il mio confessore.

— Oh vi pare?

— Lo voglio, lo voglio assolutamente. È il primo servizio che le
domando dopo tanto tempo.... Non deve dirmi di no.

— Se credete proprio che sia necessario....

— Necessariissimo. Giudicherà lei.... Sono qui da due giorni a visitare
la mia famiglia, e mi si intenta un processo, per iniziativa di mio
marito.

— Cara Doretta, — interruppe il signor Anselmo, — non si potrebbe
prender la cosa con più flemma? E per esempio non si potrebbe sedere?

— Sediamo pure, — disse Doretta.

Ma seduta che fu, non rallentò la foga del suo discorso. Doretta, come
si vedrà, era alquanto ciarliera.

— Sa già di che si tratta.

— Veramente lo so molto poco,

— Lo sa meglio di me. Si tratta del tenentino Baraldi, che dicono mi
faccia la corte, e dal quale, a sentirli, io me la lascerei fare di
buon grado. Falsità se mai ve ne fu... Io vidi Baraldi per la prima
volta tre mesi or sono in Firenze dalla contessa Orelli... cioè non è
contessa niente affatto, ma vuol che la chiamino così... ormai non mi
accade più di trovare una persona che non sia nobile, e anche la mia
serva pretende d'esser cugina dei Peruzzi. Ma torno a bomba perchè non
mi piacciono le lungaggini. Ero dunque dalla contessa Orelli, di sera;
saremo stati una dozzina di persone al più. La Orelli aveva mal di
capo, e il salotto non era rischiarato che da due lumi a _carcelles_,
uno col cappello di carta rosa e l'altro col cappello di carta verde.
La padrona di casa, che stava dalla parte del lume verde, pareva un
limone acerbo, sua sorella, la Derilleri, che era accanto al lume rosa,
pareva una barbabietola. In mezzo c'era una zia con un profilo verde e
un profilo rosa, bellissimi entrambi a vedersi. Del resto, la Orelli e
la Derilleri son due donne mature che però non vogliono ancora battere
in ritirata. Della Orelli tutta Firenze sa che ha una relazione...

— Ma Doretta!...

— Oh una relazione platonica. Si figuri.... con un consigliere di
cassazione. Cosa vuol che facciano i consiglieri di cassazione anche
se vanno, come questo, ogni estate a Oropa per la cura idropatica? In
quanto alla Derilleri, le attribuiscono, sarà malignità, il vecchio
generale Roscio, e la chiamano l'ospizio degli invalidi, perchè
vogliono che prima di lui avesse il colonnello in pensione Merilli che
ha perduto una gamba a San Martino. Della zia non credo si dica nulla.
Ci mancherebbe altro... Con quel viso e quella persona! Una pedante che
quando non isputa sentenze s'addormenta in conversazione, e se per caso
si risolve a tacere quand'è svegliata, vi fa venir il capogiro a forza
di fregarsi le mani una sull'altra come se stesse lavandosele con acqua
e sapone.

— Questo però, Doretta, c'entra poco.

— Come, c'entra poco? Anzi c'entra moltissimo, scusi. Alle corte, la
sola donna giovine di quel salotto ero io; d'uomini c'erano i due
in carica presso le due sorelle, cioè il consigliere di cassazione
e il generale, poi un signore, arricchito, a quel che dicono, con
tre fallimenti di borsa; c'era un deputato, non so se di destra o di
sinistra, ma insulso sicuramente; c'era un letteratino, che Dio ce ne
scampi e liberi; c'era Baraldi e c'era mio marito. Levi un po' Baraldi
e me, e veda che compagnia. Perchè, mi lasci dire, mio marito è un
buonissimo diavolo, ma, via, non sosterrà che non sia noioso.... già è
marito; e pare che sia nell'istituzione dei mariti d'esser noiosi. Non
tentenni la testa così. Lei, signor Anselmo, non ha voce in capitolo.
Bisognerebbe che fosse donna e maritata per una settimana.... vedrebbe!
I mariti, anche quando sono piacevoli fuori di casa, sono, in casa,
sgarbati e brontoloni. Non c'è nulla che li contenti, nulla che non dia
loro l'occasione di far delle cantafère lunghe come l'anno della fame.
Ci si aggrappano alle sottane quando vorremmo che andassero via; se ne
vanno quando vorremmo che restassero; fanno tutto fuori di tempo. Se
poi ci accompagnano a spasso o a teatro hanno un muso lungo due palmi
finchè son soli con noi, e non principiano a rasserenarsi che quando
vedono le mogli degli altri. Così, alla fin fine, noi donne si sta meno
peggio quando si riesce a formare una partita doppia di due mogli e
di due mariti. In questo caso ci può essere un _chassez-croisez_ che
abbia qualche attrattiva.... Ma guai se il marito vuol restare in un
crocchio ove non ci sia altra donna che sua moglie e ci siano invece
parecchi uomini. Il signor marito è quello che guasta la conversazione.
Pare faccia apposta a metter sul tappeto i temi più scabrosi, più
sconvenienti. E se vi son proprio delle cose che non si posson dire
ad alta voce, eccolo chinarsi all'orecchio del vicino e susurrargli
qualche trivialità; e allora si sente scoppiettare intorno un riso
sguaiato che pare uno starnuto di gatti infreddati.

— Mia cara Doretta, voi avete molto spirito, ma mi permettereste di
dire una parola?

— Dica pure.

— Ecco, volevo dire che andando di questo passo non saprò mai più
quello che dovevo sapere.... Si sbaglia strada.

— Tutt'altro. O che strada avrei da tenere? Ma basta. Mi spiccierò.
Ho descritto l'ambiente in cui mi trovai la prima volta con Baraldi.
Era indispensabile. Può immaginarsi se si annoiava anche lui. Il
letteratino l'aveva inchiodato in un angolo, e con la scusa che Baraldi
si diletta di poesia gli declamava a mezza voce alcuni versi suoi.
Alla lunga, quando fu liberato dal suo seccatore, il giovine ufficiale
mi si avvicinò e si cominciò a discorrere. Egli mi dipinse coi colori
più vivi la sua dolorosa situazione di poco addietro. Il poeta in
erba gli stringeva forte il ginocchio fra il pollice e l'indice della
destra, e sia pel gran calore che metteva nella recitazione, sia per
non alzar troppo la voce, gli si era avvicinato col viso in maniera da
fargli sentir troppo il suo alito... e anche qualcos'altro. Era come,
diceva Baraldi, se mi fossi trovato nella vicinanza d'una cascata,
in mezzo a quella specie di polvere acquea che vi penetra nei panni
e nelle ossa... Insomma si rise un po' del letterato, un po' degli
altri componenti la società... Avremmo fatto crocchio a parte, ma
sfido io, tra quelle mummie! Mio marito mi piantava ogni momento gli
occhi addosso; che uggioso! Voleva che mi mettessi a far conversazione
con lui? Il giorno dopo Baraldi portò i suoi biglietti di visita:
_Lodovico Baraldi, luogotenente del Genio_. In un angolo la sua brava
corona di conte. Quella lì già non mi fa più impressione perchè ormai
l'hanno tutti. Dev'esser stampata in precedenza sul cartoncino. Nella
settimana il compìto ufficiale venne in persona da me. Era suo dovere.
Del resto egli non mi trovò sola. C'era la Rinucci, quella che ha un
occhio di vetro e i fianchi di _cautsciù_, tantochè assicurano che un
giorno ne abbia perduto uno per istrada. Sarà e non sarà. Faccio per
dimostrare che non vi fu un colloquio a quattr'occhi. Ma la Rinucci è
una cattiva lingua, e cominciò subito i suoi _cancans_. A sentirla, io
avevo dato appuntamento al tenente alle Cascine. Bisogna esser proprio
brutta com'è lei per inventar simili fandonie. Sicuro ch'io dissi a
Baraldi che quando sono a Firenze vado alle Cascine ogni giorno alle
quattro.... di qualche cosa bisogna pur discorrere.... Ma che colpa ne
ho io se le quattro son parse anche a lui un'ora buona per passeggiare?
Io andavo in carrozza, egli andava a piedi; naturalmente le carrozze
sul piazzale si fermano, e i pedoni vengono allo sportello a salutar le
loro conoscenti. Un giorno solo, tanto per isgranchire le gambe, sono
scesa un momento e ho fatto un giro....

— Col tenente?

— Sì, col tenente, e anzi son rimasta scandalizzata a veder la marchesa
Dal Pozzo che filava il perfetto amore percorrendo in su e giù un viale
sotto il braccio di un onorevole, il quale avrebbe fatto molto meglio
ad essere a Roma, ove, per causa di queste distrazioni dei signori
deputati, la Camera non è mai in numero.... Però io non mi immischio
negli affari degli altri.... Credo d'aver passeggiato dieci minuti....
Se ne fece un chiasso ridicolo.... Proibizione di andare alle Cascine
alle quattro, e poi gita a Bologna per passare qualche settimana in
famiglia. Adesso un altro _casus belli_, perchè Baraldi è venuto a
Bologna anche lui. O che ci posso far io? Sono il suo colonnello? La
gente non ha forse il diritto di viaggiar per le strade ferrate come
le pare e piace?... Anche mia suocera, che mi scrive dei sermoni,
dovrebbe un po' badare ai fatti suoi e pensare a quello che si dice
delle sue debolezze di gioventù.... perchè, quantunque a vederla non si
crederebbe, è stata giovine....

A questo punto l'orologio ch'era in salotto cominciò a batter le ore.

— Le tre forse? — chiese Doretta.

— No, le quattro.

— Le quattro! Diamine, diamine! Non posso trattenermi un minuto di
più.... Ho ordinato la carrozza per le tre e mezzo....

— Ma, Doretta, adesso tocca a me a parlare....

— Un altro giorno. Oggi è impossibile.... La mia confessione io la ho
fatta.

— Però vi osservo, figliuola mia, che avete confessato sopratutto i
peccati degli altri.... In quanto ai vostri...

— I miei sono così piccoli che meritano l'assoluzione piena ed intera.
E non dubito che persuaderà i miei genitori.

— Un momento....

— Non c'è momento che tenga. Grazie, signor Anselmo, e a rivederci.

E Doretta sgusciò via come una biscia, lasciando con un palmo di naso
il suo confessore.



LO SPECCHIO ROTTO


I.

Patatrac.

Patatin.

Questi due suoni si fecero sentire quasi contemporaneamente una
mezz'ora prima del tempo di desinare in casa del signor Pacifico
Rosettini, dottore in legge e possidente, e loro tenne dietro un
rumoroso pianto infantile. La signora Virginia, seconda moglie
del signor Pacifico, la quale sedeva nel salotto da lavoro curva
sopra un ricamo; il signor Pacifico stesso che stava preparando una
_conclusionale_; la cameriera Adelaide che apparecchiava la tavola, e
due ragazzini fra gli otto e i dieci anni tornati in quel momento dalla
scuola e ronzanti intorno alle casseruole della cucina, convennero
da vari punti sul luogo dond'era venuto il rumore, e accolsero con
differenti esclamazioni e domande un fanciullo che poteva avere poco
più di un lustro d'età e che scendeva una breve e agevole scaletta con
una guancia più rossa dell'altra, un gran furore negli occhi lacrimosi
e i due piccoli pugni stretti in atto di collera e di minaccia.

— Che c'è, Gino?

— Che cosa è stato?

— Hai fatto una delle tue solite?

— Ti sei fatto male?

— Che bambino senza giudizio!

— Via, strapazzatelo per soprammercato.

— Ih! Che strepito!....

In mezzo a questo fuoco incrociato di punti interrogativi ed
ammirativi, la signora Virginia s'era chinata sul bimbo, e presolo per
disotto le ascelle lo esaminava e palpava da tutte le parti.

— Via, via, non ha nulla, — disse il signor Pacifico.

Intanto il fanciullo singhiozzava — Cattiva nonna.... cattiva....

— Ah! È stata la nonna. Che cosa ti ha fatto?

Gino segnò la guancia sinistra e piangendo con assai più rabbia che
dolore, disse: — Mi ha picchiato qui....

— Ti ha dato uno schiaffo?... Ma sarai stato cattivo.... Le avrai messo
sossopra la camera.

— Niente.... niente.... È caduto.... solo.... lo.... specchio.

La cameriera, nell'intento lodevolissimo d'esaminare _de visu_ la
posizione, aveva salito i pochi gradini della scala che metteva
all'appartamento della _padrona vecchia_ e stava già per entrar nella
camera ov'era successo il contrasto fra nonna e nipote, quando sentì
chiuder l'uscio con molta violenza e dare il chiavistello per di
dentro.

— Che basilisco! — ella mormorò fra i denti battendo la ritirata.

— Benedetta donna! — soggiunse la signora Virginia.

— Già, già, bisogna lasciarla sbollire da sè, — disse il signor
Pacifico. — Ma badiamo bene che anche Gino va castigato.

— Lo castigo io, — rispose con una certa ansietà la signora Virginia
mentre faceva riparo al colpevole con la sua persona.

— Siamo intesi, — replicò gravemente il marito. — Ehi, signorini, che
c'è da ridere? Subito in camera fin che suoni il campanello del pranzo.
Hanno capito? Ha capito, Giorgio? Ha capito, Roberto?

Queste parole erano indirizzate ai due ragazzi poc'anzi accennati,
figli del primo letto del signor Pacifico. Essi si avviarono lentamente
alla loro stanza canterellando: — Torototela torototà.

— Mal educati! — brontolò, il signor Pacifico, senza badare che questo
rimprovero veniva a ricadere sopra di lui. — Mal educati! — E rientrò
nel suo studio.

Gino fu condotto via da sua madre che gli asciugò le lacrime. —
Cattivello che sei, perchè sei andato a disturbare la nonna?... Adesso
venga qui ad aspettare il castigo.

Il bimbo guardò la genitrice con aria d'incredulità, e in prova del suo
ravvedimento, appena giunto nel salotto da lavoro, rovesciò il paniere
ove la signora Virginia teneva le sue lane da ricamo.

— Gino, Gino, — gridò la mamma, — vuoi proprio un altro schiaffetto? —
E lo minacciò con la mano.

Ma Gino aveva cacciato le gambe entro il paniere e si rotolava sul
pavimento con tanta grazia e rideva con sì schietta allegria, che la
signora Virginia ebbe una voglia matta di dargli un bacio anzichè uno
schiaffo.

Il furbacchiotto capi benissimo le disposizioni materne; quindi non si
spaventò punto nel veder la signora genitrice alzarsi dalla seggiola,
ma anzi con raddoppiata ilarità levò in aria le gambe con suvvi il
paniere tanto da farlo parere una cornucopia rovesciata.

— Domando io, — disse la signora Virginia raccogliendo da terra il suo
Gino e pigliandoselo in collo, — domando io come si fa a schiaffeggiare
un visino simile.

E continuava, rivolgendosi a un interlocutore immaginario. — Guardate
mo; non vi pare che si vedano ancora i segni di quelle cinque brutte
dita lunghe ed ossute?... Che orrore!... Picchiarmi il mio Gino....

Nè paga di guardarselo e di baciarlo da tutte le parti, lo portò
davanti allo specchio, e contemplandone con infinita compiacenza
l'immagine, tornò a dire: — Un bambino simile!

Gino, incoraggiato così, ripetè la frase, — Brutta nonna.

La madre gli mise una mano sulla bocca. — Non si dicono queste
parole.... Mi racconti piuttosto che cos'ha fatto.... Ha rotto lo
specchio grande della nonna?

— No.... il piccolo.

— Quello fatto come un _o_?

— Sì, sì, — rispose Gino, — come un _o_ grande.

— Ma che bravo bambino! — esclamò la signora Virginia. — Conosce già
le vocali. — Indi ripigliando un tuono che voleva esser serio: — Ah
lei ha rotto lo specchio che somiglia ad un _o_; così ha fatto gridare
la nonna.... la nonna è stata troppo buona, non le ha dato che uno
schiaffo solo, io gliene darò due.

Dette queste parole, amministrò al delinquente due schiaffetti piccoli
e gentili che arrivando su quelle guancie pienotte diedero un suono
grasso e simpatico; indi lo depose in terra e continuò: — Adesso poi
bisogna prepararsi a domandar perdono alla nonna. Stia attento e ripeta
quello ch'io dico: _Signora nonna_.... Andiamo, via, Gino.... _Signora
nonna_.

— _Signora nonna_....

— Bravo. Così va bene. Avanti: _Le domando scusa_....

— _Le domando scusa_....

— _Di quello che ho fatto_....

— _Di quello che ho fatto_....

— _E le prometto_.... Serio, Gino, non bisogna ridere. _E le
prometto_....

— _E le prometto_....

— _Che non lo farò mai più_. Ha capito?... _Che non lo farò mai più_.

— _Che non lo farò mai più_.

— Bravissimo. Faccia conto ch'io sia la nonna, si metta lì in fondo,
venga verso di me e torni a dir tutto quello che ha detto.

Il bambino con aria grave e marziale si condusse fino alla parte
opposta, là si girò tutto di un pezzo e fissò i suoi occhi biricchini
in viso alla signora madre. La signora madre guardò lui nella stessa
maniera, e ambedue scoppiarono in una sonora risata. La quale risata
nel piccolo Gino si prolungava in maniera da impedirgli di fare un
passo e da incutere un legittimo timore di serie conseguenze; onde
la signora Virginia si alzò e corse alla riscossa del suo rampollo,
prendendoselo nuovamente in grembo e dichiarando ad alta voce che un
demonietto uguale non vi era stato e non vi sarebbe mai e poi mai.

Questa eccellente lezione di belle creanze fu interrotta dall'annunzio
che la minestra era in tavola.

— Dunque, Gino, siamo intesi, — disse la signora Virginia dando la mano
al bimbo e avviandosi con esso verso il salotto da pranzo.

Ivi si trovavano Giorgio e Roberto, il primo dei quali aveva
già versato un poco di vino sulla tovaglia, e ivi giungeva,
contemporaneamente alla moglie e all'indomabile Gino, il signor
Pacifico asciugandosi col fazzoletto i sudori e dichiarando che non era
possibile immaginarsi la quantità di persone venute al suo studio nel
corso della giornata.

— Come se non bastassero i clienti, — osservava l'egregio signor
Pacifico, — ci sono le faccende pubbliche. E non c'è mica caso di
lavarsene le mani.... Oh sì!... Vi dicono che bisogna prestarsi
pel paese, che bisogna fare, lavorare, ecc. E ora c'è Consiglio
provinciale, e ora Consiglio comunale, e poi la relazione sul gaz....
Giorgio, sta quieto.... e poi le ferrovie, e il bilancio.... Roberto,
va a vedere che cosa fa la nonna che non viene a pranzo. Insomma, basta
avere un grano di cervello in zucca che in questo benedetto paese tocca
far tutti i mestieri....

E il signor Pacifico spiegò il tovagliuolo, tornò a passarsi il
fazzoletto sulla fronte e si atteggiò a vittima dell'amor di patria.
Poscia il suo occhio olimpico degnò abbassarsi al piccolo Gino.

— Lo hai castigato? — egli chiese alla moglie corrugando la fronte.

— Sicuro.

— Così va bene. — E soggiunse: — Si fa pel tuo meglio, caro. Se
diventerai un uomo pubblico....

— Scotta, — gridò Gino con voce piagnucolosa, occupandosi più della
minestra che degli augurii paterni.

— Soffia, bambino, soffia — suggerì la signora Virginia — Così.... O
vuoi che passiamo nell'altro piatto?

— La nonna non vuol venire a pranzo — disse Roberto che rientrava in
quel momento in salotto.

— Non vuol venire? Te lo ha detto lei?

— Sicuro. È chiusa in camera. Ho picchiato. Prima non ho inteso che un
brontolio.... Poi ho picchiato di nuovo; e lei s'è alzata di dov'era
a sedere, perchè ho sentito mover la scranna, e gridò brusca: _Chi è
la'?_ Le dissi che ero io e che venivo a ricordarle che il pranzo era
in tavola e che l'aspettavamo. — O credete forse ch'io sia sorda e che
non abbia inteso il campanello? — ella rispose. — A pranzo non vengo
perchè non mi accomoda di venire, e non mi seccate.

Dopo questo sproloquio, Roberto sedette al suo posto e immerse con
grande enfasi il cucchiaio nella zuppiera di riso.

Il signor Pacifico fece un viso disgustato, e si rivolse alla moglie:
— Prova tu.

La signora Virginia, che in mezzo a' suoi difettucci non aveva fiele
di sorta, rinnovò infruttuosamente il tentativo di Roberto; il signor
Pacifico ottenne lo stesso risultato, cosa che offese il suo amor
proprio, e convenne quindi rassegnarsi a desinare quel giorno senza la
nonna.


II.

La signora Paola, che così si chiamava la nonna, aveva settant'anni
sonati; ma era ancora assai vigorosa. Il suo passo era franco e sicuro,
l'occhio vivo, il volto solcato da pochissime rughe. I suoi capelli
erano quasi tutti bianchi, non radi però, chè anzi di poco ne era
scemato cogli anni il volume. E docili ancora si bipartivano con bella
regolarità sulle tempie dando una maestà severa alla sua fisonomia.
Ella era anche buona e caritatevole, la signora Paola, nè in famiglia
si mostrava punto esigente come usano talvolta le persone dell'età sua.
Anzi se qualcheduno aveva davvero bisogno di lei, se v'erano malati in
casa, ella diveniva un miracolo di attività e di abnegazione. Fuori
che in queste occasioni si notava in tutto il suo contegno un certo
riserbo, un desiderio frequente di solitudine e di silenzio. Non era
espansiva nè con la nuora, nè col figlio, nè coi nipoti. Verso questi
ultimi era affettuosa, ma senza gli spasimi che le nonne sogliono
avere. Il solo Gino, che cacciava il naso dappertutto e non aveva
soggezione d'anima viva, penetrava volentieri nel santuario della sua
camera e forzava le carezze della rigida matrona. Appunto una di queste
visite era finita colla catastrofe dello schiaffo. Che cosa facesse
Gino lo sappiamo; non ci siamo però ancora resi ragione dell'impeto
subitaneo della signora Paola.

A capacitarcene è forza conoscere qualche fatterello assai semplice.

Alla signora Paola era accaduto ciò che accade a moltissime donne.
Come suo figlio aveva avuto successivamente due mogli, così ella aveva
avuto due mariti. Era stata fedele all'uno ed all'altro, ma l'amor
suo, l'amore della sua anima ardente ella non lo aveva dato che al
primo.... O perchè adunque s'era rimaritata? chiederanno i pedanti.
Bella domanda. Si fa presto a dire: la vedova che amava sul serio lo
sposo non deve rimaritarsi, non deve profanare il santuario delle sue
memorie, ecc. ecc. Son frasi. Figuratevi una povera giovinetta che a
poco più di vent'anni resta priva del compagno ch'ella si era scelto
per tutta la vita. È bella; viver sola non può senza esporsi a cento
insidie, a cento pericoli; tornare nella famiglia, s'ella ha ancora
famiglia, lo può certamente, ci torna anzi; ma ci starà sempre, ma la
sua casa sarà quella ch'era prima? La cameretta ov'ella dormì i suoi
sonni di vergine avrà mutato aspetto; nei volti dei suoi genitori
non sarà certo scolpito un amore men vivo, sarà forse una tenerezza
maggiore, e tuttavia anche l'espressione di quei volti sarà cambiata.
Pei fratelli, pelle sorelle ella sarà sempre carissima, ma cara in
un altro modo; non glielo si dirà certamente, ma si sentirà che ella
porta nella sua vecchia dimora un fardello di tristi memorie.... Non è
più la spensierata fanciulla di qualche anno addietro; bisogna usarle
speciali riguardi; ella ha ormai un passato di cui non conviene evocare
fuor di luogo le ricordanze; in faccia a lei certe allegrezze troppo
rumorose non istanno bene.... E poi mettiamo che un'altra sorella abbia
un giovine che la corteggi; la vedova non è più la natural confidente
di questi amori come quand'era ragazza; adesso ella è una seconda
edizione della mamma, severa come lei senz'averne l'autorità. E mamma
e babbo e fratelli d'ambo i sessi sono d'accordo a dire ch'è stata
una grande disgrazia _per tutti_ che la povera Elisa, o Matilde, o
Lucia, comunque si chiami, abbia dovuto rimanere così a quell'età!...
E la povera Elisa, o Matilde, o Lucia, che indovina i loro pensieri e
non può asfissiarsi col carbone, o perchè i suoi sentimenti religiosi
glielo proibiscono o perchè ha paura della morte, dopo aver detto
di no tre o quattro volte, si decide finalmente ad accogliere una
nuova proposizione di matrimonio, e domandando perdono all'ombra del
suo indimenticabile Arturo, o Luigi, o Aristodemo, passa a tentar la
fortuna del secondo talamo.

La signora Paola era vissuta da due anni col suo primo marito, due anni
di cielo, come si dice in linguaggio poetico. No, non è possibile esser
tanto felici. Quando s'era sposata ella aveva sedici anni ed egli ne
aveva ventuno, e agli occhi di lei era bello come un Adone, buono come
un angelo, e pieno d'ingegno, di brio, di coraggio. Si chiamava Ettore.
Non è ben certo ch'egli avesse tutte le qualità attribuitegli da sua
moglie; spaventato forse dell'idea di dover col tempo scendere dal
piedestallo di gloria su cui ella lo aveva collocato, egli pensò bene
di pigliarsi una perniciosa e di morire. Morì lasciandole un bambino
di 13 mesi di nome Paride. Benedetta guerra di Troia! Non ce la siamo
ancora dimenticata.

Vedova nell'età in cui le altre donne sogliono essere ancora
ragazze, la signora Paolina, immersa nella più vera e profonda
desolazione, giurò di consacrarsi intera alla memoria del suo Ettore
e all'educazione di quel pegno diletto che gliene era rimasto.... Era
tutto lui. Negli occhi, nel naso, nei capelli ricciuti!... Guai a chi
le parlasse di matrimonio, guai!...

Ma la sventurata Paolina non era per anco rinvenuta dallo sbalordimento
di quel primo colpo, quando gliene toccò un altro non meno terribile.
Il suo Paride, il suo bimbo, il suo tesoro, la sola sua ambizione,
il solo scopo della sua vita, morì anch'egli che non aveva due anni.
La morte falcia volentieri le testine bionde. È inutile descrivere lo
spasimo della madre. Si temette ch'ella ne perdesse la vita o almeno
la ragione. Risentitasi dopo alcuni mesi, si trovò come smarrita nel
mondo. Sarebbe andata monaca se il suo Ettore non le avesse lasciato
in retaggio un orrore invincibile pei chiostri. Fece adunque quello
che fanno le altre donne nella sua condizione; si ridusse presso
la sua famiglia, traendovi una vita vegetativa. Ma era di mezzi di
fortuna molto ristretti. Il suo Ettore sarebbe diventato sicuramente
un grand'uomo, ma gliene era mancato il tempo, e intanto, appunto
per estendere la sua conoscenza degli uomini e delle cose, aveva
assottigliato la non cospicua dote della moglie.

— Che non mi si venga a discorrere d'interesse — aveva detto la vedova
— perchè non voglio saperne. Vergogna!

Così la signora Paola, senz'accorgersene, finì coll'essere a carico
della famiglia. Ma queste cose non possono rimaner sempre occulte,
e anche la poveretta, per quanto i suoi glielo dissimulassero, alla
lunga venne a saperlo. Allora pianti, e sospiri, e disperazioni, e fra
lei e suo padre uno di que' dialoghi che sogliono tenersi in simili
circostanze.

— Bisogna ch'io veda di rendermi utile, che io faccia qualche cosa.

— Nemmen per sogno, io non te lo permetterò mai.

— In fin dei conti son libera.

— Finchè son vivo io, mia figlia non si abbasserà a lavorar per
guadagno.

— Pregiudizii. È necessario che le donne comincino a procurarsi da sè
i mezzi della loro esistenza.

— Idee nuove che io non accetto.

— Idee vecchie sono piuttosto le vostre....

— Oh bravissima. Si metta a censurar suo padre. È di moda....

— No, babbo.... io non volevo.... Ah me infelice! Il mio Ettore! Il mio
Ettore!

E giù in un pianto dirotto.

Questa scena rinnovata più volte con piccole variazioni finì col
produrre singolari cambiamenti nel modo di vedere della signora
Paolina, e in capo a quattr'anni di vedovanza, ella, senza nemmeno
saper rendersi conto del come, si trovò fidanzata una seconda volta.

Il suo nuovo marito si chiamava Mansueto e l'unico figlio ch'ella
n'ebbe, si volle a tutti i costi battezzar per Pacifico. Dal nome
in giù era una completa antitesi fra il suo primo e il suo secondo
consorte, il suo primo e il suo secondo figliuolo. Il suo Ettore
era bello, vivace, aitante della persona, il signor Mansueto era di
fisonomia insulsa, piccolo, goffo. Paride prometteva di far onore
al suo nome, era nelle fasce un vero angioletto; a due anni, quando
soccombette a una malattia di poche ore, camminava già solo, parlava,
aveva messo più denti; questo Pacifico invece non cresceva mai,
non riusciva mai a reggersi sulle gambe, non imparava nemmeno a dir
_mamma_ e _babbo_, e benchè in complesso fosse sano, era sempre triste
e piagnucoloso. Quindi la signora Paola era tratta irresistibilmente
ai confronti, e quantunque facesse il possibile per amare il suo
rispettabile consorte, e amasse con sincero affetto l'unico frutto di
questo suo connubio, il suo pensiero correva al passato. E il passato
diventava tanto più bello agli occhi di lei, quanto più larga tratta di
tempo ne la divideva, e a poco a poco con le virtù della immaginazione
ella se ne era fatta una specie di paradiso terrestre. Ma di questo
paradiso, di questa età dell'oro della sua vita non le restavano altre
reliquie che due ciocche di capelli ed un piccolo specchio. Due ciocche
di capelli recise dalla testa del suo Ettore e di Paride suo nel
giorno in cui erano morti, e lo specchio medesimo rotto tanti anni dopo
dall'insolentissimo Gino.

La storia di quello specchio si chiude in poche parole.

Esso era una suppellettile di casa della Paolina e stava nella sua
camera da letto. Se ne era fatta una festa quando glielo avevano
regalato, ed era veramente, nella sua piccolezza, leggiadro e
nitidissimo. Ma i pregi esteriori svaniti col tempo non eran quelli
che glielo rendessero caro. Era piuttosto l'averlo avuto compagno
per tanta parte della vita, l'esservisi vista riflessa in sì diverse
condizioni ed età; era poi qualche episodio insignificante in sè, ma
prezioso per lei. No certo, ella non dimenticherà mai quel giorno, il
giorno delle prime sue nozze, in cui, seduta davanti al suo specchio
favorito, ancora in vesta da mattina e mezzo discinta, coll'accappatoio
sulle spalle, ella si lasciava acconciare i capelli dalla cameriera,
mentre la madre e una vecchia zia la contemplavano estatiche da
tutte le parti. Pallida, tremante, ma piena in cuore di una ebbrezza
ineffabile e nuova, ella guardava nel suo cristallo come attraverso le
lenti di un panorama. E vi vedeva prima di tutto sè stessa, in verità
un bel visino, proprio una rosa bianca sbocciata appena e stillante
rugiada dai petali; poi, curve sopra di lei in vari atteggiamenti e
la cameriera, e la mamma, e la zia; quindi, in un piano posteriore, le
suppellettili della sua camera in un certo disordine, il letto sfatto,
il suo letto di fanciulla ove ella credeva di aver dormito per l'ultima
volta, e le sedie, e l'armadio, e il sofà sul quale era distesa la
sua candida vesta di sposa e la sua ghirlanda di fiori di cedro:
finalmente, nel fondo, l'altro specchio men limpido ma assai più grande
ch'era infisso alla parete e nella cui luce ella si sarebbe di lì a
poco mirata tutta intera e in tutto lo splendore del suo abbigliamento
nuziale. Ed ecco l'uscio dietro di lei socchiudersi pian piano, e dallo
spiraglio far capolino prima un riccio di capelli, poi un naso, un
occhio e la punta d'un baffo.

— Che cos'hai? — chiese la madre, la quale non aveva avvertito altro
che il rossore improvviso diffusosi sul volto alla Paolina.

Ma la cameriera aveva visto ogni cosa nello specchio e sorrideva senza
scomporsi.

La vecchia zia allora si voltò bruscamente e si accorse che qualcheduno
aveva cacciato la testa attraverso l'uscio e che _quel qualcheduno_ era
nientemeno che il signor Ettore, il promesso sposo.

— Ah signor impertinente! — disse la venerabile matrona con una voce
che somigliava al suono di una pentola fessa. — Non sa che non si può
entrare?

Troppo tardi! Il nemico aveva sorpreso la posizione. Messosi al posto
della cameriera, il signor Ettore s'era curvato sulla sua Paolina, e
a lei che, stringendosi quanto più poteva l'accappatoio alle spalle
seminude e mettendo un piccolo grido, s'era arrovesciata sulla
spalliera della seggiola, aveva stampato un sonoro bacio sulla bocca.

Scossa allo spettacolo e forse rammentando chi sa che cosa, la vecchia
zia aveva fiutato in gran furia due prese di tabacco, la cameriera
sorrideva in un angolo, e la buona madre, mentre tentava di allontanare
lo sposo e di raccomandargli la calma, non poteva trattenere le
lagrime. Era un bel quadretto che lo specchio riproduceva con la sua
scrupolosa fedeltà e di cui la Paolina non aveva certo agio, in quella
voluttà e concitazione dell'animo, di coglier tutti i particolari,
ma del quale ella aveva visto, come attraverso una nuvola d'oro,
l'insieme.

E così quello specchio le divenne tanto caro che ella volle portarselo
seco nella sua nuova dimora. E lo collocò come un fedele e discreto
amico nel suo abbigliatoio in mezzo ad altri mobili più belli ed
eleganti ma meno simpatici al suo cuore. Dinanzi ad esso ella continuò
a pettinarsi, in esso vide riflessa la gioia serena de' suoi tempi
felici, in esso vide la ingenua sorpresa del suo bambino quando gli
si affacciava di là un'altra immagine infantile, ed egli sporgeva le
labbra a baciarla. Mutati i tempi, vide nello specchio le nubi che
oscurarono la sua fronte, e le lagrime che colarono dalle sue ciglia,
e le rughe che solcarono le sue gote. Tutta la sua vita era passata,
ombra fuggitiva, di là. Dalla casa maritale tornò alla casa paterna,
da questa entrò sotto il tetto di un nuovo marito, e lo specchio la
seguitò sempre come un quadro di famiglia. Ed era un quadro veramente,
era tutta la sua galleria domestica, senonchè le figure v'erano evocate
da uno sforzo d'immaginazione. Vive sempre nella sua fantasia, esse
non pigliavano mai così esatti contorni come nella luce di quel breve
e fragil cristallo.

Non maravigliamoci adunque se la signora Paola sta in atteggiamento
di profondo dolore dinanzi ai frantumi di quella sua cara reliquia;
pensiamo piuttosto quante volte al giorno, più colpevoli assai
dell'imprudente bambino, o con una parola acerba, o con un gesto
villano, o con un ghigno beffardo, noi turbiamo caste e sante memorie,
noi interrompiamo l'opera laboriosa con la quale altri ritesse la tela
del suo passato.



IL PARASSITA INDIPENDENTE


Avete conosciuto il conte Mario Rinalducci?

No! Peccato. Era un carattere originale.

Adesso non lo conoscerete più perchè è morto.

Il conte Mario apparteneva a una famiglia nobile decaduta. Fino a
vent'anni crebbe in mezzo agli agi ed alle mollezze, cullato nella
falsa opinione d'essere un gran signore, nudrito di una educazione
tutta d'apparato, la quale servì piuttosto ad assopire che a svolgere
le attitudini naturali del suo spirito. Infatti egli non era uno
sciocco; aveva anzi quella versatilità d'ingegno, quella facilità
d'imparare, che quando non sono ben dirette, corrono il pericolo di
convertirsi in vere disgrazie per chi le possede. Il fanciullo vedendo
di poter afferrare con poca fatica quanto gli s'insegna, non istudia;
la madre grida al miracolo e porta in processione di casa in casa il
suo illustre rampollo, affine di far dispetto alle altre madri sue
amiche, le quali non sono beatificate di prole sì cospicua e magnanima.

Il nostro contino imparò superficialmente una gran quantità di cose;
a tredici anni faceva versi, nientemeno che versi, strimpellava il
pianoforte, biascicava il francese, disegnava un po' di figura, tirava
di scherma, ballava, e cominciava persino a corteggiar le signore.

Sedicenne, con la prima lanugine sulle guancia, bello della persona,
era il beniamino delle società eleganti; non c'era festa a cui non
lo si invitasse, non allegra brigata di giovani onde egli non facesse
parte.

Quanto al progresso negli studi, c'era forse un po' di sosta; a tredici
anni Mario prometteva di più; nondimeno egli continuava a mandar di
pari passo la poesia, la musica, il disegno e gli esercizi ginnastici.
In poesia mostrava soverchia indipendenza dalle regole grammaticali,
in musica dicevano che qualche volta stuonasse, in disegno offendeva
frequentemente la prospettiva, nella scherma era mediocre; perfetto era
soltanto nel ballo.

Del resto sua madre ripeteva sempre: — Importa molto che Mario studi!
Pur che ci si metta, in un giorno egli fa più strada che gli altri non
facciano in un mese.

E suo padre, buon uomo, obeso e torpido, ma non mancante di boria,
soggiungeva con una logica tutta sua: — Gli studi regolari convengono
a chi non può o non vuole mantenersi indipendente. Mario, grazie al
cielo, non avrà mai bisogno di lavorar per guadagno.

Mario aveva vent'anni quando padre e madre gli morirono coll'intervallo
di pochi mesi, e il giovinetto venne a scoprire che la sua fortuna, la
quale non era stata mai colossale, era sfumata quasi per intero.

Ma non c'era punto da sgomentarsi, pur di avere un po' di criterio e un
po' d'energia. Bisognava uscire da una società frivola e spensierata,
mettersi a studiare sul serio una cosa o l'altra e poi cercarsi una
professione. A venti anni un uomo senza obblighi di famiglia e non
privo di abilità non ha bisogno di quattrini per farsi strada nel
mondo.

Però il Rinalducci tenne un diverso cammino. E la colpa ne fu in
parte sua, in parte degli amici. Egli aveva una ripulsione istintiva
ad accettare una posizione dipendente, a seppellirsi in un ufficio
pubblico o privato, a disciplinare la propria attività. A ogni modo, se
avesse sentito suonarsi all'orecchio un suggerimento virile, forse si
sarebbe risolto a lottare con sè stesso, e quando v'è lotta v'è almeno
la speranza della vittoria.... Ma fra coloro che lo circondavano non ve
n'era nessuno capace di questo suggerimento virile.

Era tutta gente imbevuta di pregiudizi e la cui affezione per esso
era d'indole soltanto egoistica. Un giovine che aveva un bel nome
non poteva mettersi a livello d'un impiegatuccio qualunque, figlio
del primo mascalzone venuto. E poi, e poi lasciar che Mario uscisse
da una società di cui egli era uno fra i principali ornamenti! Chi
poteva stargli a petto nel dirigere una quadriglia? Chi sapeva come lui
suonare una polka in una di quelle festine improvvisate che divertono
tanto? Chi lo uguagliava nel dare le disposizioni per una cena, per
una partita di piacere? No, non conveniva assolutamente perderlo. E
tutti a fargli ressa d'intorno e a rispondere alle sue lamentazioni,
alle sue proteste di voler mutare ambiente, mutar città forse: — Ma
via, ti pare?.... Nemmen per idea... in primo luogo povero affatto non
sei (gli era rimasto qualche migliaio di lire) non sei in condizioni
da doverti cercare un pane da oggi a dimani.... Puoi aspettare, puoi
vedere.... Aggiungi che hai anima di gentiluomo e d'artista, vorresti
spendere il tuo tempo a registrare atti a protocollo o a scrivere
lettere commerciali?... Con tanti amici che hai, col tuo ingegno!...
Vergognati! Invece senza fretta tu farai un quadro, scriverai un opera
e allora avrai le ricchezze e la gloria....

Nessun consiglio ci viene tanto accetto quanto quello che risponda alle
nostre idee, e perciò il contino Rinalducci accolse le espressioni
dei suoi amici con trasporti di vero entusiasmo. Egli era commosso
fino alle lagrime della bontà che gli mostravano le prime famiglie
del paese, della cura con cui esse volevano tutelare il suo decoro.
Era impossibile ch'egli agisse contro la loro opinione, ch'egli si
mostrasse meno tenero del proprio nome di quel che se ne mostrassero
personaggi così illustri quali erano la marchesa C..., la contessa
M..., la principessa L..., i conti R..., il contino A..., per non
parlare di uno sciame di ragazze tutte deliberate a trattarlo come
disertore s'egli abbandonava la _buona_ società.

A ricambiare tanta benevolenza, egli, passati i primi tre mesi di
lutto, continuò a dirigere le quadriglie, a dar le disposizioni per
le gite di piacere, ad accompagnare alla passeggiata le signore di
sua confidenza.... Diede fondo in brevissimo tempo al poco che gli
rimaneva, senza che i suoi studi avessero fatto un passo decisivo.
Egli cominciò a scoprire che aveva il genio, ma che il suo spirito si
ribellava alla tecnica dell'arte, si ribellava al giogo delle regole.
Se si fosse potuto fare un quadro senza disegno nè colore, egli avrebbe
fatto la _Trasfigurazione_ di Raffaello, se si fosse potuto scrivere
un'opera senza le pedanterie del contrappunto, egli avrebbe scritto
gli _Ugonotti_. Malgrado di ciò egli continuava ad esser favorito,
festeggiato, carezzato. E quando fu proprio al verde di quattrini,
si accorse che non era difficile il far debiti, nè impossibile il
trovare nei momenti supremi chi li pagasse. Più di qualche volta l'uno
o l'altro de' suoi intimi aveva consentito ad anticipargli alcune
migliaia di lire, tanto ch'egli potesse mantenersi in quella posizione
indipendente di cui aveva bisogno.... Se Mario non era ben vestito, non
lo si poteva ricevere in società, e come fare a meno di lui in società,
se nessuno possedeva le sue svariate attitudini?...

Il Rinalducci era in relazione troppo stretta con quelli che lo
sovvenivano per sentirsi umiliato dalla loro condiscendenza. — Son cose
che si fanno tra amici — egli diceva, e dispostissimo a fare anch'egli
altrettanto, si sentiva esonerato dagli obblighi della gratitudine e da
quelli del rimborso.

Certo qualche volta gl'imbarazzi eran seri, ma il contino non si
perdeva d'animo. A un vilissimo padrone di casa che si era permesso
di dargli lo sfratto perchè egli non aveva pagato per tutto un
anno la pigione, il nostro eroe rispose per le rime meravigliandosi
della sua petulanza e dichiarando ch'egli non era solito a ricevere
intimazioni. L'altro non si diede per vinto e replicò con frasi di
non dubbio significato. Punto nel vivo, il pigionale ricalcitrante
mandò dal proprietario tiranno due giovanotti, intimi suoi, il conte
C... e il barone V..., coll'incarico di ottenere una ritrattazione
o di fissare le condizioni di una partita d'onore. Ma lo sfidato,
quantunque fosse uomo di fresca età e di membra vigorose, ricusò di
accomodar la faccenda in questa maniera e rise in faccia ai padrini,
i quali, con molta solennità, stesero immediatamente un processo
verbale, che diedero alla luce, lasciando giudice dell'accaduto il
solito pubblico. E il pubblico, della buona società, sentenziò che il
conte Rinalducci e i suoi padrini si erano condotti cavallerescamente,
e che il proprietario era un bifolco senza principii di educazione. Ciò
non tolse che il nostro zerbinotto dovesse cercarsi un'altro alloggio.
E lo trovò per qualche tempo in due stanze d'un palazzo disabitato
appartenente a un amico, al quale egli si guardò bene dal pagare
alcun fitto, dolendosi soltanto della nessuna comodità del quartiere
assegnatogli, quartiere, com'egli diceva, più da servitori che da
gentiluomini. — Come pretendere, egli soggiungeva, che io dipinga o
scriva musica se ho uno studio privo d'aria e di luce? Vergogna! Che
cosa sarebbe costato all'amico X il darmi una stanza migliore?

Nondimeno il Rinalducci volle rispondere con magnanimità a tanta
grettezza, e dipinse a memoria il ritratto del suo ospite, per
fargliene una sorpresa nel suo dì natalizio. Il ritratto somigliava
all'amico X quanto può somigliare la signora... (quasi mi scappava
il nome) alla più bella delle mie lettrici, ma esso parve all'autore
un'opera d'arte così perfetta da non potersi pagare nè con l'abbuono
di cento pigioni, nè con l'invito a diecimila pranzi. Volle sceglierne
egli medesimo la cornice e collocarlo di sua mano nel posto d'onore
sulla parete del salotto dai ricevimento. Più di qualcheduno, non
iniziato nei misteri del pittore, domandò chi fosse quel brutto
ceffo che aveva la bocca storta e guardava losco. E allora il felice
proprietario rispondeva in fretta con qualche impiccio: — Una testa di
fantasia! Una testa di fantasia!

Col passar degli anni le strettezze del conte Mario aumentavano
anzichè diminuire. I suoi creditori, nefanda genia, diventavano più
fastidiosi e i sovventori si mostravano invece meno liberali. E poi,
a poco a poco, l'ambiente in mezzo al quale egli era cresciuto, si
andava spostando e trasformando. I vecchi protettori, amici del babbo
e della mamma, morivano, i compagni della sua gioventù prendevano
moglie, le ragazze che egli aveva trattate confidenzialmente si
maritavano, e non sempre le nuove famiglie erano così benevole a suo
riguardo come le antiche. Egli sorprendeva di tratto in tratto qualche
gesto impaziente, egli udiva qualche parola amara. egli, il favorito
di pochi anni addietro, sentiva, in più d'una occasione, d'esser di
troppo. Ma egli aveva acquistato ormai una faccia tosta invidiabile.
Anche non invitato si cacciava dappertutto, era riuscito a desinare
alla mensa altrui cinque volte per settimana, era riuscito a passare in
varie villeggiature due mesi di primavera e due mesi d'autunno. Sempre
indipendente, non isdegnava di ricambiare i favori dei suoi ospiti
col corteggiarne le mogli, e metteva dalla sua parte le cameriere
corteggiando anche loro. Era un bell'uomo, era elegante, e le donne
chiudevano volentieri un occhio alle sue debolezze. Suoi implacabili
nemici erano i camerieri maschi, perchè non aveva la bassa e servile
abitudine di dar mancie e aveva esigenze da principe. Narra la cronaca
ch'egli fosse una volta gravemente compromesso dalle rivelazioni di
uno staffiere, il quale l'aveva sorpreso nell'atto di consegnare un
bigliettino alla sua padrona.

Il conte Mario fu licenziato su due piedi dalla villa ond'egli godeva
le delizie, ed ebbe l'intimazione di non presentarsi mai più. Egli si
fece un grande onore in questa faccenda sfidando a duello e storpiando
lo screanzato ed insofferente marito, ma dovette stringere una nuova
relazione per supplire al vuoto prodotto dal disgustoso incidente nel
numero de' suoi inviti a pranzo e in quello dei giorni ch'egli passava
in villeggiatura.

Si domanderà perchè il conte Mario non ricorresse ad un sistema molto
in voga fra i pari suoi: vale a dire ad un ricco matrimonio con una
ragazza _avariata_ del suo ceto, o con qualche gobba o sbilenca della
borghesia che fosse disposta a scambiare un mezzo milioncino con un po'
di blasone.

Quelli che seguirono con una certa attenzione le vicende dell'esimio
Rinalducci serbano memoria di quattro proposte di matrimonio che gli
furono fatte, cioè:

La contessina A..., 200 mila lire di dote, trentacinque anni, aspetto
mediocre. Fuggita a venti anni con un ufficiale di cavalleria,
trattenutasi con lui soli otto giorni;

La marchesina B..., 150 mila lire, ventotto anni, non brutta, rea d'un
unico atto di distrazione che sventuratamente produsse una piccola
conseguenza;

La signorina L..., figlia di un negoziante di chiodi, 300 mila lire.
Naso da pappagallo, e un'escrescenza assai pronunziata sulla schiena;

La signorina N..., figlia d'un pizzicagnolo ritirato dagli affari, 350
mila lire, ventisette anni, fianchi posticci, statura eccezionalmente
bassa, un neo a forma di cespuglio sulla guancia, eruzioni cutanee
assai abbondanti ogni primavera.

Come si vede, l'uno o l'altro di questi partiti avrebbe offerto
al conte Mario l'occasione di rimpannucciarsi. I biografi non sono
d'accordo sulle ragioni che fecero andare a vuoto i vari progetti;
i più benevoli affermano che nel momento di stringere i conti egli
cedesse ad una invincibile ripugnanza pell'ignobile contratto; altri
citano cause diverse. In un caso, essi dicono, furono i genitori della
sposa che ruppero i negoziati, appena il conte Mario domandò un acconto
di 10 mila lire sulla dote; in un altro caso una vedova alla quale
egli andava debitore di molto, venuta a cognizione di ciò che stava
macchinandosi dal suo protetto, riuscì a comperare alcune cambiali
sottoscritte dal Rinalducci, e più sollecita della vendetta che del
proprio decoro, lo minacciò d'una procedura sommaria ov'egli non si
sciogliesse senza indugio da qualunque impegno matrimoniale.

Il conte Mario sentì sbollirsi i suoi ardori per la sposina e tornò a
sacrificare all'ara della vedova, ottenendo da lei l'annullamento delle
tratte fatali.

Il conte Mario giunse adunque alla matura virilità senza prender moglie
e senza diventare nè uno scrittore, nè un pittore, nè un maestro di
musica. Era un dilettante mediocre, buono da far madrigali, da disegnar
macchiette, da sonare un walzer o una polka in caso di bisogno. Ma
tutte queste cose non fruttano quattrini, e alla lunga, seppure egli
avesse voluto, gli sarebbe stato ben difficile mettersi al sodo. A
quarant'anni tutti ci chiedono: — O che avete fatto fino al presente?
Come avviene che vi poniate in cammino nel momento, in cui gli altri
arrivano? — E poi — faceva osservare il conte Mario quando sollecitava
uno dei soliti _prestiti_ da uno dei soliti amici — e poi, capisci
bene, col mio nome, nella mia posizione, non posso accettare il primo
impiego che capita. Non dico, se si trattasse di esser direttore
d'una banca, d'una compagnia d'assicurazioni, potrei anche pensarci,
ma è tutta una _camorra_, è una indegnità. Gli uffici sono riserbati
a Caio perchè è parente d'uno dei consiglieri, a Tizio perchè ha le
raccomandazioni di un ricco azionista, del quale sposerà la sorella, a
Sempronio perchè ha l'amicizia della moglie del Presidente. Camorra!
Camorra! Oh un giorno o l'altro li concierò io per le feste questi
aristocratici della Borsa con una satira alfieriana!

Ma la satira alfieriana rimase nella penna al nostro Mario, il quale
volse le forze dell'intelletto a trovar mille ingegnose applicazioni
alla sua teoria che un amico fosse una mucca da mungere a proprio
piacere. Lo svolgimento pratico di questa profonda dottrina gli arrecò
per altro non pochi disinganni, che lo convinsero della tristizia degli
uomini. — Quale egoismo! — egli sclamava dopo aver subito un rifiuto.
— Quale mancanza di cuore! Dirmi di no!...

Poichè alcune delle vecchie relazioni gli andavano via via mancando,
egli cominciò ad esser meno esclusivo nella scelta de' suoi conoscenti
e ad introdursi anche in alcune famiglie borghesi. Però, nemmeno
le nuove conoscenze duravano tutte a lungo, ed egli se ne vendicava
diventando più esigente verso quelle che gli rimanevano fedeli o per
sincera affezione, o per consuetudine, o per timidezza. Giacchè col
crescer degli anni gli era cresciuta in singolar guisa la maldicenza,
e molti temevano d'esser fatti segno a suoi strali.

Lo stanzino del caffè ov'egli teneva cattedra aveva acquistato ormai
un certo grado di celebrità, e non mancavano gli sciocchi e gli
sfaccendati che dicevano — Andiamo un po' a sentire il conte Mario. Ha
la lingua un po' lunga, ma le dice con garbo, e non risparmia nè grandi
nè piccini. Dopo tutto egli non è uomo di partito, è un carattere
indipendente.

Un carattere indipendente! Ecco quello che il conte Rinalducci voleva
che gli altri lo giudicassero, ecco quello ch'egli credeva sul serio
di essere. Povera indipendenza! Che ludibrio hanno fatto del tuo nome!
Tu e la tua sorella libertà siete certo fra le parole più martoriate
del dizionario. E tu per lo appunto, o indipendenza, quante volte
non mascheri a tua insaputa l'abbietto cinismo, l'egoismo gelato e
impudente! Quanti non sono che si vantano indipendenti, perchè non
si lasciano vincere da nessun entusiasmo e da nessuno sdegno, perchè
in mezzo al turbine delle ambizioni e degli affetti ond'è travolta
l'umanità, possono non ambir nulla, e si contentano di appiattarsi
in un angolo per iscagliare il dardo avvelenato dei loro sarcasmi su
tutti quelli che operano, e pensano, e credono, e amano! Non curare
il proprio paese? È indipendenza dalle grettezze della nazionalità.
Non tenersi legati dai benefizi? È indipendenza dalla gratitudine. Non
rispettare la virtù? È indipendenza dalle pedanterie della morale.

Chiedo perdono della digressione. Il conte Rinalducci, io dicevo,
conservava alcuni amici, e questi dovevano supplire anche a quelli
che gli erano andati mancando. Non solo egli era il loro assiduo
commensale, ma voleva altresì esercitare una influenza sui loro sistemi
culinari. Come avviene frequentemente degli oziosi, egli era diventato
gastronomo, ed era delicatissimo nei cibi e nei vini. Rivedeva le
buccie ai cuochi e ai cantinieri, e toglieva la sua stima ad un padrone
di casa che lasciasse portare in tavola un manicaretto non accomodato
a dovere o un vino di qualità inferiore. Chi non capiva la virtù del
_gorgonzola_ grasso era uno zotico, chi non pregiava la polenta coi
beccafichi era un barbaro. Tenne il broncio per due settimane ad una
famiglia, che, dopo averlo invitato una mattina a mangiare le beccacce,
sciupò questa vivanda prelibata con una salsa sgradevole, salsa da
Ostrogoti, com'egli diceva, salsa che era per sè stessa una rivelazione
di gusti grossolani e plebei.

Se un buon pranzo era la cosa principale che il conte Mario domandava
a' suoi amici, egli non intendeva con ciò esonerarli dall'obbligo di
farlo partecipare anche ai loro divertimenti. E non solo egli reputava
essere ormai convenuto che ove andavano i suoi conoscenti dovesse, a
spese loro, andarsene anch'egli, ma suggeriva egli stesso le gite da
farsi, gli spettacoli a cui assistere, e non lasciava pace agli amici
finchè non li aveva indotti ad accogliere i suoi progetti.

E in questi suoi suggerimenti non era già ossequioso, mellifluo, ma
usava modi conformi a quella _indipendenza di carattere_ ch'era il
maggiore suo vanto.

Egli s'era, per esempio, fitto in capo di andare a teatro col signor X.
Ebbene, senza tanti preamboli, egli chiedeva: — _Si è_ preso palco per
stasera?

E se il signor X rispondeva, o che non ci aveva pensato, o che aveva
voglia di restarsene a casa, egli replicava infastidito: — Come! Non
si va a teatro? C'è uno spettacolo di cartello, e si ha il coraggio
di non andare a teatro! Vergognatevi di farvi sentire a dire un'eresia
simile....

Ma qualche volta il signor X non si vergognava e teneva fermo
al suo punto; allora il conte Mario prima di seccare una terza
persona scaraventava addosso all'amico ricalcitrante una serie di
contumelie accusandolo di mancare di gusto e di gentilezza, e d'essere
immeritevole dei favori della fortuna.

Pur non era implacabile e il di appresso si ripresentava, perdonando,
alla tavola di chi aveva vituperato la sera.

Del resto, il conte Mario aveva un modo di ricambiare i favori
ricevuti. Non era egli un grande artista _in potenza_? Ebbene egli
faceva il ritratto dei figli de' suoi anfitrioni. I fanciulli erano
stati sempre il suo forte in pittura, ed egli rammentava con orgoglio
le lodi che avevano accolto una testa d'angelo, lavoro della sua
adolescenza. Adesso i bambini evocati dal suo pennello somigliavano più
ai feti conservati nell'acquavite che agli angioletti dell'_Assunta_;
nondimeno quand'egli aveva condotto a termine una di queste tele
preziose, egli si fregava le mani con compiacenza e diceva fra sè: —
Adesso il creditore son io.

Se questo convincimento di non dover mai nulla a nessuno fosse sincero
o affettato; se quest'aberrazione del suo spirito fosse rotta da
qualche lucido intervallo in cui egli si rendesse conto esatto della
sua posizione, è difficile a dirsi. Forse nella desolate solitudine
della sua casa egli avrà avvertito l'abisso in cui era caduto, ma era
troppo tardi. Ormai, la coscienza del vero non poteva infiammarlo a
virili propositi, l'energia che gli era mancata nella giovinezza non
poteva venirgli nel tramonto della vita. Nè egli si apriva con nessuno.
Mormorava degli uomini e delle cose, si lagnava dell'ingiustizia del
mondo, inveiva, egli rimasto fra gli ultimi, contro tutti quelli che
erano arrivati a una meta, ma confidar le segrete battaglie dell'animo,
ma versare i proprii dolori nel cuor d'un amico non era affar suo. Alla
società nella quale egli era vissuto egli aveva chiesto il piacere, non
lo scambio soave degli affetti e dei pensieri, ed essa non gli aveva
dato più di quanto egli s'era atteso da lei.

Ora ella gli forniva i mezzi di sussistenza come si assegna una
pensione ad un povero invalido; quanto ai conforti dello spirito, nè
ella gliela offriva, nè egli sarebbe stato più capace d'intenderli.

Il tugurio che lo albergava la notte era inaccessibile a tutti
fuorchè a una donnicciuola, al servizio d'altri inquilini della stessa
abitazione, la quale per pochi soldi al mese consentiva a fargli la
stanza. Ma quella donna doveva accudire a' suoi uffici mentre egli
era in casa; per tutto l'oro del mondo egli non le avrebbe lasciato la
chiave della sua camera, temendo ch'ella potesse, lui assente, condurre
qualcheduno fra quelle pareti, testimonio della sua miseria.

Usciva per tempissimo, dopo essersi fatta la barba dinanzi a un
frammento di specchio, dopo aver spolverato in tutti i sensi l'unico
vestito decente che gli restava; usciva senza uno scopo, senza una meta
fissa, cacciato più ch'altro dall'insonnia e dal bisogno di quelle
illusioni che gli erano negate dal triste spettacolo del suo covile.
Percorreva lento, distratto le vie della città, sostando dinanzi alle
mostre delle botteghe, soffermandosi al passar delle belle donnine e
seguendole con un lungo sguardo di desiderio forzatamente platonico.
Com'erano lontani i tempi in cui le belle donnine, accortesi ch'egli
le guardava, si voltavano furtive e sorridevano dietro il ventaglio
od il velo! Le belle donnine di quei tempi erano ormai venerande
matrone, avevano perduto le rose del volto e la svelta leggiadria delle
membra, ma avevano una casa, una famiglia, ma nel sorriso dei loro
figliuoli rivivevano ai lieti di della giovinezza; egli invece aveva
finto di credere la giovinezza eterna, aveva sperato che i piaceri
dei venti anni potessero scaldare un cuor di sessanta, e si trascinava
solo, povero, infermiccio... Misero chi non prepara gli alloggi alla
vecchiezza che giunge! Esso è simile a chi s'affida di mantener perenne
l'estate non vestendo i panni invernali.

Dopo aver passato alcune ore alla bottega di caffè in mezzo agli
eleganti ed ai ricchi tanto per credersi ricco ed elegante al pari di
loro, il conte Mario andava a pranzo da questo o da quello, saziandosi
con un pane e un pezzo di formaggio nei giorni _vuoti_. La sera
rincasava assai tardi, ma non voleva che si discorresse mai del suo
domicilio, del quale egli amava dimenticarsi sotto ogni riguardo,
compreso quello della pigione.

Il conte Rinalducci, come dissi fin da principio, è morto, e l'onore di
ricevere le sue ultime disposizioni toccò al signor Giovanni Battista
Smerigli, ricco possidente, ex-consigliere comunale, che conosceva già
da vent'anni il nostro eroe e che aveva la soddisfazione di dargli da
desinare la domenica, il mercoledì e il venerdì.

Ora, un mercoledì, alle sei in punto, il signor Giovanni Battista
Smerigli, trovandosi nel gabinetto da lavoro di sua moglie, guardò
prima l'orologio, poi la signora Valentina (era il nome della consorte)
e disse: — Per solito Rinalducci a quest'ora è venuto.

— Sicuro, — rispose la signora Valentina senz'alzar gli occhi dal suo
telaio da ricamo.

— È stranissimo, — soggiunse il signor Giovanni Battista.

Indi marito e moglie tacquero e lasciarono scorrere in silenzio altri
cinque minuti.

— Non capisco, — riprese la signora Valentina dopo questo intervallo.

— Se facessimo intanto portare in tavola? — insinuò timidamente il
marito.

— Ti pare? — replicò _madama_. — Rinalducci andrebbe su tutte le furie.
Egli ha dichiarato tante volte che non vuole la minestra fredda...

— E a lasciarla al fuoco la troverà lunga.

— È vero, ma egli ha pur detto che preferisce la minestra lunga alla
fredda.

— Gli è che invece io preferisco la minestra fredda...

— Zitto, vergognati. Un commensale di tanti anni!

— Già... anche troppo commensale, — sospirò il signor Giovanni
Battista, e avrebbe continuato se in quel momento non avesse sentito
bussare all'uscio.

Entrò un servo portando un biglietto. Il signor Smerigli lo prese e
disse subito: — È la scrittura del conte Mario. Ma è singolare... In
lapis, e tutta di traverso... Pare che gli tremasse la mano... Ah!
aspettate, soggiunse il signor Battista rivolgendosi al servo, c'è
scritto anche: _condannata 50 centesimi_. Eccoli...

Il cameriere uscì.

Il signor Smerigli aperse con curiosità il biglietto. La signora
Valentina s'era alzata ella pure dalla sedia e leggeva dietro le spalle
del marito. Tutto il messaggio consisteva in due righe:

    _Sto male, fatevi subito accompagnare a casa mia dal latore._

                                                             MARIO.

— Diavolo! diavolo! — disse il signor Smerigli. — A quest'ora! come si
fa? Senza aver pranzato?...

— Non puoi ricusarti, — osservò la signora Valentina.

— È presto detto, ma io non so nemmeno l'indirizzo preciso di Mario.

— Non c'è il portatore della lettera che deve accompagnarti?

— Sì, sta a vedere se non se n'è già andato...

La signora Valentina scosse il campanello. — La persona che ha portato
questa lettera? — ella chiese al servo che si presentò.

— È giù che attende.

— Vedi bene, — riprese la signora Valentina indirizzandosi al consorte.

Il signor Smerigli capì che non c'era rimedio, bevette in piedi una
tazza di brodo e uscì brontolando.

Quand'egli fu introdotto nella cameruccia del suo amico, lo trovò
disteso sopra un letto senza lenzuola, mezzo vestito, e aggravato
per modo che non poteva ormai pronunziar più una parola. Lo assisteva
pietosamente una donna attempata, quella stessa che si prendeva cura
delle poche sue robe e della sua miserabile stanza.

— Questa mattina, — ella disse, — il conte si era alzato come il solito
e m'aveva chiamato a fargli la camera. Poi si pentì e mi ordinò che lo
lasciassi solo. A mezzogiorno, non vedendolo uscire, gli chiesi se si
sentisse male e se volesse nulla. Mi rispose che stava bene, che non
abbisognava di niente e che non lo seccassi... Finalmente un'ora fa,
contro l'usanza, suonò il campanello. Lo trovai ansante e che stentava
a parlare. Mi diede un biglietto per lei incaricandomi di farglielo
aver subito. Io nello stesso tempo feci chiamare un medico che fu qui
pochi minuti or sono, tentennò il capo, fece un salasso e disse che
tornerà entro mezz'ora.... Santo Iddio!... Chi si sarebbe figurato una
cosa simile?... Ancora un uomo fresco....

E la buona vecchia si rasciugò gli occhi col dorso della mano.

Il conte Mario, sebbene non potesse parlare, riconobbe lo Smerigli e
gli fece cenno d'avvicinarsi. Indi con grande sforzo tolse di sotto il
capezzale una specie di lettera suggellata e gliela consegnò.

— Devo aprire? — chiese il signor Smerigli.

Il moribondo fece un gesto con la mano, come a dire: aspettate.

Tornò il medico e dichiarò che non c'era più speranza. Infatti il
pover'uomo morì di lì a poco.

Il mattino successivo, alla presenza di testimoni e nella camera stessa
del defunto, il signor Smerigli aperse il piego che aveva ricevuto.
In cima alla pagina era scritto in bel carattere rotondo la parola
_testamento_.

Che razza di testamento poteva mai fare uno spiantato come il conte
Rinalducci?

Il signor Smerigli lesse ad alta voce:

    _Lascio al mio amico Giovanni Battista Smerigli l'incarico di
  farmi seppellire. Desidero funerali decorosi ma senza pompa. Lo
  stesso amico Smerigli è pure incaricato di far mettere sulla mia
  tomba una lapide colla seguente semplicissima iscrizione:_

                         MARIO CONTE RINALDUCCI
                         D'ANNI..... MESI.....
                       VISSE E MORÌ INDIPENDENTE.

— Accetta l'eredità? — chiese il giudice con una certa aria da
canzonatura.

— Sì, sì, che vuol farci? — rispose il signor Smerigli, scrollando le
spalle. — Ma, Dio l'abbia in gloria, un gran bel seccatore!



IL MAESTRO DI CALLIGRAFIA


In un istituto scolastico di una città del mondo gli studenti
dell'ultimo corso erano occupati nella prova scritta dell'esame di
letteratura. La cosidetta _sorveglianza_ era affidata al signor
Antonino Bottaro, vecchio professore di calligrafia, che stava
per abbandonare la scuola ed andare in pensione. Sorveglianza alla
prova scritta vuol dir questo. Un professore, che non è quello della
materia su cui si fa l'esame, rimane nella stanza, ove gli esaminandi
lavorano, e invigila affinchè essi non si copino i temi a vicenda, non
consultino libri, non si passino carte, ecc. ecc. Naturalmente, finchè
non si adotti per l'esame il sistema cellulare, tutta questa roba
si fa lo stesso in barba al signor professore. Figuriamoci che cosa
avviene, quando il sorvegliante è il professore Bottaro, vittima della
scolaresca a due titoli; primo, perchè è il professore di calligrafia,
secondo, perchè è un pan di zucchero. Nei trent'anni dacchè egli
insegnava le leggi della scrittura posata, corsiva, rotonda e gotica
con ispeciali applicazioni alla burocrazia ed al commercio, gliene
erano toccate d'ogni maniera. Non passava giorno senza che un monello
di scolare gli applicasse un codino di carta al bavero del vestito, o
segnasse col gesso la sua caricatura sulla tavola nera. Una volta gli
si erano messe due ova in cappello tanto da far nascere una frittata al
suo coprirsi nell'uscir dalla scuola; un altro giorno si era spalmato
di pece il cuscino della poltrona, ov'egli andava a sedersi per
correggere gli elaborati. Non parliamo dei suoni infinitamente varii
che rallegravano la sua lezione. Mentr'egli si chinava sul quaderno
d'uno studente, dall'estremo opposto della panca sorgeva come un
miagolio di gatta in amore; egli volgeva lo sguardo da quella parte,
ed ecco venir dal fondo come un tubar di colomba o come un trillo
acuto di gallo mattiniero: _Chichirichì_. Il professore rosso come un
gambero correva allora verso la cattedra gridando: _Or ora faccio una
nota a tutti_ — ed ecco un silenzio sepolcrale seguito da un rumore
che simulava il vento e che cominciava lieve, lieve per diventar poi
gagliardo e impetuoso e perdersi via via in un gemito impercettibile,
come la marcia turca di Beethoven.

Il signor Antonino _faceva la nota a tutti_, ma prima del termine della
lezione la scancellava dopo essersi fatto promettere dai ragazzi che la
lezione successiva sarebbero stati buoni come agnellini.

Nè da' suoi colleghi il signor Antonino riceveva segni di particolare
deferenza. Sgarbi non gliene facevano sicuramente, ma in fin dei
conti, al professor di calligrafia chi ci bada? Nelle conferenze, il
Preside, il professore di matematica, il professore di belle lettere,
il professore di fisica discorrevano tutti con grande prosopopea;
anche il cancelliere voleva dire la sua opinione, ma il professore
Antonino o poteva egli avere un'opinione? E quando si trattava di dar
le classificazioni finali, se il signor Antonino si lagnava di qualche
studente (ed era assai raro che se ne lagnasse) se diceva che il tale
non aveva mai scritto una riga durante l'anno, gli altri scrollavano le
spalle con impazienza, come a dire: seccatore! smetta! Terminato l'anno
scolastico molti professori ricevevano visite dagli alunni, complimenti
dai genitori, elogi dai preposti all'Istituto; e ora a questo, ora a
quello pioveva dall'alto una croce, ma quanto a lui, al calligrafo,
chi lo prendeva sul serio? Non era forse celebre la sua soprascritta
a una lettera, che cominciava: _All'pregiatissimo_? Appena due o tre
giovinetti di cuor più tenero degli altri, rammentandosi del grave
travaglio che gli avevan dato durante l'anno, gli movevano incontro con
viso tra compunto e faceto e dicevano: — Scusi, sa, signor professore,
se non fummo sempre tranquilli come avremmo dovuto essere. Egli
s'inteneriva subito e diceva: — Ohibò.... ohibò.... Loro... voialtri
siete stati buoni..., lo so io quelli che erano i cattivi soggetti...
basta... basta... adesso si va in vacanza... a far provvista di
giudizio, non è vero... eh?

E dava loro un pizzicotto alla guancia.

L'anno nuovo poi ricominciava la medesima storia.

Eppure, il professore Antonino non sapeva viver lontano dalla sua
scuola. Le vacanze erano per lui una penitenza. Tutta la sua famiglia
si riduceva a una sorella nubile più vecchia di lui, sorda e bisbetica,
che lo tormentava senza posa affinchè egli domandasse la sua pensione.
— Ma — soggiungeva la signora Bettina, che non era un'aquila — ma devi
volere la pensione intiera secondo il sistema vecchio, non la pensione
di cinque sesti come danno adesso. Tu sei entrato col sistema vecchio
e hai diritto di esser trattato con quello. Capisci, babbuino?

Che sua sorella gli desse del babbuino non era alla fin dei conti una
cosa che facesse un gran senso al povero professore; tanto e tanto un
po' babbuino egli sentiva di essere. Quello che non sapeva perdonare
alla rispettabile donzella si era ch'ella tirasse giù a campane doppie
contro la scolaresca. E questo livore non era nemmeno cagionato dagli
sgarbi che usavano a suo fratello. No, c'era un altro motivo. Un
giorno, essendo passata vicino al portone della scuola in un momento
che gli studenti ne uscivano, la _ragazzaglia_, com'ella la chiamava,
si era messa a gridare dietro a squarciagola: _bella! bella! bella!_

La signora Bettina non aveva mai perdonato alla scolaresca questo
affronto, nè a suo fratello l'indifferenza con la quale egli ne aveva
accolto l'annunzio. Ella che avrebbe voluto un'espulsione in massa!
Ella che sarebbe andata in persona dal Preside, se non fosse stata la
paura di scontrarsi nuovamente con quei cattivi soggetti!

— Già — brontolava la bisbetica donna — quando si ha la disgrazia
di non aver uomini in casa ma _pecore_ (ho detto pecore) non si può
nemmeno arrischiarsi di uscire. C'è da far le meraviglie davvero
se sono rimasta zitella? Chi viene da te? Ove mi conduci? Almeno se
tu lascerai quella maledetta scuola, beninteso con la tua pensione
intiera, potrai pensare un poco a tua sorella.

Il professore Antonino ci pativa a sentir questi discorsi, e l'idea
di condurre a passeggio sua sorella gli metteva i brividi addosso.
Egli non era elegante. Il suo cilindro con un dito di unto, il suo
soprabito spelato rispondevano appieno alla sua posizione sociale di
pubblico insegnante, ma in fin dei conti egli non aveva un cappello
cremisi con piume verdi, nè due ricciolini neri fatti a forma di punto
interrogativo ornavano le sue tempie. Dimodochè, anche nelle vacanze,
egli trovava mille occupazioni immaginarie per esimersi quanto più
spesso gli fosse possibile dall'ufficio di cavaliere servente di
_madamigella_ Bettina. Piuttosto, dando fondo a tutti i suoi risparmi
egli si rassegnava a mandarla a sue spese dal 15 settembre al 15
ottobre d'ogni anno presso una famiglia di conoscenti che villeggiava a
breve distanza dalla città. Ella ci andava un po' a malincuore, quasi
facendo un atto di degnazione, perchè si trattava di gente inferiore
a lei per educazione; figuratevi, eran le nipoti di un salumaio
arricchito; a ogni modo ci andava in vista dell'aria che serviva a
calmare i suoi nervi. Poveretta! Era stata sempre così sensitiva.

Intanto il professore passava la giornata a desiderare la riapertura
della scuola. Quando aveva dato da mangiare al canarino, quando aveva
temperato la penna d'oca con cui teneva dietro assiduamente a tutti
i progressi della scrittura gotica e rotonda (pel _corsivo_ aveva
accettato la penna di ferro), egli non trovava miglior partito di
quello d'andare all'Istituto e di spender due ore nella stanzuccia
del signor Bartolomeo, il vecchio bidello. Il signor Bartolomeo era
anch'egli un po' brontolone come la signora Bettina, si lagnava del
Governo, del consiglio provinciale, del Municipio, del Preside, dei
professori, del cancelliere, degli scolari. Ma sopratutto si lagnava
della signora Elena, la moglie del Preside, ch'egli aveva visto nascere
di povera gente e andar per le strade quasi quasi a raccattar carta,
e che ora aveva messo boria e non si degnava nemmeno di salutarlo. Il
professore Antonino non sapeva dar tutti i torti al buon Bartolomeo;
anch'egli soffriva parte delle umiliazioni che toccavano al bidello,
anch'egli aveva notato l'albagia della signora Elena che pareva fargli
una grazia a ricambiar con un cenno del capo i suoi umilissimi inchini,
ma d'altra parte si adoperava a gettar acqua nel fuoco, a raccomandare
al signor Bartolomeo la calma, la pazienza; e, ripeteva l'antico
adagio — Chi ha più giudizio lo adoperi... Anch'io se volessi badare a
tutto... non solo qui a scuola... ma anche con quella benedetta donna
di mia sorella... buonissima creatura del resto... ah insomma tutti
abbiamo le nostre.

E chiudeva la sua perorazione coll'offrire al signor Bartolomeo una
presa di tabacco.

Poi faceva i conti sui giorni che mancavano a riaprire la scuola. E
pensava ai suoi colleghi, che non avevano mai l'abitudine di tornare
dalla campagna fino a dieci o dodici giorni più tardi del necessario,
e pensava a' suoi scolari, furfanti, ma buoni diavoli.

Figuriamoci se nel giorno di cui parliamo egli non abbia mille
cose che lo molestino. Quella mattina stessa, cedendo alle istanze
della sorella, egli aveva consegnato al Preside la sua domanda pel
collocamento a riposo, pregandolo che la facesse pervenire al Governo.
Nè la pensione poteva essergli negata, perchè egli aveva tutti i titoli
per ottenerla, s'intende nella misura fissata dalla legge, non già in
quella pretesa dalla signora Bettina; onde questo era l'ultimo anno che
egli esercitava le sue funzioni di professore, e la sorveglianza della
quale oggi egli veniva pregato era uno degli ultimi incarichi del suo
ufficio.

Il Preside, esternando il suo rammarico per la risoluzione del
professore Antonino, gli aveva detto con una gentilezza insolita:
— Senza complimenti, professore, se ella non ha voglia di stare in
classe tutt'oggi, incarico un altro. Lei ha lavorato pe' suoi giorni
abbastanza.

— Oh, cavaliere, le pare?... Anzi... se si tratta di servirla, di
essere utile alla scuola... anche dopo.... oh per me già ho sempre
voluto un gran bene a quest'Istituto.

— Lo so, lo so, professore,

— Troppo buono, cavaliere... E se ho mancato... non fu per cattiva
volontà.

— Mancato?... Oh mi meraviglio, professore. Così fossero tutti.

E il cavaliere Preside gli aveva stretto la mano.

Il professore di calligrafia aveva il cuore gonfio dalla commozione.

— Ho mal giudicato anche il Preside, — egli diceva fra sè, — degnissima
persona... Ma! E mi tocca lasciar tutta questa gente che mi vuol bene!

Con che fatica il nostro Antonino tratteneva le lagrime!

E con queste disposizioni d'animo egli era sceso in classe, ove si
raccoglievano i suoi persecutori ordinari, umili quel giorno e contriti
per l'idea dell'esame; con queste disposizioni aveva inteso dal Preside
dettare il tema della prova in iscritto, un tema così difficile, così
difficile. Poveri ragazzi! O se avesse potuto far lui l'elaborato per
tutti? Ma sì! Non ne capiva nemmeno il titolo. Gran disgrazia essere
asini!

Intanto quelle fronti giovanili si corrugavano, quegli occhi per solito
così gai si mettevano a guardare in alto, come chiedendo l'ispirazione
alle ragnatele del soffitto, quelle labbra vermiglie ordinariamente
disposte al sorriso si contraevano con uno sforzo penoso, e le mani
avvezze a tante piccole furfanterie andavano ravvolgendosi nei capelli.

A poco a poco, prima l'uno e poi l'altro, i ragazzi uscirono dallo
stato contemplativo, tirarono fuori i libri che non dovevano avere,
consultarono i quaderni che dovevano aver lasciati a casa, e finalmente
si accinsero a scrivere. Di lì a una mezz'ora si udiva il suono
uniforme delle penne di ferro che correvano sulla carta.

— Sia rigraziato il cielo, — disse fra sè il buon calligrafo come
sollevato da un gran peso. — Sia ringraziato il cielo! Adesso hanno
preso l'aire tutti quanti. Già, bisogna confessarlo, son bravi ragazzi.

Al signor Antonino pareva che, se gli studenti cominciavano a scrivere,
l'esito dell'esame fosse assicurato. Scrivessero poi bene o male, poco
importava.

Sentendosi un po' le gambe intorpidite egli scese dalla cattedra e si
mise a passeggiar su e giù per la classe.

Delle varie file di panche non ne erano occupate che due, cosa del
resto naturalissima, inquantochè quella era l'aula destinata al secondo
corso e gli esaminandi appartenevano all'ultimo, sempre meno numeroso.

Il professore Antonino dopo aver passeggiato alcun tempo a capo basso e
con le mani intrecciate dietro la schiena lungo la corsia che movendo
dalla cattedra percorreva longitudinalmente la classe, si fermò prima
davanti a una finestra, poi stette alcun poco in contemplazione delle
mosche che gironzavano intorno ai vetri, poi cominciò a gettar l'occhio
sulle panche vuote e a passar, quasi senz'accorgersene, da una panca
all'altra contemplandovi i rabeschi e le iscrizioni che le adornavano.

Le panche della scuola! Chi di noi non se ne rammenta? Chi su quei
disadorni sedili non si è, alla fin dei conti, trovato meglio che
nelle poltrone a molle ove sdraiammo più tardi la svigorita persona?
Senza dubbio le nostre tribolazioni le abbiamo avute anche lì. Quando,
interrogati dal professore, non abbiamo saputo rispondere verbo,
ed egli, con un sorriso glaciale, ci accennò di sedere e intanto
con voluttà crudele disegnò una bella croce nella colonna delle
classificazioni di fronte al nostro nome e cognome; o quando, colti in
fallo nel meglio di qualche furfanteria, ci sentimmo dire dallo stesso
signor professore — _Benissimo, scriverò alla famiglia_ — oh allora il
nostro povero corpicino ci stette pure a disagio sulle panche della
scuola! e ci siamo messi a piangere, e ci siamo augurati la morte, e
abbiamo fatto ridere i nostri condiscepoli da cui non potevamo restar
divisi e che pure erano tanto crudeli. Ma erano bufere d'estate. Il più
delle volte dopo essere andati a scuola a malincuore, vi ci trovavamo
così bene. Se avevamo un professore simpatico, che possedesse una bella
voce, un accento caloroso, noi lì tutt'orecchi a sentirlo, si credeva
di esser sollevati insieme alla panca chi sa a quali altezze, e i
nostri cuori battevano per un palpito nuovo. Era forse sete di gloria,
era bisogno indistinto d'amore, chi lo sa? E dove mettiamo gli accurati
lavori col temperino che abbiam fatto sulla nostra panca? La scultura
in legno deve sicuramente essere stata inventata sulle panche della
scuola. Là iniziali che si confondono, geroglifici che s'intrecciano,
tentativi di profili impossibili, saggi d'ornato bizzarri, studi di
storia naturale audacissimi, solchi che in parte seguono le venature
del legno, in parte tengono una direzione opposta e formano una linea
tremula come corda di lira pizzicata, cavità profonde e paurose,
come se lo studente avesse voluto fare un piccolo pozzo artesiano, un
guazzabuglio insomma quale può uscire da cento testoline bizzarre e da
cento mani l'una più inquieta dell'altra.

Che se poi uno abbia avuto lunga dimestichezza con la scolaresca,
come gli sarà facile animare, vivificare la scena! Ivi stettero a
fianco ignari dell'avvenire i più disparati ingegni e i più diversi
caratteri, il futuro commesso e il futuro ministro, quegli il cui
nome si perderà nella folla e quegli che raccomanderà ai secoli la
sua fama. E furono, qual più qual meno, amici tutti, o alla peggio
le inimicizie loro durarono poco; chi sa invece che cosa saranno
nel mondo? Forse non s'incontreranno mai più, forse s'incontreranno
soltanto per osteggiarsi, forse uno finirà col calcare il piede sul
collo dell'altro.

Il signor Antonino non aveva mai brillato per una fantasia vivace, e
anche nei più belli anni della sua giovinezza, egli poteva dire di non
aver provato le schiette gioie dell'immaginazione.

Ma adesso, fissando quelle panche, al cospetto di quegli intagli
bizzarri, egli vedeva una quantità di figure disegnarglisi davanti, e
moversi, e prendere atteggiamenti diversi, e cento volti dimenticati
ripigliar forma e colore. Era la scolaresca di trent'anni confusa
insieme.

Ecco un nome. Chi era costui? Il professore Antonino chiudeva gli
occhi un momento e poi lo vedeva tal quale lo aveva visto forse dieci o
quindici anni prima. È un giovinetto bruno, dai capelli ricciuti, dagli
occhi pieni di fuoco, alto, smilzo; sì, sì, è proprio lui. Anch'egli
indisciplinato all'estremo. E ora dove è andato mai? Vicino a lui
c'era.... chi c'era? Vediamo di raccapezzarci.... Ah sì!.... Da una
parte un ragazzino timido che pareva un bimbetto, che non fiatava mai,
altro che, pur troppo, nell'ora della calligrafia. Non c'era quanto lui
per imitare il miagolio del gatto. Adesso è impiegato alle ipoteche.
A sinistra poi.... no, lo scolare di sinistra il professore Antonino
non poteva farselo tornare a mente. Ma di dietro invece, nella panca
successiva, era tutta una fila di ragazzi che gli pareva aver davanti
gli occhi. Che panca terribile era quella! Che demonî! Bisogna però
eccettuarne uno il quale sedeva nell'angolo vicino alla parete. C'erano
ancora le sue iniziali A. E. Sicuro, si chiamava Angelo Emanuelli,
poverino! Era pallido, tossicoloso; d'inverno aveva sempre freddo,
d'estate pativa il caldo in modo straordinario. I suoi condiscepoli
lo chiamavano _agnello_ e gli amministravano una dose straordinaria
di scappellotti. Egli non si lagnava, non serbava rancore ad alcuno,
e diligente com'era faceva le lezioni di tutti. Povero figliuolo! È
morto. Il signor Antonino si ricordava che alcuni anni addietro nelle
vacanze d'autunno, l'Emanuelli era venuto a fargli visita insieme con
sua madre, una donna abbrunata, dalla cera pallida e dall'aria stanca
come suo figlio.

Una visita in casa del signor Antonino era un avvenimento.

Il professore Antonino era solo; sua sorella, grazie a Dio, si trovava
in campagna. Egli corse ad aprire la porta e disse confuso — Caro
Angelo.... stimatissima signora.... prego, si accomodino.... — Poi
senza nemmeno terminare la frase, volò nella sua camera da letto, e
indossato un abito un po' più pulito, si ripresentò rosso come una
fanciulla a cui si parli la prima volta d'amore.

— Che onori!... In che cosa posso?... Mi dispiace che trovano tutto
in disordine.... Non c'è mia sorella.... (Ci mancherebbe altro che ci
fosse — egli soggiunse in cuor suo).

— Per carità, professore, non si dia pena per noi, — disse la signora.
— Lei è così buono, che siamo venuti a chiederle un favore.... Angelo
fu malato alcuni giorni.... Ora sta meglio, ma non si è ancora liberato
dalla tosse....

E Angelo, come per dar ragione a sua madre, tossì un paio di volte.

— Ecco, capisco che la scuola è fatica soverchia per lui, — continuò
la signora con un tremito nella voce. — Non voglio sforzarlo....
Siamo stati tanto disgraziati. Veda, vesto ancora il bruno per una
figliuola.... E prima, di lei ne ho perduti altri due..... e mio marito
anche lui..... sempre dello stesso male.... Ma questo qui bisogna che
mi resti — continuò la madre asciugandosi le lagrime e cingendo con un
braccio il collo del suo Angelo come se volesse difenderlo.

— Si calmi, signora, si calmi — rispose il buon professore, — posso
offrirle un bicchier d'acqua? Ha ragione, ha ragione, non lo mandi più
a scuola. Poveri ragazzi! Li ammazzano con questi nuovi sistemi.

— Ecco ciò che volevo chiederle, — ripigliò la signora poichè si fu
ricomposta alquanto, — scusi sa, perchè in mezzo a tanti dispiaceri ho
quasi perduta la testa.... Il mio figliuolo potrebbe andare intanto
due ore al giorno nel banco d'un amico di mio marito buon'anima....
Due ore sole per adesso.... fin che Angelo sia divenuto più forte...
gli darebbero quindici lire al mese.... pochine, ma tanto per
cominciare.... Senonchè, c'è un guaio; vorrebbero che il ragazzo
sapesse scrivere in _rotondo_, e Angelo dice che non sa, che non lo ha
studiato.... Pretesti, forse.

— No, no, — si affrettò a interrompere il professore Antonino, — il
_rotondo_ non l'ho insegnato nella sua classe.

— Ebbene, allora vorrei ch'Ella avesse la bontà di dargliene qualche
lezione, così per metterlo sulla strada. Il resto lo farà egli da
sè....

— Ma sì, ma sì, — sclamò il Bottaro beato di fare un piacere.

— Noi compenseremo secondo le nostre forze....

— Nemmeno per idea.... non voglio neanche sentirne a discorrere.... No,
signora Emanuelli, se parla di compensi si rivolga ad altri.... Angelo
verrà da me per una, per due settimane, anche tutte le mattine se può,
e vedrà che bel _rotondo_ egli imparerà a scrivere in cinque o sei
lezioni.... Siamo intesi, non è vero?

La signora Emanuelli stette alquanto perplessa, tornò a tirar fuori
la questione del compenso, ma finì col cedere all'insistenza del
professore e disse commossa: — Giacchè il professore è tanto gentile
non so come rispondere con un rifiuto. Angelo che dici al professore?

— Grazie, — bisbigliò il ragazzo.

— Nulla, nulla, caro, — replicò il signor Antonino. — Vuoi cominciar
domattina?

Angelo guardò sua madre, poi disse: — Sì, professore.

— Allora siamo intesi.

— E il signor Antonino accompagnò fino giù delle scale il suo scolaro
e la madre di lui che si profondeva in ringraziamenti.

Angelo Emanuelli prese otto lezioni, poi entrò nel nuovo ufficio, poi
venne a fare una visita al professore, poi non lo si vide più.

Il presentimento della povera madre si era avverato. Il ragazzo era
morto della malattia dei suoi fratelli e del suo babbo, era morto a
sedici anni.

E il professore Antonino lo aveva dimenticato, quando le due iniziali
scolpite sulla panca lo richiamarono alla sua memoria. Egli rivide
ancora quella fisonomia languida, sparuta, egli intese ancora sonarsi
all'orecchio quella tosse secca, insistente, e la voce di quella povera
madre, adesso morta anche lei, che diceva: — Ma questo qui bisogna che
mi resti.

                             . . . . . . .

Chi sa fino a quando il professore Antonino sarebbe rimasto immerso in
siffatti pensieri se uno scolaro non gli avesse picchiato leggermente
sulla spalla!

— Che c'è? — proruppe il Bottaro in tuono meno rimesso del consueto.

— Signor professore, le consegno il mio elaborato, — rispose il ragazzo
guardandolo in aria di mezza canzonatura.

— Oh!... Ha ragione.... hai ragione, caro.... Dunque hai finito? — Va,
va, che andrà tutto benissimo.

Al primo studente ne successe un secondo, al secondo un terzo, al terzo
un quarto e così via via fino all'ultimo.

— Ma bravi, ragazzi, come avete fatto presto quest'oggi!

Il signor Antonino non s'era accorto del tempo ch'era passato
mentr'egli stava fantasticando, e non aveva avvertito affatto un'altra
cosa, quella cioè che i giovinetti, non disturbati punto dalla sua
sorveglianza, s'erano a loro agio consultati, copiati, corretti a
vicenda, onde i varii còmpiti si somigliavano fra loro come tanti
gemelli.

                             . . . . . . .

Uscito l'ultimo studente, il professore Bottaro, col piego degli
elaborati sotto il braccio, salì la scala che conduceva in Direzione e
consegnò nelle mani del Preside il suo prezioso deposito.

— Grazie, professore, — disse questi con amabilità, — grazie. La
pregherò poi d'intervenire alla conferenza per le classificazioni....
Ma che cos'ha che mi pare turbato?

— Scusi, cavaliere, — balbettò il calligrafo, — non so nemmen io che
cos'abbia.... Ha già inoltrato la mia istanza?

— No, — rispose il Preside togliendo da un mucchio di carte il
documento che gli era stato consegnato nella mattina dal professore. —
No, è ancora qui.

— Potrebbe darmela un momento?

— Eccola.

— Se me la lasciasse fino a domani, — continuò timidamente il nostro
Antonino. — Vorrei pensarci su.

— Davvero? — disse il Preside, componendo le labbra ad un sorriso un
tantino ironico.

— E posto il caso ch'io sospendessi la domanda della pensione fino
all'anno venturo, ne avrebbe dispiacere?

— Oh si figuri, — rispose coi denti alquanto stretti l'interrogato.
— È dal suo punto di vista.... Mi pare che, poichè la legge le da il
diritto al riposo.... Ah se fossi nel caso suo! — sospirò il Preside,
guardando macchinalmente il calendario ch'era sul tavolino, come se
potesse leggere colà gli anni che gli mancavano a terminare il suo
servizio.

— Ah, per lei è un'altra cosa, — ripigliò il professore di calligrafia,
che a poco a poco trovava il coraggio e quasi l'eloquenza. — Lei è
una brava persona, e quando avesse il riposo, si consacrerebbe a' suoi
studi, starebbe in mezzo a' suoi manoscritti, alle sue biblioteche....

Il Preside scrollò le spalle quasi a significare: — Povero grullo! come
t'inganni!

— Ma io, — seguì a dire il nostro Antonino, senza badare ai gesti
del suo interlocutore, — io che devo fare? Occuparmi in esercizi di
calligrafia per mio conto?

— Potrebbe ad ogni modo dar qualche lezione privata....

— E allora è meglio che rimanga qui. Tanto e tanto mi tocca lavorar lo
stesso, e qui almeno ho preso affezione all'ufficio.

— Perchè, — incalzò il Preside, — mi pare che questi benedetti ragazzi
non si contengano con lei come dovrebbero.

— Si esagera, sa, — ripigliò un po' confuso il signor Antonino, — fanno
qualche volta del chiasso, ma è piuttosto colpa mia che di loro. Del
resto, vede, nella calligrafia non occorre tutto quel raccoglimento che
è necessario nelle altre materie.... Ma, in ogni maniera, quest'anno
non c'è stato male. E mi pare ormai che ogni anno andrebbe meglio.

Il Preside non potè a meno di sorridere. Indi soggiunse a modo di
conclusione: — Che vuole che le dica? Ci pensi.


Il professore Antonino ci ha pensato. Egli deliberò di rimettere la sua
dimissione all'anno successivo. Scorso il termine fu di nuovo in grandi
incertezze, e poi decise di aspettare.

Così egli insegna ancora calligrafia nell'Istituto di ***. Gli studenti
continuano a prendersi con lui le solite libertà; i colleghi non
lo tengono in nessun conto, la signora Bettina lo strapazza senza
misericordia, perchè non lascia la scuola e la scolaresca; anche il
bidello, suo abituale confidente, lo consiglia a mettersi in quiete,
ma il signor Antonino è ormai convinto, che il giorno in cui egli
abbandonerà definitivamente il suo ufficio, si potrà preparargli la
necrologia.



L'OROLOGIO FERMO


Non vedevo Federico Vivaldi da più di quindici anni.

Eravamo stati a scuola insieme; poi come il solito, ciascuno era andato
per la sua strada e ci si era perduti d'occhio. Nel 1866 avevo letto il
suo nome tra i feriti della fazione di Monte Suello; più tardi seppi
ch'egli esercitava l'avvocatura nella sua città natale, una piccola
città di provincia. Pareva che non s'ingerisse nelle lotte politiche,
poichè non m'era accaduto di sentirlo mai menzionare tra i candidati al
Parlamento, o tra i consiglieri provinciali, o tra i pubblicisti, o tra
gli oratori dei _meetings_. Chi sa? Forse, non era nemmeno cavaliere.
Come le apparenze ingannano! A scuola gli si sarebbe presagito un
luminoso avvenire. Imparava ogni cosa prestissimo scriveva con buon
gusto, parlava con facilità, e teneva, se non il primo, uno dei primi
posti.

Un affare mi conduceva adesso nella città e nella casa di Federico.

Lo trovai alquanto mutato, ma non era da meravigliarsene; in quindici
anni ero ben mutato anch'io. Egli aveva la cera pallida, l'aria trista
e patita, la barba e i capelli brizzolati di bianco.

Il nostro incontro fu cordiale ma senza straordinaria espansione. Due
uomini che si vedono dopo un lungo intervallo hanno un bel corrersi
incontro con entusiasmo; essi sentono subito che le amicizie non si
ripigliano dove si sono lasciate.

Federico pareva anche più riguardoso di me.

— Sei stato sempre bene? — gli chiesi.

— Sì, — replicò brevemente.

— E la tua ferita?

— Oh! Una cosa da nulla.

Dall'indole delle sue risposte, e dalla fretta con cui egli entrò a
discorrere dell'affare che doveva formar soggetto del nostro colloquio,
argomentai ch'egli fosse diventato uno spirito positivo, incapace di
far altro da mattina a sera che compulsar codici e di trattar cause.
Anzi, Dio mel perdoni, giunsi fino ad accusarlo di calcolar tempo
perduto tutto quello che non si può far figurare nelle specifiche.

Egli parlò per più di un'ora esaminando da tutti i lati con molto acume
e molta lucidezza la questione che mi aveva chiamato da lui.

Ci mettemmo pienamente d'accordo; dopodichè egli mi chiese licenza di
rovistare alcune buste per cercarvi un documento che gli occorreva.
— Or ora, se vorrai, usciremo insieme, — egli soggiunse. Lo disse in
tuono così freddo che avrei avuto una gran voglia di piantarlo lì,
ma in quel paese non conoscevo nessuno; che dovevo fare? Mi alzai da
sedere, diedi un'occhiata a una piccola biblioteca che non conteneva
nulla di peregrino; quindi mi affacciai alla finestra.

— Che bella vista! — dissi tanto per non restare in silenzio.

— È più bella dall'altra stanza, — osservò Federico che aveva trovato
il documento e mi si era avvicinato. — Passa pure.

E, tenendo aperto un uscio, mi introdusse in una camera molto semplice
ma molto pulita, dalle cui finestre lo sguardo abbracciava un'ampia
distesa di colline e di ville.

— Tu dormi qui? — gli chiesi.

— Sì. È la mia camera da letto.

— Come dev'esser piacevole aprir gli occhi la mattina e vedersi davanti
questo immenso orizzonte!

— Voi a Venezia non ci siete avvezzi. Però adesso c'è troppo sole, —
egli continuò, — e bisogna abbassar le tendine.

Mentre Federico eseguiva questa operazione i miei occhi si fissarono a
caso sopra un orologio a dondolo ch'era collocato su un canterale e che
segnava le sei e quindici minuti.

— Oh, — diss'io, — quell'orologio è matto.

— È fermo, — egli rispose in furia come se le parole gli bruciassero la
lingua.

Era un orologio di forma antica il cui disco cilindrico poggiava su due
colonnine d'alabastro coi piedestalli e i capitelli di bronzo. Sulla
mostra di maiolica erano incisi il nome della fabbrica e l'anno di
fabbricazione — 1822.

— È un oggetto da museo, — ripresi ridendo, e mi chinai per vederne più
da presso il meccanismo. Non so se facessi atto di prendere fra le dita
il capo di un cordoncino che pendeva fra le colonne. So che Federico mi
afferrò il braccio e mi gridò:

— Non lo toccare! — con tale un accento ch'io mi voltai in sussulto,
temendo quasi di aver dato fuoco a una miccia.

— In nome del cielo, che cosa c'è? — esclamai sbigottito.

— Perdonami, — rispose il Vivaldi con voce più calma e tentando di
comporre le labbra a un sorriso. — Avevo paura che tu movessi le
lancette di quell'orologio.

E mentr'egli pronunziava queste parole, i suoi occhi s'inondarono di
lagrime.

Lo guardai commosso ma senza osare d'interrogarlo, giacchè egli non mi
sembrava disposto alle confidenze.

Ci fu un buon minuto di silenzio, e mi parve un secolo.

Alla fine Federico incrociò le braccia e si appoggiò alla spalliera di
una seggiola volgendosi verso di me.

— Ti ricordi, — egli mi disse, — di venti anni fa quando passammo la
domenica e il lunedì della Pentecoste in villa di Fausto Rioni, presso
Sacile?

— Sicuro che me ne ricordo, — replicai non intendendo bene ove egli
volesse mirare. — Fausto Rioni che adesso è deputato.... Ho perso di
vista anche lui.

— E quella nostra salita sul ciliegio, te ne rammenti?

— Aspetta che mi raccapezzi.... ah sì.... sì.

— Era il dopopranzo della domenica. Noi due ci si era rampicati lì
in alto e intanto una mezza dozzina di fanciulle stavano a' piedi
dell'albero, e gridavano. — Coraggio dunque! Fate le cose a modo. — E
noi spiccavamo le ciliegie fin dove si poteva arrivare con le mani, e
poi scrollavamo i rami con quanto fiato ci restava in corpo. Era una
pioggia di frutti, che le bimbe raccoglievano o nelle falde del vestito
o nel grembialino spiegato.... Di quelle bimbe tre erano le sorelle
di Fausto, tre erano loro amiche.... La maggiore poteva contare dieci
anni.... Era una fanciulla alta, bionda, con due lunghe treccie che le
cadevano giù per le spalle.... con due grandi occhi azzurri, pieni di
dolcezza e d'ingenuità....

— Oh adesso che ci penso, — esclamai, — l'ho presente anch'io....
Lascia ch'io compia la tua descrizione.... Le sue treccie bionde erano
annodate da due fettuccie di seta blu....

— È vero....

— Vestiva un abitino di percallo bianco con fioretti rossi....

— Sì, sì.

— La chiamavano.... Oh! qui la memoria mi tradisce....

— La chiamavano Virginia.

— Sicuro, Virginia. Ebbene?

— Ebbene, parecchi anni dopo quella fanciulla divenne mia moglie.

Mi guardai intorno. La camera da letto di Federico non era una camera
nuziale. Indovinai un lutto domestico.

— È morta.... forse? — chiesi con esitazione.

Il Vivaldi chinò il capo con un cenno affermativo e si portò la mano
sugli occhi.

— E da poco tempo? — continuai.

— Oh.... no, — egli rispose, — dal marzo del 1866.

— Povero amico! — diss'io commiserandolo sinceramente e rispettando un
dolore che si manteneva così vivo dopo più di nove anni.

— Ma che c'entra in tutto ciò l'orologio, tu mi chiederai? — egli
ripigliò dopo una brevissima pausa.

Federico aveva colto il mio pensiero. Io stavo infatti tormentandomi
il cervello per iscoprire la relazione fra la morte della Virginia e
l'incidente che aveva commosso in modo sì strano l'amico mio.

— Quando la Virginia infermò, — egli disse, — erano sei mesi ch'io
l'avevo sposata.... sei mesi di una felicità senza nube.... Da che male
ella fosse presa, non lo so; non lo seppero i medici, non lo seppe
nessuno.... Ella non soffriva.... moriva a oncia a oncia. Ma non lo
credevamo nè lei, nè io, e facevamo di gran disegni per l'avvenire....
Appena ella fosse guarita, avremmo piantato nuove aiuole di fiori nel
nostro giardinetto, avremmo rimesso a nuovo, secondo le nostre modeste
fortune, una parte della casa. — Per esempio, — ella osservò un giorno
ridendo e additando quello che tu chiamavi giustamente un oggetto da
museo, — per esempio sarebbe assai bene poter cambiare quell'orologio
antidiluviano. — Io le promisi che avremmo fatto apposta una gita
insieme a Venezia per comperare una cosa di suo gusto. Ne fu tanto
contenta, la poveretta.

Eravamo noi due soli. I suoi genitori erano morti, ero orfano anch'io.
Del resto, io non volevo cedere a nessuno il privilegio di vegliare mia
moglie. Quante notti sedetti, senza chiuder occhio, al suo letto! Ella
si assopiva, poi si destava, mi diceva una parola affettuosa e tornava
a cedere al sonno. Per ore ed ore non si sentiva nella camera che suo
il respiro e il _tic-tac_ dell'orologio. Quanto a me, se non fosse
assurdo, direi che non respiravo neppure, tanto la mia vita era confusa
con quella dell'amata creatura che mi languiva davanti.

Una notte che la vedevo più inquieta del solito, le domandai: — Ti reca
disturbo il battito dell'orologio?

— Oh no, — rispos'ella, — tutt'altro.

Era un orologio che si caricava ogni otto giorni. Finchè la Virginia
era sana, ci pensava lei; durante la sua malattia ero succeduto io
nell'ufficio. Ma i patimenti del corpo e le angustie dell'animo mi
avevano tolto il giusto concetto del tempo e avevano scompigliato
la mia memoria; una settimana caricai l'orologio per due giorni
di fila, un'altra me ne scordai affatto. Il 29 marzo del 66 era il
giovedì santo. Mi dimenticherò di tutto, non mi dimenticherò mai di
quel giorno. Nella mattina la Virginia aveva discorso della Pasqua
precedente quando noi ci preparavamo alle nozze, così lieti da non
dover invidiare i più gran re della terra. — Saremo felici anche l'anno
venturo, non è vero? — ella soggiunse, e per la prima volta mi parve
di avvertire nella sua voce un leggero accento dubitativo che mi mise
i brividi. Il medico, dopo la sua visita, tentennò il capo, ma non
accennò a nessun pericolo imminente. Sulle quattro del pomeriggio la
Virginia mi pregò che le sciogliessi i capelli; i legacci le davano
molestia. Obbedii, e le sue belle treccie bionde le scesero giù per le
spalle. — E pensare che bisognerà tagliarle se guarirò. — Ella vide
l'espressione desolata del mio volto e corresse la frase — _quando_
guarirò. — Indi mi disse: — Apri un momento la finestra. È ormai la
primavera. — Io mi movevo come un automa senza profferire una parola.
— Oh come è bello! — ella esclamò contemplando dal suo letto parte
di quell'orizzonte che tu ammiravi poco fa. — Basta, adesso.... Puoi
chiudere. — Ella abbassò le palpebre e cadde in un sopore. Le sedetti
vicino prendendole una mano che penzolava fuor delle coperte. Il
suo alito era lieve lieve; nel suo volto c'era una pace di paradiso.
Avrei voluto chiamar qualcheduno, ma mi sentivo come inchiodato sopra
la sedia. Andava facendosi buio; la luce che penetrava nella camera
attraverso le stecche delle persiane diveniva sempre più debole,
l'orologio misurava gli eterni minuti col suo uniforme _tic-tac
tic-tac_.

Ad un tratto il _tic-tac_ cessò.

— L'orologio s'è fermato, — disse la Virginia con voce quasi
impercettibile.

Nello stesso tempo ella mise un sospiro, e la sua mano, prima si agitò
con un tremito, poi si irrigidì nella mia....

Accorse gente, si accesero i lumi. Virginia era morta. L'orologio,
fermo, segnava le 6.15.... Tu piangi, amico mio?... Oh lo so che tu
avevi sempre buon cuore.

Federico mi baciò più volte singhiozzando. Quand'egli si fu alquanto
calmato. — Non so come le sopravvissi, — egli soggiunse. — Per buona
fortuna non tardò a scoppiare la guerra. Corsi subito ad arruolarmi con
Garibaldi, invocando una palla che mi togliesse di pena. Sa Iddio se
l'ho cercata, ma non trovai che una palla spuria... la quale mi ferì ad
un braccio.... Quando potei lasciare l'ambulanza era già sottoscritto
l'armistizio.... Tornai a casa ove secondo i miei ordini nessuno aveva
toccato l'orologio.... Mi rassegnai a vivere... ma non c'è più gioia
per me.... Orsù, vuoi uscire?

Mi offrì un sigaro e mi prese per il braccio.

Allorchè fui sulla soglia non potei a meno di voltarmi indietro.
L'orologio, fermo, segnava le 6.15.



LA LETTERA DI MARGHERITA


È una sera di dicembre. Il signor Massimiliano Nebioli, uomo sui
sessanta, che porta parrucca ed occhiali, è seduto con tanto di muso
dinanzi alla tavola del salotto da pranzo, e legge la _Gazzetta di
Venezia_, lagnandosi di tratto in tratto perchè il lume a petrolio non
fa abbastanza chiaro, o fuma, o scoppietta. La signora Geltrude sua
moglie è sprofondata in una poltrona vicina alla stufa e sonnecchia, o
fa le viste di sonnecchiare.

Di fuori è un tempo d'inferno. Piove, nevica e soffia un vento
di tramontana da intirizzire. È una di quelle notti nelle quali i
felici del mondo, ravvolgendosi fra le coltri, mettono filantropiche
esclamazioni: — Poveretti quelli che non hanno fuoco da scaldarsi,
nè panni da coprirsi, nè un buon bicchiere di vino da rifocillarsi
il sangue! Poveretti i poveretti, insomma! — Poi uno sbadiglio, una
stiratina di braccia e tutto è finito.

Qualche volta il vento è così forte che ne tremano anche le doppie
vetrate del salotto e le tendine di lana si agitano con una leggera
ondulazione. La fiamma del lume approfitta di questi momenti critici
per dare un piccolo guizzo e il signor Massimiliano brontola più forte
e protesta contro la servitù che non sa chiuder bene le finestre.

— Bisogna metter dell'altra legna nella stufa, — egli dice a un certo
punto rivolgendosi a sua moglie. Ella che obbedisce a suo marito come
un cagnolino, si alza dalla poltrona, tira il campanello, poi torna
al suo posto. Un osservatore attento noterebbe due cose: primo, che
la signora Gertrude ha gli occhi rossi; secondo, che nel tragitto
dalla poltrona al sofà ov'è il cordone del campanello, ella cammina in
modo che il suo consorte non possa vederla in viso. Guai a lei s'egli
s'accorgesse che ha pianto!

All'appello della padrona è accorsa la Marina, la vecchia cameriera
di casa, col naso rosso dal freddo, con le mani conserte sotto il
grembiale e con la testa sprofondata fra le spalle, come lumaca che ha
ritirate le corna. La Marina non ha neppur lei un viso allegro, effetto
forse della stagione.

— Fate dell'altro fuoco, — ordina la signora Gertrude.

— E chiudete meglio le imposte, — soggiunge il signor Massimiliano.

— Ma se son chiuse benissimo, — dice la cameriera.

— Niente affatto; venite qui e sentirete che arietta.

— Sfido io, col vento che c'è fuori. Vorrei che passasse un po' in
sala.... Che Siberia!

— È una Siberia anche qui.... Non sapete nè accendere la stufa nè
chiudere le finestre.

La Marina, che ha la lingua lunga, sta per replicare, ma è trattenuta
da uno sguardo supplichevole della padrona. Così ella ringhiotte le sue
osservazioni, e inginocchiata davanti la portella della stufa caccia
della nuova legna tra le brage, e con le molle, col soffietto e un po'
anche col fiato, raccende il fuoco, che divampa allegro e rumoroso e
illumina la parete.

— Avete aperto il registro, per Dio? — grida in tuono burbero il signor
Massimiliano.

— Eh mi pare che se non lo avessi aperto, a quest'ora ci sarebbe già la
stanza piena di fumo.

— So che non fate mai nulla a modo, — continua il signor Nebioli per
giustificare la sua diffidenza.

Questa volta la Marina non può reprimere un lunghissimo _auff_, che
però, a uno sguardo della signora Gertrude, ella fa terminare in uno
starnuto.

Appena ella è uscita, il signor Massimiliano brontola: — Petulante!

Poi torna a immergersi nella lettura della _Gazzetta_, commentando
da sè le notizie: — Arnim fu condannato a tre mesi di carcere. Ci ho
gusto. Non c'è modo di governare se non c'è rispetto per l'autorità.
Ormai ciascuno vuol fare il suo talento. I popoli non vogliono obbedire
ai governi come i figliuoli non vogliono obbedire ai genitori. Bel
mondo!

La signora Gertrude trasse un sospiro dal petto.

— Che cosa c'è? — ripigliò il signor Massimiliano. — Hai perduto la
parola? Adesso in casa non si discorre che per sospiri.

— C'è proprio da stare allegri, — insinuò timidamente la signora
Gertrude.

— Cominciamo coi soliti piagnistei, — disse l'ameno signor Nebioli,
sbattendo con forza la _Gazzetta_ sulla tavola.

— Vedi se non è meglio ch'io mi taccia?

— Meglio niente affattissimo.... Si discorre tranquillamente,
quietamente come fanno gli altri... come faccio io.... Ed eccoci da
capo a piagnucolare.... Vorrei sapere che cosa ci sia di speciale
stasera....

— Nulla, nulla....

— Nulla un cavolo.... sentiamo, via.

— C'è, c'è.... che penso alle belle feste che ci si preparano.

— Oh corpo di un cannone! E ne ho colpa io se passeremo le feste male?

— Chi dice questo?

— Sono io che ho detto alla nostra figliuola di scapparci di casa? Sono
io che l'ho gettata in braccio ad uno spiantato, ad un brigante, ad un
ladro?....

— Massimiliano per carità, quanto all'essere uno spiantato non c'è
dubbio, ma un ladro poi, un brigante.... — osservò la signora Gertrude
con un coraggio di cui ella stessa non si sarebbe creduta capace.

Infatti suo marito andò su tutte le furie: — Già lo so che tu lo
difendi, già lo so che tu trovi degnissima di lode la condotta di quei
due signori.....

— Ma no, Massimiliano, no....

— Ah non è un ladro, non è un brigante.... Sì che è un ladro, è
un ladro di fanciulle; sì che è un brigante, perchè assassina una
famiglia.... E poi ci sono questi conforti! Quando si mette in
campo un tale argomento, quando si ragiona, _madama_ prende le parti
dell'avventuriere e della figlia insubordinata.... Avrei voluto vedere
io se lei avrebbe consentito a farsi sposare in quella maniera, avrei
voluto vedere se il suo signor padre mi avrebbe passato buono un tiro
simile a quello di _colui_! Mi si è pesato e ripesato su non so quante
bilancie, e ci mancò poco che non mi si rimandasse pei fatti miei
perchè non avevo blasone. La signora era _contessa_, e ci teneva....

— Oh Massimiliano, come puoi dir questo?

— Ci teneva tanto che il suo più bel sogno era quello di far contessa
sua figlia, di darla ad un nobile.... Va là, cara, che l'hai trovato il
genero nobile.

— Senti, Massimiliano, hai ragione, sono stati crudeli, sono stati
infami, se vuoi, ma quel lasciarli patire... ricchi come siamo.

Il signor Nebioli tornò a scoppiare come una bomba:

— Nemmeno un centesimo non voglio dar loro finchè vivo, no, nemmeno un
centesimo.... Quando sarò morto s'ingrasseranno a loro agio.... Già lo
so che molti desiderano la mia morte.... Ma io voglio farli aspettare
un pezzo, perchè al mondo mi ci trovo benissimo.... Se non fossero
questi piagnistei che ho in casa....

E alzatosi dalla seggiola si mise a passeggiare su e giù per la stanza.

La signora Gertrude si alzò ella pure. Ella era combattuta fra la
soggezione straordinaria che le aveva sempre ispirato suo marito, e
il convincimento che la severità di lui era eccessiva e ch'ella non
faceva opera di buona madre obbedendogli in tutto. Le si spezzava il
cuore a pensar che sua figlia, a tanti chilometri di lontananza, non
aveva forse modo di render meno squallido il suo desco per le feste
del Natale. Ella avrebbe potuto mandarle qualche cosa di soppiatto, ma
non sapeva nasconder nulla a Massimiliano, e Massimiliano non voleva
neppure ch'ella scrivesse alla ingrata, alla perfida Margherita. E
sì ch'egli l'aveva amata tanto questa figliuola, l'aveva fatta regina
del suo cuore e della sua casa; burbero con tutti, era stato con lei
dolce, compiacente, le aveva prodigato mille doni e mille carezze! E
l'amava ancora, ed era soltanto la sua indole puntigliosa e caparbia
che gl'impediva di perdonarle. Ma aveva i suoi momenti di debolezza
ed erano appunto quelli in cui egli prorompeva con maggiore violenza.
Sentendo che il fuoco andava languendo, lo attizzava egli stesso, si
scagliava senza misura contro i colpevoli e quando li aveva colmati
di vituperii tornava a persuadersi che il loro delitto era stato
ben grave. Una donna più avveduta della signora Gertrude, anzichè
atterrirsi di queste sfuriate, avrebbe dato loro il vero significato,
le avrebbe accolte come sintomi di resipiscenza, e sarebbe tornata
vigorosamente alla carica. Ma ella si ritirava subito impaurita e si
limitava a piangere in silenzio e di nascosto. Il suo unico conforto
era quello di non opporsi a suo marito, di seguire in tutto i suoi
desiderii. I deboli non si accorgono mai che anche i despoti hanno
qualche volta il desiderio di esser contraddetti, e che se non lo
manifestano gli è perchè temono di perdere la riputazione di fermezza
a cui devono la loro forza.

A ogni modo quella sera la signora Gertrude era un po' meno timida del
consueto. Ed ella si spinse fino a dire con un fil di voce:

— Non si potrebbe almeno per queste feste?...

— No, no, tre volte no, — proruppe il signor Massimiliano dando un gran
pugno sopra il pianoforte. Era un pianoforte a coda, di molto prezzo,
ch'era stato comperato parecchi anni addietro per la Margherita. Ma
dacchè la Margherita se n'era andata, nessuno l'aveva più aperto,
nessuno aveva sentito più la sua voce armoniosa. Ora soltanto, al colpo
che ne scuoteva tutta la compagine, le sue corde mandarono un gemito
lungo lungo, che parve come un richiamo ai tempi fuggiti ed evocò nella
malinconica stanza l'immagine della gentile fanciulla.

Le ultime vibrazioni di quel suono si perdevano nell'aria quando si udì
una grande scampanellata.

— Chi viene questa sera? — esclamò il signor Massimiliano, fermandosi
in mezzo al salotto con l'atteggiamento d'un cane di guardia che sente
il calpestio di passi sconosciuti.

Anche la signora Gertrude tese l'orecchio. — Chiudono la porta.

— Quella stupida servitù avrà certo aperto senza veder prima chi sia,
— osservò il Nebioli pronto sempre ad interpretare ogni cosa nel modo
meno benevolo.

Intanto dal di fuori s'intese una voce: — Non c'è bisogno che mi
annunziate. Mi presento da me.

— È la voce del dottor Beverani, — disse la signora Gertrude, pallida
ed inquietissima.

— Il dottor Beverani! Che cosa può volere? — masticò fra i denti il
signor Massimiliano corrugando la fronte.

Si spalancò l'uscio ed entrò un uomo alto e grosso, col bavero tirato
su fino agli occhi, col cappello in testa e con le mani sprofondate
nelle tasche della pelliccia. E sulla pelliccia e sulle falde del
cappello si andavano liquefacendo larghi fiochi di neve.

— Buona sera! Buona sera! — disse il nuovo arrivato. — Domando scusa se
entro così, ma fa un tal freddo che non ebbi il coraggio di levarmi il
soprabito nell'andito.

Il signor Nebioli avrebbe avuto una gran voglia di mandare a spasso
l'incivile che veniva a colare come una grondaia nel suo salotto da
pranzo, ma il dottor Beverani era una persona di riguardo, medico di
casa da un pezzo, socio di più accademie, cavaliere di più ordini, e
non conveniva usargli scortesia. Inoltre la sua visita non era certo
senza grave motivo e destava una legittima curiosità anche nel signor
Massimiliano.

Il dottore spiegò tranquillamente sopra una sedia la sua pelliccia,
depose sopra un'altra il cappello e poi si appoggiò con la schiena alla
stufa.

— Ah qui si respira un'altra aria, — egli esclamò soddisfatto. —
Dunque, con più calma, buona sera, signora Gertrude, buona sera,
Massimiliano.

La signora Gertrude rispose un timido — buona sera — e suo marito emise
alcuni suoni inarticolati.

Però il dottor Beverani non parve curarsi di questo gelido saluto, ed
egli continuò: — Beati quelli che possono far salire a forza di legna
il termometro a dodici gradi! Fuori siamo a tre o quattro gradi sotto
zero.... Fui or ora in una casa di poveri ove c'erano dei bambini che
tremavano di freddo da far compassione. Un locale terreno, senza vetri
alle finestre, un focolare spento, e lungo una parete due pagliericci
senz'altre coperte che di miseri cenci. Su una sedia, ravvolta in uno
scialle sdrucito, una vecchia con la febbre addosso. Ha una bronchite
di cui potrebbe anche guarire se andasse all'ospedale....

— E perchè non ci va? — chiese il Nebioli infastidito.

— Perchè la mamma dei bimbi è morta l'anno passato, e durante il giorno
quando il padre lavora, o chi guarderebbe quelle creaturine? Eh! A
chi sta sdraiato nel suo seggiolone vicino al caminetto, la filosofia
è facile e con un paio di sentenze si accomoda tutto.... Ma quando
le cose si vedono dappresso, allora è un altro paio di maniche.... I
comunisti hanno torto, ma nondimeno, una volta all'anno, in inverno,
divento comunista anch'io....

— Tanto fa petroliere, — saltò su il signor Massimiliano, — ma,
scusate, non siete venuto a farci visita che per narrar queste
malinconie?

— No davvero, per quanto piacere abbia di veder voi e la signora
Gertrude, non mi sarei spinto fin qui senza una ragione seria, in mezzo
al vento e alla neve.

— Vergine Santa! — esclamò la signora Gertrude — ho in cuore il
presentimento di una disgrazia.

— E che disgrazie volete che ci sieno? — urlò suo marito per
dissimulare, secondo il solito, con le grida, l'inquietudine che si era
impadronita anche di lui. E avrebbe continuato nel medesimo tuono se il
dottor Beverani non avesse preso subito la parola.

— No, no, buona signora, — egli disse avvicinandosele e prendendole
ambe le mani — non ci saranno disgrazie. Ho uno lettera da
consegnare....

— Una lettera? Per me dunque? — interruppe il signor Massimiliano.

— Per voi e per vostra moglie.... La persona che scrive vuol essere
sicura che la lettera sia giunta nelle vostre mani.... Ha scritto
ancora, e....

— E non voglio veder nulla, — gridò il Nebioli voltandosi da un'altra
parte. — Ho capito chi è la persona che scrive; ella è morta per me.

La signora Gertrude avrebbe dato dieci anni della sua vita per trovare
un lampo di energia in quel momento, per farsi consegnar quella
lettera, per aprirla, per baciarne i caratteri; ma era inutile, ella
ormai non sapeva che piangere. E si nascose il volto fra le palme e
soffocò i suoi singhiozzi.

Il dottore non ismarrì punto la sua calma alle brusche risposte del
vecchio bisbetico, ma estrasse di tasca la lettera e ripigliò: — Voi
leggerete questo foglio, Massimiliano.

— Vi dico di no, — rispose costui dando però un'occhiata di sbieco alla
sopracoperta che il medico aveva avvicinato al lume.

— O lo lascierete leggere a vostra moglie.

— Nemmen per idea.

— Allora lo leggerò io.... La Margherita me ne dà facoltà.... Fatemi
portare una candela perchè alla luce del petrolio io non leggo...

— Vi ripeto, — cominciava il signor Massimiliano, quando il dottore lo
interruppe senza riscaldarsi, ma con una certa aria di autorità:

— Io spero che il medico di casa avrà il diritto di farsi portare una
candela e di leggere una carta. Signora Gertrude, abbia la bontà di
suonare il campanello.

— Non ce n'è alcun bisogno, — disse il vecchio dispettosamente. E
rivoltosi a Gertrude: — Se vuole una candela, accendigliela; sulla
credenza ce ne sono due.... O che fai lì come una statua? Santa
pazienza!

Il dottore teneva sempre la lettera fra le dita; il signor Massimiliano
gliela strappò con un impeto subitaneo.

— Sapete dove meriterebbe di andar questa lettera? Nella stufa.

Quantunque il Beverani fosse certo che una tale minaccia non avrebbe
avuto effetto, egli ficcò gli occhi addosso al suo cliente, che
pareva magnetizzato da quello sguardo e passava la lettera da una mano
all'altra dopo averla tirata fuori dalla sopracoperta ch'egli stracciò
in minutissimi pezzi.

Intanto la signora Gertrude faceva inutili sforzi per accendere il
lume. Le sue mani tremavano ed ella non riusciva a tener fermi i
fiammiferi vicino al lucignolo.

— Lasci fare a me, buona signora, — disse il dottore accostandosele con
bontà. — Torni a sedere e si rinfranchi.

— Quella fraschetta ha tempo da perdere, — osservò il signor
Massimiliano che aveva spiegato la lettera e l'aveva scorsa rapidamente
con l'occhio.

— Dodici facciate fitte! E che scrittura! Figlia pessima in tutto,
anche nella calligrafia!

E gettò con aria sprezzante i foglietti sopra la tavola.

— Son qua io, — prese a dire il dottore che si avvicinava tenendo in
una mano la candela, e trascinando con l'altra una sedia. — Non m'ero
già offerto di farvi io la lettura?

— Se volete leggere, fate il vostro comodo. Nè io, nè mia moglie
non aspettiamo lettere, non vogliamo saperne.... Per me riprendo la
_Gazzetta_, — replicò il Nebioli, quantunque con tuono alquanto più
rimesso. E sedette fingendo d'immergersi nuovamente nel giornale.

— Va benissimo, — disse il dottore senza scomporsi. Spinse verso la
tavola la poltrona della signora Gertrude, le accennò di prendervi
posto, estrasse dal taschino del panciotto un paio di lenti, le inforcò
al naso dopo averle forbite col fazzoletto e poi cominciò:

  «_Caro babbo, cara mamma._

«Dopo tanti mesi torno a scrivervi. So che non mi risponderete e non
oso chiedervi che mi rispondiate, ma in ogni modo seppure ho rinunciato
alla speranza di ricevere una vostra lettera e forse di vedervi più
mai, non voglio lasciarvi credere ch'io mi sia dimenticata di voi,
ch'io non vi ami più.

— Si può dare un esordio più pretenzioso? — brontolò il signor
Massimiliano alzando gli occhi dalla _Gazzetta_. — Ancora ha ragione
lei.

— Attendete alla vostra politica, — disse il medico. — No, signora
Gertrude, non pianga così!

E ripigliò la lettura.

«Son così piena di brighe che Dio sa quando finirò questa lettera che
comincio oggi; dunque non vi metto nemmeno la data. A ogni modo voglio
ch'essa vi arrivi prima del Natale, prima di quel Natale che mi desta
in cuore una folla di pensieri e di ricordanze. Come volano gli anni!
Mi par ieri quand'ero bambina e la povera nonna facendo capolino col
suo gran cuffione bianco dall'uscio della sua camera, mi chiamava
misteriosamente con un cenno del capo e tirava fuori dal cassetto una
bambola nuova. Mi par ieri quando si preparava l'_albero_ con la mamma,
e i cugini e le cugine venivano a passar la serata in casa nostra.
Anche il babbo si metteva di buon umore, e io dicevo a tutti: non è
vero che il babbo sia burbero; vedete? egli ride. E ho negli orecchi lo
scampanìo delle chiese che mi faceva sognare un mondo nuovo e mi empiva
lo spirito di visioni dolci e solenni, onde stentavo tanto a dormire,
ed ero così beata della mia veglia! Ahimè! La nonna è morta, i cugini
e le cugine si sono dispersi, io ho cessato da un pezzo d'essere una
bimba e non sono più con voi altri.

Il signor Massimiliano si raschiò in gola e poi starnutì.

— Felicità! — disse il dottore.

«.... Non sono più con voi altri. Ebbene, babbo e mamma, se non sono
più con voi altri, abbiatevi almeno i miei augurii per le feste che si
avvicinano e per l'anno che sta per nascere.... Ch'esso vi porti tutte
le gioie, ch'esso vi faccia dimenticare tutti i dolori....

— Parole, parole.... Roba che si trova nelle antologie, — esclamò il
Nebioli.

«Di questi dolori, lo so, io ve ne ho recato uno grandissimo, ho
disposto del mio cuore contro i vostri desiderii e quando vi trovai
inflessibili vi ho disobbedito. Era il mio primo atto di ribellione,
ma, lo confesso, era un atto ben grave. O genitori miei, se io vi
dicessi che per risparmiare le vostre lagrime avrei dato il mio sangue,
voi non mi credereste....

— No sicuro.

«Eppure io direi il vero. Ma ciò che non potevo darvi era la mia
fede, perchè non si riprende la fede giurata, perchè io amavo Ugo con
tutto il trasporto dell'anima mia, come l'amo ancora, come spero di
amarlo fino all'ultimo giorno della mia vita. Iddio vorrà concedermi
questa grazia, di farmi morire appena o l'amor mio si raffreddi, o si
raffreddi l'amor d'Ugo per me.

— Declamazioni da romanzo! ecco che cosa si guadagna a lasciar leggere
cattivi libri alle ragazze. Ma mia moglie....

Gli occhi del signor Massimiliano s'incontrarono con quelli della
povera donna i quali nuotavano nelle lagrime ed esprimevano una
desolazione così profonda ch'egli troncò a mezzo la frase e prese in
mano la _Gazzetta_, sottraendo in tal guisa la faccia agli sguardi
indiscreti. Solo si stentava a comprendere com'egli potesse continuare
a leggere un foglio, che, tenuto a quel modo, pareva dovesse servirgli
da paralume.

Il dottor Beverani fece le viste di non accorgersi di tutte queste
manovre e proseguì:

«Del resto, qual sia la mia colpa, per mesi e mesi dopo fatto il gran
passo, io sperai nel vostro perdono, sperai che mi avreste riaperte
le braccia, attesi una parola vostra, attesi almeno nuove rampogne....
Oh! il silenzio è peggiore assai dei rimproveri.... Basta!... Io non vi
accuserò di durezza...

— Già, si scambian le parti, è creditrice lei, — disse il Nebioli senza
mutar posizione.

«No, voi siete sempre il mio buon babbo e la mia buona mamma, e io
mi figuro di chiacchierar con voi, come facevo una volta, quando tu,
babbo, mi conducevi alla domenica in piazza, e quando con te, mamma,
si facevano le nostre lunghe passeggiate fino ai Giardini.... Te
le ricordi? Con chi esci adesso, la mia povera mamma? Conduci teco
la Marina forse?... Oh, nell'inverno, come si ritornava contente a
casa! Oh i bei tramonti dietro la cupola della Salute! Qui in questo
romitorio a cui non si arriva che dopo due ore di mulo, si va sui
cosidetti bastioni, e non c'è altro. Due filari di platani, quattro
panche di legno, e intorno montagne da tutte le parti, e giù nella
valle campi poveri di vegetazione e un fiumicello che pare un fosso. Il
sole ha fretta di andarsene; c'è un monte alto, sassoso, sgarbato che
ci affretta la sera almeno di due ore. E quando il sole è sparito, che
aria fredda, sottile! Brr!

«Però a passeggiare io ci vado poco. Ugo è così stanco quando viene a
casa, e io pure, sapete, sono stanca. Lavoro dall'alba fino a sera....
C'è stata una interruzione, ma ne parleremo dopo.

«Smetto un momento, indovinate perchè? Perchè sento la pentola che
bolle e voglio ritirarla dal fuoco.... Vi scrivo dalla cucina.... Altro
che il mio studio con le sedie imbottite! Tutto il nostro quartiere
consiste in questa cucina e in una cameruccia.

                             . . . . . . .

«Fra la riga precedente e questa c'è corso un intervallo di due giorni.
Non ebbi un minuto di libertà. Ugo fu in letto con un po' di febbre.
Egli sapeva ch'io _avevo sul telaio_ una lettera per voi altri e mi
sollecitava a finirla, ma io ero così apprensiva che non sapevo tener
la penna in mano. Grazie a Dio, tutto è terminato.

«Ah, volevo dire alla mamma che non c'è di meglio per divenir brave
massaie che il dover farsi tutto da sè.... Serva io non ne ho, potete
immaginarvela; la fantesca della mia padrona di casa viene la mattina,
per un paio d'ore; poi rimango io sola. Ho imparato a spazzare, a
stirare, a cucinare.... In quest'ultima funzione riesco a meraviglia.
Ugo mi dice sempre: se ci fosse la _materia prima_, che buoni piattini
uscirebbero dalle tue mani! Ma quella che egli chiama la materia prima
non c'è.... Qualche volta, in confidenza, sui venticinque o ventisei
del mese, c'è alla mattina una preoccupazione nuova, curiosa, vale a
dire se ci sarà da pranzo. Vi confesso che questo dubbio produce un
effetto strano....

— Povera Margherita! — esclamò con voce flebile e con un gemito la
signora Gertrude.

Il dottore, sospendendo un momento la sua lettura, rivolse gli occhi
dalla parte ove si trovava il signor Massimiliano. Ma egli continuava
ad essere nascosto dietro la _Gazzetta_.

«A ogni modo si arriva al giorno dello stipendio. Un bello stipendio
in verità! Con quella gioia della trattenuta ci restano 75 lire e 45
centesimi al mese....

— Peggio per lei! — gridò il Nebioli facendo la voce grossa. — Perchè
ha lasciato la sua casa? perchè ha lasciato i suoi genitori?

«E con 75 lire e 45 centesimi al mese un pover'uomo deve insegnare
a sessanta bimbi, asini e cocciuti, provvisti di babbi più asini e
più cocciuti di loro. Il segretario comunale ha levato il saluto a
mio marito perchè non giudicò degno del premio suo figlio che in
un anno non aveva ancora imparato a scrivere _caro_ senza l'_h_.
E il sagrestano lo guarda in cagnesco perchè egli osò mettere in
burla il suo illustre rampollo, il quale un giorno in iscuola disse
che il Tevere è la capitale d'Italia. C'è finalmente il barbiere,
che attribuisce la caduta del suo primogenito all'esame a _mene
consortesche_! Ho proprio paura che abbia ragione il brigadiere dei
carabinieri, un lombardo, che quando mi vede mi dice sempre: _Che la mi
creda, signora, l'è minga un paes per lee._

«Ho dovuto, volere o non volere, far la conoscenza delle _signore_ del
luogo. Ne conosco una ventina; dieci di esse non sanno leggere affatto;
dieci leggono soltanto lo stampato, quattro anche il manoscritto. Che
sappiano scrivere non ce ne sono che tre. Al mio arrivo s'è fatto un
gran mormorare perchè ero troppo _elegante_, e un giorno in chiesa,
mentre il curato predicava contro il lusso, tutti gli sguardi si sono
rivolti su me. Avevo ancora l'abito di _piquet_ violetto che mi hai
fatto fare nel settembre dell'anno passato.... Adesso, sta tranquilla,
mamma, che non pecco per eccesso di vanità. Ho venduto a un merciaiuolo
ambulante il vestito violetto, il mio spillone a mosaico, i miei
coralli.... ah i miei coralli m'è costato a venderli; me li avevi
regalati tu quando compivo diciott'anni; ma come si fa?... C'erano
spese indispensabili, urgenti.... Insomma sono ormai come le altre,
quantunque mi facciano l'onore di dirmi che ho qualchecosa che non
hanno le altre. Ho il _chic_, sentenziò la moglie del pretore che sa
due parole di francese.

«A proposito di francese, il babbo non mi rimprovererebbe più di aver
sempre libri francesi per le mani. Qui non vi sono libri in nessuna
lingua quando se ne levi qualche libro di devozione, e la cabala
del lotto. Al caffè ci sono due giornali, ma un terzo ne riceviamo
noi altri (è l'unico nostro lusso) e indovinate che giornale è? Il
_Rinnovamento_, a cui Ugo s'è fatto associare da un suo amico di costì
per compiacermi. Quando quel foglio arriva a questo romitorio dopo due
giorni di viaggio, mi par che capiti un amico a darmi novelle della mia
Venezia, de' miei parenti, e benedico a chi ha inventato i giornali.
Guardo lo stato civile, i matrimonii, le morti, guardo i pettegolezzi,
le feste da ballo, le baruffe, le serenate sul Canal Grande, e vivo
ancora nella mia piazza, nelle mie calli, nei miei campi, negli sfondi
misteriosi de' miei _rii_. E sento venirmi le lagrime agli occhi,
ma le asciugo presto, perchè i poveri, e ormai sono povera anch'io,
non hanno tempo da piangere, non hanno tempo da cullarsi in fantasie
malinconiche. Adesso poi....

«Ah sì, avevo il capriccio di darvela soltanto per poscritto la grande
novella, ma non posso indugiare di più e quasi quasi la penna scrive da
sè...

Il dottore Beverani fece una piccola pausa; la signora Gertrude lo
guardò con trepida ansietà e il signor Massimiliano tese gli orecchi.

«La grande novella è questa, che al 15 del passato mese di novembre,
alle 9 precise di sera, ho dato alla luce un bambino....»

Il Nebioli lasciò cader di mano la _Gazzetta_, sua moglie si alzò in
piedi e appoggiandosi alla spalliera della sedia del medico cercò di
leggere nel foglietto ch'egli teneva spiegato davanti; ma i suoi occhi
indeboliti e velati dal pianto non vedevano che una gran confusione
nella fitta e scapigliata calligrafia della figliuola.

— Un bambino! — esclamò il signor Massimiliano, — come mai?

— Probabilmente come le altre donne, — rispose ironicamente il dottore.
— Ma forse dirà ella stessa qualche cosa di più.

E riprese la frase interrotta.

«...... Un bambino il quale sebbene nato in sette mesi....»

— Quando s'è maritata la Margherita? — chiese il vecchio brontolone in
tuono aspro a sua moglie.

— Non lo sai? In maggio, — disse la signora Gertrude.

— Già, il mese.... ah stavo per dirla grossa. Maggio, giugno, luglio,
agosto, settembre, ottobre, novembre.... Per fare i sette mesi bisogna
metterci della gran buona volontà....

— Via, mettetecela, — disse il dottore. E continuò:

«..... Il quale sebbene nato in sette mesi è vispo e robusto e a cui ho
dato il nome di Massimiliano.»

Il signor Nebioli fece spalluccie in segno di indifferenza, ma nello
stesso tempo si soffiò due volte il naso rumorosamente, e alzatosi
dalla sedia si mise a passeggiare per la stanza.

— Massimiliano, — disse con accento commosso la signora Gertrude, — la
senti? Gli ha dato il tuo nome.

— Commedie! commedie!

— Dottore, interponga lei una buona parola, — soggiunse a mezza voce la
povera donna. Ma egli le accennò ch'era meglio finir la lettura.

«Voi non vi aspettavate di diventar nonni così presto, e giudicherete
strano che nelle altre due lettere scrittevi io non vi annunziassi
quello che si preparava. È giusto, ma non so perchè, io m'ero fitta
in capo di farvi un'improvvisata a cose compiute. Speravo davvero
che questa creaturina sarebbe stata un maschio (noi donne siamo
tanto sfortunate) e pensavo che forse anche il babbo, se avessi
potuto dirgli: ti è nato un nipotino, avrebbe spianato la sua fronte
severa. Per amore di lui, babbo, se non per amor mio, perocchè egli,
poveretto, colpe non ne ha. Le sue manine sono pure, i suoi occhi
sono innocenti come quelli degli altri bimbi; o perchè dunque troverà
egli, al suo entrare nel mondo, meno affetto, meno sorrisi, meno baci
ad accoglierlo? Se il vostro cuore dev'essermi chiuso per sempre, oh
non sia chiuso almeno per esso. Io gli insegnerò ad amarvi, le prime
preghiere che i suoi labbri di rosa alzeranno al Signore saranno per
voi; fate che io possa dirgli che voi pure gli volete bene, che voi
pure qualche volta, tra le pareti della casa ov'io nacqui, pronunciate
con dolcezza il suo nome e gli inviate un saluto per mezzo degli
uccelli che volano, delle nubi che passano, e lo raccomandate al buon
Dio che protegge i bambini.

— Oh dottore, dottore, non ne posso più, — esclamò la signora Gertrude
rompendo in un pianto dirotto.

— Già le donne non sanno altro che piangere, — urlò il Nebioli che
voleva mostrarsi impassibile. — Lascialo finire, per Dio.... Avanti,
avanti, Beverani... La mia signora figliuola ha la penna spedita come
la lingua.

E continuò a misurare in lungo ed in largo il salotto, guardando di
tratto in tratto la sua ombra sulla parete e dando segni frequenti di
essere molto infreddato.

Il dottore indirizzò una parola affettuosa alla signora Gertrude, indi
proseguì:

«Assicurano ch'egli mi somiglia; io non lo so, so che mi par tanto
bello. Potete immaginarvi che lo allatto io stessa; a trovare una balia
si dovrebbe girar mezza provincia, e poi dove ci sarebbero i quattrini
da pagarla? Già in questi paesi è sempre necessario applicare il
proverbio: _Chi si aiuta Dio l'aiuta_. Se la mamma fosse qui, gliene
racconterei di curiose circa al gran momento in cui il signorino è
nato. Figuratevi che di levatrici non ce ne sono, ma c'è almeno una
dozzina di femmine le quali in questi casi offrono i loro servigi e
assordano con le loro grida e coi loro consigli. E siccome non vanno
d'accordo fra loro, finiscono quasi sempre coll'attaccar briga e col
tirarsi per i capelli. Ugo ha dovuto usar la violenza per cacciarle di
camera; egli ha dovuto fare una _carica a fondo_ come quand'era soldato
di _Savoia cavalleria_. Quando fummo rimasti soli noi due, egli era
pallido, aveva la febbre addosso, e mi chiese: — Margherita, come si
fa? Quasi quasi richiamerei qualcheduna di quelle megere. — No, per
carità, — gli risposi — spicciamoci fra noi altri. — E stringevo la sua
mano nella mia mano, e lo guardavo, ed egli guardava me con occhi pieni
di lagrime, e diceva con un filo di voce: — Margherita! Margherita! —
Di fuori intanto origliavano all'uscio due o tre delle più ostinate
comari e gridavano ad Ugo: Signore, faccia così. — No, faccia in
quest'altra maniera. — Insomma, com'egli facesse lo ignoro, so che di
lì a poco ho provato una calma di paradiso e ho inteso un vagito che mi
disse: sei madre.

«Da quel momento (e passarono omai venticinque giorni) sono come
un'altra persona e capisco che tutto quel che si dice dell'amor materno
è al disotto del vero, o piuttosto non si può dirne nulla finchè non
si è madri. Faccio mille castelli in aria, mi sento più ricca e non
desidero ormai che due cose: di ricevere il vostro perdono e di vedere
Ugo meno sfiduciato. Egli ha perduto una gran parte del buon umore che
gli rendeva tollerabile la sua posizione, si affanna per l'avvenire
mio, per l'avvenire del nostro Massimiliano e rimane qualche volta col
bimbo in collo senza proferir parola. Ah! sento i suoi passi. Credevo
di finir questa lettera oggi, ma la finirò domani.

                             . . . . . . .

«Ripiglio la penna ancora tutta sbalordita da una risoluzione che
abbiamo presa con Ugo,... È una risoluzione assai grave, ma Ugo dice:
a mali estremi, estremi rimedi.

«Ieri egli era più mesto del consueto. Andò alla cuna del bimbo che
dormiva e si chinò a baciarlo poi mi fissò gli occhi in viso due,
tre volte, come se volesse parlare e gliene mancasse il coraggio. —
Ugo, gli diss'io in tuono di rimprovero, avresti segreti per me? —
Ascoltami, egli rispose, e mi passò il braccio intorno al collo: qui
non ci posso più vivere, mi ci logoro la salute e l'ingegno, e del
resto m'è insidiato anche lo scarso pane che guadagno. Il segretario
comunale e alcuni consiglieri sono miei nemici e cospirano per
togliermi il posto e mettere in vece mia una loro creatura che non avrà
il torto massimo di essere forestiero. La mia dignità mi costringe
a dar le mie dimissioni. — E tu dàlle — io proruppi. Egli sorrise
tristamente. — E poi? — E poi, replicai, si cerca un altro nido. —
Senti amor mio, egli ripigliò, se per qualche mese, se per qualche
tempo io dovessi girare il mondo in traccia di fortuna, credi tu che i
tuoi genitori darebbero asilo a te e a nostro figlio?»

— Sì, sì, — esclamò la signora Gertrude fra i singhiozzi.

— Che ne sai tu? — interruppe suo marito con la usata ruvidezza. — Sono
io che devo decidere.... Vuoi scommettere intanto che quel Lucifero
della nostra figliuola non si degnerebbe d'entrare in casa senza
il suo illustre consorte?.... Oh! ma del resto è successo ciò ch'io
prevedeva.... è successo appuntino... doveva finire così.... Quando si
sposa un disperato, un....

— Volete lasciarmi continuare? — disse il dottore. — Siamo ormai alle
ultime pagine!

«Io debbo essere diventata assai pallida perchè Ugo si affrettò a farmi
sedere e mi supplicò che mi calmassi. Ma io m'ero aggrappata alla sua
persona e gli gridavo con voce affannosa che non avrei consentito a
staccarmi da lui nè per un giorno, nè per un'ora, nè per un minuto,
che dovunque egli andasse sarei andata anch'io, che il godere gli agi
della casa paterna mi sarebbe parso un delitto, lui lontano, povero,
ramingo, che perfino la gioia del vostro perdono mi sarebbe stata tolta
non avendolo al fianco.

— Ero sicuro che avrebbe risposto così, — disse il signor Massimiliano.
— È nel suo carattere.

— Un bel carattere, confessatelo, — soggiunse il dottore senza staccar
gli occhi dalla lettera.

— Ma dunque, per carità, che cosa è succeduto? — chiese ansiosamente la
signora Gertrude.

— Or ora vedremo, — replicò il medico.

«La sua fisonomia — così proseguiva Margherita — si fece raggiante,
sparirono le nubi della sua fronte, sparirono dalle sue guance i
solchi che le assidue cure vi avevano scavato, egli tornò splendido di
bellezza e di gioventù come nel primo giorno in cui gli diedi il mio
cuore. — Me lo aspettavo, egli disse baciandomi. Tu dunque, fuor che
dell'essere divisa da me, non ti sgomenteresti di nulla? — Di nulla. —
Mi seguiresti anche fuori d'Italia.? — In capo al mondo. — Hai paura
del mare? — No. — Egli trasse allora di tasca una lettera scrittagli
da un suo buon amico di Genova al quale egli si era raccomandato per
un impiego. _Vuoi andare a Buenos Ayres? gli chiedeva l'amico, c'è
un posto presso una casa italiana. Diecimila franchi di stipendio e
alloggio e vitto per te e per la tua famiglia. Se accetti, preparati a
partire col vapore che salpa da qui, il 28 di questo mese._

— Vanno a Buenos Ayres! Vanno in America? — gridò disperatamente la
signora Gertrude. — Massimiliano, ciò non è possibile.... Massimiliano,
rispondi per carità.

Il signor Massimiliano aveva smesso di passeggiare e s'era avvicinato
al dottore. — Taci un momento, Gertrude, — egli disse a sua moglie, —
sentiamo il resto.

L'inflessione della sua voce era diversa del solito, egli che non
parlava mai che per imporre, pareva quasi voler pregare, sua moglie
afferrò una delle sue mani, e coprendola di baci e di lagrime tornò
alla carica: — Massimiliano, per carità, dimmi che non lascierai che la
tua unica figlia vada in quei paesi remoti....

Il naturale violento del Nebioli riprese il disopra. — Vuoi tacere, per
Dio? Vuoi lasciar finire questa disgraziata lettera?

La signora Gertrude aveva tanto l'abitudine di obbedire che non seppe
ribellarsi nemmen questa volta; ella fece silenzio, ma continuò a tener
stretta nelle sue la mano di suo marito.

«Ho pensato subito a voi, — lesse il dottore con accento commosso, — e
dissi ad Ugo: — E i miei genitori? — Non ti hanno essi chiusa la porta
della loro casa? egli replicò. — È vero. — Non hanno lasciato senza
risposta tutte le tue lettere? — È vero, pur troppo, è vero. Stetti
in forse ancora un istante; poi mi decisi. — Accetto e occupiamoci dei
preparativi della partenza. — Egli mi gettò le braccia al collo e....

— Ed egli è uno scellerato, — scoppiò come un fulmine il signor
Massimiliano svincolandosi da sua moglie e gettando a terra con gran
fracasso tutto ciò che gli capitava davanti. — Non gli basta di averci
rubata la figlia, vuol portarcela anche di là dai mari, vuol farla
morire di fatiche, di stenti.... Un mese dopo il parto, con un bambino
da latte, le fa imprendere un viaggio a cui non reggono talvolta
nemmeno i più vigorosi. E non c'è galera per questi delitti, e non c'è
forca.... Ma voi, Beverani, voi lo compatirete, voi lo difenderete, non
è vero? Non si può saperla la vostra opinione?

— La mia opinione, — rispose il medico, — è di leggere la mezza
paginetta che manca a compiere la lettera; poi vi dirò quel che farei
nel caso vostro.

— Oh ci saranno le frasi d'uso.... Quelle tenerezze ridicole a cui
corrisponde sì bene l'effetto.... Morale moderna!

«Egli mi gettò le braccia al collo, — riprese il Beverani rileggendo
la frase già letta, — e mi susurrò con un bacio: tu sei un angelo. —
No, diss'io, sono una donna che ti ama. Una cosa però è forza che tu mi
conceda. Anticipiamo di ventiquattr'ore la nostra partenza e passiamo
un giorno a Venezia. Prima di abbandonar l'Europa per non tornarvi
forse mai più è necessario che io tenti almeno di vedere un'ultima
volta i miei genitori. Egli mi ribaciò e accondiscese al mio desiderio.
Abbiamo fatto tutti i nostri conti. Oggi è il 19, sabato. Noi partiremo
di qui lunedì e saremo a Venezia mercoledì alle cinque pomeridiane.

— Posdomani? — esclamarono a una voce il signor Massimiliano e la
signora Gertrude.

— Mercoledì abbraccierò la mia padroncina — gridò battendo festosamente
le mani, la cameriera che s'era introdotta pian piano nel salotto.

Il signor Massimiliano si voltò per sgridarla ma non seppe aprir bocca.

— Non ci sono ormai che due sole righe, — osservò il dottore. E lesse:

«Ci faremo condurre a un albergo, poi verremo da voi, e io non suppongo
neppure che non vogliate riceverci, e vi mando in anticipazione mille
baci. Ah! la mia lettera è un gran pasticcio, ma non ho più tempo di
rifarla perchè ho da attendere ai miei bauli. Addio, addio, anche da
parte di Ugo.... Il mio bimbo si sveglia e mi chiama con vagito....
Forse vuol mandarvi a salutare anche lui.

                                                        «MARGHERITA.»

— Dunque Margherita sarà qui posdomani... farà il Natale con noi, —
disse la signora Gertrude che di tutta la lettera non ricordava ormai
che questa notizia e quasi non credeva a sè stessa.

— E viene anche _lui_? E bisognerà accogliere anche lui? — soggiunse
come parlando fra sè il signor Massimiliano. — Quel cane che vuol
portarla a Buenos Ayres!...

— Che Buenos Ayres? — interruppe il dottore alzandosi in piedi. —
Sapete che vi ho da dire?... Che l'alloggio di vostra figlia e di
vostro genero dev'essere la vostra casa e non un albergo, che quando
essi sian qui non dovete più lasciarli andar via, che la parte del
tiranno l'avete fatta anche troppo a lungo, e che la vostra Margherita
l'avete castigata anche troppo.

— Dovevo anzi premiarla?

— La si è maritata a suo modo, e ha fatto male, non c'è dubbio, ma in
fin dei conti le ragazze si sposan per loro e non per uso dei genitori
e la Margherita trovò almeno un galantuomo....

— Non mi fate dire spropositi, Beverani. Un galantuomo che seduce una
fanciulla....

— E la sposa.

— Sì, contando sul perdono del padre babbeo.

— Ci contava tanto poco che stava per andare in America.

— Baie! Non credo più al viaggio in America

— Non ci credete? Allora vi dirò che vostra figlia mi scrive
supplicandomi di prestare a suo marito 1000 lire che gli mancano a
pagare i posti sul vapore.

— E voi li presterete?

— Sicuro, a meno che voi non vi decidiate a farla finita, dando a
vostra figlia la dote che le avevate destinata e lasciandola vivere
agiatamente con lo sposo ch'ella si è scelto.

— O corpo.... E come avviene che tutto questo zelo vi capita da un
momento all'altro?

— Mio Dio, perchè trovavo giusto in passato che la condotta di
Margherita avesse la sua punizione, e trovo adesso che quella giovine
ha espiato largamente i suoi falli.

— Già, voi avete la sapienza di Salomone, — brontolò il signor
Massimiliano.

La signora Gertrude era esterrefatta. Ella non aveva mai inteso alcuno
a parlare con tanta libertà a suo marito e non sapeva intendere
com'egli, malgrado tutto il rispetto pel dottore Beverani, non
prorompesse in una di quelle sfuriate che le facevano venir la pelle
d'oca.

Ma la cameriera Marina la confortava dicendole, — Vedrà che cede....
Il padrone è così.... A esser conigli non ci si guadagna con lui.... E
poi, la padroncina è stata sempre il suo occhio destro.

Il signor Massimiliano fece ancora quattro giri per la stanza torcendo
fra le mani il fazzoletto; indi si piantò ritto ed immobile davanti
a sua moglie. — Invece di mandar acqua da tutte le parti come una
fontana, mi sembra che potreste almeno pensare a far allestire le
camere....

— Oh Massimiliano, — esclamò la povera signora, — tu dunque acconsenti?

— Io? Io! E lei, _madama_? In tutto il tempo dacchè nostra figlia è
partita s'è mai potuto sentir da lei un'opinione franca?... Lamenti,
piagnistei, sospiri e niente più di così....

— Ma mi lasciavi forse parlare?

— Via, via, non vi bisticciate, chè s'ha da stare allegri. Beninteso
che voglio guadagnarci qualche cosa anch'io. Per la vigilia di Natale
verrò a pranzo con voi altri, — disse il Beverani.

— Oh dottore, sia benedetto, venga, venga. Le si deve tutto, — replicò
la signora Gertrude prendendogli la mano.

— Come volontieri le darei un bacio! — soggiunse in un trasporto
d'entusiasmo la cameriera che adorava la sua padroncina.

— Troppo tardi, Marina, — rispose ridendo il dottore. — Bisognava
risolversi vent'anni fa quando ve l'ho domandato....

— Che cosa va a tirar fuori! — replicò la donna facendosi rossa.

— Non c'è punto da arrossire, perchè mi avete detto di no.... Ma voi
Massimiliano, non mi offrite niente?

— Scusate, ma non so raccapezzarmi.... Darei la testa nei muri....
Quella lettera, quelle vostre parole... insomma penso alla bella
figura che faccio io dopo tante proteste, dopo tante dichiarazioni di
fermezza.... Sia pure.... ci vuol pazienza.... Marina?

— Comandi.

— Va a pigliare una bottiglia di Cipro stravecchio.

— Oh questa è una risoluzione che mi piace. Non c'è quanto un
bicchierino di Cipro per far passare le ubbie. Posdomani poi a
quest'ora ne beveremo un altro con la Margherita....

— Margherita, Margherita, quanto mi hai fatto soffrire e quanto bene
ti voglio ancora! — disse il Nebioli. E si coprì il viso colle palme,
e scoppiò in un pianto dirotto, irrefrenabile. Non vi voleva di più per
far piangere nuovamente anche la signora Gertrude.

— Sta a vedere che finisco col fare il terzo — osservò il Beverani
passandosi la mano sugli occhi.

Per buona ventura entrò intanto la cameriera col Cipro. Aveva ella pure
una gran voglia di commuoversi, ma il Beverani la sollecitò a non far
bambinate e a sturare la bottiglia senza romperla. Quando il liquore fu
mesciuto, il medico vuotò il primo bicchierino gridando: — Alla salute
degli sposi e del bimbo!

Il signor Massimiliano si rasciugò in fretta le lagrime e bevette. Dopo
di lui la signora Gertrude e la Marina.

— Sia ringraziato il cielo! La pace è fatta! — concluse il dottore.

Era per andarsene quando sentì la mano del Nebioli nella sua.

— Sarà per la povera famiglia di cui ci avete discorso prima, —
disse il ruvido vecchio lasciando scivolar fra le dita del medico un
biglietto di banca di cinquanta lire. — E fate che preghino....

— Pei vostri peccati? — chiese il Beverani ch'era un po' scettico....

— No, ma perchè il Signore mi dia la forza di accogliere bene
_colui_.... mi capite.... Vi assicuro.... non so ancora persuadermi....

— Oh si persuaderà, — ripetè il dottore scendendo le scale.



LA PAGINA ETERNA

(MONOLOGO D'UN LETTERATO).


_Excelsior_ (era questo il nome di battaglia d'un giovine letterato)
aveva scritto quella sera la sospirata parola fine a' piedi dell'ultima
facciata di un nuovo romanzo. E s'era messo poi a svolgere con mano
convulsa i 475 foglietti del suo lavoro, ch'egli doveva trasmettere la
mattina seguente ad un editore. Egli correva con l'occhio su quelle
pagine che gli erano costate tanti mesi di fatiche e di veglie,
s'arrestava alquanto sui punti più drammatici, ripeteva ad alta voce
alcune frasi, e cercava d'indovinar l'effetto ch'esse produrrebbero
nell'animo dei lettori. Intanto passavano le ore, il petrolio si
abbassava nella lucerna, e quando _Excelsior_ fu giunto al termine
della sua revisione, erano già le due dopo mezzanotte. Egli alzò la
testa dalle sue carte, fece puntello delle palme al mento, e rimase
a lungo immobile, pensoso. A poco a poco una tristezza infinita gli
si dipinse sul viso; egli balzò dalla sedia e si mise a passeggiar
concitato su e giù per la stanza.

— E anche tu, — egli esclamò rivolgendo lo sguardo al manoscritto che
giaceva sulla scrivania, — anche tu farai la fine dei tuoi fratelli
maggiori. Uscirai nel mondo in mezzo a un mormorio lusinghiero;
sarai salutato da alcuni articoli benevoli inspirati probabilmente
dall'editore; mi procurerai la stretta di mano di qualche lettrice
gentile;... e poi.... e poi troverai una sepoltura onorata negli
scaffali delle biblioteche. Era dunque per questo ch'io ho tanto
meditato, tanto studiato, nudrito con sì grande amore il fuoco
sacro dell'ideale? Era per questo che ho assunto il pseudonimo di
_Excelsior_? Meno male che la mia anima è meno orgogliosa del mio nome
di guerra!

— C'è pur qualche cosa di tragico nel destino della maggior parte
dei libri che passano come ombre davanti agli occhi del pubblico, e
pare abbiano sul labbro il grido dei gladiatori romani: _Ave, Caesar,
morituri te salutant._ Morituri! Sì, questa è la parola. Morituri!
Ma non sono gladiatori, non lottano prima di morire. Che? Muojon di
lattime.

— Ah se quei topi che si chiaman bibliotecari fosser gente di spirito,
che salati epigrammi potrebbero fare di mano in mano che ricevono
e registrano queste primizie! Dovrebb'esserci per esse una rubrica
apposita, come c'è nello stato civile pei nati-morti. Che amara
ironia per un libro trovarsi lì con la sua legatura fresca, con le
sue carte ancora umide, col suo formato snello, elegante, col suo bel
frontespizio che porta una data recentissima, trovarsi lì accanto ai
volumi tarlati di qualche secolo addietro, e dover dire: io non ho
che un anno, non ho che un mese, un giorno, forse, e son già morto e
sepolto, mentre fra quei centenari ci son i giovani eterni, ci son gli
immortali!

— C'è dunque fra i libri questa razza d'immortali, ci son questi
privilegiati che traversano i secoli col fronte raggiante d'un'olimpica
luce, questi amici, questi confortatori di tutte le generazioni?

— Oh se ci sono!

_Excelsior_ diede un'occhiata alla sua biblioteca e non tardò a
distinguere, tra la folla degli altri, i venti o trenta volumi di cui
egli stesso svolgeva più frequentemente le pagine.

— E il segreto della vostra vitalità, — egli soggiunse riprendendo
il suo monologo, — me lo sapreste rivelare? Fra i libri che non si
leggono più da gran tempo non c'era nessuno che valesse quanto voi?
Non ce ne sarà nessuno tra i libri che si scrivono oggi e non si
leggeranno più di qui a un lustro? La fortuna, il caso c'entrerebbe
anche nella gloria? O la celebrità è proprio figlia del merito? E s'è
così, ond'è spirato il soffio che vi salva dalla putrefazione? Dalla
mente o dal cuore? Dall'affanno o dalla gioia? Dall'amore o dall'odio?
Dalla fede o dallo scetticismo? Dalla calma o della procella? Chi
può dirlo? C'è forse una legge che governi a un sol modo tutti gli
uomini, che faccia sbocciar nelle identiche condizioni il fiore del
loro ingegno? L'uno trovò nell'intelletto profondo ciò che l'altro
trovò nell'anima candida. Per l'uno furono fonte d'ispirazione i
dolori provati, gli oltraggi sofferti, il desiderio della vendetta,
lo sfregio dell'esiglio, il pungolo della fame; l'altro ha sentito
spuntar l'ali alla sua fantasia in mezzo a una quiete profonda, nel
santuario della casa, tra il cinguettìo allegro dei bimbi. L'uno si
sentiva più grande nella preghiera, l'altro nel dubbio. L'uno aveva
bisogno dell'austerità monastica e l'altro aveva bisogno della donna.
Ma la donna non significava per tutti la stessa cosa. Era Beatrice,
era Laura, ed era Fiammetta. Era la materia e lo spirito. Per molti la
donna voleva dire _le donne_. Goethe e Byron non avrebbero saputo che
fare dell'amore ideale che bastò alla musa del Petrarca. Attraverso
le più disparate vicende, obbedendo ai più dissimili criteri d'arte,
sconcertando i canoni di tutte le scuole, è nato il capolavoro, è nato
il libro immortale....

_Excelsior_ si fermò in mezzo della stanza con aria meditabonda,
tacque per un momento, e poi come colto da un pensiero improvviso,
soggiunse: — Il libro immortale! Non sarebbe più giusto di dire _la
pagina eterna_? Sì, qui è la chiave di tutto. L'immortalità dei libri è
spesso una pagina, una sola pagina che l'assicura. Può esser sorridente
come il più bel raggio di sole, straziante come il grido d'una madre
che ha perduto i suoi figli, calma come una notte serena, tempestosa
come l'oceano in burrasca, soave come una musica lontana, violenta come
un fiume che irrompe; può essere un inno o una bestemmia; non importa!
in quella pagina l'autore ha lasciato una parte della sua anima, o
meglio ancora, dell'anima dell'umanità. E quella pagina non muore e
pel lungo corso dei secoli, quando un occhio intelligente la guarda,
quando uno spirito capace di simpatia si ferma a meditarla, sembra
che si rinnovelli il palpito che l'ha dettata, sembra che tra linea e
linea ricompaja il sorriso, ricompaja la lagrima che cento e cento anni
addietro un uomo ha saputo incarnare in un periodo, in una frase, in
una parola! La pagina eterna! Felice chi l'ha scritta! È lei che tiene
unite le altre. S'ella mancasse, esse andrebbero disperse come foglie
secche, ma poich'ella c'è le altre le si stringono intorno e brillano
di luce riflessa. Eppure di uguali a queste ne furono scritte molte, e
un tesoro di pensieri fu profuso in cento libri obliati. Ma quei libri
son morti perchè non avevano la pagina eterna.

— Ed essa non c'è, io lo sento, — proseguì il giovane con amaro
sconforto, — in quei quattrocento settantacinque foglietti che
consegnerò domani allo stampatore, non ci fu in quelli che scrissi in
passato, non ci sarà in quelli che scriverò in avvenire.... E perchè
non ci dovrà esser mai?.... Se rivedessi ancora una volta il mio
lavoro... se provassi...

A questo punto il lume, che scoppiettava da un pezzo, die' un vivo
barbaglio e poi si spense, mandando un grandissimo puzzo nella stanza.
Richiamato al sentimento della vita reale, _Excelsior_ cercò a tastoni
i fiammiferi e accese una candela. Indi guardò l'orologio. Erano le
quattro, e il nauseabondo odor del petrolio rendeva impossibile di
rimaner lì a lavorare. Il giovine si decise a coricarsi, e la pagina
eterna gli restò nella penna. Nè seppe scriverla il giorno appresso,
nè seppe scriverla più. Ridotto in fin di vita da lì a pochi anni,
chiamò al suo letto la donna casta e gentile che stava in cima de' suoi
pensieri, e le disse: — Tutti i miei manoscritti, tutti i miei libri
son tuoi. Io avrei voluto dedicarti pubblicamente quante son le mie
opere, ma perchè legare il tuo nome a un cadavere? Aspettavo sempre la
pagina degna di te, la pagina eterna, e la pagina eterna non è venuta.


FINE.



INDICE


  Alla finestra                         Pag.   1
  Le chiacchiere della nonna                  75
  Nevica                                      89
  Un raggio di sole                          112
  La gamba di Giovannino                     165
  Il fratello del grand'uomo                 196
  Il colpo di stato di Clarina               205
  Due ore in ferrovia                        232
  La democrazia della signora Cherubina      244
  La confessione di Doretta                  254
  Lo specchio rotto                          262
  Il parassita indipendente                  280
  Il maestro di calligrafia                  301
  L'orologio fermo                           320
  La lettera di Margherita                   329
  La pagina eterna                           363



  DELLO STESSO AUTORE:

  _La Contessina_, racconto                       . 3 —
  _Sorrisi e lagrime_, nuove novelle                3 50
  _Dal primo piano alla soffitta_, romanzo          3 50
  _Nella lotta_, romanzo. _Seconda_ edizione        3 —
  _Lauretta_, romanzo. _Terza_ edizione             3 50

  SOTTO I TORCHI:

  _Due amici_, romanzo.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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