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Title: Spiritismo?
Author: Capuana, Luigi
Language: Italian
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                             LUIGI CAPUANA


                              SPIRITISMO?


      _There are more things in heaven and earth, Horatio,_
        _Than are dreamt of in your philosophy._

                               SHAKESPEARE, _Hamlet_, I. 5.



                                CATANIA
                       NICCOLÒ GIANNOTTA, EDITORE
                        _Via Lincoln, 271-273._
                                 1884.



            Diritto di riproduzione o traduzione riservato.



SPIRITISMO?



A SALVATORE FARINA.


Abbiamo tante e tante volte ragionato insieme di _Spiritismo_, tu da
credente, con molte riserbe e cautele, attirato più dal misticismo
della dottrina spiritica che dal meraviglioso delle _communicazioni_
o delle _apparizioni_, io da curioso, da dilettante che ha tentato e
provato e non ha perduto la voglia di ritentare e riprovare; ne abbiamo
ragionato insieme tante volte, che ora ti dovrà parere naturalissimo
il vederti indirizzata in pubblico una lettera colla quale si vuol
sottoporre al giudizio delle persone competenti alcuni fatti e alcune
ipotesi meritevoli, mi pare, di considerazione e spiegazione.

Non è poi male che il pubblico sappia come si possa essere di
differentissime opinioni letterarie e combattere in due campi opposti,
senza che per tal caso venga meno e la vicendevole stima per le opere
dell'ingegno e il mutuo affetto per le persone. È un bel pezzo che noi
ci vogliamo bene; ed oggi son lieto di confermartelo in faccia a questo
magnifico sole che inonda, mentre scrivo, le mitologiche campagne di
Mineo.

Voltando un po' la testa veggo stesa laggiù la vasta pianura e, intorno
intorno, le colline che Diodoro disse _luoghi degni della maestà
degli Dei_; e veggo riluccicare come uno specchio il piccolo lago dei
Palici, figli di Giove e di Talia, dove fu un tempo la _placabilis ara_
cantata da Virgilio, da Ovidio, da Claudiano. La campagna comincia a
rivestirsi del verde-smeraldo dei seminati; i mandorli fioriti spandono
ad ogni leggiero soffio di vento una nevicata di petali dai rami nudi
di foglie; e, al tepore primaverile diffuso per l'aria fulgidissima,
i passeri celebrano sul tetto di casa mia i loro primi amori,
assordandomi coll'interminabile cinguettìo.

Quando la natura è così bella e così allegra, si prova un gran bisogno
di dar qualche sfogo agli affetti gentili, ai sentimenti elevati; e
questa volta io voglio soddisfarlo col rivolgermi a Te nell'imprendere
a ragionare di un problema psicologico letterario che mi frulla in
testa da più di un anno.

Nel giugno del 1882 scrissi sul _Fanfulla della domenica_ le seguenti
righe:

«La _Revue politique et littéraire_ ha un articolo del signor Léo
Quesnel intorno alcune pubblicazioni spiritiche inglesi dell'anno
presente.

Mentre in Francia si crede che lo spiritismo sia morto e sepolto, in
Inghilterra, in America ed anche in Germania vien fatta una quantità
così straordinaria di pubblicazioni, in volumi, in opuscoli e in opere
periodiche riguardanti lo spiritismo, da provare anco ai meno corrivi
che dev'esserci un estesissimo numero di compratori e di lettori, se
c'è non solamente chi le scrive, ma chi trova il suo tornaconto nel
farsene editore.

«Lo scritto del Quesnel è concepito dal punto di vista francese, cioè
scettico. C'è tre sorta di spiritisti, egli dice: i ciarlatani, gli
ammalati, gli sciocchi. Gli ammalati possono suddividersi in molte
classi che interessano ugualmente il medico e il pensatore. In questo
caso, dove termina la ragione e comincia la pazzia? Dove termina lo
spiritualismo e comincia lo spiritismo? C'è fra quei due stati della
intelligenza umana, c'è fra queste due dottrine un vero limite di
divisione?

«La signora Giorgiana Houghton, della quale il Quesnel esamina tre
opere — _Serate spiritiche_, prima e seconda serie, _Cronache della
fotografia spiritica_ — è un'ammalata. Gracile, sensibilissima,
di una fede esaltata, di una pietà estrema, essa era disposta, per
temperamento, alle allucinazioni dello spiritismo. Infatti, appena
iniziata, diventò un _medium_ dei più valenti. La sua specialità fu il
dipingere frutta e fiori sotto l'impulso delle anime dei morti. Quelle
frutta e quei fiori simboleggiavano queste. Un entusiasta la chiamò un
giorno: la _sacra simbolista_; e da allora in poi tutti gli adepti non
la chiamarono altrimenti.

«La signora Houghton non si arrestò qui. La _dualità di coscienza_,
prima, l'_elevazione materiale_ poi sono tra i fenomeni più rari
ch'essa abbia provati. La ingenuità del suo racconto è meravigliosa:
«Io non dimenticherò mai la dolorosa sensazione morale da me provata
un giorno, una sensazione molto simile a quella prodotta dalla vista
d'un dolore che non possiamo alleviare. Dopo seppi che in quella
stessa ora la regina aveva visitato il luogo dove nacque il principe
Alberto, e _che era stato il principe che avea sofferto in me_.» — «A
cotesta epoca io potevo fare lunghissime corse senza che i miei piedi
toccassero terra. Avevo l'aria di camminare come tutti gli altri,
ma restava sempre qualche distanza tra il terreno e la suola delle
mie scarpe. Qualche volta questo mi accadeva senza che io lo avessi
chiesto: qualche altra, lo chiedevo e mi veniva sempre accordato».

«Tutto questo può classarsi tra i fenomeni ordinari del sistema nervoso
ammalato.

«Le _Confessioni di un medium_ ci trasportano fra i ciarlatani
spiritici. L'autore di queste rivelazioni che non mette il suo nome
sul frontispizio del libro, dice di chiamarsi Parker. Spiritista
convinto ed entusiasta, un giorno vien cercato dal celebre _medium_
americano Thomson che nel 1879 percorreva l'Inghilterra. Il Thomson
voleva associarselo come _conferenziere_; egli avrebbe fatto le
_materializzazioni_, come dicono gli spiritisti nel loro linguaggio.

«L'americano ripeteva con grandissima abilità i giuochi di prestigio di
altri pretesi _mediums_, del Goodman, del Morton, dei famosi fratelli
Dawenport; e, da principio, il Parker fu ingannato da lui al pari
di quel pubblico ch'egli, senza saperlo, contribuiva ad ingannare,
aiutando il Thomson in certe piccole malizie _quando gli spiriti erano
lenti_.

«Quello che il Parker racconta della ciurmeria di questo _medium_ è
meravigliosamente buffo. Arrivò perfino a dare ad intendere che _cavava
la maschera_ dagli Spiriti; e si trovarono dei frenologhi, spiritisti
si capisce, che fecero, seriamente, osservazioni scientifiche sulle
protuberanze frontali degli spiriti _Akosa_ e _Lilly_.

«Tutto questo, esclama il Quesnel, accadeva l'anno scorso! E l'anno
scorso appunto, in Inghilterra, negli Stati Uniti, nel Belgio
si assisteva con raccoglimento alle sedute dove gli spiriti si
fotografavano e si modellavano da loro stessi; e si credeva prossimo
il tempo in cui lo spirito si _materializzerebbe_, e la materia non
avrebbe più resistenza, e la morte diventerebbe una stessa cosa con la
vita!

«Però il signor Quesnel ha dimenticato di accennare un fatto
importante, quello cioè che in Inghilterra e in Germania i
fenomeni spiritici han trovato scienziati serî, i quali non hanno
temuto di compromettere la loro fama, sottomettendo quei fenomeni
all'osservazione scientifica positiva, come qualunque altro importante
fenomeno naturale. Il Wallace, per esempio, ha già dichiarato: che,
fatta la parte della patologia e quella del ciarlatanismo, rimane
sempre nello spiritismo una grande quantità di fatti intorno ai quali
la scienza non può ancora pronunziare la sua ultima parola.»

Alcuni giorni dopo ricevetti e pubblicai nello stesso giornale una
bellissima lettera che richiamava specialmente l'attenzione degli
scienziati sopra un genere di fatti non meno notevoli e strani delle
tavole giranti e parlanti e delle apparizioni dei morti.

                                                  «Firenze, 10 luglio

«Quello che scriveva il _Fanfulla della Domenica_ nel suo numero 26 a
proposito delle pubblicazioni spiritiche inglesi, ci rimette in mente
le grasse risate di cui tutti noi siamo prodighi ai più strampalati
avvisi delle quarte pagine dei giornali. Ne facciamo argomento di
commentarî gustosi, e ci maravigliamo che possano esservi così numerosi
usufruttuarî della dabbenaggine umana: ma intanto le quarte pagine
hanno prosperato e prosperano; a tempo avanzato non sdegniamo di
leggerle, e nessuno di noi potrebbe giurare che una volta almeno in
vita sua la quarta pagina non gli abbia fatto comodo.

«È di moda ridere dello Spiritismo, come delle quarte pagine. Ridiamone
pure; il riso fa buon sangue. Arrivi o no la scienza positiva a
rintracciare la causa di fenomeni così oscuri, sta in fatto che una
spiegazione plausibile non ci fu data finora. Si esaltino dunque i
fanatici nella contemplazione del soprannaturale, e si divertano gli
scettici a fabbricare lepide farse sulle supposte manifestazioni.
Ma si raccolgano i fatti frattanto, fatti che dieno ragione a questi
o a quelli: si studii il problema; si metta a nudo la ciarlataneria
tutta quanta; e si vegga finalmente se una parte di vero c'è in questa
fantasmagoria di nuovo genere.

«Gli egregi redattori del _Fanfulla della Domenica_ conoscono la
persona che scrive queste linee: nessuno di loro può metterne in dubbio
la onorabilità e la serietà; e se cotesta persona ricusa di apporre
qui la sua firma, come è pronta a farlo in argomenti d'altra natura,
egli è perchè la condizione sociale sua gl'impone dei vincoli e dei
doveri, e perchè in buon punto essa si ricorda della celebre massima
del Manzoni a proposito degli autori: «il buon senso ci era, ma se ne
stava nascosto per paura del senso comune».

«Gl'illustri scienziati d'Inghilterra e di Germania a cui accennava il
_Fanfulla della Domenica_, hanno studiato il problema dello Spiritismo
nella parte che è forse la meno importante, in quella ad ogni modo che
più facilmente si presta alle birichinate dei ciurmatori; vogliamo dire
la parte dei fenomeni fisici: tavole che si sollevano e scricchiolano,
strumenti musicali che suonano, luci misteriose che appaiono a
rompere le tenebre d'una sala popolata di adepti. In molti casi la
ciarlataneria fu scoperta, in molti altri no. Gli spiritisti dicono che
le ciurmerie messe a nudo nulla provano contro la verità della nuova
religione, contro la sincerità delle manifestazioni spiritiche per
davvero. E gli scettici rispondono che il non scoprire la furfanteria
dei _mediums_ prova tutt'al più l'abilità sopraffina di chi esercita
il gioco, e la balordaggine dei supposti scienziati. E così in
tale vertenza, come in tutte le vertenze di questo mondo, chiusa la
discussione, ognuno rimane nell'opinione propria.

«Ma v'è una parte di cotesti fenomeni che la scienza non ha cercato
ancora di approfondire; una parte che non dovrebbe sfuggire all'occhio
indagatore di chi osserva spassionatamente: ed è quella che gli
spiritisti chiamano _fenomeni viventi_: campo aperto, come quell'altro,
alle frodi o grossolane e superficiali, o fini e sapientemente
architettate, ma campo pure di studio diligente, di esame accurato,
quando non manchi la prova che nessun inganno è possibile.

«Chi detta queste linee può affermare sul suo onore d'uomo onesto
che non fu vittima d'alcun inganno, nelle manifestazioni scriventi
di cui vuol dare qui un breve cenno. Chi scriveva in sua presenza,
sotto l'impulso d'una forza misteriosa, d'un processo patologico o
fisiologico, o di un'intelligenza estranea che non si sa per quali
cause s'innesta e si confonde all'intelligenza di lui, chi scriveva e
chi scrive (chè trattasi sempre d'una stessa persona) è un giovanetto
fra i quindici e i sedici anni, piuttosto inchinevole agli esercizi
del corpo che alle agilità della mente; piuttosto desideroso di
divertimenti, di gite all'aria aperta, di guidare un cavallo, di
stancarsi sul trapezio nel giardino di casa sua, che voglioso di
scrivere, anche a istigazione dei maestri, componimenti in italiano
o in francese, le sole lingue ch'ei sappia e non benissimo; e così
poco propenso, così poco entusiasta di Spiritismo, da meravigliarsi
ingenuamente delle meraviglie altrui, quando la mano sua inconsapevole
scrive frasi, periodi, discorsi che appaiono, a chi è del mestiere, di
squisita ed elegante fattura.

«Ed è qui che noi domandiamo: come può spiegare la scienza questo
fenomeno che lei chiama fisiologico, quando è addirittura remosso
il più piccolo sospetto di malafede? Che cosa succede nella mente
d'un ragazzo, di cui l'ingegno non ha dato mai prove che superino
l'ordinaria mediocrità, che cosa succede, dicevamo, quale processo
misterioso in quella mente si svolge, quali nuove e inaspettate
attitudini improvvisamente vi brillano, perchè egli possa, mentre
con la mano sinistra accosta e remuove dalle labbra una sigaretta,
mentre discorre di cose quasi puerili con chi gli è vicino, mentre
sbadiglia di noia per la gran seccatura di dover tenere quel lapis in
mano e dover seguitare l'impulso che riceve nel braccio, perchè egli
possa, ripetiamo, scrivere terzine e quartine che paiono cesellate,
sonetti ricchi di tutta la grazia d'un trecentista quando è un poeta
trencentista il supposto spirito che si manifesta? Quale potenza
mirabile acquista a un tratto il suo stile di scolaretto svogliato,
perchè in un momento la sua prosa, che racconta, puta caso, un
sollevamento di plebe ai tempi della repubblica fiorentina, acquisti
un nerbo, una vigorìa, un colorito tali, che ricordano la lingua e lo
stile d'un Dino Compagni o d'un Villani? E si noti: le più eloquenti
e le più straordinarie manifestazioni sono la precisa risposta, in
elettissime forme di verso o di prosa, a domande verbali che noi
formulavamo; sono tali qualche volta che gli uomini più illustri
dell'antica e della moderna letteratura non sdegnerebbero di firmare.

«Ebbene, tutto questo che cosa significa? Come si spiega? Come dobbiamo
rendercene conto?

«Supponete di non aver mai perduto di vista un ragazzo, neppure un
giorno solo dacchè è nato: supponete d'essere stato coltivatore della
sua mente, educatore del suo animo: supponete che una convivenza di
tutti i giorni dia a voi la misura esatta di quella intelligenza e
di quel carattere; e a più forte ragione dovrete supporre che quel
ragazzo, non uscito mai dalla vostra custodia, deve essere nella
impossibilità materiale d'imparare di nascosto, senza l'aiuto di
persone e di libri, o una lingua morta, o un'arte che ha il suo
fondamento sopra un dato tecnicismo.

«Bene: se questo è, noi domandiamo alla scienza che spieghi questi
altri fenomeni: lunghe frasi elegantissime scritte in latino: motti
greci nell'antichissimo idioma omerico: elaborate frasi politiche in
lingua inglese; e sopra un foglio di musica, improvvisamente messo
da noi sulla tavola senza prevenirne alcuno, scritte col lapis varie
battute d'un preludio religioso, soavissimo d'ispirazione melodica.

«A tutti questi fenomeni abbiamo assistito noi, senza l'apparato di
riunioni spiritiche, senza preparazioni teatrali, meravigliati di
tanta semplicità ingenua nel così detto _medium_, e di risultati così
straordinari; insistendo sempre col giovanetto ignaro perchè per altri
dieci o venti minuti seguitasse l'impulso della sua mano. E quella mano
andava; e molte volte nomi illustri succedevano ad altri nomi famosi,
e le idee e lo stile variavano secondo l'indole dei personaggi: da
una lingua si passava ad un'altra: da una frase di Ferruccio si andava
a un saporito epigramma di Béranger in versi francesi, applicabile a
taluna delle persone presenti; e da un'arguzia garbata si trasvolava
a qualche mistica descrizione degli splendori che illuminano di
riflessi siderei la seconda vita. Ridiamone pure: ma la scienza che
fa? Perchè non studia? Lasci pure in disparte le tavole che girano,
rida anche dell'alfabeto battuto dal piede d'un piccolo trespolo, metta
in canzonatura i colpi nelle pareti e nel soffitto e la violazione
delle leggi dell'equilibrio; ma studii con calma e con imparzialità il
sincero fenomeno di questo improvviso arricchirsi d'una intelligenza,
a certi dati momenti, di facoltà straordinarie, che si sa positivamente
essere a lei abitualmente estranee.»

Da questa lettera e da uno scritto del Prof. Cesare Lombroso, che per
debito d'imparzialità pubblicai nel numero 43 del citato giornale, fui
rimesso sulla pesta di esperimenti ed osservazioni di cui ero rimasto
colpito parecchi anni addietro.

                                   *
                                  * *

È innegabile: alcuni fatti paiono oltrepassare di gran lunga i
limiti dell'umana natura. Le fantasie molto vivaci vedono, con essi,
spalancarsi dinanzi gl'infiniti spazî del meraviglioso, e vi si perdono
e godono di perdervisi. Le menti fredde e osservatrici, massime
se libere da preconcetti, indagano, studiano, tentano di darsi una
ragionevole spiegazione.

In questo caso, i non scienziati hanno un vantaggio: non sono dominati
dall'interesse di difendere ad ogni costo teoriche in voga, non
son vinti dalla paura di vedersi crollare sotto gli occhi edifizi
scientifici penosamente costruiti; ed è ben noto come i pregiudizi
degli scienziati siano sempre stati più tenaci e più pericolosi dei
pregiudizi popolari.

Quando si pensa che, appena un secolo fa, a chi parlava di _pietre
cadute dal cielo_, il Lavoisier rispondeva in nome dell'Accademia
francese delle Scienze: _nel cielo non vi sono pietre, e perciò non
ne possono cadere_, e poi leggonsi i recentissimi studi intorno agli
aereoliti e agli asteroidi; quando si pensa che, appena un secolo
fa, i fenomeni del magnetismo, ipnotismo o sonnambulismo provocato
che vogliasi dire, trovarono nella stessa Accademia e in uomini
come il Franklin, il Bailly, il Darcet, una sistematica avversione
a riconoscerne la realtà, e poi leggonsi i lavori pubblicati da
cinque anni a questa parte, in Germania, in Francia, in Italia[1],
che studiano quei fenomeni coi più severi metodi moderni, si prova
un'invincibile diffidenza contro certi sdegnosi responsi di quella che
meritamente vien chiamata la _scienza ufficiale_.

I fenomeni spiritici trovansi tuttavia, per la gran maggioranza degli
scienziati, nello stadio primitivo delle famose _pietre cadute dal
cielo_.

Certamente, con tanti e più immediati problemi di chimica, di
fisica, di fisiologia, di storia naturale, di psicologia positiva,
che resistono ad ogni insistente indagine e infirmano le deduzioni,
imbrogliano le classificazioni e rendono travagliatissimo il lavoro
della scienza contemporanea, quest'inatteso problema, diciamo così, del
_mondo invisibile_ che già picchia forte all'uscio dei laboratorii,
gridando: son qui anch'io! riesce, bisogna convenirne, un pochino
seccante.

Meno male però se gli scienziati si contentassero soltanto di lasciarlo
dietro l'uscio, come un importuno! Invece, essi aprono la finestra,
gli buttano in viso la loro stizzosa e quasi fanciullesca negazione
e richiudono, sbatacchiando, l'imposta; come se questo bastasse a
levarselo per sempre d'intorno.

Oh, i fatti sono cocciuti!

Ti ricordi le savie parole dell'Husson a proposito del magnetismo
animale? _Je vous dis_, egli protestava, nel 1837, dinanzi ai
suoi colleghi dell'Accademia di Medicina, _je vous dis que vous
ne pouvez pas plus vous constituer juges du magnetisme que de
toute autre question scientifique, parce que vos jugements sont
eux-mêmes justiciables du progrès des sciences, et que votre jugement
d'aujourd'hui peut être réformé demain_.

Non son passati neppur cinquant'anni, e il progresso della scienza gli
ha dato ragione.

Ecco ora il Wallace, il Crookes, il D'Assier che, coi loro scritti
intorno ai fenomeni spiritici, protestano come l'Husson, mettono in
mora i loro colleghi di scienza, dando pei primi l'esempio di applicare
a quei fenomeni le difficili inquisizioni, le dure prove e riprove del
metodo positivo. I loro colleghi, veramente, non mostrano ancora di
darsene per intesi; ma aspettiamo, per dir molto, un cinquant'anni; chi
vivrà vedrà.

Durante questo periodo di bizza o di esitazione degli uomini della
scienza, è ben lecito a noi altri osservatori dilettanti l'intervenire
nella discussione senza meritar la taccia di presuntuosi.

Lo so: la nostra curiosità è un po' bracona. Noi prestiamo facilmente
attenzione quando gli scienziati non si degnano di voltar la testa;
noi ci appassioniamo dietro alcuni fatti, osservando con piena buona
fede, e non sempre senza le opportune cautele, quando gli scienziati,
per una ragione o per un'altra, preferiscono di chiudere gli occhi
e di tapparsi gli orecchi. Ma spesso il caso, che è cattivo perchè
irragionevole, ci favorisce largamente, facendoci inciampare in
fenomeni degni di non passare inosservati; e allora la nostra mezza
ignoranza ci permette delle arditezze che lo scienziato evita con cura.
Le nostre ipotesi, ordinariamente, hanno poco o punto valore; però non
è raro che dal lavorio disordinato della mente d'un dilettante baleni
un'intuizione divinatrice da far qualche comodo al vero scienziato
quand'egli avrà la pazienza di vagliare quella bizzarra farragine di
osservazioni, quando non parrà sconveniente alla sua serietà il prestar
benigno orecchio a impressioni alquanto vaghe ma vivaci, a ragionamenti
forse sbagliati ma non campati del tutto in aria, perchè oggi anche i
dilettanti sentono, volere o non volere, l'influsso del metodo positivo
e si sforzano, alla loro maniera e secondo le scarse forze, di metterlo
in pratica.

Sei anni fa, in campagna, mi divertivo a far raccolta di bruchi. Quelle
meravigliose trasformazioni in crisalidi e in farfalle, tante volte
lette nei libri, tentavano la mia curiosità e cercavo di appagarla
osservandole direttamente. Capisci bene che non facevo scelta; non
era il caso. I bruchi del cavolo, quelli dell'ortica, quelli più rari
di altre piante servivano indifferentemente al mio niente scientifico
scopo; e le magnifiche _Vanesse_ dalle ali di un nero porporino, orlate
di giallo d'oro, gli splendidi _Papilii Macaoni_ gialli e neri, dalle
ali cosparse di polvere azzurrognola e prolungate come due piccole
code, le gentili _Cedronelle_ sentimentalmente pallidine che agitavano
sotto i miei occhi le ali ancora molli dell'umore vitale della
loro crisalide, mi producevano sorpresa e diletto quanto le volgari
_Cavolaie_ che tutti, nella nostra fanciullezza, abbiamo spietatamente
rincorse per le siepi degli orti e pei campi.

Ebbene; sai che cosa mi accadde?

Mi accadde di osservare che, tra dieci, dodici bruchi del cavolo
messi insieme sotto una campana di cristallo, uno o due, prima di
rinchiudersi nella loro crisalide, figliavano, dal centro inferiore
del corpo, poco più d'una dozzina di piccolissimi bruchi verdognoli
che subito intessevano, in gruppo, dei bozzoletti gialli, come quelli
del baco da seta, di forma ovale allungata, non più grossi dell'ottava
parte di un chicco di grano. Mi attendevo una covata di minuscole
farfalline; e, invece, dopo un quindici giorni di ansiosa aspettazione,
vidi sbucar fuori dei moscerini neri, dal corpo allungato, dalle ali
sottilissime, dalle zampine più svelte di quelle di una mosca, che
non avevano nessun rapporto coi bruchi da cui erano stati figliati,
nè colle bianche farfalle uscite poi dalle crisalidi formate da quei
bruchi immediatamente dopo il parto.

I libri di entomologia che avevo con me non facevano nessun cenno di un
così strano particolare: ed esso non mi pareva meno meraviglioso delle
trasformazioni dei bruchi in crisalidi e in farfalle. Anzi! Sorpreso di
quel silenzio, replicai l'esperienza tre volte di seguito. Il resultato
fu sempre lo stesso; tra dieci, dodici bruchi, uno o due figliarono la
solita dozzina di piccolissimi bruchi verdognoli che si costruivano lì
per lì i loro microscopici bozzoletti.

Soltanto due anni fa, in Roma, il prof. Michele Lessona, a cui
communicavo il fatto, mi fece capire che probabilmente l'osservazione
era nuova, tanto che ne volle la descrizione e i disegni per farne una
_nota_ scientifica.

Si tratta di una specialità del bruco del cavolo? Di un vero parto? O
di uova depositate da altri insetti tra l'epidermide di quel bruco che
quindi serve da incubatrice?

La curiosità del dilettante attende, con rispetto, com'è suo dovere,
l'osservazione completa del naturalista.

Ti ho raccontato questo fatto per confessarti che io mi sono occupato,
a riprese, di Magnetismo e di Spiritismo allo stesso modo che ho
sperimentato in campagna con quei bruchi e quelle farfalle.

Leggendo i libri del Tommasi, del Guidi, dello Charpignon e di parecchi
altri, mi domandavo:

— Ma che cosa può esserci di vero in questi straordinarii fenomeni
magnetici? Proviamo un pò.

E provavo.

Leggendo i volumi dell'Allan-Kardec, del Wiessèke, del Cahagnet, del
Deleuze e del Caroli che crede all'azione del diavolo, mi domandavo
parimente:

— Ma che cosa può esserci di vero in questi meravigliosi fenomeni
spiritici? Proviamo un po'.

E provavo.

Te lo ripeto: nel provare noi altri dilettanti godiamo del beneficio
della nostra condizione; non compromettiamo nulla, neppure il nostro
amor proprio. Metti, puta caso, uno di noi faccia a faccia con un
fatto (nota, dico: fatto) che smentisse la _legge della gravitazione
universale_. Siccome siamo perfino incapaci di valutare le conseguenze
del gran rovinìo che accadrebbe nei calcoli e nelle deduzioni della
scienza se venisse a mancarle sotto i piedi questo solido e sicuro
terreno, così noi non avremmo nessuna difficoltà di accettare il fatto,
ben constatato, s'intende, e lasceremmo gli scienziati a sbrogliarsela
tra loro e la Natura. Senti intanto che cosa dice uno di essi, anzi
due.

«Questi fenomeni (quelli del Home) sono così straordinarii e così
completamente opposti ad ogni più ferma credenza scientifica — tra le
altre, all'universale e invariabile azione della forza di gravità —
che anche al presente, ripensando i particolari di tutto quello che
ho visto coi miei occhi, sorge un antagonismo nel mio spirito tra la
mia ragione, la quale me ne afferma la impossibilità scientifica, e la
testimonianza dei miei due sensi della vista e del tatto (testimonianza
corroborata dai sensi di tutte le persone lì presenti insieme con
me) i quali affermano di non mentire attestando contro le mie idee
preconcette.»

Al Crookes, di cui sono le parole citate, un amico, un gran scienziato
egli dice, scriveva: «Qualunque sia la mia fede nella vostra potenza
di osservazione e nella vostra perfetta sincerità, io provo un gran
bisogno di vedere da me, e mi è penoso il pensare che esigerei molte
prove. Dico: _penoso_, perchè capisco che non c'è altro mezzo di
convincere un uomo all'infuori del fatto ripetutamente osservato:
soltanto allora l'impressione diventa un'abitudine dello spirito,
una vecchia conoscenza, insomma una cosa saputa da gran tempo, da
non poterne dubitare. Questo è uno dei lati più curiosi dello spirito
umano, e negli uomini di scienza mi par più sviluppato che negli altri.
Perciò non si deve facilmente tacciar di mala fede un uomo che resista
all'evidenza. Per abbattere il vecchio muro delle credenze occorrono
dei colpi replicati.»[2]

V'è anche un'altra ragione per cui noi dilettanti tentiamo certe prove
senza nessuna esitazione. Non siamo spinti solamente dalla smania
della verità; l'immaginazione entra per qualche cosa, per molto, nelle
nostre disordinate escursioni a traverso l'ignoto. Infatti spesso
cominciamo dal tentare l'assurdo. Io, per esempio, prima di provarmi
col magnetismo, non avevo cercato di mettere in pratica i segreti
dell'alta magia?

Non ridere. Contavo appena sedici anni. Dopo di aver letto che
il Goethe si perdette per mesi e mesi, con la mistica signorina
Klettemberg, dietro la ricerca della _terra vergine_, sprofondandosi
nello studio delle opere del Paracelso, dell'_Aurea Catena Homeri_,
dell'_Opus mago-cabalisticum_ del Walling, non ho più vergogna di
confessarlo. E i miei esperimenti furono assai meno felici di quelli
del gran poeta tedesco; non giunsi ad ottener nulla da mettere in
riscontro col suo arseniato di potassa o col suo _liquor silicum_.

Nel 1855 un amico di collegio venne a communicarmi, con segretezza, la
copia d'un manoscritto che diceva ritrovato da un ramaio nel buttar giù
la facciata della sua piccola casa. Chi avea murato quel manoscritto
nel fianco di una finestra? Da quanto tempo si trovava lì? Nessuno ne
sapeva nulla. Il mio amico però pretendeva di sapere con certezza che
il ramaio, provandosi a deciferare quei ghirigori sbiaditi dall'umido,
era stato atterrito dall'apparizione di _legioni di spiriti_ che
gli gridavano, _comanda_! Vinta la prima impressione, egli avea poi
largamente approfittato del sovrumano potere capitatogli in mano. Aveva
violato delle ragazze, rapito delle belle mogli, commesso non so quante
altre ribalderie, ed era sempre sfuggito, per virtù dei _suoi spiriti_,
alle attive ricerche della polizia e a quelle, più temibili, della
vendetta degli offesi.

La copia del mio amico non conteneva la parte dov'erano le terribili
evocazioni; nè tutti e due avremmo allora avuto il coraggio di
avventurarci a tale lettura. Però volevamo apprendere senza fatica
tutte le lingue morte e viventi? Volevamo indurre alle nostre voglie
tre delle più belle ragazze del mondo? Bastava eseguire per l'appunto
le formole dal manoscritto indicate.

Per le lingue occorrevano troppe cose, e nessuno di noi due era in caso
di procurarsele. Dovemmo quindi rimettere i nostri tentativi a tempi
migliori, quando ci sarebbe stato facile il comprare le indispensabili
placche di _oro purissimo_ da incidervi sopra i segni cabalistici e i
motti arcani capaci di produrre quell'effetto.

Fu per questo che io rivolsi la mia attenzione alle belle ragazze. E
per tre giorni e tre notti consecutive recitai, con fede, la lunga
preghiera: _Adonai, Pater omnipotens sempiterne Deus_.... (questo
principio mi è rimasto fitto nella memoria); e in quei tre giorni
evitai di far entrare altre persone nella mia stanza da studio che
spazzai da me stesso, con una granata nuova. Nella sera del terzo
giorno, preparata, tutto trepidante, la piccola tavola prescritta
(con tre salviette, tre vassoi, tre bicchieri non usati e tre panini
freschi) aperta l'imposta del terrazzino, senza neppur chiudere le
cortine che servivano a separare la mia cameretta da letto dalla
attigua stanza da studio, mi cacciai frettolosamente sotto le coperte
e stetti ad aspettare.

Il fruscìo delle vesti delle tre belle tardava a farsi sentire per la
stanza silenziosa, in quell'alta notte di inverno. Un leggiero soffio
di vento agitava le cortine di mussola raccolte ai due lati e veniva a
gelarmi la faccia; ma io continuavo ad aspettare, cogli occhi aperti,
colle orecchie tese, col respiro un po' accelerato.

Quando all'orologio della chiesa vicina scoccarono i paurosi tocchi
della mezzanotte e le argentine ondulazioni di quelle campane vibrarono
più sonore per la stanza, non impedite, come le altre volte, dai
cristalli chiusi e dagli scuri, fu (te l'assicuro) un momento solenne.
Poi passò un quarto d'ora, passò una mezz'ora, passò un'ora... Nulla!
La stanchezza ed il sonno finalmente mi vinsero; e, questo, così
profondo che l'attività inconscia della mente ne rimase sopraffatta
da non potermi apprestare nemmeno la magra consolazione di godere,
sognando, la magica realtà che avevo invocato.

La trista realtà te la figuri facilmente. Avendo dormito tutta una
lunga e fredda nottata invernale col terrazzino spalancato, la mattina
dopo mi trovavo addosso un'infreddatura indiavolata e tossivo peggio
di un cane col cimurro. Fortunatamente la disperazione di dovermi
soffiare, cento volte il giorno, quel povero naso intasato mi fece
perdere, e per sempre, ogni velleità di gran mago.

Non credere che nei miei tentativi, meno fantastici, meno impossibili,
del magnetismo e dello spiritismo, l'immaginazione fosse intieramente
messa da parte; no. Correvo dietro l'ignoto più pel gusto di corrergli
dietro, che per un chiaro e definito intendimento scientifico
qualunque.

Le prove e le riprove questa volta venivano fatte un po' più
riflessivamente, ma l'immaginazione vi cercava, innanzi tutto, il
suo pascolo: la sorpresa del nuovo, del meraviglioso naturale. E se
la cresciuta intelligenza osservava, comparava e, in qualche modo,
debolmente, induceva, alla fine, imbarazzata, lasciava lì i resultati
ottenuti, i materiali raccolti e non riusciva a farne alcun uso.

Ci son voluti di begli anni prima che mi balzasse in mente l'idea
di una coordinazione di quei fatti con altri fatti di diversa
natura, prima che dal loro insieme sgusciasse fuori, come una grande
interrogazione, il problema psicologico-letterario di cui voglio
parlarti.

Ora, il miglior modo di esporre un problema mi sembra quello di mettere
sotto gli occhi altrui tutto il suo naturale processo di formazione.
I nostri ragionamenti più astratti poggiano, non foss'altro che colla
punta d'un piede, sulla granitica roccia dell'esperienza dei sensi. E
non saltan di lancio in vetta, a respirarvi l'aria sottilissima e non
confacente a tutti i polmoni, dei concetti generali; bensì montano
lentamente, gradatamente, guadagnando con sforzo la rapida salita,
seguendo tutte le sinuosità dei sentieri, fermandosi di quando in
quando, cercando il passaggio più facile, tentando le scorciatoie,
qualche volta tornando indietro quando la strada, presa per isbaglio,
non ha sbocco e li arresterebbe a mezza costa, sull'orlo vertiginoso
di un precipizio senza fondo. I fatti riprodotti col loro ordine
di successione pongono il lettore nella circostanza di poter rifare
un lavoro di osservazione e di astrazione molto simile a quello già
eseguito da chi li espone; gli mettono in mano il bandolo per strigare,
in una maniera o in un'altra, quella stessa matassa; e, se i resultati
si riscontrano in un'identica conchiusione, tanto meglio per tutti
e due e per la verità; se, al contrario, spuntano verso direzioni
opposte, tanto peggio per lo scrittore o pel lettore, ma sempre tanto
meglio per la verità.

In ogni caso, bisogna che il lettore sia assolutamente garantito
intorno alla realtà dei fatti che gli vengono sottoposti. Io, come il
capo delle assise, giuro _sul mio onore e sulla mia coscienza_, che in
tutto quello che son per raccontare non ho aggiunto nessuna frangia,
neanco una virgola di mio. E giuro tanto più facilmente, quanto più son
sicuro di non essere stato vittima di nessuna allucinazione, di nessuna
soperchieria. Nel maggior numero dei casi, tra me e il fatto osservato
non ci entrava intermediario di sorta. Ero io stesso che sperimentavo
sopra una persona affatto ignara di quello che mi proponevo e volevo
ottenere. La ripetizione, a sazietà, di un dato fenomeno mi rende certo
di non aver osservato male, di non esser caduto in preda di illusioni
ottiche, o di allucinazioni di esaltato. Sarebbe stata bella che io
mi fossi bambinescamente compiaciuto d'ingannare me stesso, mentre
tentando un esperimento, cercavo di persuadermi della sua possibilità,
secondo avevo letto sui libri.

I documenti che non provengono dalla mia personale esperienza, posso
garantirli egualmente come esenti di frode; alcuni perchè, nati sotto
i miei occhi, fanno parte integrante delle mie ricerche e dei miei
tentativi; altri perchè provenienti da persona ben conosciuta e della
cui lealtà e buona fede non è possibile dubitare.

E qui ti confesso, caro Farina, che mi par di far un bell'atto di
coraggio mettendomi a raccontar fatti e a presentar documenti contro
i quali so, anticipatamente, di dover trovare armata la diffidenza,
la preoccupazione e, lasciamelo dire, la prosuntuosa ignoranza di
gran parte del pubblico. Ma se fra mille che mi canzoneranno, se fra
altri mille che non vorranno prestarmi fede, incontrassi una persona
ragionevole e competente la quale, anzi che permettersi di sorridere
e di dubitare, prendesse in mano il manipolo dei fatti da me raccolto
e lo gettasse, insieme colle mie induzioni e colle mie ipotesi, nel
crogiuolo dell'analisi positiva, io mi terrei ricompensato, e con
usura, del mio ardire imprudente.

Nè credere che il mio amor proprio di osservatore abbia a sentirsi un
pochino mortificato nel caso, possibilissimo, che le mie induzioni e le
mie ipotesi risultino, dopo un serio esame, insussistenti ed assurde;
t'inganneresti di molto. Le ipotesi, le induzioni io le do per quel
che valgono, per prodotti di un curioso, di un osservatore dilettante,
è come dire di un mezzo ignorante. Pei fatti, pei fatti soltanto, son
pronto a stender la mano sul fuoco e a lasciarvela bruciare.

                                   *
                                  * *

Se dovessi ricominciare i miei esperimenti di sonnambulismo provocato,
non sarei oggi così imprudente come nell'estate del 1864 in Firenze.
Ma allora non avevo nessuna idea del delicatissimo e terribile
strumento col quale mi baloccavo, intendo dire il sistema nervoso di
quella ragazza sui diciotto anni, non bella, d'un bruno pallido, di
costituzione linfatico nervosa che così gentilmente si prestava a tutti
i miei capricci di dilettante.

Bisogna però riconoscere che la tentazione era assai forte.

Entrata in sonnambulismo con qualche difficoltà, dopo nove sedute
consecutive, non mai durate meno di un'ora e mezzo, la Beppina
P.... avea mostrato quasi subito facoltà di sonnambula talmente
eccezionali, talmente docili e sottomesse alle più strane pretese di
uno sperimentatore senza scrupoli perchè ignaro dei danni ove poteva
inciampare, che il resistere agli allettamenti di quella rarissima
occasione sarebbe stato, da parte mia, uno sforzo proprio miracoloso.

A chi mi avesse detto in quel tempo che io, magnetizzando, provocavo
una crisi quasi identica alla _gran nevrosi_ dell'isterismo, come è
già stato recentemente verificato dalla scienza, avrei risposto, senza
dubbio, con una scrollata di spalle. Ora capisco che devesi alla solida
costituzione di quella ragazza se i miei esperimenti, cominciati un
po' per chiasso, un po' da senno, non ebbero — mi vengono i brividi nel
pensarci — un funestissimo resultato.

Figurati che, nientemeno! io mi divertivo colle _allucinazioni_ come
con dei giuochi di prestigio. Non sospettavo neppure che, a forza
di condurre quell'organismo all'estremo limite dell'allucinazione
provocata, lo mettevo a repentaglio di cadere, forse irrimediabilmente,
nella vera pazzia.

Tu sai che basta dire ad una sonnambula: ecco un serpente! ecco un
leone! eccoti trasformata in passerotto! eccoti diventata una vecchia!
perchè quella provi realmente il ribrezzo della vista del serpente, il
terrore della presenza del leone, perchè perda la coscienza della sua
personalità e si creda un uccellino, perchè si atteggi e pensi e parli
come una persona molto acciaccata dagli anni.

Il Richet[3], fra i tanti casi da lui stesso sperimentati, racconta
quello d'un suo amico al quale disse: eccoti diventato un pappagallo!
Il sonnambulo esitò un momento e poi domandò, seriamente: debbo anche
mangiare la canapuccia della _mia_ gabbia? (pag. 248).

Non meno curioso è il caso di quella donna che, credendosi già
trasformata in coniglio, come il Richet le avea detto, si buttò per
terra a quattro piedi, facendo atto di rosicchiare alla guisa dei
conigli, saltando sulle gambe di dietro. Aveva poi fatto un salto
brusco. Ritornata nello stato normale, lo spiegava così: mi pareva di
mangiare un cavolo saporito quanto un tartuffo; ma intesi rumore e,
credendo che venisse un cane, dalla paura, scappai via per andare a
nascondermi nella _mia_ tana (pag. 249).

Vista la padronanza quasi assoluta esercitata dalla volontà del
magnetizzatore sull'organismo della sonnambula, non mi sorprendeva che
le cose da me immaginate prendessero nella mente della Beppina forma,
colorito, solidità, e le apparissero proprio come reali. Quel corpo
non diventava, sotto la mia influenza, una specie di automa? Non lo
facevo correre, arrestare, piegare, atteggiare in tutti i versi, prima
con quei movimenti delle mani, di alto in basso, che i magnetizzatori
han chiamato _passaggi_, poi col semplice comando di una parola un po'
energicamente pronunciata e, finalmente, colla forza, più inesplicabile
ma non meno efficace, della volontà _solamente pensata_? Perciò le
esperienze di questo genere, dopo che le ebbi ripetutamente provate,
non mi parvero più tali da farne un gran caso.

Allora mi passò pel capo l'idea di vedere se l'allucinazione, così
facilmente ottenuta durante il sonnambulismo, poteva egualmente venir
riprodotta, o almeno prolungata, nello stato di veglia.

Il Richet (torno a citarlo perchè la testimonianza di un vero
scienziato è un preziosissimo aiuto per un dilettante) parla di una
certa V... nella quale provocava, appena destatala dal sonno magnetico,
allucinazioni o per lo meno illusioni che duravano circa dieci minuti.
Le diceva: ecco un cane! ed essa credeva di vedere il cane. «Intanto i
suoi occhi erano aperti, la sua intelligenza aveva ripreso le apparenze
normali, e nulla indicava che ella risentisse ancora gli effetti del
sonnambulismo. Su questo punto, egli aggiunge, come su tant'altri c'è
da fare molte esperienze, molti saggi, utili o infruttuosi non importa.
Ad ogni passo fatto in avanti, ci si rizzano dinanzi problemi assai più
complicati e di più difficile soluzione.» (pag. 203).

Pare che le mie esperienze siano state, senza volerlo, uno di questi
passi in avanti.

Un giorno dissi alla Beppina: dorma! ed essa restò, al solito, come
fulminata, nell'atteggiamento in cui si trovava. Immediatamente fissai
la mia attenzione sulla persona (suo fratello) che intendevo di farle
vedere trasformata in un mostro umano dal naso enorme, dalla gobba più
enorme; e perchè la mia immaginazione operasse più intensamente, feci
attorno il corpo del fratello quei _passaggi_ che avrei dovuto fare
sulla testa di lei.

Non le dissi: vedrà suo fratello trasformato in un mostro, ma la
svegliai (un soffio alla faccia bastava) colla fermissima volontà
ch'ella lo vedesse a quel modo.

Lo guardava, sorpresa, incerta se dovesse credere ai suoi occhi. —
Oh Dio, com'è brutto! esclamava, coprendosi il volto colle mani; ma
tornava a guardarlo. Quella _disgrazia_ di suo fratello la desolava
e, nello stesso tempo, la faceva ridere. — Che naso! Che gobba! — E
_afferrava_ colle due mani quel naso che le pareva dovesse urtarla
quando suo fratello le si accostava; e dava pugni su quella gobba o la
palpava, a distanza, seguendone la curva, come se avesse palpato una
gran gobba davvero.

Così io mi accorsi che l'allucinazione, oltrepassato il senso della
vista, per una specie di consentimento dei nervi, si era comunicata,
senza che io ne avessi avuto l'intenzione, anche al senso del tatto.

Intanto la Beppina cominciava a dubitare: era un'illusione? era una
realtà? E venutole il sospetto che potess'essere un'illusione prodotta
da me, rimase grandemente turbata e mi pregò di fargliela sparire
subito, perchè già sentiva uno _sbalordimento, una strana confusione
nella testa che le faceva paura_.

L'addormentai per svegliarla colla intenzione che non dovesse più
rammentarsi di nulla. E non si rammentò di nulla.

Ritentai la prova il giorno dopo, facendole vedere suo fratello
trasformato in bionda signora dall'abito di _faille_ nero, dalla
mantelletta di velluto e dal cappello di raso dello stesso colore,
guarnito di fiori azzurri. Richiesta, la Beppina me la descriveva
precisamente, come l'avevo immaginata; e, di soppiatto, domandava alla
sua mamma: chi è questa signora? che cosa vuole? Soltanto era un po'
sorpresa di vederla andare attorno, in casa altrui, con troppa libertà
per una sconosciuta; e, veramente, suo fratello non stava lì fermo,
seduto sulla poltrona, come esigeva il personaggio che gli facevo
rappresentare.

Questa volta l'allucinazione s'era estesa anche all'udito. La Beppina
non riconosceva il fratello neppure alla voce; e, interrogata, gli
rispondeva con ritenutezza contegnosa. Una commedia divertentissima.

Convintomi che l'allucinazione non le recava alcun disturbo, volli
cavarmi la curiosità di osservare, abbandonandola a sè stessa, quanto
tempo sarebbe durata. Continuò per più di un'ora e mezzo; indi, a
poco a poco, rallentossi, lasciando scorgere, a traverso la vaporosa
parvenza illusoria, la persona reale, come _dietro un velo di tulle_,
diceva la Beppina: poi, quasi a un tratto, cessò.

Ma allora la Beppina venne subito ripresa dal turbamento, dalla
_confusione_ della prima volta e dovetti riaddormentarla per levarle
via quella strana impressione che la _rendeva balorda_.

Da allora in poi mi lanciai nel mare magno delle allucinazioni con
un piacere fanciullesco; e furono esperimenti senza numero, uno
più bizzarro dell'altro. La mia volontà di magnetizzatore produceva
miracoli, a petto dei quali gl'incantesimi delle fate sarebbero parsi
ridicole inezie. Le stanze trasformavansi in magnifici giardini dagli
immensi viali ombrati, dalle aiuole screziate dei più bei fiori
che occhio umano avesse mai visto; marmoree fontane zampillavano,
iridate al sole, in mezzo alla fresca verzura dei prati; graziosi
animali d'ogni specie, scimmie, pappagalli, colibri, uccellini-mosca,
grosse farfalle azzurre saltellavano, volavano, cantavano attorno
alla Beppina, con suo gran diletto. Quegli uccellini brillanti come
un topazio la intenerivano singolarmente; e, se io le ordinavo di
acchiapparne qualcuno, tosto mi pregava di rendergli la libertà: —
Poverino! Era così bello!

Ricordo di uno scimmiotto ch'ella si divertiva (idealmente) a mandare
in camera di una pigionale vecchia e noiosa, perchè le mettesse ogni
cosa sossopra e la facesse arrabbiare. Ma una volta le parve che lo
scimmiotto, saltato addosso alla vecchia, la graffiasse e la mordesse:
e si mise ad urlare: no! no! tremando tutta, convulsa.

Temetti un accesso nervoso; e, sbadatamente, le dissi che non era vero,
che lo scimmiotto era un'allucinazione....

— Come non era vero?

Portò le mani alla fronte. Non sapeva persuadersi in che modo, desta,
ad occhi aperti, potesse vedere quel che non era.

— Guardi! le dissi, soffiandole forte sulla faccia; non c'è più nulla!

L'allucinazione era sparita; ma la Beppina si premeva tuttavia, colle
due mani, la fronte, pallida, fissando gli sguardi spaventati sopra di
me che le ripetevo, ridendo: è uno scherzo.

— Per carità, disse, non me lo faccia più! Mi sento _strizzare_ il
cervello; mi fa male....

Rimediai alla mia storditaggine col solito mezzo; però quella volta,
benchè, addormentata e svegliata, non si ricordasse più di nulla,
la Beppina rimase fino a sera colla testa un po' offuscata da _una
specie di accapacciatura_; e mi domandò se non l'avessi trattenuta in
sonnambulismo più a lungo del solito. Le risposi di sì, quantunque il
suo vero sonnambulismo fosse durato pochi secondi. Non contavo come
tale quell'allucinazione di un quarto d'ora, perchè i movimenti, gli
atti, i ragionamenti di lei allucinata non porgevano nessun indizio di
uno stato anormale.

L'allucinazione sparita col solo soffio mi fece sospettare che non era
forse indispensabile addormentar la sonnambula per farle subire gli
effetti della _suggestione allucinatoria_, come la chiama benissimo il
Richet. Non sarebbe bastata la volontà, resa più efficace da _passaggi_
fatti in maniera che quella non avesse potuto neanche accorgersi della
mia intenzione?

Concepire la possibilità d'un esperimento e tentarlo era tutt'uno per
me.

La gran caldura mi costringeva a passare in casa quasi l'intiera
giornata, e perciò mi svagavo col magnetismo, prendendo brevi appunti
d'ogni esperimento che tentavo.

Quel giorno stavamo per andare a tavola. Un ritratto di Garibaldi,
appeso alla parete, mi suggerì l'idea di far vedere alla Beppina il
suo babbo trasformato nel Generale dalla camicia rossa, dalla testa
leonina, dalla bella barba bionda. E il contrasto era perfetto. Il
signor P....... aveva certi baffoni appuntati e una barba folta, lunga,
d'un nero un po' brizzolato di bianco che gli dava un'aria truce,
mentre egli, all'opposto, era proprio un cuor d'oro.

La Beppina trovavasi affacciata alla finestra. Affacciatomi accanto a
lei, le feci, senza che se n'accorgesse, alcuni _passaggi_ alla spina
dorsale, e le dissi:

— Vada a vedere chi c'è di là. Sarà a pranzo da noi.

— Ma è Garibaldi!

Era tornata subito addietro, rossa dalla commozione e dalla gioia. E
siccome in quella famiglia tutti idolatravano il Generale, la Beppina
durante il desinare, parlò poco, non sapendo staccar gli occhi da
quel volto immaginario, lietissima che il ritratto posseduto gli
rassomigliasse così bene. Lo credo! Dovea rassomigliargli per forza;
giacchè, nel farle i _passaggi_, m'ero proprio fissato, col pensiero,
su quella brutta litografia, allumacata di minio e di giallo, posta in
cornice nel salotto.

Come tu vedi, gli esperimenti eran già diventati di una semplicità di
esecuzione meravigliosa. Dopo parecchi altri dello stesso genere, li
resi ancora più semplici, sopprimendo addirittura i _passaggi_.

Io non dubbitavo menomamente della realtà del _fluido magnetico_ di cui
mi parlavano i libri; anzi la scoperta, allora recente — del Pacini,
mi pare — di microscopici organi elettromotori nei polpastrelli delle
nostre dita mi spingeva a fantasticare che tra il così detto fluido e
l'elettricità dovesse correrci una ben intima relazione.

Ora so che il Richet, dopo le osservazioni del Burq e dello Charcot,
inclina molto verso questo parere. Con esse è stato dimostrato che
dal contatto di un metallo poco ossidabile con la pelle sviluppansi
debolissime correnti elettriche capaci di modificare rapidamente la
sensibilità di un intiero lato del nostro corpo[4].

Magnetizzatore e magnetizzata li consideravo come due macchine
telegrafiche messe in comunicazione dal filo conduttore. Se questo
apparentemente lì mancava, c'era la volontà che, producendo la
corrente, lo suppliva in qualche modo, come suppliva egualmente
l'azione, assai più importante, del telegrafista. Mi pareva che
— io inducendo la mia corrente (fluidico o elettrica che fosse)
nell'organismo della sonnambula, e questa riproducendo, col sonno,
colla catalessi, coll'anestesia, colle allucinazioni, i dispacci
trasmessile dalla mia volontà, facevamo tutti e due un'operazione quasi
identica a quella delle sopraddette macchine telegrafiche, sebbene con
mezzi alquanto diversi. Mi pareva che i _passaggi_, gli ordini indetti,
a voce, la volontà _soltanto pensata_, fossero gradazioni, più o meno
notevoli, d'una stessa forza o energia che debbasi dire, richieste
dalla progressiva educazione sonnambolica di quell'organismo; e il
sorprendente _crescendo_ di fenomeni osservato nella Beppina recava
una potente conferma a quella mia opinione. Qual meraviglia dunque che
ridotto automatico, insensibile agli eccitamenti dolorosi, insomma
caduto in piena balia della mia volontà dirigente, quell'organismo
ricevesse anche la _sensazione reale_ delle più strampalate immagini
formate appositamente dalla mia fantasìa e le ritenesse come sensazioni
di cose veramente esistenti?

Questa ipotesi, te lo confesso, non mi par cattiva neppur ora. La
scienza al presente, ne sa — nè più, nè meno — quanto noi due; e
le sue varie spiegazioni dei fenomeni del sonnambulismo provocato
non presentano certamente maggior solidità della mia. Quella
dell'Heidenhain[5], per citarne una sola, che considera i _passaggi_
magnetici come un debole eccitamento della sensibilità di contatto e
della sensibilità termica, non potrebbe dare nessuna plausibile ragione
delle esperienze che sto per dirti. Lo scienziato cauto e circospetto
da me più volte citato conchiude che «nelle condizioni attuali della
scienza, quel che si può fare di meglio sia l'ammettere molte cause
diverse, agenti simultaneamente e in concorrenza. L'_attenzione
aspettante_ viene, per esempio, aiutata dalle eccitazioni visuali
ed auditive che, ripetendosi monotonamente, fanno impressione sur un
sistema nervoso predisposto alla loro azione. L'influenza della volontà
avviene forse, per l'effetto dello stato elettrico della mano del
magnetizzatore, modificato dalla commozione che prova e dai movimenti
che fa.

Ma sono, egli conchiude, tutte ipotesi negative; e il confessarlo è già
qualche cosa.»[6].

Allorchè, smessi i _passaggi_, vidi l'allucinazione prodursi colla
stessa evidenza di prima e unicamente per via di pochi soffii sopra
un oggetto o d'una brevissima concentrazione della volontà _sempre
all'insaputa_ della Beppina, io non più credetti soltanto alla
realtà di quella x incognita che poteva essere il fluido magnetico,
l'elettricità o un altro agente ancora senza nome; ma credetti pure
alla possibilità di foggiarlo a piacere, di renderlo percettibile,
come qualunque oggetto materiale, agli occhi supremamente sensibili
della mia magnetizzata, e di ridurlo, per essa, resistente e pesante.
Infatti, se facevo il gesto di porgerle qualche cosa, ed essa vedeva
subito il fiore, il libro, le monete che avevo avuto la intenzione di
farle vedere; e credeva di annusare quel fiore, di metterselo sul seno
o tra i capelli; e credeva di recare quel libro nella mia stanza e di
posarlo sul mio tavolino; e credeva di contar quelle monete e porle
in serbo nella sua borsa. Premendo colla mia mano sulla sua contro un
tavolino o una parete, questa mano vi aderiva così fortemente che il
babbo e il fratello della Beppina tentavano indarno di staccarnela. —
Ahi! ahi! Mi fate male! Mi spezzate il braccio! ella gridava. Ed era
evidente che tutto il suo corpo non faceva nessuno sforzo per tener
quella mano contro il tavolino o la parete; era evidente che la sua
forza di ragazza non sarebbe punto bastata per resistere al suo babbo
e al fratello, tutti e due molto robusti. Facendo alcuni passaggi
sulla soglia di un uscio, potevo, lì per lì, formarvi un ostacolo per
lei insormontabile; ed ella, che ignorava quei _passaggi_ e la mia
intenzione nel farli, accorrendo in fretta dalla stanza dove per caso
si trovava, a un tratto, giunta dinanzi a quell'uscio, si arrestava,
sorpresa di non poter più fare un passo in avanti.

Quest'ultima esperienza, ripetuta un'infinità di volte, circondandola
di tutte le più scrupolose cautele, fu da me rifatta quasi un anno
dopo, nel maggio del 1865, quantunque non l'avessi ritentata da gran
tempo. Uno dei miei fratelli, venuto per le feste dantesche, afferrata
la Beppina solidamente pei polsi, voleva costringerla a varcare
quella soglia incantata. — Dio!... Mi strappa le braccia!... urlava
la Beppina. E mio fratello dovette smettere; e quasi non credeva a sè
stesso.

Oggi questa ipotesi della capacità del fluido magnetico — elettricità
o altro agente ancora senza nome — di esser foggiato a piacere,
reso percettibile, come qualunque oggetto materiale, agli occhi
sensibilissimi della magnetizzata, e ridotto, per essa, resistente e
pesante, mi pare non solo assurda ma inutile affatto. Non basta forse
la estrema sensibilità della sonnambula perchè questi fenomeni così
fuor del comune trovino la loro facile e ragionevole spiegazione e sian
rimessi dentro la cerchia di tutti gli altri fenomeni del sonnambulismo
provocato?

Oramai, per la eccessiva frequenza degli esperimenti, le relazioni tra
magnetizzata e magnetizzatore dovevano esser diventate di tale fulminea
rapidità che la Beppina poteva benissimo sentire istantaneamente
l'_impressione_ del mio pensiero, e provar quindi i soliti effetti
dell'allucinazione provocata, mentre io mi immaginavo, ingenuamente, di
foggiar a piacere e rendere solido e pesante quel _qualcosa_ della cui
natura non avevo, nè ho tutt'ora, nessunissima idea. Nè c'è al mondo
chi l'abbia!

Intanto, a furia di esperimenti ripetuti, variati, intrecciati insieme
con tanta inconsideratezza e tanta prodigalità, avevo siffattamente
sconvolto il sistema nervoso di quella brava ragazza, che una crisi
isterica, o un che di somigliante, doveva ben presto, in un modo o
nell'altro, colpirla. Non aspettai che questa venisse naturalmente, per
diretta conseguenza; ma le andai sbadatamente incontro, le feci ressa;
e quando i fenomeni della gran nevrosi isterica scoppiaron fuori con la
loro terribile violenza, non fui più buono a dominarli.

                                   *
                                  * *

Della vera gran _nevrosi isterica_?

Sarebbe, da parte mia, troppa presunzione lo affermarlo.

Con questi benedetti fenomeni magnetici e spiritici (già siamo sulla
soglia dello Spiritismo) si brancica tuttavia nell'oscurità, passando
di sorpresa in sorpresa. Quando par di essere omai sicuri di aver
afferrato relazioni intimissime tra i fenomeni, per esempio, della
gran nevrosi e quelli del sonnambulismo provocato, ed ecco apparire
differenze non meno certe, non meno notevoli, di grado, d'intensità,
di mezzi, di resultati, che ci fanno ricadere nel buio, togliendo quasi
ogni valore ai confronti, alle deduzioni, alle timide ipotesi foggiate.
Così quando par di essere egualmente sicuri che tra i fenomeni del
sonnambulismo e gli spiritici corrano relazioni di parentela non
meno strette delle altre già osservate fra il sonnambulismo e la
gran nevrosi, ed ecco nuovi fenomeni che ci sbalestrano lontani
mille miglia, e ci strappan fra le mani quell'esile filo da cui ci
aspettavamo di esser guidati per l'intrigatissimo laberinto.

Si tratta, probabilmente, di gradazioni, di sfumature, forse; ma chi
potrebbe dirci in questo momento dove il sonnambulismo finisca e la
gran nevrosi incominci? Dove il sonnambulismo finisca e incominci lo
Spiritismo?

La gran nevrosi isterica sembra prodotta da una lesione organica,
accidentale o ereditaria importa poco; o per lo meno da un
pervertimento di funzioni, spesso irrimediabile, del sistema nervoso.

L'alterazione temporanea, provocata in questo, lentamente, dall'azione
del sonnambulismo, è, nel maggior numero dei casi, proprio innocua,
non lascia traccia neppur nella memoria della persona magnetizzata,
ed ha un carattere fisiologico spiccatissimo. Le belle ricerche del
Baillif[7], intorno al sonnambulismo delle isteriche, son lì per
provarlo. Nelle isteriche il sonnambulismo diventa patologico affatto.

Dai fenomeni magnetici agli spiritici il passaggio vien così agevole
che si avverte appena.

L'allucinazione, ripetutamente provocata, si svolge, a poco a poco
— nei particolari — con una tal quale indipendenza. Qualcosa della
personalità della sonnambula sussiste, resistendo, e, avuta la
spinta verso una direzione qualunque, si mette a lavorare, più o meno
attivamente, secondo le circostanze, per proprio conto. Fino a qual
punto può giungere questa attività interiore che, rimanendo sempre
incosciente, dà quindi alla sonnambula l'illusione, naturalissima, di
un che fuori di lei?

Avevo già notato nella Beppina i sintomi della sua graduale
emancipazione dalla influenza del magnetizzatore. Di quei personaggi,
di quei giardini, di quei viali ombrati, di quelle marmoree fontane
zampillanti, di tutti quei graziosi e vispi animaletti di cui mi
divertivo a circondarla, io tracciavo, per dir così, soltanto le linee
generali, i contorni. La sua immaginazione sovra eccitata sviluppava,
coloriva, animava ogni cosa; come hai dovuto specialmente notare a
proposito di quello scimmiotto che le parve graffiasse e mordesse
la vecchia pigionale noiosa, senza che mi fosse mai passato nulla di
simile per la testa.

Anzi, una volta, questa emancipazione interiore mutossi in una parziale
ribellione del sistema nervoso. Quella sera le palpebre della Beppina
rimasero ermeticamente chiuse e a nulla valsero i ripetuti soffii e
i passaggi, nè i violenti spruzzi d'acqua fresca al viso e gli altri
mezzi da me adoperati per fargliele aprire.

— Non si confonda! ella mi disse, vedendomi un po' turbato dalla novità
del caso. Ci veggo egualmente.

E in prova, lesse, scrisse, benchè gli orli delle sue palpebri fossero
così cuciti fra loro che la pressione delle mie dita non riusciva
menomamente a scostarli; e preparò la tavola per la cena, ridendo
delle mie precauzioni quando volevo impedirle di mettere al posto le
bottiglie e i bicchieri, per paura che, urtando, non li mandasse in
frantumi.

Riaddormentatala, dopo cena, le chiesi con insistenza di suggerirmi un
rimedio per quell'inatteso inconveniente.

— Non è nulla, rispose. Ho dormito magneticamente un po' troppo; ecco.
Riaprirò gli occhi domani.

E così avvenne.

Nel caso che sto per raccontarti questi piccoli accenni di
emancipazione diventan rivolta addirittura.

Poco sapevo allora intorno allo spiritismo, e più per sentito dire che
per cognizioni attinte dai libri. Mi era stato assicurato che col mezzo
del sonno magnetico l'evocazione spiritica riusciva assai facilmente.
Altri ci si era provato, pareva, con buon successo; volevo provarmici
anche io.

La cosa m'interessava per un'altra ragione. Covavo da mesi, una
_Vita di Ugo Foscolo_, il mio idolo letterario giovanile, ed ero
arrabbiatissimo di certe lacune incontrate qua e là, che non trovavo
modo di riempire.

L'Orlandini e il Mayer, interrogati sulla _Calliroe_ posta recentemente
dal Chiarini in piena luce, mi avevano tutti e due risposto che forti
riguardi sociali vietavano ancora di alzare il velo di quest'episodio
foscoliano; e intanto quel po' che se ne intravedeva stuzzicava
straordinariamente la mia curiosità di biografo appassionato.

Dovevo proprio rimanere al buio?

Fu così che mi venne la cattiva idea d'indirizzarmi allo stesso
Foscolo, facendolo evocare dalla Beppina. Era naturale, via! che, dopo
tante meraviglie magnetiche, non dubbitassi più di nulla, di nulla!

La sera del 23 agosto, dunque, fattala entrare a posta in
sonnambulismo, le dissi:

— Potrebbe mettersi in communicazione collo spirito di un uomo morto in
Inghilterra nel 1827?

— Proviamo, rispose. Come si chiamava?

— Ugo Foscolo.

La Beppina, che si trovava distesa sopra un canapè, voltatasi dalla
parte del muro, si era messa a pregare sotto voce. Dopo alcuni minuti,
mandava un grido, spaventata, agitando le braccia:

— Lo spirito è apparso! Ma, visto che non gli dicevo nulla, è andato
subito via.... Che terrore!... Senta come sono diaccia!... Mi metta
addosso una coperta.

Per quella sera ci fermammo lì.

— Ora lo chiamo, disse ella stessa la sera dopo. Tanto, è meglio che mi
abitui.

E si voltò di nuovo verso il muro, ripetendo sottovoce: vieni! vieni!

L'apparizione non si fece troppo aspettare.

La Beppina tremava, però meno assai della prima volta.

— L'amico che è qui desidera conoscere alcune intime particolarità
della tua vita.... Me le dirai?

SPIRITO. Te le dirò. Ma questa sera tu non sei abbastanza forte da
sostenere la mia conversazione. Ci rivedremo domani.

Era la Beppina stessa che rispondeva, con una voce contraffatta,
grossa, di uomo burbero e violento.

— Te ne vuoi andare? gli domandò col tono ordinario.

SPIRITO. Sì.

E la sua voce era tornata grossa, virile: immagina tu con quale effetto!

Ricopiando questi dialoghi dai miei appunti di vent'anni fa, sento
nuovamente suonarmi nell'orecchio quella voce aspra e violenta, e
riveggo la faccia pallida e contratta della sonnambula che metteva
paura a guardarla. Con queste vere intermittenze della personalità di
lei, con questi cambiamenti di voce, la scena diventava potentemente
drammatica e l'illusione era completa!

— Che aspetto ha? le domandai.

— Buono, rispose. Rassomiglia al ritratto che lei ne ha... Ma guardi
com'è scarno!.. Mi fa orrore!

Eppure, per compiacenza verso di me, si rimetteva ogni sera, di buona
voglia, ad evocarlo.

La terza sera, lo Spirito si mostrò alquanto restìo.

La Beppina dovette affaticarsi un dieci minuti a pregare: vieni! vieni!
e, quando esso le apparve, era estremamente spossata.

— Mi dirai dunque le particolarità della tua vita?... Oh, bella!...
Non mi rispondi? O che sei di sasso?... Rispondi! Dio! Come mi fai
affaticare! Rispondi, rispondi!

SPIRITO. Ma perchè da tre sere mi tormenti?

— Io? Forse senza volerlo... Dammi la mano.... Un solo dito?... Pare un
dito di scheletro.

SPIRITO. Perchè mi tormenti?

— No, anzi voglio il tuo bene.

Si sentiva spossata:

— Questo spirito è tanto duro!... Se lei sapesse come ho dovuto
pregarlo!

E volle riposarsi un momentino; ma il suo riposo non fu tranquillo.
Vedeva dei brutti ceffi:

— Li mandi via! Li mandi via!

Con pochi _passaggi_ alla fronte, i brutti ceffi sparirono. Ma ecco, da
lì a poco, altre apparizioni.

— Oh! Oh! Guardi che bei fiori!... Oh quante belle ragazze! Queste sì
che voglio vederle! Eccone una qui vicina. Mi ha dato un gran mazzo di
fiori... Che bel nastro! Lo regalerò alla zia... E tu chi sei che vieni
a visitarmi? Come ti chiami?

Rispondeva ella stessa, contraffacendo la voce, imitando questa volta
una soavissima voce di donna.

SPIRITO. Mi chiamo Zaira. Sono stata commossa dal sentirti pregare così
profondamente per vedere quello spirito duro. Ho pianto.

— Oh, grazie! Ci ho immenso piacere.

ZAIRA. Quello spirito è scortese. Ma, sai? è il suo naturale; fu un
uomo forte. Non farne caso.

— Potresti tu dirmi la sua vita invece di lui?

ZAIRA. No.

— Come sei bella! Quanto mi conforta il vederti!

ZAIRA. Ci rivedremo ogni sera.

— Addio! Dammi un bacio..... È ita.... Sono stanca. Ho parlato tanto!

Riposa appena altri pochi minuti, ed ecco nuove apparizioni (dovrei
dire allucinazioni?) che vengono a sorprenderla e deliziarla.

— Un angiolo! Un angioletto!... Oh, che bellezza! Come va via! Oh,
vieni! vieni! Ecco; scende. Eccolo! Siediti qui, su questo guanciale...
Ma non vede lei che sole di bellezza? Capelli di oro, occhi cerulei...

La lasciai sbizzarrire.

La sera dopo, appena entrata in sonnambulismo, volle subito rivedere la
Zaira e l'angioletto nel quale avea riconosciuto, diceva, uno dei suoi
fratelli morti bambini; e s'intrattenne a lungo con essi, stizzendosi
fortemente allorchè tentavo di svegliarla. Avvenne che, al destarsi,
non potè più aprire gli occhi, come l'altra volta; ma ora non ci
vedeva.

— Vuol sapere perchè? mi disse. Perchè non ho dato un bacio alla Zaira
prima di licenziarla.... Oh, Cristo!... Questa è nuova!

Riaddormentata, baciò la Zaira; e, appena sveglia, aprì gli occhi.

Queste divagazioni, che occuparono la intiera seduta, avevano impedito
per quella sera la evocazione del Foscolo. La sera dopo s'incominciò da
lui.

SPIRITO. Perchè mi tormenti?

— Ma che tormentarti!.... Mi dirai finalmente la tua vita?

SPIRITO. No!

— No? Eppure tu me l'hai promesso!

SPIRITO. Non sosterresti il suono della mia voce. Non vedi come tremi?

— Non importa.

SPIRITO. Soffriresti molto!...

— Non importa.

SPIRITO. Bada! So che hai domandato alla Zaira le notizie della mia
vita....

— No....

SPIRITO. Sì!!!

— Non mi far paura! Non ti sdegnare; ti bacio!

SPIRITO. Se domani sera potrò sbugiardarti!... Ora ti lascio.

— Si allontana lentamente... Com'è sdegnato!

E la quinta sera fu peggio.

— Com'è fosco! disse la Beppina.

Pure tornò a rammentargli la promessa.

SPIRITO (_rabbiosamente_). No! No!

— Dunque vuoi andartene?

SPIRITO. O che mi mandi via?

— Non mi far paura! Sii bono! Sii bono! supplicava la Beppina con un
fil di voce.

Fu una scena straziante, indimenticabile! Mi sento accapponar la pelle
al solo ricordarla scrivendo. La voce della Beppina, quando ella
parlava in nome dello spirito, aveva uno accento feroce; e lei, la
povera ragazza, sfigurita dal terrore, quasi non era più riconoscibile.
I capelli, scioltisi nell'agitarsi di tutto il suo corpo, le cadevano
disordinati sulle spalle e sul petto, e, fra il nero dei capelli, il
suo viso pareva livido, con quelle occhiaie dove sprofondavansi gli
occhi chiusi, sotto le sopracciglia corrugate.

SPIRITO. Alzati! Alzati!

— Dio, come tremo!... Che voce!

SPIRITO. Inginocchiati, così, colle mani giunte! Piangi!

Inginocchiata nel mezzo della stanza, la Beppina singhiozzava, e
grosse lagrime le rigavano il volto. I suoi ed io, attorno a lei, ci
guardavamo, atterriti, nel bianco degli occhi, senza poter dire una
parola.

— Perchè mi fai questi strapazzi? domandava la piangente.

SPIRITO. Perchè sei stata una traditrice! Hai diffidato di me; hai
chiesto alla Zaira le notizie della mia vita... Ti tormenterò!

Pensai d'intervenire:

— Gli dica che sia buono, altrimenti lo mando via!

— Mi ha risposto che non sta più soggetto al magnetizzatore.

Infatti continuò a tormentarla.

SPIRITO. Alzati.... Inginocchiati a piè del letto, no sul tappeto!...
Piangi forte!

— Piango! Piango!

Volevo destarla ad ogni costo.

— Per carità! mi disse: farebbe peggio. Mi lascerà; non abbia timore.

SPIRITO. Verrai meco.

— Ma dove?

SPIRITO. Alla mia tomba; vieni!

— Oh, Dio!

Si avanzò, curva, a lenti passi, con un'indescrivibile espressione di
terrore, sino alla parete opposta; poi tornò indietro, senza voltarsi,
perchè così, diceva, le era stato ordinato.

— È sparito? le domandai.

— È lì che mi guarda.

SPIRITO. Avvicinati.... Unisci le mani!

— Perchè mi leghi?

SPIRITO. Per gastigarti. E ti farò ben altro sai? ben altro!.... Ora
inginocchiati.... piangi.... manda strida!

— Mi sentiranno i pigionali di sopra, Dio mio!

SPIRITO. Non ti sentirà alcuno.

A quei singhiozzi, a quelle strida che strappavano il cuore, mi decisi
a svegliarla per forza, con un gran soffio sul viso. Vedendosi in mezzo
alla stanza, coi capelli sciolti, circondata da tutti noi altri pallidi
e ansiosi, provò sorpresa e paura. Mi pregò di riaddormentarla e di
destarla dolcemente. Non si ricordò più dell'accaduto; e nessuno di noi
ne fece motto.

Ma era scritto che quella notte dovesse, per noi, passare agitatissima.

Si chiacchierava in salotto, e la Beppina, fermata in mezzo all'uscio,
rideva di certe barzellette raccontate da suo fratello.

A un tratto, le vidi fare un movimento d'inquietitudine, poi di
sorpresa... Si sentiva tirare pel vestito, di dietro, insistentemente:

— Oh, Dio! sento qualcuno alle mie spalle!... È uno spirito! Ah!

Lo strano era che parlando, al solito, con quella voce grossa e
minacciosa e ripetendo le stesse parole dette durante il sonnambulismo,
non sapeva più rendersi conto di quel che volessero significare:

— Di quale Zaira, di che vita le ragionava?

SPIRITO. Guarda qui di quale Zaira!

— Sì, ora la riconosco, ora mi rammento!

Questa volta la Beppina era ben desta, e l'apparizione le si
riproduceva dinanzi, come le tante e tante allucinazioni da me
ripetutamente provocate.

Dovette ballare, dovette bere del vino, lei che non ne beveva punto! e
il sapore di esso ora le sembrava di marsala, ora di rosolio, ora di
amarissimo veleno. Dovette distendersi bocconi per terra e picchiare
colla fronte sul pavimento; poi dovette ribere fino a tanto che la
sbornia presa non la lasciò più reggere in piedi.

SPIRITO. Butta a terra il bicchiere e vai a letto!

N'era tempo!

Ma noi la vegliammo, temendo una ripresa di quel fenomeno che ci avea
tenuti tutti in grande angustia; me più di tutti, che lo avevo così
imprudentemente provocato. E fu bene; perchè, dopo un quarto d'ora,
la Beppina cominciò a borbottare qualche cosa che non si capiva. Lo
Spirito (lasciamelo chiamare tuttavia così) era già di ritorno e le
ordinava di levarsi da letto per farle passare l'ubbriacatura. Il mezzo
era semplicissimo: la Beppina dovea correre, appoggiata al mio braccio,
su e giù per le stanze. Riuscì.

Ora ella non provava più nessun terrore; rideva, ci faceva coraggio
e, andando su e giù, continuava a ragionare con _Lui_ che non cessava
di minacciarla: — Oh! l'avrebbe afflitta parecchie sere di seguito,
trascinandola seco per burroni, per ghiacciaie, per foreste, fra
assassini che le avrebbero fatto provare atroci dolori di morte! E poi
la avrebbe spinta in mare, a nuoto, e ve la avrebbe lasciata affogare!
E poi ella doveva cantare, ballare e rappresentare una tragedia, una
commedia... Insomma, non la avrebbe lasciata più! Mai più! Era sua, sua
per sempre!

Il programma fu, punto per punto, inesorabilmente eseguito. Alle nove
precise, lo strazio della povera Beppina ricominciava ogni sera, per
due ore fitte. E di quella mimica con cui ella eseguì il suo smarrirsi
pei burroni, il suo arrampicarsi su per le ghiacciaie e il suo
dibattersi fra gli spasimi dell'agonia, quando le parve di esser ferita
a morte dagli assassini; di quella mimica non è possibile se ne formi
neppure una debole idea chi non ne fu spettatore.

Il prof. Ugo Amico che, insieme coll'ingegnere Andrea Arena di Messina,
la vide quella sera in cui rappresentò tutta l'azione di una tragedia
con efficacia di espressione non mai raggiunta dalla Rachel e dalla
Ristori, pianse, commosso, come forse non avea mai pianto a nessuna
rappresentazione teatrale.

Oramai l'ossessione (la crisi forse sarebbe meglio detta) non contava
più intermittenze. In ogni ora, in ogni momento della giornata, c'era
sempre qualche cosa di nuovo che ci teneva sospesi, in apprensione di
peggio.

Un giorno, a mezzo desinare, lo spettacolo divenne, subitamente,
meraviglioso davvero. La Beppina cadde in una specie di estasi che la
rapiva in alto e la facea tenere così equilibratamente sulla estrema
punta dei piedi, che per un momento dubbitai non stesse proprio
elevata a qualche distanza dal suolo. Il suo volto era trasfigurato. I
lineamenti, irregolari e poco aggradevoli, avevano assunto una bellezza
sorprendente: la carnagione, da bruno-pallida, si era mutata in un
incarnato di portentosa delicatezza.

Questa volta _Egli_ voleva darle il suo anello, voleva sposarla.

— Ma tu sei morto da tanto tempo! gli faceva osservare la Beppina.

— Oh, non voleva dir nulla. Si sarebbero sposati in ispirito.

— No, no! ella balbettava colle mani giunte. Non ne sono degna! Non ne
sono degna!

E, nel godimento di un'ineffabile felicità, prorompeva in esclamazioni
interrotte, da cui non potevasi ben rilevare che cosa lei sentisse e
vedesse durante quel mistico rapimento.

Era sua! Proprio sua! E perciò esigeva da lei anche atti che parevano
d'adorazione; e perciò le suggeriva parole di preghiera, in un
linguaggio inintelligibile e che mi duole grandemente di non aver
subito trascritte.

E voleva che restasse a lungo, da solo a solo, con lui. E la notte, in
sogno, la conduceva via con sè.

Dove? Una volta dentro un sotterraneo, a dormire sopra una cassa da
morto: un'altra volta in una camera nuziale magnificentissima, su
morbidissimo letto. Talchè, la mattina dopo, ella si levava spossata,
precisamente come quando era restata troppo a lungo in sonnambulismo.

Durante gli accessi più forti, ora nell'uno ora nell'altr'occhio
della Beppina, manifestavasi uno strabismo pronunciatissimo; potresti
osservarlo nelle fotografie che trovansi in mia mano, ordinate da _lui_
ed eseguite dal Semplicini.

Sono in quattro pose. In una di esse, i caratteri della nevrosi
isterica appaiono evidenti nello sguardo smarrito, nella fiera
espressione delle labbra, nell'atteggiamento della testa e delle
braccia. Nessun pittore ha mai dipinto un'Ofelia così terribilmente
vera da poter reggere il paragone di questa fotografia della Beppina.

Durante quelle lunghe giornate di estate era un continuo ragionare
sotto voce fra _Lui_ e lei; e se io tentavo di inframmettermi e sapere
di che cosa si trattasse, ero da lei pregato di scostarmi, per non
attirarle addosso eccessi più tristi.

Intanto io mi rinfrancavo, andavo riprendendo la padronanza di me
stesso, e a poco a poco, m'imponevo, di bel nuovo al ribelle organismo
della Beppina.

Sentiva ella la voce di _lui_ che la chiamava dall'altra stanza?

Le facevo dei _passaggi_ agli orecchi; e il fenomeno cessava.

Ricompariva questo sotto una forma diversa, di tiratine alle falde
posteriori del vestito, perchè quella ubbidisse alla chiamata?

Le facevo dei _passaggi_ dove la tiratina era sentita; e il fenomeno
cessava.

Allora fu un combattimento continuo, accanito, senza quartiere, tra
lo Spirito (o l'accesso) che cercava di sopraffarla, e me che la
difendevo, inventando nuovi modi di battagliare per mandarne a vuoto
le astuzie. La circondavo (almeno la mia intenzione era questa) d'una
cinta impenetrabile di fluido, dentro cui ella viveva, muovendosi come
sotto una campana di cristallo che secondasse gli ordini della sua
volontà e la seguisse, dappertutto. Ma se, così, sentivasi ben riparata
dalla malefica influenza di _lui_, non stava per questo tranquilla.
Anzi diventava triste, di giorno in giorno. Si appartava, con una
scusa e con un'altra, da noi; e una volta, dopo molto mio insistere,
confessommi che provava come una vertigine di suicidio, massime
quando trovavasi presso il pozzo, in cucina. Le pareva ch'_egli_ ve
l'attirasse, da lontano. La voleva seco, ad ogni costo!

Una sera, e fu l'ultima, riapparve minacciante, per pochi minuti.

La Beppina, nel sentirlo avvicinare, aggrappavasi, tremante, al mio
braccio, invocando aiuto e difesa. Io aveva già steso intorno lei la
mia solita cinta fluidica, ma _lui_, intanto le _fremeva attorno_,
benchè tenuto discosto. Stavamo lì trepidanti, lei, i suoi ed io: chi
l'avrebbe vinta?

A un tratto...

Senti, caro Farina; io ti racconto l'impressione schiettissima del
fatto, come fu allora provata; non l'analizzo, non la commento; e
mentirei se ti dicessi di esser proprio sicuro che in quel momento non
fossimo, anche noi, sovraeccitati in sommo grado e mezzi colpiti di
allucinazione...

A un tratto, dunque, ecco Aneppe, il piccolo cane nero, che comincia
ad uggiolare sordamente, quasi provasse la sensazione di qualcosa
d'insolito per aria.

— Ha inteso? Si _puole_! disse la Beppina atterrita.

Non avevo inteso nulla. Ma la mamma di lei, sì, giurava di aver inteso
chiaramente quella terribile parola....

Non potè, per fortuna!

La Beppina cadde, mezzo svenuta, sulla poltrona accosto.... E così la
crisi finì!

Cioè, finì colla sua forma acuta, ma colle forme di apparizioni di
ogni sorta — della sua nonna, dei suoi fratelli morti bambini, di
altri personaggi sconosciuti — continuò placidamente ancora un pezzo.
E, per mesi e mesi, la Beppina, entrata appena in letto, veniva subito
presa dal sonnambulismo con tutti i diversi sintomi di anestesia, di
catalessi, di spontanee allucinazioni che i miei _passaggi_ tenevano un
po' in freno e ammansivano gradualmente.

Alla fine, la crisi cessò del tutto, ma nel modo più strano e
inaspettato.

Quella notte, tornando a casa dopo il tocco, trovai il casamento
sossopra. La Beppina era, da quasi tre ore, in preda a terribili
convulsioni, e i pigionali del primo e del terzo piano, destati nel
meglio del sonno e accorsi vestiti a mezzo per la fretta, avevan
dovuto, insieme col babbo e il fratello di lei, stentare non poco per
trattenerla e impedirle di non farsi un qualche malanno. Urlava, si
agitava violentemente, avea la schiuma alla bocca, e dei suoi occhi
stravolti si vedeva il bianco soltanto: faceva proprio paura.

Alcuni _passaggi_ al plesso solare la calmarono a un tratto.

Che cosa avrà creduto di me quella buona gente che non poteva capirne
nulla, tutta stordita dell'accaduto?

Verso le dieci i signori P.... trovavansi in salotto con due amiche,
mamma e figliuola, venute a passar la serata da loro. Nel bel mezzo
della conversazione, ecco dei replicati e forti picchi al muro ov'era
appoggiato il canapè su cui sedevano le due signore.

Il signor P.... si leva da sedere un po' stizzito: quei picchi gli
parevano uno scherzo inopportuno della sua figliuola minore, una
testolina, ed egli andava di là per farle una lavata di capo....
Dietro il muro non c'era nessuno. La ragazza era nella sua camera, a
letto, e dormiva la grossa. Intanto, dopo qualche intervallo, i picchi
ripigliano, ora forti, ora leggieri, ora affrettati, ora lenti. Fermato
in mezzo all'uscio che dal salotto metteva nella stanza attigua, il
signor P.... poteva comodamente sorvegliare l'una e l'altra faccia del
muro, un muro medio, strettissimo.

— Sono i pigionali del terzo piano, pensò.

E, per avvertirli di smettere, picchiò sul muro anche lui, colle nocche
delle dita, tre volte, seccamente.

Risposero tre picchi identici, secchi, risoluti. Allora, per chiasso,
la figliuola dell'amica si mise a picchiare celeramente. Subito subito
le fu risposto con altri picchi accelerati. E si provarono tutti, uno
dopo l'altro, meno la Beppina; la signora P... messa in sospetto dal
vederla più nervosamente agitata del solito, non aveva voluto ch'ella
picchiasse.

Già lo scherzo durava da un'ora. Che cosa poteva significare? Non
pareva più possibile che i pigionali di sopra — marito e moglie,
persone serie, che vivevano molto appartate — volessero prolungarlo
tanto. Il signor P..... e suo figlio montarono su, per convincersi
coi loro occhi. Marito e moglie erano a letto da un pezzo; e quando
intesero di che si trattava, mezzi sbalorditi dal sonno, scesero giù.
Picchiarono anch'essi, e fu loro risposto:

— Tic-tac!

— Tic-tac!

— Toc-toc-toc!

— Toc-toc-toc!

— Saranno i pigionali del primo piano!

La Beppina, suo fratello e la loro giovane amica scesero giù, da quelli
del primo piano. Erano anch'essi a letto; ma, saputa la cosa, montarono
su tutti, curiosissimi.

— Toc-toc!

— Toc-toc!

— Tic-tic-tic!

— Tic-tic-tic!

Botta e risposta!

— Tornando su con quelli del primo piano, mi raccontava dopo la
Beppina, per le scale sentivo quella solita voce che mi susurrava
nell'orecchio: picchia anche te! picchia anche te! Intanto la mamma,
in salotto, mi faceva le occhiatacce, mi diceva di no... E quella voce
insisteva: picchia anche te! picchia anche te!... Picchiai!

Si era sentita afferrar per la mano da una mano invisibile, tiepida e
molle, e, gettando un urlo, era caduta in convulsioni.

Però, appena la Beppina ebbe picchiato, ogni rumore, come per incanto,
cessò. Quella ventina di persone che si eran divertite più ore,
picchiando e ripicchiando, stettero lì un'altra ora, a picchiare,
a ripicchiare inutilmente. Nessuna risposta! Per una buona mezz'ora
tentai e ritentai anche io, benchè arrivato troppo tardi. Silenzio
profondo!

E così ebbe fine quella crisi, magnetica, isterica o spiritica, della
Beppina che ci avea tenuti in tanta angoscia.

Finalmente! Respirammo.

                                   *
                                  * *

Oh, ne avevo avuto abbastanza! Non volevo più ricominciare. Ma,
dice il proverbio: chi ha bevuto berrà. E, sei anni dopo, tornavo
allo Spiritismo; con altro animo però, con altri intenti. Oramai
avevo la convinzione che quei fenomeni spiritici fossero stati dei
fenomeni di sonnambulismo più complicati e più elevati degli altri. I
_passaggi_ che li avevano prodotti, non eran serviti anche a domarli?
La legge _similia similibus_ avea trovato in quel caso un'applicazione
impreveduta.

— Ne è proprio sicuro? mi disse una volta un prete, gran spiritista.
Oh, bella! Lei turava ben bene gli orecchi della sua sonnambula, e
poi si stupiva che quella più non ci sentisse! Ma i suoi _passaggi_
non facevano altro: le turavano gli orecchi, interrompevano ogni
communicazione fra lo spirito e lei.... E i picchi, come lei li spiega?

Veramente quei picchi mi lasciavano perplesso. Tanto più perplesso
quanto più recise erano già diventate le mie opinioni intorno al mondo
di là.

Mi ero buttato alla filosofia, mi pascevo di Hegel e... di positivismo.
La _Fenomenologia dello Spirito_ del gran pensatore di Stutgarda,
benchè mal masticata e mal digerita, mi lasciava intravvedere orizzonti
nuovi per me, luminosissimi.

Non afferravo (ci voleva ben altro che i miei denti!) tutta quella
meravigliosa astrazione, ma sentivo, da ogni pagina di essa, scaturire
un così profondo e divino poetico sentimento, da farmi paragonare
quegli astrusissimi paragrafi ai diversi canti di un vero poema, il
poema moderno del pensiero, della riflessione assoluta!

Se tu vuoi spiegarti questo strano connubio di idealismo, di
positivismo e di spiritismo, pensa, caro mio, che in filosofia ero la
medesima cosa che in storia naturale, in magnetismo, in spiritismo e
in ogni altro soggetto toccato dopo, cioè un curioso e nient'altro, un
dilettante e nient'altro.

Un mistico anche. Oh, le intime relazioni di allora tra la universa
Natura e me! Oh, il soave confondersi e quasi sparire della mia misera
personalità in quell'infinito fluire e divenire delle cose che mi si
rivelava all'intelletto! Oh, le giornate e le nottate trascorse sopra
un libro del De Meis (un vero Grande di Spagna — come gli disse due
anni fa Silvio Spaventa alla mia presenza, un Grande di Spagna che
vuol darsi il gusto d assistere, ancora in vita, ai suoi magnifici
funerali). Oh, le giornate e le nottate, che pur mi parevano _un
boccone_, come sogliamo dire noi altri isolani, quando quel libro —
DOPO LA LAUREA — giungeva proprio in tempo per trascinarmi più accosto
alla realtà e darmi un equo senso della vita!

E quando vi rileggevo: «nascere e crescere, decadere e perire, è il
destino di tutti gli uomini, di tutti gli animali, di tutte le piante,
— e diciamolo pure, di tutti i sistemi planetarii. Questo cosmos ha
i suoi giorni contati come gli abbiamo noi che ne siamo gli endozoi:
solamente ch'egli ha la vita più dura, ed è più lungo il suo tempo e
la sua durata naturale: per cui, come la balena e l'elefante vivono
più di un uomo, e un pino od una quercia vive più di un elefante, così
lui, il cosmos, e per cosmos intendi questo nostro sistema solare, vive
più della quercia e del pino, — ecco tutta la differenza; — ma quando
il suo giorno fia giunto, esso perirà come uno di noi uomini, come una
pianta, come un animale: e non il nostro soltanto, ma tutto questo
gruppo di sistemi solari, gli uni formati, forse, e già perfetti,
gli altri ancora incompiuti ed in via di formazione, che compongono
questo nostro sistema sidereo, se tant'è che formano un sistema; e
tutta questa natura che ne circonda, e questo universo di cui l'uomo è
il compimento e l'ultima perfezione perirà come un solo uomo; e forse
dal seno dell'infinito un altro universo è già sorto, e gli germoglia
allato un'altra natura, fors'anche più perfetta di questa, che la dovrà
surrogare......»; e quando vi rileggevo questo brano di un'apocalisse
scientifica, e poi i miei amici venivano a parlarmi di Spiriti, di
_mediums_ veggenti e scriventi, io mi domandavo:

— Ma, e questi spiriti non potrebbero, per avventura, essere le nuove
e più perfette creature di quella più perfetta natura? Non può darsi
che nascano, crescano, si moltiplichino e muoiano anch'essi, nello
spazio, invisibili ai nostri sensi, ma capaci, date certe condizioni,
di mettersi in rapporto con noi?

Giacchè, era impossibile, quell'affermata identità degli spiriti
colle persone morte non riusciva a convincermi. La dottrina della
_rincarnazione_ progressiva mi aveva, più propriamente, l'aria di una
concezione religiosa, che d'un concetto scientifico; e dei prodotti
dell'immaginazione religiosa non sapevo più che farmene.

Ero, in quell'anno, capitato fra un crocchio di spiritisti di buona
fede, veggenti alla Swedenborg, veggenti di bassa lega e _mediums_ più
o meno scriventi; una magnifica occasione per tornare ad osservare,
a studiare, a sperimentare, ora che non ero più soltanto un curioso,
ma un uomo che non si raccapezzava e, cercando una salda convinzione,
andava ripetendosi, in tutti i toni, l'antifona: _periculosum est
credere et non credere_ del favolista latino.

Ti sei mai tu provato a tenere un lapis fra le dita, poggiando
leggermente sopra un foglio di carta la mano, e aspettando che questa,
mossa da un'energia di cui non si ha coscienza, tracci prima qualche
ghirigoro, qualche lettera, poi delle parole, poi dei periodi, poi
delle pagine intiere; o ceda alla dettatura di un impulso interiore,
qualcosa fra il cosciente e l'incosciente, quasi uno sdoppiamento dello
spirito per cui metà di esso sembri agire con pienissima libertà e
l'altra far da semplice spettatrice?

Nel primo caso si diventa _mediums_ scriventi _meccanici_, nel secondo
_intuitivi_.

Io fui di questi. E scrissi, a lungo, ma sempre dubioso che, infine,
tale sdoppiamento dello spirito non fosse identico con quella
concitazione d'animo da cui nel caso di un torto evidente o di un danno
sofferto, veniamo spinti a rinfacciarci ad alta voce, come rivolti a
un'altra persona, atti che non avremmo dovuto fare, risoluzioni che
non avremmo dovuto prendere, debolezze di carattere che, pel nostro
meglio, non avremmo dovuto mai avere; ma sempre dubioso, anche quando,
più tardi, per l'assiduo esercizio, nell'intenso vibrare di tutte le
facoltà intellettuali, nel vivo spricciare delle idee dai profondi
ricettacoli del cervello, il fenomeno era già diventato molto più
agevole e meno cosciente.

Nulla di nuovo, di particolare, di spiccatamente originale nei miei
scritti; nulla che non avessi potuto facilmente pensare da me solo
e che giustificasse, in qualche modo, il supposto intervento di
un'intelligenza superiore. Nè alla credenza di questo poteva poi
indurmi la soave concitazione d'animo provata in quel momento, nè
il battere più concitato dei polsi, nè il più energico affluire del
sangue alla testa: nè, finalmente, l'osservare come, dopo aver scritto
a quella maniera, la pelle del centro del capo mi scottasse forte, e
una spossatezza insolita in altri più difficili e più prolungati lavori
intellettuali, seguisse alla evidente tensione nervosa che la natura
del fenomeno richiedeva.

Due volte soltanto, a intervalli, mi parve di aver raggiunto
l'incoscienza.

Un giorno che la mia dettatrice interiore si era rivelata sotto il
nome di Giovanna Rachi, avendo io insistito perchè mi désse qualche
particolare notizia di lei, n'ebbi in risposta:

    Son giuoco di Dio,
    Son luce, son ombra...

E non ne cavai altro; nè mi riuscì, benchè lo avessi tentato, di
continuar la strofa a modo mio.

Un altro giorno, assorto nella lettura di un libro di storia che
m'interessava moltissimo, dovetti, tutt'a un tratto, smetter di leggere
perchè una voce interiore mi diceva, insistente: _Contro il peccato
originale ecco un argomento perentorio_. In quel libro non c'era
proprio nulla che accennasse a tale questione; e il mio convincimento
intorno alla origine mitica di quel concetto era così fissato da un
pezzo, che non provavo nessun bisogno di rafforzarlo con nuove ragioni.
Scrissi, celeramente, senza nessuna cancellatura, una cinquantina
di righe; ma quand'ebbi terminato e il sangue mi diè un tuffo, e un
rimescolamento da capo a piedi, vertiginoso, mi sconvolse tutto, provai
tale e tanta paura, che non ebbi più voglia di ricominciare. Mi era
parso di morire!

Per ciò mi rassegnai ad osservare, a studiare i fenomeni altrui che
accadevano attorno a me; a provocare, se pur era possibile, esperienze
un po' concludenti e fatte con qualche metodo.

Uno di quei giovani, nel mettersi in comunicazione cogli spiriti,
cadeva spontaneamente in sonnambulismo; ma un piccolo rumore, ma il
semplice movimento prodotto nell'aria da una persona che attraversasse,
in punta di piedi, la stanza, era sufficiente a svegliarlo. E non
occorreva davvero un grandissimo sforzo di riflessione per constatare
la perfetta rassomiglianza di quelle sue spontanee allucinazioni con le
provocate delle sonnambule che io conoscevo per pratica.

Coi veggenti alla Swedenborg, viaggiatori istancabili pei mondi
siderali, singolarissimi interpreti dei testi biblici, non c'era
nessun verso di tentare un ragionevole esperimento. Come praticare un
riscontro di quei loro viaggi? Chè delle interpretazioni bibliche non
mi curavo.

Questa specie di razionalismo mistico lo avevo studiato altrove con
più frutto; appunto allora ne trovavo un esempio degli ultimi due libri
delle mirabili _Confessioni_ di S. Agostino, lì dove il gran convertito
comincia col domandarsi: «quando nelle sante scritture io studio per
leggerci l'intendimento dello scrittore ispirato, che mal vi è, o
luce delle schiette menti, se ci scopro un senso che tu mi dimostri
esser vero, sebbene non sia quello inteso dallo scrittore quando tal
differenza non toglie nulla a questo della sua verità?» (lib. XII, cap.
XVIII) e finisce col fantasticare che nei pesci del 28º versetto della
Genesi siano adombrati i _sagramenti_ e negli uccelli i _banditori
dell'evangelo_.

Veramente i miei swedemborgisti non arrivavano a tali eccessi. I
concetti della scienza moderna infiltrantisi in quel loro misticismo
dimostravano o una tal quale impotenza di schietta riflessione
filosofica o un lasciarsi andare più volentieri a seconda del
sentimento, verso le regioni dei miraggi dove l'intuizione regna
sovrana, che non verso le altezze brulle della nudissima nozione.

Ma il fatto che le prime prove della _medianità_ meccanica e intuitiva
prendessero tutte, più o meno spiccatamente, quella forma mistica di
ragionamento, mi metteva già in diffidenza, e mi faceva nascere il
sospetto che ciò dovesse avvenire per via di qualche legge psicologica
di cui ignoravamo il processo.

Quando ecco, inaspettatamente, ecco un ragazzo uscito appena dalle
scuole elementari, che, da _medium_ scrivente _meccanico_, passa, di
botto, a _intuitivo_ e mettesi a comporre, con sorpresa di noi tutti e,
più, di lui stesso, leggende e novelle! Lavora a sbalzi; s'interrompe
suo malgrado; per trovar l'addentellato non gli occorre di rileggere;
riprende con faciltà dal punto interrotto e va sicuro sino in fondo. E
in quei momenti _gli par di vedere, col pensiero, al suo lato destro
una forma nebbiosa trasparente, agitata da un vento rumoroso, assai
diverso dal vento ordinario, ma che non gl'incute paura_.

Evidentemente quei suoi scritti erano, dal lato della forma,
imperfettissimi; fin l'ortografia vi zoppicava. Però l'invenzione
aveva un carattere di ingenuità e di spontaneità notevolissimo. Lo
stile rozzo, disuguale, avvolgentesi di tanto in tanto in strani giri
di frase, non stonava troppo con le immagini arcaiche, colle bizzarre
fantasie che davano a quelle leggende e novelle l'aria di antichissime
tradizioni poetiche così guaste, nella loro corsa a traverso i secoli,
che della loro forma primitiva vi si scorgessero soltanto pochi
brandelli, cuciti insieme da mano inesperta.

In che maniera nella mente affatto inculta di quel ragazzo poteva
incosciamente organizzarsi quel mondo poetico così ricco? Giacchè
non era il caso di mettere innanzi la ipotesi di reminiscenze destate
dall'eccitazione cerebrale e accozzatesi alla meglio. E per sospettare
una malizia letteraria, bisognava supporgli cultura e padronanza di
forme artistiche assolutamente impossibili in lui.

Giudica da te se m'ingannavo.


   Gli orrori di Menelesta

   Un monte sorgea vicino a due orrende selve e da un lato irrigato
   era da un ruscelletto cui egli dava origine e sorgente. Fessure
   per il vertice erano diffuse, e di tratto in tratto qualche buco
   affumicato vedevasi vicino a qualche tomba che colà era per
   antico ricordo. Il tempo stesso sembrava essere stato avverso
   nemico al monte. Tutti i mausolei erano chi stesi per terra, chi
   semicurvi, chi diritti ma crollanti. Orribili pitture miste alle
   macchie delle acque facevano argomentare esser quello un luogo
   dove i primi abitatori del mondo avevano avuto la loro residenza
   e dove gettavano i primi raggi delle pittoriche[8] loro fatiche
   e dei fabrili lavori.

   Il rumoroso Aquilone in un appartamento; in un altro il Re dei
   fulmini.

   Da una parte le tempeste fremevano, dall'altra le selve
   infiggevano nei cuori terrori di giorni infausti e di tremende
   sventure.

   In questo luogo spaventevole, quando fischiava il vento, pareva
   che gli Spiriti perversi sortissero dei luoghi a loro destinati
   e si rizzassero pei loro consigli o sedessero nelle loro
   radunanze. Alla base, regnava il disordine e quasi sembrava che
   le ombre dei serpenti e le infezioni degli animali colà dispersi
   vi avessero lasciato le loro orme.

   Di quando in quando vedevasi sbucciare qualche germe di mala
   erba, la cui radice partiva ora dal vertice, ora dalla pianura.
   In mezzo a tanti rumori, in mezzo a tanti sibili e odori
   mefitici sorgea qualche pianta salutare.

   Un albero, detto della Vita, vedevasi già essere oppresso
   dai rami dei frastagliati roveti, che lungi dal farlo vivere
   d'aria viva, come edere invaditrici, gli communicavano il loro
   mal sugo; ed essendo esso di scorza delicata, facile riusciva
   l'ottenere la morte[9] di questo, mediante l'inaridimento.

   Credete forse che il lume del Sole colà diffonda i suoi raggi?
   E le ripide scoscese faccia distinguere dai buoni viottoli e
   le cattive bestie dalle non nocive? Simile al buio della notte,
   quando le stelle non servono ad altro che alla visione di loro
   stesse, è la luce ivi permanente.

   Qualche raggio che trapela dall'interno del monte, per le
   fessure viene oscurato dalle nuvolose mani di quelle genti
   che, a guisa di ombre erranti a caso, leggiere, per l'aria,
   portate dal vento, capovolte, diritte, oblique, vanno da quella
   parte ove tira il vento. Simili a pesci tramortiti trascinati
   dalla piena, spesso vengono espulsi da quelle tombe quegli
   spiriti dormenti, a guisa di serpi, nel freddo obblìo, e appena
   riscaldati dal cattivo calore non di senno fanno opera ma di
   sonno che infonde male di letargo e impedisce la germogliazione
   delle piante vicine; le quali, abbeverate da quel maligno
   influsso, come mummie tocche dell'aria, si scompongono nel loro
   parti.

   E il vento di dove tira?

   Da una di quelle bocche del monte.

   E l'acqua di dove scorre?

   Dal seno di esso[10].

   E le orribili selve d'onde hanno origine?

   Dalle acque malefiche che fanno allignare ogni cattiva cosa.

   E la luce?

   Viene coperta da quelle roccie, impedita da quelle cattive
   ombre.

   Ma dura ciò sempre?

   Sempre vi si vive in un crepuscolo incerto[11].

   In ogni fin di due o trecento mila secoli, vedesi comparire
   un vecchio che esce da una di quelle fessure ove uno strato di
   aria insolubile ed infrangibile tiene tutto lontano. Al levarsi
   della sua testa diffondesi[12] un calore tale che tutte quelle
   piante; tutti quegli spiriti malefici, tutte quelle aeree ombre
   sentonsi quasi soffocare perchè nati in clima freddissimo.
   Un'aurora borreale comincia ad iniziare la certezza del giorno;
   e il Vecchio, che già partorisce qualche figliuolo nel cammino,
   si avanza alla discesa del vertice. Un bisbiglio destasi in quel
   luogo: la sommità vien illuminata[13]; e, allontanate quelle
   piante e dispersi quegli abitatori. Il Vecchio, detto della
   Montagna, ossia il Padrone, ovvero il Fabbricatore, lascia di
   tratto in tratto, a guisa di Colombo in America, qualche piccola
   colonia di suoi figliuoli. Dà a questi buone semenze, fa nascere
   ai loro servigi adatti animali, e impiega qualche tempo in
   insegnamenti. Le basse falde vengono illuminate sparutamente
   e laggiù si rifuggono gli spiriti più dileguabili, le piante
   giovani. Ma gl'induriti e i forti permangono. La pianura di
   sotto resta nel buio eterno.

   I venti non fanno più sentire il loro fracasso fra gli alberi
   secchi: il ruscello diventa acqua un poco sana. Le radici, i
   mali semi vengono portati nelle selve, nella pianura vicina: non
   vengono estirpati completamente.

   Il Vecchio Menear, che significa _Salvatore_, _Restauratore_,
   compie la sua missione, e da ordini superiori vien chiamato a
   rinchiudersi donde uscì. La luce sola resta ancora per pochi
   minuti. Poi, come le rane in tempo di notte, alzano i loro capi
   senza alcun timore, quegli spiriti già ricacciati in giù. I
   figli di Menear vengono uccisi dai cattivi influssi, e il monte
   ritorna di nuovo al primiero caos.


   II.

   Qual maggior dolore puossi dare ad un savio di quello di non
   voler credere nè sentire ciò ch'egli per convinzione detta?

   Il vecchio Menear avea già dettato le sue leggi ai suoi
   figliuoli. Intorno alla cultura delle terre erano i suoi
   insegnamenti; della disradicazione di quelle erbe male si
   occupava, ed alla dilequazione di quei cattivi spiriti era
   diretta la sua venuta. E tutto invano!

   Alla sua sparizione, periscono le sue dottrine, i suoi figliuoli
   vengono uccisi per soffocamento, resta inutile la luce ch'egli
   destinava a un sano scopo.

   Credete forse che il Vecchio della Montagna, rinchiudendosi in
   quegli impenetrabili appartamenti, vi dorma come un ghiro che
   s'impingua?

   Sempre veglia, sempre è attento; quei duri e compatti massi
   qual lucido vetro sono dinanzi ai suoi occhi. Simili a colui che
   trovandosi vicino ad un lume non iscorge quello che dal buio lo
   guarda, sono quelle ombre di fronte al Vecchio. Qualcuna resta
   annichilita, scomposta nell'atto di voler impedire quel lume;
   pure, al comparire di quell'aureo raggio, non manca chi in tutta
   fretta corra a turare le fessure, qual gente che tema l'entrata
   d'aria nociva. Ma il Menear molto si duole, molto soffre vedendo
   che la sua luce resti offuscata. Spesso, ad un suo ordine, qual
   polvere tratta in mulinelli[14] per l'aria, van tratte via
   quelle ombre. Ma non sempre egli usa a questa maniera; modi
   più parchi ha il suo procedere. Manda altri suoi figliuoli
   tra quelle ombre; e sono di nuovo uccisi, appestati da quelle
   cattive esalazioni. Forse non è un dolore per lui il partorire e
   perdere i suoi figliuoli? Dalle buone allora passa alle cattive;
   e, qual primo Sansone, scuote quel monte, e le fessure già col
   tempo fattosi più larghe, si aprono facilmente a quella scossa.

   Gli appartamenti di Aquilone crollano perchè son tolte ad essi
   le fondamenta; il Re dei fulmini vien meno, timoroso perchè
   mancante di combustibile. La selva comincia ad appassire perchè
   al ruscello vien mutato il corso.

   Il Vecchio scuote la sua volontà e ogni cosa, tra i rumori e il
   terrore, cade a terra. Gli spiriti fuggono con un gran spavento
   nel cuore, quasi presaghi della loro prossima fine. Così tutti i
   nascondigli e la struttura di quelle crollanti roccie vien messa
   in chiaro, che prima davano una trista idea dei loro abitatori.

   L'Albero della Vita, che stava per rigermogliare, diventa
   rapidamente alto e rigoglioso.

   Aquilone scacciato dal suo laberinto, fortemente si stramazza
   qua e là, portando infortunii in tutti i luoghi. Una grande
   burrasca inonda le terre, e le rocce scoscese diventano un'amena
   pianura.

   Il Vecchio Menear, quasi creatore, siede in alto: i suoi figli
   per rapida generazione, si moltiplicano a milioni, e ogni cosa
   va bene. Le dottrine di Menear vengono ascoltate, e il lume
   eterno del Sole tutto rischiara[15] tutto fa germogliare.

Che te ne sembra?

In quest'altra leggenda, o novella, l'immagine diventa più solida,
più libera; e il concetto mistico, la moralità, vi comparisce soltanto
all'ultimo, un po' stentatamente appiccicata.


   La pugna dei Persiani ai tempi del re Leonardo il piccolo e la
   lotta dei Venti. Unico discorso.

   Era in sulla primavera e la Persia inferiore già pure ridente
   per principii di nobiltà e bellezze non conosciute dava i primi
   passi verso[16] il suo innalzamento. Re Leonardo, detto il
   _piccolo_ per soprannome, chè aveva il corpo alto[17] e robusto
   e la faccia di un bambino a tre anni reggeva bene quel popolo
   che ad unico voto lo aveva acclamato re. In tutto il paese una
   gran pace e contentezza, perchè si viveva da poltroni[18] e le
   piante tutte davano bei frutti che accompagnati al così detto
   pane che nasceva in pagnotte[19] erano il lor mezzo di felicità
   e di crapula. Ognuno diventava nobile secondo il proprio parere
   e la propria legge. I palaggi e le case venivano dipinti sulle
   porte delle loro spelonche e, coll'idea, ognuno aveva i suoi
   nobili appartamenti e ne godeva l'abitazione. Il re aveva[20]
   in sul più alto punto la sua fortezza e i suoi soldati stavano
   sempre seco giacchè fatti di pietre e di legno. Egli faceva le
   leggi che scolpite in larghe tavole esprimevano or un uomo che
   rubava ed il Dio figurato lo tratteneva sino allo svegliarsi[21]
   del padrone; or uno che uccideva un altro ed un terzo coll'arco
   teso già stava per farlo pure morire; ed ora i numi che
   tutti accorrevano alla difesa del re ed uccidevano i mali
   perseguitatori e i ministri traditori: tutte figure di esser
   proibito il furto, esser minacciato l'omicida e dover essere
   rispettato il re.

   Il giorno di domenica in cui tutti andavano ad ascoltare
   la spiegazione delle leggi (che chi era più valente veniva
   chiamato a scolpirle) dovevano ad uno ad uno ripetere la stessa
   spiegazione fatta dal magistrato; e chi per malizia o per
   stupidaggine non sapeva ripeterla, veniva posto in carcere,
   assoggettato[22] a molti supplizii finchè non la imparava[23],
   affinchè, commesso qualche delitto, non potesse nè dire di
   non aver veduto le leggi, nè averle comprese nel punto della
   condanna.

   Tutto andava bene e i funerali si facevano[24] decentemente,
   giacchè la camera ove moriva un figlio o un parente non doveva
   più essere abitata[25] perchè quelli dovevano colà fare le loro
   occulte passeggiate[26] le loro[27] faccende, che vedere gente
   viva era il loro inferno[28].

   Tutti i giovani adulti venivano istruiti nel modo di combattere
   tra loro; e per bene esercitarli, li mandavano nei boschi, e
   chi portava più animali feroci uccisi di sua mano diventava[29]
   il capo squadra, il comandante della brigata. Ma però tutti
   i vecchi, e i maturi, sì uomini che donne, in quegli antri
   godevano il calore del fuoco che con i loro combustibili
   accendevano.

   Or avvenne che quantunque i più ricchi avessero migliaia[30]
   di buchi, ossia camere, per la lunghezza del tempo trascorso
   e per la quantità dei parenti morti, dovettero tutti rimanere
   all'aria aperta[31] finchè non si scavavano[32] le nuove
   abitazioni. Ma siccome questo accadde in tempo d'inverno, molti
   cittadini perivano per infortunio e ciò portò un gran lamento
   nel regno. Laonde la maggioranza andò dal re a chiedere un
   espediente migliore. Il re, che pure era accomodato tra la
   paglia e la legna dei suoi sudditi, pensò di far interrogare
   l'oracolo per conoscere il perchè di quel freddo e di quel vento
   impetuoso mandato dal Nume. Il sacerdote rispose che dovevano
   tutti[33] pregare di cuore. E siccome la gente è stata sempre
   a un medesimo modo, come ai dì nostri, pregavano più per il
   bisogno che per altro, dicendo quattro parole alla meglio[34].
   Il freddo non terminava, ma diventava di giorno in giorno,
   maggiore. Si consultò di nuovo l'oracolo e questo[35] rispose:
   che il Dio si era compiaciuto, ma che i Venti e il Freddo gli
   avevano strappato dalle mani le redini e volevano divertirsi;
   quindi potevano, se ne avevano l'abilità[36], farli allontanare
   mediante un combattimento.

   Tutti subito, quasi disperati pei brividi e raffreddori, chè il
   vento aveva fatto diventare i loro occhi fontane di lagrime e i
   nasi ammalati cento volte più grossi, si preparavano alla pugna.
   Ecco un affrettamento di accumular provvigioni; chi fabbrica
   armi chi taglia vestimenti, chi addestra i più forti nel[37]
   modo di battersi. In pochi anni tutto fu allestito[38]. Il re
   ordinò ad un drappello dei più valorosi vestiti di calde lane di
   prender l'ala sinistra che il Vento aveva scelto come un punto
   più comodo; un altro drappello mandò nel centro per impedire il
   varco al Freddo mediante certi incendii preparati per bruciarlo.

   Al terzo drappello, in cui tutti erano coperti di vestiti
   invulnerabili, fu imposto di affrontare i turbini e le tempeste.
   E già tutti hanno preso le loro posizioni, tutti stanno in
   atto di battersi al primo soffio del Vento, colle micce in mano
   (_pronte_) a dar fuoco.

   Il Vento, più malizioso di essi, ordì il modo di farli tutti
   perire. E fintosi un leggiero Zefiretto, soffiando basso[39]
   gli si porta vicino per un trattato di pace. Un'auretta soave
   quasi imbeve di sonno piacevole tutti i soldati, che lasciano
   le armi. Intanto si fanno gli accordi; e mentre il Re dava gli
   ordini di ritirarsi in città perchè il Vento si era già arreso a
   quello spettacolo di così grandi forze, ecco un forte rumore. I
   soldati sentonsi scuotere le gambe. Era il Vento che tornava ad
   imperversare. Un freddo nelle loro membra si diffuse che faceva
   gelare il sangue. Da un'esplosione freddo-ventosa vennero tutti
   trasportati in alto, ove il Re dei turbini sprigionava i suoi
   fulmini con fracasso e distruzione, e poi stramazzati a terra
   ove furono pasto dei vermi. Le case rimasero tutte inabitate.
   E questa fu la miseranda fine[40] di quella gente che volevano
   combattere coll'alto, ignorando ogni legge e dottrina. Se essi
   pregavano davvero, quel Dio non faceva loro toccare tal misera
   sorte, e rimanevano padroni crapuloni di quelle terre ove pane e
   frutta vennivano senza cultura, ove si menava una continua vita
   di cuccagna che solo la stupidaggine di quegli uomini tolse agli
   infelici posteri, i quali in semplice narrazione la godono.

Ma ecco una vera e propria novella, senza sottintesi, senza
secondi fini, un organismo artistico compiuto in ogni sua parte.
La rappresentazione è viva, efficace, e ci trasporta in epoche
remotissime, fra civiltà dimenticate dalla storia che qui paion
rivivere dissepolte dalle viscere di sconosciuti ipogei.


   Il Re di Menefal

   I.

   E tu vedevi sul fare della notte che la città era in gran
   movimento[41]. Alti personaggi uscivano di casa di soppiatto
   e scappavano alla vista dei soldati di ronda che, trovatili,
   li avrebbero uccisi. Le figlie di Mercurio andavano attorno
   per le vie senz'essere vedute, e se qualche ladro ad esse si
   raccomandava, lo conducevano in quei posti dove avean visto
   mancare la guardia e abbondare il bottino. Spesso si udivano
   urli e lamenti. Erano di quelli che le _mercurie figlie_
   abbandonavano nell'atto del furto e che qualche bestia feroce,
   entrata in città colle tenebre, sbranava e divorava[42]. Intanto
   in tutte le case riunioni, assemblee e sacrifici. Ognuno per sè
   e Giove per tutti.

   Prima dell'alba il re di Menefal, coperto di pelli di fiere
   e seguito da armati, era uscito dal suo palazzo per vedere se
   qualcuno dei suoi sudditi fosse andato attorno durante la notte.
   Cominciava a piovere. Appena percorse alcune vie, non ladri
   trovò, nè fiere, nè figlie di Mercurio, ma vide presentarsi
   davanti un mostro macchiettato di mille colori che di molti
   diversi animali aveva accozzate le membra. A quella vista il re
   si perdette di coraggio, e i suoi armati con lui. E rimasero lì
   senza poter fare un passo innanzi o indietro, impietrati, fino
   al far del giorno.

   I cittadini di Menefal, giusta il loro costume, si recarono
   allo spuntar del sole al palazzo reale per offerirvi incensi e
   sacrifizi al re; ma trovarono il palazzo abbandonato come una
   casa desolata: e penetrativi dentro, per la prima volta, furono
   atterriti dalla vista di orribili armi e di sanguinosi ordigni
   che pendevano dalle pareti d'ogni stanza. Alla notizia di questa
   scoperta la gente accorreva da tutte le parti. Ma non coloro
   che abitavano nella via dove il re e i suoi armati eran rimasti
   di sasso[43] alla vista di quel mostro che non si moveva neppur
   esso. Quei poveri abitanti piangevano, strillavano, invocavano
   Giove; qualcuno disegnava col carbone quelle orride figure non
   mai viste.

   Quando il sole fu alto, il re e i suoi armati si riscossero dal
   loro[44] torpore e si diressero a corsa verso il palazzo reale.
   Vedendoli tutti coperti di pelle, e più in sembiante di bestie
   che di uomini, la folla diè mano alle armi appese alle pareti
   e gli venne addosso: così il re di Menefal perdette la vita,
   ucciso dai suoi sudditi, con le sue proprie armi.

   Quel mostro intanto voleva andarsene via, pei fatti suoi; ma la
   notizia della sua presenza si era già sparsa per la città e la
   folla che aveva ucciso il re già si precipitava contro di lui.
   Visto il pericolo quello buttò per terra le varie pelli che
   aveva indosso e gridò:

   — Fermi! fermi![45]

   — Chi sei? — domandava la folla.

   — Sono il vostro Salvatore.

   Vedendo quell'uomo di un colore diverso dal suo, la folla
   ristette.

   — Vi ho liberato dal re: ho messo in cimento la mia vita.

   — Giove! Giove! — gridarono tutti. — Giove è disceso sulla
   terra!

   E lo adorarono.


   II.

   Quell'uomo era uno di loro; ma avendo abitato per lungo tempo in
   paesi lontani, il colore della sua pelle era passato dal rosso
   al verde. Ladro, quella notte andava attorno cercando di fare
   un bel colpo. Alla vista del re, coperto anch'esso di pelli, lo
   aveva scambiato per uno del suo mestiere e si era fermato, non
   senza un po' di timore che non fosse una fiera.

   La cosa gli era andata benissimo: ed ora viveva in mezzo a
   grandi tesori adorato e temuto.

   Era costume in Menefal di celebrare una festa in onore di
   quel Dio, rivolgendo le acque del fiume Mela verso la città
   e facendole passare in mezzo al gran tempio ove il Dio doveva
   benedirle prima che irrigassero e inondassero i campi.

   Le acque già avevano invaso il canale in mezzo al tempio, e
   Giove tratteneva col braccio l'ordigno che moderava l'impeto di
   esse. La cerimonia doveva eseguirsi a porte chiuse e il popolo
   era in gran parte affollato sull'argine. Il Dio sedeva in alto
   circondato dai sacerdoti, coperto di ricchissime vesti.

   Prima della cerimonia una deputazione eletta dal popolo doveva
   verificare[46] se Giove era tuttavia in terra, o pure erasene
   tornato in cielo. Ora, sia pel tempo trascorso, sia per
   l'umidità prodotta dalle acque vicine, il volto del Dio aveva
   perduto il suo colore verde ed era tornato rosso come quello di
   tutti i suoi concittadini. Vedendo questo, la Deputazione del
   popolo entrò in sospetto che i sacerdoti non avessero ucciso
   Giove per mettere qualcuno di loro al suo posto. Esaminò Giove
   attentamente e si convinse che il Dio era diventato un uomo al
   pari di loro; allora cominciò ad urlare!

   Giove, vista la mala parata, disse tra sè:

   — Chi è più forte, si salvi!

   Lasciato andare l'ordigno che frenava l'impeto delle acque[47],
   si precipitò nel canale, nuotando contro la corrente, e uscì
   fuori.

   Quelli che erano dentro il tempio perirono miseramente affogati,
   tutti, giovani, vecchi, donne e fanciulli.

   Ma neppur Giove sì salvò. I contadini che stavano fuori colle
   zappe aspettando le acque benedette, vistolo scappare, temettero
   che volesse abbandonarli. Allora lo sforzarono a tornare
   addietro. In quel punto l'impeto delle acque ruppe la resistenza
   delle porte del tempio e la campagna fu inondata.

   Perirono tutti, e Giove con essi.

   Che desolazione!

   Ora regna dappertutto un silenzio di morte, rotto soltanto dal
   monotono scorrere delle acque del fiume.

Oh, ti confesso, caro Farina, che questa storia del Re di Menefal mi
parrebbe sempre una bella cosa, anche se non sapessi che fu scritta
_currenti calamo_, in due volte, e senza mettervi nulla del suo, da
un giovinetto di nessuna cultura; il quale, dopo, non è mai stato più
capace di comporre nulla di simile! Oggi il signor Fortunato Albertini,
che si è fatto un bel pezzo di giovane, alto, robusto, pieno di salute,
stimerebbe una vera disgrazia la ricomparsa della sua _medianità_
di cui mostrava prima tanto piacere. La coincidenza, senza dubbio,
accidentale, del ripetuto manifestarsi di essa con luttuosi avvenimenti
domestici, gli ha messo nell'animo una quasi superstiziosa avversione
perfino contro quei suoi giovanili quaderni di spiritiche leggende e
novelle. E se n'è disfatto, regalandomeli; io gliene sono gratissimo.

Qui terminerebbe questa forse troppo lunga storia del processo
di formazione del mio problema, se non avessi la buona fortuna di
poter aggiungere altri e, certamente, più ammirabili documenti, cioè
alcuni di quegli scritti accennati nella lettera del mio anonimo
corrispondente fiorentino.

Toccano essi una cima così eccelsa di concezione e di fattura, che
farebbero subito nascere il sospetto di una qualche mistificazione
letteraria, se io non potessi dire in pubblico il nome del _medium_ che
li ha scritti e così tagliar corto su ogni dubbiezza.

Il giovanetto fra i quindici e i sedici anni, piuttosto inchinevole
agli esercizii del corpo che alle agilità della mente, piuttosto
desideroso di divertimenti, di gite all'aria aperta, di guidare un
cavallo, di stancarsi sul trapezio nel giardino di casa sua, e che,
pur fumando una sigaretta, discorrendo di cose quasi puerili, coi
presenti e talvolta anche sbadigliando scrive, scrive, scrive, pel solo
misterioso impulso che gli move il braccio; quel giovanetto, di cui
parlava il mio corrispondente fiorentino, si chiama Eduardo Gordigiani.

Non ti ho già detto che si trattava di persona della cui lealtà e buona
fede non è possibile dubbitare? E avrei dovuto meglio dire: persone;
giacchè nessuno sospetterà mai che quel valente artista del prof.
Gordigiani, conosciutissimo in Firenze e fuori, e la signora Gabriella,
sua egregia consorte, abbiano voluto farsi complici di una soperchieria
del loro figliuolo, o che siano ingannati anch'essi e involontarii
ingannatori. La loro perfetta buona fede parrà patentissima quando
avrò aggiunto questo: essi mi hanno gentilmente accordato il permesso
di pubblicare i documenti da me scelti fra i tanti posti a mia
disposizione, quantunque non ignorassero che lo scopo del mio lavoro
andava poco di accordo colle loro profonde convinzioni, e quantunque
il rumore della pubblicità sia _contrario alle loro abitudini e al loro
modo di vedere_.

Le _Visioni di Fra Iacopone da Todi_, scritte con _medianità meccanica_
dal giovine Gordigiani, sono dieci finora. Ne scelgo la terza, la
sesta, la settima e la ottava, e metto a piè di pagina le spiegazioni
dei punti più oscuri, ottenute anch'esse collo stesso mezzo.

Qui il misticismo religioso regna da padrone assoluto, e l'ebbrezza
della povertà, rivelata al medio evo dal _poverello di Assisi_, vi si
effonde in tali miraggi da far provare la vertigine delle allucinazioni
e dell'estasi, da parer di vivere in un altro mondo. Infatti è
proprio un altro mondo quello che qui ribolle, scoppia e spumeggia in
trasporti, in slanci, in disfacimenti di spirito, in delirii divini.

Senti un po'.

   VISIONE TERZA

   Fuvvi un tertro a me caldamente caro, su del quale di sovente
   ero accarezzato da visione, ove il Signore eccelso mostraami
   belli quadri per li quali era consolato il mio spirito per la
   perduta gente[48].

   Portavo meco un libro con alcune parole eterne su delle quali
   argomentavo.

   Miserello corpo, sempre tu m'infastidisti nel compiere
   alcuni ufficii, ma per altro ringrazioti degli sacrificii
   procacciatimi.

   E asceso un dì lo poggio, come di solito, feci alcuni prieghi
   nelle quattro direzioni del mondo per quei infelici che beveano
   la calda aria nel cuore quando, consimili al mio, cerchiavanmi
   tanti monti ove la aria penetra e imbeve dalle cellette.[49]

   Lo dovere al mio Creatore fatto, mi coricai su natta cara a Dio
   la quale era fatta di pietre spezzate, e disposta per giaciglio,
   e pregai in quel tempo per coloro che si distendon sulle piume;
   crociai le mani sull'alvus e attesi che piovessemi luce.

   E comparimmi del mio monte il pendio e vidi grande formicolar di
   gente le quali molte scendevan e poche salivano.

   Sul mio tertro era postato un abeto grande, da parvi adornato —
   Frai convenienti quivi rimiravo alcuni che venivano ad istudiar
   li belli alberi[50] e la veduta spaziosa; altri venivano ed
   allacciavano[51] or l'uno albero grande, or uno più piccolo,
   raro apparivami un bel senex, il quale spariva nel suo proprio
   bagliore, onde non veniva scorto dalli circostanti, e diffilava
   allo albero maggiore e, chinato per toglier pietra, lentamente
   scalzava nel superbo fusto[52] e misurava via facendo lo
   percorso fatto collo[53] proprio corpo — E storiavo dinanzi ad
   egli e ragionavo meco che egli era di Dio, allorchè si volse
   ratto e fulminando dagli ogi rai, sclamò: Ho trovato dimora! e
   scomparve e pareami che un'ugual[54] corrente veniva da me al
   Santo Padre e mormoravo: Hic erit!

   Mal conosceo le persone e m'accorsi che molti i quali ne venian,
   ritornavano giù per lo pendìo, e orrendamente gli vedevo
   sollazzare in recinto[55] quasi ovile, e vedevo il capo[56]
   accennar: _sì_, che si divertiano e traspariva nel dentro che
   non eran giunti.

   Allor si fea la notte, e vidi non più persone, ma[57] solo
   processione di fiammelle delle quali niuna perdeo e concepii tal
   cosa... che veniano al tertro miscugliate; l'abbagliante e la
   strema fioca, l'ultima quale si arrestava al livello del culmine
   e prendea picciolissimo abeto e lui[58] scoteva, ma non cadea
   foglia veruna.

   Passavalo altra fiammella men fioca e posta innanzi ad ello
   primo; scotea e ricogliea na foglia.

   Tertia più bella luce lasciava dria questui e ricoglieva; e
   seguitava la processione di modo sino alle belle palle infocate
   che piazzavansi nel maiestoso abeto.

   Da esso si partiano, in forma di raggi,[59] file di abeti li
   quali disminuivano di grado, tal che l'ultimo picciolo era e
   deforme.[60]

   Tetra sendo la notte i miei smisurati si aprivan ogi e sentiami
   portato su' lungi da ivi sul loco di una vetta, ove apertigli,
   vidi Stella la quale fiochiva e accendeva secondo che uno grande
   diavolo, nominato Secolo primo, secondo o tertio passava e
   oscuriva......... e vidi da lungi la processione[61] che durava
   e le fiammelle deboli scendere e le fulgide sostare.

   E quando sollevato no momento il guardo concepii.... scorsi una
   forma (indegno) ch'io confronto a mano; debolissimo appetto a
   ella lo fulgor celestiale. Ella forma era distesa sulla stella
   e concepii ancora! ma li mezzi umani non mi portano a spiegare.

   Tremai di spaventoso amore tanto che dal giaciglio venni a
   terra, e avrei stimato riconoscenza lacerarmi per intiero —
   Priego non giugnea a soddisfar lo mio foco e giunsi al pendio
   e pensai alle anime[62] che visione facea discendere; venni
   dubitoso, stante ripensando che per ivi andavo alla celletta
   amata, non allo turboso mondo, ove il gregge sbattea nell'ovile
   credendo sollazzare in mia visione. Rincorato volsi oltre.

   Ed ella cosa vi do in forma terrena qual'è lettura che lo spirto
   vuostro non giugne al sublimar della cosa.

   Ti avverto essere io il miserello

                                                   JACOPO TODIANO

Qui, scendendo un po' dalle altezze mistiche, la visione rasenta la
parabola.

   VISIONE SESTA

   Avvenne un dì ch'io fui dinanzi alli senori di giustizia
   tradotto per essere stimo vanerello. Li quali senori mi dissono
   spregievoli cose d'Iddio, per lo che io m'irai e sputai veneno;
   onde ordinonno alli servi di prigione. Io li rimertai, me
   stimando indegno di tale flagello.

   Lo mio core molto balzaa nel mio dentro per gaudio, ufficio
   il quale pregai rimettesse ad altra fiata dicendo: L'è grande
   fortuna nostra, coricello mio, ma recoti sventura: lo martirio
   sarà debile e non di durata. — Tacquesi allora.

   Non era manco chiusa la imposta ch'io mi gittai bocconi rendendo
   grazie alla somma boutade di Lui ed uscii a dimandare, se ella
   cosa era ragionevole di cognizione intorno alla mala azione
   delli stolti senori. Mi vennono meno i sensi, e caddi come
   morto.

   Aliquanto spazio stetti, indi apparire una luce cui vermucolo
   lucente è sole. — Poi schiantossi la nube tutta e in nello buio
   venire oltre me na meschina bestia, la quale parve ai miei ogi
   ciuccio di color molto splendente.

   Eragli in groppa no buio uomo che pareami di molto brutto; e
   diretro lo ciuccio e lo uomo altri piedavano a lui in bruttezza
   simili, e veniano per lo cammino finchè giunsono a uno fossato
   cavato dinanzi me largo e profondo.

   E fummi giudicato lo animale condurre lui lo uomo; e dubitando
   quale sia cosa farebbono tanto che lo mio volere sarebbe di dir
   loro: arresta! arresta!

   Ma la favella non potea dir, ond'io tacqui, e che vidi?
   Lo meschino ciuccio s'era sosto come di convenienza, ma lo
   conduttore pingea la bestia siffattamente da gittarla entro, ed
   ella non puntaa li piedi ma stava.

   E colui di gridare aiuto al riuscimento; e vennono, e feciono,
   ma la bestia non rimosse.

   Poi di grado bruniro le nebbie e scomparimmi alla vista la scena
   mala e stolta.

   Ma io non entravo, onde alzando gli ogi ver le nubi vid'io
   scritto:

       «L'uomo senza Dio è cieco!»

   E concepii e fui pieno.

   Entrate anco voi, miei belli, e niuna cosa di mondo saravvi
   pungolo se certi vi farete della maestà di detta scrittura.

                                                    Disse JACOBUS

Ma ecco che il misticismo riprende il suo volo! Si pena a tenergli
dietro.

   VISIONE SETTIMA

   Fieriva lo verno, aliquando di Diruta venio pedestramente allo
   Todi mio, lo quale per lo amore che portaali tiraami forte.
   Endo adunque velocemente in direzione di elio, ecco trovar no
   meschino ch'io non rifiguravo, involto nelli luridissimi panni
   sui, e di quivi vecchio fiato uscirne lo quale così favellommi:
   «Potente, io son meschino, di lui pietà abbi.»

   E dette parole non fur pronunziate facilmente ma in modo
   serafico di vecchio; tanto che volendo lor iscrollar nol potei,
   ma passati li miei belli abbigli entroronmi nello cuore e si
   stanziarono ivi, cotalchè io voleva lo mio cammino proseguire,
   e staffe mi diceano che no.

   E lo serafico povero schiamazzava da lungi e trafiggeami
   continovamente, tanto che fu mestiere ch'i' sostassi.

   E lo mio spirto ribelle e schifo che facea? lottava forte
   con le parole seggiate in nello mio core e ripetuto dicea:
   «Vattene» e queste di restare, e supplicare per più di pace e
   acconsentimento.

   Superbioso allor udialo dir: «Sia lo tuo desire compiuto,
   riconducoti allo tuo sito, ma tel dico, non più m'infastidiar,
   ivi lascerotti!»

   Ed ecco le staffe di virar e portar di bel nuovo lo perverso
   sino allo senex piagnucoloso.

   E suggerimmi dimonio: «Sullo scorpioso volto sputa e spregia.»
   E parole di risonar uscendo dallo core e dire: «Non così sia.»

   E il senex: «Potente io son meschino, fammi risonar moneta!» E
   sì potente lo braccio venia allo scuffio che volendolo ritrarre
   insistea, ed egli vinse, e risuonò moneta.

   E parole di uscir, forte gridando al malvagioso spirto: «Dio te
   dia pace, e rimeriti. Addio, addio!»

   O che restommi in cor quando mi dipartio? «Potente, io son
   meschino,» e ratti di fissar (costretti) gli ogi lo lurido
   abbiglio, e volendo ellino ritrarre, sentii che chiodati erano,
   ed ero sosto venti gambate lungi.

   Ogi, ogi, sì potenti siete? Che allo chiodamento giugnereste lo
   alterio? Me par così; che dopo poco novellamente faceami ombra
   lo schifo.... amato! Sì, così io dico, che non mi parea più
   lordo... E testa mia ove gisti? Gisti corporalmente carezzar
   fortemente terra tua madre, e lo compagno spirto lasciotti.

   Voglimi permettere che te lasci riposar, e di retro vada allo
   tuo frater.

   Ei vide uno palagio bello[63] che su nugole basaa, e molto era
   alto: e meglio lui mirando vidi che due alati erano li suoi
   custodi: diretro, sovra ed alli lati grandi erano gli alati. Per
   poco agio ebbi di miralli, tanto fulgidi si erano.

   Ogi miei, vedeste vui bene che lo palagio si[64] bellamente si
   penzolava che ne ero stupido, e si sovente il ripetea che lo
   aere ne era isgraffiato? Benedicilo rimembranza di ello, e fai
   che ti veggia si bene che io t'esponga sulla pecora bianca ad
   onore di te Eterno Iddio e vieni palagio! Non fusse altro che lo
   contenuto che tu habbi, io ti lorderei se di te parlassi.

   O contenuto vieni fuora, si che mirandoti osi specificarti!

   Da' magnifici gradini donna venìa, pomposamente vestita[65];
   e non si tosto gli alati vennono dallo balsamo di te presi e
   fasciati, si buttorno in terra,[66] (che così io vidi) e tu,
   farfalla, proseguisti su di ellino quale pedana di virtute
   d'onde ti conducesti all'aperto, e le nubi di calor e lo cielo
   tremar armonie. Spirito, veggesti tu?

   Che disse bocca di gridare? Oreglie udirno lo sonoro rumor? Ogi
   non si cecaro?

   Dio era! e tu vegliasti alla scena stupenda, spettator iniquo?
   Ove tu trovasti mani a por sugli ogi?

   Ecco, tu loro togli, e miri lo sito del palagio a cercar la
   bella persona, e nebbie erano che coronavano lo loco di amore,
   per lo quale tuttavia conservo ricordanza stupenda.

   Nebbie celatorie, io amo or voi, benchè crudeli fuste, e
   domandavo di ardore pieno di rivegger la bella persona.

   Ed ecco che, serve di ubbidienza, le nubi di squarciar, ed Ella
   apparir non sontuosa giammai,[67] ma lurida vestita; e, pietoso
   ciel! quanto mi deste forza a non indietreggiar, che la bella
   mia fidanzata venia, aperti i membri bracci, e non movea di
   lisca, che sprazzava meglio che non bragia percotuta. Ed io
   miravo, udio come uomo che ogi non ha e nemmen oreglie.

   Ecco Ella voltarsi e cennar, e non venire ma comparirmi uno uomo
   molto bello e giovane, e donna di fissarlo.

   Solo lo spirto libero può provar cose tali; come sola terra a
   fiamma resiste. Lo apparito divenire lurido, di pulcro orrido.

   Ei piegò i genui, e donna maiestosamente avanza ver ello. Spalle
   felici e testa pure, vui primiere tocche fusti, e tu seconda
   chiovata dalle labbra di lei! Ed io di avanzar di molto pauroso
   e chieder lo bello dono. E..... mi cennò, ed io andai e fui
   tocco e dalle braccia e dalle labbra.

   Stante felice, che non durasti! Ed Ella che or chiamerò Povertà,
   sfumò, e lo giovane, (che fisso per seguace di lei) seguilla.

   Addio Visione! tu te ne ivi, e tornavo alla bestial dimora,
   quando femmina m'apparia[68], intoppo lei copria qual monaci e
   monachelle usan portar. Cenno mi fè colle digita ver lo cielo,
   in mia vision stellato, e ricogliei lo bacio che gittavami.

   Addio Visione! io torno alla mia bestia, ed ecco che in
   ella entrato, facciomi alle buche ogi, e miro lo vecchio
   piagnucolante chino sullo corpo mio, spento il quale credea,
   ed or: — Fratello, che ti avvenne? — Ed io a lui: — Cotale
   una cosa mi avvenne, onde dotti lo mio abbiglio bello e lo tuo
   molto schifo prendo, che ho mutato stile, addovendo ire a mia
   sirocchia Povertà, poscia che ella mi ha chiamato.

   Allor fu visto Mastro Jacopone gir per le vie non più di
   cremisino adorno, ma meglio di color marroncello tirante.

   E ciò altra cagion non ebbe se non lo volere d'Iddio, che così
   volle e fece.

                                                          JACOBUS

Ora la visione scaturisce da umile fonte, da un aneddoto; e con tale
schiettezza, che la figura di quel Messer Ambrogiotto si disegna
parlante sotto gli occhi.

   VISIONE OTTAVA

   Di una domanda oscura, la quale non potendo capire, ottenni per
   ella visione che mi pagò.

   Egli avvenne che una sera, endo io per Todi mio, essendo lo
   tempo pluvioso e preparando burrasca, tutti ritiravansi gli
   onesti cittadini in dimore loro.

   Allo scopo di gloriare Iddio e la mia bestia martorare mi
   rimanei allo scoverto a toccare la pluvia; ed ecco uno uomo,
   già mio intimo, dissemi: — «Mastro Iacopone, vo' siete stolto
   assai.» — Dissi lui che di ciò non dubitavo, ed egli: — «Via
   ditemi messere povero, non bramerebbe meglio Iddio che voi
   adoperaste lo intelletto ad illuminare ed aitare l'umanità, in
   luogo tutto di far per vui?»

   Io mi rimasi come colui che non ha risposta e dissi lui: «Messer
   Ambrogiotto, che Dio benedica, gli è forse vero!»

   Ed ello toccandomi spalla, issene con le parole: — «Adoperatevi
   in utile cosa.»

   Colà mi rimasi che non habeo altrimenti fiato; indi con
   adagiatura, obbedendo forse senza saperlo allo mio amico, ero
   inviato verso casa.

   Nello tempo che camminavo la strada, vennemi cogitazione, la
   quale si era: habere visione, grazia la quale erasi ripetuta
   già. Ed allora fui ratto in ispirito, che non ero ancora entro
   in dimora.

   Io vidi lungo pantano[69] entro lo quale batteansi di molte
   anime, le quali di molto sfavellavano; presomi freddo per le
   loro parole, fui ratto più elevato e vidi.... una lunga fila di
   uomini luminosi, li quali, endo su pedana di angeli, traevano
   seco loro e diretro chi dua chi dieci ispiriti habenti diversità
   di luce.

   Seggiuti sovra[70] umilissimi servi angeli e da loro condutti
   per lo aere, vid'io ispiriti lordissimi di corpo e vestimenta,
   di volto angelichissimo, li quali non possedevano però luce
   maiora degli alteri a disotto.

   Ivano li beati sulla fila di angeli e di nugole luminose; molto
   però faticavo in visione di loro; ma ecco che venuti al paragone
   estremo, spiccare volo altissimo gli uni li quali si erano li
   sucidi; magni addivennero li più bassi; cotalchè nelle smisurate
   braccia accolsero quei che erano loro seguito e seco volaro.

   Nel tempo che tutti erano scomparsi e addivenuti stelle lucenti
   nello alto dello cielo, comparimmi agnolo così dicentemi: — «Or
   tu desideroso di cognizioni, apprendi come vanno nello cielo
   entrambi, e colui che ammaestra i popoli e lo custode unico di
   se. Or mi segui e vedrai.

   Abbracciommi lo beato, e lo dolce amplesso caldo e molle di
   sue ali provai per alcun tempo, nello mentre che spaziava le
   infinite miglia! Tirommi poi fuora; mostrommi e vidi....! ma
   come mostrerò io e dirò io a vui?

   Luce regnava maestra nello loco di Iddio!....

   Quando fiatossi vista mia alla stupendezza, vidi gruppi di
   ispiriti li quali conversavano e mi pareano beati; ma non
   entravo, tanto mente mia era sconfitta. Poi dissemi lo agnolo,
   allo ricordo del quale visibilio tutt'ora: «apprendi come chi
   insegna allo mondo gode quivi, non per se solo, ma per coloro
   eziandio che acquistò alla beatitudine». Indi aprendo le mani,
   lasciommi cadere in spazio.

   Soffrii per poco contrazione nel dentro la quale mi destò così
   tanto beato che non tenevo.

   Rallegravasi meco lo tempo, lo quale era addivenuto celeste, e
   fuggiano in ver Assisi le nugole.

   Usciano le gente di dimora, le quali aveanmi visto su soglia mia
   qual morto, ma non se ne premerono, stimandomi dormiente o ch'io
   so.

   Corsi io ben ratto da Messer amico mio Ambrogiotto, lo quale
   desinava, e veggendomi: — «O mastro Iacopone, lo vento che
   conduce via le nugole, v'ha egli qui condutto?»

   Al che io stimai sorridere e feci parola così: — «La istruzione
   vostra mi porta, la quale mi preme.»

   — «Or dite» dissemi lui.

   Ed io: — «Or sappiate che per la Iddio grazia ebbi risposta» —
   «La quale? or rammento! ben vo' dite; ed ella è? piacendovi.»

   — «La è che s'i' continuassi così solo, godrei da per me; se
   voi acquistassi allo amore grande di Iddio, molto più godrei;
   onde fu giusto il vostro dicimento, faccia Iddio ch'egli abbia
   compimento e per voi incominci.»

   Levossi allora e: «Se alla pluvia non starò, se non dormirò su
   fienile, habendo io donna e figli, come voi dispregiai amerovvi
   e stimerovvi, e tenterò imitare, come Iddio non adorai, farollo
   estremamente dal dì d'oggi.

   Doppiamente beato uscii dopo haberlo strinto, e quei come disse,
   fece.

   Amanti miei, Iacobus ispirito or tenta voi ridurre come messer
   Ambrogiotto. Incitommi a visione Ambrogiotto, or beato, vo' me
   incitate pure: addivenite beati.

                                                          JACOBUS

Il poter dare una così felice interpretazione artistica dei mistici
rapimenti del medio-evo sarebbe certamente una stupenda prova
d'ingegno, anche quando chi la facesse, non che giovanissimo e di poca
cultura, fosse maturo di anni e d'intelligenza e, filologo e artista,
avesse il suo medio evo e gli scrittori mistici di quell'epoca tutti
sulla punta delle dita.

Ebbene; la cosa parrà più prodigiosa ancora, allorchè vedrassi
lo stesso giovane _medium_ spiccare un gran salto indietro, dal
medio evo ai tempi quasi favolosi della guerra troiana o a quelli
gloriosamente epici della battaglia delle Termopili; allorchè, invece
delle solite amplificazioni classiche e delle vuote declamazioni di
scuola, darà lunghi brani di cronache improntati da una vivissima e
schietta intuizione di quei remotissimi tempi, lumeggiati con inattesa
originalità di particolari e singolare efficacia di parola.

Dài per soggetto a un bravo poeta la morte di Patroclo o quella di
Ettore, e le reminiscenze omeriche e virgiliane gli rifioriranno
involontariamente nella immaginazione e nello stile; sarebbe anzi
strano che il contrario avvenisse.

Leggi intanto questi due brani di una specie di Cronaca _della guerra
di Troia_ scritta, colla solita _medianità_ meccanica, dal giovane
Gordigiani, e rimasta disgraziatamente incompiuta.

Nella Iliade, Patroclo muore in battaglia. Appena Apollo lo spogliò
delle invincibili armi di Achille,

    Fra l'una e l'altra spalla lo trafisse
      Coll'asta, da vicin, di Panto il figlio
      L'audace Euforbo.

Non così audace però da potergli tener fronte.

    Anzi dal corpo ricovrando il ferro
      Si fuggì pauroso, e nella turba
      Si confuse il fellon, che di Patròclo
      Non sostenne la vista. Da quel colpo
      E più dall'arte dell'avverso Dio
      Abbattuto l'eroe si ritirava
      Fra i suoi compagni ad ischivar la morte.
      Ed Ettore veduto il suo nemico
      Retrocedente e già di piaga offeso,
      Fra le file vicino gli si strinse,
      Nell'imo casso immerse l'asta e tutta
      Dall'altra parte riuscir la fece.
      Risuonò nel cadere.......

È l'idealità eroica della leggenda. Non ti parrà ora di sentire una
voce umile ma verace come la testimonianza di chi ha veduto coi propri
occhi?

   Avvenne a Patroclo, che distendendo le vele per dar agio al
   vento di condurlo, mancatogli un piede cadde e di cimiero dètte,
   anzi a tal punto fu stordito, che fu detto e si ritenne alcun
   tempo per morto. Esculapio non ancora era nato, e gli convenne
   guarire senza verun aiuto: non però dalla parte dell'antico
   amico, il quale informato dell'accaduto si tolse le pesanti
   armature sol ritenendo la spada in cinta, e a lui sen venne a
   nuoto. E allo scrittore saria bello descriver il furore di lui
   tanto inoltrato, che traversato il braccio umido di mare, non lo
   potè ispegnere. Ell'era rabbia di non esser informato, unita al
   dolore di ciò che diguastar non si potea.

   Infelicissimo! Achille mirava lo amico dolente del male, e
   poicchè pericolava grandemente di morte, giurò al suo Dio laro
   che se conservato gli fusse, ei a solo avrebbe affrontato la
   Troiana porta: in caso di cattivo successo avrebbe raggiunto
   l'estinto, cosa che gli sarebbe gradito molto.

   Baciò Patroclo in fronte e si ritrasse a pregare per il
   riuscimento di quello che voleva conseguire.

Ma ecco Ettore che, arrampicatosi di soppiatto sulla nave, protetto
dall'oscurità della notte, penetra nella cabina.

   Il barbaro misnudo giunse frettoloso alla soglia di una
   stanzuccia, ove gemeva Patroclo, non più della ferita, ma
   di vedersi fermo; e febbribilmente scotea lo braccio di arma
   sprovvisto. Fu allora che levato in quel punto lo teneva, quando
   fermò lo sguardo nell'apparso: «Giugni: almeno ch'io mora di
   arma, non di caduta vilissima.»

   Ed era spento il lume che pronunziato così ebbe.

Nella Iliade Ettore muore anche esso sul campo. Achille, nel punto di
finirlo, lo schernisce e lo minaccia:

      Stolto! restava sulle navi al mio
      Trafitto amico un vindice, di molto
      Più gagliardo di lui: io vi restava!
      Io che qui ti distesi. Or cani e corvi
      Te strazieranno turpamente, e quegli
      Avrà pomposa dagli Achei la tomba.
    E a lui così l'eroe languente: Achille,
      Per la tua vita, per le tue ginocchia,
      Per li tuoi genitori, io ti scongiuro
      Deh, non far che di belve io sia pastura
      Alla presenza degli Achei: ti piaccia
      L'oro e il bronzo accettar che il padre mio
      E la mia veneranda genitrice
      Ti daranno in gran copia, e tu lor rendi
      Questo mio corpo, onde l'onor del rogo
      Dai Teucri io m'abbia e dalle teucre donne.

Leggi la drammaticissima scena che siegue attaccando col brano
precedente; par côlta sul fatto!

   Barbaro! se ragionato tu avessi prima del misfatto e informato
   su chi operavi, noto ti sarebbe che il trucidato fu già nemico
   vostro, ma il più dolce e pacato.

   E tremolante sulle staffe si diresse al ponte: e non fu in tempo
   di veder le stelle, che ombra apparia molto spiccata, non alta
   ma larga per molto: sostenea in membro lama scintillante di
   rosso porporino. Piantò il barbaro all'inaspettata venuta, e
   gravosa sotto la colpa chinò la fronte, come volpe cui beccar
   raggiugne.

   «Maladrin, ove ti sei ridotto?» E silenzioso mantenendosi
   l'altro, continua: «Questa sia tua tomba, tu che lordata
   l'hai..... ma..... che mi balena l'ombra?..... Tal luogo è
   rubicondo: tua lama ove intrisa l'hai? Rispondi pur anco e
   ti faccio....[71] in eterno.» — E ratto prende il braccio
   dell'avvilito. «Vieni!» e lo trascina — Sia nota pria
   all'universa flotta la prigionia della volpe: vieni! (ripete)
   che l'aria intera ti conosca micidial bestia perfida, o tu
   sei morto!» — E vigoroso un pugno trasecolar il fece — Cade il
   prigione sempre muto: si rialza e tira oltre. «Malora a te!»
   dice il conduttore, e queste parole ultime furon men sonore,
   perchè pronunziate all'aperto. Unico il centro, e molti i rai
   eran diretti sul barbaro, e ovunque iva era seguito: onde fu la
   forma un circolo che attorno iva alla torre di comandamento —
   E giunge al cospetto di Agar, il quale studioso in se, rizzasi
   allo inaspettato clamore, e non sì tosto grida. «Morto costui!»
   al che Achille risponde: «Meglio l'ignominia innanzi a costei
   (morte): costei...... e non potea più dire. Troncandosi di poi:
   «ov'è l'amico ch'io non veggio?» e via.

   Venite meco, anagnosti, e vederete ove Achille va: al luogo ove
   scoprì il barbaro appunto, e va più oltre: al punto ove Patroclo
   morto se ne stava. Ed ecco come operò. Il corpo prende, in sulle
   spalle il pone e se ne torna al convito ove lo posa nel mezzo,
   e sclama: «ecco il gallo dalla volpe ucciso».

   _Agar._ «Dicci lo schifo tuo nome.»

   Tace il prigione, cui non cocevan i rai potenti su lui
   indirizzati, anzi scivolavan sul suo nudo corpo quale fosse di
   ferro coperto: stupendo pel suo disprezzo.

   _Achille._ «Non tu lo dirai?»

   Tace.

   Tutti. «Tu lo dici?»

   Tace.

   _Achille_, al beccaro: «Feriscilo!»

   Un pugnale lo trafigge nel costato: spilla il sangue, e non un
   grido.

   _Achille_, insistendo: «Il tuo nome!»

   Tace.

   _Achille_, al beccaro: «Feriscilo!»

   Il pugnale entra.

   Prigione freme e tace.

   _Agar_ ad Achille: «Non tu credi che il dirà?»

   _Achille._ «Lo dirà».

   _Prigione._ «Chi sa!»

   Achille vuole slanciarsi sul misero, ed è trattenuto dai
   circostanti. E il suo magnifico corpo di uomo rassomigliava a
   tigre cui ferro trattiene, e anela.

   _Achille._ «Sapran fartelo dire i figgimenti.»

   Al beccaro fa segno che operi. Che si ode? Un fremito
   doloroso, gemiti, e debole nascere compassione che riconosciuta
   l'inferiorità si ritira, (sta bene, ma sta male espresso: —
   compassione volle farsi avanti, ma si vide debole e ritarossi
   ben tosto — ).

   Il prigione cade, e non esala l'anima senza dir pria «E torre
   crudelmente le parole!» Sonorissimo segue di poi: «Ettore!»

   Quale il fulmine cadendo non si tosto lo scorge il presente[72]
   fu la parola ripetuta dall'ecco della stanza e si stanziò
   si rapida negli orecchi che non la si vide — Come l'acqua in
   rapidissimo colle presto vassene, ma gran contento fu provato,
   e lo sgomento della trista operazione prese di poi il seggio.

   Adunque non vi dirò della processione attorno alle mura del
   morto Ettore, operata da Achille — Malgrado la mia debolezza
   spero averete inteso Ettore da beccaro ucciso fu, e non
   esanime ma vivente, e scornato condotto intorno alla torre di
   comandamento della nave. Onore a Achille non più beccaro.

   Faccio come la ape, che va da calice odoroso e flagrante di
   verità.

   Io, narratore del tutto, salgo dell'albero maestro in sulla
   vetta, e poggiando la schiena contro, miro e odo — Che
   cosa miro? Miro a traverso l'opaco e denso velo di notte
   le forme delle galee nimiche che se ne tornano al lido. Odo
   i loro lamenti, o meglio un indistinto susurrio, e, (forse
   immaginazione) mi ferisce direttamente un nome: quello di
   Ettore! Ettore! che i figli implorano ed han lasciato: e i
   galeanti ripetono: Ettore!

   Odo, e questo ai piedi miei, salmi recitar per un defunto,
   Patroclo appunto, e a questi frammiste imprecazioni e
   stupidamento, e pronunziato Ettore! egli, egli... Achille
   pronunzia: «Ettore! egli, egli!» quasi stupefatto che un nemico
   aborrito abbia potuto così operare sul dolcissimo amico del cor
   suo. Larga la scena debole il narratore.

   «Core mio (prosegue Achille) tu sei intero, ed è spezzato quello
   di Patroclo.»

   Veggo le mie piante illuminate dal basso repentinamente, e
   guardo giù per vedere numero di fiaccole e colla accese girare
   ostinatamente intorno alla nave, e cantano i salmi, Plutone! è
   ripetuto:

Ma questo che viene appresso è più nuovo, più originale ancora e più
perfettamente greco.

Le Termopili!

Qualcuno ne ha fatto perfino della coreografia in versi; chi poi non vi
ha declamato sopra?

Qui invece si narra.

   Ho un grande episodio da narrarvi se tempo ti basta.

   «O figli di Licurgo (grida il mio duca Leonida) chi viene alle
   calde porte?» Domanda, e lascia all'eco dei monti di Beozia la
   cura di ripetere.

   Liscinio è accanto a me. Dai ventimila fanti molti se ne
   staccano, ch'io stimo a ventimila: non meno che tutti.

   «Io dico (soggiunge Leonida) venire a morte!

   — Venire a morte! — ripete l'eco, quasi assumesse la
   responsabilità di farcelo entrare ben dentro in mente.

   Leonida vede alcune spalle: quindicimila volti lo guardano,
   quasi lui dovesse tutti consigliarli: E non cessa, ma dice:
   «Amate ricevere le frecce che vi renderanno meglio? Un tumulo si
   inalzi, e sia di prodi; chi fra questi sarà?»

   Ventimila tornano a lui.

   «Tutti prodi!» si grida — «Tutti prodi vi stimo, e non sareste
   di Sparta, l'Eurota non v'avrebbe bagnati.»

   Così dispiego io. Lui dicea: «Comando che ognuno dinanzi a me
   passi, e non mi saluti — Sia così.»

   La processione dura, e io a Liscinio nel qual tempo dico: «mezzo
   è il mio core, a te ho dato l'altra parte: io non te la chiedo:
   ma potrò io morire, potrò io battermi? dammelo, dammelo.......
   Non me lo dare anzi: vieni meco e vedrai il resto.»

   Liscinio in braccio prendo e sono per passare di fronte a
   Leonida, che ben trecento sono, che dico? quattro centinaia sono
   scelti: non più ne vuole; pur me chiama inoltre.

   E rimembro.

   «Eineucalion, tu sei un bravo, (era vero!) vieni avanti..... Ma
   e chi è costui che porti al braccio?»

   «È il mio mezzo core, rispondo.

   «Vieni tu solo, che più non ne voglio: osò dirmi.

   Liscinio a lui: «Debb'io restar con mezzo core?»

   «Eineucalion, fatti oltre solo.»

   E non mi mossi di un passo, ma Liscinio teneo tuttora.

   Leonida: «Io te lo impongo.»

   «Con mezzo core non posso stare a battermi.»

   «Che intendi dire?»

   «Se amici non hai, debb'io curarmene?»

   Dura cosa è il dirlo: alla forza volle ricorrere! Ma da Liscinio
   mi staccai, e dissi: «Chi mi tocca, ardito lo stimerò! Solo
   compiango dover morire per mano amica: non speravo così.»

   «Venite avanti tutt'e due; saranno qualche centinaia di nemici
   di più stesi morti — Val più due valorosi che uno.» E la lancia
   me tocca e Liscinio. E andammo e morimmo.

È semplicemente sublime!

                                   *
                                  * *

Mettendoti sotto gli occhi il processo esteriore dei fatti, ho notato,
via via, come in margine, quello, interiore, delle mie idee.

Non è parso anche a te di assistere al graduale svolgimento di un
unico fenomeno che dalla semplice sensazione passato ad invadere
l'immaginazione e da questo penetrato, a poco a poco, nel dominio più
elevato delle facoltà della mente, vi abbia risvegliato e messo in
moto energie sopite e ignorate, di miracolosa apparenza? Non ti si
è presentato spontaneamente dinanzi il concetto di una strettissima
analogia tra lo stato normale e l'anormale, tra il sonno e il
sonnambulismo provocato, tra lo stato magnetico e lo spiritico, fra
questi due e lo stato ordinario delle nostre facoltà intellettuali?

Certamente analogia non vuol dire identità; ma la differenza non
può neanche significare che un fenomeno esca dal circuito dei fatti
naturali tanto da doversi attribuire ad un agente fuori di noi.

La nostra ignoranza intorno alle funzioni del sistema nervoso e del
sistema psichico che gli corrisponde ci impone di essere circospetti.
Tu rideresti certamente di un medico che volesse attribuire i fenomeni
della gran nevrosi isterica al vecchio intervento del diavolo. Le
_demoniache_ di una volta oggi non vengono più bruciate ma condotte
negli ospedali o rinchiuse nelle Case di salute; e la Chiesa cattolica
non fiata. Tu rideresti egualmente del tuo medico se ricorresse
all'azione di forze ignote, tutt'altre che quelle del magnetizzatore
e della magnetizzata, per spiegarti i fenomeni sorprendentissimi del
sonnambulismo provocato. O perchè, domando io, non dobbiamo trattare
alla stessa stregua coloro che, pur riconoscendo gl'intimissimi
legami tra il sonnambulismo provocato e i fenomeni dello spiritismo,
s'inalberano poi all'ipotesi che questi, con la loro base anzi radice
in quegli altri, possano esserne semplicemente una varietà, sebbene
molto distinta e più straordinaria?

Ammettendo che la scienza, o meglio, che certi scienziati si siano
affrettati a conchiudere troppo presto colle loro recise negazioni, non
devesi pure ammettere che gli spiritualisti e i credenti spiritisti si
siano affrettati troppo presto anch'essi conchiudendo affermativamente?
A me pare di sì.

E mi pare più giusto il convenire che con tutto il meraviglioso
progresso delle nostre cognizioni positive, nel presente anno di
grazia mille ottocento ottantaquattro, noi ci troviamo, di faccia a
molti fenomeni naturali, nella stessissima condizione dei poveri
selvaggi al cospetto di altri fenomeni spiegabilissimi per noi e per
essi ancora un mistero. Però noi, selvaggi della civiltà, ammaestrati
dalla storia, dovremmo condurci assai diversamente di quelle misere
creature poste dalla loro cattiva sorte nei più bassi gradini della
gran scala umana. Invece, forse per una severa legge dello spirito,
procediamo alla stessa guisa.

Inoltre, siamo avvolti nella nebbia dei pregiudizii, tutti, scienziati
e non scienziati; tanto i materialisti presi dalla paura di vedersi
forzati, _dai fatti_, ad ammettere l'esistenza di un _qualcosa_ non
semplicemente materia; quanto gli spiritualisti atterriti dall'idea di
veder quel _qualcosa_, dagli onori di puro spirito immortale, degradato
alle condizioni di un che nè tutto spirito come essi l'intendono,
nè tutto materia come l'intendono quegli altri. E il curioso è che,
stringi, stringi, nè gli uni sanno nulla di positivo, di veramente
scientifico, intorno al loro spirito immortale, nè gli altri nulla di
positivo, di veramente scientifico intorno alla costituzione della loro
materia!

Sì, siamo ancora avvolti nella nebbia dei pregiudizii, tutti,
scienziati e non scienziati. A seconda delle nostre idee preconcette,
la verità ci fa paura e le andiamo incontro fino a un certo punto,
fin dove ci torna comoda, fin dove colla nuda e cruda attestazione del
fatto non ci mette alle strette di dover confessare umilmente la nostra
grande ignoranza. Se così non fosse, non avremmo ora la cocciutaggine
della scienza nel negare fatti evidentissimi che saltano agli occhi da
ogni parte, nè l'altra di attribuire risolutamente tali fatti a cause
supernaturali, come se fossero già stati esauriti tutti i possibili
mezzi di esame per annodarli alla gran catena dei fenomeni del mondo
inorganico e dell'organico, dato che siano due mondi e non uno solo,
solissimo.

Claudio Bernard, nelle conversazioni e dalla cattedra, ripeteva sempre:
_un fait morbide n'est que l'exagération d'un fait normal_.

Tolto via quel _morbide_, che qui non c'entra, non parrà ardito
l'affermare che i fatti eccezionali, sorprendenti, miracolosi, siano
soltanto l'esagerazione di fatti normali.

Io potrei facilmente ridurre questa lettera alle proporzioni di un
grosso volume, registrando una serie di fatti autentici, indiscutibili,
nei quali le ordinarie facoltà del nostro organismo sonosi elevate ad
una potenza eccezionalissima, da rasentare il sonnambulismo provocato,
lo spiritismo ed anche il miracolo, senza che per ciò si tratti di
fenomeni precisamente magnetici, spiritici o di miracoli religiosi.

Mi contento di rimandarti a un libro curioso, divertente e scritto,
nello stesso tempo, con vero intendimento scientifico. Esso non ha la
stolta pretesa di aver risoluto l'intrigatissimo problema dei fenomeni
spiritici; ma, senza dubbio, ha il merito di averlo proposto con
coraggiosa franchezza, con ammirabile nettezza, e di aver additato la
via per cui dovrà indirizzarsi la ricerca della soluzione avvenire.
Esso s'intitola: _Essai sur l'Humanité postume et le Spiritisme_ e n'è
autore il signor Adolfo d'Assier, un positivista comtiano[73].

Ripeto: analogia non vuol dire identità: esagerazione già implica
sproporzione di qualità e di misura. Quando la semplice sensazione
magnetica invade l'immaginazione, è diventata quasi un'altra cosa;
quando il fenomeno passa il limite dell'immaginazione e si accampa
nelle facoltà più elevate dell'intelligenza è penetrato in una regione
dove nessun fisiologo può ridurlo ad una special forma di movimento
molecolare senza sconfinare dalla propria giurisdizione veramente
scientifica.

Oh, non ti figurare che la mia leggerezza e la mia vanità di curioso
e di dilettante siano per essere così eccessive da spingermi dentro il
ginepraio di così ardui problemi.

Io aspetterò, fiducioso, come te e tutti i nostri pari, i responsi
della nuova psicologia a cui lavora così tenacemente la filosofia
scientifica moderna; e aspetterò che il prossimo libro del mio
Pietro Siciliani contenga questo importantissimo capitolo scritto con
quella serena imparzialità che gli viene dal giusto punto di vista
in cui il suo positivismo critico l'ha posto, egualmente distante
dalle dommatiche affermazioni dei positivisti del materialismo e dei
metafisici dell'idealismo.

Intanto, nè Tu nè il Siciliani, spero, giudicherete che io vada oltre
la mia ristrettissima competenza, stendendo la mano a uno solo dei
tanti spinosi problemi spiritici, quello delle _communicazioni_ in
forma artistica.

Se sono arrivato al mio problema imitando il _bonhomme_ Lafontaine,
che nell'andare all'Accademia prendeva sempre la via più lunga; se
ho sentito il bisogno di largamente giustificare la mia posizione di
osservatore dilettante, descrivendo a grandi tratti tutto il cammino da
me percorso, vuol dire che ho piena coscienza del mio limite e che non
intendo passarlo.

Con le _communicazioni_ in forma artistica mi è parso di trovarmi
in casa mia, perchè i riscontri dello stato normale coll'anormale
ho potuto praticarli non solamente con più faciltà ma con maggiore
esattezza, il doppio esperimento essendo, in questo caso, fino a un
certo punto, assolutamente personale. Avrò male apprezzato i resultati
della mia piccola inchiesta? Non vorrà dir nulla. Rimarranno sempre i
fatti che hanno un valore da per loro stessi.

Per ciò ho vinto la giusta repugnanza di parlare in pubblico della
mia povera persona. Non si tratta, ho detto da me da me, di questioni
puramente letterarie, ma di osservazioni psicologiche, di esperimenti
stavo per dire _in anima vili_; ed ogni fenomeno umano accuratamente
osservato ha molto valore per la scienza, qualunque possa essere,
grande o meschino, il soggetto nel quale, per un concorso di favorevoli
circostanze, è venuto a prodursi.

Così possa sembrare non senza importanza anche agli altri il conoscere
qualcuno degli svariatissimi modi con cui l'interessante fenomeno della
opera d'arte può manifestarsi nel mondo!

                                   *
                                  * *

Per quanto sia vero che la riflessione entri oggi nell'opera di arte in
maggior quantità che non pel passato, c'è sempre un punto, nell'atto
della produzione, in cui la facoltà artistica agisce con completa
incoscienza.

Il mestiere, il tecnicismo giova, fino a un determinato grado,
nell'elaborazione della forma; la prepara, la stimola, l'agevola, la
mette in moto; ma l'atto, ma il vero punto della creazione si avvolge
infine, come in ogni altro fenomeno vitale, nelle misteriose oscurità
dell'incoscienza.

Le preparazioni, i processi possono variare all'infinito. Tra il
Balzac, per esempio, che ha bisogno di una elaborazione faticosissima
e si dibatte e si contorce disperatamente nei suoi lunghi dolori del
parto, tra lo Zola che architetta freddamente, matematicamente tutta
la serie dei suoi lavori e un certo Salvatore Farina di nostra intima
conoscenza che, preso un foglio di carta, scrive le prime righe di una
novella o di un romanzo senza saper nulla intorno ai suoi personaggi e
alle loro azioni e va incontro ad essi e dietro a questa, _flanant_,
alla ventura, sicuro che le sue creature usciranno, a poco a poco,
dalla loro indeterminatezza e si metteranno ad agire e a parlare con
piena libertà d'arbitrio nel limpido mondo della sua fantasia, c'è, chi
non lo vede? un'enormissima differenza di messa in opera e di processo.
Ma nel punto culminante? Il Balzac, lo Zola e quel Salvatore Farina di
nostra intima conoscenza riescono tutti e tre ad un identico resultato,
riescono a quella che io chiamerò l'_allucinazione artistica_, alla
incosciente incarnazione di un loro concetto, inesorabile analisi
psicologica, legge di patologia umana, geniale benignità morale, non fa
caso.

Il valore, la vitalità dell'opera di arte dipende dalla maggiore o
minor preparazione tecnica che nella concezione di essa interviene.
L'arte, come forma e nient'altro che forma, ha un proprio organismo
che si va di giorno in giorno sviluppando in tutta la sua rigogliosa
crescenza, e non sta nell'arbitrio dell'artista l'accettarne o il
rifiutarne la preesistente ricchezza di forma, allo stesso modo che non
sta allo scienziato l'accettare o rifiutare il materiale della scienza
raccolto fino al punto in cui egli la trova. Eppure la compenetrazione
di quella forma col fantasma artistico individuale, qual esso risulta
dal complesso delle facoltà dell'artista, rimarrà, forse per sempre, un
fenomeno inesplicabile nella sua essenza. Cessa di essere, per questo,
un fenomeno normale, ordinario, naturalissimo?

Il valore, la vitalità di un'opera di arte dipende anche dalla
maggiore o minor quantità di impressioni immediate che noi vi facciamo
intervenire. Queste non sono, come parrebbe a prima vista, intieramente
coscienti. La più gran parte, accumulate indirettamente, per la via
dei sensi, nei ricettacoli nervei e psichici del nostro organismo, si
svegliano, si coordinano, si fondono in uno stupendo insieme sotto il
pungolo di un'eccitazione volontaria o che almeno sembra tale.

L'artista procede, in questa circostanza, come i _soggetti_ del
sonnambulismo provocato, ed ha la sua particolare allucinazione; la
quale differisce dalle sonnamboliche unicamente per gradi, minimi o
massimi, d'intensità e non per la intima sua natura.

Per entrare, come sogliamo dire, nella pelle del nostro personaggio
noi adoperiamo ora contrazioni muscolari e isolamenti di determinate
sensazioni a fine di lasciarne libere alcune altre più confacenti
al nostro scopo; ora vere interruzioni o sospensioni della nostra
personalità; e il Mosso potrebbe dirci l'equivalente trasformazione
in calore di questi diversi movimenti. La perfetta oggettività della
ben riuscita opera d'arte non ha altra origine; talchè l'artista non
fotografa neppure quand'egli stesso crede di soltanto fotografare.
Interpretare, integrare, compire i dati più immediati della realtà
con altri più complessi accumulati nel suo organismo dalle sensazioni
inavvertite e (oggi bisogna aggiungerlo) con quelli, più remoti e non
meno efficaci, condensati in esso dall'eredità; ecco le operazioni
concorrenti alla produzione dell'opera di arte, ed ecco la chiave di
oro che può, forse, aprircene i meravigliosi segreti.

Due o trecento personaggi della _Comèdie Humaine_ hanno tale e tanta
evidenza da farli confondere affatto con quelli della vita reale.
L'_allucinazione_ dell'artista si è lì così prodigiosamente condensata
e solidificata nella forma, che l'impressione della lettura non solo
eguaglia l'impressione diretta ma talvolta la vince, perchè nell'opera
di arte c'è come un concentramento di raggi in cui l'eccitata
immaginazione dell'artista fa l'ufficio di lente.

L'allucinazione spiritica, nel produrre le _communicazioni_, passa
gradatamente, come l'artistica, dalla quasi coscienza alla incoscienza.
Infatti il giovane Albertini, dopo le prime prove, dubitava al par di
me che le cose da lui scritte non fossero il resultato di un lavoro
della sua mente, della sua ispirazione, come solevano dire gli antichi.
E se mi si obbiettasse che questa mezza coscienza iniziale non viene
avvertita egualmente da tutti i _mediums_ scriventi, potrei rispondere
che neppure tutti gli artisti sperimentano allo stesso grado quel
_nisus_ nervoso e psichico di cui poi anzi ho parlato. In grazia di
una felice disposizione dell'organismo, l'eccitamento può occorrere in
proporzioni minori.

L'allucinazione artistica, per la intensità e per la durata, differisce
notevolmente da quella delle sonnambule e dei _mediums_.

Noi ignoriamo quali energie entrino più particolarmente in funzione, e
in quanta misura, sia nell'una che nell'altra; ma questo non impedisce
di riconoscere la identità nella differenza e la somiglianza nella
diversità che corre fra le due specie di fenomeni in discorso.

Il Balzac non parlava forse dei personaggi dei suoi romanzi come
di persone reali, impensierito delle difficoltà di un matrimonio,
attristato da una scabrosa avventura di qualcuno di essi?

Il Dickens non scriveva al Forster: _terminata la seconda parte_ (delle
_Chimes_, campane) _nel concepire ciò che doveva accadere nella terza
ho provato tant'agitazione, tanto dolore, come se la cosa fosse stata
reale, che ho dovuto chiudermi in camera per nascondere i miei poveri
occhi, gonfi e rossi al punto di dover essere ridicoli?_

E gli esempi potrebbero facilissimamente venir ridotti a migliaia.

Per restringermi, come mi son proposto, alla mia personale
osservazione, eccoti un caso di allucinazione artistica, che chiamerò
complicata perchè intrecciasi stranamente colla quasi allucinazione
sonnambolica o spiritica che vogliasi dire. Questa complicazione ha
poi, secondo me, impedito all'opera di arte di condensarsi nella forma
e venire alla luce.

Nella Galleria dell'Accademia di San Luca in Roma c'è un _ritratto
d'ignota_, del Van-Dick, una bella testa dalla fronte liscia, dagli
occhi vivissimi, dalla carnagione bianca e fina, dalle labbra sottili
e semi aperte a un sorriso. Incastrata in un gran collare di merletto,
ha l'apparenza di una testa staccata dal busto messa in un vassoio
di argento finissimamente cesellato. Gli scuri capelli tirati in su
torreggiano sulla fronte circondati da un piccolo diadema di pietre
preziose legate in oro; quattro file di perle, fermate da una borchia
d'oro, con un ciondolo, le pendono sul seno.

Nell'ottobre del 1875 questo ritratto trovavasi nella prima sala,
un po' in alto, accosto alla finestra, quasi di faccia all'uscio di
entrata.

Ne rimasi come affascinato. Stetti a guardarlo lungamente, senza
staccarne gli occhi un istante... Chi era colei? Una gran dama, di
certo; si capiva dall'abbigliamento. Ma quella sua carnagione di
un pallore di avorio; ma quella pelle che mi pareva mostrasse nella
maturità lo stato verginale del corpo — una pelle _non usata_ e già
diventata un po' rigida —; ma quelli sguardi che si fissavano così
intentamente nei miei, quasi animantisi a poco a poco, per interni
fulgori prodotti dalla simpatica insistenza con cui la guardavo;
ma quel mezzo sorriso, di una mitezza triste, che si accordava così
bene con l'aria un po' fredda dell'aspetto; tutto, tutto mi faceva
intravedere, a traverso la nebbia di due secoli, una pietosa storia
di intime sofferenze, eroicamente sopportate nella glaciale solitudine
del suo palazzo o del suo castello; la storia d'una passione repressa,
non sapevo se per volontaria fierezza della propria condizione o per
contrasti di famiglia.

E mi sentivo commosso da un compatimento grande verso quella bella
figura di donna che mi pareva quasi sdegnata di vedersi lì, in mostra;
offesa ogni giorno della sbadata curiosità dei visitatori, ed ora
impressionata dall'insolita compassione con cui uno sconosciuto si
sforzava di carpirle il più intimo segreto della sua vita.

Fantasticavo così da più di un'ora, quando il custode venne a dirmi:
Signore, si chiude.

Poco dopo, all'aria aperta, tra le meraviglie del Foro inondato di
sole, avevo già dimenticato quel ritratto d'ignota e la mia poetica
fantasticheria.

Tornato a casa verso la mezzanotte, chiuso il portone e fatto qualche
passo nell'andito, al buio, intanto che frugo in tasca per lo scatolino
dei cerini, sento o mi par di sentire l'alito caldo di un respiro umano
sulla guancia destra..! Accendo in fretta un fiammifero.... Non scorgo
anima viva.

Rido di me stesso e comincio a montar le scale; ma, all'improvviso,
eccomi assalito da un inesplicabile senso di paura... Mi sembra che una
persona invisibile monti le scale dietro di me.

Questa volta non posso ridere. Salto i gradini a quattro a quattro e
richiudo prestamente l'uscio, quasi volessi impedire l'entrata.... a
chi? Non lo sapevo neppur io in quel momento. Se non che in camera,
mi si presentava subito alla memoria quella bianca e fredda figura
d'ignota dipinta dal Van-Dick.

— Un bel soggetto di novella fantastica! pensavo nello spogliarmi per
andar a letto.

E la tela di essa mi si spiegava nell'immaginazione coi più minuti
particolari: la visita all'Accademia; la sensazione del soffio caldo
sulla faccia provata nell'andito, al buio; poi l'apparizione, da
prima indistinta, indi un po' più chiara, sebbene sempre vaporosa,
dell'Ignota che veniva per ringraziarmi di quel sentimento di simpatia
dimostratole la mattina. Avevo paura; non osavo risponderle. Dopo,
la paura gradatamente diminuiva; la figura di lei diventava sempre
più visibile. E la sera tornavo a casa più presto per rivederla, per
intrattenermi con lei....

— Sì, un bel soggetto di novella fantastica!... Ma la chiusa?

Non la trovavo. E mi addormentai nel cercarla.

Durante la giornata, distratto dagli affari, non mi rammentavo più
della Ignota, nè del soggetto del mio lavoro; ma ogni notte, appena
entrato in camera, la fantasticata allucinazione della novella
diventava quasi una realtà. Sentivo in quello stanzone di via Ripetta
la presenza della Ignota. Negli angoli dove l'ombra era più densa, la
figura di lei mi pareva si disegnasse ondeggiante, come formata da una
leggierissima nebbiolina azzurrognola.

Per qualche momento avevo paura, proprio paura.... (Una notte ci mancò
poco non andassi di là, a svegliare Ulisse Barbieri che forse sognava
un dramma sanguinoso o una ricca caccia colla civetta pel giorno
seguente)... poi riprendevo il tessuto della mia novella, dal punto
dove l'avevo lasciato la sera avanti.

.... La Ignota mi parlava con tenerezza sempre crescente. La
sua gratitudine era già diventata amore bell'e buono e non me lo
nascondeva. Però quel mio terrore di lei la rendeva molto triste: Ah!
il mondo di là non era poi così distaccato da questo dov'ella aveva
tanto sofferto e pianto, amante non riamata! Perchè dunque la facevo
soffrire di nuovo con quel mio puerile terrore? Perchè non la riamavo
un pochino?... Le rispondevo di sì; ma ella mi leggeva nell'animo la
mia forte repugnanza per l'affetto di una morta, di uno spirito! E
intanto l'apparizione si condensava maggiormente. Sentivo la sua mano
posarsi sulla mia colla leggerezza di una piuma di cigno: sentivo le
sue labbra sfiorare tiepide le mie, con una sensazione ineffabile di
dolcissimo ribrezzo...

— Un bel soggetto di novella fantastica! Sì... Ma la chiusa? La
catastrofe?

E mi addormentavo nel cercarla.

E così ogni notte, da capo, vivevo per qualche mezz'ora in uno stato
strano, nè di completa realtà nè di allucinazione completa; talchè,
a volte, non sapevo più distinguere se fosse l'idea della mia novella
che mi producesse quella piccola allucinazione, o se quell'idea fosse
la semplice sensazione di un fatto a cui io assistevo, spettatore ed
attore nel punto stesso.

— Ma la chiusa? la chiusa?

.... Cominciavo ad assuefarmi. Quella relazione con un essere
oltremondano aveva un tal fascino che io non sapevo più resisterle.
Però ella mi appariva, di volta in volta, più mesta, d'una mestizia di
profonda rassegnazione: Neppur dopo morta doveva essere amata! — Ora
potevo proprio stringerla fra le mie braccia. Non l'avrei distinta da
un corpo di donna vivente senza la sua estrema leggerezza; ma i suoi
baci li provavo caldi sulle labbra, e la sua voce non mi arrivava più
all'orecchio così fioca come se giungesse da immensa distanza. — Perchè
sei così trista? — Non mi ami!... Non puoi amarmi! — Oh, no t'inganni!
Io t'amo!... T'amo!.. — Me lo dici per pietà!... Grazie! Addio, addio!
Non ci vedremo più! — E, lentamente, mi svaniva tra le braccia, sorda
alle mie preghiere, ora che l'amavo davvero, ora che avevo le lagrime
agli occhi e sentivo lacerarmi il cuore da quell'addio!...

— Oh!... La chiusa era trovata!

Lo crederai? Questa novella non mi è riuscito di scriverla nè allora
nè dopo. Tutte le volte che l'ho tentato, la forma non mi è mai parsa
così leggiera, così trasparente, vorrei dire così impalpabile come la
richiederebbe il soggetto.

I miei amici, Giorgio Arcoleo — in quel tempo non ancora professore di
diritto costituzionale ma già facondissimo parlatore — Ruggiero Mascari
— uno studente di medicina e chirurgia smarrito pei fiorenti giardini
della letteratura — Francesco Giunta — un amabile scettico che, dopo
aver studiato avvocatura, fa per poltroneria il professore di belle
lettere molto meglio di tant'altri che vi si addicono di proposito —
tutti e tre forse ricorderanno quella bella giornata autunnale passata
insieme sul Vomero, all'ombra del gran pergolato, quando nel raccontare
ad essi lo strano processo di formazione della mia non sapevo se
novella, o allucinazione, o realtà spiritica, mi tremava, un po' dalla
commozione, la voce; e volevo spiegato da loro perchè quel fantasma di
donna scappasse via appena accennavo di volerlo imprigionar nella forma
e renderlo visibile agli occhi altrui[74].

— Ma scrivi la tua novella proprio come l'hai raccontata! mi diceva
parecchi anni dopo Enrico Nencioni ch'era stato ad ascoltarmi con
grande interesse.

Inutile! Quella novella _vissuta_ è rimasta sempre ribelle a
qualunque forma letteraria, cioè superiore; e dimostra che non sempre
giova l'esser pieno d'un soggetto perchè _la mano risponda_, come
Michelangelo direbbe.

Il caso, se non m'inganno, è caratteristico molto. Le due
allucinazioni, quella che ho chiamata artistica e la sonnambolica o
spiritica, vi s'intrecciano ed innestano l'una nell'altra da render
difficile il distinguere in qual punto la loro fusione si compia: del
come non parlo.

Intanto, mentre il ricordo, l'impressione, la _forma ideale_ della
novella mi rimane tuttavia vivissima in mente, l'effetto dell'opera
d'arte che provocolla oramai non è più lo stesso. Ho riveduto, dopo
quasi otto anni, quel _ritratto d'ignota_: la magìa di esso è sparita.
Forse perchè situato in un'altra stanza, con altra luce, in un posto
così basso da poter essere osservato da vicino? Forse perchè lo stato
dell'animo mio era, dopo otto anni, da cima a fondo mutato?

E vi ero andato a posta, una di quelle cento volte che la tentazione
di scrivere la mia novella si faceva sentire più forte, e più forte,
egualmente, l'impotenza di andar oltre le solite due o tre paginette di
scritto! E vi ero andato, chi sa? per giovarmi della probabile spinta
d'una sensazione immediata!... Ahimè, il pennello del Van-Dick non
rinnovava il miracolo del 1875!

                                   *
                                  * *

Avviene non di rado che l'opera d'arte sgorghi fuor dell'immaginazione
così intimamente compenetrata colla forma, così completamente forma,
senza preparazioni od elaborazioni di sorta, che la quasi incoscienza
del lavoro diventa una piacevolissima sorpresa.

Un'incoscienza _sui generis_. Non c'è propriamente un vero sviluppo,
una vera coordinazione, assimilazione, organizzazione di elementi
personali, recenti, remoti, ereditarii; ma bensì una specie di
fioritura della immaginazione nella temperatura primaverile dello
spirito, sotto una luce raggiante non si sa da dove. L'analogia
delle produzioni che ne risultano colle communicazioni spiritiche è
spiccatissima.

Per contentare un caro bambino avevo trascritto nel novembre del
1881 una fiaba popolare, _La Reginotta_. E dicevo al bambino: _mi ero
incaponito a volerti regalare una fiaba proprio nuova di zecca, e non
ci riuscivo. C'è voluto un anno per persuadermi che le fiabe, pari ai
poemi e alle tragedie, non è possibile rifarle_. — Com'è che, parecchi
mesi dopo, prendevo una mattina la penna e scrivevo, di foga, un'altra
fiaba tutta di mia invenzione, _Spera di sole_, alla quale non avevo
pensato neppur un momento?

_C'era una volta...._ E la fiaba era venuta fuori quasi sotto
dettatura; e con tal mio diletto e sorpresa che il giorno dopo,
per prova, ripreso quel quaderno, volli persuadermi se un fenomeno
letterario così insolito per me, fosse tornato a ripetersi.

Tu sai che io amo rimugginare lungamente un'opera d'arte, per averla
nettissima nel cervello in ogni sua parte; in guisa che, scrivendone la
prima parola, possa sapere precisamente quale dovrà esserne l'ultima.
Ho sempre invidiato quei fortunati capaci di scrivere indifferentemente
il quinto, l'ottavo, il decimo capitolo di un romanzo, il terzo, il
quarto atto di una commedia o di un dramma, senza aver messo sulla
carta una sola parola del primo capitolo o del primo atto, spesso senza
neppur sapere quel che dovrebbero mettervi. La profonda convinzione che
un'opera d'arte sia un organismo, non solamente m'impedisce di fare
questi maravigliosi _tours de force_, ma mi arresta per giorni, per
settimane, per mesi, dinnanzi a una parola, a un periodo non confacente
a quell'insieme, ripugnante a quell'organismo. Mi è impossibile di
spiccare un salto a piè pari, di lasciare una parola in bianco o un
periodo provvisorio da servire intanto da addentellato. Inciampi,
miserie del mestiere sconosciuti a parecchi; talvolta per ignoranza
del valore di una transizione, di uno scorcio, tal'altra per una
speciale agilità della mente che trova subito la correzione, la frase
da sostituire, o gira la posizione con felice prontezza di tattica.

Perciò io assistevo a quella inattesa fioritura di fiabe come ad uno
spettacolo fuori di me. Appena scritte le sacramentali parole di uso:

_C'era una volta....._ i miei fantastici personaggi si mettevano
in moto, s'impigliavano allegramente in quelle loro intricatissime
avventure senza che io avessi punto avuto coscienza di contribuirvi per
nulla.

Spesso mi andavo domandando, con curiosità bambinesca, in che modo
il Reuccio o la Reginotta se la sarebbero cavata; e quando la quasi
disperata avventura si snodava felicemente e il Reuccio trionfava, e la
Reginotta otteneva il suo intento, ridevo di cuore e battevo le mani:
brava la Reginotta, bravo il Reuccio!

_Vissi più settimane soltanto con essi_ (coi personaggi delle mie
fiabe) _ingenuamente, come non credevo potesse mai accadere a chi è già
convinto che la realtà sia il vero regno dell'arte. Se un importuno
fosse allora venuto a parlarmi di cose serie e gravi, gli avrei
risposto, senza dubbio, che avevo ben altre e più serie faccende pel
capo; avevo _Serpentina_ in pericolo, o la _Reginotta_ che mi moriva di
languore per _Ranocchino_, o il _Re_ che faceva la terza prova di star
sette anni alla pioggia e al sole per guadagnarsi la mano di un'adorata
fanciulla_.

E scrivendo così nella prefazione del mio libro non adoperavo un
artificio rettorico ma dicevo la schietta verità.

Capisco bene, Amico mio, che non c'è da gridare al miracolo.
Una discreta cognizione della forma artistica delle fiabe; un
mediocre possesso di tutto il loro materiale spicciolo, d'altronde
ristrettissimo, re, reginotte, reucci, fate, maghi, nani, lupi mannari;
la speciale condizione di quel loro mondo così estraneo ad ogni legge
di verosimiglianza e di logica comune; tutto contribuiva ad agevolare
il mio còmpito artistico, quantunque veramente nulla sia più difficile
del facile e nulla più complicato, nella esecuzione, dell'apparente
semplicità in letteratura.

Ma il fatto della quasi inconscienza, ma la spontaneità del fenomeno
non perde il suo valore per questo.

Il caso seguente è più complesso. La sensazione vi si trasforma
lentamente in allucinazione letteraria, e nel passaggio si assimila
altre consimili impressioni della realtà per poi produrre un effetto
inatteso.

Si tratta d'un tale che allora stava per pubblicare un giovanile volume
di novelle, dove la teorica della cristallizzazione formolata dallo
Stendhal riceveva, senza che l'autore l'avesse fatto a posta, una calda
riprova. Come nelle miniere di Salisburgo, il ramoscello sfrondato
della realtà vi si rivestiva d'une infinité de petits cristaux
mobiles et ebluissants; e l'autore, imitando i minatori di Hallein
che ne manquent pas, quand il fait un beau soleil et que l'air est
perfaictement sec, d'offrir de ses rameaux de diamants aux voyageurs,
presentava il suo ramoscello ai lettori, invitandoli a discendere con
lui nelle profonde miniere della passione amorosa.

Però, la cristallizzazione dell'ultima branca del suo ramoscello non
parendogli ben riuscita, egli cercava di porvi riparo. E il caso lo
servì, con uno di quegli incontri che producono il famoso _coup de
foudre_. _Il faudrait changer ce mot ridicule_, dice lo Stendhal;
_cependant la chose existe_.

«Sentivo tremare in fondo al cuore qualcosa di lei penetratovi
a un tratto. Una soave commozione non provata da gran tempo mi
spingeva a fantasticare un mondo di cose indefinite sulle quali
sorridevano come raggi di sole i suoi begli occhi nerissimi.... Per
due settimane rifeci ogni giorno i viali dei Giardini pubblici ove
l'avevo incontrata. Aspettavo, delle ore, smanioso, agitato, come
se le poche parole scambiate fra me e quella donna avessero avuto la
magica virtù d'un violentissimo filtro, e fosse omai stretto ad essa
l'intiero destino della mia vita..... Sentivo sopratutto e vedevo con
lucidezza ammirabile un che misterioso da non potersi esprimere colle
parole, un'emanazione fragrante del suo bellissimo corpo, un riflesso,
un'essenza eterea di esso che mi accusava, dopo tanti giorni, la
presenza di lei in quel posto. La sabbia dei viali ne aveva trattenuto
un vestigio coll'orma dei suoi piedini; l'erba, le foglie delle piante
di fiori, che attorniavano le aiuole, ne avevano rapito qualcosa ai
lembi della sua veste toccati mentr'ella passava; l'aria intiera n'era
impregnata; gli atomi luminosi, da lei spostati nell'andare, vibravano
ancora.»

Si era messo a notare, forse per uno sfogo, queste impressioni sulla
carta, certamente senza più rammentarsi dell'ultima novella del
suo volume che gli pareva non armonizzasse colla intonazione delle
altre; però, di mano in mano ch'egli avea proceduto in quella sincera
confessione del suo peccato di pensiero, il fantasma della persona
cercata con tanta smania e non più potuta rivedere gli si era confuso
nella mente col fresco ricordo di un'altra persona, velando questa
colla grazia gentile della sua bellissima figura. E così, fitta, per
due giorni, una vera ossessione lo aveva posseduto; e la creatura della
sua fantasia, più viva, più evidente d'una creatura reale, gli avea
ripetuto dentro, punto per punto, coi più minuti particolari, il lungo
processo d'una passione morta di sfinimento poco prima.

Col cuore sconvolto, col cervello in fiamme, egli avea lavorato dodici
ore al giorno, di seguito, levandosi dal tavolino soltanto per prendere
un boccone e rifarsi, con un pò di sonno, delle esauste forze; e
appena scritta, con mano tremante, l'ultima parola della sua novella,
era cascato colla testa sul manoscritto, mezzo svenuto; il sangue gli
turbinava nel cervello, in tutta la persona.... _e gli era parso di
morire_.

Poi si era destato da quello sbalordimento come da un grave e lungo
sonno. Stretto e tormentato, per più di quindici giorni, fra i
terribili artigli della sua fulminea passione, in certi momenti anche
atterrito di quella implacabile violenza, si era destato sereno,
tranquillo, completamente guarito. Aveva amato e posseduto, nella
sua allucinazione artistica, l'adorato fantasma; e quel processo di
passione così rapidamente ripetutosi nella sua immaginazione e nel suo
cuore, avea prodotto gli effetti della passione reale.

Tornò ai giardini pubblici per rintracciarvi quello che già gli pareva
un passato lontano. «Era la stessa stagione del nostro primo incontro;
la primavera. Gli alberi ricchi di fronde; le aiuole verdi di erbe e
qua e là fiorite. Il sole, prossimo al tramonto, scherzava coi raggi
tra le frondi agitate dal venticello della sera.

Ahimè! Quei viali, quelle frondi, quelle aiuole non mi dicevano più
nessuna delle mille celesti cose rivelatemi una volta. I zampilli
mormoravano stupidamente monotoni; le acque dei laghetti e dei
canali, torbide, verdastre, riflettevano gli oggetti con un tono di
colorito che faceva schifo. Le rane, nascoste tra le foglie delle
ninfee, gracidavano una musica degna del posto, che ora mi sembrava
pretensionoso e volgare... E andando via rimuginavo:

— Ma è dunque vero che questo mondo di fuori sia una mera creazione del
nostro spirito, uno scherzo, un'illusione?»

                                   *
                                  * *

Lo so; questa quasi incoscienza dell'allucinazione letteraria non è la
perfetta incoscienza delle sonnambule e dei _mediums_ scriventi.

«Gli artisti, dice il Richet, per sforzi che facciano, non giungeranno
mai a perdere la nozione della loro personalità; non cesseranno un
istante dal distinguersi dalle loro creazioni, non dimenticheranno
il loro _io_ e, malgrado la febbre dell'ispirazione, si vedranno
sempre seduti al loro tavolino occupati a fare un poema, un dramma, un
romanzo[75]».

Sta bene.

Nell'_obbiettivazione dei tipi_, com'egli la chiama, le sonnambule non
li concepiscono, li realizzano in loro. «Esse non assistono, come le
allucinate, da spettatrici, alle immagini che si muovono sotto i loro
occhi; somigliano piuttosto ad un attore che preso da subita follìa,
scambiata colla realtà l'azione di un dramma, si credesse trasformato,
corpo ed anima, nel personaggio da rappresentare[76].»

Sta benissimo. Ma la mezza allucinazione, l'allucinazione completa,
l'_obbiettivazione dei tipi_, per quanto differentissime tra loro, sono
forse così dissimili da non potersi ridurre ad uno stesso fenomeno in
diversi gradi d'intensità?

Io non ti ho nascosto la mia ammirazione pei documenti che pubblico.
Dubitando del mio giudizio, ho consultato e fatto consultare persone
assai più competenti e più imparziali di me.

Giosuè Carducci, lette sulle bozze di stampa le _Visioni di fra
Iacopone_, dettava a una gentile amica che gliele avea presentate in
mio nome[77]:

«Di Jacopone da Todi non rimangono prose altro che tradotte dal suo
latino. Difficile dunque giudicare delle prose in queste colonne
rappresentate. La lirica di Jacopone è mescolata di moltissime dizioni
e frasi umbre. Nulla di dialetto umbro nelle prose di queste bozze. In
queste colonne, anzi, molta affettazione di prosa antica del secolo
XIV, che il più delle volte non riesce bene. Ma l'invenzione delle
_visioni_ è molto felice e quasi corrispondente e in armonia ai tempi
mistici.»

Alessandro di Ancona, che conosce fra Jacopone come pochissimi in
Italia, non rispondeva altrimenti ad un comune amico che l'avea
richiesto di un parere, e notava parecchie parole non dell'epoca:
_ufficio, ciuccio, puntaa li piedi, venio, portaali, tiraami lottava,
fulminando, si divertiano, livello, piazzavansi, li mezzi umani_.[78]

Letto l'episodio della battaglia delle Termopili, il Carducci diceva:
«Anche questa volta ammiro la trovata ch'è buona, e specialmente la
seconda parte è consentanea all'ambiente greco. Ma da principio c'è
un _lasciare all'eco dei monti di Beozia la cura di ripetere_, che è
uno stile tutto moderno e non bello. E quell'esclamare: _O figli di
Licurgo!_ per dire gli Spartani non è storico. Un antico avrebbe detto:
_o figli, o discendenti di Ercole_. Ma tutto insieme la _visione_ è ben
trovata ed è felice specialmente l'ultima parte.»

E aggiungeva che _gli pareva impossibile che un ragazzo quasi ignorante
potesse scrivere a quel modo di quelle cose_.

A me, invece, pare altrettanto impossibile quanto, per esempio, la
trasposizione dei sensi.

Il prof. Cesare Lombroso, nello scritto da me accennato, diceva:

   Non è vero che nel sonnambulismo naturale e anche
   nell'artificiale abbiamo dei fenomeni che escono assolutamente
   dalla cerchia fisiologica come la _lucidità profetica_ per dirla
   in una parola, e la trasposizione dei sensi? È una domanda a cui
   lo scienziato accademico risponderebbe con uno di quegli accenni
   olimpici del capo che pei profani sono più schiaccianti di dieci
   dimostrazioni e di un centinaio di fatti, eppure non vogliono
   dir nulla.

   Ma io che ho un vizio antico di non credere se non ai miei
   occhi e di non avere paura di affermare quello che ho veduto, le
   dichiaro subito che ella ha in gran parte ragione.

   E qui le narrerò come io, incredulissimo fino a pochi giorni
   fa su tale argomento, abbia dovuto mutare di convinzione.
   Quell'egregio scienziato e bravo pratico e uomo di cuore
   (tutte cose rare a trovarsi anche divise) che è il professore
   Scipione Giordano mi fece conoscere or non è molto una singolare
   fanciulla, gentile d'aspetto come nell'anima, quattordicenne,
   educata all'antica in una di quelle famiglie illustri per
   ingegno e insieme per onestà, delle quali si va perdendo lo
   stampo, e che esclude già a priori ogni simulazione, ogni
   esagerazione. In quell'epoca e per causa della pubertà essa fu
   ad un tratto colpita dall'isterismo, con tutta la sua forma
   classica di catalessi, convulsioni, paralisi, impossibilità
   di deglutire e, quel che più interessa, di sonnambulismo
   intermittente. Durante gli accessi di questo, perdeva
   completamente la visione agli occhi, vedendo invece allo stesso
   grado d'acutezza colla punta del naso e col lobulo dell'orecchio
   sinistro, e distingueva non solo i colori, ma un manoscritto
   arrivato di fresco e i gradi del dinamometro di cui io variavo
   la pressione mentre i suoi occhi erano doppiamente bendati.

   Curiosa era la mimica nuova con cui reagiva agli stimoli portati
   sopra questi che chiameremo occhi improvvisati e trasposti.
   Avvicinando, per esempio, un dito all'orecchio od al naso o
   accennando a toccarlo o, meglio ancora, facendovi con una lente
   lampeggiare un raggio di luce forte a distanza, fosse pure per
   frazione di minuto secondo, se ne risentiva vivamente e ne
   restava irritata: — _I veùle emborgneme_ (volete accecarmi)
   gridava e scuoteva il volto come uno che sia minacciato
   nell'occhio e tentava afferarmi la mano; poi, con una mimica
   istintiva affatto nuova, come era nuovo il fenomeno, portava
   l'avambraccio a difendere il lobulo dell'orecchio e la pinna del
   naso e restava così per dieci o dodici minuti.

   Anche l'olfatto aveva trasposto; chè l'ammoniaca, l'assafetida
   non destavano, cacciate sotto il naso, la più lieve reazione;
   invece anche una sostanza leggermente odorosa sotto il mento vi
   provocava una viva impressione ed una mimica tutta speciale.
   Così, se l'odore era grato sorrideva, ammiccava cogli occhi,
   aveva frequente il respiro; se disgustoso, portava rapidamente
   le mani, a quella piega del mento che era divenuta la sede
   dell'odore e scuoteva rapidamente la testa.

   Più tardi l'olfatto si trasportò al dorso del piede; ed allora,
   quando un odore le spiaceva, dimenava le gambe a diritta e a
   sinistra, contorcendo anche tutto il corpo; quando ne godeva,
   restava immobile, sorridente, dava in frequenti respiri e in una
   leggera dilazione delle pinne nasali.

   Un fatto isolato non avrebbe nessuna importanza per quanto io
   l'abbia ripetutamente provato e studiato. Ma esso si lega a
   una lunga serie di fatti del tutto analoghi. — Già nel 1808
   Petetin (_Electricité animale_, Lyon, 1808) osservò otto donne
   catalettiche nelle quali i sensi esterni erano traslocati nella
   regione epigastrica o nelle dita delle mani e dei piedi.

   Sulle prime infatti, a dir vero, tutto ciò sembra doverci
   trascinare nel mondo sopranaturale; eppure, pensandovi sopra,
   s'intravvede che una spiegazione può trovarsi di questo strano
   fenomeno unicamente facendo un passo indietro nella scala
   della creazione, tra quegli infimi animali come gli Echini, nei
   quali, la visione si confonde col tatto, facendo retrocedere
   la cerchia della sensibilità specifica, in quella generale
   d'onde il maggior perfezionamento degli esseri la distaccava. Il
   fenomeno non ci eleva al di sopra d'Adamo, ci fa discendere. Ed
   è naturale, trattandosi d'un fatto essenzialmente morboso, che
   ha tanta analogia con quella transposizione della sensibilità
   da uno all'altro membro collaterale del corpo che si può con
   un metallo provocare nelle isteriche ed è legata dunque ad un
   movimento molecolare.

   Forse vi è qualche cosa di più; si avverte meglio lo svolgersi
   successivo dei fenomeni della propria nervosi, perchè nella
   eccitazione straordinaria dell'estasi sonnambolica noi
   acquistiamo una coscienza maggiore del nostro organismo, nelle
   cui condizioni, come nell'ingranaggio d'un orologio, stanno
   iscritte, in potenza, in germe, le varie successioni morbose.

A proposito di un caso consimile il Prof. Achille de Giovanni, della
clinica psichiatrica di Padova, ha fatto delle belle osservazioni
che potrai leggere per intiero nella Gazzetta medica italiana.[79]
Per dare una scientifica spiegazione del fenomeno egli ricorre alle
_impressioni tattili incoscienti pregresse, coesistenti ad altrettante
percezioni visive ed immagazzinate nel cervello in istato di latenza_;
e conchiude: «Quando penso al meraviglioso e ricchissimo lavorio di
associazione ideo-sensoria, alla persistente incubazione e latenza
dei fenomeni psichici e sensoriali, alla mirabile reciprocità di
nessi genetici fra il cosciente e l'incosciente, dei quali fatti tutti
possiamo averne prove palmari anche in grossolane osservazioni su noi
stessi e sugli altri, e dei quali infine scrissero magistralmente e
con indirizzo eminentemente scientifico lo Spencer, il Bain, il Taine,
il Maudsley ecc. mi sento lusingato che il mio modo d'interpretazione
di alcuni fenomeni psicosensori dell'ipnotismo non poggi del tutto
sull'assurdo, sull'immaginoso, sul fantastico.»

È precisamente quello che vorrei dir io a proposito dei miei confronti
dello stato normale della produzione letteraria coll'altro che, per
intenderci, dobbiamo chiamare anormale. Siamo forse proprio sicuri
che non avvenga nell'incoscienza delle _communicazioni_ spiritiche un
fatto di _trasposizione intellettuale_ identica a quella dei sensi;
e che, in date circostanze, in date condizioni, presso particolari
organismi, la funzione del pensiero non si produca in tutt'altri
organi che il cervello? Se la punta del naso può _vedere_, se il lobo
dell'orecchio può leggere e distinguere i gradi del dinamometro,
o le lettere maiuscole dell'ottometro (questo nel caso riferito
dal prof. De Giovanni) perchè dovrà poi parerci _impossibile_ che
si _pensi_, mettiamo, col braccio o colla punta delle dita? Se ci
pare assurdo l'attribuire a cause sovrumane i meravigliosi fenomeni
dell'allucinazione, dell'_obbiettivazione_ dei tipi della perdita del
libero arbitrio, delle suggestioni che si svegliano nell'organismo
dopo un lungo e determinato tratto di tempo[80], perchè dobbiamo
esser ritrosi di attribuire il fenomeno della medianità scrivente
(_intuitiva_ o _meccanica_, non importa) a una causa perfettamente
naturale cioè, niente distinta dall'umano organismo?

Noi cominciamo appena ora ad intravedere i portenti dell'eredità
fisiologica e psicologica che si nascondono nel nostro corpo. L'azione
magnetica, lo stato, diciamo così, spiritico, risvegliate tutte queste
impressioni ereditarie latenti e liberatele dalla prepotenza delle
impressioni immediate, le fanno forse entrare coscientemente in azione?
Lo ignoriamo.

Ma se questo potesse venir chiarito con una serie di osservazioni
positive (e non mi pare punto difficile) molti dei più sorprendenti
fenomeni spiritici risulterebbero la cosa più naturale del mondo.

Visto che un semplice _passaggio_ magnetico può togliere la coscienza
della propria personalità, è da tentare se lo stesso mezzo non possa
servire ad una operazione opposta, cioè a levar via gl'ultimi strati di
impressioni fisiologiche e psicologiche e a mettere a nudo, o a poco a
poco, quello che ancora sussiste dentro di noi dei mondi fisiologici e
psicologici estinti.

Io credo fermamente che tali esperienze siano possibilissime e che
darebbero meravigliosi resultati.

Presentandosi una favorevole occasione, ho l'intenzione di provarmici.

Questo non significa voler rimanere sprofondati ad ogni costo nella
_morta gora_ del materialismo: significa soltanto voler essere cauti
per non mettere il piede in fallo.

Un gran fisiologo che, per fortuna, è anche un gran pensatore, il
Lotze, senza affermar nulla che sia contrario alle più rigorose
esigenze del metodo positivo e ai dati più solidi della scienza, dopo
aver conchiuso in favore dell'_esistenza dell'anima_ nelle piante,
nell'animale, e nell'uomo, collo stesso rigore ha detto: «Niente può
impedirci di affermare in una maniera generale che le anime siano
mortali; ma può anche accadere che un'anima peritura non perisca
nel corso del mondo, e che, in grazia dell'idea, goda un'esistenza
indefinita a cui, da per sè stessa, non avrebbe alcun diritto. Se nello
sviluppo della vita spirituale essa realizza un contenuto di tal valore
da meritar di sopravvivere nell'insieme del mondo, e rimarrà: se, al
contrario, nulla si produce in un'anima da esigere questa permanenza
spirituale, e noi dobbiamo credere che essa perirà. Naturalmente
si vorrà trarre da queste premesse la conchiusione che le anime
delle bestie siano mortali e quella dell'uomo immortale. Ma noi non
esamineremo se in tal modo non si accordi assai poco valore all'anima
delle bestie e troppo a quella dell'uomo[81].»

Tutti i fenomeni dello spiritismo, per fino le _apparizioni_, le
_materializzazioni_, le _fotografie dei morti_, non hanno finora
condotto a _resultati scientifici_ più diffinitivi di questi del Lotze.
Le nuove esperienze del Crookes, fatte con tale apparato scientifico
di mezzi e di testimoni da non lasciare nessun dubbio intorno alla loro
serietà, si limitano a _stabilire come fuor di controversia l'esistenza
d'una forza nuova dell'organismo umano che può chiamarsi_ FORZA
PSICHICA. Tu vedi bene che non si esce dall'_organismo umano_.[82]

Ma appunto per esser cauti e non mettere il piede in fallo, anche
accordando un valore reale a questo confronto di fatti di ordine
diverso, non dobbiamo trarne conseguenze che sorpassino la sfera di
essi fatti. Con fenomeni come quelli dello spiritismo, se non risulta
_avverato_ che si tratti di fenomeni sovrumani, non risulta neanco
_avverato_ che si tratti soltanto di fenomeni assolutamente naturali ed
umani, nel ristrettissimo senso che noi sogliamo dare a queste parole.
Chi sarà tanto presuntuoso da poter dire in questo momento: _Est, est!
Non, non?_

Ed ecco, caro Farina, perchè la mia lettera intestata con una timida
interrogazione di curioso, può, senza contraddirsi, finire allo stesso
modo, domandando: SPIRITISMO?

                                                     Luigi Capuana

  Mineo, 20 gennaio 1884.



NOTA


Mi piace riportare qui alcuni brani d'un articolo del Parville, dal
_Débats_ dell'8 maggio, non che la maggior parte d'un altro articolo
del Conte di Villiers de L'Isle-Adam comparso nel _Figaro_ del 10
maggio di quest'anno.

Lo scritto del Parville si occupa dei fenomeni del sonnambulismo
provocato.

   «Magnétisme, hypnotisme, illusions hier, réalités aujourd'hui.
   Certes, il a fallu du temps, beaucoup de temps, avant que l'on
   se décide à étudier de près ces faits étranges, mais on peut
   affirmer que maintenant les physiologistes les plus éminents
   considèrent comme hors de conteste les principaux phénomènes
   de l'hypnotisme et du magnétisme animal. Le système nerveux
   peut être influencé par des causes extérieures encore mal
   définies, au point de modifier complètement l'individu au moral
   et au physique, de le transformer en automate et de substituer
   par diverses suggestions à sa volonté une volonté étrangère.
   Les expériences tentées en Allemagne et en France dans ces
   dernières années ne laissent plus aucun doute à cet égard[83].
   M. Liégeois, professeur de droit à la Faculté de Nancy, vient
   d'attirer de nouveau l'attention sur ces faits dans un Mémoire
   intéressant, en insistant surtout sur les conséquences qu'ils
   présentent pour la médecine legale et sur les applications qu'on
   pourrait en tirer au point de vue du droit civil et du droit
   criminel. La thèse de M. Liégeois est neuve et hardie; elle peut
   être soutenue avec de grandes apparences de vérité.

   M. Liégeois a voulu d'abord se rendre compte par lui-même de la
   réalité des phénomènes hypnotiques, et bien voir jusqu'à quelle
   limite extrême on pouvait pousser l'influence de l'homme sur son
   semblable. Avec le concours de son collègue, M. le professeur
   Bernheim, il a hypnotisé un certain nombre de personnes
   absolument saines de corps et d'esprit. Il est arrivé aux mêmes
   conclusions que ses devanciers. L'hypnotisé devient un automate
   inconscient; mais, ce qui est bien plus singulier, c'est qu'il
   conserve pendant des jours, des semaines, des traces de cet
   automatisme au point que les suggestions antérieures persistent
   longtems peuvent l'exciter à accomplir des actes indépendans de
   sa volonté. L'opérateur peut inspirer à son sujet l'idée d'actes
   criminels qui, au réveil, seront accomplis fatalement, de point
   en point, à plusieurs jours, à plusieurs mois d'intervalle
   même, affirme M. Liégeois. Ainsi, certains sujets sont allés,
   au jour et à l'heure fixés par M. Liégeois, s'accuser au
   bureau de police ou chez le procureur de la république de
   crimes imaginaires, avec tous les détails et dans les termes
   même qu'il leur avait dicté la veille ou l'avant-veille.
   D'autres ont exécuté ou cru exécuter des actes effroyables.
   Une jeune fille, entre autres, a assassine sa mère en tirant
   sur elle avec le plus grand sang-froid un coup de pistolet à
   bout portant. Inutile de dire que l'arme n'était pas chargée.
   D'autres ont reconnu des engagemens qu'ils n'avaient jamais
   pris et signé des effets en bonne et due forme pour s'acquitter
   de dettes qu'ils n'avaient jamais contractées. D'autres enfin
   chez lesquels on avait provoqué certaines hallucinations
   ont affirmé sur la conscience qu'ils avaient la certitude
   absolue d'avoir vu, entendu, touché tout ce qui leur avait
   été suggéré! Ces expériences bien conduites dans une direction
   donnée ne sont pas sans présenter de gravite. M. Liégeois en
   conclut naturellement qu'en ce qui concerne la justice civile
   la suggestion peut intervenir dans un grand nombre d'actes
   importans pour les fausser ou les entraver, qu'elle peut
   intervenir aussi en ce qui concerne la justice criminelle dans
   des actes dont les hypnotisés eux-mêmes sont victimes, ou dans
   des actes qu'ils accomplissent irrésistiblement, ou enfin dans
   des actes imaginaires dont on leur a fait admettre la réalité.
   Les magistrats auraient donc à tenir compte, à l'occasion, de
   ces suggestions et à découvrir, derrière celui qui a perpétré
   l'acte, le véritable coupable, c'est-à-dire l'auteur de la
   suggestion. Le rôle du médecin légiste aurait à prendre de ce
   chef une nouvelle et considérable importance. Strictement, les
   idées de M. Liégeois sont justes, et d'autant plus justes à
   notre sens que nous ne croyons pas que la suggestion soit un
   phénomène exclusivement réservé au somnambulisme; nous avons
   des raisons de pensar que c'est un phénomène plus commun qu'on
   ne le croit; il est exagéré chez l'hypnotisé, alors il apparaît
   dans toute son évidence, mais pour être moins accentué chez
   certains sujets il ne s'ensuit pas qu'il n'existe pas plus ou
   moins. Des causes inconscientes agissent sans cesse sur nous et
   modifient notre personnalité. Ne dit-on pas souvent que telle ou
   telle personne exerce un certain ascendant sur ses semblables?
   Ne sait-on pas que l'influence bonne ou mauvaise de tel ou tel
   individu retentit sur les autres? Que de phénomènes suggestifs
   jouent leur rôle sans que nous nous en rendions un compte exact!
   Le milieu exerce son action; on n'est plus le lendemain ce
   que l'on était la veille; l'entourage a marqué son empreinte.
   La pensée d'autrui retentit sur celle du voisin; le souvenir
   inconscient change les idées, les actes même, et le déterminisme
   par résultante de souvenirs et de combinaisons psychiques
   pourrait bien ne pas être un vain mot. Au fond, le magistrat,
   aujourd'hui comme avant la thèse de M. Liégeois, n'en reste pas
   moin toujours devant la solution du même problème: découvrir
   le véritable coupable. Seulement l'horizon s'est agrandi et les
   méthodes d'investigation pourront devenir plus précises et plus
   certaines[84].

   Ce qu'il importe avant tout de bien montrer, c'est qu'en vérité
   la suggestion est un phénomène commun, facile à produire, et qui
   ne saurait échapper à l'attention des observateurs. Les exemples
   abondent: MM. Liégeois et Bernheim en ont donné d'excellens,
   obtenus pour les besoins de leur thèse; il n'est pas superflu
   d'en citer d'autres qui n'ont pas été recueillis avec une idée
   préconçue.

   Il y a déjà plus de vingt ans que, loin de tout milieu civilisé,
   nous provoquions par suggestion les actes les plus bizarres
   chez des Mosquitos hypnotisés; ils imitaient à distance tous nos
   mouvemens; véritables automates dont nous tirions à volonté les
   ficelles. Mais il s'agissait sur tout là de suggestions d'ordre
   physique. Les suggestions d'ordre psychique sont bien plus
   extraordinaires. M. Charles Richet qui a très finement étudié
   ces questions en a recueilli lui-même de nombreux exemples
   dans un livre remarquable, et d'ailleurs remarqué avec raison:
   _L'Homme et l'Intelligence_[85]. Nous n'insisterons pas sur les
   phénomènes de suggestion les plus connus, mai nous emprunterons
   à M. Ch. Richet quelques cas bien singuliers où la personnalité
   disparait complètement...........

   En tout cas, il semble résulter manifestement de tout ce qui
   précède que tout sujet hypnotique est susceptible sous certaines
   influences de perdre son libre arbitre et d'obéir à des volontés
   étrangères, à des impulsions extérieures. C'est une conclusion
   capitale, mais qui se déduit nécessairement de faits observés.

   Dans les exemples que nous avons signalés, les ordres qui
   provoquent plus tard les impulsions sont donnés oralement, de
   façon à impressionner par la voie ordinaire les centres nerveux.
   On s'est demandé si un sujet magnétique exécuterait de même
   un ordre _pensé_ et non _exprimé_. Les magnétiseurs n'hésitent
   pas à répondre par l'affirmative. Nous ne croyons pas qu'aucune
   expérience réellement nette permette aujourd'hui de trancher la
   question d'une façon aussi péremptoire; mais qui oserait d'un
   autre coté affirmer aujourd'hui que le fait est impossible?
   Il importe peu au point de vue légal que la suggestion s'opère
   mentalement ou par ordre communiqué, puisque le sujet réveillé
   oublie et l'ordre et celui qui le lui a donné; mais quelles
   conséquences pour la psychologie! Laissons la question ouverte;
   nous ne sommes pas aujourd'hui encore en état d'y répondre avec
   certitude.

   Ces études ne sont, à vrai dire, qu'à leur début; c'est encore
   l'inconnu pour le physiologiste; le système nerveux nous promet
   encore bien des surprises; la plupart des phénomènes hypnotiques
   sont inexplicables dans l'état actuel de la science. Citons
   encore un exemple trés curieux. Le docteur Tagnet, de Bordeaux,
   soigne en ce moment une jeune malade qu'il endort, comme le
   fait d'ailleurs M. Dumontpallier, par une simple pression sur
   une vertébre du cou. Ce sujet est bien surprenant. Ses sens
   atteignent un degré de finesse incomparable; elle perçoit des
   impressions qui nous échappent; elle possède une vue qui tiens
   du merveilleux. On place devant elle un carton, une feuille de
   papier, et derrière elle, à une certaine distance, des objets
   quelconques. Elle voit ces objets réfléchis sur le carton comme
   sur une glace, ou du moins elle le dit, mais en tout cas elle
   énumère un à un les objets que l'on fait passer derrière son
   dos. Elle peut même lire ainsi des phrases imprimées qu'elle
   déchiffre a rebours beaucoup mieux que nous ne pourrions le
   faire d'une ligne imprimée réfléchie par un miroir. On découpe
   une feuille de carton en petits morceaux; on lui présente un
   de ces petits morceaux en lui suggérant l'idée que sur l'un
   d'eux se trouve le portrait de sa mère; elle trouve le portrait
   excellent et témoigne de sa joie. On fait une marque invisible
   sur ce petit carton et on le mêle avec les autres; quelque temps
   après, on lui remet entre les mains tous les petits morceaux
   épars; en moins d'une seconde, elle retrouve le carton à la
   marque invisible et exprime de nouveau le plaisir qu'elle
   éprouve à contempler le portrait de sa mère. Et ainsi chaque
   carré de carton se transforme en portraits de famille, et jamais
   elle ne se trompe quand elle les regarde; toujours, sans erreur
   elle retrouve sur chaque carré l'image qu'on lui a dit y être
   peinte. La suggestion persiste, fixée comme une photographie sur
   les carrés de carton.

   L'odorat du sujet de M. Tagnet est tout aussi remarquable; elle
   flaire littéralement les objets qu'on lui met entre les mains;
   et, sur l'invitation du premier venu, elle les remet, sans
   jamais se tromper, à leur véritable propriétaire. Expliquera qui
   pourra, en ce moment, cette acuité singulière des sens.

   Encore un peu, et si l'on se laissait entraîner sur cette pente
   par la fascination de l'extraordinaire, on finirait bientôt
   par trouver tout naturels certains faits qui sont pour nous
   incompréhensibles et qui tiennent du merveilleux, notamment, par
   exemple, les expériences stupéfiantes que répète, en ce moment,
   dans quelques salons privilégiés, l'Anglais Stuart Cumberland.
   Si les expériences de M. Cumberland étaient d'ordre magnétique,
   ne suffirait-il pas d'admettre pour expliquer sa faculté de
   devin, qu'il est lui-même hypnotique et influencé par suggestion
   mentale? Il irait où on lui commande d'aller par la pensée.
   Véritable automate, il obéirait simplement aux suggestions que
   l'on provoquerait chez lui. Beaucoup d'hypnotiques en état de
   veille sont dans ce cas, mais obéissent, il est vrai, à des
   ordres _exprimés_. On en voit qui trouvent très bien les objets
   cachés, comme s'ils étaient guidé par un flair particulier,
   comme la somnambule de Bordeaux. Mais arrêtons nous, sous peine
   d'amener à la fin une confusion regrettable entre des faits
   bien acquis et des vues purement hypothétiques, qui ne reposent
   aujourd'hui sur aucune base solide.

   Le doute est la règle recommandée avec raison en face de
   l'inconnu. Il faut douter jusqu'à l'évidence; mais, d'autre
   part, ne refusons pas de voir, d'examiner et d'étudier les
   phénomènes dont la clef nous échappe. Est-ce que nous nous
   connaissons nous-même? Est-ce que nous savons bien jusqu'à
   quel degré d'étonnante impressionnabilité peuvent parvenir nos
   sens? Savons-nous même quels sont nos sens? Il suffit chez
   un très grand nombre de personnes de l'approche d'un aimant
   pour provoquer des sensations. Qui eût osé affirmer avant les
   expériences modernes que nous étions sensibles à l'aimant? Nous
   aurons à revenir prochainement à cet égard sur d'intéressantes
   expériences de M. Julian Ochorowicz. Souvent, il suffit de
   placer le doigt entre les branches d'un petit aimant en fer à
   cheval pour éprouver des sensations de chaleur, des picotemens,
   des tremblemens, de la paralysie, etc. Les personnes sensibles
   à l'aimant seraient toutes des hypnotiques. Si le fait se
   vérifiait, la médecine legale aurait dans la pierre d'aimant
   un instrument d'investigation bien commode et qui «ne violerait
   certes pas la liberté morale des accusés.»

   On voit combien nous avons à travailler encore avant d'y voir
   un peu clair autour de nous. Quant à présent, nous sommes bien
   obligés de rester sur le seuil de ce monde mystérieux, qui ne
   nous ouvrira ses portes toutes grandes que lorsque les progrès
   de la science nous auront enfin dévoilé les secrets de la
   physiologie du système nerveux.»

                                               Henri de Parville.

Il Conte de Villiers de L'Isle-Adam, annunziando la prossima
pubblicazione del nuovo libro del Crookes, ne dà le conclusioni
traendole dai frammenti pubblicati nel _Quarterly Journal of Science_,
nell'_Athenoeum_ e nella _Quarterly Review_:

   «La prochaine apparition du livre de William Crookes, _La Force
   psychique_, produira, certes, une durable sensation de stupeur
   dans les deux mondes.

   Des les premières lignes de ces volumineux sommaires, on sent
   qu'il s'agit d'observations d'un caractère tout à fait insolite
   et que la Science de l'Homme se hasarde ici, pour la première
   fois, sur un terrain tellement fantastique et inattendu,
   que le lecteur, stupéfait, se demande s'il rêve! Mais, comme
   les expériences que relatent ces lignes sont justifiées par
   différentes sanctions du Comité de Recherches des Sciences
   dialectiques de Londres, dont il est difficile de récuser
   la compétence hors ligne, la sûreté d'examen et la rigueur
   positiviste, l'attention du lecteur est bien vite fascinée.

   Pour la parfaite intelligence de ce dont il est question,
   le mieux est, pensons nous, de citer l'étonnant exorde de
   William Crookes lui-même, au début de... ce nouvel incident de
   l'Humanité.

                                   *
                                  * *

   — «Voici que, depuis plusieurs années, une sorte de doctrine
   se répand chez nous, — en Europe et ailleurs, — augmentant,
   chaque jour, le nombre de ses adeptes et comptant, parmi
   ses prosélytes, des hommes de haute raison et d'un savoir
   éprouvé. Cette doctrine s'autorise de faits complètement en
   désaccord avec diverses lois avérées de la Nature: et ces
   faits sont attestés, cependant, par des témoignages à ce point
   considérables que l'on a cru pouvoir, officiellement, nous en
   saisir. — La Chambre des représentants, à Washington, a reçu
   des pétitions à ce sujet, revêtues de plus de _vingt mille_
   signatures. A Hertford, des enfants, — de très jeunes filles
   même, ont failli payer de leur existence (les demoiselles
   Fox, par exemple, âgées de douze et de quatorze ans) des
   phénomènes que tout un district attribuait à leur présence. — Et
   Angleterre, jusque dans Londres, la fréquence de ces prétendus
   «événements occultes» a fini par troubler, par effrayer les
   esprits d'une partie de la population: — l'on se croirait au
   Moyen-Age, en écoutant ces rumeurs.

   «J'estime qu'il est du devoir des hommes de science, qui ont
   appris à travailler d'une manière exacte, d'examiner _tous_
   les phénomènes qui attirent l'attention publique, afin, soit
   d'en confirmer la vérité, soit d'expliquer, si faire se peut,
   l'illusion des honnêtes gens en dévoilant la supercherie des
   charlatans, des imposteurs.

   Or, un grand nombre de personnes, d'un sens commun cependant
   notoire, avons-nous dit, — nous parlent, par exemple
   «d'influences mystérieuses sous l'énergie desquelles de lourds
   objets d'ameublement se meuvent, soudain, d'une pièce à une
   autre, sans l'intervention de l'homme».

   A ceci nous répondons:

   — Le savant a construit des Instruments qui divisent un pouce
   en un million de parties. Nous demandons que ce «influences»
   fassent mouvoir, seulement d'un _seul_ degré, l'indicateur de
   ces instruments, dans nos laboratoires.

   On nous parle de «corps solides, pesant cinquante, cent livres,
   — de personnes vivantes même, s'élevant dans les airs sans le
   secours d'aucune force connue».

   A ceci nous répondons:,

   — Alors, que ce pouvoir, quel qu'il soit, qui, nous dit-on,
   serait guidé par une intelligence, et qui élève, jusqu'aux
   plafonds de vos appartements, des corps lourds, animés ou
   inanimés, fasse pencher seulement l'un des plateaux de cette
   petite balance qui, sous son globe de cristal, est sensible à un
   poids si minime qu'il en faudrait dix mille comme lui pour faire
   un gramme!

   On nous parle de «fleurs mouillées de fraîche rosée, de fruits,
   et même d'êtres vivants apportés au travers des murailles»,

   A ceci nous répondons:

   — Qu'on introduise donc un milligramme d'arsenic à travers
   les parois d'un tube de verre dans lequel de l'eau pure est
   hermétiquement scellée par nous!

   On nous parie de «coups frappés qui se produisent jusqu'à
   ébranler les murs dans les différentes parties d'une chambre où
   deux personnes sont tranquillement assises devant une table; —
   de maisons secouées jusqu'à en être endommagées par un pouvoir
   extra-humain»; — et l'on ajoute que «des plumes ou des crayons
   tracent _tout seuls_ des lignes présentant un sens; — que des
   ressemblances de défunts apparaissent.»

   A ceci nous répondons:

   — Que ces coups se produisent seulement sur la membrane tendue
   d'un phonautographe!... Que ce pendule, en sa gaine de verre,
   soit seulement mis en vibration!... Que cette plume, que je
   tiens, rature seulement, sur ce bureau, l'un seul des mots que
   je viens d'écrire!... Quant aux «apparitions» nous avons des
   instruments qui mesurent l'éclair: qu'une seule d'entre elles
   passe pendant la durée d'un 120e de seconde seulement devant la
   lentille de l'un de ces instruments!

   Enfin l'on nous parle de «manifestations d'une puissance
   équivalente à des milliers de kilogrammes, et qui se produisent
   sans cause connue.»

   — Eh bien! l'homme de science, qui croi fermement à la
   conservation de la force, demande que ces manifestations se
   répètent dans son laboratoire, où il pourra les peser, les
   mesurer, et les soumettre à des essais catégoriques. Et,
   pour conclure, quelle que soit l'estime où l'on puisse tenir
   les témoins de faits provoqués, nous dit-on, par la _seule_
   présence d'individus «exceptionnels» appelés _médiums_, quelque
   intègres, charmants, chevaleresques que soient ou puissent être
   ces _mediums_ eux-mêmes; nous ne pensons pas que cela doive,
   rigoureusement, amener qui que ce soit à une somme de confiance
   pour accepter ainsi, sans analyse ni contrôle méthodiques, la
   réalité de phénomènes qui commencent par démentir les notions
   les plus élémentaires de la Science moderne, entre autres celle
   de l'universelle et invariable loi de la gravitation.

   Voilà, certes, le langage d'un homme sérieux — et, ce défi jeté,
   la cause semblait jugée.

                                   *
                                  * *

   A quelques mois de ce verdict, le Comité de Recherches des
   Sciences, à Londres, fut mis en émoi par une note brève émanant
   de William Crookes, qui, sans commentaires, le convoquait au
   contrôle «d'expériences _médianimiques_ dignes d'attention».
   Il se trouvait que, presque en ce même temps (hiver de 1870),
   des praticiens, délégués, en quelque sorte, par toutes les
   nationalités de l'Europe, entrecroisaient, dans les revues
   des sciences, les affirmations les plus étranges; déclarant
   que leurs essais particuliers sur la réalité du fluide
   _médianimique_ amenaient chaque jour des résultats «inattendus».
   Dans la longue liste de ces savants, figurent, on doit le
   constater, des noms d'une certaine importance. La Faculté de
   Pétersbourg, par exemple, est représentée par l'un de ses plus
   éminents professeurs de chimie, M. Boutlerow; — l'Académie des
   sciences expérimentales de Genève, par le professeur Thury;
   — les Etats-Unis, par le docteur Robert Hare, professeur de
   chimie à l'Université de Pensylvanie, etc., etc.: l'espace
   nous manque pour citer les soixante ou soixantecinq noms, aussi
   recommandables mentionnés dans ces rapports.

   Etonnés de pareilles notifications, qui leur parvenaient,
   coup sur coup, de tous les points du monde scientifique,
   plusieurs physiciens allemands, des spécialistes de tous pays
   se rendirent à Londres, où des hommes tels que lord Lindsay
   et le lord comte de Dunraven, des mathématiciens tels que le
   capitaine C. Wynne, et une commission de membres de la Société
   Royale étaient venus s'adjoindre à William Crookes pour des
   observations quotidiennes. — Deux ou trois «sujets humains»
   doués, — paraissait-il, — de manière à intéresser la Science,
   continuèrent de se prêter, dans les laboratoires anglais, et
   dans celui même de l'illustre docteur, à des expérimentations.

   Il résulterait des attestations signées de l'érudite assistance
   que, non seulement les phénomènes réclamés au préalable se
   seraient tous produits — (ceci en plein jour et dans des
   conditions d'évidence toutes spéciales), — mais que d'autres
   faits, plus singuliers encore, — des incidents capables de
   déconcerter le positivisme le plus rassis, — se seraient
   imposés, tout à coup, au grave étonnement de l'assemblée; —
   qu'enfin «d'incohérentes manifestations revêtues d'une sorte de
   caractère macabre», auraient troublé la régularité compassée de
   ces examens.

   Les sujets ou _médiums_ étaient, cependant, liés à terre,
   tenus aux quatre membres à une grande distance des objets
   impressionnés. Entre eux et ces objets s'interposaient les
   membres de la commission du contrôle. A l'état libre, ils
   étaient prévenus que toute communication _physique_, due à
   n'importe quelle fraude subtile, serait instantanément châtiée
   d'une très violente secousse électrique, des réseaux d'induction
   enveloppant les appareils placés sur des isolateurs. Pour le
   surplus, deux des premiers prestidigitateurs illusionnistes de
   Londres surveillaient de près chaque expérience.

   C'est dans de telles condictions qu'on a vu les aiguilles des
   dynamomètres de précision, à secrets contrariés (connus des
   seuls expérimentateurs), varier sous des pressions équivalentes
   à des centaines de livres, pendant que sur les murs, sur
   les instruments du laboratoire et _jusque sur les mains_ des
   doctes assistants, des heurts semblables «à ceux d'un doigt
   replié frappant impatiemment à une porte» étaient entendus ou
   ressentis.

   A l'issue de presque toutes les séances, les médiums demeuraient
   étendus sur le parquet, dans un état de prostration cataleptique
   présentant, médicalement, toutes les apparences de la mort.

   Parmi ces médiums-naturels étaient des enfants de sept et huit
   ans, s'élevant à des hauteurs de plusieurs mètres et flottant,
   presque endormis, dans l'espace, pendant plusieurs minutes. «Ce
   phénomène, affirme le docteur Crookes, M. Home l'a exécuté,
   aussi, plus de _cent fois_ devant nous, rénovant ainsi le
   prétendu sortilège de Simon le magicien dans l'amphithéâtre de
   Rome.»

   D'après un grand nombre de professeurs émérites, — entre
   autres ceux dont nous avons cité les noms, — au témoignage de
   plusieurs délégués éminents d'universités ou d'académies, et
   des différents membres de la Société Royale ainsi que du Comité
   de Recherches des Sciences, appuyés de l'attestation de William
   Crookes, les principaux phénomènes reconnus comme désormais
   avérés seraient, — (non compris leurs subdivisions):

   1. L'altération du poids d'un corps quelconque, obtenue à
   distance; 2. d'inexplicables visions de météores, traversant les
   laboratoires, avec des allées et venues — sortes de lumières
   ovoïdes, radieuses, inconnues, _inimitables_, — bondissant et
   rebondissant d'objets en objets; 3. des déplacements continuels
   d'instruments scientifiques, de meubles lourds ou légers,
   se mouvant comme sous l'action d'une force occulte; 4. de
   véritables «apparitions» de formes étranges, de «_regards_»,
   de mains lumineuses d'une ténuité inconcevable et cependant
   tangible — au point de supporter, dans l'air, un thermomètre
   en liège du poids de quatre grammes, lequel demeurait, sous
   leur pression, d'un niveau absolument insensible, — ces mains
   offraient l'aspect tantôt vivant, tantôt cadavérique: et
   si rapide que fût l'éclair dont on essayât d'en répercuter
   la vision sur l'objectif, aucune plaque photographique n'a
   été impressionnée, en _aucune_ façon, de leur présence.
   Et ces mains, pourtant! saisissaient des fleurs sur une
   table et allaient, à travers l'espace, les offrir à des
   spectateurs; puis, tout à coup, venaient nous «_serrer les
   mains avec toute la cordialité d'un vieil ami_»; 5. des mises
   en jeu d'instruments de musique placés, positivement, dans
   des conditions où toute communication était impossible et
   _dangereuse_ pour le médium; 6. des doigts fluides lumineux,
   relevant une plume sur une table et traçant des lignes
   d'écritures différentes où plusieurs ont affirmé reconnaître
   celles de personnes défuntes (quelque uns, même, en ont fourni
   la preuve). — Tout ceci, de jour et de nuit.

   « — J'ai vu, devant témoins (affirme expressément le Dr. William
   Crookes), l'une de ces nébuleuses mains claires prendre une
   fleur à longue tige, nouvellement cueillie, et la faire passer
   lentement à travers la fente imperceptible d'une planche de
   chêne massive, sans qu'il fût possible d'apercevoir ensuite,
   sur cette fleur, soit à l'œil nu, soit au microscope, _une
   trace quelconque d érosion sur la tige ou sur les feuilles_,
   lesquelles étaient dix ou douze fois plus larges que la fente de
   cette planche. — Plusieurs membres de la Société Royale et moi
   nous avons vu, ensemble, l'_ombre d'une forme humaine_ secouer
   des rideaux pendant plus de deux minutes, puis disparaître en
   s'atténuant. — Cent fois nous avons vu des flambeaux et des
   lampes, placées sur des meubles, s'élever avec eux, se pencher,
   sans tomber, tenant leurs flammes droites et horizontales selon
   le degré d'inclinaison de ces objets dans l'air. Quant aux
   célèbres «tables tournantes», nous avons voulu, par surcroît,
   vérifier le fait dans des conditions de difficulté spéciales
   et que la rare puissance de nos médiums pouvait, seule,
   surmonter. — Le Comité de Recherches des Sciences dialectiques
   de Londres et les professeurs étrangers s'étant donc assemblés
   pour un essai concluant à ce sujet, quatre de ces médiums sont
   venus se placer à genoux sur des chaises dont les dossiers
   seuls touchaient la table — (une lourde et vaste table). —
   Ils croisèrent leurs mains sur ces dossiers et rien de leurs
   personnes n'était en contact direct avec la table. De plus,
   certaines mesures minutieuses, de nous seuls connues, avaient
   été prises pour avérer l'authenticité absolue du phénomène.
   En quelques instants, nous vîmes l'énorme table s'enlever de
   terre, se pencher, frapper le parquet, monter, stupéfiante,
   au-dessus de nous, flotter, se livrer dans l'espace à des
   évolutions diverses, puis redescendre lentement à sa place. Le
   Comité et l'assistance ont donc attesté comme «concluante» cette
   expérience... qui, d'ailleurs, ne pouvait plus nous étonner.»

   Il va sans dire que nous pourrions relever un grand nombre
   d'autres faits énigmatiques, attestés des plus sérieusement.
   Mais nous ne saurions prendre la responsabilité de telles
   citations; nous ne voulons et ne devons mentionner, en un mot
   que les observations dûment contrôlées et reconnues par la
   Science comme _incontestables_. Lorsque nous ne traduisons pas,
   nous résumons, aussi exactement que possible, sans opinion ni
   commentaires.

   Voici maintenant les conclusions du Dr. William Crookes lui-même
   à ce sujet:

   — La foule, toujours avide du «surnaturel», nous demande:
   «Croyez-vous ou ne croyez-vous pas?» Nous répondons: Nous sommes
   chimistes, nous sommes physiciens; notre fonction n'est pas
   de «croire ou de ne pas croire» mais de constater, d'une façon
   positive, si tel ou tel phénomène est ou n'est pas imaginaire.
   Cela fait, le reste ne nous regarde plus. Or, quant à la réalité
   de ceux-ci, nous nous prononçons pour l'affirmative, au moins
   provisoirement, puisqu'à la parfaite consternation de nos sens
   et notre entendement, l'évidence nous y contraint.

   «Rien n'est trop merveilleux pour être vrai, a dit Faraday,
   si cela est conforme aux lois de la Nature. Mais il faudrait
   connaître _toutes_ les lois de la Nature, (et rien qu'avec
   celles que nous ignorons on pourrait créer l'Univers), pour
   déterminer si tel phénomène leur est ou non conforme. Or il se
   trouve qu'ici, comme en électricité, par exemple, l'expérience,
   l'observation sont les seules pierres de touche de cette
   conformité.

   «Qu'on veuille donc bien se souvenir que nous ne risquons
   ni hypothèses, ni théories, _quelles qu'elles soient_. Nous
   attestons, simplement, certains faits et ne pouvons avoir qu'un
   seul but, conforme à celui de toute notre longue carrière,
   la Vérité. Les Comités d'examen, les hommes éminents, les
   praticiens de toute nation qui se sont adjoints au sévère
   contrôle de nos expériences ont conclu avec moi: Nous ne vous
   disons pas, encore une fois, que cela est _vraisemblable_; nous
   vous disons que cela EST!

   «Au lieu de nier, de douter ou de croire au hasard, ce qui est
   tout un, — et de s'imaginer que nous sommes capables d'avoir
   perdu notre temps à contrôler des tours d'escamoteurs (comme
   si cette niaiserie était possible) donnez-vous plutôt la
   peine d'examiner, d'abord, comme notre incrédulité primitive
   s'est, au moins soumise à le faire!... Montrez-nous, par une
   critique sévère, ce qu'il faut regarder comme des erreurs
   dans nos examens; spécifiez-les et suggérez ensuite, si vous
   le pouvez, des moyens d'essais plus concluants. Imaginez des
   ensembles de difficultés plus insurmontables et plus subtiles
   que celles où nous avons placé les médiums à leur insu! Mais ne
   venez pas, à la hâte, traiter nos sens de témoins menteurs ou
   aisément abusés, ni taxer nos esprits d'une démence (qu'entre
   parenthèses nous aurions seuls qualité pour constater dans
   les vôtres), parce que les faits témoignent contre vos idées
   préconçues, _comme, autrefois, le furent les nôtres_. Il est
   difficile d'être plus _sceptiques ou plus positifs que nous_
   en matière d'examen expérimental: si vous vous faites une
   supériorité de votre ignorance ou de votre savoir d'amateurs,
   à quoi l'Homme devra-t-il s'en tenir? Nous soutenons que tout
   masque de suffisance ou de bonhomie disparaît de la face humaine
   devant certains phénomènes effectués par des médiums _réels_ en
   nos laboratoires et que les plus railleurs deviennent, alors,
   pareils à ces malins villageois qui, dans les fêtes foraines,
   après s'être bien moqués, en clignant de l'œil, d'un appareil de
   Rhümkorff, par exemple, changent instantanément de visage dès
   qu'ils en ont seulement effleuré les fils. — Pour le surplus,
   rejeter, â l'étourdie, les témoignages d'hommes à qui l'on en
   a déféré pour contrôler un fait et en connaître, revient à ne
   tenir compte d'aucun témoignage humain _quel qu'il soit_, car il
   n'est point de faits dans l'Histoire sacrée ou profane ni dans
   les annales de la Science qui s'appuient sur des preuves plus
   permanentes et plus imposantes que celles qui nous ont, je ne
   dirai pas convaincus, mais confondus. Osez donc, alors, venir
   justifier de la supériorité de vos sens et de votre scepticisme
   sur les nôtres et que ces oiseuses controverses finissent!

   Donc:

   1. Les résultats de nos longues et patientes investigations
   paraissent établir, sans conteste, l'existence d'une nouvelle
   force liée à l'organisme humain et que l'on peut appeler _Force
   psychique_.

   2. Tout homme serait plus ou moins doué de cette force secrète,
   d'une intensité variable, pouvant être développée, et, par
   suite, agir, soit à volonté, soit pendant son sommeil, soit
   contre son gré, soit à son insu, _sans le secours d'aucuns
   mouvements ni de communications physiques_, sur des êtres ou des
   objets quelconques, plus ou moins éloignés.»

                                COMTE DE VILLIERS DE L'ISLE ADAM.



NOTE:


[1] Dal Heidenhain, dal Grützner, dal Rumpf, dal Charcot, dal Richet,
dal Baumler, dal Regnard, dal Maggiorani, dal Tamburini, dal Seppilli
e da parecchi altri eminenti medici e fisiologi.

[2] W. CROOKES, membre de la societé Royale de Londres, RECHERCHES sur
les phénoménes du spiritualisme. Paris, pag. 137.

[3] Vedi _Le sonnambulisme provoqué_ nel suo volume l'_Homme et
l'intelligence_. Paris, Ateau 1884, pag. 248-49.

[4] Richet, op. cit. pag. 221.

[5] Der sogennante thierische Magnetismus. Leipzig, 1880.

[6] Richet, op. cit. pag. 223.

[7] Du Sommeil magnétique dans l'hystèrie. Strasbourg 1868.

[8] Metto in nota quelle parole o frasi che, per amor di chiarezza
e per comodo del lettore, mi son permesso, qua e là, di cambiare nel
testo. Qui, per esempio, il testo diceva: _pittoresche_.

[9] _fuga_.

[10] _dal suo seno_.

[11] _in dubbio_.

[12] _allargasi_.

[13] _messa del tutto in chiaro_.

[14] _in circoli e circoli_.

[15] _fa distinguere_.

[16] _al_.

[17] _lungo_.

[18] _da poltroneria_.

[19] _guastelle_ (sicilianismo).

[20] _teneva_.

[21] _alla sveglia_.

[22] _soggetto_.

[23] _insegnava_ (sicilianismo).

[24] _operavano_.

[25] _abitabile_.

[26] _sue occulte camminate_.

[27] _sue_.

[28] _era il tempo del suo inferno_.

[29] _era_.

[30] _mila_.

[31] _libera_.

[32] _fabbricavano_.

[33] _doversi da tutti_.

[34] _facendo quattro espressioni con parole_.

[35] _quegli_.

[36] _se era in loro abilità_.

[37] _al_.

[38] _tutto si allestì_.

[39] _esparso per il basso suolo_.

[40] _il miserando fine_.

[41] _in gran combinazioni_.

[42] _inghiottiva_.

[43] _magnetizzati_.

[44] _suo_.

[45] _Basta! Basta!_

[46] _mirare_.

[47] _Diede registro alle acque_.

[48] — La visione consolava il mio spirto esule in terra ove la perduta
gente che attorniavalo grandemente contristavalo.

[49] — Coloro che vivono nei bassi lochi e popolati, aspirano aria
divolgata da vili parole — Od ancora: costumando fra il popolo altro
non reca allo spirto se non idee di materia.

O voi che avete monti, ivi recate; troverete aria pura di virtù e sì
copiosa che entro le cellette penetreravvi e avrete isolazione.

[50] — Come coloro che al tempio vanno a mirar l'arte.

[51] — Abeto è segno d'eternitade. Chi abbraccia un più o meno grande
abeto, abbraccia uno spazio d'eternitade. Overo sia abbraccia quello
che li spetta se poca o magna è la fede e di conseguenza la eternità.

Confronta per primo il tertro mio e lo bosco abetaio a _Tempio di Fede_.

[52] — Ambiva a farsi una dimora solinga in quell'albero di fede.

[53] — Non desiava che il posto ch'egli occuperebbe fusse maggiore
dello suo volume. O vero sia che il romito ambisca a se solo e nè a
cella grande o bastone o sandali.

[54] — Una corrente eguale di sentimenti. (Non tacciatemi ve ne prego
di spaventeria).

[55] — Gli uomini che credonsi liberi e vaganti sono chiusi e meglio
guardati che pecora in ovile.

[56] — Il caput accennava di _si_ ma desiavan nel dentro.

[57] E che eran le fiammelle se non virtù convenenti; le quali virtù
scorgea sendo la notte vegna.

[58] — Così coloro i quali vanno allo tempio e a seconda dell'intensità
dei prieghi ricogliono o non ricogliono.

[59] Io vi avverto che nello concetto mio materiale di scrittura aveo
disposto che i rai si partivano dall'abeto maggiore dal centro, lo
quale sendo luminoso io confronto a stella, la quale fulgidissima nello
mezzo andava spegnendosi in cerchio.

[60] Stella erami presentata come religione del mondo che in sui
diversi stadii più o meno vampava d'amore.

[61] — Volendo rappresentare che coloro i quali escono dalla Stella
precipitano per lo pendio inevitabilmente, e vanno a celiarsi in ovile
ove per gli schiamazzi perdono lo frutto.

Coloro che restano in stella chiamerò eremiti.

[62] Coloro che in visione mia scendeano lo pendio, cadeano in ovile e
temei, ma per non esser cosa reale, riflettei tal cosa ch'io ivo alla
mia cella.

[63] Rappresentava lo palagio di Povertà; li alati che custodivanlo:
umiltà e rassegnazione in Dio, li quali sono di proprietà della
Povertà.

[64] Significava tale movimento che allo palagio di povertà, chiamavami
in nelle sue belle stanze.

[65] Dacchè lo povero si è per lo uomo; magnifico abbiglio porta allo
cospetto di Iddio.

[66] Aliquando alla soglia donna presentossi, accorsero li angeli, e
gittatisi in terra quale palafreno la presono e via la portonno. Lo che
rappresenta umiltà e rassegnazione conducono povertà a Dio.

[67] In nella prima parte di visione mia si rappresentò trionfo della
Povertà, la quale habendo io ammirata come bellezza e non altro, se ne
andò. Si significò nella seconda umiltà terrena la quale tale apparendo
agli uomini, tale debbe essere amata e ricognosciuta. Ed ecco che a
significarmelo lo debole essere comparve, lo quale sembrommi lucente,
tale essendo alla vista di Iddio chi di povertà si fa amante, a
scuotermi e attirarmi e mostrarmi che sola lei dovea essere mia sposa.

Allo matrimonio assistei, dello quale essendomene mostrato desideroso,
mi fu spartito.

Or voi intendete, o miei, come cotale visione si era a rappresentarmi
la vanità dello mondo e la gloria della umiltà e povertà; lo che
essendomi persuaso a cagione di Ella visione, il feci.

[68] Ella era la mia donna che mi aiutava e consigliava come povertà mi
disse: La quale (donna) discoversi portava cilicio. Amanti miei siate
ancora amanti della Povertà, la quale fu mia e vedovella ho lasciata.

[69] Rappresentorno in mente mia di visione cotesto pantano e coteste
anime, lo malo passo ove caggiono costoro li quali mal vivono e
sprezzano lo buono, lo quale veggendo beato bieco guardano e sputano
fuoco.

O miseri loro!

[70] — Rappresentavano coloro che a se inflissero pene ma niuno
aiutarono.

[71] Questi e gli altri puntini, dove il senso s'interrompe, indicano
le parole illeggibili del manoscritto. La scrittura, a lapis, è grossa,
affrettata, intramezzata da serpeggiamenti di linee, da parole rimaste
a mezzo e poi riprese; vi si scorge con evidenza il continuo agitarsi
del braccio e la natura automatica del movimento.

[72] _Il fulmine colpisce e non è visto._

[73] Paris, librairie J. B. Baillière et fils, 1883.

[74] Il Giunta si provò a fare, col mio consenso, quello che a me non
riusciva. Ma il suo lavoro, pubblicato in un fascicolo del Giornale
Napoletano, col titolo _Un Ritratto_, inciampò nello stesso scoglio
ov'ero più volte inciampato io: l'allucinazione non vi era resa con
evidenza; ed era l'importante, l'essenziale.

[75] L'homme et l'intelligence, pag. 235.

[76] Ivi, pag. 237.

[77] La signora Cesira Siciliani-Pozzolini.

[78] JACOBUS ha risposto alle osservazioni del Carducci e del D'Ancona,
nella seduta del 5 febbraio di quest'anno (_medium_ Gordigiani). Questo
piccolo documento non è meno curioso degli altri.

_Domanda._ Scrivesti tu mai in vita prose italiane o soltanto trattati
in latino?

_Jacobus._ La era lingua più prossima. Solo alle femine si dicea in
volgare. Se memoria servemi, in volgare dissi io pure, ma ciò anzi
(_innanzi_) la conversione. O beato Iddio!

_Domanda._ Ma perchè la lingua delle tue visioni non è quella precisa
del tuo tempo?

_Jacobus._ Ciò può avvenire, madonna e messeri; e dacchè premevi
lingua, premevi ragione di ciò? Or io per voi son di ritorno ver
terra. Quatuor seculi si erano dacchè la lasciai. Posciachè belli
seculi di virtute furno quello che mi seguì e l'altro di poi; onde non
sdegnai approssimarmi, ed imparai ancora, e non poco in terrene cose
m'ammaestrorno le pecore di allora (_i codici manoscritti in carta
pecora_). Onde, miei dolcissimi, non vi sia strano e indocile spirto se
tale io parlo favella e la mia smenticai.

[79] Anno XXX, n. 46.

[80] Veggasi lo scritto del Parville nella nota in fine di questo
volume.

[81] Principes generaux de Psychologie physiologique, trad. par A.
Penjon. Paris, Germer Baillière, 1876, pag. 164.

[82] Leggasi nella Nota in fondo a questo volume lo scritto del Conte
de Villiers de l'Isle-Adam intorno alla nuova opera del Crookes.

[83] _Voir_ nos _Causeries scientifiques_, tomes XIX et XXI.
Expériences de la Salpétrière et de la Pitié, expériences de M.
Heidenham de Leipzig.

[84] M. Liégeois pose, en concluant son Mémoire, la question de savoir
si la justice, connaissant l'influence sur certains temperamens
des pratiques hypnotiques, a le droit d'y recourir, afin d'obtenir
des aveux ou des éclaircissemens refusés par les accusés lorsqu'ils
sont dans leur état normal. Il répond nettement que le magistrat ne
saurait se permettre un pareil acte attentatoire à tous les droits
de la défense et violant la liberté morale de l'accuse. La question
n'est plus de notre domaine; mais le médecin aura toujours le devoir
de rechercher si le sujet est impressionnable au point de subir une
volontè étrangère. Le champ d'observation et de contrôle sera par cela
même considérablement élargi.

[85] _L'Homme et l'Intelligence_; fragmens de physiologie et de
psychologie, par Charles Richet, agrégé de la Faculté de Médecine de
Paris, Alcan, éditeur.



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   »   104  »   11  accaponar              accapponar
   »   123  »   15  poggiato               appoggiato
   »   136  »    9  _pericolosum_          _periculosum_
   »   156  »    1  era                    erano



                          _Finito di stampare
                     il dì XXVI Giugno MDCCCLXXXIV
                              in Catania_

                      _coi tipi di Lorenzo Rizzo._



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a
pagina 305 (Errori-Correzioni) sono state riportate nel testo.





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