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Title: Scritti editi e postumi
Author: Bini, Carlo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Scritti editi e postumi" ***


                                 SCRITTI

                             EDITI E POSTUMI


                                   DI

                               CARLO BINI



                                 LUGANO
                   TIPOGRAFIA DELLA SVIZZERA ITALIANA
                                 1849.



                     Poichè la carità del natio loco
                   Mi strinse, raunai le fronde sparte

                                               DANTE.



AI GIOVANI

                  Erkenne erst, mein Sohn, was er geleistet _hat_,
                  Und dann erkenne, was er leisten _wollte_.

                                                       GOETHE.


Gli scritti in parte editi, in parte inediti, raccolti in questo
volume, sono l'unico indizio ch'oggi ci avanzi d'una santa anima che
passò, alla quale Dio aveva largito tanto tesoro d'amore da benedirne
un'intera generazione, e che gli uomini e i tempi costrinsero a
riconcentrarsi in sè stessa: sono il profumo d'un fiore calpesto da
molti, inavvertito dai più, al quale mancarono l'aria e il sole, pur
nondimeno sacro e bello di divina bellezza a quanti adorano nella
povera modesta rosa dell'Alpi un simbolo di poesia, e dell'eterna vita
che Dio diffonde, a conforto e promessa, anche fra i geli dell'inerzia
e le nevi dello scetticismo.

E l'inerzia e lo scetticismo dei più fra' contemporanei avvelenarono
di sospetti mortali, e di dolori tanto più gravi quanto più solitari,
l'anima e la vita di CARLO BINI, e condannarono le facoltà di un
intelletto nato potente a non rivelarsi se non per getti brevi e
spezzati; note d'una melodia, che, a svolgersi ricca com'era, domandava
la _terza_, e non l'ebbe. Io qui non parlo di scetticismo religioso:
parlo dello scetticismo letterario sociale, conseguenza quasi sempre
del primo, che ha esiliato tra noi come per ogni dove la poesia in
un angolo del creato, e l'ammira a patto che non n'esca a diffondersi
sulla vita; che ha impiantato sul dualismo dell'epoca in oggi morente
il dualismo della pratica e della teoria; che applaude sorridendo,
come a giuoco di ginnastica intellettuale o a visioni di anime
illuse, all'adorazione dell'Ideale, alla religione del sacrificio,
dell'aspirazione, dell'entusiasmo, al culto attivo, incessante,
dei forti pensieri, dell'immense speranze e dell'avvenire: dello
scetticismo che giudica freddamente com'opera d'arte l'espressione
scritta col vivo sangue del core d'un dolore profondamente sentito,
d'un desiderio ch'è forse il segreto di tutta una vita: dello
scetticismo che, per cancellare nel Poeta l'_uomo_, ha inventato
in questi ultimi anni l'_artista_. E dico che questo scetticismo,
oggi ancora prevalente in Italia, condannò CARLO BINI al silenzio.
L'anima sua pura, vergine d'ogni ambizione, ritrosa alla lode fino a
sdegnarsene, abborriva dall'idea del letterato di professione. L'Arte
gli pareva, ed è, l'espressione per simboli del Pensiero d'un'Epoca,
che si fa legislazione nella Politica, ragione nella Filosofia,
sintesi e fede nella Religione: per lui lo Scrittore, il Poeta, era,
com'è per noi, l'apostolo, il sacerdote di quel _pensiero_, l'uomo
che traducendolo in forme, immagini ed armonie particolarmente
simpatiche, commove il popolo dei credenti a tradurlo in azione. Ma
quand'ei cercava, guardandosi attorno, il popolo di credenti che dovea
costituirlo Poeta e Scrittore, ei si ritraeva atterrito. Ricordo le
parole ch'ei rispose con voce di mestizia ineffabile a me che andava
spronandolo: «_perchè non scrivi?_» mentre viaggiavamo, nel 1830, a
notte innoltrata, sulle alture di Montepulciano: «_per chi scrivere?
chi crede in oggi?_» Fu l'unica volta ch'ei mi parlò, quasi forzato, il
suo segreto, e lo stato dell'anima sua. Più tardi, e come s'ei temesse
di calunniare i suoi fratelli di patria, andava innocentemente tentando
d'ingannare sè stesso e gli altri sulle cagioni del suo silenzio, e
diceva, «ch'ei s'era esplorato abbastanza e non si sentiva capace di
lunghi importanti lavori.» Ma un eco di quel grido del povero amico
suona tuttavia a chi sa intenderlo per entro ad alcune delle poche
cose ch'egli dettò, segnatamente nella poesia sull'_Anniversario della
nascita_. Quel canto, ch'egli scrisse col presentimento avverato di una
morte precoce, è la condanna la più energica ch'io mi sappia del dubbio
che s'abbarbicò negli anni più giovani, quando l'ali son più ferme al
volo, all'anima sua, e la stancò innanzi tratto in una guerra muta,
interna, incessante, fra il desiderio che la chiamava ad espandersi
e lo sconforto che la dissuadeva. Ma quel dubbio d'onde venne? D'onde
venne a BINI, ditemi, quella esperienza ch'egli chiama _la morte del
cuore_?

CARLO BINI era nato potente; ma il segreto della sua potenza stava,
per quanto a me fu dato conoscere, nella commozione. Le armonie che
vivevano perenni nell'anima sua avevano, per sciogliersi in suoni,
bisogno, come la statua di Memnone, d'un raggio di Sole sorgente.
Il suo era ingegno d'Apostolo, non di Profeta. Temprato a sentire
la _vita_ nelle sue menome manifestazioni, nelle sue relazioni più
delicate, con un cuore traboccante e assetato d'amore, con una mente
pronta ad afferrare il Bello, il Grande, il Vero, dovunque apparissero,
e a venerarli e a ispirarvisi, BINI avea più ch'altri bisogno, a
rivelarsi qual era, d'armonia, d'equilibrio fra l'_io_ e il mondo
esterno, fra le tendenze ingenite in lui e il _mezzo_, l'elemento, in
che dovevano manifestarsi: la solitudine dell'anima gl'intorpidiva
a inerzia le facoltà. In mezzo a un gran Popolo, davanti a un gran
fatto, in faccia a una grande Idea incarnata in pochi individui santi
d'amore e di sdegno, di pensiero e d'azione, le potenze che nel sopore
comune gli dormivano dentro, si sarebbero suscitate tutte in un fremito
di volcano, e avrebbero operato in modo da lasciare ai posteri ben
altra memoria di sè che non questa: in una società pigmea d'affetti
e d'azioni, com'è – perchè non dirlo? – la nostra, BINI non trovava
simboli e immagini a' suoi concetti, e quasi pauroso di profanarli si
tacque. Egli era come quegli augelli, che sotto un cielo sereno empiono
l'aria di bei concenti e nella maremma ammutiscono. Forse, un solo
essere, uomo o donna, che gli avesse detto: ― «tu soffri; che monta?
Dio t'ha fatto per questo: i patimenti sono le sue benedizioni. Dio
non t'ha creato per te, ma per gli altri. Soffri e persisti: persisti
s'anche tu vedessi calpeste dagli uomini le idee che ti fervono dentro:
persisti davanti alla morte: persisti davanti alle delusioni ben più
terribili che non la morte. Guarda in alto e nel tuo cuore, e dentro
ai sepolcri dei Grandi passati; non altrove. Cos'è il mondo d'oggi
per te? Dio non t'ha detto: _specchiati negli uomini che ti stanno
intorno_ – ma – _va, ama, predica e muori. La mia Legge è il tuo cuore:
ivi sono le stelle de' tuoi destini:_» ― avrebbe salvato BINI dallo
sconforto; certo, ei si sarebbe prostrato davanti a quell'essere, e
rialzato meno infelice e più grande. Ma quell'ente ei non l'ebbe. Non
che gli mancassero amici; ma i più si tenevano da meno di lui, e non
s'attentavano d'ammonirlo; i pochi che lo avrebbero osato, gli vissero
lontani e raminghi; nè parole siffatte riescono efficaci, se non
quando sono pronunziate, nei momenti d'abbattimento supremo, col bacio
dell'amante o colla stretta di mano dell'intima fratellanza. BINI,
circondato di simpatia, d'ammirazione, d'affetti modesti e ineguali ai
bisogni dell'anima sua, visse e morì solitario. E in questo isolamento
morale al quale egli non era nato, ma pur sentivasi condannato
irrevocabilmente qui sulla terra, cominciò l'incertezza sulle proprie
forze, cominciò il dubbio sull'importanza della vita, cominciò la lenta
etisia dello spirito che lo consumava fin da quando io convissi, or
sono tredici anni, parecchi giorni con lui. Tra le abitudini prepotenti
d'un'analisi venuta a disciogliere e i barlumi d'una sintesi nuova,
tra le vecchie tristi dottrine, che insegnavano una vicenda alterna
inevitabile di vita e di morte in tutte le umane cose, e la filosofia
religiosa, che annunziava l'eterna progressione ascendente dell'Umanità
collettiva in un vasto piano d'educazione assegnato dalla Provvidenza,
l'intelletto di BINI, tendente per potenza intrinseca e per tutte le
aspirazioni del cuore a quest'ultima, ma sconfortato dalle incertezze
che regnano in tutti cominciamenti, e più dal contrasto visibile fra
l'Ideale intravveduto e gli uomini che doveano rivelarlo in azione,
invocava, a decidersi, un _segno_. Pronto a dedurre con un vigore non
comune di logica le più remote conseguenze d'un principio, e avvezzo da
molto a conformare, non per sistema, ma per natura, gli atti della vita
alle credenze dell'intelletto, ei si sentiva dalla contemplazione delle
generazioni contemporanee tratto a dubitare della verità dell'Idea. E
allora, quand'ei non vedea più per chi sagrificarsi o per che, la vita
gli sembrava un problema insolubile quando non una trista ironia, e
tutte cose gli si tingevano a nero. Un riflesso di questa guerra tra
l'intuizione dell'avvenire e la conoscenza anatomica del presente,
che s'agitava dentro lui tormentosa, continua, gli pareva, quand'io lo
conobbi, sul volto. La sua calma era calma di vittima: il suo sorriso,
dacchè ridere nol vidi mai, un sorriso d'esule, de' più mesti ch'io
m'abbia incontrati.

Poi vennero, – perch'io degli ostacoli materiali, della povera fortuna,
degli affari di banco a' quali la carità della famiglia lo strinse,
cose tutte ch'egli avrebbe superato, non parlo, – vennero le delusioni
individuali, le delusioni che incanutiscono la chioma e l'anima innanzi
tempo; la morte d'una fanciulla amata; amicizie di molti anni senza
colpa perdute; tentativi, su' quali tutte le speranze della vita
s'erano poste, falliti; e gli uomini venerati un tempo come insegnatori
scaduti fin dove comincia il disprezzo, e l'entusiasmo creduto poc'anzi
di fede scoperto entusiasmo di sola e spesso egoista speranza, e le
visioni dell'anima vergine date da quei medesimi che primi le avevano
accarezzate al ludibrio d'un materialismo crescente cogli anni, allo
scalpello inesorabilmente feroce del calcolo: storia tristissima e
di molti fra noi. CARLO BINI uscì dalla prova vincitore, ma esausto:
credente, e lo dico con gioia, nella fede in che noi crediamo, ma
disperato del presente, di molti anni avvenire, degli uomini che gli
formicolavano attorno, e della propria vita terrestre. «_Sono_, –
egli mi scriveva il 16 agosto 1842, – _sono un vecchio edifizio tutto
franato, e non mi resta che un cuore tutto rughe e pieno di morti, e
sull'estremo orizzonte dell'avvenire ho l'ospedale, dove pur non mi
soccorra la morte di cui ho in mano una buona caparra. Nè mi manca
la fede nei principii; e sebbene spesso la senta svenire e quasi
estinguersi, sebbene spesso una crudele ironia mi sferzi lo spirito
e lo faccia ammattire, questa fede la sento rinascere più ostinata e
più verde; ma non credo in me e negli uomini che compongono l'epoca,
– e compiango a lacrime di cuore quegli infelici che hanno immaginato
di alzare un monumento con siffatti materiali, quegli infelici cui
la natura gettò sull'anima il cilizio d'una volontà forte e perpetua,
destinata ad abbracciarsi e lottare e logorarsi coll'impotenza. Io li
compiango questi infelici, e nel tempo stesso li invidio, perchè almeno
avendo tenuto fermo nella strada che scelsero, quando pure non giungano
a nessun termine, avranno la coscienza di aver fatto il proprio dovere
e morranno senza rimorsi. Ma molti, ed io primo fra tutti, non potremo
morire senza rimorsi!_» Povero CARLO! chi scrive sa meglio d'ogni altro
che tu potevi morire senza rimorsi.

BINI sdegnò d'essere letterato, ammirato da letterati. I pochi scritti
ch'egli dettò, tutti a quanto io mi so senza nome, sgorgarono non da
disegno premeditato, ma da circostanze imprevedute che gli suscitarono
a tumulto le potenze del cuore. Puri d'ogni affettazione di lingua o
di stile, caldi senza indizio di sforzo, candidi, ingenui, ritraenti
del fare di Sterne, scrittore dei prediletti da lui, ma di Sterne con
tutte le idee, con tutti gli affetti del XIX secolo, a me rendono
immagine viva del suo sorriso; sorriso, come dissi, mestissimo, ma
pieno di pietà e d'amore, senz'ombra di riazione, senza vestigio delle
molte amarezze patite. E rimarranno, cari a tutti come la promessa,
inadempita per colpa dei più fra noi, d'un ingegno originale e potente;
preziosi a noi pochi che lo conoscemmo e non lo dimenticheremo mai più,
come il ricordo d'una vita la più incontaminata, la più virtuosa, che
ci sia stato dato d'incontrare in questi ultimi anni.

Condannato dalla fortuna a occupazioni dalle quali si ribellavano
tutte le tendenze dell'animo suo, affannato dal desiderio d'un Ideale
ch'ei disperava di raggiungere in terra, roso, – e questo è tormento
che i più negano, e nessuno forse, se non chi lo prova, può intendere,
– dalla potenza che gli fremeva dentro e rimanevasi, per disconforto
dell'Oggi, inoperosa al di fuori, CARLO BINI tra l'esser frainteso o
profanato nell'espressione del suo pensiero, scelse il silenzio; ma lo
ravvolse di tanta dignità, che parve, a chi lo conobbe dappresso, più
eloquente d'ogni parola. Non si lagnava; avido d'amore, sdegnava il
compianto; fors'anche lo tratteneva il timore di aggiungere, snudando
le proprie piaghe, allo sconforto dell'anime giovani, che guardavano in
lui ed erano men forti a reggere che non la sua. La sua era di quelle
che s'affinano nella sventura. Tutta la vita sottratta all'intelletto
di BINI si riversava nel cuore; nè, s'egli avesse trovato l'esistenza
simile fin da' primi suoi giorni a un letto di rose, avrebbe potuto
mostrarsi più affettuoso ai viventi che s'abbattevano in lui.
Dall'attività d'amico ch'egli più anni addietro, spiegò per giovare,
nelle strette d'una crisi di povertà, chi scrive codeste pagine, fino
alla traduzione dal Tedesco ch'egli imprese poco tempo innanzi la
morte, e quando il male che ce lo rapì lo travagliava minaccioso, per
soccorrere col ricavato della vendita a un conoscente, io potrei citare
una serie d'atti tali e tanti da onorare qualunque vita; ma non li cito
perchè mi parrebbe offendere la santità del pudore ond'ei ricopriva
le belle azioni della sua vita: ei benediceva, come soffriva, tacendo.
Non so quanti vivano grati a BINI per aiuto, consiglio o conforti; son
certo che non esiste un sol uomo il quale possa dolersene. Tendente
al frizzo, s'adoprava continuo a correggere la natura, e lo temperava
di tanta benevolenza che nessuno poteva patirne o adontarsene:
intollerante e santamente sdegnoso solamente all'ipocrisia. Lento, ma
tenacissimo, negli affetti, non li tradì mai per tempo, lontananza,
o vicende: tradito egli stesso, rispettò il passato e non rispose
che col silenzio. Serbò, perseguitato, contegno virilmente decoroso
dell'uomo che dal primo all'ultimo anno della sua vita avea, com'egli
stesso scriveva, «segnato una linea retta nella via dell'onore;» e
tra pericoli, de' quali nè egli nè altri poteva segnare i limiti,
andava cacciando sulla carta, con una quiete di bambino accarezzato,
linee di tanta innocenza d'amore alla Madre, che paiono scritte da
un'anima di fanciulla con una penna tolta all'ala d'un angiolo. Delle
sue opinioni non parlo: le più importanti trapelano a chi sa intendere
anche dai pochi scritti raccolti in questo volume. Amava religiosamente
la Patria; nè, rara dote nei tempi nostri, mutò mai: migliorò; ―
come un bel cielo al tramonto, le facoltà del suo cuore andarono via
via rasserenandosi quanto più egli s'accostava all'ultimo giorno.
L'ingegno pronto ed acuto, l'osservazione diligentissima, il senso
ch'ei possedeva squisito del Bello sotto qualunque anche poverissima
forma si presentasse al suo sguardo, la singolare facilità con ch'egli
potea trapassare dalle corde dell'onesta letizia a quelle della
commozione più profondamente patetica, una insolita dolcezza di stile,
e l'anelito all'Infinito, e l'anima nata ad amare e inchinatissima alla
pietà, avrebbero forse in altri tempi fatto di CARLO BINI il Gian Paolo
Richter dell'Italia; ma egli non avrebbe mai potuto scrivere a chi lo
conobbe, libro migliore della sua vita.

Morì côlto d'apoplessia, il 12 Novembre 1842 nell'età di trentasei
anni[1], dopo quaranta ore più che di agonia di letargo, in Carrara,
dov'ei s'era per affari recato. Ma le sue ossa, trasportate devotamente
per voto di tutti ed opera degli amici a Livorno, riposano dov'io forse
non potrò mai più visitarle, a Salviano, nel cimitero.

Nè gemo per lui; perchè gemerei? Il suo pensiero gli sopravvive, più
potente a spandersi invisibile dal mondo migliore, ov'egli soggiorna,
tra' suoi fratelli di patria; ed egli è salito a vita meno infelice
e più pura. Gemo per noi che abbiamo perduto un amico, e non siamo
certi fino all'ultimo giorno di meritar di raggiungerlo: gemo pei
giovani che avrebbero potuto abbandonatamente specchiarsi e fidarsi
in lui, e ai quali son tanto rare in oggi siffatte guide. E gemo dal
profondo dell'anima pensando alle tante anime mie sorelle, simili a
quella di CARLO BINI, che onorerebbero d'opere generose e di nobili
scritti l'Italia, e si consumano, mentr'io scrivo, ignote a me, ignote
a tutti, nel tormento d'un'impotenza decretata dai tempi, dall'egoismo
ognor più invadente, e dall'inerzia vostra, o Italiani. Provvedete
a quest'anime, o Giovani: è BINI che prega per esse. Voi avete dato
onore d'esequie solenni e di tomba alla sua spoglia mortale: sia con
voi il suo spirito e fate del vostro cuore un santuario della sua vita.
Operate come se aveste raccolto in voi l'alito estremo del pensiero
d'amore che lo animava. Educatelo devotamente attivi e diffondetelo
sulla terra che BINI piangeva caduta. Amate la Patria come ei l'amava:
ribeneditela d'entusiasmo, di fede, di Poesia: preparate ai vostri
ingegni privilegiati quel popolo di credenti che BINI invocava. Oggi,
comunque facciate d'abbellirle e onorarle, l'Angiolo dello Sconforto
siede sulle tombe de' vostri cari, e la voce che noi moviamo per essi,
e dovrebbe innalzare in religiosa lietezza l'inno della nuova vita,
suona lamento inconsolabile e amaro.

NOTE:

  [1] _Egli era nato in Livorno, il 1.º di Decembre 1806._



PRIMA PARTE.

SCRITTI ORIGINALI.



MANOSCRITTO DI UN PRIGIONIERO

― 1833 ―

      You smile? t'is better thus than sigh.

                                                           BYRON.

      V'è più ragione di ridere quando sei in fondo, che quando
    sei in cima; – almeno tu non temi più di dare la balta. Il riso
    dell'uomo felice può essere smentito da un punto all'altro. La
    Fortuna non fa contratti perpetui con nessuno. Il suo corso è
    a spirali, e non rettilineo. Oggi t'abbraccia, e ti mette sul
    capo un diadema; dimani ti taglia la testa, e la dà per balocco
    all'abietto, che faceva da sgabello ai tuoi piedi.

                                  EPIGRAFE, CHE VA PER CONTO MIO.


CAPITOLO I.

Il cervello dell'uomo appena è in istato di esercitare le sue funzioni
può rassegnarsi in tre scuole. Di queste una infallibilmente ne
conoscete, ― senz'altro le conoscerete anche tutte, perchè non sono
arcani di astronomia; – son cose semplici, e dappertutto si sentono
dire. Io nondimeno, a scanso di equivoci, mi stimo in dovere di
nominarvele tutte e tre, secondo l'ordine naturale in cui giacciono
fino dal principio dei secoli. Elle pertanto sono queste:

Scuola della Fede;

Scuola del dubbio;

Scuola dell'Incredulità.

E in una di queste tre, suo malgrado o no, ha da rassegnarsi il
cervello. La prima è più frequentata di tutte; – la seconda più della
terza; – quest'ultima ha un numero bene scarso di alunni. Il locale
stesso è sì angusto, che non potrebbe capirne una folla, – e per
entrarvi ci vogliono certi dati requisiti, che non son comuni. _Sic
se res habet._ V'è chi crede in tutto; v'è chi dubita di tutto; v'è
chi non crede in nulla. V'è chi crede, che il Sole abbia gli occhi,
il naso e la bocca come abbiamo noi; – v'è chi dubita, che il Sole
non sia di fuoco, ma una massa enorme di ghiaccio; – vi sono certi
pochi disperati, che non credono in nulla, – nè anche nel sasso dove
urtano, – nè anche nell'acqua che li bagna. ― La verità dove siede? ―
Di grazia, vi prego, non fate a me questa dimanda, perchè non saprei
di dove cominciare a rispondervi. Quello che è vero, ogni scuola la
pretende esclusivamente nel suo ricinto, – e le ha destinato un bel
seggiolone a bracciuoli, dove non ci si vede mai nessuno a sedere. Ma
tutte le scuole vi spiegano il fenomeno in questa guisa: non si può
negare, voi non vedete nessuno, e noi non vediamo nessuno, – ma v'è
la sua propria ragione; – la Verità è un ente invisibile. Forse la
Verità imita il Congresso degli Stati Uniti d'America, che tiene le sue
sessioni ora in questa, ora in quella città, regolandosi con una giusta
vicenda.

Io per cominciare _ab ovo_, come dicono i retori, primamente entrai
nella scuola della Fede palpando l'ombre come cose sensibili, fino
a che il tatto educato dall'uso non uscì d'inganno. Allora protestai
nelle debite forme, – tolsi commiato il meglio che seppi, e mi diedi
alla scuola del Dubbio. Non operò la stanchezza, o il capriccio: furon
la coscienza e il puntiglio, che mi fecero divorziare colla Fede. La
Fede me ne aveva fatte troppe delle fusa torte, e troppo manifeste. Mi
dava una cosa per bianca, e al riscontro era bigia; – e quanto spesso,
per cagion sua, invece d'uno ho dovuto far due viaggi, ho dovuto fare
un conto due volte!

Un tempo io mi dava a credere, che un effetto solo e determinato fosse
prodotto sempre da una causa sola, determinata, immutabile. Un tempo
io lo credeva, ― e la Logica anch'essa mi accennava col capo ad una
certa distanza. A me pareva allora che volesse darmi ragione, – e forse
invece voleva dirmi di no.

Oggi il mio _credo_ è sensibilmente variato quasi in tutti i suoi
articoli, e tale è il frutto degli anni. Ma son io più felice? Siete
voi più felici, voi, che aspettaste con tanto anelito il benefizio del
tempo? – Gli anni mi hanno guarito di certe poche malattie, che non mi
facevano nè bene nè male, e mi hanno guarito di più altre malattie,
che mi facevano meglio della salute. Ora me ne accorgo, ma è tardi,
– e poi quel che è stato doveva essere. Gli anni, non contenti che il
pomo dell'Asfaltide fosse pieno di cenere, gli hanno voluto rapire la
lusinga di una scorza lieta di bellezza e di luce. Oh! la dottrina
degli anni! io la lascerei volontieri a chi la vuole, se il Fato
non me l'avesse imposta come una camicia di forza. La dottrina degli
anni smuove il cuore dal suo centro portandolo verso la testa. È una
dottrina severa, geometrica, che cammina per terra colle mani e coi
piedi, e dal tetto in su non vede altro che nuvole, e le stima buone
solamente a far piovere.

Ma veniamo al dunque. – Io voleva dire, che un effetto solo non dipende
sempre da una causa sola: anzi spesso può dipendere da due cagioni
diametralmente opposte fra loro. – Un fulmine può scoppiare a ciel
sereno, – può scoppiare in burrasca. – Non so se in Fisica regga;
ma l'ho detto così per dare un certo rilievo al mio disegno, – e in
ogni caso sapete dove trovarmi; – io son _qua_ per le debite scuse. –
L'uomo può andare in prigione per i suoi meriti, _exempli gratia_ per
un furto, – _etiam_ può andarvi per un _qui pro quo_. Un _qui pro quo_
non è cosa da pigliarsi a gabbo; alle volte, è vero, può farvi ridere;
– sovente ancora può farvi corrugare la fronte. Un _qui pro quo_ può
mettervi al fatto d'un segreto, che non avreste mai sospettato; – può
dare e toglier l'ale a una vittoria; – può mandarti in prigione, e
viceversa può farti vescovo.


CAPITOLO II.

Lo conoscete voi Sancio Pansa? Quel tipo verace di buon senso gregio
e originale, tale e quale come la natura se lo cava di manica? ― Ma
diamine! v'è mestieri di domandarlo? Prendete l'uomo il più idiota, e
rammentategli Sancio Pansa, si mette subito a ridere. Sancio Pansa è
conosciuto in Europa, è conosciuto in America, e sarà pur conosciuto
in Africa e in Asia, quando queste due parti del globo vorranno
leggere nei nostri libri. Sancio Pansa è il buon umore incarnato, –
grazioso nei suoi sali, grazioso nelle sue balordagini, grazioso a
piedi, grazioso sul'asino. – Sancio Pansa ha ormai la sua nicchia nella
storia, e vi sta saldo, inchiodato, imperterrito; – potete scuotere
a vostra posta, Sancio Pansa non si muove, non crolla. Egli e il suo
asino occupano pacificamente tante miglia quadrate di fama, quante il
primo conquistatore di prima classe: citate pure Alessandro, citate
Cesare o Buonaparte.

Eterne grazie a Cervantes che me lo diede a conoscere! Io l'ho
benedetto le mille volte Sancio Pansa, perchè mi ha fatto del bene.
L'ho benedetto come il maestro, che mi ha insegnato tante cose, che
l'accigliata filosofia non sapeva insegnarmi; – l'ho benedetto come il
sogno allegro delle mie veglie, – come l'amico che nell'ora nera veniva
di mezzo a mettermi in pace meco stesso e col prossimo. – Sia lieve
la terra sulle sue ossa; – sia lieve ancora su quelle del suo asino. –
Quest'ultima prece consolerà il suo spirito quanto la prima.

Sancio Pansa dunque era quell'uomo, che voi tutti ben conoscete. Aveva
anch'egli una madre, perchè Sancio Pansa fu una persona vera e viva
di questo mondo, battezzata e sepolta in Ispagna. Ora non mi ricordo
appunto in qual parte del libro Sancio Pansa racconta, che sua madre,
per arguzia di natura e per vecchiaia, era una donna pratica assai
delle cose umane. Narra di più, che un giorno ragionando di nobiltà,
di casate illustri, di origini antiche, sua madre chiuse il discorso
affermando sinceramente di non aver conosciuto al mondo se non due
sole famiglie: quella di coloro che hanno tutto, e quella di coloro
che non hanno nulla. E la vecchia soggiungeva candidamente, che non so
come l'istinto la portava a dirsela più volentieri colla famiglia dei
possidenti.

Dunque nota bene: Chi va in prigione è povero o ricco.


CAPITOLO III.

Quando va in prigione un signore è un avvenimento che nessuno se lo
aspettava. Tutti se ne fanno le maraviglie; tutti ne parlano in mille
voci, in mille maniere. Chi bisbiglia, chi grida, chi dice di sì, chi
dice di no.

La città è seminata di gruppi, e per mezza giornata almeno non fanno
più nulla, se non ciarlare del caso, e da un gruppo cacciarsi in un
altro: precisamente come quando segue l'eclisse del Sole. Un signore
in prigione pare alla plebe impossibile. – La plebe, che somma fatta
in capo all'anno sta sei mesi in prigione e sei mesi in una soffitta,
è inutile, non se ne persuade, perchè non ce ne vede mai dei signori;
e così di rado che non se ne rammenta. Crede le prigioni fabbricate
unicamente per sè; e se v'entra alcuno che non sia de' suoi, è un
fatto che la percuote, le sembra quasi una usurpazione. – Tanta è la
potenza dell'uso. – La plebe non crede che la colpa possa vestirsi
di panno fine,... crede che la colpa vada solamente vestita di cenci,
scalza, e col capo ignudo. – E sì che tutto il giorno ha in bocca un
proverbio pieno di verità che dice: L'abito non fa il monaco. – Non
giova: – quel proverbio erra per tradizione così sulla lingua, ma la
mente non l'accorda. – La plebe crede pur troppo nell'abito, e cotesta
persuasione oggimai s'è ossificata con lei.

Tuttavia, volere o no, di rado, ma qualche volta un signore va in
prigione.

Egli, appena ha varcato di tre o quattro passi la soglia, si volta
risoluto, – fa il viso più imperioso del solito, – squadra il
carceriere dai capelli alle piante, – poi gli ficca gli occhi negli
occhi. – Lasciatelo fare: il signore legge qualche cosa in quegli
occhi. È una lettura rapida, che dura un attimo, ma basta, – e il
signore se ne trova contento.

Se ne trova contento, e mette mano alla borsa: – la dondola con due
dita un momento per aria, – la fa suonare, – dice qualche cosa che
non vuol dir nulla, e il soprastante che è un gran chierco in tutte
le lingue, – anche in quella dei muti, – risponde subito; comandi,
comandi; – in quella stessa maniera, nè più nè meno, che rispondevano
gli spiriti in quei secoli d'oro, quando un mago o una strega con un
tocco di verga o con un ribobolo erano padroni dell'aria, della terra
e dell'inferno....

Voi l'avete sentito, il soprastante ha risposto: comandi, comandi.
E di fatti la metamorfosi da un punto all'altro è così improvvisa,
così universale, che sei tentato a giurare rinnovellato il regno
degl'incantesimi. In cinque minuti il signore è stato introdotto in un
nuovo _quartiere_; e il soprastante gli ha chiesto perdono, se, così
preoccupato com'era, aveva sbagliato di numero. Il valentuomo aveva
preso un tredici per un quindici; e il signore per tutta risposta gli
ha battuto due volte umanamente sulla spalla, non mi ricordo se destra
o sinistra. Ora le stanze sono tre, e prima erano una. Sono larghe,
ariose, imbiancate di nuovo, con qualche rabesco per maggior vaghezza,
e le finestre arrivano a mezza vita. Le finestre danno sur una buona
strada, dove passano carrozze e pedoni, uomini e donne, – dove il
signore può fare anche all'amore, – e senza scandalo. –

Viva la metamorfosi quando va dal basso all'alto! – _Fervet opus._
– Le piume sottentrano al pagliericcio, – le sedie all'unica panca,
– i cristalli all'unico orciuolo di terra cotta. I valletti sudano
attenti e in silenzio. ― «Fate piano con quello specchio, – badate
al canterale, è nuovo di zecca; – ehi! quel Napoleone non è mica
di piombo, è d'alabastro, – voi lo maneggiate come una brocca, –
sagratissimo diavolo! – ci vuol maniera, – badate, ve lo dico, chi
rompe paga; – dove sono i vasi dei fiori?» ― Così grida affannata la
voce chioccia del soprastante, e non si cheta più mai.

In questo mentre il signore ha girato per tutti i versi la nuova
abitazione; – ha veduto e riveduto minutamente, – ha disposto dove far
la tal cosa dove far la tal altra; – dove dormire, – dove vegliare, –
dove pensare, – dove non pensare. Ha fatto di quando in quando diverse
dimande, e il soprastante spesso gli ha risposto un no invece di un sì,
e viceversa. È un cattivo momento per discorrer con lui, – ha l'animo
troppo internato nell'assetto delle tre camere, e cotesto pensiere
gli ha rubato la mano. Ella è finita, – vuol farsi onore, nessuno lo
frastorni, – tanto non dà retta a nessuno.

Laudate Iddio! l'assetto è finito, – si può respirare, – respiro
anch'io. Con un'occhiata i valletti son licenziati, e se ne vanno.
Alla buon'ora. Adesso il soprastante è contento; – se lo guardate bene
nella statura, vi pare un dito più alto. – Si asciuga il sudore della
faccia, – si raffazzona i capelli, – compone lo scompiglio delle vesti,
– si scuote d'indosso la polvere, – si mette in somma in buono stato, –
nello stato di comparire come un galantuomo. Dopo si rivolge al signore
con un mezzo sorriso tra la compiacenza e l'orgoglio, e il signore gli
corrisponde tentennando con bel garbo la testa. Ora è tempo che anch'ei
se ne vada. E di fatti vedetelo là col cappello in mano, che se ne va
all'indietro fino alla porta. E non crediate che se ne vada alla muta.
Oh! il soprastante è un uomo di mondo. Sicuramente ha detto: servo
devoto. Io l'ho sentito con queste orecchie, – e l'ha detto in tono di
basso assoluto.

Ora manca null'altro? – Non saprei: – v'è la prigione, e il signore
v'è dentro. Oh! le belle prigioni che son quelle dove vanno i signori!
La povera gente le scambierebbe volentieri con la sua libertà. Cosa
manca al signore là dentro? Il soprastante gli ha pur detto: comandi,
comandi; – ed egli non ha inteso a sordo. Gli dà noia il divario, la
novità del locale? Può immaginarsi finita la scritta della casa abitata
prima, e che gli sia convenuto tornare in un'altra; – può immaginarsi
il suo palazzo in mano alle maestranze per bisogno di certi restauri,
e che per questo abbia condotta a pigione provvisoriamente una casa,
come veniva veniva. Gli dà noia forse il non potere uscir fuori? –
Bene, può mettersi in capo che non ha voglia d'uscire, – che l'acqua
vien giù a rovesci, – che si è stravolto un piede montando a cavallo,
– che cerca la solitudine per comporre un'opera, per farsi anch'egli un
bel nome. In somma a lui tocca a scegliere. – L'immaginazione è là come
un merciaiuolo alla fiera, e gli va mostrando uno dopo l'altro i suoi
mille fantasmi, e si protesta di vendere a buon mercato.


CAPITOLO IV.

Fra bene e male una buona mezz'ora è passata. Cos'abbia fatto il
signore frattanto, io non ve lo posso dire. Io non sono S. Antonio, non
posso trovarmi al tempo stesso in due luoghi. Ho lasciato il signore,
e sono uscito col soprastante andandogli dietro dietro ad una giusta
lontananza. Il soprastante ha girato due strade, – poi è riuscito sur
una piazza. Quivi a passi smisurati s'è accostato a uno stabile di
bella apparenza, che al primo piano portava una mostra dipinta nelle
regole con certe parole cubitali, che dicevano: _Restaurateur_. Come
ha messo il piede sul primo scalino, ha cavato fuori una scatola, – ha
preso tabacco, – ha fatto uno sternuto, – e poi s'è infilato su per le
scale. E io dietro senza perder tempo. Io son l'ombra del soprastante;
– non mica per nulla, vedete, – ma son curioso anch'io, – forse troppo;
– già sono stato sempre, – curioso forse come una femmina.....

Il soprastante ha aperta la bussola franco franco, come se fosse stato
il padrone, o come un avventore dei buoni. Arrivato in mezzo ha dato
il buon giorno, e del compare a un cert'uomo, che stava inchinato
sopra una tavola a mettere in sesto non so quali vivande. Il compare
s'è riscosso, – s'è rigirato in un _fiat_, e veduto il soprastante
ha fatto subito bocca da ridere, e gli ha reso bene e meglio il buon
giorno. Egli ha compreso istantaneamente di che sì trattava. Allora
si sono strette le mani come due vecchie conoscenze, – hanno parlato
forte, – si son bisbigliati non so che nelle orecchie. Dopo di che il
trattore ha lasciato quel che aveva da fare, – si è messo in ordine, e
son venuti via di conserva.

Eccoli insieme alle carceri; – già salgono una scala, – due scale, –
tre scale; eccoli sul pianerottolo. Il soprastante avanti, il trattore
dietro. Ecco, che il primo mette adagio adagio la chiave, – la gira
lentamente, quasi che la serratura fosse di vetro, – e prima di
sospigner l'uscio ingentilisce la voce, e la manda dentro dicendo:

― È permesso? si può passare?

― Oh bella! se non passate voi, che avete le chiavi, chi deve passare?

― Vossignoria ha sempre ragione; ma io conosco con chi ho da trattare,
e i miei doveri non li so d'oggi.

― Bene, bene. Che abbiamo di nuovo?

― Son venuto a sentir quel che occorre, conducendo meco quest'uomo.

― Avete fatto bene. Galantuomo, chi siete?

― Sono un trattore bello e buono, ai servigi di Vossignoria.

― Ah! siete un trattore? siete una cosa più necessaria della prigione.

― Viva la faccia di Vossignoria! in questi luoghi vuol essere borsa, e
buon umore.

― Come vi chiamate?

― Marco Trappolanti ai servigi di Vossignoria.

― Avete un nome curioso.

― Eh! Signore! che vuole? tanto il nome che il grado son cose, che
bisogna portarle come Dio ce le mette adosso. Se stesse a noi lo
scegliere, non andrebbe così; – io mi sarei messo un nome lungo e
liscio come una coda di cavallo, e invece di cucinare per gli altri
farei cucinare per me. Non so se dico bene, sono un ignorante.

― Bisogna contentarsi. La provvidenza ha saputo quello che ha fatto. Ma
veniamo al pranzo. Come mi tratterete.

― Vossignoria di certo non vorrà stare all'ordinario, – mi parrebbe
un'offesa a proporglielo. Del resto la tratterò come merita, come vuol
essere servita. Non dubiti, l'arte la so fino in fondo; – com'ella
vede, ci sono invecchiato. Scelga, chè io son qua tutto per lei. Vuol
cucina alla Francese? alla Piemontese? la vuole all'Inglese?

― Per non confondermi le assaggerò tutte. L'ordinario non lo voglio;
– mi appresterete un pranzo a parte secondo la nota che vi darò.
Pietanze sane, e in abbondanza. Vino sincero; – mi contento, che me lo
diate come l'avete ricevuto. Voglio sperare, che col fatto smentirete
la cattiva impressione, che produce il suono del vostro cognome.
Scommetto, che siete un galantuomo. Dite di no?

― Eh! non ho detto nulla, – e come vede io non sono in prigione.

― Bravo! è una risposta che vale un paolo. Prendete _(gli dà un
paolo)_. Andate, – spicciatevi, – servitemi bene, – ed io penserò a
voi.


CAPITOLO V.

Voi potete rovesciare il quadro, se il carcerato appartiene alla
famiglia dei poveri. Povero! – ma sentite che voce? – La combinazione
stessa delle lettere che compongono un tal vocabolo è una cosa che dà
addosso; – il nome stesso è così fiacco, che non si regge ritto.

No, – io non ci credo, – non ci credo neppure se me lo dicesse ella
stessa. La Natura non ha fatto i poveri: ― ella è buona, – ella
è savia, – è madre, e non madrigna: siamo tutti suoi figliuoli, e
vuol bene tanto al primo che all'ultimo. E se la Natura avesse mai
stampato questa moneta, bisogna pur dire, che non avesse più credito,
che avesse gli sbirri in casa, e dopo le prime mandate avrebbe fatto
meglio a rompere il conio, – avrebbe fatto meglio a mettere in circolo
degli assegnati, – avrebbe fatto meglio a fallire. Una moneta falsa è
tuttavia di metallo, – ha un valor benchè minimo: ― il povero è peggio,
– è una moneta di fango.

I poveri, via, non ci volevano; – essi stessi ne vanno d'accordo. ―
Ma come mai son diluviati in questo mondo ad ingombrare le strade,
i vicoli, le piazze, in guisa che il Signore per poter passare
disperatamente è costretto di andare in carrozza? Ma come mai? Io mi
ci sono stillato il cervello, e non son venuto a capo del come. L'ho
dimandato perfino agli stessi poveri, e mi hanno risposto chiedendomi
qualche cosa per amore di Dio.

Così è, – la storia è come io ve la narro. Le tradizioni, gli archivi,
la stampa, non serbano traccia nè del come, nè del quando fosse fondata
la setta dei poveri; – non serbano neppure il nome del fondatore.
L'antiquaria ha cercato dappertutto, – per terra, – per mare, – per
aria, ma non ha trovato nè pergamena, nè medaglia, nè altro documento,
che ne desse il minimo indizio. Per avventura la setta non fu mai in
grado di rizzare nè anche un tronco d'albero in memoria della sua
origine. Quel poco che ne sappiamo è che la setta rimonta col suo
principio verso un'epoca remota remota, le mille miglia lontana dal
dominio della storia, e conta un'antichità canuta tanto da dar gelosia
a chi stima di attingere un merito a questa sorgente. Un gentiluomo
è sempre prudente, – ma tuttavia per le buone regole credo bene
avvertirlo di non discender mai a cimento con un povero sulla primazia
delle scambievoli origini. Bisognerebbe cercar nel passato, e chi sa
dove lo menerebbe l'indagine. Chi l'assicura che non trovasse uno degli
avi suoi in cotal luogo da fargli salire i rossori sul viso? _Quando
Adamo zappava ed Eva filava, dov'era allora il gentiluomo?_

Povero! – Questo nome ha un tal prestigio per me, ch'io non me ne posso
staccare. E quanti sono! Trovatemi chi li sappia contare, ed io _ipso
facto_ lo dichiaro matematico più valente di Galileo. I poeti, per dare
un'idea delle cose che non si possono numerare, hanno tolta l'immagine
dalle arene del mare, e dalle stelle del cielo; – potevano toglierla
ancora dai poveri della terra, e così avrebbero avuto un paragone di
più. ― Non v'è che dire, – è la più vasta setta di quante apparissero
mai, – rimasta sempre in seduta permanente, – e riceve gli adepti alla
rinfusa, – senza chieder loro come si chiamino, – senza guardarli
neppure in faccia. Non ha misteri, – non ha sotterranei, – cospira
sotto la cappa del sole, – non ha timore della _Police_. Ella non è una
setta segreta, e qualsivoglia governo l'ammette.

O poveri! – Voi siete ricchi di pazienza più che altri non crede.
Quando di sotto ai tetti delle vostre soffitte voi vedete le stelle,
chi non fosse povero bestemmierebbe, – penserebbe al freddo, – alla
guazza, – alla pioggia, – al malore che gliene potrebbe incogliere.
― E voi pensate invece che quegli astri scintillanti un dì saranno
casa vostra, – che passerete dall'uno all'altro a vostro talento, –
che avrete tutti i giorni Domenica, – che le anime vostre potranno
svoltolarsi a bell'agio sull'azzurro molle del firmamento come sopra
un tappeto. Così sognate ad occhi aperti, e non sentite la durezza del
letto, e l'inclemenza dell'aria. La speranza pietosa di tanti bisogni,
di tanti dolori, coll'ambrosia del suo alito v'inebbria – vi affascina
il cuore, – colle sue divine melodie vi culla i sensi in una calma
profonda. ― O poveri! Voi siete ricchi di pazienza, – e Dio.... vi
mantenga perenne quel dono. Che se un giorno la perdeste, se rompeste
le dighe che al presente vi contengono, qual sarebbe allora la faccia
del mondo? La gerarchia sociale resisterebbe al fiotto dei vostri
milioni? la piramide starebbe, quando si scommovesse la base? Cosa sarà
la superficie di questo suolo, quando il vulcano l'avrà lambita colle
sue mille lingue di fuoco?


CAPITOLO VI.

Ma ripigliamo il filo del nostro racconto. Dove siamo rimasti? Sarebbe
bella che me ne fossi scordato! Lasciatemici pensare un momento:
buoni, buoni, – ho ritrovato il filo. ― Ma, di grazia, stateci attenti
ancor voi, – io sono avvezzo troppo a divagare, tanto che non mi
sembra neppure. Quando vedete ch'io prendo il largo per menarvi chi
sa dove, – forse in un pantano, – forse sur un prato fiorito, – allora
tentatemi per un braccio, – tiratemi una falda, – rimettetemi insomma
sulla vera strada. Io n'ho di bisogno, – voi lo vedete da voi; – non
posso camminar diritto, – serpeggio sempre, – ormai è un vizio che
s'è convertito in una seconda natura. ― Per questo ho stimato bene
avvisarvene. ― Uomo avvisato, mezzo salvato.

Sta tutto bene, ma un altro poco, s'io non me ne accorgo per tempo, il
filo mi sfuggiva nuovamente di mano. ― Su dunque all'opera.

Ecco il Povero viene. Vedetelo là in mezzo a quella massa di popolo,
che lo preme, e lo incalza nel suo tristo destino spensieratamente,
come il cavallone spinge sul lido una tavola del naufragio. L'avete
veduto? Non si distingue se sia sciolto o legato, se gli sbirri sien
quattro o sei, tanto è fitta quella massa di plebe. Che ronzio, che
schiamazzo, che tempesta d'urli e di voci! ― Cos'ha fatto? ― Come si
chiama? ― È del paese? ― È forestiere? ― È un ladro? ― È un assassino?
Dove ha rubato? ― Conoscete l'ammazzato? ― Quante ferite? ― E via
discorrendo; e tutti dimandano, e tutti rispondono ad un tempo. ― Ma
non potrebbe darsi che fosse, più che iniquo, infelice, che fosse
innocente? – Potrebbe darsi, ma nessuno l'ha pensato, nessuno l'ha
detto. Ei l'infelice percorre le vie di fretta più che non vorrebbe;
– il turbine popolare lo mena. E chi l'ha vestito in quel modo così
pietosamente ridicolo? Se la Miseria non gridasse; io l'ho vestito,
– tu diresti che il Capriccio ha mandato fuori la sua maschera più
grottesca; il suo capo d'opera. Porta in capo una cosa, che tre anni
sono era già un cappello vecchio, – ora è uno sgomento a definirla.
– E la camicia non è di canapa, non è di lino, – nè di cotone, – nè
di stoppa; – è d'una stoffa che non è stoffa, d'un colore che non è
colore; – una camicia che ha una manica e mezzo. Oh! davvero è meglio
contentarsi della pelle che ti diè tua madre, che avere una camicia
come quella! – E i calzoni! che labirinto! Non si sa se sono a diritto
o a rovescio, se il davanti è di dietro, e se il di dietro è davanti;
– se in principio furono fatti di toppe, o d'una materia unica, perchè
ora le toppe sono più grandi della materia primitiva. E quante sono! e
come affollate! e si montano addosso una sull'altra come una turba di
curiosi quando c'è da vedere uno spettacolo nuovo. E chi gli ha fatto
quei calzoni? Giudicandogli al taglio, potrebbe averglieli fatti ancora
un magnano. – Tutto questo vuol dir nulla: così vestito com'è, viene
avanti; – un piede ha calzato di mota, – l'altro gli sta in una scarpa,
mezzo sì, mezzo no. Ei l'infelice è vicino a toccare la meta del suo
viaggio. È un viaggio che i poveri fanno frequentemente, – di rado
sciolti, più spesso legati, – e non lo stampano, perchè son modesti,
nè li rode la smania di farsi un nome a _tout prix_. È un viaggio che
non fanno mai in vettura. È scritto che il povero vada sempre a piedi;
– sia che vada a nozze, all'ospedale, o in prigione. E per questo il
Povero va colle sue gambe in prigione; – e deve andarvi, fosse anche
paralitico, stramazzato dalla febbre, fosse anche zoppo. – Il povero
non ha diritto che a una vettura sola: a quella che dal carcere lo
porta al patibolo, – dalla vita all'eternità.

Finalmente egli è giunto al portone d'ingresso, – all'arco trionfale
della miseria, del delitto, dell'innocenza che la calunnia può
convertire in delitto. E pur troppo vi sono trionfi di tutte le specie,
e la plebe umana li accompagna tutti colla medesima calca, – col
medesimo spirito, colla medesima furia, colle medesime grida. Basta che
sia un alimento alla feroce curiosità della plebe! sia pure la testa
mozza di Luigi XVI, l'incoronazione di Buonaparte! Tra cibo e cibo non
mette divario. – Il Povero ha passato il suo arco di trionfo, – trionfo
di vergogna e di dolore. – La plebe è rimasta di fuori, e non sa neppur
ella cos'altro più aspetti; ella non è sazia ancora.


CAPITOLO VII.

Il Povero è avanti, e gli sbirri fanno il corteggio. Salgono e scendono
più volte; – voltano a destra, voltano a manca; – è un intreccio che
la mente alla prima non può raccogliere in ordine; – in fine danno
in un corridore lugubre lugubre, dove si può vedere l'oscurità, come
disse Milton. Qui la vista non serve, conviene andare a tentoni. Giunti
in fondo si fermano. Di lì a pochi minuti s'ode un rumor di passi che
sempre più si avvicina; – finalmente senza averlo veduto comparisce un
uomo con un mazzo di chiavi, – un uomo per così dire, con un viso duro,
un viso cupo, che accresce le ombre del luogo. – Gli sbirri non gli
dicono che due parole, e poi se ne vanno.

Ora il Povero e il soprastante sono in presenza l'uno dell'altro. – Ma
non ci segue una parola, non ci segue uno sguardo. Il Povero non osa,
il soprastante non se ne cura. Fra l'uno e l'altro giace un silenzio
ineccitabile, una indifferenza letargica, come fra il beccamorti e il
cadavere. Il soprastante tra la fretta e la rabbia apre un uscio basso
più dell'uomo che deve passarvi, – poi si tira un passo indietro, come
per dire al Povero: – entrate. Il pover'uomo curvandosi mette il piè
sulla soglia, e il soprastante non crede opportuno di accompagnarlo, ma
gli dà una spinta, e lo butta là come una cosa, che non è più buona a
nulla. E così come dico arriva in fondo in un attimo; la stanza non è
troppo lunga e con una spinta s'andrebbe anche più là, se il muro non
si opponesse. Ora a qual Santo ricorrere? I Santi anch'essi vogliono
salmi e candele. Egli non è tentato di frugarsi le tasche, perchè non
ha tasche; – e, quand'anche le avesse, cosa dovrebbe cercarvi mai? Egli
dispererebbe di trovarci un picciolo, posto ancora che li scudi belli e
coniati piovessero giù dal cielo come le goccie dell'acqua. E in verità
io credo, ed egli crede, che non ci troverebbe un picciolo: – forse un
conto, che non ha potuto pagare, e che lo manda in prigione, – forse un
rosario, se pure la Miseria col suo fiato ardente non gli ha cancellato
dall'anima quel segno lieve di fede, che l'amor di sua madre v'impresse
quando egli era un fanciullo.

Arrivato in fondo si volta, ma come una macchina; sta un istante fra
il sì e il no: poi cerca di condurre sulle labbra un sorriso, e tenta
di farlo, – ma il soprastante con un volto di pietra gli disfà quel
sorriso cominciato appena a incresparsi. Egli allora si smarrisce, –
tituba, – gli sembra che il suolo si avvalli; – era pallido pallido,
e in un lampo si colorisce d'un rosso febbrile; – cerca una parola,
e non la trova; – se avesse il cuore pacato la troverebbe di certo,
ma un nodo di affetti gli scompiglia la mente, gli chiude la gola.
Quegli affetti sono troppi, e troppo forti; – si affacciano tutti in un
gruppo, – possono sboccare. Però se tu guardi attento, su quella faccia
v'è un'espressione di preghiera, – un senso profondo di supplica, – non
per sè, – ma per altri. Vorrebbe dir mille cose, – alcune poi vorrebbe
dirle pregando, dirle anche piangendo; vorrebbe che portassero a casa
sua una parola di amore, una consolazione; e se invece d'un carceriere
avesse un uomo dinanzi, lo supplicherebbe di portare almeno un pane
ai suoi figliuoli. Poveri suoi figliuoli! aspetteranno la sera, quando
tornato a casa gli asciugavano il sudore della fronte, lo ricingevano
di carezze, di baci, di mille dimande, – e mangiavano insieme il pane
delle sue fatiche; – aspetteranno la sera, e non lo vedranno venire.
Oh! concepite voi l'angoscia di aspettare indarno la creatura che vi
ama, e che vi nodrisce? – La sera è diventata notte, e non lo vedono
venire poveri suoi figliuoli! lo vanno a cercare di su e di giù, ne
dimandano a chi trovano, lo chiamano ad alta voce, ma vanamente; s'è
fatto più tardi che mai, e il padre non viene. Santa Vergine! che
sarà successo di lui? – Allora il dubbio comincia le sue torture, –
li fa sperare, e disperare, – piangere e ridere, – li rende insani col
vortice della sua fantasmagoria, – vortice infernale, illuminato d'una
luce livida, dove passano rapide rapide mille figure diverse, – dove or
sì, or no, comparisce in fondo una bara. Poveri suoi figliuoli! pensano
ancora, che possa esser morto! E quella sera non hanno mangiato, nè
mangeranno. – E la fame non è sola; – la fame ha fatto alleanza col
crepacuore.


CAPITOLO VIII.

Il pover'uomo non ha potuto profferire una parola, e si è rincacciato
nel cuore tutte le sue passioni come altrettante spine. Credeva di dir
tutto col volto, ma un soprastante, fosse dotto ancora nelle lingue
orientali, – fosse pure un Mezzofanti, – non sa leggere la sventura, o
se la legge non le sa rispondere. Il soprastante non ha letto l'immenso
volume di affetti, che spiegava la tramutata faccia del carcerato; –
o se l'ha letto, per tutta risposta gli fa sentire il cigolio delle
chiavi, e dei catenacci.

Il soprastante è partito.

                             . . . . . . .

E tu pover'uomo, sei rimasto impietrito, soverchiato dalla foga delle
tue passioni. Il peggio è, che non puoi piangere ancora; ma piangerai
più tardi, – non può mancare. – Una lagrima fu data alla gioia, una
lacrima alla sciagura; – la prima rinfresca, l'altra arde come la lava.
– Piangerai più tardi, e il tuo pianto sarà bello, perchè non sarà
tutto per te; – piangerai pei tuoi figli, per la madre se l'hai, forse
per un amore, forse ancora per una patria.

E perchè vi stringete nelle spalle, come se il cuore del povero non
potesse palpitare per un nobile affetto, come se l'intelligenza del
povero non potesse valicare le regioni concedute alla mente umana?
Sapete voi cosa racchiuda quel cranio? Quando meno vel pensate,
potreste rinvenirvi gli elementi da farne un Michelangiolo, un Byron,
un Bolivar. Conoscete voi la vita degli uomini grandi di tutti i tempi,
e di tutte le nazioni? Plauto era schiavo, e girava il molino, – ma
la sua Musa fu salutata da un popolo di eroi. E quando una povera
donna alla sera cantava le sue canzoni di madre a un povero bambino,
e sospirava guardandolo, e pensava che un giorno forse non avrebbe
un cognome, – sarebbe un mendicante, – al più un lavoratore della
campagna, avrebbe creduto mai di cullare Shakspear, Rousseau, Franklin,
di cullare il Correggio, e Masaniello? avrebbe creduto mai, che da
quel verme un dì sarebbe sorta la farfalla destinata a libare fiori
immortali nei campi della Gloria e della Bellezza? – L'organismo umano
rompe le leggi della gerarchia sociale, – e quando l'Occasione batte
sul vivo un popolo, allora si scorge quale delle classi possa dar
più scintille. Allora la storia non è più confinata in un gabinetto
a sommare le partite di frodi, che la diplomazia ha segnato nei
numerosi suoi protocolli; non è più stipendiata a descrivere una guerra
puerilmente sanguinosa, ove non si vedono in cozzo che due bastoni di
maresciallo. La storia si slancia da quelle angustie, e la superficie
nel mondo è la sua pagina, ed ogni linea che v'incide è un tratto di
luce; – allora la Rivoluzione Francese sorge come un'epopea magnifica,
immensa; sorge Mina e l'Indipendenza Spagnuola; sorge la lotta titanica
della Grecia moderna. Oh! gli ultimi eroi della Grecia non erano
cavalieri dello spron d'oro!

Sì, pover'uomo; il tuo cuore può _gemere per me, per la patria, e per
te_. Dacchè non posso sollevare le tue miserie, e quelle dei tuoi tanti
fratelli, io non voglio toglierti un cuore, che forse avrai più buono
e più generoso del mio. Io non voglio toglierti quello che non posso
darti.

Certo, se tu fossi solo nel mondo, come alcuni sono, non so se per
questo più o meno miseri di noi, a quest'ora avresti già preso il
tuo partito; – avresti mostrato fronte ferma alla cattiva fortuna;
– avresti cantato non so quante canzoni; perchè il povero in mezzo
agli stenti e alla sua nudità, quando ha il cuore franco, canta del
continuo, – canta allegramente come un uccello, che si alimenta di quel
che trova, e muta nido ogni sera.

Ma tu non sei solo; – e sei rimasto immobile, come tocco dalla folgore.
Ora perchè guardi le muraglie? perchè crolli mestamente la testa? –
Tu hai ragione; – non hai che due mani, e non son buone a fare una
breccia; – tu guardi l'inferriata, ma è doppia, e ci vuole una scala
a salirvi; – tu guardi la porta, ma è grossa, e foderata di ferro, e
sigillata in maniera, che non dà l'adito neppure a un sospiro. Oh! il
tuo sospiro non penetra di là nel mondo; e il mondo già non l'udrebbe,
o penserebbe che fosse aria traverso uno spiraglio. E poi, cosa farebbe
il mondo del tuo sospiro? Il mondo vuol godere, e chiama breve la vita,
breve tanto, che mala pena dà tempo di pensare a sè. E poi, il mondo
non ha inventato le carceri, le torture, i patiboli, non ha inventato
mille delitti, che la Natura umana non riconosce? – _Requiem æternam._
– Ti hanno deposto in un sepolcro, e non sei ancor morto; – t'hanno
deposto in un sepolcro, senza lumi e senza canti, come il suicida. E
il mondo spensieratamente ti si agita dintorno col suo dramma pieno di
rumore e di vita.

O pover'uomo! potessi tu almeno dormire, potessi almeno posare su
quella tavola le tue membra stanche, accasciate da tanti affanni! Ma il
dolore non dorme mai; – veglia inesorabilmente, veglia come un marito
geloso, perchè il mondo è suo, perchè addormentandosi teme di allentare
gli artigli, teme che la preda gli fugga.


CAPITOLO IX.

― Uf! non è anche finita con quel vostro Povero? Quasi quasi gli
date più noia voi, che la sua disgrazia. ― Queste parole mi pare di
sentirmele già arrivare alle spalle. E, se devo dire il vero, con
quel mio Povero mi ci sono trattenuto un poco più del dovere. Ma che
volete? Il solo Dio senza difetti. – Io l'ho questo vizio, preso fin
dai primi anni; quando comincio, non la farei più finita. E non ho
riguardo alla pazienza di quelli che mi stanno a sentire; – non serve,
che sbadiglino, che spurghino, che si dimenino. Tutt'altro; – allora
vado più che mai per le lunghe; direste ch'io lo faccio apposta; e può
darsi: non lo sapete il proverbio? – Ogni vipera ha il suo veleno. –
E tutto il male fosse qui! lasciamo andare; – ci sarebbe da discorrer
troppo. Ma veramente, se devo esser giusto, con quel mio Povero mi sono
trattenuto un poco più del dovere: – quando è vero, è vero. Figuratevi!
non ho neppur desinato! Non ho potuto veder desinare il Signore! E
oramai chi sa, se sono più in tempo! È la verità che i signori vanno
tardi a pranzo, e durano un pezzo; ma non c'è rimedio; – ho fatto
tardi; – l'orologio mi condanna. Questa poi mi dispiace. Son tanto
curioso! vorrei veder tutte le cose, – anche quelle che mi facessero
storcere la bocca. Non potete immaginarvi quanto pagherei a potere
stare accanto senza esser veduto a......

(_Qui il Manoscritto è affatto inintelligibile_).

Dio sa quanto pagherei! Badate, non farei quei mestieri per cosa del
mondo; – non mica che vi sia nulla di male, – ma per non entrare in
intrighi, per non avere a rispondere, per non aver da far niente.
Io sono il cristianello fuggifatica per eccellenza; – mi basta di
sapere, e non vado più là. ― Ma che faresti di tante cose, quando tu
l'avessi sapute? ― Io lo so quel che ne farei. Farei tanti calcoli,
tante figure, tirerei tante linee, che, se voi non conosceste appieno
chi sono, mi pigliereste per un fattucchiere! Oh! se potessi rubare
quella bottiglia dove stava rinchiuso il diavolo zoppo! grave come voi
mi vedete, mi metterei al repentaglio di andarla a rubare in cima a
una cuccagna! Immaginate voi che piacere di fare un viaggio sui tetti
col mio diavoletto a vedere tutti i fatti degli altri! immaginate voi
che sorpresa a trovare un amico la mattina, e raccontargli che dormiva
all'insù, – che dormiva per parte, – che aveva in capo un berretto,
o una cuffia!.... immaginate voi che sorpresa, che piacere! Quando
io ci penso, vado in estasi! Altri sogna di vincere un terno, altri
d'esser fatto gonfaloniere, altri che i grani rincariscano; – io sogno
sempre il diavolo zoppo, e se potessi averlo, anche un'ora sola del
giorno, lo piglierei rovente come un ferro infuocato. Se poi volesse
far meco vitalizio, io vi so dire che farei di tutto per averlo, che
farei miracoli. Mi adatterei a lavorare una parte della giornata, – mi
adatterei per averlo anche a camminar lesto.

Ma vedete s'io dico il vero? Dianzi era tardi, – ora a forza di ciarle
è più tardi che mai, ed io non mi sono anche mosso. È inutile, – io lo
so, – il pelo si perde, ma non il vizio. Andiamo per quel che saremo
in tempo. Chi vuol venir meco? Su via, qualcheduno venite; ho piacere
che tutti godano. Ehi! là, galantuomo! voi che mi avete l'aria di
esser sempre digiuno, che mi avete l'aria di voler arrivare così fino
a dimani, volete venire a sentire, e a vedere? Guardate! un cane è
già sotto alle finestre, – ha levato il muso da terra, – e guarda in
su fiutando, aspettando la provvidenza. Ma voi ridete! Ah! io intendo
bene quel riso amaro che avete fatto; – il supplizio di Tantalo non vi
aggrada. Il cane è corso per le sue buone ragioni; quella bestia è a
miglior partito di voi. Un cane può mangiare un osso se non gli danno
la carne; – l'uomo pure mangerebbe un osso sovente, ma i denti non gli
servono.

Amici, io ci sono: – vedo il Signore che lavora lavora con un coltello
intorno a non so qual cosa, – par che tagli un non so che di duro; –
in che diavolo si affanna il Signore? – di qui non ci scorgo troppo, –
voglio farmi più appresso.

_Pta!_ l'avete sentito? un tappo ha baciato i travicelli; – è
_Sciampagna_ per...!

Io non lo sapeva, – la pigrizia è la mia rovina; – ella mi si è fitta
nell'ossa, e per cagion sua non sarò mai un uomo _comme il faut_. Sono
arrivato alla fin del banchetto, e potevo esser venuto al principio.
Sono arrivato alle seconde mense volgarmente dette il _dessert_. Ci
vuol pazienza, ma non posso dissimularmi la perdita enorme che ho
fatto. È una perdita seria, effettiva. Io che son tanto curioso non ho
potuto vedere il desinare d'un signore dal cominciamento alla fine!
io che ho veduto così di rado desinar dei signori, – che vedo sempre
a mangiare dei poveri, – e che perfino quando mangio io stesso ho di
faccia alla tavola uno specchio antico, lungo lungo, che mi ridice
tutto appuntino, e senza pietà! È una stizza maledetta, che mi farebbe
dare al diavolo; – non c'è maniera nè anche di potersi illudere.

Io ve l'ho detto, – la pigrizia è la mia rovina; – che ci fareste voi,
che non ci avete niente a che fare? io stesso, io parte interessata,
non ci faccio nulla. Ma zitti! zitti! ve lo chiedo in carità; – parmi
di sentire aprir l'uscio pian piano; – ella è così; – l'orecchio non
mi tradisce, – è lungo più del bisogno; – la mia vocazione era di farmi
dottore, – mio padre non ha voluto, – io non ci ho colpa.

Ella è così; – l'orecchio non mi tradisce; è stata schiusa la porta.
Venite, venite; io non dico per ischerzo; – il carceriere s'inoltra
in punta di piedi, – non fa un rumore, – è leggiero come un alito; –
un gatto ne perderebbe al paragone; – è carico, che non ne può più.
Cosa ha messo su quella tavola? – Ora ho visto bene; – è un bel lume
all'Inglese; – ora ha posato un calamaio, della carta, dei libri;
poffare! di dove se la cava tanta roba? zitti! zitti! vediamo che si
leva di seno; – oh bella! sono i giornali; e perchè no? – il Signore
deve sapere come vanno gli affari, – anch'egli ha il suo partito in
politica, – e poi ha una somma sui fondi di Parigi, un'altra su quelli
di Londra; – se non gli premono i _Tories_, o gli _Whigs_, se non gli
preme il _juste milieu_, la _gauche_, la _droite_, i consolidati gli
premono; premerebbero anche a voi, se aveste che fare coi fondi.

Il Signore guarda tranquillamente il soprastante in facende, e tiene
un bicchier di _Porto_ vicino due dita alla bocca. Il Signore è
tranquillo, beve e lascia fare il soprastante.

― Or ora verrà il caffettiere. Vossignoria beverà un _Moka_ stupendo,
e bollente. Sentirà che Rum! Giammaica di nome e di fatti. ―

Il signore gli risponde additandogli una bottiglia, e un bicchiere. Il
soprastante riverisce, e butta giù stringendo gli occhi.

― Quegli avanzi li volete?

― Troppa grazia, Signore.

― Prendeteli, mi fate un piacere, mi levate il cattivo odore di camera.

― Con Vossignoria io non so che obbedire. ― E la sua parola non
manca. Gli avanzi del pasto son lauti; – prende, prende, e riprende.
Soprastante! soprastante! tu credi che nessuno ti veda, ma io ti vedo.
Quando si tratta di prendere, la gioia ti moltiplica le mani; – per
pigliare tu sei Briareo. Vedete! piglia con tanta foga, che ha messo
per infino una posata fra gli avanzi, e se n'è accorto per miracolo.
Ora è così pieno zeppo di roba, che vuol essere un brutto impaccio a
licenziarsi col solito inchino; – nondimeno vuol fare il suo inchino;
– eh! soprastante! hai avuto propriamente un Santo dalla tua! la
testa ti pesa più che non credi, e poco è mancato che tu non faccia un
capitondolo.

Il Signore ha riso veramente di cuore, e si è levato da tavola.


CAPITOLO X.

Che buon odor di caffè! Sentite, il profumo vien fino a noi; – come mi
lusinga le nari! Questa volta il soprastante l'ha detta giusta; è un
_Levante_ legittimo, e carico per bene; oh! non si sbaglia; io non so
come; ma me ne intendo.

Attenzione! attenzione! Il Signore si fa inverso la finestra; –
eccolo là fisso fisso; – ha dato uno sguardo verso di noi, e poi l'ha
ritirato, come se noi non fossimo nessuno; eh! ve l'ho detto sempre;
saranno buoni, affabili come volete, ma, dàgli e ridàgli, il ticchio
del signore vien sempre a galla. Che bella pipa, eh! – bianca come il
latte; – non è mica di gesso, che abbiate a credere! – è spuma di mare,
e sarà costata le belle monete. – E il tabacco? – è _Latacchia_ pretto
pretto, come voi siete un uomo. – E che foglio legge? – che disgrazia
l'esser miope! – Maestro Santi, levatevi un po' di cavalcioni al naso
quel vostro paio d'occhiali, che voglio leggere il titolo del giornale;
– tanto voi non sapete leggere; – ho capito: _Journal des Débats_,
ho capito; il Signore è del partito ministeriale; – non può essere a
meno: chi ha dei fondi cosa deve fare? Cosa fareste voi, che non ne
avete? – Come legge attento! Si vede bene, che vuole intendere. – E
non è mica brutto il Signore! – colore bianco e rosso, carni fresche,
un viso tondo, una testa tonda, un bell'occhio tondo: eh! ci si vede
l'uomo, che se la gode, e lascia arruginirsi chi vuole; – nel suo
giusto _embonpoint_; se non capite il Francese, andate a scuola; io lo
capisco. – E quant'anni gli date? – Alto alto, a vederlo, io dico che
passa la trentina; – come no? sentite, giù per lì dev'essere; sbaglio
di rado in quanto a fisonomie. ― E il Signore non ha moglie? ― Chi ve
l'ha detto? l'ha presa non è anche un anno, e di par suo; – e che buona
dote! e che bella ragazzina, se voi l'aveste veduta! poteva bersi in
un bicchier d'acqua. ― E le vuol bene? ― Così così, tra il freddo e il
caldo; – badiamo veh! non la strapazza mica, non la bastona, che non
aveste a crederlo voi altri, che misurate tutto sul vostro braccio; –
non la cura troppo; – eh! il Signore ha un affare vecchio; non lo può
lasciare; ha provato, ha riprovato, – è stato impossibile; – c'è una
malia di mezzo.....

E intanto che le ciarle piovono a fiocchi come la neve, il Signore ha
finito di leggere, e chiude non solo le finestre, ma le imposte pur
anche.

Cappita! quel chiudere ancora le imposte m'è andata giù male. Se
avesse chiuso le finestre soltanto, col vedere metà dai vetri, e metà
coll'indovinare, _faute de mieux_, mi sarei contentato. È agra davvero,
e bisogna esser curiosi per convenirne. Vedete voi, che stravaganze!
Che il Signore faccia la _siesta_ è nelle regole, lo vuole il _bon
ton_, lo vuole il ben essere del corpo; ma non lasciarsi veder dormire
è una stravaganza; – lo dico e lo sostengo, ora e sempre, – _ahora
y siempre_. – Come farò a render conto del come dorma il Signore? Se
dorma supino, o dalle due bande, se dorma vestito o spogliato? Poh!
è una disgrazia, è una lacuna irreparabile in questa istoria, che non
saprei come riempiere, se non coll'andare a dormire pur io. E badate,
che ci riesco, e son capace di farlo. Vedete voi, che stravaganze! quel
chiudere le imposte mi ha fatto un danno del diavolo. Chi sa quanto
tesoro d'osservazioni avrei potuto raccogliere dal sonno? Vedete,
io sono così sottilmente curioso, che dalla faccia e dai moti del
dormiente mi sarei studiato d'investigare i sogni, che gli passeranno
traverso il cervello. E poi, non poteva darsi, che fosse un di coloro,
che parlano fra il sonno? Chi sa cosa avrei potuto sapere? – cose,
che il Signore non avrebbe dette all'unico suo amico, che non avrebbe
dette nè anche all'aria, che forse avrebbe stentato a dire al capezzale
del letto, quando il prete ti dà un passaporto in latino per l'altro
mondo: _Proficiscere, anima christiana_; che significa: vattene, anima
cristiana. Il tono è un poco assoluto, ma il tempo stringe, e non ne
avanza pei complimenti; stringe tanto, che i morti non hanno tempo di
provvedersi di nulla, e dalla fretta perfino partono ignudi. – Vedete
voi, che stravaganze! sul più bello mi chiude in faccia le imposte! io
ho perduto un tesoro! Per un curioso, credetelo, queste sono le pene
dell'inferno.

Potessi almeno sentirlo russare! mi contenterei anche di questo. Ma che
volete? I signori non russano. Oibò! la _bienséance_ non lo permette.
Dormono leggieri leggieri, che non è cosa da credersi. Dormono con
tanta disinvoltura, che io n'ho veduti dì quelli, che tutti credevano
desti, e pure dormivano. Come vada io non lo so, – ma il suo perchè ci
dev'esser sotto. Basta, quando io sarò signore, venite, e ve ne dirò la
ragione.

Non v'è rimedio; – il meglio è darsi pace. Vuol dormire il Signore,
senza che nessuno lo veda? Ebbene, ch'ei dorma; io non glielo posso
proibire. Silenzio dunque, lasciatelo dormire.


CAPITOLO XI.

Mi par mill'anni che passi quest'ora! Uh! le finestre son sempre
chiuse, – nessuno si fa vivo. Non so più quel che fare; sono andato su
e giù lungo la strada come un pendolo, e le gambe si protestano, – non
ne vogliono più sapere. Che diavolo! quel Signore non ha discrezione!
ora potrebbe alzarsi; – il sonno soverchio ingrossa il sangue, e, quel
che è peggio, fa ottusa la testa. È vero ch'ei può farne di meno, –
ha una buona borsa, – ha più del bisogno. Giova tanto poco la testa!
per i più non la vedrei necessaria, se non fosse che la portassero
per farsela tagliare. A me fin qui non ha reso che il dolor di capo,
e Dio voglia che resti lì. – Ma le finestre son sempre chiuse! O
pazienza, pazienza! è passato un carro, che ha fatto rintronare anche i
tegoli, ma il Signore non l'ha sentito. Si vede bene, che ha una buona
coscienza! dormire di quella fatta! come farà stanotte? felice lui!
non ha debiti, non ha inquietudini, e però fa tutta una tirata. Eh! non
son bagattelle! son due ore buone che dorme; – il Sole è andato sotto,
che non è poco; – già già si fa buio. Oh! si desti, mio bel Signore,
che farà un'opera meritoria per me. Se potesse sognarsi, ch'io son qua
fora, e mi struggo per lui, già si sarebbe levato. Sì, ho un bel dire;
egli dorme, e lascia vegliar chi vuole.

Tanto tonò, che piovve. Ho sentito rumore, – qualche sedia rimossa
dal luogo. Eccole finalmente riaperte quelle benedette finestre! Non
entro più in me dall'allegrezza! Potrò nuovamente veder qualche cosa,
– potrò raccontarla. Mi son sentito rinascere; – viva il mio buon
Signore! egli ha dormito di pro, – si scorge agli occhi, alla faccia,
alle membra che stira saporitamante. Ora beve un bel bicchier d'acqua;
– eh! ci vuole un bel bicchier d'acqua; – sta nelle regole di chi sa
ben vivere. – La buona vita fa la buona morte. Ora si affaccia alla
finestra canterellando un'arietta; – mi par della _Gazza Ladra_, se
non m'inganno; – e intanto si aggiusta sulla fronte una bella ciocca
di capelli castagni, e intanto respira l'aria fresca della sera, che
finisce di risvegliarlo, e lo rimette nello stato di prima.

Appena il mio Signore è ben desto, scuote risolutamente la testa in
atto di accingersi a qualche facenda di rilievo. Staremo a vedere
quello che saprà fare il Signore. Intanto dal movimento della bocca mi
accorgo, che ha dato un ordine a qualcheduno ch'io non posso vedere,
perchè rimane nel buio. Già me lo immagino sarà il soprastante. Già ho
capito il tenore dell'ordine: era di accendere il lume; – non pensate
mica un lume solo; – tutt'altro! – questo non usa, che in casa vostra,
quando non è Luna piena, perchè allora prendete quel della Luna, che
non ha bisogno di essere smoccolato, e dura la notte; – ma avranno
acceso benissimo la mezza dozzina dei lumi, e più ancora. Guardate
che luce larga e brillante prorompe fuor delle stanze! non vi sentite
rallegrare a guardarla? È incontrastabile, – i lumi son sei, se non son
otto; – vorreste negar la luce?

Ma stiamo attenti a quello, che vuol fare il Signore. Ecco, egli ha
tolto in mano un bel mazzo di penne nuove; – ecco, ne tempera una, – ne
tempera due, – ne tempera tre. Badate là, – ora prende un quaderno di
carta, e la esamina di contro al lume. Per Bacco! è fina davvero quella
carta, e indorata sugli orli! Eh! non vuol mica scrivere al fattore; si
vede chiaro, che scrive a dei pezzi grossi!

Non vi movete. Che ve ne andate di già? – ora viene il meglio. Ecco,
il mio Signore s'è messo al tavolino; – ecco che ha già cominciato.
Fin qui non v'è molto da raccapezzare, ma pur qualche piccola cosa.
Per un curioso tutto è buono; – il minimo che mena a delle scoperte
importanti. Dall'ombra, che si disegna sul muro, vedo la sua testa
via via inclinarsi e rilevarsi; – vedo tuffar la penna; – ora s'è
grattato dietro all'orecchio destro; ha stracciato un foglio; – la
lettera non veniva a modo suo; – un foglio nuovo, e da capo. Ora sì,
che tira via, – ha trovato la strada, – non si ferma un istante, –
la passione gli guida la mano. Oh! se la passione crescesse! se lo
impegnasse a profferire ad alta voce quello che pensa, e che mette in
carta tacitamente! Dall'allegrezza farei un salto mortale. E badate,
spesso succede; e quando la passione dice davvero, non v'è più ritegno.
Dimandatene agli scrittori; – pare che quel dir forte l'idea, che vanno
a scrivere, la faccia completa, come la mente la concepisce. E di fatti
è così; la declamazione è il colorito del pensiere. Ma zitti! zitti!
il Signore s'impegna; – sento un mormorio; – crescerà, se Dio vuole,
– diventerà voce scolpita; – diventa, diventa! Oh! io sono un uomo
felice, io credo nella mia buona stella! – Ascoltiamo: – uh! se non
fosse il vento, che me le mangia mezze, sentirei tutte le parole; ma mi
contento; ascoltiamo:..... _una nera calunnia.... così non si tratta
un gentiluomo.... badare a ciò che si fa.... scoprire la cabala....
guai a lui!.... so maneggiare una spada.... Siamo il più..... sostegno
dell'ordine.... la canaglia in prigione, sta bene; ha..... d'un
freno.... l'anarchia regnerebbe.... le..... classi vanno rispettate....
riprese, ma non punite..... la canaglia si crede qualche..... e la
Ragion di Stato è.... princìpi son conosciuti..... innocente.... non
deroga a sè stesso.... riparazione pubblica.... conveniente alla mia
condizione... servo – Cavaliere Scipione Frullanotti Marzocchi._

Oh! vediamo, se la metto insieme; – ho tanto in mano da ripromettermene
bene.


  «Eccellenza!

«Fino di stamane io sono stato tradotto nelle prigioni di questa
città, senza poterne indovinare la vera cagione. Vado convinto, che
Vostra Eccellenza, appena saputo il caso, darà tutte le disposizioni
necessarie, perchè io sia quanto prima rimesso in libertà. Credo
fermamente, che una nera calunnia abbia motivata una tal misura. Però
così non si tratta un gentiluomo. Conviene badare a ciò che si fa in
materie tanto delicate. Impegno la giustizia di Vostra Eccellenza a
scoprire la cabala, e l'uomo perfido, che l'ha tramata. Guai a lui! se
arrivo un giorno a conoscerlo; – so maneggiare una spada, e sul terreno
vedremo a chi sta il buon diritto. Noi gentiluomini siamo il più saldo
sostegno dell'ordine, e meritiamo assolutamente riguardo. Che vada la
canaglia in prigione, sta bene; ha bisogno d'un freno, e senza questo
l'anarchia regnerebbe. Vostra Eccellenza conosce e sente, che le alte
classi vanno rispettate, e quando cadono in fallo vanno riprese, ma non
punite così volgarmente. Se no, la canaglia si crede qualche cosa, –
l'ordine si confonde, e la Ragion di Stato è perduta. Io fortunatamente
non sono nel caso di aver commesso nessun fallo. I miei princìpi son
conosciuti abbastanza; – sono innocente; – e un gentiluomo par mio
per nessuna bassezza non deroga a sè stesso. Mi dirigo pertanto a
Vostra Eccellenza, perchè l'onor mio abbia una riparazione pubblica,
immediata, e conveniente alla mia condizione. Al tempo stesso Vostra
Eccellenza accolga le proteste della mia più alta considerazione.

  Di Vostra Eccellenza

                                       Umilissimo e Devotissimo Servo

                                Cav. Scipione Frullanotti Marzocchi.»


Aha! mi sento riavere. Mi è costata fatica, ma pure l'ho messa insieme.
Eh! quando mi picco, mi picco. Ho fatto più d'un naturalista, quando
da pochi frammenti d'ossa ricompone in un insieme perfetto la struttura
d'un corpo qualunque. Sì, ho fatto più d'un notomista; – il corpo è una
cosa certa, e definita; – lo spirito è vario, incerto, e mobilissimo.
Son contento come una pasqua! contento come un sonettista quando ha
trovato una bella chiusa! Sì, ne son contento, ne vado superbo; –
confrontiamo la mia coll'originale, e scommetto che non ci corre una
sillaba.

Ma va, che l'ho fatta bella! Un po' col rimettere insieme la lettera,
un po' col compiacermene, il tempo è trascorso, e il mio Signore ha
scritto le rimanenti, ed ora v'è sopra a calcare il sigillo. Ma va, che
l'ho fatta buona! e adesso come si stilla? è una rottura, che non si
accomoda; – chi è che sappia leggere una lettera già sigillata? Potessi
averla nelle mani, farei l'estremo di mia possa; – ma vàlle a toccare,
se ti riesce! Eccole là! io magari le toccherei! – ma il Signore non
ci è per nulla in questo mondo? Eh! non c'è rimedio! eccole là! – il
morto è sulla bara; – son quattro giuste giuste; – posso sfogarmi a
leggere la sopraccarta, mercè delle lettere lunghe un mezzo dito: –
basta! è meglio poco che nulla; – eccole là! son quattro in fila, nè
più nè meno; si leggono come di giorno; – la prima al Marchese, l'altra
al Ministro, la terza all'Arciprete, la quarta alla Contessa. Poffare!
si vede bene che al Signore è già venuta a noia la prigione, che vuole
uscirne per _fas_ e per _nefas_. Tutto vien messo in moto, tutto a
contributo, per uscir di prigione; – la toga, e la spada; lo scrigno,
la cantina, e la donna. ― In prigione ci hanno a stare i poveri e i
matti. ― Voi parlate come un libro, mio bel Signore. Sì, venite fuori,
anch'io lo desidero; – così potrò vedere più da vicino i fatti vostri.
Voi n'uscirete senz'altro, – avete troppe ragioni dalla vostra; –
solamente quei titoli, che a profferirli soltanto fanno tremare i
chiavistelli! Sì, mio bel Signore, voi n'uscirete, e presto; – io lo
desidero anch'io, per voi, e per me.

Ma che sia quella carticina breve breve, elegante elegante, che il
Signore guarda e riguarda, di sotto e di sopra, e a guardarla gli
sfavillano gli occhi? Forse un biglietto da visita? Eh! giusto! è
un _billet doux_, – è una cosa, che mi passa l'anima per non averla
sentita. Scrivermi un _billet doux_ sotto gli occhi e non poterlo
sentire! Se ci penso un momento di più, addio cervello, addio tutto.
Un _billet doux_! non vi par di dir nulla, un _billet doux_! Io che
per leggere un _billet doux_ non avrei quasi scrupolo di portarlo! Io,
che, se potessi leggerli tutti, non vorrei far più altro; – lascerei
tutto, il teatro, la taverna, la scienza, i crocchi, l'amore, i vizi e
le virtù; – non mangerei, non dormirei, farei la vita d'un martire, mi
ridurrei magro come un Cristo di Cimabue! Oh! se ci penso dell'altro,
voi ne vedrete delle belle! – una e una due; – ma questa è più agra
dell'altra; – questa, e l'affar dell'imposte mi fanno dubitare della
mia buona stella.

Certo la mia buona stella in questi due casi si è portata male; – una
cometa non poteva farmi di peggio; – e poichè ella ha preso la mala
piega, stimerei prudenziale di levar le tende da questa strada onde non
m'avesse a incogliere un qualche malanno più grave. Già l'ora è tarda;
– saranno l'undici al tocco e non tocco, e non passa più un'anima.
Tuttavia, se devo confessarmi giusto, me ne vado malvolontieri. Non so
chi mi lega, ma ci starei tutta la notte. Ma zitto! sento salire una
scala, – sento girar mollemente una chiave; vedete cosa vuol dire un
minuto? Un minuto spesso decide di tutto; – spesso non ci è tesoro, che
possa pagare il valor d'un minuto. ― E chi sarà in un'ora sì tarda? ―
Oh bella! è il solito soprastante, colla solita voce, e colla solita
frase:

― È permesso? si può passare?

― Appunto voi; passate, passate.

― Ho forse tardato troppo?

― No, siete venuto in tempo: ho finito in questo momento. Eccovi un
mazzo di lettere; dimani a un'ora competente, che sieno tutte spedite.
Non fate sbagli, vi raccomando; son cose che premono.

― Vossignoria non dubiti di nulla; conosco ad una ad una le persone a
cui vanno, e senza adulazione posso dire, che Vossignoria non potrebbe
esser meglio appoggiata; son persone che fanno e disfanno, e dopo non
c'è nulla a ridire. Ella già non ha bisogno di tutto questo; – si vede
bene l'equivoco; si vede bene che hanno preso un granchio, e non vorrei
esser nei piedi di chi s'è preso un simile arbitrio. Specialmente
quando lo saprà la Contessa, è capace di sputar fuoco. Io son vecchio
di queste cose, e so come vanno a finire. Alberghi come questi non sono
per la gente par suo. Quando io la vidi arrivare, trasecolai, credetti
dì travedere. Si figuri, son quarant'anni che faccio il mestiere! si
figuri, se non conosco un uomo alla cera; appena lo vedo, comprendo
subito di quel che si tratta; di questo posso vantarmene. Stia allegra
Vossignoria; – riposi bene; – se stanotte ha bisogno, non faccia che
chiamare; io dormo qui vicino, e son sempre all'erta.

― Non andate anche via. Ho un'altra commissione da darvi. Vi siete già
scordato l'affare, di cui vi ho parlato stamani?

― Perdoni Vossignoria, sono uno smemoriato, però mi ricordo di tutto.
Il numero, mi pare, 1613?

― Certamente, e dev'essere un palazzo con due riuscite. Eccovi la
letterina; fate che recapiti con bel garbo. Già non ci andrete voi?

― Eh! diavolo! che mi crede ammattito affatto? Son uomo di mondo
anch'io, e nessuno mi deve insegnare. Non pensi, si lasci servire. Ci
mando la mia Rosina, e la cosa vien fatta d'incanto. Ha null'altro da
comandarmi?

― Null'altro per ora.

― Dunque la lascio in libertà; riposi bene; buona notte.

― Buona notte. ―

Ed io scrittore, che sono in prigione anch'io, e non ho nessuno che me
la dia, giacchè la buona notte mi è capitata sotto la penna, me la dò
da me stesso, e faccio conto di andarmene a letto.


CAPITOLO XII.

― Ma il Povero dov'è rimasto? ― Che v'importa del Povero? se, invece
di essere freddamente curiosi, voi foste pietosi anche a mezzo, non
mi avreste lasciato andare solo solo a cantargli l'esequie; ma mi
sareste venuti dietro, – vi sareste arrampicati uno sull'altro per
arrivare alle sbarre della prigione, – avreste consolato quel misero
colla vista d'un volto umano, – vista più cara del cielo in quella
oscura solitudine; lo avreste chiamato per nome, – gli avreste gittato
un pane, una parola soave di compianto; avreste infuso olio e vino
nella ferita, come il Samaritano dell'Evangelo; – e invece avete fatto
peggio del Fariseo, – non gli siete passati neppure d'accanto. Che
v'importa del Povero? Non siete voi freddamente curiosi? Non siete
voi egoisti? Non siete voi venuti meco a veder la vita del Signore
in prigione per alimentare un cupo sentimento d'invidia? Non v'ho
io veduti percossi da un brivido allo spettacolo degli ori e degli
argenti, degli arredi preziosi, delle laute vivande? Non ho io sentito
le vostre voci, le vostre esclamazioni, che la passione mandava fuori
velocemente come dardi, – e il calcolo non avea tempo neppure di coprir
loro le vergogne? – Non ho io veduto passare sulle vostre fronti un
nuvolo di pensieri diversi, ma tutti armati di artigli? Ecco perchè
veniste meco a vedere il Signore. Non siete voi egoisti? Il Povero
non aveva nulla da farsi invidiare, – invece aveva bisogno d'una
consolazione, e d'un tozzo di pane. – Ecco perchè non siete venuti
meco a visitare il Povero. Non siete voi egoisti? Ed io non sono un
egoista? Io non mi fido della mia pietà; e, se l'ultima somma è più
sicura della prima, parmi di aver trovata la vera chiave del motivo,
per cui mi son trattenuto tanto tempo Povero. Sentite, se vi torna.
Ho veduto che nessuno si curava dell'infelice, – e allora io mi son
mosso, – gli sono andato d'intorno, per l'idea d'esser solo, per
contradizione. – Ho fatto come Diogene, che andava al teatro quando
tutti n'uscivano. Certo, per contradizione; – e, se la cosa è così come
io la espongo, allora alla pietà tocca il secondo luogo, se pure un
luogo le tocca. Non sono io forse un egoista? non è la contradizione
un egoismo? La beneficenza stessa non è sovente un egoismo? Perchè in
certi Stati si sviluppa più che altrove lo spirito di associazione,
lo spirito di sovvenimento? – Perchè l'ambizione è palpata, perchè
l'indomani un giornale deduce a pubblica notizia il benefizio, e il
nome di chi l'ha fatto. Gesù Cristo conobbe questo peccato dell'umana
natura, e per questo inculcò come un dovere sacro, come un precetto
di religione inviolabile, il fare l'elemosina quando nessuno vede;
tentando così con un dogma di vincere una tendenza dell'anima, tentando
di assuefare l'umanità a fare il bene sempre, e sinceramente, non a
sbalzi, quando lo comanda l'ostentazione, la debolezza, o qualsivoglia
altro interesse. Il tentativo fu fatto; ora a voi sta il giudicare,
se il buon successo l'abbia coronato. Mettetevi una mano al cuore, e
giudicate.

Avete deciso? ― Il primo prossimo è sè medesimo. ― Questo grido fu
infuso nel sangue, e circola per le vene d'ogni mortale, – ponetelo
pure in qualsivoglia grado di società; – prendetemi pure il selvaggio
errante per le foreste, o l'uomo incivilito, pacifico, abbiente,
dell'America settentrionale. E se i proverbi sono la traduzione
sommaria di una lunga e costante esperienza, questo è il Vangelo di
tutti i proverbi passati, presenti e futuri. – La maggior parte vede
l'egoismo sotto una faccia unica; e quando vuole personificarlo, per
esempio, piglia per il collo un avaro, l'alza da terra, lo squassa
mostrandolo, e grida: specchiatevi, ecco l'egoista. – La maggior
parte non capisce nulla in questa materia. – Quel tale, che lapidasse
il genere umano a furia di dobloni, sarebbe anch'egli un egoista. Il
sacrifizio stesso, che vien citato come il contrapposto dell'egoismo,
è pure un egoismo; e il generoso, che muore spontaneo per la difesa di
un principio morale, o per la salute di un popolo, muore per l'amore
di un sentimento, che gli rappresenta più della vita; muore, perchè,
sopravvivendo alla sua idea, la vita gli sarebbe uno scherno, un peso,
un dolore intollerabile; muore, perchè nel suo speciale organismo
in certi dati casi la vita è una perdita, la morte è un guadagno.
L'egoismo è un poligono d'infiniti lati, una scala di tutti i toni,
un'iride di tutti i colori primitivi, e composti. L'egoismo è l'uomo,
o per dir meglio il moto dell'uomo. Togliete l'egoismo all'uomo, voi
ne fate una pietra; non ha più ragione di operare nè il bene, nè il
male. L'egoismo è l'unico movente delle azioni umane. Distruggerlo non
potete, a meno che non imponeste all'uomo una novella organizzazione;
potete bensì modificarlo, sottomettendolo alla influenza potentissima
della educazione. L'educazione è buona o cattiva, come sapete; – e
dipartendosi da questi due limiti, l'egoismo può esprimere tutte le
gradazioni della virtù, tutte quelle del vizio. La buona educazione
lo modifica, educandolo a combinare il bene individuale col bene
generale. Così l'uomo dovizioso, che altrimenti avrebbe mandato in fumo
un milione, orna invece la sua città di utili istituzioni, e in capo
all'anno riscatta centinaia d'anime dalla schiavitù del peccato e della
ignoranza. E questo perchè? Vuol dire, che la buona educazione con
un'arte squisita ha modificato in lui l'Egoismo Vanità, affascinandogli
gli occhi con un bel fantasma, e trasportandogli l'ambizione da un
oggetto in un altro. – La trista educazione lascia andare l'egoismo
come un toro infuriato, e gli aggiugne stimoli sovente; allora ei non
cerca che un bene personale, senza badare al sentiero che percorre; –
e per avere una borsa d'oro, taglia anche una vita, purchè la trovi
di mezzo fra sè e la borsa. Così dipartendosi da questi due limiti
l'egoismo può rivestire la gioia serena dell'angiolo, o il riso funereo
del demonio; – può esser la Ragione o il Fanatismo, – la cicuta o la
rosa, – può essere adorato o maledetto. Leonida, che si sacrifica alle
Termopili, tocca l'apogeo dell'egoismo virtuoso, e merita un altare,
e le ghirlande fresche, immortali, della storia. Nerone, che cerca un
aumento di piacere nell'agonia della creatura umana, merita un rogo, e
le stimate della infamia.

L'Egoismo è il Proteo del Bene e del Male.


CAPITOLO XIII.

― Avete finito? volete fare una cosa da uomo? scendete di cattedra, e
tornate al vostro proposito; – sarà meglio per tutti. Coteste cose,
di cui avete preteso ragionare, sono state dette e ridette in prosa
e in rima, – son cose vecchie quanto l'egoismo; – e che per questo?
– mostratemi il frutto: – coi discorsi si fa poco o nulla; col fiato
solo non si può, che spegnere un lume. Che importa a voi, se gli
uomini sono piuttosto in un modo che in un altro? Li avete fatti voi?
Lasciateci pensare a chi tocca. Che serve inquietarsi pei bianchi e pei
neri? Gli uomini son padroni di stare come vogliono. Volete diventar
sistematico? Vi troverete a de' begli sconcerti. Fino che son teorie,
le cose camminano bene; – vincete sempre voi, – come quel giuocatore
che giuocava da sè. Alla pratica poi s'impara a distinguere i bufali
dall'oche. Io lo so come vorreste gli uomini; – li vorreste tutti di
tre braccia, – di struttura slanciata, – un bel viso color di rosa,
– occhio ceruleo, – zazzera bionda, – vestiti di una tunica bianca,
– calzati di verde, – e che profferissero da mane a sera orazioni
giaculatorie di amor fraterno. E vi dico, che a prima giunta sarebbe un
bel colpo d'occhio, – in seguito poi non so. Ma che volete? le stampe
non l'avete voi, e il vostro desiderio non può avere sfogo; – e invece
di vedere tanti uomini di getto secondo la vostra idea, voi vedete un
miscuglio bizzarro oltremodo, un caos, che non finisce più mai. Vedete
nani e giganti; – uomini bianchi, rossi, neri, color di rame, di cento
colori; – vestiti di mille stoffe, vestiti bene, vestiti male; uomini
ignudi; – chi bestemmia, chi dice Messa, chi sta sempre zitto; – e
via discorrendo. E per questo? perchè una vostra idea non ha sfogo,
vorreste andare a finire in un pozzo? Oibò! non vi fate tentare. Il
mondo va preso come il vento, – va preso come viene. Volete contrastare
con la corrente? – pensateci prima due volte, – il minor rischio è
quello di annegare. Tanto voi lo vedete; – non si sa chi abbia ragione,
se il Torto, o il Diritto. Se uno vince oggi, l'altro vince domani; –
è un circolo vizioso, – è la serpe, che si piglia in bocca la coda, –
non ci si conosce nè principio nè fine..... Il Bene e il Male sono i
due sproni del mondo, e lo tengono in carreggiata. Se pungesse soltanto
il Male, il mondo, perderebbe l'equilibrio, e cadrebbe tutto da una
parte, e così viceversa del bene. Se poi voi persistete nella vostra
idea, e questi patti non vi accomodano, allora sapete come fare; – voi,
che veniste a caso in questo mondo, siete però il padrone, di uscirne
quando volete, e di andare in un mondo migliore a perorare le vostre
ragioni. Non dubitate, – ai confini della vita non ci son dogane. Ma
forse non avete voi gli anni dell'esperienza, non conoscete le storie,
non avete viaggiato e veduto le nazioni in faccia come elle sono? –
_Bon!_ cosa ne concludete? – Che l'Errore è un guanciale morbido a modo
e a verso, come può esser la Verità, e che metà del mondo dorme i suoi
sonni placidi sopra questo, come l'altra metà li dorme su quell'altro.
Mi faccio intendere? parlate schietto, perchè io amo di ragionare.
Non avete osservato, che i popoli tengono alla natura degli uccelli?
che altri ama il Sole, altri ama la notte? che due princìpi diversi
possono descrivere insieme una parallela continua, indefinita, senza
mai toccarsi? che la Libertà può affacciarsi al suo balcone, e dalla
finestra accanto sentirsi dare il buon giorno dalla Inquisizione? –
Chi è convinto coscienziosamente d'un sistema cattivo, vive tranquillo
come chi è convinto d'un buono; – non esiste fra loro, che un divario
metafisico. – L'uomo poi, che, per legge della sua organizzazione, è
superiore o inferiore al sistema che lo circonda, – non può negarsi, –
ei ci vive a disagio; – ebbene, vi è il suo rimedio; scuota la polvere
delle sue scarpe, e se ne vada gridando come Scipione: _ingrata Patria,
non avrai le mie ossa._ V'è il suo rimedio; – il Francese Carlista può
andare in Ispagna, – il Liberale Spagnuolo può venirsene in Francia.
La terra è larga abbastanza: – _Nemo propheta in patria sua._ – Lo vedo
anch'io, che, senza sottoporre l'umanità all'archipendolo delle vostre
geometrie, starebbero bene tante belle cose! Per esempio, sarebbe
bene, che la Fortuna si levasse una volta la benda dagli occhi per
vedere almeno chi piglia; – sarebbe bene, che la Giustizia tenesse una
stadera sola, e non una per il povero, e una per il ricco; – sarebbe
bene, che il Giudice quando va in Tribunale appiccasse al cappellinaio
anche le sue passioni per riprendersele quando va a pranzo; poichè
bere un fiasco di vino di più non è un terremoto, – dell'altro vino
si trova; ma una testa di più o di meno è una cosa seria, attesochè
l'uomo non n'abbia che una: – vi ripeto, starebbero bene tante belle
cose! sarebbe bene anche, ch'io non fossi in prigione; – e per questo,
– se io vado sui mazzi, forse non sono sempre in prigione? che serve
ostinarsi, e dar di cozzo nel destino? Tornerete indietro colla testa
infranta; e finchè non giunga il tempo _ad hoc_, il vostro sangue non
sarà considerato; – i contemporanei appena si prenderanno la briga di
guardare, se il vostro sangue era del solito colore, o no.

― E voi avete finito? Il vostro è un discorso diabolico, e si scorge
bene, che siete di coscienza larga..... Dovreste essere un gran
partigiano del quieto vivere, – uno scettico. Lo scetticismo è il
sistema degl'infingardi. Badate, non voglio mica dire, che abbiate
spropositato; anzi avete aggruppato con tal arte le figure del vostro
quadro, che ai più sembrerà plausibile. Avete esposto dei fatti, avete
detto delle verità, avete enunciato anche qualche sofisma, e stringendo
poi non avete negato nulla, non avete conceduto nulla. Io ve l'ho
detto, siete uno scettico. E credete, che, a guardare minutamente
da vicino, il buco nella calza si trova; e quel vostro discorso in
parte potrebbe sfumare. Sicuro, bisognerebbe intraprendere una lunga
polemica, e mettersi al largo, cosa che io non ho intenzione di fare,
e specialmente con voi, – con voi, che sareste uomo da addormentarvi
a mezzo la disputa, che con una stretta di spalle non fate più
differenza dal Sole di Affrica a quel di Norvegia. Quanto poi al
vostro pretendere, che l'uomo non si perda dietro ad un'idea, che non
può mandare ad effetto, avrete ragione nella massima, ma avete torto
nel fatto, e senza avvedervene siete dato nella rete, che volevate
scansare; – voi filosofo sperimentale questa volta mi siete riuscito
un idealista; – avete preteso, che la mente umana si sottragga da
un fatto, che spesso la incatena indissolubilmente. Non l'avete mai
voi osservato questo fatto? o l'avete dissimulato per aver ragione?
Può darsi anche questo, perchè siete malizioso la vostra parte. Non
avete mai osservato, che in ogni tempo, e in ogni nazione, nascono
uomini fatalmente avvinghiati ad un'idea fissa, – un'idea talvolta
capace anche a falciare la vita d'una generazione; – un'idea che amano
col furore della gelosia; – che non lasciano mai, benchè la veggano
confinar col patibolo? – Questi uomini nell'epoca loro hanno due
faccie: una sublime, e l'altra grottesca; e la storia contemporanea li
chiama pazzi od eroi, secondo da chi è scritta la storia. Al giudizio
pacato, imperterrito, dei posteri spetta determinare una delle due
faccie, una delle due denominazioni.


CAPITOLO XIV.

Ma il Povero dov'è rimasto? è morto di angoscia, o di fame? Chi sa?
tutto può darsi. – Le carceri vivono alla buona, – non tengono storici
al loro stipendio, – non registrano nè date, nè nomi, nè avvenimenti; –
le scene che si svolgono nel loro grembo sono scene d'un altro mondo,
– d'un'esistenza sotterranea, – e temono la luce come cosa nemica; –
pure così all'ingrosso le carceri si rammentano di alcune notti, – d'un
viso truce, – d'un pugnale, o d'un laccio, – d'un gemito cordiale, –
d'una caduta pesante; – si rammentano ancora di certuni entrati sani e
gagliardi, che di lì a poco si fecer lentamente cadaveri per difetto
d'acqua, e di pane. – Fu questa dimenticanza, o caso pensato? – Non
precipitiamo nei nostri giudizi. – Dio è il revisore delle coscienze,
– e Dio, che può convertire in uno scherno il diadema e la testa del
prepotente, un giorno vorrà conoscere il _pro_ e il _contra_ di queste
ed altre bisogne.

Ma dunque è morto quel pover'uomo? E così solo, solo, e infelice,
come avrà fatto a reggere il peso dell'agonia? – e se avrà chiesto
un sorso d'acqua, per mitigare la febbre delle sue viscere, chi
gli avrà bagnato la bocca? – e se l'asma lo soffogava, chi l'avrà
sollevato a mezza vita? Chi gli avrà asciugato la fronte, e scaldate
l'estremità irrigidite? Chi gli avrà dato una croce a baciare? – Chi
avrà risposto amorosamente al delirio d'una testa che si sfascia, che
vede il diavolo, che vede i Santi, che vede un'ombra nera, un'ombra
bianca, mille stranezze, che lacerano il cuore di chi sente, e per
un tratto percuotono di smarrimento la ragione di chi le considera,
fosse pure una ragione di ferro? Chi gli avrà aperte le finestre,
perchè beva un ultimo alito d'aria pura, perchè veda il cielo e la
speranza? Oh! la speranza è un letto di piume al moribondo, ove egli
a quando a quando dimentica le spine sulle quali si giace! è un'ala
candidissima sulla quale l'anima del moriente va a posarsi via via,
provandosi così per tempo a slanciarsi alla vita degli angioli! – E
i suoi figliuoli? perchè Dio non rompe le porte della prigione, onde
passino i suoi figliuoli? Poveri suoi figliuoli! non poterli benedire,
non poterli vedere, non poterli palpare! Poveri suoi figliuoli! d'ora
innanzi chi darà loro un bacio, chi darà loro del pane? Misero padre!
questo pensiere ti sta come una lastra infuocata sul cuore; – è l'unica
striscia di ragione e di memoria, che sia rimasta intatta nel naufragio
della tua mente; – questo pensiere è la tua vera agonia; – agonia di
coscienza, e di sensibilità; – questo pensiere ti fa dubitare di Dio,
ti fa sorridere infernalmente. Misero padre! hai tu commesso un delitto
infinito per meritarti un tormento infinito?

Ma dunque è morto quel pover'uomo? e chi gli ha asciugato l'ultima
lacrima? chi gli ha chiuso gli occhi, chi l'ha baciato cadavere?

Il pover'uomo non è morto ancora, – almeno giova sperarlo. E s'ei fosse
morto, chi l'avrebbe potuto sapere finora? Presso a poco è trascorsa
una giornata, e il soprastante non ha anche aperto quell'uscio. Cosa
importa al soprastante, se il Povero sia morto o vivo, purchè sia in
prigione? Cosa importa al potente, che esista un povero di più o di
meno? Non è egli il padrone del carcere, dell'esilio, e della scure,
l'arbitro della vita e della morte, del Torto e del Diritto? Il potente
di rado è iniziato ai misteri della sciagura; e una volta che sia,
non è più potente; – ma s'ei potesse sapere e sentire quanti dolori
gemono, quante lagrime piangono sotto ai suoi piedi, forse gitterebbe
lo scettro con quel ribrezzo come se avesse tenuto un aspide. Chi mai
l'educa a simpatizzare coi suoi fratelli di carne? Chi gl'insegna,
che il dolore solo è re della terra in eterno, e che la Sorte dona
colla destra, e toglie colla sinistra? Chi gli rammenta l'uguaglianza
solenne, universale, del sepolcro? Chi lo consiglia a compatire le
debolezze, le colpe, e gli affanni d'una schiatta dannata a travolgersi
fra l'ignoranza e il bisogno? Chi gli fa sapere, che l'errore è un
elemento organico dell'umana natura, e che un uomo solo non è mai
infallibile? Chi lo sospinge a chinar verso terra lo scettro a guisa
di leva per suscitare i prostrati, e non a gravarlo come un flagello? –
Invece i suoi cortigiani recidono qualunque legame fra lui e il popolo;
– lo chiudono fuori dell'umanità; – lo chiudono in un palazzo assiepato
di ferri appuntati contro il lamento e la preghiera dell'infelice;
– gli fanno vedere il mondo traverso un prisma colorato d'oro e
di porpora; – gli empiono l'aule di festa, e d'armonia continua; –
gl'intristiscono il cuore con un senso monotono di prosperità ottusa e
solitaria, – talchè se un sospiro per accidente gli ferisce l'orecchio,
dimanda: ― perchè sospira quel miserabile? è egli così fiacco? io non
ho mai sospirato. ― Lo persuadono a riguardare i precetti moderatori
d'una santa filosofia come atti di ribellione; – gli fanno credere
ch'ei sia stato creato a calpestare uno strato di teste umane. – Gli
comprano un poeta, gli comprano uno storico, per adularlo in prosa e in
versi, – nel bene e nel male; – lo posano sopra un'ara; – gli mettono
in mano il fulmine della legge assoluta, e poi l'adorano; – tanto che,
se egli non si vedesse diffuso sul capo il manto infinito dei cieli,
crederebbe d'essere Dio. E quando gli hanno pervertite tutte le facoltà
del cuore e dello spirito, gl'insegnano a giuocare indifferentemente
colla vita dei popoli come fa il matematico sulla sua lavagna, che
trasporta a suo talento i numeri da un'estremità all'altra, e per uno
sbaglio o per bizza cancella talvolta la cifra d'un milione. Oh! la
potenza senza freno d'umane simpatie è un dono funesto! Trista è la
potenza che può emulare Dio nel distruggere, e non nel creare; che può
annientare una generazione, e non può risuscitare un verme quando l'ha
spento!


CAPITOLO XV.

― Devo dirla come la penso? – Per un tratto del vostro discorso mi
avete fatto una paura diabolica; – io credeva, che voi voleste volare;
– io tremava per voi, ma poi mi sono rassicurato; – vi ho guardato
i piedi, e li ho veduti immobili, e fissi come chiodi. – Per altro
avete fatto un gran fare; – sbracciavate, – sbuffavate, – gli occhi
fuori dell'orbita, – il volto infiammato, – le vene della fronte
rigonfie; – vi pare a voi? – è la maniera di farsi venir male. E che
paroloni! _sesquipedalia verba:_ – e che voce avete fatto! ne ho sempre
rintronate le orecchie! voi eravate in un accesso! mi avete fatto
paura! io già pensava a una cavata di sangue.

Volete un consiglio da amico? Smettete cotesto stile, – non è per voi,
– non ci guadagnerete, che l'asma. Voi non siete un uomo esaltato,
– non potete esserlo, – avete troppo _umore_. Io lo so; – vorreste
esser poeta; – ognuno ambisce di essere quel che non può. Invece di
un buon cappello di feltro vorreste una bella ghirlanda d'alloro,
– per mille ragioni, e, non fosse altro, per campar la testa dalle
saette. Ma datevi pace, l'alloro non è per voi; – e ve ne regalassero
anche un albero, non sapreste mai trarne una corona di poeta; – gran
mercè, se voi ne cavaste una frasca da osterie. – Io lo so; – vorreste
esser poeta, e vorrei essere anch'io; – ma come fareste quando il
filo non arriva? – Vi compatisco; – avete letto Dante, l'Ariosto,
Byron, Schiller, Goethe; – li avete gustati, – li avete sentiti; – vi
compatisco; vorreste anche voi avere un'anima temprata come l'arpa
eolia, che ad ogni minimo fiato rendesse armonia; vorreste avere
un'anima limpida, trasparente, in cui l'universo si riflettesse come
in uno specchio. – Ma è tutt'una, – non siete nato, – i poeti nascono
belli e fatti: _Vates nascuntur._ Ditemi voi, – dove andarono a scuola
Omero, Ossian, Burns? – E poi sentite questi due versi, che paiono
fatti a posta per voi:

    _E cui Natura non lo volle dire_
    _Nol dirian mille Rome, e mille Ateni._

Avete capito? e badate, son versi di un classicista, che credeva
nell'Arte forse più del dovere. – Smettete, – vi ripeto – sarà meglio
per voi. Consultate bene l'indole vostra, e quella seguite; non farete
mai male. Perchè, se avete corta la vista, volete farmi l'astronomo?
Fate il sartore piuttosto, che cucirete a punti piccoli e bene uniti,
e così vi acquisterete una lode moderata, è vero, ma pure una certa
lode. – Non fate l'astronomo; – potreste scambiare un fanale col
mondo di Saturno, e allora – _risum teneatis, amici?_ – Smettete
lo stile eroico, – non è per voi; invece di fare della poesia, fate
della rettorica, – cosa veramente insoffribile in un secolo come il
nostro. Non ve l'ho detto io sempre? Il cavalcare non è per voi; –
crederete di fare la figura di un S. Giorgio, e invece siete una balla
a cavallo. Non ve ne abbiate per male, – andate a piedi, – è la vostra
condanna. Cosa ci volete fare? Tanto, poeta non sarete mai; vi manca
l'ispirazione. Se l'esser poeta consistesse nel tornir bene un verso,
come usava nel cinquecento e nel settecento, – vada; avete l'orecchio
abbastanza armonico, e, quando vi piace, sapete scegliere una frase
elegante. Ma tutto questo non è poesia, – è un lavoro da monache.
Avete bensì l'anima spruzzata di poesia, – ma quella vena larga,
inesausta, – che costituiva Dante e compagni, – voi non l'avete. – Non
bisogna pretendere di far tutto, – anche il genio ha i suoi limiti. –
Newton, che poteva leggere a suo beneplacito la facciata immensa del
firmamento, si smarrì nei pochi fogli dell'Apocalisse, e riuscì un
infelice teologo. – Chi nasce artefice per tessere un drappo prezioso,
– chi nasce tignuola per guastarlo. E la tignuola, – è inutile, –
non sa che rodere. Ve lo dica un Professor dal fiocco rosso, quando
si propose anch'egli di fare una stoffa! – Fece una tal cosa, che
anch'egli ne avrebbe riso, se non fosse stato giudice e parte. Ma
non fu così quando si trattò di rodere; – vero è bensì, che in ultimo
torse la bocca, perchè le tinte delle vesti corrose contenevano troppo
d'acido. – Smettete, – non cesserò mai di ripetervelo, – lo stile
poetico; – credete di suonare la tromba epica, e invece non fate che
gonfiar le guancie. Voi non siete veramente nè poeta, nè oratore, nè
storico, nè filosofo, nè tignuola; – siete un non so che, che non lo
sappiamo nè io nè voi. – Quando la Natura vi architettava, invece di
farvi la testa, sopra pensiere fece una gabbia da grilli; – poi si
accôrse del fallo, ma non volle tornare indietro, e lasciò il lavoro
come stava; – pure perchè la gabbia avesse uno scopo, una conveniente
destinazione, la riempì liberalmente di grilli, e così voi siete
riuscito quel che siete. Dovete convenirne per maledetta forza, –
l'enfasi, il far di Pindaro, a voi non si addice; – voi non potete
aspirare, che a una certa ironia, a una certa malizia, talvolta a
un poco di grazia, a uno stile negligente giusto appunto come siete
voi. Datemi ascolto: scrivete sempre alla buona, alla _sans souci_, e
terminate la storia del Povero carcerato. ―


CAPITOLO XVI.

E così mandando al diavolo tutti i saccenti, e adoprando lo stile che
meglio mi aggrada, ripiglio la mia storia tante volte interrotta.

Il pover'uomo non è morto ancora; – prova ne sia ch'io l'ho veduto.
― Come mai? ― mi direte. Ecco come; mentre quel ser saccente mi dava
quei tanti consigli, che io non gli aveva chiesti, facevamo cammino, e
questo era il meglio; a un terzo del discorso, siamo giunti dinnanzi
alla carcere, e di lì a minuti è stata aperta, ond'io ho potuto
vedere agiatamente i fatti miei tali e quali come vado a dirveli. –
Il pover'uomo, come sapete, non è morto ancora; e s'ei fosse morto,
(questo lo dico per rispondere a chi dianzi trepidava tanto per lui),
s'ei fosse morto, certo sarebbe morto senza nessuno d'intorno, –
solitario come una bestia del bosco. Chi volete che fosse passato per
assisterlo in quel transito angoscioso? Fra il Povero e la Pietà sta di
mezzo una prigione, e la Giustizia ne difende l'ingresso come la spada
del cherubino alle mura dell'Eden.

Il pover'uomo non era più stupido, come quando io lo lasciai; –
mi pareva anzi irritato, – e forse troppo. Le sue passioni erano
rimontate, – le passioni fanno come la marea. Allora sì mi pareva, che
più di prima egli avesse bisogno d'un amico, che con modi cordiali e
con suoni di conforto si provasse di acchetare quella tempesta, che
gli ruggiva dentro, e gli capovolgeva la ragione. Egli passeggiava
furiosamente per tutti i versi i cinque passi della sua stanza;
– spesso si dava nella fronte con una palma, – spesso batteva coi
piedi la terra; – ora fischiava turbinosamente, – ora cantava in una
lingua e in una musica affatto nuova; – ora s'incrociava le mani sul
petto, nascondendosi le pupille terribilmente sotto le ciglia. Una
volta si mise una mano sul cuore, – e fece atto di strapparselo, e
di lanciarlo in aria con un grido disperamente salvatico, – uno di
quei gridi, che atterriscono l'uomo e la fiera, – il grido della
madre che fuga il leone, e gli cava il figlio di bocca..... Dipoi si
riconcentrò, e fece pochi passi adagio adagio, e senza intenzione: –
quindi sembrava stanco, e si pose a sedere sopra uno scalino col capo
fra le ginocchia. – Col capo in quella maniera, io non potei vedere se
pregasse, se bestemmiasse, se piangesse. Forse egli faceva queste tre
cose confusamente insieme; – forse era assorto in una di quelle estasi,
prodotte dall'ambascia profonda, in cui l'anima abbandona il corpo, e
s'ingolfa in una nuova esistenza, in un mondo incognito, pieno di forme
strane; non mai vedute, non mai pensate, – dove l'anima giace immemore
di quello che fu, di quello che è; – e solamente, tra il sì e il no,
sogna, che in qualche parte le dolga, ma non sa dove, non saprebbe
cercarvi, non è tentata a farlo.

A un tratto mi scosse un forte sospiro misto di singulto; – e vidi
che il pover'uomo si era rialzato girando penosamente la testa verso
l'inferriata. – E l'inferriata confina col palco, e la persona non
può salirvi. ― Gli sia contesa anche la vista del cielo: ― così
hanno detto, e così hanno fatto. – Un raggio scarso di Sole entrava
malvolentieri tra mezzo alle sbarre, e sdrucciolava giù in fondo,
lento, malinconico, scolorito, vestito anch'esso da povero. Forse
quel raggio era pietoso, e tramutava così la sua pompa per mettersi
d'accordo col Povero, – per non unirsi all'oltraggio degli uomini.

Arrivato a questo punto, io non vidi più nulla. Il soprastante chiuse,
e partì. – Io non vidi più nulla, e l'ebbi a caro. Quando il dolore
percuote a gran masse l'anima umana, è una vista che si può reggere;
– e talvolta è uno spettacolo dignitoso, quando l'anima sviluppa un
vigore proporzionato alla forza delle percosse; – e quel combattimento
tra il mortale e il Destino, tra il signore e lo schiavo, ha un non so
che di sublime, che lusinga la nostra superbia. Ma quando il dolore
prende lo scalpello del notomista, e comincia a incidere il cuore
di dentro e di fuori con mille tagli diversi, e lo cincischia con
mille disoneste ferite, quello spettacolo allora ha un non so che di
fastidioso, e di crudele, che gli occhi non lo sopportano, e, offesi
come sono, volentieri si chiudono.

Io non vidi più nulla, e l'ebbi a caro. – Il soprastante era venuto a
visitare la carcere, e non il carcerato; solamente avea portato seco un
vaso d'acqua fresca, e l'avea deposto per terra.

― Dunque quel pover'uomo morrà di fame, – perchè d'acqua, o fresca o
calda che sia, non si vive; mala pena si vive di pane... ―

No, no; rassicuratevi; questa volta non morrà di fame; un pane gli sarà
dato. Ridete? – io vi comprendo, – sarà un pane dato come un colpo
a un nemico; sarà un pane duro, duro davvero; – ma che vuol dire? –
Ei l'ammolirà colle lacrime: – perchè no? – forse non è infelice?
– la corda del pianto forse non è la prima corda del cuore, e non
trema forse al soffio più lieve? – L'ammolirà colle lacrime, – non ne
dubitate; – non v'ho io già detto, che sa piangere? e, se l'alterezza
gli vietasse di piangere per sè, non ha i suoi figliuoli, non ha forse
una madre, non ha un amore, una patria?

Io piango, – voi piangete, – tutti piangono. Questo è tal verbo, che
ognuno sa e deve coniugare senza bisogno di gramatica. La sventura è
qua maestra per tutti.

O Sventura!...................... Tu sei una pianta perenne, che
non temi vicenda di stagione; il sereno e la procella egualmente ti
alimentano. Il tempo, che coll'ala instancabile corre rovinando ciò che
gli si para di fronte, quando giunge dinnanzi al tuo simulacro chiude
l'ala, e oltrepassa adorando. – Il genio avvalorato dal grido delle
plebi umane ha tentato sovente di atterrare il tuo Nume, ma indarno.
La Fatalità ti protegge, – e i conati del Genio e delle moltitudini
si sono spezzati contro di te, come la spuma contro la rupe..... – Il
mondo è tuo retaggio assoluto; – e se il tuo spirito gode aggirarsi
fra le rovine, – gode pure insinuarsi come il serpente fra l'erbe e i
fiori. Tu puoi rivestire anche l'aspetto dell'allegrezza; – e non v'è
una razza stranamente infelice, che ha sempre il sorriso sul volto,
e il pianto eterno nel cuore? – questi son più d'ogni altro infelici,
appunto perchè non sembrano. – La vita ti appartiene intera; – tuo è il
primo vagito dell'infante, – tue le tradite speranze del giovane, – tuo
il gemito estremo della vecchiaia..... Non v'è nessuno, che trapassi
da questo pellegrinaggio ai riposi della tomba senza avere offerto nel
tuo santuario il suo obolo, – senza averti dato almeno una lacrima,
– una lacrima spremuta dal più puro sangue del cuore. Tu non ammetti
privilegi, e stampi il tuo marchio rovente tanto sulla fronte alla
virtù, come sulla fronte al delitto; – ogni condizione deve piegarsi
sotto la tua verga, tanto il conquistatore, che stende la sua spada sui
popoli come il raggio del Pianeta, quanto l'umile bifolco, che nasce e
muore ignorato come l'eco della sua valle. Anche il povero matto, – che
a spese della ragione si riparava in un mondo di larve, e d'illusioni,
e credeva francarsi dalle leggi della comune esistenza, – anche il
povero matto deve adorarti; – e quando la morte è vicina a rapirselo,
tu gli doni un istante lucido d'intelletto, onde anch'egli senta la tua
presenza, e ti paghi il suo tributo di dolore. O Sventura! tu non sei
punto generosa, tu non hai coraggio di risparmiare nè anche il povero
matto.


CAPITOLO XVII.

I primi primi giorni, che l'uomo passa in prigione, sono per l'anima
sua come giorni nebbiosi: – l'anima non ha peranche fatto l'occhio
a quel clima; – vede confusamente, talvolta non vede gli oggetti,
talvolta li vede a doppio; – il suo palato non ha sapore; – un ronzio
continuo gli alberga le orecchie; – lo spirito giace stordido, e
non sa pensare; – il cuore sente di star sotto a un fascio enorme
di sensazioni, ma non sa darne ragione. Se la mente non gli crolla,
è una prova sodisfacente della sua buona tempra; – se il corpo non
gli si ammala, è una prova sodisfacente, che il corpo fu tessuto
_comme il faut_. Sia come vuolsi, però in cotesta alterazione dello
stato normale dell'anima l'uomo ci guadagna qualche cosa; – la noia
non trova luogo di abbarbicarsi così di leggieri; – il pensiere,
che agisce eccentricamente, non è quell'avvoltoio insaziabile, come
quando il senno si aggira sopra il suo pernio naturale; – e il dolore
vibra il suo pungiglione sopra una carne mortificata. Questo stato di
esaltazione, in cui tutte le nostre potenze superando il coperchio
hanno dato di fuori, ha prodotto per legge di reazione una pace
stanca, un sopore, un dormiveglia nell'anima nostra, che volentieri
ella afferrerebbe di nuovo quando si desta, e la pienezza del giorno
le mostra a diritto e a rovescio la sua posizione. Ma la natura vive
d'eccezioni a controgenio, e quanto più presto può gradatamente rientra
nel suo letto.

Una volta per altro, che il carcerato si è stropicciati gli occhi, e
gli ha spalancati, ed è desto ben bene, e si accorge, e tocca con mano
di essere in prigione, la prima cosa che sente è la sconvenienza di
una simil dimora, e il primo pensiere che se gli affaccia è quello di
andarsene. Io stesso, che sono un uomo tutto pace, che, se il vento mi
porta via il cappello, aspetto che si fermi, e non gli corro dietro,
io stesso, – Dio mel perdoni, e chi mi ci ha messo, – ho pensato,
prima d'ogni altra cosa, di andarmene. E vi ho pensato così a lungo,
e con tanta intensità, che mi maraviglio come questo pensiere nel
chinarmi non mi sia caduto giù dal cervello in forma di lima.... E se
questo mio cranio verrà in potere del sistema di Gall, e di Spurzheim,
quei signori notino bene, e cerchino fra le tante protuberanze buone
e cattive, chè troveranno uno scavo fatto dall'idea della fuga, una
figura tale e quale come l'ho descritta qui sopra.

Pertanto noi siamo d'accordo; – il primo pensiere del carcerato
è quello di andarsene. I mezzi poi per andarsene sono due: uno
naturalissimo, e di riuscita infallibile, ed è quello di andarsene
quando ti metteranno fuori; – l'altro naturale pur egli, ma non al
grado del primo, ed è quello di fuggire. – Tu puoi fuggire con due
metodi: – o fuggire da te col rompere la porta, o col segare i ferri
della finestra; – o corrompendo a furia d'oro i custodi. Il primo
metodo costa assai meno del secondo; il secondo assai più del primo. E
tutto questo per tua regola e governo.

Io dopo molte considerazioni fatte colla coscienza, e non a caso,
ho meco stesso deliberato effettivamente di rimanermi, finchè un
qualcheduno non venga e cavarmi. Già, figuratevi voi, mi hanno messo in
un Forte munito di soldati, e di cannoni, e sotto chiave di un Profosso
munito di 12 Articoli stabiliti contro di me, e contro di lui; il Forte
poi l'hanno messo in un'isola. – Ora andate a fuggire, se vi riesce!
– Io mi protesto da capo, che non ho voglia nè modo di andarmene;
e quando anche conseguissi la fuga, sarei costretto a tornarmene
indietro, perchè fuori è la stessa prigione; – avrei di più a pagare
il fitto d'una stanza, mentre adesso me ne godo un paio, e di pigione
non se ne discorre, a meno che non facessero all'ultimo tutto un conto.
– Napoleone, è vero, fuggì, – ma voi sapete chi era costui; e se nol
sapete voi, altri l'hanno saputo; – e poi, egli fuggiva per delle buone
ragioni; – fuggiva per rimettersi in capo un berretto da imperatore,
ed io non potrei mettermi in capo che un berretto da notte; – fuggiva
per riafferrare la coda della Fortuna, che nuovamente gli capricciava
dinnanzi, e gli faceva le smorfie da innamorata; – e poi, egli era
padrone del Forte dove io son racchiuso, e il Forte non era padrone
di lui. – Ma io, che sono una cosa con un nome, e con un casato, e
niente di più, faccio sapere a tutti una volta per sempre, che ho meco
stesso deliberato effettivamente di rimanermi, finchè non mi diranno: –
vattene. – Io sopporterò la mia prigione, come una escrescenza, che per
un accidente mi sia venuta sulla persona, – come la paziente pizzuga
sopporta quella casa d'osso, che la Natura gli ha collocata sul dorso.

V'è ancora un altro mezzo d'evasione, – ma io m'attento poco a
proporvelo..............

(_Mancano nel Manoscritto la fine di questo, e alcune parti del
seguente Capitolo, il quale a differenza degli altri porta il titolo in
fronte_).


CAPITOLO XVIII.

IL SUICIDIO.

........... Spendete meno massime, spendete più fatti: – allargate
le vie della vita, sgombratele di tante spine, che vi seminò
l'errore e l'ingiustizia. Con che titolo l'ozioso opulento verrà a
filosofare aspramente sul corpo del suicida per miseria, – egli, che
giornalmente in una bottiglia di _Sciampagna_ beve almeno cinque giorni
dell'esistenza di un povero?

                             . . . . . . .

Discendendo poi dalle teoriche al fatto, osserviamo che più
ordinariamente questo fenomeno si verifica o nell'estrema energia, o
nell'estrema spossatezza dell'umana natura. Di rado tocca il grado
intermedio; – di rado un uomo dotato di facoltà temperate mette le
mani nel proprio sangue. Egli è buono a sopportare molti disastri, che
fiaccano il debole; – egli in forza delle sue misurate facoltà non
si trova mai avvilupato in quel nodo di eventi, che sforzano l'uomo
superiore a sparire dalla scena del mondo celandosi in un sepolcro.
L'uomo moderato può convenientemente transigere con una lunga serie di
fatti. L'uomo debole vive a caso, – e se i fatti gli passano rasente
senza urtarlo di fronte, può invecchiare pacificamente, e morir nel
suo letto. Ma se un fatto lo prende di fronte, egli è perduto, egli
non ha vigore bastante da sviarlo, e rimetterlo sul suo cammino. Una
cosa lieve, un nonnulla, anche una risata, in un cervello così fatto
diventa un'idea fissa; e allora la follia compie la paralisi delle
sue forze morali, ed egli è costretto a morire senza poterne dar
conto a chi glielo dimandasse. Io ho conosciuto un giovane leggiadro
di forme, d'indole mite, ma vuoto di testa, che si fucilò, perchè i
genitori, che l'amavano assai, non gli permisero di farsi dragone. – Ma
l'anima atletica d'un eroe trascorre una scala lunghissima d'eventi,
e nulla l'arresta; – la sua gagliardia rompe spesso la corrente, che
strascinerebbe in rovina ogni altra forza fuorchè la sua; – poi ad un
tratto si trova di faccia una combinazione intricata, profonda, dove
freme l'onnipotenza del Destino. Allora il Genio si conosce perduto, –
ma non cede sul subito; ei sviluppa una lotta da gigante a gigante, –
e la lotta dura finchè le forze da una parte resistono: – finalmente
il Genio soccombe, – il Destino supera, perchè il Destino è ciò che
deve essere. Che deve fare allora l'eroe? – progredire è impossibile,
perchè una barriera di adamante gli chiude i passi; – rovinare in
fondo è impossibile, perchè la natura del Genio è di salire finchè può.
Allora l'eroe decide di morire, non già perchè vuol morire, ma perchè
non può più vivere. Non è il delirio, che spinge; è la coscienza, che
sceglie. Il Genio si scava la fossa su quel gradino, dove la Fatalità
gli ha reciso l'ale; – e si scava la fossa per insegnare che il sistema
del Bene va portato innanzi finchè si può, e non va rinnegato colla
codardia del tornare indietro. Certo, il suo concetto era di salire al
sommo della scala, e piantarvi lo stendardo della vittoria. Dio non ha
voluto, – egli è morto. Egli non poteva vivere sospeso fra il cielo e
la terra.

Catone sta per la Repubblica, – e combatte all'usurpatore a palmo a
palmo il terreno; ma questi, più felice di lui, lo incalza di provincia
in provincia, – lo soffoga coll'alito ardente della vittoria. Catone
finalmente è in Utica, chiuso in un circolo magico, donde gli sarà
impossibile uscire come dalla tomba. – Già si sente fremere a tergo il
delitto e la fortuna di Cesare. Ma i fati non sono per lui, – egli lo
sa. Non v'è più scampo, – non v'è più spazio, – non v'è battaglia più
da tentare; – la Virtù contro il Fato è un vetro contro una massa di
ferro. Catone deve morire, e morrà. Poteva rendersi a Cesare, – ed ei
l'avrebbe perdonato, – l'avrebbe anche onorato, – perchè Cesare era un
tiranno, ma un tiranno di genio. Catone era come quei metalli, che si
spezzano, ma non si piegano. Doveva morire per dimostrare, che la Virtù
è un fatto sensibile, e non un nome vuoto; doveva morire, perchè la
sua ragione gl'insegnava pacatamente la morte come un dovere, la vita
come un tradimento. Se non fosse morto, nè i contemporanei nè i posteri
avrebbero saputo in che più credere. La sua morte fu una protesta
eloquente contro l'usurpazione felice, – una guarentigia del diritto,
– un conforto, uno stimolo ai superstiti; e dal suo sangue usciva una
voce, un insegnamento solenne a morire piuttosto che a disertare una
causa santa.

E Bruto da quel sangue raccolse quella voce, e se la pose nel cuore.
Quella voce gl'intimò primamente a non disperare della salute della
patria, – a tentare la sorte incerta delle armi, e così fece; –
poi quando a Filippi fu perduta l'ultima battaglia delle Libertà
Latine, interrogò quella voce, e gli disse di morire. E Bruto moriva
incontaminato, come devono morire le anime sublimi. – Comprese la
santità della sua missione, – la grandezza dell'esempio, che andava
a dare, – il frutto immenso di cui questo sarebbe stato fecondo
nell'avvenire. Il suicidio in lui non fu il consiglio d'uno stretto
egoismo, – fu un sacrifizio fatto alla dignità dell'umana morale. Se
fosse vissuto, avrebbe commesso peggio, che una viltà; – avrebbe messo
in dubbio i diritti dell'uomo; – avrebbe sanzionata la scelleraggine
trionfante; – ne avrebbe in certo modo velate le vergogne: – così la
lasciò nuda, – così col suo sangue si appellò pei diritti delle nazioni
alla vendetta dei posteri rigenerati; – così piuttosto che concederla
agli stupri della tirannide volle condur seco la Virtù vergine nella
tomba. Bruto, anima esaltata, e inflessibile nell'amore del grande e
del giusto, era portato al suicidio dalla necessità e dal dovere. Non
gli rimaneva a fare più nulla nè di buono, nè di grande; – non gli
rimaneva nè anche di sedersi sulle rovine della patria, e sciogliervi
un canto funereo; – le rovine della patria erano ormai lo scanno dei
Cesari. – Doveva fuggire? Il pensarlo solo è un sacrilegio; – ma e
in qual parte di mondo fuggire? Il mondo era una Provincia Romana, e
qualunque nazione avrebbe portato a gara la testa di Bruto in aggiunta
ai consueti tributi. Doveva ricorrere alla clemenza di Augusto? Oh!
l'ultimo dei Romani non poteva ricorrere al primo dei tiranni. La
Fatalità aveva incatenato lui alla Repubblica, e la Repubblica a lui.
Erano due in un destino solo; – dovevano esistere insieme, perire
insieme, e perirono. E poi conoscete voi la clemenza d'Augusto? Ve lo
dica Perugia. – Augusto non aveva, che talento e libidine d'imperio;
– del resto, ineccitabile come una pietra; un alito di passione non
aveva mai increspato quel mare morto dell'anima sua. Un giorno fece un
conto e barattò la testa di Cicerone suo amico contro quella d'un uomo,
che appena conosceva, come farebbe un fanciullo dei suoi balocchi; e
sotto manto d'amore carezzava Cleopatra per menarsela a Roma in catene
in un giorno di festa, e d'orgoglio. Augusto avrebbe messo la testa di
suo padre per puntello a un piede del trono, se quel piede non avesse
posato in piano.

Il suicidio di Catone, di Bruto e di mille martiri della Verità, è un
eroismo, – un fatto di natura trascendentale, che sfugge al compasso
di una volgare filosofia. È il punto culminante dell'umana grandezza, è
il Sacrifizio. L'invidia sola può tentare d'impiccolire le proporzioni
colossali d'un tanto fenomeno, ma la ragione sdegna l'analisi, e si
contenta di venerare. Il suicidio è vero, che in questi casi stacca
un fiore dalla corona della Virtù; ma la Gloria raccoglie tosto quel
fiore, – ne fa una stella, e l'aggiugne al suo serto immortale.


CAPITOLO XIX.

Poffare Dio! ho scritto queste quattordici pagine tutte d'un fiato,
e con tanto impeto, che me ne trovo stordito. Ho lasciato fare il
più al sentimento, e alla penna; – al cervello è toccata la minima
parte. Non so se sia bene; – comunque siasi, è andata così. Mi son
voluto lasciare andare, dove il flutto voleva portarmi, – ho lasciato
le vele in balìa del vento. Se invece di arrivare in porto ho dato in
secco, non ve ne prema; – il danno è tutto mio. Quando me ne vada il
peggio, vuol dire che non avrò ragionato. Benissimo; – è una cosa, che
mi succede spesso, anche quando ho le più serie intenzioni di fare il
contrario. – Per me è una baia. _Quandoque bonus dormitat Homerus._
Non lo dico per superbia di paragone, – lo dico così per citare, e
per far vedere, che anch'io sono stato in collegio, dove in quattro
anni m'insegnarono a non sapere il Latino. Non lo dico per superbia
di paragone. Omero era cieco, e poeta; io invece ho due begli occhi,
e non sono nè poeta, nè prosatore. Scrivo per capriccio, – per far
diventar nero un foglio bianco. Scrivo perchè non ho da parlare con
nessuno, chè se io potessi anche con una vecchia, anche con un bambino,
non pensate, non toccherei la penna. Andate a leggere, se vi riesce,
quello che ho scritto quando io non era in prigione! Certo potrei
parlar meco stesso, – ma non voglio avvezzarmici, perchè uscendo di
prigione con questo vizio, e portandolo meco in società, mi potrebbero
prender per matto. Assai in fatto di giudizio non godo di un credito
troppo esteso! – allora la storia sarebbe bella e finita. – D'altronde,
quando io scrissi le suddette quattordici pagine, avevo il cuore pieno
pieno, – non so di che, – ma veramente pieno, – e bisognava sfogarlo.
Se fossi stato un romantico, avrei scritto una ballata malinconica,
– se un classicista, avrei scritto un'elegia; – se un musico, avrei
cantato qualche melodia del Bellini. Ma io non sono nulla di tutto
questo, – non so che fischiare; – però lo faccio quando ho l'umor
nero, o quando una coppia di grilli mi mettono in festa di ballo la
fantasia. – Del resto, ve lo ripeto, ho scritto quel che io sentiva; –
il calcolo ci è entrato per un momento, e poi fuori. L'anima ha qualche
quarto d'ora, in cui se ne vuole star sola sola con le sue sensazioni,
liete o dolorose che sieno, e guai se la mente vuol venirne a parte; –
guasta tutto, come qualche viso antipatico spesso mette il freddo e il
silenzio in un crocchio cordiale d'amici. D'altra parte è impossibile
star sempre sopra una nota, – e quand'anche ti riuscisse, verresti
noioso a tutti, e i casigliani ti caccerebbero del casamento. La vita,
a voler che sia bella, a voler che sia gaia, a voler che sia vita,
dev'essere un arcobaleno, – una tavolozza con tutti i colori, – un
sabbato dove ballano tutte le streghe. Il sollazzo e la noia, il pianto
e il riso, la ragione e il delirio, tutti devono avere un biglietto
per questo festino. Che serve far della vita una riga diritta diritta,
lunga lunga, sottile sottile, noiosa noiosa, e color della nebbia? È un
volersi reggere sopra un piede solo, – è un mettere l'anima umana nella
stessa situazione, in cui si pose lo Stilita, che stette quarant'anni
in cima a una colonna. Vuol essere un'orchestra piena, e non un piffero
solo; – varietà vuol essere. Viva la varietà! Per tutti questi motivi,
io ho scritto quattordici pagine senza pensare, e non me ne pento.
Giorgio Spugna mio dilettissimo amico mi ha ripetuto sovente queste
notabili parole: «L'uomo che è sempre savio val poco più dell'uomo che
è sempre pazzo; – _est modus in rebus:_ – l'arte di pensare è un'arte,
che va stimata e riverita; è una fatica concessa all'uomo, e negata
alla bestia; – ma il farlo sempre si assomiglia all'avaro, che conta e
riconta perpetuamente i suoi scudi; – qualche volta bisogna spendere;
– il superchio rompe il coperchio; – qualche volta bisogna non pensare
per riflessione; se no, all'ultimo, spesso invece di una scoperta
psicologica ti trovi di aver pescato un'emicrania». Così mi diceva
Giorgio Spugna, filosofo, che si è fatto da sè senza bisogno di libri,
senza bisogno di Pisa, di Bologna, e di Padova. Non già che Giorgio
Spugna sia ritroso al viaggiare, – anzi è questo un suo desiderio
vivissimo, e giuoca sempre al lotto per vedere se un giorno o l'altro
potesse mettersi in corso; e mi ha giurato più volte, che se ottiene
il suo intento vuol fare il giro del globo, componendo un trattato di
pratica comparata sui migliori vini dell'uno o dell'altro emisfero.
Mi ha detto ancora, che giro facendo non avrebbe scrupolo di mettere
in carta le sue osservazioni di qualunque altra maniera, dacchè egli
pure possiede un cannocchiale fatto da sè, col quale guarda tutti gli
atti di questa umana tragicommedia. – «Ma io nol farei», – soggiugneva
Giorgio, – «giusto appunto perchè mi è venuto fatto di osservare, che
le opinioni, anche buttate là colla stessa _insouciance_, colla quale
soffio il fumo della mia pipa, possono cadere in frodo peggio del
tabacco, e la multa non è lieve, ed è certa sempre la perdita della
merce, e talvolta anche quella della persona; per questo io nol farei,
e procurerei al _summum_ di tenermele a mente per ridirtele poi testa
testa nel giolito d'un simposio, nell'intervallo fra un bicchier e
l'altro.» ― E credete, che Giorgio Spugna è più filosofo di quel che
non pare, precisamente perchè non pare un filosofo. E ripeterò con
lui: _qualche volta bisogna spendere._ Che direste d'un uomo, che
stesse da mattina a sera a guardar l'orologio per far buon uso del
tempo? Per lo meno perderebbe il tempo a vederlo passare. Mettetevi in
tasca l'orologio, e fate le vostre faccende, l'orologio consultatelo
di quando in quando secondo il bisogno. Bisogna fare a tutti la sua
parte, e se coltivate una cosa sola, e l'altre trascurate, godete
meno, e le altre vi vanno a male. Così è come io ve la dico, e vi
esorto a crederci, o almeno potete fidar più sul mio senno quand'io
discorro alla buona, e senza pretensioni, che quando mi metto in aria
di ragionare. Sopratutto rammentatevi il nome e le opinioni di Giorgio
Spugna. Ei se lo merita, ed a me farete cosa cara.


CAPITOLO XX.

Io ho detto nel capitolo XVII, che sono in prigione, e lo confermo nel
Capitolo XX. Oggi finiscono trentaquattro giorni, e non isbaglio; in
mancanza del lunario li ho contati due volte sulle dita.

A chi me l'avesse detto il 2 di settembre io avrei riso in faccia di un
cotal riso da venirne al duello. Eppure io ci sono!

Benedetti i primi giorni della mia prigionia! – io era così sempre
fresco del passato, che sovente mi riusciva d'illudermi. Sovente sopra
pensiere chiamava ad alta voce la serva, perchè mi recasse una cosa o
l'altra; e sentendo che nessuno mi rispondeva, io mi accertava allora
della prigione; ma ci rideva sopra, e non era più altro. Sovente sopra
pensiere in un batter d'occhio m'indossava la giubba, mi calcava in
capo il cappello, e tutto infuriato andava per uscire; – ma giunto alla
porta mi accorgeva, che il chiavistello stava per di fuori, – segno
evidente della prigione; – ed io al solito ci rideva sopra, e non era
più altro. Benedetti i primi giorni della mia prigionia!

Oggi però è ben diversa la cosa. Io son mesto e spossato dalla noia,
– e così penetrato fino al midollo del convincimento di essere in
prigione, che questo pensiere dinnanzi agli occhi e alla mente mi
brulica in infinite forme, come uno sciame di atomi innumerevoli
traverso un raggio di luce; e così mi si è dentro inchiodato, che
nei primi tempi della mia nuova libertà per avventura, crederò sempre
d'essere in prigione.

Io sono mesto, e spossato dalla noia. La noia tacitamente ha tramato
per me una così gran tela, che io non vedo parte donde salvarmi. Io son
la mosca di quella tela, e più che mi dibatto per uscirne, e più vi dò
dentro.

Oh! la noia è una parola sola, – una parola breve, che non conta più
di quattro lettere, – ma il provarla è tal volume, che uomo al mondo
non sfoglierebbe così per tempo, nè così di leggieri. La noia è l'asma
dell'anima, – è una ruggine che può consumare la meglio temperata lama,
che si dia; – è una cosa, che dai capelli alle piante ti fascia la
cute d'un senso umido, fastidioso, ti perverte l'occhio, e ti fa veder
tutto in bigio; – toglie il sapore al gusto, la fragranza ai fiori, –
la dolcezza all'armonia. Schiaccia l'acume dell'intelletto, e lo rende
bestialmente stupido, – e insugherisce il cuore, mortificandone la
squisita sensibilità, disseccandovi dentro la lacrima del piacere e del
dolore. Oh! la noia è il più insopportabile dei nostri dolori, perchè
è il dolore della stanchezza; perchè non eccita in noi una forza, che
valga a combatterlo. Essa non è un vulcano, ma cuopre di freddissime
ceneri il sorriso della Natura intera.

E le ho tentate tutte per medicarla, ma senza pro. Il leggere non mi
giova; – sto mezz'ora sopra un filaro, – e poi gitto il libro. Non ho
più coraggio nè anche di scrivere i miei ghiribizzi; – i miei grilli
son morti d'inedia, – essi volevano l'erba fresca del prato, e l'alito
dell'aria aperta. – Non mi giova il passeggiare; – vado in su e in giù
per i dodici passi della mia prigione, e di lì a poco torno a sedermi
colla vertigine. – Se mi affaccio, vedo, è vero, un bel cielo, ma le
sbarre, che mi traversano l'occhio, me lo tingono di color di ferro;
– vedo un cerchio di monti, e mi paion sepolcri; – vedo una mandra di
soldati, che la disciplina militare ha saputo convertire in altrettanti
arcolai. – Pallida mi apparisce la verdura degli orti, e dei vigneti,
e il canto degli uccelli mi suona lamento.

Alas poor Yorick! Io mi curvo sotto un peso, che non posso più reggere,
e ho fatto di tutto per sollevarmene. Ho contato le battute del mio
polso, e ho dovuto smettere; – ho fatto la guerra agli insetti, che mi
son compagni, e ho dovuto smettere, perchè son troppi; – ho contato
i travicelli delle mie due camerette, e sono diciotto e mezzo; –
i travi grossi, e son otto; – ho contato perfino i mattoni, e son
trecento novantuno. Io non ho più pace, e non so come averne. Non
posso più pensare nè al passato, nè all'avvenire, spazi così vasti, e
così comodi per il diporto dello spirito. Son confinato nel presente,
– e il presente di un carcerato non è già il Tempo coll'ali snelle
velocissime, – è una figura di piombo sdraiata in un canto.

.... E come fare per il resto di tempo, che dovrò starmi in prigione?
Avessero almeno detto: ― ci starai tre mesi, sei mesi, un anno, ―
manco male; – ogni sera con un sospiro di sollievo esclamerei: – v'è un
giorno di meno! – Se io potessi avere dell'oppio, forse sarei felice, e
certamente tranquillo; – l'anima mia dolcemente assopita passerebbe le
sue giornate in un mondo aereo, multiforme, – un mondo così dovizioso
d'illusioni, e d'immagini, che la più alta fantasia dell'uomo desto
può concepirne appena una frazione ben minima. Ma non posso sperare
nell'oppio; – i miei custodi l'hanno in concetto di veleno, e non me
lo farebbero vedere nè anche dipinto. E per questo io ho desiderato
le mille volte una febbre acuta, che mi levasse fuori di me fino al
giorno della mia scarcerazione. Ma la febbre anch'essa, che pur non
dipenderebbe dai miei custodi, non vuol venire; – non vi è rimedio; è
un calice, che bisogna bere....

Ecco qui; tutti i giorni sono i medesimi, misurati dalle medesime
vicende. Alle otto la mattina il solito caffettiere colla solita
colezione; – al tocco il solito pranzo portato dai due soliti selvaggi,
che si son rubati il nome di camerieri. Il pranzo è composto sempre
della solita zuppa, e di tre pietanze, che sembran tre morsi, presso a
poco sempre uniformi, e di rado una di quelle variata in un uccello,
strano, – una specie d'uccello, che avrà che fare coll'ornitologia,
ma non so se abbia diritto all'ingresso d'una cucina; – una specie
d'uccello che, a casa mia non ho mai veduto nè per aria, nè sullo
spiedo. Io non so dove trovi quegli uccelli il trattore; – mi pare
impossibile, che un cacciatore li trovi; e, se li trova, che abbia
il coraggio di spendervi sopra una botta. Ma io ho veduto spesso il
trattore sur un campanile, e di certo ei vi andava per quegli uccelli,
e per noi.

E il Profosso? Mutassero almeno il Profosso una volta la settimana,
come avevano cominciato dapprima! Ma dopo una volta non l'anno più
fatto. Eccolo là, – è sempre il medesimo Profosso, – col medesimo viso,
– col medesimo passo, – col medesimo vestito bianco mostreggiato di
rosso, – colle medesime chiavi, – coi medesimi 12 Articoli, stabiliti
contro di me, e contro di lui, – col medesimo suono di voce. Fin qui
il Profosso non è ancora infreddato, per sentirgli fare almeno una
voce diversa. L'unica mutazione, che segua in lui qualche volta, è
quella da un casco a una berretta. È un uomo anche egli convinto della
disciplina, – convinto dei suoi superiori, – persuaso, che le bastonate
sieno un dovere a darle, e a riceverle, come voi siete persuaso
a grattarvi in quella parte ove vuole il prurito. – Oh! le strane
fantasie della noia! Quante volte non ho io desiderato, per non vedere
sempre il medesimo Profosso, di vederlo un giorno con un occhio solo,
un altro giorno con tre; un giorno con due nasi; un altro giorno con
la bocca sulla fronte; una domenica, quando mi accompagna alla Messa,
che camminasse colle mani e coi piedi; un lunedì di vedermelo vestito
da donna; un giovedì colla testa voltata dalle spalle; un venerdì senza
testa. Ma il Profosso non sì muta mai, – è inesorabile; e ogni giorno
viene a menarmi fuori per prendere un'ora d'aria, com'egli dice, e
spesso mi tocca invece un'ora d'acqua. E sul primo anche questo era un
conforto, – ora non è più. È sempre il medesimo Forte..., – le medesime
salite, – le medesime scese, – i medesimi sassi ribelli, e pronti ad
offenderti, – i medesimi cannoni, – i medesimi soldati; – non si trova
un uomo, o una donna, se tu li pagassi al peso dell'oro.

Il Profosso è una disperazione; – quando io gli chiedo, se ci è nessuna
nuova del mondo, mi risponde sempre, che non vi è nulla di nuovo.
Possibile mai! – bisognerebbe, che tutto il mondo fosse in prigione. –
Eccolo là il Profosso! è inconvertibile. – Viene tre volte al giorno
nella mia stanza, uguale uguale, senza pendere un capello da quello
che era la vigilia; e mi dice se può entrare, quando è già entrato;
e, allorchè se ne va, mi domanda se io voglio nulla. Egli lo fa per
dovere, non ci mette ironia, – così voglio credere; – ma quella dimanda
mi fa il sangue più agro. O Profosso! Profosso! Se tu sapessi quello
che io voglio, certamente non me lo dimanderesti due volte. D'ogni tre
volte due almeno io voglio, che tu vada al diavolo.

E la notte? – non me la rammentate, per l'amore che portate a voi
stessi. La notte è per me l'eternità di un dannato. La notte con quel
suo vasto silenzio, così propizia ai fantasmi poetici, al meditare
profondo, per me non significa nulla; e mi scende sull'anima, fredda,
piatta, e pesante come una lapide. Invoco il sonno coi nomi più
lusinghieri, ma vanamente. Disteso sopra un letto nè cattivo nè buono,
mi volto a destra, mi volto a sinistra, mi giaccio supino, mi giaccio
bocconi, mando fuori un _Gesù mio_, mando fuori una parola a rovescio,
ma il sonno non viene. La notte la noia non è sola; – chiama sull'armi
le zanzare, e mi fanno una guerra mortale da fedeli alleate. Finalmente
prendo un poco di sonno, – ma torpido, vuoto, senza balsamo di riposo,
senza sogni. Potessi almeno farmi de' sogni! chè la mattina dipoi
m'ingegnerei a farne la storia, e a metterli in bello stile.

Sul principio, quando veniva la notte io mi consolava standomi alla
finestra a godermi lo spirare dei venticelli, e lo spettacolo solenne
d'un bel Cielo Italiano. Ma, dopo quello che mi avvenne una sera, ora
appena cade il crepuscolo io chiudo le imposte, e disperatamente mi
caccio nel letto. Sentite quello che mi accadde una sera. Io me ne
stava, come v'ho detto, immergendomi lo spirito nella considerazione
d'una gloriosa Natura, assorto in uno di quei momenti d'estasi
e d'oblìo, nei quali l'uomo non è più _una povera creta_, ma è
pellegrino dell'Infinito; e guardando sospeso sopra di me quell'azzurro
immenso, sereno, gioioso, magnifico di stelle e di misteri, mi
sentiva sollevare, mi sentiva intenerire: – a un tratto mi venne
fissato l'occhio sulla Luna, che spuntava in un lato del firmamento,
pallida amabilmente, e modesta; – allora il mio sentimento cominciò
a svilupparsi in una forma più precisa, più palpabile, ed io volli
esprimerlo con un inno, e cominciai:

    _È mesto il raggio della Luna, e Dio_
    _Lo temprò in armonia colla Sventura._

Ma come fui a questo punto una fata leggiera leggiera, coll'ali color
dell'iride, mi trasvolò dinanzi, mi fece un inchino, e mi diede la
buona notte. – Era la Musa. – Io sul subito non me ne accôrsi, e non
seppi interpretare in buona parte quel suo consiglio. Quindi, per non
dirvi le bugie, avrò ripetuto almeno un cento di volte quei due versi
in cadenza accademica, ma il terzo non venne mai. Alla fine ripensai
più pacatameate alla figura veduta, e tra il dispetto e l'umiliazione
mi coricai.

Io conosco a prova il martello della gelosia, – ma, faccia pure
l'estremo di sua possa, non può arrivare alla noia.

O Torquato Tasso! io non ti chiedo nulla che valga; – non ti chiedo
quella corona di stelle, onde tu cingesti in Palestina la Musa Italica;
solo chiedo reverentemente, che tu mi dica come facesti, quando al
_Magnanimo Alfonso_ piacque decretarti pazzo, e chiuderti per lunghi
anni in un ospedale, come facesti in quei lunghi anni a pensare alle
sette giornate del Mondo Creato[2], mentre io in trentaquattro giorni,
se qualche volta ho pensato al mondo, ho pensato di disfarlo, non già
per istizza, ma perchè mi sembra mal fatto.

O Silvio Pellico! io non ti domando la tenera ispirazione, da
cui sgorgava quella tua Francesca, che sarà un palpito del cuore
finchè l'amore sarà una passione dell'uomo; ma ti domando soltanto
d'insegnarmi donde traesti la tua decenne pazienza.....

_N.B._ – Questo Capitolo naturalmente è fuori della giurisdizione della
Critica; egli non ha pretensioni; – è il Capitolo della Noia[3].


CAPITOLO XXI.

― E del mondo che n'è stato? ― Cosa volete, ch'io ne sappia, io che son
qua nel Limbo? Io ho lasciato il mondo con un segno a traverso, come si
fa d'un libro non finito di leggere. E chi sa, se all'uscire troverò
più il segno? Chi sa cosa sia seguito del mondo? – potrebbe essere
stato scosso da una seguenza di terremoti, – allagato da un nuovo
diluvio, – potrebbe essere anche sparito, ed io non saperne nulla! Cosa
volete sapere, o sentire, quassù nel Limbo, dove si sta un piano almeno
sopra le nuvole?

Chi sa cosa possa esser seguito? Quando io lo lasciai, era una matassa
arruffata davvero, – e tutti aguzzavano l'occhio a trovarne il bandolo;
– e forse è il mio bene, che adesso io non ci sia dentro. Voi sapete
come vanno le cose laggiù. Io non sono molto destro a girarmi, nè
posso allungare il passo un'oncia più dell'usato; – e quando il mondo
è in baruffa, credete, che una gamba lesta vale un diamante, e una
testa leggiera si trasporta via più comodamente. Guardate Archimede,
che viveva alla buona, pensando che gli uomini non fossero quello
che sono; – che fidava nella sapienza, e non sapeva, quel vecchio
dabbene, che due bestie son buone a mettere in prigione un filosofo,
e a trattarlo anche peggio! Guardate Archimede, e specchiatevi in lui!
Prendevano Siracusa d'assalto, ed ei non se ne accorgeva; – un soldato
Romano gli entrava nella camera, ed ei non se ne accorgeva; il soldato
Romano d'una testa gliene facea due, ed Archimede non ebbe tempo di
accorgersene, perchè invece di vivere nel mondo coi lombi precinti, e
col bastone in mano, viveva alla buona nella Geometria. Oh! il mondo è
una mala cosa!

    ― _Tanto peggiora più quanto più invetera:_

― diceva il Sannazzaro, or son trecento e più anni. Figuratevi oggi!

                             . . . . . . .

(_Manca gran parte di questo Capitolo, e non resta che il fine del
Capitolo successivo ed ultimo_).


CAPITOLO XXII.

CONCLUSIONE.

                             . . . . . . .

Consultiamo la Natura nuda e vergine, com'ella si rivela alla mente
del giusto, e saremo meno sventurati. Consultiamo la natura umana
senza velo di disprezzo, di cupidigia, di prepotenza; – consultiamola
anatomicamente nel suo stato originale, e osserveremo che si può
spogliare del fango onde l'ha ricoperta un falso sistema sociale, e
rivestirla d'una certa luce, – una luce, che non dobbiamo rapire al
Sole come Prometeo, perchè ella ha sorgente nell'anima umana. E l'arte
sta nel trovarla, e il Genio la sa trovare, ma noi abbiamo finora
crocifisso il Genio invece d'incoronarlo. Intanto tolleriamoci, –
v'è spazio per tutti, – e permettiamo, che ognuno vi si svolga a suo
grado. Il Genio può trasfondere nei suoi quadri l'armonia e l'iride
dell'universo; – la follia può ridere, e saltar per le piazze; – il
forte può andare a caccia al cinghiale, – il debole può recitare il
suo rosario, – e tutti pacificamente. La terra è larga abbastanza: ―
L'UMANA SAPIENZA STA NEL TOLLERARE. ―


MIA MADRE

Indovinate chi amo più di tutti sulla terra? Io amo mia Madre; – io
l'amo più della Patria, cui dono il mio sangue se lo vuole, – più
della mia T.***, ch'io amo pur tanto. – Povera mia Madre! Se voi la
conosceste, forse non ci capireste nulla. No, non è una donna elegante,
– non sa di musica, – non sa il Francese, – non ha cerimonie; – è una
donna quieta come un ciel sereno, una donna alla buona che crede in
Dio, che va ogni giorno alla Messa, a pregare prima per me e poi per
sè; è una donna alla buona, che crede in tutto; – crede, che l'olio
versato porti sciagura; – crede, che il vino versato porti fortuna. È
una povera donna, che ama il suo figliuolo come voi amate voi stessi.
– Io mi confesso come davanti a Dio. Non amo tanto mio padre; – è un
buon uomo, – ma la mia povera Madre è bene altra cosa. – Io non amo mia
madre per il latte che mi ha dato, perchè del latte non me ne rammento;
– ma quando mio padre talvolta mi sgridava, ella mi consolava, –
mi asciugava le lacrime, – mi baciava – mi dava un trastullo, – mi
riconduceva alla gioia. Quand'io andava a scuola, e mi era innamorato
dei libri, mia Madre mi dava il danaro, onde comprarmeli. – Mia Madre
mi ama come il suo cuore, – io sono il suo cuore. Mi guarda con una
compiacenza, – s'inorgoglisce di me, come la giovane sposa della sua
corona di rose nel dì delle nozze. – Ed io l'amo ugualmente. Io ho
un sembiante duro, – e quando sento dentro non sono punto espansivo;
– ma gli occhi mi parlano, – e mia Madre guidata dall'istinto mi
guarda sempre negli occhi, e ne riman consolata. Povera mia Madre!
ora tu non puoi più guardarmi, e chi sa per quanto! – Io aveva il
vizio di addormentarmi col lume acceso, e mia Madre si levava di notte
a levarlo, perchè temeva un pericolo. E alla mattina entrava nella
mia stanza a vedermi, in punta di piedi, e rattenendo il respiro,
per non rompermi il sonno. – E quando parlava di me alle vecchie sue
conoscenti, diceva che io era un angiolo, – e io risapendolo rideva
di cuore, pensando che il mondo mi chiamava un diavolo. – Povera mia
Madre! Dio ti renda quella mercede, che merita il tuo tanto amore!

Una sera io fui ferito di tre stilettate[4]; – tutti credevano ch'io
morissi, – anch'io lo credeva. Fui portato a casa agonizzante; – caddi
in deliquio, e vi stetti più ore. Al risensarmi, chi trovai presso
al letto? – Era mia Madre, e così vicina a me, che di certo intendeva
col suo fiato caldo d'amore di vincere il gelo della morte. Mi parve
l'Angiol custode. Mi ravvivai, – cominciai con lei un colloquio lungo,
veloce, passionato, sublime; – mia Madre mi rispondeva interrottamente;
– io nell'esaltazione non me ne accôrsi: mia Madre era convulsa; – ella
non può piangere. Se io me ne fossi avveduto, forse sarei morto. Mia
Madre dacchè mi hanno strappato al suo seno è stata vicina a morte[5].
O povera mia Madre! perdonami il tuo dolore! potessi avere almeno
contato i tuoi palpiti per rammentarmene!

                   *       *       *       *       *

_Qui finisce il _Manoscritto di un Prigioniero_; nella pagina interna
della coperta si leggono questi due versi:_

    LA PRIGIONE È UNA LIMA SÌ SOTTILE
    CHE AGUZZANDO IL PENSIER NE FA UNO STILE.


NOTE E APPENDICE.

  [2] «Le Sette Giornate non furono immaginate dal Tasso in
  prigione, ma a Napoli, molti anni dopo, nella villa del Marchese
  Manso, a richiesta della Madre di questo Signore».

  _Questa Nota è apposta in margine nel MS. dell'Autore, ed è
  d'altra mano: credesi di un amico suo, al quale, relegato con lui
  in quelle prigioni, ei dava a leggere i suoi quaderni di mano in
  mano che erano scritti. ― Vedi SERASSI, _Vita di Torquato Tasso_;
  vol. II, pag. 226, – Berg. 1790._

  [3] Qualche distrazione pur valse talvolta ad alleggerire il peso
  della noia sì vivamente sentita e dipinta dall'Autore. Il suo
  spirito si effondeva vivace, e poteva eccitare il sorriso anche
  nelle angustie del carcere, poichè gli era concesso di conversare
  scrivendo co' suoi concaptivi. E lo provano alcuni Capitoli,
  diretti ad uno fra loro, de' quali crediamo sufficiente offrire
  ai Lettori alcuni frammenti. Non mancano in essi la purezza,
  l'abbondanza, la vivacità dello stile, ond'ebbero vanto di
  Classici alcuni Scrittori italiani, specialmente del Secolo XVI,
  per siffatto genere di componimenti. E se questo non è avuto in
  pregio e consentito egualmente ai tempi nostri, giova rammentare
  come nascessero, e dove, i versi che seguono.

                            A MESSER AGNOLO

                          CARCERATO CONTENTO.

        Agnolo, ho in capo il ticchio della rima,
      Nè mi occorre argomento altro, che il vostro;
      Segno chiaro d'amore, o almen di stima.
        Che fareste altramente in questo chiostro,
      Se non scriveste? E a me non manca nulla;
      Ho pagato la carta, e ancor l'inchiostro.
        E poi la Musa mia è una fanciulla
      Di garbo, e non ha odio a chicchessia,
      Ma tratto tratto salta e si trastulla;
        E canta una canzone in melodia
      Festosa, e alfin si cheta, come un vento
      Lieve, che agita un fiore, e poi va via.
        Ma torniamo di botto all'argomento,
      Non divaghiamo, – che se no, si sfuma
      Il mio vapore, e il fuoco si fa spento.
        Che debbo dir di voi? chi il sa? la piuma
      Dell'ingegno è già cionca . . . . .
      . . . . . . . . . . . . . . .
        Ma non levate a Dio vostre querele,
      Agnol, chè potria dirvi: olà, tacete;
      Pei vostri falli questo è un pan di miele.
        Chi sa, che avete fatto? Io, se non siete,
      Pur vi credo un buon uom; ma Dio ci vede
      Anche nel buio, ed oltre la parete.
        A vedervi in prigion non ci si crede,
      Avete l'aria dell'_Angelus Domini_,
      Siete il ritratto della buona fede.
        Nondimeno alle volte son quegli uomini
      Appunto come voi, che fanno un sette
      Apparir per un cinque; – e se predomini
        In cotestoro il vizio, o se le rette
      Arti della virtude, ella è una cosa,
      Che di subito in chiaro non si mette.
        Se devo dir per me, siete una rosa
      Candida, e ve lo dico con tal cuore
      Che il mio parlar non ha mestier di chiosa.
        Voi siete un pan di zucchero, un amore
      Senz'ali e senza freccie, ma con gli occhi;
      Voi siete un Santo . . . . . . .
        . . . . . . . . . . . . . .
         ― Che serve esser Santo, e le faville
      Mandar celesti dall'accesa faccia,
      S'Ei non sa scivolar come le anguille
        Dai Birri? ― E voi pur deste in quella caccia,
      Agnolo mio! e via San Giovannino
      Che disse il dì che più l'amata traccia
        Del vostro piè non vide? ― O mio vicino,
       – Disse la strada, – sei forse in un forno?
      Dove ti celi? sei forse in un tino?
        Mostrati, – il Sole è quasi a mezzogiorno;
      Vedi il villan coi polli, e col canestro.
      Che fiuta il tuo consiglio, e gira intorno.
        Ratto corri allo studio, ed il maestro
      Tuo bel labro di nuovo oda la gente;
      Scrivi col pugno sinistro e col destro.
        Accarezza la gola del cliente;
      Dàgli una presa di tabacco, e poi
      Accompagnalo all'uscio umanamente. ―
        Sì disse: ma poichè seppe che voi
      Eravate in prigion, non si sa come,
      Mandò per tutta Pisa un _oi oi_.
        Trecento volte vi chiamò per nome
      Quella povera strada, e senza modo
      Si graffiò il viso e si stracciò le chiome.
        Non lo dico da burla, ma sul sodo,
      Un tegolo perfino si commosse
      E venne giù a sapere il quando e il modo.
        . . . . . . . . . . . . . .
        Ma voi ci state come stare a letto
      In prigione, ed è cosa, a dire il vero,
      Che mi ha messo nel capo del sospetto.
        Svelatevi, parlatemi sincero;
      Io vi credo un buon uomo, ed io vi credo
      Un uomo bianco ancor che siate nero;
        Ma quando sì rassegnato vi vedo,
      E intendo il vostro placido discorso,
      Voi mi fareste rinnegare il _Credo_.
        E dico: – egli è una prova del rimorso
      Quello star quatto quatto, e se di colpa
      Non fosse reo, darebbe un qualche morso
        Almeno al ciel, che gl'innocenti spolpa
      Così del poco ben che regna in terra,
      E non ne dà ragion, nè si discolpa. –
        Agnol, sentite: io vi farò la guerra,
      Se non mutate stil, se non cessate
      Di viver come un morto sotto terra.
        Voglio sentirvi taroccar, le ingrate
      Stelle accusar voglio sentirvi, e un suono
      Vo' sentir misto d'urli, e di pedate
        Contro la porta; e tanto sia il frastuono
      E il nabissare e il baccano, che ognuno
      Più non vi adori come un Santo buono.
        Ira e dolor manifestate, e il bruno
      Mettete al fiasco, ma non lo rompete,
      Che non vi è dato regger quel digiuno.
        . . . . . . . . . . . . . . .
        Agnolo mio dabbene, Agnol gentile,
      Andate sulle furie, io ve ne prego,
      E la mia prece non abbiate a vile.
        Se non v'imbiestalite, io me la lego
      Al dito, ed ho memoria sì vivace,
      Che sull'offese non dà mai di frego.
        Se al mio comando siete contumace,
      Vi farò guerra sino al finimondo,
      E non varrà che dimandiate pace.
        Star contento in prigione, e far giocondo
      Viso ai rabuffi di sì rea fortuna?
      Io nol so concepire, e mi confondo.
        . . . . . . . . . . . . . .
        E quanto al ber, ci vuol discrezïone;
      Farlo in presenza a tanta ribaldaglia
      È un affogare la riputazione.
        È ver che avete di sì buona maglia
      Fatto il cervello, che puote una brocca
      Di vin, come potrebbe un fil di paglia;
        Ma bussar tratto tratto alla bicocca
      Di Rebecca, e ordinarle un boccaletto,
      E farvelo di più mescere in bocca,
        È una tal cosa che a un uom provetto
      Sconviene, e giudicare a voi la lascio;
      Una mano mettetevi sul petto.
        Voi mi risponderete, ch'io vi accascio
      Sotto questo Capitolo, e che in fine
      Smetter dovrei, dovrei legare il fascio.
        Datemi la ragione, e le terzine
      Cesseranno, e se no, tenete in cuore
      Che ancor v'inseguirò colle quartine.
        Per or finisco; e in segno del mio amore
      Voglio, che vostre laudi non sien mute:
      Avvocato, Poeta, e Bevitore,
        Trinità formidabile, salute!


                            A MESSER AGNOLO

                       BEVITORE _NON PLUS ULTRA_

                                    E soprattutto nel buon vino ha fede,
                                    E crede che sia salvo chi ci crede.

                                                   MORGANTE MAGGIORE.

        Agnol, voi siete vivo, e mi rallegra
      Sì la notizia, che già sorge in alto
      L'anima, che giacca chinata ed egra.
        Agnol, dall'allegrezza ho fatto un salto;
      Agnol, dall'allegrezza ho fatto un trillo,
      E l'ho cantato in chiave di contralto.
        Se voi vedeste come in viso i' brillo
      Al sentirvi sì gaio e impertinente,
      E vispo più che a primavera un grillo;
        Voi mi dareste un bacio di repente,
      E mi direste: – Dio ti salvi, o Carlo,
      Dio ti salvi con ogni tuo parente. –
        Pace per questo non darovvi, e il farlo
      Non è nel poter mio, sono un tormento
      Per voi, sono il demonio, il vostro tarlo.
        Vi sono un pruno dentro un occhio, un vento,
      Che vi soffia tra mezzo alle lenzuola;
      Sono per consumarvi un fuoco lento.
        Nè lascerò di batter la mazzuola,
      Finchè non oda dimandar perdono
      Dai vostri labri color di viola.
        Vedrete s'io ci sono, o non ci sono,
      E sentirete se il mio verso pela;
      Dapprima aveste il lampo, or viene il tuono.
        Strugger vi voglio, come una candela;
      Voi mi avete sfidato; ebbene, accetto:
      L'arbor drizzate, e sciogliete la vela.
        Ma che fareste senza Musa in petto?
      Sperate forse, che vi voli attorno
      Come una mosca, o come un altro insetto?
        Siete, è vero, un bell'uomo, un uomo adorno,
      Un cicisbeo galante, un mugherino,
      Un cavaliere fatto proprio al torno;
        Ma bevete un po' troppo, e intorno a un tino
      La Musa non ci vien, – non è decoro;
      L'avete presa per un moscherino?
        Chiunque ne conviene, – è cosa d'oro
      Il bere, è cosa buona, è cosa degna,
      E le taverne meritan l'alloro,
        E lo portan di fatti per insegna:
      Ma un limite ci vuole; e quando il fuoco
      È bene acceso, bastano le legna;
        E non far come voi, che con un roco
      Accento ognor gridate: – mesci, mesci; –
      E quand'anche trabocca, dite: – è poco.
        Ma che volete il vino giù a rovesci?
      Ma dite, il vin v'ha fatto la malia,
      Che ci stareste come in mare i pesci?
        . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
        Voi per il vino anderete dannato,
      Non c'è rimedio; – voi fareste tutto
      Col vino, ci fareste anche il bucato.
        In una chiesa un dì parata a lutto
      Entraste a sentir Messa, e dalla fè
      Sembravate compunto, anzi distrutto,
        Ma quando il Prete ritto su due piè
      Alzò il calice in aria voi gridaste:
       – Don Girolamo, lasci bere a me, –
        Agnolo mio gentil, voi m'ingannaste
      Una volta nel dir, che tre sirene
      Vi regnavano in cuor leggiadre e caste;
        Eran tre damigiane piene piene. –
      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
        Agnol, voi siete il vino in corpo umano,
      E voi sarete il vino sotto terra,
      E chi il negasse negherebbe invano.
        Voi mi diceste un dì: – se vien la guerra
      Vo' portare una pevera per casco,
      E far con una botte il serra serra. –
        Diceste ancora: – s'io morto non casco,
      Giuro sull'uva bianca, gialla, e nera,
      Che mi farò una casa come un fiasco. –
        Voi siete per il vino una bufera,
      Una tromba marina, e un vostro dito
      Alza un barile come altri una pera.
        Bevete in ogni lingua e in ogni rito,
      In istil di tragedia, e in stil di farsa;
      Or bevete arrabiato, ora contrito.
        A definirvi la parola è scarsa,
      Voi siete tutto sopra questa scena;
      Non pensate, non siete una comparsa.
        Bevete all'aria torba e alla serena,
      E il vostro bere è tutta una bevuta
      Da colezione fino a dopo cena.
        Voi bevereste infino la cicuta
      Mescolata col vino, e il vetriolo
      Tinto in rosso berreste all'insaputa.
        Anche l'aceto, il so, vi va a fagiuolo,
      Perchè è parente del vino; e, se matto
      Diventate, credendovi un orciuolo
        Ammattirete; e, questo è un detto e un fatto:
      Non v'ho sentito io spesso in voce chioccia
      D'un'estasi esclamare nello scatto:
         – Com'è vaga la forma della boccia!
      E se piovesse invece d'acqua vino,
      Bramerei convertirmi in una doccia. –
        Agnol terrestre, e Poeta divino,
      E Avvocato Pisano in un'essenza,
      Voi siete un bevitore uno e trino.
        Siete del ber la pratica e la scienza,
      Un'osteria colle mani e co' piedi,
      In genere di fiasco una potenza.
        O sommo Giove, è ben che ci provvedi,
      Non tinger più le nuvole di rosso;
      Se no, cose vedrai che tu non credi.
        Quest'Agnolo terren vedrai, che, scosso
      Il suo carco mortal, si leva a volo,
      E le nuvole rosse a più non posso
        T'inghiottisce dall'uno a l'altro polo;
      E se mai tu facessi il mar rossiccio,
      In un attimo sol ti beve un molo.
        Non ti venisse mai, Giove, il capriccio
      Di scender giù di porpora coperto;
      Ti vedrei, sommo Giove, in un impiccio.
        Giove, non ci venir, sii bene esperto,
      Beve ogni rosso quest'Agnol terreno,
      Nè mette distinzion fra merto e merto.
        . . . . . . . . . . . . . . .
        Or torno, Agnolo, a voi col mio pensiere,
      Quando son vosco l'animo mi gode.....
      Ma che vedo? bevete anche il bicchiere?
        Agnolo, non lo fate, il vetro rode;
      S'intende bere! ma bere anche il vetro!
      Basta! bisogna dir: – voi siete un prode;
        Un uomo tal, che puote in questo metro
      Insegnare a chiunque, un corridore
      Che ancora il vento si lascia di retro. –
        Moderate un tal poco il vostro ardore,
      Ci son degli altri che pure hanno sete,
      Voi stabilite il regno del terrore.
        Lasciate un po' di vino se potete;
      Ci son degli altri: e se non siete sazio,
      Sorbite, quando vengon, le comete.
        Capisco ben che avete letto Orazio,
      Ma costui loda il vino, e non comanda
      Che se ne faccia poi cotanto strazio.
        . . . . . . . . . . . . . . .
      Voi gli volete proprio troppo bene,
      Il troppo stroppia, e qui voi siete tristo.
        Del resto siete un uom come conviene,
      Un uomo che vorranno celebrare
      Le nove Muse in nove cantilene.
        E se in Duomo volesse battezzare
      La vendemmia, dipoi che ha partorito,
      Chiamerebbe voi solo per compare,
        S'ella non vi sapesse tanto ardito
      Da bevervi la madre col figlioccio,
      Senza lasciargli dare un sol vagito.
        E a dirvi queste cose io non vi noccio,
      Nè vi calunnio, chè in questa materia
      Siete un grand'uomo, e non siete un fantoccio.
        Siete un poema epico, una seria
      Cosa davvero, voi siete un abisso
      Senza fondo, non siete una miseria.
        E per non esser più troppo prolisso
      Vo' dirvi cosa che non è una ciancia;
      Sentite quel che nella mente ho fisso:
        Il dì che al mondo mostrerò la guancia
      Di nuovo, in segno di una lieta cosa,
      Vi metterò un cannello nella pancia,
       E al popolo darò da bere a iosa.


                              PANEGIRICO

                           DI MESSER AGNOLO.

        Agnol di nome, e _babau_ di sembianza,
      Chi dice mal di voi non vi ha veduto,
      Non vi ha sentito, non vi ha conosciuto,
      Non ha senno nè in forma, nè in sostanza.
        Voi non siete un mortal, ma una fragranza
      Del ciel, che Dio con sè non ha voluto;
      Un vaso d'elezione giù piovuto,
      Pieno di vino e di buona creanza.
        Chi dice mal di voi non ha giudizio,
      Io lo ripeto, o parla per invidia
      Della vostra eccellenza; e questo è un vizio,
        Che vela l'intelletto, una perfidia:
      Voi non siete un mortal, ma un precipizio
      Di belle cose; e se vedeva Fidia
                  Quel volto ove s'annidia
      Tanto raggio di cielo, incontanente
      Si disperava, e non facea più niente.
                  Voi siete un accidente
      Nell'ordin naturale, un uomo nuovo,
      Nato non come noi, ma dentro un uovo.
                  Parole io non ritrovo
      Per dir di voi chè lo stupor m'imbriglia:
      Non siete voi l'ottava maraviglia,
                  Un caos, un parapiglia?
      Voi non avete d'uopo d'un cartello,
      Nè di chi gridi: – vengano a vedello. –
                  Voi siete un filunguello
      Quando cantate, e a lode ve lo reco,
      Se di paura fate morir l'eco.
                  Convenitene meco,
      Vi fe' Natura, e si grattò l'orecchio,
      E disse: – questa è seta, e non capecchio. –
                  La testa come un secchio
      Vi fece, destinandola a capire
      Un capitale che non può fallire.
        . . . . . . . . . . . . .
                  Io canterò, nè bramo
      Mercè: conosco il merito, e l'adoro;
      Ravviso in faccia vostra il secol d'oro.
                  Vergini Muse, in coro
      Cantate, come l'Agnol mio gentile
      Nascesse in Pisa in un bel dì d'Aprile.
                  La Stella del Barile
      Balenò su quell'alma pur mo nata
      E l'ebbe de' suoi influssi battezzata.
                  Canta, Musa garbata,
      Come apprese il Garzone ogni sapere,
      Si fe' dottore, e diventò bracciere
                  Con sue dolci maniere
      Di Madama giustizia, che gli vuole
      Un ben, che non si narra con parole.
                   – E tu mi sembri un Sole, –
      A lui dice Madama; ed ei sospira,
      E gli occhi a guisa di lanterne gira.
                  E la voglia mi tira
      Di seguitare a dir; ma come fare
      A metter la mia barca in tanto mare?
                  Io mi sento gelare;
      Nelle vostre virtù mai non si approda,
      Voi non avete nè capo, nè coda.
                  La lingua invan si snoda
      A nuovo canto; immenso è l'argomento:
      Voi siete un astro, io sono un lume spento.


  [4] _La domenica 2 Decembre 1827, trovandosi egli in compagnia
  d'amici e di altri in un sobborgo della nostra città, ed
  insorta una rissa fra questi ed alcuni uomini della plebe, ei fu
  gravemente ferito senza sua colpa o provocazione. Dopo lunga e
  penosa cura, uscì di pericolo; se non che forse quel fatto diede
  occasione allo sviluppo del male, che fin d'allora cominciò a
  minare segretamente la sua esistenza._

  [5] _Vedi in fine di questa Prima Parte le Lettere al Padre. Si
  rileva da quelle, come disgraziatamente avessero séguito questi
  primi sintomi d'una malattia, la quale travagliò poi per sedici
  mesi continui la povera donna. Violante Milanesi, Madre del Bini,
  morì il 2 di Gennaio del 1835._



ARTICOLI

DI MORALE E LETTERATURA.


DELLA EDUCAZIONE

― 1829[6] ―

      In primo luogo tu hai a sapere in generale, che tutto
    quello che è vera utilità degli spiriti dispiace agli uomini
    comunemente; onde ti guarderai come dal fuoco di profferire
    parole o fare opere, che dieno indizio che tu voglia beneficare
    l'intelletto, o il costume di quelli.

                                            GOZZI, _Osservatore_.

Quei pochi eletti cui venne in sorte l'agilità del pensiere, concitati
vivamente dal desiderio della scienza, investigarono sempre le occulte
ragioni delle cose, ma non ebbero tutti il medesimo intendimento.
– Alcuni più benigni, considerando funesto il dono della sapienza,
dove non cospirasse al bene dei loro fratelli, palesavano quella
parte del vero, che poteva renderli felici o meno sfortunati; e a
quella parte, cui disvelata seguitava il gemito, e l'aridezza dello
sgomento, surrogavano invece il conforto delle illusioni necessarie a
mantenere una vita, che altrimenti non avremmo ragione di reggere. –
Altri più severi, collo sguardo acuto dell'anima penetrando l'ombra
dei secoli, videro e dimostrarono le razze umane peregrinare la
terra gravi d'ignoranze, di sventure, e di colpe. E forse dissero
bene: ma qual frutto ne colsero? – La scienza del dolore non aveva
mestieri d'insegnamento, perchè nacque congiunta al cuore dell'uomo;
le ignoranze, le sventure, e le colpe, stettero immobili, perchè
sono elementi indivisibili della nostra umanità, e tutto il frutto
si strinse alla compiacenza d'aver profferito poche massime amare
di sconforto durissimo, che fecero piangere, e maledire. Ma se non
merita grazie quel fiero spirito, che scende nei segreti del cuore e
gli scompiglia, e gode delle ruine, crederanno di leggieri gli animi
temperati a bei sensi, che molti bramino la nostra specie digradata più
che i suoi fati non chiedono, nè altri le dieno potenza se non di far
gregge, e di pascere, e le gridino incessanti il silenzio delle poche
generose passioni, che uniche fanno corruscare quella sacra scintilla
usa talvolta a scaldare la creta dell'uomo? Veramente l'uomo lasciato
all'inerzia mostra profondo il segno d'una schiatta caduta e annodata
alla polvere; ma se, per impulso proprio o d'altrui, muove l'interno
pensiere e lo spande su l'universo, e, percosso da quello spettacolo
immensamente vario e perenne, lo accende, e lo fa corrispondere, per
quanto è dato, alle immagini quasi infinite, allora l'uomo disciogliesi
in parte dalla terra, e risguarda i cieli, e vive in essi col desiderio
dell'esule. – Ma per coloro, che la nostra bassezza vorrebbero curvare
fin dove non piegasi, la fiamma non arde, la grandezza non ha spazio,
e dappertutto veggono angustie, perchè altra dote non hanno che di
affetti mediocri, nei quali alberga per anima la ruggine dell'invidia.
– E perchè l'umiltà degli affetti mediocri non osa prorompere nella
sua nudezza, velano gelosi le strettezze del cuore, e della mente, e
danno al velo il nome della prudenza, – cara e santa virtù, allorchè
corregge, ma non ferma l'impeto delle passioni magnanime, – non già
quando ella consiste solo in andare adagio, e concentrandosi in un
senso di paura, e d'interesse, ti si lega alla vita, nè va più oltre. E
perchè i prudenti per amor proprio aborrono da ogni guisa di cimento,
hanno alzato un tribunale donde predicano il dispregio dei tempi che
sono, e dispensano moto e norma ai bisogni delle passioni vivissime
presenti, attingendo moto e norma dal deserto degli anni che sparvero,
senza avvertire che l'uomo è pur sempre unico figlio dei suoi tempi,
e nel vano del passato non si perdono età distinte solamente dalla
durata, ma tutte portano impressa l'orma di novelle virtù, e di novelli
delitti, – e le prime, e i secondi, non meno del Sole, hanno fin qui
misurato l'estensione del tempo umano. E perchè i prudenti hanno scorto
che nell'anima nostra ferve continua una inquietudine, e vi sta come la
principale espressione della vita, per quietarla ci vanno rammentando
le glorie antiche, così dicendo ai nipoti che si contentino di vivere
oscuri, perchè gli avi vissero illustri. – Bella è la gloria degli avi,
e soave di conforto e di onore a cui le risponda cogli atti, ma non è
retaggio, e sta nei secoli monumento solitario, che rappresenta eterna
la vece del mortale che l'ha creata. Ma quanto costoro danneggino
la sacra impresa di migliorare la specie, i discreti sel veggano,
considerando gli uomini disposti naturalmente a giacersi, e a maledire
sovente la mano che tenta di sollevarli, – se narrano il vero, che
Socrate conseguisse il rimerito della cicuta, perchè osava trasfondere
nei suoi concittadini la bellezza e l'amore della virtù, – e
l'ardimento di Bacone, che imponeva la vita al pensiere per tanto corso
di tempo assopito, fosse dai suoi contemporanei scambiato colla pazzia.
E quei divini morivano senza una parola di rampogna consolandosi delle
glorie future, perchè l'alto spirito, sorpassando il volo del tempo,
fa sorgersi innanzi le generazioni increate. Ma in ogni petto non
muovesi un cuore più che mortale per operare il bene senza riguardo
di premio presente, fidandosi alla giustizia dell'avvenire. Quanti
Italiani, sfiduciati dal sofisma degl'invidiosi, e dalla timidezza
propria agli animi nostri, se manchi a suscitarli generosa una voce,
percorrono l'esistenza chiusi nell'abbandono della viltà, persuasi che
il nostro terreno sia rimasto sfruttato dal lungo numero delle anime
grandi, e dalle sventure? Ma il lungo numero delle anime grandi ha da
reputarsi piuttosto singolare felicità di cielo, che giusta ragione
perchè debbano a un tratto cessare. L'argomento in qualche maniera
terrebbe, laddove fosse proposito sempre delle medesime teste. Ma
questo non consentì la Natura, che alternò con mirabile armonia la vita
e la morte nelle sue creazioni, e in forza di questa vicenda stabilì
la infinita varietà delle forme, la eternità delle sostanze, nè mostra
di volere per lunghezza di tempo invecchiare, o per l'atto incessante
del produrre esaurirsi, a meno che prima non si annientino le leggi
per le quali ella è costante: e gli umani, soggetti allo stesso
governo, via via cadono e sorgono in modo, che ad ogni breve misura
di anni potresti dire che il mondo del pensiere rinasce vigoroso,
e lieto dell'ardimento che infonde la giovinezza. Chi non sente che
gl'Italiani non hanno peranche placata l'ira della Fortuna, quantunque
le abbiano offerto in sacrificio secoli consumati nel pianto? Ma sapete
voi, se a portare l'ale dell'ingegno valgano più le triste o le liete
venture? I tempi tramandano infelici le memorie del Grande costretto
a combattere l'odio, che vive immortale tra due nature contrarie; e
se questa ineguaglianza generatrice di tanta discordia sia giustizia,
o viceversa, non è l'ora da poterlo vedere: ma quando anche il Grande
ebbe pace con gli uomini, la guerra gli venne dal sentimento d'una
misteriosa afflizione, che gli gemeva eterna nel cuore. Dante cantava
la novella poesia negli affanni dell'esilio, Ossian nell'amarezza
della caduta potenza, il Byron nell'arcano d'una mestizia onde furon
sempre velati i suoi giorni mortali. – Poichè la mente creatrice del
bello e dell'immenso va sciolta di vincoli, la plebe umana non giunse
a scoprire giammai la segreta potenza che animava alla vita quei
canti, e li vide lontani come il raggio del Sole; ma come il raggio
del Sole illumina e scalda le creazioni sottoposte, così que' canti,
derivati dalle più ascose viscere del dolore, spirano all'anima un
suono d'affetti onnipotenti, e tutta l'anima risponde a quel suono,
mercè di colui che formando la nostra natura chiamò l'infortunio
a costituirne la massima parte, e mandò la felicità così di rado e
veloce a trasvolare la terra, che appena è concesso di vederne il
baleno. Ma la sventura mantiene irritando l'ingegno, e i concetti
dell'uomo sgorgano originali e profondi di altissimi sensi, perchè da
lei muove una forza, che lo stringe a vivere nel suo pensiere, mentre
dubitano molti che quel modo di esistere da noi chiamato felice non sia
piuttosto conseguenza delle nostre facoltà intorpidite, nè più atte a
ricevere in piena luce, ma per barlume, le sensazioni; e l'hanno veduto
grave di fastidiose passioni, e sovente affratellato coll'ignoranza,
e dicono che spunti l'acume del desiderio; e mancanza di desiderio
accenna anima prostrata, e di volgo. – Oh perchè non ho io un altro
mondo da conquistare! – sospirava Alessandro. E dove si ponga mente ai
conforti di coloro che bramano la nostra bassezza, quanta differenza
trovate voi tra gli uomini e i bruti. – Appena la nuda favella: e niuno
consente che articolare soltanto la parola sia valevole differenza, se
i concetti significati coll'opere non provino l'esistenza dell'interno
pensiere. Nè la facoltà del pensiere ci fu data per nulla. – Se l'uomo
fosse destinato solamente a nascere, cibarsi e morire, la Natura
non ci avrebbe fatto quel dono, tristo o buono che sia, perchè hanno
sperimentato la Natura non averci mai conceduto potenza, senza farci
sentire la necessità dell'ufficio cui la destinava. E potremmo noi
vegetare in quello stagno di vita, noi, cui non si offre immagine di
quiete meno la morte? Potremmo noi distruggere l'atto di quelle poche
anime immense, che afferrando il secolo in che son nate gli aggiungono
il proprio moto, e il secolo concitato si affretta precipitando al
suo fine? Rinnegheremo noi le passioni, che pur sempre ci agitano
irrequiete al bene ed al male? Dove è la forza che valga a tanto? In
Dio solo, perchè sono opera sua, e le ha poste nel cuore dell'uomo, cui
vivono eterne, indivisibili, compagne della vita, e muoiono con esso. –

Poichè le passioni si spengono nell'ultimo sospiro, e queste, pur
sempre agitandoci, al bene e al male ci spingono, ufficio degno d'un
pensiere divino è quello di frenarle, e di escludere, per quanto è
dato, la vicenda del male. L'argomento della ragione, e l'esperienza
del passato, dimostrano unico mezzo a tanto conseguimento l'educazione;
la quale, facendo conto delle passioni come della parte più viva
dell'uomo, e capace di qualunque impressione, ne trarrà l'effetto
migliore, o il men tristo, col dirizzarle, per quanto è possibile, a
segno lodevole. E se molta parte di amore alla patria è dire il vero
quando le giova, (e a dirlo ci vuole più grande animo che a sentirlo,)
così chiunque abbia fiato di senno e di pudore confesserà primo bisogno
dell'Italia nostra l'educazione, e vergognerà palpare l'ignoranza
dei suoi, lo sconforto degl'invidiosi, e farà voti, e darà opera,
perchè al male venga posto efficace e pronto il rimedio. – A questo
fine verranno, laddove cospirino santità d'intenzione, e vicendevole
aiuto di liberali ingegni, e sarà bella di bellezza italiana l'impresa
di riedificare la mente colle ingenue dottrine della sapienza. – E
perchè manifesto indizio di amore alla patria è il non disperare di
lei nell'ora che gli avversi eventi la premono, così negli animi
intemerati e gentili vive una forza che gli conduce a sperare. –
Certamente gemono delle sue poco liete vicende, chè andrebbero beati
a vederla fiorente per belle discipline, e ornata di cortese costume,
e gloriosa; ma nel gemito vive una forza che li conduce a sperare.
Indarno si affannano i prudenti a gridarci che la speranza schiviamo,
essendo tale un inganno che accompagna l'uomo da mattina a sera; a noi
ricorre eterno il bisogno di quell'affezione, onde si allegrino almeno
d'un fiore le spine della vita, e il pensiere dell'illuso mortale
ponga un sorriso ov'è pianto perpetuo. Ben è vero che ne' pochi giorni
del nostro pellegrinaggio, aspirando noi nel fuoco del desiderio a
uno stato felice, ci balenano all'anima mille illusioni di aspetto
vaghissime, ma fugaci come il momento che le ha create; tuttavia
nel cammino della vita stanno alcune speranze, che non sono al tutto
illusioni, e rispondono al cuore, e alla mente, e lasciano in ambedue
la traccia di un conforto che dura, e, dove le governi la sapienza, si
convertono spesso in certezza. E porge speranza di sì fatta natura il
giovanetto crescente negli anni. A questo bel fiore il cielo arride
benigno, e lo chiama alla vita; se non che sventuratamente un verme
lo rode, onde egli appassisce e muore sul cominciare del brevissimo
giorno, che i fati gli concessero. Da cui muove la colpa, che la
pianta non germogli e non cresca felice? La colpa è del nostro volere,
perchè nell'educarla ci siamo sviati da quella traccia costante, che
i fatti segnarono nelle vie del tempo. Leggete i documenti del tempo:
chiudono una sapienza quasi infallibile, e a cui ben guarda il passato
ministra le misure del presente. Le storie che raccontano la vita
dei popoli non dimostrano fondamento di ogni bene ordinata società la
pubblica e liberale educazione delle tenere menti? E narrano, che il
giovane sorgesse prode nelle battaglie, savio nel consiglio, e onesto
nella vita civile, e consolasse di onore e di gaudio l'ultima età dei
padri cadenti. Ma le storie descrivendo le forme degl'istituti, pe'
quali un popolo saliva in potenza, e in perfezione di civiltà, tra
queste non annoverano mai – nè gramatiche, che consumano gli anni e
i volumi a farti povero del primitivo ingegno, e cattabrighe, e per
un fuscello d'alfabeto bestemmiatore della grandezza del Genio; –
nè rettoriche, che gl'indefiniti movimenti dell'anima confinano in
certe regole, le quali ti prescrivono di lavorare gli affetti come
un fuoco d'artifizio, e soffocano in te quell'intimo senso di natura,
che ritrae le immagini vergini e schiette come le cose, onde più non
ti splende il vero, e il sentimento e l'intelletto pervertito piegano
dinnanzi al simulacro di vane e codarde passioni; – nè mitologie,
che una volta vissero colle nazioni; poi con esse giacquero spente
e oggimai, coperte dalle tenebre di un tempo troppo lontano dalla
memoria, affaticano senza frutto la mente, o non le presentano,
che nudi fantasmi degli umani vaneggiamenti; – nè filosofie, che si
smarriscono per entro ad infinite ricerche, e di rado trovano il vero,
e più di sovente un nuovo lato dell'incertezza, per lo che fanno temere
che alla mente non sia concesso nemmeno il riposo d'un delirio solo,
ma che un destino la danni ad avvolgersi del continuo per l'errore, o
a cedere alle larve del dubbio, che di tutti i dolori è il soverchio,
perchè, avendo varietà di moti e di forme infinita, non subisce le
leggi dell'abitudine, e dura perenne; – nè gente che fa professione di
spegnere quel raggio d'intelligenza, che tutti più o meno dalla Natura
sortimmo, e cava il fumo dalla luce, come disse argutamente un antico,
e si arroga un nome venerato, e lo porta in pace. Chi ha tracciato
l'orme della caduta di un popolo ha veduto la corruttela dei costumi,
e l'annientarsi della potenza, andar di pari colle scuole dei retori
e dei sofisti; chi ne ha seguito il volo nella grandezza ha veduto da
più alte sorgenti derivarsi il pubblico bene, poichè in quella rara
felicità di tempi le cattedre e le accademie non dettavano servitù
di sistemi, imponendo allo spirito umano di vestire una forma sola e
costretta, nè più muovere un passo; ma il savio, studiando i bisogni
e l'indole del proprio secolo, a quelle norme conformava le patrie
istituzioni. E l'Amore e la Sapienza guidavano la mente giovanile su
l'universo, e quella ne ritornava assuefatta a vedere le cose di per sè
stessa, e come sono, già come vogliono i libri, o i parziali interessi
di chi ti ammaestra, e secondo la varietà delle tempre avvenire, che
variamente giovassero allo stato sociale, perchè ognuno interrogando il
suo genio a quello sacrificava. E l'Amore e la Sapienza, dandosi mano
scambievole, imprimevano nei giovanetti l'esempio degli aurei costumi,
e il moto delle larghe passioni, tra le quali sorvolava l'affezione
del luogo, ove apersero gli occhi alla vita. Quindi vedevansi miracoli
non d'individui, ma di nazioni intere, e i Romani educati nella spada
e nell'amore della patria vincevano il mondo. –

Il sacro ufficio di separare il pensiere dalla polvere spetta a poche
anime elette, incontaminate, che lo spirito di Dio volle suscitare
per ammenda all'umana creazione. E le poche anime elette parlino ai
giovani, e facciano loro sentire la virtù come bellezza e necessità
dell'anima nostra, e gli spingano al desiderio di vivere oltre la
morte; parlino ai giovani, ed essi risponderanno co' palpiti di un
cuore caldissimo di vita e d'inquiete passioni, germi di gloria,
o d'infamia, secondo il segno a che miri; e dieno meta lodevole
all'inquiete passioni, concitando il fremito delle antiche memorie,
non perchè dormano sulle lusinghe dell'ozio e dell'inganno, ma perchè
ne traggano affetto d'onore, incitamento alle opere magnanime, e gara
di vincere il grido dei tempi trascorsi. E noi liberali esercitando
la mente, più non sarà che lo straniero peregrinando le belle contrade
prorompa all'oltraggio, vedendo il pensiere indipendente da qualunque
vicenda, e a buon diritto, chè forza alcuna nol può sottomettere,
meno la nequizia del proprio volere. E noi liberali esercitando la
mente, adonterà lo straniero di ridere su le miserie dei prostrati che
gemono: poichè se l'un popolo sale, e l'altro discende, non sappiamo
noi se debbasi riputare in tutto opera umana, o legge che si diparte
dall'ordine di questo universo, o cieco moto di Fortuna; e, posto
ancora che l'uomo sia nato alla guerra e alla morte dell'uomo, cessi
l'insulto, e pianga invece questa necessità di guerra fraterna, da
che alle immense sciagure non possiamo dare che il pianto; e tremando
aspetti lo alternare delle sorti, da che non è stata nazione, per
quanto si voglia potente, che nella sua giornata di secoli non abbia
segnato l'occaso. E lo straniero peregrinando le belle contrade levi
la fronte, e ammiri splendido pur sempre di bellezza immortale questo
cielo italiano, dove un giorno nell'infanzia delle moderne società
spuntava il Sole della scienza a salutare del suo raggio l'Europa;
levi il pensiere, e ammiri come gli abitatori della bella Penisola
tra le ruine del tempo e degli uomini si resero degni pur sempre cogli
atti dell'aere felice che spirano. – Niuno pronunzia il nome d'Italia,
senza che non gli sorga dinnanzi l'immagine d'innumerevoli glorie, e
la rimembranza che in lei non è spanna di terra dove non abbia calcato
l'orma un eterno: ma noi finora non fummo Italiani che per legge di
suolo; in questo suolo molte generazioni sorsero, stettero, e caddero,
ma silenziose, perchè nude di liberali istituti non lasciavansi dietro
grido di fama, o durata di monumento che le attestasse ai futuri. La
terra sola, poichè serba le ossa dei trapassati, potrebbe dirci come
qui sieno vissuti degli uomini.

O nostri concittadini, sosterrete voi dunque, che dispersa erri la
parola di pochi animosi, senza che neppur le risponda la voce d'un eco?
Forse la solitudine dell'anima è muta eternamente, come quella della
morte? Imprendete a rigenerarvi; e state forti al sublime proposito,
nè vi smuova l'invidia, o l'ambage della falsa ragione: – a voi basta
il volere, e il volere è massimo elemento della potenza; – innalzate
gli spiriti a più splendidi obbietti; – accogliete e nudrite nell'anima
generose illusioni, – nè cercate spregiarle, estimando per questo di
tenervi alla parte del vero: – forse tutta la vita non s'intesse che di
codarde e di generose illusioni!


CENNO SULLA LETTERATURA

― 1829[7] ―

                   Dant animum ad loquendum libere ultimæ miseriæ.

                                                          LIVIUS.

Quando l'inevitabile avvicendarsi dei casi assegnò nei secoli uno
spazio al delirio della potenza abusata, la notte giacque lunghissima
sul genere umano, velando il sereno di quanta luce accolse la mente
degli anni antichi. E allora la terra non sopportò, che l'insolenza
del forte, e la viltà dei caduti; e le turbe abbandonate alla rabbia
dei supremi bisogni, al gemito delle arcane paure, altro non seppero,
che d'esser venute a soffrire, e morire. E allora, fugate le illusioni,
la vita rimase senza perchè, e l'arido pensiere sarebbe corso al suo
primo niente, se Dio nol frenava colla pazienza. Le passioni del forte
si chiusero nel disprezzo, quelle del fiacco nell'odio; e allora il
ministero dei sensi gentili più non fece tremare la _povera creta_
del celeste suo brivido, e l'amore, ultimo, e quasi ombra, intervenne
agli affetti, e la pietà, dolcissima tra le corde del cuore, tacque
disarmonica. E quei tempi stanno come lacuna dell'intelletto, perchè
l'uomo non visse, ma vegetò materia armonizzata nelle forme, e gran
mercè se per sempre non ammutì nel silenzio delle fiere. Ma l'anima è
così mobile, che i maligni mai non la fermeranno ad un termine, e forza
di creatura non potrà sperderne il soffio, se prima a sè nol ritiri
chi lo diffuse per l'eterno universo. Combattuta e stanca, un tempo
l'anima cade; ma l'ala inquieta del desiderio la rileva, e compensa
in velocità di movimento ciò che per lei stette perduto nella inerzia
passata. L'anima sortì per essenza la necessità del progresso; e la
necessità non ha legge, perchè è la suprema delle leggi; – però quando
il suo cenno percosse i prostrati, e disse loro di sorgere, la gioia
di un bel giorno vestì la faccia al creato, e la freschezza della vita
nuova spirò sul deserto, e ogni atomo della polvere umana si converse
in eroe, e dappertutto invase un impeto di gioventù, un'esistenza di
spirito, un fremito di pensieri nati nell'Infinito.

Ma per risorgere dagli umili eventi, l'anima usò di un mezzo costante,
e fu la sapienza. La mente è molla dell'ordine umano, e dove ella non
sia cresce il pianto dei mortali. Ma perchè la sapienza è _concento
di occulte potenze_, a mostrarsi l'è d'uopo una forma, nè altra
più le conviene, che la bella Letteratura. I professori di scienze
misurate scompagnano dalla sapienza le Lettere, estimandole a guisa
di fronda leggiera, o come vaneggiamento d'infermo. Ma finchè saranno
il linguaggio della bellezza, gli uomini non potranno averle così
di lieve in dispetto. Un altro consiglio, stringendo in alleanza
l'utile e il bello, confuse in una, e fece divine le arti della mente
e del cuore. Sciogli quel vincolo, nè l'una, nè l'altra domeranno
sole l'indole nostra. È verità, che posa in una tradizione coeva
alle famiglie primordiali del mondo, poichè narra, che il savio dei
tempi lontani, prendendo a condurre i suoi fratelli di carne dalla
feroce esistenza animale a vita men disonesta, si accôrse ben tosto
non bastargli all'impresa l'unico risguardo dell'utile; quindi meditò
più profonda idea, e il savio invocò la Bellezza, e la Dea mite alla
preghiera lo sovvenne del suo sorriso, e le razze umane amabilmente
lusingate accolsero meno ritrose il dettame della sapienza. L'uomo
è composto di poca ragione, e di molte passioni: però, se la visione
del senno vuol essere umanamente applicabile, è mestieri che si renda
sensibile coll'ardore degli affetti, e coll'evidenza delle immagini.
Le passioni hanno ribrezzo dell'ignudo sillogismo; questo non fa buono
che alla gente di toga, e forse nè anche a lei, ma non ha coraggio di
dirlo. Le passioni, benchè sovente amare di grave sventura, sono il
bisogno e il desiderio dell'uomo. L'uomo anela furiosamente alla vita;
la vita non si sente, che per passioni, e va calcolata a misura della
loro profondità. Lontana, e quasi spenta ti si affaccia l'esistenza
in quei giorni, che non ti aggira il vortice degl'interni sentimenti.
E allora ti vince lo spregio di te, e de' tuoi simili, e ti coglie
il fastidio del bene e del male, e il pianto e il riso ti eccitano ai
medesimi sensi, nè il pensiere sapendo dove chiuder l'ale, e posarsi,
bestemmiando chiama dai cieli la distruzione. Talchè tu aborri
per istinto il vuoto, e la noia della quiete, come pegno di morte
anticipata, e ti affanni dietro all'alterno travaglio delle affezioni,
e col desio rispondi al cenno di mille fantasmi ridenti, tanto che men
tardi si sfiori la giovanezza dell'anima, e il tempo per meno aspra
via ti conduca alla giornata dell'ultimo dolore. Ma la plebe mortale
ha di per sè stessa perfetto il sentimento della vita descritta? Come
murmure d'abisso nelle viscere umane freme rovente la passione, ma
indistinta e compressa, perchè i più non hanno modo di svolgerla, e
dirizzarla al segno cui tende; e quando prorompe non sa l'uscita, e
si consuma nell'ansia, ma non ha subbietto. Stanno le passioni nel
cuore, come gli elementi nel caos; aspettano la voce di Dio, che
scenda a comporle in armonia d'universo. E scende la voce del Genio,
e le interroga, le solleva, e le guida, e il cuore fruisce la pienezza
della vita esercitata. E mal si trascurano, e sta all'alimento di che
le nutri vederle scintillanti di gloria, o dense d'infamia, far che
una gente benedica, o pianga. Se l'uomo abbia, o no, da lodar nessuno
per questo dono, ci pensi chi vuol saperlo; intanto sono inevitabili;
e tu potresti meglio dividerti da te stesso, che da loro. E quando
l'ipocrisia degli Stoici tentò fermare nell'anima umana la foga di
tanta corrente, la continua oscillazione della gioia e del dolore,
le ricette non valsero, e quella impostura era troppo inumana, perchè
trovasse terreno dove allignare. L'anima consiste sol nei suoi moti; la
mente li può governare; e la buona Letteratura porge alla mente i mezzi
di venire al suo fine.

― O Lettore, perchè io non amo gli scrupoli, odi la mia confessione.
Quanto ho già scritto, e quanto sta per venire, se il lavoro non mi
si muta fra mano, vorrei, che avesse cera di discorso. Se bianco o
nero, tel dirà la coscienza: a me non istà bene dirne cosa nè _pro_,
nè _contra_. Pur questo mio discorso, o bianco o nero, o un po' bianco
e un po' nero, in fondo in fondo potrei giurare, che non sarà mio. – E
non è molto, che vennemi voglia di leggere quanti scritti mi capitavano
a mano di Niccolò Ugo Foscolo. E lessi attento secondo la mia capacità,
e vorrei che il profitto corrispondesse al diletto provato leggendo.
E i detti, i pensieri, e le immagini del singolare scrittore, mi
fecero nel cervello stampa siffatta, che mi prese l'ispirazione della
presente diceria; altrimenti non ci avrei pensato dalle mille miglia.
Dunque, se ci trovi un filo di buono, non perder tempo, e dànne merito
a quel Grande; ma se la cicalata merita l'anatema, serbalo intero per
la mia testa, tanto più che essendo leggiera un peso le farà bene.
Vedi, io non voglio ingannarti, e nol potrei volendo, perchè, se la
Natura mi fece corto, potrei fare, e fare, e bene anche aiutarmi con
quella striscia di volpe onde è listato il cuore dell'uomo, ma in somma
rimarrei sempre corto; e gli uomini indipendenti mi scoprirebbero,
e allora avrei per giunta l'impostore. Perchè io poi mi sia indotto
a presentare così rattrappite le maestose figure del Foscolo, la
ragione te la dirò un'altra volta. Anzi, se devo dirla, considerai,
che nessuno fra gl'Italiani diffuse come il Foscolo luce e calore di
sana filosofia sull'indole e sulle vicende delle Lettere nostre. E
stimai, che mal non sarebbe a mettere in vista alla Italia, più che
non sono, i dettati di quel valentuomo. Già delle opere sue non ci è
corpo; ed è per tutti i conti un peccato; e per averne una strappata
è forza fiutare a tutti i quattro venti, e di questo il perchè tel
direi daddovero, se sapessi come trovargli un posto in queste carte;
ma tali perchè son conformati in maniera, che non sanno tener fermo
un momento, e dalle carte spariscono. E credo di più, che, oltre al
disagio di procurarsi le mentovate scritture, fin qui la gente italiana
non ci abbia badato gran fatto, essendo un bel pezzo che la gente
italiana mette ogni suo pensiere nel non pensare a nulla, e questo fa
per amore di chi gliel comanda. Platone e Aristotele si fecero largo
tra di noi, sebbene fuor di stagione, mediante la coda lunghissima dei
commenti. Io commenti non faccio, perchè non ho per anche commesso sì
gravi peccati da scontarli con tal penitenza; ma dire un motto o due
non mi spiace, se non altro per dimostrare, che sono anch'io fra gli
animali parlanti: e che direste, se mediante un mio cenno, o di tal
altro povero diavolo, il caso permettesse che le dottrine del Foscolo
si facessero più popolari? E non ridete, chè in capo all'anno il caso
ha per lo meno sei mesi di governo nella nostra famiglia. Chi pertanto
potesse spiccarsi un istante dal suo interesse, e mandare un riflesso
d'amore alle cose che gli stanno d'intorno, tenga prediletto il
Foscolo. È il primo fra i rarissimi Italiani d'oggi che pensano a modo
loro; ed ebbe spirito sottile d'indagine, e fiorente immaginazione, e
concetto e stile originale, e gittò in Italia i primi semi della prosa
poetica, e fu tanto amico a ciò che aveva sembianza di verità, che
per farne professione più aperta abbandonò la terra materna, e lasciò
l'ossa nel sepolcro degli stranieri; e se l'atto vaglia, o non vaglia,
il dicano coloro, che seppero a prova di quanto affanno sia grave il
sospiro lontano dell'esule. E chi vede un barlume del futuro, dica
quando potremo riscattare quell'ossa, e far loro le feste funerali. ―

La possibile perfezione dell'umano incivilimento, ufficio solenne,
ed inerente alla dignità dello spirito, è base in un popolo di verace
Letteratura. Di questo incivilimento la opinione arde divisa fra due
partiti, e dall'uno sta la speranza, e il moto larghissimo onde son
concitate le moderne società; dall'altro gli argomenti del passato.
Che ad ogni cimento di generoso disegno abbia a rispondersi colla
parola _impossibile_, non mi riesce a crederlo. Ai fatti pur troppo
va dato conto, perchè in essi giace la storia dell'uomo, e vorrei
disperare delle sorti future, se ogni fatto fosse un destino; ma i
più spettano alla stoltezza, o alla volontà maligna; e queste, se non
si possono struggere, almeno si temprano. Nè da ogni fatto del mondo
d'oggi parmi conséguiti lo sgomento, se pure è vero, che l'universo
non è tutta una somma di mali; e chi si stringe singolarmente a
piangere, o a ridere, ha la metà della ragione. I filosofi mal non
farebbero a speculare più addentro la questione, – se la serie degli
eventi passati possa del tutto dedursi in certezza di teoria, e farne
immagine all'avvenire. Affermeremo noi, che quanto sappiamo del passato
sarà l'andamento costante del genere umano? La terra ha sostenute
molte e gravi rivoluzioni; numerose orme sociali andarono a celarsi
per sempre nella mina dei secoli; e chi potrà giurare sulla natura
delle cose immemorabili, dacchè nè larghezza di genio, nè infaticato
desiderio di scienza, hanno saputo riconquistarle all'oblio? Nello
spazio l'umanità certamente ha disegnato un gran quadro, – ma forse
la memoria ne serba appena una linea, – e chi dei mortali griderà:
– io ho misurato il possibile? – La natura dell'uomo è poi tanto
indomita da concederla tutta all'impeto disperato del male? I dottori
d'ogni setta consentono a dire, che l'abitudine è principale elemento
dell'indole umana: or l'abitudine fece sempre dell'uomo il supremo,
o il vilissimo degli animali, secondo il principio da cui si mosse.
Cedere d'altronde a troppo larghe speranze non è buono, perchè poi
la delusione fa gemere di soverchia amarezza; rigenerare i primitivi
destini dell'uomo non è da noi, perchè sono un pensiere della eternità;
stringere i mortali in una famiglia di fratelli, forse è un sogno
dell'amore, perchè, se non esiste uguaglianza di condizioni, manca la
pietra angolare dell'edifizio: e dov'è la mano potente a bilanciare
le eminenti differenze, che hanno aspetto e titolo d'ingiustizie, e
forse saranno? La Natura vuol reggersi a governo aristocratico, e la
Natura vuol ciò che vuole: ond'ella tramò le sue fila in maniera, che
a pochi dava la dote invidiata dell'intelletto, a pochi la bellezza,
a pochi la fibra dello squisito sentire, e nelle ricchezze concentrate
dell'uno segnava la povertà delle migliaia, e la potenza di un popolo
espresse il niente d'un altro, nè tu spesso puoi ridere se un tuo
fratello non piange. Tutto questo ha nome d'ordine; – una forza è di
certo. Se la Natura abbia torto o diritto, altri ne giudichi, – io
nol farò davvero; perchè l'hanno predicata gelosa dei suoi segreti,
e quando si ostina a celarsi, nè preghi, nè torture, nè impronti,
la scuoprono. I più tuttavia la dicono savia, e provvidente; ed io
concorro alla fede, nè mi giova penetrare più addentro. È stile antico
adorare ciò che non comprende la mente; e il dominio della curiosità
affannò più anime immortali, che tu non pensi. Però la sventura non è
in tutto decreto del caso; ella in qualche parte è pianta educata dalle
mani dell'uomo, e spetta alla Morale distinguere i mali immutabili, e
quelli provenienti dalle nostre pervertite potenze. Il desiderio aspira
pressochè all'Infinito; pur molti de' suoi voti si possono sciogliere.
Le leggi, donde tanta parte dipende del bene comune, sono capaci di
generose riforme; molti diritti si possono conciliare col fatto; per
altro bisogna farli profondamente sentire; e così sentiti si ottengono.

La virtù del sentire è di Natura; quindi si smarrisce, ma non si perde;
e le buone Lettere la desteranno dove fu dalla forza e dall'errore
sopita. Quando Dio spirò anima, gl'Italiani ne bevvero il primo fiato;
però le buone Lettere faranno in essi mirabil prova, da che la fecero
in altre nazioni secondo l'indole, e i casi. Ma perchè la civiltà
metta salde radici, e doni alla terra gentile – ardimento, e vigore
d'anima nuova, è mestieri che la Letteratura abbia spirito animoso,
e pubblico intento, e spregio delle vane apparenze, e amore veemente
di gloria. Dopo le spade giovano a maraviglia le generose Lettere
esercitate. Il costume corrotto è geloso, e grida offeso di nulla; ma
chi sente la virtù del pudore, e dell'ira, tenga lo strepito a vile, e
percuota la corruttela di biasimo acerbo. Il biasimo non è una gioia,
a meno che tu non sia corredato di quell'aurea imbecillità, onde per
molti l'esistenza non ha nè spine, nè fiori; e per amor proprio, e del
prossimo, contristati i cortesi discendono al biasimo; ma la lusinga
o il silenzio danno baldanza alla colpa, e più largo le schiudono il
campo; però chi non teme aprir l'animo suo, usi la dote rarissima, e
scuota i pensieri trepidi della vita. La vita è infelicemente breve,
e chiusa spesso dal vituperio; la posterità non è cortigiana; nè dalle
adulate libidini vien premio, che basti alla infamia; e il suo rimorso
è la febbre della vecchiezza. Le Lettere saranno utili e generose,
finchè non abbiano barriera, e tengano all'indefinito universo. Però
chi professa il pensiere guardi l'universo. Un potente l'ha fasciato
di tenebre; ma l'arguta vista del Genio spiando in seno alla oscurità
faccia tesoro di quante scintille la solcano, e sprezzi il cerchio
misero dei sistemi. L'anima non è anima fuorchè nella libertà dello
spazio, e i sistemi hanno l'angustia, e l'errore, perchè ognuno di essi
leva stendardo pel sì, e pel no; e il sì, e il no, albergano con tanto
equilibrio di forze la testa, che l'uno non vale a cacciar l'altro,
e darle riposo. Le arti della mente son creature del cielo, donde
scesero vergini consolatrici al mortale; quindi non piegano sdegnose a
prepotenza, o a mercede, e quanti si accostavano contaminati a quelle
ingenue gemendo si ravvidero di avere invece abbracciata una larva
sozzissima. E chiedono sacrificio illibato, e, se a voi non incresce
l'inclito esempio, ascoltate con quanta venerazione Niccolò Machiavelli
si preparasse a nutrire l'intelligenza. – «Venuta la sera, mi ritorno
a casa, ed entro nel mio scrittoio, ed in sull'uscio mi spoglio .
. . . . . . . . . . . e mi metto panni reali e curiali, e rivestito
condecentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove,
da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, chè _solum_
è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con
loro, e domandare della ragione delle loro azioni, e quelli per loro
umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna
noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce
la morte: tutto mi trasferisco in loro.» – E Niccolò Machiavelli
scrisse argutamente di prudenza civile, e di storia, con dignità pari
al subbietto. I suoi pensamenti talvolta sanno d'acre sapore; ma se
potè più che altri conoscere da vicino la razza che ha nome d'umana,
per compiacerle non dovea travedere; e se scôrse, che l'uomo vuole,
o dev'essere eterno giuoco dell'astuto e del forte, la colpa non era
sua. Scrisse come vide e sentì, senza badare al grido delle offese
passioni, e riuscì modello di virile eloquenza, e di spregiudicata
filosofia. Molti l'hanno maledetto senza leggere, molti l'hanno letto
senza intendere, e gli uomini di peso l'hanno sentenziato maestro della
tirannide. Sì, – ma intanto più volte sostenne i tormenti pel delitto
di aver voluto reggere una patria cadente, nè patteggiò colla Fortuna,
e il raggio di tanto senno si spense nell'abbandono, e sotto un povero
tetto.

La mancanza di una patria Letteratura non è cosa di sì poco momento,
come stimano molti. Le Lettere stanno agli eventi, e sono lo specchio
delle sorti di un popolo. Nel trecento ebbero in Italia tanta grandezza
di origine, e così largo moto, che se gli anni dipoi, corrispondevano a
progresso adeguato, oggidì forse avremmo siffatta Letteratura, che le
altre d'Europa vergognerebbero tentarne il confronto; e fu veramente
secolo d'oro, non pel fracasso che mena il buratto della Crusca,
ma perchè le passioni del tempo avevano movimento spontaneo, e lo
scrittore, ispirandosi al genio dello stato sociale d'allora, esprimeva
riti, costumi, e tendenze, con forme ingenite a quanti avevano anima
italiana nel secolo decimoquarto; e riusciva simbolo profondamente
morale del popolo, e della età. Le condizioni nel quattrocento duravano
con poco divario propizie allo spirito; ma la scoperta dei codici
antichi gli diè maschera greca, e latina, e il vivo incivilimento
popolare si arrestò, se pur non rifece un passo alla barbarie. Le armi
di Carlo V, e un groppo d'altre tirannidi, domavano il cinquecento; –
alle menti era nume il terrore. Nel seicento il servaggio ingagliardì
per abitudini, e per giunta la follia predò senza interregno quei
cent'anni sul cervello dell'uomo. Finalmente l'ultimo settecento
sveniva di languore. Certo, il Genio d'Italia ardeva quasi sempre nelle
tele, e nei marmi, e nella magica combinazione dei suoni, e così rese
care e divine quelle forme della bellezza, che ne sospira in eterno
l'invidia degli altri popoli. Certo, nei due secoli a noi più vicini
una mano di valorosi si spinse nelle scoperte delle scienze positive;
ma pochi hanno modo o volontà di battere il sentiero delle speculative
astrattezze, mentre nacquero tutti alla violenza del pianto e del
riso, tutti hanno un cuore, che il Grande può commuovere d'immenso
moto, perchè la parola del Genio chiude virtù operatrice. I tempi
non erano scarsi d'ingegno, anzi da ogni parte sboccava; ma i tempi
erano cupi, e sfiduciavano. Mancava il coraggio, e credo fermo, che
l'ingegno e il coraggio continuati nel grado supremo della loro potenza
formino il Genio, creazione tanto rara e miracolosa, che la Natura
par ne rimanga spossata, e cerchi il riposo degli anni lunghissimi.
Mancava il coraggio, e i meno corrotti non osando provocare, nè volendo
prostrarsi, tacquero nel dispetto, mettendo appena in comune i bisogni,
e lo sprezzo; i tristi affatto, ed erano i più, a scuola di Tiberio
scambiando in calcolo il sentimento, aiutavano la viltà di un popolo,
che ogni dì sempre cadeva in basso.

Quei dottori non seppero esistere per la società dell'epoca loro;
quindi pensavano ai morti, quindi allagata l'Italia di erudizione
di ogni specie; ma il popolo in mezzo a tanta copia stette digiuno;
e quei dottori, spregiando scaldare della vita nuova gl'inanimati
fantasmi del tempo antico, mostrarono come la Vanità al pari di
ogni altro idolo possa avere sacerdoti, e sacrifizi, e lunghezza di
religione. Restano ancora le migliaia dei volumi, e se la farragine
fosse misura di scienza potremmo chiamarci contenti; ma una lucerna a
mezzogiorno non troverebbe in essi il perchè abbiano veduta la luce,
– il nodo che lega l'opera all'uomo. E tu li puoi leggere; – ma è
tutt'uno, – non giovano nè ai malati, nè ai sani. I più vennero fino
a noi parassiti di fama sotto lo scudo del bel dire, e in ciò sieno a
bell'agio maestri; – ma non insegnano il pensiere; – e se il pensiere
non raggiasse fra mezzo alla polvere sollevata dell'uomo, chi vorrebbe
essere un uomo? – Scrissero oziose rime d'amore non sentito, e prose
cortigiane; pugnarono per la barba di Aristotele e di Platone, e le
orgie grammaticali assordarono sempre le orecchie; ma il Vero più non
ebbe sacra la mente, le opinioni più non ebbero indipendenza, e alla
lingua rimasero lascivie, e precetti di vuoto frasario, non eleganza,
o vigoria di stile; perchè, se l'anima non dà moto alle parole, stile
non viene. La poesia, aura spirata all'anima umana dal cielo più bello,
fece dediche; ma non accolse in onore le ultime scintille della virtù
cittadina, non santificò il sangue caduto nelle battaglie ultime della
patria. Si svolsero poche delle tante pieghe, ond'è gaia la veste della
Bellezza, nè fu composto dramma, e romanzo, o dettato di socratica
filosofia, a nutrire di cibo soave la ragione, e il sentimento.
Quantunque la Bruttezza si ammanti gelosa da capo ai piè, uno spiraglio
rimane, e il tardo raggio degli anni vi penetra a illuminare le
generazioni. Quei secoli ebbero anticamere di potenti, e letterati di
mestiere in ogni via del sapere, e accademici Oziosi, Umidi, Oscuri,
Apatisti, Cruscanti[8]; e il collegio degli Arcadi popolò de' suoi
pecorili ogni cantone della bella Penisola, ma nè avidità di stipendio,
nè romorio di ciancie avvicendate, nè nienti rappresentati in volumi,
fecero mai la gloria di una nazione. E se pochi sovrastano immensi
nella solitudine di quattro secoli, venerate la fiamma del Genio
Italiano, che rompe caldissima traverso le guerre intestine dei mal
divisi talenti, e le lunghe vendette della fortuna. Ma rammentate
ancora come quei Grandi, perchè non vollero acquietarsi alla inerzia, o
sentire tepidamente, assaggiassero la povertà, la calunnia, il pugnale;
ed ogni secolo può vantare una vittima illustre data al deserto, o al
patibolo.

Forse non è anche suonata l'ora da sollevare il velo, che la paura e
l'ignoranza hanno tramato sulle molte cause, onde fu morto lo slancio
della Italiana Letteratura; nè io ho spalle da tanta fatica. Pure alla
nuova impresa non mancheranno, confido, uomini liberali, che dell'acume
si valgano a scernere il bianco dal nero, e le Grazie chiamino a
compagne del viaggio, perchè tratto tratto s'infiori l'aridità del
cammino. Ma se dei tanti guai dovessi pur uno additarne, ultimo
fra questi non conti l'Italia la Critica. È scienza, che ritornata
legittima merita lode, e non biasimo; ma, come venne esercitata finora,
fece danno più che non credi. E fu manto, che coperse la vanità di
mille e mille nati al silenzio, e mai non ebbe consistenza di proprii
elementi; stette dietro all'opera, e appartenne alla mente come al
fuoco la cenere.

Arroganza ebbe sfrenata; e le sue spine crebbero sotto l'orma del
Grande dovunque ei la mosse, senza avvertire, che le arti vanno in
progresso, o in decadenza, per gli alterni destini, e per l'atto di
chi le esercita, non già per chi ne discorre. Chi è potente sol di
discorso sta a vedere, e gran che se gli riesce appieno osservare il
moto dall'alto in basso, o viceversa, dello spirito umano; – ma l'atto
è creatore di quel moto. Il Grande è sostanza libera, e trasvola per
mondi invisibili; – il mortale ordinario legato alla sua poca terra
non può gridargli in coscienza: – tieni a manca, o a dritta, – perchè
la vista ha così corta, che i tetti le fanno inciampo. E allorchè
il Grande evoca dall'anima profonda la maraviglia del suo concetto,
e quella sorge immagine dei cieli, se un'ombra leggiera in qualche
punto l'offusca, tu, o critico, non gridare malignando allo scandalo.
– La malignità è missione disonesta, ed inutile, perchè in essa
ognuno può levarsi a maestro; – guardatevi il cuore, e poi dite se
non è vero. – Non gridare allo scandalo, e gemi, se hai tanta virtù,
sull'indole umana; pensa, che il Genio del male ha posto un tributo
su quanti si alzano alla vita; pensa, che il grande è franco in gran
parte di quel debito, e tu per pagarlo forse non basti tutto. – I
dottori millantano, ma non sanno rivelare il segreto della potenza,
perchè l'arcana Natura non decretò positive e comuni le arti sublimi
del pensiere, ma le volle a quando a quando rappresentate nell'ente
singolare. L'interesse è il primo impulso delle nostre umanità; – se
i dottori sapessero il segreto della potenza, mettendosi in petto la
lena che lor manca, farebbero forti primamente sè stessi. Per altro non
si convinceranno giammai, e va bene, chè se gittassero la presunzione
rimarrebbero nudi, e la verecondia per loro è veste così leggiera, che
patirebbero freddo. Quindi in ogni via dell'intelletto si è levato
un sussurro d'anime sottomesse, giurando avere in mano i materiali
da fabbricar l'uomo grande. I materiali son battezzati col nome di
regole, e queste desunte da opere pertinenti a società sfumata nel
nulla per dar luogo a nuove famiglie, a nuove tendenze di passioni.
Una forza consumatrice ha disperso tutto da quel catechismo, tranne i
forami del tarlo; ma pei dottori è tal merce, che senz'essa andrebber
falliti. Le lanterne spente non fanno lume: – eppure uomini parlanti,
cui dicesi fatta la parte della ragione, pretendono all'incontro. Le
lanterne spente non fanno lume, e a dirlo oggi fa poco frutto, perchè
noi non sappiamo scorgere il vero che nel passato; ma quando nuovi
pregiudizi sottentreranno ai presenti, e apparirà snudato l'errore
vecchio, Dio ci salvi dalle risa del mondo d'allora. I dottori non
hanno avvertito, come la società ad ogni nuovo moto che faccia, trovi
provvedimenti contemporanei, nè possa ricorrere ai secoli morti,
tanto più che sovente il Diritto d'un tempo fa il Torto d'un altro. La
società si muove per Natura, perchè nulla ha effetto contro Natura;
e quando questa consente a mutare di aspetto, ministra i mezzi alla
esistenza delle nuove forme. I dottori non hanno avvertito, che la
mente concepisce in ragione soltanto delle proprie forze; però le
regole tolte dall'opera altrui.....[9] è una emanazione purissima
dell'anima, e un'anima non ha veramente legame coll'altra, pel
magisterio inesplicabile onde ogni mortale è stampato da un'indole
separata. Quindi si cercano indarno gli elementi della grandezza al
di fuori del Grande; dipendono da lui come il frutto dalla pianta.
Il Genio è un pensiere celeste, dotato di quell'immenso vigore, che
basta a creare sè stesso. L'imitazione fa degli armenti, e non dei
Grandi; la libertà è anima sola ed eterna dell'intelletto. La Ragione
ha battuto sovente all'uscio delle officine rettoriche per venire agli
accordi, tanto che scemassero le ostilità contro lo spirito umano; ma
i retori non apersero mai; quindi in ogni età quel sussurro di anime
sottomesse errando d'intorno alle calcagna dell'uomo grande ha gridato:
– o uomo, posa le gambe, e va sulle nostre; – e perchè l'uomo per un
certo suo natural dispetto, e a motivo delle distanze, non ascoltava
il comando, per lui non v'ebbe più sollevazione. I pedanti mormorando
il sospetto nelle camere del potente, e scorrendo i trivi e le piazze,
bandivano addosso al Grande la croce. Amaro fu il calice, che gli
offersero a bere, e la plebe umana, che dipende dalle spinte, persuasa
dallo schiamazzo versò la sua parte di fiele in quel calice. Forse la
moltitudine, tenendosi al naturale nell'estimare le cose, piegherebbe
meno dei critici a sinistra; ma da che i giustizieri delle Lettere si
fabbricarono la scanna delle sentenze, le turbe, fatalmente inchine
a pigrizia di servitù, rinnegarono l'intelletto in mano ai dottori,
e non giudicano mai secondo l'azione delle proprie facoltà, ma non
danno parere di sorta, o si governano colla fama. E la fama anch'ella
è matta, o savia, secondo da cui prende le mosse, e a prima giunta
spesso s'imparenta agli affetti, e vagheggia la Fortuna, nè così per
tempo si accorda colla Giustizia, la quale è conseguenza delle misure,
od opera tarda degli anni. – La spanna del pedante non comprende
che il pedante: – nè aspiri più alto; – il massimo non entra nel
minimo. L'Alighieri, Michelangiolo, Galileo, sono espressioni vicine
dell'infinito: i pedanti narrino il come, il giorno e l'anno, in che
vennero a casa loro questi immensi a prendere in prestito quel non so
che d'incomprensibile, onde tanto si fecer divisi da noi, che parsi non
sarebbero umani, se la morte non gli avesse ricongiunti alla polvere
originale. Il pedante è cocciuto, e non cede; ma chi ha la coscienza
di un bel talento, e può di speranze e di fatti consolare una patria,
invochi alle imprese una patria, e l'anima sua, nè guardi altro segno;
e se la guerra degli uomini gli tira a terra il pensiere, ricordi
qual pro facesse a Torquato Tasso la varia servitù. Al servaggio delle
poetiche spettano i luoghi meno eletti del suo poema, alla gramatica
spetta una parte della pazzia, che, ultima di tante sciagure, afflisse
quell'illustre infelice.

Il modo letterario, che in tutto si confaccia agli esposti princìpi
di libertà intellettuale, è il Romanticismo. Nol distinguiamo di
tal nome per fine di setta, ma per significare una idea. L'arte
romantica è il moto espresso dello spirito umano, e simile all'aquila
dell'antica onnipotenza romana tiene il sublime dei cieli, e si
alimenta dell'Infinito. È l'arte, che ti conduce innamorato del Vero
a considerare gli effetti della Natura, e presentarli secondo le
impressioni che soffersero le interne potenze, e nella guisa che più
ti riesce propizia; è l'arte, che via via scuopre la sembianza più
vitale della Bellezza. Eterno è il raggio della Bellezza, ma ogni
secolo passando lo veste di un colore novello, e il savio l'adora
sotto la forma in che splende. La bella scuola visse agl'Italiani nel
sacro poema di Dante, nel canto sentimentale del Petrarca. Come dissi
poc'anzi, le Lettere nel settecento erano di tanto sfinite, che pareva
inevitabile il niente. Al caso piacque il risorgimento; e il Parini
ridonò casta e gentil favella alle Muse, e Vittorio Alfieri ululava
nel letargo dei dormienti la parola della vita, e il Foscolo accolse
quella parola nel grembo dell'amore, e l'educò a magnanimo intento. E
una schiera eletta d'ingegni intemerati tenne dietro alle grandi orme.
E si vendicò dall'oltraggio, e dalla trascuranza dei corrotti, il pegno
più sublime che abbiamo di patria Letteratura, la Divina Commedia. In
essa trovarono consiglio e mezzo a purificare l'idioma, necessità di
un popolo, che muova a riprendere fisonomia propria e distinta. Oggi la
Divina Commedia è a noi tutti il palladio dei sensi generosi; è un eco
al grido profondamente commosso nella impazienza delle nostre passioni.
Corre un detto maligno, annunziando, che le cose andranno a finire col
precipizio. I buoni attestano di no. Ma sia come vuolsi, da che l'uomo,
o quanto viene dall'uomo, si leva per cadere. Aggiungeremo soltanto,
che le ruine della grandezza son grandi, e i monumenti di una forza
passata parlano eternità.

La mente degl'Italiani dorme un gran sonno, ma, perchè l'hanno mobile
e suprema sugli altri, potranno far violenza, e redimere dagli eventi
lo spirito. Agl'Italiani però conviene purgarsi di molti peccati, che
scontano in avvilimento, fra i quali lieve non è l'avversione veramente
fraterna a quanti fra loro sorgono ingegni felici. E sì che le arti
del pensiere, modeste come sono, non desiano che lieta accoglienza;
– d'altro premio si offendono. A noi par costi troppo cara perfino
l'onestà di un plauso. E qualunque volta balenò il Genio su questa
terra, non movemmo voci di saluto, o sorriso di gioia, al richiamo
di quel raggio soave; ma tentammo velarlo delle tenebre nostre, e
gemendo sulla rosa, che spuntava bellissima, l'avremmo dispersa, se
non fioriva immortale, anzichè alimentarla nell'alito dell'amore, e
pregarlo eterne le rugiade del cielo. E il Genio maledetto da una plebe
cui soprastava, – nè il fallo era suo, – si consumò solitario, e non
diremo con quanto dolore, perchè ineffabile. Ricorre a tutti mestissimo
il pensiere dell'abbandono, e più che mai all'anima grande nata al
bisogno d'invadere l'universo, dove abbia sfogo il moto perenne che
l'affatica. E il Genio si consumò solitario: – sol quei pochi gentili,
che vivono all'armonia riposata del Bello, nell'affanno del segreto
desio lo seguivano fuggente per le tenebre umane, come stella caduta
dal firmamento; e disperando di ogni altro sollievo invocavano allo
stanco la pace della morte. E nella morte il Genio quietò l'ossa, e
le mal dome passioni; ma l'odio de' suoi fratelli di carne si giacque
con le sue ceneri, a contender loro una preghiera; – e tanto andò
premio al cortese, che si curvò per sollevare la polvere! Vennero i
posteri, e, ascoltando fremere d'infamia le ingiustizie paterne, per
ammenda sacravano altari, e parole di lode alla memoria della offesa
grandezza, – ma vanamente: il tempo aveva scritta la sua sentenza;
– l'anima eterna aveva finito il suo gemito; – e la terra ritornata
alla terra non si consola della lusinga, nè dell'insulto addolorasi. –
Gl'Italiani possono essere sventurati, se tanto piace al destino, ma,
volendo, non saranno nè vili, nè ciechi. Antica quanto la nostra caduta
suona una rampogna allo straniero, che dal mare e dai monti si affaccia
alla bella Penisola, perchè lo straniero, visitate le ruine, e riposati
gli sguardi nel molle sereno a conforto dell'anima cruda, ritorna alle
sue mute contrade narrando la gloria eterna del cielo, e dei sepolcri,
– ma dei viventi non fa parola, o parola di scherno. È meritata,
o codarda l'ingiuria? Se gli uomini non dovessero perdere in senno
quanto guadagnano in prosperità, godrebbero modesti il favore della
Fortuna, divinità, che il savio e lo stolto convennero a chiamar pazza.
Tuttavia, se ben guardi, l'ingiuria prende eziandio qualità dalla
maniera in che i miseri sopportano l'infortunio. Che se lo schiavo non
vuol far moto della persona, per paura che il cigolio della catena gli
giunga all'orecchio, e giace stupido tanto, che se la vita non fosse un
peso avrebbe appena la coscienza di portare una vita, allora l'insulto
lo sorprende meritato ed acerbo, perchè il cuore e la mente inviliti
non gli danno nè un pensiere, nè una voce alla risposta. Ma se tu palpi
le piaghe tue per sanarle, e non per piangere un vano lamento, ma se
la giornata del dolore ti passò sul capo senza piegarlo, allora cade
ogni protervia della soverchia felicità, e dalla sventura generosa il
superbo apprende lezioni dì sapienza, e di tremore, pensando che la
vendetta non fu mai spenta, perchè ha per sede l'anima, e, se il tempo
sapeva spuntare una spada, da leggi inevitabili è stretto a ritemprarla
più acuta. ― O Italiani, gran parte del vostro gemito stette, perchè
amaste con poca intenzione una terra, che a voi si stringe nel vincolo
della patria e delle sciagure. Un momento solenne sorgerà dallo spazio:
ma se l'ingegno accorto non veglia ad afferrarlo, trascorre confuso
coi giorni dell'umiltà. Italiani, amate attenti, e non millantate una
patria. La terra vostra è sempre la terra delle memorie; e il Genio
eterno agita sempre sovra essa una fiamma divina. La terra vostra
è sempre la terra, che un dì tolse nome dalla stella più lieta del
cielo[10], e sempre la sospira l'alito delle Grazie innamorate, e
sempre è fresca della prima bellezza, perchè a Dio piacque suscitarla
tra le forme create come l'iride del suo pensiere. Ma doni così
liberali non fanno argomento di gloria allo spirito inerte; da che nè
la fragranza dei fiori, nè l'amabile raggio del Sole, onorarono mai
d'un sorriso il cadavere.


LORENZO STERNE

― 1829[11] ―

                              Natura il fece, e poi ruppe la stampa.

                                                      ARIOSTO.

Dall'amore dell'arti liberali emerge la vaghezza d'intendere i casi
dell'ingegno felice, che a noi rese visibili queste figlie di un
pensiere divino: ma perchè Lorenzo Sterne stette nel creato più che
altro a sembianza di spirito, nè degli eventi suoi tu potresti narrare,
che il nascimento, la vita, e la morte, e perchè di questi a qualunque
vento ti volga vedi composta la massa degli uomini, nè l'umiltà delle
doti comuni vuol diritto di storia, – però noi convertiremo l'animo
a più degno subbietto, favellando con breve discorso della Mente di
Sterne.

Se la mollezza del cielo italiano, e la melodia dei suoni, e
l'esultanza del paese gentile, che in ogni sua forma svela il concetto
del sorriso, sono maravigliose e principali espressioni della bellezza;
se i figli d'Italia sortivano tempre armonizzate al solenne linguaggio,
qual di noi non vorrà di lieve consentire espressione della Bellezza
le opere tutte di Sterne? E l'Irlandese le creava così belle alla
nostra maniera, che tu immaginando diresti il suo pensiere educato
nell'aure dei nostri sereni, e che al sangue gli corresse mista una
fiamma dell'italico Sole. E l'anime che vivono all'anelito di quanto
è ispirazione d'una idea immortale, fra quelli scritti segnatamente
piegano il desio al _Viaggio sentimentale_, ai _Sermoni_, e alla
_Vita ed Opinioni di Tristano Shandy gentiluomo_. Ugo Foscolo,
indegno singolare dei nostri tempi, e fresca memoria di pianto ai
generosi, si piacque vestir di tal veste il _Viaggio sentimentale_,
che rari sapranno arrivare a quel segno: – e perchè i _Sermoni_ mirano
a istituti e articoli di fede in parte diversi dai nostri, forse,
traducendoli, non avrebbero convenienza universale. Rimane il _Tristano
Shandy_, bellissimo libro, e più che altri a principio non crederebbe,
– e fu meditato nella quiete d'un'anima intatta d'ambizione, di
raggiro, d'invidia, e degli altri peccati soliti a visitare la gente
di Lettere; per lo che riuscì specchio sincero delle nostre umanità,
e traverso il riso, e le lacrime, mostra più lume di tanti, che in
tutt'altro modo ritraggono la Natura. Gl'Italiani, per quanto io mi
sappia, non hanno del libro bellissimo versione nè buona, nè cattiva.
L'hanno i Francesi; – ma come? Chi non vuol credere, tocchi; – e lui
infelice, se dipoi non si accuora dello strazio impudente. Sgradiranno
gl'Italiani un lieve esperimento del libro bellissimo? E noi non
vogliamo dar loro questo saggio[12] a guisa di norma, o come pegno
che un dì venga compita l'impresa, – ma perchè si levi uno spirito
gentile, cui toccò in sorte profonda la sensazione dell'amore, della
pietà, e del sorriso, e renda per quanto è dato immagine schietta del
libro bellissimo. Nè io so dipartirmi da questo attributo, e le ragioni
le ho tanto solcate nell'anima, che malamente tenterei manifestarle
per via di favella; se non che l'arte impenetrabile, onde i valorosi
d'ingegno sollevano il velo delle passioni agitanti la vita, accoglie
vigore siffatto, che, per quanto tu abbia l'animo restio, ti doma
alla maraviglia; – e se tu hai viscere d'uomo, e leggi la storia di
Le Fever, o di Maria, o la morte di Yorick, senza lasciarti andare
al sospiro d'una mestissima voluttà, che giace misteriosa negli umani
precordi, – ma a pochi sommi è dato di suscitare, – allora piangi della
anima tua. La sacra scintilla aborrì la tua polvere, e si rimase nei
cieli; – tu ereditavi più larga parte di affanni. Chi dirà l'angoscia
ineffabile del cuore assiderato? L'alito delle belle passioni non vi
sovverte, che sterili sabbie, incapaci a nutrire neppure il desio d'un
affetto: – a che gli fu data la vita? come un freno da rodere. – Nè
lo coglie un istante di sublime, onde spezzi quel freno; – e gli anni
a lui numerati passano muti d'ogni vicenda, e solamente per piegarlo
alla terra, che lo richiama: – il cuore assiderato è il silenzio di
una solitudine, donde grida la verità della sentenza, che sopra tutti
decretava infelice chi mai non cesse al pianto, e alla gioia. – Si
levi adunque uno spirito gentile, che abbia il sentire a dovizia,
e sufficiente ingegno, e sappia bene le lingue ambedue, – ma senza
intervento di gramatica, – e tenti l'impresa, sperando, che le venture
gli correranno propizie, e tutta Italia, e tutti i cortesi gli daranno
plauso, e merito conveniente; ma dove questo effetto non séguiti,
perchè sulle prime la malignità e l'ignoranza danno tre quarti dei
voti nello squittino, allora tenti l'impresa per obbligo di coscienza,
e chiuda l'adito a quei molti, i quali, sforniti di verecondia e di
mente, ci fanno tal dono di traduzioni, che geme di grave offesa il
sacro ufficio delle Lettere, e l'onor nostro, e quello dei forestieri.
Sono le traduzioni, o per me credo che sieno, al corpo delle Lettere
umori maligni; ma sia necessità naturale, o legge di costume, oggimai
ne fanno elemento; e però sarà buon consiglio provvedere, che il male
inevitabile ci venga da mani generose. Chiunque finora ha tradotto, e
in qual modo tu voglia, ha presentato sempre un'immagine più o meno
velata. I pensieri d'uno scrittore trapassando nell'anima nostra
tengono assai del moto, e dei colori di quella, e diventano in certa
maniera nostra essenza, perchè non si possono ritrarre se non come
si concepiscono: – ora una legge arcana ha disposto, che ogni vivente
concepisca in un modo, e per la forma, e per la idea, in varie parti
diverso dagli altri. Ma gli scrittori originali in tutto il significato
non si lasciano svolgere nè per forza, nè per amore. Quei concetti
profondamente segnati dell'interna stampa dipendono troppo da chi li
creava, e tolti da quella maniera d'esistenza, in che appena usciti
della mente si giacquero eterni, non serbano più sembianza della
prima natura. Voi tradurrete con qualche grado di agevolezza uno
scrittore mediocre, perchè il mediocre è conseguenza piuttosto delle
forme, che dello spirito, e le forme essendo una convenzione hanno
moltissimi punti di contatto comune. Ma dov'è il magisterio, che vi
presti il vigore da muover l'ala dell'anima immensa? – Quel vigore
era la stessa anima immensa. – Dov'è il magisterio, che vi insegni a
tradurre la soavità del fiore, il raggio del sole, l'afflato divino che
distingue dalla morte la vita? Quella potenza d'intelletto indefinita,
solitaria, indipendente, che si nomina Genio, è parte immobile del
suo cielo natio, e a pochissimi prediletti è concesso fare a quel
santuario pellegrinaggio di spirito. Dovranno i più rimanersi nel
desiderio di tanta bellezza? Eterno dolore è il desiderio, – e se la
sventura chiede la lacrima del mortale, siatene liberali a quei miseri
su cui la sventura di soverchio si aggrava; – e pur troppo son tali
gl'innumerevoli cui fu negata la facoltà di sentire, e cogliere un'aura
di quanto spira di bello e di sublime nelle cose universe. Tuttavia
la compassione non muterà d'un capello la legge onnipotente, che nel
creato frammischiava la fiacchezza alla forza, la luce alle tenebre,
il disordine all'armonia; – e se a te mancano i mezzi da conseguire
la vista della Grandezza, non è mestieri che io ceda alla viltà del
dispregio; – adora la memoria del Grande, e per sicurezza di giudizio
affidati al testimonio dei secoli. Austero è il testimonio dei secoli,
ma incorruttibile, nè giura sul nome d'altro Dio, che del Vero. Ma
perchè, se tu sai, ne devi il merito alla tua buona o cattiva Fortuna,
e, se non sai, non puoi sapere, così meglio di qualunque avvertimento
conferisce al bene della traduzione la consonanza dell'indole, prima
causa onde il Foscolo ebbe tanta felicità d'impresa; – e ci giovi
convalidare lo asserto coll'esempio d'un altro illustre. Vittorio
Alfieri dava all'idioma d'Italia, spontanea, e calda di vita, la
storia severa di Sallustio romano, e al tempo stesso incrudiva la
mollezza della poesia virgiliana, e oscurava que' suoi vaghi colori,
che forse non sono il minimo pregio del poeta latino. E il fatto
avveniva, perchè l'Alfieri dappertutto spirava dall'anima quel suo
fare da Michelangiolo, – e i casi, che posero vicino al suo niente
la romana grandezza, e lo stile onde i casi vennero espressi, sono
veracemente grandi, e terribili: ma Virgilio fu cortigiano, e l'indole
avea temperata a subbietti, dirò quasi innocenti; – e la gente di
Lettere ha giurato, che fu nelle Georgiche dove si mostrò potentissimo
dell'ingegno.

Gli umani interessi ebbero sempre a lodarsi poco dell'esame troppo
minuto; – ed hanno osservato, che grande elemento dell'obbietto,
o buono, o bello, o felice, o di quanti altri mai ne somministri
il creato a conforto dell'anima, sia la lontananza donde scorgi
l'obbietto; – e più ti avvicini, e più si dirada il vapore, finchè in
ultimo ti apparisce quell'aspetto aridissimo che per solito chiamano
Verità, nudezza inamabile della cosa tanto, che il mortale di rado
non ebbe ragione da maledire allo scambio. Altrimenti è di Sterne; –
e più che a sviscerarlo ogni vigore dell'interno pensiere si adoperi,
e più sempre ti balzano innanzi forme vive di novella leggiadria; –
nè persona di cuor gentile vien mai che lasci di leggerlo, senza che
nel profondo non le rimanga un desiderio come d'amore. Lorenzo Sterne
scrisse singolarmente, e non a guisa di professione; e sebbene avesse
consumato anch'egli la giovanezza alle scuole, e sapesse quant'altri
mai delle opinioni stampate, perchè era sapiente non millantava
dottrina, nè si faceva largo nel mondo, nè pretendeva titolo e
riverenza di maestro, dando in cambio citazioni greche, e latine; –
nè volle mai brighe di vanità, nè sappiamo, che venisse aggregato mai
a nessun Convento della gente di Lettere. Ma perchè non temeva, nè
sperava degli uomini, amò d'intemerata passione la Gloria, e la Verità;
– e queste gli arrisero, – e, benchè persuaso di spender male la sua
moneta, amò ben anche la specie cui la ventura lo volle annodato. E
perchè il suo Genio lo piegava all'arti ingenue del pensiere, offerse
loro culto di religione inviolata, nè mai le profanava, vestendosi
il manto di tanta bellezza per onestare le varie viltà, che invadono
largo numero dei dottori di ogni popolo. Non fu mercatante della
volontà, e dell'ingegno; ma spirito assoluto esplorava acremente le
cose, nè sulla carta segnava altro moto, che quello dell'anima; e stimò
meno di cosa che non sia il patrocinio, e le libidini del potente;
– quindi nell'inviare che fece al Ministro Pitt il _Tristano Shandy_
non gli chiedea nè favore, nè protezione, nè niente. ― _Il libro deve
proteggersi da sè_, – gli dice in mezzo alla lettera, ― _e ve lo mando
come sollievo d'un momento agli affanni, e perchè vi faccia ridere,
stimando che il sorriso aggiunga un filo alla trama brevissima della
vita._ – Ora se tu ami sapere qual grado ti assegnavano i fati sulla
lunga scala degli animali, leggi Lorenzo Sterne, candido scrittore, e
d'indole aperta, nè forse altrove esiste così verace storia dell'uomo
come nell'opere sue. E se ti venisse fatto, o speri di temperar le
tue grosse passioni, leggi quelle pagine di frequente. La morale di
quei libri è drammatica, e sgorga diretta dalle situazioni dell'anima
umana, immaginate con mirabile accordo dell'ingegno, e del vero: – è la
morale del fatto, e d'ogni specie; e se gli atti di gloria, o d'altra
bellezza, furono mai frutto d'insegnamento, certo fu sempre maestro
l'esempio. Leggi Lorenzo Sterne, perchè con vario governo esercitando
le leggi eterne del cuore non consente all'umano le superbie del
sistema, ma sì lo stringe a piangere, e a ridere, destino solenne cui
lo chiamò la Natura; e col motteggio, che sa molto d'amaro, ma d'amaro
che medica, lo contiene nel cerchio delle sue umanità, perchè non
cresca una ragione al severo, che veglia allo sprezzo della schiatta di
Adamo. Ma la bellezza di Sterne sarà baleno agli occhi di tutti? Dio
faccia di sì, – da che la metà degli uomini nasceva per non vedere;
– molta parte dei rimanenti non vuole. Simbolo di profondo consiglio
era la nudità delle Grazie, e per me credo a quella immaginazione;
– ma benchè nude, nè sdegnose dell'umano consorzio, rari è fama che
le vedessero. E se nelle menti mortali da poco tempo il caso non
operava qualche rivoluzione, di che non ci sia giunta novella, io vado
convinto, che al grosso numero Lorenzo Sterne non piacerà; – e buon per
lui, che le venture non lo portassero a scriver drammi, – così almeno
andrà salvo dai fischi. E qui prego coloro che fanno professione di
filantropia a non volersi attristare di troppo, se la nostra Natura
pecchi di sconvenienza adoperando a manifestare un affetto la maniera
testè mentovata: – io torrei pure a buon patto, per onor mio, e del
prossimo, che quando l'uomo è commosso da una passione più turpe del
solito si ristringesse a gittar via la parola, che lo distingue dai
bruti, e fischiasse a sua possa, ma non andasse più oltre nell'usurpare
le bestiali proprietà. Se adunque Sterne camperà dalla prefata
disgrazia, a ogni modo verrà taglieggiato nei crocchi; – e perchè
ci hanno detto, che l'umor della bestia si può bensì torcere più che
mai, ma non dirizzare, per cortesia daremo luogo onde chi vuol correre
abbia sgombro l'arringo, e tocchi la meta. Ma più che il grosso della
plebe, la quale ha finalmente _pro domo sua_ l'Ignoranza, che se monta
in bigoncia sa recitare una lunga intemerata al pari di tutt'altro
professore, diranno male di Sterne le loro Gravità Letterarie, quei
sacerdoti d'idoli smessi, che si fanno ragione colla parrucca, e
col fascio degli anni sul dosso, e colla tradizione delle opinioni
passate. Io di buon grado lor farei riverenza, se la parrucca facesse
parte della testa, e se non mi fossi accorto, che gli anni spossavano
l'ingegno, dove era ingegno, e intristivano le belle passioni
fremevano, nè altro effetto costante producevano sulla testa tranne
i capelli bianchi. E quanto alle passate opinioni? Oh! se la faccia
del Vero degnasse mostrarsi alla terra, la sua forma sarebbe unica,
universale, perenne; – ma perchè inesorabile una sentenza lo vieta,
ne tengono le opinioni la vece, le opinioni, che sono la sembianza
scolpita d'un'epoca sociale. Spezzata l'arpa, cessano i suoni; –
caduto il complesso delle razze destinate a significare un'epoca
distinta di società, ogni efficacia delle sue opinioni si sperde; –
quindi immediata necessità che la mente prediletta concordi le opere e
gl'istituti al secolo, e alla razza che le fa corona. Quando cesserà
il malignar dei pedanti, e l'insanire della plebe? quando la parola
del Genio sarà scorta a chi peregrina la vita? quando spegneremo del
tutto quell'avanzo della primitiva indole di fiera, che stette indomito
contro la forza del tempo, e l'influsso delle più sante istituzioni?
quando scioglieremo il voto eterno dell'anima di stringersi tutti in
una famiglia di fratelli?

Fra coloro che si aggiudicavano esclusivamente la proprietà di filosofi
e le chiavi del cuore, pende tuttavia la contesa se la razza meriti
più il riso, o il compianto. Io, guardando al passato, le concedo la
compassione, e gemo su quante generazioni disparvero, e sulle presenti;
nè dissuado l'amore, supremo degli affetti, e bisogno dell'anime
singolari, ma gemo, perchè l'amore fu sempre argomento gravissimo di
cordoglio agli amanti. Qual saranno le future condizioni dell'uomo?
Soffochiamo il presagio, e riposiamoci sulle lusinghe del tempo.
Il tempo genera la vita e la morte, l'oltraggio e la vendetta, la
schiavitù e l'ora solenne del riscatto..... Possa generare il vincolo
dell'eterna concordia, possano le nostre ceneri risponder commosse al
gioir dei nipoti lontani! Ma come adempievano i destini dell'esistenza
le schiatte defunte? Tanto fervore di migliorarci di per sè stesso lo
dice. Interroga i secoli e quell'antica sapienza di dolore risponderà.
Noi mutammo da quando a quando l'impronta, ma la materia durò sempre
la stessa. Tratto tratto un magnanimo imprendeva a tramutare in buona
la nostra natura, e santificava l'impresa coll'amore colla sapienza,
e col sangue; ma se l'ira, o lo sconforto, non mi traviano, mi è
sembrato vedere gli sforzi generosi fin qui miseramente perdersi tutti
nel vano; solo di tanta ruina avanzava l'ardore del desiderio, ma il
desiderio non è che la profonda espressione della mancanza assoluta.
Il magnanimo inquietato da uno spirito creatore gridava un grido di
risorgimento ai giacenti; – spirava il vento, – non si moveva una
fronda; – ineccitabile è il silenzio dell'anime create a tacere; e, per
quanto lo scorra poderosa una voce, non odi ripetere un eco. E allora
per lo spirito atterrito si commosse un sentimento, e parlava. – Forse
l'onnipotenza dei fati segnò la razza d'un segno indelebile per la
mano dell'uomo. Chi la curvò sulla polvere, quando gli piaccia, potrà
sollevarla. – Cedeva il magnanimo uno spazio degli anni alla speranza,
– chè la speranza è pure un affetto, – è il più gaio colore onde va
lieto il fior della giovanezza, – ma il suo verde non è perenne, e il
tempo vi soffia di un alito, che in fine gli è forza appassire. Chi è
che giunto in fondo alla vita si levasse a dire: – io non piegai sotto
il dolore del disinganno? – E però per le allegate ragioni, e per altre
infinite, roderanno sempre i pedanti, perchè non sanno che rodere,
e sempre spacceranno ricette le quali t'insegnano a fare, se tu sai
fare da te, e ti profferiranno la misura di ciò che non ha misura, o
almeno determinata, come sarebbe la potenza volubilissima della mente;
e con mal piglio daranno lo sfratto ai concetti di Sterne, perchè
non trovano posto tra i numeri delle aritmetiche loro. E però per le
allegate ragioni, e per altre infinite, la plebe sempre maledirà: –
e qui, dicendo plebe, io non intendo un insulto a quei miseri, cui le
colpe degli avi non acquistavano censo, e fasto di nome, e che il senno
della Fortuna costringe tutto giorno a sudarsi un alimento al dolore;
– ma sì quel gregge immenso dell'anime, che non hanno in proprio fiato
di volontà, e di potenza, – e giacerebbero inerti come la terra donde
sporsero in fuori, se un impulso esterno non le movesse; – e, o così
voglia l'affinità delle tempre, o altra cagione più ascosa, di rado
avviene, che non accolgano unicamente il moto dei tristi; – quindi
troverai plebe sotto qualunque panno, e in qualunque scompartimento si
divida la radunanza sociale; – quindi le belle memorie, benchè liete
d'un raggio del cielo, a quelle masse splendono tacite, e meste di luce
funerea. Ma la Natura pensava un'ammenda agli oltraggi dell'ingegno
felice, suscitando nel cuore dei generosi altri palpiti oltre quello
della vita. E i generosi animati al piacere, e al dolore spirituale,
nell'esultanza d'ogni bel sentimento salutano il Genio di Sterne, e
desiano alla terra, che sovente si rallegri d'un'orma simiglievole alla
sua, e serbano in petto la sua dolce memoria come segno di riposo allo
spirito affannato dal viaggio mortale; perchè mente ebbe così benigna,
che in essa non si levò pensiere che non fosse gentile, – e tanto
ardore d'immaginazione, che nel deserto creò la fragranza della rosa,
e durerà cara passione dell'anime elette finchè rimanga alla gioia un
sorriso, un gemito alla pietà, un sospiro all'amore.


LORD BYRON

― 1830[13] ―

                              .... Quel Signor dell'altissimo canto
                              Che sovra gli altri, com'aquila, vola.

                                                 DANTE, _Inferno_.

Se il Byron, come tanti fecero, e faranno, avesse scritto soltanto
nienti vestiti di metro e di rime, io mai non avrei posto mente a
volgerlo nella lingua nostra, lasciando volentieri ai _maestri miei_
l'impresa di stringere un'ombra, e di tradurre il sussurro del vento;
perchè reputo ufficio del cittadino non offerir nulla alla sua nazione,
piuttosto che assuefarla ad oziose fatiche, per le quali mai non fa
passo nella via del sapere, nè altro consegue fuorchè una millanteria
strepitosa della sua nudità. Ma tolgano i cieli, che si abbia così
a favellare del Byron; e per altrettante ragioni affatto contrarie a
quelle già esposte ci piacque mostrarne tradotto un poema agl'Italiani
nostri. E gli Italiani nostri non facciano conto di ravvisare sincere
le sembianze del Byron nella mia traduzione; mainò davvero, e io non
torrei a farlo credere coll'aiuto di tutti i giuramenti antichi e
moderni. Il Genio è più fiero, che il cavallo del Magno Alessandro,
e a trattarlo stimo non bastare un eroe. Io vi presento le figure di
un quadro maraviglioso; e se non vi ho reso la magia del colorito,
date parte del difetto al mio poco valore, e parte alla natura delle
cose impossibili all'uomo. Nondimeno agli spiriti gentili amabile è
sempre la creazione del fiore, benchè andasse dispersa metà della
sua fragranza. Ad ogni modo il poeta, che visse nella sapienza
della sventura, che sentì, e fece sentire le universe passioni,
che nell'umana materia risvegliano un'anima; il pensiere, che tutti
trascorse gli eventi mortali, e poi si affisse nel profondo dei cieli,
tentando rapire il velame alla notte del mistero, è troppo grande,
perchè non abbia da compensare largamente anche chi lo legga tradotto.
La fiamma nodrita di eterni alimenti eterno manda e lontano il calore.

Della molta bellezza, ond'è lieto il presente Poema[14], io non mi farò
notomista: primamente, perchè l'alta poesia sfugge l'esame, e va del
tutto soggetta al sentimento; poi perchè parmi ben fatto lasciare a
ciascuno l'indipendenza delle opinioni. Finora le stelle non mi hanno
impresso nel sangue bastante influsso di _critico_, nè il mondo mi dà
per anche del _chiarissimo_, perchè io mi creda di avere in appalto
il giudizio, e gridi ai miei fratelli di umanità: ― non guardate, ho
veduto io. ― E questo è generalmente il raziocinio di quanti scrissero,
e scriveranno _riviste di lettere_; e dietro a siffatta norma potrei
scomporre ad una ad una le parti di un bel corpo, che io non ebbi
il magisterio di creare, e così potrei regalarvi l'_estratto_ o il
_parere_; ma il frutto? Chi ha vivo il cuore e l'ingegno, sa fare a
meno di certi soccorsi, perchè si aiuta più acconciamente da sè; e chi
venne diseredato di quelle due facoltà, sa farne a meno più che mai,
per la cagione solenne dell'impotenza. Cento matematici potrebbero
dimostrare ben anche le frazioni impercettibili del Bello; ma i calcoli
tornerebbero a zero; e però, benchè la pazzia faccia elemento di
equilibrio nella fabbrica dell'uomo, chi sarà mai tanto pazzo, che doni
gli occhiali al cieco, perchè veda una maraviglia? E se chi professa
filantropia sclamasse all'ingiustizia, perchè gran parte del genere
umano sia venuta, più che al fatto, alle pretensioni del sentimento e
della ragione, io non saprei dargli torto; ma non vedo altro rimedio,
che la pazienza; o altrimenti come potrò io debole, io servo di mille
ignoranze, di mille bisogni, e della morte, sommettere la forza, che
abita le tenebre, che mai non si mosse dai suoi decreti pei nostri
schiamazzi, e che nell'ordine degli enti medesimi volle, o dovè, porre
il savio e lo stolto, l'animoso e il codardo, il giusto e l'iniquo?
Dunque pazienza; e coloro, che hanno anima fresca di gioventù, e
agilità di spirito, leggano nel Byron, e vado sicuro, che proveranno
un moto onnipotente alla vita; e se talvolta vien meno l'effetto
della consueta sua prepotenza, non mormorate un'accento di biasimo a
quell'immenso; – il peccato è della mia traduzione; io son l'ombra, che
mi attraverso alla luce.

Nella prefazione alle Novelle del Cesari, stampate in Genova
_anno Domini_ 1829, sta scritto, che _il Byron, Gualtieri Scott, e
somiglianti ingegni così gagliardi a mo' di palloni, si levano sulle
nubi, sino a che ad un soffio di aura nemica vuoti e vizzi ricaggiano
al suolo_. E, seguitando di questa maniera, vien confortata l'Italia a
spregiare _i più rei d'oltramare, e d'oltramonte_, accettando invece
un pugno di baie _a guidare la gioventù per quella via, fuor della
quale non sono, che greppi e balzi romantici_. Dio perdoni l'impudente
che scrisse siffatte miserie, perchè io non posso. Nè già questo dico
a difesa del Grande, perchè più non abbisogna d'insulto o di lode. Il
grido consentito d'Europa oggimai l'ha salutato potentissimo fra gli
intelletti del secolo; e badate, che il Sole si spense a mezzogiorno,
perocchè Giorgio Byron sfortunatamente morisse sugli anni 36. Ma
ciò che mi muove è l'oltraggio gittato sopra un'intera nazione; e
la ragione è sul vivo oltraggiata, allorchè un falso profeta con sue
parabole la persuade a maledire il Genio, e a rinnegare il Pensiere,
offerendole, in cambio dei sublimi dettati, Novelle povere tanto
d'invenzione, e di subbietto, da farne torto a un cervello di donna.
– Evvi sfoggiato _lo bello stile_, – dirà taluno, se pure è merito
quello di assalire Messer Giovanni Boccaccio, e svaligiarlo in modo da
non lasciargli neppure il farsetto. Così va da gran tempo la bisogna
in questa mal capitata Italia, nè il fabbro della citata prefazione ha
operato secondo nuovo costume. La forza si è divisa dai nostri destini,
– il pensiere si è diviso dalla parola, e questa è diventata cimento
degl'ingegni. E quando un libro apparisce, gl'inquisitori di Lettere
non giudicano della sua bontà al concetto magnanimo, alla larghezza
delle opinioni, alle utilità dello scopo; anzi, se per avventura sia
corredato di queste doti, il libro sarà manomesso, perchè i giustizieri
delle Lettere portano per impresa: ― Parlate senza pensare; ― ed hanno
il cuore malato di soverchia strettezza, e li contrista la luce, e il
moto gli affanna. Basta che il libro sia disteso in _aurea favella_,
vale a dire limosinata a frusto a frusto dalle buone anime morte
cinque secoli addietro, e avrà tutti i suffragi; non avvertendo,
che _l'aurea favella_ mal soddisfa ai nostri bisogni, quando vien
trasferita dal passato al presente senza accorgimento d'arte, senza
richiamo di vita, senza piegarsi in fine alle tante modificazioni che
l'onnipotenza del tempo imprime sulle cose universe. Basta _l'aurea
favella_, – e se il libro è vuoto non importa; i pedanti respirano
meglio. E guai, se ti vien fatto di significare liberamente gl'impulsi
della tua fantasia; guai, se ti diparti un passo dalle opinioni di
patto comune! ti chiamano tosto _tartaro_, _ottentotto_, _luterano_,
e peggio. E fanno di notte una guerra sorda di tradimenti, e nelle
reti del sospetto avviluppano il potente, cosicchè egli si muova, ed
aggiunga un peso alle oppressioni delle avverse fortune. Quindi nelle
nostre provincie la fama crescente del giovane vilipesa, e intercetta;
quindi molti nobili ingegni sprofondano nella energia e muoiono senza
balenare scintilla; i pochi nati alla forza dell'animo resistono, è
vero, ma dietro si traggono sconfortata tanto la vita, che io non so
se di loro più si abbia ad ammirare la costanza, o a compiangere la
durissima sorte. O _maestri miei!_ veniamo agli accordi, e vi daremo
pace con tutti gli onori militari, purchè non vogliate più abbarbicarvi
al Genio; – voi potete starne lontani, perchè non avete con lui nessun
grado di parentela, se non fosse quello che hanno le spine colla
rosa. O _maestri miei!_ perchè mai foste aggregati alla gran famiglia
degli animali parlanti? O _maestri miei!_ sgombrate il sentiero della
scienza: parvi onesto di fare in questo mondo la parte dell'inciampo?
Ma la Provvidenza aveva predestinato, che in _hac lacrymarum valle_
non vi fosse strada, dove la polvere non salisse sulle vesti, e non
facesse la guerra agli occhi. Dunque pazienza, e adoriamo. Forse taluno
mi darà nota di vana acrimonia, dicendo; – le tue son ciance, perchè il
pedante è pedante per obbligo della propria costituzione: e' son leggi
di natura, nè vuolsi sperare che muteranno, finchè ella non ristampi
il suo codice; – ma di questo dubito forte, chè troppo parmi si
mostri contenta di ciò che opera, in bene, e in male. È ella questa la
stagione in che i detti dell'Italiano debbono suonare lusinghe? E se io
parlo agramente, nol faccio per gare parziali, almeno ch'io mi sappia;
e se un galantuomo mi convincesse, che i miei sensi hanno aspetto
d'invidia, o d'intrigo, o d'altre bassezze di umanità letteraria,
io non porrei tempo in mezzo a tacermi. Ma se parlo agramente, è pel
desiderio che le arti liberali abbiano sotto questo cielo felice una
patria, e riti intemerati; è pel desiderio che la nazione si rivendichi
in libertà d'intelletto, e si faccia viva, e forte, nè più giuri sul
nome de' _suoi maestri_, che sempre la tratteranno a novelle.

La nuda parola, come io dissi, è dunque misura di giudizio ai dottori,
cagione onde va così piena di fronde la nostra Letteratura; e chi non
crede, veda le _Raccolte dei Classici_. Usare la purezza del linguaggio
è savio consiglio, e nessuno lo nega: anzi chi ben guarda addentro le
cose, conosce come la proprietà dell'idioma sia elemento nazionale;
perchè in un popolo quando manca la proprietà dell'idioma, quel popolo
non ha più la passione della patria, e si avvicina alla sua caduta. Ma
la Lingua non è tutto: il massimo studio va convertito a pensare. Solo
il Pensiere è padre delle maraviglie, che di quando in quando fecero
immaginare nell'uomo un alito di natura divina: non è data all'uomo
altra tavola per sorreggersi nelle burrasche della vita: – l'uomo non
ha trovata altra ragione per sollevarsi sull'altre bestie. I _maestri_
levano rumore, perchè logorando una dovizia di anni fecero grave il
sopracciglio, e magra l'anima, sullo studio delle parole. Che la terra
presto vi sia lieve sull'ossa! qual bene mai venne alle Lettere, e alla
Italia, delle vostre discordie di tre secoli? Voi avete aggiunto un
anello alla catena delle nostre vergogne. Senza di voi forse non era
la Lingua? Prima che Lionardo Salviati, e compagni, angustiassero uno
spirito immortale, e lasciassero un legato di lacci a chi veniva dopo
di loro, – prima che la Crusca stampasse il vocabolario, – Dante, il
Petrarca, il Boccaccio, il Machiavelli, l'Ariosto, e il Tasso, davano
consistenza e splendore all'idioma nostro. Da questi Grandi soltanto,
che ebbero arguta la mente, e caldo il cuore di generose passioni,
potrà il popolo apprendere la favella, e il pensiere. L'anima loro vive
sempre nei monumenti di grandezza che ci hanno lasciati, monumenti,
che ci serviranno di conforto e di lume, finchè offriamo loro un culto
di amore perenne, come il culto che gli antichi offersero al fuoco di
Vesta. Ma i pedanti non sanno che ringhiare: e che giova se un popolo
impari a ringhiare? Abbastanza l'indole nostra è rissosa; e i fatti
passati, e i fatti anche del momento che passa ora, lo affermano.
Dunque ogni studio va convertito a pensare, ed è massima, che mai non
sarà predicata a sufficienza in Italia. Troppo evidente è il divario,
che corse fra la nuda parola e l'utilità immediata del pensiere,
anche quand'è scompagnato dalle forme eleganti. Il Filangieri, e il
Beccaria, scrittori di profonda ragione, non distesero per avventura
i loro trattati con quella convenienza di favella, che si vorrebbe,
e in questo non meritano lode; ma chi sarà tanto ingiusto, e di senno
così poco Italiano, che ponga nella medesima lance quei due divini, e
la bisbetica razza dei professori de' vocaboli? Il nome di quei due è
di fasto alla patria, perchè furono amici degli uomini, e illuminarono
di luce immortale la nazione, e nessuno di quanti dottori fabbricano
gabbie all'intelletto meritò mai d'esser nominato ― Benemerito della
Umanità, ― come avvenne al celebrato scrittore dei Delitti e delle
Pene.

Ma il desio di finire un più lieto argomento mi chiama. Venerata è
nel mondo la memoria di Byron, perchè la riverenza del Genio è la più
santa delle umane religioni: ma gl'Italiani presenti e futuri hanno un
debito d'amore a quel Grande, che non vorranno negare, finchè duri in
essi fiato di magnanimi sensi. Ei non discendeva sulla terra gentile
a spendere il suo diritto di superbia e d'insulto; diritto, che la
sapienza delle vicende a mano a mano toglie e concede alle diverse
nazioni del globo. L'anima sua era troppo piena di Grandezza, nè vi
trovò luogo l'ingiuria. Ei vagheggiò sempre l'Italia, come l'immagine
più cara del suo desiderio, e cercò il nostro Sole per averne
incremento allo spirito, e confuse il suo genio severo nei riposi del
nostro cielo; quindi i suoi canti si fecero più divini, perchè il cielo
d'Italia è sublime poesia; quindi l'amò come la patria del suo ingegno,
e vestì del suo pensiero le gesta dei padri nostri, le sorti e le
speranze di noi, e pianse sulle nostre sciagure la più bella lagrima,
che ad occhio mortale fosse dato versare.


OSSERVAZIONI SOPRA UNO SCRITTO DI MELCHIOR MISSIRINI

INSERITO NEL N.º 37 DELL'_INDICATORE LIVORNESE_

― 1829[15] ―

                             Nè in tante lodi chieggo altro che modo.

Quando la Natura formò la bizzarra famiglia del genere umano, decise
che la più parte di noi saremmo maligni, e in questo ci saranno le
sue profonde ragioni, perchè ella è savia, e si muove ad operare
pensatamente, non come facciamo noi, che il più delle volte ci moviamo,
perchè il muoversi è oramai destino delle gambe. E l'uomo usa della sua
natural dote di malignanza, come di vela buona per ogni vento, perchè
maledisce a torto, e a diritto; però quantunque volte in questo mondo
sotto la luna si produce opera, sia pur bella e innocente, non mancano
mai le migliaia a morderla da tutti i lati, nè alla giustizia è dato
il passo, finchè la provvidenza della noia o della morte alle migliaia
non imponga silenzio. Ora, essendo così ordinato dalla sacra Necessità,
non resta che darsi pace; e quando un amico gentile piega spontaneo, e
senza mire d'interesse, a favorire onoratamente le cose tue, conviene
ringraziare la Fortuna del miracolo, e l'animo gentile rimunerare con
quella liberalità maggiore, che il cuore ti detta. Già a chi pretende
il nome di galantuomo è necessario pagare i suoi debiti; a un debito
poi di cortesia vuolsi nel modo più acconcio soddisfare, poichè l'è
merce carissima, e mala pena trovi chi sappia fidartene dramma. Quindi
intendiamo noi, nè più nè meno, mostrarci riconoscenti a Melchior
Missirini, perocchè gli piacesse dare alla città nostra un pensiere
e una parola di lode. Non mica, che noi crediamo di essere in cima o
in fondo, perchè questi o quegli venga a recarcerne la novella; – no
davvero: – il parere dell'individuo non tramuta l'indole delle cose; i
fatti danno sentenza, nè a questi puoi contradire, per quanto tu meni
in giro la lingua. Noi attestiamo gratitudine soltanto all'espressione
della benevolenza, perchè un intimo sentimento ti sforza ad amare chi
ti ama, e ci rallegra assai a veder l'uomo rompere per un momento il
patto di guerra che ha coll'altr'uomo, e drizzargli voci di conforto,
e di amore.

Ma noi sopra ogni altra cosa amiamo la Verità; però al Missirini non
giunga discaro, che gli si notino alcuni punti del suo discorso; dove
egli trasmodò per soverchio di spirito ben disposto, o perchè agio
non ebbe a sapere precisamente le cose come stanno. I professori
di prudenza ci hanno sovente dissuasi da questo studio del vero,
sforzandosi a dimostrarci come di rado o mai ci si trovi guadagno, e
ci hanno per lungo e per largo chiosata la scienza del vivere in pace
con tutti. Ognuno fa i conti secondo i suoi numeri; e costoro, come
prudenti, forse dicono bene; ma io per ora voglio starmi alla mia fede,
e dire il vero, o quanto mi parrà che sia vero, finchè i Casuisti mi
concederanno libero arbitrio; se in séguito alcuna delle tante cause
dominatrici della mente avverrà che mi travolga, peggio per me; ed
io allora andrò in punta di piedi a pesare le opinioni sulla bilancia
della paura!

Alla legge solenne, che i popoli spinge ora in alto, ora in basso,
potenza mortale non può resistere; e il Genio stesso, suprema delle
forze create, può modificare, ma non impedire, o volgere altrove quel
moto. Oggimai un progresso d'incivilimento è manifesto nelle nazioni
d'Europa; quindi la città nostra anch'essa ai tempi consente, perchè
alle spinte in qualche modo bisogna rispondere. Gli uomini vecchi,
sospirando i giorni del buon tempo antico, dicono invece che la città
sia declinata di male in peggio; ma i ricordi del passato, confrontati
coll'evidenza del presente, senza rispetto danno la mentita agli uomini
vecchi. Non v'è che dire: le condizioni hanno cominciato a migliorare,
specialmente perchè adesso è la volta di salire; nondimeno gran
parte della via rimane da corrersi, nè io credo, che mai basteranno
l'alacrità dell'animo, l'intensità del desiderio; e taluno vorrebbe,
che quei tanti nodi d'unione fossero stretti meglio che ora non sono.
Per altro a lasciare senza onore di lode i pochi istituti, base alla
nostra rigenerazione futura, sarebbe invidia fuor di luogo, perchè
il vero a lungo andare rivendica il suo diritto, e a chi si spetta
l'infamia non manca. Lodare le azioni buone, e vituperare le triste,
io credo che sia sapienza; non dipingere tutto di nero, o di color
di rosa, come è il costume di molti; perchè la Natura eternamente
si gira sopra questi due perni, il bene ed il male, e l'intemperanza
dell'amore o dell'odio traversa la strada al giudizio. Adunque favellò
sanamente il Missirini della Scuola di Mutuo Insegnamento, istituzione,
che non sarà tenuta mai cara quanto si merita; non foss'altro per
tanta impostura di antichi metodi manomessa; e i forestieri sempre
hanno fatto plauso, affermando, che è scuola da reggere il paragone
con altre, le quali io non voglio rammentare. E a buon diritto
fu commendata eziandio la Scuola di Architettura; e il Cittadino
liberale[16], che le dà vita dell'uniche sue sostanze, accolga, se
vuole, anche il voto della nostra stima verace. La Società Medica,
non so per quali ragioni, e se non altro per l'incostanza decretata
alle cose umane, stette presso a disciogliersi; poi, mediante alcuni
provvedimenti usati per tempo, si strinse di nuovo, ed ora procede
con più vigore di prima, ond'è che le va il doppio di lode. La Scuola
poi di Disegno figurativo non è sovvenuta, come dice il Missirini;
bensì doveva essere; e la generosità municipale aveva già destinato
il soccorso, ma un altro consiglio dispose altrimenti, e bisognò non
farne nulla. Tuttavia quei Signori hanno dimostrata buona intenzione, e
ogni volta che si presenti da fare del bene è da sperarsi che andranno
avanti, a meno che taluno non venga a dir loro, che tornino indietro.

Che dirò io dell'_illustre Accademia Labronica, intesa allo studio
della lingua, allo esercizio del Genio, e all'acquisto del sapere_?

Imprese belle son queste, ma gli accademici presentemente, forse
per avere altro che fare, non ci hanno gran cosa badato; nonostante
promettono di farlo quanto prima; e già da mattina a sera pensano
a diventare il rovescio di quel che furono, e tu li potresti vedere
tutti in faccende a costituire un corpo di leggi, perchè l'Accademia
si trasformi in adunanza di gente che pensa, e non di gente che fa
rumore; e so di certo, che hanno fatto giuramento di lasciare a casa
i sonetti, e quante altre mai cianciafruscole in prosa e in rima
inventò l'ozio, e la povertà del cervello; ma invece si affibbieranno
la giornea a ragionare sul sodo; e quando non avranno da ragionare sul
sodo, piuttosto staranno cheti, perchè, se l'uomo parla a motivo che
le parole non costano nulla, il silenzio costa anche meno[17]. Questo
hanno promesso di fare gli Accademici, ed io quasi quasi malleverei,
che non vorranno mancare per cosa al mondo, sapendo essi meglio di noi,
che la promessa

    _Agli animi gentili è sacramento;_

per dirla così di passaggio con Lodovico Ariosto. E al primo congresso
potrebbero quei valentuomini proporre un quesito: – Perchè la verità
ami la solitudine, e sia tanto ritrosa di convenire laddove è gran
frequenza di mondo; e se ella ebbe mai il breve di accademica, e quante
volte in capo a cent'anni lesse la sua diceria? ―

Ora è il tempo di venire alla emulazione liberalissima che hanno i
Livornesi di regalare le private librerie ad una Biblioteca pubblica.
Forse ho la vista corta, ma io della gara ardentissima non vedo nulla;
anzi si tace così profondamente di questo progetto, che io dubito forte
se ci abbiano mai pensato una volta. Dell'utile ed ornamento che alla
città ne verrebbero, io non ho pazienza di trattare, perchè mi par
mill'anni di finirla con questo discorso di rimbecco, ma i discreti sel
possono vedere senz'altro bisogno. Così radunando in un luogo il sapere
dei morti e dei vivi, chi volesse saggiarne tanto o quanto, andrebbe,
e con pochi passi sarebbe contento; – oggi ci vogliono invece ricerche
lunghe, e scudi, e tante volte non serve. E quì fate pausa, di grazia,
un momento, e considerate quanto mai gioverebbero i libri pubblici agli
uomini d'ingegno; – certo gioverebbero immensamente, perchè fino alle
ricerche gli uomini d'ingegno possono spendere, ma, quanto agli scudi,
qui giace nocco; e pare che la Natura gittasse una tal quale antipatia
fra l'ingegno e gli scudi, onde avviene, che mai non li trovi insieme,
o raramente davvero. Io non so se il dire faccia frutto, perchè allora
durerei anche un anno a dire: – statuite la Biblioteca del pubblico; –
pure, benchè non mi abbandoni il braccio della speranza, non mi pento
di aver mandato fuori queste poche voci senza proposito, attesochè la
nostra mente sia predestinata a dipendere ben anche dal minimo soffio.
Nondimeno conforto chi sa ragionare per filo e per segno a sviscerare
questo argomento secondo il merito, e presentarlo palpabile ai miei
concittadini, affinchè si muovano all'opera[18]; e dove si cominciasse
una volta, io stesso volentieri darei subito via i pochissimi libri
miei, soprattutto perchè, a dirla schietta, non ho gran fede nè
in me, nè in loro. Alle volte odo mormorare, che alcuni padroni di
molti libri li vorranno lasciare in punto di morte. Già i savi mi
hanno rivelato come questa non sia cosa da andarne tronfio, perchè in
punto di morte non ci sono altre strade da prendere, se non quella di
lasciar tutto, cominciando dall'anima. E questi tali a parer mio non
patiscono abbondanza di senno, e mai non meriteranno il bell'elogio,
fatto non so quando ad un ricco generoso. Sentite come dice: _Tu non
aspettasti a spogliare la tua veste in pro del bisognoso, quando la
Natura ti copriva di una veste che non deve lasciarti più mai._ Così
cantava Aboutthayp Ahemed Ben-Alhosain Alucotennabby, poeta Arabo, in
una elegia per la morte di un Fatik Egiziano. E, perchè io non voglio
farmi bello delle penne altrui, sappiate, che la citazione l'ho tolta
in prestito da un amico mio dolce.

_Che diremo di un Giornale diretto a far rivivere_, ec.

Quì la fantasia ha vinto la mano all'onesto Missirini; la dose è
troppa carica, e noi non l'accettiamo, per timore che i fumi non ci
salgano al capo. _L'Indicatore Livornese_ non è l'effetto di menti
combinate a dargli un disegno, una tendenza, un alimento continuo,
come si converrebbe; è un povero foglio bianco, annerito da pochi
giovani qua e là dispersi, i quali alla meglio si schermiscono, e
cercano mantenergli la vita; ma poco è il numero, poco l'ingegno,
poco la dottrina; – hanno la buona volontà, ma questa così sola non è
cibo, che lusinghi il palato di molti. E qui cadrebbe in acconcio, che
la crescente gioventù, _animata di poetica inspirazione_, adoprasse
l'estro un po' meglio, e desse spinta alla barca: altrimenti ho
gran paura non si rimanga in secco. Questo povero foglio non cerca
frasche d'alloro; chiede solo compatimento, e gli uomini di giudizio
son certo che gliel daranno. Ma gli uomini di giudizio tu li puoi
contare, e gran mercè se per ogni paese oltrepassi contando le dieci
dita. La turba ride del povero foglio, e a ridere ci vuol poco; e
cominciando dalle femmine, e terminando nei pazzi, tutto il mondo
sa ridere. Ma questo dileggio, sia pur meritato, non invoglia punto
a pensar bene dell'umana natura, segnatamente quando egli si parte
da persone obbligate a fare il contrario, non foss'altro, perchè il
cielo medesimo ci ha veduto nascere. Che se poi l'uomo vuole il freno
libero alle sue matte libidini, bene sta; ma allora non faccia mal
viso, se gli austeri intelletti si levano sul creato a maledire; e non
occorre che egli venga fuori a giurare, che l'anima sua è un raggio
delle stelle; nè come il saltimbanco s'empia la bocca delle magnifiche
parolone – _lumi_, _civiltà_, _filantropia_; – no, non è maschera, che
basti all'infamia; invece si rassegni, e confessi d'essere iniquo e
ignorante, come erano i padri suoi. Ma ritorniamo a noi. Questo povero
foglio non può competer con tanti altri giornali, che vanno per la
maggiore: in quelli scrive il popolone dei letterati a tre code, e
per lo meno vincono col numero delle pagine. È un povero foglio, che
merita la scomunica, perchè non ha detto agl'Italiani: – rimanetevi
fermi sul solco, che avete segnato finora. – No, non ha parlato così
agl'Italiani, avvisando, che a starsi per terra non bisognino nè
maestri, nè scienze. È un povero foglio, che merita la scomunica,
perchè finora non ha messo il dente nella lama di nessuno, nè sa di
cortigiano, o di troppo devoto ai patriarchi in materia di Lettere, e
qualche volta ha gridato agl'Italiani: ― Sorgete all'onore, amate una
patria, e siate finalmente fratelli, e forti dell'anima. ― È un povero
foglio, ve lo ripeto; compatitelo, se potete.


ESEMPIO DI CARITÀ

― 1829[19] ―

                                                Hic pietatis honos.

                                                      VIRGILIUS.

Nè sempre curva sulla sua polvere la razza nostra, come tacito armento,
si travolge nella morte. E vi sono momenti, nei quali la ventura
assente benigna, che l'umana famiglia armonizzi tutta d'amore, e
l'anima allora veste forme d'insolita vaghezza, e il pensiere concede
a stimarla splendida parte del cielo. Ma in un popolo caduto, dove
l'educazione e l'esempio non ammaestrano a verecondo costume e a
sentimento generoso, quando la compassione e l'amore fanno che l'uomo
armonizzi coll'uomo, il caso tien del prodigio, e tu respiri largamente
l'aure della speranza, e una voce segreta ti annunzia, che pure un
giorno quegli uomini saranno uomini secondo il decreto della Natura,
non già come gli stringe ad essere la violenza di maligne vicende.
E segnare sulla memoria i momenti, nei quali l'anima scintillò del
suo raggio più bello, è argomento di decoro allo spirito umano; –
e laddove le Lettere sono sentiero di civiltà, ed immagine solenne
del moto sociale, non lasciano perdere avvenimento, che di un fiato
accresca lo scarso patrimonio della nostre virtù; – ed è caro a chi
medita sugli eventi mortali sottrarre una pagina alla severa necessità
del delitto e della sventura; – e così danno alla Morale ben altra
consistenza, che non è quella delle nude massime; e così anche la
capanna del povero suonò spesso di una lode divina, ricompensa alla
maggior dote di affanni, che dalla Provvidenza gli venne in retaggio.
Ma i Letterati Italiani, tranne ben pochi, finora scrivevano devoti
all'_Egoismo_, come se non avessero una patria, dove tutte spendere le
potenze dell'ingegno. E sì che una patria sospinta in fondo chiedeva
loro la parola della sapienza, e del vero, e sapevano come la fama
dell'individuo mal si regga senza i voti del popolo, e come i voti del
popolo mal si conseguano senza consacrargli la mente. – Mancavano i
fatti? – No, perchè viveva una gente, e la gente d'Italia ebbe sempre
fibra sensibile, e velocissimo corso di sangue, e ardore di passioni;
nè da altre sorgenti scende mai l'atto turpe o magnanimo.

Io dunque racconto un fatto che non vorrà levar grido, ma è buono. Se
questa poi fosse tal condizione da non raccomandarlo abbastanza, peggio
per chi mena gran vanto d'essere un uomo. Coloro che sono gentili non
disdegnino l'apparente umiltà del subbietto: – educheremo noi allora
soltanto alla forza, che fa piangere?

Molti giorni non sono passati che nel contado della città nostra
occorsero di vari incendi, e donde il fuoco partisse rimane peranche
ignoto, e le cause vengono annoverate diverse, secondo l'indole di chi
ne discorre. Altri ne addebita la vendetta, altri una malignità senza
scopo, e taluno mormora che il fuoco fosse appiccato per commissione
di tali, che assicurano dal fuoco, onde maggior importanza prendesse
quella nuova speculazione di guadagno. Un vecchio mi diceva una volta:
― a pensar bene ci è sempre tempo, e a pensar male ci s'indovina. ―
L'avviso forse era vero, ma poco umano. Certo ogni testa è capace
di portare un delitto, ma quando non puoi sapere sopra qual testa
il delitto si posi, tu non hai ragione da far l'indovino, e carità
comanda che del prossimo allora non si pensi nè bene, nè male. E
noi per trarci d'intrigo questa volta diamone al caso la taccia. Il
caso non teme offesa di riputazione, o rigore di giudice; e al pari
della vendetta, della stolta malignanza, e dell'interesse, comprende
la ragione sufficiente di un incendio. Ora, per dire appunto la cosa
come l'andò, vo' farvi sapere come da prima bruciassero in due o tre
fiate diverse cataste di legno all'uomo ricco, e il popolo sempre
correva prontissimo a spegnere; ma null'altro seguiva che spegnere;
voglio dire, che belle passioni non si mossero a far memorabili, come
sovente avviene, siffatte venture. E tante volte vivono uomini, che
non meritano nè anche la pochezza del compianto, e all'occasione si
vede; ma poi bisogna pur dire, che la disgrazia dell'uomo ricco è
indifferente al povero, o grata forse, perchè l'ineguaglianza genera
invidia; e io, ravvolgendomi in questi casi tra le umili turbe, spesso
ho inteso celebrare il senno della Fortuna, quasi che, affliggendo ella
d'improvviso il felice, in certa guisa renda loro giustizia. Se poi
da queste, e da altre simili esposizioni, torto venga o diritto alla
nostra natura, io nol saprei così su due piedi diffinire; nè vorrei
farmi così di fretta ministro di lode o di biasimo, finchè non avessi
per ogni parte saputo se le nostre umanità sieno l'effetto del volere
o della forza. Ma tutto questo sia per non detto, – e, seguitando,
sappiate che non andò gran tempo, e una sera incendiavano l'unico
pagliaio di un tal Canaccini. Questi era povero assai, e manteneva
colle fatiche la vita. E la gente corse affannata, e faceva di tutto
per impedire l'incendio, ma il fuoco aveva ormai preso in maniera,
che più non curava gli argomenti dì chi cercasse sopirlo, tanto che
finalmente del pagliaio non avanzavano che le ceneri. E il Canaccini
piangeva, perchè era povero assai, e nel pagliaio consumato svaniva il
frutto degli stenti di un anno. E gli mancava la speranza, e il suo
dolore era grande, perchè accoglieva anche il dolore di una famiglia
desolata. Era vicino del Canaccini un uomo nominato il Pannocchia, uno
di quei pochi che si rallegrano alla tua allegrezza, e si contristano
al tuo gemito, e il mondo tutto vorrebbero felice, perchè hanno la
bontà nel sangue, e benedicono il sereno e la tempesta, nè un pensier
nero passerebbe loro per l'anima, neppure a cacciarvelo a spinte.
Era il Pannocchia accorso coll'altra gente a spegnere il fuoco, ma,
come sapete, fu invano. Gli astanti consolavano di buone parole il
Canaccini, ma il conforto della voce non accheta il bisogno. E il
Pannocchia vide piangere un uomo, e le sue viscere più non potevano
chiudere la soverchia pietà, e disse al Canaccini: – datti pace:
io vo' riparare alla tua cattiva fortuna, e avrai da capo un altro
pagliaio. – E il Canaccini allora piangeva di un altro pianto: – erano
le lacrime della riconoscenza, e ringraziavano con più amore, che
i detti non avrebbero fatto. E gli astanti acclamavano benedicendo
all'onesto Pannocchia, e pregandogli riposati i giorni della vecchiaia,
ed eterno il premio dell'altra vita. E il Pannocchia tornossene
a casa ringiovanito nella gioia dell'opera buona. Le cose nostre
riandavano sul passo di prima, e la gente cominciava a dimenticare
il passato, perchè da parecchi giorni niente di nuovo turbava la sua
quiete ordinaria, allorchè nel mezzo di una notte i quattro pagliai
del Pannocchia andarono in fiamme. E bisognò lasciar fare alle fiamme,
perchè ogni studio del volerle spegnere tornò inutile. Ora all'uomo
dabbene non rimaneva che la provvidenza di Dio, e non chiedeva nulla
a nessuno. Ma gl'innocenti e giocondi suoi costumi avevano un luogo
nell'amore di chiunque il conosceva, e l'azione, che ebbe fatta di
fresco, aveva risuscitato più vivo quell'amore. Per lo che alla mattina
dipoi ebbe invito da molti, perchè andasse da loro a provvedersi di
paglia conforme gli bisognava, e molti gliene recavano a casa le carra
piene. E il Pannocchia vinto dal prorompere di tanto comune affetto,
guardava il cielo, e gli amici, e non diceva di più. E quei ben nati
contadini compievano con sì bella gara la carità, che al Pannocchia
venne rifatto ogni danno, ed essi trovarono un rimerito nell'interno
riposo del cuore, che altrove avrebbero indarno sperato. E coloro
che ebbero in sorte di non nascere al ribrezzo dell'invidia, nè si
addolorano a sapere, che l'anima talvolta balena nella beltà di un
sorriso divino, quando intesero del fatto, restarono compunti di
tenerezza.

Non mancherà di certo chi volga in riso l'avvenimento, e il mal garbo
onde io l'ho narrato. Quanto al mal garbo hanno ragione, e ridano pure
a mio conto, ma per altro non è così del rimanente. Niuna specie di
fatti merita tenersi a vile: ogni fatto è una linea dell'anima umana,
e ritrarli tutti candidamente è ottimo consiglio, ed unico mezzo a
conoscere la natura dell'uomo. Tacere le nequizie sarebbe stoltezza,
perchè ci sono, e fanno il fondo del quadro; tacere le poche bontà
sarebbe stoltezza e mal talento, perchè ci sono, e consolano di qualche
raggio la tenebra, e per loro avviene, che l'umana creazione non sorge
da ogni lato spregevole dinnanzi al pensiere. Chi si muove al bene
per istinto è rarissimo; quindi va tentato ogni modo di eccitamento.
Io non so se il mondo debbe andare come va; ad ogni patto nè la
speranza, nè la prova di migliorarci, vanno lasciate; e quantunque il
male sia congiunto come un bisogno al sistema dell'universo nondimeno
converrebbe dimostrare il bene come interesse, da che nel male godono
pochi astuti, e le masse gemono. Adunque ogni modo di eccitamento va
tentato; e però onorare di pubblica lode le domestiche virtù è opera
di sapienza civile, perchè l'onore è potente lusinga, e splende in
maniera, che pochi vivono senza mandare un desiderio alla sua luce.

NOTE:

  [6] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 4._

  [7] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 30._

  [8] «Nome di varie accademie passate e presenti in Italia.»
  (_Dall'INDIC. LIVOR._)

  [9] _Non si è rinvenuto intero l'autografo dell'articolo, e fu
  d'uopo attenersi alla lezione scorrettissima del Giornale in
  cui fu già pubblicato. Togliendo qua e là gli errori che non
  ammettevano dubbio, abbiamo lasciato qual è questo periodo,
  interponendovi però il segno di una lacuna, dove ci sembra
  evidentissima._

  [10] «La Italia in antico fu chiamata Esperia da Espero, stella
  di Venere.» (_Dall'INDIC. LIVOR._)

  [11] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 11._

  [12] _V. le Traduzioni nella Seconda Parte._

  [13] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 44._

  [14] Il Prigioniero di Chillon. – _V. la Seconda Parte di questo
  volume._

  [15] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 41._

  [16] _Il Cav. Carlo Michon. ― Egli fu veramente buono e liberal
  cittadino, ed uno dei rarissimi che fanno il bene per amore
  sincero del bene._

  [17] _Sappiamo che quest'Accademia riformò poi i suoi statuti nel
  1837._

  [18] _Ciò che più merita di essere qui ricordato si è, che
  l'Accademia Labronica nel Giugno del 1840 propose di render
  pubblica la sua Libreria, invocando il concorso dei cittadini
  per provvedere all'incremento della medesima, e sostenere le
  spese indispensabili all'uopo. I cittadini risposero all'invito
  con offerte di Libri, e obbligandosi a pagare una modica somma
  per cinque anni. Giova sperare che non verrà meno negli anni
  successivi il buono spirito, che già li mosse a secondare la
  bell'opera. La Libreria conta adesso oltre 10,000 volumi, ed è
  aperta al pubblico quattro giorni della settimana. È debito di
  giustizia il rammentare come promotore operoso della onorevole
  impresa l'Avv. Giuliano Ricci, allora Socio e Presidente
  dell'Accademia._

  [19] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 35._

  _Quest'articolo, ommessi pochi periodi in principio ed in fine,
  fu ristampato, per distribuirne le copie al Popolo di Salviano
  il 22 di Gennaio di quest'anno, giorno dei Funerali nella Chiesa
  di quella Pieve, e della tumulazione nel contiguo Cimitero delle
  spoglie di CARLO BINI esumate a Carrara. Poche e semplici parole,
  che qui riportiamo, precedevano il Racconto, che in quella
  circostanza, e in quel luogo, ne parve più opportuno d'ogni
  funebre elogio. – Il libricciuolo fu poi riprodotto pei tipi di
  Ersilio Vignozzi in Livorno, e a Firenze nella Rosa di Maggio,
  Anno III._


                                   †
                               AL POPOLO
                       DELLA PIEVE DI S. MARTINO
                              IN SALVIANO.

  Il Racconto che segue, e che ora si ristampa per Voi, fu scritto
  nel 1829, da un Giovane Livornese, dotato di un cuore e di un
  ingegno, che raramente s'incontrano ai nostri tempi. Fu scritto
  colla buona intenzione di onorare la Virtù e la Carità veramente
  Cristiana, della quale si videro in quell'anno bellissimi esempi
  fra Voi. E fra Voi forse nessuno ha letto mai questo Racconto.
  Il quale fu stampato in quel tempo in un Giornale intitolato
  =L'INDICATORE LIVORNESE=, che era fatto principalmente pei
  Letterati, e che non ebbe lunga vita, quantunque ci avessero mano
  uomini, che fanno onore al nostro paese.

  Uno di quelli ora è morto. Ed è appunto quel Giovane di cui vi
  parlava; quel Giovane, che si tratteneva col cuore in festa a
  discorrere sui bellissimi fatti esposti nel suo Racconto, perchè
  Egli stesso era virtuoso e buono davvero. Egli non predicava
  per vanità la Virtù, ma la praticava con retti principii, e con
  sentimenti di benevolenza sincera e di Carità verso tutti. E in
  tutti l'amava e la riveriva, e più volentieri nella povera gente,
  che certuni disprezzano, e la quale Egli era solito di chiamare
  ― _ricca di bontà e di pazienza più che altri non crede_.

  CARLO BINI, (questo era il suo nome), ora è morto. ― Nella città
  di Carrara, dove era andato per affari di suo Padre, passò da
  questa a miglior vita il 12 dello scorso Novembre. E le sue
  ossa, trasportate per un pietoso sentimento d'amore a Livorno,
  riposeranno ora nella quiete delle vostre campagne, presso quelle
  dei vostri Parenti, presso la Chiesa ove inalzate al Signore le
  vostre preghiere.

  Rammentare le nobili azioni e gli uomini onorati e dabbene,
  per imitarli, è dovere di tutti. La lapida che sarà posta
  alla memoria di CARLO BINI sia dunque riguardata da Voi come
  un ricordo d'amore e di Virtù, e onorata con sentimento di
  gratitudine affettuosa. Leggete questo libretto ai vostri figli,
  conservatelo religiosamente nelle vostre famiglie, e nelle
  preghiere pe' vostri Morti rammentatevi ancora di quell'anima
  buona.

      Livorno, 22 Gennaio 1843.



NECROLOGIE


TACITO MARTINI

― 1839[20] ―

                            A TACITO MARTINI
                                CHE MORÌ
                     LACRIMATO E BENEDETTO DA TUTTI
                              PERCHÈ VISSE
                      GIUSTO E BENEFICO CITTADINO
                             I SUOI AMICI.

                                                Le coeur est tout.

                                                     ROUSSEAU.

Dopo avere confortata l'agonia dell'amico che muore, dopo averlo
pianto, e accompagnato alla fossa, è conveniente dire alcune parole
di lui, onde la ricordanza delle sue bontà giovi in qualche modo ai
superstiti, o almeno sia soddisfatto un debito di giustizia verso
l'estinto.

Nascere in alto, o in mezzo agli agi della fortuna, è un getto di dadi,
e non dipende da noi. Ma rilevarsi dal fondo, e collocarsi in un certo
grado senza battere le scorciatoie, senza farsi scalino del prossimo
per salire, acquistandosi invece la stima, e la benevolenza d'ognuno,
è merito intrinseco e raro dell'uomo. Toccare però questo segno è arduo
più, che altri non crede; bisogna prima lungamente combattere; bisogna
esercitare, fortificare la volontà, metterla in armonia coi calcoli di
una giusta ragione, coi moti generosi del cuore; bisogna spesso violare
l'istinto, e ridurre l'uomo morale a sistema rigido e completo.

Tutto questo conviene per ogni verso a Tacito Martini. La sua vita
è stata corta, e composta di poche linee, ma tutte linee rette,
e convergenti ad un centro, tutte connesse ad un principio d'alta
moralità, che diede forma e sostanza ad ogni sua azione.

Non appena fu entrato nell'adolescenza, quando il raziocinio e il
sentimento svolgendosi più rapidi cominciano a ricevere più immediato
l'attrito delle cose del mondo, che, giovanetto com'era, sentì
d'intorno a sè l'aere meno che tepido; e convertendo subito l'animo
suo alle sorti poco felici della famiglia, si destò in lui una
certa alterezza, un certo sdegno dello stato abietto, e immeritato,
un desiderio, un bisogno potentissimo di mutare il destino suo, e
quello de' suoi, e fermò nella mente il disegno di farlo, e lo fece,
logorandovi tutte le sue potenze, e anticipandosi forse la morte.
Avvertito però da un intimo senso, che l'uomo, segnatamente sui
principii, non ha in chi fidare, e deve aiutarsi da sè, si volse a
scoprire le forze, che in lui aveva riposte la natura, per eccitarle
ed accrescerle, per dar loro forma, ed applicazione sociale, e farsene
istrumento a ciò che meditava di conseguire.

In questo concetto agitandosi, e crescendo in lui più sempre l'impulso
che lo inchinava alle scienze mediche, e soprattutto alla chirurgia,
dispose secondarlo fermamente e con ogni mezzo, e non compiuti peranche
i 13 anni prese a frequentare ogni giorno lo Spedale, dove cominciò le
pratiche chirurgiche con tanta diligenza e amore dell'arte, che prima
ancora di recarsi a Pisa si trovò in atto di fare operazioni più che
mediocri.

A 18 anni si condusse in Pisa agli Studi, e là le dure esperienze
della vita lo provarono in guisa, che valsero in breve a compiere e
determinare immutabile la sua morale fisonomia. Visse i primi due anni
con forse una Lira il giorno; e al terzo anno ottenuto un posto del
Sardi, sgravò subito i suoi della tenue moneta che gli assegnavano,
pensò a mantenersi in tutto e per tutto, a comprarsi libri, a supplire
le spese degli esami, e d'ogni altro occorrevole; fece risparmi, e
questi rimesse via via alla famiglia. – Ora chi si faccia a considerare
come la gioventù penda naturalmente all'ozio, alle mollezze, e ai
diporti; come in quell'età il sangue e le passioni fremano procellose,
e come l'errore abbia prestigi, e seduzioni potenti più del dovere,
bisognerà che ammiri per forza il giovane Tacito, se rimase sobrio,
intemerato e studioso, in mezzo a tante e siffatte tentazioni. E quando
si consideri che l'alito impuro del bisogno non l'attinse nelle parti
più nobili dell'anima, e che il cuore serbò fresco e generoso fino
all'estremo palpito, comprenderemo di che salda tempra fosse composta
l'indole sua. Perchè il bisogno è nemico capitale dei buoni pensieri,
e delle buone opere, e patito nei primordi della vita generalmente
squaglia il carattere umano, o lo petrifica.

Se noi volessimo spiegare intera la breve, ma ricca trama
dell'esistenza di Tacito, ci sarebbe agevole percorrere per esteso
le dimensioni d'un elogio, o d'una biografia; ma favellando di lui fu
nostro proposito, e ci sembrò che bastasse, accennare soltanto, come
egli fosse buono ed utile cittadino per virtù propria, e come il mezzo
e il fine corrispondessero perfettamente al principio da lui stabilito
nelle più difficili condizioni; per la qual cosa aggiungeremo più
pochi tratti, parendoci, che il dilungarci troppo di soverchio avrebbe
aria di fasto, e offenderebbe di certo quello spirito gentile, che
gelosamente studiò di coprire col silenzio quanto di lodevole usciva da
lui.

Conseguite il Martini nell'epoche consuete la laurea, e la matricola
in Medicina e in Chirurgia, tornò in patria, e subito diede opera
a farsi conoscere. E tanto gli valsero lo studio indefesso, i modi
schietti e soavi, e l'onesto desiderio, che l'agitava ardentissimo,
che di lì a poco acquistò credito, fiducia, e favore universale. Venne
in séguito creato Chirurgo dei Lazzeretti, e primo Chirurgo di turno
negli Spedali; ebbe clientela vastissima d'ogni maniera di persone, e
i guadagni gli crebbero fra mano, maggiori forse che non aveva sperato.
Quindi potè ristorare la fortuna abbattuta della famiglia, quindi potè
scorrere a suo talento quella larga vena di carità, che i cieli gli
avevano infusa nel cuore.

Praticò l'arte con plauso, e con decoro, e segnatamente in Chirurgia
ebbe lode frequente di operatore felice. Ma il medico in lui non aveva
cancellato l'uomo; l'abitudine di veder soffrire e morire non aveva
spenta in lui la mobilissima sensibilità di una natura squisitamente
pietosa. Al letto dell'infermo era medico, ed uomo; finchè occorreva,
apprestava alacremente i soccorsi dell'arte; ma quando la Scienza si
fermava impotente davanti alla furia del male, che precipitava al
suo fine, Tacito adoprava i soccorsi della parola e dello spirito,
circondava di cure delicate e di sante consolazioni il malato,
l'animava, l'aiutava al terribile varco. Ufficio sacro e gravissimo del
medico è questo, porgere all'estrema miseria l'unico rimedio che resta,
il conforto.

Non fu nè avido, nè avaro; eccedeva invece nelle qualità contrarie.
Chiamato appena, visitava prontissimo il povero, con amore lo curava,
lo sovveniva di consiglio, e, meglio ancora, gli lasciava la moneta
perchè supplisse al bisogno. Dagli amici non voleva mercede delle sue
fatiche, ed ostinatamente rifiutò il legato d'un piano di casa, che un
suo cliente presso al morire voleva ad ogni patto lasciargli.

Ma le opere di beneficenza furono la sua voluttà suprema, il respiro
dell'anima sua. Beneficò nobilmente e senza ambizione, con quel
pudore, che impedisce o medica l'offesa, che suole spesso recare il
benefizio. Aperse al profugo la casa, all'indigente la borsa, e dava
volontieri, senza farsi ripetere la richiesta. Giovava con ogni sorta
d'uffici l'amico, e chiunque potendo. Assisteva molti dei suoi parenti
largamente, continuamente; e mortagli una sorella, accoglieva nella
propria famiglia il marito, e cinque figliuoli. Per uno di questi
spendeva 80 Lire il mese solo a farlo educare. Senza essersi creato una
famiglia sua propria, aveva viscere e istinto di padre.

Nè gli mancarono i disinganni, come avviene a chi vive praticamente
tra gli uomini; ma intento sempre ad un segno non torse mai un momento
dalla traccia segnata ab antico; la fede non gli venne mai meno, perchè
sapeva distinguere tra l'umanità, e l'individuo, tra il principio
eterno universale, e il fatto transitorio e parziale.

Amò gli uomini, e la Patria Italiana, e fu caldissimo di quanto
riferivasi all'onore e alla gloria di lei. Amò singolarmente la città
dove nacque, e non sorse in essa uomo che promettesse bene di sè, cui
non cercasse diventare amico, cui non cercasse all'uopo giovare coi
mezzi suoi, e con quelli d'altrui, adoperando quella felice influenza
che sapeva esercitare sugli animi. Partecipò agli istituti, a tutte
le cose utili ed onorevoli, che nacquero tra noi, e non fu per lui se
maggiormente non prosperarono.

Fu in quanto a sè modestissimo, e quando faceva il bene non voleva
lode, o ringraziamento. Gli piaceva esser buono, le apparenze
fastidiva. Ebbe coraggio, e indipendenza d'opinione, qualità, che
non gli fecero nemici, perchè sapevasi valere in lui l'amore sincero
della verità, non i secondi fini. Rigidissimo nei principi cardinali
sui quali posa veramente la morale, fu tollerante, e facile nel resto.
Modi ebbe aperti e soavi, onesta ilarità di volto e di spirito, e dal
complesso della sua persona partivano getti di vivissima simpatia. Non
patì d'invidia, o d'ipocrisia, nè gli furono notati vizi, o difetti
capitali. Difetti avrà avuto senz'altro, perchè il carattere umano
consiste d'ombre e di lumi, ma leggerissimi, ma tali, che nel consorzio
sociale non apparivano infesti, e male di certo non ne venne a nessuno.
Fatto è che morì lodato dai buoni, e lodato dai cattivi, e i morti
come sapete non si adulano, specialmente quando non si lasciano dietro
lo splendore della gloria, o la famiglia potente. Ma questo è pregio
veramente mirabile della bontà, svellere il plauso anche dalla bocca
dei tristi.

E la bontà di Tacito faceva forza nella mente di chiunque la
contemplava. Non era quella bontà facile, passiva, o volgare,
che invade i confini della stupidezza, – più che altro necessità
di organismo. Era la bontà intelligente e operosa, la bontà del
libero arbitrio, perchè Tacito aveva anima, passioni, ed energia di
temperamento, aveva strumenti da volgere al bene, o al male volendo.

La malattia, che da ultimo lo spense, gli si ordiva da gran tempo
lentissima nelle viscere. E quando i sintomi di quella si rivelarono
insistenti, e innegabili, non si trattenne in vane lusinghe, misurò
la grandezza del pericolo, comprese che i suoi giorni erano numerati,
e lo disse imperterrito a tutti, e a sè stesso. Accettò il calice
amaro della passione, e lo bevve pacatamente fino all'ultima stilla,
raccogliendo l'animo invece, e facendolo più grande alla minacciante
sciagura. E consecrandosi più che mai a quell'idea che l'aveva sempre
predominato, non ricusò fatica nè occasione, andava fuori visibilmente
malato, non curava riposo, non cercava aggiungere un filo alla trama
della sua povera esistenza; una furia, un impeto lo portava; faceva
sforzi che mal si potrebbero spiegare, dove non sapessimo che la
volontà umana eccitata da un alto proponimento può far miracoli. Ma
se lo spirito era pronto, la carne era inferma; e le forze più e più
sempre prostrandosi gli convenne in fine mettersi a letto, e morire.

Gli ultimi giorni di Tacito furono solenni, e quieti della pace
del giusto. Disposte con senno ed equità le cose sue, aspettava
placidamente la morte e l'invocava talvolta più che altro per togliere
alla famiglia desolata uno spettacolo d'immenso dolore. Era, come da
sano, affabile e cortese con gli amici, che lo circondavano numerosi;
era provido, discreto, e amoroso co' suoi, che gli trepidarono attorno;
dissimulava gli spasimi atrocissimi, e ratteneva lo sfogo della
soffrente natura, perchè non si attristassero maggiormente. Cosa mesta
e dignitosa era a vederlo così morire senza orgoglio, e senza viltà.
Non si smentì un istante, parlò sempre parole gravi e affettuose,
riconciliò antichi dissapori, pensò a tutto, e a tutti; – in quegli
estremi la sua anima fiammeggiava più lucida che mai. E poichè
l'ostinata agonia pervenne al suo termine fatale, morì virilmente
rassegnato, sicuro della sua buona coscienza, affidato d'una speranza
immortale.

Così fu conchiusa troppo per tempo una vita utile ed onorata. Povero
Tacito! quando noi rammentiamo la tua presenza, e il tuo spirito
cortese, e vediamo il rammarico, che lasciasti di te universale, e
pensiamo all'angoscia ineffabile della madre tua destinata di 72 anni a
sotterrare il figlio a lei più diletto, una profonda pietà ci stringe
del caso miserevole; ma se pensiamo poi alle ambagi tormentose del
secolo, e alle illusioni che di giorno in giorno spariscono, e alle
cure che più e più sempre si addensano, e alla vecchiezza, che si
avanza fredda, squallida, e inutile, noi non osiamo più mormorare, se
a Dio piacque recidere il fiore prima che appassisse. Riposa in pace.
A quest'ora nessuno saprebbe dove venire a piangere sulle tue ceneri,
perchè tu non volesti distinzione di sepoltura, e le tue ossa giacciono
nel Camposanto comune, confuse con quelle del popolo dal quale
nascesti. La fama non farà suonare il tuo nome, perchè il mondo non ha
storia per le virtù tranquille e innocenti del cittadino da bene. Ma
se la tua vita di continuo sacrifizio fu semplice, e inavvertita quasi
agli occhi del mondo, speriamo sarà comparsa splendida e meritoria agli
occhi dell'Eterno. E quanti schiettamente ti amarono, e ti ebbero in
pregio, daranno a te sovente un pensiero e una lacrima, e ridiranno
ai figli come vivesti, e come moristi, e la tua memoria resterà, giova
crederlo, santa ed onorata tradizione domestica.


GUGLIELMO AVENAS

― 1842[21] ―

                            La vita al fine, e il dì loda la sera.

                                                      PETRARCA.

GALANTUOMO e PERSONA DI GARBO sono vocaboli di origine aristocratica,
ma in principio non ebbero valore morale, e furono tra i tanti
segni, che distinguevano la razza fine dalla ignobile. A quei tempi
il vassallo e il popolano non potevano chiamarsi _galantuomini_, nè
_persone di garbo_; e non è molto riscontrai questo fatto. Un Duca
Napoletano narrandomi come in certo luogo fosse stato trattato con
leggerissima differenza, e forse al livello degli altri, che non erano
Duchi, chiudeva il discorso così: _in quel luogo il galantuomo non
è rispettato_. Io feci atto al Duca come per dirgli: pur troppo! e
pensai tra me, che, come uomo di secolo XIX, il Duca era almeno 200
anni addietro, e parlava una lingua morta; ma come Duca _de la vieille
souche_ era nel suo elemento, e aveva ragione.

_Galantuomo_ in séguito trasmigrando dall'uso privilegiato di una
casta all'uso comune vestì senso diverso, ma sempre assai limitato, e
significò, e significa ancora l'_Uomo puntuale a pagare_.

Oggi però il vocabolo ha fatto la più grande ascensione possibile, e
_galantuomo_ s'intende propriamente colui, che senza fasto nè seconde
intenzioni adempie tutti i doveri dell'Uomo, e del Cittadino.

Il ritratto d'un galantuomo è più difficile forse d'ogni altro. Voi
non avete quasi mai la statura grandiosa, il portamento solenne, le
parti angolose, il colorito avventato, ed i contrasti da scuotere i
sensi, e la fibra di chi guarda. Invece avete una estrema regolarità di
contorni, castigatezza di forme, colori tranquilli, conseguíti per via
di gradazioni infinite, e tutte soavi; avete un perfetto equilibrio di
quantità, e di qualità; avete ogni cosa al suo posto, avete l'ordine
morale nella sua più semplice e più giusta espressione.

In somma voi non potete farne una figura di spolvero. – Già un
galantuomo non trova mai il vento fresco della fortuna, che lo porti
per aria, e fornisce a piedi il suo terrestre pellegrinaggio; e così
non avendo un cocchiere, che gridi in pubblico – _bada alla vita_, –
nessuno si volta a vederlo, nessuno conosce il suo nome, nè dove stia
di casa. È provato, che una _pariglia_ di buoni cavalli si fa largo, e
attira gli sguardi meglio di una _pariglia_ di buone azioni.

Un galantuomo non può mai ferir dritto allo _scopo_, perchè ha sempre
delle distrazioni col pudore, e colla coscienza. – Un galantuomo
generalmente ha disgrazia al giuoco, e in amore.

Un galantuomo facendo e dicendo cose, che i più non fanno, e non
dicono, offende la moda, e la moda lo consegna al braccio del ridicolo.

Quindi a fare il galantuomo ci vuol coraggio, e pazienza. Ma la
maggiore difficoltà per farne il ritratto è che se ne vede di rado
l'Originale, e così, mancando l'occasione frequente di copiare
dal vero, non è dato acquistare quella franchezza e valentia, che
l'eccellenza dell'Arte richiede.

Noi pertanto atterriti da tanti ostacoli disegneremo alla meglio un
profilo.

Dovendo fare l'inventario delle parti, che compongono un galantuomo,
la prima di tutte a presentarsi è la fisonomia, parte essenziale, che
merita studio e considerazione. La fisonomia, è il prodotto dell'uomo
interiore, – lo spirito modella la materia. Scrutate chiunque con
occhio diligente e inflessibile, e dopo più o meno prove avrete
resultati quasi infallibili, penetrerete la maschera la più ingegnosa,
la meglio incarnata e immedesimata col volto umano. Questa scienza,
che val quanto un'altra, perchè consiste tutta di osservazioni e di
confronti, è stata chiamata vana e temeraria come l'astrologia. Ma gli
uomini talvolta sanno pur troppo quel che si dicono; – gli uomini la
più parte hanno interesse a non essere indagati.

Quì nel caso nostro la facciata era di buono stile.

Dopo avere attentamente esaminata quella testa di parti larghe e
virili, l'effetto dell'_insieme_ era un senso di conforto, come quello
che tu provi incontrando una giornata tepida e luminosa nel verno. A
veder quella testa uno si sentiva invitato a metter giù le armi, che
l'uomo è solito portare viaggio facendo in questo mondo; uno sentiva le
dolcezze inconsuete della sicurezza, dell'abbandono e del riposo.

La facciata era di buono stile, e l'interno corrispondeva in ogni
sua proporzione; e per amore di brevità dirò, che i molti e svariati
lineamenti dell'animo suo si riassumevano finalmente in due tratti, o
_potenze_, che sporgevano eminenti, e gli davano espressione distinta.
_Egli_ ebbe queste due _potenze_ dalla Natura, e le corresse e ritemprò
alla scuola dell'esperienza, la quale i buoni rende migliori, e i
cattivi maggiormente intristisce.

Una era _la potenza di sopportare_, e l'altra _quella di compatire_;
due virtù uniche forse ad aver titolo legittimo a tanto nome, e
certamente indispensabili nel consorzio sociale; poichè sopportare in
sè stesso con dignità le traversie e le amarezze, onde si riempie la
vita, è segno di forza; e compatire, non in senso sterile e inerte,
ma in senso attivo e benefico, compatire gli errori, le colpe, e le
sventure nel prossimo, è segno di amore, e ambedue sono i cardini sui
quali gira l'umana bontà.

In somma a veder quella testa non si poteva sbagliare, e quella fronte
pensierosa, ma di pensieri sereni, non gridava – _addietro_, – come
quasi tutte gridano, ma portava scritto a caratteri scintillanti –
_entrate_. –

Chi ha sofferto veramente di cuore, e ha provato come il mondo abbia
le mani troppo ruvide, anche quando intende di medicare, colui solo
sa quanto faccia buono trovare un asilo siffatto, quando l'anima è
smarrita dal dubbio, o lacerata dal dolore, o assiderata dal bisogno.

E il dubbio, e il dolore, e il bisogno, trovarono in _Lui_ onesta
accoglienza, e sollievo pronto, e cordiale.

Il povero segnatamente andava a colpo sicuro, nè riportava indietro il
– _non ne ho spiccioli_, o l' – _andate a lavorare_, – monete di conio
moderno, ma di lega inferiore assai all'antico – _Dio vi consoli_, –
perchè questo almeno conteneva un'ombra d'affetto, e se non dava nulla
alla bocca, dava qualche cosa al cuore, e il cuore anch'esso ha bisogno
di qualche cosa.

Ma prendiamo il punto di luce più giusto, – vediamo l'uomo in azione.

_Egli_ fu Negoziante. La parola Negoziante tiene un piccolo spazio,
ma in quello spazio entra una folla di cose infinite a ridirsi.
Negoziante è colui che traffica la roba sua, e l'altrui, ma più spesso
quest'ultima sola. Passare per la roba degli altri è uno stretto
pericoloso, e non farvi naufragio o avaria è un bel fare. Se tutti
nascessimo fasciati d'un bel patrimonio, la parte di galantuomo sarebbe
facile, ma non avrebbe merito. Il merito sta nel combattere e vincere,
specialmente quando i mezzi della difesa non sono proporzionati a
quelli dell'offesa. Già il sistema di proprietà non è passato finora
nella mente degli uomini a stato di convinzione, e il _tuo_ e il
_mio_ sono così complicati, e confusi tra loro, che spesso ti avviene,
anche non volendo, di prendere in iscambio l'uno per l'altro. Oltre
di che voi avete dalla vostra la coscienza sola, la quale non istà
sempre bene di voce, ma come può bada a suggerirvi – _non rubate_, –
mentre dalla parte avversa avete il bisogno, l'istinto, l'occasione,
e le mani. Il bisogno è bestia, che non intende ragione; l'istinto
disgraziatamente porta per in giù; quello che faccia l'occasione, ve lo
dica il proverbio, che corre per la bocca d'ognuno; e le mani, guardate
la struttura delle mani, e le vedrete flessibilissime configurarsi a
gancio ogni momento, e le vedrete create destinate apposta a prendere
tutte le cose, inclusive il fuoco.

Facciamo alto un minuto, o Signori. Un Negoziante che per 76 anni è
rimasto fermo sul _suo_ è una parentesi nella storia del Commercio, –
è il re dei galantuomini, – e merita una corona di punti ammirativi.

E torniamo a vedere l'uomo in azione. Un padre e una madre morivano,
e lasciavano a _Lui_, all'_Amico_, quattro figli di tenerissima età,
destinandolo tutore. Oggimai il progresso e le leggi hanno provveduto
in guisa, che se un pupillo ha qualche cosa nell'uscire di minorità
la ritrova, e un tutore di garbo oggi, basta volerlo, si trova
dappertutto, e subito; – è un vestito bell'e fatto.

Ma quarant'anni addietro il tutore nasceva sotto il pianeta di Saturno;
e un tutore che non divorasse i suoi pupilli era una cosa inaudita, un
mostro, una cosa da farsi vedere.

_Egli_ amministrava pertanto severamente, e restituiva ai pupilli un
patrimonio accresciuto.

Ma la bontà profonda dell'indole sua operò in _Lui_ quello, che la
Natura non può consentire se non per miracolo; quello, che un padre e
una madre morendo non osavano, nè potevano sperare, cioè, che l'amico
e il tutore si convertissero sostanzialmente in Padre affettuoso,
e continuo. E fatto Padre non pensò solamente alla roba, e alla
educazione ordinaria degli orfani, ma accolse questi figli dell'anima
sua, e li difese, e li diresse a princìpi sani, e a vita onorata,
ammaestrandoli coll'insegnamento efficacissimo dell'esempio, e diffuse
sulla loro giovane esistenza le cure, e il tepore, che i padri e le
madri diffondono sulla prole. E così quegli Orfani non sentirono l'aria
fredda dell'indifferenza, ed _Egli_ provò le gioie e gli affanni della
paternità.

Io l'ho veduto non è gran tempo questo vecchio venerabile nella
morte d'uno dei suoi pupilli, – ho veduto il suo dolore, dolore senza
lacrime, e senza parole, – che di quando in quando alzava gli occhi al
cielo, – unico appello e refugio delle anime afflitte profondamente.

E cosa merita un uomo siffatto? l'uomo, che per i figli non suoi ha
saputo sublimare il cuore, e crearvi dentro l'intelligenza, l'amore,
e il dolore di padre? – Il premio vero della virtù è in un mondo
migliore, e intanto un uomo siffatto tra noi merita una corona dei più
bei fiori, che germoglino sulla terra, – una corona di benedizioni.

_Egli_ ebbe nome GUGLIELMO AVENAS. Nacque in Nizza, e visse lungamente
in Livorno, dove morì il 21 Gennaio 1842. Morì come muoiono i giusti,
senza terrori, e senza rammarichi, colla coscienza sicura del fatto
suo, e coll'anima verso Dio.

I Fratelli Pachò mossero queste poche parole per onorare la memoria
del tutore dilettissimo, e soddisfare in parte all'amore, alla
riconoscenza, e al desiderio, che di sè ha lasciato vivissimo
quest'uomo dabbene.

Voi tutti poi pregate per lui, onde egli preghi per noi in quel luogo
dov'è un Giudice solo, una legge sola, e una verità sola, dove non è
anticamera, che trattenga, o disperda le suppliche dei poveri mortali.

NOTE:

  [20] _Livorno, Tipografia Sardi, 1839. Seconda edizione, – nella
  _Viola del Pensiero_, Anno II._

  [21] _Livorno, Tipografia Sardi, 1842. Seconda edizione. – nella
  _Rosa di Maggio_, 1843._



ISCRIZIONI E POESIA


I.

                  LA SERA DEL IV GENNAIO MDCCCXXXVIII
                            =ELENA BISCARDI=
                      ADDORMENTANDOSI NEL SIGNORE
                     COMPIEVA IL DESTINO ASSEGNATO
                      A CHI NASCE CON TROPPO CUORE
               DI AMARE SOFFRIRE E MORIRE IMMATURAMENTE.

                        BENEDITE LA SUA MEMORIA
                        E QUELL'ANIMA SOAVISSIMA
                            INTERCEDA DA DIO
                           ALMENO LA PAZIENZA
                     AL DOLORE DISPERATO DEI SUOI.


II.

              MORTA LA NOTTE DEL IX DECEMBRE MDCCCXXXVIII
                         QUI FINALMENTE RIPOSA
                     =ADELE PERFETTI= NATA =DEWIT=.

                                  EBBE
                       INDOLE SCHIETTA AFFETTUOSA
                       CUORE GENTILE MELANCONICO
                          VITA BREVE INFELICE
                     E SPIRÒ GEMENDO DI ABBANDONARE
                    APPENA NATA LA SUA FIGLIUOLETTA.

             IL MARITO I FRATELLI E LA MADRE QUASI MORIENTE
                           CON MOLTE LACRIME
                  QUESTA MEMORIA DI AMORE E DI DOLORE
                               PONEVANO.


III.

                       INGEGNO ARGUTO MOLTIPLICE
                         BONTÀ SINCERA DI CUORE
                      POTENZA GENEROSA DI AFFETTI
                            MODI GRATI SOAVI
                       E IL SORRISO DELLA FORTUNA
                            TUTTO FU POLVERE
                   LA NOTTE DEL XX GENNAIO MDCCCXXXIX
               MENTRE PIÙ BELLI GLI GERMOGLIAVANO I FIORI
                      DELLA VITA E DELLA SPERANZA.
                      =GIOVANNI PALLI= ERA IL NOME
                      E NON COMPIÈ VENTOTTO ANNI.

                       UN PENSIERE E UNA LAGRIMA
                       DATE AL SEPOLCRO DELL'UOMO
                          CHE MORENDO LASCIAVA
                         AI PARENTI AGLI AMICI
                           UNA SANTA EREDITÀ
                         DI AMORE E DI DOLORE.


IV.

                       QUI GIACE UNA POVERA MADRE
                            =DOROTEA PALLI=
              CHE PIANGENDO SEMPRE IL SUO PERDUTO EUGENIO
                    E PER VENTURA IGNORANDO LA MORTE
                    DELL'ALTRO SUO DILETTO GIOVANNI
                      SPIRATO UN MESE PRIMA DI LEI
                    MORIVA IL XX FEBBRAIO MDCCCXXXIX
                 CONSUMATA LENTAMENTE DA UN DOLOR SOLO
                           CHE DURÒ TRE ANNI.

                      COMMISERANDO IL CASO FATALE
                         CHE IN SÌ BREVE TEMPO
                      RICONGIUNSE IN QUESTO LUOGO
                    LE OSSA DELLA MADRE E DEI FIGLI
                       BENEDITE ALLA LORO MEMORIA
                            E PREGATE PACE.


L'ANNIVERSARIO DELLA NASCITA

― 1833 ―

      Un altr'anno di vita è già spento,
    E tremando lo conta il pensiero;
    Del passato non resta un momento,
    Il futuro è velato di nero;
    Il passato è un romore trascorso,
    Un ricordo dolente, un rimorso.

      Come nudo sepolcro s'innalza
    Nella mente deserta il passato,
    Dove il meglio dell'anima incalza
    Ogni giorno la spinta del Fato,
    Dove tacita giace e sepolta
    La Virtù, che fioriva una volta.

      O miei giovani giorni, che invano
    Mi passaste sul capo, tornate
    Al desio, che vi tende la mano;
    La speranza con voi riportate;
    La Speranza per l'anima è il Sole,
    Quando l'alma caduta si duole.

      O miei giovani giorni, leggieri
    Ritornate sull'orme già fatte;
    Rinfrescate coi primi pensieri
    Queste rughe, che il cuore ha contratte;
    Ritornate, o miei giorni ridenti,
    E al partirvi movete più lenti.

      Io non vissi, – in un soffio la curva
    Divorai della vita dell'alma;
    Un destino, un demonio m'incurva
    Anzi tempo alla stupida calma
    Della tomba; – potente è la voce,
    Che una morte m'impone precoce.

      O miei giovani giorni, io dispersi
    Un tesoro che Dio non ridona,
    Che non può ridonare; – io sommersi
    Della vita la gaia corona
    Nell'oblio; – questo serto, ch'or piango,
    Sparpagliai neghittoso nel fango.

      Io non vissi, e son vecchio: – e qual orma
    Nel sentier d'una grande passione
    Ho stampato? E di gloria qual forma
    Mi sorrise? – e la santa missione
    Adempia, che Natura ci grida,
    Che il dolore di un secolo affida?

      E il dolore, che cuopre con l'ale
    Tutto un secol, me pure percosse;
    E il dolore fa grande il mortale;
    E se un'alma dal fango si scosse,
    Le convenne di farsi più pura
    Nel battesimo della sventura.

      E il dolor mi fe' grande? – Mi geme
    Da gran tempo un lamento nel petto,
    Ma è una tacita stilla; e non freme,
    Non prorompe in faville d'affetto,
    Non risuona in terribili accenti
    Come tromba che scuota i giacenti.

      Ma qual ira fatale riarse
    La freschezza dell'alma sì presto?
    Perchè il riso sì ratto scomparse?
    E perchè sulla fronte un sì mesto
    Velo stese la cura sì amara,
    Come il manto che cuopre la bara?

      Fanciulletto alla scuola del mondo
    Venni; – e il mondo una coppa funesta
    Mi accostava alle labbra; – un profondo
    Sorso bevvi, – e una morte fu questa: –
    Ahi! letale del mondo è la scienza!
    È la morte del cuor l'esperienza!

      L'avvoltoio del dubbio mi rose
    Ogni fibra vitale, ogni forza;
    Mi recise le candide rose
    Della speme, e il suo fiato, che ammorza
    Ogni tinta più vaga e serena,
    Come sangue mi corse ogni vena.

      Io ricinsi d'un funebre velo,
    Vel tramato a tristissima scuola,
    La magnifica faccia del cielo
    Che allo spirito è sì calda parola,
    Quando vive lo spirito immerso
    Nel calor di un amore universo.

      Io non vidi nel mondo, che un moto
    Alternato di vita e di morte;
    Un destino di ferro, che ignoto
    Tutto stringe in ignote ritorte;
    Esclamai: – muore l'alma! – e al desire
    Chiusi l'ale, e negai l'avvenire.

      E guatando la Storia, – un volume
    Dove scrive col sangue il Delitto,
    Dove scorre qual onda in un fiume
    Delle schiatte il veloce tragitto, –
    Uno spazio guatai di dolore,
    Dove geme chi nasce e chi muore.

      E la gloria un'immagine muta
    A me parve, – una stella cadente, –
    Una voce fra breve perduta
    Nell'immenso silenzio del niente:
     – A che muoversi? – io dissi; e mi tacqui,
    E in un ozio codardo mi giacqui.

      E rimasi nel vuoto; – e la vita
    Mi pesò come un grave martiro;
    E se amai, fu passione smarrita
    Nel deserto, – un solingo sospiro
    Fu l'amor; – nelle tenebre incerto
    Brancolai bestemmiando il deserto.

      Ho voluto il deserto, – e di pietra
    Mi son fatto un guanciale, – e la fossa
    Ho scavato al mio cuor; – nè s'arretra
    L'alma omai dal cammin dove ha mossa
    L'orma; – indarno la innalzo alle sfere,
    Nelle tenebre è morto il pensiere.

      E la Patria? – Una Patria mi resta,
    Ma prostrata così, che non spira
    Altra vita nel cor della mesta
    Che un dolor muto, cupo; – e rimira,
    Nuova Niobe impietrita dal duolo,
    Ogn'istante cadere un figliuolo.

      Perchè vivi tu dunque? Un acciaro,
    Un veleno non hai? Perchè tremi
    A spezzare quel calice amaro?
    Che ti fai del letargo in che gemi?
    Perchè vivi? Un incanto t'ha vinto?
     – Io nol so; – forse vivo d'istinto. –

      La mia pallida pallida stella
    È al tramonto d'un triste viaggio;
    Chi le infonde una vita novella?
    Chi le rende l'allegro suo raggio?
    A quest'anima morta chi dice:
     – Su, rinasci, novella Fenice? –

      O miei giovani giorni, potete
    Rimontar la corrente? – Venite,
    Anche nudi di gioia, – adducete
    Solo il pianto; – è una gioia più mite;
    E se il cielo un'ammenda ha pensato
    Al dolore, la lacrima ha dato.

      Ma un altr'anno di vita è già spento,
    E tremando lo conta il pensiero;
    Del passato non torna un momento,
    Il futuro è velato di nero;
    Il passato è un rumore trascorso.
    Un ricordo dolente, un rimorso.

      Qual fragranza dal fiore degli anni
    Ho spremuto? – Il mio cielo natio
    L'agitava con tepidi vanni,
    Gli vestiva dell'iride il brio,
    Lo drizzava gentile all'amore,
    Educava alla Patria quel fiore.

      Ma quel fiore mal crebbe; e le foglie,
    E l'umor gli corrose un veleno;
    Dissipate le pallide spoglie
    Son fuggite dei venti nel seno;
    La rugiada d'un placido cielo
    Più non bagna che un arido stelo.


L'IMMORTALITA'

― 1842 ―

      È il pensier della morte uno sgomento,
    Dove lo spirto s'inabissa, e il cuore;
    Il cielo empie d'un funebre lamento,
    Oscura il Sole, e inaridisce il fiore.

      Lo sguardo informa, e suona nell'accento,
    Uccide ogni speranza, ed ogni amore;
    Misura unico il tempo, e in un momento
    Un secolo concentra di dolore.

      E l'agonia dell'anima immortale,
    Finchè strascica inerte la catena
    Del mortal fango tra le torte vie.

      Ma s'illumina, e sorge, e batte l'ale,
    Angiol di Dio, se in lui penetra appena
    Uno spiraglio dell'eterno die.


NAPOLEONE

FRAMMENTI[22]

― 18...? ―

      E tu cadesti, o re; ma sul tuo fato
    Il silenzio non giace, onde l'umana
    Plebe è coperta;
    E la storia del tuo nome solenne
    Coi secoli si muove.

                    Eri di donna
    Nato, e spirto caduco in te si chiuse
    Come nel volgo dei mortali, o l'alta
    Armonia delle sfere alla tua creta
    Trasfuse alito eterno?
    Sento, che il mondo ancor geme dell'orma
    Delle tue piante; – ahi! dunque in sulla terra
    Non ti guidò l'amore . . . . . .

                    Chi misurarti
    Col pensiere vorrà, se il tuo fantasma
    Ratto venne, e disparve, alle atterrite
    Genti mostrando
    Mille faccie di tenebre e di luce?
    Quand'io mi sporgo sulla tua grandezza,
    Mi coglie la vertigine. Chi sei,
    O crëatura del mistero? Il mondo
    Forse nol saprà mai. Nume, o demonio,
    Ti chiameranno incerti; – e il tuo concetto
    Forse l'inferno racchiudeva, e il cielo.
    . . . . . . . . . . . . . . . .

                    Il fiore
    Della vita per te crebbe solingo
    E nero, ed aura nol nodria feconda,
    E amor non lo guardò.

                    Nell'ora
    Dei mesti sensi, – quando cade il Sole,
    E sopra la natura si diffonde
    Addolorato come il guardo estremo
    D'un amico, che muor, – piangesti mai?

    Il vïator, che tenta le tempeste
    Dell'antico Oceáno, andrà tremante
    All'Isola romita, ove il tuo Genio
    Impotente si giacque, o sventurato.
    E la mente commossa andrà cercando
    Per l'ombre della morte il tuo fantasma,
    Che scongiurato apparirà. Funesta
    Luce balenerà sulle tremende
    Sorti dell'uomo, e gemerà . . . .

    E se mai le ridenti illusïoni
    Ti rinfrescavan di fiori la fronte,
    Il dolor li appassiva;
    E la tua fronte, pallida, atterrita,
    Trono severo d'un pensier di morte,
    Cadeva a terra.

                    L'Aquila gloriosa,
    Del cenno tuo terribile ministra,
    Che tra gli artigli un dì portava il mondo,
    Or s'è conversa in avvoltoio, e nido
    Fa nel tuo cuore.

                    Lungo le deserte
    Rive dell'Oceáno il mio pensiere
    Scorge l'anima tua, che insegue l'ombra
    D'una potenza, che passò. Delirio
    Supremo d'una mente imperatrice
    È il tuo delirio. A che nel dì fatale
    Non ti ascondesti nel sepolcro?

                    Nei silenzi della notte, quando
    La vision dello spirito è più chiara,
    Gemi profondo, e chiudi gli occhi, e d'ambe
    Le man serri gli orecchi. Oh! che intendesti?
    O minacciosi vedesti agitarsi
    I milioni delle anime sprecate
    Nelle tue cento inutili vittorie?
    Fulminato è il Titano; una ruina
    Vasta cuopre un impero, e l'atterrito
    Sguardo delle nazioni al ciel dimanda
    E alla terra dov'è la man, che tanta
    Forza prostrò. – Non fu mano creata:
    Dio ti percosse . . . . .

    Quanta passione ti salì nel cuore
    Il dì che la Fortuna ti gridava:
     – Non sei più re, Napoleon? – quel grido
    Ti corse tutta l'anima eccitando
    Le note più solenni del dolore.
    E fu dolor, che un'anima infinita
    Appena conteneva, – e a tanto peso
    Non so come reggesti; – e la Follia
    Forse dell'ala ti strisciò la mente,
    Ma tu nascesti forte, e la superba
    Testa portò il dolor come portava
    Un giorno la corona.
    . . . . . . . . . . . . . .
    Il Guerriero morì, nè il capo stanco
    Morendo abbandonò sopra gli allori,
    Nè il sospiro mischiò dell'agonia
    Col sospiro dei forti. Entro al silenzio
    Della natura si disperse il Grande.
    E solingo spirava ai giorni antichi
    Catone,
                allor che un fato iniquo
    E una virtù, che il mondo oggi sconosce,
    Di terra in terra travolgean ramingo
    L'ultimo dei Romani.
    Sulle arene di Libia inospitali
    Venne traendo l'anima indomata;
    E poichè fremer si sentì da tergo
    Di Cesare il delitto e la fortuna,
    Chiamò la morte, e intemerato un ferro
    Si ascose nelle viscere.
                    Libertà d'un santo
    Amplesso a lui cinse lo spirto, e insieme
    Nei cieli si confusero.

                    E la Sventura
    Parte scontò del tuo delitto, o forte,
    E velò d'una lacrima il soverchio
    Raggio della tua gloria: – e forse un giorno
    Pellegrini verremo alla tua tomba,
    Dove or siede custode la vendetta
    Dei regi che tremarono, e un sospiro
    Alle deserte ceneri contende.
    E la Sventura eterna ha sulla terra
    Una religïone, – e nel sepolcro
    L'uomo non va, se prima non l'adora.
    E la Dea più tremendo sacrificio
    A te chiese, che agli altri; – il pianto chiese
    E il servaggio dei popoli, – e tu desti
    La servitù col pianto; – ed eri allora
    Sacerdote e non vittima, e calcasti
    La crëatura come pavimento;
    E confitta per sempre la fortuna
    Credesti aver sotto le piante, – e forte
    Eri fra tutti i forti, e la tua spada
    Simile al raggio del Pianeta eterno
    Girò sull'universo. Ancor la terra
    Lo scalpito rammenta del cavallo
    Che ti portava alle vittorie, – e vinti
    Fur tutti, – anche la patria.

                    Più non avesti freno
    Dacchè vedesti i popoli agitati
    Giuoco della tua destra; – e un riso amaro
    Dei mortali ti prese, – e il firmamento
    Forse afferravi col pensier profondo,
    Pensier, dove fremea l'onnipotenza.

                    A mezzo il corso
    Cadesti; e quando il tuo pensiero anelo
    Si affacciava al futuro, era un'immensa
    Di tenebre pianura l'avvenire.

                    Un'eterna
    Religïone adunque ha la Sventura
    Dai mortali adorata, – e un sacrificio
    Più che agli altri tremendo a te chiedea,
    E ti rapì la folgore di mano
    Onde al suo truce simulacro un mondo
    Immolavi, e la forza ti fugava
    Dal braccio onde squassasti un dì la vita
    Delle nazioni. Uomo tornasti, e tutta
    Sentisti l'umiltà di nostre sorti.


IL DÌ DE' MORTI[23]

― 18...? ―

Era il dì dei morti, e i sacerdoti e pochi vecchi piamente pregavano a
Dio la pace dei Defunti, – e la brigata delle donzelle e dei garzoni
lasciviando si dava alla gioia; ma non era la gioia, – sapea più di
baccano, e moveva da crassezza di sentire; ed io maravigliava come le
anime nostre fossero sorde alla voce sempre solenne della morte. – Ma
di chi suona la solinga preghiera della carità? – Era una giovanetta
nel tempo dell'amore, che pregava in disparte, e dalle vereconde sue
forme spirava un sorriso di dolore, a quella guisa che si dee sorridere
in Paradiso, ed essa guatava sentitamente le fosse dei nostri padri con
una mestizia dolce, e sicura, affidata di certo della sua innocenza.
Io la fissai, – e il raggio della bellezza e del pudore mi acquetò per
un istante la tempesta dell'anima; e pel momento che la vidi spuntò
un fiorello tra le spine della mia vita. La bellezza mi parlò al core
poeticamente, ed io sentiva in quel punto di esser poeta. Ah sì! la
poesia debb'esser la favella dei beati, poichè per parlarla bisogna
disciogliersi dal viluppo dell'umanità. – Chi toglie il velo delle
lusinghe alla vita scuopre la morte. Ed io rivestii di care lusinghe la
vita, e più non vidi la morte.


IN UN ALBUM

― 1839 ―

Noi ci siamo veduti una volta sola, o Signora, ma senza occasioni
d'intimità, senza poterci conoscere ed intendere a vicenda. Pure voi
non mi uscirete più mai dalla mente, perchè il suono della vostra
voce sollevò dentro di me un tumulto di memorie potenti. Voi mi
riportaste a Genova, dove la Virtù Italiana non è spenta affatto, dove
ho vissuto cogli affetti i più begli anni della mia esistenza, dove
sono stato fratello d'anima a molti generosi,...... Io vi ringrazio, o
Signora, perchè senza saperlo voi mi avete fatto un gran bene; perchè
voi, sottraendomi per un tratto ai dolori abietti del presente, mi
avete fatto rivivere nel passato, mi avete rinverdita la speranza,
rinvigorita la fede nell'avvenire. Voi m'avete fatto sentire più
intenso il desiderio d'un vostro concittadino, del quale ho letto pochi
versi in questo Album. Serbate con reverenza quei versi, perchè sono
un brano palpitante d'una grand'anima, che il mondo non ha per anche
compreso. Teneteli cari come una santa reminiscenza, – o non foss'altro
come un'ammenda onorevole alle scortesie, o alle freddure, che altri
per avventura abbia potuto scrivere in questo libro. ― Accogliete
queste mie parole non come un'arida formula di convenienza, ma come
un'effusione di vivissima simpatia.


UN SOGNO

― 1839 ―

Il 5 Marzo 1830 ad alta notte mi addormentai, e feci questo sogno.


La serva entrò in camera mia, e disse: – signor padrone, sono accecata.
Due persone hanno picchiato all'uscio, ed hanno dimandato di Lei; io
appena le ho guardate in faccia son diventata subito cieca: – A queste
parole feci un atto, ed una esclamazione di maraviglia, e intanto
le due persone entrarono. Erano Giovanni P.*** e sua Madre, ambidue
morti di fresco. Conservavano la figura e le sembianze naturali, come
quando erano vivi, se non che negli occhi e nel sorriso traluceva loro
un non so che d'immortale. Al vederli io restai reverente e commosso.
Giovanni mi abbracciò e mi baciò; sua Madre mi strinse cordialmente
la mano, e disse; – veniamo a ringraziarvi di quello che avete fatto
per noi, e specialmente per il mio Giovanni. Partecipate i nostri
ringraziamenti anche agli altri vostri amici. – Allora io dissi: –
Signora, tra questi miei amici ve ne sono tanti dei poveri; sapreste
darmi tre numeri al lotto? – La donna con atto amoroso mi diede un
leggiero schiaffo, e disse: – così rispondono gl'immortali a certe
dimande. – Io restai un certo tempo umiliato e compunto, e poi ripresi:
– vedete, voi siete venuti da me, ma io sono un povero diavolo, ho la
stanza vuota e disadorna; non ho tampoco da offrirvi da sedere; e quei
due spiriti risposero sorridendo: – noi non siamo mai stanchi. ― Non
ho neppure, – soggiunsi, – da farvi un poco di rinfresco, – e rimasi
come mortificato. Allora Giovanni si levò di seno un vasetto di forma
insolita, ma elegantissima, di una materia preziosa, bellissima, che
rifletteva tutti i colori dell'iride, e facendomelo odorare esclamò: –
senti, questa è l'ambrosia, il nudrimento degl'immortali: – Odorai, e
caddi assorto in un'estasi dolcissima, ineffabile, nella quale mi parve
di giacere lo spazio almeno di quattro secoli. Alla fine mi riscossi, e
rividi quei due, e dissi: – ma io ho dormito almeno 400 anni? ― Neppure
un minuto secondo, – rispose Giovanni, – questo è un lampo della vita
immortale. – Io stetti un poco sopra di me, e poi dissi: – ma dunque, o
Giovanni, c'è veramente un altro mondo? – Ed egli rispose: – c'è Dio,
e c'è un altro mondo. – Queste parole mi scossero tutto, e mi fecero
pensar profondamente per un tratto di tempo; poi dimandai: – e chi
ci viene nell'altro mondo? ― Ci vengono quelli che soffrono, – mi fu
risposto. Io curvai la testa sul petto, come per raccogliere le idee;
stetti qualche tempo in quell'atto. A un tratto rialzando la fronte,
preso da un impeto subitaneo, interrogai: – ma Elena? – Giovanni allora
disse: – Elena è santa fra tutte le Sante, è un inno di fuoco; è la più
bella e solenne nota d'amore, che canti dinanzi all'eterno. Ella vede
e sente il dolore di sua Madre; e si strugge per lei, e vorrebbe venire
da lei; ma quando fa l'atto di partirsi, Dio l'afferra, e se la chiude
nel cuore.

Quì Giovanni sì tacque, e sua Madre facendosi più d'appresso mi disse:
– andate da quella Madre; ditele che creda, che speri, perchè tutte le
Madri pregano per lei. – Quindi ponendomi con garbo affettuoso la mano
sul capo soggiunse: – tu hai, figliuolo, dei grandi peccati, ma c'è chi
prega per te.


E quì il sogno si sciolse.

NOTE:

  [22] _Questi frammenti, quali noi li presentiamo ai Lettori,
  furono dall'Autore offerti in dono a un Amico suo dilettissimo.
  Forse egli intendeva da prima ordinare nel contesto di un
  componimento i concetti e le immagini, che venne in essi notando;
  ma nol fece poi mai._

  [23] _Ignoriamo se questo poetico componimento sia originale o
  tradotto._



LETTERE


Noi vogliamo stampare nella memoria de' nostri giovani concittadini
l'immagine d'un'_anima_, non d'una _mente_; vogliamo dir loro: «in nome
di Dio, non lasciate che anime siffatte periscano senza dar frutto».
Abbiamo noi tutti oggimai più bisogno d'uomini, che non di _scrittori_.
Abbiamo bisogno d'imparare a _credere_, non ad ammirare. Se avremo dato
alla gioventù nostra un'_anima_ da venerare ed amare, avremo fatto più
assai che non rivelandole dieci scrittori.

                                                                M.***


I.

  Bravo F.***[24]

                             . . . . . . .

E sia pur come vuolsi, e lasciamo i nostri nemici a chi se li voglia
prendere, e veniamo a noi. Come vivi, F.***? se io faccio la somma,
risponderò per te: malamente, fratello, malamente assai. Ed io ti
dirò: pazienza, F.***; e tu riprenderai: pazienza pur troppo, perchè
la pazienza è l'unica veste, che il padre Adamo lasciasse ai suoi nudi
figliuoli; ma però la bevanda è amara, e non ispegne la sete. Ed io
ti dimanderò da capo: Come vivi, F.***? ti rode sempre quell'ansia
profonda, misteriosa, di cui non seppi, e non osai mai penetrare la
causa? e ti cavalca sempre lo spirito un diavolo nero, onde così per
tempo s'inaridisce la giovanezza dell'anima tua? O fratel mio F.***!
ogni qualvolta io penso alle tue angustie, e alle mie, ed al fatalismo
di tante turpitudini umane, in verità mi prende lo sdegno d'essere un
uomo vivo, e bestemmio forte, e andrei più oltre se potessi, e se il
male fosse tutto in un nodo. Ma il male è veramente una Forza, e il
Mondo gli dà gran luogo; – ed io invece son debole, e destinato come
tutti gli animali al dolore, e alla pazienza, e vivrò finchè mi riesce,
e morirò.... e morirò solo solo, nè tu, dolce amico, potrai forse più
darmi un bacio nell'agonia come hai già fatto un'altra volta. ―

Io ho cuore di forte, o F.***, o credo almeno di averlo; – ma quando
per le varie ore del giorno via via mi si fa sentire una mancanza di
care abitudini, un desio delle gioie provate esercitando la vita d'una
amicizia caldissima, e mi rammento come spesso le tue mille passioni
mi ardevano, e come spesso ti compiacevi alle fantasie del tuo povero
amico, e come i miei pensieri erano intesi, e trovavano nel tuo animo
gentile una risposta, oh! allora io davvero mi piego sotto l'affanno,
e il mio spirito si diffonde in mille moti di dolore, e di amore.

E veniamo ad altro. Mi dici, e sento dirmi da tutti, che sei fermo pur
sempre nell'idea d'emigrare in Inghilterra. Io non istarò a dirti se
tu faccia bene, o male; che ne so io? che ne sai tu? che ne sa tutto
il mondo? Per me ho veduto troppo sovente, che le cose buone e cattive
sono fatte dal Caso, e l'uomo non si travaglia, che per essere il
suo stromento. Io dunque non ti dirò se tu faccia bene, o male; non
mica, che se volessi io non potrei schierarti su questa tua andata
migliaia di ragioni _pro_, e _contra_; oh! pur ch'io volessi, tu mi
udresti ragionare a gran distesa, perchè l'uomo in fatto di ciancie
può andare avanti e indietro senza spese di viaggio, e farsi padrone
del torto, e del diritto; ma l'uomo, che nei casi difficili non sa
dare all'amico altro che consigli, meglio è che si taccia. Ti dirò
soltanto, che tu faccia a modo tuo, perchè così, anche facendo male,
la percossa che viene dalle mani proprie è meno acerba di quella, che
viene dalle altrui. E Socrate disse: – Un Genio parla nel petto a voi
tutti, o mortali; e chi nacque a correre una corsa che tutti non fanno,
perchè, non la sanno fare, non può e non deve ascoltare, che le leggi
del suo Genio, altrimenti si rassegni ad essere sopra tutti infelice.
– E se il tuo Genio ti comanda l'esilio, giovi l'esilio, e abbandona
la patria, e quante cose d'amore ha la patria, e sii felice se puoi,
o almeno ti domino le alte sventure, e sempre ti si mantenga amabile
l'ambizione della Gloria. Ma quando sarai lontano fra gli stranieri, e
non avrai più nulla di tuo, che le passioni, e le memorie di un tempo
passato, allora il tuo pensiere sia italianamente generoso, e colla
forza della immaginazione scaldati sempre al nostro Sole animatore
perenne del Genio, e del valore italico, – e ti risovvenga di una gente
dolorosa, d'Italia nostra, di questa cara armonia di tutta la Natura,
– e cingi sovente le sue immagini dell'ala dei tuoi affetti, – e
considera l'anima tua come sacra a te solo, – .... e allora i concetti
ti sorgeranno nella mente come le stelle in Cielo, liberi, e splendidi
di bellezza divina, e brillanti di eterno movimento. ―

F.*** mio! la lettera è lunga, e mi avvedo di avertela scritta in un
certo tono, che sa piuttosto di paternale; ma tu conosci l'amico, e ben
sai se io m'abbia avuto mai l'orgoglio di far lume a nessuno, io che
fermamente credo di non saper nulla, tranne che sono un povero diavolo
mandato su questa terra ad occupare un po' di luogo, e null'altro, e
tengo aperto sempre l'uscio di casa per vedere se il vento un giorno o
l'altro mi ci porti la Verità, o la Ragione, quel segreto in somma, che
ci vuole per diventare un gran Maestro, e dire alla gente, fate, o non
fate. Ma io voglio finirla, F.*** mio, e ti dirò, che son tutto tuo, di
dentro e di fuori; – vero è che costo troppo poco, e un regalo siffatto
sarebbe meglio a non farlo, ma ormai la parola è corsa. Ama dunque per
sempre il tuo

  1.º _Agosto_ 1830.

                                                               CARLO.

_P. S._ Non passa giorno, che io non oda intuonarmi all'orecchie
la canzone della prudenza, e son certo più per te, che per me. La
prudenza, a dir vero, è un certo Santo cui finora non ho saputo trovare
uno sgabello fra le mie religioni. Pure gli uomini gravi mi dicono con
aria di compunzione, che ella fa sempre buono, e negli ardui eventi
per la salute dell'uomo non vi è bussola altra, che questa. E qui
forse diranno bene, e forse no; ma indossare ogni giorno quella livrea,
com'essi vorrebbero, parmi appunto come portare sempre l'ombrello anche
quando non piove. E tutto questo sia per non detto. ―

                             . . . . . . .


II.

  Carissimo Padre

La nostra partenza di Livorno fu piuttosto un ratto, che una
partenza.... Sul principio del viaggio fu calma profonda; – il legno
andava piuttosto con remi, che con la vela. Poi, due ore dopo incirca,
si levò un vento fresco, forse troppo fresco; – allora piuttosto
che andare volavamo. In mezzo a questa furia di vento un uomo ebbe
a perire: faceva sue manovre in cima a un albero da poppa, quando
l'albero per vecchiaia si troncò nel fondo; e se non era la sua
destrezza, l'uomo periva di certo. Nessuna industria umana avrebbe
potuto ritirarlo a bordo, tanto quel diavolo di vento ci rapiva via.
Ma, come Dio volle, tornò sano e salvo in coverta; avea lo stesso
viso di prima, e col solito suono di voce disse rimettendosi a nuove
faccende: _un altro po' ci perdeva la vita_. Queste parole sono
semplici, e poche, ma rivelano un cuore sicuro. Io ammirai tacitamente
la gagliardia di quell'anima popolana. Dimandai a un tale, che mi
stava a lato, come si chiamasse costui. Mi rispose, che si chiamava
la Scimmia; e questo nome in merito della sua singolare sveltezza.
Seguitammo a correre col vento fresco, nè ci abbattemmo in altri casi;
poi quando fummo in vicinanza dell'Isola, il vento rallentò, e rivenne
la calma. Allora nuovamente mano ai remi, e così entrammo nel porto,
ove un Ministro di Sanità ci ricevè colle solite forme. In somma il
viaggio fu compito in poco più di 7 ore. Io non potei goderne, perchè
durante il tragitto il mal di mare mi travagliò fieramente. Ponemmo
il piede a terra nell'Ufficio di Sanità, dove ci trattenemmo sopra
due ore; e in quel frattempo, non sapendo che altro fare, ordinammo un
lieve ristoro di cibi, e questo poi, più o meno, era un bisogno comune.
Quando fu venuta la notte, movemmo colla nostra scorta per entrare in
città. Entrammo, e traversando una piazza, e parecchie strade fatte a
scala, giugnemmo al Forte ***.

                             . . . . . . .

E quì finisce la cronaca del mio viaggio. Ora la vita attiva si è
mutata in vita contemplativa; nè io saprei cos'altro raccontarvi, se
pur non fosse la storia dei mille grilli, che da mattina a sera mi
svolazzano nel cervello. Ma questo nol comporteremmo nè voi, nè io,
nè quei signori deputati a leggere tutto ciò che scriviamo. Ora io
sono, e non so per quanto, domiciliato alla ***, sano di corpo, di
mente sanissimo. Ho una casetta bastantemente capace per una persona.
È composta di due stanze nè troppo grandi, nè troppo piccole. Un
letto, una panca, una tavola, sono gli arredi. L'uscio si chiude per
di fuori, e le finestre sono come le vostre, se non che hanno di più
l'inferriata. La casa è situata a mezzogiorno, e da una parte confina
in un angolo angusto, che i Francesi chiamerebbero _cul de sac_.
Dall'altra parte la casa è contigua a una caserma, e a prima giunta
la vista s'incontra in una pila, in una cisterna, e in una campana,
che non suona mai. Ma sospingendo l'occhio un poco avanti la scena si
tramuta maravigliosamente, e dalla umiltà prosaica salisce alla sfera
poetica. Un clima dolce, armonioso, un cielo purissimo, una parte
pittoresca di golfo, una catena di monti bruni bruni, contrastanti
vivacemente coll'azzurro del cielo, e col verde limpido del mare;
tutta una Natura magnifica, una creazione bella di bellezza veramente
italiana. Ma per chi guarda dalle sbarre d'una prigione, il cielo è
mesto, e la Natura è malinconica.

Del resto, come vi ho già detto, la vita, che io meno, non ha bisogno
di troppi colori a dipingersi. La notte dormo quando posso; e quando
no, veglio fantasticando. Il giorno mi levo; passeggio un poco sopra
uno spazio di 12 passi; poi leggo; poi di nuovo passeggio; alle 2 un
Trattore ci manda il desinare a modo suo; il dopo pranzo la medesima
canzone, finchè non torni l'ora di rimettersi a letto. Come vedete,
è una nota unica sopra una corda unica. Per un'ora del giorno uno
dopo l'altro siamo condotti a respirare all'aperto; l'aria in questi
luoghi è balsamica, e fa buono al sangue. Di quando in quando viene
a visitarci il Comandante della Piazza, una gentil persona, di cui
non conosco per anche il nome, e ci tratta paternamente. Talvolta mi
affaccio ad osservare i soldati occupati nell'opere loro: in due o tre
giorni ho compreso tutti i misteri della vita militare; – è una vita,
che non eccita tentazioni. In somma, a dirvela schietta, io mi annoio
piuttosto che no, e l'Ozio, che una volta io vagheggiava come cosa
morbida e cara, oggi è mio nemico giurato, e mi sta indosso come un
cilizio, ed io concorro coi Padri della Chiesa a dichiararlo peccato
mortale. In somma questa monotonia è tale, che a lungo andare può
convertire l'anima umana in un orologio a polvere.

E se voi, e altri, voleste sapere la ragione intima del bizzarro
avvenimento, che mi ha percosso, io vi so dire, che è tal problema da
sgomentare tutte le Geometrie di questo mondo. Voi conoscete meglio
di me i miei umori, e la mia condotta, perchè vi sono vissuto accanto
finora. Commerciante di professione; chiuso di pensieri per indole,
e per sistema, e però taciturno quasi sempre; senza nome, senza
influenza, senza ambizione; partigiano della quiete, anzi dell'inerzia,
– non avrei fatto un passo più lungo del solito per iscansare una
fossa; – di spirito scettico, – talchè spesso io mi trovava a contrasto
colla corrente, e non me ne importava; – la storia della mia vita
era la storia della pianta, che vegeta, e nulla più. Avvertito, che
i tempi correvano difficili, rinnegai per tempo l'esercizio di quelle
poche facoltà d'ingegno, che la Natura, non so se madre, o madrigna,
volle assegnarmi in dote. Così fatto com'era, avrei giurato, che la
mia esistenza quasi sotterranea sarebbe trascorsa nel silenzio senza
dar ombra a nessuno, senza destare nè odio, nè amore; avrei giurato,
che il dì dei miei funerali, pochi, ma pochi, avrebbero detto: è
morto un morto. Ma che per questo? I concetti del mortale son tele di
ragno, – un nulla le rompe. La prudenza può talvolta menare dove mena
l'imprudenza; il non far nulla talvolta equivale al far qualche cosa;
questo è un conto, che in aritmetica non torna, ma che pure entra nella
serie degli umani accidenti. L'uomo spesso non dipende da sè stesso; la
Fortuna agita i dadi della sua vita, e la Fortuna è femmina, e di più
non ha occhi.

Non ostante da tutto questo non dovete indurne argomento di disperare.
Io credo fermamente, che l'Innocenza non sia un giuoco di parole;
io credo, che la Giustizia non siasi rimasta fra le divinità della
Favola. Il tempo schiarirà tutto; almeno così diceva a Livorno il
Medico N., disputando sulla malattia di un tale già sepolto da una
settimana. Datevi coraggio proporzionato agli eventi; coraggio per
resistere a queste prove troppo dure per le viscere di un padre.
Consolate mia Madre. Povere madri! pur troppo negli annali del tempo
la Fatalità produce epoche in cui le madri hanno a tremare di essere
state feconde! Io però son tranquillo. Il caso mi ha temperato
un'anima vigorosa a sopportare pacatamente il bene ed il male. Se io
fossi solo nel mondo, credete pure che sorriderei dall'alto in giù
a queste piccole traversie; ma chi nasce di donna non è mai solo nel
mondo; e gli affetti di sangue, d'amicizia, d'interesse, sono tanti,
e così complicati, e così inerenti al cuore dell'uomo, che il cuore è
costretto a gemere profondamente, quando la forza delle cose lo recide
da vincoli tanto vitali. Pure, ve lo ripeto, fate animo; e confido,
che non avrete mai a piangere per cagion mia; ma se ancora un giorno
doveste piangere, le vostre non saranno lacrime di vergogna. Io oso
dirlo senza superbia, e i miei nemici non oserebbero negarlo: ho
percorso 27 anni di età, ma tutti quegli anni dal primo fino all'ultimo
hanno segnato una linea retta nella via dell'onore.

  Addio.

  _Dalla ***, 17 Settembre 1833._

                                                     Il vostro CARLO.


III.

  Carissimo Padre

Ieri mi fu consegnato il baule che mi spediste, e tornano a dovere
tutti gli oggetti contenuti nel medesimo.

Ho sentito dolorosamente la grave malattia, che ha dovuto subire la
mia povera Madre in séguito della mia deportazione; ma poi mi sono
riconfortato alle nuove del suo miglioramento, e spero fermamente, che
al giunger di questa mia sarà ristabilita nella sua primitiva salute.

In quanto a voi, vi esorto a sopportare virilmente il dolore della mia
lontananza; è vostro dovere, – non avete me solo di figli.

Io ho piena fiducia, che la mia detenzione non andrà in lungo; e se a
quest'ora mi avessero interrogato, credo che tutto sarebbe finito per
il meglio.

Non vi date pensiero di me; non ho bisogno di esser consigliato alla
rassegnazione. Per questo sono abbastanza ragionevole; e poi io son
forte di animo, e forte della mia coscienza. Se non fosse il dispiacere
di non trovarmi fra i miei parenti, la prigione sarebbe per me una
privazione poco significante. Oltre di ciò non dovete far dei romanzi
colla vostra immaginazione; non dovete figurarvi uno stato orribile.
Noi siamo in una custodia militare, e sapete che i soldati sottosopra
son gente di cuore, e non sono avvezzi a mettere in uso tutta quella
teologia di rigori inutili, come farebbe un soprastante delle carceri
civili. Noi siamo trattati con tutto il riguardo; possiamo leggere, –
possiamo scrivere; e relativamente ai comodi della vita, ogni cosa che
dimandiamo ci viene accordata nell'istante. Quello solamente che ci
affligge è che non possiamo vivere insieme; ma in questo le Autorità
locali non possono nulla, poichè dipendono in tutto e per tutto dagli
ordini superiori.

Del resto, io godo perfetta salute, e perfetta calma di spirito. Non
ho mai mancato di niente, mediante la cordiale assistenza di tutta la
famiglia M.***, e se voi le scrivete, ringraziatela anche voi di tante
prove di verace amicizia, che mi hanno dimostrato nelle circostanze
attuali.

Io aveva fatto venir del danaro per passarlo al G.*** secondo il
d'accordo, ma contemporaneamente gli furono pagate non so da chi Lire
200, e per questa volta non ne ha avuto bisogno. In séguito io non
mancherò di fornirgli il necessario ad ogni sua richiesta, dandovene
avviso per vostra regola.

Io non ho debiti, perchè non era mio sistema di farne, e più ancora
perchè non ne aveva motivi. Soltanto presi certa roba per vestirmi da
estate da G.***, che avrei già pagata senza il caso del mio arresto. Se
volete pagarla voi, sarà lo stesso.

Quello di cui poi mi raccomando caldamente, è che consoliate la mia
povera Madre. Voi sapete, che le donne son cose deboli per natura,
molto più poi se aggiungete in loro il sentimento dell'amore materno.
Di tutto si allarmano, ingigantiscono tutto, d'un atomo ne fanno una
montagna. Ci vuole un'arte squisitissima per maneggiare il cuore di
enti così delicati. Ditele, che io sto bene, – che son trattato bene,
– che ogni giorno mi menano un'ora al passeggio per il Forte, – che le
Domeniche ci conducono alla Messa in città, – che non tema di nulla, –
che viviamo sotto un Governo moderato; – che appena il Governo si sarà
sincerato de' suoi dubbi, tutto sarà finito; – che non siamo briganti,
ma buona e pacifica gente; – che la prigione non prova nulla, perchè
in prigione ci può andare anche un Santo; – che non sono molti anni
ci stette anche un Papa. – In somma a voi tocca il dirle tutte le cose
opportune per ridonare la tranquillità al suo spirito.

Date un bacio per me all'Enrichetta, e credetemi

  Dalla ***, 3 _Ottobre_ 1833.

                                                     Il vostro CARLO.


IV.

  Carissimo Padre

Le notizie intorno la cattiva salute della mia povera Madre mi hanno
profondamente angustiato, e potete immaginare, che io non sarò mai
affatto tranquillo, finchè non la senta ristabilita nel suo stato
primitivo. Però vi prego con tutta sollecitudine a darmi altre nuove di
lei, sperando che sieno migliori delle già ricevute.

A quel vostro amico, che vi disse in confidenza, che noi subiremmo
un Processo alla Francese, dite che vi ha raccontato una novella.
La natura della nostra Legislazione non ammette siffatta procedura;
oltredichè noi abbiamo avuto già l'esame sui princìpi di questa
settimana, e la nostra causa si agita per mezzo di un Processo
economico. Ora per vostra regola, e quiete al tempo stesso, dovete
sapere, che quando gli affari sono di poca importanza si trattano
economicamente; quando sono di molto rilievo, allora vanno sottoposti
alle forme di un processo ordinario. Il Cancelliere che ci ha esaminati
è il signor F.*** B.***, la più cortese persona, che io m'abbia
conosciuto in questo mondo; e mi ha fatto maraviglia come in un
impiego, dove da mattina a sera si rimescolano tutti i peccati degli
uomini, egli abbia potuto conservare tanta squisitezza d'anima. In
passato, quando io pensava ad un Cancelliere criminale, mi si destava
subito in mente l'idea dell'orco; ma vedo, che sempre non è così, e ai
fatti bisogna credere.

Il Signor Cancelliere mi ha fatto sperare, che le cose non andranno
in lungo; queste parole però possono avere un significato, e possono
non averne nessuno. Quello nondimeno, che mi ha fatto intendere di
positivo, è che si crede bene di tenerci in sicuro fino a che non si
siano dissipati certi torbidi, che si dice sieno per aria. Io, che sono
nel Limbo, non posso saper nulla di queste cose; ma voi, che siete nel
mondo, potete vederle, e in ogni caso informarvene, e, dai ragguagli
che vi daranno, potrete calcolare approssimativamente il tempo della
nostra detenzione. E se il torbo esiste, pregate Dio, che mandi una
tramontana tagliente e spietata, che spazzi il benchè minimo nuvolo dal
nostro cielo.

Devo anche dirvi, che si sono offerti spontaneamente a pensare alla
nostra sussistenza in quel modo, che meglio si addice alla nostra
condizione, di più i comodi delle nostre stanze sono stati aumentati in
guisa, che non manca più nulla, tranne l'andarcene, cosa che farebbe
comodo a noi, ed anche a quei Signori, che hanno il disturbo di
custodirci. Dunque voi vedete, che, se siamo in una gabbia, la gabbia
almeno è indorata.

Sento vivamente il dispiacere della malattia irremediabile del signor
N., perchè era un uomo di cuore, ed uno dei migliori sostegni del
commercio di Livorno; ma che dobbiamo farci? nella morte non vi è
ingiustizia; – _chacun à son tour_.

Io vi dico, che séguito a star bene di corpo, e sarebbe lo stesso
in quanto allo spirito, se il pensiere di mia Madre non mi turbasse.
Salutate caramente la famiglia, e gli amici, e credetemi

  _Dalla ***, 19 ottobre 1833._

                                                     Il vostro CARLO.


V.

  Carissimo Padre

Ricevo la vostra del 23 corrente, e mi gode l'animo a sentire le
notizie della migliorata salute di mia Madre, e a quest'ora spero che
sarà libera di quello strascico di mal essere, che lasciano dietro di
sè le lunghe infermità.

In quanto a me veramente non saprei cosa dirvi; la mia vita non ha
variazioni, e potrei ripetervi oggi quello che vi scrissi a principio.
Io sto bene al solito, e mi sento disposto a durare un bel pezzo così.

Voi mi dite, che secondo la voce pubblica si spera, che presto saremo
a casa. Anch'io lo spero, e tutti speriamo bene in questo mondo,
perchè così vuole l'istinto; per altro io vi esorto a non dare ascolto
alla voce pubblica, perchè si muove a caso, e non dietro un dato
positivo. Che volete che sappia il pubblico di una misura stabilita
a uscio chiuso fra tre o quattro Signori, che non hanno niente che
fare col pubblico? Il termine della nostra detenzione dipende dalle
deliberazioni dei nostri padroni, e non dalle congetture del pubblico,
che parla sempre, e parla di tutto, perchè le parole non gli costano
nulla; altrimenti sarebbe più riservato. Il meglio è per la vostra
quiete, che voi non vi regoliate con un termometro così fallace;
voi potreste trovarvi a sperare invano da un giorno all'altro,
e la speranza così indugiata è un dolore non leggiero. Attendete
pacificamente, che il nodo si sciolga da sè, e tenete fisso in cuore,
che non vi è nulla a temere, ma che noi siamo altrettanti pegni
politici!

Fate i miei più cordiali saluti a T.*** B.***, e ditegli, che, se
io non l'ho mai rammentato nelle lettere trascorse, è seguíto non so
perchè, ma che io l'ho continuamente nella memoria. Egli mi conosce
troppo bene per non credere alla sincerità di queste mie parole.

Salutate pure la famiglia, e gli altri miei pochi amici. Addio.

  _Dalla ***, 29 Ottobre 1833._

                                                               CARLO.


VI.

  Carissimo Padre

Dalla vostra del 10 corrente intendo, che la famiglia in generale
sta tutta bene, e questo mi fa piacere. Io pure godo d'una prodigiosa
salute. In quanto alla mamma, speriamo, che gradatamente riacquisterà
tutte le sue forze. Bisogna calcolare, che la stagione è poco propizia
ad un rapido risorgimento; bisogna calcolare, che la donna è piuttosto
vecchia che giovane, ed una malattia, complicata di dolori fisici e
morali, lascia necessariamente una lunga vibrazione in una macchina già
declinata.

Sento la morte di N.; ho letto ancora la storia delle sue disposizioni
testamentarie. Per me, non ci trovo nulla a ridere, come potete
immaginare; non so, se sarà lo stesso delle parti, che vi si credono
interessate. Se non m'inganno però credo, che in qualche parte
l'affetto abbia prevalso alla giustizia; ma i moti del cuore vanno
perdonati, specialmente in un uomo, che dispone del suo. Trovo
giustissimo il lascito fatto a X.; e poteva ancora raddoppiare la
somma; e riguardo alle gioie lasciate alle ..., con una leggiera
trasposizione io le avrei vedute meglio collocate nelle ...; indosso a
quelle ragazze avrebbero fatto una certa figura, mentre indosso alle
.... ci stanno come una satira, prima perchè sono ricche del proprio
oltre il dovere, e poi perchè son vecchie. Le vecchie, cessando di
appartenere agli uomini, appartengono per diritto impreteribile a Dio;
in conseguenza io avrei lasciato loro un elegante rosario. Del resto,
io faccio queste riflessioni non perchè io mi creda in diritto di
entrare nei fatti altrui; ma le faccio così per ozio, per non mandare
a Livorno un foglio affatto bianco; e son certo, che se quelle Signore
venissero a sapere come io la penso su questo proposito, mi darebbero
il titolo d'impertinente, ed avrebbero ragione.

Comprendo il dolore da voi provato per la morte di quest'uomo, e vi
compatisco. La perdita di un utile amico è pur troppo deplorabile! Ed
io pure ne sono dolente; ma quando considero, che anch'io un giorno
dovrò passare le soglie di questo mondo, vi confesso candidamente,
che il dispiacere, che ho verso gli altri, ritorna indietro, e sta
per conto mio. – Però non si può negare, – è morto un galantuomo; ed
io sono persuaso, che quell'anima buona è volata di punto in bianco
in Paradiso, dove troverà di certo meno negozianti, che nella nostra
Camera di Commercio. Anch'io son del mestiere, e son giudice competente
in questa materia.

Voi mi dite che i .... sono intorno a comporre una nuova ragione. Viva
la nuova ragione! Io non posso che lodarli; io conosco quei giovani,
– son pieni di merito, e in una faccenda come questa son capaci di
andare sino in fondo. Viva la nuova ragione! io invito tutto il mondo
a fare una nuova ragione, poichè l'antica è ormai troppo stanca, e
non serve più a nulla. Salutate quei giovani da parte mia; date loro
i miei mi-rallegro; sappiano, che auguro loro il vento fresco della
fortuna, che auguro loro il profitto d'ogni bilancio annuale con una
lunga coda di zeri. Relativamente poi all'avervi mandato a chiamare
per proporvi quella continuazione di affari, che combinavate con
N., non è uno sforzo, è una cosa tutta naturale; sanno che siete
un forte consumatore, vi stimano un uomo solido, e per questo vi
cercano. Fate, che manchi una delle due condizioni, e vedrete la scena
mutata. I negozianti sono come i giuocatori; – quando gli uni o gli
altri invitano a una partita di carte, o a una partita di affari,
le parole sono belle, ed umane; ma il pensiero intimo è di vincere;
l'industria poi e la sorte assegnano la vincita. Oltredichè fra N.
e.... non ci vedo equivalenza di condizioni; quegli era un uomo di
mezzi potentissimi, ed arbitro assoluto delle cose sue, dimodochè
quando s'immaginava di avere inciampato in un galantuomo vi dormiva
sopra, e combinava un affare tra uno sbadiglio e l'altro; al contrario
questi hanno meno mezzi, e per conseguenza maggior cura di assicurarli;
saranno probabilmente più diffidenti, perchè, non so come, i giovani
d'oggi sono più calcolatori dei loro padri; e poi cotesta società non
si compone di un valore unico, ma invece è uno stato federativo, e
prima di convenire in un sentimento uniforme, ci vorranno delle lunghe
assemblee.

Finisco la lettera, perchè mi pare abbastanza prolissa. Addio.

  _Dalla ***, 15 Novembre 1833._

                                                     Il vostro CARLO.

_P. S._ Fate i miei saluti al B.***, e ditegli, che a comodo suo gli
piaccia di salire in camera mia, e prendere la Storia del _Mignet_ in
Francese, e tre tomi in Inglese intitolati: – _Lord Byron and some
of his contemporaries, by Leigh Hunt_, e li faccia recapitare al
Gabinetto, poichè gli appartengono. Ve l'avrei detto prima, ma mi è
passato di mente.


VII.

  Carissimo Padre

Rispondo alla vostra del 20 corrente. Non vi dissimulo, che mi
travaglia non poco il pensiero intorno allo stato di salute di mia
Madre. Cotesta oscillazione continua tra il bene e il male mi dà da
temere. Non vorrei che fosse una malattia organica. Che ne dice il
Medico? Comprendo, che l'arte è assai limitata, specialmente quando
si tratta di veder dentro dove ci si vede poco o punto. Vorrei sapere
almeno, se il Medico è riuscito a definire il carattere vero e reale
della infermità; ditemi le cose come stanno, senza velarle menomamente,
perchè il mio spirito si adatta meglio ad una trista verità, che agli
ondeggiamenti di una incerta speranza.

In quanto alla mia liberazione lasciamo fare a chi spetta. Una qualche
volta dovrà seguire. Non posso ragionevolmente argomentare, se questo
termine sia lontano o vicino, perchè sono al buio di tutto; ma penso
che ora si corre per i tre mesi, che noi siamo messi al sicuro;
penso che, per quanto il termine sia lontano, ogni giorno ne passa
uno, e, volere o non volere, sempre più ci avviciniamo al fine. Io
bramerei uscirne più per gli altri della mia famiglia, che per me.
Io per me sono quasi indifferente; mi son gettato a gatta morta sugli
avvenimenti, e vado dove il flutto mi porta; volete, ch'io lotti contro
il destino? – non ho nè voglia, nè forza per farlo: il destino è Dio,
e l'uomo è un pugno di polvere.

Mi dite ch'io vi scriva più spesso. Io vi scriverei volentieri anche
ogni giorno; ma che devo dirvi? devo raccontarvi delle novelle? Quando
io vi ho scritto che sto bene, non ho più altro da dire. La vita
del prigioniere è troppo semplice, è troppo monotona; la vita del
primo giorno è la stessa di tutti gli altri che seguono, dovessero
moltiplicarsi ancora fino a cento mil'anni. Immaginatevi un uomo solo
solo, chiuso in due stanze, e padrone di ventiquattr'ore; che deve
fare? mangiare, leggere, e dormire, – dormire, leggere, e mangiare; è
un ritornello sempre su queste rime. Ed io di fatti non faccio altro.
Mi riesce di stare a letto almeno diciotto ore del giorno, specialmente
adesso che il freddo comincia a stringere; e vi confesso, che quando
mi levo, invece d'essere un uomo di carne e d'ossa, mi sembra d'essere
una balla di stoppa. Ma d'altronde, stare a letto non è lo stesso che
stare a sedere? Ho provato a passeggiare per le due mie stanzette, ma
quel trovarmi ogni momento colla faccia al muro mi dà la vertigine, e
mi conviene a smettere. Io dunque sto quasi sempre a letto. Mi ricordo,
che Carlo XII, quando cadde in mano dei Turchi, ci stette un anno di
séguito senza mai levarsi; io sento di poterlo emulare; voi vedete, che
gli uomini grandi in qualche cosa possono essere imitati dagli uomini
piccoli.

Noi pure abbiamo avuto i cattivi tempi; un'acqua interminabile, e un
vento così feroce, che non faceva stare in piedi le persone. Questa
circostanza c'impediva di uscire a prendere quell'ora d'aria, che
ci concedono; e di fatti un'ora d'acqua e di vento sarebbe stata una
contradizione agli ordini prescritti. Vero è, che questi Signori, avuto
un benigno risguardo a tale incidente, ora che il tempo si è rifatto
bello ci permettono di respirare un poco più dell'ora destinata. _Et
voilà tout._

In questi ultimi giorni mi son fatto venire dei danari dal M.***, ed
ho passato venti monete al G.*** Io per ora ne sono sufficientemente
fornito.

Salutate caramente la famiglia, il B.***, e tutti coloro, che hanno
memoria di me, e credetemi

  _Dalla ***, 22 Novembre 1833._

                                                     Il vostro CARLO.


VIII.

  Carissimo Padre

Ho ricevuto la vostra del 2 corrente. L'unica cosa, che in essa mi
abbia dato veramente conforto, è il sentire, che la salute di mia Madre
vada ogni dì migliorando con un progresso positivo.

Per le buone speranze che mi date, vi ringrazio sinceramente; e se si
verificheranno di fatti, io ci avrò molto piacere: altrimenti non sarà
una rovina; – _fiat voluntas Dei_; – io ho coraggio più che taluno non
crede.

Fondandomi sopra certe probabilità giudico anch'io, che la risoluzione
dei nostri processi debba esser vicina; per altro avvertite bene, che
risoluzione di processo non equivale a liberazione. Io stimo, che la
risoluzione debba esser vicina, perchè adesso corrono quasi due mesi,
che i processi sono stati compilati, e non vedrei ragione sufficiente a
protrarre più là questo termine, sebbene il mio _non vedrei_ potrebbe
essere tutta colpa della mia cattiva vista. Nondimeno mi fido più a
questo, che alle belle parole che scrivono la Signora V.***, e il Prete
G.*** Cotesto linguaggio di lusinghe e di dolcezze, ricavato dalle
Segreterie, ed altri simili luoghi, fu linguaggio tenuto fino da bel
principio, ed è naturale; le Autorità interpellate in siffatti casi,
sia per gentilezza, sia per calcolo, rispondono sempre umanamente;
somigliano i medici, che ai parenti non dicono mai la vera verità.
Però mi gode l'animo, che vi giungano spesso di queste buone voci; sono
sempre qualche cosa meglio delle cattive voci, o del silenzio assoluto;
io son sicuro del buon effetto, che producono sul vostro spirito. Così
è; la felicità le più volte consiste nel sapersi ingannare. – Ma, se
devo dire il vero, quello che finora non mi ha fatto congetturare
un esito vicino delle cose, è il non aver sentito mai intepidirsi
d'un alito la crudezza dell'atmosfera, che ci circonda; noi siamo
trattati oggi collo stesso rigore, come il primo giorno della nostra
deportazione. Questi nostri padroni ci custodiscono come mariti gelosi;
e se talvolta abbiamo fatto la minima rimostranza sulle cose le più
innocenti, ci hanno sempre risposto: – sono ordini. – Ora voi sapete,
che gli ordini muovono dal centro, e che le Autorità intermediarie non
oserebbero di alterarli menomamente, o inventarli di motu-proprio.

Tutto questo non vuol dir nulla; – una volta finirà la storia, o
finiremo noi, che torna lo stesso. Quello però che devo soggiungervi è
ch'io sono sbalordito affatto, e mi pare di aver nella testa un molino
a vento. Dovete sapere, che casa mia ha delle strane vicinanze; – prima
una pila, – poco più là un pozzo, – accanto al pozzo una campana, che,
come Dio vuole, fin qui non aveva mai parlato. Di più dovete sapere,
che nel Forte dove siam noi non passano altri che l'acqua e il vento,
e pochi soldati destinati a guarnirlo; dimodochè, come vi ho già
detto, la vita mia è invariabilmente uniforme. Ma in questi giorni ha
subíto un cangiamento straordinario. Jeri 5 Decembre a mezzogiorno io
me ne stava col capo appoggiato alle ferriate a godermi il benefizio
del Sole, allorchè in un tratto vedo comparire un nuvolo di preti in
erba, neri, sottili, affilati, non so se dalla fame, o dallo studio;
– parevan lanterne; – e dietro a loro una furia di ragazzacci di tutte
le razze, di tutti i colori. Alla insolita vista io rimasi di pietra,
e mi stropicciai gli occhi credendo di travedere; ma i preti e i
ragazzacci eran cose vere e reali, e bisognava crederci, e molto più
bisognò credere a quello, che fecero pochi minuti dopo. Arrivati sotto
la campana, i preti misero giù la lucerna, i ragazzacci il cappello, o
la buffa, e poi tutti in un gomitolo attaccati alla fune della campana
cominciarono a suonare a distesa. Lascio considerare ad ogni orecchio
bennato l'effetto che ne provai. Sulle prime risi di cuore, perchè
lo spettacolo era veramente nuovo, ed originale; ma poi andando per
le lunghe quel suono lento, ingrato, uniforme come quando suonano a
morto, davvero mi fuggì via quella tanta pazienza, ch'io mi ritrovo; e
cominciai a sudare, e a correre su e giù per la casa come un ossesso,
perchè veramente non ho mai avuto troppa simpatia coi campanili. Vi
fu un momento, ch'io pensai, che fosse stato sentenziato di farmi
ammattire. Però seppi dopo qualche tempo esser questa un'usanza del
paese e che i così detti scolari per S. Niccolò hanno il diritto di
suonare, la vigilia, e la festa del Santo, finchè hanno braccia; e di
più, quando sono stanchi, i soldati caritatevolmente vengono in loro
soccorso. Fatto sta, che, meno qualche poco d'intervallo, ora è un
giorno e mezzo che suonano. Potete credere, che io non vi avrei fatto
parola di questa freddura, se avessi migliori cose da dirvi. Frattanto
salutate cordialmente la famiglia, e gli amici. Sono

  _Dalla ***, 6 Decembre 1833._

                                                     Il vostro CARLO.


IX.

  Pregiatissimo Signor A.***

È una storia lunga la storia dei miei occhi. Questi occhi stanno
irremovibilmente ostinati nel male come se ci stessero bene, e non
ho trovato mezzi, nè scongiuri da convertirli a vita migliore. È
una storia lunga e bizzarra la storia dei miei occhi. Il male non
percorre i suoi stadi regolarmente, come gli altri mali; non procede
di grado in grado verso un esito qualunque, buono o cattivo; non si
contenta neppure di restar sempre sur un piede; ma si muove a zig-zag
in un giro capriccioso, contradittorio, in avanti, in addietro, di
su, di giù, da manca, da destra. Oggi, per esempio, mi stanno male, –
dimani tra il bene e il male, – dimani l'altro malissimo, – il giorno
dipoi si piegano al meglio, – quell'altro giorno rincattiviscono,
– il giorno seguente non manca che un soffio a guarire, e chi me li
vedesse in quel punto giurerebbe, che fra un'ora sarò libero affatto;
ma l'ora non è anche trascorsa, che il male fa un voltafaccia, e si
rimette in corso passando per tutte le fasi descritte. Che ne pensa il
Signor A.*** di questo labirinto inestricabile? Io davvero non so che
pensarne; e se questo giuoco all'altalena me lo facesse il cervello,
poco m'importerebbe, perchè avere un cervello fermo, o balzano, non
guasta il galantuomo, e in fondo in fondo il cervello è una cosa di
lusso, poichè si può fare il giro del mondo senza averne una dramma, e
vi sono uomini che arrivano alla vecchiaia senza che abbia reso loro
altro frutto, che il dolor di capo. Ma gli occhi! gli occhi sono una
cosa seria, e quando io penso all'estreme conseguenze, alle quali si
può giungere, mi viene un momento di freddo; e quando io mi rammento,
che poco fa tra anima e corpo la parte migliore, ch'io mi avessi,
era l'occhio, allora mormoro fra i denti, e guardo tutto a traverso,
terra, e cielo. Ma qui, Signor A.***, ci deve essere un circolo magico,
che impedisce al male di passare, e andarsene pei fatti suoi; qui ci
dev'essere una fata, un folletto, un demonio, un non so che di maligno,
e d'invisibile, che mi ha scelto per suo passatempo. Io pagherei uno
dei miei occhi, oggi che vaglion sì poco, per sapere a qual misteriosa
influenza essi obbediscono. E se la cosa è tale, che ci faremo, Signor
A.***? Io in quanto a me non ho nulla a rimproverarmi. Osservo i
precetti del Medico come tanti articoli di fede. Per tenere il sangue
quieto, ho interdetto tutto, – il vino, la venere, le passeggiate,
le passioni, i salumi. Ogni mattina bevo la mia tisana, e non serve;
mangio lo zolfo, e non basta; ne ho raddoppiato e triplicato la dose, e
non giova; mi son raccomandato a tre o quattro Santi di mia conoscenza,
e non si è fatto nulla; ho comprato un paio di occhiali, e questi non
portano ad altro, che a farmi vedere il mondo color delle viole, e a
rendermi il viso più arabico di quello che me lo fece mia Madre.

Dunque, Signor A.***? Oh! davvero era tempo di venire al dunque. Dunque
il Signor A.*** passerà quando vuole, e quando se ne ricorda, dal
mio banco, a vedere questi poveri occhi così malamente perseguitati.
L'intenzione era di scrivere due semplici righe d'invito, ma il caso ha
messo insieme più di due pagine, colpa ancora in parte dell'invecchiare
che io faccio, in parte della calma beatissima in cui si trova il
commercio.

  1834?

                                                Suo Servo CARLO BINI.


X.

Ora voi siete veramente infelice, e Dio sa se io adoprerei ogni mia
potenza per mutare il vostro destino; ma son uomo anch'io, e debole,
e soggetto come tutti gli altri a bere il calice dell'amarezza, e a
morire; nè altro posso darvi, che una sterile compassione, e pregare,
che l'Oblio diffonda veloce i suoi conforti sopra di voi.

La povera vostra sorella, come mi dite, è morta; e questa nuova mi
ha fatto piangere il cuore. Nè tanto mi sono afflitto per la povera
giovane morta nell'età del riso e delle speranze; perchè anch'io
son giovane d'anni, ma così stanco del mondo, che spesso mi trovo
a desiderare la morte; e in verità non credo di riposare fuorchè
sotterra. Il mio cuore ha pianto perchè ho pensato, che quando Dio
manda una sciagura fra gli uomini, questa non percote mai un'anima
sola: – ho pensato al dolore dei parenti e degli amici; – ho pensato,
che la vostra sorella era madre, – e l'agonia di una madre travagliata
dall'idea di lasciare per sempre i figliuoli delle sue viscere è
tormento siffatto, che.... E i figliuoli, che crescono senza lo sguardo
della madre, non sono educati dall'amore, e quando vengono al tempo del
disinganno non si consolano colle memorie felici dell'infanzia, e mai
non hanno provato il più tenero sentimento, che agiti l'anima umana; e
quando piangono nessuno li acqueta, e quando ridono nessuno risponde al
loro sorriso.

Io senz'altro vi riesco importuno, perchè il vostro sconforto ora è di
tal tempera, che non vuol parole, – ma io non ho potuto fare a meno
di scrivervi. E non ho scritto per voi, ma piuttosto per sodisfare a
me stesso; – e non vi ho scritto per esortarvi alla forza dell'animo,
– perchè io so per esperienza, che la Natura è onnipotente, e vuole
i suoi diritti, nè si governa colle ciancie dell'uomo. Ora voi siete
infelice, e dovete gemere. Ho sentito dire, che Dio mitiga il vento per
l'agnello tosato, e Dio voglia che così sia. Non pertanto l'acutezza
del presente dolore col tempo verrà scemando, e voi tornerete allo
stato di prima; e il pensiere della morta sorella più che di affanno
profondo vi darà soggetto di dolce malinconia; ma da poche vostre
espressioni comprendo, che siete destinato a poca gioia nel mondo. E
vivete scontento della famiglia, e certo è cosa dura trovare la guerra
laddove per ogni ragione dovrebbe trovarsi la pace; oltre di che
saprete a prova, che l'uomo tanto ha più trista la vita quanto ha più
vaste le facoltà del sentimento e dell'intelletto. Voi non dispererete
per questo, perchè senza dubbio siete dotato di vigore corrispondente
alle avverse fortune; – e insegnare all'uomo, che bisogna soffrire,
parmi quasi inutile: questa è qualità naturale, nè costa fatica a
conseguirsi, perchè l'uomo fu animale consacrato alla pazienza.

Io posso poco o nulla; e parte per indole, e parte per casi reali,
vivo nella inerzia e nello sgomento; ma se credete mai, che io possa
valere a nessuno effetto, movete una parola e voi mi troverete sempre
il vostro cugino e fratello.

  1834?


XI.

  Caro P.***

Ti rimando uno dei tuoi libri, e fra breve spero rimandarti anche
l'altro, perchè ne prendo una pozione ogni mattina. Lessi non è molto
quel _Mantello verde_ di Clavern, e dacchè leggo non mi sono imbattuto
mai in cosa tanto scipita.....

Bisogna che tu mi liberi da questo Clavern; se no, l'averlo mi dà la
stessa sensazione di un reuma fitto nell'ossa. Vendilo, barattalo,
regalalo, brucialo se vuoi, ma io non lo voglio più.

V'è un'altra spina, che mi punge. S.*** esulava da ***, e _pour cause_.
Si ritirava in ***, dove, per supplire in parte ai bisogni suoi e
della famiglia col modo il più onesto che sapeva, disegnava stampare un
volume di sue poesie, e le stampava. Poi si raccomandava agli amici per
lo spaccio dell'opera. Fra noi ebbero incombenza di questo N., X., ed
io.

Io ho fatto poco, ma ho fatto quel che ho potuto; X. si esaltò, parlò
in stile orientale, promise mari e monti, ma poi non ha venduto nè
anche una copia; non ha pensato neppure a comprarne una per sè. – N. è
partito precipitosamente, e di certo non ha saputo, o potuto, o voluto
consacrare un momento o un pensiere all'amico disgraziato. Intanto il
povero S.***, che pensava stampando di galleggiare un tal poco sulla
miseria, vi è sprofondato un palmo più addentro. Che si farà egli
di tante copie stampate, se la carità degli amici non gliele leva di
mezzo? Il suo nome non è un gran nome; le sue cose non sono sublimi; la
fama o la moda non può farne oggetto di speculazione libraria; non sono
però nè anche cose turpi, o infime affatto, specialmente le Liriche; e
a fin di conto sono un onesto espediente adoprato da un uomo di cuore
per non ricevere l'umiliazione di un'elemosina nuda nuda. Non facciamo
morir di fame chi lavora nella vigna, perchè gli operai si faranno
sempre più rari, e poi non è cosa nè giusta, nè prudente.

Raccogliamo pertanto le vele: tutto il discorso è per pregarti di
vedere, se puoi darmi via una copia, due, tre, quante più puoi, del
libro in questione. Il prezzo è quattro franchi, ossia sette paoli;
il tomo è in ottavo, l'edizione piuttosto bella. Se ti riesce, l'avrò
caro; se non ti riesce, non temere da me l'anatema, perchè so che la
buona intenzione non ti manca. _Vale._

  1835.

                                                               CARLO.


XII.

  P.***

Buongiorno. Perlustrando i banchi di T.*** ho visto una turba di libri
tedeschi, e me la sono menata meco. Non so se sieno buoni o cattivi
figliuoli; però te ne mando due, che leggerai a tuo bell'agio, e in
séguito mi dirai di che si tratta.

Che fa A.***? Mi pare un secolo, che io non lo vedo. Come vive, e in
che mondo vive? Se vive bene, lascialo stare, che non avesse a perdere
il filo; se poi vive male, lascialo stare egualmente, che non avesse a
far peggio. Deve operar la Natura. Egli ha sempre un quaderno di mio
nelle mani; vedi se ti è possibile di riscattarlo, e me lo renderai
quando ti piace. Addio

  _4 Aprile 1835._

                                                               CARLO.


XIII.

  P.***

Eccoti il Manifesto, dove non ho potuto raccogliere che la firma di
U. – ***N. mi disse non volerne sapere, perchè opera di un Francese,
ragione che può valer qualche cosa, e al tempo stesso non valer
nulla; o forse fu ispirazione dell'Aritmetica, che gli sussurrò di
non sottrarre quattordici franchi alla massa del patrimonio. – X. sta
dietro a farsi marito, nè può badare alle Vergini Muse, che poverette
oggi son orfane, e non hanno un padre buono a dar loro una dote di
dieci mila filippi. Io non prendo moglie, nè mi tormenta l'ansia
d'imporre scudo sopra scudo. No, per l'anima di mia madre! io lo
posso giurare; non sono, nè sarò un avaro giammai! I giganti quando
accavalcavano monte sopra monte tentavano scrollare il trono di Dio,
e l'idea animatrice di quel concetto, temeraria se vuoi, era per altro
sublime di una grandezza sì terribile da far palpitare anche il cuore
di un Dio; ma l'avaro salito sulla piramide dei suoi mille sacchetti,
che pretende dalla terra, o dal cielo? Che vuole? che disegna di
fare? Povero avaro! egli è condannato a non poter voler nulla, –
ultima miseria dell'anima umana. Ma tregua alle digressioni. Noi siamo
d'accordo, – non piglio moglie, e non sono un avaro; – però sono un
povero, nè deve parerti strano, chè tu pure in siffatte discipline mi
sembri sufficiente dottore. Amo le Muse, è vero, e di candido amore,
ma sono inretito in tante e tali traversie, che non posso spendere
un soldo per comprar loro un mazzo di fiori ora che è il mese dei
fiori, e la Natura li crea ad ogni respiro che muove, e le graziose
venditrici te li vengono offerendo col più bel garbo del mondo, e a
così poco prezzo. Amo le Muse, è vero, ma non posso dar loro, che un
ingenuo saluto, e i profumi di un cuore innamorato. E tanto basti del
Manifesto, e così abbia fine l'Idillio.

Nei giorni scorsi mi posi a leggere il Wallenstein di Schiller, e mi
sono accorto, che per me non è impresa da pigliarsi a gabbo, almeno
la prima parte intitolata ― Il campo di Wallenstein. ― Mi riesce a
mala pena d'intenderne un verso qua e là, e le altre cose mi rimangono
impenetrabili. Credo che lo Scrittore in questa parte abbia usato
lingua intima, casalinga, troppo tedesca. Spesso mi sembra proverbiale,
e temo, che quasi sempre si valga di un dialetto o di un altro, perchè
moltissimi dei vocaboli non li trovo notati sul Dizionario. Se tu
potessi procacciarmi una traduzione qualunque, l'avrei caro, perchè
veramente il doverlo lasciare così per disperazione è pensiero che mi
mortifica assai. Addio.

  _11 Maggio 1835._

_P. S._ Mi scordavo del meglio. – N.*** M.***, scrive da *** che muore
di fame, e si raccomanda alla carità dei fedeli. Vi deve stare cinque
anni, come saprai. In società faceva il maestro di scuola, e gli
bastava per vivere; – laggiù la professione non corre, ed egli non sa
farne altra, e..... Come ti dico, si tratta di fame vera e reale, non
di fame figurata. Questo giovane non ha nè roba, nè nessuno, che lo
possa aiutare. Ha padre e madre, due miseri vecchi, che adesso andranno
a chiedere l'elemosina, perchè, se prima non la chiedevano, era per
via del figliuolo. Bisogna fare qualche cosa pur sempre: esser grandi,
e buoni, è l'apice degli umani destini; – ma quando non si può altro,
siamo buoni almeno, – e quando si vuole è cosa più facile che altri non
crede. Vedi se puoi mettere insieme pochi paoli; – tutto fa a chi non
ha nulla. Tu conosci qualche signore, e qualche signora; – narra loro
il fatto schiettamente com'è. Abbiamo sovvenuto tanti altri, e spesso
Dio sa che gente; – e poi erano uccelli di frasca, e non di gabbia,
come questo povero diavolo. Non ti dico altro, perchè parmi aver detto
abbastanza. Di nuovo, addio.

Rammenta ancora ad A.*** questa elemosina. Gliene parlai Sabato; mi
fido della sua memoria, ma non troppo della sua attività.


XIV.

1. ― M.*** scrive da *** che il 15 di Settembre non avrà più da
mangiare. In tale urgenza si rivolge a noi tutti, chiedendo in prestito
quattro mila franchi, ed obbligandosi solennemente a render la somma
fra due anni. – La persona, a cui più particolarmente fu indirizzata la
lettera, vede impossibile effettuare il desiderio di M.***, e propone
invece mandargli un migliaio di franchi accattato di porta in porta.
– Meditando il fatto più quietamente, possiamo asserire ineseguibile
affatto l'idea di M.***? possiamo credere che il mezzo termine proposto
supplisca al bisogno, e produca l'effetto voluto? – Quando io rammento
l'integrità e l'alterezza d'animo di M.***, penso quanta amarezza di
passione gli debbono esser costate quelle poche parole d'inchiesta;
sento intimamente che M.*** non può esser disceso a questo, fuorchè
per forza d'una inesorabile necessità. Egli non è l'uomo che chieda
quattro mila fianchi per metter di mezzo nessuno; – non è l'uomo che
chieda quattro mila franchi per andare avanti intanto due anni, e non
morire di fame. M.***, è vero, ha bisogno di vivere per ora, ma non
è un bisogno di vita brutale come la nostra; è un bisogno di vivere
per una sublime intenzione, per una speranza che gli apre l'avvenire,
e gli fa veder cose, che i più non vedono, nè possono vedere. Se il
disinganno a un tratto gli dimostrasse fallace l'intenzione, che gli
alimenta la vita, e gli abbuiasse la speranza, M.*** è tale da farsi
saltare il cervello, o tirarsi in un canto, e morir placidamente di
fame. – M.*** dunque ha bisogno assoluto, inevitabile, di quattro
mila franchi. Mandargli, o, per dir meglio, prestargli di meno, oltre
l'essere un assurdo, sarebbe un trattare da ragazzo, da giovanastro
scapestrato, un uomo che ha dritto all'amore e alla venerazione di
quanti sentono e pensano generosamente. Se egli avesse avuto bisogno
di mille franchi, mille ne avrebbe chiesti. La sua natura è troppo
semplice e troppo retta, per appigliarsi al miserabile sotterfugio di
dire una cosa invece d'un'altra per un pugno di monete più o meno. –
Mille franchi dunque non fanno al caso; – un mascalzone senz'altro li
prenderebbe, dicendo: è meglio poco che nulla; ma se noi li manderemo
al M.***, forse non saprà che farsene; – faremo l'elemosina a chi non
l'ha chiesta; umilieremo un nobile spirito; gli rapiremo una delle sue
poche illusioni; aggiungeremo un nuovo dolore ai suoi mille dolori.

Pensiamoci di nuovo, e sul serio. Si può, si deve dare un rifiuto a
M.***, che promette sull'onor suo di render l'imprestito? Io, che lo
conosco da lunghi anni, credo alla sua parola più che al mio core,
più che un mercante non crede alla firma di Rothschild. Se M.*** non
fosse sicuro della sua promessa, avrebbe detto: – datemi, e non –
prestatemi. – Di più, fate a tant'uomo l'elemosina, e rifiutategli
invece un imprestito, di mezzo a tutto questo traluce così insultante
un pensiero di diffidenza, che non può mancare di giungergli amarissimo
al cuore: perchè non ci è angolo del mondo, dove non si possano trovare
quattro mila franchi in prestito, – perchè tutto giorno ciarlatani,
progettisti, e cavalieri d'industria, trovano con poca resistenza
migliaia e migliaia di scudi. Il caso è pertanto come io lo presento;
noi mostreremo apertamente a questo giovane incontaminato di tenerlo
in concetto d'uno scroccone. – Eppure M.*** è un'anima pura, che non
può, che non sa concepire un'idea di bassezza; – è una di quelle rare
esistenze che Dio suscita di quando in quando per far credere alla
virtù sulla terra. – M.*** sarà un nome glorioso; il suo genio, la
sua fede, la sua divina pazienza, i suoi patimenti, il sacrifizio di
tutto...., lo faranno grande nella Storia non già d'un Popolo, ma della
Umanità. Però quando i posteri sapranno, che, dopo aver dato tutto ai
suoi compagni d'infortunio, un giorno ebbe fame per sè; che si rivolse
ai giovani del suo partito, chiedendo un pugno d'argento per renderlo
un tempo; che fra questi giovani v'erano i ricchi, che senza scomodo
potevano darlo; che non ostante con mentiti pretesti gli fu negato; –
i posteri impallidiranno di vergogna e di paura, e non sapranno come
definire questo secolo ipocrita, freddo, e millantatore.

A che mena questa lunga cicalata? – tu mi dirai. – A risparmiare un
fregio alla dignità umana, se pure si può. – Io disapprovo altamente
l'idea della questua, – idea codarda e scompleta. – Nondimeno un
partito bisogna prenderlo. Trattandosi di quattrini, lo spirito è
ricorso naturalmente a quelli che ne hanno. Eccitando la potenza della
visione, me gli sono fatti passare tutti dinnanzi, e ad ogni figura che
passava mi veniva una trafitta di freddo. A un tratto non so come il
mio Angel Custode mi ha sussurrato all'orecchio il tuo nome. Ho accolto
volentieri l'ispirazione, e da parte sua ti domando: – Saresti in grado
di far questo imprestito? Ove tu non possa, non ci sarà nulla di male,
nè io per questo ti porterò rancore; e allora ci metteremo all'accatto,
arrogandoci non so quanto giustamente il diritto di strascinare nel
nostro fango uno splendido nome. Ma tu dovrai meco convenire, che
certi fatti sono una misura fatale dei tempi, e degli uomini; dovrai
convenire, che la nostra è una generazione perduta ad ogni speranza di
bene, perchè, non che intendere, ed essersi mandata in sangue l'idea
santa, essenziale, del sacrifizio, non sa per anche compitarne il
vocabolo.

Un rigo di risposta. ― Addio.

                                                          CARLO BINI.


XV.

  Caro A.***

2. ― La lettera per M.*** mi è venuta più lunga di quel che volevo.
L'ho scritta nella furia del cuore, e ho tutta la massa del sangue
alla testa. Leggila, e mandala se credi; o se no, riducila a più
giuste proporzioni. Io non spero nulla di buono, e vado convinto, che
la faccenda finirà coll'esser trattata _costituzionalmente_. Piango
lacrime di sangue per il povero M.***, e non credevo che la Fortuna
volesse serbarlo a strazi così disonesti. Siccome il fatto mi sembra
grave, e tale da passare fra i documenti della Storia contemporanea,
così _gradirei, che della Lettera ne fosse fatta una copia_, per
mostrare al mondo occorrendo, che non tutti furono codardi, e brutali,
e che se afflitti dalla povertà non poterono aiutare l'amico infelice,
dissero almeno una parola franca e generosa. Dura questo poco di fatica
per amor mio; chè io non ne posso più. Amami. Addio.

                                                               CARLO.


XVI.

3. ― A.*** mi ha fatto risapere la tua risposta. Parlandoti
candidamente, le difficoltà da te opposte non mi sembrano tali da
reggere al paragone; mi sarebbe meglio piaciuto, se tu avessi detto:
quest'anno io non ho voglia di far certe cose. Anima viva non avrebbe
saputo mai nulla del fatto. Io e A.*** siamo temperati a tenere ben
altri segreti che questi. Tu mi avresti dato il danaro, io avrei
presa una cambiale per ***, e tutto sarebbe stato operato a mio nome.
Un silenzio impenetrabile avrebbe coperto la cosa; noi siamo per
natura discreti, e il caso presente sarebbe stato per noi un caso di
coscienza, d'onore, di religione. Io sono ancora più che convinto, che
fra due anni la somma sarebbe stata restituita. Non ho osato offrirti
la mia garanzia, perchè, vivo mio Padre, non rappresento nulla nel
mondo; ma un giorno spero e credo di aver quattro mila franchi al
mio comando; se così ti bastasse, eccomi qua in corpo e in anima ad
ogni tuo cenno. Con tutto ciò non pretendo costringerti a fare contro
il tuo avviso. Non potrei volendo, e potendo non vorrei, perchè sono
un gran partigiano del libero arbitrio. ― E M.*** intanto che farà?
Muoia di fame, o si provveda altrove. Soffra come ha sofferto, e duri
a soffrire. Egli non ha diritto di sottrarsi a quella legge fatale
e perpetua, che condanna al dolore certa specie di spiriti. E così
apprenda una volta a conoscer più addentro quella razza, per la quale
ha speso il fiore della sua gioventù, la nobiltà del suo ingegno, e il
sangue più puro del suo cuore.

Della colletta non voglio occuparmi; ci pensi altri più acconcio
all'ufficio: io non mi sento in diritto di allearmi nella congiura di
avvilire un Amico, che vale infinitamente più di me, e di mille de'
miei buoni padroni.

Abbi pazienza di questo disturbo, che senz'altro sarà l'ultimo che
avrai per parte mia. Sta sano, e addio.

  1836?

                                                          CARLO BINI.


XVII.

  P.*** mio

M.*** mi ha fatto quasi ogni giorno i tuoi saluti. Io non ti ho scritto
mai finora, perchè i grandi dolori amano specialmente sul principio
di esser lasciati soli. Avendo però spesso raccolte notizie di te, e
sentendo che il soggiorno di Pisa poco o nulla ti ha profittato, io ti
conforto a tornare fra noi, convinto che starai meno peggio. Troverai
l'aria più tepida, troverai chi meglio t'intenda, chi simpatizzi
meglio colle tue amarezze; e se puoi sperare un sollievo, ti rimane
quest'unico, il consorzio dei tuoi antichi amici, la presenza di
coloro, che hanno veduto, assistito, e sentito, la sciagura che ti ha
percosso.

  Addio; – noi ti aspettiamo.

  _16 Febbraio 1838._

                                                               CARLO.


XVIII.

  Caro P.***

Finalmente è arrivata la Signora C.***, la quale è voluta partire
subito alla vostra volta. Io non ho potuto farle troppe attenzioni,
principalmente perchè a stento so spiccicare una parola in Francese.
Essa deve avermi trovato naturalmente goffo più ancora di quel che
sono. Non vuol dir nulla. Scusatemi presso di lei, e ditele che il buon
volere in me non manca mai per nessuno, e segnatamente per una donna
raccomandatami con tanta caldezza. E se altra volta c'incontreremo,
e ci sarà dato intenderci nella nostra benedetta lingua d'Italia, se
non troverà in me la galanteria profumata di Parigi, troverà cuore e
cortesia da non lasciarla affatto scontenta. Ma lasciando andar queste
inezie, io son qua per voi, per lei, e per tutto il mondo, fin dove le
mie forze arrivano. Disponete di me, e credetemi il vostro

  _Livorno, 3 Agosto 1839._

                                                               CARLO.


XIX.

  P.***

                             . . . . . . .

Per me sono già incominciati i giorni neri, ed eccomi già all'_ergo_ di
farmi accompagnare per le vie se voglio andare. Ma la mia pazienza è
più grande dei miei malanni. La Medicina se ne sta in un canto a viso
basso, mortificata, e colle mani in mano. E sì che io non le ho detto
mai una parola di rimprovero! Ma tant'è: resteremo soli, io e il Fato,
a giuocare tra noi due questa partita di vita, o di morte. I saluti a
tutti. Addio.

  _21 Ottobre 1840._

                                                               CARLO.


XX.

  P.***

Eccoti un manifesto del M.*** per la ristampa d'un Dante; e se avrà
luogo, sarà ottima spesa. Se puoi firmarti, bene; se no, no. Ma firmato
o non firmato rimetti subito il Manifesto nelle mani di S.***, che deve
rinviarlo a Londra.

Addio. Imprendo nuovamente l'infausto viaggio dell'altra volta per
ragioni anche più imperiose. Vado in luoghi strani ed inospiti, tra
cattiva gente, tra pessimi affari, e in uno stato di salute, che fa
paura. Dio me la mandi buona. L'ombra di N. mi perseguita, e non so
come placarla. Io mi abbandono alla corrente senza sapere dove andrò a
battere. Di nuovo addio.

  _16 Marzo 1841._

                                                               CARLO.


XXI.

  Signora A.***

Ho ricevuto con grato animo la sua del 28 Luglio, perchè un segno di
ricordo da qualche anima buona mi fa sempre bene. Sento, che Recoaro
non ha corrisposto alle sue aspettative, e già sapevo, che tutte le
acque del mondo servono a poco; ma pensavo, che un giovamento qualunque
le sarebbe venuto dal mutare aria, e dal veder cose nuove, e questo in
ultimo si farà forse sentire.

Io sto anche peggio di quando ci vedemmo. Ciò non vuol dir nulla. Ho
misurato tutto, e sono al mio posto.

È facile, che dimani, o posdimani, io parta per Roma, se non sorgono
impedimenti. È viaggio affatto mercantile, trattandosi di assistere
allo sviluppo di certi affari N. – Vedrò a ogni modo la _città eterna_,
ma son fiacco, e scuorato, e punto disposto a ricevere in me lo spirito
delle grandi memorie.

Un bacio a L.***, e mi creda suo affezionatissimo

  _Livorno, 4 Agosto 1841._

                                                          CARLO BINI.


XXII.

  A.***

                             . . . . . . .

Scriverò al Sig. G.*** quanto mi accenni dell'imbroglio B.*** E dalle
meschine turpitudini degli umani interessi ascendendo alla solennità
del dolore, ti dirò, che del tuo povero Nonno non ho saputo mai nulla.
Io son qua dimenticato, come persona già andata al suo destino. Gli
uomini badano ai fatti loro, e non li posso biasimare. Nondimeno,
se mi fosse stato semplicemente annunziato, che il tuo Nonno era
morto, io non mi sarei riscosso per questo, anzi avrei detto fra me:
– era tempo che riposasse; – perchè era stanco, e aspettava, e spesso
desiderava di riposare. Dico così, perchè egli spesso mi diceva così, e
a quell'età non ci è interesse a mentire. Ora però, che tutto è finito,
che la carne è morta e impassibile, e che lo spirito è in salvo, dico
la verità, duolmi più di voi, che di lui; perchè la morte è come la
bevanda amara; – passata la gola non è più altro. Spero però, che il
tempo mitigherà il dolore, che la sua morte ha lasciato negli animi
vostri, e che da ultimo resterà in voi sola e perenne la fragranza
della sua dolce memoria. E credo fermamente, che non ci sia bisogno di
pregare per lui, perchè il suo petto racchiudeva tutto quel fiore di
bontà, che può germogliare su questa misera terra. E così io pregherò
l'anima di quel giusto, perchè preghi Dio prima per voi e poi per me.
Altro non posso fare. Addio.

  _Carrara, 21 Ottobre 1841._

                                                               CARLO.


XXIII.

  A.***

                             . . . . . . .

Ho finito di leggere da qualche giorno il discorso del Centofanti[25],
e mi dirai per qual modo devo rimandartelo. Questo discorso, che pure
è di poca mole, mi ha lasciato un'impressione curiosa, – un'impressione
di durata, come se avessi letto almeno due mesi, o un'opera di cinque,
o sei grossi volumi. Non saprei distinguere, se ciò dipenda da mente
che si disorgana, o se sia segno che il libro fa pensare. Sottosopra
mi è piaciuto assai, e quantunque io non abbia coscienza tale di
studi da giudicarlo _intus et in cute_, nondimeno mi è parso dettato
con intendimenti di critica e di filosofia piuttosto nuovi in Italia.
E vi sono tratto tratto pagine generose ed eloquenti, che non tanto
onorano l'intelletto dello scrittore, quanto rivelano un bel cuore
d'uomo. Mirabile è poi la forza di congettura e d'intuito, onde penetra
nel buio di tempi quasi senza memoria, rifabbrica il passato, e dà
senso, valore, e sembianza, a cose, che finora parevano vaneggiamenti
e capricci. Basta, a me pare un bel lavoro, fatto di buona fede,
all'antica. Credo però, che non sarà di lettura volgare, e il libro,
sì per lo spirito, che per la fattura, è veramente aristocratico,
come sono tutti i libri dove ci è altezza, e novità di teorie, dove
c'è condensazione d'idee, e di stile. Aggiungi inoltre, che l'Italia
è sempre innamorata del suo dolce _far niente_, sempre supina a bere
l'oblio di tutte le cose, sempre ripugnante a ruminare il forte cibo
della sapienza.........

  _Livorno, 30 Aprile 1842._

                                                               CARLO.


XXIV.

  Signora A.***

Un Poeta in tutta l'estensione del termine, perchè muore anche di fame,
chiede l'elemosina ai suoi amici. E quì sta l'imbroglio, – di trovare
cioè gli amici d'un uomo, che muore di fame. – Ma _butta in mare, e
spera in Dio_, dice il proverbio dei marinari. Il povero Poeta è N.,
che forse Ella avrà sentito nominare; uomo,..... cui la Natura fece
molti doni di cuore e d'ingegno, senza dargli però un fiato, un atomo,
di quel _terribile giudizio_ che sa fare i fatti suoi. E però oggi si
trova a stender la mano, e per giunta è malato di malattia della quale
forse non guarirà mai. E però io lo raccomando alle di Lei carità;
e se Ella e i suoi amici potranno far qualche cosa, io gliene saprò
grado per conto del povero Poeta, e per conto mio, quantunque egli si
sia indirizzato per chiedere aiuto a T.*** G.***, e questi poi si sia
rivolto a me.

Intanto abbia pazienza del disturbo, e mi creda

  _2 Settembre 1842._

                                                      Suo Devotissimo

                                                          CARLO BINI.


XXV.

  Signora A.***

Ho sentito da M.***, che riguardo a N. Ella penserebbe di fare un
foglio. Io veramente me la dico poco coi fogli, e credo, che in ogni
caso, e specialmente in questo, la parola viva e sentita possa più
assai che tutti i mezzi dell'arte. Ma poichè s'ha da scrivere, io stimo
più espediente copiare tale e quale la lettera di N., che le rimetto
qui acclusa. Sono poche righe, ma vere, e stringenti; e se queste non
valgono, le mie e quelle di qualunque altro varranno anche meno. Ella
pertanto, che è così buona, veda di persuadere quanti più può a firmare
sotto la lettera del povero N., ma quello che importa è di far presto,
anzi prestissimo, a riscuotere il danaro, e farglielo avere, perchè il
bisogno ha furia, e conta le ore e i minuti. Spero che tra tutti faremo
qualche cosa per questo disgraziato; ma quando poi non riuscissimo a
buon porto ci vorrà pazienza, ed io scriverò direttamente a N., che
_i suoi buoni amici di Livorno_ hanno rigettato il suo appello, e
confermano la sua sentenza di morte di fame.

Io tra qualche giorno dovrò partire per miei affari; e se questo
negozio non fosse anche perfetto, allora lascerò le mie istruzioni a
M.***, perchè tutto vada il meglio possibile.

Mi creda

  _Livorno, 5 Settembre 1843._

                                                      Suo Devotissimo

                                                          CARLO BINI.


XXVI.

  T.***

Ebbi per tempo la grata tua con quella del povero N., ed egli non
poteva scegliere il miglior momento per morire di fame. A.*** mi ha
detto, che non deve dar nulla, e per conseguenza non ha dato nulla.
Ho fatto un appello ai poveri, e come ragion vuole mi hanno dimandato
se avevo da dar loro qualche cosa; – ho chiesto ai ricchi, e mi hanno
risposto peggio dei poveri. In somma è un affaraccio, e in tanti giorni
ho raccolto forse sei o sette scudi. Non per questo mi fermerò, e
spingerò le cose fin dove possono andare.

La mia salute non vale un quattrino, e la mia testa è un mucchio
di rovine. Pure per veder di dare una mano al povero N., ho preso a
tradurre dal Tedesco certi articoli intorno al Sismondi per convertirne
il ricavato a pro del suddetto; e credi, che se avessi avuto un cento
di scudi glieli avrei dati volentieri, piuttosto che soffrire una
fatica così sanguinosa, una fatica che finisce di mandarmi in polvere
il cervello.

Addio. Credimi

  _Livorno, 14 Settembre 1842._

                                              Il tuo Affezionatissimo

                                                               CARLO.


XXVII.

  Gentilissima Signora A.***

Vengo a prender commiato da Lei, perchè certi affari mi cacciano fuori
di casa. Vado via in cattivo arnese, e chi sa come ritornerò, o se
resterò per la strada. _Fiat voluntas Dei._

Saluterà pertanto G.***, e il Sig. P.***, al quale auguro una sollecita
guarigione, e godrò al mio ritorno di trovarlo perfettamente rimesso in
buona salute.

A Lei non dico nulla, se non che, quando avrà terminato tutte le
faccende, si rammenti qualche volta di me. Andando a Lucca, come farò
tra qualche giorno, farò i di lei saluti all'ottimo nostro B.***, e a
quella buona creatura della Signora V.***

La questua per il povero N. finalmente è finita, e facendo un po' di
tutto abbiamo raccapezzato sopra Lire 400, e ho incaricato P.***,
perchè le mandi. Il merito principale di questo negozio per altro
è da attribuirsi a X., che ideando la traduzione del _Sismondi_, e
stampandola, e distribuendola con molte fatiche e disgusti ha messo
insieme il nerbo vero di questo soccorso, perchè senza il _Sismondi_
eravamo a poco più di cento Lire..........

Se vuol conoscere il mio itinerario, eccolo: dimani a Pisa, dove starò
tre o quattro giorni; poi a Lucca, quindi nella Provincia Lucchese,
e di là a Massa e Carrara, che è la Mecca dei miei malaugurati
pellegrinaggi.

Metto fine alle ciarle; mi creda suo affezionatissimo

  _Livorno, 12 Ottobre 1842._

                                                          CARLO BINI.


FRAMMENTI

Io sento, parlo, e scrivo, senza studio, come l'anima detta, ma io son
sicuro oramai di quest'anima mia: – conosco fin dove può salire, fin
dove può scendere: esiste in me una forza d'impulso, che mi spinge
avanti gran tratto, ma poi si sviluppa prontissima una forza di
resistenza, che mi rimette nei giusti limiti; e questo contrasto di
forze diverse fra loro, sovente per me doloroso, è quello però che mi
ha salvato finora da qualunque bassezza.


Non pensate; io soffro, ma son forte. Educato per 30 anni nello
sconforto, la mia anima ormai sa comprimere il suo gemito immenso, – la
mia testa porta fieramente il dolore, come un re la corona.

E i miei patimenti sono di tal sorta, che il volgo non li saprebbe
intendere, o li deriderebbe. Ecco l'anima mia: – un anelito eterno
all'amore puro, santo, ideale; – un cuore nato a sentire quanto
di bello e di armonia Dio sparse nell'universo; – un intelletto
severamente educato a comprendere il vero; – una coscienza dignitosa, e
superba di sentirsi incontaminata; – e tutto questo messo a contrasto
con una società misera, corrotta, incredula, e da me conosciuta nelle
sue più riposte viscere. Questo è il segreto del mio dolore.


Non vi dia noia il mio _gran talento_. Egli è una povera cosa questo
mio _gran talento_, ed io ne ho fatto sempre così poco conto, che non
l'ho mai adoperato. La scienza le più volte è una fastosa impostura. Io
ho vegliato lunghe notti sui volumi della sapienza antica e moderna,
e li ho richiusi sospirando; – il velo del mistero era più fitto di
prima. Oh! questo mio _gran talento_ mi fa pietà. Forse volendo avrei
potuto scrivere dei libri; ma questo a che buono? Il mio ingegno
irritandosi nelle condizioni presenti si sarebbe scaldato a quel grado
di valore, che genera il fulmine, – avrebbe maladetto, fulminato la
razza umana. Ma il mondo non è contristato abbastanza?


Il mio carattere è forte, severo, passionato, – disprezza le forme
esterne delle cose, – attende solo allo spirito; – non si contenta,
che del vero, e aborre mortalmente la civetteria d'ogni specie. –
Il mio carattere è al tempo stesso cavalleresco, – la Donna non ha
nulla a temere da me, – il culto della Donna è per me santo, solenne;
– e quando io non potessi più amarla, nè stimarla, saprei pur sempre
compatirla sinceramente.


La mia fantasia percorse come ape a succhiare i fiorì più eletti
della Bellezza, che la mano di Dio profuse sull'universo, e formò una
creatura coll'ale d'angiolo, vestita dei ricchi colori del firmamento,
coronata di stelle, armoniosa delle armonie, che suonano in cielo.
Bella e cara creazione, che alla perfetta natura dei celesti univa
quanto ha di simpatico, di buono, di grande, la natura mortale! Bella,
perfetta, e cara creatura, anello intermedio fra il Cielo e la Terra,
tipo d'un angiolo nuovo, che Dio deve aver rimirato con compiacenza, e
accolto nell'eterna sua mente, per riprodurlo in un mondo migliore.

                   *       *       *       *       *

Le lagrime d'un _angiolo_ lavano le colpe dei mortali, e fanno fiorire
le rose del Paradiso nel fango di questo mondo.


Considerato tutto, gli uomini valgono assai meno delle Donne. Vantano
senno, forza, e mille altre qualità, che poi all'occasione non hanno.
Dove abbiamo noi la dolcezza, il coraggio, la celeste pazienza, che in
certe epoche della vita fanno sublime la Donna?


La Donna sola intende pienamente la santa virtù del sacrifizio; –
l'uomo non saprà mai amare come la Donna.


Quando la Donna ama veramente, sa e può amare come l'uomo non saprà
mai. In questo la Donna è d'un tessuto assai più fine dell'uomo; –
tutta l'anima sua è una melodia d'amore, dolce, profonda, perenne. La
donna è un raggio creato da Dio per fare il chiaro fra l'ombre cupe,
feroci, di questo mondo. Quando parlo così, però non intendo di tutte,
– intendo della Donna pura, cara, gentile. _Donna anima._ Il volgo
afferma, che la Donna dura meno in amare. Io non ci credo. La Donna
non è stata anche compresa, che da pochi cuori intemerati, sublimi; e
come creatura debole, inerme, è stata sempre oppressa, calunniata. E se
la Donna talvolta dura meno in amare, è perchè l'uomo spesso riprende
troppo presto gl'impeti della sua natura brutale, cessa troppo presto
di meritare il suo amore.


Una Donna fragile, leggiera, spensierata, può mettere il delirio in
un cuore potente, la confusione in un forte intelletto, fiaccare,
ridurre in polvere una volontà di ferro; e tutto questo conseguirlo
senza disagio, senza perdere un minuto di sonno, con quella stessa
_nonchalance_ con che si appunta una spilla.


Prima causa della pessima educazione delle Donne sono gli uomini, i
quali non sanno o non vogliono mai dir loro la verità; – le adulano
a torto e a diritto, tanto per sedurle; – poi quando son sazi, e
si saziano presto, le lasciano infelici e corrotte senza rimedio.
Succhiato l'arancio, gettano la scorza.


Le accuse continue che gli uomini fanno alle Donne, e le Donne agli
uomini, sono piuttosto ridicole, che vere. Uomo e Donna non possono
esistere isolati, – ambedue compongono un essere completo: ora la
Natura non può aver creato un essere mezzo buono, mezzo cattivo.
Quest'essere diviso in due parti non può comporsi, che d'elementi
consimili, omogenei; – noi abbiamo pregi, difetti, e qualità comuni, –
quindi l'obbligo di tollerare, di compatire, di giudicare con senso di
carità.

                   *       *       *       *       *

Io non cerco nell'Amore piaceri caldi, inebbrianti, ma gioie modeste,
asperse di una dolce malinconia. La malinconia è una cosa santa; è
l'eco di un'armonia, che suona nei cieli; è un sentimento, che profuma
l'Amore, e lo fa incorruttibile.


L'Amore profondo si fa sentire più da lontano che da vicino. Questa
legge morale è connessa forse a quell'altra legge fisica, per la
quale i grandi colossi acquistano proporzioni armoniche, e piacciono
all'occhio a grande distanza, ed una forte musica riesce soave e
deliziosa sentita ad una certa distanza.

                   *       *       *       *       *

Nelle cose d'affetto, meno che si pensa, meno che sì calcola, meno
che si disegna, meglio è. – Sentire, e sempre sentire, ma senza
prevenzione, alla buona, all'italiana d'una volta, – quest'è l'anima,
l'essenza dell'Amore. L'Amore non ragiona, non fa di conto, non vede,
– e per questo gli antichi lo dipinsero cieco.


A me piace più l'espressione calda, fanatica, baccante, dell'anima
commossa, che il tono freddo, compassato, cattedratico, della ragione,
– cosa tanto vantata, e così poco definita; cosa, che vale assai
meno della sua riputazione, che tutti più o meno posseggono nei tempi
ordinari, che tutti più o meno perdono nei tempi straordinari, come
ognuno ha il polso regolare quando è sano, e l'ha troppo celere quando
lo investe la febbre.

                   *       *       *       *       *

Io non mi fido dì quelli, che stringono la mano a tutti, che si
chiamano amici di tutti; – il cuore umano non si può così spicciolare;
non può, e non deve bastare a tutti; – ma può aversi, ma è necessario
avere un amico, e all'uopo conviene fare per lui dei nobili sacrifizi.

                   *       *       *       *       *

Chi non presume troppo di sè deve lasciarsi portare dal fiotto degli
avvenimenti, senza mormorare, senza bestemmiare, adorando un ordine di
cose, che vede, che sente, ma non comprende.

Che diritto ha il verme di giudicare i fini e gli andamenti della Mente
Eterna, che nell'immenso creato governa con egual bilancia il moto
d'una stella, e il nascere, il crescere, il cadere, e il trasformarsi,
d'un fiore fugace, d'un povero filo d'erba?

                   *       *       *       *       *

Non dee far maraviglia, se talvolta l'uomo generoso di cuore e
d'intelletto assume una maschera, e cela le sue schiette sembianze; –
la colpa è del mondo stupido e miscredente, nel quale è condannato a
vivere.

                   *       *       *       *       *

I Tedeschi non fanno mai di quei libri facili, trasparenti, spumosi,
oppio vero dell'anima: i Tedeschi fanno pensare, e tengono l'anima del
Lettore in piedi da mattina a sera.

                   *       *       *       *       *

La felicità sarebbe facile a conseguirsi, se il mondo osservasse la
legge di amore, d'armonia, d'attrazione, che Dio impresse nel creato;
se permettesse che ogni anima gravitasse liberamente al suo centro.

                   *       *       *       *       *

Non è il cuore l'organo il più prezioso, quello che decide sempre i
destini della vita? E le grandi opere, i grandi pensieri, non vengono
tutti dal cuore? E le questioni le più solenni, che travagliano
il genere umano, non sono tutte questioni di cuore? Nè potranno
sciogliersi, che dal cuore, perchè la mente da secoli vi si affatica
indarno.

                   *       *       *       *       *

Adoriamo il dolore. Le anime, che non sono tutte di terra, hanno per
distintivo il dolore, – sentimento che le raffina continuamente, che le
innalza sempre più verso il cielo, che svela loro l'esistenza di mondi
non pensati, e non creduti dal volgo; sentimento, che in mezzo alle sue
amarezze contiene certe voluttà sacre, indistinte, velate, baleno delle
gioie che Dio riserba alle anime provate su questa terra. Adoriamo il
dolore.

NOTE:

  [24] _L'epigrafe che precede queste Lettere spiega l'intendimento
  nostro nel pubblicarle: se non ci proponemmo principalmente di
  offrirle come dimostrazione d'ingegno, molto meno abbiamo mirato
  a metterle in luce come documenti, che per avventura potessero
  riuscire o lusinghieri o spiacevoli altrui. Quindi abbiam
  lasciato solo la iniziale dei nomi, e sostituito talvolta alla
  vera la generica N, od un X. Ogni discreta e gentil persona non
  vorrà, lo crediamo, disapprovare tale ommissione._

  [25] Sull'indole e le vicende della Letteratura Greca, Discorso
  di SILVESTRO CENTOFANTI. – _Firenze 1841._



SECONDA PARTE.

TRADUZIONI.



LA VITA E LE OPINIONI DI TRISTANO SHANDY

― _DI LORENZO STERNE_ ―


I.

STORIA DI YORICK.

                    Aguzza quì, Lettor, ben gli occhi al vero;
                      Che 'l velo è ora ben tanto sottile,
                      Certo, che 'l trapassar dentro è leggiero.

                                        DANTE, _Purgatorio_.

Yorick nominavasi il parroco, – ma devi notare, (come apparisce
da notizie antichissime di famiglia scritte in pergamena, e ben
conservate,) che tal nome era stato pronunziato appunto in quel modo
per quasi.... io stetti per dire 900 anni: ma perchè riferendo una
verità improbabile, sebbene di natura sua fuor di quistione, non
vorrei perderci di fede, mi appagherò soltanto del dire, che quel nome
era stato pronunziato appunto in quel modo per non so che spazio di
tempo; nè tanto oserei dire per la metà dei cognomi del regno, che
nell'andar degli anni hanno sostenuto tante vicende quante coloro
cui appartenevano. Daremo questo all'orgoglio, o alla vergogna delle
persone che li portavano? A dirla schietta, io tenni conto dell'una
e dell'altra causa, secondo che la tentazione operava. Ma egli è mal
fatto: – un giorno verrà a mescolarci tutti così confusamente, che uomo
non potrà levarsi a giurare, che l'avolo suo fece questo o quell'atto.

La famiglia di Yorick aveva riparato a questo male, prudentemente
conservando a guisa di religione le memorie da me citate, le quali di
più c'informano, che l'origine della famiglia fosse Danese, trapiantata
in Inghilterra fino dai tempi di Horwendillus Re di Danimarca, e pare,
che a quella corte un antenato donde M. Yorick discendeva dirittamente
tenesse carica riguardevole; – solo aggiungono, che già da due secoli
era stata abolita, come inutile affatto in quella e in ogni altra corte
del mondo cristiano.

Spesso mi è passato per la mente, che la carica fosse quella di primo
buffone del Re, – e lo Yorick nell'Hamlet del vostro Shakespeare, – che
ha moltissimi drammi fondati nel vero, – era di certo lo stesso.

Io non ho tempo di svolgere la Storia Danese di Sasso Gramatico per
saperne la verità, – ma se i miei hanno agio e facilità di procacciarsi
quel libro, lo facciano di per se stessi. Ebbi però tempo ne' miei
viaggi di Danimarca, e tanto bastommi, di provare la verità di una
osservazione fatta da tale, che dimorò lungamente in quella contrada,
cioè, – che la natura non era nè troppo larga, nè troppo avara,
nei presenti d'ingegno e di capacità agli abitanti di quel paese; –
ma, simile a madre discreta, era modestamente liberale verso tutti,
osservando tanta eguaglianza di misura nel dispensare i suoi favori,
che a fin di conto gli uni non la cedevano agli altri. Tu rinverrai
pochi esempi in quel regno di mente elevata, – ma in tutte le classi
del popolo una dovizia di buono, semplice, e domestico intendimento, –
e ciascuno n'ha la sua parte, – e questa parmi cosa ben dritta.

Ma con noi le cose procedono ben di altro passo, e in questa faccenda
tocchiamo il fondo, e la cima: – o voi siete un genio, o scommetto
cinquanta contro uno, che voi siete, o Signore, uno stupido al di là
dei confini, e una zucca da sale; – non già che manchino al tutto i
gradini di mezzo, – noi non siamo irregolari di tanto; – ma gli estremi
sono frequentissimi, e condotti ad altissimo punto in quest'isola
instabile, dove la natura nelle sue doti e disposizioni di simil sorta
è bizzarra, e fantastica in modo, che la fortuna stessa non è più di
lei stravagante nel lascito dei suoi beni.

Tutto questo mi fece dubitar sempre della discendenza di Yorick,
e da quanto mi ricordo di lui, e da tutte le notizie che ho potute
raccogliere, pare che non avesse nelle vene neppure una goccia di
sangue danese; – forse in 900 anni era tutto svaporato; – ma non voglio
filosoficarci un momento: – sia che può, il fatto era questo; in vece
di quella flemma ed esatta regolarità di sensi ed umori, che ti saresti
aspettato in uno della sua origine, era all'incontro una composizione
tanto mobile e sublimata, – una creatura tanto eteroclita nelle sue
declinazioni, – e aveva in sè tanta vita e capriccio, e _gaïté de
coeur_, come se fosse il figlio d'un cielo ardentissimo. Con tanta vela
il povero Yorick non portava un'oncia di zavorra; – non era pratico in
nulla del mondo, e a ventisei anni sapeva guidare in esso il suo corso
come un'ingenua fanciulla di tredici; talchè al primo mettersi in mare,
immagina pure, che il vento fresco de' suoi spiriti dieci volte al
giorno lo facesse impigliare nelle sarte di alcun navilio: – e perchè
navigando gli occorrevano più di sovente quei gravi e lenti all'andare,
immagina pure, che con questi voleva la sventura che restassesi sempre
intricato; e, se non m'inganno, in fondo dovevano avere un non so che
di maligno, poichè Yorick per natura ripugnava invincibilmente alla
gravità; – non dirò in certo modo alla gravità, – perchè, se bisognava,
era Yorick, il più grave e il più serio di tutti i mortali, a giorni,
e settimane intere, – ma era nemico alla di lei affettazione, e la
guerreggiò apertamente, perchè copriva di mantello l'ignoranza, e la
stoltezza, – e quante volte la incontrava per via, benchè difesa e
protetta, di rado le usava mercede.

Forse ragionava strano, ma spesso dichiarava la gravità un pretto
furfante, e pericoloso d'assai, – soggiugnea, – perchè scaltrito; e
veracemente credeva, che ella avesse giuntate dei beni e del danaro più
oneste persone in un anno, che i tagliaborse e i mariuoli non fecero
in sette. Dicea, che l'indole aperta rivelata da un cuore allegro
non facea male a nessuno, fuorchè a sè stessa, – mentre nella gravità
vivea per anima il disegno, – e quindi l'inganno; – era una frode ben
disposta a guadagnarsi nel mondo stima di senno, e di sapere oltre
il merito, – e con buona pace di tutte le sue pretensioni non era
migliore, ma sovente più trista, di ciò che l'ebbe definita non è gran
tempo un bell'ingegno francese: «un misterioso portamento del corpo per
velare i difetti della mente.» E dicea Yorick, con molta imprudenza,
che quella definizione meritava di scriversi in lettere d'oro.

Ma era indipendente, e inesperto del mondo, e lasciavasi andare agli
scherzi in qualunque argomento di discorso la prudenza avrebbe usato
ritegno. Yorick non sentiva che una impressione, – e quella emergeva
dalla natura del fatto, – e la traduceva in chiaro Inglese, senza
perifrasi, e spesso senza risguardo alla persona, al tempo, o al luogo;
– onde se rammentavano un atto meschino o codardo, non pensava un
momento all'eroe, o al suo stato, o se potesse nuocergli appresso; – ma
se l'atto era vile, senz'altro l'uomo era vile, – e così di séguito.
E la sciagura voleva, che d'ordinario i suoi commenti finissero in un
_bon mot_, o fossero via via ravvivati da qualche facezia, o festività
di espressione, e questo cresceva l'indiscretezza di Yorick. Certo non
le cercava, ma però non fuggiva le occasioni di dir quanto cadeva in
acconcio, e senza rispetti; – così non n'ebbe in vita sua che troppi
incitamenti a spandere il bell'umore, e le arguzie, e i motteggi, e le
beffe, e non andò nulla perduto per mancanza di chi raccogliesse. Ora
ne intenderete le conseguenze, e come Yorick avesse fine.

Coloro che danno e tolgono ad usura differiscono fra loro nella durata
degl'interessi, quanto nella durata della memoria il beffatore e il
beffato. E quì, secondo gli Scoliasti, il paragone cammina su tutte e
quattro le gambe, che vuol dire una gamba o due di più, che non hanno
alcuni dei migliori paragoni d'Omero; ed è, che l'uno piglia a prestito
una somma, e l'altro suscita una risata a vostre spese, e più non ci
pensano. Ma gl'interessi corrono tuttavia nell'uno, e nell'altro caso,
– e i pagamenti, che se ne fanno periodici, o casuali, bastano a tener
viva la memoria dell'affare, finchè l'ora trista non giunga, che il
creditore sopravvenga improvviso a ciascuno, e, dimandando all'istante
il capitale coll'usura sino a quel giorno, faccia sentir la gravezza
del debito.

Il lettore conosce nell'intimo la umana natura, (a me non piace
dubitarne,) e però gli basti che il mio eroe non potè seguitar quella
corsa senza un lieve saggio di questi ricordi. E' s'era avviluppato
sbadatamente in una gran rete di siffatti debituzzi, che dispregiava
soverchio, – nè valeva nulla il consiglio d'un amico suo dolce chiamato
Eugenio, – e stimava, che non avendoli contratti per malignanza,
ma invece per onestà d'intenzione, e per mera allegria di spiriti,
naturalmente verrebbero tutti cancellati.

Eugenio pensava di no, – e dicevagli spesso, che un giorno o
l'altro sarebbe certamente chiamato ai conti; e sovente aggiugnea,
col mestissimo accento di chi teme una sventura, – sino all'ultimo
picciolo. – E Yorick al solito non curando sempre rispondeva: – oibò!
– E se la questione si ventilava ne' campi alla fine rispondea con
un salto, o uno scambietto: – ma se in un canto del socievole camino
al reo facevano barricata una tavola, e due seggioloni a bracciuoli,
tanto che non potesse fuggirsi d'un tratto, Eugenio continuava la sua
lezione intorno alla discretezza in parole siffatte, ma un po' meglio
acconciate.

― Credimi, Yorick mio, che la tua malaccorta piacevolezza o presto
o tardi ti legherà in tanti nodi, che poi non varrà il senno a
strigartene. In questi casi ho veduto sovente, che la persona derisa si
considera sotto l'aspetto della persona ingiuriata con tutti i diritti
che da quella situazione le spettano; – e se tu pure la vedi in quello
aspetto, – e noveri gli amici, la famiglia, i congiunti, gli alleati,
– e passi in rivista le molte reclute, che vanno alle sue bandiere pel
sentimento del comune pericolo, non è calcolo esagerato a dire, che
per ogni dieci motti ti sei guadagnato cento nemici, – e finchè non sei
giunto a tale da sollevarti d'intorno alle orecchie uno sciame di vespe
le quali mezzo ti pungano a morte, non andrai mai persuaso.

Dio mi guardi dal sospettare, che l'uomo da me stimato si muova
alli scherzi per dispetto, o malignità d'intenzione; – so, e credo
sinceramente, che sieno onesti, e detti a modo di sollazzo. Ma poni
mente, amor mio, che gli stolti non possono distinguere, e i furfanti
non vogliono: e tu non sai quanto importi provocar gli uni, o prendersi
giuoco degli altri; e qualunque volta si uniscano a difesa scambievole,
abbi per fede, amico mio, che ti guerreggieranno in maniera da fartene
il cuore malato, e con pericolo ancora di vita.

La vendetta da qualche angolo segreto spargerà di te novelle d'infamia,
– nè ripareranno l'innocenza del cuore, la integrità del costume; – le
tue sostanze verranno a mancare, – e malignando sui mezzi che un dì
ti procuravano, la tua riputazione darà sangue da tutte le parti; –
la tua fede sarà posta in dubbio, – smentite le opere, – dimenticato
l'ingegno, – e la dottrina tenuta a vile. A chiudere l'ultima scena
della tragedia, la crudeltà, e la codardia, scellerati gemelli
condotti a prezzo dalla malizia, e incitati nelle tenebre, prenderanno
insieme la mira a tutte le tue debolezze, ed errori, – e gli ottimi
di noi, amor mio, vi stanno soggetti; – e credimi, credimi, o Yorick,
allorquando per lusingare un privato appetito si deliberi il sacrificio
d'una creatura innocente, ed inerme, è facile di raccogliere stecchi
per ogni macchia dove ella ha traviato, onde accendere un fuoco, – e
bruciarvela sopra. ―

Yorick intese il vaticinio dei suoi destini, e nell'atto con una
lacrima furtiva, accompagnata da uno sguardo di promessa, dispose per
l'avvenire di correre più misuratamente l'arringo. Ahi troppo tardi!
Innanzi del presagio erasi collegata una forte alleanza dei suoi
nemici, e l'assalto, giusta la predizione d'Eugenio, fu dato in un
tratto, e con sì poca mercè dalla parte degli alleati, – e con sì poco
sospetto in Yorick di quanto gli tramassero, – che quando quell'ingenuo
avvisava ricevere il premio ai suoi meriti, omai l'avevano scosso alla
radice; – cadde, e in quella guisa, che molti valentemente erano caduti
prima di lui.

Ma Yorick combattè per un tempo con tutto il valore possibile, – finchè
sopraffatto dal numero, e in ultimo affranto dalle calamità della
guerra, ma più ancora dalla maniera codarda onde facevasi, gittò la
spada, e in vista fece animo sino agli estremi, ma credono tutti che
l'uccidesse il cordoglio. E quanto segue piegava Eugenio alla medesima
opinione.

Poche ore avanti che Yorick esalasse l'anima, Eugenio entrò nella
stanza per vederlo l'ultima volta, e dargli l'ultimo addio. Nel
tirar le cortine gli domandò come stesse; – e Yorick guardandolo in
faccia gli strinse la mano, – e ringraziandolo dei molti segni di
amore a lui dimostrati aggiunse, che, se il fato li faceva incontrare
nell'avvenire, lo avrebbe più e più sempre ringraziato; e disse,
che di lì a brevi ore sarebbesi involato in eterno ai suoi nemici.
― Spero di no, – rispondeva Eugenio col più tenero accento di voce,
che uomo parlasse giammai, e le lacrime gli scendevano giù per le
guance, – spero di no, Yorick mio. ― Yorick rispondeva elevando lo
sguardo, e premendogli gentilmente la mano, – e nulla più: – ma questo
dirompeva il cuore di Eugenio. ― Su via, Yorick, – riprese quest'ultimo
asciugandosi gli occhi, e facendosi cuore, – confortati, amor mio, nè
li spiriti e la fortezza ti abbandonino al maggior uopo; – chi sa mai
quanto possano operare per te i rimedi, e la potenza di Dio? ― Yorick
si pose una mano sul cuore, e crollò un tal poco la testa. ― Per la
parte mia, – continuava Eugenio, e piangeva amaramente in mezzo alla
parola, – per la parte mia non so come da te dividermi, e di buon
grado lusingherei le mie speranze, – seguitava rallegrando la voce,
– che di te avanzerà tanto da farne un vescovo, e io vivrò tanto da
vederlo. ― Io ti prego, – favellò Yorick, levandosi alla meglio di capo
il berretto da notte colla manca, perchè la destra avea sempre stretta
da quella d'Eugenio, – io ti prego a guardarmi un poco la testa. ― Non
vi scerno cosa che l'offenda, – rispondeva l'amico suo. ― Ahimè! io
vo' che tu sappi adunque, – riprese Yorick, – ch'ella è sì mal concia
e sformata dai colpi che i miei nemici le dettero così villanamente
all'oscuro, che potrei dire con Sancio Panza: – «se mi riavessi, e dal
cielo mi cadessero sul capo le mitre spesse come la gragnuola, neppure
una gli potria convenire.» ―

L'ultimo fiato di Yorick a queste parole pendeva pronto a fuggirsi
dalle sue labbra tremanti, – ma tuttavia le profferse in un suono,
che sapea di maniera _cervantica_; – e mentre parlava, Eugenio vide
accendersi per un momento in quegli occhi una striscia di fuoco
lambente, scarsa immagine di quelle vampe di spirito, che solevano,
a quanto disse Shakespeare dell'antenato suo, eccitar la gioia del
convito.

Eugenio si convinse, che il cuor dell'amico fosse spezzato; – gli
strinse la mano, – e poi adagio adagio uscì della camera, e piangeva
all'andarsene. Yorick seguitò cogli occhi Eugenio sino alla porta, –
quindi li chiuse, e mai più non li riaperse.

Ei riposa sepolto in un angolo del suo camposanto sotto una semplice
pietra di marmo, che l'amico Eugenio con licenza dei curatori gli
poneva sulla fossa con queste tre parole d'iscrizione, che servono a un
tempo d'epitaffio, e d'elegia:

                         ----------------------
                         | AHI POVERO YORICK! |
                         ----------------------

Dieci volte al giorno lo spirito di Yorick si consola a sentir leggere
la sua funeraria iscrizione con tanta varietà di lamentevoli accenti,
che per lui dinotano stima, e pietà universale; – e perchè un sentiero
attraversa il camposanto, da quel lato appunto dove è la sua fossa, non
passa di lì viandante che non si fermi, e non vi getti uno sguardo, e
non sospiri partendosi;

                           AHI POVERO YORICK

― 1829[26] ―


II.

IL NASO GROSSO.

RACCONTO DI SLAWKENBERGIUS.[27]

Finiva un giorno affannoso degli ultimi d'Agosto, e cominciava a
spirare il fresco della sera, allorchè un Forestiere entrava nella
città di Strasburgo, montato sopra una mula nera, e a tergo una valigia
con poche camicie, un paio di scarpe, e un paio di brache di seta
chermisi. E, passando le porte, al dimandar della sentinella rispondea,
che era stato al Promontorio dei Nasi, – che andava a Francfort, – e
sarebbe tornato fra un mese per viaggiare alle frontiere della Crimea.
La sentinella guardando in viso il Forestiere sclamava: – poffare Dio!
non ho veduto un tal naso a' miei giorni. ― Me ne trovo assai bene, –
rispondea il Forestiere; e si trasse la mano dal cinto donde pendeva
una scimitarra, e la si pose in tasca, e tutto cortese toccando con
la manca la parte davanti del cappello stendeva la destra, mettendo in
mano alla sentinella un fiorino, e seguitava la via. ― Duolmi, – disse
la sentinella drizzando la parola a un tamburo nano della statura,
e storto delle gambe, – che un'anima tanto gentile abbia perduto il
fodero della sua scimitarra; nè per viaggio potrà farne a meno; nè
in tutto Strasburgo troverà fodero che le si adatti. ― Non l'ebbi
mai, – ripigliò il Forestiere, volgendosi indietro alla sentinella, e
mettendosi in questa la mano al cappello; – e la porto, – continuava,
alzando nuda la scimitarra, e intanto la mula movea lentamente, – e la
porto a difesa del mio naso. ― E lo merita bene, o Forestiere cortese,
– diceva la sentinella. ― Non vale un bagattino, – disse il tamburo
dalle gambe storte; – è un naso di cartapecora. – Da uomo onesto,
– riprese la sentinella; – fuorchè sei volte più grosso, è un naso
simile al mio. ― L'ho sentito scricchiolare, – favellava il tamburo. ―
Cappita! – disse la sentinella; – ho veduto ben io, che sanguinava. ―
Peccato, – sclamò il tamburo dalle gambe storte, – che nol toccassimo
tutti e due! – E mentre la contesa durava tra la sentinella e il
tamburo, la stessa quistione agitavasi fra un trombettiere e la moglie
sua, che per via si erano fermati a veder passare il Forestiere. –
Dio ci salvi, che naso! è lungo come una tromba, – disse la moglie.
― E dello stesso metallo, – aggiungea il trombettiere, – come puoi
giudicare dallo sternuto. ― È soave come un flauto, – disse ella,
― È d'ottone, – disse il trombettiere. ― Frasche! – rispondeva la
moglie. ― Affermo di nuovo, – dicea il trombettiere, – che il naso
è di ottone. ― Vo' saperne il vero, – disse la moglie, – e però vo'
toccarlo con queste mie dita prima d'andare a letto. ― La mula del
Forestiere movea così piano, ch'egli intese ogni parola della contesa
non solo tra la sentinella e il tamburo, ma fra il trombettiere ancora
e la moglie sua. ― No, – diss'egli, allentando le briglie sul collo
alla mula, e incrociandosi le mani sul petto nell'atteggiamento di
un santo; e la mula seguiva a muover pian piano; – no, – diss'egli,
alzando gli sguardi; – oltraggiato e deluso come fui, non devo al
mondo poi tanto da convincerlo in questo; no, – diss'egli, – nessuno mi
toccherà il naso, finchè il cielo mi dia forza. ― A che fare? – chiese
la moglie di un borgomastro. Il Forestiere non badò alla moglie del
borgomastro, e fece voto a S. Niccola, e poi sciolse le braccia con la
stessa solennità onde le aveva incrociate, e raccolse con la manca le
briglie, e si pose in seno la destra donde pendeva la sua scimitarra,
e cavalcò passo innanzi passo per le strade più larghe di Strasburgo,
finchè la ventura lo condusse al grande albergo del mercato dirimpetto
alla chiesa. Il Forestiere smontando subito impose che la mula fosse
menata alla stalla, e la valigia portata dentro; quindi l'aperse, – e
traendone le brache di seta chermisi con un pendaglio ornato d'argento,
se ne vestiva; e poi colla scimitarra impugnata andò a passeggiare
sulla piazza d'arme. Come ebbe fatti appunto tre giri, scorse alla
banda opposta la moglie del trombettiere, e si voltò in fretta, temendo
che il suo naso non fosse posto al cimento; e tornò immantinente
all'albergo, e spogliandosi ripose le brache etc. nella valigia, e
chiese la mula. ― Io me ne vado a Francfort, – disse il Forestiere, –
e torno tra un mese. Spero, – continuò il Forestiere, palpeggiando il
muso della mula intanto che si accingea a salirla, – spero che avrete
usato cortesia a questa mia schiava fedele; ella mi ha portato colla
valigia più di seicento leghe; – e in così dire lievemente le batteva
la schiena. ― Viaggio lungo, signor mio, – dicea il locandiere, – e
chi lo fa certamente ha di grandi affari tra mano. ― Niente, niente!
– rispondea il Forestiere; – sono stato al Promontorio dei Nasi,
dove grazie a Dio me ne sono procacciato uno de' più belli, che sia
mai caduto in sorte a uomo vivente. ― Il Forestiere rendeva di sè
stranamente ragione, e il locandiere e la moglie sua gli fissavano gli
occhi sul naso. – Per Santa Radegonda! vi è più naso in quel naso, che
in qualche dozzina dei più grossi nasi di tutto Strasburgo mettendoli
insieme; non è, – diss'ella, mormorando nelle orecchie al marito, –
non è un gran bel naso? ― È un'impostura, anima mia, – ripigliò il
locandiere, è un naso falso. ― È vero, – disse la moglie. ― È d'abete,
– disse il marito; – non senti l'odor della trementina? ― Vi è sopra
una bollicina, – aggiunse la moglie. ― È un naso morto, – riprese il
locandiere. ― È vivo, – disse la moglie, e giuro per l'anima mia, che
vo' toccarlo. ― Oggi ho fatto voto a S. Niccola, – dicea il Forestiere,
– che nessuno mi toccherà il naso, fino.... ― E quì sospendea la voce,
e alzava li sguardi. ― Fino a quando? – diceva frettolosa la donna. –
Nol toccheranno, – diss'egli intrecciando le mani, e stringendosele al
petto, – fino a quell'ora. ― Qual ora? – esclamava la donna. ― Mai, –
ripigliò il Forestiere, – finchè io non arrivi. ― Dove? per l'amor di
Dio! – insisteva la donna. Il Forestiere partì, nè disse parola.

Non era il Forestiere innoltrato mezza lega per la via di Francfort,
che tutto Strasburgo andava sossopra a cagion del suo naso. Le campane
della compieta chiamavano li Strasburghesi ai sacri uffici, e a
chiudere il giorno nella preghiera; non le sentiva un'anima. La città
pareva uno sciame di api; uomini, donne, fanciulli, (e le campane
suonavano,) correvano qua e là; uscivano da una porta, entravano in
un'altra, di su, di giù, per le strade, pei viottoli. ― L'avete veduto?
― L'avete veduto? ― L'avete veduto? ― Oh! l'avete veduto? ― Chi lo
vide? ― Chi l'ha veduto? ― Dio buono! chi lo vide? ― Io lavava. ― Io
dava l'amido. ― Io era ai vespri. ― Io ripuliva la casa. ― Io cuciva.
― Dio mi aiuti! io non l'ho veduto. ― Io non l'ho toccato. ― Oh fossi
stato un po' la sentinella, o il tamburo dalle gambe storte, o il
trombettiere, o la moglie sua! ― E questo grido, e questo lamento,
errava universale per ogni via, e per ogni canto di Strasburgo. Mentre
la confusione e il tumulto turbavano la gran città di Strasburgo, il
Forestiere cortese cavalcava di un passo soave soave verso Francfort,
– nè facea vista d'aver nulla che fare in quel fatto; – ma per la
via favellava in rotte sentenze ora alla sua mula, ora a sè stesso,
ora alla sua Giulia, ― O Giulia! amabile Giulia! – No, io non posso
fermarmi perchè tu mangi quel cardo. – Che le trame di un rivale mi
abbiano rapito ogni mio diletto al punto che andava a gustarne! –
Poh! non è che un cardo; lascia andare, stanotte avrai miglior pasto.
– Esiliato dalla patria mia, dagli amici, da te! – Povero diavolo!
sei stanco del viaggio? via, camminiamo più forte; la valigia non
ha che due camicie, un paio di brache di seta chermisi, e.... – Cara
Giulia! – Ma perchè a Francfort? Forse una mano arcana mi conduce per
tutti questi meandri? – S. Niccola! incespichi ad ogni passo; così
consumeremo tutta la notte a fare.... – Forse felice, o ludibrio della
fortuna, e della calunnia; – cacciato via nè convinto, nè ascoltato, e
innocente. E perchè non restavi a Strasburgo, dove la giustizia.... –
ma feci voto.... – Via! tu berrai.... – a S. Niccola. – O Giulia! – E
perchè rizzi le orecchie? è un uomo, etc. ―

Il Forestiere cavalcava conversando in questa maniera colla sua mula,
e con Giulia, finchè giunse all'albergo; e smontando badò che la mula
fosse trattata bene secondo le promesse, – e portò nell'albergo la
sua valigia, e volle da cena una frittata, – e a mezza notte si mise a
letto, e dopo cinque minuti dormiva profondamente.

E all'ora stessa diminuiva il tumulto in Strasburgo, – e gli abitanti
andavansi a letto; – ma quanto al corpo e alla mente non riposavano
di certo, come faceva il Forestiere; – perchè la fantasia, agilissima
fata, aveva preso il naso del Forestiere, e, senza toccar nulla della
grossezza, aveva sudato tutta la notte a dividerlo e suddividerlo
in tanti nasi di diversa figura quante erano teste in Strasburgo. La
Badessa di Quedlingberg venuta quella settimana a Strasburgo con le
quattro prime dignità del suo Capitolo, a consultare l'Università sopra
un caso di coscienza relativo alli sparati delle loro gonnelle, non
potè chiudere un occhio. Il naso del gentil Forestiere erasi posato
in cima alla glandula pineale del suo cervello, – e facea brulicar
tante immagini in capo alle quattro prime dignità del suo Capitolo,
che non ci fu da prendere un fil di sonno in tutta la notte, nè da
star ferme un attimo; in somma si alzavano tutte come altrettanti
spiriti. Tutte le monache di più severo istituto, che passano la
notte vestite del cilicio, erano a partito peggiore della badessa di
Quedlingberg; e girandosi e rigirandosi da ogni banda del letto si
erano tutte scorticate a morte, e credevano che il fuoco di S. Antonio
le avesse visitate a fin di provarle; nè chiusero un occhio da vespro
a mattutino. Le Orsoline operando più saviamente non andavano a letto.
E il decano di Strasburgo, e i prebendati, e il corpo dei canonici,
(adunati tutti in capitolo la mattina per considerare il caso delle
focacce condite col burro), bramavano aver seguitato l'esempio delle
Orsoline. – Nel trambusto delle cose, la sera innanzi i fornai si
erano dimenticati di fare il lievito, – nè in tutto Strasburgo potevi
trovare per colezione focacce condite col burro. La cattedrale era in
moto perpetuo, nè tanta causa d'inquietudine, nè tanta gelosa ricerca
nella causa dell'inquietudine, si era veduta in Strasburgo dal tempo
che Martino Lutero colle sue nuove dottrine sovvertiva quella città
da cima a fondo. E se il naso del Forestiere scompigliava la mente
dei chierici, qual facesse baccano in quella dei laici è più assai
di ciò che possa descriver la mia penna consumata sino al gambo. So
di certo, – esclama qui Slawkenbergius, nè da lui mi aspettava tanta
gaiezza di concetto; – so di certo, che ci sono molte similitudini
buone a darne un'idea ai miei concittadini; ma alla fine di un'opera
come questa, scritta per amor di loro, e dove ho speso grandissima
parte della vita, sarebbe giusto l'esigere, che io trovassi il tempo
e la voglia di cercarle? Vi basti che universale era il disordine
nelle fantasie Strasburghesi, e dominava assoluto ogni facoltà delle
menti loro; e con tanta asseveranza, e con tanta eloquenza parlavano,
e giuravano stranissime cose intorno a quel naso, che la corrente di
qualunque discorso a maraviglia si drizzava a quel segno. Il buono e il
cattivo, il ricco e il povero, il dotto e l'ignorante, il maestro e il
discepolo, la padrona e la fantesca, l'accorto e lo stordito, la monaca
e la donna, si affannavano tutti per udirne novelle, – e ogni occhio
struggevasi di vederlo, e ogni dito anelava toccarlo.

Aggiungete ancora, – nè bisognava aggiunger nulla all'ardore di tanto
desiderio, – che la sentinella, e il tamburo dalle gambe storte,
e il trombettiere e la moglie sua, e la vedova del borgomastro,
e il locandiere e la moglie sua, differivano tutti largamente
nell'attestare, e descrivere il naso del Forestiere; – ma si
accordavano in due punti, cioè che andava a Francfort, e tornerebbe
fra un mese; – in secondo luogo, – fosse, o no, vero il naso, – il
Forestiere era paragone di perfetta bellezza, – l'uomo il più ben
formato, – il più gentile, – il più generoso della sua borsa, – il più
cortese ne' suoi portamenti, che avesse giammai passate le porte di
Strasburgo; e mentre cavalcava per le vie colla scimitarra penzolone
alla destra, e mentre passeggiava attraverso la piazza d'arme colle
brache di seta chermisi, il facea con aria tanto soave, disinvolta, e
modesta, e al tempo stesso virile, che, se non fosse venuto in mezzo il
suo naso, avrebbe intricato il cuore di qualsiasi fanciulla gli avesse
dato uno sguardo. ― Mal abbia il cuore che non sente il palpito e la
passione della curiosità; e merita scuse la Badessa di Quedlingberg
colle quattro sue dignità, se a mezzogiorno mandarono per la moglie
del trombettiere. Ella andava per le vie di Strasburgo recandosi in
mano la tromba del suo marito, – nè migliore apparato onde illustrare
le sue teorie le concedeva la strettezza del tempo, – e si trattenne
tre giorni. Ma rispetto alla sentinella, e al tamburo dalle gambe
storte, Atene non potea metter loro a fronte veruno; – nè con tanta
pompa Crantore e Crisippo leggevano sotto ai portici loro, con quanta
leggevano que' due sotto le porte della città a chi andava e veniva.
Il locandiere col ragazzo a sinistra leggeva sul medesimo stile nella
corte della stalla; leggeva ancora la moglie, benchè in una stanza
appartata; e tutti si affollavano a quelle lezioni, – no confusamente,
ma, come è il costume, o da questo, o da quello, secondo che la fede e
la credulità li schieravano: – insomma ogni Strasburghese affollavasi
per saper la novella, – e ognuno sapeva la novella desiderata.

Vuolsi notare a benefizio di tutti i dimostratori in filosofia naturale
etc., che, appena la moglie del trombettiere ebbe finito di leggere in
privato alla Badessa di Quedlingberg, incominciò in pubblico, sopra
uno sgabello, in mezzo alla piazza d'arme; e turbò fieramente gli
altri dimostratori, tanto che la parte migliore della città subito
traeva a sentirla. Ma quando il dimostratore in filosofia, – esclama
qui Slawkenbergius, – ha per apparato una tromba, chi è di grazia
il rivale di dottrina, che pretenda essere ascoltato a preferenza?
Mentre gl'ignoranti pei condotti della nozione si affaccendavano a
scendere in fondo al pozzo dove la VERITÀ tiene la sua piccola corte,
i maestri smaniavano altrettanto di tirar su il vero colle trombe pei
condotti della induzione dialettica; – nè si brigavano dei fatti, –
ragionavano. Ma professione al mondo non avrebbe meglio illustrato
il soggetto, che la Facoltà medica, dove non si fosse smarrita a
disputare intorno le glandule e i tumori edematici; – e così non ci
fu verso di veder lume; – e il naso del Forestiere non avea nulla
di comune colle glandule, e coi tumori edematici. Però fu dimostrato
a sufficienza, che quella massa ponderosa di materia eterogenea non
poteva ammucchiarsi al naso mentre l'infante era nell'utero, senza tor
l'equilibrio alla bilancia del feto, e collocar bello e gonfio quel
naso sul volto nove mesi prima del tempo. Li oppositori concedevano
la teoria, – negavano le conseguenze. ― E se convenienti vene, ed
arterie, – ripigliavano i primi, – a nutrir debitamente quel naso non
fossero concorse al principio della sua formazione, pria che venisse
al mondo, (lasciando il caso delle glandule), non avrebbe potuto
regolarmente crescere, e dipoi sostentarsi. ― A questo rispondeva
una dissertazione su gli alimenti, e l'effetto, che gli alimenti
producono nel distendere i vasi, e il crescere e il prolungarsi delle
parti musculari al massimo incremento, e alla massima espansione
immaginabile. E nel trionfo di questa teoria, giunsero ad affermare,
che in natura non v'era ragione, perchè un naso non potesse arrivare
alla grossezza dell'uomo stesso. Rispondevano non potersi avverare
l'evento, finchè l'uomo avesse uno stomaco solo, e due polmoni. ― Lo
stomaco, – dicevano, – è l'organo destinato unicamente a ricevere il
cibo, e convertirlo in chilo; i polmoni sono la macchina, che lavora
il sangue; e quest'ingegni nell'adempiere alle proprie funzioni hanno
misura dall'appetito, – o ammettendo possibile, che l'uomo carichi
di soverchio lo stomaco, la natura ha dato confine ai polmoni; quei
visceri ebbero grandezza e forza determinata, nè possono elaborare
una certa quantità, che a spazio fisso di tempo; cioè producono tanto
sangue, che basti a un uomo solo, e non più; – e se vi fosse tanto
naso che uomo, provavano, che dovrebbe seguitare necessaria cancrena;
e perchè non v'era da sostentare ambedue, o il naso sarebbe caduto
dall'uomo, o l'uomo inevitabilmente dal naso. ― La natura si accomoda
a queste emergenze, – gridavano gli oppositori; – altrimenti, che
direste voi d'uno stomaco intero, di due polmoni interi, e d'un uomo
mezzo, cui sventuratamente un cannone abbia tronche le gambe? ― Ei muor
di pletora, – riprendevano, – o sputa sangue, e in quindici giorni,
o al più tre settimane, va consumato a babboriveggoli. ― Non è così,
– ripigliavano li oppositori. ― Così non fosse! – rispondevano gli
altri. Quelli spiriti curiosi, che indagano l'interna natura, e i
suoi fatti, sebbene andassero d'amore e d'accordo per un buon tratto
di via, finalmente si divisero intorno al naso in tante opinioni,
quante quelle dei medici stessi. Statuivano pacatamente, che le varie
parti del corpo umano avevano un ordine, e una proporzione geometrica
corrispondente ai suoi vari uffici e funzioni, nè potea trapassarsi
fuorchè con certi limiti; e benchè la natura talvolta scherzasse,
scherzava anch'ella in un certo circolo, nè potevano conceder nulla al
di là del suo diametro. Più che altra classe di letterati, i Logici si
tenevano stretti all'argomento, e cominciavano e finivano con la voce
_naso_; e se non era una petizione di principio, nella quale fin dalle
prime andò a batter di capo uno de' più capaci tra loro, la quistione
sarebbesi terminata in un fiato. ― Un naso, – argomentava il Logico,
― non può sanguinare senza sangue, e sangue che circoli a produrre
il fenomeno con una serie di gocciole; – e una corrente altro non
è, che una serie più veloce di gocciole. – Ora la morte non essendo,
che il ristagnamento del sangue.... ― Nego la definizione; la morte è
la separazione dell'anima e del corpo, – disse il suo antagonista. ―
Dunque non ci combiniamo nell'arme, – riprese il Logico. ― Dunque la
quistione è terminata, – rispose l'antagonista. Furono più concisi i
Giurisperiti, e quanto profferivano aveva meglio sembianza di decreto,
che di contesa. ― Quel naso mostruoso, – dicevano, – se fosse vero,
non potea sofferirsi agevolmente nella civil società; se poi falso,
ingannare così la società con segni mentiti era un violare altamente i
suoi diritti, e però gli si dovevano anche meno rispetti. ― A questo
obbiettavano unicamente, che, se provavasi alcuna cosa, era, che il
naso dello Straniero non appariva nè vero, nè falso. E questo diè luogo
di seguitare alla controversia. ― Sostenevano gli avvocati della Corte
Ecclesiastica, che nulla potea vietare un decreto, dacchè il Forestiere
_ex mero motu_ confessava essere stato al Promontorio dei Nasi, dove se
n'era procurato uno de' più belli etc., etc. ― Rispondevano a questo,
essere impossibile che vi fosse il Promontorio dei Nasi, e i dotti
non lo sapessero. Il commissario del Vescovo di Strasburgo prese le
parole dell'avvocato, e chiarì la materia con un trattato sulle frasi
proverbiali, dimostrando loro il Promontorio dei Nasi, come semplice
espressione allegorica, significante, che la natura lo aveva dotato di
lungo naso; e come prove citava dottamente infinite autorità, che fuor
di dubbio avrebbero deciso la causa, se non fosse apparito, che 90 anni
prima erano servite a terminare una questione intorno alcune franchigie
di un decano. Intanto avveniva, – nè dirò sventuratamente pel Vero,
poichè così facendo gli davano leva da un'altra parte, – intanto
avveniva, che le due Università di Strasburgo, la Luterana fondata il
1538 da Giacomo Sturmis consigliere del Senato, e la Papale da Leopoldo
Arciduca d'Austria, impiegavano tutta la forza del loro sapere,
(tranne quel po' di tempo, che richiedeva l'affare della Badessa
di Quedlingberg intorno agli sparati delle gonnelle), a determinare
il punto della dannazione di Martino Lutero;......... ....... ma il
naso grosso del Forestiere distolse l'attenzione del mondo da quanto
avevano tra mano, – e lor convenne seguitar la corrente. Nè fu ritegno
la Badessa di Quedlingberg, e le sue quattro prime dignità; il naso
grosso del Forestiere mosse ai dottori la fantasia, quanto il caso
di coscienza; e però l'affare degli sparati delle gonnelle fu per un
tratto sospeso; in somma gli stampatori ammannivano i tipi, e dispute
d'ogni maniera corsero in pubblico. Tu avresti potuto più agevolmente
mettere insieme un vescovo e un tegame, che indovinare da qual parte
del naso si sarebbero tratte le due Università.

― È sopra la ragione, – gridavano da una parte alcuni Dottori.

― È sotto la ragione, – gridavano degli altri.

― È fede, – gridò uno.

― È un archetto da violino, – rispose l'altro.

― È possibile.

― È impossibile.

― Infinita è la potenza di Dio, – gridavano i _Nasisti_, – può far
quanto vuole.

― Non può far nulla, – ripresero gli _Antinasisti_, – che in sè
comprenda contradizione. ― Può far che la materia pensi, – dissero
i Nasisti. ― Già, come tu dell'orecchio d'una scrofa puoi farne un
berretto di velluto, – risposero gli Antinasisti. ― Non può fare, che
due più due facciano cinque, – dissero i Cattolici. ― Non è vero, –
risposero gli oppositori. ― La potenza infinita è potenza infinita,
– dissero i dottori che affermavano la realtà del naso. ― Si estende
solamente a tutte le cose possibili, – rispondevano i Luterani. ―
Dio del cielo! – esclamavano i Cattolici, – se così crede, può fare
un naso grosso come il campanile di Strasburgo. ― Ora il campanile
di Strasburgo essendo il più grosso e il più alto campanile che si
veda nel mondo, gli Antinasisti negavano, che un naso di 575 piedi
geometrici in lunghezza potesse portarsi almeno da un uomo della
comune statura. I Cattolici giuravano di sì. ― No, non può essere, –
dicevano i Luterani. ― E questo suscitò nuova contesa, che portarono
innanzi gran tratto, intorno l'estensione e i limiti degli attributi
morali e naturali di Dio. Non s'intese più nominar parola del naso
del Forestiere, che servì appunto come di fregata a lanciarli nel
golfo della teologia scolastica, e quivi navigavano a vele spiegate.
Lo scaldarsi sta in proporzione alla mancanza del vero sapere.
La controversia degli attributi etc. invece di raffreddare aveva
all'incontro scaldate più che mai le immaginazioni strasburghesi, e
quasi fuor di misura. Meno intendevano, e più maravigliavano, ma furono
lasciati nell'angoscia del desiderio non appagato. Vedi carità dei
loro dottori! Da una parte quei della cartapecora, dell'ottone, e della
trementina, – dall'altra i Cattolici, s'imbarcano tutti, e son già fuor
delle viste, come Pantagruello, e i suoi compagni, che vanno a cercar
l'oracolo della _Bottiglia_. E i poveri Strasburghesi abbandonati sul
lido! che fare omai? – nullo indugio di mezzo; – cresceva il tumulto, e
le porte vennero aperte. Sfortunati Strasburghesi! nel magazzino della
natura, nell'armadio delle scienze, nell'arsenale del caso, fu lasciata
forse indietro una macchina per tormentare la vostra curiosità, per
suscitare i vostri desideri, che la mano del fato non accennasse onde
potesse operare sul vostro cuore? Io non tingo la penna a scusarvi
della resa che faceste, ma scrivo le vostre lodi. Mostratemi una città
così travagliata dalla espettazione, senza mangiare, bere, o dormire,
o pregare, o intender le voci del cielo e della natura, pel corso
di giorni ventisette, e ditemi poi se avrebbe sostenuto un giorno
più a lungo! Al ventottesimo il Forestiere cortese aveva promesso
di ritornare. Settemila carrozze, (e credo, che Slawkenbergius abbia
sbagliato nel conto), settemila carrozze, quindicimila calessi a un
cavallo solo, ventimila carri, si affollavano insieme serrati, e pieni
di senatori, di consiglieri, di sindaci, di beghine, di vedove, di
mogli, di vergini, di concubine etc. La Badessa di Quedlingberg con
le sue quattro prime dignità guidava la processione in una carrozza, e
il decano di Strasburgo con le quattro prime dignità del suo Capitolo
le veniva alla manca; i rimanenti seguitavano a rifascio come meglio
potevano, – a cavallo, a piedi, in vettura, pel Reno, per questa
via, per quell'altra; tutti insomma uscivano incontro al Forestiere
cortese. Noi precipitiamo alla catastrofe del nostro racconto. ― Io
dico catastrofe, (esclama qui Slawkenbergius), perchè un racconto
regolarmente disposto nelle parti, non solo va lieto della catastrofe,
e della peripeteia d'un dramma, ma gode ancora di tutte le altre parti,
che ne fanno l'essenza; ed ha la protasi, l'epitasi, la catastasi,
la catastrofe o peripeteia, succedentisi fra loro in quell'ordine,
che prescrisse Aristotele, senza le quali, – dice Slawkenbergius,
– un racconto non dovrebbe narrarsi ma invece tenerselo in cuore;
e in tutte le mie dieci decadi io Slawkenbergius ho tenuto ogni mio
racconto strettamente annodato alla regola da me seguita in questo del
Forestiere, e del suo naso. Dalle prime parole alla sentinella fino
al punto che lascia Strasburgo dopo aver cavate fuori le brache di
seta chermisi, è la protasi, ovvero l'introduzione, dove si toccano
i caratteri dei personaggi così di volo, e il soggetto è lievemente
incominciato. L'epitasi, dove l'azione progredisce fino all'ultimo
grado chiamato catastasi, e che d'ordinario comprende il secondo, e il
terz'atto, è rinchiusa in quell'operoso periodo del mio racconto, cioè
dal tumulto della prima notte fino a che la moglie del trombettiere
fa la sua lezione in mezzo di piazza d'arme. E dall'entrar che fanno
i dottori nella questione fino a che sciolgon le vele, lasciando
desolati li Strasburghesi sul lido, è la catastasi, ossia quella
parte in che gli avvenimenti e le passioni sviluppano, prorompendo nel
quint'atto. E questo comincia dall'uscir che fanno li Strasburghesi
sulla via di Francfort, e finisce strigando il labirinto, e conducendo
l'eroe dallo stato di agitazione, (così lo chiama Aristotele), allo
stato di riposo, e di quiete. E questo, – dice Hafen Slawkenbergius,
– costituisce la catastrofe o peripeteia del mio racconto, e questa
è la parte che imprendo a narrare. Lasciammo il Forestiere dietro il
sipario a dormire; or vien sulla scena. ― E perchè rizzi le orecchie?
è un uomo a cavallo,.... ― fu l'ultima parola, che il Forestiere
disse alla mula; e allora non tornava bene far sapere al lettore, che
la mula prese in parola il padrone, e senz'altro lasciò passare il
viandante e il suo cavallo. Il viandante studiavasi a tutta fretta
di giunger la notte a Strasburgo. ― Pazzo, che non son altro! – poi
disse fra sè, dopo aver cavalcato circa una lega: – pazzo, che non
son altro! se penso d'entrare in Strasburgo stanotte. Strasburgo!
Strasburgo la grande! Strasburgo la capitale di tutta l'Alsazia!
Strasburgo città imperiale! Strasburgo stato sovrano! Strasburgo munita
di cinquemila dei migliori soldati che sieno! Ahi! se ora fossi alle
porte di Strasburgo, non mi farebbero entrare per un ducato, nè per
uno e mezzo; – è troppo; – e il meglio è tornarsi all'ultimo albergo
da dove sono passato, che fermarsi io non so dove, o donare io non
so quanto. Il viandante così meditando girò la testa del cavallo, e
giunse all'albergo tre minuti dopo che il Forestiere era stato condotto
alla sua stanza. ― Abbiamo del lardo, e del pane, – diceva l'oste, –
e all'undici avanzavano tre uova, ma un Forestiere, che arrivò, non è
un'ora, se le fece acconciare in frittata, e non abbiamo più nulla. ―
Ahimè! – disse il viandante; – affaticato come sono, non mi bisogna
che un letto. ― E morbido quanto altro mai dell'Alsazia, – riprese
l'oste, – e ci avria dormito il Forestiere, perchè è il migliore che
io m'abbia, se non era per via del suo naso. ― Gli è forse venuto un
flusso di sangue? – favellò il viandante. ― No, ch'io sappia, – diceva
l'oste, – no davvero; ma Giacinta, (e in questa accennava dello sguardo
la fantesca), immaginò, che il letto non fosse capace tanto, che egli
vi potesse rivolgere il suo naso. ― Come mai? – sclamò il viandante,
facendosi indietro. ― È un naso tanto lungo, – ripigliò l'oste. Il
viandante fissava gli occhi sopra Giacinta, poi li fissava al suolo;
si piegò sul ginocchio diritto, e si pose una mano sul petto. ― Voi
già non beffate l'ansia del mio desiderio? – diss'egli, come risorse.
― No, in verità, – rispondeva Giacinta, – è un naso magnifico. ― Il
viandante s'inginocchiò nuovamente, – si pose la mano sul petto, –
e guardando al cielo diceva: ― tu m'hai condotto al termine del mio
pellegrinaggio; egli è Diego. ― Era il viandante fratello di Giulia
tanto invocata dal Forestiere, la notte che cavalcando la mula si
dipartì di Strasburgo; e veniva in cerca di lui, pregato dalla sorella,
la quale accompagnò da Valladolid in Francia traversando i Pirenei;
e gli fu mestieri superare infinite difficoltà cercandolo pei molti
andirivieni e voltate improvvise, onde è composta la spinosa via
d'un amante. Ma Giulia soccombeva, – nè potè muovere un passo fuor di
Lione, dove per gli affanni di un tenero cuore, (ne favellano tutti,
ma è raro chi sente), si giacque malata, – e appena ebbe forza di
scrivere a Diego una lettera; e avendo scongiurato il fratello a non
volerla giammai rivedere, se prima non lo avesse trovato, gli mise
nelle mani la lettera, e andossene a letto. Ferdinando, (così aveva
nome), non ostante il letto morbido quanto altro mai dell'Alsazia
non potè chiudere un occhio, e come fu giorno si levò, e sentendo che
Diego ancora era levato entrò nella camera disobbligandosi della sua
commissione. Così diceva la lettera:

  _SIGNOR DIEGO!_

_Non è l'ora da vedere se i miei sospetti intorno al vostro naso
fossero, o no, giustamente eccitati; vi basti, che io non ebbi costanza
da farne la prova. Io conosceva poco me stessa, allorchè mandai la
mia governante a divietarvi, che non veniste più sotto la mia gelosia;
e meno ancora conosceva il mio Diego, avvisandomi, che resterebbe un
giorno a Valladolid per chiarire i miei dubbi; ma fu pietà, o Diego,
l'abbandonarmi perchè rimasi ingannata? o fu cortesia prendermi alla
parola, giusti o no che fossero i miei sospetti, e lasciarmi, come
faceste, a tanta incertezza, a tanto dolore? E come Giulia abbia
sentito quest'atto vel dirà il fratel mio al consegnarvi la lettera;
e vi dirà come di lì a un istante si pentiva del precipitoso messaggio
che vi mandò, e forsennata correva alla gelosia, – e stette più giorni
e notti di séguito appoggiata sul gomito guardando alla via donde era
solito Diego venire. E quando ella ebbe nuova della vostra partenza,
vi dirà come l'abbandonava lo spirito, e il core le si ammalava,
e piangeva pietosamente, e chinava la testa sotto il peso degli
affanni. O Diego! quanti passi non ho misurati, stanca, anelante di
rintracciarvi! e la pietà del fratel mio mi conduceva per mano; e il
desiderio mi portava al di là delle forze, e sovente io mi sveniva,
e gli cadea tra le braccia, senza proferire altra voce, che questa: –
o Diego mio! – Se il cuor vostro non è smentito dalla gentilezza dei
modi, volerete presso di me colla velocità onde fuggiste, affrettatevi
tanto, che possiate.... che possiate giungere a vedermi spirare. È un
sorso amaro; ma è più ancora amareggiato dal morir non....._

Ella non potè seguitare. Slawkenbergius suppone, che la parola
significasse _non convinta_, ma le forze non le consentirono di finire
la lettera. E mentre il Forestiere cortese la leggeva, il cuore gli
straboccava di affetti, e ordinò che fosse insellata la sua mula, e
il cavallo di Ferdinando; e perchè nel combattimento delle passioni
lo sfogo della prosa non agguaglia quello dalla poesia, il caso, che
del pari ci spinge ai rimedi e alle infermità, avendo gettato dalla
finestra in camera un pezzo di carbone, Diego se ne giovò, e intanto
che il ragazzo allestiva la mula, così disacerbava il suo spirito
scrivendo nel muro come segue:


ODE

1.

      No, – se la mano della Donna mia
    L'arpa non tocca, esce il concento e muore,
    Nè l'accompagna un'aura d'armonia;
    Ma se le muove, tremano d'amore
    Le belle corde, e l'anima delira
    Di misteriosa voluttà sospira.

2.

    O Giulia!

I versi erano naturali, e convenienti al soggetto, dice Slawkenbergius,
– e peccato che rimanessero in tronco; ma o che il Signor Diego avesse
tardo l'ingegno a far versi, o che il ragazzo si affrettasse a sellare
le cavalcature, non è chiaro; fatto sta, che la mula di Diego, e il
cavallo di Ferdinando, erano lesti alla porta dell'albergo prima che
Diego fosse in atto per la sua strofa seconda; e però senza restare a
finir l'ode, ambedue montarono, dettero di sprone, passarono il Reno,
traversarono l'Alsazia, e piegarono alla volta di Lione; e prima che
li Strasburghesi e la Badessa di Quedlingberg uscissero della città,
aspettando l'arrivo del Forestiere, Ferdinando, Diego, e la sua Giulia,
avevano passati i Pirenei, ed erano giunti sani e salvi a Valladolid.
Non importa avvertire il lettore geografo, che, Diego essendo in
Ispagna, il Forestiere cortese non potevasi più incontrare sulla
via di Francfort; basti il dire, che, la curiosità essendo di tutti
gl'inquieti desideri il più ardente, li Strasburghesi la sentivano di
massima forza, e per tre giorni e per tre notti si trabalzavano su e
giù per la via di Francfort con tutta la tempesta di quella passione,
nè sapevano ancora adattarsi a tornarsene a casa. Ma sciaguratamente
per loro il fato preparava l'evento il più funesto che possa accadere
a popolo libero. Perchè molti hanno discorso, e pochi inteso, questa
rivoluzione degli affari Strasburghesi, io Slawkenbergius voglio
chiarirne il mondo in dieci parole, e al tempo stesso finirò il mio
racconto. Ognuno sa del gran sistema di Monarchia Universale composto
per comandamento di Monsieur Colbert, e dato manoscritto a Luigi XIV
l'anno 1664. Ognuno sa, che un ramo di quel sistema era l'impadronirsi
di Strasburgo onde favorire a tutti i tempi un'invasione in Suabia,
e disturbare la quiete della Germania, e che in conseguenza di questo
piano Strasburgo cadde finalmente in mano di Francia. A pochi è dato
di rimontare alle vere sorgenti di questa e simili rivoluzioni. I
volgari guardano tropp'alto; gli uomini di stato troppo basso. Il vero
sta di mezzo. È funesta, – esclama uno storico, – la superbia popolare
di una città libera. Li Strasburghesi stimavano, che scapitasse la
libertà a ricevere una guarnigione imperiale, e così vennero in preda
ai Francesi. Il destino delli Strasburghesi, – dice un altro, – può
servire di avvertimento ad ogni popolo libero, perchè faccia risparmio
di danaro. Li Strasburghesi spesero anticipate le rendite, s'imposero
tasse di per sè stessi, e si affiacchirono tanto, che finalmente non
ebbero forza da tener chiuse le porte, e i Francesi le apersero. –
Ahi! ahi! – grida Slawkenbergius, – non furono i Francesi, ma fu la
curiosità che le aperse. Veramente i Francesi, che stanno mai sempre
all'erta, veggendo li Strasburghesi, uomini, donne, e fanciulli, uscir
tutti della città dietro al naso del Forestiere, si posero in marcia ed
entrarono. D'allora in poi le manifatture e il commercio hanno piegato
a continua decadenza, ma non per le cause assegnate dai capi del
commercio; piuttosto vuolsi ascrivere a questa sola: che i nasi hanno
sempre fatto tanto frastuono in quelle teste, che li Strasburghesi
non poterono badare ai loro interessi. ― Ahi! ahi! – grida qui
Slawkenbergius, facendo un'esclamazione, – non è la prima, e temo che
non sarà l'ultima fortezza conquistata o perduta per via dei Nasi.

― 1829 ―


III.

STORIA DI LE FEVER

Era di poco avanzata l'estate di quell'anno in che gli alleati presero
Dendermond, – e il mio Zio Tobia sedevasi a cena, e Trim sedeva dietro
di lui a una tavoletta, allorchè il padrone di un alberghetto del
villaggio entrò nella stanza a chiedere un bicchiere o due di vin di
Canarie. ― È per un povero gentiluomo, io credo dell'armata, – diceva
l'oste, – e son quattro giorni, che il male l'ha côlto in casa mia,
nè d'allora in poi ha più sollevato la testa, o avuto voglia di gustar
cosa alcuna, se non che ora appunto gli è venuta vaghezza d'un bicchier
di Canarie, e d'un crostino. – Io penso, – ha detto il malato levandosi
dalla fronte la mano, – io penso che se vorrà, conforterà. – Se nol
potessi chiedere, o prendere in prestito, o comprare, – soggiugnea
l'oste, – vorrei quasi rubarlo per amor del povero gentiluomo, che è
malato di tanto. E spero in Dio, – continuava, – che ogni dì più andrà
migliorando, – perchè ci sta troppo a cuore la sua salute. ― Poffare il
mondo! – sclamava il mio Zio Tobia, – tu sei di buona pasta, e berrai
tu pure un bicchier di Canarie alla salute del povero gentiluomo,
e gliene recherai due bottiglie co' miei saluti, e digli che gliele
mando di cuore – e una dozzina ancora, se gli potranno far bene. Io
son persuaso, – disse il mio Zio Tobia, nel punto che l'oste serrava
la porta, – che costui abbia veramente viscere di pietà; – ma pure, o
Trim, non posso tenermi di stimare altamente anche l'ospite suo; – e'
dee avere alcuna dote più che ordinaria, perchè in tempo sì breve si
sia conciliato tanto l'affetto del suo albergatore. ― E dell'intera
famiglia, – riprendeva il Caporale, perchè tutti lo tengono a cuore. ―
Vàgli dietro, – disse il mio Zio Tobia, – va, Trim, e dimandagli come
si chiami. ― Me ne sono dimenticato davvero, – disse l'oste rientrando
nella stanza col Caporale, – ma ne posso dimandar nuovamente al suo
figliuolo. ― Egli ha dunque seco un figliuolo? – disse il mio Zio
Tobia. ― Un giovanetto, – rispose l'oste, – di circa gli undici, o i
dodici anni; ma la povera creatura non ha gustato quasi nulla di cibo
come suo padre: non fa che addolorarsi, e piangere notte e giorno, e
son due giorni che non si muove dalla sponda del letto. ― Il mio Zio
Tobia posò il coltello, e la forchetta, e si tolse il piatto davanti,
mentre l'oste gli facea quel racconto, – e Trim senza aspettar comando,
nè dir parola, sparecchiava, e di lì a pochi minuti gli recò la pipa
e il tabacco. ― Trim! – disse il mio Zio Tobia dopo avere accesa la
pipa, e date dieci o dodici boccate di fumo. Trim venne alla presenza
del suo padrone, e lo inchinò. Il mio Zio Tobia seguitò a fumare, nè
più fece motivo. ― Caporale! – disse il mio Zio Tobia. E il Caporale
lo inchinò. Il mio Zio Tobia non andò più là col discorso, ma finì
la sua pipa. ― Trim! – disse il mio Zio Tobia, – mi è venuto in capo,
perchè è una cattiva nottata, di avvolgermi tutto nel mio mantello, e
visitare quel povero gentiluomo. ― Vostro Onore, – rispose il Caporale,
– non ha indossato una volta il mantello dopo la notte precedente al
giorno che Vostro Onore fu ferito facendo la guardia nelle trincee
davanti alla porta di S. Niccola; e di più la notte è tanto fredda e
piovosa, che tra il mantello e il temporale vi sarà da morirne, o vi
ritorneranno i dolori nell'inguinaia. ― Temo di si, – rispondeva il
mio Zio Tobia, – ma la mente non mi quieta, o Trim, dopo il racconto
dell'oste. Avrei desiderato non saperne tanto, – aggiungeva, – o
saperne di più. E che modo terremo noi? ― Lasciatene a me la cura,
se vi aggrada, – rispose il Caporale, – io piglierò il mio cappello,
e il mio bastone, e andrò all'albergo per riconoscere, e far quanto
occorre, e tra un'ora Vostro Onore avrà nuova di tutto. ― Va Trim, ―
disse il mio Zio Tobia, – ed eccoti uno scellino, perchè tu lo beva
insieme al suo servo. ― Gli trarrò tutto di bocca, – disse il Caporale
serrando la porta. – Il mio Zio Tobia empiè la seconda pipa, e se
non fosse che tratto tratto si divagava dal soggetto, considerando se
tornasse bene che la cortina della tanaglia avesse una linea retta, o
una curva, poteva dirsi che a null'altro pensasse fuorchè a Le Fever e
al suo figliuolo in tutto quel tempo. E non aveva per anche scosse le
ceneri della sua terza pipa, che il Caporale ritornò dall'albergo, e
gli diè le seguenti notizie. ― A prima giunta io disperava, – cominciò
il Caporale, – di recare a Vostro Onore nessuna novella intorno al
povero Luogotenente infermo. ― È dunque dell'armata? – disse il mio
Zio Tobia. ― Certo, – rispose il Caporale. ― E di qual reggimento? –
disse il mio Zio Tobia. ― Io vi narrerò tutte le cose, – rispose il
Caporale, – a mano a mano che le ho sapute. ― E empirò dunque di nuovo
la mia pipa, – disse il mio Zio Tobia, – nè cercherò d'interromperti,
finchè tu non abbi finito; e però siedi a tuo bell'agio, o Trim, sulla
seggiola presso alla finestra, e comincia da capo. ― Il Caporale fece
l'antico suo inchino, che generalmente esprimeva chiaro, per quanto
lo possa un inchino, – Vostro Onore è buono, – e di poi si mise a
sedere come gli fu imposto, e cominciò da capo la storia presso a poco
colle stesse parole. ― Io disperava a prima giunta di recare a vostro
Onore nessuna novella intorno al povero Luogotenente infermo, e al suo
figliuolo, perchè dimandando del suo servo, da cui io confidava sapere
ogni cosa lecita a chiedersi, ( ― giustissima distinzione, o Trim, ―
disse il mio Zio Tobia, – ) mi risposero che non aveva servo con sè,
– ma era giunto all'albergo con dei cavalli noleggiati, e trovandosi
inabile a proseguire, – io suppongo per unirsi al reggimento, – la
mattina vegnente gli aveva rimandati. – Se posso migliorare, – disse,
dando al suo figliuolo la borsa onde pagasse l'uomo, – noleggeremo
quì dei cavalli; – ma il povero gentiluomo non moverà più di quì, –
diceva l'ostessa, – perchè tutta la notte ho sentito l'uccello del mal
augurio: e se muore, morrà certamente con lui il giovanetto suo figlio,
e di già gli si spezza il cuore. – Io stava a sentire, e il giovanetto
venne in cucina ordinando il crostino rammentato dall'oste: – ma lo
voglio far io per mio padre, – aggiunse il giovanetto. – Di grazia,
o giovanetto gentile, – diss'io pigliando a tal fine una forchetta, e
offrendogli la mia sedia perchè sedesse vicino al fuoco, – di grazia
lasciate fare a me. – Io credo, o Signore, – mi rispondea verecondo,
– di poter meglio contentare mio padre. – Io tengo per fermo, –
ripigliai, – che Suo Onore non vorrà gradir meno il crostino perchè
l'abbia arrostito un vecchio soldato. – Il giovanetto mi prese la mano,
e subito ruppe nel pianto. ― Povero giovanetto! – disse il mio Zio
Tobia, – educato sin da fanciullo all'armata, il nome di soldato gli
suona, o Trim, come nome d'amico: – oh l'avessi io pure quì presente!
– Nella marcia più lunga, – continuò il Caporale, – io non ebbi mai
sì gran voglia di desinare, come allora di piangere con lui. E che
dir voleva per parte mia? – scusimi Vostro Onore. ― Niente affatto,
– rispose il mio Zio Tobia soffiandosi il naso, – se non che tu sei
di ottimo cuore. ― Nel tempo che io gli dava il crostino, stimai bene
dirgli come io fossi il servo del Capitano Shandy, e che Vostro Onore,
benchè straniero, voleva bene fuor di misura a suo padre, – e se v'era
cosa qualunque in casa vostra, o in cantina, ( ― e tu potevi aggiugnere
eziandio la mia borsa, ― disse il mio Zio Tobia; – ) ne disponesse a
piacer suo. Mi fece un inchino profondo che fu inteso a Vostro Onore,
ma non rispose, perchè il suo cuore era pieno, e così ascese le scale
col crostino. – E vi assicuro, o mio diletto, – gli dissi nell'aprir
l'uscio di cucina, – che vostro padre tornerà di nuovo in salute. –
Il curato di M. Yorick fumava la pipa vicino al focolare, – ma non
disse parola nè buona nè cattiva per consolare quel giovanetto; – e mi
parve mal fatto, – soggiunse il Caporale. ― E pare anche a me, – disse
il mio Zio Tobia. ― Come il Luogotenente ebbe preso il bicchier di
Canarie, e il crostino, sentissi un po' ravvivato, e mandò in cucina
a farmi sapere, che tra dieci minuti mi saprebbe buon grado se io
salissi le scale. – Credo, – diceva l'oste, – che voglia fare le sue
preghiere, perchè sopra una seggiola accanto la sponda del letto eravi
un libro, e nel chiuder la porta vidi che il suo figliuolo prendeva
un guanciale. – Io pensava, – disse il curato, – che voi altri uomini
d'arme non diceste mai fiato d'orazione. – La notte passata intesi il
povero gentiluomo che recitava le sue preghiere, – disse l'ostessa, –
e con tutta divozione, e lo intesi con queste mie orecchie, altrimenti
non ci avrei creduto. – Ne siete certa? – riprendeva il curato. – Un
soldato, scusimi Vostra Riverenza, – favellai allora, – prega sovente,
e spontaneo, al pari d'un parroco, e quando egli combatte pel suo
Re, per la vita, e per l'onore, ha più ragione di pregare a Dio, che
persona di questo mondo. ― Ben parlasti, o Trim, disse il mio Zio
Tobia. ― Ma quando un soldato, – scusimi Vostro Onore, – risposi, –
è stato dodici ore di séguito in piedi, fino ai ginocchi nell'acqua
ghiaccia, o impegnato per mesi intieri in lunghe e pericolose marcie,
oggi per avventura inseguito, dimane perseguitato – mandato in un
luogo, – quindi richiamato, – una notte riposando sull'armi, – l'altra
destato a battaglia in camicia, – assiderato nelle giunture, – e senza
un po' di paglia nella tenda per coricarvisi sopra, – un soldato allora
deve fare orazione come e quando può, – e credo, – continuai a dire,
essendo punto sul vivo per la riputazione dell'armata, – e credo, –
scusimi Vostra Riverenza, – che quando un soldato abbia tempo, preghi
di cuore da quanto un parroco, e certo con meno boria ed ipocrisia. ―
Ciò non dovevi dirgli, – disse il mio Zio Tobia, – che Dio solo conosce
chi sia l'ipocrita, o no. Al grande esame di noi tutti, o Caporale, al
giorno del giudizio, (e non mai fino a quel punto,) vedremo chi abbia
adempito al suo ufficio in questo mondo, – e chi no, – e ne avremo
premio secondo il merito. ― Spero di sì, – disse Trim. ― Si legge
nella Scrittura, – disse il mio Zio Tobia, – e dimani tel mostrerò.
Intanto possiamo credere, o Trim, a nostro conforto, – disse il mio Zio
Tobia, – che Dio onnipotente è sì buono e giusto governatore del mondo,
che, dove abbiamo fatto l'ufficio nostro, non vorrà mai ricercare se
l'abbiamo fatto vestiti di rosso, o di nero. ― Spero di no, – disse il
Caporale. ― Ma prosegui la storia, – disse il mio Zio Tobia. ― Allorchè
fui salito nella camera, – continuò il Caporale, – aspettando per
altro il termine dei dieci minuti, – il Luogotenente giacevasi in letto
colla testa levata sopra una mano, e il gomito sopra il guanciale, e
accanto un polito fazzoletto di tela bianca. Il giovanetto chinavasi
in quella a raccorre il guanciale, dove suppongo che il padre si fosse
inginocchiato: – il libro era sul letto, – e mentre il figlio si alzava
con una mano raccogliendo il guanciale, distese l'altra per levare
il libro nel medesimo tempo. – Lasciatelo lì, o mio diletto, – disse
il Luogotenente. Non si mostrò disposto a parlarmi, finchè io non mi
accostai alla sponda del letto. – Se voi siete il servo del Capitano
Shandy, fate al vostro padrone i miei ringraziamenti, e quelli del mio
figliuoletto, per la cortesia che mi ha usato. – Poscia mi dimandò
se Vostro Onore fosse del Lever; io gli risposi di sì. – Dunque,
– diss'egli, – noi abbiamo militato insieme per tre imprese nelle
Fiandre; ma perchè io non ebbi l'onore di conoscerlo assai da vicino,
è probabile che egli non sappia nulla di me. Voi nondimeno gli direte,
che la persona tanto dal suo buon cuore obbligata è un certo Le Fever
Luogotenente nell'Angus: – ma pure non mi conosce, – diss'egli pensoso
una seconda volta; – ma può sapere la mia storia, – continuò; – ditegli
di grazia, che io fui l'Alfiere di Breda, cui sfortunatamente venne
uccisa la moglie da un colpo di moschetto, mentre io me la teneva tra
le braccia. – Me ne ricordo benissimo, – scusimi Vostro Onore, – gli
dissi. – Ve ne ricordate voi? – diss'egli asciugandosi gli occhi col
suo fazzoletto. – Ed io: – pur troppo! – E in queste parole si cavò di
seno un anelletto, che pareva legato al collo da un nastro nero, e lo
baciò due volte. Poi disse: – vien qua, Guglielmino, – e il fanciullo
traversò di volo la stanza, e, cadendo ginocchioni, si recò in mano
l'anello, – e lo baciò, – poi baciò suo padre, – si assise sul letto,
e piangeva. ― Io vorrei, – disse il mio Zio Tobia traendo un profondo
sospiro, – io vorrei esser nel sonno. ― Vostro Onore, ― rispose il
Caporale, – è troppo commosso: vi mesco un bicchier di Canarie, e vi dò
un'altra pipa? ― Sì, o Trim, – disse il mio Zio Tobia. ― Io mi ricordo,
– disse il mio Zio Tobia nuovamente sospirando, – io mi ricordo la
storia dell'Alfiere, e più una circostanza, che la sua modestia ha
tralasciato, – ed è, che ambedue, per una o per altra ragione (non mi
rammento quale), erano generalmente compianti da tutto il reggimento.
Ma finisci la storia, che hai preso a narrare. ― È omai finita, –
disse il Caporale, – dacchè non potei trattenermi più a lungo, – e così
augurai la buona notte a Suo Onore, e il giovanetto Le Fever mi fece
lume sino in fondo alle scale, e nello scendere mi diceva che erano
venuti d'Irlanda, e si erano messi in viaggio per unirsi al reggimento
nelle Fiandre. – Ma sventura! – disse il Caporale, – l'ultima marcia
del Luogotenente tocca al suo termine. ― Cosa avverrà del povero suo
figliuolo! – esclamò il mio Zio Tobia. ―

Eterno onore al mio Zio Tobia! (quantunque io il dica solamente per
amor di coloro, che posti tra una legge naturale e positiva non sanno
di per sè stessi a che partito appigliarsi in questo mondo;) eterno
onore al mio Zio Tobia! – perchè sebbene in quel tempo avesse l'animo
caldamente inteso a portare innanzi l'assedio di Dendermond di pari
agli alleati, che incalzavano il proprio con tanto vigore, che a mala
pena gli davano tempo da desinare, – nondimeno abbandonò Dendermond,
benchè avesse di già fatto un alloggiamento sulla contrascarpa, – e
volse tutti i pensieri alle private sciagure dell'albergo; e fuorchè
impose che la porta del giardino fosse chiusa a catenaccio, onde poteva
dirsi che avesse rivolto l'assedio in blocco, lasciò Dendermond in sua
balìa, fosse o no sovvenuto dal Re di Francia, secondo che avrebbe
stimato bene, – e solo considerava come potesse sollevare il povero
Luogotenente, e il suo figliuolo.

― Quell'Ente benigno, che è l'amico del derelitto, te ne renderà merito.

― Tu mi hai lasciata imperfetta l'opera, – disse il mio Zio Tobia
al Caporale, mentre ei lo metteva a letto, – e ti dirò dove....
Primieramente offerendo i miei servigi a Le Fever, siccome la malattia
e il viaggiare ambedue portano dispendio, – e tu sai, ch'egli era un
povero Luogotenente costretto a vivere sulla paga col suo figliuolo, –
mancasti a non offrirgli ancora la mia borsa, – e tu sai, o Trim, come
in caso di bisogno egli ne avrebbe potuto disporre al pari di me. ― Sa
Vostro Onore, – disse il Caporale, – che io non avea nessun ordine.
― È vero, – disse il mio Zio Tobia, – tu operasti benissimo come
soldato, – ma veramente male come uomo. In secondo luogo, e tu hai per
questo la medesima scusa, – continuò il mio Zio Tobia, – allorchè gli
offeristi le cose mie, dovevi ancora offerirgli la casa. Un confratello
uffiziale infermo dovrebbe, o Trim, aver le stanze migliori, – e se
or noi l'avessimo quì potremmo assisterlo e badare. Tu sei, o Trim,
un eccellente infermiere, e tra la cura tua, e quella della vecchia,
del suo figliuolo, e la mia insieme, lo potremmo sanar da capo, e
rimetterlo in piedi. Tra quindici giorni, o al più tre settimane, –
aggiugnea sorridendo, – egli potrebbe marciare. ― Non marcerà più de'
suoi giorni in questo mondo, – scusimi Vostro Onore, – rispondeva il
Caporale. ― Marcerà, – disse il mio Zio Tobia, levandosi dalla sponda
del letto con un piè senza scarpa. ― Scusimi Vostro Onore, – non
marcerà, che per andare alla fossa, – diceva Trim. ― Marcerà, – disse
il mio Zio Tobia, facendo marciare il piè, che aveva nella scarpa,
ma non avanzando d'un dito, – marcerà per andare al suo reggimento.
― Non può tenersi in piedi, – disse il Caporale. ― Lo reggeremo, –
disse il mio Zio Tobia. ― Cadrà finalmente, – rispose il Caporale:
– e che avverrà del povero suo figliuolo? ― Non cadrà di certo, –
dicea fermamente il mio Zio Tobia. ― Poffare! – disse Trim sostenendo
l'assunto, – fate per lui l'impossibile, ma la povera creatura morirà.
― Non morirà, no per....! – gridò il mio Zio Tobia. ―

Lo Spirito dell'Accusa, che volò col giuramento alla cancelleria del
cielo, si cosperse di rossore nell'atto di darla, – e l'Angiolo della
Memoria mentre lo segnava vi fece su cadere una lacrima, e lo cancellò
per sempre.

Il mio Zio Tobia andò al suo forziere, e si mise la borsa nella
scarsella delle sue brache; – poi comandò al Caporale, che di buon'ora
andasse pel medico, e si pose a letto e si addormentò. La mattina
vegnente il Sole appariva splendido agli occhi di tutti, fuorchè a
quelli di Le Fever, e dell'afflitto suo figlio. La mano della morte
pesava a Le Fever sulle palpebre, – e gli avanzava tempo di vita quanto
appena ne mette una carrucola di cisterna a far tutto il suo giro,
allorchè il mio Zio Tobia, essendosi levato un'ora prima del solito,
entrò nella camera del Luogotenente, e senza preambuli o scuse si
pose a sedere accanto al letto, e senza cerimonie aprì le cortine a
quella guisa che avrebbe fatto un vecchio amico e fratello ufficiale,
– e gli domandò come stesse, – come avesse riposato la notte, – di
che si dolesse, – ove fosse il suo male, – e che potesse fare per
sovvenirlo; – nè gli dava tempo a rispondere a nessuna delle dimande,
– ma seguitava a dirgli del piccolo divisamento combinato per lui la
notte avanti col Caporale. ― Voi verrete, o Le Fever, direttamente a
casa mia, – disse il mio Zio Tobia, – e manderemo pel medico a veder
che mal sia, – e avremo lo speziale, – e Trim vi farà da infermiere,
– e io da servo, o Le Fever. ― Avea tal franchezza il mio Zio Tobia,
– non l'effetto della familiarità, ma la causa, – che di súbito ti
metteva nell'anima sua, e ti mostrava la bontà della sua natura; –
e negli sguardi, nella voce, e nei modi, traspariva certa cosa, che
accennava eternamente allo sventurato di ripararsi sotto di lui; talchè
il mio Zio Tobia non era giunto a mezzo delle cortesi offerte, che
faceva al padre, e il figlio insensibilmente gli si era accostato ai
ginocchi, – e preso un lembo della sua veste lo tirava a sè. Il sangue
e li spiriti di Le Fever, che più e più sempre si facevano torbidi e
freddi, e si ritiravano all'ultima cittadella, il cuore, – ricorsero
indietro; il velo della morte lasciò quegli occhi un momento, – egli
guardò desioso in faccia al mio Zio Tobia, poi al figliuol suo, – e
quel legame della vita, sottile come era, non si ruppe! Ma la natura
all'istante riprese il suo corso; – gli occhi si velavano di nuovo,
– il polso batteva, – si fermava, tornava a battere, – balzellava, –
si fermava da capo, – si moveva, – cessava: – devo dir tutto? – no. –
Quanto bisogna aggiugnere è che il mio Zio Tobia, e il giovanetto Le
Fever, come capi del funerale, accompagnarono il povero Luogotenente
alla fossa. Quando il mio Zio Tobia ebbe convertito ogni cosa in
danaro, – e aggiustato ogni conto fra l'agente del reggimento e Le
Fever, – tra le Fever e tutto il genere umano, – non gli rimase più
nelle mani che una vecchia veste militare, e una spada, di modo che
il mio Zio Tobia incontrò lieve o nessuno ostacolo dal mondo, per
amministrare quel patrimonio. Diè la veste al Caporale, dicendogli: ―
portala, o Trim, finchè sta insieme, per amore del povero Luogotenente.
– E questa, – diss'egli, recandosi in mano la spada, e la trasse dal
fodero nell'atto che favellava, – e questa serberò a te, o Le Fever.
È tutta la fortuna, o mio diletto, che ti ha lasciato Dio, – ma se
ti ha dato un cuore, onde aprirti con essa un varco nel mondo, – e da
uomo onorato, basta per noi. ― Appena il mio Zio Tobia gli ebbe dati
i primi rudimenti, e insegnato a iscrivere un poligono regolare in un
circolo, lo mandava alla pubblica scuola, – e quivi dimorò sino alla
primavera dell'anno suo diciottesimo, – tranne le feste del Natale, e
della Pentecoste, chè allora il Caporale puntualmente andava per lui;
– allorchè la nuova, che l'Imperatore spediva in Ungheria un'armata
contro i Turchi, gli accese in seno una scintilla di fuoco, e senza tor
licenza lasciò il Greco e il Latino, – e gittandosi alle ginocchia del
mio Zio Tobia, gli chiese la spada di suo padre, e la permissione di
andare a tentare la ventura sotto d'Eugenio. Due volte il mio Zio Tobia
si dimenticò la ferita, – e gridava: ― io verrò teco, o Le Fever! io
verrò teco, e tu combatterai al mio fianco; ― e due volte si pose la
mano sull'inguinaia, e piegò la testa nel dolore, e nello sconforto. Il
mio Zio Tobia spiccò la spada dal gancio ove era stata appesa, intatta
sempre dopo la morte del Luogotenente, e diella al Caporale perchè
la forbisse; e avendo intertenuto Le Fever quindici giorni soli onde
fornirlo del bisognevole, e contrattare il suo passaggio a Livorno,
gli pose in mano la spada, e: ― se tu sei valoroso, – disse il mio Zio
Tobia, – questa non ti fallirà. ― Ma il può la fortuna, – diss'egli
pensoso un tal poco. ― Il può la fortuna, e se ella ti fallisce, –
soggiunse il mio Zio Tobia, – nuovamente ripara a me, o Le Fever, e noi
ti diviseremo altro corso. ― La più grave ingiuria non avrebbe oppresso
di tanto il cuore a Le Fever, quanto la paterna amorevolezza del mio
Zio Tobia, – e si divise da lui, come l'ottimo dei figli dall'ottimo
dei padri: – ambedue piangevano, – e mentre il mio Zio Tobia gli dava
l'ultimo bacio, fece scorrergli in mano 60 ghinee, avvolte in una
vecchia borsa di suo padre, ove era ben anche l'anello di sua madre, e
l'accomiatò benedicendolo nel nome di Dio. Giunse Le Fever all'armata
imperiale nel punto di provare di che metallo fosse temperata la sua
spada nella sconfitta dei Turchi dinanzi Belgrado: ― ma da quel momento
lo perseguitava una serie di disastri non meritati per quattro anni
continui, – e resisteva a queste percosse della fortuna; ma la malattia
lo colse a Marsiglia, e scrisse lettera al mio Zio Tobia, – che aveva
perduto il suo tempo, i servizi, la salute, e tutto in somma, tranne
la sua spada, e aspettava l'opportunità del primo bastimento per
ritornarsene presso di lui.

― 1829[28] ―

NOTE:

  [26] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 12._

  [27] _Questo Racconto nel libro di Sterne è accompagnato dalla
  seguente nota, e dal Testo latino che qui le succede._

  «Essendo HAFEN SLAWKENBERGIUS – _De Nasis_ – estremamente raro,
  non sarà discaro all'intelligente lettore di conoscere un saggio
  di alcune pagine del suo originale. La sola osservazione che io
  farò sopra questo, si è che il suo stile storico è più conciso di
  quello filosofico, – e sembrami che abbia più del Latino».

                         SLAWKENBERGII FABELLA.

  Vespera quâdam frigidulâ, posteriori in parte mensis Augusti,
  peregrinus, mulo fusco colore incidens, manticâ a tergo, paucis
  indusiis, binis calceis, bracisque sericis coccineis repleta,
  Argentoratum ingressus est.

  Militi eum percontanti, quum portas intraret, dixit, se apud
  Nasorum Promontorium fuisse, Francofurtum proficisci, et
  Argentoratum, transitu ad fines Sarmatiæ, mensis intervallo
  reversurum.

  Miles peregrini in faciem suspexit: ― Dî boni, nova forma nasi!

  ― At multum mihi profuit, – inquit peregrinus, carpum amento
  extrahens, e quo pependit acinaces: loculo manum inseruit; et
  magnâ cum urbanitate, pilei parte anteriore tactâ manu sinistrâ,
  ut extendit dextram, militi florinum dedit et processit.

  ― Dolet mihi, – ait miles, – tympanistam nanum et valgum
  alloquens, – virum adeo urbanum vaginam perdidisse: itinerari
  haud poterit nudâ acinaci: neque vaginam tote Argentorato
  habilem inveniet. ― Nullam unquam habui, – respondit peregrinus
  respiciens, seque comiter inclinans; – hoc more gesto, – nudam
  acinacem elevans, mulo lente progrediente, – ut nasum tueri
  possim.

  ― Non immerito, benigne peregrine, – respondit miles.

  ― Nihili æstimo, – ait ille tympanista, – e pergamenâ factitius
  est.

  ― Prout christianus sum, – iniquit miles, – nasus ille, ni
  sexties major sit, meo esset conformis.

  ― Crepitare audivi, – ait tympanista.

  ― Mehercule! sanguinem emisit, – respondit miles.

  ― Miseret me, – iniquit tympanista, – qui non ambo tetigimus! ―

  Eodem temporis puncto, quo hæc res argumentata fuit inter militem
  et tympanistam, disceptabatur ibidem tubicine et uxore suâ, qui
  tunc accesserunt, et peregrino prætereunte, restiterunt.

  ― Quantus nasus! æque longus est, – ait tubicina, – ac tuba.

  ― Et ex eodem metallo, – ait tubicen, – velut sternutamento
  audias.

  ― Tantum abest, – respondit illa, – quod fistulam dulcedine
  vincit.

  ― Æneus est, – ait tubicen.

  ― Nequaquam, – respondit uxor.

  ― Rursum affirmo, – ait tubicen, – quod æneus est. ― Rem
  penitus explorabo; prius enim digito tangam, – ait uxor, – quam
  dormivero. ―

  Mulus peregrini gradu lento progressus est, ut unumquodque verbum
  controversiæ, non tantum inter militem et tympanistam, verum
  etiam inter tubicinem et uxorem ejus, audiret.

  ― Nequaquam, – ait ille, in muli collum fræna demittens, et
  manibus ambabus in pectus positis, (mulo lente progrediente,) –
  nequaquam, – ait ille respiciens; – non necesse est ut res isthæc
  dilucidata foret. Minime gentium! meus nasus nunquam tangetur,
  dum spiritus hos reget artus – Ad quid agendum? ― ait uxor
  burgomagistri.

  Peregrinus illi non respondit. Votum faciebat tunc temporis
  sancto Nicolao: quo facto, in sinum dextram inserens, e quâ
  negligenter pependit acinaces, lento gradu processit per plateam
  Argentorati latam quæ diversorium templo ex adversam ducit.

  Peregrinus mulo descendens stabulo includi, et manticam inferri
  jussit: quâ apertâ, et coccineis sericis femoralibus extractis
  cum argenteo laciniato Περιζωμα, his sese induit, statimque,
  acinaci in manu, ad forum deambulavit.

  Quod ubi peregrinus esset ingressus, uxorem tubicinis obviam
  euntem aspicit; illico cursum flectit, metuens ne nasus suus
  exploraretur, atque ad diversorium regressus est; – exuit se
  vestibus, bracas coccineas sericas manticæ imposuit, mulumque
  educi jussit.

  ― Francofurtum proficiscor, – ait ille, – et Argentoratum quatuor
  abhinc hebdomadis revertar.

  ― Bene curasti hoc jumentum? – ait, muli faciem manu demulcens;
  – me, manticamque meam, plus sexcentis mille passibus portavit.

  ― Longa via est! – respondit hospes, – nisi plurirum esset
  negotii.

  ― Enimvero, – ait peregrinus, – a Nasorum Promontorio redivi, et
  nasum speciosissimum, egregiosissimumque, quem unquam quisquam
  sortitus est, acquisivi. ―

  Dum peregrinus hanc miram rationem de seipso reddit, hospes et
  uxor ejus, oculis intentis, peregrini nasum contemplantur. ― Per
  sanctos sanctasque omnes, – ait hospitis uxor, – nasis duodecim
  maximis in toto Argentorato major est! estne, – ait illa mariti
  in aurem insusurrans, – nonne est nasus prægrandis?

  ― Dolus inest, anime mi, – ait hospes; – nasus est falsus.

  ― Verus est, – respondit uxor.

  ― Ex abiete factus est, – ait ille; – terebinthinum olet.

  ― Carbunculus inest, – ait uxor.

  ― Mortuus est nasus, – respondit hospes.

  ― Vivus est, – ait illa, – et si ipsa vivam, tangam.

  ― Votum feci sancto Nicolao, – ait peregrinus, – nasum meum
  intactum fore usque ad ― Quodnam tempus? – illico respondit illa.

  ― Minime tangetur, – inquit ille (manibus in pectus compositis),
  – usque ad illam horam – Quam horam? ― ait illa. ― Nullam, –
  respondit peregrinus, – donec pervenio ad ― Quem locum, obsecro?
  – ait illa. ― Peregrinus nil respondens mulo conscenso discessit.

  [28] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 13. Seconda Edizione di
  questo e del primo Articolo _(Storia di Yorick)_, – nella _Viola
  del Pensiero_, Anno III._



POESIE VARIE


IL PRIGIONIERO DI CHILLON[29]

POEMA ROMANTICO

― _DI LORD BYRON_ ―


I.

I miei capelli sono grigi, ma non dagli anni; nè in una notte[30]
imbiancarono, come avvenne talvolta per súbita paura; curve ho le
membra, ma non dalle fatiche; elle si contrassero in un vile riposo,
dacchè furono preda della prigione, e a me toccò la sorte di coloro cui
fu negato godere la bellezza della terra, e dell'aria. Ma io soffersi
le catene, e stetti vicino alla morte per la fede del padre mio: e il
padre mio periva alla tortura per massime, che non volle abbandonare,
e per questo i suoi figli trovarono stanza nelle tenebre. Noi eravamo
sette, ed ora sol uno rimane; sei giovani e un vecchio finivano come
incominciarono, alteri della persecuzione. Uno sul fuoco, e due sul
campo confermavano la fede loro col sangue, morendo come il padre
moriva. Tre furono gittati in una carcere; e di questi io sono il
misero avanzo.


II.

Nelle antiche e profonde prigioni di Chillon sorgono sette colonne
di gotica struttura, sette colonne grigie, e massiccie, e tetre di un
raggio racchiuso, un raggio di Sole, che ha smarrita la via, e per una
fessura delle grosse muraglie è caduto strisciando sull'umido pavimento
a guisa della meteora sulla palude. È in ogni colonna un anello, e in
ogni anello una catena; e quel ferro rode, – perchè il segno dei suoi
denti rimane in queste membra, nè andrà via finchè io non abbia finito
questo nuovo giorno ora penoso agli occhi miei, – i quali non hanno
veduto così sorgere il Sole per anni, che io non posso numerare, perchè
ho perduta la memoria di numero sì lungo e gravoso, fin da quando
l'ultimo fratel mio di lenta morte moriva, ed io stetti vivo al suo
fianco.


III.

C'incatenarono alle colonne, – ed eravamo tre; – pure ognuno era solo:
noi non potevamo muovere un passo, nè vederci l'un l'altro, se non a
quella pallida e livida luce, che ci faceva nell'aspetto stranieri: e
così insieme, benchè separati, colle mani in catene, e coll'affanno nel
cuore, nella penuria dei puri elementi della terra, era un sollievo
udirci favellare a vicenda, e l'uno volgersi a conforto dell'altro
con una nuova speranza, o un'antica leggenda, o una canzone di eroico
ardimento; ma queste cose ancora finalmente affreddavansi, e le nostre
voci prendevano un suono terribile, – l'eco della prigione; – un suono
stridente, non pieno, e libero come prima: – e sarà fantasia, ma quelle
voci più non mi suonavano come nostre.


IV.

Io era il maggiore dei tre fratelli, e doveva sostenerne il coraggio,
e feci il mio meglio, e tutti fecero bene secondo la loro potenza.
L'anima mia era commossa di dolore pel fratello più giovane; il
padre lo amava sopra tutti, perocchè avesse la sembianza di sua
madre, e gli occhi azzurri come il cielo. In verità era sventura a
vedere quell'uccello in tal nido; – egli era bello come il giorno, –
allorquando il giorno mi pareva bello come all'aquile giovanette, e
liete di libertà; – era bello come un giorno polare figlio nevoso di
un Sole, che non giunge al tramonto, se non dopo lunghissima durata di
luce. Così egli era puro, e luminoso, e gaio nel suo spirito ingenuo;
nè per altro piangeva fuorchè per l'altrui sciagure, e le sue lacrime
scorrevano come ruscelli di montagna, quando ei non poteva alleggerire
il dolore, che aborriva di veder sulla terra.


V.

L'altro era similmente puro dell'anima, ma creato a combattere colla
sua specie; forte del corpo, e di tal cuore, che saria stato in guerra
contro il mondo tutto, e sarebbe morto gioioso tra i primi. Ma non era
fatto per consumarsi nelle catene; e il suo spirito sveniva nel cigolio
dei ferri, e io tacitamente lo vedeva mancare; e così per avventura
faceva il mio spirito, ma io lo strinsi a dar animo a quelle reliquie
di una cara famiglia. Egli era stato cacciatore dei monti, inseguendo
il lupo, ed il cervo: per lui la prigione era un abisso, e il piede
avvinto il supremo dei mali.


VI.

Presso alle mura di Chillon giace il lago Lemano; mille piedi giù
nel profondo le masse dell'acqua s'incontrano, e scorrono; tanto fu
misurato dal bianco baluardo[31] di Chillon, che intorno è recinto
dall'onda: e il muro, e l'onda, ne hanno fatto una doppia prigione,
– un sepolcro di vivi. La volta oscura dove eravamo, giace sotto la
superficie del lago: noi lo sentivamo fremere di giorno e di notte
sulle nostre teste; ed io nell'inverno ho inteso lo spruzzo delle acque
bagnare le ferriate, quando i venti erano alti, e imperversavano pel
cielo felice; ed allora la roccia tremava, ed io immoto accoglieva
quell'urto, perchè avrei sorriso alla morte, che mi avesse fatto
libero.


VII.

Io dissi, che il mio secondo fratello si consumava; io dissi, che
il suo cuore potente sveniva: il cibo gli venne a fastidio, e non ne
prendeva; non già che fosse mal dilicato, perchè noi eravamo avvezzi al
pasto del cacciatore, nè il cibo ci dava pensiere. Il latte dalla capra
montana fu scambiato con acqua dello stagno; e il pane era quel pane,
che le lacrime dello schiavo bagnano da mille e mille anni, dopochè
l'uomo per la prima volta chiuse i suoi simili come bruti in una
prigione di ferro. Ma a noi, o a lui, che importava del pasto? Ciò non
gli affliggeva il cuore, o le membra: l'anima del mio fratello aveva
tempre siffatte, che in un palazzo sarebbe affreddata, se gli avessero
negato di respirare liberamente sull'erta della montagna dirupata.
Ma perchè differire il vero? – egli moriva. Io il vidi, ma non potei
sorreggergli il capo, non potei stringergli la mano, nè quando moriva,
nè quando fu morto, benchè a tutta forza mi dibattessi per rompere
le mie catene. Egli morì; – e fu sciolto dai ferri, e gli scavarono
angusta la fossa entro la fredda terra della nostra caverna. Io chiesi
loro come una grazia, che ponessero il corpo da quella parte dove il
giorno poteva splendere: – era un pensiere di follia, ma quel pensiere
allora mi turbava il cervello, quasichè ancora nella morte il libero
petto del fratel mio non potesse quietare in quella prigione. Oh!
avessi risparmiata la mia vana preghiera! – Risero freddamente, e lo
deposero laddove a lor piacque; e l'arida terra stette sopra colui, che
amammo di tanto amore, e sopra la terra stettero le sue vuote catene,
degno monumento di quell'omicidio.


VIII.

Ma il fiore dei miei fratelli, il più diletto dopo la sua ora natale,
che nel bel volto ritraeva l'immagine di sua madre, il tenero amore di
tutta la sua schiatta, il pensiere più caro del martire suo padre, –
l'ultima cura mia, – colui, onde io cercai tenere la vita, perchè egli
vivesse allor meno misero, e libero un giorno, – colui, che per virtù
di natura, o ispirato, pur sostenne franco il suo spirito, – quel fiore
fu percosso, e di giorno in giorno appassiva sullo stelo. O Dio! come
è tremendo a veder l'anima umana sciogliere il volo, sotto qualunque
forma si parla! – Io ho veduto dipartirsi l'anima nel sangue; io l'ho
veduta sui marosi dell'oceano contendere con un moto di convulsione
disperata; io ho veduto l'infermo sul letto dell'agonia nel delirio del
peccato, e della paura: ma le angoscie del mio fratello non erano miste
a simili orrori; – il suo era un dolore lento, e sicuro. – Egli veniva
meno, ma tranquillo, e mansueto; si consumava soavemente, e senza
pianto, e pur con immensa tenerezza, – e si addolorava per coloro,
che lasciavasi addietro. Egli aveva prima una guancia florida sì, da
prendere a scherno la tomba; – una guancia da cui sparvero a mano a
mano i colori, come un raggio dell'iride, che si dilegua; – egli aveva
un occhio così vivo di luce da rischiararne quasi la carcere; pur non
disse parola di lamento, non diè gemito sopra la sua morte immatura,
non parlò un momento dei giorni più felici, non mostrò la più lieve
delle speranze per suscitare almeno le mie, – perchè io era caduto in
fondo al silenzio, io mi perdeva in questa perdita estrema, la maggiore
di tutte. Il fratel mio sopprimeva il sospiro di una natura vicina a
mancare; e via via più sommesso traendolo, venne al punto, che io tesi
l'orecchio, e non ascoltai più nulla: frenetico di spavento, chiamai a
gran voce, e conobbi, che più non vi era speranza; ma il mio timore non
voleva quell'avviso, e dando una scossa fortissima ruppi le mie catene
e precipitai verso il mio fratello.... – era morto. Io solo viveva,
io solo respirava l'alito maledetto di una prigione. In questo luogo
fatale erasi spezzato l'ultimo, – l'unico, – il più caro legame fra
me, e l'eterno abisso, – l'unico legame, che tuttavia mi stringesse
alla mia schiatta cadente. I due miei fratelli avevano omai cessato di
vivere: ed uno giaceva sulla terra, e l'altro sotto. Io presi quella
mano immobile tanto; – ahimè! la mia non era meno fredda. Io non aveva
vigore di muovermi, o di fare il minimo sforzo; ma io sentiva di aver
sempre una vita, – sentimento di frenesia, quando sappiamo, che anime
a noi care più non avranno una vita. Non so perchè non potessi morire:
– non aveva speranza terrena, tranne la fede; e questa mi vietò, che io
mi dessi colle mie mani la morte.


IX.

Quello che allora e dipoi avvenisse di me, io nol so bene, e nol seppi
giammai. Dapprima venne la perdita della luce, e dell'aria; quindi
delle tenebre ancora. Io non aveva pensiere, nè sentimento, – nulla: –
stetti una pietra fra le pietre; e mal sapendo quel ch'io immaginassi,
era come l'arida rupe fra le nebbie, – perchè tutto era vuoto, freddo,
ed oscuro: non era nè notte, nè giorno, neppure la luce della prigione
odiosa tanto agli occhi miei gravi: era un vuoto, che assorbiva lo
spazio; e qualche cosa di fisso, ma senza luogo. Non v'erano stelle, nè
terra, nè tempo, nè legge, nè vicenda, nè bene, nè male: ma silenzio;
e un respiro insensibile, nè di vita, nè di morte; un mare di ozio
stagnante, oscuro, illimitato, muto, ed immobile.


X.

Una luce mi balenò sulla mente: – era il canto di un uccello: – cessò,
– e poi venne di nuovo; – il canto più dolce, che orecchie umane
intendessero: ed io ringraziava, ascoltando, finchè i miei occhi in
ogni parte si volgessero per la lieta sorpresa; ma in quell'istante
non poterono scorgere come io fossi il figlio della sventura. Poi a
grado a grado i miei sensi tornarono sull'usate traccie; ed io come per
l'innanzi mi vidi attorno le mura della prigione, e il raggio di Sole,
che vi penetrava furtivo; ma sulla fessura, donde quel raggio veniva,
era posato l'uccello, tutto gaio, e dimestico, più che se fosse stato
sull'albero; – un amabile uccello dall'ale azzurre; e il suo canto
diceva mille cose, – e sembrava, che le dicesse tutte per me; io non
aveva veduto in passato il suo simile, nè più lo vedrò. Pareva, che
come a me gli mancasse un compagno; ma non era per metà così desolato:
era venuto ad amarmi, nel punto che non viveva più nessuno per amarmi,
– e consolandomi dalla fessura della mia prigione mi aveva ricondotto
al sentimento, e al pensiere. Io non so, s'ei fosse libero di poco
tempo, o se avesse rotta la sua gabbia per posare sulla mia: – ma
ben sapendo, o diletto uccello, cosa sia schiavitù, non te la posso
desiderare. – Era forse un angelo, che in forma d'alato mi visitava
dal Paradiso? – perchè, (perdonimi il cielo questo pensiere,) mentre
egli mi sforzava al pianto, e al sorriso, io pensai qualche volta,
che fosse l'anima del fratel mio discesa a vedermi: ma finalmente
l'uccello volossene via, ed era un mortale; – ben me ne accôrsi,
perchè altrimenti così non sarebbe volato via, nè due volte mi avrebbe
lasciato così solitario; – solitario, come un cadavere nel suo lenzuolo
funereo; – solitario, come una nube in un giorno di Sole, mentre il
resto del cielo è sereno; – un punto oscuro nell'atmosfera, che non ha
motivo di apparire, mentre azzurro è il firmamento, e gaia la terra.


XI.

Nel mio destino venne una vicenda: i miei custodi si fecero pietosi,
nè io so perchè, – talmente erano avvezzi allo spettacolo del dolore;
ma così fu, e la mia catena giacque spezzata, e mi venne concesso
passeggiare lungo la mia cella da una banda, e dall'altra, e su, e giù,
e per traverso, e in fine da ogni lato, e intorno ad una ad una delle
colonne, ritornando sempre là donde io cominciava, e nel passeggiare
schivando solo le tombe fraterne, dove non cresceva cespuglio; perchè
se io pensava, che sbadatamente il mio piede avesse profanato l'umile
letto del loro riposo, grave mi si affannava il respiro, e il cuore
mancandomi mi cadeva ammalato.


XII.

Io feci nel muro una scala, non già per fuggire, perchè io aveva
sepolto tutti coloro, che mi amavano in forma umana; e quindi la terra
intera non mi sarebbe apparsa, che una prigione più vasta. Io non
aveva figlio, nè padre, nè parente, nè compagno nella mia miseria. Io
pensai a questo, e ne fui lieto, dacchè il pensiere de' miei congiunti
mi aveva travolto in follia. Ma io era curioso di salire alle mie
ferriate, e di piegare un'altra volta sull'alte montagne la quiete
d'uno sguardo innamorato.


XIII.

Io le vidi; – erano le stesse, nè cangiate come il mio corpo: vidi
sulla cima i loro mille anni di neve, – e di sotto a loro il lago
largo, e lunghissimo, e il Rodano azzurro nella sua pienezza; intesi
i torrenti sgorgando saltare su per le roccie, e sui rotti arbusti;
vidi la lontana città dalle bianche mura, e vele più bianche, che
giù correvano veloci; e allora v'era un'isoletta[32], che mi rideva
in faccia, l'unica, che fosse alla vista; – un'isoletta verde, e non
sembrava più larga, che il pavimento del carcere mio. Ma sopra vi erano
tre alberi alti, e vi spirava la brezza della montagna, e vicine le
scorrevano le acque, e vi crescevano giovani fiori, gentili al fiato,
e al colore. Nuotavano i pesci presso le mura del castello, e tutti
mi parevano allegri: l'aquila correva sull'alto dei venti, nè mi parve
corresse mai sì veloce come allora, che faceva sembiante di volare alla
mia volta; e allora nuove lacrime mi tornarono negli occhi, ed io mi
sentiva commosso, nè avrei voluto aver lasciata la mia recente catena:
e quando io scesi al basso, la tenebra della mia dimora mi cadde sullo
spirito come un peso gravissimo: era come una fossa scavata di fresco,
che si chiuda sopra colui, che tentammo salvare; e pure il mio sguardo,
oppresso di troppo, quasi aveva bisogno di un siffatto riposo.


XIV.

I giorni, i mesi, e gli anni passano; – io non li numerai, nè vi posi
mente: non aveva speranza di sollevare i miei occhi, e sgombrarli
della tetra loro caligine. Finalmente uomini vennero a farmi libero;
ma non ne chiesi la ragione, nè mi curai dove andare: per me era
tutt'uno, starmi sciolto, o nei ferri; – io aveva imparato ad amare la
disperazione. E così quando vennero a sciogliere i miei legami, quelle
orride mura erano per me diventate un eremitaggio; – erano per me tutto
il mio, e nel cuore quasi sentiva come se quegli uomini fossero venuti
a strapparmi un'altra volta dalla mia casa paterna. Io mi era fatto
amico al ragno, osservandolo attento nelle triste sue reti, e aveva
veduto il sorcio trescare al lume della luna: e perchè avrei dovuto
sentire meno di loro? Eravamo tutti abitanti di un luogo medesimo, ed
io monarca d'ogni razza aveva potenza di uccidere; – pur, cosa strana a
narrarsi, noi avevamo imparato a vivere in pace. Perfino le mie stesse
catene, ed io, eravamo diventati amici, – talmente una lunga comunanza
tende a farci quel che noi siamo; – io dunque ricuperai la mia libertà
con un sospiro.

― 1830[33] ―


PROMETEO

― _DI LORD BYRON_ ―

Titano! tu con gli occhi immortali vedesti nella trista loro realtà
gli affanni umani, come cose che mal si trascuravano dagli Dei; ma
qual era il premio della tua pietà? Un soffrire tacito, intenso; la
rupe, l'avvoltoio, e la catena; – tutto il dolore che possono sentire
i superbi, tutta l'agonia che non rivelano mai, – quel senso soffocato
d'angoscia, che non parla fuorchè nella sua solitudine, e teme geloso,
che il cielo non abbia un orecchio per ascoltare, nè vuol sospirare
finchè la sua voce non sia rimasta senz'eco.

Titano! a te fu data la lotta tra il soffrire e il volere, cose che
tormentano in quella parte che non può morire. E il cielo inesorabile,
e la sorda tirannia del Fato, il principio dominatore dell'odio, che
per suo trastullo crea le cose che può annientare, ti rifiutarono la
sorte del morire: – un miserabile dono fu tuo l'eternità, e tu l'hai
ben sopportato. – Tutto ciò che il Tonante strappò da te, fu solo la
minaccia che gli lanciasti contro negli spasimi della tortura. Ben tu
leggesti nel Fato, ma per placarlo non volesti ridirglielo; e nel tuo
silenzio fu la sua sentenza, e nella sua anima un inutile pentimento,
e una paura così mal dissimulata, che i fulmini gli tremavano nella
destra.

Il tuo celeste delitto fu l'essere umano, e sminuire coi tuoi precetti
la somma delle umane miserie, e afforzare l'uomo della sua propria
mente; ma tradito come fosti dall'alto, pure dalla tua tranquilla
energia, dalla tua pazienza, e dalla repulsa del tuo spirito
impenetrabile, che Cielo e Terra non poterono scuotere, ereditammo una
potente lezione: Tu sei simbolo e segno al mortale del suo destino, e
della sua forza; l'uomo, come te, in parte è divino, torbido rivo d'una
pura sorgente, e l'uomo in parte può prevedere il suo funesto destino,
le sue sventure, la sua resistenza, e un'esistenza mesta, solitaria; al
che il suo spirito può opporre sè stesso, scudo a tutti i mali, – e un
saldo volere, e un senso profondo, che valga a scoprire, concentrata
anche nei tormenti, la sua ricompensa; che trionfi dovunque osa, ed
aspira, e converta la morte in vittoria.

― 1838[34] ―


VI FU UN TEMPO

― _DI LORD BYRON_ ―

Vi fu un tempo, che non importa rammentare, perchè non sarà dimenticato
mai, quando tutti i nostri sentimenti erano li stessi, come l'anima mia
è stata sempre per te.

E da quell'ora in che la tua lingua confessò la prima volta un amore
uguale al mio, sebbene molti dolori abbiano lacerato il mio cuore,
dolori sconosciuti, e non sentiti dal tuo;

Pure nessun dolore, nessuno, l'ha trafitto così profondamente come
questo, il pensare che tutto quell'amore è svanito rapido e fugace come
i tuoi baci infedeli, rapido e fugace nel tuo petto soltanto.

Eppure il mio cuore trovò un qualche sollievo, quando, non ha molto,
udì sonare dalle tue labbra in accenti, una volta immaginati veri, la
rimembranza dei giorni che furono.

Sì, mia diletta e crudele signora, tu non amerai più un'altra volta; ma
per me è dolcezza ineffabile il sapere, che ti rimanga una memoria di
quell'amore.

Questo è un glorioso pensiere per me, nè l'anima mia andrà più tanto
contristata; – qualunque tu sia, o sarai, tu fosti una volta caramente,
unicamente, mia.

― 1838[35] ―


E TU PIANGERAI QUAND'IO SARÒ MORTO

― _DI LORD BYRON_ ―

E tu piangerai quand'io sarò morto, o dolce mia Donna? Oh! ripeti
quelle parole, – ma non le dire, se ti dolgono; io non vorrei dare un
affanno al tuo seno.

È mesto il mio cuore, e le mie speranze sono svanite, e il sangue
mi scorre freddo nelle vene, – e quando io morrò, tu sola verrai a
sospirare sul luogo dove riposo.

Eppure parmi che un raggio di pace rompa traverso la nube delle mie
angoscie; – e per un tratto i miei dolori si fermano, conoscendo che il
tuo cuore ha sentito per me.

O Donna! benedetta la lacrima versata per uno, che non può piangere;
quelle goccie preziose sono doppiamente care a colui, che non può
bagnare d'una stilla i suoi occhi.

Una volta il mio cuore, o dolce mia Donna, era caldo di teneri sensi
come il tuo; ma ora perfino la bellezza ha cessato d'incantare un
infelice creato a gemere.

Piangerai tu dunque quand'io sarò morto, o dolce mia Donna? Oh! ripeti
quelle parole, – ma non le dire, se ti dolgono, perchè non vorrei dare
un affanno al tuo seno.

― 1838[36] ―


LE TENEBRE

― _DI LORD BYRON_ ―

Mi feci un sogno, che non era tutto sogno. Il Sole luminoso era
spento, e le stelle erravano buie nell'eterno spazio senza raggi e
senza sentiero, e la terra ghiacciata oscillava cieca e nereggiante
per l'aria senza Luna; venne il mattino, e passò; rivenne, e non
portò il giorno. E gli uomini dimenticavano le passioni nella paura
di tanta desolazione, e tutti i cuori erano agghiacciati nell'egoismo
d'una preghiera alla luce, e vivevano tutti raccolti ai focolari, e i
troni, i palazzi dei re coronati, le capanne, e le abitazioni di tutte
le cose che hanno un ricovero, erano abbruciate per farne fanali;
le città furono consunte, e gli uomini si strinsero intorno alle
case divampanti per guardarsi in faccia l'un l'altro l'ultima volta.
Felici coloro, che dimoravano sotto l'occhio e la face sublime dei
vulcani! Una tremenda speranza era tutto ciò che il mondo conteneva;
le foreste furono incendiate, e d'ora in ora cadevano, e sparivano, –
e i tronchi si estinguevano crepitando, – e tutto era nero. Le fronti
umane a quella luce disperante vestivano un aspetto non terreno,
quando la fiamma guizzando ci batteva sopra; alcuni si prostravano,
e si celavano gli occhi, e piangevano; altri restavano col mento
appoggiato sulle mani chiuse, e ridevano; ed altri correvano su e
giù, alimentando di legna le tetre cataste, e con matta inquietudine
guardavano uno stupido cielo, manto funerale d'un mondo defunto, e
quindi si giacevano nella polvere maledicendo, e digrignavano i denti,
ed urlavano. Gli uccelli di rapina stridevano, e volavano a terra
esterrefatti, battendo inutilmente le ali; le fiere le più salvatiche
vennero tremanti e mansuete; le vipere serpendo si avvinghiavano fra
le moltitudini, e sibilavano, ma non pungevano; – esse furono uccise
per cibo. E la guerra, che per un momento stette sospesa, si saziò
nuovamente; – un pasto fu compro col sangue, e ciascuno sedè cupamente
da parte, pascendosi nella oscurità. Non vi era più amore; – tutta la
terra non era che un pensiere, e quel pensiere era morte immediata,
ingloriosa; e gli spasimi della fame corrodevano le viscere a tutti,
– gli uomini morivano, e le loro ossa stavano insepolte come la loro
carne. Gli affamati mangiavano gli affamati, e i cani stessi assalsero
i loro padroni, tutti fuori che uno. Questo fu fedele ad un cadavere,
e tenne a bada gli uccelli, le fiere e gli uomini, finchè la fame non
gli ebbe distrutti, o il cadere d'un altro cadavere non solleticò le
loro vuote mascelle; ma il cane non cercò cibo, bensì con pietoso e
continuo ululato, e con un grido acuto, desolante, lambendo la mano,
che più non rispondeva con una carezza, morì. Le moltitudini a grado a
grado perirono tutte; solo sopravvissero due uomini d'una sterminata
città, ed erano nemici. S'incontrarono accanto alle ceneri morienti
d'un santuario, dove un mucchio di cose sacre era stato radunato ad uso
profano. Colle loro fredde mani di scheletro raccolsero insieme quelle
poche ceneri, e coll'esile fiato vi destarono un momento di vita, e
levarono una fiamma, che era uno scherno. Come si fece un poco più
chiaro, alzarono gli occhi, e si guardarono in faccia; videro, diedero
un urlo, e morirono; – morirono della loro scambievole bruttezza, mal
conoscendo chi fosse colui sulla fronte del quale la fame aveva scritto
– demonio. – Il mondo era vuoto; popolato dianzi e potente, adesso era
un cumulo senza stagioni, senza erbe, senza piante, senza uomo, senza
vita, – un cumulo di morte, un caos di dura creta. I fiumi, i laghi,
l'Oceano, tutto taceva, e nulla moveasi nelle silenziose loro caverne;
navi senza marinari giacevano putrefacendosi sul mare, e gli alberi
cascavano a pezzi, e cadendo dormivano sull'abisso senza flutto; –
le onde erano morte, le maree erano nella tomba, la Luna loro signora
era spirata prima, i venti erano mancati nell'aere stagnante, e perite
le nubi; le tenebre non avevano bisogno di loro, – le tenebre erano
l'universo.

― 1838[37] ―


IL FUNERALE DEL POVERO

― _DI ROBERTO SOUTHEY_ ―

Che! neppur uno, che mandi un pietoso sospiro! neppur uno, che fuggendo
un momento alle scene sociali, e alle delizie della vita, coll'occhio
pregno di dolore versi una lacrima, e si fermi sul morto! Povero
infelice reietto! io piangerò per te, io piangerò per la deserta
umanità! Sì, io piangerò, non già perchè tu sia venuto ai severi
riposi della tomba silenziosa; chè almeno lo squallido Bisogno, e la
cupa velenosa Cura, demoni che corrodono il cuore, mai non entreranno
laggiù. Io gemo sopra i mali che tu provasti nella vita, quando nel
lungo pellegrinaggio del mondo compiesti la tua giornata senza amore
e senza amici, solo accompagnato dalla povertà e dagli affanni. La tua
gioventù trascorse nell'ignoranza e nella fatica, e la tua vecchiaia fu
arida, assiderata. Fu duro il tuo Fato, perchè, mentre ti condannava al
dolore, ti negava la sapienza di sopportarne l'amarezza; e spogliando
prima la tua mente di tutta la sua forza, ti gettava abietto del
pensiero, e vittima della miseria, a ramingare fra i tuoi simili
nell'ampio deserto del mondo. Dormi in pace, povero reietto! La furia
invernale più non investe acerba il tuo corpo indifeso. I tuoi mali
sono passati, – tu riposi nel sepolcro; – io mi fermo, e medito sui
giorni avvenire.

1838[38]


ODE SULLA SEPOLTURA DI SIR GIOVANNI MOORE

― _DI CARLO WOLFE_ ―

Non fu sentito un tamburo, nè una nota funerea, mentre col suo corpo
ci affrettavamo ai terrapieni; nè un soldato fece lo sparo dell'addio
sulla fossa dove seppellivamo il nostro eroe.

Noi lo seppellimmo nell'alto della notte smuovendo le glebe colle
nostre baionette, alla luce nebbiosa d'un incerto raggio di Luna, e al
cupo chiarore d'una lanterna.

Nè lo racchiuse l'inutile cassa, nè lo ravvolse il lenzuolo, o il
manto funerario; ma giaceva simile ad un guerriero, che si riposi tutto
avviluppato nel suo marziale mantello.

Poche, e brevi furono le preci, che dicemmo senza proferire una parola
di dolore; ma guardammo fisamente la faccia del morto, pensando con
amarezza al dimani.

Mentre gli componevamo l'angusto suo letto, e gli appianavamo il
suo solitario guanciale, pensammo, che il nemico e lo straniero
passerebbero sulla sua testa, e noi saremmo lontani sull'onda!

Irreverenti parleranno dello spirito dipartito dicendogli villania
sulle fredde sue ceneri; ma egli non curerà di nulla, se lo lasciano
dormire nella fossa, che gli ha scavato un Britanno.

Ed eravamo al mezzo della solenne opera nostra, quando l'orologio ci
annunziò l'ora della ritirata, e dal cannone lontano, spesseggiante,
sentimmo che il nemico aveva cominciato l'assalto.

Lentamente, e mestamente noi lo calammo giù nella fossa dal campo della
sua fama fresca e sanguinosa; non incidemmo una linea, non alzammo una
pietra; ma lo lasciammo solo con la sua gloria.

― 1838[39] ―


LAMENTO DI MARIA REGINA DI SCOZIA _ALL'AVVICINARSI DELLA PRIMAVERA_

― _DI ROBERTO BURNS_ ―

Ora la natura appende ad ogni albero fiorito il suo verde manto, e
stende sull'erboso prato le sue lenzuola di bianche margherite; ora il
Sole rallegra le cristalline correnti, e fa lieto l'azzurro dei cieli;
ma nulla può rallegrare la povera creatura, che vive stretta in un
carcere.

Ora la lodoletta sorta sull'ali rugiadose desta il gaio mattino, e
il merlo a mezzogiorno sulla sua frasca fa risuonare gli echi del
bosco; il malverso cantando in molte note invita a dormire il giorno
sonnacchioso, e tutti esultano d'amore e di libertà, senza affanni e
senza catene.

Ora fiorisce il giglio sui margini, e la primarosa giù pei declivi,
e nelle valli germoglia la spinalba, e bianca latte è la prugnola, e
l'infimo tra i cervi della bella terra di Scozia può aggirarsi a sua
posta fra tutte queste dolcezze; – ma io sola, la Regina di Scozia,
debbo giacermi in una dura prigione.

Io fui regina del bel paese di Francia, dove sono stata felice;
leggiera leggiera io mi levava al mattino, e gioiosa mi coricava la
sera; – e sono Sovrana di Scozia, e molti sono colà i traditori; pure
io son qui cinta di catene straniere, e d'interminabili angoscie.

E tu, o falsa donna, mia sorella, e nemica, – una truce vendetta
affilerà una spada, che andrà traverso all'anima tua; – tu non
conoscesti mai la creatura piangente nel seno della madre, nè il
balsamo che cade sulle ferite del dolore dall'occhio compassionevole
della donna.

Figlio mio, figlio mio! più cortesi stelle splendano sulla tua fortuna,
e possano abbellire il tuo regno quei piaceri, che mai non vollero
balenare sul mio. Dio ti salvi dai nemici di tua madre, o converta a te
i loro cuori; e dove tu incontri un amico di tua madre, oh! per amore
di me ricordati di lui!

Ah! presto presto i Soli dell'estate più non accendano per me il
mattino, ed i venti dell'autunno più non agitino per me le fronde
ingiallite, e nell'angusto albergo della morte imperversi l'inverno
intorno di me, e gli estremi fiori onde s'orna la primavera fioriscano
sulla mia pacifica tomba!

― 1838 ―


LA VITA E LA MORTE

― _DI VITALIS_ ―

Alla mattina io stetti sull'alto della montagna bella dei fiori di
maggio, e vidi il sorgere del giorno lieto d'oro, e di porpora, e
gridai: – o Vita come sei bella!

Era già l'ora, che il Sole sorgeva, e gli uccelli cominciavano sui
rami a cantare: e l'ora, e l'armonia, mi destarono in petto vaghezza di
canto, e un ardore di passioni sublimi.

E in quel punto il mio spirito si mosse al desiderio di stendere il
volo lontano dalla sua dimora, si mosse al desiderio di errare come il
Sole di piaggia in piaggia creatore dei fiori, e della luce.

Alla sera io stetti sull'alto della montagna, e rapito nelle preci
devote vidi il sorgere della notte lieta d'argento, e di porpora, e
gridai: – o Morte come sei bella!

E quando il venticello della sera venne gentile col suo fiato di
balsamo, sembrommi allora, che la natura mi baciasse le guancie, e
teneramente sospirasse il mio nome.

Io vidi la larghezza del cielo diffusa intorno all'universo; e gli
astri venivano al cielo come fanciulli: allora le gesta degli uomini mi
parvero piccole; non conobbi di grande, che il nome dell'Infinito.

Oh! come sfuma il sorriso, che veste le gioie, e le speranze terrene,
allorchè nel petto al Poeta gli eterni pensieri sorgono come in cielo
le stelle!

― 1838[40] ―


LA CANZONE DELLA SERA DELLO STRANIERO

― _DI WERNER_ ―

Io scendo dalla montagna, e la valle riposa, e il mare romoreggia; io
vado ramingando tacito e malinconico, e un sospiro sempre dimanda: –
dove?

Il Sole qui mi par freddo, e i fiori appassiti, e vecchia la vita;
e l'idioma che gli uomini parlano, uno strepito discorde: – io sono
dappertutto straniero.

Dove sei, o mia terra diletta, cercata, presentita, e non mai
conosciuta? o mia terra così bella, e verde di speranza? o terra dove
le mie rose fioriscono?

Dove erano le mie visioni, dove i miei morti riposano? la terra che
parla il mio linguaggio, ed ha tutto ciò che mi manca?

Io vado ramingando tacito e malinconico, e sempre un sospiro dimanda:
– dove? – E l'aure riportano indietro il sospiro, che dice: – dove tu
non sei, là fiorisce la felicità.

― 1838[41] ―


SCENA QUARTA DEL TERZO ATTO NELLA MARIA STUARDA

― _DI SCHILLER_ ―


ELISABETTA

Come si chiama il luogo?

DUDLEY, CONTE DI LEICESTER

Il castello di Fotheringay.

ELISABETTA

Rimandate a Londra il séguito della nostra caccia; il popolo si accalca
troppo per le strade, – e noi cerchiamo un ricovero in questo parco
tranquillo.

_(Talbot allontana il séguito. Ella fissa gli occhi in Maria seguitando
a parlare con Pauleto)._

Il mio buon popolo mi ama soverchiamente. Smoderati, idolatrici, sono
i segni della sua gioia; – così si onora un Dio, non un mortale.

MARIA

_(la quale in questo frattempo si era appoggiata mezzo svenuta sulla
nutrice, ora si alza, e i suoi occhi incontrano lo sguardo teso di
Elisabetta. Essa ne raccapriccia, e si abbandona di nuovo sul seno
della nutrice)._

O Dio! da quei lineamenti il cuore non parla.

ELISABETTA

Chi è la Signora?

_(Silenzio universale)._

LEICESTER

Tu sei a Fotheringay, o Regina.

ELISABETTA

_(si mostra sorpresa e stupefatta, volgendo un'occhiata cupa a
Leicester)._

Chi mi fece un tal tratto? Lord Leicester!

LEICESTER

La cosa è fatta, o regina; ed or che il cielo avviò i tuoi passi a
questa volta, lascia che la magnanimità e la compassione trionfino.

TALBOT, CONTE DI SHREWSBURY

Consenti, donna reale, a piegare il tuo sguardo sull'infelice, che si
curva alla tua presenza.

_(Maria si raccoglie, e vuole andare incontro a Elisabetta, ma si ferma
a mezzo rabbrividendo tutta; i suoi gesti esprimono una violentissima
agitazione)._

ELISABETTA

Come, Milordi? Chi fu dunque colui, che mi annunziava un inchino
profondo? Io trovo invece una superba in nessuna guisa domata
dall'infortunio.

MARIA

E sia così. Anche a questo io vo' sottomettermi. Va, fuggi, invalido
orgoglio di un'anima generosa! Io dimenticherò chi sono, e quel che
soffersi, e mi getterò ai piedi di colei, che mi travolse in questa
ignominia.

_(Si volta verso la regina)._

Sorella, il cielo ha deciso per voi! – La fronte vostra fortunata è
cinta della vittoria; – io adoro il Dio, che tanto vi sublimava.

_(Le cade ai piedi)._

Ma siate ben anche voi magnanima, o sorella! Non mi lasciate giacere
piena di avvilimento! Stendete la vostra mano, porgetemi la destra
reale per sollevarmi dalla profonda caduta!

ELISABETTA

_(ritraendosi)._

Lady Maria, voi siete al vostro luogo, e ringraziando lodo la bontà del
mio Dio, che non abbia voluto prostrarmi ai piedi vostri come or voi
siete ai miei.

MARIA

_(con affetto crescente)._

Pensate alle rivoluzioni delle cose umane! Vivono Dei, che fanno
vendetta della superbia; e venerate, temete questi terribili Dei,
che mi atterrano ai piedi vostri! Per rispetto di questi stranieri
spettatori, in me onorate voi stessa! Non profanate, non vergognate
il sangue dei Tudor, che nelle mie scorre come nelle vostre vene.
Dio del cielo! non state là dura, inaccessibile, come lo scoglio
che il naufrago contende invano di afferrare. Tutto, la mia vita, la
mia sorte, pendono dalla forza delle mie parole, delle mie lacrime;
scioglietemi il cuore onde io commuova il vostro! Se voi mi guardate
con quel guardo ghiacciato, dal ribrezzo il cuore mi si serra,
la corrente del pianto ristagna, e un freddo orrore m'incatena le
preghiere nel petto.

ELISABETTA

_(fredda e severa)._

Che avete a dirmi, Lady Stuarda? Voi desideraste parlarmi. Ecco, io
mi scordo la regina, la tanto gravemente offesa regina, per adempiere
l'ufficio pietoso di sorella, e concedervi il conforto della mia
presenza. Io séguito l'istinto di un animo grande, e mi espongo ad
un biasimo ben meritato scendendo tanto in fondo,.... poichè voi ben
sapete, che un tempo voleste farmi ammazzare.

MARIA

Donde darò principio, e con quale artificio disporrò le mie parole,
perchè vi si appiglino al cuore, ma non vi offendano? O Dio,
invigorisci la mia eloquenza, levandole ogni spina, che potesse
pungere! Ma tuttavia io non posso parlare a mio pro, senza gravemente
accusarvi; e nol vorrei. Voi mi avete trattata come non è giusto,
dacchè io sono regina non altrimenti che voi, e voi mi avete tenuta
come prigione. Io venni a voi come supplice, e voi in me violando
le sante leggi della ospitalità, e il santo diritto delle genti, mi
chiudeste fra le mura di un carcere; – gli amici e i servi crudelmente
mi furono a forza tolti; – abbandonata in una ignobile miseria; –
tradotta dinnanzi a un vituperevole tribunale. – Ma non più di questo!
Un eterno oblio cuopra le durezze da me patite. Vedete! Io voglio
chiamar tutto questo un destino; voi non siete rea, nè io il sono;
– un cattivo spirito si levò dall'inferno per infiammare nei nostri
cuori l'odio, che già disunì la nostra tenera giovanezza. L'odio crebbe
con noi, e tristi uomini aggiunsero soffio alla malaugurata fiamma.
Stolidi fanatici la non chiesta mano armarono di spada e di stiletto. –
Destino maledetto dei re è che rissando squarcino il mondo coll'odio, e
scatenino tutte le furie della discordia. Ora di mezzo a noi non è più
bocca straniera.

_(Le si avvicina fiduciosa, e con aria carezzevole)._

Noi stiamo adesso a fronte l'una dell'altra. Or favellate, o sorella!
Nominate la mia colpa; – io voglio sodisfarvi pienamente di tutto. Ah!
se voi mi aveste dato ascolto in quel tempo, che io tanto bramosamente
cercava vedervi! Le cose non sarebbero trascorse tant'oltre, nè in
questo tristo luogo ora succederebbe un doloroso e sciagurato incontro.

ELISABETTA

La mia buona stella mi salvò dal mettermi in seno la vipera. Non
incolpate il destino, ma il vostro cuore tenebroso, e la feroce
ambizione della casa vostra. Nessuna cosa nemica era accaduta fra noi,
quando il vostro zio, l'orgoglioso prete feudale, che la mano audace
stende a tutte le corone, m'indisse la guerra, vi allucinò a pigliare
le mie armi, a farvi proprio il mio titolo regale, a scender meco in un
agone di morte e di vita. Che non mi sollevò contro costui? La lingua
dei sacerdoti, – la spada dei popoli, – tremende armi di una religiosa
frenesia; fino qui nella sede pacifica del mio regno soffiò le fiamme
della ribellione; ma Dio è con me, e il vanitoso prete non tiene il
campo. – Il colpo alla mia testa fu vibrato, e cade la vostra!

MARIA

Io sto nelle mani di Dio. Voi non eccederete così sanguinosa la vostra
potenza....

ELISABETTA

Chi me lo impedirà? Il zio vostro diè a tutti i re del mondo l'esempio
del come si faccia pace coi proprii nemici. La festa di S. Bartolomeo
sia la mia scuola! Cos'è a me il vincolo del sangue, il diritto delle
genti? La Chiesa scioglie ogni legame di dovere, – consacra la rotta
fede, e il regicidio; – adesso io pratico quello che insegnano i
preti vostri. Dite! qual pegno mi assicura di voi, quand'io magnanima
sciogliessi le vostre catene? In qual castello custodirò la fede
vostra, che le chiavi di S. Pietro non possano aprirlo? La forza
unicamente assecura; – colla razza delle vipere non v'è alleanza.

MARIA

Ahi! son questi i vostri neri funesti sospetti! Voi mi teneste sempre
in conto come di nemica, e di straniera. Se voi mi aveste dichiarata
erede vostra come a me si appartiene, gratitudine e amore vi avrebbero
mantenuta in me una leale amica e parente.

ELISABETTA

Al di fuori, Lady Stuarda, sono le amicizie vostre; casa vostra è il
Papismo, vostri fratelli i frati. – Voi dichiarare erede, voi! Viluppo
di tradimenti! – Affinchè in vita mia il mio popolo corrompeste, ed
insidiosa Armida traeste nelle reti sottili dei vostri vezzi la nobile
gioventù del mio regno; – affinchè tutto si voltasse dalla parte del
nuovo Sole nascente, e io....

MARIA

Regnate in pace! Io rinunzio ogni titolo su questo regno. Ah! le ali
del mio spirito son tronche; – la grandezza più non mi tira: – voi
l'avete ottenuta; – io non sono che l'ombra di Maria. La generosa
anima si è spenta nel lungo vilipendio del carcere. – Voi avete fatto
l'estremo contro di me, mi avete distrutta sul fiore. Or fate fine, o
sorella! Parlate la parola per cui siete venuta; nè io vorrò creder
mai, che voi veniste per irridere barbaramente la vostra vittima.
Parlate questa parola! Ditemi: – voi siete libera, o Maria! Avete
provata la mia potenza, adesso imparate ad onorare la mia magnanimità.
– Ditelo, ed io riceverò la vita, la libertà, come un dono delle
vostre mani. Una parola rende tutto non avvenuto. Io l'aspetto. Oh!
non mi fate più a lungo struggere di desiderio. Guai a voi, se non
finite con questa parola! Imperciocchè se voi or non partite da me
benefica, generosa, come una Divinità, – sorella! non per tutta questa
ricca Isola, non per tutte le terre che il mar circonda, vorrei stare
dinnanzi a voi come voi state dinnanzi a me!

ELISABETTA

Vi date alfine per vinta? Abbandonate le frodi vostre? Non vi son più
assassini pronti a ferire? non vorrà più nessuno avventuriere cimentare
per voi la trista cavalleria? Sì, tutto è finito. Lady Maria; – voi
non sedurrete più nessuno contro di me. Il mondo ha ben altre cure:
a nessuno talenta diventare il vostro – quarto marito; dacchè voi
uccideste i vostri amanti al pari dei vostri mariti.

MARIA

_(con impeto)._

Sorella! sorella! O Dio! Dio! dàmmi moderazione!

ELISABETTA

_(la guarda lungamente con occhio di superbo disprezzo)._

Questa è pertanto la leggiadria, Lord Leicester, che nessuno
impunemente rimira, cui nessuna altra donna ardisce paragonarsi! Certo!
è gloria da conseguirsi con poco! Per esser la bellezza comune altro
non costa che farsi a tutti comune!

MARIA

Questo è troppo!

ELISABETTA

_(con riso beffardo)_

Ora voi mostrate l'aspetto vostro sincero; fin qui non fu che una
maschera.

MARIA

_(accesa di collera, ma con nobile decoro)._

Io ho fallato umanamente, e da giovane; il potere mi traviò, nè l'ho
taciuto, o nascosto, ma con reale franchezza ho dispregiato le false
apparenze. Il mondo sa il peggio di me, ed io posso dire d'esser
migliore della mia reputazione. Guai a voi, se un tempo leverete dalle
vostre azioni quel manto di onore, onde voi splendidamente coprite le
fiere voglie di una segreta libidine! Da vostra madre non aveste in
retaggio l'onestà; e tutti sanno per via di quali virtù Anna Bolena
ascendeva sul palco.

SHREWSBURY

_(entrando di mezzo alle due regine)._

O Dio del cielo! a questo doveasi giugnere! Lady Maria, è questa forse
moderatezza, sottomissione?

MARIA

Moderatezza! io ho sofferto quanto l'uomo può soffrire. Esci, o
rassegnazione, dal cuore d'agnello! vola in cielo, tollerante pazienza!
rompi i tuoi legami, esci dalla tua spelonca, o rancore così a lungo
racchiuso! – e tu, che all'irritato basilisco desti lo sguardo omicida,
tu ponmi sulla lingua l'avvelenata freccia![42]

SHREWSBURY

Oh! ella è fuor di senno! Perdonate in lei il furore, la potente
irritazione!

_(Elisabetta, muta di collera, lancia occhiate furiose sopra Maria)._

LEICESTER

_(nella più veemente agitazione tenta di menar via Elisabetta)._

Non dare orecchio alla forsennata! Fuori, fuori di questo luogo
malaugurato!

MARIA

Il trono d'Inghilterra è da una bastarda profanato: – il nobile Popolo
Brittanno è da una scaltrita giocolatrice ingannato. Se il Dritto
regnasse, or voi sareste nella polvere dinnanzi a me, perchè io sono la
vostra regina.

_(Elisabetta parte rapidamente; i Lordi la seguitano nella più alta
confusione)._

― 18...? ―

NOTE:

  [29] «Francesco di Bonnivard, figlio di Luigi Bonnivard nativo di
  Seyssel, e signore di Lunes, nacque nel 1496, e fece li studi a
  Torino. Nel 1510 Giovanni Amato di Bonnivard suo zio gli cesse il
  Priorato di San Vittore, benefizio notabile confinante alle mura
  di Ginevra.

  Quest'uomo grande, – poichè gli dànno diritto a tal nome la
  forza dell'anima, e il cuore ingenuo, e i nobili intendimenti,
  e la sapienza dei consigli, e il contegno animoso, e la dottrina
  moltiplice, e lo spirito arguto, – questo uomo grande susciterà
  la maraviglia di chi può esser tuttora commosso da una virtù
  eroica, e spirerà sempre la più viva riconoscenza nel cuore dei
  Ginevrini, che amano Ginevra. Bonnivard fu in ogni evento uno
  de' suoi più saldi sostegni, e per assicurare la libertà della
  nostra Repubblica non temè di perdere spesso la sua; nè curò
  il suo riposo, e dispregiò le sue ricchezze, nulla lasciando
  per convalidare la felicità di un paese, che volle onorare
  scegliendolo a patria; e da quell'ora l'amò come il più caldo de'
  suoi cittadini, e stette alla sua difesa colla intrepidezza di
  un eroe, e ne scrisse la storia colla ingenuità del filosofo, e
  coll'ardore del patriotta.

  Nel cominciamento della sua storia dice, _che dopo aver
  principiato a leggere quella delle altre nazioni sentivasi
  trasportato dal suo genio alle repubbliche, e sempre ne sostenne
  la causa:_ – e questo genio di libertà certamente gli fece
  adottare a patria Ginevra.

  Bonnivard tuttavia giovane si dichiarò altamente difensore
  di Ginevra contro al Duca di Savoia, ed al Vescovo. Nel 1519
  Bonnivard fu martire della patria. Il Duca di Savoia essendo
  entrato in Ginevra con 500 uomini, Bonnivard ne temeva il
  risentimento; però volle ritirarsi a Friburgo, onde schivarne
  gli effetti; ma tradito da due suoi seguaci fu condotto per
  comando del Principe a Grolee, dove rimase prigioniero due anni.
  Bonnivard era infelice nei suoi viaggi; e poichè le sue sventure
  non avevano punto affreddato l'amor suo per Ginevra, però era un
  nemico formidabile sempre a coloro che la minacciavano, e per
  conseguenza Bonnivard doveva esser la mira dei loro colpi. Nel
  1530 i ladri lo incontravano sul Jura, e dopo averlo svaligiato
  lo posero nelle mani al Duca di Savoia. Quel principe lo fece
  chiudere nel castello di Chillon, dove rimase senza esser
  giudicato fino al 1536, e allora fu liberato da quei di Berna
  fattisi padroni del paese di Vaud.

  Uscito di schiavitù ebbe il conforto di trovare Ginevra libera.
  La Repubblica fu pronta ad attestargli la sua riconoscenza
  rimeritandolo dei mali sofferti. Nel mese di Giugno 1536 ella
  lo accolse cittadino, e gli diè la casa un tempo abitata dal
  vicario generale, e gli assegnò 200 scudi d'oro finchè dimorasse
  in Ginevra, e l'anno 1537 fu ammesso nel Consiglio dei Dugento.

  Bonnivard non cessò mai d'esser utile; e dopo aver faticato
  a render Ginevra libera, gli riuscì a renderla tollerante,
  conducendo il Consiglio a concedere agli ecclesiastici, e ai
  contadini, tempo bastevole onde esaminare le proposte, che loro
  facevansi; e il conseguì con la sua dolcezza.

  Bonnivard fu letterato, e i suoi manoscritti provano come avesse
  ben letto i classici latini, e come fosse profondo nella teologia
  e nella storia. Quest'uomo grande amava le scienze, e credeva
  potessero fare la gloria di Ginevra; quindi nulla trascurò perchè
  le scienze avessero sede in questa città nascente. Nel 1551
  _donava al pubblico la sua biblioteca_, e quei libri formano
  parte delle belle e rare edizioni del Secolo XV, le quali
  si veggono nella nostra raccolta. Finalmente l'anno medesimo
  questo buon cittadino istituiva la Repubblica erede del suo, a
  condizione di impiegare quei beni per mantenere il Collegio, che
  si avvisavano fondare. Pare, che Bonnivard morisse nel 1570, ma
  nol possimo accertare, dacchè nella Necrologia v'è una lacuna dal
  mese di Luglio 1570 fino al 1571».

  [30] «Così narrano di Lodovico Sforza, e di altri. Affermano lo
  stesso di Maria Antonietta moglie di Luigi XVI, ma non in tempo
  sì breve. Dicesi che il dolore produca il medesimo effetto, e
  a questa causa più che alla paura vuolsi attribuire siffatto
  cangiamento in quella regina».

  [31] «Il castello di Chillon è situato fra Clarens, e Villanuova,
  la quale giace ad una estremità del lago di Ginevra. A mano manca
  del castello vi sono le imboccature del Rodano, e di fronte
  le alture di Meillerie, e la catena delle Alpi sopra Boveret,
  e S. Gingo. Dietro al castello vi è un monte vicino, e sopra
  vi scorre un torrente: il lago, che bagna in fondo le mura, è
  stato scandagliato sino alla profondità di 800 piedi francesi.
  Dentro al castello vi è una fila di prigioni, dove chiudevansi
  i primi riformatori, e poi i prigionieri di Stato. Traverso una
  delle volte esiste sempre un trave nero dal tempo, sul quale ci
  dissero che i rei anticamente erano giustiziati. Nelle carceri
  vi sono sette colonne, o piuttosto otto, perchè una ve n'è
  mezzo internata nel muro. In alcune colonne vi sono anelli, che
  servivano per le catene dei prigionieri, e sul pavimento i passi
  di Bonnivard vi hanno lasciata l'orma: – egli vi stette chiuso
  parecchi anni. Presso a questo castello Rousseau fa succedere
  la catastrofe della sua Eloisa, allorchè Giulia salva dall'acqua
  uno de' suoi figli, e la malattia prodotta dallo spavento e dalla
  immersione la conduce a morte».

  [32] «Fra le imboccature del Rodano e Villanuova, non lontano
  da Chillon, vi è un'isola piccolissima, la sola che io potessi
  scorgere viaggiando il lago da ogni parte. Contiene pochi alberi,
  io credo non più di tre; e dall'esser così sola, e così piccola,
  produce un effetto singolare alla vista.

  Quando io ebbi scritto questo poema non mi era nota così
  minutamente la storia di Bonnivard; altrimenti avrei cercato di
  nobilitare il soggetto, tentando a celebrare il suo coraggio, e
  le sue virtù. Le poche notizie della sua vita mi furono date da
  un cittadino cortese di quella Repubblica, altero sempre della
  memoria di un uomo degno di vivere nei tempi migliori dell'antica
  libertà».

  [33] _Dall'_Indicatore Livornese_, N.º 44._

  [34] _Dalla _Viola del Pensiero_, Anno I._

  [35] _Dalla _Rosa di Maggio_, 1843._

  [36] _Dalla _Rosa di Maggio_, 1843._

  [37] _Dalla _Rosa di Maggio_, 1843_.

  [38] _Dalla _Viola del Pensiero_, Anno I._

  [39] _Dalla _Viola del Pensiero_, Anno I_.

  _Questo canto, di cui s'ignorò per qualche tempo l'origine, fu
  successivamente da alcuni attribuito a Lord Byron; ma poi si
  accertò esserne autore Carlo Wolfe, spento anch'egli sul fiore
  degli anni, e delle speranze. ― Sir Giovanni Moore soccombè nella
  battaglia di Coruna sostenuta il 16 Gennaio 1808 dagl'Inglesi
  contro le truppe francesi, che invadevano allora la Spagna._

  [40] _Dalla _Viola del Pensiero_, Anno I_.

  [41] _Dalla _Viola del Pensiero_, Anno I_.

  [42] _Collazionata questa Traduzione con quella di Pompeo
  Ferrario, meritamente tenuta in gran pregio, ci parve di
  riscontrar nella prima maggior grazia e spontaneità di stile,
  sebbene qua e là in esse s'incontri identità quasi assoluta di
  frasi e di periodi. E fummo lieti di trovare nella Traduzione
  del Bini espresso con fedeltà ed evidenza questo concetto, che
  nell'altra non ci riusciva d'intendere._

  _Il Ferrario traduce: «_E tu, cui l'incantato basilisco diede lo
  sguardo di morte, poni sulla mia bocca l'avvelenata saetta_». ―
  Vedi _Teatro scelto di SCHILLER, trad. da P. Ferrario_; vol. II,
  pag. 125, – Mil. 1819._



SISMONDO DE SISMONDI


SISMONDO DE SISMONDI

― _DI ALFREDO REUMONT_ ―

L'Italia più d'ogni altro paese ha sempre attratto ed occupato di sè
i forestieri; nè intendo per questo ch'ella se n'abbia a rallegrare;
poichè cosa abbia fruttato questa forza d'attrazione, osservata sotto
l'aspetto politico, noi lo vediamo ogni giorno con gli occhi nostri
senza bisogno di svolgere le pagine dei suoi annali, e sotto l'aspetto
letterario ce lo dimostrano quelle infinite sozzure, le quali anno
per anno riboccano dai torchi di Francia, d'Inghilterra, e sopratutto
d'Alemagna, il perchè fu detto ingegnosamente l'Italia essere stata
mai sempre oltraggiata in antico dalle armi, e adesso dalle penne dei
Barbari che la visitano. – Ma per fortuna, e come ragion vuole, non
sono mancati mai a quando a quando uomini ragguardevoli, che facessero
questa terra soggetto dei loro studi, e massimamente nel genere storico
gl'Italiani vanno debitori d'assai ai forestieri. E per non dire dei
più antichi, e di quei tanti che trattarono la Storia delle Arti,
Roscoe, Hallam, Shepherd, Perceval, Ginguené, Daru, Fauriel, Artaud,
il Duca de Luynes, Lebret, Bouterweck, Voigt, Schlosser, Savigny,
Raumer, Hurter, Rancke, Witte, Leo, Gervinus, Barlhold, Höfler, C.
Meyer, Rudelbach, Gaye, Papencordt, Dönniges, ed altri molti, hanno
pagato un ricco tributo di devozione e di affetto _al bel paese ove
il sì suona_. Ma più di tutti è da nominarsi il Sismondi, e per quanto
egli si occupasse seriamente d'altri popoli ancora, e d'altri paesi, il
suo cuore appartenne all'Italia, e agli Italiani, e s'immedesimò nella
gloria e nella grandezza di lei, e partecipò caldamente ai suoi avversi
destini, considerando quella terra come sua patria, e come amici e
fratelli i suoi abitatori.

Gio. Carlo Leonardo Sismondo De Sismondi, nacque a Ginevra il 9 maggio
1773. Egli apparteneva a famiglia di origine Toscana, e nel Canto
XXXIII dell'Inferno di Dante, Ugolino della Gherardesca insieme ai
Gualandi e ai Lanfranchi rammenta i Sismondi tra le grandi casate
di Pisa. Al principio del Secolo XVI questa famiglia cambiò l'Italia
colla Francia, e dipoi colla Svizzera francese. Egli non aveva anche
bene 20 anni, che la Rivoluzione lo cacciò co' suoi in Inghilterra, e
ritornato lo multò di pecunia e di prigione, poi lo ricacciò di nuovo,
ma questa volta in Toscana, dove sulle prime, e durante la conquista
francese, ebbe a sostenere più e diverse vicende. Per la qual cosa nel
proemio agli _Studi sull'Economia politica_ si esprime per tal modo:
«Per lo spazio di 16 anni io sono stato iteratamente il giuoco delle
rivoluzioni, che la lotta cominciata nell'ottantanove suscitò in ogni
parte del corpo sociale. Ho sofferto nella persona e negli averi, e
ho riguardato da vicino le passioni del popolo mescolandomi a quelle,
e così ogni studio e meditazione di cui fossi capace ho congiunto a
quella esperienza che mi diedero gli avvenimenti, dei quali talvolta
mio malgrado fui testimone».

Sulla riva destra dell'Arno tra Firenze e Lucca giace una grande
vallata per dove scorre la Nievole, che le dà il nome, in alcuni
luoghi paludosa e malsana, ma più in antico, perchè nelle battaglie di
quei vicini stati fino ai tempi del gran Castruccio interi eserciti
su quel suolo perivano, ed oggi assai meno, perchè il male in gran
parte fu rimediato. La valle però nel complesso è oltremodo fertile,
e coltivata accuratamente a guisa d'immenso giardino, traversata da
una fila di colline ricche di viti, e a settentrione difesa dalle
selvose e pittoresche montagne di Pistoia. Chi poi da Pistoia movendo
scende giù per le forre di Serravalle alle salutifere e frequentate
sorgenti di Montecatini, e di là si reca alla deliziosa Pescia
capoluogo della valle, comprende appieno la bellezza di questo paese,
di cui il Sismondi ritrasse con sì liete immagini l'agricoltura, e gli
uomini. A Pescia pertanto dimorò lungo tempo il Sismondi, rattenendolo
ancora i legami di famiglia, perchè la sua sorella Sara si maritò con
un gentiluomo assai riputato del luogo, Antonio Cosimo Forti, il di
cui figlio Francesco, giovane di bellissimo ingegno, e giureconsulto
profondo, fu rapito troppo presto alle scienze; e quivi più tardi
egli si comperò un possesso, e in ultimo vi passò molte ore felici nel
1836, e 37. E fu nella sua lunga dimora in Toscana, che gli si destò
nell'animo l'idea di scrivere la Storia d'Italia del Medio-Evo; e con
quella diligenza e tenacità proprie di colui, che dalle indagini severe
del soggetto aveva inferito e misurato la grandezza e le difficoltà
dell'impresa si consacrò a quegli studii, che dovevano abilitarlo
all'esecuzione del suo disegno. E circa il 1800 principiarono le sue
ricerche, e otto anni dopo comparve la prima parte della _Storia delle
Repubbliche Italiane del Medio-Evo_. Tornato a Ginevra continuò i suoi
studii, tenne lezioni di Storia politica e letteraria in un cerchio
d'uomini e di donne, prese molta parte nel governo e negli affari,
fece lunghi viaggi nella sua patria, in Inghilterra, in Alemagna, e
visitò da capo l'Italia, di cui apprese a conoscere ogni luogo, di cui
prediligeva gli abitatori, e dove trovò tante e siffatte accoglienze,
e cortesie, e ricambi d'amore, che dovevano a forza far buono al suo
cuore. E i segni d'amicizia e di reverenza, che gli erano fatti colà,
soleva pregiare più altamente di quelli, che in egual misura gli erano
fatti altrove. Perfino nell'ultima dolorosa infermità, un cancro dello
stomaco, ove più o meno sofferse due anni di séguito, lo teneva preso
incessantemente il pensiero, compiuta la _Storia dei Francesi_, di
tornarsene a Pescia, e quivi colla sua moglie inglese, alla quale
già attempato si era stretto in felice matrimonio, chiudere la vita
in mezzo ai suoi nepoti superstiti. E di fatti alla fine del passato
Maggio scriveva ad un Fiorentino suo amico, che come prima potesse
intendeva venire in Toscana, e aver già mandato una parte dei suoi
libri. Ma egli morì il 25 Giugno a Chêne sua villa presso Ginevra.

Le opere letterarie del Sismondi, frutto d'una vita ben travagliata,
hanno fatto il suo nome immortale, e per quanti obietti in genere o
in ispecie possano farsi alle sue grandi opere, conviene pur sempre
annoverarlo tra i più notabili Storici del Secolo XIX. Nè questo è
il luogo di passarle per esteso in esame, tanto più che poco o assai
sono state tutte ad una ad una riviste; ma ben possiamo riunirle, e
delinearne il carattere generale, ora che lo Scrittore è sparito, e
in sua vece ci stanno dinnanzi aperti i suoi scritti. Ed apriremo la
serie colla prima grand'opera, la _Storia delle Repubbliche Italiane
del Medio-Evo_. Lodovico Antonio Muratori fu il primo, che la massa
immane di notizie custodite nelle cronache e nelle storie raccolse e
ordinò nei suoi _Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino
all'anno 1500_, che poscia continuò sino al 1749. E nessuno era più
acconcio di lui a quel lavoro, poichè la pubblicazione della gran
raccolta degli _Scrittori delle Cose Italiche_ lo aveva messo dentro
alla perfetta cognizione d'infiniti documenti storici di quella fatta,
e così ebbe campo, esercitando il suo acume, il suo spirito d'ordine,
ed una instancabile diligenza, di procacciarsi una dottrina smisurata.
Però questi Annali non sono propriamente una storia ben elaborata;
raccontano anno per anno quello che accadde, mettendo sulla scena una
dopo l'altra terre e città, senza che l'uomo acquisti un'idea netta
dello sviluppo organico, che si opera nella vita sociale; i fatti
soli stanno là, e il più che si pone mente è alle guerre, e agli
avvenimenti esterni, senza rilevare i cambiamenti nelle costituzioni,
le quali per tal modo riesce arduo spiegare, se non impossibile. –
Lo stile è quello d'una narrazione affollata, disadorna, e spesso
mancante troppo di dignità. Nondimeno questi Annali sono l'aiuto il
più efficace per ritrovarsi nel labirinto delle storie delle città
italiane, ma leggerli per intiero, o volervi imparare la Storia, non
sarebbe sì agevole. Dal Muratori al Sismondi gl'Italiani fecero poco
per la loro storia universale. _Le Rivoluzioni d'Italia_ del Denina,
uscite la prima volta nel 1769, sono un libro assai letto, ma fatto
piuttosto per la comune dei lettori, che per i dotti; scritto però con
spirito e vivacità, e per questo ristampato sovente, e per le mani di
tutti, sebbene gli uomini oggi pretendano più assai dalle storie, e
molti punti di quel libro non reggano di fronte alla critica. Queste
due opere sono le uniche, che trattino a mia saputa la storia d'Italia
fino ai tempi più recenti. Dopo il libro del Denina non venne cosa
che meriti discorso, e l'opera molto studiata del Tedesco Lebret fu
appena conosciuta di quà dall'Alpi. – Ora poi, che la prima Storia
del Medio-Evo Italiano completa e ben fatta uscisse dalla mente
d'uno straniero, nessuno l'avrebbe aspettato. Ben è vero, che ella fu
scritta sotto cielo italiano, anzi in Toscana, il centro vero della
Civiltà Italica, il _foco_ dove convergono i raggi della gloria dei
secoli di mezzo, il paese che meglio d'ogni altro chiarisce gli eventi
e gli effetti che ne uscirono, dove meglio che altrove allo spirito
d'indagine vengono offerti aiuti, lumi e conforti. La prima parte delle
_Repubbliche Italiane_ apparve nel 1807, e or sono due anni uscì la
terza edizione in Parigi, senza contare le ristampe del Belgio, e le
traduzioni italiane, e tedesche. Dalla formazione dei liberi stati,
dalla lotta dei Municipi colla supremazia imperiale, dal trionfo
dei primi, e dall'infiacchimento dell'ultima, questa Storia arriva
sino all'epoca di Carlo V, nella quale l'Italia parte obbediva agli
stranieri, come il regno delle due Sicilie, e il Ducato di Milano,
parte a Signori nazionali, alcuni dei quali portavano il titolo di
vassalli dell'Impero, alcuni del Papa, e altri ambedue questi titoli,
ma in sostanza governavano assai liberamente, come i Duchi di Savoia,
Mantova, Ferrara, Massa, Urbino, e via discorrendo; e delle Repubbliche
rimaste in piedi, Venezia benchè d'assai indebolita manteneva sempre
una grande potenza, Genova faticosamente si destreggiava tra Francia
e l'Impero, Lucca e Siena esistevano per grazia speciale, e la seconda
per poco, mentre Firenze, dopo tre anni di sforzi magnanimi per rompere
le catene in cui l'avevano messa i suoi cittadini, periva per sempre.
E così il Sismondi imprese a descrivere l'epoca la più importante, la
più viva, la più operosa della storia d'Italia, dedicandosi a questa
impresa con tal calore da mettere in evidenza quanta parte prendesse
nel fato di quei popoli, e con quella costanza di proposito, e dignità
di coscienza, che a così alto grado l'innalzano come scrittore. Studiò
colla più grande applicazione, e adoperò tutti i materiali che potè
avere, nè gli rimase sconosciuta cronaca importante, o storia che
valesse. Ma per quanto io sappia non fece ricerche di archivi, e si
servì affatto di cose stampate. Le materie pertanto così radunate
dispose in bell'ordine, e compose l'opera. Lo stile è scorrevole
e chiaro, e si trova nel Sismondi quel singolare dono che hanno i
Francesi della lucidità e precisione, senza potergli apporre la taccia
di superficialità, di che sovente furono biasimati gli scrittori
di quella nazione, massime i più antichi, giacchè molto diverso
mostrasi l'operare di parecchi tra i moderni. E un benefico calore
di sentimento spira per tutta l'opera, e i grandi avvenimenti sono
dipinti con verità, e aggruppati con arte, e i personaggi hanno vita e
movimento. Non di rado la narrazione si leva ad una certa grandiosità,
e procede con andamento conveniente al soggetto, a vicenda concitato
e tranquillo, e prende quell'ampiezza di spazio opportuna al giusto
sviluppo dei caratteri, e alla retta estimazione delle circostanze.
Ma l'opera non è di certo senza difetti, e molto potremmo opporre
all'esattezza dei fatti, e la critica storica non è maneggiata con
quell'acutezza, che in tanta e così disparata vastità di materie
sarebbe stato necessario. Non è chi non senta, che l'Autore non ha
studiato gli archivi, cosa per vero dire quasi impossibile nella
composizione d'un libro, che abbraccia tanti stati, e tanti secoli, –
e molte cose, che narra il Sismondi sulla fede di antichi scrittori, e
in parte contemporanei, colla scoperta di documenti e d'altri testimoni
hanno già presa diversa fisionomia e valore, e la vanno prendendo ogni
giorno, nè può essere altrimenti col progredire delle ricerche e della
scienza. La quantità dei fatti registrati nei ricordi municipali,
il rimescolarsi continuo delle storie di tante città e famiglie, ne
rendono spesso faticosa la lettura, e ne scemano l'effetto; e in una
Storia avviluppata, inestricabile, com'è l'italiana, è fuor di modo
difficile serbar le misure, e impedire, che tratto tratto non occorra
una lista di nomi, e un nudo scheletro di avvenimenti e di affari,
che mal corrispondono al concetto del lettore. Una delle parti più
deboli dell'opera è lo sviluppo delle costituzioni repubblicane, e
delle modificazioni che col tempo subirono, e qui non ci sono solamente
lagune, ma molte cose che addirittura non reggono. – Le cognizioni del
Sismondi intorno alla storia dei governi e del diritto, e intorno alla
legislazione degli statuti, per quanto s'industriasse, erano scarse,
nè bastavano all'uopo; e il modo onde espone l'ordinarsi delle città,
cioè come si componessero delle amiche istituzioni romane, massime
del Decurionato, delle costituzioni ecclesiastiche, delle immunità ed
autorità dei vescovi nelle loro sedi, delle istituzioni Germaniche, e
principalmente del magistrato degli Scabini, – il modo onde espone il
nascimento delle leghe dei Comuni, che rappresentarono una parte così
importante, la fondazione dei feudi e la posizione della nobiltà libera
e della feudale, e le vicende della proprietà, che così essenzialmente
si connettono alla forma politica delle nazioni, – questo modo, dico,
lascia immensamente da desiderare, nessuno facendosi immagine giusta di
siffatte cose, e trovandosi come smarrito in regione mezzo incognita.
E così il difetto di precisione e di lucidezza nel rappresentare le
condizioni di quei tempi più antichi ha dovuto esercitare per forza un
cattivo influsso sul modo di ritrarre e distinguere i successivi.

La _Storia delle Repubbliche Italiane_ è scritta sotto l'ispirazione
d'un sentimento democratico. Questo sentimento ha dato una vita
commossa e un colorito caldo a certe parti qua, e là, ma nel tempo
stesso ha prodotto una monotonia, che, come sempre avviene scrivendo
storie con soverchio studio di sistema, nuoce alla verità, anche
senza intenzione dell'Autore. Perocchè non vorremo affermare che il
Sismondi abbia a bella posta svisato il carattere storico; pure non
è da negarsi, che forse senza giustamente saperlo egli non abbia
di frequente sparso d'una tinta falsa i ritratti delle persone e
dell'epoche. E, per citarne solo un esempio, il caso si verifica
nell'ultima parte dell'opera riguardo a Cosimo I dei Medici. Ma per
quanto il Sismondi restasse fedele alle sue massime repubblicane,
queste nondimeno coll'andar degli anni subirono in teoria come in
pratica notabili modificazioni. In questi anni però egli poco si occupò
delle Storie Italiane, ed io stesso nel verno del 36-37 l'intesi
chiamarsene veramente spossato: – benchè sino all'ultimo della vita
avesse nel cuore e nella mente l'Italia. – Nel 1830 intraprese un
compendio della grand'opera, che súbito apparve in inglese nella
_Ciclopedia di Gabinetto_ del Dottor Lardner, e nel 32 uscì in Francese
a Parigi col titolo – _Storia del rinascimento della Libertà in Italia.
– _Questo libro contiene la sostanza del primo, e nel proemio fa
questa osservazione, «che quando un uomo lavora lungamente intorno a un
soggetto, s'innamora così anche dei più lievi particolari, che stima
dover riuscire grati egualmente al lettore, che all'autore; ma solo
più tardi allargando la vista, e maggiormente affrancando il giudizio,
vede cosa sia o non sia veramente essenziale.» Tale compendio ha molto
merito, e si legge volentieri, e chiude in un contorno più esatto quei
tempi memorabili, dando rilievo ed espressione agli avvenimenti più
capitali; ma per l'indole sua, e per la mole, non può dare che una
scarsa e troppo superficiale notizia delle Storie Italiane.

L'apparizione dell'opera del Sismondi fu gran ventura per la Storia
d'Italia, e senza dare nel falso possiamo ascrivere all'effetto di
questo libro una sostanziale influenza. Più specialmente però fu
sentita la necessità di avvalorare i fatti con prove autentiche; e
mentre lavori storici usciti da penne tedesche, e da scrittori di
qualche altra nazione, illustrarono vie maggiormente le cose italiane,
nell'Italia stessa ebbe luogo la pubblicazione di molti documenti
originali, la quale in gran parte è dovuta all'eccitamento prodotto dal
Sismondi[43].

Più e diversi ingegni da quell'epoca in qua ha esercitato la Storia
universale d'Italia; e quand'anche la sterminata _Storia d'Italia
antica e moderna_ di L. Bossi uscita nel 19 non contenti i più severi
intelletti, vuolsi però rammentare il Botta, il più grande Storico
dell'Italia nei tempi moderni, ed uno dei suoi più valenti scrittori;
il quale, oltre un rapido cenno della Storia Italiana in lingua
francese, descrisse i tempi dell'influenza francese dal 1789 al 14,
e quindi continuò il Guicciardini abbracciando tre secoli e mezzo, da
Paolo III allo scoppio della Rivoluzione, – opere di cui la fama anche
più durabilmente è fondata per la politica opposizione cui diedero
appiglio. Cesare Balbo cominciò una Storia universale d'Italia, che
condusse soltanto sino alla rovina del Regno Lombardo. – Carlo Troya,
che col suo bel libro sull'epoca di Dante aveva eccitato una grande
aspettazione, compose una storia del Medio-Evo, che finora comprende
solamente le migrazioni dei popoli, e le calate dei forestieri in
Italia, e questo ancora non compiutamente. – G. Borghi, l'elegante
traduttore di Pindaro, scrive un _Discorso_, come egli lo nomina,
_sulle Storie Italiane dall'anno 1.º dell'era volgare all'anno 1840_,
del quale abbiamo i primi due volumi. – A. Ranieri tratteggiò i tempi
di Teodorico sino a Carlo Magno col titolo – _Della Storia d'Italia
dal V al IX Secolo_. – A. Coppi ha continuato gli Annali del Muratori
dal 1750 al 1819, e promette di seguitare sino al presente. Nè furono
lasciate indietro le Storie del diritto, e dei governi, e tra queste si
debbono principalmente annoverare le _Vicende della proprietà in Italia
dalla caduta dell'Impero Romano fino allo stabilimento dei feudi_, del
Baudi De Vesmes, e del Fossati; – il trattato del Ricotti – _Sulla
Milizia dei Comuni Italiani nel Medio-Evo_, – cui si rannodano le
ricerche del Promis intorno allo stato delle artiglierie al principio
del Secolo XVI, inserite nell'Architettura Civile e Militare del famoso
Francesco di Giorgio da Siena edita dal Conte Cesare di Saluzzo; – il
_Saggio sull'Amministrazione finanziaria del Regno d'Italia dal 1802 al
1814_, e la Storia dell'Economia politica in Italia, di G. Pecchio; –
la _Storia dell'Economia politica nel Medio-Evo_, e il _Trattato delle
Finanze di Savoia nei Secoli XIII, XIV_, di L. Cibrario; – i _Due Libri
delle Istituzioni Civili_, di F. Forti; – la _Storia della Legislazione
Italiana_, di F. Sclopis, della quale apparve la prima parte, che
contiene _le Origini_, – e le opere storiche di L. Bianchini sulle
Finanze del Regno delle due Sicilie.

E andrei tropp'oltre, se volessi tutte designare le Storie speciali,
che apparvero modernamente. E d'ogni tempo gl'Italiani coltivarono con
lodevole zelo questo ramo di studi, e con quanto séguito lo mostra la
ricca Letteratura degli ultimi anni[44].

Nel 1818 terminò il Sismondi la Storia delle Repubbliche col 16.º
volume, il quale dopo aver narrato la caduta della Libertà Toscana
tocca di volo gli avvenimenti posteriori sino al Secolo XVIII. E poco
appresso pose mano alla _Storia dei Francesi_, opera più grande ancora
della prima, e che richiedeva maggior animo, trattandosi di superare
tanti antecessori, – e maggior perseveranza, perchè più sterminata era
la massa delle materie. A principio fu suo intendimento fermarsi al
termine delle guerre di religione, e all'editto di Nantes, – e a questo
punto, – egli diceva, – arriva propriamente il Medio-Evo francese.
– Ma poichè ebbe compiuta in 21 volumi questa parte del suo lavoro,
gli venne occasione di proseguirlo sino alla Rivoluzione francese,
per altro con proporzioni più brevi assai della prima metà. Questa
impresa l'occupò sino agli estremi della vita, talchè lasciò intero il
manoscritto dell'ultima parte. I patimenti fisici invece di smorzare
il suo ardore sembravano accenderlo viepiù. Due settimane prima della
morte rivide le prove del volume 28.º, che arriva al 1750, e venne in
luce già defunto l'Autore. E in quel modo che già diede un compendio
delle Storie Italiane, compose, in quello spazio di riposo, che gli
fu concesso dal condurre l'opera sino al 1598 giusta il primitivo
disegno, un compendio simile di quest'ultima, che sotto il nome di –
_Compendio della Storia dei Francesi_ – abbraccia l'epoca anzidetta.
E quivi è raccolta, com'egli considera, la serie intera dei tempi
propriamente storici; e quanto ai secoli seguenti non è mestieri
d'un lavoro siffatto, perchè l'uomo più volentieri ama cercarne le
notizie in quei libri, che appartengono alla leggiera Letteratura, –
nelle memorie, nei ricordi, nelle tradizioni di famiglia, – che negli
scritti i quali richiedono uno studio più intenso. Un tal ristretto
però non basta a chi vuole veramente apprendere le Storie della sua
patria; ma può servire a coloro, che non mirando a tanto cercano un
mezzo di richiamare alla memoria i capi più essenziali, o finalmente un
prospetto generale delle cose. In qual rapporto quest'opera gigantesca
del Sismondi stia colle grandi o piccole, universali o parziali opere
dei moderni Storici francesi, colla _Storia dei Francesi_ di Michelet
ora avanzata sino alla mania di Carlo VI, coi lavori di Agostino, e
Amedeo Thierry, coll'infaticabile e fecondo Capefigue, col Barante,
col Villeneuve-Trans, col Lemontey, col Sainte-Aulaire, col Mignet,
colle innumerevoli Storie particolari di provincia, col Segur, col
Lacretelle, col Bazin, e tanti altri, che sarebbe soverchio rammentare,
incomberebbe il giudicarlo ai critici francesi, mentre finora poco
o punto profersero sentenza su questa opera del Sismondi. – Mi resta
inoltre da nominare un lavoro storico uscito nel 35, – _Storia della
caduta dell'Impero Romano, e della decadenza della Civiltà dal 250
al 1000_. E qui l'Autore principiando da una monarchia universale,
ce la mostra soccombere all'urto di quei popoli, che non sapeva più
contenere. E vediamo tosto questi popoli affaticarsi a ristabilire
ciò che avevano distrutto, e da questo affaticarsi vediamo sempre
più turbato l'ordine sociale del mondo antico, e come finalmente le
società umane ritornano sempre più ai loro primitivi elementi, – al
congregarsi isolato delle genti nelle città e nelle terre. Quindi
comincia propriamente la formazione dei nuovi regni. – Questo libro non
ha troppo merito scientifico, ripetendo l'Autore i resultati delle sue
prime indagini, e presentandoli sotto il colpo d'occhio della Storia
universale. Ciò che dissi dei difetti che trovansi nello sviluppo delle
condizioni italiche, può ripetersi egualmente rapporto a quest'ultimo
lavoro.

L'opera – _Della Letteratura del mezzogiorno dell'Europa_ – nacque da
una serie di lezioni tenute dal Sismondi in Ginevra; e stando al suo
primo disegno, doveva contenere la Storia letteraria di tutta l'Europa.
Pure, così com'è, oltre un'introduzione intorno all'estinguersi
dell'idioma latino, e al formarsi delle lingue romane nel mezzogiorno
dell'Europa, contiene la storia letteraria degli Arabi, dei Provenzali,
dei Trovatori di Linguadoca, degl'Italiani, degli Spagnuoli, e dei
Portoghesi. La storia degli ultimi tre popoli è condotta sino alla fine
del Secolo XVIII, terminando col Parini, Monti, Pindemonte, Yriarte,
Melendez Valdes, Manoel, Cruz e Silva, e Da Cunha, ma la letteratura
Italiana è più distesamente trattata. E mentre il Sismondi cominciò il
suo lavoro, non era uscita peranche la celebrata opera del Ginguené,
della quale egli si giovò notabilmente nelle successive edizioni. Ma
coll'averlo riveduto e ingrandito non per questo riuscì libro per i
dotti, ma piuttosto adattato alla comune dei lettori. Nè vi si trovano
profonde ricerche, ma una cognizione familiarissima di Dante, e dei
più egregi scrittori, e un caldo senso delle loro bellezze. Mancano le
vedute larghe e grandiose, manca un'intuizione profonda nell'essenza
dell'Italiana Letteratura, una definizione propria e distinta delle
epoche e degli scrittori, specialmente dei prosatori, tra i quali
sporge principalissimo il Machiavelli. La critica dell'Autore trascorre
la superficie, ma il libro dà facili indizi, che fu composto da un
uomo, che conosce a fondo, ed ama sinceramente l'Italia, e le sue
Lettere. Il difetto più grande degli altri però occorre súbito sul
principio, ed è il non dimostrare chiaramente come al finire del Secolo
XIII, e al cominciare del XIV, la prosa e la poesia si svolgessero dai
primordi della Lingua e delle Lettere, cose che l'Autore a torto mette
in un canto come nude anticaglie. E così dopo un paio di pagine siamo
súbito a Dante, saltando in questa guisa un periodo importante, che in
tempi più recenti fu meritamente considerato, e reputato indispensabile
alla giusta intelligenza dell'Allighieri, e del suo secolo. E i
caratteri del Poeta sovrano sono fiaccamente rilevati, mentre è più
sensibilmente ritratta l'epopea romanzesca. Con tutte queste mende, che
più ancora devono risaltare in quelle parti dove tratta della Spagna
e del Portogallo, per le quali più che al suo giudizio è costretto
fidarsi all'altrui, e dove pare che abbia profittato del nostro
Bouterweck, e dello Schlegel per il dramma, – parti sulle quali io
debbo astenermi di pronunziar sentenza, – con tutte queste mende il
libro ha tuttavia molto merito, e può grandemente servire a coloro,
che non hanno bisogno di addentrarsi tanto nel soggetto, intrecciandosi
quivi in bell'ordine la biografia coll'analisi, la storia universale,
e la politica, e gli eminenti personaggi.

Questi sono i lavori storici e letterari del Sismondi, ai quali può
aggiungersi un Romanzo storico – _Giulia Severa_, – in cui cercò
descrivere lo stato delle Gallie al momento delle grandi commozioni
dell'Impero Romano, e delle nazioni occidentali, romanzo nato di
certo sotto l'influenza dei racconti di W. Scott, ma senza la forza
vivificante colla quale lo Scozzese afferra le masse storiche, e le
locali particolarità, e le compone in un complesso maraviglioso. Nè
si arrestò a questi lavori, – e mentre faceva argomento d'indagine e
di meditazione i politici eventi dei passati secoli dal punto della
Romana Grandezza sino alla Rivoluzione, che minacciò distruggere, e in
gran parte distrusse, gli antichi sistemi d'Europa, questi medesimi
studi consacrava a vedere le condizioni più intime delle nazioni,
cercando darsi ragione delle virtù e dei vizi del loro ordinamento
sociale rispetto alla legislazione, alla divisione della proprietà
fondiaria, all'agricoltura, all'industria, al commercio, alle colonie
etc., e così scandagliando le più alte questioni d'Economia politica
teoricamente, storicamente, ed anche praticamente. Il primo lavoro di
questo genere fu a mia notizia il – _Quadro dell'Agricoltura Toscana_,
uscito nel 1801; e poco dipoi scrisse – _Della ricchezza commerciale,
o sia Principii d'Economia politica applicata alla legislazione del
commercio_, – che più tardi rifece sotto il nome di – _Principii nuovi
d'Economia politica_. – Attempandosi tornò con più vivace alacrità
a questi studi, e soleva dire, che dopo avere tanti anni lavorato
il campo della Storia, gli era conforto l'abbandonarsi a ricerche,
che si profondano tanto nelle viscere dell'organismo sociale, e ci
porgono la più giusta misura per regolarci nel maggior numero dei
casi, mettendo in luce le cause della debolezza e della forza. – _Gli
studi sulla Scienza Sociale_, riassunto in parte di diversi articoli
dispersi in più giornali, furono l'ultimo frutto di queste indagini,
che intendeva estendere più oltre. La prima sezione racchiude gli –
_Studi sulle Costituzioni dei popoli liberi_, – esame teorico delle
libere costituzioni in genere. In quest'opera si tratta prima dei
diritti, che il popolo può o deve guardare. E si espongono i pericolosi
traviamenti generati dalla pretensione della democrazia al supremo
potere, e dal desiderio del suffragio universale; – e si rappresenta
come i meno sieno chiamati al governo in virtù della loro educazione,
e come il suffragio universale sia cosa retrograda, fondando la
maggiorità di coloro che non hanno volontà propria, la maggiorità
degl'ignoranti, e degl'indifferenti; – e quali sieno i vantaggi del
sistema rappresentativo nella sua purità, mentre da coloro, che si
affaticano a rendere democratici i grandi stati, un tal sistema vien
considerato come mezzo di dare la sovranità al più grosso numero di
voci; – e come il preteso voto del popolo, e le assemblee costituenti
posino sostanzialmente su delle illusioni. Il popolo è considerato in
contrapposto al governo; e mentre l'idea della così detta sovranità
del popolo vien chiarita naturalmente falsa e pericolosa, s'insiste
sulla necessità di costituire sapientemente le Comuni come l'elemento
il più proprio dello stato, con delle corporazioni le più possibilmente
libere e legali. E il popolo dovrebbe partecipare alla giudicatura
mediante il _Giury_, (notandone i vizi nell'odierno sistema francese),
e all'ordinamento militare mediante la guardia nazionale. E mentre
si parla del consiglio nazionale, si fa conoscere la necessità della
preponderanza d'un potere centrale su quello delle Comuni, colla
facoltà ad ogni stato della rappresentanza di esprimere i proprii
interessi; si tratta della maggiore o minore libertà di discussione
secondo i casi, e della influenza dannosa d'una stampa irritatrice, a
freno della quale dovrebbero applicarsi regole e forme parlamentarie.
Nello sviluppo delle costituzioni poi gli elementi aristocratico e
monarchico vengono contrapposti al democratico, il primo come corpo
separato costituente sè stesso per impedire che la minorità della
nazione soggiaccia alla maggioranza; e quindi vengono considerati per
la loro essenza ed effetti, e si mostra come tutti e tre gli elementi
debbano sottostare alla ragione nazionale esercitante la sovranità
nazionale, e come questa ragione si formi e si svolga dall'opinione
pubblica, in quali ostacoli possa inciampare, quali passioni arrestino
il suo progresso, e sotto quali guarentigie pronunzii finalmente il suo
giudizio. La seconda sezione tratta dei poteri indipendenti dal popolo;
dell'origine e indole del principato, o della potestà esercitata nelle
monarchie; della prova di dare un contrappeso al potere dei principi;
dei principi ereditarii ed elettivi, e dei vantaggi e svantaggi,
che questi hanno in sè; del luogo che tiene l'Aristocrazia, e della
sua importanza come seconda distinzione sociale, cui è commesso
principalmente l'ufficio di conservare, e mallevare la stabilità dello
stato. Finalmente la terza sezione contempla i progressi dei popoli
per una via più libera, e parla delle monarchie costituzionali, e dei
falliti tentativi moderni di fare costituzioni, e a un popolo imporre
quella d'un altro, come pure dei tentativi rivoluzionari di conseguire
una più grande libertà, e degli effetti che ne vennero. E sono chiariti
i grandi pericoli delle rivoluzioni, sia che il potere diminuito
rimanga all'antico signore, o venga consegnato ad un nuovo; e come
specialmente nell'ultimo caso i naturali sostegni del trono si facciano
avversari del nuovo sistema, e come i facitori della rivoluzione si
facciano nemici del signore che hanno innalzato, e come questi sia,
e debba essere, il più acre nemico della rivoluzione. Dopo di che
séguita ad esporre che una rivoluzione distrugge il contratto sociale,
che lega i meno coi più, nè poi si dà più veramente maggiorità, ma un
numero di minorità opposte tra loro, e menomamente proprie a fondare
una costituzione, o un governo qualunque. Finalmente spiega come per
resistere all'influenza e al potere della democrazia dominante d'una
capitale sopra una grande nazione, valga solo un sistema federativo
simile a quello della Svizzera; e come una tal lega abbia mostrato
in ogni tempo la sua gran forza, massime nella difesa dell'ordine
esistente. Nè ci stenderemo più avanti in queste vedute del Sismondi,
chè sarebbe soverchio, aggiungendo, che gran senno e molto del vero
contengono, se non che tra mezzo apparisce non poco del falso moderno,
e un lasciarsi andare alle simpatie e alle antipatie più di quello che
non convenga a scritture di così grave natura.

Nelle altre due parti che portano il titolo di – _Studi sull'Economia
politica_, – s'incontrano molte cose profonde, e degne di meditazione
in quei punti, che toccano la proporzione tra il prodotto e il
consumo, la rendita sociale, la divisione della proprietà fondiaria,
le massime della scuola crematistica, e la grande applicazione che se
n'è fatta in Iscozia rispetto ai contadini, le cause della miseria
dei contadini in Irlanda, e della prosperità di questi in Toscana,
la schiavitù dei contadini, l'agricoltura nella campagna romana, e
i mezzi di ripopolarla etc. Avverrà talvolta, che il lettore non si
trovi d'accordo in certe vedute dell'Autore; che certi mezzi da lui
consigliati per ottenere un miglioramento si stimino inefficaci,
o forse impraticabili; – ma nessuno può non riconoscere l'animo e
l'intenzione da cui derivano i suoi lavori. L'idea fondamentale, che
in questi lo conduce, è che la società si è formata per raggiungere il
bene comune, che da questo fine sgorgano i diritti dei suoi membri, che
per questo ha modificato o cambiato la sua originale eguaglianza, e che
tutti per l'utilità universale hanno rinunziato al diritto di siffatta
eguaglianza. Più sopra abbiamo veduto cosa egli pensasse dell'eguale
esercizio dei politici diritti; e qui pensa, che l'eguale divisione
dei beni porterebbe miseria e barbarie. In ultimo viene a questo di
trovare una guarentigia per la durata del lavoro comune, e per un'equa
ripartizione delle tasse, rappresentando, che i diritti di coloro che
s'innalzano sull'originale eguaglianza basano sui vantaggi di coloro,
sui quali venne loro dalla società concessa la preminenza.

Queste furono le opere del Sismondi. Ma noi non pregiamo in lui
solamente le doti egregie dell'ingegno, estimando più ancora le virtù
dell'uomo onorato, e benvoluto da quanti gli si fecero appresso. E
però la sua perdita fu amaramente sentita, e compianta dappertutto,
e singolarmente dai suoi amici di Toscana. Il bene dell'umanità,
(dice in un foglio volante il Signor Benigno Bossi assistente ai suoi
estremi momenti), e il miglioramento della sorte delle classi più
sprovvedute, erano il fine delle sue lunghe meditazioni intorno alle
più gravi teorie sociali ed economiche. E se i risultati di alcune di
queste, accordandosi poco colle idee favorite del tempo, a principio
incontrarono poco plauso, non mancò egli per questo di difendere mai
sempre vigorosamente la causa dei deboli, e dei bisognosi. E le gravi
vicissitudini, che non ha guari percossero in Europa e in America il
commercio e l'industria, giustificarono i suoi timori anche troppo,
tanto che una gran parte delle sue dottrine cominciò a trionfare sulle
contrarie. Ma non si contentò di mostrare il suo amore del prossimo
colle semplici teorie o con eloquenti parole, poichè lo faceva suonare
nei fatti quotidianamente praticati, aiutando i poveri in segreto, e
con quella generosità propria d'un'anima nobile, e veramente cristiana.
Egli che aveva il tempo così prezioso, e con tanta cura lo risparmiava,
ogni giorno dava 9, o 10 ore al lavoro, evitando tutto ciò che lo
potesse distrarre; ma non metteva un istante di mezzo, ove fosse il
caso di recare aiuto e conforto a un infelice. – La sua casa era aperta
a tutti, e con tutti era cortese, discreto, amorevole. Nel discorso
manifestava le sue opinioni con quella chiarezza, e forza di logica,
che possedeva così eminenti, senza dar segno però d'impazienza anche
alla più mal fondata contradizione, sebbene nessuno al mondo avesse più
forte convincimento di lui intorno alla verità delle idee, che prendeva
a difendere.

Rimase fedele alle sue massime repubblicane, benchè le dottrine
democratiche, che ebbe ardentissime in sua gioventù, coll'andar del
tempo sostanzialmente modificasse nella teoria, e nella pratica. E
nell'ultima rivoluzione della Costituzione Ginevrina fece egli valere
queste sue convinzioni, acquistate e maturate coll'esperienza e col
senno. A questa modificazione per altro debbono avere necessariamente
contribuito i suoi lunghi studi sulle Repubbliche Italiane, e
l'indagine degli effetti, che in ultimo partorì la preponderanza
dell'elemento democratico.

― 1842[45] ―


                                 FINE.

NOTE:

  [43] Tra questi vogliono esser notati l'opera della quale vennero
  5 volumi in foglio nel 36, edita da una commissione ordinata
  da Carlo Alberto re di Sardegna, ed ha per titolo: ― _Historiae
  patriae monumenta_, ― divisa in _chartae_, _leges municipales_,
  e _Scriptores_; ― i _Documenti, monete, sigilli_, per la storia
  del Piemonte e della Savoia, del Cibrario, e del Promis; ― le
  _Memorie e Documenti per servire alla storia del Principato
  Lucchese_, raccolta ricchissima cominciata nel 13 dal governo
  francese; ― il séguito al _Codice diplomatico Toscano_ del
  Brunetti; ― i _Documenti di Storia Italiana_, ricavati dalla
  Biblioteca di Parigi da G. Molini, con note pregevolissime
  di Gino Capponi; ― l'edizione del Rosini dei Dispacci del
  Guicciardini nella sua Legazione in Ispagna nel 1511, e delle
  Lettere del Busini al Varchi sull'assedio di Firenze; ― le
  _Relazioni degli Ambasciatori Veneti_, con note dell'Albèri; ―
  le _Storie di Giovanni Cavalcanti_, pubblicate dal Polidori, le
  quali illustrano i tempi di Cosimo dei Medici il vecchio; ― il
  _Carteggio inedito d'Artisti dei Secoli XIV, XV, XVI_, importante
  ancora per il lato politico, pubblicato dal Gaye; ― la vita
  di _Donato Acciaiuoli_, d'Angelo Segni, edita dal Tonelli; ― i
  _Ricordi_ della famiglia Rinuccini dal 1282 al 1306, messi in
  luce dall'Ajazzi con note ed escursioni storiche. La vita di
  Alessandro VII del Pallavicino, il celebre Storico del Concilio
  di Trento, finalmente sodisfacendo al lungo desiderio dei dotti
  è stata stampata; e i _Municipii Italiani_ del Morbio, benchè
  trattati con troppa furia, contengono molto del buono. Non sono
  da omettere le _Vite_ di Federigo e Guidobaldo da Montefeltro,
  di Bernardino Baldi primo Abate di Guastalla, e le _Memorie
  storiche del Pontificato di Clemente VII_, di Patrizio de'
  Rossi. E finalmente l'_Archivio Storico Italiano_, che si stampa
  in Firenze, promette di riuscire un ricco fondo per gli Studi
  Storici, avendo a pro suo numerose biblioteche, e la cooperazione
  delle persone più capaci del paese.

  [44] Qui m'è forza restringermi alle più rilevanti tra quelle
  opere, che risguardano città o provincie separatamente, come
  sarebbe la storia di Chieri, e la storia della Monarchia
  Savoiarda del Cibrario, la storia di Saluzzo e dei suoi Marchesi
  del Muletti, le memorie dei Conti di Desana del Gazzera, la
  storia dei Valdesi di Charvay, le storie di Genova del Serra e
  del Varese, il libro del Sauli sulla Colonia Genovese in Galata,
  e la storia di Sardegna del Manno. Tutte queste, e molte più
  ancora, vertono intorno agli Stati Sardi. È nota la storia di
  Milano del Rosmini; il Cantù scrisse la storia di Como, ed espose
  lo stato della Lombardia nel Secolo XVII; il Robolini la storia
  di Pavia, il Romegialli quella della Valtellina, e delle Contee
  di Bormio e Chiavenna, e il Cittadella è dietro a pubblicare
  la storia della signoria dei Da Carrara in Padova. Sono ancora
  da nominarsi gli Annali Veneziani, e la storia del Commercio
  Veneziano del Mulinelli, e la storia di Parma del Pezzana. Il
  Venturi fece la storia di Scandiano, e il Viani le memorie della
  famiglia Cybo colla storia delle monete di Massa. Già è fuori la
  seconda edizione della storia di Lucca del Mazzarosa, e delle
  sue dissertazioni sulla legislazione, e sulla costituzione
  ecclesiastica di questa Repubblica. L'Inghirami e il Carbone
  hanno cominciato storie della Toscana, il Vivoli gli Annali di
  Livorno, e il Bonaini attende all'antica storia e costituzione
  di Pisa. Lo Stato della Chiesa non ha prodotto gran cosa, ― la
  serie dei Senatori Romani dell'Olivieri, la storia d'Ancona
  del Peruzzi, le memorie contemporanee del Cardinal Pacca. Al
  contrario Napoli e Sicilia sono ricchi, ― e la storia di Napoli
  del Colletta sotto la dinastia dei Borboni sino al 1825 si
  raccomanda per la materia e per lo stile. Il Pagano scrisse la
  storia di Napoli sino al cessare degli Aragonesi, il De-Cesare la
  storia di Manfredi, e il Sosti cominciò la storia del chiostro
  di Monte Cassino, dove egli vive come membro dell'ordine, e
  bibliotecario. Pietro Lanza, principe di Scordia, scrisse sulla
  storia della Sicilia sotto i Normanni, e intorno ai tempi dal
  1532 al 1789, correggendo in molti luoghi l'ultima opera del
  Botta. Il Fazzello, il Ferrara, il Palmèri, scrissero storie di
  Sicilia, e l'Amari sopra documenti sinora incogniti compose la
  storia di Carlo I di Angiò, dei Vespri Siciliani, e del regno
  degli Aragonesi sino al trattato di pace di Caltabellota 1302.
  E sono comparse notabili biografie: ― la Vita e i fatti di
  Gian Jacopo Trivulzio del Rosmini, la Vita di Dante del Balbo,
  che per tanti lati si collega alla storia politica, quella di
  Caterina dei Medici dell'Albèri, quella di Malatesta Baglioni
  ultimo Capitano della Repubblica fiorentina del Vermiglioli,
  e la storia di Giovanni da Procida del Buscemi. La storia dei
  Navigatori e Viaggiatori Italiani è singolarmente illustrata
  dai lavori critici del Canovai e del Napione sopra il Vespucci
  e Colombo, dalle opere del Cardinal Zurla sopra Marco Polo,
  Alvise da Cadamosto, e altri Viaggiatori Veneziani, e dal libro
  del Baldelli sopra Marco Polo, e sopra la storia delle antiche
  relazioni commerciali tra l'Asia e l'Europa, dalla caduta
  dell'Impero Romano fino al Califfato. Godono poi da lungo tempo
  di una fama ben meritata le Famiglie Storiche Italiane del Litta,
  e presentemente lavora intorno agli Orsini, e i Borromeo di
  Milano, i Pazzi e i Buondelmonte di Firenze, e i Buonaparte di S.
  Miniato.

  [45] _Livorno, dal Gabinetto Scientifico Letterario, – Tipografia
  Vannini; 1842._



INDICE


  Ai Giovani                                          _Pag._    7

                            PARTE PRIMA.

                         SCRITTI ORIGINALI.

                   MANOSCRITTO DI UN PRIGIONIERO.

  Cap. I                                                »      21
   »   II                                               »      24
   »   III                                              »      26
   »   IV                                               »      29
   »   V                                                »      32
   »   VI                                               »      35
   »   VII                                              »      38
   »   VIII                                             »      40
   »   IX                                               »      43
   »   X                                                »      48
   »   XI                                               »      51
   »   XII                                              »      59
   »   XIII                                             »      63
   »   XIV                                              »      67
   »   XV                                               »      71
   »   XVI                                              »      74
   »   XVII                                             »      78
   »   XVIII. Il Suicidio                               »      81
   »   XIX                                              »      86
   »   XX                                               »      89
   »   XXI                                              »      97
   »   XXII. Conclusione                                »      98
  Mia Madre                                             »      99
  Note e Appendice                                      »     101

                  ARTICOLI DI MORALE E LETTERATURA.

  Della Educazione                                      »     113
  Cenno sulla Letteratura                               »     127
  Lorenzo Sterne                                        »     149
  Lord Byron                                            »     161
  Osservazioni sopra uno Scritto di Melchior
    Missirini, inserito nel N.º 37 dell'INDICATORE
    LIVORNESE                                           »     169
  Esempio di Carità                                     »     178

                              NECROLOGIE.

  Tacito Martini                                        »     187
  Guglielmo Avenas                                      »     196

                          ISCRIZIONI E POESIA.

  Iscr. I                                               »     205
    »   II                                              »     206
    »   III                                             »     207
    »   IV                                              »     208
  L'Anniversario della Nascita                          »     209
  L'Immortalità                                         »     215
  Napoleone; Frammenti                                  »     216
  Il Dì de' Morti                                       »     221
  In un Album                                           »     222
  Un Sogno                                              »     223

                                LETTERE.

  Lett. I                                               »     231
    »   II                                              »     235
    »   III                                             »     240
    »   IV                                              »     242
    »   V                                               »     244
    »   VI                                              »     245
    »   VII                                             »     249
    »   VIII                                            »     251
    »   IX                                              »     254
    »   X                                               »     256
    »   XI                                              »     258
    »   XII                                             »     260
    »   XIII                                            »     260
    »   XIV                                             »     263
    »   XV                                              »     266
    »   XVI                                             »     267
    »   XVII                                            »     268
    »   XVIII                                           »     269
    »   XIX                                             »     269
    »   XX                                              »     270
    »   XXI                                             »     271
    »   XXII                                            »     271
    »   XXIII                                           »     272
    »   XXIV                                            »     274
    »   XXV                                             »     274
    »   XXVI                                            »     275
    »   XXVII                                           »     276
  Frammenti                                             »     278


                             SECONDA PARTE

                              TRADUZIONI.

                LA VITA E LE OPINIONI DI TRISTANO SHANDY;

                     ― _Di Lorenzo Sterne_. ―

  I.   Storia di Yorick                                 »     287
  II.  Il Naso grosso; Racconto di Slawkenbergius       »     297
  III. Storia di Le Fever                               »     322

                             POESIE VARIE.

  Il Prigioniero di Chillon; Poema Romantico: – _di
    Lord Byron_                                         »     339
  Prometeo: – _di Lord Byron_                           »     353
  Vi fu un tempo: – _di Lord Byron_                     »     355
  E tu piangerai quand'io sarò morto: – _di
    Lord Byron_                                         »     357
  Le Tenebre: – _di Lord Byron_                         »     359
  Il Funerale del Povero: – _di Roberto Southey_        »     362
  Ode sulla sepoltura di Sir Giovanni Moore: – _di
    Carlo Wolfe_                                        »     364
  Lamento di Maria Regina di Scozia all'avvicinarsi
    della Primavera: – _di Roberto Burns_               »     366
  La Vita e la Morte: – _di Vitalis_                    »     368
  Canzone della sera dello Straniero: – _di Werner_     »     370
  Scena quarta del terzo atto nella Maria
    Stuarda: – _di Schiller_                            »     371

                          SISMONDO DE SISMONDI.

  Sismondo De Sismondi: – _di Alfredo Reumont_          »     383



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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