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Title: Scritti editi e postumi Author: Bini, Carlo Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Scritti editi e postumi" *** SCRITTI EDITI E POSTUMI DI CARLO BINI LUGANO TIPOGRAFIA DELLA SVIZZERA ITALIANA 1849. Poichè la carità del natio loco Mi strinse, raunai le fronde sparte DANTE. AI GIOVANI Erkenne erst, mein Sohn, was er geleistet _hat_, Und dann erkenne, was er leisten _wollte_. GOETHE. Gli scritti in parte editi, in parte inediti, raccolti in questo volume, sono l'unico indizio ch'oggi ci avanzi d'una santa anima che passò, alla quale Dio aveva largito tanto tesoro d'amore da benedirne un'intera generazione, e che gli uomini e i tempi costrinsero a riconcentrarsi in sè stessa: sono il profumo d'un fiore calpesto da molti, inavvertito dai più, al quale mancarono l'aria e il sole, pur nondimeno sacro e bello di divina bellezza a quanti adorano nella povera modesta rosa dell'Alpi un simbolo di poesia, e dell'eterna vita che Dio diffonde, a conforto e promessa, anche fra i geli dell'inerzia e le nevi dello scetticismo. E l'inerzia e lo scetticismo dei più fra' contemporanei avvelenarono di sospetti mortali, e di dolori tanto più gravi quanto più solitari, l'anima e la vita di CARLO BINI, e condannarono le facoltà di un intelletto nato potente a non rivelarsi se non per getti brevi e spezzati; note d'una melodia, che, a svolgersi ricca com'era, domandava la _terza_, e non l'ebbe. Io qui non parlo di scetticismo religioso: parlo dello scetticismo letterario sociale, conseguenza quasi sempre del primo, che ha esiliato tra noi come per ogni dove la poesia in un angolo del creato, e l'ammira a patto che non n'esca a diffondersi sulla vita; che ha impiantato sul dualismo dell'epoca in oggi morente il dualismo della pratica e della teoria; che applaude sorridendo, come a giuoco di ginnastica intellettuale o a visioni di anime illuse, all'adorazione dell'Ideale, alla religione del sacrificio, dell'aspirazione, dell'entusiasmo, al culto attivo, incessante, dei forti pensieri, dell'immense speranze e dell'avvenire: dello scetticismo che giudica freddamente com'opera d'arte l'espressione scritta col vivo sangue del core d'un dolore profondamente sentito, d'un desiderio ch'è forse il segreto di tutta una vita: dello scetticismo che, per cancellare nel Poeta l'_uomo_, ha inventato in questi ultimi anni l'_artista_. E dico che questo scetticismo, oggi ancora prevalente in Italia, condannò CARLO BINI al silenzio. L'anima sua pura, vergine d'ogni ambizione, ritrosa alla lode fino a sdegnarsene, abborriva dall'idea del letterato di professione. L'Arte gli pareva, ed è, l'espressione per simboli del Pensiero d'un'Epoca, che si fa legislazione nella Politica, ragione nella Filosofia, sintesi e fede nella Religione: per lui lo Scrittore, il Poeta, era, com'è per noi, l'apostolo, il sacerdote di quel _pensiero_, l'uomo che traducendolo in forme, immagini ed armonie particolarmente simpatiche, commove il popolo dei credenti a tradurlo in azione. Ma quand'ei cercava, guardandosi attorno, il popolo di credenti che dovea costituirlo Poeta e Scrittore, ei si ritraeva atterrito. Ricordo le parole ch'ei rispose con voce di mestizia ineffabile a me che andava spronandolo: «_perchè non scrivi?_» mentre viaggiavamo, nel 1830, a notte innoltrata, sulle alture di Montepulciano: «_per chi scrivere? chi crede in oggi?_» Fu l'unica volta ch'ei mi parlò, quasi forzato, il suo segreto, e lo stato dell'anima sua. Più tardi, e come s'ei temesse di calunniare i suoi fratelli di patria, andava innocentemente tentando d'ingannare sè stesso e gli altri sulle cagioni del suo silenzio, e diceva, «ch'ei s'era esplorato abbastanza e non si sentiva capace di lunghi importanti lavori.» Ma un eco di quel grido del povero amico suona tuttavia a chi sa intenderlo per entro ad alcune delle poche cose ch'egli dettò, segnatamente nella poesia sull'_Anniversario della nascita_. Quel canto, ch'egli scrisse col presentimento avverato di una morte precoce, è la condanna la più energica ch'io mi sappia del dubbio che s'abbarbicò negli anni più giovani, quando l'ali son più ferme al volo, all'anima sua, e la stancò innanzi tratto in una guerra muta, interna, incessante, fra il desiderio che la chiamava ad espandersi e lo sconforto che la dissuadeva. Ma quel dubbio d'onde venne? D'onde venne a BINI, ditemi, quella esperienza ch'egli chiama _la morte del cuore_? CARLO BINI era nato potente; ma il segreto della sua potenza stava, per quanto a me fu dato conoscere, nella commozione. Le armonie che vivevano perenni nell'anima sua avevano, per sciogliersi in suoni, bisogno, come la statua di Memnone, d'un raggio di Sole sorgente. Il suo era ingegno d'Apostolo, non di Profeta. Temprato a sentire la _vita_ nelle sue menome manifestazioni, nelle sue relazioni più delicate, con un cuore traboccante e assetato d'amore, con una mente pronta ad afferrare il Bello, il Grande, il Vero, dovunque apparissero, e a venerarli e a ispirarvisi, BINI avea più ch'altri bisogno, a rivelarsi qual era, d'armonia, d'equilibrio fra l'_io_ e il mondo esterno, fra le tendenze ingenite in lui e il _mezzo_, l'elemento, in che dovevano manifestarsi: la solitudine dell'anima gl'intorpidiva a inerzia le facoltà. In mezzo a un gran Popolo, davanti a un gran fatto, in faccia a una grande Idea incarnata in pochi individui santi d'amore e di sdegno, di pensiero e d'azione, le potenze che nel sopore comune gli dormivano dentro, si sarebbero suscitate tutte in un fremito di volcano, e avrebbero operato in modo da lasciare ai posteri ben altra memoria di sè che non questa: in una società pigmea d'affetti e d'azioni, com'è – perchè non dirlo? – la nostra, BINI non trovava simboli e immagini a' suoi concetti, e quasi pauroso di profanarli si tacque. Egli era come quegli augelli, che sotto un cielo sereno empiono l'aria di bei concenti e nella maremma ammutiscono. Forse, un solo essere, uomo o donna, che gli avesse detto: ― «tu soffri; che monta? Dio t'ha fatto per questo: i patimenti sono le sue benedizioni. Dio non t'ha creato per te, ma per gli altri. Soffri e persisti: persisti s'anche tu vedessi calpeste dagli uomini le idee che ti fervono dentro: persisti davanti alla morte: persisti davanti alle delusioni ben più terribili che non la morte. Guarda in alto e nel tuo cuore, e dentro ai sepolcri dei Grandi passati; non altrove. Cos'è il mondo d'oggi per te? Dio non t'ha detto: _specchiati negli uomini che ti stanno intorno_ – ma – _va, ama, predica e muori. La mia Legge è il tuo cuore: ivi sono le stelle de' tuoi destini:_» ― avrebbe salvato BINI dallo sconforto; certo, ei si sarebbe prostrato davanti a quell'essere, e rialzato meno infelice e più grande. Ma quell'ente ei non l'ebbe. Non che gli mancassero amici; ma i più si tenevano da meno di lui, e non s'attentavano d'ammonirlo; i pochi che lo avrebbero osato, gli vissero lontani e raminghi; nè parole siffatte riescono efficaci, se non quando sono pronunziate, nei momenti d'abbattimento supremo, col bacio dell'amante o colla stretta di mano dell'intima fratellanza. BINI, circondato di simpatia, d'ammirazione, d'affetti modesti e ineguali ai bisogni dell'anima sua, visse e morì solitario. E in questo isolamento morale al quale egli non era nato, ma pur sentivasi condannato irrevocabilmente qui sulla terra, cominciò l'incertezza sulle proprie forze, cominciò il dubbio sull'importanza della vita, cominciò la lenta etisia dello spirito che lo consumava fin da quando io convissi, or sono tredici anni, parecchi giorni con lui. Tra le abitudini prepotenti d'un'analisi venuta a disciogliere e i barlumi d'una sintesi nuova, tra le vecchie tristi dottrine, che insegnavano una vicenda alterna inevitabile di vita e di morte in tutte le umane cose, e la filosofia religiosa, che annunziava l'eterna progressione ascendente dell'Umanità collettiva in un vasto piano d'educazione assegnato dalla Provvidenza, l'intelletto di BINI, tendente per potenza intrinseca e per tutte le aspirazioni del cuore a quest'ultima, ma sconfortato dalle incertezze che regnano in tutti cominciamenti, e più dal contrasto visibile fra l'Ideale intravveduto e gli uomini che doveano rivelarlo in azione, invocava, a decidersi, un _segno_. Pronto a dedurre con un vigore non comune di logica le più remote conseguenze d'un principio, e avvezzo da molto a conformare, non per sistema, ma per natura, gli atti della vita alle credenze dell'intelletto, ei si sentiva dalla contemplazione delle generazioni contemporanee tratto a dubitare della verità dell'Idea. E allora, quand'ei non vedea più per chi sagrificarsi o per che, la vita gli sembrava un problema insolubile quando non una trista ironia, e tutte cose gli si tingevano a nero. Un riflesso di questa guerra tra l'intuizione dell'avvenire e la conoscenza anatomica del presente, che s'agitava dentro lui tormentosa, continua, gli pareva, quand'io lo conobbi, sul volto. La sua calma era calma di vittima: il suo sorriso, dacchè ridere nol vidi mai, un sorriso d'esule, de' più mesti ch'io m'abbia incontrati. Poi vennero, – perch'io degli ostacoli materiali, della povera fortuna, degli affari di banco a' quali la carità della famiglia lo strinse, cose tutte ch'egli avrebbe superato, non parlo, – vennero le delusioni individuali, le delusioni che incanutiscono la chioma e l'anima innanzi tempo; la morte d'una fanciulla amata; amicizie di molti anni senza colpa perdute; tentativi, su' quali tutte le speranze della vita s'erano poste, falliti; e gli uomini venerati un tempo come insegnatori scaduti fin dove comincia il disprezzo, e l'entusiasmo creduto poc'anzi di fede scoperto entusiasmo di sola e spesso egoista speranza, e le visioni dell'anima vergine date da quei medesimi che primi le avevano accarezzate al ludibrio d'un materialismo crescente cogli anni, allo scalpello inesorabilmente feroce del calcolo: storia tristissima e di molti fra noi. CARLO BINI uscì dalla prova vincitore, ma esausto: credente, e lo dico con gioia, nella fede in che noi crediamo, ma disperato del presente, di molti anni avvenire, degli uomini che gli formicolavano attorno, e della propria vita terrestre. «_Sono_, – egli mi scriveva il 16 agosto 1842, – _sono un vecchio edifizio tutto franato, e non mi resta che un cuore tutto rughe e pieno di morti, e sull'estremo orizzonte dell'avvenire ho l'ospedale, dove pur non mi soccorra la morte di cui ho in mano una buona caparra. Nè mi manca la fede nei principii; e sebbene spesso la senta svenire e quasi estinguersi, sebbene spesso una crudele ironia mi sferzi lo spirito e lo faccia ammattire, questa fede la sento rinascere più ostinata e più verde; ma non credo in me e negli uomini che compongono l'epoca, – e compiango a lacrime di cuore quegli infelici che hanno immaginato di alzare un monumento con siffatti materiali, quegli infelici cui la natura gettò sull'anima il cilizio d'una volontà forte e perpetua, destinata ad abbracciarsi e lottare e logorarsi coll'impotenza. Io li compiango questi infelici, e nel tempo stesso li invidio, perchè almeno avendo tenuto fermo nella strada che scelsero, quando pure non giungano a nessun termine, avranno la coscienza di aver fatto il proprio dovere e morranno senza rimorsi. Ma molti, ed io primo fra tutti, non potremo morire senza rimorsi!_» Povero CARLO! chi scrive sa meglio d'ogni altro che tu potevi morire senza rimorsi. BINI sdegnò d'essere letterato, ammirato da letterati. I pochi scritti ch'egli dettò, tutti a quanto io mi so senza nome, sgorgarono non da disegno premeditato, ma da circostanze imprevedute che gli suscitarono a tumulto le potenze del cuore. Puri d'ogni affettazione di lingua o di stile, caldi senza indizio di sforzo, candidi, ingenui, ritraenti del fare di Sterne, scrittore dei prediletti da lui, ma di Sterne con tutte le idee, con tutti gli affetti del XIX secolo, a me rendono immagine viva del suo sorriso; sorriso, come dissi, mestissimo, ma pieno di pietà e d'amore, senz'ombra di riazione, senza vestigio delle molte amarezze patite. E rimarranno, cari a tutti come la promessa, inadempita per colpa dei più fra noi, d'un ingegno originale e potente; preziosi a noi pochi che lo conoscemmo e non lo dimenticheremo mai più, come il ricordo d'una vita la più incontaminata, la più virtuosa, che ci sia stato dato d'incontrare in questi ultimi anni. Condannato dalla fortuna a occupazioni dalle quali si ribellavano tutte le tendenze dell'animo suo, affannato dal desiderio d'un Ideale ch'ei disperava di raggiungere in terra, roso, – e questo è tormento che i più negano, e nessuno forse, se non chi lo prova, può intendere, – dalla potenza che gli fremeva dentro e rimanevasi, per disconforto dell'Oggi, inoperosa al di fuori, CARLO BINI tra l'esser frainteso o profanato nell'espressione del suo pensiero, scelse il silenzio; ma lo ravvolse di tanta dignità, che parve, a chi lo conobbe dappresso, più eloquente d'ogni parola. Non si lagnava; avido d'amore, sdegnava il compianto; fors'anche lo tratteneva il timore di aggiungere, snudando le proprie piaghe, allo sconforto dell'anime giovani, che guardavano in lui ed erano men forti a reggere che non la sua. La sua era di quelle che s'affinano nella sventura. Tutta la vita sottratta all'intelletto di BINI si riversava nel cuore; nè, s'egli avesse trovato l'esistenza simile fin da' primi suoi giorni a un letto di rose, avrebbe potuto mostrarsi più affettuoso ai viventi che s'abbattevano in lui. Dall'attività d'amico ch'egli più anni addietro, spiegò per giovare, nelle strette d'una crisi di povertà, chi scrive codeste pagine, fino alla traduzione dal Tedesco ch'egli imprese poco tempo innanzi la morte, e quando il male che ce lo rapì lo travagliava minaccioso, per soccorrere col ricavato della vendita a un conoscente, io potrei citare una serie d'atti tali e tanti da onorare qualunque vita; ma non li cito perchè mi parrebbe offendere la santità del pudore ond'ei ricopriva le belle azioni della sua vita: ei benediceva, come soffriva, tacendo. Non so quanti vivano grati a BINI per aiuto, consiglio o conforti; son certo che non esiste un sol uomo il quale possa dolersene. Tendente al frizzo, s'adoprava continuo a correggere la natura, e lo temperava di tanta benevolenza che nessuno poteva patirne o adontarsene: intollerante e santamente sdegnoso solamente all'ipocrisia. Lento, ma tenacissimo, negli affetti, non li tradì mai per tempo, lontananza, o vicende: tradito egli stesso, rispettò il passato e non rispose che col silenzio. Serbò, perseguitato, contegno virilmente decoroso dell'uomo che dal primo all'ultimo anno della sua vita avea, com'egli stesso scriveva, «segnato una linea retta nella via dell'onore;» e tra pericoli, de' quali nè egli nè altri poteva segnare i limiti, andava cacciando sulla carta, con una quiete di bambino accarezzato, linee di tanta innocenza d'amore alla Madre, che paiono scritte da un'anima di fanciulla con una penna tolta all'ala d'un angiolo. Delle sue opinioni non parlo: le più importanti trapelano a chi sa intendere anche dai pochi scritti raccolti in questo volume. Amava religiosamente la Patria; nè, rara dote nei tempi nostri, mutò mai: migliorò; ― come un bel cielo al tramonto, le facoltà del suo cuore andarono via via rasserenandosi quanto più egli s'accostava all'ultimo giorno. L'ingegno pronto ed acuto, l'osservazione diligentissima, il senso ch'ei possedeva squisito del Bello sotto qualunque anche poverissima forma si presentasse al suo sguardo, la singolare facilità con ch'egli potea trapassare dalle corde dell'onesta letizia a quelle della commozione più profondamente patetica, una insolita dolcezza di stile, e l'anelito all'Infinito, e l'anima nata ad amare e inchinatissima alla pietà, avrebbero forse in altri tempi fatto di CARLO BINI il Gian Paolo Richter dell'Italia; ma egli non avrebbe mai potuto scrivere a chi lo conobbe, libro migliore della sua vita. Morì côlto d'apoplessia, il 12 Novembre 1842 nell'età di trentasei anni[1], dopo quaranta ore più che di agonia di letargo, in Carrara, dov'ei s'era per affari recato. Ma le sue ossa, trasportate devotamente per voto di tutti ed opera degli amici a Livorno, riposano dov'io forse non potrò mai più visitarle, a Salviano, nel cimitero. Nè gemo per lui; perchè gemerei? Il suo pensiero gli sopravvive, più potente a spandersi invisibile dal mondo migliore, ov'egli soggiorna, tra' suoi fratelli di patria; ed egli è salito a vita meno infelice e più pura. Gemo per noi che abbiamo perduto un amico, e non siamo certi fino all'ultimo giorno di meritar di raggiungerlo: gemo pei giovani che avrebbero potuto abbandonatamente specchiarsi e fidarsi in lui, e ai quali son tanto rare in oggi siffatte guide. E gemo dal profondo dell'anima pensando alle tante anime mie sorelle, simili a quella di CARLO BINI, che onorerebbero d'opere generose e di nobili scritti l'Italia, e si consumano, mentr'io scrivo, ignote a me, ignote a tutti, nel tormento d'un'impotenza decretata dai tempi, dall'egoismo ognor più invadente, e dall'inerzia vostra, o Italiani. Provvedete a quest'anime, o Giovani: è BINI che prega per esse. Voi avete dato onore d'esequie solenni e di tomba alla sua spoglia mortale: sia con voi il suo spirito e fate del vostro cuore un santuario della sua vita. Operate come se aveste raccolto in voi l'alito estremo del pensiero d'amore che lo animava. Educatelo devotamente attivi e diffondetelo sulla terra che BINI piangeva caduta. Amate la Patria come ei l'amava: ribeneditela d'entusiasmo, di fede, di Poesia: preparate ai vostri ingegni privilegiati quel popolo di credenti che BINI invocava. Oggi, comunque facciate d'abbellirle e onorarle, l'Angiolo dello Sconforto siede sulle tombe de' vostri cari, e la voce che noi moviamo per essi, e dovrebbe innalzare in religiosa lietezza l'inno della nuova vita, suona lamento inconsolabile e amaro. NOTE: [1] _Egli era nato in Livorno, il 1.º di Decembre 1806._ PRIMA PARTE. SCRITTI ORIGINALI. MANOSCRITTO DI UN PRIGIONIERO ― 1833 ― You smile? t'is better thus than sigh. BYRON. V'è più ragione di ridere quando sei in fondo, che quando sei in cima; – almeno tu non temi più di dare la balta. Il riso dell'uomo felice può essere smentito da un punto all'altro. La Fortuna non fa contratti perpetui con nessuno. Il suo corso è a spirali, e non rettilineo. Oggi t'abbraccia, e ti mette sul capo un diadema; dimani ti taglia la testa, e la dà per balocco all'abietto, che faceva da sgabello ai tuoi piedi. EPIGRAFE, CHE VA PER CONTO MIO. CAPITOLO I. Il cervello dell'uomo appena è in istato di esercitare le sue funzioni può rassegnarsi in tre scuole. Di queste una infallibilmente ne conoscete, ― senz'altro le conoscerete anche tutte, perchè non sono arcani di astronomia; – son cose semplici, e dappertutto si sentono dire. Io nondimeno, a scanso di equivoci, mi stimo in dovere di nominarvele tutte e tre, secondo l'ordine naturale in cui giacciono fino dal principio dei secoli. Elle pertanto sono queste: Scuola della Fede; Scuola del dubbio; Scuola dell'Incredulità. E in una di queste tre, suo malgrado o no, ha da rassegnarsi il cervello. La prima è più frequentata di tutte; – la seconda più della terza; – quest'ultima ha un numero bene scarso di alunni. Il locale stesso è sì angusto, che non potrebbe capirne una folla, – e per entrarvi ci vogliono certi dati requisiti, che non son comuni. _Sic se res habet._ V'è chi crede in tutto; v'è chi dubita di tutto; v'è chi non crede in nulla. V'è chi crede, che il Sole abbia gli occhi, il naso e la bocca come abbiamo noi; – v'è chi dubita, che il Sole non sia di fuoco, ma una massa enorme di ghiaccio; – vi sono certi pochi disperati, che non credono in nulla, – nè anche nel sasso dove urtano, – nè anche nell'acqua che li bagna. ― La verità dove siede? ― Di grazia, vi prego, non fate a me questa dimanda, perchè non saprei di dove cominciare a rispondervi. Quello che è vero, ogni scuola la pretende esclusivamente nel suo ricinto, – e le ha destinato un bel seggiolone a bracciuoli, dove non ci si vede mai nessuno a sedere. Ma tutte le scuole vi spiegano il fenomeno in questa guisa: non si può negare, voi non vedete nessuno, e noi non vediamo nessuno, – ma v'è la sua propria ragione; – la Verità è un ente invisibile. Forse la Verità imita il Congresso degli Stati Uniti d'America, che tiene le sue sessioni ora in questa, ora in quella città, regolandosi con una giusta vicenda. Io per cominciare _ab ovo_, come dicono i retori, primamente entrai nella scuola della Fede palpando l'ombre come cose sensibili, fino a che il tatto educato dall'uso non uscì d'inganno. Allora protestai nelle debite forme, – tolsi commiato il meglio che seppi, e mi diedi alla scuola del Dubbio. Non operò la stanchezza, o il capriccio: furon la coscienza e il puntiglio, che mi fecero divorziare colla Fede. La Fede me ne aveva fatte troppe delle fusa torte, e troppo manifeste. Mi dava una cosa per bianca, e al riscontro era bigia; – e quanto spesso, per cagion sua, invece d'uno ho dovuto far due viaggi, ho dovuto fare un conto due volte! Un tempo io mi dava a credere, che un effetto solo e determinato fosse prodotto sempre da una causa sola, determinata, immutabile. Un tempo io lo credeva, ― e la Logica anch'essa mi accennava col capo ad una certa distanza. A me pareva allora che volesse darmi ragione, – e forse invece voleva dirmi di no. Oggi il mio _credo_ è sensibilmente variato quasi in tutti i suoi articoli, e tale è il frutto degli anni. Ma son io più felice? Siete voi più felici, voi, che aspettaste con tanto anelito il benefizio del tempo? – Gli anni mi hanno guarito di certe poche malattie, che non mi facevano nè bene nè male, e mi hanno guarito di più altre malattie, che mi facevano meglio della salute. Ora me ne accorgo, ma è tardi, – e poi quel che è stato doveva essere. Gli anni, non contenti che il pomo dell'Asfaltide fosse pieno di cenere, gli hanno voluto rapire la lusinga di una scorza lieta di bellezza e di luce. Oh! la dottrina degli anni! io la lascerei volontieri a chi la vuole, se il Fato non me l'avesse imposta come una camicia di forza. La dottrina degli anni smuove il cuore dal suo centro portandolo verso la testa. È una dottrina severa, geometrica, che cammina per terra colle mani e coi piedi, e dal tetto in su non vede altro che nuvole, e le stima buone solamente a far piovere. Ma veniamo al dunque. – Io voleva dire, che un effetto solo non dipende sempre da una causa sola: anzi spesso può dipendere da due cagioni diametralmente opposte fra loro. – Un fulmine può scoppiare a ciel sereno, – può scoppiare in burrasca. – Non so se in Fisica regga; ma l'ho detto così per dare un certo rilievo al mio disegno, – e in ogni caso sapete dove trovarmi; – io son _qua_ per le debite scuse. – L'uomo può andare in prigione per i suoi meriti, _exempli gratia_ per un furto, – _etiam_ può andarvi per un _qui pro quo_. Un _qui pro quo_ non è cosa da pigliarsi a gabbo; alle volte, è vero, può farvi ridere; – sovente ancora può farvi corrugare la fronte. Un _qui pro quo_ può mettervi al fatto d'un segreto, che non avreste mai sospettato; – può dare e toglier l'ale a una vittoria; – può mandarti in prigione, e viceversa può farti vescovo. CAPITOLO II. Lo conoscete voi Sancio Pansa? Quel tipo verace di buon senso gregio e originale, tale e quale come la natura se lo cava di manica? ― Ma diamine! v'è mestieri di domandarlo? Prendete l'uomo il più idiota, e rammentategli Sancio Pansa, si mette subito a ridere. Sancio Pansa è conosciuto in Europa, è conosciuto in America, e sarà pur conosciuto in Africa e in Asia, quando queste due parti del globo vorranno leggere nei nostri libri. Sancio Pansa è il buon umore incarnato, – grazioso nei suoi sali, grazioso nelle sue balordagini, grazioso a piedi, grazioso sul'asino. – Sancio Pansa ha ormai la sua nicchia nella storia, e vi sta saldo, inchiodato, imperterrito; – potete scuotere a vostra posta, Sancio Pansa non si muove, non crolla. Egli e il suo asino occupano pacificamente tante miglia quadrate di fama, quante il primo conquistatore di prima classe: citate pure Alessandro, citate Cesare o Buonaparte. Eterne grazie a Cervantes che me lo diede a conoscere! Io l'ho benedetto le mille volte Sancio Pansa, perchè mi ha fatto del bene. L'ho benedetto come il maestro, che mi ha insegnato tante cose, che l'accigliata filosofia non sapeva insegnarmi; – l'ho benedetto come il sogno allegro delle mie veglie, – come l'amico che nell'ora nera veniva di mezzo a mettermi in pace meco stesso e col prossimo. – Sia lieve la terra sulle sue ossa; – sia lieve ancora su quelle del suo asino. – Quest'ultima prece consolerà il suo spirito quanto la prima. Sancio Pansa dunque era quell'uomo, che voi tutti ben conoscete. Aveva anch'egli una madre, perchè Sancio Pansa fu una persona vera e viva di questo mondo, battezzata e sepolta in Ispagna. Ora non mi ricordo appunto in qual parte del libro Sancio Pansa racconta, che sua madre, per arguzia di natura e per vecchiaia, era una donna pratica assai delle cose umane. Narra di più, che un giorno ragionando di nobiltà, di casate illustri, di origini antiche, sua madre chiuse il discorso affermando sinceramente di non aver conosciuto al mondo se non due sole famiglie: quella di coloro che hanno tutto, e quella di coloro che non hanno nulla. E la vecchia soggiungeva candidamente, che non so come l'istinto la portava a dirsela più volentieri colla famiglia dei possidenti. Dunque nota bene: Chi va in prigione è povero o ricco. CAPITOLO III. Quando va in prigione un signore è un avvenimento che nessuno se lo aspettava. Tutti se ne fanno le maraviglie; tutti ne parlano in mille voci, in mille maniere. Chi bisbiglia, chi grida, chi dice di sì, chi dice di no. La città è seminata di gruppi, e per mezza giornata almeno non fanno più nulla, se non ciarlare del caso, e da un gruppo cacciarsi in un altro: precisamente come quando segue l'eclisse del Sole. Un signore in prigione pare alla plebe impossibile. – La plebe, che somma fatta in capo all'anno sta sei mesi in prigione e sei mesi in una soffitta, è inutile, non se ne persuade, perchè non ce ne vede mai dei signori; e così di rado che non se ne rammenta. Crede le prigioni fabbricate unicamente per sè; e se v'entra alcuno che non sia de' suoi, è un fatto che la percuote, le sembra quasi una usurpazione. – Tanta è la potenza dell'uso. – La plebe non crede che la colpa possa vestirsi di panno fine,... crede che la colpa vada solamente vestita di cenci, scalza, e col capo ignudo. – E sì che tutto il giorno ha in bocca un proverbio pieno di verità che dice: L'abito non fa il monaco. – Non giova: – quel proverbio erra per tradizione così sulla lingua, ma la mente non l'accorda. – La plebe crede pur troppo nell'abito, e cotesta persuasione oggimai s'è ossificata con lei. Tuttavia, volere o no, di rado, ma qualche volta un signore va in prigione. Egli, appena ha varcato di tre o quattro passi la soglia, si volta risoluto, – fa il viso più imperioso del solito, – squadra il carceriere dai capelli alle piante, – poi gli ficca gli occhi negli occhi. – Lasciatelo fare: il signore legge qualche cosa in quegli occhi. È una lettura rapida, che dura un attimo, ma basta, – e il signore se ne trova contento. Se ne trova contento, e mette mano alla borsa: – la dondola con due dita un momento per aria, – la fa suonare, – dice qualche cosa che non vuol dir nulla, e il soprastante che è un gran chierco in tutte le lingue, – anche in quella dei muti, – risponde subito; comandi, comandi; – in quella stessa maniera, nè più nè meno, che rispondevano gli spiriti in quei secoli d'oro, quando un mago o una strega con un tocco di verga o con un ribobolo erano padroni dell'aria, della terra e dell'inferno.... Voi l'avete sentito, il soprastante ha risposto: comandi, comandi. E di fatti la metamorfosi da un punto all'altro è così improvvisa, così universale, che sei tentato a giurare rinnovellato il regno degl'incantesimi. In cinque minuti il signore è stato introdotto in un nuovo _quartiere_; e il soprastante gli ha chiesto perdono, se, così preoccupato com'era, aveva sbagliato di numero. Il valentuomo aveva preso un tredici per un quindici; e il signore per tutta risposta gli ha battuto due volte umanamente sulla spalla, non mi ricordo se destra o sinistra. Ora le stanze sono tre, e prima erano una. Sono larghe, ariose, imbiancate di nuovo, con qualche rabesco per maggior vaghezza, e le finestre arrivano a mezza vita. Le finestre danno sur una buona strada, dove passano carrozze e pedoni, uomini e donne, – dove il signore può fare anche all'amore, – e senza scandalo. – Viva la metamorfosi quando va dal basso all'alto! – _Fervet opus._ – Le piume sottentrano al pagliericcio, – le sedie all'unica panca, – i cristalli all'unico orciuolo di terra cotta. I valletti sudano attenti e in silenzio. ― «Fate piano con quello specchio, – badate al canterale, è nuovo di zecca; – ehi! quel Napoleone non è mica di piombo, è d'alabastro, – voi lo maneggiate come una brocca, – sagratissimo diavolo! – ci vuol maniera, – badate, ve lo dico, chi rompe paga; – dove sono i vasi dei fiori?» ― Così grida affannata la voce chioccia del soprastante, e non si cheta più mai. In questo mentre il signore ha girato per tutti i versi la nuova abitazione; – ha veduto e riveduto minutamente, – ha disposto dove far la tal cosa dove far la tal altra; – dove dormire, – dove vegliare, – dove pensare, – dove non pensare. Ha fatto di quando in quando diverse dimande, e il soprastante spesso gli ha risposto un no invece di un sì, e viceversa. È un cattivo momento per discorrer con lui, – ha l'animo troppo internato nell'assetto delle tre camere, e cotesto pensiere gli ha rubato la mano. Ella è finita, – vuol farsi onore, nessuno lo frastorni, – tanto non dà retta a nessuno. Laudate Iddio! l'assetto è finito, – si può respirare, – respiro anch'io. Con un'occhiata i valletti son licenziati, e se ne vanno. Alla buon'ora. Adesso il soprastante è contento; – se lo guardate bene nella statura, vi pare un dito più alto. – Si asciuga il sudore della faccia, – si raffazzona i capelli, – compone lo scompiglio delle vesti, – si scuote d'indosso la polvere, – si mette in somma in buono stato, – nello stato di comparire come un galantuomo. Dopo si rivolge al signore con un mezzo sorriso tra la compiacenza e l'orgoglio, e il signore gli corrisponde tentennando con bel garbo la testa. Ora è tempo che anch'ei se ne vada. E di fatti vedetelo là col cappello in mano, che se ne va all'indietro fino alla porta. E non crediate che se ne vada alla muta. Oh! il soprastante è un uomo di mondo. Sicuramente ha detto: servo devoto. Io l'ho sentito con queste orecchie, – e l'ha detto in tono di basso assoluto. Ora manca null'altro? – Non saprei: – v'è la prigione, e il signore v'è dentro. Oh! le belle prigioni che son quelle dove vanno i signori! La povera gente le scambierebbe volentieri con la sua libertà. Cosa manca al signore là dentro? Il soprastante gli ha pur detto: comandi, comandi; – ed egli non ha inteso a sordo. Gli dà noia il divario, la novità del locale? Può immaginarsi finita la scritta della casa abitata prima, e che gli sia convenuto tornare in un'altra; – può immaginarsi il suo palazzo in mano alle maestranze per bisogno di certi restauri, e che per questo abbia condotta a pigione provvisoriamente una casa, come veniva veniva. Gli dà noia forse il non potere uscir fuori? – Bene, può mettersi in capo che non ha voglia d'uscire, – che l'acqua vien giù a rovesci, – che si è stravolto un piede montando a cavallo, – che cerca la solitudine per comporre un'opera, per farsi anch'egli un bel nome. In somma a lui tocca a scegliere. – L'immaginazione è là come un merciaiuolo alla fiera, e gli va mostrando uno dopo l'altro i suoi mille fantasmi, e si protesta di vendere a buon mercato. CAPITOLO IV. Fra bene e male una buona mezz'ora è passata. Cos'abbia fatto il signore frattanto, io non ve lo posso dire. Io non sono S. Antonio, non posso trovarmi al tempo stesso in due luoghi. Ho lasciato il signore, e sono uscito col soprastante andandogli dietro dietro ad una giusta lontananza. Il soprastante ha girato due strade, – poi è riuscito sur una piazza. Quivi a passi smisurati s'è accostato a uno stabile di bella apparenza, che al primo piano portava una mostra dipinta nelle regole con certe parole cubitali, che dicevano: _Restaurateur_. Come ha messo il piede sul primo scalino, ha cavato fuori una scatola, – ha preso tabacco, – ha fatto uno sternuto, – e poi s'è infilato su per le scale. E io dietro senza perder tempo. Io son l'ombra del soprastante; – non mica per nulla, vedete, – ma son curioso anch'io, – forse troppo; – già sono stato sempre, – curioso forse come una femmina..... Il soprastante ha aperta la bussola franco franco, come se fosse stato il padrone, o come un avventore dei buoni. Arrivato in mezzo ha dato il buon giorno, e del compare a un cert'uomo, che stava inchinato sopra una tavola a mettere in sesto non so quali vivande. Il compare s'è riscosso, – s'è rigirato in un _fiat_, e veduto il soprastante ha fatto subito bocca da ridere, e gli ha reso bene e meglio il buon giorno. Egli ha compreso istantaneamente di che sì trattava. Allora si sono strette le mani come due vecchie conoscenze, – hanno parlato forte, – si son bisbigliati non so che nelle orecchie. Dopo di che il trattore ha lasciato quel che aveva da fare, – si è messo in ordine, e son venuti via di conserva. Eccoli insieme alle carceri; – già salgono una scala, – due scale, – tre scale; eccoli sul pianerottolo. Il soprastante avanti, il trattore dietro. Ecco, che il primo mette adagio adagio la chiave, – la gira lentamente, quasi che la serratura fosse di vetro, – e prima di sospigner l'uscio ingentilisce la voce, e la manda dentro dicendo: ― È permesso? si può passare? ― Oh bella! se non passate voi, che avete le chiavi, chi deve passare? ― Vossignoria ha sempre ragione; ma io conosco con chi ho da trattare, e i miei doveri non li so d'oggi. ― Bene, bene. Che abbiamo di nuovo? ― Son venuto a sentir quel che occorre, conducendo meco quest'uomo. ― Avete fatto bene. Galantuomo, chi siete? ― Sono un trattore bello e buono, ai servigi di Vossignoria. ― Ah! siete un trattore? siete una cosa più necessaria della prigione. ― Viva la faccia di Vossignoria! in questi luoghi vuol essere borsa, e buon umore. ― Come vi chiamate? ― Marco Trappolanti ai servigi di Vossignoria. ― Avete un nome curioso. ― Eh! Signore! che vuole? tanto il nome che il grado son cose, che bisogna portarle come Dio ce le mette adosso. Se stesse a noi lo scegliere, non andrebbe così; – io mi sarei messo un nome lungo e liscio come una coda di cavallo, e invece di cucinare per gli altri farei cucinare per me. Non so se dico bene, sono un ignorante. ― Bisogna contentarsi. La provvidenza ha saputo quello che ha fatto. Ma veniamo al pranzo. Come mi tratterete. ― Vossignoria di certo non vorrà stare all'ordinario, – mi parrebbe un'offesa a proporglielo. Del resto la tratterò come merita, come vuol essere servita. Non dubiti, l'arte la so fino in fondo; – com'ella vede, ci sono invecchiato. Scelga, chè io son qua tutto per lei. Vuol cucina alla Francese? alla Piemontese? la vuole all'Inglese? ― Per non confondermi le assaggerò tutte. L'ordinario non lo voglio; – mi appresterete un pranzo a parte secondo la nota che vi darò. Pietanze sane, e in abbondanza. Vino sincero; – mi contento, che me lo diate come l'avete ricevuto. Voglio sperare, che col fatto smentirete la cattiva impressione, che produce il suono del vostro cognome. Scommetto, che siete un galantuomo. Dite di no? ― Eh! non ho detto nulla, – e come vede io non sono in prigione. ― Bravo! è una risposta che vale un paolo. Prendete _(gli dà un paolo)_. Andate, – spicciatevi, – servitemi bene, – ed io penserò a voi. CAPITOLO V. Voi potete rovesciare il quadro, se il carcerato appartiene alla famiglia dei poveri. Povero! – ma sentite che voce? – La combinazione stessa delle lettere che compongono un tal vocabolo è una cosa che dà addosso; – il nome stesso è così fiacco, che non si regge ritto. No, – io non ci credo, – non ci credo neppure se me lo dicesse ella stessa. La Natura non ha fatto i poveri: ― ella è buona, – ella è savia, – è madre, e non madrigna: siamo tutti suoi figliuoli, e vuol bene tanto al primo che all'ultimo. E se la Natura avesse mai stampato questa moneta, bisogna pur dire, che non avesse più credito, che avesse gli sbirri in casa, e dopo le prime mandate avrebbe fatto meglio a rompere il conio, – avrebbe fatto meglio a mettere in circolo degli assegnati, – avrebbe fatto meglio a fallire. Una moneta falsa è tuttavia di metallo, – ha un valor benchè minimo: ― il povero è peggio, – è una moneta di fango. I poveri, via, non ci volevano; – essi stessi ne vanno d'accordo. ― Ma come mai son diluviati in questo mondo ad ingombrare le strade, i vicoli, le piazze, in guisa che il Signore per poter passare disperatamente è costretto di andare in carrozza? Ma come mai? Io mi ci sono stillato il cervello, e non son venuto a capo del come. L'ho dimandato perfino agli stessi poveri, e mi hanno risposto chiedendomi qualche cosa per amore di Dio. Così è, – la storia è come io ve la narro. Le tradizioni, gli archivi, la stampa, non serbano traccia nè del come, nè del quando fosse fondata la setta dei poveri; – non serbano neppure il nome del fondatore. L'antiquaria ha cercato dappertutto, – per terra, – per mare, – per aria, ma non ha trovato nè pergamena, nè medaglia, nè altro documento, che ne desse il minimo indizio. Per avventura la setta non fu mai in grado di rizzare nè anche un tronco d'albero in memoria della sua origine. Quel poco che ne sappiamo è che la setta rimonta col suo principio verso un'epoca remota remota, le mille miglia lontana dal dominio della storia, e conta un'antichità canuta tanto da dar gelosia a chi stima di attingere un merito a questa sorgente. Un gentiluomo è sempre prudente, – ma tuttavia per le buone regole credo bene avvertirlo di non discender mai a cimento con un povero sulla primazia delle scambievoli origini. Bisognerebbe cercar nel passato, e chi sa dove lo menerebbe l'indagine. Chi l'assicura che non trovasse uno degli avi suoi in cotal luogo da fargli salire i rossori sul viso? _Quando Adamo zappava ed Eva filava, dov'era allora il gentiluomo?_ Povero! – Questo nome ha un tal prestigio per me, ch'io non me ne posso staccare. E quanti sono! Trovatemi chi li sappia contare, ed io _ipso facto_ lo dichiaro matematico più valente di Galileo. I poeti, per dare un'idea delle cose che non si possono numerare, hanno tolta l'immagine dalle arene del mare, e dalle stelle del cielo; – potevano toglierla ancora dai poveri della terra, e così avrebbero avuto un paragone di più. ― Non v'è che dire, – è la più vasta setta di quante apparissero mai, – rimasta sempre in seduta permanente, – e riceve gli adepti alla rinfusa, – senza chieder loro come si chiamino, – senza guardarli neppure in faccia. Non ha misteri, – non ha sotterranei, – cospira sotto la cappa del sole, – non ha timore della _Police_. Ella non è una setta segreta, e qualsivoglia governo l'ammette. O poveri! – Voi siete ricchi di pazienza più che altri non crede. Quando di sotto ai tetti delle vostre soffitte voi vedete le stelle, chi non fosse povero bestemmierebbe, – penserebbe al freddo, – alla guazza, – alla pioggia, – al malore che gliene potrebbe incogliere. ― E voi pensate invece che quegli astri scintillanti un dì saranno casa vostra, – che passerete dall'uno all'altro a vostro talento, – che avrete tutti i giorni Domenica, – che le anime vostre potranno svoltolarsi a bell'agio sull'azzurro molle del firmamento come sopra un tappeto. Così sognate ad occhi aperti, e non sentite la durezza del letto, e l'inclemenza dell'aria. La speranza pietosa di tanti bisogni, di tanti dolori, coll'ambrosia del suo alito v'inebbria – vi affascina il cuore, – colle sue divine melodie vi culla i sensi in una calma profonda. ― O poveri! Voi siete ricchi di pazienza, – e Dio.... vi mantenga perenne quel dono. Che se un giorno la perdeste, se rompeste le dighe che al presente vi contengono, qual sarebbe allora la faccia del mondo? La gerarchia sociale resisterebbe al fiotto dei vostri milioni? la piramide starebbe, quando si scommovesse la base? Cosa sarà la superficie di questo suolo, quando il vulcano l'avrà lambita colle sue mille lingue di fuoco? CAPITOLO VI. Ma ripigliamo il filo del nostro racconto. Dove siamo rimasti? Sarebbe bella che me ne fossi scordato! Lasciatemici pensare un momento: buoni, buoni, – ho ritrovato il filo. ― Ma, di grazia, stateci attenti ancor voi, – io sono avvezzo troppo a divagare, tanto che non mi sembra neppure. Quando vedete ch'io prendo il largo per menarvi chi sa dove, – forse in un pantano, – forse sur un prato fiorito, – allora tentatemi per un braccio, – tiratemi una falda, – rimettetemi insomma sulla vera strada. Io n'ho di bisogno, – voi lo vedete da voi; – non posso camminar diritto, – serpeggio sempre, – ormai è un vizio che s'è convertito in una seconda natura. ― Per questo ho stimato bene avvisarvene. ― Uomo avvisato, mezzo salvato. Sta tutto bene, ma un altro poco, s'io non me ne accorgo per tempo, il filo mi sfuggiva nuovamente di mano. ― Su dunque all'opera. Ecco il Povero viene. Vedetelo là in mezzo a quella massa di popolo, che lo preme, e lo incalza nel suo tristo destino spensieratamente, come il cavallone spinge sul lido una tavola del naufragio. L'avete veduto? Non si distingue se sia sciolto o legato, se gli sbirri sien quattro o sei, tanto è fitta quella massa di plebe. Che ronzio, che schiamazzo, che tempesta d'urli e di voci! ― Cos'ha fatto? ― Come si chiama? ― È del paese? ― È forestiere? ― È un ladro? ― È un assassino? Dove ha rubato? ― Conoscete l'ammazzato? ― Quante ferite? ― E via discorrendo; e tutti dimandano, e tutti rispondono ad un tempo. ― Ma non potrebbe darsi che fosse, più che iniquo, infelice, che fosse innocente? – Potrebbe darsi, ma nessuno l'ha pensato, nessuno l'ha detto. Ei l'infelice percorre le vie di fretta più che non vorrebbe; – il turbine popolare lo mena. E chi l'ha vestito in quel modo così pietosamente ridicolo? Se la Miseria non gridasse; io l'ho vestito, – tu diresti che il Capriccio ha mandato fuori la sua maschera più grottesca; il suo capo d'opera. Porta in capo una cosa, che tre anni sono era già un cappello vecchio, – ora è uno sgomento a definirla. – E la camicia non è di canapa, non è di lino, – nè di cotone, – nè di stoppa; – è d'una stoffa che non è stoffa, d'un colore che non è colore; – una camicia che ha una manica e mezzo. Oh! davvero è meglio contentarsi della pelle che ti diè tua madre, che avere una camicia come quella! – E i calzoni! che labirinto! Non si sa se sono a diritto o a rovescio, se il davanti è di dietro, e se il di dietro è davanti; – se in principio furono fatti di toppe, o d'una materia unica, perchè ora le toppe sono più grandi della materia primitiva. E quante sono! e come affollate! e si montano addosso una sull'altra come una turba di curiosi quando c'è da vedere uno spettacolo nuovo. E chi gli ha fatto quei calzoni? Giudicandogli al taglio, potrebbe averglieli fatti ancora un magnano. – Tutto questo vuol dir nulla: così vestito com'è, viene avanti; – un piede ha calzato di mota, – l'altro gli sta in una scarpa, mezzo sì, mezzo no. Ei l'infelice è vicino a toccare la meta del suo viaggio. È un viaggio che i poveri fanno frequentemente, – di rado sciolti, più spesso legati, – e non lo stampano, perchè son modesti, nè li rode la smania di farsi un nome a _tout prix_. È un viaggio che non fanno mai in vettura. È scritto che il povero vada sempre a piedi; – sia che vada a nozze, all'ospedale, o in prigione. E per questo il Povero va colle sue gambe in prigione; – e deve andarvi, fosse anche paralitico, stramazzato dalla febbre, fosse anche zoppo. – Il povero non ha diritto che a una vettura sola: a quella che dal carcere lo porta al patibolo, – dalla vita all'eternità. Finalmente egli è giunto al portone d'ingresso, – all'arco trionfale della miseria, del delitto, dell'innocenza che la calunnia può convertire in delitto. E pur troppo vi sono trionfi di tutte le specie, e la plebe umana li accompagna tutti colla medesima calca, – col medesimo spirito, colla medesima furia, colle medesime grida. Basta che sia un alimento alla feroce curiosità della plebe! sia pure la testa mozza di Luigi XVI, l'incoronazione di Buonaparte! Tra cibo e cibo non mette divario. – Il Povero ha passato il suo arco di trionfo, – trionfo di vergogna e di dolore. – La plebe è rimasta di fuori, e non sa neppur ella cos'altro più aspetti; ella non è sazia ancora. CAPITOLO VII. Il Povero è avanti, e gli sbirri fanno il corteggio. Salgono e scendono più volte; – voltano a destra, voltano a manca; – è un intreccio che la mente alla prima non può raccogliere in ordine; – in fine danno in un corridore lugubre lugubre, dove si può vedere l'oscurità, come disse Milton. Qui la vista non serve, conviene andare a tentoni. Giunti in fondo si fermano. Di lì a pochi minuti s'ode un rumor di passi che sempre più si avvicina; – finalmente senza averlo veduto comparisce un uomo con un mazzo di chiavi, – un uomo per così dire, con un viso duro, un viso cupo, che accresce le ombre del luogo. – Gli sbirri non gli dicono che due parole, e poi se ne vanno. Ora il Povero e il soprastante sono in presenza l'uno dell'altro. – Ma non ci segue una parola, non ci segue uno sguardo. Il Povero non osa, il soprastante non se ne cura. Fra l'uno e l'altro giace un silenzio ineccitabile, una indifferenza letargica, come fra il beccamorti e il cadavere. Il soprastante tra la fretta e la rabbia apre un uscio basso più dell'uomo che deve passarvi, – poi si tira un passo indietro, come per dire al Povero: – entrate. Il pover'uomo curvandosi mette il piè sulla soglia, e il soprastante non crede opportuno di accompagnarlo, ma gli dà una spinta, e lo butta là come una cosa, che non è più buona a nulla. E così come dico arriva in fondo in un attimo; la stanza non è troppo lunga e con una spinta s'andrebbe anche più là, se il muro non si opponesse. Ora a qual Santo ricorrere? I Santi anch'essi vogliono salmi e candele. Egli non è tentato di frugarsi le tasche, perchè non ha tasche; – e, quand'anche le avesse, cosa dovrebbe cercarvi mai? Egli dispererebbe di trovarci un picciolo, posto ancora che li scudi belli e coniati piovessero giù dal cielo come le goccie dell'acqua. E in verità io credo, ed egli crede, che non ci troverebbe un picciolo: – forse un conto, che non ha potuto pagare, e che lo manda in prigione, – forse un rosario, se pure la Miseria col suo fiato ardente non gli ha cancellato dall'anima quel segno lieve di fede, che l'amor di sua madre v'impresse quando egli era un fanciullo. Arrivato in fondo si volta, ma come una macchina; sta un istante fra il sì e il no: poi cerca di condurre sulle labbra un sorriso, e tenta di farlo, – ma il soprastante con un volto di pietra gli disfà quel sorriso cominciato appena a incresparsi. Egli allora si smarrisce, – tituba, – gli sembra che il suolo si avvalli; – era pallido pallido, e in un lampo si colorisce d'un rosso febbrile; – cerca una parola, e non la trova; – se avesse il cuore pacato la troverebbe di certo, ma un nodo di affetti gli scompiglia la mente, gli chiude la gola. Quegli affetti sono troppi, e troppo forti; – si affacciano tutti in un gruppo, – possono sboccare. Però se tu guardi attento, su quella faccia v'è un'espressione di preghiera, – un senso profondo di supplica, – non per sè, – ma per altri. Vorrebbe dir mille cose, – alcune poi vorrebbe dirle pregando, dirle anche piangendo; vorrebbe che portassero a casa sua una parola di amore, una consolazione; e se invece d'un carceriere avesse un uomo dinanzi, lo supplicherebbe di portare almeno un pane ai suoi figliuoli. Poveri suoi figliuoli! aspetteranno la sera, quando tornato a casa gli asciugavano il sudore della fronte, lo ricingevano di carezze, di baci, di mille dimande, – e mangiavano insieme il pane delle sue fatiche; – aspetteranno la sera, e non lo vedranno venire. Oh! concepite voi l'angoscia di aspettare indarno la creatura che vi ama, e che vi nodrisce? – La sera è diventata notte, e non lo vedono venire poveri suoi figliuoli! lo vanno a cercare di su e di giù, ne dimandano a chi trovano, lo chiamano ad alta voce, ma vanamente; s'è fatto più tardi che mai, e il padre non viene. Santa Vergine! che sarà successo di lui? – Allora il dubbio comincia le sue torture, – li fa sperare, e disperare, – piangere e ridere, – li rende insani col vortice della sua fantasmagoria, – vortice infernale, illuminato d'una luce livida, dove passano rapide rapide mille figure diverse, – dove or sì, or no, comparisce in fondo una bara. Poveri suoi figliuoli! pensano ancora, che possa esser morto! E quella sera non hanno mangiato, nè mangeranno. – E la fame non è sola; – la fame ha fatto alleanza col crepacuore. CAPITOLO VIII. Il pover'uomo non ha potuto profferire una parola, e si è rincacciato nel cuore tutte le sue passioni come altrettante spine. Credeva di dir tutto col volto, ma un soprastante, fosse dotto ancora nelle lingue orientali, – fosse pure un Mezzofanti, – non sa leggere la sventura, o se la legge non le sa rispondere. Il soprastante non ha letto l'immenso volume di affetti, che spiegava la tramutata faccia del carcerato; – o se l'ha letto, per tutta risposta gli fa sentire il cigolio delle chiavi, e dei catenacci. Il soprastante è partito. . . . . . . . E tu pover'uomo, sei rimasto impietrito, soverchiato dalla foga delle tue passioni. Il peggio è, che non puoi piangere ancora; ma piangerai più tardi, – non può mancare. – Una lagrima fu data alla gioia, una lacrima alla sciagura; – la prima rinfresca, l'altra arde come la lava. – Piangerai più tardi, e il tuo pianto sarà bello, perchè non sarà tutto per te; – piangerai pei tuoi figli, per la madre se l'hai, forse per un amore, forse ancora per una patria. E perchè vi stringete nelle spalle, come se il cuore del povero non potesse palpitare per un nobile affetto, come se l'intelligenza del povero non potesse valicare le regioni concedute alla mente umana? Sapete voi cosa racchiuda quel cranio? Quando meno vel pensate, potreste rinvenirvi gli elementi da farne un Michelangiolo, un Byron, un Bolivar. Conoscete voi la vita degli uomini grandi di tutti i tempi, e di tutte le nazioni? Plauto era schiavo, e girava il molino, – ma la sua Musa fu salutata da un popolo di eroi. E quando una povera donna alla sera cantava le sue canzoni di madre a un povero bambino, e sospirava guardandolo, e pensava che un giorno forse non avrebbe un cognome, – sarebbe un mendicante, – al più un lavoratore della campagna, avrebbe creduto mai di cullare Shakspear, Rousseau, Franklin, di cullare il Correggio, e Masaniello? avrebbe creduto mai, che da quel verme un dì sarebbe sorta la farfalla destinata a libare fiori immortali nei campi della Gloria e della Bellezza? – L'organismo umano rompe le leggi della gerarchia sociale, – e quando l'Occasione batte sul vivo un popolo, allora si scorge quale delle classi possa dar più scintille. Allora la storia non è più confinata in un gabinetto a sommare le partite di frodi, che la diplomazia ha segnato nei numerosi suoi protocolli; non è più stipendiata a descrivere una guerra puerilmente sanguinosa, ove non si vedono in cozzo che due bastoni di maresciallo. La storia si slancia da quelle angustie, e la superficie nel mondo è la sua pagina, ed ogni linea che v'incide è un tratto di luce; – allora la Rivoluzione Francese sorge come un'epopea magnifica, immensa; sorge Mina e l'Indipendenza Spagnuola; sorge la lotta titanica della Grecia moderna. Oh! gli ultimi eroi della Grecia non erano cavalieri dello spron d'oro! Sì, pover'uomo; il tuo cuore può _gemere per me, per la patria, e per te_. Dacchè non posso sollevare le tue miserie, e quelle dei tuoi tanti fratelli, io non voglio toglierti un cuore, che forse avrai più buono e più generoso del mio. Io non voglio toglierti quello che non posso darti. Certo, se tu fossi solo nel mondo, come alcuni sono, non so se per questo più o meno miseri di noi, a quest'ora avresti già preso il tuo partito; – avresti mostrato fronte ferma alla cattiva fortuna; – avresti cantato non so quante canzoni; perchè il povero in mezzo agli stenti e alla sua nudità, quando ha il cuore franco, canta del continuo, – canta allegramente come un uccello, che si alimenta di quel che trova, e muta nido ogni sera. Ma tu non sei solo; – e sei rimasto immobile, come tocco dalla folgore. Ora perchè guardi le muraglie? perchè crolli mestamente la testa? – Tu hai ragione; – non hai che due mani, e non son buone a fare una breccia; – tu guardi l'inferriata, ma è doppia, e ci vuole una scala a salirvi; – tu guardi la porta, ma è grossa, e foderata di ferro, e sigillata in maniera, che non dà l'adito neppure a un sospiro. Oh! il tuo sospiro non penetra di là nel mondo; e il mondo già non l'udrebbe, o penserebbe che fosse aria traverso uno spiraglio. E poi, cosa farebbe il mondo del tuo sospiro? Il mondo vuol godere, e chiama breve la vita, breve tanto, che mala pena dà tempo di pensare a sè. E poi, il mondo non ha inventato le carceri, le torture, i patiboli, non ha inventato mille delitti, che la Natura umana non riconosce? – _Requiem æternam._ – Ti hanno deposto in un sepolcro, e non sei ancor morto; – t'hanno deposto in un sepolcro, senza lumi e senza canti, come il suicida. E il mondo spensieratamente ti si agita dintorno col suo dramma pieno di rumore e di vita. O pover'uomo! potessi tu almeno dormire, potessi almeno posare su quella tavola le tue membra stanche, accasciate da tanti affanni! Ma il dolore non dorme mai; – veglia inesorabilmente, veglia come un marito geloso, perchè il mondo è suo, perchè addormentandosi teme di allentare gli artigli, teme che la preda gli fugga. CAPITOLO IX. ― Uf! non è anche finita con quel vostro Povero? Quasi quasi gli date più noia voi, che la sua disgrazia. ― Queste parole mi pare di sentirmele già arrivare alle spalle. E, se devo dire il vero, con quel mio Povero mi ci sono trattenuto un poco più del dovere. Ma che volete? Il solo Dio senza difetti. – Io l'ho questo vizio, preso fin dai primi anni; quando comincio, non la farei più finita. E non ho riguardo alla pazienza di quelli che mi stanno a sentire; – non serve, che sbadiglino, che spurghino, che si dimenino. Tutt'altro; – allora vado più che mai per le lunghe; direste ch'io lo faccio apposta; e può darsi: non lo sapete il proverbio? – Ogni vipera ha il suo veleno. – E tutto il male fosse qui! lasciamo andare; – ci sarebbe da discorrer troppo. Ma veramente, se devo esser giusto, con quel mio Povero mi sono trattenuto un poco più del dovere: – quando è vero, è vero. Figuratevi! non ho neppur desinato! Non ho potuto veder desinare il Signore! E oramai chi sa, se sono più in tempo! È la verità che i signori vanno tardi a pranzo, e durano un pezzo; ma non c'è rimedio; – ho fatto tardi; – l'orologio mi condanna. Questa poi mi dispiace. Son tanto curioso! vorrei veder tutte le cose, – anche quelle che mi facessero storcere la bocca. Non potete immaginarvi quanto pagherei a potere stare accanto senza esser veduto a...... (_Qui il Manoscritto è affatto inintelligibile_). Dio sa quanto pagherei! Badate, non farei quei mestieri per cosa del mondo; – non mica che vi sia nulla di male, – ma per non entrare in intrighi, per non avere a rispondere, per non aver da far niente. Io sono il cristianello fuggifatica per eccellenza; – mi basta di sapere, e non vado più là. ― Ma che faresti di tante cose, quando tu l'avessi sapute? ― Io lo so quel che ne farei. Farei tanti calcoli, tante figure, tirerei tante linee, che, se voi non conosceste appieno chi sono, mi pigliereste per un fattucchiere! Oh! se potessi rubare quella bottiglia dove stava rinchiuso il diavolo zoppo! grave come voi mi vedete, mi metterei al repentaglio di andarla a rubare in cima a una cuccagna! Immaginate voi che piacere di fare un viaggio sui tetti col mio diavoletto a vedere tutti i fatti degli altri! immaginate voi che sorpresa a trovare un amico la mattina, e raccontargli che dormiva all'insù, – che dormiva per parte, – che aveva in capo un berretto, o una cuffia!.... immaginate voi che sorpresa, che piacere! Quando io ci penso, vado in estasi! Altri sogna di vincere un terno, altri d'esser fatto gonfaloniere, altri che i grani rincariscano; – io sogno sempre il diavolo zoppo, e se potessi averlo, anche un'ora sola del giorno, lo piglierei rovente come un ferro infuocato. Se poi volesse far meco vitalizio, io vi so dire che farei di tutto per averlo, che farei miracoli. Mi adatterei a lavorare una parte della giornata, – mi adatterei per averlo anche a camminar lesto. Ma vedete s'io dico il vero? Dianzi era tardi, – ora a forza di ciarle è più tardi che mai, ed io non mi sono anche mosso. È inutile, – io lo so, – il pelo si perde, ma non il vizio. Andiamo per quel che saremo in tempo. Chi vuol venir meco? Su via, qualcheduno venite; ho piacere che tutti godano. Ehi! là, galantuomo! voi che mi avete l'aria di esser sempre digiuno, che mi avete l'aria di voler arrivare così fino a dimani, volete venire a sentire, e a vedere? Guardate! un cane è già sotto alle finestre, – ha levato il muso da terra, – e guarda in su fiutando, aspettando la provvidenza. Ma voi ridete! Ah! io intendo bene quel riso amaro che avete fatto; – il supplizio di Tantalo non vi aggrada. Il cane è corso per le sue buone ragioni; quella bestia è a miglior partito di voi. Un cane può mangiare un osso se non gli danno la carne; – l'uomo pure mangerebbe un osso sovente, ma i denti non gli servono. Amici, io ci sono: – vedo il Signore che lavora lavora con un coltello intorno a non so qual cosa, – par che tagli un non so che di duro; – in che diavolo si affanna il Signore? – di qui non ci scorgo troppo, – voglio farmi più appresso. _Pta!_ l'avete sentito? un tappo ha baciato i travicelli; – è _Sciampagna_ per...! Io non lo sapeva, – la pigrizia è la mia rovina; – ella mi si è fitta nell'ossa, e per cagion sua non sarò mai un uomo _comme il faut_. Sono arrivato alla fin del banchetto, e potevo esser venuto al principio. Sono arrivato alle seconde mense volgarmente dette il _dessert_. Ci vuol pazienza, ma non posso dissimularmi la perdita enorme che ho fatto. È una perdita seria, effettiva. Io che son tanto curioso non ho potuto vedere il desinare d'un signore dal cominciamento alla fine! io che ho veduto così di rado desinar dei signori, – che vedo sempre a mangiare dei poveri, – e che perfino quando mangio io stesso ho di faccia alla tavola uno specchio antico, lungo lungo, che mi ridice tutto appuntino, e senza pietà! È una stizza maledetta, che mi farebbe dare al diavolo; – non c'è maniera nè anche di potersi illudere. Io ve l'ho detto, – la pigrizia è la mia rovina; – che ci fareste voi, che non ci avete niente a che fare? io stesso, io parte interessata, non ci faccio nulla. Ma zitti! zitti! ve lo chiedo in carità; – parmi di sentire aprir l'uscio pian piano; – ella è così; – l'orecchio non mi tradisce, – è lungo più del bisogno; – la mia vocazione era di farmi dottore, – mio padre non ha voluto, – io non ci ho colpa. Ella è così; – l'orecchio non mi tradisce; è stata schiusa la porta. Venite, venite; io non dico per ischerzo; – il carceriere s'inoltra in punta di piedi, – non fa un rumore, – è leggiero come un alito; – un gatto ne perderebbe al paragone; – è carico, che non ne può più. Cosa ha messo su quella tavola? – Ora ho visto bene; – è un bel lume all'Inglese; – ora ha posato un calamaio, della carta, dei libri; poffare! di dove se la cava tanta roba? zitti! zitti! vediamo che si leva di seno; – oh bella! sono i giornali; e perchè no? – il Signore deve sapere come vanno gli affari, – anch'egli ha il suo partito in politica, – e poi ha una somma sui fondi di Parigi, un'altra su quelli di Londra; – se non gli premono i _Tories_, o gli _Whigs_, se non gli preme il _juste milieu_, la _gauche_, la _droite_, i consolidati gli premono; premerebbero anche a voi, se aveste che fare coi fondi. Il Signore guarda tranquillamente il soprastante in facende, e tiene un bicchier di _Porto_ vicino due dita alla bocca. Il Signore è tranquillo, beve e lascia fare il soprastante. ― Or ora verrà il caffettiere. Vossignoria beverà un _Moka_ stupendo, e bollente. Sentirà che Rum! Giammaica di nome e di fatti. ― Il signore gli risponde additandogli una bottiglia, e un bicchiere. Il soprastante riverisce, e butta giù stringendo gli occhi. ― Quegli avanzi li volete? ― Troppa grazia, Signore. ― Prendeteli, mi fate un piacere, mi levate il cattivo odore di camera. ― Con Vossignoria io non so che obbedire. ― E la sua parola non manca. Gli avanzi del pasto son lauti; – prende, prende, e riprende. Soprastante! soprastante! tu credi che nessuno ti veda, ma io ti vedo. Quando si tratta di prendere, la gioia ti moltiplica le mani; – per pigliare tu sei Briareo. Vedete! piglia con tanta foga, che ha messo per infino una posata fra gli avanzi, e se n'è accorto per miracolo. Ora è così pieno zeppo di roba, che vuol essere un brutto impaccio a licenziarsi col solito inchino; – nondimeno vuol fare il suo inchino; – eh! soprastante! hai avuto propriamente un Santo dalla tua! la testa ti pesa più che non credi, e poco è mancato che tu non faccia un capitondolo. Il Signore ha riso veramente di cuore, e si è levato da tavola. CAPITOLO X. Che buon odor di caffè! Sentite, il profumo vien fino a noi; – come mi lusinga le nari! Questa volta il soprastante l'ha detta giusta; è un _Levante_ legittimo, e carico per bene; oh! non si sbaglia; io non so come; ma me ne intendo. Attenzione! attenzione! Il Signore si fa inverso la finestra; – eccolo là fisso fisso; – ha dato uno sguardo verso di noi, e poi l'ha ritirato, come se noi non fossimo nessuno; eh! ve l'ho detto sempre; saranno buoni, affabili come volete, ma, dàgli e ridàgli, il ticchio del signore vien sempre a galla. Che bella pipa, eh! – bianca come il latte; – non è mica di gesso, che abbiate a credere! – è spuma di mare, e sarà costata le belle monete. – E il tabacco? – è _Latacchia_ pretto pretto, come voi siete un uomo. – E che foglio legge? – che disgrazia l'esser miope! – Maestro Santi, levatevi un po' di cavalcioni al naso quel vostro paio d'occhiali, che voglio leggere il titolo del giornale; – tanto voi non sapete leggere; – ho capito: _Journal des Débats_, ho capito; il Signore è del partito ministeriale; – non può essere a meno: chi ha dei fondi cosa deve fare? Cosa fareste voi, che non ne avete? – Come legge attento! Si vede bene, che vuole intendere. – E non è mica brutto il Signore! – colore bianco e rosso, carni fresche, un viso tondo, una testa tonda, un bell'occhio tondo: eh! ci si vede l'uomo, che se la gode, e lascia arruginirsi chi vuole; – nel suo giusto _embonpoint_; se non capite il Francese, andate a scuola; io lo capisco. – E quant'anni gli date? – Alto alto, a vederlo, io dico che passa la trentina; – come no? sentite, giù per lì dev'essere; sbaglio di rado in quanto a fisonomie. ― E il Signore non ha moglie? ― Chi ve l'ha detto? l'ha presa non è anche un anno, e di par suo; – e che buona dote! e che bella ragazzina, se voi l'aveste veduta! poteva bersi in un bicchier d'acqua. ― E le vuol bene? ― Così così, tra il freddo e il caldo; – badiamo veh! non la strapazza mica, non la bastona, che non aveste a crederlo voi altri, che misurate tutto sul vostro braccio; – non la cura troppo; – eh! il Signore ha un affare vecchio; non lo può lasciare; ha provato, ha riprovato, – è stato impossibile; – c'è una malia di mezzo..... E intanto che le ciarle piovono a fiocchi come la neve, il Signore ha finito di leggere, e chiude non solo le finestre, ma le imposte pur anche. Cappita! quel chiudere ancora le imposte m'è andata giù male. Se avesse chiuso le finestre soltanto, col vedere metà dai vetri, e metà coll'indovinare, _faute de mieux_, mi sarei contentato. È agra davvero, e bisogna esser curiosi per convenirne. Vedete voi, che stravaganze! Che il Signore faccia la _siesta_ è nelle regole, lo vuole il _bon ton_, lo vuole il ben essere del corpo; ma non lasciarsi veder dormire è una stravaganza; – lo dico e lo sostengo, ora e sempre, – _ahora y siempre_. – Come farò a render conto del come dorma il Signore? Se dorma supino, o dalle due bande, se dorma vestito o spogliato? Poh! è una disgrazia, è una lacuna irreparabile in questa istoria, che non saprei come riempiere, se non coll'andare a dormire pur io. E badate, che ci riesco, e son capace di farlo. Vedete voi, che stravaganze! quel chiudere le imposte mi ha fatto un danno del diavolo. Chi sa quanto tesoro d'osservazioni avrei potuto raccogliere dal sonno? Vedete, io sono così sottilmente curioso, che dalla faccia e dai moti del dormiente mi sarei studiato d'investigare i sogni, che gli passeranno traverso il cervello. E poi, non poteva darsi, che fosse un di coloro, che parlano fra il sonno? Chi sa cosa avrei potuto sapere? – cose, che il Signore non avrebbe dette all'unico suo amico, che non avrebbe dette nè anche all'aria, che forse avrebbe stentato a dire al capezzale del letto, quando il prete ti dà un passaporto in latino per l'altro mondo: _Proficiscere, anima christiana_; che significa: vattene, anima cristiana. Il tono è un poco assoluto, ma il tempo stringe, e non ne avanza pei complimenti; stringe tanto, che i morti non hanno tempo di provvedersi di nulla, e dalla fretta perfino partono ignudi. – Vedete voi, che stravaganze! sul più bello mi chiude in faccia le imposte! io ho perduto un tesoro! Per un curioso, credetelo, queste sono le pene dell'inferno. Potessi almeno sentirlo russare! mi contenterei anche di questo. Ma che volete? I signori non russano. Oibò! la _bienséance_ non lo permette. Dormono leggieri leggieri, che non è cosa da credersi. Dormono con tanta disinvoltura, che io n'ho veduti dì quelli, che tutti credevano desti, e pure dormivano. Come vada io non lo so, – ma il suo perchè ci dev'esser sotto. Basta, quando io sarò signore, venite, e ve ne dirò la ragione. Non v'è rimedio; – il meglio è darsi pace. Vuol dormire il Signore, senza che nessuno lo veda? Ebbene, ch'ei dorma; io non glielo posso proibire. Silenzio dunque, lasciatelo dormire. CAPITOLO XI. Mi par mill'anni che passi quest'ora! Uh! le finestre son sempre chiuse, – nessuno si fa vivo. Non so più quel che fare; sono andato su e giù lungo la strada come un pendolo, e le gambe si protestano, – non ne vogliono più sapere. Che diavolo! quel Signore non ha discrezione! ora potrebbe alzarsi; – il sonno soverchio ingrossa il sangue, e, quel che è peggio, fa ottusa la testa. È vero ch'ei può farne di meno, – ha una buona borsa, – ha più del bisogno. Giova tanto poco la testa! per i più non la vedrei necessaria, se non fosse che la portassero per farsela tagliare. A me fin qui non ha reso che il dolor di capo, e Dio voglia che resti lì. – Ma le finestre son sempre chiuse! O pazienza, pazienza! è passato un carro, che ha fatto rintronare anche i tegoli, ma il Signore non l'ha sentito. Si vede bene, che ha una buona coscienza! dormire di quella fatta! come farà stanotte? felice lui! non ha debiti, non ha inquietudini, e però fa tutta una tirata. Eh! non son bagattelle! son due ore buone che dorme; – il Sole è andato sotto, che non è poco; – già già si fa buio. Oh! si desti, mio bel Signore, che farà un'opera meritoria per me. Se potesse sognarsi, ch'io son qua fora, e mi struggo per lui, già si sarebbe levato. Sì, ho un bel dire; egli dorme, e lascia vegliar chi vuole. Tanto tonò, che piovve. Ho sentito rumore, – qualche sedia rimossa dal luogo. Eccole finalmente riaperte quelle benedette finestre! Non entro più in me dall'allegrezza! Potrò nuovamente veder qualche cosa, – potrò raccontarla. Mi son sentito rinascere; – viva il mio buon Signore! egli ha dormito di pro, – si scorge agli occhi, alla faccia, alle membra che stira saporitamante. Ora beve un bel bicchier d'acqua; – eh! ci vuole un bel bicchier d'acqua; – sta nelle regole di chi sa ben vivere. – La buona vita fa la buona morte. Ora si affaccia alla finestra canterellando un'arietta; – mi par della _Gazza Ladra_, se non m'inganno; – e intanto si aggiusta sulla fronte una bella ciocca di capelli castagni, e intanto respira l'aria fresca della sera, che finisce di risvegliarlo, e lo rimette nello stato di prima. Appena il mio Signore è ben desto, scuote risolutamente la testa in atto di accingersi a qualche facenda di rilievo. Staremo a vedere quello che saprà fare il Signore. Intanto dal movimento della bocca mi accorgo, che ha dato un ordine a qualcheduno ch'io non posso vedere, perchè rimane nel buio. Già me lo immagino sarà il soprastante. Già ho capito il tenore dell'ordine: era di accendere il lume; – non pensate mica un lume solo; – tutt'altro! – questo non usa, che in casa vostra, quando non è Luna piena, perchè allora prendete quel della Luna, che non ha bisogno di essere smoccolato, e dura la notte; – ma avranno acceso benissimo la mezza dozzina dei lumi, e più ancora. Guardate che luce larga e brillante prorompe fuor delle stanze! non vi sentite rallegrare a guardarla? È incontrastabile, – i lumi son sei, se non son otto; – vorreste negar la luce? Ma stiamo attenti a quello, che vuol fare il Signore. Ecco, egli ha tolto in mano un bel mazzo di penne nuove; – ecco, ne tempera una, – ne tempera due, – ne tempera tre. Badate là, – ora prende un quaderno di carta, e la esamina di contro al lume. Per Bacco! è fina davvero quella carta, e indorata sugli orli! Eh! non vuol mica scrivere al fattore; si vede chiaro, che scrive a dei pezzi grossi! Non vi movete. Che ve ne andate di già? – ora viene il meglio. Ecco, il mio Signore s'è messo al tavolino; – ecco che ha già cominciato. Fin qui non v'è molto da raccapezzare, ma pur qualche piccola cosa. Per un curioso tutto è buono; – il minimo che mena a delle scoperte importanti. Dall'ombra, che si disegna sul muro, vedo la sua testa via via inclinarsi e rilevarsi; – vedo tuffar la penna; – ora s'è grattato dietro all'orecchio destro; ha stracciato un foglio; – la lettera non veniva a modo suo; – un foglio nuovo, e da capo. Ora sì, che tira via, – ha trovato la strada, – non si ferma un istante, – la passione gli guida la mano. Oh! se la passione crescesse! se lo impegnasse a profferire ad alta voce quello che pensa, e che mette in carta tacitamente! Dall'allegrezza farei un salto mortale. E badate, spesso succede; e quando la passione dice davvero, non v'è più ritegno. Dimandatene agli scrittori; – pare che quel dir forte l'idea, che vanno a scrivere, la faccia completa, come la mente la concepisce. E di fatti è così; la declamazione è il colorito del pensiere. Ma zitti! zitti! il Signore s'impegna; – sento un mormorio; – crescerà, se Dio vuole, – diventerà voce scolpita; – diventa, diventa! Oh! io sono un uomo felice, io credo nella mia buona stella! – Ascoltiamo: – uh! se non fosse il vento, che me le mangia mezze, sentirei tutte le parole; ma mi contento; ascoltiamo:..... _una nera calunnia.... così non si tratta un gentiluomo.... badare a ciò che si fa.... scoprire la cabala.... guai a lui!.... so maneggiare una spada.... Siamo il più..... sostegno dell'ordine.... la canaglia in prigione, sta bene; ha..... d'un freno.... l'anarchia regnerebbe.... le..... classi vanno rispettate.... riprese, ma non punite..... la canaglia si crede qualche..... e la Ragion di Stato è.... princìpi son conosciuti..... innocente.... non deroga a sè stesso.... riparazione pubblica.... conveniente alla mia condizione... servo – Cavaliere Scipione Frullanotti Marzocchi._ Oh! vediamo, se la metto insieme; – ho tanto in mano da ripromettermene bene. «Eccellenza! «Fino di stamane io sono stato tradotto nelle prigioni di questa città, senza poterne indovinare la vera cagione. Vado convinto, che Vostra Eccellenza, appena saputo il caso, darà tutte le disposizioni necessarie, perchè io sia quanto prima rimesso in libertà. Credo fermamente, che una nera calunnia abbia motivata una tal misura. Però così non si tratta un gentiluomo. Conviene badare a ciò che si fa in materie tanto delicate. Impegno la giustizia di Vostra Eccellenza a scoprire la cabala, e l'uomo perfido, che l'ha tramata. Guai a lui! se arrivo un giorno a conoscerlo; – so maneggiare una spada, e sul terreno vedremo a chi sta il buon diritto. Noi gentiluomini siamo il più saldo sostegno dell'ordine, e meritiamo assolutamente riguardo. Che vada la canaglia in prigione, sta bene; ha bisogno d'un freno, e senza questo l'anarchia regnerebbe. Vostra Eccellenza conosce e sente, che le alte classi vanno rispettate, e quando cadono in fallo vanno riprese, ma non punite così volgarmente. Se no, la canaglia si crede qualche cosa, – l'ordine si confonde, e la Ragion di Stato è perduta. Io fortunatamente non sono nel caso di aver commesso nessun fallo. I miei princìpi son conosciuti abbastanza; – sono innocente; – e un gentiluomo par mio per nessuna bassezza non deroga a sè stesso. Mi dirigo pertanto a Vostra Eccellenza, perchè l'onor mio abbia una riparazione pubblica, immediata, e conveniente alla mia condizione. Al tempo stesso Vostra Eccellenza accolga le proteste della mia più alta considerazione. Di Vostra Eccellenza Umilissimo e Devotissimo Servo Cav. Scipione Frullanotti Marzocchi.» Aha! mi sento riavere. Mi è costata fatica, ma pure l'ho messa insieme. Eh! quando mi picco, mi picco. Ho fatto più d'un naturalista, quando da pochi frammenti d'ossa ricompone in un insieme perfetto la struttura d'un corpo qualunque. Sì, ho fatto più d'un notomista; – il corpo è una cosa certa, e definita; – lo spirito è vario, incerto, e mobilissimo. Son contento come una pasqua! contento come un sonettista quando ha trovato una bella chiusa! Sì, ne son contento, ne vado superbo; – confrontiamo la mia coll'originale, e scommetto che non ci corre una sillaba. Ma va, che l'ho fatta bella! Un po' col rimettere insieme la lettera, un po' col compiacermene, il tempo è trascorso, e il mio Signore ha scritto le rimanenti, ed ora v'è sopra a calcare il sigillo. Ma va, che l'ho fatta buona! e adesso come si stilla? è una rottura, che non si accomoda; – chi è che sappia leggere una lettera già sigillata? Potessi averla nelle mani, farei l'estremo di mia possa; – ma vàlle a toccare, se ti riesce! Eccole là! io magari le toccherei! – ma il Signore non ci è per nulla in questo mondo? Eh! non c'è rimedio! eccole là! – il morto è sulla bara; – son quattro giuste giuste; – posso sfogarmi a leggere la sopraccarta, mercè delle lettere lunghe un mezzo dito: – basta! è meglio poco che nulla; – eccole là! son quattro in fila, nè più nè meno; si leggono come di giorno; – la prima al Marchese, l'altra al Ministro, la terza all'Arciprete, la quarta alla Contessa. Poffare! si vede bene che al Signore è già venuta a noia la prigione, che vuole uscirne per _fas_ e per _nefas_. Tutto vien messo in moto, tutto a contributo, per uscir di prigione; – la toga, e la spada; lo scrigno, la cantina, e la donna. ― In prigione ci hanno a stare i poveri e i matti. ― Voi parlate come un libro, mio bel Signore. Sì, venite fuori, anch'io lo desidero; – così potrò vedere più da vicino i fatti vostri. Voi n'uscirete senz'altro, – avete troppe ragioni dalla vostra; – solamente quei titoli, che a profferirli soltanto fanno tremare i chiavistelli! Sì, mio bel Signore, voi n'uscirete, e presto; – io lo desidero anch'io, per voi, e per me. Ma che sia quella carticina breve breve, elegante elegante, che il Signore guarda e riguarda, di sotto e di sopra, e a guardarla gli sfavillano gli occhi? Forse un biglietto da visita? Eh! giusto! è un _billet doux_, – è una cosa, che mi passa l'anima per non averla sentita. Scrivermi un _billet doux_ sotto gli occhi e non poterlo sentire! Se ci penso un momento di più, addio cervello, addio tutto. Un _billet doux_! non vi par di dir nulla, un _billet doux_! Io che per leggere un _billet doux_ non avrei quasi scrupolo di portarlo! Io, che, se potessi leggerli tutti, non vorrei far più altro; – lascerei tutto, il teatro, la taverna, la scienza, i crocchi, l'amore, i vizi e le virtù; – non mangerei, non dormirei, farei la vita d'un martire, mi ridurrei magro come un Cristo di Cimabue! Oh! se ci penso dell'altro, voi ne vedrete delle belle! – una e una due; – ma questa è più agra dell'altra; – questa, e l'affar dell'imposte mi fanno dubitare della mia buona stella. Certo la mia buona stella in questi due casi si è portata male; – una cometa non poteva farmi di peggio; – e poichè ella ha preso la mala piega, stimerei prudenziale di levar le tende da questa strada onde non m'avesse a incogliere un qualche malanno più grave. Già l'ora è tarda; – saranno l'undici al tocco e non tocco, e non passa più un'anima. Tuttavia, se devo confessarmi giusto, me ne vado malvolontieri. Non so chi mi lega, ma ci starei tutta la notte. Ma zitto! sento salire una scala, – sento girar mollemente una chiave; vedete cosa vuol dire un minuto? Un minuto spesso decide di tutto; – spesso non ci è tesoro, che possa pagare il valor d'un minuto. ― E chi sarà in un'ora sì tarda? ― Oh bella! è il solito soprastante, colla solita voce, e colla solita frase: ― È permesso? si può passare? ― Appunto voi; passate, passate. ― Ho forse tardato troppo? ― No, siete venuto in tempo: ho finito in questo momento. Eccovi un mazzo di lettere; dimani a un'ora competente, che sieno tutte spedite. Non fate sbagli, vi raccomando; son cose che premono. ― Vossignoria non dubiti di nulla; conosco ad una ad una le persone a cui vanno, e senza adulazione posso dire, che Vossignoria non potrebbe esser meglio appoggiata; son persone che fanno e disfanno, e dopo non c'è nulla a ridire. Ella già non ha bisogno di tutto questo; – si vede bene l'equivoco; si vede bene che hanno preso un granchio, e non vorrei esser nei piedi di chi s'è preso un simile arbitrio. Specialmente quando lo saprà la Contessa, è capace di sputar fuoco. Io son vecchio di queste cose, e so come vanno a finire. Alberghi come questi non sono per la gente par suo. Quando io la vidi arrivare, trasecolai, credetti dì travedere. Si figuri, son quarant'anni che faccio il mestiere! si figuri, se non conosco un uomo alla cera; appena lo vedo, comprendo subito di quel che si tratta; di questo posso vantarmene. Stia allegra Vossignoria; – riposi bene; – se stanotte ha bisogno, non faccia che chiamare; io dormo qui vicino, e son sempre all'erta. ― Non andate anche via. Ho un'altra commissione da darvi. Vi siete già scordato l'affare, di cui vi ho parlato stamani? ― Perdoni Vossignoria, sono uno smemoriato, però mi ricordo di tutto. Il numero, mi pare, 1613? ― Certamente, e dev'essere un palazzo con due riuscite. Eccovi la letterina; fate che recapiti con bel garbo. Già non ci andrete voi? ― Eh! diavolo! che mi crede ammattito affatto? Son uomo di mondo anch'io, e nessuno mi deve insegnare. Non pensi, si lasci servire. Ci mando la mia Rosina, e la cosa vien fatta d'incanto. Ha null'altro da comandarmi? ― Null'altro per ora. ― Dunque la lascio in libertà; riposi bene; buona notte. ― Buona notte. ― Ed io scrittore, che sono in prigione anch'io, e non ho nessuno che me la dia, giacchè la buona notte mi è capitata sotto la penna, me la dò da me stesso, e faccio conto di andarmene a letto. CAPITOLO XII. ― Ma il Povero dov'è rimasto? ― Che v'importa del Povero? se, invece di essere freddamente curiosi, voi foste pietosi anche a mezzo, non mi avreste lasciato andare solo solo a cantargli l'esequie; ma mi sareste venuti dietro, – vi sareste arrampicati uno sull'altro per arrivare alle sbarre della prigione, – avreste consolato quel misero colla vista d'un volto umano, – vista più cara del cielo in quella oscura solitudine; lo avreste chiamato per nome, – gli avreste gittato un pane, una parola soave di compianto; avreste infuso olio e vino nella ferita, come il Samaritano dell'Evangelo; – e invece avete fatto peggio del Fariseo, – non gli siete passati neppure d'accanto. Che v'importa del Povero? Non siete voi freddamente curiosi? Non siete voi egoisti? Non siete voi venuti meco a veder la vita del Signore in prigione per alimentare un cupo sentimento d'invidia? Non v'ho io veduti percossi da un brivido allo spettacolo degli ori e degli argenti, degli arredi preziosi, delle laute vivande? Non ho io sentito le vostre voci, le vostre esclamazioni, che la passione mandava fuori velocemente come dardi, – e il calcolo non avea tempo neppure di coprir loro le vergogne? – Non ho io veduto passare sulle vostre fronti un nuvolo di pensieri diversi, ma tutti armati di artigli? Ecco perchè veniste meco a vedere il Signore. Non siete voi egoisti? Il Povero non aveva nulla da farsi invidiare, – invece aveva bisogno d'una consolazione, e d'un tozzo di pane. – Ecco perchè non siete venuti meco a visitare il Povero. Non siete voi egoisti? Ed io non sono un egoista? Io non mi fido della mia pietà; e, se l'ultima somma è più sicura della prima, parmi di aver trovata la vera chiave del motivo, per cui mi son trattenuto tanto tempo Povero. Sentite, se vi torna. Ho veduto che nessuno si curava dell'infelice, – e allora io mi son mosso, – gli sono andato d'intorno, per l'idea d'esser solo, per contradizione. – Ho fatto come Diogene, che andava al teatro quando tutti n'uscivano. Certo, per contradizione; – e, se la cosa è così come io la espongo, allora alla pietà tocca il secondo luogo, se pure un luogo le tocca. Non sono io forse un egoista? non è la contradizione un egoismo? La beneficenza stessa non è sovente un egoismo? Perchè in certi Stati si sviluppa più che altrove lo spirito di associazione, lo spirito di sovvenimento? – Perchè l'ambizione è palpata, perchè l'indomani un giornale deduce a pubblica notizia il benefizio, e il nome di chi l'ha fatto. Gesù Cristo conobbe questo peccato dell'umana natura, e per questo inculcò come un dovere sacro, come un precetto di religione inviolabile, il fare l'elemosina quando nessuno vede; tentando così con un dogma di vincere una tendenza dell'anima, tentando di assuefare l'umanità a fare il bene sempre, e sinceramente, non a sbalzi, quando lo comanda l'ostentazione, la debolezza, o qualsivoglia altro interesse. Il tentativo fu fatto; ora a voi sta il giudicare, se il buon successo l'abbia coronato. Mettetevi una mano al cuore, e giudicate. Avete deciso? ― Il primo prossimo è sè medesimo. ― Questo grido fu infuso nel sangue, e circola per le vene d'ogni mortale, – ponetelo pure in qualsivoglia grado di società; – prendetemi pure il selvaggio errante per le foreste, o l'uomo incivilito, pacifico, abbiente, dell'America settentrionale. E se i proverbi sono la traduzione sommaria di una lunga e costante esperienza, questo è il Vangelo di tutti i proverbi passati, presenti e futuri. – La maggior parte vede l'egoismo sotto una faccia unica; e quando vuole personificarlo, per esempio, piglia per il collo un avaro, l'alza da terra, lo squassa mostrandolo, e grida: specchiatevi, ecco l'egoista. – La maggior parte non capisce nulla in questa materia. – Quel tale, che lapidasse il genere umano a furia di dobloni, sarebbe anch'egli un egoista. Il sacrifizio stesso, che vien citato come il contrapposto dell'egoismo, è pure un egoismo; e il generoso, che muore spontaneo per la difesa di un principio morale, o per la salute di un popolo, muore per l'amore di un sentimento, che gli rappresenta più della vita; muore, perchè, sopravvivendo alla sua idea, la vita gli sarebbe uno scherno, un peso, un dolore intollerabile; muore, perchè nel suo speciale organismo in certi dati casi la vita è una perdita, la morte è un guadagno. L'egoismo è un poligono d'infiniti lati, una scala di tutti i toni, un'iride di tutti i colori primitivi, e composti. L'egoismo è l'uomo, o per dir meglio il moto dell'uomo. Togliete l'egoismo all'uomo, voi ne fate una pietra; non ha più ragione di operare nè il bene, nè il male. L'egoismo è l'unico movente delle azioni umane. Distruggerlo non potete, a meno che non imponeste all'uomo una novella organizzazione; potete bensì modificarlo, sottomettendolo alla influenza potentissima della educazione. L'educazione è buona o cattiva, come sapete; – e dipartendosi da questi due limiti, l'egoismo può esprimere tutte le gradazioni della virtù, tutte quelle del vizio. La buona educazione lo modifica, educandolo a combinare il bene individuale col bene generale. Così l'uomo dovizioso, che altrimenti avrebbe mandato in fumo un milione, orna invece la sua città di utili istituzioni, e in capo all'anno riscatta centinaia d'anime dalla schiavitù del peccato e della ignoranza. E questo perchè? Vuol dire, che la buona educazione con un'arte squisita ha modificato in lui l'Egoismo Vanità, affascinandogli gli occhi con un bel fantasma, e trasportandogli l'ambizione da un oggetto in un altro. – La trista educazione lascia andare l'egoismo come un toro infuriato, e gli aggiugne stimoli sovente; allora ei non cerca che un bene personale, senza badare al sentiero che percorre; – e per avere una borsa d'oro, taglia anche una vita, purchè la trovi di mezzo fra sè e la borsa. Così dipartendosi da questi due limiti l'egoismo può rivestire la gioia serena dell'angiolo, o il riso funereo del demonio; – può esser la Ragione o il Fanatismo, – la cicuta o la rosa, – può essere adorato o maledetto. Leonida, che si sacrifica alle Termopili, tocca l'apogeo dell'egoismo virtuoso, e merita un altare, e le ghirlande fresche, immortali, della storia. Nerone, che cerca un aumento di piacere nell'agonia della creatura umana, merita un rogo, e le stimate della infamia. L'Egoismo è il Proteo del Bene e del Male. CAPITOLO XIII. ― Avete finito? volete fare una cosa da uomo? scendete di cattedra, e tornate al vostro proposito; – sarà meglio per tutti. Coteste cose, di cui avete preteso ragionare, sono state dette e ridette in prosa e in rima, – son cose vecchie quanto l'egoismo; – e che per questo? – mostratemi il frutto: – coi discorsi si fa poco o nulla; col fiato solo non si può, che spegnere un lume. Che importa a voi, se gli uomini sono piuttosto in un modo che in un altro? Li avete fatti voi? Lasciateci pensare a chi tocca. Che serve inquietarsi pei bianchi e pei neri? Gli uomini son padroni di stare come vogliono. Volete diventar sistematico? Vi troverete a de' begli sconcerti. Fino che son teorie, le cose camminano bene; – vincete sempre voi, – come quel giuocatore che giuocava da sè. Alla pratica poi s'impara a distinguere i bufali dall'oche. Io lo so come vorreste gli uomini; – li vorreste tutti di tre braccia, – di struttura slanciata, – un bel viso color di rosa, – occhio ceruleo, – zazzera bionda, – vestiti di una tunica bianca, – calzati di verde, – e che profferissero da mane a sera orazioni giaculatorie di amor fraterno. E vi dico, che a prima giunta sarebbe un bel colpo d'occhio, – in seguito poi non so. Ma che volete? le stampe non l'avete voi, e il vostro desiderio non può avere sfogo; – e invece di vedere tanti uomini di getto secondo la vostra idea, voi vedete un miscuglio bizzarro oltremodo, un caos, che non finisce più mai. Vedete nani e giganti; – uomini bianchi, rossi, neri, color di rame, di cento colori; – vestiti di mille stoffe, vestiti bene, vestiti male; uomini ignudi; – chi bestemmia, chi dice Messa, chi sta sempre zitto; – e via discorrendo. E per questo? perchè una vostra idea non ha sfogo, vorreste andare a finire in un pozzo? Oibò! non vi fate tentare. Il mondo va preso come il vento, – va preso come viene. Volete contrastare con la corrente? – pensateci prima due volte, – il minor rischio è quello di annegare. Tanto voi lo vedete; – non si sa chi abbia ragione, se il Torto, o il Diritto. Se uno vince oggi, l'altro vince domani; – è un circolo vizioso, – è la serpe, che si piglia in bocca la coda, – non ci si conosce nè principio nè fine..... Il Bene e il Male sono i due sproni del mondo, e lo tengono in carreggiata. Se pungesse soltanto il Male, il mondo, perderebbe l'equilibrio, e cadrebbe tutto da una parte, e così viceversa del bene. Se poi voi persistete nella vostra idea, e questi patti non vi accomodano, allora sapete come fare; – voi, che veniste a caso in questo mondo, siete però il padrone, di uscirne quando volete, e di andare in un mondo migliore a perorare le vostre ragioni. Non dubitate, – ai confini della vita non ci son dogane. Ma forse non avete voi gli anni dell'esperienza, non conoscete le storie, non avete viaggiato e veduto le nazioni in faccia come elle sono? – _Bon!_ cosa ne concludete? – Che l'Errore è un guanciale morbido a modo e a verso, come può esser la Verità, e che metà del mondo dorme i suoi sonni placidi sopra questo, come l'altra metà li dorme su quell'altro. Mi faccio intendere? parlate schietto, perchè io amo di ragionare. Non avete osservato, che i popoli tengono alla natura degli uccelli? che altri ama il Sole, altri ama la notte? che due princìpi diversi possono descrivere insieme una parallela continua, indefinita, senza mai toccarsi? che la Libertà può affacciarsi al suo balcone, e dalla finestra accanto sentirsi dare il buon giorno dalla Inquisizione? – Chi è convinto coscienziosamente d'un sistema cattivo, vive tranquillo come chi è convinto d'un buono; – non esiste fra loro, che un divario metafisico. – L'uomo poi, che, per legge della sua organizzazione, è superiore o inferiore al sistema che lo circonda, – non può negarsi, – ei ci vive a disagio; – ebbene, vi è il suo rimedio; scuota la polvere delle sue scarpe, e se ne vada gridando come Scipione: _ingrata Patria, non avrai le mie ossa._ V'è il suo rimedio; – il Francese Carlista può andare in Ispagna, – il Liberale Spagnuolo può venirsene in Francia. La terra è larga abbastanza: – _Nemo propheta in patria sua._ – Lo vedo anch'io, che, senza sottoporre l'umanità all'archipendolo delle vostre geometrie, starebbero bene tante belle cose! Per esempio, sarebbe bene, che la Fortuna si levasse una volta la benda dagli occhi per vedere almeno chi piglia; – sarebbe bene, che la Giustizia tenesse una stadera sola, e non una per il povero, e una per il ricco; – sarebbe bene, che il Giudice quando va in Tribunale appiccasse al cappellinaio anche le sue passioni per riprendersele quando va a pranzo; poichè bere un fiasco di vino di più non è un terremoto, – dell'altro vino si trova; ma una testa di più o di meno è una cosa seria, attesochè l'uomo non n'abbia che una: – vi ripeto, starebbero bene tante belle cose! sarebbe bene anche, ch'io non fossi in prigione; – e per questo, – se io vado sui mazzi, forse non sono sempre in prigione? che serve ostinarsi, e dar di cozzo nel destino? Tornerete indietro colla testa infranta; e finchè non giunga il tempo _ad hoc_, il vostro sangue non sarà considerato; – i contemporanei appena si prenderanno la briga di guardare, se il vostro sangue era del solito colore, o no. ― E voi avete finito? Il vostro è un discorso diabolico, e si scorge bene, che siete di coscienza larga..... Dovreste essere un gran partigiano del quieto vivere, – uno scettico. Lo scetticismo è il sistema degl'infingardi. Badate, non voglio mica dire, che abbiate spropositato; anzi avete aggruppato con tal arte le figure del vostro quadro, che ai più sembrerà plausibile. Avete esposto dei fatti, avete detto delle verità, avete enunciato anche qualche sofisma, e stringendo poi non avete negato nulla, non avete conceduto nulla. Io ve l'ho detto, siete uno scettico. E credete, che, a guardare minutamente da vicino, il buco nella calza si trova; e quel vostro discorso in parte potrebbe sfumare. Sicuro, bisognerebbe intraprendere una lunga polemica, e mettersi al largo, cosa che io non ho intenzione di fare, e specialmente con voi, – con voi, che sareste uomo da addormentarvi a mezzo la disputa, che con una stretta di spalle non fate più differenza dal Sole di Affrica a quel di Norvegia. Quanto poi al vostro pretendere, che l'uomo non si perda dietro ad un'idea, che non può mandare ad effetto, avrete ragione nella massima, ma avete torto nel fatto, e senza avvedervene siete dato nella rete, che volevate scansare; – voi filosofo sperimentale questa volta mi siete riuscito un idealista; – avete preteso, che la mente umana si sottragga da un fatto, che spesso la incatena indissolubilmente. Non l'avete mai voi osservato questo fatto? o l'avete dissimulato per aver ragione? Può darsi anche questo, perchè siete malizioso la vostra parte. Non avete mai osservato, che in ogni tempo, e in ogni nazione, nascono uomini fatalmente avvinghiati ad un'idea fissa, – un'idea talvolta capace anche a falciare la vita d'una generazione; – un'idea che amano col furore della gelosia; – che non lasciano mai, benchè la veggano confinar col patibolo? – Questi uomini nell'epoca loro hanno due faccie: una sublime, e l'altra grottesca; e la storia contemporanea li chiama pazzi od eroi, secondo da chi è scritta la storia. Al giudizio pacato, imperterrito, dei posteri spetta determinare una delle due faccie, una delle due denominazioni. CAPITOLO XIV. Ma il Povero dov'è rimasto? è morto di angoscia, o di fame? Chi sa? tutto può darsi. – Le carceri vivono alla buona, – non tengono storici al loro stipendio, – non registrano nè date, nè nomi, nè avvenimenti; – le scene che si svolgono nel loro grembo sono scene d'un altro mondo, – d'un'esistenza sotterranea, – e temono la luce come cosa nemica; – pure così all'ingrosso le carceri si rammentano di alcune notti, – d'un viso truce, – d'un pugnale, o d'un laccio, – d'un gemito cordiale, – d'una caduta pesante; – si rammentano ancora di certuni entrati sani e gagliardi, che di lì a poco si fecer lentamente cadaveri per difetto d'acqua, e di pane. – Fu questa dimenticanza, o caso pensato? – Non precipitiamo nei nostri giudizi. – Dio è il revisore delle coscienze, – e Dio, che può convertire in uno scherno il diadema e la testa del prepotente, un giorno vorrà conoscere il _pro_ e il _contra_ di queste ed altre bisogne. Ma dunque è morto quel pover'uomo? E così solo, solo, e infelice, come avrà fatto a reggere il peso dell'agonia? – e se avrà chiesto un sorso d'acqua, per mitigare la febbre delle sue viscere, chi gli avrà bagnato la bocca? – e se l'asma lo soffogava, chi l'avrà sollevato a mezza vita? Chi gli avrà asciugato la fronte, e scaldate l'estremità irrigidite? Chi gli avrà dato una croce a baciare? – Chi avrà risposto amorosamente al delirio d'una testa che si sfascia, che vede il diavolo, che vede i Santi, che vede un'ombra nera, un'ombra bianca, mille stranezze, che lacerano il cuore di chi sente, e per un tratto percuotono di smarrimento la ragione di chi le considera, fosse pure una ragione di ferro? Chi gli avrà aperte le finestre, perchè beva un ultimo alito d'aria pura, perchè veda il cielo e la speranza? Oh! la speranza è un letto di piume al moribondo, ove egli a quando a quando dimentica le spine sulle quali si giace! è un'ala candidissima sulla quale l'anima del moriente va a posarsi via via, provandosi così per tempo a slanciarsi alla vita degli angioli! – E i suoi figliuoli? perchè Dio non rompe le porte della prigione, onde passino i suoi figliuoli? Poveri suoi figliuoli! non poterli benedire, non poterli vedere, non poterli palpare! Poveri suoi figliuoli! d'ora innanzi chi darà loro un bacio, chi darà loro del pane? Misero padre! questo pensiere ti sta come una lastra infuocata sul cuore; – è l'unica striscia di ragione e di memoria, che sia rimasta intatta nel naufragio della tua mente; – questo pensiere è la tua vera agonia; – agonia di coscienza, e di sensibilità; – questo pensiere ti fa dubitare di Dio, ti fa sorridere infernalmente. Misero padre! hai tu commesso un delitto infinito per meritarti un tormento infinito? Ma dunque è morto quel pover'uomo? e chi gli ha asciugato l'ultima lacrima? chi gli ha chiuso gli occhi, chi l'ha baciato cadavere? Il pover'uomo non è morto ancora, – almeno giova sperarlo. E s'ei fosse morto, chi l'avrebbe potuto sapere finora? Presso a poco è trascorsa una giornata, e il soprastante non ha anche aperto quell'uscio. Cosa importa al soprastante, se il Povero sia morto o vivo, purchè sia in prigione? Cosa importa al potente, che esista un povero di più o di meno? Non è egli il padrone del carcere, dell'esilio, e della scure, l'arbitro della vita e della morte, del Torto e del Diritto? Il potente di rado è iniziato ai misteri della sciagura; e una volta che sia, non è più potente; – ma s'ei potesse sapere e sentire quanti dolori gemono, quante lagrime piangono sotto ai suoi piedi, forse gitterebbe lo scettro con quel ribrezzo come se avesse tenuto un aspide. Chi mai l'educa a simpatizzare coi suoi fratelli di carne? Chi gl'insegna, che il dolore solo è re della terra in eterno, e che la Sorte dona colla destra, e toglie colla sinistra? Chi gli rammenta l'uguaglianza solenne, universale, del sepolcro? Chi lo consiglia a compatire le debolezze, le colpe, e gli affanni d'una schiatta dannata a travolgersi fra l'ignoranza e il bisogno? Chi gli fa sapere, che l'errore è un elemento organico dell'umana natura, e che un uomo solo non è mai infallibile? Chi lo sospinge a chinar verso terra lo scettro a guisa di leva per suscitare i prostrati, e non a gravarlo come un flagello? – Invece i suoi cortigiani recidono qualunque legame fra lui e il popolo; – lo chiudono fuori dell'umanità; – lo chiudono in un palazzo assiepato di ferri appuntati contro il lamento e la preghiera dell'infelice; – gli fanno vedere il mondo traverso un prisma colorato d'oro e di porpora; – gli empiono l'aule di festa, e d'armonia continua; – gl'intristiscono il cuore con un senso monotono di prosperità ottusa e solitaria, – talchè se un sospiro per accidente gli ferisce l'orecchio, dimanda: ― perchè sospira quel miserabile? è egli così fiacco? io non ho mai sospirato. ― Lo persuadono a riguardare i precetti moderatori d'una santa filosofia come atti di ribellione; – gli fanno credere ch'ei sia stato creato a calpestare uno strato di teste umane. – Gli comprano un poeta, gli comprano uno storico, per adularlo in prosa e in versi, – nel bene e nel male; – lo posano sopra un'ara; – gli mettono in mano il fulmine della legge assoluta, e poi l'adorano; – tanto che, se egli non si vedesse diffuso sul capo il manto infinito dei cieli, crederebbe d'essere Dio. E quando gli hanno pervertite tutte le facoltà del cuore e dello spirito, gl'insegnano a giuocare indifferentemente colla vita dei popoli come fa il matematico sulla sua lavagna, che trasporta a suo talento i numeri da un'estremità all'altra, e per uno sbaglio o per bizza cancella talvolta la cifra d'un milione. Oh! la potenza senza freno d'umane simpatie è un dono funesto! Trista è la potenza che può emulare Dio nel distruggere, e non nel creare; che può annientare una generazione, e non può risuscitare un verme quando l'ha spento! CAPITOLO XV. ― Devo dirla come la penso? – Per un tratto del vostro discorso mi avete fatto una paura diabolica; – io credeva, che voi voleste volare; – io tremava per voi, ma poi mi sono rassicurato; – vi ho guardato i piedi, e li ho veduti immobili, e fissi come chiodi. – Per altro avete fatto un gran fare; – sbracciavate, – sbuffavate, – gli occhi fuori dell'orbita, – il volto infiammato, – le vene della fronte rigonfie; – vi pare a voi? – è la maniera di farsi venir male. E che paroloni! _sesquipedalia verba:_ – e che voce avete fatto! ne ho sempre rintronate le orecchie! voi eravate in un accesso! mi avete fatto paura! io già pensava a una cavata di sangue. Volete un consiglio da amico? Smettete cotesto stile, – non è per voi, – non ci guadagnerete, che l'asma. Voi non siete un uomo esaltato, – non potete esserlo, – avete troppo _umore_. Io lo so; – vorreste esser poeta; – ognuno ambisce di essere quel che non può. Invece di un buon cappello di feltro vorreste una bella ghirlanda d'alloro, – per mille ragioni, e, non fosse altro, per campar la testa dalle saette. Ma datevi pace, l'alloro non è per voi; – e ve ne regalassero anche un albero, non sapreste mai trarne una corona di poeta; – gran mercè, se voi ne cavaste una frasca da osterie. – Io lo so; – vorreste esser poeta, e vorrei essere anch'io; – ma come fareste quando il filo non arriva? – Vi compatisco; – avete letto Dante, l'Ariosto, Byron, Schiller, Goethe; – li avete gustati, – li avete sentiti; – vi compatisco; vorreste anche voi avere un'anima temprata come l'arpa eolia, che ad ogni minimo fiato rendesse armonia; vorreste avere un'anima limpida, trasparente, in cui l'universo si riflettesse come in uno specchio. – Ma è tutt'una, – non siete nato, – i poeti nascono belli e fatti: _Vates nascuntur._ Ditemi voi, – dove andarono a scuola Omero, Ossian, Burns? – E poi sentite questi due versi, che paiono fatti a posta per voi: _E cui Natura non lo volle dire_ _Nol dirian mille Rome, e mille Ateni._ Avete capito? e badate, son versi di un classicista, che credeva nell'Arte forse più del dovere. – Smettete, – vi ripeto – sarà meglio per voi. Consultate bene l'indole vostra, e quella seguite; non farete mai male. Perchè, se avete corta la vista, volete farmi l'astronomo? Fate il sartore piuttosto, che cucirete a punti piccoli e bene uniti, e così vi acquisterete una lode moderata, è vero, ma pure una certa lode. – Non fate l'astronomo; – potreste scambiare un fanale col mondo di Saturno, e allora – _risum teneatis, amici?_ – Smettete lo stile eroico, – non è per voi; invece di fare della poesia, fate della rettorica, – cosa veramente insoffribile in un secolo come il nostro. Non ve l'ho detto io sempre? Il cavalcare non è per voi; – crederete di fare la figura di un S. Giorgio, e invece siete una balla a cavallo. Non ve ne abbiate per male, – andate a piedi, – è la vostra condanna. Cosa ci volete fare? Tanto, poeta non sarete mai; vi manca l'ispirazione. Se l'esser poeta consistesse nel tornir bene un verso, come usava nel cinquecento e nel settecento, – vada; avete l'orecchio abbastanza armonico, e, quando vi piace, sapete scegliere una frase elegante. Ma tutto questo non è poesia, – è un lavoro da monache. Avete bensì l'anima spruzzata di poesia, – ma quella vena larga, inesausta, – che costituiva Dante e compagni, – voi non l'avete. – Non bisogna pretendere di far tutto, – anche il genio ha i suoi limiti. – Newton, che poteva leggere a suo beneplacito la facciata immensa del firmamento, si smarrì nei pochi fogli dell'Apocalisse, e riuscì un infelice teologo. – Chi nasce artefice per tessere un drappo prezioso, – chi nasce tignuola per guastarlo. E la tignuola, – è inutile, – non sa che rodere. Ve lo dica un Professor dal fiocco rosso, quando si propose anch'egli di fare una stoffa! – Fece una tal cosa, che anch'egli ne avrebbe riso, se non fosse stato giudice e parte. Ma non fu così quando si trattò di rodere; – vero è bensì, che in ultimo torse la bocca, perchè le tinte delle vesti corrose contenevano troppo d'acido. – Smettete, – non cesserò mai di ripetervelo, – lo stile poetico; – credete di suonare la tromba epica, e invece non fate che gonfiar le guancie. Voi non siete veramente nè poeta, nè oratore, nè storico, nè filosofo, nè tignuola; – siete un non so che, che non lo sappiamo nè io nè voi. – Quando la Natura vi architettava, invece di farvi la testa, sopra pensiere fece una gabbia da grilli; – poi si accôrse del fallo, ma non volle tornare indietro, e lasciò il lavoro come stava; – pure perchè la gabbia avesse uno scopo, una conveniente destinazione, la riempì liberalmente di grilli, e così voi siete riuscito quel che siete. Dovete convenirne per maledetta forza, – l'enfasi, il far di Pindaro, a voi non si addice; – voi non potete aspirare, che a una certa ironia, a una certa malizia, talvolta a un poco di grazia, a uno stile negligente giusto appunto come siete voi. Datemi ascolto: scrivete sempre alla buona, alla _sans souci_, e terminate la storia del Povero carcerato. ― CAPITOLO XVI. E così mandando al diavolo tutti i saccenti, e adoprando lo stile che meglio mi aggrada, ripiglio la mia storia tante volte interrotta. Il pover'uomo non è morto ancora; – prova ne sia ch'io l'ho veduto. ― Come mai? ― mi direte. Ecco come; mentre quel ser saccente mi dava quei tanti consigli, che io non gli aveva chiesti, facevamo cammino, e questo era il meglio; a un terzo del discorso, siamo giunti dinnanzi alla carcere, e di lì a minuti è stata aperta, ond'io ho potuto vedere agiatamente i fatti miei tali e quali come vado a dirveli. – Il pover'uomo, come sapete, non è morto ancora; e s'ei fosse morto, (questo lo dico per rispondere a chi dianzi trepidava tanto per lui), s'ei fosse morto, certo sarebbe morto senza nessuno d'intorno, – solitario come una bestia del bosco. Chi volete che fosse passato per assisterlo in quel transito angoscioso? Fra il Povero e la Pietà sta di mezzo una prigione, e la Giustizia ne difende l'ingresso come la spada del cherubino alle mura dell'Eden. Il pover'uomo non era più stupido, come quando io lo lasciai; – mi pareva anzi irritato, – e forse troppo. Le sue passioni erano rimontate, – le passioni fanno come la marea. Allora sì mi pareva, che più di prima egli avesse bisogno d'un amico, che con modi cordiali e con suoni di conforto si provasse di acchetare quella tempesta, che gli ruggiva dentro, e gli capovolgeva la ragione. Egli passeggiava furiosamente per tutti i versi i cinque passi della sua stanza; – spesso si dava nella fronte con una palma, – spesso batteva coi piedi la terra; – ora fischiava turbinosamente, – ora cantava in una lingua e in una musica affatto nuova; – ora s'incrociava le mani sul petto, nascondendosi le pupille terribilmente sotto le ciglia. Una volta si mise una mano sul cuore, – e fece atto di strapparselo, e di lanciarlo in aria con un grido disperamente salvatico, – uno di quei gridi, che atterriscono l'uomo e la fiera, – il grido della madre che fuga il leone, e gli cava il figlio di bocca..... Dipoi si riconcentrò, e fece pochi passi adagio adagio, e senza intenzione: – quindi sembrava stanco, e si pose a sedere sopra uno scalino col capo fra le ginocchia. – Col capo in quella maniera, io non potei vedere se pregasse, se bestemmiasse, se piangesse. Forse egli faceva queste tre cose confusamente insieme; – forse era assorto in una di quelle estasi, prodotte dall'ambascia profonda, in cui l'anima abbandona il corpo, e s'ingolfa in una nuova esistenza, in un mondo incognito, pieno di forme strane; non mai vedute, non mai pensate, – dove l'anima giace immemore di quello che fu, di quello che è; – e solamente, tra il sì e il no, sogna, che in qualche parte le dolga, ma non sa dove, non saprebbe cercarvi, non è tentata a farlo. A un tratto mi scosse un forte sospiro misto di singulto; – e vidi che il pover'uomo si era rialzato girando penosamente la testa verso l'inferriata. – E l'inferriata confina col palco, e la persona non può salirvi. ― Gli sia contesa anche la vista del cielo: ― così hanno detto, e così hanno fatto. – Un raggio scarso di Sole entrava malvolentieri tra mezzo alle sbarre, e sdrucciolava giù in fondo, lento, malinconico, scolorito, vestito anch'esso da povero. Forse quel raggio era pietoso, e tramutava così la sua pompa per mettersi d'accordo col Povero, – per non unirsi all'oltraggio degli uomini. Arrivato a questo punto, io non vidi più nulla. Il soprastante chiuse, e partì. – Io non vidi più nulla, e l'ebbi a caro. Quando il dolore percuote a gran masse l'anima umana, è una vista che si può reggere; – e talvolta è uno spettacolo dignitoso, quando l'anima sviluppa un vigore proporzionato alla forza delle percosse; – e quel combattimento tra il mortale e il Destino, tra il signore e lo schiavo, ha un non so che di sublime, che lusinga la nostra superbia. Ma quando il dolore prende lo scalpello del notomista, e comincia a incidere il cuore di dentro e di fuori con mille tagli diversi, e lo cincischia con mille disoneste ferite, quello spettacolo allora ha un non so che di fastidioso, e di crudele, che gli occhi non lo sopportano, e, offesi come sono, volentieri si chiudono. Io non vidi più nulla, e l'ebbi a caro. – Il soprastante era venuto a visitare la carcere, e non il carcerato; solamente avea portato seco un vaso d'acqua fresca, e l'avea deposto per terra. ― Dunque quel pover'uomo morrà di fame, – perchè d'acqua, o fresca o calda che sia, non si vive; mala pena si vive di pane... ― No, no; rassicuratevi; questa volta non morrà di fame; un pane gli sarà dato. Ridete? – io vi comprendo, – sarà un pane dato come un colpo a un nemico; sarà un pane duro, duro davvero; – ma che vuol dire? – Ei l'ammolirà colle lacrime: – perchè no? – forse non è infelice? – la corda del pianto forse non è la prima corda del cuore, e non trema forse al soffio più lieve? – L'ammolirà colle lacrime, – non ne dubitate; – non v'ho io già detto, che sa piangere? e, se l'alterezza gli vietasse di piangere per sè, non ha i suoi figliuoli, non ha forse una madre, non ha un amore, una patria? Io piango, – voi piangete, – tutti piangono. Questo è tal verbo, che ognuno sa e deve coniugare senza bisogno di gramatica. La sventura è qua maestra per tutti. O Sventura!...................... Tu sei una pianta perenne, che non temi vicenda di stagione; il sereno e la procella egualmente ti alimentano. Il tempo, che coll'ala instancabile corre rovinando ciò che gli si para di fronte, quando giunge dinnanzi al tuo simulacro chiude l'ala, e oltrepassa adorando. – Il genio avvalorato dal grido delle plebi umane ha tentato sovente di atterrare il tuo Nume, ma indarno. La Fatalità ti protegge, – e i conati del Genio e delle moltitudini si sono spezzati contro di te, come la spuma contro la rupe..... – Il mondo è tuo retaggio assoluto; – e se il tuo spirito gode aggirarsi fra le rovine, – gode pure insinuarsi come il serpente fra l'erbe e i fiori. Tu puoi rivestire anche l'aspetto dell'allegrezza; – e non v'è una razza stranamente infelice, che ha sempre il sorriso sul volto, e il pianto eterno nel cuore? – questi son più d'ogni altro infelici, appunto perchè non sembrano. – La vita ti appartiene intera; – tuo è il primo vagito dell'infante, – tue le tradite speranze del giovane, – tuo il gemito estremo della vecchiaia..... Non v'è nessuno, che trapassi da questo pellegrinaggio ai riposi della tomba senza avere offerto nel tuo santuario il suo obolo, – senza averti dato almeno una lacrima, – una lacrima spremuta dal più puro sangue del cuore. Tu non ammetti privilegi, e stampi il tuo marchio rovente tanto sulla fronte alla virtù, come sulla fronte al delitto; – ogni condizione deve piegarsi sotto la tua verga, tanto il conquistatore, che stende la sua spada sui popoli come il raggio del Pianeta, quanto l'umile bifolco, che nasce e muore ignorato come l'eco della sua valle. Anche il povero matto, – che a spese della ragione si riparava in un mondo di larve, e d'illusioni, e credeva francarsi dalle leggi della comune esistenza, – anche il povero matto deve adorarti; – e quando la morte è vicina a rapirselo, tu gli doni un istante lucido d'intelletto, onde anch'egli senta la tua presenza, e ti paghi il suo tributo di dolore. O Sventura! tu non sei punto generosa, tu non hai coraggio di risparmiare nè anche il povero matto. CAPITOLO XVII. I primi primi giorni, che l'uomo passa in prigione, sono per l'anima sua come giorni nebbiosi: – l'anima non ha peranche fatto l'occhio a quel clima; – vede confusamente, talvolta non vede gli oggetti, talvolta li vede a doppio; – il suo palato non ha sapore; – un ronzio continuo gli alberga le orecchie; – lo spirito giace stordido, e non sa pensare; – il cuore sente di star sotto a un fascio enorme di sensazioni, ma non sa darne ragione. Se la mente non gli crolla, è una prova sodisfacente della sua buona tempra; – se il corpo non gli si ammala, è una prova sodisfacente, che il corpo fu tessuto _comme il faut_. Sia come vuolsi, però in cotesta alterazione dello stato normale dell'anima l'uomo ci guadagna qualche cosa; – la noia non trova luogo di abbarbicarsi così di leggieri; – il pensiere, che agisce eccentricamente, non è quell'avvoltoio insaziabile, come quando il senno si aggira sopra il suo pernio naturale; – e il dolore vibra il suo pungiglione sopra una carne mortificata. Questo stato di esaltazione, in cui tutte le nostre potenze superando il coperchio hanno dato di fuori, ha prodotto per legge di reazione una pace stanca, un sopore, un dormiveglia nell'anima nostra, che volentieri ella afferrerebbe di nuovo quando si desta, e la pienezza del giorno le mostra a diritto e a rovescio la sua posizione. Ma la natura vive d'eccezioni a controgenio, e quanto più presto può gradatamente rientra nel suo letto. Una volta per altro, che il carcerato si è stropicciati gli occhi, e gli ha spalancati, ed è desto ben bene, e si accorge, e tocca con mano di essere in prigione, la prima cosa che sente è la sconvenienza di una simil dimora, e il primo pensiere che se gli affaccia è quello di andarsene. Io stesso, che sono un uomo tutto pace, che, se il vento mi porta via il cappello, aspetto che si fermi, e non gli corro dietro, io stesso, – Dio mel perdoni, e chi mi ci ha messo, – ho pensato, prima d'ogni altra cosa, di andarmene. E vi ho pensato così a lungo, e con tanta intensità, che mi maraviglio come questo pensiere nel chinarmi non mi sia caduto giù dal cervello in forma di lima.... E se questo mio cranio verrà in potere del sistema di Gall, e di Spurzheim, quei signori notino bene, e cerchino fra le tante protuberanze buone e cattive, chè troveranno uno scavo fatto dall'idea della fuga, una figura tale e quale come l'ho descritta qui sopra. Pertanto noi siamo d'accordo; – il primo pensiere del carcerato è quello di andarsene. I mezzi poi per andarsene sono due: uno naturalissimo, e di riuscita infallibile, ed è quello di andarsene quando ti metteranno fuori; – l'altro naturale pur egli, ma non al grado del primo, ed è quello di fuggire. – Tu puoi fuggire con due metodi: – o fuggire da te col rompere la porta, o col segare i ferri della finestra; – o corrompendo a furia d'oro i custodi. Il primo metodo costa assai meno del secondo; il secondo assai più del primo. E tutto questo per tua regola e governo. Io dopo molte considerazioni fatte colla coscienza, e non a caso, ho meco stesso deliberato effettivamente di rimanermi, finchè un qualcheduno non venga e cavarmi. Già, figuratevi voi, mi hanno messo in un Forte munito di soldati, e di cannoni, e sotto chiave di un Profosso munito di 12 Articoli stabiliti contro di me, e contro di lui; il Forte poi l'hanno messo in un'isola. – Ora andate a fuggire, se vi riesce! – Io mi protesto da capo, che non ho voglia nè modo di andarmene; e quando anche conseguissi la fuga, sarei costretto a tornarmene indietro, perchè fuori è la stessa prigione; – avrei di più a pagare il fitto d'una stanza, mentre adesso me ne godo un paio, e di pigione non se ne discorre, a meno che non facessero all'ultimo tutto un conto. – Napoleone, è vero, fuggì, – ma voi sapete chi era costui; e se nol sapete voi, altri l'hanno saputo; – e poi, egli fuggiva per delle buone ragioni; – fuggiva per rimettersi in capo un berretto da imperatore, ed io non potrei mettermi in capo che un berretto da notte; – fuggiva per riafferrare la coda della Fortuna, che nuovamente gli capricciava dinnanzi, e gli faceva le smorfie da innamorata; – e poi, egli era padrone del Forte dove io son racchiuso, e il Forte non era padrone di lui. – Ma io, che sono una cosa con un nome, e con un casato, e niente di più, faccio sapere a tutti una volta per sempre, che ho meco stesso deliberato effettivamente di rimanermi, finchè non mi diranno: – vattene. – Io sopporterò la mia prigione, come una escrescenza, che per un accidente mi sia venuta sulla persona, – come la paziente pizzuga sopporta quella casa d'osso, che la Natura gli ha collocata sul dorso. V'è ancora un altro mezzo d'evasione, – ma io m'attento poco a proporvelo.............. (_Mancano nel Manoscritto la fine di questo, e alcune parti del seguente Capitolo, il quale a differenza degli altri porta il titolo in fronte_). CAPITOLO XVIII. IL SUICIDIO. ........... Spendete meno massime, spendete più fatti: – allargate le vie della vita, sgombratele di tante spine, che vi seminò l'errore e l'ingiustizia. Con che titolo l'ozioso opulento verrà a filosofare aspramente sul corpo del suicida per miseria, – egli, che giornalmente in una bottiglia di _Sciampagna_ beve almeno cinque giorni dell'esistenza di un povero? . . . . . . . Discendendo poi dalle teoriche al fatto, osserviamo che più ordinariamente questo fenomeno si verifica o nell'estrema energia, o nell'estrema spossatezza dell'umana natura. Di rado tocca il grado intermedio; – di rado un uomo dotato di facoltà temperate mette le mani nel proprio sangue. Egli è buono a sopportare molti disastri, che fiaccano il debole; – egli in forza delle sue misurate facoltà non si trova mai avvilupato in quel nodo di eventi, che sforzano l'uomo superiore a sparire dalla scena del mondo celandosi in un sepolcro. L'uomo moderato può convenientemente transigere con una lunga serie di fatti. L'uomo debole vive a caso, – e se i fatti gli passano rasente senza urtarlo di fronte, può invecchiare pacificamente, e morir nel suo letto. Ma se un fatto lo prende di fronte, egli è perduto, egli non ha vigore bastante da sviarlo, e rimetterlo sul suo cammino. Una cosa lieve, un nonnulla, anche una risata, in un cervello così fatto diventa un'idea fissa; e allora la follia compie la paralisi delle sue forze morali, ed egli è costretto a morire senza poterne dar conto a chi glielo dimandasse. Io ho conosciuto un giovane leggiadro di forme, d'indole mite, ma vuoto di testa, che si fucilò, perchè i genitori, che l'amavano assai, non gli permisero di farsi dragone. – Ma l'anima atletica d'un eroe trascorre una scala lunghissima d'eventi, e nulla l'arresta; – la sua gagliardia rompe spesso la corrente, che strascinerebbe in rovina ogni altra forza fuorchè la sua; – poi ad un tratto si trova di faccia una combinazione intricata, profonda, dove freme l'onnipotenza del Destino. Allora il Genio si conosce perduto, – ma non cede sul subito; ei sviluppa una lotta da gigante a gigante, – e la lotta dura finchè le forze da una parte resistono: – finalmente il Genio soccombe, – il Destino supera, perchè il Destino è ciò che deve essere. Che deve fare allora l'eroe? – progredire è impossibile, perchè una barriera di adamante gli chiude i passi; – rovinare in fondo è impossibile, perchè la natura del Genio è di salire finchè può. Allora l'eroe decide di morire, non già perchè vuol morire, ma perchè non può più vivere. Non è il delirio, che spinge; è la coscienza, che sceglie. Il Genio si scava la fossa su quel gradino, dove la Fatalità gli ha reciso l'ale; – e si scava la fossa per insegnare che il sistema del Bene va portato innanzi finchè si può, e non va rinnegato colla codardia del tornare indietro. Certo, il suo concetto era di salire al sommo della scala, e piantarvi lo stendardo della vittoria. Dio non ha voluto, – egli è morto. Egli non poteva vivere sospeso fra il cielo e la terra. Catone sta per la Repubblica, – e combatte all'usurpatore a palmo a palmo il terreno; ma questi, più felice di lui, lo incalza di provincia in provincia, – lo soffoga coll'alito ardente della vittoria. Catone finalmente è in Utica, chiuso in un circolo magico, donde gli sarà impossibile uscire come dalla tomba. – Già si sente fremere a tergo il delitto e la fortuna di Cesare. Ma i fati non sono per lui, – egli lo sa. Non v'è più scampo, – non v'è più spazio, – non v'è battaglia più da tentare; – la Virtù contro il Fato è un vetro contro una massa di ferro. Catone deve morire, e morrà. Poteva rendersi a Cesare, – ed ei l'avrebbe perdonato, – l'avrebbe anche onorato, – perchè Cesare era un tiranno, ma un tiranno di genio. Catone era come quei metalli, che si spezzano, ma non si piegano. Doveva morire per dimostrare, che la Virtù è un fatto sensibile, e non un nome vuoto; doveva morire, perchè la sua ragione gl'insegnava pacatamente la morte come un dovere, la vita come un tradimento. Se non fosse morto, nè i contemporanei nè i posteri avrebbero saputo in che più credere. La sua morte fu una protesta eloquente contro l'usurpazione felice, – una guarentigia del diritto, – un conforto, uno stimolo ai superstiti; e dal suo sangue usciva una voce, un insegnamento solenne a morire piuttosto che a disertare una causa santa. E Bruto da quel sangue raccolse quella voce, e se la pose nel cuore. Quella voce gl'intimò primamente a non disperare della salute della patria, – a tentare la sorte incerta delle armi, e così fece; – poi quando a Filippi fu perduta l'ultima battaglia delle Libertà Latine, interrogò quella voce, e gli disse di morire. E Bruto moriva incontaminato, come devono morire le anime sublimi. – Comprese la santità della sua missione, – la grandezza dell'esempio, che andava a dare, – il frutto immenso di cui questo sarebbe stato fecondo nell'avvenire. Il suicidio in lui non fu il consiglio d'uno stretto egoismo, – fu un sacrifizio fatto alla dignità dell'umana morale. Se fosse vissuto, avrebbe commesso peggio, che una viltà; – avrebbe messo in dubbio i diritti dell'uomo; – avrebbe sanzionata la scelleraggine trionfante; – ne avrebbe in certo modo velate le vergogne: – così la lasciò nuda, – così col suo sangue si appellò pei diritti delle nazioni alla vendetta dei posteri rigenerati; – così piuttosto che concederla agli stupri della tirannide volle condur seco la Virtù vergine nella tomba. Bruto, anima esaltata, e inflessibile nell'amore del grande e del giusto, era portato al suicidio dalla necessità e dal dovere. Non gli rimaneva a fare più nulla nè di buono, nè di grande; – non gli rimaneva nè anche di sedersi sulle rovine della patria, e sciogliervi un canto funereo; – le rovine della patria erano ormai lo scanno dei Cesari. – Doveva fuggire? Il pensarlo solo è un sacrilegio; – ma e in qual parte di mondo fuggire? Il mondo era una Provincia Romana, e qualunque nazione avrebbe portato a gara la testa di Bruto in aggiunta ai consueti tributi. Doveva ricorrere alla clemenza di Augusto? Oh! l'ultimo dei Romani non poteva ricorrere al primo dei tiranni. La Fatalità aveva incatenato lui alla Repubblica, e la Repubblica a lui. Erano due in un destino solo; – dovevano esistere insieme, perire insieme, e perirono. E poi conoscete voi la clemenza d'Augusto? Ve lo dica Perugia. – Augusto non aveva, che talento e libidine d'imperio; – del resto, ineccitabile come una pietra; un alito di passione non aveva mai increspato quel mare morto dell'anima sua. Un giorno fece un conto e barattò la testa di Cicerone suo amico contro quella d'un uomo, che appena conosceva, come farebbe un fanciullo dei suoi balocchi; e sotto manto d'amore carezzava Cleopatra per menarsela a Roma in catene in un giorno di festa, e d'orgoglio. Augusto avrebbe messo la testa di suo padre per puntello a un piede del trono, se quel piede non avesse posato in piano. Il suicidio di Catone, di Bruto e di mille martiri della Verità, è un eroismo, – un fatto di natura trascendentale, che sfugge al compasso di una volgare filosofia. È il punto culminante dell'umana grandezza, è il Sacrifizio. L'invidia sola può tentare d'impiccolire le proporzioni colossali d'un tanto fenomeno, ma la ragione sdegna l'analisi, e si contenta di venerare. Il suicidio è vero, che in questi casi stacca un fiore dalla corona della Virtù; ma la Gloria raccoglie tosto quel fiore, – ne fa una stella, e l'aggiugne al suo serto immortale. CAPITOLO XIX. Poffare Dio! ho scritto queste quattordici pagine tutte d'un fiato, e con tanto impeto, che me ne trovo stordito. Ho lasciato fare il più al sentimento, e alla penna; – al cervello è toccata la minima parte. Non so se sia bene; – comunque siasi, è andata così. Mi son voluto lasciare andare, dove il flutto voleva portarmi, – ho lasciato le vele in balìa del vento. Se invece di arrivare in porto ho dato in secco, non ve ne prema; – il danno è tutto mio. Quando me ne vada il peggio, vuol dire che non avrò ragionato. Benissimo; – è una cosa, che mi succede spesso, anche quando ho le più serie intenzioni di fare il contrario. – Per me è una baia. _Quandoque bonus dormitat Homerus._ Non lo dico per superbia di paragone, – lo dico così per citare, e per far vedere, che anch'io sono stato in collegio, dove in quattro anni m'insegnarono a non sapere il Latino. Non lo dico per superbia di paragone. Omero era cieco, e poeta; io invece ho due begli occhi, e non sono nè poeta, nè prosatore. Scrivo per capriccio, – per far diventar nero un foglio bianco. Scrivo perchè non ho da parlare con nessuno, chè se io potessi anche con una vecchia, anche con un bambino, non pensate, non toccherei la penna. Andate a leggere, se vi riesce, quello che ho scritto quando io non era in prigione! Certo potrei parlar meco stesso, – ma non voglio avvezzarmici, perchè uscendo di prigione con questo vizio, e portandolo meco in società, mi potrebbero prender per matto. Assai in fatto di giudizio non godo di un credito troppo esteso! – allora la storia sarebbe bella e finita. – D'altronde, quando io scrissi le suddette quattordici pagine, avevo il cuore pieno pieno, – non so di che, – ma veramente pieno, – e bisognava sfogarlo. Se fossi stato un romantico, avrei scritto una ballata malinconica, – se un classicista, avrei scritto un'elegia; – se un musico, avrei cantato qualche melodia del Bellini. Ma io non sono nulla di tutto questo, – non so che fischiare; – però lo faccio quando ho l'umor nero, o quando una coppia di grilli mi mettono in festa di ballo la fantasia. – Del resto, ve lo ripeto, ho scritto quel che io sentiva; – il calcolo ci è entrato per un momento, e poi fuori. L'anima ha qualche quarto d'ora, in cui se ne vuole star sola sola con le sue sensazioni, liete o dolorose che sieno, e guai se la mente vuol venirne a parte; – guasta tutto, come qualche viso antipatico spesso mette il freddo e il silenzio in un crocchio cordiale d'amici. D'altra parte è impossibile star sempre sopra una nota, – e quand'anche ti riuscisse, verresti noioso a tutti, e i casigliani ti caccerebbero del casamento. La vita, a voler che sia bella, a voler che sia gaia, a voler che sia vita, dev'essere un arcobaleno, – una tavolozza con tutti i colori, – un sabbato dove ballano tutte le streghe. Il sollazzo e la noia, il pianto e il riso, la ragione e il delirio, tutti devono avere un biglietto per questo festino. Che serve far della vita una riga diritta diritta, lunga lunga, sottile sottile, noiosa noiosa, e color della nebbia? È un volersi reggere sopra un piede solo, – è un mettere l'anima umana nella stessa situazione, in cui si pose lo Stilita, che stette quarant'anni in cima a una colonna. Vuol essere un'orchestra piena, e non un piffero solo; – varietà vuol essere. Viva la varietà! Per tutti questi motivi, io ho scritto quattordici pagine senza pensare, e non me ne pento. Giorgio Spugna mio dilettissimo amico mi ha ripetuto sovente queste notabili parole: «L'uomo che è sempre savio val poco più dell'uomo che è sempre pazzo; – _est modus in rebus:_ – l'arte di pensare è un'arte, che va stimata e riverita; è una fatica concessa all'uomo, e negata alla bestia; – ma il farlo sempre si assomiglia all'avaro, che conta e riconta perpetuamente i suoi scudi; – qualche volta bisogna spendere; – il superchio rompe il coperchio; – qualche volta bisogna non pensare per riflessione; se no, all'ultimo, spesso invece di una scoperta psicologica ti trovi di aver pescato un'emicrania». Così mi diceva Giorgio Spugna, filosofo, che si è fatto da sè senza bisogno di libri, senza bisogno di Pisa, di Bologna, e di Padova. Non già che Giorgio Spugna sia ritroso al viaggiare, – anzi è questo un suo desiderio vivissimo, e giuoca sempre al lotto per vedere se un giorno o l'altro potesse mettersi in corso; e mi ha giurato più volte, che se ottiene il suo intento vuol fare il giro del globo, componendo un trattato di pratica comparata sui migliori vini dell'uno o dell'altro emisfero. Mi ha detto ancora, che giro facendo non avrebbe scrupolo di mettere in carta le sue osservazioni di qualunque altra maniera, dacchè egli pure possiede un cannocchiale fatto da sè, col quale guarda tutti gli atti di questa umana tragicommedia. – «Ma io nol farei», – soggiugneva Giorgio, – «giusto appunto perchè mi è venuto fatto di osservare, che le opinioni, anche buttate là colla stessa _insouciance_, colla quale soffio il fumo della mia pipa, possono cadere in frodo peggio del tabacco, e la multa non è lieve, ed è certa sempre la perdita della merce, e talvolta anche quella della persona; per questo io nol farei, e procurerei al _summum_ di tenermele a mente per ridirtele poi testa testa nel giolito d'un simposio, nell'intervallo fra un bicchier e l'altro.» ― E credete, che Giorgio Spugna è più filosofo di quel che non pare, precisamente perchè non pare un filosofo. E ripeterò con lui: _qualche volta bisogna spendere._ Che direste d'un uomo, che stesse da mattina a sera a guardar l'orologio per far buon uso del tempo? Per lo meno perderebbe il tempo a vederlo passare. Mettetevi in tasca l'orologio, e fate le vostre faccende, l'orologio consultatelo di quando in quando secondo il bisogno. Bisogna fare a tutti la sua parte, e se coltivate una cosa sola, e l'altre trascurate, godete meno, e le altre vi vanno a male. Così è come io ve la dico, e vi esorto a crederci, o almeno potete fidar più sul mio senno quand'io discorro alla buona, e senza pretensioni, che quando mi metto in aria di ragionare. Sopratutto rammentatevi il nome e le opinioni di Giorgio Spugna. Ei se lo merita, ed a me farete cosa cara. CAPITOLO XX. Io ho detto nel capitolo XVII, che sono in prigione, e lo confermo nel Capitolo XX. Oggi finiscono trentaquattro giorni, e non isbaglio; in mancanza del lunario li ho contati due volte sulle dita. A chi me l'avesse detto il 2 di settembre io avrei riso in faccia di un cotal riso da venirne al duello. Eppure io ci sono! Benedetti i primi giorni della mia prigionia! – io era così sempre fresco del passato, che sovente mi riusciva d'illudermi. Sovente sopra pensiere chiamava ad alta voce la serva, perchè mi recasse una cosa o l'altra; e sentendo che nessuno mi rispondeva, io mi accertava allora della prigione; ma ci rideva sopra, e non era più altro. Sovente sopra pensiere in un batter d'occhio m'indossava la giubba, mi calcava in capo il cappello, e tutto infuriato andava per uscire; – ma giunto alla porta mi accorgeva, che il chiavistello stava per di fuori, – segno evidente della prigione; – ed io al solito ci rideva sopra, e non era più altro. Benedetti i primi giorni della mia prigionia! Oggi però è ben diversa la cosa. Io son mesto e spossato dalla noia, – e così penetrato fino al midollo del convincimento di essere in prigione, che questo pensiere dinnanzi agli occhi e alla mente mi brulica in infinite forme, come uno sciame di atomi innumerevoli traverso un raggio di luce; e così mi si è dentro inchiodato, che nei primi tempi della mia nuova libertà per avventura, crederò sempre d'essere in prigione. Io sono mesto, e spossato dalla noia. La noia tacitamente ha tramato per me una così gran tela, che io non vedo parte donde salvarmi. Io son la mosca di quella tela, e più che mi dibatto per uscirne, e più vi dò dentro. Oh! la noia è una parola sola, – una parola breve, che non conta più di quattro lettere, – ma il provarla è tal volume, che uomo al mondo non sfoglierebbe così per tempo, nè così di leggieri. La noia è l'asma dell'anima, – è una ruggine che può consumare la meglio temperata lama, che si dia; – è una cosa, che dai capelli alle piante ti fascia la cute d'un senso umido, fastidioso, ti perverte l'occhio, e ti fa veder tutto in bigio; – toglie il sapore al gusto, la fragranza ai fiori, – la dolcezza all'armonia. Schiaccia l'acume dell'intelletto, e lo rende bestialmente stupido, – e insugherisce il cuore, mortificandone la squisita sensibilità, disseccandovi dentro la lacrima del piacere e del dolore. Oh! la noia è il più insopportabile dei nostri dolori, perchè è il dolore della stanchezza; perchè non eccita in noi una forza, che valga a combatterlo. Essa non è un vulcano, ma cuopre di freddissime ceneri il sorriso della Natura intera. E le ho tentate tutte per medicarla, ma senza pro. Il leggere non mi giova; – sto mezz'ora sopra un filaro, – e poi gitto il libro. Non ho più coraggio nè anche di scrivere i miei ghiribizzi; – i miei grilli son morti d'inedia, – essi volevano l'erba fresca del prato, e l'alito dell'aria aperta. – Non mi giova il passeggiare; – vado in su e in giù per i dodici passi della mia prigione, e di lì a poco torno a sedermi colla vertigine. – Se mi affaccio, vedo, è vero, un bel cielo, ma le sbarre, che mi traversano l'occhio, me lo tingono di color di ferro; – vedo un cerchio di monti, e mi paion sepolcri; – vedo una mandra di soldati, che la disciplina militare ha saputo convertire in altrettanti arcolai. – Pallida mi apparisce la verdura degli orti, e dei vigneti, e il canto degli uccelli mi suona lamento. Alas poor Yorick! Io mi curvo sotto un peso, che non posso più reggere, e ho fatto di tutto per sollevarmene. Ho contato le battute del mio polso, e ho dovuto smettere; – ho fatto la guerra agli insetti, che mi son compagni, e ho dovuto smettere, perchè son troppi; – ho contato i travicelli delle mie due camerette, e sono diciotto e mezzo; – i travi grossi, e son otto; – ho contato perfino i mattoni, e son trecento novantuno. Io non ho più pace, e non so come averne. Non posso più pensare nè al passato, nè all'avvenire, spazi così vasti, e così comodi per il diporto dello spirito. Son confinato nel presente, – e il presente di un carcerato non è già il Tempo coll'ali snelle velocissime, – è una figura di piombo sdraiata in un canto. .... E come fare per il resto di tempo, che dovrò starmi in prigione? Avessero almeno detto: ― ci starai tre mesi, sei mesi, un anno, ― manco male; – ogni sera con un sospiro di sollievo esclamerei: – v'è un giorno di meno! – Se io potessi avere dell'oppio, forse sarei felice, e certamente tranquillo; – l'anima mia dolcemente assopita passerebbe le sue giornate in un mondo aereo, multiforme, – un mondo così dovizioso d'illusioni, e d'immagini, che la più alta fantasia dell'uomo desto può concepirne appena una frazione ben minima. Ma non posso sperare nell'oppio; – i miei custodi l'hanno in concetto di veleno, e non me lo farebbero vedere nè anche dipinto. E per questo io ho desiderato le mille volte una febbre acuta, che mi levasse fuori di me fino al giorno della mia scarcerazione. Ma la febbre anch'essa, che pur non dipenderebbe dai miei custodi, non vuol venire; – non vi è rimedio; è un calice, che bisogna bere.... Ecco qui; tutti i giorni sono i medesimi, misurati dalle medesime vicende. Alle otto la mattina il solito caffettiere colla solita colezione; – al tocco il solito pranzo portato dai due soliti selvaggi, che si son rubati il nome di camerieri. Il pranzo è composto sempre della solita zuppa, e di tre pietanze, che sembran tre morsi, presso a poco sempre uniformi, e di rado una di quelle variata in un uccello, strano, – una specie d'uccello, che avrà che fare coll'ornitologia, ma non so se abbia diritto all'ingresso d'una cucina; – una specie d'uccello che, a casa mia non ho mai veduto nè per aria, nè sullo spiedo. Io non so dove trovi quegli uccelli il trattore; – mi pare impossibile, che un cacciatore li trovi; e, se li trova, che abbia il coraggio di spendervi sopra una botta. Ma io ho veduto spesso il trattore sur un campanile, e di certo ei vi andava per quegli uccelli, e per noi. E il Profosso? Mutassero almeno il Profosso una volta la settimana, come avevano cominciato dapprima! Ma dopo una volta non l'anno più fatto. Eccolo là, – è sempre il medesimo Profosso, – col medesimo viso, – col medesimo passo, – col medesimo vestito bianco mostreggiato di rosso, – colle medesime chiavi, – coi medesimi 12 Articoli, stabiliti contro di me, e contro di lui, – col medesimo suono di voce. Fin qui il Profosso non è ancora infreddato, per sentirgli fare almeno una voce diversa. L'unica mutazione, che segua in lui qualche volta, è quella da un casco a una berretta. È un uomo anche egli convinto della disciplina, – convinto dei suoi superiori, – persuaso, che le bastonate sieno un dovere a darle, e a riceverle, come voi siete persuaso a grattarvi in quella parte ove vuole il prurito. – Oh! le strane fantasie della noia! Quante volte non ho io desiderato, per non vedere sempre il medesimo Profosso, di vederlo un giorno con un occhio solo, un altro giorno con tre; un giorno con due nasi; un altro giorno con la bocca sulla fronte; una domenica, quando mi accompagna alla Messa, che camminasse colle mani e coi piedi; un lunedì di vedermelo vestito da donna; un giovedì colla testa voltata dalle spalle; un venerdì senza testa. Ma il Profosso non sì muta mai, – è inesorabile; e ogni giorno viene a menarmi fuori per prendere un'ora d'aria, com'egli dice, e spesso mi tocca invece un'ora d'acqua. E sul primo anche questo era un conforto, – ora non è più. È sempre il medesimo Forte..., – le medesime salite, – le medesime scese, – i medesimi sassi ribelli, e pronti ad offenderti, – i medesimi cannoni, – i medesimi soldati; – non si trova un uomo, o una donna, se tu li pagassi al peso dell'oro. Il Profosso è una disperazione; – quando io gli chiedo, se ci è nessuna nuova del mondo, mi risponde sempre, che non vi è nulla di nuovo. Possibile mai! – bisognerebbe, che tutto il mondo fosse in prigione. – Eccolo là il Profosso! è inconvertibile. – Viene tre volte al giorno nella mia stanza, uguale uguale, senza pendere un capello da quello che era la vigilia; e mi dice se può entrare, quando è già entrato; e, allorchè se ne va, mi domanda se io voglio nulla. Egli lo fa per dovere, non ci mette ironia, – così voglio credere; – ma quella dimanda mi fa il sangue più agro. O Profosso! Profosso! Se tu sapessi quello che io voglio, certamente non me lo dimanderesti due volte. D'ogni tre volte due almeno io voglio, che tu vada al diavolo. E la notte? – non me la rammentate, per l'amore che portate a voi stessi. La notte è per me l'eternità di un dannato. La notte con quel suo vasto silenzio, così propizia ai fantasmi poetici, al meditare profondo, per me non significa nulla; e mi scende sull'anima, fredda, piatta, e pesante come una lapide. Invoco il sonno coi nomi più lusinghieri, ma vanamente. Disteso sopra un letto nè cattivo nè buono, mi volto a destra, mi volto a sinistra, mi giaccio supino, mi giaccio bocconi, mando fuori un _Gesù mio_, mando fuori una parola a rovescio, ma il sonno non viene. La notte la noia non è sola; – chiama sull'armi le zanzare, e mi fanno una guerra mortale da fedeli alleate. Finalmente prendo un poco di sonno, – ma torpido, vuoto, senza balsamo di riposo, senza sogni. Potessi almeno farmi de' sogni! chè la mattina dipoi m'ingegnerei a farne la storia, e a metterli in bello stile. Sul principio, quando veniva la notte io mi consolava standomi alla finestra a godermi lo spirare dei venticelli, e lo spettacolo solenne d'un bel Cielo Italiano. Ma, dopo quello che mi avvenne una sera, ora appena cade il crepuscolo io chiudo le imposte, e disperatamente mi caccio nel letto. Sentite quello che mi accadde una sera. Io me ne stava, come v'ho detto, immergendomi lo spirito nella considerazione d'una gloriosa Natura, assorto in uno di quei momenti d'estasi e d'oblìo, nei quali l'uomo non è più _una povera creta_, ma è pellegrino dell'Infinito; e guardando sospeso sopra di me quell'azzurro immenso, sereno, gioioso, magnifico di stelle e di misteri, mi sentiva sollevare, mi sentiva intenerire: – a un tratto mi venne fissato l'occhio sulla Luna, che spuntava in un lato del firmamento, pallida amabilmente, e modesta; – allora il mio sentimento cominciò a svilupparsi in una forma più precisa, più palpabile, ed io volli esprimerlo con un inno, e cominciai: _È mesto il raggio della Luna, e Dio_ _Lo temprò in armonia colla Sventura._ Ma come fui a questo punto una fata leggiera leggiera, coll'ali color dell'iride, mi trasvolò dinanzi, mi fece un inchino, e mi diede la buona notte. – Era la Musa. – Io sul subito non me ne accôrsi, e non seppi interpretare in buona parte quel suo consiglio. Quindi, per non dirvi le bugie, avrò ripetuto almeno un cento di volte quei due versi in cadenza accademica, ma il terzo non venne mai. Alla fine ripensai più pacatameate alla figura veduta, e tra il dispetto e l'umiliazione mi coricai. Io conosco a prova il martello della gelosia, – ma, faccia pure l'estremo di sua possa, non può arrivare alla noia. O Torquato Tasso! io non ti chiedo nulla che valga; – non ti chiedo quella corona di stelle, onde tu cingesti in Palestina la Musa Italica; solo chiedo reverentemente, che tu mi dica come facesti, quando al _Magnanimo Alfonso_ piacque decretarti pazzo, e chiuderti per lunghi anni in un ospedale, come facesti in quei lunghi anni a pensare alle sette giornate del Mondo Creato[2], mentre io in trentaquattro giorni, se qualche volta ho pensato al mondo, ho pensato di disfarlo, non già per istizza, ma perchè mi sembra mal fatto. O Silvio Pellico! io non ti domando la tenera ispirazione, da cui sgorgava quella tua Francesca, che sarà un palpito del cuore finchè l'amore sarà una passione dell'uomo; ma ti domando soltanto d'insegnarmi donde traesti la tua decenne pazienza..... _N.B._ – Questo Capitolo naturalmente è fuori della giurisdizione della Critica; egli non ha pretensioni; – è il Capitolo della Noia[3]. CAPITOLO XXI. ― E del mondo che n'è stato? ― Cosa volete, ch'io ne sappia, io che son qua nel Limbo? Io ho lasciato il mondo con un segno a traverso, come si fa d'un libro non finito di leggere. E chi sa, se all'uscire troverò più il segno? Chi sa cosa sia seguito del mondo? – potrebbe essere stato scosso da una seguenza di terremoti, – allagato da un nuovo diluvio, – potrebbe essere anche sparito, ed io non saperne nulla! Cosa volete sapere, o sentire, quassù nel Limbo, dove si sta un piano almeno sopra le nuvole? Chi sa cosa possa esser seguito? Quando io lo lasciai, era una matassa arruffata davvero, – e tutti aguzzavano l'occhio a trovarne il bandolo; – e forse è il mio bene, che adesso io non ci sia dentro. Voi sapete come vanno le cose laggiù. Io non sono molto destro a girarmi, nè posso allungare il passo un'oncia più dell'usato; – e quando il mondo è in baruffa, credete, che una gamba lesta vale un diamante, e una testa leggiera si trasporta via più comodamente. Guardate Archimede, che viveva alla buona, pensando che gli uomini non fossero quello che sono; – che fidava nella sapienza, e non sapeva, quel vecchio dabbene, che due bestie son buone a mettere in prigione un filosofo, e a trattarlo anche peggio! Guardate Archimede, e specchiatevi in lui! Prendevano Siracusa d'assalto, ed ei non se ne accorgeva; – un soldato Romano gli entrava nella camera, ed ei non se ne accorgeva; il soldato Romano d'una testa gliene facea due, ed Archimede non ebbe tempo di accorgersene, perchè invece di vivere nel mondo coi lombi precinti, e col bastone in mano, viveva alla buona nella Geometria. Oh! il mondo è una mala cosa! ― _Tanto peggiora più quanto più invetera:_ ― diceva il Sannazzaro, or son trecento e più anni. Figuratevi oggi! . . . . . . . (_Manca gran parte di questo Capitolo, e non resta che il fine del Capitolo successivo ed ultimo_). CAPITOLO XXII. CONCLUSIONE. . . . . . . . Consultiamo la Natura nuda e vergine, com'ella si rivela alla mente del giusto, e saremo meno sventurati. Consultiamo la natura umana senza velo di disprezzo, di cupidigia, di prepotenza; – consultiamola anatomicamente nel suo stato originale, e osserveremo che si può spogliare del fango onde l'ha ricoperta un falso sistema sociale, e rivestirla d'una certa luce, – una luce, che non dobbiamo rapire al Sole come Prometeo, perchè ella ha sorgente nell'anima umana. E l'arte sta nel trovarla, e il Genio la sa trovare, ma noi abbiamo finora crocifisso il Genio invece d'incoronarlo. Intanto tolleriamoci, – v'è spazio per tutti, – e permettiamo, che ognuno vi si svolga a suo grado. Il Genio può trasfondere nei suoi quadri l'armonia e l'iride dell'universo; – la follia può ridere, e saltar per le piazze; – il forte può andare a caccia al cinghiale, – il debole può recitare il suo rosario, – e tutti pacificamente. La terra è larga abbastanza: ― L'UMANA SAPIENZA STA NEL TOLLERARE. ― MIA MADRE Indovinate chi amo più di tutti sulla terra? Io amo mia Madre; – io l'amo più della Patria, cui dono il mio sangue se lo vuole, – più della mia T.***, ch'io amo pur tanto. – Povera mia Madre! Se voi la conosceste, forse non ci capireste nulla. No, non è una donna elegante, – non sa di musica, – non sa il Francese, – non ha cerimonie; – è una donna quieta come un ciel sereno, una donna alla buona che crede in Dio, che va ogni giorno alla Messa, a pregare prima per me e poi per sè; è una donna alla buona, che crede in tutto; – crede, che l'olio versato porti sciagura; – crede, che il vino versato porti fortuna. È una povera donna, che ama il suo figliuolo come voi amate voi stessi. – Io mi confesso come davanti a Dio. Non amo tanto mio padre; – è un buon uomo, – ma la mia povera Madre è bene altra cosa. – Io non amo mia madre per il latte che mi ha dato, perchè del latte non me ne rammento; – ma quando mio padre talvolta mi sgridava, ella mi consolava, – mi asciugava le lacrime, – mi baciava – mi dava un trastullo, – mi riconduceva alla gioia. Quand'io andava a scuola, e mi era innamorato dei libri, mia Madre mi dava il danaro, onde comprarmeli. – Mia Madre mi ama come il suo cuore, – io sono il suo cuore. Mi guarda con una compiacenza, – s'inorgoglisce di me, come la giovane sposa della sua corona di rose nel dì delle nozze. – Ed io l'amo ugualmente. Io ho un sembiante duro, – e quando sento dentro non sono punto espansivo; – ma gli occhi mi parlano, – e mia Madre guidata dall'istinto mi guarda sempre negli occhi, e ne riman consolata. Povera mia Madre! ora tu non puoi più guardarmi, e chi sa per quanto! – Io aveva il vizio di addormentarmi col lume acceso, e mia Madre si levava di notte a levarlo, perchè temeva un pericolo. E alla mattina entrava nella mia stanza a vedermi, in punta di piedi, e rattenendo il respiro, per non rompermi il sonno. – E quando parlava di me alle vecchie sue conoscenti, diceva che io era un angiolo, – e io risapendolo rideva di cuore, pensando che il mondo mi chiamava un diavolo. – Povera mia Madre! Dio ti renda quella mercede, che merita il tuo tanto amore! Una sera io fui ferito di tre stilettate[4]; – tutti credevano ch'io morissi, – anch'io lo credeva. Fui portato a casa agonizzante; – caddi in deliquio, e vi stetti più ore. Al risensarmi, chi trovai presso al letto? – Era mia Madre, e così vicina a me, che di certo intendeva col suo fiato caldo d'amore di vincere il gelo della morte. Mi parve l'Angiol custode. Mi ravvivai, – cominciai con lei un colloquio lungo, veloce, passionato, sublime; – mia Madre mi rispondeva interrottamente; – io nell'esaltazione non me ne accôrsi: mia Madre era convulsa; – ella non può piangere. Se io me ne fossi avveduto, forse sarei morto. Mia Madre dacchè mi hanno strappato al suo seno è stata vicina a morte[5]. O povera mia Madre! perdonami il tuo dolore! potessi avere almeno contato i tuoi palpiti per rammentarmene! * * * * * _Qui finisce il _Manoscritto di un Prigioniero_; nella pagina interna della coperta si leggono questi due versi:_ LA PRIGIONE È UNA LIMA SÌ SOTTILE CHE AGUZZANDO IL PENSIER NE FA UNO STILE. NOTE E APPENDICE. [2] «Le Sette Giornate non furono immaginate dal Tasso in prigione, ma a Napoli, molti anni dopo, nella villa del Marchese Manso, a richiesta della Madre di questo Signore». _Questa Nota è apposta in margine nel MS. dell'Autore, ed è d'altra mano: credesi di un amico suo, al quale, relegato con lui in quelle prigioni, ei dava a leggere i suoi quaderni di mano in mano che erano scritti. ― Vedi SERASSI, _Vita di Torquato Tasso_; vol. II, pag. 226, – Berg. 1790._ [3] Qualche distrazione pur valse talvolta ad alleggerire il peso della noia sì vivamente sentita e dipinta dall'Autore. Il suo spirito si effondeva vivace, e poteva eccitare il sorriso anche nelle angustie del carcere, poichè gli era concesso di conversare scrivendo co' suoi concaptivi. E lo provano alcuni Capitoli, diretti ad uno fra loro, de' quali crediamo sufficiente offrire ai Lettori alcuni frammenti. Non mancano in essi la purezza, l'abbondanza, la vivacità dello stile, ond'ebbero vanto di Classici alcuni Scrittori italiani, specialmente del Secolo XVI, per siffatto genere di componimenti. E se questo non è avuto in pregio e consentito egualmente ai tempi nostri, giova rammentare come nascessero, e dove, i versi che seguono. A MESSER AGNOLO CARCERATO CONTENTO. Agnolo, ho in capo il ticchio della rima, Nè mi occorre argomento altro, che il vostro; Segno chiaro d'amore, o almen di stima. Che fareste altramente in questo chiostro, Se non scriveste? E a me non manca nulla; Ho pagato la carta, e ancor l'inchiostro. E poi la Musa mia è una fanciulla Di garbo, e non ha odio a chicchessia, Ma tratto tratto salta e si trastulla; E canta una canzone in melodia Festosa, e alfin si cheta, come un vento Lieve, che agita un fiore, e poi va via. Ma torniamo di botto all'argomento, Non divaghiamo, – che se no, si sfuma Il mio vapore, e il fuoco si fa spento. Che debbo dir di voi? chi il sa? la piuma Dell'ingegno è già cionca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ma non levate a Dio vostre querele, Agnol, chè potria dirvi: olà, tacete; Pei vostri falli questo è un pan di miele. Chi sa, che avete fatto? Io, se non siete, Pur vi credo un buon uom; ma Dio ci vede Anche nel buio, ed oltre la parete. A vedervi in prigion non ci si crede, Avete l'aria dell'_Angelus Domini_, Siete il ritratto della buona fede. Nondimeno alle volte son quegli uomini Appunto come voi, che fanno un sette Apparir per un cinque; – e se predomini In cotestoro il vizio, o se le rette Arti della virtude, ella è una cosa, Che di subito in chiaro non si mette. Se devo dir per me, siete una rosa Candida, e ve lo dico con tal cuore Che il mio parlar non ha mestier di chiosa. Voi siete un pan di zucchero, un amore Senz'ali e senza freccie, ma con gli occhi; Voi siete un Santo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ― Che serve esser Santo, e le faville Mandar celesti dall'accesa faccia, S'Ei non sa scivolar come le anguille Dai Birri? ― E voi pur deste in quella caccia, Agnolo mio! e via San Giovannino Che disse il dì che più l'amata traccia Del vostro piè non vide? ― O mio vicino, – Disse la strada, – sei forse in un forno? Dove ti celi? sei forse in un tino? Mostrati, – il Sole è quasi a mezzogiorno; Vedi il villan coi polli, e col canestro. Che fiuta il tuo consiglio, e gira intorno. Ratto corri allo studio, ed il maestro Tuo bel labro di nuovo oda la gente; Scrivi col pugno sinistro e col destro. Accarezza la gola del cliente; Dàgli una presa di tabacco, e poi Accompagnalo all'uscio umanamente. ― Sì disse: ma poichè seppe che voi Eravate in prigion, non si sa come, Mandò per tutta Pisa un _oi oi_. Trecento volte vi chiamò per nome Quella povera strada, e senza modo Si graffiò il viso e si stracciò le chiome. Non lo dico da burla, ma sul sodo, Un tegolo perfino si commosse E venne giù a sapere il quando e il modo. . . . . . . . . . . . . . . Ma voi ci state come stare a letto In prigione, ed è cosa, a dire il vero, Che mi ha messo nel capo del sospetto. Svelatevi, parlatemi sincero; Io vi credo un buon uomo, ed io vi credo Un uomo bianco ancor che siate nero; Ma quando sì rassegnato vi vedo, E intendo il vostro placido discorso, Voi mi fareste rinnegare il _Credo_. E dico: – egli è una prova del rimorso Quello star quatto quatto, e se di colpa Non fosse reo, darebbe un qualche morso Almeno al ciel, che gl'innocenti spolpa Così del poco ben che regna in terra, E non ne dà ragion, nè si discolpa. – Agnol, sentite: io vi farò la guerra, Se non mutate stil, se non cessate Di viver come un morto sotto terra. Voglio sentirvi taroccar, le ingrate Stelle accusar voglio sentirvi, e un suono Vo' sentir misto d'urli, e di pedate Contro la porta; e tanto sia il frastuono E il nabissare e il baccano, che ognuno Più non vi adori come un Santo buono. Ira e dolor manifestate, e il bruno Mettete al fiasco, ma non lo rompete, Che non vi è dato regger quel digiuno. . . . . . . . . . . . . . . . Agnolo mio dabbene, Agnol gentile, Andate sulle furie, io ve ne prego, E la mia prece non abbiate a vile. Se non v'imbiestalite, io me la lego Al dito, ed ho memoria sì vivace, Che sull'offese non dà mai di frego. Se al mio comando siete contumace, Vi farò guerra sino al finimondo, E non varrà che dimandiate pace. Star contento in prigione, e far giocondo Viso ai rabuffi di sì rea fortuna? Io nol so concepire, e mi confondo. . . . . . . . . . . . . . . E quanto al ber, ci vuol discrezïone; Farlo in presenza a tanta ribaldaglia È un affogare la riputazione. È ver che avete di sì buona maglia Fatto il cervello, che puote una brocca Di vin, come potrebbe un fil di paglia; Ma bussar tratto tratto alla bicocca Di Rebecca, e ordinarle un boccaletto, E farvelo di più mescere in bocca, È una tal cosa che a un uom provetto Sconviene, e giudicare a voi la lascio; Una mano mettetevi sul petto. Voi mi risponderete, ch'io vi accascio Sotto questo Capitolo, e che in fine Smetter dovrei, dovrei legare il fascio. Datemi la ragione, e le terzine Cesseranno, e se no, tenete in cuore Che ancor v'inseguirò colle quartine. Per or finisco; e in segno del mio amore Voglio, che vostre laudi non sien mute: Avvocato, Poeta, e Bevitore, Trinità formidabile, salute! A MESSER AGNOLO BEVITORE _NON PLUS ULTRA_ E soprattutto nel buon vino ha fede, E crede che sia salvo chi ci crede. MORGANTE MAGGIORE. Agnol, voi siete vivo, e mi rallegra Sì la notizia, che già sorge in alto L'anima, che giacca chinata ed egra. Agnol, dall'allegrezza ho fatto un salto; Agnol, dall'allegrezza ho fatto un trillo, E l'ho cantato in chiave di contralto. Se voi vedeste come in viso i' brillo Al sentirvi sì gaio e impertinente, E vispo più che a primavera un grillo; Voi mi dareste un bacio di repente, E mi direste: – Dio ti salvi, o Carlo, Dio ti salvi con ogni tuo parente. – Pace per questo non darovvi, e il farlo Non è nel poter mio, sono un tormento Per voi, sono il demonio, il vostro tarlo. Vi sono un pruno dentro un occhio, un vento, Che vi soffia tra mezzo alle lenzuola; Sono per consumarvi un fuoco lento. Nè lascerò di batter la mazzuola, Finchè non oda dimandar perdono Dai vostri labri color di viola. Vedrete s'io ci sono, o non ci sono, E sentirete se il mio verso pela; Dapprima aveste il lampo, or viene il tuono. Strugger vi voglio, come una candela; Voi mi avete sfidato; ebbene, accetto: L'arbor drizzate, e sciogliete la vela. Ma che fareste senza Musa in petto? Sperate forse, che vi voli attorno Come una mosca, o come un altro insetto? Siete, è vero, un bell'uomo, un uomo adorno, Un cicisbeo galante, un mugherino, Un cavaliere fatto proprio al torno; Ma bevete un po' troppo, e intorno a un tino La Musa non ci vien, – non è decoro; L'avete presa per un moscherino? Chiunque ne conviene, – è cosa d'oro Il bere, è cosa buona, è cosa degna, E le taverne meritan l'alloro, E lo portan di fatti per insegna: Ma un limite ci vuole; e quando il fuoco È bene acceso, bastano le legna; E non far come voi, che con un roco Accento ognor gridate: – mesci, mesci; – E quand'anche trabocca, dite: – è poco. Ma che volete il vino giù a rovesci? Ma dite, il vin v'ha fatto la malia, Che ci stareste come in mare i pesci? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Voi per il vino anderete dannato, Non c'è rimedio; – voi fareste tutto Col vino, ci fareste anche il bucato. In una chiesa un dì parata a lutto Entraste a sentir Messa, e dalla fè Sembravate compunto, anzi distrutto, Ma quando il Prete ritto su due piè Alzò il calice in aria voi gridaste: – Don Girolamo, lasci bere a me, – Agnolo mio gentil, voi m'ingannaste Una volta nel dir, che tre sirene Vi regnavano in cuor leggiadre e caste; Eran tre damigiane piene piene. – . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Agnol, voi siete il vino in corpo umano, E voi sarete il vino sotto terra, E chi il negasse negherebbe invano. Voi mi diceste un dì: – se vien la guerra Vo' portare una pevera per casco, E far con una botte il serra serra. – Diceste ancora: – s'io morto non casco, Giuro sull'uva bianca, gialla, e nera, Che mi farò una casa come un fiasco. – Voi siete per il vino una bufera, Una tromba marina, e un vostro dito Alza un barile come altri una pera. Bevete in ogni lingua e in ogni rito, In istil di tragedia, e in stil di farsa; Or bevete arrabiato, ora contrito. A definirvi la parola è scarsa, Voi siete tutto sopra questa scena; Non pensate, non siete una comparsa. Bevete all'aria torba e alla serena, E il vostro bere è tutta una bevuta Da colezione fino a dopo cena. Voi bevereste infino la cicuta Mescolata col vino, e il vetriolo Tinto in rosso berreste all'insaputa. Anche l'aceto, il so, vi va a fagiuolo, Perchè è parente del vino; e, se matto Diventate, credendovi un orciuolo Ammattirete; e, questo è un detto e un fatto: Non v'ho sentito io spesso in voce chioccia D'un'estasi esclamare nello scatto: – Com'è vaga la forma della boccia! E se piovesse invece d'acqua vino, Bramerei convertirmi in una doccia. – Agnol terrestre, e Poeta divino, E Avvocato Pisano in un'essenza, Voi siete un bevitore uno e trino. Siete del ber la pratica e la scienza, Un'osteria colle mani e co' piedi, In genere di fiasco una potenza. O sommo Giove, è ben che ci provvedi, Non tinger più le nuvole di rosso; Se no, cose vedrai che tu non credi. Quest'Agnolo terren vedrai, che, scosso Il suo carco mortal, si leva a volo, E le nuvole rosse a più non posso T'inghiottisce dall'uno a l'altro polo; E se mai tu facessi il mar rossiccio, In un attimo sol ti beve un molo. Non ti venisse mai, Giove, il capriccio Di scender giù di porpora coperto; Ti vedrei, sommo Giove, in un impiccio. Giove, non ci venir, sii bene esperto, Beve ogni rosso quest'Agnol terreno, Nè mette distinzion fra merto e merto. . . . . . . . . . . . . . . . Or torno, Agnolo, a voi col mio pensiere, Quando son vosco l'animo mi gode..... Ma che vedo? bevete anche il bicchiere? Agnolo, non lo fate, il vetro rode; S'intende bere! ma bere anche il vetro! Basta! bisogna dir: – voi siete un prode; Un uomo tal, che puote in questo metro Insegnare a chiunque, un corridore Che ancora il vento si lascia di retro. – Moderate un tal poco il vostro ardore, Ci son degli altri che pure hanno sete, Voi stabilite il regno del terrore. Lasciate un po' di vino se potete; Ci son degli altri: e se non siete sazio, Sorbite, quando vengon, le comete. Capisco ben che avete letto Orazio, Ma costui loda il vino, e non comanda Che se ne faccia poi cotanto strazio. . . . . . . . . . . . . . . . Voi gli volete proprio troppo bene, Il troppo stroppia, e qui voi siete tristo. Del resto siete un uom come conviene, Un uomo che vorranno celebrare Le nove Muse in nove cantilene. E se in Duomo volesse battezzare La vendemmia, dipoi che ha partorito, Chiamerebbe voi solo per compare, S'ella non vi sapesse tanto ardito Da bevervi la madre col figlioccio, Senza lasciargli dare un sol vagito. E a dirvi queste cose io non vi noccio, Nè vi calunnio, chè in questa materia Siete un grand'uomo, e non siete un fantoccio. Siete un poema epico, una seria Cosa davvero, voi siete un abisso Senza fondo, non siete una miseria. E per non esser più troppo prolisso Vo' dirvi cosa che non è una ciancia; Sentite quel che nella mente ho fisso: Il dì che al mondo mostrerò la guancia Di nuovo, in segno di una lieta cosa, Vi metterò un cannello nella pancia, E al popolo darò da bere a iosa. PANEGIRICO DI MESSER AGNOLO. Agnol di nome, e _babau_ di sembianza, Chi dice mal di voi non vi ha veduto, Non vi ha sentito, non vi ha conosciuto, Non ha senno nè in forma, nè in sostanza. Voi non siete un mortal, ma una fragranza Del ciel, che Dio con sè non ha voluto; Un vaso d'elezione giù piovuto, Pieno di vino e di buona creanza. Chi dice mal di voi non ha giudizio, Io lo ripeto, o parla per invidia Della vostra eccellenza; e questo è un vizio, Che vela l'intelletto, una perfidia: Voi non siete un mortal, ma un precipizio Di belle cose; e se vedeva Fidia Quel volto ove s'annidia Tanto raggio di cielo, incontanente Si disperava, e non facea più niente. Voi siete un accidente Nell'ordin naturale, un uomo nuovo, Nato non come noi, ma dentro un uovo. Parole io non ritrovo Per dir di voi chè lo stupor m'imbriglia: Non siete voi l'ottava maraviglia, Un caos, un parapiglia? Voi non avete d'uopo d'un cartello, Nè di chi gridi: – vengano a vedello. – Voi siete un filunguello Quando cantate, e a lode ve lo reco, Se di paura fate morir l'eco. Convenitene meco, Vi fe' Natura, e si grattò l'orecchio, E disse: – questa è seta, e non capecchio. – La testa come un secchio Vi fece, destinandola a capire Un capitale che non può fallire. . . . . . . . . . . . . . Io canterò, nè bramo Mercè: conosco il merito, e l'adoro; Ravviso in faccia vostra il secol d'oro. Vergini Muse, in coro Cantate, come l'Agnol mio gentile Nascesse in Pisa in un bel dì d'Aprile. La Stella del Barile Balenò su quell'alma pur mo nata E l'ebbe de' suoi influssi battezzata. Canta, Musa garbata, Come apprese il Garzone ogni sapere, Si fe' dottore, e diventò bracciere Con sue dolci maniere Di Madama giustizia, che gli vuole Un ben, che non si narra con parole. – E tu mi sembri un Sole, – A lui dice Madama; ed ei sospira, E gli occhi a guisa di lanterne gira. E la voglia mi tira Di seguitare a dir; ma come fare A metter la mia barca in tanto mare? Io mi sento gelare; Nelle vostre virtù mai non si approda, Voi non avete nè capo, nè coda. La lingua invan si snoda A nuovo canto; immenso è l'argomento: Voi siete un astro, io sono un lume spento. [4] _La domenica 2 Decembre 1827, trovandosi egli in compagnia d'amici e di altri in un sobborgo della nostra città, ed insorta una rissa fra questi ed alcuni uomini della plebe, ei fu gravemente ferito senza sua colpa o provocazione. Dopo lunga e penosa cura, uscì di pericolo; se non che forse quel fatto diede occasione allo sviluppo del male, che fin d'allora cominciò a minare segretamente la sua esistenza._ [5] _Vedi in fine di questa Prima Parte le Lettere al Padre. Si rileva da quelle, come disgraziatamente avessero séguito questi primi sintomi d'una malattia, la quale travagliò poi per sedici mesi continui la povera donna. Violante Milanesi, Madre del Bini, morì il 2 di Gennaio del 1835._ ARTICOLI DI MORALE E LETTERATURA. DELLA EDUCAZIONE ― 1829[6] ― In primo luogo tu hai a sapere in generale, che tutto quello che è vera utilità degli spiriti dispiace agli uomini comunemente; onde ti guarderai come dal fuoco di profferire parole o fare opere, che dieno indizio che tu voglia beneficare l'intelletto, o il costume di quelli. GOZZI, _Osservatore_. Quei pochi eletti cui venne in sorte l'agilità del pensiere, concitati vivamente dal desiderio della scienza, investigarono sempre le occulte ragioni delle cose, ma non ebbero tutti il medesimo intendimento. – Alcuni più benigni, considerando funesto il dono della sapienza, dove non cospirasse al bene dei loro fratelli, palesavano quella parte del vero, che poteva renderli felici o meno sfortunati; e a quella parte, cui disvelata seguitava il gemito, e l'aridezza dello sgomento, surrogavano invece il conforto delle illusioni necessarie a mantenere una vita, che altrimenti non avremmo ragione di reggere. – Altri più severi, collo sguardo acuto dell'anima penetrando l'ombra dei secoli, videro e dimostrarono le razze umane peregrinare la terra gravi d'ignoranze, di sventure, e di colpe. E forse dissero bene: ma qual frutto ne colsero? – La scienza del dolore non aveva mestieri d'insegnamento, perchè nacque congiunta al cuore dell'uomo; le ignoranze, le sventure, e le colpe, stettero immobili, perchè sono elementi indivisibili della nostra umanità, e tutto il frutto si strinse alla compiacenza d'aver profferito poche massime amare di sconforto durissimo, che fecero piangere, e maledire. Ma se non merita grazie quel fiero spirito, che scende nei segreti del cuore e gli scompiglia, e gode delle ruine, crederanno di leggieri gli animi temperati a bei sensi, che molti bramino la nostra specie digradata più che i suoi fati non chiedono, nè altri le dieno potenza se non di far gregge, e di pascere, e le gridino incessanti il silenzio delle poche generose passioni, che uniche fanno corruscare quella sacra scintilla usa talvolta a scaldare la creta dell'uomo? Veramente l'uomo lasciato all'inerzia mostra profondo il segno d'una schiatta caduta e annodata alla polvere; ma se, per impulso proprio o d'altrui, muove l'interno pensiere e lo spande su l'universo, e, percosso da quello spettacolo immensamente vario e perenne, lo accende, e lo fa corrispondere, per quanto è dato, alle immagini quasi infinite, allora l'uomo disciogliesi in parte dalla terra, e risguarda i cieli, e vive in essi col desiderio dell'esule. – Ma per coloro, che la nostra bassezza vorrebbero curvare fin dove non piegasi, la fiamma non arde, la grandezza non ha spazio, e dappertutto veggono angustie, perchè altra dote non hanno che di affetti mediocri, nei quali alberga per anima la ruggine dell'invidia. – E perchè l'umiltà degli affetti mediocri non osa prorompere nella sua nudezza, velano gelosi le strettezze del cuore, e della mente, e danno al velo il nome della prudenza, – cara e santa virtù, allorchè corregge, ma non ferma l'impeto delle passioni magnanime, – non già quando ella consiste solo in andare adagio, e concentrandosi in un senso di paura, e d'interesse, ti si lega alla vita, nè va più oltre. E perchè i prudenti per amor proprio aborrono da ogni guisa di cimento, hanno alzato un tribunale donde predicano il dispregio dei tempi che sono, e dispensano moto e norma ai bisogni delle passioni vivissime presenti, attingendo moto e norma dal deserto degli anni che sparvero, senza avvertire che l'uomo è pur sempre unico figlio dei suoi tempi, e nel vano del passato non si perdono età distinte solamente dalla durata, ma tutte portano impressa l'orma di novelle virtù, e di novelli delitti, – e le prime, e i secondi, non meno del Sole, hanno fin qui misurato l'estensione del tempo umano. E perchè i prudenti hanno scorto che nell'anima nostra ferve continua una inquietudine, e vi sta come la principale espressione della vita, per quietarla ci vanno rammentando le glorie antiche, così dicendo ai nipoti che si contentino di vivere oscuri, perchè gli avi vissero illustri. – Bella è la gloria degli avi, e soave di conforto e di onore a cui le risponda cogli atti, ma non è retaggio, e sta nei secoli monumento solitario, che rappresenta eterna la vece del mortale che l'ha creata. Ma quanto costoro danneggino la sacra impresa di migliorare la specie, i discreti sel veggano, considerando gli uomini disposti naturalmente a giacersi, e a maledire sovente la mano che tenta di sollevarli, – se narrano il vero, che Socrate conseguisse il rimerito della cicuta, perchè osava trasfondere nei suoi concittadini la bellezza e l'amore della virtù, – e l'ardimento di Bacone, che imponeva la vita al pensiere per tanto corso di tempo assopito, fosse dai suoi contemporanei scambiato colla pazzia. E quei divini morivano senza una parola di rampogna consolandosi delle glorie future, perchè l'alto spirito, sorpassando il volo del tempo, fa sorgersi innanzi le generazioni increate. Ma in ogni petto non muovesi un cuore più che mortale per operare il bene senza riguardo di premio presente, fidandosi alla giustizia dell'avvenire. Quanti Italiani, sfiduciati dal sofisma degl'invidiosi, e dalla timidezza propria agli animi nostri, se manchi a suscitarli generosa una voce, percorrono l'esistenza chiusi nell'abbandono della viltà, persuasi che il nostro terreno sia rimasto sfruttato dal lungo numero delle anime grandi, e dalle sventure? Ma il lungo numero delle anime grandi ha da reputarsi piuttosto singolare felicità di cielo, che giusta ragione perchè debbano a un tratto cessare. L'argomento in qualche maniera terrebbe, laddove fosse proposito sempre delle medesime teste. Ma questo non consentì la Natura, che alternò con mirabile armonia la vita e la morte nelle sue creazioni, e in forza di questa vicenda stabilì la infinita varietà delle forme, la eternità delle sostanze, nè mostra di volere per lunghezza di tempo invecchiare, o per l'atto incessante del produrre esaurirsi, a meno che prima non si annientino le leggi per le quali ella è costante: e gli umani, soggetti allo stesso governo, via via cadono e sorgono in modo, che ad ogni breve misura di anni potresti dire che il mondo del pensiere rinasce vigoroso, e lieto dell'ardimento che infonde la giovinezza. Chi non sente che gl'Italiani non hanno peranche placata l'ira della Fortuna, quantunque le abbiano offerto in sacrificio secoli consumati nel pianto? Ma sapete voi, se a portare l'ale dell'ingegno valgano più le triste o le liete venture? I tempi tramandano infelici le memorie del Grande costretto a combattere l'odio, che vive immortale tra due nature contrarie; e se questa ineguaglianza generatrice di tanta discordia sia giustizia, o viceversa, non è l'ora da poterlo vedere: ma quando anche il Grande ebbe pace con gli uomini, la guerra gli venne dal sentimento d'una misteriosa afflizione, che gli gemeva eterna nel cuore. Dante cantava la novella poesia negli affanni dell'esilio, Ossian nell'amarezza della caduta potenza, il Byron nell'arcano d'una mestizia onde furon sempre velati i suoi giorni mortali. – Poichè la mente creatrice del bello e dell'immenso va sciolta di vincoli, la plebe umana non giunse a scoprire giammai la segreta potenza che animava alla vita quei canti, e li vide lontani come il raggio del Sole; ma come il raggio del Sole illumina e scalda le creazioni sottoposte, così que' canti, derivati dalle più ascose viscere del dolore, spirano all'anima un suono d'affetti onnipotenti, e tutta l'anima risponde a quel suono, mercè di colui che formando la nostra natura chiamò l'infortunio a costituirne la massima parte, e mandò la felicità così di rado e veloce a trasvolare la terra, che appena è concesso di vederne il baleno. Ma la sventura mantiene irritando l'ingegno, e i concetti dell'uomo sgorgano originali e profondi di altissimi sensi, perchè da lei muove una forza, che lo stringe a vivere nel suo pensiere, mentre dubitano molti che quel modo di esistere da noi chiamato felice non sia piuttosto conseguenza delle nostre facoltà intorpidite, nè più atte a ricevere in piena luce, ma per barlume, le sensazioni; e l'hanno veduto grave di fastidiose passioni, e sovente affratellato coll'ignoranza, e dicono che spunti l'acume del desiderio; e mancanza di desiderio accenna anima prostrata, e di volgo. – Oh perchè non ho io un altro mondo da conquistare! – sospirava Alessandro. E dove si ponga mente ai conforti di coloro che bramano la nostra bassezza, quanta differenza trovate voi tra gli uomini e i bruti. – Appena la nuda favella: e niuno consente che articolare soltanto la parola sia valevole differenza, se i concetti significati coll'opere non provino l'esistenza dell'interno pensiere. Nè la facoltà del pensiere ci fu data per nulla. – Se l'uomo fosse destinato solamente a nascere, cibarsi e morire, la Natura non ci avrebbe fatto quel dono, tristo o buono che sia, perchè hanno sperimentato la Natura non averci mai conceduto potenza, senza farci sentire la necessità dell'ufficio cui la destinava. E potremmo noi vegetare in quello stagno di vita, noi, cui non si offre immagine di quiete meno la morte? Potremmo noi distruggere l'atto di quelle poche anime immense, che afferrando il secolo in che son nate gli aggiungono il proprio moto, e il secolo concitato si affretta precipitando al suo fine? Rinnegheremo noi le passioni, che pur sempre ci agitano irrequiete al bene ed al male? Dove è la forza che valga a tanto? In Dio solo, perchè sono opera sua, e le ha poste nel cuore dell'uomo, cui vivono eterne, indivisibili, compagne della vita, e muoiono con esso. – Poichè le passioni si spengono nell'ultimo sospiro, e queste, pur sempre agitandoci, al bene e al male ci spingono, ufficio degno d'un pensiere divino è quello di frenarle, e di escludere, per quanto è dato, la vicenda del male. L'argomento della ragione, e l'esperienza del passato, dimostrano unico mezzo a tanto conseguimento l'educazione; la quale, facendo conto delle passioni come della parte più viva dell'uomo, e capace di qualunque impressione, ne trarrà l'effetto migliore, o il men tristo, col dirizzarle, per quanto è possibile, a segno lodevole. E se molta parte di amore alla patria è dire il vero quando le giova, (e a dirlo ci vuole più grande animo che a sentirlo,) così chiunque abbia fiato di senno e di pudore confesserà primo bisogno dell'Italia nostra l'educazione, e vergognerà palpare l'ignoranza dei suoi, lo sconforto degl'invidiosi, e farà voti, e darà opera, perchè al male venga posto efficace e pronto il rimedio. – A questo fine verranno, laddove cospirino santità d'intenzione, e vicendevole aiuto di liberali ingegni, e sarà bella di bellezza italiana l'impresa di riedificare la mente colle ingenue dottrine della sapienza. – E perchè manifesto indizio di amore alla patria è il non disperare di lei nell'ora che gli avversi eventi la premono, così negli animi intemerati e gentili vive una forza che gli conduce a sperare. – Certamente gemono delle sue poco liete vicende, chè andrebbero beati a vederla fiorente per belle discipline, e ornata di cortese costume, e gloriosa; ma nel gemito vive una forza che li conduce a sperare. Indarno si affannano i prudenti a gridarci che la speranza schiviamo, essendo tale un inganno che accompagna l'uomo da mattina a sera; a noi ricorre eterno il bisogno di quell'affezione, onde si allegrino almeno d'un fiore le spine della vita, e il pensiere dell'illuso mortale ponga un sorriso ov'è pianto perpetuo. Ben è vero che ne' pochi giorni del nostro pellegrinaggio, aspirando noi nel fuoco del desiderio a uno stato felice, ci balenano all'anima mille illusioni di aspetto vaghissime, ma fugaci come il momento che le ha create; tuttavia nel cammino della vita stanno alcune speranze, che non sono al tutto illusioni, e rispondono al cuore, e alla mente, e lasciano in ambedue la traccia di un conforto che dura, e, dove le governi la sapienza, si convertono spesso in certezza. E porge speranza di sì fatta natura il giovanetto crescente negli anni. A questo bel fiore il cielo arride benigno, e lo chiama alla vita; se non che sventuratamente un verme lo rode, onde egli appassisce e muore sul cominciare del brevissimo giorno, che i fati gli concessero. Da cui muove la colpa, che la pianta non germogli e non cresca felice? La colpa è del nostro volere, perchè nell'educarla ci siamo sviati da quella traccia costante, che i fatti segnarono nelle vie del tempo. Leggete i documenti del tempo: chiudono una sapienza quasi infallibile, e a cui ben guarda il passato ministra le misure del presente. Le storie che raccontano la vita dei popoli non dimostrano fondamento di ogni bene ordinata società la pubblica e liberale educazione delle tenere menti? E narrano, che il giovane sorgesse prode nelle battaglie, savio nel consiglio, e onesto nella vita civile, e consolasse di onore e di gaudio l'ultima età dei padri cadenti. Ma le storie descrivendo le forme degl'istituti, pe' quali un popolo saliva in potenza, e in perfezione di civiltà, tra queste non annoverano mai – nè gramatiche, che consumano gli anni e i volumi a farti povero del primitivo ingegno, e cattabrighe, e per un fuscello d'alfabeto bestemmiatore della grandezza del Genio; – nè rettoriche, che gl'indefiniti movimenti dell'anima confinano in certe regole, le quali ti prescrivono di lavorare gli affetti come un fuoco d'artifizio, e soffocano in te quell'intimo senso di natura, che ritrae le immagini vergini e schiette come le cose, onde più non ti splende il vero, e il sentimento e l'intelletto pervertito piegano dinnanzi al simulacro di vane e codarde passioni; – nè mitologie, che una volta vissero colle nazioni; poi con esse giacquero spente e oggimai, coperte dalle tenebre di un tempo troppo lontano dalla memoria, affaticano senza frutto la mente, o non le presentano, che nudi fantasmi degli umani vaneggiamenti; – nè filosofie, che si smarriscono per entro ad infinite ricerche, e di rado trovano il vero, e più di sovente un nuovo lato dell'incertezza, per lo che fanno temere che alla mente non sia concesso nemmeno il riposo d'un delirio solo, ma che un destino la danni ad avvolgersi del continuo per l'errore, o a cedere alle larve del dubbio, che di tutti i dolori è il soverchio, perchè, avendo varietà di moti e di forme infinita, non subisce le leggi dell'abitudine, e dura perenne; – nè gente che fa professione di spegnere quel raggio d'intelligenza, che tutti più o meno dalla Natura sortimmo, e cava il fumo dalla luce, come disse argutamente un antico, e si arroga un nome venerato, e lo porta in pace. Chi ha tracciato l'orme della caduta di un popolo ha veduto la corruttela dei costumi, e l'annientarsi della potenza, andar di pari colle scuole dei retori e dei sofisti; chi ne ha seguito il volo nella grandezza ha veduto da più alte sorgenti derivarsi il pubblico bene, poichè in quella rara felicità di tempi le cattedre e le accademie non dettavano servitù di sistemi, imponendo allo spirito umano di vestire una forma sola e costretta, nè più muovere un passo; ma il savio, studiando i bisogni e l'indole del proprio secolo, a quelle norme conformava le patrie istituzioni. E l'Amore e la Sapienza guidavano la mente giovanile su l'universo, e quella ne ritornava assuefatta a vedere le cose di per sè stessa, e come sono, già come vogliono i libri, o i parziali interessi di chi ti ammaestra, e secondo la varietà delle tempre avvenire, che variamente giovassero allo stato sociale, perchè ognuno interrogando il suo genio a quello sacrificava. E l'Amore e la Sapienza, dandosi mano scambievole, imprimevano nei giovanetti l'esempio degli aurei costumi, e il moto delle larghe passioni, tra le quali sorvolava l'affezione del luogo, ove apersero gli occhi alla vita. Quindi vedevansi miracoli non d'individui, ma di nazioni intere, e i Romani educati nella spada e nell'amore della patria vincevano il mondo. – Il sacro ufficio di separare il pensiere dalla polvere spetta a poche anime elette, incontaminate, che lo spirito di Dio volle suscitare per ammenda all'umana creazione. E le poche anime elette parlino ai giovani, e facciano loro sentire la virtù come bellezza e necessità dell'anima nostra, e gli spingano al desiderio di vivere oltre la morte; parlino ai giovani, ed essi risponderanno co' palpiti di un cuore caldissimo di vita e d'inquiete passioni, germi di gloria, o d'infamia, secondo il segno a che miri; e dieno meta lodevole all'inquiete passioni, concitando il fremito delle antiche memorie, non perchè dormano sulle lusinghe dell'ozio e dell'inganno, ma perchè ne traggano affetto d'onore, incitamento alle opere magnanime, e gara di vincere il grido dei tempi trascorsi. E noi liberali esercitando la mente, più non sarà che lo straniero peregrinando le belle contrade prorompa all'oltraggio, vedendo il pensiere indipendente da qualunque vicenda, e a buon diritto, chè forza alcuna nol può sottomettere, meno la nequizia del proprio volere. E noi liberali esercitando la mente, adonterà lo straniero di ridere su le miserie dei prostrati che gemono: poichè se l'un popolo sale, e l'altro discende, non sappiamo noi se debbasi riputare in tutto opera umana, o legge che si diparte dall'ordine di questo universo, o cieco moto di Fortuna; e, posto ancora che l'uomo sia nato alla guerra e alla morte dell'uomo, cessi l'insulto, e pianga invece questa necessità di guerra fraterna, da che alle immense sciagure non possiamo dare che il pianto; e tremando aspetti lo alternare delle sorti, da che non è stata nazione, per quanto si voglia potente, che nella sua giornata di secoli non abbia segnato l'occaso. E lo straniero peregrinando le belle contrade levi la fronte, e ammiri splendido pur sempre di bellezza immortale questo cielo italiano, dove un giorno nell'infanzia delle moderne società spuntava il Sole della scienza a salutare del suo raggio l'Europa; levi il pensiere, e ammiri come gli abitatori della bella Penisola tra le ruine del tempo e degli uomini si resero degni pur sempre cogli atti dell'aere felice che spirano. – Niuno pronunzia il nome d'Italia, senza che non gli sorga dinnanzi l'immagine d'innumerevoli glorie, e la rimembranza che in lei non è spanna di terra dove non abbia calcato l'orma un eterno: ma noi finora non fummo Italiani che per legge di suolo; in questo suolo molte generazioni sorsero, stettero, e caddero, ma silenziose, perchè nude di liberali istituti non lasciavansi dietro grido di fama, o durata di monumento che le attestasse ai futuri. La terra sola, poichè serba le ossa dei trapassati, potrebbe dirci come qui sieno vissuti degli uomini. O nostri concittadini, sosterrete voi dunque, che dispersa erri la parola di pochi animosi, senza che neppur le risponda la voce d'un eco? Forse la solitudine dell'anima è muta eternamente, come quella della morte? Imprendete a rigenerarvi; e state forti al sublime proposito, nè vi smuova l'invidia, o l'ambage della falsa ragione: – a voi basta il volere, e il volere è massimo elemento della potenza; – innalzate gli spiriti a più splendidi obbietti; – accogliete e nudrite nell'anima generose illusioni, – nè cercate spregiarle, estimando per questo di tenervi alla parte del vero: – forse tutta la vita non s'intesse che di codarde e di generose illusioni! CENNO SULLA LETTERATURA ― 1829[7] ― Dant animum ad loquendum libere ultimæ miseriæ. LIVIUS. Quando l'inevitabile avvicendarsi dei casi assegnò nei secoli uno spazio al delirio della potenza abusata, la notte giacque lunghissima sul genere umano, velando il sereno di quanta luce accolse la mente degli anni antichi. E allora la terra non sopportò, che l'insolenza del forte, e la viltà dei caduti; e le turbe abbandonate alla rabbia dei supremi bisogni, al gemito delle arcane paure, altro non seppero, che d'esser venute a soffrire, e morire. E allora, fugate le illusioni, la vita rimase senza perchè, e l'arido pensiere sarebbe corso al suo primo niente, se Dio nol frenava colla pazienza. Le passioni del forte si chiusero nel disprezzo, quelle del fiacco nell'odio; e allora il ministero dei sensi gentili più non fece tremare la _povera creta_ del celeste suo brivido, e l'amore, ultimo, e quasi ombra, intervenne agli affetti, e la pietà, dolcissima tra le corde del cuore, tacque disarmonica. E quei tempi stanno come lacuna dell'intelletto, perchè l'uomo non visse, ma vegetò materia armonizzata nelle forme, e gran mercè se per sempre non ammutì nel silenzio delle fiere. Ma l'anima è così mobile, che i maligni mai non la fermeranno ad un termine, e forza di creatura non potrà sperderne il soffio, se prima a sè nol ritiri chi lo diffuse per l'eterno universo. Combattuta e stanca, un tempo l'anima cade; ma l'ala inquieta del desiderio la rileva, e compensa in velocità di movimento ciò che per lei stette perduto nella inerzia passata. L'anima sortì per essenza la necessità del progresso; e la necessità non ha legge, perchè è la suprema delle leggi; – però quando il suo cenno percosse i prostrati, e disse loro di sorgere, la gioia di un bel giorno vestì la faccia al creato, e la freschezza della vita nuova spirò sul deserto, e ogni atomo della polvere umana si converse in eroe, e dappertutto invase un impeto di gioventù, un'esistenza di spirito, un fremito di pensieri nati nell'Infinito. Ma per risorgere dagli umili eventi, l'anima usò di un mezzo costante, e fu la sapienza. La mente è molla dell'ordine umano, e dove ella non sia cresce il pianto dei mortali. Ma perchè la sapienza è _concento di occulte potenze_, a mostrarsi l'è d'uopo una forma, nè altra più le conviene, che la bella Letteratura. I professori di scienze misurate scompagnano dalla sapienza le Lettere, estimandole a guisa di fronda leggiera, o come vaneggiamento d'infermo. Ma finchè saranno il linguaggio della bellezza, gli uomini non potranno averle così di lieve in dispetto. Un altro consiglio, stringendo in alleanza l'utile e il bello, confuse in una, e fece divine le arti della mente e del cuore. Sciogli quel vincolo, nè l'una, nè l'altra domeranno sole l'indole nostra. È verità, che posa in una tradizione coeva alle famiglie primordiali del mondo, poichè narra, che il savio dei tempi lontani, prendendo a condurre i suoi fratelli di carne dalla feroce esistenza animale a vita men disonesta, si accôrse ben tosto non bastargli all'impresa l'unico risguardo dell'utile; quindi meditò più profonda idea, e il savio invocò la Bellezza, e la Dea mite alla preghiera lo sovvenne del suo sorriso, e le razze umane amabilmente lusingate accolsero meno ritrose il dettame della sapienza. L'uomo è composto di poca ragione, e di molte passioni: però, se la visione del senno vuol essere umanamente applicabile, è mestieri che si renda sensibile coll'ardore degli affetti, e coll'evidenza delle immagini. Le passioni hanno ribrezzo dell'ignudo sillogismo; questo non fa buono che alla gente di toga, e forse nè anche a lei, ma non ha coraggio di dirlo. Le passioni, benchè sovente amare di grave sventura, sono il bisogno e il desiderio dell'uomo. L'uomo anela furiosamente alla vita; la vita non si sente, che per passioni, e va calcolata a misura della loro profondità. Lontana, e quasi spenta ti si affaccia l'esistenza in quei giorni, che non ti aggira il vortice degl'interni sentimenti. E allora ti vince lo spregio di te, e de' tuoi simili, e ti coglie il fastidio del bene e del male, e il pianto e il riso ti eccitano ai medesimi sensi, nè il pensiere sapendo dove chiuder l'ale, e posarsi, bestemmiando chiama dai cieli la distruzione. Talchè tu aborri per istinto il vuoto, e la noia della quiete, come pegno di morte anticipata, e ti affanni dietro all'alterno travaglio delle affezioni, e col desio rispondi al cenno di mille fantasmi ridenti, tanto che men tardi si sfiori la giovanezza dell'anima, e il tempo per meno aspra via ti conduca alla giornata dell'ultimo dolore. Ma la plebe mortale ha di per sè stessa perfetto il sentimento della vita descritta? Come murmure d'abisso nelle viscere umane freme rovente la passione, ma indistinta e compressa, perchè i più non hanno modo di svolgerla, e dirizzarla al segno cui tende; e quando prorompe non sa l'uscita, e si consuma nell'ansia, ma non ha subbietto. Stanno le passioni nel cuore, come gli elementi nel caos; aspettano la voce di Dio, che scenda a comporle in armonia d'universo. E scende la voce del Genio, e le interroga, le solleva, e le guida, e il cuore fruisce la pienezza della vita esercitata. E mal si trascurano, e sta all'alimento di che le nutri vederle scintillanti di gloria, o dense d'infamia, far che una gente benedica, o pianga. Se l'uomo abbia, o no, da lodar nessuno per questo dono, ci pensi chi vuol saperlo; intanto sono inevitabili; e tu potresti meglio dividerti da te stesso, che da loro. E quando l'ipocrisia degli Stoici tentò fermare nell'anima umana la foga di tanta corrente, la continua oscillazione della gioia e del dolore, le ricette non valsero, e quella impostura era troppo inumana, perchè trovasse terreno dove allignare. L'anima consiste sol nei suoi moti; la mente li può governare; e la buona Letteratura porge alla mente i mezzi di venire al suo fine. ― O Lettore, perchè io non amo gli scrupoli, odi la mia confessione. Quanto ho già scritto, e quanto sta per venire, se il lavoro non mi si muta fra mano, vorrei, che avesse cera di discorso. Se bianco o nero, tel dirà la coscienza: a me non istà bene dirne cosa nè _pro_, nè _contra_. Pur questo mio discorso, o bianco o nero, o un po' bianco e un po' nero, in fondo in fondo potrei giurare, che non sarà mio. – E non è molto, che vennemi voglia di leggere quanti scritti mi capitavano a mano di Niccolò Ugo Foscolo. E lessi attento secondo la mia capacità, e vorrei che il profitto corrispondesse al diletto provato leggendo. E i detti, i pensieri, e le immagini del singolare scrittore, mi fecero nel cervello stampa siffatta, che mi prese l'ispirazione della presente diceria; altrimenti non ci avrei pensato dalle mille miglia. Dunque, se ci trovi un filo di buono, non perder tempo, e dànne merito a quel Grande; ma se la cicalata merita l'anatema, serbalo intero per la mia testa, tanto più che essendo leggiera un peso le farà bene. Vedi, io non voglio ingannarti, e nol potrei volendo, perchè, se la Natura mi fece corto, potrei fare, e fare, e bene anche aiutarmi con quella striscia di volpe onde è listato il cuore dell'uomo, ma in somma rimarrei sempre corto; e gli uomini indipendenti mi scoprirebbero, e allora avrei per giunta l'impostore. Perchè io poi mi sia indotto a presentare così rattrappite le maestose figure del Foscolo, la ragione te la dirò un'altra volta. Anzi, se devo dirla, considerai, che nessuno fra gl'Italiani diffuse come il Foscolo luce e calore di sana filosofia sull'indole e sulle vicende delle Lettere nostre. E stimai, che mal non sarebbe a mettere in vista alla Italia, più che non sono, i dettati di quel valentuomo. Già delle opere sue non ci è corpo; ed è per tutti i conti un peccato; e per averne una strappata è forza fiutare a tutti i quattro venti, e di questo il perchè tel direi daddovero, se sapessi come trovargli un posto in queste carte; ma tali perchè son conformati in maniera, che non sanno tener fermo un momento, e dalle carte spariscono. E credo di più, che, oltre al disagio di procurarsi le mentovate scritture, fin qui la gente italiana non ci abbia badato gran fatto, essendo un bel pezzo che la gente italiana mette ogni suo pensiere nel non pensare a nulla, e questo fa per amore di chi gliel comanda. Platone e Aristotele si fecero largo tra di noi, sebbene fuor di stagione, mediante la coda lunghissima dei commenti. Io commenti non faccio, perchè non ho per anche commesso sì gravi peccati da scontarli con tal penitenza; ma dire un motto o due non mi spiace, se non altro per dimostrare, che sono anch'io fra gli animali parlanti: e che direste, se mediante un mio cenno, o di tal altro povero diavolo, il caso permettesse che le dottrine del Foscolo si facessero più popolari? E non ridete, chè in capo all'anno il caso ha per lo meno sei mesi di governo nella nostra famiglia. Chi pertanto potesse spiccarsi un istante dal suo interesse, e mandare un riflesso d'amore alle cose che gli stanno d'intorno, tenga prediletto il Foscolo. È il primo fra i rarissimi Italiani d'oggi che pensano a modo loro; ed ebbe spirito sottile d'indagine, e fiorente immaginazione, e concetto e stile originale, e gittò in Italia i primi semi della prosa poetica, e fu tanto amico a ciò che aveva sembianza di verità, che per farne professione più aperta abbandonò la terra materna, e lasciò l'ossa nel sepolcro degli stranieri; e se l'atto vaglia, o non vaglia, il dicano coloro, che seppero a prova di quanto affanno sia grave il sospiro lontano dell'esule. E chi vede un barlume del futuro, dica quando potremo riscattare quell'ossa, e far loro le feste funerali. ― La possibile perfezione dell'umano incivilimento, ufficio solenne, ed inerente alla dignità dello spirito, è base in un popolo di verace Letteratura. Di questo incivilimento la opinione arde divisa fra due partiti, e dall'uno sta la speranza, e il moto larghissimo onde son concitate le moderne società; dall'altro gli argomenti del passato. Che ad ogni cimento di generoso disegno abbia a rispondersi colla parola _impossibile_, non mi riesce a crederlo. Ai fatti pur troppo va dato conto, perchè in essi giace la storia dell'uomo, e vorrei disperare delle sorti future, se ogni fatto fosse un destino; ma i più spettano alla stoltezza, o alla volontà maligna; e queste, se non si possono struggere, almeno si temprano. Nè da ogni fatto del mondo d'oggi parmi conséguiti lo sgomento, se pure è vero, che l'universo non è tutta una somma di mali; e chi si stringe singolarmente a piangere, o a ridere, ha la metà della ragione. I filosofi mal non farebbero a speculare più addentro la questione, – se la serie degli eventi passati possa del tutto dedursi in certezza di teoria, e farne immagine all'avvenire. Affermeremo noi, che quanto sappiamo del passato sarà l'andamento costante del genere umano? La terra ha sostenute molte e gravi rivoluzioni; numerose orme sociali andarono a celarsi per sempre nella mina dei secoli; e chi potrà giurare sulla natura delle cose immemorabili, dacchè nè larghezza di genio, nè infaticato desiderio di scienza, hanno saputo riconquistarle all'oblio? Nello spazio l'umanità certamente ha disegnato un gran quadro, – ma forse la memoria ne serba appena una linea, – e chi dei mortali griderà: – io ho misurato il possibile? – La natura dell'uomo è poi tanto indomita da concederla tutta all'impeto disperato del male? I dottori d'ogni setta consentono a dire, che l'abitudine è principale elemento dell'indole umana: or l'abitudine fece sempre dell'uomo il supremo, o il vilissimo degli animali, secondo il principio da cui si mosse. Cedere d'altronde a troppo larghe speranze non è buono, perchè poi la delusione fa gemere di soverchia amarezza; rigenerare i primitivi destini dell'uomo non è da noi, perchè sono un pensiere della eternità; stringere i mortali in una famiglia di fratelli, forse è un sogno dell'amore, perchè, se non esiste uguaglianza di condizioni, manca la pietra angolare dell'edifizio: e dov'è la mano potente a bilanciare le eminenti differenze, che hanno aspetto e titolo d'ingiustizie, e forse saranno? La Natura vuol reggersi a governo aristocratico, e la Natura vuol ciò che vuole: ond'ella tramò le sue fila in maniera, che a pochi dava la dote invidiata dell'intelletto, a pochi la bellezza, a pochi la fibra dello squisito sentire, e nelle ricchezze concentrate dell'uno segnava la povertà delle migliaia, e la potenza di un popolo espresse il niente d'un altro, nè tu spesso puoi ridere se un tuo fratello non piange. Tutto questo ha nome d'ordine; – una forza è di certo. Se la Natura abbia torto o diritto, altri ne giudichi, – io nol farò davvero; perchè l'hanno predicata gelosa dei suoi segreti, e quando si ostina a celarsi, nè preghi, nè torture, nè impronti, la scuoprono. I più tuttavia la dicono savia, e provvidente; ed io concorro alla fede, nè mi giova penetrare più addentro. È stile antico adorare ciò che non comprende la mente; e il dominio della curiosità affannò più anime immortali, che tu non pensi. Però la sventura non è in tutto decreto del caso; ella in qualche parte è pianta educata dalle mani dell'uomo, e spetta alla Morale distinguere i mali immutabili, e quelli provenienti dalle nostre pervertite potenze. Il desiderio aspira pressochè all'Infinito; pur molti de' suoi voti si possono sciogliere. Le leggi, donde tanta parte dipende del bene comune, sono capaci di generose riforme; molti diritti si possono conciliare col fatto; per altro bisogna farli profondamente sentire; e così sentiti si ottengono. La virtù del sentire è di Natura; quindi si smarrisce, ma non si perde; e le buone Lettere la desteranno dove fu dalla forza e dall'errore sopita. Quando Dio spirò anima, gl'Italiani ne bevvero il primo fiato; però le buone Lettere faranno in essi mirabil prova, da che la fecero in altre nazioni secondo l'indole, e i casi. Ma perchè la civiltà metta salde radici, e doni alla terra gentile – ardimento, e vigore d'anima nuova, è mestieri che la Letteratura abbia spirito animoso, e pubblico intento, e spregio delle vane apparenze, e amore veemente di gloria. Dopo le spade giovano a maraviglia le generose Lettere esercitate. Il costume corrotto è geloso, e grida offeso di nulla; ma chi sente la virtù del pudore, e dell'ira, tenga lo strepito a vile, e percuota la corruttela di biasimo acerbo. Il biasimo non è una gioia, a meno che tu non sia corredato di quell'aurea imbecillità, onde per molti l'esistenza non ha nè spine, nè fiori; e per amor proprio, e del prossimo, contristati i cortesi discendono al biasimo; ma la lusinga o il silenzio danno baldanza alla colpa, e più largo le schiudono il campo; però chi non teme aprir l'animo suo, usi la dote rarissima, e scuota i pensieri trepidi della vita. La vita è infelicemente breve, e chiusa spesso dal vituperio; la posterità non è cortigiana; nè dalle adulate libidini vien premio, che basti alla infamia; e il suo rimorso è la febbre della vecchiezza. Le Lettere saranno utili e generose, finchè non abbiano barriera, e tengano all'indefinito universo. Però chi professa il pensiere guardi l'universo. Un potente l'ha fasciato di tenebre; ma l'arguta vista del Genio spiando in seno alla oscurità faccia tesoro di quante scintille la solcano, e sprezzi il cerchio misero dei sistemi. L'anima non è anima fuorchè nella libertà dello spazio, e i sistemi hanno l'angustia, e l'errore, perchè ognuno di essi leva stendardo pel sì, e pel no; e il sì, e il no, albergano con tanto equilibrio di forze la testa, che l'uno non vale a cacciar l'altro, e darle riposo. Le arti della mente son creature del cielo, donde scesero vergini consolatrici al mortale; quindi non piegano sdegnose a prepotenza, o a mercede, e quanti si accostavano contaminati a quelle ingenue gemendo si ravvidero di avere invece abbracciata una larva sozzissima. E chiedono sacrificio illibato, e, se a voi non incresce l'inclito esempio, ascoltate con quanta venerazione Niccolò Machiavelli si preparasse a nutrire l'intelligenza. – «Venuta la sera, mi ritorno a casa, ed entro nel mio scrittoio, ed in sull'uscio mi spoglio . . . . . . . . . . . . e mi metto panni reali e curiali, e rivestito condecentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, chè _solum_ è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandare della ragione delle loro azioni, e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro.» – E Niccolò Machiavelli scrisse argutamente di prudenza civile, e di storia, con dignità pari al subbietto. I suoi pensamenti talvolta sanno d'acre sapore; ma se potè più che altri conoscere da vicino la razza che ha nome d'umana, per compiacerle non dovea travedere; e se scôrse, che l'uomo vuole, o dev'essere eterno giuoco dell'astuto e del forte, la colpa non era sua. Scrisse come vide e sentì, senza badare al grido delle offese passioni, e riuscì modello di virile eloquenza, e di spregiudicata filosofia. Molti l'hanno maledetto senza leggere, molti l'hanno letto senza intendere, e gli uomini di peso l'hanno sentenziato maestro della tirannide. Sì, – ma intanto più volte sostenne i tormenti pel delitto di aver voluto reggere una patria cadente, nè patteggiò colla Fortuna, e il raggio di tanto senno si spense nell'abbandono, e sotto un povero tetto. La mancanza di una patria Letteratura non è cosa di sì poco momento, come stimano molti. Le Lettere stanno agli eventi, e sono lo specchio delle sorti di un popolo. Nel trecento ebbero in Italia tanta grandezza di origine, e così largo moto, che se gli anni dipoi, corrispondevano a progresso adeguato, oggidì forse avremmo siffatta Letteratura, che le altre d'Europa vergognerebbero tentarne il confronto; e fu veramente secolo d'oro, non pel fracasso che mena il buratto della Crusca, ma perchè le passioni del tempo avevano movimento spontaneo, e lo scrittore, ispirandosi al genio dello stato sociale d'allora, esprimeva riti, costumi, e tendenze, con forme ingenite a quanti avevano anima italiana nel secolo decimoquarto; e riusciva simbolo profondamente morale del popolo, e della età. Le condizioni nel quattrocento duravano con poco divario propizie allo spirito; ma la scoperta dei codici antichi gli diè maschera greca, e latina, e il vivo incivilimento popolare si arrestò, se pur non rifece un passo alla barbarie. Le armi di Carlo V, e un groppo d'altre tirannidi, domavano il cinquecento; – alle menti era nume il terrore. Nel seicento il servaggio ingagliardì per abitudini, e per giunta la follia predò senza interregno quei cent'anni sul cervello dell'uomo. Finalmente l'ultimo settecento sveniva di languore. Certo, il Genio d'Italia ardeva quasi sempre nelle tele, e nei marmi, e nella magica combinazione dei suoni, e così rese care e divine quelle forme della bellezza, che ne sospira in eterno l'invidia degli altri popoli. Certo, nei due secoli a noi più vicini una mano di valorosi si spinse nelle scoperte delle scienze positive; ma pochi hanno modo o volontà di battere il sentiero delle speculative astrattezze, mentre nacquero tutti alla violenza del pianto e del riso, tutti hanno un cuore, che il Grande può commuovere d'immenso moto, perchè la parola del Genio chiude virtù operatrice. I tempi non erano scarsi d'ingegno, anzi da ogni parte sboccava; ma i tempi erano cupi, e sfiduciavano. Mancava il coraggio, e credo fermo, che l'ingegno e il coraggio continuati nel grado supremo della loro potenza formino il Genio, creazione tanto rara e miracolosa, che la Natura par ne rimanga spossata, e cerchi il riposo degli anni lunghissimi. Mancava il coraggio, e i meno corrotti non osando provocare, nè volendo prostrarsi, tacquero nel dispetto, mettendo appena in comune i bisogni, e lo sprezzo; i tristi affatto, ed erano i più, a scuola di Tiberio scambiando in calcolo il sentimento, aiutavano la viltà di un popolo, che ogni dì sempre cadeva in basso. Quei dottori non seppero esistere per la società dell'epoca loro; quindi pensavano ai morti, quindi allagata l'Italia di erudizione di ogni specie; ma il popolo in mezzo a tanta copia stette digiuno; e quei dottori, spregiando scaldare della vita nuova gl'inanimati fantasmi del tempo antico, mostrarono come la Vanità al pari di ogni altro idolo possa avere sacerdoti, e sacrifizi, e lunghezza di religione. Restano ancora le migliaia dei volumi, e se la farragine fosse misura di scienza potremmo chiamarci contenti; ma una lucerna a mezzogiorno non troverebbe in essi il perchè abbiano veduta la luce, – il nodo che lega l'opera all'uomo. E tu li puoi leggere; – ma è tutt'uno, – non giovano nè ai malati, nè ai sani. I più vennero fino a noi parassiti di fama sotto lo scudo del bel dire, e in ciò sieno a bell'agio maestri; – ma non insegnano il pensiere; – e se il pensiere non raggiasse fra mezzo alla polvere sollevata dell'uomo, chi vorrebbe essere un uomo? – Scrissero oziose rime d'amore non sentito, e prose cortigiane; pugnarono per la barba di Aristotele e di Platone, e le orgie grammaticali assordarono sempre le orecchie; ma il Vero più non ebbe sacra la mente, le opinioni più non ebbero indipendenza, e alla lingua rimasero lascivie, e precetti di vuoto frasario, non eleganza, o vigoria di stile; perchè, se l'anima non dà moto alle parole, stile non viene. La poesia, aura spirata all'anima umana dal cielo più bello, fece dediche; ma non accolse in onore le ultime scintille della virtù cittadina, non santificò il sangue caduto nelle battaglie ultime della patria. Si svolsero poche delle tante pieghe, ond'è gaia la veste della Bellezza, nè fu composto dramma, e romanzo, o dettato di socratica filosofia, a nutrire di cibo soave la ragione, e il sentimento. Quantunque la Bruttezza si ammanti gelosa da capo ai piè, uno spiraglio rimane, e il tardo raggio degli anni vi penetra a illuminare le generazioni. Quei secoli ebbero anticamere di potenti, e letterati di mestiere in ogni via del sapere, e accademici Oziosi, Umidi, Oscuri, Apatisti, Cruscanti[8]; e il collegio degli Arcadi popolò de' suoi pecorili ogni cantone della bella Penisola, ma nè avidità di stipendio, nè romorio di ciancie avvicendate, nè nienti rappresentati in volumi, fecero mai la gloria di una nazione. E se pochi sovrastano immensi nella solitudine di quattro secoli, venerate la fiamma del Genio Italiano, che rompe caldissima traverso le guerre intestine dei mal divisi talenti, e le lunghe vendette della fortuna. Ma rammentate ancora come quei Grandi, perchè non vollero acquietarsi alla inerzia, o sentire tepidamente, assaggiassero la povertà, la calunnia, il pugnale; ed ogni secolo può vantare una vittima illustre data al deserto, o al patibolo. Forse non è anche suonata l'ora da sollevare il velo, che la paura e l'ignoranza hanno tramato sulle molte cause, onde fu morto lo slancio della Italiana Letteratura; nè io ho spalle da tanta fatica. Pure alla nuova impresa non mancheranno, confido, uomini liberali, che dell'acume si valgano a scernere il bianco dal nero, e le Grazie chiamino a compagne del viaggio, perchè tratto tratto s'infiori l'aridità del cammino. Ma se dei tanti guai dovessi pur uno additarne, ultimo fra questi non conti l'Italia la Critica. È scienza, che ritornata legittima merita lode, e non biasimo; ma, come venne esercitata finora, fece danno più che non credi. E fu manto, che coperse la vanità di mille e mille nati al silenzio, e mai non ebbe consistenza di proprii elementi; stette dietro all'opera, e appartenne alla mente come al fuoco la cenere. Arroganza ebbe sfrenata; e le sue spine crebbero sotto l'orma del Grande dovunque ei la mosse, senza avvertire, che le arti vanno in progresso, o in decadenza, per gli alterni destini, e per l'atto di chi le esercita, non già per chi ne discorre. Chi è potente sol di discorso sta a vedere, e gran che se gli riesce appieno osservare il moto dall'alto in basso, o viceversa, dello spirito umano; – ma l'atto è creatore di quel moto. Il Grande è sostanza libera, e trasvola per mondi invisibili; – il mortale ordinario legato alla sua poca terra non può gridargli in coscienza: – tieni a manca, o a dritta, – perchè la vista ha così corta, che i tetti le fanno inciampo. E allorchè il Grande evoca dall'anima profonda la maraviglia del suo concetto, e quella sorge immagine dei cieli, se un'ombra leggiera in qualche punto l'offusca, tu, o critico, non gridare malignando allo scandalo. – La malignità è missione disonesta, ed inutile, perchè in essa ognuno può levarsi a maestro; – guardatevi il cuore, e poi dite se non è vero. – Non gridare allo scandalo, e gemi, se hai tanta virtù, sull'indole umana; pensa, che il Genio del male ha posto un tributo su quanti si alzano alla vita; pensa, che il grande è franco in gran parte di quel debito, e tu per pagarlo forse non basti tutto. – I dottori millantano, ma non sanno rivelare il segreto della potenza, perchè l'arcana Natura non decretò positive e comuni le arti sublimi del pensiere, ma le volle a quando a quando rappresentate nell'ente singolare. L'interesse è il primo impulso delle nostre umanità; – se i dottori sapessero il segreto della potenza, mettendosi in petto la lena che lor manca, farebbero forti primamente sè stessi. Per altro non si convinceranno giammai, e va bene, chè se gittassero la presunzione rimarrebbero nudi, e la verecondia per loro è veste così leggiera, che patirebbero freddo. Quindi in ogni via dell'intelletto si è levato un sussurro d'anime sottomesse, giurando avere in mano i materiali da fabbricar l'uomo grande. I materiali son battezzati col nome di regole, e queste desunte da opere pertinenti a società sfumata nel nulla per dar luogo a nuove famiglie, a nuove tendenze di passioni. Una forza consumatrice ha disperso tutto da quel catechismo, tranne i forami del tarlo; ma pei dottori è tal merce, che senz'essa andrebber falliti. Le lanterne spente non fanno lume: – eppure uomini parlanti, cui dicesi fatta la parte della ragione, pretendono all'incontro. Le lanterne spente non fanno lume, e a dirlo oggi fa poco frutto, perchè noi non sappiamo scorgere il vero che nel passato; ma quando nuovi pregiudizi sottentreranno ai presenti, e apparirà snudato l'errore vecchio, Dio ci salvi dalle risa del mondo d'allora. I dottori non hanno avvertito, come la società ad ogni nuovo moto che faccia, trovi provvedimenti contemporanei, nè possa ricorrere ai secoli morti, tanto più che sovente il Diritto d'un tempo fa il Torto d'un altro. La società si muove per Natura, perchè nulla ha effetto contro Natura; e quando questa consente a mutare di aspetto, ministra i mezzi alla esistenza delle nuove forme. I dottori non hanno avvertito, che la mente concepisce in ragione soltanto delle proprie forze; però le regole tolte dall'opera altrui.....[9] è una emanazione purissima dell'anima, e un'anima non ha veramente legame coll'altra, pel magisterio inesplicabile onde ogni mortale è stampato da un'indole separata. Quindi si cercano indarno gli elementi della grandezza al di fuori del Grande; dipendono da lui come il frutto dalla pianta. Il Genio è un pensiere celeste, dotato di quell'immenso vigore, che basta a creare sè stesso. L'imitazione fa degli armenti, e non dei Grandi; la libertà è anima sola ed eterna dell'intelletto. La Ragione ha battuto sovente all'uscio delle officine rettoriche per venire agli accordi, tanto che scemassero le ostilità contro lo spirito umano; ma i retori non apersero mai; quindi in ogni età quel sussurro di anime sottomesse errando d'intorno alle calcagna dell'uomo grande ha gridato: – o uomo, posa le gambe, e va sulle nostre; – e perchè l'uomo per un certo suo natural dispetto, e a motivo delle distanze, non ascoltava il comando, per lui non v'ebbe più sollevazione. I pedanti mormorando il sospetto nelle camere del potente, e scorrendo i trivi e le piazze, bandivano addosso al Grande la croce. Amaro fu il calice, che gli offersero a bere, e la plebe umana, che dipende dalle spinte, persuasa dallo schiamazzo versò la sua parte di fiele in quel calice. Forse la moltitudine, tenendosi al naturale nell'estimare le cose, piegherebbe meno dei critici a sinistra; ma da che i giustizieri delle Lettere si fabbricarono la scanna delle sentenze, le turbe, fatalmente inchine a pigrizia di servitù, rinnegarono l'intelletto in mano ai dottori, e non giudicano mai secondo l'azione delle proprie facoltà, ma non danno parere di sorta, o si governano colla fama. E la fama anch'ella è matta, o savia, secondo da cui prende le mosse, e a prima giunta spesso s'imparenta agli affetti, e vagheggia la Fortuna, nè così per tempo si accorda colla Giustizia, la quale è conseguenza delle misure, od opera tarda degli anni. – La spanna del pedante non comprende che il pedante: – nè aspiri più alto; – il massimo non entra nel minimo. L'Alighieri, Michelangiolo, Galileo, sono espressioni vicine dell'infinito: i pedanti narrino il come, il giorno e l'anno, in che vennero a casa loro questi immensi a prendere in prestito quel non so che d'incomprensibile, onde tanto si fecer divisi da noi, che parsi non sarebbero umani, se la morte non gli avesse ricongiunti alla polvere originale. Il pedante è cocciuto, e non cede; ma chi ha la coscienza di un bel talento, e può di speranze e di fatti consolare una patria, invochi alle imprese una patria, e l'anima sua, nè guardi altro segno; e se la guerra degli uomini gli tira a terra il pensiere, ricordi qual pro facesse a Torquato Tasso la varia servitù. Al servaggio delle poetiche spettano i luoghi meno eletti del suo poema, alla gramatica spetta una parte della pazzia, che, ultima di tante sciagure, afflisse quell'illustre infelice. Il modo letterario, che in tutto si confaccia agli esposti princìpi di libertà intellettuale, è il Romanticismo. Nol distinguiamo di tal nome per fine di setta, ma per significare una idea. L'arte romantica è il moto espresso dello spirito umano, e simile all'aquila dell'antica onnipotenza romana tiene il sublime dei cieli, e si alimenta dell'Infinito. È l'arte, che ti conduce innamorato del Vero a considerare gli effetti della Natura, e presentarli secondo le impressioni che soffersero le interne potenze, e nella guisa che più ti riesce propizia; è l'arte, che via via scuopre la sembianza più vitale della Bellezza. Eterno è il raggio della Bellezza, ma ogni secolo passando lo veste di un colore novello, e il savio l'adora sotto la forma in che splende. La bella scuola visse agl'Italiani nel sacro poema di Dante, nel canto sentimentale del Petrarca. Come dissi poc'anzi, le Lettere nel settecento erano di tanto sfinite, che pareva inevitabile il niente. Al caso piacque il risorgimento; e il Parini ridonò casta e gentil favella alle Muse, e Vittorio Alfieri ululava nel letargo dei dormienti la parola della vita, e il Foscolo accolse quella parola nel grembo dell'amore, e l'educò a magnanimo intento. E una schiera eletta d'ingegni intemerati tenne dietro alle grandi orme. E si vendicò dall'oltraggio, e dalla trascuranza dei corrotti, il pegno più sublime che abbiamo di patria Letteratura, la Divina Commedia. In essa trovarono consiglio e mezzo a purificare l'idioma, necessità di un popolo, che muova a riprendere fisonomia propria e distinta. Oggi la Divina Commedia è a noi tutti il palladio dei sensi generosi; è un eco al grido profondamente commosso nella impazienza delle nostre passioni. Corre un detto maligno, annunziando, che le cose andranno a finire col precipizio. I buoni attestano di no. Ma sia come vuolsi, da che l'uomo, o quanto viene dall'uomo, si leva per cadere. Aggiungeremo soltanto, che le ruine della grandezza son grandi, e i monumenti di una forza passata parlano eternità. La mente degl'Italiani dorme un gran sonno, ma, perchè l'hanno mobile e suprema sugli altri, potranno far violenza, e redimere dagli eventi lo spirito. Agl'Italiani però conviene purgarsi di molti peccati, che scontano in avvilimento, fra i quali lieve non è l'avversione veramente fraterna a quanti fra loro sorgono ingegni felici. E sì che le arti del pensiere, modeste come sono, non desiano che lieta accoglienza; – d'altro premio si offendono. A noi par costi troppo cara perfino l'onestà di un plauso. E qualunque volta balenò il Genio su questa terra, non movemmo voci di saluto, o sorriso di gioia, al richiamo di quel raggio soave; ma tentammo velarlo delle tenebre nostre, e gemendo sulla rosa, che spuntava bellissima, l'avremmo dispersa, se non fioriva immortale, anzichè alimentarla nell'alito dell'amore, e pregarlo eterne le rugiade del cielo. E il Genio maledetto da una plebe cui soprastava, – nè il fallo era suo, – si consumò solitario, e non diremo con quanto dolore, perchè ineffabile. Ricorre a tutti mestissimo il pensiere dell'abbandono, e più che mai all'anima grande nata al bisogno d'invadere l'universo, dove abbia sfogo il moto perenne che l'affatica. E il Genio si consumò solitario: – sol quei pochi gentili, che vivono all'armonia riposata del Bello, nell'affanno del segreto desio lo seguivano fuggente per le tenebre umane, come stella caduta dal firmamento; e disperando di ogni altro sollievo invocavano allo stanco la pace della morte. E nella morte il Genio quietò l'ossa, e le mal dome passioni; ma l'odio de' suoi fratelli di carne si giacque con le sue ceneri, a contender loro una preghiera; – e tanto andò premio al cortese, che si curvò per sollevare la polvere! Vennero i posteri, e, ascoltando fremere d'infamia le ingiustizie paterne, per ammenda sacravano altari, e parole di lode alla memoria della offesa grandezza, – ma vanamente: il tempo aveva scritta la sua sentenza; – l'anima eterna aveva finito il suo gemito; – e la terra ritornata alla terra non si consola della lusinga, nè dell'insulto addolorasi. – Gl'Italiani possono essere sventurati, se tanto piace al destino, ma, volendo, non saranno nè vili, nè ciechi. Antica quanto la nostra caduta suona una rampogna allo straniero, che dal mare e dai monti si affaccia alla bella Penisola, perchè lo straniero, visitate le ruine, e riposati gli sguardi nel molle sereno a conforto dell'anima cruda, ritorna alle sue mute contrade narrando la gloria eterna del cielo, e dei sepolcri, – ma dei viventi non fa parola, o parola di scherno. È meritata, o codarda l'ingiuria? Se gli uomini non dovessero perdere in senno quanto guadagnano in prosperità, godrebbero modesti il favore della Fortuna, divinità, che il savio e lo stolto convennero a chiamar pazza. Tuttavia, se ben guardi, l'ingiuria prende eziandio qualità dalla maniera in che i miseri sopportano l'infortunio. Che se lo schiavo non vuol far moto della persona, per paura che il cigolio della catena gli giunga all'orecchio, e giace stupido tanto, che se la vita non fosse un peso avrebbe appena la coscienza di portare una vita, allora l'insulto lo sorprende meritato ed acerbo, perchè il cuore e la mente inviliti non gli danno nè un pensiere, nè una voce alla risposta. Ma se tu palpi le piaghe tue per sanarle, e non per piangere un vano lamento, ma se la giornata del dolore ti passò sul capo senza piegarlo, allora cade ogni protervia della soverchia felicità, e dalla sventura generosa il superbo apprende lezioni dì sapienza, e di tremore, pensando che la vendetta non fu mai spenta, perchè ha per sede l'anima, e, se il tempo sapeva spuntare una spada, da leggi inevitabili è stretto a ritemprarla più acuta. ― O Italiani, gran parte del vostro gemito stette, perchè amaste con poca intenzione una terra, che a voi si stringe nel vincolo della patria e delle sciagure. Un momento solenne sorgerà dallo spazio: ma se l'ingegno accorto non veglia ad afferrarlo, trascorre confuso coi giorni dell'umiltà. Italiani, amate attenti, e non millantate una patria. La terra vostra è sempre la terra delle memorie; e il Genio eterno agita sempre sovra essa una fiamma divina. La terra vostra è sempre la terra, che un dì tolse nome dalla stella più lieta del cielo[10], e sempre la sospira l'alito delle Grazie innamorate, e sempre è fresca della prima bellezza, perchè a Dio piacque suscitarla tra le forme create come l'iride del suo pensiere. Ma doni così liberali non fanno argomento di gloria allo spirito inerte; da che nè la fragranza dei fiori, nè l'amabile raggio del Sole, onorarono mai d'un sorriso il cadavere. LORENZO STERNE ― 1829[11] ― Natura il fece, e poi ruppe la stampa. ARIOSTO. Dall'amore dell'arti liberali emerge la vaghezza d'intendere i casi dell'ingegno felice, che a noi rese visibili queste figlie di un pensiere divino: ma perchè Lorenzo Sterne stette nel creato più che altro a sembianza di spirito, nè degli eventi suoi tu potresti narrare, che il nascimento, la vita, e la morte, e perchè di questi a qualunque vento ti volga vedi composta la massa degli uomini, nè l'umiltà delle doti comuni vuol diritto di storia, – però noi convertiremo l'animo a più degno subbietto, favellando con breve discorso della Mente di Sterne. Se la mollezza del cielo italiano, e la melodia dei suoni, e l'esultanza del paese gentile, che in ogni sua forma svela il concetto del sorriso, sono maravigliose e principali espressioni della bellezza; se i figli d'Italia sortivano tempre armonizzate al solenne linguaggio, qual di noi non vorrà di lieve consentire espressione della Bellezza le opere tutte di Sterne? E l'Irlandese le creava così belle alla nostra maniera, che tu immaginando diresti il suo pensiere educato nell'aure dei nostri sereni, e che al sangue gli corresse mista una fiamma dell'italico Sole. E l'anime che vivono all'anelito di quanto è ispirazione d'una idea immortale, fra quelli scritti segnatamente piegano il desio al _Viaggio sentimentale_, ai _Sermoni_, e alla _Vita ed Opinioni di Tristano Shandy gentiluomo_. Ugo Foscolo, indegno singolare dei nostri tempi, e fresca memoria di pianto ai generosi, si piacque vestir di tal veste il _Viaggio sentimentale_, che rari sapranno arrivare a quel segno: – e perchè i _Sermoni_ mirano a istituti e articoli di fede in parte diversi dai nostri, forse, traducendoli, non avrebbero convenienza universale. Rimane il _Tristano Shandy_, bellissimo libro, e più che altri a principio non crederebbe, – e fu meditato nella quiete d'un'anima intatta d'ambizione, di raggiro, d'invidia, e degli altri peccati soliti a visitare la gente di Lettere; per lo che riuscì specchio sincero delle nostre umanità, e traverso il riso, e le lacrime, mostra più lume di tanti, che in tutt'altro modo ritraggono la Natura. Gl'Italiani, per quanto io mi sappia, non hanno del libro bellissimo versione nè buona, nè cattiva. L'hanno i Francesi; – ma come? Chi non vuol credere, tocchi; – e lui infelice, se dipoi non si accuora dello strazio impudente. Sgradiranno gl'Italiani un lieve esperimento del libro bellissimo? E noi non vogliamo dar loro questo saggio[12] a guisa di norma, o come pegno che un dì venga compita l'impresa, – ma perchè si levi uno spirito gentile, cui toccò in sorte profonda la sensazione dell'amore, della pietà, e del sorriso, e renda per quanto è dato immagine schietta del libro bellissimo. Nè io so dipartirmi da questo attributo, e le ragioni le ho tanto solcate nell'anima, che malamente tenterei manifestarle per via di favella; se non che l'arte impenetrabile, onde i valorosi d'ingegno sollevano il velo delle passioni agitanti la vita, accoglie vigore siffatto, che, per quanto tu abbia l'animo restio, ti doma alla maraviglia; – e se tu hai viscere d'uomo, e leggi la storia di Le Fever, o di Maria, o la morte di Yorick, senza lasciarti andare al sospiro d'una mestissima voluttà, che giace misteriosa negli umani precordi, – ma a pochi sommi è dato di suscitare, – allora piangi della anima tua. La sacra scintilla aborrì la tua polvere, e si rimase nei cieli; – tu ereditavi più larga parte di affanni. Chi dirà l'angoscia ineffabile del cuore assiderato? L'alito delle belle passioni non vi sovverte, che sterili sabbie, incapaci a nutrire neppure il desio d'un affetto: – a che gli fu data la vita? come un freno da rodere. – Nè lo coglie un istante di sublime, onde spezzi quel freno; – e gli anni a lui numerati passano muti d'ogni vicenda, e solamente per piegarlo alla terra, che lo richiama: – il cuore assiderato è il silenzio di una solitudine, donde grida la verità della sentenza, che sopra tutti decretava infelice chi mai non cesse al pianto, e alla gioia. – Si levi adunque uno spirito gentile, che abbia il sentire a dovizia, e sufficiente ingegno, e sappia bene le lingue ambedue, – ma senza intervento di gramatica, – e tenti l'impresa, sperando, che le venture gli correranno propizie, e tutta Italia, e tutti i cortesi gli daranno plauso, e merito conveniente; ma dove questo effetto non séguiti, perchè sulle prime la malignità e l'ignoranza danno tre quarti dei voti nello squittino, allora tenti l'impresa per obbligo di coscienza, e chiuda l'adito a quei molti, i quali, sforniti di verecondia e di mente, ci fanno tal dono di traduzioni, che geme di grave offesa il sacro ufficio delle Lettere, e l'onor nostro, e quello dei forestieri. Sono le traduzioni, o per me credo che sieno, al corpo delle Lettere umori maligni; ma sia necessità naturale, o legge di costume, oggimai ne fanno elemento; e però sarà buon consiglio provvedere, che il male inevitabile ci venga da mani generose. Chiunque finora ha tradotto, e in qual modo tu voglia, ha presentato sempre un'immagine più o meno velata. I pensieri d'uno scrittore trapassando nell'anima nostra tengono assai del moto, e dei colori di quella, e diventano in certa maniera nostra essenza, perchè non si possono ritrarre se non come si concepiscono: – ora una legge arcana ha disposto, che ogni vivente concepisca in un modo, e per la forma, e per la idea, in varie parti diverso dagli altri. Ma gli scrittori originali in tutto il significato non si lasciano svolgere nè per forza, nè per amore. Quei concetti profondamente segnati dell'interna stampa dipendono troppo da chi li creava, e tolti da quella maniera d'esistenza, in che appena usciti della mente si giacquero eterni, non serbano più sembianza della prima natura. Voi tradurrete con qualche grado di agevolezza uno scrittore mediocre, perchè il mediocre è conseguenza piuttosto delle forme, che dello spirito, e le forme essendo una convenzione hanno moltissimi punti di contatto comune. Ma dov'è il magisterio, che vi presti il vigore da muover l'ala dell'anima immensa? – Quel vigore era la stessa anima immensa. – Dov'è il magisterio, che vi insegni a tradurre la soavità del fiore, il raggio del sole, l'afflato divino che distingue dalla morte la vita? Quella potenza d'intelletto indefinita, solitaria, indipendente, che si nomina Genio, è parte immobile del suo cielo natio, e a pochissimi prediletti è concesso fare a quel santuario pellegrinaggio di spirito. Dovranno i più rimanersi nel desiderio di tanta bellezza? Eterno dolore è il desiderio, – e se la sventura chiede la lacrima del mortale, siatene liberali a quei miseri su cui la sventura di soverchio si aggrava; – e pur troppo son tali gl'innumerevoli cui fu negata la facoltà di sentire, e cogliere un'aura di quanto spira di bello e di sublime nelle cose universe. Tuttavia la compassione non muterà d'un capello la legge onnipotente, che nel creato frammischiava la fiacchezza alla forza, la luce alle tenebre, il disordine all'armonia; – e se a te mancano i mezzi da conseguire la vista della Grandezza, non è mestieri che io ceda alla viltà del dispregio; – adora la memoria del Grande, e per sicurezza di giudizio affidati al testimonio dei secoli. Austero è il testimonio dei secoli, ma incorruttibile, nè giura sul nome d'altro Dio, che del Vero. Ma perchè, se tu sai, ne devi il merito alla tua buona o cattiva Fortuna, e, se non sai, non puoi sapere, così meglio di qualunque avvertimento conferisce al bene della traduzione la consonanza dell'indole, prima causa onde il Foscolo ebbe tanta felicità d'impresa; – e ci giovi convalidare lo asserto coll'esempio d'un altro illustre. Vittorio Alfieri dava all'idioma d'Italia, spontanea, e calda di vita, la storia severa di Sallustio romano, e al tempo stesso incrudiva la mollezza della poesia virgiliana, e oscurava que' suoi vaghi colori, che forse non sono il minimo pregio del poeta latino. E il fatto avveniva, perchè l'Alfieri dappertutto spirava dall'anima quel suo fare da Michelangiolo, – e i casi, che posero vicino al suo niente la romana grandezza, e lo stile onde i casi vennero espressi, sono veracemente grandi, e terribili: ma Virgilio fu cortigiano, e l'indole avea temperata a subbietti, dirò quasi innocenti; – e la gente di Lettere ha giurato, che fu nelle Georgiche dove si mostrò potentissimo dell'ingegno. Gli umani interessi ebbero sempre a lodarsi poco dell'esame troppo minuto; – ed hanno osservato, che grande elemento dell'obbietto, o buono, o bello, o felice, o di quanti altri mai ne somministri il creato a conforto dell'anima, sia la lontananza donde scorgi l'obbietto; – e più ti avvicini, e più si dirada il vapore, finchè in ultimo ti apparisce quell'aspetto aridissimo che per solito chiamano Verità, nudezza inamabile della cosa tanto, che il mortale di rado non ebbe ragione da maledire allo scambio. Altrimenti è di Sterne; – e più che a sviscerarlo ogni vigore dell'interno pensiere si adoperi, e più sempre ti balzano innanzi forme vive di novella leggiadria; – nè persona di cuor gentile vien mai che lasci di leggerlo, senza che nel profondo non le rimanga un desiderio come d'amore. Lorenzo Sterne scrisse singolarmente, e non a guisa di professione; e sebbene avesse consumato anch'egli la giovanezza alle scuole, e sapesse quant'altri mai delle opinioni stampate, perchè era sapiente non millantava dottrina, nè si faceva largo nel mondo, nè pretendeva titolo e riverenza di maestro, dando in cambio citazioni greche, e latine; – nè volle mai brighe di vanità, nè sappiamo, che venisse aggregato mai a nessun Convento della gente di Lettere. Ma perchè non temeva, nè sperava degli uomini, amò d'intemerata passione la Gloria, e la Verità; – e queste gli arrisero, – e, benchè persuaso di spender male la sua moneta, amò ben anche la specie cui la ventura lo volle annodato. E perchè il suo Genio lo piegava all'arti ingenue del pensiere, offerse loro culto di religione inviolata, nè mai le profanava, vestendosi il manto di tanta bellezza per onestare le varie viltà, che invadono largo numero dei dottori di ogni popolo. Non fu mercatante della volontà, e dell'ingegno; ma spirito assoluto esplorava acremente le cose, nè sulla carta segnava altro moto, che quello dell'anima; e stimò meno di cosa che non sia il patrocinio, e le libidini del potente; – quindi nell'inviare che fece al Ministro Pitt il _Tristano Shandy_ non gli chiedea nè favore, nè protezione, nè niente. ― _Il libro deve proteggersi da sè_, – gli dice in mezzo alla lettera, ― _e ve lo mando come sollievo d'un momento agli affanni, e perchè vi faccia ridere, stimando che il sorriso aggiunga un filo alla trama brevissima della vita._ – Ora se tu ami sapere qual grado ti assegnavano i fati sulla lunga scala degli animali, leggi Lorenzo Sterne, candido scrittore, e d'indole aperta, nè forse altrove esiste così verace storia dell'uomo come nell'opere sue. E se ti venisse fatto, o speri di temperar le tue grosse passioni, leggi quelle pagine di frequente. La morale di quei libri è drammatica, e sgorga diretta dalle situazioni dell'anima umana, immaginate con mirabile accordo dell'ingegno, e del vero: – è la morale del fatto, e d'ogni specie; e se gli atti di gloria, o d'altra bellezza, furono mai frutto d'insegnamento, certo fu sempre maestro l'esempio. Leggi Lorenzo Sterne, perchè con vario governo esercitando le leggi eterne del cuore non consente all'umano le superbie del sistema, ma sì lo stringe a piangere, e a ridere, destino solenne cui lo chiamò la Natura; e col motteggio, che sa molto d'amaro, ma d'amaro che medica, lo contiene nel cerchio delle sue umanità, perchè non cresca una ragione al severo, che veglia allo sprezzo della schiatta di Adamo. Ma la bellezza di Sterne sarà baleno agli occhi di tutti? Dio faccia di sì, – da che la metà degli uomini nasceva per non vedere; – molta parte dei rimanenti non vuole. Simbolo di profondo consiglio era la nudità delle Grazie, e per me credo a quella immaginazione; – ma benchè nude, nè sdegnose dell'umano consorzio, rari è fama che le vedessero. E se nelle menti mortali da poco tempo il caso non operava qualche rivoluzione, di che non ci sia giunta novella, io vado convinto, che al grosso numero Lorenzo Sterne non piacerà; – e buon per lui, che le venture non lo portassero a scriver drammi, – così almeno andrà salvo dai fischi. E qui prego coloro che fanno professione di filantropia a non volersi attristare di troppo, se la nostra Natura pecchi di sconvenienza adoperando a manifestare un affetto la maniera testè mentovata: – io torrei pure a buon patto, per onor mio, e del prossimo, che quando l'uomo è commosso da una passione più turpe del solito si ristringesse a gittar via la parola, che lo distingue dai bruti, e fischiasse a sua possa, ma non andasse più oltre nell'usurpare le bestiali proprietà. Se adunque Sterne camperà dalla prefata disgrazia, a ogni modo verrà taglieggiato nei crocchi; – e perchè ci hanno detto, che l'umor della bestia si può bensì torcere più che mai, ma non dirizzare, per cortesia daremo luogo onde chi vuol correre abbia sgombro l'arringo, e tocchi la meta. Ma più che il grosso della plebe, la quale ha finalmente _pro domo sua_ l'Ignoranza, che se monta in bigoncia sa recitare una lunga intemerata al pari di tutt'altro professore, diranno male di Sterne le loro Gravità Letterarie, quei sacerdoti d'idoli smessi, che si fanno ragione colla parrucca, e col fascio degli anni sul dosso, e colla tradizione delle opinioni passate. Io di buon grado lor farei riverenza, se la parrucca facesse parte della testa, e se non mi fossi accorto, che gli anni spossavano l'ingegno, dove era ingegno, e intristivano le belle passioni fremevano, nè altro effetto costante producevano sulla testa tranne i capelli bianchi. E quanto alle passate opinioni? Oh! se la faccia del Vero degnasse mostrarsi alla terra, la sua forma sarebbe unica, universale, perenne; – ma perchè inesorabile una sentenza lo vieta, ne tengono le opinioni la vece, le opinioni, che sono la sembianza scolpita d'un'epoca sociale. Spezzata l'arpa, cessano i suoni; – caduto il complesso delle razze destinate a significare un'epoca distinta di società, ogni efficacia delle sue opinioni si sperde; – quindi immediata necessità che la mente prediletta concordi le opere e gl'istituti al secolo, e alla razza che le fa corona. Quando cesserà il malignar dei pedanti, e l'insanire della plebe? quando la parola del Genio sarà scorta a chi peregrina la vita? quando spegneremo del tutto quell'avanzo della primitiva indole di fiera, che stette indomito contro la forza del tempo, e l'influsso delle più sante istituzioni? quando scioglieremo il voto eterno dell'anima di stringersi tutti in una famiglia di fratelli? Fra coloro che si aggiudicavano esclusivamente la proprietà di filosofi e le chiavi del cuore, pende tuttavia la contesa se la razza meriti più il riso, o il compianto. Io, guardando al passato, le concedo la compassione, e gemo su quante generazioni disparvero, e sulle presenti; nè dissuado l'amore, supremo degli affetti, e bisogno dell'anime singolari, ma gemo, perchè l'amore fu sempre argomento gravissimo di cordoglio agli amanti. Qual saranno le future condizioni dell'uomo? Soffochiamo il presagio, e riposiamoci sulle lusinghe del tempo. Il tempo genera la vita e la morte, l'oltraggio e la vendetta, la schiavitù e l'ora solenne del riscatto..... Possa generare il vincolo dell'eterna concordia, possano le nostre ceneri risponder commosse al gioir dei nipoti lontani! Ma come adempievano i destini dell'esistenza le schiatte defunte? Tanto fervore di migliorarci di per sè stesso lo dice. Interroga i secoli e quell'antica sapienza di dolore risponderà. Noi mutammo da quando a quando l'impronta, ma la materia durò sempre la stessa. Tratto tratto un magnanimo imprendeva a tramutare in buona la nostra natura, e santificava l'impresa coll'amore colla sapienza, e col sangue; ma se l'ira, o lo sconforto, non mi traviano, mi è sembrato vedere gli sforzi generosi fin qui miseramente perdersi tutti nel vano; solo di tanta ruina avanzava l'ardore del desiderio, ma il desiderio non è che la profonda espressione della mancanza assoluta. Il magnanimo inquietato da uno spirito creatore gridava un grido di risorgimento ai giacenti; – spirava il vento, – non si moveva una fronda; – ineccitabile è il silenzio dell'anime create a tacere; e, per quanto lo scorra poderosa una voce, non odi ripetere un eco. E allora per lo spirito atterrito si commosse un sentimento, e parlava. – Forse l'onnipotenza dei fati segnò la razza d'un segno indelebile per la mano dell'uomo. Chi la curvò sulla polvere, quando gli piaccia, potrà sollevarla. – Cedeva il magnanimo uno spazio degli anni alla speranza, – chè la speranza è pure un affetto, – è il più gaio colore onde va lieto il fior della giovanezza, – ma il suo verde non è perenne, e il tempo vi soffia di un alito, che in fine gli è forza appassire. Chi è che giunto in fondo alla vita si levasse a dire: – io non piegai sotto il dolore del disinganno? – E però per le allegate ragioni, e per altre infinite, roderanno sempre i pedanti, perchè non sanno che rodere, e sempre spacceranno ricette le quali t'insegnano a fare, se tu sai fare da te, e ti profferiranno la misura di ciò che non ha misura, o almeno determinata, come sarebbe la potenza volubilissima della mente; e con mal piglio daranno lo sfratto ai concetti di Sterne, perchè non trovano posto tra i numeri delle aritmetiche loro. E però per le allegate ragioni, e per altre infinite, la plebe sempre maledirà: – e qui, dicendo plebe, io non intendo un insulto a quei miseri, cui le colpe degli avi non acquistavano censo, e fasto di nome, e che il senno della Fortuna costringe tutto giorno a sudarsi un alimento al dolore; – ma sì quel gregge immenso dell'anime, che non hanno in proprio fiato di volontà, e di potenza, – e giacerebbero inerti come la terra donde sporsero in fuori, se un impulso esterno non le movesse; – e, o così voglia l'affinità delle tempre, o altra cagione più ascosa, di rado avviene, che non accolgano unicamente il moto dei tristi; – quindi troverai plebe sotto qualunque panno, e in qualunque scompartimento si divida la radunanza sociale; – quindi le belle memorie, benchè liete d'un raggio del cielo, a quelle masse splendono tacite, e meste di luce funerea. Ma la Natura pensava un'ammenda agli oltraggi dell'ingegno felice, suscitando nel cuore dei generosi altri palpiti oltre quello della vita. E i generosi animati al piacere, e al dolore spirituale, nell'esultanza d'ogni bel sentimento salutano il Genio di Sterne, e desiano alla terra, che sovente si rallegri d'un'orma simiglievole alla sua, e serbano in petto la sua dolce memoria come segno di riposo allo spirito affannato dal viaggio mortale; perchè mente ebbe così benigna, che in essa non si levò pensiere che non fosse gentile, – e tanto ardore d'immaginazione, che nel deserto creò la fragranza della rosa, e durerà cara passione dell'anime elette finchè rimanga alla gioia un sorriso, un gemito alla pietà, un sospiro all'amore. LORD BYRON ― 1830[13] ― .... Quel Signor dell'altissimo canto Che sovra gli altri, com'aquila, vola. DANTE, _Inferno_. Se il Byron, come tanti fecero, e faranno, avesse scritto soltanto nienti vestiti di metro e di rime, io mai non avrei posto mente a volgerlo nella lingua nostra, lasciando volentieri ai _maestri miei_ l'impresa di stringere un'ombra, e di tradurre il sussurro del vento; perchè reputo ufficio del cittadino non offerir nulla alla sua nazione, piuttosto che assuefarla ad oziose fatiche, per le quali mai non fa passo nella via del sapere, nè altro consegue fuorchè una millanteria strepitosa della sua nudità. Ma tolgano i cieli, che si abbia così a favellare del Byron; e per altrettante ragioni affatto contrarie a quelle già esposte ci piacque mostrarne tradotto un poema agl'Italiani nostri. E gli Italiani nostri non facciano conto di ravvisare sincere le sembianze del Byron nella mia traduzione; mainò davvero, e io non torrei a farlo credere coll'aiuto di tutti i giuramenti antichi e moderni. Il Genio è più fiero, che il cavallo del Magno Alessandro, e a trattarlo stimo non bastare un eroe. Io vi presento le figure di un quadro maraviglioso; e se non vi ho reso la magia del colorito, date parte del difetto al mio poco valore, e parte alla natura delle cose impossibili all'uomo. Nondimeno agli spiriti gentili amabile è sempre la creazione del fiore, benchè andasse dispersa metà della sua fragranza. Ad ogni modo il poeta, che visse nella sapienza della sventura, che sentì, e fece sentire le universe passioni, che nell'umana materia risvegliano un'anima; il pensiere, che tutti trascorse gli eventi mortali, e poi si affisse nel profondo dei cieli, tentando rapire il velame alla notte del mistero, è troppo grande, perchè non abbia da compensare largamente anche chi lo legga tradotto. La fiamma nodrita di eterni alimenti eterno manda e lontano il calore. Della molta bellezza, ond'è lieto il presente Poema[14], io non mi farò notomista: primamente, perchè l'alta poesia sfugge l'esame, e va del tutto soggetta al sentimento; poi perchè parmi ben fatto lasciare a ciascuno l'indipendenza delle opinioni. Finora le stelle non mi hanno impresso nel sangue bastante influsso di _critico_, nè il mondo mi dà per anche del _chiarissimo_, perchè io mi creda di avere in appalto il giudizio, e gridi ai miei fratelli di umanità: ― non guardate, ho veduto io. ― E questo è generalmente il raziocinio di quanti scrissero, e scriveranno _riviste di lettere_; e dietro a siffatta norma potrei scomporre ad una ad una le parti di un bel corpo, che io non ebbi il magisterio di creare, e così potrei regalarvi l'_estratto_ o il _parere_; ma il frutto? Chi ha vivo il cuore e l'ingegno, sa fare a meno di certi soccorsi, perchè si aiuta più acconciamente da sè; e chi venne diseredato di quelle due facoltà, sa farne a meno più che mai, per la cagione solenne dell'impotenza. Cento matematici potrebbero dimostrare ben anche le frazioni impercettibili del Bello; ma i calcoli tornerebbero a zero; e però, benchè la pazzia faccia elemento di equilibrio nella fabbrica dell'uomo, chi sarà mai tanto pazzo, che doni gli occhiali al cieco, perchè veda una maraviglia? E se chi professa filantropia sclamasse all'ingiustizia, perchè gran parte del genere umano sia venuta, più che al fatto, alle pretensioni del sentimento e della ragione, io non saprei dargli torto; ma non vedo altro rimedio, che la pazienza; o altrimenti come potrò io debole, io servo di mille ignoranze, di mille bisogni, e della morte, sommettere la forza, che abita le tenebre, che mai non si mosse dai suoi decreti pei nostri schiamazzi, e che nell'ordine degli enti medesimi volle, o dovè, porre il savio e lo stolto, l'animoso e il codardo, il giusto e l'iniquo? Dunque pazienza; e coloro, che hanno anima fresca di gioventù, e agilità di spirito, leggano nel Byron, e vado sicuro, che proveranno un moto onnipotente alla vita; e se talvolta vien meno l'effetto della consueta sua prepotenza, non mormorate un'accento di biasimo a quell'immenso; – il peccato è della mia traduzione; io son l'ombra, che mi attraverso alla luce. Nella prefazione alle Novelle del Cesari, stampate in Genova _anno Domini_ 1829, sta scritto, che _il Byron, Gualtieri Scott, e somiglianti ingegni così gagliardi a mo' di palloni, si levano sulle nubi, sino a che ad un soffio di aura nemica vuoti e vizzi ricaggiano al suolo_. E, seguitando di questa maniera, vien confortata l'Italia a spregiare _i più rei d'oltramare, e d'oltramonte_, accettando invece un pugno di baie _a guidare la gioventù per quella via, fuor della quale non sono, che greppi e balzi romantici_. Dio perdoni l'impudente che scrisse siffatte miserie, perchè io non posso. Nè già questo dico a difesa del Grande, perchè più non abbisogna d'insulto o di lode. Il grido consentito d'Europa oggimai l'ha salutato potentissimo fra gli intelletti del secolo; e badate, che il Sole si spense a mezzogiorno, perocchè Giorgio Byron sfortunatamente morisse sugli anni 36. Ma ciò che mi muove è l'oltraggio gittato sopra un'intera nazione; e la ragione è sul vivo oltraggiata, allorchè un falso profeta con sue parabole la persuade a maledire il Genio, e a rinnegare il Pensiere, offerendole, in cambio dei sublimi dettati, Novelle povere tanto d'invenzione, e di subbietto, da farne torto a un cervello di donna. – Evvi sfoggiato _lo bello stile_, – dirà taluno, se pure è merito quello di assalire Messer Giovanni Boccaccio, e svaligiarlo in modo da non lasciargli neppure il farsetto. Così va da gran tempo la bisogna in questa mal capitata Italia, nè il fabbro della citata prefazione ha operato secondo nuovo costume. La forza si è divisa dai nostri destini, – il pensiere si è diviso dalla parola, e questa è diventata cimento degl'ingegni. E quando un libro apparisce, gl'inquisitori di Lettere non giudicano della sua bontà al concetto magnanimo, alla larghezza delle opinioni, alle utilità dello scopo; anzi, se per avventura sia corredato di queste doti, il libro sarà manomesso, perchè i giustizieri delle Lettere portano per impresa: ― Parlate senza pensare; ― ed hanno il cuore malato di soverchia strettezza, e li contrista la luce, e il moto gli affanna. Basta che il libro sia disteso in _aurea favella_, vale a dire limosinata a frusto a frusto dalle buone anime morte cinque secoli addietro, e avrà tutti i suffragi; non avvertendo, che _l'aurea favella_ mal soddisfa ai nostri bisogni, quando vien trasferita dal passato al presente senza accorgimento d'arte, senza richiamo di vita, senza piegarsi in fine alle tante modificazioni che l'onnipotenza del tempo imprime sulle cose universe. Basta _l'aurea favella_, – e se il libro è vuoto non importa; i pedanti respirano meglio. E guai, se ti vien fatto di significare liberamente gl'impulsi della tua fantasia; guai, se ti diparti un passo dalle opinioni di patto comune! ti chiamano tosto _tartaro_, _ottentotto_, _luterano_, e peggio. E fanno di notte una guerra sorda di tradimenti, e nelle reti del sospetto avviluppano il potente, cosicchè egli si muova, ed aggiunga un peso alle oppressioni delle avverse fortune. Quindi nelle nostre provincie la fama crescente del giovane vilipesa, e intercetta; quindi molti nobili ingegni sprofondano nella energia e muoiono senza balenare scintilla; i pochi nati alla forza dell'animo resistono, è vero, ma dietro si traggono sconfortata tanto la vita, che io non so se di loro più si abbia ad ammirare la costanza, o a compiangere la durissima sorte. O _maestri miei!_ veniamo agli accordi, e vi daremo pace con tutti gli onori militari, purchè non vogliate più abbarbicarvi al Genio; – voi potete starne lontani, perchè non avete con lui nessun grado di parentela, se non fosse quello che hanno le spine colla rosa. O _maestri miei!_ perchè mai foste aggregati alla gran famiglia degli animali parlanti? O _maestri miei!_ sgombrate il sentiero della scienza: parvi onesto di fare in questo mondo la parte dell'inciampo? Ma la Provvidenza aveva predestinato, che in _hac lacrymarum valle_ non vi fosse strada, dove la polvere non salisse sulle vesti, e non facesse la guerra agli occhi. Dunque pazienza, e adoriamo. Forse taluno mi darà nota di vana acrimonia, dicendo; – le tue son ciance, perchè il pedante è pedante per obbligo della propria costituzione: e' son leggi di natura, nè vuolsi sperare che muteranno, finchè ella non ristampi il suo codice; – ma di questo dubito forte, chè troppo parmi si mostri contenta di ciò che opera, in bene, e in male. È ella questa la stagione in che i detti dell'Italiano debbono suonare lusinghe? E se io parlo agramente, nol faccio per gare parziali, almeno ch'io mi sappia; e se un galantuomo mi convincesse, che i miei sensi hanno aspetto d'invidia, o d'intrigo, o d'altre bassezze di umanità letteraria, io non porrei tempo in mezzo a tacermi. Ma se parlo agramente, è pel desiderio che le arti liberali abbiano sotto questo cielo felice una patria, e riti intemerati; è pel desiderio che la nazione si rivendichi in libertà d'intelletto, e si faccia viva, e forte, nè più giuri sul nome de' _suoi maestri_, che sempre la tratteranno a novelle. La nuda parola, come io dissi, è dunque misura di giudizio ai dottori, cagione onde va così piena di fronde la nostra Letteratura; e chi non crede, veda le _Raccolte dei Classici_. Usare la purezza del linguaggio è savio consiglio, e nessuno lo nega: anzi chi ben guarda addentro le cose, conosce come la proprietà dell'idioma sia elemento nazionale; perchè in un popolo quando manca la proprietà dell'idioma, quel popolo non ha più la passione della patria, e si avvicina alla sua caduta. Ma la Lingua non è tutto: il massimo studio va convertito a pensare. Solo il Pensiere è padre delle maraviglie, che di quando in quando fecero immaginare nell'uomo un alito di natura divina: non è data all'uomo altra tavola per sorreggersi nelle burrasche della vita: – l'uomo non ha trovata altra ragione per sollevarsi sull'altre bestie. I _maestri_ levano rumore, perchè logorando una dovizia di anni fecero grave il sopracciglio, e magra l'anima, sullo studio delle parole. Che la terra presto vi sia lieve sull'ossa! qual bene mai venne alle Lettere, e alla Italia, delle vostre discordie di tre secoli? Voi avete aggiunto un anello alla catena delle nostre vergogne. Senza di voi forse non era la Lingua? Prima che Lionardo Salviati, e compagni, angustiassero uno spirito immortale, e lasciassero un legato di lacci a chi veniva dopo di loro, – prima che la Crusca stampasse il vocabolario, – Dante, il Petrarca, il Boccaccio, il Machiavelli, l'Ariosto, e il Tasso, davano consistenza e splendore all'idioma nostro. Da questi Grandi soltanto, che ebbero arguta la mente, e caldo il cuore di generose passioni, potrà il popolo apprendere la favella, e il pensiere. L'anima loro vive sempre nei monumenti di grandezza che ci hanno lasciati, monumenti, che ci serviranno di conforto e di lume, finchè offriamo loro un culto di amore perenne, come il culto che gli antichi offersero al fuoco di Vesta. Ma i pedanti non sanno che ringhiare: e che giova se un popolo impari a ringhiare? Abbastanza l'indole nostra è rissosa; e i fatti passati, e i fatti anche del momento che passa ora, lo affermano. Dunque ogni studio va convertito a pensare, ed è massima, che mai non sarà predicata a sufficienza in Italia. Troppo evidente è il divario, che corse fra la nuda parola e l'utilità immediata del pensiere, anche quand'è scompagnato dalle forme eleganti. Il Filangieri, e il Beccaria, scrittori di profonda ragione, non distesero per avventura i loro trattati con quella convenienza di favella, che si vorrebbe, e in questo non meritano lode; ma chi sarà tanto ingiusto, e di senno così poco Italiano, che ponga nella medesima lance quei due divini, e la bisbetica razza dei professori de' vocaboli? Il nome di quei due è di fasto alla patria, perchè furono amici degli uomini, e illuminarono di luce immortale la nazione, e nessuno di quanti dottori fabbricano gabbie all'intelletto meritò mai d'esser nominato ― Benemerito della Umanità, ― come avvenne al celebrato scrittore dei Delitti e delle Pene. Ma il desio di finire un più lieto argomento mi chiama. Venerata è nel mondo la memoria di Byron, perchè la riverenza del Genio è la più santa delle umane religioni: ma gl'Italiani presenti e futuri hanno un debito d'amore a quel Grande, che non vorranno negare, finchè duri in essi fiato di magnanimi sensi. Ei non discendeva sulla terra gentile a spendere il suo diritto di superbia e d'insulto; diritto, che la sapienza delle vicende a mano a mano toglie e concede alle diverse nazioni del globo. L'anima sua era troppo piena di Grandezza, nè vi trovò luogo l'ingiuria. Ei vagheggiò sempre l'Italia, come l'immagine più cara del suo desiderio, e cercò il nostro Sole per averne incremento allo spirito, e confuse il suo genio severo nei riposi del nostro cielo; quindi i suoi canti si fecero più divini, perchè il cielo d'Italia è sublime poesia; quindi l'amò come la patria del suo ingegno, e vestì del suo pensiero le gesta dei padri nostri, le sorti e le speranze di noi, e pianse sulle nostre sciagure la più bella lagrima, che ad occhio mortale fosse dato versare. OSSERVAZIONI SOPRA UNO SCRITTO DI MELCHIOR MISSIRINI INSERITO NEL N.º 37 DELL'_INDICATORE LIVORNESE_ ― 1829[15] ― Nè in tante lodi chieggo altro che modo. Quando la Natura formò la bizzarra famiglia del genere umano, decise che la più parte di noi saremmo maligni, e in questo ci saranno le sue profonde ragioni, perchè ella è savia, e si muove ad operare pensatamente, non come facciamo noi, che il più delle volte ci moviamo, perchè il muoversi è oramai destino delle gambe. E l'uomo usa della sua natural dote di malignanza, come di vela buona per ogni vento, perchè maledisce a torto, e a diritto; però quantunque volte in questo mondo sotto la luna si produce opera, sia pur bella e innocente, non mancano mai le migliaia a morderla da tutti i lati, nè alla giustizia è dato il passo, finchè la provvidenza della noia o della morte alle migliaia non imponga silenzio. Ora, essendo così ordinato dalla sacra Necessità, non resta che darsi pace; e quando un amico gentile piega spontaneo, e senza mire d'interesse, a favorire onoratamente le cose tue, conviene ringraziare la Fortuna del miracolo, e l'animo gentile rimunerare con quella liberalità maggiore, che il cuore ti detta. Già a chi pretende il nome di galantuomo è necessario pagare i suoi debiti; a un debito poi di cortesia vuolsi nel modo più acconcio soddisfare, poichè l'è merce carissima, e mala pena trovi chi sappia fidartene dramma. Quindi intendiamo noi, nè più nè meno, mostrarci riconoscenti a Melchior Missirini, perocchè gli piacesse dare alla città nostra un pensiere e una parola di lode. Non mica, che noi crediamo di essere in cima o in fondo, perchè questi o quegli venga a recarcerne la novella; – no davvero: – il parere dell'individuo non tramuta l'indole delle cose; i fatti danno sentenza, nè a questi puoi contradire, per quanto tu meni in giro la lingua. Noi attestiamo gratitudine soltanto all'espressione della benevolenza, perchè un intimo sentimento ti sforza ad amare chi ti ama, e ci rallegra assai a veder l'uomo rompere per un momento il patto di guerra che ha coll'altr'uomo, e drizzargli voci di conforto, e di amore. Ma noi sopra ogni altra cosa amiamo la Verità; però al Missirini non giunga discaro, che gli si notino alcuni punti del suo discorso; dove egli trasmodò per soverchio di spirito ben disposto, o perchè agio non ebbe a sapere precisamente le cose come stanno. I professori di prudenza ci hanno sovente dissuasi da questo studio del vero, sforzandosi a dimostrarci come di rado o mai ci si trovi guadagno, e ci hanno per lungo e per largo chiosata la scienza del vivere in pace con tutti. Ognuno fa i conti secondo i suoi numeri; e costoro, come prudenti, forse dicono bene; ma io per ora voglio starmi alla mia fede, e dire il vero, o quanto mi parrà che sia vero, finchè i Casuisti mi concederanno libero arbitrio; se in séguito alcuna delle tante cause dominatrici della mente avverrà che mi travolga, peggio per me; ed io allora andrò in punta di piedi a pesare le opinioni sulla bilancia della paura! Alla legge solenne, che i popoli spinge ora in alto, ora in basso, potenza mortale non può resistere; e il Genio stesso, suprema delle forze create, può modificare, ma non impedire, o volgere altrove quel moto. Oggimai un progresso d'incivilimento è manifesto nelle nazioni d'Europa; quindi la città nostra anch'essa ai tempi consente, perchè alle spinte in qualche modo bisogna rispondere. Gli uomini vecchi, sospirando i giorni del buon tempo antico, dicono invece che la città sia declinata di male in peggio; ma i ricordi del passato, confrontati coll'evidenza del presente, senza rispetto danno la mentita agli uomini vecchi. Non v'è che dire: le condizioni hanno cominciato a migliorare, specialmente perchè adesso è la volta di salire; nondimeno gran parte della via rimane da corrersi, nè io credo, che mai basteranno l'alacrità dell'animo, l'intensità del desiderio; e taluno vorrebbe, che quei tanti nodi d'unione fossero stretti meglio che ora non sono. Per altro a lasciare senza onore di lode i pochi istituti, base alla nostra rigenerazione futura, sarebbe invidia fuor di luogo, perchè il vero a lungo andare rivendica il suo diritto, e a chi si spetta l'infamia non manca. Lodare le azioni buone, e vituperare le triste, io credo che sia sapienza; non dipingere tutto di nero, o di color di rosa, come è il costume di molti; perchè la Natura eternamente si gira sopra questi due perni, il bene ed il male, e l'intemperanza dell'amore o dell'odio traversa la strada al giudizio. Adunque favellò sanamente il Missirini della Scuola di Mutuo Insegnamento, istituzione, che non sarà tenuta mai cara quanto si merita; non foss'altro per tanta impostura di antichi metodi manomessa; e i forestieri sempre hanno fatto plauso, affermando, che è scuola da reggere il paragone con altre, le quali io non voglio rammentare. E a buon diritto fu commendata eziandio la Scuola di Architettura; e il Cittadino liberale[16], che le dà vita dell'uniche sue sostanze, accolga, se vuole, anche il voto della nostra stima verace. La Società Medica, non so per quali ragioni, e se non altro per l'incostanza decretata alle cose umane, stette presso a disciogliersi; poi, mediante alcuni provvedimenti usati per tempo, si strinse di nuovo, ed ora procede con più vigore di prima, ond'è che le va il doppio di lode. La Scuola poi di Disegno figurativo non è sovvenuta, come dice il Missirini; bensì doveva essere; e la generosità municipale aveva già destinato il soccorso, ma un altro consiglio dispose altrimenti, e bisognò non farne nulla. Tuttavia quei Signori hanno dimostrata buona intenzione, e ogni volta che si presenti da fare del bene è da sperarsi che andranno avanti, a meno che taluno non venga a dir loro, che tornino indietro. Che dirò io dell'_illustre Accademia Labronica, intesa allo studio della lingua, allo esercizio del Genio, e all'acquisto del sapere_? Imprese belle son queste, ma gli accademici presentemente, forse per avere altro che fare, non ci hanno gran cosa badato; nonostante promettono di farlo quanto prima; e già da mattina a sera pensano a diventare il rovescio di quel che furono, e tu li potresti vedere tutti in faccende a costituire un corpo di leggi, perchè l'Accademia si trasformi in adunanza di gente che pensa, e non di gente che fa rumore; e so di certo, che hanno fatto giuramento di lasciare a casa i sonetti, e quante altre mai cianciafruscole in prosa e in rima inventò l'ozio, e la povertà del cervello; ma invece si affibbieranno la giornea a ragionare sul sodo; e quando non avranno da ragionare sul sodo, piuttosto staranno cheti, perchè, se l'uomo parla a motivo che le parole non costano nulla, il silenzio costa anche meno[17]. Questo hanno promesso di fare gli Accademici, ed io quasi quasi malleverei, che non vorranno mancare per cosa al mondo, sapendo essi meglio di noi, che la promessa _Agli animi gentili è sacramento;_ per dirla così di passaggio con Lodovico Ariosto. E al primo congresso potrebbero quei valentuomini proporre un quesito: – Perchè la verità ami la solitudine, e sia tanto ritrosa di convenire laddove è gran frequenza di mondo; e se ella ebbe mai il breve di accademica, e quante volte in capo a cent'anni lesse la sua diceria? ― Ora è il tempo di venire alla emulazione liberalissima che hanno i Livornesi di regalare le private librerie ad una Biblioteca pubblica. Forse ho la vista corta, ma io della gara ardentissima non vedo nulla; anzi si tace così profondamente di questo progetto, che io dubito forte se ci abbiano mai pensato una volta. Dell'utile ed ornamento che alla città ne verrebbero, io non ho pazienza di trattare, perchè mi par mill'anni di finirla con questo discorso di rimbecco, ma i discreti sel possono vedere senz'altro bisogno. Così radunando in un luogo il sapere dei morti e dei vivi, chi volesse saggiarne tanto o quanto, andrebbe, e con pochi passi sarebbe contento; – oggi ci vogliono invece ricerche lunghe, e scudi, e tante volte non serve. E quì fate pausa, di grazia, un momento, e considerate quanto mai gioverebbero i libri pubblici agli uomini d'ingegno; – certo gioverebbero immensamente, perchè fino alle ricerche gli uomini d'ingegno possono spendere, ma, quanto agli scudi, qui giace nocco; e pare che la Natura gittasse una tal quale antipatia fra l'ingegno e gli scudi, onde avviene, che mai non li trovi insieme, o raramente davvero. Io non so se il dire faccia frutto, perchè allora durerei anche un anno a dire: – statuite la Biblioteca del pubblico; – pure, benchè non mi abbandoni il braccio della speranza, non mi pento di aver mandato fuori queste poche voci senza proposito, attesochè la nostra mente sia predestinata a dipendere ben anche dal minimo soffio. Nondimeno conforto chi sa ragionare per filo e per segno a sviscerare questo argomento secondo il merito, e presentarlo palpabile ai miei concittadini, affinchè si muovano all'opera[18]; e dove si cominciasse una volta, io stesso volentieri darei subito via i pochissimi libri miei, soprattutto perchè, a dirla schietta, non ho gran fede nè in me, nè in loro. Alle volte odo mormorare, che alcuni padroni di molti libri li vorranno lasciare in punto di morte. Già i savi mi hanno rivelato come questa non sia cosa da andarne tronfio, perchè in punto di morte non ci sono altre strade da prendere, se non quella di lasciar tutto, cominciando dall'anima. E questi tali a parer mio non patiscono abbondanza di senno, e mai non meriteranno il bell'elogio, fatto non so quando ad un ricco generoso. Sentite come dice: _Tu non aspettasti a spogliare la tua veste in pro del bisognoso, quando la Natura ti copriva di una veste che non deve lasciarti più mai._ Così cantava Aboutthayp Ahemed Ben-Alhosain Alucotennabby, poeta Arabo, in una elegia per la morte di un Fatik Egiziano. E, perchè io non voglio farmi bello delle penne altrui, sappiate, che la citazione l'ho tolta in prestito da un amico mio dolce. _Che diremo di un Giornale diretto a far rivivere_, ec. Quì la fantasia ha vinto la mano all'onesto Missirini; la dose è troppa carica, e noi non l'accettiamo, per timore che i fumi non ci salgano al capo. _L'Indicatore Livornese_ non è l'effetto di menti combinate a dargli un disegno, una tendenza, un alimento continuo, come si converrebbe; è un povero foglio bianco, annerito da pochi giovani qua e là dispersi, i quali alla meglio si schermiscono, e cercano mantenergli la vita; ma poco è il numero, poco l'ingegno, poco la dottrina; – hanno la buona volontà, ma questa così sola non è cibo, che lusinghi il palato di molti. E qui cadrebbe in acconcio, che la crescente gioventù, _animata di poetica inspirazione_, adoprasse l'estro un po' meglio, e desse spinta alla barca: altrimenti ho gran paura non si rimanga in secco. Questo povero foglio non cerca frasche d'alloro; chiede solo compatimento, e gli uomini di giudizio son certo che gliel daranno. Ma gli uomini di giudizio tu li puoi contare, e gran mercè se per ogni paese oltrepassi contando le dieci dita. La turba ride del povero foglio, e a ridere ci vuol poco; e cominciando dalle femmine, e terminando nei pazzi, tutto il mondo sa ridere. Ma questo dileggio, sia pur meritato, non invoglia punto a pensar bene dell'umana natura, segnatamente quando egli si parte da persone obbligate a fare il contrario, non foss'altro, perchè il cielo medesimo ci ha veduto nascere. Che se poi l'uomo vuole il freno libero alle sue matte libidini, bene sta; ma allora non faccia mal viso, se gli austeri intelletti si levano sul creato a maledire; e non occorre che egli venga fuori a giurare, che l'anima sua è un raggio delle stelle; nè come il saltimbanco s'empia la bocca delle magnifiche parolone – _lumi_, _civiltà_, _filantropia_; – no, non è maschera, che basti all'infamia; invece si rassegni, e confessi d'essere iniquo e ignorante, come erano i padri suoi. Ma ritorniamo a noi. Questo povero foglio non può competer con tanti altri giornali, che vanno per la maggiore: in quelli scrive il popolone dei letterati a tre code, e per lo meno vincono col numero delle pagine. È un povero foglio, che merita la scomunica, perchè non ha detto agl'Italiani: – rimanetevi fermi sul solco, che avete segnato finora. – No, non ha parlato così agl'Italiani, avvisando, che a starsi per terra non bisognino nè maestri, nè scienze. È un povero foglio, che merita la scomunica, perchè finora non ha messo il dente nella lama di nessuno, nè sa di cortigiano, o di troppo devoto ai patriarchi in materia di Lettere, e qualche volta ha gridato agl'Italiani: ― Sorgete all'onore, amate una patria, e siate finalmente fratelli, e forti dell'anima. ― È un povero foglio, ve lo ripeto; compatitelo, se potete. ESEMPIO DI CARITÀ ― 1829[19] ― Hic pietatis honos. VIRGILIUS. Nè sempre curva sulla sua polvere la razza nostra, come tacito armento, si travolge nella morte. E vi sono momenti, nei quali la ventura assente benigna, che l'umana famiglia armonizzi tutta d'amore, e l'anima allora veste forme d'insolita vaghezza, e il pensiere concede a stimarla splendida parte del cielo. Ma in un popolo caduto, dove l'educazione e l'esempio non ammaestrano a verecondo costume e a sentimento generoso, quando la compassione e l'amore fanno che l'uomo armonizzi coll'uomo, il caso tien del prodigio, e tu respiri largamente l'aure della speranza, e una voce segreta ti annunzia, che pure un giorno quegli uomini saranno uomini secondo il decreto della Natura, non già come gli stringe ad essere la violenza di maligne vicende. E segnare sulla memoria i momenti, nei quali l'anima scintillò del suo raggio più bello, è argomento di decoro allo spirito umano; – e laddove le Lettere sono sentiero di civiltà, ed immagine solenne del moto sociale, non lasciano perdere avvenimento, che di un fiato accresca lo scarso patrimonio della nostre virtù; – ed è caro a chi medita sugli eventi mortali sottrarre una pagina alla severa necessità del delitto e della sventura; – e così danno alla Morale ben altra consistenza, che non è quella delle nude massime; e così anche la capanna del povero suonò spesso di una lode divina, ricompensa alla maggior dote di affanni, che dalla Provvidenza gli venne in retaggio. Ma i Letterati Italiani, tranne ben pochi, finora scrivevano devoti all'_Egoismo_, come se non avessero una patria, dove tutte spendere le potenze dell'ingegno. E sì che una patria sospinta in fondo chiedeva loro la parola della sapienza, e del vero, e sapevano come la fama dell'individuo mal si regga senza i voti del popolo, e come i voti del popolo mal si conseguano senza consacrargli la mente. – Mancavano i fatti? – No, perchè viveva una gente, e la gente d'Italia ebbe sempre fibra sensibile, e velocissimo corso di sangue, e ardore di passioni; nè da altre sorgenti scende mai l'atto turpe o magnanimo. Io dunque racconto un fatto che non vorrà levar grido, ma è buono. Se questa poi fosse tal condizione da non raccomandarlo abbastanza, peggio per chi mena gran vanto d'essere un uomo. Coloro che sono gentili non disdegnino l'apparente umiltà del subbietto: – educheremo noi allora soltanto alla forza, che fa piangere? Molti giorni non sono passati che nel contado della città nostra occorsero di vari incendi, e donde il fuoco partisse rimane peranche ignoto, e le cause vengono annoverate diverse, secondo l'indole di chi ne discorre. Altri ne addebita la vendetta, altri una malignità senza scopo, e taluno mormora che il fuoco fosse appiccato per commissione di tali, che assicurano dal fuoco, onde maggior importanza prendesse quella nuova speculazione di guadagno. Un vecchio mi diceva una volta: ― a pensar bene ci è sempre tempo, e a pensar male ci s'indovina. ― L'avviso forse era vero, ma poco umano. Certo ogni testa è capace di portare un delitto, ma quando non puoi sapere sopra qual testa il delitto si posi, tu non hai ragione da far l'indovino, e carità comanda che del prossimo allora non si pensi nè bene, nè male. E noi per trarci d'intrigo questa volta diamone al caso la taccia. Il caso non teme offesa di riputazione, o rigore di giudice; e al pari della vendetta, della stolta malignanza, e dell'interesse, comprende la ragione sufficiente di un incendio. Ora, per dire appunto la cosa come l'andò, vo' farvi sapere come da prima bruciassero in due o tre fiate diverse cataste di legno all'uomo ricco, e il popolo sempre correva prontissimo a spegnere; ma null'altro seguiva che spegnere; voglio dire, che belle passioni non si mossero a far memorabili, come sovente avviene, siffatte venture. E tante volte vivono uomini, che non meritano nè anche la pochezza del compianto, e all'occasione si vede; ma poi bisogna pur dire, che la disgrazia dell'uomo ricco è indifferente al povero, o grata forse, perchè l'ineguaglianza genera invidia; e io, ravvolgendomi in questi casi tra le umili turbe, spesso ho inteso celebrare il senno della Fortuna, quasi che, affliggendo ella d'improvviso il felice, in certa guisa renda loro giustizia. Se poi da queste, e da altre simili esposizioni, torto venga o diritto alla nostra natura, io nol saprei così su due piedi diffinire; nè vorrei farmi così di fretta ministro di lode o di biasimo, finchè non avessi per ogni parte saputo se le nostre umanità sieno l'effetto del volere o della forza. Ma tutto questo sia per non detto, – e, seguitando, sappiate che non andò gran tempo, e una sera incendiavano l'unico pagliaio di un tal Canaccini. Questi era povero assai, e manteneva colle fatiche la vita. E la gente corse affannata, e faceva di tutto per impedire l'incendio, ma il fuoco aveva ormai preso in maniera, che più non curava gli argomenti dì chi cercasse sopirlo, tanto che finalmente del pagliaio non avanzavano che le ceneri. E il Canaccini piangeva, perchè era povero assai, e nel pagliaio consumato svaniva il frutto degli stenti di un anno. E gli mancava la speranza, e il suo dolore era grande, perchè accoglieva anche il dolore di una famiglia desolata. Era vicino del Canaccini un uomo nominato il Pannocchia, uno di quei pochi che si rallegrano alla tua allegrezza, e si contristano al tuo gemito, e il mondo tutto vorrebbero felice, perchè hanno la bontà nel sangue, e benedicono il sereno e la tempesta, nè un pensier nero passerebbe loro per l'anima, neppure a cacciarvelo a spinte. Era il Pannocchia accorso coll'altra gente a spegnere il fuoco, ma, come sapete, fu invano. Gli astanti consolavano di buone parole il Canaccini, ma il conforto della voce non accheta il bisogno. E il Pannocchia vide piangere un uomo, e le sue viscere più non potevano chiudere la soverchia pietà, e disse al Canaccini: – datti pace: io vo' riparare alla tua cattiva fortuna, e avrai da capo un altro pagliaio. – E il Canaccini allora piangeva di un altro pianto: – erano le lacrime della riconoscenza, e ringraziavano con più amore, che i detti non avrebbero fatto. E gli astanti acclamavano benedicendo all'onesto Pannocchia, e pregandogli riposati i giorni della vecchiaia, ed eterno il premio dell'altra vita. E il Pannocchia tornossene a casa ringiovanito nella gioia dell'opera buona. Le cose nostre riandavano sul passo di prima, e la gente cominciava a dimenticare il passato, perchè da parecchi giorni niente di nuovo turbava la sua quiete ordinaria, allorchè nel mezzo di una notte i quattro pagliai del Pannocchia andarono in fiamme. E bisognò lasciar fare alle fiamme, perchè ogni studio del volerle spegnere tornò inutile. Ora all'uomo dabbene non rimaneva che la provvidenza di Dio, e non chiedeva nulla a nessuno. Ma gl'innocenti e giocondi suoi costumi avevano un luogo nell'amore di chiunque il conosceva, e l'azione, che ebbe fatta di fresco, aveva risuscitato più vivo quell'amore. Per lo che alla mattina dipoi ebbe invito da molti, perchè andasse da loro a provvedersi di paglia conforme gli bisognava, e molti gliene recavano a casa le carra piene. E il Pannocchia vinto dal prorompere di tanto comune affetto, guardava il cielo, e gli amici, e non diceva di più. E quei ben nati contadini compievano con sì bella gara la carità, che al Pannocchia venne rifatto ogni danno, ed essi trovarono un rimerito nell'interno riposo del cuore, che altrove avrebbero indarno sperato. E coloro che ebbero in sorte di non nascere al ribrezzo dell'invidia, nè si addolorano a sapere, che l'anima talvolta balena nella beltà di un sorriso divino, quando intesero del fatto, restarono compunti di tenerezza. Non mancherà di certo chi volga in riso l'avvenimento, e il mal garbo onde io l'ho narrato. Quanto al mal garbo hanno ragione, e ridano pure a mio conto, ma per altro non è così del rimanente. Niuna specie di fatti merita tenersi a vile: ogni fatto è una linea dell'anima umana, e ritrarli tutti candidamente è ottimo consiglio, ed unico mezzo a conoscere la natura dell'uomo. Tacere le nequizie sarebbe stoltezza, perchè ci sono, e fanno il fondo del quadro; tacere le poche bontà sarebbe stoltezza e mal talento, perchè ci sono, e consolano di qualche raggio la tenebra, e per loro avviene, che l'umana creazione non sorge da ogni lato spregevole dinnanzi al pensiere. Chi si muove al bene per istinto è rarissimo; quindi va tentato ogni modo di eccitamento. Io non so se il mondo debbe andare come va; ad ogni patto nè la speranza, nè la prova di migliorarci, vanno lasciate; e quantunque il male sia congiunto come un bisogno al sistema dell'universo nondimeno converrebbe dimostrare il bene come interesse, da che nel male godono pochi astuti, e le masse gemono. Adunque ogni modo di eccitamento va tentato; e però onorare di pubblica lode le domestiche virtù è opera di sapienza civile, perchè l'onore è potente lusinga, e splende in maniera, che pochi vivono senza mandare un desiderio alla sua luce. NOTE: [6] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 4._ [7] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 30._ [8] «Nome di varie accademie passate e presenti in Italia.» (_Dall'INDIC. LIVOR._) [9] _Non si è rinvenuto intero l'autografo dell'articolo, e fu d'uopo attenersi alla lezione scorrettissima del Giornale in cui fu già pubblicato. Togliendo qua e là gli errori che non ammettevano dubbio, abbiamo lasciato qual è questo periodo, interponendovi però il segno di una lacuna, dove ci sembra evidentissima._ [10] «La Italia in antico fu chiamata Esperia da Espero, stella di Venere.» (_Dall'INDIC. LIVOR._) [11] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 11._ [12] _V. le Traduzioni nella Seconda Parte._ [13] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 44._ [14] Il Prigioniero di Chillon. – _V. la Seconda Parte di questo volume._ [15] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 41._ [16] _Il Cav. Carlo Michon. ― Egli fu veramente buono e liberal cittadino, ed uno dei rarissimi che fanno il bene per amore sincero del bene._ [17] _Sappiamo che quest'Accademia riformò poi i suoi statuti nel 1837._ [18] _Ciò che più merita di essere qui ricordato si è, che l'Accademia Labronica nel Giugno del 1840 propose di render pubblica la sua Libreria, invocando il concorso dei cittadini per provvedere all'incremento della medesima, e sostenere le spese indispensabili all'uopo. I cittadini risposero all'invito con offerte di Libri, e obbligandosi a pagare una modica somma per cinque anni. Giova sperare che non verrà meno negli anni successivi il buono spirito, che già li mosse a secondare la bell'opera. La Libreria conta adesso oltre 10,000 volumi, ed è aperta al pubblico quattro giorni della settimana. È debito di giustizia il rammentare come promotore operoso della onorevole impresa l'Avv. Giuliano Ricci, allora Socio e Presidente dell'Accademia._ [19] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 35._ _Quest'articolo, ommessi pochi periodi in principio ed in fine, fu ristampato, per distribuirne le copie al Popolo di Salviano il 22 di Gennaio di quest'anno, giorno dei Funerali nella Chiesa di quella Pieve, e della tumulazione nel contiguo Cimitero delle spoglie di CARLO BINI esumate a Carrara. Poche e semplici parole, che qui riportiamo, precedevano il Racconto, che in quella circostanza, e in quel luogo, ne parve più opportuno d'ogni funebre elogio. – Il libricciuolo fu poi riprodotto pei tipi di Ersilio Vignozzi in Livorno, e a Firenze nella Rosa di Maggio, Anno III._ † AL POPOLO DELLA PIEVE DI S. MARTINO IN SALVIANO. Il Racconto che segue, e che ora si ristampa per Voi, fu scritto nel 1829, da un Giovane Livornese, dotato di un cuore e di un ingegno, che raramente s'incontrano ai nostri tempi. Fu scritto colla buona intenzione di onorare la Virtù e la Carità veramente Cristiana, della quale si videro in quell'anno bellissimi esempi fra Voi. E fra Voi forse nessuno ha letto mai questo Racconto. Il quale fu stampato in quel tempo in un Giornale intitolato =L'INDICATORE LIVORNESE=, che era fatto principalmente pei Letterati, e che non ebbe lunga vita, quantunque ci avessero mano uomini, che fanno onore al nostro paese. Uno di quelli ora è morto. Ed è appunto quel Giovane di cui vi parlava; quel Giovane, che si tratteneva col cuore in festa a discorrere sui bellissimi fatti esposti nel suo Racconto, perchè Egli stesso era virtuoso e buono davvero. Egli non predicava per vanità la Virtù, ma la praticava con retti principii, e con sentimenti di benevolenza sincera e di Carità verso tutti. E in tutti l'amava e la riveriva, e più volentieri nella povera gente, che certuni disprezzano, e la quale Egli era solito di chiamare ― _ricca di bontà e di pazienza più che altri non crede_. CARLO BINI, (questo era il suo nome), ora è morto. ― Nella città di Carrara, dove era andato per affari di suo Padre, passò da questa a miglior vita il 12 dello scorso Novembre. E le sue ossa, trasportate per un pietoso sentimento d'amore a Livorno, riposeranno ora nella quiete delle vostre campagne, presso quelle dei vostri Parenti, presso la Chiesa ove inalzate al Signore le vostre preghiere. Rammentare le nobili azioni e gli uomini onorati e dabbene, per imitarli, è dovere di tutti. La lapida che sarà posta alla memoria di CARLO BINI sia dunque riguardata da Voi come un ricordo d'amore e di Virtù, e onorata con sentimento di gratitudine affettuosa. Leggete questo libretto ai vostri figli, conservatelo religiosamente nelle vostre famiglie, e nelle preghiere pe' vostri Morti rammentatevi ancora di quell'anima buona. Livorno, 22 Gennaio 1843. NECROLOGIE TACITO MARTINI ― 1839[20] ― A TACITO MARTINI CHE MORÌ LACRIMATO E BENEDETTO DA TUTTI PERCHÈ VISSE GIUSTO E BENEFICO CITTADINO I SUOI AMICI. Le coeur est tout. ROUSSEAU. Dopo avere confortata l'agonia dell'amico che muore, dopo averlo pianto, e accompagnato alla fossa, è conveniente dire alcune parole di lui, onde la ricordanza delle sue bontà giovi in qualche modo ai superstiti, o almeno sia soddisfatto un debito di giustizia verso l'estinto. Nascere in alto, o in mezzo agli agi della fortuna, è un getto di dadi, e non dipende da noi. Ma rilevarsi dal fondo, e collocarsi in un certo grado senza battere le scorciatoie, senza farsi scalino del prossimo per salire, acquistandosi invece la stima, e la benevolenza d'ognuno, è merito intrinseco e raro dell'uomo. Toccare però questo segno è arduo più, che altri non crede; bisogna prima lungamente combattere; bisogna esercitare, fortificare la volontà, metterla in armonia coi calcoli di una giusta ragione, coi moti generosi del cuore; bisogna spesso violare l'istinto, e ridurre l'uomo morale a sistema rigido e completo. Tutto questo conviene per ogni verso a Tacito Martini. La sua vita è stata corta, e composta di poche linee, ma tutte linee rette, e convergenti ad un centro, tutte connesse ad un principio d'alta moralità, che diede forma e sostanza ad ogni sua azione. Non appena fu entrato nell'adolescenza, quando il raziocinio e il sentimento svolgendosi più rapidi cominciano a ricevere più immediato l'attrito delle cose del mondo, che, giovanetto com'era, sentì d'intorno a sè l'aere meno che tepido; e convertendo subito l'animo suo alle sorti poco felici della famiglia, si destò in lui una certa alterezza, un certo sdegno dello stato abietto, e immeritato, un desiderio, un bisogno potentissimo di mutare il destino suo, e quello de' suoi, e fermò nella mente il disegno di farlo, e lo fece, logorandovi tutte le sue potenze, e anticipandosi forse la morte. Avvertito però da un intimo senso, che l'uomo, segnatamente sui principii, non ha in chi fidare, e deve aiutarsi da sè, si volse a scoprire le forze, che in lui aveva riposte la natura, per eccitarle ed accrescerle, per dar loro forma, ed applicazione sociale, e farsene istrumento a ciò che meditava di conseguire. In questo concetto agitandosi, e crescendo in lui più sempre l'impulso che lo inchinava alle scienze mediche, e soprattutto alla chirurgia, dispose secondarlo fermamente e con ogni mezzo, e non compiuti peranche i 13 anni prese a frequentare ogni giorno lo Spedale, dove cominciò le pratiche chirurgiche con tanta diligenza e amore dell'arte, che prima ancora di recarsi a Pisa si trovò in atto di fare operazioni più che mediocri. A 18 anni si condusse in Pisa agli Studi, e là le dure esperienze della vita lo provarono in guisa, che valsero in breve a compiere e determinare immutabile la sua morale fisonomia. Visse i primi due anni con forse una Lira il giorno; e al terzo anno ottenuto un posto del Sardi, sgravò subito i suoi della tenue moneta che gli assegnavano, pensò a mantenersi in tutto e per tutto, a comprarsi libri, a supplire le spese degli esami, e d'ogni altro occorrevole; fece risparmi, e questi rimesse via via alla famiglia. – Ora chi si faccia a considerare come la gioventù penda naturalmente all'ozio, alle mollezze, e ai diporti; come in quell'età il sangue e le passioni fremano procellose, e come l'errore abbia prestigi, e seduzioni potenti più del dovere, bisognerà che ammiri per forza il giovane Tacito, se rimase sobrio, intemerato e studioso, in mezzo a tante e siffatte tentazioni. E quando si consideri che l'alito impuro del bisogno non l'attinse nelle parti più nobili dell'anima, e che il cuore serbò fresco e generoso fino all'estremo palpito, comprenderemo di che salda tempra fosse composta l'indole sua. Perchè il bisogno è nemico capitale dei buoni pensieri, e delle buone opere, e patito nei primordi della vita generalmente squaglia il carattere umano, o lo petrifica. Se noi volessimo spiegare intera la breve, ma ricca trama dell'esistenza di Tacito, ci sarebbe agevole percorrere per esteso le dimensioni d'un elogio, o d'una biografia; ma favellando di lui fu nostro proposito, e ci sembrò che bastasse, accennare soltanto, come egli fosse buono ed utile cittadino per virtù propria, e come il mezzo e il fine corrispondessero perfettamente al principio da lui stabilito nelle più difficili condizioni; per la qual cosa aggiungeremo più pochi tratti, parendoci, che il dilungarci troppo di soverchio avrebbe aria di fasto, e offenderebbe di certo quello spirito gentile, che gelosamente studiò di coprire col silenzio quanto di lodevole usciva da lui. Conseguite il Martini nell'epoche consuete la laurea, e la matricola in Medicina e in Chirurgia, tornò in patria, e subito diede opera a farsi conoscere. E tanto gli valsero lo studio indefesso, i modi schietti e soavi, e l'onesto desiderio, che l'agitava ardentissimo, che di lì a poco acquistò credito, fiducia, e favore universale. Venne in séguito creato Chirurgo dei Lazzeretti, e primo Chirurgo di turno negli Spedali; ebbe clientela vastissima d'ogni maniera di persone, e i guadagni gli crebbero fra mano, maggiori forse che non aveva sperato. Quindi potè ristorare la fortuna abbattuta della famiglia, quindi potè scorrere a suo talento quella larga vena di carità, che i cieli gli avevano infusa nel cuore. Praticò l'arte con plauso, e con decoro, e segnatamente in Chirurgia ebbe lode frequente di operatore felice. Ma il medico in lui non aveva cancellato l'uomo; l'abitudine di veder soffrire e morire non aveva spenta in lui la mobilissima sensibilità di una natura squisitamente pietosa. Al letto dell'infermo era medico, ed uomo; finchè occorreva, apprestava alacremente i soccorsi dell'arte; ma quando la Scienza si fermava impotente davanti alla furia del male, che precipitava al suo fine, Tacito adoprava i soccorsi della parola e dello spirito, circondava di cure delicate e di sante consolazioni il malato, l'animava, l'aiutava al terribile varco. Ufficio sacro e gravissimo del medico è questo, porgere all'estrema miseria l'unico rimedio che resta, il conforto. Non fu nè avido, nè avaro; eccedeva invece nelle qualità contrarie. Chiamato appena, visitava prontissimo il povero, con amore lo curava, lo sovveniva di consiglio, e, meglio ancora, gli lasciava la moneta perchè supplisse al bisogno. Dagli amici non voleva mercede delle sue fatiche, ed ostinatamente rifiutò il legato d'un piano di casa, che un suo cliente presso al morire voleva ad ogni patto lasciargli. Ma le opere di beneficenza furono la sua voluttà suprema, il respiro dell'anima sua. Beneficò nobilmente e senza ambizione, con quel pudore, che impedisce o medica l'offesa, che suole spesso recare il benefizio. Aperse al profugo la casa, all'indigente la borsa, e dava volontieri, senza farsi ripetere la richiesta. Giovava con ogni sorta d'uffici l'amico, e chiunque potendo. Assisteva molti dei suoi parenti largamente, continuamente; e mortagli una sorella, accoglieva nella propria famiglia il marito, e cinque figliuoli. Per uno di questi spendeva 80 Lire il mese solo a farlo educare. Senza essersi creato una famiglia sua propria, aveva viscere e istinto di padre. Nè gli mancarono i disinganni, come avviene a chi vive praticamente tra gli uomini; ma intento sempre ad un segno non torse mai un momento dalla traccia segnata ab antico; la fede non gli venne mai meno, perchè sapeva distinguere tra l'umanità, e l'individuo, tra il principio eterno universale, e il fatto transitorio e parziale. Amò gli uomini, e la Patria Italiana, e fu caldissimo di quanto riferivasi all'onore e alla gloria di lei. Amò singolarmente la città dove nacque, e non sorse in essa uomo che promettesse bene di sè, cui non cercasse diventare amico, cui non cercasse all'uopo giovare coi mezzi suoi, e con quelli d'altrui, adoperando quella felice influenza che sapeva esercitare sugli animi. Partecipò agli istituti, a tutte le cose utili ed onorevoli, che nacquero tra noi, e non fu per lui se maggiormente non prosperarono. Fu in quanto a sè modestissimo, e quando faceva il bene non voleva lode, o ringraziamento. Gli piaceva esser buono, le apparenze fastidiva. Ebbe coraggio, e indipendenza d'opinione, qualità, che non gli fecero nemici, perchè sapevasi valere in lui l'amore sincero della verità, non i secondi fini. Rigidissimo nei principi cardinali sui quali posa veramente la morale, fu tollerante, e facile nel resto. Modi ebbe aperti e soavi, onesta ilarità di volto e di spirito, e dal complesso della sua persona partivano getti di vivissima simpatia. Non patì d'invidia, o d'ipocrisia, nè gli furono notati vizi, o difetti capitali. Difetti avrà avuto senz'altro, perchè il carattere umano consiste d'ombre e di lumi, ma leggerissimi, ma tali, che nel consorzio sociale non apparivano infesti, e male di certo non ne venne a nessuno. Fatto è che morì lodato dai buoni, e lodato dai cattivi, e i morti come sapete non si adulano, specialmente quando non si lasciano dietro lo splendore della gloria, o la famiglia potente. Ma questo è pregio veramente mirabile della bontà, svellere il plauso anche dalla bocca dei tristi. E la bontà di Tacito faceva forza nella mente di chiunque la contemplava. Non era quella bontà facile, passiva, o volgare, che invade i confini della stupidezza, – più che altro necessità di organismo. Era la bontà intelligente e operosa, la bontà del libero arbitrio, perchè Tacito aveva anima, passioni, ed energia di temperamento, aveva strumenti da volgere al bene, o al male volendo. La malattia, che da ultimo lo spense, gli si ordiva da gran tempo lentissima nelle viscere. E quando i sintomi di quella si rivelarono insistenti, e innegabili, non si trattenne in vane lusinghe, misurò la grandezza del pericolo, comprese che i suoi giorni erano numerati, e lo disse imperterrito a tutti, e a sè stesso. Accettò il calice amaro della passione, e lo bevve pacatamente fino all'ultima stilla, raccogliendo l'animo invece, e facendolo più grande alla minacciante sciagura. E consecrandosi più che mai a quell'idea che l'aveva sempre predominato, non ricusò fatica nè occasione, andava fuori visibilmente malato, non curava riposo, non cercava aggiungere un filo alla trama della sua povera esistenza; una furia, un impeto lo portava; faceva sforzi che mal si potrebbero spiegare, dove non sapessimo che la volontà umana eccitata da un alto proponimento può far miracoli. Ma se lo spirito era pronto, la carne era inferma; e le forze più e più sempre prostrandosi gli convenne in fine mettersi a letto, e morire. Gli ultimi giorni di Tacito furono solenni, e quieti della pace del giusto. Disposte con senno ed equità le cose sue, aspettava placidamente la morte e l'invocava talvolta più che altro per togliere alla famiglia desolata uno spettacolo d'immenso dolore. Era, come da sano, affabile e cortese con gli amici, che lo circondavano numerosi; era provido, discreto, e amoroso co' suoi, che gli trepidarono attorno; dissimulava gli spasimi atrocissimi, e ratteneva lo sfogo della soffrente natura, perchè non si attristassero maggiormente. Cosa mesta e dignitosa era a vederlo così morire senza orgoglio, e senza viltà. Non si smentì un istante, parlò sempre parole gravi e affettuose, riconciliò antichi dissapori, pensò a tutto, e a tutti; – in quegli estremi la sua anima fiammeggiava più lucida che mai. E poichè l'ostinata agonia pervenne al suo termine fatale, morì virilmente rassegnato, sicuro della sua buona coscienza, affidato d'una speranza immortale. Così fu conchiusa troppo per tempo una vita utile ed onorata. Povero Tacito! quando noi rammentiamo la tua presenza, e il tuo spirito cortese, e vediamo il rammarico, che lasciasti di te universale, e pensiamo all'angoscia ineffabile della madre tua destinata di 72 anni a sotterrare il figlio a lei più diletto, una profonda pietà ci stringe del caso miserevole; ma se pensiamo poi alle ambagi tormentose del secolo, e alle illusioni che di giorno in giorno spariscono, e alle cure che più e più sempre si addensano, e alla vecchiezza, che si avanza fredda, squallida, e inutile, noi non osiamo più mormorare, se a Dio piacque recidere il fiore prima che appassisse. Riposa in pace. A quest'ora nessuno saprebbe dove venire a piangere sulle tue ceneri, perchè tu non volesti distinzione di sepoltura, e le tue ossa giacciono nel Camposanto comune, confuse con quelle del popolo dal quale nascesti. La fama non farà suonare il tuo nome, perchè il mondo non ha storia per le virtù tranquille e innocenti del cittadino da bene. Ma se la tua vita di continuo sacrifizio fu semplice, e inavvertita quasi agli occhi del mondo, speriamo sarà comparsa splendida e meritoria agli occhi dell'Eterno. E quanti schiettamente ti amarono, e ti ebbero in pregio, daranno a te sovente un pensiero e una lacrima, e ridiranno ai figli come vivesti, e come moristi, e la tua memoria resterà, giova crederlo, santa ed onorata tradizione domestica. GUGLIELMO AVENAS ― 1842[21] ― La vita al fine, e il dì loda la sera. PETRARCA. GALANTUOMO e PERSONA DI GARBO sono vocaboli di origine aristocratica, ma in principio non ebbero valore morale, e furono tra i tanti segni, che distinguevano la razza fine dalla ignobile. A quei tempi il vassallo e il popolano non potevano chiamarsi _galantuomini_, nè _persone di garbo_; e non è molto riscontrai questo fatto. Un Duca Napoletano narrandomi come in certo luogo fosse stato trattato con leggerissima differenza, e forse al livello degli altri, che non erano Duchi, chiudeva il discorso così: _in quel luogo il galantuomo non è rispettato_. Io feci atto al Duca come per dirgli: pur troppo! e pensai tra me, che, come uomo di secolo XIX, il Duca era almeno 200 anni addietro, e parlava una lingua morta; ma come Duca _de la vieille souche_ era nel suo elemento, e aveva ragione. _Galantuomo_ in séguito trasmigrando dall'uso privilegiato di una casta all'uso comune vestì senso diverso, ma sempre assai limitato, e significò, e significa ancora l'_Uomo puntuale a pagare_. Oggi però il vocabolo ha fatto la più grande ascensione possibile, e _galantuomo_ s'intende propriamente colui, che senza fasto nè seconde intenzioni adempie tutti i doveri dell'Uomo, e del Cittadino. Il ritratto d'un galantuomo è più difficile forse d'ogni altro. Voi non avete quasi mai la statura grandiosa, il portamento solenne, le parti angolose, il colorito avventato, ed i contrasti da scuotere i sensi, e la fibra di chi guarda. Invece avete una estrema regolarità di contorni, castigatezza di forme, colori tranquilli, conseguíti per via di gradazioni infinite, e tutte soavi; avete un perfetto equilibrio di quantità, e di qualità; avete ogni cosa al suo posto, avete l'ordine morale nella sua più semplice e più giusta espressione. In somma voi non potete farne una figura di spolvero. – Già un galantuomo non trova mai il vento fresco della fortuna, che lo porti per aria, e fornisce a piedi il suo terrestre pellegrinaggio; e così non avendo un cocchiere, che gridi in pubblico – _bada alla vita_, – nessuno si volta a vederlo, nessuno conosce il suo nome, nè dove stia di casa. È provato, che una _pariglia_ di buoni cavalli si fa largo, e attira gli sguardi meglio di una _pariglia_ di buone azioni. Un galantuomo non può mai ferir dritto allo _scopo_, perchè ha sempre delle distrazioni col pudore, e colla coscienza. – Un galantuomo generalmente ha disgrazia al giuoco, e in amore. Un galantuomo facendo e dicendo cose, che i più non fanno, e non dicono, offende la moda, e la moda lo consegna al braccio del ridicolo. Quindi a fare il galantuomo ci vuol coraggio, e pazienza. Ma la maggiore difficoltà per farne il ritratto è che se ne vede di rado l'Originale, e così, mancando l'occasione frequente di copiare dal vero, non è dato acquistare quella franchezza e valentia, che l'eccellenza dell'Arte richiede. Noi pertanto atterriti da tanti ostacoli disegneremo alla meglio un profilo. Dovendo fare l'inventario delle parti, che compongono un galantuomo, la prima di tutte a presentarsi è la fisonomia, parte essenziale, che merita studio e considerazione. La fisonomia, è il prodotto dell'uomo interiore, – lo spirito modella la materia. Scrutate chiunque con occhio diligente e inflessibile, e dopo più o meno prove avrete resultati quasi infallibili, penetrerete la maschera la più ingegnosa, la meglio incarnata e immedesimata col volto umano. Questa scienza, che val quanto un'altra, perchè consiste tutta di osservazioni e di confronti, è stata chiamata vana e temeraria come l'astrologia. Ma gli uomini talvolta sanno pur troppo quel che si dicono; – gli uomini la più parte hanno interesse a non essere indagati. Quì nel caso nostro la facciata era di buono stile. Dopo avere attentamente esaminata quella testa di parti larghe e virili, l'effetto dell'_insieme_ era un senso di conforto, come quello che tu provi incontrando una giornata tepida e luminosa nel verno. A veder quella testa uno si sentiva invitato a metter giù le armi, che l'uomo è solito portare viaggio facendo in questo mondo; uno sentiva le dolcezze inconsuete della sicurezza, dell'abbandono e del riposo. La facciata era di buono stile, e l'interno corrispondeva in ogni sua proporzione; e per amore di brevità dirò, che i molti e svariati lineamenti dell'animo suo si riassumevano finalmente in due tratti, o _potenze_, che sporgevano eminenti, e gli davano espressione distinta. _Egli_ ebbe queste due _potenze_ dalla Natura, e le corresse e ritemprò alla scuola dell'esperienza, la quale i buoni rende migliori, e i cattivi maggiormente intristisce. Una era _la potenza di sopportare_, e l'altra _quella di compatire_; due virtù uniche forse ad aver titolo legittimo a tanto nome, e certamente indispensabili nel consorzio sociale; poichè sopportare in sè stesso con dignità le traversie e le amarezze, onde si riempie la vita, è segno di forza; e compatire, non in senso sterile e inerte, ma in senso attivo e benefico, compatire gli errori, le colpe, e le sventure nel prossimo, è segno di amore, e ambedue sono i cardini sui quali gira l'umana bontà. In somma a veder quella testa non si poteva sbagliare, e quella fronte pensierosa, ma di pensieri sereni, non gridava – _addietro_, – come quasi tutte gridano, ma portava scritto a caratteri scintillanti – _entrate_. – Chi ha sofferto veramente di cuore, e ha provato come il mondo abbia le mani troppo ruvide, anche quando intende di medicare, colui solo sa quanto faccia buono trovare un asilo siffatto, quando l'anima è smarrita dal dubbio, o lacerata dal dolore, o assiderata dal bisogno. E il dubbio, e il dolore, e il bisogno, trovarono in _Lui_ onesta accoglienza, e sollievo pronto, e cordiale. Il povero segnatamente andava a colpo sicuro, nè riportava indietro il – _non ne ho spiccioli_, o l' – _andate a lavorare_, – monete di conio moderno, ma di lega inferiore assai all'antico – _Dio vi consoli_, – perchè questo almeno conteneva un'ombra d'affetto, e se non dava nulla alla bocca, dava qualche cosa al cuore, e il cuore anch'esso ha bisogno di qualche cosa. Ma prendiamo il punto di luce più giusto, – vediamo l'uomo in azione. _Egli_ fu Negoziante. La parola Negoziante tiene un piccolo spazio, ma in quello spazio entra una folla di cose infinite a ridirsi. Negoziante è colui che traffica la roba sua, e l'altrui, ma più spesso quest'ultima sola. Passare per la roba degli altri è uno stretto pericoloso, e non farvi naufragio o avaria è un bel fare. Se tutti nascessimo fasciati d'un bel patrimonio, la parte di galantuomo sarebbe facile, ma non avrebbe merito. Il merito sta nel combattere e vincere, specialmente quando i mezzi della difesa non sono proporzionati a quelli dell'offesa. Già il sistema di proprietà non è passato finora nella mente degli uomini a stato di convinzione, e il _tuo_ e il _mio_ sono così complicati, e confusi tra loro, che spesso ti avviene, anche non volendo, di prendere in iscambio l'uno per l'altro. Oltre di che voi avete dalla vostra la coscienza sola, la quale non istà sempre bene di voce, ma come può bada a suggerirvi – _non rubate_, – mentre dalla parte avversa avete il bisogno, l'istinto, l'occasione, e le mani. Il bisogno è bestia, che non intende ragione; l'istinto disgraziatamente porta per in giù; quello che faccia l'occasione, ve lo dica il proverbio, che corre per la bocca d'ognuno; e le mani, guardate la struttura delle mani, e le vedrete flessibilissime configurarsi a gancio ogni momento, e le vedrete create destinate apposta a prendere tutte le cose, inclusive il fuoco. Facciamo alto un minuto, o Signori. Un Negoziante che per 76 anni è rimasto fermo sul _suo_ è una parentesi nella storia del Commercio, – è il re dei galantuomini, – e merita una corona di punti ammirativi. E torniamo a vedere l'uomo in azione. Un padre e una madre morivano, e lasciavano a _Lui_, all'_Amico_, quattro figli di tenerissima età, destinandolo tutore. Oggimai il progresso e le leggi hanno provveduto in guisa, che se un pupillo ha qualche cosa nell'uscire di minorità la ritrova, e un tutore di garbo oggi, basta volerlo, si trova dappertutto, e subito; – è un vestito bell'e fatto. Ma quarant'anni addietro il tutore nasceva sotto il pianeta di Saturno; e un tutore che non divorasse i suoi pupilli era una cosa inaudita, un mostro, una cosa da farsi vedere. _Egli_ amministrava pertanto severamente, e restituiva ai pupilli un patrimonio accresciuto. Ma la bontà profonda dell'indole sua operò in _Lui_ quello, che la Natura non può consentire se non per miracolo; quello, che un padre e una madre morendo non osavano, nè potevano sperare, cioè, che l'amico e il tutore si convertissero sostanzialmente in Padre affettuoso, e continuo. E fatto Padre non pensò solamente alla roba, e alla educazione ordinaria degli orfani, ma accolse questi figli dell'anima sua, e li difese, e li diresse a princìpi sani, e a vita onorata, ammaestrandoli coll'insegnamento efficacissimo dell'esempio, e diffuse sulla loro giovane esistenza le cure, e il tepore, che i padri e le madri diffondono sulla prole. E così quegli Orfani non sentirono l'aria fredda dell'indifferenza, ed _Egli_ provò le gioie e gli affanni della paternità. Io l'ho veduto non è gran tempo questo vecchio venerabile nella morte d'uno dei suoi pupilli, – ho veduto il suo dolore, dolore senza lacrime, e senza parole, – che di quando in quando alzava gli occhi al cielo, – unico appello e refugio delle anime afflitte profondamente. E cosa merita un uomo siffatto? l'uomo, che per i figli non suoi ha saputo sublimare il cuore, e crearvi dentro l'intelligenza, l'amore, e il dolore di padre? – Il premio vero della virtù è in un mondo migliore, e intanto un uomo siffatto tra noi merita una corona dei più bei fiori, che germoglino sulla terra, – una corona di benedizioni. _Egli_ ebbe nome GUGLIELMO AVENAS. Nacque in Nizza, e visse lungamente in Livorno, dove morì il 21 Gennaio 1842. Morì come muoiono i giusti, senza terrori, e senza rammarichi, colla coscienza sicura del fatto suo, e coll'anima verso Dio. I Fratelli Pachò mossero queste poche parole per onorare la memoria del tutore dilettissimo, e soddisfare in parte all'amore, alla riconoscenza, e al desiderio, che di sè ha lasciato vivissimo quest'uomo dabbene. Voi tutti poi pregate per lui, onde egli preghi per noi in quel luogo dov'è un Giudice solo, una legge sola, e una verità sola, dove non è anticamera, che trattenga, o disperda le suppliche dei poveri mortali. NOTE: [20] _Livorno, Tipografia Sardi, 1839. Seconda edizione, – nella _Viola del Pensiero_, Anno II._ [21] _Livorno, Tipografia Sardi, 1842. Seconda edizione. – nella _Rosa di Maggio_, 1843._ ISCRIZIONI E POESIA I. LA SERA DEL IV GENNAIO MDCCCXXXVIII =ELENA BISCARDI= ADDORMENTANDOSI NEL SIGNORE COMPIEVA IL DESTINO ASSEGNATO A CHI NASCE CON TROPPO CUORE DI AMARE SOFFRIRE E MORIRE IMMATURAMENTE. BENEDITE LA SUA MEMORIA E QUELL'ANIMA SOAVISSIMA INTERCEDA DA DIO ALMENO LA PAZIENZA AL DOLORE DISPERATO DEI SUOI. II. MORTA LA NOTTE DEL IX DECEMBRE MDCCCXXXVIII QUI FINALMENTE RIPOSA =ADELE PERFETTI= NATA =DEWIT=. EBBE INDOLE SCHIETTA AFFETTUOSA CUORE GENTILE MELANCONICO VITA BREVE INFELICE E SPIRÒ GEMENDO DI ABBANDONARE APPENA NATA LA SUA FIGLIUOLETTA. IL MARITO I FRATELLI E LA MADRE QUASI MORIENTE CON MOLTE LACRIME QUESTA MEMORIA DI AMORE E DI DOLORE PONEVANO. III. INGEGNO ARGUTO MOLTIPLICE BONTÀ SINCERA DI CUORE POTENZA GENEROSA DI AFFETTI MODI GRATI SOAVI E IL SORRISO DELLA FORTUNA TUTTO FU POLVERE LA NOTTE DEL XX GENNAIO MDCCCXXXIX MENTRE PIÙ BELLI GLI GERMOGLIAVANO I FIORI DELLA VITA E DELLA SPERANZA. =GIOVANNI PALLI= ERA IL NOME E NON COMPIÈ VENTOTTO ANNI. UN PENSIERE E UNA LAGRIMA DATE AL SEPOLCRO DELL'UOMO CHE MORENDO LASCIAVA AI PARENTI AGLI AMICI UNA SANTA EREDITÀ DI AMORE E DI DOLORE. IV. QUI GIACE UNA POVERA MADRE =DOROTEA PALLI= CHE PIANGENDO SEMPRE IL SUO PERDUTO EUGENIO E PER VENTURA IGNORANDO LA MORTE DELL'ALTRO SUO DILETTO GIOVANNI SPIRATO UN MESE PRIMA DI LEI MORIVA IL XX FEBBRAIO MDCCCXXXIX CONSUMATA LENTAMENTE DA UN DOLOR SOLO CHE DURÒ TRE ANNI. COMMISERANDO IL CASO FATALE CHE IN SÌ BREVE TEMPO RICONGIUNSE IN QUESTO LUOGO LE OSSA DELLA MADRE E DEI FIGLI BENEDITE ALLA LORO MEMORIA E PREGATE PACE. L'ANNIVERSARIO DELLA NASCITA ― 1833 ― Un altr'anno di vita è già spento, E tremando lo conta il pensiero; Del passato non resta un momento, Il futuro è velato di nero; Il passato è un romore trascorso, Un ricordo dolente, un rimorso. Come nudo sepolcro s'innalza Nella mente deserta il passato, Dove il meglio dell'anima incalza Ogni giorno la spinta del Fato, Dove tacita giace e sepolta La Virtù, che fioriva una volta. O miei giovani giorni, che invano Mi passaste sul capo, tornate Al desio, che vi tende la mano; La speranza con voi riportate; La Speranza per l'anima è il Sole, Quando l'alma caduta si duole. O miei giovani giorni, leggieri Ritornate sull'orme già fatte; Rinfrescate coi primi pensieri Queste rughe, che il cuore ha contratte; Ritornate, o miei giorni ridenti, E al partirvi movete più lenti. Io non vissi, – in un soffio la curva Divorai della vita dell'alma; Un destino, un demonio m'incurva Anzi tempo alla stupida calma Della tomba; – potente è la voce, Che una morte m'impone precoce. O miei giovani giorni, io dispersi Un tesoro che Dio non ridona, Che non può ridonare; – io sommersi Della vita la gaia corona Nell'oblio; – questo serto, ch'or piango, Sparpagliai neghittoso nel fango. Io non vissi, e son vecchio: – e qual orma Nel sentier d'una grande passione Ho stampato? E di gloria qual forma Mi sorrise? – e la santa missione Adempia, che Natura ci grida, Che il dolore di un secolo affida? E il dolore, che cuopre con l'ale Tutto un secol, me pure percosse; E il dolore fa grande il mortale; E se un'alma dal fango si scosse, Le convenne di farsi più pura Nel battesimo della sventura. E il dolor mi fe' grande? – Mi geme Da gran tempo un lamento nel petto, Ma è una tacita stilla; e non freme, Non prorompe in faville d'affetto, Non risuona in terribili accenti Come tromba che scuota i giacenti. Ma qual ira fatale riarse La freschezza dell'alma sì presto? Perchè il riso sì ratto scomparse? E perchè sulla fronte un sì mesto Velo stese la cura sì amara, Come il manto che cuopre la bara? Fanciulletto alla scuola del mondo Venni; – e il mondo una coppa funesta Mi accostava alle labbra; – un profondo Sorso bevvi, – e una morte fu questa: – Ahi! letale del mondo è la scienza! È la morte del cuor l'esperienza! L'avvoltoio del dubbio mi rose Ogni fibra vitale, ogni forza; Mi recise le candide rose Della speme, e il suo fiato, che ammorza Ogni tinta più vaga e serena, Come sangue mi corse ogni vena. Io ricinsi d'un funebre velo, Vel tramato a tristissima scuola, La magnifica faccia del cielo Che allo spirito è sì calda parola, Quando vive lo spirito immerso Nel calor di un amore universo. Io non vidi nel mondo, che un moto Alternato di vita e di morte; Un destino di ferro, che ignoto Tutto stringe in ignote ritorte; Esclamai: – muore l'alma! – e al desire Chiusi l'ale, e negai l'avvenire. E guatando la Storia, – un volume Dove scrive col sangue il Delitto, Dove scorre qual onda in un fiume Delle schiatte il veloce tragitto, – Uno spazio guatai di dolore, Dove geme chi nasce e chi muore. E la gloria un'immagine muta A me parve, – una stella cadente, – Una voce fra breve perduta Nell'immenso silenzio del niente: – A che muoversi? – io dissi; e mi tacqui, E in un ozio codardo mi giacqui. E rimasi nel vuoto; – e la vita Mi pesò come un grave martiro; E se amai, fu passione smarrita Nel deserto, – un solingo sospiro Fu l'amor; – nelle tenebre incerto Brancolai bestemmiando il deserto. Ho voluto il deserto, – e di pietra Mi son fatto un guanciale, – e la fossa Ho scavato al mio cuor; – nè s'arretra L'alma omai dal cammin dove ha mossa L'orma; – indarno la innalzo alle sfere, Nelle tenebre è morto il pensiere. E la Patria? – Una Patria mi resta, Ma prostrata così, che non spira Altra vita nel cor della mesta Che un dolor muto, cupo; – e rimira, Nuova Niobe impietrita dal duolo, Ogn'istante cadere un figliuolo. Perchè vivi tu dunque? Un acciaro, Un veleno non hai? Perchè tremi A spezzare quel calice amaro? Che ti fai del letargo in che gemi? Perchè vivi? Un incanto t'ha vinto? – Io nol so; – forse vivo d'istinto. – La mia pallida pallida stella È al tramonto d'un triste viaggio; Chi le infonde una vita novella? Chi le rende l'allegro suo raggio? A quest'anima morta chi dice: – Su, rinasci, novella Fenice? – O miei giovani giorni, potete Rimontar la corrente? – Venite, Anche nudi di gioia, – adducete Solo il pianto; – è una gioia più mite; E se il cielo un'ammenda ha pensato Al dolore, la lacrima ha dato. Ma un altr'anno di vita è già spento, E tremando lo conta il pensiero; Del passato non torna un momento, Il futuro è velato di nero; Il passato è un rumore trascorso. Un ricordo dolente, un rimorso. Qual fragranza dal fiore degli anni Ho spremuto? – Il mio cielo natio L'agitava con tepidi vanni, Gli vestiva dell'iride il brio, Lo drizzava gentile all'amore, Educava alla Patria quel fiore. Ma quel fiore mal crebbe; e le foglie, E l'umor gli corrose un veleno; Dissipate le pallide spoglie Son fuggite dei venti nel seno; La rugiada d'un placido cielo Più non bagna che un arido stelo. L'IMMORTALITA' ― 1842 ― È il pensier della morte uno sgomento, Dove lo spirto s'inabissa, e il cuore; Il cielo empie d'un funebre lamento, Oscura il Sole, e inaridisce il fiore. Lo sguardo informa, e suona nell'accento, Uccide ogni speranza, ed ogni amore; Misura unico il tempo, e in un momento Un secolo concentra di dolore. E l'agonia dell'anima immortale, Finchè strascica inerte la catena Del mortal fango tra le torte vie. Ma s'illumina, e sorge, e batte l'ale, Angiol di Dio, se in lui penetra appena Uno spiraglio dell'eterno die. NAPOLEONE FRAMMENTI[22] ― 18...? ― E tu cadesti, o re; ma sul tuo fato Il silenzio non giace, onde l'umana Plebe è coperta; E la storia del tuo nome solenne Coi secoli si muove. Eri di donna Nato, e spirto caduco in te si chiuse Come nel volgo dei mortali, o l'alta Armonia delle sfere alla tua creta Trasfuse alito eterno? Sento, che il mondo ancor geme dell'orma Delle tue piante; – ahi! dunque in sulla terra Non ti guidò l'amore . . . . . . Chi misurarti Col pensiere vorrà, se il tuo fantasma Ratto venne, e disparve, alle atterrite Genti mostrando Mille faccie di tenebre e di luce? Quand'io mi sporgo sulla tua grandezza, Mi coglie la vertigine. Chi sei, O crëatura del mistero? Il mondo Forse nol saprà mai. Nume, o demonio, Ti chiameranno incerti; – e il tuo concetto Forse l'inferno racchiudeva, e il cielo. . . . . . . . . . . . . . . . . Il fiore Della vita per te crebbe solingo E nero, ed aura nol nodria feconda, E amor non lo guardò. Nell'ora Dei mesti sensi, – quando cade il Sole, E sopra la natura si diffonde Addolorato come il guardo estremo D'un amico, che muor, – piangesti mai? Il vïator, che tenta le tempeste Dell'antico Oceáno, andrà tremante All'Isola romita, ove il tuo Genio Impotente si giacque, o sventurato. E la mente commossa andrà cercando Per l'ombre della morte il tuo fantasma, Che scongiurato apparirà. Funesta Luce balenerà sulle tremende Sorti dell'uomo, e gemerà . . . . E se mai le ridenti illusïoni Ti rinfrescavan di fiori la fronte, Il dolor li appassiva; E la tua fronte, pallida, atterrita, Trono severo d'un pensier di morte, Cadeva a terra. L'Aquila gloriosa, Del cenno tuo terribile ministra, Che tra gli artigli un dì portava il mondo, Or s'è conversa in avvoltoio, e nido Fa nel tuo cuore. Lungo le deserte Rive dell'Oceáno il mio pensiere Scorge l'anima tua, che insegue l'ombra D'una potenza, che passò. Delirio Supremo d'una mente imperatrice È il tuo delirio. A che nel dì fatale Non ti ascondesti nel sepolcro? Nei silenzi della notte, quando La vision dello spirito è più chiara, Gemi profondo, e chiudi gli occhi, e d'ambe Le man serri gli orecchi. Oh! che intendesti? O minacciosi vedesti agitarsi I milioni delle anime sprecate Nelle tue cento inutili vittorie? Fulminato è il Titano; una ruina Vasta cuopre un impero, e l'atterrito Sguardo delle nazioni al ciel dimanda E alla terra dov'è la man, che tanta Forza prostrò. – Non fu mano creata: Dio ti percosse . . . . . Quanta passione ti salì nel cuore Il dì che la Fortuna ti gridava: – Non sei più re, Napoleon? – quel grido Ti corse tutta l'anima eccitando Le note più solenni del dolore. E fu dolor, che un'anima infinita Appena conteneva, – e a tanto peso Non so come reggesti; – e la Follia Forse dell'ala ti strisciò la mente, Ma tu nascesti forte, e la superba Testa portò il dolor come portava Un giorno la corona. . . . . . . . . . . . . . . Il Guerriero morì, nè il capo stanco Morendo abbandonò sopra gli allori, Nè il sospiro mischiò dell'agonia Col sospiro dei forti. Entro al silenzio Della natura si disperse il Grande. E solingo spirava ai giorni antichi Catone, allor che un fato iniquo E una virtù, che il mondo oggi sconosce, Di terra in terra travolgean ramingo L'ultimo dei Romani. Sulle arene di Libia inospitali Venne traendo l'anima indomata; E poichè fremer si sentì da tergo Di Cesare il delitto e la fortuna, Chiamò la morte, e intemerato un ferro Si ascose nelle viscere. Libertà d'un santo Amplesso a lui cinse lo spirto, e insieme Nei cieli si confusero. E la Sventura Parte scontò del tuo delitto, o forte, E velò d'una lacrima il soverchio Raggio della tua gloria: – e forse un giorno Pellegrini verremo alla tua tomba, Dove or siede custode la vendetta Dei regi che tremarono, e un sospiro Alle deserte ceneri contende. E la Sventura eterna ha sulla terra Una religïone, – e nel sepolcro L'uomo non va, se prima non l'adora. E la Dea più tremendo sacrificio A te chiese, che agli altri; – il pianto chiese E il servaggio dei popoli, – e tu desti La servitù col pianto; – ed eri allora Sacerdote e non vittima, e calcasti La crëatura come pavimento; E confitta per sempre la fortuna Credesti aver sotto le piante, – e forte Eri fra tutti i forti, e la tua spada Simile al raggio del Pianeta eterno Girò sull'universo. Ancor la terra Lo scalpito rammenta del cavallo Che ti portava alle vittorie, – e vinti Fur tutti, – anche la patria. Più non avesti freno Dacchè vedesti i popoli agitati Giuoco della tua destra; – e un riso amaro Dei mortali ti prese, – e il firmamento Forse afferravi col pensier profondo, Pensier, dove fremea l'onnipotenza. A mezzo il corso Cadesti; e quando il tuo pensiero anelo Si affacciava al futuro, era un'immensa Di tenebre pianura l'avvenire. Un'eterna Religïone adunque ha la Sventura Dai mortali adorata, – e un sacrificio Più che agli altri tremendo a te chiedea, E ti rapì la folgore di mano Onde al suo truce simulacro un mondo Immolavi, e la forza ti fugava Dal braccio onde squassasti un dì la vita Delle nazioni. Uomo tornasti, e tutta Sentisti l'umiltà di nostre sorti. IL DÌ DE' MORTI[23] ― 18...? ― Era il dì dei morti, e i sacerdoti e pochi vecchi piamente pregavano a Dio la pace dei Defunti, – e la brigata delle donzelle e dei garzoni lasciviando si dava alla gioia; ma non era la gioia, – sapea più di baccano, e moveva da crassezza di sentire; ed io maravigliava come le anime nostre fossero sorde alla voce sempre solenne della morte. – Ma di chi suona la solinga preghiera della carità? – Era una giovanetta nel tempo dell'amore, che pregava in disparte, e dalle vereconde sue forme spirava un sorriso di dolore, a quella guisa che si dee sorridere in Paradiso, ed essa guatava sentitamente le fosse dei nostri padri con una mestizia dolce, e sicura, affidata di certo della sua innocenza. Io la fissai, – e il raggio della bellezza e del pudore mi acquetò per un istante la tempesta dell'anima; e pel momento che la vidi spuntò un fiorello tra le spine della mia vita. La bellezza mi parlò al core poeticamente, ed io sentiva in quel punto di esser poeta. Ah sì! la poesia debb'esser la favella dei beati, poichè per parlarla bisogna disciogliersi dal viluppo dell'umanità. – Chi toglie il velo delle lusinghe alla vita scuopre la morte. Ed io rivestii di care lusinghe la vita, e più non vidi la morte. IN UN ALBUM ― 1839 ― Noi ci siamo veduti una volta sola, o Signora, ma senza occasioni d'intimità, senza poterci conoscere ed intendere a vicenda. Pure voi non mi uscirete più mai dalla mente, perchè il suono della vostra voce sollevò dentro di me un tumulto di memorie potenti. Voi mi riportaste a Genova, dove la Virtù Italiana non è spenta affatto, dove ho vissuto cogli affetti i più begli anni della mia esistenza, dove sono stato fratello d'anima a molti generosi,...... Io vi ringrazio, o Signora, perchè senza saperlo voi mi avete fatto un gran bene; perchè voi, sottraendomi per un tratto ai dolori abietti del presente, mi avete fatto rivivere nel passato, mi avete rinverdita la speranza, rinvigorita la fede nell'avvenire. Voi m'avete fatto sentire più intenso il desiderio d'un vostro concittadino, del quale ho letto pochi versi in questo Album. Serbate con reverenza quei versi, perchè sono un brano palpitante d'una grand'anima, che il mondo non ha per anche compreso. Teneteli cari come una santa reminiscenza, – o non foss'altro come un'ammenda onorevole alle scortesie, o alle freddure, che altri per avventura abbia potuto scrivere in questo libro. ― Accogliete queste mie parole non come un'arida formula di convenienza, ma come un'effusione di vivissima simpatia. UN SOGNO ― 1839 ― Il 5 Marzo 1830 ad alta notte mi addormentai, e feci questo sogno. La serva entrò in camera mia, e disse: – signor padrone, sono accecata. Due persone hanno picchiato all'uscio, ed hanno dimandato di Lei; io appena le ho guardate in faccia son diventata subito cieca: – A queste parole feci un atto, ed una esclamazione di maraviglia, e intanto le due persone entrarono. Erano Giovanni P.*** e sua Madre, ambidue morti di fresco. Conservavano la figura e le sembianze naturali, come quando erano vivi, se non che negli occhi e nel sorriso traluceva loro un non so che d'immortale. Al vederli io restai reverente e commosso. Giovanni mi abbracciò e mi baciò; sua Madre mi strinse cordialmente la mano, e disse; – veniamo a ringraziarvi di quello che avete fatto per noi, e specialmente per il mio Giovanni. Partecipate i nostri ringraziamenti anche agli altri vostri amici. – Allora io dissi: – Signora, tra questi miei amici ve ne sono tanti dei poveri; sapreste darmi tre numeri al lotto? – La donna con atto amoroso mi diede un leggiero schiaffo, e disse: – così rispondono gl'immortali a certe dimande. – Io restai un certo tempo umiliato e compunto, e poi ripresi: – vedete, voi siete venuti da me, ma io sono un povero diavolo, ho la stanza vuota e disadorna; non ho tampoco da offrirvi da sedere; e quei due spiriti risposero sorridendo: – noi non siamo mai stanchi. ― Non ho neppure, – soggiunsi, – da farvi un poco di rinfresco, – e rimasi come mortificato. Allora Giovanni si levò di seno un vasetto di forma insolita, ma elegantissima, di una materia preziosa, bellissima, che rifletteva tutti i colori dell'iride, e facendomelo odorare esclamò: – senti, questa è l'ambrosia, il nudrimento degl'immortali: – Odorai, e caddi assorto in un'estasi dolcissima, ineffabile, nella quale mi parve di giacere lo spazio almeno di quattro secoli. Alla fine mi riscossi, e rividi quei due, e dissi: – ma io ho dormito almeno 400 anni? ― Neppure un minuto secondo, – rispose Giovanni, – questo è un lampo della vita immortale. – Io stetti un poco sopra di me, e poi dissi: – ma dunque, o Giovanni, c'è veramente un altro mondo? – Ed egli rispose: – c'è Dio, e c'è un altro mondo. – Queste parole mi scossero tutto, e mi fecero pensar profondamente per un tratto di tempo; poi dimandai: – e chi ci viene nell'altro mondo? ― Ci vengono quelli che soffrono, – mi fu risposto. Io curvai la testa sul petto, come per raccogliere le idee; stetti qualche tempo in quell'atto. A un tratto rialzando la fronte, preso da un impeto subitaneo, interrogai: – ma Elena? – Giovanni allora disse: – Elena è santa fra tutte le Sante, è un inno di fuoco; è la più bella e solenne nota d'amore, che canti dinanzi all'eterno. Ella vede e sente il dolore di sua Madre; e si strugge per lei, e vorrebbe venire da lei; ma quando fa l'atto di partirsi, Dio l'afferra, e se la chiude nel cuore. Quì Giovanni sì tacque, e sua Madre facendosi più d'appresso mi disse: – andate da quella Madre; ditele che creda, che speri, perchè tutte le Madri pregano per lei. – Quindi ponendomi con garbo affettuoso la mano sul capo soggiunse: – tu hai, figliuolo, dei grandi peccati, ma c'è chi prega per te. E quì il sogno si sciolse. NOTE: [22] _Questi frammenti, quali noi li presentiamo ai Lettori, furono dall'Autore offerti in dono a un Amico suo dilettissimo. Forse egli intendeva da prima ordinare nel contesto di un componimento i concetti e le immagini, che venne in essi notando; ma nol fece poi mai._ [23] _Ignoriamo se questo poetico componimento sia originale o tradotto._ LETTERE Noi vogliamo stampare nella memoria de' nostri giovani concittadini l'immagine d'un'_anima_, non d'una _mente_; vogliamo dir loro: «in nome di Dio, non lasciate che anime siffatte periscano senza dar frutto». Abbiamo noi tutti oggimai più bisogno d'uomini, che non di _scrittori_. Abbiamo bisogno d'imparare a _credere_, non ad ammirare. Se avremo dato alla gioventù nostra un'_anima_ da venerare ed amare, avremo fatto più assai che non rivelandole dieci scrittori. M.*** I. Bravo F.***[24] . . . . . . . E sia pur come vuolsi, e lasciamo i nostri nemici a chi se li voglia prendere, e veniamo a noi. Come vivi, F.***? se io faccio la somma, risponderò per te: malamente, fratello, malamente assai. Ed io ti dirò: pazienza, F.***; e tu riprenderai: pazienza pur troppo, perchè la pazienza è l'unica veste, che il padre Adamo lasciasse ai suoi nudi figliuoli; ma però la bevanda è amara, e non ispegne la sete. Ed io ti dimanderò da capo: Come vivi, F.***? ti rode sempre quell'ansia profonda, misteriosa, di cui non seppi, e non osai mai penetrare la causa? e ti cavalca sempre lo spirito un diavolo nero, onde così per tempo s'inaridisce la giovanezza dell'anima tua? O fratel mio F.***! ogni qualvolta io penso alle tue angustie, e alle mie, ed al fatalismo di tante turpitudini umane, in verità mi prende lo sdegno d'essere un uomo vivo, e bestemmio forte, e andrei più oltre se potessi, e se il male fosse tutto in un nodo. Ma il male è veramente una Forza, e il Mondo gli dà gran luogo; – ed io invece son debole, e destinato come tutti gli animali al dolore, e alla pazienza, e vivrò finchè mi riesce, e morirò.... e morirò solo solo, nè tu, dolce amico, potrai forse più darmi un bacio nell'agonia come hai già fatto un'altra volta. ― Io ho cuore di forte, o F.***, o credo almeno di averlo; – ma quando per le varie ore del giorno via via mi si fa sentire una mancanza di care abitudini, un desio delle gioie provate esercitando la vita d'una amicizia caldissima, e mi rammento come spesso le tue mille passioni mi ardevano, e come spesso ti compiacevi alle fantasie del tuo povero amico, e come i miei pensieri erano intesi, e trovavano nel tuo animo gentile una risposta, oh! allora io davvero mi piego sotto l'affanno, e il mio spirito si diffonde in mille moti di dolore, e di amore. E veniamo ad altro. Mi dici, e sento dirmi da tutti, che sei fermo pur sempre nell'idea d'emigrare in Inghilterra. Io non istarò a dirti se tu faccia bene, o male; che ne so io? che ne sai tu? che ne sa tutto il mondo? Per me ho veduto troppo sovente, che le cose buone e cattive sono fatte dal Caso, e l'uomo non si travaglia, che per essere il suo stromento. Io dunque non ti dirò se tu faccia bene, o male; non mica, che se volessi io non potrei schierarti su questa tua andata migliaia di ragioni _pro_, e _contra_; oh! pur ch'io volessi, tu mi udresti ragionare a gran distesa, perchè l'uomo in fatto di ciancie può andare avanti e indietro senza spese di viaggio, e farsi padrone del torto, e del diritto; ma l'uomo, che nei casi difficili non sa dare all'amico altro che consigli, meglio è che si taccia. Ti dirò soltanto, che tu faccia a modo tuo, perchè così, anche facendo male, la percossa che viene dalle mani proprie è meno acerba di quella, che viene dalle altrui. E Socrate disse: – Un Genio parla nel petto a voi tutti, o mortali; e chi nacque a correre una corsa che tutti non fanno, perchè, non la sanno fare, non può e non deve ascoltare, che le leggi del suo Genio, altrimenti si rassegni ad essere sopra tutti infelice. – E se il tuo Genio ti comanda l'esilio, giovi l'esilio, e abbandona la patria, e quante cose d'amore ha la patria, e sii felice se puoi, o almeno ti domino le alte sventure, e sempre ti si mantenga amabile l'ambizione della Gloria. Ma quando sarai lontano fra gli stranieri, e non avrai più nulla di tuo, che le passioni, e le memorie di un tempo passato, allora il tuo pensiere sia italianamente generoso, e colla forza della immaginazione scaldati sempre al nostro Sole animatore perenne del Genio, e del valore italico, – e ti risovvenga di una gente dolorosa, d'Italia nostra, di questa cara armonia di tutta la Natura, – e cingi sovente le sue immagini dell'ala dei tuoi affetti, – e considera l'anima tua come sacra a te solo, – .... e allora i concetti ti sorgeranno nella mente come le stelle in Cielo, liberi, e splendidi di bellezza divina, e brillanti di eterno movimento. ― F.*** mio! la lettera è lunga, e mi avvedo di avertela scritta in un certo tono, che sa piuttosto di paternale; ma tu conosci l'amico, e ben sai se io m'abbia avuto mai l'orgoglio di far lume a nessuno, io che fermamente credo di non saper nulla, tranne che sono un povero diavolo mandato su questa terra ad occupare un po' di luogo, e null'altro, e tengo aperto sempre l'uscio di casa per vedere se il vento un giorno o l'altro mi ci porti la Verità, o la Ragione, quel segreto in somma, che ci vuole per diventare un gran Maestro, e dire alla gente, fate, o non fate. Ma io voglio finirla, F.*** mio, e ti dirò, che son tutto tuo, di dentro e di fuori; – vero è che costo troppo poco, e un regalo siffatto sarebbe meglio a non farlo, ma ormai la parola è corsa. Ama dunque per sempre il tuo 1.º _Agosto_ 1830. CARLO. _P. S._ Non passa giorno, che io non oda intuonarmi all'orecchie la canzone della prudenza, e son certo più per te, che per me. La prudenza, a dir vero, è un certo Santo cui finora non ho saputo trovare uno sgabello fra le mie religioni. Pure gli uomini gravi mi dicono con aria di compunzione, che ella fa sempre buono, e negli ardui eventi per la salute dell'uomo non vi è bussola altra, che questa. E qui forse diranno bene, e forse no; ma indossare ogni giorno quella livrea, com'essi vorrebbero, parmi appunto come portare sempre l'ombrello anche quando non piove. E tutto questo sia per non detto. ― . . . . . . . II. Carissimo Padre La nostra partenza di Livorno fu piuttosto un ratto, che una partenza.... Sul principio del viaggio fu calma profonda; – il legno andava piuttosto con remi, che con la vela. Poi, due ore dopo incirca, si levò un vento fresco, forse troppo fresco; – allora piuttosto che andare volavamo. In mezzo a questa furia di vento un uomo ebbe a perire: faceva sue manovre in cima a un albero da poppa, quando l'albero per vecchiaia si troncò nel fondo; e se non era la sua destrezza, l'uomo periva di certo. Nessuna industria umana avrebbe potuto ritirarlo a bordo, tanto quel diavolo di vento ci rapiva via. Ma, come Dio volle, tornò sano e salvo in coverta; avea lo stesso viso di prima, e col solito suono di voce disse rimettendosi a nuove faccende: _un altro po' ci perdeva la vita_. Queste parole sono semplici, e poche, ma rivelano un cuore sicuro. Io ammirai tacitamente la gagliardia di quell'anima popolana. Dimandai a un tale, che mi stava a lato, come si chiamasse costui. Mi rispose, che si chiamava la Scimmia; e questo nome in merito della sua singolare sveltezza. Seguitammo a correre col vento fresco, nè ci abbattemmo in altri casi; poi quando fummo in vicinanza dell'Isola, il vento rallentò, e rivenne la calma. Allora nuovamente mano ai remi, e così entrammo nel porto, ove un Ministro di Sanità ci ricevè colle solite forme. In somma il viaggio fu compito in poco più di 7 ore. Io non potei goderne, perchè durante il tragitto il mal di mare mi travagliò fieramente. Ponemmo il piede a terra nell'Ufficio di Sanità, dove ci trattenemmo sopra due ore; e in quel frattempo, non sapendo che altro fare, ordinammo un lieve ristoro di cibi, e questo poi, più o meno, era un bisogno comune. Quando fu venuta la notte, movemmo colla nostra scorta per entrare in città. Entrammo, e traversando una piazza, e parecchie strade fatte a scala, giugnemmo al Forte ***. . . . . . . . E quì finisce la cronaca del mio viaggio. Ora la vita attiva si è mutata in vita contemplativa; nè io saprei cos'altro raccontarvi, se pur non fosse la storia dei mille grilli, che da mattina a sera mi svolazzano nel cervello. Ma questo nol comporteremmo nè voi, nè io, nè quei signori deputati a leggere tutto ciò che scriviamo. Ora io sono, e non so per quanto, domiciliato alla ***, sano di corpo, di mente sanissimo. Ho una casetta bastantemente capace per una persona. È composta di due stanze nè troppo grandi, nè troppo piccole. Un letto, una panca, una tavola, sono gli arredi. L'uscio si chiude per di fuori, e le finestre sono come le vostre, se non che hanno di più l'inferriata. La casa è situata a mezzogiorno, e da una parte confina in un angolo angusto, che i Francesi chiamerebbero _cul de sac_. Dall'altra parte la casa è contigua a una caserma, e a prima giunta la vista s'incontra in una pila, in una cisterna, e in una campana, che non suona mai. Ma sospingendo l'occhio un poco avanti la scena si tramuta maravigliosamente, e dalla umiltà prosaica salisce alla sfera poetica. Un clima dolce, armonioso, un cielo purissimo, una parte pittoresca di golfo, una catena di monti bruni bruni, contrastanti vivacemente coll'azzurro del cielo, e col verde limpido del mare; tutta una Natura magnifica, una creazione bella di bellezza veramente italiana. Ma per chi guarda dalle sbarre d'una prigione, il cielo è mesto, e la Natura è malinconica. Del resto, come vi ho già detto, la vita, che io meno, non ha bisogno di troppi colori a dipingersi. La notte dormo quando posso; e quando no, veglio fantasticando. Il giorno mi levo; passeggio un poco sopra uno spazio di 12 passi; poi leggo; poi di nuovo passeggio; alle 2 un Trattore ci manda il desinare a modo suo; il dopo pranzo la medesima canzone, finchè non torni l'ora di rimettersi a letto. Come vedete, è una nota unica sopra una corda unica. Per un'ora del giorno uno dopo l'altro siamo condotti a respirare all'aperto; l'aria in questi luoghi è balsamica, e fa buono al sangue. Di quando in quando viene a visitarci il Comandante della Piazza, una gentil persona, di cui non conosco per anche il nome, e ci tratta paternamente. Talvolta mi affaccio ad osservare i soldati occupati nell'opere loro: in due o tre giorni ho compreso tutti i misteri della vita militare; – è una vita, che non eccita tentazioni. In somma, a dirvela schietta, io mi annoio piuttosto che no, e l'Ozio, che una volta io vagheggiava come cosa morbida e cara, oggi è mio nemico giurato, e mi sta indosso come un cilizio, ed io concorro coi Padri della Chiesa a dichiararlo peccato mortale. In somma questa monotonia è tale, che a lungo andare può convertire l'anima umana in un orologio a polvere. E se voi, e altri, voleste sapere la ragione intima del bizzarro avvenimento, che mi ha percosso, io vi so dire, che è tal problema da sgomentare tutte le Geometrie di questo mondo. Voi conoscete meglio di me i miei umori, e la mia condotta, perchè vi sono vissuto accanto finora. Commerciante di professione; chiuso di pensieri per indole, e per sistema, e però taciturno quasi sempre; senza nome, senza influenza, senza ambizione; partigiano della quiete, anzi dell'inerzia, – non avrei fatto un passo più lungo del solito per iscansare una fossa; – di spirito scettico, – talchè spesso io mi trovava a contrasto colla corrente, e non me ne importava; – la storia della mia vita era la storia della pianta, che vegeta, e nulla più. Avvertito, che i tempi correvano difficili, rinnegai per tempo l'esercizio di quelle poche facoltà d'ingegno, che la Natura, non so se madre, o madrigna, volle assegnarmi in dote. Così fatto com'era, avrei giurato, che la mia esistenza quasi sotterranea sarebbe trascorsa nel silenzio senza dar ombra a nessuno, senza destare nè odio, nè amore; avrei giurato, che il dì dei miei funerali, pochi, ma pochi, avrebbero detto: è morto un morto. Ma che per questo? I concetti del mortale son tele di ragno, – un nulla le rompe. La prudenza può talvolta menare dove mena l'imprudenza; il non far nulla talvolta equivale al far qualche cosa; questo è un conto, che in aritmetica non torna, ma che pure entra nella serie degli umani accidenti. L'uomo spesso non dipende da sè stesso; la Fortuna agita i dadi della sua vita, e la Fortuna è femmina, e di più non ha occhi. Non ostante da tutto questo non dovete indurne argomento di disperare. Io credo fermamente, che l'Innocenza non sia un giuoco di parole; io credo, che la Giustizia non siasi rimasta fra le divinità della Favola. Il tempo schiarirà tutto; almeno così diceva a Livorno il Medico N., disputando sulla malattia di un tale già sepolto da una settimana. Datevi coraggio proporzionato agli eventi; coraggio per resistere a queste prove troppo dure per le viscere di un padre. Consolate mia Madre. Povere madri! pur troppo negli annali del tempo la Fatalità produce epoche in cui le madri hanno a tremare di essere state feconde! Io però son tranquillo. Il caso mi ha temperato un'anima vigorosa a sopportare pacatamente il bene ed il male. Se io fossi solo nel mondo, credete pure che sorriderei dall'alto in giù a queste piccole traversie; ma chi nasce di donna non è mai solo nel mondo; e gli affetti di sangue, d'amicizia, d'interesse, sono tanti, e così complicati, e così inerenti al cuore dell'uomo, che il cuore è costretto a gemere profondamente, quando la forza delle cose lo recide da vincoli tanto vitali. Pure, ve lo ripeto, fate animo; e confido, che non avrete mai a piangere per cagion mia; ma se ancora un giorno doveste piangere, le vostre non saranno lacrime di vergogna. Io oso dirlo senza superbia, e i miei nemici non oserebbero negarlo: ho percorso 27 anni di età, ma tutti quegli anni dal primo fino all'ultimo hanno segnato una linea retta nella via dell'onore. Addio. _Dalla ***, 17 Settembre 1833._ Il vostro CARLO. III. Carissimo Padre Ieri mi fu consegnato il baule che mi spediste, e tornano a dovere tutti gli oggetti contenuti nel medesimo. Ho sentito dolorosamente la grave malattia, che ha dovuto subire la mia povera Madre in séguito della mia deportazione; ma poi mi sono riconfortato alle nuove del suo miglioramento, e spero fermamente, che al giunger di questa mia sarà ristabilita nella sua primitiva salute. In quanto a voi, vi esorto a sopportare virilmente il dolore della mia lontananza; è vostro dovere, – non avete me solo di figli. Io ho piena fiducia, che la mia detenzione non andrà in lungo; e se a quest'ora mi avessero interrogato, credo che tutto sarebbe finito per il meglio. Non vi date pensiero di me; non ho bisogno di esser consigliato alla rassegnazione. Per questo sono abbastanza ragionevole; e poi io son forte di animo, e forte della mia coscienza. Se non fosse il dispiacere di non trovarmi fra i miei parenti, la prigione sarebbe per me una privazione poco significante. Oltre di ciò non dovete far dei romanzi colla vostra immaginazione; non dovete figurarvi uno stato orribile. Noi siamo in una custodia militare, e sapete che i soldati sottosopra son gente di cuore, e non sono avvezzi a mettere in uso tutta quella teologia di rigori inutili, come farebbe un soprastante delle carceri civili. Noi siamo trattati con tutto il riguardo; possiamo leggere, – possiamo scrivere; e relativamente ai comodi della vita, ogni cosa che dimandiamo ci viene accordata nell'istante. Quello solamente che ci affligge è che non possiamo vivere insieme; ma in questo le Autorità locali non possono nulla, poichè dipendono in tutto e per tutto dagli ordini superiori. Del resto, io godo perfetta salute, e perfetta calma di spirito. Non ho mai mancato di niente, mediante la cordiale assistenza di tutta la famiglia M.***, e se voi le scrivete, ringraziatela anche voi di tante prove di verace amicizia, che mi hanno dimostrato nelle circostanze attuali. Io aveva fatto venir del danaro per passarlo al G.*** secondo il d'accordo, ma contemporaneamente gli furono pagate non so da chi Lire 200, e per questa volta non ne ha avuto bisogno. In séguito io non mancherò di fornirgli il necessario ad ogni sua richiesta, dandovene avviso per vostra regola. Io non ho debiti, perchè non era mio sistema di farne, e più ancora perchè non ne aveva motivi. Soltanto presi certa roba per vestirmi da estate da G.***, che avrei già pagata senza il caso del mio arresto. Se volete pagarla voi, sarà lo stesso. Quello di cui poi mi raccomando caldamente, è che consoliate la mia povera Madre. Voi sapete, che le donne son cose deboli per natura, molto più poi se aggiungete in loro il sentimento dell'amore materno. Di tutto si allarmano, ingigantiscono tutto, d'un atomo ne fanno una montagna. Ci vuole un'arte squisitissima per maneggiare il cuore di enti così delicati. Ditele, che io sto bene, – che son trattato bene, – che ogni giorno mi menano un'ora al passeggio per il Forte, – che le Domeniche ci conducono alla Messa in città, – che non tema di nulla, – che viviamo sotto un Governo moderato; – che appena il Governo si sarà sincerato de' suoi dubbi, tutto sarà finito; – che non siamo briganti, ma buona e pacifica gente; – che la prigione non prova nulla, perchè in prigione ci può andare anche un Santo; – che non sono molti anni ci stette anche un Papa. – In somma a voi tocca il dirle tutte le cose opportune per ridonare la tranquillità al suo spirito. Date un bacio per me all'Enrichetta, e credetemi Dalla ***, 3 _Ottobre_ 1833. Il vostro CARLO. IV. Carissimo Padre Le notizie intorno la cattiva salute della mia povera Madre mi hanno profondamente angustiato, e potete immaginare, che io non sarò mai affatto tranquillo, finchè non la senta ristabilita nel suo stato primitivo. Però vi prego con tutta sollecitudine a darmi altre nuove di lei, sperando che sieno migliori delle già ricevute. A quel vostro amico, che vi disse in confidenza, che noi subiremmo un Processo alla Francese, dite che vi ha raccontato una novella. La natura della nostra Legislazione non ammette siffatta procedura; oltredichè noi abbiamo avuto già l'esame sui princìpi di questa settimana, e la nostra causa si agita per mezzo di un Processo economico. Ora per vostra regola, e quiete al tempo stesso, dovete sapere, che quando gli affari sono di poca importanza si trattano economicamente; quando sono di molto rilievo, allora vanno sottoposti alle forme di un processo ordinario. Il Cancelliere che ci ha esaminati è il signor F.*** B.***, la più cortese persona, che io m'abbia conosciuto in questo mondo; e mi ha fatto maraviglia come in un impiego, dove da mattina a sera si rimescolano tutti i peccati degli uomini, egli abbia potuto conservare tanta squisitezza d'anima. In passato, quando io pensava ad un Cancelliere criminale, mi si destava subito in mente l'idea dell'orco; ma vedo, che sempre non è così, e ai fatti bisogna credere. Il Signor Cancelliere mi ha fatto sperare, che le cose non andranno in lungo; queste parole però possono avere un significato, e possono non averne nessuno. Quello nondimeno, che mi ha fatto intendere di positivo, è che si crede bene di tenerci in sicuro fino a che non si siano dissipati certi torbidi, che si dice sieno per aria. Io, che sono nel Limbo, non posso saper nulla di queste cose; ma voi, che siete nel mondo, potete vederle, e in ogni caso informarvene, e, dai ragguagli che vi daranno, potrete calcolare approssimativamente il tempo della nostra detenzione. E se il torbo esiste, pregate Dio, che mandi una tramontana tagliente e spietata, che spazzi il benchè minimo nuvolo dal nostro cielo. Devo anche dirvi, che si sono offerti spontaneamente a pensare alla nostra sussistenza in quel modo, che meglio si addice alla nostra condizione, di più i comodi delle nostre stanze sono stati aumentati in guisa, che non manca più nulla, tranne l'andarcene, cosa che farebbe comodo a noi, ed anche a quei Signori, che hanno il disturbo di custodirci. Dunque voi vedete, che, se siamo in una gabbia, la gabbia almeno è indorata. Sento vivamente il dispiacere della malattia irremediabile del signor N., perchè era un uomo di cuore, ed uno dei migliori sostegni del commercio di Livorno; ma che dobbiamo farci? nella morte non vi è ingiustizia; – _chacun à son tour_. Io vi dico, che séguito a star bene di corpo, e sarebbe lo stesso in quanto allo spirito, se il pensiere di mia Madre non mi turbasse. Salutate caramente la famiglia, e gli amici, e credetemi _Dalla ***, 19 ottobre 1833._ Il vostro CARLO. V. Carissimo Padre Ricevo la vostra del 23 corrente, e mi gode l'animo a sentire le notizie della migliorata salute di mia Madre, e a quest'ora spero che sarà libera di quello strascico di mal essere, che lasciano dietro di sè le lunghe infermità. In quanto a me veramente non saprei cosa dirvi; la mia vita non ha variazioni, e potrei ripetervi oggi quello che vi scrissi a principio. Io sto bene al solito, e mi sento disposto a durare un bel pezzo così. Voi mi dite, che secondo la voce pubblica si spera, che presto saremo a casa. Anch'io lo spero, e tutti speriamo bene in questo mondo, perchè così vuole l'istinto; per altro io vi esorto a non dare ascolto alla voce pubblica, perchè si muove a caso, e non dietro un dato positivo. Che volete che sappia il pubblico di una misura stabilita a uscio chiuso fra tre o quattro Signori, che non hanno niente che fare col pubblico? Il termine della nostra detenzione dipende dalle deliberazioni dei nostri padroni, e non dalle congetture del pubblico, che parla sempre, e parla di tutto, perchè le parole non gli costano nulla; altrimenti sarebbe più riservato. Il meglio è per la vostra quiete, che voi non vi regoliate con un termometro così fallace; voi potreste trovarvi a sperare invano da un giorno all'altro, e la speranza così indugiata è un dolore non leggiero. Attendete pacificamente, che il nodo si sciolga da sè, e tenete fisso in cuore, che non vi è nulla a temere, ma che noi siamo altrettanti pegni politici! Fate i miei più cordiali saluti a T.*** B.***, e ditegli, che, se io non l'ho mai rammentato nelle lettere trascorse, è seguíto non so perchè, ma che io l'ho continuamente nella memoria. Egli mi conosce troppo bene per non credere alla sincerità di queste mie parole. Salutate pure la famiglia, e gli altri miei pochi amici. Addio. _Dalla ***, 29 Ottobre 1833._ CARLO. VI. Carissimo Padre Dalla vostra del 10 corrente intendo, che la famiglia in generale sta tutta bene, e questo mi fa piacere. Io pure godo d'una prodigiosa salute. In quanto alla mamma, speriamo, che gradatamente riacquisterà tutte le sue forze. Bisogna calcolare, che la stagione è poco propizia ad un rapido risorgimento; bisogna calcolare, che la donna è piuttosto vecchia che giovane, ed una malattia, complicata di dolori fisici e morali, lascia necessariamente una lunga vibrazione in una macchina già declinata. Sento la morte di N.; ho letto ancora la storia delle sue disposizioni testamentarie. Per me, non ci trovo nulla a ridere, come potete immaginare; non so, se sarà lo stesso delle parti, che vi si credono interessate. Se non m'inganno però credo, che in qualche parte l'affetto abbia prevalso alla giustizia; ma i moti del cuore vanno perdonati, specialmente in un uomo, che dispone del suo. Trovo giustissimo il lascito fatto a X.; e poteva ancora raddoppiare la somma; e riguardo alle gioie lasciate alle ..., con una leggiera trasposizione io le avrei vedute meglio collocate nelle ...; indosso a quelle ragazze avrebbero fatto una certa figura, mentre indosso alle .... ci stanno come una satira, prima perchè sono ricche del proprio oltre il dovere, e poi perchè son vecchie. Le vecchie, cessando di appartenere agli uomini, appartengono per diritto impreteribile a Dio; in conseguenza io avrei lasciato loro un elegante rosario. Del resto, io faccio queste riflessioni non perchè io mi creda in diritto di entrare nei fatti altrui; ma le faccio così per ozio, per non mandare a Livorno un foglio affatto bianco; e son certo, che se quelle Signore venissero a sapere come io la penso su questo proposito, mi darebbero il titolo d'impertinente, ed avrebbero ragione. Comprendo il dolore da voi provato per la morte di quest'uomo, e vi compatisco. La perdita di un utile amico è pur troppo deplorabile! Ed io pure ne sono dolente; ma quando considero, che anch'io un giorno dovrò passare le soglie di questo mondo, vi confesso candidamente, che il dispiacere, che ho verso gli altri, ritorna indietro, e sta per conto mio. – Però non si può negare, – è morto un galantuomo; ed io sono persuaso, che quell'anima buona è volata di punto in bianco in Paradiso, dove troverà di certo meno negozianti, che nella nostra Camera di Commercio. Anch'io son del mestiere, e son giudice competente in questa materia. Voi mi dite che i .... sono intorno a comporre una nuova ragione. Viva la nuova ragione! Io non posso che lodarli; io conosco quei giovani, – son pieni di merito, e in una faccenda come questa son capaci di andare sino in fondo. Viva la nuova ragione! io invito tutto il mondo a fare una nuova ragione, poichè l'antica è ormai troppo stanca, e non serve più a nulla. Salutate quei giovani da parte mia; date loro i miei mi-rallegro; sappiano, che auguro loro il vento fresco della fortuna, che auguro loro il profitto d'ogni bilancio annuale con una lunga coda di zeri. Relativamente poi all'avervi mandato a chiamare per proporvi quella continuazione di affari, che combinavate con N., non è uno sforzo, è una cosa tutta naturale; sanno che siete un forte consumatore, vi stimano un uomo solido, e per questo vi cercano. Fate, che manchi una delle due condizioni, e vedrete la scena mutata. I negozianti sono come i giuocatori; – quando gli uni o gli altri invitano a una partita di carte, o a una partita di affari, le parole sono belle, ed umane; ma il pensiero intimo è di vincere; l'industria poi e la sorte assegnano la vincita. Oltredichè fra N. e.... non ci vedo equivalenza di condizioni; quegli era un uomo di mezzi potentissimi, ed arbitro assoluto delle cose sue, dimodochè quando s'immaginava di avere inciampato in un galantuomo vi dormiva sopra, e combinava un affare tra uno sbadiglio e l'altro; al contrario questi hanno meno mezzi, e per conseguenza maggior cura di assicurarli; saranno probabilmente più diffidenti, perchè, non so come, i giovani d'oggi sono più calcolatori dei loro padri; e poi cotesta società non si compone di un valore unico, ma invece è uno stato federativo, e prima di convenire in un sentimento uniforme, ci vorranno delle lunghe assemblee. Finisco la lettera, perchè mi pare abbastanza prolissa. Addio. _Dalla ***, 15 Novembre 1833._ Il vostro CARLO. _P. S._ Fate i miei saluti al B.***, e ditegli, che a comodo suo gli piaccia di salire in camera mia, e prendere la Storia del _Mignet_ in Francese, e tre tomi in Inglese intitolati: – _Lord Byron and some of his contemporaries, by Leigh Hunt_, e li faccia recapitare al Gabinetto, poichè gli appartengono. Ve l'avrei detto prima, ma mi è passato di mente. VII. Carissimo Padre Rispondo alla vostra del 20 corrente. Non vi dissimulo, che mi travaglia non poco il pensiero intorno allo stato di salute di mia Madre. Cotesta oscillazione continua tra il bene e il male mi dà da temere. Non vorrei che fosse una malattia organica. Che ne dice il Medico? Comprendo, che l'arte è assai limitata, specialmente quando si tratta di veder dentro dove ci si vede poco o punto. Vorrei sapere almeno, se il Medico è riuscito a definire il carattere vero e reale della infermità; ditemi le cose come stanno, senza velarle menomamente, perchè il mio spirito si adatta meglio ad una trista verità, che agli ondeggiamenti di una incerta speranza. In quanto alla mia liberazione lasciamo fare a chi spetta. Una qualche volta dovrà seguire. Non posso ragionevolmente argomentare, se questo termine sia lontano o vicino, perchè sono al buio di tutto; ma penso che ora si corre per i tre mesi, che noi siamo messi al sicuro; penso che, per quanto il termine sia lontano, ogni giorno ne passa uno, e, volere o non volere, sempre più ci avviciniamo al fine. Io bramerei uscirne più per gli altri della mia famiglia, che per me. Io per me sono quasi indifferente; mi son gettato a gatta morta sugli avvenimenti, e vado dove il flutto mi porta; volete, ch'io lotti contro il destino? – non ho nè voglia, nè forza per farlo: il destino è Dio, e l'uomo è un pugno di polvere. Mi dite ch'io vi scriva più spesso. Io vi scriverei volentieri anche ogni giorno; ma che devo dirvi? devo raccontarvi delle novelle? Quando io vi ho scritto che sto bene, non ho più altro da dire. La vita del prigioniere è troppo semplice, è troppo monotona; la vita del primo giorno è la stessa di tutti gli altri che seguono, dovessero moltiplicarsi ancora fino a cento mil'anni. Immaginatevi un uomo solo solo, chiuso in due stanze, e padrone di ventiquattr'ore; che deve fare? mangiare, leggere, e dormire, – dormire, leggere, e mangiare; è un ritornello sempre su queste rime. Ed io di fatti non faccio altro. Mi riesce di stare a letto almeno diciotto ore del giorno, specialmente adesso che il freddo comincia a stringere; e vi confesso, che quando mi levo, invece d'essere un uomo di carne e d'ossa, mi sembra d'essere una balla di stoppa. Ma d'altronde, stare a letto non è lo stesso che stare a sedere? Ho provato a passeggiare per le due mie stanzette, ma quel trovarmi ogni momento colla faccia al muro mi dà la vertigine, e mi conviene a smettere. Io dunque sto quasi sempre a letto. Mi ricordo, che Carlo XII, quando cadde in mano dei Turchi, ci stette un anno di séguito senza mai levarsi; io sento di poterlo emulare; voi vedete, che gli uomini grandi in qualche cosa possono essere imitati dagli uomini piccoli. Noi pure abbiamo avuto i cattivi tempi; un'acqua interminabile, e un vento così feroce, che non faceva stare in piedi le persone. Questa circostanza c'impediva di uscire a prendere quell'ora d'aria, che ci concedono; e di fatti un'ora d'acqua e di vento sarebbe stata una contradizione agli ordini prescritti. Vero è, che questi Signori, avuto un benigno risguardo a tale incidente, ora che il tempo si è rifatto bello ci permettono di respirare un poco più dell'ora destinata. _Et voilà tout._ In questi ultimi giorni mi son fatto venire dei danari dal M.***, ed ho passato venti monete al G.*** Io per ora ne sono sufficientemente fornito. Salutate caramente la famiglia, il B.***, e tutti coloro, che hanno memoria di me, e credetemi _Dalla ***, 22 Novembre 1833._ Il vostro CARLO. VIII. Carissimo Padre Ho ricevuto la vostra del 2 corrente. L'unica cosa, che in essa mi abbia dato veramente conforto, è il sentire, che la salute di mia Madre vada ogni dì migliorando con un progresso positivo. Per le buone speranze che mi date, vi ringrazio sinceramente; e se si verificheranno di fatti, io ci avrò molto piacere: altrimenti non sarà una rovina; – _fiat voluntas Dei_; – io ho coraggio più che taluno non crede. Fondandomi sopra certe probabilità giudico anch'io, che la risoluzione dei nostri processi debba esser vicina; per altro avvertite bene, che risoluzione di processo non equivale a liberazione. Io stimo, che la risoluzione debba esser vicina, perchè adesso corrono quasi due mesi, che i processi sono stati compilati, e non vedrei ragione sufficiente a protrarre più là questo termine, sebbene il mio _non vedrei_ potrebbe essere tutta colpa della mia cattiva vista. Nondimeno mi fido più a questo, che alle belle parole che scrivono la Signora V.***, e il Prete G.*** Cotesto linguaggio di lusinghe e di dolcezze, ricavato dalle Segreterie, ed altri simili luoghi, fu linguaggio tenuto fino da bel principio, ed è naturale; le Autorità interpellate in siffatti casi, sia per gentilezza, sia per calcolo, rispondono sempre umanamente; somigliano i medici, che ai parenti non dicono mai la vera verità. Però mi gode l'animo, che vi giungano spesso di queste buone voci; sono sempre qualche cosa meglio delle cattive voci, o del silenzio assoluto; io son sicuro del buon effetto, che producono sul vostro spirito. Così è; la felicità le più volte consiste nel sapersi ingannare. – Ma, se devo dire il vero, quello che finora non mi ha fatto congetturare un esito vicino delle cose, è il non aver sentito mai intepidirsi d'un alito la crudezza dell'atmosfera, che ci circonda; noi siamo trattati oggi collo stesso rigore, come il primo giorno della nostra deportazione. Questi nostri padroni ci custodiscono come mariti gelosi; e se talvolta abbiamo fatto la minima rimostranza sulle cose le più innocenti, ci hanno sempre risposto: – sono ordini. – Ora voi sapete, che gli ordini muovono dal centro, e che le Autorità intermediarie non oserebbero di alterarli menomamente, o inventarli di motu-proprio. Tutto questo non vuol dir nulla; – una volta finirà la storia, o finiremo noi, che torna lo stesso. Quello però che devo soggiungervi è ch'io sono sbalordito affatto, e mi pare di aver nella testa un molino a vento. Dovete sapere, che casa mia ha delle strane vicinanze; – prima una pila, – poco più là un pozzo, – accanto al pozzo una campana, che, come Dio vuole, fin qui non aveva mai parlato. Di più dovete sapere, che nel Forte dove siam noi non passano altri che l'acqua e il vento, e pochi soldati destinati a guarnirlo; dimodochè, come vi ho già detto, la vita mia è invariabilmente uniforme. Ma in questi giorni ha subíto un cangiamento straordinario. Jeri 5 Decembre a mezzogiorno io me ne stava col capo appoggiato alle ferriate a godermi il benefizio del Sole, allorchè in un tratto vedo comparire un nuvolo di preti in erba, neri, sottili, affilati, non so se dalla fame, o dallo studio; – parevan lanterne; – e dietro a loro una furia di ragazzacci di tutte le razze, di tutti i colori. Alla insolita vista io rimasi di pietra, e mi stropicciai gli occhi credendo di travedere; ma i preti e i ragazzacci eran cose vere e reali, e bisognava crederci, e molto più bisognò credere a quello, che fecero pochi minuti dopo. Arrivati sotto la campana, i preti misero giù la lucerna, i ragazzacci il cappello, o la buffa, e poi tutti in un gomitolo attaccati alla fune della campana cominciarono a suonare a distesa. Lascio considerare ad ogni orecchio bennato l'effetto che ne provai. Sulle prime risi di cuore, perchè lo spettacolo era veramente nuovo, ed originale; ma poi andando per le lunghe quel suono lento, ingrato, uniforme come quando suonano a morto, davvero mi fuggì via quella tanta pazienza, ch'io mi ritrovo; e cominciai a sudare, e a correre su e giù per la casa come un ossesso, perchè veramente non ho mai avuto troppa simpatia coi campanili. Vi fu un momento, ch'io pensai, che fosse stato sentenziato di farmi ammattire. Però seppi dopo qualche tempo esser questa un'usanza del paese e che i così detti scolari per S. Niccolò hanno il diritto di suonare, la vigilia, e la festa del Santo, finchè hanno braccia; e di più, quando sono stanchi, i soldati caritatevolmente vengono in loro soccorso. Fatto sta, che, meno qualche poco d'intervallo, ora è un giorno e mezzo che suonano. Potete credere, che io non vi avrei fatto parola di questa freddura, se avessi migliori cose da dirvi. Frattanto salutate cordialmente la famiglia, e gli amici. Sono _Dalla ***, 6 Decembre 1833._ Il vostro CARLO. IX. Pregiatissimo Signor A.*** È una storia lunga la storia dei miei occhi. Questi occhi stanno irremovibilmente ostinati nel male come se ci stessero bene, e non ho trovato mezzi, nè scongiuri da convertirli a vita migliore. È una storia lunga e bizzarra la storia dei miei occhi. Il male non percorre i suoi stadi regolarmente, come gli altri mali; non procede di grado in grado verso un esito qualunque, buono o cattivo; non si contenta neppure di restar sempre sur un piede; ma si muove a zig-zag in un giro capriccioso, contradittorio, in avanti, in addietro, di su, di giù, da manca, da destra. Oggi, per esempio, mi stanno male, – dimani tra il bene e il male, – dimani l'altro malissimo, – il giorno dipoi si piegano al meglio, – quell'altro giorno rincattiviscono, – il giorno seguente non manca che un soffio a guarire, e chi me li vedesse in quel punto giurerebbe, che fra un'ora sarò libero affatto; ma l'ora non è anche trascorsa, che il male fa un voltafaccia, e si rimette in corso passando per tutte le fasi descritte. Che ne pensa il Signor A.*** di questo labirinto inestricabile? Io davvero non so che pensarne; e se questo giuoco all'altalena me lo facesse il cervello, poco m'importerebbe, perchè avere un cervello fermo, o balzano, non guasta il galantuomo, e in fondo in fondo il cervello è una cosa di lusso, poichè si può fare il giro del mondo senza averne una dramma, e vi sono uomini che arrivano alla vecchiaia senza che abbia reso loro altro frutto, che il dolor di capo. Ma gli occhi! gli occhi sono una cosa seria, e quando io penso all'estreme conseguenze, alle quali si può giungere, mi viene un momento di freddo; e quando io mi rammento, che poco fa tra anima e corpo la parte migliore, ch'io mi avessi, era l'occhio, allora mormoro fra i denti, e guardo tutto a traverso, terra, e cielo. Ma qui, Signor A.***, ci deve essere un circolo magico, che impedisce al male di passare, e andarsene pei fatti suoi; qui ci dev'essere una fata, un folletto, un demonio, un non so che di maligno, e d'invisibile, che mi ha scelto per suo passatempo. Io pagherei uno dei miei occhi, oggi che vaglion sì poco, per sapere a qual misteriosa influenza essi obbediscono. E se la cosa è tale, che ci faremo, Signor A.***? Io in quanto a me non ho nulla a rimproverarmi. Osservo i precetti del Medico come tanti articoli di fede. Per tenere il sangue quieto, ho interdetto tutto, – il vino, la venere, le passeggiate, le passioni, i salumi. Ogni mattina bevo la mia tisana, e non serve; mangio lo zolfo, e non basta; ne ho raddoppiato e triplicato la dose, e non giova; mi son raccomandato a tre o quattro Santi di mia conoscenza, e non si è fatto nulla; ho comprato un paio di occhiali, e questi non portano ad altro, che a farmi vedere il mondo color delle viole, e a rendermi il viso più arabico di quello che me lo fece mia Madre. Dunque, Signor A.***? Oh! davvero era tempo di venire al dunque. Dunque il Signor A.*** passerà quando vuole, e quando se ne ricorda, dal mio banco, a vedere questi poveri occhi così malamente perseguitati. L'intenzione era di scrivere due semplici righe d'invito, ma il caso ha messo insieme più di due pagine, colpa ancora in parte dell'invecchiare che io faccio, in parte della calma beatissima in cui si trova il commercio. 1834? Suo Servo CARLO BINI. X. Ora voi siete veramente infelice, e Dio sa se io adoprerei ogni mia potenza per mutare il vostro destino; ma son uomo anch'io, e debole, e soggetto come tutti gli altri a bere il calice dell'amarezza, e a morire; nè altro posso darvi, che una sterile compassione, e pregare, che l'Oblio diffonda veloce i suoi conforti sopra di voi. La povera vostra sorella, come mi dite, è morta; e questa nuova mi ha fatto piangere il cuore. Nè tanto mi sono afflitto per la povera giovane morta nell'età del riso e delle speranze; perchè anch'io son giovane d'anni, ma così stanco del mondo, che spesso mi trovo a desiderare la morte; e in verità non credo di riposare fuorchè sotterra. Il mio cuore ha pianto perchè ho pensato, che quando Dio manda una sciagura fra gli uomini, questa non percote mai un'anima sola: – ho pensato al dolore dei parenti e degli amici; – ho pensato, che la vostra sorella era madre, – e l'agonia di una madre travagliata dall'idea di lasciare per sempre i figliuoli delle sue viscere è tormento siffatto, che.... E i figliuoli, che crescono senza lo sguardo della madre, non sono educati dall'amore, e quando vengono al tempo del disinganno non si consolano colle memorie felici dell'infanzia, e mai non hanno provato il più tenero sentimento, che agiti l'anima umana; e quando piangono nessuno li acqueta, e quando ridono nessuno risponde al loro sorriso. Io senz'altro vi riesco importuno, perchè il vostro sconforto ora è di tal tempera, che non vuol parole, – ma io non ho potuto fare a meno di scrivervi. E non ho scritto per voi, ma piuttosto per sodisfare a me stesso; – e non vi ho scritto per esortarvi alla forza dell'animo, – perchè io so per esperienza, che la Natura è onnipotente, e vuole i suoi diritti, nè si governa colle ciancie dell'uomo. Ora voi siete infelice, e dovete gemere. Ho sentito dire, che Dio mitiga il vento per l'agnello tosato, e Dio voglia che così sia. Non pertanto l'acutezza del presente dolore col tempo verrà scemando, e voi tornerete allo stato di prima; e il pensiere della morta sorella più che di affanno profondo vi darà soggetto di dolce malinconia; ma da poche vostre espressioni comprendo, che siete destinato a poca gioia nel mondo. E vivete scontento della famiglia, e certo è cosa dura trovare la guerra laddove per ogni ragione dovrebbe trovarsi la pace; oltre di che saprete a prova, che l'uomo tanto ha più trista la vita quanto ha più vaste le facoltà del sentimento e dell'intelletto. Voi non dispererete per questo, perchè senza dubbio siete dotato di vigore corrispondente alle avverse fortune; – e insegnare all'uomo, che bisogna soffrire, parmi quasi inutile: questa è qualità naturale, nè costa fatica a conseguirsi, perchè l'uomo fu animale consacrato alla pazienza. Io posso poco o nulla; e parte per indole, e parte per casi reali, vivo nella inerzia e nello sgomento; ma se credete mai, che io possa valere a nessuno effetto, movete una parola e voi mi troverete sempre il vostro cugino e fratello. 1834? XI. Caro P.*** Ti rimando uno dei tuoi libri, e fra breve spero rimandarti anche l'altro, perchè ne prendo una pozione ogni mattina. Lessi non è molto quel _Mantello verde_ di Clavern, e dacchè leggo non mi sono imbattuto mai in cosa tanto scipita..... Bisogna che tu mi liberi da questo Clavern; se no, l'averlo mi dà la stessa sensazione di un reuma fitto nell'ossa. Vendilo, barattalo, regalalo, brucialo se vuoi, ma io non lo voglio più. V'è un'altra spina, che mi punge. S.*** esulava da ***, e _pour cause_. Si ritirava in ***, dove, per supplire in parte ai bisogni suoi e della famiglia col modo il più onesto che sapeva, disegnava stampare un volume di sue poesie, e le stampava. Poi si raccomandava agli amici per lo spaccio dell'opera. Fra noi ebbero incombenza di questo N., X., ed io. Io ho fatto poco, ma ho fatto quel che ho potuto; X. si esaltò, parlò in stile orientale, promise mari e monti, ma poi non ha venduto nè anche una copia; non ha pensato neppure a comprarne una per sè. – N. è partito precipitosamente, e di certo non ha saputo, o potuto, o voluto consacrare un momento o un pensiere all'amico disgraziato. Intanto il povero S.***, che pensava stampando di galleggiare un tal poco sulla miseria, vi è sprofondato un palmo più addentro. Che si farà egli di tante copie stampate, se la carità degli amici non gliele leva di mezzo? Il suo nome non è un gran nome; le sue cose non sono sublimi; la fama o la moda non può farne oggetto di speculazione libraria; non sono però nè anche cose turpi, o infime affatto, specialmente le Liriche; e a fin di conto sono un onesto espediente adoprato da un uomo di cuore per non ricevere l'umiliazione di un'elemosina nuda nuda. Non facciamo morir di fame chi lavora nella vigna, perchè gli operai si faranno sempre più rari, e poi non è cosa nè giusta, nè prudente. Raccogliamo pertanto le vele: tutto il discorso è per pregarti di vedere, se puoi darmi via una copia, due, tre, quante più puoi, del libro in questione. Il prezzo è quattro franchi, ossia sette paoli; il tomo è in ottavo, l'edizione piuttosto bella. Se ti riesce, l'avrò caro; se non ti riesce, non temere da me l'anatema, perchè so che la buona intenzione non ti manca. _Vale._ 1835. CARLO. XII. P.*** Buongiorno. Perlustrando i banchi di T.*** ho visto una turba di libri tedeschi, e me la sono menata meco. Non so se sieno buoni o cattivi figliuoli; però te ne mando due, che leggerai a tuo bell'agio, e in séguito mi dirai di che si tratta. Che fa A.***? Mi pare un secolo, che io non lo vedo. Come vive, e in che mondo vive? Se vive bene, lascialo stare, che non avesse a perdere il filo; se poi vive male, lascialo stare egualmente, che non avesse a far peggio. Deve operar la Natura. Egli ha sempre un quaderno di mio nelle mani; vedi se ti è possibile di riscattarlo, e me lo renderai quando ti piace. Addio _4 Aprile 1835._ CARLO. XIII. P.*** Eccoti il Manifesto, dove non ho potuto raccogliere che la firma di U. – ***N. mi disse non volerne sapere, perchè opera di un Francese, ragione che può valer qualche cosa, e al tempo stesso non valer nulla; o forse fu ispirazione dell'Aritmetica, che gli sussurrò di non sottrarre quattordici franchi alla massa del patrimonio. – X. sta dietro a farsi marito, nè può badare alle Vergini Muse, che poverette oggi son orfane, e non hanno un padre buono a dar loro una dote di dieci mila filippi. Io non prendo moglie, nè mi tormenta l'ansia d'imporre scudo sopra scudo. No, per l'anima di mia madre! io lo posso giurare; non sono, nè sarò un avaro giammai! I giganti quando accavalcavano monte sopra monte tentavano scrollare il trono di Dio, e l'idea animatrice di quel concetto, temeraria se vuoi, era per altro sublime di una grandezza sì terribile da far palpitare anche il cuore di un Dio; ma l'avaro salito sulla piramide dei suoi mille sacchetti, che pretende dalla terra, o dal cielo? Che vuole? che disegna di fare? Povero avaro! egli è condannato a non poter voler nulla, – ultima miseria dell'anima umana. Ma tregua alle digressioni. Noi siamo d'accordo, – non piglio moglie, e non sono un avaro; – però sono un povero, nè deve parerti strano, chè tu pure in siffatte discipline mi sembri sufficiente dottore. Amo le Muse, è vero, e di candido amore, ma sono inretito in tante e tali traversie, che non posso spendere un soldo per comprar loro un mazzo di fiori ora che è il mese dei fiori, e la Natura li crea ad ogni respiro che muove, e le graziose venditrici te li vengono offerendo col più bel garbo del mondo, e a così poco prezzo. Amo le Muse, è vero, ma non posso dar loro, che un ingenuo saluto, e i profumi di un cuore innamorato. E tanto basti del Manifesto, e così abbia fine l'Idillio. Nei giorni scorsi mi posi a leggere il Wallenstein di Schiller, e mi sono accorto, che per me non è impresa da pigliarsi a gabbo, almeno la prima parte intitolata ― Il campo di Wallenstein. ― Mi riesce a mala pena d'intenderne un verso qua e là, e le altre cose mi rimangono impenetrabili. Credo che lo Scrittore in questa parte abbia usato lingua intima, casalinga, troppo tedesca. Spesso mi sembra proverbiale, e temo, che quasi sempre si valga di un dialetto o di un altro, perchè moltissimi dei vocaboli non li trovo notati sul Dizionario. Se tu potessi procacciarmi una traduzione qualunque, l'avrei caro, perchè veramente il doverlo lasciare così per disperazione è pensiero che mi mortifica assai. Addio. _11 Maggio 1835._ _P. S._ Mi scordavo del meglio. – N.*** M.***, scrive da *** che muore di fame, e si raccomanda alla carità dei fedeli. Vi deve stare cinque anni, come saprai. In società faceva il maestro di scuola, e gli bastava per vivere; – laggiù la professione non corre, ed egli non sa farne altra, e..... Come ti dico, si tratta di fame vera e reale, non di fame figurata. Questo giovane non ha nè roba, nè nessuno, che lo possa aiutare. Ha padre e madre, due miseri vecchi, che adesso andranno a chiedere l'elemosina, perchè, se prima non la chiedevano, era per via del figliuolo. Bisogna fare qualche cosa pur sempre: esser grandi, e buoni, è l'apice degli umani destini; – ma quando non si può altro, siamo buoni almeno, – e quando si vuole è cosa più facile che altri non crede. Vedi se puoi mettere insieme pochi paoli; – tutto fa a chi non ha nulla. Tu conosci qualche signore, e qualche signora; – narra loro il fatto schiettamente com'è. Abbiamo sovvenuto tanti altri, e spesso Dio sa che gente; – e poi erano uccelli di frasca, e non di gabbia, come questo povero diavolo. Non ti dico altro, perchè parmi aver detto abbastanza. Di nuovo, addio. Rammenta ancora ad A.*** questa elemosina. Gliene parlai Sabato; mi fido della sua memoria, ma non troppo della sua attività. XIV. 1. ― M.*** scrive da *** che il 15 di Settembre non avrà più da mangiare. In tale urgenza si rivolge a noi tutti, chiedendo in prestito quattro mila franchi, ed obbligandosi solennemente a render la somma fra due anni. – La persona, a cui più particolarmente fu indirizzata la lettera, vede impossibile effettuare il desiderio di M.***, e propone invece mandargli un migliaio di franchi accattato di porta in porta. – Meditando il fatto più quietamente, possiamo asserire ineseguibile affatto l'idea di M.***? possiamo credere che il mezzo termine proposto supplisca al bisogno, e produca l'effetto voluto? – Quando io rammento l'integrità e l'alterezza d'animo di M.***, penso quanta amarezza di passione gli debbono esser costate quelle poche parole d'inchiesta; sento intimamente che M.*** non può esser disceso a questo, fuorchè per forza d'una inesorabile necessità. Egli non è l'uomo che chieda quattro mila fianchi per metter di mezzo nessuno; – non è l'uomo che chieda quattro mila franchi per andare avanti intanto due anni, e non morire di fame. M.***, è vero, ha bisogno di vivere per ora, ma non è un bisogno di vita brutale come la nostra; è un bisogno di vivere per una sublime intenzione, per una speranza che gli apre l'avvenire, e gli fa veder cose, che i più non vedono, nè possono vedere. Se il disinganno a un tratto gli dimostrasse fallace l'intenzione, che gli alimenta la vita, e gli abbuiasse la speranza, M.*** è tale da farsi saltare il cervello, o tirarsi in un canto, e morir placidamente di fame. – M.*** dunque ha bisogno assoluto, inevitabile, di quattro mila franchi. Mandargli, o, per dir meglio, prestargli di meno, oltre l'essere un assurdo, sarebbe un trattare da ragazzo, da giovanastro scapestrato, un uomo che ha dritto all'amore e alla venerazione di quanti sentono e pensano generosamente. Se egli avesse avuto bisogno di mille franchi, mille ne avrebbe chiesti. La sua natura è troppo semplice e troppo retta, per appigliarsi al miserabile sotterfugio di dire una cosa invece d'un'altra per un pugno di monete più o meno. – Mille franchi dunque non fanno al caso; – un mascalzone senz'altro li prenderebbe, dicendo: è meglio poco che nulla; ma se noi li manderemo al M.***, forse non saprà che farsene; – faremo l'elemosina a chi non l'ha chiesta; umilieremo un nobile spirito; gli rapiremo una delle sue poche illusioni; aggiungeremo un nuovo dolore ai suoi mille dolori. Pensiamoci di nuovo, e sul serio. Si può, si deve dare un rifiuto a M.***, che promette sull'onor suo di render l'imprestito? Io, che lo conosco da lunghi anni, credo alla sua parola più che al mio core, più che un mercante non crede alla firma di Rothschild. Se M.*** non fosse sicuro della sua promessa, avrebbe detto: – datemi, e non – prestatemi. – Di più, fate a tant'uomo l'elemosina, e rifiutategli invece un imprestito, di mezzo a tutto questo traluce così insultante un pensiero di diffidenza, che non può mancare di giungergli amarissimo al cuore: perchè non ci è angolo del mondo, dove non si possano trovare quattro mila franchi in prestito, – perchè tutto giorno ciarlatani, progettisti, e cavalieri d'industria, trovano con poca resistenza migliaia e migliaia di scudi. Il caso è pertanto come io lo presento; noi mostreremo apertamente a questo giovane incontaminato di tenerlo in concetto d'uno scroccone. – Eppure M.*** è un'anima pura, che non può, che non sa concepire un'idea di bassezza; – è una di quelle rare esistenze che Dio suscita di quando in quando per far credere alla virtù sulla terra. – M.*** sarà un nome glorioso; il suo genio, la sua fede, la sua divina pazienza, i suoi patimenti, il sacrifizio di tutto...., lo faranno grande nella Storia non già d'un Popolo, ma della Umanità. Però quando i posteri sapranno, che, dopo aver dato tutto ai suoi compagni d'infortunio, un giorno ebbe fame per sè; che si rivolse ai giovani del suo partito, chiedendo un pugno d'argento per renderlo un tempo; che fra questi giovani v'erano i ricchi, che senza scomodo potevano darlo; che non ostante con mentiti pretesti gli fu negato; – i posteri impallidiranno di vergogna e di paura, e non sapranno come definire questo secolo ipocrita, freddo, e millantatore. A che mena questa lunga cicalata? – tu mi dirai. – A risparmiare un fregio alla dignità umana, se pure si può. – Io disapprovo altamente l'idea della questua, – idea codarda e scompleta. – Nondimeno un partito bisogna prenderlo. Trattandosi di quattrini, lo spirito è ricorso naturalmente a quelli che ne hanno. Eccitando la potenza della visione, me gli sono fatti passare tutti dinnanzi, e ad ogni figura che passava mi veniva una trafitta di freddo. A un tratto non so come il mio Angel Custode mi ha sussurrato all'orecchio il tuo nome. Ho accolto volentieri l'ispirazione, e da parte sua ti domando: – Saresti in grado di far questo imprestito? Ove tu non possa, non ci sarà nulla di male, nè io per questo ti porterò rancore; e allora ci metteremo all'accatto, arrogandoci non so quanto giustamente il diritto di strascinare nel nostro fango uno splendido nome. Ma tu dovrai meco convenire, che certi fatti sono una misura fatale dei tempi, e degli uomini; dovrai convenire, che la nostra è una generazione perduta ad ogni speranza di bene, perchè, non che intendere, ed essersi mandata in sangue l'idea santa, essenziale, del sacrifizio, non sa per anche compitarne il vocabolo. Un rigo di risposta. ― Addio. CARLO BINI. XV. Caro A.*** 2. ― La lettera per M.*** mi è venuta più lunga di quel che volevo. L'ho scritta nella furia del cuore, e ho tutta la massa del sangue alla testa. Leggila, e mandala se credi; o se no, riducila a più giuste proporzioni. Io non spero nulla di buono, e vado convinto, che la faccenda finirà coll'esser trattata _costituzionalmente_. Piango lacrime di sangue per il povero M.***, e non credevo che la Fortuna volesse serbarlo a strazi così disonesti. Siccome il fatto mi sembra grave, e tale da passare fra i documenti della Storia contemporanea, così _gradirei, che della Lettera ne fosse fatta una copia_, per mostrare al mondo occorrendo, che non tutti furono codardi, e brutali, e che se afflitti dalla povertà non poterono aiutare l'amico infelice, dissero almeno una parola franca e generosa. Dura questo poco di fatica per amor mio; chè io non ne posso più. Amami. Addio. CARLO. XVI. 3. ― A.*** mi ha fatto risapere la tua risposta. Parlandoti candidamente, le difficoltà da te opposte non mi sembrano tali da reggere al paragone; mi sarebbe meglio piaciuto, se tu avessi detto: quest'anno io non ho voglia di far certe cose. Anima viva non avrebbe saputo mai nulla del fatto. Io e A.*** siamo temperati a tenere ben altri segreti che questi. Tu mi avresti dato il danaro, io avrei presa una cambiale per ***, e tutto sarebbe stato operato a mio nome. Un silenzio impenetrabile avrebbe coperto la cosa; noi siamo per natura discreti, e il caso presente sarebbe stato per noi un caso di coscienza, d'onore, di religione. Io sono ancora più che convinto, che fra due anni la somma sarebbe stata restituita. Non ho osato offrirti la mia garanzia, perchè, vivo mio Padre, non rappresento nulla nel mondo; ma un giorno spero e credo di aver quattro mila franchi al mio comando; se così ti bastasse, eccomi qua in corpo e in anima ad ogni tuo cenno. Con tutto ciò non pretendo costringerti a fare contro il tuo avviso. Non potrei volendo, e potendo non vorrei, perchè sono un gran partigiano del libero arbitrio. ― E M.*** intanto che farà? Muoia di fame, o si provveda altrove. Soffra come ha sofferto, e duri a soffrire. Egli non ha diritto di sottrarsi a quella legge fatale e perpetua, che condanna al dolore certa specie di spiriti. E così apprenda una volta a conoscer più addentro quella razza, per la quale ha speso il fiore della sua gioventù, la nobiltà del suo ingegno, e il sangue più puro del suo cuore. Della colletta non voglio occuparmi; ci pensi altri più acconcio all'ufficio: io non mi sento in diritto di allearmi nella congiura di avvilire un Amico, che vale infinitamente più di me, e di mille de' miei buoni padroni. Abbi pazienza di questo disturbo, che senz'altro sarà l'ultimo che avrai per parte mia. Sta sano, e addio. 1836? CARLO BINI. XVII. P.*** mio M.*** mi ha fatto quasi ogni giorno i tuoi saluti. Io non ti ho scritto mai finora, perchè i grandi dolori amano specialmente sul principio di esser lasciati soli. Avendo però spesso raccolte notizie di te, e sentendo che il soggiorno di Pisa poco o nulla ti ha profittato, io ti conforto a tornare fra noi, convinto che starai meno peggio. Troverai l'aria più tepida, troverai chi meglio t'intenda, chi simpatizzi meglio colle tue amarezze; e se puoi sperare un sollievo, ti rimane quest'unico, il consorzio dei tuoi antichi amici, la presenza di coloro, che hanno veduto, assistito, e sentito, la sciagura che ti ha percosso. Addio; – noi ti aspettiamo. _16 Febbraio 1838._ CARLO. XVIII. Caro P.*** Finalmente è arrivata la Signora C.***, la quale è voluta partire subito alla vostra volta. Io non ho potuto farle troppe attenzioni, principalmente perchè a stento so spiccicare una parola in Francese. Essa deve avermi trovato naturalmente goffo più ancora di quel che sono. Non vuol dir nulla. Scusatemi presso di lei, e ditele che il buon volere in me non manca mai per nessuno, e segnatamente per una donna raccomandatami con tanta caldezza. E se altra volta c'incontreremo, e ci sarà dato intenderci nella nostra benedetta lingua d'Italia, se non troverà in me la galanteria profumata di Parigi, troverà cuore e cortesia da non lasciarla affatto scontenta. Ma lasciando andar queste inezie, io son qua per voi, per lei, e per tutto il mondo, fin dove le mie forze arrivano. Disponete di me, e credetemi il vostro _Livorno, 3 Agosto 1839._ CARLO. XIX. P.*** . . . . . . . Per me sono già incominciati i giorni neri, ed eccomi già all'_ergo_ di farmi accompagnare per le vie se voglio andare. Ma la mia pazienza è più grande dei miei malanni. La Medicina se ne sta in un canto a viso basso, mortificata, e colle mani in mano. E sì che io non le ho detto mai una parola di rimprovero! Ma tant'è: resteremo soli, io e il Fato, a giuocare tra noi due questa partita di vita, o di morte. I saluti a tutti. Addio. _21 Ottobre 1840._ CARLO. XX. P.*** Eccoti un manifesto del M.*** per la ristampa d'un Dante; e se avrà luogo, sarà ottima spesa. Se puoi firmarti, bene; se no, no. Ma firmato o non firmato rimetti subito il Manifesto nelle mani di S.***, che deve rinviarlo a Londra. Addio. Imprendo nuovamente l'infausto viaggio dell'altra volta per ragioni anche più imperiose. Vado in luoghi strani ed inospiti, tra cattiva gente, tra pessimi affari, e in uno stato di salute, che fa paura. Dio me la mandi buona. L'ombra di N. mi perseguita, e non so come placarla. Io mi abbandono alla corrente senza sapere dove andrò a battere. Di nuovo addio. _16 Marzo 1841._ CARLO. XXI. Signora A.*** Ho ricevuto con grato animo la sua del 28 Luglio, perchè un segno di ricordo da qualche anima buona mi fa sempre bene. Sento, che Recoaro non ha corrisposto alle sue aspettative, e già sapevo, che tutte le acque del mondo servono a poco; ma pensavo, che un giovamento qualunque le sarebbe venuto dal mutare aria, e dal veder cose nuove, e questo in ultimo si farà forse sentire. Io sto anche peggio di quando ci vedemmo. Ciò non vuol dir nulla. Ho misurato tutto, e sono al mio posto. È facile, che dimani, o posdimani, io parta per Roma, se non sorgono impedimenti. È viaggio affatto mercantile, trattandosi di assistere allo sviluppo di certi affari N. – Vedrò a ogni modo la _città eterna_, ma son fiacco, e scuorato, e punto disposto a ricevere in me lo spirito delle grandi memorie. Un bacio a L.***, e mi creda suo affezionatissimo _Livorno, 4 Agosto 1841._ CARLO BINI. XXII. A.*** . . . . . . . Scriverò al Sig. G.*** quanto mi accenni dell'imbroglio B.*** E dalle meschine turpitudini degli umani interessi ascendendo alla solennità del dolore, ti dirò, che del tuo povero Nonno non ho saputo mai nulla. Io son qua dimenticato, come persona già andata al suo destino. Gli uomini badano ai fatti loro, e non li posso biasimare. Nondimeno, se mi fosse stato semplicemente annunziato, che il tuo Nonno era morto, io non mi sarei riscosso per questo, anzi avrei detto fra me: – era tempo che riposasse; – perchè era stanco, e aspettava, e spesso desiderava di riposare. Dico così, perchè egli spesso mi diceva così, e a quell'età non ci è interesse a mentire. Ora però, che tutto è finito, che la carne è morta e impassibile, e che lo spirito è in salvo, dico la verità, duolmi più di voi, che di lui; perchè la morte è come la bevanda amara; – passata la gola non è più altro. Spero però, che il tempo mitigherà il dolore, che la sua morte ha lasciato negli animi vostri, e che da ultimo resterà in voi sola e perenne la fragranza della sua dolce memoria. E credo fermamente, che non ci sia bisogno di pregare per lui, perchè il suo petto racchiudeva tutto quel fiore di bontà, che può germogliare su questa misera terra. E così io pregherò l'anima di quel giusto, perchè preghi Dio prima per voi e poi per me. Altro non posso fare. Addio. _Carrara, 21 Ottobre 1841._ CARLO. XXIII. A.*** . . . . . . . Ho finito di leggere da qualche giorno il discorso del Centofanti[25], e mi dirai per qual modo devo rimandartelo. Questo discorso, che pure è di poca mole, mi ha lasciato un'impressione curiosa, – un'impressione di durata, come se avessi letto almeno due mesi, o un'opera di cinque, o sei grossi volumi. Non saprei distinguere, se ciò dipenda da mente che si disorgana, o se sia segno che il libro fa pensare. Sottosopra mi è piaciuto assai, e quantunque io non abbia coscienza tale di studi da giudicarlo _intus et in cute_, nondimeno mi è parso dettato con intendimenti di critica e di filosofia piuttosto nuovi in Italia. E vi sono tratto tratto pagine generose ed eloquenti, che non tanto onorano l'intelletto dello scrittore, quanto rivelano un bel cuore d'uomo. Mirabile è poi la forza di congettura e d'intuito, onde penetra nel buio di tempi quasi senza memoria, rifabbrica il passato, e dà senso, valore, e sembianza, a cose, che finora parevano vaneggiamenti e capricci. Basta, a me pare un bel lavoro, fatto di buona fede, all'antica. Credo però, che non sarà di lettura volgare, e il libro, sì per lo spirito, che per la fattura, è veramente aristocratico, come sono tutti i libri dove ci è altezza, e novità di teorie, dove c'è condensazione d'idee, e di stile. Aggiungi inoltre, che l'Italia è sempre innamorata del suo dolce _far niente_, sempre supina a bere l'oblio di tutte le cose, sempre ripugnante a ruminare il forte cibo della sapienza......... _Livorno, 30 Aprile 1842._ CARLO. XXIV. Signora A.*** Un Poeta in tutta l'estensione del termine, perchè muore anche di fame, chiede l'elemosina ai suoi amici. E quì sta l'imbroglio, – di trovare cioè gli amici d'un uomo, che muore di fame. – Ma _butta in mare, e spera in Dio_, dice il proverbio dei marinari. Il povero Poeta è N., che forse Ella avrà sentito nominare; uomo,..... cui la Natura fece molti doni di cuore e d'ingegno, senza dargli però un fiato, un atomo, di quel _terribile giudizio_ che sa fare i fatti suoi. E però oggi si trova a stender la mano, e per giunta è malato di malattia della quale forse non guarirà mai. E però io lo raccomando alle di Lei carità; e se Ella e i suoi amici potranno far qualche cosa, io gliene saprò grado per conto del povero Poeta, e per conto mio, quantunque egli si sia indirizzato per chiedere aiuto a T.*** G.***, e questi poi si sia rivolto a me. Intanto abbia pazienza del disturbo, e mi creda _2 Settembre 1842._ Suo Devotissimo CARLO BINI. XXV. Signora A.*** Ho sentito da M.***, che riguardo a N. Ella penserebbe di fare un foglio. Io veramente me la dico poco coi fogli, e credo, che in ogni caso, e specialmente in questo, la parola viva e sentita possa più assai che tutti i mezzi dell'arte. Ma poichè s'ha da scrivere, io stimo più espediente copiare tale e quale la lettera di N., che le rimetto qui acclusa. Sono poche righe, ma vere, e stringenti; e se queste non valgono, le mie e quelle di qualunque altro varranno anche meno. Ella pertanto, che è così buona, veda di persuadere quanti più può a firmare sotto la lettera del povero N., ma quello che importa è di far presto, anzi prestissimo, a riscuotere il danaro, e farglielo avere, perchè il bisogno ha furia, e conta le ore e i minuti. Spero che tra tutti faremo qualche cosa per questo disgraziato; ma quando poi non riuscissimo a buon porto ci vorrà pazienza, ed io scriverò direttamente a N., che _i suoi buoni amici di Livorno_ hanno rigettato il suo appello, e confermano la sua sentenza di morte di fame. Io tra qualche giorno dovrò partire per miei affari; e se questo negozio non fosse anche perfetto, allora lascerò le mie istruzioni a M.***, perchè tutto vada il meglio possibile. Mi creda _Livorno, 5 Settembre 1843._ Suo Devotissimo CARLO BINI. XXVI. T.*** Ebbi per tempo la grata tua con quella del povero N., ed egli non poteva scegliere il miglior momento per morire di fame. A.*** mi ha detto, che non deve dar nulla, e per conseguenza non ha dato nulla. Ho fatto un appello ai poveri, e come ragion vuole mi hanno dimandato se avevo da dar loro qualche cosa; – ho chiesto ai ricchi, e mi hanno risposto peggio dei poveri. In somma è un affaraccio, e in tanti giorni ho raccolto forse sei o sette scudi. Non per questo mi fermerò, e spingerò le cose fin dove possono andare. La mia salute non vale un quattrino, e la mia testa è un mucchio di rovine. Pure per veder di dare una mano al povero N., ho preso a tradurre dal Tedesco certi articoli intorno al Sismondi per convertirne il ricavato a pro del suddetto; e credi, che se avessi avuto un cento di scudi glieli avrei dati volentieri, piuttosto che soffrire una fatica così sanguinosa, una fatica che finisce di mandarmi in polvere il cervello. Addio. Credimi _Livorno, 14 Settembre 1842._ Il tuo Affezionatissimo CARLO. XXVII. Gentilissima Signora A.*** Vengo a prender commiato da Lei, perchè certi affari mi cacciano fuori di casa. Vado via in cattivo arnese, e chi sa come ritornerò, o se resterò per la strada. _Fiat voluntas Dei._ Saluterà pertanto G.***, e il Sig. P.***, al quale auguro una sollecita guarigione, e godrò al mio ritorno di trovarlo perfettamente rimesso in buona salute. A Lei non dico nulla, se non che, quando avrà terminato tutte le faccende, si rammenti qualche volta di me. Andando a Lucca, come farò tra qualche giorno, farò i di lei saluti all'ottimo nostro B.***, e a quella buona creatura della Signora V.*** La questua per il povero N. finalmente è finita, e facendo un po' di tutto abbiamo raccapezzato sopra Lire 400, e ho incaricato P.***, perchè le mandi. Il merito principale di questo negozio per altro è da attribuirsi a X., che ideando la traduzione del _Sismondi_, e stampandola, e distribuendola con molte fatiche e disgusti ha messo insieme il nerbo vero di questo soccorso, perchè senza il _Sismondi_ eravamo a poco più di cento Lire.......... Se vuol conoscere il mio itinerario, eccolo: dimani a Pisa, dove starò tre o quattro giorni; poi a Lucca, quindi nella Provincia Lucchese, e di là a Massa e Carrara, che è la Mecca dei miei malaugurati pellegrinaggi. Metto fine alle ciarle; mi creda suo affezionatissimo _Livorno, 12 Ottobre 1842._ CARLO BINI. FRAMMENTI Io sento, parlo, e scrivo, senza studio, come l'anima detta, ma io son sicuro oramai di quest'anima mia: – conosco fin dove può salire, fin dove può scendere: esiste in me una forza d'impulso, che mi spinge avanti gran tratto, ma poi si sviluppa prontissima una forza di resistenza, che mi rimette nei giusti limiti; e questo contrasto di forze diverse fra loro, sovente per me doloroso, è quello però che mi ha salvato finora da qualunque bassezza. Non pensate; io soffro, ma son forte. Educato per 30 anni nello sconforto, la mia anima ormai sa comprimere il suo gemito immenso, – la mia testa porta fieramente il dolore, come un re la corona. E i miei patimenti sono di tal sorta, che il volgo non li saprebbe intendere, o li deriderebbe. Ecco l'anima mia: – un anelito eterno all'amore puro, santo, ideale; – un cuore nato a sentire quanto di bello e di armonia Dio sparse nell'universo; – un intelletto severamente educato a comprendere il vero; – una coscienza dignitosa, e superba di sentirsi incontaminata; – e tutto questo messo a contrasto con una società misera, corrotta, incredula, e da me conosciuta nelle sue più riposte viscere. Questo è il segreto del mio dolore. Non vi dia noia il mio _gran talento_. Egli è una povera cosa questo mio _gran talento_, ed io ne ho fatto sempre così poco conto, che non l'ho mai adoperato. La scienza le più volte è una fastosa impostura. Io ho vegliato lunghe notti sui volumi della sapienza antica e moderna, e li ho richiusi sospirando; – il velo del mistero era più fitto di prima. Oh! questo mio _gran talento_ mi fa pietà. Forse volendo avrei potuto scrivere dei libri; ma questo a che buono? Il mio ingegno irritandosi nelle condizioni presenti si sarebbe scaldato a quel grado di valore, che genera il fulmine, – avrebbe maladetto, fulminato la razza umana. Ma il mondo non è contristato abbastanza? Il mio carattere è forte, severo, passionato, – disprezza le forme esterne delle cose, – attende solo allo spirito; – non si contenta, che del vero, e aborre mortalmente la civetteria d'ogni specie. – Il mio carattere è al tempo stesso cavalleresco, – la Donna non ha nulla a temere da me, – il culto della Donna è per me santo, solenne; – e quando io non potessi più amarla, nè stimarla, saprei pur sempre compatirla sinceramente. La mia fantasia percorse come ape a succhiare i fiorì più eletti della Bellezza, che la mano di Dio profuse sull'universo, e formò una creatura coll'ale d'angiolo, vestita dei ricchi colori del firmamento, coronata di stelle, armoniosa delle armonie, che suonano in cielo. Bella e cara creazione, che alla perfetta natura dei celesti univa quanto ha di simpatico, di buono, di grande, la natura mortale! Bella, perfetta, e cara creatura, anello intermedio fra il Cielo e la Terra, tipo d'un angiolo nuovo, che Dio deve aver rimirato con compiacenza, e accolto nell'eterna sua mente, per riprodurlo in un mondo migliore. * * * * * Le lagrime d'un _angiolo_ lavano le colpe dei mortali, e fanno fiorire le rose del Paradiso nel fango di questo mondo. Considerato tutto, gli uomini valgono assai meno delle Donne. Vantano senno, forza, e mille altre qualità, che poi all'occasione non hanno. Dove abbiamo noi la dolcezza, il coraggio, la celeste pazienza, che in certe epoche della vita fanno sublime la Donna? La Donna sola intende pienamente la santa virtù del sacrifizio; – l'uomo non saprà mai amare come la Donna. Quando la Donna ama veramente, sa e può amare come l'uomo non saprà mai. In questo la Donna è d'un tessuto assai più fine dell'uomo; – tutta l'anima sua è una melodia d'amore, dolce, profonda, perenne. La donna è un raggio creato da Dio per fare il chiaro fra l'ombre cupe, feroci, di questo mondo. Quando parlo così, però non intendo di tutte, – intendo della Donna pura, cara, gentile. _Donna anima._ Il volgo afferma, che la Donna dura meno in amare. Io non ci credo. La Donna non è stata anche compresa, che da pochi cuori intemerati, sublimi; e come creatura debole, inerme, è stata sempre oppressa, calunniata. E se la Donna talvolta dura meno in amare, è perchè l'uomo spesso riprende troppo presto gl'impeti della sua natura brutale, cessa troppo presto di meritare il suo amore. Una Donna fragile, leggiera, spensierata, può mettere il delirio in un cuore potente, la confusione in un forte intelletto, fiaccare, ridurre in polvere una volontà di ferro; e tutto questo conseguirlo senza disagio, senza perdere un minuto di sonno, con quella stessa _nonchalance_ con che si appunta una spilla. Prima causa della pessima educazione delle Donne sono gli uomini, i quali non sanno o non vogliono mai dir loro la verità; – le adulano a torto e a diritto, tanto per sedurle; – poi quando son sazi, e si saziano presto, le lasciano infelici e corrotte senza rimedio. Succhiato l'arancio, gettano la scorza. Le accuse continue che gli uomini fanno alle Donne, e le Donne agli uomini, sono piuttosto ridicole, che vere. Uomo e Donna non possono esistere isolati, – ambedue compongono un essere completo: ora la Natura non può aver creato un essere mezzo buono, mezzo cattivo. Quest'essere diviso in due parti non può comporsi, che d'elementi consimili, omogenei; – noi abbiamo pregi, difetti, e qualità comuni, – quindi l'obbligo di tollerare, di compatire, di giudicare con senso di carità. * * * * * Io non cerco nell'Amore piaceri caldi, inebbrianti, ma gioie modeste, asperse di una dolce malinconia. La malinconia è una cosa santa; è l'eco di un'armonia, che suona nei cieli; è un sentimento, che profuma l'Amore, e lo fa incorruttibile. L'Amore profondo si fa sentire più da lontano che da vicino. Questa legge morale è connessa forse a quell'altra legge fisica, per la quale i grandi colossi acquistano proporzioni armoniche, e piacciono all'occhio a grande distanza, ed una forte musica riesce soave e deliziosa sentita ad una certa distanza. * * * * * Nelle cose d'affetto, meno che si pensa, meno che sì calcola, meno che si disegna, meglio è. – Sentire, e sempre sentire, ma senza prevenzione, alla buona, all'italiana d'una volta, – quest'è l'anima, l'essenza dell'Amore. L'Amore non ragiona, non fa di conto, non vede, – e per questo gli antichi lo dipinsero cieco. A me piace più l'espressione calda, fanatica, baccante, dell'anima commossa, che il tono freddo, compassato, cattedratico, della ragione, – cosa tanto vantata, e così poco definita; cosa, che vale assai meno della sua riputazione, che tutti più o meno posseggono nei tempi ordinari, che tutti più o meno perdono nei tempi straordinari, come ognuno ha il polso regolare quando è sano, e l'ha troppo celere quando lo investe la febbre. * * * * * Io non mi fido dì quelli, che stringono la mano a tutti, che si chiamano amici di tutti; – il cuore umano non si può così spicciolare; non può, e non deve bastare a tutti; – ma può aversi, ma è necessario avere un amico, e all'uopo conviene fare per lui dei nobili sacrifizi. * * * * * Chi non presume troppo di sè deve lasciarsi portare dal fiotto degli avvenimenti, senza mormorare, senza bestemmiare, adorando un ordine di cose, che vede, che sente, ma non comprende. Che diritto ha il verme di giudicare i fini e gli andamenti della Mente Eterna, che nell'immenso creato governa con egual bilancia il moto d'una stella, e il nascere, il crescere, il cadere, e il trasformarsi, d'un fiore fugace, d'un povero filo d'erba? * * * * * Non dee far maraviglia, se talvolta l'uomo generoso di cuore e d'intelletto assume una maschera, e cela le sue schiette sembianze; – la colpa è del mondo stupido e miscredente, nel quale è condannato a vivere. * * * * * I Tedeschi non fanno mai di quei libri facili, trasparenti, spumosi, oppio vero dell'anima: i Tedeschi fanno pensare, e tengono l'anima del Lettore in piedi da mattina a sera. * * * * * La felicità sarebbe facile a conseguirsi, se il mondo osservasse la legge di amore, d'armonia, d'attrazione, che Dio impresse nel creato; se permettesse che ogni anima gravitasse liberamente al suo centro. * * * * * Non è il cuore l'organo il più prezioso, quello che decide sempre i destini della vita? E le grandi opere, i grandi pensieri, non vengono tutti dal cuore? E le questioni le più solenni, che travagliano il genere umano, non sono tutte questioni di cuore? Nè potranno sciogliersi, che dal cuore, perchè la mente da secoli vi si affatica indarno. * * * * * Adoriamo il dolore. Le anime, che non sono tutte di terra, hanno per distintivo il dolore, – sentimento che le raffina continuamente, che le innalza sempre più verso il cielo, che svela loro l'esistenza di mondi non pensati, e non creduti dal volgo; sentimento, che in mezzo alle sue amarezze contiene certe voluttà sacre, indistinte, velate, baleno delle gioie che Dio riserba alle anime provate su questa terra. Adoriamo il dolore. NOTE: [24] _L'epigrafe che precede queste Lettere spiega l'intendimento nostro nel pubblicarle: se non ci proponemmo principalmente di offrirle come dimostrazione d'ingegno, molto meno abbiamo mirato a metterle in luce come documenti, che per avventura potessero riuscire o lusinghieri o spiacevoli altrui. Quindi abbiam lasciato solo la iniziale dei nomi, e sostituito talvolta alla vera la generica N, od un X. Ogni discreta e gentil persona non vorrà, lo crediamo, disapprovare tale ommissione._ [25] Sull'indole e le vicende della Letteratura Greca, Discorso di SILVESTRO CENTOFANTI. – _Firenze 1841._ SECONDA PARTE. TRADUZIONI. LA VITA E LE OPINIONI DI TRISTANO SHANDY ― _DI LORENZO STERNE_ ― I. STORIA DI YORICK. Aguzza quì, Lettor, ben gli occhi al vero; Che 'l velo è ora ben tanto sottile, Certo, che 'l trapassar dentro è leggiero. DANTE, _Purgatorio_. Yorick nominavasi il parroco, – ma devi notare, (come apparisce da notizie antichissime di famiglia scritte in pergamena, e ben conservate,) che tal nome era stato pronunziato appunto in quel modo per quasi.... io stetti per dire 900 anni: ma perchè riferendo una verità improbabile, sebbene di natura sua fuor di quistione, non vorrei perderci di fede, mi appagherò soltanto del dire, che quel nome era stato pronunziato appunto in quel modo per non so che spazio di tempo; nè tanto oserei dire per la metà dei cognomi del regno, che nell'andar degli anni hanno sostenuto tante vicende quante coloro cui appartenevano. Daremo questo all'orgoglio, o alla vergogna delle persone che li portavano? A dirla schietta, io tenni conto dell'una e dell'altra causa, secondo che la tentazione operava. Ma egli è mal fatto: – un giorno verrà a mescolarci tutti così confusamente, che uomo non potrà levarsi a giurare, che l'avolo suo fece questo o quell'atto. La famiglia di Yorick aveva riparato a questo male, prudentemente conservando a guisa di religione le memorie da me citate, le quali di più c'informano, che l'origine della famiglia fosse Danese, trapiantata in Inghilterra fino dai tempi di Horwendillus Re di Danimarca, e pare, che a quella corte un antenato donde M. Yorick discendeva dirittamente tenesse carica riguardevole; – solo aggiungono, che già da due secoli era stata abolita, come inutile affatto in quella e in ogni altra corte del mondo cristiano. Spesso mi è passato per la mente, che la carica fosse quella di primo buffone del Re, – e lo Yorick nell'Hamlet del vostro Shakespeare, – che ha moltissimi drammi fondati nel vero, – era di certo lo stesso. Io non ho tempo di svolgere la Storia Danese di Sasso Gramatico per saperne la verità, – ma se i miei hanno agio e facilità di procacciarsi quel libro, lo facciano di per se stessi. Ebbi però tempo ne' miei viaggi di Danimarca, e tanto bastommi, di provare la verità di una osservazione fatta da tale, che dimorò lungamente in quella contrada, cioè, – che la natura non era nè troppo larga, nè troppo avara, nei presenti d'ingegno e di capacità agli abitanti di quel paese; – ma, simile a madre discreta, era modestamente liberale verso tutti, osservando tanta eguaglianza di misura nel dispensare i suoi favori, che a fin di conto gli uni non la cedevano agli altri. Tu rinverrai pochi esempi in quel regno di mente elevata, – ma in tutte le classi del popolo una dovizia di buono, semplice, e domestico intendimento, – e ciascuno n'ha la sua parte, – e questa parmi cosa ben dritta. Ma con noi le cose procedono ben di altro passo, e in questa faccenda tocchiamo il fondo, e la cima: – o voi siete un genio, o scommetto cinquanta contro uno, che voi siete, o Signore, uno stupido al di là dei confini, e una zucca da sale; – non già che manchino al tutto i gradini di mezzo, – noi non siamo irregolari di tanto; – ma gli estremi sono frequentissimi, e condotti ad altissimo punto in quest'isola instabile, dove la natura nelle sue doti e disposizioni di simil sorta è bizzarra, e fantastica in modo, che la fortuna stessa non è più di lei stravagante nel lascito dei suoi beni. Tutto questo mi fece dubitar sempre della discendenza di Yorick, e da quanto mi ricordo di lui, e da tutte le notizie che ho potute raccogliere, pare che non avesse nelle vene neppure una goccia di sangue danese; – forse in 900 anni era tutto svaporato; – ma non voglio filosoficarci un momento: – sia che può, il fatto era questo; in vece di quella flemma ed esatta regolarità di sensi ed umori, che ti saresti aspettato in uno della sua origine, era all'incontro una composizione tanto mobile e sublimata, – una creatura tanto eteroclita nelle sue declinazioni, – e aveva in sè tanta vita e capriccio, e _gaïté de coeur_, come se fosse il figlio d'un cielo ardentissimo. Con tanta vela il povero Yorick non portava un'oncia di zavorra; – non era pratico in nulla del mondo, e a ventisei anni sapeva guidare in esso il suo corso come un'ingenua fanciulla di tredici; talchè al primo mettersi in mare, immagina pure, che il vento fresco de' suoi spiriti dieci volte al giorno lo facesse impigliare nelle sarte di alcun navilio: – e perchè navigando gli occorrevano più di sovente quei gravi e lenti all'andare, immagina pure, che con questi voleva la sventura che restassesi sempre intricato; e, se non m'inganno, in fondo dovevano avere un non so che di maligno, poichè Yorick per natura ripugnava invincibilmente alla gravità; – non dirò in certo modo alla gravità, – perchè, se bisognava, era Yorick, il più grave e il più serio di tutti i mortali, a giorni, e settimane intere, – ma era nemico alla di lei affettazione, e la guerreggiò apertamente, perchè copriva di mantello l'ignoranza, e la stoltezza, – e quante volte la incontrava per via, benchè difesa e protetta, di rado le usava mercede. Forse ragionava strano, ma spesso dichiarava la gravità un pretto furfante, e pericoloso d'assai, – soggiugnea, – perchè scaltrito; e veracemente credeva, che ella avesse giuntate dei beni e del danaro più oneste persone in un anno, che i tagliaborse e i mariuoli non fecero in sette. Dicea, che l'indole aperta rivelata da un cuore allegro non facea male a nessuno, fuorchè a sè stessa, – mentre nella gravità vivea per anima il disegno, – e quindi l'inganno; – era una frode ben disposta a guadagnarsi nel mondo stima di senno, e di sapere oltre il merito, – e con buona pace di tutte le sue pretensioni non era migliore, ma sovente più trista, di ciò che l'ebbe definita non è gran tempo un bell'ingegno francese: «un misterioso portamento del corpo per velare i difetti della mente.» E dicea Yorick, con molta imprudenza, che quella definizione meritava di scriversi in lettere d'oro. Ma era indipendente, e inesperto del mondo, e lasciavasi andare agli scherzi in qualunque argomento di discorso la prudenza avrebbe usato ritegno. Yorick non sentiva che una impressione, – e quella emergeva dalla natura del fatto, – e la traduceva in chiaro Inglese, senza perifrasi, e spesso senza risguardo alla persona, al tempo, o al luogo; – onde se rammentavano un atto meschino o codardo, non pensava un momento all'eroe, o al suo stato, o se potesse nuocergli appresso; – ma se l'atto era vile, senz'altro l'uomo era vile, – e così di séguito. E la sciagura voleva, che d'ordinario i suoi commenti finissero in un _bon mot_, o fossero via via ravvivati da qualche facezia, o festività di espressione, e questo cresceva l'indiscretezza di Yorick. Certo non le cercava, ma però non fuggiva le occasioni di dir quanto cadeva in acconcio, e senza rispetti; – così non n'ebbe in vita sua che troppi incitamenti a spandere il bell'umore, e le arguzie, e i motteggi, e le beffe, e non andò nulla perduto per mancanza di chi raccogliesse. Ora ne intenderete le conseguenze, e come Yorick avesse fine. Coloro che danno e tolgono ad usura differiscono fra loro nella durata degl'interessi, quanto nella durata della memoria il beffatore e il beffato. E quì, secondo gli Scoliasti, il paragone cammina su tutte e quattro le gambe, che vuol dire una gamba o due di più, che non hanno alcuni dei migliori paragoni d'Omero; ed è, che l'uno piglia a prestito una somma, e l'altro suscita una risata a vostre spese, e più non ci pensano. Ma gl'interessi corrono tuttavia nell'uno, e nell'altro caso, – e i pagamenti, che se ne fanno periodici, o casuali, bastano a tener viva la memoria dell'affare, finchè l'ora trista non giunga, che il creditore sopravvenga improvviso a ciascuno, e, dimandando all'istante il capitale coll'usura sino a quel giorno, faccia sentir la gravezza del debito. Il lettore conosce nell'intimo la umana natura, (a me non piace dubitarne,) e però gli basti che il mio eroe non potè seguitar quella corsa senza un lieve saggio di questi ricordi. E' s'era avviluppato sbadatamente in una gran rete di siffatti debituzzi, che dispregiava soverchio, – nè valeva nulla il consiglio d'un amico suo dolce chiamato Eugenio, – e stimava, che non avendoli contratti per malignanza, ma invece per onestà d'intenzione, e per mera allegria di spiriti, naturalmente verrebbero tutti cancellati. Eugenio pensava di no, – e dicevagli spesso, che un giorno o l'altro sarebbe certamente chiamato ai conti; e sovente aggiugnea, col mestissimo accento di chi teme una sventura, – sino all'ultimo picciolo. – E Yorick al solito non curando sempre rispondeva: – oibò! – E se la questione si ventilava ne' campi alla fine rispondea con un salto, o uno scambietto: – ma se in un canto del socievole camino al reo facevano barricata una tavola, e due seggioloni a bracciuoli, tanto che non potesse fuggirsi d'un tratto, Eugenio continuava la sua lezione intorno alla discretezza in parole siffatte, ma un po' meglio acconciate. ― Credimi, Yorick mio, che la tua malaccorta piacevolezza o presto o tardi ti legherà in tanti nodi, che poi non varrà il senno a strigartene. In questi casi ho veduto sovente, che la persona derisa si considera sotto l'aspetto della persona ingiuriata con tutti i diritti che da quella situazione le spettano; – e se tu pure la vedi in quello aspetto, – e noveri gli amici, la famiglia, i congiunti, gli alleati, – e passi in rivista le molte reclute, che vanno alle sue bandiere pel sentimento del comune pericolo, non è calcolo esagerato a dire, che per ogni dieci motti ti sei guadagnato cento nemici, – e finchè non sei giunto a tale da sollevarti d'intorno alle orecchie uno sciame di vespe le quali mezzo ti pungano a morte, non andrai mai persuaso. Dio mi guardi dal sospettare, che l'uomo da me stimato si muova alli scherzi per dispetto, o malignità d'intenzione; – so, e credo sinceramente, che sieno onesti, e detti a modo di sollazzo. Ma poni mente, amor mio, che gli stolti non possono distinguere, e i furfanti non vogliono: e tu non sai quanto importi provocar gli uni, o prendersi giuoco degli altri; e qualunque volta si uniscano a difesa scambievole, abbi per fede, amico mio, che ti guerreggieranno in maniera da fartene il cuore malato, e con pericolo ancora di vita. La vendetta da qualche angolo segreto spargerà di te novelle d'infamia, – nè ripareranno l'innocenza del cuore, la integrità del costume; – le tue sostanze verranno a mancare, – e malignando sui mezzi che un dì ti procuravano, la tua riputazione darà sangue da tutte le parti; – la tua fede sarà posta in dubbio, – smentite le opere, – dimenticato l'ingegno, – e la dottrina tenuta a vile. A chiudere l'ultima scena della tragedia, la crudeltà, e la codardia, scellerati gemelli condotti a prezzo dalla malizia, e incitati nelle tenebre, prenderanno insieme la mira a tutte le tue debolezze, ed errori, – e gli ottimi di noi, amor mio, vi stanno soggetti; – e credimi, credimi, o Yorick, allorquando per lusingare un privato appetito si deliberi il sacrificio d'una creatura innocente, ed inerme, è facile di raccogliere stecchi per ogni macchia dove ella ha traviato, onde accendere un fuoco, – e bruciarvela sopra. ― Yorick intese il vaticinio dei suoi destini, e nell'atto con una lacrima furtiva, accompagnata da uno sguardo di promessa, dispose per l'avvenire di correre più misuratamente l'arringo. Ahi troppo tardi! Innanzi del presagio erasi collegata una forte alleanza dei suoi nemici, e l'assalto, giusta la predizione d'Eugenio, fu dato in un tratto, e con sì poca mercè dalla parte degli alleati, – e con sì poco sospetto in Yorick di quanto gli tramassero, – che quando quell'ingenuo avvisava ricevere il premio ai suoi meriti, omai l'avevano scosso alla radice; – cadde, e in quella guisa, che molti valentemente erano caduti prima di lui. Ma Yorick combattè per un tempo con tutto il valore possibile, – finchè sopraffatto dal numero, e in ultimo affranto dalle calamità della guerra, ma più ancora dalla maniera codarda onde facevasi, gittò la spada, e in vista fece animo sino agli estremi, ma credono tutti che l'uccidesse il cordoglio. E quanto segue piegava Eugenio alla medesima opinione. Poche ore avanti che Yorick esalasse l'anima, Eugenio entrò nella stanza per vederlo l'ultima volta, e dargli l'ultimo addio. Nel tirar le cortine gli domandò come stesse; – e Yorick guardandolo in faccia gli strinse la mano, – e ringraziandolo dei molti segni di amore a lui dimostrati aggiunse, che, se il fato li faceva incontrare nell'avvenire, lo avrebbe più e più sempre ringraziato; e disse, che di lì a brevi ore sarebbesi involato in eterno ai suoi nemici. ― Spero di no, – rispondeva Eugenio col più tenero accento di voce, che uomo parlasse giammai, e le lacrime gli scendevano giù per le guance, – spero di no, Yorick mio. ― Yorick rispondeva elevando lo sguardo, e premendogli gentilmente la mano, – e nulla più: – ma questo dirompeva il cuore di Eugenio. ― Su via, Yorick, – riprese quest'ultimo asciugandosi gli occhi, e facendosi cuore, – confortati, amor mio, nè li spiriti e la fortezza ti abbandonino al maggior uopo; – chi sa mai quanto possano operare per te i rimedi, e la potenza di Dio? ― Yorick si pose una mano sul cuore, e crollò un tal poco la testa. ― Per la parte mia, – continuava Eugenio, e piangeva amaramente in mezzo alla parola, – per la parte mia non so come da te dividermi, e di buon grado lusingherei le mie speranze, – seguitava rallegrando la voce, – che di te avanzerà tanto da farne un vescovo, e io vivrò tanto da vederlo. ― Io ti prego, – favellò Yorick, levandosi alla meglio di capo il berretto da notte colla manca, perchè la destra avea sempre stretta da quella d'Eugenio, – io ti prego a guardarmi un poco la testa. ― Non vi scerno cosa che l'offenda, – rispondeva l'amico suo. ― Ahimè! io vo' che tu sappi adunque, – riprese Yorick, – ch'ella è sì mal concia e sformata dai colpi che i miei nemici le dettero così villanamente all'oscuro, che potrei dire con Sancio Panza: – «se mi riavessi, e dal cielo mi cadessero sul capo le mitre spesse come la gragnuola, neppure una gli potria convenire.» ― L'ultimo fiato di Yorick a queste parole pendeva pronto a fuggirsi dalle sue labbra tremanti, – ma tuttavia le profferse in un suono, che sapea di maniera _cervantica_; – e mentre parlava, Eugenio vide accendersi per un momento in quegli occhi una striscia di fuoco lambente, scarsa immagine di quelle vampe di spirito, che solevano, a quanto disse Shakespeare dell'antenato suo, eccitar la gioia del convito. Eugenio si convinse, che il cuor dell'amico fosse spezzato; – gli strinse la mano, – e poi adagio adagio uscì della camera, e piangeva all'andarsene. Yorick seguitò cogli occhi Eugenio sino alla porta, – quindi li chiuse, e mai più non li riaperse. Ei riposa sepolto in un angolo del suo camposanto sotto una semplice pietra di marmo, che l'amico Eugenio con licenza dei curatori gli poneva sulla fossa con queste tre parole d'iscrizione, che servono a un tempo d'epitaffio, e d'elegia: ---------------------- | AHI POVERO YORICK! | ---------------------- Dieci volte al giorno lo spirito di Yorick si consola a sentir leggere la sua funeraria iscrizione con tanta varietà di lamentevoli accenti, che per lui dinotano stima, e pietà universale; – e perchè un sentiero attraversa il camposanto, da quel lato appunto dove è la sua fossa, non passa di lì viandante che non si fermi, e non vi getti uno sguardo, e non sospiri partendosi; AHI POVERO YORICK ― 1829[26] ― II. IL NASO GROSSO. RACCONTO DI SLAWKENBERGIUS.[27] Finiva un giorno affannoso degli ultimi d'Agosto, e cominciava a spirare il fresco della sera, allorchè un Forestiere entrava nella città di Strasburgo, montato sopra una mula nera, e a tergo una valigia con poche camicie, un paio di scarpe, e un paio di brache di seta chermisi. E, passando le porte, al dimandar della sentinella rispondea, che era stato al Promontorio dei Nasi, – che andava a Francfort, – e sarebbe tornato fra un mese per viaggiare alle frontiere della Crimea. La sentinella guardando in viso il Forestiere sclamava: – poffare Dio! non ho veduto un tal naso a' miei giorni. ― Me ne trovo assai bene, – rispondea il Forestiere; e si trasse la mano dal cinto donde pendeva una scimitarra, e la si pose in tasca, e tutto cortese toccando con la manca la parte davanti del cappello stendeva la destra, mettendo in mano alla sentinella un fiorino, e seguitava la via. ― Duolmi, – disse la sentinella drizzando la parola a un tamburo nano della statura, e storto delle gambe, – che un'anima tanto gentile abbia perduto il fodero della sua scimitarra; nè per viaggio potrà farne a meno; nè in tutto Strasburgo troverà fodero che le si adatti. ― Non l'ebbi mai, – ripigliò il Forestiere, volgendosi indietro alla sentinella, e mettendosi in questa la mano al cappello; – e la porto, – continuava, alzando nuda la scimitarra, e intanto la mula movea lentamente, – e la porto a difesa del mio naso. ― E lo merita bene, o Forestiere cortese, – diceva la sentinella. ― Non vale un bagattino, – disse il tamburo dalle gambe storte; – è un naso di cartapecora. – Da uomo onesto, – riprese la sentinella; – fuorchè sei volte più grosso, è un naso simile al mio. ― L'ho sentito scricchiolare, – favellava il tamburo. ― Cappita! – disse la sentinella; – ho veduto ben io, che sanguinava. ― Peccato, – sclamò il tamburo dalle gambe storte, – che nol toccassimo tutti e due! – E mentre la contesa durava tra la sentinella e il tamburo, la stessa quistione agitavasi fra un trombettiere e la moglie sua, che per via si erano fermati a veder passare il Forestiere. – Dio ci salvi, che naso! è lungo come una tromba, – disse la moglie. ― E dello stesso metallo, – aggiungea il trombettiere, – come puoi giudicare dallo sternuto. ― È soave come un flauto, – disse ella, ― È d'ottone, – disse il trombettiere. ― Frasche! – rispondeva la moglie. ― Affermo di nuovo, – dicea il trombettiere, – che il naso è di ottone. ― Vo' saperne il vero, – disse la moglie, – e però vo' toccarlo con queste mie dita prima d'andare a letto. ― La mula del Forestiere movea così piano, ch'egli intese ogni parola della contesa non solo tra la sentinella e il tamburo, ma fra il trombettiere ancora e la moglie sua. ― No, – diss'egli, allentando le briglie sul collo alla mula, e incrociandosi le mani sul petto nell'atteggiamento di un santo; e la mula seguiva a muover pian piano; – no, – diss'egli, alzando gli sguardi; – oltraggiato e deluso come fui, non devo al mondo poi tanto da convincerlo in questo; no, – diss'egli, – nessuno mi toccherà il naso, finchè il cielo mi dia forza. ― A che fare? – chiese la moglie di un borgomastro. Il Forestiere non badò alla moglie del borgomastro, e fece voto a S. Niccola, e poi sciolse le braccia con la stessa solennità onde le aveva incrociate, e raccolse con la manca le briglie, e si pose in seno la destra donde pendeva la sua scimitarra, e cavalcò passo innanzi passo per le strade più larghe di Strasburgo, finchè la ventura lo condusse al grande albergo del mercato dirimpetto alla chiesa. Il Forestiere smontando subito impose che la mula fosse menata alla stalla, e la valigia portata dentro; quindi l'aperse, – e traendone le brache di seta chermisi con un pendaglio ornato d'argento, se ne vestiva; e poi colla scimitarra impugnata andò a passeggiare sulla piazza d'arme. Come ebbe fatti appunto tre giri, scorse alla banda opposta la moglie del trombettiere, e si voltò in fretta, temendo che il suo naso non fosse posto al cimento; e tornò immantinente all'albergo, e spogliandosi ripose le brache etc. nella valigia, e chiese la mula. ― Io me ne vado a Francfort, – disse il Forestiere, – e torno tra un mese. Spero, – continuò il Forestiere, palpeggiando il muso della mula intanto che si accingea a salirla, – spero che avrete usato cortesia a questa mia schiava fedele; ella mi ha portato colla valigia più di seicento leghe; – e in così dire lievemente le batteva la schiena. ― Viaggio lungo, signor mio, – dicea il locandiere, – e chi lo fa certamente ha di grandi affari tra mano. ― Niente, niente! – rispondea il Forestiere; – sono stato al Promontorio dei Nasi, dove grazie a Dio me ne sono procacciato uno de' più belli, che sia mai caduto in sorte a uomo vivente. ― Il Forestiere rendeva di sè stranamente ragione, e il locandiere e la moglie sua gli fissavano gli occhi sul naso. – Per Santa Radegonda! vi è più naso in quel naso, che in qualche dozzina dei più grossi nasi di tutto Strasburgo mettendoli insieme; non è, – diss'ella, mormorando nelle orecchie al marito, – non è un gran bel naso? ― È un'impostura, anima mia, – ripigliò il locandiere, è un naso falso. ― È vero, – disse la moglie. ― È d'abete, – disse il marito; – non senti l'odor della trementina? ― Vi è sopra una bollicina, – aggiunse la moglie. ― È un naso morto, – riprese il locandiere. ― È vivo, – disse la moglie, e giuro per l'anima mia, che vo' toccarlo. ― Oggi ho fatto voto a S. Niccola, – dicea il Forestiere, – che nessuno mi toccherà il naso, fino.... ― E quì sospendea la voce, e alzava li sguardi. ― Fino a quando? – diceva frettolosa la donna. – Nol toccheranno, – diss'egli intrecciando le mani, e stringendosele al petto, – fino a quell'ora. ― Qual ora? – esclamava la donna. ― Mai, – ripigliò il Forestiere, – finchè io non arrivi. ― Dove? per l'amor di Dio! – insisteva la donna. Il Forestiere partì, nè disse parola. Non era il Forestiere innoltrato mezza lega per la via di Francfort, che tutto Strasburgo andava sossopra a cagion del suo naso. Le campane della compieta chiamavano li Strasburghesi ai sacri uffici, e a chiudere il giorno nella preghiera; non le sentiva un'anima. La città pareva uno sciame di api; uomini, donne, fanciulli, (e le campane suonavano,) correvano qua e là; uscivano da una porta, entravano in un'altra, di su, di giù, per le strade, pei viottoli. ― L'avete veduto? ― L'avete veduto? ― L'avete veduto? ― Oh! l'avete veduto? ― Chi lo vide? ― Chi l'ha veduto? ― Dio buono! chi lo vide? ― Io lavava. ― Io dava l'amido. ― Io era ai vespri. ― Io ripuliva la casa. ― Io cuciva. ― Dio mi aiuti! io non l'ho veduto. ― Io non l'ho toccato. ― Oh fossi stato un po' la sentinella, o il tamburo dalle gambe storte, o il trombettiere, o la moglie sua! ― E questo grido, e questo lamento, errava universale per ogni via, e per ogni canto di Strasburgo. Mentre la confusione e il tumulto turbavano la gran città di Strasburgo, il Forestiere cortese cavalcava di un passo soave soave verso Francfort, – nè facea vista d'aver nulla che fare in quel fatto; – ma per la via favellava in rotte sentenze ora alla sua mula, ora a sè stesso, ora alla sua Giulia, ― O Giulia! amabile Giulia! – No, io non posso fermarmi perchè tu mangi quel cardo. – Che le trame di un rivale mi abbiano rapito ogni mio diletto al punto che andava a gustarne! – Poh! non è che un cardo; lascia andare, stanotte avrai miglior pasto. – Esiliato dalla patria mia, dagli amici, da te! – Povero diavolo! sei stanco del viaggio? via, camminiamo più forte; la valigia non ha che due camicie, un paio di brache di seta chermisi, e.... – Cara Giulia! – Ma perchè a Francfort? Forse una mano arcana mi conduce per tutti questi meandri? – S. Niccola! incespichi ad ogni passo; così consumeremo tutta la notte a fare.... – Forse felice, o ludibrio della fortuna, e della calunnia; – cacciato via nè convinto, nè ascoltato, e innocente. E perchè non restavi a Strasburgo, dove la giustizia.... – ma feci voto.... – Via! tu berrai.... – a S. Niccola. – O Giulia! – E perchè rizzi le orecchie? è un uomo, etc. ― Il Forestiere cavalcava conversando in questa maniera colla sua mula, e con Giulia, finchè giunse all'albergo; e smontando badò che la mula fosse trattata bene secondo le promesse, – e portò nell'albergo la sua valigia, e volle da cena una frittata, – e a mezza notte si mise a letto, e dopo cinque minuti dormiva profondamente. E all'ora stessa diminuiva il tumulto in Strasburgo, – e gli abitanti andavansi a letto; – ma quanto al corpo e alla mente non riposavano di certo, come faceva il Forestiere; – perchè la fantasia, agilissima fata, aveva preso il naso del Forestiere, e, senza toccar nulla della grossezza, aveva sudato tutta la notte a dividerlo e suddividerlo in tanti nasi di diversa figura quante erano teste in Strasburgo. La Badessa di Quedlingberg venuta quella settimana a Strasburgo con le quattro prime dignità del suo Capitolo, a consultare l'Università sopra un caso di coscienza relativo alli sparati delle loro gonnelle, non potè chiudere un occhio. Il naso del gentil Forestiere erasi posato in cima alla glandula pineale del suo cervello, – e facea brulicar tante immagini in capo alle quattro prime dignità del suo Capitolo, che non ci fu da prendere un fil di sonno in tutta la notte, nè da star ferme un attimo; in somma si alzavano tutte come altrettanti spiriti. Tutte le monache di più severo istituto, che passano la notte vestite del cilicio, erano a partito peggiore della badessa di Quedlingberg; e girandosi e rigirandosi da ogni banda del letto si erano tutte scorticate a morte, e credevano che il fuoco di S. Antonio le avesse visitate a fin di provarle; nè chiusero un occhio da vespro a mattutino. Le Orsoline operando più saviamente non andavano a letto. E il decano di Strasburgo, e i prebendati, e il corpo dei canonici, (adunati tutti in capitolo la mattina per considerare il caso delle focacce condite col burro), bramavano aver seguitato l'esempio delle Orsoline. – Nel trambusto delle cose, la sera innanzi i fornai si erano dimenticati di fare il lievito, – nè in tutto Strasburgo potevi trovare per colezione focacce condite col burro. La cattedrale era in moto perpetuo, nè tanta causa d'inquietudine, nè tanta gelosa ricerca nella causa dell'inquietudine, si era veduta in Strasburgo dal tempo che Martino Lutero colle sue nuove dottrine sovvertiva quella città da cima a fondo. E se il naso del Forestiere scompigliava la mente dei chierici, qual facesse baccano in quella dei laici è più assai di ciò che possa descriver la mia penna consumata sino al gambo. So di certo, – esclama qui Slawkenbergius, nè da lui mi aspettava tanta gaiezza di concetto; – so di certo, che ci sono molte similitudini buone a darne un'idea ai miei concittadini; ma alla fine di un'opera come questa, scritta per amor di loro, e dove ho speso grandissima parte della vita, sarebbe giusto l'esigere, che io trovassi il tempo e la voglia di cercarle? Vi basti che universale era il disordine nelle fantasie Strasburghesi, e dominava assoluto ogni facoltà delle menti loro; e con tanta asseveranza, e con tanta eloquenza parlavano, e giuravano stranissime cose intorno a quel naso, che la corrente di qualunque discorso a maraviglia si drizzava a quel segno. Il buono e il cattivo, il ricco e il povero, il dotto e l'ignorante, il maestro e il discepolo, la padrona e la fantesca, l'accorto e lo stordito, la monaca e la donna, si affannavano tutti per udirne novelle, – e ogni occhio struggevasi di vederlo, e ogni dito anelava toccarlo. Aggiungete ancora, – nè bisognava aggiunger nulla all'ardore di tanto desiderio, – che la sentinella, e il tamburo dalle gambe storte, e il trombettiere e la moglie sua, e la vedova del borgomastro, e il locandiere e la moglie sua, differivano tutti largamente nell'attestare, e descrivere il naso del Forestiere; – ma si accordavano in due punti, cioè che andava a Francfort, e tornerebbe fra un mese; – in secondo luogo, – fosse, o no, vero il naso, – il Forestiere era paragone di perfetta bellezza, – l'uomo il più ben formato, – il più gentile, – il più generoso della sua borsa, – il più cortese ne' suoi portamenti, che avesse giammai passate le porte di Strasburgo; e mentre cavalcava per le vie colla scimitarra penzolone alla destra, e mentre passeggiava attraverso la piazza d'arme colle brache di seta chermisi, il facea con aria tanto soave, disinvolta, e modesta, e al tempo stesso virile, che, se non fosse venuto in mezzo il suo naso, avrebbe intricato il cuore di qualsiasi fanciulla gli avesse dato uno sguardo. ― Mal abbia il cuore che non sente il palpito e la passione della curiosità; e merita scuse la Badessa di Quedlingberg colle quattro sue dignità, se a mezzogiorno mandarono per la moglie del trombettiere. Ella andava per le vie di Strasburgo recandosi in mano la tromba del suo marito, – nè migliore apparato onde illustrare le sue teorie le concedeva la strettezza del tempo, – e si trattenne tre giorni. Ma rispetto alla sentinella, e al tamburo dalle gambe storte, Atene non potea metter loro a fronte veruno; – nè con tanta pompa Crantore e Crisippo leggevano sotto ai portici loro, con quanta leggevano que' due sotto le porte della città a chi andava e veniva. Il locandiere col ragazzo a sinistra leggeva sul medesimo stile nella corte della stalla; leggeva ancora la moglie, benchè in una stanza appartata; e tutti si affollavano a quelle lezioni, – no confusamente, ma, come è il costume, o da questo, o da quello, secondo che la fede e la credulità li schieravano: – insomma ogni Strasburghese affollavasi per saper la novella, – e ognuno sapeva la novella desiderata. Vuolsi notare a benefizio di tutti i dimostratori in filosofia naturale etc., che, appena la moglie del trombettiere ebbe finito di leggere in privato alla Badessa di Quedlingberg, incominciò in pubblico, sopra uno sgabello, in mezzo alla piazza d'arme; e turbò fieramente gli altri dimostratori, tanto che la parte migliore della città subito traeva a sentirla. Ma quando il dimostratore in filosofia, – esclama qui Slawkenbergius, – ha per apparato una tromba, chi è di grazia il rivale di dottrina, che pretenda essere ascoltato a preferenza? Mentre gl'ignoranti pei condotti della nozione si affaccendavano a scendere in fondo al pozzo dove la VERITÀ tiene la sua piccola corte, i maestri smaniavano altrettanto di tirar su il vero colle trombe pei condotti della induzione dialettica; – nè si brigavano dei fatti, – ragionavano. Ma professione al mondo non avrebbe meglio illustrato il soggetto, che la Facoltà medica, dove non si fosse smarrita a disputare intorno le glandule e i tumori edematici; – e così non ci fu verso di veder lume; – e il naso del Forestiere non avea nulla di comune colle glandule, e coi tumori edematici. Però fu dimostrato a sufficienza, che quella massa ponderosa di materia eterogenea non poteva ammucchiarsi al naso mentre l'infante era nell'utero, senza tor l'equilibrio alla bilancia del feto, e collocar bello e gonfio quel naso sul volto nove mesi prima del tempo. Li oppositori concedevano la teoria, – negavano le conseguenze. ― E se convenienti vene, ed arterie, – ripigliavano i primi, – a nutrir debitamente quel naso non fossero concorse al principio della sua formazione, pria che venisse al mondo, (lasciando il caso delle glandule), non avrebbe potuto regolarmente crescere, e dipoi sostentarsi. ― A questo rispondeva una dissertazione su gli alimenti, e l'effetto, che gli alimenti producono nel distendere i vasi, e il crescere e il prolungarsi delle parti musculari al massimo incremento, e alla massima espansione immaginabile. E nel trionfo di questa teoria, giunsero ad affermare, che in natura non v'era ragione, perchè un naso non potesse arrivare alla grossezza dell'uomo stesso. Rispondevano non potersi avverare l'evento, finchè l'uomo avesse uno stomaco solo, e due polmoni. ― Lo stomaco, – dicevano, – è l'organo destinato unicamente a ricevere il cibo, e convertirlo in chilo; i polmoni sono la macchina, che lavora il sangue; e quest'ingegni nell'adempiere alle proprie funzioni hanno misura dall'appetito, – o ammettendo possibile, che l'uomo carichi di soverchio lo stomaco, la natura ha dato confine ai polmoni; quei visceri ebbero grandezza e forza determinata, nè possono elaborare una certa quantità, che a spazio fisso di tempo; cioè producono tanto sangue, che basti a un uomo solo, e non più; – e se vi fosse tanto naso che uomo, provavano, che dovrebbe seguitare necessaria cancrena; e perchè non v'era da sostentare ambedue, o il naso sarebbe caduto dall'uomo, o l'uomo inevitabilmente dal naso. ― La natura si accomoda a queste emergenze, – gridavano gli oppositori; – altrimenti, che direste voi d'uno stomaco intero, di due polmoni interi, e d'un uomo mezzo, cui sventuratamente un cannone abbia tronche le gambe? ― Ei muor di pletora, – riprendevano, – o sputa sangue, e in quindici giorni, o al più tre settimane, va consumato a babboriveggoli. ― Non è così, – ripigliavano li oppositori. ― Così non fosse! – rispondevano gli altri. Quelli spiriti curiosi, che indagano l'interna natura, e i suoi fatti, sebbene andassero d'amore e d'accordo per un buon tratto di via, finalmente si divisero intorno al naso in tante opinioni, quante quelle dei medici stessi. Statuivano pacatamente, che le varie parti del corpo umano avevano un ordine, e una proporzione geometrica corrispondente ai suoi vari uffici e funzioni, nè potea trapassarsi fuorchè con certi limiti; e benchè la natura talvolta scherzasse, scherzava anch'ella in un certo circolo, nè potevano conceder nulla al di là del suo diametro. Più che altra classe di letterati, i Logici si tenevano stretti all'argomento, e cominciavano e finivano con la voce _naso_; e se non era una petizione di principio, nella quale fin dalle prime andò a batter di capo uno de' più capaci tra loro, la quistione sarebbesi terminata in un fiato. ― Un naso, – argomentava il Logico, ― non può sanguinare senza sangue, e sangue che circoli a produrre il fenomeno con una serie di gocciole; – e una corrente altro non è, che una serie più veloce di gocciole. – Ora la morte non essendo, che il ristagnamento del sangue.... ― Nego la definizione; la morte è la separazione dell'anima e del corpo, – disse il suo antagonista. ― Dunque non ci combiniamo nell'arme, – riprese il Logico. ― Dunque la quistione è terminata, – rispose l'antagonista. Furono più concisi i Giurisperiti, e quanto profferivano aveva meglio sembianza di decreto, che di contesa. ― Quel naso mostruoso, – dicevano, – se fosse vero, non potea sofferirsi agevolmente nella civil società; se poi falso, ingannare così la società con segni mentiti era un violare altamente i suoi diritti, e però gli si dovevano anche meno rispetti. ― A questo obbiettavano unicamente, che, se provavasi alcuna cosa, era, che il naso dello Straniero non appariva nè vero, nè falso. E questo diè luogo di seguitare alla controversia. ― Sostenevano gli avvocati della Corte Ecclesiastica, che nulla potea vietare un decreto, dacchè il Forestiere _ex mero motu_ confessava essere stato al Promontorio dei Nasi, dove se n'era procurato uno de' più belli etc., etc. ― Rispondevano a questo, essere impossibile che vi fosse il Promontorio dei Nasi, e i dotti non lo sapessero. Il commissario del Vescovo di Strasburgo prese le parole dell'avvocato, e chiarì la materia con un trattato sulle frasi proverbiali, dimostrando loro il Promontorio dei Nasi, come semplice espressione allegorica, significante, che la natura lo aveva dotato di lungo naso; e come prove citava dottamente infinite autorità, che fuor di dubbio avrebbero deciso la causa, se non fosse apparito, che 90 anni prima erano servite a terminare una questione intorno alcune franchigie di un decano. Intanto avveniva, – nè dirò sventuratamente pel Vero, poichè così facendo gli davano leva da un'altra parte, – intanto avveniva, che le due Università di Strasburgo, la Luterana fondata il 1538 da Giacomo Sturmis consigliere del Senato, e la Papale da Leopoldo Arciduca d'Austria, impiegavano tutta la forza del loro sapere, (tranne quel po' di tempo, che richiedeva l'affare della Badessa di Quedlingberg intorno agli sparati delle gonnelle), a determinare il punto della dannazione di Martino Lutero;......... ....... ma il naso grosso del Forestiere distolse l'attenzione del mondo da quanto avevano tra mano, – e lor convenne seguitar la corrente. Nè fu ritegno la Badessa di Quedlingberg, e le sue quattro prime dignità; il naso grosso del Forestiere mosse ai dottori la fantasia, quanto il caso di coscienza; e però l'affare degli sparati delle gonnelle fu per un tratto sospeso; in somma gli stampatori ammannivano i tipi, e dispute d'ogni maniera corsero in pubblico. Tu avresti potuto più agevolmente mettere insieme un vescovo e un tegame, che indovinare da qual parte del naso si sarebbero tratte le due Università. ― È sopra la ragione, – gridavano da una parte alcuni Dottori. ― È sotto la ragione, – gridavano degli altri. ― È fede, – gridò uno. ― È un archetto da violino, – rispose l'altro. ― È possibile. ― È impossibile. ― Infinita è la potenza di Dio, – gridavano i _Nasisti_, – può far quanto vuole. ― Non può far nulla, – ripresero gli _Antinasisti_, – che in sè comprenda contradizione. ― Può far che la materia pensi, – dissero i Nasisti. ― Già, come tu dell'orecchio d'una scrofa puoi farne un berretto di velluto, – risposero gli Antinasisti. ― Non può fare, che due più due facciano cinque, – dissero i Cattolici. ― Non è vero, – risposero gli oppositori. ― La potenza infinita è potenza infinita, – dissero i dottori che affermavano la realtà del naso. ― Si estende solamente a tutte le cose possibili, – rispondevano i Luterani. ― Dio del cielo! – esclamavano i Cattolici, – se così crede, può fare un naso grosso come il campanile di Strasburgo. ― Ora il campanile di Strasburgo essendo il più grosso e il più alto campanile che si veda nel mondo, gli Antinasisti negavano, che un naso di 575 piedi geometrici in lunghezza potesse portarsi almeno da un uomo della comune statura. I Cattolici giuravano di sì. ― No, non può essere, – dicevano i Luterani. ― E questo suscitò nuova contesa, che portarono innanzi gran tratto, intorno l'estensione e i limiti degli attributi morali e naturali di Dio. Non s'intese più nominar parola del naso del Forestiere, che servì appunto come di fregata a lanciarli nel golfo della teologia scolastica, e quivi navigavano a vele spiegate. Lo scaldarsi sta in proporzione alla mancanza del vero sapere. La controversia degli attributi etc. invece di raffreddare aveva all'incontro scaldate più che mai le immaginazioni strasburghesi, e quasi fuor di misura. Meno intendevano, e più maravigliavano, ma furono lasciati nell'angoscia del desiderio non appagato. Vedi carità dei loro dottori! Da una parte quei della cartapecora, dell'ottone, e della trementina, – dall'altra i Cattolici, s'imbarcano tutti, e son già fuor delle viste, come Pantagruello, e i suoi compagni, che vanno a cercar l'oracolo della _Bottiglia_. E i poveri Strasburghesi abbandonati sul lido! che fare omai? – nullo indugio di mezzo; – cresceva il tumulto, e le porte vennero aperte. Sfortunati Strasburghesi! nel magazzino della natura, nell'armadio delle scienze, nell'arsenale del caso, fu lasciata forse indietro una macchina per tormentare la vostra curiosità, per suscitare i vostri desideri, che la mano del fato non accennasse onde potesse operare sul vostro cuore? Io non tingo la penna a scusarvi della resa che faceste, ma scrivo le vostre lodi. Mostratemi una città così travagliata dalla espettazione, senza mangiare, bere, o dormire, o pregare, o intender le voci del cielo e della natura, pel corso di giorni ventisette, e ditemi poi se avrebbe sostenuto un giorno più a lungo! Al ventottesimo il Forestiere cortese aveva promesso di ritornare. Settemila carrozze, (e credo, che Slawkenbergius abbia sbagliato nel conto), settemila carrozze, quindicimila calessi a un cavallo solo, ventimila carri, si affollavano insieme serrati, e pieni di senatori, di consiglieri, di sindaci, di beghine, di vedove, di mogli, di vergini, di concubine etc. La Badessa di Quedlingberg con le sue quattro prime dignità guidava la processione in una carrozza, e il decano di Strasburgo con le quattro prime dignità del suo Capitolo le veniva alla manca; i rimanenti seguitavano a rifascio come meglio potevano, – a cavallo, a piedi, in vettura, pel Reno, per questa via, per quell'altra; tutti insomma uscivano incontro al Forestiere cortese. Noi precipitiamo alla catastrofe del nostro racconto. ― Io dico catastrofe, (esclama qui Slawkenbergius), perchè un racconto regolarmente disposto nelle parti, non solo va lieto della catastrofe, e della peripeteia d'un dramma, ma gode ancora di tutte le altre parti, che ne fanno l'essenza; ed ha la protasi, l'epitasi, la catastasi, la catastrofe o peripeteia, succedentisi fra loro in quell'ordine, che prescrisse Aristotele, senza le quali, – dice Slawkenbergius, – un racconto non dovrebbe narrarsi ma invece tenerselo in cuore; e in tutte le mie dieci decadi io Slawkenbergius ho tenuto ogni mio racconto strettamente annodato alla regola da me seguita in questo del Forestiere, e del suo naso. Dalle prime parole alla sentinella fino al punto che lascia Strasburgo dopo aver cavate fuori le brache di seta chermisi, è la protasi, ovvero l'introduzione, dove si toccano i caratteri dei personaggi così di volo, e il soggetto è lievemente incominciato. L'epitasi, dove l'azione progredisce fino all'ultimo grado chiamato catastasi, e che d'ordinario comprende il secondo, e il terz'atto, è rinchiusa in quell'operoso periodo del mio racconto, cioè dal tumulto della prima notte fino a che la moglie del trombettiere fa la sua lezione in mezzo di piazza d'arme. E dall'entrar che fanno i dottori nella questione fino a che sciolgon le vele, lasciando desolati li Strasburghesi sul lido, è la catastasi, ossia quella parte in che gli avvenimenti e le passioni sviluppano, prorompendo nel quint'atto. E questo comincia dall'uscir che fanno li Strasburghesi sulla via di Francfort, e finisce strigando il labirinto, e conducendo l'eroe dallo stato di agitazione, (così lo chiama Aristotele), allo stato di riposo, e di quiete. E questo, – dice Hafen Slawkenbergius, – costituisce la catastrofe o peripeteia del mio racconto, e questa è la parte che imprendo a narrare. Lasciammo il Forestiere dietro il sipario a dormire; or vien sulla scena. ― E perchè rizzi le orecchie? è un uomo a cavallo,.... ― fu l'ultima parola, che il Forestiere disse alla mula; e allora non tornava bene far sapere al lettore, che la mula prese in parola il padrone, e senz'altro lasciò passare il viandante e il suo cavallo. Il viandante studiavasi a tutta fretta di giunger la notte a Strasburgo. ― Pazzo, che non son altro! – poi disse fra sè, dopo aver cavalcato circa una lega: – pazzo, che non son altro! se penso d'entrare in Strasburgo stanotte. Strasburgo! Strasburgo la grande! Strasburgo la capitale di tutta l'Alsazia! Strasburgo città imperiale! Strasburgo stato sovrano! Strasburgo munita di cinquemila dei migliori soldati che sieno! Ahi! se ora fossi alle porte di Strasburgo, non mi farebbero entrare per un ducato, nè per uno e mezzo; – è troppo; – e il meglio è tornarsi all'ultimo albergo da dove sono passato, che fermarsi io non so dove, o donare io non so quanto. Il viandante così meditando girò la testa del cavallo, e giunse all'albergo tre minuti dopo che il Forestiere era stato condotto alla sua stanza. ― Abbiamo del lardo, e del pane, – diceva l'oste, – e all'undici avanzavano tre uova, ma un Forestiere, che arrivò, non è un'ora, se le fece acconciare in frittata, e non abbiamo più nulla. ― Ahimè! – disse il viandante; – affaticato come sono, non mi bisogna che un letto. ― E morbido quanto altro mai dell'Alsazia, – riprese l'oste, – e ci avria dormito il Forestiere, perchè è il migliore che io m'abbia, se non era per via del suo naso. ― Gli è forse venuto un flusso di sangue? – favellò il viandante. ― No, ch'io sappia, – diceva l'oste, – no davvero; ma Giacinta, (e in questa accennava dello sguardo la fantesca), immaginò, che il letto non fosse capace tanto, che egli vi potesse rivolgere il suo naso. ― Come mai? – sclamò il viandante, facendosi indietro. ― È un naso tanto lungo, – ripigliò l'oste. Il viandante fissava gli occhi sopra Giacinta, poi li fissava al suolo; si piegò sul ginocchio diritto, e si pose una mano sul petto. ― Voi già non beffate l'ansia del mio desiderio? – diss'egli, come risorse. ― No, in verità, – rispondeva Giacinta, – è un naso magnifico. ― Il viandante s'inginocchiò nuovamente, – si pose la mano sul petto, – e guardando al cielo diceva: ― tu m'hai condotto al termine del mio pellegrinaggio; egli è Diego. ― Era il viandante fratello di Giulia tanto invocata dal Forestiere, la notte che cavalcando la mula si dipartì di Strasburgo; e veniva in cerca di lui, pregato dalla sorella, la quale accompagnò da Valladolid in Francia traversando i Pirenei; e gli fu mestieri superare infinite difficoltà cercandolo pei molti andirivieni e voltate improvvise, onde è composta la spinosa via d'un amante. Ma Giulia soccombeva, – nè potè muovere un passo fuor di Lione, dove per gli affanni di un tenero cuore, (ne favellano tutti, ma è raro chi sente), si giacque malata, – e appena ebbe forza di scrivere a Diego una lettera; e avendo scongiurato il fratello a non volerla giammai rivedere, se prima non lo avesse trovato, gli mise nelle mani la lettera, e andossene a letto. Ferdinando, (così aveva nome), non ostante il letto morbido quanto altro mai dell'Alsazia non potè chiudere un occhio, e come fu giorno si levò, e sentendo che Diego ancora era levato entrò nella camera disobbligandosi della sua commissione. Così diceva la lettera: _SIGNOR DIEGO!_ _Non è l'ora da vedere se i miei sospetti intorno al vostro naso fossero, o no, giustamente eccitati; vi basti, che io non ebbi costanza da farne la prova. Io conosceva poco me stessa, allorchè mandai la mia governante a divietarvi, che non veniste più sotto la mia gelosia; e meno ancora conosceva il mio Diego, avvisandomi, che resterebbe un giorno a Valladolid per chiarire i miei dubbi; ma fu pietà, o Diego, l'abbandonarmi perchè rimasi ingannata? o fu cortesia prendermi alla parola, giusti o no che fossero i miei sospetti, e lasciarmi, come faceste, a tanta incertezza, a tanto dolore? E come Giulia abbia sentito quest'atto vel dirà il fratel mio al consegnarvi la lettera; e vi dirà come di lì a un istante si pentiva del precipitoso messaggio che vi mandò, e forsennata correva alla gelosia, – e stette più giorni e notti di séguito appoggiata sul gomito guardando alla via donde era solito Diego venire. E quando ella ebbe nuova della vostra partenza, vi dirà come l'abbandonava lo spirito, e il core le si ammalava, e piangeva pietosamente, e chinava la testa sotto il peso degli affanni. O Diego! quanti passi non ho misurati, stanca, anelante di rintracciarvi! e la pietà del fratel mio mi conduceva per mano; e il desiderio mi portava al di là delle forze, e sovente io mi sveniva, e gli cadea tra le braccia, senza proferire altra voce, che questa: – o Diego mio! – Se il cuor vostro non è smentito dalla gentilezza dei modi, volerete presso di me colla velocità onde fuggiste, affrettatevi tanto, che possiate.... che possiate giungere a vedermi spirare. È un sorso amaro; ma è più ancora amareggiato dal morir non....._ Ella non potè seguitare. Slawkenbergius suppone, che la parola significasse _non convinta_, ma le forze non le consentirono di finire la lettera. E mentre il Forestiere cortese la leggeva, il cuore gli straboccava di affetti, e ordinò che fosse insellata la sua mula, e il cavallo di Ferdinando; e perchè nel combattimento delle passioni lo sfogo della prosa non agguaglia quello dalla poesia, il caso, che del pari ci spinge ai rimedi e alle infermità, avendo gettato dalla finestra in camera un pezzo di carbone, Diego se ne giovò, e intanto che il ragazzo allestiva la mula, così disacerbava il suo spirito scrivendo nel muro come segue: ODE 1. No, – se la mano della Donna mia L'arpa non tocca, esce il concento e muore, Nè l'accompagna un'aura d'armonia; Ma se le muove, tremano d'amore Le belle corde, e l'anima delira Di misteriosa voluttà sospira. 2. O Giulia! I versi erano naturali, e convenienti al soggetto, dice Slawkenbergius, – e peccato che rimanessero in tronco; ma o che il Signor Diego avesse tardo l'ingegno a far versi, o che il ragazzo si affrettasse a sellare le cavalcature, non è chiaro; fatto sta, che la mula di Diego, e il cavallo di Ferdinando, erano lesti alla porta dell'albergo prima che Diego fosse in atto per la sua strofa seconda; e però senza restare a finir l'ode, ambedue montarono, dettero di sprone, passarono il Reno, traversarono l'Alsazia, e piegarono alla volta di Lione; e prima che li Strasburghesi e la Badessa di Quedlingberg uscissero della città, aspettando l'arrivo del Forestiere, Ferdinando, Diego, e la sua Giulia, avevano passati i Pirenei, ed erano giunti sani e salvi a Valladolid. Non importa avvertire il lettore geografo, che, Diego essendo in Ispagna, il Forestiere cortese non potevasi più incontrare sulla via di Francfort; basti il dire, che, la curiosità essendo di tutti gl'inquieti desideri il più ardente, li Strasburghesi la sentivano di massima forza, e per tre giorni e per tre notti si trabalzavano su e giù per la via di Francfort con tutta la tempesta di quella passione, nè sapevano ancora adattarsi a tornarsene a casa. Ma sciaguratamente per loro il fato preparava l'evento il più funesto che possa accadere a popolo libero. Perchè molti hanno discorso, e pochi inteso, questa rivoluzione degli affari Strasburghesi, io Slawkenbergius voglio chiarirne il mondo in dieci parole, e al tempo stesso finirò il mio racconto. Ognuno sa del gran sistema di Monarchia Universale composto per comandamento di Monsieur Colbert, e dato manoscritto a Luigi XIV l'anno 1664. Ognuno sa, che un ramo di quel sistema era l'impadronirsi di Strasburgo onde favorire a tutti i tempi un'invasione in Suabia, e disturbare la quiete della Germania, e che in conseguenza di questo piano Strasburgo cadde finalmente in mano di Francia. A pochi è dato di rimontare alle vere sorgenti di questa e simili rivoluzioni. I volgari guardano tropp'alto; gli uomini di stato troppo basso. Il vero sta di mezzo. È funesta, – esclama uno storico, – la superbia popolare di una città libera. Li Strasburghesi stimavano, che scapitasse la libertà a ricevere una guarnigione imperiale, e così vennero in preda ai Francesi. Il destino delli Strasburghesi, – dice un altro, – può servire di avvertimento ad ogni popolo libero, perchè faccia risparmio di danaro. Li Strasburghesi spesero anticipate le rendite, s'imposero tasse di per sè stessi, e si affiacchirono tanto, che finalmente non ebbero forza da tener chiuse le porte, e i Francesi le apersero. – Ahi! ahi! – grida Slawkenbergius, – non furono i Francesi, ma fu la curiosità che le aperse. Veramente i Francesi, che stanno mai sempre all'erta, veggendo li Strasburghesi, uomini, donne, e fanciulli, uscir tutti della città dietro al naso del Forestiere, si posero in marcia ed entrarono. D'allora in poi le manifatture e il commercio hanno piegato a continua decadenza, ma non per le cause assegnate dai capi del commercio; piuttosto vuolsi ascrivere a questa sola: che i nasi hanno sempre fatto tanto frastuono in quelle teste, che li Strasburghesi non poterono badare ai loro interessi. ― Ahi! ahi! – grida qui Slawkenbergius, facendo un'esclamazione, – non è la prima, e temo che non sarà l'ultima fortezza conquistata o perduta per via dei Nasi. ― 1829 ― III. STORIA DI LE FEVER Era di poco avanzata l'estate di quell'anno in che gli alleati presero Dendermond, – e il mio Zio Tobia sedevasi a cena, e Trim sedeva dietro di lui a una tavoletta, allorchè il padrone di un alberghetto del villaggio entrò nella stanza a chiedere un bicchiere o due di vin di Canarie. ― È per un povero gentiluomo, io credo dell'armata, – diceva l'oste, – e son quattro giorni, che il male l'ha côlto in casa mia, nè d'allora in poi ha più sollevato la testa, o avuto voglia di gustar cosa alcuna, se non che ora appunto gli è venuta vaghezza d'un bicchier di Canarie, e d'un crostino. – Io penso, – ha detto il malato levandosi dalla fronte la mano, – io penso che se vorrà, conforterà. – Se nol potessi chiedere, o prendere in prestito, o comprare, – soggiugnea l'oste, – vorrei quasi rubarlo per amor del povero gentiluomo, che è malato di tanto. E spero in Dio, – continuava, – che ogni dì più andrà migliorando, – perchè ci sta troppo a cuore la sua salute. ― Poffare il mondo! – sclamava il mio Zio Tobia, – tu sei di buona pasta, e berrai tu pure un bicchier di Canarie alla salute del povero gentiluomo, e gliene recherai due bottiglie co' miei saluti, e digli che gliele mando di cuore – e una dozzina ancora, se gli potranno far bene. Io son persuaso, – disse il mio Zio Tobia, nel punto che l'oste serrava la porta, – che costui abbia veramente viscere di pietà; – ma pure, o Trim, non posso tenermi di stimare altamente anche l'ospite suo; – e' dee avere alcuna dote più che ordinaria, perchè in tempo sì breve si sia conciliato tanto l'affetto del suo albergatore. ― E dell'intera famiglia, – riprendeva il Caporale, perchè tutti lo tengono a cuore. ― Vàgli dietro, – disse il mio Zio Tobia, – va, Trim, e dimandagli come si chiami. ― Me ne sono dimenticato davvero, – disse l'oste rientrando nella stanza col Caporale, – ma ne posso dimandar nuovamente al suo figliuolo. ― Egli ha dunque seco un figliuolo? – disse il mio Zio Tobia. ― Un giovanetto, – rispose l'oste, – di circa gli undici, o i dodici anni; ma la povera creatura non ha gustato quasi nulla di cibo come suo padre: non fa che addolorarsi, e piangere notte e giorno, e son due giorni che non si muove dalla sponda del letto. ― Il mio Zio Tobia posò il coltello, e la forchetta, e si tolse il piatto davanti, mentre l'oste gli facea quel racconto, – e Trim senza aspettar comando, nè dir parola, sparecchiava, e di lì a pochi minuti gli recò la pipa e il tabacco. ― Trim! – disse il mio Zio Tobia dopo avere accesa la pipa, e date dieci o dodici boccate di fumo. Trim venne alla presenza del suo padrone, e lo inchinò. Il mio Zio Tobia seguitò a fumare, nè più fece motivo. ― Caporale! – disse il mio Zio Tobia. E il Caporale lo inchinò. Il mio Zio Tobia non andò più là col discorso, ma finì la sua pipa. ― Trim! – disse il mio Zio Tobia, – mi è venuto in capo, perchè è una cattiva nottata, di avvolgermi tutto nel mio mantello, e visitare quel povero gentiluomo. ― Vostro Onore, – rispose il Caporale, – non ha indossato una volta il mantello dopo la notte precedente al giorno che Vostro Onore fu ferito facendo la guardia nelle trincee davanti alla porta di S. Niccola; e di più la notte è tanto fredda e piovosa, che tra il mantello e il temporale vi sarà da morirne, o vi ritorneranno i dolori nell'inguinaia. ― Temo di si, – rispondeva il mio Zio Tobia, – ma la mente non mi quieta, o Trim, dopo il racconto dell'oste. Avrei desiderato non saperne tanto, – aggiungeva, – o saperne di più. E che modo terremo noi? ― Lasciatene a me la cura, se vi aggrada, – rispose il Caporale, – io piglierò il mio cappello, e il mio bastone, e andrò all'albergo per riconoscere, e far quanto occorre, e tra un'ora Vostro Onore avrà nuova di tutto. ― Va Trim, ― disse il mio Zio Tobia, – ed eccoti uno scellino, perchè tu lo beva insieme al suo servo. ― Gli trarrò tutto di bocca, – disse il Caporale serrando la porta. – Il mio Zio Tobia empiè la seconda pipa, e se non fosse che tratto tratto si divagava dal soggetto, considerando se tornasse bene che la cortina della tanaglia avesse una linea retta, o una curva, poteva dirsi che a null'altro pensasse fuorchè a Le Fever e al suo figliuolo in tutto quel tempo. E non aveva per anche scosse le ceneri della sua terza pipa, che il Caporale ritornò dall'albergo, e gli diè le seguenti notizie. ― A prima giunta io disperava, – cominciò il Caporale, – di recare a Vostro Onore nessuna novella intorno al povero Luogotenente infermo. ― È dunque dell'armata? – disse il mio Zio Tobia. ― Certo, – rispose il Caporale. ― E di qual reggimento? – disse il mio Zio Tobia. ― Io vi narrerò tutte le cose, – rispose il Caporale, – a mano a mano che le ho sapute. ― E empirò dunque di nuovo la mia pipa, – disse il mio Zio Tobia, – nè cercherò d'interromperti, finchè tu non abbi finito; e però siedi a tuo bell'agio, o Trim, sulla seggiola presso alla finestra, e comincia da capo. ― Il Caporale fece l'antico suo inchino, che generalmente esprimeva chiaro, per quanto lo possa un inchino, – Vostro Onore è buono, – e di poi si mise a sedere come gli fu imposto, e cominciò da capo la storia presso a poco colle stesse parole. ― Io disperava a prima giunta di recare a vostro Onore nessuna novella intorno al povero Luogotenente infermo, e al suo figliuolo, perchè dimandando del suo servo, da cui io confidava sapere ogni cosa lecita a chiedersi, ( ― giustissima distinzione, o Trim, ― disse il mio Zio Tobia, – ) mi risposero che non aveva servo con sè, – ma era giunto all'albergo con dei cavalli noleggiati, e trovandosi inabile a proseguire, – io suppongo per unirsi al reggimento, – la mattina vegnente gli aveva rimandati. – Se posso migliorare, – disse, dando al suo figliuolo la borsa onde pagasse l'uomo, – noleggeremo quì dei cavalli; – ma il povero gentiluomo non moverà più di quì, – diceva l'ostessa, – perchè tutta la notte ho sentito l'uccello del mal augurio: e se muore, morrà certamente con lui il giovanetto suo figlio, e di già gli si spezza il cuore. – Io stava a sentire, e il giovanetto venne in cucina ordinando il crostino rammentato dall'oste: – ma lo voglio far io per mio padre, – aggiunse il giovanetto. – Di grazia, o giovanetto gentile, – diss'io pigliando a tal fine una forchetta, e offrendogli la mia sedia perchè sedesse vicino al fuoco, – di grazia lasciate fare a me. – Io credo, o Signore, – mi rispondea verecondo, – di poter meglio contentare mio padre. – Io tengo per fermo, – ripigliai, – che Suo Onore non vorrà gradir meno il crostino perchè l'abbia arrostito un vecchio soldato. – Il giovanetto mi prese la mano, e subito ruppe nel pianto. ― Povero giovanetto! – disse il mio Zio Tobia, – educato sin da fanciullo all'armata, il nome di soldato gli suona, o Trim, come nome d'amico: – oh l'avessi io pure quì presente! – Nella marcia più lunga, – continuò il Caporale, – io non ebbi mai sì gran voglia di desinare, come allora di piangere con lui. E che dir voleva per parte mia? – scusimi Vostro Onore. ― Niente affatto, – rispose il mio Zio Tobia soffiandosi il naso, – se non che tu sei di ottimo cuore. ― Nel tempo che io gli dava il crostino, stimai bene dirgli come io fossi il servo del Capitano Shandy, e che Vostro Onore, benchè straniero, voleva bene fuor di misura a suo padre, – e se v'era cosa qualunque in casa vostra, o in cantina, ( ― e tu potevi aggiugnere eziandio la mia borsa, ― disse il mio Zio Tobia; – ) ne disponesse a piacer suo. Mi fece un inchino profondo che fu inteso a Vostro Onore, ma non rispose, perchè il suo cuore era pieno, e così ascese le scale col crostino. – E vi assicuro, o mio diletto, – gli dissi nell'aprir l'uscio di cucina, – che vostro padre tornerà di nuovo in salute. – Il curato di M. Yorick fumava la pipa vicino al focolare, – ma non disse parola nè buona nè cattiva per consolare quel giovanetto; – e mi parve mal fatto, – soggiunse il Caporale. ― E pare anche a me, – disse il mio Zio Tobia. ― Come il Luogotenente ebbe preso il bicchier di Canarie, e il crostino, sentissi un po' ravvivato, e mandò in cucina a farmi sapere, che tra dieci minuti mi saprebbe buon grado se io salissi le scale. – Credo, – diceva l'oste, – che voglia fare le sue preghiere, perchè sopra una seggiola accanto la sponda del letto eravi un libro, e nel chiuder la porta vidi che il suo figliuolo prendeva un guanciale. – Io pensava, – disse il curato, – che voi altri uomini d'arme non diceste mai fiato d'orazione. – La notte passata intesi il povero gentiluomo che recitava le sue preghiere, – disse l'ostessa, – e con tutta divozione, e lo intesi con queste mie orecchie, altrimenti non ci avrei creduto. – Ne siete certa? – riprendeva il curato. – Un soldato, scusimi Vostra Riverenza, – favellai allora, – prega sovente, e spontaneo, al pari d'un parroco, e quando egli combatte pel suo Re, per la vita, e per l'onore, ha più ragione di pregare a Dio, che persona di questo mondo. ― Ben parlasti, o Trim, disse il mio Zio Tobia. ― Ma quando un soldato, – scusimi Vostro Onore, – risposi, – è stato dodici ore di séguito in piedi, fino ai ginocchi nell'acqua ghiaccia, o impegnato per mesi intieri in lunghe e pericolose marcie, oggi per avventura inseguito, dimane perseguitato – mandato in un luogo, – quindi richiamato, – una notte riposando sull'armi, – l'altra destato a battaglia in camicia, – assiderato nelle giunture, – e senza un po' di paglia nella tenda per coricarvisi sopra, – un soldato allora deve fare orazione come e quando può, – e credo, – continuai a dire, essendo punto sul vivo per la riputazione dell'armata, – e credo, – scusimi Vostra Riverenza, – che quando un soldato abbia tempo, preghi di cuore da quanto un parroco, e certo con meno boria ed ipocrisia. ― Ciò non dovevi dirgli, – disse il mio Zio Tobia, – che Dio solo conosce chi sia l'ipocrita, o no. Al grande esame di noi tutti, o Caporale, al giorno del giudizio, (e non mai fino a quel punto,) vedremo chi abbia adempito al suo ufficio in questo mondo, – e chi no, – e ne avremo premio secondo il merito. ― Spero di sì, – disse Trim. ― Si legge nella Scrittura, – disse il mio Zio Tobia, – e dimani tel mostrerò. Intanto possiamo credere, o Trim, a nostro conforto, – disse il mio Zio Tobia, – che Dio onnipotente è sì buono e giusto governatore del mondo, che, dove abbiamo fatto l'ufficio nostro, non vorrà mai ricercare se l'abbiamo fatto vestiti di rosso, o di nero. ― Spero di no, – disse il Caporale. ― Ma prosegui la storia, – disse il mio Zio Tobia. ― Allorchè fui salito nella camera, – continuò il Caporale, – aspettando per altro il termine dei dieci minuti, – il Luogotenente giacevasi in letto colla testa levata sopra una mano, e il gomito sopra il guanciale, e accanto un polito fazzoletto di tela bianca. Il giovanetto chinavasi in quella a raccorre il guanciale, dove suppongo che il padre si fosse inginocchiato: – il libro era sul letto, – e mentre il figlio si alzava con una mano raccogliendo il guanciale, distese l'altra per levare il libro nel medesimo tempo. – Lasciatelo lì, o mio diletto, – disse il Luogotenente. Non si mostrò disposto a parlarmi, finchè io non mi accostai alla sponda del letto. – Se voi siete il servo del Capitano Shandy, fate al vostro padrone i miei ringraziamenti, e quelli del mio figliuoletto, per la cortesia che mi ha usato. – Poscia mi dimandò se Vostro Onore fosse del Lever; io gli risposi di sì. – Dunque, – diss'egli, – noi abbiamo militato insieme per tre imprese nelle Fiandre; ma perchè io non ebbi l'onore di conoscerlo assai da vicino, è probabile che egli non sappia nulla di me. Voi nondimeno gli direte, che la persona tanto dal suo buon cuore obbligata è un certo Le Fever Luogotenente nell'Angus: – ma pure non mi conosce, – diss'egli pensoso una seconda volta; – ma può sapere la mia storia, – continuò; – ditegli di grazia, che io fui l'Alfiere di Breda, cui sfortunatamente venne uccisa la moglie da un colpo di moschetto, mentre io me la teneva tra le braccia. – Me ne ricordo benissimo, – scusimi Vostro Onore, – gli dissi. – Ve ne ricordate voi? – diss'egli asciugandosi gli occhi col suo fazzoletto. – Ed io: – pur troppo! – E in queste parole si cavò di seno un anelletto, che pareva legato al collo da un nastro nero, e lo baciò due volte. Poi disse: – vien qua, Guglielmino, – e il fanciullo traversò di volo la stanza, e, cadendo ginocchioni, si recò in mano l'anello, – e lo baciò, – poi baciò suo padre, – si assise sul letto, e piangeva. ― Io vorrei, – disse il mio Zio Tobia traendo un profondo sospiro, – io vorrei esser nel sonno. ― Vostro Onore, ― rispose il Caporale, – è troppo commosso: vi mesco un bicchier di Canarie, e vi dò un'altra pipa? ― Sì, o Trim, – disse il mio Zio Tobia. ― Io mi ricordo, – disse il mio Zio Tobia nuovamente sospirando, – io mi ricordo la storia dell'Alfiere, e più una circostanza, che la sua modestia ha tralasciato, – ed è, che ambedue, per una o per altra ragione (non mi rammento quale), erano generalmente compianti da tutto il reggimento. Ma finisci la storia, che hai preso a narrare. ― È omai finita, – disse il Caporale, – dacchè non potei trattenermi più a lungo, – e così augurai la buona notte a Suo Onore, e il giovanetto Le Fever mi fece lume sino in fondo alle scale, e nello scendere mi diceva che erano venuti d'Irlanda, e si erano messi in viaggio per unirsi al reggimento nelle Fiandre. – Ma sventura! – disse il Caporale, – l'ultima marcia del Luogotenente tocca al suo termine. ― Cosa avverrà del povero suo figliuolo! – esclamò il mio Zio Tobia. ― Eterno onore al mio Zio Tobia! (quantunque io il dica solamente per amor di coloro, che posti tra una legge naturale e positiva non sanno di per sè stessi a che partito appigliarsi in questo mondo;) eterno onore al mio Zio Tobia! – perchè sebbene in quel tempo avesse l'animo caldamente inteso a portare innanzi l'assedio di Dendermond di pari agli alleati, che incalzavano il proprio con tanto vigore, che a mala pena gli davano tempo da desinare, – nondimeno abbandonò Dendermond, benchè avesse di già fatto un alloggiamento sulla contrascarpa, – e volse tutti i pensieri alle private sciagure dell'albergo; e fuorchè impose che la porta del giardino fosse chiusa a catenaccio, onde poteva dirsi che avesse rivolto l'assedio in blocco, lasciò Dendermond in sua balìa, fosse o no sovvenuto dal Re di Francia, secondo che avrebbe stimato bene, – e solo considerava come potesse sollevare il povero Luogotenente, e il suo figliuolo. ― Quell'Ente benigno, che è l'amico del derelitto, te ne renderà merito. ― Tu mi hai lasciata imperfetta l'opera, – disse il mio Zio Tobia al Caporale, mentre ei lo metteva a letto, – e ti dirò dove.... Primieramente offerendo i miei servigi a Le Fever, siccome la malattia e il viaggiare ambedue portano dispendio, – e tu sai, ch'egli era un povero Luogotenente costretto a vivere sulla paga col suo figliuolo, – mancasti a non offrirgli ancora la mia borsa, – e tu sai, o Trim, come in caso di bisogno egli ne avrebbe potuto disporre al pari di me. ― Sa Vostro Onore, – disse il Caporale, – che io non avea nessun ordine. ― È vero, – disse il mio Zio Tobia, – tu operasti benissimo come soldato, – ma veramente male come uomo. In secondo luogo, e tu hai per questo la medesima scusa, – continuò il mio Zio Tobia, – allorchè gli offeristi le cose mie, dovevi ancora offerirgli la casa. Un confratello uffiziale infermo dovrebbe, o Trim, aver le stanze migliori, – e se or noi l'avessimo quì potremmo assisterlo e badare. Tu sei, o Trim, un eccellente infermiere, e tra la cura tua, e quella della vecchia, del suo figliuolo, e la mia insieme, lo potremmo sanar da capo, e rimetterlo in piedi. Tra quindici giorni, o al più tre settimane, – aggiugnea sorridendo, – egli potrebbe marciare. ― Non marcerà più de' suoi giorni in questo mondo, – scusimi Vostro Onore, – rispondeva il Caporale. ― Marcerà, – disse il mio Zio Tobia, levandosi dalla sponda del letto con un piè senza scarpa. ― Scusimi Vostro Onore, – non marcerà, che per andare alla fossa, – diceva Trim. ― Marcerà, – disse il mio Zio Tobia, facendo marciare il piè, che aveva nella scarpa, ma non avanzando d'un dito, – marcerà per andare al suo reggimento. ― Non può tenersi in piedi, – disse il Caporale. ― Lo reggeremo, – disse il mio Zio Tobia. ― Cadrà finalmente, – rispose il Caporale: – e che avverrà del povero suo figliuolo? ― Non cadrà di certo, – dicea fermamente il mio Zio Tobia. ― Poffare! – disse Trim sostenendo l'assunto, – fate per lui l'impossibile, ma la povera creatura morirà. ― Non morirà, no per....! – gridò il mio Zio Tobia. ― Lo Spirito dell'Accusa, che volò col giuramento alla cancelleria del cielo, si cosperse di rossore nell'atto di darla, – e l'Angiolo della Memoria mentre lo segnava vi fece su cadere una lacrima, e lo cancellò per sempre. Il mio Zio Tobia andò al suo forziere, e si mise la borsa nella scarsella delle sue brache; – poi comandò al Caporale, che di buon'ora andasse pel medico, e si pose a letto e si addormentò. La mattina vegnente il Sole appariva splendido agli occhi di tutti, fuorchè a quelli di Le Fever, e dell'afflitto suo figlio. La mano della morte pesava a Le Fever sulle palpebre, – e gli avanzava tempo di vita quanto appena ne mette una carrucola di cisterna a far tutto il suo giro, allorchè il mio Zio Tobia, essendosi levato un'ora prima del solito, entrò nella camera del Luogotenente, e senza preambuli o scuse si pose a sedere accanto al letto, e senza cerimonie aprì le cortine a quella guisa che avrebbe fatto un vecchio amico e fratello ufficiale, – e gli domandò come stesse, – come avesse riposato la notte, – di che si dolesse, – ove fosse il suo male, – e che potesse fare per sovvenirlo; – nè gli dava tempo a rispondere a nessuna delle dimande, – ma seguitava a dirgli del piccolo divisamento combinato per lui la notte avanti col Caporale. ― Voi verrete, o Le Fever, direttamente a casa mia, – disse il mio Zio Tobia, – e manderemo pel medico a veder che mal sia, – e avremo lo speziale, – e Trim vi farà da infermiere, – e io da servo, o Le Fever. ― Avea tal franchezza il mio Zio Tobia, – non l'effetto della familiarità, ma la causa, – che di súbito ti metteva nell'anima sua, e ti mostrava la bontà della sua natura; – e negli sguardi, nella voce, e nei modi, traspariva certa cosa, che accennava eternamente allo sventurato di ripararsi sotto di lui; talchè il mio Zio Tobia non era giunto a mezzo delle cortesi offerte, che faceva al padre, e il figlio insensibilmente gli si era accostato ai ginocchi, – e preso un lembo della sua veste lo tirava a sè. Il sangue e li spiriti di Le Fever, che più e più sempre si facevano torbidi e freddi, e si ritiravano all'ultima cittadella, il cuore, – ricorsero indietro; il velo della morte lasciò quegli occhi un momento, – egli guardò desioso in faccia al mio Zio Tobia, poi al figliuol suo, – e quel legame della vita, sottile come era, non si ruppe! Ma la natura all'istante riprese il suo corso; – gli occhi si velavano di nuovo, – il polso batteva, – si fermava, tornava a battere, – balzellava, – si fermava da capo, – si moveva, – cessava: – devo dir tutto? – no. – Quanto bisogna aggiugnere è che il mio Zio Tobia, e il giovanetto Le Fever, come capi del funerale, accompagnarono il povero Luogotenente alla fossa. Quando il mio Zio Tobia ebbe convertito ogni cosa in danaro, – e aggiustato ogni conto fra l'agente del reggimento e Le Fever, – tra le Fever e tutto il genere umano, – non gli rimase più nelle mani che una vecchia veste militare, e una spada, di modo che il mio Zio Tobia incontrò lieve o nessuno ostacolo dal mondo, per amministrare quel patrimonio. Diè la veste al Caporale, dicendogli: ― portala, o Trim, finchè sta insieme, per amore del povero Luogotenente. – E questa, – diss'egli, recandosi in mano la spada, e la trasse dal fodero nell'atto che favellava, – e questa serberò a te, o Le Fever. È tutta la fortuna, o mio diletto, che ti ha lasciato Dio, – ma se ti ha dato un cuore, onde aprirti con essa un varco nel mondo, – e da uomo onorato, basta per noi. ― Appena il mio Zio Tobia gli ebbe dati i primi rudimenti, e insegnato a iscrivere un poligono regolare in un circolo, lo mandava alla pubblica scuola, – e quivi dimorò sino alla primavera dell'anno suo diciottesimo, – tranne le feste del Natale, e della Pentecoste, chè allora il Caporale puntualmente andava per lui; – allorchè la nuova, che l'Imperatore spediva in Ungheria un'armata contro i Turchi, gli accese in seno una scintilla di fuoco, e senza tor licenza lasciò il Greco e il Latino, – e gittandosi alle ginocchia del mio Zio Tobia, gli chiese la spada di suo padre, e la permissione di andare a tentare la ventura sotto d'Eugenio. Due volte il mio Zio Tobia si dimenticò la ferita, – e gridava: ― io verrò teco, o Le Fever! io verrò teco, e tu combatterai al mio fianco; ― e due volte si pose la mano sull'inguinaia, e piegò la testa nel dolore, e nello sconforto. Il mio Zio Tobia spiccò la spada dal gancio ove era stata appesa, intatta sempre dopo la morte del Luogotenente, e diella al Caporale perchè la forbisse; e avendo intertenuto Le Fever quindici giorni soli onde fornirlo del bisognevole, e contrattare il suo passaggio a Livorno, gli pose in mano la spada, e: ― se tu sei valoroso, – disse il mio Zio Tobia, – questa non ti fallirà. ― Ma il può la fortuna, – diss'egli pensoso un tal poco. ― Il può la fortuna, e se ella ti fallisce, – soggiunse il mio Zio Tobia, – nuovamente ripara a me, o Le Fever, e noi ti diviseremo altro corso. ― La più grave ingiuria non avrebbe oppresso di tanto il cuore a Le Fever, quanto la paterna amorevolezza del mio Zio Tobia, – e si divise da lui, come l'ottimo dei figli dall'ottimo dei padri: – ambedue piangevano, – e mentre il mio Zio Tobia gli dava l'ultimo bacio, fece scorrergli in mano 60 ghinee, avvolte in una vecchia borsa di suo padre, ove era ben anche l'anello di sua madre, e l'accomiatò benedicendolo nel nome di Dio. Giunse Le Fever all'armata imperiale nel punto di provare di che metallo fosse temperata la sua spada nella sconfitta dei Turchi dinanzi Belgrado: ― ma da quel momento lo perseguitava una serie di disastri non meritati per quattro anni continui, – e resisteva a queste percosse della fortuna; ma la malattia lo colse a Marsiglia, e scrisse lettera al mio Zio Tobia, – che aveva perduto il suo tempo, i servizi, la salute, e tutto in somma, tranne la sua spada, e aspettava l'opportunità del primo bastimento per ritornarsene presso di lui. ― 1829[28] ― NOTE: [26] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 12._ [27] _Questo Racconto nel libro di Sterne è accompagnato dalla seguente nota, e dal Testo latino che qui le succede._ «Essendo HAFEN SLAWKENBERGIUS – _De Nasis_ – estremamente raro, non sarà discaro all'intelligente lettore di conoscere un saggio di alcune pagine del suo originale. La sola osservazione che io farò sopra questo, si è che il suo stile storico è più conciso di quello filosofico, – e sembrami che abbia più del Latino». SLAWKENBERGII FABELLA. Vespera quâdam frigidulâ, posteriori in parte mensis Augusti, peregrinus, mulo fusco colore incidens, manticâ a tergo, paucis indusiis, binis calceis, bracisque sericis coccineis repleta, Argentoratum ingressus est. Militi eum percontanti, quum portas intraret, dixit, se apud Nasorum Promontorium fuisse, Francofurtum proficisci, et Argentoratum, transitu ad fines Sarmatiæ, mensis intervallo reversurum. Miles peregrini in faciem suspexit: ― Dî boni, nova forma nasi! ― At multum mihi profuit, – inquit peregrinus, carpum amento extrahens, e quo pependit acinaces: loculo manum inseruit; et magnâ cum urbanitate, pilei parte anteriore tactâ manu sinistrâ, ut extendit dextram, militi florinum dedit et processit. ― Dolet mihi, – ait miles, – tympanistam nanum et valgum alloquens, – virum adeo urbanum vaginam perdidisse: itinerari haud poterit nudâ acinaci: neque vaginam tote Argentorato habilem inveniet. ― Nullam unquam habui, – respondit peregrinus respiciens, seque comiter inclinans; – hoc more gesto, – nudam acinacem elevans, mulo lente progrediente, – ut nasum tueri possim. ― Non immerito, benigne peregrine, – respondit miles. ― Nihili æstimo, – ait ille tympanista, – e pergamenâ factitius est. ― Prout christianus sum, – iniquit miles, – nasus ille, ni sexties major sit, meo esset conformis. ― Crepitare audivi, – ait tympanista. ― Mehercule! sanguinem emisit, – respondit miles. ― Miseret me, – iniquit tympanista, – qui non ambo tetigimus! ― Eodem temporis puncto, quo hæc res argumentata fuit inter militem et tympanistam, disceptabatur ibidem tubicine et uxore suâ, qui tunc accesserunt, et peregrino prætereunte, restiterunt. ― Quantus nasus! æque longus est, – ait tubicina, – ac tuba. ― Et ex eodem metallo, – ait tubicen, – velut sternutamento audias. ― Tantum abest, – respondit illa, – quod fistulam dulcedine vincit. ― Æneus est, – ait tubicen. ― Nequaquam, – respondit uxor. ― Rursum affirmo, – ait tubicen, – quod æneus est. ― Rem penitus explorabo; prius enim digito tangam, – ait uxor, – quam dormivero. ― Mulus peregrini gradu lento progressus est, ut unumquodque verbum controversiæ, non tantum inter militem et tympanistam, verum etiam inter tubicinem et uxorem ejus, audiret. ― Nequaquam, – ait ille, in muli collum fræna demittens, et manibus ambabus in pectus positis, (mulo lente progrediente,) – nequaquam, – ait ille respiciens; – non necesse est ut res isthæc dilucidata foret. Minime gentium! meus nasus nunquam tangetur, dum spiritus hos reget artus – Ad quid agendum? ― ait uxor burgomagistri. Peregrinus illi non respondit. Votum faciebat tunc temporis sancto Nicolao: quo facto, in sinum dextram inserens, e quâ negligenter pependit acinaces, lento gradu processit per plateam Argentorati latam quæ diversorium templo ex adversam ducit. Peregrinus mulo descendens stabulo includi, et manticam inferri jussit: quâ apertâ, et coccineis sericis femoralibus extractis cum argenteo laciniato Περιζωμα, his sese induit, statimque, acinaci in manu, ad forum deambulavit. Quod ubi peregrinus esset ingressus, uxorem tubicinis obviam euntem aspicit; illico cursum flectit, metuens ne nasus suus exploraretur, atque ad diversorium regressus est; – exuit se vestibus, bracas coccineas sericas manticæ imposuit, mulumque educi jussit. ― Francofurtum proficiscor, – ait ille, – et Argentoratum quatuor abhinc hebdomadis revertar. ― Bene curasti hoc jumentum? – ait, muli faciem manu demulcens; – me, manticamque meam, plus sexcentis mille passibus portavit. ― Longa via est! – respondit hospes, – nisi plurirum esset negotii. ― Enimvero, – ait peregrinus, – a Nasorum Promontorio redivi, et nasum speciosissimum, egregiosissimumque, quem unquam quisquam sortitus est, acquisivi. ― Dum peregrinus hanc miram rationem de seipso reddit, hospes et uxor ejus, oculis intentis, peregrini nasum contemplantur. ― Per sanctos sanctasque omnes, – ait hospitis uxor, – nasis duodecim maximis in toto Argentorato major est! estne, – ait illa mariti in aurem insusurrans, – nonne est nasus prægrandis? ― Dolus inest, anime mi, – ait hospes; – nasus est falsus. ― Verus est, – respondit uxor. ― Ex abiete factus est, – ait ille; – terebinthinum olet. ― Carbunculus inest, – ait uxor. ― Mortuus est nasus, – respondit hospes. ― Vivus est, – ait illa, – et si ipsa vivam, tangam. ― Votum feci sancto Nicolao, – ait peregrinus, – nasum meum intactum fore usque ad ― Quodnam tempus? – illico respondit illa. ― Minime tangetur, – inquit ille (manibus in pectus compositis), – usque ad illam horam – Quam horam? ― ait illa. ― Nullam, – respondit peregrinus, – donec pervenio ad ― Quem locum, obsecro? – ait illa. ― Peregrinus nil respondens mulo conscenso discessit. [28] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 13. Seconda Edizione di questo e del primo Articolo _(Storia di Yorick)_, – nella _Viola del Pensiero_, Anno III._ POESIE VARIE IL PRIGIONIERO DI CHILLON[29] POEMA ROMANTICO ― _DI LORD BYRON_ ― I. I miei capelli sono grigi, ma non dagli anni; nè in una notte[30] imbiancarono, come avvenne talvolta per súbita paura; curve ho le membra, ma non dalle fatiche; elle si contrassero in un vile riposo, dacchè furono preda della prigione, e a me toccò la sorte di coloro cui fu negato godere la bellezza della terra, e dell'aria. Ma io soffersi le catene, e stetti vicino alla morte per la fede del padre mio: e il padre mio periva alla tortura per massime, che non volle abbandonare, e per questo i suoi figli trovarono stanza nelle tenebre. Noi eravamo sette, ed ora sol uno rimane; sei giovani e un vecchio finivano come incominciarono, alteri della persecuzione. Uno sul fuoco, e due sul campo confermavano la fede loro col sangue, morendo come il padre moriva. Tre furono gittati in una carcere; e di questi io sono il misero avanzo. II. Nelle antiche e profonde prigioni di Chillon sorgono sette colonne di gotica struttura, sette colonne grigie, e massiccie, e tetre di un raggio racchiuso, un raggio di Sole, che ha smarrita la via, e per una fessura delle grosse muraglie è caduto strisciando sull'umido pavimento a guisa della meteora sulla palude. È in ogni colonna un anello, e in ogni anello una catena; e quel ferro rode, – perchè il segno dei suoi denti rimane in queste membra, nè andrà via finchè io non abbia finito questo nuovo giorno ora penoso agli occhi miei, – i quali non hanno veduto così sorgere il Sole per anni, che io non posso numerare, perchè ho perduta la memoria di numero sì lungo e gravoso, fin da quando l'ultimo fratel mio di lenta morte moriva, ed io stetti vivo al suo fianco. III. C'incatenarono alle colonne, – ed eravamo tre; – pure ognuno era solo: noi non potevamo muovere un passo, nè vederci l'un l'altro, se non a quella pallida e livida luce, che ci faceva nell'aspetto stranieri: e così insieme, benchè separati, colle mani in catene, e coll'affanno nel cuore, nella penuria dei puri elementi della terra, era un sollievo udirci favellare a vicenda, e l'uno volgersi a conforto dell'altro con una nuova speranza, o un'antica leggenda, o una canzone di eroico ardimento; ma queste cose ancora finalmente affreddavansi, e le nostre voci prendevano un suono terribile, – l'eco della prigione; – un suono stridente, non pieno, e libero come prima: – e sarà fantasia, ma quelle voci più non mi suonavano come nostre. IV. Io era il maggiore dei tre fratelli, e doveva sostenerne il coraggio, e feci il mio meglio, e tutti fecero bene secondo la loro potenza. L'anima mia era commossa di dolore pel fratello più giovane; il padre lo amava sopra tutti, perocchè avesse la sembianza di sua madre, e gli occhi azzurri come il cielo. In verità era sventura a vedere quell'uccello in tal nido; – egli era bello come il giorno, – allorquando il giorno mi pareva bello come all'aquile giovanette, e liete di libertà; – era bello come un giorno polare figlio nevoso di un Sole, che non giunge al tramonto, se non dopo lunghissima durata di luce. Così egli era puro, e luminoso, e gaio nel suo spirito ingenuo; nè per altro piangeva fuorchè per l'altrui sciagure, e le sue lacrime scorrevano come ruscelli di montagna, quando ei non poteva alleggerire il dolore, che aborriva di veder sulla terra. V. L'altro era similmente puro dell'anima, ma creato a combattere colla sua specie; forte del corpo, e di tal cuore, che saria stato in guerra contro il mondo tutto, e sarebbe morto gioioso tra i primi. Ma non era fatto per consumarsi nelle catene; e il suo spirito sveniva nel cigolio dei ferri, e io tacitamente lo vedeva mancare; e così per avventura faceva il mio spirito, ma io lo strinsi a dar animo a quelle reliquie di una cara famiglia. Egli era stato cacciatore dei monti, inseguendo il lupo, ed il cervo: per lui la prigione era un abisso, e il piede avvinto il supremo dei mali. VI. Presso alle mura di Chillon giace il lago Lemano; mille piedi giù nel profondo le masse dell'acqua s'incontrano, e scorrono; tanto fu misurato dal bianco baluardo[31] di Chillon, che intorno è recinto dall'onda: e il muro, e l'onda, ne hanno fatto una doppia prigione, – un sepolcro di vivi. La volta oscura dove eravamo, giace sotto la superficie del lago: noi lo sentivamo fremere di giorno e di notte sulle nostre teste; ed io nell'inverno ho inteso lo spruzzo delle acque bagnare le ferriate, quando i venti erano alti, e imperversavano pel cielo felice; ed allora la roccia tremava, ed io immoto accoglieva quell'urto, perchè avrei sorriso alla morte, che mi avesse fatto libero. VII. Io dissi, che il mio secondo fratello si consumava; io dissi, che il suo cuore potente sveniva: il cibo gli venne a fastidio, e non ne prendeva; non già che fosse mal dilicato, perchè noi eravamo avvezzi al pasto del cacciatore, nè il cibo ci dava pensiere. Il latte dalla capra montana fu scambiato con acqua dello stagno; e il pane era quel pane, che le lacrime dello schiavo bagnano da mille e mille anni, dopochè l'uomo per la prima volta chiuse i suoi simili come bruti in una prigione di ferro. Ma a noi, o a lui, che importava del pasto? Ciò non gli affliggeva il cuore, o le membra: l'anima del mio fratello aveva tempre siffatte, che in un palazzo sarebbe affreddata, se gli avessero negato di respirare liberamente sull'erta della montagna dirupata. Ma perchè differire il vero? – egli moriva. Io il vidi, ma non potei sorreggergli il capo, non potei stringergli la mano, nè quando moriva, nè quando fu morto, benchè a tutta forza mi dibattessi per rompere le mie catene. Egli morì; – e fu sciolto dai ferri, e gli scavarono angusta la fossa entro la fredda terra della nostra caverna. Io chiesi loro come una grazia, che ponessero il corpo da quella parte dove il giorno poteva splendere: – era un pensiere di follia, ma quel pensiere allora mi turbava il cervello, quasichè ancora nella morte il libero petto del fratel mio non potesse quietare in quella prigione. Oh! avessi risparmiata la mia vana preghiera! – Risero freddamente, e lo deposero laddove a lor piacque; e l'arida terra stette sopra colui, che amammo di tanto amore, e sopra la terra stettero le sue vuote catene, degno monumento di quell'omicidio. VIII. Ma il fiore dei miei fratelli, il più diletto dopo la sua ora natale, che nel bel volto ritraeva l'immagine di sua madre, il tenero amore di tutta la sua schiatta, il pensiere più caro del martire suo padre, – l'ultima cura mia, – colui, onde io cercai tenere la vita, perchè egli vivesse allor meno misero, e libero un giorno, – colui, che per virtù di natura, o ispirato, pur sostenne franco il suo spirito, – quel fiore fu percosso, e di giorno in giorno appassiva sullo stelo. O Dio! come è tremendo a veder l'anima umana sciogliere il volo, sotto qualunque forma si parla! – Io ho veduto dipartirsi l'anima nel sangue; io l'ho veduta sui marosi dell'oceano contendere con un moto di convulsione disperata; io ho veduto l'infermo sul letto dell'agonia nel delirio del peccato, e della paura: ma le angoscie del mio fratello non erano miste a simili orrori; – il suo era un dolore lento, e sicuro. – Egli veniva meno, ma tranquillo, e mansueto; si consumava soavemente, e senza pianto, e pur con immensa tenerezza, – e si addolorava per coloro, che lasciavasi addietro. Egli aveva prima una guancia florida sì, da prendere a scherno la tomba; – una guancia da cui sparvero a mano a mano i colori, come un raggio dell'iride, che si dilegua; – egli aveva un occhio così vivo di luce da rischiararne quasi la carcere; pur non disse parola di lamento, non diè gemito sopra la sua morte immatura, non parlò un momento dei giorni più felici, non mostrò la più lieve delle speranze per suscitare almeno le mie, – perchè io era caduto in fondo al silenzio, io mi perdeva in questa perdita estrema, la maggiore di tutte. Il fratel mio sopprimeva il sospiro di una natura vicina a mancare; e via via più sommesso traendolo, venne al punto, che io tesi l'orecchio, e non ascoltai più nulla: frenetico di spavento, chiamai a gran voce, e conobbi, che più non vi era speranza; ma il mio timore non voleva quell'avviso, e dando una scossa fortissima ruppi le mie catene e precipitai verso il mio fratello.... – era morto. Io solo viveva, io solo respirava l'alito maledetto di una prigione. In questo luogo fatale erasi spezzato l'ultimo, – l'unico, – il più caro legame fra me, e l'eterno abisso, – l'unico legame, che tuttavia mi stringesse alla mia schiatta cadente. I due miei fratelli avevano omai cessato di vivere: ed uno giaceva sulla terra, e l'altro sotto. Io presi quella mano immobile tanto; – ahimè! la mia non era meno fredda. Io non aveva vigore di muovermi, o di fare il minimo sforzo; ma io sentiva di aver sempre una vita, – sentimento di frenesia, quando sappiamo, che anime a noi care più non avranno una vita. Non so perchè non potessi morire: – non aveva speranza terrena, tranne la fede; e questa mi vietò, che io mi dessi colle mie mani la morte. IX. Quello che allora e dipoi avvenisse di me, io nol so bene, e nol seppi giammai. Dapprima venne la perdita della luce, e dell'aria; quindi delle tenebre ancora. Io non aveva pensiere, nè sentimento, – nulla: – stetti una pietra fra le pietre; e mal sapendo quel ch'io immaginassi, era come l'arida rupe fra le nebbie, – perchè tutto era vuoto, freddo, ed oscuro: non era nè notte, nè giorno, neppure la luce della prigione odiosa tanto agli occhi miei gravi: era un vuoto, che assorbiva lo spazio; e qualche cosa di fisso, ma senza luogo. Non v'erano stelle, nè terra, nè tempo, nè legge, nè vicenda, nè bene, nè male: ma silenzio; e un respiro insensibile, nè di vita, nè di morte; un mare di ozio stagnante, oscuro, illimitato, muto, ed immobile. X. Una luce mi balenò sulla mente: – era il canto di un uccello: – cessò, – e poi venne di nuovo; – il canto più dolce, che orecchie umane intendessero: ed io ringraziava, ascoltando, finchè i miei occhi in ogni parte si volgessero per la lieta sorpresa; ma in quell'istante non poterono scorgere come io fossi il figlio della sventura. Poi a grado a grado i miei sensi tornarono sull'usate traccie; ed io come per l'innanzi mi vidi attorno le mura della prigione, e il raggio di Sole, che vi penetrava furtivo; ma sulla fessura, donde quel raggio veniva, era posato l'uccello, tutto gaio, e dimestico, più che se fosse stato sull'albero; – un amabile uccello dall'ale azzurre; e il suo canto diceva mille cose, – e sembrava, che le dicesse tutte per me; io non aveva veduto in passato il suo simile, nè più lo vedrò. Pareva, che come a me gli mancasse un compagno; ma non era per metà così desolato: era venuto ad amarmi, nel punto che non viveva più nessuno per amarmi, – e consolandomi dalla fessura della mia prigione mi aveva ricondotto al sentimento, e al pensiere. Io non so, s'ei fosse libero di poco tempo, o se avesse rotta la sua gabbia per posare sulla mia: – ma ben sapendo, o diletto uccello, cosa sia schiavitù, non te la posso desiderare. – Era forse un angelo, che in forma d'alato mi visitava dal Paradiso? – perchè, (perdonimi il cielo questo pensiere,) mentre egli mi sforzava al pianto, e al sorriso, io pensai qualche volta, che fosse l'anima del fratel mio discesa a vedermi: ma finalmente l'uccello volossene via, ed era un mortale; – ben me ne accôrsi, perchè altrimenti così non sarebbe volato via, nè due volte mi avrebbe lasciato così solitario; – solitario, come un cadavere nel suo lenzuolo funereo; – solitario, come una nube in un giorno di Sole, mentre il resto del cielo è sereno; – un punto oscuro nell'atmosfera, che non ha motivo di apparire, mentre azzurro è il firmamento, e gaia la terra. XI. Nel mio destino venne una vicenda: i miei custodi si fecero pietosi, nè io so perchè, – talmente erano avvezzi allo spettacolo del dolore; ma così fu, e la mia catena giacque spezzata, e mi venne concesso passeggiare lungo la mia cella da una banda, e dall'altra, e su, e giù, e per traverso, e in fine da ogni lato, e intorno ad una ad una delle colonne, ritornando sempre là donde io cominciava, e nel passeggiare schivando solo le tombe fraterne, dove non cresceva cespuglio; perchè se io pensava, che sbadatamente il mio piede avesse profanato l'umile letto del loro riposo, grave mi si affannava il respiro, e il cuore mancandomi mi cadeva ammalato. XII. Io feci nel muro una scala, non già per fuggire, perchè io aveva sepolto tutti coloro, che mi amavano in forma umana; e quindi la terra intera non mi sarebbe apparsa, che una prigione più vasta. Io non aveva figlio, nè padre, nè parente, nè compagno nella mia miseria. Io pensai a questo, e ne fui lieto, dacchè il pensiere de' miei congiunti mi aveva travolto in follia. Ma io era curioso di salire alle mie ferriate, e di piegare un'altra volta sull'alte montagne la quiete d'uno sguardo innamorato. XIII. Io le vidi; – erano le stesse, nè cangiate come il mio corpo: vidi sulla cima i loro mille anni di neve, – e di sotto a loro il lago largo, e lunghissimo, e il Rodano azzurro nella sua pienezza; intesi i torrenti sgorgando saltare su per le roccie, e sui rotti arbusti; vidi la lontana città dalle bianche mura, e vele più bianche, che giù correvano veloci; e allora v'era un'isoletta[32], che mi rideva in faccia, l'unica, che fosse alla vista; – un'isoletta verde, e non sembrava più larga, che il pavimento del carcere mio. Ma sopra vi erano tre alberi alti, e vi spirava la brezza della montagna, e vicine le scorrevano le acque, e vi crescevano giovani fiori, gentili al fiato, e al colore. Nuotavano i pesci presso le mura del castello, e tutti mi parevano allegri: l'aquila correva sull'alto dei venti, nè mi parve corresse mai sì veloce come allora, che faceva sembiante di volare alla mia volta; e allora nuove lacrime mi tornarono negli occhi, ed io mi sentiva commosso, nè avrei voluto aver lasciata la mia recente catena: e quando io scesi al basso, la tenebra della mia dimora mi cadde sullo spirito come un peso gravissimo: era come una fossa scavata di fresco, che si chiuda sopra colui, che tentammo salvare; e pure il mio sguardo, oppresso di troppo, quasi aveva bisogno di un siffatto riposo. XIV. I giorni, i mesi, e gli anni passano; – io non li numerai, nè vi posi mente: non aveva speranza di sollevare i miei occhi, e sgombrarli della tetra loro caligine. Finalmente uomini vennero a farmi libero; ma non ne chiesi la ragione, nè mi curai dove andare: per me era tutt'uno, starmi sciolto, o nei ferri; – io aveva imparato ad amare la disperazione. E così quando vennero a sciogliere i miei legami, quelle orride mura erano per me diventate un eremitaggio; – erano per me tutto il mio, e nel cuore quasi sentiva come se quegli uomini fossero venuti a strapparmi un'altra volta dalla mia casa paterna. Io mi era fatto amico al ragno, osservandolo attento nelle triste sue reti, e aveva veduto il sorcio trescare al lume della luna: e perchè avrei dovuto sentire meno di loro? Eravamo tutti abitanti di un luogo medesimo, ed io monarca d'ogni razza aveva potenza di uccidere; – pur, cosa strana a narrarsi, noi avevamo imparato a vivere in pace. Perfino le mie stesse catene, ed io, eravamo diventati amici, – talmente una lunga comunanza tende a farci quel che noi siamo; – io dunque ricuperai la mia libertà con un sospiro. ― 1830[33] ― PROMETEO ― _DI LORD BYRON_ ― Titano! tu con gli occhi immortali vedesti nella trista loro realtà gli affanni umani, come cose che mal si trascuravano dagli Dei; ma qual era il premio della tua pietà? Un soffrire tacito, intenso; la rupe, l'avvoltoio, e la catena; – tutto il dolore che possono sentire i superbi, tutta l'agonia che non rivelano mai, – quel senso soffocato d'angoscia, che non parla fuorchè nella sua solitudine, e teme geloso, che il cielo non abbia un orecchio per ascoltare, nè vuol sospirare finchè la sua voce non sia rimasta senz'eco. Titano! a te fu data la lotta tra il soffrire e il volere, cose che tormentano in quella parte che non può morire. E il cielo inesorabile, e la sorda tirannia del Fato, il principio dominatore dell'odio, che per suo trastullo crea le cose che può annientare, ti rifiutarono la sorte del morire: – un miserabile dono fu tuo l'eternità, e tu l'hai ben sopportato. – Tutto ciò che il Tonante strappò da te, fu solo la minaccia che gli lanciasti contro negli spasimi della tortura. Ben tu leggesti nel Fato, ma per placarlo non volesti ridirglielo; e nel tuo silenzio fu la sua sentenza, e nella sua anima un inutile pentimento, e una paura così mal dissimulata, che i fulmini gli tremavano nella destra. Il tuo celeste delitto fu l'essere umano, e sminuire coi tuoi precetti la somma delle umane miserie, e afforzare l'uomo della sua propria mente; ma tradito come fosti dall'alto, pure dalla tua tranquilla energia, dalla tua pazienza, e dalla repulsa del tuo spirito impenetrabile, che Cielo e Terra non poterono scuotere, ereditammo una potente lezione: Tu sei simbolo e segno al mortale del suo destino, e della sua forza; l'uomo, come te, in parte è divino, torbido rivo d'una pura sorgente, e l'uomo in parte può prevedere il suo funesto destino, le sue sventure, la sua resistenza, e un'esistenza mesta, solitaria; al che il suo spirito può opporre sè stesso, scudo a tutti i mali, – e un saldo volere, e un senso profondo, che valga a scoprire, concentrata anche nei tormenti, la sua ricompensa; che trionfi dovunque osa, ed aspira, e converta la morte in vittoria. ― 1838[34] ― VI FU UN TEMPO ― _DI LORD BYRON_ ― Vi fu un tempo, che non importa rammentare, perchè non sarà dimenticato mai, quando tutti i nostri sentimenti erano li stessi, come l'anima mia è stata sempre per te. E da quell'ora in che la tua lingua confessò la prima volta un amore uguale al mio, sebbene molti dolori abbiano lacerato il mio cuore, dolori sconosciuti, e non sentiti dal tuo; Pure nessun dolore, nessuno, l'ha trafitto così profondamente come questo, il pensare che tutto quell'amore è svanito rapido e fugace come i tuoi baci infedeli, rapido e fugace nel tuo petto soltanto. Eppure il mio cuore trovò un qualche sollievo, quando, non ha molto, udì sonare dalle tue labbra in accenti, una volta immaginati veri, la rimembranza dei giorni che furono. Sì, mia diletta e crudele signora, tu non amerai più un'altra volta; ma per me è dolcezza ineffabile il sapere, che ti rimanga una memoria di quell'amore. Questo è un glorioso pensiere per me, nè l'anima mia andrà più tanto contristata; – qualunque tu sia, o sarai, tu fosti una volta caramente, unicamente, mia. ― 1838[35] ― E TU PIANGERAI QUAND'IO SARÒ MORTO ― _DI LORD BYRON_ ― E tu piangerai quand'io sarò morto, o dolce mia Donna? Oh! ripeti quelle parole, – ma non le dire, se ti dolgono; io non vorrei dare un affanno al tuo seno. È mesto il mio cuore, e le mie speranze sono svanite, e il sangue mi scorre freddo nelle vene, – e quando io morrò, tu sola verrai a sospirare sul luogo dove riposo. Eppure parmi che un raggio di pace rompa traverso la nube delle mie angoscie; – e per un tratto i miei dolori si fermano, conoscendo che il tuo cuore ha sentito per me. O Donna! benedetta la lacrima versata per uno, che non può piangere; quelle goccie preziose sono doppiamente care a colui, che non può bagnare d'una stilla i suoi occhi. Una volta il mio cuore, o dolce mia Donna, era caldo di teneri sensi come il tuo; ma ora perfino la bellezza ha cessato d'incantare un infelice creato a gemere. Piangerai tu dunque quand'io sarò morto, o dolce mia Donna? Oh! ripeti quelle parole, – ma non le dire, se ti dolgono, perchè non vorrei dare un affanno al tuo seno. ― 1838[36] ― LE TENEBRE ― _DI LORD BYRON_ ― Mi feci un sogno, che non era tutto sogno. Il Sole luminoso era spento, e le stelle erravano buie nell'eterno spazio senza raggi e senza sentiero, e la terra ghiacciata oscillava cieca e nereggiante per l'aria senza Luna; venne il mattino, e passò; rivenne, e non portò il giorno. E gli uomini dimenticavano le passioni nella paura di tanta desolazione, e tutti i cuori erano agghiacciati nell'egoismo d'una preghiera alla luce, e vivevano tutti raccolti ai focolari, e i troni, i palazzi dei re coronati, le capanne, e le abitazioni di tutte le cose che hanno un ricovero, erano abbruciate per farne fanali; le città furono consunte, e gli uomini si strinsero intorno alle case divampanti per guardarsi in faccia l'un l'altro l'ultima volta. Felici coloro, che dimoravano sotto l'occhio e la face sublime dei vulcani! Una tremenda speranza era tutto ciò che il mondo conteneva; le foreste furono incendiate, e d'ora in ora cadevano, e sparivano, – e i tronchi si estinguevano crepitando, – e tutto era nero. Le fronti umane a quella luce disperante vestivano un aspetto non terreno, quando la fiamma guizzando ci batteva sopra; alcuni si prostravano, e si celavano gli occhi, e piangevano; altri restavano col mento appoggiato sulle mani chiuse, e ridevano; ed altri correvano su e giù, alimentando di legna le tetre cataste, e con matta inquietudine guardavano uno stupido cielo, manto funerale d'un mondo defunto, e quindi si giacevano nella polvere maledicendo, e digrignavano i denti, ed urlavano. Gli uccelli di rapina stridevano, e volavano a terra esterrefatti, battendo inutilmente le ali; le fiere le più salvatiche vennero tremanti e mansuete; le vipere serpendo si avvinghiavano fra le moltitudini, e sibilavano, ma non pungevano; – esse furono uccise per cibo. E la guerra, che per un momento stette sospesa, si saziò nuovamente; – un pasto fu compro col sangue, e ciascuno sedè cupamente da parte, pascendosi nella oscurità. Non vi era più amore; – tutta la terra non era che un pensiere, e quel pensiere era morte immediata, ingloriosa; e gli spasimi della fame corrodevano le viscere a tutti, – gli uomini morivano, e le loro ossa stavano insepolte come la loro carne. Gli affamati mangiavano gli affamati, e i cani stessi assalsero i loro padroni, tutti fuori che uno. Questo fu fedele ad un cadavere, e tenne a bada gli uccelli, le fiere e gli uomini, finchè la fame non gli ebbe distrutti, o il cadere d'un altro cadavere non solleticò le loro vuote mascelle; ma il cane non cercò cibo, bensì con pietoso e continuo ululato, e con un grido acuto, desolante, lambendo la mano, che più non rispondeva con una carezza, morì. Le moltitudini a grado a grado perirono tutte; solo sopravvissero due uomini d'una sterminata città, ed erano nemici. S'incontrarono accanto alle ceneri morienti d'un santuario, dove un mucchio di cose sacre era stato radunato ad uso profano. Colle loro fredde mani di scheletro raccolsero insieme quelle poche ceneri, e coll'esile fiato vi destarono un momento di vita, e levarono una fiamma, che era uno scherno. Come si fece un poco più chiaro, alzarono gli occhi, e si guardarono in faccia; videro, diedero un urlo, e morirono; – morirono della loro scambievole bruttezza, mal conoscendo chi fosse colui sulla fronte del quale la fame aveva scritto – demonio. – Il mondo era vuoto; popolato dianzi e potente, adesso era un cumulo senza stagioni, senza erbe, senza piante, senza uomo, senza vita, – un cumulo di morte, un caos di dura creta. I fiumi, i laghi, l'Oceano, tutto taceva, e nulla moveasi nelle silenziose loro caverne; navi senza marinari giacevano putrefacendosi sul mare, e gli alberi cascavano a pezzi, e cadendo dormivano sull'abisso senza flutto; – le onde erano morte, le maree erano nella tomba, la Luna loro signora era spirata prima, i venti erano mancati nell'aere stagnante, e perite le nubi; le tenebre non avevano bisogno di loro, – le tenebre erano l'universo. ― 1838[37] ― IL FUNERALE DEL POVERO ― _DI ROBERTO SOUTHEY_ ― Che! neppur uno, che mandi un pietoso sospiro! neppur uno, che fuggendo un momento alle scene sociali, e alle delizie della vita, coll'occhio pregno di dolore versi una lacrima, e si fermi sul morto! Povero infelice reietto! io piangerò per te, io piangerò per la deserta umanità! Sì, io piangerò, non già perchè tu sia venuto ai severi riposi della tomba silenziosa; chè almeno lo squallido Bisogno, e la cupa velenosa Cura, demoni che corrodono il cuore, mai non entreranno laggiù. Io gemo sopra i mali che tu provasti nella vita, quando nel lungo pellegrinaggio del mondo compiesti la tua giornata senza amore e senza amici, solo accompagnato dalla povertà e dagli affanni. La tua gioventù trascorse nell'ignoranza e nella fatica, e la tua vecchiaia fu arida, assiderata. Fu duro il tuo Fato, perchè, mentre ti condannava al dolore, ti negava la sapienza di sopportarne l'amarezza; e spogliando prima la tua mente di tutta la sua forza, ti gettava abietto del pensiero, e vittima della miseria, a ramingare fra i tuoi simili nell'ampio deserto del mondo. Dormi in pace, povero reietto! La furia invernale più non investe acerba il tuo corpo indifeso. I tuoi mali sono passati, – tu riposi nel sepolcro; – io mi fermo, e medito sui giorni avvenire. 1838[38] ODE SULLA SEPOLTURA DI SIR GIOVANNI MOORE ― _DI CARLO WOLFE_ ― Non fu sentito un tamburo, nè una nota funerea, mentre col suo corpo ci affrettavamo ai terrapieni; nè un soldato fece lo sparo dell'addio sulla fossa dove seppellivamo il nostro eroe. Noi lo seppellimmo nell'alto della notte smuovendo le glebe colle nostre baionette, alla luce nebbiosa d'un incerto raggio di Luna, e al cupo chiarore d'una lanterna. Nè lo racchiuse l'inutile cassa, nè lo ravvolse il lenzuolo, o il manto funerario; ma giaceva simile ad un guerriero, che si riposi tutto avviluppato nel suo marziale mantello. Poche, e brevi furono le preci, che dicemmo senza proferire una parola di dolore; ma guardammo fisamente la faccia del morto, pensando con amarezza al dimani. Mentre gli componevamo l'angusto suo letto, e gli appianavamo il suo solitario guanciale, pensammo, che il nemico e lo straniero passerebbero sulla sua testa, e noi saremmo lontani sull'onda! Irreverenti parleranno dello spirito dipartito dicendogli villania sulle fredde sue ceneri; ma egli non curerà di nulla, se lo lasciano dormire nella fossa, che gli ha scavato un Britanno. Ed eravamo al mezzo della solenne opera nostra, quando l'orologio ci annunziò l'ora della ritirata, e dal cannone lontano, spesseggiante, sentimmo che il nemico aveva cominciato l'assalto. Lentamente, e mestamente noi lo calammo giù nella fossa dal campo della sua fama fresca e sanguinosa; non incidemmo una linea, non alzammo una pietra; ma lo lasciammo solo con la sua gloria. ― 1838[39] ― LAMENTO DI MARIA REGINA DI SCOZIA _ALL'AVVICINARSI DELLA PRIMAVERA_ ― _DI ROBERTO BURNS_ ― Ora la natura appende ad ogni albero fiorito il suo verde manto, e stende sull'erboso prato le sue lenzuola di bianche margherite; ora il Sole rallegra le cristalline correnti, e fa lieto l'azzurro dei cieli; ma nulla può rallegrare la povera creatura, che vive stretta in un carcere. Ora la lodoletta sorta sull'ali rugiadose desta il gaio mattino, e il merlo a mezzogiorno sulla sua frasca fa risuonare gli echi del bosco; il malverso cantando in molte note invita a dormire il giorno sonnacchioso, e tutti esultano d'amore e di libertà, senza affanni e senza catene. Ora fiorisce il giglio sui margini, e la primarosa giù pei declivi, e nelle valli germoglia la spinalba, e bianca latte è la prugnola, e l'infimo tra i cervi della bella terra di Scozia può aggirarsi a sua posta fra tutte queste dolcezze; – ma io sola, la Regina di Scozia, debbo giacermi in una dura prigione. Io fui regina del bel paese di Francia, dove sono stata felice; leggiera leggiera io mi levava al mattino, e gioiosa mi coricava la sera; – e sono Sovrana di Scozia, e molti sono colà i traditori; pure io son qui cinta di catene straniere, e d'interminabili angoscie. E tu, o falsa donna, mia sorella, e nemica, – una truce vendetta affilerà una spada, che andrà traverso all'anima tua; – tu non conoscesti mai la creatura piangente nel seno della madre, nè il balsamo che cade sulle ferite del dolore dall'occhio compassionevole della donna. Figlio mio, figlio mio! più cortesi stelle splendano sulla tua fortuna, e possano abbellire il tuo regno quei piaceri, che mai non vollero balenare sul mio. Dio ti salvi dai nemici di tua madre, o converta a te i loro cuori; e dove tu incontri un amico di tua madre, oh! per amore di me ricordati di lui! Ah! presto presto i Soli dell'estate più non accendano per me il mattino, ed i venti dell'autunno più non agitino per me le fronde ingiallite, e nell'angusto albergo della morte imperversi l'inverno intorno di me, e gli estremi fiori onde s'orna la primavera fioriscano sulla mia pacifica tomba! ― 1838 ― LA VITA E LA MORTE ― _DI VITALIS_ ― Alla mattina io stetti sull'alto della montagna bella dei fiori di maggio, e vidi il sorgere del giorno lieto d'oro, e di porpora, e gridai: – o Vita come sei bella! Era già l'ora, che il Sole sorgeva, e gli uccelli cominciavano sui rami a cantare: e l'ora, e l'armonia, mi destarono in petto vaghezza di canto, e un ardore di passioni sublimi. E in quel punto il mio spirito si mosse al desiderio di stendere il volo lontano dalla sua dimora, si mosse al desiderio di errare come il Sole di piaggia in piaggia creatore dei fiori, e della luce. Alla sera io stetti sull'alto della montagna, e rapito nelle preci devote vidi il sorgere della notte lieta d'argento, e di porpora, e gridai: – o Morte come sei bella! E quando il venticello della sera venne gentile col suo fiato di balsamo, sembrommi allora, che la natura mi baciasse le guancie, e teneramente sospirasse il mio nome. Io vidi la larghezza del cielo diffusa intorno all'universo; e gli astri venivano al cielo come fanciulli: allora le gesta degli uomini mi parvero piccole; non conobbi di grande, che il nome dell'Infinito. Oh! come sfuma il sorriso, che veste le gioie, e le speranze terrene, allorchè nel petto al Poeta gli eterni pensieri sorgono come in cielo le stelle! ― 1838[40] ― LA CANZONE DELLA SERA DELLO STRANIERO ― _DI WERNER_ ― Io scendo dalla montagna, e la valle riposa, e il mare romoreggia; io vado ramingando tacito e malinconico, e un sospiro sempre dimanda: – dove? Il Sole qui mi par freddo, e i fiori appassiti, e vecchia la vita; e l'idioma che gli uomini parlano, uno strepito discorde: – io sono dappertutto straniero. Dove sei, o mia terra diletta, cercata, presentita, e non mai conosciuta? o mia terra così bella, e verde di speranza? o terra dove le mie rose fioriscono? Dove erano le mie visioni, dove i miei morti riposano? la terra che parla il mio linguaggio, ed ha tutto ciò che mi manca? Io vado ramingando tacito e malinconico, e sempre un sospiro dimanda: – dove? – E l'aure riportano indietro il sospiro, che dice: – dove tu non sei, là fiorisce la felicità. ― 1838[41] ― SCENA QUARTA DEL TERZO ATTO NELLA MARIA STUARDA ― _DI SCHILLER_ ― ELISABETTA Come si chiama il luogo? DUDLEY, CONTE DI LEICESTER Il castello di Fotheringay. ELISABETTA Rimandate a Londra il séguito della nostra caccia; il popolo si accalca troppo per le strade, – e noi cerchiamo un ricovero in questo parco tranquillo. _(Talbot allontana il séguito. Ella fissa gli occhi in Maria seguitando a parlare con Pauleto)._ Il mio buon popolo mi ama soverchiamente. Smoderati, idolatrici, sono i segni della sua gioia; – così si onora un Dio, non un mortale. MARIA _(la quale in questo frattempo si era appoggiata mezzo svenuta sulla nutrice, ora si alza, e i suoi occhi incontrano lo sguardo teso di Elisabetta. Essa ne raccapriccia, e si abbandona di nuovo sul seno della nutrice)._ O Dio! da quei lineamenti il cuore non parla. ELISABETTA Chi è la Signora? _(Silenzio universale)._ LEICESTER Tu sei a Fotheringay, o Regina. ELISABETTA _(si mostra sorpresa e stupefatta, volgendo un'occhiata cupa a Leicester)._ Chi mi fece un tal tratto? Lord Leicester! LEICESTER La cosa è fatta, o regina; ed or che il cielo avviò i tuoi passi a questa volta, lascia che la magnanimità e la compassione trionfino. TALBOT, CONTE DI SHREWSBURY Consenti, donna reale, a piegare il tuo sguardo sull'infelice, che si curva alla tua presenza. _(Maria si raccoglie, e vuole andare incontro a Elisabetta, ma si ferma a mezzo rabbrividendo tutta; i suoi gesti esprimono una violentissima agitazione)._ ELISABETTA Come, Milordi? Chi fu dunque colui, che mi annunziava un inchino profondo? Io trovo invece una superba in nessuna guisa domata dall'infortunio. MARIA E sia così. Anche a questo io vo' sottomettermi. Va, fuggi, invalido orgoglio di un'anima generosa! Io dimenticherò chi sono, e quel che soffersi, e mi getterò ai piedi di colei, che mi travolse in questa ignominia. _(Si volta verso la regina)._ Sorella, il cielo ha deciso per voi! – La fronte vostra fortunata è cinta della vittoria; – io adoro il Dio, che tanto vi sublimava. _(Le cade ai piedi)._ Ma siate ben anche voi magnanima, o sorella! Non mi lasciate giacere piena di avvilimento! Stendete la vostra mano, porgetemi la destra reale per sollevarmi dalla profonda caduta! ELISABETTA _(ritraendosi)._ Lady Maria, voi siete al vostro luogo, e ringraziando lodo la bontà del mio Dio, che non abbia voluto prostrarmi ai piedi vostri come or voi siete ai miei. MARIA _(con affetto crescente)._ Pensate alle rivoluzioni delle cose umane! Vivono Dei, che fanno vendetta della superbia; e venerate, temete questi terribili Dei, che mi atterrano ai piedi vostri! Per rispetto di questi stranieri spettatori, in me onorate voi stessa! Non profanate, non vergognate il sangue dei Tudor, che nelle mie scorre come nelle vostre vene. Dio del cielo! non state là dura, inaccessibile, come lo scoglio che il naufrago contende invano di afferrare. Tutto, la mia vita, la mia sorte, pendono dalla forza delle mie parole, delle mie lacrime; scioglietemi il cuore onde io commuova il vostro! Se voi mi guardate con quel guardo ghiacciato, dal ribrezzo il cuore mi si serra, la corrente del pianto ristagna, e un freddo orrore m'incatena le preghiere nel petto. ELISABETTA _(fredda e severa)._ Che avete a dirmi, Lady Stuarda? Voi desideraste parlarmi. Ecco, io mi scordo la regina, la tanto gravemente offesa regina, per adempiere l'ufficio pietoso di sorella, e concedervi il conforto della mia presenza. Io séguito l'istinto di un animo grande, e mi espongo ad un biasimo ben meritato scendendo tanto in fondo,.... poichè voi ben sapete, che un tempo voleste farmi ammazzare. MARIA Donde darò principio, e con quale artificio disporrò le mie parole, perchè vi si appiglino al cuore, ma non vi offendano? O Dio, invigorisci la mia eloquenza, levandole ogni spina, che potesse pungere! Ma tuttavia io non posso parlare a mio pro, senza gravemente accusarvi; e nol vorrei. Voi mi avete trattata come non è giusto, dacchè io sono regina non altrimenti che voi, e voi mi avete tenuta come prigione. Io venni a voi come supplice, e voi in me violando le sante leggi della ospitalità, e il santo diritto delle genti, mi chiudeste fra le mura di un carcere; – gli amici e i servi crudelmente mi furono a forza tolti; – abbandonata in una ignobile miseria; – tradotta dinnanzi a un vituperevole tribunale. – Ma non più di questo! Un eterno oblio cuopra le durezze da me patite. Vedete! Io voglio chiamar tutto questo un destino; voi non siete rea, nè io il sono; – un cattivo spirito si levò dall'inferno per infiammare nei nostri cuori l'odio, che già disunì la nostra tenera giovanezza. L'odio crebbe con noi, e tristi uomini aggiunsero soffio alla malaugurata fiamma. Stolidi fanatici la non chiesta mano armarono di spada e di stiletto. – Destino maledetto dei re è che rissando squarcino il mondo coll'odio, e scatenino tutte le furie della discordia. Ora di mezzo a noi non è più bocca straniera. _(Le si avvicina fiduciosa, e con aria carezzevole)._ Noi stiamo adesso a fronte l'una dell'altra. Or favellate, o sorella! Nominate la mia colpa; – io voglio sodisfarvi pienamente di tutto. Ah! se voi mi aveste dato ascolto in quel tempo, che io tanto bramosamente cercava vedervi! Le cose non sarebbero trascorse tant'oltre, nè in questo tristo luogo ora succederebbe un doloroso e sciagurato incontro. ELISABETTA La mia buona stella mi salvò dal mettermi in seno la vipera. Non incolpate il destino, ma il vostro cuore tenebroso, e la feroce ambizione della casa vostra. Nessuna cosa nemica era accaduta fra noi, quando il vostro zio, l'orgoglioso prete feudale, che la mano audace stende a tutte le corone, m'indisse la guerra, vi allucinò a pigliare le mie armi, a farvi proprio il mio titolo regale, a scender meco in un agone di morte e di vita. Che non mi sollevò contro costui? La lingua dei sacerdoti, – la spada dei popoli, – tremende armi di una religiosa frenesia; fino qui nella sede pacifica del mio regno soffiò le fiamme della ribellione; ma Dio è con me, e il vanitoso prete non tiene il campo. – Il colpo alla mia testa fu vibrato, e cade la vostra! MARIA Io sto nelle mani di Dio. Voi non eccederete così sanguinosa la vostra potenza.... ELISABETTA Chi me lo impedirà? Il zio vostro diè a tutti i re del mondo l'esempio del come si faccia pace coi proprii nemici. La festa di S. Bartolomeo sia la mia scuola! Cos'è a me il vincolo del sangue, il diritto delle genti? La Chiesa scioglie ogni legame di dovere, – consacra la rotta fede, e il regicidio; – adesso io pratico quello che insegnano i preti vostri. Dite! qual pegno mi assicura di voi, quand'io magnanima sciogliessi le vostre catene? In qual castello custodirò la fede vostra, che le chiavi di S. Pietro non possano aprirlo? La forza unicamente assecura; – colla razza delle vipere non v'è alleanza. MARIA Ahi! son questi i vostri neri funesti sospetti! Voi mi teneste sempre in conto come di nemica, e di straniera. Se voi mi aveste dichiarata erede vostra come a me si appartiene, gratitudine e amore vi avrebbero mantenuta in me una leale amica e parente. ELISABETTA Al di fuori, Lady Stuarda, sono le amicizie vostre; casa vostra è il Papismo, vostri fratelli i frati. – Voi dichiarare erede, voi! Viluppo di tradimenti! – Affinchè in vita mia il mio popolo corrompeste, ed insidiosa Armida traeste nelle reti sottili dei vostri vezzi la nobile gioventù del mio regno; – affinchè tutto si voltasse dalla parte del nuovo Sole nascente, e io.... MARIA Regnate in pace! Io rinunzio ogni titolo su questo regno. Ah! le ali del mio spirito son tronche; – la grandezza più non mi tira: – voi l'avete ottenuta; – io non sono che l'ombra di Maria. La generosa anima si è spenta nel lungo vilipendio del carcere. – Voi avete fatto l'estremo contro di me, mi avete distrutta sul fiore. Or fate fine, o sorella! Parlate la parola per cui siete venuta; nè io vorrò creder mai, che voi veniste per irridere barbaramente la vostra vittima. Parlate questa parola! Ditemi: – voi siete libera, o Maria! Avete provata la mia potenza, adesso imparate ad onorare la mia magnanimità. – Ditelo, ed io riceverò la vita, la libertà, come un dono delle vostre mani. Una parola rende tutto non avvenuto. Io l'aspetto. Oh! non mi fate più a lungo struggere di desiderio. Guai a voi, se non finite con questa parola! Imperciocchè se voi or non partite da me benefica, generosa, come una Divinità, – sorella! non per tutta questa ricca Isola, non per tutte le terre che il mar circonda, vorrei stare dinnanzi a voi come voi state dinnanzi a me! ELISABETTA Vi date alfine per vinta? Abbandonate le frodi vostre? Non vi son più assassini pronti a ferire? non vorrà più nessuno avventuriere cimentare per voi la trista cavalleria? Sì, tutto è finito. Lady Maria; – voi non sedurrete più nessuno contro di me. Il mondo ha ben altre cure: a nessuno talenta diventare il vostro – quarto marito; dacchè voi uccideste i vostri amanti al pari dei vostri mariti. MARIA _(con impeto)._ Sorella! sorella! O Dio! Dio! dàmmi moderazione! ELISABETTA _(la guarda lungamente con occhio di superbo disprezzo)._ Questa è pertanto la leggiadria, Lord Leicester, che nessuno impunemente rimira, cui nessuna altra donna ardisce paragonarsi! Certo! è gloria da conseguirsi con poco! Per esser la bellezza comune altro non costa che farsi a tutti comune! MARIA Questo è troppo! ELISABETTA _(con riso beffardo)_ Ora voi mostrate l'aspetto vostro sincero; fin qui non fu che una maschera. MARIA _(accesa di collera, ma con nobile decoro)._ Io ho fallato umanamente, e da giovane; il potere mi traviò, nè l'ho taciuto, o nascosto, ma con reale franchezza ho dispregiato le false apparenze. Il mondo sa il peggio di me, ed io posso dire d'esser migliore della mia reputazione. Guai a voi, se un tempo leverete dalle vostre azioni quel manto di onore, onde voi splendidamente coprite le fiere voglie di una segreta libidine! Da vostra madre non aveste in retaggio l'onestà; e tutti sanno per via di quali virtù Anna Bolena ascendeva sul palco. SHREWSBURY _(entrando di mezzo alle due regine)._ O Dio del cielo! a questo doveasi giugnere! Lady Maria, è questa forse moderatezza, sottomissione? MARIA Moderatezza! io ho sofferto quanto l'uomo può soffrire. Esci, o rassegnazione, dal cuore d'agnello! vola in cielo, tollerante pazienza! rompi i tuoi legami, esci dalla tua spelonca, o rancore così a lungo racchiuso! – e tu, che all'irritato basilisco desti lo sguardo omicida, tu ponmi sulla lingua l'avvelenata freccia![42] SHREWSBURY Oh! ella è fuor di senno! Perdonate in lei il furore, la potente irritazione! _(Elisabetta, muta di collera, lancia occhiate furiose sopra Maria)._ LEICESTER _(nella più veemente agitazione tenta di menar via Elisabetta)._ Non dare orecchio alla forsennata! Fuori, fuori di questo luogo malaugurato! MARIA Il trono d'Inghilterra è da una bastarda profanato: – il nobile Popolo Brittanno è da una scaltrita giocolatrice ingannato. Se il Dritto regnasse, or voi sareste nella polvere dinnanzi a me, perchè io sono la vostra regina. _(Elisabetta parte rapidamente; i Lordi la seguitano nella più alta confusione)._ ― 18...? ― NOTE: [29] «Francesco di Bonnivard, figlio di Luigi Bonnivard nativo di Seyssel, e signore di Lunes, nacque nel 1496, e fece li studi a Torino. Nel 1510 Giovanni Amato di Bonnivard suo zio gli cesse il Priorato di San Vittore, benefizio notabile confinante alle mura di Ginevra. Quest'uomo grande, – poichè gli dànno diritto a tal nome la forza dell'anima, e il cuore ingenuo, e i nobili intendimenti, e la sapienza dei consigli, e il contegno animoso, e la dottrina moltiplice, e lo spirito arguto, – questo uomo grande susciterà la maraviglia di chi può esser tuttora commosso da una virtù eroica, e spirerà sempre la più viva riconoscenza nel cuore dei Ginevrini, che amano Ginevra. Bonnivard fu in ogni evento uno de' suoi più saldi sostegni, e per assicurare la libertà della nostra Repubblica non temè di perdere spesso la sua; nè curò il suo riposo, e dispregiò le sue ricchezze, nulla lasciando per convalidare la felicità di un paese, che volle onorare scegliendolo a patria; e da quell'ora l'amò come il più caldo de' suoi cittadini, e stette alla sua difesa colla intrepidezza di un eroe, e ne scrisse la storia colla ingenuità del filosofo, e coll'ardore del patriotta. Nel cominciamento della sua storia dice, _che dopo aver principiato a leggere quella delle altre nazioni sentivasi trasportato dal suo genio alle repubbliche, e sempre ne sostenne la causa:_ – e questo genio di libertà certamente gli fece adottare a patria Ginevra. Bonnivard tuttavia giovane si dichiarò altamente difensore di Ginevra contro al Duca di Savoia, ed al Vescovo. Nel 1519 Bonnivard fu martire della patria. Il Duca di Savoia essendo entrato in Ginevra con 500 uomini, Bonnivard ne temeva il risentimento; però volle ritirarsi a Friburgo, onde schivarne gli effetti; ma tradito da due suoi seguaci fu condotto per comando del Principe a Grolee, dove rimase prigioniero due anni. Bonnivard era infelice nei suoi viaggi; e poichè le sue sventure non avevano punto affreddato l'amor suo per Ginevra, però era un nemico formidabile sempre a coloro che la minacciavano, e per conseguenza Bonnivard doveva esser la mira dei loro colpi. Nel 1530 i ladri lo incontravano sul Jura, e dopo averlo svaligiato lo posero nelle mani al Duca di Savoia. Quel principe lo fece chiudere nel castello di Chillon, dove rimase senza esser giudicato fino al 1536, e allora fu liberato da quei di Berna fattisi padroni del paese di Vaud. Uscito di schiavitù ebbe il conforto di trovare Ginevra libera. La Repubblica fu pronta ad attestargli la sua riconoscenza rimeritandolo dei mali sofferti. Nel mese di Giugno 1536 ella lo accolse cittadino, e gli diè la casa un tempo abitata dal vicario generale, e gli assegnò 200 scudi d'oro finchè dimorasse in Ginevra, e l'anno 1537 fu ammesso nel Consiglio dei Dugento. Bonnivard non cessò mai d'esser utile; e dopo aver faticato a render Ginevra libera, gli riuscì a renderla tollerante, conducendo il Consiglio a concedere agli ecclesiastici, e ai contadini, tempo bastevole onde esaminare le proposte, che loro facevansi; e il conseguì con la sua dolcezza. Bonnivard fu letterato, e i suoi manoscritti provano come avesse ben letto i classici latini, e come fosse profondo nella teologia e nella storia. Quest'uomo grande amava le scienze, e credeva potessero fare la gloria di Ginevra; quindi nulla trascurò perchè le scienze avessero sede in questa città nascente. Nel 1551 _donava al pubblico la sua biblioteca_, e quei libri formano parte delle belle e rare edizioni del Secolo XV, le quali si veggono nella nostra raccolta. Finalmente l'anno medesimo questo buon cittadino istituiva la Repubblica erede del suo, a condizione di impiegare quei beni per mantenere il Collegio, che si avvisavano fondare. Pare, che Bonnivard morisse nel 1570, ma nol possimo accertare, dacchè nella Necrologia v'è una lacuna dal mese di Luglio 1570 fino al 1571». [30] «Così narrano di Lodovico Sforza, e di altri. Affermano lo stesso di Maria Antonietta moglie di Luigi XVI, ma non in tempo sì breve. Dicesi che il dolore produca il medesimo effetto, e a questa causa più che alla paura vuolsi attribuire siffatto cangiamento in quella regina». [31] «Il castello di Chillon è situato fra Clarens, e Villanuova, la quale giace ad una estremità del lago di Ginevra. A mano manca del castello vi sono le imboccature del Rodano, e di fronte le alture di Meillerie, e la catena delle Alpi sopra Boveret, e S. Gingo. Dietro al castello vi è un monte vicino, e sopra vi scorre un torrente: il lago, che bagna in fondo le mura, è stato scandagliato sino alla profondità di 800 piedi francesi. Dentro al castello vi è una fila di prigioni, dove chiudevansi i primi riformatori, e poi i prigionieri di Stato. Traverso una delle volte esiste sempre un trave nero dal tempo, sul quale ci dissero che i rei anticamente erano giustiziati. Nelle carceri vi sono sette colonne, o piuttosto otto, perchè una ve n'è mezzo internata nel muro. In alcune colonne vi sono anelli, che servivano per le catene dei prigionieri, e sul pavimento i passi di Bonnivard vi hanno lasciata l'orma: – egli vi stette chiuso parecchi anni. Presso a questo castello Rousseau fa succedere la catastrofe della sua Eloisa, allorchè Giulia salva dall'acqua uno de' suoi figli, e la malattia prodotta dallo spavento e dalla immersione la conduce a morte». [32] «Fra le imboccature del Rodano e Villanuova, non lontano da Chillon, vi è un'isola piccolissima, la sola che io potessi scorgere viaggiando il lago da ogni parte. Contiene pochi alberi, io credo non più di tre; e dall'esser così sola, e così piccola, produce un effetto singolare alla vista. Quando io ebbi scritto questo poema non mi era nota così minutamente la storia di Bonnivard; altrimenti avrei cercato di nobilitare il soggetto, tentando a celebrare il suo coraggio, e le sue virtù. Le poche notizie della sua vita mi furono date da un cittadino cortese di quella Repubblica, altero sempre della memoria di un uomo degno di vivere nei tempi migliori dell'antica libertà». [33] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 44._ [34] _Dalla _Viola del Pensiero_, Anno I._ [35] _Dalla _Rosa di Maggio_, 1843._ [36] _Dalla _Rosa di Maggio_, 1843._ [37] _Dalla _Rosa di Maggio_, 1843_. [38] _Dalla _Viola del Pensiero_, Anno I._ [39] _Dalla _Viola del Pensiero_, Anno I_. _Questo canto, di cui s'ignorò per qualche tempo l'origine, fu successivamente da alcuni attribuito a Lord Byron; ma poi si accertò esserne autore Carlo Wolfe, spento anch'egli sul fiore degli anni, e delle speranze. ― Sir Giovanni Moore soccombè nella battaglia di Coruna sostenuta il 16 Gennaio 1808 dagl'Inglesi contro le truppe francesi, che invadevano allora la Spagna._ [40] _Dalla _Viola del Pensiero_, Anno I_. [41] _Dalla _Viola del Pensiero_, Anno I_. [42] _Collazionata questa Traduzione con quella di Pompeo Ferrario, meritamente tenuta in gran pregio, ci parve di riscontrar nella prima maggior grazia e spontaneità di stile, sebbene qua e là in esse s'incontri identità quasi assoluta di frasi e di periodi. E fummo lieti di trovare nella Traduzione del Bini espresso con fedeltà ed evidenza questo concetto, che nell'altra non ci riusciva d'intendere._ _Il Ferrario traduce: «_E tu, cui l'incantato basilisco diede lo sguardo di morte, poni sulla mia bocca l'avvelenata saetta_». ― Vedi _Teatro scelto di SCHILLER, trad. da P. Ferrario_; vol. II, pag. 125, – Mil. 1819._ SISMONDO DE SISMONDI SISMONDO DE SISMONDI ― _DI ALFREDO REUMONT_ ― L'Italia più d'ogni altro paese ha sempre attratto ed occupato di sè i forestieri; nè intendo per questo ch'ella se n'abbia a rallegrare; poichè cosa abbia fruttato questa forza d'attrazione, osservata sotto l'aspetto politico, noi lo vediamo ogni giorno con gli occhi nostri senza bisogno di svolgere le pagine dei suoi annali, e sotto l'aspetto letterario ce lo dimostrano quelle infinite sozzure, le quali anno per anno riboccano dai torchi di Francia, d'Inghilterra, e sopratutto d'Alemagna, il perchè fu detto ingegnosamente l'Italia essere stata mai sempre oltraggiata in antico dalle armi, e adesso dalle penne dei Barbari che la visitano. – Ma per fortuna, e come ragion vuole, non sono mancati mai a quando a quando uomini ragguardevoli, che facessero questa terra soggetto dei loro studi, e massimamente nel genere storico gl'Italiani vanno debitori d'assai ai forestieri. E per non dire dei più antichi, e di quei tanti che trattarono la Storia delle Arti, Roscoe, Hallam, Shepherd, Perceval, Ginguené, Daru, Fauriel, Artaud, il Duca de Luynes, Lebret, Bouterweck, Voigt, Schlosser, Savigny, Raumer, Hurter, Rancke, Witte, Leo, Gervinus, Barlhold, Höfler, C. Meyer, Rudelbach, Gaye, Papencordt, Dönniges, ed altri molti, hanno pagato un ricco tributo di devozione e di affetto _al bel paese ove il sì suona_. Ma più di tutti è da nominarsi il Sismondi, e per quanto egli si occupasse seriamente d'altri popoli ancora, e d'altri paesi, il suo cuore appartenne all'Italia, e agli Italiani, e s'immedesimò nella gloria e nella grandezza di lei, e partecipò caldamente ai suoi avversi destini, considerando quella terra come sua patria, e come amici e fratelli i suoi abitatori. Gio. Carlo Leonardo Sismondo De Sismondi, nacque a Ginevra il 9 maggio 1773. Egli apparteneva a famiglia di origine Toscana, e nel Canto XXXIII dell'Inferno di Dante, Ugolino della Gherardesca insieme ai Gualandi e ai Lanfranchi rammenta i Sismondi tra le grandi casate di Pisa. Al principio del Secolo XVI questa famiglia cambiò l'Italia colla Francia, e dipoi colla Svizzera francese. Egli non aveva anche bene 20 anni, che la Rivoluzione lo cacciò co' suoi in Inghilterra, e ritornato lo multò di pecunia e di prigione, poi lo ricacciò di nuovo, ma questa volta in Toscana, dove sulle prime, e durante la conquista francese, ebbe a sostenere più e diverse vicende. Per la qual cosa nel proemio agli _Studi sull'Economia politica_ si esprime per tal modo: «Per lo spazio di 16 anni io sono stato iteratamente il giuoco delle rivoluzioni, che la lotta cominciata nell'ottantanove suscitò in ogni parte del corpo sociale. Ho sofferto nella persona e negli averi, e ho riguardato da vicino le passioni del popolo mescolandomi a quelle, e così ogni studio e meditazione di cui fossi capace ho congiunto a quella esperienza che mi diedero gli avvenimenti, dei quali talvolta mio malgrado fui testimone». Sulla riva destra dell'Arno tra Firenze e Lucca giace una grande vallata per dove scorre la Nievole, che le dà il nome, in alcuni luoghi paludosa e malsana, ma più in antico, perchè nelle battaglie di quei vicini stati fino ai tempi del gran Castruccio interi eserciti su quel suolo perivano, ed oggi assai meno, perchè il male in gran parte fu rimediato. La valle però nel complesso è oltremodo fertile, e coltivata accuratamente a guisa d'immenso giardino, traversata da una fila di colline ricche di viti, e a settentrione difesa dalle selvose e pittoresche montagne di Pistoia. Chi poi da Pistoia movendo scende giù per le forre di Serravalle alle salutifere e frequentate sorgenti di Montecatini, e di là si reca alla deliziosa Pescia capoluogo della valle, comprende appieno la bellezza di questo paese, di cui il Sismondi ritrasse con sì liete immagini l'agricoltura, e gli uomini. A Pescia pertanto dimorò lungo tempo il Sismondi, rattenendolo ancora i legami di famiglia, perchè la sua sorella Sara si maritò con un gentiluomo assai riputato del luogo, Antonio Cosimo Forti, il di cui figlio Francesco, giovane di bellissimo ingegno, e giureconsulto profondo, fu rapito troppo presto alle scienze; e quivi più tardi egli si comperò un possesso, e in ultimo vi passò molte ore felici nel 1836, e 37. E fu nella sua lunga dimora in Toscana, che gli si destò nell'animo l'idea di scrivere la Storia d'Italia del Medio-Evo; e con quella diligenza e tenacità proprie di colui, che dalle indagini severe del soggetto aveva inferito e misurato la grandezza e le difficoltà dell'impresa si consacrò a quegli studii, che dovevano abilitarlo all'esecuzione del suo disegno. E circa il 1800 principiarono le sue ricerche, e otto anni dopo comparve la prima parte della _Storia delle Repubbliche Italiane del Medio-Evo_. Tornato a Ginevra continuò i suoi studii, tenne lezioni di Storia politica e letteraria in un cerchio d'uomini e di donne, prese molta parte nel governo e negli affari, fece lunghi viaggi nella sua patria, in Inghilterra, in Alemagna, e visitò da capo l'Italia, di cui apprese a conoscere ogni luogo, di cui prediligeva gli abitatori, e dove trovò tante e siffatte accoglienze, e cortesie, e ricambi d'amore, che dovevano a forza far buono al suo cuore. E i segni d'amicizia e di reverenza, che gli erano fatti colà, soleva pregiare più altamente di quelli, che in egual misura gli erano fatti altrove. Perfino nell'ultima dolorosa infermità, un cancro dello stomaco, ove più o meno sofferse due anni di séguito, lo teneva preso incessantemente il pensiero, compiuta la _Storia dei Francesi_, di tornarsene a Pescia, e quivi colla sua moglie inglese, alla quale già attempato si era stretto in felice matrimonio, chiudere la vita in mezzo ai suoi nepoti superstiti. E di fatti alla fine del passato Maggio scriveva ad un Fiorentino suo amico, che come prima potesse intendeva venire in Toscana, e aver già mandato una parte dei suoi libri. Ma egli morì il 25 Giugno a Chêne sua villa presso Ginevra. Le opere letterarie del Sismondi, frutto d'una vita ben travagliata, hanno fatto il suo nome immortale, e per quanti obietti in genere o in ispecie possano farsi alle sue grandi opere, conviene pur sempre annoverarlo tra i più notabili Storici del Secolo XIX. Nè questo è il luogo di passarle per esteso in esame, tanto più che poco o assai sono state tutte ad una ad una riviste; ma ben possiamo riunirle, e delinearne il carattere generale, ora che lo Scrittore è sparito, e in sua vece ci stanno dinnanzi aperti i suoi scritti. Ed apriremo la serie colla prima grand'opera, la _Storia delle Repubbliche Italiane del Medio-Evo_. Lodovico Antonio Muratori fu il primo, che la massa immane di notizie custodite nelle cronache e nelle storie raccolse e ordinò nei suoi _Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1500_, che poscia continuò sino al 1749. E nessuno era più acconcio di lui a quel lavoro, poichè la pubblicazione della gran raccolta degli _Scrittori delle Cose Italiche_ lo aveva messo dentro alla perfetta cognizione d'infiniti documenti storici di quella fatta, e così ebbe campo, esercitando il suo acume, il suo spirito d'ordine, ed una instancabile diligenza, di procacciarsi una dottrina smisurata. Però questi Annali non sono propriamente una storia ben elaborata; raccontano anno per anno quello che accadde, mettendo sulla scena una dopo l'altra terre e città, senza che l'uomo acquisti un'idea netta dello sviluppo organico, che si opera nella vita sociale; i fatti soli stanno là, e il più che si pone mente è alle guerre, e agli avvenimenti esterni, senza rilevare i cambiamenti nelle costituzioni, le quali per tal modo riesce arduo spiegare, se non impossibile. – Lo stile è quello d'una narrazione affollata, disadorna, e spesso mancante troppo di dignità. Nondimeno questi Annali sono l'aiuto il più efficace per ritrovarsi nel labirinto delle storie delle città italiane, ma leggerli per intiero, o volervi imparare la Storia, non sarebbe sì agevole. Dal Muratori al Sismondi gl'Italiani fecero poco per la loro storia universale. _Le Rivoluzioni d'Italia_ del Denina, uscite la prima volta nel 1769, sono un libro assai letto, ma fatto piuttosto per la comune dei lettori, che per i dotti; scritto però con spirito e vivacità, e per questo ristampato sovente, e per le mani di tutti, sebbene gli uomini oggi pretendano più assai dalle storie, e molti punti di quel libro non reggano di fronte alla critica. Queste due opere sono le uniche, che trattino a mia saputa la storia d'Italia fino ai tempi più recenti. Dopo il libro del Denina non venne cosa che meriti discorso, e l'opera molto studiata del Tedesco Lebret fu appena conosciuta di quà dall'Alpi. – Ora poi, che la prima Storia del Medio-Evo Italiano completa e ben fatta uscisse dalla mente d'uno straniero, nessuno l'avrebbe aspettato. Ben è vero, che ella fu scritta sotto cielo italiano, anzi in Toscana, il centro vero della Civiltà Italica, il _foco_ dove convergono i raggi della gloria dei secoli di mezzo, il paese che meglio d'ogni altro chiarisce gli eventi e gli effetti che ne uscirono, dove meglio che altrove allo spirito d'indagine vengono offerti aiuti, lumi e conforti. La prima parte delle _Repubbliche Italiane_ apparve nel 1807, e or sono due anni uscì la terza edizione in Parigi, senza contare le ristampe del Belgio, e le traduzioni italiane, e tedesche. Dalla formazione dei liberi stati, dalla lotta dei Municipi colla supremazia imperiale, dal trionfo dei primi, e dall'infiacchimento dell'ultima, questa Storia arriva sino all'epoca di Carlo V, nella quale l'Italia parte obbediva agli stranieri, come il regno delle due Sicilie, e il Ducato di Milano, parte a Signori nazionali, alcuni dei quali portavano il titolo di vassalli dell'Impero, alcuni del Papa, e altri ambedue questi titoli, ma in sostanza governavano assai liberamente, come i Duchi di Savoia, Mantova, Ferrara, Massa, Urbino, e via discorrendo; e delle Repubbliche rimaste in piedi, Venezia benchè d'assai indebolita manteneva sempre una grande potenza, Genova faticosamente si destreggiava tra Francia e l'Impero, Lucca e Siena esistevano per grazia speciale, e la seconda per poco, mentre Firenze, dopo tre anni di sforzi magnanimi per rompere le catene in cui l'avevano messa i suoi cittadini, periva per sempre. E così il Sismondi imprese a descrivere l'epoca la più importante, la più viva, la più operosa della storia d'Italia, dedicandosi a questa impresa con tal calore da mettere in evidenza quanta parte prendesse nel fato di quei popoli, e con quella costanza di proposito, e dignità di coscienza, che a così alto grado l'innalzano come scrittore. Studiò colla più grande applicazione, e adoperò tutti i materiali che potè avere, nè gli rimase sconosciuta cronaca importante, o storia che valesse. Ma per quanto io sappia non fece ricerche di archivi, e si servì affatto di cose stampate. Le materie pertanto così radunate dispose in bell'ordine, e compose l'opera. Lo stile è scorrevole e chiaro, e si trova nel Sismondi quel singolare dono che hanno i Francesi della lucidità e precisione, senza potergli apporre la taccia di superficialità, di che sovente furono biasimati gli scrittori di quella nazione, massime i più antichi, giacchè molto diverso mostrasi l'operare di parecchi tra i moderni. E un benefico calore di sentimento spira per tutta l'opera, e i grandi avvenimenti sono dipinti con verità, e aggruppati con arte, e i personaggi hanno vita e movimento. Non di rado la narrazione si leva ad una certa grandiosità, e procede con andamento conveniente al soggetto, a vicenda concitato e tranquillo, e prende quell'ampiezza di spazio opportuna al giusto sviluppo dei caratteri, e alla retta estimazione delle circostanze. Ma l'opera non è di certo senza difetti, e molto potremmo opporre all'esattezza dei fatti, e la critica storica non è maneggiata con quell'acutezza, che in tanta e così disparata vastità di materie sarebbe stato necessario. Non è chi non senta, che l'Autore non ha studiato gli archivi, cosa per vero dire quasi impossibile nella composizione d'un libro, che abbraccia tanti stati, e tanti secoli, – e molte cose, che narra il Sismondi sulla fede di antichi scrittori, e in parte contemporanei, colla scoperta di documenti e d'altri testimoni hanno già presa diversa fisionomia e valore, e la vanno prendendo ogni giorno, nè può essere altrimenti col progredire delle ricerche e della scienza. La quantità dei fatti registrati nei ricordi municipali, il rimescolarsi continuo delle storie di tante città e famiglie, ne rendono spesso faticosa la lettura, e ne scemano l'effetto; e in una Storia avviluppata, inestricabile, com'è l'italiana, è fuor di modo difficile serbar le misure, e impedire, che tratto tratto non occorra una lista di nomi, e un nudo scheletro di avvenimenti e di affari, che mal corrispondono al concetto del lettore. Una delle parti più deboli dell'opera è lo sviluppo delle costituzioni repubblicane, e delle modificazioni che col tempo subirono, e qui non ci sono solamente lagune, ma molte cose che addirittura non reggono. – Le cognizioni del Sismondi intorno alla storia dei governi e del diritto, e intorno alla legislazione degli statuti, per quanto s'industriasse, erano scarse, nè bastavano all'uopo; e il modo onde espone l'ordinarsi delle città, cioè come si componessero delle amiche istituzioni romane, massime del Decurionato, delle costituzioni ecclesiastiche, delle immunità ed autorità dei vescovi nelle loro sedi, delle istituzioni Germaniche, e principalmente del magistrato degli Scabini, – il modo onde espone il nascimento delle leghe dei Comuni, che rappresentarono una parte così importante, la fondazione dei feudi e la posizione della nobiltà libera e della feudale, e le vicende della proprietà, che così essenzialmente si connettono alla forma politica delle nazioni, – questo modo, dico, lascia immensamente da desiderare, nessuno facendosi immagine giusta di siffatte cose, e trovandosi come smarrito in regione mezzo incognita. E così il difetto di precisione e di lucidezza nel rappresentare le condizioni di quei tempi più antichi ha dovuto esercitare per forza un cattivo influsso sul modo di ritrarre e distinguere i successivi. La _Storia delle Repubbliche Italiane_ è scritta sotto l'ispirazione d'un sentimento democratico. Questo sentimento ha dato una vita commossa e un colorito caldo a certe parti qua, e là, ma nel tempo stesso ha prodotto una monotonia, che, come sempre avviene scrivendo storie con soverchio studio di sistema, nuoce alla verità, anche senza intenzione dell'Autore. Perocchè non vorremo affermare che il Sismondi abbia a bella posta svisato il carattere storico; pure non è da negarsi, che forse senza giustamente saperlo egli non abbia di frequente sparso d'una tinta falsa i ritratti delle persone e dell'epoche. E, per citarne solo un esempio, il caso si verifica nell'ultima parte dell'opera riguardo a Cosimo I dei Medici. Ma per quanto il Sismondi restasse fedele alle sue massime repubblicane, queste nondimeno coll'andar degli anni subirono in teoria come in pratica notabili modificazioni. In questi anni però egli poco si occupò delle Storie Italiane, ed io stesso nel verno del 36-37 l'intesi chiamarsene veramente spossato: – benchè sino all'ultimo della vita avesse nel cuore e nella mente l'Italia. – Nel 1830 intraprese un compendio della grand'opera, che súbito apparve in inglese nella _Ciclopedia di Gabinetto_ del Dottor Lardner, e nel 32 uscì in Francese a Parigi col titolo – _Storia del rinascimento della Libertà in Italia. – _Questo libro contiene la sostanza del primo, e nel proemio fa questa osservazione, «che quando un uomo lavora lungamente intorno a un soggetto, s'innamora così anche dei più lievi particolari, che stima dover riuscire grati egualmente al lettore, che all'autore; ma solo più tardi allargando la vista, e maggiormente affrancando il giudizio, vede cosa sia o non sia veramente essenziale.» Tale compendio ha molto merito, e si legge volentieri, e chiude in un contorno più esatto quei tempi memorabili, dando rilievo ed espressione agli avvenimenti più capitali; ma per l'indole sua, e per la mole, non può dare che una scarsa e troppo superficiale notizia delle Storie Italiane. L'apparizione dell'opera del Sismondi fu gran ventura per la Storia d'Italia, e senza dare nel falso possiamo ascrivere all'effetto di questo libro una sostanziale influenza. Più specialmente però fu sentita la necessità di avvalorare i fatti con prove autentiche; e mentre lavori storici usciti da penne tedesche, e da scrittori di qualche altra nazione, illustrarono vie maggiormente le cose italiane, nell'Italia stessa ebbe luogo la pubblicazione di molti documenti originali, la quale in gran parte è dovuta all'eccitamento prodotto dal Sismondi[43]. Più e diversi ingegni da quell'epoca in qua ha esercitato la Storia universale d'Italia; e quand'anche la sterminata _Storia d'Italia antica e moderna_ di L. Bossi uscita nel 19 non contenti i più severi intelletti, vuolsi però rammentare il Botta, il più grande Storico dell'Italia nei tempi moderni, ed uno dei suoi più valenti scrittori; il quale, oltre un rapido cenno della Storia Italiana in lingua francese, descrisse i tempi dell'influenza francese dal 1789 al 14, e quindi continuò il Guicciardini abbracciando tre secoli e mezzo, da Paolo III allo scoppio della Rivoluzione, – opere di cui la fama anche più durabilmente è fondata per la politica opposizione cui diedero appiglio. Cesare Balbo cominciò una Storia universale d'Italia, che condusse soltanto sino alla rovina del Regno Lombardo. – Carlo Troya, che col suo bel libro sull'epoca di Dante aveva eccitato una grande aspettazione, compose una storia del Medio-Evo, che finora comprende solamente le migrazioni dei popoli, e le calate dei forestieri in Italia, e questo ancora non compiutamente. – G. Borghi, l'elegante traduttore di Pindaro, scrive un _Discorso_, come egli lo nomina, _sulle Storie Italiane dall'anno 1.º dell'era volgare all'anno 1840_, del quale abbiamo i primi due volumi. – A. Ranieri tratteggiò i tempi di Teodorico sino a Carlo Magno col titolo – _Della Storia d'Italia dal V al IX Secolo_. – A. Coppi ha continuato gli Annali del Muratori dal 1750 al 1819, e promette di seguitare sino al presente. Nè furono lasciate indietro le Storie del diritto, e dei governi, e tra queste si debbono principalmente annoverare le _Vicende della proprietà in Italia dalla caduta dell'Impero Romano fino allo stabilimento dei feudi_, del Baudi De Vesmes, e del Fossati; – il trattato del Ricotti – _Sulla Milizia dei Comuni Italiani nel Medio-Evo_, – cui si rannodano le ricerche del Promis intorno allo stato delle artiglierie al principio del Secolo XVI, inserite nell'Architettura Civile e Militare del famoso Francesco di Giorgio da Siena edita dal Conte Cesare di Saluzzo; – il _Saggio sull'Amministrazione finanziaria del Regno d'Italia dal 1802 al 1814_, e la Storia dell'Economia politica in Italia, di G. Pecchio; – la _Storia dell'Economia politica nel Medio-Evo_, e il _Trattato delle Finanze di Savoia nei Secoli XIII, XIV_, di L. Cibrario; – i _Due Libri delle Istituzioni Civili_, di F. Forti; – la _Storia della Legislazione Italiana_, di F. Sclopis, della quale apparve la prima parte, che contiene _le Origini_, – e le opere storiche di L. Bianchini sulle Finanze del Regno delle due Sicilie. E andrei tropp'oltre, se volessi tutte designare le Storie speciali, che apparvero modernamente. E d'ogni tempo gl'Italiani coltivarono con lodevole zelo questo ramo di studi, e con quanto séguito lo mostra la ricca Letteratura degli ultimi anni[44]. Nel 1818 terminò il Sismondi la Storia delle Repubbliche col 16.º volume, il quale dopo aver narrato la caduta della Libertà Toscana tocca di volo gli avvenimenti posteriori sino al Secolo XVIII. E poco appresso pose mano alla _Storia dei Francesi_, opera più grande ancora della prima, e che richiedeva maggior animo, trattandosi di superare tanti antecessori, – e maggior perseveranza, perchè più sterminata era la massa delle materie. A principio fu suo intendimento fermarsi al termine delle guerre di religione, e all'editto di Nantes, – e a questo punto, – egli diceva, – arriva propriamente il Medio-Evo francese. – Ma poichè ebbe compiuta in 21 volumi questa parte del suo lavoro, gli venne occasione di proseguirlo sino alla Rivoluzione francese, per altro con proporzioni più brevi assai della prima metà. Questa impresa l'occupò sino agli estremi della vita, talchè lasciò intero il manoscritto dell'ultima parte. I patimenti fisici invece di smorzare il suo ardore sembravano accenderlo viepiù. Due settimane prima della morte rivide le prove del volume 28.º, che arriva al 1750, e venne in luce già defunto l'Autore. E in quel modo che già diede un compendio delle Storie Italiane, compose, in quello spazio di riposo, che gli fu concesso dal condurre l'opera sino al 1598 giusta il primitivo disegno, un compendio simile di quest'ultima, che sotto il nome di – _Compendio della Storia dei Francesi_ – abbraccia l'epoca anzidetta. E quivi è raccolta, com'egli considera, la serie intera dei tempi propriamente storici; e quanto ai secoli seguenti non è mestieri d'un lavoro siffatto, perchè l'uomo più volentieri ama cercarne le notizie in quei libri, che appartengono alla leggiera Letteratura, – nelle memorie, nei ricordi, nelle tradizioni di famiglia, – che negli scritti i quali richiedono uno studio più intenso. Un tal ristretto però non basta a chi vuole veramente apprendere le Storie della sua patria; ma può servire a coloro, che non mirando a tanto cercano un mezzo di richiamare alla memoria i capi più essenziali, o finalmente un prospetto generale delle cose. In qual rapporto quest'opera gigantesca del Sismondi stia colle grandi o piccole, universali o parziali opere dei moderni Storici francesi, colla _Storia dei Francesi_ di Michelet ora avanzata sino alla mania di Carlo VI, coi lavori di Agostino, e Amedeo Thierry, coll'infaticabile e fecondo Capefigue, col Barante, col Villeneuve-Trans, col Lemontey, col Sainte-Aulaire, col Mignet, colle innumerevoli Storie particolari di provincia, col Segur, col Lacretelle, col Bazin, e tanti altri, che sarebbe soverchio rammentare, incomberebbe il giudicarlo ai critici francesi, mentre finora poco o punto profersero sentenza su questa opera del Sismondi. – Mi resta inoltre da nominare un lavoro storico uscito nel 35, – _Storia della caduta dell'Impero Romano, e della decadenza della Civiltà dal 250 al 1000_. E qui l'Autore principiando da una monarchia universale, ce la mostra soccombere all'urto di quei popoli, che non sapeva più contenere. E vediamo tosto questi popoli affaticarsi a ristabilire ciò che avevano distrutto, e da questo affaticarsi vediamo sempre più turbato l'ordine sociale del mondo antico, e come finalmente le società umane ritornano sempre più ai loro primitivi elementi, – al congregarsi isolato delle genti nelle città e nelle terre. Quindi comincia propriamente la formazione dei nuovi regni. – Questo libro non ha troppo merito scientifico, ripetendo l'Autore i resultati delle sue prime indagini, e presentandoli sotto il colpo d'occhio della Storia universale. Ciò che dissi dei difetti che trovansi nello sviluppo delle condizioni italiche, può ripetersi egualmente rapporto a quest'ultimo lavoro. L'opera – _Della Letteratura del mezzogiorno dell'Europa_ – nacque da una serie di lezioni tenute dal Sismondi in Ginevra; e stando al suo primo disegno, doveva contenere la Storia letteraria di tutta l'Europa. Pure, così com'è, oltre un'introduzione intorno all'estinguersi dell'idioma latino, e al formarsi delle lingue romane nel mezzogiorno dell'Europa, contiene la storia letteraria degli Arabi, dei Provenzali, dei Trovatori di Linguadoca, degl'Italiani, degli Spagnuoli, e dei Portoghesi. La storia degli ultimi tre popoli è condotta sino alla fine del Secolo XVIII, terminando col Parini, Monti, Pindemonte, Yriarte, Melendez Valdes, Manoel, Cruz e Silva, e Da Cunha, ma la letteratura Italiana è più distesamente trattata. E mentre il Sismondi cominciò il suo lavoro, non era uscita peranche la celebrata opera del Ginguené, della quale egli si giovò notabilmente nelle successive edizioni. Ma coll'averlo riveduto e ingrandito non per questo riuscì libro per i dotti, ma piuttosto adattato alla comune dei lettori. Nè vi si trovano profonde ricerche, ma una cognizione familiarissima di Dante, e dei più egregi scrittori, e un caldo senso delle loro bellezze. Mancano le vedute larghe e grandiose, manca un'intuizione profonda nell'essenza dell'Italiana Letteratura, una definizione propria e distinta delle epoche e degli scrittori, specialmente dei prosatori, tra i quali sporge principalissimo il Machiavelli. La critica dell'Autore trascorre la superficie, ma il libro dà facili indizi, che fu composto da un uomo, che conosce a fondo, ed ama sinceramente l'Italia, e le sue Lettere. Il difetto più grande degli altri però occorre súbito sul principio, ed è il non dimostrare chiaramente come al finire del Secolo XIII, e al cominciare del XIV, la prosa e la poesia si svolgessero dai primordi della Lingua e delle Lettere, cose che l'Autore a torto mette in un canto come nude anticaglie. E così dopo un paio di pagine siamo súbito a Dante, saltando in questa guisa un periodo importante, che in tempi più recenti fu meritamente considerato, e reputato indispensabile alla giusta intelligenza dell'Allighieri, e del suo secolo. E i caratteri del Poeta sovrano sono fiaccamente rilevati, mentre è più sensibilmente ritratta l'epopea romanzesca. Con tutte queste mende, che più ancora devono risaltare in quelle parti dove tratta della Spagna e del Portogallo, per le quali più che al suo giudizio è costretto fidarsi all'altrui, e dove pare che abbia profittato del nostro Bouterweck, e dello Schlegel per il dramma, – parti sulle quali io debbo astenermi di pronunziar sentenza, – con tutte queste mende il libro ha tuttavia molto merito, e può grandemente servire a coloro, che non hanno bisogno di addentrarsi tanto nel soggetto, intrecciandosi quivi in bell'ordine la biografia coll'analisi, la storia universale, e la politica, e gli eminenti personaggi. Questi sono i lavori storici e letterari del Sismondi, ai quali può aggiungersi un Romanzo storico – _Giulia Severa_, – in cui cercò descrivere lo stato delle Gallie al momento delle grandi commozioni dell'Impero Romano, e delle nazioni occidentali, romanzo nato di certo sotto l'influenza dei racconti di W. Scott, ma senza la forza vivificante colla quale lo Scozzese afferra le masse storiche, e le locali particolarità, e le compone in un complesso maraviglioso. Nè si arrestò a questi lavori, – e mentre faceva argomento d'indagine e di meditazione i politici eventi dei passati secoli dal punto della Romana Grandezza sino alla Rivoluzione, che minacciò distruggere, e in gran parte distrusse, gli antichi sistemi d'Europa, questi medesimi studi consacrava a vedere le condizioni più intime delle nazioni, cercando darsi ragione delle virtù e dei vizi del loro ordinamento sociale rispetto alla legislazione, alla divisione della proprietà fondiaria, all'agricoltura, all'industria, al commercio, alle colonie etc., e così scandagliando le più alte questioni d'Economia politica teoricamente, storicamente, ed anche praticamente. Il primo lavoro di questo genere fu a mia notizia il – _Quadro dell'Agricoltura Toscana_, uscito nel 1801; e poco dipoi scrisse – _Della ricchezza commerciale, o sia Principii d'Economia politica applicata alla legislazione del commercio_, – che più tardi rifece sotto il nome di – _Principii nuovi d'Economia politica_. – Attempandosi tornò con più vivace alacrità a questi studi, e soleva dire, che dopo avere tanti anni lavorato il campo della Storia, gli era conforto l'abbandonarsi a ricerche, che si profondano tanto nelle viscere dell'organismo sociale, e ci porgono la più giusta misura per regolarci nel maggior numero dei casi, mettendo in luce le cause della debolezza e della forza. – _Gli studi sulla Scienza Sociale_, riassunto in parte di diversi articoli dispersi in più giornali, furono l'ultimo frutto di queste indagini, che intendeva estendere più oltre. La prima sezione racchiude gli – _Studi sulle Costituzioni dei popoli liberi_, – esame teorico delle libere costituzioni in genere. In quest'opera si tratta prima dei diritti, che il popolo può o deve guardare. E si espongono i pericolosi traviamenti generati dalla pretensione della democrazia al supremo potere, e dal desiderio del suffragio universale; – e si rappresenta come i meno sieno chiamati al governo in virtù della loro educazione, e come il suffragio universale sia cosa retrograda, fondando la maggiorità di coloro che non hanno volontà propria, la maggiorità degl'ignoranti, e degl'indifferenti; – e quali sieno i vantaggi del sistema rappresentativo nella sua purità, mentre da coloro, che si affaticano a rendere democratici i grandi stati, un tal sistema vien considerato come mezzo di dare la sovranità al più grosso numero di voci; – e come il preteso voto del popolo, e le assemblee costituenti posino sostanzialmente su delle illusioni. Il popolo è considerato in contrapposto al governo; e mentre l'idea della così detta sovranità del popolo vien chiarita naturalmente falsa e pericolosa, s'insiste sulla necessità di costituire sapientemente le Comuni come l'elemento il più proprio dello stato, con delle corporazioni le più possibilmente libere e legali. E il popolo dovrebbe partecipare alla giudicatura mediante il _Giury_, (notandone i vizi nell'odierno sistema francese), e all'ordinamento militare mediante la guardia nazionale. E mentre si parla del consiglio nazionale, si fa conoscere la necessità della preponderanza d'un potere centrale su quello delle Comuni, colla facoltà ad ogni stato della rappresentanza di esprimere i proprii interessi; si tratta della maggiore o minore libertà di discussione secondo i casi, e della influenza dannosa d'una stampa irritatrice, a freno della quale dovrebbero applicarsi regole e forme parlamentarie. Nello sviluppo delle costituzioni poi gli elementi aristocratico e monarchico vengono contrapposti al democratico, il primo come corpo separato costituente sè stesso per impedire che la minorità della nazione soggiaccia alla maggioranza; e quindi vengono considerati per la loro essenza ed effetti, e si mostra come tutti e tre gli elementi debbano sottostare alla ragione nazionale esercitante la sovranità nazionale, e come questa ragione si formi e si svolga dall'opinione pubblica, in quali ostacoli possa inciampare, quali passioni arrestino il suo progresso, e sotto quali guarentigie pronunzii finalmente il suo giudizio. La seconda sezione tratta dei poteri indipendenti dal popolo; dell'origine e indole del principato, o della potestà esercitata nelle monarchie; della prova di dare un contrappeso al potere dei principi; dei principi ereditarii ed elettivi, e dei vantaggi e svantaggi, che questi hanno in sè; del luogo che tiene l'Aristocrazia, e della sua importanza come seconda distinzione sociale, cui è commesso principalmente l'ufficio di conservare, e mallevare la stabilità dello stato. Finalmente la terza sezione contempla i progressi dei popoli per una via più libera, e parla delle monarchie costituzionali, e dei falliti tentativi moderni di fare costituzioni, e a un popolo imporre quella d'un altro, come pure dei tentativi rivoluzionari di conseguire una più grande libertà, e degli effetti che ne vennero. E sono chiariti i grandi pericoli delle rivoluzioni, sia che il potere diminuito rimanga all'antico signore, o venga consegnato ad un nuovo; e come specialmente nell'ultimo caso i naturali sostegni del trono si facciano avversari del nuovo sistema, e come i facitori della rivoluzione si facciano nemici del signore che hanno innalzato, e come questi sia, e debba essere, il più acre nemico della rivoluzione. Dopo di che séguita ad esporre che una rivoluzione distrugge il contratto sociale, che lega i meno coi più, nè poi si dà più veramente maggiorità, ma un numero di minorità opposte tra loro, e menomamente proprie a fondare una costituzione, o un governo qualunque. Finalmente spiega come per resistere all'influenza e al potere della democrazia dominante d'una capitale sopra una grande nazione, valga solo un sistema federativo simile a quello della Svizzera; e come una tal lega abbia mostrato in ogni tempo la sua gran forza, massime nella difesa dell'ordine esistente. Nè ci stenderemo più avanti in queste vedute del Sismondi, chè sarebbe soverchio, aggiungendo, che gran senno e molto del vero contengono, se non che tra mezzo apparisce non poco del falso moderno, e un lasciarsi andare alle simpatie e alle antipatie più di quello che non convenga a scritture di così grave natura. Nelle altre due parti che portano il titolo di – _Studi sull'Economia politica_, – s'incontrano molte cose profonde, e degne di meditazione in quei punti, che toccano la proporzione tra il prodotto e il consumo, la rendita sociale, la divisione della proprietà fondiaria, le massime della scuola crematistica, e la grande applicazione che se n'è fatta in Iscozia rispetto ai contadini, le cause della miseria dei contadini in Irlanda, e della prosperità di questi in Toscana, la schiavitù dei contadini, l'agricoltura nella campagna romana, e i mezzi di ripopolarla etc. Avverrà talvolta, che il lettore non si trovi d'accordo in certe vedute dell'Autore; che certi mezzi da lui consigliati per ottenere un miglioramento si stimino inefficaci, o forse impraticabili; – ma nessuno può non riconoscere l'animo e l'intenzione da cui derivano i suoi lavori. L'idea fondamentale, che in questi lo conduce, è che la società si è formata per raggiungere il bene comune, che da questo fine sgorgano i diritti dei suoi membri, che per questo ha modificato o cambiato la sua originale eguaglianza, e che tutti per l'utilità universale hanno rinunziato al diritto di siffatta eguaglianza. Più sopra abbiamo veduto cosa egli pensasse dell'eguale esercizio dei politici diritti; e qui pensa, che l'eguale divisione dei beni porterebbe miseria e barbarie. In ultimo viene a questo di trovare una guarentigia per la durata del lavoro comune, e per un'equa ripartizione delle tasse, rappresentando, che i diritti di coloro che s'innalzano sull'originale eguaglianza basano sui vantaggi di coloro, sui quali venne loro dalla società concessa la preminenza. Queste furono le opere del Sismondi. Ma noi non pregiamo in lui solamente le doti egregie dell'ingegno, estimando più ancora le virtù dell'uomo onorato, e benvoluto da quanti gli si fecero appresso. E però la sua perdita fu amaramente sentita, e compianta dappertutto, e singolarmente dai suoi amici di Toscana. Il bene dell'umanità, (dice in un foglio volante il Signor Benigno Bossi assistente ai suoi estremi momenti), e il miglioramento della sorte delle classi più sprovvedute, erano il fine delle sue lunghe meditazioni intorno alle più gravi teorie sociali ed economiche. E se i risultati di alcune di queste, accordandosi poco colle idee favorite del tempo, a principio incontrarono poco plauso, non mancò egli per questo di difendere mai sempre vigorosamente la causa dei deboli, e dei bisognosi. E le gravi vicissitudini, che non ha guari percossero in Europa e in America il commercio e l'industria, giustificarono i suoi timori anche troppo, tanto che una gran parte delle sue dottrine cominciò a trionfare sulle contrarie. Ma non si contentò di mostrare il suo amore del prossimo colle semplici teorie o con eloquenti parole, poichè lo faceva suonare nei fatti quotidianamente praticati, aiutando i poveri in segreto, e con quella generosità propria d'un'anima nobile, e veramente cristiana. Egli che aveva il tempo così prezioso, e con tanta cura lo risparmiava, ogni giorno dava 9, o 10 ore al lavoro, evitando tutto ciò che lo potesse distrarre; ma non metteva un istante di mezzo, ove fosse il caso di recare aiuto e conforto a un infelice. – La sua casa era aperta a tutti, e con tutti era cortese, discreto, amorevole. Nel discorso manifestava le sue opinioni con quella chiarezza, e forza di logica, che possedeva così eminenti, senza dar segno però d'impazienza anche alla più mal fondata contradizione, sebbene nessuno al mondo avesse più forte convincimento di lui intorno alla verità delle idee, che prendeva a difendere. Rimase fedele alle sue massime repubblicane, benchè le dottrine democratiche, che ebbe ardentissime in sua gioventù, coll'andar del tempo sostanzialmente modificasse nella teoria, e nella pratica. E nell'ultima rivoluzione della Costituzione Ginevrina fece egli valere queste sue convinzioni, acquistate e maturate coll'esperienza e col senno. A questa modificazione per altro debbono avere necessariamente contribuito i suoi lunghi studi sulle Repubbliche Italiane, e l'indagine degli effetti, che in ultimo partorì la preponderanza dell'elemento democratico. ― 1842[45] ― FINE. NOTE: [43] Tra questi vogliono esser notati l'opera della quale vennero 5 volumi in foglio nel 36, edita da una commissione ordinata da Carlo Alberto re di Sardegna, ed ha per titolo: ― _Historiae patriae monumenta_, ― divisa in _chartae_, _leges municipales_, e _Scriptores_; ― i _Documenti, monete, sigilli_, per la storia del Piemonte e della Savoia, del Cibrario, e del Promis; ― le _Memorie e Documenti per servire alla storia del Principato Lucchese_, raccolta ricchissima cominciata nel 13 dal governo francese; ― il séguito al _Codice diplomatico Toscano_ del Brunetti; ― i _Documenti di Storia Italiana_, ricavati dalla Biblioteca di Parigi da G. Molini, con note pregevolissime di Gino Capponi; ― l'edizione del Rosini dei Dispacci del Guicciardini nella sua Legazione in Ispagna nel 1511, e delle Lettere del Busini al Varchi sull'assedio di Firenze; ― le _Relazioni degli Ambasciatori Veneti_, con note dell'Albèri; ― le _Storie di Giovanni Cavalcanti_, pubblicate dal Polidori, le quali illustrano i tempi di Cosimo dei Medici il vecchio; ― il _Carteggio inedito d'Artisti dei Secoli XIV, XV, XVI_, importante ancora per il lato politico, pubblicato dal Gaye; ― la vita di _Donato Acciaiuoli_, d'Angelo Segni, edita dal Tonelli; ― i _Ricordi_ della famiglia Rinuccini dal 1282 al 1306, messi in luce dall'Ajazzi con note ed escursioni storiche. La vita di Alessandro VII del Pallavicino, il celebre Storico del Concilio di Trento, finalmente sodisfacendo al lungo desiderio dei dotti è stata stampata; e i _Municipii Italiani_ del Morbio, benchè trattati con troppa furia, contengono molto del buono. Non sono da omettere le _Vite_ di Federigo e Guidobaldo da Montefeltro, di Bernardino Baldi primo Abate di Guastalla, e le _Memorie storiche del Pontificato di Clemente VII_, di Patrizio de' Rossi. E finalmente l'_Archivio Storico Italiano_, che si stampa in Firenze, promette di riuscire un ricco fondo per gli Studi Storici, avendo a pro suo numerose biblioteche, e la cooperazione delle persone più capaci del paese. [44] Qui m'è forza restringermi alle più rilevanti tra quelle opere, che risguardano città o provincie separatamente, come sarebbe la storia di Chieri, e la storia della Monarchia Savoiarda del Cibrario, la storia di Saluzzo e dei suoi Marchesi del Muletti, le memorie dei Conti di Desana del Gazzera, la storia dei Valdesi di Charvay, le storie di Genova del Serra e del Varese, il libro del Sauli sulla Colonia Genovese in Galata, e la storia di Sardegna del Manno. Tutte queste, e molte più ancora, vertono intorno agli Stati Sardi. È nota la storia di Milano del Rosmini; il Cantù scrisse la storia di Como, ed espose lo stato della Lombardia nel Secolo XVII; il Robolini la storia di Pavia, il Romegialli quella della Valtellina, e delle Contee di Bormio e Chiavenna, e il Cittadella è dietro a pubblicare la storia della signoria dei Da Carrara in Padova. Sono ancora da nominarsi gli Annali Veneziani, e la storia del Commercio Veneziano del Mulinelli, e la storia di Parma del Pezzana. Il Venturi fece la storia di Scandiano, e il Viani le memorie della famiglia Cybo colla storia delle monete di Massa. Già è fuori la seconda edizione della storia di Lucca del Mazzarosa, e delle sue dissertazioni sulla legislazione, e sulla costituzione ecclesiastica di questa Repubblica. L'Inghirami e il Carbone hanno cominciato storie della Toscana, il Vivoli gli Annali di Livorno, e il Bonaini attende all'antica storia e costituzione di Pisa. Lo Stato della Chiesa non ha prodotto gran cosa, ― la serie dei Senatori Romani dell'Olivieri, la storia d'Ancona del Peruzzi, le memorie contemporanee del Cardinal Pacca. Al contrario Napoli e Sicilia sono ricchi, ― e la storia di Napoli del Colletta sotto la dinastia dei Borboni sino al 1825 si raccomanda per la materia e per lo stile. Il Pagano scrisse la storia di Napoli sino al cessare degli Aragonesi, il De-Cesare la storia di Manfredi, e il Sosti cominciò la storia del chiostro di Monte Cassino, dove egli vive come membro dell'ordine, e bibliotecario. Pietro Lanza, principe di Scordia, scrisse sulla storia della Sicilia sotto i Normanni, e intorno ai tempi dal 1532 al 1789, correggendo in molti luoghi l'ultima opera del Botta. Il Fazzello, il Ferrara, il Palmèri, scrissero storie di Sicilia, e l'Amari sopra documenti sinora incogniti compose la storia di Carlo I di Angiò, dei Vespri Siciliani, e del regno degli Aragonesi sino al trattato di pace di Caltabellota 1302. E sono comparse notabili biografie: ― la Vita e i fatti di Gian Jacopo Trivulzio del Rosmini, la Vita di Dante del Balbo, che per tanti lati si collega alla storia politica, quella di Caterina dei Medici dell'Albèri, quella di Malatesta Baglioni ultimo Capitano della Repubblica fiorentina del Vermiglioli, e la storia di Giovanni da Procida del Buscemi. La storia dei Navigatori e Viaggiatori Italiani è singolarmente illustrata dai lavori critici del Canovai e del Napione sopra il Vespucci e Colombo, dalle opere del Cardinal Zurla sopra Marco Polo, Alvise da Cadamosto, e altri Viaggiatori Veneziani, e dal libro del Baldelli sopra Marco Polo, e sopra la storia delle antiche relazioni commerciali tra l'Asia e l'Europa, dalla caduta dell'Impero Romano fino al Califfato. Godono poi da lungo tempo di una fama ben meritata le Famiglie Storiche Italiane del Litta, e presentemente lavora intorno agli Orsini, e i Borromeo di Milano, i Pazzi e i Buondelmonte di Firenze, e i Buonaparte di S. Miniato. [45] _Livorno, dal Gabinetto Scientifico Letterario, – Tipografia Vannini; 1842._ INDICE Ai Giovani _Pag._ 7 PARTE PRIMA. SCRITTI ORIGINALI. MANOSCRITTO DI UN PRIGIONIERO. Cap. I » 21 » II » 24 » III » 26 » IV » 29 » V » 32 » VI » 35 » VII » 38 » VIII » 40 » IX » 43 » X » 48 » XI » 51 » XII » 59 » XIII » 63 » XIV » 67 » XV » 71 » XVI » 74 » XVII » 78 » XVIII. Il Suicidio » 81 » XIX » 86 » XX » 89 » XXI » 97 » XXII. Conclusione » 98 Mia Madre » 99 Note e Appendice » 101 ARTICOLI DI MORALE E LETTERATURA. Della Educazione » 113 Cenno sulla Letteratura » 127 Lorenzo Sterne » 149 Lord Byron » 161 Osservazioni sopra uno Scritto di Melchior Missirini, inserito nel N.º 37 dell'INDICATORE LIVORNESE » 169 Esempio di Carità » 178 NECROLOGIE. Tacito Martini » 187 Guglielmo Avenas » 196 ISCRIZIONI E POESIA. Iscr. I » 205 » II » 206 » III » 207 » IV » 208 L'Anniversario della Nascita » 209 L'Immortalità » 215 Napoleone; Frammenti » 216 Il Dì de' Morti » 221 In un Album » 222 Un Sogno » 223 LETTERE. Lett. I » 231 » II » 235 » III » 240 » IV » 242 » V » 244 » VI » 245 » VII » 249 » VIII » 251 » IX » 254 » X » 256 » XI » 258 » XII » 260 » XIII » 260 » XIV » 263 » XV » 266 » XVI » 267 » XVII » 268 » XVIII » 269 » XIX » 269 » XX » 270 » XXI » 271 » XXII » 271 » XXIII » 272 » XXIV » 274 » XXV » 274 » XXVI » 275 » XXVII » 276 Frammenti » 278 SECONDA PARTE TRADUZIONI. LA VITA E LE OPINIONI DI TRISTANO SHANDY; ― _Di Lorenzo Sterne_. ― I. Storia di Yorick » 287 II. Il Naso grosso; Racconto di Slawkenbergius » 297 III. Storia di Le Fever » 322 POESIE VARIE. Il Prigioniero di Chillon; Poema Romantico: – _di Lord Byron_ » 339 Prometeo: – _di Lord Byron_ » 353 Vi fu un tempo: – _di Lord Byron_ » 355 E tu piangerai quand'io sarò morto: – _di Lord Byron_ » 357 Le Tenebre: – _di Lord Byron_ » 359 Il Funerale del Povero: – _di Roberto Southey_ » 362 Ode sulla sepoltura di Sir Giovanni Moore: – _di Carlo Wolfe_ » 364 Lamento di Maria Regina di Scozia all'avvicinarsi della Primavera: – _di Roberto Burns_ » 366 La Vita e la Morte: – _di Vitalis_ » 368 Canzone della sera dello Straniero: – _di Werner_ » 370 Scena quarta del terzo atto nella Maria Stuarda: – _di Schiller_ » 371 SISMONDO DE SISMONDI. Sismondo De Sismondi: – _di Alfredo Reumont_ » 383 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Scritti editi e postumi" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.