Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII | HTML | PDF ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Tre racconti - Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea
Author: Bersezio, Vittorio
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Tre racconti - Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea" ***


                              TRE RACCONTI


                                   DI
                           VITTORIO BERSEZIO.


                           IL CANE DEL CIECO.
                    UN GENIO SCONOSCIUTO. — GALATEA.



                                FIRENZE,
                          G. BARBÈRA, EDITORE.
                                 1876.



                         Proprietà letteraria.



AL LETTORE.


— Che cosa avete voluto provare?

— Mi piacerebbe rispondervi citando i notissimi versi di Dante: «Io mi
son un che quando amore spira, noto ec.» Ma siccome di questa citazione
si è già troppo abusato, la lascio stare. Voglio dire che dapprima
nasce in me un sentimento vago e ancora incerto, che poi esso viene
pigliando un po' più di precisione e mi commuove colla potenza d'un
affetto; che acquista via via più forza, sale al cervello e vi prende
essere definito e si afferma in un'idea; allora accorrono intorno a
questa molte immagini di cose, di luoghi, di persone, un po' di luce
e molte penombre, qualche uggiosa nebbia più fitta, che minaccia
riavvolger tutto e ricacciare ogni cosa nel caos, o per meglio dire nel
nulla. Così man mano la fantasia viene preparando scena ed attori d'un
dramma ideale che si forma e si rappresenta nella mente; lo spirito
vede quei fantasmi e vive, pensa, sente, agisce con essi più di quello
che li faccia agire; la ragione tenta una critica della esistenza e dei
fatti loro per ridurre a una verità più reale complesso e particolari;
e la penna da ultimo si prova a tradurre in parole di scritto quelle
vagheggiate creazioni, le quali, ahimè pur troppo, nei freddi periodi
della mia prosa riescono tanto lontane dalla splendidezza del sogno in
cui mi apparvero.

— Capisco; va benissimo: ma codeste creazioni debbono pur voler dire
qualche cosa.

— L'uomo, per quanto faccia, cerchi e s'ingegni, avrà sempre per suo
studio più interessante, più vasto, più utile e di maggior dovere lo
studio di sè medesimo. Il suo corpo e il suo spirito, i suoi sensi e
la sua anima, le sue passioni e il suo pensiero, sembrano un campo
ristretto, e sono un àmbito immenso che tocca quasi all'infinito.
Il romanziere che mette l'uomo in una condizione speciale di cose,
d'affetti, di vicende, d'impressioni e d'interessi, poi colla scorta
dell'osservazione sul vero, forse anco su sè stesso, ne esprime
pensieri, voglie, tentazioni ed atti, scrive di psicologia senza
termini pseudo-greci e senza formole astruse; e beato e benedetto lui
se riesce a far amare una virtù, a far ammirare un sacrificio, a far
rispettato un dovere della vita, senza seccare il prossimo!

— È dunque codesto che avete voluto ottenere?

— Questi _Racconti_ furono scritti in varie epoche, ma però
l'inspirazione, come quella di quasi tutti i miei poveri lavori,
mi pare la medesima. Io non farò come quel pittore che sotto al suo
dipinto scrisse coscienziosamente: «Questo è san Rocco e questo è il
cane;» ancorchè voi siate per dirmi che l'opera mia abbisogna di tale
ingenuità di dichiarazione. Se il pensiero che ho creduto metterci è
abbastanza bene espresso da comparire, se è tale che meriti d'esser
notato, spetterà al lettore lo scorgerlo e lo sceverarlo; se non ha
tanto pregio da ciò, non servirà a nulla ogni mia chiacchierata in
proposito.

— In conclusione, voi non volete dirmi che cosa avete voluto provare.

— Non ho voluto provare nulla, nulla, nulla. Tentai dilettar alcun
poco i lettori; se non ho ottenuto che di seccarli, prego da loro un
generoso compatimento, e si persuadano che neanch'io, «non l'ho fatto
apposta;» se poi in alcun grado sono riuscito nel mio intento, domando
loro per compenso che mi vogliano un po' di bene.



IL CANE DEL CIECO

RACCONTO.


I.

Era un brutto cane davvero; d'una razza così mista che i più abili
genealogisti ci avrebbero perduta la bussola a volerne rintracciare
l'origine in mezzo alla licenza disordinata degl'incrociamenti.
Troppo basso delle gambe anteriori, troppo alto di quelle posteriori,
con un naso appuntato, su cui pochi peli irti, con un pelame sempre
sporco, scarno da far compassione, e un ugiolare così fastidioso
che metteva ribrezzo e paura. Ma nella parte superiore di quel muso
inqualificabile, sotto due ciuffi di peli di colore indefinibile, la
povera bestia aveva due occhi, che, quando fissavano i vostri, vi
facevano stranamente pensare. Avevano, quegli occhi straordinari,
un'espressione d'intelligenza, di mestizia, di rassegnazione: vi
parevano rivelare — sissignori, anche in un povero e brutto cane, — una
vita tutta di dolori. Non so se abbiate osservato mai che gli occhi di
questo animale, adoratore dell'uomo, ridono talvolta, mentre la coda si
dimena festosamente. Ebbene, gli occhi di questo disgraziato di cui vi
parlo, non ridevano mai, come non si dimenava mai con allegro moto quel
mozzicone corroso che gli faceva da coda.

Atanasio, il cieco pezzente che era suo padrone, sedeva spesso sullo
scalino della porticina della chiesa, di fianco, dalla parte in cui nel
pomeriggio c'era l'ombra, in faccia ai due olmi vecchi che, susurrando
colle loro frondi sopra la fontana che sta loro in mezzo, accompagnano
pianamente il susurrio dello zampillo. Colà, deposto al suo lato il
lungo bastone con cui picchiava per terra, camminando, egli poneva
i gomiti che uscivan fuori dalle maniche sbranate, sugli stracci che
facevano da pantaloni alle ginocchia, stringeva in mezzo a due manaccie
grosse, ossee, ruvide, nere, villose, una barbaccia mezzo bianca,
disordinata, irta, ed appuntato il suo naso lungo e acuto, fissava
innanzi a sè in grave attenzione lo sguardo di due occhi dalle pupille
bianche che non vedevano e che facevano pena a vederli.

Azor — il cieco chiamava quel mostricino a quattro gambe con questo
classico nome canino — Azor si sedeva gravemente su quel mozzicone
di coda, e tenendo serrata fra i denti serio serio una ciotola
logora di legno, guardava del pari. Fra il padrone ed il cane
anche un osservatore superficiale poteva accorgersi d'una bizzarra
rassomiglianza. Avreste detto che il modo con cui si atteggiava il cane
imitava quello dell'uomo; e che il naso di quest'ultimo s'appuntava in
là per far la copia al muso del cane.

Stavano così delle lunghe, lunghe ore, aspettando che in quella ciotola
venisse a cadere un soldo; avvenimento che capitava di rado. Qualche
volta parlavano insieme: dico parlavano, perchè l'uomo faceva al cane
una filza di discorsi, ricchi di molta filosofia pratica, e la bestia
rispondeva con dei suoni sommessi, fra quelle sue mascelle scarne, che
parevano grugniti. Una volta al giorno, il cieco scioglieva il nodo
che attaccava al collare del cane la cordicella che, per l'altro capo,
egli teneva sempre in mano, e diceva col tono di chi fa una generosa
larghezza ad un subordinato:

— Orsù, vanne Azor, sei in libertà: ma bada veh! non più d'una
mezz'ora! —

Il cane cominciava per baciare la mano del padrone, affine di
ringraziarlo, poi si stirava ben bene, allargava le mascelle in una
coppia di sbadigli che avevano il suono di gemiti, si dava due altre
scosse che gli facevano ballare sulle ossa la pelle vuota di muscoli,
guardava di qua e di là con aria peritosa e timida, pareva stentare
a decidersi, e finalmente s'avviava lento da una parte, rasentando
il muro, la testa bassa, le orecchie pendenti, mogio mogio, come se
tornasse dall'aver preso una bastonatura.

Gli è che in quel momento appunto la povera bestia andava incontro
a sicuri pericoli, che lo aspettavano per opera di implacabili e
instancabili suoi persecutori. Erano i bambini del villaggio. Se l'uomo
sia dalla natura fatto di fondo buono o cattivo, è un pezzo che si
disputa, e si disputerà ancora chi sa per quanto tempo. Il fatto è che
i bambini, queste piccole perfezioni dell'egoismo, che non vedono al
mondo cosa più valevole della propria personcina e dei propri capricci,
hanno istinti ed abitudini sì crudeli da far molte volte arricciare il
naso ai sostenitori della bontà fondamentale della nostra razza.

Il povero Azor non aveva mai fatto nulla di male a quella schiera di
sbarazzini sbracati ed anco scamiciati, che brulicava nei rigagnoli
fangosi delle strade di quel villaggio. Era brutto, sporco, sfiancato,
povero di peli e ricco di fame: ma con tutto ciò qual diritto ledeva
egli d'altrui? Era codesta una ragione sufficiente per farlo bersaglio
di tutte le malignità, di tutte le crudeli voglie di quella marmaglia
scapestrata?

Il vero è che appena lo vedevano comparire solo, quando era in funzione
di guida del povero cieco, camminandogli con passo grave dinanzi, non
osavano molestarlo: si avventuravano soltanto a fargli da lontano atti
oltraggiosi di disprezzo a cui egli non accordava che la più filosofica
noncuranza: una volta alcuno più temerario aveva osato tirargli un
torsolo di cavolo, ma il cieco s'era volto da quella parte con isguardi
così terribili delle sue pupille scolorate, aveva gridato con voce
così forte come nessuno non gli aveva mai sentita, delle parolaccie
così profane, aveva battuto per terra così furiosamente il suo lungo
bastone, che la turba dei monelli era scappata impaurita, come uno
stuolo di passeri che beccano il grano nel campo scappa all'arrivo
dell'agricoltore: — quando adunque lo vedevano comparir solo, il
povero Azor, ecco subito tutti i furfantelli sbucare dai cortili, dagli
anditi, dalle siepi degli orti, e giù contro quel meschinello di cane,
grida e urli, e trargli fango e terriccio e cocci e sassi, per vederlo
correre disperato con quella pelle rugosa collata sulle costole.

Azor avrebbe volentieri risparmiato a sè il dolore degl'improperii
e delle percosse, ai ragazzi il piacere di far opera prepotente e
tirannica. Ma quello era l'unico mezzo ch'egli avesse per provvedere
a sè stesso; gli era allora che l'affamato negli immondezzai delle
strade andava in busca dei suoi pasti, che se fossero luculliani lascio
pensare a voi.

Prima ancora che il tempo della licenza fosse trascorso, Azor tornava a
consegnarsi al padrone, annunziando la sua presenza collo sfregarsegli
contro le gambe: il cieco gli passava una mano sul capo, gli
riattaccava la cordicella, gli rimetteva in bocca la ciotola di legno,
e riprendevano tutt'e due nella loro ordinaria postura a meditare.

Giunta la sera, Atanasio drizzava la sua lunga persona: — era alto
come un antico tamburo maggiore di reggimento, aveva spalle quadre da
facchino di porto di mare, ma pure andava un po' curvo della persona e
teneva sempre il capo chinato sul petto: — impugnava colla sua destra
nodosa il bastone nodoso del pari; teneva colla sinistra la cordicella
del cane, e picchiando per terra colla ghiera di ferro in cui terminava
il bastone, s'avviava preceduto da Azor di due passi... Dove? Non
lo sapeva neppur egli: sotto il capannuccio d'un pagliaio in qualche
fattoria, sullo strame di qualche stalla, sotto il portone di qualche
casa fuor di mano, al semplice riparo delle frondi d'un albero ne'
giorni sereni della bella stagione.

Chi era quell'uomo? Nessuno lo sapeva. Egli e il suo cane avevano
un passato affatto sconosciuto al villaggio. Erano capitati colà da
quattro o cinque anni, e ci avevano preso quel modo di vivere che ho
detto, senza variazioni, con tanta uniformità, che gli abitanti ci
si erano presto abituati e pareva loro chi sa da quanto tempo che li
avessero nella loro terra.

Da principio c'era stata pure una viva curiosità di saperne qualche
cosa. Avevano appreso che l'uomo si chiamava Atanasio e il cane Azor.
Dalle carte che il primo di questi due aveva in perfetta regola, le
autorità municipali e il brigadiere dei Reali Carabinieri avevano
imparato che egli era un antico operaio fonditore di metalli, nativo di
un paese lontano lontano, che aveva perduta la vista in un terribile
incendio avvenuto nella grande officina, che in sì funesta occasione
egli aveva dimostrato un eroico valore, salvando dal fuoco delle
vittime, e che da allora in poi erano passati dieci anni.

Quel mendico, ora che lo presento ai lettori, non aveva più di nove
lustri: ma a vederlo glie ne avreste dati più di dodici. Incapace
d'ogni lavoro, s'era dato alla mendicità, fuggendo con sacro orrore dai
ricoveri e dalle case di pia ospitalità, come dalle bòtte fuggiva il
povero Azor. Di questo, poi, non si aveva il menomo documento che ne
dicesse le condizioni civili, economiche, morali ed il passato.

Il Sindaco era stato in forse per un po' di tempo, s'egli, da provvido
e zelante amministratore, non dovesse, facendo uso della sua autorità,
espellere dal suo Comune quel pezzente, a tiro sempre della legge di
pubblica sicurezza, privo affatto di mezzi di sussistenza, e darlo in
nota al Sotto-Prefetto, perchè lo denunziasse al Prefetto, il quale
lo facesse _tradurre_, (stile burocratico), alla provincia, di cui
era nativo. Ma quella provincia era tanto lontana! Ma quel pover uomo
manifestava per ogni luogo rinchiuso tanta ripugnanza da preferire
la morte. Ma in quel Comune non c'eran punti mendicanti, e uno per
eccezione, non avrebbe fatto nè disdoro nè danno. Ma gli abitanti si
erano contentati della presenza di quel gran cieco, e avevano preso
l'abitudine di dargli pochi soldi e qualche scodella di minestra. Ma
il cane era divenuto un sollazzo pei bambini dei suoi amministrati. Ma
sotto la giubba, su cui cingeva solennemente la sua fascia sindacale,
quel brav'uomo di capo del Comune aveva tanto di buon cuore. Tutti
questi _ma_ fecero che il cieco fu lasciato stare in santa pace.

La curiosità aveva per un poco aspettato il misterioso mendicante
al varco d'una ubbriacatura. Pareva impossibile, chi lo vedesse, che
quell'omaccione non fosse un dilettante d'osteria e un intelligente,
ghiotto consumatore di alcoolici; eppure quell'impossibile era
la realtà. Atanasio non metteva mai piede nè da compar l'oste ne
dall'amico zozzaio, e pareva anzi fuggire con vera ripulsione di
dove sentisse odore di liquori. Quando gli si faceva invito a bere un
bicchierino d'acquavite o di un mezzo litro di vino, egli batteva più
forte per terra la ghiera di ferro del suo lungo bastone, allargava
ancora di più il compasso delle sue gambaccie, sollecitava colla voce
collerica Azor, e s'allontanava di fretta. Visto codesto, la curiosità
rinunciò scoraggiata ad ogni ulteriore tentativo; d'altronde la storia
di simil pezzente non pareva dover essere di tal natura da ispirare
sforzi straordinari per apprenderla. Si rassegnarono tutti a non
saper altrimenti chi fosse quel povero cieco, cui tutti conoscevano e
trattavano famigliarmente.

Chi avrebbe potuto narrarne tutta o quasi tutta la storia, era Azor:
ma egli, da bravo cane fedele, taceva incorruttibilmente; e imparino da
tali confidenti quelli che hanno segreti da custodire.

Eppure quella storia, benchè d'un semplice operaio, era
interessantissima; ed io, che l'ho risaputa dal parroco, al quale il
cieco finì per confidarla morendo, ve la voglio raccontare brevemente
e semplicemente.


II.

Era una bella fonderia quella del signor Frangia. Un vasto fabbricato,
ampie officine, immensi laboratorii, forni e macchine con tutta la
perfezione delle invenzioni e dei progressi moderni. Vi erano occupati
un centinaio e più di operai; tutto in essa camminava ordinato e
regolato come le varie ruote di un orologio che vada bene, e ciò grazie
all'attività, all'intelligenza, al coraggioso, instancabile zelo del
primo figliuolo del proprietario, il signor Pietro.

Questi, allora, contava circa trent'anni; era bello d'aspetto, franco e
cordiale di maniere, abile a comandare e capace d'ubbidire, sollecito
nelle risoluzioni come nelle parole, negli atti come nel pensiero.
Aveva studiato un po' di tutto — quello almeno che è necessario a una
persona colta, — anche di letteratura, molto di economia politica
e delle ragioni commerciali e industriali. Sapeva di molte cose, e
intorno alla sua professione tutto quello che poteva sapersi, e aveva
il merito di non farne pompa, giovandosene soltanto a dar prova ne'
suoi negozi di un'abilità inarrivabile. Comandava senza ruvidezza,
senza superbia e senza debolezza; gli operai lo ubbidivano, ammirandolo
anche senza volerlo. Avevano verso di lui una rispettosa famigliarità,
come si ha con chi è della nostra sorta, ma è il primo di tutti. Niuna
meraviglia perciò che il vecchio padre, ormai stanco dal lavoro e in
bisogno di riposo, lasciasse a lui tutto il peso della direzione e
dell'amministrazione, e che sotto la sua mano intelligente gli affari
prosperassero come non si poteva desiderare di meglio.

Il signor Pietro pareva ed era in realtà il più felice uomo della
terra; uno di quelli a cui tutto riesce ciò che intraprendono; nè alcun
segno intorno gli appariva che uomo vi fosse il quale, quella sua tanta
ventura e i beni d'ogni fatta ond'era favorito, gli venisse invidiando.

Eppure l'invidioso c'era, un invidioso che si nascondeva con molta
circospezione, che avrebbe voluto nascondersi persino a sè medesimo,
ma che era tanto più accanito; così che oramai la sua invidia era
arrivata sino ai limiti dell'odio. E questo tale era l'operaio, in cui
appunto il signor Pietro aveva maggior fiducia, che sembrava, e avrebbe
dovuto essere maggiormente affezionato a lui e alla famiglia tutta
dei Frangia, perchè aveva verso di questa e verso di Pietro innegabili
segni di riconoscenza.

Si chiamava Atanasio. Degli operai era il più abile, il più forte, il
più coraggioso, il più diligente. Quando aveva da allontanarsi, Pietro
confidava in lui perchè tenesse le sue veci; e la sua fiducia in nulla,
mai non era delusa. La famiglia Frangia lo considerava poco meno che
per uno di suo sangue. Ma egli aveva un carattere violento, passioni
accese, e s'era impinzata la testa di perniciose letture in quei certi
libri che, trattando della questione sociale, lusingano maladettamente
le men nobili tendenze dei poveri con sofismi che la pretendono a
pronunziati scientifici.

Era figliuolo d'un antico operaio di quella medesima officina. Suo
padre, quand'Atanasio era ancora nel seno materno, morì vittima
d'un accidente. Una forma col metallo in fusione era scoppiata,
e il poveretto ne aveva avuto orribil morte. Il padre di Pietro,
impietosito al triste caso e alla condizione della povera vedova in
procinto di diventar madre, prese quest'ultima in casa sua e le promise
non l'avrebbe abbandonata mai più, avrebbe provvisto alla sorte del
nascituro, qualunque si fosse, maschio o femmina. Aveva voluto il caso
che in quel giorno medesimo nascesse al principale appunto un bambino,
che fu quel Pietro di cui si è detto. Sei mesi dopo la nascita del
figliuolo del principale e la morte di suo padre, venne al mondo il
figliuolo dell'operaio. La sua cattiva stella non aveva ancora tutto
esercitato il suo maligno influsso; chè la infelice madre, dopo aver
tanto sofferto, essendogli morta essa pure, sopra parto, egli in fasce
rimase orfano, solo al mondo e privo d'ogni sostegno, se non fosse
stata la protezione del signor Frangia.

Questi non venne meno alle sue promesse, e il bambino dell'operaio fu
allevato in casa del principale insieme col figliuolo di quest'ultimo.
Atanasio ebbe ancor egli precoce intelligenza e tale da non istare al
disotto del suo compagno: e' si avvezzò dapprima a trattare con Pietro
come un suo pari, e allora, benchè più giovane di sei mesi, aveva egli
una supremazia per forza, per destrezza, per ardimento; ma ben tosto
venne ad accorgersi che fra sè e l'altro ragazzo, intorno a loro, tutto
stabiliva una gran differenza. Più assai de' padroni, erano i servi a
fargliene sentire siffatta diversità. Pietro era figliuolo d'un ricco,
egli era un miserabile. Quell'altro possedeva capitali e terre, egli
non aveva nulla; ogni vantaggio al compagno veniva accordato come per
un suo diritto, a lui per favore, o, per dire la fatale, amara parola,
per carità!

Atanasio affaticò la sua penetrazione infantile per rendersi conto
di ciò. La mente ancora debole dell'orfano, fino da que' primi anni,
andò ad urtarsi contro quel tremendo problema sociale che da secoli
travaglia l'umanità e forse non cesserà di travagliarla fino alla fine
dei tempi. Il suo egoismo lo formolava in quel pungente quesito, che
è l'ultimo motto d'ogni sommossa di plebe: «Perchè a lui tutto e a
me nulla?» Non ci trovava risposta; ricorreva al comodo scioglimento
di proclamarla un'ingiustizia, che un giorno o l'altro doveva pur
ripararsi: e così fin dagli anni più teneri, non osando manifestar
nulla di questi suoi sentimenti, masticando amaramente impossibili
e colpevoli aspirazioni e desiderii di cui poi si vergognava, venne
accumulando in fondo al cuore una provvista d'invidia inesprimibile.

E intorno a lui tutto gli diceva in pari tempo che il suo segreto
sentimento aveva torto ed era una colpa. Non v'era caso, persona o cosa
che non gli parlasse della sua fortuna d'essere così trattato da quei
ricchi ch'egli invidiava, della riconoscenza ch'egli doveva avere per
essi; e ad ogni anno che passava, la sua anima sempre più s'inaspriva
e quella riconoscenza sempre più gli veniva di peso.

Pietro frattanto imparò tante cose. Era egli lieto e superbo del suo
sapere; la sua intelligenza, rafforzata dallo studio, aveva preso
uno slancio inaspettato. Atanasio, che, come di forze fisiche, così
d'intelletto era sembrato dapprima ed erasi creduto egli stesso andare
innanzi al suo compagno, ora si trovava da questo avanzato e dimolto.
Il figliuolo dell'operaio, naturalmente, era stato messo alle officine;
gli avevano fatto imparare a leggere, scrivere, far di conti e la sua
arte: e si credeva da tutti che ce n'era abbastanza per lui. Ma egli,
sempre in conseguenza di quel medesimo sentimento, si diceva che quella
era un'ingiustizia, che anch'egli doveva aver diritto al sapere, e si
domandava perchè avesse ad esserne privo.

Con tutto ciò, — misteri del cuore umano! — Atanasio, da giovane, amava
in realtà i suoi benefattori e Pietro eziandio che era stato compagno
della sua infanzia. Da parte di Pietro, quella franca e domestica
benevolenza ch'egli aveva con tutti e che lo faceva a tutti così
piacevole, verso di Atanasio era poco meno che una fraterna affezione.
Inoltre, tanto Pietro, quanto i genitori di lui cansavano accuratamente
ogni parola, ogni menomo cenno che potesse adombrare, non dico un
rinfacciamento, ma un ricordo dei beneficii usati verso l'orfanello;
e questi era poco capace d'apprezzare codesta delicatezza, e, facendo
astrazione dalle persone dei suoi principali, era alla condizione delle
cose, alla fatale necessità, all'organismo sociale, era al sistema,
come s'usa dire, che volgeva tutte le sue maledizioni, tutto l'odio
della sua anima sdegnosa.

Lesse con avidità accanita le declamazioni demagogiche di socialisti
e comunisti; lesse in segreto, nascondendosi come d'una colpa, con
tutto il trasporto che si prova per le cose proibite, e non osò mai
con nessuno manifestare pur di sfuggita le sue opinioni, perchè sentiva
— e tutti glie lo avrebbero rinfacciato — che predicare il comunismo,
la rivoluzione contro i ricchi, l'annientamento del capitale, egli che
tutto doveva ai suoi principali, sarebbe stata una ingratitudine; ed
egli sentiva pure la gran vergogna di parere macchiato di sì brutta
colpa.

Venne però un momento, in cui l'iniqua passione fu presso ad esser
superata nell'anima d'Atanasio. E fu allora quando entrò in essa la più
mite e generosa passione che possa muovere anima d'uomo: un vero amore.


III.

La fonderia era posta alla falda d'un bel colle boscoso; a mezzo la
costa, in uno slargo che parevano fare appositamente i castagni per
lasciarle un po' di luogo, brillava al sole una casetta tutta bianca.
Aveva stanza colà un'altra beneficenza del signor Frangia.

Taddeo, vecchio militare, si era ritirato dall'esercito dopo la
guerra del 1848-49, azzoppito, incapace di lavorare, con moglie ed una
figliuola, e per unica ricchezza trecento lire di pensione all'anno.
La moglie era buona a poco, la figliuola era ancora piccina, e meno
d'una lira al giorno per vivere in tre, anche in un paesello, c'era da
mangiare di magro e vestire di stracci.

Il padre di Pietro nominò Taddeo guardiano dei vasti boschi che
possedeva su quella montagna, gli diede ad abitare quella casetta
bianca, gli regalò un bravo schioppo a due canne, i mobili più
indispensabili, il diritto di tirare a qualunque selvaggina trovasse,
e quaranta lire al mese. A Taddeo parve toccare il cielo col dito;
si stabilì in quel luogo ridente, si diede a percorrere, zoppicando
tranquillamente a suo modo, con lo schioppo a tracolla e un bastone
in mano per appoggiarvisi, le proprietà del padrone, e si chiamò il
signor Guardaboschi. Fece scappare, ingrossando la voce, qualche
ladroncello che tagliava rami degli alberi; fingeva di non vedere
quando s'incontrava con povere vecchierelle che venivan raccogliendo
legna; uccise qualche tordo e qualche lepre, e disse a tutti, che lo
volessero o non lo volessero sentire, ch'egli si trovava nel paradiso
terrestre senza serpente.

Nè si fermarono a ciò le larghezze del ricco industriale. La figliuola
di Taddeo veniva su carina come un amore e belloccia come un fiore di
campo; aveva tanta grazietta, tanto brio, tanta ingenua petulanza di
modi che vederla, sentirla a chiaccherare e non restarne incantati era
cosa difficile.

Il signor Frangia, passando un giorno di là per caso, fu accolto,
figuratevi con che dimostrazioni di festa, dalla piccola famiglia beata
di quell'asilo e della vita tranquilla che vi conducevano. Il padre
di Pietro, commosso, ammirò la pulizia che faceva come dire splendenti
tutte le masserizie, l'ordine che rallegrava l'occhio del riguardante,
la pace che là si vedeva regnar da per tutto continua ed inviolata:
ma sopra ogni cosa ammirò i grandi occhi intelligenti, la faccia
birichina, la grazia innata, lo schietto parlare e le argute risposte
della Lucietta, che allora poteva avere dieci anni.

“Che cosa le insegnate a questa bambina?” domandò egli tenendole fra
due dita le guance.

“Che la vuole che le insegnamo, povera gente ed ignorante come siam
noi?” rispose la madre. “Appena se so farle apprendere un po' di maglia
e di cucito...”

“La mandiamo a scuola al villaggio;” saltò su il padre; “e vi ha già
imparato un tantino a leggere, scrivere, e far di conti...”

“Un tantino!” interruppe la fanciulla quasi offesa e con quella sua
cara petulanza. “E' mi sembra che, tutto questo, lo so già fare per
benino davvero... Oh giusto! la veda un po' lei e giudichi.”

E lesta, con quelle mosse d'augelletto, che erano in lei così graziose,
Lucietta corse a prendere i suoi scartafacci, li venne a squadernare
sulle ginocchia del signor Frangia, poi lesse spedita in un libro,
poi si mise a recitare colla sua vocina quattro o cinque poesiette
che aveva già mandate a memoria, poi a dire tutta d'un fiato la tavola
pitagorica.

Il padre di Pietro l'abbracciò con entusiasmo e partissi incantato.
Sua moglie, a cui egli contò tutti i miracoli di quella bambina, la
volle vedere, e ne venne via più rapita ancora del marito. Conchiusero
ambedue d'accordo, che era un peccato lasciare tante buone qualità e
meravigliose disposizioni perdersi inutili ed imbozzacchire in mezzo
a quei boschi. In breve, decisero che la Lucietta sarebbe andata
dalla Maestra direttrice della scuola di quel paese, ed in lezioni
particolari vi avrebbe appreso tutto quel più che le si sarebbe potuto
insegnare.

Lucietta venne; la maestra sapeva poco, ma la ragazza capiva molto e
indovinava assai più. Ebbe alcuni buoni libri per le mani; e passando
molto del suo tempo in casa la madre di Pietro, v'imparò assai più che
ne' libri, quanto a maniere e ad educazione del cuore e del carattere.
L'opera benefica dei signori Frangia fu coronata di splendido successo,
perchè la Lucietta diventò la più cara, bene educata, amabile fanciulla
che si potesse vedere.

Atanasio da un pezzetto la vedeva e l'ammirava. Pietro, in quel tempo
era in città a compiere gli studii. Atanasio, quando traverso le grandi
invetrate delle officine scorgeva passare sollecita la giovinetta
(e per un caso straordinario la scorgeva sempre) ed entrare nella
casa dei principali, aveva sempre di lì a poco una qualche ragione
per cercare del signor Frangia, e andava a cercarlo così bene che
capitava sempre, sia nella casa, sia nel giardino, dov'erano la moglie
del padrone e la Lucietta. Colà, prima ch'egli avesse domandato e la
signora risposto, passavano sempre alcuni minuti; e il giovane sapeva
trovare appigli tali di discorsi che faceva durare altri pochi minuti
di più il colloquio, e nasceva occasione alla Lucietta, allegra e
scherzosa per natura, di barzellettare e di ridere, ed egli, il giovane
operaio, rientrava all'officina col cuor contento, colla mente serena
e coll'umore più ilare del mondo.

Non andò guari che l'operaio trovò modo di fare stretta relazione con
papà Taddeo, che qualche volta scendeva all'osteria del villaggio a
riconfortarsi lo stomaco mercè un mezzo litro di quel migliore. Un
litro pagato a tempo ne fomenta dimolte di codeste amicizie cercate con
premeditazione da una delle parti. Atanasio forte, robusto, audace, con
un fare tra franco e riservato, piacque assai al vecchio militare.

L'operaio beveva bene e lo faceva ber bene; si lasciava da Taddeo
raccontare, anzi ce lo incitava, tutti gli aneddoti della sua campagna
e della sua vita da cacciatore; non andò guari che il padre di Lucietta
proclamò Atanasio il più piacevole compagno che si potesse trovare.

Atanasio allora impiegò tutto il suo talento diplomatico a riuscire
in un intento che gli stava a cuore quant'altro mai: quello di farsi
invitare dal veterano ad andarlo a vedere lassù. E il furbo ci riuscì.
Cominciò per andarvi raramente; seppe piacere alla madre di Lucietta,
come aveva piaciuto al padre. La fanciulla stessa mostrò vederlo di
buona voglia; e non andò gran tempo che quasi tutti i giorni Atanasio
capitava alla casetta e vi era accolto con un amichevole sorriso e con
cordiali strette di mano da tutti.

A quel felice momento in cui poteva correre lassù, alle belle, ma
troppo rapide ore ch'egli ci passava, Atanasio pensava tutto il
giorno; lavorava con più ardore ed alacrità, quasi volesse col suo zelo
guadagnarsi il premio di quella gioia, quasi, affrettandosi nel suo
còmpito, affrettasse pure il passare del tempo.

Certe volte in mezzo al più vivo del lavoro, sentiva ad un tratto
venirgli su, come dal cuore al cervello, una subita ilarità, e si
metteva a ridere d'un nonnulla, e intonava allegramente colla sua
voce robusta, una gaia canzone. I suoi compagni, avvezzi a vederlo per
l'innanzi sempre taciturno e imbroncito, lo guardavano meravigliati;
alcuni gli chiedevano il perchè di quel buon umore inaspettato di cui
non sapevan trovare ragione; egli rideva più forte, crollava le spalle
e tirava via a lavorare con più ardore. Gli era che, a quei momenti,
egli, tutto annerito dal fumo, dalla polvere, dal fuoco, vedeva
comparirsi, in mezzo alle fiamme accecanti del metallo incandescente,
le vaghe forme gentili d'una giovinetta tutta sorrisi, e sognava mille
immagini beate di un desiato avvenire.

Appena finita la giornata, correva a nettarsi per bene, cambiarsi
la biancheria, mettersi la tunica pulita; e poi s'affrettava col suo
passo lungo e svelto su per la cima del colle. Non aveva tanta pazienza
da prendere la strada comune che girava e rigirava per la costa, ma
tirava via dritto, traverso i boschi, in linea retta, senza seguir
sentiero tracciato, arrampicandosi da albero ad albero, e sbucava
fuori sulla piccola aia innanzi alla casetta. Vi arrivava sorridente:
lo accoglievano sorridenti; perfino la cagnetta di Taddeo — una brutta
bestiola, che il Guardaboschi in una delle sue innocenti escursioni
aveva raccattata su per la strada mezzo moribonda di fame; — perfino
lei gli faceva festa. Atanasio aiutava la vecchia alle faccenduole
di casa, spaccava le legna per accendere il focherello della cena,
strappava dalle mani di Lucietta il secchiolino per attingere acqua e
correva a riempirlo alla fontana, diceva scherzando al veterano Taddeo:

“Oh che non volete credere che io, quantunque non sia stato a mangiare
il pan di munizione, son capace di ripulirvi quello schioppo intorno
a cui sudate lavorando per renderne le canne così lucenti che il più
schizzinoso caporal di settimana non vi avrebbe a ridire? Il ferro ed
io ci conosciamo, e state a vedere...”

E anche dalle mani del vecchio strappava lo schioppo e gli stracci
ingrassati e la spazzoletta e il piattellino dell'olio, e si metteva a
far egli il lavoro del Guardaboschi, tanto bene e sollecito che questi
lo guardava ammirato, e sclamava ridendo che sembrava non avesse mai
fatto altro. Era insomma diventato così di casa, che un congiunto
non avrebbe potuto di più; e nella famigliuola non solo s'era usi ad
aspettarlo e riceverlo con gioia, ma ad ogni lavoretto un po' faticoso
che avvenisse di dover fare, si soleva dire gli uni agli altri: — Eh!
lascia stare; ci verrà stasera Atanasio e farà lui. —


IV.

Quelli furono i migliori tempi della vita dell'operaio. Sotto
l'influsso del suo tanto nobile e purissimo amore, egli sentiva a
poco a poco svanire, proprio come la nebbia al sole, i suoi invidiosi
pensieri, il suo maligno talento, la sua rabbia di proletario. Non
gli pareva più d'essere condannato ad invidiar tutto agli altri;
non trovava più che questo mondaccio fosse così male ordinato che
impossibile lo starci un po' bene a chi non possedesse ricchezze:
la sera, quando seduto sull'aia, alla porta della bianca casetta,
vedeva la bella fanciulla correr di qua e di là, immaginava una vita
bellissima, che gli sembrava proprio a gittata di mano, insieme con una
compagna e con dei figliuoli; capiva allora il diritto di proprietà e
la famiglia; sognava economie e risparmi, e si riconciliava mentalmente
col capitale. Aveva disertato l'osteria, metteva più attenzione alle
cose sue, al suo vestiario, ai suoi diportamenti, al suo parlare:
era più umano e servizievole, più allegro e garbato con tutti: poteva
proprio dirsi un altr'uomo.

A Lucietta, nè ai genitori di lei, non aveva ancora parlato nemmeno
alla lontana de' suoi disegni. L'eloquenza non era il suo forte, e
nell'audacia della parola ei ci valeva poco. Ma pure non dubitava
punto che la cosa avrebbe da riuscire a seconda de' suoi desiderii.
Aveva tanta coscienza di quel ch'egli valeva, da credersi non
indegno di Lucietta; le condizioni sociali ed economiche dall'una
parte e dall'altra si pareggiavano; capiva d'essere ben visto, anzi
aggraditissimo al padre e alla madre di lei; non vedeva intorno
alla ragazza pur l'ombra d'un rivale; poteva senza soverchia
illusione scambiare per indizio di più tenero affetto la cordialità
dell'accoglimento e il sorriso di fraterna amicizia che aveva per lui
la Lucietta. Quindi, tutto ben considerato, aveva risoluto che alla
prima buona occasione che gli si presentasse, avrebbe, come si dice,
saltato il fosso e parlato chiaro.

Ma questa benedetta occasione tardava a venire, od almeno pareva sempre
a lui che non fosse abbastanza buona; e frattanto chi venne fu Pietro,
il quale, finiti i suoi studi alla città, se ne tornò alla casa paterna
a prendere la direzione delle officine.

Atanasio a questo ritorno provò strane e contradittorie sensazioni.
L'assenza gli aveva pure fatto conoscere, che in realtà egli lo amava
qual suo compagno d'infanzia, il quale era pur sempre stato così buono
ed amichevole per lui; e sapendo ch'egli ritornava, il giovane operaio,
fatto dalla sua passione più inchinevole alla tenerezza, ebbe un vero
rallegramento. Ma quando il giovane principale fu giunto, più bello
di quel che fosse quando era partito, avendo preso dal soggiorno della
città non so qual grazia nel portamento, vestito con eleganza di gusto,
fornito insomma di tutti quei vantaggi che danno la ricchezza e il
praticare colla società eletta, una specie di presentimento assalse
Atanasio, che quella venuta e quel giovane così caro e leggiadro gli
sarebbero fatali.

Primo danno che glie ne toccò fu intanto che dovette rinunciare a
vedere così di frequente e per sì lunghe ore la Lucietta. Il signor
Pietro era venuto con una quantità di ordinazioni di lavoro e di
grandiosi progetti da dare nuovo slancio all'industria. Agli operai fu
aumentato il salario, ma fu diminuito il tempo libero: l'ebbe diminuito
più di tutti Atanasio, al quale Pietro fece il meritato onore di
nominarlo capo d'officina.

Parecchi giorni passarono per ciò, senza che l'operaio potesse correre
alla bianca casetta: di che il suo umore tornò a intristirsi non poco;
finalmente, quando a forza di industriarsi, potè strappare alle ore di
lavoro e dei suoi pasti un briciolo di tempo per correre lassù, erano
sì brevi momenti quelli, che pel gran desiderio da lui provato erano
come un sorso d'acqua a chi muore di sete.

La Lucietta veniva essa ancora in casa dei padroni, e con che
frequenza? Atanasio non lo sapeva e gli premeva di saperlo, e moverne
domanda se ne vergognava. Già di spiare le venute della fanciulla non
era più il caso, e meno ancora quello di correre in traccia di lei col
pretesto di cercar del principale. Il padre di Pietro aveva smesso del
tutto ogni ingerenza nell'opificio; la direzione l'aveva il figliuolo,
il quale era sempre lì e non s'allontanava d'un passo e non permetteva
che nessuno s'indugiasse pure un momento nel suo ufficio, e quanto era
buono e generoso verso gli zelanti operai, altrettanto era severo e
implacabile verso i negligenti.

Atanasio s'arrabbiava maledettamente. Fu peggio quando, in quelle corte
scappate che poteva fare ad intervalli alla casa di Taddeo, gli parve
accorgersi che Lucietta erasi d'assai mutata nel suo contegno. La non
rideva quasi più; il giovane non sentiva più, arrivando, di mezzo
agli alberi del bosco, l'allegra di lei canzone che gli annunciava
la vicinanza della casa; parlava poco, ascoltava distratta, dava ad
Atanasio la mano più freddamente di prima, trovava frequenti pretesti
per ritirarsi nella sua cameretta e non lasciarsi veder più.

“Voi non istate bene?” le chiese un giorno l'operaio.

“Benissimo,” rispose ella: “perchè mi fate questa domanda?”

Atanasio le disse del cambiamento che aveva notato in lei: Lucietta
arrossì fino sulla fronte, non rispose parola e s'allontanò.

Il nostro operaio ci pensò ben bene un giorno e una notte, e ancora
un altro giorno; e la sera dipoi, in cui s'era procacciata un'ora di
libertà, s'avviò verso la dimora di Taddeo con una gran risoluzione.

Però non prese la scorciatoja, non allungò il passo delle sue lunghe
gambe, e, quantunque fosse già tardi, andò su lentamente per la
stradicciuola comune, fermandosi tratto tratto a meditare. Egli
s'era deciso a svelar finalmente il suo segreto e chiedere Lucietta
in isposa. Per quanto adagio camminasse, e' ci arrivò pure a quella
benedetta casina bianca. Vi regnava un silenzio che gli parve di
malaugurio; nessuno era di fuori, la porta socchiusa; una riga di luce
rossigna, che filtrava dall'uscio in sull'aia già quasi ottenebrata
dalla sera, indicava che nella stanza terrena eravi il fuoco od un lume
acceso. Atanasio si accostò piano col cuore che gli palpitava, e per la
fessura guardò dentro. Taddeo, seduto sopra il suo vecchio seggiolone
di cuoio a bracciuoli, sonnecchiava innanzi al fuoco; sua moglie,
accoccolata presso al camino, guardava per entro ad una pentola;
Lucietta non c'era. Fra le gambe del Guardaboschi dormiva accovacciata
la cagnetta di razza inqualificabile.

Atanasio quasi rallegrossi di non vedere colà in quel momento la
ragazza; avrebbe osato parlare più franco, non essendoci lei presente.
Sospinse pian piano l'uscio ed entrò. La cagna fu sola ad accorgersi
della venuta di qualcheduno; la si drizzò a sedere puntando le piote
anteriori per terra, e cominciò ad abbaiare; ma visto subito che
egli era l'amico di casa, si levò di tratto e gli mosse incontro
scodinzolando.

Taddeo si svegliò, la moglie si riscosse dalla sua contemplazione della
pentola e si volse verso il nuovo venuto.

“Ah, siete voi Atanasio?” diss'ella. “Da bravo! venite, sedete qui;
mangiate un boccon di cena con noi.”


V.

Atanasio s'inoltrò, sedette, ringraziò, e si pose a tormentare la cocca
della sua tunica, come se da essa volesse far venir fuori le parole del
discorso.

“Bel tempo d'autunno!” disse Taddeo.

“Bel tempo!” rispose Atanasio, guardando il fuoco.

“Fatto apposta per andare a caccia.”

“Già!”

“Guardate: se ci aveste un giorno di libero, che poteste venir meco
di buon mattino con un bravo schioppo, sì che vi menerei io in certi
luoghi dove i tordi vi parrebbe che fioccassero.”

Atanasio mandò un sospiro.

“Ma io non ho di giorni liberi.”

Guardò intorno, come se cercasse di qualche cosa.

“E.... e la vostra Lucietta?” finì per dire.

Fu la madre di lei che rispose:

“È giù al villaggio, in casa dei padroni.”

Il giovane fece un sobbalzo sulla seggiola di legno su cui era seduto.

“Dei padroni?” ripetè, come se dubitasse di non aver capito bene.

“Sì, dei signori Frangia.... Sono tanto buoni! La signora vuole alla
mia figliuola un bene da non si dire, e la desidera frequentemente con
sè.”

“Ma gli è già tardi,” interruppe Atanasio cui l'appresa notizia
stese un velo di tristezza sul volto; “e come farà a venirsene su la
Lucietta?”

“Per questa sera la non ci vien mica.”

“No?”

“È già da due giorni colà, e vi rimane ancora una settimana. La Signora
ha insistito tanto, che abbiamo dovuto acconsentire a lasciargliela per
un po' di tempo.”

Atanasio sorse in piedi tutto turbato; voleva sgridare, rampognare, ma
ebbe ancora tanto buon senso e tanta padronanza di sè da tacere. Con
che diritto poteva egli far rimproveri ed anche semplici osservazioni?
Che cosa era egli per quella gente, per quella ragazza? I Frangia
erano i protettori di quella famiglia; v'era forse alcun male che la
Signora tenesse presso di sè la giovane che aveva fatto educare, a'
cui bisogni, in varia forma era venuta sovvenendo? L'operaio non disse
adunque nulla; ma sentì la sua anima diventar buia come una notte
senza stelle, e a un tratto gli andarono via il coraggio e la voglia di
fare la sua dichiarazione. Trovò un pretesto per rifiutare la cena, e
partissene subito, e ridiscese il poggio coll'inferno nel cuore.

Si era fatto notte interamente. Di gran nuvoloni s'aggiravano in
cielo, e fra loro splendeva con un limpido chiarore la luna quasi
piena, nascosta di quando in quando da qualcuno di essi che le passava
dinanzi. Atanasio camminava senza saper ben preciso in qual direzione;
ma le gambe lo portarono alla fonderia, e precisamente da quella parte
dove era la casa dei proprietari.

Era una casa non molto alta, ma piuttosto vasta, che formava tre
lati d'un quadrilatero, spingendone due verso le officine che stavano
in fondo al cortile, le quali, dopo un intervallo di una ventina di
metri, chiudevano il quadrato, allungandosi però dall'una e dall'altra
parte in una linea più estesa. Dinanzi alla facciata della casa, che
guardava sopra la strada, si stendeva una terrazza, lunga poco meno
della facciata medesima, alta un metro dal suolo, sulla quale dal
salotto e dalle altre stanze del pian terreno davano adito delle alte
porte-finestre.

Atanasio venne da quella parte, passò lentamente innanzi a quella
facciata, con lo sguardo fisso nel chiarore che usciva da que'
cristalli.

La luna in quel momento batteva di pieno sul terrazzo; l'operaio ci
vide l'ombra d'un uomo che andava e veniva; poi quell'uomo si fermò, si
appoggiò coi gomiti alla ringhiera e la luna ne illuminò completamente
la faccia ch'ei volse in su: era Pietro Frangia che fumava un sigaro a
quella brezza notturna. Atanasio si voltò per allontanarsi, ma il suo
principale l'aveva visto.

“Olà! Ehi!... se non m'inganno, tu se' Atanasio:” gli gridò. “Alto,
Atanasio!”

Questi, benchè a malincuore, dovette fermarsi.

“Buona sera, sor Pietro, sono appunto io.”

“Vieni qua. Dove vai girando? Le serate incominciano ad esser freddine.”

“Non mi pare:” rispose Atanasio, che in verità non sapeva bene che
si dicesse, tutto preso da un nuovo e molesto impaccio in presenza
al suo giovane padrone. “A me piace il fresco.... Ho il sangue acceso
addosso.”

“Eh! lo capisco. Il fuoco della fucina!... Ma io pure ho una smania
questa sera.... To'! mi arrivi proprio a tempo. Ho bisogno di prender
aria e di far moto; e ho bisogno d'un confidente. Tu mi accompagnerai
a passeggiare; e qual confidente migliore posso io avere di te, che mi
sei come fratello?”

Atanasio sentì che avrebbe pur dovuto rispondere qualche parola, ma non
seppe cosa dire; e pensava frattanto:

— Confidente!... che confidenze vuol egli farmi? —

Pietro in un attimo scese dal terrazzo e fu al fianco dell'operaio: ne
prese il braccio con amorevole domestichezza e lo fece avviare di buon
passo giù della strada.

Camminarono un bel tratto senza parlare. Atanasio non si avventurava
ad interrogare; Pietro pareva provasse alcune difficoltà non leggiere a
cominciare il discorso. Fumava rapidamente, guardava intorno, sospirava
forte; finalmente ruppe il silenzio dicendo con un risolino forzato:

“È strana! sai tu che in questo momento io ho addosso un'ansietà che
mi dà un'agitazione delle maggiori ch'io abbia provato mai? Questo non
l'avrei creduto.”

“Che cos'è?” domandò Atanasio, tanto per dir qualche cosa. “Le capita
forse alcuna contrarietà?”

“No, contrarietà.... quello che provo io, vuoi che te lo dica?... è
timore.”

“Timore!... di che?”

“Gli è che adesso adesso si sta decidendo la sorte della mia vita e
dipende da una parola la mia felicità.”

Atanasio si fermò su due piedi, stranamente turbato a un tratto.

“Oh come mai?” dimandò egli.

“Eccoti le confidenze.... sarai il solo che le abbia ricevute, fuori
de' miei genitori. Amo Lucietta, e l'amo tanto che nol posso dire.”

Per fortuna le nubi in quel punto avevano coperto la luna e l'oscurità
era sì fitta da non potersi vedere il pallore e la contrazione dei
muscoli che vennero a sconvolgere la faccia dell'operaio.

Pietro, chiacchierone come tutti gl'innamorati, sentì il bisogno di
raccontare più particolareggiate le semplici vicende dell'amor suo.

“Quando sono partito di qua, Lucietta era già una cara fanciulla
che prometteva diventare un tesoretto bello e buono; ma ora che l'ho
rivista al mio ritorno, ora sì che la mi parve aver superate tutte le
sue promesse! E nota che io ne aveva pure la grande aspettazione: mia
madre mi scriveva sempre tanti prodigi di lei!... Ebbene, la trovai
superiore a tutti gli elogi.... Che ti vo dicendo di più? Mi accorsi in
breve che n'ero pazzamente innamorato. Ah! non esitai un momentino. Mi
stimerai abbastanza, spero, da non supporre nemmeno che mi sia venuto
un cattivo pensiero a tal riguardo. È una povera giovane che non ha
nulla; e tanto essa quanto la sua famiglia devono dimolto a noi....
ragione di più per averne ogni rispetto. Parlai a mio padre e a mia
madre che mi amano tanto da consentire a tutto quello che può farmi
felice. Essa non è mia pari per condizione nè per fortuna; ma che
importa? Fu allevata a meraviglia, ha talenti come poche ne hanno, è
virtuosissima; tutto la fa degna del nostro grado. Della sua povertà
non abbiamo da averne pensiero; non siamo noi ricchi abbastanza? Mia
madre accettò il carico di scrutare il cuore della giovane questa
sera medesima, e in questo stesso momento. — Va' via, — mi disse, — e
lasciami sola con lei una mezz'ora: al tuo ritorno l'avrò confessata, e
saprò dirti il tuo destino. — Uscii sul terrazzo, agitato come Dio tel
dica. Mi è sembrata una buona fortuna vedere a passar te, così buono
mio amico. Per occupare questa benedetta mezz'ora, avevo bisogno di
camminare, di sfogarmi con qualcheduno.... E niuno meglio di te poteva
convenire al mio caso.”

Atanasio camminava a capo chino senza far parola, senza batter
palpebra, quasi avreste detto senza tirare il fiato. Stringeva così
forte le mani serrate a pugno, che le unghie delle dita gli entravano
nelle carni della palma; teneva i denti stretti che più non potrebbe
una morsa di ferro.

Quando aveva udito Pietro parlare di benefizi fatti dalla sua famiglia
a quella di Lucietta, e poi della disparità di condizioni fra lui e
la ragazza, e dei meriti di costei che la facevano degna di venire
innalzata fino a lui, un amarissimo sogghigno si era disegnato sulle
sue labbra contratte e un'onda di collera eragli salita al cervello.
Tutti i suoi pregiudizi contro la ricchezza, tutte le sue antipatie
contro i ricchi, tutto il suo odio contro la società e le sue smanie
furibonde di ribellione gli erano tornati, e più intensi e più vivaci
a un tratto. Colui ricco, colui superiore, colui tutti i vantaggi; ed
egli?... Si riscosse e volse al figlio del suo principale un'occhiata
bieca, in cui traboccava l'idea orribile della violenza: ma Pietro,
assorto tutto nella propria emozione, non vide per fortuna quello
sguardo, come non avvertiva il cupo silenzio dell'operaio.

Il giovane ricco si fermò di colpo.

“Ma oramai il tempo dettomi da mia madre dev'essere trascorso.... o non
ci mancheranno che pochi minuti..... Torniamo indietro.... io sto come
sulle braci.... ho bisogno, non fosse altro, di vedere la casa dove
Lucietta sta per pronunziare, dove forse avrà già pronunziata la mia
sentenza. Solamente vedendo a traverso i vetri la luce del salotto dove
stanno a discorrere, mi pare che sarò più tranquillo.”

E voltò indietro, rifacendo i passi verso la casa.

Atanasio si diede ad accarezzare la follia di una speranza. Se Lucietta
non lo amasse, quel giovane, benchè ricco? aveva tanto buon senso
quella ragazza! doveva preferire uno sposo della sua condizione: doveva
capire che nessuno l'avrebbe amata mai quanto un bravo operaio....
come lui Atanasio per esempio. Mercè uno sforzo, l'infelice riuscì a
disserrare i denti.

“Ella non ha mai parlato a.... alla giovane?” domandò con voce
soffocata. “Non l'ha mai interrogata?”

“No.... me ne feci uno scrupolo.... ad una giovinetta che veniva come
ospite e protetta in casa di mia madre!... E nella sua ingenua allegria
essa ha una semplice dignità che m'impone.”

Erano giunti nuovamente innanzi alla casa. La luna, liberata dal velo
delle nubi, tornava a splendere brillante. Pietro trasse l'oriuolo e
guardò l'ora.

“Eh! la mezz'ora è passata oramai.... non mancano che tre minuti....
tre minuti più o meno, non monta.... non sarà in questi tre ultimi
minuti che si sarà aspettato a parlare dell'argomento.... io non ci
posso più reggere.... vado.”

Atanasio lo arrestò bruscamente per un braccio. Pietro gli si volse
stupito.

“Che cosa?”

“Un piacere:” disse l'operaio con voce tremante. “Mi faccia sapere....
subito la risposta di lei.... della giovane.... La prego!... una sola
parola.”

“Oh come?” domandò il principale vieppiù stupito. “Oh che tanto ti
preme?”

“Sì.... mi preme sapere se Ella sarà felice;” rispose Atanasio con voce
roca.

Pietro credette in questa spiegazione; strinse con forza la mano
all'operaio dicendogli:

“Grazie mio buon amico. L'ho sempre saputo che tu mi vuoi bene. Or via
aspetta qui un momento e ti comunicherò l'esito....”

Una delle porte-finestre s'aprì, e una donna inoltrata in età si avanzò
sul terrazzo.

“Sei tu Pietro?” diss'ella venendo fino alla ringhiera.

“Mamma! mamma!” esclamò il giovine palpitante.

“Vieni! presto!” disse la donna e rientrò sollecita in casa.

Pietro si slanciò di corsa verso l'entrata.

Atanasio rimase immobile, piantato innanzi al terrazzo. Non era una
sufficientemente chiara risposta il fatto d'esser venuta la madre
medesima a sollecitare il ritorno del figliuolo? Avrebbe ella fatto
così se le parole di Lucietta non fossero state secondo il desiderio di
Pietro? Eppure, vedete quanto è tenace la illusione nel cuore umano!
il povero operaio rimaneva ancora colà, attaccato a un lieve filo di
speranza.

Pietro non obliò Atanasio e la promessa che gli aveva fatto. Dopo un
poco uscì sul terrazzo e le sue sembianze, illuminate dalla luna in
quel momento limpidissima, apparvero all'operaio così piene di gioia
che niuna parola più occorreva ad annunziare la ventura del giovane.

“Atanasio,” gridò Pietro con voce commossa e sonora: “Sono felice....
va', e che ciò possa farti passare una buona notte anche a te!”


VI.

Una buona notte! Quale scherno!

La luna erasi nascosta di nuovo, e pareva definitivamente. In quella
lotta fra la luce e le tenebre, queste sembravano aver vinto, e regnava
sulla natura una fitta oscurità. Ma più oscuro ancora era l'animo
d'Atanasio. Quali orrende idee gli passassero per la mente, quali
spasimi gli torturassero il cuore, fu sempre un segreto fra lui e il
Cielo. Non rientrò nella sua povera abitazione che il mattino: ma a chi
lo vide, egli ebbe a parere invecchiato di anni.

Da quel giorno egli non fu più visto a ridere e nemmeno a sorridere.
Tornò a frequentare l'osteria, ed anzi più assai di prima; il suo
umore ridivenne peggiore che non fosse stato mai, rabbioso, maligno,
scontroso, insofferente. Sfuggiva tutti: più di tutti gli altri Taddeo,
Lucietta, e Pietro medesimo, quando le faccende dell'opificio non
l'obbligassero a trovarsi con lui. Costoro, nel colmo della loro gioia,
non s'accorsero pure menomamente della nuova selvatichezza d'Atanasio.

Nella fonderia, tra gli operai, nel villaggio e nelle vicinanze fra
tutti gli abitanti non v'era più altro discorso che quello del prossimo
matrimonio del giovane e ricco padrone delle officine colla povera
figliuola del veterano. Tutti lodavano a cielo la generosità del
giovane; le ragazze invidiavano un po' indispettite la fortuna della
fanciulla. Quando udiva che s'incominciava a parlar di ciò, Atanasio
tirava via senza dir nulla. Fu visto, il disgraziato, parecchie volte
ubbriaco fradicio — la qual cosa prima non gli capitava mai — correre
per la campagna gridando parole incomposte, urlando vaghe minaccie, per
cadere poi come morto in un fosso. Aveva bandito da sè ogni nettezza,
viveva disordinatamente come il più vizioso degli operai: ogni giorno
più sembrava imbestialirsi.

Pietro, nell'eccesso della sua gioia, aveva ben altro a cui pensare,
che i diportamenti del suo compagno d'infanzia; ma pure non potè a
meno di accorgersi di tanta mutazione, e un giorno, avutolo a sè,
glie ne fece amorevoli rimproveri; gli ricordò la sua buona condotta
d'un tempo, gli rammentò come coll'economia, colla sobrietà, potesse
procurarsi un migliore avvenire.

“Che la vuole?” rispose l'operaio con voce rauca, a testa bassa, senza
guardare in faccia il suo principale. “La vita è una cosa tanto breve,
e tanto da nulla; io sono così solo e così senza conforti di sorta!
La parsimonia, la temperanza, l'economia, la virtù a che cosa mi
meneranno? Io non sono fatto per essere stipite d'una famiglia.... sono
solo, vivrò sempre solo, creperò solo....”

“E perchè?” interruppe il sor Pietro con qualche vivacità. “Un
onest'uomo ha il dovere, e ci trova la sua felicità, di mettere al
mondo dei figliuoli che saranno galantuomini come lui.”

“E se invece diventassero birbanti?... Lo so io stesso per sicuro
d'essere un onest'uomo?”

“Atanasio!”

“Eh! mi scusi.... Ciascuno ha le sue idee.... Finchè non faccio male a
nessuno mi lasci divertire a mio modo, finchè la duri.”

E s'allontanò senza più voler ascoltare parola.

Era stato quindici giorni senza metter piede alla casetta bianca. La
vigilia proprio delle nozze si decise a recarvisi. Taddeo gli fece
gentilmente rampogna della sua mancanza; Lucietta, fatta più bella che
mai dalla sua felicità, gli venne incontro salutandolo colla medesima
cordialità di prima.

“Caro Atanasio,” gli disse, “finalmente eccovi qui di nuovo. Non
vi si vede più! E sì che avevo bisogno di dirvi tante cose, di
ringraziarvi....”

“Ringraziarmi!” interruppe Atanasio stupito e corrugando le
sopracciglia.

“Sicuro!... Io so quanto siete buono, quanto amate il mio Pietro, di
che modo avete preso parte alla nostra felicità.”

Atanasio arrossì fino sulla fronte; egli che, se fosse stato in poter
suo, avrebbe fatto spalancare la terra sotto la casa dei Frangia perchè
ve li inghiottisse tutti.

Lucietta continuava lietamente:

“Oh! Pietro mi ha detto tutto.... Ma egli eziandio vi ama dimolto, e
non so che cosa non farebbe per procurarvi del bene.”

“Oh sì,” mormorò l'operaio coi denti stretti. “Lo so!... Me ne ha già
fatto tanto!... Me ne fa tanto sempre del bene!”

Nè Lucietta nè altri avvertirono la feroce ironia che si nascondeva
sotto quelle parole.

“Ed ora,” riprese la fanciulla sorridendo e come per cambiar discorso,
“voi siete giunto proprio a tempo, perchè ho da domandarvi un piacere.”

“Che cosa?” disse freddamente Atanasio.

“La nostra cagnetta partorì tre bestioline: due sono morte e l'ultima
che ancor rimane, mio padre la vuol sacrificare anch'essa.”

“Uh!” saltò su il vecchio soldato. “Tre brutti mostri da fare
schifo.... Lei è già brutta da non potersi dir quanto, ma quei
suoi piccini riuscirono d'una bruttezza che eccede ogni limite di
discrezione. E Lucietta s'è cacciata in capo di conservare sì bella
razza? Due per fortuna sono già iti, e il terzo sto per iscaraventarlo
giù del burrone.”

“No, no, babbo, non farete ciò:” disse la figliuola con graziosa bizza
capricciosetta. “E' son nati quel giorno appunto che tornai qui felice
di tanto: vo' che quest'ultimo sopravissuto sia salvo; ed è a voi
Atanasio che lo raccomando.”

“A me?”

La cagna, come se avesse capito che si parlava del suo neonato, e
giudicato che questo era appunto il momento opportuno di mostrarsi,
saltò fuori, accompagnata dal suo piccino veramente orribile.

“Eccola qui,” esclamò Lucietta; “ed ecco Azor. Gli ho posto nome Azor,
a questo piccino, e mi farete piacere a conservarglielo.”

“Volete che lo prenda io?” domandò Atanasio di mala voglia.

“Non è vero che me lo farete questo piacere? ve lo terrete per mia
memoria.... Ecco.”

Il giovane sorrise amaramente. La cagna che eragli venuta fra le gambe
lo salutava con amorevole agitar di coda, lo guardava con occhio
che pareva supplichevole, ed avreste detto che gli si raccomandava
anch'essa. L'operaio si curvò a terra e prese fra le mani il cagnolino.

“Per vostra memoria, Lucietta:” ripetè esaminandolo e con un accento
fra di mestizia e d'ira repressa.

Taddeo si cacciò a ridere di buon cuore.

“Bella memoria! Non è vero che è una perfezione di bruttezza?”

La cagna si fregava contro le gambe di Atanasio, e il cagnolino,
ch'egli teneva fra le braccia, gli leccava le mani.

“Ebbene sia,” egli disse: “io lo alleverò! Sarà la mia compagnia.... —
Mia unica compagnia! — soggiunse fra sè con amarezza.

Si portò via il canino. L'uomo ha tanto bisogno di mettere affezione
in altrui, che Atanasio il quale, per le sue tristi condizioni, non
poteva oramai amare nessun essere umano, prese a voler bene a quel
mostricciuolo di cagnolino. E' non si sentiva più così solo sulla
terra: aveva una occupazione diversa da quella del suo mestiere, e se
ne compiaceva; era uno spasso, una diversione da' suoi usati pensieri
che gli faceva del bene; se lo portava seco, quell'animale, perfino
alla fonderia; usciva di molte volte, solamente per farlo passeggiare;
lo accarezzava, quando nessuno lo poteva vedere, come altri fa d'un
bambino.

— Ecco la mia sola famiglia, — dicevasi con pungente amarezza: — ecco
il mio solo amore, ecco tutto il mondo per me.... un cane! —

In Azor la bruttezza, che invece di scemare veniva aumentando ogni
giorno, era compensata da molta intelligenza e superiore ancora
l'affettuosità. Pose al suo padrone un amore che nulla più; e come s'ei
ricordasse la protezione datagli da Lucietta, dopo Atanasio era colei
che prediligeva, e ogni qual volta la vedesse, le andava incontro a
farle un'infinità di feste.

Pietro e Lucietta, frattanto, vivevano felici. Si amavano proprio sul
sodo, non solamente per trasporto giovanile, ed erano affatto degni
l'uno dell'altra a vicenda. Atanasio li fuggiva con cura. Un anno dopo
il cielo mandava alla giovane coppia un bel bambino. Tutte le felicità!

L'operaio era diventato sempre più misantropo; fuori dell'officina, non
lo si vedeva più in nessun luogo mai, fuor che all'osteria: colà beveva
da solo, non permetteva che nessuno sedesse alla sua tavola, respingeva
bruscamente ogni tentativo di accostarlo, e quando cominciava a
sentirsi ubbriaco, balbettava parole inintelligibili e partiva
barcollando, accompagnato dal suo indivisibile cane, per andarsi a
nascondere, non si sapeva dove.

Un giorno, Lucietta e Pietro, ai quali molto rincresceva il
degradamento di questo valente giovane, ebbero la infelice ispirazione
di volerlo ritornare quel di prima. Cercavano di lui, lo chiamavano
sovente in casa loro; e Lucietta principalmente, colta ogni occasione
per averlo a sè da sola, si pose a trattarlo con assai amorevolezza,
nell'intento di fargli scorgere il torto della sua vita presente e
destargli la voglia di ammendarsi.

Atanasio da prima si schivò, parve anzi fuggire con più cura tutti,
e la moglie specialmente del suo giovane principale; poi si lasciò
cogliere alla dolcezza di quei momenti in cui si trovava solo con lei
e n'era trattato con tanta amorevolezza; finì per accarezzare le più
pazze illusioni, che sapeva essere illusioni, ma nelle quali cercava e
trovava una morbosa soddisfazione. Pareva rinata fra Lucietta e lui la
famigliarità d'un tempo, quando Atanasio, lassù alla bianca casetta,
andava ad attinger acqua per lei, col secchiello ch'ella faceva le
mostre di contrastargli.

Le rimostranze e i consigli di Lucietta parevano aver ottenuto
un felice successo. Atanasio tornava ad essere più pulito, meno
misantropo, non allegro, ma meno scontroso, non mite, ma meno permaloso
ed irascibile: lavorava con più ardore ancora, teneva condotta più
regolata. Solamente, il vizio onde non si era guarito era quello del
bere. Però se ne nascondeva accuratamente. Non si frammischiava più
alla frotta dei beoni; penetrava di soppiatto nell'osteria a notte
inoltrata, quando ogni altro n'era già partito, si faceva recare in
una stanza un numero di bottiglie, e là, rinserratosi col suo Azor,
beveva, beveva, finchè ne smarriva completamente la ragione; allora
parlava, e diceva a sè stesso, al cane, alle pareti, alle bottiglie, le
mille cose, che non avevano senso, che parevano il delirio d'un pazzo,
cose tali che se egli avesse mai sospettato che un altr'uomo le avesse
udite, lo avrebbe strozzato colle sue mani. Al mattino si riscuoteva
dal pesante letargo, in cui aveva finito per cadere; si versava in capo
tutta una brocca d'acqua gelata, pagava l'oste e correva all'officina
dove lavorava più indefesso che mai. Ci volevano i muscoli di ferro e
i nervi d'acciaio che gli aveva dato madre natura per resistere ad una
tal vita.

E ad Azor Atanasio voleva sempre più bene. Spesse volte quando era
solo nella sua camera, lungi da ogni occhio ed orecchio umano, egli
se lo prendeva fra le braccia, quel brutto aborto di cagnuolo, e lo
stringeva, e lo accarezzava, e lo baciava!... dicendogli coll'accento,
con cui altri parlerebbe ad un amante:

— Caro il mio Azor, voglimi bene almeno tu. Io, a te, ti voglio tanto
bene!... È _lei_ che ti ha dato a me; e _lei_.... sappilo, ricordatene,
ma non dirlo a nessuno veh!... _lei_, io l'amo sempre, e sempre più....
e furiosamente! —


VII.

Gli affari della fonderia, intanto, sotto l'abile direzione del signor
Pietro, prosperavano sempre meglio.

Il giovane principale, che tutto curava, tutto voleva vedere egli
stesso, a tutto sopraintendeva e provvedeva, era perciò obbligato
a fare frequenti gite lungi del villaggio, per acquisto di carbon
fossile, di minerali, di macchine, per trattare a viva voce di
ordinazioni, per intraprendere forniture ed appalti: e queste assenze,
più o meno lunghe, dimolto rincrescevano e recavano malinconia a
Lucietta la quale il suo sposo amava sempre più, come, in realtà, il
bravo Pietro meritava che fosse.

Nei tristi giorni della lontananza del marito, la giovane soleva
cercare conforto nelle occupazioni della maternità, intorno a quel
gioiello di bimbo, ch'ella amava con vero trasporto, e nella compagnia
d'Atanasio, il quale, come compagno d'infanzia di Pietro, le pareva
ricordarle più efficacemente il caro lontano. E questi stesso, prima di
partire, soleva dire sorridendo ad Atanasio:

— Ti raccomando mia moglie veh! Falle buona compagnia. —

L'operaio obbediva zelantemente; in quei giorni tutte le ore che
aveva libere, le passava con Lucietta: e sapeva così bene condurre
il discorso, che parlavano il più spesso dei tempi passati, prima
del matrimonio di lei, delle ore che trascorrevano così leste e
così liete nelle belle sere estive sull'aia della casetta di papà
Taddeo; e Lucietta, che vedeva il volto sempre cupo ed arcigno
dell'operaio rasserenarsi, e capiva quanto bene gli facessero siffatte
chiacchierate, gentilmente e con amorevole bontà vi si prestava.

La infelice non sapeva, colla sua generosa e caritatevole debolezza,
quale ardore ponesse nel sangue di quell'uomo, quali folli idee nella
mente, quali audaci e impossibili sogni nella fantasia! Quando Pietro
ritornava, Atanasio allontanavasi di nuovo, si rifaceva più solitario e
più taciturno; ma fra sè e sè continuava a pensare agli avuti colloqui,
interpretava a suo modo, o per dir meglio a gusto della sua passione,
parole ed atti di Lucietta, si guastava lo spirito e la ragione
col martellare continuo d'un'idea fissa. La sua diventava così, per
davvero, un'infermità del cervello, una monomania.

Allora appunto, quando era al suo apogeo questa morale esaltazione
del disgraziato, Pietro ebbe a partirsi di là per quattro o cinque
giorni, affine di procacciarsi certo nuovo combustibile di cui voleva
fare esperimento in una nuova maniera di forni. Ferveva più che mai il
lavoro; per la fine della settimana dovevasi dare compìta una certa
fusione importantissima e di grandi proporzioni, per cui da tanto
tempo s'era in moto ad aggiustare le forme, preparare il materiale,
acconciare gli alti forni. Prima di partire, il principale ebbe a sè
Atanasio, e gli disse:

“Mi tocca abbandonare la fonderia proprio in un momento de' più
importanti e in cui si richiederebbe imperiosamente la mia presenza;
ma urge pure all'estremo andare per quel tal affare nel quale non
posso farmi sostituire da nessuno. Invece qui alla fonderia lascio
te, che sai, e sei capace, e di cui mi fido interamente; adunque su
te, mio caro Atanasio, tutto il carico fino a sabato. Io arriverò
immancabilmente venerdì sera; voglio trovar tutto pronto, perchè
sabato mattina di buon'ora si possa cominciare il gitto; bada bene di
preparare ogni cosa, e non voglio sentir poi pretesti nè scuse. Hai
capito?”

“Sì signore.”

“Dunque ci conto sopra. Ricordati bene! A venerdì sera.”

Il signor Frangia partì. Atanasio non ebbe in realtà altro pensiero
fuori questo: — Lucietta è sola! — La giovane donna, per maggior
fatalità, mai non era stata così benigna ed amorevole all'operaio, nel
quale non vedeva che il compagno d'infanzia, l'amico devoto, la persona
di maggior fiducia di suo marito.

L'esaltazione di Atanasio era al colmo. Pensava rapire Lucietta e
fuggire; gettarsele ai piedi, confessare il suo amore, domandarle
il contraccambio e poi uccidersi; passare un giorno, un'ora di
felicità con lei, e poi morire tutti e due. Contava i giorni. Ancora
settant'ore, e poi il marito sarebbe ritornato; — e quella volta,
prima che egli venisse, doveva compiersi qualche gran fatto; — lo
aveva giurato a sè stesso, se lo veniva ripetendo le mille volte lungo
la giornata; si diceva per incitarsi, per irritarsi vieppiù, che egli
sarebbe stato un vile se al ritorno di Pietro le cose fossero rimaste
come prima, ed egli avesse continuato a sopportare in silenzio lo
spasimo della sua passione.

E mentre siffatta battaglia gli ruggiva nell'animo, egli rimaneva
calmo, taciturno, e freddamente tutto disponeva come se fosse il più
tranquillo uomo del mondo, perchè puntualmente fossero obbediti gli
ordini del principale.

Non c'erano più che due giorni all'arrivo di quest'ultimo.

— Domani, — disse a sè stesso Atanasio, la sera, partendosi da Lucietta
e corrispondendo con uno strano sguardo al gentile saluto ch'ella gli
fece, mentre la si ritirava nelle sue stanze col suo bambinello in
braccio: — domani tutto sarà finito. —

Girò per la campagna fino ad ora tarda con Azor dietro. Dopo mezzanotte
arrivò all'osteria e si diede a picchiare furiosamente. Apertogli,
entrò con passo concitato e comandò, secondo il solito, gli si recasse
nell'usata stanzetta una mezza dozzina di bottiglie, tabacco, lume,
e lo si lasciasse solo. Si chiuse dentro egli col suo cane. Nella
sua testa, quella notte dovette avvenire una tempesta più terribile
di quella che ci racconta Vittor Hugo aver tormentato il cervello di
Jean Valjean nel più bello dei capitoli dei _Miserabili_. Al mattino
uscì come le altre volte, ma si portò seco una bottiglia intiera di
_cognac_.

Lavorò tutto il giorno, come se nulla fosse; Pietro doveva arrivare
alla sera ed avrebbe trovato tutto disposto secondo i suoi ordini.
Il metallo era in fusione nei forni e cominciava a gittar zampilli
di fuoco da qualche commessura, come se impaziente di prorompere e
precipitarsi nelle bocche appostate entro le escavazioni inferiori.
Un calore d'inferno emanava da quel focolare incandescente, in cui
il ferro era liquido come l'acqua. Atanasio esaminò tutto per bene,
diede le ultime disposizioni; poi, venuto il momento di cessare i
lavori, dato un fischio ad Azor che si teneva prudentemente lontano da
quell'inferno, si diresse a passi lenti verso casa sua. Erano le sei;
il treno di ferrovia per cui doveva giungere il padrone non arrivava
che alle dieci, tutti gli operai erano chiamati per quell'ora, affine
di riceverne gli ordini. Atanasio aveva quattro ore innanzi a sè.

Si recò a casa sua, e si vestì cogli abiti da festa. Canterellava
fra sè co' denti stretti; ma doveva avere sulle sembianze la traccia
dell'interno turbamento, perchè Azor sedutosi in un angolo della
stanza lo guardava fiso in modo inquieto, con que' suoi occhi pieni
d'intelligenza seguitandolo in ogni movimento.

Tratto tratto Atanasio si fermava, pensava, rifletteva come uomo che
fa per ricordarsi qualche cosa, e poi, dato di piglio alla bottiglia
del _cognac_ ne tracannava giù due o tre sorsi abbondanti. Quando fu
vestito come gli pareva meglio, diede un'ultima sorsata e maggiore
delle altre al liquore, si mise la bottiglia in tasca e fece per
uscire. Azor, solito ad accompagnarlo sempre, si alzò sollecito e corse
alla porta per seguirlo.

— No, carino! — gli gridò l'operaio con istrano accento: — quest'oggi
non si può: devi rimanere. —

Il cane non volle subito tirarsi indietro: il padrone impaziente gli
diede un calcio che lo mandò a guaire sotto il letto; Atanasio era già
fuor dell'uscio, quando si pentì del suo brutto tiro e tornò indietro.

— Azor! — chiamò con voce amorevole; e il cane venne strascinandosi
colla pancia a terra, tutto umile, al suo cenno.

Atanasio lo prese fra le braccia e lo baciò.

— Chi sa se ti rivedrò ancora! — disse. — Sta' costì mio buon Azor, e
Dio te la mandi buona. —

Lo pose sul letto e poi uscì correndo.

Trovò Lucietta, a cui disse voler parlare da solo a solo: aveva
gli occhi stralunati, le mani e le labbra che tremavano; si vedeva
chiaramente che l'infelice era fuori di sè.

“O mio Dio! che cosa è avvenuto!” domandò ansiosamente la moglie di
Pietro, spaventata a quella vista. “Qualche grande disgrazia?”

Atanasio, come aveva sognato tante volte di fare, le si buttò in
ginocchio ai piedi. Che cosa disse, non seppe mai egli stesso. Parlò
come in delirio; e Lucietta, credutolo proprio assalito dalla follia,
ebbe paura. Aveva essa fra le braccia il suo piccino e lo strinse al
seno più forte e fece per fuggire. Il dissennato le impedì il passo.

“No, no,” esclamò egli, “ora il dado è tratto. Voi non mi potete
lasciar più che dandomi la vita o la morte.... Voglio che sia così....
O mia, o di nessuno mai più!”

“Guardate quello che fate!” disse Lucietta. “Calmatevi; pensate al
vostro amico, al vostro benefattore, a Pietro...”

“Ah! non parlatemi di lui:” esclamò Atanasio digrignando i denti.

In quella s'udì una voce chiamare dal cortile con allegra premura:

“Lucietta! Lucietta!”

Era Pietro, il quale, impaziente di rivedere la sua famiglia, arrivava
col treno di due ore prima, per fare una sorpresa a sua moglie.

Atanasio si gettò indietro quasi spaventato; quell'omaccione forte
e robusto come un Sansone, si pose a tremare come un fanciullo. Che
cosa avrebb'egli detto a Pietro? che cosa fatto ora in presenza di
lui? Pensò un momento scannare Lucietta, poi gettarsi sul marito che
accorreva, e sul cadavere di lui uccidere sè stesso. Ebbe paura egli
medesimo de' feroci impulsi della sua anima. Corse alla finestra e la
spalancò, non si era che al piano terreno e all'altezza del terrazzo;
si slanciò nella strada e corse via, per l'oscurità della notte già
piena, come un forsennato.

Che cosa gli restava da fare? Agitò seco stesso la questione lungo
tempo, senza decidersi a nulla. Quando suonarono le dieci, egli, come
tratto da una forza fatale, si trovò al suo posto nella fonderia a capo
degli altri operai.

— Lucietta gli avrà detto tutto, — pensava: — fra Pietro e me che cosa
sta per succedere? —


VIII.

Il principale era stanco del viaggio, preoccupato dal pensiero
dell'esito della grossa, importantissima fondita che stava per
essere gittata; oltre ciò, venuto colla speranza di vedere la moglie
felicemente sorpresa e tutta lieta del suo anticipato arrivo, la trovò
invece turbata di sì strana maniera, senza ch'ella ne volesse dire
la cagione, che al suo primitivo buon umore era successa una stizza
latente, la quale non cercava se non un'occasione per venir fuori e
sfogarsi. Fu aspro con tutti, trovò che il combustibile non era stato
abbastanza sollecitamente scaricato e riposto, gli parve che il fuoco
nelle fornaci languisse; ebbe un rimprovero per ognuno, e, più che
cogli altri, fu acerbo e severo con Atanasio.

— Sa tutto! — diceva fra sè quest'ultimo. — Or ora scoppierà la bomba:
— ed accarezzava nella tasca il manico d'un coltello. — Meglio! Sono
stanco di soffrire. La finirà una volta per tutte.

Pietro alzò la voce con accento imperioso.

“Avete udito tutti?” Disse dopo di avere ricapitolato le sue
istruzioni. “Domani alle sei al posto.... e guai chi manca!”

A quell'ora si sarebbero aperti i forni.

“A vegliare stanotte,” soggiunse, “rimarranno....” parve esitare un
momento, e poi terminò la frase: “Atanasio e Girolamo.”

Erano il primo e l'ultimo degli operai. Atanasio saltò fuori dalle file.

“Non ha nulla da dirmi signor Pietro?” gridò egli con voce alta e
sonora.

C'era tanta sfida nell'accento di quelle parole che Pietro si volse con
aria di profondo risentimento.

“Vi parlerò domattina:” rispose asciutto ed imperioso. “Ora fate quello
che vi dico.”

Se n'andò il principale, partirono gli operai, rimasero soli nelle
officine Atanasio e quell'altro che doveva essergli compagno. Il primo
di questi due scoppiò in una risata, proprio da pazzo.

— Ah, ah il vile! — esclamò, parlando a sè stesso. — Vuole prorogare
fino a domani la tragedia.... Vuole avere ancora questa notte per
sè..... Questa notte?... Giuro al cielo e all'inferno!... —

I forni incandescenti mandavano un calore veramente infernale, e
quell'altro, facendolo notare ad Atanasio, propose di allontanarsi un
poco.

“Eh via! tu senti caldo!” rispose il forsennato. “Minchione! to'! bevi:
questo ti rinfrescherà.”

E porse al compagno la bottiglia del _cognac_, che l'altro non si fece
pregare di molto per mettere alla bocca.

“Bisogna anzi aggiungere ancora del carbone:” gridava Antonio. “Animo!
Mano alla pala, e giù combustibile.”

E congiungendo l'atto alle parole, cacciò a palate monti di carbone sul
fuoco.

Due ore dopo batteva la mezzanotte al campanile del villaggio: tutto
era silenzio come in un cimitero, non si udiva che il crepitare del
fuoco e il ribollire del metallo in fusione. Girolamo, finita la
bottiglia del _cognac_, si era addormentato in un cantuccio sopra uno
stramazzo. Atanasio, accoccolato in faccia allo spiraglio ardente della
fornace, le mani sulle ginocchia e la faccia nelle mani, pensava.

— Aspettare fino a domattina!... Perchè?... E poi che avverrà egli?...
Mi scaccerà.... Forse mi vorrà umiliare in presenza di tutti.... Oh
no per Dio!... Non lo vo' tollerare.... È meglio finirla... Finirla
subito, e tutti! Sì, tutti! Lasciarli dietro di me a godersi il loro
amore? No: per la maledizione di Dio!... Un poco d'acqua in quel
metallo in fusione, e si salta tutti in aria, la fonderia, la casa,
tutti!... Oh sì, che bello spettacolo! —

Rise e si alzò con impeto, per mettere in esecuzione quell'orribile
progetto. Ma nel migliore ebbe paura. Aveva già in mano una secchia
per gettarla e si trattenne. Come se avesse avuto sentore del pericolo,
Girolamo in quella si svegliò.

“Che fai tu costì?” gli disse.

“Nulla,” rispose Atanasio: “Ho una sete che mi strugge le fauci, e
pensavo di andare per un po' d'acqua fresca.... Appunto, fammi il
piacere, vacci tu.”

Girolamo si scosse come un can bagnato, prese la secchia ed uscì.

Atanasio, senza aver bene coscienza di sè stesso, saltò contro uno
de' forni, il più grande, e con una gran mazza di ferro percosse
nell'usciolo che ne otturava l'uscita. Un zampillo di fuoco sprizzò
fuori lanciando scintille da tutte le parti. L'operaio ebbe appena il
tempo di gettarsi in là, le bocche delle forme non erano ancora aperte
e il rivolo di fuoco, come la lava d'un vulcano, precipitava rapido
e stendevasi al suolo empiendo tutto di fumo, crepitando, fremendo,
rombando. Atanasio spaventato volle gettarsi a tentar di tappare di
nuovo quella uscita. Era impresa oramai sovrumana, impossibile: il
fiotto impetuoso del liquido incandescente s'era aperto un largo
passaggio e non era più un zampillo, ma un vero fiume ribollente,
impetuoso, che si riversava per terra. Atanasio, assalito da alto
terrore, gettò un grido spaventoso d'allarme e fuggì smarrito.

Incontrò sulla soglia Girolamo che veniva correndo, spaventato ancor
egli da quel grido, che aveva udito risuonare per la notte.

“Che cos'è?”

“Scappa, scappa.... Il metallo ha rotto la fornace e si riversa
tutto....”

Le imposte delle porte e delle finestre della fonderia, i correnti e i
travi del tetto, tutto ciò che si aveva di legno là dentro, le pareti
stesse divampavano, fiammavano, e il tremendo fiotto di fuoco già si
precipitava di fuori nel cortile.

Delle due ale del fabbricato, quella a sinistra conteneva i magazzini
del combustibile, e lì presso subito, immediatamente confinante il
quartiere abitato da Pietro, da sua moglie, dal bambino. La bollente
lava di metallo fuso, come se fosse guidata dall'odio di chi le aveva
dato l'aíre, si diresse a volute sempre più crescenti verso quella
parte.

Girolamo si cacciò a fuggire, urlando come un dannato; Atanasio corse
qual dovette correre Caino, dopo il primo assassinio commesso nel
mondo.

Si fermò dopo dieci minuti sopra un'altura. Quale orrendo spettacolo!
La fonderia era tutta una fiamma, il magazzino di combustibili ardeva
come un mucchio di fascine, le fiamme lambivano colla loro lingua di
fuoco la casa dove abitavano i Frangia, e del quartiere dove stavano
Pietro, Lucietta e il bambino, già ardevano le persiane e i telai delle
invetriate.

In mezzo a tutto quel chiarore, si vedevano come macchie scure correre
affaccendati alcuni uomini; dal villaggio venivano pur correndo gli
abitanti, svegliati dalle grida di Girolamo prima, degli altri operai
poscia, e affrettati per ultimo dai rintocchi della campana suonata
a martello; fino al luogo dove s'era fermato Atanasio, si udiva
arrivare un rumore confuso che era il suono assembrato di grida, di
esclamazioni, di preghiere, di bestemmie, di pianti di tanti uomini e
di tante donne disperati, spaventati.

Atanasio stette un mezzo minuto a contemplare quello spettacolo, i
denti stretti, le braccia serrate al petto, un mezzo minuto che gli
parve un'ora; parevagli sentir nel volto il calore di quelle fiamme a
cuocergli le carni. A un tratto sentì un fruscio fra le piante, e un
essere animato giunse correndo presso di lui e gli saltò alle gambe
guaendo, mugolando, vociando in ogni suo modo. Era Azor fuggito di
casa, chi sa come, cui l'istinto aveva condotto sin là tra le gambe del
suo padrone. Questi si chinò verso la povera bestia ad accarezzarla. Il
cane lo addentava pei panni e pareva volerlo tirare.

— Dove mi vuoi tu condurre? — diceva lo sciagurato, resistendo. —
Laggiù? là in quell'inferno? Che cosa vuoi ch'io vada a fare?... Là
si compie ora la mia vendetta.... All'uno tutto, e all'altro nulla!
Ricchezze, agi, gioie, famiglia, e l'amore di lei! Tutto per lui!... Ed
io niente!... D'ora in poi non avrà più nulla neanch'egli, nè sostanze,
nè moglie, nè bambino.... —

L'idea del bambino lo scosse.

— Ah! quell'innocente!... E lei!.... lei!... Morire così
crudelmente!... —

Azor, come se vedesse che la pietà stava per entrare nell'animo del
padrone, raddoppiava il suo mugolìo.

— E lei che ti ha dato a me.... La vuoi salva?... Hai più cuore di
questo miserabile. —

Prese la corsa verso l'incendio, e il cane dietro di galoppo.

Quando giunse, il fuoco già consumava il tetto dell'ala abitata da
Lucietta; dalla finestra proprio della stanza di lei cominciavano ad
uscir fumo e faville. Atanasio vide la donna con in braccio il suo
bambino, che urlava con voce da straziare l'animo di qualunque.

Pietro, svegliato in sussulto alle grida di Girolamo, non aveva
avuto tempo che di dire alla moglie: — Salvati col bambino, — ed era
corso dove allora più premeva il pericolo. La donna, resa incapace di
muoversi dallo spavento, si era lasciata sopraggiungere dall'incendio.

Un uomo accorreva con una lunga scala: dietro di lui, ansante, Pietro
che in mezzo all'infernale tumulto, aveva pure udito il grido della
madre di suo figlio. La scala fu appoggiata al muro; in quella un
vortice di fiamme avvolse la misera donna col bambino alla finestra.
S'udirono come un grido d'agonia suprema le parole: — Mio figlio! — e
la madre e il piccino sparirono come inabissati.

Pietro, forsennato, fece per islanciarsi sulla scala: una mano di ferro
lo fermò.

— Indietro! — gli gridò una voce che egli non riconobbe. — Tocca a me. —

E Atanasio, lesto come uno scoiattolo, si arrampicò su pei piuoli, e in
un attimo fu alla finestra e si precipitò dentro.

Azor, postato innanzi a quella finestra, accompagnava il suo padrone
cogli abbaiamenti, come se lo volesse incoraggiare.

Atanasio, avvolto nel fumo che turbinava, non vide nulla, ma inciampò
in un corpo disteso per terra; si chinò, sentì che la era una donna,
l'afferrò e stringendola fra le braccia, scavallò di nuovo il parapetto
e incominciò a discendere con essa.

Lucietta era caduta in uno svenimento cagionatole dal terrore, ma le
fiamme non l'avevano ancora toccata. Però l'incendio pareva che non
volesse lasciarsi rapire la sua preda. Atanasio, con precauzione,
cercava col piede il piuolo su cui posare, quando un'ondata di fuoco si
scatenò addosso a lui, lo avviluppò, ne pose in fiamme la capigliatura
e lo svolazzo della tunica sulla schiena. Egli col suo fardello fra
le braccia vacillò: un alto grido d'orrore eruppe dai petti di tutti
gli astanti, che tremavano e palpitavano. Pure il robusto uomo non
fu vinto, con una mano aveva già afferrato il capo della scala, vi si
mantenne e fra mezzo alle fiamme continuò a scendere.

Giunse in terra; tutti gli furono attorno ed aiutarlo, a sorreggerlo
che barcollava come ebbro. Pietro gli tolse dalle braccia Lucietta
sempre svenuta. Ma subito un'idea orribile gli venne.

— E mio figlio?! —

La madre, a queste parole del marito, gridate con accento di
disperazione, risensò.

— Mio figlio! mio figlio! — ripetè. — Oh! salvatemelo, per amor di Dio!
—

La infelice, nello svenire, l'aveva lasciato cadere....

Vide in quella Atanasio che si premeva la fronte e le occhiaie dove
sentiva un orribile dolore.

“Voi, voi qui, Atanasio!” disse, puntando il dito contro di lui. “Voi
dovete salvarlo.”

Atanasio fremette a quell'accento, a quelle parole; tese le braccia
innanzi a sè, brancolando come per cercar la scala, volle camminare ed
inciampò; mandò un urlo da bestia selvaggia.

“Sono cieco!” gridò stramazzando al suolo come corpo morto.

Fu portato all'ospedale, insieme coi parecchi feriti di quel
disastroso incendio. Le gravi scottature che aveva riportato posero in
pericolo la sua vita, ma pur guarì tuttavia; i suoi occhi però furono
irremissibilmente perduti.

Durante la lunga malattia, egli non chiese mai novella nè di Lucietta,
nè di Pietro, nè della fonderia. Guarito, seppe che questa e la casa
erano rimaste un cumulo di rovine; che Pietro, per cercare di alleviare
il dolore della moglie che aveva minacciato divenirne pazza, l'aveva
condotta a fare un lungo viaggio lontano, lontano; che prima di partire
il padrone aveva lasciata una buona somma per lui.

Atanasio volle che questa somma fosse data ai poveri del villaggio; e
senza un soldo, uscito dallo spedale, prese la prima strada che gli si
parò dinanzi, per andare tanto lontano, che di lui in quel paese non si
sapesse mai più novella.

Fatto poco cammino, udì un guaiolare festoso e le piote d'un cane si
appoggiarono alle sue coscie: era Azor. Come aveva egli vissuto sino
allora? chi può saperlo?

— Sei qui tu? — esclamò Atanasio commosso. — Il solo amico, il solo
bene che mi resti.... Vuoi seguirmi nell'esilio? Vuoi essere la guida
del povero cieco?... Vieni. —

Come capitasse nel villaggio in cui l'ho conosciuto, questo sciagurato
non sapeva dire.

Quando il cieco morì, fu sotterrato in un cantuccio del cimitero, senza
una croce, senza un segno qualunque di memoria dei sopravvivi, ma il
domani Azor vecchissimo, fu trovato morto sulle zolle smosse, sotto cui
avevano riposto la salma del suo padrone.



UN GENIO SCONOSCIUTO

RACCONTO.


I.

Era un genio davvero. Dio glie ne aveva data la scintilla immortale.
Egli la volle nascondere, e fece che traversasse ignorata la vita
terrena.

Non vi dirò il luogo in cui il mio eroe, circondato d'oscurità, mise
per anni ed anni tutto il suo impegno a tener segregata dal mondo la
luce della sua intelligenza. Gli ho promesso di tacerlo, e coll'ultima
stretta di mano che abbiamo scambiata, ho dato ragione alla sua
misantropica e valorosa rinuncia. Il suo nome, ch'egli decretò e volle
seppellito nel più profondo oblìo, non comparirà su queste carte.
A me stesso egli lo tacque, e se anche ho potuto indovinarlo, non
contristerò, svelandolo, la memoria di quell'anima infelice.

In uno degli ultimi nostri colloqui, egli mi diceva, con un cotal suo
sorriso, tra bonario ed amaro, che gli era abituale:

— Se invece di questo cimitero di campagna, in cui un'erba pietosa
e non curante agguaglia tutte le fosse e circonda tutte le croci, il
mio cadavere avesse da essere seppellito in un camposanto cittadino,
dove si fa pompa di lapidi e di iscrizioni, vorrei che sulla mia tomba
modesta si scrivesse superbamente: «QUI GIACE UN ANONIMO.» —

Codesto suo detto, fate conto che sia l'epigrafe della mia narrazione.


II.

Dunque gli è in un villaggio, — in una remota regione — che l'ho
incontrato.

Un mio nobile amico ha colà una gran tenuta intorno ad un'antica e
vasta casona, che in paese chiamasi _il castello_, dove si conservano
da tempi lontani, tradizioni rispettatissime d'una gentilezza ospitale
senza eccezione.

Il paese è vicino alle montagne; un contrafforte delle Alpi allunga
nella pianura le sue radici, a variare di collinette e di valloncini
l'amenità dell'imboschito terreno; intorno all'antico palazzo si stende
un giardino abbastanza vasto per potersi insuperbire del titolo di
parco.

Una vegetazione ricca, fresca e feconda veste le chine dei colli
con albereti leggiadri alla vista, e porge, anche contro l'insolente
saettare del sole di mezzogiorno, gradevoli ripari d'ombra, rallegrati
dal venticello della montagna. Al piede di quella collina, su cui
il castello innalza le sue muraglie annerite, il villaggio — povero
assembramento di casipole, che somigliano a capanne — si sdraia,
direi quasi timidamente, e par che cerchi nascondere i suoi tetti, la
maggior parte di paglia, alcuni di lastre di pietra, sotto le fronzute
chiome di castagni e di noci, che crescono e s'innalzano a mirabili
proporzioni da ogni orto, da ogni praticello.

È un cantuccio riposto, dove non penetrano le passioni e le gare degli
uomini raccolti nelle agglomerazioni cittadine e spronati al male
dall'interesse. Là non c'è strada di passaggio, non c'è commercio,
non c'è industria, non ci sono caffè, non ci sono giornali. Un ramo
assecchito di quercia indica una misera osteriuccia, composta di una
sola stanzona a piano terreno, la quale vede la sua lunga tavola zoppa
e le sue panche disoccupate tutta la settimana, per aspettare qualche
avventore le domeniche.

Quando tutto sossopra è il mondo, appena se colà ne arriva debolmente
un'eco incerta e paurosa.

In mezzo a questo sfoggio di vegetazione, spicca ancora per più
fronzuta ricchezza il bosco del parco, in cui, sul culmine della
collina, si drizza al cielo una fila di pini giganteschi, che hanno
dovuto vedere molte generazioni d'uomini nascere e morire, e che
coprono il terreno d'una oscura ombra solenne.

Il nobile padrone del castello verso gli abitanti del villaggio è
cortese, generoso, caritatevole. Li ama e n'è riamato pei beneficii
ricevuti, per la speranza di nuovi ch'egli è sempre pronto a rendere,
per una specie d'orgoglio che sì distinta persona appartenga al paese
e vi dimori la maggior parte dell'anno.

I cancelli del parco sono sempre aperti e dì e notte, tanto che,
irrugginiti nei cardini, male si acconcerebbero oramai ad essere
chiusi. I paesani vanno e vengono, con una libertà che non esclude il
rispetto al padrone: e quando questi passeggia, ne trova sempre alcuni
giù pei suoi viali, e ne viene salutato con ossequiosa famigliarità, a
cui egli risponde lietamente accennando col capo e chiamando ciascuno
col suo nome o nomignolo.

Sotto le ombre di quell'antichissimo parco si dànno appuntamento
giovani coppie innamorate, per discorrere del loro futuro matrimonio;
colà accorrono vecchierelle e ragazzi a raccogliere i rami secchi,
con un fastello dei quali scendono al loro tugurio a cuocere la cena
della famiglia. Alcune volte qualche tristarello sbaglia, e invece
della legna secca ci viene tagliando bellamente dei rami in piena
vitalità e arboscelli di buona cresciuta, il che, quando gli accade di
accorgersene, sdegna non poco il proprietario.

— Ci porrò rimedio: — dic'egli allora in tono risoluto. — Il primo che
io colga in sull'atto!... —

Ma il suo _quos ego_ innocente non ha ancora recato il menomo male a
nessuno.


III.

Tutti i giorni, nel gran viale dei pini veniva a passeggiare, verso le
cinque del pomeriggio, un omiciattolo vestito di scuro, accompagnato da
un cane brutto e vecchio, di quelli che da noi si chiamano _volpini_.

L'uomo faceva due o tre giri, tutt'al più, per quel viale, le mani
dietro le reni, la persona curva, la testa bassa e l'occhio fisso
continuamente sul cagnuolo, che correva un poco e tratto tratto veniva,
la lingua penzoloni, a fregarsi alle gambe del padrone.

Quell'omaccino soleva parlare al suo cane, come avrebbe parlato ad un
suo simile.

Quando il mio nobile ospite ed amico mi additò per la prima volta
quest'originale, egli stava seduto per terra, e il cane, sdraiatoglisi
accanto, teneva il muso sulle coscie di lui.

“Buona sera, Ambrogio:” gli disse il castellano. “Come va?”

L'uomo si levò il cappello con tutto il rispetto, ma non mosse la
persona, per non disturbare il cane nel suo riposo.

“Grazie, signore, non va male.... _Pomino_ ha corso più del solito, è
qui stanco che non ne può più.”

Di primo colpo la figura di quell'uomo aveva attirato la mia attenzione.

Era egli di una bruttezza fenomenale; però non aveva nulla di
ributtante. Sopra un corpo debole, esile, quasi direi rimpiccinito,
si reggeva, come a stento, una testa grossa a capelli arruffati,
in cui la parte superiore, e massime la fronte notevole per forti
protuberanze, aveva un eccessivo sviluppo. Il volto era scarno e le
guancie incavate, larga la bocca e pallide le labbra; giù in fondo
alle occhiaie tralucevano occhi di color chiaro fra il grigio e il
cilestre, i quali sembravano amassero nascondere la loro lucentezza
sotto foltissime sopracciglia che scendevano dall'arco dell'occhiaia e
dietro lunghi cigli che ne ornavano le palpebre. La carnagione aveva di
color terreo; lasciava crescere a capriccio una barba rada, di colore
sbiadito, oramai più che a mezzo incanutita; sulle sue labbra errava
abitualmente un sorriso tra mite ed ironico, che alle volte si sarebbe
potuto dir scemo, alle volte amarissimo. Nel parlare, negli atti, nel
sogguardare aveva alcun che di svagato, di distratto, di noncurante,
come se altrove, sempre, fosse il suo pensiero. Vestiva alla peggio
panni di colore scuro, logori, che gli si serravano spiegazzati intorno
alle gracili e macilenti membra.

Mentre gli stemmo innanzi, egli fissò un istante gli occhi in volto
al mio ospite e poi li chinò tosto sopra il suo diletto cane. A me non
fece la benchè minima attenzione.

“Ambrogio,” disse il padrone del castello, “voi m'avete del tutto
dimenticato. E perchè non venite più a vedermi? Una bottiglia di quel
vino che vi piace è sempre lì ad aspettarvi.”

Quell'uomo fece il suo sorriso da scemo.

“Grazie,” rispose, “grazie tante!”

E si pose ad accarezzare il cane colla destra.

“Ricordatevene,” soggiunse il proprietario, “e a rivederci.”

“A rivederci:“ ripetè come un'eco l'omiciattolo, mentre il mio amico mi
dava la spinta per avviarci ambedue.

“Chi è quell'originale?” domandai appena fummo un po' lontani.

“È il maestro di scuola del villaggio:” mi rispose. “Un essere
misterioso, la cui vita è forse un romanzo.”

“Oh! oh! un romanzo!” esclamai: “_rara avis_, di cui andiamo a caccia
noi scribacchiatori, senza poterla trovare il più spesso.... E voi,
naturalmente, lo sapete codesto suo romanzo?”

“Poco.... Ne so forse l'epilogo, che venne a concludersi qui. Costui
è il solo forestiero, a memoria d'uomo, che sia venuto a stabilirsi in
questo remoto paesello, e il solo degli abitanti de' cui fatti non si
sappia nulla. La sua esistenza, dacchè vive con noi, non ha vicende;
e il suo passato prima che qui venisse è un mistero, intorno a che
non ha mai voluto dare la menoma spiegazione e su cui non ama che lo
s'interroghi.

“È molto tempo ch'egli è qui?”

“Ormai trent'anni. Me ne ricordo come se fosse ieri quando è arrivato.
Ero giovanissimo e viveva il mio buon padre, allora....”

Stette alquanto sopra sè, e poi soggiunse:

“Oh sentite; io racconterò tutto quello che ne so; voi aggiungendovi le
frangie, come siete soliti di fare voi altri romanzieri, e inventando
quanto basti per riempire le lacune, potrete forse fare di costui il
protagonista d'un racconto.”

“Da bravo, narratemi quel che sapete.”

E il mio amico così cominciò a favellare.


IV.

«Era d'autunno già innoltrato. Le castagne raccolte; le foglie quasi
tutte in terra, e le poche rimaste affatto ingiallite. Io, a quel tempo
non avevo ancora venti anni, e già m'ero fatto un intrepido cacciatore
e un camminatore instancabile.

»Un giorno, che, come spesso mi accadeva, m'ero trattenuto su per la
montagna in traccia di non so più qual selvaggina, lontano da casa
mi sorprese una di quelle pioggie autunnali quiete e finissime che in
poco tempo infradiciano un pover'uomo sino alle ossa, e che, una volta
incominciate, non smettono più per dei giorni. Non c'era riparo da
cercare là dove mi trovavo, e poi prima di notte conveniva bene essere
a casa, e potevo star certo che prima d'allora non avrebbe spiovuto.
Dunque non c'era altro che pigliare allegramente il mio partito e
trottare di buon passo. Voltai lo schioppo all'ingiù, e animato colla
voce il cane, m'avviai di corsa, per una scorciatoia, giù della scesa.

»In sul culmine precisamente di quell'altura là dove passa un sentiero
poco praticato, incontrai un uomo, che, riparandosi dalla pioggia sotto
i rami ormai sfrondati d'un castagno, appoggiatosi al tronco, stava
mirando nella sottoposta pianura.

»Era codesto Ambrogio, che sino allora niuno aveva visto mai nel paese
nè in questi dintorni. Io non so qual'età egli abbia al presente, e
non avrei saputo nemmeno allora quale attribuirgliene. Poco su poco
giù, era tale quale l'avete visto adesso, se non che, invece di avere
i capelli, lunghi, arruffati, come li ha ora, li aveva rasi, e non
lasciava crescer barba. Vestiva di scuro, precisamente come ora, e
quasi quasi direi che codesti che porta sono ancora i panni che aveva
in dosso a quel tempo. Aveva un piccolo fardelletto sotto il braccio e
un bastone in mano.

»La singolarità di costui che alla pioggia battente e mentre la
notte veniva se ne stava tranquillo a contemplare un paese a cui
egli era sicuramente estraneo, lontano ancora da ogni abitazione, mi
fece rallentare il passo per osservarlo. Egli era così preso nella
sua contemplazione e ne' suoi pensieri, che non badò punto a me. La
scena ch'egli mirava, a me non pareva degna di tanta attenzione. La
pianura era invasa presso che tutta dalla nebbia, la quale si avanzava
come strisciando verso la montagna, mentre sulla sommità di questa
discendevano dal cielo scure, unite, pregne di pioggia le nubi:
parevano due eserciti che si movessero incontro per venire a battaglia;
e in mezzo a loro non rimaneva sgombra che una lista di terreno, in
cui, addossate al colle, biancheggiavano le casupole del villaggio.

»Io non gli avrei badato dell'altro, chè la pioggia crescente mi
consigliava a non indugiarmi, e nell'aspetto di quell'uomo mi pareva
di scorgere qualche cosa di strano, che, se non era di birbo, era
di matto; ma il mio cane corse verso di lui, e gli si piantò dinanzi
abbaiando. Egli si riscosse, volse uno sguardo, che mi parve tranquillo
e mesto, verso la bestia, e abbassò una mano alla sua coscia, a fare un
atto di richiamo. Il mio _Fox_ fu tosto rappaciato; scodinzolando gli
si accostò tutto festevole, e alla prima carezza che lo sconosciuto gli
fece passandogli una mano sulla testa, alzò le zampe anteriori al petto
di lui, quasi a dargliene un abbraccio di amicizia.

»Io che all'istinto dei cani credo più che alla ragione degli uomini,
mi dissi subito che quello non doveva essere un birbante.

»Abbasso _Fox_: qui _Fox!_ gridai.

»Il cane m'obbedì, e il forestiero si volse verso di me.»

“Oh non tema!” mi disse con voce rauca e melanconica, che mi fece una
strana impressione. “Colle bestie, e specialmente coi cani, io sono
nelle più amichevoli relazioni; non ho mai fatto male a nessuno di
loro, e nessuno di loro — no nessuno! — non ha mai fatto male a me.”

«E accompagnò queste parole con un sorriso di tanta amarezza, che gli
accrebbe nel volto l'aspetto di alienazione che gli avevo già notata.
Parlava italiano, ma con un accento di altre provincie che non sono le
nostre subalpine.»

“Questa buona bestia è sua?” riprese poscia, schivando col suo il mio
sguardo, come se temesse di mirarmi in faccia.

“Sì:” gli risposi.

“Il proverbio dice che il cane è l'amico dell'uomo. Creda al proverbio.
È il solo amico.”

“Siete un misantropo?” Io gli domandai stupito del modo con cui mi
parlava.

«Mi rispose, di nuovo con quello stranissimo sogghigno:

“Sono un _cinofilo_....[1] Ma mi permetta una domanda.”

    [1] Amatore de' cani.

“Dite pure.”

“Ella è pratico di questo paese?”

“Ci sono nato, e la maggior parte della mia vita la ho passata qui.”

“Che villaggio è quello laggiù?”

»Gli dissi il nome del paesello. Egli lo ripetè due o tre volte, poi
soggiunse come parlando a sè stesso:

— Un nome ignoto affatto; ignorato da tutti i Dizionari geografici....
Chi sa mai, fuori di qui, che questo villaggio esista?.... —

»Si rivolse di nuovo a me:

“Quanti abitanti ha?”

“Ottocento.”

“Saranno poveri?”

“Si aiutano gli uni gli altri come fratelli.”

“Possibile? Lei mi stupisce. Voglio vederlo. Potrò trovarvi
albergo? pagando s'intende:” soggiunse affrettatamente con una certa
permalosità.

“C'è un'osteria:” risposi: “e vi troverete certo un letto, non da
sibarita, ma pulito, e un boccon di cena non luculliana, ma ammannita
di buon cuore.”

“Sono avvezzo a dormire sulla dura terra, e poco basta a sfamarmi....
Che strada ho da prendere per giungere più presto al villaggio?”

»Glie l'additai; e salutatolo, impaziente di fuggire dalla pioggia che
cadeva sempre più fitta, ripresi la mia corsa giù per la scorciatoia.
Ma dopo pochi passi m'accorsi che il cane non m'aveva seguitato:
fischiai, e _Fox_ venne sino ad un ciglio della costa da cui poteva
vedermi, abbaiò vivamente, e tornò indietro verso lo sconosciuto.

»Ciò mi fece arrossire di me medesimo. Pensai subito che cosa avrebbe
detto mio padre, quando avesse saputo che, imbattutomi in un povero
forestiero, senza asilo e alla pioggia, non gli avessi offerta
l'ospitalità; e senza metter più tempo in mezzo, rifeci correndo il
cammino, e tornai a quell'uomo.

»Lo ritrovai in quel medesimo luogo, e nel medesimo atteggiamento;
se non che parlava amichevolmente al mio cane, che gli stava seduto
dinanzi guardandolo fiso. Arrivando, udii le seguenti parole:

— Va' col tuo padrone, buona e brava bestia. Tu non sei mio. E nemmeno
l'affetto d'un cane non bisogna rubare altrui.... No, non bisogna! —

“Sentite, buon uomo, ho pensato che all'osteriuccia del nostro
villaggio stareste davvero troppo male.”

“Le ho detto che non m'importa:” rispose egli con una certa qual
fierezza.

“E chi sa se avranno pure un letto libero?”

“Dormirò benissimo sulla paglia.”

“È ancor lontano il villaggio e con quest'acqua che viene ci arriverete
tutto ammollato. Ho un ricovero più vicino da offrirvi.”

»Mi scoccò un'occhiata con un misto di sospetto, d'incredulità e di
meraviglia.»

“Dove?” domandò.

“Là.” E gli additai il castello. “È la casa di mio padre.”

“Grazie!” disse egli irrisoluto.

“Su via:” io insistetti: “non istiamo più qui a infradiciarci. Mio
padre vi accoglierà con piacere.”

“Ebbene sia:” diss'egli dopo un altro po' d'esitazione; ma quando
fummo avviati, a un tratto tornò a fermarsi, come per un dubbio
sopravvenutogli. “Suo padre,” mi chiese, “vive tutto l'anno in questa
terra?”

“Quasi. Non è che l'inverno che abitiamo in città.”

“Quale?”

“Torino.”

»Mandò un lieve sospiro, il volto parve rasserenarglisi, e con accento
più risoluto disse:

“Andiamo.”

«Non ho bisogno di dirvi come mio padre gli accordasse quella benevola
ospitalità che egli stimava un assoluto dovere del suo grado, della sua
fortuna, del suo nome. Lo sconosciuto disse chiamarsi Ambrogio Larva:
non parlò quasi mai, e costrettovi soltanto, appena se gustò cibo, e di
buon'ora si ritirò nella camera assegnatagli.»


V.

«Il domani, fosse la pioggia presa il giorno innanzi, fossero i disagi
già prima sofferti, poichè pareva che col suo fardelletto sotto il
braccio egli fosse venuto viaggiando per la catena delle montagne da
molto lontano e già da parecchi giorni; il domani quel pover'uomo fu
assalito da una fortissima febbre, che in pochi giorni lo menò presso
alla tomba, e poi, superata per miracolo, lo tenne a letto più d'un
mese.

»Se il buon padre mio lo facesse curare con ogni carità, non è da
dirsi. Quando l'infermo fu tornato in sè, dopo un penoso delirio di
più giorni, ed ebbe compreso dove si trovava, e come vi fosse trattato,
mostrò, non con parole, che queste aveva sempre rade e poche, ma negli
atti, negli sguardi, nell'espressione della fisonomia, una riconoscenza
tanto più profonda, quanto meno espansiva.

»Però, durante il delirio del pover'uomo era avvenuto cosa che assai
aveva scemato quell'interesse che dapprima tutti avevano sentito
per lui; e se non si era venuti meno a nessuna delle cure ond'egli
abbisognava (chè mio padre, codesto non avrebbe tollerato a niun modo)
non era tuttavia, se non vincendo un sentimento, il quale pareva quasi
ripulsione, che i nostri servi continuavano a stargli attorno e a
vegliare su di lui.

»La ragione era che, durante i vaneggiamenti suoi, aveva pronunziato
certe parole che erano tali da indurre gravissimi sospetti sul conto
suo. Egli affannosamente, con rotti accenti (e mio padre lo aveva
udito, ed io stesso una volta) parlava di sangue, di odii, di morte.
Pareva che un tremendo rimorso ne agitasse la coscienza, conseguenze
d'un gran delitto commesso. Vedeva dei fantasmi sanguinosi; ora pregava
pace, perdono ed oblio; ora imprecava furibondo. Due nomi, uno di donna
e uno d'uomo, gli venivano frequenti alle labbra, e cenni alle sue
vicende passate, ma così in confuso che impossibile trarne un costrutto
qualunque o comprenderne cosa alcuna. Solamente appariva che molti e
dolorosissimi tormenti e sciagure aveva egli sostenuto, che una crisi
gravissima era venuta a mettere il colmo alle sue cattive avventure e
ch'egli erasi partito dal suo paese e dai suoi per cercare in remote
contrade una esistenza novella; per fuggire dalla giustizia umana,
dicevano i nostri servi.

»Eppure, non ostante tutto ciò, la figura originale di costui non
dispiaceva e non ispirava diffidenza a mio padre. Questi aveva risoluto
d'interrogarlo un po' più particolarmente sull'esser suo; ma ogni volta
che a ciò s'accingesse, scorgendo la dolorosa ripugnanza d'Ambrogio a
parlare del suo passato, se ne rimaneva come timoroso di fargli troppo
male colla sua curiosità.

»Un giorno finalmente che quasi era guarito del tutto, Ambrogio
medesimo si aprì, più che non avesse fatto mai, con mio padre, nel
quale mostrava aver posto molto rispetto e affezione pari alla stima.
Io mi trovava appunto presente e udii le sue parole: disse che per
la terra in cui era nato — una terra d'Italia lontana da questa, ma
non disse quale, — per il mondo in cui era vissuto, egli era e doveva
e voleva esser morto affatto; che non avendo più famiglia, non più
affetti, stanco e disgustato della vita che traeva, erasi partito solo,
di nascosto, sicuro di non lasciare dietro a sè chi lo rimpiangesse,
non sentendo pure un rincrescimento per quanto abbandonava, risoluto
ad andare tanto lontano che nulla della precedente esistenza mai più
gliene venisse all'orecchio nè sotto gli occhi; voleva recarsi in
qualche solitudine, dove la semplicità dei costumi, la povertà degli
abitatori, la lontananza da ogni centro popoloso non gli presentassero
mai e non valessero a ricordargli nulla, nulla di quella uggiosa vita
cittadinesca che gli era venuta in odio insuperabile; che questo paese
gli pareva proprio a tal uopo: che aveva seco qualche po' di denaro
e con esso avrebbe volentieri comprato un'umile casettina e un piccol
orto per viverci quieto quegli anni che gli avrebbe ancora imposti la
Provvidenza; e che per non essere affatto inutile sulla terra ed al
paese che l'avrebbe ospitato, si sarebbe messo a fare il maestro ai
bambini, gratuitamente per i poveri, essendo che, nella sua ignoranza,
tanto e tanto ad insegnare a leggere e scrivere e un po' d'abbaco, ei
si sentiva capace.

»Mio padre stette un poco prima di rispondere, come se riflettesse
ponderatamente su ciò che aveva da fare; poi disse con gravità e con
quella bonaria schiettezza che gli era abituale:

“Sentite, signor Larva. Io adesso sono obbligato a rispondervi, non
come il vostro ospite, ma come il sindaco di questo villaggio. Capirete
che in questa qualità m'incombe una certa responsabilità. Il padrone di
casa può accogliere con piacere anche uno sconosciuto, la cui figura
gli vada a genio; il sindaco non può affidargli a occhi chiusi la
educazione dei bambini, che è cosa delicatissima.”

«Ambrogio arrossì sino alle orecchie.»

“Non mi crede ella un onest'uomo?” domandò fieramente.

“Non basta che io vi creda tale, bisogna che ne abbia le prove.”

«Ambrogio represse un vivace movimento, e impallidito di nuovo, curvò
il capo e si tacque per un poco.»

“Ho capito:” diss'egli poi amaramente. “Qui si sospetta di me. Me n'ero
accorto, ma speravo che non ella.... Partirò.”

“Un momento,” soggiunse mio padre: “Qui abbiamo pure il gran bisogno
d'un maestro. Non si è mai potuto ottenere che quassù venisse ad aprire
una scuola qualcheduno che ne fosse da tanto. Non ci abbiamo che
un pretucolo, il quale insegna a mala pena a distinguere le lettere
dell'alfabeto, violenta l'ortografia ed assassina la grammatica. La
venuta di chi facesse meglio sarebbe una vera fortuna pel paese. Che
diamine, sor Ambrogio. Avete voi tanta ripugnanza a farci conoscere il
vostro passato?”

“Sì l'ho:” rispose risoluto Ambrogio. “L'ho voluto sotterrare in
una fossa questo passato e l'ho coperto con una lapide. Non voglio
scoperchiare il sepolcro e tirarlo fuori per contentare la curiosità
sospettosa d'un intiero villaggio.”

“Un villaggio di ottocento anime, perduto fra le montagne, o poco
meno!” esclamò mio padre sorridendo. “Del resto,” soggiunse, “quando
siavi un segreto nella vostra esistenza che vogliate custodire, non
avrete a rivelarlo a questo poco di pubblico. Dove io affermi che
voi siete degno d'istruire i ragazzi di questa brava e onesta gente,
tutti mi crederanno.... E voi non avrete bastevole fiducia nella mia
discrezione per dirmi — a me solo — chi e che cosa siete?”

«Ambrogio esitò un momento; poi levò gli occhi, e li fissò per un
istante in volto a mio padre, come non aveva fatto prima. Parve
soddisfatto di quell'esame.»

“Le dirò tutto:” disse bruscamente a un tratto.

“Venite meco:” riprese mio padre, aprendo l'uscio del suo scrittoio e
facendogli cenno vi entrasse.

«Rimasero colà dentro più d'un'ora. Quando ne uscirono, Ambrogio era
più pallido che mai, e mio padre era evidentemente commosso. Notai,
non senza stupore, che mio padre nel trattare il forestiero, aveva una
deferenza assai maggiore di prima.

»La raccomandazione del sindaco bastò a farlo benvolere e stimare da
tutti. Trovatasi una di queste catapecchie, che servono da case, con
un orticello, per poco prezzo, ch'egli pagò subito, il buon Ambrogio
divise il suo tempo fra la coltura degli erbaggi e delle frutta che
gli dànno il suo sostentamento, e la scuola in cui accorrono tutti
i bambini del villaggio e dei casolari qui intorno, ammaestrati da
lui con pazienza e cura infinite non solo nel leggere e scrivere e
negli elementi dell'aritmetica, ma nella morale altresì, giovandosi di
apologhi e novelle ed amichevoli conversari alla socratica, in cui,
senza che altri quasi lo avverta, le buone massime s'instillano in
quelle anime tenerelle, e fanno sì che il maestro sia amato e obbedito
anche meglio dalla scolaresca.

»Egli non accetta denaro da nessuno; ma i più facoltosi fra i genitori
lo vengono regalando di legna da ardere all'inverno, di qualche mezzo
sacco di grano alla raccolta, di pane bello e fresco, quando lo fanno
cuocere, di qualche pollo talvolta, e anche di qualche pezzo di maiale,
quando lo macellano all'autunno, le quali cose lo aiutano a campare.
Dai poveri egli non vuole assolutamente nulla, e se mai gli viene
offerto alcun che, rifiuta con isdegno, quasi gli fosse fatta con ciò
una grave offesa.

»Quale io lo conobbi i primi giorni, tale egli continuò sempre ad
essere: buono, taciturno, onesto, amante della solitudine. Quasi sempre
svagato colla mente, talvolta pare lo assalgano delle allucinazioni e
che il senno gli scappi; talvolta lo direste poco meno che imbecillito;
ma non gli avvenne di recare a nessuno mai, nè con fatti nè con
parole, non che il menomo dispiacere, ma neppure il menomo disturbo. I
villani, per le sue assenze di mente, cominciarono dal burlarlo, poi lo
compatirono; ora quasi lo riveriscono e lo venerano, credendolo meglio
visitato dal Signore.

»Egli è benevolo con tutti; ma d'amore e di espansione di cuore pare
che non ne abbia, fuorchè con quel suo brutto cane che gli avete
visto. E sì che in mio padre, il quale, da quel segreto colloquio in
poi mostrò sempre per lui una certa maggiore osservanza; in mio padre,
dico, Ambrogio finì per porre davvero un profondo affetto.

»Un giorno mio padre gli domandò:

“Ambrogio, ora siete voi contento della vostra vita?”

»Ed egli rispose con espressione di viva sensibilità:

“Sì. Non cercavo che oblío; ho trovato carità. Fuggivo gli uomini per
non odiarli, ne ho trovati qui degni d'amore.”

»E, come se avesse detto di troppo, allora se ne partì ratto, senza
voler udire nè aggiungere altro.

»Quando mi avvenne la disgrazia di perdere il buon padre mio, fu
l'unica volta ch'io l'abbia veduto a piangere. Durante la malattia
di lui, Ambrogio era stato quasi sempre con noi al castello, non
cercando nemmeno di aiutarci nelle cure che si prestavano all'infermo,
buono a nulla e smemorato qual egli è, ma come se qui trattenuto da
un invisibile vincolo che non lo lasciasse allontanarsi. Agli ultimi
momenti, che il mio povero padre volle vedere tutti i servi e i
gastaldi insieme alle loro famiglie, entrò ancor egli alla coda di
tutti, nella stanza del moribondo, e s'inginocchiò quasi peritoso in un
angolo a pregare.

»Allorchè quell'immensa sventura fu compiuta e l'eccesso del dolore
pareva volermi tôrre di senno, io me lo vidi improvvisamente al fianco,
bagnato il volto di lagrime egli pure, trasfigurato, così che mi parve,
anche in quella dolorosa confusione di mente in cui ero, un'altra e
più nobile persona. E mi disse parole gravi di simpatico dolore e di
affettuosa consolazione che più non ricordo, che in quel fatalissimo
momento non poterono restarmi impresse, ma che pure mi colpirono, come
altissime e degne della più bell'anima e della più nobile intelligenza.
Poi si partì e stette parecchi giorni senza venirmi a vedere.

»Ricordo che la prima volta ch'io lo rividi, il suo aspetto, che mi
parve ancora più di scemo che per l'innanzi, mi sorprese come una
stranezza inaspettata e mi riuscì quasi una delusione; imperocchè mi
aspettassi di ritrovare in lui quella più elevata persona che mi era
apparsa, o ch'io aveva sognata nel colmo del mio dolore.

»Continuò egli in seguito a capitare di quando in quando al castello,
sempre uguale, umile, silenzioso, melanconico. Mai non lo vidi a
ridere, sì a sogghignare di spesso. Ogni qual volta io volli toccargli
di quella sera in cui lo incontrai sulla collina, egli mi rispose
sempre invariabilmente: — Ah sì! come pioveva quella sera — e poi se ne
partì tosto; per cui io non glie ne parlo più.

»In complesso egli è un buon diavolo, che forse non ha l'integrità
delle sue facoltà mentali, che dovette soffrire molte disgrazie a cui
la sua debole ragione non valse a resistere. Di certo nella sua vita
vi ha un mistero, ma non ostante le parole del suo delirio, non deve
esservi una vergogna nè una colpa da non perdonarsi; perchè mio padre,
dopo ascoltatolo, trattò con lui con più riguardi di prima, e ogni
volta che lo vedesse, fu sempre il primo a porgergli la mano.»


VI.

Un giorno, era qualche tempo trascorso dacchè il mio ospite mi aveva
narrato quanto venni addietro esponendo, si festeggiavano al castello
le nozze d'una giovane coppia del villaggio. Era un'usanza, a cui il
castellano mai non derogava, di invitare in tali occasioni tutti gli
abitanti del paesello ad onesta baldoria. Il menestrello del villaggio,
un vecchietto dal mento aguzzo e dalla faccia tutta rughe, coll'aria
tra di nesci e di malizioso, raschiando maladettamente il suo violino
scordato, faceva saltare ai suoi giovani compaesani le più animate
monferrine del mondo sulla finissima rena dello spianato. Circolavano
in discreta abbondanza buone bottiglie di vin vecchio, e il padrone del
castello compiacevasi di quella ingenua allegria.

Sul più bello, ecco per caso straordinario comparire maestro Ambrogio,
colla sua andatura incerta e oscillante, col suo aspetto mezzo
sonnacchioso, e non fa pur mestieri il dirlo, col suo cane dietro i
talloni. Un allegro clamore si alzò da tutta la comitiva a salutarne la
venuta.

— Oh! il maestro! Avanti, avanti. Ben venuto il sor maestro! Viva il
maestro! —

L'anfitrione della festa si associò ancor egli, e con espansione, al
cordiale ed allegro accoglimento.

“Buon giorno, Ambrogio:” diss'egli. “Venite qui accosto a me
ed assaggiate un po' questo vino dei miei greppi, so che non lo
disdegnate, e me ne direte le novelle.”

Ambrogio stirò le sue pallide labbra in un certo modo che doveva
raffigurare un sorriso, ma che altri avrebbe detto una smorfia e,
lasciandosi prendere e stringere la mano ora da questo ora da quello
di uomini e donne che gli si facevano intorno al suo passaggio,
venne appressandosi al castellano e a me, che stavamo vicino all'acre
archetto di compar Fosco il suonatore, il quale archetto cacciava pure
tanta forza nelle gambe di quei bravi giovinotti.

Il maestro era in un momento di straordinario, nè mai visto buon umore,
perchè non ismise quel suo cotal ghigno, ed agguantò con avidità la
bottiglia che gli tendeva il compare Fosco, già un po' cotto per le
libazioni fatte.

“Orsù, maestro del mio cuore, abbocca questa bottiglia, che Dio ti
mandi ogni bene! e bando a ogni filosofia!”

Convien sapere che il bravo menestrello alla seconda bottiglia che
avesse bevuto, dava del voi a tutti, alla terza del tu addirittura;
il termine _filosofia_ poi, per lui era sinonimo di malinconia,
ipocondria, stoltezza.

Ambrogio, dopo aver bevuto, fece chioccar la lingua contro il palato
come usa un vero conoscitore di meriti enologici.

“Buono!” diss'egli: “buonissimo! Questo è la gioia terrena liquefatta
e tenuta in serbo; non è vero, compare Fosco?”

“L'allegria!” esclamò questi tutto animato: “l'allegria per cento
mila violini!... Vedi, sor maestro dell'anima mia; io non istimo altro
nella vita. Tutto il resto, peuh! non vale un cece. Viva l'allegria e
sprofondi all'inferno la camusa, o ch'io sono un asino come il bricco
del mugnaio.”

E battendo col dorso dell'archetto sulla cassa del violino, per
richiamare a sè l'attenzione dell'adunanza, soggiungeva gridando, come
a sordi:

“Su, da bravi giovinotti, vogliamo fare due altre capriole?... Eccovi
una monferrina da far danzare i morti.... ma che morti?... da far
danzare anche gli scudi in tasca d'un avaro.”

E posto il suo perfido strumento alla spalla, appoggiatovi su il mento
aguzzo, colla compiacenza che poteva avere Paganini nell'accingersi a
suonare, egli diede giù una solenne raschiata che produsse un suono, al
cui paragone è una dolcezza la più aspra sorba che vi alleghi i denti
e allappi la bocca.

Ambrogio tornò a bere e due e tre volte, finchè la bottiglia pòrtagli
da Fosco gli rimase vuota fra le mani. Allora e' si accoccolò per terra
vicino allo scellerato scorticatore delle nostre orecchie, e appoggiati
i gomiti alle ginocchia, le guancie ai pugni richiusi, il cane sdraiato
fra le gambe, stette ad ascoltare quella diabolica armonia, mentre i
villani gli saltavano dinanzi con gran confusione, coi più strani gesti
e contorsioni del mondo, da parere tanti morsicati dalla tarantola.

Io guardava attentamente il maestro di scuola, attirato da una viva
curiosità; che mi aveva destata sul suo conto la narrazione del mio
ospite. Già fin dalla prima volta ch'io l'aveva visto, egli mi era
sembrato una figura originale; ora, forse per effetto di quello che
avevo udito di lui, mi pareva di scorgere in esso qualche cosa di
speciale e distinto che lo sceverasse dalla comune, credevo travedere
in quel complesso di tratti, di maniere, di forme, alcun che di sopra,
o almeno all'infuori del volgare.

Quel certo stiramento di labbra, che in lui teneva luogo di sorriso,
non era cessato, e pareva anzi fattosi immobile sul suo volto; ma gli
occhi suoi, ordinariamente atoni e smorti, brillavano; di quando in
quando, toglieva una delle sue mani da far sostegno al volto, allungava
il braccio verso una delle bottiglie che facevano siepe intorno al
compare Fosco, e ci dava una tracannata, e ad ogni volta, mentre il
corpo conservava la massima immobilità, i suoi occhi brillavano sempre
più. Tra una monferrina e l'altra, Fosco serrava in mezzo alle gambe
il suo violino, metteva per traverso sulle ginocchia l'archetto, e
riceveva dalle mani del maestro la bottiglia, per darle ancor esso un
saluto a modo suo.

I due uomini allora si guardavano entro gli occhi; Fosco rideva con
un riso secco, Ambrogio ghignava silenziosamente. Era un curioso
spettacolo l'osservarli. Probabilmente così diversi d'animo,
d'intelligenza e di sapere, quei due esseri si trovavano in quel
momento assembrati, fatti uguali, accomunati dalla bassa soddisfazione
d'un piacere materialissimo.

Ad un punto vidi Ambrogio muover dondolando la persona, come fa l'orso
in gabbia, ed accompagnare coll'accennar del capo l'orribile suono di
quel disarmonico pezzo di legno battezzato per violino. Nello stesso
tempo, e' si mise a parlare con una certa vivacità. Me gli accostai di
più per udire le sue parole.

“Su, su:” diceva egli: “animo, via, lesto, forte, coraggio, suona,
suona, suona compare Fosco; dágli dentro, più vivo, più ratto, più
concitato; fálli saltare, fálli girandolare, fálli sbalordire.... È una
pazzia, dirai; ebbene sì, è una pazzia; e con ciò?.... Non sai che gli
è nella pazzia che l'uomo ha riposo dalla sventura? Non sai che ogni
illusione è pazzia, e che il solo bene sulla terra è l'illusione?....
Su, su, svelto quell'archetto! Esso languisce per Dio! La è tutta brava
gente codesta, e il vino è eccellente. Fàtti onore compare Fosco! Tu
sei l'Orfeo di questo villaggio. Sai bene: Orfeo faceva ballare il
trescone anche ai sassi.”

Il suonatore rideva con quel riso secco a suo modo; e, come spronato
da quei detti, affrettava il moto dell'archetto, e agitava il capo, e
batteva la misura col piede, e accumulava colla più audace disarmonia
le note più francamente stonate.

“Eh eh eh!” rispondeva egli frattanto. “Sei del mio parere tu, sor
maestro. L'allegria!.... Nulla vai meglio. Non esco di lì, io!....
Le patate sono buone, le castagne anche migliori, una brava presa di
tabacco ha il suo merito, un pezzetto di tabacco in corda da masticare
lo stimo di molto, ma un centellino d'allegria val cento mila volte
più d'ogni altra cosa. E dove la si trova sicuramente questa benedetta
allegria?.... E zin zin e zin zin, in un fiasco di vin vecchio.”

E Ambrogio ripigliava:

“Ti dico che sei Orfeo! Vedi come quella gente si dimena, salta e
ammattisce. Essa gode! Sono i crini del tuo archetto che compiono tal
miracolo. Vero miracolo! Dare un'ora di gioia ad uomo che vive. Se qui
venisse Satana con una corona reale in pugno e l'offrisse a cotestoro
in cambio del loro tripudio innocente, sarebbe stolto, tre volte stolto
chi rinunziasse ad un momento di questo piacere per tutta la vita del
re più potente che stringa scettro nel mondo.... E spero che di tanto
imbecilli non ce ne sarebbe nessuno fra questi dabbene.”

Il Menestrello ammiccava come se capisse, col solito riso, e suonando
più arrabbiatamente che mai, ribatteva a sua vòlta.

“Eh eh eh! Non gli è tutto qui; stasera avremo una cena. Un mezzo
agnello arrostito. Il padre dello sposo è uomo che fa le cose ammodo.”

“Invidio la potenza del tuo violino! Quale altissimo ingegno di poeta
mai valse a procacciare ai suoi simili un godimento simile a quello
che fai provare colle tue quattro note false? Forse il solo Omero alla
società greca ancora fanciulla.”

“Sta' attento! sta' attento!.... Ecco un'altra monferrina ancora più
bella. Su, giovanotti, da bravi, alla riscossa!.... Hop! hop!”

“Come paragonare al tuo potere l'azione del povero autore che si stilla
il cervello per anni, affine di presentare una sua creazione ad una
frotta di concittadini che si raccoglie in teatro a fischiarla? Come a
quella dello scrittore d'un libro, su cui sbadiglia qualche dozzina di
lettori e di cui malignamente fa strazio qualche insolenza ignorante di
critico argutissimo?”

Udendo ciò sospettai in maestro Ambrogio un letterato infelice,
amareggiato dal ricordo d'una strepitosamente vergognosa caduta; e
mi feci innanzi verso di lui con maggiore interesse. Egli mi vide e
s'interruppe. I suoi occhi si fissarono su di me con una curiosità
quasi pari a quella che io manifestava a riguardo di lui. Stette
un mezzo minuto a contemplarmi; poi, come spinto da una subita
risoluzione, si alzò in fretta e mi si accostò vivamente.

“È vero,” mi domandò egli con istrana animazione d'accento, “è vero
quello che ho udito di voi? Siete uno scrittore ed accostate la mano a
quella terribile macchina infernale che è la stampa.”

“È una macchina infernale oramai innocente:” risposi. “L'incuria della
gente e la coscienza di chi l'adopra l'hanno ridotta senza pericolo...
Fatte le debite eccezioni.”

Ambrogio fece quel suo ghigno strano, poi divenne serio, e mettendomi
una mano sulla spalla con una certa famigliarità da superiore mi
smaltì, tutta d'un fiato la seguente tirata.


VII.

«La coscienza di chi scrive? Ecco! Ci credete voi?.... Oh certo siete
costretto a rispondere di sì dal fatto che voi pure v'imbrattate
le dita d'inchiostro, stringendo una penna. Si comincia per volerne
avere, si è forse tanto felici da averne; ma poi?.... L'uso e l'abuso
della parola a che non vi menano? Come discerneremmo noi il vero dal
falso in quella confusione di cose, d'uomini e di idee che si chiama
vita sociale, mentre ci scompiglia e testa e cuore il nostro privato
interesse? Quello che avete sognato fosse un apostolato, vi si fa
un mestiere. Vi siete proposto di guidar voi la penna, e siete voi
trascinato dalla penna, che ha da darvi da mangiare e da soddisfarvi la
vanità.

»La penna! Come, non vi spaventa il maneggiare questo ridicolo e
tremendo scettro del pensiero? Non pensate mai quanto germe di male può
gocciolarvi giù con una stilla d'inchiostro e seminarsi in un'anima
umana, mercè un'idea, una mezza idea, una sembianza d'idea? Anche
la più innocente può, in date occasioni, essere la più malvagia.
Una favilla che sta per ispegnersi, vi pare la cosa più impotente.
Lasciatela cascare sopra un barile di polvere, e la casa intera ne
va in aria. Più innocente ancora è un granellino di nero di platino;
introducetelo in un miscuglio d'ossigeno e d'idrogeno, e ne accadrà uno
scoppio.

»La misteriosa anima umana è tale che può dalle passioni e dal dolore
essere preparata in modo che una vostra idea, che? una semplice
parola faccia l'uffizio di scintilla sulle polveri da mina, di nero
di platino sul miscuglio dei due gaz. E non vi arrestate intimorito
innanzi a questo pensiero?... O potete star tranquillo, perchè non
avete idee? Ve ne hanno pur troppo di coloro che scrivono senz'aver
nulla da dire! Ma voi allora sciupate il vostro tempo, e rubate quello
degl'infelici che vi leggono.... Ah! l'incuria della gente: l'avete
detto.... Ma non vi fu crudeltà di re tiranno o di frate inquisitore,
neppure la truce fantasia del cantore dell'inferno, che abbia saputo
immaginare ed applicare un supplizio simile. Come? Voi vi torturate
il cervello, vi opprimete l'anima, vi consumate in veglie febbrili la
vita, ogni giorno, ogni ora, per una produzione che dovete trarre dal
vostro interno, che è il sangue del vostro cuore, e nessuno vi bada,
e la vostra voce muore come quella d'un sotterrato vivo in caverna
che non ha pure un'eco!.... Chi vi ha condannato a questa vergognosa
tortura d'impotenza?.... Mi risponderete forse che vi spinge un interno
stimolo, che è il cenno del proprio destino. Non pascetevi di fole. Ma
non credete voi dunque nel libero arbitrio dell'uomo? Non vi sentite
padrone almeno di non essere ridicolo nello stesso tempo che infelice?»

Si era molto riscaldato nel dire: era diventato tutto rosso in faccia,
gesticolava vivamente e gli occhi gli brillavano in mirabil guisa. Si
vedeva che l'eccitazione datagli dal bere l'aveva fatto uscire per quel
momento dalla passività in cui manteneva chiusi abitualmente la sua
anima, il suo pensiero e forse le memorie del suo passato. Mentr'egli
parlava con un impeto che mal si potrebbe esprimere, compare Fosco
sembrava aver cresciuto ancor egli di foga nell'acre suono del suo
violino, e quella musica scordata e quasi direi rabbiosa, a cui si
frammischiavano, all'uso montanino, grida selvaggie dai robusti petti
dei danzatori, faceva un accompagnamento strano alle concitate parole
di mastro Ambrogio.

Quando questi si fu interrotto un momento, io gli dissi:

“Le vostre parole vorrebbero una lunga risposta, e se ne ecciterebbe
forse una discussione non breve, che non è qui luogo di fare; ma, se
non vi disgrada, e a me piacerà molto, la faremo un altro momento.”

La sua animazione cessò a un tratto; si ritrasse vivamente indietro,
come spaventato, tendendo le mani innanzi, quasi volesse rigettarmi da
sè, e proruppe con accento di vera paura:

“No, no, nessuna discussione, nessuna parola più su questo argomento,
nemmeno una!.... Vi prego! Non pensate più a ciò che vi ho detto....
Non so più io stesso che cosa sia.... non lo sapevo dicendolo....
L'avrete udito che talvolta la mia ragione vagella. Questa fu una delle
volte.... Addio addio.... Lasciatemi stare; non venitemi a tormentare
dell'altro.”

E s'allontanò da me e dal castello, tentennando nel camminare, forse
per l'emozione che mi era parsa veramente profonda in lui, forse per il
vino bevuto che era stato molto davvero.


VIII.

Per più giorni mi fu impossibile di vedere il maestro. Mi persuasi
ch'egli mi sfuggiva appositamente e con molta cura, pentito di essersi
abbandonato meco a quel momentaneo sfogo di pensieri che dovevano da
lungo tempo e frequentemente aggirarsi per la sua testa.

Il mio ospite cominciava ad essere inquieto; e buono com'era,
proponevasi di andare egli stesso a cercarne novelle, quando un giorno
— si era alla fine del pranzo, che colà, secondo l'antica usanza
piemontese, si fa a mezzo della giornata, — vennero ad annunziargli che
il maestro era da basso, chiedendo di parlargli.

“Fatelo salir su:” disse il padrone.

E il servo rispose: Ambrogio non volere nemmeno entrare sotto l'atrio,
ma pregare colle lagrime agli occhi il castellano perchè volesse
scendere ad ascoltarlo da solo, chè a lui, solamente a lui, desiderava,
e tosto, parlare.

Il mio amico s'accostò alla finestra che guardava sulla spianata del
giardino, e io gli tenni dietro. Vedemmo il maestro che, agitato,
passeggiava su e giù col suo passo incerto, più barcollante del solito
e la sua testa arruffata dondolante sull'esile corpo. Aveva tale un
aspetto di desolazione che il proprietario del castello se ne commosse.

— Gli è avvenuta di sicuro una qualche disgrazia: — esclamò egli. — Chi
sa che diavolo sia! —

E levatosi dalla finestra, si affrettò a scendere ed a raggiungere
Ambrogio.

Io rimasi colà, appoggiato al davanzale, a guardarli. Non udivo pur una
delle loro parole, ma ne vedevo tutti i gesti e l'espressione del viso.

Appena Ambrogio vide comparire il castellano sugli scalini
dell'ingresso, gli mosse vivamente incontro, tendendo verso di lui le
mani, come si fa ad uno che giunga in punto a salvarvi, e mandando
un'esclamazione che era una preghiera essa sola. Poi subito avviò
il suo discorso con una vivacità, con un calore, con una abbondanza
di parole tali che dinotavano la massima concitazione. E si levava
il cappellaccio, e scuoteva la sua ispida ed arruffata capigliatura
grigiastra, e si percoteva la vasta fronte, bernoccoluta, e stringeva
le mani con indicibile atto di supplicazione fervorosa. In una mossa,
con cui, vólto il viso all'insù come in una più viva deprecazione, mi
lasciò scorgere i lineamenti tutti turbati della faccia, potei vedere
che grosse lagrime gli rigavano le guancie più terree del solito.

— Pover'uomo! — dissi tra me, commosso alla vista di quel dolore. —
Qual mai disgrazia può averlo colpito? —

Il padrone del castello vedevo che con atti e parole faceva a calmarlo,
e sembrava profferirsi in suo soccorso. Ad un punto, quando il maestro
ebbe detto ciò per cui era venuto a supplicare, il mio amico levò le
braccia, e annuì colla testa in un certo modo che pareva significare:

— Ecchè? Gli è codesto soltanto che chiedete? Ma sì, ve lo accordo; è
cosa fatta. —

Ambrogio, in un impeto di riconoscenza, prese a un tratto ambedue
le mani del mio ospite, e curvatosi innanzi a lui, gliele baciò.
Il castellano le ritrasse vivamente: il maestro parve di subito
vergognarsi dell'atto troppo servile, dirizzò la persona, e sollevò
la testa con piglio pieno di nuova fierezza; ma fu un lampo; e tornato
nella sua abituale umiltà, si partì con passo affrettato.

Il mio amico risalì a raggiungermi nella stanza dove lo stavo
aspettando; aveva un sorriso sulle labbra e lagrime agli occhi.

“Che benedett'uomo!” esclamò. “Gli è matto per davvero, e colle sue
stramberie non ha commosso anche me? Non indovinereste mai più che cosa
è venuto a dimandarmi con tanta disperazione!....”

“Che cosa?”

“Gli è morto stanotte il suo cane.”

“Ah, povero diavolo! Comprendo il suo dolore.”

“E' vuol dargli una sepoltura che crede possa essergli gradita, e che
sia salva sempre mai da ogni profanazione. Dice che il luogo in cui
il suo perduto compagno si compiaceva di più, era il mio viale de'
pini...”

“E vuole seppellirlo colà?”

“Precisamente. È venuto a dimandarmene licenza come d'un gran favore.
Dice che verrà egli medesimo stanotte; e vuole ad ogni modo esserci
solo.”

Difatti, la sera, verso le undici, dalle finestre del castello vedemmo
un lumicino brillare nel più folto dei pini, durante un'ora e forse
più. Il domani in quel luogo fu trovato sopra la terra smossa un grosso
sasso che prima stava ad una certa distanza di là, e pareva impossibile
che il povero maestro avesse avuto forza pur di smuovere.

Capimmo che la salma di Pomino era posta a consumarsi

    «Sotto la guardia della grave _pietra_.»

Passarono molti giorni senza vedere altrimenti il maestro.


IX.

Un mattino, svegliatomi prestissimo, vidi innanzi alla mia finestra,
di cui avevo lasciate aperte le persiane, il cielo di sopra la montagna
rischiararsi così lieto della prima luce dell'alba, che coraggiosamente
determinai bearmi del meraviglioso spettacolo dell'aurora. Uscii piano
piano nel giardino, e pel viale dei pini m'avviai verso un'eminenza di
terreno da cui avrei potuto mirar meglio la stupenda scena. A un tratto
udii una voce lamentosa, or bassa, or alta, impressa sempre di molto
affetto, che pareva declamasse dei versi. Stupito, ammorzai il suono
dei passi, e venni pian piano avanzando verso quella voce, con molta
cautela.

Inoltratomi un poco più, vidi in quella penombra crepuscolare gli
abiti scuri di maestro Ambrogio, il quale, accoccolato, meglio che
seduto, sulla gran pietra che copriva la fossa del suo cane, con una
voce armoniosa e con un accento espressivo, come io non gli aveva udito
mai, lasciava sgorgare dalle labbra un'onda di vera, soave, purissima
poesia.

Attonito, e insieme commosso, mi accostai, e riparatomi dietro il
tronco d'uno di quei grossi pini, stetti ad ascoltare.

Ambrogio teneva i gomiti sulle ginocchia, stringendosi colle mani
la fronte; aveva ai piedi il suo cappellaccio, e le chiome gli si
sollevavano sulla testa agitate dal vento mattutino.

Se io avessi potuto tenere a mente e qui riscrivere i versi che
impetuosi uscivano in quel momento dalle labbra di quell'umile
maestrucolo elementare di un povero e rimoto paesello montanino, io
darei alla letteratura moderna uno squarcio di poesia sublime, come se
ne ha troppo poca al tempo che corre.

Egli parlava d'amore: — di quell'amore che è il _fiat_ divino della
creazione, che è la legge intima e suprema di tutto l'universo, che
è l'idea manifestata colla parola della vita, che è la finalità della
sussistenza e dell'intelligibilità; — di quell'amore che è nel mondo
morale quell'ultimo supremo fluido, se pur così può nominarsi, al quale
corrisponde nel mondo fisico l'etere, la essenza prima, non ancora
accertata, ma indovinata e presentita dalla scienza moderna, nella
quale tutte hanno origine le forze della natura; — quell'amore che
quindi, sostanza universale, tutto invade e pervade, e si manifesta in
tutti i rapporti degli esseri, dai purissimi spirituali ai composti
corporei, ad ogni menoma animazione della materia, legge chimica,
per così dire, delle affinità intellettive insieme e sensitive
nell'universo vivente.

I due cardini del mondo della vita essere il pensiero e l'amore.
Perfette le creature celesti, dove purissimi, non offuscati dalla
materia, e questo e quello; perfettibile l'uomo, in cui limitati e
l'uno e l'altro dagl'istinti materiali, offuscatori sì d'ambedue,
ma domabili pure e riducibili; passeggiere ed effimere animazioni di
materia, affatto mortali gli esseri al di sotto dell'uomo, in cui un
accenno soltanto di pensieri e d'amore.

E qui, volgendo con brusca transizione il discorso alla memoria di quel
bruto sulla cui fossa egli sedeva, lo apostrofava con voce di pianto.

Quel diseredato composto di materia organizzata lo aveva pure amato,
lui creatura intelligente, più che non avessero fatto gli uomini suoi
pari. Non alla regola dell'utile, non alla vanità delle apparenze aveva
esso misurato il suo affetto. Altrove il povero cane avrebbe potuto
trovare quando che si fosse pane più bianco e più ricco albergo e
temperie più mite, da non comprarsi con altro che coll'ingratitudine
d'abbandonarlo. Qual uomo se ne sarebbe rimasto?

Lui povero, solo, debole, brutto, quella bestiola lo aveva nondimeno
fortemente amato, e senza tregua e senza condizioni. Perchè aveva da
essere distrutto affatto quell'essere amoroso, così da non esistere più
mai nella sua discioltasi individualità? Perchè a tanto affetto aveva
da mancare corrispondenza di pensiero, il quale è l'elemento necessario
a costituire l'immortalità di un'anima? Oh! se avesse egli, il poeta,
se avesse potuto instillargli una parte di quel suo pensiero che alcune
volte sentiva soverchio in sè confondergli il cervello e urtarglisi
dolorosamente nelle pareti troppo ristrette del cranio! Quante fiate
non aveva egli vaneggiando sognato, — come l'_homunculus_, cui Goethe
fa creare da Wagner nelle storte di Fausto, — di crear esso, con un
miracolo di scienza e di fede, uno spirito immortale collo spiro di
vita che animava quella materia foggiata a bruto! Non avrebbe esso
avuto dell'uomo che le facoltà amative e intellettive; non gli orgogli,
non le perfidie, non le deficienze, che, dipendenti da quella forma,
ond'egli si assuperbisce cotanto da dirla simile a quella di Dio,
torcono al male i più belli suoi pregi.

L'uomo disconosce ed infrange la legge d'amore. Dal peccato fu
l'umanità col divino sacrificio redenta; ma l'individuo conviene sè
stesso redima, e nol fa; e il soffio di Satana, traversando gli errori
sociali e le seduzioni d'un falso interesse, ne corrompe l'anima
tuttavia. Non si sa amare in terra dai più, come non si sa pensare; i
meschini sono derelitti, del pari che è rigettata la verità.

Ma non sempre durerà sulla terra questa ribellione dell'uomo al suo
destino; e il poeta, con islancio veramente profetico, sorvolava sulle
età che sono, per vagheggiare nell'avvenire la società progredita,
migliorata, quando tutti i rapporti umani saranno regolati dalla sola
legge dell'amore, e del paradiso terrestre, che allora si sarebbe
veramente dischiuso alla nostra schiatta, faceva con sì vivaci e
splendidi colori una dipintura sublime, che nulla io conosco da
metterle a paragone nelle opere dei gloriosi poeti dell'umanità; e
terminava con un inno di gioia e dirò di trionfo, il quale ben pareva
quello che ai nuovi tempi avrebbe dovuto innalzare l'umana famiglia per
salutare l'adempimento della sua ventura.

In sull'ultimo egli s'era rizzato in piedi e, levata superbamente la
testa, aveva abbandonate del tutto al vento le sue chiome arruffate.
Esse gli facevano come un'aureola intorno alla vasta fronte, e il
sole, che mandava allora i suoi primi raggi, le indorava con tinte di
fuoco. La persona di lui, mi appariva in quell'istante più alta e più
nobile di forme e d'atteggio. Splendevano d'una luce straordinaria
le sue pupille alzate al cielo; splendeva, come per propri raggi che
ne emanassero, la fronte solcata dallo stampo del pensiero, tocca dal
segno potente del genio. Infuocate gli erano le guancie, infuocate le
labbra tremanti. Vibrava con un'armonia ineffabile e nuova la voce del
Vate, disposandosi alle mille voci, ai mille sussurri, ai canti degli
augelli, al fruscío delle frondi, al ronzío degl'insetti, con cui a
quel momento la terra salutava l'apparire del sole sull'orizzonte.
Avreste detto che i potenti versi del poeta assembravano in una, e
traducevano in parola umana quel cantico eterno e meraviglioso e nuovo
sempre, che con tutte le voci della natura innalza ogni mattina la
terra alla gloria del Creatore.


X.

Vi confesso che obliai a quel punto dove mi fossi e innanzi a chi, in
un trasporto tale di fantasia che raramente ebbi a provare l'uguale.

Vi sarà avvenuto parecchie volte che un pezzo efficacissimo di musica
ispirata vi ecciti la mente con sì gradevole emozione che pare una
strana e direi quasi spirituale ebbrezza vi assalga a dischiudervi
innanzi all'intelletto un mondo sterminato e confuso di pensieri
vaghi, indefiniti, ma sublimi; e vi sembra che questi pensieri vi sieno
ispirati da una sfera superiore, sieno vostri e pure più alti di voi,
e vi sentite innalzarsi l'anima e nello stesso tempo crucciarsi nel
sentimento della sua impotenza, e vi affannate per afferrare e ridur
concreta una di quelle tante idee che vi barbagliano nella mente, e vi
indispettite di non lo potere, e un certo brivido vi corre per le vene,
e sentite il bisogno e la capacità temporanea in voi di nobili gesta,
e avete lo spirito scosso dalla mano potente dell'entusiasmo.

Ebbene, io mi trovava in tale stato a quel punto.

Mi precipitai verso quell'uomo e, prendendogli ambe le mani, esclamai:

“Chi siete voi?.... Ma chi siete voi, cui Dio concesse la fortuna di
tal forma per tanta possa di pensiero?”

L'esaltazione in lui era troppa per cedere di subito. Al mio repentino
apparirgli, non parve nè anco essere stupito. Mi guardò con dignitosa
fierezza, agitò la testa, e facendo balenare nello sguardo una fiamma
cui niuna parola varrebbe ad esprimere, proruppe:

“Chi sono? Chi sono?... Sono un uomo che ha molto sofferto, un uomo che
non ha nemmeno più un nome, che si è seppellito vivo nell'ombra della
morte, più coraggioso di Carlo V, il quale rinunziò alla corona dopo
averla portata tanti anni!.... E anche a me Dio aveva data una corona!
La più splendida delle corone!, ingemmata di stelle e lucente di que'
raggi che circondano il suo trono. La corona del poeta! E me la vidi
brillare dinnanzi, sì vicino da poterla afferrare; e sentii degna la
mia fronte di cingerla e potente il mio petto da meritarmela. Oh come
palpitai per essa ne' miei giovani anni! Oh come la portai nobilmente
ne' miei sogni, e sentii nelle mie travagliose veglie notturne ardermi
essa divinamente le tempie, e sollevarmi il capo oltre la nebbia
dell'atmosfera terrestre, e lanciarmi la mente sulle ali dell'idea nei
sogni dell'infinito!...”

“Ma fra quella corona e me, vidi levarsi, ipocrita, maligna, beffarda
la malvagità umana, e indietreggiai, come chi sul suo cammino scorga
drizzarsi fischiante, sanguinolenta, la testa dell'idra.... Oh! non
crediate ch'io non abbia lottato. Ebbi coraggio, ebbi sofferenza, ebbi
nobili indignazioni, ebbi timide transazioni pur anco.... Un giorno
scoprii che l'odio generava l'odio, che l'invidia seminava intorno
i denti del mostro di Cadmo e da ogni nemico vinto faceva sorgere
legioni e legioni di calunniatori e di rabbiosi latranti. Indolorito,
ammaccato, trafitto, disperato fuggii.”

Un po' di calma entrava in lui; sciolse dalle mie le sue mani, e se le
passò lentamente sulla fronte e sulla faccia; poi appoggiandole sulle
mie spalle, e tenendomi innanzi a sè, in modo che la sua persona pareva
cresciuta e sopravanzarmi, e fissando entro i miei occhi il suo sguardo
lucente ancora di febbre, soggiunse:

“Voi avete sorpreso il segreto della mia vita: quel segreto che da
tanti anni rinserro con sì gran cura nella mia solitudine e nel mio
nulla. Di belle fiate il dèmone mi assale e mi scuote e mi tormenta!
Io lotto.... e l'ho vinto sempre. Voi avete assistito ad una di
queste tremende battaglie che mi logorano la vita. Dimenticatelo....
Dimenticatemi!.... in nome dell'anima vostra, delle vostre speranze, in
nome di Dio!”

Io volli parlare: egli non me ne lasciò il tempo:

“Non mi dite nulla, non mi dite nulla, ve ne scongiuro.”

Si lasciò ricadere sopra il sasso, e stette un poco con le braccia
sulle ginocchia e la testa reclinatavi su, tutto raccolto e in ogni suo
membro tremante.

Poi tornò a sollevare il capo, si ravviò macchinalmente le chiome che
gli scendevano sulla fronte, prese il cappello che era in terra, e se
lo mise in capo; quindi girò verso me i suoi occhi, ora affatto spenti.
Aveva nuovamente l'aspetto smemorato e mezzo scemo che gli era solito;
il suo volto era pallido e le labbra scolorate più di prima.

“Ella,” riprese a dire colla voce cavernosa e fioca che gli conoscevo
abituale, “ella ha udito i vaneggiamenti d'un povero pazzo. Spero che
vorrà tacerli a tutti.... Oh per pietà non dica nulla!...”

“Tacerò;” risposi: “ma bisogna ch'io le parli....”

S'alzò di scatto, e agitando le mani verso di me balbettò con accento
d'uomo stanco e sfinito:

“Non adesso, non adesso per carità!”

E senza lasciarmi aggiungere una parola, si allontanò a gran passi;
ma quando fu alquanto discosto si fermò e volgendomisi anche una volta
colle mani giunte:

“Silenzio!” disse: “mi raccomando.”

Poi continuò con passo barcollante la sua strada.

Per due giorni mi fu impossibile rivederlo: al terzo dì, Ambrogio venne
al castello tale e quale com'era sempre; approfittando d'un momento, in
cui nessuno poteva udirci, sollecito mi disse:

“Ella vuole parlarmi, ed ancor io voglio parlare a lei. Domani mattina
venga a casa mia.”

Aspettai con ansiosa sollecitudine il mattino seguente; e, levato
appena il sole, scesi a gran passi la collina verso il villaggio.

Ambrogio era sulla soglia della sua casa. Mi salutò con una certa
solennità e mi fece entrare nella sua povera abitazione.


XI.

Fui introdotto in una stanza a pian terreno, spoglia, con poca luce e
affumicata; essa al maestro serviva insieme di cucina, di tinello e di
camera da dormire. Una scala, a mano destra di chi entrasse, menava ad
una stanza superiore, della quale Ambrogio aveva fatto la scuola e lo
studio, essendo più chiara, più arieggiata e più salubre.

Quando fummo tutti e due in quest'ultima stanza, il maestro sedette
e mi fece segno sedessi; poi cominciò a parlare con voce debole ed
esitante, tenendo timidamente lo sguardo fisso a terra, come uomo che
non osa levarlo in faccia al suo interlocutore.

“Non mi lasciai vedere in questi ultimi giorni, perchè avevo mestieri
di prepararmi al colloquio che avrebbe avuto luogo fra noi; avevo
bisogno di sapere che uomo fosse quello che sventuratamente aveva
sorpreso il mio segreto.”

Io feci un movimento di sorpresa; egli continuò senza scomporsi:

“Appresi che Ella, forestiero a questa terra, l'avrebbe presto
lasciata; e già sapevo come fosse pure uno di coloro che si lasciano
consumare le carni dalla veste di Nesso dello scrittore. Ciò riuscì
a tranquillarmi un poco; tal sorta di uomini sono tutti corteggiatori
ardenti d'una divinità implacabile e crudele, ch'essi chiamano la fama,
e che dispensa il più spesso a capriccio i suoi favori; e, di solito,
l'invida gelosia che nutrono gli uni degli altri, li fa lieti quando
uno, che potrebbe pur conquistare le fuggevoli buone grazie della
contesa deità adorata, si ritrae in disparte, e volonterosi molto lo
lasciano nelle tenebre in cui si racchiude.”

Volli protestare che, nella mia nullità, non avevo il torto di
appartenere a quella schiatta di maligni.

Ambrogio non mi lasciò dire.

“Hannovi delle eccezioni,” continuò egli, “e tanto meglio s'Ella è una
di esse. Imperocchè costoro possedono sicuramente un animo onesto, il
quale, avendo certo dovuto soffrire più o meno delle perfidie e delle
sciagure che a tutti si avventano su quel cammino, sono disposti ad
apprezzare e rispettare la risoluzione di tale, che, o per debolezza,
od anzi per maggior forza, rinuncia alla lotta, e vuol morire
ignorato....”

“Ignorato?” io proruppi. “E lo potete voi? E ne avete voi il
diritto?... Ho scoperto in voi un talento di prim'ordine, e vengo a
dimandarvi perchè lasciate infruttuoso il capitale che Dio vi ha dato,
perchè private il vostro paese, il mondo d'una ricchezza intellettuale
che a voi fu concessa in uso, ma i cui portati devono essere il bene di
tutti?...”

Ambrogio sollevò con moto quasi impetuoso la testa, e m'interruppe con
più violenza che non mi sarei aspettato:

“Perchè? Perchè ciascuno ha pur diritto a procurarsi la sua pace,
la sua conservazione, la salute dell'anima sua. Come! Mi sono tratto
fuori dall'inferno, e voi vorreste mi vi ripiombassi? E non sapete che
l'inferno di questa vita mi farebbe dannare all'inferno dell'eternità
quest'anima troppo sensitiva ed impressionabile? Non sapete che,
circondato dal male, ferito, tormentato dal male, io gli ho già teso
una volta le braccia, e glie le tenderei ancora; che io gli ho detto
e gli direi ancora: dammi tu le armi per combattere i miei nemici,
e render loro dolore per dolore, dammi tu l'orribile diletto della
vendetta?... Fui sull'orlo dell'abisso, sapete, un piede già per quel
declivio tremendo, alla vigilia d'esser perduto per sempre... Nulla,
nulla mai potrà richiamarmi su quel lubrico, periglioso cammino. Ah!
inorridite!... Sulle mie mani c'è sangue, cui non hanno cancellato
tuttavia tante mie lagrime.”

Feci un moto, ch'egli interpretò certo per manifestazione d'orrore che
io provassi.

“Ah! non allontanatevi da me:” soggiunse ratto e con forza. “Sono
un omicida, ma non sono un assassino. La sventura ebbe parte al mio
delitto, non la mia volontà... Non condannatemi, compatitemi. Io era
nato per amare ed essere amato!”

Volli parlare, ma egli mi fe' cenno tacessi, e dopo un istante riprese
con più calma:

“Il mio paese, il mondo, l'umanità! Che cosa possono pretendere da me?
Che io non passi inutile affatto in questa vita terrena. Ebbene, io
tolgo loro un vano sognatore, un infruttuoso fabbricatore di versi,
per dare ad una povera popolazione un maestro che non senza effetti
s'industria ad allevare generazioni migliori, redente dai pregiudizi e
dalla miseria dell'ignoranza. Spogliatevi delle vostre preoccupazioni
cittadine e letterarie, dei vostri pregiudizi di scuola e di salotto,
dei vostri leggieri e puerili apprezzamenti da caffè e da appendice
di giornale; esaminate con fredda attenzione la cosa, e conchiuderete,
credetemi, essere più vantaggiosa mille volte l'opera del più umile fra
i maestri di villaggio che quella del più glorioso dei poeti.”

“Voi avete gran parte di ragione, ma la guastate esagerando.
Volete disconoscere il buon effetto che producono sull'animo umano,
nobilitandolo, i capolavori dei genii? Quanti furono spinti a sublimi
aspirazioni, concepirono sublimi pensieri, si sforzarono ad esser
grandi, ed ottennero almeno di essere più nobili di mente e di
cuore alla lettura delle grandi opere dei grandi poeti? Il cómpito
del maestro è certo eccellentissimo nella sua tranquilla umiltà, ma
ciò non toglie che l'opera dei genii, nella dolorosa e, come dite
voi, pericolosa sua gloria, non sia pure ottima a sua vólta. Ora
l'intelligenza dell'umanità, l'intelligenza d'una nazione deve avere
ed ha per l'una e per l'altra di codeste opere stromenti diversi,
specialmente adattati; ed è un invertire le parti e fallire al dovere,
chi destinato per una si dà invece all'altra. Voi che siete nato poeta,
lasciate a più umili intelletti l'utilissimo ma meno elevato ufficio
del maestro di bimbi; voi che lo potete, date alla vostra patria il
canto dei forti onde abbisogna: siate il _poeta civile_ dell'Italia
moderna.”

Egli si alzò e passeggiò alquanto su e giù per la stanza, le braccia
incrociate al petto, il capo chino. Osservai come il suo passo,
abitualmente incerto e barcollante, fosse allora fermo e sicuro.

Dopo un istante, mi si piantò dinnanzi, e guardandomi con un certo
piglio d'autorità e d'orgoglio, press'a poco come mi aveva guardato
quel mattino sotto il viale dei pini, mi rispose:

“Essere il poeta civile dell'Italia moderna? Ma che? Pare a voi che
basti il volerlo, anche chi abbia ingegno da tanto? Credete voi che
il poeta tragga solamente da sè medesimo, dalla sua anima soltanto,
la sostanza de' suoi versi? Egli la attinge dall'atmosfera che lo
circonda; egli, fuoco che accentra e riproduce i sensi e le voglie
della società in mezzo a cui vive. È questa la sua prima condizione di
vita, come poeta. Quando alcuno avesse l'impossibile valore di stare
e di fare contro alla corrente comune, perirebbe negletto e quindi
più inutile ancora. Esaminate qual sia — nelle sue credenze, nei suoi
intendimenti, nei suoi fatti — l'epoca nostra, e dite se può il poeta
stillare da tali elementi il poema della virtù, della verità e della
fede. Byron e Leopardi sono i due veri poeti del nostro secolo — forse
i soli! — e hanno cantato lo scetticismo. Le deficienze, gli errori,
i decadimenti dei nostri contemporanei, credete voi sieno tutta colpa
di loro rea volontà? È per la maggior parte colpa delle circostanze,
dell'ambiente in cui si vive.”

“Conviene adunque rimediarvi” interruppi, “conviene che a ciò si
rivolga l'opera...”

Ed egli vivamente:

“Dei maestri, che educhino le generazioni che sorgono.”

Accennai parlare, ma non mi diede tempo.

“Sentite! Sono ormai tant'anni che io ho presa questa risoluzione,
e non me ne pento. Potete pensare se tutti gli argomenti che avreste
da dirmi non sono passati e ripassati per la mia mente, e se valgano
ancora ad ottenere alcun effetto in me. La nostra discussione quindi si
converte in una semplice conversazione accademica.”

S'interruppe un istante a prestare orecchio ad un gaio vociare che
s'udiva fuori nella strada, avvicinantesi man mano: erano armoniche
vocine di bambini chiassosi e ridenti che s'accostavano a quella vólta.
La terrea faccia del maestro si illuminò d'una gioia quasi paterna.

“Silenzio!” diss'egli con forza. “Ecco i miei scolari, i miei gioielli,
come a Cornelia romana i suoi figliuoli... Ecco la mia poesia, ecco la
mia gloria.”

Pareva ringiovanito. S'affrettò a scendere e ad aprire la porta: una
frotta frugola e clamorosa, da paragonarsi ad uno stormo di passerini
pigolanti, si precipitò nella stanza intorno a lui, a serrarlo in mezzo
con mille gridolini di affettuoso salutare.

Ambrogio chinò la sua testaccia grigia ed arruffata all'altezza di
quelle testoline bionde, e lietamente commosso li abbracciò tutti
uno ad uno. Poi si volse a me con due lagrimette tremolanti entro gli
occhi.

“Ora,” disse, “io mi sento dappiù che molti nel mondo.”

Io mi accomiatai.

“A rivederci:” gli dissi. “Sento il bisogno di discorrere dell'altro
con voi.”

Egli crollò il capo senza rispondermi.

“Entriamo a scuola, figliuoli miei” disse ai bambini; — e mentre io
usciva, egli montava la scala, circondato da' suoi piccoli amici.


XII.

Dopo quel giorno fui più volte a visitarlo, ed egli a poco a poco si
dimesticò con me in guisa che mi parve non vedesse mal volentieri la
mia frequenza.

Conobbi in breve che, dotto principalmente nella storia e nella
filosofia, maestro Ambrogio non era ignaro affatto di nessuna delle
parti dell'umano sapere, essendo egli uno di quegli spiriti complessivi
e vasti che tutto possono abbracciare.

Credo che io venissi appunto acquistando gradatamente la sua fiducia,
perchè non mi dimostravo per nulla curioso dei fatti suoi, e non gli
avevo mosso ancora mai un'interrogazione sul suo passato. Non già che
non mi stuzzicasse il desiderio di sapere alcuna cosa in proposito; ma
pensavo che una sconsiderata richiesta su tale argomento l'avrebbe di
subito impermalito e posto in sospetto, con rischio di farmi perdere a
un tratto tutto il guadagno che ero venuto facendo nel suo animo.

Un giorno che io non aveva più che poco tempo da rimanere in
quel paese, e ch'egli mi parve più espansivo del solito, pensai
inopinatamente di assalirlo con queste parole:

“Presto parto, Ambrogio, per non tornar forse mai più in questo
villaggio.”

Egli non mi lasciò continuare.

“Ho pensato a codesto, e parecchie volte,” disse, “più che non avrei
voluto. E talora.... vi parlo schietto.... mi parve il mio meglio; mi
dicevo anzi che sarebbe stato più a mio vantaggio, o non foste venuto
mai, o non vi avessi conosciuto; talora invece me ne sono sentito a
trafiggere come dalla puntura di un dolore. A buono o a mal mio grado,
voi avete pure nuovamente collegata la mia anima, ormai disavvezza,
ad un mondo d'idee e di fatti che alla fin fine ho amato cotanto, e,
partendo voi, quest'ultimo anello si rompe, per lasciarmi, proprio del
tutto, senza più rimedio, ripiombare in quella solitudine desolata
che ho pur voluto, che voglio sempre, che deve essere la mia sorte,
ma contro cui, alle volte, si ribella l'anima mia. Mi sono proposto il
quesito: se avrei dovuto scrivervi....”

“E l'avrete sciolto affermativamente, io spero. Scriviamoci, ve ne
prego.... per util mio. Nei vostri colloqui io sento aver molto appreso
e molto da apprendere. Da un carteggio, voi avrete per mio mezzo
continuata alcuna attinenza con quel mondo esteriore a cui rinunciaste,
e che pure vi è necessità di seguitare nel suo svolgimento civile e
morale; e nell'espansione del vostro cuore in un cuore che vi giuro
profondamente devoto ed amico, oltre che un sollievo, otterrete il
giovamento di me, a cui le vostre parole saranno ammaestramento e guida
e conforto.”

Ambrogio scosse il capo.

“No, no,” disse. “Partito di qui, voi mi oblierete, io vi devo obliare.
Ve l'ho già ripetuto più volte: io al mondo sono morto.... In un paese
colaggiù, della mia regione nativa, giace un corpo entro una fossa del
cimitero, e sopravi un'umile pietra con inciso il mio nome, il nome
che portai fra i viventi. Io sono uno spettro, a cui non è concesso
rientrar nella vita.... e che non lo vuole. Nella vostra esistenza —
poichè il caso, non la nostra volontà, ha fatto che io una qualche
orma v'imprimessi — debbo passare non altrimenti che come un'ombra
fugace. Sarò la memoria d'un estinto. Ora gli estinti non tornano,
come il passato non si muta, come il destino non si rinnovella....
e se tornassero, quei poveri estinti, sarebbero i mal capitati....
Lasciatemi nella mia ombra di morte.”

Io volli ribattere; ma egli non mi ascoltava, assorto, come gli
avveniva di frequente, nelle sue meditazioni. A un tratto si alzò, e
passeggiando con agitazione per la stanza, così prese a dire:

“Credetemi, credetemi... Che la felicità sulla terra è un motto
vano, l'hanno detto centinaia di Filosofi.... e hanno avuto torto. La
felicità per l'uomo è la pace dell'anima, la quiete dello spirito, la
tranquillità della coscienza e della vita. E tutto questo non lo trova
se non chi vive ignorato. Il detto del Vangelo va umanamente corretto
in questa guisa: «Beati i poveri di spirito, perchè essi vivono
ignorati!» Descartes lo disse prima di me. Essere oscuri, non contare
per nulla nel mondo, e saperlo, e contentarsene, e fare modestamente
un po' di bene intorno a sè, fuori d'ogni preoccupazione di lode e
d'applauso, ecco la vera virtù, ecco la sola possibile felicità dei
mortali.... Ed è quello che ho trovato qui, in quest'angolo rimoto del
mondo, e che non voglio perder più.... No, no, no, in fè di Dio!”

Si piantò dritto innanzi a me, e ponendomi sopra una spalla la sua
destra, riprese con accento tra di melanconia, tra d'ironica beffa:

“Sapete voi che cosa sono gli applausi del mondo? Vi hanno essi
allappato la bocca col loro acre sapore gli encomii volgari della
gente? Vi ha fatto girare la testa quel «fiato di vento che or vien
quinci ed or vien quindi» e che è il mondano rumore? Vi è salita al
cervello l'orgogliosa ebbrezza d'una rinomanza che fa ripetere ai
polluti echi della pubblicità il vostro nome?.... Io, io l'ho provata
la miseria di quell'acuto diletto; e sciolto, qual ora mi sono, da ogni
laccio di vanagloria, posso pur dire che mi sono arrampicato sino sul
piedistallo della celebrità, e, come nell'anima gli spasimi dei grandi,
come nella mente le torture del genio, ebbi nella vita le immani
superbie dei veri trionfi.”

Si cacciò nelle arruffate chiome ambe le mani e se ne serrò la testa
con moto quasi convulso.

“E il mondo mi conosceva egli? M'apprezzava egli a dovere?.... No,
lasciate ch'io lo dica. Nella corona di spine che impose alla mia
fronte, era troppo poca la sacra fronda d'alloro... Il mondo!...
Perchè vi affannate a meditare, lottare nella battaglia de' pensieri,
travagliarsi a scrivere per esso? Malaccorto! Non lo sapete? Su cento
lettori, novanta sono mediocrità e peggio, svogliati, inintelligenti e
superbi che non vi capiscono e v'insultano nei loro giudizi, non meno
colle loro lodi che colle loro censure: sui dieci che rimangono, nove
sono invidiosi, i quali, quanto maggiore il vostro merito, tanto più
vi odiano: uno forse, — uno solo! — per gran ventura, vi comprenderà,
forse, e porrà in voi stima ed affetto.... Uno!.... felice ancora chi
lo trovi!”

Fece una pausa, e tornò a passeggiare per la stanza. Io sentiva che il
suo cuore era presso a traboccare in confidenze, mi guardai bene dal
dir parola, per timore che una voce imprudente potesse richiamarlo al
suo solito scetticismo diffidente.

Si fermò di nuovo innanzi a me e mi disse commosso e quasi
stentatamente:

“E io, quest'uno, non l'ho trovato.... non l'ho trovato mai! Nessuno mi
amò.... Da ultimo, quando fattomi umile ed oscuro, si ebbe compassione
del povero maniaco; il poeta fu spregiato o temuto, odiato quasi
sempre. Io non sono di quest'epoca. Appartengo o ad un passato che non
so nemmanco quale, o ad un avvenire che per ora non accenna neppure di
effettuarsi. Ho amato la verità, e gli uomini mi disamarono.... Voi,
voi medesimo avete alcuna curiosità per l'incognita che io rappresento
e che vorreste spiegare; ma alcuna affezione l'avete voi per me?”

Vedendo che mi accingevo a rispondere, s'affrettò ad impedirmelo
bruscamente.

“Oh non parlate!.... Crederei io alle vostre parole?.... E non vorrei
che mentiste!.... E se mai aveste il coraggio di gettarmi in faccia una
verità dolorosa, ne soffrirei tuttavia, tanto ancora in me rimane del
vecchio uomo!... E poi, me... veramente me, qual fui.... conoscete voi
bene?”

Mi prese una mano; le sue erano fredde come ghiaccio.

“Le anime nostre simpatizzarono: la vostra intelligenza comprese la
mia. Lasciatemi questa illusione. Avete scorta la superiorità della
mia mente e non ve ne adontaste meco, nè mi metteste odio: per ciò....
Vi stimo.... Oltre questo basso mondo, ci troveremo un dì, — ho questa
credenza — là dove brillano di tutta la loro luce, puri d'ogni opaca
volgarità, gli spiriti nostri. Vedrete allora che non avete avuto
torto. Vedrete come all'interiore abbia infelicemente corrisposto il
mio fisico inviluppo. Non vi pentirete d'avermi creduto da più.”

Si pose sulla fronte la mia mano che teneva ancora fra le sue. Quella
fronte ardeva, come se travagliata dalla febbre.

“Qui dentro si è combattuta a lungo e si combatte ancora talvolta
una tremenda battaglia: quella cui legò Adamo all'umanità; quando al
dilemma postogli dal Creatore, rispose: ch'io pur muoia, ma ch'io
pensi! la battaglia dell'intelligenza finita coll'infinito; una
battaglia che non si vince mai!....

“Credete voi che un uomo possa, o sull'ali dell'ispirazione, o cogli
sforzi faticosi della scienza, elevarsi tanto alto da abbracciare tutto
il corso dell'umanità e farne risaltare il perchè della esistenza, quel
perchè ond'è costituita la finalità dei nostri destini?

“Qui è tutto il segreto della creazione; questi sono i misteri
eleusini, a cui forse è iniziazione la morte.... Io mi ruppi la mente
contro quelle tremende porte di ferro.... Che cosa parlano questi
immensi geroglifici scritti a sistemi di pianeti nell'infinito spazio?
Che cosa sussurra questo vermiciattolo che pensa, un puntino nel gran
volume, quest'atomo che è l'uomo? Tutto si viene ad infrangere innanzi
alle tenebre di questo perchè.... E senza un sentore almeno di esso,
credete voi possa esistere teologia, filosofia, scienza, poesia umana?
Bene avvisati quelli che inventarono la rivelazione, e felici coloro
che vi poterono credere! Senza questo punto d'appoggio, tutto oscilla
nel vago e si perde nel nulla.”

S'interruppe ad un tratto, lasciò andare la mia mano, e le braccia gli
caddero lungo la persona; la faccia gli si fece pallida, pallida.

“Ah! io vaneggio:” esclamò. “Voi mi direte pazzo.... e forse lo
sono!.... Ma gli è che la parola è pure un'inetta traduzione del
pensiero.... Compatitemi!”


XIII.

Pensai di agevolare colle mie parole quell'effusione che mi pareva
prossima a prorompere dalle labbra di lui:

“Nessuno vi amò, voi dite; ma questa ventura non si ottiene che ad
un prezzo: quello di amare a nostra vòlta; e voi, avete voi amato,
realmente amato qualcheduno nel mondo?”

“Se ho amato!” esclamò con impeto, “Dio buono! Era tutto amore la
mia intelligenza; su tutto il creato si versava potente, desioso di
sacrificarsi, il mio affetto. Cominciò la mia famiglia medesima a
respingermi. Mia madre, — mia madre stessa, capite? — si vergognò
d'avere a figliuolo un mostro qual ero io!...”

Feci un atto di stupore, quasi d'incredulità.

“Ah! ciò non vi par possibile. È una disgrazia sì grande che pare Dio
non la dovrebbe mandare a nessuno, che raramente o non mai si vede
intravvenire pure fra le tante tristizie del mondo, avere una madre e
non conoscerne i baci e le carezze!.... Ebbene, tale sventura toccò
a me.... Mia madre mi disamò per riportare tutto il suo affetto sui
miei fratelli; e quando la morte glie li tolse, tutti! per lasciarle
soltanto il negletto, quasi rendendo in colpa me della crudeltà della
sorte, il suo disamore divenne odio....

“Finchè erano vissuti, i miei fratelli mi avevano disprezzato e
maltrattato. Mi disprezzarono e maltrattarono i compagni nel collegio,
dove mia madre mi aveva relegato lontano dalla casa paterna per non
aver turbati i suoi occhi dalla mia presenza. Fui fatto lo zimbello di
tutti, e siccome ero il più debole, tutti ne abusarono per amareggiarmi
con ogni sorta di oltraggi. Chi può dire quanto dolore s'ammassi di
questa guisa nel cuore d'una creatura che sente! Ah! se io non divenni
un tristo, convien pur dire che ero stato creato buonissimo. Io piansi
meco stesso da solo, e perdonai sempre. Finalmente un giorno trovai fra
quelle persecuzioni un difensore e me ne feci un amico.... Gran Dio! lo
feci padrone dell'anima mia, il mio esemplare, il mio idolo!.. Quanto
io lo abbia amato nessuno lo seppe, nè anch'egli..... Eppure io stesso
doveva.... io stesso!....”

Si coprì colle mani la faccia e stette lì muto alcuni minuti, ma
singhiozzava penosamente. Poscia si lasciò cadere abbandonatamente sur
una seggiola a me dappresso, e, mostrandomi il volto sconvolto da una
profonda e viva angoscia, riprese con voce debole e sommessa:

“Egli era bello, robusto, ardito ad ogni esercizio di corpo, ad ogni
audacia atto e valente. Pietà lo prese di questo scimmiotto che era
la vittima di tutti. Sotto la protezione della sua forza io conobbi un
po' di pace. Lo ricompensavo, facendo tutti i suoi compiti ed amandolo
come si amerebbe l'incarnazione del buono e del bello sulla terra. Ero
suo schiavo. M'avesse detto: «gettati da questa finestra,» vi giuro che
l'avrei fatto.

“Fuor del collegio i medesimi scherni e le medesime vergogne, meglio
coperte dalla vernice della cortesia ma non meno maligne e spietate;
e da queste non poteva più, come prima, difendermi quel tale che io
amava sempre con tutta la potenza dell'anima mia.... Non poteva, e più
ancora non voleva più.... Esso non mi aveva amato mai: era stata una
sprezzante compassione la sua. Quando nella debole creatura, ch'egli
aveva difeso, avvertì un'intelligenza superiore alla sua, mi odiò.

“Col giungere dell'adolescenza anche in me erano nate nuove e
indefinite aspirazioni: quelle tormentose e gradite aspirazioni
che inconsciamente spingono l'anima verso l'ideale e sollecitano e
addestrano alla grandezza l'ingegno predestinato. Ero stupito e confuso
di me medesimo, non mi riconoscevo più. Stimatomi io stesso fino allora
l'ultima fra le creature viventi, mi sentivo delle vampe superbissime
d'una eccelsa ambizione. Me ne vergognavo, nascondevo accuratamente nel
mio timido silenzio tali accessi di pazzia; avrei voluto dissimularli
anche a me stesso. Ma nei miei sogni pertinacemente tormentosi, mi
appariva la felicità seducente del sorriso, non solo della bellezza,
ma della gloria. Un giorno scoppiò in me l'ispirazione come un fulmine;
quasi per un lampo, mi vidi a un tratto illuminato l'esser mio e il mio
destino, e scoperto il segreto delle mie angosce mentali. Ero poeta!

“Poeta! Re della terra, re del pensiero! Favorito da Dio d'una favilla
uguale alla sua luce divina; sentendo nel proprio essere più vasta
l'orma del suo spirito creatore; capace di padroneggiare il mondo
dell'ideale, di apprendere il sovraintelligibile, di accostarsi al
miracolo della creazione! Essere infimo, debole, il più dispregiato
degli uomini e conoscersi degno della più splendida corona! Comprendete
voi quali intime esaltazioni e quali segreti affanni, quali inquiete
lusinghe e quali terribili accasciamenti mi si avvicendassero e
turbassero l'anima nella mia oscura giovinezza?...

“Oh i miei primi versi!... Erano l'esplosione d'un delirio d'amore,
erano il poema della gioia amorosa della vita, erano il misterioso
canto della natura tradotto in armonia di parole, in palpiti di
cuore umano. Che cosa non avrei dato per potere ad un tratto farli
suonare potenti all'orecchio del mondo, e comparire innanzi ai miei
concittadini cinto di quella splendida luce di poesia che mi sentivo
nell'intelletto e nel cuore? Eppure avevo vergogna di me e dell'opera
mia; e la nascondevo agli sguardi di tutti colla cura con cui si
nascondono le traccie d'un delitto. Se il mondo avesse mai risposto
colla beffa a quel vero sangue mio sgorgatomi dall'anima? Guai! Li
amavo tanto quei poveri versi!...

“Amavo!... Oh non amavo soltanto lo sfogo del mio cuore, non amavo
soltanto l'amico mio... Amavo una fanciulla fieramente leggiadra come
un superbo fiore di stufa signorile. Aveva ella tutto in suo favore:
potenza conquistatrice di bellezza, nobiltà di natali, ricchezza di
fortune, felicità d'ingegno. Era una seduzione il vederla, una malìa,
un incanto, un'ebbrezza l'avvicinarla, l'udirla, il riceverne la fiamma
dello sguardo. E l'amavo... io povero, io meschino, io di sì brutte
forme!

“Era per lei che godevo d'esser poeta; era innanzi a lei che volevo
presentarmi cinto dei raggi della gloria; era ai suoi piedi che ambivo
deporre la mia corona d'alloro non ancor conquistata.

“Avevo letto di quella tale principessa che baciò sulla bocca il gobbo
poeta addormentato, per le dolci cose che uscivano da quelle labbra;
sognavo che di me pure la sublime armonia del canto facesse obliare la
meschinità della persona.

“Così non poteva durare. Deliberai aprire il mio animo a quell'unico
amico che avessi.

“Alfredo mi sfuggiva, pareva quasi vergognarsi di me; sempre più
avvenente, audace, temuto da ogni competitore pel valor suo, desiderato
in tutti i salotti per la sua piacevolezza, primo in tutto ciò che
imprendesse e in ogni dove comparisse, cavalcatore esperto come nessun
altro meglio; Alfredo godeva nel mondo i più invidiabili successi.

“Suonava con arte e sentimento, componeva romanze, ballabili e melodie
che le signore eseguivano con diletto nelle serate invernali; scriveva
gaie leggerezze su pei giornali e molli versettini negli _Album_ delle
dame, che gli valevano una certa gloriola di letterato e il titolo
d'_uomo di spirito_, cui egli si confermava mercè una cara franchezza
e subitaneità di motti e di rimbeccate. Era uno di quegli ingegni che
riescono in ogni cosa a cui s'accingano, ma ai quali la deplorabile
facilità impedisce di nulla mai approfondire.

“Io gli svelai in una i miei due eccelsi amori: quello alla Musa e
quello alla mia donna. Gli dissi vivere oramai per quelli soltanto;
esser quelli la mia ultima ragione, la luce che m'illuminava il
pensiero, lo scopo di tutto.

“Sorrise, scherzò dapprima, di poi il mio ardore parve colpirlo, il mio
entusiasmo apprendersi anche a lui; tacque per un poco, divenne serio,
anche i suoi occhi lampeggiarono; sollevò la fronte e la scosse superbo
come per dire: «ancor io, e forse più, sono degno di tanto.» Mi recitò,
declamando alcune delle sue ballate; trovò freddi gli elogi ch'io glie
ne faceva. Tentò cambiar discorso; pareva inquieto e malvoglioso; ad un
tratto chiese di poter leggere i miei versi: tremando glie li affidai,
e se ne partì con essi.

“Stette più giorni senza farsi vedere. Avrei voluto andare in casa di
lui, e non osavo. Venne finalmente una sera da me. Dalla finestra, che
guardava verso l'occaso, appariva in fondo all'orizzonte una striscia
di nubi color sangue, stesa là dove il sole era da poco tramontato.
La luce crepuscolare da quelle nubi diffusa illuminava soltanto con
tinta giallastra la mia cameretta e la fronte di noi due che ci eravamo
appressati alla finestra. All'entrare d'Alfredo io aveva impallidito
come uomo che aspetta la sentenza del suo avvenire; e il cuore mi
palpitava forte forte nel petto. Ci tenevamo stretti per le mani; le
mie ardevano, le sue erano fredde come ghiaccio. Anch'egli mi parve un
po' commosso; esitava a parlare, di certo era alquanto turbato.”


XIV.

“Parlò poscia, ma non colla solita sua scioltezza. Aveva letto i
miei componimenti, ed aveva visto l'oggetto dell'amor mio. Di questo
discorse con entusiasmo; la giudicava la più bella figura di donna,
le cui sembianze rivelassero una natura eletta; abilmente, in mezzo
a un diluvio di parole, mi fece comprendere essere una follia in me
l'amarla, un'imperdonabile follia poi se con qualche speranza. Compresi
come, secondo lui, io fossi condannato all'infelicità, e sarei stato
ingiusto a pur lamentarmi del mio destino.

“Sentivo una gravezza, come cappa di piombo, scendermi e pesarmi
sull'anima. Imbiancavo a volta a volta ed arrossivo nel viso; mi veniva
difficile il respiro.

“Finalmente entrò a discorrere de' miei versi.

— «Me ne rallegro teco. Non c'è male. Alcune stranezze di un gusto non
perfetto; ma con qualche ritocco qua e là, con qualche correzione,
cambiando qualche verso, davvero che mi pare si possano ridurre una
cosa più che mediocre.»

“Io aveva chinato il capo e tacevo.

— «Anzi ho pensato ad una cosa:» soggiunse. «Mio caro, le nostre
produzioni letterarie, per giudicarle a dovere noi stessi, bisogna
vederle stampate. La stampa è come alle sceniche composizioni la luce
della ribalta; se tu acconsenti, voglio fare stampare i tuoi scritti.»

“Tacevo sempre.

“Alfredo riprese a dire, che aveva giusto sotto i torchi un volume di
sue poesie, che avrebbe a quelle aggiunte le mie, e così introdottele
nel mondo letterario sotto il patrocinio del suo nome, già conosciuto
e circondato di qualche riguardo.

“Tacevo, ma la mia mente lavorava in modo febbrile. I miei versi,
stampati in nitide pagine, con nuova ed efficace leggiadria, mi
turbinavano innanzi, atteggiandosi, per così dire, a mirabili forme,
esplicando una segreta armonia di dolcissimi suoni.

“Li vedevo apparire come luminosi agli occhi della gente, li udivo
cantare nell'orecchio ammirato degli uomini, sentivo ripetuto dagli
echi della terra con plauso, il mio povero nome.

“Alfredo aveva voluto persuadermi della mia indegnità per la donna che
amavo. Una mai provata superbia gonfiava invece l'anima mia. Oh no, non
ero indegno di lei. Il genio che mi possedeva, era capace d'innalzare
il mio essere sino all'altezza di quell'angelo umanato. Le mie opere
l'avrebbero dimostrato; lo dimostreranno in fè di Dio, giuravo in
segreto a me stesso.

“L'amico mi chiese, non senza qualche inquietudine, se acconsentivo
alla sua proposta.

— «Sì,» risposi debolmente con una simulata indifferenza, abbandonando
nelle sue la mia mano diventata fredda ed inerte.

“Ma dentro me quale tumulto!

“Le mie prime poesie si stamparono poco dopo nel volume pubblicato da
Alfredo, e comparvero sotto il suo nome; erano pubblicate quali io glie
le aveva date, senza la correzione d'una virgola. Provai nel vederle
un misto di sentimenti contrari, indicibili. Mi parvero sublimi, mi
parvero ridicole; ne sentii ora orgoglio, ora vergogna; provai una
rabbia dolorosa nel vederle andare sotto nome d'un altro, una specie
d'acuta gelosia, e poi dissi a me stesso che così era anche meglio:
ritirato nella mia cameretta, pensai con satanica superbia che la mia
opera aveva gran pregio, ma che io era capace tuttavia d'assai più.

“Alfredo ebbe da quella pubblicazione molta rinomanza. Gli si disse
che aveva trovate vie nuove, che aveva rivelato un nuovo lato del
suo genio, manifestata una nuova potenza della sua poesia. Mi venne
intorno più amorevole che mai. Io non metteva insieme due parole,
senza tosto comunicarle a lui. Talvolta mi suggeriva alcune idee, mi
abbozzava qualche argomento; poi ammorzava alcun colore troppo acceso,
temperava taluna immagine troppo ardita della mia poesia; e quando poi
le composizioni erano al termine, le chiamava con tutta franchezza, fra
noi due, nostre, in pubblico sue, senza uno scrupolo.

“Mi adattavo a codesto suo modo ma, come potete pensare, non
soddisfatto.

“Un giorno, finalmente, la mia tolleranza mi parve una debolezza e una
viltà; il procedere d'Alfredo una pirateria a mio danno.

“Non vi ho ancor detto come praticassi nella casa della fanciulla
amata. Il padre di lei, pietoso alla mia povertà, avevami dato un umile
ufficio nella ragioneria dei suoi grandi capitali e delle sue vaste
tenute; ero poco più d'un servo in quello sfarzoso palazzo, ma vi ero
accolto con una specie di domestica fiducia.

“Un giorno, entrando nel salotto, trovai Albina intentissima alla
lettura con una profonda emozione da questa prodottale, le guancie
affocate, gli occhi per lagrime lucenti, il seno agitato. Dio del
cielo! Ella stava leggendo i miei versi.

“Albina fuggì, come per nascondermi la sua emozione. Io rimasi là,
piantato, invaso il cuore da un'improvvisa, ineffabile dolcezza. I miei
versi avevano parlato all'anima di lei!

“Ma ad un tratto una terribile idea mi ferì come la punta di uno
stile, il cervello e il cuore. I miei versi, per lei come per tutti al
mondo, non erano miei; ad altri ella attribuiva que' sentimenti, que'
pensieri, quella passione; ad altri ella attribuiva il merito di quel
suo commuoversi e del suo palpitare. E s'io le avessi detto ch'era mia
quell'ispirazione, mi avrebbe ella creduto?

“Una specie di furore subitamente m'invase. Volli che Alfredo mi
restituisse la rinomanza che a me aveva derubato; mi restituisse
soprattutto la simpatica commozione e forse l'ammirazione d'Albina.
Sentii a quel momento il primo impulso di odio che avessi ancora
provato mai, io che il mondo e la sorte avevano sì crudelmente
bistrattato sempre; e quest'odio lo sentivo per colui che primo aveva
mostrato aver di me alcun pietoso riguardo!

“Corsi da Alfredo, e tutto ancor concitato lo minacciai di svelare il
segreto della paternità dei suoi libri. Egli si fece bianco in volto,
e i suoi sguardi dapprima lampeggiarono di sdegno e di minaccia; poi
tosto si raumiliò, come non avevo mai visto alcuno umiliarsi, come non
lo credevo capace di fare, egli, con la sua fierezza.

“Mi disse che avrei distrutto ogni sua felicità, che avrei cagionata
la sua morte, perchè di certo egli si sarebbe ucciso a tanta vergogna;
mi pregò colle lagrime agli occhi: giurò che, io tacendo, avrebbe egli
fatto per me qualunque cosa che gli avessi chiesto, datomi anche la
vita.

“Quell'affetto, che da tanto tempo avevo in lui, risorse tutto in un
attimo e maggiore di prima. Mi gettai nelle sue braccia, piangendo
ancor io.

— «Amami soltanto, Alfredo,» gli dissi: «e di tutto mi avrai
compensato.»

“Giurai di tacere per sempre.”


XV.

“Era mio proposito accingermi con nuova lena al lavoro, e riguadagnare
in breve il tempo per la mia fama perduto: ma luttuosi avvenimenti me
ne impedirono.

“Il padre d'Albina ebbe subiti e irreparabili rovesci di fortuna.
Come sempre accade nel mondo, tutti coloro che a lui avventurato erano
amici compiacenti e cortigiani, lo abbandonarono. Io gli venni innanzi
umilmente, quasi tremando, e dissi:

— «Sono povero, e buono a poco o nulla; ma tutto quello che ho e quello
che valgo, pongo in poter vostro. Disponete di me.»

“Quell'uomo, superbissimo fino allora dei suoi natali e delle sue
ricchezze, che altro non aveva avuto mai per me che una compassione
altezzosa, parve stupito ed ammirato del mio tratto. Aveva coraggio
e volontà tenace; era di quelli che, prima di abbandonarsi in balía
della corrente che li travolge, s'attaccano a qualunque ramo, per
debole ch'esso sia, fosse pur anche spinoso da insanguinarvisi le
mani. Accettò la mia offerta, le pochissime mie sostanze sparvero in
un attimo in quel baratro che la sventura aveva scavato sotto i piedi
a quella famiglia; e lavoravo tutte le ore del giorno per essa! Il
padrone, diventato burbero, atrabiliare, mi comandava in modo aspro
come si fa ad un servitore negligente; Albina mi ringraziò una volta
con sublime semplicità, stringendomi la mano, gli occhi gonfi di
lagrime. Che avrei io potuto desiderare di più?

“Bene o male, di questa guisa ero diventato quasi uno della famiglia
e n'andavo superbo. Vedevo Albina tutti i giorni, stavo delle ore a
guardarla, pallida e severa nella sua mestizia; m'inebbriavo spesso
della ineffabile gioia d'udire la sua voce. N'ero quasi felice. _Dear_,
il cagnolino di lei, mi faceva le feste più amorevoli del mondo.

“Ma il padre d'Albina non potè vincere in niun modo la troppo avversa
fortuna. A un punto, perduta ogni speranza, egli perdette ogni
coraggio, ogni forza di spirito e di corpo. Morì di lì a quattro mesi.
Io mi diedi tutto e sempre più all'arido lavoro degli affari, per
sopperire ai bisogni di quella disgraziata famiglia.

“Addio poesia, addio lettere, addio arte, addio sogni di gloria!
M'imbestialivo nelle cifre da mane a sera, nè mi lamentavo, nè
desideravo di meglio. Albina era tanto bella, anche nel suo dolore!...

“Passò circa un anno. L'amavo sempre più. Ad un punto m'accorsi che
un cambiamento non lieve erasi fatto in Albina. Le guancie eranle
divenute più rosee, più brillanti ed espressivi gli occhi, più dal
sorriso animate le labbra. Una certa misteriosa fiamma appariva di
quando in quando sul suo volto; aveva subite contrarietà e improvvise
tristezze avvicendate a giocondità, di cui non sapevo rendermi ragione.
Pareva avere alcuna cosa da dissimulare. Si piaceva molto a restar
sola; sovente la coglievo immersa in profondi pensieri; molte volte
era d'un'amabilità maggiore ancora del solito. Attribuivo codesta
mutabilità allo svolgersi della sua fiorente giovinezza soltanto.

“Ma l'amor mio oramai era tale, che non potevo più rimaner in silenzio.
Il mio cervello era in un esaltamento che non lasciava più luogo alla
ragione. Un giorno ella fu meco più amorevole dell'usato; il sangue
mi s'infiammò nelle vene mandandomi vampe di calore alla testa. Pareva
ella volesse aprirmi il cuor suo, e la piena del mio traboccava verso
di lei. Incoraggiato da' suoi modi, dalle sue parole, mi rivelai....

“Me disgraziato! Come potei avere tanto temerario ardimento?

“Ella impallidì; si trasse vivamente in là, mutò subito maniere ed
aspetto; si premè con una mano il cuore, e quando io a quella vista
mi tacqui sovraccolto da un tremito improvviso, ella gettò un grido e
fuggì.

“La mia sentenza era pronunciata. Caddi in ginocchio in quel punto dove
ella era poc'anzi, e sentii il cuore rompermisi dall'affanno. Avevo di
me stesso vergogna. Poter credere di essere amato! Io? Oh ella doveva
ridere di me. Non avevo ottenuto che di sciogliere quel poco legame che
mi avvinceva a lei, e che era pure il mio solo bene. Come avrei potuto
ancora venirle per casa? come rivederla?

“Quello non era ancora il maggior dolore che mi dovesse toccare; ed era
già sì grande! Ricevei quel medesimo giorno una lettera d'Albina.”


XVI.

“In quella lettera ella mi narrava come, fin da quando era ancor
giovinetta, avesse dato il suo cuore ad un uomo; i dolori e le sventure
sopravvenute non avere quell'affetto cancellato, e ora che l'occasione
era nata in cui aveva potuto con quell'uomo accontarsi, tratti da
scambievole amore, essersi giurata eterna fede. Volessi compatirla;
seguitassi ad amarla come fratello: non le amareggiassi la felicità del
suo corrisposto affetto col pensiero ch'io soffriva per lei....

“Ah! dovevo rinserrare nel cuore la cruda angoscia e comparirle dinanzi
sorridente, lieto testimonio della felicità d'un altro!

“Non vi dirò che rodimento fosse il mio. Immaginatevi quanti più acuti
tormenti possa cuore umano provare in uno spasimo uguale a quello
dell'agonia!

“I miei primi propositi furono propositi di sangue. Nella mia mite
natura l'angoscia trovò pur tanta ferocia da farmi provare una voluttà
nel pensiero d'uccidere quell'uomo che possedeva un tanto bene a me
negato, d'uccidere anche lei!....

“Ma questo violento parosismo di furore in me non poteva durare.
M'accasciai sotto la sciagura che mi percuoteva, piansi disperatamente;
e quando ebbi tutte versate le mie lagrime, mi levai con animo risoluto
e corsi da Albina. La volevo ad ogni costo felice, lei; a costo anche
d'ogni mio bene.

“Avete avuto torto, le dissi, a non confidarmi tutto. Ora trattatemi
davvero da fratello, e io benedirò alla vostra felicità.

“Udite quel che Albina mi rispondesse.

— «Sono due anni, mi veniva alle mani un libro di poesia; appena letti
pochi versi, la mia attenzione fu tutta raccolta in quella lettura.
Quei versi parlavano all'anima mia un nuovo linguaggio che tutta la
padroneggiava. Erano l'espressione del più nobil cuore e del più nobile
ingegno: erano la voce del più sublime affetto. Lessi avidamente,
commossa, palpitante. Mi ricordo che voi entraste in quel punto;
ed io confusa, turbata, vergognosa, indispettita d'essere colta in
quell'emozione, fuggii.»

“Io gettai un grido a quelle parole, e la guardai con occhio smarrito;
ella continuò:

— «L'autore di quelle sì leggiadre poetiche creazioni mi apparve l'uomo
più degno d'amore che fosse al mondo; l'amai sino da quell'istante.
Quando l'ebbi veduto di poi, Alfredo m'apparve superiore ancora a
quell'immagine che io m'era di lui formata.»

“Pensate qual io rimanessi! Alfredo adunque, non solo la fama mi
aveva derubata, ma l'amore di lei! Obliai in quel momento che io
aveva giurato di tacer sempre, obliai tutto: mi gettai ai suoi piedi,
proruppi coll'impeto d'un pazzo: — Ma quei versi erano miei; ma era
mia quell'anima che parlava alla tua, mio quel genio che ammirasti, mio
l'amore che hai sentito fremere in quell'armonia di parole.... —

“Ella dapprima non comprese; mi credè assalito da un accesso di dolore
che mi levasse di senno: si curvò pietosamente su di me, volle farmi
alzare, mi sussurrò qualche benigna parola; ma giurando, ripetendo,
insistendo io, alfine comprese quel che volevo significare; allora
non parlò più, si allontanò e mi saettò uno sguardo di indicibile
disprezzo.

— «Sciagurato! diss'ella con accento non dissimile da quello sguardo:
la vostra è peggio che imprudenza, è un'infamia.»

“E mi lasciò, allontanandosi con passo affrettato.

“Oh essere fulminato dal disprezzo della donna che si ama, senza
meritarlo! I feroci impulsi mi si ridestarono nell'anima. Forsennato,
corsi da Alfredo, lo minacciai, lo supplicai, levai la mano armata su
di lui; egli, robusto, disarmò il mio debole pugno e mi atterrò con
dispettoso disdegno.... Che più? fui vinto in tutto. Fui proclamato
un tristo, un calunniatore, scacciato dalla casa di lei, bandito dagli
amici di lui, creduto da tutti un pazzo, un cattivo uomo.”


XVII.

“Fui ammalato gravemente, e quasi due mesi gemetti in un ospedale;
uscito di là, m'aspettava la miseria. Quante giornate senza pane!
quante notti senza sonno, e nessuna speranza di gioia mai per tutta la
vita!

“Mi rimisi al lavoro. Ottenni alcuni trionfi, e questi mi procurarono
nuovi nemici: una polemica rabbiosa e crudele che mi era stuzzicata
contro da Alfredo, mi perseguitò senza tregua; intristito, risposi
offesa ad offesa, invettiva ad invettiva, oltraggio ad oltraggio.

“Erano trascorsi due anni: Albina, io non l'aveva più vista mai;
l'avevo sfuggita con cura; nulla temevo di più che trovarmi a fronte di
lei.

“Un giorno passeggiavo solitario, come sempre, in un viale fuor di
città, a quell'ora deserto. Avevo il capo chino, e, ingolfato nei miei
pensieri, non vedevo nulla di quanto mi circondasse, quasi non sapevo
più nemmeno dov'io mi fossi.

“A un tratto ecco gettarmisi tra le gambe, festosamente abbaiando, un
cagnolino. Sussultai; era _Dear_, il canino d'Albina. Oh come mi sentii
battere il cuore! Come mi parve d'amarla quella povera bestiolina che
avevo affatto dimenticata! Essa però non avevami dimenticato, no; mi
aveva tosto riconosciuto, e mi salutava con affetto, e mi faceva più
vive che mai le sue solite dimostrazioni di gioia e di benevolenza.
Mi curvai verso il cagnolino per rispondere alle sue carezze; volevo
prenderlo tra le braccia e baciarlo.

“Ma ad un tratto un pensiero mi agghiacciò il sangue nelle vene.
Con chi era essa, quella bestiuola? Alzai gli occhi; mi vidi innanzi
Albina, che s'accostava a richiamare il suo cane, e guardare chi fosse
quell'uomo a cui _Dear_ faceva tante feste. Avrei voluto che in quel
momento la terra mi si aprisse sotto i piedi. Ah! in qual modo mi
guardò Albina! Lo sguardo di sdegno con cui m'aveva saettato, quando
avevo voluto svelarle che i versi d'Alfredo erano miei; quello sguardo
era mite e benevolo in paragone.... Dio la perdoni! Ella con quel
suo sguardo uccise l'anima mia. C'era tanto disprezzo, tanto odio,
tanto orrore, che io allibii. Non una parola, non una voce nè l'uno
nè l'altra. Ella volse disdegnosamente altrove il passo, chiamando con
voce secca ed imperiosa il suo cane. Io lasciai cadermi abbandonate le
braccia lungo la persona in uno stato di prostrazione dolorosa.

“_Dear_, tutto stupito del nostro contegno, stette in mezzo a
guardarci. Ella tornò a chiamarlo imperiosamente.

“L'intelligente bestiola corse a lei, le salterellò intorno un poco;
poi tornò verso di me, e ripetè le sue festose dimostrazioni. Egli solo
s'era conservato per me quel di prima; egli solo non aveva cambiato in
odio ed in disprezzo quel poco affetto che m'aveva donato.

“Lo accarezzai, lo presi in braccio, lo baciai, e rimettendolo in
terra, perchè potesse raggiungere la sua padrona che si allontanava con
passo sollecito, gli dissi: — Va', e possa tu almanco non obliarmi, se
d'ogni altro che amai, devo pregare, come una fortuna, l'oblio. —


XVIII.

“Non c'era più alcun ritegno fra noi: Alfredo ed io ci trovavamo a
fronte come nemici mortali, e il mondo crudele, aizzandoci alla lotta,
godeva nel vederci scambiare dolorosi colpi al nostro cuore.

“Una mia nuova pubblicazione diede pretesto a un mordacissimo articolo
di critica, in cui le ingiurie e le accuse, con accorte insinuazioni,
erano lanciate a piene mani su di me; sotto a quello scritto c'era il
nome d'Alfredo. Se ne fece un gran chiasso in tutta la città; tutti
s'aspettavano ch'io avrei provocato a duello il mio offensore: nol
feci.

— «È un vile:» si disse di me in tutti i salotti, in cui fioriva
prospera e petulante la mormorazione.

“Tutte le simpatie erano pel mio avversario, e diventarono ancora
maggiori.

— «Da bravo!» gli si diceva da ogni parte; «quello è un rettile che non
sa mordere che colla penna. Bisogna schiacciarlo, e nessuno meglio di
voi lo può fare.»

“Io pur sempre condannai il duello che stimo un'assurdità o ridicola
o assassina. L'esistenza d'un uomo mi è sempre parsa cosa troppo
importante per avventurarla in una vendetta dell'oltraggio, nella quale
la sorte il più spesso, od una scellerata perizia d'uccidere, dànno
torto alla ragione e ragione al torto.

“Mi tacqui. Una seconda diatriba più niquitosa, più audace, più
calunniosa della prima, col nome d'Alfredo ancor essa, venne a far
ridere tutta la città alle mie spalle.

“Uguale alla perfidia si disse in me la codardia. Una rabbia
irrefrenabile allora mi prese. Intinsi la penna nel fiele, nel veleno,
e risposi con la più fiera invettiva, senza misura, senza riguardi,
tutto rivelando di quanto era avvenuto fra Alfredo e me.

“Fu uno scandalo inaudito. Il mondo mi disse un calunniatore, e Alfredo
mi mandò a sfidare.

“Volevo rifiutare il combattimento. Mi si fece comprendere che, dopo un
fatto simile, sarei senza redenzione perduto nel concetto universale.
Ebbi paura dell'ignominia; accettai.

“Non avevo mai preso in mano un'arma. Non m'ero mai esposto, nè la
sorte mai mi aveva ancora messo innanzi ad un pericolo di vita. Se
avessi coraggio o no, non sapevo io stesso. Ero solo al mondo, non
rallegrato pur da un affetto; e la mia morte non avrebbe costato a
nessuno un dolore, a nessuno pure una lagrima. In certi momenti di
quelle ore fatali che precedettero lo scontro, quel mio triste stato
mi dava una disperazione che mi avrebbe lanciato con ardore verso la
tomba, come verso il riposo.

— Che fo io sulla terra? — mi dicevo. — Gli uomini valgono tutti meno
di me: lo sento e lo so, e tutti mi stimano da meno di loro; e la vita
non ha per me attrattive di sorta. Non v'è da rimpiangere nè questa
nè quelli. Moriamo; e si mostri almeno a questa nemica e codarda razza
che mi spregia, come sia facile il coraggio del morire cui essa esalta
cotanto, perchè così raro nell'egoismo vigliacco che la domina.... E
forse innanzi alla mia tomba precoce, ammutirà il livore. —

“In altri momenti, invece, un grande abbattimento mi occupava, che
poteva dirsi paura. La mia giovinezza dimandava di vivere. Perchè
sacrificarmi ai pregiudizi di quel mondo crudele che mi aveva respinto
da sè, che non aveva avuto che spine da darmi? La vita era l'unico bene
ch'io m'avessi, e glie l'avrei offerta in olocausto? Avevo l'avvenire
per me; avevo quell'ingegno che sentivo superiore; ed avrei tutto
gettato in omaggio alle assurde opinioni d'una società, alla quale
ricambiavo in doppia misura quel disprezzo ch'essa aveva per me? Di
corpo ero più debole che tutti gli avversari miei, forse anche d'animo;
ma di mente? Egli era in questo campo intellettuale che io aveva da
lottare, e non nella stupida e brutale prova dell'armi.

“Per miei padrini avevo scelto due giovinotti che in tali faccende
erano peritissimi. Non avevo amici, e costoro accettarono l'incarico,
solamente perchè fra certa gente è usanza che simile uffizio non si
rifiuti mai.

“Era di tarda sera, ed io stava nella mia stanzuccia solo, sprofondato
in quei cotali pensamenti ed affanni, quando essi vennero a dirmi
il risultamento della conferenza coi padrini dell'avversario e le
determinazioni prese d'accordo.

“Erano le seguenti: ci saremmo battuti alla pistola; la distanza
sarebbe stata di trenta passi, libero a ciascuno dei combattenti
d'avanzarsi di dieci; si avrebbero due pistole ciascuno; ad un segno
fatto potevamo camminare l'uno verso l'altro e sparare quando ci
talentasse; fatti i quattro colpi senza che sangue fosse versato,
potevasi ricominciare da capo. Le condizioni erano gravi, come gravi
erano state le scambiateci offese. Alfredo le aveva volute tali; ed io
dissi con sicuro sembiante che le mi piacevano.

— «Le conseguenze di questo scontro» dissemi poi uno dei padrini,
«possono essere serissime. Ci ha ella pensato, ed ha provvisto alle
cose sue?»

— «Io non ho nulla a cui provvedere,» risposi. «Sono solo sulla terra,
e non lascio persona che mi pianga,»

“Venne a serrarmi la gola un singhiozzo che ebbi molta pena a soffocare.

— «Questo duello ha destato molto l'attenzione di tutta la
cittadinanza,» riprese quel medesimo dei miei secondi: «e non potrà a
meno di eccitare i provvedimenti della giustizia. Quando ci fosse morte
d'uomo, sarebbe meglio al vincitore il fuggire. Si è Ella preparato a
codesto?»

“Io vi parlo schietto, come parlerei a Dio il dì del giudizio
universale. Non ho più rispetti umani, non ho più vanità personali, non
ho più interesse nè desiderio d'infingermi.

“A quel cenno che uno dei due molto facilmente sarebbe rimasto sul
campo, mi sentii raccapricciare. Volli fare un sorriso d'indifferenza
o di rassegnazione, e sono certo che non riuscii che ad una smorfia
affettata.

— «Non penso» diss'io «che a me toccherà lasciar il paese per questa
cagione. Se uno dei due avrà da tornar cadavere, ho il presentimento
che quello non sarà il mio avversario.»

— «L'esito di questa sorta di cose è sempre nelle mani del caso:»
disse quell'altro: «e forse non avevano affatto torto gli antichi che
chiamavano il duello giudizio di Dio!.... Non le nascondo che Alfredo
è buon tiratore; ma quante volte si è visto in simili scontri avere il
di sopra i più inesperti! Non bisogna andare sul terreno colla paura;
questo è il più essenziale. Stia dunque di buon animo, e ci aspetti qui
domattina, che all'ora convenuta verremo a prenderla.»

“Quindi s'avviarono. Io li accompagnai sino al pianerottolo, a
rischiarare loro il cammino. La fiamma della mia lucernetta oscillava
troppo più che non avrei voluto. Quando furono giunti alla scala, tesi
loro la mano, augurando la buona notte. Quegli che aveva parlato, e che
pareva aver posto maggiore interesse nella faccenda, sentì tremar nella
sua la mia destra; tornò indietro alcuni passi, e stringendomi forte la
mano che non aveva abbandonata e parlandomi sommesso, mi disse:

— «Coraggio! che diamine!.... Un uomo come lei, ha da mancare di
risoluzione?»

“Fu punto in me l'amor proprio, e riagì subitamente:

— «No;» risposi con ferma la voce e l'aspetto: «non dubiti. Avrò
coraggio; ne ho.»

“Ma quella fu davvero una tristissima notte. Mi parve lunga e breve;
l'avrei voluta eterna, e sollecitavo con impazienza le ore.... All'alba
sentii finalmente giungere e fermarsi in istrada la carrozza con cui
i miei padrini venivano a prendermi. Mi guardai allo specchio. Ero
pallido molto, cogli occhi infossati e le occhiaie livide; mi percossi
dispettosamente le guancie, e precipitoso scesi le scale.

— «Ha ella dormito?» mi chiese quello dei due che mi aveva incoraggiato
la sera innanzi.

“La vanità mi diede l'audacia di mentire.

— «Sì;» risposi: «parecchie ore.» — Non so s'egli mi credesse, ma lo
finse.

— «Meglio:» esclamò, facendomi salire nella carrozza.

“Questa partì di buon trotto e presto fummo fuori della città.
Cammin facendo i padrini venivano dandomi consigli e istruzioni sul
come dovevo contenermi; annuivo alle loro parole, ma non potevo ben
comprendere quel che dicevano: la testa mi suonava così che parevami
udir continuo un rumor cupo di voci lontane: non avevo del tutto la
coscienza di me medesimo e de' fatti miei; mi pareva che quello fosse
un sogno, che si trattasse di un altro, che io mi trovassi lì soltanto
per assistere spettatore indifferente ad una tragedia che non mi
riguardasse. Poi a un tratto saltava fuori, in mezzo alla confusione
della mia mente, questa tremenda interrogazione: — Fra un'ora sarò io
vivo?”


XIX.

“Giungemmo finalmente al luogo del convegno. Il mio avversario e i suoi
secondi già erano ad aspettarmi. Ci salutammo gravemente, e mentre i
padrini si accostavano a parlar tra loro, noi duellanti stemmo soli in
disparte, lontani l'uno dall'altro, guardandoci così alla sfuggita.

“Alfredo era un po' più pallido del solito nel volto; ma il suo
contegno aveva tanta fierezza, tanta disdegnosa indifferenza, che
me ne sentii umiliato, e feci ogni sforzo per imitarlo. Egli fumava
tranquillamente il suo sigaro, e mirava con lieto sguardo la bellezza
della mattinata splendida per un magnifico levar di sole. Eravamo nei
più bei giorni della state, e la natura non era mai sembrata tanto
maravigliosa ai miei occhi. Fra le frondi indorate dal sole cantavano
allegramente gli augelletti. Tutto era vita, tutto era giovinezza
intorno a noi.

“Il mio avversario era più bello, più fiero e superbo che non l'avessi
visto mai. Coll'eleganza e coll'avvenenza sembrava dominare tutti noi,
e me specialmente suo nemico, cui la sorte aveva voluto dare tanta
meschinità di corpo e di apparenze. Se un estraneo, senza nulla sapere
delle cagioni della nostra contesa, fosse capitato lì in quel punto,
io non dubito avrebbe detto, solamente esaminando i combattenti, che
Alfredo sarebbe stato il vincitore e che dalla parte di lui era la
ragione.

“I padrini ci appostarono alla distanza determinata, ci diedero
le pistole, e poichè si furono ritirati a destra e a sinistra, a
convenevole lontananza, uno di essi si levò il cappello e facendo un
atto solenne di saluto, pronunziò a voce chiara e vibrante:

— «Avanti signori!»

“Guardai Alfredo. Tutto vestito di scuro, la sua leggiadra testa
spiccava maggiormente pel pallore che gli copriva le guancie. Il veder
codesta pallidezza, un certo tremito che mi parve scorgere nella sua
mano e una velatura che gli appannava il brillar degli sguardi, non so
perchè, diedero a me sicurezza e sangue freddo. Poi sentivo sulla mia
persona lo sguardo di altre quattro persone, che rappresentavano tutta
la città, tutto il mondo per me.

“S'io ho da cadere, pensai, almeno ch'io cada senza che alcuno
abbia diritto di accusare la mia memoria del torto che la società
maggiormente disprezza, e non perdona mai: la paura.

“Ma vedete stranezza! Nel guardare Alfredo, io dimenticava il presente,
per non ricordarmi che del passato; vedevo il collegio, i primi anni
della giovinezza; e sentivo un tumulto di affetti invadermi l'animo e
una subita tenerezza commovermi al punto che di subito pensai gettare
le pistole e correre a braccia aperte verso di lui, esclamando:

— «Tu sei il mio diletto, tu sei il mio fratello. È egli possibile che
io attenti alla tua vita?»

“Il veder me parve eccitare invece ben altri sentimenti ad Alfredo;
poichè i suoi occhi fissandosi ne' miei, perdettero quella nebbia che
li offuscava e brillarono d'una luce piena d'odio mortale.

“Il mio avversario si avanzò vivamente tre quattro passi, tenendo tesa
una pistola colla mira a me rivolta, poi si fermò. Io non mi mossi;
ed avevo le braccia abbandonate lungo la persona, stando là come
smemorato, incerto ancora di quello che avessi da fare. Alfredo parve
esitare un istante: non furono che pochi secondi, ma a me parvero un
tempo smisurato.

“Mi ucciderà! pensavo. A momenti sarà finita per me.... finita per
sempre!.... Morto? Morto io? Dio, Dio, puoi tu permetterlo?.... Ah!
la morte è tremenda!.... Ciascuno ha pur diritto alla vita.... Io l'ho
bene, come qualunque altro, questo sacrosanto diritto.... Dio, Dio, mi
ti raccomando!

“Tutto questo, ratto, simultaneo, vertiginoso; mi passò perfino pel
capo l'idea di scappare; ma sentii nello stesso tempo che non l'avrei
nemmeno potuto.

“A un tratto un guizzo di fuoco scattò da quell'arma che si circondò
di fumo; rimbombò un colpo, e io sentii presso l'orecchio sinistro
il fischio della palla. Diedi una scossa, il sangue mi fece un tuffo
e parve di botto precipitarmisi tutto al cuore, poscia risalire
tumultuosamente al cervello: ma, nel montarvici, conduceva seco tal
ira, molto presso a cambiarsi in furore.

“I padrini si mossero come per avvicinarmisi; feci loro segno
ristessero.

“Alfredo gettò via la pistola vuota e ratto scambiò dalla mano sinistra
alla destra quella che aveva ancor carica. Ero stranamente calmo a
quel punto; ma ogni sentimento benevolo era svanito dal mio cuore.
Cominciavo a sentire alcuna cosa che rassomigliava all'attrattiva
della lotta. Alzai la destra armata, come per toglier la mira; il mio
avversario si volse subitamente di fianco; ma, cambiando pensiero,
lasciai ricadere il braccio. Allora Alfredo prese ad avanzarsi di nuovo
verso di me; ma questa volta cauto e lento, non presentandomi mai che
la minor possibile superficie del suo profilo, la pistola tesa innanzi
a sè, mirandomi più basso a mezzo il petto.

“Una strana irritazione s'impadroniva di me nel vedere codesta
prolungata minaccia. Fui per gridare facesse presto; pensai sparargli
contro a un tratto le mie due pistole, come si farebbe ad una fiera che
camminasse verso di noi; fui per lanciarmigli addosso a strappargli
quell'arma. Perchè non facessi nulla di tutto ciò non saprei dirvene
la ragione; certo non fu il ragionamento che me ne trattenne; ma mentre
la mente in quell'istante mi si travagliava in un'attività febbrile, il
corpo era in preda ad un'atonia generale che lo rendeva incapace d'ogni
movimento.

“Quando ebbe percorso tutto il tratto concessogli, Alfredo si fermò e
fece fuoco la seconda volta. La palla mi sfiorò il braccio sinistro,
lacerandomi l'abito e cagionandomi una contusione, che in quel momento
non avvertii neppure.

“Ero salvo! Una specie di gioia feroce si sollevò nell'animo mio, e
nello stesso tempo una rabbia più feroce ancora contro colui che mi
stava a fronte. Dell'antico Alfredo, dell'amico, del compagno, non
vidi più nulla; non vidi più innanzi a me che l'uomo il quale mi aveva
rapito la fama, che mi aveva rapito la donna che amavo, che mi aveva
coperto di contumelie, che aveva tentato adesso adesso alla mia vita,
che mi aveva fatto passare quei crudi eterni momenti d'angoscia; non
vidi più in lui che un nemico odiatissimo.”


XX.

“Alfredo all'infelice esito de' suoi colpi, fece un gesto di dispetto,
gettò via rabbiosamente la seconda pistola e si volse a guardare qua e
là con irrequietezza, quasi spaventato, come per chiedere che cosa gli
rimanesse da fare, per cercare qual via gli si aprisse di scampo. Fu
un baleno. Presto si ricompose, e serrando al petto le braccia, levò
superbamente la fronte verso di me, in atto di fiera aspettazione e di
sfida.

“Io camminai risolutamente verso di lui tutto quel tratto che potevo
percorrere, e quando mi trovai alla distanza di soli dieci passi dalla
sua faccia pallida ma sicura, alzai tutte e due le mani e puntando le
pistole nella direzione del mio avversario, senza mirare altrimenti, le
sparai ambedue d'un colpo.

“Udii un gran grido; e dietro la nube del fumo prodotto dalla
esplosione delle mie armi, vidi barcollare e precipitare a terra
Alfredo.

“I testimoni si slanciarono verso di lui. Io lasciai cadere di mano le
pistole, e mi spinsi innanzi stimolato da un'avida, feroce curiosità;
ma ben tosto, alla vista della fronte insanguinata d'Alfredo, mi
ritrassi inorridito.

“Dietro me, come in risposta a quello del trafitto, suonò un grido
acutissimo, dolorosissimo. Mi volsi. Una donna scarmigliata accorreva
disperatamente.

“Era Albina!

“Il nostro duello aveva destato cotanto l'attenzione della città tutta,
che era stato impossibile l'impedire non ne venisse voce all'orecchio
di lei. Informatasene qua e colà coll'ansia maggiore, turbato forse il
cuore da funesti presentimenti, l'infelice donna era riuscita a sapere
dai servi il luogo e l'ora dello scontro, e, spinta dal suo fatale
destino, arrivava sul terreno, giusto al momento in cui il suo diletto
cadeva al suolo, cadavere.

“Sì, cadavere! Alfredo era morto, e per mia mano! Questa orrenda verità
non tardò ad apparirmi in tutta la sua crudezza, e distrusse tosto
quell'esaltazione di sdegno e d'odio che mi aveva fatto, un momento
prima, volontario assassino.

“Sentii le roventi unghie del rimorso lacerarmi il cuore; ebbi orrore
di me, e mi parve la natura medesima inorridisse al mio cospetto;
credei udirmi suonare all'orecchio, tremenda, la maledizione lanciata
su Caino. Rimasi stupidito, guardando quel cadavere sanguinoso
sull'erba, senza rendermi ben conto della realtà, come se tormentato
dall'incubo d'un sogno penoso, supplicando mentalmente da Dio la grazia
impossibile che non fosse vero quello che era avvenuto, prendendo a
sperare con dissennata lusinga che tutto quanto s'agitava sotto ai miei
occhi non fosse che una illusione da dileguarsi ad un punto.

“L'angoscia disperata d'Albina, che si abbandonava con tanto spasimo
sul corpo dell'uomo da lei supremamente amato, invocando essa stessa
la morte, accresceva in me il pentimento e la coscienza dell'orribile
delitto. Apparivo un mostro a me stesso; e mi dicevo accusatore e
condannatore più severo e inesorabile d'ogni umano tribunale, che avevo
ad una stolta vanità della mia persona sacrificato la preziosa vita
d'un uomo, a cui avevo pure giurato riconoscenza ed affetto eterno.

“Ah! pregate Iddio che tenga da voi lontana la sventura e la colpa di
macchiarvi le mani nel sangue d'uno dei vostri simili. Shakespeare,
per bocca di Macbeth, dice che l'uccisore d'un uomo uccide il proprio
sonno; e ciò è tremendamente vero. Egli uccide insieme la propria
quiete, la propria anima, se non ha cuore di scellerato; sia pure
attenuato dalle circostanze il suo delitto, avesse pure dal suo lato la
giustizia della causa, lo spettro sanguinolento della vittima, qual'ei
la vide raccapricciando nelle ultime convulsioni dell'agonia, gli
apparirà inesorato nelle sue notti maledette.

“Mentre nel mio interno mi assalivano così subite e potenti le torture
del rimorso, di fuori ero sì impietrito che apparivo insensibile. Ai
testimoni di quella orribile scena sembrai peggio che crudele.

“Albina levò un istante gli occhi, e, traverso al velo delle cocenti
lagrime che le ardevano le pupille, mi vide.... Il suo movimento di
ripulsione e d'orrore fu tale che io mi sentii vacillare. Meno grave,
meno dolorosa mi sarebbe stata la più iniqua maledizione lanciatami
dalle sue labbra, anzichè la muta ferocia dello sguardo onde mi saettò.

“I miei padrini si posero fra lei e me; e il principale dei due,
pigliandomi per un braccio, mi disse severamente:

— «Qui non c'è più nulla da fare per noi. Allontaniamoci.»

“Mi lasciai condur via senza dir parola. Allontanato appena di pochi
passi, mi rivolsi a dare un'ultima occhiata a quello spettacolo
tremendo. I padrini d'Alfredo avevano abbandonato il morto, per
soccorrere Albina, cui l'eccesso del dolore aveva tratta fuor di sè.

— «Ella parta:» mi dissero i miei secondi: «noi gli è meglio che
andiamo ad aiutare quelli là nei pietosi uffizi che rimangono a
compiersi.»

“Tornarono indietro. Io mi allontanai solo, a capo chino, la
desolazione nell'animo, inorridito di me stesso, increscioso della
vita, desiderando di poter cambiare la mia con la sorte del mio
avversario, essere io il cadavere, su cui piangesse tali lacrime una
donna amorosa, e si volgesse il comune compianto.”


XXI.

“Non rientrai in città. Presi la prima strada che mi si parò davanti,
e mossi per quella a passo or lento, or concitato, inconscio di me
medesimo, incerto dove io fossi, non sapendo neppure di vivere.

“Mille pensieri si agitavano confusamente nella mia testa, e fra tutti
uno solo, chiaro, spiccato, parea incidermi nel cervello in lettere di
fuoco la parola: ASSASSINO!

“L'anima, del resto, era come intorpidita e le impressioni ne
risultavano vaghe ed incerte, da paragonarsi ad un rumore lontano, cui
ode, ma non distingue bene l'orecchio. Però, di quando in quando, il
dolore ed il rimorso mi davano una nuova stretta, viva e ogni volta
sempre maggiore.

“Andavo, andavo, senza direzione, voglioso di solitudine, bisognoso
di moto, null'altro cercando che di fuggire l'aspetto dell'uomo.
Parevami che stancando il corpo, avrei domato altresì quel turbamento
dell'anima, ognor più fiero.

“Talvolta mi provavo ad affrontare audacemente il mio soffrire.

“Ebbene, sì, mi dicevo, ho ucciso un uomo: ma egli aveva ben voluto
uccider me! Tra lui e me non c'era altra via: o morir lui, o morir io.
Nel caso mio chi non avrebbe agito come me?

“Ma non tardava la coscienza a ribellarsi a questi sofismi. Mi si
drizzava dinanzi l'immagine sanguinosa d'Alfredo, ed allora tutta la
mia audacia svaniva; udivo risuonarmi nell'anima le grida tremende
di lui che moriva, d'Albina che lo vedeva cadere, e un'intima voce mi
diceva disperatamente nell'anima:

— «Meglio tu fossi morto!»

“Esser morto! A un tratto quest'idea s'impadronì di me, e mi pòrse
alcuna sembianza di calma, e mi fece l'effetto, come in ciel nuvoloso
uno di quelli squarci per cui si scorge l'azzurro, come un cenno della
sorte che mi mostrasse, in una regione al di là della tempestosa in cui
mi agitavo, un riparo e un riposo.

“Morto, non sarei stato odiato più, non mi avrebbe più perseguitato la
rabbia degli uomini, mi avrebbe obliato il mondo, _forse_ non sarei
più tormentato da questi spasimi, dall'incertezza dell'avvenire, dal
tumultuare delle passioni, dalla febbre fallace delle speranze, dalla
crudeltà dei disinganni.

“Caddi a terra in ginocchio, e levando le mani e lo sguardo al cielo,
con tutto il trasporto di quella fede che avevo avuta nella mia
infanzia, supplicai da Dio, proprio con tutta l'anima, che lì, subito,
mi facesse morire.

“Ahimè! La era una viltà anche quella. Era la paura di affrontare gli
odii e le condanne del mondo; era la paura di vivere in compagnia del
mio rimorso.

“Quando tornai a casa, era notte scura. Trovai che m'attendeva uno
de' miei secondi, quello che s'era più interessato per me. Mi venne
incontro sollecito, e mi disse vivamente:

— «Ho da parlarle. Entriamo presto in casa.»

“Il duello aveva levato assai rumore in città. Una viva irritazione
si era desta contro di me. Mi accusavano di poca delicatezza e di
troppa ferocia. I fogli della giornata imprecavano al mio nome. La
giustizia non avrebbe mancato di procedere; l'autorità di polizia era
forse per prendere a mio danno uno di quei provvedimenti arbitrarii che
l'assolutismo consentiva allora al governo del mio paese.

“L'idea del carcere mi spaventò.

— «Che mi resta da fare?» domandai con affanno.

— «Fuggire, e tosto:» rispose il padrino.

“Era un lasciar quella vita, venutami oramai insoffribile, era romperla
col mio passato, e ricominciare in altre condizioni un'esistenza
novella. Quest'idea mi arrise.

— «Sì, fuggirò;» esclamai.

— «Subito:» insistè il mio interlocutore: «altrimenti non sarà più
tempo.»

“Una vera smania allora m'assalse d'esser fuori da quelle mura. Feci un
fardelletto di alcune poche mie robe; presi il denaro che avevo, e mi
allontanai di buon passo da quella casa, poi dalla città.

“Il giovane che era venuto ad avvertirmi, volle accompagnarmi un tratto
di strada.

“M'avviai verso le montagne che s'innalzano non molto lontano dalla
mia città natale. Credevo esser colà più sicuro, e non desideravo
d'incontrare figura d'uomo nel mio cammino.

“Alla distanza di circa due chilometri, il pietoso giovane tolse
commiato. Mi chiese dove avevo intenzione di recarmi, ed io gli risposi
non saperlo; ad ogni modo gli promisi glie l'avrei scritto, e lo
ringraziai molto.

“Quando dopo l'ultima stretta di mano, quel mio concittadino si dipartì
da me, io lo seguii collo sguardo per un po' di tempo; e vistolo
sparire fra gli alberi sentii in me stesso che ogni vincolo era rotto
fra me e quella gente e quel mondo.”


XXII.

“Era una stupenda notte, e il più bel chiaro di luna che si possa veder
mai. Mi mossi con passo quasi di corsa su per la salita alla montagna.
La natura era piena di misteriosi sussurri; mille insetti mandavano
lievi suoni indefinibili; stormivano le foglie al venticello notturno,
bisbigliavano con più alto rumore i ruscelli, cantava mestamente
amoroso l'usignuolo, e su tutto ciò regnava una calma, una pace che
avreste detto un silenzio. La quiete esteriore influiva sul tumulto
della mia mente, e lo veniva temperando. Quel desiderio di tranquillità
ignorata cresceva, cresceva in me al contatto di sì profondo riposo
della natura.

“Giunto, dopo parecchie ore di cammino, sopra un culmine, sostai e mi
volsi a guardare indietro. Nella pianura appariva la città, splendente
da lontano co' suoi mille lampioni, come una massa rossigna di fuoco in
mezzo alla campagna, mitemente circonfusa dell'azzurrigno chiaror della
luna.

“Là erano l'agitazione e i tormenti dell'umanità; nella vasta
solitudine dove mi trovavo, la solennità dell'infinito, la sublimità
della natura, più immediata l'opera di Dio, l'oblio e la pace. Mi
pareva d'essermi accostato al seno della gran madre creatrice, e di
ricevere da questa nuova lena e conforto.

“Se io volessi dirvi tutti i pensieri che allora attraversarono la mia
mente, troppo lungo sarebbe, e non lo potrei nemmanco, tanti furono
e sì varii, come quelli che abbracciarono tutto il mio passato e
l'avvenire, e tutte le più ardue questioni della vita e del destino
dell'uomo, e tutto il creato.

“Ero affaticato, debole, sfinito. La notte tepidamente serena
m'invitava al riposo. Mi adagiai al riparo di alcuni alberi, la
fronte volta allo scintillare delle tremolanti stelle, che pareva mi
piovessero una calma soave entro le vene, e un benessere non isperato
mi corse tutte le membra. Passando ancora di fantasia in fantasia, poco
a poco mi addormentai.

“Mi svegliò il primo raggio del sole che spuntava all'orizzonte. Lo
spettacolo dell'aurora mi parve quel dì più sublime di quanto avessi
giudicato mai. Già io sentivo di essere un altr'uomo. M'inginocchiai
in faccia a quel sole che sorgeva nella sua imponenza a manifestare la
grandezza del Creatore, ed adorai.

— «Deh!» pregai dall'intimo dell'anima, «Ch'io viva oscurissimo ed
obliato, ma buono, ma virtuoso, ma non in balía del male.»

“Non chiesi più la morte: domandai la virtù e la pace. Ero guarito.

“Sorsi con una nuova risoluzione, con nuovo coraggio ed una nuova
speranza; e ripresi il cammino. Avevo deciso spogliarmi del mio nome,
delle mie ambizioni, d'ogni folle anelare alla gloria. Rifiutai in quel
momento, e per sempre, il serto del poeta.

“Trovai da rifocillarmi nel tugurio di alcuni contadini e da
provvedermi il nutrimento per tutta la giornata; e senza sapere dove
avrei diretto i miei passi, dove avrei preso stanza dipoi, continuai a
salire pei più scoscesi dirupi.

“Avevo camminato forse un'ora, senza mai incontrare traccia d'uomo,
quando udii innanzi a me, poco lontano, suonare ed echeggiare per le
valli un'esplosione come d'arma da fuoco. Ristetti atterrito, e il mio
primo pensiero fu di fuggire; ma mi rattenni. Pensai che alcuna funesta
avventura poteva aver avuto luogo e una qualche vittima abbisognava
forse di soccorso. Mi affrettai verso quella parte.

“Un cento passi più innanzi, dove la costa della montagna,
incurvandosi, formava una specie di anfiteatro, che pareva fatto
apposta per guardare la magnifica vista della sottostante pianura,
in un verde praticello smaltato di fiori, giaceva bocconi un uomo,
stringendo due pistole tuttavia fumanti.

“Era quello uno dei luoghi più ameni ch'io avessi veduto mai. Le coste
della valletta tutte coperte di faggi: più in alto sulle cime, dritti
come granatieri schierati a battaglia, i severi cipressi; purissimo
il cielo; il sole, che investiva co' suoi raggi gli albereti della
convalle, vi spargeva le tinte più ricche e più piacevoli all'occhio
del riguardante. Pareva una decorazione preparata per un idillio, per
una scena d'amore, non per una luttuosa tragedia.

“Mi accostai al giacente. Egli s'era sparate le armi in viso, e
vidi che orrendamente n'era rimasto malconcio, da non potersene più
riconoscere i tratti. Tepido ancora era il suo corpo; ma da questo
l'anima partitasi per sempre.

“Ristetti a pensare come dovessi regolarmi. Presso di sè il morto
aveva il suo cappello, e dentro questo vidi una carta ripiegata e
sopravi, a tener fermo cappello e carta, un sasso. Esitato appena un
pochino, presi quella carta e la spiegai: erano poche parole, scritte
in inglese, e le lessi con avida curiosità.

“Dicevasi in sostanza, chi s'imbattesse mai in quel cadavere, non
credesse a un assassinio, sibbene a un suicidio, com'era difatti.
Stanco della vita e odiatore degli uomini, straniero a quelle contrade,
voleva l'infelice morire senza essere conosciuto, senza ipocriti
compianti; non dire perciò il suo nome; non si cercasse neppure dei
fatti suoi, che egli se ne veniva da lontano, e aveva voluto che
nessuna traccia rimanesse di lui.

“Io sedetti vicino a quel cadavere; lessi e rilessi più volte quello
scritto e meditai a lungo.

“Ancor io detestavo la vita; anch'io avevo sentito l'animo invaso
dall'odio per gli uomini, e avevo pensato di cercar rifugio tra
le braccia della morte. Ma, per fortuna, il Signore non mi aveva
abbandonato, e nel colmo della disperazione mi aveva pure concesso la
grazia d'un benigno pensiero che mi aveva richiamato alla ragione ed
alla conoscenza dei doveri dell'uomo sulla terra....

“A un tratto un'idea bizzarra, ma potente, mi nacque e s'impadronì di
tutta la mia volontà.

“Io voleva finirla una volta per sempre con quella vita di vanità, di
odii e di colpe; volevo morire a quel mondo futile e corrotto, ipocrita
e scettico, stolido e prepotente, al quale dovevo ogni mio danno e il
decadimento dell'anima mia. Se, a romperla definitivamente, fra esso e
me avessi gettato in mezzo quel cadavere? Se a quello sconosciuto che
voleva rimanere affatto ignorato, avessi dato il mio nome? Se tutto
il mio passato facessi davvero seppellire nella fossa, colla salma di
quell'infelice?

“Le fattezze del volto, guaste dall'esplosione, la statura presso
a poco uguale, permettevano lo scambio. Strappai un foglio dal mio
taccuino e vi scrissi su un ultimo addio alla vita, perdonando a tutti
quelli che mi avevano fatto del male, chiedendo perdono a tutti cui
avessi offeso. Sottoscrissi col mio nome, posai il foglio nel cappello
del morto, e vi posi la pietra sopra. Il suicida non aveva in tasca
nè carte, nè altro: vi misi alcuni oggetti di mia spettanza e qualche
lettera a me diretta. Poscia inginocchiatomi, pregai con fervore per
quel morto e per me. Dopo ciò ritornai alla casa dei contadini, dove
m'ero rifocillato poco prima.

“Dissi loro del morto da me trovato; essi subito accorsero là; ne fu
avvertita la giustizia, si fecero le pratiche che sogliono farsi in
casi simili, e fu posto in sodo che io mi era suicidato.

“Ebbi la debolezza di voler vedere che cosa dicessero i giornali della
mia morte.

“Cessarono le contumelie, ma non cessò l'indifferenza ostile: siccome
da morti non si dà più ombra, qualcuno infiorò di qualche elogio un
cenno alla mia memoria. Fui sotterrato nel cimitero del villaggio più
vicino, e sulla fossa una semplice pietra con il mio nome su scolpito.

“Volli vedere la mia tomba. Il cimitero è isolato, solitario, pieno
d'ombre e di melanconia. Le erbe altissime sussurrano stranamente sotto
al vento che le agita. Croci di legno sorgono qua e là, quasi tutte
corrose dal tempo; come la memoria dei morti che ci dormono sotto. E ci
si deve riposare in pace!

“Due settimane dopo non si parlava più di me; a quest'ora non c'è più
anima al mondo che si rammenti ch'io abbia esistito; io che, nelle
pazze fantasticaggini della gioventù, ho sognato la gloria!

“Per istrade fuori mano, senz'altra mèta certa che quella di
allontanarmi dal mio paese, venni girando qua e colà, finchè giunto a
questo rimoto villaggio, tanto mi piacquero la natura, il cielo e la
quiete di esso che determinai fissarvi la mia dimora.

“E da quasi trent'anni ci vivo, non dirò felice, ma senza più rimorsi,
senza odii e senza far male: non affrettando certo, ma non desiderando
neppure d'allontanare quel giorno supremo in cui, libera da questo
disgraziato involucro, l'anima mia voli nelle braccia misericordiose
dell'Eterno Amore.”


Qui, maestro Ambrogio si tacque; e stemmo ambedue silenziosi rivolgendo
in mente mille pensieri che il suo racconto aveva eccitato in me e
ridestato in lui.

Dopo un istante, fu egli a riprendere:

“Ora non cercate più altro da me. L'ultimo velo di mistero che copre
l'esser mio, mi è più sacro dell'onore, mi è più caro della vita.
Non tentate levarlo. Andate e obliatemi. Soltanto possiate far vostro
pro dell'insegnamento che contiene questa dolorosa storia delle mie
vicende!

“Non è nel vano rumore del mondo che consistono le degne soddisfazioni
dell'animo; non è sulla scena abbarbagliante dell'ambizione che
l'uomo divenga felice e si faccia migliore. La rinomanza non è che
misera vanità; il mondo inaridisce il cuore, intristisce l'anima, e
fa prosperare in essa quell'iniqua pianta parassita dello spirito
dell'uomo, la quale soffoca ogni buono istinto, e che si chiama
egoismo.

“Io sono vecchio, sono sfinito, e mi sento con soddisfazione non
lieve presso al termine d'ogni male. La verità l'ho amata sempre,
e non è ora che vorrei farle il menomo oltraggio. Ebbene, vi giuro
che più mi venni inoltrando negli anni, e più fui lieto del partito
preso. Non dico che molte volte l'ingegno in me non si ribellasse,
e non volesse dipingermi la mia come una viltà, come un mancamento
al proprio dovere. Ve lo dissi già che sostenni lotte tremende, che
soffrii, ma che vinsi. Se sapeste quanti, e forse splendidi, furono i
frutti di certe angosciosissime veglie! Ebbi il coraggio di distrugger
tutto. Nell'esercizio della virtù sconosciuta, nascosta, s'affina
l'anima umana. Alla soglia dell'eternità sarà più bella e gradita, non
quell'anima che sarà stata più gloriosa innanzi agli uomini, ma quella
che sarà stata più benemerita innanzi a Dio.”

Fece una pausa; poscia con voce più fioca e più sorda di quel che gli
fosse abituale, porgendomi la mano, soggiunse mestamente:

“Addio! Voi partirete fra pochi giorni; non è vero? È meglio che non ci
rivediamo più; che questo sia fra noi l'ultimo saluto. Io vi ho detto
tutto quello che avevo da dirvi. Conservatemi il segreto. Voglio morire
nelle ombre che mi avvolgono..... Ma quando udrete.... e sarà presto,
io spero.... che avrò abbandonata questa terra, se lo credete opportuno
e giovevole, raccontate pure altrui ciò che sapete de' casi miei.”


XXIII.

Due giorni dopo io partiva da quel paese, e con mastro Ambrogio non ci
vedemmo più: per due anni non ne ebbi altra novella.

L'altro dì il mio nobile amico dovette venire a Torino per qualche sua
faccenda, e fu a salutarmi.

“Mi fermo qui pochi giorni soltanto” mi disse “poi torno di gran
carriera alla mia montagna. Volete voi venire con me?”

“Ah! se lo potessi!” esclamai con un sospiro. “Ma noi siamo qui
condannati al lavoro di Sisifo.... Intanto datemi notizie di mastro
Ambrogio.”

Il volto del mio amico si fece mestamente grave.

“Quel povero Ambrogio!” disse. “Non c'è più. L'hanno sotterrato l'altra
mattina.”

Mi feci raccontare i particolari della sua morte. Non era stato malato
che pochi dì. Conosciuta tosto la gravità del suo male, egli aveva
mandato pel sacerdote, ed aveva edificato tutto il villaggio colla
santità della sua morte, come aveva fatto colla purità ed onestà della
sua vita. Sulla sua fossa hanno piantato una croce di legno, e gli
scolari vanno a spargervi fiori.

Così fu il suo desiderio compito. È morto sconosciuto, tranquillo,
amando e sperando. L'erba d'un cimitero di campagna ne coprirà le ossa
ignorate; ma io, che non l'oblierò mai, ho pensato valermi del suo
permesso, e schizzarne in questi fogli la misteriosa figura.



GALATEA

RACCONTO.


I.

Era il crepuscolo vespertino d'una triste giornata di tardo autunno.
Grossi nuvoloni occupavano tutte le creste della catena alpina; al
momento che il sole si tuffava dietro di questa, il denso velo delle
nubi erasi squarciato alquanto al lembo dell'orizzonte, e n'era balzato
fuori uno sprazzo di luce color rosso di fuoco, che dileguandosi
ben tosto, aveva lasciato luogo ad una tinta plumbea grigiastra, che
rattristava con freddi riflessi il paese e la sera.

Le foglie ingiallite si spiccavano dai castagni, e venivano giù adagino
adagino, quasi baloccandosi per l'aria. Di quando in quando un buffo
di vento sollevava i piccoli mucchi delle frondi cadute ed ammassate
qua e là dal caso o dal lavoro dell'uomo, e avvolgendo le foglie in
un turbinío, le cacciava innanzi a sè, come una nube, per lasciarle
ricadere lungo la strada in una striscia che ne segnava il cammino,
finchè non erano più che due o tre a rincorrersi pazzamente come
ragazzi ruzzanti.

I vaccari tornavano dalla pastura, la faccia e le mani arrossate
dalla brezza freddiccia, e si spingevano innanzi le pigre bestie
muggenti, accompagnando colle battiture e colle voci d'ammonizione e
minaccia alla loro cornuta schiera, una canzone a cadenze monotone e
strascicate, nella mestizia del tono in minore.

Dai fumaiuoli delle modeste abitazioni del villaggio, a rivelare
che le buone massaie preparavan la cena, usciva il grigio fumo che
disegnava capricciosamente i suoi ghirigori, sul fondo più oscuro
dell'atmosfera. Al di sopra e in mezzo di questa uniformemente bassa
ed umile popolazione di casuccie, coperte la maggior parte di paglia,
il campanile della parrocchia sollevava il suo capo, sormontato da una
gran croce di ferro e coronato di tegole verniciate a brillanti colori.

Il qual campanile, in quest'ora appunto, mandava le più gravi e solenni
note della sua maggior campana, per invito alla preghiera, in suffragio
d'un'anima, volata nel mondo degli spiriti.

All'udire quei rintocchi lenti e pieni di tanta mestizia, uscivano di
casa le madri di famiglia e le ragazze, accomodandosi in fretta sul
capo il fazzoletto stampato a colori; e, appoggiandosi sul bastone, gli
uomini ai quali la tarda età toglieva d'andare a quel lavoro quotidiano
ne' campi, da cui ora stavano per tornare i loro figliuoli e nipoti.

Le comari del villaggio, incontrandosi, si scambiavano intanto delle
parole come queste:

“Suona per la sepoltura della povera Marta.”

“Poveretta! Dio l'abbia in gloria! Andiamo a dire un _De Profundis_ per
quell'anima; benchè la ne abbia meno di bisogno che qualunque altra;
chè se ci fu mai cristiana che morisse nella grazia del Signore, la
Marta è stata quella di certo.”

“Sicuro! E se non va quella lì in paradiso, dritto dritto, non ci va
più nessuno.”

“E per lei, davvero che la morte si può dire una grazia! Ha finito di
tribolare.”

“Oh sì! che ha tribolato, e di molto!”

“Una grazia la morte! che cosa dite? Se la povera donna fosse stata
sola al mondo, avreste ragione. Ma pensate un poco a quella poveretta
di Maria che lascia dietro di sè!”

“Ah! gli è pur vero. Per codesta creatura così giovane e inesperta, la
è proprio una gran disgrazia.”

“Ed oltre a esser giovane, quasi ancora una bambina, è tanto semplice,
così innocente!....”

“E vi so dir io che la Marta si affliggeva di molto al pensiero di
lasciarla; e pregò di belle volte il Signore che le raddoppiasse anche
il male che soffriva, purchè le volesse prolungare di tanto la vita da
poter vedere provveduta quella poveretta, che è come un'agnellina senza
forza e senza malizia in mezzo alle tristizie del mondo.”

“Come sopporta ella questo colpo la Maria?”

“Che v'ho da dire? La pare smemorata. Sapete com'è quella semplicetta,
che non si sa mai se capisca o non capisca. Per me, io credo che non
sappia nemmeno che la sua nonna è morta, nè che cosa voglia significare
la parola morire.”

Intanto uomini e donne erano giunti ad una delle più umili capanne,
posta ad un de' capi della strada che attraversava quel povero
villaggio montanino. Era piccola, angusta, d'un solo piano, e poteva
dirsi davvero che la miseria ci stava di casa. La frotta delle
persone accorse colà vi susurrava a bassa voce, con un quasi timoroso
riguardo; ed era il profondo rispetto che ad ogni animo onesto impone
la sciagura. Nel già scuro ambiente di quella stanzaccia terrena che
formava la parte principale dell'abitazione, ardevano fiocamente alcuni
lumi accesi; su due sgabelli di rozzo legno stava posata una bara, e
sopra, gettatovi, un logoro tappeto nero. In quella umile dimora era
piombata, il giorno prima, la morte.

Ad un punto un vecchio dai canuti capelli, in abiti sacerdotali, il
parroco del villaggio, fece un cenno, e la mesta comitiva s'avviò.

Precedeva il sagrestano portando la croce, poi la confraternita a cui
apparteneva la defunta, una trentina di donne tutte incappate, quindi
il parroco in mezzo a due preti, e dietro la cassa della morta, portata
a spalle dal becchino e dal suo aiuto.

Il funebre corteggio era chiuso dalla massa incomposta e confusa delle
donne e dei vecchi, e in essa non vedevi persona che non avesse le
lagrime agli occhi e la preghiera sulle labbra.

Ma, subito dopo la bara, prima d'ogni altro, veniva la povera Maria.

Era una fanciulla di quattordici anni, troppo grande per la sua età,
magra, sfiancata, di volto scarno, di larghe occhiaie, in fondo a cui
brillavano d'un fuoco selvaggio certe pupille d'indescrivibil colore;
la pelle aveva abbronzata, i folti capelli arruffati sul capo come i
serpenti del Gorgone; vestita a casaccio d'una vestucciaccia che non
era fatta per dar grazia alle sue membra lunghe, ossee, dinoccolate.

Come aveva detto la donna che abbiamo udito discorrere poc'anzi,
non si poteva discerner bene se questa ragazza capisse o no. Da quei
suoi grandi occhioni, ora sereni come l'azzurro del cielo, ora scuri
come il mare in tempesta, ora privi di luce come la pupilla d'un
cadavere, ora scintillanti di riflessi dorati che parevan raggi di
sole, l'intelligenza non appariva che a lampi; la fronte era bensì
giustamente sviluppata, modellata a perfezione e adorna della maggiore
nobiltà di linee; ma il silenzio ostinato, in cui la giovanetta si
rinchiudeva, i pochi segni di sensibilità e le poche manifestazioni
di pensiero che in lei si scorgevano, erano cagione che la gente la
credesse poco meno che scema, e la facevano vivere mezzo segregata
dalla vita ordinaria e dal consorzio del mondo.

Non v'era che la nonna, la quale, o s'illudesse per soverchio amore,
o fosse più penetrativa degli altri, credeva avere scôrto dietro quel
riparo di ghiaccio un'anima affettuosa, notato sotto quella distrazione
di spirito un'intelligenza.

“La mia innocente,” soleva ella dire, “val meglio di molti e molti, che
la compatiscono come una scema.”

Quando la buona vecchia Marta era caduta malata di quella infermità,
che, tenutala un anno a patire nel letto, l'aveva ora tratta al
sepolcro, Maria, la quale soleva andare al pascolo sulla montagna e
vagolare tutto il giorno per i dirupi come una selvaggia, a raccoglier
fiori, di cui tornava la sera tutta adorna il capo e il seno; Maria
s'era seduta sullo sgabello a piè del letto della povera nonna, e non
vi era più stato verso di farnela muovere.

Ella stava là, coi gomiti delle sue lunghe braccia appoggiati alle
ginocchia, la faccia sorretta dalle mani, e gli occhi larghi, fissi di
continuo sulla inferma. Parlava poco o punto, stava immobile, lasciava
servir la nonna dalle comari, cui la carità mandava in soccorso
dell'ammalata, e non era che raramente, quando la si trovava proprio
sola colla Marta, che si chinava sul letto di lei e le dava caldi baci,
in cui palpitavano, per così dire, la tenerezza e l'affetto.

Un anno intero di codesta vita aveva nociuto di molto alla salute della
giovinetta. La era cresciuta anche troppo, ma diventata sempre più
sottile e macilenta; le sue guancie avevan preso un color terreo, e
negli occhi non apparivan più che rarissimi gli sprazzi di luce.

La vecchia nonna, prima di morire, aveva parlato lungamente al vecchio
parroco della meschinella e dell'avvenire che l'aspettava, e pregato
costui di scrivere a certi congiunti che unicamente le rimanevano,
lontani di parentela e di dimora, coi quali la moribonda, da tempo
remoto assai, non aveva mai più avuta alcuna attinenza.

Nell'ultimo istante, proprio nell'atto di spirar l'anima, con un ultimo
sguardo, Marta aveva ancora una volta raccomandata l'orfanella al buon
sacerdote, che su lei pronunziava la preghiera dell'agonia, e alla
miserella che rimaneva sola nel mondo si era rivolto l'estremo segno
d'intelligenza e d'affetto della morente.

Quanto a lei, — a Maria, — pareva che il suo spirito fosse ben
lontano da quella scena di morte, da quel luogo, da quel doloroso
momento. Immobile al suo solito posto, ella continuò a rimirare la
morta, come aveva sino allora rimirata l'inferma; e per quanto le si
dicesse o facesse, nessuno era riuscito a levarla di là. Con apparente
indifferenza guardò tutti i preparativi che vennero fatti per portare
all'ultima dimora il corpo di quell'unico essere che l'avesse amata;
e solamente di quando in quando una contrazione nervosa veniva a
sconvolgere i lineamenti dell'infelice, senza che pure una lagrima
spuntasse su quegli occhi asciutti e riarsi. Quando vide la nonna
messa entro la bara e udì battere i chiodi del coperchio sopra di lei,
Maria s'alzò tremante, e la contrazione della sua faccia fu orribile,
accompagnata da un grido di spasimo; ma non altro; ricadde accasciata,
muta, impassibile, e parve non sentire più nulla.

Ora, essa veniva dietro la bara a passo lento, dritta la persona,
l'occhio fisso su quel drappo nero che la precedeva, come se potesse
vedervi di sotto il viso della morta; e di tutto quanto avveniva
intorno a sè pareva affatto ignara.

Si giunse al cimitero. La fossa, già scavata, era là, pronta ad
ingoiare quegli ultimi resti. Maria venne fino all'orlo di quella
buca, vi si chinò sopra, come desiosa di vedere che cosa vi fosse
nello scuro fondo di essa. La cassa vi fu pianamente calata, e intanto
si mormoravano intorno le estreme preghiere. Tutti piangevano; ma la
fanciulla era immota, tranquilla e come insensibile. Però quando si
gettò nella fossa la prima palata di terra, e questa si udì risuonare
cupamente sul coperchio della cassa, Maria mandò ancora quel grido di
spasimo, e si slanciò innanzi colle braccia protese, come se volesse
precipitarsi in quella tremenda apertura, ed abbracciarsi alla morta,
e farsi seppellire con essa. Le donne le furono attorno a trattenerla.
Sentendosi afferrare, ella si fermò, guardò attonita chi l'aveva
trattenuta, e calmatasi di subito, si liberò dalla stretta di quelle
pietose; poi, incrociate le braccia al seno, stette senza pur far
parola.

Tutto era finito, ed ella stava ancora là in quel medesimo
atteggiamento. Le donne incominciarono con dolci parole a dirle di
venir via, pietosamente confortandola: Maria non le guardava neppure.
Una fra le altre, più insistente, non ottenne di meglio che uno
sguardo senza espressione ed uno scrollar di testa; allora la donna,
con tutta amorevolezza, aveva preso pel braccio la giovanetta e voluto
trascinarla con sè; ma ella se n'era disciolta con sì impetuosa mossa,
e con tanto sdegno le aveva detto «lasciatemi!» che la donna erasi
allontanata quasi impaurita.

Il parroco che aveva accompagnato sino colà il cadavere della povera
morta, fece segno lasciassero stare quell'afflitta, che egli stesso
sarebbesi preso cura di lei. Le donne partirono. Maria, quando le ebbe
vedute tutte allontanarsi, e si credette sola, si buttò con impeto
quasi disperato in ginocchio, e chinandosi a toccare col capo, a baciar
colle labbra gementi quella terra frescamente smossa, sotto cui giaceva
la nonna, ruppe in dolorosissimi singhiozzi, che le facevano tremare
tutta la persona, e pareva dovessero farle scoppiare il cuore.

La luce del giorno era quasi del tutto sparita, e come in mezzo ad una
nebbia grigiastra, in quella tenebra invadente pigliavano fantastiche
forme a contorni indecisi i cipressi, le croci penzolanti, i modesti
tumuli di quel campo sacro alla morte.

Il parroco, che s'era ritirato un poco, lasciò prorompere quel primo
sfogo di dolore, sino allora contenuto, della giovinetta; e poscia,
venutole presso, pose dolcemente una mano sulla spalla di lei, che
tutta si riscosse.

“Chi è?” domandò Maria, voltandosi con atto vivissimo; e poichè si
trovò dinanzi quel buon vecchio prete, al quale aveva sempre visto la
nonna parlare con tanta riverenza, chiese rispettosamente:

“Che cosa vuole, sor Prevosto?”

“Vieni:” disse il parroco, facendole cenno di alzarsi.

Ella obbedì docilmente, ma domandò:

“Dove?”

“A casa.”

Maria scosse mestamente la testa.

“Non ho più casa,” disse con una semplicità e un'indifferenza che
commovevano più che le smanie della disperazione. “La mia casa è dove
sta la nonna; la nonna è qui, mi lasci stare con lei.”

“Ti ricordi come ti dicesse la nonna che a me bisognava obbedire?”

“Sì, che me ne ricordo.”

“Dunque da' retta: io ti dico di venir meco. E se non ti piace star
sola in casa, ti lascierò stanotte la Margherita a farti compagnia.”

“Oh no, no!” interruppe la fanciulla.

Poi, sorreggendosi colla mano il mento, guardò fiso nuovamente la tomba
in atto di meditazione.

“Dicono che i morti tornano.... Mi pare che debba esser vero.... Io lo
credo.... Che direbbe la nonna se vedesse un'altra nella sua casa?...
Non ho punto paura, io, a star sola.”

“Sia, come vuoi; ma intanto vieni. Tu vedi che la notte è già scura, e
la brezza si fa troppo più fredda che a te non convenga con quei poveri
pannucci che hai addosso.”

Maria infatti diede in uno scossone di brivido.

“Sì, l'aria è fredda,” diss'ella. “E la povera nonna, non avrà ella
freddo qui?”

“Ella non ha più nessun bisogno nè malore; ella ora è un angiolo di
Dio, che prega per te. Vieni!”

La prese amorevolmente pel braccio e la trasse con sè. Ella cedette
e seguì la sua guida, ma il capo e gli occhi erano volti verso quel
mucchio di terra che segnava la fossa recente. Uscirono così dal
cimitero. In quel punto un ragazzetto arrivava correndo.

“Sor Prevosto,” gridò egli: “è arrivata or ora una carrozza, e dentrovi
una signora mezzo ammalata, e un signore coi baffetti neri, che sono
andati all'osteria del _Gallo rosso_, e hanno cercato di Marta che è
morta, e di Maria, e anco di lei, sor Prevosto: e quando hanno udito
quel che era e quel che non era, volevano venir qui senz'altro; ma
poi la signora non se ne sentì; e quel dai baffetti volle che la si
mettesse a letto, ed a me che ero per colà mi diede otto soldi, perchè
le venissi a dire, a lei sor Prevosto, che sono giunti coloro a cui
ella ha scritto; ed io son corso....”

“Va bene,” disse il parroco; poi vóltosi a Maria: “Sono i tuoi parenti,
a cui la nonna mi aveva detto di apprendere la disgrazia che ti ha
colto; è la tua nuova famiglia che t'aspetta.”

E le fece affrettare il passo verso l'osteria del villaggio.


II.

Mentre infatti il modesto corteo accompagnava all'ultima dimora il
cadavere della vecchia Marta, una carrozza da viaggio, lentamente
tirata da due cavallacci da nolo, s'arrampicava su per la lunga salita
che conduce all'entrata del paesello, al quale, di quel tempo, ancora
non aveva fatto capo (nè la cosa è diversa oggidì) alcun tronco di
strada ferrata.

In quella carrozza stavano due persone: una donna e un uomo. Questi
era nel pieno fiorire d'una giovinezza di cinque lustri; la donna
mostrava di essere dai quaranta ai cinquant'anni. Avevano tale
rassomiglianza nei tratti del viso e più nel carattere della fisonomia,
nell'espressione della figura e dello sguardo, nella voce e nelle
mosse, che chiunque non li avesse pur conosciuti mai, al primo vederli,
dicevali madre e figliuolo.

Nella donna l'età inoltrata e una pallidezza morbosa delle sembianze,
la quale rivelava in lei una malattia guarita da poco e una salute
ordinariamente cagionevole, non avevano distrutto tuttavia la traccia
d'una beltà, che doveva essere stata in giovinezza fra le prime e
più seducenti. Le chiome abbondevolissime e d'un nero corvino, in
mezzo al quale spiccavano come fili d'argento i primi capelli canuti
che correvano in quella massa ondulata di seta, le si spartivano
graziosamente sopra una fronte della forma più pura, cui le rughe
appena cominciavano a segnare di leggerissime linee. Dello stesso bruno
gli occhi, dolcissimi e mitissimi nel guardare, pieni di quella luce
di benevolenza che basta a renderci simpatica una persona; e a tale
sguardo corrispondeva il sorriso tutto bontà e amorevolezza, ilare,
se così può dirsi, anche nella mestizia, pacato e sereno. Dal soave
luccicare degli occhi, e dal piegar delle labbra, si vedeva che quella
persona aveva molto sofferto nella vita e tutto con rassegnazione e con
coraggio sopportato.

Ed invero ella aveva molto sofferto!

Anna, tal era il suo nome, nacque in quel villaggio, a cui s'avvicina
a così lento passo la carrozza che la porta; ed era nipote da parte di
padre della povera estinta.

La madre di Anna non era affatto una contadina; ma, figliuola del
maestro del villaggio, uomo d'ingegno e di cuore, aveva ricevuto
dal padre un'educazione intellettuale forse superiore al suo stato.
Con sua figlia il povero maestro compiacevasi di vivere ancora di
quando in quando nel mondo del pensiero, e tornava a gustare le gioie
dell'intelletto, a provare le emozioni che sono destate dalle bellezze
della poesia e dell'arte. Questo tesoro d'educazione, la figliuola
del maestro ebbe per sua principal cura trasmetterlo a sua vòlta alla
ragazza nata da lei, quando fu tanto felice da averne una; di che
avvenne che Anna, crescendo, bellissima e d'animo squisito, acquistasse
eziandio tali qualità di spirito che nessuno avrebbe creduto mai più
trovare nella povera figliuola d'un rozzo flebotomo (che questo era il
mestiere del padre) in uno dei più alpestri e rimoti villaggi.

Nè il padre in vero ci aveva merito o colpa, che vogliate chiamarla,
poichè, facendola un po' da chirurgo, un po' da medico, un po' anche
da veterinario, era tutto il giorno in giro per la campagna, tutte le
sere all'osteria, e lasciava che le faccende di casa fossero regolate
affatto come piacesse alla moglie, di cui riconosceva, ancorchè non lo
confessasse, tutta la superiorità.

Ma per la povera Anna doveva ben presto cominciare una serie di gravi
sventure. E la prima e delle maggiori fu ch'ella appena in sui quindici
anni perdette la madre: proprio quando la sua gioventù, più vivace ed
irrequieta che in altre, per lo sviluppo precoce dell'intelligenza avea
bisogno maggiore del senno e dell'amorevole autorità materna.

Poco tempo dopo un pittore capitava per caso in quel villaggio, e
allettato dalla stupenda bellezza di quei siti alpestri, stabiliva
farvi dimora per alquanti mesi. Ma poichè ebbe veduto quell'occhio di
sole, come si suol dire, che era l'Anna, gli parve che non si sarebbe
più mosso di lì per tutto l'oro del mondo, e che dove lucevano quei
neri diamanti di occhi, lì avesse a dirsi senz'altro che stava di casa
la felicità.

Forse da principio non fu che un leggiero invaghimento, un capriccio
di giovane e d'artista, del quale credette egli medesimo facil cosa il
liberarsi, come credeva pur facile la vittoria sul cuore inesperto e
probabilmente fragile d'una contadinella. Cercò di avvicinare la bella
Annina, con ogni accorgimento d'amante la perseguitò, fece nascere
sempre più frequenti le occasioni di vederla, di parlarle, e riuscì
così bene, che, conosciuti tutti i pregi e le virtù che adornavano
quell'anima e quell'intelligenza, la sua meraviglia fu grande, e il
capriccio divenne vero amore e prontamente grandissimo.

Era egli un bel giovane, parlava bene, e possedeva il merito che in
questa fatta di casi è il maggiore: amava ardentemente e davvero;
s'intende che la fanciulla non potè fare a meno di corrispondergli.
Ma l'onestà si frapponeva a quei due ardori, e seppe imporre un freno
insuperabile all'audacia dell'uno e rassicurare completamente la
timidezza dell'altra. Eppure nessun impaccio vi era ai loro colloqui,
perchè il padre di lei, per ragione del suo mestiere, era tutto il dì
fuori di casa.

Ma se il bravo sor flebotomo non s'era ancora accorto di nulla, ben se
n'erano accorte le comari del villaggio, e ognuno capisce come quelle
buone femmine non potessero tralasciare una sì bella occasione di
far commenti e di mormorare. Aggiungete che in quei remoti villaggi,
dove le comunicazioni sono poche e rade, dove la vita è patriarcale e
la popolazione forma quasi una sola famiglia, ognuno che non sia del
paese è un forestiero, vale a dire poco meno che un nemico da tenersi
lontano, da guardarsi con sospetto, e da detestarsi a chius'occhi. Un
artista poi! Non capivano punto che cosa fosse in realtà; ma nella
loro testaccia quadra i vecchi, soliti a radunarsi sotto i rami del
grand'olmo in piazza, se ne facevano un superstizioso concetto come
d'un gettatore di malìe o press'a poco, e quando lo vedevano colla sua
cartella sotto il braccio, col suo cavalletto portatile andar girando
per la campagna e sedersi qua e colà a tracciar giù linee e metter
colori, poco mancava facessero il segno della croce, e crollavano
dubbiosamente la testa: i ragazzacci, da parte loro, in quelle
tremende occasioni, avevano già protestato più d'una volta con qualche
sassatella.

Di più i giovani del paese, accortisi che il forestiero amava la bella
Anna, della quale erano tutti più meno accesi, e che a codesto amore
la bella del villaggio non era punto avversa, pensate se diventarono
gelosi della zazzera, dei baffi e del pizzo alla medio-evo e della
casacca di velluto nero del pittore! A loro vòlta tutte le ragazze, a
cui Anna, senza volerlo, rubava tutti i dami, non aspettavano di meglio
che un'ombra di pretesto per addentare la buona riputazione di lei.
E quindi, in conseguenza di tutto ciò, la storia degli abboccamenti
del pittore colla figliuola del flebotomo, ampliata, interpretata
malignamente, correva per le bocche di tutti.

Dei parenti della fanciulla, fu la prima a commuoversi la zia Marta,
la quale, in fatto di costumi, era così esigente in altrui, come
inappuntabile essa medesima, e si credette in debito di provvedere e
riparare a siffatto scandalo. E la buona donna aveva ragione; ma in
ciò ebbe torto, che, invece di parlare alla ragazza ed appurar ben bene
come stessero le cose, tentando d'indurla coi consigli a più prudenti
propositi, andò direttamente dal fratello, perchè colla sua autorità
paterna facesse cessare senza indugio la tresca.

Per mala ventura, nel momento in cui la sorella venne a raccontargli
la cosa, il padre di Anna, che era devotissimo seguace di Bacco, si
trovava precisamente più che a mezzo ubriaco. Impetuoso com'egli era
inoltre di carattere, ed assolutissimo nei suoi voleri, chiamò a sè la
figliuola e con modi e con parole tutt'altro che da ispirar fiducia
e destar tenerezza, l'interrogò sulla verità di quello che gli era
stato riferito. Anna, troppo franca per negare, confessò schiettamente
l'amor suo; e il padre, salito in una maledetta collera, minacciatala e
peggio, giurò che non avrebbe mai concessa la sua figliuola ad uno che
non sapeva chi fosse, e sentenziò irrimediabilmente che i due giovani
non si avrebbero a vedere mai più.

È cosa conosciuta da tutti come l'amore contrastato si accende vieppiù,
così da predominare ogni volere ed ogni riguardo negli amanti. La
ragazza pregò, pianse, languì; il giovane affrontò la collera del padre
di lei, supplicò, umiliossi, tutto fu inutile; e allora vedendo senza
speranze il caso loro, con quell'esaltamento che dà alla gioventù
la passione, i due innamorati si appigliarono ad una risoluzione da
disperati com'erano, e fuggirono insieme.

In quel pacifico villaggio fu uno scandalo inaudito: il padre di Anna
montò su tutte le furie e fece giuramento che non avrebbe mai perdonato
la colpevole, ingrata figliuola; Marta, alla quale un eccesso simile
pareva una cosa impossibile, vide già la nipote perduta per l'eternità
nelle fiamme dell'inferno.

I giovani si sposarono, e siccome erano buoni tutti e due e si amavano
davvero, furono una eccezione alla regola generale che converte questi
maritaggi d'amore in una infelicità piena di rimpianti e di rimorsi.
Ma, per quanto facessero, il padre morì senza voler perdonare e
rivedere l'Anna; nessuno de' congiunti s'era intromesso a favore della
fuggita figliuola, e questa dimenticò per la nuova dimora e pei nuovi
affetti il paese natio e la gente del suo sangue.

E di questa, parecchi anni dopo, non rimaneva che Marta, vedova, e con
una bambina nata da un'unica sua figliuola morta soprapparto.

Le condizioni di Marta erano tutt'altro che prospere. Il marito
non le aveva lasciato niente: il genero, il padre della nipotina,
era stato uno scaldapanche d'osteria; non aveva essa altro mezzo di
sostentamento che il suo lavoro, e pensate voi che gran guadagni possa
fare il lavoro di una donna ormai vecchia. Fu peggio ancora quando
la salute, che veniva indebolendosi da assai tempo, l'abbandonò del
tutto; e la povera Marta dovette mettersi a letto, col convincimento
che, trascinando per più o men tempo una vita stentata e di tormenti,
per lei la era finita. Allora, pensando all'avvenire di Maria, la sua
nipotina, la quale, morta lei, sarebbe rimasta sola nel mondo, bene
aveva avvisato di ricorrere alla figliuola di suo fratello, di cui non
aveva ricevuto più novella, ma supponeva buone e prospere le fortune;
però un delicato scrupolo ne l'aveva sempre trattenuta. In gran parte
era essa la Marta, che aveva conferito ad accrescere l'avversione del
padre di Anna per l'unione di costei col pittore; dei dispiaceri e
dei danni che la figliuola di suo fratello da ciò aveva sofferti, in
qualche modo ella poteva pure accagionarne la zia; e che avrebbe detto
l'Anna, che pensato, se ora, trovandosi nel bisogno, dopo non essersi
fatta viva per tanto tempo, la zia ricorresse a lei supplicando? Non
avrebbe forse risposto: «Voi non avete avuta compassione per me, ed io
non ne voglio avere per voi; voi non vi siete mai più interessata dei
fatti miei, ed io non voglio darmi pur un pensiero dei vostri!» Esitò a
lungo; ma quando sentì proprio che la morte s'avvicinava, il bisogno di
Maria vinse ogni altra considerazione, e pregò il parroco di scrivere
a quell'unica parente che le rimaneva.

Ma la nonna di Maria aveva gran torto di dubitare del cuore di Anna.
Questa aveva infinitamente sofferto del negato perdono paterno; e
chiunque della famiglia le aprisse le braccia, essa era disposta a
gettarvisi colla gratitudine di chi ne riceve la più generosa delle
grazie; la sola idea poi di poter essere utile in alcun modo a qualcuno
di suo sangue le sarebbe stata una gioia.

Lei, poveretta, le disgrazie non l'avevano risparmiata. Suo marito,
cui essa amava e che l'amava cotanto, giovane ancora, dopo non molti
anni di matrimonio, erale morto, lasciandola con mediocri fortune e con
un bambino in tenerissima età. Qual immenso dolore sia nella vita la
perdita di quell'essere che si ama supremamente, unicamente, ben lo sa
chi ebbe la grande sciagura di provarlo. Tutti i suoi affetti, tutta la
sua ragion di vivere, tutto il mondo, Anna aveva fino allora raccolto
nell'uomo dell'amor suo. Mancatole costui, credette tutto finito per
sè, le parve impossibile il vivere, a tutta prima desiderò di morire.
Ma era madre! Poteva ella abbandonare quel misero orfanello? Nel suo
figliuolo, nel suo Guido, concentrò tutti gli affetti suoi, tutta la
sua potenza d'amore, ogni interesse, ogni sentimento. E chi non sa come
ami una madre? Per suo figlio ebbe la forza di tutto sopportare, ebbe
il coraggio così della rassegnazione, come dell'opera. Poche erano le
fortune che l'artista lasciava; Anna sostenne ogni privazione; lavorò
indefessa per poter allevare ed educare il figliuolo, ornargli la mente
ed il cuore, farlo degno di suo padre.

Dalla famiglia del marito Anna non aveva ricevuto che disprezzi, per
quello stupido orgoglio de' borghesi, il quale vedeva offesa la dignità
del lignaggio dal matrimonio di un loro congiunto con una contadina;
finchè lo sposo era vissuto, Anna a codeste punture non aveva nemmeno
badato; lui morto, quando la infelice vedova, per cagion di suo figlio,
dovette necessariamente umiliarsi, invece che aiuti, non n'ebbe che
disdegni e contrasti. La misera madre si ristrinse in sè stessa; si
disse che da sola avrebbe bastato al nobile ufficio di allevare il
figliuolo e di farne un uomo, e Dio la compensò di tanto, che il suo
Guido riuscì il più virtuoso, bello ed educato giovane e il più amoroso
e riconoscente de' figli.

Quando la lettera del parroco giunse ad Anna, questa trovavasi
per disavventura inferma ancor essa: perchè la sua salute, fatta
cagionevolissima per gli affanni sofferti, era assalita da frequenti
malattie. Avrebbe ella voluto che Guido partisse tosto pel villaggio;
ma il figliuolo non aveva acconsentito a niun patto di abbandonare la
madre inferma, da lui tenerissimamente amata.

Si attese adunque che la convalescenza fosse progredita così da
permettere ad Anna il viaggio non breve; e la madre di Guido, appena si
sentì bastevoli forze, non volle più saperne d'indugi, e partì sperando
giungere ancora in tempo di vedere un'ultima volta la sorella di suo
padre e di ricevere da lei quella benedizione e quel perdono che dal
padre non aveva potuto; parendole che, per essa, anche il genitore
dalla tomba l'avrebbe perdonata e ribenedetta.

Ed ecco come avvenisse che la carrozza da viaggio incominciava appunto
a salire la cresta della collina su cui si trovava il paesello, quando
la campana della parrocchia mandava alle aure della sera i tristi
rintocchi che annunciavano la sepoltura della vecchia Marta.


III.

Madre e figlio si rassomigliavano, non solo di aspetto ma di anima;
se non che alla grazia ed avvenenza materna, Guido aveva aggiunto
l'energia, la forza e il prepotente amore dell'arte cui aveva ereditati
da suo padre.

Il giovane volle essere artista, nè la madre glielo contrastò,
quantunque l'utile consigliasse la scelta d'un lavoro men gradito
ma più proficuo. Mercè la virtù del risparmio, seppe ella bastare a
tutto con quei pochi redditi che loro rimanevano. Guido fu scultore,
studiò, lavorò, e animato da uno zelo impareggiabile, afforzato da una
volontà potente e dominatrice, favorito dalle migliori disposizioni
dell'ingegno, in breve, per l'eccellenza delle sue opere, mandò intorno
il suo nome con una certa fama, e giunse eziandio ad ottenere dal suo
scalpello compenso di non ispregevoli guadagni.

Nell'accostarsi al suo villaggio, che da tanto tempo non aveva più
visto, nel ritrovare man mano a uno a uno que' luoghi, i quali tutti
avevano per lei una memoria della sua adolescenza o dell'infanzia,
Anna erasi venuta rianimando, e una viva commozione le faceva brillare
gli occhi e le arrossava d'alquanto le guancie abitualmente pallide,
rendendole così un aspetto quasi giovanile.

Ella veniva raccontando al figliuolo, che la guardava con tenerezza,
tutte quelle innocenti memorie, e si commoveva narrandogli le più
indifferenti storielle fatte preziose dal prestigio dell'età trascorsa.
A un punto le lagrime, che più volte già le erano venute in pelle in
pelle, sgorgarono abbondanti da' suoi occhi, e abbandonandosi della
persona sopra i cuscini, ella si coprì colle mani la faccia.

“Madre!” esclamò Guido con caloroso affetto, prendendole tutt'e due le
mani, staccandogliele dalla faccia e ritenendole fra le sue con dolce
pressione, mentre i suoi occhi s'affissavano con immensa tenerezza in
quelli di lei: “Madre, a che pensi?”

“Penso a mio padre;” rispose ella, sforzandosi a dominare la sua
emozione, “penso ch'egli non è più nel salotto a terreno della nostra
casa dove soleva stare nell'ora di riposo della giornata; penso che
non può venire sulla soglia a ricevermi col perdono sulle labbra.... e
fosse pur anche collo sdegno e col rimprovero!... Penso che quel buon
vecchio non l'ho visto più, e che è morto corrucciato con me....”

Guido la interruppe con vivacità.

“Non parlare così, non dire di queste cose, non pensarle, madre mia. Se
tu hai commesso qualche fallo verso tuo padre, non fosti tu esemplare
fra le ottime mogli, e la più tenera, la più santa delle madri? E lo
sai bene che questa è principalmente la missione della donna! Tuo padre
in vita, offuscata la mente dalla passione, ha forse disconosciuto e
te e il vero dover suo, ma nel mondo di là, dove meglio splende allo
spirito nostro la luce del vero, egli ti ha perdonato e benedetta, di
certo, come sempre ti benedisse il compagno della tua vita, come ti
benedico io, tuo figlio.”

Anna, attraverso le lagrime, rispose con un sorriso; e Guido, per
isviarne dai tristi pensieri la mente, dopo breve pausa, soggiunse
esclamando con ammirazione, come sorpreso d'un tratto alla veduta che
aveva dinanzi:

“Oh vedi, come man mano che ascendiamo sulla collina, la pianura si
amplia e si stende, e si rivela ai nostri sguardi! E che variazione
di linee e di terreno! Che ricchezza di tinte e quanta leggiadria
di disegno! Quanta grazia e quanta imponenza insieme in tutto il
complesso! Come mi piacerebbe vedere questo paese illuminato dalla luce
d'uno splendido sole, invece che da quella grigiastra del nuvoloso
crepuscolo! È un bel paese il tuo, mamma, che, al vederlo, non so
perchè, mi fa battere il cuore, come se in esso ci avessi anch'io e
memorie e legame d'affetti.... Certo perchè esso è tuo; perchè qui mio
padre ti ha vista ed amata; perchè alcuna cosa di quest'aura, di questo
cielo, di questa terra è rimasta nella tanta bontà dell'anima tua, e
un briciolo dell'amore a questi luoghi, quell'amore che ogni gentile ha
pur sempre per il cantuccio del mondo dov'è nato, tu me l'hai trasmesso
col sangue. Sì, davvero; sento come se io pure avessi avuto la vita in
questo remoto e stupendo seno delle Alpi. E vorrei pure che così fosse.
In una popolosa città, fra il tumulto e il viavai della gente, in mezzo
ad oggetti che mutano sempre con vertiginosa instabilità, le prime
memorie o non si possono imprimere profonde o presto si scancellano.
Tante vicende, tanti guai, tanta folla ci passano e ripassano dinanzi!
Qui invece!.... Qui ogni albero mi pare debba avere una parola da
ridire al passaggio del montanino che torna dopo lunga assenza al suo
paese; ogni uscio di casa una confidenza da richiamare, ogni cantonata,
ogni volto d'abitante, ogni sasso un ricordo da evocare.”

“Sì, sì, è vero!” esclamava la madre.

“E ti giuro” continuava Guido “che questo paese non mi è nuovo,
benchè io non ci sia stato mai. Io l'ho vista di belle volte nelle mie
fantasticaggini questa tranquilla vallata; io l'ho sognata le mille
fiate questa solitudine, rallegrata dai più sacri amori della terra: la
madre, la compagna della nostra vita e i figli. Gli è in un paese come
questo che io credo la migliore delle sorti quella di finire i nostri
giorni.”

Ciò che diceva il figliuolo era il pensiero appunto della madre; pure
essa crollò il capo e il suo sorriso si fece più mesto.

“Che parli tu di finire,” disse, “tu che li hai appena incominciati
i tuoi giorni? Certo a me tornerebbe come una ventura il ridurmi qui
dove nacqui, e qui estinguermi dove tutti morirono i miei; e forse meno
tormentati dai mali sarebbero qui, nelle mie aure native, gli anni che
mi rimangono.”

“E si faccia:” proruppe Guido. “Tu sai, madre, che io non ho altro
desiderio che il tuo. Veniamo pure a vivere nel tuo villaggio, e s'io
ti vedrò lieta, sarò il più lieto uomo del mondo.”

“No, no;” esclamò Anna con risoluta fermezza d'accento. “A te ben
d'altro è mestieri per l'arte tua; e la tua giovinezza non deve
segregarsi dal mondo e togliersi a quel moto per cui è fatto, a quel
destino che le è assegnato. Sarebbe un soverchio e ingiusto sacrifizio
che io t'imporrei, e di cui a me chiederebbe severo conto tuo padre, il
quale può rivivere nella tua futura gloria d'artista.”

Guido chinò il capo e si tacque.

La salita intanto si faceva sempre più ripida, e i cavalli trascinavano
a stento la carrozzona, eccitati dalla voce grossa e dalle frustate
sonore del vetturino, sceso di cassetta. Il giovane aprì lo sportello,
e saltò giù ancor egli sulla strada, dicendo a sua madre:

“Farò a piedi questo tratto di via; ho giusto bisogno di sgranchirmi un
poco le gambe.”

Anna tirò giù il cristallo, per veder meglio la campagna.

“Bada che avrai freddo,” le disse Guido: “l'aria è frizzante.”

“Lascia, lascia:” rispose la donna con voce animata: “sto tanto bene;
e quest'aria, anzi, mi sarà giovevole.... Vedi se non ti sembro già
tutt'un'altra!”

Ed era vero che gli occhi le brillavano maggiormente, e un caro rossore
era venuto a colorirle leggermente le guancie. Il figliuolo venne ad
avvolgerle bene intorno alla persona lo scialle e la coperta, e poi si
pose a camminare accanto alla carrozza, tenendo una mano sull'apertura
dello sportello.

Dopo un poco, una viuzza serpeggiante sul fianco della collina gli
apparve da quella parte appunto della strada dov'egli si trovava. Il
sentieruolo s'avvolgeva graziosamente traverso una china erbosa tutta
smaltata di fiori azzurrognoli, che i botanici battezzarono col nome
di colchici autunnali, e i nostri montanari con poetico vocabolo, come
annunziatori dei primi freddi, chiamano _freddolini_; e poi si perdeva
in un castagneto.

Il giovane l'additò a sua madre.

“Quel sentiero conduce al villaggio per più breve e più ripido
tragitto:” disse Anna. “Mentre la via carrozzabile gira intorno al
colle, quella stradicciuola lo traversa dritto al culmine. Quando si
è giunti alla cima della collina, vi si gode una veduta di paese che
poche o nessuna se ne ha di più belle al mondo.”

“Allora, se tu non hai bisogno di me,” disse Guido, “io piglio questa
viuzza, e ti aspetto poi all'entrar del paese.”

“Fa' pure. Giunto in alto del colle, ti vedrai il villaggio a' piedi.”

Guido fece un cenno di saluto col capo a sua madre, che gli rispose con
un sorriso, e si slanciò con passo affrettato su pel sentiero, traverso
la falda erbosa della collina. In poco di tempo fu, oltre il bosco
dei castagni, al culmine. Come gli aveva detto la madre, vide colà
aprirsi tutt'intorno una di quelle magnifiche prospettive che non si
possono trovare fuorchè nelle regioni montanine. Un'infinità di valli
e vallette, le une imboccando nelle altre, tutte irrigate da qualche
torrentello spumeggiante, tutte vestite nel declivio da boschi e da
vigne, e coperte al fondo da prati e campicelli, tutte chiazzate dal
bianco di abitazioni sparse qua e là, di paeselli aggruppati più su,
più giù, sulle rive dei corsi d'acqua, nelle più pittoresche giaciture.
Le ombre della sera che s'avanzavano rapide, e parevano dal fondo delle
valli salire su per i fianchi della montagna, la quale si ergeva al
di là di questa catena bene intrecciata di colli, davano a que' luoghi
l'apparenza d'un'ampiezza maggiore, e come una sublimità melanconica e
grave.

Il paesello di sua madre rimaneva giusto ai piedi del giovane artista.
Coll'acuto sguardo, non ostante quelle prime tenebre, egli arrivava
a discernere casa per casa, e vedervi nei cortili in cui entravano
i contadini a riporre i loro stromenti di lavoro, e per le finestre
accesi i fuochi per cuocere la parca cena.

Guido, ansante per la ripida salita, si appoggiò al tronco d'un grosso
castagno che là sorgeva, e stette a contemplare. Gli giunse allora
all'orecchie il suono da morto della campana, il quale, impedito dalla
costa del colle, non aveva potuto prima giungere sino a lui. Guardò
fisso laggiù, e vide un ammasso di persone con ceri accesi avviarsi
dalla piazza della parrocchia verso un'estremità del villaggio.
Indovinò il vero e assai gli dolse, pensando al nuovo dolore che ne
avrebbe sua madre. Poi pensò a quella creatura, che probabilmente era
portata a seppellire in tal momento la quale per sangue a lui, Guido,
era congiunta, che pure, egli non aveva vista mai, e non aveva quindi
amata e alla quale se volgeva un compianto, pure non aveva lagrime da
tributare.... Ma tosto si presentò quindi alla sua mente il pensiero di
quella ragazza che unica era rimasta intorno alla povera vecchia, e che
con la nonna perdeva tutto nel mondo.

L'idea della giovinetta abbandonata lo intenerì. «Poverina! — pensava;
— ella sì che piangerà, che si dispererà nel massimo dei cordogli su
codesta tomba che le rapisce ogni cosa ed ogni affetto!» E nella sua
fantasia d'artista. Guido travide un'ideale di fanciulla colla ingenua
grazia della prima giovinezza, atteggiata alla mossa più commovente
del dolore, in quella naturale eleganza che seppe dare alle sue opere
perfette, la sublimità dell'arte greca.

Allora un impeto d'entusiasmo caritatevole gl'invase il nobile animo. A
sua madre ed a lui, anzi più a lui, perchè sua madre infermiccia aveva
bisogno ella medesima di riguardi e di soccorsi; a lui si apparteneva
di recar sollievo a sì aspra ferita del dolore che tormentava
quell'anima sì nuova ancora alla vita; a lui di creare intorno alla
misera derelitta un'atmosfera d'affetto, la quale di certo non poteva
tener luogo di ciò ch'ella aveva perduto, ma che ne temperasse tuttavia
l'angoscia; a lui il difficile ma sublime cómpito di medicare e
risanare un cuore così crudelmente trafitto. Con questo accesso di
zelo, scese precipitosamente la collina, e raggiunse all'entrata del
villaggio la carrozza di sua madre.

“Che hai?” gli domandò la madre, che vide negli occhi di lui una luce
più viva.

“Penso a Maria:” disse Guido con nuova espressione. “Povera orfana!”

“Orfana!” ripetè Anna con voce che suonò come un singhiozzo. “La povera
zia, adunque?...”

Si perdevano nell'aere vespertino gli ultimi rintocchi della campana.
Anna si abbandonò nel fondo della carrozza, e si coprì il viso col
fazzoletto. La casa che era stata del padre di Anna, era venuta in
mano di estranei; non avevano l'Anna e suo figlio dimora alcuna in quel
paese, che fosse pronta ad accoglierli. Guido, salendo nel legno presso
la madre, ordinò al vetturino di condurli alla miglior locanda. Colà il
figliuolo volle che Anna si mettesse a letto, e capitatogli un monello,
lo aveva mandato, come abbiamo visto, ad avvisare il parroco del loro
arrivo.

Mezz'ora dopo, la voce del vecchio sacerdote diceva all'uscio della
stanza in cui erano Anna coricata e Guido a tenerle compagnia:

“Si può?”

“Avanti, avanti!” rispondeva sollecito il giovane, e si alzava con
premura a muovere incontro alle due persone che entravano.


IV.

Il parroco entrò primo, e dietro lui, tirata per mano, Maria, la quale
camminava con evidente ritrosia, gettando tutt'intorno sguardi quasi
atterriti coi suoi grandi occhioni selvaggi. Dopo aver chinato la sua
bianca testa in un saluto a Guido e alla donna, che s'era levata con
vivace mossa a sedere sul letto, il Prevosto disse:

“Riverisco, signor mio; signora, le son servo.”

“Oh sor Prevosto! La non mi riconosce più?” esclamò Anna, i cui occhi
andavano cercando con desiosa curiosità la fisonomia della giovinetta,
la quale, visto gente, aveva chinato il viso più che mai e lo teneva
basso con molta vergogna.

“Sì, sì, certo che la riconosco;” disse il vecchio curato con ilare
bonarietà nell'aspetto e nella voce; e tornando alla sua radicata
abitudine di dar del voi a tutti i suoi parrocchiani: “che? non siete
mutata di molto voi, e se non foste un po' smagrita e pallidina, direi
che siete ancora l'Anna d'una volta.... Ma intanto eccoci qui: vi ho
condotta la povera Maria.”

La madre di Guido tese le braccia alla giovinetta.

“Maria!” diss'ella con molto affetto: “vieni, vieni qui ch'io
t'abbracci.”

Ma la fanciulla invece d'abbandonarsi sul seno di colei che pur ve
l'invitava con sì dolce suono di voce, con sì amorevole espressione,
si trasse indietro e si nascose dietro il buon prete; e siccome questi
aveva lasciato andare la mano per cui la teneva introducendola, ella si
attaccò ad una falda del lungo di lui soprabito.

“Su via, animo che cosa fai?” — badava a dire il curato: “va' innanzi,
Maria, che queste le sono sciocchezze; qui vedi i tuoi parenti, gente
che ti vuol bene, e in quella buona signora troverai una madre.”

“Sì, sì, davvero; farò di tutto per esserti come una madre;” diceva
col medesimo affetto Anna, tendendo sempre alla fanciulla le braccia
amorosamente.

Ma era come dire al muro.

Allora il parroco, tanto per iscusarla, mentre di soppiatto colla
destra tentava di tirare innanzi la ragazza e spingerla verso il letto,
disse:

“Vedete, la è un tantino selvaticuccia.... sì, anche un po' troppo,
se volete.... Ma che s'ha da fare? È vissuta fin'ora in compagnia
delle sue capre sulla montagna e nella casa della sua nonna, e non con
altri.... E poi la è così novellina e sempliciotta, come un agnello
appena nato, ve lo assicuro io; è una di quelle creature del buon Dio,
che hanno la fortuna dell'innocenza.”

Per Guido, che colla sua artistica immaginazione di quella giovinetta
s'era formato un tipo, fu quella una disillusione completa. I raggi
delle candele che illuminavano d'una luce rossiccia la stanza, cadendo
di sbieco sul corpo magro e disadatto della giovinetta, ne facevano
risaltare più sfavorevolmente che mai i contorni angolari; la testa
grossa, con una massa enorme di capelli in disordine, pareva una
matassa arruffata senza forma e senza figura; le membra gracili e
tirate avevano un'infelice durezza di linee; la gonnellucciaccia che
le pendeva dai fianchi malamente sfilacciata, a brandelli, era fatta
apposta per accrescere l'aspetto disavvenente della sua persona.
L'avreste detta una selvaggia di quelle tribù a cui non sono concesse
le soavi grazie che fan leggiadro il sesso femmineo della razza
indo-europea.

“Vieni,” ripeteva ancora la madre di Guido, “siamo tuoi congiunti,
noi; io sono tua cugina, e questi, che è mio figlio, è tuo cugino ancor
egli.”

“Sì,” disse il giovane avvicinandosi alla ragazza e tentando di
pigliarle una mano: “siamo cugini.”

Ma ella ritrasse vivamente la destra che Guido cercava, e si tirò in là.

“La è semplice, la è semplice;” tornò a ripetere il parroco, dondolando
la testa, “bisognerà aver pazienza; ma è buona come il pane e
ubbidiente a dovere. La nonna ne faceva ogni sua volontà.”

Poi volgendosi a Maria:

“Questi signori ti vogliono bene, sai, e tu hai da voler bene a loro.
Sono venuti qui apposta per te, ed è la nonna che loro ti affida e che
per mezzo mio ti comanda di amarli.”

La fanciulla nè si scosse nè parlò.

“Maria,” riprese a dire Anna con affettuoso calore, “noi ti amiamo
davvero come t'amava la povera Marta.... Ah! perchè non è ella più qui
a conoscer quale affetto io avessi tuttavia per lei! Ah! perchè non
l'ho potuta almeno abbracciare anche una volta!...”

E sopraffatta dall'emozione ruppe in pianto.

Guido le si fece dappresso sollecito, ammonendola amorevolmente.

“Via, non far così, mamma.... Lo sai che ti fa male.... Un po' di
coraggio, te ne prego.... anche per questa poveretta che certo non ha
mestieri la si stimoli al pianto.”

Volse gli occhi verso la fanciulla, e il contegno come la faccia di
costei parevano voler dare la più ampia smentita alle ultime di lui
parole. Essa, all'udir piangere, come tirata dalla curiosità, s'era
fatta un poco innanzi, sporgendo il collo, aveva levato alquanto la
testa e diretto lo sguardo sul volto della donna giacente; ma tale
sguardo era senza espressione, pari a quello delle pupille di vetro in
una statua di cera; e Guido che lo incontrò, ebbe la mente attraversata
da un subito sospetto.

“Ma questa ragazza è scema:” pensò.

Maria, accortasi d'essere osservata dal giovane, chinò ratto gli occhi
e si trasse nuovamente indietro, facendosi riparo delle spalle del
parroco.

“Mia buona signora,” disse questi, commosso più che non volesse
lasciare scorgerlo: “le lagrime non giovano a nulla, ed è dovere
d'ogni cristiano rassegnarsi alla volontà del Signore. Marta visse una
vita lunga e da virtuosa donna qual'era; ha fornito molto bene la sua
carriera mortale, e ora riceve il compenso de' suoi meriti. Per tutto
quanto le poteva ancora importare sulla terra, che è questa poveretta,
aveva posto ogni speranza in voi, Anna; e il miglior modo di mostrare
a quell'anima il vostro affetto e il vostro rimpianto è di soddisfare
i suoi desideri.”

“E lo farò nel miglior modo che potrò,” disse la donna vivamente; “e
d'ora innanzi Maria la considero come figliuola.”

Il parroco tolse commiato. Quando lo vide avviarsi, la ragazza si mosse
ella pure per seguirlo e tornò ad afferrargli la falda del soprabito,
come per farsi condur seco.

“No,” disse il sacerdote, “tu devi rimanere colla tua nuova famiglia.”

Maria supplicò mutamente con uno sguardo.

“È la volontà della nonna:” soggiunse il parroco.

Allora la giovinetta lasciò andare il lembo del vestito che aveva
afferrato, e chinò tanto il capo da non potersi più scorgere della
faccia che l'alto della fronte. Fu messa per quella notte in uno
stanzino attiguo alla camera dov'era la madre di Guido; e questa udì
la fanciulla smaniare e sospirare tutta la notte, e la mattina, appena
l'alba, aprir la finestra ed esporsi alla brezza, come farebbe chi
avesse la testa riarsa da febbrile calore.

“La non è dunque insensibile come pare:” disse Anna a suo figlio,
narrandogli ciò: “ma è soltanto timida e selvatichetta.”

La disillusione provata da Guido per le sembianze della giovinetta
avevano un poco ammorzato in lui lo zelo primitivo, ma non estintolo
affatto.

“È un'anima da dirozzare:” s'era egli detto. “Mia madre le educherà
il cuore, ed io l'intelligenza. Sarà una grande soddisfazione e un
prezioso compenso per noi il vedere sorgere da quell'animata macchina
di carne la creatura intelligente ed affettiva della donna; una
soddisfazione uguale a quella che provo, quando dal masso della creta
veggo nascere sotto la mano la statua bella e vera. Tanto meglio che
quest'infelice non abbia il fragile dono della bellezza! Il nostro
interesse per lei mi pare ne sia più santo, e forse tale sventura
sarà compensata in lei da interiori e più preziose virtù che si
svolgeranno.”

Furono fatti vestire a Maria altri panni alla foggia cittadinesca, e
quando la poveretta comparve in una veste lunga, che le si adattava
al corpo magro e stecchito come ad un bastoncino la fodera d'un
ombrello, la era così impacciata e goffamente ridicola che Guido non
potè a meno di rompere in una risata. La giovanetta lo guardò fisso un
pochino con quel suo sguardo senza luce, poi guardò sè stessa nel suo
nuovo acconciamento; e, come vergognosa de' fatti suoi, fuggì via a
nascondersi.

Era intenzione di Anna e di suo figlio di non fermarsi al villaggio
più d'otto giorni; ma l'aria nativa, benchè la stagione fosse poco
propizia, giovava pur tanto alla salute della madre, e la bellezza
del paese esercitava su Guido quel medesimo fàscino che già aveva
esercitato sul padre di lui, quando primamente era capitato in quei
luoghi, così che decisero dimorarvi un mesetto. Si allogarono nella
casetta antica della famiglia che presero per quel tempo in affitto,
quella casa dove erano trascorse l'infanzia e la prima giovinezza di
Anna; e Maria vi ebbe una camera dove furono raccolti tutti gli oggetti
che le aveva lasciati la nonna e che le dovevano esser cari.

Colla sua nuova famiglia, la giovinetta, poco più, poco meno, era
sempre quella che il primo giorno. Stava sola quanto più poteva,
fuggendo tanto l'Anna quanto il giovane; innanzi a loro di rado
alzava gli occhi a guardarli: si teneva impalata e immobile, come se
non osasse pure trarre il fiato: non rispondeva che a monosillabi:
e nè l'uno nè l'altro avevano potuto vederla piangere o sorridere o
dare un segno qualunque di sentimento. Un giorno che il tempo era più
freddiccio, Anna ritiratasi nel pian terreno e sedutasi sulla vecchia
poltrona di suo padre presso al fuoco, s'era abbandonata a ricercare
colla mente tutte le memorie del passato, e per farsi meglio sfilare
innanzi alla fantasia l'immagine delle cose trascorse, aveva chiuso
gli occhi e pareva dormisse. Maria entrò col suo passo felino che non
si faceva sentire, e s'accostò pian piano. La salute, che tornava ogni
dì meglio alla madre di Guido, le dava una leggiera tinta d'incarnato
alle guancie, l'interna emozione di quel momento si rifletteva sulla
fisonomia di lei in sì gentile maniera, che uno splendore di giovinezza
animava la beltà di quei tratti da disgradarne qualunque più leggiadra
nel fiore de' suoi anni, se non fossero stati que' fili bianchi ne'
capelli e quelle finissime rughe ai lati della fronte.

Maria stette un poco a contemplarla; poi s'accosciò pianamente ai piedi
di lei, appoggiò un gomito alle ginocchia e il mento sulla palma della
mano, e si diede a fissar l'Anna, come se non l'avesse vista mai e
volesse imprimersene i tratti nella memoria.

La madre di Guido udì un respiro più forte che pareva un sospiro,
e aprì gli occhi, vide Maria in quella positura che la mirava.
Acconciatasi senza soggezione in una mossa naturale, la giovinetta
aveva una certa grazia quale Anna non le aveva vista mai, e in quel
punto nello sguardo dell'orfana a lei rivolto, credette scorgere una
intelligenza, una tenerezza che le si mostravano per la prima volta. Ma
appena Maria ebbe veduto aperti gli occhi di Anna, sorse di scatto, e
tornando tosto in tutta la disavvenenza dei suoi movimenti, fece atto
di partirsene rossa in viso, come chi vien colto a far cosa che non
dovrebbe.

Anna fu tosto a trattenerla, pigliandole una mano.

“Perchè fuggi? Ti fo io paura?”

Maria, al solito, non rispose.

“Non mi vuoi dunque bene niente niente? A me che te ne voglio tanto?...
Non me ne vuoi?... Rispondi.”

“Non so:” disse con voce stentata la ragazza guardando da un'altra
parte.

La madre di Guido la tirò a sè con affetto, e la baciò in fronte; Maria
si era lasciata chinare verso la donna, nè riluttante, nè consenziente,
e riceveva i baci con una specie di rassegnazione passiva.

“Dimmi se non sei contenta di noi; dimmi se hai qualcosa di cui
dolerti, se desideri alcunchè. Io voglio che tu sii lieta e contenta.
Ma perchè taci sempre e non rispondi mai alle mie dimostrazioni
d'affetto? Tu non mi hai ancora restituito pure un bacio.”

La giovinetta si divincolò, e non con garbo, dalle braccia di Anna e
disse con un accento di espressione indefinibile, che non poteva dirsi
se fosse ammirazione, invidia, o ritrosia, o scioccaggine:

“Siete troppo bella, voi!”

Maria aveva creduto di dover tornare a tutte le abitudini che aveva
prima della malattia della nonna; e il suo primo pensiero era stato
quello di andare di nuovo sulla montagna, colle capre alla pastura.
Guido aveva messo in pratica tutta la sua abilità persuasiva per farle
capire che quel genere di vita era affatto finito per lei e che ne
incominciava un altro tutto diverso.

La selvaggia fanciulla, sempre taciturna a suo modo, vi si acconciò
colla buona voglia di chi fa un sacrifizio che gli sia imposto. Il
giovane artista avvisò che non c'era tempo da perdere per cominciare
l'istruzione fin'allora troppo trascurata di questa fanciulla che
omai toccava l'adolescenza; e vi si applicò senza ritardo con tutto
l'animo, chiamando in soccorso del suo buon zelo tutta la pazienza di
cui poteva disporre. Ma per quanto fosse in lui quest'ultima, la mala
voglia e la cocciutaggine della ragazza erano ben maggiori. Ella non si
ribellava mai, ma si accostava allo studio come una vittima rassegnata
al supplizio; si rinserrava in un silenzio timoroso e selvaggio, e a
qualunque cosa le dicesse il giovane maestro, non dava risposta, ma
lo guardava collo sguardo attonito dei suoi occhi larghi, che diceva
chiaro ella non capir nulla. Guido provò di tutto per ismuoverla
da quella passività inintelligente: rimostranze ed amorevolezze,
incoraggiamenti e rampogne, anche preghiere, e, non potendone più, la
collera. Tutto si spuntava contro il mutismo caparbio della giovinetta.

“Non è una creatura umana quella lì:” esclamava Guido allo stremo
affatto di pazienza: “è un macigno. Affè che i marmi delle mie statue
hanno più sentimento e più intelligenza!”

Trascorso il mese, si dispose tutto per tornare in città. Maria
sapeva che stava per abbandonare quel paesello che doveva pur essere
l'unico amor suo; ma non fu mai che in presenza d'Anna o di suo
figlio manifestasse uno sfogo di dolore o solo un rimpianto. Rinchiusa
invariabilmente nella sua atonia, guardava tutti i preparativi che si
venivan facendo con quella sua aria balorda, di cui Guido aveva finito
per indispettirsi maledettamente, e la si faceva più taciturna che mai.

La vigilia della partenza, verso l'imbrunire, Maria sparì di casa:
e Anna inquieta, dopo due ore ch'ella mancava, mandò Guido e pregò
i vicini andassero a cercarla di qua e di là. Dopo aver girato assai
tempo, la trovarono finalmente a notte chiusa, che se ne usciva tutta
tranquilla dal cimitero, colle traccie nei panni, alle ginocchia, sulle
mani di chi si è prosteso sulla terra e vi è rimasto a lungo.

“Che cosa hai tu fatto?” le chiesero solleciti.

“Sono andata a dare un bacio alla nonna:” rispose ella con quella sua
aria di astrazione stordita.

Nè Anna, nè pur Guido medesimo, meno tollerante, ebbero coraggio di
farle una rampogna.

Alla partenza, quando le toccò salire in carrozza, Maria ebbe il
viso sconvolto da una di quelle contrazioni che rivelarono il suo
dolore alla morte della nonna; seduta a lato di Anna, la si tenne
sempre col capo sporgente in fuori a guardare il paese, le colline,
la montagna, i campi; e quando per la lontananza le si confusero alla
vista tutti questi oggetti, allora si ritrasse vivamente, si accasciò,
per così dire, nel fondo della carrozza, e mandò quella specie di
grido soffocato o di gemito inarticolato che pareva essere in lei
l'espressione suprema del sentimento.

E fu tutto.


V.

All'inverno, in città, le relazioni fra Guido e Maria, invece di farsi
più intime, erano venute diminuendo di famigliarità, come anche di
amorevolezza. A breve andare era sfumato affatto lo zelo di Guido
per istruire la cuginetta, e perchè egli era stanco della durezza
d'intendimento della ragazza, e perchè ritornato alle sue occupazioni
artistiche e agli spassi della vita cittadinesca. Con Maria e' non
si trovava più che all'ora del desinare, dove ella non parlava mai,
fuori che quelle poche e volgari parole che erano necessarie: e quando
Guido recavasi a stare un poco in compagnia della madre, per uno di
quei confidenziali, amorevolissimi colloqui, a cui erano avvezzi, e in
cui si trovavano tanto bene ambedue, la giovanetta, la quale di solito
non si staccava mai dall'Anna, sentendosi d'impaccio in tali momenti
e messa in gran suggezione dalla presenza del cugino, era lesta a
rizzarsi, pigliare il lavoro e ritirarsi nella sua camera.

Colla buona, dolce ed amorevole creatura, che era la madre di Guido,
Maria, a poco a poco era pur venuta, per così dire, addomesticandosi;
e se non con molte e aperte parole mai (chè la sua natura era e pareva
farsi ogni giorno più taciturna), cogli atti e coll'aspetto veniva
mostrandosi e riconoscente e benevola. Sempre strana del resto, la
vista della gente pareva farle paura: fuori che dell'Anna, incurante
d'ogni altro: salvo quelle cose che giovassero alla cugina, tutto il
resto ella faceva con isbadataggine e coll'apatia, si sarebbe detto,
d'un essere poco intelligente e meno sensibile. Di frequente la
giovanetta ricadeva in una specie d'astrazione, rimanendo immobile,
muta, collo sguardo fisso e senza luce, colla mossa e coll'aspetto
d'una statua di cera. A che pensava ella in quei momenti? Forse non lo
sapeva neppur essa e, di certo, a nessuno era disposta a dirlo.

In breve tempo Anna aveva sentito la compagnia della povera orfana
farlesi gradita ogni giorno più, infine quasi necessaria. Invero, senza
che paresse, non c'era cosa di cui la madre di Guido avesse desiderio
o bisogno, che la taciturna Maria, chetamente, con certe sue mosse
destre nella loro grossolanità non fosse lì tosto a procurargliela o
farla. Se Anna volgeva lo sguardo alla fanciulla non era mai che questa
le mostrasse, come si suol dire, il bianco degli occhi; ma se ella era
assorta in qualche pensiero, od occupata in alcun modo da non badar
più alla compagna, allora Maria alzava adagio adagio i suoi grandi
occhioni sulle belle fattezze della cugina, e stava lì con ammirazione,
con affetto, a contemplarla tutto quel tempo che a lei non si faceva
attenzione; ma appena la madre di Guido accennava accorgersi di essere
così guardata, la giovinetta s'affrettava a chinar il capo sul suo
lavoro, e non ne staccava più gli occhi.

Così, man mano erasi venuta avviando ed accrescendo una confidenza
affatto intima fra la donna e la ragazza, tale però che, non uscendo
mai quest'ultima dalla sua taciturnità, era la madre di Guido che
trovava in quella domestichezza lo sfogo dei più minuti e delicati
fra gl'interni affetti. E questi affetti quale scopo, quale argomento
avevano che non fosse Guido? Parlava adunque di lui quasi sempre
l'amorosa madre; poi veniva narrando a Maria del suo passato e la
mesta storia de' suoi amori tornava sovente del paro sulle labbra della
virtuosa donna, che tutta viveva e nelle memorie del tempo trascorso,
e nell'amore grandissimo all'unico suo figliuolo.

Questi aveva visto con piacere come la compagnia dell'orfana tornasse
di sollievo alla madre; e poichè ora una persona affettuosa e sommessa
era lì continuamente, in assenza di lui, a indagare, indovinare e
adempiere ogni desiderio e ogni bisogno di sua madre, Guido, forse
senza pur volerlo, s'era lasciato prendere maggiormente dagli svaghi
della vita mondana e dalle abitudini meno casalinghe della spensierata
allegria d'artista. Tutte quasi le ore delle sue giornate egli passava
nello studio, visitato spesso da amici e da compagni, e la sera qua e
colà nei convegni, ai teatri, alle feste.

Di Maria, Guido si dava poco pensiero; aveva rinunziato affatto
alla parte di maestro della giovinetta, nè si curava di domandare
se e come questa profittasse degli ammaestramenti della buona Anna e
degl'insegnanti che si erano chiamati per lei.

Trascorsi così l'inverno e la primavera, sopraggiunse l'estate. La
salute di Anna veniva raffermandosi assai bene; non così quella della
povera Maria. Fosse il nuovo genere di vita fatta sedentaria in città,
da libera e vagabonda in campagna ch'ella era prima; fosse l'effetto
di quanto la poverina aveva sofferto di stenti e di privazioni
durante l'anno di malattia della nonna; fosse soltanto la crisi
dell'adolescenza, il vero è che di giorno in giorno la giovinetta
dimagrava e impallidiva, le si affondavano le occhiaie, la fronte
e le guancie le si colorivano di tinte livide, smorta le si faceva
sempre più la luce degli occhi, il petto le veniva affannato da certi
soffocamenti per cui le era quasi tolto il respiro, e i polmoni aveva
scossi da una tosse irritata e profonda.

Anna più volte aveva con premura interrogata la ragazza e pregatala
dicesse se e che male si sentisse; ma ad ogni volta Maria, assalita
da una fiamma di rossore fino sulla fronte, a cui tosto succedeva un
pallore di morte, aveva risposto ratto non aver male di sorta, e s'era
allontanata; fino a tanto che aumentando sempre cosiffatti sintomi, la
madre di Guido, che n'era inquieta dimolto, aveva mandato pel medico di
casa e senza dir nulla alla giovinetta, avevala fatta trovare un bel dì
faccia a faccia col dottore preavvisato di tutto.

Esaminandola attentamente, il medico fece con amorevolezza alla
giovinetta le volute interrogazioni, a cui ella rispose, come soleva
colla cugina, mal vogliosa e passando dal rossore alla pallidezza: e
sarebbe scappata via, se il dottore non l'avesse trattenuta per una
delle mani lunghe, magre, umidiccie d'un freddo sudore.

Appena il medico ebbe lasciata andare quella mano, Maria guizzò verso
l'uscio per fuggire.

“Senti Maria:” disse il medico.

La ragazza si fermò di mala voglia.

“Vieni qui.”

Ed ella si accostò a rilento.

“Dimmi un poco:” riprese il dottore, fissandola bene in volto:
“Andresti volentieri a fare un giro al tuo paese?”

Maria diede una scossa, come colpita da una botta in mezzo al petto;
tremò da capo a piedi; una più vivace vampa di rossore le salì alla
faccia, e gli occhi le si imbambolarono, mandò fuori quella sua voce
confusa che pareva un grido soffocato, che pareva un gemito, indizio in
lei della massima emozione, poi, senza dir pure una parola, fuggì ratta
come il baleno.

Il medico si volse ad Anna, e così le disse:

“Sa che cosa? È la donna che stenta a sbocciare dall'inviluppo di
bambina; la qual crisi viene ancora complicata da quel misterioso male,
per cui le spezierie non hanno farmaci, e che si chiama nostalgia.
Se questa ragazza vivesse per due o tre mesi nel suo villaggio,
attingerebbe nell'aere natio tanta forza da vincere ben tosto la
lotta ed entrare in una fiorente gioventù. La è una strana creatura
costei, fisiologicamente parlando, e fors'anche psicologicamente,
la quale nella sua passività probabilmente contiene qualche cosa di
più originale e di superiore alla comune. Ma codesta personalità, o
impedita da qualche condizione vuoi morbosa, vuoi d'abitudini, o tarda
per natura e per ragione stessa della sua indole, stenta a svilupparsi,
tanto fisicamente quanto moralmente e intellettualmente eziandio, e sta
assopita, costretta, per così dire, nel suo germe, finchè una benigna
concorrenza di casi favorevoli non venga a destarla e promuoverla. Se
io fossi in lei, signora Anna, la vorrei condurre per un po' di tempo
al suo paese.”

Anna ripetè appuntino ogni cosa al figliuolo.

“Come s'ha da fare?” disse Guido. “A chi affidarla colà? E come
separartene, mamma, ora che le hai posto tanta affezione?”

Fu colto in questo mentre da una subita idea.

“Ma forse tu stessa ci anderesti con piacere al tuo paese per un po'
di tempo. E codesto gioverebbe eziandio alla tua salute. L'anno scorso
ti fece tanto di buon sangue quella poca dimora colassù! Lascia che io
provveda all'uopo, mamma, ti prego.”

Pochi giorni dopo, Guido entrava improvviso nella stanza dove erano ai
loro lavori domestici Anna e Maria.

“Domani,” diss'egli con allegra vivacità e senza preamboli “domani
partiamo per ***. Ho preso a pigione la casa, rifornitala di quanto
occorre, e tutto è pronto per ricevervi. Potrete passarvi colà, alla
freschezza di quell'aria, tutta la state.”

“Davvero!” esclamò con gioia la madre, battendo le mani in atto quasi
infantile: “Oh bravo! Oh che tu sia benedetto!”

Poi tosto la sua contentezza fu temperata da una paura.

“E tu, Guido,” richiese ella dubbiosamente: “ci verrai tu pure?”

“Verrò ad accompagnarvi,” rispose il giovane, “ed a vedervi tutte le
settimane una volta, o poco meno. Quanto allo starci anch'io di piè
fermo, sai, mamma, che non si può. Ho da finire quel gran lavoro, nè
posso assolutamente smetterlo o interromperlo.”

Maria, a quell'inaspettato annunzio, era rimasta là immobile, come
sovraccolta dal massimo stupore, la mano levata sul suo lavoro, la
bocca aperta, senza parola, quasi senza fiato.

“Hai udito, Maria?” le disse la madre di Guido. “Si va di nuovo al
villaggio.”

La ragazza, cogli occhi sbarrati, guardava attonita, ora Anna, ora il
giovane, come se non capisse punto.

Anna si chinò verso di lei, la prese per una mano e la trasse a sè,
ripetendole soavemente:

“Si torna al nostro caro paesetto, hai capito?”

Maria si abbandonò a quell'attrazione, e forse per la prima volta cadde
sul seno della cugina, mandando un gran sospiro e lasciando cascar di
mano l'ago, la tela e l'anello da cucire.

“Ne sei contenta?” domandò Anna abbracciandola.

E la povera fanciulla rispose due o tre _sì_ a bassa voce; poi
nascondendo il volto nel seno della donna, ruppe in singhiozzi che
certo non erano espressione di dolore.


VI.

Guido, da principio, fu fedele alla data promessa: ogni settimana
faceva una corsa a quel villaggio e vi rimaneva un giorno con sua
madre; poi rassicurato compiutamente sulla salute di lei, la quale
erasi del tutto ristabilita, cominciò a diradare i suoi viaggi, cui
la lontananza rendevagli troppo disagiati e troppo pregiudicevoli
alle sue artistiche occupazioni. Tanto più che svanendo i suoi timori
intorno alla madre, il suo amore per l'arte aveva presa nuova e
maggiore esaltazione e potenza. La madre se ne accorse e avutolo a sè,
gli strappò la rivelazione ch'egli non sarebbe stato felice finchè
non avesse potuto ammirare i capolavori artistici di Firenze e di
Roma, e immergersi tutto, per così dire, in quell'ambiente di bellezza
e di gusto che li circonda, nelle due gloriose metropoli dell'arte
italiana. Non c'è amore meno egoista di quello materno; e Anna volle
che suo figlio partisse. Si stabilì che Anna e Maria sarebbero rimaste
al villaggio, e Guido sarebbesi recato, per dimorarvi alcuni anni, a
Firenze ed a Roma; e così fu fatto.

Il giovane scultore, rapito dalle bellezze artistiche di quelle
ammirabili città, allettato dai suoi successi, da qualche avventura
amorosa, dalle vicende d'una vita libera e piena di sollazzi insieme
e d'emozioni, stette fuori assai più tempo di quanto avesse voluto
dapprima, e sei anni passarono prima che tornasse a rivedere il suo
Piemonte e riabbracciare la madre sua.

A Maria, Guido aveva rivolto così poco il pensiero, che quasi può
dirsi niente affatto. Sua madre però glie ne aveva scritto di quando
in quando, e sempre le più belle e lusinghiere cose: che nel mentre
la veniva rimettendosi in salute e vantaggiando di fisico, progrediva
pure di cuore e d'intelletto; che essa, Anna, applicatasi ad insegnare
a quella poveretta tutto quanto era in suo potere e sapere, cominciava
a ricever lusinghiero compenso della sua pazienza e de' suoi sforzi;
che quell'astrattaggine e quasi assenza temporanea d'intelletto, di cui
Guido l'aveva vista afflitta, diminuiva sensibilmente, lasciando luogo
soltanto a una freddezza e ad un riserbo che ora parevano orgoglio,
ora indifferenza; ma che questa stranezza di modi proveniva nella
fanciulla dall'indole speciale del carattere, non già da mancanza di
cuore, perchè verso di lei Anna, la beneficata, tuttochè non uscendo
da quel suo riserbato contegno, sapeva pur dimostrare un vero affetto
e una vera gratitudine, e non ometteva cura e riguardo che si potessero
immaginare.

Quest'ultima cosa era quella che interessava solamente a Guido di
sapere; e quando la madre gli scriveva a tal proposito i più caldi
elogi di Maria, egli ricordavasi di mettere nella risposta un motto
amichevole di saluto per la cuginetta.

Quando Guido annunziò il suo ritorno, le due donne vennero a Torino ad
aspettare l'arrivo del reduce. La buona Anna nel riabbracciare dopo
tanto tempo suo figlio provò la maggiore dolcezza che sentir possa
cuore amoroso di madre.

Guido non era più un giovanetto. I sei anni trascorsi e gli studi e
le lotte della vita ne avevano fatto un uomo. Aveva trentun anno, la
fronte un po' più ampia pel cader de' capelli, e nelle nerissime chiome
già alcun filo d'argento. Ma il suo sguardo aveva lo stesso fuoco e
la stessa animazione di prima; e la sua bellezza, fatta più virile,
lo rendeva ancora meglio osservabile a chi ne mirasse la nobile ed
espressiva fisonomia.

Poichè furono iterati parecchie volte gli appassionati abbracciamenti
colla madre, e dato un primo sfogo a quell'ardore affettuoso di domande
reciproche, Guido si guardò intorno, si meravigliò di non vedere presso
sua madre la cugina Maria e ne domandò novelle.

“Non siamo giunte dal villaggio che ieri,” Anna rispose. “C'è tutto da
mettere in ordine nella casa; e Maria, che s'è fatta la miglior massaia
del mondo, è tutta occupata in queste faccende.”

“Bene bene,” rispose Guido. “E pare che i suoi uffizi da massaia le
stieno più a cuore che il veder me, tanto poca premura ci mette a venir
a salutarmi. Andrò io a cercare di lei.”

“Eccola qui,” disse la madre, mentre l'uscio si apriva pian piano, e
una forma di donna che pareva sorvolare sul pavimento, non camminare,
sì leggiera e graziosa aveva l'andatura, s'avanzava tranquillamente
verso Guido.

Questi mandò un'esclamazione di meraviglia.

“Che?” esclamò egli. “Sarebbe questa la Maria?”

“Essa stessa:” rispose la madre sorridendo lietamente.

Guido fece ratto due passi verso la fanciulla che lo guardava
calma, senza pure un'ombra di emozione, e ripetè la sua esclamazione
ammirativa.

Aveva dinanzi un tipo perfetto di bellezza, una meraviglia di figura di
donna.


VII.

Il medico aveva avuto ragione, e il tornare all'aria nativa e, se
non a tutte, a una gran parte delle prime abitudini della sua vita,
aveva giovato assai alla salute di Maria e allo sviluppo della sua
giovinezza. Quelle forme angolose e rigide s'erano venute a poco a
poco rimpinguando e ingentilendo; le ricche e splendide chiome d'oro
con più attenzione e con più intelligenza raccolte e curate, facevano
una smagliante corona alla fronte di lei purissimamente modellata,
piana, candida, veramente virginea; col formarsi della persona avevano
cominciato a perdere la loro disavvenenza, poi avevano preso una
certa acconcezza, da ultimo una grazia squisita le mosse, gli atti
della fanciulla oramai giovine donna; dall'informe e rozza crisalide
era venuta sprigionandosi e ora svolazzava trionfalmente la brillante
farfalla dall'ali d'oro.

Al mutamento fisico tenne dietro altresì un mutamento morale. Studiò
con attenzione e imparò; cessò dalla selvaggia soggezione e quasi
diffidenza che aveva di tutto e di tutti. Fu detto come Anna, da sua
madre, figlia d'un maestro di scuola, avesse ricevuta una istruzione
più ricca e compiuta di quel che si sarebbe pensato potesse avere
una povera ragazza d'un piccolo villaggio. Ora tutto il suo sapere
fu per lei dolce e generoso soddisfacimento comunicare a quell'anima
novellina; e fu un orgoglio il vedere come là dove avevano fallito e
i maestri chiamati all'uopo e suo figlio medesimo, ella ci riuscisse
colla sua amorevolezza e colla sua pazienza. Ciò accrebbe di vantaggio
nella affettuosa madre di Guido quell'amore per Maria, cui già le
avevano ispirato e le misere condizioni di questa e le prove tacite,
modeste, ma non meno reali nella fanciulla, della sua gratitudine. Tale
affetto prese alcun che di materno; se non la vita del corpo, era essa,
Anna, che dava e schiudeva a quella creatura la vita dello spirito. Ci
si adoperò, la brava donna, con quel calore di tenerezza, che ognuno
mette per sempre nelle cose sue.

A poco a poco la condotta delle faccende domestiche era passata
intieramente nelle mani di Maria; Anna non aveva più da prendersi briga
di sorta, ma da desiderare soltanto; tutto sollecitamente era fatto
dalla fanciulla, e con una tranquilla facilità e con un'opportunità che
non lasciavano scorgere l'opera e solo facevano apparire gli effetti.

La giovane aveva preso assai gusto alla lettura; e molte ore del giorno
soleva passarle leggendo. Anna aveva fatto trasportare al villaggio
tutti i libri di Guido: storia, viaggi, poesia, romanzi, critica; e
Maria, un dopo l'altro, lesse tutti quei volumi, e poi rilesse da capo.
Che impressioni venissero in lei facendo tali letture nessuno potè
saperlo, perchè ella non ne parlava mai, e per leggere si ritirava
sempre nella solitudine della sua stanza, come vergognosa di lasciarsi
vedere in tali momenti.

Maria con tutto questo era sempre taciturna come prima. Parlava non più
del necessario, senza calore, senza commovimento mai, senza effusione:
la collera, il trasporto dell'allegria e l'abbandono delle confidenze
erano estranei a lei come il pianto e il riso.

La viveva così, chiusa in una superba indifferenza onde appariva
diversa, e quasi direi, superiore alla comune dell'umanità. Quel suo
contegno non più impacciato, ma serio e riflessivo, riusciva ben tosto
ad imporne a chiunque l'accostasse; e siccome quando diceva il suo
parere parlava sempre assennatamente, aveva acquistata su coloro che
l'attorniavano un'autorità tacitamente riconosciuta, per cui, quando
Maria aveva detto una cosa questa era risoluta.

Era dunque una persona affatto diversa da quella che Guido aveva
lasciata partendo, la Maria che ora gli stava dinanzi e gli aveva fatto
mandare esclamazioni di meraviglia.

“Maria! Maria!” ripetè lo scultore mirandola quasi estatico. “Sei tu?
oh chi t'avrebbe riconosciuta?”

La fanciulla ebbe un lieve sorriso che le sfiorò le labbra, fissò
i suoi occhi freddamente limpidi in volto al cugino, e con una voce
armoniosa, ma non commossa dal menomo tremito d'affetto, nuova ancor
essa per Guido, rispose placidamente:

“Sì, son io. Mi sono mutata dimolto eh?... Te pure, Guido, hanno
cambiato alquanto gli anni.”

Guido pensò tosto alle poche rughe della sua fronte, ai pochi suoi
capelli canuti, e senza capirne bene il perchè, arrossì e sentì
entrargli nell'animo un sentimento di scontentezza.

Primo di lui proposito, nel movere incontro alla cugina, era stato
quello di abbracciarla come una sorella; ma la vista di quella
bellezza, subito lo aveva sbalordito, poi la fredda gravità di
quell'accoglimento lo aveva sconcertato. Il sorriso indifferente di
Maria, le poche di lei parole erano state per Guido come acqua fredda
gettatagli in volto: invece di abbracciarla, egli le tese una mano.
Maria pose in quella di lui la sua destra, una mano piccola, esile,
lunghetta, morbida e cedevole alla pressione, ma fredda come lo
sguardo, indifferente come l'accento; e senza rispondere alla stretta,
ne la tolse poi tosto.

“Ogni cosa è preparata nella tua stanza:” disse ella, “e tu hai certo
bisogno di andarti a riposare.”

La sera, prima di addormentarsi, Guido ebbe con insistenza innanzi a
sè, nella sua fantasia d'artista, l'immagine della cugina.

«Che bella figura! Che strano tipo e stupendo! Chi si sarebbe sognato
mai che da quel mostricciuolo saltasse fuori una tale perfezione
di forme? La è una figura che ogni artista sarebbe ben lieto di
riprodurre. Servirebbe a meraviglia per una testa di Venere la sua....
no, meglio di Giunone.»

Addormentatosi, dopo non breve dar di volta qua e là, sognò di trovarsi
in un ampio e grandioso studio, attorniato dai migliori capolavori
dell'arte greca e italiana; e là in mezzo nell'ardore d'una ispirazione
feconda, quale non aveva avuta mai, senza punto aver modellato la
creta, far egli di botto risaltare a colpi di scarpello da un gran
masso di marmo una statua d'insuperabile bellezza: e tale statua, che
sotto i colpi della sua mano febbrilmente concitata, pigliava forma e
mossa ed espressione, aveva i lineamenti, il portamento e il contegno
di Maria.

Il giorno dopo si agitò fra madre e figlio una grande quistione: dove
stabilire la comune dimora? Alla città o al villaggio?

Guido in quel momento bramava andare al paesello; diceva quel soggiorno
essere più giovevole alla madre; egli stesso aver bisogno di riposo e
di quiete.

“Vivremo colà alcun tempo, solo da noi e per noi!” esclamava con calore.

La madre, al contrario, sosteneva che Guido colà presto si sarebbe
annoiato, che avrebbe negletto l'arte sua; e ciò non doveva fare a
nessun costo; affermava che a lei la più giovevol cosa di questo mondo
era star presso suo figlio in qualunque luogo poi si fosse; che quindi
Guido aveva da ripigliare senz'altro quella sua vita cittadinesca cui
erasi assuefatto prima di partire.

Anna fece appello al giudizio di Maria, la quale, seduta al suo lavoro
presso la finestra, non aveva pronunziato ancora una parola e non
mostrava aver prestato la menoma attenzione al discorso.

Maria sollevò lentamente la testa, e guardando il cugino con quella
medesima espressione con cui guardava il panno che stava cucendo,
disse coll'accento d'un umile personaggio che proclama, per mandato
d'un'autorità superiore, una sentenza inappellabile:

“Tu, Guido, ti devi a tua madre, è vero; ma all'arte tua eziandio. Al
villaggio quest'ultima sarebbe da te abbandonata; ed a tua madre, l'hai
sentito, basta per esser lieta, il viver teco.”

Anna si volse in aria di trionfo a suo figlio.

“Vedi che avevo ragione!”

Guido lanciò uno sguardo di fuoco sulla cugina, la quale, senza
scomporsi altrimenti, richinava la testa sul suo lavoro con una
graziosa curva di collo; e non ribattè parola.

Maria aveva parlato; la lite era finita. Si rimase a Torino.


VIII.

Guido abbandonava spesso il suo studio pel salotto in cui era solita
lavorare Maria. Una irrequietezza, qual forse egli non aveva provato
mai, lo travagliava di continuo; intorno al suo lavoro non aveva
pazienza di reggere lungo tempo; in mezzo a tutti i suoi concepimenti
artistici venivagli sempre un pensiero estraneo che lo sviava;
parecchie volte ei si trovava innanzi al masso di creta cui s'era
messo per plasmare, immobile, le braccia penzoloni, la fantasia lontana
lontana dal suo lavoro. Allora, indispettito gettava gli attrezzi e la
blusa, ed usciva, come se all'aria libera avesse da riacquistar tosto
l'idea e la volontà che gli erano fuggite.

Non v'era più donna che trovasse convenirgli per modello; in tutte
scopriva mille difetti: non la grazia, non la purezza delle linee,
non l'espressione ch'egli andava vagheggiando; e si raccomandava agli
artisti suoi compagni perchè gli procurassero quanto conoscevan di
meglio.

«Voglio fare una grande statua, un'opera da metterci l'amor mio, la
mia gloria;» diceva egli. «Sarà una Venere, sarà un'Ebe, sarà una
Psiche.... fors'anco una Madonna? Non so. Ma ne ho in capo delle forme
vaghe d'un'armoniosa bellezza, cui vorrei poter far concrete coll'aiuto
d'una realtà che s'accostasse un poco al tipo ch'io vagheggio; e
la sciupata beltà di queste vostre _modelle_, qualunque m'avvenga
d'incontrare, sta al mio sogno come la volgarità d'un becero alla
sublimità d'un poeta.»

Un giorno ch'egli ripeteva cotali sue parole, un allegro scapato de'
suoi compagni rispose ridendo:

“Se vuoi una figura veramente superiore in leggiadria, qualche cosa
d'angelico congiunto a tutto ciò che ha di bello la carne.... e la ne
ha, cospetto se ne ha di bello questa povera carne così maltrattata
dagli ascetici!... Se vuoi una simile meraviglia, te la posso additar
io.”

“Sì?” interrogò Guido con avida curiosità.

“Sicuro. E ce l'hai proprio, come si suol dire a gittata di mano.”

La fronte di Guido si corrugò.

“Chi?” interrogò egli con voce punto punto di scherzo.

“Piglia tua cugina.”

A Guido il sangue diede un rimescolo; sentì le sue guancie impallidire,
poi accendersi; un subito impeto lo assalse d'inveire contro chi aveva
così parlato, e se ne ritenne a stento.

“Taci;” gli disse con fiero cipiglio: “questi non sono scherzi, ma
sciocchezze.”

Per nascondere la sua emozione, si alzò e si diede a girare per lo
studio, toccando questo e quell'oggetto senza ragione, e in fatti
non sapendo quel che si facesse. Ma il peggio fu che quelle parole
del buontempone fecero sorgere fra tutti i presenti un vero concerto
di lodi e d'ammirazione alla ragazza. Guido stava come sui carboni
ardenti, e si faceva forza per trattenersi dall'insultare quegli
encomiatori di sua cugina, che pur si tenevano nei più stretti limiti
delle convenienze. Gli pareva quella poco meno che una profanazione.

Si svestì della veste da lavoro con moto che pareva di rabbia, e
infilando affrettatamente il soprabito, e piantandosi in testa il
cappello:

“Usciamo,” gridò; “ho da uscire io.... ho bisogno di respirare aria
libera.”

La verità era che il pensiero di pigliare Maria a modello della sua
statua gli andava spesso per la mente, e senza spiegarsene bene il
motivo, ne sentiva vergogna, e non osava confessarlo neppure a sè
stesso.

Soventi volte gli avveniva che, solo, nel suo studio, ripensando a quei
lineamenti che aveva impressi nel cuore e nel cervello, gli sembrasse
di non ricordarsene più esattamente, di non aver presente più qualche
minuta particolarità di quella fisonomia, precisamente come accade a
chi guardi troppo fisso e troppo lungamente un oggetto, che la vista
gli si confonde, e l'oggetto medesimo pare abbuiarglisi, e perdere la
precisione delle forme.

«Quando abbassa lentamente quelle sue lunghe ciglia di seta dorata,
la sua fisonomia piglia un _fare_ raffaellesco che non ho mai potuto
compiutamente afferrare; quando atteggia le labbra al suo superbo
sorriso, gli è più qua e più là che s'incava nelle sue guancie quella
cara pozzettina tutta grazia e avvenenza!»

Così dicevasi egli, e correva presso di lei a rivederla, col desio di
chi da lunghi giorni non ha più visto cosa che gli è carissima. E ad
ogni volta parevagli che una nuova bellezza gli si manifestasse.

«Eppure,» pensava altresì Guido tal fiata nella sua solitudine, «eppure
manca qualche cosa in quella perfezione! Vi è ancora un grado superiore
di bellezza a cui la potrebbe giungere. Che cos'è? Non so bene; ma
direi che una lieve nebbia avvolga e veli tanto splendore, rimossa la
quale, più viva e più eletta ne sarebbe la luce.»

Una volta che pensava appunto a codesto, mirando il fino e purissimo
profilo di Maria, questa alzò il capo con quella sua solita mossa
lenta e tranquilla, e volse verso Guido lo sguardo più freddo e più
indifferente del solito.

«Ah! quello sguardo non ha vita, non è l'espressione d'un'anima,»
disse il giovane fra sè. «È lo sguardo d'un automa, non rivela nè
l'intelletto nè il cuore.... Ecco ciò che le manca. La scintilla del
pensiero e dell'affetto. Oh! se un Prometeo venisse e infondesse in
quelle belle membra il fuoco celeste!... Come? Possibile! Quella non
sarebbe che una meraviglia di forma, e in essa non si conterrebbe il
_quid divinum_, l'essenza superiore, la bellezza ideale cui adombra la
corporea?... No, no: la sacra favilla è nascosta, ma vi è di sicuro.
Felice chi la susciterà! E allora anche l'avvenenza delle forme ne sarà
avvantaggiata e compiuta. Ah! se io....»

E non osò nemmeno formolare il pensiero che seguiva.

C'era poi delle volte che, mirando quell'inalterabile serenità dello
sguardo di lei, Guido ne provava quasi dispetto. Avrebbe voluto far
qualche cosa da scuoterla in un modo o in un altro, fosse pur anche
eccitandone lo sdegno; ma per quanto tentasse questo mezzo e quello, la
placidità contegnosa della ragazza non si alterava pur mai.

Un dì Guido era venuto a sedersi, come soleva spesso, vicino alla
fanciulla che lavorava al suo solito posto; la madre dello scultore non
era molto lontana, Anna e il figliuolo parlavano interrottamente; la
giovane, come l'usato, se non la s'interrogava, taceva. Guido ammirava,
come se non le avesse viste mai, le sempre più belle fattezze di Maria;
e in quel momento, fosse la sua intima emozione che lo illudesse, fosse
la realtà, credeva di scorgere nel volto di lei una traccia, non dirò
di tenerezza, ma di sentimento. Anzi, ad un punto ch'essa levò il viso,
per guardare traverso i vetri della finestra (che erano chiusi) o il
cielo, o la casa dirimpetto, o due rondini volanti, o forse nulla di
preciso, parve a Guido che un lampo di pietoso e di benigno affetto
passasse sui lineamenti di lei. Egli si sentì inondare il cuore da
una nuova commozione, come se gli fosse apparsa a sorridergli allora
lusinghevolmente la Dea della speranza.

Poco di poi Maria lasciò cadere le sue forbicine; e l'artista lesto a
chinarsi per raccoglierle. La ragazza si curvò anch'essa, e abbassò la
sua bianca mano a prenderle. I due giovani, chini ambedue, si toccarono
leggermente; e Guido con un lieve fremito dolcissimo nelle fibre,
sentì sulla guancia, sulla fronte, sul collo scorrere soave una ciocca
dei capelli di Maria. Fu per lui un istante di delizia ineffabile:
il cuore gli batteva ratto ratto e forte forte, sì che gli pareva
doversi rompere, dandogliene un tormento insieme e una gioia da non
potersi esprimere. Le destre d'ambedue trovarono le cercate forbici,
incontrandosi; Guido prese colla sua calda e fremente la fredda mano di
lei, che pareva di marmo, e la tenne un poco, e la strinse. Non la più
lieve pressione, non il menomo moto gli rispose, nè pure un tentativo
per isvincolarsi; ma, sollevando egli le pupille, incontrò quello
sguardo vitreo, in cui non c'era rimprovero, nè stupore, nè emozione di
sorta, ma la solita freddezza, che gli parve fatta più ingrata da una
fugace espressione d'ostilità.

Guido abbandonò quella mano, arrossì un poco, e si trasse in là,
imbarazzato e indispettito.

Maria, prima di ripigliare il suo lavoro, lasciò cascare quasi
sbadatamente lo sguardo sui vetri della finestra, e questa volta
visibilmente apparve sul suo volto un sentimento che avreste detto di
compassione.

Lo scultore sorse subito in piedi, e guardò ancor egli in quella
direzione; vide a una finestra di prospetto una tendina abbassarsi
prestamente sotto la mano d'un uomo che si ritraeva.

Fino allora, Guido non avea saputo rendersi un conto chiaro e preciso
del sentimento che gl'ispirava sua cugina. La subita gelosia che lo
morse al cuore a quel punto, gli aprì gli occhi. Egli amava Maria
disperatamente. Egli, che non aveva ancora amato mai, l'amava con tutta
la potenza dell'anima sua. L'amava di quell'amore dell'uomo maturo, che
ha ancora tutta la foga della prima giovinezza, e ha già la tenacità
della forza virile; quell'amore che è l'ultimo che occupi il cuore d'un
uomo, perchè vi s'incide profondo e incancellabile.

L'amava, così da non avere più bene che con lei e per lei, l'amava
da non poterla pensare nelle braccia d'un altro. L'amava ed era
ferocemente geloso.

A questa scoperta impallidì, provò ad un punto e vergogna di sè stesso
e dispetto contro quella creatura cinta di tanta freddezza che pure
aveva potuto accendere in lui un tanto ardore; ma poi, tosto, un impeto
misto di tenerezza e di gioia lo assalse, perocchè sentì essere un gran
fatto, una tremenda ventura nella vita dell'uomo quella che un vero,
profondo, appassionato amore ne invada l'anima.

Sua madre gli dirigeva giusto in quel punto una domanda. Guido,
oppresso dalla sua emozione, non seppe rispondere, balbettò alcune
parole, e per celare il suo turbamento, non trovò altro mezzo migliore
che quello di uscire dalla stanza.

Anna lo seguitò con uno sguardo pieno d'inquietudine materna.

“Hai tu osservato?” diss'ella poi a Maria con voce commossa. “Guido ha
qualche cosa che lo tormenta, forse un segreto dispiacere.”

E Maria levando il suo placido viso e coll'accento della più naturale
tranquillità:

“Non istate a mettervi in mente di queste cose, Anna, che vi farete
male senza una ragione al mondo. Il vostro occhio di madre è sempre
pronto a vedere alcun male e farvi impaurire sul conto di Guido; ma vi
dico io che l'ho osservato bene eziandio, ch'egli non ha nulla.”

E intanto l'artista era corso a chiudersi in camera, e passeggiandovi
in lungo e in largo a passi concitati, i pugni chiusi, la faccia
contratta, esclamava con impeto che metà era di sdegno, metà di
contentezza:

“L'amo, l'amo, l'amo come un pazzo.”

Si arrestò a mezzo la stanza, sopraccolto a un punto di bel nuovo
da quel sospetto che aveva destata così di subito la sua gelosia.
Accostossi alla finestra la quale guardava nella stessa strada in cui
quella del salotto dove lavorava Maria.

Al balcone di prospetto a cui aveva già visto muoversi una tendina,
Guido scorse dietro i cristalli la faccia d'un giovane che stava
assorto contemplando innanzi a sè. Lo scultore mandò una bestemmia e
lasciò cadere un pugno sul davanzale.

“Ed essa lo amerebbe?.... Potrebbe amarlo mai?” si domandò cacciandosi
le mani nei capelli. “Amarne un altro!... Essere d'un altro!...
Lei!.... Oh!”

E due calde lagrime gli spuntarono dagli occhi.

“Voglio sapere chi è colui.”

Nel fugace istante in che gli era apparsa la figura di quel cotale,
Guido aveva scorto delle chiome bionde, una faccia pallida e magra,
due occhi languidi, un sorriso pieno di mestizia, benchè su labbra di
venticinque anni.

L'artista si pose di nuovo a passeggiare per la camera parlando a sè
stesso nella concitazione della sua mente.

“Maria penserebbe a quell'uomo?... E potrebbe giungere ad amarlo?...
E lo amerebbe?... No, no; è impossibile.... Forse ella non è neppure
capace d'amare. La sorte, facendola di tanta perfezione esteriore non
volle che a questa corrispondesse l'interno! Ed è forse meglio così.
Sarebbe troppo se pari alla beltà del corpo fosse il valore dello
spirito. Non è che una meraviglia di forma cui bisogna contentarsi di
vagheggiare senza chieder di più. Ma questo diletto, non vorrei che
altri nemmeno lo avesse; non vorrei che occhio d'altri pur potesse
mirarla. Al pari di me nessuno nè può, nè sa capire la poesia di linee
che l'abbella....”

Tornò alla finestra. Il giovane di prospetto più non compariva. Guido
appoggiò la sua fronte ardente ai vetri.

“Eppure” rispose egli dopo un poco, “è egli possibile che la natura
abbia lasciato imperfetto un simile capolavoro e manchi il cuore?....
Forse l'anima in lei non è posta al riparo, dietro tanta freddezza,
se non per conservarvi più intatte, più sublimi, più divine tutte
le potenze affettive, e felice chi giungerà sino a quell'anima per
ridestarvele! Chi sa quanti tesori d'amore si nascondono forse in quel
cuore addormentato!... E perchè non potrei essere io quello che?... E
perchè non mi amerebbe?...

    «Amore.... a null'amato amar perdona.»

Oh! se mi amasse!...”

Corse allo specchio a guardarsi.

“Ah! la mia giovinezza è oramai ita!... Oh darei la mia parte di
paradiso per essere ancora a venticinque anni.”

Si ravviò la chioma, si lisciò la folta barba, e poi sorrise di scherno
a quegli atti come vergognandosi di sè stesso.

“Chi me l'avesse detto!... Ma torno io forse peggio d'un fanciullo?...
Eh via! Non è colle grazie d'un ganimede da _figurino_ che si conquista
il cuore d'una donna dabbene. E se Maria fosse tale da pigliarsi con
quelle arti e con quei meriti? È così strano, è così piccolo l'animo
della maggior parte delle donne! Quello là di faccia è giovane, ed è
biondo al pari di lei.... Ella non sa, non può supporre nemmeno qual
vulcano d'amore frema nell'anima d'un uomo come son io....”

Uscì per prendere informazioni sul giovane che abitava dirimpetto.


IX.

Era figlio unico di un ricco signore. Amato ciecamente come tutti i
figli unici e per essere egli cagionevole di salute, otteneva sempre
dal padre tutto quanto gli potesse venire in mente di desiderare. Il
sospetto geloso di Guido aveva indovinato il vero. Quel giovane era
stato preso della bellezza di Maria, vedendola ogni giorno al lavoro
presso alla finestra. La fanciulla, per lungo tempo non s'era neppure
accorta di quel volto d'uomo, che stava con tanto d'occhi ardenti
a contemplarla; avvistasene poi una volta, senza affettazione, come
senza turbamento, aveva tirate le tendine per mettersi al riparo dalla
curiosità di quegli sguardi, e per un poco aveva continuato a far
così, sempre che vedesse comparire la faccia di quel giovane. Ma un dì,
guardandolo ella per caso un po' più attentamente, vide sulla faccia
di quello sconosciuto tanto cordoglio e sì modesta e calda preghiera,
che la ne sentì una viva pietà, e senza darvi nè importanza, nè pure
un pensiero, finse d'allora in poi non avvedersi più della presenza
di colui, e lasciò che il giovane la contemplasse a suo bell'agio. Ed
egli, forse temendo che tanta ventura gli venisse nuovamente ritolta,
se ne abusasse o troppo scopertamente ne usasse, prese il costume di
stare nascosto dietro la tenda e non apparire alla scoperta che di
tratto in tratto, beatissimo allora quando lo sguardo della ragazza,
alzandosi dal lavoro e andando sbadatamente in giro, veniva a cadere
su di lui. Un giorno finalmente quel giovane disse a suo padre che
se non isposava quella ragazza, sarebbe infelice per tutta la vita.
Il padre, sapendo che la fanciulla era povera e di umil nascita,
dapprima contrastò e volle tentare ogni possibil mezzo per isviare il
figliuolo da tale idea; ma il giovane, che era innamorato assai più
che non si credesse, sempre stette fermo al suo proposito, tanto che
i suoi, entrati in timore per la salute di lui, decisero finalmente di
contentarlo.

“Quella ragazza sarà tua sposa;” gli disse il padre. “Sta' di buon
animo e Dio te la mandi buona.”

Il giovane fu per isvenire dalla contentezza, e buttandosi al collo del
genitore, lo ringraziò vivamente più coi baci e con le lacrime che con
le parole.

Codesto intimo dramma aveva avuto luogo senza che dalla famiglia di
Maria nulla se ne sapesse, eccetto la muta contemplazione del giovane,
della quale da ultimo erasi accorto Guido. Ed ecco che pochi giorni
dopo quell'ora di spasimo e di esaltazione, mercè cui lo scultore aveva
conosciuto tutta l'estensione e la profondità dell'amor suo, rientrando
in casa il nostro protagonista incontrò un vecchio signore affatto a
lui sconosciuto, che usciva: Guido si affrettò ad entrare nel salotto,
dove trovò sola sua madre, evidentemente sopra pensiero.

“E Maria?” domandò egli.

“È nella sua stanza:” rispose la madre. “Ho avuto adess'adesso un
colloquio a cui non era conveniente che ella assistesse.”

Guido sentì stringersi il cuore da un doloroso presentimento.

“Un colloquio?” balbettò egli. “Con chi? E a qual proposito?”

“Anzi t'aspettavo con molto desiderio per discorrerne teco,” seguitava
la madre. “Non hai visto, entrando, un signore che si partiva di qui?”

“Sì, ebbene?”

“È il signor X....; ed è venuto a domandarmi per suo figlio, un unico
figliuolo, la mano di Maria.”

“Ah!”

Guido si appoggiò sul marmo del caminetto, e per caso alzò gli occhi
allo specchio ond'era sormontato; egli si vide così pallido che non osò
più voltarsi, per timore che la madre s'accorgesse del suo turbamento.

Dopo un poco, chiese con voce che si sforzò a tutto suo potere di
render ferma:

“E tu, che cosa gli hai risposto?”

“Che avrei consultato Maria, e che noi non avremmo fatto che quanto
ella volesse.”

“Hai risposto eccellentemente:” sussurrò Guido, a cui pareva mancare la
voce; e poi, sedendo presso il camino, si curvò sopra i tizzoni ardenti
che si mise a tormentare con le molle.

Anna continuava:

“A dir vero, le convenienze ci sono tutte. Lo sposo è ricco, giovine,
amatissimo da suo padre, e questi me lo affermò innamorato alla follia
della nostra Maria....”

Le molle caddero dalle mani di Guido.

“Innamorato! Innamorato!” diss'egli con voce stizzita, smozzicando
le parole fra i denti. “Bel merito! bel merito!... E chi sa che razza
d'amore!... Una fiammata che la possessione estingue, non una di quelle
passioni....”

S'accorse che s'avviava per una strada inopportuna e s'interruppe.
Riprese le molle e ricominciò a battere con rabbia sopra i tizzoni.

“Ricco!” soggiunse. “La gente quando ha detta questa parola, crede
aver detto tutto. Eh!... in un matrimonio, c'è ben altro eziandio a cui
badare.”

“Hai ragione,” disse Anna, “ma nel nostro caso la famiglia è affatto
onorevole, e sul conto del giovane credo che non si possa dire che
bene.”

“Uhm!”

“Come! Avresti udito qualche cosa non buona di lui?”

“No, no,” s'affrettò a risponder Guido, che sentì subito una gran
vergogna de' fatti suoi.

Anna ripigliava:

“Del resto ne possiamo discorrere a bell'agio tutti insieme. Se tu
credi, sveleremo subito la cosa a Maria.”

“Sì, sì, come vuoi:” disse Guido con una nascosta agitazione. “Anzi tu
dici bene, è meglio parlargliene al più presto.”

Fu mandata a chiamare la ragazza.

Ella venne tosto col suo passo leggero e l'andatura graziosamente
spigliata in una noncuranza piena di garbo.

Anna sedeva sopra una poltrona in faccia alla finestra; Guido su una
seggiola bassa, accosto accosto al camino. Guardò egli di sottecchi la
fanciulla che s'avanzava, e poi curvandosi, sul focolare si rimise a
percuotere con più violenza i tizzoni.

“Maria,” disse la madre di Guido, facendole cenno che sedesse, “abbiamo
da parlarti di cose importanti che ti riguardano.”

“Me?” interrogò la ragazza stupita; e poi tosto, vedendo il mal
governo che Guido stava facendo del fuoco, si rivolse a lui con piglio
graziosamente autorevole: “Guarda se questo è modo di assettare il
fuoco!... Hai mandato la cenere fin qui sul tappeto!”

Guido gettò via le molle e appoggiate le gomita sulle ginocchia, con
le mani si reggeva la faccia; Maria prese la spazzola del cammino e
levò via con tutta cura la cenere sparsa; poi andò a sedersi sopra
uno sgabello ai piedi di Anna, pigliò fra le sue e ritenne la mano
che questa le tendeva, e guardandola con que' suoi occhi limpidi e
sgranati, le disse:

“Parlate pure; vi ascolto.”

“Si tratta della cosa più importante per una ragazza:” cominciò Anna
sorridendo: “d'un matrimonio per te; e noi dobbiamo chiederti la tua
volontà a tale riguardo.”

Maria non manifestò la menoma commozione; dopo il suo solito glaciale
sorriso, metà superbo, metà incredulo disse pacata:

“Un matrimonio per me? È un'idea che mi riesce affatto nuova, a cui non
ho vòlto mai la mente.... Perchè un matrimonio?... Uscire da questa
casa io, per entrare in un'altra del tutto estranea, in mezzo ad
estranei?... Voi mi domandate intorno a ciò la mia volontà quale sia?
Che cosa posso io volere, io che non conosco nulla della vita e non so
nulla del mondo?”

Anna le spiegò in breve come realmente fosse nel destino della donna
il farsi sposa e madre; le rivelò qual fosse il partito proposto, quali
vantaggi avesse, quali fossero le buone qualità del giovane e le felici
condizioni del casato, e concluse con le seguenti parole:

“Io t'ho posto innanzi tutta la verità delle cose perchè tu ti potessi
decidere con piena conoscenza di causa. Certo a noi dorrà grandemente
il perderti, mentre, tu lo vedi, t'amiamo come figlia e sorella e sei
tanta parte della nostra famigliuola; ma tu non hai da consultare che
il tuo interesse e il tuo bene, e quando noi ti vedremo felice saremo
lieti, per quanto ci abbia a costare il separarci da te.”

Maria aveva ascoltato il discorso della cugina, immobile e
indifferente, come se le si parlasse di cose risguardanti tutt'altri
che lei. Quando Anna ebbe finito, ella chinò il capo, quasi per
raccogliersi in sè, e lasciò andare la mano della cugina che teneva
ancora fra le sue.

Guido, che fino allora era stato colla faccia chiusa fra le palme,
sollevò la testa e volse uno sguardo ansioso verso la ragazza, di cui
attendeva la risposta.

“E così,” cominciò poi Maria a dire lentamente, “voi mi consigliate ad
acconsentire?”

Guido diè un balzo e parve voler prorompere con vivaci parole, ma si
contenne.

“Noi non vogliamo influire sulla tua decisione, nè in un verso, nè
nell'altro,” disse Anna, “ma è nostro obbligo il metterti sott'occhio
le cose come stanno.”

“Bene,” disse Maria; e stata ancora un poco sopra sè, soggiunse poscia
con accento d'espansione più che non avesse avuto ancora mai:

“Non voglio dividermi da voi, Anna. Io non ho bisogno affatto di nuove
affezioni; anzi ne sono schiva.... Quando morì la mia povera nonna....
(vi dirò con tutta schiettezza cosa che non vi ho mai detta, solo
perchè non me ne venne l'occasione) quando morì quella santa donna, io
non era che una bambina; eppure v'era già qualche cosa in me che, non
dirò ragionasse, ma sentiva in un modo tutto suo particolare; ebbene,
allora, io mi dissi che non avrei amato più, che non avrei potuto amar
più nessuno al mondo come quella povera morta.”

Fece pausa un istante. Ella non aveva ancora parlato mai sì a lungo di
cosa che la riguardasse; e forse per la prima volta, dacchè Guido la
udiva, la voce metallica di lei aveva una vibrazione d'affetto.

Maria ripigliava:

“Perchè, vedete, io bisogna che ami a tutto mio modo, e sia amata
secondo un mio modo.... Quella povera vecchia nonna come sapeva amarmi!
Come mi pareva che sapessero amarmi le gole e il vento, i castagni e
gli abeti, i fiori selvaggi e i freddi ruscelli delle mie montagne!
Come le mie capre vagolanti sui ciglioni dei dirupi ed accorrenti alla
mia voce!”

Negli occhi suoi s'era acceso uno di quei lampi di sensitiva
intelligenza che accennai darle talvolta, quand'essa era bambina,
un'espressione ammirabile, lampi che s'erano fatti sempre più radi; le
ciglia le tremolavano, come sotto la pressione di lagrime ch'ella si
sforzasse di ricacciare indietro.

Quanto era bella in quel momento! Guido fu a un punto di gettarsele in
ginocchio dinanzi ed esclamare:

«Maria, t'amo a mille doppi, io; e saprò amarti più di tutto e di
tutti, e per tutta la vita!»

Fu la madre di lui che disse con accento di tenera rampogna e di
amoroso rimpianto:

“Oh che dunque noi non abbiamo saputo amarti, Maria?”

La fanciulla aveva già vinto quel po' d'emozione per tornare alla sua
calma abituale.

“Ah! non dico questo” esclamò, “anzi!... Statemi a sentir con pazienza,
e vedrete.”

Prese la mano di Anna, la baciò, e poi seguitò tranquillamente il suo
discorso.

“Dunque alla morte della nonna, io non credeva di poter rivoler bene
a qualcuno, e venni a star con voi (come forse ve ne sarete accorti)
con la malavoglia di chi soggiace ad una necessità. Non ci voleva
che la vostra bontà infinita, Anna, per vincere quella mia permalosa
rustichezza. Voi avete addomesticata questa creatura selvaggia, a
forza di benevolenza e di generosi riguardi. A mano a mano io mi sono
assuefatta a voi; senza volerlo, sorse in me per voi una parte di
quell'affetto che nutrivo per quella mia buona vecchierella che dorme
laggiù nel cimitero del nostro villaggio: e ora, Anna, vi voglio bene.”

Non aveva mai detto cotanto. Benchè la sua voce non fosse punto
commossa, pure c'era un non so che, leggiero, leggiero, ma
apprensibile, un'aura direi, un profumo di sentimento che Anna ne fu
tocca. Prese la testa della ragazza, che le sedeva sempre ai piedi, la
strinse a sè, e chinatasele sopra, la baciò, come avrebbe potuto fare
una madre. Maria si prestò a quelle carezze con passivo abbandono,
senza restituirle, sorridendo a suo modo, e lasciò il suo capo con muta
compiacenza riposare in grembo della cugina.

Di Guido ella non aveva parlato, nè pur fatto cenno, nè voltogli
uno sguardo, nè mostrato pure di ricordarsi che esistesse: eppure
l'innamorato artista, a due passi da lei, contemplandola rapito, le
mani giunte, sentivasi per quelle parole scorrere un fluido di soave
voluttà per tutte le vene.

Stata così un poco, Maria raddrizzava compostamente la persona, e
continuava:

“Ora abbandonarvi e vivere in nuovo ambiente, in nuove condizioni,
sarebbe per me una sventura. Ora sono certa che non amerò più altri che
voi, mia buona madre e amica e sorella e tutto.... Non mi scacciate dal
vostro fianco, e lasciatemi viver qui.”

Anna era per rispondere; ma Guido non glie ne lasciò il tempo.

“Sì, sì,” proruppe, “tu hai ragione. Non viviamo noi affatto bene
insieme? Perchè separarci?... Scacciarti, noi!... Ma tu ci sei
necessaria come l'anima della casa!... Ma se tu mancassi di qui, queste
pareti diverrebbero tetre, e queste stanze parrebbero un sepolcro....”

Si accorse che nelle sue parole v'era troppo calore e nel suo accento
troppo impeto. Maria lo guardava con occhio fisso e freddo. Egli tentò
correggersi.

“Mia madre ha bisogno di te:” soggiunse. “Chi ti togliesse a lei,
la priverebbe del suo braccio destro. Resta con noi. Ti si offre la
ricchezza! che ne faresti tu così semplice e modesta? Credi a me,
che conosco il mondo. È ben altra cosa che i denari quella da cui si
può avere la felicità sulla terra. Noi ti ameremo come ti amava la
nonna.... di più ancora!... Che tu sii benedetta. Maria, per le parole
che hai pronunziate! A te devo in parte la guarigione di mia madre,
a te dovrò la contentezza della sua tarda età.... Oh te ne sarò tanto
riconoscente, Maria!...”

In queste parole, l'amore non osava levarsi la maschera, ma tutto pure
si faceva sentire nell'ardenza degli sguardi, nel suono della voce.
Anna ebbe per la prima volta sospetto del vero; Maria seguitava a
guardar Guido colla sua placida indifferenza.

“Or dunque è deciso;” ripigliava lo scultore, “questo matrimonio tu lo
rifiuti. Bisogna farglielo saper subito a quel tale.”

“Il signor X...,” disse Anna, “ripasserà domani.”

“E perchè obbligarlo a venire egli medesimo, quando la risposta ha da
essere sfavorevole?... Da' retta, mamma: il meglio è che tu subito, con
tutti i possibili riguardi, glie ne scriva.”

Anna avvolse il figliuolo, se così posso dire, con uno sguardo
scrutatore ed amorevolmente compassionevole insieme, poi disse a Maria:

“Ci hai tu pensato abbastanza? È questa una risoluzione definitivamente
presa, di cui tu non abbia a ricrederti, a pentirti?”

Maria scosse tranquillamente il capo.

“No cugina, non me ne pentirò mai.”

“Vuoi pensarci ancora?”

“È inutile. Dirò domani e doman l'altro e tutti i giorni di seguito
quello che ho detto oggi.”

“E sia! Quanto io desideri conservarti presso di me, non ho parole per
esprimertelo. La tua determinazione, io ne ho ferma fiducia, sarà per
il meglio di tutti.”

E mandò un'occhiata piena d'espressione verso Guido, il quale nella
sua contentezza, s'aggirava pel salotto, canterellando e fregandosi le
mani.

“Ora vanne un momento nella tua stanza. Maria,” soggiunse Anna, “ho
qualche cosa da dire a Guido.”

Questi, all'udire tali parole, si fermò su due piedi, come stupito,
e guardò con occhio di desiderio e di rincrescimento Maria, la quale
si alzava tranquilla tranquilla a suo modo e se ne partiva senza
aggiungere una parola.

“Guido!” esclamò la madre, quando Maria ebbe richiuso dietro sè
il battente dell'uscio: e la voce, con cui questa sola parola fu
pronunziata, era impressa d'immenso affetto.

L'artista che teneva ancora gli occhi fissi sulla porta per cui la
ragazza era uscita, si volse e vide la madre, tutta benevolenza e
pietà nel volto, tendergli ambedue le mani, sorridendogli, come solo sa
sorridere al figlio una madre.

“Mamma!” esclamò egli precipitandosi su quelle mani e coprendole di
baci. “Mamma mia!”

Anna levò via di sotto alle labbra del figlio la sua destra e
passandogliela carezzevolmente sulle chiome, gli disse con voce
commossa:

“Tu ami Maria!”

Guido le cadde in ginocchio dinanzi, e abbandonando il capo nel grembo
materno, rispose con tutta l'effusione dell'anima sua:

“Sì, l'amo!”

“Povero Guido!” disse Anna baciandolo in fronte. “Or qual proposito è
il tuo?”

“Che so io? Non ne ho nessuno. Quest'amore mi ha preso, senza ch'io
volessi, senza che me ne accorgessi. In esso sta ora la felicità della
mia vita. Se Maria non avesse da esser mia, non ti dirò che morrei
(sono uomo abbastanza per non dir più di queste esagerazioni) ma
sarebbe per me un insopportabile dolore.”

“Vuoi tu ch'io glie ne parli a Maria?”

“No:” esclamò vivacemente Guido, quasi tremando.

“Che cerchi almeno di scrutarne il cuore?”

“No, no: ho paura. Forse è meglio lasciarla ancora in
quell'intorpidimento dell'anima che ignora. Un giorno o l'altro il
cuore si desterà pure in lei. Il mio sogno è trovarmi in quel dì al
suo fianco e potere colla fiamma dell'amor mio comunicare a lei la
scintilla divina.”


X.

Anna scrisse al signor X... essere determinazione di Maria di rimaner
per allora ragazza.

A questa risposta fu tanta l'afflizione del giovane innamorato
che il padre volle tentare ancora di smuovere la giovinetta dalla
presa risoluzione; e il giorno dopo si presentò alla casa di Anna,
supplicando lo si lasciasse parlare colla fanciulla. La madre di
Guido ben rispose che questo era affatto inutile, nè le pareva di
tutta convenienza; ma l'altro insistendo caldamente, perchè non
si sospettasse della sincerità della data risposta, Anna finì per
acconsentire al domandato colloquio.

Quando furono in presenza e soli il signor X... e Maria, il primo
cominciò a domandare alla ragazza se proprio secondo il volere di lei
era la fattagli risposta, ed essa ciò affermando con fredda dignità.

“Ma perchè?” interrogò il signor X... con calore. “Quale ragione può
ella avere.... Oh mi dica liberamente tutto! E se io potrò mai far
cosa che la possa far cambiare di risoluzione, qualunque ella sia, si
accerti che la farò ad ogni costo.”

“La ragione,” rispose tranquillamente la fanciulla, “è questa sola: che
io sto bene così come mi trovo e non amo cambiare di condizione e di
stato.”

Questa ragione non era tale da appagare il padre del giovane
innamorato, epperò insistette con più forza, soggiungendo che si
trattava della vita d'un uomo, che suo figlio era a tale che, privo
di lei, non voleva viver più; conservasse per carità, per amor di
Dio, l'unico figliuolo ad un padre oramai vecchio; non avrebbe dovuto
pentirsene a nissun modo, avrebbe avuto dall'amore del giovane, dalla
riconoscenza di lui che la supplicava il più ampio compenso.

Il povero padre s'era commosso sino alle lagrime, e ad aggiunger forza
alle sue preghiere accennava volersi mettere in ginocchio innanzi alla
ragazza; essa ne lo trattenne.

“Io sento per suo figlio la maggior compassione; ma non devo tuttavia
ingannarlo.... Suo figlio, non l'amo; e non mi pare nè prudente nè
onesto dare a chi non s'ama la nostra vita e prendere la sua.”

“Lo amerà dipoi....”

“E se no? Non conviene giuocare l'esistenza di due individui
sull'incerta posta d'un avvenire poco probabile. Pare a lei che suo
figlio medesimo avrebbe ad esser felice quando non si sentisse amato
come certo desidera, com'è suo diritto, come n'è ben degno?”

“Ciò vuol dire ch'ella ama qualchedun altro!”

Maria volse al suo interlocutore la fronte sicura e lo sguardo
limpidissimo, senza traccia del menomo turbamento.

“No,” diss'ella, “nè so pure se amerò mai uomo al mondo. Ma questo
è certo che non darò la mia mano se non a chi abbia già saputo
acquistarsi tutto il mio cuore.”

Fece un inchino per significare che il colloquio aveva da esser finito
e nulla più era da dirsi fra loro due. Il signor X... se ne partì
disperato: e mentre usciva per una porta, si precipitava da un'altra
nel salotto Guido, il quale, colla febbre addosso, aveva udito,
origliando, i tenuti discorsi.

“Maria!” esclamò egli correndo presso la fanciulla e pigliandole una
mano che baciò con passione. “Maria, tu sei un angelo.”

Essa tolse via lentamente la mano da quella di Guido, guardando con
istupore lo acceso volto di lui.

“Perchè mi dici tu codesto?” domandò con accento di gelato riserbo.

Guido rimase impacciato, non sapendo più nè che rispondere, nè che si
fare. Maria tenne alquanto fissi su di lui gli occhi suoi con una certa
curiosità scrutatrice senza aggiunger altro; poi s'avviò lentamente: ma
quando fu all'uscio, e già aveva la mano sulla gruccia della serratura,
si volse indietro e disse:

“Tu hai ascoltato il mio colloquio con quel signore?”

“Sì,” rispose Guido, abbassando il capo vergognoso.

“Hai fatto molto male:” pronunziò Maria col tono d'un precettore che
rampogna un allievo, e sparì, tra i battenti dell'uscio; ma se Guido
avesse levato gli occhi a quel punto, avrebbe visto sulle labbra di
lei un certo sorrisetto, che non indicava disdegno e che era forse meno
indifferente del solito.

Pochi giorni dopo, il signor X... partiva con suo figlio per un lungo
viaggio, nell'intento di svagare l'addolorato giovane.

Guido lo annunziò a Maria, la quale, come al solito, lavorava alla
finestra del salotto.

“Ah!” fece la fanciulla con tutta tranquillità: “poveretto!”

“Tu lo compatisci?” esclamò con gelosia l'artista che teneva fisso lo
sguardo sui lineamenti della fanciulla.

“Sì; lo vedevo tutti i giorni là davanti con una faccia così sofferente
e così mesta che, davvero, a non averne compassione, bisognerebbe esser
peggio che insensibili.”

“Hai ragione. Anch'io lo compatisco e dimolto. Ma ne sai tu il perchè?”

“Perchè?” domandò Maria alzando gli occhi dal lavoro e fissandoli in
volto a Guido.

Questi aveva il cuore che gli palpitava forte forte, e le labbra che
gli tremavano nel rispondere.

“Perchè t'ama non riamato....”

Si tacque di subito, come se a proseguire gli mancassero la voce e la
forza.

Maria non disse nulla; riabbassò il suo sguardo, e la mano corse
spedita come prima sul suo lavoro.


XI.

A un tratto Guido fu colto da un nuovo ardore pel lavoro, e per l'arte
sua, cui da tempo veniva trascurando. Tutto il giorno oramai se ne
stava chiuso nello studio; compariva appena alle ore del desinare;
non usciva di casa, non riceveva più nemmeno i suoi amici, di nulla
piacendosi che d'esser solo all'opera colla sua ispirazione, innanzi
alla massa di creta che veniva plasmando. Colà si provava ad eseguire
quella creazione che da un pezzo tentava la sua fantasia; imperocchè
essa ora imperiosamente domandava di venire effettuata, ed egli
obbediva modellandola in una statua di donna. Come avete indovinato di
certo, in quella statua, alla bellezza corporea d'una Venere, l'artista
aveva congiunto la leggiadria di volto e l'espressione di superba
nobiltà che erano in Maria.

A costei Guido non aveva pur fatto cenno di ciò. I lineamenti di
lei aveva egli sì bene stampati nella mente, che non gli occorreva
vederseli innanzi per ritrarli. Al corpo medesimo aveva dato
l'atteggiamento e la mossa dell'adorata fanciulla; nè aveva voluto per
esso avere alcun modello, parendogli questa una profanazione; ma tutto
veniva facendo col riprodurre nella creta quell'immagine splendida
di fisiche perfezioni che stava incessante innanzi alla sua fantasia
d'artista.

Quando la statua era oramai presso al termine, avvenne che un giorno
la serva di casa, avendo da recarsi nello studio di Guido, ci entrasse
mentre lo scultore stava lavorando, ed essendo egli in uno de' suoi
momenti di più fervore nell'opera, non pensasse a smettere ed a
coprire, come di solito, il lavoro col panno.

La serva, finito il suo compito, era per ripartirne, quando, per caso,
alzò gli occhi sopra la statua, e mandò un'esclamazione di meraviglia.

“Madonna santa! Ma quella è la signorina.”

Guido si riscosse, saltò giù con impeto dallo sgabello su cui era
salito, e si precipitò sulla serva, a cui tappò colla mano la bocca.

“Taci!” gridò egli. “Tu non l'hai a dire. Tu non hai visto nulla. Hai
capito?”

E la meschinella, tutta spaventata:

“No, no, stia tranquillo; non parlo.”

Ma Guido, calmatosi, guardava con amore l'opera sua.

“Ti par'egli adunque che questa statua le rassomigli?”

“Eccome! Se la fosse di color carnicino e coi capelli d'oro come la
signorina, si direbbe che la è essa medesima, e che vive.”

A Guido parve in quel momento che quella femminuccia parlasse meglio
d'ogni persona al mondo; volle ringraziarla, pensò darle una mancia,
e recò la mano al taschino; ma non ne fece nulla, trattenne anche la
parola, e lasciatala partire, tornò con nuova alacrità al lavoro.

È facile indovinare come fosse troppo difficil cosa per quella donna
il tacere; onde non erano trascorse ventiquattr'ore che, dopo mille
preghiere di non tradirla, mille proteste di non voler dire, essa aveva
contato a Maria ciò che aveva visto, e ciò che erale intravvenuto nello
studio di Guido.

La fanciulla, incredula del fatto per un poco, aveva cominciato per
sorriderne come d'una piacevolezza qualunque.

“Eh via! Davvero?” aveva domandato con meraviglia. “Oh che idea gli è
mai venuta? È una strana bizzarria.”

Quindi una specie di preoccupazione l'aveva fatta diventar seria; e sul
suo volto, allo stupore e all'ilarità era succeduta l'espressione d'una
scontentezza, quasi di suscettività offesa.

Senza voler più dire una parola alla serva, ella s'era ritirata nella
sua camera, e là le si aggiravano per la mente poco men che molesti
questi pensieri:

“Perchè ha egli voluto riprodurre le mie sembianze?... Ne aveva egli
diritto?... E non dirmene nulla!... E ora, ogni momento, egli ha colà
sotto gli occhi la mia immagine.... Oh me ne spiace.... E perchè me
ne spiace? Che cosa me ne deve importare? A me, alla mia persona, che
cosa fa codesto? Ebbene sì, mi fa.... Gli è come se avesse una parte di
me....”

Un nuovo pensiero sopraggiuntole la fece arrossire.

“Conviene adunque ch'egli mi abbia ben bene esaminata, bene studiata
per poter così ottimamente ritrarre le mie sembianze a memoria!”

Si sentì prendere da una confusione che non aveva mai provata.

“Ciò non va bene.... Glielo dirò.... Mentre si sta lì, senza un
sospetto al mondo, esserci uno sguardo che vi scruta, vi divisa uno
per uno ogni tratto, ogni mossa.... No, no, non mi piace.... E mi piace
tanto meno ch'egli si tenga quella statua. Che cosa sono io per lui da
voler egli possedere la mia immagine? che glie ne importa?”

Ma qui la sua mente fu certo invasa da altre idee, poichè ella chinò il
capo, stette riflessiva, e una leggiera fiamma di rossore le salì alle
guancie.

Rimasta un poco di questa guisa, meditando, levò quindi la testa con
risoluzione e disse:

“Voglio vederla codesta meraviglia.”

Chiamò la serva.

“Quando Guido sia uscito,” le disse “venite tosto ad avvisarmene.”

Lo studio dello scultore era a pian terreno nel cortile, e dal
quartiere dei mezzanini, abitato dalla famiglia, scendevasi in esso
per una scala interna a chiocciola. Maria non era entrata in quel
vasto stanzone che pochissime volte, e perchè raramente le accadeva di
doverci andare, e perchè provava una tal qual ripugnanza a metter piede
là dentro.

Ora, quando la serva venne a dirle esser Guido partito, la fanciulla
si diresse risolutamente verso la scaletta a chiocciola, col suo passo
franco e leggiero. La donna accennò di seguirla.

“No;” le comandò Maria con accento che non ammetteva replica: “tu sta'
qui.”

Scese la scala, sollevò la tenda di grosso pannolano che pendeva
innanzi all'uscio ed entrò.

Cosa strana, e che non capiva ella medesima, e che non le era capitata
da un pezzo, il suo cuore palpitava per un'inesplicabile emozione.

Nello studio entravano da due alte e larghe finestre splendide cascate
di raggi di sole. Alle pareti dipinte di color grigio, si vedevano
appese tutto all'intorno braccia, gambe, mani, piedi, torsi, capi
modellati in gesso sui capolavori dell'antichità. Una copia, grande
come l'originale, del famoso Fauno della villa Albani si contorceva
in un angolo; un Mercurio di Gian Bologna si slanciava verso il cielo
da un'altra parte; una Venere dei Medici pareva volere scaldar la sua
nudità a quel sole, il quale tracciava traverso la stanza due ampie
striscie luminose tutte piene di atomi brillanti; mentre un Apollo
del Belvedere sorgeva in tutta la sua maestosa bellezza di dio che s'è
vendicato.

Maria stette là in mezzo, press'a poco come un timido che entri in
un'adunanza dove persone ed usi sieno a lui affatto sconosciuti. Le
parve una voce intima le dicesse, quello non esser luogo da lei; la sua
curiosità essere poco meno che una sconvenienza; dover ella tosto di là
allontanarsi.

Nel mezzo dello stanzone, là dove meglio batteva la luce, sorgeva una
mole sopra uno di quei piedistalli di legno che girano su d'un pernio,
dei quali si servono gli scultori per modellare la creta; e codesta
mole era accuratamente tutta coperta da una gran tela inumidita.

Maria pensò tosto che quella esser doveva la statua colle sembianze
di lei, per veder la quale soltanto era essa colà venuta; ma ebbe una
certa peritanza, non che a scoprirla, pure ad accostarsele. La guardò
un poco, così come ella appariva, sotto quel mistero di pieghe cui le
faceva intorno il panno gittatovi su; e poscia ne sviò lentamente gli
occhi a mirare, un dopo l'altro, i vari pezzi di scoltura che ornavano
lo studio. Ella non aveva ancora mai sentito nè cercato quel diletto
che provasi dalle persone di gusto artistico nella contemplazione delle
bellezze dell'arte. Ora in presenza della pura leggiadria dell'Apollo
antico, dell'eleganza di quel Mercurio che vola, della grazia della
Psiche del Canova, del sentimento della Preghiera di Pampaloni,
provò ella come una rivelazione, come un subito ammaestramento a un
linguaggio sublime, sino allora ignorato.

Prima di tutto una specie di turbamento s'impadronì di lei; quella tal
voce segreta le sussurrava ancora che di là si partisse, non mirassero
gli occhi suoi quegli oggetti; ma la casta bellezza di quelle forme
aveva pure un fàscino a cui la non poteva resistere.... Quali pensieri
le passassero per la mente, chi li può dire? Non seppe esprimerli
mai neppure ella medesima. Certo è che sulle sue sembianze passavano
avvicendandosi, e come rincorrendosi, le tracce di mille sentimenti,
di mille affetti i quali parevano agitarsi e combatter tra loro
nel contendersi l'animo di lei, e poi, cessando tutti a un tratto,
lasciarla ripiombare nell'assopimento della sua primiera apatia.

Se non che la vista d'un altro oggetto venne a suscitarle nuove
sensazioni e nuovi pensieri.

In un angolo dello stanzone presso ad una stufa di ghisa che alzava
il suo tubo contro la parete, stava spiegato, come per formare un
ripostiglio, un paravento, e sopra questo, un abito e uno scialle di
donna buttati là a casaccio.

Perchè quella vista riscosse la indifferente Maria? Essa tenea su
que' panni gli occhi fissi, conturbati, come all'aspetto d'una subita
minaccia. A chi apparteneva quella roba? C'era forse una donna nascosta
là dietro, la quale l'avesse sino allora osservata, mentre Maria si
credeva sola? Quest'idea la fece arrossire. Si alzò con coraggio e
camminò risoluta verso quel paravento. Dietro non c'era nessuno; ma
palesi e numerose ci si vedevano le traccie di passaggio e dimora di
donne. Uno specchio alla parete, con un tavolino dinanzi, pettini,
forcine da capelli, spille e spilloni da appuntare i panni, qualche
nastrino, un guanto femminile, vasettini di pomata. Era difatti colà
dove si ritiravano a spogliarsi e rivestirsi le _modelle_.

Che cosa mai passò per la testa alla fanciulla? Il suo volto prese
un'espressione di mal talento, di dispetto insieme e d'ironia. I suoi
occhi caddero per caso sullo specchio, e vedendovisi colle sopracciglia
corrugate e una specie di corruccio in tutta la fisonomia, ebbe
sdegno di sè medesima, arrossì, poi sorrise lievemente, come si fa dei
capricci d'un bambino, e venne fuori di là.

Si trovò dinanzi nuovamente la tela che ricopriva il lavoro di Guido.
Sentì più di prima dispiacere che là fossero ritratte le sue sembianze.
Andò presso la statua, salì sopra lo sgabello di cui si serviva lo
scultore medesimo per lavorarci, e si diede a levar via il panno che
ricopriva la creta. Quando la testa le apparve, Maria gettò un grido
di meraviglia e di ammirazione. Questa testa era davvero la sua, quei
tratti erano i suoi, ma animati dalla dolcezza amorevole d'un sorriso
quale Maria non s'era mai visto nell'immagine che glie ne rifletteva lo
specchio, quale non si credeva nemmen capace di poter abbozzare colle
sue labbra.

Lasciando ancora velato il resto del corpo, ella stette lì a
contemplare quella testa con tanta grazia modellata, piena di tanta
vita, meravigliosa di tanta bellezza. Le pareva che a lei si rivelasse
come una sorella, la quale col suo sorriso le manifestasse un intenso
amore e le penetrasse nell'anima.

Giunse le mani ed esclamò con tutta ingenuità:

“Oh cara!... E sono io?”

Tacque vergognosa e si guardò intorno, quasi temendo che alcuno
l'avesse potuta udire; poi un dubbio gliene venne.

“No, no, è impossibile ch'io sia tanto bella!”

Saltò giù lesta e corse dietro il paravento a mirarsi nello specchio.
Il rossore ne animava le guancie; non era mai sembrata così leggiadra
a sè medesima. Si provò a far quel sorriso amoroso che aggiungeva
tanta malía al volto del suo ritratto; e dopo due o tre tentativi le
parve non se ne discostasse di troppo. Tornò alla contemplazione della
statua.

“Ma questo è uno stupendo lavoro” diceva a sè medesima. “Io non
avrei mai creduto che mano d'uomo fosse capace di tanto.... Ed è
Guido?... Egli è dunque un genio?... Ed è a me che s'è rivolto il suo
pensiero?... Oh come doveva avermi presente ai suoi occhi!... Ma per
ricordare così particolarmente i tratti di qualcheduno, bisogna proprio
averli ben impressi nella mente.... e forse anco nel cuore.... vediamo
un po'.... se io avessi da ricordarmi i suoi.... di Guido?”

Si concentrò un momento.

“Eh via! Appena è se mi sono presenti i tratti principali della sua
fisonomia.... È una bella figura, franca, aperta, intelligente, con
qualche cosa di dolce insieme, lo so; ma poi?... Ah rassomiglia molto
a sua madre; e le care sembianze d'Anna le ho sì contemplate frequenti
volte con tanta soavità d'emozione!... Come le trovavo leggiadre!... E
davvero le son tali!... Eppure se le avessi da riprodurre, da descriver
soltanto, io nol saprei.... Bene avrei saputo ciò fare di quelle della
povera nonna: sì che le avevo presenti al mio pensiero sempre quelle
là!... Ma ancor esse ora si sono un po' sbiadite nella mia memoria; e
l'amavo pur tanto la mia nonna; e l'amo!...”

Questa parola che cadde quasi inavvertita dalle sue labbra fece su
Maria un indicibile effetto quando se la udì suonare all'orecchio. Si
riscosse: fu per lei come un lampo che illumini a un tratto l'oscurità
in cui alcuno sia avvolto, e gli faccia scorgere dove si trova; fu come
una voce estranea, la quale, a chi cerchi la soluzione d'un enigma, ne
dica ad un punto il motto. Chinò la testa e stette un poco meditando.

Poscia la curiosità la punse di vedere intiera l'opera di Guido.
Risalendo sullo sgabello, tolse via del tutto i panni che la coprivano.
La figura di donna era rappresentata senza alcun velo.... Maria se ne
adontò ed arrossì, come se offeso sentisse il suo pudore. Le tornò
subitamente il pensiero di quelle donne che venivano e che forse
avevano visto quella statua, e sentì un'ira, un corruccio contro Guido
quasi gliene avesse fatto un oltraggio da non perdonarsi.

Però la bellezza dell'opera chiamò quasi a forza la sua ammirazione.
In quelle linee c'era una purezza, in quella leggiadria c'era per così
dire un'onestà, in quella verità c'era un sentimento che io chiamerei
di rispetto, che faceva casta quella nudità ideale della forma.

                             . . . . . . .

Mentr'essa era più assorta nella contemplazione di quel capo d'arte,
agghiacciò tutta, la curiosa fanciulla, nel sentir ad un punto aprire
in fretta l'uscio dello studio che dava nel cortile. Di certo era Guido
che rientrava. Dalla scala a chiocciola che conduceva al quartiere,
Maria era troppo lontana per potervi correre senza essere veduta....

L'uscio era lì lì per girare sui cardini e dar passo a chi veniva.
Piuttosto che essere colta in quel luogo, ella avrebbe dato non so
che. Non sapeva cosa fare. Corse al paravento ed ebbe appunto tempo di
mettervisi dietro, palpitante, che Guido entrava accompagnato da un suo
collega.


XII.

Mentre Guido richiudeva l'uscio d'ingresso, il compagno s'inoltrava
nello studio e i suoi occhi cadevano di subito sulla creta in cui era
modellata l'immagine di Maria.

“Ah!” esclamò, “finalmente ho la ventura di contemplare il tuo
misterioso lavoro.”

Ma non aveva ancora finito, che Guido, volgendosi e vedendo scoperta
la statua, aveva mandato un'esclamazione di stupore e di dispetto,
s'era slanciato sul panno che era in terra, poi salito di balzo sullo
sgabello, in meno che non si dice, aveva ricoperta così bene l'opera
sua che non si poteva più scorger nulla.

“Per Dio! Vorrei un po' sapere chi è stato qui mentr'ero fuori ed ha
avuto l'audacia di levar via questo panno.”

E l'amico un poco punto da questo procedere di Guido:

“Sai che ti si può chiamare un originale senza farti torto:” diceva.
“Tu tieni nascosto quel tuo lavoro più che non farebbe un Turco geloso
della donna dell'amor suo.”

“Il paragone è più giusto di quel che credi:” si lasciò scappar detto
Guido.

“Buono!” soggiunse ridendo quell'altro. “È dunque la statua della tua
bella? Ora capisco!... Si dice che non hai voluto nemmeno una _modella_
perchè occhio profano non la mirasse.”

“È vero.”

“Cospetto! c'è qualche cosa dei tempi antichi in codesto: un profumo di
medio evo. Tu mi sembri un artista del quattrocento degno di figurare
in un romanzo.”

“Io faccio quel che mi piace:” disse Guido seccamente, come chi
desidera che il discorso si tronchi.

“Fa' un'eccezione per me; lasciami vedere questa che a me parve una
bellissima cosa, e ti giuro che non ne fiaterò con anima viva.”

E fece un passo verso la statua, come per volerne alzare la tela.

Guido se gli pose risoluto dinanzi.

“No,” disse. “Per nessuna cosa al mondo consentirò che altr'occhio
veda i tratti di questa mia opera prediletta. Guarda! Piuttosto, se non
potessi altrimenti difenderla, la infrangerei, te lo giuro!”

“Come Rolla nel dramma _Un capolavoro sconosciuto_;” disse l'amico
ridendo.

Ma Guido lo guardò in un certo modo da non incoraggiare la sua ilarità.

“Senti!” disse in tono burbero e secco, “tu sei venuto per prenderti
que' certi disegni.”

Aprì una larga cartella e li trasse fuori.

“Eccoli qui; pigliali e Dio t'accompagni.”

“Diavolo! Tu mi metti alla porta in un modo punto gentile.”

E Guido, con voce e tono più miti e benevoli:

“Lasciami, te ne prego: ho bisogno di lavorare, e più d'esser solo....
Compatiscimi. Io, vedi, sono in una strana fase della mia vita. Non mi
riconosco più io stesso. Ah! tu non sai che cosa sia un vero amore alla
nostra età, per un'anima d'artista!”

E come vide che quell'altro voleva parlare, soggiunse vivacemente:

“Ah! non domandarmi nulla, non dir nulla. Soffro, e m'arrabbio;... e
m'è caro soffrire. Giudicami pure un pazzo: lo sono; ma abbi tu buon
senno e la generosità di non darmi nè consigli, nè conforti, nè di
farmi interrogazioni a cui non risponderò.... Addio.”

Quell'altro uscì stringendosi nelle spalle, dopo avere stretta la mano
all'amico con pietosa sollecitudine.

Quando Guido si credette solo, serrò a chiave l'uscio dietro l'amico
partitosi, andò lentamente alla statua, e la scoprì con un certo
rispetto. Poi le si pose dinanzi e stette a contemplarla, rapito, con
tanta passione nello sguardo che era una tenerezza il vederlo.

Durante il colloquio dei due artisti, il cuore di Maria aveva con
profonda emozione palpitato. Diverse e le più nuove sensazioni si
contendevano il suo animo. Temeva d'essere scoperta colà ad ogni
momento. Che avrebbe detto, che avrebbe fatto, se mai la trovassero lì
appiattata? Dio che vergogna! Quale confusione!

Frattanto le parole di Guido, che rivelavano tanto amore, la
conturbavano tutta e con una soddisfazione, di cui non avrebbe
immaginata l'uguale mai. Trovò lento a partirsi quell'importuno che
era venuto con Guido; e poi, quando colui fu uscito, ed ella si seppe
sola con lo scultore, una specie di paura, un malessere la invase, che
le fece desiderare qualcheduno sopraggiungesse. A questa inquietudine,
della quale non sapeva, nè cercava pure di darsi una ragione, ella
attribuì il rapido battito del suo cuore, fattosi così forte che fu
costretta a porvi su una mano, come per frenarlo. Mai non aveva provate
così acute emozioni; se ne stupiva, e un intimo senso, di cui non era
padrona, glie le faceva trovare, nella loro violenza, dolcissime.

“Ah! ancor io ho un cuore!” si disse ad un punto premendosi più forte
il petto con ambe le mani.

A traverso una commettitura del paravento, ella poteva scorgere per
intiero quello che succedesse nello studio, e l'occhio suo, più vivido
e animato dell'ordinario, vi lanciava uno sguardo di cupida curiosità.

Guido, le mani giunte, stava in muta adorazione innanzi al simulacro
di lei. Le chiome scure, gettate all'indietro, lasciavano scorgere
in tutta la sua bellezza, la vasta e intelligente di lui fronte. Gli
sguardi lampeggiavano; le labbra semichiuse in una specie di sorriso,
che avreste detto estatico, lasciavano passare grave quasi affannoso
il respiro. Nella sua figura, nel suo aspetto, nel suo contegno, egli
aveva forza insieme e grazia, l'imponenza della virilità congiunta a
tutta la tenerezza della passione.

Maria lo mirava con involontario, inavvertito commovimento. Il Guido di
quell'istante, essa non lo aveva visto mai. Le pareva una rivelazione.

Lo scultore sollevò le mani ancora serrate verso la statua, come si
fa da un devoto, pregando, e parlò con voce sì dolce, che la fanciulla
nascosta se la sentì penetrare nel cuore.

“Che occhio umano t'abbia da vedere fuori che il mio, o diletta,
no, no, non lo voglio. Tu sei mia — e solamente mia, tu creta da me
plasmata sull'immagine di quell'angelo adorato, — tu mi appartieni, e
ti possiedo senza contrasto, ignoratamente, e tutta!... Neppur essa mi
ti può togliere; neppure la sua ostile freddezza può contenderti a me.
Io t'ho formata, più che colle mani, coll'anima mia; tu sei la visione
della mia fantasia fatta realtà; tu sei la parte migliore del mio cuore
estrinsecata.... T'amo sai, t'amo; e a te lo posso dire, e in te non
vi ha come in lei cipiglio severo che mi gela sul labbro le parole, e
innanzi a te ho coraggio di tutta effondere la passione che m'arde.”

Salì sullo sgabello e vi si acconciò mezzo inginocchiato, mezzo seduto
innanzi alla statua.

“Oh sorridimi, diletta mia!... Oh guardami Maria!... Abbi tu almeno
pietà di me.... Non sai? Ella è più insensibile del marmo in cui vo'
tradurre le tue sembianze, ella ha sotto le sue carni meno cuore di
quello che abbia tu nel tuo corpo di creta; ella che nulla vide mai del
mio turbamento al suo cospetto, che nulla sentì mai di questa febbre
d'amore che m'arde per lei!... Sorridimi, sorridimi.... Ah no! non è
questo ancora il sorriso che ti vidi ne' miei sogni.”

Si drizzò di scatto e fu per portar la mano sul volto della statua; ma
si trattenne.

“No, no.... ch'io più non ti tocchi.... Non può più oltre l'arte
mia.... e desiderio d'uomo, per quanto intenso, non può compire
miracoli.”

Scese dallo sgabello e si pose a passeggiare per la stanza, la fronte
china. A Maria s'accrebbe l'ansia. Dopo un istante, Guido tornò a
fermarsi innanzi alla statua.

“E dire che a lei non oserò mai parlare come parlo a te! ch'ella
ignorerà forse per sempre ciò che accade in quest'anima!... Se lo
sapesse, s'io le svelassi la mia fiamma, chi sa ch'ella non avesse da
esserne commossa! Se le dicessi come tutto l'esser mio anela verso
di lei; come e dì e notte, e veglie e sonno, e cuore e cervello, e
pensiero e sensi, tutto in me è pieno di lei, della sua immagine, d'uno
spasimante desiderio, d'un incessante delirio per essa! Come ogni suo
atto è per me una seduzione, come il vederla è una necessità della
mia vita, come degl'impeti di passione m'assalgono nel contemplarne la
bellezza da gettarmi in terra a baciar l'orma dei piedi suoi!...

“Oh destare quell'anima assopita in tanta avvenenza di forme,
suscitarne la potenza d'amore, farla palpitare sotto il mio amplesso
e fruirne i primi, i celesti, i casti trasporti, e fare sbocciare
dalla fanciulla la donna, fare scoppiare dalla superba indifferenza
il palpito espansivo, il voluttuoso abbandono dell'amore! Sarebbe il
paradiso sulla terra. Darei per possederlo il mio sangue, tutta la vita
che mi rimane....

“Tu non sospetti nemmeno, o Maria, che cuor d'uomo possa accogliere
e sopportare tali tremendi spasimi, che sono inesplicabili e potenti
come la morte, che sono un nulla e che contengono l'universo. T'amo con
tutta la potenza dell'anima. T'amo, come non ho amato mai, neppure il
tanto seducente fantasma della gloria. Per me, e gloria e felicità e
amore e tutto si comprende in un tuo sorriso.... T'amo, e tu sei più
insensibile che questa fredda creta, e tu frapponi fra il mio cuore e
il tuo una barriera di ghiaccio.... Oh quanto mi fai soffrire, tu non
lo sai!”

Cadde in ginocchio innanzi all'opera sua, e un singhiozzo gli ruppe dal
petto.

“E non ho speranza! Quella tua indifferente venustà mi sembra sì
alta, sì olimpica, che mai, mai non potrò giungere sino ad essa....
Questo sorriso ch'io t'ho dato e che qui, solitario, vagheggio è una
menzogna con cui m'illudo, lo so bene: tu, Maria, mai non mi amerai,
come mai non potrà intendere le mie parole e sentire la mia passione
questa grossolana materia in cui ho informato la tua immagine.... Ah!
s'io fossi Prometeo e potessi rapire al fuoco del cielo una scintilla,
onde animare, non fosse che per un istante, quest'opera mia! Potess'io
coll'intensità del mio desiderio compire il miracolo di Pigmalione
e dar vita un'ora soltanto alla mia Galatea.... un'ora d'amore, di
delirio, e poi morire!”

Si strinse con ambe le mani la testa, come chi sente la ragione
sfuggirgli, e chinò il volto a terra tutto disfatto, e piangendo
inconsciamente silenziose lagrime.

A un tratto udì vicino a sè un fruscio di vesti, un passo leggero, un
lieve respiro affannoso. Il sangue gli si rimescolò, e in sussulto egli
levò il capo e drizzò la persona. Il suo desiderio si era effettuato;
il miracolo agognato si era compiuto. In Galatea era entrata l'anima:
innanzi a lui stava Maria, la sua statua in carne viva, arrossita,
sorridente, le labbra tremanti, una divina fiamma d'amore negli occhi.


XIII.

Guido mandò un'esclamazione dal profondo dell'anima in un commovimento
che non si può spiegare a parole; e senza aver forza di far pure
un atto, rimase lì, tremando, a contemplare con occhi innamorati
quell'apparizione, come si contemplano da un ascetico le celesti
visioni che abbellano i suoi mistici delirii.

Maria, animata da una nuova vita che splendeva ne' suoi sguardi,
nel suo sorriso, nel rossore delle sue guance, come fiamma accesa
entro purissimo alabastro, scossa pur finalmente dal tocco di quella
scintilla che lo scultore aveva con tanta intensità di desiderio
invocata dal cielo, mossa da una nuova, incognita forza che le
padroneggiava e spirito e volontà e cuore; Maria s'accostò all'amante
tutto rapito, e con carissimo abbandono curvatasi su di lui,
inginocchiato come stava tuttavia, depose un lieve bacio sull'ampia
fronte che ardeva.

Per lui fu come se a quel punto gli si spalancassero le porte del
paradiso. Sentì una dolcezza ineffabile scorrergli per tutte le vene e
far capo con acuto diletto al cuore, una nebbia gli passò innanzi agli
occhi; gli parve che sotto quella suprema delizia il suo essere avesse
a disfarsi ed egli fosse per dolcissimamente morire.

“Maria! Maria!” balbettò con voce soffocata, senza poter aggiunger
altro.

E la fanciulla che in quel nuovissimo tumulto dell'anima non
riconosceva più sè stessa e quasi era inconscia de' fatti suoi e
parlava ed agiva come sotto un influsso superiore a cui non potesse
resistere; la fanciulla, ripetendo quel bacio soave, pronunziava
con voce sommessa, che carezzava le orecchie di Guido come una dolce
melodia portata sull'ali d'una tepente aura d'aprile:

“T'amo, Guido, sì t'amo, ancor io!”

Per un istante l'artista non credette a sè stesso; dal suo petto
ansante, dalle sue labbra tremule non potè uscire che un grido, ma un
supremo grido di gioia; poscia, inginocchiato com'era, afferrò le mani
della fanciulla e con un fremito d'emozione ineffabile, disse:

“Tu mi ami! Oh ripetimi questa magica parola che mi cambia in un
paradiso la miseria della vita! Io ti amo, Maria, sconfinatamente,
santamente, eternamente! come non ho amato mai, come non ho creduto mai
neppure che uomo potesse amare sulla terra....

“Quante volte ho desiderato gettarmi così, come ora sono, ai piedi
tuoi, a quei leggiadri tuoi piedi che sì lievemente ti fanno sorvolar
sulla terra, e dirti che t'amo e morire! Quante volte ho sospirato su
queste tue esili bianche manine appoggiare un istante il mio volto,
premere le mie labbra e lasciar sovr'esse l'ultimo soffio coll'ultimo
bacio!... Amami, o Maria. La felicità è un corrisposto amore. Oh
dimmelo ancora che tu mi ami! Questa tua parola ha traversato la mia
esistenza come un lampo illuminandomi un Eden vagheggiato: deh! non
fare che come un baleno pure passi e si dilegui! Ho bisogno di sentirla
ancora.... e sempre!... Non si può credere così facilmente a tanta
ventura. O cielo! Ma è ella probabile! Ed è per me, proprio per me?
Per questo cuore che qui palpita? Dimmelo, dimmelo ancora.... Io l'ho
meritata questa gioia dopo tutto quel che ho sofferto; io ben lo merito
per l'immenso amore che ti porto.”

“Guido!” mormorò dolcemente Maria, ma con infinita tenerezza
nell'accento.

Ed egli viepiù accalorato da quella voce:

“Nessuno t'amerà mai, nessuno ti può amare come io ti amo. Senti questo
palpito irrefrenabile che mi rompe il petto; lì c'è la passione di
tutta la vita d'un uomo.”

E drizzatosi della persona, si levava verso di lei, spasimando,
anelando, spirando voluttà ed amore dagli occhi. La fanciulla
affascinata, commossa a quell'ardenza che tutta la investiva, a quel
palpito di cuore che sentiva corrispondere al suo, a quel suo palpito
che mai non aveva ancora provato prima; la fanciulla si chinava da
parte sua verso quel capo di sì potente bellezza, raggiante essa pure
nel volto di desiderio e di passione.

Ma ad un tratto ella si riscosse, mandò un grido, respinse l'amante,
si sciolse dalle braccia di lui che l'avevano avvinta. Egli vide a due
passi da sè, quale aveva tentato riprodurla coll'opera della sua mano,
la vergine leggiadra, la luce dell'intelligenza e dell'affetto nello
sguardo, dritta in nobil mossa, cinta di virtuosa dignità, pallida
pallida e colle labbra scolorite che le tremavano.

Le si rivolse colle mani giunte:

“Maria!...”

“Non più!” diss'ella con voce tutta ancora commossa. “Non più una
parola, ti prego.”

Egli sorse e volle avvicinarsele.

“Lasciami,” gridò ella vivamente, “lasciami, ho bisogno d'esser sola.”

E ratta sparì dietro la tenda che pendeva dall'uscio dove faceva capo
la scala del quartiere superiore.

Guido rimase là piantato a guardar quella tenda che era ricaduta
dietro i passi di Maria, come chi guarda il luogo per cui è sparita una
carissima visione, quasi credendo d'aver sognato.

Maria corse a rinchiudersi nella sua cameretta.


XIV.

Maria si sentiva come sbalordita e non vedeva nulla intorno a sè; il
cuore le batteva, le batteva; la fronte le abbruciava: non riconosceva
più sè stessa.

Andò alla finestra con moto macchinale e l'aprì per cercare nell'aria
di fuori un refrigerio all'ardore della sua faccia. Correvano i primi
giorni della primavera. La brezza era di quelle che ti appaion fresche
alla prima impressione, ma pure hanno in sè un tepore, il quale, quasi
latente, s'insinua nelle nostre vene e fa scorrere il sangue più rapido
e lo spinge con tumulto al cervello e al cuore; quell'auretta di aprile
che suscita la vita nelle piante, i canti amorosi negli augelli, il
rinnuovamento in tutta la natura.

Maria la sentì intorno alle sue tempie, codesta auretta, e un lieve
gradito brivido la invase. Essa le ricordava l'anelito appassionato di
Guido che erale passato sulla fronte.

Innanzi aveva la casa in cui abitava quel giovane che l'aveva chiesta
in isposa e che era partito disperato pel rifiuto di lei. Perchè la
vista di quell'infelice non le aveva nulla destato nel cuore? Egli
aveva pure amorosi e supplichevoli e adoratori gli sguardi! Mostrava
pure il suo aspetto quanto sentisse e quanto soffrisse per essa! E
perchè non ne aveva ella provato che assai sterile compassione? Quel
giovane avrebbe saputo, avrebbe potuto dirle quelle calde parole, con
quell'irresistibile accento che l'avevano vinta in bocca di Guido? Oh
no, certo! Niuno al mondo le sembrava potesse parlare come Guido le
aveva parlato poc'anzi.... Ed ecco penetrare nel suo pensiero con cara
violenza l'immagine dello scultore tutto fuoco nello sguardo, tutto
passione nell'accento.

Ella strinse le mani, e con involontario prorompere esclamò:

“Com'era bello!”

Poi subito arrossì e si vergognò di sè medesima e un altro pensiero le
occupò la mente.

“Oh amare e non essere amati: dev'essere un gran tormento!”

E il suo sguardo ricadde più pietoso sulle finestre chiuse
dell'appartamento di prospetto.

Successe allora una confusione nel suo cervello, dal quale parve
fuggisse ogni pensiero; sembrò che l'intorpidimento di prima volesse
riprendere possesso dell'anima e dell'intelligenza di lei.

Nella strada andava, veniva, si agitava la folla dei passeggeri.
Poco lontano, dalla parte opposta della strada, era un giardino al
di sopra del cui muro sorgevano le cime degli alberi nelle quali
cominciava a sorridere il gaio verzigno di qualche fronda. Su quei
rami scossi dalla brezza d'aprile, saltellavano, si rincorrevano,
cinguettavano, esultavano lieti della vita e dell'ora del tempo in
un allegro pispiglio, i passeri linguacciuti e petulanti. Da quel
giardino, commisto a quel tepore primaverile dell'auretta, veniva sino
alla fronte, alle guancie, alle nari, alle labbra di Maria il profumo
dell'erbe e dei fiori novelli. Il cinguettío degli uccelletti, il
ronzío della folla nella strada, il fruscío dell'aura negli alberi,
tutto s'univa con un'armonia segreta e indefinibile che la fanciulla
non comprendeva, ma assorbiva, per così dire, con inesplicabile voglia
e desio.

A un punto giunse alle orecchie di lei la voce fresca d'una donna che
cantava un'affettuosa canzone. Maria sollevò il capo a guardare in alto
donde scendevano le allegre note.

Era ad una finestra del quarto piano. Una giovinetta, forse dell'età
medesima di Maria, vi stava lavorando. L'atteggiamento n'era
graziosissimo ed avvenente. Sul volto, chinato al lavoro, vedevasi
la floridezza della salute e della gioventù e l'ilarità d'un cuor
contento. La canzone ch'ella veniva cantando era d'amore.

A un tratto la cantatrice s'interruppe mandando un piccol grido e
volgendo bruscamente la testa verso l'interno della stanza, come se
qualcheduno vi fosse entrato allor allora. Un vivo rossore si diffuse
sulle sue guancie e il lavoro le cadde di mano. Tosto comparì alla
finestra accanto a lei la maschia figura d'un giovane operaio. Si
pigliarono le mani e se le strinsero: si guardavano come se intorno a
loro non esistesse il mondo; si sorridevano, si parlavano vivamente a
voce sommessa.

Maria era tutta turbata. Levò lo sguardo al cielo; le parve più bello
che mai l'azzurro del sereno; il sole che splendeva allegramente le
tornò come un sorriso di felicità dell'intera natura: tutto il mondo le
apparve sotto un nuovo aspetto.

“Sono amata!” mormorò con infinita dolcezza, quasi compiacendosi della
dilettosa armonia che sentiva riposta in queste parole. “Sono amata!”

Le venne in mente d'improvviso tutto il suo passato.

Si vide bambina ancora al villaggio natìo; vide la figura della nonna
che la guardava con occhio amoroso; vide le coste erbose della sua
montagna, dove godeva sdraiarsi all'ombra delle roccie muscose, mentre
intorno le pascolavano le capre. Si ricordò delle ore che passava colà
immobile, guardando l'acqua del torrente che scorreva, ascoltando la
gran voce della natura, cui non capiva.

Era meditazione, era pensiero quel suo allora? No; era un sopore, era
un intorpidimento. Ora ella era bene la medesima di quel tempo, ma pure
quanto diversa!...

Più tardi, per le amorevoli cure della buona cugina, erasi desto
dapprima il suo intelletto; aveva capito ed appreso; ma il cuore
aveva continuato a sonnecchiare; fino a quel dì non aveva pur sentito,
fuorchè leggermente, il bisogno d'una nuova vita, non aveva creduto
mai, nè pur pensato, che potrebbe amare.

E tanto più amar Guido!

Ella si ricordò la prima impressione che in lei aveva fatto quel gran
cugino sconosciuto, che le era capitato al villaggio in una giornata
così infausta della sua vita. La ne aveva avuto paura dapprima, poi per
lungo tempo soggezione. Rammentò quella specie di disdegno che Guido
aveva provato in seguito per essa, quando s'era stancato nell'opera
di istruirla; e si ricordò come, anche allora, essa ne avesse sentito
vergogna e dispetto, che aveva accuratamente nascosti. Le tornavano in
mente quegli istanti in cui, per un impulso segreto che non aveva mai
cercato di spiegarsi, sin da giovanissima ella rimaneva sovraccolta
ad ammirare la bellezza e l'espressione dei lineamenti di Anna, e
nel mirarli provava un'intima dolcezza, e si disse ciò che non si
era detto mai: chè quella era pure la bellezza di Guido, tanta era la
rassomiglianza fra madre e figliuolo! Poscia riandava l'epoca in cui
Guido era partito, e tutti le tornavano a mente, parola per parola, i
colloqui in cui Anna aveva esaltato il suo figliuolo con tanto calore,
e si stupiva, come ora, non avendoci pensato più, pure le ritornassero
così presenti alla memoria.

Guido poscia era ritornato. Ella rammentò la meraviglia e l'ammirazione
con cui egli l'aveva rivista, e sorrise a quel sovvenire. Le tornarono
alla mente tutte le occasioni per cui tratto tratto s'era venuto
manifestando il nascosto amore di Guido, e s'accorse che senza volerlo
li aveva notati e raccolti; a un punto esclamò, attonita, commossa,
quasi lieta e atterrita ad un tempo:

“Ma, mio Dio! io l'ho sempre dunque amato, senza volerlo, senza
saperlo?... L'amore per lui era in me nascosto, inavvertito, e ora la
sua parola fu la scintilla che lo ha suscitato.... Oh sì l'amo e ne
sono amata.... Saremo felici.”

Cadde seduta, le mani, colle dita intrecciate, abbandonate sulle
ginocchia, un sorriso di beatitudine sulle labbra, lo sguardo fiso
innanzi a sè, come a contemplare una visione celeste. Innanzi alla sua
fantasia, difatti, si svolgeva intessuta di seta, trapunta delle più
splendide gemme, ricamata d'oro dall'amore, la tela del loro avvenire.

Guido, da parte sua, era rimasto là in mezzo al suo studio, dritto,
smemorato, guardando la porta per cui erasi partita Maria, non potendo
credere a sè stesso, domandandosi se quello era un sogno, temendo esser
vittima d'una troppo gradita illusione.

“Ella era qui” esclamava, “era qui Maria! E io sentii il suo cuore
battere sul mio, il suo alito sulle mie guancie, e la sua voce dirmi
che mi ama... O cielo! è possibile?”

Passò anch'egli un'ora di dolci e sublimi meditazioni d'amore, poscia
salì palpitando la scala a chiocciola, ansioso, determinato di trovar
Maria a ogni patto. Aveva assoluto bisogno di rivederla aveva bisogno
che essa gli riconfermasse la felicità fattagli apparire.

Maria lo udì avvicinarsi e gli mosse incontro serena, un po' pallida
per l'emozione, sorridente come la statua da lui plasmata. Porse con
atto solenne la destra allo scultore e gli disse con grave accento:

“Avevo mestieri di raccogliermi e di pensare. Non ad un subito
turbamento e ad un improvviso delirio volevo dovere il nostro destino,
ma alla convinzione d'un vero affetto. Ora sono tua per sempre. Vieni,
andiamo a gettarci ai piedi di tua madre.”

Anna li vide entrare nella sua stanza, tenendosi per mano, come due
sposi che camminano verso l'altare.

Quando tutto le ebbero narrato, la madre di Guido allargò le braccia e
ambedue li strinse al cuore con affetto veramente materno.


Guido ha ridotta in marmo la statua di Maria ma l'ha rivestita d'un
lungo paludamento. Ora questa stupenda opera dell'amore, nella sua
marmorea bellezza, sta, come un idolo nel santuario, nello studio
dell'artista, e quando alcuno meravigliato a tanta venustà, ne
interroga lo scultore; egli risponde con un caro orgoglio:

— Questa è la statua della donna che amo..... la quale ora è mia
moglie. —


                                 FINE.



INDICE.


  AL LETTORE                     Pag.   v

  Il cane del cieco                     1
  Un genio sconosciuto                 69
  Galatea                             185



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Tre racconti - Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home