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Title: Storia degli Italiani (vol 1 di 15)
Author: Cantù, Cesare
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia degli Italiani (vol 1 di 15)" ***


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                         NOTE DEL TRASCRITTORE

—Corretti gli ovvii errori tipografici e di stampa.

—Il testo spaziato (gesperrt) è stato reso come ~testo spaziato~.

—Le doppie accentazioni o le grafie multiple presenti nell’opera,
 quando non si tratta palesemente di errori di stampa, sono state
 mantenute per aderenza all’opera originale.

—Le note a margine riportanti gli anni cui si riferiscono gli argomenti
 trattati nel paragrafo interessato sono stati raggruppati all’inizio
 del paragrafo stesso.


                               C. CANTÙ

                         STORIA DEGLI ITALIANI

                                TOMO I.



                                STORIA

                            DEGLI ITALIANI

                                  PER

                             CESARE CANTÙ

                           EDIZIONE POPOLARE

        RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI

                                TOMO I.

[Illustration: LOGO]

                                TORINO
                      UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
                                 1874



AI LETTORI

L’UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE


_Nella prima edizione del 1854 dicevamo che buon augurio sarebbe alla
nostra UNIONE il cominciar dal nome d’Italia; e che il frastuono
d’interessi tutt’altro che letterarj, e le assordanti attualità della
politica, del teatro, dei giornali non impedirebbero gl’intelletti serj
e la gioventù generosa dal fissare l’attenzione s’un libro, come questo
del Cantù, che_ pel primo _offriva_ compiuta _la storia del nostro
paese dai primordj dell’incivilimento fino ad oggi, scritta dalla penna
stessa, sotto unico punto di vista, e colle più recenti guise tanto
d’erudizione che di maniera di giudicare e disporre._

_Proemiando a quella, noi esponevamo poche cose a nome dell’Autore;
poche, giacchè il comprendere i motivi, l’intento, l’economia
dell’opera doveva riuscire tanto meno difficile, quanto meno l’Autore
ha costume di involgersi in timide formole._

_Lo spazio che altri consuma in battaglie e guerre, egli l’ha serbato
agl’incrementi della civiltà, alle particolarità caratteristiche, agli
uomini insigni, allo sviluppo delle arti e delle lettere, che sono
una delle forme più pronunziate, sotto cui l’indole d’un popolo si
manifesta nel nascere, crescere, decadere._

_Fra i classici che non citavano mai, ed i moderni a cui i repertorj
somministrano facilissima abbondanza di citazioni, egli ha tenuto
quel mezzo, che non istrazii l’attenzione fra le parole delle fonti
e le induzioni dello scrivente. I fatti si trovano sostenuti dai
migliori appoggi; quanto alla parte congetturale e induttiva, sarebbe
intolleranza inquisitoria il voler imporre un sistema o il pregiudizio
proprio ad un autore; sarebbe imbecillità il preporre quello
improvvisato da una critica effimera o da prestabilita opposizione, a
quello studiato con lunghissima pazienza e provato nella più multiforme
contraddizione._

_L’esito mostrò come il pubblico l’intendesse, a malgrado di coloro
che aveano o interesse o puntiglio di svisarne le parole e i fini.
E sebbene quest’opera non potesse circolar liberamente in paesi che
temeano la verità esposta lealmente e ragionatamente, dovemmo ben tosto
raddoppiarne la tiratura; poi intraprenderne una nuova edizione nel
1857, mentre la prima non era ancora compiuta. Anzi contemporaneamente
se ne faceano contraffazioni a Napoli e a Palermo, e cogliamo
quest’occasione per protestar di nuovo a nome dell’Autore, non tanto
contro la pirateria degli stampatori, quanto per la slealtà di avere,
non solo taciuto frasi e periodi di lui, ma messogli in bocca parole e
sentimenti affatto alieni da’ suoi._

_Nuovi e più violenti casi mutarono la faccia politica dell’Italia e
insieme la economica, la politica, quasi la morale. In circostanze
così diverse riproducendo ora quest’opera, l’Autore avrà ben poco a
cangiare de’ giudizj e fin delle congetture, perchè non le foggiava
sulla moda. Le cognizioni che ebbe ad acquistare o rettificare pel
tanto accumularsi di lavori storici, pe’ consigli altrui, per la
propria meditazione, innesterà egli ai debiti posti; le note aggiunte
nella seconda o in questa edizione distingueremo coll’asterisco, per
non alterare la numerazione delle prime. Le vicende dell’ultima epoca
porterà fino al compimento dell’unità, valendosi anche dell’altra opera
che noi ne stampiamo_, L’INDIPENDENZA ITALIANA.

_Voglia il pubblico e all’Autore e a noi continuare il suo favore in
imprese dove ci proponiamo dall’utile individuale non separar quello
della società, e specialmente del paese che, come scrive il Cantù,_
«_ci unisce tutti nella lingua, nelle memorie, nelle speranze_».

  _Torino, il settembre 1874._



LIBRO PRIMO



CAPITOLO I.

Dell’Italia, e della sua storia.


La penisola italica, estesa su trentatre milioni di ettare fra il
24º e il 36º meridiano, e fra il 35º e il 47º parallelo, è chiusa a
settentrione e ponente dalla giogaja delle Alpi, che col titolo di
Marittime, Cozie, Graje, Pennine, Leponzie, Retiche, Carniche, Giulie,
disegnano un semicerchio di 1562 chilometri dal Varo, confine di
Francia, sin al golfo del Quarnero al lembo della Dalmazia. Centinaja
di valli solcano que’ monti, alcune leggermente, altre estesamente
profonde, come la Valtellina, la Leventina, quelle del Piave e d’Aosta;
e riescono in un ampio anfiteatro, che forma la parte continentale
dell’Italia. Dove le Alpi s’avvicinano al golfo Ligure presso
Savona, se ne snoda la catena serpentino-calcare degli Appennini,
che, somiglianti ad una spina dorsale, fendono per lo lungo l’Italia
peninsulare; ed elevati verso il centro nel paese de’ Marsi e de’
Vestini fino al monte Velino e al Gran Sasso d’Italia, di là chinano
alla Puglia: quivi fra Venosa e Potenza si suddividono, un braccio
volgendo all’estremo dell’Abruzzo, l’altro nel paese de’ Salentini, al
tallone della gamba di cui essa Italia imita la forma.

[NOMI E CONFINI D’ITALIA]

Quest’ossatura determina nella parte continentale un pendìo alpino,
vergente al mare Adriatico e al Po, il quale lo traversa da sera
a mattina per ducensettanta miglia, mentre l’Italia peninsulare è
conformata dalle due gronde dell’Appennino: quella verso l’Adriatico
non s’allarga oltre settantacinque miglia, tutta colline e torrenti;
l’occidentale verso il mar Tirreno, più scoscesa, finisce in apriche
pianure, serpeggiate da pigri fiumi, o ingombre da infauste maremme.

Ignorando i limiti naturali e la conformazione della penisola, e non
vi riconoscendo unità di politica nè di origine, gli antichissimi non
potevano attribuirle una denominazione comune: e quella d’Italia,
quai che ne siano il motivo e la significazione[1], si tenne da prima
circoscritta al paese meridionale fra i seni Lametico e Scilatico, che
oggi diciamo di Sant’Eufemia e di Squillace; poi crebbe in su, man mano
che smarrivansi i nomi de’ popoli parziali che v’abitavano, e quelli
di Saturnia, Tirrenia, Japigia, Ausonia, Enotria o terra dei venti,
datile dagli stranieri, e d’Esperia o terra occidentale, appropriatole
dai Greci, che per mare ne raggiungevano le piaggie meridionali.
Quando, nella guerra Sociale, otto popoli si strinsero in lega per
opporsi al predominio che Roma acquistava sui prischi abitatori, al
vocabolo municipale di Roma opposero il nazionale d’Italia, ampliandolo
sino ai fiumi Macra a ponente e Rubicone a levante. All’età poi degli
Scipioni già indicava l’intera penisola fino alle Alpi[2], terminando
ad oriente all’Arsia verso l’Illiria, e al Varo verso occidente.

[CONFINI]

Tali press’a poco ne sono oggi pure i limiti, entro i quali nella
parte boreale fra l’Alpi e l’Appennino pianeggiano sulla destra del Po
la Flaminia, sulla sinistra la Venezia, protraentesi nella penisola
dell’Istria; seguono la Lombardia ed a ponente il Piemonte, che si
elevano verso le alpi Cozie, Lepontine, Retiche, e verso l’Appennino
settentrionale, del cui duplice piovente si disseta la Liguria.
Questo bacino del Po, di ben settemila cinquecento miglia quadrate,
lenemente declive e a cordonate, vantaggiato di perenni fiumane e laghi
deliziosi, offrì alla stirpe di Caino il campo per grandi battaglie
che decisero le sorti della nazione e de’ suoi padroni[3]; e all’uomo
industre un esercizio d’interminabile solerzia e di assidua vigilanza
per domarvi i torrenti e regolare i fiumi, che, impoveriti ma non
gelati l’inverno, ogni estate traripano; sicchè basterebbero pochi
anni di negligenza perchè le ubertose pascione del Lodigiano e le
fiorenti pendici della Tremezzina e del Benàco tornassero ignudi greti
e deleteriche paludi, come divennero Baja e Pesto.

Maggiore dovizia di memorie storiche impronta i paesi della media
e della bassa Italia: la Toscana fra l’Appennino, il mar Tirreno e
il Tevere; il Lazio e la Campania sul mare stesso; poi su questo e
sull’Jonio e l’Adriatico e allo scarco degli Appennini l’Umbria, il
Piceno, il Sannio, l’Abruzzo, la Lucania, l’Apulia, la Calabria.

[LE ISOLE]

Quivi l’angusto ma profondo faro di Messina ne disgiunge l’isola di
Sicilia, estesa centottanta miglia da levante a ponente, centrentatre
da mezzogiorno a tramontana, e cinquecencinquanta di giro. Gli antichi
la dissero Trinacria dai tre capi; il Peloro, discosto appena tre
miglia dalla latrante Scilla di Calabria; il Pachino o capo Pàssaro,
verso la Grecia; il Lilibeo, che settantacinque miglia di mare
distaccano dal capo Bon in Africa. Elevantesi a terrazzi, alla cui
sommità fuma l’Etna, è divisa nei valli di Démona, Noto, Màzzara; il
primo lussureggiante d’alberi e frutti, gli altri di cereali, che
aveano meritato il titolo di granajo d’Italia a quell’isola, dove alle
scarse pioggie suppliscono profuse rugiade.

Oltre questa, ch’è la maggiore del Mediterraneo, molte isole fanno
ghirlanda all’Italia, e primarie quelle di Corsica e Sardegna. In
quest’ultima si sublima il Gigantino, e si stendono le late pianure
di Ozieri e Campidano, e sopra i vulcani estinti pompeggiano selve
d’aranci e limoni, e superbi alberi di ulivi, di melogranati, di pepe,
di carrube.

Segue l’arcipelago toscano, ove la tufacea Pianòsa, la calcare
Palmajòla, le isole granitose del Giglio e di Montecristo, e le irte
Gorgòna e Capraja; e maggiore l’Elba, madre del ferro, le cui roccie
cristalline e stratiformi decomponendosi preparano vigoroso nutrimento
a lecci, querce, castani, noci non solo, ma agli aloe, al fico opunzio,
alla palma dattilifera.

[ISOLE]

Nell’arcipelago Circeo emergono la trachitica Ponza, Palmarola,
Ventotene; nel partenopeo Capri, Prócida, Ischia, che gli Eretrj
dovettero abbandonare pei tremuoti e per le eruzioni del terribile
Epoméo. E tutte plutoniche sono le isole dell’arcipelago eolio, Salìna,
Vulcana, Stròmboli, Villamica, Astica, e maggiore di tutte Lìpari, da
cui si tira tutta la pietra pomice. Dall’Adriatico sporgono le isole
Diomedee (Trémiti) e le cento su cui sorge Venezia. Alcuno v’aggiunge
le otto Égadi, di cui la più vasta è Favignana; le tre Pelagie, in cui
Lampedusa; e il gruppo di Calipso, cioè Malta, Gozo, Comìno, che le
recenti classificazioni ascriverebbero al mare africano, e che forse
sono frammenti d’una grand’isola aderente alla Sicilia.

[ETÀ GEOLOGICA]

La storia geologica dell’Italia concorda colla generale dei continenti,
dallo stato embrionale svolgendosi per forze naturali, operanti in
un’infinità di secoli. Il primo comparire della vita coincide colla
prima fisionomia de’ suoi terreni: e le reliquie fossili servono alla
storia primitiva del globo come le medaglie a quella della società.
Già il Boccaccio poneva mente alle conchiglie petrificate dei colli di
Certaldo; ma quella che era vaghezza di curiosità, divenne rivelazione
d’arcane meraviglie dacchè il Soldani, fin dal 1780 prevenendo le
sottilissime indagini di Ehrenberg, in ducentottantotto grani d’una
pietra delle colline di Perlascio numerò diecimila e ducenventiquattro
nautili e ducentrenta ammoniti, pesanti centottantun grano; il resto
frantumi di conchiglie e spine di echini. Appena col microscopio si
riconoscono i testacei dei colli di Siena e Volterra e della Lombardia;
intantochè iguanodonti si dissotterrano dal cretaceo inferiore degli
Abruzzi e del Gran Sasso, ossami di mastodonti, tapiri, daini,
rinoceronti, ippopòtami e zanne elefantine nel val d’Arno, massime
dal renaccio a Montanino, con frutti oggi maturanti soltanto nella
Luigiana, e con bestie della Siberia; enormi rettili sauroidi, impronte
di lepidoti e semionoti ed ammoniti appajono fra gli strati di schisto
intorno al lago di Como; di pesci fossili sono impastati Pietra Roja
nel Napoletano e il monte Bolca nel Veronese; il colle miocenico di
Superga è un cimitero di specie perdute; cetacei e lamantini scopronsi
in cento luoghi, e caverne rinzeppate d’ossa ferine, ed erti banchi di
denti, di cui alcuni fin di venti metri di lunghezza e di uno e mezzo
d’ampiezza. La grotta di San Ciro presso Palermo, colma di avanzi
fossili, a sessanta metri sopra il mare è traforata e incrostata di
serpule e litodomi che vivono solo alla superficie delle acque. Un
migliajo di metri sopra il mare ad Ascoli nel Piceno tu incontri
potenti strati di marmo tufaceo, il quale non potè formarsi che in
fondo a un lago scomparso; e così in cima alla montagnuola di Civitella
del Tronto, e alla sorgente del Volturno in Terra di Lavoro.

Su queste reliquie, fra questi accidenti i geologi or creano, or
impugnano ipotesi, fra le quali fortunatamente non è obbligato
invilupparsi lo storico. Esaminando i fondi calcari coperti di
conchiglie siluriane, le effimere terre coperte di intatte foreste
nell’età carbonifera, l’avvicendato inondare e ritirarsi del mare,
le piante terrestri conservate nel trias nell’epoca giurassica,
essi argomentano che i fondi del mare oscillavano di continuo,
sicchè talvolta si ebbero mari interni chiusi, tal altra il libero
mare portava fin sulle maggiori alture le spugne e i coralli. Poi
all’età della creta il fondo dell’Italia si parte in due regioni; a
settentrione una formazione littorale di gneis e calcari marnosi, con
alghe, conchiglie, puddinghe quali vedonsi nelle Alpi, nelle colline
della Brianza e del Varesotto, nell’Appennino settentrionale e nella
Toscana; a mezzodì i lidi della Dalmazia, il Capo Gargano, la Sicilia.

[ALTERAZIONI GEOLOGICHE]

Nè l’Italia era ancora conformata, nè avria potuto resistere agli urti
di quelle onde immense; essa appare solo nell’età terziaria, quando in
seno al libero mare si formano gli Appennini. Quali cause portarono
l’età dei ghiacci? come essi spiegano i nostri laghi, le smisurate
morene, i giganteschi trovanti? come comparvero le grandi isole ed
ultimo il gigantesco bastione granitico delle Alpi? Avanzavano ancora
grandi laghi dolci in quelle che l’uomo (allora non per anche nato)
denominò val d’Arno superiore, val d’Elsa, val di Chiana, ed in altre
della Toscana, dell’Umbria, dell’Abruzzo, sulle cui rive pascevano
quelle strane specie d’animali, di cui perì la razza. Dalle correnti
furono dati al terreno italico la configurazione fisica e il rilievo
presente a un bel presso; e concentrato il fuoco sotto una crosta di
terra sempre più solida, ridotte le acque a comune livello, l’atmosfera
si disnebbiò, il suolo venne asciugandosi così, da potere appropriarsi
a stanza dell’uomo.

Chi questi fenomeni sgranati saprà con potente sintesi riunire così,
che rivelino le rivoluzioni del nostro suolo prima che l’uomo vi
venisse a lavorare, soffrire, meritare?

[TRADIZIONI MITICHE]

Neppure dopo che la parola sonò vi mancarono grandi sovvertimenti, che
troviamo talvolta adombrati in favole e tradizioni. Forse quando, rotte
le dighe dei Dardanelli e di Calpe (evento fisico, personeggiato nel
mito di Ercole), si congiunsero l’Oceano, il Mediterraneo, il mar Nero,
l’acqua coperse contrade già fiorenti d’agricoltura e di città al lembo
dei nostri monti, dei quali non soprastettero che le vette. Tradizione
più recente e il nome di Reggio[4] farebbero indurre che dall’Italia
abbiano con improvviso strappo divelta la Sicilia le correnti,
favolosamente pericolose nel Faro. Fors’anche le isole Eolie aderivano
alla Calabria lungo la costa dal Pizzo al capo Vaticano; e fra i due
golfi di Squillace e Sant’Eufemia s’imboccava un canale traverso
all’Italia, in modo che restasse isola la Calabria meridionale[5]. Da
Camporeale a Monteforte potè fluttuare per quaranta miglia un lago,
donde ergevasi la Serra negli Irpini, ed isola era il monte Soratte.

[MUTAMENTI POSTERIORI]

La mitologica battaglia degli Dei con Tifeo nella Campania e ad
Enarime, cioè Ischia; Giove che, minacciato dai Titani, tre ne cava
fuori dal suolo, gli altri sobbissa, e ad essi sovrappone i monti di
Sicilia, non esprimono l’affondarsi di antiche e l’emergere di nuove
montagne? Il piano scabroso che divenne talamo a Roma, fu già seno
di mare, colmato da terreno plutonico: marne terziarie, ed arenarie
lacustri o marine miste a tufi ignei costituiscono quei colli e i
margini de’ laghi di Castel Gandolfo e di Nemi, impozzatisi entro
crateri estinti. Altri laghi invece si esaurirono, come quelli di
Baccano, di Monterosi, di Capena, d’Aricia, di Castel Savello, e il
Regillo presso Frascati, segnalato dall’ultima battaglia del patrizio
eroismo romano: il travertino a’ piedi delle montagne di Tivoli non
potè esser prodotto che in fondo a un lago, del quale sopravanzano i
piccoli dei Tartari e della Solfatara[6].

[VULCANI]

E d’un vulcano ci pare indubbio simbolo quel Caco, che in Virgilio
vomita fuoco[7]. Un cranio rinvenuto in un letto di pozzolana di monte
Mario, un gran lenzuolo chiuso nel peperino del monte Albano, un antico
ossario sotto alle lave di questo vulcano, testimoniano di mutamenti
avvenuti dopo che v’abitava gente consociata. E ben venticinque vulcani
tu potresti numerare in doppia tesa da Verona fino all’Etna, i quali
ancora si manifestano dove in crateri ignivomi, come a Stròmboli,
all’Etna, al Vesuvio, il più attivo d’Europa, dove in soffioni e mufete
e borborismi e bulicami, o ci lasciarono di sè testimonianza nella
forma del suolo e nelle sovrapposte stratificazioni. Napoli e Cuma,
fondate undici secoli avanti Cristo, posano sopra quattro scanni di
lava; e convien dire che da lungo tempo tacesse il Vesuvio, se non si
dubitò di piantare così vicino ad esso una città. In fatto i Greci,
sebbene ne conoscessero la natura, non ne ricordavano alcuna eruzione;
eppure Ercolano sorge sopra una lava simile a quella che lo sepellì,
e con vestigia di coltivazione. In quella vece ardeva il Voltùre,
spingendo lava e ceneri sino al limite orientale degli Irpini; tutta
ignea è la vallea del Garigliano; e attorno a Napoli si additano ben
ventisette fumajuoli estinti, de’ quali uno a Capodichino, l’altro a
Capodimonte, uno a Sant’Elmo e a Pizzofalcone, due al Posílipo, altri
a Soccaro, a Pianura, a Fuorigrotta nel monte de’ Camáldoli; i laghi
Lucrino, Averno e d’Agnano furono crateri; a dir solo i più manifesti,
se ne riscontrano al monte Gauro, a Cuma, al Marmorto, al capo Miseno;
Procida aderiva ad Ischia; e il nome de’ Campi Flegrei esprime
abbastanza la natura del semicircolo che s’arcua fra Gaeta e il capo di
Minerva.

[ALTERAZIONI POSTERIORI ALL’UOMO]

Poco innanzi al tempo di Plinio era sorta dal mare la Liscabianca,
una delle isole liparee; poi nell’età di Tolomeo due altre, Dátoli e
Basiluzzo; e mentre a ricordo storico quattro sole se ne contavano,
ora quelle isole son dieci; e noi stessi vedemmo, nella secca del
Corallo fra Pantellarìa e la città di Sciacca, emergerne una nuova, poi
scomparire. Nel 1538 di mezzo al lago Lucrino in pochi giorni si elevò
quel che ancora denominiamo Montenuovo.

Nei contorni di Acireale in Sicilia il canonico Recúpero riconobbe
sette scanni di lava, alternati con un erto terriccio. L’inglese
Brydone, pubblicando nel 1773 quest’osservazione nel _Viaggio per
la Sicilia e Malta_, argomentò che a formare un tal letto vegetale
occorrono almeno duemila anni; laonde quella montagna deve contarne
quattordicimila. L’asserzione fu raccolta avidamente in un tempo, in
cui ogni scienza arrolavasi per isbugiardare il genesi mosaico; ma
primieramente chi accerta in quanto tempo il terriccio si formi sopra
la lava? arida e nera vediamo tuttora la vomitata dall’Etna nel 1536,
mentre su quella del 1636 frondeggiano alberi e vigne; vene di terre
coltivate sono frapposte alle sei lave accumulate sopra Ercolano, della
cui distruzione conosciam l’anno appunto. Cadeva dunque l’arguzia
sillogistica davanti ad una migliore valutazione dei fatti, anche
prima che il valoroso naturalista Dolomieu verificasse nessuno strato
vegetale interporsi alle lave di Jaci[8].

Consta che a volta a volta ridestaronsi alcuni vulcani; Archippa in
età remota andò sommersa nel lago Fúcino; altre irruzioni distrussero
nella foresta Ciminia una città, e quella de’ Volsinj, ed una
chiamata Sucinio da Ammiano Marcellino, tanto antica che nessuno ne
fa ricordo. Era tradizione che Aremulo Silvio re d’Alba (863 a. C.)
fosse colla reggia inghiottito da una fauce del monte Albano, e Dionigi
d’Alicarnasso aggiunge si notavano ancora nel lago i ruderi del suo
palazzo: sotto quel di Bracciano additavano una città sobbissata, di
nome ignoto: nè d’altra indole doveva essere la voragine spalancatasi
nel fôro romano, entro la quale si precipitò Curzio: Tito Livio trovava
riferito negli annali di sassi piovuti a Vejo, sull’Aventino, sul monte
Albano, ad Aricia, a Lanuvio. Novantun anno avanti Cristo due montagne
a Modena parvero avvicinarsi, e forse allora inabissò la città che
giace sotto alla presente; il monte Epomeo divampò in modo, che le mura
di Reggio ne ebbero conquasso.

[ACQUE]

Nuovi cambiamenti portò l’allungarsi dello sbocco dei fiumi. Le paludi
Pontine erano mare fino ai monti di Sezze, Sermoneta, Vellétri, ed
isola il promontorio Circeo. Le maremme da Pisa fino ad Orbitello,
comprendenti il delta dell’Arno e le spianate ove impigrano la Cécina,
la Cornia, l’Ombrone, l’Albenga, da pochi secoli furono sottratte al
mare: a Rutilio Numaziano nel iv secolo, navigando rasente il lido
etrusco, erano visibili gli avanzi di Populonia, or posta troppo
addentro ne’ morbiferi pantani di Piombino e Scarlino: e la Tavola
Peutingeriana, del secolo iii, fa sboccar l’Ombrone fin presso alla
via Aurelia. Sembra il Tirreno flagellasse le mura di Tarquinia, che
ora ne dista tre miglia: Luni e Lavenza sedevano sul mare, cui lambiva
la via regia, or separatane da un miglio o due. Pisa da Strabone è
collocata a tre miglia dal mare, a quattro nel 1173 da Beniamino di
Tudela, mentre ora è a sette. Trajano costruì allo sbocco del Tevere il
porto, che oggi dista duemila ducento metri dalla riva; e cinquecento
cinquantaquattro una torre fabbricata da Alessandro VII sulla marina.
Tiensi per dimostrato che l’Arno presso Arezzo si dividesse in due
bracci, un de’ quali colava al mare per Firenze e Pisa, l’altro pel
val di Chiana confluiva nel Tevere; finchè le alluvioni de’ torrenti
tributarj a quella valle, o sollevamenti di terreno separarono i due
bacini. Certo il val d’Arno superiore fu un lago, sfogatosi poi per la
rotta, che ancora da ciò serba il nome d’Incisa; come di Ripafratta una
strozza, che nei colli di Filettole e Castiglioncello squarciarono le
acque del Serchio e dell’Ozzeri.

[ONDEGGIAMENTI]

Anzi sembra che oggi stesso la crosta terrena in molte parti si elevi
e si adimi, secondando la marea dell’ignita lava sotterranea. Molte
città e regioni ne portano testimonio in edifizj o depressi o rialzati;
ma il più bizzarro sono le colonne del tempio di Serapide a Pozzuoli,
non solo affondate ora nel mare, sopra il cui flusso posavano, come
l’attestano i sottoposti scoli, ma a grande altezza traforate da
folladi e terebratule, cui abitudine è di rimanere alla superficie
dell’acqua: sicchè fu un tempo in cui anche la loro base sovrastava
alle onde, ed uno in cui vi era sommerso lo scapo fin a metà[9]. Tale
prova si ripete all’occhio indagatore per tutto il delizioso rivaggio
di Baja e Posílipo, e nella roccia calcare di Gaeta e del capo Circeo,
convincendo che quelle terre giacquero fin otto metri sotto all’acqua.
Ma che? i litofagi stessi nel golfo della Spezia non lasciano traccia
al disopra dell’odierno fior d’acqua; prova che l’ondeggiamento non
ebbe luogo colà, o nei molti edifizj lungo quella costa, mentre la
torre di Santa Liberata a capo Argentaro, certo fondata in asciutto,
ora sta sotto al mare; e le paludi mostrano le une avvallamenti, le
altre elevazioni di terreno. Qual induzione trarne dunque? che non v’è
uniformità nel rigonfiarsi e deprimersi del littorale, ma la crosta è
tuttora flessibile, e soggetta a parziali ondeggiamenti.

[ONDEGGIAMENTI]

Di queste disquisizioni c’imputerà solo chi non conosca quanto i
procedimenti d’una nazione, non diremo dipendano, ma si assettino
alla natura dei luoghi che occupa. E però seguitando diremo come
l’Italia continentale dovette lunga stagione rimanere in balìa del Po
e degli altri grossi fiumi, i quali, filando da ghiacciaje alpine,
lasciarono l’impronta del loro dominio nella profonda ghiaja alluviale,
sottostante alla ubertosa belletta della Lombardia e dell’Emilia;
e scarnando i monti, elevarono pianure, colmarono valli e seni, e
spinsero molto addentro nel mare le colmate; opera che proseguono
tuttora a malgrado dell’arte.


[ALTERAZIONI MODERNE]

Vuolsi che nella pianura padovana fluttuasse il mare, da cui sporgevano
a guisa di spòradi i colli Eugànei, gruppo trachitico isolato fra
terreno terziario d’alluvione, e presso ai quali si colloca la
caduta di Fetonte, cioè forse una pioggia di materie vulcaniche e
d’aeroliti. Il Modenese pure, sospeso sovra acque correnti, dovette
formarsi per rialzamento progressivo[10]; e le sue salse eruttano
ancora fanghiglia, acqua salmastra e gas idrogene carbonato. L’Adige
fin verso il 600 dopo Cristo lambiva i colli Eugànei, per isboccare al
porto di Bròndolo. V’è chi sostiene il Po scendesse alla marina cento
miglia più addentro d’adesso, talchè, dopo l’imboccatura del Taro ove
cessa di voltolar ciottoli, fosse tutto maremma quel delta, che or
accomuna in parte anche coll’Adige. La laguna estendevasi da Aquileja
fino a Ravenna, ai confini padovani allargandosi ben trenta miglia,
di maniera che riceveva tutti i fiumi dal Po all’Isonzo; i quali poi
coi loro interrimenti finirono a distinguerla nelle tre di Aquileja,
Venezia, Comacchio. Pel ventaglio del Po, sette canali scaricavano
questo fiume a mezzogiorno di Ferrara; poi assottigliatisi i due
principali di Primàro e Volàno, s’aprì un nuovo corso avvicinandosi
all’Adige in modo da minacciare l’esistenza eccezionale di Venezia, se
col taglio di Portoviro non gli si fosse schiusa la gran vena del Po
grande[11]. Certo de’ terreni, ove il re de’ nostri fiumi liberamente
spagliava, or è mutata del tutto la faccia. Il porto di Ravenna, che
bastava a ducencinquanta vascelli dell’impero romano, Jornandes, che ne
fu vescovo nel VI secolo, lo vedea convertito in giardino; ed ora la
città dista quattro chilometri dal mare; venticinque Adria da quello
cui diede il nome; e a gran fatica coi colossali murazzi Venezia si
schermisce dai fiotti che ostruirebbero i suoi canali.

[CONFINI E PASSAGGI]

Pochi paesi ebbero da natura frontiere così ben determinate quanto
l’Italia, per crescervi una nazione autonoma, dagli stranieri separata
pel mare e per le montagne: eppure da quello e da queste le vennero
continuamente abitanti, educatori, devastatori, padroni. Polibio, un
secolo e mezzo avanti Cristo, indicava quattro passaggi ne’ monti verso
la Gallia: uno per le alpi Marittime littorali, aperto vetustamente da
Ercole, e dove fu poi tracciata la via Aurelia; uno per le alpi Cozie
e la piccola Dora ai Taurini; il terzo pei Salassi di val d’Aosta
scandendo il monte di Giove, che ora è il San Bernardo; il quarto pel
letto del Ticino. I Romani poi resero accessibili nelle alpi Retiche le
vallate del Reno e dell’Adige, e nelle Carniche quelle del Tagliamento
e dell’Isonzo; a tacere il littorale adriatico, ove le montagne
si chinano fino al mare[12]. Lo svilupparsi delle coste per 5844
chilometri, con tante insenature e con eccellenti porti, e il riuscire
poco discosti dal mare anche i paesi dell’interno, rendono l’Italia
appropriatissima al commercio, e a divenire potenza marittima. Ma la
sua lunghezza di seicento settanta miglia dal Capo Rizzuto fino al
monte Bianco, ch’è la più elevata cresta d’Europa, sopra una larghezza
che varia da venti sin a trecento miglia; e tanti fiumi e valli che
la frastagliano, sembrano disporla a rimanere frazionata in piccoli
Stati, quale la sua storia ce la mostra, essendo fin a jeri mancata
di quell’unità di governo e di capitale, di cui si compiaciono altre
nazioni.

[GLI ASPETTI]

Di qui pure la portentosa varietà di aspetti, che vi ravvicinano il
clima di Costantinopoli a quello della Norvegia, vuoi in estensione,
vuoi in elevatezza; sicchè tu raccogli limoni e melagrani nelle ridenti
morene che fan piede alle alpi Retiche, sulle cui rapinose vette a pena
il camoscio raspa qualche lichene di sotto al gelo perpetuo; di nevi
s’incorona il Mongibello, le cui spalle sono sparse di scorie, e alle
falde non cessa mai l’estate; come delle Madonìe e del Montisori di
Sicilia un fianco biancheggia di neve, l’altro fiorisce di aromatiche
rarità. Di qui ancora la moltiforme vegetazione: il cupo verde delle
conifere spicca dalla corazza delle ghiacciaje, che il Cenisio, il
San Bernardo, la Spluga oppongono ai dardi del sole e all’avidità
de’ conquistatori; laghi cristallini, ricreati da freschi orezzi e
incorniciati dalla perenne letizia dei mirti e degli allori, foscamente
spiccanti dall’argentino ulivo, colla montana severità circostante
imitano il contrasto della gaja fanciullezza colla pensosa canizie;
a mezzogiorno deserti, ove rosseggia la ruvida soda spinosa; a
settentrione fragranti praterie subalpine nutrono api, mandre, pecore;
tra filari di gelsi cinesi e di pioppe pinate torreggiano in piano
le città lombarde; e in limpidi pelaghetti si specchiano giardini a
terrazzo, e poggi festonati di pampani quasi per una solennità, e
pergolati che schermiscono dalla canicola e dalle protratte aridità
del cielo splendidissimo; l’oro di migliaja d’agrumi rileva sul bruno
delle boscaglie nella Campania, nel Genovesato, nella Calabria;
boschetti di terebinto, di lentischi ombrano le tane de’ Trogloditi;
lance di àgave e spatole di cacti assiepano campi, dove pompeggiano
spontanei l’oleandro, il pistacchio, le palme a ventaglio e sublimi
canne; le roccie irte di fichi opunzj, e i carrubi, e gli aloe sorgenti
fin venti metri, e il castano che fa ombrello a cento cavalli, e i
datteri di Catania e di Girgenti avvertono la vicinanza dell’Africa;
la sorridente guardatura di Palermo e di Mergellina ti fa trovare
veramente, com’è in proverbio, _un pezzo di paradiso caduto in terra_.
E quando d’un’occhiata abbracci Italia e Sicilia, e tante rade e tanti
seni, opportunissimi al comunicarsi della civiltà e delle produzioni;
e tanta ricchezza di minerali, tanti agi del vivere, tanti vezzi che
invitano d’ogni plaga gli invidianti stranieri, i curiosi del bello,
i pellegrini dell’intelligenza; e città sepolte sotto i lapilli, o
dimentiche fra gli scopeti e le macìe; ed altre già frequentatissime,
or da pochi e poveri abitate; e i porti, da ciascuno dei quali uscivano
cento navigli, ed ora appena schiusi a qualche barca peschereccia; e
misteri dell’arte non meno stupendi di quei della natura; e memorie
d’ogni gente che da settentrione e da mezzodì venne a bagnarla col suo
sangue e col nostro; e una città eterna, che signoreggiò il mondo prima
per la forza, poi per le leggi, indi per la religione: allora ti senti
preso di maggiore affetto per un paese di glorie privilegiate e di
privilegiate sventure, e che tre volte risuscitato dalle proprie ruine,
nell’operoso silenzio rifà le ali della speranza.

[LA STORIA]

E poichè un popolo tanto più sente la propria dignità quanto è più
lungo il tempo a cui dilata la sua storia, diventa un dovere di pietà
lo studiar quella degl’Italiani dai primordj fino al presente. E
quanti già la raccontarono! eppure senza toglierne la voglia ad altri,
avvegnachè ogni età abbia un linguaggio suo proprio, ogni autore un
proprio modo di scorgere, di connettere, di valutare i fatti, pur beato
chi può dire,—La patria ha inteso il mio!

E noi, quando giovinetti domandavamo ai maestri una storia d’Italia,
approvata dai dotti, intelligibile agli indotti, accettata dalla
nazione, e non ce la sapevano indicare, un eccelso concetto ci
formavamo di questo lavoro di memoria, d’immaginazione, di giudizio,
di sentimento; e che a compirla bisognasse raccogliere con erudizione
sicura e vagliare con logica sagace le sempre crescenti notizie; le
quistioni affrontare con intrepidezza, risolvere con imparzialità;
ostinarsi a scoprire, accertare, depurare il vero, volerlo dir tutto, e
non dire che quello; evitare i luoghi comuni, pur senza avventarsi nei
paradossi, nè sostituire alle osservazioni l’intuizione, alla indagine
le divinazioni e i presentimenti, alle particolarità vivificanti le
metafisiche generalità; non assegnare a grandi effetti piccole cause,
bensì spinger l’occhio nella storia interiore, di cui l’esterna è mero
riflesso; non credendola fatale ma neppure fortuita; nello svolgimento
de’ fatti cercar quello delle idee, l’eterna realtà sotto alle volubili
contingenze; non che disanimarsi a tanto spettacolo di miserie, di
bassezze, d’iniquità, a tante esperienze ove al desiderio fallirono
le forze o alle forze la perseveranza, riconoscere che la giustizia
e il senno di Dio si compiono anche mediante le ingiustizie e gli
sbagli degli uomini, e serbar fede a quel progresso cristiano, che,
dopo lunghe interferenze, si manifesta in una più giusta economia
della società, in una più chiara luce degli intelletti, in una più
saggia moralità delle azioni: credevamo infine si dovesse tutto esporre
con nettezza, calore, rapidità, atteggiando i personaggi col loro
carattere, avvivandoli coll’alito del loro tempo, non coi pregiudizj e
i risentimenti del nostro; aspirando a quell’originalità che deriva da
verità sentite e volute, espresse senz’arroganza, nella lingua meglio
intesa.

[LA STORIA D’ITALIA]

E ogniqualvolta alcuno si segnalasse nel tormentoso esercizio dello
scrivere, noi chiedevamo perchè non tessesse una storia d’Italia,
onde preparare alla nazione un altro pegno d’unità e di fiducia;
onde emendare la febbrile abitudine del leggere a corsa, del credere
o negare senza esame, del ricevere per consenso le immagini e le
impressioni, anzichè esercitarvi la propria attività; onde prevenire
alcuna delle rovinose temerità, che nascono da incommensurabili
pretensioni accoppiate con cortissima esperienza.

Principalmente noi v’incalzavamo quel venerabile nostro amico che fu
Cesare Balbo, il quale allora dai casi pubblici e dalle accoglienze
fatte ai primi volumi della sua _Storia d’Italia_ trovandosi gittato in
uno sconforto, da cui seppe poi bene rialzarsi, ci rispondeva:—In un
secolo che, educato sistematicamente nello spirito di parte, impugna
la verità conosciuta; l’incontestabile critica storica esinanisce
colla contestabile controversia politica; ciò che ha formato per
secoli la gloria e la venerazione dell’umanità, sacrifica alla parola
convenzionale che ogni giorno gli è suggerita da oracoli d’un giorno;
in un paese sprovvisto d’opinione pubblica, cioè di sentimenti
comuni alla più parte de’ pensanti; con una letteratura vagabonda,
ricca d’orpello, scarsa di bontà e d’amore; con una scienza isolata,
lineare, di meri dilettanti; con leggitori pregiudicati, creduli,
distratti, la cui pazienza a tutto indiscretamente ingojare infonde
la sfacciataggine di tutto dire: dove il sentenziar dei migliori si
rimette assurdamente a Tersiti, presuntuosi più quanto meno competenti;
dove, allorquando il grido de’ nemici accusa, il silenzio degli amici
condanna; dove nessuno coadjuva allo studioso, tutti cospirano a
menomargli quella fiducia che è la condizione d’ogni riuscita; tra
giovani che al grave e al serio preferiscono i dilettevoli nulla e
le ammirate inutilità, o che a vent’anni pronunziano scioperandosi
quella bestemmia di Bruto, che appena avrebbe senso dopo un’intera
vita d’azione; tra adulti che nulla vogliono dimenticare dell’antico,
nulla ammettere del nuovo; tra faziosi inesausti di ciance, il cui
applauso si carpisce coll’incensare l’amor proprio, coll’impudenza
nella ciurmeria, collo sfoggiare gagliardezza contro i deboli; tra
intolleranti che, per liberalità fattisi inquisitori, vogliono guardare
con un occhio solo, e mutilano la verità per costringerla entro la loro
forma; tra riazionarj d’esagerazione opposta, che vi denunziano agli
oppressori come contumaci, agli oppressi come codardi; tra avventati
che compromettono, e pusillanimi che rinnegano l’avvenire, perciò
aborrenti entrambi dall’esperienza; tra il bombo di passioni che non
s’illuminano, d’interessi che non si persuadono, come potrebbe sorgere,
come perseverare uno storico? Perocchè, oltre non professare altro
culto che della verità, altra passione che della giustizia, è dover
suo diffondere luce, benevolenza, abitudine del riflettere; salvare e
invigorire il senso comune contro il sofisma e l’utopia, cioè il falso
in pratica; difendere l’autorità senza vigliaccheria, la libertà senza
sovvertimento, l’ordine senza smentire la generosità e il progresso; e
di tutta l’opera sua fare un atto d’educazione morale e politica, un
esempio di coraggio civile, e di quella tolleranza che è la cortesia
della libertà».

Il calcolare le scabrosità di un’impresa è utile finchè se ne induca la
necessità d’adoprarvi tutte le forze; è viltà se scoraggi dall’usarle:
e mentre aspettando il grand’uomo e l’opera perfetta molti si consumano
in isterili rimpianti, perchè non confortarsi di quel proverbio che
_Chi fa a potere fa a dovere_? E senza reputarsi da più dei precedenti,
nè trovatore di fatti nuovi e di non più concinnati sistemi, uno
può assumere la storia d’Italia, purchè con buona fede, con volontà
perseverante, coll’affetto di chi parla della cosa più caramente
diletta, e insieme colla sincerità di chi teme che il dissimulare i
mali tolga di conoscere ed applicare i rimedj; simile a chi, presso ad
una madre che altri svenò, poi col sangue trattole scrisse _È morta_,
la esplora fra lacrimoso e venerabondo, se mai a qualche guizzo del
cuore potesse consolarsi che morta non è.

Da che _popolo_ divenne parola di partito, popolari si dissero lavori
impregnati di collera e d’orgoglio, vacillanti di principj, frivoli
di concetto, abjetti di forma, chiari forse ma come un ruscello che
al fondo lascia vedere il nulla, e dove l’autore si presta complice
d’insani pregiudizj e di ridicole pretensioni, anzichè elevarsi a
correggere le passioni vulgari, guidare i calcoli, i principj, gli
affetti tra l’abuso dell’esame e quello della credenza. Non a questa
popolarità aspirano i buoni libri; bensì a comparir decentemente fra
intelletti colti, fra donne che si educano per divenire educatrici, fra
studiosi che vi trovino lo stillato del senno, della dottrina, della
pazienza dei loro pari; fra cittadini che la patria amano da mariti
non da vagheggini; fra statisti che sanno la felicità d’un paese non
elevarsi solidamente se non fondandola sulle origini sue e sul suo
passato.

Dopo di ciò, l’autore abbandona l’opera sua a chi si senta il ruzzo
fanciullesco di dilaniarla, o il virile proposito di giovarsene per
compirne una migliore. È appuntato d’errori, di dimenticanze? accetta
la correzione, ringrazia dell’insegnamento, quand’anche vi manchino
quelle forme che gli danno o crescono valore. Trovasi bersagliato dagli
estremi opposti perchè, nè minace nè pauroso, rispettando quella degli
altri, pretende l’indipendenza del proprio pensiero, e fra due abissi
si equilibra soltanto sulla propria coscienza? ascolta a questa che
gl’intima «Vien dietro me, e lascia dir la gente»; e alle tribolazioni,
che oggi rendono opera espiatoria lo scrivere, si rassegna nel sentirsi
sicuro che, se forse ha taciuto cosa che pensava, non disse cosa che
non pensasse; certo di errare, ma non di errare apposta; e sovratutto
di aver amato e rispettato il proprio tema, e speratone alcun
giovamento ai compatrioti che con lui soffrono, lottano, confidano.

E a noi vogliano gl’Italiani perdonare se nei gravi anni ci perigliammo
a compiere l’opera, che fu l’esercizio e la mira de’ fiorenti; battendo
un sentiero corso da tanti, ma pur con passi nostri. Oh felice quel
talento che si guadagna le simpatie, a dispetto della frivola beffa
e della sistematica denigrazione! Ma se noi troveremo anche adesso
l’affettato frantendere, l’interpretare sinistro, la maliziosa
insinuazione, il petulante compatire; se si perseveri ad invidiarci
quella benevolenza dei connazionali, che invocammo unici mecenati nella
fatica, giudici nelle accuse, conforto nelle speranze, ci rimarrà qual
supremo compenso l’esserci procurato questo lungo colloquio col fiore
della nazione, con quelli che maturano per un avvenire più ragionevole,
più libero, più morale.

Il quale allorchè si schiuderà, sappiano almeno i nostri figliuoli che
noi lo vagheggiammo ancora in boccia; e ad inaffiarne il germe portammo
una stilla d’acqua che negavamo ai piaceri nostri e all’agevolezza del
rimanere in pace coi gagliardi violenti e coi fiacchi stizzosi.



CAPITOLO II.

Dei primitivi Italiani.


[ANTICHITÀ DELL’ITALIA]

Quell’amore di patria, che pare si acuisca quant’essa e più
immeritamente sventurata, e che cambia di pretensioni secondo la
passione del momento, potè asserire che l’Italia fosse da antichissimo
non solo abitata, ma incivilita a segno, che di là partissero i
dirozzatori della Grecia, dell’Egitto, perfino dell’India. Non v’è
paradosso, a cui non possa imprimere aspetto di probabilità una
erudizione o incompleta o mendace, la quale ignori o dissimuli gli
argomenti contrarj, contentandosi di soddisfare ai dilettanti, la
genìa più numerosa, e la più consueta dispensiera della reputazione,
che è l’orpello della gloria. Chi ben vede, a quella ipotesi[13] trova
repugnare e la natura dei terreni e le testimonianze storiche; alle
quali chi neghi peso quando avverse, non potrà appoggiarvisi quando
favorevoli.

I terreni dell’Italia peninsulare si trovavano (lo vedemmo or ora) allo
scarco orientale dell’Appennino occupati da paludi, e all’occidentale
sommossi da esalazioni vulcaniche; Adige, Ticino, Po e i cento loro
confluenti spagliavano a baldanza nella continentale, e il mare
penetrava ben addentro in quelle ora ubertosissime pianure.

Documenti di remotissima longevità dove si additano fra noi? La
storia più antica, l’ebraica, ci mostra l’Egitto, la Fenicia,
l’Arabia incivilite venti secoli prima di Cristo, e non menziona
tampoco l’Italia, bensì mette per fede quel che le moderne ricerche
d’etnografia, di linguistica e d’archeologia vanno confermando, che la
stirpe umana derivi da un ceppo unico e dal centro dell’Asia, donde
pe’ varj pendìi si diffuse in tre gruppi, distinti eppur fraterni,
designati col nome di Sem, Cam, Giafet. Il primo prevalse per senno,
e per avere conservato maggior quantità di tradizioni morali e
scientifiche: il secondo, segnalato per industria e cultura, precipitò
in tempestiva depravazione: il terzo, famiglia più rozza e meno
corrotta, dovea vantaggiarsi dei progressi delle altre.

Della gente giapetica una parte estendevasi nella penisola indiana e
nella Persia, mentre un’altra risalì al settentrione, e traverso alla
Scizia penetrò nell’Europa nostra. Le lingue parlate in questa, fra
cui la latina e l’italiana, s’annettono fra loro per tante affinità di
parole e di costrutti, che se ne costituì un solo gruppo, intitolato
indo-germanico, di cui le radici sono a cercare fra le misteriose
bellezze del sanscrito, lingua sacra dell’India. Che più? questa
ricchezza di frutti e di grani, quest’utile e dolce compagnia d’animali
domestici, non è indigena dell’Italia, ma seguì le migrazioni, mosse
dalla nativa Asia verso il nostro Occidente: nuova conferma al racconto
biblico.

[PRIME GENTI]

E già fu tempo quando le origini dei popoli non si voleano cercare
che dal genesi mosaico; Noè e suoi figliuoli doveano esser venuti a
popolare la nostra patria, e qualche nome che tenesse somiglianza co’
nostrali, bastava a stabilire una genealogia. Fu allora che il Morigia
faceva occupare l’agro milanese da Tubal figlio di Giafet, trentacinque
anni dopo il diluvio, e fondar la città d’Insubria, detta poi Milano;
che Bernardino Scardeonio empiva la Venezia con colonie menate dai
figli di Noè; che Noè stesso era fatto giungere in Italia dal Merula, e
quivi dal vino denominare Giano[14].

Chi più bada a queste baje de’ frati, nè a quelle degli eruditi che
voleano trar le origini ciascuno dal popolo e dalla lingua su cui avea
diretto gli studj, dai Fenicj il Mazzocchi, il Martorelli, oltre il
Giambullari, il Gelli e gli altri resi famosi col nome di Aramei; dai
Celti il Bochart, Guido Ferrari e il Bardetti; nè a quelle dei poeti,
che metteano Troja a capo di tutto?[15].

[L’ODISSEA]

Questa città richiama a mente lo scrittore classico più remoto e «primo
pittor delle memorie antiche». Omero, guidando il suo simbolico Ulisse
a vedere «i costumi e le città di varj popoli», undici secoli avanti
Cristo nomina i Siculi come primissimi abitatori del centro della
nostra penisola; ma descrivendo le coste di questa, indirettamente ne
smentisce antica la civiltà. Caduta Troja, Ulisse, cacciato dall’ira
divina fra i Lotòfagi del littorale africano, si propone di ritornare
ad Itaca sua patria, isola del mar Jonio. Imbarcato, drizza la prora
verso l’isola delle tre punte (_Trinacria_), la quale ricevette nome
dai Siculi; e presa terra presso l’ignivomo Etna, v’incontra Ciclopi e
Polifemi, cioè gente ferina e antropofago, «che non semina nè pianta,
non ha leggi, non adunanze, non navi, ma abita in antri, signoreggiando
sulla moglie e sui figliuoli». Campato dal costoro dente, uscito
dallo stretto di Messina, approda alle isole Eolie; donde coll’aria
di ponente traversa lo stretto che supponemmo si aprisse fra il golfo
Scilatico e il Lametico (pag. 16). Poi dai numi irati risospinto pel
medesimo varco, sale verso Lamo[16] nel golfo di Gaeta; e da un’altura
esplorando il paese, «non vi scorge ovraggio d’uomo nè di bue», ma solo
i fumi, probabilmente del Vesuvio. Alcuni de’ suoi seguaci, mandati
per informazioni all’abitato, vi trovano i Lestrigoni, giganti che
mangiano uomini, e lanciano pietroni enormi.

Perduta la maggior parte de’ compagni, e ripresa via, Ulisse afferra al
paese di Circe, che probabilmente è il monte Circeo, «isola circondata
dall’immenso mare» che poi interrotto formò le infauste paludi Pontine.
Circe, maga che trasforma gli uomini in bestie, cos’altro simboleggia
che il vivere ferino? Ed essa consiglia Ulisse di veleggiare col vento
di borea ai Cimmerj, ossia nella regione di Cuma napoletana che fu poi
così ridente, e che allora dinotavasi come regno delle ombre e dei
morti o delle sirene, cioè offriva campo agli sbizzarrimenti della
fantasia perchè sconosciuta[17].

[L’ENEIDE]

[LEGGENDA VIRGILIANA]

Tale appariva l’Italia all’itaco re, il quale ne’ suoi lunghi
pellegrinaggi in altre contrade ritrova e civiltà ordinata, e
gentilezza d’arti, e scienza d’armi, e abilità dì navigare. E il
poeta, il quale dovea vivere nove secoli avanti Cristo, fa predire
da Apollo che Enea otterrebbe ancora regno nella Troade: laonde non
si potrebbe obiettargli la civiltà che qui Enea trovò, secondo una
favola di posteriore invenzione, immortalata da Virgilio. Il qual
Virgilio, elegantissimo espositore delle tradizioni che blandissero
la vanità latina, fa abitata l’Italia da popoli selvaggi[18], senza
proprietà stabile[19], che sol ricordavano d’essere usciti da tronchi
di rovere[20], allorquando (dovette essere quattordici secoli prima di
Cristo) calò fra loro Saturno, che quella gente indocile e dispersa ne’
monti raccolse, la insegnò nell’agricoltura, nell’innestar gli alberi,
nel valersi dei bovi, mentre la vite era introdotta da Sabino[21].
Ed anche al tempo che qui fa approdare il pio trojano, quel gentile
poeta ci descrive bambino l’incivilimento degli Itali, divisi in
borgatelle, occupati a rompere la gleba, andar a caccia, cavalcare;
alcuni pochi dell’Etruria a lavorare il ferro, forse tratto dall’Elba;
armati sempre, taluni perfin tra le fatiche agricole; faceansi elmi
e schinieri con pelli di lupo e scorze di sovero, e sapeano trar di
fromba e d’arco, anche con saette avvelenate[22]. Il re, capo d’un
piccolo cantone, avea solo autorità di convocare il popolo alle
assemblee e condurlo in guerra; suo distintivo pelli d’orso, di leone,
di pantera[23]; sua reggia una capanna di paglia; e spesso congiungeva
al comando gli uffizj e il carattere di sacerdote[24]. Di fuori s’erano
importati molti riti sacri, dall’Arcadia i Lupercali, dalla Grecia i
Baccanali; altri più severi, probabilmente indigeni, si esercitavano
nelle selve ad onore o degli avi defunti o degli eroi; un feticismo
più grossolano era mantenuto fra alcuni, che prestavano culto ai
fiumi, entro ai quali immergeano i neonati, o si lavavano i peccatori
per purificarsi[25]; nè era dismessa l’orribile eppur tanto diffusa
superstizione de’ sagrifizj umani.

[ELABORAZIONI STORICHE]

A dare significazione storica a questo linguaggio mitologico, a
strigare la continua confusione del reale coll’immaginario, che si
trova nella leggenda, la quale altera il fatto reale, talvolta lo
contraddice apertamente, ma pure conserva un fondo di vero, o almeno
di non falso, faticarono l’erudizione e la fantasia; e non volendo
accettare quel mistero che involge tutte le origini, ogni tratto
presentasi alcuno a trinciar le quistioni colla facilità propria di
chi non le ha studiate, e tacciando chiunque lo precedette; vantasi di
nuovi fatti, d’insoliti paradossi, che poi riescono a luoghi comuni:
per tacere degli sguajati, che aborrendo dalla verità cercata per se
stessa, delle sapienti elucubrazioni fanno un’occasione di strapazzi;
e perchè Müller o Niebuhr traggono i Pelasgi dai Germani, Freret e
Thierry dai Galli, gl’insultano come minaci alla nazionale indipendenza.

Se alcuna cosa attendibile si può raccogliere, è che la popolazione
all’Italia venne in più riprese, e di genti che un lasso di secoli
e diversità di clima e di consuetudine aveano distinte, benchè non
ne cancellassero le originarie somiglianze. Il discenderle è tanto
più arduo perchè la scarsezza di monumenti toglie di spiegarli e
correggere a vicenda; e l’appoggiar le induzioni sopra errori falsa
necessariamente le conseguenze.

Gli antichissimi non iscrissero le loro storie, od a noi non
pervennero; fossero anche pervenute, ce n’avrebbero potuto rivelare le
origini? Le tradizioni si sformarono pel passare di bocca in bocca,
per l’ignoranza del vulgo, per la scaltrezza sacerdotale, per la
boria patriotica. Quei che primi tolsero a fissarle collo scritto non
le seppero vagliare, ignorarono molti monumenti, o non ne intesero
il valore; intanto sovvertimenti naturali, sovrapposizione di nuovi
popoli, inenarrabili sventure mutavano faccia, costumi, credenze,
lingue ne’ paesi: sicchè, cancellate o confuse le memorie, non restando
nè uno storico nè un logografo, essendo ignota fin la lingua delle
poche iscrizioni sopravanzate, riesce quasi disperata l’investigazione
della verità, che è il primo scopo della storia.

[STORICI PRIMI]

Ultimi degli antichi popoli d’Italia, i Romani colla spada raserò le
vestigia dei precedenti; nei paesi soggiogati cercarono i lavori di
appariscente bellezza onde rubarli, non ciò che avrebbe gittate qualche
lume sui tempi trascorsi; i loro scrittori distinguendo i popoli
conquistati per provincie, non per nazioni, venivano a confonderli;
e vilipese le arti e le lingue italiche, non chiesero gloria che
dalle vittorie. I Greci furono il popolo dell’antichità meglio dotato
del sentimento del bello, sicchè ci lasciò i lavori più insigni
nelle arti del disegno come in quelle della parola, e nel bagliore
della sua luce involse quella degli altri, che ascrissero a vanto
il derivare da quello le origini o l’educazione propria. Ed anche i
Romani nella storia e nella filologia greca indagarono le etimologie
e i tesmofori, sfrenandosi in aeree congetture, senza sentire il
bisogno di confrontare, di discutere, d’accertare, ed acchetandosi ad
un _si dice_. Se gl’Italiani così le negligevano, come sperare che
con amore ne cercassero le origini que’ Greci, i quali, non senza
titoli, si tenevano ad essi di tanto superiori? Oltre il vezzo di
tutto personificare, di tradurre gli eventi in miti, di presentare in
un uomo o in un fatto le complessive vicende d’un’età e d’un popolo,
quanto essi ne raccontano de’ primordj del nostro paese ridonda a unico
vanto della Grecia; di là le colonie, di là ogni arte, ogni sapere,
ogni personaggio. Ciò scema fede a quanto de’ primi abitatori d’Italia
narra Dionigi d’Alicarnasso, benchè egli venisse a Roma allorchè di
fresco Catone avea scritto sull’origine delle città, era appena morto
Cicerone, vivo Varrone; e mostri aver copiato gli annali e le lapide
di ciascun paese, le quali, appunto perchè municipali, non restavano
travisate dal proposito sistematico di metterle in accordo colle
altre[26].

[CONGETTURE]

Di questo Varrone, predicato come il maggiore erudito di Roma,
smarrimmo i libri; ma i frammenti che ci rimangono danno a temere
ch’egli pure si buttasse alla fantasia o ad un’erudizione di
provenienza greca, anzichè indagar la originale e indigena. Presumiamo
altrettanto di Catone, romano anch’esso, che avea radunato memorie
sulle origini di ciascuna città, le quali Eliano sommava a mille
centonovantasette[27]; e dei trentatre storici, che avevano trattato
della fondazione di esse. Strabone e Plinio, venuti più tardi,
raccolgono tradizioni, ma nè discutendo nè combinando come è proprio di
chi sente il bisogno della certezza.

L’erudizione moderna, chiedendo alla filologia e all’etnografia un filo
onde ravviarsi in tal labirinto, inventa sistemi sempre nuovi, sempre
incompiuti, sempre facili a erigersi quanto ad abbattersi. Interi libri
si compilarono per null’altro che informare delle varie opinioni, le
quali, come avviene delle congetturali, hanno ragione dove confutano,
torto dove asseriscono. E noi, ponderatele tutte, non soddisfatti
d’alcuna, esponiamo a guisa di chi è certo di non appagare altrui,
perchè non è persuaso egli stesso.

Nel movimento di popoli che precede l’età storica, le grandi migrazioni
non succedono che per via di terra; e dai varchi alpini devono essere
scesi i primi abitatori all’Italia. Altri, sopragiungendo alle spalle,
cacciavansi innanzi que’ primi, i quali trasferivano altrove il nome
proprio, e nella terra abbandonata lasciavano traccie di sè in qualche
particolare denominazione di paese. Pertanto in una penisola, i primi
venuti pajono doversi rintracciare nella più lontana estremità; verso
quella essendosi calati, finchè, non potendo più oltre procedere, le
genti primitive si mescolarono colle avveniticcie.

Il navigare non costituiva una scienza ed arte complicata come oggi;
e piccoli legni con ampia carena, capaci di cento in ducento uomini,
spinti a remi e con una vela, bastavano ai viaggi, massime in mari
circoscritti come quello fra l’Asia, l’Africa e noi[28]. A questo modo
dovettero venire altre genti all’Italia, le quali piantavano piccole
colonie e più civili sul mare, mentre i mediterranei tenevansi sui
monti. Il nome di Aborigeni, attribuito ai più antichi Itali, suona
montanaro (ὄρος _monte_); e forse dinotava una prima immigrazione di
genti giapetiche, denominata de’ Tirseni o Tirreni o Raseni, i quali
comunicarono il proprio nome a tutta la penisola e al mare che la bagna
ad occidente; intanto che quello a levante fu denominato Adriatico da
Adria, città anch’essa tirrena. Platone, nel _Critia_, fa i Tirreni
contemporanei degli Atlantidi al par degli Egizj, vale a dire anteriori
ad ogni storia; la favola gli associa ai ricordi di Bacco, di Giove,
dei Satiri; ed Esiodo, contemporaneo di Omero, rammemora «i forti
Tirreni, illustri fra gli Dei e gli eroi».

[ABORIGENI]

Erano di quest’antichissima genìa gli Euganei e gli Orobj, che
precedettero gli Umbri; e così i Camuni, i Leponzj ed altri del
Trentino; sia che da quelle parti settentrionali fossero calati in
Italia, sia che fra quelle alpi avessero piantato stazioni per riparare
la penisola dalle correrie dei Galli[29]. A que’ Tirreni apparteneano
per avventura anche i Taurisci, o montanari nella subalpina
occidentale; e nella media Italia gli Etruschi e gli Opici, appellativo
fors’anche questo generico, indicante terragni[30], e contratto in
Opschi ed Oschi, al quale aggiungendo l’articolo, n’esce il vocabolo
Toschi. Certo i Tirreni sono considerati dagli antichi come diversi dai
Siculi e dai Pelasgi: la loro lingua sembra rimanesse al fondo delle
italiche; ed anche nel fiore di Roma la plebe e la gioventù prendeano
spasso dalle Favole Atellane, cantate in osco; poi quando la maestà
romana declinò, l’osco sopravvisse col vulgo rimasto, e divenne forse
padre dell’odierno idioma.

[IBERI]

Ma un elemento semitico vi si mescolò, se pure non li precedette, per
opera degli Iberi, gente finnico-tartara o, come dicono i più recenti,
turanica, venuta dall’Iberia asiatica vicina all’Armenia, diciotto
secoli avanti Cristo, e largamente diffusa in Europa, dove per mare
procedette fin nella Spagna, alla quale attribuì il proprio nome, e
dove lasciò ne’ Baschi la propria favella, non meno che ai Finnici,
nell’estremità opposta d’Europa[31]. A questo nome si apparentavano i
Liguri nell’alta Italia; nella media forse gl’Itali, collocatisi lungo
la marina occidentale fra la Macra e il Tevere; nella bassa i Sicani,
che Tucidide chiama Iberi. Esso Tucidide riscontra il fiume Sicano
nelle vicinanze de’ Liguri, che (dic’egli) abitavano a mare sopra
Marsiglia: e poichè il nome de’ Sicani accostasi a quel de’ Sequani,
assisi alla sorgente della Senna, v’ha chi arguisce doversi ascrivere
al loro lignaggio i Celti, e a ciò attribuisce le molte parole che
nell’italiano, e più nel siciliano, rimasero di celtica radice[32].

[LIGURI]

Secondo alcuni dunque la gente Ibera sarebbe abitata in Italia prima
ancora che vi venissero gli Indoeuropei, e di là trarrebbero le tante
parole dei nostri idiomi, estranie alle lingue ariane, e massime i
vocaboli di luoghi. Ma ecco altri invece dedurre i Sicani dall’Epiro, e
farli identici coi Pelasgi (CORCIA); altri crederli un ramo de’ Tirreni
(ABEKEN), che modificato dalla mistione cogli Aborigeni o Caschi, formò
i Latini. Anche gli Umbri, altri popoli primissimi in Italia, da alcuni
si vorrebbero Liguri: ma questo nome di Liguri ci sembra generico
anzichè speciale, e certo era diffuso su grande ampiezza; gli Oschi
medesimi si denominavano Liguri; Edwards, mediante la storia naturale
e il confronto de’ cranj, ravvicinò la stirpe ligure alle celtiche:
in modo che non uscirebbe di buona congettura chi ascrivesse tutti
i prischi Italiani alla grande migrazione che si dinota col nome di
Celti, estesissima razza, che forse non è diversa dalla scitica.

[UMBRI]

Illirio, Celta, Gallo, nati da Polifemo e da Galatea, popolarono il
primo l’Illiria, gli altri due l’Italia col nome di Umbri. Questo
linguaggio mitologico adombra la migrazione antichissima de’ Celti,
i quali, scampati al diluvio[33], dalla Tesprozia e dalla Tracia si
estesero a settentrione dell’Europa fin al capo Domes-ness nella
Curlandia, e sulle coste occidentali sino al Finisterre della Spagna.
Nel lunghissimo vagare per la selva Ercinia, che allora ombreggiava
tutta l’Europa boreale, e per l’Alta Asia sino alle frontiere della
Cina, perdettero la memoria della loro provenienza. Non è del nostro
intendimento il cercare se fossero semitici, per la lunga dimora e
per la mistione tramutati poi in indo-europei. Restringendoci alla
storia, diremo che col nome di _Ambra_ o _Amhra_, in loro favella
significante nobile, prode, scesero in Italia, e vi si divisero in tre
bande, da cui ebbero titolo tre provincie: Oll-Umbria o alta Umbria fra
l’Appennino e l’Jonio; Is-Umbria o bassa, attorno al Po; Vill-Umbria
o littorale, che fu poi l’Etruria. Catone vorrebbe che Ameria, loro
città, sia stata ricostruita trecentottantun anno prima di Roma[34];
epoca storica, al di là della quale non sopravanzano che le favole de’
tempi saturnj. Cacciando Liguri e Siculi, gli Umbri occuparono dunque
la parte orientale dell’Italia, l’occidentale lasciando agli Iberi,
e furono il popolo prepollente della penisola; col nome di Sarsinati
abitarono Perugia, con quello di Camerti Clusio, e possedettero
trecencinquantotto borgate[35].

[PELASGI]

Contemporaneamente a queste ondate d’interi popoli, ne venivano di
parziali; nè tutti erano giapetici: e Titani, Ciclopi, Lestrigoni,
che pajono aver preceduto i Siculi nell’isola che da questi prese il
nome, forse derivavano dalla stirpe di Cam e dall’Africa. Men tosto
migrazioni di popoli interi, che colonie e conquiste sono a dire le
seguenti irruzioni in Italia, e quella che s’impronta col nome de’
Pelasgi.

Nulla più disputato ai dì nostri, che la derivazione, gli andamenti
e l’indole de’ Pelasgi[36]. Alcuni li farebbero semitici: i più gli
adunano alla grande famiglia caucasea degli Sciti, una parte della
quale, traverso alla Tessaglia, si arrestò in Grecia e nel Peloponneso
col nome di Pelasgi ed Elleni, suddivisi poi in Eolj, Jonj, Dori,
Achei, e si dilatò nelle isole dell’Arcipelago e in Italia; un’altra,
valicando il Tauro, occupò l’Asia Minore, la Frigia, la Lidia, la
Troade, e passato il Bosforo, prese stanza nella Tracia.

Che che ne sia, essi precedono ne’ paesi civili quelle generazioni che
acquistarono classica rinomanza. I Greci li faceano favolosi quanto
i Titani e i Ciclopi; barbari del resto, che mandarono a conquasso
le belle contrade, finchè dall’ira divina sottoposti a terribili
disastri, soccombettero e furono ridotti servi. Tal è il linguaggio di
una nuova generazione contro quella che essa spodestò: eppure anche
nelle malevole tradizioni greche i Pelasgi appajono fondatori di città,
cavatori di miniere, maestri di religione, di arti, sin di un alfabeto.

In Italia giunsero in più riprese; e la prima con Enotro e Peucezio
figli di Licaone, che, diciassette generazioni avanti la caduta di
Troja, dall’Arcadia e dalla Tessaglia addussero una colonia, la prima
che per mare uscisse di Grecia[37]. I Peucezj si collocarono sul golfo
Jonico, gli Enotrj a scirocco, incivilendo i popoli campani. Nuovi
fiotti di popoli snidarono altri Pelasgi dalla Macedonia e dal paese
di Dodòna, cui da due secoli coltivavano; onde traverso alla Pannonia,
all’Illirico, alla Dalmazia, approdarono alle foci del Po, dove
fabbricarono Spina.

Trovavano essi i Tirreni già soggiogati e in condizione di schiavi, gli
Umbri assisi sul pendìo orientale, gli Iberi o Liguri nell’occidentale,
e potentissimi i Siculi. Dato di cozzo in una tribù di questi,
chiamata degli Aurunci od Ausonj, i Pelasgi applicarono il nome
d’Ausonia all’intero paese. Provarono nemici gli Umbri, e alleati gli
aborigeni della Sabina, che aveano cominciato addensare le capanne
senza chiusa di mura, e che allora popolarono di città le creste
dell’Appennino.

I Pelasgi non naturarono mai la loro padronanza sul nostro paese;
malvisti sempre come stranieri e conquistatori, dovettero mantenervisi
armati; tre secoli lottarono coi Siculi, finchè li spinsero nell’isola
che da loro ebbe nome di Sicilia.

[RELIGIONE DE’ PELASGI]

Erodoto, il più antico storico greco, dice che i Pelasgi «sacrificavano
pregando gli Dei, ai quali però non applicavano nè nomi nè soprannomi,
chiamandoli soltanto Dei»[38]. Forse ciò esprime che tenessero un
Dio solo: ma probabilmente nel loro culto era divinizzata la natura,
le forze feconde e ordinatrici di essa esprimendo in simboli, di cui
restò orma nel culto italico, come i Fauni, Vesta, Anna Perenna,
Pale, ed altre divinità estranie all’Olimpo greco. Il dio Termine
per loro simboleggiava i possessi stabili: Vesta, la sanzione divina
dell’associazione della donna coll’uomo: onde avrebbero essi introdotto
fra i rozzi Italioti queste personificazioni religiose dello stato
famigliare e del diritto di proprietà, importantissimi dove la
costituzione pubblica riposa sopra la domestica[39]. A Vesta ardeva il
fuoco perpetuo, custodito da vergini per le quali era delitto capitale
il lasciarlo spegnere e il macchiar la castità. Nella Sabina posero un
oracolo, somigliante a quel dell’Epiro.

Particolare al nome Pelasgo era pure il culto dei misteriosi Cabiri o
Dioscuri; i quali al vulgo erano offerti come pianeti personificati,
che in forma di stelle o di fuochi apparivano ai naviganti; mentre
agli iniziati de’ misteri, cui sacrarj erano l’isola di Samotracia e
Dodòna nell’Epiro, esprimevano il concetto di una trinità, formata
dell’onnipotente, del gran fecondatore e della gran fecondatrice[40].
Ad essi serviva di ministro un Casmilo; nei loro misteri, che tennero
gran parte nelle religioni italiche, garantivansi gl’iniziati contro
le procelle ed altre sventure: ma le cerimonie tendeano principalmente
alla purificazione delle anime. Il neofito confessava i suoi peccati,
subiva prove severe, sacrifizj espiatorj; il sacerdote poteva assolvere
anche dall’omicidio: ma lo spergiurare e l’uccisione nei tempj erano
colpe riservate a un tribunale, che poteva anche punirle di morte.
Nelle iniziazioni il neofito, coronato di ulivo e cinto d’una fusciaca
purpurea, era collocato sopra una seggiola; e in cerchio ad esso
gl’iniziati, tenendosi per mano, guidavano una danza al canto d’inni
sacri. L’iniziato più non deponea la sacra benda, che fu poi adottata
anche nei riti bacchici, coi quali aveano pure comuni le cerimonie
impudiche.

Le somiglianze del culto italo coll’ellenico non isfuggirono ai Greci;
e Dionigi d’Alicarnasso avverte che non trattasi solo d’identità di
tipi e di forme, esprimenti le idee generali di potenza o protezione
speciale, ma fin d’attributi, di vesti, d’usi tradizionali, di tregue
religiose, di pompe e sagrifizj, di costruzione rituale dei tempj.
Alcune divinità greche furono introdotte nel culto latino a tempi
conosciuti, come Apollo nel 429 di Roma, Esculapio nel 459, nel 449
l’ara massima di Ercole: ma le maggiori avrebbero potuto piantarsi dopo
già costituite quelle società, così tenaci della tradizione, senza
eccitarvi un generale sovvertimento? e l’opposizione avrebbe potuto
dalla storia essere inavvertita? Convien dunque supporle venute qui
coi popoli stessi, massime coi Pelasgi, tanto più se si ponga mente
alla fisionomia nazionale di esse divinità, e alla loro coerenza colle
istituzioni civili.

Questo poco e null’altro sapremmo de’ Pelasgi, se non ci rimanessero
avanzi di meravigliosi loro edifizj. A principio l’uomo nel
procacciarsi un’abitazione non pensa che a schermirsi dalle intemperie
e dalle belve, fortunato ove il suolo gli offre caverne naturali od
opportunità di formarne, come le tante di Sicilia, massime in vai
di Noto, al Peloro, a Spaccaforno, ad Ipsica, sovrapposte talvolta
come i solaj d’una casa o i loculi d’un colombario. Colà doveano
abitare i Lestrigoni, i Lotofagi, i Polifemi, quegli altri mostri in
cui l’età poetica raffigurò le genti fuori del civile consorzio, e
che limitavansi ad abbellire le grotte ove si ricoveravano, o dove
riponevano la moglie, l’iddio, le reliquie dei cari estinti. Sacri
spechi perciò incontriamo nelle più remote storie: in uno il re Numa
Pompilio conferiva colla ninfa Egeria; da un altro la sibilla di Cuma
rendeva i suoi oracoli; molti sotterranei mostrano l’antica Etruria e
le isole del Mediterraneo[41], ornati coi primi tentativi dell’arte;
e sovra tutti notevole è l’ipogeo presso l’antica Fiesole, in pietra
arenaria compatta di strati distinti, che il vulgo attribuisce alle
fate, e l’erudito non sa a qual uso.

[TROGLODITI]

Agli scavi trogloditici succedono le costruzioni sopra terra,
nominate ciclopiche dai nostri Ciclopi di Sicilia, supposti giganti,
che poterono sovrapporre massi enormi, non isquadrati, stanti
per la propria mole, disposti in torri ovvero in mura con porte.
Queste mura alcune sono di pietroni di varia grossezza, affatto
scabri, e rinzaffati con ciottoli e scaglie; altre di macigni
poligoni disposti al modo medesimo, grossolanamente martellati, e di
forma e mole disuguale; altre di parallelepipedi rozzi, collocati
perpendicolarmente: cemento non appare in nessuna. Nell’isola di Gozo
fu così costruita la torre de’ Giganti, forse dai Fenicj, composta di
due monumenti internamente comunicanti. Sono pur tali i Nuraghi di
Sardegna, coni elevati da dodici a quindici metri, e finiti in tondo,
fatti con dadi d’un metro negli strati meno erti, irregolari sempre e
senza calcina. Sorgono sopra alture, cinti talvolta d’un terrapieno fin
del giro di cento metri, fortificati da un muro alto tre e di simile
costruzione, circuiti talora da altri simili coni di minor dimensione.
Chi li crede trofei, chi are del fuoco: ma se si riflette che ne
esistono forse tremila, non si può crederli che abitazioni o sepolcri,
principalmente di sacerdoti, lo perchè non vi si trovano mai armi,
bensì ornamenti femminili e idoletti[42].

[EDIFIZJ CICLOPICI]

Chi ha precisato quali caratteri distinguano l’architettura ciclopica
dalla pelasgica? Questa, ammirabile non per regolarità come la greca,
ma per la mole dei materiali e per somiglianza colle opere della
natura, non adopravasi a servigio di re o ad onore di numi, ma ad utile
sociale, in mura, vie, acquedotti, canali; e quel vivo sentimento della
vita cittadina, rivelato dalla costruzione di tante città, sopravvisse
ne’ futuri Italiani, propensi sempre alla vita di comune. Di tal
maniera sussistono muraglie, od isolate o cintura di città: e fattura
del diavolo le dice il vulgo, attonito a quegli ingenti massi, quali
irregolari, come a Cosa, ad Arpino, ad Aufidena; quali riquadrati, come
nell’antichissimo bastione di Roma, e in quei di Volterra e Fregelle;
quali regolari, come a Cortona e Fiesole; spesso ancora di costruzione
mescolata, sempre senza calce, e che mostrano l’uso di molte braccia e
portentosa gagliardia.

[MURA PELASGICHE]

Solo dopo che nel 1792 si scopersero ruine sul monte Circeo, venne
fissata l’attenzione agli edifizj pelasgici, che ora son uno de’ punti
più studiati dagli archeologi, e moltissimi riscontri ai nostri si
trovarono nel Peloponneso, nell’Attica, in Beozia, in Tessaglia, nella
Focide, nell’Epiro, nella Tracia, nell’Asia Minore, paesi abitati da
Pelasgi. Ma mentre pochi n’ha la Grecia, da trecento ne mostra l’Italia
ne’ paesi degli Aborigeni, dei Sabini, dei Marsi, degli Ernici, e
nelle città latine a mare. Principale tra quest’ultime è Terracina
(_Anxur_); seguono il poligono recinto di Fundi, e le mura e le porte
di Arpino e di Alatri, e quelle di Venda, Ferentino e Preneste, a massi
irregolari, quali cingevano pure sulle montagne volsche Norba, Signia,
Cora. Sull’altra gronda dell’Appennino fra i Sanniti rimane traccia
di siffatti edifizj a Boviano, ad Esernia, a Calatia, fors’anche ad
Aufidena; fra i Marsi ad Alba, ad Atina, e intorno al lago Fùcino. Da
questo alle contrade tiburtine, abitate dai montanari Equi e Sabini,
sembra usasse assai tal modo di fabbricare gigantesco, apparendone i
resti a Cicolano e a Rieti, dove già furono Tiora, Nursi, Sura, e
verso Monteverde e Siciliano e Vicovaro. Scarseggiano negli Abruzzi; ma
nell’Umbria se ne ammirano ad Ameria, a Cesi, a Spoleto, e maggiori a
Cosa. Finiscono tra l’Esi e l’Ombrone; l’Italia settentrionale non ne
ha, non l’Etruria interiore; in Sicilia vorrebbesi vederne a Cefalù e
sul monte Erice.

Nella mura dell’acropoli d’Arpino la porta è a cuneo; parallelepipeda
ad Alatri, trapezia a Norba, al Circeo, a Signia, ma le spalle sembrano
montagne: l’arco appare rozzo nell’acquedotto presso Terracina,
regolare nel ponte di Cora, e più in qualche avanzo di Circeo, e nella
porta gemina di Signia. Talvolta sono costruzioni rotonde, coperte di
cupole formate di lastroni disposti orizzontalmente con progressiva
sporgenza; come in molti sepolcri a Norba, a Tarquinia, a Vulci, e
in quello insigne di Elpenore sul Circeo, e nel carcere Tulliano a
Roma, che probabilmente in origine fu una cisterna, siccome quello di
Tuscolo, quadro e sormontato da cupola a cono.

Non ci vorremo dunque collocare con quelli che riguardano i Pelasgi
soltanto come un’orda ragunaticcia e feroce, la quale non abbia che
messo a sperpero il paese. Se fosse, n’avremmo un appoggio a quel vanto
dato da Plinio all’Italia, ch’essa sembri fatata dagli Dei a restituire
agli uomini l’umanità: ma tutto all’opposto, altri lodano i Pelasgi sin
d’avere portato qui l’alfabeto, giacchè Evandro, insegnator di questo,
veniva dall’Arcadia, loro stanza.

Molto soffersero[43] in Italia i Pelasgi in grazia della sterilità e
siccità dei campi, ma più ancora pei vulcani, dal cui imperversare
furono, 1300 anni avanti Cristo, costretti abbandonare l’Etruria,
ove le loro città vennero insalubri per le esalazioni delle paludi,
formatesi di mezzo a terreni o depressi od elevati: Cere, una di esse,
sedeva a quattro miglia dal cratere in cui stagna il lago di Bracciano;
l’aria mefitica di Gravisca restò proverbiale fra’ Romani; Cosa per
questa rimase deserta; Saturnia, città incontestabilmente pelasgica,
era s’una delle ultime colline del vulcano di Santa Fiora.

Oppressi da tali disastri e da malattie strane, i Pelasgi interrogarono
l’oracolo di Dodona, e n’ebbero risposta essere gli Dei sdegnati
perchè, avendo promesso ai Cabiri la decima di tutto quanto nascerebbe,
non aveano offerta quella de’ figliuoli. La spietata risposta parve
ancor peggio del male; il popolo tumultuò, e prese in sospetto i
capi: di qui crebbero i patimenti; stanchi de’ quali, alcuni Pelasgi
migrarono, o tornando ai paesi dond’erano venuti, o procedendo ad
occidente, massime verso l’Iberia, dove Sagunto e Tarragona mostrano
mura di loro costruzione. I rimasti, da nuovi popoli furono non
distrutti, ma spossessati e ridotti a condizione servile. I Sibariti
in fatto chiamavano Pelasgi gli schiavi, che probabilmente erano gli
Enotrj da loro soggiogati; e forse enotrj erano i Bruzj, schiavi
rivoltati. Rimasti come servi campagnuoli della nobiltà urbana, forse
a servigio di questa fabbricarono altre mura di città, che anche più
tardi serbano carattere di robustezza.

Chi visiti San Pietro d’Alba nei Marsi, riconosce tre gradini di
costruzione pelasgica, sormontati da un tempio romano, al quale i
Goti aggiunsero una tribuna ad abside, e il medioevo una facciata,
mentre l’interno è ornato da sei colonne di marmo corintio. Questa
mescolanza non è il simbolo perpetuo della storia degli Italiani? e
sarà mai sperabile che altri pianti un sistema, il quale valga unico a
spiegare le mille varietà? Sanno d’alchimia più che di chimica cedeste
manipolazioni della storia, per cui a cinquemila anni di lontananza
si pretende dar la formola delle affinità, indicare la separazione
dei popoli, ridurre a calcolo il caos. Ogni ipotesi troppo generale
soccombe alla sincera indagine; e se è sconfortante che i dotti
rimangano ambigui, ed i migliori sforzi riescano soltanto ad un forse,
è umiliante che per quel forse si palleggi dall’uno all’altro il titolo
d’ignorante o di presuntuoso.

_Nota del 1874._

[ANTICHITÀ PREISTORICHE]

Le recenti scoperte di oggetti antichissimi, di rozzissimi arnesi,
d’armi di silice, d’ossa rosicchiate o intagliate, di teschi umani
entro grotte o ne’ paduli o nelle torbiere, e fin sotto a terreni
di altra età geologica, portarono a un nuovo studio, che chiamarono
antichità preistoriche. Ergendo ipotesi arditissime sovra fatti
ancora indeterminati, si negò l’unica derivazione dell’uomo, si volle
perfino crederlo null’altro che la trasformazione graduale di scimie
antropomorfe, avvenuta in diverse parti del globo, e nel volgere di
milioni d’anni.

Tutto ciò non ha a fare colla storia, la quale non può prender le mosse
che dalle tradizioni nostre, dai nostri monumenti. I quali in verità
attestarono uno stato quasi selvaggio delle popolazioni indigene,
che, non possedendo ancora i metalli, si valeano delle pietre; poi
usarono il rame, che più facilmente si trova puro; tardi approfittarono
del ferro, divenuto poi principale stromento di civiltà. Giancarlo
Conestabile assevera all’età del rame fosse contemporaneo l’uso
del ferro, che trova _spessissimo_ presente e mescolato all’altro
metallo ne’ lavori artistici e industriali; donde induce che l’uso
del ferro cominciò qui assai prima che nel Settentrione. Questi
uomini preistorici sarebbero o brachicefali nell’Italia superiore, o
dolicocefali nella inferiore: misti nella centrale.

Accordando colle scoperte recenti le tradizioni, abbiamo che, dopo il
periodo pliocenico, l’Italia era occupata dal mare, donde sporgeano
come isole le vette dei monti. Fra le selve d’alto fusto viveano genti
selvagge con elefanti, rinoceronti, ippopotami, cervi da enormi corna,
bovi primigeni ed altre specie perite. Da queste difendeansi con arme
di selce: albergavano entro grotte, ovvero su palafitte in mezzo alle
acque, dove rimasero gli avanzi de’ loro cibi. Così passarono l’età dei
ghiacci: allo squagliarsi de’ quali la pianura andava asciugandosi, e
le genti vi scendevano, perfezionando il vivere, gli utensili, le armi.

Testimonj di questi progressi dalla pietra al bronzo poi al ferro non
sono scarsi in Italia, massime nella settentrionale, in abitazioni
lacustri dei laghi di Lombardia, in necropoli dell’Emilia, in capanne,
in terramare; ma segnarne la successione e l’età comparativa è troppo
difficile.

Accontentandoci di esaminare le popolazioni storiche, pare dimostrato
che la stirpe Aria o Indo-europea, partendo dalle terre traversate
dall’Oxo, di là del Caspio e della Scizia, venisse in Europa in quattro
rami, il Celtico, il Germanico, il Greco italico o Pelasgo, il Lituano
slavo. Forse trenta secoli avanti Cristo avvenne la prima emigrazione
di Celti, quasi contemporanea a quella dei Pelasgi, che stabilitisi
nell’Asia Minore e sull’Ellesponto, spinsero ramificazioni in Italia,
dove occuparono le creste degli Appennini, respingendo gli Aborigeni,
dei quali son forse avanzi gli Japigi della Messapia, gli Opsci, gli
Ausonj della Lucania, e i Liguri, che pajono i più antichi abitatori,
nell’età detta della pietra.

Dell’istesso ramo Ario erano gli Umbri e Latini, quelli di dominio più
esteso, questi limitati al paese del basso Tevere.

Viene terza un’immigrazione greco-pelasgica dall’Arcadia, dalla
Tessaglia, dall’Epiro, per mare sbarcando nell’Italia propriamente
detta, ch’è la Calabria, denominata da Enotro e Peucezio, e alle foci
del Po, dove fondarono Spina.

Cozzi dei sopraggiunti coi già stanziati agitarono quell’età pelasgica,
in cui si venivano accostando e fondendo le varie genti; i Pelasgi
dilatarono l’uso dei metalli: costruirono le mura ciclopiche.

Ma quattordici secoli avanti Cristo cominciò l’immigrazione
pelasgo-tirenica dall’Asia Minore alle rive occidentali della penisola
centrale, e comparve il nome di Etruschi; i quali è incerto se fossero
ariani o semitici. Per chiarire questo dubbio e le altre congetture
adopransi argomenti filosofici e altri fisici, che non sempre
s’accordano: nè gli uni sono più decisivi degli altri. Gli antropologi
dissentono fra loro fondamentalmente, e intanto raccolgono cranj delle
varie genti, dalla loro conformazione volendo dedurne l’origine. Ma
venendo al popolo su cui è maggiore la curiosità, convengono che gli
Etruschi sono una mescolanza di gente più civile e men numerosa, cogli
Italioti più numerosi e incolti.

I filologi rifiutano l’origine celtica degli Umbri, ascrivendoli al
ramo ario-pelasgico, come i Siculi e i Liburni, affini cogli Japigi,
de’ quali resta qualche iscrizione non ancora decifrata, ma che accenna
all’Illiria.

Il padre, poi cardinale Tarquinj, fu l’ultimo a sostenere le origini
semitiche e s’appoggiò a nomi geografici, quali

  APINNIN         sommità, monti a catena.
  PISA            _Pissa_, abbondanza.
  PERUSIA         _Perosa_, villereccia.
  UDINE           _Odina_, amena.
  SORA            _Isor_, rupe.
  ISCHIA          _Ischina_, mio desiderio.
  VESUVIO         _Veth-ubim_, casa delle caligini.
  PENNA DI BILLI  _pinnath_, sommità di Amone, di Bito, Punta
                    di Ammone.
  ASCOLI          _Aschelon_ ne’ Filistei.
  ARIMINO         _Arimanon_ di là del Giordano.
  SIENA           _Senaa_ città della tribù di Benjamino.
  ROMA            _Ruma_ in Cananea, residenza di Abimelec.
  CARIDDI         _Chor obdam_, antro pericoloso.
  ZANCLE          _Zalga_, falce.

Ascoli ripudia affatto il concetto del Tarquinj e dello Stickel: e così
Giovanni Flechia, di cui è notevole la _Grammatica storica comparata
dei dialetti italiani_.

Che gli Etruschi siano semitici è negato dallo studio delle arti loro
non meno che dal linguaggio, sebbene pochissimo ancora conosciuto.
Dovettero essi venir dall’Asia Minore per mare, non già dalle Alpi;
dove trovansi bensì loro reliquie, ma che provano solo essersi anche
colà esteso l’impero degli Etruschi, i quali andavano fin sul Baltico
in cerca dell’ambra.

Le lingue dei tre popoli più antichi, Osci, Umbri, Etruschi, ben
distinte fra loro, vennero assorbite o distrutte dal latino, ma dai
pochi avanzi si accerta che nel linguaggio degli Osci o Sanniti non
è traccia di semitico, ed è affine al latino arcaico. L’umbro si
scosta dalle forme del Lazio, pure le sette tavole eugubine conducono
a riconoscerlo d’origine comune coll’osco-romano, esclusa ogni
derivazione nè semitica nè celtica.

Non così d’accordo si va per l’etrusco, pure nol si spiega con
nessuna lingua semitica nè celtica: e i monumenti numerosissimi ma
di pochissime parole e di nessuna importanza storica, malgrado le
abbreviazioni, le scorrezioni, le alterazioni fonetiche, l’assicurano
al ramo ariano.

Tali sono le induzioni ultime di Corssen, di Fabretti, di Conestabile.



CAPITOLO III.

Gli Etruschi.


La gente da cui i Pelasgi si trovarono incalzati, doveva esser quella
che da sè chiamavasi dei Raseni, dai Greci fu detta dei Tirseni o
Tirreni[44], e dai Romani degli Etruschi o Tuschi.

Chi erano essi?

[ORIGINE DEGLI ETRUSCHI]

Misteri succedono a misteri; e qui pure, invece di riposare sulla
dimostrazione, siamo ridotti ad ipotesi, desunte dal carattere
generale. Erodoto fa uscire gli Etruschi dalla Lidia, annestandone
l’origine alle vicende degli Eraclidi. Ellanico, padre della storia
greca, li vuole tutt’una cosa coi Pelasgi approdati a Spina. Dionigi
d’Alicarnasso ripudia entrambe le opinioni, propendendo a quelli che
li fanno indigeni d’Italia: ma la perdita dei libri ove espresso egli
trattava degli Etruschi, ci sottrasse gli argomenti ai quali esso
appoggiava. I moderni campeggiano coll’una e coll’altra credenza, niuno
con prove trionfanti, ma al solito mescolando erudizione e fantasia,
esame e passione, e non già mentendo il vero, ma dissimulando gli
argomenti in contrario. Però quante assurdità, mascherate d’invenzione,
si risparmierebbero se si sapesse che da tanto tempo furono e sostenute
e confutate!

Gli uni dicono:—Tant’è vero ch’erano Greci, che consultavano l’oracolo
di Delfo; usavano un ordine architettonico che è semplificazione del
dorico; fabbricavano vasi identici coi greci per la materia, pel
lavoro, pei soggetti, per le iscrizioni».—No (soggiungono altri),
erano indubbiamente Pelasgi; e lo provano i numeri simbolici, le
austere dottrine, l’essersi mantenuti in relazione con Mileto e Sibari,
città joniche ed achee, sorelle dei Pelasgi, mentre avversavano a
Siracusa e agli altri Dori». Sopraggiunge chi tenta conciliare le due
opinioni inventando i Pelasgi-Tirreni, detti così perchè Tirrenia fosse
chiamata l’Etruria dai Greci, e tirreniche le popolazioni in Grecia
più affini ad essi: tal nome deriverebbe da Tirra, città nella Lidia;
lo perchè Erodoto chiamò Lidj i Tirreni[45]. I Pelasgi-Tirreni si
discernerebbero dalle altre propagini pelasghe in quanto non abitavano
le coste, ma regioni interne, come la Tessaglia e l’Arcadia; non pirati
ma agricoli; ed affini sì, pur differenti di religione e di favella.

E inclinazione d’animi onesti e d’ingegni temperati il porre la ragione
fra due estremi; e già quel Greco vantava la potenza delle medie
proporzionali. Ma a questi asserti come chetarci se dappertutto gli
Elleni ci si rappresentano quali oppressi dei Tirreni? I confronti
della lingua, delle credenze, della civiltà non autorizzano a sì
precise conseguenze chi, come noi, ammetta una fratellanza di popoli,
anteriore alle nazionali separazioni. Su di che, noi proponemmo di
aggregare i Tirreni alla prima immigrazione che si conosca in Italia:
ridotti servili ne’ secoli che qui stettero i Pelasgi, si rialzarono
poi a nuovo dominio.

Ma i Tirreni erano poi tutt’una cosa cogli Etruschi? Certamente gli
Etruschi non usano linguaggio analogo al greco, come i Pelasgi;
hanno lucumonie, e federazioni, e religione di genj, e vaticinj, al
differente dei Tirreni-Pelasgi. Le tribù che abitavano attorno ad Adria
forse si strinsero cogli Oschi in una lega chiamata degli Atr-Oschi,
donde il nome d’Etruschi. Alcuno suppone che un popolo nuovo, detto
i Raseni, scendesse dalla Rezia sopra l’Italia, la conquistasse,
piantandosi fra le città pelasgiche dell’interno e della costa, e
fosse chiamato degli Etruschi, come furono detti Britanni gli Angli,
Messicani e Peruviani i creoli di Spagna, e Longobardi noi. Niuna
traccia per altro fra gli antichi di tale conquista rasena.

A negare che gli Etruschi fossero greci varrebbe, oltre il loro parlare
affatto distinto, il vedere che i Latini applicarono il nome di Pelasgi
ai Greci[46] ed anche agli schiavi; dal che noi inducemmo che gli
avanzi de’ Pelasgi rimanessero al nord soggiogati dagli Umbri-Galli,
come al sud gli Enotrj e i Peucezj da’ Pelasgi-Elleni, formando il
vulgo servile. Al tempo di Catone chiamavansi Etruria il paese, Tuschi
gli abitanti; e possiamo credere che quel nome vivesse nelle bocche,
donde, sotto gli ultimi imperatori, fu fatto il nome di Tuscia, non
prima scritto.

L’accertare l’origine degli Etruschi, e quanta parte di civiltà qui
recassero, riesce viepiù difficile perchè i sacerdoti, in cui mano
stavano gli annali, poterono alterarli a loro talento: poi micidiali
guerre li distrussero, ed i Romani affettarono disprezzarli, benchè
alle famiglie illustri fosse vanto il derivare da quel popolo[47].

[CITTÀ E COLONIE ETRUSCHE]

Per raccogliere il poco che possiamo, gli Etruschi, o entrati allora
in Italia, o ridestatisi dal servaggio, si trovarono incontro gli
Umbri, ai quali tolsero trecento città[48], confinandoli in una sola
provincia, che serbò il nome di Umbria, sebbene poi li ricevessero
in alleanza e in comunione di sacrifizj[49]; si distesero nelle
campagne che or sono il Bolognese, il Ferrarese e il Polesine, e nelle
pianure fra l’Alpi e l’Appennino. Il Po difese da loro i Veneti, gente
illirica: i Liguri ricovrarono fra i monti, cedendo il pian paese e il
golfo della Spezia, dove essi Etruschi fondarono Luni, possedendo così
tutta la costa.

Dappertutto gli Etruschi collocarono colonie; fondarono sul Po una
nuova Etruria che, come l’interiore, contava dodici città, fra cui
Adria sul mare allo sbocco del Po e dell’Adige, Fèlsina, Melpo
(Melzo?), Mantova, così detta forse da Mantus, loro Bacco infernale,
e divenuta poi capo della confederazione circumpadana. Nel Piceno
fabbricarono Capra montana e Capra marittima, e l’Adria picena.
Piombali sui Casci, prischi abitatori del Lazio, stabilirono per
confine l’Albula, assoggettarono le terre dei Volsci, passarono il
Liri, e nella felice Campania piantarono altre dodici colonie, tra
cui Nola, Ercolano, Pompej, Marcina, e prima fra tutte Vulturnio: pure
sembra che il grosso della popolazione osca vi rimanesse in qualche
luogo, in altri i Sanniti rivalessero alla loro conquista.

Centro di questo dominio era l’Etruria propria fra l’Arno e il Tevere,
dove fabbricarono altre città, cinte con solide mura di pietroni, o si
valsero di quelle già fortificate dai Pelasgi. Primeggiavano tra esse
Clusio, Volterra, Cortona, Arezzo, Perugia, Volsinia, Vetulonia, Cere,
Tarquinia, Vejo[50], oltre una schiera di terre lungo il mare, e nel
paese or infamato dalla mal’aria. Rimpetto all’Elba, Populonia occupava
la cima occidentale del promontorio di Piombino. Rusella in forte
postura sovra uno sprone del monte, dominava la maremma grossetana.
Vejo circuiva sette miglia, s’un dirupo a dodici miglia da Roma, ricca
di territorio ubertoso in poggio e in piano sulla destra del Tevere,
abbracciando fin i colli del Gianicolo e del Vaticano. Tarquinia
consideravasi come cuna del popolo etrusco, e fondata da Tarconte,
l’eroe divino in cui di questo sono personificate le imprese, e da cui
diceansi pure fondate Pisa e Mantova. Cere, che i Pelasgi nominavano
Agilla, fu loro metropoli religiosa, e teneva a Delfo l’erario comune,
indizio, se non di derivazione, almeno di parentela ellenica. Nelle
tradizioni di questa ricordavasi un tiranno crudelissimo, Masenzio,
simbolo dell’oppressione etrusca sopra que’ paesi; e forse a lor
dominio stettero anche i Volsci e i Rutuli: Tusculo ne conserva il
nome; anzi sin il monte Celio, uno dei sette di Roma, la qual Roma
forse non era che la fortezza più meridionale della confederazione
etrusca.

Parve un momento che gli Etruschi potessero congiungere tutta Italia:
ma sconfitti da Gerone di Siracusa, si trovarono costretti a limitare
all’Etruria il loro imperio, rinserrato più sempre dalla riazione di
Liguri, Galli, Sanniti, infine distrutto dai Romani.

E scarsissime memorie ci rimasero della stupenda loro civiltà, in
parte greca od asiatica, in parte originale, non senza influssi
dell’aborigena e della pelasga. Chi però dall’estensione di quella
volesse indurre una grande antichità degli Etruschi, mostrerebbe
dimenticare come la civiltà, in quante storie conosciamo, appaja sempre
dativa, cioè o importata di fuori o rivelata dal cielo: nè diversamente
va il caso per gli Etruschi.

[RELIGIONE DEGLI ETRUSCHI]

È insito nei popoli il bisogno di sapere donde venissero, come
cominciasse il mondo. Dio l’avea rivelato da principio, ma la
parola sua andò confondendosi tra le genti per modo, che dalla
mala interpretazione di essa derivarono le tante false religioni e
capricciose cosmogonie. Spesso però una classe più dotta o più morale
conservava maggior tesoro di quelle verità, e le comunicava a pochi,
iniziati nelle allusive cerimonie de’ misteri; mentre al vulgo, più
disposto a credere e adorare che capace di comprendere e sapere,
le presentava sotto forme simboliche o materiali, che lo tenevano
nell’errore e sotto la dipendenza d’essi sacerdoti. Di qui tante
varietà di culti, impiantate sopra la concordanza de’ principali dogmi,
e la significazione di riti che a prima vista sembrano null’altro che
assurdi. Nè per questo noi ci abbandoniamo, come tanti, ad ammirare
quelle religioni; perocchè se tu vai in fondo di qual sia di esse,
côgli sempre il culto della natura, vuoi nel complesso, vuoi nelle
parti, non separando l’idea della divinità da quella della natura,
confondendo la rappresentazione colla cosa rappresentata, il dogma
coll’immagine che lo esprime. Insomma l’idea di Dio non era perita,
bensì quella che la materia fosse stata chiamata dal nulla per
volontà libera di lui; onde essa materia consideravasi come qualcosa
d’indipendente, vedendo nel mondo due termini, e perciò tutte le cose
esser Dei, e adorando ora l’uomo, ora gli astri, ora le forze della
natura. Ne veniva di conseguenza il credere, sebben solo più tardi
siasi professato, che il tutto è Dio, con quel panteismo che è la fede
meno alta a svolgere il vero sentimento religioso. Forse i sacerdoti vi
ravvisavano qualcosa di meglio; ma il popolo rimaneva in un grossolano
feticismo, che gli presentava ignobili oggetti, idee oscene. I Greci
seppero dal simbolo passare al mito; ma ancora il culto arrestavasi
sull’uomo, per quanto bello, elegante, affettuoso.

[RELIGIONE DEGLI ETRUSCHI]

Gli Etruschi da un lato ci sono dati come immuni dalle greche
favole[51]; dall’altro come padri delle superstizioni. Mentre un
villano apriva il solco, balzò fuori Tagete, fanciullo di forme,
vecchio di senno, il quale _cantò_ una dottrina, fondamento alla
scienza degli aruspici; e di lui e di Bacchede suo condiscepolo
sono operai libri rituali, principalmente in ciò che concerne
l’estispicio[52]. Questo mito, dal quale comincia la vita stabile
degli Etruschi, indica però già un popolo industrioso e costituito e
sacerdotale. Sebbene non formasse una vera Casta, pure l’aristocrazia
sacerdotale predominava, escludendo i forestieri, e fondando la propria
potenza sul diritto divino e sugli auspizj. Ereditario nelle famiglie,
il sacerdozio era distribuito in una gerarchia, dai camilli o novizj
fin al sommo sacerdote, che veniva eletto dai voti di tutti i dodici
popoli. Auspice della guerra e della pace era il collegio sacerdotale;
per riti si sceglievano i magistrati, per riti si fondavano le città e
gli accampamenti, si distribuiva il popolo in curie e centurie; sacri
erano i confini, sacra l’agricoltura; dalla divinazione deducevansi
la proprietà, il diritto pubblico ed il privato, giacchè Dio medesimo
aveva ordinato,—Spartite i terreni, vivete all’amichevole, venerate
i termini, non aggravate le taglie; se no, malori, pesti, fulmini,
procelle».

Tra’ principali studj de’ sacerdoti era il contemplare il volo degli
uccelli e i fulmini. Gli uccelli distinguevansi in _lieti_ annunziatori
di salute e felicità, e _tristi_ che presagivano il contrario. Ciascuna
classe poi suddivideasi in altre molte: _volsgræ_, che si straziavano
un l’altro col becco e cogli artigli; _remores_, la cui apparizione
ritardava un’impresa; _inhibæ_, _inebræ_, _enebræ_, che l’arrestavano;
_arculvæ_, _arcivæ_ o _arcinæ_, che la stornavano. Non si conviene sul
senso degli _oscines_ e _præpeles_: ma sembra i primi fossero quelli
la cui voce dava un presagio qualunque, tristo o propizio; gli altri,
il cui volo era fausto segno, massime qualora si dirigessero difilato
all’osservatore. Se dopo quest’augello ne compariva un altro d’augurio
sinistro (_altera avis_), restava eliso l’augurio precedente. Noto è
quanto tale scienza operasse nella nomina de’ magistrali, e in tutti
gli affari pubblici anche in Roma: il volo di una civetta sospendeva
sovente le assemblee del popolo, annunziando essa morte o fuoco;
l’aquila era felicissimo augurio fra gli Etruschi come fra’ Romani[53].

Diceasi che i sacerdoti etruschi sapessero attrarre (_elicere_) i
fulmini, e s’accorsero che questi producevano mutamento di colori,
e che alcuni piombavano dal cielo, altri sorgevano di terra[54].
Ritualmente distinguevano i fulmini in _fumida_, _sicca_, _clara_,
_peremptalia_, _affectata_.....: i _pubblici_ riguardavano a tutto lo
Stato, e davano augurj per trent’anni; i _privati_, a un individuo,
valendo per dieci anni al più; i _famigliari_, ad una casa sola, e
riferivansi a tutta la vita. Sacro restava il luogo ove cadessero.

Forse si accorderanno queste disparità ove si faccia distinzione
fra la dottrina arcana e la vulgata. Se credessimo al Passeri[55],
l’arcana ammetteva un Dio solo, una rivelazione, l’uomo formato di
fango, decaduto da migliore stato; i buoni dopo morte si trasformano
in Dei; i peccati leggieri si espiano in questa o nell’altra vita; ai
gravi, eterne pene. Troppo è facile applicare ad altri tempi e popoli i
concetti e i sentimenti nostri.

Nei pochi documenti sopravanzatici troviamo la religione degli Etruschi
grave e melanconica, come di gente a cui era prefinito il numero
di secoli che essa e il mondo durerebbero. Dio creò l’universo in
seimila anni: nel primo millesimo il cielo e la terra; nel secondo
il firmamento; nel terzo le acque; nel quarto il sole e la luna; nel
quinto le anime degli uccelli, dei rettili, degli altri esseri che
vivono nell’aria, sulla terra e nell’acqua; nel sesto l’uomo, il cui
lignaggio durerà quanto durò la creazione[56], cioè cinque millennj.

[DIVINITÀ]

Nella religione vulgata, supreme divinità erano Tina o Giove, Cupra
o Giunone, e Menerva, a ciascuna delle quali consacravasi un tempio
in ogni città federata, dove tre porte alludevano pure a questa
trinità[57]. Il genio Gioviale, padre del miracoloso Tagete, indicato
come quarta divinità penate, riguardavasi per figlio di Giove e fattore
degli uomini. Trasportando anche nel cielo il sistema rappresentativo
che usavano in terra, da dodici Dei Consenti, sei maschi e sei femmine,
facevano assistere Tina, anima del mondo, e vivente nel mondo, padre
delle anime; eppure anch’egli sottoposto al Destino, agli Dei Involuti,
che erano veramente la causa suprema: alla quale divinità appartiene
Norzia, dea del tempo. Sta accanto a Tina, e talvolta con esso
s’identifica Giano, fratello di Camasene donna e pesce; il quale tiene
le chiavi da aprir l’anno e le porte della città, e col doppio volto
guarda l’oriente e l’occidente. Fichi con foglie di lauro in onor suo
si davano a strenna del capodanno, reliquie dell’agreste suo culto.

Forse erano variate rappresentazioni del nume stesso quelle che
prendiamo per divinità distinte. Così Tina ora compare come il Zeus
olimpico, ora coll’edera di Bacco, ora col lauro d’Apollo, ora coi
raggi del Sorano sabino; egli Termine per difendere i confini, egli
Quirino per la guerra, egli dio sotterraneo. Giunone somiglia in
qualche caso a Venere, ed ora è Populonia come dea del popolo; or
Libera come moglie di Liber, Giove bacchico; or corrisponde a Cerere,
più tardi conosciuta in Etruria. Menerva soprantende al destino,
identica con Norzia e Valenzia, e con Illitia; talora con Pale.

Ogni dio, ogni uomo, ogni casa, ogni città aveva il proprio genio
custode, sostanze intermedie fra l’uomo e la divinità. Due assistono
a ciascun uomo, ispirandolo uno al bene, l’altro al male. Perocchè la
sopraddetta dualità della creazione, e l’aspetto de’ disordini del
mondo introdussero ben presto la credenza di un doppio principio,
uno avverso all’altro; e il Vejovis era l’iddio autore del male, e
turbatore dell’ordine dell’universo. La casa, con tutte le dolcezze
che l’accompagnano, è custodita dal Lare, la cui immagine si conserva
nell’atrio (_larario_), e cui altare era il focolajo domestico, mentre
i Penati, genj della divinità, vi versano abbondanza e consolazioni,
assicurano il triplice bene di una patria, una famiglia, un possesso.
I Penati erano o pubblici o domestici: ai primi presedevano Tina e
Vesta, e adoravansi ne’ tempj; gli altri otteneano culto nella casa,
ed erano stati uomini[58]. Un’anima uscendo dal corpo, diventa Lemure
o Mane[59]: se adotta la posterità della sua famiglia, chiamasi il
_lare domestico_; se per le iniquità è agitata, v’appare come _larva_,
spaventevole ai malvagi[60]. Perciò gli avi sepellivansi nelle case: ad
or ad ora i Mani tornavano a visitare i loro parenti, poi a determinate
solennità uscivano tutti dai funerei loro asili; onde se ne celebrava
la commemorazione.

Dai forestieri e dagli aborigeni gli Etruschi accettarono poi un
ciclo più esteso di numi e di genj; anzi, o dalle tradizioni antiche
pelasgiche o da quelle delle colonie trassero le tante idee elleniche,
espresse nelle loro pitture. Ma chiare nozioni come formarcene, se i
loro dogmi rimasero un arcano de’ sacerdoti, unici depositarj della
scienza e del sacro linguaggio allegorico? Tagete aveva insegnato che
il cielo è un tempio[61], ove gli Dei siedono a settentrione guardando
a mezzodì e avendo a sinistra l’oriente, parte benefica, a destra
l’occidente, parte infausta dove la luce si spegne. Diceasi _cardine_
la linea di tal guardatura, intersecata ad angolo retto da un’altra
detta _decumana_; e l’intersezione costituiva il tempio.

Fra gli Etruschi, come in Oriente, i riti sono necessarj a legittimare
ogni atto pubblico e privato; gli uomini vengono governati per
interpretazioni di sogni, di fenomeni, di astri: pure il sacerdozio non
costituisce una pura teocrazia, come colà, giacchè il patriziato inizia
la cittadina attività, e prelude all’indipendenza de’ politici diritti.
La nobiltà, cioè la gente conquistatrice, era composta di signori
(_lucumoni_), che dai castellari sulle alture tenevano in soggezione i
pianigiani. In ciascuna città un lucumone rendeva giustizia ogni nono
giorno, e rappresentava gli altri nelle assemblee generali, tenute
a Volsinia o a Vetulonia. Uno fra i lucumoni era, nelle adunanze di
primavera, sortito capo della federazione[62], avendo per insegne la
porpora, la veste dipinta, corona d’oro, scettro coll’aquila, scuri,
fasci, sedia curule[63], e dodici littori, somministrati uno da
ciascuna città.

Quelle idee religiose, per le quali gli uomini e gli Dei restavano
compresi in uno Stato o diremmo in una Chiesa sola, e in un patto che
li metteva in corrispondenza, doveano produrre concetti d’ordine: e
appunto per la forza dell’ordine l’austera nobiltà signoreggiò sempre
nell’interno, e lungamente sopra i vicini popoli. Mancava però del
vigore che nasce dalla unità; e gare di lucumoni e di città, gelosia
degli ordini inferiori, odio di parti e di razza laceravano il paese,
e impedirono di collegare tutti i popoli italiani, come avevano già
tentato e Sanniti e Pelasgi, e come solo potè far Roma, aggiogandoseli
tutti colla forza non più che coi mirabili ordinamenti civili.

Delle schiatte principali erano clienti le inferiori, che rimanevano
plebe, divisa in tribù, curie e centurie, esclusa dagli eserciti, i
quali perciò riduceansi a cavalleria.

[LUCUMONI. PLEBE]

Lucumone, nobili, plebei formavano dunque lo Stato. Nell’interno
diversamente ordinate erano le dodici città, ma tutte insieme
eleggevano un pontefice supremo per le feste nazionali. Il territorio
di ciascuna ne comprendeva molt’altre, provinciali, colonie e suddite,
abitate dalla stirpe soggiogata di Aborigeni e Pelasgi, sempre esclusa
dai diritti che la plebe romana conquistò, e senza assemblee, giacchè
ogni cosa decidevasi in quelle dei lucumoni. Fazioni sorgeano, ma
tra le famiglie dominatrici in senso oligarchico, senza che mai si
costituisse il popolo, la comunità. Solo più tardi Volsinia, assalita
dai Romani, resistette col dar le armi alla classe inferiore ed ai
braccianti, i quali in compenso ottennero la cittadinanza, e diritto di
testare, d’imparentarsi coi dominanti, di sedere in senato. Se siffatta
rivoluzione (dipinta come atrocissima dall’invidia dei nobili) fosse
stata imitata da tutte le città, sarebbesi in quelle formato il Comune
plebeo, e quindi la forza; quale di fatto apparve allorchè gli Etruschi
si sollevarono al tempo di Silla, dopo che il dominio forestiero aveva
tolte di mezzo le prische distinzioni.

L’originalità negli Etruschi non tardò a venir alterata da mescolanza
forestiera; e singolarmente uno sciame greco, probabilmente venuto
dall’Asia Minore, v’introdusse foggie e consuetudini, le quali riesce
difficile sceverare dalle indigene. Crebbe allora il lusso; nei
festini, dove anche le donne erano ammesse, sfoggiavasi suntuosità di
vesti e squisitezza di vivande[64]; e se le turpitudini onde Teopompo
fa aggravio ai Toscani, accomunamento delle donne, ostentati amori
maschili, sentono l’eccesso d’una satira, pure trovano appoggio nelle
oscene loro dipinture.

[CITTÀ. COMMERCIO]

Gli Etruschi si estesero, per via di colonie, come si è veduto; e
diversi dai soliti conquistatori, invece di distruggere edificavano
città. Simili in ciò ai Pelasgi, vi faceano predominare idee e numeri
simbolici; dodici città nell’Etruria, dodici sul Po, dodici al
mezzodì[65], di pianta quadrata, orientate come prescriveva l’augure,
e le più abbracciavano due colli, del più alto de’ quali stava a
cavaliere la rôcca. Molti porti aprivano al commercio, e principale
Luni nel golfo della Spezia; e anche i primarj cittadini pare
applicassero al traffico, pel quale l’Etruria serviva d’intermedio
fra il mare e la restante Italia. Antichissima dev’essere la loro
padronanza sul mare, che da loro ebbe nome di Tirreno e d’Adriatico;
navi tirrene mercatavano nell’Jonio a gara coi Fenicj[66]; Agilla porse
sessanta galee per combattere i Focesi nelle acque di Sardegna; anzi
gli Etruschi, in un catalogo antico che manca di data e d’autenticità,
sono fin chiamati signori del mare[67]. Dai molti scarabei ed altri
lavori egiziani, dalle gemme d’Oriente, dall’ambra del Settentrione,
che si estraggono dai loro sepolcri, ci sono indicate relazioni di
commercio co’ paesi del Nilo, colla Cirenaica, col Baltico. Dallo
stretto di Gibilterra certamente tentaron sbucare, e piantar colonie in
un’isola ignota, ma furono impediti dalla gelosia dei Cartaginesi, Al
par di tutti i popoli antichi, abusarono della potenza marittima per
corseggiare; e i pirati tirreni vennero in sì tremenda reputazione,
che Rodi come gran vanto conservava ne’ suoi tempj i rostri tolti
alle loro navi. Gerone, mosso per isbrattar da loro i mari, li ruppe,
e la sconfitta dovette ben essere piena se, poco stante, quando i
Siracusani trassero a conquistare l’isola d’Elba, veruna flotta tirrena
non protesse la Corsica, nè si sviarono i nemici che coll’oro; e così
quando Dionigi minacciò il littorale di Cere. Pure, allorchè già era
in decadenza, l’Etruria passava per la più ricca, forte e popolosa
provincia d’Italia[68].

Il nome di Tirreni accenna ad industria, o deducasi dalle torri, o da
_tiremh_ coltivatore. All’agricoltura soprantendeva un collegio di
sacerdoti arvali; coll’aratro si descriveva il circuito delle nuove
città, quasi a indicare quell’arte come legame de’ civili consorzj;
conquistarono il patrio terreno dalle acque del Clani e dell’Arno,
elevandolo per via delle colmate. Munivano acquedotti meravigliosi,
come quello traverso la Gonfolina per asciugare il lago che fra Signia
e Prato ondeggiava dove ora sorge Firenze; un altro presso l’Incisa
per sanare il Valdarno superiore; interrirono la Chiana; altrove ai
laghi stagnanti ne’ bacini e negli estinti crateri aprirono sfoghi
sotterranei, somiglianti ai moderni pozzi trivellati. Non però
riuscirono a migliorare l’aria della maremma, ove, allora come adesso,
diceasi che si arricchisce in un anno e si muore in sei mesi. Gli
sbocchi del Po e dell’Arno erano regolati da scaricatori e imboccature;
anzi aveano ideato ridurre in canale tutto il Po, opera che l’Italia
libera compirà.

[ARTI E SCIENZE ETRUSCHE]

Versati nell’astronomia, gli Etruschi misurarono assennatamente il
tempo. Cominciavano il giorno dal mezzodì, a differenza di quel
sistema che fu detto alla italiana, ove cominciasi dalla sera. Invece
della settimana, usavano l’ottava; e ogni nono giorno era d’affari,
d’udienza, di giustizia, di mercati (_nonæ, nundinæ_). Trentotto ottave
formavano l’anno, di trecenquattro giorni, in dieci mesi: centodieci
di tali anni costituivano un ciclo, che potremmo chiamare secolo,
diviso in ventidue lustri; e perchè corrispondessero cogli anni solari,
all’undecimo ed al ventiduesimo lustro intercalavasi un mese di tre
ottave, sicchè al fine del secolo compivansi giorni quarantamila
e censettantasette; laonde l’anno tropico riuscirebbe di giorni
trecensessantacinque, cinque ore, quaranta minuti, ventidue secondi;
più esatto che non il giuliano, giacchè non differisce dal vero che di
otto minuti e ventitre secondi[69].

Anche nella medecina ebbero fama[70]. Vi si trovano idee sul fuoco
centrale, analoghe a quelle che insegnava testè Fourier. Della
loro abilità chimica darebbe buon segno Plinio, dicendo che, dopo
preparate le stoffe con riagenti, potevano, tuffandole in una sola
tinta, improntarle a colori e figure differenti. Studiarono sui
numeri, e probabilmente sono etrusche le cifre che noi chiamiamo
romane. Stromenti musicali inventarono, fra cui le tibie tirrene e il
corno ritorto; e a suon di flauti facevano il pane e battevano gli
schiavi[71]. A loro fanno onore dei mulini a mano, degli sproni alle
navi, della stadera detta campana. I Romani desunsero da essi la bolla
d’oro, segno di nobiltà, i fasci consolari colla scure, lo scettro
sormontato dall’aquila, la porpora del capo dello Stato, i littori, la
pretesta giovanile, la toga virile, la sedia curule, la clamide de’
trionfanti, gli anelli de’ cavalieri, i calzari senatorj e guerreschi,
le corone trionfali, le falci da potare, i giuochi scenici ed i
circensi, le cerimonie de’ Feciali. Se vi aggiungete la divisione in
tribù, curie, centurie, gli auguri, i pretori, gli edili, un fôro pe’
comizj, le dissensioni fra nobili e plebei, l’Etruria vi parrà una Roma
anticipata; nè vi saprà strano che alcuno considerasse i Romani come
una colonia etrusca, prevalsa poi alla madre patria.

[LETTERATURA ETRUSCA]

L’alfabeto etrusco deriva dalla fonte comune degli europei e dal
fenicio, e scrivesi da dritta a sinistra. Veneravano le Camene,
ispiratrici de’ canti in lode de’ grand’uomini. Nè di letteratura
furono sprovvisti[72]: Varrone sembra indicare un Volumnio tosco,
autore di tragedie; a’ commedianti in latino fu dato il nome di
_histriones_, dall’etrusca parola _ister_; d’Etruria vennero a Roma
letterati insigni; i patrizj romani mandavano colà i loro figliuoli da
educare; e fin ai tempi d’Alarico si spediva a consultare quegli auguri
per la salvezza della patria.

Potea però ottenersi incremento grandioso del sapere o slancio di
poesia là dove lo studio era ristretto nel sistema sacerdotale e
nell’interpretazione de’ segni celesti? Fatto è che nulla ce n’è
rimasto, e la lingua medesima ci è arcana. Lami, Lanzi, Passeri,
Spanemio, Gori, Bourget vollero trar questa dal greco, Bardetti e
Scricchio dal settentrione, unendola insomma al gruppo indo-germanico;
mentre Reinesio ed altri l’attaccavano al fenicio, e Merula all’arabo,
cioè al ceppo semitico. In fatto Lud da Mosè è posto tra i figli di
Sem[73], lo che indicherebbe semitici i Lidj, che sin ai tempi di Ciro
trovansi in relazione coi Babilonesi: e chi crede gli Etruschi colonia
lidia, crederà parlassero semitico. I pochi elementi che ne conosciamo
ostano a tale supposizione: ma ad ogni modo, per fiancheggiare le varie
opinioni si contorsero ed alterarono talmente le loro iscrizioni, che
meno se ne richiederebbe a dimostrare che la lingua del Madagascar è
figliata dal latino.

Ci si domanda forse perchè le città italiane non diedero uno storico,
un poeta, un filosofo, mentre tanti ne rammentano le colonie greche?
come mai, con tanto commercio, non batterono monete, sicchè solo
trecento anni prima di Cristo ne troviamo d’argento a Populonia, di
rame a Volterra? perchè non un legislatore, un eroe, che sopravvivesse
al tempo? La risposta noi crediamo stia nella nostra ignoranza. Da
jeri ci ponemmo a cercare le antichità nostrali, e v’ha paesi in
Italia men conosciuti che non l’Egitto e l’India. Cinquanta anni fa
non sarebbe potuto dirsi che gli Etruschi mai non ebbero vasi, perchè
gli autori latini non ne fanno quasi cenno? Ma Varrone assevera che
gli annali etruschi risalivano all’origine delle singole città; dalla
fondazione di ciascuna principiava un’età, la quale terminava colla
morte dell’ultimo fra quanti erano nati in quel giorno stesso; allora
cominciava l’età seconda, che si chiudeva alla morte dell’ultimo fra
coloro che viveano al principiare, e così via: lo che prova ch’essi
tenevano registro dei nati e morti[74]. Ma i Greci, come i Francesi
moderni, non parlavano che di sè: i Romani, sprezzatori di ciò
che trovavano fra i conquistati, sì poco dissero dell’Etruria, che
non fanno quasi menzione delle stupende rarità di essa, le mura, i
sepolcreti, i vasi.

[COSTRUZIONI ETRUSCHE]

È disputato se ai Pelasgi o agli Etruschi siano dovute le mura di
Cortona, di Rusella, di Fiesole, di Populonia, d’Aurinia, di Signia, di
Cosa, fatte con grandi poligoni di travertino, commessi senza cemento.
Etrusco vuolsi il tabulario del Campidoglio, e così il muro di Tivoli,
che non appare pelasgico, com’è invece un jerone colà presso, e tre
altri nella valle di Cerceto a Ferentino. I lavori de’ Ciclopi e de’
Pelasgi che poco sopra contemplammo, di sassi scabri o appena slabrati,
appartengono a quel primo periodo, ove l’uomo non provvede con essi
che alla necessità, nè ancora si eleva a quei concetti che mutano la
pratica manuale in arte bella. La religione è la fonte, e il culto è
la forma più universale di questa ideale bellezza, rivelazione della
presenza divina in un oggetto visibile; ond’è che le belle arti, con un
fondo comune di sentimenti, variano secondo il carattere d’una nazione,
e secondo il culto tributato agli enti sovrannaturali e alle tombe.

E impronta originale ebbero le arti nell’Etruria. Non cerchiamo
blandimenti alla vanità col pretendere che fra noi nascessero esse,
e da noi le imparassero i Greci, ai quali era serbato recarle alla
perfezione: ma che qui siano antichissime, molti riscontri storici
il provano. Romolo rubò in Etruria un carro di bronzo; Plinio cita
pitture di Ardea, anteriori alla fondazione di Roma; Bolsena in fenicio
esprimerebbe città degli artisti, e da questa i Romani predarono
duemila statue, probabilmente di terra cotta; la fiorente Adria fu
distrutta dai Galli quando passarono le Alpi ne’ primi secoli di Roma,
onde anteriori devono tenersi le tante opere e i bellissimi vasi che
n’escono tuttodì. Agli Etruschi spetta il merito delle opere più
antiche di Roma, quali la mura esterna del Campidoglio, l’arginatura
del Tevere, e la cloaca massima, la cui volta interiore è chiusa da una
seconda, e questa da una terza, fatte di massi di peperino a cuneo,
combacianti senza cemento, in modo da non essersi sconnesse pel lasso
di tanti secoli. Serviva essa a dare scolo alle acque stagnanti fra
il Capitolino e il Palatino, traversava il fôro romano e il boario,
e il Velàbro, e gettavasi nel Tevere poco sotto del ponte Palatino,
con tale ampiezza che vi si poteva scendere in barca, avendo quattro
metri e mezzo di larghezza e più di dieci d’altezza; e a prevenire
i rigurgiti del fiume, v’entrava ad angolo acuissimo. Nel 1742 si
scoprì un altro acquedotto non meno meraviglioso, tredici metri
sotto al suolo presente, di travertino, e perciò più recente e forse
posteriore alle guerre puniche: tremuoti, sovrapposti edifizj, quindici
secoli di abbandono non ne spostarono pietra. L’emissario del lago
Albano, alto metri 2.27, largo 1.62, è tagliato nel tufo vulcanico
per duemila trecentrentasette metri di lunghezza, e allo sbocco la
volta è regolarmente costrutta di pietre a cuneo. A Volterra, mentre
il naturalista studia le copiose saline, gli alabastri, le miniere
del rame, i lagoni dell’acido borico, l’antiquario ammira infiniti
cimelj raccolti nel museo civico, e le gigantesche mura, e la Porta
all’arco sotto alla cattedrale, colla volta perfettamente circolare di
diciannove grandi pietre squadrate, e colla serraglia grossolanamente
effigiata: oltre una cisterna a triplice volta. Più riccamente finite
sono due altre porte a Perugia; e par veramente merito degli Etruschi
l’aver indovinato l’importanza dell’arco, che poi i Romani doveano
usare alla bellezza monumentale: mentre vuolsi che solo al fine del v
secolo Democrito insegnasse ai Greci il fabbricare a volta con pietre
cuneiformi. Etrusco è pure l’anfiteatro di Sutri, scarpellato nella
rupe e del giro di mille passi; e così il teatro di Adria, e fors’anche
l’anfiteatro di Verona. Da Cere a Vejo sussiste tuttora la strada
selciata.

L’ordine toscano tiene del dorico, con importanti modificazioni;
ma non sappiamo se fosse veramente proprio degli Etruschi, giacchè
verun monumento ce ne avanza. Secondo Vitruvio, i loro tempj erano
quadrilunghi, nella proporzione di cinque a sei: il santuario avea tre
celle, di cui la media più vasta: nel pronao erano distribuite colonne
molto distanti, e di sette diametri con base e capitello; e al disopra
la trabeazione di legno ornata di mensole, e con una cimasa sporgente:
costruzioni che Vitruvio qualifica di pesanti, goffe e nane. Le case
disponevano in tutt’altra foggia da’ Greci, in modo che la principale
camera stesse in mezzo, verso la quale piovevano le acque dal tetto
circostante (_impluvium_).

[SEPOLCRI]

Varrone descrive il sepolcro di Porsena presso Clusio, che, se vogliam
tirarne qualche concetto dalle particolarità certamente fantastiche,
era una costruzione di settantacinque metri in quadro e alta sedici,
con anditi intricati a somiglianza del labirinto di Creta, di pietre
a squadra, sormontato da cinque piramidi, larghe novantacinque metri
ed alte il doppio, e congiunte in cima da un cerchio di bronzo ed un
cappello, donde pendeano campane: su questo poi Plinio diceva erette
quattro altre piramidi, e un nuovo piano con sovrappostene altre
cinque; idealità ineffettibile[75]. Bensì cinque obelischi si ergono
presso Albano su quel che il vulgo intitola sepolcro degli Orazj e
Curiazj.

E i sepolcri sono gli edifizj di cui maggior numero si è salvato in
Etruria. Sempre sotterranei, o cavati ne’ fianchi d’un monte o a piè
d’un masso trasformato in monumento: ove il terreno non si prestasse
all’escavazione, si costruivano di muro, ma sempre coperti, quasi per
celarli ad ogni occhio; sicchè bisogna fra macìe di sassi e spinose
marruche cercare que’ tesori, a differenza dei Romani che gli esponeano
lungo le strade.

Già sullo scorcio del 1600 si era penetrato nella necropoli di
Tarquinia, scavata nel tufo in mezzo ad una pianura presso Corneto,
dodici miglia da Civitavecchia e tre dal mare: poi dalle tombe
di Perugia, fra molti etruschi monumenti, si erano tratte urne,
specchi, pietre incise, scarabei, vasi dipinti, figurine di bronzo
graziosissime. Un altro sepolcro alla torre di San Manno colà presso, e
l’unico a fior di terra, diede la regina delle iscrizioni etrusche.

Questa ed altre scoperte aveano fatte i due secoli precedenti, non
tenendo memoria del modo ond’erano disposte le tombe, nè levandone i
disegni. Ma dopo il 1824 con ben altra diligenza s’indagarono quelle di
Tarquinia, e lord Kinnaird ne trasse di bei vasi e preziose anticaglie;
poi nel 28, sulle rive della Fiora ripastinando alcuni cucuzzoli
di terra che in paese chiamano cucumelle, si scoperse una camera
sepolcrale, dietro la quale altre, donde Luciano Buonaparte principe
di Canino cavò ben tremila vasi, di beltà e grandezza singolari, e
lavori di bronzo, oro, avorio (venduti poi al Museo Britannico), che
gli fecero conghietturare fosse colà situata Vetulonia, capo della
federazione etrusca.

Questi sepolcri, che stendonsi per molte miglia, parrebbero destinati
ciascuno ad una famiglia. Il tumulo, ossia il mucchio di terra, n’è
la forma originaria, talvolta alla base circondato di pietroni, che
talaltra ascendono gradinati a formare un cono, ma non mai a foggia
di piramide. Se dall’apertura a imbuto tu scendi per tacche fatte
nella parete, ti trovi in camere traenti luce sol dall’entrata,
con volte quali a botte come le nostre, quali a lacunari, quali a
spinapesce, sorrette da pilastri quadrati di tufo, con membrature di
semplice e robusto profilo; e dipinti su ogni cosa combattimenti, o
rappresentazioni dello stato postumo delle anime, come i lari col
vigile cane, demoni alati che tirano in cocchio il defunto, o con
martelli percuotono una figura virile, ignuda e prostesa. Altre camere
sono a loculi come i colombarj di Roma, in cui collocare l’urnetta
delle ceneri vulgari; nè di rado sviluppansi in sembianza di labirinti.

Preso a scandagliare il suolo, tesori si rinvennero dappertutto. Le
cucumelle presso Vulci sono camere circolari entro il tufo, sopra cui
colline di cotto: la più insigne gira non meno di settanta metri, e
nel mezzo una torre quadrilatera, forse un tempo circondata da quattro
altre a cono, di cui una sola or è in piedi. Toscanella e Bomarzo
nella val della Matra n’hanno di scavate nelle roccie perpendicolari,
alcune colla porta a fregi; presso Cortona son coniche, a modo de’
nuraghi; e di muro una che intitolano la grotta di Pitagora. Degli
ipogei di Agilla, uno vastissimo è preceduto da vestibolo, come i
tempj moderni. Cere, che ora è Cervetri, sulla destra della via romana
per Civitavecchia, rivelò la sua necropoli a lacunari, e con lunghi
corridoj e porte archeggiate o piramidali, e panchine, tutto ricavato
nel nenfro, tufo vulcanico.

Un sepolcro trovato nel 1836 con volta acuta, che vorrebbesi dell’età
pelasga e certamente anteriore alla influenza greca, constava di
due lunghe celle, comunicanti per una porta, chiusa fin a mezzo da
un parapetto, sul quale posavano due vasi di bronzo; due d’argento
pendeano dalla sommità d’essa porta. Appo l’entrata stava un caldano
di bronzo su tripode di ferro, poi una specie di candelabro da
profumi, adorno d’animali simbolici; là vicino un caldano minore; in
faccia rottami d’un carro a quattro ruote; e sulla dritta un letto
di bronzo, formato di lamine in croce: letto e carro fabbricati per
vivi, e qui conversi ad uso funereo. Ai due capi del letto sorgevano
due altarini di ferro: in faccia si vedevano sospesi otto scudi di
bronzo sottilissimo, misti con freccie e stromenti da battaglia e
da sacrifizj. Davanti al letto e in una camera laterale trentasei
idoletti d’argilla nera, figuranti un vecchio che il mento barbuto
appoggia alle mani. Chiovi di bronzo nella volta sosteneano vasi dello
stesso metallo; e in fondo alla cella una raccolta di vezzi d’oro e
d’argento, i manichi di sei ombrelli, e coppe e piatti d’argento. Il
cadavere, probabilmente femminile, era coperto di tanti giojelli, che
dei frantumi d’oro misti alla terra si potè empiere un capace paniere;
oltre un diadema, una collana, due braccialetti, catene, fibule, e un
pettorale in filagrana d’oro, composto di nove zone concentriche con
rilevate moltissime forme simboliche.

Altre tombe somigliano a tempietti, forse per famiglie sacerdotali.
Quelle di Castel d’Asso o Castellaccio presso Viterbo sono
importantissime fra le ricavate nel tufo per l’architettura esterna,
con ricchi frontoni e cornici a triglifi, e porte rastremate, che,
come la generale inclinazione a piramide delle pareti, rammentano
lo stile egizio: del dorico sentono invece quelle di Norcia, dove
si vede un bassorilievo, che è l’unico compiuto ed esteso frontone
in Italia. Le traccie di colori sopra molti membri attestano che
si usava la decorazione policromatica, che testè credevasi misero
ripiego del medioevo, e invece compare sulle statue più classiche e
nei tempj meglio vantati dell’antichità. Al sepolcro de’ Volumnj,
scoperto a Perugia il 1840, nulla fu scomposto per farne cortesia
agli osservatori: è nel tufo con camere semplici senza pitture nè
altro ornamento che una colonnetta esterna portante la scritta;
regolarmente costruito col tetto a doppia tesa, a croce latina, il cui
fondo ad abside serve alla sepoltura: dentro v’ha urne, iscrizioni,
statuette[76]. Ivi stesso, due anni dappoi, si trovò una figura
di bronzo giacente, che nel seno conteneva le ossa, come era pure
dell’Adone del museo Gregoriano. In questo e nella raccolta Campana a
Roma accolgonsi arredi d’oro cavati dalle tombe, di tale squisitezza da
scoraggiare gli orafi nostri più esperti.

Queste tombe rivelarono la vita e la civiltà degli Etruschi, come
Ercolano e Pompej quella de’ Romani, essendovi imitate o simboleggiate
le azioni della vita privata, talora anche nella forma esterna, più
spesso nella disposizione interiore e ne’ profusi arredi domestici. E
gli scheletri e le pitture ci attestano come a ragione gli Etruschi
fosser detti _obesi et pingues_[77], avendo viso pieno, grandi occhi,
naso grosso, mento prominente, testa grande, piccola statura, braccia
corte, corpo tozzo. Rasi la barba; spesso inghirlandati la fronte;
l’anello al mignolo della mano sinistra[78].

Nelle iscrizioni non leggi parola che indichi dolore nè melanconico
addio. Nessuna statua di marmo sinora, bensì di metallo, tufo calcare,
alabastro, argilla; alcune per accessorio di ciste, candelabri, patere;
altre isolate e più franche e originali; ma tutte rigide di membra,
faccia ovale molto allungata, occhi a fior di testa e tirati in su,
come anche la bocca; gambe parallele, e talora non disgiunte; fisonomia
senza carattere: più volte stendonsi lettere sull’abito o sulle coscie.
A Corneto fu restituita dal suolo una statua intera di cotto, che a
grandezza naturale figura un uomo di piena virilità, con corona d’oro.
Il Bacco giacente, pure di colto, tratto dalla necropoli di Tarquinia
e conservato a Corneto, è delle statue più grandiose ed eleganti fra
le etrusche. La lupa del Campidoglio, che forse è il monumento posto
al fico ruminale a Roma nel 204 avanti Cristo, emula qualvogliasi
capo d’arte per robusta espressione. Graziosa è la Menerva e ben
lavorata, comechè priva d’idealità. Il Metello, detto l’Arringatore
della galleria di Firenze; il fanciullo abbracciante l’oca nel museo di
Leida, di sì cara ingenuità; il guerriero di bronzo, venuto da Todi al
museo Gregoriano, vanno fra’ meglio pregiati lavori, se s’aggiunga la
donna ornata, senza testa, che da Vulci passò alla gliptoteca dì Monaco.

Gran merito hanno le pietre incise, con soggetti di mitologia greca.
Dai sepolcri di Perugia uscì una delle più belle, rappresentante
i sette eroi sotto Tebe, coi loro nomi greci in forma etrusca. Lo
scarabeo, comunissimo fra gli Egiziani, è pure forma molto solita
delle pietre etrusche, e se ne trovano nelle tombe infilati per lo
lungo, o legati in anelli e versatili. Si ammirano pure i disegni
fatti sul rovescio degli specchi di bronzo e sulle ciste mistiche.
Altre ricchezze già ricavarono da quei tesori inesauribili; uno scudo
cesellato di tre piedi di diametro, un mascherone di bronzo cogli occhi
di smalto, idoletti smaltati, coppe d’argento, armadure, specchi di
bronzo, che altri crede patere, intagliati nella parte concava.

[VASI ETRUSCHI]

Dovizia ancor più speciale e vantata sono i vasi etruschi. Accennarono
i Romani che in Etruria se ne fabbricassero di terra, ma ad uso
comune[79]. Plinio, che ragionò tutte le varietà delle arti belle,
nulla toccò de’ vasi figurati; nè alcuno menziona l’uso di sepellirli
nelle tombe. Ne’ musei se n’aveano alcuni d’incerta provenienza,
e dopo Lachausse, Bergier, Dempstero, Montfaucon, pubblicarono
il disegno d’alcuni i nostri Gori, Bonarroti, Passeri. Primo il
Targioni-Tozzetti, descrivendo la gita dalla Gonfolina all’Ambrogiana,
riferisce che in San Michele a Luciano il 1752 si trovò un pozzo
«rinterrato dalle alluvioni del vicino Arno. La particolarità più
curiosa si è che, vuotandosi questo rinterro, vi si trovarono molti
vasi di antico lavoro fatti a ruota, di terra cotta parte nera, parte
sbiancata sottile, e alcuni con vernice o nera o carnicina, ma senza
pitture. La loro forma è molto varia, ma per lo più sono del genere
di quei vasi che chiamavano _urcei_, con un solo manico ben fatto,
sull’andare delle moderne mescirobe e de’ boccali, e non hanno il
marco del figulo. Molto malagevole si è l’intendere come mai tanti di
questi antichi vasi sieno restati sommersi in questo pozzo... Chi sa se
esso pozzo nel tempo del paganesimo non fosse sacro, o che o i vicini
popoli, o i passeggieri per la contigua via militare, non vi gettassero
dentro tali vasi con qualche liquido, per offerta o sagrifizio alle
false deità?»[80].

Essendo ancora una rarità, venivano giudicati con idee sistematiche;
e Millin, Lanzi, Maffei, Zanoni, Tischheim, Böttiger, Winckelmann
li giudicavano indubbiamente opera greca, e quest’ultimo sfidava a
produrne alcuno trovato in Toscana. Ma dopo che dal territorio al nord
di Civitavecchia, dove già furono Tarquinia, Cere, Clusio, Bomarzo,
Vulci, in un sol anno fin tremila se ne estrassero, a migliaja furono
trovati in tutti i sepolcri di Toscana; onde fu forza credere ad
un’arte veramente etrusca e originale.

Ma ecco sbucare vasi simili d’altre parti, al settentrione di Roma come
al mezzodì, a Velitra de’ Volsci come a Preneste dei Latini, dalle
rovine d’Adria come nella Magna Grecia, dove a Locri e Taranto pare
si fabbricassero e diffondessero all’interno e sulle coste d’Apulia e
Lucania: altri ne diè Napoli, e Rovo nell’Apulia quelli forse di più
stupenda bellezza, sopra un solo trovandosi ben cencinquanta figure
d’uomini, maschere, uccelli, pesci: Canusio n’ha a ribocco, e le
contrade montuose della Basilicata o le mediterranee della Puglia;
alquanti Pesto e Sorrento, e molti Nola, di popolazione osca passata
poi agli Etruschi e ai Sanniti; e Cuma, le cui tombe rivelate nel 1843
estendonsi per venticinque secoli. In Sicilia ne offrono principalmente
la costa orientale e la meridionale, come Agrigento, Gela, Camerina;
pochi Siracusa, molti Leontini ed Acre; altri il paese che di buon’ora
venne occupato dai Cartaginesi. Fu dunque proposto di chiamar questi
vasi, non più etruschi, bensì italioti: ma che? Corinto, Atene, altri
luoghi di Grecia ne discoprirono pur essi, e le isole, e perfino la
Crimea, e le altre colonie greche dell’Eusino, e la Cirenaica.

Tanta ricchezza avviluppò le dispute sull’origine e lo scopo dei
vasi, e sull’originalità dell’arte etrusca, mentre gli artisti non
finivano d’ammirare tanta varietà ed eleganza di foggie, di vernici, di
pitture. Oltre le forme usuali ingentilite, alcuni sono bizzarramente
foggiati a piedi, a barche, ad animali, a corni, a teste; talora il
manico è un leone, una lucertola, un intreccio di serpenti, il Fallo.
Chiusi, residenza di Porsena, diede moltissimi vasi, singolari per
aver le figure rilevate, e non essere fatti collo stampo nè cotti al
forno. Ve n’ha di gialli con figure nere; di neri con figure rosse;
di neri affatto; di color naturale con un leggero soprasmalto; alcuni
effigiati con semplici contorni, altri con fregi; alcuni squisitamente
dipinti da una parte e rustici dall’altra, forse da esser veduti d’un
fianco solo; in altri la composizione gira tutto il vaso, od una scena
è sovrapposta all’altra, o una contraria all’altra, come sarebbe
un idillio e un fatto tragico; ovvero in una pariglia di vasi due
momenti del medesimo racconto. I nuziali ritraggono scene voluttuose;
i panatenaici, le gare ginnastiche a cui si piaceano gli antichi; i
funerarj, l’estremo congedo, o sagrifizj ferali, o genj della morte:
altri figurano scene domestiche. Gli antichi ignoravano la prospettiva,
il cui difetto viepiù si risente su queste superficie convesse o
concave; le figure, invece d’aggrupparsi, compajono al piano stesso,
colle teste e i piedi in profilo, anche le poche volte che il corpo è
di prospetto.

[LORO FORMA ED ETÀ]

Le iscrizioni esprimono o augurj, o eccitamenti al bere, o versi, e
spesso il nome del dipintore. Ma pittore di lècyti sonava come da noi
pittore di boccali; e da siffatti doveano esser dipinti i vasi, sui
quali riproducevano forse le composizioni di artisti, alla buona ma con
molta libertà e colla spigliatezza che vuolsi nel lavorare a fresco.
Laonde questi dipinti ci conserverebbero almeno un ricordo de’ migliori
quadri perduti. Chè del resto la pittura in Toscana non era ancora
un’indipendente imitazione della natura; ma o serviva all’architettura,
o contentavasi di richiamare all’intelletto alcuni segni caratteristici
mediante forme convenzionali. Pertanto valeasi di soli quattro colori,
nè rifuggiva dal fare uccelli e alberi cerulei o rossi, un cavallo
con testa bruna, criniera e coda gialla, collo rosso picchiettato di
giallo, gialle, rosse, nere le gambe, una coscia gialla, una bruna; e
negli uomini il nudo rosso, bianco nelle donne.

Si pretese assegnare una cronologia almeno comparativa tra que’ vasi,
e dicono più antichi quelli di fondo giallastro con figure ranciate
o brune non lucenti, mentre le figure rosse su fondo nero erano da
principio inusate. Questo primo periodo, dal XVI al X secolo, offre
linee dure, attitudini inusate, persone esili, teste ovali, allungate
indietro, finite in menti acuti, cogli occhi tirati in su, le braccia
spenzoloni, i piedi paralleli, le pieghe agli abiti indicate appena
con un frego, e grossieri gli ornamenti. Dal secolo X al V appare un
secondo stile, con contorni meglio decisi, ma esagerate le espressioni,
la musculatura, l’atteggiamento, dita intirizzite, profili risentiti,
ignorante attaccatura di membri. Contemporanei al fiore dell’arte greca
sarebbero i migliori, con ornati gentili, ma le figure sempre peccanti
d’eccessivo e manierato. Via via si sbizzarrì nelle forme, ne’ meandri,
dal delicato si passò all’aggraziato, e si cadde nel negletto e nel
convenzionale.

[ORIGINE DEI VASI ETRUSCHI]

Anche dalle scene può argomentarsi la maggiore o minore antichità; e
d’altissima vorrebbero quelli che imitano disegni egizj ed orientali,
con persone di duplice natura, sfingi alate, mostri bizzarri, genj a
due o quattro ali, scarabei.

Cronologia convenzionale, perocchè muove dal supposto d’un progresso
regolare, nè tiene conto della diversa abilità degli operaj. Bensì
d’alcuni vasi può il tempo argomentarsi dai luoghi ove si trovano:
Vetulonia antichissima darebbe i primi; i vasi vulcenti sarebbero
anteriori ad ogni anticaglia greca e romana; i neri di Albano, spesso
a campana, tengonsi dovuti ad aborigeni; i più recenti sembrano quelli
d’Ercolano e Pompej, neri e verniciati ma non dipinti.

Gli scrittori d’arti belle aveano asserito che queste derivassero tutte
dalla Grecia; greci eransi detti i primi e pochi vasi etruschi, e
altrettanto volle sostenersi anche quando a migliaja furono resi dalle
terre nostre. Vi dava appoggio il portare alcuni di essi il nome del
pittore o del vasajo, od altra iscrizione greca e principalmente Τῶν
ἀθηνήθεν ἄθλων, cioè _premj dati in Atene_; onde supposero fosser di
que’ vasi che in Atene si distribuivano ai vincitori dei giuochi, e che
qui portati, si deponessero nella tomba del premiato. Molti soggetti
delle pitture si riferiscono a greca mitologia, e recano i noti simboli
delle divinità olimpiche; lo stile poi de’ vasi stessi tiene del greco,
e corrisponde alle varie età delle arti elleniche. Damarato, migrando
da Corinto a Tarquinia, menò seco i vasaj Euchiri ed Eugramo[81]:
linguaggio mitico, che esprimerebbe avere i Toscani imparato dai
Greci il disegnare grazioso e il modellar bene. Pertanto il dire arte
etrusca disconviene quanto il dire americane le opere fabbricate su
l’altro continente da Europei. Perchè i primi lavori in Roma vennero di
Toscana, etrusco chiamarono i Romani lo stile duro e arcaico, ignorando
che questo era proprio anche dei Greci; e viepiù si confermarono in
tale distinzione quando acquistarono in Grecia lavori di squisita
perfezione, al cui confronto credettero proprio degli Etruschi quello
stile, che non era in realtà se non il greco antico.

[ORIGINE DEI VASI ETRUSCHI]

Così argomentano i grecanici: ma d’altra parte, mentre scarsi
s’incontrano altrove, abbondanti e bellissimi si trovano i vasi in
Italia; e sembra si possa drittamente indurre che là si fabbricassero
ove si adoperavano; e poichè non valeano ad altro uso, giacchè i più
mancano di fondo, ed hanno la superficie nè fusa nè vetrificata come
si vorrebbe per servire al modo delle nostre stoviglie, e trovatisi
affatto nuovi, dobbiamo crederli destinati o interamente o specialmente
ai sepolcri. Ora chi vorrà credere andassero i nostri a cercare dagli
stranieri ciò che serviva ai riti patrj? Certo alla Grecia era insueto
questo deporre i vasi nelle tombe. I somiglianti che si rinvengono
nell’Attica, sono pochi e meno eleganti; quelli della Sicilia,
legatissima colla Grecia, non vincono i veramente etruschi e nolani.
Ben potè qualche Etrusco aver riportato un premio panatenaico: ma
riflettendo alla difficoltà di comunicazione degli antichi, e alla
fragilità dei vasi stessi, chi s’adagerà a credere che questi a
migliaja fossero trasportati, e non per altro che per sepellirli? Le
leggende e i soggetti greci mostrerebbero soltanto come antico sia
l’andazzo dell’imitare, e quanto forte l’influenza greca ed estesi
i poemi omerici, i quali del resto raccolsero rapsodie vocali, che
poteano esser divulgate fra Pelasgi e Tirreni, o fra quelli comunque
nominati, che antichissimamente popolarono e la Grecia e l’Italia,
senza che si possa asserire qual prima. La scritta che riferimmo,
potrebbe anche esprimere _uno dei certami provenienti da Atene_, che
cioè fossero distribuiti nei giuochi che Italia imitava dall’Attica.
Sappiamo che i vasi etruschi di bronzo erano cerchi in Grecia[82]; poi
dai sepolcreti uscirono e statue e arredi e fregi e pitture, più che
non n’abbia dati la Grecia. Almeno le pitture murali sarà forza dirle
eseguite in luogo: or bene, esse vanno sull’identico stile dei vasi.

In questi poi non mancano soggetti originali e riferibili alla
mitologia etrusca, con genj ignoti alla ellenica: le stesse scene
greche vi appajono ritratte con qualche originalità; ne’ panatenaici
più belli, lo scudo di Menerva porta gli stemmi delle città etrusche;
soggetti greci sono accompagnati da caratteri e da cifre all’etrusca.
La superbia ellenica sarebbesi piegata a blandire la nazionalità
straniera? Le figure qui sono sempre di profilo, coll’occhio rotondo
e di prospetto a guisa degli uccelli, naso prominentissimo, elmi
chiusi, abiti attaccati alle corazze e aderenti alle gambe. V’ha poi
particolarità di paese, per le quali gli esperti discernono i vasi
vulcenti dai nolani e dagli apuli: circostanza che basterebbe ad
attestare operaj locali, se pure i grecanici non si schermissero col
dire che greci artisti venissero a lavorarli qui.

Certamente sull’Adriatico da Spina e da Ravenna, e sul Tirreno da
Agilla, Alsio, Tarquinia si mantennero corrispondenze colla Grecia; ma
le somiglianze d’arte provenivano da queste comunicazioni, oppure da
immigrazione e conquista? Poi gli Etruschi al par de’ Greci deducono
la loro civiltà vogliasi dire dai Pelasgi, o più genericamente da una
comune fonte orientale, che dà ragione delle somiglianze. L’Italia
precorse in coltura la Grecia; onde di qui potè l’arte esser trasferita
nell’Ellade che la perfezionò, e quel mirabile concorso d’evenienze
potè poi di ricambio rimbalzare sugli Etruschi. Probabilmente e Greci
ed Etruschi fabbricarono i vasi che qui si trovano; e forse ai Greci
vanno attribuiti quelli di terra più fina e leggera, neri dentro, fuori
gialli o rossicci e talvolta pur neri; etruschi ritenendo quelli di
Tarquinia, Volterra, Perugia, Orvieto, Viterbo, Acquapendente, Corneto,
giallo pallido i più, con vernice rossastra e figure in nero, abiti
nostrali, barba e capelli prolissi, divinità alate[83].

[VASI ETRUSCHI]

Poi si domanda a che servissero, qual cosa significassero tanti vasi.
Non ad uso alcuno, nè tampoco al banchetto funerale, perchè i più
mancano di fondo, e tutti son vergini. Erano un segno d’iniziazione,
deposto con quelli addetti ai misteri? inviterebbero a crederlo i
soggetti, appellanti spesso a riti dionisiaci ed eleusini: ma quasi
a sventare le ingegnose induzioni, una tomba a Vulci presentò ben
novecento ciotole ordinarie e rozze, come una bottega di scodellajo.

Su tutti questi punti disputano, e lungamente ancora disputeranno gli
archeologi; ma a qualunque sistema piaccia attenersi, queste preziose
reliquie, di cui si gloriano tutti i musei d’Europa, attestano una
fiorente civiltà. Esaminate in complesso, non ci fanno vedere quel
progresso regolare, per cui si ammira la Grecia; provano anzi che gli
Etruschi, se sapeano appropriarsi l’altrui, raffinare l’esecuzione
meccanica, applicare all’utilità domestica o alla comune, mancavano
del genio inventivo e di quel libero lancio per cui la Grecia divenne
insuperabile. Pure, nel mentre l’arte orientale rimane immobile, e
gli Egizj, per mutar di secoli, non mutano il modo delle piramidi e
degli ipogei, in Etruria l’arte si conserva fedele al principio, ma sa
procedere e rinnovellarsi.

[FINE DEGLI ETRUSCHI]

Di tanto incivilimento le memorie perirono tutte. Delle tre Etrurie,
la padana fu sterminata dai Galli; la campana dai Sabini, che
precipitatisi dalla montagna, presero Vulturnio e la intitolarono
Capua: Roma fece il resto, e le guerre di Silla distrassero i generosi
patrioti e i monumenti, massime scritti; la vendetta dei vincitori si
compiacque d’annichilare i ricordi di quella che avevano avuta prima
padrona, poi maestra; i poeti lodarono Augusto che avesse rovesciato
gli altari dell’Etruria[84]; nelle città di questa si piantarono
colonie romane che resero dominante la lingua latina, e i proprietarj
ridussero fittuajuoli; i Greci non parlarono più degli Etruschi che
come di corsari e scostumati, i Romani come di aruspici ed artisti;
agli Etruschi stessi non restò altro desiderio che di diventare al
tutto romani. Di Saturnia, nella valle d’Albenga in maremma, non esiste
più nulla che non sia romano. A mezza via tra Roma e Civitavecchia la
famosa Cere si annunzia unicamente per mezzo delle tombe. Vetulonia,
celebrata da Silio Italico, sparve tra le infauste maremme. Vejo,
diuturna emula di Roma, si disputò lungamente dove esistesse, finchè fu
collocata nell’isola Farnese fra terreno morbifero. Di Sutri, che pare
da lei dipendesse, non rimangono che bei ruderi e un insigne anfiteatro
cavato nel masso e mura di sassi riquadrati. Il fano di Voltunna, dove
si congregava la dieta federale etrusca, neppur sappiamo in qual luogo
sorgesse: e di sì gran popolo e di civiltà così fiorente non ci parlano
più che i sepolcri[85].



CAPITOLO IV.

Popoli minori.


[POPOLI DELLA MEDIA ITALIA]

Così incerti sui maggiori, qual meraviglia che degli altri abitanti
d’Italia poco più che i nomi ci siano conosciuti? Nella settentrionale
gli Orobj (vocabolo generico che, come Aborigeni e Taurisci ed
Ernici[86], non significa altro che abitatori dei monti) stanziavano
fra i laghi di Como e d’Iseo, e fabbricarono Como[87], Bergamo[88],
Liciniforo[89], e Bara del cui posto si disputa[90]. Sono asserzioni
di Plinio solo, il quale le appoggia al perduto Catone.

I Veneti, popolo illirico, stendeansi da un lato sin alle foci
dell’Adige, dall’altro alle alture fra questo fiume e il Bacchiglione.
Illirici pure, il che forse vuol dire pelasgi, erano i Liburni assisi
sulle coste dell’Adriatico, e i Dauni all’estremità della penisola; e
fors’anche gli Euganei, che coltivavano i monti e le valli circostanti
ai laghi Lario, Sebino, Benàco, dopo che i Veneti li respinsero dai
colli padovani, denotati ancora col nome loro. Danno l’origine stessa
agli Istrioti, che abitavano il littorale adriatico dalla foce del
Timavo sin al fiumicello dell’Arsia, tenendo città importanti, quali
Tergeste e Pola, e s’appoggiavano alle alpi Carniche e Giulie; ascritti
essi pure all’Italia, benchè non compajano nella storia se non quando
valorosamente difendono la propria indipendenza dai Romani.

I Liguri, che stesero il dominio dai Pirenei alla foce dell’Arno,
popolavano quel che ora chiamasi Piemonte. Rustici, con chiome
prolisse, diceasi, gracil Ligure valere più che forte Gallo, e che le
loro donne avevano la gagliardia degli uomini, questi il vigor delle
fiere: lavoravano a gran fatica il terreno, guadagnato artifizialmente
colà dove oggi pure trentamila ettari sono sostenuti da muricci:
guerreggiavano coi Tuschi e coi Greci di Marsiglia, che per frenarli
posero le due colonie di Nizza e Monaco: i Romani stessi non li
poterono domare che trasportandoli.

Ausonj, Aurunci, Opici, Osci, pajono esser varie denominazioni della
gente che abitava il lembo occidentale della bassa Italia, dove Amicla
città sul mare; Fondi, col suo lago dalle isole galleggianti; Formia,
denominata dai molti suoi porti, e sede già de’ Lestrigoni; Cajeta, che
nelle favole trojane serbò il nome della nutrice d’Enea; Lamo, dove
Ulisse riconosceva un buon porto; e fra terra Minturno col bosco sacro
della ninfa Marica e colle paludi formate dal Liri; Caleno, vantata per
vini squisiti, siccome il campo Cécubo. Il nome d’Aurunci si restrinse
poi agli abitanti della parte montuosa, dov’è Sessa (Suessa); e di
Aurunca lor capitale si riconoscono le ruine presso Rôcca Monfina.

Le varie tribù degli Osci formarono i Volsci, gli Euni, i Rùtuli, gli
Ernici. Presso al Lazio sedevano gli Equi, nella valle dell’Aniene
e sulle prime alture degli aspri monti circostanti, afforzandosi
principalmente a Preneste e Tiburi; più addentro verso le sorgenti
dell’Aniene e del Liri gli Ernici, colle città di Anagni, Veroli,
Alatri, Ferentino: a mezzogiorno i Volsci, in paese pieno di popolo e
di fortezze, tra cui Corioli, perita senza lasciar vestigio, Aquino,
Arpino, Frosinone, Vellètri, Signia, Corba, Cassino, Sulmona, Sora,
Priverno; la lor capitale Suessa Pomezia sedeva nel centro della non
ancora morbifera pianura Pontina. Seguivano altri popoli dell’origine
stessa, «destinati quasi in eterno esercizio a’ guerrieri romani»[91].
Venticinque città contavano sulla marina, or infesta dalla mal’aria: ed
Anzio, celebrato santuario della Fortuna e terribile nido di pirati,
Circeo, Terracina, dovettero al commercio grandi ricchezze, e fiorivano
d’arti belle; presso Velletri si trovarono ammirati bassorilievi di
terra cotta; Turiano da Fregelle eseguì il Giove Capitolino ed altre
opere in Roma[92]. I Rutuli aveano Ardea per metropoli.

[SABELLI]

Di fronte a loro stava un altro gruppo di popoli, con cui però appajono
spesso mescolati, e che probabilmente uscivano da pari origine, i
Sabelli. Presso Amiterno, posta nell’Abruzzo là presso d’Aquila sulle
più alte montagne appennine donde piovono il Fortore e la Pescara, e
nelle cui valli stanziava quella gente fastosa e guerresca, era un
rustico villaggio detto Testrina, dal quale una migrazione votiva di
giovani, o, com’essi dicevano, una primavera sacra sciamò sulle terre
degli Aborigeni attorno a Reate, prendendo il nome di Sabini dal dio
nazionale Sabo; e si spinsero avanti pel monte Lucretile e pel Tetrico,
e la valle dell’Aniene, fino al Tevere che li dividea dai Vejenti,
come la Nera dagli Umbri. Agricoli e guerreschi, con un’aristocrazia
sacerdotale, da un mare all’altro occupavano la larghezza di dodici
leghe sopra quaranta di lunghezza sulle due coste. Cure (città degli
Astati) al confluente del Correse e del Curbulano, era il loro convegno
nazionale: Sanco, detto pure Fidio e Semone, dovette essere un loro
tesmoforo, onorato poi come dio. Ma dapprima non prestavano culto che
ad un’asta confitta in terra; al quale feticio surrogarono poi nove Dei
maggiori, adorati con misteri in Trebula[93].

[PICENI]

Crescendo di popolazione e bisognosi d’attività, spedirono frequenti
colonie nella bassa Italia e in su, fra cui una guidata dalla pica,
uccello sacro per essi, fu detta dei Piceni, e un’altra de’ Pretuzj,
tribù numerosissime. I Piceni abitavano sull’Adriatico dall’Esi al
Tronto, quella che oggi diciamo marca d’Ancona, e le città di Ascoli,
Fermo, Pollenza, Ricina (Macerata?), Treja, Tolentino; e mescolati
con Etruschi e Illirici, rimisero delle abitudini bellicose. I
Pretuzj stavano a mezzodì del Tronto sin al fiume Matrino (Piomba),
or provincia di Téramo (Interamna), lauta di vini e biade. Altri si
piantarono nel Lazio, delle cui fortune come più grandiose diremo a
parte. In somma queste stirpi sabelliche inondavano la pianura, mentre
quelle rimase fra i monti chiamavansi Casci, Equi, Volsci.

Attorno al Gran Sasso d’Italia, ove oggi i due Abruzzi, fra natura
selvaggia e rupi e caverne s’annidavano Vestini, Marrucini, Peligni,
Marsi, colle temute città di Pentri, Telesia, Alita, Esernia, Boviano.
Il loro convegno navale era Aterno, ove oggidì Pescara, e i Vestini
mercatavano di cacio, i Peligni di cera e lino. Ai Marsi, principali
fra tutti e situati attorno al lago Fùcino, si dà lode di valore e amor
di patria; diceasi nè potersi vincerli, nè poter vincere senz’essi; e
vi s’aggiungeva fama d’incantatori, avendo imparato le virtù delle erbe
da Angizia sorella di Circe.

[SANNITI]

Benchè di lingua affini, si andarono diversificando al punto, che
ben si discerneva il Sannita dall’Osco, come il Piceno dall’Umbro,
il Sabino dal Romano. Gente bellicosa furon tutti costoro: il romano
Papirio Cursore che li vinse, ne portò via più di due milioni di libbre
di rame; e Carvilio Massimo suo collega colle armi tolte ai Sanniti
fece fondere un colosso di Giove sul Campidoglio, che discerneasi fin
dal monte Albano: e i loro sepolcri abbondano tuttora d’armi offensive.
Strabone geografo riferisce che i Sanniti metteano in piedi ottantamila
fanti, ottomila cavalieri; e quando si temeva un’invasione di Galli,
offersero ai Romani settantamila fanti e settemila cavalli. I Peucezj
poteano allestire cinquantamila pedoni, diciassettemila cavalieri;
trentamila pedoni e tremila cavalieri i Messapi; ventiquattromila i
Marsi, Marrucini, Frentani, Vestini; il che darebbe oltre duecentomila
combattenti da un paese che forma appena un terzo del regno di Napoli:
insomma un milione e mezzo d’abitanti sovra milletrecento leghe, e
in conseguenza mille e cento teste per lega. Ma quanto credere agli
storici? quanto all’esattezza di quei che li trascrissero?

[CAMPANIA]

La Campania[94] si distendeva sul mare dal Liri al Sìlaro, bagnata
dal Vulturno, con campi ubertosissimi, dilettose città, e la festa
de’ vigneti, di cui sosteneano gli onori il vino cecubo, il falerno,
il caleno, il massico. I Pelasgi v’aveano fondato Larissa, che poi i
Romani nominarono _Forum Popilii_ (Forlimpopoli). I monti Tifati sopra
Capua rendeano devoti i tempj di Diana e Giove: Atella presso Aversa
diè nome alle Favole atellane: Nocera voleasi fondata dai Pelasgi. Il
Vesuvio taceva; ma i suoni de’ campi Flegrei, le battaglie dei Giganti,
le dimore sotterranee di Tifone, accennano le rivoluzioni naturali cui
andò soggetto quel paese. Attorno al golfo che curvasi da Sorrento a
Miseno, erano scesi gli Opici, indeboliti poi dagli Enotrj, spogliati
dagli Etruschi della più fertile posizione del loro paese. Sulla parte
meridionale s’assise una colonia di Picentini, gente sabellica, la cui
città fu poi detta Vicenzia.

Dall’Appennino centrale, dietro al corso del Vulturno e dell’Ofanto,
scesero i Sanniti conquistando, e trucidati gli Etruschi mentre nel
sonno digerivano l’ubriachezza, tolsero a loro Vulturnio, ch’essi
chiamarono Capua[95]; allora divenuti Campani, presero d’assalto la
greca Cuma; sotto il nome di Mamertini, come a dire soldati di Marte,
si posero al soldo di chi bisognava di combattenti, ed estesero fin
a Pesto la propria lingua, la qual forse era la stessa che parlavano
Umbri, Osci, Dauni, Peucezj, Messapi, abitanti nella Japigia cioè
nel sud-est della penisola, che Strabone fa d’una sola favella
(ὀμογλώττους). Probabilmente erano Pelasgi, perocchè alla foce del
Sile sorgeva un tempio a Giasone, eroe pelasgo al pari di Diomede,
cui attribuivasi lo stabilimento di Argirippa (_argos hippium_). I
Dauni stanziavano attorno al monte Gargàno; seguivano i Peucezj; poi
sulla penisola che forma il tallone dell’italo stivale, ora povero di
coltura e d’abitanti, fiorivano i Messapi, ricchi di città, quali erano
sul littorale adriatico Guathia (Fasano), Brindisi, Valezio (Baleso),
Otranto; sul golfo di Tàranto, la città che gli dà nome, Nereto
(Nardò), Alezio (l’Alizza), Uzento; nell’interno Celio, Uria, Rudie
(Ruggie), Vaste (Basta)[96]. Regolavansi a re, supremo magistrato che
univa le incombenze sacerdotali, siccome nell’età eroica de’ Greci.

[LUCANI]

I Lucani occuparono l’estremità d’Italia dal Silaro al Lao, che
oggi chiamiamo la Basilicata, soggiogando gli Enotrj, e durando
nimicissimi alle colonie greche ed ai tiranni di Siracusa. In que’
pascoli scendevano d’estate le greggie dell’Apulia e della Calabria.
La parte più alpestre, dove gli alberi davano la miglior pece e il
miglior legname da navi, rimase ai Bruzj, il cui nome indica non
schiavi fuggiaschi ma ribelli. Accertare però l’origine di ciascuno
e i confini è impossibile quanto superfluo: e Orazio Flacco, nato
a Venosa, sullo scarco del monte Vulture che formava confine tra
Irpini, Lucani ed Apuli, non sapea determinare se all’Apulia o alla
Lucania appartenesse la sua patria[97]. Sovente ne sono scambiati i
nomi, e i Greci in generale titolano Liguri quelli dell’alta Italia,
Ausonj quelli della meridionale. Tante diversità sin dall’origine,
contribuirono certo ad impedire che lunghi secoli di lotta, di
conquiste, di violenze, di sventure potessero ridurre l’Italia ad unità.

[COLONIE FENICIE]

I più trafficanti fra i popoli antichi furono i Fenicj, che aveano
popolato di loro industria il lembo della Siria, ergendo le città di
Tiro e Sidone; poi sulla costa settentrionale d’Africa fabbricarono
quella Cartagine, che tanta parte rappresenterà nelle vicende italiane.
I Fenicj empirono il mondo di loro colonie; e la traccia di queste
e del loro commercio è simboleggiata nei viaggi dell’Ercole Tirio.
Il quale raccontano che, per portar guerra al figlio di Crisaoro in
Iberia, varcò lo stretto Gaditano, ove eresse le famose colonne di
Abila e Calpe come confine del mondo e dell’ardire umano; sottomise
la Spagna, indi fece ritorno per la Gallia, l’Italia, le isole del
Mediterraneo. Una strada commerciale antichissima fra le Alpi serviva
di fatto al commercio, e prolungavasi fin al Baltico, come si arguisce
dall’ambra che di colà portavasi nell’alta Italia: e Romani e Greci
che di qui la ricevevano, applicarono al Po il nome di Eridano, che è
quello del _fiume lontano_, sboccante nel mare del Nord. L’opportunità
fece dai Fenicj cercare altresì le isole nostre; e in Sicilia
stanziarono lungamente, e v’introdussero il culto della dea Astarte,
colà denominata Venere Ericina.

[SARDEGNA]

Da _sarad_, pianta del piede, vogliono traesse il vocabolo la Sardegna,
per la ragione stessa chiamata Ichnusa dai Greci. Iliani, Tarati,
Sossinati, Balari, Aconiti la abitarono, che forse erano popoli
libici[98], o veramente iberici, i quali vi furono condotti da Norax,
che fondò la prima città di Nora. I Greci, al solito, attribuivano ai
loro primitivi eroi il dirozzamento della Sardegna; ma sembra che tardi
vi si piantassero, quando fabbricarono le città di Carali (Cagliari)
ed Olbia. I Fenici bensì vi posero stabilimenti di commercio; e così
i Cartaginesi, i quali colonizzarono Carali e Sula, e al culto antico
surrogarono il crudele e voluttuoso de’ loro Dei, e tiranneggiarono i
natìi[99], i quali, insofferenti del giogo, vestiti di pelli e della
loro _masturga_, con targa e pugnale, ripararono nelle grotte montane
la selvaggia loro indipendenza. Anche gli Etruschi vi posero stanza;
poscia i Romani, sotto ai quali contava sin quarantadue città, di cui
sole dieci ora sussistono. Fin d’allora il Sardo era robusto e allegro,
coraggioso fin alla temerità, di concitata fantasia, vivo nell’amore,
implacabile nell’odio. Già parlammo dei nuraghi (pag. 56): aggiungiamo
che in Sardegna furono trovate le prime pietre sardoniche; e che,
secondo Dioscoride, vi cresceva una pianta (il gorgolestro), che a chi
ne mangiasse la radice produceva la morte con convulsioni alla faccia
somiglianti al riso: dal che venne detto il riso sardonico.

[CORSICA]

La Corsica, chiamata antichissimamente Teramne, poi Collista dai
Fenicj, indi Tera dagli Spartani o Focesi d’Asia, Cimo o Cernenti dai
Celti, Corsi dai Greci e Corsica dai Romani, collocata fra l’Italia,
la Spagna e la Gallia, è opportuno scanno d’importantissime relazioni.
I Pelasgi forse l’abitarono, trovandovi Liguri ed Iberi[100]; gli
Etruschi la dominarono, fondandovi Nicea sul Golo; poi una colonia
di Focesi, ruinata dai Persi la patria loro, vi fabbricò sulla costa
orientale, quasi in faccia all’Elba e allo sbocco del Tevere e
presso la foce del Tavignano, la città di Aleria, con porto naturale
bastevole alle navi d’allora, al piede di boscose montagne e in mezzo
a una fertile pianura. Ivi si afforzarono a segno, da tener testa a
Etruschi e Cartaginesi; e vinsero ma a grave costo, perdendo quaranta
vascelli e molti uomini, i quali, condotti ad Agila in Toscana, furono
trucidati. Poco stante, gittatasi quivi la peste, l’oracolo di Delfo
consultato rispose, placassero i mani dei Focesi, da loro barbaramente
uccisi: così fecero, annui giuochi istituendo, e la malattia cessò.
Ma i Focesi, accorgendosi di non poter reggersi nell’isola, migrarono
in Italia e sulle coste della Gallia. Più tardi Plinio vi contava
trentatre città: Callimaco la chiamava la Fenicia insulare.

Diodoro Siculo attesta che gli schiavi côrsi superavano gli altri
per robustezza in tutti i servigi utili alla vita[101]; Strabone,
all’opposto, narra, «qualvolta un generale romano, penetrato
nell’interno paese e sorpresovi qualche forte, ne mena a Roma alcuni
schiavi, è singolare a vederne la ferocia e la stupidità; o ricusano di
vivere, o rimangono in assoluta apatia, finchè stancano i padroni, e
fanno rincrescere il poco denaro speso per comprarli». Forse Strabone
interpretava così l’amore di libertà, che in quel popolo non venne
mai meno, e pel quale mantenne tanta originalità di carattere e di
costumi. Polibio ci dipinge aspro e selvoso il paese, ove scioltamente
pascolavano numerosi armenti, obbedendo al conosciuto corno del
mandriano; vedea questi avvicinarsi navi all’isola? sonava, e le bestie
accorrevano; in tutto il resto simili a selvaggi.

[ELBA]

All’isola d’Elba, detta Etalia dai Greci, Ilva dai Romani, cavavasi da
immemorabile antichità il ferro, detto populonio perchè in Populonia
erano i forni per fonderlo. La possedettero gli Etruschi, al pari
della fumante Lipari ricovero di pirati, e delle altre isolette
dell’arcipelago Tirreno, ed alcune anche dell’Adriatico. A Malta ed in
altre isole i Fenicj aveano introdotto manifatture, onde provvedere la
Grecia e l’Italia.



CAPITOLO V.

Istituzioni italiche.


Chi dice storia d’Italia suol intendere storia romana: ingiustizia,
a cui converrebbe riparare volgendo l’interesse sopra il maggior
numero de’ vinti, fra’ quali si riscontrano gli elementi durevoli, che
sopravvissero alle società conquistatrici, esaurite da’ proprj sforzi.
Tentiamo farlo cogli scarsi documenti e coll’analogia.

[TESMOFORI]

La prima società sono le famiglie; e poichè i legami domestici
stringono più tenaci quanto più semplice è un popolo, molte famiglie
si conservano unite e d’egual tenore, formando le tribù. I membri
d’una tribù lavorano e viaggiano di conserva, si difendono a vicenda,
tolgonsi a capo il più vecchio, il più capace, il più esperto di
mandre, il più arguto osservatore degli astri e delle stagioni: il
qual capo, come savio, proferisce anche i giudizj; come sperimentato,
possiede la dottrina; come anziano, rende culto alla divinità; padre,
re, giudice, sapiente, pontefice. Quest’è il governo patriarcale, tanto
disdicevole a civiltà adulta, quanto comune alle nascenti.

Dove i sensi e l’intelletto prevalgono sopra la riflessione, domina
l’eroismo, che è la consacrazione della forza per mezzo del sentimento,
e del sentimento per mezzo della forza; e da esso derivano la
soggezione e la fede. Avvegnachè, quando tutte le anime ricevono le
medesime impressioni, e si guidano a norma di queste, facilmente si
persuadono che un uomo faccia movere un popolo intero, o tutto un
popolo sia identificato in un uomo, nel quale ravvisino sfolgoranti
i concetti e i sentimenti, che oscuri ritrovano in sè. A quell’uno
pertanto attribuiscono tutti gli atti d’una generazione o d’un’età: e
in tal guisa si formarono que’ caratteri poetici di Giano, di Saturno,
di Fauno, che troviamo come uomini-dei al limitare della storia
italiana. Il padre Giano, il quale non si connette a veruna genealogia
di Dei, tiene del settentrionale, e compare fra genti non ancora
stabilite: Saturno ha fisionomia orientale, trova una gente agricola,
e forse è simbolo di colonie fenicie, le quali, espulse di Creta, qui
approdarono: Fauno personifica la vita pastorale[102].

[SOCIETÀ PATRIARCALE]

Costoro col nome divino introducevano le religioni, educavano que’
popoli al modo che spesso praticarono i missionarj, cioè trattandoli
da fanciulli, non assegnandovi proprietà distinte, ma lavori comuni,
comuni banchetti di cibi agresti; il che dai posteri, più inciviliti ma
più sofferenti, fu reputato un’età dell’oro. Va fra questi tesmofori
anche Italo, il quale stabilì la comunanza de’ beni nel basso
della penisola, e addestrò nell’agricoltura, della quale i frutti
godeansi in conviti sodalizj, che ancora non erano dismessi all’età
d’Aristotele[103]. Per costoro opera, contro la persecuzione dei
violenti si piantano asili, sotto la tutela dei numi o di un capotribù.
Questi capi divengono patroni; i ricoverati rimangono clienti; e
congiunti soggiogano i nemici, riducendoli schiavi.

[CIVILTÀ PRIMITIVA]

Fin ne’ tempi più civili l’Italia conservò vestigia del primitivo
vivere errante[104]; e gli Dei bucolici, le feste e le divisioni
dell’anno riferibili a pastorizia ed agricoltura, e il culto del
dio Termine, erano rimembranze dell’antico vivere da pastori e da
campagnuoli. I Romani in testa a Giove e alle maggiori deità ponevano
il modio, misura del grano; e _arare_ e _sulcare_ chiamarono lo
scrivere. Perocchè le abitudini agresti, indotte dalla natura del
suolo italiano, modificarono la primitiva civiltà di tribù; e questo
passaggio fu personificato nel mito di Cerere, dea che dicevasi
avere primamente in Sicilia mostrato come coltivare il grano. Essa
fu pure avuta come inventrice delle leggi, avvegnachè i popoli, col
prendere sedi fisse e campi certi, determinano le idee del tuo e del
mio, bisognano di garanzie per conservarlo, di forza ordinata per
difenderlo, di giudizj per rivendicarlo, di regole per trasmetterlo, di
quel complesso d’ordinamenti che costituisce un reggimento civile.

Come molte famiglie compongono la tribù, molte tribù si aggregano in
città e provincie. I varj capitribù non abdicano il loro primato,
e per ventilare gli interessi comuni si congregano in assemblee;
mentre l’agglomerarsi di diverse tribù introduce varietà di vita e
di professioni. Quindi dalla innata eguaglianza di diritti nasce
la disuguaglianza di fortune; l’uomo più industrioso o più accorto
guadagna meglio, arricchisce, trasmette gli averi suoi a’ figliuoli: di
che originano le famiglie illustri, che aspirano a concentrare in sè le
ricchezze, la dignità, il potere. Così nasce il governo di molti; un
patriziato che amministra i pubblici affari, la distinzione de’ nobili
da’ plebei, con un’infinita varietà nel numero e nelle attribuzioni de’
Padri consultati (_senatori_), nel denaro che la tribù mette in comune
(_tributo_), ne’ magistrati, nelle relazioni di ciascuna città col
proprio territorio, e tra le città, le quali confederandosi formano uno
Stato.

[TRIBÙ]

Ma poichè le famiglie precedettero lo Stato, quelle vengono considerate
come elementi necessarj di questo. Pertanto le tribù si accostano, ma
non si fondono; e memori della differente origine, ognuna si tiene
distinta dalle altre; non accomunano le nozze; ed essendo varie di
dignità, si può in esse scendere, non elevarsi. Se v’intervengono
la religione, diversa da una tribù all’altra, e riti particolari
di ciascuna, esse tribù rimangono inalterabili, formando le Caste,
come nell’India o nell’Etruria[105]: altrimenti le distanze vanno
dileguandosi, fino a giungere all’eguaglianza, come accadde in Roma.
Allo Stato però non appartiene se non chi appartenga ad una famiglia
(_gens_) per legittima derivazione: e solo per grande condiscendenza
vi si ammette tal fiata un uomo libero forestiero; od anche una nuova
parentela quando un’altra si estingua, affinchè non resti incompiuto il
novero rituale.

Oltre queste tribù che chiameremmo di famiglia, vi ha tribù di luogo,
rispondenti alla distribuzione di un paese in distretti o borgate;
sicchè n’è tribule chiunque possiede in quel circondario al momento
dell’istituzione; e i discendenti loro continuano ad appartenervi,
se anche perdano o tramutino i possessi. Ne deriva dunque un’altra
specie di genealogia, quantunque meno rigorosa. E se un popolo così
costituito si trapianti in altro paese, egli conserva la costituzione
patria, ma per favore accoglie nel suo grembo i natìi, da cui ebbe
ajuto o da cui spera decoro, e li scomparte nelle varie tribù, giusta
diverse convenienze; di modo che il vincolo fra i contributi non è più
soltanto di sangue e di patria.

Insistemmo su questa costituzione delle tribù, come quella che è più
dissonante dai modi odierni; e senza di essa non sarebbero compresi i
passi delle civiltà antiche, e specialmente della italica.

La regolarità di siffatto procedimento viene alterata dalle conquiste.
Una tribù, per amor di donne, di pascoli, di bottino, per gelosia di
potere, per ambizione di un capo, assale l’altra, la vince, molti
uccide, gli altri _serba_ in qualità di schiavi (_servi_). Il trionfo
invoglia a nuovi: un capo guerresco, sostenuto dai robusti che
desiderano esercitare la propria vigoria, o dai fiacchi che cercano un
appoggio, viene ad imperare su molto popolo soggiogato, e si fa re in
nome della forza; dinastia, cioè forza (δύναμις), chiama la propria
famiglia, e impone il proprio volere, raccogliendo in sè la facoltà di
far leggi, d’eseguirle, di giudicare. Sono ricordati alcuni antichi re
in Italia, quali Giano, Lico, suo figlio Latino, Pallante, Evandro.

[CONQUISTE. CONFEDERAZIONI]

Gli Stati a governo d’un solo o di più, costituitisi in tal maniera,
proseguono fra loro le lotte cominciate fra le tribù; i più forti
invadono i meno, i montanari piombano su’ pianigiani; e gli uni per
difendersi, gli altri per assalire, stringono confederazioni. Questa
forma è antichissima in Italia, e naturale in paese suddiviso da monti
e fiumi, sicchè mal poteano avervi luogo i vasti imperj che fecero
schiava l’Asia, nè l’unità nazionale che fece potenti alcuni popoli
moderni.

Paese bello, ed aperto per così lunghe coste, facilmente era invaso
da genti che o l’ambizione chiamava di lontano alle conquiste, o la
sovrabbondante popolazione o un vincitore snidavano dalle terre natìe;
oppure da colonie che cercavano una patria nuova. I capi degli invasori
spartisconsi il paese, rendono sudditi gli originarj che non sappiano
difendersi o fuggire, e concentrano il dominio nella gente vincitrice.
Talvolta un altro popolo sopraggiunge al primo conquistatore e gli
strappa la signoria, ovvero patteggia con esso, mettono in comunione
gli Dei, e si spartiscono gli uffizj[106]. Così si sovrappongono genti
a genti, separate per origine: pure, conservandosi le singole unite fra
sè, ne derivano distinzioni di classi; e l’una ha il privilegio delle
armi, l’altra del sacerdozio; una ai traffici, l’altra all’agricoltura;
distinzioni non cancellate dal tempo nè dalla superiorità numerica dei
vinti.

[INVASIONI. TIPI MITICI]

In questo accostarsi e sovrapporsi di popoli, ognuno reca tradizioni,
e queste si mescolano, trasponendo tempi e luoghi, accumulando s’un
personaggio le imprese di molti, confondendo gli avvenimenti umani
colle vicende della natura o colla storia degli Dei; sicchè riesce
difficilissimo l’appurare alcuna verità, e l’assegnare epoche anche
approssimative, anzi perfino lo stabilire una priorità fra gli
avvenimenti che precedono la storia.

Ne’ personaggi pertanto che questa ricorda, si può piuttosto vedere
simboleggiata un’età, uno stadio dell’incivilimento; e sebbene forse
davvero il loro sandalo abbia calpestato la terra, il tempo ne cancellò
l’orma, e la poesia ne ingrandì la statura fino a comprendervi un’epoca
intera. Eruditi nostri contemporanei diressero robusti e sensati
sforzi a scoprire la verità di sotto al velame della mitologia,
e indietreggiare così i tempi storici: ma delle controverse loro
conchiusioni una critica più schifiltosa si valse per rigettare nella
mitologia anche parte di quella che soleasi accettare per istoria.
Comunque sia, giova conoscere quegli eroi e que’ numi primitivi, perchè
da essi trapela l’indole delle nazioni; indole che poi resiste ai
sovvertimenti, ed entra come elemento nella futura civiltà.

[RELIGIONI]

I popoli non sono uniti e ordinati soltanto dalla forza e dalla
parentela, ma anche da credenze e da riti. Colla parola l’uomo
ricevette ab origine le verità primitive, che non avrebbe potuto
acquistare coi sensi, e che poi furono offuscate dal peccato, il quale
pose in disaccordo l’intelletto, la fantasia, i sensi. Offuscate,
non tolte; e i popoli qual più qual meno ne conservarono, e si può
riconoscerle di mezzo agli errori onde vennero contaminate. Alcuni
uomini, o piuttosto alcune tribù raffigurate in personaggi quali
furono per noi Giano e Saturno, custodirono più pure quelle verità,
e insegnandole si fecero dirozzatori delle nazioni. La credenza d’un
Dio unico era comune fra que’ nostri progenitori; ma ciascun popolo
immaginava questo Dio sotto nomi e figure e simboli e attribuzioni
differenti. Varie genti o confederandosi o soggiogandosi mettevano in
comune il proprio dio, e veniva così a formarsi nel concetto vulgare
un Olimpo di divinità. La moltiplicità delle quali non fu da principio
che moltiplicità di nomi secondo le lingue; ma dall’adorazione di
un Dio sotto nomi diversi era facile lo sdrucciolare all’adorazione
di diversi Dei. I sacerdoti e i savj li tenevano come multiformi
manifestazioni dell’Ente per eccellenza, e questo arcano insegnavano
ne’ misteri: ma perchè il privilegio di offrire sagrifizj, consultare
gl’Iddii, palesarne il volere, offriva comodità di dominare sui
vulghi e dirigerne le cieche volontà in nome del Cielo, a questi
insegnavasi una religione subordinata all’interesse di pochi, e
acconcia alle grossolane fantasie. Così i sacerdoti, indotti non tanto
da capriccio d’ingannare, quanto dall’istintiva necessità de’ men
buoni di sottostare e ricevere educamento e direzione, valevansi della
scienza a strumento di potere; onde formavansi i governi teocratici,
mirabilmente opportuni a popoli rozzi, perchè l’oracolo della divinità
dispensa dal dovere spiegare le necessità e le combinazioni politiche.
E dove Varrone, nella _Rustica_, dice che la religione in Italia fu
sempre dominata dall’interesse, null’altro credo significhi se non la
pendenza pratica che sempre fu carattere della nostra nazione: dove il
fine sociale è indicato dallo stesso nome latino di _re-ligio_, cioè
rannodamento.

[DEI. FESTE]

Ma se la diversità dei culti italici palesa le molteplici origini della
popolazione, si trova che, dal fondo delle tradizioni primitive, tutti
dedussero idee sublimi della divinità. Nel carme Saliare, Giano era
detto _deorum deus_[107], e questo solo fra i numi antichi non trovasi
contaminato di colpe. Ma riservando i dogmi più puri agl’iniziati,
al vulgo si porgeva quel culto materiale della natura, che dicemmo
derivato dalla supposta dualità de’ principj: sicchè adoravansi Opi e
Saturno, dio e dea della terra, il Tevere, il Numicio, il Vulturno; e
le divinità moltiplicaronsi, fino ad averne ogni fonte, ogni casa, ogni
città, nel culto tutto nazionale dei Genj[108]. Anna Perenna, la madre
nudrice, era figurata nella luna che presiede all’anno, venerata nel
fiume Nemi, con feste tutte gajezza e canzoni oscene; a Pale, dea de’
pastori, continuò feste anche Roma conquistatrice colle ferie Latine e
coi Lupercali, in rimembranza dell’agreste origine sua; Fauna o Fatua,
buona dea della pudicizia, era venerata da sole donne e al bujo; sotto
ficaje selvatiche celebravansi le None Capretine; contro le malìe
invocavasi Cardina, contro i fulmini Furina; Carmenta, colle sorelle
Antevorta e Postvorta, alludeva ai parti; Tacita era madre dei Lari; e
appellano a quelle vetustissime tradizioni Fortunata, Mania, Larunda,
ed altre donne venerate. Ogni lavoro campestre era raccomandato a
un nume particolare: Seja e Segestia proteggano i grani seminati,
Proserpina quelli in germoglio, Nodoso quei che allegavano, Putelina
quelli spigati, Tutulina quelli conservati ne’ granaj; e Roma invocava
il Dio Vangatore, Ripastinatore, Aratore, Solcatore, Innestatore,
Erpicatore, Sarchiatore, Suroncatore, Mietitore, Adunatore, Ripostore,
Porgitore[109]. È ben a dolersi che siansi perduti gli _Indigitamenta_,
ove i sacerdoti aveano raccolto i nomi e le storie di ben trentamila
divinità, il cui complesso ci avrebbe porto idee men triviali sulla
teogonia antica, e insieme sulla scienza umana, che ai primordj della
civiltà non si esprime che colle forme della divina.

Nelle feste Fordicidie si sagrificavano trenta giovenche pregnanti;
nelle Sementine imploravasi prospera la seminagione; nelle Rubiginali
la preservazione dal bruciore, versando sul fuoco del vino e le viscere
d’una pecora e d’un cane. Nelle Terminali i due confinanti ergevano
un’ara, la donna vi portava il fuoco, il padrefamiglia formava il rogo,
il fanciullo vi buttava del frumento, la figlia presentava del miele,
si libava vino, s’immolava un agnello o una porchetta, e banchettavasi:
festa derivata dai Sabini. Immagini ingenue se volete, ma inette ad
elevare l’uomo a sane idee sulla natura di Dio, e alla pratica della
pura morale.

I Sabini veneravano Matula dea della bontà, Mamerte (Marte) colla
moglie Neriene dea della forza, Vacuna della vittoria, Feronia della
libertà, Vesta della terra e del fuoco, Sanco, dio dai tre nomi
(_Sancus Fidius Semon_), Sorano e Februo ministro della morte, e Sumano
del fulmine. Nel 1848 presso Agnone nel Napolitano fu trovata una
lamina di bronzo; in cui per ventisette linee d’una parte e ventitre
dall’altra in osco si enumerano da venti divinità indigene, Giove
custode del Comune e regolatore delle fatiche giornaliere, Panda
guardiana delle messi, Geneta preside alle nascite, Ercole custode del
limitare e della proprietà, e così via.

L’osceno Fallo è spesso rappresentato sui monumenti italici e sulle
tombe. Singolarmente era adorata la Fortuna sotto infiniti nomi,
chiedendone i responsi colle superstizioni più varie. A Preneste si
deducevano le sorti da bastoncelli mischiati alla rinfusa, e tratti
fuori dal supplicante; pratica germanica: due automi con cenni
complicati rivelavano la buona o la trista ventura ai Volsci: nel
tempio di Giunone a Vejo un’altra immagine augurava col capo. Qualcosa
di barbaro e di antico conservava il culto di Circe, la gran fata delle
trasformazioni, che compare sui promontorj a sgomento de’ naviganti;
e ben tardi si continuò la devozione di lei sui capi, quel di Sorano
sulle alture, di Feronia alle paludi e fontane.

A tali culti personali e topici mancava ogni unità di fatto o d’idea;
nè le divinità aggregavansi in famiglia, ma ermafrodite da prima, poi
decomposte in maschio e femmina, sempre però sterili, sinchè non vi
s’intrecciarono le favole greche. Leggendo che gli Dei non avevano
statue, forse dobbiamo intendere che non si effigiassero in sembianze
umane: in fatto il Marte sabino era venerato in forma di lancia; anche
dopo introdotto il culto idolatrico, il fuoco della dea Vesta continuò
ad ardere silenzioso sull’altare senza immagine; e ne’ tremuoti
pregavasi senza invocare alcun dio conosciuto e determinato.

[FIEREZZA PRIMITIVA]

Quando poi la città romana assorbiva le altre d’Italia, anche le
religioni particolari venivano assorte dalla vincitrice, e gli Dei
locali da quelli di Roma che più vi somigliavano. Da qui i moltissimi
nomi od epiteti attribuiti a ciascun dio, talmente che Varrone ebbe a
contare trecento Giovi in Italia. Taluno anche degli Dei sabini penetrò
con quelli de’ conquistatori, come Semone Sanco allato al Giano latino:
ma del culto locale e famigliare, tanto italico d’indole, rimase
traccia negli Dei domestici delle varie genti (_sacra gentilia_, _dii
gentiles_).

L’espiazione, fondamentale concetto delle religioni, portò da
principio fino a sacrifizj umani, che si continuarono in tempi di men
fiere consuetudini[110]. In Falera immolavansi fanciulle a Giunone:
nelle _primavere sacre_ facevasi voto di sacrificare agli Dei tutto
quanto nascesse in quella stagione, non eccettuando i figliuoli;
poi fu sostituito di mandar questi altrove in colonia. Nelle feste
Argee venivano buttate persone nel Tevere, delle quali poi tennero
vece ventiquattro o trenta figure di giunco: nelle Larali, teste di
fanciulli, surrogate poi da papaveri. Terribili riti praticavano i
Sabini: nei gravi frangenti di guerra, i soldati, accolti in un ricinto
scarso di lume, fra il silenzio, le vittime e le spade, doveano giurare
obbedienza, con tremende imprecazioni contro chi vi mancasse. Dal monte
Soratte scendevano gl’Irpi, calcando a piè nudo carboni ardenti. I
Marsi maneggiavano serpi, secondo n’erano stati istruiti dalla maga
Angizia, cui veneravano nel sacro bosco presso al lago Fucino[111].
Queste ed altre memorie accennano la fierezza de’ primitivi abitatori,
che fu poi temperata da’ tesmofori. I quali, regolando nel credere
e riformando nel vivere, se non riescono ad abolire la guerra,
la moderano col dritto feciale, per cui un sacerdote presentasi
all’offensore, assegnandogli un termine entro il quale riparare i
torti; scaduto questo indarno, gli è intimata nimicizia.

Le religioni rendevano dunque reale benefizio alla società, al brutale
diritto della forza opponendo leggi sancite da una volontà superna.
È vero che i sacerdoti non rappresentavano il popolo, nè sostenevano
i diritti di questo: ma intanto moderavano i prepotenti, frenavano i
vizj, diffondevano concetti di giustizia, di moralità, e ai re metteano
per limite i dettami della coscienza, o le cerimonie e i decreti degli
Dei.

[SIMBOLISMO. AFFRATELLAMENTO]

Spesso le costituzioni sociali e i governi riproduceano in terra
l’immagine del Cielo; o i numeri simbolici, tratti da idee
sovrasensibili, ripeteansi nei fatti umani. Così i trecento senatori di
Roma corrispondono ai giorni dell’anno ciclico di dieci mesi: trenta
porcellini partorisce la troja veduta da Enea sul posto ove Roma
sorse: trenta città componeano la federazione latina: trenta Sabine
furono rapite, dal cui nome Romolo intitolò le trenta curie: sono sette
i colli di Roma, due volte sette le regioni d’Augusto; dodici le città
fondate dai Pelasgi e dagli Etruschi, come dodici avoltoj appajono
a Romolo. Mentre degli Etruschi, come d’altri popoli marittimi, era
rituale il numero 12, il 10 era rituale per gl’Italioti, come pei
popoli meno civili; e il 3 e il 10 vediamo dominare ne’ primitivi fatti
dell’Italia e di Roma.

[COSTUMI]

Civilmente la religione serviva di vincolo alle popolazioni isolate.
Il luco Ferentino, oggi Marino, quello sacro a Diana presso Aricia,
l’altro di Venere fra Lavinio e Ardea servivano a convegni religiosi
comuni: i Toscani s’accoglievano nel tempio di Voltumna, i Sabini in
quello di Cere: sul monte Albano alle ferie Latine consumavasi solenne
sacrifizio, distribuendo carne a tutte le tribù del Lazio, alle quali
il comune dio Fauno rendeva oracoli dal profondo della selva Albunea.

In questi periodi della società (non proprj dell’Italia più che del
restante mondo) si va estendendo l’idea di doveri reciproci, dapprima
comprendendo la sola famiglia, poi la tribù; ma chiunque è fuor di
questa, vien considerato come nemico, si può ucciderlo, ridurlo servo,
non altrimenti che si farebbe d’una bestia. L’aggregazione in città
e Stati allarga questo sentimento; viepiù la religione: ma sempre
troveremo abbracciarsi nell’idea del dovere soltanto i membri della
propria società; finchè il vangelo, annunziando la fratellanza di tutti
e un’unica religione universale, gli estenda a tutti i figli di quel
Padre nostro che è ne’ cieli.

Del resto le eterogenee popolazioni vivevano di vita distinta, ciascuna
maturando una civiltà particolare. Il nome di patria rimase ristretto
ad angusto territorio; e ben poche genti troviamo annodate in qualche
titolo più generico, e collegate a feste o in assemblea politica quelle
d’una medesima stirpe. Al più stringevano lega coi vicini, duratura
quanto il bisogno; e il pensiero di unità nazionale, quand’anche
noi sapessimo estranio alle popolazioni antiche, restava impedito
dalle reciproche gelosie. Che cosa s’intendesse per popolo, e quanta
parte esso pigliasse ai pubblici maneggi, difficile è determinarlo.
Dappertutto troviamo la potenza aristocratica temperata dalla sovranità
popolare. Ad un senato, composto dei padri della gente conquistatrice,
spettavano i riti religiosi, le cariche, l’interpretar leggi, la
scienza divina e l’umana; sicchè l’aristocrazia era sempre appoggiata
sulla religione, per la quale discernevasi dalle plebi. Il Comune dei
nobili formava la curia[112]. I prischi Latini, Equi, Sabini aveano
imperatori e dittatori, sottomessi però alla sovranità nazionale: i
Lucani in guerra sceglievano un imperatore, che congiungeva il comando
militare e la civile supremazia: e tale era pure il _meddix tuticus_
degli Osci, Volsci e Campani.

I Marsi erano lodati per frugalità e valore; i Sabelli per incolta
costumatezza, e le donne loro e le Apule e Sannite per saviezza e
sobrietà: ai Lucani predatori faceano contrasto i Sabini pii e giusti;
ai molli e timidi Picentini i bellicosi Peligni e Sanniti, devoti a
libera morte. Questi, d’educazione robusta[113], pomposi nelle armi,
frugali nelle case, allevatori di mandre e puledri, e tessitori di
lane, contraevano i matrimonj in freschissima età; in una giornata
solenne sceglievano i dieci giovani meglio costumati e prodi, e davano
loro l’arbitrio di eleggersi le spose[114]; ove se ne rendessero
indegni, n’erano separati. Fra gli Umbri usavano le ordalie, simili ai
giudizj di Dio praticati nel nostro medio evo[115], dove la divinità
era chiamata immediatamente ad attestare con un miracolo la verità
discussa o l’innocenza calunniata. L’atrio (forse così nominato dagli
Adriani, e tutto proprio della nostra architettura) esprime un vivere
comune e all’aperto; e colà, intorno al fuoco dei Lari, s’adunavano
i fanciulli e le donne, non chiuse ne’ ginecei; e gli schiavi
stessi[116], de’ quali grandissimo era il numero.

[FORESTE. AGRICOLTURA]

I dintorni di Roma erano tutti bosco: nella foresta Gallinaria
in Campania, anche ai migliori tempi di Roma, ricoveravano
masnadieri[117]: la foresta Ciminia pareva a Livio impenetrabile e
spaventosa quanto quelle della Germania: Virgilio accenna la foresta di
Sila, che le montagne del Bruzio ombrava per settecento stadj[118]: di
piante era coperto il Gargàno, e così le colline circostanti a Vejo.
Dionigi d’Alicarnasso ammirava le foreste sui colli e nelle vallate
della Cisalpina, da cui si traevano begli alberi da costruzione,
trasportandoli pei tanti fiumi ond’è solcato il paese, e che tanto
giovano al baratto delle merci e derrate[119]; dal loro paese i Liguri
asportavano tronchi di rara grossezza, e il legname de’ paesi bagnati
dal Tirreno era cerco a preferenza di quello dell’Adriatico[120].

Questi boschi, di cui più non rimane vestigio, doveano rendere men
torrenziali i fiumi e più rigida la temperatura: in fatto Orazio vedeva
biancheggiare d’alta neve il Soratte, avvenimento ora insolitissimo;
nel 480 di Roma il gelo fece morire molti alberi fruttiferi, quaranta
giorni durò la neve sul suolo, il Tevere agghiacciò; e fra le
superstizioni, Giovenale accenna d’una donna che rompeva il ghiaccio
d’esso fiume per farvi le sue abluzioni. Pure Columella avea letto
nell’agricoltura di Saserna, che contrade, dove lo stridore del
verno non lasciava vivere olivi e viti, allora intepidite davano
abbondantissimi oliveti e festante vendemmia[121]. Varrone fa coglier
l’uva nel Lazio al fin di settembre, e il grano al fin di giugno[122],
che sarebbe alquanto più tardi d’adesso: ma secondo Columella, agli idi
di gennajo si mette mano ad arare, e cacciar il bestiame dai pascoli
ove comincia a venir l’erba; Palladio agli idi stessi dice si seminava
l’orzo gallico[123]; e i calendarj fissano al 25 febbrajo il comparir
delle rondini, e al 26 agosto il sorgere della costellazione del
vendemmiatore.

[AGRICOLTURA]

Ben presto d’agricoltura prosperò l’Italia, e prodotto principale
era il frumento, massime il _triticum durum_, usitatissimo col nome
di _far_ o _adoreum_, e il _triticum compositum_, tanto fruttifero,
che a Leonzio in Sicilia dava sin cento chicchi per uno[124]; e non
che bastare al paese, si mandava fuori[125]. La segale era coltivata
soltanto dai Taurini[126]; poco l’avena: l’orzo serviva solo agli
animali domestici: del miglio e del panico, ricchezza della fertile
Campania, si faceva pane e minestra.

[PIANTE]

Molti e squisiti vini; talchè, anche dopo conosciute Grecia e Spagna,
Orazio onora di suo difficile gusto quasi unicamente i nostrali,
e Plinio dice che di questi soli imbandivansi le imperiali mense.
Columella e Plinio nominarono da cinquanta specie di vigne, ed è
difficile l’accertare quali essi indichino coi differenti nomi,
mentre neppur oggi ci accordiamo a riconoscere al nome quelle che si
coltivano tuttodì. Certo grandissima cura vi adoperavano intorno,
e studiavano a non mescolar le specie, e assegnare a ciascuna il
terreno appropriato, acciocchè conservassero le proprie qualità. La
vite coltivavasi già allora come oggidì, traendo profitto dal terreno
frapposto; ed ora si lasciava serpeggiare per terra, ora sospendevasi
a pali o ad alberi, quali il pioppo, l’olmo, la quercia; e credevasi
migliore il vino delle più elevate. Ma Cinea ambasciatore di Pirro,
assaggiando il vino d’Aricia, esclamò:—Non mi fa meraviglia se è così
aspro, essendo la madre attaccata a una forca sì alta». Oggi pure gli
stranieri stupiscono della nostra storditaggine, essi che legano le
viti a bassissimi pali: ma il vario suolo esige varia coltura; e se
abbiamo vigneti bassissimi e fin a terra in Lombardia, chi conosce il
Polesine, il Ravegnano, la Puglia, comprenderà che cosa significassero
i maritaggi delle viti coll’olmo e coi pioppi, e come fosse possibile
far tavole e porte con tronchi di vigna segati.

Conosceasi il torcere il picciuolo de’ grappoli già maturi,
alcuni giorni prima di coglierli, come ora si pratica col tokai;
spampanavansi; talvolta si sgranavano le uve, poi si pigiavano, si
torchiavano, e il succo facevasi colare in una cisterna di mattoni
intonacata. Il vino torchiato era di seconda qualità. Il migliore
talvolta raccoglievasi in capaci olle, e si lasciava sottacqua per un
mese e più, presumendo con ciò togliergli la tendenza al fermentare:
sommergendolo nel mare, si credeva acquistasse il profumo di vecchio.
Altre volte nell’està seguente esponeasi per quaranta giorni alla vampa
del sole. Da poi si scoprì che l’acqua di mare, ridotta a un terzo col
bollire, ed aggiunta al vino, lo _maturava_. Coll’ebollizione pure si
restringeva il vino troppo acquoso e talvolta formavasi il vin cotto:
metodi tutti non affatto dismessi.

Grand’attenzione si prestava a tagliare i vini, mescolando le varie
qualità; e vi si univano pece, trementina, fiori di vite, bacche di
mirto, foglie di pino, mandorle amare, cardamomo, altre erbe fragranti.
L’acidità se ne correggeva introducendo creta, latte, conchiglie
pestate, gesso, ghiande torrefatte, scorbilli di pino; o tuffandovi un
ferro rovente: aggiungeanvi pure del solfo, ma non pare vel bruciassero
per solforare come oggi si fa, nè che si sapesse chiarificare
coll’albume d’uovo, sebbene Orazio indichi che a ciò s’adoprava
talvolta il torlo d’uovo di piccione.

Il professor Tenore e il danese Schouw vollero ricercare quali piante
fossero conosciute nell’antico Pompej, inducendolo e dagli avanzi
che se ne scoprono e dalle pitture. Queste rappresentano talvolta
paesi egiziani od altri stranieri, oppure del tutto fantastiche, come
quella dove un lauro rampolla dal fusto d’un dattero: ma quando pare
si volesse copiare il vero, gli alberi più consueti sono il pino
pignuolo e il cipresso, il pino d’Aleppo, l’oleandro, l’edera: si
trovarono anche pinocchie carbonizzate; ma non le due vegetazioni, oggi
caratteristiche di que’ paesi, l’agave americana e il fico opunzio,
introdotte solo dopo scoperta l’America. È difficile accertare se fosse
coltivato il dattero, che nelle pitture di Pompej figura soltanto in
soggetti egizj o con significato simbolico. Teofrasto dice abbondava
in Sicilia la palma nana (_chamerops humilis_), che oggidì trovasi
appena rarissima nella baja di Napoli, ed è la sua gemma terminale
quella che alcuni scambiarono per un ananas. Il cotone, che ora veste
i campi attorno a Pompej, non appare dalle pitture, e coltivavasi
solo nell’India e nell’Egitto, donde fu recato fra noi dagli Arabi.
Ignoto era pure il gelso bianco. Vedonsi cipolle, rafanelli, rape,
zucchette e mazzi d’asparagi, che non somigliano ai nostri coltivati.
L’ulivo era delle coltivazioni più importanti, e alcuni de’ suoi frutti
si trovarono in conserva. Fichi e viti erano comunissimi; e peri,
pomi, ciliegi, pruni, peschi, melogranati, nespoli compajono nelle
composizioni: ma non mai nè limoni, nè cedri, nè aranci, che sembra non
s’introducessero qui prima del iii secolo. De’ cereali il più coltivato
era il frumento, poi l’orzo; non la segale, nè l’avena: è dipinta una
quaglia che becca una spiga d’orzo, e un’altra una di panico.

[ANIMALI]

Da’ bovi si disse venuto il nome d’Italia[127]: i majali della Gallia
cisalpina nutrivano eserciti interi[128]: le lane supplivano ed alla
seta nei vestiti signorili, ed alla tela nelle trabacche militari.
Quella d’Apulia otteneva il vanto fin sulla milesia, e per conservarla
morbida e immacolata, rivestivansi le pecore con altre pelli: di
quelle finissime del Padovano si tessevano abiti e tappeti[129]; di
bianchissime se ne tondeano intorno al Po, di nerissime a Pollenza;
e per riputate che fossero le spagnuole, le nostre vinceanle in
durata[130]. Di cavalli pure s’abbondava; i veneti erano cerchi anche
fuori, e numerose razze nutriva la Puglia[131].

[ECONOMIA. COMMERCIO]

Sono vestigia dell’antica sapienza pratica alcuni proverbj citati
da’ Romani, e che doveano aver corso prima che la coltura venisse
abbandonata a mani servili.—Tristo agricola (dicevano) quello
che compra ciò che il fondo può somministrargli. Tristo capocasa
quel che fa di giorno ciò che può far di notte, eccetto il caso
d’intemperie; peggiore chi fa ne’ giorni di lavoro quel che potrebbe
ne’ festivi; pessimo quel che nei dì sereni lavora a tetto, anzi
che all’aperto[132]. Il campo dev’essere minore delle forze del
coltivatore, sicchè nella lotta questo a quello prevalga. Seminagione
tempestiva spesso inganna; seminagione tarda non mai, se pur non fosse
cattiva[133]. Non arare terra cariosa; non defraudare la semente[134].
Pregavano che le biade prosperassero per sè e pei vicini, e i censori
punivano colui che arava più che non vangasse[135]. Più tardi d’opimo
guadagno teneansi i prati; e Catone, interrogato qual fosse il primo
modo d’arricchire coll’agricoltura, rispose:—I molti pascoli»; quale
il secondo,—I pascoli mediocri»; quale il terzo,—I pascoli sebbene
cattivi»[136]. Egli stesso diceva che «Ben coltivare è ben arare».
Nè altrimenti che collo sminuzzamento della proprietà e coll’assidua
coltura de’ terreni sarebbe potuto alimentarsi tanta popolazione sopra
un territorio di mediocre estensione[137]. Cavavansi marmi e metalli; e
più tardi il senato romano vietò di occupare più di quattromila uomini
attorno alle miniere del Vercellese[138].

[COMMERCIO]

I popoli avveniticci prendevano stanza più volentieri vicino alle
coste, conoscendo opportunissima al traffico l’Italia. In fatto la
superiore manteneva commercio coll’Illiria, ed insigne emporio e
mercato era Adria: a Genova i Liguri barattavano legname, resina, cera,
miele, pellame, con biade, olio, vino, grasce[139], e mandavano fuori
grossi sajoni, detti ligustini: i Bruzj asportavano pece e catrame;
Veneti, Sanniti, Pugliesi, la lana: per la via Salaria, traverso
all’alto Appennino, i Sabini venivano a prendere il sale nella marina
de’ Pretuzj; gli Umbri il cavavano dalle ceneri; Liparioti, Rutuli,
Volsci, Campani scorrevano il mare su barche lunghe e veloci; i Liguri
su piccole rozzamente attrezzate.

[DIALETTI]

Niuna cosa (ha detto il Vico) s’involve dentro tante dubbiezze
ed oscurità, quanto l’origine delle lingue ed il principio della
propagazione delle nazioni[140]. Si disputa tuttodì se il linguaggio
sia naturale o convenzionale, e perciò se regolato dalla logica
o dall’uso, vale a dire dall’analogia o dall’anomalia. Noi già
professammo la nostra credenza, nè questo è luogo a sì complicata
controversia. Ben dei dialetti italici sarebbe importantissima la
conoscenza, come quelli che ci avvicinano alla culla della lingua più
importante fra le europee, la latina: ma le poche iscrizioni che ne
sono l’unico avanzo, bastano appena a erudite congetture. L’osco, in
cui trovasi moltissimo di sanscrito[141], estesissimo anche ai Sabini e
agli Ausonj[142], e che sopravvisse alla nazione, non doveva differire
se non nelle forme dall’umbro e dal latino.

[SAPIENZA]

Quale filosofia seguissero gl’Italiani, ignoriamo; pure dalla loro e da
quella dei Pitagorici dovette comporsi la primitiva latina, benchè i
posteriori, abbagliati dalle greche, non tenessero conto delle dottrine
nazionali, e le confondessero colle epicuree e colle stoiche. Da due
fonti si è tentato argomentarle, il linguaggio e la giurisprudenza. Il
Vico nell’_Antichissima sapienza degli Italiani_, osservando di quanta
filosofia fossero pregne le voci latine, arguì che i prischi Itali
dovevano essere argutissimi pensatori, e propose di estrarre da voci e
frasi il loro sistema di metafisica, di fisica e di morale. Soltanto
sulla metafisica condusse egli il lavoro, e mostrò che, secondo i
primitivi Latini, erano identici il _vero_ e il _fatto_; Dio sapeva le
cose fisiche, l’uomo le matematiche, contraddicendo ai Dogmatici che
credeano saper tutto, e agli Scettici che nulla; esser Dio il perfetto
vero, al quale sono conosciuti gli elementi intrinseci ed estrinseci
delle cose, mentre l’intelletto umano non procede che per via di
divisione, e ricava dalla scienza l’ente e l’uno; nell’anima dell’uomo
presiede l’animo, nell’animo la mente, e nella mente Iddio; il qual Dio
volendo fa, e fa coll’eterno ordine delle cose, non già per fortuna o
caso.

Se il metodo del Vico parrà a tutti di troppo arrischiata congettura,
ancor meno valore può avere per chi, come noi, supponga che nel
linguaggio sieno depositate le prime rivelazioni divine, necessario per
dar lume alla mente e sviluppo alla ragione. E poichè le lingue non
sono formate da filosofi ma dal popolo, in esse si trovano attestati
non il grado del sapere, ma le verità di senso comune; ed è impossibile
sceverare quel che un popolo vi pose di suo, da quanto ricevette per
tradizione. Anzi dalla fratellanza delle lingue nostre colle greche
troppo precipitosamente alcuni indussero la somiglianza di civiltà,
quasi non potesse l’una che derivare dall’altra. Le nozioni di Dio e
delle arti primitive erano anteriori alla separazione dei popoli, e
perciò spesso s’incontrano comuni le parole che le esprimono; mentre
diversissime quelle relative a diritto e legalità.

[DIRITTO]

E perciò migliore argomento della sapienza degli Italiani può
offrire la giurisprudenza, la quale fondasi sovra principj anteriori
all’importazione greca. Secondo quelli, l’uomo è un essere naturalmente
ragionevole e libero, e la persona è l’uomo col proprio stato; lo stato
suo è naturale o civile; per natura gode la libertà, cioè può fare ciò
che la forza o il diritto non vieta, nè esso può alienarla. Per diritto
civile però ammettevasi la schiavitù, e lo schiavo era diminuito del
capo, era uomo non persona[143]. Mentre è della femmina la debolezza,
la dignità è del maschio, solo capace di patria potestà e d’impieghi.
Figliuolo è quello che nasce da giuste nozze; laonde sono insociali
l’adulterio, l’incesto, il concubito. Consideravano come cosa tutto ciò
che può essere computato nei beni, compresi i diritti: il diritto però
non era corporeo, ma uno per eccellenza, indivisibile, inestinguibile,
superstite all’oggetto su cui cadeva: non si acquistava nè perdeva
altrimenti che colla volontà o col consenso.

Del resto, quand’anche si volesse trarre dai Greci la civiltà italiana,
ben tosto se ne separò essenzialmente. In Grecia scomparve di buon’ora
la predominanza delle famiglie, mentre in Italia il diritto privato si
fondò sul diritto delle genti, che si perpetuò. Fra i Greci prevalse
l’individualità, fra noi lo Stato, l’autorità, la riflessione, l’idea:
laonde in quelli signoreggiò l’arte, nei nostri il dovere. In Grecia
arrivò al colmo la individuale indipendenza; in Italia incontriamo
patriarchi, i figliuoli legati a questi, i padri legati al Governo, il
Governo agli Dei.



CAPITOLO VI.

Primordj di Roma. I Re.


Ora dalla mescolanza di Latini, Sabini, Etruschi vediamo formarsi il
popolo, che per lunghi secoli dominerà tutto il mondo civile, e che è
il più degno di storia perchè rimase come il prototipo delle nazioni
d’Occidente.

[IL LAZIO]

Il Tevere, che in 300 chilometri di corso riceve la Chiana, la Nera,
il Teverone, finchè per le due bocche di Fiumicino e d’Ostia scarica
pigramente nel Tirreno, è il maggior fiume dell’Italia peninsulare,
ma disavvenente e ingrato. Fra esso e il monte Albano, e fra Tivoli
e il mare un arido e ondulato cantone di appena quaranta miglia di
superficie confinava a mattina e a scirocco coi Volsci; a occidente
esso fiume il separava dagli Etruschi; a settentrione l’Aniene e il
monte Lucretile dagli Equi e dai Sabini. I quali Sabini dalle alture
appennine aveano snidato gli Aborigeni; e cresciuti di gente, calarono
in quel piano dilatato, che perciò denominarono Lazio; e soggiogati o
respinti i Siculi, vi presero stanza, edificando i casali di Laurento,
Preneste, Lanuvio, Gabio, Aricia, Lavinio, Tivoli, Tuscolo dalle mura
di massi quadrilunghi; Ardea capitale dei Rùtuli, ricchi di commercio,
che mandarono colonie fino a Sagunto di Spagna.

Le distinte popolazioni di quel paese, che Dionigi Alicarnasseo dicea
formare quarantasette Stati indipendenti, e probabilmente volea dire
Comuni, erano congiunte dal vincolo religioso, e alle ferie Latine
convenivano tutte sul monte Albano per quattro giorni di solenne
sacrifizio, del quale portavano a casa le carni: a Tivoli interrogavano
la fatidica Sibilla; dal profondo della selva Albunea raccoglievano
oracoli dal comune iddio Fauno; in onore di Pale dea dei pastori
celebravano le Palilie al 21 aprile, quando il sole entra nel segno
del toro, animale venerato in Italia, e quando primavera rinnova la
natura. Festa tutta rusticale, ove le pecore si aspergevano d’acqua
santa; pastori e pastorelle ornavansi di frondi e ghirlande; alla dea
offrivasi del miglio in corbelle di paglia, e latte ancor tepido, e la
si invocava ripetendo tre volte verso Oriente la prece rituale; poi
il preside del sacrifizio beveva da una ciotola di legno latte e vin
caldo, astergeva le mani in acqua viva, saltava traverso un fuoco di
paglia, e purificava se stesso[144].

[ALBALUNGA]

Anche dopo gl’incrementi d’Alba e di Roma, metropoli dei Latini fu
tenuta Lavinio, città sul mare, dov’erano deposti gli Dei penati
de’ Latini. Questo fatto darebbe a supporre che per mare vi fosse
venuta la gente sacerdotale che portò nel Lazio la religione, e che
è simboleggiata in Saturno, quivi celatosi dalle persecuzioni di suo
figlio Giove[145].

[1300? av. C.]

[1250?]

Per antichissimi re del Lazio sono mentovati Pico, Fauno, Latino.
Regnante Fauno, quivi approdò una colonia di Arcadi, cioè di Pelasgi,
condotta da Evandro, e sedutasi in riva al Tevere, vi fabbricò
Palanzio[146]. Due generazioni più tardi, regnando Latino, giunse
un’altra colonia pelasga, cioè profughi di Troja, che, distrutta
la patria loro dai Greci congiurati, qui ne cercavano una nuova e
dominio[147]. Enea, principe trojano che li guidava, sulle rive del
fiume Municio, detto Laurento dai lauri che le vestivano, sconfisse
Turno principe de’ Rutuli, sottentrò a re Latino, e collocati i
profughi lari in Lavinio, alla dinastia indigena surrogò la sua
propria. Questa ebbe poi reggia in Albalunga, la quale fu madre di
trenta città, poste in altura e rinforzate già di muraglie da Pelasgi
ed Etruschi, quali erano Camerio, Nomento, Crustumeria, Fidene,
Colazia, Gabio ed altre, futuri trofei di Roma. Ad Enea successe nel
regno Ascanio suo figlio, poi una mal determinata serie di re fino ad
Amulio.

[ROMOLO]

[796]

Costui, usurpato al maggior fratello Numitore il trono, costrinse Rea
Silvia, unica figliuola di quello, a consacrare la propria virginità
a Vesta. Pure il dio Marte la rese madre di due gemelli. Gettati
nel Tevere onde sperdere il pericolo di pretendenti, dall’onda,
più mansueta che lo zio, furono deposti a piè d’un fico selvatico,
e allattati da una lupa. Venuti in età, conobbero l’esser loro, e
colle prodezze raccoltasi attorno una masnada di valorosi Latini, la
aquartierarono sulle rive del Tevere a sedici miglia dallo sbocco e
poco dopo il confluente del Teverone, ove già cinque razze di popoli
s’erano stabilite e scomparse[148]: contrada silvestre, ondeggiante
su molti colli, quali il Saturnio, da poi Capitolino, elevato appena
sessantacinque metri sopra il mare, ma orrido di sterpi e rupi;
l’Aventino il maggior di tutti, nereggiante di lecci e lauri; il Celio
(Laterano), detto Querquetulano perchè tutto a querce; il Viminale dai
vimini, l’Esquilino o Fagutale dagli eschi e dai faggi; il Palatino,
sacro a Fauno silvestre, con un bosco del dio Pan, dal quale le lupe
scendevano ad abbeverarsi nel Tevere, i cui trabocchi stagnavano alle
sue falde: e bosco e palude erano tra il Capitolino e il Quirinale,
oggi monte Cavallo[149].

[ORIGINE DI ROMA]

[753]

Su quei colli, meno insalubri che la pianura, al punto ove confinavano
Latini, Sabini, Etruschi, fondarono una città, e la chiamarono Roma
cioè _forza_ nel linguaggio comune, Flora nel linguaggio sacerdotale,
oltre un terzo nome arcano, che si pronunziava soltanto nelle cerimonie
più secrete[150].

Romolo, ucciso il fratello Remo, domina senza competitore, e cresce
la sua città pubblicando:—Chiunque vi venga, avrà asilo e mercato
franco»; i primi coloni col titolo di patrizj sono il tutto della
terra; rimangono plebe gl’indigeni soggiogati, o i ricoverativi da poi,
ma a quelli si collegano in qualità di clienti, non potendo se non per
mezzo di questi patroni ottenere giustizia, la quale venendo resa con
forme rituali, non potea spettare che ai patrizj, unici possessori
della religione e del diritto.

[749]

Romolo sparte i cittadini in tre tribù, e da ciascuna sceglie cento
cavalieri per la guerra, cento senatori per l’amministrazione. Onde
aver matrimonj rapisce fanciulle dai Sabini, i quali, venuti per
vendicarle, non pure sono pacificati, ma formano un popolo solo col
romano, prendendo stanza sul Quirinale coi proprj Dei, nettando dagli
stagni e dalle foreste la valle fra il Palatino e il Campidoglio perchè
servisse di piazza ai due popoli, che aveano accomunato l’acqua e il
fuoco, e stabilito un tempio a Vulcano pei parlamenti. Cameria, Fidene,
Vejo, altre vicine città sono conquistate, trasferendone a Roma gli
abitanti, e di romane colonie popolando que’ paesi. Romolo, morto o
ucciso, è annoverato fra gli Dei.

[714]

All’eroe succede il legislatore, al romano il sabino Numa Pompilio, che
ispirato dalla ninfa Egeria, istituisce, o introduce dalla Etruria le
vergini vestali, i sacerdoti feciali, e preci e festività e cerimonie
religiose; a lui cadono dal cielo gli Ancili, scudi che rimasero un
altro dei pegni sacri della fortuna di Roma; riforma il calendario,
consacra le proprietà col culto del dio Termine, distribuisce il
popolo in maestranze d’arti, fonda il tempio di Giano nell’Argileto.
Secolo d’oro, tutto quiete e concordia, sicchè il tempo di Numa restò
perennemente desiderabile.

[I RE DI ROMA]

[671]

Ma presto il sereno sparisce. Il bellicoso re Tullo Ostilio apre guerra
contro Alba, capitale dei Latini e madre di Roma; e vien definita col
duello di tre fratelli Orazj con tre Curiazj; Alba è a suon di trombe
distrutta, i cittadini trasferiti a Roma sul monte Celio, e la guerra
continua per sottoporre le città che a quella avevano obbedito. Ma
mentre vuole, coi riti insegnati da Numa, placare le divinità adirate,
Tullo rimane colpito dal fulmine.

[639]

Anco Marzio, suo nipote e successore, vince Fidenati, Volsci, Vejenti,
Sabini, Latini; prepara il porto di Ostia, le saline e il carcere
Mamertino a piedi del Tarpeo; fortifica l’Aventino e il Gianicolo per
assicurare dagli Etruschi la navigazione del Tevere; fa scolpire le
leggi sacre, delle quali rinnova il cessato vigore.

[614]

Tarquinio Prisco, oriundo di Corinto e lucumone d’Etruria, ottiene lo
scettro romano, favorito da augurj; aggrega cento nuovi senatori, due
nuove vestali; fabbrica acquedotti, cloache, i portici del fôro, il
Circo Massimo tra il colle Palatino e l’Aventino, il tempio di Giove
sul Campidoglio; vince Sabini, Latini, Etruschi, coi quali ultimi fa
pace: pace generosa, dove nè tampoco esige tributo, ma solo vuole
riconoscano la sua supremazia mandandogli la corona, lo scettro, i
fasci, le scuri, il trono d’avorio. Al fine è assassinato dai figli
d’Anco Marzio, pretendenti al trono paterno.

[578]

Non l’ottennero però essi, bensì uno nato schiavo, poi fatto genero
da Tarquinio, e nominato Servio Tullio. Costui rinnova guerra agli
Etruschi, violatori dell’accordo; i Latini unisce nel culto di Diana
sull’Aventino; amplia il recinto della crescente città, sicchè abbracci
sei colli sulla sinistra e il Gianicolo sulla destra del Tevere, e
la divide in quartieri; introduce le monete e il censo; distribuisce
il popolo in classi e centurie a norma della ricchezza, non in tribù
a norma dell’origine; e accortosi come facilmente abusi chi tiene
il sommo potere, voleva abdicare e istituir la repubblica, ma fu
assassinato da Tarquinio suo genero.

[534]

[509]

[496]

Questo col titolo di Superbo tiranneggia i sudditi, e si tiene alleato
ai prepotenti vicini e signorotti del Lazio, i quali lo proclamano
capo della lega Latina, e consentono a Roma il primato ne’ sagrifizj
che alle ferie Latine celebravansi sul monte Albano; dei reluttanti
trionfa, e singolarmente di Gabio e Suessa Pomezia; in Roma costruisce
le cloache; dal Campidoglio esturba gli altri Dei acciocchè vi rimanga
unico Giove; compra da una fata i libri Sibillini che preconizzano
il destino di Roma. Ma avendo suo figlio Sesto violentato Lucrezia
matrona, questa si uccide, e per vendetta di quel sangue Tarquinio
viene espulso da Collatino marito, da Lucrezio padre e da Giunio Bruto
parente della generosa: alla monarchia surrogasi la repubblica con due
annui consoli, la quale ne’ maggiori frangenti si affida agli arbitrj
d’un dittatore. Vinto Tarquinio che tornava alla riscossa, sventato
l’interno tentativo d’una controrivoluzione, respinto il re etrusco
Porsena ch’era venuto per ripristinare i Tarquinj, data al lago Regillo
una battaglia ove, mediante il valore d’Albo Postumio e l’assistenza
dei Diòscuri, i re perdettero le ultime speranze, Roma nell’esaltamento
della vittoria e della libertà cresce di potenza.

In questo tenore i primi tempi di Roma ci sono raccontati dai classici
scrittori, e massime da Tito Livio; ed ognuno fin dalle scuole apprese
i drammatici episodj ond’è ripiena quell’orditura. I poveri montanari
di Tazio sabino portavano braccialetti d’oro, che allettarono l’avidità
di Tarpea a introdurli in città. Tre Orazj nati ad un parto combattono
contro tre Curiazj ad un parto pur nati; e un di loro vince, ma poi
vedendo in pianto la sorella, segreta amante d’uno de’ nemici, la
uccide, e condannato dalla legge, s’appella al popolo e n’è assolto.
Clelia fugge dal campo degli Etruschi, passando a nuoto il Tevere fra
cento dardi nemici. Bruto assiste intrepido al supplizio de’ proprj
figliuoli, felloni alla libertà ch’egli avea donata alla patria. Muzio
Scevola va per assassinare Porsena, e scoperto, lasciasi bruciar una
mano per mostrare quanta sia la fermezza de’ congiurati. Orazio Coclite
solo[151] resiste s’un ponte di legno a tutta l’Etruria; e Roma gli
regala quanto in un giorno possono circuire due bovi, cioè da tre
miglia, essa che appena dieci ne possedeva in giro alla sua città.
Seguono poi la favola di Menenio Agrippa, e più tardi l’eroismo de’
trecentosei Fabj al fiume Crémera, la tirannide d’Appio Claudio, le
vittorie di Quinzio Cincinnato, quella di Furio Camillo sui Galli.

[CRITICA DELLA STORIA PRIMITIVA]

A tali nomi e storie, è assicurato il privilegio di più non perire;
ma reggono alla critica? La successiva durata del regno di que’
sette principi, la varietà delle loro azioni, il pieno ed ordinato
intreccio degli avvenimenti, la corrispondenza con tradizioni d’altri
paesi, vi danno piuttosto aria di poesia; e forse furono dedotti
da epopee nazionali che cantavansi ne’ banchetti, e dove, sotto
sembianza individuale, venivano rappresentati caratteri storici e
tipi d’un’intera età, o sotto forma d’avvenimenti la successiva
formazione della città e l’origine del diritto romano[152]. Ma come
osar di espungere del tutto quai favole quelle tradizioni ch’erano
tenacemente credute dal popolo romano, e che operarono sulla successiva
sua storia? I singoli luoghi conservavano nomi e memorie e reliquie
di que’ primitivi mortali. «Tu dormi, o Bruto?» si scrive sulla porta
di Marco, acciocchè la memoria del primo Bruto lo inciti a redimere
anch’egli da un tiranno la patria: l’odio contro il nome di re costa
la vita a Cesare: per recuperare l’oro gallico si risolve una guerra.
Chi potrà però dire quanto le tradizioni greche, la vanità dei retori,
l’ambizione delle genealogie abbiano alterato la verità? A sincerarla
si volsero potentissimi intelletti, quali il napoletano Vico nella
_Scienza Nuova_, e un secolo dopo il danese Niebuhr nella _Storia
romana_: ma se riuscirono talvolta a felicissime divinazioni, sono a
gran pezza dall’offrire un accordo che appaghi la ragione, e lo storico
trovasi ancora avviluppato nel labirinto critico. Studj sì lunghi, sì
laboriosi, e poi non ritrarre che dubbj! Fra questi tentiamo anche noi
qualche uscita.

Re Latino ci è dato per figlio dell’iperboreo Pallante o di Ercole, e
d’una figliuola di Fauno; onde può indicare una gente settentrionale,
mescolatasi cogli indigeni. Evandro che viene d’Arcadia, personifica
i Pelasgi. Che dalla distrutta Troja sieno passati coloni nel Lazio,
aveasi da tradizione vetustissima: Timeo, nel 490, scriveva che i
Lavinj conservavano ne’ tempj statue trojane d’argilla; il senato
medesimo più volte motivò su quella credenza i suoi trattati. Non fu
dunque prepostera importazione dei Greci, ma opinione nazionale; il
che però non significa che fosse vera, nè forse esprime altro se non
che Alba fu, al pari di Troja, fondata da gente pelasga. Enea, simbolo
dei vinti che nelle contese eroiche sono costretti a fuoruscire, dalla
tradizione era fatto combattere con Turno (forma latina di Tirreno)
e con Latino che muore in battaglia[153]. Le nozze del Trojano con
Lavinia rappresentano il patto di concordia fra i natìi e quel pugno di
prodi stranieri[154].

Un pugno, eppure potrebbe darsi avessero acquistato il dominio, come
fecero i conquistadori in America: ma la lista dei re d’Alba è di
recente confezione e variata. Ne’ primordj di Roma, le favole stesse
rivelano l’indole del popolo che le inventò, vigoroso, perseverante,
ma duro, inesorabile, e insieme di spiriti positivi, come appare
dall’attribuirsi ai primi re istituzioni civili.

[TENTATIVO DI SPIEGAZIONE]

Forse i sette colli erano occupati da altrettante città pelasghe o
etrusche, cui una banda di pastori montanari soggiogò. Roma, che
sorgeva sul colle Palatino, distrusse Remuria sua sorella che l’aveva
insultata: sul Quirinale stava la città sabina dei Quiriti, dalla
cui alleanza si formò il popolo de’ Romani-Quiriti. Quelli che ci
s’insegnano come nomi proprj dei re, forse non sono che appellativi di
caratteri ideali: Romolo figlio d’un dio e che morendo sale agli Dei,
Numa che favella con una ninfa divina, conservano aria di personaggi
mitici, e potrebbero designare due età succedentisi, l’eroica e la
sacerdotale.

Romolo nasce da Marte, il dio sabino, e da una sacerdotessa di Vesta,
dea pelasga della civiltà fondata sugli accertati possessi e sulla
famiglia. Fuoruscito della patria[155], pianta la sua rôcca s’un’altura
al cui scarco ricettava il vulgo, protetto e dominato dai forti, i
quali attendono alla guerra mentr’esso esercita le arti e i campi.
Prima occasione di briga sono le donne, solita tentazione de’ popoli
rozzi: ma esse vi compajono dall’origine con una maggior dignità che
nell’Asia e in Grecia; resistono in prima ai rapitori, poi si fanno
mediatrici della pace fra mariti e genitori: onde in Roma si professa
poco amore sempre, ma riverenza verso quel sesso; le spose, tratte con
simulata violenza dalla casa paterna, non attendono ad altri lavori che
di filar lana; hanno la man dritta per le vie; cosa inonesta in loro
presenza non si dee fare o dire; i giudici capitali non possono citarle.

Troviamo dunque registrate come concessioni e come accordi le lente
acquisizioni del tempo, e l’effetto della mescolanza delle schiatte.
Il terreno che nelle guerre si guadagna, va spartito fra i patrizj; i
vinti rimangono plebe; e così la gente romana trovasi divisa in due
classi, come tutti i popoli antichi; conquistati e conquistatori,
dominanti e obbedienti. Ma i vinti non caddero sì basso come altrove; e
invece di due Caste, di separazione insormontabile perchè sancita dalla
religione, ne vennero due partiti politici, che sin dal principio si
disputavano la preponderanza; e le _minori genti_, plebee ma libere,
diventarono fondamento alla potenza di Roma.

Dal rapimento delle fanciulle nasce una guerra col sabino Tazio,
terminata mediante una transazione, per la quale i due popoli si
collegano: la collina romana del Palanzio e la sabina del Quirinale
sono congiunte, e come confine fra di esse viene eretto il tempio di
Giano, bifronte acciocchè guardi ad entrambi; con porte che stiano
spalancate in tempo di guerra onde soccorrersi a vicenda, chiuse in
tempo di pace onde le indiscrete comunicazioni non sovvertano la
quiete. I due popoli strinsero reciproci matrimonj[156]; aggregarono in
un senato solo cento padri per ciascuno; una sola assemblea elettiva,
con un solo re, forse scelto a vicenda; onde si disse _populus romanus
quirites_, mutato poscia in _populus romanus Quiritium_[157].

[NUMA]

[RITI]

E dalla gente sabina fu scelto il nuovo re Numa, nel quale però si
riscontra più volentieri l’indole sacerdotale dell’Etruria, donde
forse allora si chiesero costumi e riti per digrossare i guerrieri di
Romolo-Quirino. L’erudizione, quanto più stenebra le origini romane,
discopre sempre maggiori elementi da attribuire all’Etruria: e di là si
dice che, regnante Numa, fossero introdotte le cerimonie e le lettere,
l’anno di dodici mesi, civilmente consacrata la proprietà col culto del
dio Termine, ossia Giove pietra; partito il popolo in corporazioni
d’arti e mestieri[158]; si comincia a tenere il registro degli annali,
come era consueto in tutte le città etrusche; e la fiera città dei
Romani-Sabini assume aspetto religioso, fondando ogni diritto sopra gli
Dei, e dagli Dei e per gli Dei credendo operata ogni cosa. Cerimonie
del culto, annestate con quelle dello Stato; legislazione religiosa,
compenetrata alla civile e politica, onde regolarne i diritti con forme
impreteribili, che sono privilegio d’un’aristocrazia sacerdotale,
sentono affatto dell’incivilimento etrusco. La casa era dei Lari, la
tomba dei Mani, dio genio il matrimonio; sacro il reo, sacro agli
Dei del padre il figliuolo impietoso, sacro a Cerere chi mette fuoco
alle biade, sacre le guerre, sacro il diritto, come si esprimono le
Dodici Tavole; solenni sono le azioni giuridiche, sacramento è la
contestazione civile, supplizio la pena corporale; agli Dei soli spetta
l’iniziativa degli affari umani, esercitata mediante la classe sacra
dei patrizj, ai quali soltanto è concesso di prendere gli auspizj senza
di cui non restavano sancite e legittime le proprietà, le nozze, le
decisioni. Le magistrature, fin la suprema, sono sacerdozj; Numa si fa
inaugurare s’una pietra misteriosa[159]; e ai magistrati è riserbato
il chiedere dal cielo i responsi. Il _pomœrium_, cioè il giro di
censessanta piedi dentro e fuori delle mura, primo asilo del popolo, è
sacro ed orientato a similitudine del cielo; sacra la precinzione della
città, e delitto il travalicarla. Il focolajo domestico è sacro, e la
famiglia costituita sul culto degli avi e sul dogma delle solidarietà.
Il padre è una specie di dio umanato; somiglia a creazione l’atto suo
di dar la vita; mediante le azioni proprie e de’ figliuoli merita di
divenir lare. Obbligo inseparabile dalle eredità sono i sacrifizj
espiatorj, annualmente fatti dai maschi discendenti, con tanto rigore
che, se un debitore muoja insolvibile e lasci soltanto uno schiavo,
questo è affrancato acciocchè i suffragi non rimangano interrotti.
La classe sacerdotale pervenne a disarmare il popolo, talchè nessuno
compare in città con armi, e i conquistatori del mondo sono una _gente
togata_.

[RELIGIONE]

Molte somiglianza, e massime la venerazione pel bue e i sacrifizj pei
padri defunti, diedero a supporre che la religione romana venisse
dall’indiana[160]; altri la dedussero dalla greca; noi da una superiore
fonte comune, modificata da credenze nazionali, dall’indole del
popolo e dal tempo. Mentre in prima non si veneravano che i due lari
pelasgi Vesta e Pallade, furono poi adottati il latino Giano e il
sabino Marte, e a fianco a questi una generazione di numi agresti.
In ciò la romana già si scevera dalla mitologia greca, alla quale
soprasta anche per l’attribuire a tutti gli Dei funzioni analoghe
alla conservazione e al perfezionamento dell’uomo[161]. Anzi, al modo
dei misteri di Samotracia, veri iddii primitivi si consideravano
soltanto il Cielo e la Terra[162], quasi le due metà del gran tutto,
che è il mondo; e vulgarmente si personificavano in Saturno e Ops,
o Bona Dea, da cui poeticamente diceansi generate Giunone, Vesta,
Cerere, cioè i matrimonj, la casa, la fertilità[163]. L’introduzione
delle tre maggiori divinità etrusche, le quali poi furono denominate
Giove, Giunone, Minerva, non accadde senza contrasto. Ogni città
etrusca dicemmo come dovesse avere un tempio a ciascuno de’ tre Dei,
ed altri piccoli n’aveano aggiunti i Sabini sul Campidoglio. Ma gli
auguri, consultati con riti che, dall’antico come dal nuovo culto,
erano tenuti superiori fin a quelli degli Dei, proscrissero una dopo
l’altra queste edicole che impedivano d’estendervi il recinto del nuovo
tempio di Giove: a niun patto però vollero recedere Termine e Gioventù,
due divinità appartenenti a quelle religioni de’ Genj, che trovammo
speciali agli antichi Italiani.

La famiglia divina in Roma fu compiuta soltanto dopo la cacciata dei
re; e comprendeva dodici Dei Consenti; sei maschi, Giove, Nettuno,
Vulcano, Apollo, Marte, Mercurio, e sei femmine, Giunone, Cerere,
Vesta, Minerva, Venere, Diana, detti anche celesti, nobili, grandi,
delle maggiori genti. Il culto degli Dei _selecti_ o intermedj pare
risalga all’età de’ Tarquinj; e sono, Saturno, Rea, Giano, Pluto,
Bacco, il Sole, la Luna, le Parche, i Genj, i Penati. Seguono gli Dei
inferiori, divisi in _indigéti_ e _semoni_: ai primi appartenevano
Ercole, i Dióscuri Castore e Polluce, Enea, Quirino; agli altri Pan,
Vertunno, Flora, Pale, Averrunco, Rubigo. S’aggiunsero in appresso enti
morali, e numi delle genti sottomesse[164], adottati principalmente per
consulto dei libri Sibillini, che tanto contribuirono ad alterare la
religione romana: e allora spesso si cangiò il carattere delle divinità
primitive, e la casta Anna Perenna vestì le lascive forme dell’Anna
cartaginese, e Murcia matrona divenne la Venere Mirtia, e Flora la
voluttuosa Clori.

La religione romana, a differenza della libera, indipendente e
leggiadra de’ Greci, tenne sempre dell’arido e del prosastico, e fu
tutta politica; ristretta dai patrizj in un sistema, calcolato tutto a
loro profitto. L’Ancile, scudo di Marte caduto dal cielo, il Palladio,
lo scettro di Priamo, il carro di Giove rapito da Vejo, le ceneri
d’Oreste, la pietra conica, il velo d’Elena o d’Iliona, costituivano
pegni sacri dell’esistenza e prosperità di Roma[165]. Ad ogni festa
erano affisse rimembranze storiche, associandosi così religione,
politica e moralità.

Con Tullo Ostilio la storia distaccasi dagli Dei, e si fa umana,
forse ritraendo il tempo che la robustezza latina rivalse sopra la
dominazione sacerdotale. Allora pertanto Orazio vincitore de’ Curiazj
uccide la sorella, innamorata d’uno di questi, e il padre loro esercita
il diritto patriarcale, dichiarando assolto il fratricida: Meto
Fufezio, che stette ambiguo fra i Romani e i nemici, è squartato: Alba,
distrutta dalla città figlia, cede a questa il primato che esercitava
nella federazione italica. Dove già compare quel meraviglioso sistema
di Roma d’affigliare i popoli forestieri nella sua cittadinanza, e
mandar colonie fra’ conquistati, estendendo così la patria, che doveva
poi abbracciare l’intero mondo. Ma Tullo Ostilio, che vorrebbe usurpare
anche gli uffizj del sacerdozio e i riti fulgurali, rimane colpito da
un fulmine o dalla gelosia sacerdotale.

[ANCO MARZIO]

Anco Marzio presenta fisonomia ambigua: conquista, e al tempo istesso
fabbrica; apre il porto d’Ostia, sebbene gran tempo dopo troviamo i
Romani sprovvisti di navi; pubblica i misteri della religione, eppure
per secoli ancora stettero incomunicati ai plebei; stabilisce i Latini
sull’Aventino, eppure gran tempo dopo passa la legge che distribuisce
fra’ plebei le terre di quel colle. Che che ne sia, egli introduce
a Roma famiglie etrusche; e queste vi fanno sentire la superiorità
dell’ingegno sovra la forza, e un lucumone primeggia a segno, che
riesce a succedergli col nome di Tarquinio Prisco.

[TARQUINIO PRISCO]

Il costui regno è un’età etrusca, sottentrata all’età mitologica e
alla sabina. Il patriziato sacro dei lucumoni di Tarquinia educa il
guerresco de’ Quiriti, e v’introduce arti ed agi di gente civile: a un
regno di pochi anni, e la cui estensione si abbracciava con un giro
d’occhio, s’attribuiscono larghi dominj, edifizj ai quali bastano
appena molte generazioni: Tarquinio conquista Sabini, Latini, Etruschi;
eppure, poco dopo, la sola Clusio mena Roma all’orlo della ruina, e
dieci anni si richiedono per soggiogare Vejo. Tale contraddizione però
non toglie di supporre che Tarquinio (nome generico degli Etruschi,
della cui federazione forse facea parte anche Roma) abbia dato alla
città col governo militare quella forza, che indarno egli erasi
ingegnato d’attribuire all’Etruria, cioè l’unione, facendola capo d’una
lega che abbracciò ben quarantasette città, forse quelle che prima
teneansi colla distrutta Alba.

[SERVIO TULLIO]

Celio Vibenna, fuoruscito dall’Etruria con un codazzo di clienti e
servi, aveva invaso Roma. Lui morto, Mastarna, generatogli da una
schiava, ne raccolse la masnada, e tanto procedette che riuscì a farsi
re di Roma col nome di Servio Tullio. Questo fatto, ignoto a Livio ed
agli storici comuni, ci è conservato in un discorso che l’imperatore
Claudio pronunziò nell’atto di ammettere in senato i Galli di Lione,
e che in questa città si trovò scolpito in rame; tanto più degno di
fede perchè sappiamo che Claudio aveva scritto la storia etrusca: ma,
d’altra parte, possiamo affidarci a un episodio che mal si connette col
resto?

Sia comunque, Mastarna o Servio ci rappresenta una rivoluzione in
favore della timocrazia, o, come diremmo oggi, dell’aristocrazia
pecuniaria, introducendo la costituzione censuaria dove gli uomini
son valutati a denaro, siano originarj od avveniticci. Le genti
successivamente venute si erano accasate in luoghi distinti: i
seguaci di Romolo sul Palatino, i Sabini di Tazio sul Campidoglio
e sul Quirinale, sotto Servio i Latini sull’Aventino, i plebei
sull’Esquilino, gli Albani sul Celio. Della piena cittadinanza però non
partecipavano se non le tre primitive tribù gentilizie, fin quando da
Servio furono surrogate le quattro tribù topiche, denominate secondo il
luogo che abitavano in città, la Palatina, la Esquilina, la Suburrana,
la Collina; in esse rimaneano i nullapossidenti e gli artefici, mentre
i proprietarj abitavano sui proprj fondi alla campagna, ripartita pur
essa in tredici tribù _rustiche_. Con ciò la distinzione di Latini,
Etruschi, Sabini restava assorta nell’unica nazione romana.

[TARQUINIO IL SUPERBO]

A Servio la tradizione fece merito di tutti i vantaggi acquistati dalla
plebe nel decorso di secoli: ricomprava i debitori caduti schiavi,
spegneva i debiti, spartiva le terre fra’ plebei, adunava i Latini
sull’Aventino, monte plebeo, non chiuso fra le auspicate e patrizie
mura di Roma. La figlia Tullia sposata a Tarquinio, e che, impaziente
di regnare, trama, fa uccidere il padre, e col proprio carro passa sul
cadavere di lui, indicherebbe gli aristocratici, che, per distruggere
le franchigie largheggiate alla plebe da Servio, dan mano ai lucumoni
etruschi. Questi, sotto il nome di Tarquinio Superbo, tornano a
dominare in Roma senz’avere il consenso delle curie, ed uccidono la
libertà, opprimendo del pari i nobili Sabini ed i plebei Latini, e
ripristinando le prigioni feudali.

Coi lucumoni ricompajono i riti e le divinazioni etrusche e il
linguaggio simbolico. Tanaquilla, moglie di Tarquinio Prisco, era una
specie di maga; profetizzava, incantava; vedendo un’aquila che leva il
berretto di capo a suo marito, vaticina ch’esso diverrà re. Ad Accio
Nevio, insigne per augurj, chiese Tarquinio se fosse possibile ciò
ch’egli avea pensato; e avuto il sì, disse pensava di tagliare una
cote col rasojo; e l’augure lo fece. Il figlio di Tarquinio Superbo,
presa per inganno Gabio[166], della cui grandezza sono ancor testimonio
le mura del santuario di Giunone, manda a chiedere al padre in che modo
tener soggetta quella città: e Tarquinio non risponde, ma passeggiando
pel giardino, fa saltare il capo de’ papaveri più alti, e comanda agli
ambasciatori, riferiscano a suo figlio ciò che hanno veduto. Allora dal
Campidoglio vengono sbandite le antiche divinità, riservandolo soltanto
al Tina o Giove etrusco; Tarquinio stesso sul colle Albano sacrifica il
toro nelle ferie Latine[167]. Una serpe esce dall’altare della reggia,
e toglie le viscere delle vittime, e si spegne il fuoco sacro; pei
quali portenti si va a consultare l’oracolo di Delfo.

E d’oracoli abbondava la prisca Italia, come quelli di Albunea e di
Tivoli; ma perdettero importanza dacchè si volle dedurre ogni cosa
dalla Grecia e dall’Asia Minore, dove pure conservavansi profezie di
Museo, di Bacide, di Tellia, delle Sibille: e forse ogni città ne
possedeva di proprie, e le traevano seco nelle migrazioni. Una colonia
di Cuma nell’Eolide portò a Cuma di Campania quelle della Sibilla
Cumana, la quale venne ad offrire i suoi libri a Tarquinio, che, dopo
averla più volte rejetta, li comprò, e li fece riporre nel tempio
perchè fossero consultati nelle gravi contingenze dello Stato[168].

[CACCIATA DEI RE]

Le tribù primitive, o per onte private, o perchè gli stranieri
conculcassero i loro privilegi, insorsero a danno de’ Tarquinj, e
gli espulsero abolendo il regno sacerdotale. Per sostenere i suoi
nazionali, Porsena, lare di Clusio, cavalcò addosso a Roma, la prese,
e la trattò con tale durezza, da vietare sino il ferro per altro uso
che per l’agricoltura[169]. Non sappiamo nè quanto durasse il dominio
militare, nè come se ne riscattassero i Romani; fatto è che, dopo la
battaglia al lago Regillo, nella quale periva il fiore de’ prischi
eroi, i patrizj posero a capo del governo due consoli annui tolti dalla
loro classe.

I Tarquinj personificherebbero dunque una dominazione di Etruschi; e
con essi cade la costoro superiorità, nè Porsena riesce a restaurarla,
perocchè vediamo i re andare in esiglio. Cessa allora l’influenza
etrusca, e ringagliardisce il carattere nazionale; laonde i Romani non
riescono imitatori, ma procedono con uno sviluppo regolare.



CAPITOLO VII.

Governo patrizio, e sue trasformazioni fino alla democrazia.


[CESSAZIONE DELL’INFLUENZA ETRUSCA]

A rettamente intendere il passaggio dalla Roma regia alla consolare,
nuoce la confusa interpretazione delle voci di re, popolo, repubblica,
libertà costituzionale. Nè assoluti nè ereditarj erano quei re, bensì
imbrigliati dal senato, dai patrizj, dal comune, dalle istituzioni
religiose e naturali, dal legame delle clientele. La libertà dell’uomo
rimaneva angustiata ne’ governi teocratici dell’Asia, ove tutto
imponendosi come volontà di Dio, s’escludeva la discussione, e si
teneva empietà il resistere e il disobbedire. Ma già i patrizj etruschi
si discernevano dagli asiatici pel doppio carattere di sacerdoti e
di guerrieri. Il Romano procede più innanzi; sommette la religione
allo Stato, e sceverandosi dalla teocrazia, costituisce un corpo di
cittadini, _padri_ e fondatori della patria, i quali scelgonsi un capo
(_rex_) affinchè li presieda quando essi deliberano, li meni alla
battaglia, renda giustizia. Il patrizio medesimo può esser re, generale
e pontefice: come re aduna il senato e il popolo, sentenzia anche de’
patrizj, ma con appello al popolo, cioè al Comune dei loro pari[170], e
dispone del territorio dei vinti.

Per popolo s’intendono le tre tribù, in cui riconoscemmo la forma
consueta alle società antiche, costituite da comunanza d’origine. Due
erano dapprima, dei Ramnesi e dei Tiziesi, vale a dire de’ Romani
e de’ Sabini: Tullo Ostilio v’aggiunse la terza dei Luceri quando
trasferì i vinti Albani sul monte Celio. L’accomunamento degli uomini
estendevasi anche agli Dei, che furono accettati insieme; al Flamine
diale e marziale si aggiunse il quirinale; le tre Vestali si crebbero
a sei, dette delle _minori genti_, che era pure il titolo dei cento
nuovi senatori aggiunti ai primi ducento, e che votavano con questi. Di
siffatta importante innovazione si fa autore Tarquinio Prisco[171].

[TRIBÙ]

Ciascuna tribù divideasi in dieci curie, vorrei quasi dire parrochie,
che probabilmente rappresentavano le genti diverse di cui componevasi
la tribù. Però fra tutta una gente non sussisteva necessario vincolo
di parentela e derivazione, siccome non sussiste da noi fra quelli che
portano lo stesso cognome; e nella medesima gente alcuni erano nobili,
altri plebei, sorti da matrimonj disuguali. Succedevano ai co-gentili
che morissero intestati; attribuivano il loro nome agli affrancati, i
quali rimanevano clienti.

[CURIE]

Un culto comune univa tutta una gente, come i Nauzj quel di Minerva,
i Fabj quel di Sanco, i Fontejo quel di Fonto figlio di Giano in sul
Gianicolo, di Ercole i Potizj, di Venere i Giulj, del Sole la sabina
gente Ausalia; gli Orazj l’espiazione d’una sorella assassinata.
Pertanto ciascuna curia aveva particolari giorni solenni, e sacrifizj
a cui tutti i contribuli doveano assistere, seguiti da pasti comuni; e
popolarmente eleggevansi un augure e un curione, preposto al culto.

[COMIZJ]

In principio due foggie di adunanze s’aveano: i comizj _curiati_ ed
il senato. Ne’ primi si radunava ciascuna gente, e vi aveano voto
i patrizj delle trenta curie. Da ciascuna tribù, curia e gente si
scelgono trecento _padri coscritti_, formanti la curia maggiore, il
senato; autorità legislativa, che poi si mantenne per qualunque mutare
di governo.

Le leggi riguardavano unicamente gli accomunati, non i forestieri;
laonde ai cittadini di terre alleate era necessario un patrono per
aver protezione dalle leggi vivendo, ed ottenere giustizia davanti
ai tribunali di Roma. Di qualche cittadino pertanto si rendevano
essi clienti; il che faceano pure antichi proprietarj sottomessi, e
delinquenti, e servi fuggiaschi, e debitori, venuti come ad asilo
presso i lari d’un nobile. Il patronato passava per eredità, e il
cliente doveva obbedienza e amorevolezza al patrono, concorrere a
pagare le ammende per esso, la dote alle figlie, il riscatto se
prigioniero; non poteva citarlo nè esserne citato in giudizio, nè l’uno
deporre testimonianza contro dell’altro. Al cliente mancava roba o
professione? il patrono gli assegnava casa e due jugeri di terreno a
precario[172]: moriva intestato? l’eredità di lui cadeva al patrono.

Roma, non che escludesse gli elementi stranieri come faceano gli
Ebrei e le altre società orientali, tendeva ad assimilarseli, nel che
consistette la sua missione provvidenziale. Onde la leggenda riferiva
che i primi venuti con Romolo portarono ciascuno un pugno della terra
patria, e la deposero nel comizio entro la fossa consacrata[173], quasi
a costituirsi anche materialmente una patria comune. I coltivatori de’
campi vicini, non reggendo alle nimicizie di essa, vengono a chiedervi
la protezione di qualche capocasa, e vi dimorano senza partecipare alle
ragioni civili, come sarebbero nozze, podestà patria, suità, agnazione,
gentilità, successioni legittime, testamenti e tutele.

[PLEBE]

Conquistato un paese, il terreno diventa di pubblico dominio: e
una parte resta al Comune, cioè a godimento de’ patrizj e de’ loro
vassalli; una parte al re, che ne assegna un terzo agli antichi
proprietarj. Questi aggregati o vinti formano la plebe: condotti a
Roma, ne diventano inquilini, ma senza voce perchè non ascritti alle
curie, che sole votano. Perciò anche fra’ plebei trovansi casate
illustri e laute fortune; nè si vogliono confondere coi clienti o coi
vassalli, che solamente tardi entrarono nella plebe man mano che le
famiglie si spegnevano, e che progrediva la libertà.

[COMIZJ TRIBUTI]

In siffatti governi aristocratici, collo estinguersi delle famiglie la
potenza si concentra in pochi, i quali governano a proprio vantaggio.
Per tener questi in briglia, e per diminuire gli sconci di due popoli
conviventi eppure distinti, i re favorivano il Comune plebeo, da cui
si levava la maggior parte dell’esercito, e che già sotto Anco Marzio
troviamo sussistere come porzione libera e numerosa della nazione.
Le barriere dianzi insormontabili si vennero abbassando; e un numero
di plebei introdotto fra i patrizj scemati di numero, diede nerbo a
questi, mentre lo sminuiva alla plebe. La prima riformagione a favore
della plebe fu quella che testè abbiamo accennata di Tarquinio Prisco,
che raddoppiò le centurie dei cavalieri, i vuoti che s’erano fatti
nelle curie empiendo con illustri famiglie plebee, mentre i patrizj
duravano ripartiti per tribù di famiglie. Ma d’una riforma radicale
si fece autore Servio Tullio introducendo i plebei come membri della
città, mediante il sistema amministrativo delle tribù, ed il militare
e politico delle centurie. Ripartì egli la plebe stessa per tribù, non
più d’origine ma di luogo, inserendovi ogni facoltoso non patrizio,
e assegnando a ciascuna magistrati e feste ed esattori. Per tale
disciplina, accanto al _popolo_ de’ patrizj si collocarono trenta
_comuni_ de’ plebei, che radunavansi in comizj _tributi_. Forse il
patrizio aggregato alla tribù conservava l’antica influenza, ed egli
solo veniva eletto alle magistrature come pratico; ma intanto trovavasi
accomunato col plebeo in divisioni territoriali, dove nulla più contava
l’origine.

[COMIZJ CENTURIATI]

Acciò poi che tutti concorressero agli ordinamenti fatti pel comun
bene, Servio distribuì patrizj, clienti e plebei di città e di
campagna in centurie, le quali, a proporzione del censo denunciato
con giuramento, partecipassero al suffragio ne’ comizj _centuriati_.
Pertanto, conservate le sei centurie de’ cavalieri, ne formò
dodici altre di plebei, abbastanza facoltosi per potere in guerra
equipaggiarsi a proprie spese: la residua plebe fu distinta in cinque
classi, e sistemata essa pure in centurie. Organamento fondamentale,
che veniva a fondere le famiglie patrizie col Comune plebeo, per
assicurare di quest’ultimo la libertà e i diritti, senza però togliere
il governo ai patrizj. Aveasi a votare? il cliente non era più contato
come una voce sola col suo patrono, ma si univa alla propria centuria;
cittadino della piazza anch’egli, non più uomo dell’atrio[174].

[GOVERNO ARISTOCRATICO]

Vennero così censettanta centurie di plebei, dodici di cavalieri
plebei, sei di cavalieri patrizj. Le centurie si suddividevano in
_giovani_ dai diciassette ai quarantacinque anni, formanti l’esercito
mobile; e _seniori_ dai quarantasei ai sessanta, esercito di riserva
pel caso di estremi pericoli. Da questa sistemazione militare
risultavano dunque quaranta centurie di giovani della prima classe,
trenta delle quali formavano la divisione detta dei Principi o
Classici, perchè, essendo ricchi, poteano provvedersi di belle e
robuste armi; e dieci quella de’ Triarj: altrettante centurie di
Seniori. La seconda, la terza e la quarta classe ne davano dieci
ciascuna per gli Astati, dieci pei triarj; la quinta ne somministrava
trenta di Accensi, dall’armatura leggera, schierate in battaglioni di
tre di fronte e dieci d’altezza. Siffattamente restava costituita la
legione di quattromila cinquecento uomini, divisi in cinque coorti da
trenta centurie ciascuna, ed ogni centuria da trenta uomini: nelle
prime due coorti i principi e gli astati, detti antesignani perchè
messi davanti alla bandiera; poi i triarj e gli accensi. Adunque chi
più possedeva godea maggior dose di diritti civili, ma sopportava pesi
maggiori, vuoi nel tributo, vuoi nell’esercito.

Pei comizj si raccoglievano nel campo di Marte le centurie, ciascuna
sotto al proprio centurione o capitano; udivano dal senato proporsi le
elezioni o le leggi; ed esse le poteano approvare o respingere, ma nè
proporre nè discutere. Qualora approvassero, faceva ancora mestieri
del consenso delle curie. Donde siete chiari che il predominio restava
ai patrizj, giacchè nel senato possedeano la maggioranza de’ voti,
e ne’ comizj curiati poteano disdire quel che fosse stabilito nei
centuriati, soverchiando i plebei mediante la loro concordia. Soli in
pieno possesso del diritto divino ed umano, essi garantivano per sè
soli la libertà personale e la legalità del possedere: e poichè ne’
servigi si valeano degli schiavi, rimaneva intercettata a’ plebei la
via d’acquistar ricchezze e importanza mediante l’industria.

Forse però de’ plebei si valsero i patrizj per infrangere la monarchia
sacerdotale[175]: ma colla cacciata di Tarquinio il Superbo (trama
de’ patrizj e insurrezione contro un capo, in tutt’altro senso che
di libertà popolare) ai plebei più non restò veruno schermo contro
l’arbitrio de’ forti; esclusi dal senato, non protetti più dal
sacerdozio nè elevati dai re; e tutti i diritti concessi al primo
tempo consolare, compresa la _provocazione_ di Valerio Publicola, o
vogliam dire l’appello al popolo, riduconsi, chi ben veda, a privilegio
de’ patrizj. Quella aggregazione di genti d’ogni stirpe che a man
salva erasi effettuata sotto i re, si trovò limitata dalla gelosia
aristocratica, risoluta a mantenere la città in istato mediocre, e
ridurre la plebe alla condizione dei clienti etruschi, per uscir dalla
quale dovette lottare due secoli. Attaccatasi dunque a conservare i
confini sia dei possessi, sia degli ordini, l’aristocrazia si munisce
con riti, con auspizj, con formole d’una impreteribile precisione: e
poichè la plebe non conosce quelle parole legali, quei riti che sono
indispensabili a far sacri i contratti, non può avere legittimità di
connubj, di famiglia, di possedimenti. A soli aristocratici spetta
il diritto della lancia (_jus quiritium_); soli essi possedono il
territorio legale, scompartito colle sacre contemplazioni e determinato
dalle tombe, fuor del cui limite la proprietà sussiste, ma non
conferisce diritti civili, giacchè il cittadino vero è quel solo che
possiede entro i limiti cerimoniali.

Eppure la religione cessò di essere soltanto negozio sacerdotale,
ed è divenuta politica: senza bisogno di sacerdoti, il patrizio
stesso esercita i riti privati; se maledice uno (_sacer esto_),
morrà; ai sacerdoti etruschi, confinati nel tempio senza attribuzioni
governative, si volge egli per consulti, ma all’uopo sa contraddirli,
ed anche castigati d’impostura[176].

La famiglia costituisce un legame politico e religioso di tale
severità, quale fra nessun altro popolo si trova[177]. Il padre solo
è indipendente (_sui juris_), e despoto sui famigliari; può vendere,
battere, uccidere gli schiavi, i famuli, i figliuoli; la donna si
rende infedele? o bee vino? e’ può ucciderla; può non raccogliere
il fanciullo nato mostruoso, cioè abbandonarlo a morire; ogni altro
figlio può vendere fin tre volte; può strapparlo giù dalla sedia
curule, dalla tribuna, dal carro trionfale, e giudicarlo nella propria
casa; l’emancipazione è castigo, giacchè il figlio non eredita se
non in quanto è suo del padre. Che non potrà un tal padre sopra
le parentele, i clienti, i coloni cui distribuisce le sue terre a
lavorare? Tutti questi nella città non hanno nè rappresentanza nè
ragioni, essendo manchevoli del diritto augurale, senza cui verun altro
se ne dà: rappresentanza e nome non ha se non il capocasa, il cui
diritto imprescrittibile si estende sulla terra, sui beni, sull’eredità
del nemico, sopra del quale possiede autorità eterna (_adversus
hostem æterna auctoritas esto_). Contro lui nessun’azione è data ai
dipendenti, nè egli può essere punito: misfece? la curia, cioè i suoi
pari dichiarano soltanto che ha operato male (_improbe factum_).

In siffatta posizione di cose, i patrizj scrupoleggeranno la parola
della legge anzichè lo spirito, il senso materiale della voce anzichè
il vero[178]; osserveranno gelosi il giuramento; faranno camminare le
leggi per fatti, anche dove riescono dure e spietate, come usa fin ad
oggi la ragione di Stato, che considera la salute pubblica per legge
suprema.

[AMPLIAZIONE PLEBEA]

Accanto a questi patrizj che rappresentano l’elemento orientale,
l’unità, l’esclusione, la nazionale individualità, i plebei
rappresentano il genio europeo, l’ampliazione, il progresso,
l’aggregamento; e il contrasto delle due forze, l’una conservatrice,
l’altra progressiva, forma il carattere e la gloria di Roma.

Per plebe non s’intenda quella ciurma delle grandi città odierne,
volubile stromento de’ demagoghi, che soffre i più gravi torti senza
tampoco avvedersene, poi a volte s’irrita per un nulla, e grida «Viva
la mia morte, e muoja la mia vita »; terribile nel giorno della
insurrezione, ben tosto baloccata dagli scaltri, che non solo le
fraudano le domande, ma ne profittano per serrarle il morso. Qui la
plebe era un popolo dove entravano famiglie ricche, persone assennate,
e al quale s’aggregavano anche antichi patrizj, come i Virginj, i
Genuzj, i Menj, i Melj, gli Oppj, gli Ottavj. La lotta dunque non era
fuor di proporzioni; la ragione potea contendere colla legalità: senza
il patriziato Roma avrebbe perduta l’originalità, senza la plebe non
avrebbe acquistato il mondo.

[CENSO]

Il territorio di Roma stendeasi appena otto chilometri fuori della
città, fra Crustumeria ed Ostia, talchè i consoli, quando cacciarono
i Latini, imposero non s’accostassero a più di cinque miglia da Roma;
e fin al tempo di Strabone additavasi a tale distanza un luogo detto
Festi, antico limite del territorio. Si estese poi, ma per lunga pezza
non oltrepassò Tivoli, Gabio, Lanuvio, Tusculo, Ardea, Ostia verso i
Latini; verso i Sabini, Fidene e Collazia. Su questo spazio i Romani
ci appajono piuttosto un campo che un popolo, disposti militarmente.
La prima numerazione sotto Romolo dava tremila uomini e trecento
cavalieri; quella al fine del suo regno, quarantaseimila dei primi
e circa mille degli altri. Quando il numero de’ cittadini era il
fondamento de’ suffragi, importava conoscere lo stato civile: e dai
primordj, o, come si dice, da Servio fu istituito che ad ogni nascita
si deponesse una moneta nel tempio di Giunone Lucina, ad ogni morte una
in quel di Libitina, una in quel della dea Gioventa ad ogni giovane
che prendesse la toga virile. Nell’età dei consoli, da seicentomila
abitanti, oltre gli schiavi, dimoravano sul piccolo territorio[179], ed
a ciascuno erano stati assegnati da Romolo due jugeri[180], che dopo
la repubblica crebbero a sette.

Senz’altro mezzo di guadagno che i campi e il bottinare, trovavansi
cinti da nemici, che nelle frequenti guerre ne saccheggiavano la
capanna e il terreno. In tali guasti il plebeo, che non potea colle
arti _sordide_ procacciarsi il sostentamento della famiglia, contraeva
debiti col patrizio, promettendo spegnerli la prima volta che fosse
condotto in corsa sul territorio nemico. Se l’occasione non nascesse o
non bastasse, egli era ridotto a ipotecare il camperello, sul quale il
patrizio gli prestava sino al dodici per cento.

[AVIDITÀ PATRIZIA]

Codesti patrizj, che nelle scuole ci sono dati per modello di
disinteresse, agognavano sempre maggior terreno; quelli ch’erano
venuti da altri paesi conservavano i possessi nella patria; altri li
compravano da liberi impoveriti: tanto che nel 387 di Roma fu già
necessaria una prammatica che vietava di possedere oltre cinquecento
jugeri. Più si smaniò di avere da che, coi comizj centuriati, il
potere politico non si misurò più dalla nobiltà, ma dai possessi; e
ad acquistarne non aprivasi altra via che o far guerra o spogliarne
il plebeo. Questo in fatti a breve andare si vedeva assorbito dal
debito il campo domestico, e più non potea rispondere al creditore che
colla persona propria, cioè coll’intera famiglia (_nexus_)[181]. «Se
scade il termine, come sarà trattato il debitore? citalo in giustizia:
se non compare, prendi testimonj, e costringilo: se età o malattia
il ritengono, procacciagli un cavallo, non la lettiga. Il ricco
garantisca pel ricco; pel povero, chi vuole. Confessato il debito,
giudicata la istanza, trenta giorni di proroga; poi si prenda e tragga
al giudice. Se non soddisfa, nè alcuno risponde per lui, il creditore
se lo conduca, l’attacchi con coreggie o catene, non pesanti più di
quindici libbre. Il prigioniero viva del suo, e dategli una libbra di
farina o più se volete. Se non s’accomoda, tenetelo in arresto sessanta
giorni; e per tre giorni di mercato presentatelo alla giustizia,
pubblicando il suo debito. Alla terza pubblicazione, se i creditori
sono molti, lo taglino a pezzi, se piace: oppure possono venderlo di là
dal Tevere»[182].

[I NEXI]

Pertanto all’aggravarsi d’una carestia, altri vendevano se stessi,
altri migravano, o gettavansi nel fiume: quest’era la libertà regalata
da Bruto. Qualora l’oppressione giunga all’eccesso, che partito
rimane? o, come i Negri d’America, avventar le fiamme alle case degli
atroci padroni; o conoscendo l’onnipotenza dell’unione, presentare
una compatta resistenza, e passo passo acquistare il diritto.—Opera
italiana.

Una volta ecco trascinasi sulla piazza un vecchio pezzente, irto
e sformato quasi una belva, eppure coperto il petto di cicatrici,
riportate in ventotto onorevoli battaglie, e colle insegne meritate da
lui e da’ suoi maggiori; tutti lo riconoscono, gli si serrano attorno,
interrogando perchè tanto sopraffannato; ed egli narra:—«Nelle guerre
coi Sabini ebbi arsa la casa, rapiti gli armenti; intanto crescendo
l’imposizione, carico di debiti, accumulate le usure, ho dovuto vendere
il podere; poi fui messo in arresto da un creditore, battuto a verghe,
menato a lavori forzati, anzi a vera carnificina».

I plebei, per un’indignazione avvivata dall’interesse, levano rumore,
e gridano:—Come? noi, vincitori di fuori, cosa siamo in casa? servi,
indebitati, prigioni; ecco i premj del valore, ecco la gloria d’esser
romani».

[504]

Il terribile accordo popolare sgomenta i senatori, che fuggono: i
plebei presentansi al console, mostrando i lividi delle catene e delle
battiture, e domandano si convochi l’assemblea; e non comparendovi
i senatori per paura, i plebei delusi infuriano. Atto Clauso sabino
erasi da Cure mutato a Roma con tremila clienti, ottenendo venticinque
jugeri di terreno per sè e due per ciascuno de’ suoi; e aggregato fra
i patrizj col nome di Appio Claudio, ne divenne corifeo, e consigliava
a domare i plebei colle bastonate; il suo collega Servilio invece
raccomandava la condiscendenza; ma nè essi, nè Valerio Publicola,
eletto dittatore, riescono a chetare.

[RITIRATA SUL MONTE SACRO]

[493]

I patrizj ascrissero a fortuna un’irruzione dei Volsci, contro de’
quali mandano a campo la plebe, promettendo sospendere le esecuzioni
contro i debitori che si arrolassero. I plebei si lasciano indurre,
giurano e vanno alla spedizione: poi accortisi del laccio, per eludere
il giuramento dato di rimaner fedeli ai capi propongono di trucidare i
consoli che l’aveano ricevuto; ma alcuno più mite li consiglia di levar
le aquile cui avevano promesso di non abbandonare, e vanno a piantarle
sul monte, che da ciò prese il nome di Sacro, e quivi accampati
tengonsi minacciosamente. Menenio Agrippa viene per rappattumarli,
esponendo ad essi la necessità d’un governo e del contribuire tutti
acciocchè quello si trovi in forza; e lo esprime colla favoletta delle
membra del corpo, le quali, lagnandosi perchè il ventre stesse indarno
mentre le altre tutte lavoravano, proposero non prestargli più il loro
servigio; ma la debolezza del ventre fu debolezza e morte dell’intero
corpo. La favola fu compresa da’ plebei, ma non si lasciavano
persuadere che questo ventre dovess’essere arbitro dell’intero corpo, e
men ciechi che non in secoli illuminati, non vollero desistere finchè
non avessero stipulati buoni patti; e a quella guisa che il Comune dei
nobili avea due consoli, così essi vollero due Tribuni, che tutelassero
il Comune plebeo[183].

[RITIRATA SUL MONTE SACRO]

Senza alcun distintivo, nè tampoco tenuti in conto di magistrati, da
principio i tribuni non godeano altro diritto che di intervenire al
senato, talvolta relegati nel vestibolo, e per nulla partecipi del
governo: ma rappresentando la plebe e proteggendone le franchigie,
essendo dichiarati sacri per modo, che i beni di chi gli offendesse
erano confiscati pel tempio di Cerere, e potendo opporre il _veto_
alle decisioni del senato, mediante questa libertà negativa, sublime
invenzione del senso pratico e dell’eminente istinto politico de’
Romani, salirono passo passo a grande potenza, colla quale giovarono
alla libertà più che non le eleganti legislazioni di Grecia o i
cianceri parlamenti moderni, e crearono il vero popolo restituendo
al plebeo la dignità d’uomo. Gran diminuzione recò alla podestà dei
consoli (riflette Cicerone) l’esservi un magistrato che da essi non
dipendeva, e nel quale trovavano appoggio magistrati e cittadini che
ricusassero obbedire ai consoli.

Libertà vera non si dà se non quando sia disciplinata; ed ecco che
la romana mette radice appunto perchè rende regolare e legittima la
sua resistenza. E subito s’accorsero i popolani dell’importanza di
quei patti, onde li legalizzarono con cerimonie solenni: sacre furono
intitolate quelle leggi, sacro il monte, sul quale fu alzata un’ara a
Giove tonante.

[TRIBUNI]

I patrizj sacerdotali aveano svagala e indocilita la plebe
coll’obbligarla a fabbriche; i patrizj guerreschi tentarono altrettanto
col menarla a battaglie. Di qui le interminabili guerre, di mezzo alle
quali tratto tratto i plebei levavano la voce a cercar l’_agro_, col
qual nome intendevasi dai poveri il pane, dai ricchi i diritti, i quali
andavano annessi, come ripetemmo, al territorio auspicato, circostante
a Roma. Il senato offriva terre lontane rapite ai vinti, e che essendo
fuori della linea sacra, non davano la partecipazione agli auspizj
nè la piena cittadinanza. I poveri di fatto v’andavano in colonie,
le quali estesero e protessero la romana potenza. Volevasi mandare
una colonia? il popolo raccolto sceglieva le famiglie, alle quali si
attribuivano particelle del territorio conquistato; e con militare
ordinanza vi erano guidati da tre triumviri. Fermatisi nel posto
assegnato ritualmente dagli auguri, scavavano una fossa, nel cui fondo
deponevano terra e frutti portati dalla patria; indi con un aratro dal
vomere di rame, strascinalo da un bue e da una giovenca, tracciavano
il circuito della futura città, a norma degli auspizj. Venivano dietro
i coloni, profondando la fossa e col cavaticcio alzando un terrapieno;
si abbattevano i termini e i sepolcri dei prischi possessori; infine
la giovenca e il bue s’immolavano a quella divinità che la colonia
sceglieva a speciale patrona.

[COLONIE]

Il senato avea cura che la colonia in nessuna apparenza differisse
dalla madrepatria; i duumviri tenevano luogo dei consoli, i
quinquennali de’ censori, i decurioni de’ pretori; governavasi in
comune plebeo: ma in realtà le colonie non erano destinate che a
semenzajo di soldati: Roma sola arbitra della guerra. Nè, come le
greche, rendevansi indipendenti man mano che si sentissero robuste, ma
erano puramente un’estensione della metropoli: vedeano sorgersi accanto
nuovi stranieri, adottati col nome di municipj, con fasto minore e
minor dipendenza; ma e colonie e municipj rimanevano agglomerati
intorno all’unità di Roma, sola sovrana, come il patriarca in mezzo
alla famiglia[184].

[LEGGE AGRARIA]

Questa deportazione mascherata, se soddisfaceva ai più poveri, non
illudeva i veggenti tra’ plebei, i quali «preferendo domandar terre a
Roma che possederne ad Anzio» (Livio), invocavano la _legge agraria_.

Comprendeva questa due proposizioni distinte: la prima di mettere i
plebei a parte del territorio quiritario, fonte del pieno diritto
civile[185]; la seconda di far che le terre, conquistate col sangue
di tutto il popolo, e usurpate la miglior parte dai patrizj, i quali
cessando di pagare l’imposto canone le consideravano per proprietà
allodiali anzichè allivellate, si vendessero o affittassero con equità
fra tutti.

[CORIOLANO]

[491]

Il senato, abile come i corpi costituiti e ristretti, traeva
profitto dalla docilità della plebe in tempo di sventura e dalla
sua sconsideratezza in tempo di prosperità: ma la plebe ritornava
colla suprema virtù dei deboli, la perseveranza. Nojato da queste
pretensioni, un giovane patrizio che avea tratto il soprannome glorioso
dalla vinta città di Coriolo, propone d’affamare il vulgo col non
cercare, nella regnante carestia, grani dalla Sicilia, e costringerlo
così a tacere. La proposta si divulga; la plebe, che su questo punto
non intende ragioni, monta in furore: i tribuni raccolgono i comizj
per tribù, e condannano Coriolano all’esiglio. Egli è costretto cedere
alla nuova potenza popolare, ma ne fa vendetta col guidare le armi dei
Volsci contro la patria; e Roma periva se Veturia madre e Volumnia
moglie di Coriolano non lo avessero indotto a cessare le armi e
rientrare in città.

Ma il colpo è ferito: i tribuni hanno conosciuto la propria potenza,
consistente nell’agitazione popolare; il patriziato non è più
inviolabile; e accanto alle assemblee per curie sorgono i comizj per
tribù, dove si giudica de’ patrizj stessi. I tribuni li convocano,
e vi fanno proposizioni: primo passo a ottenere che anche la plebe
s’ingerisca nella legislazione.

[472]

Davanti ad essi comizj furono pertanto citati coloro che si opponevano
alla legge agraria, Tito Menenio, Spurio Servilio, e perfino i consoli
Furio e Manlio: ma di tale procedimento si sgomentarono i patrizj, e
nel giorno del loro giudizio il tribuno Genuzio fu trovato morto nel
suo letto. Con arti siffatte i patrizj toglievano sovente di mezzo i
più fermi oppositori.

[APPIO CLAUDIO]

[470]

Percosso il capo, stavano per isparpagliarsi i plebei e rassegnarsi al
giogo, lasciandosi trascinare alla guerra, che dà sempre vigore alla
tirannia; quando il plebeo Valerio ricusa il suo nome alla coscrizione.
Un primo esempio basta spesso a grandi cose, e la plebe il seconda,
lo nomina tribuno con Letorio, il quale diceva:—Io non so parlare;
ma quel che una volta ho detto, so farlo. Domani adunatevi; e morrò
sotto ai vostri occhi, o farò passare la legge». Ma i patrizj compajono
all’adunanza cinti dai loro clienti, e l’inflessibile Appio Claudio
fa respingere ancora la legge agraria. La plebe che fa? si lascia
sconfiggere dai nemici, e sopporta la decimazione cui è condannata; ma
Appio citato ai comizj tributi, non si sottrae alla sentenza del comune
plebeo che col lasciarsi morir di fame. La plebe stessa lo ossequiò a
grand’onore, ammirando la fermezza, sebbene adoprata a suo danno.

[438]

A che dunque si riducevano le pretensioni di questa plebe, che voi,
o maestri, ci dipingete come riottosa avversaria de’ prischi eroi? A
domandar di possedere e di aver nozze legittime e riconosciute come
i nobili; e non già di potere sposarsi coi nobili, ma che i loro
matrimonj non fossero semplici concubinati, e che i generali fossero
non soltanto uomini[186] ma cittadini. I patrizj, al contrario,
arrogando a sè soli i privilegi, facevano di tanto in tanto eleggere un
dittatore, autorità suprema e dispotica che sospendeva le altre tutte,
perfino la tribunizia; o mandavano il plebeo in guerra sotto l’assoluta
disciplina; o quando nel fôro o nelle adunanze avesse gridato forte,
lo punivano davanti ai tribunali, de’ quali restava ancora ad essi
l’arbitrio. Il tribuno Lucio Icilio ottenne che l’Aventino fosse
abbandonato ai plebei, i quali vi ergessero le proprie abitazioni,
quasi in una fortezza opposta a quella dei nobili sul Campidoglio; e
in tale occasione introdottosi in senato, prese la parola, e cominciò
il diritto che poi i tribuni si assicurarono fin di convocare quella
assemblea.

[DENTATO]

[451]

Nè per questo la plebe dimenticavasi delle promesse; e confidente nella
propria ragione, tornava a chiedere i diritti annessi ai poderi, e che
si togliesse l’arbitrio ai magistrati coll’unificare la giurisdizione
plebea e la patrizia, e stabilire una legge uniforme e resa pubblica.
Alla perseveranza è serbata la vittoria. Sicinio Dentato, eroe in
cenventi battaglie per quarant’anni, carico il petto di quarantacinque
ferite, donato di quattordici corone civiche, tre murali, una
ossidionale, ottantatre collane, censessanta braccialetti d’oro,
diciotto aste, venticinque gualdrappe, venne tribuno, e ottenne quel
che da dieci anni si eludeva, cioè che, sospeso il consolato, fosse
demandata a dieci personaggi l’autorità di formar leggi e di metterle
in atto; due funzioni che l’antichità non soleva disgiungere.

[I DECEMVIRI]

[449]

La legislazione fu compiuta in dieci tavole; sentendovi però delle
mancanze, onde formarne due altre si nominarono per l’anno successivo
nuovi decemviri; ma questi, ch’erano ligi ai patrizj e ispirati da
Appio Claudio Crassino (famiglia ostinatamente avversa al popolo),
abusano del potere assoluto per sopraffare ed eternarsi il comando;
inviano a morte il prode Dentato; per libidine Appio insidia alla
figlia del plebeo Virginio, il quale per camparle l’onore la uccide;
corso al campo, eccita i soldati a vendicarla; e il sangue di una
casta fonda la libertà popolana, come quello di un’altra avea fondato
la libertà patrizia. I plebei, raccolti sull’Aventino, rielessero i
tribuni e i consoli, che resero forza ordinata la democrazia.

[LE XII TAVOLE]

L’opera dei decemviri fu il codice intitolato Leggi delle XII Tavole,
nella cui imperativa brevità si compila il diritto privato de’ Romani,
fuso con quello degli altri popoli accomunati. Antica fama dà che
queste leggi fossero raccolte in Grecia: ma già Polibio impugnava la
somiglianza di esse colle ateniesi, ravvicinandole piuttosto a quelle
di Cartagine[187]; e i confronti accertano che, se pure i compilatori
visitarono la Grecia propria e la Magna, nulla ne imitarono nelle
disposizioni essenziali e caratteristiche del diritto personale, nè
tampoco nelle forme di procedura; solo accordandosi in oggetti per
natura conformi, quale sarebbe il sospendere i giudizj al tramonto
del sole, o che posano sopra un diritto assai più esteso; per non
dir nulla di alcune minuzie intorno all’uso della proprietà, per
esempio la distanza fra le siepi e i fossi di confine, fra quelle e
le piantagioni. Del resto non orma delle leggi religiose di Grecia,
non della variante democrazia attica, nè delle immobili costituzioni
dei Dorici. A ragione dunque nelle XII Tavole noi cercammo le vestigia
dell’antico diritto italico; giacchè esse, come ogni altro codice,
non piantavano ordinamenti nuovi, ma invigorivano o modificavano
gli antecedenti e durarono qual fondamento del diritto civile sino
a Giustiniano, appunto perchè riepilogavano le credenze e i costumi
nazionali.

Roma, posta fra la rozzezza de’ montanari e la civiltà progredita degli
Etruschi e dei Magni Greci, da un lato era spinta verso il procedimento
di questa, dall’altro rattenuta nella stabilità dall’aristocrazia
territoriale, conservatile delle costumanze avite. E chi analizzi le
XII Tavole, arriva appunto a discendervi tre elementi: le vetuste
consuetudini del Lazio, rigide e fiere; quelle dell’aristocrazia,
eroicamente tiranna; e le libertà che i plebei reclamano e vengono
ottenendo; e non che apparire formate d’un getto e con unica intenzione
o scientifica o pratica, evidentemente rivelano il contrasto de’
patrizj che si ghermiscono all’antico privilegio aristocratico, e de’
plebei che cercano garanzie contro di quelli.

Tu ascolti i primi là dove è sancito che «il possesso di due anni
dia ragione sopra un fondo; che la frattura d’un osso si compensi
con trecento assi; che matrimonio non si leghi fra patrizj e plebei;
pena la morte contro gli attruppamenti notturni, o a chi farà incanti
e malefizj, od avveleni; l’autore di canzoni infamatorie perisca di
bastonate». Colle succitate minaccie contro i debitori e colle formole
impreteribili, l’ignorar le quali impedisce di ottenere giustizia, si
accoppia la voce popolare, chiedente sicurezza: La legge sia immobile,
universale, senza privilegi. Il patrono che attenta a danno del cliente
sia maledetto. Nessuno potrà esser privato della libertà. Il potente
che rompe un membro al plebeo paghi venticinque libbre di rame; se non
si compone col ferito abbia luogo il talione: cencinquanta assi chi
rompe la mascella allo schiavo. Non si esiga oltre il dodici per cento
d’interesse, e l’usurajo scoperto restituisca il quadruplo. Al debitore
non si metta più di quindici libbre di catena. Chi cade schiavo per
debiti non resti infame. Chi depone il falso venga dirupato dalla
Tarpeja. Il testimonio che ricusa attestare la validità del contratto
è improbo, e non può testare. L’insolubile possa esser fatto a pezzi,
ma solo dopo presentato tre volte al magistrato in giorno di fiera; e i
figli di esso rimangano liberi». S’ha timore che il nobile si vendichi
ne’ giudizj? ebbene, il delitto capitale non potrà esser giudicato che
dal popolo nei comizj centuriati; e il giudice corrotto muoja. Perchè i
nobili toglievano le bestie a titolo di sacrifizio, la legge permette
di prendere pegno sopra chi piglia una vittima senza pagare, e sotto
pena della doppia restituzione vieta di consacrare agli Dei un oggetto
in contestazione.

Alla famiglia patriarcale e aristocratica tu vedi pian piano surrogarsi
la libera. Il possesso d’una donna è dato non dalla compra, ma dal
_consenso_, dal _godimento_, dalla _possessione_ d’un anno, purchè non
interrotta per tre notti; e la donna non rimane acquistata come cosa,
ma in tutela, con libere nozze. Anche il figliuolo sarà emancipato con
tre vendite, simulazione che attesta il servaggio, ma che lo rompe; e
il figlio diventa esso pure padrefamiglia, nè più è collegato alla sua
che da una specie di patronato, sinchè verrà tempo che la legge dovrà
rammentare «anche il soldato esser tenuto a riguardi di pietà verso il
genitore». Nè i beni saranno vincolati all’eredità necessaria, fatale,
ma il padre testerà solennemente sui suoi e sulla tutela loro; cosicchè
la proprietà, incatenata dapprima alla famiglia, si riduce mobile a
seconda della individuale libertà, e bastano due anni a prescrivere il
possesso dei fondi, uno al possesso dei mobili.

Le leggi suntuarie, che il Vico supporrebbe introdotte soltanto
quando i Romani ebbero imparato il lusso dai Greci, a noi non ripugna
attribuirle a quei primi tempi, ma solo per frenare l’opulenza della
classe inferiore, mentre a pontefici, auguri, nobili, che rappresentano
gli Dei, era lecito sfoggiare ne’ sacrifizj pubblici e privati e nelle
pompe funeree. «Non foggiate il rogo colla scure. Ai funerali, tre
vesti di lutto, tre bende di porpora, dieci flautisti. Non raccogliete
le ceneri de’ morti per farne più tardi le esequie. Non corona al morto
se non l’abbia guadagnata col valore o col danaro, come poteva avvenire
nelle corse con cavalli proprj. Non fare più d’un funerale all’estinto;
non oro sul cadavere; ma se ha denti legati con filo d’oro, non glieli
strappare. I morti non si sepelliscano o brucino in città»; perchè i
sepolcri attribuivano una proprietà inviolabile.

Il fatto capitale del diritto decemvirale è l’aver sancita
l’eguaglianza civile, obbligando tutti alle medesime leggi pubbliche,
patrizj o no, sacerdoti o magistrati: ma lunga stagione voleasi prima
che la legge si riducesse un fatto. Imperocchè ancora nella famiglia
rimaneva l’antica esclusione; ancora il patrizio solo manteneva il
privilegio d’offrire i sacrifizj favorevoli e auspicati, e conosceva le
formole, le quali erano ritenute indispensabili per autorare i giudizj.

[LE FORMOLE]

Anche il nostro fôro impone certe formalità, senza delle quali alcuni
atti non sono legittimi, per esempio nel numero de’ testimonj, nella
tripla promulgazione delle nozze, nella firma, nella data ed altre
prescrizioni dei testamenti; e la mancanza di certi riti notarili, di
certe impugnazioni avvocatesche invalida le ragioni. Fra i Romani erano
assai più, eseguendosi una specie di scena per ciascun atto legale, con
tradizioni simboliche, con finta violenza. Per esempio, nelle nozze
davasi alla sposa un anello di ferro; nel riceverla alla casa maritale,
se gliene porgevano le chiavi; le si toglievano quando la si rinviasse
ripudiata. Si contraeva impegno collo stringere il pugno; conchiudevasi
il mandato (_manu data_) col dare la mano; denunziavasi il turbato
possesso col lanciare una pietra contro il muro illegalmente eretto;
s’interrompeva la prescrizione col rompere un ramoscello. Chi reclamava
un mobile, lo pigliava colla mano; per adire un’eredità, l’erede facea
scoccar le dita (_digitis crepabat_); si rincariva ad un’asta pubblica
col sollevare un dito. Il debitore che rassegnava i suoi beni ai
creditori, toglievasi e deponeva l’anello d’oro: per annunziare che lo
schiavo posto in vendita non si garantiva, gli si poneva il cappello.
Disputavasi della possessione d’un fondo? i due contendenti prendevansi
le mani, fingevano una specie di lotta, e poi andavano a cercar una
zolla del fondo contrastato. A questa corsa si sostituirono due
formole: il pretore pronunziava _Inite viam_, un terzo _Redite viam_,
supponendo incominciato e finito il viaggio nella sala d’udienza[188].
Per assumere uno in testimonio gli si diceva, _Licet antistari?_ se
rispondeva _Licet_, gli si replicava _Memento_, toccandogli il lobo
dell’orecchio. Il padrefamiglia emancipava un figlio dandogli uno
schiaffo; rito rimastoci nella cresima.

Da principio era arcano anche il calendario, che segnava in quali
giorni si potesse aver udienza, in quali no, in quali per metà: e il
plebeo che gl’ignorava, alle evidenti sue prove, ai giusti lamenti
trovavasi opposta l’eccezione legale insuperabile, e in conseguenza non
poteva presentarsi al tribunale se non per via d’un patrono, il quale
lo istruisse de’ giorni fasti e nefasti, e delle precise cerimonie, con
cui soltanto poteva trovar ascolto ed aver ragione.

[ROGAZIONE CANULEJA]

[414]

Sebbene le XII Tavole quasi nulla sancissero riguardo allo Stato, la
democrazia introdotta da esse nel diritto civile si comunicava al
politico: furono ripristinati i tribuni, potenza non frenata se non
dal dover essere tutti d’accordo; le leggi fatte dalla plebe raccolta
nei comizj tributi (_plebiscita_) divennero obbligatorie anche pel
nobile (_Quod tributim plebs jussisset, populum teneret_); nè vi erano
necessarj gli auspicj. Passo importantissimo, dal quale, essendo
tribuno Canulejo, i plebei procedono a domandare la comunicazione dei
matrimonj, giacchè, se alcuno sposasse una plebea, i figli seguivano la
condizione materna, nè ereditavano ab intestato; e i patrizj dovettero
concederla, restando da ciò abbattute le barriere fra le due classi.
Poi chiesero di poter aspirare al consolato; e i patrizj, piuttosto che
consentire, sospendono di eleggere i consoli, conferendo l’autorità
giudiziale a pretori patrizj, il comando delle armi a tribuni militari,
capi delle legioni, scelti fra nobili e plebei, non aventi diritto
d’auspizj.

[LICINIO STOLONE]

[366]

Eppure per lungo tempo non vi furono eletti che patrizj, bastando ai
più l’aver assicurato la proprietà e la persona. Questa però ogni dì
trovavasi in pericolo; sempre nuovi debitori erano condotti nelle
carceri private; la miseria non lasciava agio ai plebei di curarsi
della pubblica cosa, e l’oligarchia stava per soffocar Roma in cuna,
quando sorse il plebeo tribuno Cajo Licinio Stolone, uomo a torto
svilito dalla storia, scritta da aristocrati o col loro spirito, il
quale iniziò una rivoluzione incruenta, condotta per vie legali in
modo da assodare la futura grandezza di Roma. Propose egli una legge
che mitigava la sorte dei debitori, annullando gl’interessi accumulati;
un’altra che limitava a cinquecento jugeri la porzione individuale di
dominio pubblico (_ager_), e il resto de’ campi avesse a distribuirsi
ai poveri; una terza legge portava che uno de’ consoli fosse plebeo.

[353-334]

[339]

[305]

Dappoi i tribuni col frapporre il veto a tutte le elezioni, per modo
che Roma rimase lunga stagione senza magistrati, ottennero che plebei
entrassero nel collegio de’ sacerdoti sibillini, oracolo dello Stato;
potessero occupare e la dittatura e la pretura e il pontificato e
l’edilità. Anzi colle tre leggi del dittatore Filone Publilio fu
derogato il voto delle curie, sicchè più non ne occorreva l’assenso,
quel del senato bastando perchè i plebisciti acquistassero carattere
obbligatorio per tutti i Quiriti. Con ciò il senato prese il luogo de’
padri antichi, il popolo si trovò composto anche dei nobili; i tribuni
poterono pigliare gli auspizj ne’ casi ove consideravansi necessarj; e
un segretario d’Appio Claudio, per cattivarsi il favor popolare, rese
pubbliche le formole giuridiche simboliche e il calendario.

Anche ne’ costumi s’insinuava l’eguaglianza. Al Pudore Patrizio era
dedicata una cappella nel fôro Boario; ed essendovi venuta per gli
usati sacrifizj Virginia patrizia, sposa d’un console plebeo, le
matrone la respinsero, quantunque ella sostenesse,—Io posso entrare
come casta che sono, e sposa ad un sol uomo, cui sono andata vergine,
e del quale per carattere, imprese, dignità non ho che a gloriarmi».
Ella dunque nel proprio quartiere rizzò un altare al Pudore Plebeo,
esortando le popolane ad emular la castità delle patrizie, come
gli uomini faceano col valore: e a quell’altare, coi riti medesimi
dell’antico, sagrificavano le donne d’incontaminata reputazione e d’un
solo marito (_univiræ?_).

Di tal passo la plebe conquistò il diritto e l’equo Giove. I dissidj
tra le famiglie patrizie e le plebee continuavano, ma i due ordini
cessarono di formare stati distinti nella repubblica, la quale ormai
era democratica, mirabilmente temperata fra i diritti del popolo,
del senato e degli ottimati: la religione dello Stato mettendo ad
ogni cosa il suggello di formole inalterabili, ovviava e l’anarchia
demagogica e il militare despotismo. La legge, ch’è sacra ne’ tempi
sacerdotali, arcana nelle aristocrazie, allora trovavasi divulgata:
alla ragion divina degli auspizj, misteriosamente rivelata dai
sacerdoti, e alla ragion di Stato, ove il popolo eroico provvede alla
propria conservazione con un senato proprio, sottentrò la ragione
umana nell’equa partecipazione del diritto: il senato non è più
autorità di dominio ma di tutela, per riuscire poi di consiglio sotto
gl’imperatori: e la romana libertà si formola in queste tre frasi,
autorità del senato, imperio del popolo, podestà dei tribuni della
plebe.

[PLEBEI E NOBILI PAREGGIATI]

Roma dunque è nata dalla mescolanza di varie stirpi: il qual fatto
sembra infondere maggior vitalità, come vediamo oggi stesso negli
Anglo-Sassoni. In conseguenza, più che una limitata nazionalità,
ritroveremo in essa concetti d’universalità, quasi predestinata a
raccogliere intorno a sè gli elementi umanitarj. Faticosi ne sono i
cominciamenti, e tiene del rozzo, ma colla lotta perseverante elimina
le parti meno opportune per assimilarsi le solide: difetta di estro,
di candore, di semplicità, quanto abbonda d’energia e prudenza; non è
dotata di fantasia, ma di leggi e istituzioni. E istituzioni diverse
vi portarono Latini, Sabini, Etruschi; sicchè il bisogno di vagliarle
partorì la critica, e ne risultò quella legislazione, che i secoli più
non disimpareranno.



CAPITOLO VIII.

Politica esterna. I Galli. Il Lazio e l’Etruria soggiogati. Fine
dell’età eroica.


Questi progressi interni si maturavano in mezzo a non interrotte
guerre, colle quali Roma, più per sicurezza propria che per anelito
d’invasione, cercava sottomettersi tutta Italia.

Le popolazioni di questa si erano alterate pel contatto delle colonie
elleniche, e per le relazioni colla Grecia e coll’Asia Minore.
Tarquinio Superbo avea voluto rendere gagliardi gli Etruschi, e non
v’essendo riuscito, passò a rinforzar Roma, contro della quale poi,
come una madre contro la figlia, si armò Porsena. Di qui l’avversione
di Roma per gli Etruschi, a danno de’ quali procacciavasi alleati.

[VICINI SOGGIOGATI. I FABJ]

[493]

Il Lazio allora stava partito fra due leghe; Volsci ed Equi nell’una,
Latini ed Ernici nell’altra. I Romani patteggiano colle città del
Lazio, e—Finchè il cielo e la terra durino, ci ajuteremo a vicenda,
divideremo a pari le spoglie de’ nemici; le liti private si definiranno
nel termine di dieci giorni, e dai giudici del luogo ove il contratto
si fece»[189]. In prima dieci, poi trenta, poi quarantasette città
spedirono deputati alla fontana di Ferentino per trattare de’
comuni interessi; poscia il congresso detto _Feriæ latinæ_ si tenne
sull’Aventino e sul Campidoglio. Il diritto de’ Latini (_jus Latii_)
conferiva quello di matrimonio (_connubium_) fra i due popoli, in modo
che i figli seguissero la condizione del padre; e quello di commercio,
che dava la vindicazione, la cessione in giudizio, la mancipazione e il
nesso.

[VICINI SOGGIOGATI. CINCINNATO]

[477]

[458]

I federati osteggiarono la lega nemica: e sebbene gli storici
raccontino quasi solo vittorie dei Romani, lasciano trapelare
sconfitte. La famiglia de’ Fabj, composta di trecentosei membri e
con quattromila clienti, assume da sè la guerra con Vejo; e bastano
a sostenerla per due anni, finchè côlti alla sprovvista, sono tutti
uccisi presso il fiume Crémera. Più tardi Appio Erdonio sabino con
cinquemila uomini occupa perfino il Campidoglio, avendo i tribuni
impedito al popolo di prender le armi. Equi e Volsci dall’Albano e
dall’Algido calavano ogni tratto su Roma devastando e incendiando, poi
ricoveravano fra i patrj monti; sicchè non era possibile coglierli,
nè assalirne la capitale, e si dovette una ad una distruggere le loro
fortezze. Minucio console lasciatosi pigliare in mezzo dagli Equi,
era inevitabilmente perduto; ma Roma affidò la dittatura a Quinzio
Cincinnato, cittadino di gran prosapia e di modestissimo vivere, che si
tolse dal coltivare il suo camperello per vincere, e menato trionfo,
ritornò all’aratro.

Due secoli consumarono i Romani in tali piccole conquiste contro la
lega nemica, con una calcolata lentezza, un coraggio indomito da
disastri, una instancabile attività, che anche nella pace teneva
il pugno sull’elsa, spiando ogni avvenimento opportuno. Nè noi
sulle guerre sogliamo indugiarci; nè il lettore correbbe diletto od
istruzione dalle vicende di Tarento regno di Palante, di Tusculo regno
di Telagone, del _superbo_ Tiburi, sede dei Siculi poi de’ coloni Argei
e reggia di Tiburno discendente da Anfiarao: cittaduccie da nulla,
che pur lungamente bilanciaronsi con Roma, e diedero esercizio alla
grandiloquenza di Tito Livio.

I disegni di Roma erano agevolati dalla sconcordia di que’ popoletti,
la cui storia somiglia a quella delle nostre repubbliche del medioevo.
Ardea ed Aricia, disputandosi il possesso d’un terreno, si rimettono
all’arbitrato del popolo romano. Questo, raccolto per tribù, dà
ascolto alle discussioni; quando Publio Scepzio, che avea compito
ottantatre anni e fatto venti campagne, chiede la parola, e rammenta
come il terreno disputato appartenesse a Corioli, vinta la quale dai
Romani, non da altri che da Romani esso doveva possedersi. Fu dunque
aggregato al dominio pubblico: ma gli Ardeati si sollevarono; i patrizj
stessi, mal soffrendo che il popolo prendesse sempre maggior parte ne’
pubblici maneggi, disapprovarono il plebiscito, ma non aveano potere di
cassarlo, e gli Ardeati dovettero chinar il capo e accettare di nuovo
l’alleanza.

[VICINI SOGGIOGATI. ARDEA]

[442]

Eccoli ben tosto a nuovi cozzi. Due giovani aspiravano ad una
popolana bellissima: uno plebeo, favorito dai tutori di essa; l’altro
nobile, e protetto da’ pari suoi e dalla madre, ambiziosa del vistoso
collocamento. La discordia dalla famiglia si propaga alla città; i
giudici sentenziano per la madre; i tutori appellano al popolo, e
da una banda d’affidati fanno rapir la fanciulla; un’altra banda di
nobili, guidata dall’innamorato, vi si oppone: sono alle mani e al
sangue; la plebe respinta di città, getta ferro e fuoco sulle terre
de’ nobili, ingrossata da una moltitudine di artieri, e s’accinge
ad assediar la città. Estendendo l’ira privata, i popolani cercano
ajuto ai Volsci, i nobili ai Romani. Questi vi vedono l’opportunità
di riparare il torto fatto ad Ardea, e il console Geganio accorse a
cacciare i Volsci che già la stringevano, e presili in mezzo, li fa
passare sotto al giogo: poi nella ritirata assaliti dai Tusculani,
periscono fin ad uno: e la pace è rimessa in Ardea mediante il
supplizio de’ capipopolo[190].

[VEJO]

[425]

Nel tempo medesimo sulla sinistra del Tevere continuavano i Romani a
dar di colpo all’aristocrazia etrusca, conquistarono le sacre città
di Fidene e Tarquinia, assediarono Vejo. Dieci anni durò l’assedio; e
poichè si dovette svernare sotto le armi, per la prima volta i Romani
assegnarono un soldo ai combattenti, i quali così trovandosi mantenuti
e stipendiati, non ebbero fretta di tornar a coltivare i loro poderi,
e rimasero a disposizione de’ capi, che poterono assumere anche lunghe
imprese.

[CAMILLO]

[395]

Era scritto arcanamente ne’ libri fatidici dell’Etruria, che gli Dei
non abbandonerebbero le mura di Vejo, sino a tanto che il lago Albano
non fosse rasciutto, versandone l’acque al mare. Ai Romani non parve
ineffettibile l’impresa, e compirono quell’ammirato emissario di sei
miglia, cavato nella lava. Infine Furio Camillo, nominato dittatore,
propiziati gli Dei e procuratosi federati, per una mina penetrò in
Vejo, le cui immense ricchezze furono predate, venduti schiavi i
cittadini, portata a Roma la dea Giunone, ch’essa medesima, interrogata
se fosse contenta, avea risposto due volte sì; un vaso dell’enorme
valore di otto talenti fu spedito ad Apollo in Delfo; e le terre de’
Vejenti, malgrado l’opposizione de’ patrizj, furono divise a sette
jugeri per ciascun plebeo. Non tardarono a cadere e Capena e Falera
e Sutrio e Vulsinia; e Roma pareva a un punto di soggiogare tutta
l’Etruria quando le sopravvenne un nuovo flagello, i Galli.

[1304?]

Già vedemmo (pag. 44) come una numerosa tribù di questi invase
antichissimamente l’Italia col nome di Amhra, vinse i Siculi, e rimase
signora della val di Po, donde spinse le conquiste fino al Tevere, che
colla Nar e col Tronto fece confine al vasto dominio di essa. Lo divise
in tre regioni: Is-Umbria attorno al Po; Oll-Umbria pendìo occidentale
dell’Appennino; Vill-Umbria, la costa del mar inferiore fra il Tevere
e l’Arno. Fin trecencinquantotto borgate contavano le due prime: ma
gli Etruschi s’introdussero nella Vill-Umbria, spossessando i Galli,
non però sterminandoli; e guerreggiando l’Is-Umbria, pezzo a pezzo la
conquistarono, piantandovi dodici colonie. Degl’Isombri parte tornò
nella Gallia di là dall’Alpi, parte si ridusse nelle valli Alpine,
alcuni resistettero nel paese fra il Ticino e l’Adda. Gli Oll-Umbri
rimasero anch’essi soggiogati; e ridotti al cantone che da loro si
chiamò l’Umbria, presero costumanze e favella al modo de’ vicini.

[I GALLI]

[590?]

[587]

Di là dell’Alpi intanto, sull’immenso spazio da’ Pirenei al Reno
le varie tribù de’ Cimri, parte de’ quali erano i Galli, diverse
per coltura e per indole quantunque d’origine comune, s’agitavano e
combattevano. Molti Galli furono cacciati dalle loro stanze, e una
turba con Sigoveso si drizzò alla selva Ercinia e piantossi nelle alpi
Illiriche; un’altra di Biturigi, Edui, Arverni, Ambarri, col biturige
Belloveso piegò all’Italia. Pel Monginevro sbucata sulle terre dei
Liguri Taurini fra il Po e la Dora, drizzossi verso la nuova Etruria
posta sul Po; e quivi riconosciuti gli avanzi della prima migrazione,
come lieto augurio adottò il nome d’Isombri o Insubri, da quella
conservato.

[580]

I Galli sono distinti fra gli antichi per valore grande e impetuoso,
spirito franco, schiuso a tutte le impressioni, fina intelligenza,
estrema mobilità, repugnanza alla disciplina, ostentazione e vanità,
causa perpetua di disunioni. Della loro politica di qua dell’Alpi
altro indizio non resta che la costruzione di una fortezza in mezzo
al territorio conquistato, chiamata Milano[191], dove unirsi alle
assemblee ed ai sacrifizj. Altri sopraggiunsero col nome di Carnuti,
Aulerchi, Cenomani, guidati da Elitovio[192]; e aggregate coi primi le
loro forze, respinsero gli Etruschi di là dal Po, e fondarono Brescia e
Verona. Una terza orda col nome di Salj, Levi, Libici, irrompendo per
l’alpi Marittime, si assise ad occidente, sulla destra del Ticino.

[358]

Continuando di là dall’Alpi il movimento, anche Cimri proprj le
passarono, quali i Boi, i Lingoni, gli Anamani, che traversate
l’Elvezia e la Transpadana, varcarono l’Eridano[193]. I Lingoni ebbero
il triangolo fra il Po, la Padusa e il mare; gli Anamani, collocati
fra il Taro e la piccola Versa, popolarono Piacenza; i Boi, fra il
Taro e l’Utente (Montone), falla lor sede Fèlsina, la denominarono
Bononia. Ultimi de’ Cimri, i Senoni, respinti gli Umbri sino al fiume
Esi, stanziarono da Ravenna ad Ancona, ove fabbricarono Sena de’ Galli
(Sinigaglia). Così i Galli ebbero occupata la Transpadana, i Cimri la
Cispadana[194]. Parte degli Etruschi, impedita d’unirsi alla nazione
oltre il Po e l’Appennino, ricoverò fra l’Alpi, nel territorio che
dissero Rezia.

Il paese incivilito degli Etruschi fu tornato in selvaggia desolazione
da costoro, a’ quali parea scapito di libertà il chiudersi fra mura; e
di tante città fiorenti, cinque sole camparono, Mantova e Melpo nella
Transpadana, nell’Umbria Ravenna, Butrio, Arimino. Melpo perì non guari
dopo; le altre dovettero con gran cautela orzeggiare fra quei terribili
conquistatori, esercitandosi nel commercio, da questi avuto a vile. I
quali abitavano borghi smurati, senza mobili nè altre comodità della
vita; letto l’erba o la paglia; cibo la cacciagione; unica occupazione
la guerra; trofeo le teste de’ nemici, che pei capelli sospendeano alla
criniera de’ cavalli; ricchezza gli armenti e l’oro perchè si possono
trasportare (POLIBIO).

[GALLI CISALPINI]

Ogni primavera rompeano la pace, e scorrazzavano saccheggiando
dall’Adriatico fin nella Magna Grecia, costeggiando però il mar
Superiore onde evitare i montagnesi dell’Appennino e i robusti figli
del Lazio. Cresciuti di popolazione, vollero spedir fuori una colonia,
e trentamila Galli-Senoni varcarono i monti verso l’Etruria. Gli
Etruschi mandarono interrogandoli:—Perchè venite in paesi, ove i
padri vostri non abitarono?» Ed essi:—Noi cerchiamo posto; cedeteci
il terreno che a voi non serve, e saremo amici». Il sopraggiungere
di questi impedì agli Etruschi di soccorrere i lor fratelli di Vejo,
assediati da Camillo: e certamente le vittorie di Roma furono agevolate
dall’essere la potenza etrusca già scassinata nell’Italia superiore.

[396]

L’inveterata inclinazione degl’Italiani d’invocare nelle fraterne
discordie lo straniero, ci fa poi meno alieni dal credere che gli
Etruschi pensassero dar briga ai Romani coll’istigare contro di essi
i nuovi invasori; che in fatto difilarono sopra Clusio, città alleata
di Roma. E Roma mandò intimar loro si ritirassero; e i tre Fabj
ambasciadori vedendosi inascoltati, passarono nella città assalita,
e si posero a capo degli armati. Parve ai Galli una violazione
del diritto delle genti, laonde irritati, alla guida del Brenno,
come chiamavansi i lor capitani, e ingrossati di nuovi soccorsi,
batterono la marcia contro i Romani, li vinsero al fiumicello Allia,
che dai monti Crustuminj piove nel Tevere, e spogliati i cadaveri e
troncatine i teschi, si volsero sulla città. Côlti da terror panico,
o conoscendosi incapaci di difenderla, i cittadini l’abbandonarono,
sicchè Roma fu ridotta in cenere, scannati i senatori e i sacerdoti,
i quali, proferite le formole del sagrifizio, colle insegne di lor
dignità attesero inermi gl’invasori.

[CAMILLO]

[389]

Le Vestali e le cose sacre eransi ricoverate a Cere d’Etruria, il
vulgo nei paesi circostanti: ma il prode Manlio indusse un pugno di
risoluti a seco ricoverarsi nella rôcca del Campidoglio. Quivi tennero
saldo; ma già perduta la speranza del resistere all’armi e alla fame,
divisavano di capitolare, quando Furio Camillo, il vincitore di Vejo,
che dalla consueta ingratitudine de’ popoli era stato cacciato in
esiglio, e vivea ritirato in Ardea, pose in non cale i torti della
patria, e raccolti gli sbandati, e avuto il pien potere di dittatore,
sopraggiunse mentre a Pesaro (_Pesa-auro_) si trattava del riscatto a
denaro, e disse:—Col ferro, non coll’oro s’ha a redimere la patria»;
liberò la rôcca, espulse i Galli, ed attestò col fatto l’immobilità del
Giove Capitolino: laonde fu tenuto come secondo fondatore della città.

Così una tradizione di boria nazionale e patrizia, e tanto ricca
di poesia quanto di controsensi e disaccordi: ma un’altra più
positiva rivela qualmente i Galli fossero costretti allargare il
Campidoglio perchè i Veneti aveano invaso le loro terre cisalpine;
onde consentirono che i Romani si redimessero a prezzo d’oro, il quale
fu portato nella Gallia e custodito come segnalato trofeo, sinchè
più tardi venne ricuperato da Druso. Certo i Galli non isbrattarono
così tosto il paese; anzi, accampati a Tivoli, scorrazzavano per la
campagna; talchè i Romani posero il partito di torsi via dalla mal
difesa e inauspicata patria, e mutarsi nella grande e robusta Vejo.

Forse era consiglio de’ plebei, i quali nel nuovo abitacolo si sarieno
trovati eguali ai patrizj, giacchè questi non vi troverebbero più nè il
terreno legale, nè la proprietà assicurata dai sepolcri, nè le memorie
avite: ma Camillo mostrava come Roma godesse saluberrime colline; fiume
opportuno per trar le derrate dall’interno e riceverne dal mare; mare
abbastanza vicino, ma non tanto da esporla a flotte nemiche; situata
nel mezzo dell’Italia, in posizione unica per ingrandire[195]. Con
maggior efficienza i patrizj fecero intervenire il solito impedimento
degli augurj: onde si risolse di rimanere, e di mezzo alle ceneri e ai
rottami e senza soprantendenza di edili fu scompostamente risarcita
la città plebea, nel posto ove il lituo etrusco avea dapprima fondato
la patrizia. Frugando tra le macerie si trovarono intatti lo scettro
di Romolo, pegno di lunga durata al popolo, e molte tavole della
legge, che furono esposte al pubblico, eccetto quelle concernenti la
religione, tenute ancora arcane.

I Galli, ridottisi nella parte superiore dell’Italia che per loro fu
detta Gallia Cisalpina, mai non requiarono dal molestare i Romani; ai
quali del sofferto disastro rimase tale apprensione, che un tesoro
a posta conservavano per l’eventualità di guerre contro di essi
(tumultus), nelle quali nessun cittadino era dispensato dal prender le
armi, sospendevansi gli affari, un dittatore veniva eletto con pien
potere per salvare la repubblica. E quella guerra migliorò la loro
tattica: all’elmetto di rame surrogarono uno di ferro battuto, a prova
delle lunghe spade galliche; di ferro orlarono gli scudi; alle deboli
e lunghe chiaverine sostituirono il _pilum_, perfezionamento del gais
_gallico_, atto e a parare la sciabola nemica, e a colpire da presso e
da lontano.

[CERE AGGREGATA]

Per riconoscenza verso la pelasga città di Cere che avea dato ricovero
agli Dei, i Romani le concessero la cittadinanza, come anche a’
Vejenti, Carpenati, Falisci. Nuova estensione davano essi con ciò alla
loro politica d’ingrandire per mezzo dell’assimilamento; e se prima
aveano trasferito i vinti in città, ora recavano la città di fuori,
creando cittadini romani fuor del proprio territorio, con diritti più o
meno larghi.

[VOLSCI VINTI]

Profittando delle sue sventure, molti popoli si erano rivoltati
contro Roma, e massime l’Etruria: ma il valore di Camillo assicurò la
vittoria sui Volsci e sugli Etruschi, nel mentre stesso che rappaciava
le sempre rinascenti gare interne fra patrizj e plebei, aggravate
dall’ingrossarsi dei debiti nelle trascorse vicende. Anche le correrie
dei Galli infiacchivano i nemici di Roma, e facilitavano a questa il
vincerli. Di fatto, dopo lunghe brighe, Ernici e Volsci furono domati:
i Romani, che ai vinti non sempre negarono lode, narrarono che un
Volsco di Priverno, interrogato qual pena gli sembrassero meritare
i suoi cittadini,—Quella (rispose) che meritano uomini, i quali si
credono degni della libertà». E soggiuntogli,—Se non vi si concede
perdono, in qual modo vi comporterete?» replicò,—Nel modo che vi
comporterete voi: se le condizioni saranno discrete, ci manterremo
sempre fedeli; poco, se aspre».

[I SANNITI]

Terribili a Roma rimanevano i Sanniti, gente mista di Sabini ed
Ausonj. Giunti al colmo di loro potenza, superavano allora Roma in
popolazione e territorio, allargandosi dal mar Inferiore al Superiore,
dal Liri alle montagne Lucane e ai piani dell’Apulia, sui due pioventi
della giogaja centrale dell’Appennino, nelle vallate del Vulturno,
del Tamaro, del Calore verso il Tirreno, e del Saro, del Tiferno, del
Trinio, del Frentone verso l’Adriatico, ne’ paesi insomma che oggi
diciamo Principato Ulteriore, Abruzzo Citeriore, Terra di Lavoro.
Buone loro città erano Boviano a piè del Matese con mura pelasgiche,
Esernia sull’altra proda di questo monte, Alifa nella valle del
Vulturno, Caudio fra questa e Napoli, Eclapoli presso le mufete del
lago d’Ampsaruto, Telesia sul Calore, Alfidena nella val del Sangro,
Consa presso una sorgente dell’Ofanto, Ortona, Malevento. Non formavano
uno Stato unico, ma molti Comuni, avendo a capo un induperatore; troppo
lassamente collegati dal reciproco municipio, spesso emuli, volta a
volta nemici. Fra le gole dell’Appennino pascolavano gli armenti nel
cuor dell’estate; e sobrj, indomiti, difesi da valloni e torrenti,
erano spaventevoli ai pianigiani.

[CAPUA]

[420]

Alle loro correrie si opponevano le città greche ed etrusche; ma essi
travalicandole invasero la Vulturnia, cui applicarono il nome di
Campania cioè pianura (καμπος), e i titoli di _felice_ e di _terra di
lavoro_ per la sua opportunità all’agricoltura. La deliziosa Capua,
dagli Etruschi ammolliti passata a mano di questi bellicosi, acquistò
fama guerresca; e la sua nobiltà somministrò cavalieri non meno
reputati che i pedoni del Lazio, i quali, col nome di Mamertini cioè
soldati di Marte, si mettevano a soldo de’ tiranni di Sicilia e perfino
de’ Greci; emulò Roma, e potè aspirare alla signoria o alla capitananza
di tutta Italia. Eppure dentro era propensa all’arti del lusso, tanto
che la via Seplasia era tutta a botteghe di profumi; mentre i vasi
che vi si scoprono, attestano quanto portasse innanzi la ceramica e
la plastica: inventò le burlette, di cui rimangono ricordo le Favole
atellane e la maschera dello Zanni e del Macco o Pulcinella.

[CAMPANIA E LAZIO SOGGIOGATI]

[343]

I Campani non s’indussero mai ad amare i montani loro dominatori; nè i
Sanniti conobbero l’arte romana di fondere in un popolo conquistatori
e conquistati, patrizj e plebei. Guardavansi dunque con iraconda
diffidenza; e i Campani, ridotti alla dura necessità di dover servire a
nemici o ad amici, chiesero ajuto da Roma che, in aspetto d’alleata, ma
già ingordamente sperando dall’armata intervenzione, allora primamente
sbucata dal tristo Lazio, conobbe quella bellissima regione, le delizie
meridionali, e l’eleganza e sensualità greca. L’esercito ne prese
tale incanto, che chiese di trasferire colà la patria, trovando poco
giusto che essi vincitori stentassero in Roma, mentre i vinti godeano
pacificamente di sì ubertosa contrada: disdettagli la domanda, si
ritorse ostilmente contro Roma, la levò a rumore, e gridò:—Vogliamo
siano abolite le usure; vogliamo si scelga un console plebeo». Le armi
imponeano dunque già la legge alla patria.

[MANLIO TORQUATO. DECIO]

[342]

[340]

Di quest’agitazione si risentì tutto il Lazio, che, stanco di vincere a
solo pro de’ Romani, scosse la soggezione, s’alleò co’ prischi abitanti
de’ paesi ridotti a colonia romana, e coi Campani e Sidicini, per
ricacciare quei montanari nel Sannio, e mozzare il crescente orgoglio
di Roma; anzi i Latini proposero a questi:—Volete che soffriamo Roma
divenga la capitale del Lazio? uno dei vostri consoli e metà de’
senatori siano di nostra gente». I Romani, che non cedevano mai a
minacce, non isdegnarono l’alleanza di barbari montanari, e trassero
i poveri Marsi e Peligni contro ai pingui Campani, sicchè al Vesuvio
si trovarono fronte a fronte tutti i popoli dell’Italia centrale.
Guerra feroce come le fraterne, segnata da ricordi della severità de’
patrizj conservatori, e dagli avanzi delle truci religioni pelasghe.
In tanta somiglianza di popoli importava sovrattutto la disciplina;
laonde Manlio Torquato condannò a morte suo figlio perchè aveva osato
combattere contro gli ordini. Decio si consacrò agli Dei infernali onde
placarli alla patria, e proferite le formole spaventose, s’avventò
contro le armi nemiche, quasi offrendo se stesso vittima espiatoria per
tutti i Romani. In fatto i nemici rimasero interamente sconfitti.

I Romani punirono dell’insurrezione i Latini ed i Campani collo
spegnerne l’autonomia, vietarne le assemblee, traslocarne gli abitanti,
sostituendovi coloni, e dando a ciascuna città patti diversi, a misura
dei comporti. Con ventiquattro trionfi ebbe soggettato i Volsci,
distruggendo l’artifiziosa fertilità di quel paese, ove le rovine di
tante città, sparse fra insanabili paludi, attestano fin ad oggi la
floridezza del popolo perito e la ferocia del vincitore. Ferocia dovuta
ai patrizj, tenaci dell’eroica severità, per quanto la plebe, memore
dell’origine italica, insinuasse più miti consigli.

[FORCHE CAUDINE]

[327]

[321]

Allora Roma, mutati i mezzi non l’intento, arma i pianigiani Latini,
Campani, Apuli contro i montani Sanniti, Lucani, Vestini, Equi, Marsi,
Frentani, Peligni, che già l’aveano ajutata a vincere la pianura.
Lunghi anni s’avvicenda la fortuna, finchè Papirio Cursore manda a
sbaraglio i Sanniti. Questi chiedono capitolare, e ricusati, col furore
della disperazione e col vantaggio delle posizioni chiudono l’esercito
romano nell’angusta valle che fu poi nominata le Forche Caudine.
Erennio, vecchio sannita, consigliava,—Via i partiti medj: o scanniamo
tutti i Romani combattenti, o rimandiamoli senza infamia». Ponzio
suo figlio, generale e filosofo, ascoltando più all’umanità che alla
politica, risparmia i vinti, purchè lascino armi e bagaglio, e passino
sotto una croce, giurando di non più militare. Roma ne fu in lutto:
ma il senato interpretò che quel giuramento non teneva perchè gli
erano mancati gli auspicj, e con una di quelle sottigliezze de’ tempi
eroici, per cui, tenendosi stretti alla parola, si mutava il giusto in
ingiusto, furono espulsi Postumio e Veturio consoli che personalmente
aveano giurato, proferendo che non si avesser più a considerare
per cittadini. Costoro, in aspetto di esuli, ottennero generosa
ospitalità dai Sanniti: ma secondo il concerto preso svillaneggiarono
il feciale che i Romani spedivano per patteggiare la pace: e Roma
da quest’oltraggio contro la sacra persona dell’ambasciatore tolse
pretesto a rompere il patto e ripigliare la guerra[196]. La vittoria
dà ragione ai Romani spergiuri. Ponzio, tanto venerato fra i suoi che
neppure dopo l’improvvida clemenza gli avevano levato il comando degli
eserciti, fu vinto e condotto a Roma; ed egli, che avea risparmiato di
mandare per le spade l’esercito a Caudio, egli che aveva impedito si
maltrattassero i consoli di Roma rejetti e spergiuri, fu vilmente e
legalmente trucidato.

[318]

In una tregua bienne i Romani rimisero il freno alle colonie, scannando
i rivoltosi al cospetto del popolo in memorabile esempio, perchè era di
suprema importanza che i coloni si trovassero sicuri.

[316]

[312]

Assodati gli stabilimenti loro nella terra Campana, ebbero cinto d’una
rete i Sanniti, che non trovandosi pari ai cresciuti conquistatori,
invocarono soccorsi dalla Confederazione etrusca. Questa dai Sanniti e
dai Galli era stata ristretta entro gli originarj confini: dentro però
sovrabbondava di popolazione, raffittita anche per coloro che v’erano
migrati dall’Etruria settentrionale; e l’agricoltura e l’industria
produceano inesauste ricchezze. Interruppe i traffici e le arti per
ajutare gli antichi nemici suoi contro i nuovi, ben più pericolosi che
non i Liguri e i Galli. Ma a capo dei Romani stavano Curio Dentato,
che dicea non voler possedere oro, ma comandare a chi l’aveva; Papirio
Cursore, l’Achille romano; Decio, che, ad imitazione del padre, si
consacrò agli Dei infernali; e principalmente Quinto Fabio, che diceasi
aver ucciso o fatti prigioni cinquantamila uomini, e che fu cognominato
Massimo dai patrizj perchè relegò nelle quattro tribù cittadine la
ciurma che Appio Claudio avea sparpagliata in tutte.

[L’ETRURIA VINTA]

[310]

Le tre città più bellicose d’Etruria, Perugia, Arezzo, Cortona,
chiesero tregua per trent’anni: le altre, benchè rese inermi, benchè
ne’ comuni parlamenti a Voltunna non sapessero mettersi d’accordo, pure
spiegarono tale forza che basta a testimoniar quanto vigorosa fosse
in origine quella confederazione. Rinnovarono il patto sacro, costume
lor nazionale, per cui ognuno sceglievasi un camerata, vegliando un
sull’altro, e reputando indelebile infamia l’abbandonarsi. Vinti, si
rannodarono sulla montagna di Viterbo nella foresta Ciminia, «orrenda
e impervia più che le selve di Germania e di Scozia». Sconfitte e
vittorie avvicendarono, finchè con sommo valore combattendo al lago
Vadimone, toccarono una piena rotta, dalla quale non si riebbero
più, per quanto protestassero con nuove guerre e sommosse. Perduta
l’indipendenza etrusca, l’aristocrazia s’amicò ai vincitori; gli
aruspici si fecero strumento della romana grandezza; nell’interno si
mantennero i governi municipali, si continuò a coltivare le arti, fare
e dipinger vasi, fondere bronzi, avventurarsi sul mare: ma alla fine
i proprietarj vidersi ridotti in fittajuoli e le città sovrane a
servitù, mascherata col titolo di Socj Latini.

[ULTIMI SFORZI DEI SANNITI]

[296]

[295]

Domata la più poderosa gente della penisola, se ne concentravano la
gloria e la potenza nella fortunata Roma, la quale nelle guerre già
si trovava preceduta da quel che tanto giova alla vittoria, un nome
formidabile. Per contrastarla i Sanniti avevano messo in piedi due
eserciti di ricche armi, e li perdettero: allora vedendosi abbandonati
dai Campani, dagli Equi, dagli Ernici soggiogati, e recinti da colonie
romane, i Sanniti osano un colpo arditissimo, e abbandonando al furor
nemico la patria, scendono fra gli Etruschi per concitarli a nuova
sollevazione, e con essi, con gli Umbri, con orde stipendiate di
Galli nuovamente venuti di qua dell’Alpi, compongono una tremenda
lega, sentendo omai tutti come la causa de’ Sanniti fosse quella
dell’indipendenza italiana. Però a Sentino dal valore calcolato di
Fabio e Decio restano sconfitti: gli Etruschi ottengono pace, non i
Sanniti, il cui paese viene abbandonato alla devastazione soldatesca.

[293]

Per difendere l’ultimo resto dell’italica libertà, i Sanniti ricorrono
agli Dei patrj. Adunati a generale rassegna ad Aquilonia, recinsero
di tele uno spazio di venti piedi quadrati; e sacrificate vittime,
introducevano un dietro l’altro i prodi appo un altare a proferire
orribili imprecazioni sopra sè ed i suoi, se fuggissero o non
uccidessero i fuggiaschi; guerrieri disposti attorno all’altare colla
spada sguainata scannavano chi esitasse. In tal modo si coscrisse un
esercito di trentamila trecenquaranta uomini; e tennero il giuramento,
poichè ad Aquilonia tutti perirono[197]. Ai Romani era sempre
riuscita difficilissima la guerra di montagna, onde questa era durata
cinquant’anni; imparatala, vinsero implacabilmente, il paese mandarono
a sperpero, distrutte Aquilonia, Cominio ed altre città: i pochi
rimasti ripararono fra gli Appennini; e l’anno seguente scopertine
duemila in una grotta, i Romani ve li soffocarono col fuoco. Due
milioni e mezzo di libbre di rame in verghe, ricavato dal vendere i
prigionieri, furono portate in trionfo con duemila ducensessanta marchi
d’argento provenuti dal saccheggio: delle armi tolte una porzione fu
lasciata come trofeo agli alleati ed alle colonie; delle restanti si
fece una statua di Giove in Campidoglio, sì gigantesca che vedeasi fin
dal monte Albano.

[FINE DELL’ETÀ EROICA]

A questo punto si chiude l’età eroica di Roma, che Tito Livio dichiara
«più d’ogni altra ferace di virtù». Ma quali virtù! Bruto condanna
a morte senza le solite formalità due suoi figliuoli, ed assiste al
loro supplizio: Lucrezia si uccide per colpa non sua: Scevola punisce
la mano d’aver fallito in un assassinio, e quell’assassinio approvasi
dall’intero senato: per superstizione Curzio si precipita in una
voragine, come i Decj sulle spade nemiche: un tribuno fa bruciar
vivi i nove colleghi che impedivano di surrogare i magistrati[198]:
il severissimo Cincinnato contamina la sua vecchiaja con un legale
assassinio; i giuramenti sono violati per pubblica autorità e per turpi
sofismi: Fabio Gargete, edile curule, fabbrica un tempio a Venere colle
ammende imposte a dame romane per violata fede coniugale e pubblica
disonestà: in tempo d’epidemia[199] censessanta donne accusate d’avere
avvelenato i loro mariti, avvelenano se stesse; supplizio iniquo, come
era superstizioso rimedio lo scegliere in tali sventure un dittatore,
che conficcasse il chiodo sacro nel tempio. Virtù di tempi eroici,
tutto egoismo di persone, di classe, nulla profittevoli al grosso del
popolo, che in continue guerre veniva angariato ed ucciso, smunto
colle usure, battuto a verghe, chiuso in ergastoli privati; surrogando
all’interesse pubblico la tirannide di pochi, chiamavasi ribelle chi
a vantaggio del vulgo alzasse la voce; petulante vulgo, che ardiva
domandare d’esser considerato uomo e cittadino.



LIBRO SECONDO



CAPITOLO IX.

Magna Grecia.—Pitagora.—I legislatori.


Qui la storia stessa di Roma ci porta a considerare i paesi meridionali
della penisola, e nuove civiltà; perocchè alla pelasga, o greca antica
se si voglia, ed alla rasena degli Etruschi, terza si unì la ellenica
delle colonie, più splendida e decantata.

[COLONIE]

Il genio del popolo greco, il quale eminentemente seppe congiungere
l’istinto del bello colla sapienza dell’ordine, sicchè creò i
capolavori della poesia e della scultura, e al tempo stesso i veri
sistemi delle scienze positive e delle noologiche, manifestò quel
suo potente bisogno di movimento e di azione col disporre colonie
innumerevoli dall’Asia Minore fino ai più riposti seni del Ponto
Eusino, dall’Jonio fino al Nilo, alle coste settentrionali dell’Africa
ed alle meridionali della Spagna e della Gallia. In quelle la gioventù
correva in cerca d’avventure e libertà, di ricchezza i negozianti, di
requie i vinti; le repubbliche vi mandavano i turbolenti e i soverchi;
e l’incivilimento e l’opulenza della madrepatria vantaggiavano di tale
innesto. Nel nuovo paese i fondatori erano venerati, e spesso per
gratitudine eretti a signori; il territorio spartivasi fra i coloni,
che vi rinnovavano i nomi e le consuetudini delle contrade natìe,
e sull’indole e i bisogni locali modificavano la greca civiltà. Le
colonie formate da persone obbligate dalle fazioni a fuoriuscire dalla
patria, trovavansi indipendenti fin dall’origine; quelle spedite dalla
metropoli mantenevano le patrie leggi; sacerdoti e magistrati riceveano
da essa; ad essa spedivano tributi, derrate, annui sagrifizj religiosi;
poi il nodo lentavasi a segno, da non costituire che una federazione,
unita dalla comune origine e da divinità comuni, a’ cui tempj antichi
seguivano a recare omaggi e chiedere oracoli. Collocate nelle regioni
più opportune alla vita, all’industria e al commercio, prosperavano,
e la metropoli vi godeva immunità di asportazioni e importazioni;
costituite di gente operosa e vivace come sogliono essere i migrati,
abbondavano d’arti, d’industria, di sapere, di libertà.

Di colonie siffatte circondarono i Greci quasi tutto il lembo
dell’Italia[200], e meglio le coste a occidente, meno scabre delle
orientali. Le più considerevoli stettero sul golfo di Táranto, nella
parte occidentale della Japigia e di là fin a Napoli e in Sicilia: nè
altro paese mai su così breve spazio radunò tante città, e ciascuna
importante quanto un popolo, e degna di vivere nella posterità, più
che i grandi imperi ove un despoto regna su milioni di servi.

[COLONIE DORICHE E ACHEE]

In quattro genti era suddivisa la famiglia greca; Eolj, Dori, Jonj,
Achei, distinti per dialetti, per costituzioni, per usanze particolari;
e fra noi prevalsero i Dori nella Sicilia, nella Magna Grecia[201] gli
Achei. Ai Dori dovette quell’isola le colonie di Ibla, Tapso, Gela,
Agrigento, Messina, Taranto. Gli Achei piantarono Crotone, Síbari,
Turio a lei succeduta, le quali figliarono le altre di Laus, Scidro,
Posidonia, Terina, Caulonia, Pandosia. Dagli Jonj di Calcide vennero
Cuma e Napoli, Zancle da cui Iméra e Mile, Nasso da cui Gallipoli,
Leontini e Catania con Eubea, Taormina e Reggio. Di stirpe jonica
furono anche Elèa e Scillezio: oltrechè i Cretesi condussero colonie
a Brindisi, Iria, Salenzia ed Eraclea Minoa in Sicilia; i Tessali a
Crimisa ed Egesta; gli Etolj a Temesa; i Focesi a Lagaria.

[MIGRATI DA TROJA]

Una delle prime imprese che dei Greci si ricordino, fu l’assedio di
Troja, immortalato nei poemi d’Omero e di Virgilio: ma veruna storica
certezza rimane nè del suo tempo, nè del luogo, nè dell’esito: il fatto
medesimo è controverso; eppure a quella guerra, che suole collocarsi
dodici secoli avanti Cristo e sulle rive dell’Ellesponto, voleano
gli antichi far risalire la loro nobiltà, come le nostre Chiese agli
apostoli, e i nostri signori alle crociate. Ed appunto da eroi della
guerra iliaca prende le mosse la genealogia di molti Stati dell’Italia
meridionale. Dicevasi che alcuni, campati dalla distrutta Troja,
avessero cerco una nuova patria sovra suolo straniero; altri de’
vincitori stessi, agitati dall’ira divina o dalle procelle nel ritorno,
fossero stati spinti coi loro seguaci in lontani paesi, ove presero
stanza. Petilia credevasi cinta da nuovo muro da Filottete, greco
abbandonato per astuzia d’Ulisse; Metaponto, fondata da Epeo compagno
del pilio Nestore, il più prudente fra i Greci; Tràpani, Agatino, da
altri di quella schiera. Nuove colonie innominate dovettero certo
arrivare poco dopo.

[MAGNA GRECIA]

Forse per le non ancora quietate agitazioni del terreno i primi
abitatori di quelle coste eransi tenuti sui monti, lasciando disabitate
le spiaggie malsane, finchè gl’interrimenti le rinsanichirono. Su
questi lembi, di recente formazione e di facile ubertà, poterono
prendere stanza i Greci avveniticci, e mediante la pastorizia e la
vicinanza del mare crescevano di ricchezze e di numero, mentre i natìi
od erano ridotti schiavi affissi alla gleba, o fra le montagne si
moltiplicavano e rinvigorivano. Un pugno di prodi o di avventurieri
senza donne, non potea che mescolarsi coi vinti, insegnarli, alterarne
forse ma non cangiarne la lingua e i costumi, salvo a quella società,
la quale, secondo l’indole delle costituzioni antiche, sovrapponeasi
alla plebe, e da questa tenevasi in tutto sceverata. In segno della
nuova coltura il paese si popolava di tempj alle greche divinità;
come quello di Nettuno a Taranto, di Proserpina a Locri, di Minerva a
Metaponto, di Giunone sul promontorio Lacinio, di Ercole a Crotone, i
riti del quale erano riservati alla famiglia de’ Lampriadi.

I coloni trasportavano con sè la costituzione patria, onde la
democrazia prevalse nelle joniche, di cui tipo era Atene; nelle doriche
invece, di cui era tipo Sparta, l’aristocrazia restringeva l’esercizio
della sovranità e le magistrature in alcune famiglie, od in una classe
nella quale si entrava pel censo. Il fatto stesso però della migrazione
faceva propendere a democrazia, giacchè gli aristocrati non attaccavano
al suolo memorie di dominio e, come avviene, sempre scemavano di
numero, mentre i popolani crescevano col commercio e colle ricchezze.

Se però aveano condotto famigli e clienti, conservavano sopra di questi
l’antico diritto. Quando altri Greci sopraggiungessero, non restavano
ammessi all’eguaglianza di diritti (ἰσοπολιτεία), e così formavasi
un’aristocrazia nuova, quella degli originarj, dotata di privilegi
sugli avveniticci. Fra queste differenti classi non tardavano a
proromper liti, e coll’ajuto degli schiavi, cioè degl’indigeni ridotti
a servitù, gli aristocratici erano espulsi di città e l’amministrazione
tolta alle famiglie per attribuirla ai capi di arti: rivoluzioni
operate con molto sangue, e che trapelano dagli scarsissimi documenti,
e ancor più dall’indole perpetua di società siffatte, comprovata anche
dall’esempio delle nostre repubbliche del medioevo. Altre volte qualche
oligarco associavasi col plebeo o coi vinti, oppure si ergeva arbitro
fra i poveri e i ricchi, e per tal via diventava tiranno.

[CUMA]

[1300?]

[315]

I Calcidesi dell’isola d’Eubea, che oggi chiamiamo Negroponte, schiatta
jonica, si posero nell’isola Pitecusa e nelle vicine, donde passarono a
settentrione del File nel territorio degli Opici a fondar Cuma, avanti
la distruzione di Troja, o almeno prima d’ogn’altra città grecanica.
Questa si ampliò per commercio marittimo, tenne testa agli Etruschi, e
fondò Napoli e Zancle, destinate a sopravviverle. Alla sua aristocrazia
temperata diè crollo il prode Aristodemo, che amicatosi l’esercito
colle vittorie sopra gli Etruschi, fece trucidare gli ottimati,
costrinse le vedove a sposarne gli assassini, e fomentò l’inclinazione
dei Cumani alla voluttà ordinando che i figliuoli si allevassero in
femminile mollezza, sapendo ch’è agevole tiranneggiare gente corrotta.
Ucciso lui, Cuma fu rimessa in istato, e continuò spedizioni lontane e
guerre coi vicini, fin quando cadde in signoria de’ Romani, rimanendo
pur sempre importante pel suo porto di Pozzuoli.

[REGGIO]

[723]

[300]

[271]

Dagli stessi Calcidesi dell’Eubea uniti a quei di Sicilia erasi
anticamente colonizzata Reggio all’estremo vertice d’Italia. Sottratta
agli Aurunci, fu governata aristocraticamente da mille, scelti tra le
famiglie messenie quivi accasate coi primi abitatori. Coll’estinguersi
delle case, restò il governo a pochi; per mezzo della quale oligarchia
Anassila si pose tiranno, e trasmise il potere a’ suoi figliuoli.
Cacciati dopo pochi anni, lasciarono una scarmigliata anarchia, a cui
si riparò adottando le leggi di Caronda, colle quali Reggio si mantenne
in pace. Struggeasi di dominarla Dionigi il Vecchio di Siracusa, ma
essi ne aborrivano a segno, che avendo egli chiesto una sposa di
qualche famiglia di Reggini, gli fu esibita la figliuola del boja[202].
Allora egli, ricorso alla forza, prese e saccheggiò la città. La
risarcì poi Dionigi il Giovane; ma più tardi una legione romana ivi
aquartierata vi si gettò sopra, e ne trucidò gli abitami. Roma punì nel
capo que’ soldati, ma non per questo restituì a Reggio la libertà.

[PESTO]

[510]

Di Posidonia, fondata dai Sibariti nel golfo di Salerno e chiamata
Pesto dai Romani, verun altro monumento abbiamo che splendidi avanzi
e memoria delle rose che vi fiorivano due volte l’anno. Era costruita
in un quadrato del giro di cinque miglia sopra terreno pianeggiante,
con mura a secco e molte torri e quattro porte una rimpetto all’altra.
Distrutta dai Saracini, rimase dimentica tra una foresta di spontanea
vegetazione, fin quando nel secolo passato alcuni cacciatori ne
indicarono le ruine, che traggono continuamente i curiosi ad ammirarle
fra una contrada oggi mestamente sterile ed insalubre. Consistono
queste in due tempj, di cui l’antichissimo di Nettuno è dei meglio
conservati: sopra tre gradini elevasi un peristilio di sei colonne
doriche di fronte e quattordici di lato, scanalate, senza base, alte
appena cinque diametri, e poco più d’uno d’intercolunnio, lo che fa
supporle anteriori al tempo che i Greci diedero leggerezza anche
all’ordine dorico. Il tempietto di Cerere, più recente, ha colonne più
snelle e meno rastremate. Sopravanza pure una stoa con nove colonne
sul lato esterno minore e diciotto sul maggiore, e un colonnato nel
giro interno. Anche dopo caduti in servitù, i Pestani continuarono
lungo tempo, in un dato giorno, ad assumere le vesti e gli usi greci, e
celebrar la commemorazione de’ tempi di loro indipendenza.

[METAPONTO]

[1260?]

Di Metaponto, una delle più segnalate colonie nel seno di Táranto,
sappiamo poc’altro, se non che i seguaci di Néstore, tornando dalla
guerra trojana, la fabbricarono; la crebbero Achei e Sibariti; Annibale
cartaginese ne costrinse gli abitanti a migrare nel Bruzio; al fine
la crescente insalubrità dei piani marittimi la spopolò, come fece di
Pesto e delle vicine colonie sull’altro littorale. Plinio vi ricorda un
tempio di Giunone, con colonne fatte di tronco di vite; e quelle che
ancor si chiamano la chiesa di Sansone e la tavola dei Paladini sono
reliquie di due tempj antichi, d’architettura policromatica.

[LOCRESI EPIZEFIRJ]

[683]

[356]

Durante una lunga guerra, le femmine dei Locresi Ozolj s’erano
mescolate cogli schiavi; onde al tornare dei mariti, paventando
il castigo, fuggirono e piantaronsi coi figli nel ridente paese
all’estremità dell’Appennino, formando la colonia de’ Locresi
Epizefirj. Arrivando, giurarono ai Siculi:—Finchè calcheremo questa
terra, e porteremo questi capi sulle spalle, possederemo il paese
in comune con voi»; ma eransi posta della terra nelle scarpe, e
capi d’aglio sulle spalle; scossi i quali, si credettero sciolti
dall’obbligazione, e arrogaronsi il primato sovra i natii. Ebbero
battaglie coi Crotoniati per gelosia; ed assaliti da questi in
casa propria, vinsero alla Sagra una battaglia con forze tanto
sproporzionate, che la fama, divulgandola anche in Grecia, l’attribuiva
a intervento de’ semidei Castore e Polluce, i quali dagli antichi
credeansi vedere ne’ fuochi fatui, vaganti sul mare. D’un’altra
vittoria sui Crotoniati fu dato merito ad Ajace, eroe greco della
guerra trojana, il cui spettro si diceva combattesse pei Locresi.
Dalle cento famiglie dominanti si cernivano un cosmopoli, magistrato
supremo, e mille senatori con autorità legislativa: alcuni ispettori
vigilavano che le leggi non fossero violate. Se non grandigia
di ricchezze, Locri ebbe lode di corretti costumi e di pacifica
inclinazione, fin quando Dionigi II, espulso da Siracusa, venuto a
cercarvi asilo, introdusse d’ogni maniera disordini. Locri però si
tenne indipendente fino ai tempi di Pirro.

[LOCRI. TARANTO]

[707]

[272]

Messene nel Peloponneso maneggiò sì lunga guerra con Sparta, che
i magistrati spartani, temendo non finisse la razza nell’assenza
de’ mariti, autorizzarono le donne a farsi fecondare da schiavi.
I figliuoli nati da questo adulterio legale, col nome di Partenj
migrarono al tornar de’ mariti delle madri, e istituirono la colonia di
Taranto nel golfo dell’estrema Italia che guarda alla lor patria, con
porto eccellente in costa inospita. Cominciarono, come gli altri coloni
siffatti, a uccider gli uomini del paese invaso, sposarne le donne;
poi dandosi ordinamento e leggi, domarono i Messapi, i Lucani ed altri
popoli del contorno, e divennero una delle primarie potenze marittime
fra il V e il IV secolo avanti Cristo, potendo armare ventimila fanti
e duemila cavalli: ebbero fabbriche e tintorie di panni, industria
tanto favorevole alla popolazione; e sebbene corrotti dall’opulenza,
serbarono anch’essi l’autonomia fino a Pirro. Dalla città patria
avevano recato il culto di Apollo Giacintio e il governo aristocratico
temperato; ma dopo che, nella guerra contro i Messapi, perirono i
nobili, si piegò a moderata democrazia. I magistrati si eleggevano metà
a sorte, gli altri a pluralità di voci; nè senza il consenso del senato
si dichiarava guerra. Ammetteansi alla cittadinanza non Greci soltanto,
ma anche indigeni, talchè i molti elementi italici ravvicinavano
Taranto all’Italia più che alla Magna Grecia. Quell’angolo meglio
d’ogni altro della terra arrideva al poeta Orazio[203] per naturali
bellezze e tepido spiro: gli cresceano pregio fumosi vini, generosi
puledri, finissime lane.

[SIBARI]

[725]

[550]

[510]

Achei, uniti co’ Locresi, fondarono Sibari; la malsana pianura fra
il Crati e il Sibari emendarono con canali, divenuti comodità e
abbellimento, e che ora negletti, tornarono pestilente quel paese. A
taccia della sua mollezza, è vulgatissimo che i cittadini solevano fare
gl’inviti un anno prima, onde mettere a contributo l’aria, l’acqua e
la terra, e preparare vesti gemmate; ai convitati porgevasi per norma
la lista sì delle persone, sì delle vivande: mestieri rumorosi non
doveano turbare i sonni o i silenziosi piaceri; sbandivansi perfino
i vigili galli: un Sibarito non si potè addormentare per esserglisi
piegata sotto una foglia di rosa; un altro prese la febbre al vedere
un contadino affaticarsi. Diffamazioni forse fuor di proposito, certo
fuor di misura; dalle quali solo raccogliamo la grande ricchezza venuta
al paese dal commercio che faceva con Cartagine, massime di vini e
d’olj. Quest’agiatezza, il suolo ferace, la facilità di concedere la
cittadinanza, moltiplicarono i Sibariti a segno, che, se crediamo a
Strabone, potevano armare trecentomila uomini[204]. Dominavano sopra
sette genti limitrofe e venticinque città; governavansi a democrazia
temperata, fino a che Teli se ne fece tiranno, cacciando cinquecento
primarj cittadini. Questi ricoverarono nella vicina Crotone, donde
furono spediti messi a Sibari per praticarne il richiamo: ma Sibari
trucidò gli inviati, onde Crotone assalse l’emula con centomila
guerrieri, e la sfasciò.

[TURIO]

[441]

[286]

Sulle rovine di Sibari fu stabilita la città di Turio, con tanta
mescolanza di popoli, che si disputò quali avessero a tenersene
i fondatori: del che interrogato, l’oracolo la dichiarò colonia
d’Apollo. L’origine stessa vi produceva la democrazia; ma gli antichi
Sibariti usurpando le migliori terre e l’autorità, restrinsero il
governo in pochi. Ne furono poi espulsi; nuove genti sopravvennero
di Grecia, e presero leggi da Caronda. I Lucani, perpetui nemici, li
vinsero, nè cessarono di molestarli finchè non si posero in protezione
dei Romani. Di quest’atto si tennero offesi i Tarantini, che gli
assalsero e sconfissero: più tardi i Romani ridussero Turio a colonia.

[ERACLEA]

[433]

[272]

La città d’Eraclea, posta dai Tarantini sulle rive dell’Aciri presso
Metaponto, ci tramandò nelle famose Tavole un documento del suo
governo; donde appare che v’avea culto principale il dio da cui traeva
nome, poi Bacco e Pallade, le cui effigie appajono nelle bellissime
sue monete. Efori annui reggeano la repubblica, e polianomi o prefetti
della città; un segretario, un geometra ed altri minori uffiziali
attendeano all’amministrazione: il popolo divideasi in molte tribù,
ciascuna con insegne particolari, e in assemblea comune risolveano de’
comuni interessi. I Romani la soggiogarono l’anno stesso della presa di
Taranto.

[CROTONE]

[735]

Miscello ed Archia condussero una colonia achea a Crotone, la quale
crebbe a sì subita potenza che, nel primo secolo d’esistenza sua, armò
contro di Locri cenventimila uomini; e benchè sconfitta, con quasi
altrettanti la vedemmo assalire e distruggere Sibari. La città misurava
il perimetro di dodici miglia; con un senato di trecento o di mille
membri[205]; bella, illustre, ricca, saluberrima, beata la predicano
gli antichi, e diceasi non vi fosse mai gittata la peste.

Parte suprema nell’antica educazione tenea la ginnastica e sfoggio se
ne faceva in feste solenni, celebrate a tempi prefissi; principalmente
ne’ giuochi olimpici, pei quali ogni quattro anni i Greci concorrevano
in Elide ove assistere alle gare di lotta, di corsa, di tiro, e insieme
udir recitare tragedie, odi, pezzi di storia. Sibari, nel maggior suo
fiore, meditava di rapire quest’affluenza ad Elide, coll’istituire
giuochi più splendidi e di premj più appetiti. Agli olimpici, ben
tredici volte in ventisei olimpiadi riportarono il gran premio gli
atleti di Crotone, così rinomati che correva in proverbio, l’ultimo
dei Crotoniati valere quanto il primo dei Greci[206]. L’atleta Milone
combattè un toro, e levatoselo di peso sulle spalle, il recò in giro
per tutto lo stadio, poi ammazzatolo d’un pugno, in un giorno lo
mangiò; rovinando il tetto d’una scuola, egli il sorresse col dorso
finchè tutti camparono; alfine volendo squarciare un tronco, restò
colle mani prese nello spacco, e quivi fu divorato dai lupi.

Anche per bellezza erano insigni i Crotoniati: a un tal Filippo, come
al bellissimo dell’età sua, gli Egestani, tuttochè nemici, resero dopo
morte un culto divino; e il gran pittore Zeusi, dal vedere i garzoni
lottanti nel ginnasio, argomentò quanta dovess’essere la leggiadrìa
delle loro sorelle, e le scelse per modello di quella Venere, che fu
tenuta il capolavoro dell’antichità.

Alla democrazia temperata di Crotone diede origine Pitagora. A costui
tutte le città della Magna Grecia attribuivano il merito delle loro
costituzioni, ond’è difficile lo sceverare in esso il personaggio vero
dall’ideale, a cui, come a tipo de’ primi filosofi civili, si ascrivono
le invenzioni più disparate e le più dissonanti avventure. Non è
paese del mondo ove non abbia egli viaggiato; dimostrò il teorema del
quadrato dell’ipotenusa; diede la prima teorica degl’isoperimetri dei
corpi regolari, gli elementi delle matematiche, l’algoritmo, del quale
ancora non si conosce il senso; trovò i ragguagli fra la lunghezza
della corda armonica e i suoni che n’escono; insegnò che l’acqua si
converte in aria e d’aria torna in acqua; sostenne essere opaca la
luna, identica la stella del mattino con quella della sera, sferico il
sole; per armonia de’ corpi celesti intendeva probabilmente i rapporti
delle loro masse e delle distanze; indicò il vero sistema mondiale,
cioè l’obliquità dell’eclittica e la versatilità della terra, con equa
distribuzione di luce, di ombre, di calore sull’intera superficie,
tutta perciò abitabile; e conoscendo che due opposte forze impresse
nei corpi celesti li spingono per un’orbita, anticipò di tanti secoli
quell’attrazione newtoniana che Herschel considera come la verità più
universale cui sia pervenuta l’umana ragione[207].

[PITAGORA]

[540]

Nell’assoluta deficienza di documenti, e perduta la chiave del
linguaggio matematico e de’ simboli in cui i Pitagorici avvolgevano
la loro dottrina, come asserire qual sia e quanta la verità intorno
a ciò che si racconta di quegli insegnamenti? Sembra che il vero
Pitagora nascesse a Samo d’Italia nel 584, viaggiasse l’Asia, l’Egitto,
forse l’India, a Crotone aprisse una scuola, la quale proponevasi
di perfezionare i sentimenti, non solo religiosi e morali, ma anche
politici: ond’egli ci si manifesta in triplice aspetto, filosofante,
fondatore d’una società, e legislatore. Come filosofo sta in mezzo fra
l’Oriente e l’Occidente, non abolendo i miti in cui quello avvolgeva
le dottrine, eppure accettando la realità e il ragionamento di questo;
traendo la scienza dagli arcani del santuario, ma avviluppandola nei
simboli di una società secreta; togliendola dall’essere sacerdotale,
ma conservandola aristocratica; repudiando le favole vulgari che
degradavano la verità, ma non osando porgere nella nuda semplicità i
sublimi concetti che egli aveva intorno a Dio e alle relazioni sue
coll’uomo e col mondo.

[DOTTRINA PITAGORICA]

Per quanto si può scoprire di sotto alle espressioni ora mitiche ora
aritmetiche, egli fissavasi in un idealismo puro, ma accessibile
al senso comune. Ogni bene ha fondamento nell’unità che è Dio, e
nell’ordine, nell’armonia, nella proporzione, che sono l’unità
manifestata nelle cose, applicata al governo dell’universo. Ogni
male nasce dalla dualità, ossia dalla dissonanza e sproporzione, e
dalla materia che è il complesso di queste qualità rese sensibili.
Cominciamento reale e materiale di tutte le cose è l’unità assoluta
(monade), da cui derivano la limitazione dell’imperfetto, la dualità e
l’indefinito. Lo svolgimento della creazione tende appunto a svincolare
gli spiriti dalla dualità, cioè dalla materia, il che si ottiene
rimovendo la falsa scienza del variabile, per attingere alla scienza
vera dell’ente immutabile, e imparando a ricondurre la moltiplicità
delle cose all’unità del principio.

Asserì l’immortalità dell’anima, e non è accertato che la scombujasse
col dogma della metempsicosi. Pare ancora distinguesse il sentimento
dall’intelligenza: quello sorgente de’ desiderj e delle passioni,
questa moderatrice de’ pensieri e degli atti, ed emanazione dell’anima
del mondo. Pronunziò non esser possibile il conoscere veruna cosa, se
non a condizione che preesistano enti intelligibili, i quali siano
semplici ed immutabili; e poichè tali condizioni di unità-eternità non
s’avverano nè rispetto al mondo materiale, nè allo spirito umano, uopo
è ricorrere all’_idea_, che sola rende possibile il conoscere.

La morale di Pitagora avea per fondamento la retribuzione eguale e
reciproca, l’equità (ἀριθμὸς ἰσάκις ἴσος), che è un’armonia tra le
azioni dell’uomo e l’universo; essendo virtuoso l’uomo le cui azioni
rimangano sottoposte all’intelligenza e in armonia con essa. _Dire il
vero e fare il bene_[208] è il suo precetto cardinale. Le virtù sono
vie per arrivare all’amore: profonda verità, che discerne le due parti
della morale, una di mera giustizia, l’altra di carità operosa.

Negli antichi, dove il metodo esiste appena e l’immaginazione prevale,
mal si presumerebbe di comprendere tutto e tutto concatenare, e basta
afferrare il principio generale, da cui è animata la dottrina. Tale in
Pitagora è la matematica, derivando da considerazioni sopra i numeri
e le figure; riconducendo a rapporti numerici l’armonia e la bellezza
delle cose; abbracciando la musica, perchè gli accordi son numeri;
numeri i corpi, formati di unità; ogni cosa è composta di numeri, o sul
tipo numerico fu creata. Il mondo è un tutto armonicamente disposto,
sicchè dieci grandi corpi si muovono attorno a un centro che è il
sole; per via delle stelle gli uomini tengono qualche parentela colla
divinità, fra la quale e noi stanno i dèmoni, dei quali è la grande
potenza ne’ sogni e nelle divinazioni.

La natura e il linguaggio erano per lui segni sensibili d’un ideale
invisibile, che all’anima si rivelava per via dell’ordine fisico. E di
simboli faceano grand’uso i suoi seguaci; per segno di riconoscimento
adopravano il triplo triangolo che ne forma cinque altri, ed il
pentagono; diceano, «Non sedere sul moggio» per indicare di non
introdurre le cure della vita animale nel dominio dello spirito; «Non
portare al dito le immagini degli Dei», cioè non divulgare la scienza
divina[209].

Due arti principalmente raccomandava Pitagora: la ginnastica e la
musica. Per la prima vogliamo intendere l’igiene, che è una grande
scienza negli Stati, una grande prudenza negl’individui. La musica
crediamo comprendesse tutta la letteratura; laonde Damone[210] diceva
non potersi toccar le regole di essa senza scassinare le leggi dello
Stato: il che possiamo asserire anche oggi della letteratura.

[PARALLELO COLLA JONICA]

Quest’altezza di vedere discerne fondamentalmente la filosofia italica
dalla jonica. La prima tolse per canone la tradizione del genere umano,
la seconda la speculazione individuale e indipendente: l’italica vide
ch’era necessario dedurre le cose da un principio solo per costituire
l’unità della scienza, e subordinando i sensi allo spirito, distinse le
sensazioni, corrispondenti all’ordine variabile, dalle idee che hanno
per oggetto l’invariabile; la jonica invece non si affida che alla
sperienza. Quella pertanto segue l’analisi, partendo dal tutto e colla
decomposizione venendo alle parti onde risalire al tutto, oggetto delle
sue indagini; questa la sintesi, movendo dalle parti onde ritornare al
tutto colla composizione, sebbene nell’infinita via si smarrisca, e
riducasi sempre alle parti, unico scopo di sua attenzione. Mentre la
scuola jonica ammetteva un principio materiale e dimenticava il morale
intento, i Pitagorici mantenevano il principio incorporeo, curavansi
della moralità, e cercavano le leggi e l’armonia dei principj mondiali
secondo una morale determinazione del male e del bene; nelle forme più
dogmatici che dialettici, nello stile chiari e di semplicità grandiosa.
Gli Italici prendevano dunque le mosse da Dio, gli Jonici dalla natura;
quelli procedevano nelle pure regioni dello spirito, questi perdeansi
in vani sforzi affine di svilupparsi dalla materia. Nella scuola di
Talete, essenzialmente indagatrice e sagace, lodevole era l’esercizio
attivo e libero dell’umana ragione: la pitagorica invece, gelosa
di conservare le dottrine all’uomo rivelate da lassù, meno ardita
procedeva nell’esame, onde agli scolari bastava per ragione l’averlo
detto il maestro: _Ipse dixit_.

[SOCIETÀ PITAGORICA]

Mentre i sapienti della Grecia filosofavano isolatamente, Pitagora
comprese la potenza d’un’associazione forte e regolare, onde fondò
una vera scuola che conservasse le dottrine positive e tradizionali.
Non molto dissimile dagli Ordini religiosi del medioevo, in essa
all’insegnamento sublime si arrivava con diuturno noviziato e grande
austerità di cibi, di vesti, di sonno, di silenzio, affine di domare i
sensi e colle privazioni invigorir l’anima al meditare. I Pitagorici
ponevano i beni in comune, vestivano di bianchissimo, e coabitavano,
liberi di sbrancarsene quando fossero stanchi. Assai coltivavano la
memoria; fedelissimi alla parola, radi ai giuramenti; parchi alla
venere, se ne astenevano nell’estate; ai sacrifizj dovevano presentarsi
in abiti non isfarzosi ma candidi, e con mente casta. Cominciavano la
giornata con suoni e canti, poi alternavano trattenimenti filosofici,
esercizj ginnastici e doveri di cittadino; la sera indulgevano a pacata
allegria, cantando _versi aurei_; prima d’addormentarsi esaminavano la
propria coscienza. Virtuoso è colui che normeggia la vita a imitazione
di Dio, o si conforma alle leggi della ragione, attesochè la ragione,
sorgente della verità e dell’unità, è la parte divina dell’esser
nostro, e perciò deve comandare; mentre obbedire devono la collera e
la cupidigia, effetti della materia, immagine della dualità. E come
l’armonia nasce dall’accordo dei suoni gravi cogli acuti, così la virtù
nasce dall’accordo delle varie facoltà dell’anima nostra sotto l’impero
della ragione; lo perchè la virtù può dirsi un’armonia.

Pertanto ai sobbalzi illiberali della democrazia preferirono la
posatezza dell’aristocrazia, il dominio cioè non de’ più forti o più
ricchi o più antichi, ma de’ più intelligenti e virtuosi. Tant’è ciò
vero, che la giustizia rappresentavano come l’eguaglianza perfetta,
simboleggiata nel cubo. Parità nell’abnegazione, reciprocità nel
sagrifizio costituivano l’amicizia.

[I PITAGORICI]

Da tutto ciò derivavano stupendi precetti, in parte esposti ne’
Versi Aurei, che si attribuiscono a Liside. «Tra amici ogni cosa è
comune. Non si lasci tramontar il sole sopra un diverbio avuto con
un amico. Gli uomini si trattino come se mai da amici non dovessero
diventar nemici, ma anzi da nemici amici. La donna, debole vittima
strappata all’altare, sia trattata con bontà». Diceano pure, a cinque
cose sole dovrebbesi far guerra: le malattie del corpo, l’ignoranza
dell’intelletto, le passioni degradanti, le sconcordie delle famiglie,
le sedizioni delle città. Forse la morale e la giustizia loro non si
ergeano fino al concetto dell’intera umanità, e rifletteano soltanto ai
consociati, com’era proprio di tutte le istituzioni prima che Cristo
c’insegnasse a invocare tutti insieme il Padre nostro; e ciò potrebbe
dar ragione dell’insita sterilità di questa dottrina, la quale non
influì gran fatto sopra gli atti nè sopra l’insegnamento dell’intera
Grecia.

[TEANO]

Fra’ Pitagorici regnava cordiale amicizia; se alcuno perdesse le
ricchezze, gli altri divideano le proprie con esso; Clinia di Taranto,
udito che Prore da Cirene trovavasi ridotto a miseria, passò in Africa
con larga somma a soccorrerlo, benchè mai non lo avesse veduto; molti
fecero altrettanto; rimase proverbiale l’amicizia di Damone e Pitia.
Anche donne vi appartenevano, e di loro morale spregiudicata ci dà
prova Teano figlia del filosofo, allorchè richiesta quanto tempo una
donna dovesse tardare a presentarsi agli altari dopo essere stata con
un uomo, rispose:—«Se è suo marito, anche subito; se un estraneo,
giammai».

Possiamo dunque vantare che in Italia nascesse la scuola più antica,
come la più insigne di filosofia, giacchè Platone e Aristotele,
sommi splendori della greca, derivano da Pitagora più realmente che
da Socrate. Da essa uscirono sapienti in pressochè tutte le colonie
della Magna Grecia e di Sicilia, quali Filolao ed Aristeo di Crotone,
Ippone di Reggio, Ipparco di Metaponto, Epicarmo di Cos comico, Timeo
di Locri, Ocello di Lucania, Elfante di Siracusa, Archita di Taranto,
Empedocle d’Agrigento.

[ARCHITA]

[440-360]

Archita ebbe molta mano nel reggimento della propria patria, e
capitanando gli eserciti più volte, le assicurò vittoria. Credeva il
miglior governo quello misto di monarchia, aristocrazia e democrazia,
ma il comando convenire a coloro che hanno maggior ingegno e virtù: i
costumi siano custodi delle leggi, le quali puniscano non con multe ma
col disonore: nulla più funesto che la voluttà, donde tradimenti alla
patria, sbrigliate passioni, e rovina degli Stati: nel pericolo di
questi si confidi sul coraggio de’ cittadini, non si ricorra a forza
straniera.

[EMPEDOCLE]

[444-403?]

Empedocle, celebrassimo in ogni tempo, dalla sensibile e dalla
razionale considerazione dell’ente condotto alla contemplazione mistica
delle cose, poeticamente espose la sua dottrina; abbandonandosi
all’entusiasmo, personifica e divinizza tutto, e si fonda sull’ipotesi
di una degenerazione dell’universo, cagionata da un peccato originale;
il mondo poi fa regolato da due principj, amicizia e discordia (φιλία,
νεῖκος), dove alcuno vorrebbe ravvisare l’attrazione e la repulsione
della fisica moderna. La vita di lui tiene al miracoloso: toglie da
lungo letargo una donna, onde si dice abbia resuscitato da morte;
fa chiudere una valle, e così toglie la malsania che i venti etesj
portavano ad Agrigento; le maremme che infestavano Selinunte risana
coll’introdurvi due correnti d’acqua. Fu dunque reputato dio, nè egli
dissipava quest’opinione; anzi cantava:—«Amici che abitate le alture
d’Agrigento, zelanti osservatori della giustizia, salvete. Non uomo io
sono, ma dio. Entro nelle floride città? uomini, donne si prostrano;
il vulgo segue i miei passi; gli uni mi chiedono oracoli, gli altri
un rimedio ai crudi morbi»[211]. Lo studio della storia naturale gli
costò la vita, perocchè, volendo esplorare il cratere dell’Etna, vi
perì; ma corse voce che vi si gettasse apposta per non lasciarsi vedere
a morire. Chi volle moralizzarne un avvertimento alla superbia umana,
soggiunse che dimenticò all’orlo del cratere le sue pantofole, donde si
ebbe conoscenza della sua fine.

[GLI ELEATICI]

La scuola jonica avea fissato l’attenzione sopra il lato fisico
del mondo, la pitagorica sopra il metafisico: al dialettico, cioè
all’arte del ragionare, si appigliò un’altra, innestata sulla
pitagorica, e denominata da Elea in Lucania; scuola che spingendo
all’eccesso il sistema delle idee, ripudiò il senso comune e
l’esperienza, per dichiarare che le cose sono mere apparenze e
nomi vani senza soggetto; e la realtà assorbì nell’intelligenza,
identificando così il mondo e Dio. Questa inclinazione al
soprasensibile, quasi la verità non deva cercarsi che nella
sfera razionale, avviava a raddrizzare il modo
della conoscenza sensibile mediante i concetti puri della ragione,
e nel pensiero separavasi ricisamente l’elemento speculativo dallo
sperimentale. E forse dall’accurata distinzione che gli Eleatici
poneano tra l’idea e le cose sensibili, e dall’avvertire che quella
tiene in sè tutte le cose nell’archetipa loro forma, derivò a loro la
taccia di panteismo.

[535-465?]

[504-450?]

Parmenide di Elea vi diede precisione, asserendo che i sensi possono
bensì esibire il fenomeno ingannevole, ma il vero e il reale non
rimangono conosciuti che dall’intelletto. Zenone, pure di Elea,
assottigliò l’indagine mostrando che, se le cose apparenti fossero
quali la sensazione ce le ritrae, sarebbero piene d’assurdi ed
impossibili: ed esagerando il concetto fondamentale di quella scuola,
negava la possibilità del moto. Per verità, qualora non basti l’esser
immediatamente sentita l’esistenza delle realtà finite, e le si
applichi il dubbio, riesce impossibile il dimostrarla. Per questo
varco adunque entrava lo scetticismo; e Gorgia da Leontini, scolaro di
Empedocle, sostenne nulla esservi di reale, nulla potersi conoscere nè
trasmettere a parole[212].

Adunque la filosofia in Italia fin d’allora ed elevavasi a tutta la
sublimità dell’ideale, e diroccava nel dubbio e nel sofisma. Ma a
Zenone, il primo filosofo che esponesse in dialoghi, spetta il merito
d’aver introdotto la dialettica, cioè una maniera rigorosa e coerente
di disputare, dimostrare, difendere, impugnare, per via di regole
prefinite.

[MEDICINA PITAGORICA]

Anche in altre scienze Pitagora aveva ben meritato, e singolarmente
nella medicina, ch’egli sbarazzò di divinità, e chiamò a contribuire
al bene della società colla legislazione e colla polizia, mediante
quel che si intitola vivere pitagorico. Fanno a lui onore d’importanti
scoperte fisiologiche; che ogni seme organico deriva da seme; che nel
sonno il sangue affluisce al cuore ed alla testa. E del sonno diede una
teoria Alcmeone crotoniate, coevo di Pitagora, al quale è pur dovuta la
prima opera speciale di anatomia e fisiologia che la storia ricordi,
cercando ai fenomeni spiegazione dall’esame della struttura delle parti.

Altri Pitagorici la medicina esercitavano per Italia e per Grecia; come
liberi indagatori (_periodeuti_) visitavano al letto gli ammalati,
che fin allora soleano farsi recare nel tempio; e scarchi dalle
superstizioni, le cause del morbo investigavano non nella collera degli
Dei, ma nella natura. Con ciò strappavano la scienza di mano agli
Esculapj, sebbene, per quella loro teorica che i mutamenti si devono
fare passo a passo, i Pitagorici non isbandissero le formole magiche e
deprecatorie. Possiamo noi asserire che s’ingannassero nello introdurre
la dottrina numerica nella scienza della salute, supponendo che la
natura prediliga certi numeri e certe forme periodiche?

A Pitagora, meno che dalle scienze insegnate, deriva lode dall’aver
formato una scuola, diretta a perfezionare i governi, non tanto
col cambiarne la forma, quanto col preparare uomini capaci di ben
dirigerli. Ma un tal Cilone, ricco violento e accattabrighe, avendo
chiesto invano d’esservi affigliato, si avventò al solito artifizio
de’ liberalastri d’ogni tempo, colla calunnia aizzando il popolo in
modo, che que’ filosofi vennero perseguitati a morte, ed abolite
le loro istituzioni. Ne profittarono gli ambiziosi per costituire
parziali tirannie nelle varie città, Clinia a Crotone, altri altrove,
soqquadrando ogni ordine primitivo, finchè gli Achei si intromisero
della pace. Allora furono adottate le leggi della madrepatria, e
nel tempio di Giove Omorio giurata una federazione delle colonie, a
capo della quale sembra fosse posta Crotone. Durò fino al 400, dopo
di che, prima dai tiranni di Siracusa, poi da Roma si vide rapita
l’indipendenza, e decadde a segno, che Petronio la chiamava campo di
cadaveri rosi e di corvi affamati.

[CARONDA. ZALEUCO]

Pitagorici furono i due insigni legislatori della Magna Grecia, Caronda
e Zaleuco, spesso tra loro confusi e ingombrati di favole, perchè la
storia lascia in non cale i benefattori del genere umano, attenta ad
immortalarne i distruttori.

[650]

Caronda fu di Catania; e poichè i legislatori antichi non solo
comandavano gli atti, ma voleano piegare la volontà, pose fondamento
al suo codice l’esistenza degli Dei[213], la famiglia e la patria.
Dai primi emana la moralità delle azioni, che i dèmoni puniscono o
premiano secondo il merito. Il rispetto pei genitori stendasi fino
alla gleba dell’ultimo loro riposo. Chi passa a seconde nozze, rimanga
escluso dalle assemblee, giacchè mette seme di dissensione tra i proprj
figliuoli. Possono l’uomo e la donna snodarsi dal matrimonio, ma non
contrarne un nuovo con persona più giovane[214]. Intento a conservare
le famiglie (secondo il genio dei legislatori antichi, diverso da
quel de’ moderni), Caronda moltiplica i legami fra’ parenti; il più
prossimo d’un’ereditiera può sposarla; il deve se orfana e povera, o
dotarla. Conoscendo i mali dell’ignoranza, impose s’insegnasse leggere
e scrivere a tutti da maestri stipendiati dal pubblico. Proibito
frequentare uomini viziosi, nè mettere in commedia un cittadino, salvo
che sia adultero o spia. Al calunniatore infliggevasi di portare una
corona di tamarisco; e sì grave obbrobrio pareva, che alcuni se ne
sottrassero coll’uccidersi. Chi abbandona il posto in battaglia, durerà
tre giorni in piazza vestito da donna. Punì i giudici che sostituissero
giro di commenti alla precisione della lettera: ammise la pena del
taglione. Chi proponesse d’innovare una legge, doveva presentarsi
col capestro al collo, per essere strozzato se avesse repugnante il
pubblico voto.

[CARONDA]

Affinchè la violenza non turbasse la indipendente decisione delle
adunanze, Caronda aveva proibito di recarvisi colle armi, pena la
vita. Un giorno stava esercitando i soldati, quando, udito che
nell’assemblea erasi levato tumulto, v’accorre colla spada come si
trovava: i nemici gli rinfacciano ch’egli medesimo violasse le proprie
leggi; ma esso:—Anzi vo’ confermarle», e immergesi quel ferro in seno.
Aristotele il loda per precisione di leggi e nobiltà di dicitura[215],
aggiungendo che dettò i suoi ordinamenti a parecchie città della
Sicilia.

[ZALEUCO]

Reputano anteriore Zaleuco di Locri. Anch’esso traeva la legge da Dio,
onde cominciava dal provare l’esistenza di questo, argomentando dal
mirabile ordine della natura, ed asseriva gli Dei non aggradiscono
sagrifizj ed oblazioni dai malvagi, ma si compiaciono delle opere
giuste e virtuose. Sempre alla legge che impone unendo la morale
che consiglia, vuole si governino gli schiavi col terrore, i liberi
coll’onore. Irreconciliabili non siano gli odj fra cittadini: nessuno
abbandoni la patria: donna non esca con molte ancelle nè soverchio
sfarzo, se non sia meretrice; nè uomo con anelli e con vesti milesie,
se non andando in bordello. Sostituite leggi fisse e poche all’arbitrio
della consuetudine, eccessivamente ne cercò la stabilità; ond’ebbe
esclusa l’interpretazione, data forza ineluttabile al testo, e vietato
perfino a chi tornasse in patria il chiedere se vi fosse qualcosa di
nuovo. Demostene attesta che, in due secoli, una sola delle sue leggi
era stata mutata[216]. Ma la stabilità è prova e carattere della bontà
d’una istituzione?



CAPITOLO X.

Sicilia.


[SICILIA]

Teatro di grandi agitazioni naturali, come di mitologici eventi fu la
Sicilia, in prima denominata Trinacria dalla figura triangolare. Le
vetuste tradizioni le danno per abitanti Lotofagi[217], Lestrigoni,
Polifemi, val quanto dire genti ancora sciolte da civile consorzio,
che vi pasceano le greggie, viveano dei frutti spontanei, e abitavano
nelle ampie grotte de’ suoi monti, dove poi i Ciclopi introdussero il
lavoro dei metalli. Giove che regna sul monte Etna, e che questo monte,
anzi l’isola tutta scaglia sopra i ribellati giganti; il dio Apollo che
pascola gli armenti in Ortigia, dove ha culto la cacciatrice Diana;
Saturno che dalla ninfa Talìa vi genera Venere, la quale preferisce il
monte Erice al suo tempio di Gnido; Cerere che in Enna introduce la
coltura del grano; Trittolemo che insegna ad arare; Aristeo che mostra
come coltivare gli ulivi e spremerne olio, e raccorre il miele dagli
alveari; Ercole che vi mena gli armenti tolti a Gerione da tre corpi,
uccide in duello il gigante Erice, scopre e insegna l’uso delle acque
termali ad Egesta ed Imera, e feste nuove e riti surroga a’ sagrifizj
umani; Mercurio e Fauno che da Sicilia prendono le mosse onde arrivare
in Egitto; Orione gigante che fabbrica il Peloro, sono favole che,
qualunque ne sia l’arcano significato, rivelano vetustissima la civiltà
di quell’isola.

Le popolazioni che il sopraggiungere di nuove cacciava, dall’Italia,
sovente vi rifuggirono. I Sicani, gente iberica, v’erano accasati
allorquando, tre generazioni prima della guerra di Troja, i Siculi e
i Morgeti, spinti dagli Enotrj, invasero i fertili valli orientali,
restringendo i Sicani ad occidente[218]. Di là da questi, verso la
punta a libeccio, nel terreno sassoso cui fende il fiume Màzara,
sedevano gli Elimi, propagine pelasgica venuta dall’Epiro, la cui
capitale Egesta vantavasi fondata dal trojano Aceste. Origine iliaca
ostentavano pure Drépano, Entelle, Erice, ove il tempio di Venere
era costrutto alla ciclopica. Queste tradizioni appellano a colonie
levantine di grande antichità, alle quali si aggiunsero prestissimo
i Cretesi, simboleggiati in Dedalo, architetto famoso, che aveva
fabbricato in Creta un edifizio, conosciuto col nome di Labirinto,
e che, chiuso in quello, trovò portentosa via al fuggire, dissero
volando, e fu accolto da Tocalo re de’ Sicani. Minosse re di Creta
venne a riclamarlo, e s’impadronì di Eraclea Minoa sul fiume Alcio; ma
vi trovò morte. Di qua dei tempi favolosi, Fenicj e Cartaginesi presero
stanza sul littorale nell’viii secolo prima di Cristo.

[COLONIE GRECHE]

[756]

Teocle ateniese, naufragato sulle coste orientali della Sicilia, stupì
di quell’opportuna postura, e rimpatriato, propose a’ suoi di menarvi
una colonia. Non esaudito, si volse agli abitanti di Calcide in Eubea,
co’ quali fondò Nasso sulle sponde del fiume Onobata. Tosto altri
coloni lo seguono, i quali delle già fiorenti città fenicie o sicule
s’impossessano, arrogandosi l’onore della fondazione, e snidando i
prischi abitatori; e ben tosto ebbero occupato tutta la plaga orientale
e meridionale dal capo Peloro al Pachino e al Lilibeo, mentre attorno
alla punta occidentale si trovarono ridotti i Fenicj, e singolarmente a
Selinunte, Motia, Panormo.

[AGRIGENTO]

Designano pure come città calcidiche Zancle, Imera, Mile, Catania,
Leontini, Megara. Altre ne aveano contemporaneamente fondate i Dorj,
fra cui Siracusa che popolò Acra, Casmena, Camarina, Tapso, Gela, da
cui derivò Agrigento[219].

[FALARIDE]

[582]

[566]

[534]

La differenza d’origine e perciò di costituzioni fu seme di reciproche
nimicizie, che guastarono il breve fiore. Da prima i coloni sfogarono
la loro attività col sommettere i natìi; e com’ebbero così ridotte
le campagne in arbitrio di poche famiglie, discendenti dai primi
coloni, gli ambiziosi seppero profittarne per erigersi tiranni. Il
primo che riuscì fu Panezio da Leontini, solleticando, come è stile
dei demagoghi, l’eterno rancore dei poveri contro i ricchi. Anche
Agrigento, governata prima aristocraticamente al par di tutte quelle
d’origine dorica, cadde a tiranni, fra i quali il cretese Falaride.
Le storie sono piene delle costui atrocità; forse esagerate dal genio
democratico de’ Greci per fare aborrita la signoria dei re. Chi non
intese parlare del toro di rame rovente, in cui egli chiudeva le sue
vittime, e primo l’ateniese Perillo che l’aveva inventato? Ma le
relazioni troppo discordano, e noi incliniamo a vedervi espresso un
suo tentativo d’introdurre l’esecrabile rito fenicio e cartaginese
d’abbrustolire gli uomini in onore del dio Moloc. Menalippo risolse
uccidere Falaride, e si confidò all’amico Caritone, che gli disse
aver anch’egli già lo stesso proposito. Venuto il destro, Caritone
s’avvicina armato al tiranno; è arrestato, ma per tormenti non rivela
i complici. Allora Menalippo si presenta, dichiarando aver egli
primo ideato il fatto e indottovi l’amico; questi nega; nasce gara;
della quale stupito, il tiranno perdona ad essi vita e beni, purchè
abbandonino il paese[220]. Per eguali sospetti incrudelì invece contro
di Zenone filosofo: ma le costui grida commossero la moltitudine tanto,
che ammutinata lapidò il tiranno.

[AGRIGENTO]

[480]

Dopo breve libertà, vi tiranneggiò Alcmane, poi Alcandro, indi Terone,
esaltato dal maggior lirico greco Pindaro, e dagli storici per avere
sconfitto i Cartaginesi e soggiogato Imera. Trasideo, suo figlio
e successore degenere, fu rotto e cacciato di regno da Gerone di
Siracusa; e da quell’istante Agrigento si resse a popolo sul modello
di Siracusa, e toccò l’apice di sua grandezza. Il vino e gli olj che
spediva in Africa, la resero una delle città più opulente, magnifica
di lusso e pubblici monumenti; talchè si diceva che gli Agrigentini
fabbricavano come mai non dovessero morire, e mangiavano come non
avessero a vivere che un giorno. Esemto, tornando vincitore dai giuochi
olimpici, entrò in Agrigento accompagnato da trecento carri, tirato
ciascuno da una pariglia di cavalli bianchi, razza siciliana[221].
Gellia serbava ne’ cellieri trecento botti di vino da cento anfore
ciascuna; imbandiva ogni giorno molte tavole, e i servi alla porta
v’invitavano ogni viandante; passando un giorno cinquecento cavalieri
di Gela, li trattò tutti quanti, poi mettendosi il tempo sul piovere,
donò a ciascuno un mantello della sua guardaroba[222]. L’abbondanza
cagionò mollezza; e in un tempo d’assedio si dovette proibire ai
cittadini, quando per turno andavano di sentinella alla ròcca, di
portare più che un materasso, coperta e capezzale.

[SIRACUSA]

[732]

[484]

Siracusa, fondata dall’eraclide Archia di Corinto poco dopo di Roma,
era governata dai proprietarj (_geomori_); ma gli schiavi, arruffati
dai demagoghi, si rivoltarono e li ridussero a rifuggire a Casmena.
Ingordi di vendetta, quelli porsero consigli e ajuto a Gelone tiranno
di Gela, che per tale appoggio acquistò la signoria di Siracusa, e
tosto la estese chiamandovi altri Greci, e trasportandovi i ricchi di
Megara, di Camarina e d’altre città distrutte; intanto faceva vendere
fuori i poveri, dicendo esser più facile governare cento agiati che
non uno solo al quale non resti nulla da perdere. Per tal guisa Gelone
venne poderoso per mare e per terra, e largheggiò di frumento co’
Romani.

[480]

I Persiani, nobile e poderosa popolazione dell’Asia Grande, aspiravano
a sottomettere la Grecia; laonde Dario lor re, avendo in corte Democede
medico di Crotone, il mandò con dodici Persiani ad esplorare le coste
della Grecia, e quelle della bassa Italia colonizzata da Greci. Ma in
questa ricevettero pessime accoglienze, e a grave fatica camparono
dalle prigioni di Táranto. Però Serse nuovo re assunse l’impresa di
soggiogare la Grecia, e con esercito memorabile passò l’Ellesponto.
Il piccolo ma generoso paese vi oppose una resistenza memorabile; e
fu allora che Gelone ai Greci esibì ducento triremi, ventimila fanti
e duemila cavalli, purchè gli conferissero il comando della flotta
alleata. La domanda gli fu disdetta; ed i Cartaginesi che parteggiavano
con Serse, affine d’impedire che Sicilia e Magna Grecia soccorressero
alla madrepatria, mandarono a Panormo Amilcare, figlio di Magone,
con grosse armate. Gelone però con cinquantamila uomini e cinquemila
cavalli lo sorprese presso Imera, e mandò in dirotta: cinquantamila
Africani restarono sul campo, e tanti prigionieri, che si disse
trapiantata l’Africa in Sicilia.

[GELONE]

Meglio che per la vittoria noi onoriamo Gelone per la pace, nella quale
pose patto ai Cartaginesi che cessassero dai sacrifizj umani. I tesori
acquistati in quella guerra distribuì ai valorosi e ai tempj, massime
a quello d’Imera; e i prigionieri, fra i varj corpi dell’esercito, di
che s’ebbe modo di coltivare nuovi campi, finire molte fabbriche, ed
alzare in Agrigento un insigne tempio e famosi acquedotti. Sciolto da
questi nemici, de’ quali anzi accettò l’alleanza, accingevasi a portare
i promessi soccorsi ai Greci, quando seppe che il costoro patriotismo
era bastato a respingere le immense turbe dei Persiani. Allora congedò
l’esercito; e radunati i suoi sudditi, inerme comparve tra loro armati,
rendendo conto della propria amministrazione, e ne riscosse vivi
applausi.

Rigoroso da principio, come fu assodato si ridusse mite e giusto;
favorì l’agricoltura, vivendo egli stesso fra’ campagnuoli: sbandiva a
tutta possa le arti corruttrici, e meritò che i sudditi lo chiamassero
il loro miglior amico. Sentendosi gli anni far soma addosso, rinunziò
al fratello Gerone e poco sopravvisse. Da’ Cartaginesi e dal tiranno
Agatocle fu distrutto il magnifico sepolcro di lui, non la memoria di
sue virtù.

[GERONE]

[478]

Gerone succedutogli teneva splendidissima corte: diceva le orecchie
ed il palazzo del re dover essere schiusi a tutti: all’eloquenza,
che allora faceva le prime prove e che sì facilmente degenera in
ciarla e sofismi, pose freno, più volenterosa mano porgendo alle
arti dell’immaginazione; sicchè a lui accorsero di Grecia i poeti
Bacchilide, Epicarmo, il maggiore tragico Eschilo quando vecchio
fuoruscì dalla patria, e Pindaro che nelle sue odi non rifina di
esaltarlo generoso e giustissimo, amico della musica e della poesia,
e perchè del _suo ricco e magnifico palazzo apriva le porte alle
Muse_. Sull’avarizia e le violenze ond’egli si contaminò, stesero un
velo officioso i beneficati. Il patetico poeta Simonide era penetrato
più avanti nella confidenza del principe; il quale lo interrogò qual
sentimento avesse sopra la natura e gli attributi della divinità.
Simonide chiese un giorno onde riflettere avanti rispondere; al domani
ne chiese due; e così andò via raddoppiando, finchè incalzato dal re,
confessò che, più vi pensava, più trovava il tema intricato ed oscuro.
Oggi la femminetta vi risponde.

Gerone osteggiò Terone e Trasideo signori d’Agrigento, perchè avevano
dato ricovero a Polisseno fratello di lui, cacciato come troppo ben
voluto dal popolo: ma Simonide, interpostosi della pace, la sodò
con parentele. Spedita la flotta a sussidio di Cuma, Gerone riportò
vittoria navale sopra gli Etruschi. Trasferì in Leontini gli abitanti
di Catania, in questa ponendo coloni nuovi, affine di conseguire il
titolo d’eroe, di cui onoravansi i fondatori di città, e prepararsi un
asilo in caso di disastro.

[TRASIBULO]

[467]

[466]

Ivi morì, e gli successe Trasibulo suo fratello; delle cui crudeltà
disgustati, i Siracusani s’intesero colle altre città, lo cacciarono,
ed in memoria istituirono annua festa a Giove Liberatore, col
sacrifizio di quattrocento cinquanta tori da banchettare. Siracusa
allora ripigliò governo a popolo; e ad imitazione di essa le altre
città di Sicilia cacciavano la gente nuova per ripristinare gli antichi
proprietarj ne’ beni rapiti, e nel privilegio delle magistrature.
Questo ristabilimento del governo repubblicano immerse l’isola in
gravi tempeste, ma la guerra civile terminò colla espulsione degli
avveniticci, ai quali fu assegnata per dimora Zancle, che aveva preso
il nome di Messina per coloni messenj ivi piantati. Questi rifuggiti, i
più di origine italiana, furono nocciolo d’un’associazione bellicosa,
che poi, col nome di Mamertini, aperse l’isola ai Romani, cioè alla
servitù.

[445]

Gli antichi Siculi, non ancora tutti periti, osarono alzare il capo,
concorrendo da tutte le città, eccetto Ibla, sotto la direzione di
Ducezio, per espellere i Greci. Prosperati in sulle prime, provarono
poi avversa la fortuna, e Ducezio rifuggì agli altari dei Siracusani,
che lo mandarono a Corinto, e l’antica schiatta restò irremissibilmente
soggiogata. Pure, pigliando parte cogli uni o cogli altri nelle
continue guerre, facea prevalere quelli con cui s’accampasse.

[DEMOCRAZIA E GRANDEZZA DI SIRACUSA]

[446]

Siracusa assodò il suo potere con questo trionfo e con un nuovo che
riportò sopra l’emula Agrigento; vinse in mare gli Etruschi; stabilì
una pace generale, alla cui ombra fioriva, e messa a capo delle città
greche di Sicilia, cresceva d’opulenza, ed empivasi di _schiavi_,
d’armenti e di tutte le agiatezze della vita[223]. Timore di tirannia
le fece istituire il _petalismo_, per cui scriveasi sopra una foglia
di fico il nome di chi paresse tanto illustre da poter soverchiare,
e qualora i voti bastassero, colui dovea restare per cinque anni
sbandito: legge conforme all’ostracismo d’Atene e al discolato di
Lucca, che punendo non la colpa ma la possibilità della colpa,
stoglieva dagli affari i migliori, lasciando la repubblica alla ciurma
invidiosa e inetta; ma fu ben presto abolita.

Stava Siracusa sur un promontorio, cinta tre lati dal mare, dominata
dalla rôcca Epipoli, e fortissime mura giranti diciotto miglia
difendevano un milione ducentomila abitanti. Tre porti apriva alle
navi di tutto il mondo, il Trogilo, il piccolo di Marmo, e quel
delle Neocosie, grande cinque miglia, sicchè bastava a trecento
galee, e dove più di cento navi poterono battagliare. Dentro era
divisa nei quartieri di Acradina, Tiche, Temeno ed Ortigia o isola,
il solo che ora forma la città, eccessiva ai quattordicimila
abitanti sopravanzatile. Era stata costrutta coi sassi delle vicine
latomie, che poscia furono trasformate in prigioni; e vi si ammirava
principalmente il tempio dorico di Minerva, con due facciate ed un
peristilo esteriore, sul cui frontone giganteggiava un’egida di bronzo
col teschio del gorgone; alle porte di legno fino erano riccamente
intarsiati oro e avorio; preziose pitture lo fregiavano; e più tardi
Archimede vi delineò sul pavimento una meridiana, ove il sole batteva
dritto agli equinozj. Quando alcuno ostentasse ricchezze, i Greci gli
diceano per proverbio:—Non ne possedete un decimo di quelle d’un
Siracusano». Due sorelle doviziose, narra Ateneo, lavavansi in una
delle limpide fontane, ombreggiata dai papiri e dai cacti; e venute a
contesa sulla propria bellezza, chiesero giudice un giovane mandriano.
Egli preferì la maggiore, la quale il ricompensò collo sposarlo,
mentre l’altra si unì al fratello di lui. Le due, dette _callipigi_
dalla parte che in esse avea vanto, fondarono un tempio alla bellezza
callipiga; e dalle ruine di quello fu estratta la famosa Venere di
tal nome. Altrettanto famosa è la statua di Esculapio. Feste solenni
si celebravano pure, dette Caneforie, Citonee, Targelie, con suntuosi
banchetti.

[427]

I Leontini, gelosi e dolenti di vedersi privati del commercio,
mandarono l’illustre oratore Gorgia loro concittadino a sollecitare
contro di Siracusa gli Ateniesi; i quali, allora sobbalzati da sfrenata
democrazia, volentieri misero mano negli affari di quell’isola,
riconoscendola di suprema importanza a dominare il Mediterraneo.
Pertanto spedirono navi a soccorso di quegli Jonj e dei Reggini, e
per alcuni anni rimestarono nelle discordie intestine dell’isola,
finchè la ricomposero, a patto che ciascuno ritenesse quel che aveva.
I Leontini o franti dalle dissensioni interne, o vedendosi incapaci a
difendere la propria città, la demolirono e si mutarono in Siracusa,
che primeggiava, per quanto gli Ateniesi avessero tentato armarle
incontro una federazione.

[SPEDIZIONE DEGLI ATENIESI]

[416]

Undici anni dopo, venute alle mani Egesta e Selinunte, Siracusa
favorisce all’ultima, e gli Egestani superati ricorrono ad Atene
per ajuti, mostrando che altrimenti i Dori metterebbero a giogo
irreparabile gli Jonj. Atene trovavasi allora sulle braccia la
Grecia intera nella lunga guerra peloponnesiaca, laonde i prudenti
la distoglievano da questa nuova briga; ma Alcibiade, consigliatore
di quei partiti estremi che allettano il vulgo, mostrava come
l’occupazione della Sicilia sarebbe scala all’Africa e all’Italia, e
fece decretare la guerra, e capitani lui, Lamaco e Nicia che l’avea
sempre dissuasa. Mai sì bella flotta non aveva allestito Atene; mai
impresa non era parsa più popolare; cittadini e stranieri in folla
accompagnarono gli armati al porto, e incensi e profumi olezzanti
da vasi d’oro e d’argento, e copiose libagioni propiziarono gli Dei
alle navi, che adorne di festoni e di trofei salpavano, tanto sicure
dell’esito che il senato prestabilì la sorte delle varie provincie
dell’isola.

[415]

[413]

Centrentaquattro triremi sferrarono da Corcira, con cinquemila soldati
di grave armadura, oltre gli arcieri e i frombolieri; ma non più che
trenta cavalli. Traversato il mare, furono accolti sgarbatamente da
Turio, Taranto, Locri, Reggio, benchè colonie attiche: gli Egestani,
che eransi proferti di pagare le spese della guerra, trovarono d’avere
nel tesoro appena trenta talenti. Il cauto Nicia allora proponeva:
«Non diamo ai bugiardi Egestani maggiore ajuto di quel che sono in
grado di pagare»; e mostrando ingiusta la causa assunta, col tentennare
scoraggiva i soldati. Pure vollero cingere d’assedio Siracusa, quando
però già le avevano lasciato agio di fornirsi di viveri e d’armi,
mentre gli Ateniesi erano peggiorati d’uomini, di provvigioni, di
coraggio. L’abile Nicia condusse l’assedio con tal maestria, che stava
per pigliare la città; quando Alcibiade che, disgustato colla patria,
era rifuggito agli Spartani, indusse questi Dori a soccorrere la dorica
Siracusa. Spediscono di fatto Gilippo, il quale presenta la battaglia,
e vince e scioglie l’assedio.

[agosto]

Allora gli Ateniesi pensarono a ritirarsi, e n’erano in tempo; ma sul
salpare delle àncore, ecco il sole s’eclissa; e Nicia, non volendo
entrare in viaggio con questo sinistro augurio, differisce la partenza.
Approfittarono del momento i Siracusani e Gilippo, e sul mare e per
terra percossero gli Ateniesi di una piena sconfitta. I Siracusani
eransi assicurato l’avvantaggio in mare col far le prore meno alte
che quelle degli Ateniesi, onde percotevano le navi avversarie a
fiore o sott’acqua, e talvolta d’un solo urto le mandavano a picco.
Nicia stesso cadde prigione, ed o si uccise o fu ucciso nel carcere;
settemila prigionieri chiusi nelle latomie, stentarono al sole cocente
ed alle pioggie, scarsamente nudriti e abbeverati; alcuni vi morirono,
altri vi penarono l’intera vita, quali furono venduti. Fortuna fu per
alcuni il conoscersi di lettere; ed il sapere a mente versi d’Euripide
a molti fruttò la libertà ed il ritorno in patria. Era Euripide il
terzo poeta tragico della Grecia, e tal conto ne facevano i Siciliani,
che stando per respingere dalla costa un legno caunio, inseguito da
pirati, come intesero che i naviganti sapevano versi di quel poeta,
dieder loro ricetto.

[DIOCLE]

[412]

[410]

I Siracusani avevano dunque fatto costar caro agli invasori l’aver
tentato la loro patria; e come avviene dopo le guerre di liberazione,
crebbero in grandezza. Diocle persuase a riformare lo Stato, conferendo
il governo a giudici tratti a sorte, e da persone capaci facendo
compilare un codice. Lui capo, si stanziarono leggi che non solo
punivano i malvagi, ma anche ricompensavano i buoni; e furono adottate
da molte città con sì felice prova, che a Diocle si volle erigere un
tempio.

[408]

Le contese rinate fra Egesta e Selinunte trassero Siracusa in
guerra con Cartagine, che dal lido africano allora signoreggiava il
Mediterraneo; e gli eventi che ne seguirono mutarono faccia alla
Sicilia. I Cartaginesi, venuti come ausiliarj degli Egestani, presero
Imera, condotti da Annibale figlio di Giscone, il quale fece strozzare
tremila prigionieri nel luogo stesso dove Amilcare suo zio era stato
ucciso a pugnalate dopo vinto da Gelone; e sterminò Selinunte e Imera.
Poi aspirando a conquistare l’isola tutta, il vecchio Annibale col
giovane Imilcone vi sbarcò cenventimila guerrieri, che diroccarono
Agrigento, e ne spedirono a Cartagine preziosissimi capi d’arte, e
pelli e teschi di uccisi, a decorazione de’ tempj.

[DIONIGI IL VECCHIO]

Immenso terrore colse tutti i Sicilioti. Ermocrate, il più grand’uomo
dell’isola dopo Gelone[224], erasi mostrato eroe nella guerra contro
gli Ateniesi, poi sbandito per intrighi degl’invidiosi, soliti a
camuffarsi col titolo di popolani, avea tentato rendersi tiranno di
Siracusa. Restò ucciso, ma il valore e l’ambizione di lui ereditò il
figlio Dionigi, il quale tolse occasione dai disastri per incolpare i
giudici di Siracusa di tepidezza e di corruzione. Una legge, la quale
anche oggi gioverebbe a frenare cotesti eroi da piazza, volea che,
chi non potesse provare l’accusa, fosse multato come calunniatore;
a Dionigi toccò tal pena, e non trovandosi in grado di soddisfarla,
perdeva il diritto di più favellare dalla tribuna, quando Filisto (che
poi scrisse la storia di Sicilia) pagò del suo, anzi entrò mallevadore
per le multe in cui potesse incorrere. Sentendosi spalleggiato, Dionigi
infervorò le declamazioni; il popolo, che già lo reputava pel valore,
riformò i giudici, e lui pose fra gli eletti. Egli fece richiamare
i fuorusciti, sicuro di averli saldissimo appoggio; contrariò i
colleghi, ribattendone tutti i consigli e celando i suoi proprj; e
col mandar voce ch’eglino s’intendessero co’ nemici, ottenne per se
solo il comando delle armi. Spedito a soccorrere Gela, vi protesse la
plebe contro i ricchi, e coi beni confiscati a questi fece larghezza
all’esercito, mediante il quale occupò in Siracusa l’assoluta potestà.

[405]

Allora si cinse di bravi, strinse parentele potenti, adoprò
sessantamila uomini e tremila paja di bovi per fortificare l’Epipoli,
con sotterranei che comunicavano al forte di Labdalo, e che con
frequenti aperture nella volta agevolavano le sortite. Da principio
provò avversa la fortuna, e non potè difendere Gela dai Cartaginesi;
onde i soldati rivoltatisegli, saccheggiarono il palazzo di lui e ne
maltrattarono la moglie, tanto ch’ella ne morì. Colla forza e col
macello Dionigi sottopose i rivoltosi; poi valendosi degli schiavi
affrancati, dei soccorsi spartani e della peste sviluppatasi tra’
Cartaginesi, costrinse questi alla pace, e a cedere tutte le conquiste
fatte nell’isola, e Gela e Camarina smantellate; e tornò indipendenti
tutte le città. I Siracusani, che soli restavano in servitù di lui,
insorti di nuovo, sì ben lavorano che lo riducono all’ultima estremità:
ma Dionigi sa tenerli a bada, finchè sopraggiunti i suoi alleati, li
vince e disarma; e preceduto dal terrore, assoggetta Nasso, Etna,
Catania, Leontini; e può addensare tutte le forze al suo costante
intento di snidare dall’isola gli Africani.

[403]

[398]

[392]

Con ottantamila uomini e duemila vascelli affronta
i Cartaginesi; ma questi, guidati da Annibale ed Imilcone, radunano
a Panormo trecentomila uomini e quattrocento navi, prendono Erice e
Motia, distruggono Messina, e procedono sopra Catania e Siracusa, nel
cui porto entrano con ducento galee ornate di spoglie nemiche, e con
un migliajo di navi minori. Pure, decimati dalla peste, dovettero
andarsene, cedendo anche Taormina, da loro fondata per collocarvi
gl’Italioti venuti in loro sussidio.

[387]

Dionigi move allora ad assoggettare la Magna Grecia; generoso,
alle città vinte lascia l’indipendenza, e rinvia senza riscatto i
prigionieri; solo esercita fiera vendetta sopra Reggio, ricovero de’
fuorusciti siracusani, che, poderosa di trecento vascelli, resse undici
mesi d’assedio; al fine caduta, più non potè risorgere[225].

[382]

Anche all’Illiria ed all’Etruria portò guerra Dionigi, sott’ombra di
sterminare i pirati; dal tempio d’Agila tolse mille talenti, e il
valore di cinquecento in prigionieri e spoglie. Perocchè egli non si
fece mai scrupolo di spogliare gli Dei; levò a Giove un manto d’oro
massiccio, dicendo,—Gli è troppo pesante per l’estate, troppo freddo
per l’inverno»; ad Esculapio fece staccare la barba d’oro, come essa
disconvenisse al figlio d’un padre imberbe; tornando a gonfie vele
d’aver saccheggiato il tempio di Proserpina a Locri, esclamò,—Ve’
come gli Dei spirano propizj ai sacrileghi!» e coll’oro giunse ad
avere sotto gli stendardi fin due e trecentomila soldati, oltre
l’equipaggio della flotta. Meditava istituire colonie sull’Adriatico,
di là tragittarsi nell’Epiro e nella Focide a saccheggiare il tempio
di Delfo: ma gli ruppero il disegno i Cartaginesi, ricondotti da
Magone. Dionigi alla prima li vinse, e ricusò la pace; ma avendogli un
oracolo predetto che morrebbe quando avesse vinto un nemico più di lui
poderoso, non ispinse la guerra agli estremi, e rannodò la pace.

Vigorosa ed accorta amministrazione adoprò Dionigi, ma arbitraria
e violenta. Conscio de’ pericoli che circondano il tiranno, mai
non dormiva nella medesima camera; facevasi bruciar la barba dalle
figliuole, dopo che il suo barbiere s’era vantato, «Ogni settimana
ho sotto al rasojo la vita di Dionigi». Come il Machiavelli al suo
principe, così il gran filosofo ateniese Platone voleva persuadere a
Dionigi di elevare, sulle ruine della democrazia, uno Stato poderoso,
che togliesse di mezzo gli stranieri, Greci fossero o Cartaginesi, e
non lasciasse all’osco sostituire il parlare ellenico; a ciò l’avrebbe
giovato un’oligarchia d’uomini, legati in società arcane, com’erano
i Pitagorici. Dionigi per lo contrario favoreggiava ed arricchiva i
caporioni stranieri, eccedenti in lusso e dissolutezze; accentrava
tutta la vita nazionale in Siracusa, negligendo la restante isola;
onde, malgradendo il consigliatore filosofo, s’accordò col piloto
spartano che o l’affogasse o il vendesse schiavo. E Platone fu venduto,
poi riscattato dai Pitagorici, i quali l’ammonirono:—«Un pensatore non
si accosti a principe, se non sappia adularlo».

[DAMONE E PITIA]

I Pitagorici, benchè sbrancata la loro lega e perseguitati,
conservavano potenza quanta bastasse per contrastare alla tirannide
di Dionigi. Damone, un di quelli, essendo condannato a morte per la
colpa che i governi cattivi appongono a chi non n’ha veruna, chiese
di poter prima andar a salutare la famiglia, promettendo ritornare
all’ora assegnatagli. Statico per lui rimase in carcere l’amico suo
Pitia, il quale vedendolo indugiare oltre l’ora pattuita, sollecitava
d’esser messo al supplizio in sua vece. E già v’andava, quando Damone
sopragiunto vi si oppone; l’altro insiste: qui generosa gara, della
quale meravigliato, Dionigi li manda assolti, e chiede d’entrare terzo
nella loro amistà. Poteva darsi amistà fra due filosofi ed un tiranno?

[TIRANNIDE DI DIONIGI]

Anche una pitagorica, piuttosto che svelare i segreti della sua setta,
si tagliò coi denti la lingua. Dionigi, che tutte sorta di gloria
ambiva, lesse una volta suoi versi al poeta ditirambico Filosseno, e
poichè questi li disapprovò, lo fece chiudere nelle latomie; al domani
richiamatolo, gli lesse altri versi; uditi i quali, il sincero poeta si
volse agli sgherri, e—Riconducetemi nelle latomie»; Dionigi sorrise, e
gli perdonò. Così recossi in pace gli arditi parlari del giovane Dione,
il quale, udendolo celiare sulla placida amministrazione di Gelone,
gli disse:—Tu ottenesti confidenza e regno pei meriti di Gelone; ma
pei meriti tuoi in nessuno più si avrà fiducia». Quando suo cognato
Polisseno, chiaritosegli nemico, fuggì, Dionigi chiamò la sorella
Testa, e la rimbrottò severamente come conscia della fuga del marito;
ed ella:—Mi credi dunque sì vile, che, sapendo che mio marito meditava
la fuga, non avessi voluto accompagnarlo? Avrei con esso diviso gli
stenti, ben più lieta d’esser chiamata la moglie di Polisseno esule,
che la sorella di Dionigi tiranno».

Dionigi aspirò alle lodi della libera Grecia, e mandò suo fratello a
vincere per lui nelle decantate corse olimpiche in Elea, e disputare a
suo nome la palma poetica, lusingatagli dagli adulatori: ma tutto re
ch’egli fosse, l’indipendente gusto de’ Greci lo fischiò, e il retore
Lisia tolse a mostrare ch’era indegno l’ammettere un tiranno forestiero
a competere in que’ giuochi olimpici, ch’erano destinati a congiungere
i liberi Elleni. Pure avendo conseguito il premio della tragedia nelle
feste di Bacco, Dionigi ne tripudiò e imbandì un convito, dopo il
quale o per veleno o per istravizzo fu côlto da morte, avendo regnato
più di qualunque altro tiranno.

[DIONIGI II]

[368]

Gli succedette il figlio Dionigi, sotto la tutela dello zio Dione,
degno amico di Platone, e riverito dal cognato pel rispetto che la
virtù impone anche a chi l’abborre. Dicono che Dione al vecchio tiranno
insinuasse di lasciar la corona al figlio di sua sorella Aristomaca,
escludendo il ribaldo Dionigi, il quale per questo accelerò la morte
al padre, e pose odio sviscerato a Dione. Nè questi nè Platone tornato
in Sicilia valsero a trarre a miglior costume il malavviato giovane,
il quale, non vedendo ne’ loro consigli se non una trama per favorire
i figli d’Aristomaca, cacciò Dione in Italia, tenne Platone in cortese
prigionia, disperse i Pitagorici loro amici.

[DIONE]

[356]

[353]

Ma Dione, coll’appoggio de’ Corintj, occupò Siracusa, e sbalzato
Dionigi, se ne rese signore. Per annunziare la liberazione, egli
salì sopra un orologio solare, onde il vulgo disse:—Com’è mobile il
sole, così non durerà la costui dominazione»[226]. In fatto, due anni
dopo, l’ateniese Callippo, fintosegli amico, lo trucida, e ne usurpa
l’autorità; ma l’anno appresso n’è spogliato da Ipparino figlio di
Aristomaca, il quale domina fino al 350, lasciando disonesta memoria.

[347]

Tra le irrequiete fazioni Dionigi trova partigiani, mercè de’ quali
dopo dieci anni risale al potere. Temendo nel figlio di Dione le
paterne virtù, il corruppe con discoli costumi, del cui lezzo questi
si vergognò tanto, che si diede morte. Per impedire che i Siracusani
uscissero di nottetempo, Dionigi permise ai malfattori di spogliare i
passeggieri; concesse alle donne un vero dominio nelle case, acciocchè
rivelassero le trame dei mariti. Adulatori trovava, delle cui bassezze
sol questa rammenteremo, che, essendo egli debole di vista, essi
affettavano di urtare per le tavole.—Molti il fanno tuttodì.

[TIMOLEONE]

[365]

[345]

[343]

Alcuni generosi, sottrattisi alla costui tirannide, fabbricarono
Ancona; altri ordivano di riscattare la patria, e salvarla da’
minaccianti Cartaginesi. A tal fine chiesero ajuti a Corinto, loro
metropoli, che spedì ad essi Timoleone, gran capitano e gran cittadino.
Timófane, costui fratello, ottenuto il comando delle armi in Corinto,
vi aveva usurpato il dominio; e Timoleone, non riuscendo a distornelo,
indusse due amici ad ucciderlo. Giudicato da alcuni generoso, da altri
assassino, sua madre lo maledisse; ed egli deliberò lasciarsi morir
di fame; poi stornato dal fiero proponimento, giurò non impacciarsi
nelle pubbliche cose, e piangere sequestrato dagli uomini. Dodici anni
durò nel deserto, poi rimessosi in Corinto, viveva privato, allorchè,
propostogli di andar a sostenere i Siracusani, accettò dicendo:—I
miei portamenti mostreranno se devo essere intitolato il fratricida
o il distruttore de’ tiranni». Con soli settecento uomini sopra venti
vascelli approda a Siracusa. Iceta tiranno di Leontini, che, vinto
Dionigi e chiusolo nell’Isola, aveva usurpato la supremazia, tenta
invano guadagnarsi Timoleone, il quale cresciuto di seguaci, lo vince
e condanna a morte, demolisce l’Isola _covacciolo di tiranni_, sicchè
Dionigi è costretto rifuggire in Corinto, dove visse col far da maestro.

[340]

Timoleone allora fu sopra ai Cartaginesi, il cui capitano Magone,
côlto da timor panico, fuggì, e col darsi morte evitò la croce che i
suoi serbavano al capitano vinto. Seguitando la prosperità, Timoleone
redime Engia ed Apollonia dalla tirannide di Letino, sconfigge Mamerco
e Ippone tiranni di Catania e Messina, restaura in Siracusa il franco
stato, e le redente città congiunge in federazione sotto le leggi di
Diocle. La libertà è rassodata dalla vittoria sopra i Cartaginesi,
capitanati da Amilcare e Asdrubale; ai quali Timoleone ingiunge di
lasciar libere tutte le città di Sicilia, che nella pace rinnovarono la
popolazione e la prosperità.

[357]

Quel modello compiuto di un eroe repubblicano all’antica, fece
sottoporre a giudizio le statue dei re precedenti, e trovò degna
d’esser conservata soltanto quella di Gelone, effigiato da semplice
cittadino. Deposto il comando, si ridusse a privato vivere, ma
coll’autorità del consiglio guidava le cose; a lui già cieco
ricorrevano i magistrati, a lui insigni onoranze, a lui gli applausi
del pieno teatro ove esponeva il suo parere. Senza contaminarsi di
ambizioni, cosa rara, nè, cosa ancor più rara, subire l’ingratitudine,
morì carico d’anni, e quando fu posto sul rogo, l’araldo gridò:—Il
popolo di Siracusa, riconoscente a Timoleone dell’aver distrutto i
tiranni, vinto i barbari, ristabilite molte città, dato leggi a’
Siciliani, decretò di consacrare ducento mine a’ suoi funerali, e
commemorarlo tutti gli anni con gare di musica, corse di cavalli,
giuochi ginnastici».

[AGATOCLE]

[317]

Aveva egli pensato riformar il paese non colle idee di Pitagora e di
Platone, sibbene colla dorica severità; ma i costumi erano guasti
a segno, che mal potea reggere chi non avesse tante virtù quante
Timoleone. Appena egli chiuse gli occhi, tutto fu scompiglio dentro
e fuori; ed Agatocle se ne valse per tiranneggiare. Quest’era un
fanciullo raccolto sulla via, serbato a infami usi, poi applicato al
mestiere di vasajo; ma coll’astuzia e colla forza si fece largo, e salì
al dominio, e il tenne a lungo, affettando popolarità; cassò i debiti,
e distribuì terre agl’indigenti; nè diadema volle nè le guardie,
dava facile accesso a tutti, e facevasi servire in vasi di argilla
per ricordare l’origine sua; ma nel medesimo tempo sterminava gli
aristocratici e i fuorusciti delle varie città, inevitabili fomiti di
civili scompigli.

[311]

Al pari di Dionigi, sentì che l’impresa più nazionale era il respingere
gli stranieri, e difatto fu alle mani coi Cartaginesi: ma questi,
sebbene in sulle prime andassero dispersi da una procella, tornati
sotto la scorta di Amilcare, sconfissero Agatocle, ed assediarono
Siracusa. Che fa l’ardito? con truppe elette sbarca sulle coste
d’Africa, arde le navi acciocchè non rimanga altro scampo che la
vittoria, e vi continua quattro anni la guerra senza fare parsimonia
d’atrocità e tradimenti. Ma le città greche di Sicilia disturbarono
l’impresa col rivoltarsegli: ond’esso ritorna, lasciando in Africa
l’esercito, che subito va alla peggio, e che indispettito del vedersi
abbandonato, ne strozza i due figliuoli, e si arrende ai Cartaginesi.
Agatocle si vendica strozzando in Sicilia i parenti de’ soldati, e
restaura l’obbedienza in paese e la pace co’ nemici.

[306]

Anche in Italia spinse correrie, assalì Crotone, vinse i Bruzj,
saccheggiando e ritirandosi. Non diremo con Timeo che a fortuna
soltanto sia dovuto il suo elevamento; ma deturpò con sanguinarie
crudeltà le splendide doti del suo animo. La pace che mantenne con
mano di ferro, mostra se conosceva il suo paese; quanto conoscesse gli
avversarj, il mostra l’audace suo sbarco in Cartagine. Onde Scipione
Africano che poi l’imitò, richiesto quali eroi avessero mostrato più
senno nel disporre i disegni, e più giudizioso ardimento nel compirli,
nominò Agatocle e Dionigi il Vecchio.

[289]

[280]

Arcàgato suo nipote lo avvelenò, e ne assunse il dominio; ma poco
stante costui è assassinato da Menone, che tenta farsi proclamare
dall’esercito: assalito però da un altro Iceta, rifuggì tra i
Cartaginesi. Iceta governò per nove anni col titolo di stratego della
repubblica; poi Tinione s’impadronì del potere, disputatogli da
Sosìstrato.

[ALTRE CITTÀ SICILIANE]

[278]

Di mezzo a ciò nuovi tiranni erano sorti in quasi tutte le città.
Agrigento, risarcitasi alquanto della distruzione sofferta, fu corifea
della lega contro Agatocle, poi soffrì la tirannide da Fintia, che
soccombette a Iceta. Gli stranieri che militavano al soldo di Agatocle,
ajutati dalla scissura e dalle varie tirannidi, s’insignoriscono di
Messina, e invaghiti di sì opportuna postura, scannano gli uomini, vi
si stanziano col nome di Mamertini, e sottopongono gli Stati limitrofi,
sostenuti da una legione romana che avea fatto in Reggio quel che essi
in Messina. I Cartaginesi scorrono fino alle porte di Siracusa; onde
questa chiama in soccorso Pirro re di Epiro, sposo di Lanassa figlia di
Agatocle, le cui imprese ci saranno divisate più tardi.

Le altre città siciliane procedettero come satelliti delle due
principali. Erano famose pei vini Taormina e Leontini, città voluttuose
e di territorio ubertosissimo. Catania grandeggiò sul suo golfo,
sinchè la lava dell’Etna non la sovvertì. Ibla, fabbricata da Greci
di Megara, traea vanto dal miele, emulo dell’ateniese d’Imetto.
Camarina era infestata e difesa da una palude; dato scolo alla quale,
restò salubre, ma esposta ai Siracusani che la distussero. Con miglior
fortuna Empedocle sanò i marazzi attorno a Selinunte. Erice visitavasi
per la voluttuosa divozione di Venere; ne traevano lautissimi guadagni
le schiave devote, la cui bellezza vive tuttora nelle donne del monte
San Giuliano, popolato anche adesso dalle colombe, sacre alla dea
d’amore. Allo scarco del monte su cui poggiava Erice, sorgeva Egesta,
che avendo ricusato denaro ad Agatocle, vide i migliori cittadini
mandati a strazio, fatte a brani le donne, venduti i figliuoli in
Italia. Il suo nome fu dai Romani mutato in Segesta, perchè quei
fieri superstiziosi impaurivano dinanzi a un vocabolo malaugurato
qual era questo, somigliante ad _egestas_, come Malevento cambiarono
in Benevento. Di qui era nativa Laide, che a dodici anni trasferita a
Corinto, divenne famosissima cortigiana; e i pittori accorreano per
copiarne alcune bellezze. Imera vantavasi pei bagni caldi, e per aver
dato la culla al poeta Stesìcoro. Allorchè i suoi concittadini voleano
chiedere ajuti al tiranno Falaride contro i loro vicini, il poeta narrò
loro la favola del cavallo, che volendo combattere l’orso, si tolse in
ispalla l’uomo; riuscì vincitore, ma l’uomo aveva imparato a mettergli
il morso e tenerlo schiavo. Enna, forte di mura, ridentissima di
circostanze, celebrava con annue solennità le feste di Cerere, dea che
quivi era nata, e la cui figlia era stata rapita mentre pe’ campi suoi
coglieva fior da fiore.

[PRODUZIONI]

Fenicj e Cartaginesi facevano dapprima in Sicilia vivo traffico
d’asportazione; poi le colonie greche vi aumentarono l’industria. Le
accennate favole sono argomento che da antichissimo vi si coltivavano
il grano, l’ulivo, gli aranci; e il titolo di granajo d’Italia
allude alla sua fertilità, tantochè nove milioni di sesterzj Roma
vi spendeva ogni anno in grani[227]. Gelone offrì nutrire l’esercito
greco tutto il tempo che durerebbe la guerra co’ Persiani. Gerone II
ai Romani, dopo sconfitti al Trasimeno, regalò trecenventimila moggia
di frumento, e ducentomila d’orzo. Diodoro attribuisce la prosperità
di Agrigento all’olio e al vino che spacciava in Africa, dove ancora
non erano naturati. Ne’ tempi storici, Anassila introdusse in Sicilia
le lepri, e Dionigi il platano[228]. Riccamente vi facea lo zafferano,
che contandosi pel più bel colore dopo la porpora, e per ingrediente
prezioso delle vivande e de’ profumi, otteneva grande importanza,
come anche l’abbondantissimo e squisito suo miele, quand’era ancora
sconosciuto lo zuccaro. Favole e storie accennano ai copiosissimi
armenti siciliani ed ai formaggi: i cavalli, massime di Agrigento,
erano in gran nominanza, e in tal numero, che negli eserciti siciliani
la cavalleria sommava a un decimo de’ pedoni. Inoltre v’abbondavano
metalli, agate, oggetti di lusso; e Roma, già avvezza ai trionfi, stupì
delle dovizie trovate nel saccheggio di Siracusa. Questa abbiamo detto
di quanto popolo fosse ricca; ed altrettanto erano in proporzione
Agrigento, Gela, Imera, Catania, Leontini, Lilibeo; Dionigi radunò
sessantamila operaj dalle circostanze di Palermo.

[LETTERATURA]

Il fiore delle belle lettere in Sicilia prevenne quello di Grecia,
e il dialetto dorico vi fece le migliori sue prove[229]. A Sparta
ogni anno pubblicamente leggeasi il trattato della _Repubblica_ di
Dicearco da Messina[230]. Epicarmo, fiorito nel 500, è il primo o dei
primi che desse forma regolare alla commedia; metteva in canzone numi
ed eroi[231]; trattava quistioni politiche, svolgendole in catastrofi
ben derivate, dipingendo caratteri, intarsiandovi proverbj antichi e
sentenze de’ Pitagorici, formando insomma quella mistura di lepido e
di profondo che oggi è tanto pregiata quanto scarsa. Sofrone inventò
i mimi: Corace e Lisia furono primi ad istituire scuole di retorica,
della quale fu sì pronto l’abuso: e già Polo d’Agrigento è introdotto
da Platone nel _Gorgia_ a sostenere che l’interesse personale è
la misura di tutto il bene; vantare la retorica perchè permette
all’oratore di appagare tutti i suoi capricci, opprimere gli avversarj,
e farli esigliare ed uccidere.

[TEOCRITO]

La poesia pastorale fu creata in Sicilia da Stesìcoro, e più tardi
perfezionata da Teócrito, il quale con bellissimi versi sembrò
rinnovare l’illusione de’ giorni fortunati, quando l’isola del sole
godeva la pace e la tranquilla agiatezza de’ campi. Mirabile per la
testura del verso e l’ingenuità della frase, non sempre egli evita le
arguzie e i giocherelli di parole, delizia dei secoli di decadenza; ma
è il solo fra i bucolici che abbia saputo farsi originale coll’esser
naturale, essendo i suoi veramente pastori, a differenza di quelli di
Virgilio, di Gessner, di Voss, e ancor più di quelli del Guarini e del
Sannazzaro, che tradiscono la finzione col mostrare per la vita loro
un appassionamento, non proprio se non di chi ne provò una diversa.
Pure gli idillj di Teocrito sentonsi dettati alla splendida Corte di
Tolomeo, alle lodi del quale e di Berenice dirizza continuo i pastorali
accordi; e mira a dare risalto alla regia pompa col contrapposto della
boschereccia semplicità, ed ingrandire la meraviglia delle feste
col porne la descrizione in bocca di gente grossiera e stupita. Il
panegirista della ingenuità campestre non ha vergogna di mendicare, e
dire a’ suoi principi:—La musa mia negletta rimane nella solitudine;
incoraggiatela, e saprà presentarsi con nobile confidenza».

Men pastorali e meno ingegnosi sono gl’idillj di Bione da Smirne e di
Mosco da Siracusa, somiglianti piuttosto ad elegie o a canti mitologici.

[SCIENZE]

Nè minor fiore ebbero in Sicilia le scienze. Già indicammo quante
verità custodissero e trasmettessero i Pitagorici, applicando le
matematiche alla fisica, fin a scoprire il vero sistema mondiale. In
fatto Iceta da Siracusa, anteriore al naturalista Teofrasto, conobbe
la rotazione della terra; Empedocle adombrò l’attrazione e repulsione
newtoniana coll’amore e la discordia da cui fa generare i moti del
mondo, e pare non ignorasse i fenomeni dell’elettricità[232]. L’analisi
geometrica e molte scoperte guidò Archìtada Taranto[233], che abbiamo
veduto spesso a capo degli eserciti e del governo della sua patria.

Gerone II mandò a Tolomeo Filadelfo re d’Egitto un vascello a venti
ordini di remi, che superava ogni costruzione egizia in agilità e in
meccanismi ingegnosi. Per esso fu tagliato sull’Etna tanto legname,
quanto basterebbe a formare sessanta galee: v’avea splendide camere
con trenta tavole da quattro persone (τετράκλινοι), pavimento a tarsìa
rappresentante la guerra di Troja, gabinetti di voluttà, solati
di agate e altre pietre di Sicilia, gallerie di quadri, scuderie,
magazzini, cucine, forno, orologio, passeggio con giardino. Era disegno
di Archimede, il quale forse inventò a quell’uopo le taglie e la vite
perpetua; v’aggiunse un apparecchio da guerra, cingendolo d’una specie
di cortina, con macchine che lanciavano travi lunghe venti piedi, e
sassi pesanti cenventicinque libbre, alla distanza di cenventicinque
passi[234].

[ARCHIMEDE]

287-212

Questo Archimede segnò orme indelebili nella storia delle scienze;
sebben nelle lettere onde accompagnava i varj suoi libri, attesti che
molte cose avea non inventate, ma apprese. Le teoriche sue sono oggi
ancora il fondamento dei metodi per misurare gli spazj terminati da
linee o da superficie curve, e il loro ragguaglio con figure e piani
rettilinei, fissando il rapporto della periferia al diametro come
ventidue a sette. In due maniere indipendenti trovò la quadratura della
parabola; nel trattato sulle spirali elevossi a considerazioni più
ardue, conducendo le tangenti e misurando le aree di curve che oggi
riguardiamo come trascendenti; tanto che Vieti l’accusava di falso,
sinchè il calcolo differenziale e l’integrale provarono l’esattezza
de’ risultamenti. Dimostrò che, se la sfera sia circoscritta al
cilindro, il rapporto tra la superficie e i volumi è lo stesso, cioè
due terzi: del quale teorema, che ancora è il più elegante della
geometria elementare, tanto egli si compiacque, che volle queste due
figure scolpite sul suo cippo funereo. Provò che in ogni sistema di
corpi esiste un centro di sforzo e di gravità, e lo determinò nel
parallelogrammo e nel triangolo, col che sottopose alla meccanica
razionale tutti i problemi relativi all’equilibrio dei solidi.

L’_arenaria_ sua avrebbe aria di nulla meglio che un giocherello di
curiosità, dirigendosi a confutare chi diceva che nessun numero,
per quanto grande, basterebbe ad esprimere la quantità delle arene:
pure Archimede, formando una progressione numerica, per la quale
esprimere quanti granelli se ne richiederebbero onde colmare la volta
del firmamento, ridusse sensibili i concetti che si avevano intorno
al sistema del mondo, e applicò il calcolo a conoscere il diametro
del sole; tanto più mirabile perchè all’aritmetica greca mancavano
figure onde esprimere di là dai cento milioni[235]. Non è fuori di
probabilità che siano dovute a lui la prima idea della rifrazione
astronomica, e le più antiche ricerche sulle equazioni indeterminate.

[DOTTRINE E INVENZIONI DI ARCHIMEDE]

Volendo Gerone II chiarirsi se l’orafo, incaricato di fargli una
corona, v’avesse impiegato tutto l’oro somministratogli, chiese ad
Archimede se vi fosse modo di accertare le proporzioni della lega.
E Archimede vi pensava come chi desidera riuscire, cioè giorno e
notte, finchè nel gettarsi in un bagno, gli brillò agli occhi l’idea
del peso specifico, e ne giubilò a segno, che così nudo balzò fuori,
e corse attorno, gridando:—L’ho trovato, l’ho trovato». Vera o no
che sia la storiella, torna ad Archimede il merito d’aver inventata
e coordinata l’idrostatica; scoprì che ogni particella d’un fluido è
premuta da una colonna del fluido stesso sovrappostale verticalmente,
e che la porzione più compressa respinge la meno. Accertato il qual
vero dall’esperienza, avvertì che un fluido, pesante verso il centro
del globo, deve offrire una superficie sferica; e che un solido, il
quale pesi quanto un egual volume di liquido, si sommergerà, mentre
quelli che pesano meno ne emergeranno in proporzione: dal che inferì
giustamente, che i corpi sommersi trovansi risospinti con una forza
rappresentata dalla differenza tra il loro peso e quello d’un volume
eguale di fluido, e che ogni solido immerso perde tanto di gravità,
quanto pesa il volume d’acqua che sposta; fondamento dell’idrostatica.

Progredendo, chiarì che i corpi sospinti da un fluido, salgono per
la perpendicolare che passa pel loro centro di gravità, onde colla
geometria potè determinare qual figura meglio s’addica ai galleggianti,
affinchè inclinati si raddrizzino: canone fondamentale nella
costruzione de’ vascelli, che Eulero e Bouguer ampliarono, ma che sta
ancora qual lo pose il grande Italiano.

A lui pure torna il merito delle prime nozioni scientifiche
intorno alla barologia, almeno dei solidi; poichè, generalizzando
l’osservazione volgare, egli primo stanziò che lo sforzo statico
prodotto in un corpo dalla sua gravità, o vogliam dire il suo peso,
dipende dal volume, non dalla forma superficiale: nozione che oggi ne
pare semplicissima, e che pure fu il germe d’una proposizione capitale,
a cui non venne dato compimento se non allo scorcio del secolo passato;
vale a dire che il peso, non solo è indipendente dalla forma e dalle
dimensioni d’un corpo, ma anche dal modo onde le sue molecole sono
aggregate.

Di quaranta invenzioni meccaniche gli antichi faceano lode ad
Archimede; la teorica del piano inclinato, i sistemi delle carrucole,
la vite perpetua, per cui un movimento di rotazione può trasformarsi
in un altro perpendicolare al primo; avendo agli Egiziani per
riversar le acque rimaste dopo gli allagamenti del Nilo, e per
vuotare la sentina delle navi insegnato la vite detta d’Archimede,
tuttora vantaggiosamente adoperata, e consistente in un asse, con
ale sporgenti a spira, e chiuso in un cilindro concentrico a quello,
inclinato da 30 a 35 gradi all’orizzonte, e per la base inferiore
appoggiato nell’acqua, sicchè girando eleva di passo in passo l’acqua
fra le spire incavate ed il cilindro. Costruì pure una sfera che
rappresentava i moti degli astri; e disse a Gerone che, datogli un
punto d’appoggio, sposterebbe e cielo e terra[236]. Siccome però egli
cercava la verità per se stessa più che per le applicazioni, non ci
lasciò descritte le sue macchine; sebbene in grazia appunto di queste
abbia acquistato la popolarità, la quale si attacca più volentieri alle
applicazioni.

[ARTI BELLE]

Siamo lieti di soggiungere che del suo talento meccanico egli fece
l’uso migliore che uom possa, adoprandolo a difesa della patria.
Siracusa era assediata dai Romani, ed il console Claudio Marcello
v’adoprava tutta la bellica maestria: ma al punto di mettere in atto
le macchine, se le vedeva rendere inerti da sempre nuovi congegni
d’Archimede, e le navi or affondate, or rapite in alto, ora capolevate,
o con specchi incendiate di lontano[237]. Però l’arte d’Archimede
non potè salvare la sua città dai tradimenti. Già il nemico l’aveva
invasa, ed egli rimaneva tuttora assorto ne’ suoi calcoli, talchè
non udì la intimata d’un guerriero romano, che veniva invitarlo a
nome di Marcello. Il brutale Romano, credendosi insultato da quella
noncuranza, l’uccise. I guaj della Sicilia non le lasciarono o libertà
o sentimento di onorare il gran cittadino; e la colonnetta colla sfera
e il cilindro, che segnava la gleba del riposo di lui, giacea dimentica
fra le tombe volgari quando Cicerone[238] andò a sterrarla di sotto le
macìe, e richiamarla all’onoranza degli immemori Siracusani.

Dell’antica grandezza ci conservò stupende testimonianze la Sicilia
nelle belle arti. Fin di cinque secoli avanti Cristo abbiam medaglie
sue, e di colà sono le più belle fra le antiche, a gran pezza migliori
che quelle della Grecia propria; e massimamente i nummi incusi di re
Gelone, di Gela, Agrigento, Sibari, Crotone, Reggio, Taranto, palesano
squisitissimo gusto. Iperbio ed Agricola che fabbricarono la rôcca
di Atene, secondo Pausania venivano di Sicilia. A Learco reggiano
gli Spartani commisero una statua di bronzo in molti pezzi, connessi
con chiodi, nel 178 di Roma; nel 214 Damea crotoniate lavorò in
Elide quella dell’atleta Milone. È lodatissimo un gruppo di Siracusa
che incorona Rodi; insigni vasi dipinti vi si vanno scoprendo; e il
siciliano Demofilo pittore è gloriato come maestro di Zeusi, uno de’
maggiori artisti, e che fu d’Eraclea nella Magna Grecia.

[RUINE DI SELINUNTE]

I monumenti siciliani tengono dell’austerità e forza dorica, più
che della mollezza e grazia jonica, e sempre con carattere arcaico.
Ma l’arte vi venne di Grecia? o da noi passò colà? A quest’ultima
opinione farebbero piede i bassorilievi, scoperti non è molto a
Selinunte. Questa città ebbe nome dal petroselino che prospera ne’
suoi dintorni, e che essa portava nel suo stemma[239]; durò soli
ducenquarantadue anni, e fu distrutta da Annibale prima che sentisse la
mescolanza straniera. Giace in riva al mare a mezzodì dell’isola in
un vasto piano, diviso da un vallone, ove oggi stagnano le pioggie,
e la chiamano Terra de li Pulci. Se la guardi dal capo Granìtola,
la credi ancora una gran città; accostandoti riconosci che tutto è
ruine, ma così gigantesche che tramutano la melanconia in istupore,
e la fantasia si compiace con quei massi enormi, con quegli immani
rocchi ricostruire edifizj che parrebbero fatti per una generazione di
giganti. E _pilieri de’ giganti_ erano appunto denominati dal vulgo,
al quale solo erano conosciuti, dopo che probabilmente un tremuoto
volse sossopra que’ colonnati. Tardi vi si applicò l’attenzione
degli antiquarj; e sopra l’alta collina prossima al mare, che sembra
fosse l’antica acropoli, si intrapresero escavazioni, onde vennero
al giorno tempj dorici, sul maggiore de’ quali, periptero esastilo,
sovra diciassette colonne posava un cornicione con un fregio dorico,
fra’ cui triglifi stavano metope preziose, anteriori d’un secolo e
mezzo a quelle d’Egina, che si contano per le più antiche di Grecia.
E sette sono que’ tempj, parallelamente disposti su due colline,
tutti, dal minore in fuori, circuìti da colonne doriche, nascenti
e fortemente rastremate, coll’echino molto sporgente, e viepiù in
grazia del sottoposto cavetto. In due di essi, colonne a doppia schiera
sostengono il portico nel prospetto, e il pronao chiuso a modo di
vestibolo, e le mura della cella prolungate senza pilastri nè colonne;
disposizioni che si riscontrano soltanto ne’ monumenti egizj. Nelle
metope suddette in rozzo tufo, rappresentanti Ercole coi Làpiti,
Perseo con Medusa ed altre scene mitologiche, la monotonia delle
teste in profilo tagliente senza cognizione dello scorcio, le barbe a
punta, gli occhi fessi al modo degli uccelli, le bocche, i capelli, le
pieghe sentono il far rituale, che copia tipi convenzionali anzichè
la natura, e indicano il passaggio tra l’arte egiziana e la greca. La
prima predomina nelle più antiche; due s’accostano ai marmi d’Egina;
nelle altre cinque le variate pose e il piegar degli abiti mostrano
un’arte avviata al movimento ordinato e alla rappresentazione animata
della classica Grecia. In generale però le opere plastiche dell’isola
non ne pareggiano la grandiosità architettonica, nè mai abbandonarono
l’arcaismo.

[RUINE DI SEGESTA]

Fra Trapani e Palermo sorgeva Segesta, fabbricata dagli Elimi,
colonizzata dai Tessali; e ancora in mezzo alla solitudine vi
s’incontra un tempio parallelogrammo di cinquantasette sopra
ventiquattro metri, cinto da trentasei colonne doriche, elevate nove
metri e del diametro di due; robuste quanto richiedevasi per reggere
il soprornato gigantesco. Tutto s’impronta di una antichità anteriore
alla greca educazione, e meglio è conservato perchè non subì le erudite
trasformazioni dell’imperatore Adriano, come i monumenti greci.

Se passiamo a Siracusa, troviamo opere più ingentilite e tondeggianti;
ed oltre i sepolcri, i tempj, ed uno stilobate lungo cenventicinque
passi, che sostiene un’ara oblunga detta di Gerone II, che aveva
cornice dorica, adesso appunto si scoperse l’acquedotto che provvedeva
copiosamente di acque l’isola, e che potè dare origine alla favola
di Aretusa, per confondersi colla quale veniva il fiume Alfeo sin
dal Peloponneso, _Incorruptarum miscentes oscula aquarum_[240].
L’anfiteatro, formante un’elissi molto allungata, parte costruito
di pietroni, parte tagliato nel masso, probabilmente fu fatto dai
Romani ad uso della colonia postavi, giacchè non sarebbe proporzionato
all’antica popolazione. Più accuratamente erasi fabbricato il teatro,
che Diodoro Siculo farebbe il più insigne di Sicilia; e posto nel
luogo più popoloso della città, offriva agli spettatori la vista
del mare, del gran porto, dell’isola Ortigia, delle belle campagne
irrigate dall’Anapo, e de’ migliori edifizj della città. Altrettanto
meravigliose sono le catacombe, che serpeggiano per molte miglia sotto
Acradina, Tiche e Neapoli, attestando dal numero dei morti l’immensa
popolazione di quella città.

[MONUMENTI IN SICILIA]

Nè manca di che ammirare a Catania, sebbene molti fabbricati rimangano
sepolti dalle lave; come il teatro, costruito di grandi massi senza
cemento, il tempio di Cerere, e tant’altri cimelj, che tratti in luce
dalla munificenza del Paternò principe di Biscari, formano uno dei più
sontuosi musei. Sotterranei e sculture gigantesche si hanno pure a
Lilibeo, tomba della Sibilla Cumana, poi riedificato dagli Arabi col
nome di Marsala, cioè porto di Dio, e da poco tempo reso celebre per
la preparazione de’ vini stabilitavi da una società inglese. Stupendo
poi è a Taormina il teatro, che da una banda mostra il clivo scendente
fino al mare Jonio, dall’altra la pendice che sale al fumante vertice
del Mongibello: statue, colonne, vasi, che l’adornavano, caddero a
pezzi od arricchirono la moderna chiesa; e le volte e le nicchie
artifiziosamente disposte per moltiplicare la voce degli attori, non
ripetono più che il grido d’ammirazione degli stranieri e il gemito de’
paesani.

—Popolo ascolta i miei canti e il suon della lira sposato alla voce.
Io celebro Agrigento, delizia di Venere, e la bella sua campagna.
Le Grazie, seguendo le orme della dea, danzano per queste valli; e
spesso sulle sfere stellate la lode delle sue piaggie risuona sulle
labbra d’Apollo». Così cantava Pindaro; ma Agrigento, che servì poi
di piazza d’arme ai Cartaginesi nella guerra contro i Romani, e fu
presa da questi, or si trova ridotta al piccolo Girgenti, sparso però
di resti d’antica magnificenza, e tombe d’uomini, di cani, di cavalli
per ogni via. Qual magnifico prospetto non dovea presentare, a chi
venisse d’Africa, quel porto, incoronato di superbe costruzioni e di
tempj a ciascun dio, fabbricati dai prigionieri cartaginesi! Alcuno
ancor ne sussiste, e i principali furono dai moderni, non con bastante
ragione, intitolati a Giunone Lacinia e alla Concordia. Il primo ha
un portico di trentaquattro colonne doriche; l’altro pur dorico bene
sviluppato e colto, è il più bel monumento della Sicilia, malgrado la
pesante trabeazione e ricorda il Partenone d’Atene. Quello d’Ercole
perì: a quello di Giove Olimpico lavoravasi ancora quando i Cartaginesi
presero la città, sicchè rimase imperfetto; di proporzioni gravi,
come tutti gli edifizj dell’isola, e non senza qualche pesantezza e
rusticità di dettagli, per ardimento di costruttura e grandiosità di
proporzioni era posto a pari col celebre di Diana in Efeso; le colonne
doriche si alzano venti metri sopra quattro di diametro, talchè nelle
canalature un uomo può riporsi come in una nicchia. Rimase coperto
fra i rottami sino ai giorni nostri, quando i frantumi revocati alla
luce, e i colossi di rigidezza primitiva, che sopportavano il coperto
dell’ipetro, mostrarono quante cose nostre rimangano a scoprire, quante
antiche grandezze a interrogare. Un solo pezzo d’architrave è lungo
otto metri; e Denon, che pur aveva studiato l’Egitto, restava attonito
davanti a quelle masse che pareano fatture di giganti, e ogni colonna
una torre, ogni capitello una rupe.



CAPITOLO XI.

I Romani nella Magna Grecia.—I Venturieri.—Pirro.


In quei secoli, a capo del mondo civile stavano i Greci, popolo
dell’umanità, il quale, invece di vivere isolato, disutile agli altri,
vivificò e fecondò i germi della verità trasmessigli dall’Oriente, in
modo che fruttificassero a tutto l’uman genere; e prima cogli Omeri
cantò le tradizioni nazionali, poi si diede ad esercitare il pensiero
onde scoprire e coordinare le verità; e ciò per merito della libertà,
dalla quale tra i Greci furono vivificate la storia, la poesia, le
arti, le istituzioni, la religione. E appunto per l’indipendenza anco
in fatto di religione, invece di limitarsi a commenti e sviluppi di un
tesoro sacro, si volsero essi senza ritegno a indagar Dio, la natura,
l’anima, producendo così la filosofia, dalla quale, dopo finita la
guerra persiana e assicurata l’unità nazionale, nacquero una morale
e una politica, con idee più generali di diritto, di franchigie, di
dignità umana. Possedendo eminentemente il gusto del bello ordinato e
il sentimento del progresso e della libertà, divennero modello eterno
e insuperabile nelle belle arti; mentre le loro repubbliche svolgevano
la vita pubblica nelle forme più varie, riducevano a scienza la
logica, la morale e le matematiche, posavano e in parte scioglievano i
problemi, intorno a cui s’affaticano anc’oggi statisti e metafisici; e
insieme correano i mari e le terre trafficando, e popolavano di loro
colonie l’Asia e l’Italia meridionale.

[ALESSANDRO MAGNO]

A tanti vantaggi recavano scapito le incessanti gare tra vicini, le
trame degli ambiziosi, l’irrequietudine dei demagoghi, e fuori i re
di Persia, i quali, aspirando ad allargare la dominazione assoluta,
connaturata ai vasti imperi asiatici, di mal animo comportavano queste
repubbliche confinanti. La lotta contro di quelli costituisce la
parte epica della storia de’ Greci, i quali in nessun tempo poterono
riposarsi dal combattere per reprimere i rinascenti attentati di
quella potente nazione, appunto come contro gl’imperatori di Germania
lottarono incessantemente le repubbliche italiane dell’età media, che
con quelle tengono tanta somiglianza per varietà d’istituzioni, per
origine, fiore, coltura, brighe, infortunj.

[ALESSANDRO MAGNO E I ROMANI]

[336]

Indebolendosi la Grecia nelle fraterne discordie, venne ad ottenervi
prevalenza la Macedonia, paese guerresco e realista, che paragonarono
al Piemonte nell’Italia moderna; ed Alessandro, re di quella, riuscì a
farsi dichiarare capo della Grecia tutta, per condurla ad abbattere la
Persia. L’animoso giovane, spinto da ambizione tutt’altro che vulgare,
con una serie di imprese, per cui la posterità lo intitola Magno, e
la Bibbia dice che _la terra ammutolì nel cospetto di lui_, oltre la
Persia, sottomise l’Egitto e l’Alta Asia, invase l’India, e non pago al
deplorabile uffizio dei conquistatori di uccidere, desolare, spegnere
nazionalità, dappertutto piantava città, opportunissime al commercio,
donde ben presto colonie greche e dinastie nuove diffusero la civiltà
e la scienza. In Babilonia il vincitore di Persia riceveva omaggio
da Cartaginesi, Iberi, Celti, Etiopi, Sciti; così largamente si era
diffuso il suo nome: ed Arriano, suo storico, ne assicura che vennero
pure ad inchinarlo Lucani, Bruzj, Tirreni. Chi sa che sotto il nome
di Tirreni non fossero indicati i Romani dagli storici donde Arriano
attinse? Certamente Clitarco, che scriveva poco dopo morto l’eroe,
dice che i Romani spedirono ambasciata ad Alessandro; e Plinio lo cita
senz’ombra di dubbio[241]. Mal dunque Tito Livio asserisce che fino
il nome di Alessandro restò ignoto ai Romani. Ignoto dovea dire alle
romane storie, isolate sempre come le cronache, e dove de’ popoli non
si fa cenno se non quando si scontrano coll’armi alla mano. Del resto
il nome e le imprese del Magno dovettero dar materia, non solo alle
ciarle dei curiosi, ma alle apprensioni degli uomini di Stato in tutta
l’Italia; sulla quale poteva benissimo voltare l’esercito vincitore
dell’Oriente. In tal caso qual esito avrebbe avuto la guerra? Tito
Livio posa a se stesso tale quistione; e l’orgoglio patriotico che
spira da ogni sua linea, si manifesta singolarmente in quel passo, uno
dei pochissimi ov’egli porti lo sguardo fuori del recinto di Roma sua:
ma quanto inesatto giudice si mostra!

Il problema è insolubile, come tutti quelli a cui il tempo o la
fortuna mescolano elementi, irreperibili dall’umana previsione. Chi
sa se Alessandro qui sarebbesi accontentato d’una supremazia pari a
quella che esercitava in Grecia, e se Romani e Sanniti vi si sarebbero
rassegnati? Presto è detto che altro era il vincere le turbe di Dario,
altro gli eroi del Lazio; ma è falso che Alessandro abbia avuto a fare
soltanto con gente vinta dalla mollezza prima che dalle armi. Nè soli
i trentamila suoi Macedoni avrebb’egli trasportato in Italia, ma quanti
falangiti avesse voluto comprare coi tesori dell’Asia, ma i migliori
guerrieri di ventura, ma i prodi d’Africa e di Spagna, ma generali
formati sotto di lui in diuturne guerre, di cui l’esito non fu sempre
dovuto alla fortuna. E fosse pure venuto coi soli Macedoni, dovea Livio
ricordarsi che uno de’ suoi successori, Pirro, con tanto meno forze e
tanta meno reputazione condusse fino all’orlo del precipizio la futura
metropoli del mondo.

[AVVENTURIERI]

[323]

Se non che l’eroe macedone, nel fior di sua vita e nel mezzo de’
trionfi moriva, e subito il vasto dominio di lui era spartito fra’
suoi generali, tutti ambiziosi del nome di re d’Egitto, re di Siria,
re del Ponto, re della Battriana, della Comagéne; e che a vicenda
osteggiandosi, propagarono l’anelito guerresco, empirono di battaglie
la Grecia, l’Egitto, l’Asia Alta e la Minore, e formarono una turba
di capitani e combattenti di ventura, i quali, simili ai condottieri
del nostro medioevo, non d’altro erano vogliosi che d’esercitare il
mercenario valore, e di procacciarsi fortuna in ambiziosi cimenti.

La scossa ne fu sentita anche in Italia. Domi i Sanniti, suoi più
ostinati nemici, Roma si trovava a fronte la Magna Grecia e la Sicilia.
Le colonie, che quivi abbiam veduto fiorentissime, andavano in dechino
dopo le guerre coi Lucani e con Dionigi il Vecchio; Posidonia avea
coloni stranieri; le altre pure s’erano dovute rifare con gente
avveniticcia; e decimate di popolo e di forze, si limitavano al
ricinto delle loro mura. Sembra sciagura fatale ai popoli infelici il
volgere il dente contro le proprie carni; e la dissensione civile da
sbrigliata democrazia le trabalzava a tirannide atroce. Dedicatisi al
commercio e snervati nelle lautezze, affidavano volentieri la difesa
a soldati mercenarj, i quali diventavano un mezzo di signoreggiare,
in mano di chiunque avesse denaro onde comprarli. Divenne dunque
mestiere il combattere; gli eserciti non si componevano più, come ne’
bei giorni della libera Grecia, di cittadini, armati per difendere
la patria e sostenere una causa od una opinione professata; bensì di
mercenarj[242], o compri fra gli stranieri, massime Galli, o fra quelli
che, inveterati nelle passate guerre al sangue e alle prepotenze,
vendevano il valore a chi promettesse maggior soldo e maggior
saccheggio; o che, nella rovina della patria non avendo salvato che il
braccio, aggregavansi coi soldati ancora lordi del sangue de’ proprj
compaesani per passare dagli oppressi nel numero degli oppressori,
senz’altra causa che il denaro, altra fede che una promessa venale
degli oppressori. Gli Stati pertanto rimanevano in balìa de’ capi
militari, e dell’esito delle battaglie: la scienza delle finanze
si ridusse a trovar maniere da procurarsi denaro, col quale aver
soldati. E fu pel costoro appoggio che Agatocle si eresse tiranno di
Siracusa (pag. 249); poi alcuni Campani, desiderosi di prendere stanza
e dominio, occuparono Messina, altri invasero Reggio, e riuscivano
tremendi ai Cartaginesi, ai Romani, viepiù ai natii.

[TARANTO]

[355]

[223]

Fra le repubbliche della Magna Grecia, Taranto primeggiava di marina e
d’industria; e mentre le città d’origine jonica aveano a lottare coi
tiranni di Siracusa, ella come dorica vivea daccordo con questi. Ma
le davano molestia i Bruzj, popolazione mista, che senza discernere
Dori da Achei, cavalcava sopra i vicini, e spingeva i Lucani sul
territorio di Taranto. Forse per gelosia dei concittadini, come
Venezia, questa repubblica non teneva altro esercito che di soldati
estranei, e conduceva a suo servizio perfino principi, come Archídamo
II re di Sparta, figlio d’Agesilao, che al loro soldo perì co’ suoi
combattendo i Lucani; come Cleónimo, figlio di Cleoméne II, pur re
di Sparta. Costui menò loro cinquemila mercenarj, n’aggiunse altri
comprati dai Tarantini, ma non fece impresa degna del valore spartano,
e abbandonatosi al lusso e alla mollezza, cercava ridurre in servitù
quei che s’erano commessi alla sua fede, cianciava di voler fiaccare
i tiranni di Sicilia, e intanto rubava, devastava: sicchè i Barbari
confinanti diedero addosso a lui e alle sue navi, che a stento egli
menò a Corcira a farvi altrettanto mal governo. Cacciato di qui pure,
tornò ai Tarantini, ma respinto da essi, vôlto il capo di Brindisi, e
spinto da fortuna nell’Adriatico, temendo di giungere fra gl’inospiti
Illirj e Liburni, s’accostò alla Venezia; e preso terra fra i Padovani,
ne incendiò una borgata, portando via uomini e armenti. I Padovani
accorsero, e dispersero quei predoni, di modo che sol piccola parte
della flotta potè campare. Tito Livio è il solo che racconti questo
fatto, ma egli era padovano, e dice che fin a’ suoi tempi si vedevano
per memoria i rostri delle navi prese in un tempio antico di Giunone a
Padova, e si faceva un’annua solennità navale sul Medoaco[243].

[ALESSANDRO IL MOLOSSO]

[349]

[281]

Anche Alessandro il Molosso re d’Epiro, zio d’Alessandro Magno,
desideroso d’emulare le imprese di questo, e crearsi un regno proprio,
venne al soldo de’ Tarantini, ruppe Lucani e Sanniti, ma avendo mal
dissimulato l’ambizione, i Tarantini ne presero ombra e lo cacciarono.
Anelando a vendetta, per tribolarli colla guerra, egli esibì la
propria alleanza ai Romani, che l’accettarono. Alleanza disonorevole,
perchè non suggerita da pericolo proprio, e fatta con un ambizioso
vendicativo contro chi difendeva la patria indipendenza. Egli perì
in quella spedizione; e tra Roma e i Tarantini ne rimasero cattivi
umori, scoppiati allorchè questi mossero lamenti perchè i Romani
avessero violato un’antica convenzione, navigando oltre il capo di
Giunone Lacinia, e staggirono le loro navi. Ambasciadori romani vennero
a richiamarsene, e il popolaccio inviperito contro quella gente, li
ricevette a oltraggio, e ne insozzò le toghe.—Queste macchie saranno
terse col sangue», esclama l’ambasciadore, e se ne toglie pretesto
di dichiarare la guerra; e i Tarantini, secondo l’usato, cercano un
capitano fra quei tanti che s’erano sbranato il manto d’Alessandro
Magno.

[PIRRO]

[295]

Come gli Sforza e gli Uguccioni fra le repubbliche italiane, così
fra que’ tumulti era ingrandito Pirro, eroe romanzesco, che diceasi
discendere da Achille e da Ercole, e che non senza difficoltà e
miracoli succedette al padre Eacide nel regno dell’Epiro, cantone
montuoso della Grecia rimpetto al golfo di Taranto, che ora è la
bellicosa Albania. Venuto su fra pericoli e sollevazioni, combattè
in compagnia ora de’ Seleucidi di Siria, ora de’ Demetrj di Grecia,
ora de’ Tolomei d’Egitto, successori di Alessandro Magno; tentò
impadronirsi della Macedonia, regno originario di questo; e se non
molestasse qualcuno, o da qualcuno non fosse molestato, credeva non
saprebbe come ingannare il tempo (Plutarco). Con tal umore si può
sommovere ma non fondare; e in fatto se parve un istante in procinto di
restaurare lo sfasciato regno macedone, e fors’anche raccorre a sforzi
magnanimi la Grecia declinante, non tardò a perdere il frutto delle sue
vittorie. Ridotto di nuovo al patrio Epiro, struggevasi però sempre
di emulare Alessandro e Agatocle, di cui aveva sposato una figlia; e
poichè a nulla era approdato in Grecia, ruminava un bel regno nella
bassa Italia e sulle coste d’Africa.

[CINEA]

All’impetuoso valore metteva o freno o regola il tessalo Cinea,
filosofo pratico e parlatore tanto efficace, che Pirro confessava di
dovere più città alla parola di esso che non al proprio brando. A lui
Pirro espose come i Tarantini avessero mandato a chiederlo capitano
contro i Romani; e—Bell’occasione (diceva) d’intrometterci nelle cose
della Magna Grecia; di là ci potrem fare formidabili al resto d’Italia.

—Assai bellicosi sono colà i Romani (rispondeva Cinea); ma se gli Dei
ci concedono di vincerli, che pro trarremo da questa vittoria?

E Pirro:—Più non vi sarà città barbara o greca che ci contrasti, e
nostra fia tutt’Italia.

Al che Cinea:—Avuta tutt’Italia, che cosa farem noi?

—Sicilia le sta a due passi, isola fortunata di sito e di gente, e
facile ad esser presa, sossopra come ella è dopo la morte di Agatocle,
e raggirata da avvocati arruffapopolo.

—Sia: ma qui ristaremo?» insisteva ancora Cinea.

E Pirro:—Non già; chi ci terrebbe di passare in Africa e a Cartagine?
e impadroniti di essa, qual ci potrà contrastare de’ nemici che ora ci
sbraveggiano?

—Nessuno per certo, e ricupereremo la Macedonia, signoreggeremo la
Grecia. Ma ottenuto questo, che faremo?

—Allora (ripigliò Pirro sorridendo), allora staremo in contento riposo,
mio buon Cinea, fra le tazze e i tripudj.

Il consigliere, che a ciò lo aspettava, conchiuse:—Or chi ti toglie di
cominciare fin d’oggi questo buon tempo? Non hai tu alla mano quanto
occorre senza fatiche e sangue, nè mali tanti?»[244].

[I ROMANI E PIRRO]

L’ambizione non così facilmente si rassegna ad argomenti di prudenza; e
mandato esso Cinea ad occupar la fortezza di Taranto, Pirro stesso menò
di qua dal mare su navi tarantine ventimila pedoni, tremila cavalli
e venti elefanti che i Macedoni avevano in Asia imparato ad usare
in battaglia, o imponendovi gran torri da cui avventavansi dardi, o
spingendoli a scompigliare le file nemiche coll’urto possente e colle
robuste proboscidi. Un cittadino in aspetto di ubriaco, inghirlandato
ancora di rose avvizzite, e con una sonatrice allato, si presenta ai
Tarantini raccolti in assemblea, ed essi gli gridano:—Su via, Metone,
su; canta e facci stare in allegria.—Sì (risponde), cantiamo, soniamo
e facciam gavazze finchè n’abbiamo tempo; altro avremo a pensare quando
Pirro sarà venuto». Di fatto il re d’Epiro, rimbrottando di mollezza i
Tarantini, non appena giunge, fa chiudere teatri e palestre e bagni e
giuochi; tutti s’addestrino alla guerra, mescolati colle sue truppe;
nessuno esca di città; ai contumaci la morte; e si fa gagliardo col
trarre in sè il pien potere.

[280]

L’avere i Tarantini chiamato Pirro, fu dal senato romano riconosciuto
caso di guerra; non volle però offendere gli Dei col porre in campo
le legioni senza prima dichiarare religiosamente nimicizia a questo.
Ma poichè il tempo stringeva e l’Epiro era discosto, fecero da un
disertore epirota comprar un campo in Roma, e su quello i Feciali
compirono i riti consueti, con ciò quietando la pubblica coscienza.
Mossero poi otto legioni contro di Pirro, il quale, essendosi invano
offerto mediatore fra essi e i Tarantini, gli affronta ad Eraclea con
disputatissima battaglia. I Romani erano rimasti sgomentati da’ _bovi
di Lucania_, come chiamarono i non prima veduti elefanti; ma a chi
gliene porgeva congratulanza, Pirro rispondeva:—Un’altra vittoria
siffatta, e siamo perduti».

Sanniti, Lucani, Messapi colsero da questo disastro di Roma l’occasione
per insorgere contro la tirannia di essa; appoggiato dai quali, Pirro
spingesi fino a Preneste, e dalle alture vede Roma, quella Roma che più
egli ambisce quanto più è capace di conoscerne la grandezza. Ammirando
i cadaveri di questi Barbari, caduti in battaglia senza volger le
spalle, esclamò—Sarebbe conquistato il mondo quand’io avessi per
soldati i Romani, o i Romani me per capitano». Mandò a proporre ad essi
la pace, purchè lasciassero libertà ai Tarantini e al resto della Magna
Grecia. Mossi dalla cortesia, dall’eloquenza, dalle ragioni, dalle
visite e dai doni di Cinea, che tutto ammirava, che diceva il senato
essergli parso un concilio di re, i Romani già inchinavano, quand’ecco
nell’assemblea presentasi il cieco Appio Claudio.

[APPIO CLAUDIO]

[311]

Già mentovammo questa famiglia, oriunda sabina, e risoluta
propugnatrice del diritto patrizio. Secondo questo, Appio conservavasi
despoto nella propria casa come un patriarca; ma al modo che i Tories
della moderna Inghilterra vollero comparire autori de’ provvedimenti
più liberali che il tempo richiedeva, così Appio, essendo censore, avea
mescolato la plebe fra tutte le tribù per crescerne l’influenza, ed
ascritti nel senato anche liberti; e mentre prima sull’altare grande
di Ercole non aveano sagrificato che i discendenti dell’aborigeno
Potizio, Appio indusse costoro a rassegnare tal funzione a schiavi
del popolo romano, comunicando così anche il sacerdozio, che fin là
erasi tenuto geloso privilegio de’ nobili. Ben si cianciò che gli
Dei, sdegnati di tale sacrilegio, aveano fatto morire tutti i Potizj
entro un anno, e privato Appio degli occhi; ma le barriere spezzate
più non si ripararono, e la nobiltà odiò invano il severo censore; il
quale è pure il primo romano che appaja come scrittore avendo composto
poesie sul modello di quelle di Pitagora[245], e s’immortalò anche col
fabbricare un acquedotto che da ottanta stadj lontano portava acque
agli abitatori delle parti basse di Roma, e collo schiudere per mille
stadj la magnifica via da Roma a Capua, detta la regina delle strade, e
che pareva significare l’unione dell’Italia alla sua metropoli.

Costui per gli anni e per la cecità aveva da un pezzo abbandonato i
pubblici affari; ma allora, indignato che i Romani piegassero, si fece
portare nella curia da quattro figliuoli, tutti stati consoli, inveì
contro il greco ciarliero seduttore, esortando a respingerlo di Roma, e
dettò questa risposta, da darsi a Pirro:—Se vuol la pace, prima esca
dall’Italia». La franchezza e i partiti risoluti prevalgono sempre; e a
voce di popolo si gridò la guerra. Gli elefanti avevano cessato di dare
sgomento ai Romani, che con dardi infocati[246] ritorcendoli contro
l’esercito di Pirro, lo scompigliarono e vinsero.

[FABRIZIO]

[280]

Fabrizio Luscino, famoso per fatti di guerra non meno che per
integerrima costanza, fu a lui deputato onde chiedere il cambio o il
riscatto de’ prigionieri; e Pirro, sapendo quanto egli fosse autorevole
in pubblico e poverissimo in casa, gli esibì gran denaro, e n’ebbe un
rifiuto; al domani provossi di spaventarlo col far avanzare sopra il
capo di lui la proboscide d’un elefante, ma nulla parimenti ottenendo,
intonò:—Più facile è sviare il sole dal suo corso, che Fabrizio
dalla probità». Cinea, volendo sfoggiare della sua dotta eloquenza
davanti a lui, tra il cenare espose la dottrina di Epicuro, capo d’una
delle scuole filosofiche di Grecia, che negava Dio e la provvidenza,
considerava la giustizia come invenzione umana, e unico fine dell’uomo
il piacere; e come i costui seguaci si tenessero scevri dai maneggi
pubblici, in deliziosa infingardaggine. Il che udendo, Fabrizio
esclamò:—Padre Giove, fa che Pirro e i Sanniti approvino tale dottrina
finchè stanno in guerra contro di noi».

Viepiù Pirro desiderava attaccarsi un uomo così disforme da quelli
che aveva conosciuti nella degenere Grecia e nell’ammollita Tarante,
e lo esortava,—Rimetti pace fra’ tuoi cittadini e noi, poi vieni a
vivere con me». Al che Fabrizio rispose:—Non ci sta del tuo conto;
perchè quelli che ora rendono omaggio a te, conosciuto che abbiano me,
preferiranno essere da me governati che da te». Pirro, volendo pur
gareggiare di generosità, gli regala ducento prigionieri senza prezzo;
a tutti gli altri permette vadano a visitar in Roma i loro parenti,
purchè Fabrizio dia la parola che ritorneranno. Ma Roma non soffriva si
salvasse la vita col perdere l’onore; i prigionieri restituiti marchiò
d’infamia, e i cavalieri ridusse a pedoni, i fanti a frombolieri; e
finchè non avessero spogliato due nemici, doveano serenar fuori del
campo senza riparo nè trincea.

[279]

Tanta fermezza dovea sgomentare il nemico, che vedeva dai Romani
rifarsi gli eserciti, come le teste dall’idra lernea. Poi Fabrizio
gli fece intendere come il medico di lui gli avesse proposto di
avvelenarlo, soggiungendogli:—Vedi quanto male tu scelga e gli amici
ed i nemici». Tocco da quella generosità, o persuaso che troppo
difficile era il vincere uomini tali, l’Epirota cessò dalle ostilità,
consacrò nel tempio di Taranto parte delle spoglie, non vergognando
di chiamarsi superato, e dopo ventotto mesi che v’era sceso, rimbarcò
cavalli, elefanti e uomini, e tragittossi in Sicilia sopra sessanta
navi siracusane.

[PIRRO VINTO]

[278]

[275]

[272]

Su quell’isola vantava egli qualche pretensione come genero di
Agatocle, e v’era chiamato per resistere ai Cartaginesi: in fatto
egli ne li respinse, e accolto a braccia aperte dalle città e dai
tirannelli, avrebbe potuto piantarvi un regno; ma il tempo che perdette
nell’inutile assedio del Lilibeo, ultimo ricovero degli Africani,
dissipò il fascino che lega ai vittoriosi. Quand’egli propose d’imitare
Agatocle portando la guerra in Africa, i Siciliani gli perfidiarono;
ed esso li ricambiò rubando quanto potè: poi fu lieto di palliar la
fuga sott’ombra d’esaudire i Tarantini, i quali, privati della spada
di lui, non erano capaci di resistere ai Romani. Salpò dunque: ma
l’equipaggio di esso non l’avea seguito che per forza, dicendo essere
destinato vittima per salvare dalla flotta punica le navi cariche del
bottino; laonde nello stretto si lasciò vincere dai Cartaginesi; e
colati a fondo sessanta bastimenti, dodici soli approdarono a Reggio.
Pirro, assalito dai Mamertini, trovavasi in così estrema necessità, che
a Locri è costretto metter mano al tesoro di Proserpina onde comprar
mercenarj: ma rimane sconfitto presso Benevento da Curio Dentato; e
Molossi, Tessali, Macedoni, con Apuli, Bruzj, Lucani, Sanniti ornano il
costui trionfo, e quegli elefanti pur testè così paventati. Pirro, per
rimorso e per l’orrore che n’ebbe il vulgo superstizioso, restituisce
il tesoro di Proserpina, e dopo sei anni d’inutile guerra ritorna
sfinito e disonorato in Grecia, dove non tardò a mettersi in nuove
battaglie, e perirvi. Milone, da lui lasciato nella rôcca di Taranto,
non fu sostenuto dagli abitanti; patteggiato, menò via la guarnigione;
e Roma prese possesso della città, rubandole quadri, statue, ornamenti
dei tempj, e quantità d’oro e di delizie.

[271]

I Romani non interruppero la guerra contro la Lucania finchè non
l’ebbero doma; i proprj soldati che erano caduti prigionieri,
considerarono come banditi; condussero a Roma quattromila uomini della
legione campana che erasi rivoltata a Reggio, e cinquanta al giorno li
fecero uccidere senza esequie nè lutto[247]; poi per tenere soggetti
Lucani e Campani posero colonie a Pesto, a Benevento, a Brindisi.

Roma che, tre secoli dopo fondata, non erasi impadronita che di Vejo
lontana dieci miglia, avea poi concepito l’ambizione di soggettare
tutta l’Italia. E poichè il primo passo a ciò dev’essere la cacciata
degli stranieri, avea cominciato dallo sconfiggere i Galli, e
guerreggiando con essi e coi fieri Sanniti erasi migliorata di tattica;
contro Pirro s’avvezzò a non temere gli eserciti scientificamente
disciplinati; anzi vantaggiossi dell’arte macedone per imparare a
resistere ad urti ben combinati; e sottomesse le deboli leghe della
bassa Italia, alleavasi con popoli lontani, e perseverava nella
politica sua di incatenare i vinti al carro vincitore.

Ma Pirro, quando abbandonava la Sicilia, esclamò:—«Che bel campo
lasciamo a’ Romani e Cartaginesi!» Prevedeva l’accorto come quelle due
potenze, cresciute fino a toccarsi, non potessero omai che venire a
cozzo, per decidere se il mondo sarebbe dominato dalla stirpe semitica
o dall’indo-germana.



CAPITOLO XII.

Cartagine. Prima guerra punica. Sistema militare dei Romani. Conquista
dell’Insubria.


Ci cadde ripetutamente menzione dei Fenicj, popoli di schiatta araba,
detti Cananei dalla Bibbia, che stanziati tra le falde del Libano ed
il Mediterraneo, s’un lembo di paese centrenta miglia lungo e trenta
largo ove più, a guisa de’ Veneziani e de’ Genovesi moderni spinsero
il commercio animosamente non solo nel mar nostro, ma e nel Rosso e
nell’Oceano, e seminarono di colonie e di scali il littorale e le isole
da Tiro fin alle Cassiteridi, che oggi diciamo Sorlinghe.

[869]

O fosse colonia spontaneamente partita, o fosse la vinta fazione di
re Sicheo, che colla costui vedova Didone o Elisa cercasse scampo e
patria altrove, uno sciame di Fenicj fabbricò Cartagine, nel golfo
africano che, rimpetto alla Sicilia, è formato dallo sporgere dei capi
Bon e Zibib, sopra una penisola fra Tunisi e Utica, il cui istmo si
dilata men di quattro miglia. La città crebbe, e divenne l’unico Stato
libero che si alzasse mai sulle coste d’Africa, la prima repubblica
conquistatrice insieme e trafficante di cui rimanga storia, e che per
molti secoli sciolse il difficile problema d’arricchire senza perdere
la libertà. Dica pure Strabone che settecentomila abitanti vi furono
assediati da Scipione; Cartagine non potè mai contarne meglio di
ducencinquantamila. Il quartiere di Megara era tutto a giardini, broli,
canali; a sopracapo sorgeva la fortezza di Birsa; il porto militare,
scavato a mano e capace di ducento navi da guerra, aveva in mezzo
l’isola di Coton, e comunicava col porto mercantile, la cui entrata
chiudevasi con catene di ferro.

[CARTAGINE E SUE COLONIE]

Se d’un popolo ci è rivelata l’indole dalla religione, quella de’
Cartaginesi era avara e melanconica fino alla crudeltà; cupe immagini
la vestivano; astinenze, volontarie torture, congreghe notturne al
bujo, superstizioni dissolute ed inumane. Sotto gli occhi della dea
Astarte si prostituivano le fanciulle, e il prezzo vituperevole si
accumulava come dote. Melcart, l’Ercole loro, ispirolli a grandi
imprese: ma la luce di lui era contaminata da sacrifizj umani,
rinnovati a tempi fissi; poi nelle maggiori necessità gli si offrivano
gli oggetti più cari. Quando Agatocle li vinse, i Cartaginesi si
credettero puniti perchè da alcun tempo scarseggiavano nell’inviare
offerte ai tempj in Fenicia, onde a profusione ne spedirono, fin a
togliere dai proprj santuarj i tabernacoli d’oro: poi temendo ancora
che il dio avesse preso corruccio perchè, invece di fanciulli bennati,
gliene immolavano talora di compri, ne sacrificarono ducento delle
prime famiglie; e trecento uomini sottoposti a processo, offrironsi
spontanei a morire sugli altari. Desolati dalla peste mentre
assediavano Agrigento, gettarono molti uomini in mare per calmar
Nettuno. Annibale guerreggiava in Italia quando gli si annunziò che
suo figlio era designato per l’annuale olocausto; ed egli:—Io preparo
agli Dei sacrifizj che saranno più accetti». Invano Dario re di Persia
e Gelone di Siracusa posero per patto di pace che i Cartaginesi
cessassero d’insanguinare gli altari; la superstizione prevalse,
sopravvisse persino alla perdita della gloria e dell’indipendenza.

Qual meraviglia se troviamo i Cartaginesi duri, servili, egoisti,
cupidi, inesorabili, senza fede? Alle emozioni generose pareano
renderli inaccessi il culto, l’aristocrazia mercantile, l’avidità del
guadagno: pure ricordiamoci che la storia loro non ci è narrata che
da’ loro nemici. Non è del nostro tema studiarne gl’istituti, nè
descrivere il commercio che Cartagine menava estesissimo coll’interno
dell’Africa e colle estremità dell’Europa. Assoggettò i barbari
abitanti di quella costa, fissandoli in colonie lungo il littorale; e
per assicurarsi i viveri, ne teneva di agricole nella Zeugitana e nella
Bisacena, ove le derrate europee prosperarono colle africane; sul lembo
della Numidia e della Mauritania suoi banchi fortificati a vantaggio di
essa trafficavano cogl’indigeni, ed assicuravano la via di terra fino
alle colonne d’Ercole, e uno schermo alle navi nel pericoloso tragitto
dall’Africa in Spagna. Queste colonie però erano fra loro disgregate,
nè parevano accordarsi che nell’odiare la dominante; ond’essa vietava
che si cingessero di mura, col che tenevasi esposta alle correrie
nemiche: ad oriente poi erravano tribù indomite, simili ai moderni
Beduini; ad occidente la minacciavano i poderosi regni di Numidia e
Mauritania; sulla costa medesima e a mezzodì le si ergevano emule
Tunisi, Aspis, Adrumeto, Ruspina, la piccola Lepti e Tapso, oltre Utica
che si conservò sempre indipendente.

Qui consisteva la debolezza di Cartagine: sua forza e suo vanto erano
le colonie, piantate ne’ più comodi e più lontani paesi. E prima nel
Mediterraneo assoggettò le Baleari, che la fornivano di vino, olio,
lana, muli; a Gozzo, a Cherchinesso, a Malta battevano per essa
telaj di lino; tutte poi le erano scali al commercio, e rinfresco
ai vascelli. In Sardegna fondò Cagliari e Sulci; e perchè ne traeva
grani in abbondanza, metalli, pietre fine, la considerava in grado
non inferiore all’Africa. Quando i Focesi, insofferenti del giogo
persiano, occuparono la Corsica fondandovi Aleria, Cartagine ne li
snidò, gelosa di negozianti sì attivi. Pare che anche fuor dello
stretto di Gibilterra occupasse nel Grande oceano le Canarie e Madera.
In terraferma pose altre colonie; e Annone fu spedito a fondarne una
serie lungo la marina occidentale d’Africa dove ora sorgono Fez e
Marocco; Imilcone un’altra sul lembo occidentale d’Europa, e forse sino
nel Giutland. Dalla Gallia li tennero lontani i Focesi di Marsiglia; ma
la Liguria li provvedeva d’eccellenti marinaj: nella Spagna rinnovarono
le colonie fenicie dell’Andalusia e di Gade, e vi scavarono miniere a
gran vantaggio.

Scopo dunque di Cartagine non era il conquistare come Roma, bensì
l’estendere la mercatura e i guadagni, impedire che la popolazione
eccedesse, trovare collocamento ai cittadini sprovveduti. Ma come
Venezia, a cui in tanti punti conviene, non assimilava a sè i coloni e
i sudditi; anzi, per paura di vederli farsi indipendenti, li teneva in
dura soggezione, infiacchendo le membra per vantaggio del capo.

[MAGONE]

[480]

[410]

Dal piantarsi in Italia furono impediti i Cartaginesi dagli Etruschi
e dai Latini. La Sicilia, disgiuntane appena cento miglia, viepiù
ne stuzzicava i desiderj, come quella da cui dipenderebbero la sua
padronanza nel Mediterraneo, l’approvvigionamento delle armate, e
il commercio del vino e dell’olio. Primeggiava allora in Cartagine
Magone, che ne creò la forza e il sistema militare, e fu stipite d’una
famiglia, illustre per tre generazioni di capitani[248]. Piantò egli
colonie in Sicilia; le quali però essendo tenute deboli per la solita
paura che si rivoltassero, potevano dar molestia, ma non prevalere alle
ricche e indipendenti colonie greche: quando poi Amilcare di Magone
fu sbaragliato da Gelone re di Siracusa (pag. 241), i Cartaginesi
penarono a difendere le colonie e gli acquisti. E per settant’anni
la storia sicula più non fa menzione di loro; poi si riaffacciano
poco prima della tirannia di Dionigi il Vecchio, quando ajutarono
Segesta contro Selinunte, ed occuparono altre terre. Esso Dionigi e
Agatocle, cupidi di unire tutta l’isola, mossero ad essi guerra: pure
i Cartaginesi vi tennero sempre un piede; e la loro perseveranza,
l’inesauribile forza dell’oro, e le irrequietudini perpetue di Siracusa
gli avrebbero anche fatti signori di tutta Sicilia, se avessero
posseduto un valente generale. Combattuto con alterna fortuna, nella
pace del 383 s’ebbero assicurato un terzo di quell’isola.

[FORZE E CONQUISTE]

Fra ciò Cartagine spiegava e cresceva le proprie forze nelle lotte
cogli Etruschi, coi Greci, coi Marsigliesi, poi coi Romani, e fa
meraviglia come prontamente si rifacesse delle perdite. Da prima usava
solo triremi, poi le ingrandì al tempo d’Alessandro; nella guerra coi
Romani n’ebbe di cinque e di sette ordini, colle poppe ornate de’ suoi
Dei marittimi, Poseidon, Tritone, i Cabiri. Una quinquereme portava
cenventi soldati e trecento marinaj; al remo gli schiavi; prestissima
ne’ volteggiamenti. Al persiano Serse somministrò fin duemila navi
lunghe e tremila di carico per osteggiare la Grecia. Gli ammiragli però
non operavano di pieno arbitrio, ma dipendevano dai generali di terra
nelle imprese che voleano concerto, se no dal senato; e le vittorie
erano occasione di pubblici tripudj, di pubblico gemito le sconfitte.
La cavalleria, perchè costosa, era formata di nobili Cartaginesi, i
quali portavano un anello per ogni spedizione fatta: v’avea pure una
legione sacra di cittadini riccamente in arnese. Il servizio di terra
affidavasi per lo più a mercenarj d’ogni nazione; e sapendo a punto
quanto costasse un soldato greco, quanto un africano, un campano,
un gallo, mettevano in bilancio il costo di un esercito col frutto
che verrebbe da una conquista: al fine della campagna riscattavano i
prigionieri, e le spese si pareggiavano colle estorsioni fatte ne’
paesi acquistati. Questa turba ragunaticcia, combattendo fuor del
paese natìo e contro gente più povera, non era allettata a disertare;
e la diversità di favella e di religione impediva che vi si formassero
minacciosi accordi. Ma ne scapitava la disciplina; penoso era il
trasportarli per mare; a fronte di truppe disciplinate e nazionali,
trovavansi mancare di quel coraggio, che si fonda sul patriotismo e sul
sentimento dell’importanza individuale.

[509]

[348]

Coi Romani erasi Cartagine incontrata nei mari, fin quando essi,
potenti sotto i re, stavano a capo della lega Latina, ed emulavano
gli Etruschi: e l’anno della cacciata de’ Tarquinj conchiuse un
trattato, pel quale i Romani si obbligavano a non navigare nè essi nè
i loro alleati di là dal capo Bon; però i mercadanti loro approdando
a Cartagine, sarebbero immuni da balzelli; le vendite avrebbero
pubblica fede; otterrebbero giustizia ne’ paesi siculi, sottomessi ai
Cartaginesi; questi non recherebbero danno ai popoli d’Anzio, Ardea,
Laurento, Circei, Terracina, o a qualunque latino di loro dipendenza,
nè torto alle città libere; non fabbricherebbero fortezze in paesi
de’ Latini, e se vi entrassero armati, non vi pernotterebbero. In
un secondo trattato vi furono inchiusi i popoli di Tiro, d’Utica e
i loro alleati: «i Cartaginesi, se prenderanno qualche città latina
non dipendente da Roma, la cederanno a questi, serbandosi l’oro e
i prigionieri: se facciano prigionieri sopra un popolo in pace con
Roma, ma non sottomesso, non lasceranno che entrino ne’ porti romani;
entrandovi, se un cittadino li tocchi, diverranno liberi; altrettanto
si adoprerà dai Romani, che non fabbricheranno città in Africa e in
Sardegna; potranno però vendere e comprare nelle terre cartaginesi
al par de’ cittadini, e così viceversa quei di Cartagine». Questi
trattati confermaronsi giurando i Cartaginesi pe’ loro Dei, i Romani
per la pietra (διὰ λίθον), simbolo primitivo di Giove; cioè, tenendo
una pietra in mano, uno diceva:—Se giuro il vero, ogni cosa mi
accada prospera; se penso diverso da quel che giuro, gli altri godano
la patria, le leggi, i beni, la religione, le tombe, ed io solo sia
respinto come ora fo con questo sasso»; e lo lanciava.

I quali documenti preziosi[249], che sono il più antico testimonio
della repubblica romana, basterebbero a convincere di falso la comune
degli scrittori che, duranti i re, ci presentano come ancora in fasce
quella Roma che qui ci appare qual potenza marittima, e signora
d’alcuni, protettrice degli altri popoli latini.

[RELAZIONE DI CARTAGINE CON ROMA]

[278]

Niuno però s’affretti a conchiudere che Roma avesse legni grossi,
giacchè gli Stati barbareschi, che su quel lembo d’Africa sgomentarono
fin jeri anche le maggiori potenze europee, non adopravano navi di
linea: Roma poi stipulava forse come capitana della federazione latina,
cioè di popoli provvisti di marina, benchè essa ne mancasse; e se pur
l’ebbe, dovette lasciarla deperire, talchè n’era sguarnita tre secoli
più tardi. In fatto quando Pirro invase la Sicilia, Roma e Cartagine
stipularono che nessuna patteggerebbe coll’Epiroto senza concorso
dell’altra; Cartagine _in caso di bisogno_ somministrerebbe navi, ma
non imbarcherebbe senza consenso di Roma. Credendo caso di bisogno
il cacciar Pirro quando minacciava Roma, i Cartaginesi mandarono ad
Ostia trenta galee; ma i Romani ringraziando le rinviarono, temendo
portassero via schiavi e spoglie italiane.

[PRIMA GUERRA PUNICA]

[269]

Intente ognuna ad escludere l’altra da’ suoi territorj, le due
repubbliche trattavano da pari a pari; che se Roma sentiva la
preponderanza d’uno Stato guerresco sopra uno trafficante, Cartagine
aveva tesori per comprare truppe quante volesse, oltre la indisputata
prevalenza sul mare. Sarebbero dunque potute ciascuna seguitare la
propria strada senza venire a cozzo; ma a guastarle offrì ragioni la
Sicilia, secondo avea predetto Pirro. Di quell’isola, agitata ora dalla
tirannide di despoti, ora dalla tirannide della libertà, spartivansi
allora il dominio i Cartaginesi, i Siracusani del re Gerone II, cui
obbedivano anche Leontini, Acre, Megara, Elori, Taormina, e i Mamertini
ricoverati al Peloro. Questi ultimi erano stati sconfitti e ridotti
all’estremità da esso Gerone; nè più serbando che Messina, risolsero di
cedergliela: ma quand’egli s’avanzava per occuparla, Annibale generale
dei Cartaginesi il tenne a bada, e intanto spedì ad invadere la città.
Posti fra due fuochi, i Mamertini, siccome Campani che erano, volsero
gli occhi all’Italia, e chiesero ajuti a Roma.

[264]

Gli onest’uomini dissuadevano i Romani dall’ingiusta intervenzione,
e dal sostenere a Messina quei Mamertini, di cui la perfidia aveano
punita a Reggio; ai politici invece arrideva quest’occasione di fare
acquisti, e di mortificare Cartagine: il senato ricusò, il popolo
volle, e preponderando già la democrazia, fu risolta la spedizione.
Anche i Mamertini già n’erano pentiti; ma il console Appio Claudio
Caudice, figlio del Cieco, imbarcò le legioni su vascelli della Magna
Grecia o su zatte. La flotta cartaginese e una tempesta disperdono
l’armamento; e Annone, ammiraglio della casa di Magone, tenta ridestare
l’onoratezza romana col rinviare i vascelli presi, movendo insieme
querela dei patti violati, e professando che Cartagine non lascerebbe
mai Roma impadronirsi dello Stretto. Ma Appio Claudio si ostina
all’impresa; eludendo la vigilanza dei Cartaginesi, su navi della
Magna Grecia si tragitta; sbarcato, vince Gerone così presto, che
questo confessa non avere tampoco avuto tempo di vederlo. Esso re,
comprendendo quanto dell’amicizia d’un popolo senza navi gli tornasse
miglior conto che di quella de’ Cartaginesi, restituì i prigionieri,
pagò le spese della guerra, e strinse e serbò fedelmente alleanza coi
Romani. I quali, violando il diritto pubblico, occuparono il porto
di Messina, e sotto finta di parlamento arrestarono Annone, che per
riscattarsi fu obbligato a farne uscire la guarnigione.

[263]

Ai Romani allora brillò la possibilità di snidare i Cartaginesi
dall’isola; e mandatovi i due nuovi consoli con quattro legioni, in
meno di diciotto mesi ebbero prese sessantasette piazze e fortezze e
la grande Agrigento, difesa da due eserciti di cinquantamila uomini,
comprati dalla Spagna, dalla Gallia, dalla Liguria. Come dovette starne
la Sicilia, corsa da tante truppe, e dove la guerra esercitavasi
con tale inumanità! Nella sola Agrigento, la cui espugnazione costò
ventimila vite ai Romani, questi vendettero venticinquemila liberi:
Annone, non potendo ottenere che i nemici gli rendessero la carpita
Messina, avea fatto passar per le spade quanti Italiani servivano sotto
le sue bandiere: Amilcare, udendo i Galli da lui assoldati mormorare,
gl’invia a metter a sacco Antella, ma di nascosto ne dà avviso ai
Romani, che gli appostano e trucidano; scelleraggine che gli antichi
encomiarono come bella trovata di guerra. Di simil genere stratagemma
avea usato re Gerone: mal volentieri soffrendo gli stranieri inquieti
arrolati fra le sue truppe, quando aveva ad assaltare i Mamertini,
divise l’esercito in due, i Siracusani distinti dagli assoldati; a capo
dei primi mosse l’attacco, lasciando gli altri esposti ai Mamertini,
che li fecero a pezzi[250]. Così continuo traspare negli antichi il
disprezzo della vita dell’uomo!

Ai Romani fu ben tosto chiaro che non potrebbero acquistare nè
conservare la Sicilia, e schermir la costa e le città dalla flotta
cartaginese, senza una marina. Una galea cartaginese naufragata offerse
loro il modello, legnami l’Appennino, perseveranza la natura loro:
in sessanta giorni ebbero costruiti centrenta vascelli, ben presto
esercitata la ciurma; e per elidere l’esperienza dei nemici inventarono
i corvi, certi ponti che dall’albero di prua violentemente calando
sulla nave nemica, vi si conficcavano con branche e arpioni di ferro,
e la attaccavano alla romana, in modo da ridurre il combattimento a
duelli, siccome in terraferma.

[DUILLIO]

[260]

Così racconta la storia miracolaja, ma è più probabile che di navi
li provvedesse Gerone II, potente sul mare. Comunque sia, il console
Duillio Nepote riportò presso Lipari la prima vittoria marittima;
cinquanta legni nemici presi o colati a fondo, tremila uomini uccisi,
settemila prigioni: in memoria del quale successo fu eretta a Duillio
una colonna ornata di rostri, e concesso per tutta la vita che la sera
fosse ricondotto a casa coi fanali a suon di trombe. La fortuna durò
prospera negli anni susseguenti, prendendosi Lipari e Malta, poi la
Corsica e la Sardegna.

Annibale, comandante alla spedizione cartaginese, riconducendo in
patria le misere reliquie della flotta, dopo perduto sin la capitana,
sentivasi sovrastare la punizione che Cartagine soleva infliggere
agli sconfitti; onde spedì innanzi un messo che al senato espose:—Il
console romano guida una flotta numerosa, ma di vascelli goffamente
costrutti, e con certe macchine mai più vedute. Annibale vi domanda se
deve dargli battaglia.—La dia (risposero i governanti ad una voce),
e punisca i Romani dell’averci assaliti nel nostro elemento». Allora
il messo:—La diede, argomentando egli pure come voi, e fu vinto». Ciò
valse l’assoluzione dell’ammiraglio sfortunato.

[ATTILIO REGOLO]

[256]

[255]

Già Agatocle avea mostrato come Cartagine si trovasse mal provveduta
contro chi l’assalisse sul proprio terreno, ove le colonie oppresse o
le città rivali ajutavano chiunque la minacciasse. Roma dunque decretò
uno sbarco in Africa, sebbene il console Marco Attilio Regolo fosse
costretto ricorrere a minaccie e punizioni per indurre i soldati a
quel che loro pareva troppo lungo tragitto, e spaventevole pei mostri
che diceasi popolassero le arene libiche: e sebbene i tanti Italiani,
che Roma obbligava al remo sulle sue galere, macchinassero insieme
cogli schiavi una sollevazione, che solo il tradimento sventò[251],
Regolo con quarantamila uomini montati su trecento trenta galee
sbaragliò ad Ecnomo la flotta cartaginese di trecencinquanta galee con
cencinquantamila uomini, e sbarcato in Africa, ebbe presto assoggettate
ducento città, e fin Tunisi, forte per posizione e per mura, dove pose
il quartier generale. Cartagine, folta di gente fuggita dalla campagna,
e vedendo le aquile romane piantate fin sugli spaldi della vicina
Tripoli, chiedeva pace, e Regolo avrebbe potuto dettarla qual Roma
la conchiuse dopo tredici altri anni di guerra e centomila morti; ma
geloso di non lasciare altrui la gloria di un’impresa da sè cominciata,
rispose, allora solo sospenderebbe le armi quando più non rimanesse
loro un vascello sul mare. Arroganza indegna di buon capitano, dalla
quale ridotti a disperazione, i Cartaginesi chiamarono al comando uno
straniero, Santippo di Sparta. Costui conobbe che l’inferiorità non
veniva da fiacchezza dei Cartaginesi o da valore dei Romani, bensì dal
mancare di tattica e di strategia; insegnò a ben valersi degli elefanti
e della cavalleria; e tratti i Romani al largo, li vinse presso Tunisi,
e ridusse prigioniero il console stesso.

Si narra che i Cartaginesi, quattro anni dopo, mandassero Regolo a
Roma per consigliare il cambio dei prigionieri, fattogli giurare
che, non ottenendolo, ritornerebbe. Anteponendo al proprio quel che
credeva il meglio della patria, egli consigliò il senato di persistere
nella guerra, e lasciar morire prigionieri coloro che non avevano
saputo conservarsi liberi. Fedele alla parola, tornò a Cartagine,
ove acerbe torture punirono la sua fedeltà; e Roma, gareggiando di
barbarie, consegnò alla vendetta della moglie di Regolo i prigionieri
cartaginesi, ch’ella straziò con lunghi spasimi, finchè l’autorità non
glieli ritolse[252]. La gelosia di quel governo di mercanti ci fa
meno difficili a credere che i Cartaginesi, sospettosi di Santippo
vincitore, come i Veneziani del Carmagnola, lo buttassero in mare:
fatto è che più non se ne ragiona.

[GUERRA IN SICILIA]

[251]

[249]

[242]

Abbandonata allora l’Africa, si rinfocò la guerra in Sicilia. Il
proconsole Cecilio Metello battè presso Palermo i Cartaginesi
capitanati da Asdrubale, e menò trionfo in Roma: ma poi per otto
anni i Romani n’andarono colla peggio, perdendo quattro flotte. La
maggiore sconfitta toccarono da Aderbale presso Drepano quando,
non volendo gli auguri che si attaccasse battaglia perchè i polli
sacri davano malaugurio col non mangiare, il console Claudio Pulcro
sorridendo,—Dunque bevano» disse, e feceli gettar in mare. L’empietà
scoraggiò i soldati, vinti prima di combattere; e novantatre navi
restarono perdute, morti ottomila Romani, prigionieri ventimila.
Agrigento fu presa e messa al nulla dai Cartaginesi, i cui generali
Annibale e Cartalone mostrarono di congiungere al valore l’abilità.
Alfine però i Romani prevalsero, e tutta Sicilia tornò in loro
potere. Solo Drepano e Lilibeo, promontorj all’occidente che potevano
considerarsi come l’antemurale di Cartagine, furono insignemente
difesi da Amilcare, detto Barca cioè fulmine, padre del più famoso
Annibale. Postatosi egli sui promontorio d’Erice, senza alleati vicini
nè fortezza nè speranza di soccorsi, vi si mantenne cinque anni, e di
là corseggiava le coste d’Italia sino a Cuma, e molte volte profligò
i Romani. Cartagine per sostenerlo spedì una flotta con danaro e
provvigioni, ma con pochi uomini; la quale scontrata da Lutazio Catulo
con ducento quinqueremi alle isole Egati, fu posta a sbaraglio. Anche i
Galli disertarono da Amilcare ai Romani, che allora per la prima volta
assoldarono Barbari.

[BATTAGLIA ALLE EGATI]

Se la popolazione ellenica avesse conservato in Sicilia lo spirito
guerresco, avrebbe potuto prendere parte attiva in quella guerra, e
Siracusa meritar di riprendere la preminenza nell’isola col soccorrere
i Romani non solo di viveri, ma anche di navi. Però da un pezzo erasi
contratta l’abitudine di comprare le braccia di Siculi e di Campani, i
quali poi essendo divenuti ausiliarj de’ Romani, la Sicilia, eccetto il
regno di Gerone, passò a dominio di questi.

In ventidue anni di guerra continua, tra le battaglie, tra la mala
pratica, tra la difficoltà delle coste d’Africa, Roma avea perdute
settecento galee: Cartagine appena cinquecento, ma scarseggiava di
danaro a segno, che il moggio di frumento vendevasi un asse[253].
Roma, benchè diminuita di un sesto di abitanti, costretta ad alterare
le monete fin dell’ottanta per cento, con indomita perseveranza
diceva:—Non cederò mai; la guerra alimenterà la guerra». I Cartaginesi
negozianti calcolarono gl’interrotti traffici e le esuberanti spese,
sicchè l’avarizia divenendo ausiliaria dell’umanità, proposero la pace.
Roma, che l’aveva rifiutata per consiglio di Regolo, allora l’accettò
dopo tante spese e tanto sangue, a questi patti:—I Cartaginesi
sgombrino la Sicilia e le vicine isolette; entro dieci anni paghino
a Roma duemila ducento talenti (17 milioni di fr.) per contribuzione
di guerra; restituiscano i prigionieri e disertori; non moveranno più
guerra a Gerone re di Siracusa». Nuovi emergenti li costrinsero a
cedere ben presto anche la Sardegna.

[PACE DELLE ISOLE EGATI]

[230]

[228]

Il tempio di Giano a Roma fu chiuso, ma poco tardò ad essere riaperto,
per non serrarsi più fin ai giorni di Augusto. E prima occasione di
rifar guerra fu la spedizione contro gl’Illirj, che corseggiavano
l’Adriatico. Roma, esibendosi protettrice degl’Italiani finchè non
potesse rendersene padrona, avea fatto accordi con que’ pirati
acciocchè non li molestassero; ma quelli seguitavano a predar le navi
e le coste. Spedì essa a lamentarsene con Teuta loro regina, vedova
d’Agrone; ma costei uccise gli ambasciadori. Subito le si porta guerra,
passando per la prima volta il golfo jonio; e vintala, e privata di
parte degli Stati, Roma è benedetta dagli Italiani e dai Greci come
liberatrice del mare, e da questi ricevuta in cittadinanza ordinaria
e ammessa ai misteri eleusini; e passeggia trionfante anche sul campo
dove prima non grandeggiava che Cartagine.

[SPEDIZIONE IN ILLIRIA]

Ormai del potere come della ricchezza riguardava essa per fonte prima
le armi, talchè dottrina suprema era quella della guerra. In pace non
tenea milizia nazionale nè forestiera, anzi era vietato il portar armi
entro la città; solo all’occorrenza d’un pericolo, dal console e dal
pretore urbano erano chiamati tutti alle armi, collocati dagli edili
o dai triumviri criminali ai posti minacciati e alle ronde, col pilo
o colla spada: tardi le fazioni introdussero bande di barbari o di
schiavi[254]. Ogni cittadino era obbligato alla milizia se non avesse
quarantasei anni, o finite sedici campagne a piedi, o dieci a cavallo.

[LEGIONE]

La legione, così detta dal riempirsi d’uomini eletti, variò di numero
secondo le età; e da tremilatrecento, di cui si componeva sotto
Romolo, fu portata fino a seimila al tempo delle guerre macedoniche.
Ordinariamente ciascun console levava due legioni; e più, se ne
nascesse bisogno. In battaglia disponevansi in cinque divisioni: nella
prima i principi o classici, che in appresso formarono la seconda; poi
gli astati; quindi i triarj o pilani; infine i rorarj e gli accensi,
dall’armatura leggera (pag. 163). La legione dividevasi inoltre in
coorti, manipoli e centurie. Più tardi fu da Mario riordinata la
coorte, che contava trenta uomini di fronte e dieci di profondità:
disposizione agilissima, e opportuna a qualunque terreno o forma.

[ARMI]

Armi erano le freccie, le frombole e il tremendo pilo, giavellotto di
sette piedi, e più lungo pei triarj; lanciato il quale a tutta forza
di braccio, colla spada risolvevasi la giornata. Lancia e sciabola
erano pure le armi offensive della cavalleria; le difensive elmo,
corazza e leggiero scudo. Nerbo degli eserciti teneasi la fanteria:
la cavalleria, sebbene formasse talvolta un corpo separato, non servì
d’ordinario che a fiancheggiare i pedoni; e la minore abilità dei
Romani in questa disajutò le loro imprese contro i Numidi e i Parti. I
rorarj, frombolieri ed arcieri ingaggiavano la mischia, poi consumati
i projetti, ritiravansi a lato della legione; ed allora gli astati
giocavano de’ giavellotti, e mentre i nemici attendevano a liberarne
gli scudi ove s’erano confitti, essi gli aggredivano colle sciabole.
Che se trovassero valida resistenza, subentravano freschi i principi,
da sezzo i triarj; di maniera che il nemico, esposto a tre rinnovati
attacchi, mal si poteva reggere. Gli accensi componevano il battaglione
di deposito.

Oltre il vivere, i soldati portavano seco i pali per formare la
trincea; e dovunque fermassero il piede, munivano il campo con un
terrapieno quadrato, e una fossa dieci piedi profonda. Nel mezzo
dell’accampamento tendevasi il padiglione pretorio, all’intorno gli
uffiziali, indi i restanti guerrieri; e dal centro partivano quattro
strade rette, fino alle porte schiuse nella trincea. Nelle marcie
procedevasi in colonne; ma se temessero un attacco, si ordinavano in
linea, togliendosi nel centro i bagagli. Il soldato romano faceva
venti o ventiquattro miglia in cinque ore, con tutto il suo fardaggio,
del peso di sessanta libbre. Evitando però quei rapidi passaggi dalla
inazione alla fatica, che uccidono tanti dei nostri, negli esercizj
usavano armi pesanti il doppio di quelle da battaglia; anche in pace
si stancavano a continue opere, massime a tagliare strade; Scauro,
riconducendo l’esercito dalle Gallie, lo pose a scavar canali nel
Parmigiano e Piacentino per ovviare i dilagamenti del Po.

[DISCIPLINA]

Rigorosissimi erano gli statuti militari. La legge Porcia esimeva dalla
bastonatura il cittadino, non il soldato. Quello che avesse gettate le
armi, deserto il posto, o combattuto senza comando, era condannato in
pubblico giudizio; ma se il generale lo toccasse colla sua canna, gli
era permesso fuggire; guaj però se si lasciasse più trovare nel campo!
ogni soldato teneva ordine di ucciderlo. Se un corpo avesse mostrato
viltà, il generale lo decimava, mandando a vituperoso supplizio uno
ogni dieci, tratti alla ventura; agli altri, esiglio ed onta. Lo
spirito militare animava ogni cosa; dal senato uscivano i generali come
gli ambasciatori; non saliva alla sommità della repubblica chi non
avesse fatto dieci campagne: onde le guerre conducevansi con finezza
politica, e le assemblee spiravano ardor guerresco; l’ambasciatore
nella pace prendeva cognizione del popolo che poi veniva a combattere
come generale; quegli stessi che aveano risolto in consiglio,
eseguivano in campo. A questo doppio uffizio educavasi la gioventù,
armeggiare e discutere, arringar il popolo e disciplinare la truppa,
governare, combattere e trionfare. E il trionfo portava al consolato,
talchè i generali ambivano le battaglie, il senato ne faceva nascere
occasioni coll’intromettersi agli interessi delle nazioni straniere.
Colui poi che dianzi avea capitanato un esercito, non isdegnava
di servire in quello. Entrando in una nuova campagna, il generale
sceglieva i tribuni o vogliam dire i colonnelli, questi gli uffiziali
inferiori, onde stringevasi saldamente l’unione fra’ superiori e i
soldati; comune sentimento li moveva, speranza comune; e l’entusiasmo
per la patria e per la gloria recava ad esser prodi, l’obbedienza al
capo rendeva questo onnipossente.

Così il braccio dei forti era diretto dal senno dei prudenti: e mentre
l’arte militare in tutti gli altri paesi andava in dechino, avvilita da
mercenarj, o regolata per impeti folli di plebe o capricci di tiranni,
qui non meno che a guadagnar battaglie provvedeasi a preparare poco a
poco la vittoria colla pacifica intervenzione, coi subdoli maneggi,
coll’artifiziosa perseveranza in prevenire o sciogliere le leghe, che
la gelosia o l’amore dell’indipendenza opponessero alle conquiste.

[NUOVE INVASIONI DEI GALLI]

[299]

Ed ebbero a farne buona prova contro i Galli Cisalpini, i quali
profittavano d’ogni disastro di Roma per minacciarla. Dopo respinti
dal Campidoglio, eransi tenuti ventitre anni sulla sinistra del Po;
poi ricominciarono a molestare il Lazio e la Campania colle correrie.
Roma a snidarli, essi a tornare, e un avvicendarsi di attacchi e di
sconfitte. Da lunga pezza però mostravano più non pensare a invasioni,
quando alcune bande vennero d’oltr’Alpe nella Cisalpina, chiedendo
terre:—Queste sono già nostre (dissero i Galli); ma se volete ubertose
campagne, la media Italia ne abbonda». Ed essi calarono nell’Etruria,
la quale, vinta ma non domata, guardò, come si suole, il nuovo flagello
come un alleviamento dell’antico, e propose di prendere i nuovi Galli,
quanti erano, al suo soldo contro Roma. Questi accettarono, ma non
appena ebbero tocco il denaro pattuito, ricusarono combattere, e
ripassarono l’Appennino.

[296]

[295]

[283]

Gli Etruschi, che aveano lasciato trapelare i loro intenti, sentirono
d’essere esposti al pericolo, e conoscendo che i deboli non possono
resistere ai forti se non coll’associarsi, giurarono la lega coi
Sanniti che dicemmo (pag. 201), spedirono ambasciadori a Sinigaglia
e Milano per sollecitare ajuti dai Galli, infidi ma necessarj. E gli
ebbero, e con loro osteggiarono i Romani per ricuperare l’indipendenza,
ma soccombettero al valore di Fabio e Decio. Poco stante, Roma spedì
Cornelio Dolabella console a devastare il territorio dei Senoni,
uccidendo uomini, donne, fanciulli, quanti incontrasse. Druso portò a
Roma molto oro ed ornamenti trovati nel tesoro de’ Senoni, vantando
aver ricuperato il denaro con cui era stato ricompro il Campidoglio; e
a Seno-gallia venne stabilita una colonia.

[I GALLI]

Fu la prima sul terreno gallico; e mentre serviva di sentinella
avanzata, era pure un fomite perpetuo ad intrighi, ed uno spionaggio
nella Cisalpina. In questa i Galli fiorivano nell’abbondanza, talchè
per quattro oboli vi si comprava una misura di frumento, per due
una di orzo o di vino, e nelle locande un quarto d’obolo bastava a
pranzare. Fra tali agi smettevano l’antica mania del correre e del
conquistare; talchè At e Gall, due re de’ Boj stanziati attorno, a
Bononia, avendoli eccitati a romper guerra ai Romani e disfare Arimino,
altra loro colonia piantata nel 268, vennero trucidati a furor di
popolo.

Eppure quei due consigliavano il meglio della loro gente, attesochè
da Arimino e da Sinigaglia i Romani non cessavano di recar molestia
ai Galli; posero impacci al commercio, massime a quello delle armi;
finalmente il tribuno Flaminio propose che le terre, tolte ai Senoni
cinquant’anni prima e rimaste in mano de’ patrizj, venissero compartite
fra il popolo, e ridotte tutte a colonie.

[238]

[226]

A quest’ultimo colpo si riscossero i Boj, e ordirono una lega dei
popoli dell’Italia superiore. Ma i Veneti, gente slava stanziata
presso all’Adriatico, ricusarono l’alleanza di questi temuti vicini: i
Cenomani, posti fra Brescia e Verona, erano stati guadagnati dal denaro
romano: i Liguri, dopo lunga guerra sostenuta colla fierezza ad essi
naturale, erano stati dal console Fulvio snidati dagli inaccessibili
loro ripari; Bebio li trasse al piano; Postumio li disarmò, non
lasciando ad essi altro ferro che l’occorrente ai mestieri. Trovandosi
dunque soli, i Boj e gl’Insubri ricorsero ai Galli Transalpini che
formavano la lega di Gesda (_Gesatæ_); e Lingoni, Anamani, Boj, Insubri
s’accolsero in riva al Po. Minacciati alle spalle dai Cenomani e dai
Veneti, una parte dovettero rimanere a difesa: cinquantamila con
ventimila cavalli e moltissimi carri scesero per la penisola, giurando
di non scingere le spade che in Campidoglio.

Roma sbigottì del _tumulto gallico_, e già prevedea nuovi Brenni e
nuove sconfitte di Allia; tanto più che il fulmine colpì la rôcca del
Campidoglio, tre lune apparvero in cielo, e i fiumi corsero sangue:
onde, consultati i libri Sibillini, credè stornare i minacciosi presagi
sepellendo vivi nel fôro Boario un Gallo ed una Galla. La superstizione
non arrestava i migliori provvedimenti, e si decretò la leva a stormo
per tutta l’Italia, la quale deponeva le gelosie quando importava
salvarsi da feroci predoni.

[FORZE DI ROMA]

Qui un importante documento statistico n’è esibito dallo storico
Polibio. Secondo lui, il senato si fece presentare i registri di
tutte le popolazioni italiche, e ne cavò il prospetto delle forze sì
attive che in riserva, e fu siffatto:—Coi consoli stavano quattro
legioni romane da cinquemila ducento fanti e tremila cavalli; inoltre
trentamila pedoni e duemila cavalli degli alleati; cinquantamila fanti
e quattromila cavalli sabini e tirreni, collocati alla frontiera
dell’Etruria sotto un pretore. Gli Umbri e Sarsinati dell’Appennino
diedero ventimila uomini; altrettanti i Veneti e Cenomani. A Roma
teneansi in riserva ventimila fanti e duemila cavalieri fra gli
alleati; contavansi presso i Latini ottantamila fanti e cinquemila
cavalieri; presso i Sanniti settantamila fanti e settemila cavalieri;
presso gli Japigi e Messapi cinquantamila fanti e sedicimila cavalieri;
presso i Lucani trentamila de’ primi, tremila degli altri; Marsi,
Marrucini, Frentani, Vestini armavano ventimila fanti e quattromila
cavalli; di più aveansi in Sicilia e a Taranto due legioni romane da
quattromila ducento fanti e ducento cavalieri; e nella popolazione
di Roma e sua campagna erano atti alle armi altri ducencinquantamila
persone a piedi e ventitremila a cavallo. In numeri tondi risultavano
dunque settecento mila fanti e settantamila cavalli[255]. Siccome
in caso di tumulto tutti prendeano l’armi, può la popolazione qui
indicata stimarsi per un quarto della totale; onde ne risulterebbero
tre milioni di liberi. Ma i proletarj, i padri senza figliuoli, i
pupilli non erano soggetti al servizio[256]: restava poi a contare lo
sterminato numero degli schiavi.

[I GALLI]

[223]

I Galli seppero destramente avanzare tra gli eserciti nemici fino ad
Arezzo e a Chiusi: quivi sconfissero sei mila Romani; e già erano a tre
giornate da Roma, quando in fierissima battaglia, presso al capo di
Telamone nella maremma toscana, furono sgominati; il console Regolo vi
perì, ma quarantamila Galli rimasero sul campo, oltre diecimila fatti
prigionieri.

[L’INSUBRIA VINTA]

[224]

[222]

[221]

I nuovi consoli, spingendo la vittoria, invasero la Cispadana, poi
l’anno appresso varcarono il Po verso lo sbocco dell’Adda, favoriti dai
Cenomani. I Galli, ridotti alla lor volta a mezzi estremi, trassero dai
tempj gli _immobili_, insegne d’oro fino, venerate come dai Musulmani
lo stendardo di Maometto; e intorno a quelli si levarono in massa.
Eppure furono vinti ancora presso Clastidio da Marcello, che prese
Milano e la restante Insubria da Arimino fin al Ticino, pose grosse
contribuzioni, confiscò gran parte del territorio, e potè offrire
a Giove Feretrio le spoglie opime del loro capo Virdumaro. Solenne
trionfo ne menò Roma, e per meglio santificarlo, scannò ad uno ad
uno tutti i prigionieri della gente ch’essa chiamava barbara; sul Po
piantò le colonie di Piacenza e Cremona; e vantava:—Noi abbiamo domi
gl’Insubri, assicurato il dominio dei due mari che ci separano dalla
Spagna e dalla Grecia, occupato l’Istria e l’Illiria, sottomesso al
voler nostro tanta Italia, da armare ottocentomila uomini».

Eppure fra poco dovea vedersi ridotta a disputare ad un nemico ostinato
fin i terreni circostanti alla capitale.



CAPITOLO XIII.

  Seconda guerra punica. Annibale.
  Sommessione della Gallia Cisalpina e di tutta Italia.


[238]

Piccolo intelletto bastava a comprendere che quella delle isole
Egati, più che una pace, era un armistizio, durante il quale Roma
si allestirebbe di nuove forze onde all’emula, dopo tolto l’onore
e l’influenza politica, togliere e le ricchezze e l’indipendenza.
Nella guerra micidialissima, Roma avea perduto cittadini, e Cartagine
soltanto mercenarj: ma Roma rifondeasi il sangue versato coll’adottare
nuovi figli, mentre a Cartagine, in tempo di pace, i soldati
diventavano nemici. Già durante la guerra i mercenarj aveano causato
non lievi disturbi ai generali: sicchè questi sotto Agrigento mandarono
a macello tre o quattro migliaja di Galli, altri fecero condurre sopra
un’isola deserta, e quivi abbandonare. Quando poi, conchiusa la pace,
si trattò di congedarli, i Cartaginesi lasciavansi rincrescere tanto
esborso; onde i mercenarj mossero contro la città, e in favelle varie,
ma con eguale prepotenza chiesero i soldi. Cartagine, pretestando
il vuoto erario, esibiva un tanto meno: ma quei forti che avevano
sottocchio le ricchezze del popolo più trafficante, e quanto facilmente
il loro braccio prevarrebbe alle costoro industrie, s’ammutinano;
dalle città africane settantamila uomini si rannodano coi ventimila
mercenarj, e stringono d’assedio Cartagine. Sono di quei frangenti,
ove la superiorità è restituita agli uomini d’azione; e in fatto la
fazione guerresca dei Barca, venuta in dechino in grazia della pace,
torna a rivalere; ed Amilcare, rimesso al comando, con ferocia combatte
la ferocia de’ mercenarj, e ne fa macello.

[ANNIBALE IN ISPAGNA]

[237]

Vinti questi nemici, restava non meno temibile il loro vincitore. I
Cartaginesi, non avendo potuto perderlo con un’accusa, lo mandarono
a guerreggiare fra i Numidi. Sottomessa la costa d’Africa sino
all’Oceano, di là egli traeva numerose cerne d’Africani, Numidi,
Mauritani, imbizzarriti dalla vittoria; e non avendo altro modo
d’alimentarli che la guerra e la preda, li menò di qua del mare nella
Spagna, ricca di terreno, di commercio, di miniere. Cartagine non se ne
diede per intesa, sperando o che il valore conosciuto degli Spagnuoli
toglierebbe di mezzo l’esercito pericoloso; o se questo vincesse,
non si potrebbe sostenere che ricorrendo alle flotte di Cartagine, e
cedendole il frutto delle sue conquiste.

[228]

Campeggiava dunque Amilcare, si può dire, indipendente dalla sua
repubblica, e volgeva per la fantasia un’impresa maggiore, suggeritagli
dal dispetto d’aver visto la Sicilia ceduta per intempestiva
disperazione, e la Sardegna ciuffata dai Romani nel cuor della pace. Ma
in mezzo a tali divisamenti rimase sconfitto e ucciso; tolto un gran
nemico a Roma, e fors’anche a Cartagine.

[226]

[220]

Asdrubale genero di lui si mise a capo dell’esercito ch’egli
abbandonava, e guerreggiò in Ispagna a suo talento; coll’affabilità
e coi maneggi più che colla forza trasse dalla sua i regoli del
paese, e in faccia all’Africa fondò Cartagine nuova (_Cartagéna_),
con eccellente porto e formidabili munizioni, predestinata sede d’un
dominio spagnuolo che forse egli ruminava alzare emulo di Cartagine e
di Roma. Ma uno schiavo gallo lo scannò a piè degli altari.

L’esercito si tolse a capo Annibale figlio d’Amilcare, giovane
ventiseienne, che poteva dirsi straniero alla patria, dalla quale era
uscito a tredici anni. Suo padre l’avea formato negli aspri esercizj
della guerra spagnuola e nell’odio di Roma; e consacrandolo col
fuoco sull’ara di Melcart, gli avea fatto giurare perpetua nimicizia
ai Romani. Annibale congiungeva facoltà disparatissime; obbedire e
comandare, tenersi cari i soldati e gli uffiziali, divisare un’impresa
ed eseguirla; versatissimo in quanto allora sapevasi di tattica e
stratagemmi, primo tra i fanti, primo tra i cavalieri; indistinto dagli
altri nelle marcie e nell’accampamento, nella mischia distinto per armi
e cavallo più vistosi; indomito alle fatiche, primo all’azzuffarsi,
ultimo al ritirarsi; senza pietà, senza fede, senza riguardo a santità,
a giuramenti.

[219]

Le città di Emporia, Roda, Sagunto, fondate dai Greci nella Spagna,
si videro esposte alle ambizioni puniche; onde ricorsero a Roma, che
già estendeva la sua politica di là delle Alpi, e che, ingelosita
dallo estendersi de’ Cartaginesi in quella penisola, s’interpose, e
concordò con essi avesse a considerarsi limite de’ possedimenti l’Ebro,
di mezzo alle due potenze restando franca Sagunto, città di origine
greco-italica[257]. Annibale, desideroso di romperla coi Romani, ad
onta dei trattati assediò Sagunto; i cui abitanti, dopo generosissima
resistenza, vedendo disperato della patria, e non volendole
sopravvivere, si precipitarono nelle fiamme. Roma stava consultando
ancora sul soccorrerla quando la udì perita; onde spedì ambasciadori ad
Annibale per lamentarsene, i quali, da lui non ascoltati, tragittarono
a Cartagine, chiedendo fosse loro consegnato Annibale, violatore
del diritto pubblico. Il senato rispose nol potrebbe quand’anche il
volesse; e dicea vero, ma Fabio Massimo Verrucoso, fatto un seno col
lembo della toga, lo sporse ai gerusj cartaginesi, e disse:—Qua entro
vi offro guerra e pace, scegliete». I gerusj risposero unanimi:—Dia
qual vuole»; ed egli, scosso quel lembo, esclamò—Guerra».

[SECONDA GUERRA PUNICA]

E fu rotta quella che Livio chiama _bellum maxime memorabile omnium_,
e che la posterità ricorda ancora come gravissima, dopo tante in
cui si abbeverò di sangue la razza di Caino. Aveva Roma a fare con
un esercito che da ventitre anni combatteva gli Spagnuoli, gente
bellicosissima nelle difficili fazioni di montagna, e capitanato da un
sommo generale. Come avviene delle guerre di passione, non meno che
colle forze si armeggiò coi maneggi, e variatissima volse la fortuna,
costosa la vittoria. Roma fece grandiosi preparativi di truppe proprie
e d’alleate, e supplicazioni agli Dei: chiese a’ popoli della Spagna
rimanessero saldi alla sua amicizia; ma questi risposero, l’esempio di
Sagunto aveva insegnato quanto male essa proteggesse i suoi alleati:
si volse ai Galli, pregando non concedessero il passo ai Cartaginesi;
ma quelli, venuti in consiglio armati, risposero ridendo:—Che male ci
ha fatto Cartagine? o che bene Roma? Questo sappiamo solo che Roma ha
cercato espellere d’Italia i nostri fratelli».

[PASSO DELLE ALPI]

[218, 16 giug.]

Alludevano ai Galli Cisalpini, dei quali essendo recente la sconfitta,
Annibale comprese come insorgerebbero non appena egli portasse le armi
in Italia. La famiglia di lui era ricchissima, e da una sola miniera
di Spagna traeva al giorno trecento libbre d’argento[258]; altri
mezzi gli offrivano le spoglie della vinta Sagunto: laonde, lasciato
cinquantacinque navi e sedicimila soldati col fratello Asdrubale per
guardare la Spagna e per addestrarsi in quella faticosissima palestra,
con novantamila veterani prese le mosse. I Romani l’aspettavano per
mare: egli, al contrario, pensò venire pei Pirenei e le Alpi, donde
si diceva che anticamente Ercole Tirio fosse dall’Iberia varcato in
Italia; aprirebbe una nuova via, impresa che gli antichi consideravano
gloriosissima; ed a pastura del vulgo diede voce che il dio patrio
gli avesse in sogno, entro il santuario di Gades, preconizzate le
vittorie, e mostro il cammino mediante le tortuosità di un serpente.
Politicamente confidava ne’ Barbari, e di guadagnarne i capi sia
coll’oro, sia coll’idea della vendetta e del saccheggio: onde spediva
a sollecitare Boj ed Insubri; aprissero gli occhi contro questa Roma
che tendeva avvolgerli in una catena, di cui erano i primi anelli le
colonie di Piacenza e Cremona. Raggiunte le vette de’ Pirenei, acquietò
i Galli della pendice settentrionale con un trattato, memorabile per
la singolarità; giacchè si stipulava che qualsivoglia querela de’
Cartaginesi contro gl’indigeni sarebbe rimessa all’arbitrio delle donne
galle[259]. Lasciando guarnigioni lungo tutto il cammino, innanzi che
i Romani potessero abbarrargli la via tragittò il Rodano e la Durenza,
e uscente ottobre cominciò a valicare le Alpi nevate, pericolose e
difese[260].

[ANNIBALE IN ITALIA]

Tanto fu disastrosa la marcia fra i ghiacci nel salire, fra i torrenti
e le smottature nel discendere, che di cinquantamila fanti e ventimila
cavalli con cui aveva varcato il Rodano, dopo cinque mesi e mezzo e
mille cenventicinque miglia di viaggio, gli avanzarono appena ventimila
fanti e seimila cavalli. Col favore dei Galli e col proprio coraggio,
probabilmente pel piccolo Sanbernardo nelle alpi Graje scese in
val d’Aosta: riuscito fra i Taurini, proclamando la solita canzone
del venire a liberare l’Italia da’ suoi oppressori, giunse al Po.
All’avvicinarsi di lui, i Galli insorti aveano disperse le colonie
di Piacenza e di Cremona, e rotto il console romano nella foresta di
Modena; pure non caldeggiarono l’invasore quant’egli sperava, fosse
paura de’ Romani, o avessero di buon’ora sperimentato i guaj di tali
liberazioni: sicchè col fendente della spada dovette Annibale aprirsi
un passo sanguinoso fra i Taurini.

Roma avea destinato un esercito per l’Africa, uno per la Spagna, il
terzo per la Gallia. Quest’ultimo andò sconfitto; il secondo col
console Cornelio Scipione molestò alle spalle Annibale, ma vedendolo
scalar le Alpi, accorse a difesa, mentre l’inatteso suo arrivo fece
trattenere in Italia l’esercito destinato all’Africa. Scipione, che
aspettava Annibale pel più facile varco dell’alpi Marittime, se lo
trovò improvvisamente sulla propria linea di operazione, e voltato
fronte, lo pettoreggiò al Ticino; ma inferiore di cavalleria, rimase
colla peggio. Sempronio Longo console, richiamato in diligenza dalla
Sicilia, oppose alla Trebbia circa quarantamila uomini agl’invasori;
ed anch’egli fu vinto, e costretto abbandonare le posizioni sul Po.
Molti dei Galli, arrolati dai Romani, disertavano ad Annibale dacchè lo
vedeano sorriso dalla fortuna: ond’egli novantamila guerrieri spiegava
sulla valle del Po, in pianure opportunissime all’ottima cavalleria
numida.

[217]

Pure non avea troppo onde rallegrarsi. I Galli, dopo che si furono
disfatti delle colonie, di mal occhio vedeano messo a contribuzione
il paese e a repentaglio la propria indipendenza per favorire codesti
stranieri. Gli altri mercenarj ond’era composto l’esercito, ragunaticci
indocili nella quiete, burbanzosi nella vittoria, volevano imporre al
capitano l’ora e il luogo della battaglia, della marcia: frenati con
man di ferro, tramavano contro Annibale, il quale, per eluderli, era
costretto mutare ogni tratto di vestimento. Però appena il consentì la
stagione andata nevosissima, egli muove alla volta di Rimini, e per la
valle del Ronco o quella del Savio piega sull’Appennino, e verso Arezzo
per la via men frequentata delle maremme dell’Arno e del Clani, ove in
marcia disastrosissima perdè fin sette elefanti[261] e assai uomini
e cavalli; tra il monte di Cortona e il lago Trasimeno sconfisse di
nuovo i nemici, uccidendo il console Flaminio Nepote; e l’Etruria,
quasi risorgesse a libertà, illuminò tutte le alture con bellissimo
tripudio, che i loro discendenti continuano a celebrare annualmente
ne’ dintorni di Cortona. Perocchè è natura dei vulghi il salutare come
liberatore ogni nemico de’ loro padroni; e le popolazioni che Roma
aveva assoggettate, e di cui offendeva il patriotismo colle colonie
e co’ magistrati suoi, davan mano ad Annibale, e dall’Alpi al Peloro
ridestavasi il grido dell’indipendenza.

[FABIO MASSIMO]

Roma, vistasi in tal frangente, e sconfitti i due consoli, elegge
dittatore Fabio Massimo Verrucoso, il caporione de’ nobili, che
preso per ajutante Minucio Rufo plebeo, decreta devozioni, una
primavera sacra, giuochi solenni, e insieme munisce la città, taglia
i ponti, accortosi che occorreva di proteggere non più tutta Italia,
ma la capitale; propone però di lasciar consumare Annibale anzichè
combatterlo, ed ha il coraggio di temporeggiare, affrontar la ciarla
degli eroi da parole che lo abbajavano inetto, codardo, tentennone,
e fin traditore; e senza mai lasciarsi tirare a battaglia, soffre
che Annibale sotto gli occhi di lui passi nell’Italia meridionale e
nell’Umbria fino a Spoleto, e devasti le vitifere campagne di Falerno,
di Massico, di Sinuessa, fra l’abbondanza instaurando i suoi de’
sofferti disagi.

[CANNE. CAPUA]

[216]

[215]

Sceglieva dunque per nuova base d’operazione il mare d’Apulia, donde
potrebbe ricevere sussidj da Cartagine: base infelice però è il
mare a chi non abbia una fortezza, o amiche le popolazioni, e una
flotta robusta. Quest’errore aveva conosciuto Fabio; e il titolo di
temporeggiatore (_cunctator_), affissogli per ischerno, restò come
sua gloria allorchè l’esito chiarì quanta nell’indugio fosse prudenza.
Perocchè Annibale, consunti i viveri e i foraggi, serrato nell’Italia
meridionale senza comunicazioni colla Spagna, staccato dai Galli, non
vedendo le città e i popoli muoversi a secondarlo, già era costretto
a meditare una ritirata nella Gallia: quando, avendo Fabio dopo i
sei mesi deposto la dittatura, il console Terenzio Varrone, levatosi
in fiducia, e mal resistendo al desiderio di popolarità, antepose le
grida vulgari ai consigli di esso Fabio e del collega Paolo Emilio,
e presentò battaglia a Canne sull’Ofanto. Ne esultò Annibale, e
squadronò i suoi Africani, coperti d’armi acquistate alla Trebbia e
al Trasimeno; i Galli ignudi dall’umbilico in su, con lunghe e ottuse
spade; gl’Ispani colle sciabole puntute e vestiti di bianco. Accanita
battaglia si mescolò; e riuscì disastrosissima pei Romani, di cui
forse quarantamila perirono; diecimila prigionieri; tre moggia e mezzo
d’anelli, distintivo dei cavalieri uccisi, furono da Annibale inviati
a Cartagine; e Paolo Emilio, prodigando sul campo la grand’anima,
mandava dire a Roma, si fortificasse prima che le giungesse addosso
il vincitore. Questi in fatto s’inoltrò fino a sventolare il punico
vessillo in vista della città nemica; ma poi scostandosene, accettò in
dedizione molti popoli della Lucania e dell’Apulia, e singolarmente
Capua. In questa ricca e splendida città sul Vulturno, emula di
Cartagine e di Corinto, e non seconda che a Roma nella penisola, egli
piantò il quartier generale, in luogo munito, e opportuno a guidare
l’Italia meridionale sollevata.

[DIFFICOLTÀ DI ANNIBALE]

Qui tutti fanno eco a quel motto di Maarbale luogotenente
d’Annibale,—Tu sai vincere, non usare della vittoria». Ma se si
riflette che tredici anni ancora egli si sostenne in Italia, mal si
crederà che l’ozio molle indisciplinato e le vaghe donne e i generosi
vini fiaccassero il suo esercito. Del resto, poichè la guerra non si
fa con parole, con quali mezzi poteva egli spingerla alla risoluzione?
In tante battaglie avea consumato il fiore de’ suoi veterani:
disgiunto com’era dalla propria base nel settentrione dell’Italia, non
rimanevagli modo di rifare gli eserciti colle cerne della bellicosa
Gallia; avea perduto la più parte de’ cavalli, così preziosi per gli
Africani e in generale pei soldati mercenarj che, privi di patria e
di famiglia, pongono il cuore in quest’unico lor possesso e scampo.
Annibale avea fatto stima che Roma fosse odiosa alle colonie quanto
Cartagine, ma il fatto ormai lo convinceva altrimenti. Molte delle
piccole popolazioni si erano avvezze a considerare i Romani come capi;
da loro avevano avuto riparo nella recente irruzione dei Galli; da
loro vedevansi provvedute di strade, canali, ponti; difese le coste;
protetto il commercio contro Illirici e Cartaginesi; in ricambio
domandando solo uomini, tributo men sentito che quello dell’oro.
L’indipendenza tumultuosa degli Staterelli disgregati avea stancato
i più; e se le plebi la rimpiangeano, dappertutto i nobili si erano
attaccati alla fortuna dei Romani, che d’altra parte acquistavano
benemerenza e parentele ne’ varj comuni; Appio Claudio diede una figlia
a un Campano; Livio sposò quella d’un senatore di Capua; Curio scavò a
Reate un canale per isfogo del lago Velino. Ecco perchè degl’Italiani
gran parte rimasero in fede: quelli che voltavansi contro Roma perchè
stanchi di riempirne le file, ben presto si indignavano di dover dare
e roba e uomini al Cartaginese, il quale, attento ad occupar le città,
massime quelle a mare, trovavasi spesso respinto, o dovea vincerle a
gran costo d’uomini e di tempo.

[CONTEGNO SUO E DE’ ROMANI]

[212]

Restavagli di chiedere soccorsi da Cartagine; ma questa n’era dissuasa
da Annone, capo della parte contraria ai Barca.—Che bisogno ne ha
fra tante vittorie ch’e’ ci ricanta? Non ha egli ucciso ducentomila
Romani, fattone prigioni cinquantamila, assoggettato Apuli, Bruzj,
Lucani, Campani?» Nè la sola costui gelosia tratteneva il prudente
senato cartaginese dall’ajutare Annibale, ma anche il sentire come
divenisse pericoloso alla patria cotesto generale, che per proprio
conto aveva guerreggiato nella Spagna, ed ora nell’Italia. Conoscendo
però di quanto momento alla sua gloria ed a’ suoi possessi fosse
quell’impresa, deliberò sostenerlo: ma ad Annibale non bisognavano
nuove cerne, bensì un esercito già agguerrito nella Spagna. Di fatto,
lasciate le reclute d’Africa a tener fronte ai Romani nella penisola,
Asdrubale fratello di lui si mosse co’ veterani: ma gli Scipioni che
vi capitanavano i Romani, gli attraversarono la via; impedirono anche
Magone, venutovi colle truppe fresche d’Africa; e le vittorie d’Ibera,
d’Illiturgi, di Munda salvarono l’Italia da una nuova invasione.

I Romani dalla sconfitta di Canne rimasero sgomentati per modo, che
aveano proposto perfino d’abbandonare la patria inauspicata; e un
pugno di garzoni nobili già dava lo sciagurato esempio di trasportarsi
altrove, se il giovane Publio Cornelio Scipione non fosse riuscito
a stornarli. Fabio (racconta Plutarco) spiegando tutta la maestà
dittatoria, di cui era novamente rivestito, preceduto da ventiquattro
littori, uscì incontro al console Varrone, ringraziandolo non avesse
disperato della patria; ma gli ordinò deponesse le insegne di sua
dignità, mentre invece faceva mettere agli Dei pomposissimi addobbi,
quasi a mostrare che la sconfitta era dovuta al generale e al suo
sprezzo per la divinità, non a codardia delle truppe; e che il popolo
dovea non ispaventarsi del nemico, ma placare i numi sdegnati. Allora
si ricorse ai libri Sibillini, e conforme a quelli prepararono il letto
e la mensa agli Dei; si votò una primavera sacra[262]; si rinnovarono
tutte le superstizioni etrusche; si sepellirono vivi nel fôro due
Greci e due Galli; e così due Vestali violatrici dei voti, e il loro
seduttore fu ucciso a vergate dal pontefice massimo.

[PERSEVERANZA DEI ROMANI]

Se a questi segni di sgomento si consolava, Annibale dovette
sconfortarsi allorchè intese come quelli ch’eransi salvi colla fuga,
furono mandati a servire senza soldo in Sicilia, fintanto che Annibale
stesse in Italia: all’ambasciadore spedito a trattar di pace e del
riscatto de’ prigionieri, udì rispondere non saper Roma che farne
di gente che si era lasciata prender viva; entro la notte uscisse
dal territorio romano. E messosi all’incanto il terreno sul quale
era piantato il campo cartaginese, fra i compratori sorse gara,
come se piede nemico non calpestasse Italia. Di fatto, nel disastro
moltiplicano le forze di Roma; a gara si portano gli argenti nel
pubblico tesoro; chiunque compì i diciassette anni si arruola; con
armi tolte in altri tempi ai nemici, e sospese nei delubri e negli
arsenali, sono forniti ottomila schiavi volontarj; Gerone II di
Siracusa manda viveri e denaro; Napoli esibisce quaranta pàtere d’oro
pesanti trecenventi libbre, trecento moggia di frumento, ducento di
orzo, e mille frombolieri che vengono aggraditi. Levate contribuzioni
gravissime in proporzione degli averi, proibito ogni lusso d’oro e di
vesti, si pensò con uno spediente finanziero riparare alla mancanza
di contante. I censori chiamarono al tesoro le ricchezze dei minori,
delle vedove, delle non maritate, che stavano deposte in mano de’
tutori, ai quali si rilasciavano dei boni sui pubblici banchieri[263].
Questi viglietti del tesoro giravano sotto la fede pubblica; con essi
si fecero gli appalti e i mercati, avendo i fornitori dichiarato non
chiederebbero il rimborso che a guerra finita. In tal modo rifluì il
danaro, si munirono di navi le coste, si coscrissero da ducentomila
uomini, e la somma delle cose fu affidata ancora al valore di Claudio
Marcello vincitore dei Galli, e all’animosa prudenza di Fabio Massimo,
chiamati l’uno spada, l’altro scudo di Roma.

Annibale non infingardiva a Capua, anzi rattizzava contro Roma le
ire degli Italioti non solo, ma dei Sardi, del nuovo re di Siracusa,
di Filippo III re di Macedonia. Pure egli decadeva a misura che Roma
alzavasi: Marcello potè vincerlo presso Nola, e così ripristinare
ne’ guerrieri romani la confidenza. Filippo Macedone, venuto per
danneggiare l’Italia, fu sconfitto ad Apollonia dal pretore Levino,
e tosto si rimbarcò per riparare a’ guaj che in patria gli suscitava
Roma, la quale spediva Marcello a punire Siracusa.

[LA SICILIA RIDE A PROVA]

[214]

[212]

Geronimo, sciocco e dissoluto nipote di Gerone, tiranneggiava in
questa; la quale presto si redense coll’assassinarlo. Ne seguirono
turbolenze violente: i demagoghi aizzavano contro di Roma in nome della
indipendenza; lo perchè Appio Claudio per terra, Marcello per mare
l’assediarono per tre anni, Invano per difesa della patria il gran
matematico Archimede adoprava l’ingegno (pag. 259); Marcello finalmente
la prese, e l’abbandonò al saccheggio e al fuoco. Vi si trovarono più
ricchezze che non da poi in Cartagine; e Roma si fregiò delle statue
e colonne di colà trasportate. Ai Siracusani parve duro il vedersi
castigati per la perfidia dei loro tiranni, e chiedeano che le spoglie
almeno fossero restituite; e Manlio Torquato sostenendoli diceva:—Se
resuscitasse Gerone, egli così fedele al nostro nome, che direbbe
vedendo la sua città sperperata, e Roma adorna delle sue spoglie?»
Il senato rispose gliene rincresceva, ma che Marcello aveva operato
con buon diritto di guerra: e tutta Sicilia fu ridotta all’infelice
condizione di provincia.

[211]

Così le sorti d’Italia si libravano sul mare, in Ispagna, in Sicilia,
in Grecia: poi Roma concentrò gran parte di sue forze contro di Capua.
Annibale, che intanto avea corso l’Italia ed erasi mostrato fin presso
Roma, adoprò tutta sua possa per salvare i Capuani; i quali, dopo
ch’ebbero perduta ogni speranza, imbandirono un voluttuoso banchetto,
dove i primarj, dopo sollazzatisi, fecero circolare la tazza avvelenata
che dovea sottrarli alla vendetta dei Romani, poi altri si ritirarono
nelle proprie case, altri stettero insieme sbevazzando, finchè l’un
dopo l’altro cadevano estinti. Capua fu trattata senza pietà, priva
de’ suoi ornamenti e dei magistrati, molti venduti schiavi, confiscate
le terre. Alcuni furono condotti a Roma, dove essendo scoppiato un
incendio, ne fu data ad essi la colpa, e coi tormenti indotti a
confessare, ebbero l’estremo supplizio.

[PUBLIO CORNELIO SCIPIONE]

[212]

Con ritirata stupenda Annibale, carico di bottino, erasi ridotto nella
Daunia e nella Lucania, vicino allo Stretto: ma la sorte di Capua
avea aggiunto a’ suoi nemici tanta baldanza, quanta ne sottraeva agli
amici. Restavagli a sperare nell’esercito del fratello Asdrubale; ma
questo era trattenuto dalla guerra che, altrettanto viva quantunque men
rinomata, conducevasi nella Spagna dai fratelli Publio e Gneo Cornelio
Scipioni. I quali, ajutati dai popoli insorti che aveano scannato fin
quindicimila nemici, prosperavano di vittorie, ricuperarono Sagunto,
ma poi sconfitti perirono entrambi. Il caso fece tal colpo in Roma,
che niuno ardiva domandare quel comando: ma Publio Cornelio Scipione,
di soli ventiquattr’anni, si esibì vendicatore dello zio e del padre.
Questo garzone, che doveva ottenere il soprannome d’Africano, di
diciassette anni avea salvata la vita di suo padre alla battaglia del
Ticino, poi dissuaso i giovani dall’abbandonar Roma dopo la rotta di
Canne; rammorbidiva l’eroismo de’ patrizj antichi coll’affabilità
della greca educazione; stava coi nobili, ma blandiva la plebe per
giovarsene; ai devoti lasciava credere d’essere nato miracolosamente
e d’aver comunicazione cogli Dei; coi dissoluti gavazzava; delle
leggi, della religione, dei patti sapea valersi e ridersi secondo
l’occorrenza; uno di quegli uomini, la cui popolarità e l’esempio
possono divenire rovinosi alle città libere.

[210]

[208]

[207]

Egli rincorò le legioni; e dicendo che Nettuno glielo ordinasse,
traverso ai nemici andò attaccare Cartagena, arsenale e granajo del
nemico, e vi pose ad effetto la legge che comandava ai Romani, quando
entrassero in una città, di scannar tutti, uomini, animali utili e fino
i cani (POLIBIO). Gli ostaggi degli Spagnuoli che vi rinvenne, rimandò
con ogni cortesia, e intatte le donne; col che s’ingrazianì i natii.
Non potè peraltro impedire che Asdrubale menasse un esercito in Italia
con rapida marcia traverso ai Pirenei ed alle Alpi. Roma dunque stava
in nuovo frangente: che se era vincitrice nell’Italia meridionale, dove
avea preso anche Taranto, sentivasi però esausta da tanti sacrifizj:
fin il terreno delle trentacinque tribù circostanti alla città era
sperperato; l’Etruria ribolliva; molte colonie latine, logore di tanti
sacrifizj, davano lo scandalo di ricusar danaro e uomini; Claudio
Marcello, che a sessant’anni aveva voluto dare una nuova battaglia ad
Annibale, cadde sul campo. Ma altre colonie latine si professarono
disposte a tutto soffrire per Roma; i senatori e i magistrati di questa
offrirono quanto avevano d’oro e d’argento, e il popolo gli emulò: si
chiesero rinforzi d’ogni parte, e i consoli Livio Salinatore plebeo e
Claudio Nerone patrizio guidarono mirabili fazioni. Il primo teneva
testa ad Asdrubale con trentacinquemila uomini; Nerone con quarantamila
fronteggiava Annibale: ma non esitò di abbandonare la sua posizione
per raggiungere il collega, facendo in otto giorni ducensettanta
miglia; e menatigli dodicimila uomini, poterono affrontare il nemico a
Sinigaglia, e raggiuntolo mentre rampicavasi per la valle del Metauro,
l’ebbero sconfitto ed ucciso. Nerone, che per quest’impresa merita
luogo fra i migliori strategi, non si addormentò nella vittoria, ma in
sei giorni ritornò sull’Ofanto a fronte de’ Cartaginesi, e il teschio
ancor fresco di Asdrubale fu dai magnanimi Romulidi gittato nel campo
di quel _barbaro_ Annibale, il quale, avendo da Magone ricevuto il
cadavere del vinto console Sempronio Gracco, anzichè farlo a brani,
come gli si suggeriva, l’onorò di magnifiche esequie, e l’ossa mandò al
campo nemico.

[205]

Rincalzato adunque agli estremi di quell’Italia che dianzi scorrea da
vincitore, più non poteva Annibale che altalenare sulle difese tra gli
Abruzzi, insuperabili qualora occupati da uomini. Ben doveva esser
mirabile la prudenza di lui ne’ disastri, se i nemici non osarono
assalirlo benchè malconcio e disordinato, e se l’esercito suo, composto
di mercenarj d’ogni favella e religione e costumi, e mancante di paghe
e spesso di viveri, non gli perdè il rispetto, come avviene al cessare
della fortuna. Cartagine delibera un’altra volta d’inviargli soccorsi:
e Magone, fratello di lui, con quattordicimila uomini sbarcato a
Genova, tenta di trarre dalla sua i Liguri, ed ingrossato penetra nella
Gallia Cisalpina, e vi si regge lungamente. Anche in Sicilia spedirono
Imilcone: ma la guerra trascinavasi lenta, come allorchè nessuna delle
parti ardisce un colpo risoluto. Questo era riservato a Publio Cornelio
Scipione.

[PASSA IN AFRICA]

La partenza di Asdrubale aveva fatto agevolezza a questo di
sottomettere tutta la Spagna cartaginese fino a Cadice; colà fondò pei
veterani la colonia d’Italia presso Siviglia; e la vittoria costante
sopra quattro generali e quattro eserciti gli meritò d’esser eletto
console innanzi l’età.—Non si potrà finire la guerra d’Italia che
collo sbarcare in Africa», pensò egli; e con tal mira strinse alleanza
con Siface re della Numidia: ma i vecchi generali di Roma, tra cui
anche Fabio Massimo, fosse cautela o invidia, lo contrariavano di
maniera che a stento ottenne trenta galee[264]. Alla renitenza del
senato supplì l’ardore degl’Italiani, impazienti di porre un termine
alle perenni devastazioni delle bande d’Annibale quando più non lo
sperarono liberatore. Gli Etruschi disingannati trassero dagli arsenali
le armi e gli attrezzi, copiosissimo avanzo della loro grandezza;
Populonia somministrò il ferro, Tarquinia le tele, Chiusi, Perugia,
Rusella gli abeti, Arezzo trenta migliaja di scudi, celate, pili,
cinquantamila aste lunghe, e quante occorrevano scuri, asce, fasci,
vasi d’acqua, macinette; sicchè un poderoso armamento Scipione radunò
nella Sicilia, mentre simulavasi tuffato nella mollezza e nei piaceri,
e sbarcò in Africa.

[SOFONISBA]

[204]

[203]

Fa meraviglia che Cartagine non siasi opposta a quel tragitto:
soltanto era riuscita a richiamare dalla sua re Siface, valendosi
delle istigazioni di Sofonisba, figlia di Asdrubale Giscone, la quale
adoperava la sua bellezza per trovare nemici a Roma. Scipione assalì
questo re, e spodestatolo, ripristinò sul trono di Numidia il cacciato
Massinissa. Costui, dotato di quella solida vecchiezza che spesso
s’incontra ne’ militari, a ottant’anni valichi reggeva un giorno
intero a cavallo, ed anelando a vendicarsi ajutò non poco la vittoria
di Scipione; e avuto in sua mano Siface, gli tolse Sofonisba, e la
sposò. N’ebbe dispetto l’innamorato Siface, e subillò Scipione:—Guaj
ai Romani ove costei s’avvicina! come ha mutato l’animo mio ad odiarli,
così torcerà Massinissa contro di voi». Il Romano adunque la richiede
al re numida, il quale non osando negarla e non la volendo cedere,
presenta a Sofonisba un nappo avvelenato.—Grazie del dono nuziale»,
esclama l’intrepida, e beve. Massinissa ne mostrò il cadavere a’ Romani
venuti a richiederla, e Scipione posò sul capo del vecchio il diadema,
meritato coll’assassinio d’una donna.

Cartagine, stretta sì da vicino, richiamò d’Italia gli eserciti.
Magone, che non era mai riuscito a congiungersi con Annibale, pugnando
nell’Insubria contro Quintilio Varo toccò una grave ferita, della quale
morì mentre si tragittava in Africa. Annibale costretto a lasciare il
bel paese che sedici anni aveva corso rubando e sperperando, smungendo
amici e nemici, trucidando con barbarie calcolata, sterminando le
famiglie infedeli o temute, o de’ cui beni avesse bisogno per nodrire
i suoi mercenarj, non sapea celare il suo dispetto. Anche sul punto
di uscirne, sotto finta di visitare le guarnigioni delle fortezze
alleate, mandò suoi commissarj ad espellere cittadini, a saccheggiar
case e tesori; e perchè i popoli si opponevano, ne seguirono violenze
e sangue. Avrebbe egli voluto portare in Africa un ventimila Italiani
che militavano sotto la sua bandiera; ma non aderirono se non quelli
che sentivansi rei di delitto capitale. A questi egli regalò gli altri
come schiavi; ma perchè si vergognavano di farsi carcerieri de’ proprj
fratelli, Annibale unì quegli avanzi con quattromila cavalli e assai
bestie da soma, e di tutto fece macello[265].

[ANNIBALE ESCE D’ITALIA]

[202]

Queste orme lasciava Annibale del suo passaggio, del quale gl’Italiani
conservarono lungamente memoria d’orrore. Cartagine non appena rivide
il gran generale, ripigliò la baldanza; fallendo la tregua invocata,
malmenò alcune navi romane sospinte dalla tempesta, e tentò mandar
a male gli ambasciatori venuti a richiamarsene. Annibale però non
avea fretta di vincere; e quando que’ mercanti il sollecitavano alla
battaglia, rispondeva:—Attendete a’ fatti vostri; il soprassedere o
accelerare è affar mio». Abboccatosi con Scipione, esibì di cedergli
Sicilia, Sardegna e Spagna, ma questi non accettò: a Zama si fe
giornata, e benchè Celti e Liguri, ch’erano un terzo dell’esercito,
combattessero coll’odio insito alla razza galla contro la romana[266],
ed Annibale v’adoprasse tutta l’arte e il coraggio, la vittoria restò
ai Romani.

[ZAMA]

[201]

Allora in Cartagine i negozianti prevalsero, e chiesero la pace; e
Scipione, conoscendo la difficoltà di espugnar la nemica, o non volendo
che un console successore finisse l’impresa da lui sì bene avanzata, la
concedette, ma a duri patti: Cartagine conserverà il territorio e il
governo suo, consegnando i prigionieri e i disertori, gli elefanti e le
navi, eccetto le triremi; pagherà fra cinquant’anni diecimila talenti;
non imprenderà guerra nè solderà mercenarj senza il consentimento di
Roma; restituirà a Massinissa quanto gli avi di lui avevano posseduto,
e lo terrà alleato; darà cento statichi.

[PACE]

I disertori latini furono decapitati, crocifissi i romani; l’erario di
Roma risanguato con cenventitremila libbre d’argento. Cartagine si vide
rapiti e incendiati i cinquecento vascelli, con cui non avea saputo
impedire lo sbarco di Scipione; e collocato alle porte Massinissa,
che incessantemente sarebbesi maneggiato a suo danno, mentr’essa non
potrebbe chiarirgli guerra. Quando l’ambasciatore cartaginese andò
a Roma a chiedere la sanzione del concordato, qualche senatore gli
domandò:—Or quali Dei chiamerete in testimonio, voi che tutti li
spergiuraste?» e il Cartaginese:—Chiameremo quelli che ci hanno punito
con tanta severità». A tal punto Cartagine si sentiva abbassata! Ma
paci che violano la sovranità d’un popolo, allettano a violarle.

[CONSEGUENZE DELLA PACE]

Quando Scipione di ritorno traversò l’Italia, fu un tripudio
inesprimibile sui passi del giovane salvatore; ma egli potè vedere
dappertutto la desolazione e lo spopolamento. E Roma gli accrebbe
col voler castigare quelli che l’aveano disfavorita; i Bruzj furono
condannati a non esser più combattenti, ma servi ai magistrati che
andavano nelle provincie; del Sannio e della Puglia si confiscarono
i terreni, per farne cortesia a quei che aveano fatto la campagna
d’Africa.

[INSURREZIONE DELLA GALLIA CISALPINA]

[200]

Magone partendo per Cartagine avea lasciato nella Gallia Cisalpina un
Amilcare cartaginese, guerriero sperimentato, che preferiva il vivere
irrequieto fra i nemici di Roma all’indecorosa pace della patria.
Costui infervorò tanto i Cisalpini, che Boj, Insubri, Cenomani, Liguri
si collegarono, arsero la colonia di Piacenza, minacciarono quella
di Cremona; ma sotto questa furono vinti da Lucio Furio, ed Amilcare
stesso perì combattendo.

[197]

[196]

[194]

Chi non conoscesse la storia de’ nostri giorni, stupirebbe che i Galli
si tenessero quieti allorchè sì formidabilmente avrebbero potuto
unirsi ad Annibale, poi, vinto questo, insorgessero senza riposo. Per
molti anni la fortuna variò, sinchè Roma, determinata di venirne ad un
fine, mandò ad invadere quinci la Liguria, quindi l’Insubria; e che
più valse, riguadagnò i venali Cenomani, che nel vivo della mischia
disertando ai Romani, fecero intera la sconfitta dei Galli. Nè però Boj
ed Insubri si tennero per domati; e solo dopo dure battaglie Claudio
Marcello console prese Como e ventotto castelli là intorno, portando
immense spoglie a Roma. Gl’Insubri più non appajono tra i nemici di
Roma, ma i Liguri incessantemente correvano or contro Piacenza, or in
Etruria e sulla marina pisana. Gli anni successivi tre eserciti furono
mandati nella Gallia Cisalpina, i quali con accanimento nazionale tal
guasto menavano, che alcuni de’ più ricchi chiedevano rifugio presso
gli stessi Romani, e sovente vi trovavano orrendi oltraggi. Un bardasso
di Lucio Quinzio Flaminino, fratello del vincitore de’ Macedoni,
querelavasi di avere, per seguirlo, abbandonato Roma la vigilia di un
combattimento di gladiatori, spettacolo a lui curiosissimo. Or mentre
a tavola gareggiavano di stravizzo, annunziasi a Flaminino un capo
de’ Boj colla sua famiglia; il quale, introdotto, espone i proprj
infortunj, ed invoca protezione ed ospitalità. Un orribile pensiero
balena a Flaminino, e voltosi al suo mignone:—Tu mi hai sacrificato
il piacere d’un combattimento di gladiatori; io te ne compenserò col
farti vedere la morte di questi Galli». Detto, brandisce la spada, e
fiede sul Gallo, che, indarno invocando la fede divina e l’umana, è
colla famiglia trucidato. Solo dopo otto anni, nella censura del severo
Catone, a Flaminino fu chiesta ragione di tal nefandità.

[193]

[191]

Se così operava il console, pensate che doveva la soldatesca; e vedete
a qual delle due parti convenisse il titolo di barbara. Scipione
Nasica pretore, in un giorno uccise ventimila Boj, tremila ne prese;
chiedendo il trionfo, in senato si vantò di non aver lasciato vivi in
quel paese che fanciulli e vecchi, e nella pompa fe marciare misti coi
cavalli i più nobili prigionieri galli; egli che era stato premiato per
virtuoso. Allora recò al tesoro mille quattrocensettanta collane auree,
ducenquarantacinque libbre d’oro, duemila trecenquaranta d’argento
in verghe e in vasi di fattura gallica, e ducentrentamila monete.
Spedito poi come console a compiere l’opera sua, occupò armatamano il
territorio confiscato: ma le insegne romane destavano tale ribrezzo,
che i pochi avanzi di centododici tribù boje preferirono migrare,
postandosi al confluente del Danubio e della Sava; e il nome de’ Boj,
Lingoni, Anamani restò cancellato dall’Italia.

[GALLIA CISALPINA]

[189-177]

Oltre ripopolare quelle di Cremona, Piacenza, Modena, fondaronsi le
nuove colonie di Bononia, Parma, Pisa; gl’Insubri si rassegnarono
al giogo; i Cenomani ottennero il premio di loro perfidia; i Veneti
anch’essi cedettero; i Liguri che resisterono lunga pezza al
ladroneccio romano, a viva forza furono sottomessi; e la Garfagnana e
la Lunigiana settentrionale distribuite alla colonia romana dedotta da
Lucca[267].

Dell’alta Italia, che per quattrocent’anni avevano i Galli tenuta, da
Belloveso in poi, allora si formò la provincia detta Gallia Cisalpina
o Togata, e Roma dichiarò:—Natura ha posto le Alpi fra l’Italia e i
Galli; guaj a questi se osano ripassarle!»

[APPIO CLAUDIO PULCRO]

[143]

L’eccesso dell’oppressione ammutinò ancora qualche volta i Galli
Cisalpini, e nominatamente i Salassi; da essi rimase sconfitto il
console Appio Claudio Pulcro, il quale però con sacre cerimonie
ravvivato il coraggio de’ soldati, riparò il danno. Quando chiese
il trionfo, gli fu negato; e poichè voleva condurlo non ostante,
un tribuno gl’impedì la salita in Campidoglio. Ma sua figlia ch’era
vestale, montò seco sul carro, talchè niuno osò opporsi alla vergine
sacra; ed ella ne fu lodata, egli maledetto.



CAPITOLO XIV.

I Romani in Grecia e in Oriente.—I trionfi.


Nella guerra d’Annibale, se erasi veduto sperperare il paese, Roma si
assicurò il dominio sull’intera Italia, sui mari, su floride provincie;
internamente il senato acquistava la preponderanza che i corpi
governanti sogliono ottenere in tempo di guerra, e colla guerra voleva
conservarla: e trovandosi omai sottoposta tutta l’Italia, volgeva lo
sguardo verso l’Oriente.

Accennammo come questo avesse mutato faccia per le conquiste
d’Alessandro e per le successive discordie de’ suoi generali e
successori (pag. 269). Fondarono essi molti regni anche in parti
lontanissime; ma alla storia nostra basta rammentare quelli d’Egitto,
di Siria, di Macedonia.

In Egitto formarono dinastia i Tolomei di Lago, che innestando la greca
civiltà sull’egizia, fecero rivivere in Alessandria parte del sapere
che, dopo tanto splendore, erasi eclissato nell’Oriente e nella Grecia;
raccolsero nel famoso Museo i libri e i dotti, i quali applicaronsi
massimamente a que’ lavori di erudizione, che sottentrano allorchè
cessò il genio del creare: intanto il commercio continuava a fiorire
in quella città, così opportunamente situata fra l’Africa, l’Asia e
l’Europa.

Il regno di Siria comprendeva i paesi che gli antichi aveano denominati
Mesopotamia, Media, Battriana, Assiria, e buona parte dell’Asia
Minore; sicchè da Antiochia sull’Oronte i Seleucidi direttamente
o indirettamente imperavano su quanto è tra l’Eufrate, l’Indo e
l’Oxo, dal mare Egeo alle rive dell’Indo. Emuli cresceano a fianco
di loro altri principi e popoli, un tempo vassalli della Persia,
cioè i re della Georgia, della Cappadocia, dell’Armenia, del Ponto,
della Bitinia, di Pergamo nella Misia; l’isola di Rodi, gloriosa di
commercio; le repubbliche d’Eraclea, Sinope, Bisanzio; ed altre piccole
potenze, or reluttanti, ora trascinate nell’orbita delle prevalenti.

La Macedonia, non più capo del vasto impero d’Alessandro, costituì
regno distinto, al quale attribuisce importanza la parte che ebbe nelle
vicende del paese più colto del mondo, la Grecia.

[ARTI BELLE]

Quell’immensa luce delle lettere e delle arti belle, per cui la
Grecia rimane modello insuperabile della classica perfezione, erasi
offuscata colla libertà, cessando l’ingegno d’essere ispirato dalla
vita pubblica, dai grandi interessi della nazione, dalle intrepide
lotte contro gl’invasori della patria. Se vi fu tempo che mostrasse
ad evidenza non bastare favor di principi al fiorire degli ingegni,
fu certo allora, quando i Tolomei invitavano alla loro corte chiunque
avesse merito, i Seleucidi e i re di Pergamo gareggiavano con quelli
nel pagar meglio i libri, i quadri, i dotti. I Tolomei proibirono si
portasse fuori d’Egitto la carta di papiro, quasi appena bastasse al
loro bisogno; e i re di Pergamo vi sostituirono la membranacea, perciò
detta pergamena, sulla quale fecero copiare ben centomila volumi per la
loro biblioteca. Eppure da tante cognizioni, da tanta protezione non
iscaturirono che scritti affati, esercizj di scuola, affinamenti di
erudizione, ingegnosi artifizj; nulla che accenni genio e spontaneità.
Sopita la facoltà del creare, surrogata la memoria all’ispirazione,
que’ letterati sottigliaronsi nell’analisi del già fatto, nei precetti
del da farsi; indicarono tutti i difetti da evitare, non valsero
a raggiungere le bellezze, che sole dan vita a un lavoro; seppero
giustificare cogli esempj e coll’autorità ogni passo dato, anzichè per
vigoria di genio farsi perdonare i felici traviamenti.

[SCUOLE CRITICHE E FILOSOFICHE GRECHE]

L’Egitto, l’India, fors’anche la Persia e la Babilonia, coltivarono
la filosofia, ma soltanto in Grecia essa fu unita in vere scuole,
con quella evoluzione ordinata di cognizioni che costituisce la
scienza: e dal nostro Pitagora e da Socrate erano uscite le due sètte
fondamentali, de’ Platonici o Accademici, che faceano innate nell’anima
le idee, e perciò eterne la bontà e la giustizia; e degli Aristotelici
o Peripatetici, che tutte le nozioni traevano dai sensi, ripudiando ciò
che non fosse dato dall’esperienza.

Ma la filosofia più non avea impero quando la forza avea ridotto ogni
cosa alla teorica che or chiamiamo dei fatti consumati; e deperite
le istituzioni repubblicane, spento lo spirito pubblico, le dottrine
cessavano d’aver predominanza sulla vita politica. In questa trista
situazione, della quale il lettore non dovrà andar lontano per trovare
un riscontro, l’uom pensante che si riconosce impotente ad ostare
alle nauseanti realità, è indotto a cercare nella filosofia (poichè
religione nel vero senso non esisteva) le ragioni di rassegnarsi a’
mali attuali, o di divenirvi indifferente. Tre vie gli si aprono a ciò:
o di considerar come bene il solo piacere, e solo male il dolore, e
quindi procacciarsi le sensazioni e i sentimenti gradevoli, schivare
i diversi, godere degli affetti sinchè non rechino noja, accortamente
soddisfacendo alle inclinazioni egoistiche: tale fu la dottrina
degli Epicurei, varia nelle applicazioni, ma che sempre conchiudeva
all’individuale benessere, a sottrarsi dalle pubbliche cure, come da
tutto ciò che può sovvertire la quiete.

[SCUOLE FILOSOFICHE GRECHE]

Per riazione contro costoro, altri nell’anima riscontrano innata
l’idea del vero e del buono, e ne deducono una serie logica di canoni,
ai quali deve l’uomo uniformarsi invariabilmente, e così quetarsi
nella beatitudine, qualunque sieno gli avvenimenti esterni. Quest’era
l’insegnamento di Zenone e degli Stoici, pretendendo una virtù
rigidissima, indomita da dolori, da passioni, pronta a far gitto della
vita non solo ove il dovere lo chiedesse, ma anche dove ella diventasse
gravosa. Riuscivano dunque alla medesima pratica conchiusione di
evitar le cure pubbliche, giacchè non era possibile regolarle sopra
quell’inflessibile loro modello.

Altri, scorgendo impotente l’umano intelletto a scernere la vera
natura delle cose, e la sapienza filosofica non fondarsi che sovra
ipotesi, credettero non si desse alcun vero assoluto, e poneano il
riposo dell’anima nell’equilibrio dello spirito fra le negazioni e
le affermazioni. Tali erano gli Scettici, che, rivocate in dubbio le
nozioni tutte, tutti i doveri, facevano i vizj e le virtù mutevoli
secondo i tempi e secondo i paesi; il savio, cui meta è la tranquillità
dello spirito, deve astenersi dal prestare assenso a nulla, giacchè
l’aderire è stoltezza, mentre di nulla non si può acquistare intima
convinzione; fra le illusioni dei sensi e dell’intelletto deve l’uomo
bilanciarsi in un giusto mezzo che meglio conduca alla felicità, nulla
curandosi degli scandali e dei mali del mondo reale.

Tutte pertanto, quantunque da principj opposti derivando, riuscivano
alla conseguenza di ridurre gli spiriti indifferenti sopra la realità.
Entrato allora il gusto dell’erudizione, l’Accademia Nuova che fiorì
principalmente ad Alessandria, distillava dalle scuole precedenti ciò
che migliore le pareva, delle opinioni nessuna asseriva positivamente,
tutte accettava come probabili; eclettismo inefficace, che arriva a
togliere la distinzione tra il vero e il falso, dacchè vi toglie il
carattere d’assolutezza, e accetta per unico criterio l’esperienza.

[I SOFISTI]

Il decadimento del ben pensare è sempre accompagnato dall’imbaldanzire
della parola. I Sofisti, gazzettieri d’allora, ebbri della potenza
dell’argomentazione, qualunque ne sia lo scopo, dopo che furonsi
avvezzati alle esorbitanze nella guerra del Peloponneso, volsero
l’ingegno a sostenere del pari il bene e il male, e giustificavano la
violenza, glorificavano la forza, trasportando nella vita civile le
leggi della guerra. Di là la smania del potere, l’ardor della lotta, il
delirio della vittoria, ben espressa da Euripide allorchè cantò:—La
sapienza e la gloria dagli Dei concesse ai mortali, non sono altro che
tenere la mano poderosa sulla testa de’ nemici». Combinazione consueta,
al tempo stesso i filosofi snervavano giustificando la voluttà,
togliendo la differenza tra il bene e il male, il vero e il falso,
rendendo la volontà dell’uomo schiava dei sensi, e proponendo alle
persone colte per unico esercizio l’arte frivola della retorica, che
pervertiva l’anima e l’intelletto, la coscienza e il gusto.

[CARNEADE]

[180]

Chiunque sa che l’uomo opera in conseguenza di ciò che crede, vedrà
quanto sulle azioni dovessero contribuire tali dottrine. Il più
illustre de’ nuovi Accademici fu Carneade di Cirene, il quale insegnava
la verità non possedere un carattere indefettibile a cui conoscerla,
atteso che siano illusorie le sensazioni che somministrano la materia
delle nozioni: se anche esiste una verità assoluta, è fuori dei
confini dell’intelligenza dell’uomo, il quale perciò non può fondare i
pensieri e gli atti proprj che sulla verosimiglianza, ed ha assoluta
impossibilità a decidere. Collo stoico Diogene e col peripatetico
Critolao egli fu dagli Ateniesi mandato ambasciatore a Roma, ove
della prodigiosa sua sottigliezza nell’argomentare volle dar prova
col sostenere un giorno che l’uomo deve operare secondo la giustizia,
e al domani argomentare il contrario, e che giusto ed ingiusto sono
sinonimi di utile e dannoso: dal vulgo è spesso reputato pazzo chi
compie un’azione giusta con proprio nocumento, mentre vanno in voce di
savj taluni, che operano iniquamente ma con vantaggio personale. Si
sgomentò di tali dottrine Catone censore, e fece la mozione al senato
che subitamente facesse espellere costui, il quale la virtù riduceva
ad un esercizio d’argomentazioni. Perciò ancora Fabrizio, quando alla
mensa di Pirro udì esporre le dottrine d’Epicuro, invocò che a queste
si conformassero sempre i nemici di Roma (pag. 277).

[DOTTRINE D’EPICURO]

In fatto gli Epicurei, ponendo per mira dell’attività umana il
godimento, e per prima condizione di questo la tranquillità dell’animo,
svogliavano dai maneggi civili, dal tempestoso patriotismo, sin dalle
affezioni domestiche, perchè circondate di tante spine. I Greci, che
avevano ucciso Scorate perchè spargeva dubbj su que’ loro Dei, non
punirono Epicuro che ogni Dio negava; e negli ultimi loro tempi si
abbandonavano al costui disastroso insegnamento, o al dubbio micidiale:
e quando sarebbe stato maggior bisogno di forti pensieri e di generose
azioni, si tuffavano in bagordi o assopivano nell’esitanza, e della
patria avvenga che vuole.

A gente che così pensa, offra teatri, ballerini, mense, donne,
prosperità materiale, ed un ambizioso potrà facilmente farsene tiranno;
un nemico potrà anche soggiogarli, perchè que’ fiori, soffogano il
robusto germe delle virtù patriotiche, e invece delle virili gioje
della resistenza e del sagrifizio, si calcola quanto si guadagnerà,
come meglio si godrà. Così fatti i Greci, scaduti dalla grandezza delle
vantate repubbliche, corrotti in opulenza lussuriosa e in costumi
forestieri, agitati da demagoghi, i quali più sogliono pompeggiare
di ciancie quanto più scapita il vigor de’ guerrieri e il senno de’
politici, avvicendavano fra tirannide di principi e sbrigliamento
di plebe, e questa e quelli avvoltolati nella gozzoviglia. Atene la
meravigliosa sua floridezza più non attestava che con meravigliosa
corruttela; Sparta la sua severità che colla disumana rozzezza; e i
Macedoni ora coll’armi, ora cogl’intrighi e coll’oro vi esercitavano
micidiale ingerenza.

[LEGHE ACHEA ED ETOLIA]

[284]

[280]

Per riparo contro di queste si formò la lega Achea, di piccoli Stati,
che in dieta generale eleggevano uno stratego e dieci magistrati, allo
scopo di mantenere eguaglianza e libertà nell’interno, sicurezza al di
fuori; ed ebbe la fortuna di vedersi a capo una sequela di eroi, Arato,
Cleomene, Filopémene. La imitò la lega Etolia delle città della Beozia,
della Locride, della Focide, dell’Arcadia, della Tessaglia ed altre,
federatesi non tanto alla difesa come gli Achei, quanto alla guerra,
giacchè soli in Grecia possedeano una forza nazionale, quando gli altri
non si valevano più che di mercenarj: ma violenti più che coraggiosi,
violatori delle leggi e delle proprietà, faceansi esecrare più che
temere.

[220]

Sciaguratamente poi non seppero durare in pace nè una lega coll’altra,
nè tampoco i membri della lega stessa, e la guerra soqquadrava
i piccoli Stati di Grecia non meno che i maggiori dell’impero
d’Alessandro. Macedonia, Siria, Egitto, sotto re talvolta prodi e
magnanimi, più spesso osceni, molli, intriganti insieme e feroci,
avvicendarono paci e nimicizie; dappertutto sotto la vernice della
urbanità, della letteratura, delle arti covava un’immensa corruttela;
e dalle guerre dirotte usciva un governo immorale ed iniquo. Ma gli
Stati per poter essere iniqui conviene sieno forti: e invece questi
od erano minuti e dipendenti, o i maggiori compaginavansi d’elementi
eterogenei, sempre inclinati a sfasciarsi, e non si appoggiavano che a
truppe europee, sgagliardite dalle molli delizie dell’Asia; simili alle
potenze d’Europa ne’ due secoli anteriori al nostro, reggevansi per
via d’alleanze e d’equilibrio positivo: sistema vacillante, che dovea
soccombere alla vigile ostinazione di Roma, la quale, idolatrata da
figli, pronti a sacrarsi per lei ai numi infernali o precipitarsi nelle
voragini, per la forza delle cose dovea prevalere su tutte.

[219]

Vincendo i pirati dell’Illiria, i Romani avevano assicurata da costoro
la Grecia; onde la lega Etolia e l’Achea a gara gli onorarono di
ambascerie e ringraziamenti; i Corintj gli ammisero alla celebrazione
dei giuochi istmici, gli Ateniesi alla cittadinanza e ai misteri della
Cerere eleusina; pel qual modo essi fecero la prima comparsa fra gli
Elleni in aspetto di liberatori. La loro amicizia poi era ambita da
Attalo re di Pergamo, non meno che da Rodi e dalla lega Etolia: e
poveri di forze quanto copiosi di pretensioni, gli Etolj paragonavano
se stessi alla repubblica romana, i Rodj presumevano tenere la bilancia
tra questa e la Macedonia.

[FILIPPO]

[213]

[211]

Filippo III re della Macedonia, paese ben munito e bellicoso, e
possedendo la cavalleresca Tessaglia e molta terra ed isole fino
all’Asia, chiesto dalla lega Achea in ajuto contro l’Etolia, avrebbe
potuto congiungerle ambedue, e ai ventotto Stati greci sovrapponendo
l’autorità militare della Macedonia, preparare un forte contrasto alle
presentite ambizioni di Roma. Ma i Greci guatavano con gelosia l’antica
dominante; Filippo stesso, per quanto scaltro in politica e dolce di
naturale, era stato guasto dagli adulatori, e non che amicarseli,
disgustò le due parti con bassi delitti; uccise a tradimento Arato,
virtuoso capo della lega Achea, violentò donne, portò strage a Creta
e Messene, turbò sepolcri e tempj, distrasse capi d’arte; in modo che,
per salvarsene, Rodi, Sparta, la lega Etolia invocarono contro di esso
i Romani, che già gli portavano rancore perchè aveva ajutato Annibale
(pag. 315).

[SECONDA GUERRA MACEDONICA]

[200]

Il senato romano spiava, e coglieva sollecito queste occasioni di
assumere la protezione dei deboli onde romper in faccia de’ forti. Se
non che il popolo, spossato da sedici anni di guerre, quando ne’ comizj
udì proporsi gagliardi armamenti e una nuova spedizione contro il
Macedone, diede nelle furie, e trentacinque tribù votarono per il no:
ma al senato premeva conservare colla guerra il potere dittatorio colla
guerra acquistato, e che gl’indocili figli de’ prischi plebei, memori
dell’Aventino e del monte Sacro, perissero combattendo, e facessero
luogo a Latini, Italioti, liberti, gente nuova e pieghevole. Di fatto,
colle arti onde un’assemblea sa prevalere alla moltitudine, vinse il
partito, e ruppe le ostilità, ajutato di grano, di cavalli e d’elefanti
dall’africano Massinissa. Qui pure volle assalire il nemico nel cuore;
ma le ardue montagne dietro cui riposava la Macedonia, custodite dai
fantaccini dell’Epiro e dalla cavalleria tessala, fecero costar caro il
tentativo.

[FLAMININO]

[198]

Per due anni vacillò la fortuna, sinchè non venne al comando il
console Tito Quinzio Flaminino, uno di quei figli della guerra, cui
l’esercizio de’ campi raffina ne’ politici accorgimenti; e che, leone
o volpe secondo il bisogno, adoprava popoli e privati per giungere a’
suoi fini. Parlava greco, usava modi cortesi, mostravasi caldissimo
della libertà; e come Buonaparte da Cherasco gridava,—Popoli d’Italia,
noi veniamo a spezzare le vostre catene; nostri nemici sono i vostri
tiranni», così egli cominciò a promettere liberazione ai Greci,
dirsi mandato da una repubblica a ripristinarvi le repubbliche; si
ricordassero degli antichi fatti magnanimi; fossero di nuovo quali
erano stati. Gli credevano essi e gli spalancavano le città; ed egli se
ne rideva e faceva di fatti.

[197]

[196]

Filippo, al quale si era presentato un momento così opportuno per
ristaurare la Grecia e il nome macedone, impaniato in una politica
insolita, più non navigò che a caso; Flaminino gli dà battaglia, e la
terribile falange macedone, lodatissima per forza compatta, trovatasi
a fronte della legione romana, tanto più agile, presso le colline de’
Cinocefali soccombe, e perde la gloria d’invincibile, acquistata nelle
guerre dell’Asia. Però Flaminino non annichilò Filippo, e sparpagliava
parole d’umanità, di generosità, di rispetto ai vinti, e—Roma ha
tornata libera la Grecia: tanto basta alla magnanima. Filippo lasci
indipendenti gli altri Stati; tenga pure armata ed esercito, ma non
imprenda guerra fuor della Macedonia, senza Roma consenziente; paghi
mille talenti, e dia in ostaggio suo figlio Demetrio». Poi presedendo
alla solennità de’ giuochi istmici, fece da un araldo bandire questo
decreto:—Il senato e il popolo romano e Quinzio Flaminino proconsole,
vincitore di Filippo e de’ Macedoni, dichiarano liberi ed immuni i
Corintj, Focesi, Eubei, Locri, Ftioti, Magnesj, Achei, Tessali e
Perrebi».

Chi potrebbe descrivere la gioja de’ Greci all’udirsi regalata la
libertà? Vollero sentir replicato il decreto, appena credendo ai
proprj orecchi, quasi editti e dichiarazioni bastassero a far libero
un popolo; fiori e ghirlande piovvero, acclamazioni empirono il circo;
si dedicarono fin tripodi a questo eroe, schiatta d’Enea, alla sua
gente da Enea fondata, e sacrifizj a Tito ed Ercole, a Tito ed Apollo
Delfico; e per molti secoli un sacerdote di Flaminino l’onorò di
libagioni, cantando un inno che diceva:—Veneriamo la fede candidissima
de’ Romani, giuriamo serbarne eterna memoria. Cantate, o Muse, il
sommo Giove, Roma, Tito e la romana fede. O sanatore Apollo, o Tito
salvatore!» Più gentile ricompensa fu l’avere gli Achei ricomprati a
cinque emine per testa, e donati a Flaminino mille ducento Romani che,
caduti prigionieri nella guerra d’Annibale e venduti schiavi, gemevano
sui terreni della Grecia, e che vie più si accoravano allora nello
scontrarsi coi proprj figli e coi fratelli, acclamati liberatori.

Questo scaltro fortunato levò le guarnigioni dalle fortezze di Corinto,
Calcide e Demetriade, e promise neppure un soldato romano lasciare in
Grecia. Ma il volere che ogni città conservasse gli statuti proprj,
era un tenerle disunite, per così facilmente e a voglia soggiogarle,
e impedire il crescere e consolidarsi della lega Achea. Quasi ad
agevolare l’impresa, in ciascuna città si formò un partito favorevole
ai Romani, uno contrario. Alla Grecia come a Cartagine, Roma tolse
la flotta, essendosi proposto di rimanere padrona dei mari senza
troppe navi, e conservandosi potenza terrestre. Sconnesse le leghe,
depressi i forti, gittati per tutto semi di zizzania, Flaminino menò
in Roma un fastoso trionfo di tre giorni, portandovi armi e statue di
bronzo e di marmo, e vasi di stupendo lavorìo, spoglie di Filippo, e
centoquattordici corone d’oro regalategli dalle città liberate. Tristo
il giorno in cui le nazioni si svegliano dal sogno plaudente! La
Grecia si accorse di non essere stata redenta, ma mutata dalla servitù
macedone alla romana; e dicea,—Ci furono levati i ceppi dai piedi per
metterceli al collo».

[195]

Gli Etolj, già per natura inquieti, allora adombrati al vedere come
Roma indugiasse a ritirare del tutto le truppe dalla libera Grecia,
tentarono prendere Sparta, Calcide e Demetriade; al tempo stesso che
Boj e Liguri resistevano tuttora a Roma fra le Alpi e gli Spagnuoli
insorgeano. Forse questi fuochi erano desti o almeno attizzati da
Annibale, che, intento a comunicare a tutti l’esecrazione sua contro
Roma, procurava stringere in lega Cartagine con Antioco il Grande di
Siria, e colla Macedonia, a cui si sarebbero certamente congiunti
gli Stati minori, disingannati delle promesse romane, e persuasi che
la libertà non si riceve in dono, ma conviene rapirla. L’indomito
avventuriere pensava ottenere da esso un nuovo esercito con cui
tornare in Italia; e all’uopo spedì a Cartagine un Tirio in aspetto
di negoziante, che agli amici di Annibale divisò quello che non
conveniva mettere in iscritto: ma scoperto, dovette fuggire, e i timidi
Cartaginesi rinnovarono proteste di sommessione alla superba loro
vincitrice.

[SPEDIZIONE CONTRO ANTIOCO IL GRANDE]

[193]

Antioco avea dispetto coi Romani perchè impacciavano le sue pretensioni
sopra l’Egitto e sopra le città greche dell’Asia Minore; e trovava
strano che si costituissero patroni della libertà dei Greci d’Asia,
essi che i Greci d’Italia e di Sicilia tenevano servi. Avea dunque
sostenuto Filippo di Macedonia; poi da Annibale fu incorato ad assalire
i Romani da terra, mentre egli da mare: ma per fortuna di Roma, egli
o non era capace d’intendere il genio d’Annibale, o ne invidiava la
grandezza, e mal soffriva i rimbrotti con cui quel severo interrompeva
le adulazioni ond’era assordato; e diede più volenteroso ascolto agli
Etolj, che desideravano trarre la guerra in Grecia per farne loro
pro.—Assicuratevi, che d’ogni parte i popoli si alzeranno a favor
vostro», dicevangli essi; e il re:—Assicuratevi, ch’io coprirò di mie
flotte tutti i mari». Gli uni e l’altro mentivano: Antioco menò appena
diecimila armati in Grecia; gli Etolj rimasero soli in ballo, sicchè i
Romani ebbero tempo di sopragiungere, e sconfiggerli separatamente.

[ANTIOCO VINTO]

[191]

[190]

Antioco si governava nel modo più sciagurato, cioè tentennando: ora
restituiva tutta la confidenza ad Annibale, che predicava i Romani
non potersi vincere altrove che in Italia; ora se ne insospettiva,
e cercava altrove alleati; intanto, quando più gli era mestieri di
conciliarselo, si alienò Filippo di Macedonia, il quale, non abbastanza
risoluto per valersi di quelle dissensioni a vantaggio della Grecia ed
incremento del proprio regno, concedette ai Romani il passo traverso
alle sue difficili montagne; per mare l’agevolarono i vascelli del
re di Pergamo e de’ Rodj. Gli adulatori seguitavano ad accertare
Antioco che i Romani non penetrerebbero mai in Grecia; ed eccoveli
comparire minacciosi: ed egli, sconfitto alle Termopile dal console
Acilio Glabrione, e nel mar Jonio da Emilio Regillo, finalmente fu
snidato di Grecia. Ridotto a guerra difensiva, e vedendo, siccome
Annibale gli avea predetto, che i Romani lo cercherebbero in Asia, mal
difeso da loro l’Ellesponto, radunò tutte le sue forze a Magnesia alle
falde del Sipilo. Sedicimila armati alla macedone, millecinquecento
Galati, cavalieri e corazzieri di Media, argiraspidi, arcieri sciti e
misj, Cirtei, Elimei, Traci, Cappadoci, Cretesi, dromedarj di Arabi,
cinquantadue elefanti d’India, moltissimi carri falcati, componevano
l’esercito d’Antioco; supremo sforzo di tutto l’Oriente contro la
prevalenza occidentale. Ma i Romani, guidati da Lucio Cornelio Scipione
e da Eumene II re di Pergamo, col valore e coll’accorgimento superarono
il numero, e sconfissero il gran re, uccidendogli cinquantamila uomini,
prendendone centonovantamila.

[188]

Fu l’ultimo crollo alla potenza della Siria. Roma, nella pace che in
Apamea accordò ad Antioco, non intese a cacciarlo di là del Tauro,
ma a tagliargli i nervi e tenerselo in assoluta dipendenza, massime
col ripartire sopra dodici anni i dodicimila talenti che doveva
pagarle, e i trecencinquanta che doveva a re Eumene; cedesse tutti
gli elefanti e i vascelli, che furono bruciati; desse venti ostaggi
e il proprio figliuolo; consegnasse l’etolio Toante ed Annibale;
condizione che forse non istette da lui il non adempire, e che deturpa
la diplomazia di coloro che poco prima avevano denunziato a Pirro il
medico avvelenatore. Vuolsi che in quell’occasione Scipione ed Annibale
avessero in Efeso un colloquio, ed il primo chiedesse ad Annibale qual
giudicasse il maggior capitano.—Alessandro, che con sì pochi sconfisse
innumerevoli eserciti» rispose Annibale.—Quale il secondo?—Pirro,
che primo insegnò l’arte degli accampamenti.—E quale il terzo?—Me
stesso». Di che Scipione punto nel vivo soggiunse:—Or che diresti, se
tu avessi vinto me?»—In tal caso (ripigliò Annibale) mi porrei sopra
ad Alessandro, a Pirro, a qualunque capitano».

[TRIONFI]

[189]

Glabrione menò trionfo per la vittoria delle Termopile; Regillo per
quella sulla flotta sira; Scipione per quella di Magnesia, traendosi
dietro al carro i vinti capitani, centrenta simulacri di città,
trecentrentaquattro corone d’oro, e inestimabili tesori; gloriato
del titolo di Asiatico. Anche l’Etolia, prolungata la lotta, in fine
accettò la pace, pagando cinquecento talenti; e con essa Cefalonia
e Samo; e il console Fulvio Nobiliore ne trionfò con cento corone,
ducentottantacinque statue di bronzo, ducentotrenta di marmo, gran
quantità di argento, d’armi, di spoglie. L’altro console Manlio Vulsone
vinse i Galli che, col nome di Gàlati, molestavano la Grecia e le città
della Troade, dell’Eolide, della Jonia, le quali perciò gli offersero
corone. Roma, fedele all’assunto, non conservava per se neppure un
palmo di terra, distribuite le conquiste ai due più efficaci alleati
suoi in questa guerra, la repubblica di Rodi ed Eumene di Pergamo.

Così Roma con veste di liberatrice in dieci anni era divenuta non
la signora, ma l’arbitra di quanto è dall’Eufrate all’Atlantico,
sicchè non vi si spiegava una bandiera senza assenso di essa. Gli
Stati principali erano sgagliarditi; i minori ne ambivano l’amicizia
od invocavano la protezione; essa, presente dappertutto mediante
ambasciatori che erano spie e sommovitori, fomentava le reciproche
gelosie, le fazioni interne e le esterne guerre anche nei più piccoli
paesi; si facea carico di tutte le lamentanze che si portassero contro
Filippo o Antioco o gli Etolj, dando sempre ragione ai deboli contro i
forti. Quel ch’è maraviglioso, tante guerre non l’aveano spossata, anzi
spediva sempre nuove colonie; tanto operava efficace il suo sistema
di risarcirsi incessantemente colle genti italiane e coi liberti
assimilandoli.

[FINE DI ANNIBALE]

[184]

[183]

Due nemici però continuavano a darle ombra, Annibale e Filippo, vivi
i quali, doveva temere una lega generale. Perciò blandiva Antioco,
Rodi, l’Acaja, Eumene, e spiava ogni passo d’Annibale, che pareva non
prolungare la robusta vecchiaja se non per cercarle nemici. A lui diede
ascolto Prusia II re di Bitinia, e mercè sua riportò vittoria sopra
Eumene. Ma ecco arrivare a quel re Flaminino, il liberatore della
Grecia, e ingiungergli di consegnare Annibale. Questi n’ebbe sentore,
e disse:—Liberiamo Roma da sì grave apprensione, poichè le tarda la
morte di questo vecchio odiato. Ma il costoro trionfo sopra un vecchio
inerme gl’infamerà presso gli avvenire». E col veleno si diè morte,
l’anno stesso che a Linterno moriva Scipione suo vincitore.

Scarchi di questo timore, i Romani s’applicarono a fomentare la Licia
contro Rodi, Sparta contro gli Achei. Fra questi ripullulavano le
dissensioni, eterno retaggio delle repubbliche greche; e i Romani
se ne giovarono por ingagliardire la loro ingerenza; e una fazione
a loro venduta tra gli Achei, preparava la rovina della patria col
corromperla. Filippo di Macedonia s’avvide che i Romani gli usavano
riguardi sol quando il temevano, ma di fatto non miravano ad altro
che a renderlo fiacco ed esoso; onde agognava ad una riscossa, e
a rintegrare la mutilata potenza. Satollo di umiliazioni, facea
rileggersi ogni giorno il suo vergognoso trattato con Roma; lasciavasi
sfuggire parole minacciose, che sono ridicole o pericolose quando non
sostenute da buone armi; esigeva nuove gabelle sulle merci dei Romani,
escludendoli dai privilegi degli altri forestieri; in loro odio fece
sterminare gli abitanti di Maronea; ruminava i grandi divisamenti di
Annibale; al figlio Demetrio, il quale nel tempo che rimase ostaggio a
Roma, avea di questa meritato la benevolenza e forse sposato la causa,
diè morte col veleno; allora tra il rimorso e il sentimento della
propria impotenza, invaso da umor negro morì.

[PERSEO]

[178]

Perseo, succeduto al padre con capacità poco minore, si trovò a mano
i mezzi che questo da gran tempo allestiva per osteggiare i Romani,
pingue erario, popolazione cresciuta, devota la più parte della Tracia,
vivajo di prodi, e molti mercenarj pronti a seguirlo in Italia. Qui lo
invitavano le guerre, non grosse ma continue, che Roma dovea menare
contro la Spagna e la Liguria, e nell’Istria, nella Corsica, nella
Sardegna, repugnanti al giogo; ma egli conoscea quanto poco si potesse
fidare de’ mercenarj, e quanto Roma giganteggiasse nell’opinione e nel
fatto. Sulle prime dunque dissimulò l’avarizia e l’ambizione, e pose
il proprio diadema a piè del senato, dichiarando non voler riceverlo
che da esso. Allora colle frequenti udienze, colla generosità, colla
giustizia, fa credere ai Macedoni risorto il tempo degli antecessori
di Alessandro; alletta i Greci tenendo dai poveri contro i ricchi,
parziali per Roma; lega amicizia coi Rodj e con Genzio re degl’Illirj;
dà sua sorella a Prusia re di Bitinia, e sposa Laodice figlia di
Seleuco Filopatore re di Siria, tutti appoggi contro i Romani; manda
emissarj ai popoli confinanti coll’Italia, e ambasciadori a Cartagine;
s’accorda coi Traci per averne truppe ad ogni uopo; raccoglie ingenti
somme da nutrire per molti anni l’esercito, che crebbe a trentamila
pedoni e cinquemila cavalli.

[TERZA GUERRA COLLA MACEDONIA]

[173]

I popoli oppressi sogliono crearsi un fantasma di liberatore, e
adorarlo; salvo a sputacchiarlo quand’egli appaja qual era, non
quale l’aveano essi fantasticato. Così i Greci vedeano in Perseo il
rappresentante della causa nazionale, bene checchè egli facesse, in
lui ogni fiducia: ma la vigilanza e gl’intrighi degli agenti di Roma
tenevano in soggezione gli Achei, massime dacchè ebber perduto il loro
capo Filopemene, detto l’ultimo dei Greci; gli Etolj, ritorcendo le
armi contro se stessi, eransi tolta la capacità di più tentare nulla
di efficace; altrettanto gli Acarnani; la lega dei Comuni beoti era
stata annichilata da Roma. Questa occhieggiava ogni passo di Perseo
per côrgli addosso cagione; e l’accusò d’aver cercato a morte Eumene,
re fedele a Roma, e tentato avvelenare i primarj cittadini di questa.
Egli, invece di scendere a giustificarsi, nè di estradire le persone
richiestegli, rinfacciò a Roma il superbo governo che faceva dei re e
delle repubbliche, disdisse la paterna alleanza, e accettò la guerra
prima che Roma vi fosse ben preparata.

Ma al primo comparire dell’esercito, guidato dal console Publio Licinio
Grasso, chiaritosi che poco potea promettersi dalle città sbranate
in fazioni, egli gittò proposte di pace; Roma mostrò accoglierle, e
con una subdola tregua lasciò svampare il primo bollore, e acquistò
tempo per procurarsi amici, sudditi, ostaggi. Come fu lesta di tutto,
cacciò a strapazzo i commissarj di Perseo: pure, quando si venne
all’esperimento dell’armi presso il monte Ossa, Perseo diede ai
Romani la più fiera sconfitta che da quarantanni avessero tocca. Se
egli allora incalzava la vittoria, e colla falange assaliva il campo
romano, forse la guerra era finita, massime che i Greci d’ogni parte
scotevano le catene, e la democrazia patriotica prevaleva alla servile
aristocrazia. Perseo invece si limitava a piccoli vantaggi, e per
più anni combattè utilmente, ma tenendosi alla difensiva, troppo mal
acconcia ai casi supremi; in tal modo lasciò sfuggirsi il destro; poi
supplichevole chiese e richiese al console la pace, togliendo l’onore
a se stesso, il coraggio a’ suoi fedeli. Ma nella pace intrigava e
faceva armi; onde risoluti di venirne ad un fine, i Romani allestiscono
centomila uomini, e ne affidano il comando a Paolo Emilio.

[PAOLO EMILIO]

Nasceva egli da quel console che perì generosamente alla battaglia di
Canne; si era formato nelle tremende guerre di Spagna e di Liguria,
e a sessantanni conservava giovanile robustezza. Ma poichè egli
erasi educato nell’alterigia della prisca aristocrazia, il popolo
indispettito gli negò il consolato, e da gran tempo lo lasciava nella
solitudine privata a badare all’educazione dei proprj figliuoli.
Vedendosi allora eletto console, disse in pubblico:—Comprendo che la
sola necessità vi ha determinati; adunque il popolo non s’impacci del
modo ond’io guiderò la guerra, i soldati tengano pronta la mano, aguzze
le spade; del resto nè ciancie, nè pareri; a me solo la cura di tutto».

[168]

Con centomila uomini, tra’ quali rinnovò severissima disciplina, si
spinse innanzi, superò le difficili gole del monte Olimpo, ma alla
battaglia di Pidna la potente falange macedone era ad un punto di
sbaragliare le romane legioni; se non che un’eclissi atterrì i soldati
di Perseo, e parve indicare l’offuscarsi del regno d’Alessandro.
Emilio e le aquile romane rimasero superiori. Il console Cajo Licinio
Grasso, radunato il popolo nel circo di Roma, mostrò lettere coronate
d’alloro, ed annunzio:—Il nemico è vinto; ventimila Macedoni, di
quarantaquattromila ch’erano, perirono combattendo; undicimila
restarono circuiti e presi; tutte le città aprono le porte alle nostre
legioni».

[LA MACEDONIA SOTTOMESSA]

La Macedonia non erasi mostrata indegna di sè nell’ultimo suo giorno:
ma appoggiato al solo esercito, coll’esercito perì quel regno, e in
due giorni restò sottomesso. Perseo ferito si era avventato senza
corazza in mezzo alla sua falange, smentendo la taccia di viltà che gli
storici romani gli apposero. Coll’indivisibile suo tesoro ricoveratosi
nel tempio dei Cabiri a Samotracia, veneratissimo per le antiche
religioni pelasghe, invocò patti dal console: ma abbandonato da’ suoi,
carpitogli il tesoro da un astuto Cretese sott’ombra di agevolargli la
fuga, dovette rendersi a discrezione del vincitore. Questi, accoltolo
in mezzo agli uffiziali con tutta la solennità latina, gli rinfacciò
il passato, poi gli strinse la mano, e finì coll’assicurarlo della
clemenza romana; indi voltosi a’ suoi uffiziali,—Tenete a mente
quest’insigne esempio della volubile fortuna, e vi convinca come il
vero coraggio consista nel non insuperbirsi delle prospere vicende, nè
lasciarsi abbattere dalle sinistre».

[167]

Solennizzata con splendidi giuochi la costituzione data alla Macedonia,
bruciate le armi che non poteano servire al trionfo, uccisi quei
pochi che serbavano fede a Perseo o zelo per l’indipendenza, settanta
città dell’Epiro che dai Romani erano disertate ai Macedoni, dopo
toltone i tesori, furono abbandonate alle spade de’ soldati, che
cencinquantamila uccisero o vendettero. Il virtuoso Paolo Emilio, dopo
essere pellegrinato ad ammirare le città greche e tante meraviglie
della natura e dell’arte, tornò colmo di gloria in Italia, traendo
come ostaggi tutti quelli che aveano avuto uffizj o magistrati sotto
il re, e come prigioniero Perseo colla famiglia. Allorchè questo il
supplicò a risparmiargli l’infamia d’essere trascinato dietro al carro
trionfale,—Sta in tua mano», rispose il duro vincitore. Ma il povero
coraggio d’uccidersi mancò a Perseo, che ornò colle sue miserie il più
splendido trionfo che sin allora si fosse menato.

[PAOLO EMILIO TRIONFA]

Paolo Emilio entrò nel Tevere sopra la nave regia di sedici ordini di
remi, e tre giorni durò la pompa, tra una folla che mai la maggiore.
Nel primo, mille ducento carri portavano gli scudi d’argento massiccio,
altrettanti gli scudi di bronzo, trecento le aste, le sciabole, gli
archi, i dardi; precedevano uomini colle armadure di bronzo o colle
statue, poi ottocento barelle cariche d’armi di ogni maniera. Nel
secondo giorno comparvero mille talenti coniati, duemiladucento in
verghe, un’infinità di tazze, cinquecento carri d’immaginette e
statue, poi scudi d’oro e molte statue delle reali gallerie. Nel
terzo, cenventi bovi affatto bianchi, ducentoventi vasi d’argento,
un’anfora tempestata di gemme del valore di dieci talenti d’oro, e
dieci altri in masserizie pur d’oro; duemila denti d’elefanti da tre
cubiti; un cocchio d’avorio, messo a oro e pietre; un cavallo col
fornimento aspro di gemme, e la restante bardatura d’oro, con coperte
a fiorami; una lettiga a oro e porpora; quattrocento corone regalate
dalle città; e sopra uno stupendo carro eburneo il trionfante. Dietro
di lui Perseo a bruno, cinto da amici in catene, da due figliuoli e
da una fanciulletta, alla quale i conduttori insegnavano a tendere
le innocenti manine al popolo romano per invocarne compassione, o
piuttosto per lusingarne la vanità col mostrargli a che miserie esso
potesse ridurre i monarchi.

[MORTE DI PERSEO]

[164]

L’ultimo re di Macedonia fu gittato in tenebrosa segreta, ove tenevansi
i rei fino al momento del supplizio, e sette giorni lasciato senza
nutrimento: gli altri prigionieri divisero con lui lo scarso cibo che
i carcerieri gettavano loro in mezzo alle lordure, e gli offersero un
laccio ed un coltello; ma ancora non osò far getto della sua vita.
Paolo Emilio, o per umanità o per riverenza alla sventura, ottenne
dal senato di mutarlo in meno squallida stanza, ove dopo due anni i
suoi custodi si presero il barbaro giuoco d’impedire che più dormisse,
sicchè spossato morì. Il solo figliuolo sopravissutogli guadagnò il
vitto lavorando da tornitore, poi divenne scrivano dei magistrati
d’Alba.

Le latomie di Roma e le carceri di tutte le città latine e delle
colonie bastarono appena a tanti prigionieri, che portavano al piede
ceppi di almeno cento libbre. Poeti, storici, oratori vantarono che
coll’ultimo degli Eacidi si fossero vendicati gli avi di Troja[268];
ed esaltarono la gloria del gran popolo che _debellava i superbi e
perdonava ai soggiogati_.

[168]

I Romani, secondo la politica adottata in quell’impresa, non tolsero
alla Macedonia le leggi e i magistrati, cioè non la ridussero a
provincia. L’Illiria, soggiogata in trenta giorni dal pretore Anicio
Gallo, fu trattata in egual modo, e il re Genzio condotto prigioniero
a Roma. Un decreto del senato annunziò al mondo questa nuova
magnanimità:—La Macedonia e l’Illiria provino a tutti i popoli che
Roma è disposta a vendicarli in libertà».

[RODI]

Aveva ella rimesso al fine della guerra il punire non solo quei che
l’avevano sfavorita, ma quelli ancora che le si fossero mostrati
meno zelanti. Per questo titolo Rodi avrebbe incontrato sorte eguale
all’Epiro, se Catone non avesse osato metter argine alla prepotenza.
Questo severo censore perorò la causa dei legati romani, che in sordide
vesti giravano supplicando per Roma; mostrò come quella gloriosa
repubblica marittima avesse per Roma combattuto contro Filippo ed
Antioco, nè si fosse proposto che di conservarsi indipendente.—Se
augurò vittoria a Perseo, poteva essere altro il voto di chiunque
vedesse nella caduta di lui la servitù comune? O che, punirete i
desiderj? ma e voi come vi comportate allorchè ve ne torni il conto?
Li chiamate superbi: vi rincresce dunque che altri lo sia al pari di
noi?» Con siffatta franchezza ottenne che a Rodi fossero soltanto
ritolte la Siria e la Caria, attribuitele già dalle spoglie d’Antioco.
Perocchè questa repubblica, simile per tanti riguardi a Venezia, fu
come quella danneggiata dal volere possedimenti in terraferma, i quali
ne prepararono la rovina.

[PERGAMO]

[157]

Eumene re di Pergamo, che pure si era spiegato nemico di Perseo sino a
fare da spia ai Romani, fu ripagato d’ingratitudine dal senato, che,
insospettito degli incrementi di lui, ne trasferì la corona al fratello
Attalo II. Prusia re di Ritinia, cui nulla costava l’avvilirsi, venne
in persona a fare le sue discolpe; e col capo raso e berretto da
liberto, prosternato alla soglia della curia, esclamava:—Salvete,
o numi conservatori; ecco un liberto vostro, pronto ad ogni
combattimento». Con tali abjezioni, e col lasciare in ostaggio suo
figlio, serbò la corona. Massinissa, il vecchio re di Numidia, mandò
egli pure suo figliuolo a querelarsi col senato di due cose: la prima,
che avesse da lui pregato soccorsi, mentre aveva diritto d’imporglieli;
l’altra, che avesse voluto pagargli il grano somministrato, mentre
della sua corona la proprietà apparteneva al popolo re, a lui bastava
l’usufrutto.

[L’EGITTO]

[201]

[164]

Pensate se queste ed altre vigliaccherie dei re attizzavano l’orgoglio
insolente dei Romani! E da quell’ora essi concepirono l’idea di
diventare signori del mondo, rinunziando al personaggio di arbitri,
sostenuto fin là. Con tale sentimento guardavano gli altri successori
d’Alessandro, pigliando assunto d’infiacchirli durante la pace, perchè
fossero inetti a difendersi quando provocati in guerra. I Tolomei
d’Egitto e gli Antiochi di Siria facevansi tra loro guerra or sorda
or aperta, e Roma vi soffiava, e chiamata o no intrometteasi. Quando
essa mandò ad annunziare alla Corte d’Alessandria le sue vittorie e la
pace co’ Cartaginesi, i tutori del fanciullo Tolomeo V Epifane posero
questo in tutela del senato romano, che l’accettò e affidolla a Marco
Lepido, poi ad Aristomene. Ma il giovane mal riuscì, e a ventott’anni
periva, lasciando due figliuoli, che poco stante si spartirono il
regno, Tolomeo Filometore prendendosi l’Egitto e Cipro, e Tolomeo
Fiscone ottenendo Cirene e la Libia. Presto vennero a baruffe; e il
Filometore, costretto a fuggire, approdò in Italia, ed in meschino
arnese, pedestre, polverulento entrò in Roma, e vi prese alloggio nella
casipola d’un pittore alessandrino. Il senato ne avea gusto, pur finse
di fargli scuse di quel trattamento, e l’invitò a venire in veste più
conveniente ad esporre le sue querele: udite le quali, entrò di mezzo a
riconciliare i fratelli, e per allora lasciò l’Egitto respirare sotto
il Filometore.

[AGONIA DELLA GRECIA]

La Grecia era in dipendenza di fatto ma non di nome, e Roma aspirava
ornai a ridurla provincia. Caldi d’ammirazione per sentimento
dell’armonica bellezza onde fu privilegiato quel paese, e mossi dalla
somiglianza di glorie e di sventure col nostro, siam côlti di pietà
meditabonda all’agonia sua, alle umiliazioni, agli oltraggi, traverso
ai quali arrivò all’ultima ora. Se qualche vigore restituì alla lega
Achea Filopemene, dopo di lui essa più non mostrossi che odiosa o
spregevole, alternando servile compiacenza al senato romano con
ridicole disperazioni, quasi volesse da sè privarsi della compassione
che la generosità attira su chi è destinato a perire. La vittoria dei
Romani aveva resi audaci ad ogni eccesso i fautori loro, gente avara
ed impertinente, come quella che si sentiva sostenuta in ogni caso
dai vincitori. Chi resistesse, chi generoso amasse la patria e ne
propugnasse i diritti, chi osasse contraddire ai commissarj stranieri,
veniva denunziato a Roma.

[CALLICRATE]

Tra questi venduti primeggiava di potenza e viltà Callicrate ateniese,
uno di quei demagoghi, la cui morale consiste nell’ottenere denaro
e gradi; e secondo lo stile de’ pari suoi, denigrava chiunque lo
superasse di merito; e sulle piazze non men che nelle arringhe, non
sapeva che gridare:—Costui ha dato favore a Perseo: quest’altro s’è
lasciato comprare dall’oro nemico». Due commissarj furono spediti alla
lega Achea, acciocchè istruissero il processo di questi accusati; e
uno di essi arrivò a tanto da proporre all’assemblea,—Condannate a
morte i fautori di Perseo, ed io dappoi li nominerò». Parve pazzamente
furibonda la domanda, e gli Achei si limitarono a promettere li
condannerebbero qualora non potessero giustificarsi.—Poichè il
promettete (ripigliò il commissario), dico che tutti i vostri capitani
e generali, e quanti sostennero cariche nella repubblica vostra, sono
macchiati di tale delitto».

A simili voci sorge Zenone, e,—Io comandai l’esercito e fui capo della
Lega, e protesto non aver nulla commesso contro gl’interessi di Roma.
V’è chi osa imputarmi di questo che chiamano delitto? eccomi pronto a
giustificarmene o nella dieta degli Achei o avanti al senato di Roma».
Colse al volo questa parola il commissario, e soggiunse, non potevano
appellarsi a tribunale più equo; indi recitando tutti quelli che
Callicrate aveva denunziati, intimò andassero a Roma a scagionarsi.
Erano oltre mille, fior del paese: e così con un solo colpo, quale
mai non avevano osato i più sfrontati tiranni, la Lega restò privata
dei suoi capi. Giunti in Italia, furono relegati in varie città,
senza tampoco udirli, nè badare ai loro richiami, o alle replicate
deputazioni dell’Acaja.

[167-150]

Callicrate, divenuto capo dell’avvilita Lega, udiva senza commoversi i
gemiti de’ loro parenti che li ridomandavano, e gli urli de’ fanciulli,
che, qualora uscisse in pubblico, gli gridavano dietro al traditore,
al nemico della patria. Diciassett’anni que’ deportati continuarono
a sollecitare un giudizio, e udire vanti della _romana equità_:
finalmente Catone, replicando che la questione trovavasi omai ridotta
a deliberare se dovessero esser sepolti da becchini romani o da greci,
ottenne fossero ascoltati, e restituiti alla patria i pochi ch’erano
sopravissuti alla fame, al carnefice, al crepacuore. Sozza tirannia
contro un paese indipendente qual era l’Acaja, contro persone di
merito, e che la più parte aveano combattuto per Roma.

[159]

I reduci non poterono che piangere l’avvilimento cui trovarono
ridotta la patria. Ma la perfidia e la crudeltà v’aveano procacciato
molti nemici a Roma, i quali, in onta del partito avverso, osavano o
mormorare, o protestare contro i raggiri e le concussioni; e parevano
disporsi ad aperta rottura. Ve li spingeva l’esempio della Macedonia,
la quale avendo poc’anzi dominato il mondo sotto Alessandro, fremeva
nel trovarsi tolto fin il più sacro diritto, quel di disporre di se
medesima. Alcuni ricoverati a Roma non risparmiavano preghiere, non
denaro per comprarsi amici nel senato, acciocchè non fosse fatta
violenza ai loro compatrioti; coltivavano Paolo Emilio finchè visse,
poi suo figlio Scipione Emiliano, il quale, se non fossero stati i
movimenti di Spagna, sarebbe ito in Macedonia a far ragione delle
querele: ma il senato, intento a raggiri politici e a profittare degli
errori de’ principi, nè pensando che lo scontento dei Macedoni potesse
recare a conseguenze, lasciava che i suoi uffiziali li trattassero un
dì peggio che l’altro, e conferiva i primi gradi a chi più ligio.

[PSEUDO-FILIPPO]

[152]

[148]

Raccolse quei sospiri sdegnosi un tale Andrisco, persona bassissima
dicono i Romani, unici narratori di questi eventi; dodici anni vissuto
presso un povero, che poi gli rivelò come fosse nato da una concubina
di Perseo; allora egli tentò farsi seguaci, ma non ascoltato, ricoverò
presso Demetrio Sotero, ch’ebbe la viltà di consegnarlo ai Romani.
Questi, non temendo del pseudo-Filippo, come e’ lo chiamarono,
il lasciavano con sì mala guardia, ch’egli fuggì, e ricoveratosi
nella Tracia, girò fra i signorotti, esponendo i suoi diritti, le
soperchierie de’ Romani, e quanto facile sarebbe una insurrezione.
Al suo appello i Traci si sollevano, egli ha Corte, esercito, alcune
piazze forti; bentosto tutta Macedonia, credendo o no, ma volonterosa
di turbare lo stagno, si dà a questo rampollo degli antichi suoi re, il
quale, sapendo che il miglior modo di difendersi è l’assalire, invade
le provincie vicine. Roma non avea eserciti in quelle parti, sapeva
che Cartagine aveva mandato ambasciatori ad Andrisco per allearselo
nell’imminente guerra, e potea temere che la Grecia cogliesse il destro
di vendicare gli affronti; ma questa affrettò proteste e prove di
divozione alla sua tiranna. Scipione Nasica, uomo affabile e giusto,
servì la patria meglio che colle armi girando per le città della Lega;
col render ragione de’ pianti e de’ gravami loro, le saldava nella
fede; e traendo da ciascuna qualche truppe, raccozzò un esercito. Le
armi romane andarono più d’una volta sconfitte; sinchè Andrisco fu
novamente tradito ai Romani, che ne ornarono i loro trionfi.

[DECIO GIULIO SILLANO]

[147]

Anche altri pretesi figliuoli di Perseo tentarono dar valore ai diritti
colla forza, ma tutti furono vinti. Finalmente il pretore Cecilio
Metello sottomise interamente la Macedonia, e vi piantò un governo
d’arbitraria severità. Singolarmente iniquo tra i governanti parve
Decio Giulio Sillano, contro cui i Macedoni mandarono querela. Suo
padre Tito Manlio Torquato ottiene di giudicarlo in casa, secondo
l’antica consuetudine patrizia; e udite le parti, convinto il figlio,
lo condanna a più non comparirgli davanti. Sillano se ne trova così
disonorato, che s’appicca; e Manlio nè chiude la casa, nè veste il
bruno, dichiarando non più appartenere alla sua famiglia chi avea
perduto la virtù.

Si sarà levata a cielo l’equità romana, e continuata l’oppressione
della Macedonia.

[GRECIA RIDOTTA A PROVINCIA]

[147]

Le sommosse di questa erano parse alla lega Achea un’opportunità
per riscuotersi dal giogo; e poichè Sparta se n’era separata onde
tenersi coi Romani, vollero ridurla a soggezione: ma essa ricorse a
Roma. I commissarj romani, convocata la dieta a Corinto, esposero
quanto la loro città si affliggesse del vederli straziarsi a vicenda;
esserne cagione la forma loro di governo federale, ove i deputati
non potendo intendersi, erano costretti venire alle armi; nella sua
sapienza il senato romano s’era accorto che, meno uniti, sarebbero
più felici; e però dichiarava escluse dalla Lega le città che non
v’aveano partecipato sin dal principio, Corinto, Sparta, Argo,
Eraclea, Orcomene. Con indegnazione fu accolta la micidiale proposta,
il popolo accannito trucidò quanti Spartani colse in Corinto, e a
stento gl’inviati romani poterono salvarsi. Roma, in guerra ancora
con Cartagine e coi pretesi figli di Perseo, non potendo far seguire
tosto la vendetta, spedì nuovi messi con moderate querele: ma le città
tutte, prese da una vertigine d’eroismo e di libertà, gridavano
esser più decoroso il perire combattendo che il cedere vilmente; e
giunsero a far dichiarare guerra contro Roma e Sparta. Però mancava
il concerto di salde volontà, onde Metello il Macedonico li vinse
facilmente presso Scarfia; e alcuni invocarono la clemenza del
vincitore, altri s’uccidevano, chi ritiravasi vilmente, al tempo stesso
che si ricusavano le proposizioni di pace. L’impresa fu terminata da
Lucio Mummio console, che espugnò ed arse Corinto, la ricchissima
del mondo, come centro del commercio d’Asia e d’Europa; vendette il
popolo, e fece immenso bottino. I capolavori di scoltura, di pittura,
di fusione, che la rendevano insigne, andarono preda d’ignoranti
soldati; sopra un quadro d’Aristide, meraviglia degli intelligenti,
giuocasi ai dadi; si mettono all’incanto tavole d’Apelle e statue di
Fidia. Attalo re di Pergamo esibì seicentomila sesterzj d’un quadro;
onde Mummio maravigliato,—Convien dire queste tele posseggano qualche
magica virtù»: e toltele dall’incanto, le inviò a Roma, intimando ai
portatori,—Se le guasterete, sarete condannati a rifarle».

Sbigottita dall’incendio di Corinto, la Lega più non pensò nè a
resistere al vincitore, nè a placarlo. I collegati furono raccolti in
vasta spianata, cinti dalle legioni romane; e dopo rimasti alcun tempo
in terribile aspettazione, udironsi intimare che i Corintj e i servi
sarebbero venduti schiavi, gli altri Achei andassero prosciolti. Nè le
città che aveano sostenuto gli stranieri, salvarono le mura: il governo
popolare fu abolito, e tutta Grecia ridotta a provincia, benchè alcune
città staccate, come Atene, mantenessero alcuna ombra di libertà.

[LA SIRIA]

[174]

[170]

Era omai decisa anche la sorte degli altri regni usciti da quello
d’Alessandro. La Siria fioriva ancora delle belle provincie della
Comagene, della Cirrestica, della Seleucide, della Palmirene; nelle
ricche valli tra l’Antilibano e il Mediterraneo cresceano Antiochia,
Seleucia, Laodicea, Apamea; e nel deserto Palmira, emporio alle
carovane fra l’India e l’Europa. Antioco Epifane, figlio d’Antioco
il Grande, era stato allevato a Roma come ostaggio; e venuto re,
cercò combinare il fasto patrio colla repubblicana famigliarità de’
Romani, ma non riusci che a rendersi oggetto d’odio e di sprezzo.
Carezzò i Romani pur odiandoli; guerreggiò prosperamente l’Egitto,
che gli disputava la Palestina e la Celesiria; prese Pelusio, e
invece di sterminarne gli abitanti, perdonò, col che indusse molte
città a soggettarglisi: avuto in mano Tolomeo Filometore, lo trattò
cortesemente; poi giovandosi delle costui inimicizie col fratello
Fiscone, stava per unire alla Siria l’Egitto, quando Popilio Lena,
ambasciadore romano, gl’intimò:—Devi abbandonare le conquiste». E
chiedendo egli tempo a deliberare, Lena colla mazza gli descrisse un
cerchio attorno, e—Non uscirai di questo prima di risolvere». Antioco
dovette cedere, e agli ambasciadori ch’egli spedì, il senato rispose si
congratulava che avesse obbedito; e per patto di pace gl’ingiunse di
cedere Cipro e Pelusio.

[ANTIOCO EPIFANE]

Il tributo che la Siria doveva a Roma, era un nulla a petto ai regali
con cui era costretta adescarsi fautori nella gran metropoli, ove
tutto diveniva venale. Tiberio Gracco, spedito dal senato a sindacare
i re e gli Stati d’Oriente, dovette concepire d’Antioco tanto maggiore
disprezzo, quanto più questi s’umiliava per ingrazianirlo, portandosi
seco più da schiavo che da re, cedendogli la reggia, esibendogli fin la
propria corona: onde potè assicurare il senato che nulla aveva a temere
dal re di Siria.

[169]

Per quante ricchezze Antioco avesse acquistate nell’Egitto, e gliene
procacciassero gli amici e le provincie d’Oriente, volgevano però
sempre in peggio le sue finanze, onde per risanguarle avea ricorso ai
tesori dei tempj, spediente sempre pericoloso. Erasi anche avversato i
sudditi colla smania di alterarne i costumi nazionali, e d’introdurre
il culto greco, non per zelo religioso, ma perchè più adatto alle
pompe, dietro cui egli andava pazzo. Per ciò gli si ribellarono molte
provincie, e massime gli Ebrei, popolo custode della intemerata
tradizione, che all’invasore prepotente oppose la devota magnanimità
de’ Macabei.

[DEMETRIO]

[164]

Morto Antioco, la discordia sevì, e Roma si diede aria di togliere in
protezione il fanciullo Demetrio Solero, figlio di Seleuco IV, e nominò
tre tutori al re di Siria, come avea fatto a quel d’Egitto. Se lo scopo
del senato non fosse già manifesto, lo rese evidente l’ordinare a que’
tutori bruciassero tutte le navi d’una certa portata, e tagliassero i
garetti a tutti gli elefanti. A Demetrio poi, quando chiese di passare
da Roma in Siria, il senato disdisse la domanda; ma egli fuggì sopra
una nave cartaginese, e fece proclamarsi re. Sebbene protestasse
non operare che in nome della repubblica romana, questa ne stava in
apprensione, e spediva agenti a vigilarlo: ma, o soddisfatta de’ suoi
portamenti, o piuttosto perchè non le convenisse romperla seco, il
riconobbe re.

Demetrio, anelante a battaglie, inimicossi i re d’Egitto e di Pergamo,
dispiacque a’ proprj sudditi per gli stravizzi a cui si sfrenò: onde
formossi una vasta congiura, alla quale egli soccombette. I suoi
successori precipitarono di mal in peggio: intanto i Parti avevano
occupata l’Asia Superiore fino all’Eufrate, gli Ebrei si erano riscossi
dalla dipendenza, talchè il gran regno si limitava alla Siria propria
ed alla Fenicia: e da questo momento la storia dei Seleucidi più non
presenta che uno sciagurato intrecciarsi di guerre civili, dissensioni
domestiche, enormi crudeltà, che ai Romani avvicinavano l’istante di
stendere la mano anche su quel regno, e farsene una nuova provincia.



CAPITOLO XV.

  Interno di Roma. I costumi eroici si mutano.
  Innesto greco.


[INTERNO DI ROMA]

Ma Roma perdeva il carattere originale, e il vinto Oriente si vendicava
collo spargere le idee ed i costumi suoi fra i vincitori.

Ad una gente che coll’arti e colle scienze lotta ogni giorno onde
signoreggiare la natura, gli effetti del lusso non riescono micidiali
quanto là dove l’industria è sconosciuta, sicchè la comune povertà è
testimonio di costumatezza e assicuramento di libertà. E di fatto,
come persone allevate alla campagna, lontano dallo spettacolo della
depravazione, eransi conservati i Romani semplici e forti in quei che
diconsi buoni costumi vecchi, piuttosto per ignoranza del vizio che
per dottrine discusse nè per austere credenze. Il ricco non men che
il povero attendeva ai campi; le illustri famiglie Asinia, Vitellia,
Suillia, Porcia, Ovinia trassero il nome dalla cura che ponevano ad
allevare somari, vitelli, majali, pecore; come i Fabj, i Pisoni, i
Ciceroni dalle fave, dai piselli, dai ceci coltivati. I senatori
viveano alla campagna, se non quando fossero convocati; i possessori
non tornavano in città che al mercato ogni nove giorni, nella quale
occasione leggevano le ordinanze esposte, o udivano le proposizioni dei
tribuni.

[DISINTERESSE]

Il disinteresse di Fabrizio, la laboriosa povertà di Cincinnato ci sono
conosciuti. Il console Regolo chiede di ritornare dall’Africa perchè,
essendo fuggito l’unico suo schiavo, rimarrebbe incolto il suo podere;
e il senato non gli assente la domanda, ma fa lavorare la terra di lui
a pubbliche spese[269]. Curio Dentato dai messi de’ vinti Sanniti fu
trovato seduto sopra un trespolo a mangiare fagiuoli da una scodella di
legno; e avendogli offerto grossa somma, n’ebbero in risposta:—Dite ai
Sanniti che Curio non vuole oro, ma comandare a chi l’oro possiede»; e
avendo il senato fatto distribuire il territorio da lui conquistato a
sette jugeri per testa, e a lui cinquanta, egli ricusò questa misura
superiore, dicendo essere pericoloso alla repubblica chi non si
contenta di porzione eguale ai concittadini. Fra tutti i senatori non
aveano che un servizio d’argento, e sel prestavano a vicenda. Chi ne
argomentasse la pubblica povertà, si ricordi come si profondesse l’oro
nei pericoli della patria; Annibale il seppe.

[FAMIGLIA]

Per cenventi anni non accadde divorzio, e la città si scandolezzò
quando Carvilio ne diede il primo esempio. Guardavasi in sinistro la
vedova che con nuove nozze si togliesse quella corona di pudicizia
che le prime le avevano data. Al banchetto annuale delle caristie non
doveano convitarsi che parenti, affine di tor via se qualche ruggine
si fosse formata. Coriolano sagrificava i suoi dispetti alla riverenza
materna. Cajo Flaminio sosteneva sui rostri una legge respinta dal
senato, quand’ecco suo padre viene a prenderlo e trarlo di là. Fabio
Massimo è mandato luogotenente del proprio figlio console; questo gli
esce incontro, e vedendolo restare a cavallo, gl’intima di scendere per
rispetto alla magistratura; e Fabio lo ammira di aver fatto ammutolire
l’affezione privata a fronte del pubblico dovere.

[ZOTICHEZZA]

Con questa naturale onestà accoppiavano molta zotichezza. La medicina,
sacerdotale o magica, era abbandonata a empiriche superstizioni, fin
quando non venne qualche Greco ad esercitarla. Orologi non si ebbero
prima che il console Valerio Messala recasse di Sicilia un quadrante
solare, 263 anni avanti Cristo; e sì poco se ne conosceva la teoria,
che si pensò potesse valere per Roma, benchè fatto per tutt’altra
latitudine: un secolo ancora si tardò prima di piantarne uno esatto:
nè avanti il 159 Scipione Nasica Corculo introdusse le clepsidre od
oriuoli a acqua. Di questo tempo, un altro Scipione pel primo si rase
la barba.

[CIVILTÀ GRECA]

Fra una gente siffatta buttate d’improvviso cumuli di ricchezze,
mostrate gli esempj d’una corruzione raffinata, d’un lusso degenerato
in mollezza, e qual non deve seguirne funesto cambiamento! Così fu,
appena che i Romani conobbero i Greci, e ammirandone i modi, le arti,
il sapere, se ne posero imitatori a scapito dell’indole e della coltura
nazionale. E di là vennero ben presto persone che, mettendo a lucro
le cognizioni e traendo profitto dall’ignoranza, vendicavansi dei
vincitori della loro patria.

[GRECI FAMILIARI]

Alla famiglia degli Scipioni va il merito delle prime sollecitudini
date al dirozzamento de’ Romani, e dell’aver protetto i letterali della
Magna Grecia, fossero condotti prigionieri, o attaccatisi a qualche
famiglia. Fin allora i giovani di famiglie ricche si mandavano a scuola
in Etruria per impararvi que’ riti augurali, senza cui non acquistavano
efficienza i pubblici atti; e in quel tanto vi conosceano alcuna
amenità di lettere. Ben presto ogni casa grande volle alimentare,
come il cuoco e il celliere, così uno schiavo greco che insegnasse ai
fanciulli la lingua d’Omero e la generosità: uno schiavo! E tosto il
greco divenne la lingua del bel mondo; greco parlavasi nelle sale,
greco scrivea chi volesse lode d’uomo educato. Dafni Lutazio, maestro
di greco, fu compro per ducentomila sesterzj da Quinto Catulo. Livio
Salinatore, così severo che nella sua censura ammonì ventiquattro delle
trentacinque tribù, teneva per ajo de’ suoi figliuoli il tarentino
Livio Andronico, il quale voltò in latino l’_Odissea_, e primo espose
sulla scena imitazioni di drammi greci. Di Paolo Emilio la casa era
piena di pedagoghi, sofisti, grammatici, retori, scultori, pittori,
scudieri, cacciatori, tutta merce greca. Plauto e Terenzio, scrittori
di commedie, furono protetti da Scipione Africano e dal suo amico
Lelio, e forse Terenzio ne fu coadjuvato nel comporre le sue, perciò di
graziosa ed elegantissima dicitura: il filosofo Panezio e lo storico
Polibio accompagnavano que’ due prodi nelle loro spedizioni[270].

[TRADIZIONI]

Un popolo, del quale i cruenti trionfi crescono continuamente la gloria
e la potenza, dovea desiderare di conservarne ricordanza. Ma l’incendio
al tempo dei Galli avea distrutto gli antichi documenti; e le memorie
de’ primi secoli rimanevano privilegio delle famiglie o de’ sacerdoti,
che a loro senno le alteravano; il vulgo non sapea de’ fatti antichi
se non quel che avea serbato nelle canzoni popolari, alterandoli,
ingrandendoli, abbellendoli, mescolandovi prodigi e divinità, come
sogliono la tradizione e la poesia.

Però i deboli cominciamenti di Roma, creata da un branco di fuorusciti,
sollevatasi dal nulla a grado a grado, non lusingava abbastanza
la boria della gente che si vedeva arbitra omai di tutta Italia e
sgomento degli stranieri. Forse, fedeli alla nazionale tradizione, poco
l’avranno blandita quegli Italioti, che primi scrissero intorno alle
origini italiche, come Teagene da Reggio contemporaneo di Cambise,
Ippi suo compatrioto vissuto al tempo della guerra Medica, Antioco di
Senofane siracusano coetaneo di Erodoto. Ma ad appagare la vanità,
ecco i vinti Greci, e primo Diocle di Pepareto, cercando nella storia
non tanto il vero, quanto il bello, e di blandire la loro propria
nazione e i patrizj romani. La tradizione di Trojani e Greci venuti in
Italia dopo la impresa iliaca, forse avea fondamento di vero, certo
correva da un pezzo, e quegli autori v’annestarono tutte le cronache
municipali, le genealogie, le etimologie: ogni paese deduceva il nome
dalla nave, dal figlio, dal compagno, dal piloto, dalla nutrice d’Enea;
ogni casato ascendeva dirittamente fino a questo, e in conseguenza
agli Dei; i Mamilj derivarono da Ulisse, i Sergj da Sergeste compagno
d’Enea, i Nauzj da un suo seguace, i Lamj da Lamo re de’ Lestrigoni, i
Fabj da un figliuolo d’Ercole; e nessuno dubitava di queste genealogie,
come nel nostro Cinquecento non chiamavasi in disputa la derivazione
dei Visconti dai re d’Angera, e degli Estensi da Ruggero paladino o da
Rinaldo crociato.

[PRIMI STORICI E POETI]

Piacevano alla boria aristocratica queste propagini semidivine;
piaceva alla politica del Tevere il mostrarsi in parentela colla
vantata Grecia, che abbracciando come sorella, voleva incatenare come
serva; piaceva alla Grecia consolarsi della perduta indipendenza
col riguardare la vincitrice qual sua creatura. In questo consenso
d’interessi non è meraviglia se le origini greche prevalsero nelle
credenze, e fatti e nomi nuovi o alterati mescolarono ed elisero le
indigene tradizioni[271].

[210-169]

Di Scipione Africano fu cliente, compagno nelle spedizioni, e
inesauribile panegirista Quinto Ennio, di Rudia in Calabria, centurione
in Sicilia e nella Spagna, e donato della cittadinanza per cura di
Fulvio Nobiliore, Ennio studiava Omero di giorno, lo sognava la notte,
e credeva l’anima di quello fosse in lui trasmigrata; poi vantava
d’avere tre anime perchè sapeva osco, greco e romano; e volendo
all’Italia aggiunger la gloria de’ carmi, scelse per tema di un’epopea
la prima guerra punica; imitando però i Greci, de’ quali introdusse il
verso eroico. Da’ suoi frammenti egli trapela austero repubblicano e
buon amico. Diceva che Roma durava perchè conservatrice degli antichi
costumi, _Moribus antiquis res stat romana, viresque_: eppure questi
da’ suoi Scipioni più che da altri erano inforestieriti; ed egli stesso
contribuì alla corruttela latinizzando l’opera di Archestrato sulla
cucina, e quella dove Eveemero combatteva la religione, dimostrando che
gli Dei erano uomini vissuti e morti.

[PRIMI STORICI E POETI]

I Romani nella tumultuosa pienezza della loro vita riguardarono
gli studj meno come occupazione da uomo, che come distrazione e
abbellimento. «I più assennati (scrive Sallustio) attendeano agli
affari; nessuno esercitava l’ingegno senza il corpo; ogni uom grande
volea mentosto dire che fare, e lasciava ch’altri narrasse le imprese
di lui anzichè narrar esso le altrui». De’ libri aveasi sospetto,
quasi intaccassero le istituzioni e la religione patria; e consoli
Cetego e Bebbio, essendosene in un campo dissotterrati alcuni
antichi, il console Petilio li fece bruciare perchè trattavano di
filosofia[272]. E per filosofia forse intendeasi, come poco tempo fa da
noi, l’incredulità e l’epicureismo. A questi greci maestri guardavasi
dunque coll’ombra solita in chi si sente da meno; i caldi patrioti li
chiamavano scrocconi e ladri[273]; si rideva quando Plauto introduceva
sul teatro il parasito Curculione a dire:—Bada ch’io non sia arrestato
da questi Greci, che passeggiano con lunghi mantelli, e coperti la
testa: carichi di libri, portano nello stesso tempo i rilievi della
mensa; hanno l’aria di unirsi per conferire insieme, ma non sono che
birbi incomodi ed importuni; camminano sempre presidiati di sentenze,
ma bazzicano la taverna; quando hanno fatto qualche ribalderia,
s’inviluppano il capo, e trincano a josa, ed è bello vedere la loro
gravità barcollante».

[EDUCAZIONE]

Anzi più volte la legge interdisse retori e filosofi, «presso de’
quali i giovani perdono le giornate»; forse per tôrre a questi
la presunzione, facile compagna dello scarso sapere, e impedire
contraessero il vizio de’ Greci di prestare alle parole la cura,
che meglio è dovuta alle cose. Pure Catone a suo figlio colle leggi
e colla ginnastica, cioè l’equitazione, il volteggiare, la lotta,
il nuoto, l’armeggiare, insegnava anche gli elementi delle belle
lettere[274]: e già eransi introdotte scuole, tenute generalmente
da liberti, ove insegnavasi a leggere, scrivere, far di conto ai
maschi e alle fanciulle indistintamente; quelli che a maggiore
erudizione aspirassero, passavano a maestri di letteratura greca,
e si compiva l’educazione con un viaggio in Grecia e nelle città
dell’Asia anteriore, per ascoltarvi i rinomati precettori d’eloquenza
e filosofia. D’arti belle pochissimi apprendeano, e fu incolpato
Paolo Emilio perchè, alla greca, faceva istruire i suoi figliuoli
anche da pittori; pochissimi la musica; molti invece la danza, per
la quale si prese passione, disapprovata indarno dai più severi; e
Scipione Emiliano diceva:—S’insegna alle fanciulle ad acquistar
grazie indecenti; vanno accompagnate da arpe e da lire, coi giovani
scapestrati, nelle scuole degli istrioni, ove sono istruite a cantare.
Presso i nostri avi, siffatti esercizj disonoravano qualunque persona
libera: al giorno d’oggi, fanciulle, giovanetti di nobili famiglie
frequentano scuole di danza, e si mescolano a fanciulle prostitute.
Quando io udivo narrare tali disordini, non potevo persuadermi che
cittadini stimabili dessero siffatta educazione a’ loro figliuoli: fui
condotto in una di queste scuole, e colà io ne vidi, il credereste?
più di cinquecento dell’uno e dell’altro sesso. In quel numero, oh
obbrobrio per la repubblica! ve n’aveva uno adorno della bolla d’oro,
il figlio d’un candidato, di circa dodici anni; egli danzava col sistro
in mano; mentre non si permetterebbe che uno schiavo impudico si
atteggiasse a quella maniera»[275].

[COSTUMI ALTERATI]

Anche Plauto deplora questa mutata educazione:—Forse che a questo
modo eravate governato voi nella vostra giovinezza? Sino a vent’anni,
uscendo, non vi era permesso scostarvi d’un passo dal precettore.
Se non eravate alla palestra prima del levar del sole, il maestro
vi puniva non leggermente. Là si faticava a correre, a lottare, a
lanciar giavellotti e il disco, a rimbalzare la palla, a saltare, a
combattere a pugni, e non a far all’amore con bagasce. Ritornato
dalla palestra e dall’ippodromo, voi andavate, in vestito semplice, a
sedere s’uno scannello a fianco del vostro precettore; leggevate, e se
aveste fallato una sillaba, la correzione rendeva la vostra pelle più
maculata che il mantello d’una nutrice».—Altre volte (ripiglia) uno
arrivava agli onori per suffragi del popolo mentre obbediva ancora al
precettore: al presente un garzoncello di sette anni, se è toccato,
rompe la testa al maestro colla sua tavoletta. Se ne fa richiamo ai
genitori? il padre risponde al furbacciuolo: _Bravo, figlio mio; io ti
rinnegherei, se tu ti lasciassi soperchiare_. Si chiama il precettore:
_Ah vecchio imbecille! guardati di maltrattare questo fanciullo perchè
ha mostrato aver cuore_. E il precettore se ne va colla testa involta
in un pannolino, inoliato come una lanterna».

Plauto e Terenzio non fecero quasi che mutare in latino le commedie
greche; e Terenzio respinge l’accusa di plagio col solo titolo di non
aver usato la traduzione di verun altro: pure le relazioni esterne,
il diverso modo di vedere e sentire, il grado differente di civiltà
delle due nazioni, e in conseguenza il differente gusto, obbligavano
questi traduttori a mutazioni importanti, e ad avvicinare sempre più
il costume a quel del paese, acciocchè meglio si prestasse al riso e
all’istruzione. Pertanto possiamo riscontrare alcune particolarità
romane, singolarmente in Plauto, il quale, men colto, ricorre alla
propria esperienza più spesso che alla memoria; e forse per questo,
comunque sgradito ai più schifiltosi, continuò a piacere al popolo,
che vi riconoscea ritratti gli originali a sè vicini: ai buoni invece,
cioè agli aristocratici, rimase caro Terenzio per soavità di verso,
dilicatezza di stile, urbanità di sali, tutti dedotti dal greco.

Benchè già il lusso s’introducesse, e sembrasse lesineria l’usare un
vaso d’argilla ne’ sagrifizj agli Dei[276], e gli addobbi comparissero
più vistosi, e i cocchi manifestassero il fasto, per quanto ancora
grossolani e da villa[277]; sentesi però ne’ cittadini suntuosità,
non eleganza; e al modo prisco, abitavano in Roma solo in tempo degli
affari, il resto dell’anno in villa, a gran rammarico dei parasiti[278].

Le donne singolarmente moltiplicavano in vanità, in servi ed
operaj[279], dedicati alle varie parti del loro assetto in casa;
s’impadronivano delle redini, massime se inorgoglite da pingue dote, e
dopo che la legge le autorizzò a contrar nozze senza spossessarsi dei
beni; e tiranneggiavano quelli che dalla legge erano destinati a loro
tiranni[280]. Dopo l’acquisto della Sicilia erano straordinariamente
cresciute le sciagurate che metteano a prezzo l’affetto e la voluttà:
i padri scontravansi rivali coi figli nelle case della disonestà[281],
ove i giovani o portavano le vesti e il denaro sottratto in casa, o
v’erano condotti non meno dal libertinaggio che dal desiderio di rubare
il bello e il buono, vizio che non deposero tampoco ai più floridi
giorni dell’Impero[282].

Anche dai frammenti de’ satirici, chi gli accetti con misura può
dedurre come fossero alterati i costumi. In Ennio troviamo le donne già
raffinate nell’arte di piacere e di tener a bada i diversi amanti[283].
Lucilio rimbrotta i Romani che portano miele in bocca e coltello a
cintola, e fingendosi probi, agevolano gl’inganni nella guerra di tutti
contro tutti[284]. Turno rinfaccia ai poeti gli osceni canti, con cui
mettono in postribolo le vergini muse[285].

[LUSSO]

Poi il lusso crebbe a segno che, avendo la legge Oppia cercato porvi
un freno nelle maggiori strettezze della guerra d’Annibale, le donne
levarono a rumore la città, correndo senza ritegno e senza pudore
a minacciare di non divenir più madri: le donne, che fin il molle
Scipione Africano si lagnava di vedere educate da mime e cinedi, a
sonare di cetra, a menar danze, e in mal onesti prestigi[286]. Nè il
lusso era avvivatore delle arti, come fra un popolo industre, giacchè
alimentavasi col rubare ai nemici e smungere i clienti: e sottentrata
la cupidigia del guadagno, i senatori costruivano navi con cui fare
trasporti.

Conosciuta la Grecia Magna e la propria, arricchirono subitamente
delle dovizie d’Antioco, di Perseo, di Corinto, avendo ricevuto in
contribuzioni di guerra da censessanta milioni ne’ soli dodici anni
fra il ritorno di Scipione a Roma e il fine della guerra d’Antioco;
altrettanto in preziosità portate ne’ trionfi; e non minori somme
aveansi carpite uffiziali e soldati. Lucio Scipione mostrava in
trionfo mille ducentrentuno dente d’elefanti; Flaminio e Fulvio più di
cinquecento statue, e scudi d’oro e d’argento, e vasi cesellati; Acilio
fin gli abiti d’Antioco; Paolo Emilio un valore di quarantacinque
milioni.

[RICCHEZZE]

A che stentare nell’agricoltura quando così facilmente poteasi
arricchire colla guerra e col rubare? Quella dunque si neglesse; e i
poveri divennero miseri, mentre gli altri guazzavano nell’opulenza. Più
non si sofferse la parsimonia avita; il superfluo sembrò necessario,
rustichezza la temperanza; case splendide, banchetti fra suoni e
canti, e codazzo di servi, e costose compre d’oggetti di lusso furono
l’aspirazione universale. Uno schiavo bello fu pagato più che un
fertile campo; più alcuni pesci che un par di bovi: la gola, il sonno,
le oziose piume, i profumi, le meretrici e i bardassi sbandivano
l’antica morigeratezza. Già si additavano con maraviglia quegli Elj,
quel Tuberone che ancor viveano sobrj e pudichi; e avendo esso Tuberone
ne’ funerali di Scipione Emiliano apparecchiato il banchetto pubblico
in vasi di terra e su tappeti di lana caprina, stomacò il popolo a
segno che gli negò la pretura[287].

[NEVIO]

[202]

Il campano poeta Gneo Nevio, per contrastare all’aristocrazia ed ai
grecizzanti, preferì ai metri jonici usati da Ennio i rozzi versi
saturnini, indigeni del Lazio; agli eroi greci nella tragedia surrogava
caratteri e vesti nazionali; e bersagliava cotesti superbi Claudj,
Metelli, ed altre famiglie potenti, che tenaci del gius patrio, con cui
i loro avi dirigevano le famiglie dei clienti e di schiavi, e favorite
anche dalla vittoria e da meriti personali, ponevano l’orgoglio
al posto della ragione, il diritto eroico al posto dell’equità,
impedendo la plebe di attuare l’acquistata eguaglianza. Egli dunque
faceva esclamare a’ suoi personaggi:—Soffri, giacchè anche il popolo
soffre»; e al popolo:—Cotesti re non ardiranno saettare ciò che io in
teatro sanzionai co’ miei applausi. Quanto la tirannia qui soverchia
la libertà!» Avendo messo in un verso,—I Metelli nascono consoli
in Roma», questi gli risposero sull’egual tono:—I Metelli daranno
male a Nevio poeta»[288]. E lo fecero cacciar prigione: ma di là
pure bersagliò gli Scipioni; e questi invocarono contro di lui le XII
Tavole, che pronunziavano morte contro i libelli infami: i tribuni
però s’interposero, e parve bastasse la pubblica esposizione e il
bandirlo in Africa. Andandosene, egli compose il proprio epitafio «pien
di superbia campana», invitando mortali ed immortali a compiangere
che l’originalità italiana fosse con lui perita[289]. Il popolo nol
dimenticò, dedicò una porta al nome di esso, e tutti, ancora ai tempi
d’Orazio, il sapevano a memoria[290].

[ARROGANZA DE’ NOBILI]

Re chiamava Nevio que’ magistrati, perchè, connessi fra loro in
parentela, opponevano la comune forza e quella dei clienti alla legge
ed alla giustizia. Cajo Flaminio console cozzava non solo col senato,
ma cogli Dei immortali; sprezzava la maestà dei padri e delle leggi, e
gli auspizj divini[291].

La fantasia si compiace di certi tratti di costume eroico, che
appajono ancora in questi tempi. Fabio Massimo, accusato dal tribuno,
risponde:—Fabio non può essere sospetto a’ suoi cittadini»; ed
essendo un suo genero imputato di tradimento, egli si presenta e
dice:—Se fosse reo, non sarebbe rimasto mio genero», e basta per
farlo assolvere. Emilio Scauro, incolpato d’avere per oro tradito la
repubblica, dichiara falsa l’accusa, e basta. Un Metello è fatto reo
di concussione, ed il senato storna gli occhi dai registri addotti in
prova[292]. Allettano, io dico, la fantasia; ma come doveva stare
la plebe colà dove ai nobili valevano siffatte discolpe per farsi
indipendenti dalla legge? Scipione Africano ricusò il consolato in
vita, ma ritenne sempre un’autorità dittatoria; ed esitando un giorno
i questori ad aprire il tesoro perchè le leggi lo vietavano, egli,
quantunque privato, tolse le chiavi ed aprì. La statua di lui sorgeva
nel santuario di Giove; in Campidoglio quella di Lucio Scipione, con
mantello e coturni alla greca[293].

[NUOVE DIVINITÀ]

L’irruzione delle idee forestiere veniva viepiù funesta a Roma perchè
il suo genio pratico la traeva subitamente alle applicazioni. E già nel
fôro e sul Campidoglio si adorava con altri riti che i patrj; il latino
Saturno venne ammogliato con la greca Rea; il sabino Marte, privato
dell’antica sposa Neriena, fu confuso con l’Arete omerico; l’etrusco
Giano con Diana, o fu posto accanto allo Zeus dei Greci, benchè gli
andasse sempre innanzi nelle invocazioni; agli agricoli e pastorali
sottentrò una generazione di Dei guerreschi, fra’ quali primeggiava
Remolo. Nel 534 di Roma, il senato decretava si demolissero i tempj
degli egizj numi Iside e Serapide; e poichè nessun cittadino l’osava,
Emilio Paolo pel primo diè della scure nelle imposte di quelli.
Ottant’anni appresso, il pretore Cornelio Ispallo cacciò di Roma e
d’Italia i Caldei astrologi e gli adoratori del Giove Sebazio: ma era
egli possibile escludere gli Dei dalla città che tutti gli stranieri
accoglieva? Nella seconda guerra punica, per avvivare il coraggio,
si consultarono i libri Sibillini, e d’ordine di quelli si trasportò
dalla Frigia la Madre Idea, fomento di nuove superstizioni fra oscene e
spietate.

Queste raddoppiavano ne’ pericoli, e più che mai negli spaventi
della guerra cartaginese: un fanciullo di sei mesi gridò _Trionfo_
nel fôro Olitorio; figure di navi rosseggiarono in cielo; il tempio
della Speranza venne fulminato; Giunone brandì l’asta; nel Piceno
piovvero sassi; altrove scaturì sangue; s’apersero i cieli, i simulacri
sudarono, galline mutaronsi in galli, nacquero capre lanose, la luna
cozzava col sole, e compariva doppia e tripla.

In Grecia la varietà dei numi e l’introduzione di culti forestieri non
faceva che aprire nuove fonti di bello; ma negl’Italiani, portati ad
applicare le idee, alterava la vita e la condotta, e porgeva alimento
alla ferocia ed alla sensualità. E lascivie e sangue parvero dunque
religione; il popolo accorse ai giuochi gladiatorj, recati allora dalla
Campania, inebbriandosi allo spettacolo dell’uccisione, e ad eccessi di
voluttà proruppe ne’ Baccanali.

[BACCANALI]

Antico era presso gli Etruschi il culto di Bacco[294], simbolo
della vita e della distruzione; e tre dì ogni anno si facevano le
iniziazioni, di giorno e da sole donne. Paola Minia, sacerdotessa
di Capua, e un sacerdote greco li pervertirono accomunandoli a
uomini e donne, e crescendo a cinque per mese le adunanze notturne,
ove s’insegnava e praticava il dogma _Ciò che piace, lice_. Di là
segretamente quei riti si erano traforati in Roma; e Tito Sempronio
Rutilo propose a suo genero d’iniziarvelo. Costui ne fa cenno ad una
sua amasia, la quale gl’insinua il sospetto non sia un’astuzia del
suocero per trarlo alla perdizione, onde non rendergli conto dei beni
per esso amministrati. Il genero crede, e rifugge presso una zia;
questa denunzia il fatto ai consoli, laonde vengono a pubblica notizia
que’ misteri. E si diceva che in essi gl’iniziati mescolavansi alla
rinfusa nel bujo, indi da furiosi correvano al Tevere, tuffandovi delle
fiaccole; chi ricusasse partecipare alle infamie, era ghermito da una
macchina e precipitato in cupe voragini. Difficile è sapere quanto
il vero fosse alterato dal terror volgare, dall’astuzia signorile,
dall’abitudine di giudicare scellerato tutto ciò che è arcano: sappiamo
però che la notte si posero scolte, si fecero indagini, settemila
iniziati si scopersero nella sola Roma; moltissime donne chiarite ree
furono consegnate ai parenti che ne prendessero domestico supplizio;
poi di città in città si estese l’indagine, trovandone una folla
dappertutto.

Atrocità o nel delitto o nel processo; ed altri se ne moltiplicarono, e
in un anno solo censettanta donne furono convinte d’avere avvelenato i
mariti per passare a nuovi. Che dirò delle cerimonie onde s’invocava la
vittoria o si celebrava, come il sepellire uomini vivi, o scannarli a
torme ne’ trionfi?

[DEPRAVAMENTO DELL’OPINIONE]

In quel tempo la filosofia greca era caduta in mano de’ Sofisti,
i quali, per esercizio di argomentazione, sosteneano il vero e
il falso, l’identità della virtù e del vizio; Panezio, amico di
Scipione Emiliano, sillogizzava che tutto finisce colla morte[295];
Diogene, Critolao, Carneade venivano a spargere il dubbio su tutto, e
dipingere la giustizia e la morale come un trovato dei legislatori;
Ennio cantava che gli Dei vi sono, ma non si brigano di ciò che gli
uomini facciano[296]; nè mancava chi fin il culto verso la patria
conculcasse, dicendo che patria è dove si sta bene[297]. Fin d’allora i
letterati non gareggiavano di ben dire, ma di dir male, palleggiandosi
quelle contumelie, in cui ancora s’imbragano i loro imitatori[298]:
Plauto, dopo aperta una commedia coll’elevarsi al cielo dove risiede
la giustizia che tutto vede e governa, la chiude colle lodi del
tornaconto, esser onore la ricchezza, e sanzione del dovere l’utilità:
Lucilio fa che gli Dei Consenti si burlino degli uomini che li chiamano
padri, e che Nettuno si trovi imbarazzato da un’argomentazione da cui,
dice, Carneade stesso mal saprebbe tirarsi.

Tante esterne guerre e lotte interne erano riuscite a distruggere
la classe media che è nerbo degli Stati, e collocare una nobiltà
orgogliosa e precocemente depravata sopra una plebaglia scioperata,
misera, pretensiva. Que’ ricchi e magistrati che lavoravano di propria
mano e attendevano ai campi, divenivano rari ogni dì più; e volgeansi
piuttosto ai guadagni, con arte qual si fosse[299].

[CATONE CENSORE]

[234-143]

Terribile alla novità e all’aristocrazia fu la censura di Marco Porcio
Catone. Questo plebeo, sagace come dinotava il suo nome (_catus_),
coraggioso in atti, eloquente e mordace in parole, di diciassette anni
militò contro Annibale; indi abitando in Tusculo sua patria, la mattina
girava le città del contorno, facendo gratuitamente da patrocinatore;
poi reduce, mettevasi a lavorare i campi co’ suoi schiavi, com’essi
ignudo, mangiando con essi, al par di essi bevendo vinello. Pure
agli occhi suoi quegli schiavi non erano che bestiame; li comprava,
istruiva e rivendeva; e diceva che un buon capocasa dee vendere le
carrette vecchie, le vecchie sferre e i vecchi servi. Avea fissato
una tassa agli schiavi che volessero abbracciare una schiava; dopo
ciascun convito facea frustare quelli che si erano mostri negligenti
nel servizio; alimentava fra loro continue dissensioni, per impedire i
pericolosi accordi.

Il suo podere stava presso a quello ove Curio Dentato, dopo ottenuti
tre trionfi, avea passato gli ultimi anni ripastinando la terra e
congegnando macerie; e sulla propria esperienza dettò censessantadue
precetti _De re rustica_, nel tono imperioso d’un padrone a schiavi,
senza connessione o varietà, nè anco forbitezza di stile, della quale
pure mostravasi geloso nelle altre opere. Abbonda di formole magiche e
superstiziose osservazioni. Alla pitagorica, considera i cavoli come
una panacea, vieta di dar nulla alle bestie malate per man di donne,
regola secondo il numero ternario gl’ingredienti dei rimedj per le
giovenche, e pretende guarire le lussazioni con carmi magici[300].
Predicava meraviglioso l’uomo che acquista maggiori beni che non
glien’abbiano lasciato i suoi antenati[301]; ed al vero lo riconosciamo
nel _Carmen de moribus_, ove dice:—Potrebbe tornar conto il
procacciare lucro dal commercio, se pericoloso non fosse, od esercitare
l’usura se fosse onesto. Ma gli avi nostri stanziarono che il ladro
pagasse il doppio della somma involata, l’usuriere il quadruplo,
mostrando così tenere l’usurajo peggiore del ladro. Quando poi voleano
dare a un cittadino l’elogio maggiore, sì lo chiamavano buon agricolo
e savio massajo. Il mercadante sottiglia a guadagnar denaro, ma lo
stato suo l’espone ad ogni sorta pericoli e calamità. L’agricoltura in
quella vece produce uomini robusti ed eccellenti soldati; presenta il
vantaggio più onesto e sicuro, nè da altri invidiato; a chi v’attende,
non rimane tempo di pensare il male».

[178]

E Catone è il modello dell’antica austerità, il flagello della irruente
depravazione; il nome suo dinota fin ad oggi proverbialmente un severo
incontaminato. Valerio Flacco ammirandone l’austerità, lo chiamò a
Roma, dove, spalleggiato dai Fabj, diventò colonnello, questore,
console, poi censore insieme coll’antico suo patrono. Ito nella Spagna
pretore, congedò gli abbondanzieri dicendo che la guerra nutrirebbe
se stessa: in trecento giorni prese quattrocento città o borgate,
che all’istess’ora fece tutte smantellare: immenso bottino riportò
all’erario, ma nell’atto d’imbarcarsi vendette il proprio cavallo di
battaglia onde risparmiare, diceva, al fisco la spesa del tragitto.
Aveva fatto tutte le marcie a piedi, recando le proprie armi, con solo
uno schiavo che gli portasse quel poco da vivere: ottenne il trionfo,
ma non appena deposto il paludamento solenne, andò come semplice
colonnello contro Antioco il Grande; e il generale lo abbracciò al
cospetto dell’esercito, e confessò dovere a lui solo la vittoria
delle Termopile, e lo spedì a recarne la nuova a Roma. Amministrando
la provincia di Sardegna, cacciò gli usurieri, e abolì le spese che
i sudditi doveano fare per onorare i pretori. Vestiva poveramente,
marciava pedestre a capo d’eserciti; nè il pranzo gli costava più di
trenta soldi; e diceva che non è mai buon mercato una merce superflua,
costasse pure tre quattrini.

Per moda ammiravasi la Grecia? ed egli a vilipenderla; non volle
conoscerne la letteratura, e rimbrottava suo figlio di porvi studio; e
se più tardi guardò in Tucidide e Demostene, severamente li giudicava;
Socrate gli pareva un ciarliere che con novità pericolose turbasse la
patria; appuntava Isocrate di lasciar incanutire i discepoli nella
scuola, talchè ormai non potevano andar a perorare che agli Elisi:
aveva in orrore i medici di quella nazione, dando voce ch’e’ si
fossero assunto di tôrre dal mondo tutti i Barbari, compresi i Romani;
soprattutto esecrò l’eloquenza loro, massime dopo che udì i sofismi di
Carneade.

Non risparmiandola a popolani nè a ricchi,—Come mai (esclamava)
salvare una città, dove un pesce si vende più caro d’un bue? O Romani,
voi siete simili alle pecore, che tutti insieme vi lasciate menar da
persone, cui niuno vorrebbe affidarsi... Se diveniste grandi mercè
delle virtù, non volgetevi in peggio: se per l’intemperanza e i vizj,
cambiatevi, giacchè per queste vie cresceste abbastanza». Di quei
che brigavano per aver cariche,—E’ mi somigliano a persone ignare
della strada, che han bisogno del littore che li preceda». E perchè
spesso si nominavano a magistrati gli stessi,—Convien dire che le
cariche consideriate di ben poca importanza, o troviate ben pochi che
le meritino». Vedendo far la corte a re Eumene perchè lo dicevano
buono,—Sarà; ma un re è per natura una bestia vorace: e nessun re de’
più vantati pareggia Epaminonda, Pericle, Temistocle, Curio Dentato».

Diceva pure che i savj imparano dai matti più che questi da quelli,
giacchè essi evitano gli errori in cui vedono cadere i matti,
mentre i matti non imitano i buoni esempj de’ savj. Ingiuriato da
un libertino,—Troppo è disuguale la contesa fra te e me; tu odi
volentieri le scempiaggini e volentieri le dici; io m’annojo a
intenderle, e non uso a dirne». E ad un vecchio vizioso,—La vecchiaja
ha tante deformità, che non conviene unirvi anche quella de’ vizj».

«Egli superava (dice Tito Livio) di gran lunga plebei e patrizj, anche
delle più illustri famiglie: di sì grand’animo e ingegno fornito,
che, in qualunque condizione nato egli fosse, formata avrebbe la
propria fortuna. Non vi ha arte veruna nel maneggio de’ pubblici e de’
privati affari che a lui fosse ignota: amministrava con egual senno
gli affari della città e que’ della campagna. Altri salgono a sommi
onori per lo studio delle leggi, altri per l’eloquenza, altri per la
gloria dell’armi: egli ebbe l’ingegno così ad ogni arte adatto, che
l’avresti creduto nato unicamente a quella, qualunque fosse, a cui
rivolgevasi. Coraggioso nelle battaglie, famoso per illustri vittorie,
fu generale supremo: nella pace peritissimo delle leggi, eloquentissimo
nell’arringare; e ne rimane tuttora in onore l’eloquenza, consacrata
ne’ libri d’ogni argomento da lui composti».

Dei quali Cicerone, giudice molto competente, diceva: «Qual uomo fu
egli mai Catone, Dei immortali! Lascio in disparte il cittadino, il
senatore, il generale d’eserciti; a questo luogo cerco sol l’oratore.
Chi più di lui grave in lodare? chi più ingegnoso ne’ sentimenti?
chi più sottile nella disputa e nell’esposizione della causa?
Le cencinquanta sue orazioni ridondano di cose e di espressioni
magnifiche...; tutte le virtù d’un oratore vi si trovano. Le sue
_Origini_ poi, qual bellezza e qual eloquenza non hanno esse? È vero
che antiquato n’è lo stile, e incolte alcune parole, chè così allora
parlavasi: ma svecchiale, aggiungivi l’armonia, adorna lo stile..., e
non troverai chi anteporre a Catone»[302]. Meglio d’ogni lode vale
quella sua definizione, che l’oratore è un galantuomo che sa ben
parlare. E noteremo questa particolarità che, avendo stesa la storia
di Roma fin ad Annibale, tacque i nomi, descrivendo le imprese; quasi
temendo che la gloria di Roma dovesse rimanere minorata dalla gloria
d’individui[303].

Voi comprendete come accanito dovesse costui combattere le novità
romane.—I ladri privati (intonava) arrivano ai ceppi ed alle sferze;
i pubblici nuotano nell’oro e nella porpora. Fremete sui mali che
l’avvenire ci prepara. Assaporammo le delizie di Grecia e d’Asia; le
nostre mani han preso i tesori dei re: padroni di tante ricchezze, a
poco andare ne saremo gli schiavi.... Gli antichi in giorno di festa
si contentavano di due piatti per desinare. Col recarci le statue di
Siracusa, Marcello introdusse fra noi pericolosi nemici: più non odo
se non gente che ammira il marmo e lo scalpello di Corinto e d’Atene,
cuculiando i nostri numi d’argilla»[304].

Mal soffriva le persone pingui «tutte ventre»; nè quelle dedite alla
gola, poco acconciandosi con chi avea più sentimento nel palato che nel
cuore. Stando censore, propose leggi suntuarie, con gravi imposizioni
sul lusso donnesco, e prescrizione pei conviti; ammonì molti uomini
consolari, a molti cavalieri tolse il cavallo, sette senatori fece
condannare, tra cui quel Flaminino infamemente crudele coi Galli (pag.
323), ed uno perchè si era lasciato scorgere dalla figlia a baciar la
moglie; impedì il trar le acque di pubblico uso ad abbellimento di case
e giardini privati, mentre egli raddrizzava strade, purgava cloache,
edificava portici e la basilica Porzia. Qual meraviglia se molti
malevoli si attirò? e fin quarantaquattro accuse dovette sostenere; ma
il popolo lo onorava, e nel tempio della Salute gli pose una statua per
avere risarcito la declinante repubblica[305].

[CATONE E GLI SCIPIONI]

Non si creda però che le massime lo garantissero dalle passioni;
esercitò l’usura allora più infamata, la marittima; talvolta
s’avvinazzava; in casa teneva tresche con una serva, e ad ottant’anni
sposò la figlia d’un suo cliente. Forse non meno del patriotismo aveva
parte il livor personale nella sua contrarietà verso gli Scipioni.
Fin quando stava questore in Sicilia, avendo accusato l’Africano di
soverchia suntuosità e d’imitare troppo i Greci, questi il rimandò
dicendo:—Non so che farne d’un questore così appuntino; delle imprese
devo io render conto, non delle spese». Catone legossela al dito, e
citò gli Scipioni a dar preciso conto delle entrate e spese nella
guerra d’Antioco. Si potea dire veramente ch’essi l’avessero condotta
a senno e conto proprio, guerreggiando anche dove il popolo non avea
decretato, regolando a talento le paci; e chi saprebbe quali somme
avessero smunte dall’Asia e dai successori d’Alessandro, impinguati
dalle spoglie del mondo?

Scipione Africano, suntuoso in tutto, cinto di poeti, i quali cantavano
che dal Levante e dalla palude Meotide non v’era uom pari a lui[306],
operava da principe, rifuggendo dall’eguaglianza repubblicana a segno
che ai giuochi pubblici fece stabilire posti distinti pei senatori.
Questo contrapposto di Catone, sentendosi citato, salì la tribuna,
e—Romani, in questo giorno medesimo, auspici gli Dei, vinsi in Africa
Annibale e i Cartaginesi. Ascendiamo in Campidoglio a ringraziare i
numi, e pregarli vi diano sempre dei capi a me somiglianti». E tutti,
popolo, tribuni, giudici, accusatori, il seguirono in Campidoglio con
un trionfo ancor più segnalato dei primi, ma dove il vinto non era
Annibale, non Siface, bensì la integrità delle leggi repubblicane. E
avendo dappoi i tribuni messo in accusa il fratello di lui, esso il
tolse loro di mano, e lacerò i registri, dicendo:—Renderò ragione di
quattro milioni di sesterzj io, che ne feci entrare nel tesoro ducento
milioni, senza conservare per me altro che il titolo d’Africano?»

[183]

Qui respira ancora l’eroismo patrizio: ma se alcuni esclamavano contro
l’ingratitudine di chiamare in giudizio sì alti personaggi, altri
sosteneano che, in buona repubblica, nessuno deve elevarsi di sopra
delle leggi; e prevalse la voce popolare, che tende ad uguagliar tutto,
fin la vera superiorità del merito, e che perciò sì spesso è tolta
per maschera dall’invidia. E poichè s’insisteva nell’accusa, Scipione
andò esule volontario a Linterno nella Campania, dove i tribuni nol
molestarono, ma neppure lo richiamarono; ed egli eludeva la noja cogli
studj, cogli esercizj ginnastici, coll’amicizia di Lelio e del poeta
Lucilio[307], e morendo fece scrivere sulla sua tomba:—Ingrata patria,
non avrai le mie ossa».

L’inquisizione fu continuata contro suo fratello; e sovra proposta dei
tribuni Petilio e Nevio, fiancheggiata da Catone e passata per voto
unanime delle trentacinque tribù, si sentenziò che Scipione Asiatico,
per fare più larghi patti ad Antioco, ne avea ricevuto seimila
libbre d’oro e quattrocentottanta d’argento più di quelle riposte
nell’erario; Aulo Ostilio suo legato, ottanta d’oro e quattrocento
d’argento; Cajo Furio questore, centrenta d’oro e ducento d’argento.
Tanto erano lontani i tempi di Fabrizio e di Cincinnato! La povertà
di Scipione, il quale non trovossi in grado di soddisfare la multa,
parve argomento di sua incolpabilità; non si soffrì che gli Scipioni
andassero nel carcere ov’essi aveano condotto i re stranieri: ma
l’aristocrazia era ferita nel cuore; Catone fu inanimato a proseguire
le indagini, alle quali chi poteva omai sottrarsi se gli Scipioni
avevano soccombuto?

[DEPRAVAZIONE]

Però quando una repubblica stia in mano d’un corpo qual era il senato
romano, poco importa si cambino i personaggi; chè la loro scomparsa
è immantinenti da altri riparata. E per verità, come sperare il
miglioramento privato, e quel disinteresse che pospone se medesimo
alla patria, quando dal pubblico venivano esempj di corruzione; quando
a Catone la censoria severità non toglieva di procedere con astuta ed
immorale politica; quando la cabala, il raggiro, e subdole astuzie,
e aperte violenze calpestavano o eludevano il diritto delle nazioni;
quando i censori stessi davano l’esempio della prevaricazione; e
Lepido, principe del senato e pontefice massimo, adoprò il denaro
pubblico a costruire una diga per preservare i proprj fondi a
Terracina; e un messo del senato in Illiria ricevette denaro per fare
un ragguaglio favorevole; e un Metello, richiamato di Spagna ove
sperava gloria e potenza, disordinò l’esercito; quando si ricusava
il governare provincie non ricche, e vendeansi congedi ai soldati;
quando i messaggieri in pien senato faceano vanto ai generali d’avere
ingannato con finte tregue Perseo; quando alle strida de’ popoli
spogliati, venduti, uccisi, il senato si contentava di rispondere che
non fu per suo decreto; quando istituito un tribunale permanente
(_quæstio perpetua_) onde punire le concussioni, i senatori che lo
componevano facevansi indulgenti per denaro ricevuto, per connivenza
di corpo; quando generali portavano guerre senza averne ordine,
eppure n’ottenevano onori trionfali perchè sostenuti da parentela e
da clienti; quando tutto si valutava a denaro, e stima ottenevasi in
proporzione dell’avere[308]; quando non si cercava che corrompere
per acquistare il diritto di estorcere, estorcere per aver mezzi di
corrompere, e il prosperamento della repubblica non guardavasi che come
un mezzo d’ingrandire se stessi, e ricompensare i proprj aderenti?



CAPITOLO XVI.

Terza guerra punica.—La Spagna vinta.


Insuperbita di tanti vinti nemici, non contenta d’aver domato l’emula
Cartagine, Roma aspirava a distruggerla. Gravandola della maledizione
del _væ victis_, sempre nuove umiliazioni ne esigeva; offendevala
e si lamentava: stile dei prepotenti. Cartagine, ridotta inerme e
disanguata, vacillava come i popoli in agonia, ora tramando con altri
deboli, ora cercando giustizia da un popolo che non ascoltava più se
non l’interesse.

[PARALLELO FRA ROMA E CARTAGINE]

[181]

Massinissa re di Numidia, padre di quarantaquattro figliuoli, fiero
ed irrequieto vecchione che la morte pareva rispettare per sciagura
di Cartagine, denunziava questa or di dare ascolto ad Annibale, or
d’avere nottetempo nel santuario d’Esculapio ricevuto emissarj del re
Perseo; poi ne invase città e provincie. Cartagine, che per patto non
potea muover guerra senza assenso di Roma, a questa ne portò querela;
e Scipione Africano, mandato a farne ragione, non volle disgustare sì
prezioso alleato: pure Roma, temendo che quella repubblica si unisse a
Perseo, le assicurò l’integrità del territorio; ma che? poco stante il
Numida occupa un’altra provincia e settanta città o villaggi, e Roma
il lascia fare. Lo stesso Catone censore, spedito a conciliare questi
dissidj, mostrossi così parziale ed inflessibile, che i Cartaginesi ne
ricusarono l’arbitramento. Quel severo ed orgoglioso più non dimenticò
l’affronto, e non rifiniva di consigliare,—Distruggete Cartagine».
Gli Scipioni, o godessero di lasciar sussistere quel vivo trofeo della
gloria loro, o temessero che Roma s’infiacchisse quando fosse cessato
l’instante pericolo, sconsigliavano dall’annichilare l’emula città:
il censore, al contrario, anche per l’irreconciliabile sua avversione
ad essi, ne andava rammentando la gran vicinanza e la popolazione
crescente; e qualunque mozione facesse in senato, conchiudeva
sempre,—Opino inoltre si deva distruggere Cartagine».

Bastava conoscer Roma per prevedere che il partito più violento
prevarrebbe; e la città fenice, colla fatalità solita alle cause
soccombenti, scavavasi di propria mano la fossa. Oltre la fiacchezza
naturale d’un’aristocrazia di ricchezze, nella quale anche le cariche
più elevate si conferivano per denaro, vedemmo sorgervi e crescervi
le fazioni, guidate dalla famiglia dei Barca, ricchissima ed incline
alla guerra, e da Annone che, per contrariarli, consigliava la pace ad
ogni costo. I disastri di Spagna e d’Italia, e infine la rotta di Zama
scassinarono la potenza dei Barca, ma non li tolsero d’avere principale
autorità nel senato. Finchè si dilatò col commercio e colle colonie,
Cartagine venne in fiore, ed in quattro secoli si era resa donna dei
mari, capitale dell’Africa, rispettata, quieta: innestatale dai Barca
l’ambizione delle conquiste, quei che le importava di tenere amici pel
commercio avversava come guerriera; i vascelli, convertiti in uso di
battaglie, cessavano dal portar merci lucrose; le spese sottigliavano
l’erario quanto il commercio l’aveva impinguato; i cittadini non
bastavano a guerre grosse; le città suddite maltrattate vi si
prestavano con ripugnanza; di modo che bisognava soldare stranieri,
i quali non combattendo per la patria, potevano o dettarle legge, o
disertare al nemico, o divenire un’arma pel generale che aspirasse ad
abbattere la libertà.

Al rompersi delle ostilità con Roma pareva tutte le contingenze
andassero propizie alla città africana; essa ricca, essa potente in
mare, essa padrona di mezza Sicilia e d’altre isole del Mediterraneo,
da cui poteva sbarcare minacciosa nei porti dell’indifesa rivale. Ma
Roma a forza di guerre s’invigorisce; cresce coll’assimilarsi i vicini
e dilatare i proprj dominj; ha cittadini guerrieri dall’infanzia,
o formati negli utili travagli dei campi e nella robusta povertà;
mentre i Cartaginesi crebbero al banco e nei traffici, ed ogni via di
guadagno tengono per buona e ambita perchè reca al potere. Cartagine
fidava negli alleati e nel denaro, Roma soltanto in sè: e mentre questa
immobile stava sulla sua rupe, l’altra scivolava sopra arene d’oro.
Quel coraggio disperato che crea le vittorie o ripara le sconfitte,
mancava ai Cartaginesi; vinti, temono di perder tutto e piegano: mentre
i Romani nella peggiore estremità mettono all’incanto il terreno su cui
è accampato il nemico; e se questo propone la pace, gli rispondono:—Va
fuori d’Italia, e tratteremo».

[TERZA GUERRA PUNICA]

Le sconfitte di Roma non ne alterarono la costituzione; Cartagine
dopo la rotta di Zama restringeva l’autorità dei magistrati in modo,
che prevalse il popolo; e questo fluttuava per impeti, mentre a
Roma decideva un senato accorto e calcolatore. Fu merito dei sommi
generali di cui fu fortunata, se Cartagine talvolta pose in dubbio la
decisione della fortuna: ma l’educazione non dirigeva essenzialmente a
formare eroi; non serbava ai vincitori la solennità dei trionfi; nel
mezzo delle vittorie i capitani si vedevano incagliati dalla gelosia
o dal sottilizzare finanziero; doveano paventare la sconfitta che li
sottoponeva ad un processo; e il pericolo della croce stava sugli
occhi del generale allorchè meditasse una battaglia. Roma invece esce
incontro al console vinto a Canne, lo ringrazia di non avere disperato
della patria, e dà ogni aver suo, spoglia i tempj e le donne per
fornire un nuovo esercito.

E il nuovo esercito vinse, e obbligò Cartagine a vergognosa pace. Il
dispetto dell’umiliazione tornò in favore Annibale; e poichè seimila
cinquecento mercenarj, avvezzi con lui a vincere e predare, lo rendeano
arbitro della disarmata patria, e’ si fece nominar sufeto e cominciò
riforme: la perpetua magistratura de’ gerusj ridusse annuale; migliorò
le finanze esigendo crediti antiquati, richiamando al fisco il mal
tolto, e convincendo che il reprimere i concussori frutta meglio che
un tributo nuovo; i soldati oziosi occupò a piantare ulivi, sperando
coll’agricoltura e col commercio risanguare la svenata città, cui
destinava far centro d’una gran lega contro Roma. Ma guaj alle riforme
troppo tarde! Annibale soccombette e dovè esulare, lasciando la patria
in quella debolezza che proviene dall’essere abbattute le istituzioni
vecchie, non istabilite le nuove.

[153]

[150]

Se ne incalorirono le fazioni, e la patriotica cacciò in bando quaranta
dei fautori dello straniero, i quali ricoveratisi a Massinissa, lo
istigarono contro la repubblica. Egli estese le sue usurpazioni,
e tuttochè ottagenario menò in persona la guerra; preso in mezzo
l’esercito punico, lo affamò, e ne uccise cinquantottomila. Roma
avea mandato ambasciadori, i quali, se l’evento uscisse prospero per
Cartagine, le intimassero di deporre le armi ed osservar la pace.
Vedendola invece colla peggio, inanimarono il Numida, del quale
Cartagine comprava la pietà con nuove cessioni, e condannando come rei
di Stato i consigliatori di quella guerra. Ed ecco Catone comparire nel
senato di Roma, e traendo di sotto la toga dei fichi che pareano appena
côlti,—Questi (dice) tre giorni fa erano attaccati al loro ramo ne’
giardini di Cartagine. E voi tollererete così prossima una tale città?»

[ULTIMI SFORZI DI CARTAGINE]

[149]

Strana ragione per distruggere un popolo! eppure gli è menata buona,
e Roma intima a Cartagine che, avendo violata la pace, s’aspetti il
castigo. I consoli Manilio Nepote e Marcio Censorino partono con
ottantamila fanti, quattromila cavalli, cinquanta galee da cinque
file di remi, oltre innumerevoli navi di trasporto, e l’ordine di
non cessare finchè Cartagine non sia diroccata. I Cartaginesi non
trovandosi pari all’attacco, spediscono nuovi ambasciadori con piena
autorità d’accettare qualsiasi condizione, e perfino di rimettersi
alla discrezione de’ Romani, _purchè si risparmii la città_. Questi,
inorgogliendo a misura che vedevano abbassarsi la rivale, chiedono fra
trenta giorni trecento ostaggi delle primarie famiglie. Parve enorme la
condizione, eppure si sottomisero; e fra il pianto de’ genitori e il
fremito de’ generosi, i trecento partirono. I consoli si riservarono
di far conoscere la volontà del senato quando giungessero ad Utica;
ed affinchè l’eccesso non portasse i Cartaginesi alla disperazione,
proposero una ad una le condizioni: prima di fornire l’esercito di
grani, poi di consegnare tutte le triremi, poi tutti i tormenti
da guerra, da ultimo tutte le armi, giacchè non n’aveano bisogno
se veramente deliberati alla pace. Duemila macchine e ducentomila
armadure compite furono consegnate: ben perdute veramente se non si
sapeva usarle all’ultima difesa della patria.

Come li vedono sguerniti e incapaci di sostenere un assedio, i consoli
intimano che la città sia demolita, gli abitatori prendano stanza
a tre miglia dal mare, cioè dove non possano più attendere a navi
nè a commerci nè a pericolose speranze. S’erano i Romani obbligati
a risparmiare la città; ma in loro lingua _civitas_ significa gli
abitanti, non le abitazioni!

Storditi a tal colpo, per alcun tempo i Cartaginesi non seppero che
piangere, desolarsi, e quali lamentando i figli dati in ostaggio, quali
imprecando agli avi che non avessero preferito una morte gloriosa
ai turpi patti subìti; poi vergognandosi di se stessi, mutano lo
sgomento nella disperata risoluzione di non soggiacere all’infame
sentenza. Subito son chiuse le porte, uccisi tutti gli Italiani;
qualunque metallo rimane è convertito in armi, qualunque officina
in armeria; ogni dì si fabbricarono cento scudi, trecento spade,
cinquecento lancie, mille dardi; le donne si recidono le trecce per
farne le cocche; gli schiavi sono chiamati a libertà. Asdrubale, capo
della fazione nazionale, che maltrattato da’ suoi, era fuoruscito, e
menava ventimila uomini contro della patria, si riconcilia, riduce ad
obbedienza la campagna, ed ajuta a respingere i consoli e incendiare la
flotta; e Cartagine si conforta di almeno soccombere con onore. Benchè
i Romani adoprassero contro di essa ogni arte murale, e la percotessero
con un ariete mosso da seimila fanti, e con un altro spinto da
innumerevoli rematori (APPIANO), l’accortezza d’Asdrubale e il valore
de’ Cartaginesi eludeva gli assedianti.

[147]

Pareva che la vittoria nelle guerre puniche fosse fatata al nome degli
Scipioni. Emiliano, figlio di quel Paolo Emilio che vinse Perseo,
adottato da Scipione Africano, portato console innanzi l’età, è
spedito in Africa; salva l’esercito da gravissime strette, raccoglie
l’eredità dell’estinto Massinissa, prende un quartiere di Cartagine,
circonvalla l’istmo con un muro turrito da cui padroneggiare la città,
e le interdice i viveri; poi aggiungendo i riti sacri, proferisce
contro Cartagine la rituale imprecazione per inimicarle gli Dei e per
consacrare alla vendetta delle Furie chiunque resista a Roma[309].

[CARTAGINE DISTRUTTA]

[146]

I Cartaginesi ridotti all’estremo, osano un ultimo sforzo; e lavorando
uomini, donne, fanciulli, scavano traverso alla rupe una nuova uscita
al loro porto, ed avventano contro dei Romani un’altra flotta,
compaginata col legname delle demolite abitazioni. Alcuni a nuoto
s’avanzano fin presso le macchine, e di repente emergendo accendono
fiaccole, e vi gettano fuoco. Scipione Emiliano d’assalto entra in
Cartagine, eppure i cittadini difendono ancora via per via, casa per
casa, durante sei giorni e sei notti; ed empiono de’ loro cadaveri la
patria perita. Novecento disertori ricoverati nel tempio d’Esculapio,
prevedendo qual sorte gli attendesse, posero fuoco a quell’asilo e
perirono tutti. Il generale Asdrubale, che avea sempre intrepidamente
diretto gli sforzi de’ suoi cittadini, negli estremi perdette il
coraggio, e si prostrò al vincitore; ma sua moglie, rimasta cogli
ultimi difensori, non volendo sopravvivere alla patria, sale sul
fastigio del tempio vestita d’abiti sfarzosi, ed imprecato ogni male al
marito disertore, si precipita coi figli nelle fiamme.

De’ superstiti Cartaginesi parte fu dispersa per Italia e per le
provincie; 4,470,000 libbre d’argento ornarono il trionfo di Scipione
Emiliano, nel quale si riprodusse il soprannome di Africano. Molti
preziosi capi d’arte, fra cui il toro di Falaride, furono restituiti
alla depredata Sicilia; donate ai re di Numidia le biblioteche,
eccetto i libri di Magone sull’agricoltura, che furono portati a Roma
e tradotti; smantellate tutte le città favorevoli a Cartagine, le
contrarie ingrandite di territorio; attribuito agli Uticesi quant’è
fra Cartagine ed Ippona; gli Africani sottomessi pagassero un annuo
tributo, e lo Stato cartaginese fosse ridotto a provincia col titolo di
Africa. D’ordine del senato, Emiliano condusse l’aratro attorno alle
mura, ripetè le rituali imprecazioni che doveano rendere gli Dei nemici
alla causa vinta; poi le fiamme in diciassette giorni consumarono la
città, dopo sette secoli d’esistenza, e uno e mezzo di lotte con Roma.

[COMPIANTI SU CARTAGINE]

Questo sterminio senza scopo e senza ragione formò la gloria della
colta famiglia de’ Scipioni che sempre vi s’era opposta, la gloria
d’Emiliano, personaggio lodatissimo per dolce natura, e di cui fu
proferito «non aver mai operato o detto cosa che non fosse degna di
lode». Ma Roma nell’idea di lode non comprendeva mai quella di umanità,
e a tutto ciò che non fosse romano mancava per lei ogni valore, ogni
motivo di rispetto. Emiliano, vedendo lo strazio di tanta città, stette
assorto in mesto silenzio, poi sospirando esclamò coll’Ettore di
Omero:—Verrà giorno che il sacro iliaco muro e Priamo e tutta la sua
gente cada». Chiesto da Polibio che intendesse per Troja e per gente di
Priamo, egli, senza nominar Roma, rispose che meditava come gli Stati
più poderosi alla loro volta dibassino e rovinino, secondo piace alla
fortuna[310].

[197]

Seduta trionfalmente sulle macerie di Cartagine e di Corinto, Roma
poteva proclamare il trionfo della forza sopra l’industria; nessun
nuovo nemico si presentava, sufficiente al tremendo duello; ai vinti
non rimaneva vigore d’agitarsi sotto al pilo dei soldati d’Italia.
Solo contro il gran furto delle aquile latine protestarono gli
Spagnuoli, tremendi sempre nel difendere la patria indipendenza.
Insorti, e sterminato il pretore Sempronio Tuditano coll’esercito suo,
cominciarono una guerra micidialissima sì per la popolazione colà
raffittita, sì per la natura de’ luoghi montuosi e degli abitanti.

[INSURREZIONE DELLA SPAGNA]

Si univano gl’Ispani in numerose fratellanze, congiurate per la vita e
per la morte; nè uno mai falliva o sopravviveva agli altri consorti.
Spirando in croce, i prigionieri con belliche canzoni insultavano ai
loro carnefici; una madre cantabra scannò il figlio anzichè lasciarlo
in balìa de’ nemici; un altro, per ordine del padre, rese la libertà
ai genitori incatenati uccidendoli. Battuti più volte, non vinti mai,
portavano allato il veleno pel caso d’una sconfitta: trovavansi ridotti
schiavi? assassinavano i padroni, o mandavano a picco i bastimenti
su cui erano caricati. Rilevata una rotta, fecero dire ai Romani
vincitori:—Vi lasceremo uscire di Spagna, se ci diate un abito, un
cavallo, una spada per ciascuno».

[151]

Ogni arma adopravano dunque i Romani contro di loro, e più quelle dove
i nemici meno valevano, l’astuzia e il tradimento, suscitando querele
da fratelli a fratelli; e indeboliti gli aggredivano. Licinio Lucullo
nella Celtiberia, Servio Galba nella Lusitania, in aspetto d’amicizia,
offersero pingui terreni agli indomiti Ispani, e come li videro
stanziati in sicurezza di pace, li scannarono, e Galba andò glorioso
del macello di trentamila difensori dell’indipendenza.

[188]

[179]

Gli Ispani ripagavano d’eguale moneta; onde la campagna della penisola
era sì temuta, che i tribuni della plebe domandavano l’esenzione
pei loro protetti; e non ottenendola, li sottraevano col chiuderli
prigioni. Fulvio Nobiliore console ebbe da loro una tal rotta, che
quel giorno restò nefasto nel calendario, come quello della battaglia
di Canne. Pure Catone e Sempronio Gracco, guerreggiando a lungo nella
Spagna citeriore (Castiglia ed Aragona), ed assalendo i Celtiberi
nel proprio nido, oppressero quanto è fra l’Ebro e i Pirenei, e
vantarono d’aver espugnato quegli quattrocento, questi trecento città.
Nella ulteriore Publio Cornelio Scipione, Postumio ed altri vinsero
i Lusitani, i Turditani, i Vaccei (Portogallo, Leon, Andalusia), e
poterono gloriarsi d’aver soggiogata tutta la penisola. I proconsoli,
spediti a tenere in freno queste belve indomite, vi satollavano la
propria avarizia coll’esercitare il monopolio delle biade, ed affamare
il paese.

[VIRIATO]

[149]

[141]

[140]

Vendicatore de’ compatrioti sorse il lusitano Viriato. Nella pastorizia
e nella caccia formatosi eccellente capo di bande, si propose di
collegare Lusitani e Celtiberi, onde reggersi a fronte di Roma. Di
trionfo in trionfo guidando i suoi, sconfisse cinque pretori, infine
circondò il proconsole Fabio Serviliano; e mentre avrebbe potuto passar
lui e l’esercito pel filo delle spade, propose pace al solo patto che
i Romani, tenendosi la restante Spagna, lui riconoscessero padrone
del paese che dominava. Il senato confermò l’accordo, e così Viriato
conseguì un regno indipendente a spese della repubblica romana, e
avrebbe potuto divenire il Romolo della Spagna, se non che Servilio
Cepione console sollecitò i Romani a permettergli di rompere la pace; e
senza ragione nè pretesto sperperò il paese, corruppe alcuni, i quali
scannarono il valoroso lusitano. Il senato ricusò l’onore del trionfo
all’infame Cepione.

[ASSEDIO DI NUMANZIA]

[143]

[137]

Cessato con quel gran capitano l’accordo delle due Spagne, la Lusitania
si rassegnò al giogo; ma più accannita divenne la resistenza di
Numanzia. Questa città aveva ricoverato le reliquie dei fazionieri di
Viriato, che sostennero una lotta generosissima, benchè sommassero
appena a ottomila guerrieri. Gli stessi formidabili legionarj tremavano
al nome dei Numantini, più che a quello di Annibale e di Filopemene.
Popilio Lena console fu costretto calar con essi ad accordi, violati
poi dal suo successore: Ostilio Mancino da quattromila di essi videsi
uccisi trentamila soldati, e preso in mezzo dovette consegnare a
discrezione se medesimo e l’esercito. Roma perfidiava i trattati,
respingeva gli ambasciadori numantini, e rinnovava le scene sabine,
facendo condurre alle porte di Numanzia Mancino incatenato, quasi
potesse riversare su lui solo la responsabilità del trattato. I
Numantini nol vollero ricevere se non fosse consegnato, secondo i
patti, con tutto l’esercito.

Rinfocatasi pertanto la guerra, Emilio Lepido fu per fame ridotto ad
allargare l’assedio di Numanzia; Fulvio Flacco e Calpurnio Pisone
poco profittarono: onde le tribù di Roma gridarono ad una voce che la
piccola città non potrebbe esser doma se non dal vincitore di Cartagine.

[134]

[133]

Scipione Africano Minore fu rieletto console, malgrado la recente
legge che il vietava; e non essendogli concesso di levar nuove truppe,
armò da cinquecento volontarj a cavallo ch’e’ chiamava lo squadrone
de’ suoi amici, e forse cinquemila uomini somministratigli dalle
varie città italiche. Con questi, colla fiducia ispiratagli dalle
vittorie precedenti, con una disciplina oltremodo severa ed operosa,
e colla tattica più raffinata pervenne a circonvallare Numanzia;
ricusò la battaglia, provocata in disperate sortite, ricusò ogni
patto di dedizione. I Numantini, logorati gli animali e le cose più
schife, divoravansi l’un l’altro; da ultimo posero fuoco alla città, e
s’uccisero fra loro, sicchè cinquanta soli potè serbarne il vincitore
per ornare il trionfo che condusse senza spoglie. La piccola città
cadde più gloriosamente che non Cartagine e Corinto; e la memoria della
sua resistenza visse in cuore degli Ispani, i quali anche dopo vinti
s’accorsero d’avere braccia e petti.



LIBRO TERZO



CAPITOLO XVII.

Costituzione di Roma repubblicana.


Il piccolo Comune di Roma è dunque ingrandito a segno, da avere
sottomessa tutta Italia non solo e le due penisole meridionali, ma
molte altre parti dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa. Donde traeva
le forze a tante conquiste, e alle ben maggiori che racconteremo?
Dall’assimilarsi sempre nuovi cittadini.

La costituzione di Roma (già tanto il ripetemmo) da principio fu
patriarcale, regolata dai seniori delle tre primitive tribù, aventi a
capo il re, giudice supremo, sacerdote e capitano. I patrizj tendevano
a limitare il potere di lui, egli ad emanciparsi col consentire diritti
politici al Comune plebeo; al sollevarsi del quale, l’antica gente
patrizia si trovò ridotta a non più che classe privilegiata. Quando
Tarquinio Superbo volle esercitare il dominio senza consultare il
senato, i patrizj insorsero, ed abolita la monarchia, costituirono un
governo aristocratico. La plebe si trovò al fondo dell’oppressura sotto
quella che intitolossi liberazione di Bruto: ma in quella irrequieta
operosità che, propostosi un fine, non si stanca finchè non l’abbia
raggiunto, da prima si riscosse da certi pesi, poi volle alcuni
diritti, indi aver parte nell’amministrazione della repubblica. Questo
è il senso della lunga lotta fra gli ottimati e la plebe, la quale
ottenne magistrati comunali, acquistò vigor di legge alle decisioni
prese dal Comune a pluralità di voti, e divenne partecipe di tutte le
cariche dello Stato una dopo l’altra; onde uscì una repubblica, dove i
veri cittadini erano legalmente più liberi che mai non sieno stati in
verun governo.

Al modo che il vulgo nella nobiltà, così gli stranieri penetravano
nella città, e per quest’atto appunto Roma si discerne dagli altri
Stati antichi, il cui angusto patriotismo respingeva gelosamente ogni
elemento straniero. Cartagine, Atene, Sparta rimasero sempre una città,
e presto perirono: Roma divenne un gran popolo senza cessare d’esser
città, e non solo assorbendo ma assimilando idee, costumanze, persone
d’ogni parte, a tutte infondendo la vita, e alla forza del numero
accoppiando la forza dell’unità.

[PATRIZJ E PLEBEI]

La disuguaglianza fra i cittadini è carattere di tutte le società
antiche: nè pari diritto godevano quelli che Roma abbracciava. La
cittadinanza romana portava alcuni diritti privati o civili (_jus
quiritium_), ed alcuni politici (_jus civitatis_). I primi assicuravano
il matrimonio colle forme e cogli effetti legali, la podestà patria,
il liberamente godere e trasmettere la proprietà, far testamento ed
ereditare, oltre la inviolabilità della persona: erano diritti politici
il censo e suffragio nelle elezioni e nelle leggi, la capacità a qual
si fosse magistratura, l’iniziazione ai riti religiosi, e l’essere
coscritto nella legione[311].

Di pieno diritto (_optimo jure cives_) erano i patrizj, discendenti
dai primi Quiriti, ovvero aggregati fra essi per merito particolare,
o perchè i loro padri avessero sostenuto cariche curuli, com’erano la
dittatura, il consolato, la pretura, la censura, la grande edilità. Di
tale pienezza di diritto era segno il portar le armi; laonde i giovani
restavano in tutela sino all’età in cui solennemente deponeano la
pretesta e la bulla, abiti e insegne giovanili, onde assumere la toga.
Le donne rimanevano sempre sottoposte al padre o al marito o al tutore.

I patrizj potevano conservare in casa e portare alle pompe funebri le
effigie degli avi, di cera con iscrizioni (_jus imaginum_), privilegio
equivalente al nostro nobiliare degli stemmi; essi soli possedevano
l’agro romano o pubblico, cioè quello attorno alla città, al cui
possedimento era affisso l’esercizio della sovranità; essi adunavansi
nei comizj per curie; essi soli giudici o pontefici; soli potevano
prendere gli auspizj, senza de’ quali le decisioni non consideravansi
autorate.

Distinta di culto, di diritti pubblici e privati, come se avesse
abitato di là dai mari, inferiore in tutto al vero popolo era la
plebe, abitante fuor del Pomerio, e che era venuta in città o per
trovare asilo, o come vinta; senza auspizj, senz’avi, senza famiglia,
come disse Appio. Pure essa aveva e ricchi e capi e adunanze proprie
e decisioni; anzi, dopo presa Roma da Brenno, avea deliberato migrar
tutta a Vejo, e piantarvi una città nuova: e fu essa che, lottando coi
patrizj, poc’a poco formò un ordine, colla libertà civile dei beni e
delle persone, cioè l’autorità di adottare, di testare, di aver il
matrimonio e la paternità legale; indi a passo a passo penetrò nella
città politica.

[TRIBÙ]

Delle tribù discutemmo altrove l’origine (pag. 159 e seg.): ognuna
dividevasi in dieci curie, da dieci genti ciascuna con un curione[312].
Trenta erano le tribù sotto Servio Tullio: espulsi i Tarquinj, si
ridussero a venti: dopo che dai vinti Sabini vi migrò tutta la gente
Claudia, s’aggiunse la tribù Crustumina. All’aumento della popolazione
non si potè badare nel tempo che i due Ordini lottavano per la libertà
interna; ma respinti i Galli, si riparò al danno recato da questi col
concedere la cittadinanza a Vejo, Capena, Faleria, formando le tribù
Stellatina, Tromentina, Sabatina, Arniese, che tanto giovarono nella
guerra contro i Latini. Profligati questi, Roma li mutò in cittadini
nelle tribù Mezia e Scapzia, e poscia i Volsci nella Pontina e
Publilia, gli Ausonj nella Oufentina e Falerina, gli Equi nell’Aniese e
Terentina, i Sabini nella Velina e Quirina; restando così il numero di
trentacinque, che più non fu oltrepassato[313]. Quattro erano urbane,
cioè la Collina, l’Esquilina, la Palatina, la Suburrana; le altre
rustiche: e poichè alle prime vennero aggregati quelli destituiti di
patrimonio sodo, le rustiche rimasero sempre in maggiore onoranza.
Possedeano esse quel che chiamavasi agro romano, che però non era
uniforme e compatto in giro a Roma, attesochè fin presso alle porte
di questa v’avea città _straniere_, come Tivoli e Preneste, sul cui
circondario poteva da sè esigliarsi chi volesse prevenire una condanna.
Il popolo romano originario sommava appena alla metà; ma diviso in
ventuna tribù, contava ventun voti, sicchè, quantunque la sovranità
sembrasse comunicata, ne rimaneva pur sempre l’esercizio ai veri Romani.

[CLASSI]

Oltre questa divisione d’origine e locale, un’altra ne fu introdotta
quando si ruppero le barriere aristocratiche, onde aggregare le
case nobili col Comune plebeo in modo, da proteggere le franchigie
di questo, pur lasciando ai patrizj il governo. Il popolo fu dunque
partito in sei classi[314], a proporzione delle facoltà: nella
prima, chi possedesse più di centomila assi di beni tassabili; nella
seconda, chi settantacinquemila; nella terza, chi cinquantamila; nella
quarta, quelli di venticinquemila; nella quinta, quelli di dodicimila
cinquecento; gli altri erano accumulati nella sesta; e di sotto a tutti
rimaneano gli _erarj_, che allo Stato contribuivano denaro, ma non
servizio militare, nè davano suffragio. Il censo o catasto, dov’erano
registrati tutti i cittadini e l’avere di ciascuno, rinnovavasi ogni
cinque anni.

Con ciò all’aristocrazia di origine sottentrava l’aristocrazia di
ricchezza; le quistioni interne di Roma si dibatterono fra ricchi
e poveri, fra possidenti e no; e l’arte con che un tempo i nobili
rimoveano dal dominio i plebei, l’esercitarono i ricchi per escludere i
poveri.

[CENTURIE]

Le sei classi comprendevano diverso numero di centurie; cioè la prima
novantotto, venti la seconda, terza e quarta; la quinta trenta;
l’ultima una sola; non contando tre centurie di fabbri militari. Ogni
centuria esprimeva un voto complessivo; sicchè di quante più centurie
era composta una classe, maggior denaro contribuiva all’erario ed
uomini agli eserciti, e maggiori voci avea ne’ comizj. Pertanto la
prima classe bastava da sola a preponderare a tutte le altre insieme;
e qualora le sue novantotto centurie concordassero nel voto, non
occorreva interrogare le altre. I cittadini godevano dunque autorità
differente secondo la classe; tanto maggiore quanto più ricchi, e
quanto minori di numero nella propria centuria.

Il potere supremo repubblicanamente risedeva nell’assemblea dei
cittadini. Da prima convocavansi secondo le curie, cioè le famiglie
dei Quiriti unite da un culto, e votavano i capicasa, costituendo
una compatta aristocrazia: poi i comizj _curiati_ si ridussero a
mera formalità, conservata soltanto per rispetto agli auspizj onde
convalidare i testamenti e le leggi delle tribù, ma il popolo più non
v’interveniva, e le trenta curie non erano rappresentate che dai trenta
littori, i quali solevano un tempo adunarle.

[COMIZI]

La plebe vi aveva sostituito i comizj _tributi_. Le tribù, che erano
da principio divisioni locali e religiose, presto si convertirono in
politiche attorno ai tribuni, ed ebbero assemblee proprie con diritto
d’eleggersi i tribuni e gli edili, e nelle quali non era mestieri
degli auspizj, privilegio dell’aristocrazia. Estesero poi le proprie
attribuzioni, sino a rendere obbligatorie anche ai patrizj le loro
risoluzioni; vi eleggeano le cariche inferiori di Roma e tutte quelle
delle provincie, il pontefice romano ed altri sacerdoti; conferivano la
cittadinanza; giudicavano di alcune trasgressioni, passibili di ammende.

Maggiori di tutti erano i comizj _centuriati_, dove ogni Romano
della città o della campagna che pagasse tassa e servisse in campo,
conveniva per nominare i maggiori magistrati, approvare le leggi,
discutere dei delitti di Stato, della pace e guerra, avendo così il
potere legislativo, eleggendo l’esecutivo, giudicandolo, accettando o
ricusando le leggi proposte[315].

Ma nell’intervallo fra la prima e la seconda guerra punica un
sostanziale cambiamento si operò, fondendo queste due sorta di comizj,
ossia riducendo democratici anche i centuriati, e così ovviando gli
eccessi dell’oligarchia in quelli, e della democrazia nei tributi.

[SENATO]

Il senato[316], composto in parte di capicasa antichi (_patres_),
in parte di aggregati (_conscripti_), non avea la sovranità, ma la
dirigeva; dava l’approvazione alle decisioni de’ comizj e alle nomine
de’ magistrati; esaminava se convenisse far guerra o pace, e ne
redigeva il decreto; riceveva gli ambasciatori, dettava le condizioni
dei trattati, che il popolo per mera formalità riconosceva. A lui
solo la soprintendenza delle cose religiose, l’interrogare i libri
Sibillini, l’introdurre divinità o riti nuovi; a lui l’amministrazione
del tesoro, il rivedere i conti, il levare e congedar truppe,
l’istruire i più gravi processi criminali, come quelli di Stato e di
assassinj ed avvelenamenti commessi in Italia; il nominar il dittatore,
e decretare il trionfo od altre ricompense ai generali vittoriosi. In
appresso fu arbitro delle provincie, le quali assegnava ai magistrati,
come conferiva il titolo di re o d’alleato del popolo romano, e
decideva le quistioni fra città federate e suddite.

Benchè sovrano vero fosse il popolo, il senato potea guardarsi come
un altro capo della repubblica; i limiti del potere giudiziario e
del legislativo non erano ben distinti; e il senato, più cauto ed
accorto, sovente arrogavasi molti dei diritti del popolo, senza che
questo abbia mai con un provvedimento generale assicurata l’inferiorità
del senato. Le determinazioni di esso (_senatusconsulta_) si aveano
per obbligatorie, nè poteano abrogarsi che dal senato stesso, onde
Cicerone trova _potestas in populo, auctoritas in senatu_; oltrechè
coll’interpretare o sospendere modificava di fatto la legislazione.

Al senato ebbero presto accesso anche plebei[317], e non tardarono
ad esservi in maggiorità; e fu allora che si formò una nobiltà, ben
distinta dal patriziato. I patrizj discendeano dalle primitive
famiglie; i nobili erano figli di magistrati o di persone benemerite
della repubblica: sicchè il senato fu il rappresentante non più de’
patrizj, ma della nobiltà, e perdette sempre maggior parte delle
sue attribuzioni legislative, riducendosi a corpo consultivo. V’era
ascritto il meglio del paese, antichi magistrati curuli, prodi
capitani, benemeriti della repubblica; ma non ci consta per quali
condizioni di meriti, d’età[318], di censo, e ci ha del probabile
che n’avesse uno ciascuna delle dieci decurie. Erano a vita, ma
potevano esser rimossi. I censori sceglievano un presidente (_princeps
senatus_), il maggior onore a cui un Romano potesse aspirare.

[CAVALIERI]

Agli Ordini patrizio e plebeo si suole aggiungere l’equestre; ma come
Ordine distinto mai non figura, almeno nei cinque primi secoli di
Roma: d’altra parte v’avea cavalieri plebei e cavalieri nobili, talchè
forse non significava che distinzione accidentale di persone o di
famiglia; una funzione militare, che portava ingerenza politica perchè
attribuita a persone e famiglie distinte.—Voi (diceva Perseo a’ suoi
soldati) avete vinto la parte più considerevole de’ Romani, la loro
cavalleria, nella quale si vantano insuperabili. I cavalieri sono il
fiore della loro gioventù, il semenzajo del loro consiglio pubblico, da
cui si traggono i senatori per farne poi consoli e generali». Plinio
maggiore, tardo testimonio sì, ma pur cavaliere, asserisce che solo i
Gracchi interposero quest’Ordine fra la plebe e i padri, attribuendogli
i giudizj; poi Cicerone li consolidò all’occasione del tumulto di
Catilina, dopo il qual tempo l’Ordine equestre fu aggiunto al senato
e alla plebe[319]. Forse dunque non dinotava a principio se non i
cittadini delle diciotto prime centurie della prima classe, cioè i più
ricchi, patrizj fossero o plebei, i quali poteano militare a cavallo,
e da questo trassero il nome, come dalla lancia (_quir_) eransi detti
quiriti i nobili della prima costituzione. L’onore guerresco diede
loro importanza anche in città, dove poi ottennero privilegi, tanto da
formare una specie di terz’Ordine, forse da prima non molto differenti
dagli _squires_ d’Inghilterra. Per entrarvi bisognava esser nato libero
e onestamente, possedere un dato censo, o aver meritato per azioni e
virtù personali: pure non può tenersi in conto di corpo stabile nè
politico, giacchè ciascuno continuava ad appartenere alla plebe o al
patriziato[320], nè godeva speciale attribuzione legislativa; e uno
poteva esservi ascritto ed escluso può dirsi a capriccio dei censori,
che ogni cinque anni ne faceano la cerna.

Neppure gli altri due Ordini erano esclusivi: e qualche patrizio
faceasi adottare da un plebeo per conseguire le cariche alla plebe
riservate; e il plebeo mediante l’adozione o coll’entrar nel senato
potea sorgere fra’ nobili.

Perseverava dunque l’originario ordinamento per genti e per famiglie;
ma Roma non tenevasi immobile, anzi progrediva con misura, accettando
i vinti nella propria comunità, e di ciascun Ordine ascrivendo il
fiore nell’Ordine superiore. Il soldato, il giureconsulto, l’oratore
si sentiva spinto ad elevarsi; e nel nuovo grado portava non l’accidia
d’un potere incontrastato ed ereditario, ma l’operosità di chi ha
dovuto acquistarselo. Quella serie poi di magistrature che erano
un annuale esame, dava stimolo a ben sostenerle per meritarne di
maggiori, e per trasmettere alla propria famiglia la dignità che ne
conseguiva.

[CENSORI]

Affinchè il passaggio da un Ordine all’altro e nella cittadinanza si
compisse regolatamente, furono istituiti i censori, che vigilassero
a classificare i Romani secondo il grado di cavalieri, cittadini
od erarj. Di tale carica, spoglia di potestà diretta e di volontà
imperativa, eppure onnipotente nel movimento della pubblica vita,
veniva onorato chi avesse ben sostenuto altri uffizj. Ogni cinque
anni, per fare il _lustro_ o diremmo lo spurgo, il censore chiamava
il popolo a rassegna nel campo Marzio, e senz’altra forza che de’
suoi uffiziali e de’ suoi registri, esaminava e depurava gli ordini,
le tribù, le centurie. All’appello dell’araldo, ogni Romano compariva
a render conto delle facoltà sue; ed i censori, a norma dei bisogni
dello Stato e delle variate sostanze, riformavano la distribuzione
delle classi e delle centurie, e quali faceano ascendere, quali calare,
quali confinavano tra gli erarj. Grande autorità ne derivava ad essi;
e il senato acquistava con ciò l’arbitrio di comporre l’assemblea
legislativa come meglio trovasse, e così dominarla. Ma poi anche la
censura cessò d’essere privilegio aristocratico, e fu comunicata a’
plebei.

I censori trovavansi dal proprio uffizio recati ad erigersi guardiani
del buon costume. V’era fra’ senatori chi si fosse o impoverito o
disonorato? lo radiavano dall’_album_, surrogando un più degno. Ogni
cavaliere presentavasi alla rassegna col cavallo, che a ciascuno
era somministrato dal pubblico; e se questo si trovasse mal tenuto,
o lui povero oppure incriminato, gli si intimava _Vende equum_, e
questa privazione equivaleva a degradarlo. L’_animadversio censoria_
infliggevasi ad azioni disonoranti, contro delle quali nessuna
pena sancisse la legge; come l’ingratitudine del cliente verso
il patrono, l’eccesso di durezza o d’indulgenza coi figliuoli,
l’inutile maltrattamento degli schiavi, la negligenza verso i parenti,
l’ubriachezza, la trascuranza dei doveri religiosi o delle esequie,
il sedurre la gioventù; e così al tutore infedele, al socio mancator
di parola, al celibato capriccioso, al concubinato, all’esposizione
dell’infante legittimo, a chi oltraggiasse alla decenza ed alla salute
pubblica[321].

Ammonivano pure il plebeo che da agricola si mutasse in mercante o
artiere; il contadino che lasciasse deperire la sua vigna, o il cui
campo fosse men coltivato che i vicini. Ad Emilio Lepido console si
fece appunto dell’aver preso a pigione una casa per seimila sesterzj e
innalzata una villa oltre misura; Lucio Antonio fu espunto dal senato
perchè ripudiò la moglie senza raccorre un consiglio di amici[322];
Cornelio Runfio, antenato di Silla, degradato perchè gli trovarono più
di dieci libbre d’argento in vasellame; i censori Domizio Enobarbo e
Licinio Crasso fecero chiuder le scuole, dove i retori insegnavano
una sfacciataggine di parole ignota ai grandi oratori. Esso Enobarbo
pose querela al collega, oratore famoso, d’aver amato soverchiamente
una murena, fin ad ornarla di giojelli, e morta onorarla di pianti
e d’un monumento: ma Crasso sventò il giudizio volgendolo in riso,
e confessando,—Io son troppo lontano dalla saggezza di Domizio, il
quale non ha pur pianto alla perdita di tre mogli». Sovrattutto la
legge circondava di cautele i senatori per farli rispettati; non
doveano impoverirsi, non arricchire con appalti, non prestare di là da
quattrocento lire, non far da gladiatori, non isposare ballerine, non
brogliare; a chi ne convincesse uno di delitto, promettevasi il grado
tolto al colpevole.

Ne’ giudizj censorj non bastava il produrre molti testimonj di buona
condotta, come usavasi per gli altri, ma si chiedeano discolpe dirette.
Se la condanna fosse data per convinzione individuale, un altro
censore poteva cassarla: tutte poi poteano essere abolite dai censori
successivi.

Altri censori praticavano il medesimo scandaglio nelle colonie e ne’
municipj, trasmettendone gli atti all’uffizio di Roma, che deponeva nel
tempio delle Ninfe questo periodico sindacato.

[LEGGI]

Chiamavano propriamente _legge_ una deliberazione presa ne’ comizj
centuriati da’ patrizj e plebei d’accordo, per rogazione d’un
magistrato superiore: _plebiscito_, una risoluzione della sola plebe
ne’ comizj tributi, per rogazione d’un magistrato plebeo[323]; era
obbligatorio per tutto il popolo (pag. 184); anzi i plebisciti sono le
più acclamate leggi del diritto romano. Faceansi leggi per tribù, per
curie, per centurie, e di queste medesime variavano i modi d’iniziativa
e di sanzione. Una legge si proponeva dapprima al senato: se in questo
passasse, promulgavasi per tre successivi mercati, acciocchè anche i
campagnuoli potessero prenderne cognizione: al dì prefisso convocavasi
il popolo nel campo Marzio, si discuteva, si mandava a voti. Per
raccogliere questi, facevansi tanti ponticelli quante le centurie; e
ciascun cittadino, passando pel suo, riceveva delle tessere, colle
quali esprimeva secretamente il suo voto. Se si trattava di legge, la
tessera favorevole portava VR, l’altra A, cioè _Vti Rogas_ e _Antiquo_;
se di giudizio, una il C, una l’A, una NL, cioè _Condemno_, _Absolvo_,
_Non Liquet_. I voti valevano complessivamente per centurie.

[PLEBISCITI]

Altre volte il voto era palese. Così allorquando quelli d’Aricia
e d’Ardea disputavano fra loro un territorio, e si riportarono
all’arbitramento de’ Romani, questi raccolsero le tribù per decidere,
e posero due urne, l’una per il sì, l’altra per il no. Ma insorse una
quistione incidente, essendosi asserito che il territorio conteso non
apparteneva a nessuno dei due litiganti, sibbene ai Romani; onde una
terza urna fu riservata a tal quistione, e tutti i voti caddero in
quella[324].

[RIFORME]

Il diritto romano non procedette per improvvise e violente rivoluzioni;
gloriandosi di rimaner saldo agli antichi statuti, non derogò mai
le XII Tavole[325], e lasciava che i magistrati, e principalmente
gli editti dei pretori e degli edili supplissero ai difetti ed
interpretassero.

[MAGISTRATI]

A ciascuna delle differenti magistrature spettava una porzione
dell’autorità sovrana, restando indipendenti nell’azione a loro
attribuita; e soltanto sotto l’Impero le vedremo coordinate in una
vasta gerarchia, che le une sottomette alle altre. Un potere sommo, al
quale tutto si riporti, tutto riesca, fu ignoto a Roma repubblicana;
i magistrati quasi non dipendevano dal senato nè dal popolo, se non
in quanto allo scadere doveano subire il sindacato; fra loro stessi
operavano da eguali, non per delegazione o sotto gli ordini d’un
superiore, ma in virtù del potere conferito dall’elezione popolare, e
perciò responsali della propria gestione, ognuno estendendosi fin dove
cominciavano le attribuzioni dell’altro, ognuno potendo quel che valeva
a compire da sè, nè avendo modo di costringere gli altri, che erano
inferiori a lui ma non subordinati.

[DITTATORI]

E appunto perchè la costituzione non determinava i limiti delle varie
magistrature, e moltissimo attribuiva alla bontà e dottrina, le qualità
personali davano ad uno maggiore o minore autorità, ed agevolezze alle
usurpazioni. Quando poi bisognassero rimedj più pronti ed efficaci,
la costituzione distruggeva se stessa coll’accordare potere assoluto
ad un dittatore, che, magistrato, legislatore, capitano, senz’appello
al popolo, tenuto come dio (_pro numine observatus_), poteva quando
volesse farsi tiranno. Che valore avea la prescrizione che dopo sei
mesi egli deponesse il potere?

Le magistrature, tutte a tempo ed elettive, distinguevansi in ordinarie
e straordinarie; e in ciascuna v’avea magistrati grandi, godenti
il poter militare e l’autorità civile (_imperium et potestas_); e
magistrati minori, investiti di potere limitato. Nei grandi, i consoli,
i pretori, i censori erano magistrati ordinarj; straordinarj il
dittatore e il suo luogotenente, il prefetto della città, l’interrè.
Minori gli edili plebei e curuli, i questori e i tribuni.

[CONSOLI]

Del governo stavano a capo due consoli, re annuali scelti fra
nobili o plebei. Presedevano alle adunanze del popolo e del senato,
raccoglievano i voti, curavano l’esecuzione dei decreti; introducevano
gli ambasciatori stranieri, cernivano i guerrieri fra i cittadini e
i federati, nominavano i tribuni nelle legioni, soprintendevano alle
cerimonie religiose e alle finanze; e sebbene di rado potessero in
persona amministrare la giustizia, erano però considerati come supremi
custodi delle leggi, dell’equità e della disciplina, e molte cause
venivano dai tribunali ordinarj portate al consolare in ultima istanza.
Il senato poteva prorogar loro il comando degli eserciti, dare o negare
le somme necessarie; il popolo doveva servirli in guerra, e rivedere
le spese e i trattati da loro conchiusi coll’inimico: onde erano
costretti tenersi amici l’uno e l’altro. Riceveano poi omaggi che oggi
non si soffrirebbero: ritirarsi al loro passaggio, scendere da cavallo
o alzarsi da sedere all’apparir loro; se no, le battiture dei littori:
Acilio spezzò la sedia curule d’un pretore che non si levò.

[PRETORI]

Dai fasci ond’erano accompagnati si tolse la scure, per dinotare che
non aveano il diritto di sangue; la rimetteano però dopo usciti un
miglio da Roma, recuperando quel potere illimitato ch’è conveniente
a un capo d’esercito. Di fatto in tempo di guerra potevano senza
limiti, o quando ne’ frangenti il senato commettesse loro l’autorità
dittatoria perchè salvassero la repubblica. Pure, finchè non si uscì
d’Italia, i consoli anche a capo dell’esercito sottostavano al veto
de’ tribuni, alla continua vigilanza del senato, che potea negar
loro i viveri o richiamarli: ma quando si varcarono i mari (riflette
Polibio) furono tutto; essi pretori, censori, edili, essi popolo e
senato; patteggiavano co’ vinti, imponevano tributi e leggi, levavano
soldati; regnavano insomma, ed apprendevano le pericolose blandizie del
comandare indipendente.

Gli antichi re aveano in sè unito il presedere alle grandi assemblee
ed al senato, il comandar agli eserciti, l’amministrare la giustizia;
altrettanto continuarono i consoli: ma quando venne accomunata a’
plebei questa suprema magistratura, i nobili tentarono cincischiarla
col nominare pretori che, scelti sempre fra i patrizj, rendessero
giustizia. Non andarono però sei lustri che anche alla pretura fu
scelto un plebeo. I pretori adempivano le veci del console quand’egli
assente o quando altrimenti occorresse; ma special loro attribuzione
erano i giudizj inferiori.

Dalla distinzione fra cittadini e forestieri nascevano due diritti,
l’uno detto _civile_, l’altro _delle genti_. Il civile regolava le
prerogative, e proteggeva le azioni del cittadino romano secondo le
leggi patrie. Il diritto delle genti (tutt’altro da quello che oggi
s’indica con tal nome) abbracciava le relazioni sociali, il complesso
di que’ principj giuridici in cui tutti i popoli civili sono d’accordo,
e le regole dell’equità naturale[326].

Per applicare tali diritti, al tempo della prima guerra punica si
elessero un pretore _urbano_ ed uno _peregrino_; poi crebbero a
quattro, a otto, a sedici e più. Le loro funzioni epilogavansi nella
formola _do, dico, addico: davano_ l’azione, l’eccezione, il possesso,
i giudici, gli arbitri, i tutori; _dicevano_ sentenze nelle cose
controverse e ne’ casi possessorj; _addicevano_, cioè aggiudicavano
quando si facesse cessione del diritto, nell’emancipazione e simili.

Gravati di tanta responsabilità, al primo entrare in carica doveano,
anche per proprio interesse, fare pubblica professione del come
avrebbero in quell’anno esercitato la parte che la costituzione
lasciava a loro arbitrio, senza ledere il diritto civile[327].
Esponeano dunque un _editto_, oggi diremmo un programma, riguardante
specialmente quel che noi qualificheremmo di diritto amministrativo;
conservando ciò che trovassero buono negli antecessori, correggendo
i difetti, proponendo nuove formole d’azione; dal che veniva a
progressivamente migliorarsi la legislazione, secondando il variar de’
costumi e dell’opinione senza radicali sovvertimenti; e la rigidezza
della legge scritta era piegata, principalmente colle finzioni[328],
col mutar nomi, colle eccezioni e col restituire in intiero; mostrando
sempre appoggiarsi all’antico diritto anche quando vi si contraddiceva.

[GIURISDIZIONE]

Il carattere dei poteri giudiziali fra i Romani risulta dalla
distinzione che faceasi tra gius e giudizio, tra magistrato e giudici.
Gius è il diritto; giudizio sono le istanze, l’esame, la sentenza.
Il magistrato dichiara il diritto, lo fa eseguire, risolve l’affare
qualora la dichiarazione del diritto basti alla soluzione; in caso
contrario, assegna qual potere dovrà giudicare i litigi, e qual diritto
regolarli. I giudici esaminano la controversia e le discussioni fra
le parti, e le terminano colla sentenza. A quello dunque spetta, oggi
diremmo, la decisione del diritto; a questi la decisione del fatto,
valutandolo però giuridicamente.

Anche ne’ giudizj rimaneva dunque la sovranità al popolo, il quale
esercitava la giurisdizione direttamente ne’ casi capitali, e per
delegazione nelle materie di ragione privata. Annualmente ne’ comizj
da ciascuna tribù si eleggevano tre giudici, detti perciò centumviri,
e si dividevano in quattro collegi, che, ora separati ora congiunti,
procedevano intorno alle quistioni di diritti famigliari, di dominio
quiritario, di successione. Forse in tutti i casi[329], ma certamente
in quelli che non fossero di competenza del tribunale centumvirale, le
parti, dopo esposta la contestazione al pretore, sceglievano d’accordo
l’arbitro od il giudice, che doveva discutere la causa secondo la
formola data dal pretore[330]. Il giudice si designava ne’ casi di
stretto diritto, ove cioè si trattasse di cosa certa e determinata;
l’arbitro in quelli _ex æquo et bono_, ossia di equità; e quello e
questo fra le persone annualmente trascelte ad esercitare i giudizj.
Per un pezzo furono dell’Ordine senatorio, dappoi vi pretesero anche i
cavalieri, dal che vedremo sorgere conflitti gravissimi.

Per le liti con stranieri o fra stranieri, il pretore deputava
Recuperatori, che doveano risolverle colla massima sollecitudine;
il qual vantaggio li fece poi adottare anche pei cittadini nei casi
di possessorio o di risarcimento di danni derivati da ingiuria o da
delitto.

[DIRITTO AUGURALE]

Tal era quella mescolanza di tre governi che gli antichi ammiravano,
e dove s’avea coi consoli unità dell’esecuzione, col senato sperienza
ne’ consigli, col popolo vigor nell’azione; per modo che tutte le
forze dello Stato convergeano con irresistibile potenza alla grandezza
della repubblica. Il console può tutto, ma il senato può negargli i
mezzi, il tribuno impedirne le decisioni; tocca al popolo il sindacarne
gli atti, e punirlo o premiarlo col novamente eleggerlo. Il senato
sembra il padrone della repubblica agli stranieri che trattano con
esso solo; eppure è sottoposto alla revisione dei censori, è preseduto
dai consoli, è remorato dai tribuni, e deve aspettar le leggi delle
centurie e delle tribù. Il popolo rimane corpo sovrano al fôro, ma
ne’ tribunali ha per giudici i cavalieri, nell’esercito per generale
il console; dipende dal senato e dai censori per gli appalti e pei
possessi: il patrizio si mescola fra’ plebei a sollecitarne il voto,
a comprarlo anche col denaro che i suoi avi ne hanno usurpato. Da
quest’equilibrio tanta forza, tanta preveggenza, tanto senno politico.

Chi ci ha intesi parlare più volte d’auspizj, comprenderà quanta
parte avessero nell’amministrazione, ogni atto della quale esigeva
la sanzione divina. L’auspizio era l’osservazione rituale di certi
segni, come fenomeni celesti e meteore, volo di uccelli, tripudio o
svogliatezza dei polli sacri nel prender cibo, cammino di serpenti o
d’altri animali, che doveano attestare l’assenso o la disapprovazione
degli Dei.

Carattere essenziale del magistrato in Roma era il poter consultare da
sè gli auspizj; ma per lo più ricorreva agli auguri, che conosceano
le posizioni, il tempo, i riti, e che per ciò trovavansi in mano le
guise di sciogliere un’adunanza, sospendere una nomina, abrogare una
decisione, limitare insomma l’autorità non solo dei magistrati, ma
del senato e del popolo. «Il diritto più grande ed eccellente nella
Repubblica (diceva Cicerone) è quello degli auguri, che sorpassa
l’autorità. Qual cosa maggiore che il poter disciogliere i comizj e le
assemblee convocate dai magistrati supremi, e annullarle dopo fatte?
qual cosa più rilevante che il veder un’impresa interrotta se l’augure
assegna un altro dì? qual cosa più magnifica che poter decretare ai
consoli d’abdicarsi dalla magistratura? qual cosa più religiosa che
il concedere o no l’adunanza del popolo? abolire una legge se non è
proposta secondo le forme? Senza l’autorità loro insomma nulla di quel
che fanno i magistrati in città o fuori, può essere approvato»[331].

Gli auguri erano a vita, eletti ne’ comizj come gli altri collegi.
Dopo che le conquiste si allargarono, acciocchè il generale non fosse
costretto abbandonare a lungo l’esercito per venire a Roma a consultare
gli auspizj, sceglievasi un pezzo del territorio conquistato, si
dichiarava romano, ed ivi il generale compiva la cerimonia[332].

[SACERDOTI]

Quindici sommi pontefici, ispettori delle cose sacre, proferivano
sulle dubbiezze che facilmente insorgono in un sistema tradizionale.
I quindecemviri, portati a questo numero sotto Silla, inamovibili
e specialmente devoti ad Apollo, custodivano i libri Sibillini, e
ne interrogavano i vaticinj; per mezzo de’ quali furono introdotte
tante novità nel culto nazionale, e mantenutivi riti atroci, fino
al sepellire persone vive. Gli Epuloni, determinati nel numero di
sette da Silla stesso, faceano gli onori del banchetto di Giove. I
sacerdoti sceglievansi fra cittadini primarj e nobili; nè i plebei vi
s’introdussero se non quando il numero ne fu aumentato.

[CULTO]

Auguri, pontefici, quindecemviri, epuloni formavano i grandi collegi,
ciascuno sotto un _magister_ o capo particolare, cui sovrastava il
pontefice massimo, custode de’ formolarj religiosi, esecutore de’
maggiori sacrifizj. Eletto dal popolo intero, era inamovibile; la sua
casa dovea rimanere continuamente aperta al pubblico; e fu sempre
un patrizio fin a Tiberio Coruncanio nel ii secolo avanti Cristo.
Patrizj erano pure i quattro del suo consiglio; ma nel 301 vi si
aggiunsero quattro plebei, poi sotto Silla crebbero a sedici. Dalle
costoro decisioni davasi appello all’assemblea del popolo. Un _rex
sacrificulus_, patrizio, di comparsa e nulla più, adempiva i riti che
anticamente spettavano ai re; e nella festa commemorativa della costoro
cacciata (_regifugium_), dopo immolate le vittime, egli davasi in fuga.

Quattro collegi inferiori comprendevano i Fratelli Arvali, i
venticinque Tiziesi, i venti Feciali che sancivano la pace e intimavano
la guerra, e i Curioni che assistevano alle adunanze delle curie. A
nessun collegio appartenevano gli Aruspici, indovini poco stimati, che
leggevano nelle viscere delle vittime ciò che la prudenza dei padri
trovava opportuno alla patria. Altre confraternite si dedicavano al
culto speciale di qualche divinità, come i Galli a Cibele, i Luperci
a Pane, i Salj a Marte. I tre flamini di Giove, Marte e Quirino,
rappresentavano le tre genti, aggregatesi da principio per costituire
la curia romana. A tutti ajutavano sacristani, notaj, macellaj, musici,
camilli, cioè fanciulli de’ due sessi.

[VESTALI]

Le sei vergini Vestali custodivano il fuoco sacro di Vesta e le arcane
cose cui era appoggiata la salvezza di Roma. Lo spegnersi di quel fuoco
si considerava come pubblica calamità, nè altro portento atterrì più
di questo durante la seconda guerra punica. Un littore precedeva le
Vestali; consoli e littori scontrandole, abbassavano i fasci; esse in
cocchio, anche quando la legge il vietava ad ogni altro; esse distinto
sedile agli spettacoli; la loro dichiarazione in giudizio equivaleva
a giuramento; uno condotto a morte che per caso le incontrasse,
rimaneva assolto. Se si adornavano più sollecitamente che a vergine non
convenga, erano dal pontefice ammonite; ne erano battute colla sferza
nell’interno del tempio se negligessero il culto; se poi macchiassero
la castità, sepolte vive, e morto il complice.

Le spese del culto erano sostenute dalle maggiori famiglie, dai privati
che offrivano sacrifizj, da qualche possesso dei tempj medesimi, e
dalle oblazioni, come erano quelle pei morti a Libitina, per le nascite
a Lucina, per la toga virile alla Gioventù: occorrendo suppliva lo
Stato.

Ma la religione a Roma non si elevò mai nè a poesia nè a sublimi
speculazioni; positiva e di semplice pratica, si atteggiò alla
politica, come ogni altra cosa servendo allo Stato. I sacerdoti non si
costituirono in un corpo compatto e prevalente, non duravano perpetui,
non cessavano d’essere nel medesimo tempo cittadini e magistrati;
nè pare dal sacerdozio derivassero lucro, sibbene considerazione
e influenza: intervenivano a bandire la guerra e sodare la pace,
sanzionavano ogni pubblico atto, preludevano cogli augurj alle
determinazioni, interrogavano gli oracoli, ma vi si scorge sempre un
intento politico, non ispirazione religiosa. Quindi i satirici facevano
beffe impunemente degli auguri[333]; Cicerone, membro e panegirista di
quel collegio, stupiva che due auguri potessero incontrarsi per via
senza ridersi in viso; e Lelia domandava al marito Quinto Muzio Scevola
perchè non vi aggregasse anche la fantesca, ben più esperta dello
sfamare a tempo i polli.

[MUNICIPJ]

Insomma Roma aveva governo municipale, nè mai ne cambiò natura, non
distinguendo l’amministrazione della città da quella dello Stato; e
sebbene, coll’ingrandirsi, molte attribuzioni primitive del senato e
dei consoli venissero assegnate a magistrati nuovi, tutti conservarono
sempre alcune attribuzioni meramente locali.

Questo modello offrivasi agli occhi degli Italiani, che erano
distribuiti in comunità al settentrione barbare e disgregate, al
mezzodì eleganti e ambiziose alla greca, tutte ispirate dalla boria
dell’autonomia, e gelose di non comunicarla ad altri. Roma invece,
dall’istinto popolare dell’espansione spinta ad aggregare altri a sè,
od estendere ad altri le proprie istituzioni municipali, accettava
nella città gli avveniticci. Quest’assimilazione molto progredì sotto
i re; ma l’aristocrazia succeduta la restrinse, non cercando l’aumento
esterno, sibbene l’interna dominazione, e attenta a far tiranno il
popolo fuori, per tiranneggiarlo dentro. In fatti, mentre il censo
sotto Servio Tullio avea numerato ottantaquattromila cittadini
sopra i sedici anni, quello del 245 alla cacciata dei re ne offrì
centrentamila, e quello del 278 soli cendiecimila, che dieci anni
appresso erano ridotti a cenquattromila ducenquattordici. La plebe
pensava altrimenti dagli aristocratici, ed anzichè inimicare i vicini,
reclamava per loro la partecipazione de’ diritti; onde appena essa
rivalse, tornò ad estendere la concessione della cittadinanza. Questa
però non distribuivasi a tutti eguale, ma moltiplicando e variando le
concessioni in proporzione dello zelo, e per mantenere la gelosia od
eccitare l’emulazione.

Dicono che primamente nel 365, per rimeritare quelli di Cere dell’aver
ospitato gli Dei nell’invasione gallica, fosse, per così dire,
trapiantata la città, creando cittadini romani fuor del territorio di
Roma; poi il diritto stesso di cittadini si suddivise e limitò secondo
certe gradazioni, determinate dalle circostanze della concessione.
I paesi cui fosse largita la cittadinanza romana, chiamavansi
_municipj_; si lasciavano governarsi con leggi proprie e proprj
comizj, ma sul modello di Roma; l’ordine dei decurioni vi formava
la curia, corrispondente al senato romano; ai consoli equivalevano
i duumviri, con giurisdizione in certe cause e fino ad una somma
prefissa; il quinquennale, il censore o curatore, il difensore, gli
edili, gli attuarj n’erano le varie cariche, colle quali internamente
si amministravano a tutto lor senno. Mentre restava membro della
propria comunità indipendente, il municipe era anche cittadino di
Roma, elettore, eleggibile, avendo una patria di nascita, una di
diritto[334]. I municipj _optimo jure_ aveano tutti i diritti e gli
obblighi de’ cittadini romani; altri non godeano del suffragio, come i
prischi plebei; servivano nelle legioni, ma non poteano arrivare alle
dignità. Prezioso diritto ne era il poter ne’ municipj vivere franchi
gli esigliati da Roma, talchè uno a Preneste appena o a Tivoli era
sicuro dalla pena.

Per quanto variasse la romana costituzione, restò sempre suo
cardine che nella sola metropoli si esercitassero i poteri sovrani;
comunicavansi ad altri, ma a condizione di usarne soltanto in Roma; nè
mai si pensò a raccoglier i voti ne’ paesi, nè a far che mandassero
rappresentanti e deputati. Il municipe dunque avea diritto di suffragio
e di eleggibilità a Roma, ma purchè vi fosse in persona, ed in quanto
trovavasi ascritto ad una tribù. Così Como apparteneva alla Oufentina,
Volterra alla Sabatina, Genova e Pisa alla Galleria, Albenga alla
Publilia, Vicenza alla Menenia, Altino e Cividale alla Scapzia, Padova
alla Fabia, Aquileja alla Velina, Concordia alla Claudia, Este alla
Romilia, e via discorrete.

[DIRITTO LATINO]

Oltre i cittadini adottivi, Roma largheggiò di privilegi coi Latini,
che già trovansi sistemati alla foggia di Roma primitiva; onde ai
sette colli facevano corona città latine, pari in diritto di suffragio
ai Romani. Questo privilegio fu poi esteso ad altre in tutta Italia,
ed oltre le città de’ Sabini, Tusculo, Cere, Lanuvio, Aricia, Pedo,
Nomento, Acerra, Anagni, Cuma, Priverna, Fundi, Formia, Suessa,
Trebula, Arpino, abbracciava pure Circeo e Ardea, Cora e Norba tra
i Volsci, Fregelle e Interamna sul Liri, Alba dei Marsi, Lucera e
Venosa dell’Apulia, Adria e Fermo nel Piceno, Brindisi e Arimino. Di
queste alcune erano _socii_, datisi senza guerra, o venuti in colonia,
e godevano pieni diritti: altre _fœderati_, ricevuti dopo vinti e a
condizione inferiore, non acquistando la podestà patria, nè le nozze
alla romana, nè la capacità di testare a pro d’un romano cittadino o
di ereditarne, nè l’inviolabilità della persona; talchè rimaneano un
di mezzo fra cittadini e forestieri, con divieto di tenere assemblee
generali, far guerre, contrarre matrimonio fuori del territorio.

[DIRITTO ITALICO]

Il gius italico non conferiva privilegio di sorta al cittadino
individuo, bensì alla città in complesso attribuiva la proprietà
quiritaria del terreno ed il commercio; dal che derivavano l’esenzione
da imposta prediale, e la capacità alla mancipazione, all’usucapione,
alla vindicazione. Ma se un italico aspirasse a divenire cittadino
romano, bisognava passasse pel diritto del Lazio.

Molto variava la condizione delle regioni sottoposte al gius italico.
In alcune si mandava ogni anno un prefetto per rendere giustizia o
amministrarne gli affari. Le _deditizie_ restavano a discrezione del
senato come suddite. Altre aveano titolo di _alleate_, ma coi guaj
delle alleanze coi forti; e per esempio Taranto era libera, ma colla
cittadella occupata da una legione, e demolite le mura; Napoli pure, ma
nol sentiva che per dover dare navi e soldati. Anzi talvolta mutavano
condizione; e Capua da federata divenne per castigo prefettura, indi
colonia; Cuma, Acerra, Suessula, Atella, Formio, Piperno, Anagni da
municipj si ridussero in colonie, e a volta in prefetture; colonie
erano Casilino, Vulturno, Linterno, Pozzuoli, Saturnia; prefetture
sempre Calatia, Venafro, Alifa, Frusilone, Rieti, Nursia.

Di tali diritti internazionali ci scarseggiano tanto i documenti, che
non bene accertiamo a quali condizioni stessero gli Etruschi; ma pare
non godessero del diritto latino, bensì di particolari capitolazioni,
abbastanza larghe, almeno in quanto concerne la classe dominante dei
lucumoni. Il loro ammollimento toglieva di temerli; faceali venerare
la conoscenza delle tradizioni religiose; e forse non andrebbe lungi
dal vero chi li paragonasse al clero cristiano sotto i Longobardi.
Loro legioni non troviamo negli eserciti romani; e i trentaquattromila
uomini che essi coi Sabini allestirono contro i Galli nel 528, erano
una difesa territoriale. Probabilmente erano privilegiati anche gli
Umbri, razza bellicosa, che però non sembra partecipasse alla legione
romana.

Fra le città italiche nessuno annoveri le greche, le quali non
ottennero mai que’ privilegi; pagavano tributo, non entravano nella
legione, bensì poteano servire come ausiliari, e somministravano galee
a Roma. Napoli alla greca restava divisa in _fratrie_, rispondenti alle
curie di Roma, e composte originariamente di trenta famiglie attorno
al sacello d’un dio o d’un eroe, da cui prendeva nome, onde v’era
quella degli Eumelidi, d’Ebone, di Castore, di Cerere, d’Artemisia, di
Aristeo. Ogni quinquennio vi si celebravano concorsi di musica e di
ginnastica, famosi quanto quelli della Grecia, della quale conservava i
costumi, mentre vi diventavano stranieri i vicini. Da federata si
mutò poi in colonia, e così Salerno e Nocera.

[COLONIE]

Il senato avocava a Roma gli Dei delle città vinte, o almeno
sottoponeva i loro sacerdoti a’ suoi, che arrogandosi il privilegio
della scienza augurale, quelli destituivano d’ogni influenza politica.
Ma non si dimenticava che un popolo soffre men dolorosamente la
perdita dell’indipendenza, che lo sprezzo delle costumanze; giacchè
quella attesta la maggior forza del vincitore, questa ne esprime il
vilipendio. Laonde Roma non aboliva le consuetudini particolari,
lasciava s’amministrassero nell’interno, conferissero la cittadinanza,
tumultuassero ne’ loro comizj, insomma si lusingassero delle apparenze
di libertà. Che se, per imitazione della rivoluzione romana, alla
nobiltà di razza era succeduta nel primato la nobiltà personale
(_optimates_) e ricca, il senato romano avrà facilmente potuto impedire
che la democrazia vi prevalesse all’oligarchia.

Le colonie erano tutt’altra cosa da quelle che vedemmo la Grecia
diffondere per tutto a prosperamento del commercio, e che rimanevano
indipendenti dalla madrepatria (pag. 205). Le colonie romane erano
istituzioni politiche, a tutto vantaggio della metropoli, quasi
sentinelle avanzate ne’ posti che si trovassero meglio opportuni,
non per prosperare il paese, ma per custodirlo dai nemici. Così allo
sbocco della foresta Ciminia si colonizzarono Sutrio e Nepete; Anzio
per vigilare la costa dei Volsci; Velletri, Norba, Sezia per tenere
in soggezione la montagna; Anxur per separare il Lazio dalla Campania
sul Liri; Fregelle, Sora, Interamna, Minturno per ischermire il Lazio
dai Sanniti; e più indentro Attina, Aquino, Casino; così dicasi delle
altre. Nella nessuna importanza che anticamente attribuivasi alla
campagna, possono tali città considerarsi come fortezze, piantate
in territorio nemico; e i coloni come guernigioni, che non poteano
cospirare co’ natìi.

Gli spediti in colonia erano più o meno; mille cinquecento a Lavico,
duemila cinquecento a Luceria, tremila ad Aquileja, e fin seimila
famiglie a Piacenza e Cremona: e variava la quantità di terreno ad
essi distribuita, or di due soli jugeri, or fino di cinquanta ai
fanti e cenquaranta ai cavalieri, come fu ad Aquileja. I prischi
abitanti vi rimanevano peregrini, in comunità distinta, e al modo
indigeno; i trapiantati possedevano il diritto romano o l’italico,
siccome rami staccati dal tronco, e un governo municipale conforme al
romano con decurioni, duumviri, censori. Le cinquanta colonie fondate
prima della guerra punica, tutte nell’Italia centrale eccetto tre, e
venti altre stabilite più lontano fra il 197 e il 177, godeano la
romana cittadinanza, ma non il suffragio[335]; o, a dir più giusto,
erano impedite dall’esercitarlo, cioè dal trasferirsi a Roma. Chi
nelle colonie potesse salire agli impieghi, diventava municipe,
e per conseguenza cittadino romano, ammissibile agli onori della
metropoli. I Latini che volessero divenir tali, lasciavano i figliuoli
a rappresentarli nella città nativa, ed essi trasferivansi a Roma in
qualche magistratura: o convinceano di prevaricazione alcun magistrato
romano; passo di molto rischio e d’incerta riuscita.

Le colonie dunque, non che aspirassero all’indipendenza come le
greche e le moderne, aveano per proprio l’interesse della metropoli.
Ecco perchè sì poco consenso trovò Annibale nella lunga sua guerra;
e allorchè si parla di rivolte delle colonie, non s’intenda che i
Romani stabiliti in quelle insorgessero contro la madrepatria, bensì i
prischi abitatori rivoltavansi contro gli avveniticci, e per la prima
cosa avranno trucidato i Romani che v’erano di casa, di bottega, di
guarnigione[336]. Dopo la guerra Sociale, la legge Giulia modificò
quelle condizioni, e tutti gli Italiani vennero considerati Romani;
onde in Italia non v’ebbe più nè federati nè municipi senza voto;
alle colonie fu accomunato il diritto di suffragio e d’eleggibilità;
ma al tempo stesso tutti dovettero adottare le romane leggi, a
queste acconciando le patrie costituzioni, in modo di ridurle non
al tipo di Roma, ma in armonia con quello. Una di tali costituzioni
ci è conservata nella tavola d’Eraclea, città nel seno di Taranto,
scritta dopo il 672 di Roma, scoperta nel 1732, e custodita nel museo
napolitano, dalla quale e da altri riscontri si raccoglie che ogni
municipio avea senati locali, a vita, e di numero prefisso; l’assemblea
popolare di ciascuna città nominava ai posti del senato vacanti;
sovra presentazione dei predecessori, i magistrati erano eletti ne’
comizj municipali come usavasi a Roma; ed erano responsali in denaro
de’ proprj falli. Esistevano inoltre borgate e mercati (_fora_,
_conciliabula_) non ancora elevati a municipj.

In somma i Romani, nati in piccola città, applicavano ai vinti gli
stessi loro regolamenti interni; il diritto pubblico imitava il diritto
civile; e come il padrefamiglia trattava da famuli o schiavi i suoi
sottoposti, ovvero li rendeva liberti o gli adottava, così Roma facea
de’ popoli. In essa città, dove lo straniero non godeva alcun diritto,
neppur quello della giustizia, importava di farsi ospiti di qualche
casa o persona. Se ne stendeva contratto, e alcuni ce ne rimangono
scolpiti in pietra o in bronzo, pei quali il patrono obbligavasi a
dare al cliente ospitalità, tutelarlo, procurarne il maggior utile
ed onore; e il cliente di rimpatto onorarlo qual padre, fargli
corteggio, somministrargli denaro, riscattarlo se cadesse prigione in
guerra. Al modo stesso popoli interi si posero sotto al patronato di
qualche famiglia, per esempio de’ Fabj gli Allobrogi, degli Antonj i
Bolognesi, de’ Marcelli i Siciliani, affine di avere chi ne sostenesse
le ragioni[337].

[PARTECIPAZIONE ALLA CITTADINANZA]

Roma stessa talvolta conveniva dell’ospitalità con privati o con
popoli; posizione non ben definita, che lasciava ai collegati
l’indipendenza, ma debole. Camillo, occupata Vejo, manda una tazza
d’oro al dio di Delfo; ma la nave tra via è presa dai Liparioti,
famosi corsari. Timasiteo, uno d’essi, per riverenza a Roma e al nume,
persuade i suoi a restituire il latrocinio; e il senato in benemerenza
gli decreta regali e il diritto d’ospitalità. Dopo un secolo e mezzo i
Romani conquistano Lipari, ma conservano liberi ed immuni da tributo i
discendenti di Timasiteo[338].

Tante gradazioni di dipendenza riescono difficilissime a intendersi
da noi, avvezzi all’uniformità: ma è il capolavoro della politica di
Roma questo assimilare i vinti. Fin allora i popoli del mondo tenevansi
serrati fra gelose barriere, escludendo ogn’altro dai privilegi che
conferiva la cittadinanza; laonde i vinti restavano o servi o plebe _ex
lege_. Da qualche conquistatore erano unite sotto scettro di ferro più
comunità? non per questo si fondeano, e ben tosto ne erano sbrancate
novamente, senza conservare della dominatrice che odio e sgomento.

Anche le costituzioni de’ primitivi Itali trovammo tutte comunali;
un paese ostile all’altro, ed eliminando gli stranieri: pure faceano
confederazioni, che accomunavano i diritti dei varj. Ma Roma procede
con ben altra risolutezza, e gli aggrega. Da principio si popola col
ricoverare chiunque vuol entrarvi ai patti prescritti; ora i vinti
Albani, ora i vincitori Sabini costringe o alletta a trasferire i
loro penati presso i suoi: tribù, popolazioni, razze acquistano la
cittadinanza romana: poi si creano cittadini in altri paesi, e tutti
si ascrivono alle tribù della città, e tutti possono esercitarvi i
civili diritti[339]. Se lo spirito aristocratico del governo consolare
restrinse questo afflusso di forestieri, la plebe e i fautori di essa
da Spurio Cassio fino a Cesare caldeggiavano che gli Itali fossero
pareggiati di diritti ai Romani.

[CITTADINANZA]

Inoltre nelle provincie, eccetto la Sardegna, v’aveva alcune città
_libere_; ve n’aveva di immuni da tributo; come v’erano cittadini
e liberi e immuni o personalmente o con tutta la schiatta: anzi ai
Greci furono restituite perfino le assemblee pubbliche, e l’adoprar
giudici di propria nazione, e risolvere le liti colle leggi patrie.
Pertanto Roma, se si disanguava colle guerre, presto se ne rifaceva
coll’assimilarsi i vinti; questi esistevano per essa, mentre essa colle
colonie rifondeva la vita ne’ paesi assoggettati. Col concedere la
cittadinanza come liberalità ai più benemeriti e fedeli, preparavasi
partitanti nella lontana contrada, e traeva a sè quel che di meglio
fosse fuori. Questi aggregati talmente s’identificavano con Roma, che
parlando di essa dicevano «Noi, e i padri nostri, e il nostro fondatore
Romolo»; al modo che gli Svizzeri del canton Ticino o di Ginevra si
dicono figli di Tell. Così Roma compiva un gran passo sociale, qual
era il trarre il mondo ad un’unità non prima conosciuta; estendeva il
proprio Comune fino ad abbracciare tutto il mondo incivilito; e ne
sarebbe divenuta immortale, se l’eccesso delle conquiste non avesse
precipitato in lei tanti forestieri, che l’utile pasto riuscì a
micidiale replezione.

[TRISTA CONDIZIONE DEI VINTI]

Quanto all’esterno, mai non erasi più sapientemente applicato il
_Dividi e impera_; giacchè surrogando le città alle nazioni, e creando
tanti interessi diversi, s’impediva acquistassero la potenza che
deriva dall’unità d’intento; dappertutto rotti que’ vincoli con cui
le popolazioni si teneano fra loro, tolte le alleanze, le assemblee,
sino il far transazioni commerciali e matrimonj fra esse. La condizione
de’ possedimenti era differente anche fra gl’Italiani; e mentre il
cittadino poteva divenire proprietario assoluto d’un campo conquistato,
un Italiano non n’avea che il possesso precario. Que’ tanti Romani
sparsi nelle colonie poteano usurpare il possesso del vicino, e questo
non aveva diritto di citarlo ai tribunali di Roma se non per mezzo d’un
patrono, il quale troppo facilmente si conniveva al compatrioto.

Gli Italiani (salvo i pochi ch’ebbero lo jus _commercii et connubii_)
non possono ereditare nè comprare da un cittadino romano, nè vendergli
se non a rischio e pericolo, e senza che la legge lo sussidii se il
cittadino neghi il prezzo, o frodi i patti, o manchi alle scadenze.
Altrettanto avviene dal creditore al debitore. Il cittadino, protetto
sempre dalla legge e dai tribuni, non potrà essere incarcerato, non
battuto, non crocifisso; l’Italiano sì: questo non fruirà d’eguale
condizione nell’esercito, ov’è escluso dalla legione, e ammesso solo
nella coorte; nelle retribuzioni riceverà quel poco che si vorrà
concedergli; il generale può, anche per colpe leggiere, decapitare un
prefetto degl’Italiani, e aggiungervi l’ignominia; la bastonatura di
questi si fa con altro legno che quel di vite, riservato ai Romani. Nè
calza male il paragone di quello stato colle colonie d’America: gli
uomini bianchi, gli Europei, vi rappresentano il cittadino romano;
i bianchi, non mescolati di sangue africano ma d’altra razza che
l’europea, equivalgono al greco, all’italioto, all’etrusco; il mulatto
e il negro sono nella degradazione in cui erano tenuti gli stranieri, i
Barbari.

La giustizia degli antichi non si fondava sopra basi eterne, quali
l’eguaglianza di tutti gli uomini e la paternità dello stesso Dio, ma
sui patti reciproci. I membri d’una società aveano franchezza, diritti,
onori; gli estranei rimanevano nemici da trattarsi col diritto del
più forte; i vinti erano una genìa abbandonata dagli Dei, e perciò
inferiore, e destinata a servizio ed utile del vincitore. E ragione e
coscienza vedemmo ammutolirsi nelle conquiste; e dacchè non si trattava
più di cittadini, anche i magistrati si permettevano ogni abuso ne’
paesi conquistati, anzi talvolta contro gli stessi socj, pei quali la
libertà conceduta riusciva di mero nome[340].

Date questi diritti a gente sobria, casalinga, agricola, osservatrice,
quantunque cavillosa, della promessa e della stretta parola, e farà
sentire una dominazione severa, inumana se volete, pure coscienziata,
quando anche la coscienza possa essere erronea. Ma se sottentri un
popolo corrotto da improvvise ricchezze, che non farà soffrire a questi
medesimi Italiani, che pur godono il titolo di socj, di alleati, fin
di liberi? L’anno della sconfitta di Perseo, dalla quale comincia a
irrompere la prepotenza pubblica e privata, il console per la prima
volta ordinò che gli alleati di Preneste gli uscissero incontro, ed
allestissero alloggi e cavalli. Un altro fece sferzare i magistrati
d’una città alleata, che non gli aveva apparecchiato abbondanza di
viveri. Un mandriano di Venosa, vedendo gli schiavi portare in lettiga
un cittadino romano, domanda—Che? è egli morto?» e l’arguzia gli costa
la vita sotto le bastonate. Un censore, per adornare un tempio da lui
costruito, leva il tetto a quello di Giunone Lucina, il più venerato
d’Italia. Venuto il console a Teano, sua moglie desidera lavarsi
nel bagno degli uomini; e non essendo questo sgombrato abbastanza
sollecitamente, il primario cittadino è fatto snudare e flagellare
in pubblica piazza: atterriti quei di Caleno decretano che veruno si
accosti ai bagni finchè un magistrato romano si trovi nella città. Per
consimile titolo a Ferentino il pretore fece arrestare i questori,
uno dei quali fu battuto a verghe, l’altro si sottrasse all’obbrobrio
dandosi a precipizio da un’altura[341]. Le api d’un villano molestavano
un potente vicino, il quale gliele distrusse; il villano risolse di
trasferire altrove i poveri penati,—Ma (diceva) non ho potuto trovare
un angolo che non fosse accostato da ricchi e poderosi; non un ricovero
contro l’arbitrio e l’oppressione».

[LE PROVINCIE]

A quanto peggior condizione doveano trovarsi le provincie! Acquistato
un paese, Roma lo lasciava alcun tempo governare da principi nazionali
od impostigli, finchè lo avesse indocilito al giogo; allora li
sbalzava, e riducevalo a provincia: al che pure riusciva l’alleanza
contratta con qualche città o Stato libero. La prima sua cura
consisteva nel torgli ogni pubblica forza o costituzionale libertà, e
singolarmente scomporre quelle confederazioni, che cara le aveano fatto
costar la vittoria sopra l’Etruria, la Gallia e la Grecia. Del suolo
della provincia l’alto dominio supponeasi spettare al popolo romano;
gli abitanti non aveano che l’usufrutto, pagandone tributo, oltre
l’imposta personale, e non erano ammessi alla milizia. Un consulto
del senato determinava l’ordinamento delle provincie, vario l’una
dall’altra, ma tutte in sudditanza assoluta. Il prisco diritto pubblico
e civile dovea dar luogo alla legislazione nuova, il potere sovrano
ridursi in un magistrato di Roma, cui competevano la giurisdizione,
l’amministrazione, e spesso anco il comando militare. Alle città
lasciavasi un’amministrazione propria, modellata sugli statuti antichi,
ma alle forme democratiche cercavasi surrogare l’aristocrazia.

Conquistata la Sicilia, nè trovando bisogno o convenienza d’unirla alla
fortuna di Roma, fu ridotta a provincia, e la prima ordinanza fu data
da Marcello dopo l’insurrezione degli schiavi: Rupilio la riformò,
e da Cicerone possiamo raccorne l’essenza. Comprendeva diciassette
città o popoli tributarj, di cui cioè eransi confiscate le terre, poi
restituite ai prischi possessori col peso d’un’annua retribuzione. Ma
fedele al sistema di non render eguale a tutti il giogo, il senato
lasciò a Messina, Taormina, Noto il diritto d’alleate; altre cinque
godeano l’immunità; la restante isola pagava la decima de’ frutti.
Le terre del dominio pubblico doveano una tassa, che ciascun lustro
prefiggevasi dai censori: quelle soggette a decima la pagavano quale
Gerone aveala stabilita: le immuni erano obbligate a vendere e
portare a proprie spese a Roma ottocentomila moggia di frumento per
quattro sesterzj il moggio (_frumentum imperatum_), che servisse alle
distribuzioni. Le liti fra una città e un cittadino giudicavansi dal
senato d’un’altra città, beneviso alle parti: quelle fra membri d’una
città stessa si risolveano secondo gli statuti d’essa città: quelle
fra individui di città diverse, secondo le ordinanze di Rupilio.
Se il Romano richiedesse in giudizio un Siciliano, era competente
il tribunale siciliano; il romano se al contrario. Le dispute fra
coltivatori e decimatori decidevansi secondo la legge di Gerone sui
cereali; altre erano risolte da una specie di corte d’assise, formata
di cittadini romani[342].

A reggere le provincie, il senato spediva consoli usciti di carica e
pretori, i quali, ad imitazione dei pretori urbano e peregrino (pag.
411), in un _editto di giurisdizione_ esponevano le norme con cui
governerebbero, confermando gl’istituti anteriori e introducendone
di nuovi, o trasferendovi quelli della metropoli che paressero
opportuni[343]. L’accompagnavano ordinariamente un questore per esigere
l’imposta, e un intendente per regolare le finanze.

Fosse pur liberale la data costituzione, ledevasi il sentimento
nazionale coll’introdurre le usanze romane, ed anche la lingua dovunque
non si parlasse la greca, e fin la religione; o se tolleravasi
l’antica, come nell’Egitto e in Giudea, se ne proibivano le adunanze.
Per fiscalità vietavansi talora le coltivazioni meglio confacenti,
e la vigna e gli ulivi erano proibiti nei paesi transalpini[344]. I
governatori poi, oltre avere immensi mezzi di guadagno legale, dalla
illimitata potenza e dall’appoggio delle truppe accantonate venivano
strascinati al tiranneggiare; e cambiandosi ogni anno, non aveano alle
vessazioni neppur il limite della sazietà. Sallustio chiama spietata
e intollerabile la dominazione romana[345]: Livio, liricamente e
ingenuamente abbagliato dalla patria grandezza, tanto che di vero cuore
s’indispettisce allorchè qualche popolo osa difendere contr’essa la
vita e la libertà, Livio confessa che, dovunque è un pubblicano, ivi il
diritto svanisce, la libertà non esiste più[346].

Quando già s’era imparato a disobbedire al senato, Marcantonio senza
riti mena una colonia a Casilino per soppiantare quella che prima vi
sedeva; invade l’eredità di molti; altri poderi finge aver compri
all’asta, che nessuno udì bandita; dall’ora terza fin a tarda notte
dura in cene ubriache, giocando, bevendo, vomitando e ribevendo, tra
bardassi e meretrici. Altrove il pretore, accolto ospitalmente a
cena da uno spettabile cittadino, sopra mangiare gl’insinua di far
condurre in mezzo l’unica figliuola; e resistendo questo, si passa
alla violenza, nasce un battibuglio, si uccide; e i cittadini non osano
far giustizia dell’insultatore. Costui chiamavasi Verre; nome che
impareremo a conoscere come compendio di tante scelleraggini.

Anche dopo che l’interesse insegnò ad amicarsi le provincie,
piuttosto che disanguarle e inasprirle con un giogo tanto grave
quanto ingiurioso, si ebbero sempre in conto di dipendenze, non come
parti integranti della repubblica: s’apriva la cittadinanza a molti
individui, cioè s’interessavano i migliori all’incremento di Roma. il
che equivaleva a formarvisi un partito; ma non furono mai chiamate,
per via di rappresentanza, a costituire un’unità politica, quale
ora l’intendiamo. Eccettuate le trentacinque tribù del territorio
primitivo, l’amministrazione e la legislazione erano meramente locali:
nè si sapeva estendere l’azione d’un governo centrale a tutte le parti
del vasto dominio e ad ogni particolarità de’ pubblici ministeri. La
vigilanza precisa, la regolata gerarchia di dipendenze, le rapide
comunicazioni che a ciò son necessarie, mancavano agli antichi imperj;
onde Roma dovea limitare la sua ingerenza agli oggetti generali,
abbandonando la più parte dei parziali interessi o ad agenti spediti
dalla metropoli, o a magistrati indigeni.

Vigevano dunque ne’ paesi sudditi a Roma due poteri: uno supremo che
ordinava, eseguiva, giudicava come ben gli paresse, non propenso per
natura ad estendere l’intervenzione sua di là da quel che credesse
opportuno alla pubblica ragione; l’altro ordinario, lasciandosi alle
città, oltre l’interna amministrazione e il decidere d’alcune cause
civili e criminali, anche molti atti veramente legislativi, esercitati
dall’assemblea dei cittadini, ed eseguiti da magistrati municipali.
Se si rallenti l’oppressiva direzione suprema, quei corpi aspireranno
all’indipendenza invocando diritti, o ampliando le attribuzioni,
spesso collegandosi in una specie di reggimento federativo: il che
noi vedremo succedere al decader dell’Impero, preparando il primario
elemento della moderna civiltà europea.

Per le terre soggette diffondeansi in folla gl’Italiani, trattivi
dagl’impieghi, dall’agricoltura, dall’appalto delle gabelle,
principalmente dal traffico, che fu sempre la vita del nostro paese.
In folla erano stanziati nella Numidia; Mitradate ne fece d’un colpo
trucidare ottantamila nell’Asia, quaranta soli anni da che ridotta
a provincia; aggiungansi i veterani cui circondavano i terreni dei
vinti e i coloni: tutti modi di propagare la lingua, la civiltà e la
riverenza del nome romano.

[FINANZE]

Le conquiste crebbero le rendite della repubblica. Essa traeva denaro
dalla taglia fondiaria che i cittadini pagavano, determinata dal senato
a proporzione dell’occorrente, e della quale più non fu mestieri dopo
la terza guerra macedonica; o dagli alleati d’Italia, che contribuivano
diversi generi, secondo i luoghi; o dalle provincie, alcune delle quali
pagavano tassa agraria e capitazioni gravose, oltre somministrare
derrate in natura per emolumento de’ governanti, o per approvvigionare
la capitale, o per emergenti straordinarj.

La repubblica possedeva terreni sì in Italia, massime nella Campania,
sì nelle provincie, che Cicerone chiama patrimonio del popolo romano;
e li cedeva a lavoratori, esigendone un decimo del grano raccolto, un
quinto del legname, e una lieve retribuzione pel bestiame: la quale
rendita si dava in appalto di cinque in cinque anni. Ai porti ed al
confine si riscotevano dazj sulle merci che entravano ed uscivano, e
Roma e l’Italia ne furono esentate solo nel 694 per legge di Metello
Nepote: ne’ porti di Sicilia tale diritto saliva alla ventesima[347].
Sulla compra o la vendita degli schiavi il fisco percepiva un
ventesimo, serbato in apposito erario per le più stringenti necessità.
Sul declinare della prima guerra punica, il censore Livio, per ciò
soprannominato Salinatore, ridusse a monopolio il sale, onde impedire
che i privati lo mettessero a prezzo eccessivo. Finalmente era pagata
un’imposizione dai cavatori delle miniere, massime delle ricchissime
d’argento nella Spagna. Uniamovi le ammende imposte dai magistrati, e
il cui ricavo deponeasi nel tempio di Cerere.

Eppure sotto Silla dittatore, appena a quaranta milioni di franchi
sommava l’entrata totale; giacchè, oltre le contribuzioni e i consumi
in natura, un’infinità di spese erano lasciate ai singoli paesi, al
modo che fassi ora dagl’Inglesi e dagli Stati Uniti d’America. Nelle
strettezze ricorrevasi a prestiti; qualche volta si alterò anche la
moneta, come nella prima guerra punica riducendola d’un quinto del peso
e conservandone il valore; nella seconda s’acquetarono i creditori con
una doppia operazione, per cui quelli del pubblico perdettero la metà,
quelli dei privati un quinto, e si emisero viglietti del tesoro. Finite
le guerre, riparavano ai debiti il bottino e le contribuzioni dei
vinti, i quali ne restavano disanguati in modo da non poter rialzare
la testa, mentre Roma ne acquistava mezzi di far nuove guerre e trarre
nuovi guadagni.

Che veramente la scienza finanziaria dei Romani consisteva nella
conquista; ignorando del resto come ben si crei, si consumi, si cambii
e si diffonda la ricchezza. Cicerone nel trattato _Della repubblica_
investigando il principio e la miglior forma di governo, e i precipui
elementi della vita dei popoli, parla della famiglia, dell’educazione
pubblica, della giustizia, della religione; ma dell’economia tocca
appena per incidenza[348].

Vinte Cartagine, Corinto, Siracusa, la Macedonia, Pergamo, traboccarono
in Roma le ricchezze. A Taranto furono prese ottantamila libbre d’oro
e tremila talenti d’argento: i tesori di Perseo eccedevano il valore
di quarantacinque milioni: Scipione da Cartagine portò nel tesoro
cenventimila libbre d’argento: alla qual città fu imposto nella prima
guerra il tributo di duemila ducento talenti, di diecimila nella
seconda, ad Antioco quindicimila, mille a Filippo, cinquecento agli
Etolj, altrettanti a Nabide, trecento ad Ariarato; sicchè in dodici
anni cinque sole guerre arricchirono l’erario di trentamila talenti
(165 milioni di lire). Ben tosto le conquiste di Pompeo crebbero i
tributi dell’Asia a cento milioni: nei quattro suoi trionfi Cesare
pose in mostra il valore di sessantamila talenti, oltre duemila
ottocenventidue corone d’oro. Al rompersi della guerra civile, il
tesoro conteneva un milione novecenventimila ottocenventinove libbre
d’oro; poi sul finire della repubblica valutavasi da trecencinquanta a
quattrocencinquanta milioni la rendita generale delle provincie romane.
L’Egitto ai Tolomei fruttava dodicimila talenti, ma molto più ai Romani
dopo che l’ebbero conquistato. L’esazione affidavasi ad appaltatori,
che per lo più erano cavalieri; o a compagnie, che divenivano un
flagello delle provincie e una corruttela per la capitale.

Del denaro versato dai pubblicani nell’erario, il senato regolava
l’erogazione, poco consultando il popolo per l’uscita come per
l’imposizione. Venti questori vegliavano al pubblico tesoro ed alle
rendite. Due sedevano in Roma, soprantendendo alla scossa delle
imposte d’ogni natura ed ai conti, reprimendo anche le concussioni de’
pubblicani, e custodivano pure le leggi e i decreti del senato. Gli
altri nelle provincie accompagnavano i consoli ed i pretori per fornire
di viveri e denari le truppe, riscuotere le imposte e i generi dovuti
alla repubblica, vendere le spoglie dei vinti; conservavano anche in
deposito il peculio dei soldati; erano il secondo magistrato della
provincia, e sostenevano le veci del pretore quando partisse. I conti
erano riscontrati dai governatori, poi deposti al tesoro generale di
Roma e negli archivj delle provincie.

Il tesoro serbavasi nel tempio di Saturno a Roma, diviso in tre
casse: nella prima le rendite per le spese correnti; nella seconda la
ventesima sulle emancipazioni legali e sulla vendita degli schiavi,
per le maggiori urgenze; nella terza l’oro coniato o no, proveniente
da conquiste. Gli scribi del tesoro, quantunque impiegati subalterni,
diventavano importantissimi, atteso che, essendo perpetui, acquistavano
una pratica che li rendeva indispensabili ai questori delle provincie,
eletti man mano.

Dopo l’assedio di Vejo si diè paga ai soldati ed agli ausiliari, il
che importava dispendio enorme. Di grave costo erano pure le flotte,
sebbene il costruire e l’attrezzar le navi fosse obbligo di alcune
provincie. Le costruzioni pubbliche e principalmente gli acquedotti e
le strade portavano grande spesa, sminuita, è vero, dall’adoprarvisi i
soldati o gli schiavi. Inoltre ai generali e ai soldati decretavansi
regali, collane, statue; e spesso durante le guerre si votava qualche
festa o tempio. Poco costava l’amministrazione delle provincie,
ricevendo gli impiegati provvigione dal paese. Gli ambasciadori esteri
venivano trattati suntuosamente coi vasi riservati pei banchetti
sacri. La maggiore uscita derivava dalle distribuzioni di grano che si
faceano ai cittadini bisognosi, dapprima soltanto nelle carestie, poi
annualmente; crescenti a misura che la popolazione affluiva a Roma.

[TERRITORIO ROMANO]

Al momento ove siamo col nostro racconto, cioè centrent’anni avanti
Cristo e seicenventiquattro dopo la fondazione di Roma, questa
possedeva tutta quasi l’Italia, la Spagna, la Grecia; l’Adriatico le
dava sicure comunicazioni dopo sottomessi gli Istrioti, i Giapodi, i
Dalmati, gli Illirici; il passo fra l’Italia e la Spagna ben presto
le fu assicurato dalle colonie d’Aix e di Narbona; nell’Asia Minore
stendeva il dominio fin al Tauro; in Africa, sull’antico territorio
di Cartagine; teneva l’Egitto in tutela, gli Ebrei alleati, ligi i re
dell’Asia Minore; sicchè la città che dianzi si limitava fra Preneste e
Tivoli, or sentivasi chiamare signora dall’oceano Atlantico alle rive
dell’Eufrate e dall’Alpi all’Atlante. Questo territorio costituiva
due grandi divisioni: l’Italia fin al Rubicone e alla Marca; e le
provincie, che allora erano nove, cioè Sicilia, Corsica e Sardegna, la
Cisalpina, la Macedonia colla Tessaglia, l’Illirio e l’Epiro, l’Acaja,
vale a dire il Peloponneso, l’Ellade e le isole, l’Asia, l’Africa, la
Spagna ulteriore e la citeriore. Affine di meglio sopravedere l’Italia,
il senato la spartì fra quattro questori provinciali: uno risedeva
ad Ostia, avendo sotto di sè l’Etruria, la Sabina, il Lazio fino al
Liri; l’altro a Cales, regolando la Campania, il Sannio, la Lucania,
i Bruzj; il terzo reggeva l’Umbria, il Piceno, i Ferentini, e via fin
al lembo dell’Apulia; il quarto l’Apulia colla Calabria, nel qual nome
erano congiunti i Salentini, i Messapi, i Tarantini.

Allorchè Scipione Emiliano, in qualità di censore, chiudeva il lustro,
nel sagrifizio consueto il cancelliere lesse la formola solenne delle
preghiere, in cui si cercava agli Dei l’ampliamento dell’impero. Egli,
invece di ripeterla, esclamò:—Grande e potente è abbastanza: supplico
i Celesti di conservarlo eternamente intatto»[349].



CAPITOLO XVIII.

Condizione economica. Leggi agrarie. I Gracchi.


Storici e critici, occupati principalmente della politica, poco
avvisano che da questa dipende solo la minor parte del benessere delle
popolazioni; e che l’aver pane, indipendenza e giustizia sono i supremi
bisogni del popolo, il miglior frutto come la maggiore salvaguardia
della libertà. Quanto n’erano soddisfatti gli Italiani sotto quella
gloriosa repubblica, in tanta sapienza di leggi?

Troppo ristretto vede chi in Roma avvisa soltanto le anguste
combinazioni d’una repubblica militare: mentre porzione delle vicende
e dello svolgimento di essa concerne l’intero genere umano, ch’ella
si assimilava, e al quale dovea poi dettar leggi, durature più di
qualunque impero. Chi sappia tradurre il linguaggio antico in moderno,
l’accidentale in perpetuo, non v’incontra soltanto baruffe di patrizj
con plebei, siccome si fa nelle scuole, nè l’immortale nimicizia di
chi non ha contro chi ha, ma le quistioni oggi più dibattute, come
sono la legge elettorale e l’estensione del diritto di suffragio,
i provvedimenti sui poveri e sul colonizzare, il governo dei paesi
tributarj, la connessione delle amministrazioni locali colla centrale;
e come nell’odierna Inghilterra, ad un’aristocrazia patrizia, radicata
nei possessi, opporre una timocrazia, poi una democrazia, potente per
numero, per opinione, per istituti.

[DEI POSSESSI]

Il vero patriziato, quel che non riconosceva alla plebe matrimonj
legali e famiglia, che riduceva schiavo il debitore, e fin lo tagliava
a pezzi, da tempo era soccombuto ai lenti sforzi de’ plebei; e i
nati nobili (_ingenui_) restavano distinti soltanto pel vantaggio
che assicurano l’illustre casato e la tradizione di avite clientele.
D’abolire questa nobiltà non fu mai discorso; e a che pro tentarlo,
quando non reggevasi che sopra l’opinione? La differenza di stato
derivava dalla proprietà; e il plebeo, pari in diritti al nobile,
soccombeva a questo perchè sfornito dei mezzi onde farli valere,
e ridotto a vivere delle limosine di quello o delle pubbliche
largizioni. I prischi Romani aveano cerca la libertà col tener
pareggiate le condizioni, di modo che la povertà era decorosa, laureato
l’aratro[350]; con leggi suntuarie repressero il lusso, quantunque
allora pure le arti, come sordide, s’abbandonassero agli schiavi,
il commercio si restringesse a tenere approvvigionata la città, e
l’economia fosse quella d’un popolo guerresco ed agricola. Sminuzzate
le proprietà; poche affittavansi a coloni per una quota parte de’
frutti; nelle più la terra, il capitale e gl’istromenti per lavorarla,
spesso il coltivatore medesimo erano proprietà d’un solo; il padrone
manteneva i villani come i bovi. In tal condizione non presentasi
differenza d’interessi fra il proprietario, il fittajuolo, il villano;
nè gli economisti d’allora aveano a sottigliare su tutti quegli
spedienti, mediante i quali dai nostri cercasi la miglior distribuzione
della ricchezza nazionale, come gli accordi fra il padrone e il
bracciante, la misura dei salarj, il profitto de’ capitali, l’influenza
del prezzo delle sussistenze sul valore degli oggetti, le norme
dell’imposta e del suo riparto sovra le varie entrate.

[NATURA DEI POSSESSI]

Ma chi aspiri a giusta intelligenza delle leggi agrarie, duopo
è che ben comprenda la natura della proprietà fra gli antichi e
specialmente fra i Romani. L’indipendenza personale era data dal
possesso stabile; la cittadinanza, dal possesso entro al territorio
auspicato, corrispondente a quel che oggi direbbesi territorio legale.
Da principio non l’aveano posseduto che i patrizj; i tribuni poco a
poco ne resero partecipe anche la plebe: ma sebbene il possesso, da
religioso, poi aristocratico, infine divenisse individuale e privato,
il concetto di proprietà nazionale si conservò sempre, almeno come
finzione, talchè Gajo, giureconsulto dell’età degli Antonini, ancora
diceva appartener essa allo Stato, e l’uomo non averne che il possesso
e l’usufrutto[351]. I sacerdoti prima, poi gli agrimensori e il
magistrato davano solennità alla trasmissione de’ possessi, che lo
Stato lasciava godere ai privati, ma che poteva richiamare a sè col
terribile diritto della proscrizione o colla confisca, quando un membro
fosse cancellato dal ruolo de’ cittadini. Sacro perciò il termine;
sacro, o almeno di pubblica autorità l’uffizio dell’agrimensore[352].

Il territorio primitivo di Roma, che stendeasi appena otto chilometri
fuor della città, fu distribuito a ciascun capofamiglia in porzioni sì
scarse, che a Quinzio Cincinnato per coltivare la propria di quattro
jugeri bastava uno schiavo. Altrettanto era nelle altre città che
coronano le alture del Lazio, perciò popolose e colte; e fra’ Sanniti
e Sabini, e fra gli altri alle falde dell’Appennino, che adopravano
come schiavi le genti primitive soggiogate, quali erano i Pelasgi per
gli Etruschi. Alla lor volta soggiogati, gli abitanti di questi paesi
dovettero cedere il posto a colonie romane, e il territorio o in tutto
o in parte si confiscava a pro dello Stato.

Restavano dunque distinti i possessi privati e i pubblici. La gente
antica di Roma continuava a vivere sui campi aviti, e il possedimento
di questi consideravasi come condizione dell’indipendenza, cittadino
di pien diritto essendo chi teneva una parte di quel terreno: ond’è
che, dopo la cacciata dei Galli, essendosi formate quattro nuove
tribù, furono assegnati a ciascuna famiglia sette jugeri; quantità
probabilmente desunta dall’ordinario possesso delle famiglie
preesistenti.

[CONCENTRAZIONE DE’ POSSESSI]

L’eredità intestata distribuivasi a parti eguali tra i figli: eppure
il suolo, non che andare eccessivamente suddiviso, anzi si concentrò
in poche mani, per violenza, o per artifizio legale, o per compra.
I terreni conquistati, oltre quelli distribuiti come ricompense
militari, divenivano in parte proprietà pubblica (_ager publicus_), e
se ne facevano tre classi: i coltivati erano venduti o affittati dai
censori, od assegnavansi a coloni che vi si stabilivano; gl’incolti
abbandonavansi a chi volesse utilizzarli, retribuendo il decimo dei
grani e il quinto delle frutte; i pascoli restavano comunali, potendo
ciascuno mandarvi il bestiame, pagando una tenue tassa (_scriptura_).
Chi acquistasse terreni colti, non n’era proprietario assoluto,
ma precario, e pagava un canone (_vectigal_). Però il riparto dei
conquistati terreni si faceva dai patrizj; talchè essi tenevansi il
bello e il meglio, poi accordandosi cogli appaltatori, loro consorti,
lasciavano cadere in disuso il livello, e li confondevano coi beni
patrimoniali, che perciò ingrossavansi in quella sproporzione che ruina
le repubbliche.

[LEGGE LICINIA]

[366]

Quindi i liberali proponevano di dividere tra’ plebei l’agro pubblico,
dai grandi usurpato; e poichè questo era revocabile, il senato
non ricusò mai la proposta, solo armeggiò per eludere questa, che
chiamavasi _legge agraria_[353]. Ma se Cassio Icilio, Manlio Capitolino
ed altri non aveano proposto che di dar terre come retribuzione ai
soldati della repubblica, il tribuno Cajo Licinio Stolone improntò
alla legge agraria un carattere politico, chiedendo pel popolo non
soltanto la terra onde vivere, ma anche la potestà civile che le va
annessa (pag. 184). Pertanto, oltre sminuir le usure e rimettere in
circolazione una quantità di terreno, a lunghi stenti ottenne che
uno dei consoli potesse esser plebeo, ed a’ plebei si comunicasse il
diritto degli auspizj. La sua legge portava che nessuno possedesse
oltre cinquecento jugeri (125 ettare) di suolo e cento teste di
bestiame grosso, e vi mantenesse un certo numero di villici, cioè
coltivatori liberi. Tali provvedimenti riferivansi unicamente ai campi
pubblici[354]; e non pare chiedesse tampoco che venissero legalmente
spropriati quei che già possedevano di più, contentandosi di multarli.
Con ciò arrestando alcun tempo la agglomerazione dei poderi e lo
squilibrio delle fortune, grandemente giovò la cosa romana. Ma la sua
legge non tardò ad essere elusa; i figli de’ Fabrizj e de’ Cincinnati
ambirono sempre maggiore opulenza; e gente senza industria, con quali
arti doveva acquistarla? col valersi della potenza, loro attribuita
dalla costituzione, per trarre a sè il buono e il meglio della
conquista.

In ciò da ogni cosa si trovavano ajutati. Le materie preziose
introdotte per via de’ trionfi, diminuirono il valore del denaro, per
modo che poterono facilmente spegnersi i debiti; il canone dai patrizj
dovuto restò ridotto a un nulla, e pochissimo bastava a comprare gli
schiavi che lavorassero i campi. A questi schiavi permettono di fare
qualche risparmio sopra il necessario, o di esercitare un traffico
minuto, con cui si creano un peculio che depongono a mutuo in mano
del padrone medesimo, il quale di tal passo si trova ad un tempo
proprietario, agricolo e banchiere.

I minuti possessori, ascritti alla quarta e alla quinta classe, alcun
guadagno ritraevano dal militare, dall’assistere come patroni ai
forestieri od ai plebei che chiedessero giustizia[355]; talora anche
ottenevano qualche brano del territorio conquistato. Ma i grandi
possessi, sostenuti da capitale abbondante, tendono a dilatarsi, ogni
giorno tirano a sè qualche patrimonio modesto, e i nobili, vale a
dire quelli entrati nel senato e nelle cariche maggiori, colle arti e
coi cavilli della legalità assorbono i piccoli appezzamenti toccati
al plebeo. I censori stessi potevano torli a questo, e darli a tenue
fitto ai ricchi, che poi, per connivenza d’essi censori, desistevano di
pagarne il canone, e ne divenivano proprietarj diretti.

[MISERIA DE’ PICCOLI POSSIDENTI]

La condizione de’ prischi agricoli era tutt’altro che felice. Una
siccità, un turbine potea sperdere il ricolto, e la difficoltà delle
comunicazioni rendeva impossibile il supplirvi. La vicinanza alle
frontiere esponeva alle correrie de’ nemici: e devastati i campi,
perduti i bovi, era forza ricorrere per imprestiti al ricco, le cui
terre, più vicine alla città, erano più fruttuose e meglio difese. Il
minuto possidente come poteva reggere ai grossi interessi, con cui
procurarsi gli stromenti del lavoro? come sopportare la concorrenza
delle operazioni in grande, intraprese dai padroni di schiavi?
Lasciatosi prima ipotecare, poi oppignorare il possesso, lo spropriato
diveniva schiavo del ricco. Molti già erano a tal condizione nel 340
avanti Cristo, quando alcune legioni ammutinate liberarono grandissimo
numero di siffatti debitori. Pertanto il territorio romano pigliò
presto l’apparenza d’una federazione di principotti; e non è guari si
scoprì presso Viterbo l’iscrizione d’un acquedotto, lungo 8776 metri,
che traversava soli undici poderi di nove proprietarj.

I piccoli possessori dovevano sulle terre, sulle case, sugli schiavi,
sulle bestie, sul bronzo coniato (_res mancipi_) una tassa, variabile
ogni lustro: i grandi invece, pei fondi acquistati al modo che dicemmo
e senza titolo, non pagavano imposizione, come neppure sui mobili di
lusso (_res nec mancipi_) che costituivano la loro principale opulenza.
Lautissimi lucri poi trovavansi schiusi dall’appalto delle gabelle,
che ogni cinque anni i censori metteano all’incanto. Qui come altrove
il delitto grosso otteneva onore, il piccolo infamia; perocchè i
pubblicani erano cittadini autorevoli per impieghi e per aderenze, cui
gli oppressi non osavano accusare, sfogandosi contro i subappaltatori
che operavano per loro conto. Queste insaziabili sanguisughe colle
vessazioni raddoppiavano il debito delle provincie, e ne assorbivano
le rendite dell’anno successivo colle enormi usure, a moderar le quali
tutti i provvedimenti furono o conculcati o elusi.

[POTENZA DEI RICCHI]

[193]

Trarricchiti pei doni affluenti nel senato e per gl’immensi profitti
delle magistrature e delle missioni nelle provincie, i nobili
rinunziarono a guadagnare coll’usura, e allora tentarono reprimerla
ne’ cavalieri, ai quali per compenso si attribuirono l’appalto delle
entrate e i pubblici poderi tolti ai poveri; in tal modo crescevansi i
latifondi a misura che il grosso della popolazione impoveriva. Quando
i grandi più non avessero modo a rubare, vendevano il nome con indegne
adozioni; vendevano la propria libertà anelandosi nelle legioni, i cui
capi connivevano alle loro rapine per tenerseli amici.

Così lo Stato cadeva nelle branche d’un’aristocrazia pecuniaria: unica
potenza verace, la ricchezza decide del voto nelle assemblee, porta a
capo dello Stato, padroneggia i comizj, riempie il senato e le cariche,
dà a consoli e pretori le provincie da espilare, commette ai censori
l’arbitrio delle terre d’Italia. Sì: erano aperte a tutti le dignità,
ma che? le elezioni cadevano sempre sui nomi stessi, e negli ottantasei
anni fra il 219 e il 133, nove famiglie ottennero ottantatre volte
il consolato, e lentavasi quel movimento, per cui l’aristocrazia si
risanguava continuamente colla eletta de’ plebei.

La sproporzione di ricchezze nelle antiche repubbliche trova
spiegazione dal mancarvi l’industria, il commercio, ogni altr’arte,
fuor la guerra e l’agricoltura. Fra i larghi possidenti e i miserabili
non era interposta la classe media di negozianti e artieri, i quali
vivono e arricchiscono coll’industria e coll’accumularne i frutti.
La gente di campagna era tratta alla città, ma non per applicarsi
ai mestieri; onde vi si sviluppavano i morbi che adesso pure ci
rodono col nome di pauperismo e di carità legale. Oggi al pitocco
noi diciamo:—Va, e lavora»; a un cittadino romano sarebbe stato
un’ingiuria, un trattarlo da schiavo, al quale erano serbate le arti
sordide, cioè le utili. Le bottegaje si confondevano con le infime
serve fino ai tempi di Costantino; e Cicerone dice che il negoziare è
un aumento di servitù, e che i mercanti non possono profittare se non
col mentire[356].

[PLEBE SOFFRENTE]

Senz’arti, senza possessi, che far dunque della romana plebe? Menarla
alla guerra; la quale perciò si perpetuava, come giovevole sì allo
Stato che con essa riparava al pubblico debito, sì ai nobili che
si rifaceano colle spoglie dei vinti, sì ai poveri che o vi erano
mantenuti o morivano gloriosamente. Per disgrazia mancavano nemici da
combattere? il vulgo doveva accattar pane o dai candidati cui vendeva
il voto, o dalla pubblica limosina, onestata col nome di largizioni,
ricevendo gratuiti o a buon mercato i grani e il sale che sovente
era l’unico suo companatico. Dopo i trionfi, aveva bronzo coniato o
terre lontane, come si fece di quelle tolte agli Italiani che avevano
favorito Annibale, preferendosi il largheggiare possessi nelle colonie
al concedere terreni legittimi. E voi soldati, terror de’ nemici in
campo, che l’affezione per gli Dei penati posponete alla venerazione
delle aquile legionarie, voi sarete altre vittime de’ ricchi ambiziosi:
strascinati a combattere oltre i mari, non potrete più coltivare il
campo avito, spesso lo perderete o per guerra o per debiti: voi che
ergete trofei, o fabbricate catene ai popoli superbi, o spianate strade
indistruttibili per congiungere i vinti alla vincitrice, non potrete
che lasciare a straniera gleba le ossa affaticate ed incompiante.

Allorchè si propose la guerra contro Perseo, un centurione si fece
avanti ai tribuni e al senato; e—Quiriti, io sono Spurio Ligustico,
della tribù Crustumina, nato in terre de’ Sabini. Mio padre mi lasciò
un jugero di terra e una casetta, nella quale io nacqui e fui allevato
ed abito ancora: mi diede in moglie la figliuola di suo fratello,
la quale null’altro recò che la libertà, la pudicizia, e per giunta
una fecondità qual basterebbe per ogni casa ricca. Ho sei maschi e
due fanciulle; queste accasate; di quelli, quattro hanno la toga
virile, due sono in pretesta. Arrolato nell’esercito di Macedonia, due
anni io militai come gregario contro Filippo; il terz’anno, Quinzio
Flaminino in benemerenza mi assegnò il decimo ordine degli astati.
Vinto Filippo, ricondotti in Italia i congedati, volontario passai
in Ispagna; e Catone console, tanto operoso, diligente esaminatore e
giudice della virtù del soldato, mi reputò degno d’affidarmi il primo
ordine degli astati della prima centuria. Una terza volta militai
volontario nell’esercito contro gli Etolj e il re Antioco, ove da Marco
Acilio mi fu dato il primo grado tra i principi nella prima centuria.
Cacciato Antioco e soggiogati gli Etolj, in Italia militai due volte
nelle legioni che servivano annualmente; poi una volta in Ispagna. Da
Fulvio Flacco fui menato al trionfo fra quelli di cui volle onorare la
virtù. Richiesto da Sempronio Gracco, feci con esso una campagna. In
pochi anni quattro volte stetti centurione principale, trentaquattro
volte fui onorato di doni da’ miei capitani, ricevetti sei corone
civiche, negli eserciti compii ventidue stipendj annuali; ed ora passo
i cinquantanni».

Infelice! ed era chiesto a nuovi combattimenti. Noi riferimmo questo
discorso per mostrare a qual condizione si riducessero i popolani
che viveano di continuo negli accampamenti, e spesso, dopo servigi
di trent’anni, nè tampoco si trovavano un camperello onde pascere la
numerosa famiglia; denaro riceveano nelle distribuzioni de’ frequenti
trionfi, ma sciupavanlo coll’imprevidenza solita ne’ militari: talchè i
pochi che potevano riportare il mutilo corpo dall’Asia o dalla Spagna,
stentavano nella miseria gli ultimi giorni.

Da principio alla terra cercavasi il massimo prodotto lordo, cioè
grani da mangiare; di modo che la popolazione crebbe, e il villano
non soffri. Dappoi si aspirò al maggior prodotto netto, convertendo
in pascoli i campi a grano. Allora dunque che, conquistata Cartagine
e l’Asia, Roma ingrandiva, la popolazione libera e le produzioni
dell’Italia scemarono, quantunque si cessasse di pagare le taglie, meno
braccia dovessero darsi alla guerra, fossero migliorati gli utensili,
abbondanti i capitali, cresciuto il lusso: ai piccoli possessori erano
sottentrati i grossi, che l’eccedente dei frutti non riversavano sui
campi stessi, ma sprecavano in lusso nella città.

A coltivare gli ampj poderi basteranno gli schiavi, meglio convenienti
perchè non colpiti dalla leva militare come i liberi: e il patrizio,
beato di pingui ozj, applaudirà a Catone che insegna le possessioni
migliori essere i pascoli, dove un mandriano schiavo basta a condurre
un numeroso armento. All’antico libero agricola che resterà dunque?
Portare le inutili braccia a Roma, dove sa che tratto tratto si
largiscono viveri; dove i doviziosi ostentano generosità col gettargli
un po’ del loro superfluo; dove spera esser mandato in qualche colonia,
per divenire alla sua volta tiranno, e dire al possessore:—Vattene
morir di fame in altra terra»; dove se non altro venderà il suo voto ai
candidati, che del prezzo si rifaranno nelle lucrose magistrature.

[LA POVERAGLIA]

Ma ohimè! il senato, omai sicuro nella potenza ed ebbro
dell’umiliazione dei re, più non si briga di molcere il popolo; va
mezzo secolo senza che alcuna colonia sia fondata; fin l’immorale
guadagno del voto cessa di fruttare al popolo re, dacchè i ricchi,
eletti censori delle assemblee centuriate, ogni cinque anni stivano
nella tribù Esquilina tutti i poveri, de’ quali non occorrerà il
suffragio se non nei rari casi in cui a decidere non bastasse il voto
dei doviziosi, mantenutisi nelle tribù rustiche, molte in numero e
scarse di membri. Poc’a poco il senato, rinforzatosi come sempre
succede nelle lunghe guerre, si dispensa dal chiedere l’assenso delle
tribù a’ suoi consulti, e dopo trionfato dell’ultimo successore di
Alessandro, delibera a sua voglia della pace e della guerra, e non
prende cura del vulgo, perchè più non ne ha bisogno nè paura.

Rimanevano al popolo i giudizj; ma ad evitare i viluppi e accelerare le
decisioni, si costituiscono quattro tribunali permanenti, composti di
senatori che investigano i casi criminali cui non bastano i tribunali
pretorj[357], e principalmente le accuse di broglio, di concussione,
di peculato contro i senatori: così non occorrerà più pericolo che
la plebe venda i suoi giudizj, nè che i nobili li temano. Il popolo
campato alle guerre morrà dunque di fame. Che cale? la salute pubblica
non ne patisce, giacchè migliaja di schiavi affluendo dai paesi
conquistati, impingueranno le glebe di venale sudore, empiranno i
palagi e le città servendo al fasto e alla depravazione dei padroni;
nei quali uffizj ben meritando, acquisteranno di divenir liberi e
cittadini, ricolmando i vuoti lasciati dall’antica gente romana.

[AFFLUENZA A ROMA]

Al tempo ove noi siamo col racconto, soli omai liberti empivano il
fôro; e un giorno che coi loro schiamazzi interrompevano Scipione
Emiliano, questi, coll’orgoglio d’un nobile di antica schiusa, gridò
loro:—Zitto, figliastri d’Italia. Forse vi temerò sciolti io che vi
menai qua incatenati?»[358]. Cicerone insultava alla _feccia della
città_, a questa plebaglia _nuda e digiuna_, a tanti servi introdotti
nel recinto di Roma come uno sciame d’animali malefici, contro il quale
sarebbero a invocare gli esorcismi degli aruspici[359]. Questa folla
copiosissima e sprovvista, non aspirando a diritti ma a possessi, potea
divenire arma terribile in mano d’un demagogo, il quale sorgesse a
combattere la tirannesca aristocrazia.

Altra folla accorreva a Roma dalle provincie e dai municipj per
sottrarsi alle angherie dei magistrati, per entrar membri d’una nazione
temuta e grande, per la speranza di salire fino ai sommi gradi, e
disporre della sorte dei regni. Più credevano meritarselo gl’Italiani,
dacchè colle loro braccia eransi compiute le conquiste. Alcuni
ottenevano la cittadinanza col darsi schiavi d’un Romano che poi li
manometteva; altri si facevano per frode iscrivere nelle rassegne dei
censori; ma poichè in modo legale non potevano ottenere la cittadinanza
se non i Latini, l’Italia affluiva nel Lazio, e il Lazio a Roma,
lasciando in patria il deserto. Sanniti e Peligni nel 177 protestarono
di non poter più somministrare agli eserciti il contingente che era
prestabilito, divenuto sproporzionato agli abitanti, atteso che
quattrocento famiglie loro s’erano mutate a Fregelle, città latina.
L’anno stesso i Latini dichiararono per la seconda volta che le città e
le campagne loro si spopolavano pel continuo sciamare a Roma.

Questa dunque assorbendo tutte le popolazioni italiche, riboccava
d’abitanti, sicchè nel censo di Cecilio Metello si numerarono 317,823
uomini atti alle armi, e cinque anni dappoi 390,736; nel 187 si
respinsero dodicimila famiglie latine, nel 172 altre sedicimila
persone. Ecco dunque come le immigrazioni, così opportune a
rigenerarla, pregiudicavano la nazione perchè esorbitanti. Il concedere
pienezza di diritto a tutti gl’Italici sarebbe stato l’unico spediente;
ma vi si opponeva la nobiltà romana per invidia contro le altre case
illustri del bel paese: dal che venne accorciata la giovinezza di Roma
e guasta l’Italia.

Per la quale s’era diffusa la poveraglia di Roma, spedita nelle
colonie, occupando i terreni migliori. Ma le colonie stesse andavano in
peggio, preda destinata ai cavalieri, che od usurpavano o compravano i
poderi, surrogandovi schiavi ai liberi coltivatori; e intesi come erano
al guadagno inesorabile, nè più temendo dei giudizj dopo che questi in
Roma furono affidati alla nobiltà, non conoscevano alcun freno nello
smungere i liberi e nell’opprimere i servi.

Che guadagno era dunque venuto a Roma e all’Italia da tante conquiste
e tanta gloria? il deperimento della moralità e dell’eguaglianza. Se
in mezzo a questa corruzione si fosse levato alcuno, col proposito
generoso di ridurre al meglio i costumi, di rinverdire nel popolo
l’amor dell’industria e dei campi, di sostituire ai faticanti schiavi
e alla plebe infingarda una classe laboriosa, come la moderna che
respinge la miseria colle proprie braccia; di reprimere il despotismo
del senato e l’avidità dei cavalieri, farsi eco ai lamenti delle
provincie e dei municipj, regolare l’affluenza degli avveniticci in
modo da impedire il rigurgito in Roma e lo spopolamento della restante
Italia, non avrebbe dovuto meritar gratitudine almeno per l’intenzione?
e se non la gratitudine dei contemporanei, i quali di rado perdonano
il merito o riconoscono le intenzioni, almeno quella dei posteri?
Ebbene, all’alta impresa di colmar l’abisso fra i pochi gaudenti e i
troppi soffrenti s’accinsero i Gracchi: i contemporanei li travolsero
nell’abisso; i posteri si contentarono di ripetere gl’insulti patrizj,
neppur degnandosi sceverarne i savj intenti dai mezzi improvvidi.

[ORIGINE DEI GRACCHI]

Le famiglie bennate degli Scipioni e degli Appj avevano sentito la
necessità d’imparentarsi colla equestre de’ Sempronj; e Tiberio
Gracco, che nel suo tribunato avea protetto l’Asiatico e l’Africano,
e impedito che venissero giudicati con invidiosa severità, dopo la
morte del vincitore d’Annibale fu reputato meritevole di sposarne la
figlia Cornelia, ricusata a un Tolomeo re d’Egitto[360]. Di molti
figli che generò, soli le rimasero Tiberio, Cajo e Sempronia, e ne
formava sua cura e sua delizia, sicchè ad una dama che le ostentava
monili e collane, ella mostrò que’ figliuoli dicendo:—I miei giojelli
sono cotesti». Ambendo di esser detta non tanto la figlia di Scipione,
quanto la madre dei Gracchi, gli allevò colla squisitezza necessaria
perchè potessero disputare agli Scipioni il primato. Tiberio, appena
uscito dall’adolescenza, fu creduto degno di venir aggregato fra gli
auguri, poi fu sposato colla figlia di Appio Claudio Pulcro principe
del senato, mentre Sempronia con Scipione Emiliano.

[137]

I Gracchi, entrati negli affari, non fallirono l’aspettazione materna.
Nell’eloquenza non aveano i pari: Tiberio, composto e mansueto in
pubblico, parlava soave, elaborato, contegnoso; Cajo, vivace e focoso,
splendido nel dire e passionato, fu il primo a passeggiare sulla
tribuna, e tenevasi dietro un flautista che gli desse l’intonazione
ogniqualvolta esagerasse. Nell’armi si addestrarono sotto al prode
cognato, e Tiberio salì primo sulla breccia di Cartagine: alla
corruzione eransi resi superiori mediante la severa dottrina degli
Stoici, donde aveano attinto, forse esagerate, ma generose idee sulla
dignità dell’uomo e sull’eguaglianza dei diritti.

[TIBERIO GRACCO]

Facendo Tiberio da questore a Numanzia sotto Ostilio Mancino, il
campo fu sorpreso, e ventimila uomini sarebbero stati trucidati se il
console non accettava la capitolazione. I Numantini però ricusarono di
credere se non alla parola di Gracco, al quale di fatto concessero di
ricondurre salvo l’esercito, lasciando ai vincitori gli accampamenti.
Nel saccheggio essendo stati presi i suoi registri, egli tornò a
ridomandarli: e i Numantini non solo glieli resero, ma il tennero a
pubblico banchetto, e gli permisero di scegliere quel che volesse delle
spoglie, donde egli non prese che l’incenso destinato agli Dei. La
capitolazione che salvò ventimila cittadini, parve indecorosa a Roma;
e proponendosi di consegnare tutti gli uffiziali come dopo le Forche
Caudine, Tiberio insistette perchè il patto fosse mantenuto nella
sua integrità; e non ottenendolo, impetrò che il solo Mancino fosse
consegnato. I parenti dei risparmiati ne vollero bene al Gracco, che
sempre più fastidì i patrizj, consigliatori di quell’iniqua legalità.

Tornando da Numanzia, quale spettacolo gli offerse l’Italia! Scomparse
le piccole proprietà, disfatte le cascine, estesa la malaria,
sottentrata alle biade la pastorizia, greggi e mandre sbrucavano
l’erba dove erano fiorite città, e l’Etruria ormai vuota di liberi,
nè coltivata che da schiavi. Ma se il deperimento appariva quivi più
compassionevole, eragli evidente anche a Roma, dove accumulati gli
averi in mano di pochi, mentre i più stentavano nella miseria; e
se i Galli ripassassero i monti, o se gli schiavi si sollevassero,
qual forza opporvi? Propostosi di rendere all’Italia la popolazione
libera ed energica[361], che dispariva quanto più dimenticavansi le
provvisioni di Licinio Stolone, Tiberio non dissimulava il dispetto,
e—Quel ch’è del popolo, perchè non s’ha a dare al popolo? un cittadino
non è egli di maggior vantaggio alla patria che non uno schiavo, un
bravo legionario più che non un imbelle, un caldo patriota che non uno
straniero? Cedete, o ricchi, porzione de’ vostri averi, se non volete
vederveli un giorno togliere tutti. Che! le fiere hanno un covile,
e quei che versano il sangue per la patria null’altro possedono che
l’aria che respirano; senza tetto nè letto, si strascinano colla misera
prole e colla nuda consorte. Mentiscono i capitani quando incorano i
soldati a difendere i tempj de’ loro Dei, i sepolcri dei loro avi.
Dov’è un solo fra tanti Romani che abbia una tomba, un’ara domestica?
Muojono perchè pochi impinguino e lussureggino: son detti signori del
mondo, e non possedono una zolla».

[LEGGE AGRARIA]

Lelio, l’amico di Scipione, già avea tentato la riforma agraria; ma
vedendo repugnante l’aristocrazia e conoscendo i tempi, si tolse dal
nobile divisamento, ed ebbe il titolo di prudente, spesso sinonimo
di pusillanime. Ora Tiberio, venuto tribuno della plebe, d’intesa
col suocero Appio Claudio Pulcro, con Licinio Grasso sommo pontefice
e oratore applaudissimo, e con Muzio Scevola il più destro fra’
giureconsulti, rinnovò la proposta di Stolone, che nessuno possieda,
o piuttosto tenga in appalto più di cinquecento jugeri di terreno
pubblico; nessuno mandi ai pascoli comuni più di cento teste di
bestiame grosso, cinquecento di piccolo; ognuno tenga sulle terre un
numero di coltivatori liberi. Ai detentori di beni pubblici che ne
soffrissero scapito, benchè avessero violata la legge Licinia, si
darà un’indennità pei fatti miglioramenti. Le terre così acquistate
non sarebbero più revocabili, ma proprietà assoluta, scarca da
livello, però non vendibile. De’ terreni che sopravanzassero, si
costituerebbe un fondo da spartire fra i poveri e restare inalienabile:
era l’unico modo d’impedire che ricadesse in man de’ ricchi, e forse
per ciò Tiberio pensava dar loro i terreni più prossimi alla città.
S’aggiungevano da cencinquanta jugeri per ogni figlio emancipato
dal proprietario: primo esempio di rimunerazioni assegnate per
favorire i matrimonj. Insomma, vedendo la difficoltà di riconoscere
i titoli e la misura di ciascun possesso, ordinavasi un rimpasto
generale, dove spropriati tutti, distribuivasi ancora a sorte tutto il
terreno pubblico. Il quale sovvertimento di tutti gl’interessi e le
abitudini ripugna dalle idee presenti, non così dalle antiche, ove il
proprietario supremo era sempre lo Stato, siccome oggi in Turchia.

Tiberio non era mosso da manìa d’illustrarsi, e ancor meno dalla
universale benevolenza che in ogni uomo ci fa riconoscere un fratello;
bensì dal patriotismo alla romana, dal voler cioè assicurare a Roma la
sovranità del mondo col non lasciar perire la robusta razza italica
che le avea procacciato già tante provincie. Non trattavasi dunque
di elevare la seconda classe al grado della prima, come al tempo
di Stolone, ma di dar incremento alla popolazione libera, la sola
che empisse l’esercito. Era legge aristocratica, se la misuriamo ai
concetti di oggi; nè fa meraviglia se da aristocratici venne sostenuta.

Ma sebbene Tiberio fosse uomo di teorie, alle quali sagrificava i
fatti e i patimenti della generazione presente, al torto si apporrebbe
chi alle follie del comunismo annettesse quelle leggi che tendevano a
costituire una proprietà e creare proprietarj; ledevano la proprietà
attuale, non già il possedere; anzi volevano estenderla, impedendo
l’accumularsi de’ possessi, all’uopo di moltiplicare i piccoli
coltivatori, cioè i soldati.

La plebe confermò lietamente la proposizione di lui: v’ha però abusi
tanto radicati[362] (l’intendano i novatori), che mettervi la scure
non si può senza che lo Stato intero se ne risenta. I nobili poteano
allegare il diuturno godimento, durante il quale aveano piantato,
migliorato, fabbricato; ivi le memorie della fanciullezza, le tombe
degli avi, le doti delle mogli: il cessare dal rendere il livello avea
fatto dimenticare quali fondi fossero pubblici, quali allodj: coloro
che per lungo ordine di avi o per retaggio o per dote possedevanli
allora, erano di buona fede, e v’aveano fatto assegnamento. Il rimpasto
dell’agro pubblico adunque traeva interminabili difficoltà per
riconoscerlo, la necessità di dare compensi, e l’opposizione di quanti
vedeansi sturbati da’ loro poderi. Questi esasperati comparvero per le
vie e le piazze vestiti a bruno, supplicando la plebe contro il tribuno
di essa: ma Tiberio persiste; valendosi del pien potere tribunizio,
suggella il tesoro, sospende i giudizj e l’esercizio delle magistrature
finchè la legge non sia votata.

Allora i patrizj ricorsero agli spedienti legali; e poichè
l’opposizione d’un tribuno impediva l’azione dell’altro, essi
guadagnarono Ottavio Cecina collega di Tiberio, giovane ricco e di
costumi austeri, affinchè interrompesse col suo voto la deliberazione.
Tiberio non lasciò via per trarlo dal suo parere; generoso e tenero,
irremovibile di volontà quanto dolce di indole, esibì pagargli del suo
i fondi ch’egli perdeva, lo supplicò, baciollo perfino in pubblico;
ma trovandolo ostinato, propose fosse deposto, malgrado il sacro
carattere tribunizio.—Il tribuno (diceva egli) è inviolabile, anche
se incendiasse l’arsenale, se smantellasse il Campidoglio: ma non se
minacci il popolo stesso. Sacra era la regia dignità, eppure gli avi
nostri espulsero Tarquinio: sacre eminentemente le Vestali, eppure
peccando sono sepolte vive. Così il tribuno che offende il popolo, non
deve in prerogativa trascendere il popolo stesso, poichè egli medesimo
scassina la potenza, da cui trae sua forza».

[DEPOSIZIONE D’UN TRIBUNO]

Già le tribù aveano cominciato a dare il voto per la destituzione di
Ottavio, quando Gracco tornò alle preghiere, agli scongiuri: il collega
s’intenerì fino alle lagrime; ma fosse ostinazione od onoratezza,
persistette, e il suffragio della decimottava tribù decise che Ottavio
venisse degradato. Primo colpo recato alla sacra autorità tribunizia;
ed era recato da un tribuno.

Ora qual è l’uomo, quale principalmente il demagogo, che, preso il
pendìo delle novità, possa fermarsi ove gli talenta? che per la
quistione presente non sacrifichi o dimentichi l’avvenire? Tiberio,
ch’era veramente il miglior uomo della fazione plebea, come della
nobile gli Scipioni, coll’abilità, col buon senso, coll’amor
dell’ordine disacerbava un’impresa tanto risoluta; ma alfine, stomacato
dalle tergiversazioni del senato e dalla perfidia degli oligarchi che
attentavano alla sua vita e persino alla sua fama, ripropose la legge
Licinia nell’antica rigidezza, non facendo più cenno di risarcimento
per l’eccedente dei cinquecento jugeri; senza por tempo in mezzo, gli
usurpatori abbandonassero l’agro pubblico, al quale uopo si attribuiva
potere grandissimo a triumviri, eletti per verificare i possessi e
spartirli. A questa carica fa scegliere se stesso con Appio e col
fratello Cajo.

[132]

Tra i regni che si formarono dal rompersi della signoria di Alessandro
Magno accennammo quello di Pergamo nella Misia (pag. 326). Lo ingrandì
il re Eumene II favorendo i Romani contro di Antioco e di Perseo; poi
Attalo III suo figlio, abjetto e crudele tiranno, testando chiamò
_erede de’ suoi beni_ il popolo romano; e questo interpretò che
per beni s’intendesse anche il regno ed occupollo, riducendo così
provincia, col nome di Asia, la più bella e più grande porzione
dell’Asia Minore.

Eredità di genere così nuovo dovea costare carissima a Roma. Intanto
Tiberio Gracco, trasferendo nel popolo quel disporre degli affari
esterni ch’era privilegio del senato, propone che la nuova provincia
non venga amministrata dal senato, ma profitti pei cittadini poveri,
onde abbiano di che comprare gli attrezzi e le scorte pei nuovi campi:
aggiunge che si abbrevii alla plebe il tempo del servizio militare;
i cavalieri possano entrar a parte de’ giudizj coi senatori; si
ristabilisca l’antica _provocatio_, cioè l’appello dai giudizj al
popolo congregato. Poi comprendendo che su tropp’angusta base poggiava
la mole immensa dell’impero romano, uscì dallo stretto patriotismo per
elevarsi fin alla nobile idea dell’unità italica, proponendo che a
tutta la penisola si estendesse il diritto della cittadinanza romana.

[ROGAZIONE SEMPRONIA]

Queste ultime rogazioni avrebbero dovuto amicargli l’ordine equestre
e gl’Italici: ma i cavalieri, se odiavano i patrizj che ne limitavano
l’autorità e gli escludevano dalle cariche, più temevano la legge
agraria che gli avrebbe spogli dei poderi usurpati, e a pari con
essi ammetterebbe al suffragio i Socj latini o gl’Itali antichi.
Tiberio dunque favorendoli non ne acquistò la grazia, e ingelosì la
plebe: la quale, sebbene avesse tanto a lodarsi d’un sì favorevole
magistrato, non ponea così immediato interesse alle leggi politiche,
di cui non intendeva bene il vantaggio, e vana com’è e disunita, non
sapeva sostenerlo nell’effettuare i suoi concetti, anzi dava ascolto
alle suggestioni de’ nobili che denigravano il tribuno, e dicevano
affettasse il regno.

Quanto agli Italioti, un nuovo riparto del territorio pubblico dava
a temere che i magistrati ne profittassero per intaccare o molestare
le possessioni confinanti, non ben delimitate ne’ contratti, essi
pure ambigui o inintelligibili[363]; e pareva sovrastasse una nuova
confisca in piena pace. Fors’anche i nobili di Roma aveano saputo
spargervi il fermento, e il senato lasciatovi intendere che ai
lamenti si darebbe ascolto, si farebbe larghezza di diritti, purchè
resistessero ai triumviri o li tergiversassero. Fatto è che dappertutto
la rogazione Sempronia parve aborrita.

[FINE DI TIBERIO]

Sentiva dunque Tiberio a qual pericolo resterebbe esposto appena
uscisse di magistratura; onde gittatosi a farsi (contro la
costituzione) prorogare il tribunato, ripeteva le patrizie minaccie,
compariva in bruno, mostrava alla plebe i suoi bambini, pregandola a
conservare ad essi il padre. Venuto il tempo de’ comizj per l’elezione,
nuovo timore l’invase perchè due serpi aveano fatto le uova nel suo
elmo, e quella mattina i polli non vollero sbucare dalla stia; egli
stesso uscendo di casa inciampò alla soglia, e due corvi combattenti
a sinistra fecero dal tetto cadere un sasso ai piedi di lui. Così
Plutarco: ma più seria apprensione dovea cagionargli il vedersi
incontro l’aristocrazia concorde e disposta a tutto, mentre in suo
favore null’altro restava che il vulgo mutabile e le tribù rustiche, a
cui l’opera della mietitura impediva di accorrere ai comizj.

[OPPOSIZIONE DEGLI SCHIAVI]

[133 xbre]

Radunati questi, i possessori alzano la voce contro il violator
della legge; i senatori compajono armati, e cinti di clienti e di
schiavi; gli amici di Tiberio s’accingono a tener testa; il tumulto
s’incalorisce; la plebaglia quanto pronta alle grida, tanto è alla fuga
e allo scoraggiamento. Egli, non potendo più farsi udire, ponsi la mano
sul capo per indicare il pericolo; i nemici gridano ch’egli chiede la
corona, cominciano a far macello degl’inermi, e trucidano lui stesso
co’ suoi fautori, che senza onore d’esequie, gettati nel Tevere,
scontano i brevi ed infausti amori della plebe.

Tra i fautori del Gracco alcuni furono processati, altri assassinati;
Cajo Billio, senz’altro giudizio, chiuso in una botte piena di serpi;
Blossio filosofo di Cuma, citato in giudizio, sostenne d’avere amato
Gracco, ed essersi mostrato pronto ad ogni volere di esso.—E se egli
avesse comandato di metter fuoco al Campidoglio?» domandò Scipione
Nasica.—Non l’avrebbe mai fatto (rispose il Cumano): ma se me l’avesse
imposto, l’avrei bruciato, persuaso ch’egli non potea volere se non
cosa utile al popolo».

Questo Nasica, cugino dei Gracchi, erasi mostrato accanitissimo loro
avversario; persuase di dar addosso alla plebe disarmata; tiratasi in
capo la toga come solea ne’ sagrifizj, essendo sommo pontefice, e col
bastone in pugno si pose a capo di quei che _amavano la repubblica_,
cioè l’usufruttavano; poi osò con un decreto far giustificare
quant’erasi commesso contro i Gracchi e i suoi. Sprezzatore della
plebe, prendendo la mano d’un agricoltore per sollecitarne il voto, e
sentendola callosa, gli chiese:—Che? cammini tu forse colle mani?»
Perciò i popolani gli gridavano improperj, lo imputavano d’aver ucciso
una sacra persona in luogo sacro; talchè il senato, volendo dare
qualche soddisfazione e sciogliere se stesso da un impaccio, l’inviò
con onorevole incarico in Asia, donde più non tornò.

[132]

Il senato non potè abrogare la legge agraria, ma confidava sulle
difficoltà materiali, che all’atto comparvero inestricabili, intorno
alla misura, all’origine del possesso, alla stima dei fondi. I Socj
italici e latini che aveano ottenuto moltissima parte dell’agro
pubblico, nojati o sbigottiti da questo misurare e stimare, ricorsero
al senato, che fu ben contento di un pretesto per sospendere la
mal gradita legge: e Scipione Emiliano, benchè cognato di Gracco,
reduce allora dalla vinta Numanzia, postosi a capo degli scontenti, e
unanimemente scelto a patrono dai Socj latini, ottenne si cassassero i
tre a cui n’era affidato l’adempimento, questo commettendo a un console.

[OPPOSIZIONE DEGLI SCIPIONI]

[128]

La plebe, che prima idolatrava Scipione Emiliano e che gli aveva
attribuito due consolati e la censura in violazion della legge, se
l’era recato in contrario perchè, all’udire l’uccisione di Tiberio,
avea proferito quel verso d’Omero: _Così perisca chi opera come
lui_. Scipione da una parte rifuggiva da quanto avesse aspetto
rivoluzionario; dall’altra teneva in vilipendio cotesta plebe, di cui
Gracco avea sperato far eccellenti soldati, ma che realmente amava
l’ozio cittadino questuante più che il possesso faticoso, nè erasi
mostrata capace di difendere colui che per essa si sacrificava. Popolo
e grandi in quella lotta che cosa aveano mostrato, altro che intrighi
e codardia ed arroganza? Più dunque Scipione non mettea speranza
in cotesta città di liberti togati, repubblica in decadenza, che
doveva dar luogo all’Italia. Nè il disprezzo dissimulava, ed erane
ricambiato d’odio; qualora egli parlasse dalla ringhiera, la plebe lo
confondeva coi susurri, ne ridiceva i superbi motti, e l’accusò perfino
di aspirare alla dittatura. Esso sprezzò l’imputazione, vantando i
meriti suoi e del padre Paolo Emilio; e dalla campagna, ove coll’amico
Lelio vivea studiando e spassandosi, tornava a Roma ogniqualvolta
si trattasse d’opporsi a leggi popolari. Quando il minacciavano
rispondeva:—I nemici della patria han ragione di desiderare la mia
morte, perchè sanno che Roma non perirà finchè Scipione viva». Ma una
notte fu trovato morto in casa; egli distruttore dei _due terrori
di Roma_, fu sepolto senza esequie pubbliche; il popolo vietò ogni
procedura, temendo di compromettere Cajo Gracco. La morte del più
ostinato aristocratico annunziava che il conflitto si rinnoverebbe più
violento, più passionato e criminoso.

E in effetto i tribuni, avendo appreso da Tiberio quanto formidabile
potesse divenire la loro autorità, miravano a dilatarla. Il tribuno
Papirio Carbone, che non rimetteva dal rinfacciare l’assassinio di
Tiberio, propose che il tribunato si potesse prorogare quanto al popolo
piacesse; ma la mozione restò inesaudita. Il tribuno Cajo Atinio,
avendogli il censore Metello Macedonico voluto impedire l’entrata in
senato, afferrò questo, e lo trabalzava dalla rupe Tarpea come reo di
lesa maestà, se un altro tribuno non si fosse opposto: ma si profittò
del caso per far decretare che ai tribuni competesse voto deliberativo
in senato.

[CAJO GRACCO]

[126]

[125]

Cajo Gracco, alla morte del fratello, si era ritirato come spaurito,
dedicandosi all’eloquenza, in cui nessuno il superò; savio del resto,
alieno dall’ozio, dalla cupidigia, dalle beverie in cui sciupavasi
la gioventù. Molti il giudicavano un dappoco, e lo tassavano
disapprovasse Tiberio; ma nel fatto egli si maturava a vendicarlo,
risarcire la plebe, sgomentare i doviziosi, compire dopo resi più
grandiosi, i disegni del fratello, il quale gli era apparso in sogno
dicendogli:—Che cessi? la tua sorte sarà come la mia; combattere
e morire pel popolo». Questore in Sardegna, acquistò la stima e la
benevolenza del console e de’ soldati col valore e coll’esattezza;
ricusando le città somministrare vestimenti, esso ve le seppe indurre.
Per solo riguardo di lui, Micipsa re di Numidia mandò grano, con grave
dispetto del senato, che cacciò i messi di quel re, e diede lo scambio
alle guarnigioni. Il senato avea spedito lontano anche il violento
Fulvio Flacco, uno dei triumviri per la spartizione dei terreni, e
che giunto al consolato in onta dei nobili, moveva mari e monti per
accomunare la cittadinanza a tutti gl’Italiani, e promovere la legge
agraria; ma la città di Fregelle, che coll’armi avea voluto acquistare
quel diritto, fu vinta e distrutta; e il non averla sostenuta le
altre città italiche mostrava che il colpo non era maturo.

[123]

Ed ecco d’improvviso Cajo ricompare a Roma. I censori lo chiamano in
giudizio come disertore, ed egli così favella:—Dodici anni io militai,
benchè soli dieci ne esigano le leggi. Sortito questore, stetti
oltre due anni presso il mio generale, ancorchè la legge permetta
di ritirarsi dopo servito un anno. Vero è ch’essa m’ingiungeva di
tornare col mio generale; ma essa suppose che un console nel luogo
stesso campeggiasse solamente durante il consolato. Se piacque tenere
tre anni in Sardegna Aurelio Oreste, era io obbligato ad ordini non
diretti a me? Dolce riusciva al proconsole esercitar lungo ed assoluto
imperio sopra legioni obbedienti: duro riusciva ad un questore il
gettar nell’ozio un utile tempo. Me chiamano gl’interessi di tanti
infelici che implorano la distribuzione de’ terreni, alla quale io fui
deputato. Con quale intento io fossi tenuto sì lungamente discosto
dalla capitale, tocca al popolo romano indagarlo, tocca agl’Italiani
il lamentarsene; voi, censori, abbiate almeno riguardo al modo ond’io
mi comportai in un’isola, ove l’avarizia e la dissolutezza corruppero
gli uffiziali e i soldati del nuovo esercito speditovi. Pur un
asse io non accettai in dono dagli alleati, nè soffersi che alcuna
spesa sostenessero per me. Non ho fatto della mia tenda un luogo di
stravizzi, un ricovero alla crapula e alla prostituzione dei giovani
romani: apparecchiai banchetti, ma dove, sbandita la licenza, regnava
modestia di parole e di atti: nessuna femmina scostumata a me entrò:
non crebbi punto di ricchezze. Questo divario troverete fra me e i
vostri uffiziali di Sardegna, che io solo torno con la borsa vuota,
mentre gli altri tracannarono il vino ond’erano piene le anfore che
riportano colme d’argento e d’oro»[364].

[POPOLARITÀ DI CAJO GRACCO]

[122]

Cajo restò assolto ed acclamato dal popolo, che in esso credeva
rivedere il suo Tiberio; onde, allorchè egli chiese il tribunato,
non che occorressegli di far broglio, il campo Marzio non bastò alla
folla d’Italiani accorsi, che dai terrazzi e dai tetti gli davano il
suffragio per acclamazione; e mentre il voler prorogare l’annuale
dignità era costato la vita a suo fratello, a lui fu confermata l’anno
successivo, a grand’onta de’ patrizj, i quali soleano rimandare d’oggi
in domani le proposte de’ tribuni finchè il loro anno spirasse.

Fu sventura che Cajo Gracco non venisse insieme con Tiberio, e che la
fine di questo lo sgomentasse dal procedere con sicura risolutezza,
e lo facesse astioso contro del senato. Mentre prima l’oratore,
arringando nei comizj, volgevasi al senato, egli si piegò verso il
popolo; nel che imitato, venne a trasferire in questo l’importanza.
Poi, invece di dimenticare, siccom’è necessario a chiunque vuol
riconciliazione e riforme, ogni tratto rammemorava Tiberio.—Dove
andrò io? dove troverò un asilo? In Campidoglio? ma è lordo ancora del
sangue di mio fratello. Nella casa paterna? ma vi troverò una madre
inconsolabile. Romani, i vostri padri chiarirono guerra ai Falisci
perchè aveano insultato il tribuno Genuzio; dannarono nel capo Veturio
perchè non avea ceduto il passo a un tribuno che traversava il fôro;
e costoro sotto i vostri occhi scannarono Tiberio, ne trascinarono il
cadavere nel Tevere, i suoi amici fecero morire senza giudizio: mentre
dapprima era costume che, quando uno fosse imputato di causa capitale,
il banditore di buon mattino andasse alla porta di esso e lo citasse a
suon di tromba, nè prima di ciò veruno votasse; tanto rispetto aveasi
alla vita de’ concittadini».

[SUOI PROVVEDIMENTI]

Per conseguenza propone che un magistrato, il quale abbia colpito
alcuno senza giudizio, venga tradotto avanti al popolo: legge diretta
contro Ottavio, la quale dava il mal esempio d’azione retroattiva.
Vôlto quindi agli interessi generali, propone che niuna condanna
capitale valga senza la conferma del popolo; poi ogni mese facciasi
una vendita di grano a buon patto, ogni anno una distribuzione di
terreni; si disponga a profitto del popolo l’eredità del re Attalo;
ai soldati si dia il vestire senza detrarre la paga, e non s’arrolino
avanti i diciassette anni, mentre prima i patrizj facendosi iscrivere
ancor fanciulli, si assicuravano dell’anzianità per ottenere i gradi:
insomma fa a ritaglio accettare la legge del fratello. Le distribuzioni
del grano erano necessarie per evitare i tumulti che la fame potea
causare; ma introdussero l’idea che il popolo avesse diritto di vivere
a spese dello Stato. Chi però avrebbe potuto opporvisi? e quanto non ne
ricrescea la popolarità di Gracco! Tanto più che avendo fatto decretare
grandiose opere pubbliche, vi dava impiego a migliaja di braccia; fece
abbattere i palchi donde i doviziosi guardavano gli spettacoli del
circo, acciocchè non rimanesse distinzione dai poveri. Doveva egli
talora recedere da una sua rogazione? mostrava piegarvisi per riguardo
a Cornelia, madre sua venerata e cara.

Col favore del popolo cresciuto d’ardire, volgesi a politiche
innovazioni contro i privilegiati, e propone s’aggiungano nel
senato seicento cavalieri: eccessiva domanda, ch’egli avventurò per
ottenerne una più moderata, qual era che i giudizj fossero tolti
ai senatori[365] e conferiti all’ordine equestre, che così fu
reso un corpo politico da equilibrare il senato. Per tal passo gli
amministratori delle provincie non si trovavano assicurata l’impunità
dalla condiscendenza del senato: ma i nuovi giudici poteano vendere
e vendettero la connivenza; e mentre umiliando i grandi credeva
istituire una classe media, Cajo non creò che un partito, e come gli
rinfacciavano i vecchi patrioti, diede alla repubblica due teste, che
presto verrebbero ai morsi. Egli però vantavasi d’aver fitto nel fianco
dell’aristocrazia il dardo mortale, compiacevasi d’avere consolidata
la costituzione in modo, che il senato colla nobiltà, i cavalieri coi
giudizj farebbero argine alle intemperanze della popolaglia.

[ROGAZIONI DI CAJO GRACCO]

Per sostenere l’opera sua e togliersi ogni limite, chiese agl’Italiani
tutti si comunicasse la piena cittadinanza. Voleva egli con ciò
amicarsi i Socj latini, perchè cessassero dall’opposizione; e sebbene
l’averli il senato sbanditi dalla città, e impedito che a migliaja
venissero dal Lazio ai comizj, eludesse la proposta, da quell’ora essi
fecero causa coi poveri di Roma contro de’ nobili e del senato.

Colla legge frumentaria affezionatesi le tribù urbane, i cittadini
coll’agraria, i cavalieri colla giudiziaria, l’Italia colla lusinga
della cittadinanza, tutte le forze della repubblica e della penisola
opponeva al senato, che si vide costretto a cedere. Ma la distribuzione
dei grani smungeva l’erario; l’affidare i giudizj ai cavalieri
spartiva in due la repubblica, e sottoponeva i senatori ai pubblicani;
poi ai cavalieri rimaneva il dispetto delle scemate proprietà, e il
popolo vedeva mal volentieri che Cajo intendesse accomunare a tutti
gl’Italiani i suoi privilegi ed il suffragio.

Null’ostante egli godeva di grandissima autorità, circondato da
magistrati, militari, artisti greci, ambasciadori come un re: ma
conoscendola esosa al senato, badava di non dargli che consigli utili
e decorosi. Avendo il propretore Fabio mandato frumento dalla Spagna,
Cajo persuase il senato a venderlo, e il denaro ritrattone spedirlo
agl’Iberi, affinchè non sentissero eccessivamente grave il giogo di
Roma: autorizzò i provinciali a prendere essi medesimi l’appalto
delle imposte: fece fabbricare granaj, e mentre andava coi triumviri
a misurar l’Italia, vi procurò belle e dritte strade con ponti e
colonnette miliari, e pietre per salire a cavallo, com’era duopo prima
d’inventare le staffe, soprantendendo egli stesso ai lavori: propose
di collocare colonie ove Roma possedeva maggiori territorj, e di
rassettare le antiche emule di Roma, Capua, Tàranto e Cartagine.

I senatori mostravano assecondarlo, ed offersero a lui stesso
andasse a rimettere in essere quest’ultima, e piantarvi la colonia
Giunonia, che fu la prima fuori d’Italia. Egli il fece: ma sottratto
che fu dagli occhi della moltitudine, i senatori giocarono a due
mani per diroccarlo, e con un artifizio spesso imitato subornarono
Druso collega di lui, acciocchè lo sorpassasse con proposizioni
esorbitantemente popolari. Cajo diceva di mandare due colonie? ed egli
dodici; di distribuire i terreni con un tenue canone? ed egli di darli
gratuitamente; fece che i generali non potessero sferzare i soldati
latini; davasi premura di esprimere che tali consigli moveano dal
senato, tutto viscere per la plebe; nè mai cercava posti ed onori per
sè, quasi a raffaccio di Gracco che assumevasi tutte le commissioni,
abile a tutte per la sua operosità meravigliosa.

[FINE DI CAJO GRACCO]

[121]

Con queste lustre e coi paroloni a vuoto che fan colpo sul vulgo,
venne a diminuirsi l’animosità concepita contro il senato; e quando
tornò dalla rifabbricata Cartagine, Gracco trovò che in quei tre mesi
la plebe avealo quasi dimentico. Domandando il terzo tribunato, ebbe
i voti contrarj: un suo ospite sotto gli occhi suoi fu trascinato in
prigione: ai Latini dato il bando da Roma: e per colmo, vide eletto
console Opimio Nepote distruttore di Fregelle, e suo ereditario nemico;
il quale domandò fosse disfatta la colonia cartaginese, tanto aborrita
dagli Dei di Roma, che i lupi ne aveano portato via i termini. Ricevuto
dal senato l’arbitrio dittatorio, occupò il Campidoglio, dichiarò Cajo
nemico della patria, bandì una taglia sulla testa di esso, indi a capo
delle truppe investì Fulvio Flacco. Questo ribaldo intrigante, imputato
non forse a torto dell’assassinio di Scipione Emiliano, disonorava
la causa di Gracco col farla assomigliare ad una sommossa, e armava
i proprj partigiani colle armi tolte da esso ai Galli, e che come
trofeo conservava in casa. Assalito, aspettò da valoroso e manesco qual
era, ma nella zuffa perdè la vita. Gracco, cui mancava l’audacia d’un
rivoluzionario o la freddezza d’un generale, ricoveratosi nel bosco
delle Furie, si fece uccidere da uno schiavo, unico fedele alla sua
sventura. Tremila furono morti quel giorno sull’Aventino e gettati nel
Tevere, persino un fanciullo di Fulvio che s’avanzava col caduceo in
segno di pace; ad altri tortura e supplizio; confiscate le facoltà,
proibito il lutto alle mogli, a quella di Gracco tolta perfino la dote;
e Opimio, vincitore della prima guerra o strage civile, fondò il tempio
della Concordia.

La plebe, che aveva fiaccamente abbandonato il suo protettore, appena
si riebbe dall’abbattimento, palesò l’indignazione sua come potè,
prima scrivacchiando sui muri[366], poi ergendo statue ai Gracchi,
consacrando i luoghi dove furono uccisi, e offrendovi le primizie
d’ogni stagione. Cornelia portò decorosamente quella perdita, dicendo
che i suoi figli aveano sepolcri degni di loro in luoghi consacrati;
e lungamente visse a Miseno, ospitando letterati e Greci, ricevendo
messi dai re, piacendosi di raccontare le virtù di Scipione Africano
e la tragedia de’ suoi figliuoli. Le fu poi dedicata una statua
coll’iscrizione: _Cornelia madre dei Gracchi_.

[108]

La partizione dei terreni era cominciata, nè il senato osò sospenderla,
ma con proposizioni accorte si eluse quel che contenevano di meglio
le rogazioni dei Gracchi. I nobili indussero uno de’ commissarj a
dire che, difficilissima essendo quella ripartizione secondo la legge
agraria, meglio tornerebbe l’obbligare i possessori a pagarne un canone
perpetuo, da ripartirsi fra i poveri; dato il quale, i possessori
non fossero più sturbati. Talentò la speciosa proposta al popolo, e
adottandola riconobbe inalienabile proprietà di privati i terreni già
pubblici: ma poco andò che un altro tribuno fece cessare quel livello,
dicendo che i nobili già contribuivano abbastanza col sostenere le
dignità; e la plebe, senza nè terreni nè rendite, trovossi rituffata
nella primitiva miseria. La legge Thoria poi abolì tutti gli effetti di
quelle de’ Gracchi.

[LORO LEGGI ABOLITE]

Ben dicemmo dunque che le leggi agrarie toccavano ai problemi che
oggi stesso agitiamo, del pauperismo, de’ soccorsi pubblici alla
mendicità, dell’arresto personale, della libera usura del denaro,
dello smembramento delle proprietà. Quelle portate da Stolone aveano
stabilito lo sminuzzamento de’ possessi e l’equilibrio dei poteri,
dando stabilità e potenza alla repubblica: abrogate, ne sminuirono la
popolazione libera e i prodotti. Tiberio Gracco volle ristabilirle
quando, le usurpazioni dei ricchi essendo ancora recenti ed illegali,
non ne veniva profondo sovvertimento alla società, onde sarebbonsi
rimessi in equilibrio i possessi e le ricchezze fra i tre Ordini.
L’oligarchia vi si oppose, e diede il primo esempio di quelle guerre
civili, in cui essa dovea perire. La nimicizia fra plebe e nobiltà
s’invelenì; i cavalieri, fatti arbitri dei tribunali e appaltatori
delle gabelle, poteano imporne al senato e sviare qualunque riforma:
onde invano l’eloquenza di Marc’Antonio, di Lucio Crasso e d’altri
tonava contro i dilapidatori delle provincie; invano altri tentavano
ridurre queste a migliore amministrazione. Però fra i Socj latini del
popolo romano sopravivea il pensiero di poter anch’essi entrare a parte
della dominazione; e a mutar il fremito in insurrezione non mancava se
non un capo, il quale all’ardimento accoppiasse l’abilità.

  FINE DEL TOMO PRIMO



  INDICE


  LIBRO PRIMO

  CAPITOLO     I. Dell’Italia e della sua storia             _pag._    9
     »         II. Dei primitivi italiani                      »      34
     »        III. Gli Etruschi                                »      64
     »         IV. Popoli minori                               »     103
     »          V. Istituzioni italiche                        »     113
     »         VI. Primordj di Roma. I re                      »     137
     »        VII. Governo patrizio e sue trasformazioni
                   fino alla democrazia                        »     158
     »       VIII. Politica esterna. I Galli. Il Lazio e
                   l’Etruria soggiogati. Fine dell’età
                   eroica                                      »     187


  LIBRO SECONDO

     »         IX. Magna Grecia.—Pitagora.—I legislatori       »     205
     »          X. Sicilia                                     »     229
     »         XI. I Romani nella Magna Grecia.—I
                   Venturieri.—Pirro                           »     266
     »        XII. Cartagine. Prima guerra punica. Sistema
                   militare de’ Romani. Conquista
                   dell’Insubria                               »     280
     »       XIII. Seconda guerra punica. Annibale.
                   Sommessione della Gallia Cisalpina e di
                   tutta Italia                                »     303
     »        XIV. I Romani in Grecia e in Oriente.—I
                   trionfi                                     »     325
     »         XV. Interno di Roma. I costumi eroici si
                   mutano. Innesto greco                       »     355
     »        XVI. Terza guerra punica. La Spagna vinta        »     382


  LIBRO TERZO

     »       XVII. Costituzione di Roma repubblicana           »     395
     »      XVIII. Condizione economica. Leggi agrarie.
                   I Gracchi                                   »     439



FOOTNOTES:

[1] Ἰταλὸς significa vitello; e _vitalia_, _vitlu_, _italia_ nelle
iscrizioni umbriche ed osche esprimono ora il vitello, ora il
paese: onde gli etimologi dedussero il nome della patria nostra
dall’abbondarvi i bovi. Altri la denominano da un Italo immaginato re
de’ Siculi. Alcuno pensò ad _Atlas_, e ne argomentò l’origine africana
della civiltà italica, appoggiandosi al _Quæ docuit maximus Atlas_
di Virgilio. Altri con Bochart (_Geografia sacra_, lib. I, c. 30)
riscontra una derivazione fenicia; poichè _Itaria_ in parlare arameo
dinota terra della pece, come terra dei metalli _Ilipa_, corrotto poi
in Ilba ed Elba. A chi s’appaga di tali prove potrebbero dar appoggio i
nomi locali, consoni in Italia e nella Cananea: popoli Sabini e Raseni
sedevano presso alla Mesopotamia; Phik di Siria ricorda il Piceno;
Marsi Elojon era città del littorale di Siria, presso alla quale il
fiume Macra, fiume che abbiamo noi pure tra i Marsi; in Armenia è
Ameria; in Mesopotamia è Alba; Aulon è paese di Palestina presso al
Giordano, e colle presso a Tàranto; a Caparbio di Italia corrisponde
Capharabis d’Idumea; a Colle in Toscana, Cholle della Palmirene; Tamar
è in Campania e in Siria, Tebe in Siria e ne’ Sabini, ecc. Vedi una
memoria letta dal Fabbroni all’Accademia toscana nel 1803. Queste
etimologie di paesi meritano studio serio, e per fini più elevati che
non sieno i trastulli dei così detti eruditi.

[2] Polibio, lib. II, c. 16, dice già che il Po ἄγει πλῆθος ὔδατος
ὀυδενὸς ἔλαττον τῶν κατὰ τὴν Ίταλίαν ποταμῶν.

[3] Per dire solo d’alcune delle moderne, a Cassano (1259, 1705,
1799), a Vaprio (1324), a Fornovo (1495), ad Agnadello (1509, 1705),
a Melegnano (1515, 1859), alla Bicocca (1522), a Romagnano (1524), a
Pavia (1525), a Chiari (1701), a Torino (1706), a Roveredo, ad Arcole,
a Lonato, a Castiglione, a Lodi (1796), a Rivoli (1797), a Caldiero
(1796, 1805, 1813), a San Giorgio e alla Favorita (1797), a Magnano
(1799), a Marengo e Pozzuoli (1800), a Custoza (1848, 1866), a Novara
(1500, 1849), a Solferino (1859), ecc.

[4] Ῥήγνυμι, _svelgo_. Dolomieu, nella _Memoria sui tremuoti della
Sicilia_, credè dimostrare geologicamente il fatto. Cluverio raccolse i
passi di antichi che lo attestano:

  _... Zancle quoque juncta fuisse
  Dicitur Italiæ, donec confinia pontus
  Abstulit, et media tellurem repulit unda._

  OVIDIO, Metam. XV. 290.

  _Hæc loca, vi quondam et vasta convulsa ruina
  (Tantum ævi longinqua valet mutare vetustas)
  Dissiluisse ferunt; cum protinus utraque tellus
  Una foret, venit medio vi pontus, et undis
  Hesperium Siculo latus abscidit, arvaque et urbes
  Litore diductas angusto interluit æstu._

VIRGILIO, Æn. III. 414.

Ma De Buch, confrontando i monti Peloritani col gruppo dell’Aspromonte
in Calabria, nega che la Sicilia sia mai stata unita al continente,
lo che avevano già sostenuto Brocchi nella _Biblioteca italiana_, e
Gemellaro nelle _Effemeridi scientifiche e letterarie della Sicilia_,
1840, n. 78.

Vedi pure TENORE, _Essai sur la géographie physique et botanique du
royaume de Naples_, pag. 23.—BROCCHI, _Dello stato fisico del suolo
di Roma_, 1820; _Conchigliologia fossile subappennina_—BREISLAC,
_Observations lithologiques sur la ville de Rome_;—NIBBY, _Analisi
della carta dei contorni di Roma_;—CRAMER, _Descript. of ancient
Italy_;—poi Nesti, Collegno, Sismonda, Pareto, Marmocchi, Pilla, ecc.
In questo momento essi son caduti di grado, prevalendo le teoriche
dello Stoppani, _Corso di geologia_.

I cambiamenti della superficie terrestre non passarono inosservati
dagli Italiani antichi, quantunque ne sconoscessero l’estensione e le
cause. Ovidio, nel XV, 254-273 delle _Metamorfosi_, canta:

  _Non perit in tanto quidquam, mihi credite, mundo;
  Sed variat, faciemque novat...._

(Ecco la dottrina recente della inalterabile quantità non solo di
materia ma di forza.)

  _Vidi ego quod fuerat quondam solidissima tellus
  Esse fretum; vidi factas ex æquore terras;
  Et procul a pelago conchæ jacuere marinæ,
  Et vetus inventa est in montibus anchora summis;
  Quodque fuit campus, vallem decursus aquarum
  Fecit, et elurie mons est deductus in æquor:
  Eque paludosa siccis humus aret arenis,
  Quæque sitim tulerant, stagnata paludibus hument.
  Hic fontes natura novos emisit, et illic
  Clausit, et antiqui tam multa tremoribus orbis
  Flumina prosiliunt, aut excœcata residunt etc._

[5] PILLA, _Annali civili di Napoli_, quad. XL;—PHILIPPI, _Cenni
geognostici sulla Calabria_.

A Carlo III erasi proposto di riaprirvi quel canale, idea già brillata
a Dionigi di Siracusa. PLINIO, _Naturæ historia_, III, 15: _Nusquam
angustior Italia; vigintimilia passuum latitudo est: itaque Dionysius
Major intercisam eo loco adjicere Siciliæ voluit._

[6] Nel lago sacro presso Reate, in quelli di Vadimone, di Statone,
di Bolsena e di Modena, Dionigi d’Alicarnasso, i due Plinj e Seneca
vedevano isolette galleggianti; _quædam insulæ semper fluctuant_.
Naturæ historia, XI. 96.

Non mancano ragioni per sostenere che i monti del sistema detto delle
Ande emergessero dopo la creazione dell’uomo.

[7]

  _Huic monstro Vulcanus erat pater: illius atros
  Ore vomens ignes, vasta se mole ferebat...
  Faucibus ingentem fumum, mirabile dictu!
  Evomit, involvitque domum caligine cœca,
  Prospectum eripiens oculis, glomeratque sub antro
  Fumigeram noctem, commixtis igne tenebris._

  Æneides, VIII, 198 e 252.

[8] _Mémoires sur les îles Ponces_, Parigi, 1788.

[9] Dopo i tanti che ne discussero, pare a tenere che il livello
del golfo di Pozzuoli nei primi secoli dell’era vulgare stava circa
tre metri più basso; nel medioevo, otto metri più alto; poi andò
dibassando fin a settant’anni fa, quando ripigliò il moto ascendente.
Si può dunque anche alle coste d’Italia applicare quel che Lucano alle
nordiche, _Phars._ I. 409:

    _Jacet litus dubium, quod terra fretumque_
  _Vindicat alternis vicibus._

[10] RAMAZZINI, _De fontibus Mutinæ_. VALLISNIERI, _Opusc._, pag. 56. È
noto che colà da antico sono praticati i pozzi, che ora si denominano
artesiani.

[11] Dopo Adria, al fondo d’una cala s’incontravano a mezzodì un ramo
dell’Adige e le Fosse Filistine, corrispondenti alla traccia che
seguirebbero il Mincio e il Tartaro se il Po fluisse ancora al sud
di Ferrara. Il delta veneto forse occupava la laguna di Comacchio,
e lo traversavano sette bocche dell’Eridano, che sulla sinistra,
ove esse diramavansi, aveva la città di Frigopoli nelle vicinanze
di Ferrara. _Septem Maria_ chiamavansi le acque stagnanti negli
intervalli. Risalendo la costa settentrionale, dopo Adria vedeasi la
foce principale dell’Adige, detta pur essa _Fossa Philistina_; poi
_Æstuarium Altini_, mare interno, separato dal grande per una schiera
di isolotti, in mezzo ai quali trovavasi un arcipelago chiamato Rialto,
futura Venezia. Al secolo XII, tutte le acque del Po scorrevano a
mezzogiorno di Ferrara nel Po di Voláno e nel Po di Primàro, dove
oggi è la laguna di Comacchio. La riva era diretta sensibilmente da
mezzodì a tramontana a dieci o undicimila metri dal meridiano di Adria,
passando là dove ora sporge l’angolo occidentale del recinto della
Mésola; e Lorco, al nord di questa, ne distava appena ducento metri.
Verso la metà di quel secolo le acque grosse del Po, sostenute da
dighe a sinistra, presso Ficarólo, diciannovemila metri a nord-ovest
di Ferrara, dilagarono sulla parte settentrionale del territorio di
Ferrara e sul Polésine di Rovigo, e buttaronsi nei due canali di
Mazorno e di Toi. Forse l’uomo tracciò questa strada, in cui più
sempre affluendo, spoverironsi le bocche di Volano e Primaro, e in
meno d’un secolo furono ridotte quali oggidì. Nuovi canali s’aperse il
fiume, e al cominciare del secolo XVII lo sbocco di tramontana, che
n’è il principale, trovavasi vicinissimo alla foce dell’Adige, donde i
Veneziani lo scostarono col taglio di Portoviro nel 1604. Dal secolo
XII al XVII le alluvioni s’inoltrarono assai entro mare. Il ramo di
tramontana nel 1600 sboccava a ventimila metri dal meridiano suddetto,
quello di Toi a diciassettemila; talchè la riva era proceduta nove
o diecimila metri al nord, e sei o settemila al sud; e fra le due
trovavasi una cala, detta Sacca di Goro. Più gli sbocchi a mare si
allungavano, più cresceano i depositi, sì pel scemato declivio delle
acque, sì perchè inarginate, sì per le maggiori materie trascinate dai
monti dissodati: la Sacca di Goro fu presto colmata; i due promontorj,
formati dalle due prime bocche, si unirono in uno, la cui punta ora è
da trentadue chilometri dal meridiano di Adria; sicchè in due secoli
le bocche del Po usurparono quasi quattordicimila metri di lunghezza
al mare. Dal 1200 al 1600 le alluvioni procedettero dunque venticinque
metri l’anno, e settanta ne’ due ultimi secoli.

Queste sono a un bel presso le conclusioni del Prony, che sotto il
Regno d’Italia avea avuto l’incarico di sistemare le nostre acque; e
l’autorevole nome di lui, e l’esser francese fecero che l’asserzione
venisse accettata senza esame, anche in opere serie, e valesse perfino
a determinazioni pratiche. L’ingegnere Lombardini, colla storia e col
livello alla mano, temperò quelle esagerazioni: non che il fondo del
Po si trovi superiore ai tetti di Ferrara, la sua piena nè tampoco
arriverebbe al primo piano delle case; carreggia annualmente da
trenta in quaranta milioni di metri cubi di materie alla foce, sicchè
la superficie delle sue alluvioni in un anno cresce di centredici
ettare, nè progredisce in mare che un metro e mezzo; l’arginamento
poi, necessario per salvar le campagne, non che rialzi il letto, anzi
crescendo la rapidità lo farebbe sgombro, se altre circostanze non
valessero a mantenervi i pericolosi ingombri.

Nel 1856 il veneziano Paleocapa a proposito del taglio dell’istmo
di Suez ragionò del _protendimento delle spiaggie dell’Adriatico_.
Questo golfo ha l’imboccatura più stretta fra Otranto e l’Albanía,
larga appena settanta chilometri: di là fino a Trieste s’estende
novecento chilometri da sud-est a nord-ovest, colla larghezza media di
centottanta chilometri. Alle profondità maggiori, cioè di centottanta
in ducento metri, si trovano gran letti di crostacei, cetacei e
polipaj, misti con arena e terra; ma per lo più il fondo è fangoso:
verso l’Istria s’incontrano roccie; verso Italia sabbie o argille
tenaci. Forti le maree, che nelle sizigie a Venezia salgono fin ottanta
centimetri sopra le ordinarie; e talvolta, combinandosi coi venti
sciroccali, tino a due metri; ma verso Otranto rendonsi poco sensibili.

La corrente littorale si manifesta dappertutto, ma differisce secondo i
venti, il flusso e la conformazione delle coste. Dal sud elevandosi al
nord lungo le rive dalmate, giunta al canale di Zara si divide in due:
una prosegue lungo la Dalmazia, l’Istria, il littorale veneto; l’altra
si volge al largo, traversa l’Adriatico, e giunta alle acque d’Ancona,
raggiunge la prima corrente, accrescendole forza verso la Puglia, dove
corre fin tre o quattro chilometri all’ora, mentre superiormente non ne
fa che sette in otto al giorno. Pare cessi d’aver azione a sette o otto
metri sotto la superficie delle acque.

La costa orientale è tutta scaccata con seni e capi e isolotti e
scogli e brevi pianure o montagne a picco; anche allo sbocco de’ fiumi
pochissimo è il terreno d’alluvione; e ben poco fu alterata quella
costa; laonde le città indicatevi in antico si trovano press’a poco al
punto medesimo.

Tutt’altro avviene della costa settentrionale e occidentale dal capo
Sdobba a Venezia, e di là a Rimini. Non più scogli od isole o canali,
non montagne littorali, ma vaste pianure in cui cadono i fiumi alpini
per isboccar nel mare, tutti portando immense materie, che cambiarono
aspetto al lido. Aquileja, già sul mare, ha davanti una pianura
maremmana di undici chilometri: Portogruaro, già porto, or dista
quindici chilometri dal mare; Eraclea altrettanto; nove Altino: Brenta,
Bacchiglione, Musone interrirono porti e insenature. Principalmente
allo sbocco del Po si è formato un delta che sporge circa diciassette
chilometri dalla ordinaria linea della costa fra Chioggia e Rimini,
dove forse prima era una gran baja: poichè Adria doveva esser bagnata
dal mare, che or ne dista venticinque chilometri. Dai documenti, rari
in antico, abbondanti dal XVI secolo in poi, consta che i fiumi, e
principalmente il Po, traversavano stagni e paludi ove deponeano le
materie. Colmate queste, o protette da arginature, diboscati i monti,
crebbe la quantità delle alluvioni tanto, che il canal Bianco o Po di
Levante elevossi sopra le pianure del Polesine a segno di non riceverne
più gli scoli. Allora fu fatto il taglio di Portoviro, lungo sette
chilometri, invece dei diciassette del primiero; ma quello pure oggi è
lungo chilometri ventisei, atteso le nuove alluvioni, che però non gli
impediscono di ricever ancora le acque del Polesine.

A mezzo il secolo XVIII il progresso delle alluvioni rallentò, e viepiù
ai dì nostri. Perocchè la sporgenza del delta lo reca a profondi
abissi, ne’ quali si precipitano le sabbie accumulate; e sebbene
l’arginamento de’ torrenti secondarj e le piene maggiori, causate da’
diboscamenti, crescesser le materie portate nel letto, le burrasche e
la corrente servono a lavarle via.

Le valli di Comacchio, già profondissime, furono esse pure interrite
dal Po di Primaro e di Volano, e restano separate affatto dal mare. La
spiaggia di Ravenna si è prolungata otto chilometri.

Anche dove non isboccano fiumi la spiaggia s’avanza, benchè realmente
il livello del mare si alzi, o, a dir più giusto, si deprima il
continente. Ciò è dovuto alla corrente littorale, che le sabbie portate
dai fiumi strascina alla sinistra delle loro foci; tutti i fiumi han
banchi di sabbia più estesi ed elevati a destra, ove la corrente
littorale è rotta dall’urto del fiume. Ecco perchè i porti bisognò
salvarli mediante dighe, molto sporgenti in mare, affinchè le sabbie
accumulantisi alla loro estremità cadessero negli abissi.

Il tornare navigabile il Po, e così resuscitare le città, di cui non
vediam quasi che i grandiosi cadaveri, potrà sulle sorti italiane ancor
più efficacemente che le strade ferrate.

[12] Oggi i passaggi principali sono,

  Nelle alpi Cozie, il Monginevra, alto      metri 1865
      »        —  il Cenisio                   »   2065
      »      Graje, il piccolo San Bernardo    »   2192
      »      Pennine, il gran San Bernardo     »   2491
      »      Leponzie, il Sempione             »   2005
      »        —  il San Gotardo               »   2075
      »      Retiche, la Spluga                »   2118
      »        —  lo Stelvio                   »   2814
      »        —  Maloja                       »   2700
      »        —  Bernina                      »   2121
      »      Carniche, Tarvis                  »    869
      »      Giulie, la Ponteba                »   1430

[13] Il primo a sostenerla con ispeciso corredo d’argomenti fu
monsignor Guarnacci, _Origini italiche_. 1767. Se ne valse poi
Melchiorre Delfico nelle _Antichità di Adria Picena_; e testè il
Mazzoldi col vantaggio della moderna erudizione.

[14] Vedi _Istoria delle origini della città di Milano_, 1529; _De
antiquitate Patavii_, 1560; _De Gallorum Cisalpinorum antiquitate et
origine_....

[15] Appartengono a questo ciclo Diomede fondatore di Napoli, Criso
trojano di Parma, Antenore di Padova, Aquilino d’Aquileja. altri
Trojani di Treviso, Troilo di Alba in Piemonte, Piacentulo di Piacenza,
Cremone di Cremona, Venere e suo figlio Elicio di Vercelli.... Salgono
più alto Mantova, fondata dalla divina Manto, Genova da Genuino
compagno di Fetonte, Torino da Fetonte stesso ai tempi di Mosè.

[16] Il signor Matranga (_La città di Lamo_, Roma 1853) sostiene che
il paese de’ Lestrigoni è propriamente Terracina, anzichè Formia, cioè
Mola di Gaeta, ove lo collocava Cicerone.

Non mancò chi volle dimostrare che Omero fosse italiano, e che non
nella Grecia propria ma nella italica raccogliesse le tradizioni
immortalate ne’ suoi canti. Vedi COCO, _Platone in Italia_.

[17] _Odissea_, canti IX e X.

[18]

  _Is genus indocile ac dispersum montibus altis
  Composuit, legesque dedit._

  Æn. VIII. 321; MACROB. I, 7.

[19]

  _Nec signare quidem, aut partiri limite campum
  Fas erat; in medium quærebant._

  Georg. I. 126.

  _Queis neque mos, neque cultus erat; nec jungere tauros
  Aut componere opes norant, aut parcere parto:
  Sed rami: atque asper victu venatus alebat._

  Æn. VIII. 316.

[20] Æn. VIII. 315.

[21]

                         _Paterque Sabinus,_
  _Vitisator, curvam servans sub imagine falcem._

  Æn. VII. 79.

[22] Æn. VII. 629. 678. 742. 749; IX. 590, 668; X. 139.

[23] Ivi, VIII. 178. 369. 460. 552; IX. 304.

[24]

  _Rex Anius, rex idem hominum, Phœbique sacerdos._

  Æn. III. 80.

[25] Ivi, VII. 82; VIII. 75; IX. 3. 24.

[26] Ai frammenti di Dionigi d’Alicarnasso, scoperti nella biblioteca
Ambrosiana, il cardinale Maj antepose una dissertazione elaborata a
sostenerne i meriti. Anche Petit-Radel vuole mostrarlo e informato e
veridico, almeno riguardo ai Pelasgi e alle città italiane; chè del
resto è troppo sistematicamente parziale per Roma.

[27] _Historia varia_, lib. IX, c. 16.

[28] L’Arcadia non ha coste, eppure alla guerra di Troja mandò sessanta
navi, cioè quante la Laconia, e un terzo più che l’Elade.

[29] _Tusci_, _Tirol_, _Tir_, _Tusis_, _Retzuns_, son nomi di paesi
retici che sentono d’origine tirrena. TSCHUDI, _De prisca et vera
Alpina Rhætiæ_; QUADRIO, _Dissertazioni critico-storiche sulla Rezia
di qua dall’Alpi_; HORMAYR, _Gesch. von Tirol_, I. 127; GIOVANELLI,
_Dell’origine dei popoli d’Italia_. Trento 1844; STEUB, _Die Urbewohner
Rätiens_. Monaco 1843. Presso Dos di Trento fu scoperta un’iscrizione
etrusca. Il barone di Crazannes asserisce che a Rheinzallern nella
Baviera Renana si trovano molti frammenti di stoviglie con caratteri
etruschi; e vuol provare che questo carattere appartiene al celtico
del pari che al celtibero, all’euganeo, all’osco, al sannita, al greco
antico, onde è facile confonderli un coll’altro. Vedi _Journal des
artistes_. Parigi 1832, dicembre. Un’iscrizione etrusca fu trovata in
Valtellina.

[30] Da _ops_ terra; donde _opes_ ricchezza, e anche _opus_: Οπικοὶ καὶ
πρότερον καὶ νῦν καλούμενοι τὴν ἐπωνομίαν αὕσονες. ARISTOTELE, Πολιτ.
VII. Così Antioco siracusano ap. STRABONE, lib. V. Degenerarono poi in
modo, che il nome loro equivaleva a zotico e scostumato.

Testè l’Accademia delle iscrizioni e belle lettere di Parigi ha messo a
concorso la _Storia degli Oschi avanti e durante la dominazione romana;
esporre quel che si sa della loro lingua, religione, leggi ed usi_.

[31] Vedi PETIT-RADEL, _Origines hystoriques des villes d’Espagne_;
HUMBOLDT, _Prüfung der Untersuchungen über die Urbewohner Hispaniens,
vermittelst der vasckischen Sprache_; e con più novità PRICHARD, _The
natural history of man_. Invece dunque di credere che Iberi di Spagna
abbiano abitato l’Italia, noi teniamo che d’Italia sieno passati colà.
Humboldt fa la migrazione degli Iberi anteriore ai Celti. Da questa
origine verrebbe l’omofonia di tanti paesi nostri e di Spagna, di cui
ecco un saggio:

             IN ITALIA                          IN SPAGNA

  _Cortona_ negli Umbri                 _Cortonenses_ nella Celtiberia
  _Vettonenses_                         _Vettones_ sul Tago
  _Spoletium_                           _Spoletinum_
  _Turda_ in Umbria                     _Turditani_
  _Osa_, fiume che sbocca sulla costa   _Ausa_, _Ausetani_
    di Telamone
  _Cosa_                                _Cosetani_
  _Visentium_ sul lago di Bolsena       _Visentio_ de’ Pelendoni
  _Vulci_                               _Veluca_ degli stessi, Volca
  _Tarcunia_, e vicino _Contenebra_     _Taraco_, e vicino _Tenebrium_,
                                          e _Portus tenebra_
  _Graviscæ_, nominata dal figlio di    _Gravii_ sulla costa occidentale,
    Telamone                              ove sbarcò Teucro figlio di
                                          Telamone; vicino era _Antium_.
  _Metaurus_, fiume degli Umbri         _Metarus_, fiume de’ Callaici
  _Cære_, _Cærites_                     _Cerretani_, _Serræ_
  _Indigetes_                           _Indigetes_ fra i Cerretani e i
                                          Cosetani
  _Castellani_, abitanti di Castro      _Castellani_
  _Corbia_ }                            _Corbio_
  _Setia_  } de’ Volsci                 _Setia_ de’ Vasconi
  _Norba_  }                            _Norbia_ de’ Lusitani
  _Aurunci_ di Campania                 _Arrucci_ nella Betica
  _Osci_                                _Osca_
  _Vescia_ campana                      _Vescitani_, presso i Guasconi,
                                          _Vescis_ dei Turdeli, _Vescia_
                                          dei Turdetani
  _Astur_ fiume                         _Asturia_
  _Tutia_, _Orcia_                      _Tutia_, _Orcia_ in Celtiberia
  _Auximum_, _Osca_                     _Auxima_ e _Osca_, vicino a Tutia
  _Suessetani_                          _Suessa_, Sanguessa
  _Trebula_ di Campania e _Tribola_     _Tribola_ de’ Turdetani, con
    dei Sabini                            vicino
  _Aurunci_                             _Arrucci vetus_ e _Arrucci novum_
  _Bathia_ della Sabina                 _Bathia_ sul fiume Ara
  _Pallantia_                           _Pallantia_ ne’ Vaccæi

Senza poter accertarne il tempo nè la precedenza, d’altri paesi
troviamo nei Baschi l’etimologia o gli omonimi coi nostri. _Iria_
presso Torino, in basco vuol dire città, e ha radice comune cogli
Ilienses di Sardegna. _Uria_ in Apulia, viene da _ura_ acqua; e vi
corrispondono _Urba Salova_ de’ Picentini, _Urbinum_, _Urcinium_ di
Corsica, come _Urce Bastetanorum_. V’è _Urgo_ isola fra la Corsica
e la Toscana, ed _Urgao_ nella Betica; gli _Ursentini_ in Lucania,
e _Urso Ursao_ nella Betica; _Argurium_ in Sicilia, e _Argiria_ in
Ispagna; _Astura_ è fiume ed isola presso Anzio, come provincia di
Spagna; da _Asta_, rôcca, si ha Asti in Italia, e _Asta Turdetanorum_
in Spagna; Ausonj è analogo allo spagnuolo _Ausa_ e _Ausetani_; v’è
_Arsa in Istria_ e _Arsa_ in Beturia; _Basta_ in Calabria e _Basti_
ne’ Bastetani; _Biturgia_ in Etruria, e _Bituris_ presso i Baschi;
il nome di _Basterbini_ fra i Salentini viene da _basoa_ montagna
ed _erbestatu_ migrare. Abbiamo in Lombardia il fiume _Lambro_, e
_Lambriaca_ e _Flavia Lambris Callaicorum_ è nelle Spagne; _Murgantia_
in Sicilia, e _Murgis_ in Spagna; _Suessa_ e _Suessula_ nel Lazio, e
i Suessetani negli Ilergeti; _Curenses_ ne’ Sabini, e _Gurulis_ in
Sardegna; _Litus corense_ in Betica, e il promontorio _Corianum_ in
Aquitania, ecc.

Humboldt dai nomi de’ paesi induce la presenza degli Iberi in Corsica,
in Sardegna, in Sicilia ed in Italia. Dei nomi dedotti dai Celti pensa
incerti gl’indizj nella Gallia e nella Gran Bretagna, mentre invece
li riconosce evidenti in Italia. Di fatto li troviamo moltiplicati,
singolarmente ne’ paesi di qua dal Po. Eccone qualche esempio:

  _Alb_ bianco e alto.
  _All_ alto; da cui _Allobrogi_.
  _Ar_ è l’articolo, e indica anche _su_; sillaba iniziale molto
    comune.
  _Ara_, terminazione che indica rapporto di seguito, conseguenza.
  _As_ in celtico è principio, sorgente, primo (_Asso_ in Lombardia,
    _val d’Asso_ in Toscana, _Ascona_, ecc.).
  _Av_, acqua, fiume; contratto da _avainn_. Da _cenn_ punta e _av_
    si ha _Genua_.
  _Briga_ città o sito forte (_Brixia_, _Briga_, _Apriga_, ecc.).
  _Bru_, _bro_ luogo, e _bruig_ villaggio: donde la terminazione
    in _brugo_.
  _Com_ seno, girone, guardia, protezione (_Como_, _Comacchio_).
  _Den_, _don_ profondo.
  _Dun_ collina (terminazione frequente).
  _Is_, _ios_ basso, inferiore (_Isombria_, _Isso_).
  _Mag_ pianura (_Magenta_, ecc. e molte terminazioni).
  _Taur_ o _Tor_ alto, montagna (Torino).
  _Veran_ terra, contrada (_Verano_, _Verona_, ecc.).

Abbondano i paesi nell’alta Italia, simili di nome a quei della Gallia:
come, a dirne pochi, Missaglia (_Massalia_), Arluno (_Arlun_), Olona
(_Olonne_), Moncucco, Montbar, Pallanza, Nogarete, Arlate, Asso, Lecco
e _Leucate_, Gessate e _Gesates_, Adda e _Abduatici_, Canturio e
_Cantuaria_, Brivio e _Brives_, Canzo e _Kent_, ecc. Molti più sono i
nomi di radice celtici: Piacenza da _plac_ ed _ent_ bella abitazione;
Felsina da _fel_ grassa e _zin_ abitazione; Crema e Cremona da _crem_
grasso e _mon_ luogo; Marignano da _mar_ sopra e _nan_ riviera; Bologna
da _boun_ estremità e _on_ montagna; Canossa da _can_ rupe e _oc_ alto;
Modena da _mot_ fortezza; Reno da _ren_ acqua corrente; Monteveglio a’
confini bolognesi e Montevecchio in Brianza da _mon_ monte e _vell_
fortificazione; Almeno da _al_ vicino e _man_ monte; Lugano da _logh_
e _an_ acqua tranquilla; e le tante terminazioni in _ago_, in _ate_,
in _duno_, comuni all’Italia e alla Gallia. Potremmo aggiungere alcuni
numerali, estranj al greco, e conformi al celtico: _viginti_, che in
bretone dicesi _ugent_; _centum_, che in bretone _hant_; _mille_, che
_mil_ in gallico.

Il signor Lombardini adunò un copiosissimo parallelo di fiumi
dell’Italia settentrionale con omofoni della Francia. Fin qui
potrebbero attribuirsi ai Galli, dominatori dei due pendii delle
Alpi: ma proseguendo, e’ ne rinvenne altrettanti nella Lunigiana e in
tutta l’Etruria, non abitata mai da’ Galli (Vedi _Mem. dell’Istituto
lombardo_, vol. III); poi altri nell’Asia centrale, e dal Caucaso al
mar Giallo. Il che convince che bisogna ampliare assai quell’assunto.

Nel secolo passato entrò la smania del celtico, giacchè accade agli
uomini, la prima volta che imparano una cosa, di volerla applicare a
tutto, e non vedere se non le somiglianze. L’eccesso screditò que’
sistemi, i quali presumevano da un ignoto spiegare il noto, e nella
lingua e nelle arti celtiche, di cui sono scarsissimi e disputabili
gli elementi, trovare l’origine e la spiegazione di monumenti e di
parlari positivi: ma forse anche lo sprezzo eccedette. Le ricerche
sul celtico furono ripigliate da A. Pictet, in una dissertazione
coronata dall’Istituto di Francia il 1837. Ivi egli prova che le radici
dell’idioma celtico sono la più parte identiche colle sanscrite; che
il sistema delle consonanti è corrispondente nelle due lingue, e così
le leggi eufoniche; che le derivazioni e composizioni di parole e le
forme grammaticali del celtico si connettono a quelle del sanscrito, e
trovano in queste la ragione delle anomalie. Ne conchiude che le due
lingue, da sì gran tempo distinte, hanno però origine comune, e anche
il celtico appartiene al ramo indo-europeo.

La linguistica infirma le induzioni troppo precise, dedotte da
somiglianze verbali o lessiche, insegnando che le lingue del medesimo
ceppo hanno radici comuni, e perciò facilmente si confondono una
coll’altra le nazioni semitiche o le nazioni indo-germaniche. (Vedi la
nota 15 del c. XXV).

[32] _Aqua_, _mare_, _pisces_, _vejæ_, _rota_.... da _ach_, _mor_,
_fische_, _wagen_, _räder_. Noi non ne dedurremmo se non che il latino
è una delle lingue indo-germaniche, non venuta attraverso al greco.

[33] ERODOTO, II, 23; IV. 4; DIONE, XXXIX; Arriano, 1; APPIANO,
_Illirio_, § II; PLINIO, _Nat. hist._, lib. III.

[34] A Gubio, loro città ch’essi chiamano _Ikuveina_, furono trovate
nel 1444 le famose Tavole Eugubine, cinque in caratteri etruschi, due
in latino e in lingua umbra, sulle quali si esercitò la pazienza e
l’immaginazione di moltissimi eruditi. Vedi la nostra ~Appendice I~.

[35] PLINIO, _Nat. hist._ III. 19: _Umbrorum gens antiquissima
Italiæ existimatur_.—DIONIGI, I. 18: ἕθνος ἐν τοῖς πάνυ μέγα τε
καὶ ὰρχαῖον—PLINIO, ivi: _Tercenta eorum oppida Thusci debellasse
reperiuntur_. Il far celti gli Umbri oggi è contraddetto affatto,
massime che la loro lingua è affine colla latina, e viepiù colla osca.
Vedi AUFRECT e KIRKHOFF, _Die Umbrischen Sprachdenkmäler_; e per tutto
GROTEFEND, _Sulla geografia e storia dell’antica Italia_. Annover 1840.

Le città degli Umbri sono noverate da Plinio e corrette nell’edizione
del Sellig (Amburgo 1851) così: Ameria, Acerra, Attidiate, Asisinate,
Arnate, Æsinate, Camerte, Casuentillana, Carsulana, Camellia, Dolata,
Fulginate, Fonenpiense, Frentana, Iguvio, Interamna, Mevanate,
Mevaniolense, Matilicata, Mergentina, Narti, Narniense, Nequino,
Nuceria, Ocricolo, Ostrano, Pitulana, Pisuerta, Plestina, Salentina,
Sarsina, Spoleto, Suasana, Sestinate, Suillata, Tadinata, Trebia,
Tuderto, Tuficana, Vesinisicata, Vettonense, Vindinata, Viventana,
Vafria, Usidicana.

[36] I grecanici traggono il nome dei Pelasgi πελαργὸς gru, quasi
somigliandone le migrazioni a quelle di quest’animale. Ottofredo Müller
lo deriva da _ἀργὸς pianura_, voce arcaica conservatasi ne’ dialetti
di Tessaglia e di Macedonia, e da πελέω o πέλω _abito_ (_Gesch.
hellenischer Stämme und Städte_. Breslavia 1820). Potrebbe anche venire
da πέλλας γῆ _vecchia terra_; espressione conforme a γρικὸς. La Croix
fa pelasgi tutti gl’Italiani e gli Etruschi: altri vuole pelasgi gli
Umbri. Per quarant’anni Petit-Radel seguitò a raccogliere notizie o
monumentali o scritte o di tradizione intorno a questo popolo, in tutti
i paesi ove ne sia traccia. Più di quattrocentocinquanta città antiche
furono esplorate dal 1810 in poi da ottanta viaggiatori, e massime
nella spedizione scientifica della Morea dopo il 1829; e a Parigi nella
biblioteca Mazarina furono collocati sessanta monumenti a rilievo in
gesso colorato, che rappresentano le varie costruzioni dei Pelasgi
storici e del favolosi Ciclopi. Quasi al modo con cui si stimò l’età
della terra dagli strati sovrapposti, si valutarono le epoche della
fondazione delle città dai diversi metodi di costruzione delle mura.

Sui monumenti pelasgi vedansi principalmente:

RAOUL-ROCHETTE, _Histoire de l’établissement des colonies
grecques.—Notices sur les Nuraghes_.

HOUEL, _Voyage pittoresque_. 1787, tom. I.

MAZZERA, _Temple antédiluvien_, 1829.

DODWEL, _Classical tour, ecc.—Veduta e descrizione delle rovine
ciclopee in Grecia e in Italia_. Londra, 1834.

MARIANNA DIONIGI, _Viaggi in alcune città del Lazio che diconsi fondate
da Saturno_. Roma, 1809.

MIDDLETON, _Grecians remains in Italy_. Londra, 1812.

PETIT-RADEL, _Voyage dans les principales villes d’Italie_. Parigi,
1815.—_Recherches sur les monumens cyclopéens, et description des
modèles en relief composant la galerie pélasgique de la bibliothèque
Mazarine_. Ivi 1841; e spessissime volte il _Bullettino_ e le _Memorie_
dell’Istituto di corrispondenza archeologica. Quivi nel 1832, pag.
77, Gerhard diede il catalogo di tutte le opere ciclopiche d’Italia.
Niebuhr nella _Storia romana_ dice:—«I Pelasgi non erano un’accozzaglia
di zingari, come alcuno li dipinge, ma nazioni stabilite su proprie
terre, fiorenti e gloriose in un tempo che precede la storia nota degli
Elleni; e forse costituivano la popolazione più estesa in Europa,
abitavano dall’Arno al Po e fin verso il Bosforo; se non che nella
Tracia la loro stanza era interrotta, e le isole settentrionali del
mar Egeo rannodavano la catena che congiungeva i Tirreni d’Asia coi
Pelasgi argivi... Sotto la denominazione di Pelasgi sembra in Italia
vadano compresi gli Enotrj, i Morgeti, i Siculi, i Tirreni, i Peucezj,
i Liburni, i Veneti; e circondavano di lor dimore l’Adriatico, non men
che l’Egeo. Quella parte di loro che lasciò il nome al mar Inferiore
(Tirreni), di cui occupava la costa molto innanzi nella Toscana, aveva
pure uno stabilimento in Sardegna: in Sicilia gli Elingi, al pari
dei Siculi, appartenevano a questo ceppo. Nelle contrade interiori
dell’Europa, i Pelasgi occupavano il pendìo settentrionale delle Alpi
Tirolesi, e li troviamo col nome di Peon o Pannonj fin sul Danubio, _se
pure_ Teucri e Dardani non erano popoli differenti».

[37] PAUSANIA, _Arcadia_, cap. III. v. 603.

[38] Lib. II, 52.

[39] _Hestia_, _Vesta_, dalla radice medesima di _esto_, _sto_. _Zeus
Herkeios_ era il dio della proprietà; e rimase tal radice nel latino
verbo _herciscere_, distribuire l’eredità d’un padrefamiglia.

[40] Scoliaste di Apollonio Rodio _ad Argonauticam_, I, 917.

[41] GIUSEPPE SANCHEZ, _La Campania sotterranea, o brevi notizie degli
edifizj scavati entro roccia nelle Sicilie e in altre regioni_. Napoli,
1833. A migliaja sepolcri ha l’isoletta di Sant’Antioco (Enosi) presso
a Sulci, or divenuti casolari; e così l’isola di Gozo.

[42] PETIT-RADEL, _Notices sur les Nuraghes de la Sardaigne considérées
dans leurs rapports avec les résultats des recherches sur les monumens
cyclopéens et pélasgiques_. Parigi, 1826. I molti altri che ne
trattarono sono sorpassati dal cav. La Marmora, che applicò tutta la
vita a studiare la Sardegna e i suoi monumenti. Egli crede i nuraghi
non siano edifizj ciclopici, nè trofei, nè vedette, ma probabilmente
pirei, cioè are del fuoco, somiglianti ai _telayot_ delle isole
Baleari; per ciò elevati sopra colline, e forse li sormontava un
terrazzo a cui salivasi per una scala interna. Più antichi e con minor
arte costruiti vi si trovano circoli e ammassi di smisurati pietroni,
simili alle pietre levate che presentano la Bretagna continentale e la
Caledonia.

[43] Δἐ μονίοις τισὶ χόλαις ἐλαστρηθέντες. DIONIGI, I.

[44] Così ύρσεις greco mutossi in _turris_ pei Latini. Agrezio ci dice
che _Tusci natura linguæ suæ S literam raro exprimunt: hæc res fecit
habere liquidam_ (ediz. Putsch., pag. 2269). Di fatto negli antichi
poeti latini la troviamo elisa.

[45] Su questo passo fanno grande assegnamento i sostenitori delle
origini greche. Si rifletta però che Lidia fu spesso sinonimo d’Asia;
Erodoto stesso dice che Asio fu re di Lidia, e diede il proprio nome a
questa terza parte del mondo (lib. IV e X); e gli scoliasti d’Apollonio
Rodio, al lib. I dell’_Argonautica_, confermano che la Lidia dapprima
si chiamava Asia.

[46] In Virgilio _passim_.

[47] Mecenate è lodato da Orazio e da Properzio come discendente da re
tirreni:

    _Mæcenas, atavis edite regibus._

    OR., lib. I, od. 1.

    _Mæcenas eques, etrusco de sanguine regum._

    PROP., lib. III, el. 7.

  Persio (III. 27) domanda a un vanitoso

          _an deceat pulmonem rumpere ventis_
    _Stemmate quod tusco ramum millesime ducis._

[48] PLINIO, _Nat. hist._, III, 14.

[49] Tavole Eugubine. Tito Livio, IX. 30, dice che Umbri e Tusci
parlavano la stessa lingua.

[50] Le altre potrebbero essere Rusella, Capena o Cosa: Müller aggiunge
Pisa, Fesule, Falerj, Aurinia e Caletra, Salpino, Saturnia. Forse
alcune dipendevano da altre, restando dodici le rappresentate. Pare
in fatto che sotto a Vejo stesse Sabate, del cui territorio i Romani
formarono poi la tribù Sabatina; Gravisca dipendeva da Tarquinj,
Aurinia da Caletra; Populonia era colonia di Volterra. Ma le relazioni
fra le principali e le dipendenti ci sono ignote, come quelle fra le
tre Etrurie.

[51] _Sed Roma tam rudis erat, cum, relictis libris et disciplinis
etruscis, græcas fabulas rerum et disciplinarum erroribus ligaret, quas
ipsi Hetrusci semper horruerunt._ CATONE, Origines.—_Deum demagorgona,
cujus nomen scire non licet... principem et maximum deum: ceterorum
numinum ordinatorem._ PIAC. LUTATIO, ex _Tages_, Schol. ad Thebaidem
Statii. IV. 516.

[52] _Rituales nominantur Etruscorum libri, in quibus præscriptum
est quo ritu condantur urbes, aræ, ædes sacrentur, qua sanctitate
muri, quo jure portæ, quo modo tribus, curiæ, centuriæ distribuantur,
exercitus constituantur, ordinentur, cæteraque ejusmodi ad bellum, ad
pacem pertinentia._ FESTO.—_In agro Tarquinensi puer dicitur divinitus
exaratus, nomine Tages, qui disciplinam cecinerit extispicii, quam
lucumones, tum Etruriæ potentes, exscripserunt._ CENSORINO, De die
natali, IV.

[53] Vedi CREUZER, _Simbolica_.

[54] _Etruria erumpere quoque terra fulmina arbitratur._ PLINIO, _Nat.
hist._, II, 55.

[55] _Pict. Etr. in vasis_, vol. II, p. 11.

[56] Goes ne’ _Geomatici o Agrimensori_, pag. 258, riferisce questo
_~Fragmentum Vegoiæ Arrunti Voltumno~_:—_Scias mare ex æthere remotum.
Cum autem Jupiter terram Hetruriæ sibi vindicavit, constituit jussitque
metiri campos, signarique agros; sciens hominum avaritiam vel terrenam
cupidinem, terminis omnia scita esse voluit, quos quandoque ob
avaritiam prope novissimi (octavi) sæculi datos sibi homines malo dolo
violabunt, contingentque atque movebunt. Sed qui contigerit moveritque,
possessionem promovendo suam, alterius minuendo, ob hoc scelus
damnabitur a diis. Si servi faciant, dominio mutabuntur in deterius.
Sed si conscientia domestica fiet, celerius domus extirpabitur, gensque
ejus omnis interiet: motores autem pessimis morbis et vulneribus
afficientur, membrisque suis debilitabuntur. Tunc etiam terra a
tempestatibus vel turbinibus plerumque late movebitur; fructus sæpe
lædentur decutienturque imbribus atque grandine, caniculis interient,
robigine occidentur; multæ dissensiones in populo fient. Hæc scitote,
cum talia scelera committuntur: propterea neque fallax neque bilinguis
sis, disciplinam pone in corde tuo._

[57] ARNOBIO, III, 40; MUELLER, _Etruschi_, II, 87; GERHARD, _Memoria
sul Panteon etrusco_, letta all’Accademia di Berlino l’aprile 1845.

[58] Dionigi d’Alicarnasso (I. 67) reca le varie qualificazioni dei
Penati, ιεοὶ πατρῶι, γενέθμιοι, κτήσιοι, μυχιοι, ἕρχιοι.

[59] _Manus per bonus_ dovettero dire i Latini; e Servio e Macrobio
traducono quello in questo; e resta il contrario _immanis_.

[60] MARCIANO CAPELLA (_De nuptiis philologiæ et Mercurii_, II, 9)
scrive, conforme agli antichi: _Verum illi (Hetrusci) manes, quoniam
corporibus illo tempore tribuuntur quo fit prima conceptio, etiam
iisdem corporibus delectantur, atque cum iis manentes, appellantur
Lemures. Qui si vitæ primoris adjuti fuerint honestate, in Lares
domorum urbiumque vertuntur; si autem depravantur ex corpore, Larvœ
perhibentur ac Maniæ._

Sulla religione degli Etruschi il Creuzer è scarso assai, nè molto vi
aggiunse Guignaud negli ampissimi supplementi: più largheggia il Müller
nei cap. 4, 5 e 6 del lib. III.

[61] _Templum_, donde _contemplare_, che si trae da τέμενος intersecato.

[62] I Romani dissero re Porsena per mala intelligenza, seppure egli
non fosse re di qualche Stato particolare, e, posto a capo della
federazione, conservasse quel titolo. A tal modo si spiegherebbe anche
quel passo di Dionigi, III. 61: Τυῤῥηνον ἔθος ἐδόκει, ἑκάστῳ τῶν κατὰ
πόλιν βασιλέων ἕνα προηγεϊσθαι ῤαβδοφόρον, ἄμα τῇ δέσμῃ τῶν ῥαβδων
πέλεκυν φέροντα· εἰ δὲ κπινὴ γίνοιτο τῶν δώδεκα πόλεων στρατεία, τοὺς
δώδεκα πελέκεις ἐνὶ καραδίδοσθαι τῶ λαγόντι τὴν αὐτοκράτορα ἀρχὴν.
Altri pretese trovarvi una serie di re, discendenti da Giano; e il
Dempstero fa in duemila e cinquecento anni regnare quattro dinastie,
i Gianizeni, i Coriti, i Larti, i Lucumoni. Müller argomenta le
istituzioni civili dell’Etruria da quelle di Roma antica, partendo dal
supposto che questa le traesse dalla prima.

[63] Pare che, nell’intenzione degl’Italiani, questa magnificenza
esteriore avesse del simbolico, e ravvicinasse gli uomini ai numi;
perciò il trionfante in Roma compariva vestito da Giove e colla faccia
tinta di minio, come l’effigie di questo in Campidoglio. _Enumerat
auctores Verrius, quibus credere sit necesse. Jovis ipsius simulacri
faciem diebus festis minio illini solitum, triumphantumque corpora._
PLINIO.

[64] La salsiccia _lucanica_ conservò il nome nei nostri vulgari.
_Obesus Hetruscus_; CATULLO, XXXVII. 11. _Pinguis Tyrrhenus_; VIRGILIO,
_Georg._, II. 193. E nell’_Æn._ XI. 735:

  _At non in Venerem segnes, nocturnaque bella,
  Aut ubi curva choros indixit tibia Bacchi,
  Expectare dapes et plenæ pocula mensæ._

Vedi Teopompo presso ATENEO, XII. 3. E DIONIGI, IX, 16: Αβροδίαιτον γὰρ
δη καὶ πολυτελές τὸ τῶν Τυῤῥηνῶν ἔθνος ἦν, οἴκοι τε καὶ ἐπὶ στρατοπέδου
ὑπεραγάμενον ἔξω τῶν ἀναγκαίων πλούτου τε καὶ τέχνες ἔργα παντοῖα πρὸς
ἡδονὰς μεμηχανημένα καὶ τρυφὰς.

Anche delle belle donne loro, che Teopompo chiamò τὰς ὄψεις καλὰς, poco
felice concetto ci dà quel d’Orazio, III. od. 10:

    _Non te Penelopen difficilem procis
    Tyrrhenus genuit parens;_

  e peggio Plauto, _Cistellaria_, II. 3:

    .... _Non enim hic, ubi ex tusco modo
    Tute tibi indigne dotem quæras corpore._

[65] Tutte le loro misure e divisioni sono multiple e submultiple del
12 e del 10. La misura agraria (_vorsus_), come il _plectron_ greco, è
un quadrato di cento piedi.

[66] ERODOTO, VI. 17.

Si disputa fra i dotti se i Fenicj o gli Etruschi introducessero la
civiltà nella Scandinavia, dove ora si trovano monete antichissime
greche e fino d’Egina per ornamenti. Le vie per cui gli Etruschi vi
andavano erano probabilmente, una per le Alpi Pennine, l’Elvezia, il
Reno, l’Annover fin verso il Weser e l’imboccatura dell’Elba: l’altra
per la Stiria, Vienna, la Slesia verso le bocche della Vistola o il
Brandeburgo riuscendo nella Pomerania a sinistra dell’Oder e a Rugen,
ove dovea confluire un’altra strada che da Val di Po e dall’Adige
pel Brennero e la Baviera veniva da Halle. Erodoto pone l’Eridano
verso il Baltico, e forse lo confonde col Po, dove non si raccoglieva
l’elettro, ma si deponeva quello recato dalla Vistola, dall’Eider, dal
Giutland. Però l’ambra si trova non solo in Sicilia, ma nella pineta
di Ravenna, negli strati subappennini dei Bolognese e nelle sabbie del
Po, donde poteano esser tratti i pezzi che ora si cavano dalle tombe
etrusche e dalle terramare, per quanto lo neghi Virchow nel _Ragguaglio
sulla cosmologia ed etnologia italiane (Berlin Gesellschaft für
Anthropologie, Ethnologie und Urgeschichte)_.

[67] Ναυτικαῖς δυνάμεσιν ἰσχύσαντες, καὶ πολλοὺς θάλαττα κρατήσαντες.
DIODORO, V. L’antica navigazione nel Mediterraneo durava da maggio sino
al cominciar di novembre, cioè dal levare eliaco sin al tramonto eliaco
delle Plejadi. Questa costellazione potrebbe trarre il nome, non già da
πλείοι _più_, _molti_, ma da πλεῖν _navigare_.

[68] _Etrusci campi..... frumenti ac pecoris et omnium copia rerum
opulenti._ LIVIO, XXII. 3. _Etruscos.... gentem Italiæ opulentissimam
armis, viris, pecunia esse._ Lo stesso, X. 16.

[69] NIEBUHR. _Dell’anno dei Romani antichissimi e degli altri
Italiani._ Vedi l’~Appendice~ II.

[70] Τυῤῥήνων γενεὰν φαρμακοποιὸν ἔθνος, _I Tirreni genìa da farmachi_.
Eschilo presso TEOFRASTO, IX. 15; se pure non intendeva di farmachi
magici.

[71] Aristotele, presso POLLUCE, IV. 56; PLUTARCO, _Del frenar l’ira_;
ATENEO, XII. 5.

[72] CICERONE, Brut. 10; Tuscul. IV. 2. _Romuli autem ætatem jam
inveteratis literis atque doctrinis.... fuisse cernimus._ De rep. II.
10. E presso AGOSTINO, _De civ. Dei_, XVIII. 24, dice esser Romolo
venuto _non rudibus atque indoctis temporibus, sed jam eruditis et
expolitis_.

[73] _Genesi_ X. 22. Vedi l’~Appendice~ I.

[74] Διεσώζοντο... παρὰ τοῐς ἐπιχωρίοις μνῇμαι κατὰ ἔθνη τε καὶ κατὰ
πόλεις, εἲτ̓ ἐν βεβηλοῖς ἀποκειμέναι γραφαὶ. DIONIGI.

[75] Thiersch (_Ueber das Grabmal des Aliattes_, Monaco 1833) sostiene
la somiglianza del sepolcro di Aliatte descritto da Erodoto, lib. I.
c. 95, con questo di Porsena, descritto da Plinio, e ne induce la
parentela dell’Etruria colla Lidia.

[76] Nel 1852 vi fu scoperto l’ipogeo della famiglia Vibia, sul quale
l’anno appresso stampò una memoria Gian Carlo Conestabile, rivelando
molti sbagli presi dall’illustre Vermiglioli nel leggere le iscrizioni
etrusche. In questo solo ipogeo ve n’ha venti, ma che non ci ajutano a
conoscere quella lingua.

Altri scavi fecero Noël de Vergers e Alessandro François alla Cucumella
di Vulci. Vi si trovarono due torri, una quadrata e una conica. Sulle
rive della Fiora si trovò un ipogeo colla camera sepolcrale, ricca di
pitture, di cui la principale è il sacrifizio umano offerto da Achille
a’ mani di Patroclo; e di fronte un altro sacrifizio di schiavi, con
nomi etruschi, che indicano un fatto della storia nazionale.

Importantissimi scavi furono fatti in questi ultimi tempi, formati
nuovi musei: del che tutto informa il _Bullettino dell’Istituto di
corrispondenza archeologica_.

[77]

  _Aut porcus Umber, aut obesus Etruscus._

CATULLO, XXXVII. 11.

[78] Dai sepolcri volle conoscere la vita etrusca Giorgio Dennis, _The
cities and cemeteries of Etruria_. Londra 1848. Hamilton Grey, _Tour
to sepulchr. of Etruria_, 1840, dice che la necropoli di Tarquinia, di
quattromila centoquarantasei ettari di superficie, giudicandone dalle
duemila tombe aperte finora, può contenere due milioni di sepolti;
sicchè dovette servire per sei secoli a una popolazione di centomila
abitanti.

[79] Marziale, lib. XIV, come se si trattasse di scodelle di Biella,
dice:

    _Aretina nimis ne spernas vasa monemus,
    Lautus erat tuscis Porsena fictilibus._

  Persio, II. 60:

    _Aurum, vasa Numæ, saturniaque impulit æra,
    Vestalesque urnas, et tuscum fictile mutat._

  Giovenale, XI, 108:

    _Ponebant igitur tusco ferrata catino._

Plinio, XL. 45, scrive che l’arte delle stoviglie è _elaborata Italiæ,
et maxime Etruriæ_. Però Seneca racconta che i coloni piantati da
Giulio Cesare a Capua, per fabbricare case rustiche disfaceano gli
antichi sepolcri, tanto più che _aliquantulum vasculorum operis antiqui
reperiebant_. E mille anni dopo, Giovan Villani (_Cronache_, lib. I.
47) sapeva che «in Arezzo anticamente furono fatti per sottilissimi
maestri vasi rossi con diversi _intagli_, che veggendoli pareano
impossibili esser opera umana, e ancora se ne trovano».

[80] _Relazioni d’alcuni viaggi nella Toscana_, tom. I. p. 47. Anche
descrivendo la spiaggia di Cecina, riparla di grandi ammassi di rottami
d’anfore, tubi, embrici e altri lavori di terra cotta, con anfore
intiere, e misti a ossa umane. Sembra però si tratti di figuline de’
tempi romani, giacchè egli porta molte iscrizioni latine che v’erano
impresse.

[81] PLINIO, XXV. 43.

[82] Crizia presso ATENEO, I. 28: Τυρσήνη δὲ κρατεῖ κρυσότυπος φιάλη,
καὶ πᾶς χαλκὸς ὅτις κοσμεῖ δόμον ἔν τινι χρείᾳ. —Ferecrate, ivi XV.
700: Τὶς τῶν λυχνείων ἡ ἐργασία; τυῤῥθνικὴ ποικίλαι γὰρ ἦσαν αἱ παρὰ
τοῖς Τυῤῥενοῖς ἐργασίαι.

[83] La priorità delle arti belle in Italia fu sostenuta dal Guarnacci
(_Origini italiche_), dal padre Paoli (_Antichità pestane_), dal conte
d’Arco (_Patria primitiva del disegno_), e da molti moderni, massime
dopo le ultime scoperte, cominciando da Luciano Buonaparte.

Sulle arti etrusche possono vedersi pel secolo passato: TH. DEMPSTER,
1619, coi paralipomeni del Passeri; A. F. GORI, _Musæum etruscum_,
1737-43, colle dissertazioni del Passeri: _Musæi Guarnacci ant.
mon. etrusca_, 1744. Erano mal distribuiti, raccolti senza critica,
classificati a capriccio, per modo che il Müller credette non poter
farne verun conto per chiarire la storia e le credenze degli Etruschi.
Profittarono delle scoperte recenti il cavaliere Francesco Inghirami,
_Monumenti etruschi o di etrusco nome_, sette volumi di testo, sei
di tavole, 1821-56; e _Pitture di vasi fittili_, 1832; le moltissime
memorie delle Accademie di Cortona, di Parigi, dell’Istituto di
corrispondenza archeologica di Roma, ecc.; e libri e opuscoli senza
numero di Vermiglioli, Cardinali, Orioli, Teani, Arditi, Gerhard,
Raoul-Rochette, Visconti, Grifi, Bunsen, Campanari, Micali, Gargallo,
Candelori, Feoli, Stackelberg, Dorow, Bröndstedt, Lewezow, Böck,
Luynes, Svelcker, Panofka.... De Witte e Lenormant pubblicarono una
scelta di vasi ceramografici a Parigi, 1840. Vedansi pure _Musæi
etrusci, quod Gregorius XVI in ædibus vaticanis constituit, monumenta_;
Roma, 1842. I musei che più se ne arricchirono, son quelli di Londra,
cui fu venduta la raccolta del principe di Canino; di Monaco, di Leida,
di Berlino, del re d’Olanda; e in Italia il Gregoriano e il Campana a
Roma, il Borbonico a Napoli, le collezioni Buccelli a Montepulciano,
Ruggeri a Viterbo, Venuti a Cortona, Ansidei, Oddi ed altri a Perugia,
Guarnacci e Franceschini a Volterra, Jatta e Santangelo a Napoli.

[84] _Eversosque focos antiquæ gentis hetruscæ._

PROPERZIO, II. 28.

[85] Quanto era stato scritto intorno agli Etruschi prima del 1828,
fu riassunto da Ottofredo Müller nei quattro libri intitolati _Die
Etrusker_, editi a Breslavia in quell’anno. A quest’opera, buon tratto
inferiore alla sua sui Dori, e pubblicata prima che s’aprissero i
sepolcreti di Vulci, antepose una _Vorerinnerung über die Quellen
der etruskischen Alterthumskunde_, ove ragiona le autorità greche,
romane e tradizionali, e volge spesso la beffa contro la boria nostra
del rifiutare l’origine greca della civiltà etrusca, assunto da lui
sostenuto; eppure io non so se possa trovarsi un più pregiudicato
ammiratore dei Greci che il nostro Luigi Lanzi. Questo trae molte
etimologie dal greco, staccandone l’articolo _t_: così Turms si riduce
a ὁ ὑρνῆς, Turan, ὁ ἄραν, Marte, Thalina, θ΄ἄλινα nata dal mare;
Tarconte sarebbe ἄρχω coll’articolo; Tages, ταγὸς; capo; Tarquinia o
Trachinia e Tarrachina, da τραχὺς; aspro, erto; Corneto da Corinthio;
Faleria, Falisci da Ἁλοὼς; così Agylla, Pyrgos, Alsium Ἄλσος, Gravisca
γραῖα, Volcium ἱόλκος o ὄλκος, Veji ἡρμῆον ecc. Argomentano pure dalle
relazioni che l’Etruria mantenne continuamente colla Grecia; onde da
Corinto venne una colonia con Damarato, quei di Cere tenevano il tesoro
a Delfo, ecc.

Il Micali nell’_Italia avanti il dominio dei Romani_, 1810, suppone
continuamente una gente di nascita e credenza indigena, cui
sopravvennero altre con diversi riti; ma nella _Storia degli antichi
popoli italiani_, 1832, mostrossi men risoluto nel negare l’influenza
asiatica ed egizia sulla civiltà etrusca; e meno ancora nei _Monumenti
inediti a illustrazione della storia degli antichi popoli italiani_,
1844.

Niebuhr fa identici i Pelasgi e i Tirreni, provenuti d’Occidente,
dimorati in Etruria, e affatto diversi dagli Etruschi e dai Raseni.
Millingen invece contende la parità di questi due nomi, come fa
sempre Erodoto: da Τυῤῥηνοὶ o Τυρσηνοὶ egli trae Τυρησκοὶ, desinenza
pelasgica che occorre in Drabesco, Bromisco, Dorisco, Mirgisco e altre
città di Tracia; e qui in Volsci, Falisci, Gravisca. Da Τυρησκοὶ i
Latini trassero Truschi, e prefiggendo l’e, Etruschi, poi Thusci,
Tusci; al modo stesso Όπικοι fu cangiato in Opisci e Osci, Ποσειδονία
in _Pestunum_ e _Pestum_, Πομυδεύκης in _Polluces_ e _Pollux_. Ma
poichè nulla prova che in questi ultimi nomi la forma greca sia stata
la primitiva, potendo anzi essere un’alterazione della pelasgica,
l’analogia non soccorre a quella difficile etimologia.

Lepsius introdusse i Pelasgi-Tirreni. Giambattista Bruni, nelle
_Ricerche intorno all’origine dei Pelasgi-Tirreni_, sostiene sieno
Fenicj, al pari di Bochart, Mazzocchi, Dumont e altri.

Orioli, negli _Opuscoli letterarj di Bologna_ (De_’ popoli Raseni o
Etruschi_), fiancheggia l’origine lidia. Poletti, _Dei popoli e delle
arti primitive in Italia_, ripudia le immigrazioni, e vuol anzi che i
nostri, col nome di Pelasgi, portassero altrove la civiltà.

Fra i moltissimi che ne discussero in questi ultimi anni, citiamo:

G. J. GROTEFEND, _Della geografia e storia dell’antica Italia fino alla
dominazione romana_. Annover, 1840.

W. ABEKEN, _Mittelitalien vor den Zeiten römischer Herrschaft_.
Stuttgard, 1843. Riconosce egli nella prisca Italia quattro razze
principali:

1º I Tirreni, forse Pelasgi, di cui sono i Siculi, i Sabini, i Latini;

2º I Raseni o Reti, che fondendosi coi vinti, formarono gli Etruschi;
per lo che i Tirreni fra l’Arno e il Tevere si distinguono dagli altri;

3º Gli Aborigeni, Baschi, Ausonj, Aurunci:

4º Gli Ellenici.

[86] _Erna_ in sabino diceasi la quercia e la rupe; ὄρος e βιῶν,
vivente nei monti. Mannert (_Geogr. der Griechen und der Römer_, tom.
III. p. 187) prova che Taurisci è denominazione celtica degli abitatori
dei monti, e che fu applicata a gran parte dei popoli alpini.

[87] Può trarsene il nome da κώμη, villaggio; ma anche da _com_, che in
celtico significa seno.

[88] _Berg-hom_ o _heim_ esprime in parlare germanico quel che Orobio
in greco.

[89] È però nome latino, non etrusco, e vuol dire _mercato di Licino_.
Nel Pian d’Erba v’ha un villaggio detto _Mercato di Incino_; e il
cercare altrove Liciniforo sarebbe come voler trovare Mediolano in
Toscana o Agrigento in Piemonte.

[90] V’è chi trae da Bara il nome di Brianza, che però è recentissimo.
Parmi che gli eruditi, massime gli storici municipali, facciano troppa
fondamento su quel passo di Plinio.

[91] TITO LIVIO, vi. 21. Quando costui entra a narrare le guerre de’
Romani coi Sabini, mette una protasi tutta poetica: _Majora jam hinc
bella, et viribus hostium, et longinquitate vel regionum vel temporum
spatio, quibus bellatum est, dicentur. Quanta rerum moles! quoties
in extrema periculorum ventum, ut in hanc magnitudinem, quæ vix
sustinetur, erigi imperium posset!_ VII. 29.

Orazio, lib. III. od. 6, cantava:

  _...rusticorum mascula militum
  Proles, Sabellis docta ligonibus_
    _Versare glebas, et severæ_
      _Matris ad arbtrium recisos_
  _Portare fustes._

[92] PLINIO, _Nat. hist._ XXX. 12. MAXIMILIEN DE RING, _Hist. des
peuples opiques_. Parigi, 1859: oltre gli _Oskischen Studien_ di TH.
MOMMSEN. Berlino, 1845.

[93] ARNOBIO, III. pag. 122.

[94] La vorrebbero denominata dai profondi suoi seni, κάμπη; mentre
Apulia vorrebbe dire _senza porti_.

[95] Heine (_Opusc. acad._, tom. v. p. 345) vuole Capua detta da
_capis_, che in etrusco significa avoltojo, perchè gli Etruschi abbiano
veduto ivi l’augurio d’un avoltojo. _Vultur_ non ne sarebbe che la
traduzione latina. La storia di Capua è tuttora piena d’incertezze, per
quanto cercasse schiarirla Giulio Stein, _De Capuæ gentisque Campanorum
historia antiquissima_. Breslavia, 1838.

[96] GALANTI, _Descrizione del contado di Molise._

[97]            _Lucanus an Appulus, anceps,_
      _Nam Venusinus arat finem sub utrumque colonus
      Missus ad hoc, pulsis_ (_vetus est ut fama_) _Sabellis._

  Satir. Lib. II. I. 35.

[98] Pausania dice: Ὑπὸ δὲ Λιβύων τῶν ἐνοικούντων καλουμνη Κορσικὴ:
_Dai libici abitanti chiamata Corsica_. Ottofredo Müller vorrebbe
leggere Λιγύων, ma senza darne ragioni. Quanto propriamente alla
Sardegna, la favola dice Sardo figlio del libico Ercole.

[99] Münter, nel libro sulla religione de’ Cartaginesi, ha un’appendice
_Ueber Sardische Idole_. Polibio, nel libro i, ci mostra floridissima
l’isola di Sardegna allorchè i Romani vi afferrarono; invece
Aristotele, nel libro _De mirabilibus_, c. 105, dice che «i Cartaginesi
avevano distrutto in Sardegna tutti gli alberi fruttiferi, e vietato
agli abitanti, pena la vita, di darsi all’agricoltura». Beckmann,
nell’edizione di quest’opera, dimostrò che tale asserzione non si
appoggia che su qualche vaga tradizione, ed è smentita dall’accordo
delle cose.

[100] Seneca, ivi relegato, dice che in Corsica la popolazione è
iberica, ma la costoro lingua fu perduta per la ligure (_Consolatio ad
Helviam_, cap. 8). Forse non significa se non la fratellanza di Liguri
ed Iberi.

[101] Lib. v. § 13.

[102] Giano dovette essere il nome d’alcuno di quei primissimi savj, di
cui rimase memoria fra popoli diversi. Pei Fenicj _Jonn_ corrispondeva
a Baal; in gallese vuol dire signore, dio, causa prima; Bacco fu detto
_janna_, _jon_, _jona_, _jain_, _jaungoicoa_, dio, signore, padrone;
gli Scandinavi chiamano _jan_ il sole, che i Trojani pure adoravano
col nome di _jona_ (JAMESSON’S, _Hermes scyticus_, pag. 60); _javnaha_
chiamasi in persiano quell’astro, e _jannan_ vuol dire capo (PICTET,
_Culto dei Cabiri in Irlanda_, pag. 104). Raoul-Rochette in _Joan_,
_Jon_, _Janus_ vede il capo d’una colonia jonica, giunta in Italia 1431
anni avanti Cristo. In somma egli ci sembra il simbolo della gente
pelasga, e tiene molte somiglianze col Brama indiano, quadrifronte
anch’esso, qual faceasi a Falera, mentre a Ilo ma non conservò che due
facce.

Si disse che _Latium_ fu chiamato perchè cola _latuit_ Saturno:

  _Is genus indocile, ac dispersum montibus altis
  Composuit, legesque dedit, Latiumque vocari
  Maluit, his quoniam latuisset tutus in oris._

  VIRGILIO, _Æn._ VIII. 321.

In fenicio _saturn_ significa appunto _latens_ (POKOKE, _Specimen
historiæ Arabum_, pag. 120); mentre i deboli etimologisti latini lo
dissero _satur_ da _saturitate_, e Merkel lo deriva da _sarpere_. I
versi Saturnini, le feste Saturnali mostrano e l’antichità di questo
civilizzatore, e la rozzezza de’ suoi tempi. _Tot sæculis Saturnalia
præcedunt romanæ urbis ætatem_, dice Macrobio, _Saturn._ I.

[103] _Politic._ lib. VII, c. 9.

[104] DORN SEIFZEN, _Vestigia vitæ nomadicæ, tam in moribus quam in
legibus romanis conspicua_. Utrecht, 1819.

[105] Una tenue idea può aversene anche fra noi, ove la religione tiene
separati gli Ebrei, benchè vivano in mezzo a noi.

[106] D’uno di questi accordi è cenno in quel verso dell’Eneide:
_Sacra, deosque dabo: socer orma Latinus habeto_.

[107] MACROBIO, _~Saturn~._ IX: Saliorum quoque antiquissimis
carminibus deorum deus canitur_. Valerio Sorano appo Varrone canta:

_Jupiter omnipotens, rerum, regumque deûmque Progenitor, genitrixque
deûm, deus unus et omnis._

E Cicerone nelle _Tusculane_:—L’antichità quanto era men lontana
dall’origine divina, tanto meglio conoscea per avventura le verità.
Laonde a quegli antichi che Ennio chiama Casci era insito questo
solo, che dopo morte durasse il sentimento, nè coll’uscire di vita si
disfacesse l’uomo in modo da perire totalmente. Tanto si può raccorre,
come da molt’altre cose, così dal diritto pontificio e dalle cerimonie
funerali». Nei nomi di tre lettere, come _Ops_ e _Rea_ dei Latini,
_Dio_ dei Greci, _Tin_ degli Etruschi, ecc. può vedersi un simbolo
incompreso dell’unità e trinità.

[108] Prudenzio, poeta de’ primi tempi cristiani, deplorava questa
profusione di genj:

_Quamquam, cur genium Romæ mihi fingitis unum, Cum portis, domibus,
thermis, stabulis soleatis Assignare suos genios, perque omnia membra
Urbis, perque locos geniorum millia multa Fingere, ne propria vacet
angulus ullus ab umbra?_

[109] BRISSON, _De formulis_; SERVIO, ad. I GEORG. 21, citando Fabio
Pittore.

[110] Della durata de’ sagrifizj umani a Roma ci abbonderanno prove;
ma che continuassero oltre l’età d’Augusto, a pena si crederebbe ai
Cristiani se non fossero così concordi e precisi, a fronte di gente
che poteva smentirli. Porfirio pretende che _ogn’anno_ vittime umane
s’immolassero a Giove Laziale fin nel iv secolo dell’era vulgare Ἀλλ̓
ἔτι καὶ νῦν τὶς ἀγνοεῖ κατὰ τὴν μεγάλην πόλιν τῇ τοῦ λατιαρίου Διὸς
ἑορτῆ σφαξόμενον ἄνθρωπον. Tertulliano: _Et Latio in hodiernum Jovi
media in urbe humanus sanguis ingustatur_. Minucio Felice: _Hodieque ab
ipsis Latiaris Jupiter homicidio colitur_. Lattanzio: _Latiaris Jupiter
etiam nunc sanguine colitur humano_.

[111] Oggi ancora dal lago di Celano vanno in volta ciurmadori
maneggiando serpi, e i terrazzani confidano in san Domenico di Crellino
per le morsicature.

[112] In osco il Comune chiamavasi _viria_, da cui il latino _curia_
(_co-viria_) e _decuria_, _centuria_.

[113] ORAZIO, III. od. 6.

[114] _Peut-on trouver une plus noble institution?_ esclama
Montesquieu, _Esprit des lois_, VI. 17. Eppure in questo costume
la donna è ridotta all’ultima degradazione, d’essere scelta senza
scegliere nè poter rifiutare.

[115] Ὄμβρικοι ὅταν πρὸς ἀλλήλους ἔχωσιν ἀμφισβήτησιν, κατοπλισθέντες
ὡς ἐν πολέμῳ μάχονται, καὶ δοκοῦσι δικαιότερα λέγειν οἱ τοὺς ἐναντίους
ἀποσφάξαντες. _Gli Umbri, quand’abbiano litigio fra loro, armati come
in guerra combattono, e pensano abbia ragione chi l’altro uccide_.
Nicolò Damasceno, ap. STOBEO, _Serm._ XIII.

[116]

  _Positosque vernas, ditis examen domus,_
  _Circum renidentes lares._

  ORAZIO, Epod. II.

[117] CICERONE, _Pro Milone_, 50; GIOVENALE, III.

[118] _Æn._ XII; STRABONE, IV.

[119] Lib. I. c. 8.

[120] PLINIO, _Nat. hist._, XV. 39; STRABONE, IV. V; VITRUVIO II, 10.

[121] _De re rustica_, I.

[122] _De re rustica_, I. 21; PLINIO, XVIII, 31.

[123] Lib. II. 4.

[124] Ad Augusto fu mandato d’Africa un cespo con quattrocento gambi:
Nerone n’ebbe uno da cui sorgevano trecensessanta cauli spigati.

[125] _Olim ex Italiæ regionibus longinquas in provincias commeatus
portabant_. TACITO, Ann. XII.

[126] PLINIO, _Nat. hist._, XVIII. 10.

[127] _Italus_, _vitulus_.

[128] POLIBIO, II.

[129] STRABONE, V; PLINIO, VIII. 48.

[130] VARRONE, _De lingua lat._

[131] STRABONE, V.

[132] _Plinio_, NAT. HIST. XVIII. 6.

[133] COLUMELLA, I. 3: XI. 2.

[134] CATONE, V. 34; PLINIO, XVIII. 21.

[135] PLINIO, XVIII. 13, 7.

[136] COLUMELLA, VI. prefaz.; PLINIO, XVIII. 5.

[137] Janelli (_Veterum Oscorum inscript._, 1841) in un’iscrizione
umbra trovò un custode dell’annona.

[138] LIVIO, XXXIII. 4.

[139] STRABONE, IV e V.

[140] _Scienza nuova_, cap. X.

[141] Lo dimostra Janelli, _Op. cit._

[142] Vedi l’Appendice I e FABRETTI, _Osservazioni grammaticali sulle
antiche lingue italiche_. Atti dell’acc. di Torino, 1874.

[143] La persona si definisce _homo cum statu quodam consideratus_;
e per istato s’intende _qualitas cujus ratione homines diverso jure
utuntur_.

[144] _Dionigi d’Alicarnasso_, I.

[145] Vedi la nota 1 al Capo precedente.

[146] Evandro era venerato in molte città dell’Arcadia e dell’Acaja.
Manca d’ogni autenticità questa lista di antichi re del Lazio:

  Giano           verso il 1451   Alba Silvio     verso il    1018
  Saturno            »     1415   Episto Silvio      »        979
  Pico               »     1382   Capi Silvio        »        953
  Fauno              »     1335   Carpento Silvio    »        925
  Latino             »     1301   Tiberio Silvio     »        912
  Enea               »     1250   Archippo Silvio    »        904
  Ascanio            »     1175   Aremulo Silvio     »        863
  Silvio Postumo     »     1136   Aventino Silvio    »        844
  Enea Silvio        »     1107   Proca Silvio       »        817
  Latino Silvio      »     1068   Amulio Silvio      »        796

[147] Non c’illuda Virgilio, che fa Pelasgi i nemici di Troja, mentre
Troja per certo era pelasga, e quella guerra rappresenta la lotta dei
Greci uniti contro i Pelasgi.

[148] TITO LIVIO, I. 4. Dionigi dubita che Romolo abbia ripopolato una
città antica abbandonata, detta Palanzia, e di cui sussisteano ancora
cloache ed altre opere pubbliche.

[149] TACITO, IV. 65; DIONIGI, II. 6; III. 14, ecc.

[150] Dissero che il nome arcano fosse _Amor_, anagramma di Roma, per
esprimere l’unione santa che doveva regnare fra’ cittadini. Sichel
pretende fosse Angerona, che, secondo Plinio, rappresentavasi con una
benda alla bocca e suggellata (_Revue archéol._ 15 gennajo 1846). Solo
ai pontefici era dato proferirlo ne’ sagrifizj, e guaj se l’avessero
rivelato al popolo! Sacerdotale era il nome di _Flora_; donde le feste
Floreali, e il nome della nuova città di Florenzia. Il civile e vulgare
di _Roma_ veniva fors’anche da _Ruma_, che in prisco latino vale
mammella, e che appella al _fico ruminale_, sotto cui furono allattati
Romolo e Remo. Guglielmo Schlegel, ricordandosi dell’οὖθαρ ἀρούρης
di Omero, accetta quest’ultima etimologia, applicandola alle colline
sorgenti dalla campagna romana.

L’êra della fondazione di Roma è posta da Varrone nel terzo anno della
vi olimpiade; da Valerio Flacco nell’anno seguente, cioè nel 754 avanti
Cristo; da Catone nel 752. L’opinione di Varrone del 21 aprile 753 è
seguita da Dione Cassio, Plinio Maggiore, Vellejo Patercolo, Claudio
imperatore: Dionigi d’Alicarnasso e Tito Livio stanno con Catone. Gli
anni notavansi _ab urbe condita_, ma più comunemente col nome dei
due consoli che reggevano. Le êre degli altri popoli italiani, cui
Varrone aveva raccolte, vennero assorbite nell’unità romana, e caddero
in dimenticanza. Al 21 aprile dicemmo come già si celebrassero le
Palilie, talchè avremmo qui un effetto del costume antico di associare
geroglifici agrarj, astronomici e storici.

[151] Solo, vuol dire con tutti i suoi clienti e famuli. Nel linguaggio
eroico non si conta che il capo; gli altri sono cose. La formola è
rimasta relativamente ai principi, come quando diciamo che Carlo VIII
conquistò l’Italia, Napoleone vinse a Wagram, ecc.

[152] Cicerone nel _Bruto_: _Utinam extaret illa carmina, quæ multis
sæculis ante suam ætatem in epulis esse cantitata a singulis convivis
in Originibus scriptum reliquit Cato_.—Vedi l’Appendice III.

[153] Servio, ad _Æneid._ I, 267; IV. 620; IX. 745.

[154] Così Evandro marita ad Ercole sua figlia Launa: e Laurina, figlia
d’un altro Latino enotro, è sposata a Locro.

L’ultimo che scientificamente sostenne la venuta d’Enea nel Lazio fu
Rückhert, in una dissertazione comparsa ad Amburgo il 1846 sopra Troja.
Essendo i Trojani razza pelasga, la loro venuta risponde a quella de’
Pelasgi e de’ Tirreni. Perchè l’esser quel fatto talmente connesso con
tutte le tradizioni romane faccia men repugnanti ad infirmarne la fede,
si ricordino i sogni di tutti i nostri genealogisti del Cinquecento.
Virgilio stesso, che poeteggiò la venuta de’ Trojani, confessa la
scarsa efficienza di quella colonia, facendo che Giove assicuri Giunone
non ne rimarrebbero mutati nè la lingua de’ prischi Latini, nè i
costumi, nè il nome o le vesti:

  _Sermonem Ausonii patrium, moresque tenebunt,
  Utque est, nomen erit; commixti corpore tantum
  Subsident Teucri; morem ritusque sacrorum
  Adjiciam, faciamque omnes uno ore Latinos._

  Æn. XII. 834.

[155] Secondo i Sabini, una fanciulla de’ contorni di Reati, fecondata
da Marte Quirino, generò Modio Fabidio, che con vagabondi fondò Curi.
DIONIGI, II. Ai Sabini era sacro il lupo, come fu ai Romani.

[156] Romolo sposa Ersilia. Dionigi (lib. II. c. 12) avverte che Tazio
eresse a Roma tempj a divinità, i cui nomi non è facile esprimere in
greco. Ciò mostrerebbe un’origine diversa dalla ellenica. Le prime
città latine, come Albalunga, Lanuvio....., e le famiglie più antiche,
Giulia, Servilia, Metilia, Curiazj, Quintilla, Clelia..., non hanno
etimologia greca.

[157] Il notissimo monogramma _S. P. Q. R._, invece del vulgato
_Senatus populusque romanus_, è dal Niebuhr interpretato _Senatus_,
_Populus_, _Quirites Romani_.

[158] Eppure l’esercizio delle arti meccaniche era espressamente
vietato (DIONIGI, IX), e tutte, eccetto poche attinenti a guerra, erano
affidate agli schiavi.

[159] «Numa, siccome Romolo, acquistò il regno disponendo la città
coll’augurio, e comandò che anche intorno a sè si consultassero gli
Dei. Perciò dall’augure, che poscia per onore conservò questo pubblico
e perpetuo sacerdozio, condotto nella rôcca, sedette sur un sasso
vôlto a meriggio. L’augure sedette a sinistra col capo velato, tenendo
nella destra una verga adunca senza nodo, che chiamarono _lituo_; e
poi ch’ebbe determinato i punti nella città e nel campo, invocati gli
Dei, segnò le regioni da oriente a occidente, e indicò siccome propizie
le plaghe a mezzogiorno, infauste quelle a tramontana. Fissò in mente
un segno di rimpetto, lontano quanto più potea la vista. Allora,
trasferito nella sinistra il lituo, posta la destra sul capo di Numa,
così pregò: _Giove padre, se è tuo volere che questo Numa, di cui io
tengo il capo, sia re di Roma, chiarisci a noi i segni tra quei confini
ch’io prefinii_. Allora con parole specificò quali auspizj voleva
si mandassero; ottenuti i quali, Numa, dichiarato re, discende dal
tempio». Livio, lib. i.

[160] È l’opinione di Schlegel. Plinio e Valerio Massimo narrano d’un
cittadino, che, accusato d’avere ucciso un bue per imbandire a uno
scapestrato, fu messo a morte. Columella dice che ammazzare il bue era
colpa capitale. Come si concilia coi tanti sacrifizj di tori e coi
_suovetaurilia_?

[161] «Le antiche tradizioni italiche, schiette, grossolane, talvolta
anche oscene nella forma, ma di senso profondamente espressivo,
differiscono capitalmente dalle storie divine dell’epopea greca,
dominate da un antropomorfismo elegante, ma puramente esteriore. Il
sentimento religioso dei prischi Romani era gran tratto superiore alla
facile e favoleggiatrice eloquenza che aveva invaso la religione de’
Greci.... I Romani accolsero in gran parte le religioni pelasgiche,
e le serbarono lunga pezza. Nella pompa del Circo portavasi in giro
un numero di divinità antiche. Al tempo stesso ricevettero certi riti
molto vecchi ed espressivi, gli augurj, l’arte di consultar le viscere
delle vittime, ed altri ancora, dimenticati buon’ora quasi affatto
in Grecia, almeno nel culto pubblico. In Grecia la mitologia, quale
era stata sviluppata dai poeti epici, esercitò imperio irresistibile
sugli spiriti, e sopra le ruine delle antiche credenze e d’un profondo
sentimento religioso si elevò la maestà sensibile e affatto umana dello
splendido Olimpo. In Etruria, per lo contrario, ed a Roma giammai
l’elemento poetico, nella credenza dei popoli, non prevalse così sopra
l’elemento mistico, perchè i poeti e gli artisti non acquistarono
mai troppa influenza sulla religione dello Stato, confidata a un
sacerdozio venerabile. Gli elevati ed austeri genj dell’Etruria antica
non potevano lasciarsi irretire dalla magica epopea jonica; superavano
collo sguardo gli angusti confini dell’Olimpo quale i poeti l’aveano
fatto, per penetrare negli abissi del cielo e della terra. I pii e
degni padri di questo antico Lazio, soggiorno di pace, di felicità,
di virtù, neppur essi non potevano dalla mobile immaginazione degli
ellenici cantori esser rapiti all’abitudine della loro religione,
semplice quanto i loro costumi. Per censettant’anni i Romani servirono
gli Dei dei loro avi senza bisogno d’immagini (PLUTARCO, in _Numa_, c.
VIII.—SANT’AGOSTINO, _De civ. Dei_, IV. 31): e quando gl’idoli ebbero
preso posto nelle nicchie sacre, il culto della gran Vesta perpetuò la
memoria della primitiva semplicità. Una pura fiamma ardente nel santo
e silenzioso suo tempio bastò alla dea, che non volle nè statua nè
rappresentazione di sorta. Quando in un tremuoto il misterioso potere
delle forze nascoste della natura facevasi risentire con tutto il
suo orrore, il Romano, ripiegandosi sulle credenze oscure, ma tanto
più profonde de’ suoi padri, non invocava alcun dio determinato e
conosciuto (A. GELLIO, _Notti attiche_, ii. 28.—DIONIGI, _Excerpt_.
XVI. 10. p. 91): ma invece di restar fedele all’antica credenza
nazionale, invece di conservare le sue disposizioni sotto quel giogo
sacro, sì convenientemente chiamato _religione_, amò meglio correr
dietro a divinità forestiere, imitare i Greci, e coll’imitarli non
togliere da essi che una superficie più o meno lucente. Così colla
indifferenza per la religione tanto augusta, pura e morale dei vecchi
Romani, prevalse ben tosto, fra i loro discendenti, il dispregio dei
costumi e delle idee antiche, di quanto esse avevano di semplice, di
grave e veramente religioso. Dionigi d’Alicarnasso a ragione vede in
ciò una delle cause principali della decadenza della repubblica».
CREUZER, _Simbolica_.

[162] _Principes Dei Cælum et Terra._ VARRONE, _De lingua lat._, v. 57.

[163] _Ex Ope Junonem memorant Cereremque creatas_
      _Semine Saturni: tertia Vesta fuit._

          OVIDIO, Fast., VI. 270.

[164] Le divinità romane di primo ordine sono le più di nome
greco; alcune diversificano. Se ne cerca la ragione. J. Millingen
(_Transactions of the royal Society of literature of the united
kingdom_, vol. II. p. 1, 1832) vuol provare che non sono se non
alterazioni dal greco. È inutile accennare _Bacchus, Hercules, Latona,
Themis, Proserpina, Æsculapius, Pollux, Castor, Sol, Horæ, Musæ,
Gratiæ, Nimphæ, Luna_ (apocope di Σελήνη), ecc.: ma stando agli Dei
maggiori, facile è la derivazione di _Jovis_ da Ζεὺς, o Δὶς Διὸς,
per trasposizione: di _Juno_ da Ζήνω, Αιώνη; di _Apollo_ o _Phœbus_
dall’identico; di _Diana_ da ϐεα o διὰ ἀνὰ; di _Vesta_ da Ἑστια; di
_Ceres_ da ᾽Έρα colla gutturale. Quanto a _Mars_, sarebbe da Ἄρες
col prefisso M; _Neptunus_ da νέω, νήχω ondeggio: nell’eolico si
commutano ττ, σσ, e la terminazione _unus_ è comune a _Portunus,
Vertunus, Tribunus_, ecc. _Consus_, altro suo nome, verrebbe da Πόντος,
cambiandosi spesso il π in κ, come da πέντε _quinque_, da ἕπομαι
_sequor_, da ἵππος equus. _Venus_ deriva non da _venire_ o da _feo_
(radice di _fetus, femina_), ma da εὐναῖα, εὐνήσσα o εὔνους: _Vulcanus_
da φλέγω e φλὸξ, radice di _fulgeo, fulgo, fulmen_: _Mercurius_ non da
_merx_, ma da Ἐρμ, trasponendolo come _forma_ da μορφὴ e colla finale
κοῦρο o κήρυξ. _Minerva_ poi sarebbe detta dall’epiteto suo ἐνέρεα,
relativo alle spoglie nemiche che le si dedicavano, e col prefisso Μ e
il digamma Ϝ.

[165] CANCELLIERI, _Le sette cose fatali di Roma antica_.

[166] Secondo la tradizione vulgare: ma Dionigi lesse nel tempio del
dio Fidio il trattato conchiuso con Gabio, come alleanza tra eguali,
e coll’isopolizia: talchè al suo territorio fu conservato il nome
speciale di _ager gabinus_.

[167] Ai tempi di Cicerone, Tarquinio non passava pel mostro che
Dionigi ci dipinge: _Atque ille Tarquinius, quem majores nostri non
tulerunt, non credulus, non impius, sed superbus habitus est et
dictus_. _~Philippica~_ III. 4. Ma ~_pro Rabirio_~, 4, gli dà taccia
_superbissimi et crudelissimi regis_.

[168] Vedi l’~Appendice~ IV.

[169] Fatto opposto alla vulgata lezione, ma attestato da Tacito: _Nec
Porsena, dedita urbe, neque Galli capta temerare potuissent_; e da
Plinio (_Nat. hist._ XXXIV. 39): _In fœdere quod, expulsis regibus,
populo romano dedit Porsena, nominatim comprehensum invenimus, ne ferro
nisi in agri cultura uterentur_.

[170] Orazio, vincitore dei Curiazj, come fratricida doveva esser
condannato a morte; ma fu fatto appello al popolo, che, attesi i suoi
meriti, lo assolse.

[171] DIONIGI D’ALICARNASSO, III, 67, più attendibile che non Plutarco
in _Numa_.

[172] Se fosse vero che ogni plebeo avesse per patrono un patrizio,
come s’insegna nelle scuole, resterebbe inesplicabile la storia di
Roma, che va tutta in lotte della plebe cogli aristocratici.

[173] PLUTARCO, in Romolo.

[174] Che i clienti votassero coi patroni non è asserito da alcun
antico, e par ripugnante alla costituzione romana, che sempre ricusò la
maggioranza del numero; _ne plurimum valeant plurimi_.

[175] Il vulgo potrebbe vedersi personificato in Bruto, plebeo, servo
ribelle.

[176] Affare della statua d’Orazio Coclite.

[177] _Fere nulli alii sunt homines, qui talem in filios suos habent
potestatem, qualem nos habemus._ GAJO, _Instit._ I. 55. Del despotismo
paterno ritrae il nostro nome di padrone.

[178] Roma aveva promesso rispettare _civitatem_ di Cartagine; onde
risparmia i cittadini, ma distrugge _urbem_, la città. Così dopo il
fatto delle Forche Caudine; così nelle tregue, conchiuse pei giorni e
violate la notte.

[179] DIONIGI, IV. 1. Cicerone (_De legibus_, III. 3) dice tenevansi
registri del preciso numero de’ cittadini, de’ loro figli, degli
schiavi, degli armenti, e l’enumerazione dei beni, e l’età delle
persone. Il numero degli abitanti lo argomento dai centrentamila capaci
dell’armi, noverati nel censo di Publicola nel 245. Che l’ammissione
de’ forestieri si rallentasse al principio del governo consolare, lo
prova il censo del 279, che dà solo centremila cittadini puberi, e
il triplo di donne, fanciulli, schiavi, mercanti, stranieri, operaj,
«giacchè a Roma non è lecito sostentarsi col traffico e coll’industria
manuale», dice Dionigi, ix. 383.

Censimento della popolazione romana in varj tempi:

  _Anno_                                      _Famiglie_    _Cittadini_

  185 Sotto Servio Tullo                          84,000        420,000
  245 Allo stabilirsi della repubblica           130,000        650,000
  261 Dopo istituiti i tribuni                   110,000        550,000
  279 Dopo le turbolenze della legge agraria     103,000        515,000
  288 Durante la guerra cogli Equi e Volsci      124,215        621,000
  294 Sotto la dittatura di Cincinnato           132,409        662,000
  361 Al bando di Camillo                        152,573        762,000
  410 Durante la guerra dei Sanniti              160,000        800,000
  460 Al consolato di Fabio Massimo              270,000      1,350,000
  464 All’istituzione dei triumviri capitali     273,000      1,365,000
  478 All’invasione di Pirro                     271,224      1,356,000
  489 Al rompersi della prima guerra punica      292,224      1,460,000
  501 Durante la guerra di Sicilia               297,797      1,485,000
  532 Al fine della prima guerra punica          260,000      1,300,000
  533 Quando i liberti furono compresi nelle
      tribù urbane                               270,213      1,350,000
  545 Durante la seconda guerra punica           237,108      1,185,000
  549 Alla spedizione di Scipione in Africa      214,000      1,070,000
  559 Prima della guerra contro Antioco          243,704      1,218,000
  564 Nella guerra colla lega Etolia             258,328      1,291,000
  574 Prima della guerra di Perseo               273,224      1,366,000
  579 Nella guerra illirica                      269,015      1,345,000
  584 Nella guerra macedonica                    312,805      1,564,000
  589 Dopo conquistata la Macedonia              337,552      1,687,000
  594 Dopo la terza guerra punica                328,314      1,641,000
  599 All’alleanza con Massinissa                324,000      1,620,000
  606 Alla distruzione di Cartagine              322,200      1,611,000
  611        ——     di Corinto                   328,342      1,641,000
  617 Alla spedizione di Scipione in Ispagna     323,000      1,615,000
  622 Alla morte di Tiberio Gracco               313,823      1,569,000
  629     ——  di Scipione l’Africano             390,736      1,953,000
  639 Dopo la rotta degli Allobrogi              394,336      1,971,000
  664 Dopo la guerra Sociale e l’ammissione
      degli Alleati                              463,000      2,315,000
  683 Dopo la guerra civile di Mario             450,000      2,250,000
  703  ——      ——    di Cesare e Pompeo          420,000      2,100,000
  725 Dopo stabilito l’impero                  4,164,000     20,820,000
      IIª numerazione di Augusto               4,233,000     21,165,000
      IIIª numerazione                         4,630,000     23,150,000
  800 Sotto Claudio                            6,944,000     34,720,000
      Sotto Vespasiano                             ?              ?

[180] Cioè cinquanta are; sicchè tutto il territorio legale era di
millecinquecento ettare.

[181] _Nexa_ chiamavansi (secondo il Niebuhr) quelli che al plebeo,
debitore d’un patrizio, stavano garanti colla propria roba, il che
s’intende anche colla famiglia, promettendo soddisfare con fatiche
personali; inoltre il plebeo che, non pagando, veniva fatto schiavo
del patrizio creditore. Se alla scadenza il debito non si spegneva,
accumulavasi il frutto al capitale.

Forse con più ragione il Vico crede che da principio i patrizj dessero
in feudo ai plebei le terre per un annuo canone: non pagandolo, poteano
questi ripeterlo col braccio governativo e farsi aggiudicare schiavi
i debitori morosi. I prepotenti facilmente allargarono questa feudale
prerogativa ad ogni altro debito.

[182] Il testo, riferito da A. Gellio, è preciso: _Tertiis nundinis
capite pœnas dabant: si plures forent quibus reus esset judicatus,
secare si vellent atque partiri corpus addicti sibi hominis
permiserunt. Tertiis nundinis, partes secanto: si plus minusve
secuerunt, se fraude esto_. Questa previsione del tagliar più o meno
impedisce d’intendervi soltanto divisione dei beni dell’oberato,
_sectio bonorum_: anzi se fra’ creditori un solo restava inesorabile,
eragli conservato il suo diritto, potendo egli uccidere o mutilare il
debitore. È a credere che di rado o non mai la legge fosse applicata,
poichè il debitore si sarà riscattato consentendo al _nexum_, o parenti
e amici avranno offerto ai creditori più di quello che potessero
ritrarre dal venderlo; i tribuni si saranno opposti al furioso che
ricusasse ogni patto al debitore.

Una legge del dittatore Petilio (o Petizio o Popilio) del 433 di Roma
abolì il nexo, vietando per l’avvenire l’ipoteca sulla persona, e
facendola cessare per qualunque debitore giurasse possedere abbastanza
per redimersi: _Omnes qui bonam copiam jurarent, ne essent nexi,
dissoluti_, dice Varrone. Gli _addicti_ erano garantiti contro i ferri,
eccetto il caso che fossero condannati per delitto. In Plauto, il modo
più terribile per farsi pagare da un cattivo debitore è l’_addizione_
o carcere privato. Anche durante la guerra d’Annibale vediamo in Tito
Livio i condannati a restituzione di danaro essere gettati in carcere
come criminali.

[183] Furono Giunio Bruto e Sicinio Belluto. Ecco ricomparire Bruto,
cioè il servo ribelle della rivoluzione contro i Tarquinj: e un Bruto
ritornerà all’altro tentativo di rivoluzione contro l’impero iniziato.

[184] Al tempo di Annibale i Romani avevano cinquantatre colonia in
Italia. Vedi HEYNE, _De Romanorum prudentia in coloniis regendis_.—_De
veterum coloniarum jure, ejusque causis_. Opuscoli I e VIII.

[185] La voce italiana _podere_ per fondo accenna un’origine eguale nel
nostro medioevo: poteva chi possedeva.

[186] Tutta la lotta de’ plebei co’ patrizj è elegantemente espressa da
Floro, col dire che i plebei volevano acquistare _nunc libertatem, nunc
pudicitiam, tum natalium dignitatem, honorum decora et insignia_. Egli
stesso scrive: _Actus a Servio census quid effecit, nisi ut ipsa se
nosset respublica?_ È il _nosce te ipsum_, che il Vico dice aver Solone
insegnato al vulgo attico.

[187] Lib. vi. 4. Il Vico impugna la compilazione delle XII Tavole:
unica legge fatta dai decemviri fu, secondo lui, quella che accomunava
alla plebe il dominio quiritario dei campi; poi, come ai tipi ideali,
furono riportate ad essi tutte quelle che parteciparono grado a grado
la libertà alla plebe.

Le differenze dalle leggi greche sono avvertite dai giureconsulti.
In Atene il marito era protettore, qui padrone; non dava danaro al
suocero, anzi ne riceveva, sicchè la moglie portando una dote nella
nuova casa, vi conservava una corta indipendenza, e poteva accusare il
marito, come egli lei; facile era la separazione. In Atene il padre
non può uccidere il figlio, ma solo la figlia libertina; bensì può non
assumere il neonato, nel qual caso è venduto schiavo; anche adulto può
dichiararlo indegno: ripudio che in Roma non ha luogo, dove neppur
emancipandolo, il padre non abdicava ai proprj diritti. Questi per età
o per grado non cessavano, mentre in Atene il figlio a vent’anni era
iscritto nella fratria, cioè diventava indipendente e capocasa, ecc.

[188] È nota la baja che delle formole si prende Cicerone _pro Murena_.
Anche il diritto pubblico era sottoposto a formole; eccone esempj.
TITO LIVIO, lib. I: «Tale fu la forma della dedizione dei Collatini.
Il re interrogò: _Siete voi i legati ed oratori mandati dal popolo di
Collazia, per consegnar voi e il popolo?_—_Siamo._—_Il popolo collatino
è di propria balìa?_—_È._—_Deste voi medesimi, il popolo collatino,
la città, i campi, l’acqua, i termini, i tempj, gli utensili, le cose
tutte umane e divine in poter mio e del popolo romano?_—_Demmo._—_Ed
io accetto_». E nel libro stesso: «Allora udimmo che così si fece,
nè v’ha memoria d’altro patto più antico. Il feciale interrogò il re
Tullo così: _Vuoi, o re, ch’io stringa patto col padre patrato del
popolo albano?_ E comandando il re, il feciale disse: _Ti domando
erbe sacre_. Il re rispose: _Prendine pure_. Poscia al re stesso
chiese: _O re, mi fai tu regio nunzio del popolo romano de’ Quiriti?
approvi i mallevadori e i compagni miei?_ Il re rispose: _Sì, salvo il
diritto mio e del popolo romano dei Quiriti_. Feciale era M. Valerio;
fece padre patrato Sp. Fuscio toccandogli il capo e i capelli colla
verbena. Il padre patrato si elegge per _patrare_ il giuramento, cioè
per sancire il patto; lo che egli fa con una lunga formola, che qui
non occorre riferire. Poscia recitate le condizioni, _Odi_, disse, _o
Giove; odi, o padre patrato del popolo romano; odi tu, popolo albano:
il popolo romano non mancherà primo a quelle leggi, che da capo a fondo
furono lette su quelle tavole cerate, senza frode, siccome furono
oggi benissimo intese. Se pel primo mancherà per pubblico consiglio e
frodolentemente, in quel giorno, o Giove, ferisci il popolo romano,
siccome io oggi ferirò questo porco; e tanto più lo ferisci, quanto più
sei poderoso._ Ciò detto, percosse il porco con un ciottolo di selce.
Anche gli Albani recitarono la loro formola e il giuramento, per mezzo
del dittatore e de’ sacerdoti proprj».

Essendo gli uomini naturalmente poeti (ragiona il Vico nella _Scienza
nuova_, lib. IV), tutta poetica fu l’antica giurisprudenza, la quale
fingeva i fatti non fatti, nati li non nati ancora, morti i viventi,
i morti vivere nelle loro giacenti eredità; introdusse tante maschere
vane senza subjetti, che si dissero _jura imaginaria_, ragioni
favoleggiate da fantasia; e riponeva tutta la sua riputazione in
trovare sì fatte favole, che alle leggi serbassero la gravita ed ai
fatti ministrassero la ragione: talchè tutte le finzioni dell’antica
giurisprudenza furono verità mascherate; e le formole con le quali
parlavano le leggi, per le loro circoscritte misure di tante e tali
parole nè più nè meno, nè altre, si dissero _carmina_. Talchè tutto
il diritto antico romano fu un serio poema, che si rappresentava dai
Romani nel fôro; e l’antica giurisprudenza fu una severa poesia.

Vedi CHASSAN, _Essai sur la symbolique du droit, précédé d’une
introduction sur la poésie du droit primitif_. Parigi 1847.

[189] DIONIGI, lib. 1; FESTO, ad V. _Prætor ad portam_.

[190] LIVIO, lib. IV.

[191] _Mei-land_, mio paese; _Mayland_, paese di maggio; _Medellam_,
città della vergine; _Mittelawn_, in mezzo ai piani; _Medio-amnium_;
_Medo_ e _Olano_, due condottieri; _Medio-lana_, per una scrofa lanosa
trovatavi: differenti etimologie di Milano. Questo nome è comunissimo
nella Gallia transalpina e designa il paese medio (_mitta-land_); la
terra per antonomasia, la terra santa, la legale.

[192] _Ele-dore_, il turbine.

[193] Prima chiamavasi _Bodincos_, cioè senza fondo, poi fu detto Pado
da _pades_, che in gallico suona abete.

[194] Adotto la vulgata denominazione latina, desunta dalla situazione
di Roma.

Edwards pretese riconoscere ancora in Italia il tipo delle due stirpi
gallica e cimra: quelli, testa lunga, profilo sporgente, fronte alta
e sviluppata, mento prominente, naso aquilino; questi, faccia piatta
e corta, pomelle larghe, naso rincagnato, poco sporgente. I moderni
ripudiano la dottrina di Thierry, e fanno consanguinei i Cimri e i
Galli.

[195] _Saluberrimos colles, flumen opportunum, quo ex mediterraneis
locis fruges devehantur, quo maritimi commeatus accipiantur; mare
vicinum ad commoditates, non expositum nimia propinquitate ad pericula
classium externarum; regionum Italiæ medium, ad incrementum urbis natum
unice locum._ LIVIO, v. 54.

[196] Quand’anche una finzione legale potesse mai tramutare in
giustizia l’iniquità, nel caso presente mancava sin l’apparenza a
favore de’ Romani. Fra questi e i Sanniti vigeva lo _jus exulandi_;
onde Postumio, estradetto dalla patria sua, poteva acquistare la
cittadinanza presso quegli altri.

[197] LIVIO, X. 42.

[198] VALERIO MASSIMO, VI, 3, 2.

[199] Che tutte le pesti ricordate a Roma fossero epidemie, fino a
quella di Lucio Vero nel II secolo dopo Cristo, è sostenuto da Heyne,
_Opusc._ III.

[200] Al Pireo si trovò, non è guari, un decreto, per cui stabilivasi
mandare ad Adria una colonia sotto Milziade, successore dell’omonimo
vincitor di Maratona, circa l’olimpiade CXIII; e ciò per avere
emporj di frumento e formare barriera a’ Tirreni. _Bullettino di
corrispondenza archeologica_, 1836, pag. 135.

Vedi SAINTE-CROIX, RAOUL-ROCHETTE, HEYNE, _Prolusiones XV de civitatum
græcarum per Magnam Græciam et Siciliam institutis et legibus_ nel
vol. II de’ suoi _Opuscula academica_, Gottinga 1787. Al vii vol.
dell’Heeren, traduzione francese, è soggiunta la bibliografia compiuta
delle colonie.

_Metaponte, par le duc de_ LUYNES _et_ F. J. DEBACO; Parigi, 1833, in
fol., non è una compiuta monografia, ma un’elegante esposizione delle
antichità di quel luogo in disegno e scrittura.

DOMEN. MARINCOLA PISTOJA, _Delle cose di Sibari_. Napoli 1845.

[201] Il nome di Magna Grecia non ricorre in Erodoto nè in Tucidide,
ma primamente in Polibio, lib. II. c. 12. Strabone lo attribuisce
all’esservisi i Greci molto allargati; Festo e Servio (_ad Æn._, i.
573) alle molte città greche fondate in quel paese; altri ad altro;
Delisle, d’Anville, Micali, all’essere più estesa che non la Grecia
propria; taluni ne fanno onore alla filosofia di Pitagora, colà nata
e diffusa; altri all’aver precorso la Grecia orientale in civiltà e
filosofia. Quel nome complessivo pare durasse fino allo scorcio del iii
secolo di Roma, quando ciascuna contrada si denominò dal popolo che la
occupava.

Neppure si conviene sull’estensione indicata da questo nome; e Sinesio
vescovo del v secolo (_ep. ad Pœonium_) lo dice accomunato a tutti i
paesi ove si praticavano gli arcani riti pitagorici. Suole dividersi in
otto regioni: Locrese, Caulonite, Scilletica, Crotoniate, Sibaritica,
Eracleese, Metapontina, Tarantina; sicchè in digrosso abbracciava
l’Apulia, la Lucania, il Bruzio.

_Cronologia delle colonie greche in Italia._

1300, o 1050, Cuma, fondata dai Calcidesi d’Eubea: generò Napoli e
Zancle, dalla quale derivarono Iméra e Mile.

1260, o 900, Metaponto posta dai Pilj reduci da Troja, poi ripopolata
d’Achei e Sibariti.

756 Nasso, dai Calcidesi.

753 Crotone, dagli Achei.

750 Leontini, dai Nassani, e poco dopo Catania.

732 Siracusa, dai Corintj; donde Acra, Casmena, Camarina.

725 Sibari, dagli Achei: nel 444 le succede Turio.

723 Reggio, ripopolata da Messenj.

707 Taranto, ripopolata da Lacedemoni.

683 Locri, fondata dai Locresi Ozolj. Dicono vi precedesse un’altra
loro colonia nel 757.

667 Zancle, ripopolata da Messenj, e detta Messina.

645 Selinunte, posta dai Megaresi.

605 Gela, dai Rodj.

582 Agrigento, dai Gelani.

536 Elea o Velia, dai Focesi.

510 Posidonia, dai Sibariti.

444 Turio, dagli Ateniesi.

433 Eraclea di Lucania, dai Tarantini.

[202] STRABONE, lib. VI.

[203] Ode 6 del lib. II.

[204] DIONIGI, lib. XII. 9; STRABONE, lib. VI.

[205] Laerzio e Giamblico danno il primo numero; l’altro Valerio
Massimo, lib. VIII. Vedi anche Tito Livio, lib. IV.

[206] STRABONE, lib. V.

[207] Vedi la l. cit. nel _Timeo_ di Platone, ed in Plutarco.

Su Pitagora, e sul governo de’ Pitagorici, si paragonino HEYNE, _Opusc.
acad._, tom. II; MEINERS, _Gesch. der Wissenschaft in Gr. und_ ecc.,
I. 401, 464, 469; MUELLER, _Dorici_, II. p. 178: WELBKER, _Proleg.
ad Theogn._ p. XLII; ma principalmente KRISCHE, _De societatiis a
Pythagora in urbe Crotone conditæ scopo politico_, Gottinga 1830;
TERPSTRE, _De sodalitii pythagoræi origine, conditione, consilio_,
Utrecht, 1824; CRAMER, _De Pythagora, quomodo educaverit et
instituerit_, Stralsunda, 1833.

[208] Ἀληθεύειν καὶ εὐεργετεῖν. ELIANO, _Variæ historiæ_, XII. 59.
Εὐεργεσία καὶ ἀλήθεια. LONGINO, _Del sublime_.

[209] GIAMBLICO, _Protrept._ 21; SUIDA, in Πυθάγορας. La dottrina
pitagorica si raccoglie principalmente da Filolao di Crotone.

[210] Ap. PLATONE, _Della repubblica_, lib. III.

[211] DIOGENE LAERZIO, lib. VIII

[212] «Nulla esiste; esistesse anche, è impossibile conoscerlo». Tale
era il suo teorema, e lo provava così: «Se esiste qualche cosa, essa
è l’_essere_ o il _non essere_, o le due cose insieme. Il non essere
non è possibile perchè non può esser nato, nè non esser nato, nè
esser uno nè multiplo. Ciò poi che è, non è possibile che sia essere
e non essere; imperocchè se questi fossero nel medesimo tempo, quanto
all’esistenza sarebbero una cosa sola; ma se una sola cosa fossero,
l’essere sarebbe il non essere. Siccome però il non essere non è,
neppure l’essere sarebbe. Se poi tutti e due fossero la medesima cosa,
non sarebbero due cose, ma una sola». Eppure Platone credette dover
confutare questa argomentazione ne’ suoi dialoghi; segno che allora non
parea frivola e ridicola, quanto oggi la giudichiamo.

[213] Anche nelle XII Tavole il principio era _Deos caste adeunto_;
e Giustiniano mise a capo del suo codice _De summa Trinitate et fide
catholica_.

[214] Questa clausola fu introdotta posteriormente. DIODORO SICULO,
lib. XII.

[215] Esempio di piena e meravigliosa concisione potrebb’essere
questo: χρὴ δὲ ἐμμένειν τοῖς εἰρημένοις, τὸν δὲ παραβαίνοντα ἕνοχον τῇ
πολιτικῇ ἀρᾷ. Vedi DIODORO, lib. XII. 11 e seg.; STOBEO, _Serm._ XLIV;
ARISTOTELE, _Politic._, lib. II. 9.

[216] Vedi BENTLEJO, _Opusc._, pag. 340; HEYNE, _Opusc. acad._, tom.
II, p. 273; SAINTE-CROIX, _Sur la législation de la grande Grèce_ negli
atti dell’Accademia delle Iscrizioni, lib. XLII; RICHTER, _De veteribus
legum latoribus_, Lipsia 1791.—NITZOL, _De historia Homeri_, negò
che Zaleuco sia il più antico legislatore; ma lo confutò Müller nel
giornale di Gottinga 1831, pag. 292.

Eliano riferisce una sua legge:—Se un malato, senz’ordine del medico,
beva vino, quantunque guarisca, sia condannato a morte». Pastoret
s’affatica invano a cercar la ragione di sì pazzo ordine; ma Eliano,
come spesso, s’inganna, giacchè Ateneo, da cui esso la trae, dice: εἵ
τις ἃκρατον ἐπίῃ, μὴ προστάξαντος ἱατροῦ, θεραπείας ἒνεκα, θάνατος ἦν
ἡ ζεμία. _Se alcuno beva vino senz’ordine del medico per ragion di
salute, sia reo di morte_.

[217] Mangiatori di loto; il _rhamnus lotus_ di Linneo, del cui frutto
gli Africani si nutrono anche oggi, e ne preparano un vino o idromele,
che regge pochi giorni.

[218] Diodoro attribuirebbe questa migrazione verso occidente a
un’eruzione dell’Etna. È notevole che Omero non fa verun cenno di
questo vulcano, così acconcio a fantasie poetiche. Tucidide riferisce
che ricordavansi tre eruzioni di esso, ai tempi di Pitagora, di
Gerone, e a’ suoi. Di due sotto ai Dionisj ci è testimonio Platone,
che fu invitato ad osservarne i fenomeni. Ne ricorsero spesso sotto
la dominazione romana, e particolarmente nel 662 di Roma, e due volte
durante le guerre civili; poi negli anni di Cristo 225, 420, 812, 1163,
1285, 1329, 1333, 1408, 1444, 1446, 1447, 1536, 1603, 1607, 1610, 1614,
1619, 1634, 1669, 1682, 1688, 1689, 1702, 1766, 1781, 1819, a tacere le
recenti.

[219] BRUNET DE PRESLE, _Recherches sur les établissements des Grecs en
Sicile_, Parigi 1845.

[220] ELIANO, II. 4; ATENEO, XIII. 8. È apocrifa la raccolta di lettere
di Falaride, che sino dal 1491 comparvero tradotte in italiano a
Firenze da Bartolomeo Fonti, poi da Francesco Accolti d’Arezzo. Dodwel
e Bentley disputarono intorno all’età di Falaride, senza accertarla.

[221] Timeo, ap. DIODORO, lib. XIII.

[222] Gellia era piccino e smilzo, e mandato ambasciatore a
Centuripe (Centorbi), vi fu accolto a risate. Senza scomporsi egli
disse:—«Agrigento ha persone belle e appariscenti, ma le manda alle
città illustri e civili; alle piccole e scortesi ne manda di pari a
me». Anche l’abate Galiani, quando fu presentato alla Corte di Francia
come addetto all’ambasciatore di Napoli, piccolo e gobbo come era
eccitò l’ilarità dei cortigiani; ond’egli, inchinandosi al re, esclamò:
_Sire, vous voyez un échantillon d’ambassadeur_. Si rise, e i Francesi
danno ragione e benevolenza a chi li fa ridere.

[223] DIODORO, XI. 72.

[224] POLIBIO, lib. XII. 22.

[225] Più tardi un tremuoto l’abbattè, Cesare riedificolla, Federico
Barbarossa l’incenerì; rialzata, sofferse replicati assalti dai Turchi
verso il 1593, e nuovi tremuoti, dai quali adesso si rifà.

[226] La costituzione che egli voleva foggiare sulle idee di Platone,
importava un re che vegliasse sulla religione e sullo splendore dello
Stato, quasi un gran sacerdote. A tal carattere sacro ripugnavano
il diritto di morte e d’esilio, che perciò restavano a trentacinque
custodi della legge, i quali, per deliberare della vita de’ cittadini,
doveano aggiungersi i più giusti fra i magistrati usciti di fresco di
carica. I trentacinque col senato e il popolo decideano della pace e
della guerra. Tanto è riferito nella viii delle lettere di Platone.
Queste sanno d’apocrifo, pure sono certamente vicine al suo tempo, e
scritte da persona informata. A Dionigi doveva alludere Platone nel
IV _Delle leggi_, ove scrive che «per ordinare nuova forma di governo
nessuno val meglio d’un tiranno che sia giovine, di salda memoria,
bramoso di sapere, coraggioso, animato da sentimenti nobili, e cui la
buona fortuna avvicini un uomo conoscente della scienza delle leggi.
Felice la repubblica retta da principe assoluto, consigliato da buon
legislatore!».

Il tedesco Arnold scrisse la storia di Siracusa fino a Dionigi. Si
trova pure nella quarta parte della _Storia greca_ di Mitford, ove
Dionigi I è purgato dalle esagerate imputazioni degli scrittori
originali.

[227] Cicerone dice che la decima del frumento di Sicilia rendeva ai
Romani per nove milioni di sesterzj, a tre sesterzj comprandosi il
moggio: dunque trenta milioni di moggia, ossia quattrocento cinque
milioni di libbre a peso di marco, traevansi da quel terzo della
Sicilia ch’era sottoposto alla decima. DUREAU DE LA MALLE, _Économie
politique des Romains_, tom. II. p. 376.

Oggi, che la coltura n’è tanto negletta, calcolano si asporti dalla
Sicilia per nove milioni in agrumi, due in olio, oltre la soda e il
tonno marinato e i solfi, suo oro.

[228] TEOFRASTO, IV. 17; PLINIO, XII. V.

[229] Diodoro accenna Dori ed Eolici, i quali sicilianizzavano.

[230] SUIDA, _Lexicon ad vocem_.

[231] Nel _Busiride_ descriveva Ercole vorace:—Se lo vedi macinare
a due palmenti, e trangugiare ingordo, ti fa ribrezzo. Le fauci di
dentro gli borbogliano, le mascelle cigolano, i denti molari stridono,
i canini strepitano, le narici fischiano sibilando, e le orecchie
ciondolando si movono». Ap. ATENEO, DEIPNOSOFISTES, X. c. I. Così
dipinge il parassito:—Mi basta un cenno per correre ad un convito, nè
cenno aspetto per presentami dove si fa nozze. Comincio dir facezie, e
movo a festa e a giuoco: sciorino lodi spiatellate a colui che mette
tavola, e a chi gli contraddice tratto da nemico e svillaneggio: e ben
bevuto e meglio mangiato, me ne vo. Non ho ragazzo che mi scorga per
la via con la lanterna; e soletto nel bujo, barcollando ad ogni passo,
m’affretto verso casa. Se m’imbatto nella ronda, giuro di non aver
fatto nulla di male; oppure essi mi caricano di mazzate. Fiaccato dalle
busse, arrivo a casa e mi sdrajo s’una pelle, e non sento il dolore
finchè la forza del vino mi grava l’anima e la mente». _Ivi_ VI. c. 28.

[232] Vedi il suo elogio scritto dallo Scinà.

[233] Dell’ode, ove Orazio introduce a parlare Archita già morto, non
saprei dar ragione se non supponendola tradotta o imitata dal greco. I
primi versi

_Te maris et terræ, ~numeroque carentis arenæ~ Mensorem cohibent,
Archita,_

io penso non alludano ad operazioni geometriche da lui fatte, ma a
qualche soluzione ingegnosa ch’egli abbia trovato dell’_arenaria_, su
cui si esercitò anche Archimede, come or ora diremo.

[234] Lo narra Ateneo (v. 10); ma Montucla lo rigetta tra le favole.

[235] Il numero calcolato nell’_arenaria_ di Archimede oggi si
scriverebbe colla cifra 64, seguita da sessantun zeri. Questo
parmi basti a confutare chi pretese (come l’insigne Charles negli
_Eclaircissements sur le traité ~De numero arenæ~_) che i Greci
conoscessero il sistema numerico indiano, ove le cifre acquistano
un valore di posizione. Taluno credette trovarvi la prima idea dei
logaritmi. Teone d’Alessandria nel _Commento_ fa merito ad Archimede
d’avere, nella _Catoptrica_, scoperto la rifrazione, per cui i raggi
passando pel fluido, fanno all’occhio un angolo più grande. Ideler, nel
commento sulla _Meteorologia_ d’Aristotele, radunò i passi relativi
alla _Catoptrica_ d’Archimede. Che questi s’occupasse di analisi
indeterminata può indicarlo il problema in versi, scoperto da Lessing,
e stampato nel giornale _Zur Geschichte und Litteratur_, Brunswick
1773. Ma che già prima i Pitagorici istituissero ricerche sui triangoli
rettangoli aritmetici, l’attesta Proclo sulla proposizione 47ª del
libro i d’Euclide. La formola di cui valeansi per formare un’infinità
di triangoli siffatti, può esprimersi algebricamente:

          ( a²  - 1 )²        ( a²  + 1 )²
  a²  +   ( ————————)    =    ( ————————)
          (    2    )         (    2    )

Delambre pretende che nè Archimede nè Euclide avessero idea della
trigonometria rettilinea, nè della sferica. Vedasi la sua memoria in
fondo alla traduzione francese di Peyrard delle opere di Archimede.
Parigi 1808.

[236] _Da ubi consistam, et cœlum terramque movebo_. Se è suo questo
motto prestatogli da Pappo, e’ non si fece carico del vette. Ora, per
ismuovere, non che il cielo, la terra, si richiede una leva tale, che,
quando Archimede avesse potuto correre colla velocità d’una locomotiva
a vapore, cioè quarantotto miglia l’ora, gli sarebbero stati necessarj
quarantacinque bilioni d’anni per sollevare d’appena un pollice la
terra. Vedi NEIL-ARNOTT, _Mécanique des solides_, pag. 155.

[237] Degli specchi ustorj d’Archimede nessuna menzione fanno Polibio,
Livio, Plutarco; ma solo Zonara e Tzetze, storici del Basso Impero, che
alludono a passi perduti di Dione e Diodoro Siculo.

Se possa farsi uno specchio tale da incendiar una nave, fu discusso
gravemente dagli scienziati. Parve risolvere la questione Buffon
coll’esperienza, costruendo uno specchio formato di censessantotto
specchietti, mobili in ogni senso, e curvati in modo da presentare una
superficie convessa, talchè, come in una lente, tutti i raggi del sole
vi fossero riflessi verso un unico objetto. Con questo s’incendiò una
tavola grossa di abete alla distanza di cencinquanta piedi, essendo il
10 aprile, un’ora dopo mezzogiorno. Si aumentarono gli specchietti fino
a ducenventiquattro, ed alla distanza di quarantacinque piedi vennero
fusi de’ vasi d’argento in otto minuti. Alla distanza di ducento piedi
si fece passar un bue, che cadde colpito.

Sopra tale costruzione, Monge avvertì la difficoltà di dover ad ogni
istante cambiare la inclinazione degli specchi, atteso il moversi
del sole, mentre non meno di mezz’ora si richiederebbe per infocare
una nave. Quando Buffon diede questa spiegazione dello specchio
d’Archimede, non si conosceva un passo di Isidoro da Mileto, che al
tempo di Giustiniano scrisse περὶ παραδόξων μηχανημάτων. In uno dei
quattro problemi che ci avanzano di quest’opera, egli si propone di
costruire una macchina capace di accendere coi raggi del sole una
materia combustibile fuori della portata del tiro. Trovando impossibile
il conseguir ciò cogli specchi concavi, dimostra che Archimede potè
ardere i vascelli di Marcello mediante l’unione di molti specchi piani
esagoni. Il passo cui alludo, fu pubblicato da Dupuy nei _Mém. de
l’Académie_, ecc. vol. XLII. Parigi 1774.

Peyrard, che tradusse Archimede, diede una nuova costruzione
ingegnosa, la quale nel 1807 fu approvata dall’Istituto, calcolando
che con cinquecentonovanta specchi da cinquanta centimetri di lato si
potrebbe ridurre in cenere una flotta distante un quarto di lega. Ma
dimostrato possibile il fatto, chi crederà che le navi romane stessero
nell’immobilità necessaria perchè il fuoco s’attaccasse?

[238] Che pure lo disprezzava, con romanesca superbia dicendo: _Humilem
homunculum a pulvere et radio excitabo_. Tusc. v. 33.

[239] Spesso ricorrono fra gli antichi queste armi parlanti: Agrigento
mettea sulle sue monete il granchio, _acragas_ in greco; Ancona
un gomito, che in greco dicesi _ancon_; Turio, un toro, alludendo
all’aggettivo _tourios_ impetuoso, o al tauro. Più spesso ciò incontra
pei nomi de’ triumviri monetarj, nomi che metteansi sulle monete
battute sotto la loro direzione: così un toro su quelle di Thorio
Balbo; un martello su quelle di Publicio Malleolo; un fiore per Manlio
Aquinio Floro; un Giove Ammone cornuto per Quinto Cornificio; il pesce
della porpora per Furio Purpureo; le sette stelle dei trioni per
Lucrezio Trione; una musa per Pomponio Musa; un Saturno per Sestio
Saturnino.

 Vedansi: PARUTA, SICILIA NUMISMATICA.

 PISANI, _Memorie sulle opere di scultura in Selinunte ultimamente
 scoperte_.

 PRINCIPE DI BISCARI, _Viaggi per le antichità della Sicilia_.

 MARTELLI, _Le antichità dei Siculi_.

 SERRADIFALCO, _Le antichità della Sicilia_.

 CAPODIECI, _Antichi monumenti di Siracusa_.

 HITTORFF e ZANTH, ARCHITECTURE ANTIQUE DE LA SICILE.

 HARRIS e SANTANGELI, _Sculptured Metopes discovered amongst the
 ruins of the temples of the ancient city of Selinus_. Harris,
 nell’esplorare quelle ruine, contrasse una malattia che il portò a
 morte giovanissimo.

[240] Ausonio, _Nob. urbes_, vers. 97. E Virgilio, _Æn_. III. 692:

  _Sicanio prætenta sinu jacet insula contra
  Plemmyrium undosum: nomen dixere priores
  Ortygiam, Alpheum fama est huc Elidis amnem
  Occultas egisse vias subter mare, qui nunc
  Ore, Arethusa, tuo siculis confunditur undis._

E Cicerone: _In hac insula extrema Ortygia est fons aquæ dulcis, cui
nomem Arethusa est, incredibili magnitudine, plenissimus piscium,
qui fluctibus totus operiretur, nisi munimine ac mole lapidum a mari
disjunctus esset_.

[241] _Naturæ historia_, III. 9.

[242] Chiamavansi _latrones_, parola che acquistò trista
significazione, come avvenne del nostro _masnadiere_.

[243] _Hist._, lib. X. Si confronti con DIODORO, XX. 104.

[244] PLUTARCO in _Pirro_. Ad altra conchiusione arrivava uno di que’
semplici filosofi, che si chiamano santi. Filippo Neri andò incontro
ad un prete che veniva a Roma per mettersi in prelatura, e che
coll’enfasi della speranza gli narrava che potrebbe diventar cameriere,
poi segretario, poi protonotaro....—E poi?» chiedeva il santo—E poi
potrò entrar monsignore—E poi?—E poi il cappello verde potrà mutarsi
in rosso—E poi?—E poi, de’ casi se ne sono veduti tanti, e quel che
riesce ad uno può riuscire anche ad un altro—Volete dire la tiara, eh?
Ma e poi?» instava il santo; ed esitando l’altro a rispondere, gli
soggiungeva:—E poi morire».

[245] _Cicerone_, _Tuscul._ IV. 2.

[246] ELIANO, _Variæ hist._, I. 38, dice che, per ispaventare gli
elefanti, presentarono loro de’ majali. I narratori di questi fatti
perirono, non restandoci che gli argomenti delle decadi di Livio,
e qualche estratto di Dionigi, Diodoro, Appiano, oltre le vite di
Plutarco.

[247] TITO LIVIO, XXXVIII. 28.

[248] Asdrubale e Amilcare, figli di Magone, conquistano la Sardegna, e
Asdrubale vi muore dopo stato generale undici volte; Amilcare si uccide
dopo vinto da Gelone. Da Amilcare nacquero Imilcone che gli succedette
nel comando dell’esercito in Sicilia, Annone e Giscone. Da Asdrubale
nacquero Annibale, Asdrubale, Saffo, generali fortunati contro Nùmidi e
Mauritani.

[249] Ignoti agli storici romani, ce li conservò Polibio greco. Il capo
Bello o Buono (τῷ καλῷ ἀκροτηρίῳ) è il promontorium _Hermœum_ al nord
di Cartagine. Τὸ προκείμενον αυτῆς τῆς Καρκήδονος ὠς ρπὸς τὰς άρκτους,
dice Polibio. S’ingiunge dunque ai Romani di non navigare lungo la
costa del territorio cartaginese, verso la piccola Sirte, ov’erano le
città e i distretti più fertili di Cartagine.

Per questi fatti principale autorità è questo Polibio, di cui abbiamo
il racconto fino al 216, e frammenti sino al 165 av. Cristo. Livio e
Appiano calcano le orme di lui. Si riferiscono a questi tempi le vite
di Fabio Massimo, Paolo Emilio, Marcello, Catone, Flaminio, scritte da
Plutarco. Quella d’Annibale, attribuita a Cornelio Nepote, parmi nulla
più che compilazione retorica.

[250] DIODORO, XXII; POLIBIO, I.

[251] Zonara, scrittore dei bassi tempi, ci conservò memoria di tale
congiura di quattromila Sanniti (VIII. 11).

[252] Se alcune nebbie osiamo spargere s’un nome che da fanciulli
s’impara a venerare, si vorrà noverarci tra quelli che dubitano
della virtù perchè non la credono? I libri di Livio, in cui avrebbe
dovuto esser narrato l’eroismo di Regolo, perirono; Polibio non ne
fa cenno; Dione Cassio lo dà come una tradizione, che Silio Italico
abbellisce o gonfia colla sua poesia. In Diodoro Siculo, narratore così
circostanziato e spesso esatto, manca il libro xxiii ove il fatto dovea
trovar luogo; ma due frammenti di quello possono smentirlo. Nel primo
narra la sconfitta di Regolo, imputandone affatto l’arroganza di esso,
che compromise gl’interessi della patria quando poteva di decorosa
pace giovarla: «Nè della calamità la minor parte cadde sull’autore di
tanti mali; giacchè la gloria che erasi dapprima acquistata, offuscò
coll’ignominia maggiore che gliene venne; e coll’infelicità sua valse
ad ammaestrare altrui che nelle prospere vicende non insolentiscano».
Diodoro con nessuna parola disacerba il rimprovero; anzi in un altro
frammento divisa gli orribili trattamenti che la moglie di Regolo fece
ai prigionieri a lei abbandonati: «Non sapendosi dar pace del morto
marito, i figliuoli indusse a infierire contro i prigionieri. Serrati
in angustissimo camerotto, trovaronsi obbligati a stare aggomitolati
come bestie, indi per cinque giorni privati d’ogni alimento, Bodostare
per tristezza e fame morì; Amilcare di grand’animo andava sostenendosi,
e spesso con pianti pregando la donna, le narrava la cura che avea
preso del marito di lei; ma non potè piegarne il cuore ad alcun
sentimento umano, a tal che la spietata donna tenne ivi per cinque
giorni chiuso con esso il cadavere di Bodostare, e ad Amilcare dava
quanto cibo bastasse a tenere in lui vivo il senso delle sue calamità.
Amilcare, vedendo perduta ogni speranza che le sue preghiere avessero
effetto, incominciò a scongiurar Giove ospitale e gli Dei che hanno
in cura le umane cose, e a gridare d’esser troppo punito della buona
opera che avea fatto. Nè però in sì tormentoso stato morì, fosse
misericordia degli Dei, fosse la sua buona fortuna che infine gli
recasse non isperato sostegno. Già agli estremi, tanto per l’orrendo
lezzo del cadavere, quanto per le altre miserie, alcuni servi della
casa raccontano il fatto a persone estranee, che indignate di tanta
crudeltà, il denunziano a’ tribuni. Verificata la cosa, chiamati gli
Attilj dai magistrati, poco mancò non fossero condannati nel capo, per
avere di tanta infamia macchiato il nome romano; però di gravissima
pena li minacciarono se di buona fede non avessero in appresso
custoditi i prigionieri. Essi, accagionandone la madre, abbruciarono il
cadavere di Bodostare, e ne spedirono le ceneri alla patria; Amilcare
poco a poco refocillarono, finchè dai patimenti sofferti si riebbe».

L’argomento più concludente contro quell’eroismo potrebbesi trarre
dall’inutilità, se non anche peggio, del consiglio che si fa dare da
Regolo. Col cambio dei prigionieri Cartagine non avrebbe ricuperato
che mercenarj, de’ quali poteva rifarsi altrove con puro danaro; Roma
riacquistava cittadini e veterani, che avrebbero, come quelli resi
da Pirro, cancellata l’infamia con maggiori prodezze. Non poteano i
prigionieri essere altrettanti Regoli, gran capitani e gran cittadini?
forse che l’aver avuto le braccia incatenate avea prostrato l’animo
del console? La ragione più forte che Orazio esponga, è la paura del
cattivo esempio: ma non è ancora deciso che possa mandarsi a morte un
uomo per dare esempio ad altri. La pace poi che Regolo sconsigliava,
Roma l’accettò alcuni anni appresso, ond’egli persuadendola non avrebbe
fatto che risparmiare i guasti e il sangue del tempo interposto: ma
le vite non si contano nei calcoli dell’ambizione. Il far poi tante
meraviglie perchè Regolo mantenne la parola giurata di ritornare, non
fa troppo onore alla specie umana.

Fu Palmerio il primo che, nel secolo xvi, suppose quella morte una
favola della famiglia Regolo per iscusar le sevizie di essa sui
prigionieri. A lungo ne discusse Halthaus, _Gesch. Rom. in Zeitalter
der punischen Krieg_, Lipsia, 1866, e propende per l’opinione vulgata.

[253] PLINIO, _Nat. hist._, XVIII. 13.

[254] Vuolsi ricordare un singolarissimo tratto di Cajo Alimento,
conservatoci da A. Gellio, XVI. 4. Vi si legge che, quando levavansi
truppe, i tribuni militari faceano giurare ai soldati della loro
compagnia, che nè in campo nè nel contorno di dieci miglia non
ruberebbero più del valore d’una moneta d’argento al giorno; se
_trovassero_ alcun che di maggior prezzo, lo porterebbero ai capi loro:
potevano però appropriarsi una lancia, la legna, il foraggio, le rape,
un otre, un sacco, una fiaccola.

[255] In queste cifre, date da Polibio, II. 23. 69, convengono ad un
bel circa Fabio Pittore (ap. PAOLO OROSIO, IV. 15), Diodoro Siculo
(_framm._ 3 del lib. XXV), e Plinio (_Nat. hist._ III. 24). Si vede
che contavasi solo l’Italia fino al Rubicone e a Luni, al 44 grado di
latitudine, eccettuando sempre i Veneti e i Cenomani.

[256] TITO LIVIO, III. 3. Sì scarsa popolazione ci fa conchiudere, al
contrario del Durando (_Mem. dell’Accademia di Torino_, tom. IV, p.
617, 1811) e di Dureau de la Malle (_Mémoires de l’Académie française_,
tom. X, 1833), che grandissimo fosse il numero degli schiavi. Esso
Durando dà alla Gallia Cisalpina in quel tempo soli quattro milioni
d’abitatori, altrettanti al resto d’Italia.

[257] POLIBIO, III. 6; LIVIO, XXI. 2. 7.

[258] PLINIO, _Nat. hist._, XXXIII. 6.

[259] PLUTARCO, _Della virtù delle donne_.

[260] Tito Livio e Cornelio Nepote, per far drammatico il racconto,
lesero la verosimiglianza dei fatti e la prudenza del gran capitano.
Quelle Alpi, che Cornelio ci dà come inaccesse, e tali che appena un
uomo scarco potea passarvi, quante volte non erano state superate dai
Galli per venir a saccheggiare l’Italia o a collocarvisi? Popolatissime
appajono esse dal racconto medesimo, e certo i Galli servirono di guide
ad Annibale pei colli impraticati.

Una biblioteca intera si scrisse intorno alla marcia d’Annibale dalla
Spagna in Italia; segno che i dati sono arbitrarj, quanto inutili le
conseguenze. Noi, senza entrare in discussione, rimandiamo a Polibio,
lib. iii. 42-56; ma neppure da lui si aspetti l’esattezza numerica,
insolita agli autori antichi. Egli misura il viaggio da Cartagena a
Taurino in novemila stadj: poi i viaggi parziali non riescono che di
ottomila seicento.

Fra altre favole, Livio racconta che Annibale ruppe le Alpi coll’aceto.
Baja ridicola; pure anch’oggi nelle famose miniere dell’Hartz
spaccasi la rocca coll’accendervi grandi fuochi, e quando sia ben
riscaldata, gettarvi acqua: operazione che doveva esser comune prima
dell’invenzione della polvere.

Vedasi ABBOTT, _History of Hannibal the cartaginian_, Londra 1849.

[261] Polibio dà cinquanta elefanti ai Cartaginesi che assediavano
Agrigento; cento alla battaglia di Rodi contro Regolo; ottanta a quella
di Zama. Secondo Diodoro Siculo, Asdrubale, fondatore di Cartagena,
ne avea ducento in Ispagna; cencinquanta erano alla battaglia di
Tapso, ultima d’Africa ove questo animale compaja. Li traevano non
dall’interna Africa, ma dal paese contiguo a Cartagine, sul piovente
meridionale dell’Atlante, ove da gran tempo più non se ne incontra.
Così nell’Africa meridionale in numero sterminato si trovavano al tempo
che primamente fu colonizzato il capo di Buona Speranza, poi furono
messi in fuga o distrutti dai coloni.

[262] _Lectisternium, ver sacrum._ LIVIO, XXVII. 39.—ARRIANO, _De bello
hispanico._—SILIO ITALICO, XV. 495.

[263] _Triumviri mensarii._ LIVIO, XXIV. 18.—Vedi ARNOLD, _Storia
romana._

[264] Anzi Appiano mette dieci, fornite solo da volontarie
contribuzioni: χρήματα οὐκ ἕδωκαν πλὴν εἴ τις ἤθελε τῷ Σκιπίονι κατὰ
φιλίαν συμφέρειν.

[265] Il fatto è riferito da Diodoro ne’ frammenti, e da Appiano; Livio
ne tace, come di molti altri. Fra Catanzaro e Crotone, mostrano la
Torre d’Annibale, ov’è tradizione ch’egli s’imbarcasse.

[266] Τὸ τρίτον τῆς στρατιὰς Κέλτοι καὶ Λίγυες: APPIANO.—_Galli proprio
atque insito in Romanos odio incenduntur_. LIVIO, XXX. 33.

[267] Ne fanno segno ancora i nomi di Minuciano, Antognano, Petroniano,
Sillano, Gragnano, Albiano, Elio, ed altrettali di colà. I Romani
dovettero spingervi gli eserciti lungo la Garfagnana, risalendo da Pisa
il Serchio fra valli anguste e scoscese pendici.

[268]

  _Ille triumphata Capitolia ad alta Corintho
  Victor aget currum, cæsis insignis Achivis.
  Eruet ille Argos, agamemnoniasque Mycenas,
  Ipsumque Æacidem, genus armipotentis Achillei:
  Ultus avos Trojæ, temerataque templa, Minervæ._

  VIRGILIO, _En._ VI. 836.

[269] VALERIO MASSIMO, lib. IV. cap. 4.

[270] Polibio, negli _Esempj di virtù e di vizj_, cap. 73, così
narra la sua entratura con Scipione:—La nostra corrispondenza avea
principiato da ragionamenti sui libri ch’egli mi prestava. Questa
unione di cuore erasi già stretta alquanto, quando i Greci chiamati a
Roma furono in varie città dispersi. Allora i due figliuoli di Paolo
Emilio, Fabio e Publio Scipione, richiesero istantemente al pretore
ch’io potessi restare con loro, e l’ottennero. Mentr’io stava in Roma,
una singolare avventura giovò assai a stringere la nostra amicizia.
Un giorno, mentre Fabio andava verso il fôro, ed io e Scipione
passeggiavamo in altra parte, questo giovane romano in aria amorevole
e dolce, ed arrossendo alquanto, meco si dolse che, stando io a mensa
col suo fratello e con lui, sempre a Fabio volgessi il discorso, non
mai a lui:—Ben conosco (soggiunse) che questa vostra freddezza nasce
dall’opinione in cui siete voi pure, come tutti i nostri concittadini,
ch’io sia un trascurato, di nessun genio per le scienze che al presente
fioriscono in Roma, perchè non mi vedono applicarmi agli esercizj del
fôro, nè volgermi alla eloquenza. Ma come, caro Polibio, come potrei
io farlo? Mi si dice continuamente che dalla famiglia degli Scipioni
non s’aspetta già un oratore, ma un generale. Vi confesso che la vostra
freddezza mi affligge.—Io restai meravigliato a un discorso, quale non
mi attendeva da un giovine di diciott’anni; e—Di grazia (gli dissi)
caro Scipione, non vogliate nè pensare nè dire che, se io comunemente
rivolgo il discorso a vostro fratello, sia per poca stima di voi.
Egli è primogenito, e perciò nelle conversazioni a lui mi volgo; e
ancora perchè mi è noto che amendue avete i medesimi sentimenti. Ma
io non posso non compiacermi di vedere che voi pur conoscete che a
uno Scipione mal si addice l’essere infingardo. E ben si vede come i
vostri sentimenti siano superiori a quei del vulgo. Quanto a me, io
tutto sinceramente mi offro al vostro servizio. Se mi credete opportuno
a condurvi ad un tenor di vita degno del vostro gran nome, potete
di me disporre come vi aggrada. Quanto alle scienze, alle quali vi
vedo inclinato, voi troverete bastevoli ajuti in quel gran numero di
dotti che ogni giorno ci vengono dalla Grecia. Ma pel mestiere della
guerra, di cui vorreste essere istruito, penso potere io esservi più
utile d’ogni altro.—Scipione allora, le mani mie stringendo tra le
sue,—E quando (disse) vedrò io quel dì felice in cui, libero da ogni
altro impegno, e standomi sempre al fianco, voi potrete applicarvi
interamente a formarmi lo spirito ed il cuore? Allora mi crederò degno
de’ miei maggiori.—D’allora non più seppe staccarsi da me; il suo più
gran piacere era starsi meco; e i diversi affari nei quali ci trovammo
insieme, non fecero che stringere i nodi della nostra amicizia; egli mi
rispettava come padre, io l’amava non altrimenti che figliuolo».

[271] _Nil patrium, nisi nomen, habet Romanus alumnus:
Sanguinis altricem nunc pudet esse lupam._

PROPERZIO, IV. 1.

[272] _Combustos, quia philosophiæ scripta essent._ PLINIO, _Nat.
hist._, XIII. 13.

[273] _Poeticæ artis honos non erat; si quis in ea re studebat, aut
se se ad convivia applicabat, is grassator vocabatur_. CATONE ap. A.
Gellio.

[274] PLUTARCO in _Catone_. Marco Tullio notò, in un discorso di
Scipione, la via di mezzo che tenevano allora i Romani; illuminati
e insieme osservatori degli antichi costumi, non volevano parere
ignoranti, nè troppo istrutti in letteratura: _Quamobrem peto a vobis,
ut me sic audiatis, neque ut omnino expertem græcarum rerum, neque ut
eas nostris... anteponentem; sed ut unum e togatis, patris diligentia
non illiberaliter institutum, studioseque discendi a pueritia incensum,
usu tamen et domesticis præceptis multo magis eruditum quam litteris.
~De repub~._, _i_. 22.

[275] Macrobio, che riferisce quest’invettiva, cita nel medesimo
capitolo tre bei danzatori della fine di questo secolo: erano Gabinio
consolare, Cejo cavaliere, e Licinio Crasso, quello che perì col padre
sotto i colpi dei Parti. Il gusto della danza non fece che accrescersi
col tempo.

[276]

      _...Tenax ne pater ejus est?—Immo ædepol pertinax:_
  _Quin etiam, ut magis noscas, genio suo ubi quando sacrificat,
  Ad rem divinam quibus est opus, samiis vasis utitur._

  Captiv., II. 2.

[277]

  _Nunc, quoque venias, plus plaustrorum in ædibus
  Videas, quam ruri quando ad villam veneris._

  Aulul., III. 5.

[278]

  _Ubi res prolatæ sunt, quum rus homines eunt,
  Simul prolatæ res sunt nostris dentibus...
  Dum ruri rurant homines quos liguriant,
  Prolatis rebus, parasiti venatici
  Sumus: quando rure redierunt, molossici._

  Captiv., i. 1.

[279] _Aulul._, III. 5.

[280]

  _Dotatæ mactant et malo et damno viros._

  Aulul., III, 5.

  _Dotibus deliniti, ultro etiam uxoribus ancillantur._

  TURPILIO.

[281]

    _Ut apud lenones rivales filiis fierent patres._

    Bacch., in fine.

  I costoro artifizj sono descritti nell’atto I, scena 1 del
  _Truculentus_.

[282]

                          _Quippe_
  _Ut semel adveniunt ad scorta congerrones...
  Unus eorum aliquis osculum amicæ usque oggerit,
  Dum illi agunt quod agunt, sunt cæteri cleptæ._

  Trucul., I. 2.

Ovidio, nell’Arte, III. 441, ammonisce le donne di guardarsi da
costoro, che fanno da galante per amore delle loro gioje.

Fin d’allora si molestavano i passeggieri alle dogane, e
dissuggellavansi le lettere ai confini:

_Rogitas quo ego eam, quam rem agam, quid negotii geram, Quid petam,
quid feram, quid foris egerim? Portitorem domum duxi; ita omnem mihi
Rem necesse loqui est, quicquid egi atque ago._

Menæch., I. 2.

_Jam si obsignatas non feret, dici hoc potest, Apud portitorem eas
resignatas sibi Inspectasque esse._

Trinum., III. 3. 64.

[283]

  _Quasi in choro pila ludens,
  Datatim dat se se, et communem faciet;
  Alium tenet, alii nutat, alibi manus
  Est occupata, alii pervellit pedem,
  Alii dat annulum spectandum, a labris
  Alium invocat, cum alio cantat, et tamen
  Alii dat digito literas._

[284]

  _Verba dare ut caute possint, pugnare dolose,
  Blanditia certare, bonum simulare virum se,
  Insidias facere, ut si hostes sint in omnibus omnes._

[285]

  _Sæva canent, obscæna canent, fœdosque hymenæos,
  Uxoris pueris, Veneris monumenta nefandæ.
  Nec Musas cecinisse pudet, nec nominis olim
  Virginei, famæque juvat meminisse prioris.
  Oh! pudor extinctus, doctæque infamia turbæ,
  Sub titulo prostant, et queis genus ab Jove summo
  Res hominum supra erectæ, et nullius egente
  Esse merens vili sancto se corpore fœdant._

[286] _Docentur præstigias inhonestas, eunt in ludum histrionum, in
ludum saltatorium inter cinædos virgines._ Ap. MACROBIO, II. 10.

[287] PLUTARCO, in _Catone_.

[288]

  _Fato Metelli Romæ fiunt consules.
  Dabunt malum Metelli Nævio poetæ._

_Metellus_ volea dire facchino.

[289]

  _Mortaleis immortaleis flere si foret fas,
  Flerent divæ Camenæ Nævium poetam.
  Itaque postquam est orcino traditus thesauro
  Oblitei sunt Romæ loquier latina lingua._

  Ap. GELLIO, _i_. 24.

[290] VARRONE, _De lingua lat._, IV. 45.

[291] TITO LIVIO, _xxi_. 27; XXII. 4.

[292] VALERIO MASS. II. 10; III. 8; IV. 1. 3; VIII. 1.

[293] Lo stesso, III. 7. 6; VIII. 15.

[294] Varrone descrive le pompe bacchiche a Lavinio, dove l’osceno
Fallo era portato in giro sopra un carretto, e la più casta matrona lo
incoronava. Ap. SANT’AGOSTINO, _De civ. Dei_, VII. 21.

[295] CICERONE, _De amicitia_.

[296]

  _Ego Deûm genus esse semper dixi et dicam cœlitum,
  Sed eos non curare opinor quod agat humanum genus._

  Ap. CICER. _De divin._ II. 5.

[297] _Patria est ubicumque est bene._

PACUVIO, ap. CIC. _Tuscul._, V. 37.

[298]

  _Haud docti dictis certantes, sed male dictis
  Miscent inter se se inimicitias agitantes._ ENNIO.

[299] Orazio per lodare l’antico Romano (_Ep._ II, 1. 105) canta:

                  _Romæ dulce diu fuit_
  _Cautos nominibus certis expendere nummos,
  Majores audire, minori dicere per quæ
  Crescere res posset._

[300] _Luxum si quod est, hac cantione sanum fiet. Harundinem
prende.... incipe cantare in malo: S. F. motas væta daries dardaries
astutaries, die una paries usque dum coeant...; vel hoc modo: ~Huat
hanat huat ista pista sista domiabo domnaustra et luxato~..; vel hoc
modo: ~Huat huat huat ista sis tar sis ardanuabon domnaustra~_ (S. F.
vuol dire _Sanctos fracta_). De re rustica, cap. 160.

[301] Θαυμαστὸν ἄνδρα καὶ θεῖον εἰπεῖν ἐτόλμησε πρὸς δόξαν, ὃς
ἀπολείπει πλέον ἐν τοῖς λόγοις ὅ ρποσέθηκεν οὖ παρέλαϐεν. PLUTARCO,
cap. 21.

[302] _De oratore_, n. 17. In Plutarco la vita di Catone rappresenta
il confine tra l’antico vivere italiano e il nuovo alla forestiera.
Ai prudenti non isfugga che sorta di virtù siano quelle che si
raccomandano ai giovanetti colla lettura di Plutarco.

[303] _Imperatorum nomina annalibus detraxit._ PLINIO, VIII. 5.—_Duces
non nominavit, sed sine nominibus res notavit._ CORN. NEPOTE, in
_Catone_.

[304] A. GELLIO, XI. 48.

[305] FRONTONE, _ad L. Verum epist._ II.

[306]

_A sole exoriente supra Meoti paludes Nemo est qui factis me æquiparare
queat._

Ap. CICER. Tuscul., V. 17.

[307]

  _Quin ubi se a vulgo et scena in secreta remorant
  Virtus Scipiadæ et mitis sapientia Læli
  Nugari cum illo_ (Lucilio) _et discincti ludere, donec
  Decoqueretur olus, soliti._ ORAZIO, Sat. II. 1.

[308]

  _Aurum atque ambitio specimen virtutis utrique est:
  Quantum habeas, tanti ipsi sies, tantique habueris._

  LUCILIO, Fragm.

[309] Ecco il carme, con cui si evocavano da una città gli Dei:
_Si deus, si dea est, cui populus civitasque carthaginensis est
in tutela, teque maxime, ille qui urbis hujus populique tutelam
recepisti, precor venerorque, veniamque a vobis peto, ut vos populum
civitatemque carthaginensem deseratis, loca, templa, sacra, urbemque
eorum relinquatis, absque his abeatis, eique populo civitatique
metum, formidinem, oblivionem injiciatis; proditique Romam, ad me
meosque veniatis, nostraque vobis loca, templa, sacra, urbs acceptior
probatiorque sit, mihique populoque romano, militibusque meis præpositi
sitis, ut sciamus intelligamusque. Si ita feceritis, voveo vobis templa
ludosque facturum_. MACROBIO, _Saturn._, III. 9.—Cf. PLINIO, _Nat.
hist._, XXVIII. 4; SERVIO, _ad Æn._ II, 344.

Quest’altro era il carme per maledire una città: _Dis pater, Vejovis,
Manes, sive vos quo alio nomine fas est nominare, ut omnes illam urbem
Carthaginem exercitumque, quem ego me sentio dicere, fuga, formidine
terroreque compleatis; quique adversum legiones exercitumque nostrum
arma telaque ferent, uti vos eum exercitum, eos hostes, eosque homines,
urbes agrosque eorum, et qui in his locis regionibusque, agris
urbibusve habitant, abducatis, lumine supero privetis, exercitumque
hostium, urbes agrosque eorum, quos me sentio dicere, uti vos eas urbes
agrosque, capita ætatesque eorum devotas consecratasque habeatis;
illis legibus, quibus quandoque sunt maxime hostes devoti, eosque
ego vicarios pro mea fide magistratuque meo, pro populo romano,
exercitibus, legionibusque nostris do, devoveo, ut me, meamque fidem
imperiumque, legiones exercitumque nostrum, qui in his rebus gerundis
sunt, bene salvos sinatis esse. Si hæc ita faxitis, ut ego sciam,
sentiam intelligamque, tunc quisquis hoc votum faxit, ubi faxit,
recte factum esto. Ovibus atris tribus, Tellus mater, teque, Jupiter,
obtestor_. MACROBIO, l. cit.

[310] Polibio, ap. APPIANO; EUTROPIO, lib. IV.

Per quanto i Romani avessero maledetto chiunque restaurasse i rottami
di Cartagine, dopo pochi anni Cajo Gracco fu mandato a piantarvi
una colonia; poi sotto Augusto fu riedificata: ai tempi di Gordiano
imperatore, Erodiano la chiama grande e popolosa tanto, da cedere
solo a Roma, e gareggiare con Alessandria; Ausonio poeta la colloca
terza con Roma e Costantinopoli; Salviano prete di Marsiglia cita
la grandezza di essa poco prima che i Vandali la invadessero, e
ne menziona l’acquedotto, l’anfiteatro, il circo, il ginnasio, il
pretorio, il teatro, i tempj d’Esculapio, d’Astarte, di Saturno, di
Apollo, e le basiliche e le piazze. Finalmente i Saracini nel vii
secolo la distrussero del tutto; e come un tempo sulle prische sue
ruine era seduto Mario a maturare la vendetta, così sulle nuove san
Luigi di Francia andava a morire, meditando il nulla delle umane
grandezze, e confortandosi di speranze immortali.

Ora ella esce ancora dalle sue ruine.

[311] _Connubium, patria potestas, jus legitimi dominii, testamenti,
hæreditatis, libertatis. Jus census, suffragiorum, magistratuum,
sacrorum, militiæ._

[312] Sulle genti e famiglie romane vedi l’~Appendice V~.

[313]

   1. Æmilia           19. Publilia
   2. Aniensis         20. Pollia
   3. Arniensis        21. Pomptina
   4. Claudia          22. Pupinia
   5. Crustumina       23. Quirina
   6. _Collina_        24. Romilia
   7. Cornelia         25. Sabatina
   8. Esquilina        26. Scaptia
   9. Fabia            27. Sergia
  10. Falerina         28. Stellatina
  11. Galeria          29. _Suburrana_
  12. Horatia          30. Terentina
  13. Lemonia          31. Tromentina
  14. Mæcia            32. Vejentina
  15. Menenia          33. Velina
  16. Oufentina        34. Veturia
  17. _Palatina_       35. Voltinia
  18. Papiria

Teodoro Mommsen (_Die römischer Tribus in administrativer Beziehung_.
Altona 1844) mostra che ogni mezza tribù comprendea cinque centurie,
che sole avevano diritto di suffragio, composte di facoltosi che
poteano militare: e tre di poveri senza suffragio. Sotto l’Impero, le
curie più non furono che stabilimenti pei poveri.

[314] _Distribuzione del popolo romano dopo il 650 di Roma._

    Tribù urbane  4: comprendeano i proletarj e i liberti.
      »   rurali 31:      »       i proprietarj.

  Queste erano divise in classi e centurie così:

                                _Minimo valore          _Valore_
    _Classi_  _Centurie_           dei beni           ┌─────┴──────┐
                                  tassabili_      _in rame_  _in argento_
           {80 di fanteria   }
      I.   {18 di cavalleria }   100,000 assi     L. 75,000    L. 8,000
           { 3 di fabbri mil.}
     II.    20                    75,000   »         56,200       6,000
    III.    20                    50,000   »         37,500       4,000
     IV.    20                    25,000   »         18,750       4,000
      V.    30                    12,500   »          9,375       1,000
     VI.     1            meno di 12,500   »

L’asse pesava una libbra di rame da oncie 12, cioè il valore di L.
0.75; dieci assi rappresentavano un denaro, cioè L. 7.50; ma il suo
valor reale era di 0.80, attesa la scarsità dell’argento. Sulle monete
romane vedi l’~Appendice~ VI.

Il cambiarsi della costituzione per centurie in quella per tribù,
rivoluzione suprema, passò inavvertito, e ancora si disputa del quando
avvenisse. Niebuhr lo mette nel quinto secolo di Roma, Göttling nel
sesto.

[315] Un bel testo definisce _comitia centuriata ex censu et ætate,
curiata ex generibus hominum, tributa ex regionibus et locis_.

[316] Era di trecento membri; Silla lo portò forse a quattrocento, i
Triumviri lo crebbero ancora; Augusto da mille lo restrinse a seicento.

[317] _Deligerentur ex_ (non ab, come leggesi vulgarmente) _universo
populo, aditusque in illum summum ordinem omnium civium industriæ ac
virtuti pateret_; CICERONE, _pro Sextio_. V’entravano di diritto i
magistrati anche plebei, e dalla plebe scelti. Vedi GÖTTLING, _Gesch.
der röm Staatsverfassung_; WALTER, _Gesch. des römischen Rechts_.

[318] Forse ventisett’anni; dappoi Augusto fissò i venticinque. Il
censo senatorio era di quattrocentomila sesterzj (80,000 lire), poi di
un milione e duecentomila.

[319] _Naturæ hist._, XXXIII. 8.

[320] Livio Salinature plebeo, Claudio Nerone patrizio, cavalieri
entrambi, furono consoli insieme.

[321] DIONISII _Excerpta_, 64, nell’edizione del Mai.

[322] VALERIO MASS. II. 9. 2. VIII. 1; VELLEJO PATER., II. 10.

[323] _Lex est, quam populus romanus, senatorio magistratu
interrogante_ (alcuni leggono rogante), _veluti consule, constituebat.
Plebiscitum est, quod plebs, plebejo magistratu interrogante, veluti
tribuno, constituebat._ Inst. Justin., lib. I. t. 2. § 4.

[324] DIONIGI, lib. X. c. 12.

[325] Ancora al tempo suo Tito Livio le diceva, _in hoc immenso aliarum
super alias acervatarum legum cumulo, fons omnis publici privatique
juris_.

[326] Il Digesto abbraccia così le attribuzioni di questo diritto:
_Ex hoc jure gentium introducta bella, discretæ gentes, regna
condita, dominia distincta, agris termini positi, ædificia collocata,
commercium, emptiones, venditiones, locationes, conductiones,
obligationes institutæ, exceptis quibusdam, quæ a jure civili
introductæ sunt._

[327] _Jura reddebant; et ut scirent cives quod jus de quaqua re
dicturi essent, seque præmunirent, edicta proponebant._ POMPONIO.

[328] Per esempio, fingevano usucatta una cosa che non fosse, o figlia
un figliuolo, o che il morto agisse; mutavano il nome di eredità in
quello di possesso dei beni, ecc.—Del complesso della legislazione
parliamo a disteso nel Cap. LIII.

[329] Almeno parrebbe da quel passo di Cicerone _pro Cluentio:
Neminem voluerunt majores nostri, non modo de existimatione, sed ne
pecuniaria quidem de re minima, esse judicem nisi qui inter adversarios
convenisset._

[330] Era siffatta: _C. Aquili, judex esto; et si paret fundum
Capenatem Servili esse ex jure Quiritium, neque is Servilio a Catulo
restituatur, tum Catulum damnato._

[331] _De legibus_, II. 12.

[332] SERVIO, ad _Æneid._ II. 178.

[333] Ennio chiama gli auguri

  _Aut inertes, aut insani, aut quibus egestas imperat;
  Qui sui quæstus causa, fictas suscitant sententias;
  Qui sibi semitam non sapiunt, alteri mostrant viam._

E Pacuvio:

  _Magis audiendum quam auscultandum censeo._

[334] _Omnibus municipibus duas esse censeo patrias; unam naturæ,
alteram civitatis...; alteram loci, alteram juris._ CICERONE, De leg.
II. 2. Secondo A. Gellio, i municipj _a munere capessendo appellati
videntur_; secondo Paolo, _quia munia civilia capiant_.

[335] _Civitas sine suffragio_. Lo provano Ruppert e Madvig contro
il Sigonio. Il 197 si fondarono cinque colonie nella Campania e
nell’Apulia; sei nella Lucania e nel Bruzio il 194 e 193; altre nella
Gallia Cisalpina il 192 e 190; nel 189 quella di Bononia; nel 181
quelle di Pisaura e Polenzia; nel 183 quelle di Mutina e Parma; nel 181
quelle di Gravisca, Saturnia, Aquileja; nel 180 quella di Pisa; nel 177
quella di Lucca.

[336] Di ciò non s’accôrse frà Paolo Sarpi quando, nell’_Opinione
in qual modo debba governarsi la repubblica veneziana_, facea le
meraviglie che le colonie romane siensi mantenute sempre ben affette
alla madrepatria, mentre i cittadini trapiantati da Venezia a Candia
divennero selvaggi o avversi. Roma dava ai nuovi coloni i diritti
di cittadini romani; Venezia a quelli mandati a Candia tolse i
privilegi di cittadini veneti. Vedi RUPPERT, _De colonis Romanorum_;
dissertazione premiata dall’Accademia romana.

Qualche volta la colonia si chiamò municipio, come nell’insigne
iscrizione alla porta dei Bòrsari di Verona, e in altra recata dal
Maffei nelle _Antichità veronesi_, p. 126.

[337] Nel museo di Cortona sta la lapide ove i cittadini di Gurza in
Africa stringono patto d’ospitalità con Cajo Aufustio Macrino, figlio
di Cajo della tribù Galeria, prefetto de’ fabbri, scegliendo per
difensore lui e sua discendenza.

   CIVITAS GVRZENSIS EX AFRICA
  HOSPITIVM FACIT CVM C. AVFVS
  TIO C. F. GAL. MACRINO PRAEF
   FABR. EVMQVE LIBEROS POSTE
    ROSQVE EIVS SIBI LIBERIS
     POSTERISQVE SVIS PATRO
        NVM COOPTARVNT etc.

[338] TITO LIVIO, V. 28.

[339] _Illud sine ulla dubitatione maxime nostrum fundavit imperium,
et populi romani nomen auxit, quod princeps ille creator hujus urbis
Romulus fædere sabino docuit, etiam hostibus recipiendis augeri hanc
civitatem oportere. Cujus auctoritate et exemplo numquam est intermissa
a majoribus nostris largitio et communicatio civitatis._ CICERONE,
_~pro C. Balbo~_, XXXI.

_Quid aliud exitio Lacedæmoniis et Atheniensibus fuit, quamquam armis
pollerent, nisi quod victos pro alienigenis arcebant? At conditor
noster Romulus tantum sapientia valuit, ut plerosque populos eodem die
hostes, dein cives haberet._ TACITO, _~Ann~._, lib. XI.

[340] _Majores nostri Capuæ magistratus, senatum communem...
sustulerunt, neque aliud nisi inane nomen reliquerunt._ CICERONE, _~in
Rullum~_.

[341] Tiberio Gracco, ap. A. GELLIO, X. 5.

[342] _Cicerone_, _in Verrem_, I. 65; II. 13; III. 6; v. 21 e 22.

[343] Cicerone andando proconsole in Cilicia, scrive al suo fratello
(_Ad fam_. III. 8): _Romæ composui edictum; nihil addidi, nisi quod
publicani me rogarunt, ut de tuo edicto totidem verbis transferrem in
meum. Diligentissime scriptum caput est quod pertinet ad minuendos
sumtus civitatum, quo in capite sunt quædam nova, salutaria
civitatibus, quibus ego magnopere delector_. E più ampiamente ad Attico
(VI. 1): _Breve autem edictum est, propter hanc meam διαίρεσιν, quod
duobus generibus edicendum putavi: quorum unum est provinciale, in quo
est de rationibus civitatum, de ære alieno, de usura, de syngraphis;
in eodem omnia de publicanis: alterum, quod sine edicto satis
commodo transigi non potest, de hereditatum possessionibus, de bonis
possidendis, vendendis, magistris faciundis, quæ ex edicto et postulari
et fieri solent: tertium de reliquo jure dicundo_ ἅγραφον _reliqui.
Dixi, me de eo genere mea decreta ad edicta urbana accommodaturum..._

[344] _Nos vero justissimi homines, qui transalpinas gentes oleam et
vineam serere non sinimus, quo pluris sint nostra oliveta, nostræque
vineæ; quod cum faciamus, prudenter facere dicimur, juste non dicimur._
CICERONE, _De rep._

[345] _Imperium ex justissimo et optimo crudele intollerandumque
factum._

[346] Lib. XVIII. 18.

[347] CICERONE, _in Verrem_, II. 75.

[348] Nelle note al discorso per Fontejo trovato in Vaticano, Niebuhr
prova che i Romani tenevano i libri a scrittura doppia, anche pei conti
dei questori; onde non fu invenzione dei Lombardi: crede usassero
anche le lettere di cambio, operazione espressa col verbo _campsare_.
Le lettere di Cicerone al fratello Quinto e più quelle ad Attico ci
offrono molte notizie intorno a siffatta materia, da nessun Latino
trattata di proposito. Sulla quale vedansi pure

SIGONIO, _De antiquo jure provinciarum, nel Thesaurus antiq._ di
GREVIO, vol. XI.

BURMANN, _Vectigalia populi romani._

HEGEWICH, _Saggio sulle finanze di Roma_ (ted.).

BOSSE, _Schizzo dello stato delle finanze dell’impero romano_ (ted.).

DE VILLENEUVE BARGEMONT, _Cours sur l’histoire de l’économie politique._

DUREAU DE LA MALLE, _Économie politique des Romains._

[349] VALERIO MASS., IV. I. 10.

[350] _Gaudebat tellus vomere laureato._ PLINIO.

[351] _In solo provinciale dominium populi romani est vel cæsaris: nos
autem possessionem tantum et usufructum habere videmur._ Lib. II. 57.

[352] Stefano Ciccolini nel 1854 stampò a Roma un ragionamento sugli
_Agrimensori presso i Romani antichi_, e nelle note soggiunte racchiuse
quanto i Latini ci tramandarono sopra quest’arte. I termini portavano
spesso iscrizioni, ed è notevole la seguente:

  QVISQVIS HOC SVSTVLERIT AVT VSSERIT, VLTIMVS SVORVM MORIATVR.

[353] Ebbero nome d’agrarie anche le leggi dirette a fondar colonie
col dividere fra alquanti cittadini od alleati le terre recentemente
conquistate o lasciate allo Stato. Sul finire della repubblica
chiamavansi così le leggi che spartivano violentemente alle colonie
militari le proprietà pubbliche e private d’Italia.

[354] In ciò io sono d’accordo con Niebuhr; ma non nel considerare la
legge Licinia come identica con quella de’ Gracchi.

Vedi HEEREN, _Storia della rivoluzione de’ Gracchi_, nel tom. I. delle
sue _Mescolanze storiche_.

ENGELBRECHT, _De legibus agrariis ante Gracchos_.

NITZSCH, _Die Gracchen und ihre nächste Vorgänger_.

ANTONIN MACÉ, _Des lois agraires chez les Romains_.

GIRAUD, _Recherches du droit de propriété chez les Romains_.

RUDORFF, _Delle leggi agrarie_ (ted.): è il lavoro più compito e nuovo
su tal materia.

Una buona spiegazione della legge agraria trovasi in CASSAGNAC,
_Histoire des classes nobles_, vol. I, p. 478. Parigi 1840.

[355] La sportula ai patroni davasi in denaro, ed era determinata a
venticinque assi, cioè lire 1.25.

[356] _De officiis_, I. 25.

[357] Sulle _quæstiones perpetuæ_ si portò nuova luce modernamente,
negando che fossero una giurisdizione politica accanto alla criminale.

[358] _Taceant, quibus Italia noverca est. Non officietis ut solutos,
quos alligatos adduxi._ VALERIO MASSIMO, VI. 2.—_Hostium armatorum
toties clamore non territus, qui possum vestro moveri, quorum noverca
est Italia?_ VELLEJO PATERCOLO, II. 14.

[359] _Fex et sordes urbis; concionalis hirudo ærarii; misera ac
pessima plebecula.—Quid magis deformatum, inquinatum, perversum,
conturbatum dici potest, quam omne servitium, permissu magistratus
liberatum, in alteram scenam immissum, alteri propositum; ut alter
consessus potestati servorum objiceretur, alter servorum totus esset?
Si examen apud ludis in scenam venisset, haruspices acciendos ex
Hetruria putaremus: videmus universi repente examina tanta servorum
immissa in populum romanum septum atque inclusum, et non commovemur._
CICERONE, _De haruspicum responsis_.

[360] Poco dopo averla condotta, egli trovò nel talamo due dragoni; e
gl’indovini, dopo lungo consultare su questo portento, nè gli permisero
di ucciderli tutti e due, nè di lasciarli andare, astrologando che
l’uccisione del maschio porterebbe morte a Tiberio, a Cornelia
l’uccisione della femmina. Tiberio, amantissimo di essa, e vedendola
giovane ancora mentr’egli era già innanzi cogli anni, spense il
maschio, nè molto stette a morire. Così Plutarco, zeppo di simili
racconti.

[361] Γράκχῳ δ̓ ὁ μὲν νοῦς τοῦ βουλεύματος ῆν οὐκ ἐς εὐπορίαν. ἀλλ̓ ἐς
εὐανδρἰαν APPIANO, _De bello civ._, lib. I. 11.

[362] _Volebant Gracchi agros populi dividere, quos nobilitas
perperam possidebat; sed tam vetustam iniquitatem audere convellere,
periculosissimum._ S. AGOSTINO, _De civ. Dei_, III. 24. A ragione
riflette Floro, III. 13: _Reduci plebs in agros unde poterat sine
possidentium eversione? Qui ipsi pars populi erant, et tamen relictas
sibi a majoribus sedes ætate, quasi jure hereditario, possidebant._

[363] Οὔτε τὰ συμβόλαια, οὕτε τὰς κληρουχίας, ἕτι ἐχόντων ἀπάντων· ἃ δὲ
καὶ εὐρίσκετο, ᾶμφίλογα ἧν. APPIANO, l. cit., 18.

[364] Questo discorso ci è serbato a frammenti, la più parte da A.
Gellio, XV. 12.

[365] Su questo punto discordano gli autori. Paolo Manuzio, _De
legibus_, prova che Plutarco e Livio s’ingannarono, e sta con Appiano,
Vellejo, Asconio e Cicerone.

[366] Sul nuovo tempio fu scritto: _Il Furore eresse alla Concordia_.





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